Lovers in arms - Amanti nella guerra

di Roxar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La routine ***
Capitolo 3: *** Il ritrovamento ***
Capitolo 4: *** La nemesi ***
Capitolo 5: *** La rottura ***
Capitolo 6: *** La nostalgia ***
Capitolo 7: *** La tregua ***
Capitolo 8: *** Il danno ***
Capitolo 9: *** La curiosità ***
Capitolo 10: *** La svolta ***
Capitolo 11: *** L'addio ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Lovers in arms

(Amanti nella guerra)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stamattina un folto stormo di anatre ha spezzato la linea azzurra dell’orizzonte, macchiando le gonfie nuvole grigie e perlacee che promettono pioggia; migrano da nord, cercano un riparo dal freddo e forse anche dalle bombe.

Per pochi, deliziosi, paradisiaci secondi ho chiuso gli occhi, vivendo la finta parvenza di una normalità che non esiste più.

Ho rivisto, sotto il velo sottile delle palpebre, mio nonno Hanks condurre la mandria al pascolo, ho rivisto le sue mucche brucare l’erba e sventolare le orecchie, ho riassaporato l’effluvio intenso dell’erba intrisa di pioggia e della terra bagnata, ho riascoltato la sua risata bassa e gutturale.

Poi, però, è arrivato il vento. Una folata sola, tiepida ma decisa, brutale perfino. E il miraggio della normalità di ieri è scivolato nelle pieghe del presente, inabissandosi tra le bombe e la guerra.

Ho riaperto gli occhi solo per incontrare una densa colonna di fumo, così lontana da sembrare innocua foschia. Cosa testimonia? L’abbattimento di un edificio? Il bombardamento di una scuola? Un aereo precipitato al largo, lontano dalle abitazioni?

Ho trattenuto il respiro, voltando la schiena.

Eppure, nonostante tutto, io conservo ancora la speranza. Spero ancora che una mattina non molto lontana il rintocco delle campane spazzi via il sibilo stridente delle sirene, spero ancora che il sorriso torni sulle labbra di chi ha perso ogni cosa, spero ancora che il cielo torni limpido e pulito e che l’alba annunci che la pace è tornata e che la guerra è finita.

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Il mio ultimo accesso a questo fandom risale a molto, molto tempo fa.

L'ultima volta ho proposto una one-shot, stavolta propongo una long-fiction (peraltro già scritta, altrimenti col cavolo che mi impelagavo in quest'impresa!).

Un paio di note.

Come già detto nell'introduzione, questa storia tratterà la tematica della guerra. Per mancanza materiale di tempo (e incapacità della sottoscritta) non ho analizzato nel dettaglio le vicissitudini belliche, pertanto la guerra è presente solo come background di questa storia.

Come avrete modo di notare nei capitoli a venire, la storia si concentrerà maggiormente su Valerie e sulle sue relazioni interpersonali, con brevi richiami alla situazione esterna.

Inoltre, già nel prossimo capitolo capirete che l'ambientazione principale sarà un ranch texano. Ora, so come funzionano i ranch, ma è vero anche che so come funzionano i ranch enormi. Nel nostro caso, Valerie si ritrova alle prese con un ranch di piccole dimensioni, che conta giusto un manipolo di animali, per questo non sarà dedita a quelle mansioni specifiche che questi posti richiedono (pascolo delle mandrie, controllo delle proprietà terriere, eccetera eccetera).

Consideratela una licenza creativa, va.

L'aggiornamento sarà a cadenza settimanale, presumibilmente ad ogni mercoledì del mese, imprevisti e/o tempo permettendo.

Ultimo, il disclaimer.

 

DISCLAIMER:

Ogni riferimento a fatti, luoghi, cose o persone è puramente casuale.

Questo racconto è pura opera di fantasia in ogni sua parte, pertanto i lettori sono tenuti a prendere la narrazione senza rilevanza alcuna nel mondo reale.

 

 

Passo e chiudo.

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Capitolo 2
*** La routine ***


Nuova pagina 2

 

 

 

 

 

 

«Val! Svegliati!»

Jack mi scosse forte e sussultai, mettendomi fulmineamente a sedere tra le lenzuola sgualcite.

«Che succede? Le sirene?» mormorai frenetica, aguzzando l’udito per cogliere solamente il canto spensierato dei passeri appollaiati sul tetto.

«No, c’è Sam. Scusa se ti ho spaventata».

Sospirai di sollievo, attendendo che il battito cardiaco si acquietasse. Restai perfettamente immobile per pochi attimi, scansando la frangia madida di sudore dalla fronte.

«Non importa. Digli che mi vesto e lo raggiungo».

«Va bene. Scusa ancora» disse, sorridendo colpevole mentre sgusciava via dalla mia camera da letto.

Mi stropicciai il viso, dando il benvenuto ad una nuova giornata e alla consueta ondata di terrore che, come la risacca sulla battigia, andava e veniva ad intervalli cadenzati e tuttavia troppo vicini tra loro.

Come ogni giorno, mi sciacquai frettolosamente il viso, spazzolai i capelli e indossai gli abiti ormai vecchi e sformati, ma puliti.

Come ogni giorno, sostai più del dovuto davanti allo specchio, appurando quanto i miei tratti somatici fossero mutati in soli cinque anni, di come il mento si fosse affilato e di come la carne si fosse ritratta sino a diventare il guscio molle delle ossa sporgenti.

Come ogni giorno, sfregai inconsciamente sulla cicatrice pallida e frastagliata che mi segnava il collo, retaggio indesiderato del primo bombardamento, il primo di una sequenza che pareva destinata a protrarsi fino all’estinzione dell’umana specie.

E come ogni giorno, abbandonai lo specchio senza ulteriori indugi, percorrendo quindi quel pugno di passi che mi separavano da Sam.

«Buongiorno, Sam; buone nuove?»

«Buongiorno, Valerie. Nuove sì, buone no di certo».

Nulla di nuovo, dunque. Nessuna resa, nessuna vittoria, nessun perdente.

«Entra, mangiamo qualcosa».

Sam si sfilò il cappello da mandriano dalla tesa lisa e sbiadita e i suoi stivali picchiarono ritmici contro il legno rovinato che, una volta, era stato un bellissimo parquet.

Mentre mi dava le spalle, anticipandomi in cucina, notai quanto i suoi capelli bruni fossero cresciuti dal giorno in cui ci eravamo incontrati.

Si dispiegavano in crespe onde che nascevano sulla nuca, per adagiarsi poi morbidamente sulle spalle larghe e forti abbastanza da sorreggere il peso di non una, ma ben due famiglie da sfamare e accudire: la sua e la mia.

Sedette al solito posto, lasciandosi sfuggire il solito sospiro stanco.

Poi si passò una mano sul viso, sulla barba incolta e ispida, sulla bocca rossa e screpolata.

Sam era una bellezza poco convenzionale, selvaggia quasi, terribilmente affascinante.

Forse, se la guerra non fosse mai scoppiata, se l’avessi incontrato in circostanze più felici, se non ci fosse stato quel divario di ben dieci anni, me ne sarei potuta innamorare.

Ma in tempi tanto disperati l’amore era una creatura fuggiasca e spaventata oltre ogni immaginazione, che badava bene di tenersi lontana dalla civiltà, o da quel che ne restava.

«Allora, che succede?» domandai, servendo le ultime fette di pane stantio ma ancora commestibile, accompagnate dai rimasugli della confettura all’albicocca che lasciava sul palato un retrogusto acre e acido.

«La Germania ha tradito; è passata dalla parte della Russia e con lei anche il Belgio e l’Austria. Si sono vendute al nemico, fottute puttane» imprecò con leggerezza, addentando il pane.

Qualche giorno prima avrei sorriso dei suoi modi irruenti, ma quel giorno la mia mente era così ottusa, offuscata dalla gravità della notizia, che me ne restai perfettamente immobile, respirando piano per frenare il panico disperato.

«Fortunatamente, l’Italia, la Francia e la Spagna sono appena scese in campo. Ne abbiamo perse tre, ma ne abbiamo guadagnate altrettante» aggiunse, sfiorandomi distrattamente il gomito.

«Gli alleati sono soltanto soldati semplici che aiutano i generali, Sam» dissi, lentamente, spezzettando il pane.

«I generali sarebbero già a gambe all’aria senza i soldati semplici, Valerie» mi contraddisse, sorridendomi appena. I sorrisi di Sam erano rari quanto la possibilità di acquistare dei vestiti nuovi o della carne fresca, per questo ne approfittavo ogni volta, sorridendo di rimando.

«Credi che finirà mai? Che ci sarà mai un vincitore?»

«La Russia non molla e noi nemmeno; la stanno portando per le lunghe, quando potrebbero sfoderare le armi nucleari e farla finita».

Trasalii.

«Non dirlo nemmeno per scherzo» mormorai aspramente, ipotizzando solo una piccolissima frazione del danno che tali armi potevano arrecare.

Zone radioattive ed inabitabili per decine di anni, campi sterili, flora contaminata e destinata a marcire, nascituri malformati o gravemente malati...

«Accadrà, lo sai che accadrà. La Russia armerà le testate nucleari e noi li bombarderemo con il gas VX» mi provocò, ammiccando.

«Spero di morire prima, allora» sbottai infastidita, lasciandomi deridere dalla sua risata beffarda. Scattai in piedi come se la sedia mi avesse morsa, percorrendo lo stretto perimetro della cucina. Fu Sam a fermarmi, portandosi alle mie spalle e afferrandomi per i fianchi, il mento poggiato sulla mia spalla.

Gesti come quello erano così naturali, tra noi, che l’imbarazzo era morto subito o forse non era nemmeno mai esistito.

«Rilassati, Val. Non arriveranno a questo punto; cercano di tenersi stretto quel che hanno, distruggerlo sarebbe controproducente e inutile».

«Pensavo... pensavo che siccome settant’anni fa la guerra tra noi e loro era stata sventata, anche questa volta sarebbe andata così...» lasciai che la mia voce scemasse nel silenzio.

«Settant’anni fa non esisteva che una minima parte di tutto quello che oggi fa gola» borbottò, allontanandosi da me per gettare sul tavolo un pesante sacco di iuta.

«Piuttosto, ti ho portato un po’ di cibo. Chiudi quella bocca, non replicare. È l’unico modo che abbiamo di ripagarti delle erbe medicamentose che ci fornisci» disse, riconoscente e segretamente soddisfatto delle mie discrete abilità.

«Ringrazia il fatto che a poche miglia da qui ci sia qualche bosco sparso qua e là» replicai, accecata quasi dal profumo denso del formaggio fresco. La saliva mi riempii la bocca e fui costretta a deglutire e restare concentrata sulla voce bassa e cupa di Sam.

«Adesso devo andare. Ah, ho visto il ragazzino; sta bene».

«Non dà problemi» replicai rigida, perché la questione del ragazzino era sempre talmente spinosa e nebulosa che avrei dato un organo per poterlo restituire alla sua vera quanto sconosciuta famiglia.

«Ci vediamo, Val» mi lasciò la solita carezza sui capelli, montando poi in sella al suo cavallo e galoppando via, lontano diverse miglia da me.

Indugiai sulla porta più del necessario, soccombendo puntualmente davanti al desiderio sfrenato di vederlo tornare per restare con me, per offrirmi la sua compagnia e la sua protezione e forse anche una spalla su cui piangere le mie paure e le mie ossessioni.

Agivo per puro egoismo, perché ben sapevo che Sam avrebbe frainteso un così intenso desiderio; non aveva mai negato di volere una relazione con me, non aveva mai pensato alla differenza d’età come ad un problema. La guerra aveva spazzato via vita, abitudini e convenzioni; che differenza faceva? In fondo, non credevamo davvero in un domani roseo e prosperoso, senza fuoco né esplosioni.

Peccato che io e lui fossimo sintonizzati su frequenze diverse, peccato che io non fossi pronta a soverchiarmi del peso di un sentimento troppo fragile e troppo pericoloso come l’amore.

«Val, andiamo a mungere Georgie?»

Allungai una mano oltre la mia schiena fino a carezzare il braccio di Jack, annuendo distrattamente.

La nostra routine – debitamente condita di ansia e sensi allertati – prevedeva la mungitura di Georgie, la più anziana delle mucche che i miei genitori avevano ereditato da mio nonno Hanks.

Nonostante l’età, il clima ostile e il mangime sempre di qualità più scadente, Georgie continuava a ripagarci con latte bianco e delizioso, facendoci sentire degli ingrati per quel poco che avevamo da offrirle.

Presi posto su un piccolo sgabello, alle spalle di Jack, mentre il ragazzino mungeva con neonata abilità la mucca; quelle di Jack erano le uniche braccia maschili su cui potessi contare e avevo capito ben presto che era davvero il caso di tramandargli tutto l’insegnamento ricevuto da mio padre; da sola faticavo a badare alle esigenze dei pochi animali che avevamo e Jack, da quando aveva compiuto quattordici anni, inoltrandosi nell’adolescenza, era un preziosissimo aiuto.

Oramai aveva acquisito una certa manualità con la procedura, tanto che spesso me ne restavo in disparte, ad analizzare il flusso scoordinato e disordinato dei miei pensieri.

Quella mattina, mentre fissavo il profilo del ragazzino, ripensai al giorno in cui l’avevo trovato, appena tre anni prima.

Una figuretta smunta e pallida, rosa dal freddo e dalla fame, accasciata sul ciglio della strada che collegava il mio ranch a Fort Worth. Lo avevo soccorso immediatamente, portandolo a casa, offrendogli un letto caldo e casalinghi rimedi contro la febbre alta.

Quando fu abbastanza lucido da potermi raccontare la sua storia, scoprii che il bambino era fuggito dalla St. Antoine Family House, casa-famiglia che ospitava tossicomani volenterosi di guarire, prostitute alla ricerca di protezione dalle angherie dei loro protettori e orfanelli abbandonati, di anno in anno, sulla soglia della porta.

Di Jack si sapeva soltanto che era stato abbandonato in quella struttura quando aveva solo una manciata di mesi di vita sulle piccole spalle. Chi lo aveva abbandonato non si era nemmeno premurato di lasciare detto il nome del bambino, al quale, successivamente, ne era stato affibbiato uno fittizio: Jack Peterson.

Mi raccontò di come era stato costretto a subire i soprusi degli altri ospiti, di come i ragazzini lo prendessero in giro, di come lo picchiassero per puro divertimento, di quanto i cocainomani, coi loro occhi vacui e rossi, lo spaventassero a morte.

Non ebbi cuore di mandarlo via, sebbene tenerlo con me fosse un vero azzardo. Sapevo di non potergli offrire molto (e come avrei potuto, senza genitori né fratelli, con soltanto il nonno Hanks che si approssimava sempre più alla morte?), ma sapevo anche che avrei potuto garantirgli una vita molto migliore.

Fu l’unica spalla che mi offrì conforto quando nonno Hanks morì.

Lo vedevo crescere di anno in anno, vedevo il suo viso tondo affilarsi, la pelle tendersi sul mento e sugli zigomi, il corpo allungarsi, gli occhi grigi assumere un’espressione sempre più rassegnata, sempre più consapevole, sempre più adulta.

E soprattutto, era l’unica forma d’amore che potessi permettermi, quello fraterno, quello che un tempo era stato destinato tutto al mio vero fratello, Adrian, che combatteva al fianco di mio padre, nel valoroso corpo dei Marines degli Stati Uniti d’America.

La piccola Liz, invece, era stata abbandonata nel mio fienile, avvolta in una logora coperta gialla a cui era stato allegato un biglietto che ne citava solo il nome e la data di nascita.

Ma era talmente piccola e malnutrita – malata, anche – che l’avevo prontamente affidata alle cure della madre di Sam, pregando quest’ultimo di tenerla con loro, ché di sicuro non sarei stata capace di badare a lei.

Di tanto in tanto Sam la portava con sé, tenendola ben stretta nella curva del proprio braccio.

Chiusi gli occhi e sotto le palpebre rievocai l’immagine di una graziosa bambina dai luminosi capelli biondi e grandi occhi castani.

«Val, ho finito» Jack mi riportò al presente e mi alzai per baciargli i capelli spettinati, ringraziandolo.

«Mettilo pure in pentola, lo bolliremo stasera. Adesso vai a studiare un po’, mentre io raccolgo le uova di Netty».

Netty era la decrepita gallina che, assieme a Linda e Giselle, ci riforniva quotidianamente di uova piccole ma saporite.

Jack sbuffò della prospettiva poco gradevole, guadagnandosi una spintarella tra le scapole.

«Studiare è importante e tu sei così bravo con la matematica... Su, più tardi vengo a controllare il tuo lavoro».

Avevo fatto appena in tempo a diplomarmi, prima che scoppiasse la guerra e sconvolgesse ogni cosa. Oggi era troppo rischioso mandare i bambini a scuola, perciò era compito delle madri o dei padri o dei nonni sobbarcarsi la loro istruzione.

E io non ero stata da meno con Jack, il quale prometteva bene, sebbene la svogliatezza.

Lo osservai allontanarsi – strascicando i piedi sulla terra rossa – borbottando tra sé e sé.

Da quel momento il tempo era trascorso lentamente. Avevo raccolto le uova nel pollaio, pulito Kellan, la punta di diamante del mio ranch, che mi aveva ricompensata con un nitrito soddisfatto, spazzato il pavimento della casa, lavato i vestiti e rassettato le camere, dedicandomi quindi alla pulizia del bagno. Avevo preparato il pranzo e io e Jack avevamo alternato i bocconi a chiacchiere frivole, concentrate essenzialmente sulla mia vita passata, scorci di ricordi felici che parevano così inadeguati al presente.

Il pomeriggio era scivolato tra la bollitura del latte e uno sguardo ai compiti di Jack, tra la preparazione della cena e l’organizzazione della giornata successiva.

Dopo aver mangiato eravamo ancora abbastanza in forze da poterci concedere un po’ di televisione, i cui programmi si alternavano continuamente a strazianti bollettini di guerra.

Quando venne l’ora di andare a dormire, Jack mi augurò una buonanotte e si rintanò nella camera un tempo appartenuta ad Adrian. Pochi minuti dopo lo sentii russare piano e borbottare parole spezzate nel sonno.

Odiavo la notte, odiavo il buio e la vulnerabilità nella quale ci sprofondava irrimediabilmente. Temevo il suono delle sirene (indice che non eravamo poi così lontani da Fort Worth) a squarciare il silenzio e il mio riposo, temevo un bombardamento improvviso o un’incursione nemica a sorpresa. Ma sopra ogni altra cosa, temevo che la nemesi mi piombasse in casa, favorita dalle tenebre, e facesse del male a me e a Jack.

Mai come in quei momenti desideravo la presenza solida e rinfrancante di Sam.

Sam. Sorrisi, rammentando la burrascosa occasione in cui ci eravamo conosciuti.

Ad entrambi serviva un cavallo, entrambi avevamo puntato lo stesso stallone selvatico, entrambi eravamo finiti con un serramanico puntato alla gola.

E dopo aver discusso civilmente, decisi che poteva tenersi il  cavallo che alla fine ero riuscita ad ammansire, a patto che mi lasciasse metà del contenuto della sua bisaccia gonfia.

E così iniziò la nostra amicizia. Da quel momento, non era mai trascorso un giorno senza che Sam si presentasse alla mia porta. Avevo imparato a conoscerlo, scoprendo un pezzo alla volta della sua vita.

Era il più grande di tre fratelli e suo padre, come il mio, era un soldato impegnato sul fronte di guerra; era lui l’adulto di casa, che si spartiva tra il lavoro in città e quello al ranch, che aiutava sua madre – unico medico nel raggio di miglia – a curare bambini malati o giovani mandriani caduti da cavallo o da uno sperone di roccia.

Talvolta ci scambiavamo viveri ed erbe medicamentose, che avevo imparato a riconoscere nelle tante sessioni di pascolo assieme a mio nonno.

Con il dilungarsi della guerra, i medicinali ed altri beni di prima necessità tardavano ad arrivare o non arrivavano affatto; così, all’approssimarsi del 2021, sua madre era stata costretta a riesumare dalla soffitta il vecchio libro di famiglia – medici da sei generazioni – infarcito di ricette di unguenti e farmaci casalinghi, ma efficaci.

Da tre anni, Sam era la mia salvezza, mia e di Jack. Spesso ci ospitava per intere settimane nel loro ranch – tre volte più vasto del mio, con cavalli magnifici che gli avevo profondamente invidiato –, soprattutto quando il notiziario annunciava un’incursione che, fortunatamente, non era mai arrivata.

I bombardamenti, da un anno a quella parte, si erano limitati a colpire le nazioni settentrionali. La nostra posizione ci proteggeva; per quanto, non sapevamo dirlo.

E mentre ponderavo sui diversi tempi della guerra – su quanto ci avrebbe messo a raggiungerci – mi appisolai, rigirata sul fianco destro.

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Ed eccoci al primo capitolo di questa long, che non sarà poi così long (dieci capitoli, esclusi prologo ed epilogo).

Ciò detto, ho pensato e ripensato spesso a come introdurre Valerie, Jack e Sam, come introdurli nella storia senza creare confusione.

Ho scelto di seguire una giornata di ordinaria amministrazione, perché le abitudini di una persona dicono molto di essa.

Perciò, considerate questo capitolo come un modo per conoscere Valerie, così che le sue azioni, nell'immediato futuro, non vi sembrino troppo strane o inopportune.

Ciò detto, vorrei fare qualche ringraziamento: prima di tutto, ringrazio nali, che si è accollata il compito di betare questa storia, mostrando una grande pazienza con la sottoscritta e di questo non posso che ringraziarla davvero col cuore in mano; poi, ringrazio le cinque persone che hanno recensito e quelle che seguono questa storia, ringraziandoli per la fiducia riposta in questa storia e sperando di non tradirla.

Bon, temo d'aver concluso.

Appuntamento a mercoledì prossimo, non mancate, mi raccomando.

 

 

Passo e chiudo.

 

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Capitolo 3
*** Il ritrovamento ***


Nuova pagina 2

 

 

 

 

 

 

Le sirene squarciarono la notte dopo un paio d’ore o forse meno. Cercai di annientare lo stordimento e il battito del cuore che mi fischiava nelle orecchie mentre uscivo incespicando, urlando a Jack di venire, di raggiungermi.

Trafelato e con gli occhi pieni di lacrime, si fece piccolo accanto a me, mentre lo trascinavo quasi di peso giù, nella botola sotto il tappeto del salotto, nella cantina polverosa e pregna di umidità.

Non appena il coperchio tornò ad essere parte integrante del pavimento, il suono delle sirene si attenuò nettamente, come se fosse solo un sibilo nelle orecchie provate.

Jack ansimava e piangeva e io ero sulla buona strada per imitarlo; ma, mi dissi, io ero l’adulta, io avrei dovuto mantenere la calma, rinfrancarlo, garantirgli che sarebbe andato tutto per il verso giusto.

L’avevo appena abbracciato quando il fragore dell’esplosione sbriciolò il mio già labile autocontrollo. Mi strinsi al ragazzino e strillai, accasciandomi su pavimento e gemendo, mentre le lacrime scorrevano rapide e abbondanti sulle nostre guance.

Non sapevo con esattezza se a tremare fossimo noi o le mura; poi la polvere ci piovve addosso, soffocandoci, costringendoci a strisciare nello spesso strato di terra e pulviscolo, fino all’angolo più lontano, dove ad attenderci trovammo una famigliola di topi spauriti che sgattaiolarono via, in una fessura nel battiscopa.

Restammo accovacciati in quella scomoda posizione fino a che le esplosioni – ne contai ventitre – non terminarono, scivolando nel silenzio.

«È finita?» sussurrò Jack, impercettibilmente, tanto che dovetti chinarmi sulle sue labbra e invitarlo a ripetere nuovamente la domanda.

Mi strinsi nelle spalle e feci leva sulle ginocchia molli e tremanti, reggendomi a Jack che, a sua volta, si reggeva a me.

Il silenzio mi terrorizzava ancor più delle esplosioni; temevo che il fragore ci avrebbe assordati nuovamente, all’improvviso.

Mai come in quel momento agognai con così tanta disperazione la voce e le braccia e le mani di Sam.

Attendemmo forse mezz’ora, forse un’ora o forse due. Solo quando la luce filtrò dalla finestrella sudicia ci accorgemmo di essere rimasti sottoterra per almeno quattro ore.

Come il silenzio, anche l’alba mi pareva in qualche modo sbagliata, inopportuna. Come se fosse giunta, con arroganza, a cancellare il ricordo delle esplosioni, a rendere inconsistente il peso della nostra paura.

Confusa, osservai la finestra e mi domandai se tutto – il rumore, le bombe, le sirene, il pianto, il terrore e l’ansia – fosse realmente accaduto.

Il corpo tremante di Jack avvinto al mio fu una dolorosa ma esauriente risposta.

«Torniamo di sopra» mi schiarii la voce e il sollievo fu quasi doloroso, nello stomaco, quando appurai che le onde d’urto non erano state forti abbastanza da arrecare danni alle finestre, che le esplosioni erano avvenute troppo lontano per lesionare la mia casa, tutto ciò che avevo.

«Valerie, Valerie, guarda!»

Mi trascinai sino alla finestra – realizzai solo allora il peso della stanchezza nelle gambe rigide come ciocchi di legno – e i miei occhi stanchi e arrossati registrarono la densa colonna di fumo che si levava, lenta e goffa, dalla scarpata mezzo miglio dal ranch, in direzione ovest.

Gli abitanti della zona – noi compresi – la chiamavano “L’ultima spiaggia”, perché, effettivamente, era davvero improbabile che si riuscisse a visitare qualcos’altro dopo esservi precipitati dentro. Era una scarpata ingentilita dal manto erboso che cresceva spontaneo sui fianchi, profonda settanta metri o giù di lì; una discesa che finiva dritta a valle, o, se vi si cadeva, nella bocca della morte.

Conoscevo bene l’ultima spiaggia; molte delle erbe medicamentose che raccoglievo per Sam crescevano sui tratti più assolati e morbidi, facilmente raggiungibili.

«Cosa pensi che sia?»

«Qualcosa è precipitato lì. Un elicottero, forse, o una bomba».

E tuttavia mi pareva improbabile. Se fosse stata una bomba, ogni cosa ne avrebbe risentito e il mio ranch sarebbe rimasto coinvolto nell’esplosione, o no?

Un elicottero, allora. Il che implicava pilota e co-pilota e di conseguenza, cadaveri o sopravvissuti.

Deglutii, tirando le tende.

«Non ci interessa, comunque. Qualunque cosa sia, manderanno i ranger a controllare» spiegai nervosamente, intenzionata più che mai a darmi una ripulita.

«Ma... e se qualcuno fosse sopravvissuto?»

«Peggio per loro, Jack; noi non aiutiamo chi vuole ucciderci» lo redarguii velenosamente, inoltrandomi nel bagno e sbattendo la porta, così che intendesse bene che la discussione era chiusa.

Oh, quanto mi sbagliavo!

Quando finalmente tornai in cucina, rinvigorita dalla doccia, di Jack si notava solo l’assenza.

«Jack?» chiamai, muovendomi in ogni camera, il panico che dilagava con l’aumentare dei miei passi.

«Jack!» urlai a pieni polmoni, correndo sul selciato per arrestarmi poi per assottigliare lo sguardo.

Jack era sporco di terra, fango e – un moto di isteria mi pervase – sangue e si trascinava al fianco il corpo moribondo di un soldato.

La sua divisa, sebbene insozzata e strappata e bruciata, risplendeva ancora dei colori della sua madrepatria. La mimetica logora e sbrindellata lasciava intravedere la tel'njaška a righe bianche e blu fiordaliso, macchiata di sangue e terra; il basco blu era scivolato sul volto del soldato e il grande emblema dorato riluceva, nonostante la crepa che lo divideva in due metà asimmetriche.

Li chiamavano berretti blu, ma gli americani li avevano spregiativamente rinominati uccelletti blu, riferimento alla loro attività di piloti e, sospettavo, racchiudeva un qualche insulto implicito a livello anatomico e sessuale.

Ma di una cosa ero assolutamente certa: erano i più spietati, i più pericolosi membri delle forze armate russe; un corpo a sé stante, un privilegio di pochi, il riconoscimento di una carriera ricca ed encomiabile.

Una cerchia esclusiva che aggregava i più capaci militari russi.

Non ebbi occasione di lanciarmi in ulteriori congetture; persi il filo del pensiero quando notai il kalashnikov pendere dalla spalla di Jack.

Balzai in avanti e quando fui abbastanza vicina, lo strattonai con violenza, calciando via l’arma, disgustata.

L’uomo – morto o moribondo, non avrei saputo dirlo – si accasciò in una nuvola di terra, senza emettere alcun lamento.

«È vivo» sussurrò Jack, badando, adesso che mi era vicino, di tenersi lontano dall’uomo.

Come a voler confermare le sue parole, l’uomo mugolò pianissimo.

«Vedo», attestai gelida e atona, «porta dentro questo cane bastardo; dopo, parleremo».

Jack eseguì rapidamente l’ordine e trascinò l’uomo in salotto, adagiandolo sul tappeto che custodiva il nostro rifugio, la nostra unica speranza di salvezza.

«Bisognerà chiamare la madre di Sam—»

«Sei impazzito?! Ci arresterebbero tutti!»

Era vero. Di questi tempi, chi veniva sorpreso ad offrire asilo al nemico era tacciato di tradimento e chissà quale altro crimine contro la Patria.

«E cosa facciamo? Lo lasciamo morire?»

Buona idea, pensai perfidamente. Scossi la testa, mordicchiandomi freneticamente le unghie, indecisa sul da farsi, terrorizzata da quel corpo inerme.

Ucciderlo sarebbe stato facile come respirare; un colpo di quel suo bel giocattolino e tutto sarebbe finito. I ranger lo avrebbero ritrovato carbonizzato tra le fiamme che avrei facilmente appiccato e avrei portato il peso del mio segreto sulle spalle fino ai miei ultimi giorni.

Ma avevo troppo a cuore il concetto di “vita”, e tutto quel che significava, per poter uccidere così, a sangue freddo, un essere umano, un essere vivente.

Nonno Hanks diceva sempre che ogni vita ha il suo valore, che ogni vita ha il suo significato, che ogni vita, che si intreccia alla nostra, lo fa con uno scopo ben preciso.

Quando furono trascorsi molti minuti, decisi finalmente di inginocchiarmi al fianco dell’uomo. Allungai le mani per sfilargli la tuta e appurare l’entità dei danni, salvo poi trattenermi. Al petto se ne stava appuntata la spilla della sua truppa – la 76esima, quella dei volontari, ne riconoscevo lo stemma – che fissavo come fosse un disgustoso rettile, viscido e velenoso.

Era l’incarnazione della fine del mondo, del capovolgimento dell’ordine mondiale; era il simbolo su cui colava il sangue degli innocenti e dei soldati miei compatrioti.

«Devi spogliarlo? Vuoi che lo faccia io?»

Jack mi ridestò dalle mie lugubri elucubrazioni.

«No. Aiutami a portarlo di sopra, in mansarda» domandai, vincendo la repulsione e afferrando un braccio mentre Jack stringeva l’altro.

Ansimando e inciampando, lo trasportammo sino alla soffitta, un tempo adibita a camera per gli ospiti, oggi azzardato nascondiglio di un soldato nemico.

Lo adagiammo piano sul letto, le cui coperte candide si insozzarono prontamente di lerciume e sangue.

«Chiama Kim, dille che sono malata e che la settimana prossima resterò a casa, poi prendi l’automobile e chiudila nel capanno; quando verrà Sam digli che sono andata in città per, uhm, inventati qualcosa. Infine, prendi Kellan e vai a farti un giro».

Jack annuì diverse volte e sgattaiolò giù; il suo borbottio infastidito dal timbro marcato e non più infantile mi raggiunse fin lì.

A Kim – la droghiera presso cui lavoravo per il carico e lo scarico delle merci – non avrebbe fatto piacere, non ora che erano in arrivo le scorte di viveri e beni di prima necessità.

Scoccai un’occhiataccia al soldato esanime prima di inoltrarmi in bagno per procurarmi il kit del primo soccorso, spugne, asciugamani e un secchio colmo d’acqua limpida e pulita.

Non avendo mai spogliato nessuno in vita mia, incontrai diverse difficoltà, prima tra tutte il mio accentuato senso del pudore.

Armeggiai con cinture, stringhe, fibbie e cerniere per tirare fuori l’uomo dai suoi vestiti e quasi temetti – temetti, non sperai, la cosa mi sconvolse non poco – che fosse morto quando non sopraggiunse nessun lamento, nessun gemito.

Nudo (o quasi; non avevo trovato il coraggio di sfilargli la biancheria), indifeso ed esanime, potevo valutare l’entità del danno.

Oltre alle molte escoriazioni, ferite superficiali e abrasioni, notai un profondo squarcio sul fianco destro, che continuava a trasudare sangue caldo e denso.

Dovetti spalancare la finestra per non vomitare, non sapendo se a suggestionarmi fosse l’intenso odore metallico o il colore vivido del liquido.

Intrisi la spugna d’acqua e la passai sull’intero corpo: sul collo, sul petto, sull’addome, sulle braccia e sulle gambe, tenendo per ultimo il fianco squarciato e il viso.

Quando anche l’ultimo strato di sudiciume venne lavato via, restai colpita e affascinata.

Non era un uomo. Era solo un ragazzo, forse mio coetaneo, forse poco più anziano. Ed era bello, della classica bellezza russa, delicata e pericolosa, quasi felina.

Poi, pervasa da un gelido controllo, gli scostai timorosamente i capelli biondi dalla fronte, spingendoli sulla testa.

Non sapevo praticamente nulla di procedure mediche, se non qualche rudimentale base.

Mi inginocchiai per scrutare il taglio nel fianco e persino un’ignorante in materia come me sapeva che occorreva una pratica di sutura.

Vidi l’ago minuto, le pinze e il filo, impaccati in una busta trasparente, ma esitai.

Era semplice come rammendare un calzino? Gli avrei inferto dolore? Probabilmente, ma non tanto quanto lui – o chi per lui – ne aveva inferto alla mia gente.

Eppure.

Eppure non ero così sadica, né così coraggiosa. Sapevo di dover prendere una scelta, sapevo che la riserva di sangue umano era limitata, scarsa perfino.

Chiusi gli occhi, pregai che la buona sorte fosse in mio favore e strappai la busta trasparente, inserendo il filo nell’impercettibile cruna dell’ago, afferrandolo poi con le pinze.

Ricordavo quel paio di volte in cui avevo osservato Keira, la madre di Sam, praticare la sutura; ricordavo i movimenti sciolti, praticati con consumata abilità.

Era come cucire; il trucco era nel considerare la pelle al pari della stoffa, ignorando preferibilmente l’intensa emanazione del sangue.

Piantai l’ago nella carne, unendo i lembi della ferita, praticando un primo, sghembo punto.

Mi arrestai quando il filo ebbe traversato la ferita, scoccando un’occhiata al ragazzo.

Avrei dovuto anestetizzarlo? Oppure il dolore non era così forte da ridestarlo?

Praticai altri tre punti prima che lui gemesse piano, scoprendo i denti digrignati.

Velocemente, ne cucii altri otto prima che la ferita fosse interamente richiusa. Strappai delicatamente il filo e solo allora mi domandai come diavolo l’avrei bendato.

Mi occorreva Jack e l’insolita forza delle sue braccia.

Ma Jack era lontano, lontano da me e da ciò che lo avrebbe atteso al suo ritorno.

Così, impacciata e lenta, sfruttai il materasso morbido per stringere la benda cinque, sei, sette volte attorno al torace, fino a crearne un bozzolo bianco e pulito.

Feci un doppio nodo e attesi, sforzandomi di non guardare le mia dita, impregnate di sangue.

Era ancora svenuto. Possibile?

Feci una corsa veloce al bagno, mi lavai tre volte le mani e tornai da lui, tastandogli il polso.

Il battito, lento e leggero, era presente. Cosa dovevo fare? Attendere che si svegliasse? O forzare il risveglio? Mi grattai nervosamente una spalla e decisi di aspettare.

Sedetti, esausta, in una poltrona poco lontana. Non appena chiusi gli occhi, la stanchezza si riversò nel sangue, che ottenebrò il cervello, sprofondandomi in un sonno vivido di colori e ricco di esplosioni.

Fu una scarica di dolore alla schiena che mi risvegliò, molto tempo dopo. La posizione aveva anchilosato le articolazioni e irrigidito i muscoli oltre la soglia dell’umana tolleranza.

Gemetti e mi schiarii la voce, stropicciandomi gli occhi e scansando i capelli dalle guance.

Impiegai un minuto pieno a concatenare tutti gli ultimi eventi, chiudendo la stringa con il volto del soldato russo scampato all’abbattimento aereo.

Sollevai le palpebre per scorgere il sole ormai giunto al tramonto, la cui luce aranciata ammorbidiva i profili degli oggetti, riverberandosi in un paio di occhi azzurri che mi fissavano insistentemente.




 


 

 

NdA: E finalmente Alek entra in scena.

Mi scuso se a qualcuno queste NdA sembreranno diverse, ma ho combinato un mezzo casino con questo e il successivo capitolo, e a distanza di due settimane non lo ricordo mica cosa avevo scritto.

Tant'è.

Giusto un paio di precisazioni.

Non sono un'esperta in medicina, pertanto il paragrafo sulla sutura prendetela molto alla leggera; ho solo ipotizzato come si reagisca in una situazione così, ho solo cercato di ricreare un intervento di fortuna.

Ringrazio chi ha letto e recensito lo scorso capitolo.

 

 

Passo e chiudo.

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Capitolo 4
*** La nemesi ***


Nuova pagina 1

 

 

 

 

 

 

Un rivolo di gelido sudore mi colò tra le scapole, strisciando lungo la schiena per infrangersi contro l’orlo dei pantaloni.

«Vy dovolʹno, sei carina».

Mi irrigidii, prestando scarsa attenzione al  complimento ironico, o alla voce strascicata dal lieve accento russo.

Fissavo di rimando i suoi inquietanti occhi azzurri – chiari come ghiaccio e come ghiaccio gelidi – mentre la mia vista periferica coglieva la figura sfocata di un’ombra sul pavimento.

No, non un ombra. Il suo giocattolino, che Jack doveva aver raccolto e portato su mentre trasportavamo lui.

Mi bastò allungare il braccio per sentire le dita serrarsi sull’impugnatura più vicina alla canna, fredda e liscia.

Glielo puntai addosso, mirando dritto al cuore.

«Intendi spararmi, bellezza?»

«E diventare assassina a mia volta? No, grazie».

L’odio sbocciò come lo schizzo su carta di un capace pittore, veloce, frenetico, marcato.

Odiavo tutto di quel soldato: la cadenza lenta della sua voce, i suoi perforanti occhi azzurri, l’arrogante sicurezza del suo modo di fare, i colori della bandiera che serviva con tanta fedeltà.

«Questo mi conforta. Ora, se potessi avere un bicchiere d’acqua...»

Lo fissai sprezzante e socchiusi le palpebre prima di afferrare una bottiglia d’acqua e porgergliela con la stessa accortezza che avrei prestato con un ragno velenoso.

Bevve a lungo, per niente intimorito dall’arma che ancora puntava dritta al suo cuore. Quando fu soddisfatto, gettò la bottiglia – praticamente vuota – sul pavimento, notando solo allora la spessa fasciatura.

«L’hai fatta tu?»

Non risposi.

«Ah, mi hai anche ricucito», disse mentre tastava la ferita sul fianco, «e, se posso, come mai tanta apprensione per il nemico? Non sarebbe stato più semplice lasciarmi morire tra quei maledetti rottami?»

«Non sono stata io a salvarti» ribattei con astio.

«Dunque, cosa hai intenzione di farmi, adesso? Consegnarmi ai tuoi soldati?» l’insopportabile sicurezza del suo tono vacillò sull’ultima sillaba, tradendo una paura radicata, nascosta, ma profonda.

«Se lo facessi, verrei accusata di tradimento» spiegai a denti stretti, notando solo allora il pesante muro di nebbia che celava il mio avvenire.

Cosa avrei fatto di lui?

«Allora, mi terrai prigioniero?» la malizia nella sua voce fu talmente insolente da spingermi a sollevare il kalashnikov all’altezza della sua fronte.

«Non lo sai che non si punta mai un’arma al volto? Che abbia o meno la sicura inserita, è inteso» attese che il senso delle sue parole penetrasse nella mia consapevolezza, prima di ridere. La sua ilarità lasciò il tempo che trovò: il riso si trasformò in una smorfia di dolore e la mano premette contro il fianco.

«Ecco perché siamo in guerra; dei figli di puttana come te hanno stuzzicato gli americani, hanno tirato la corda fino a spezzarla» lo insultai, gettando rumorosamente l’arma sul pavimento e calciandola via, lontana da me e da lui.

«Su un totale di ottantasette battaglie, ne abbiamo vinte cinquantatre. Siamo in vantaggio, bellezza».

La brutale leggerezza con cui parlava della guerra mi sconvolse. Ripensai all’onnipresente necrologio sul “Fort Worth News”, alle molte foto che testimoniavano la vita spezzata di bambini innocenti, ripensai alle lacrime sui volti di genitori disperati, ripensai a tutti i cittadini caduti sotto il fragore delle bombe e dei fucili, ripensai a mio padre e mio fratello impegnati sul fronte settentrionale, alla possibilità di non rivederli mai più...

Il disgusto mi colmò lo stomaco e la bile risalì, bruciandomi la gola.

«Ce l’hai un nome?» sbottai a denti stretti, dirottando il discorso altrove.

«Aleksandr Lebedev, comandante in seconda della 76esima Divisione» si presentò, accompagnandosi con un gesto della mano, quasi stesse sfiorando la tesa di un immaginario cappello.

Quando si diceva l’ironia della sorte. La mia personalissima nemesi portava lo stesso nome – in forma russa, certo – di mio padre, Alexander.

«Bene, Aleksandr Lequalcosa, questa è casa mia e qui vigono le mie regole. Dai miei ospiti pretendo che mostrino la dovuta educazione e il dovuto rispetto; dai prigionieri russi cani bastardi pretendo che se ne stiano a marcire in questa mansarda, arrecando il minor fastidio possibile. E se ti riesce, evita di parlarmi. Vy ponimayete?» domandai, pescando da chissà dove la reminescenza di quel “Capito?” in russo, ascoltato molto tempo fa da chissà chi.

«Zakazy, agli ordini» imitò un perfetto cenno militare di obbedienza, storcendo poi il viso in una smorfia sprezzante.

Girai sui tacchi, premurandomi di portare con me qualsiasi oggetto che avrebbe potuto trasformare in una potenziale arma, e andai via, chiudendo a chiave la porta.

Non sarebbe fuggito, non mi avrebbe messa nei guai.

Trovai un mogio Jack seduto al tavolo della cucina a spiluccare l’ultima fetta di pane raffermo.

«Ehi, ciao Jack, ti sei divertito?»

«Mi dispiace, Valerie» mormorò contrito e dovetti stringere il pugno per non schiaffeggiarlo.

«Figurati. Che sarà mai un soldato russo, arrogante e insolente, che potrebbe metterci in grossi, grossi casini?!»

«Non lo farà! Insomma, gli abbiamo salvato la vita, non può...» tacque all’improvviso, quando un grido sferzò il silenzio.

«Ho fame, piccola stronza!»

«Carino, eh?» domandai, facendolo ridere. Il suono della sua risata era così bello, puro e spensierato che sorrisi a mia volta, ammorbidendomi.

Avercela con Jack non aveva senso; piuttosto, ero in collera con me stessa e l’orgoglio, compagno inopportuno e indiscreto, mi pungolava. Avrei dovuto essere io quella ad uscire in perlustrazione e tirare fuori il soldato bastardo dalle lamiere, non un ragazzino quattordicenne. Invece, mi ero limitata a tirare le tende e voltare le spalle, agendo con freddo cinismo.

Fortunatamente, Jack pareva esistere apposta per riesumare il lato più umano e caritatevole di me.

Preparai una grossa pentola di minestra a base di verdure; roba leggera, che ci riempì solo dopo tre scodelle. Eppure non potevo permettermi una vasta scelta, non potevo sprecare il cibo. E non potevo di certo sfamare quello stronzo con carne e formaggio, non dopo l’incidente, la perdita di sangue e tutto il resto. Una piccola parte di me suggerì che quei viveri di scorta, poi, era per noi, non per lui. Me ne vergognai quasi subito e sentii il viso bruciare di imbarazzo.

Solo quando Jack fu sazio versai la minestra densa e pallida in una scodella, adagiandola su un vassoio con tanto di acqua, stoviglie e tovaglioli.

Avrei dovuto rammentare di informarlo che il servizio in camera non era previsto e che non appena la ferita fosse guarita avrebbe dovuto sistemarsi altrove, tornando magari a quella sua Divisione che sembrava amare tanto.

Lo trovai seduto sulla poltrona, impegnato a trastullarsi con le piccole code che chiudevano il nodo della sua fasciatura. Notai con piacere che aveva indossato nuovamente la mimetica, lasciando tuttavia che la parte superiore pendesse sui fianchi e sulle gambe. Scoccai un’occhiata disgustata alla sua maglia a righe, chiazzata di polvere e sangue, divelta in diversi punti.

«Le lenzuola sono sudice» mi informò irruento e nervoso.

«Dovrebbe importarmene qualcosa? Questi sono i tuoi appartamenti, soldato. La cena».

Posai il vassoio sul piccolo tavolo alla sua destra, valutando l’effettivo stato delle lenzuola.

Irritata, dovetti convenire con lui e assumermi una giusta fetta di colpa: molto del sangue che le striava – come il manto di un animale – era fuoriuscito durante la mia maldestra sutura di fortuna. Le grandi macchie circolari di fango, poi, certo non contribuivano a migliorarne l’aspetto.

«Dovrei mangiare questa porcheria? Stai scherzando?»

«Oh, mi dispiace che il pasto non sia di suo gradimento. Dica, preferisce una succosa bistecca cotta al sangue, con contorno di patate dorate, pomodorini a fette e smeraldine foglie di lattuga?»

Ci fissammo torvo per qualche secondo, prima che affondasse il cucchiaio nella minestra.

Lo vidi muovere la mascella a destra e sinistra, vagliando il sapore e la densità del piatto, decidendo infine che non era davvero di suo gradimento.

Lo sputò sdegnato – ma sarebbe meglio dire che me lo sputò addosso – e con un fermo manrovescio scaraventò la ciotola sul pavimento, incrociando quindi le braccia al petto.

«No, non è di mio gradimento, americana del cazzo».

Sospirai e sopportai. Solo pochi giorni, continuavo a ripetermi, solo il tempo di rimettersi e poi andrà via.

«D’accordo; troverai l’acqua più gradevole, immagino».

Mi allontanai per recuperare scopa, paletta, qualche straccio e un secchio d’acqua.

Pulizie notturne, fantastico.

Mi osservò ripulire senza fiatare, immobile nella poltrona. Quando ebbi finito, gettai tutto nel secchio del pattume, e tornai da lui, cambiandogli le lenzuola.

La stanchezza aveva sciolto le briglie dei miei pensieri e l’astio era montato nel sangue, portandomi a riflessioni molto poco carine, spingendomi sull’orlo di una crisi isterica che, in qualche modo, avrebbe previsto l’uscita di scena  di quel piccolo insolente, in maniera assai dolorosa.

Immaginai la pelle morbida del collo modellarsi sotto la salda prese delle mie mani, l’onnipotenza di sentire la sua vita tra le dita, le labbra rosate che digradavano in una mortifera sfumatura di blu...

«Ho fame» disse quando ormai lo credevo addormentato, strappandomi alle mie fantasticherie.

«Hai avuto la tua occasione, russo bastardo» replicai lestamente, serafica, augurandogli una buona nottata. Jack mi aspettava a ridosso del muro, seduto sul pavimento.

«Vai a dormire, Jackie, è tardi».

«Non andate d’accordo, eh?» domandò imbarazzato, tirandosi in piedi.

«No di certo».

«Lascia parlare me. Magari tra maschi ci intendiamo».

Non mi allettava l’idea di lasciare il ragazzino da solo con quel soldato, ma la certezza della sua disastrosa condizione fisica fu sufficientemente forte da impedirmi di replicare.

Jack era forte, se la sarebbe cavata in caso di aggressione e, soprattutto, io sarei rimasta nei paraggi. Nella tasca della felpa sentivo il peso rinfrancante del serramanico.

«Come vuoi. Ma è tempo perso» mi allontanai e solo quando sentii la porta chiudersi tornai in mansarda, acquattandomi contro la parete.

Riuscii a cogliere ogni battuta del loro dialogo, con stizza crescente.

«Ciao, sono Jack».

«Ciao, Jack. Mi hai trovato tu?»

«Sì. Mi dispiace per il tuo compagno... ho cercato di...»

«Non importa, conoscevamo ogni rischio. Grazie, comunque, non avrei mai pensato di dirlo ad un americano ma... ti sono debitore».

«Dovere, ehm...»

«Aleksandr. O Alek, se preferisci».

«Alek, okay. Bene. Quindi, sei un pilota, fico».

«Pilota giovane e inesperto, aggiungo. Avrei dovuto prestare più attenzione al radar e meno al mio istinto. Ti piacciono gli aerei, ragazzo?»

«Molto. Ma non mi piace quando ci bombardano. Immagino che... stanotte... eravate voi...?»

«Spiacente. Io e il mio compagno siamo arrivati qui solo questa mattina, intorno alle cinque».

«Ah. Lo parli bene, l’inglese».

«Mia madre è americana, così come i miei nonni. E tu, da dove vieni?»

«E chi lo sa? Sono stato abbandonato, non ho mai conosciuto i miei genitori».

Pausa di silenzio. Un’imprecazione in russo, a denti stretti.

«Quindi, tu e quella lì siete orfani?»

«Oh no, io e Valerie non siamo parenti. Lei mi ha trovato e mi ha portato a casa sua. È una bella storia, magari un giorno te la racconto».

«Sì, magari».

«E Valerie, be’, lei è una bella persona».

Una risata di scherno.

«Oh, sì, ho visto».

«Non è male, davvero; è solo che suo padre e suo fratello combattono con i Marines, su, al nord, e quindi per lei tu sei una specie di incarnazione del male o qualcosa del genere».

Dannato Jack, dannata la sua indiscrezione. Strinsi i denti, prendendomi la testa tra le mani.

«Be’, ora è tutto chiaro. E sua madre?»

«Non me ne ha mai parlato, ma credo sia morta».

Morta. Probabilmente. Per me lo era di sicuro. Soffocai uno sbadiglio, ribellandomi al sonno che premeva sulle palpebre.

Il terrore era più forte della stanchezza, abbastanza da tenermi in piedi per qualche altra ora, forse. Non mi fidavo. Non potevo dormire con la consapevolezza di avere il nemico ad un piano dalla mia testa, con la paura di non sentirlo insinuarsi in camera da letto per tagliarmi la gola.

Non potevo dormire, suggestionata com’ero dagli avvicendamenti della notte precedenti, dall’eco delle esplosioni ancora nitido, ancora orribile.

Mi costrinsi a strapparmi dall’intorpidimento e dal flusso sconnesso di pensieri quando captai i passi lenti di Jack avvicinarsi alla porta. Sgusciai in un’intercapedine abbuiata, scrutando la figura di Jack che, dopo aver salutato il soldato, scendeva pesantemente le scale.

Pochi minuti dopo, e senza sapere come, mi ritrovai adagiata tra le coperte. Ero così esausta da non saper più collegare i fatti, ordinarli secondo una precisa cronologia; avevo la sensazione che il mio cervello si addormentasse ad intervalli regolari, tramortendomi.

Pensai distrattamente all’atteggiamento del russo nei confronti di Jack, finendo col paragonarlo inevitabilmente con quello che aveva riservato a me. Non invidiavo Jack e capivo fin troppo bene perché io e lui fossimo così reciprocamente ostili e riluttanti a trovare un punto d’incontro.

Chiusi gli occhi, umettandomi le labbra.

Alla fine, la guerra mi aveva raggiunta di soppiatto, colpendomi alla schiena. E sapevo bene che, per quanto avrei voluto gettarla a calci fuori dalla porta, quella sarebbe prontamente rientrata dalla finestra.

Mi addormentai che un paio di vividi occhi azzurri mi fissavano da dietro il vetro dei ricordi.

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Settimana nuova, capitolo nuovo.

Per chi ancora sia rimasto a filarsi questa storia, è inteso. Non che mi dispiaccia, eh; io pubblico questa storia perché piace a me, quindi venti persone o una, tra i recensori, non farebbero poi una grande differenza.

Chiusa questa parentesi, questo capitolo, per una mia dimenticanza, non è stato betato e di questo chiedo scusa a nali, verso la quale sento d'aver mancato di rispetto e puntualità, ma giuro che non accadrà più: so bene quanto sia importante mantenere un impegno preso.

Riguardo al capitolo non ho particolari note da lasciare; si è visto un po' del carattere di Alek, un tipetto assolutamente suscettibile e orgoglioso, un cavallo selvatico e bizzoso.

Un capitolo forse statico, ma necessario ad introdurre il rapporto che, da qui in poi, correrà tra lui e lei.

Non ho altro da aggiungere, se non ringraziare chi legge questa storia e sperando che sia di suo gradimento.

 

 

Passo e chiudo.

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Capitolo 5
*** La rottura ***


Nuova pagina 1

 

 

 

 

 

 

«Buongiorno, Val. Senti...» Jack tentennò, grattandosi la nuca mentre un’ondata di rossore affiorava sulle guance scarne.

Sollevai lo sguardo, passando le dita tra i capelli corti e indisciplinati, reduci da una nottata animata da incubi sgradevoli e così vividi da sembrare reali.

«Cosa?»

«Ecco, Alek mi ha chiesto di vestiti puliti... la sua, ehm, divisa è sporca e strappata e...»

Strinsi le labbra in una smorfia di disapprovazione.

«Alek? Siete amiconi, insomma. Bene, dì ad Alek che noi non siamo un negozio di abbigliamento e che non abbiamo soldi da spendere per lui – né per noi, figuriamoci. Non appena vedrò Sam—»

Quattro colpi secchi alla porta, quattro colpi persi dal mio cuore.

Deglutii, scattando in piedi.

«Vai dal soldato, tienilo chiuso in quella maledetta mansarda!» bisbigliai concitata, spingendo il ragazzino verso le scale.

Quando sparì oltre l’angolo del primo piano, trassi un profondo respiro e spalancai la porta.

«Sam!» squittii, sorridendo troppo.

L’uomo fiutò la stranezza e piccole rughe gli incresparono la fronte.

«Stai bene?»

«Sono ancora un po’ scossa per via del bombardamento. Tutto bene da te?»

«Fortunatamente sì. A parte i ranger, certo» sbuffò, sistemandosi il cappello.

Una scarica di panico mi fece tremare le braccia.

«Ranger?»

«Sì. Non l’hai saputo? Un cacciabombardiere è precipitato nell’ultima spiaggia e il pilota è scappato. Il suo compagno non è stato altrettanto fortunato, le lamiere lo hanno trapassato da parte a parte» la nota di compiacimento nella sua voce e nei suoi occhi mi fece rabbrividire.

Sam sapeva essere spietato e il suo atteggiamento lo rese sinistramente simile all’ospite indesiderato che alloggiava nella mia mansarda.

«Quindi, cosa fanno i ranger? Passano in rassegna le abitazioni?»

Annuii, aggiungendo che probabilmente sarebbero entrati in casa mia per accettarsi che lo straniero non si fosse introdotto di soppiatto.

No, di certo non si era introdotto di soppiatto. L’esatto opposto.

«Okay. Sam, ascolta, ho bisogno di vestiti vecchi, della tua taglia».

Di Sam apprezzavo la sua profonda discrezione, il suo non perdersi mai in domande indiscrete.

Non mi stupii di vederlo annuire, soprappensiero. Poi, dopo un lungo minuto di riflessione, mi domandò di inviare Jack da lui, nel pomeriggio, così che raccogliesse il pacco di vestiti vecchi appartenuti a suo padre.

Lo ringraziai e aspettai che il suo cavallo fosse ben lontano prima di rientrare in casa.

Jack e il russo erano seduti al tavolo della cucina; si scambiavano occhiate enigmatiche e complici, tacendo e sorseggiando il loro caffè.

«Sam vuole che tu vada da lui, questo pomeriggio» dissi a Jack, il quale annuii poco sorpreso. La nostra conversazione, evidentemente, era giunta sino alle loro orecchie.

«Jack, ragazzo, in una tasca della mia mimetica c’è una piccola palla di spugna, sai, è il mio anti-stress, ne ho davvero bisogno; andresti a prendermela?»

Jack non colse il tono sottile e mansueto con cui avanzò la richiesta, perciò annuì piano e si inoltrò in mansarda. Lo fissai per una frazione di secondo prima che la sedia scaraventata sul pavimento attirasse la mia attenzione; capii troppo tardi che era solo un velocissimo diversivo per ingannarmi e trasalii quando la canna del kalashnikov spinse tra le mie scapole.

«Ma che fai? Che fai?» strillai, in panico.

«Ascolta, stronzetta: non sono sfuggito al disastro aereo per farmelo spingere su per il culo da te, che tradotto significa: non mi consegnerai a quei fottuti ranger» bisbigliò freneticamente, il suo respiro che soffiava sulla mia nuca e un pesante accento russo a striargli la voce.

«Se evitassi di puntarmi quella cosa addosso, forse potrei pensare a qualcosa prima che—»

«Allora pensa in fretta!» ringhiò, spingendomi lontano da lui.

Quando i ranger spensero il motore dei loro fuoristrada e bussarono alla porta con fare urgente non ci trovarono impreparati.

Sebbene avessi spronato il cervello a trovare una soluzione, nulla mi aveva folgorata quanto le vecchie fedi impolverate nel secondo cassetto del mobile. Un piano stupido, grezzo e azzardato, ma se il soldato avrebbe taciuto, lasciando parlare me, probabilmente ne saremmo usciti entrambi illesi e, non di minore importanza, avremmo evitato la galera.

La parte più velenosa e patriottica di me suggeriva di darlo in pasto ai ranger, di mettere su una lacrimevole messinscena in cui io, fragile ragazza indifesa, ero stata costretta a curarlo e offrigli asilo, tenuta schiava e prigioniera nella mia stessa casa; la parte più codarda e leale mi diceva invece di coprirlo, di proteggere lui e me stessa, che la pena capitale, per quanto applicata nel giusto, era orribilmente sbagliata. Che nessuno poteva – e doveva – arrogarsi il diritto di spegnere una vita nell’elettricità o nel veleno nonostante la crudeltà dei reati commessi. Non era giustizia, ma freddo abuso di potere.

I due uomini mi spiegarono il già noto motivo della loro visita e fui la prima ad offrirgli di entrare e verificare personalmente che nessun intruso fosse sgattaiolato di soppiatto in casa mia.

Passando per la cucina, mostrandomi debitamente preoccupata e tesa, presentai loro “mio marito Alexander Jones”, il quale badò di salutare con la mano sinistra, dove la fede che stringeva l’anulare riluceva di ritrovata pulizia.

«Tesoro», mi chiamò Aleksandr – era la prima volta che pensavo al suo nome, la prima volta che non lo apostrofavo mentalmente con dispregiativi come “il soldato” o “il russo” – battendosi una pacca sulla gamba e sfoggiando un perfetto quanto disarmante accento texano, «vieni qui mentre aspettiamo che i ranger controllino» mi tese la mano che, per non tradire la circostanza che così bene stavamo fingendo, afferrai prontamente, lasciandomi poi accomodare sulle sue gambe.

Badai di sedermi sulla gamba destra, dove il mio peso non avrebbe influito sulla ferita nel fianco, eliminando così la possibilità di tradirci.

Il suo braccio mi circondò i fianchi e sorrise affabile ai ranger che si congedavano, poggiando infine la guancia contro il mio collo.

Rabbrividii e il disgusto mi pervase, addensandosi nelle braccia che tremavano nel vano tentativo di tendersi per allontanarlo.

Ogni negativo pensiero mi esplose dentro, inondandomi la mente. La differenza tra noi mai come allora era stata così tangibile, come mai così tangibile era stata la reciproca avversione.

Solo qualche giorno. Solo il tempo necessario affinché guarisca e poi finalmente uscirà dalle nostre vite.

Jack entrò a passo felpato in cucina e piegò la testa di lato davanti alla nostra posizione equivoca.

Gli feci segno di tacere, indicando poi con un brusco cenno del mento il fuoristrada parcheggiato proprio davanti alla finestra della cucina.

Jack, che vantava una certa arguzia, mi scoccò un’occhiata complice, annuendo impercettibilmente; poi, con disinvolta naturalezza, sedette accanto a noi.

Al piano di sopra gli stivali dei ranger picchiavano contro le assi del pavimento, facendomi sobbalzare ad ogni tonfo; ogni volta che li sentivo camminare fremevo di impazienza – impazienza che se ne andassero – e ogni volta che li sentivo borbottare scontenti temevo il peggio, che avessero scoperto il nostro inganno, che ci arrestassero tutti e, infine, assistevo impotente alle crude immagini della mia fantasia persuasa dall’orrore, in cui i nostri corpi erano legati a sterili brande bianche in attesa che l’ago penetrasse la vena, uccidendoci.

Paradossalmente, fu la causa di ogni mio malessere a permettermi di restare attaccata alla sanità mentale e al debole autocontrollo; solo quando i ranger tornarono da noi mi accorsi di quanto forte avevo stretto l’avambraccio di Aleksandr.

«Tutto okay» ci informarono, scusandosi per il disagio arrecatoci e raccomandandoci di stare all’erta e di correre subito al riparo nel caso in cui le sirene avrebbero suonato.

Garantimmo loro la massima prudenza, ogni cosa purché si sbrigassero a mettere molte miglia tra noi e loro.

Solo quando il loro fuoristrada diventò una macchia ronzante e argentata trassi un profondo sospiro di sollievo, sfilandomi celere la fede che mi attanagliava il dito e che avvertivo incredibilmente pesante sulla carne.

Senza porre alcuna domanda, tesi il palmo aperto verso il soldato, che mi restituì l’anello, ben lieto di potersene liberare.

Sospettai che non fosse un grande ammiratore del matrimonio.

«Bell’idea, Val!» ruggì Jack, lasciandomi una pacca sulla schiena.

«Ringrazia il tuo amichetto e la sua capacità di simulare il nostro accento» ribadii gelida, scoccando una rapida occhiata al cielo terso oltre la finestra.

Mi venne spontaneo domandarmi fino a quando sarebbe durata la quiete, quando sarebbe giunto il terribile momento in cui lo status quo sarebbe cambiato.

I giorni a seguire si trascinarono lenti e l’atmosfera elettrica che regnava in casa mia ci sprofondava tutti in un clima cupo e ostile. Solo il giovane Jack pareva immune; la spola tra me e il soldato non sembrava infastidirlo, così come ben sopportava i nostri insulti, velati e non velati. Jack era così profondamente buono che la sera in cui litigammo per quel maledetto kalashnikov (io pretendevo che fossi io a prenderlo in custodia, lui insisteva col dire che ci avrei uccisi tutti grazie alla mia inettitudine) si frappose tra noi prima che arrivassimo alle mani – un passo breve, in ogni caso, non sventato, ma soltanto posticipato.

Il giorno in cui rischiammo davvero di picchiarci arrivò fin troppo presto.

Il cielo era coperto da una moltitudine di nuvole grigie e dense, unite in una cupola che pareva sul punto di crollarci addosso, soffocandoci.

Vidi Aleksandr grattarsi furiosamente il fianco sinistro e ricordai i punti di sutura, a quel punto probabilmente inutili.

«Devo toglierti quei punti, ormai sono inutili» sbottai irritata, lasciando che i piatti cozzassero tra loro nel lavello sciabordante d’acqua e schiuma.

Mi fissò con un vago sorriso malizioso prima di sfilarsi la vecchia camicia appartenuta al padre di Sam, raggiunta quindi dalla bendatura pulita e bianca, che presentava solo qualche alone nei punti in cui, lavandosi, il sapone era schizzato sul tessuto.

«Hai ragione, sono superflui. Guarda che razza di cicatrice: sbilenca e frastagliata. Ottimo lavoro» si lamentò, tirando la pelle per osservare meglio il segno.

«Non sei morto, quindi ottimo lavoro davvero» lo rimbrottai aspramente, spingendolo poi sulla sedia e invitandolo a restare fermo, a meno che non avrebbe gradito la lama delle forbici sprofondare nella carne.

«Sei così debole che non riusciresti ad uccidere un uomo nemmeno se fosse sul punto di stuprarti» mi insultò, ridendo sguaiato.

La mano tremò mentre le forbici recidevano il filo sottile che aveva tenuto insieme la carne.

«Ma guarda che fortuna: ho una vita così impeccabilmente noiosa che non ho mai corso il rischio» replicai distrattamente.

Sfilai il filo con troppa foga e lo sentii sussultare mentre il sangue affluiva rapidamente alla cicatrice, che, pallida, svettava contro la pelle arrossata.

«C’è sempre una prima volta e saresti comunque debole, tanto da lasciarti violentare senza neppure opporre resistenza. Voi americani siete così... così...» sventolò leggermente la mano, alla ricerca della parola che gli sfuggiva.

Lo inchiodai con uno sguardo pieno di riprovazione.

«Topi che ballano quando il gatto non c’è, ecco. Sbandierate coraggio, arroganza e disinvoltura, ma basta mettervi all’angolo per farvi tremare, basta che torni il gatto per farvi scappare. Codardi» mi provocò deliberatamente e, sciocca, caddi nella trappola, puntandogli le forbici alla gola, premendo fino a che non le sentii affondare nella carne.

«Non mi preoccupo nemmeno; io lo farei, tu no».

«Questo perché tu sei un assassino».

«Questo perché tu ostenti una determinazione che è falsa».

Strinsi l’impugnatura gommosa delle forbici.

«Non costringermi, russo».

Accadde tutto così alla svelta che mi domandai cosa fosse esattamente accaduto. L’attimo prima ero china davanti a lui, protetta in qualche modo dalla sua situazione di svantaggio (ero io a puntargli una potenziale arma alla gola, non lui), l’attimo dopo mi ritrovai schiacciata contro il muro, uno dei mobiletti della cucina a pochi soffi dal mio viso. Sentivo la schiena talmente inarcata da smorzarmi il respiro e il suo corpo premuto al mio. Il disgusto mi investii.

Alzai la testa e vidi solo le forbici, ancora strette nel pugno ora tremante.

Era talmente semplice per lui tenermi ferma che me ne sentii umiliata.

Una mano era sufficiente per stringermi alla gola e farmi annaspare, le sue gambe erano strette  attorno alle mie e la mano libera era posata sul sul fianco, leggera, quasi fosse stato un movimento casuale e distretto, un movimento destinato a rimarcare la sua posizione di evidente ed umiliante vantaggio.

«Vedi? Vedi come sarebbe semplice prenderti qui, adesso, contro questo muro?» mi sbeffeggiò, allentando la presa.

Fu una chiara dimostrazione di quanto, pur potendomi liberare, fossi poco incline ad attaccarlo.

«Stai bluffando» la mia voce si spezzò sull’ultima sillaba, suonando come uno squittio impaurito.

«Sì?» sorrise, scoprendo una fila di denti bianchi e ordinati, e sentii le sue dita sollevarmi la maglietta, bruciare sulla pelle nuda e lì restare, in una sfrontata attesa.

«Però, se ci pensi bene, sei tu ad avere il coltello dalla parte del manico. O le forbici, fa lo stesso» mormorò, avvicinandosi al collo madido di sudore.

Sapevo cosa stava cercando di fare. Voleva farmi rinunciare a me stessa, voleva compromettermi, traviarmi, allontanarmi da ogni principio in cui fermamente credevo. Sarebbe bastato un movimento ben calibrato, le forbici che veloci risalivano dal basso per colpirlo al torace, alla gamba o al collo.

Non avevo permesso alla guerra di cambiarmi, non avevo lasciato che la sofferenza mi indurisse o che il dolore mi corrodesse. Ero rimasta fedele a ciò che ero, la parte più cinica, fredda, calcolatrice e velenosa di me era rimasta al suo posto, a compensarsi con le molte altre parti di me.

Aprii il palmo della mano e sentii la forbice scivolare sul pavimento.

Ecco la mia resa incondizionata, sembrava dire quel gesto, ecco tutta la mia debolezza.

Vidi il suo sorriso trionfante e un lampo di delusione negli occhi azzurri.

«Permetteresti ad un uomo di praticare la più vile e disgustosa delle violenze pur di non macchiare la tua purezza» mormorò sprezzante e la mia gola tornò libera, arrossata, scorticata. Mi persi in un attacco di tosse canina, secca, persistente.

Solo un dettaglio pareva essergli sfuggito: il fatto che non fossi capace di uccidere non implicava che non fossi capace di difendermi. Tentennai, repressi un conato istintivo e lessi lo sgomento sul suo viso quando il mio manrovescio impattò contro la guancia, lessi la sofferenza nei suoi occhi un poco adombrati quando gli sferrai una ginocchiata al basso ventre.

Rantolò, piegandosi in avanti e chiudendo le mani a coppa sui genitali.

«Ecco la mia reazione» lo schernii e fui io a restare sgomenta davanti ai suoi occhi brucianti d’ira e al pugno chiuso che vedevo avvicinarsi velocemente al mio viso.

Portai le braccia sulla testa, in un patetico tentativo di difesa, e irrigidii i muscoli, in attesa del dolore.

Ma il dolore non arrivò.

Abbassai lentamente la guardia per vedere il pugno chiuso tremare accanto al mio volto e distendersi lentamente, riluttante.

Contrasse le dita diverse volte e, infine, mi lasciò perfino una rigida carezza sulla spalla.

Ansimava come un cane rabbioso cui avevano dato l’ordine di interrompere l’attacco proprio quando la gola del malcapitato era già tra le sue fauci.

E in quel momento, capii. Capii che giudicava duramente la mia debolezza per celare la sua. Capii che le sue provocazioni erano state fatte non per irritarmi o provocarmi una reazione, ma per tenere i riflettori lontani dal suo tallone d’Achille, lontano dalle sue debolezze, così da apparire perfetto ed inattaccabile nella sua arroganza.

Mi passai le mani tra i capelli e sospirai pesantemente.

«Senti, così non va» mormorò roco, sbuffando.

«Sai, sono d’accordo. Vattene» sputai rabbiosa.

«Cosa?»

«Raccogli le tue cose e vattene. Ti ho curato, ti ho dato da mangiare, ti ho salvato dai ranger, quindi dimmi solo “grazie” e poi vai via» parlai lentamente, misurando il tono, raccogliendo le parole giuste affinché tutto penetrasse nella sua mente, affinché capisse che non era l’attuazione di una sciocca vendetta, ma l’arrivo al capolinea della mia pazienza.

«Grazie, ma non me ne andrò».

«Tu devi andartene! Io... più di così non posso, okay? Tu sei il mio nemico, odio te e tutto quello che incarni. Quindi, per favore, vai via da casa mia. Domattina non voglio più trovare traccia di te» mi congedai e dovetti controllarmi per non fuggire in camera mia.

Quando sedetti piano sul letto, però, il sollievo che tanto avevo atteso non giunse.

Giunse lesta, invece, un’immotivata amarezza.

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Questo capitolo ha avuto bisogno di una drastica riveduta perché i colpi di scena degni di Beautiful non mi piacciono, ma non temete: la trama non ha subito alcun mutamento.

Oltretutto, solo ora mi sono accorta che per qualche assurdo motivo il testo del secondo capitolo era uguale a quello del terzo e, di fatto, mi sono ritrovata con due capitoli uguali.

Preciso immediatamente che non era una scusa per risalire in cima alla classifica (tanto non è che ci sia un'orda di persone a filarsi questa storia, anzi!), ma si è trattato di uno spiacevole disguido puramente tecnico.

Detto ciò e poste le mie scuse, questo capitolo lascia poco spazio ai chiarimenti. Alek è imbecille arrogante, Valerie si è francamente rotta le scatole e c'è stata la rottura.

Ad onor del vero, di tutto questo capitolo conta solo la parte in cui quei due adorabili personaggi vengono alle mani, c'è un sacco di roba superflua ma... tant'è.

E la storia dei ranger... bah, prendetela come viene, non ho avuto abbastanza fantasia da giustificare Alek in altro modo né mi sono fatta venire in mente posticini strategici dove nasconderlo.

Ancora una volta - e spero sia l'ultima - questo capitolo ha subito un unico betaggio, ossia il mio. Visto che la mia beta ufficiale aveva già i suoi pensieri, non ho voluto sovraccaricarla e, quindi, se avete trovato errore di qualche genere, non esitate a segnalarlo.

Ciò detto, mi congedo e ci si risente mercoledì prossimo.

 

 

Passo e chiudo.

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Capitolo 6
*** La nostalgia ***


Nuova pagina 1


 

 

 

 

 

L’avanzata russa era continuata, spietata e devastante, e infine mi aveva raggiunta.

Abbattute le difese di Dallas, l’esercito e l’aviazione si preparavano ad invadere e sottomettere Fort Worth. Io e Jack avevamo rassettato la cantina e capitava spesso che trascorressero giorni interi nel suo spazio angusto, ma protettivo, salvo per riemergere in casa per pranzare o espletare le funzioni corporee.

Non che parlassimo granché, comunque; da quando avevo cacciato Aleksandr, Jack mi era ostile, scontroso e, ogni qualvolta gli porgevo una domanda, mi sputava letteralmente addosso le risposte, chiudendosi poi in un silenzio offeso.

Era colpa mia, immaginavo, non avrei mai dovuto permettere che il ragazzino si affezionasse tanto al soldato; una colpa che sentivo mia solo in parte, tuttavia, poiché lo stesso Jack aveva ben saputo che presto l’uomo sarebbe andato via, lasciandoci alla nostra vita di sempre, restituendoci la routine che aveva sconvolto.

«Jack, aiutami con queste bottiglie, ci serviranno, dobbiamo riempirle d’acqua e tenerle quaggiù; non è più prud—» domandai un pomeriggio di fine settembre e mi sfilò la pesante cassa di bottiglie ancora prima che avessi il tempo di concludere.

La trasportò sino in cucina, lasciandola andare con poca grazia.

Le bottiglie tintinnarono feroci, qualcuna andò in frantumi.

Analogamente alla mia pazienza. Ero stanca, spaurita, ansiosa e avevo raggiunto il punto di rottura. La tensione che mi aveva stretta nelle ultime settimane tracimò, soffocandomi, senza lasciarmi scampo.

«Adesso basta, basta! Ne ho abbastanza di te, della tua ostilità, dei tuoi silenzi e della tua inutile arrabbiatura! Sapevi che prima  o poi sarebbe andato via, hai sbagliato ad affezionarti tanto!» strillai, neppure cosciente della mia mano che, molte urla prima, era volata alla sua guancia, colpendolo forte.

Vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime di rabbia e la mascella irrigidirsi.

«Sapevo che sarebbe andato via, non che tu l’avresti cacciato! Che cosa ti aveva fatto?!»

Oh, ricordi pericolosi e vividi fuggirono dall’angolo in cui li avevo barricati e sentii ancora le sue mani, il suo respiro, la sua voce, e rividi i suoi occhi azzurri, ostili, arrabbiati...

«Questo non ti riguarda».

«Bene! Bene!», ansimò e per un attimo fu a corto di pensieri e parole, «Bene! Allora me ne vado, prima che cacci via anche me» urlò, spazzando le lacrime con un gesto secco del polso.

«Jack, non... aspetta... senti, mi dispiace, per averti urlato addosso, per lo schiaffo... ma sono così stanca, così... Jack! Dove vai?» il panico nella mia voce era tangibile, ma non abbastanza da trattenerlo.

Lo vidi correre in camera per uscirne pochi minuti dopo, furioso e con una sacca lacera in spalla.

«Dove vai?» ripetei, sull’orlo di una crisi di nervi.

«Non ti riguarda!» sbraitò, come se avesse atteso debitamente quella domanda per ripagarmi della mia stessa moneta.

«Ma questa è casa tua e—»

«No! Questa non è casa mia e tu non sei mia sorella, o mia madre, non sei niente per me!»

Le parole, l’insolita rabbia nella sua voce e nei suoi gesti mi ferirono profondamente, tanto da inchiodarmi al mio posto e togliermi la voce anche mentre si sbatteva la porta alle spalle, anche mentre montava in groppa a Kellan, cavalcando via.

Instupidita e attonita, mi lasciai scivolare contro lo stipite della porta, assistendo impotente alla tempesta di ricordi che mi scuoteva; ricordi confusi, caotici, che mi colpivano con la stessa intensità dei miei schiaffi sui loro visi.

Restai accasciata sul pavimento anche quando le sirene, molto tempo dopo, esplosero, anche mentre gli aerei giravano in tondo sulla città e sulle case limitrofi, anche mentre le bombe distruggevano quel poco che si era salvato dagli attacchi precedenti.

Ma avevo troppo istinto di conservazione per restarmene lì, ad attendere che una bomba mi facesse saltare per aria, e strisciai lentamente verso la botola.

Il buio fu come le bombe, come le sirene, come il fuoco e il vento. Il buio conciliò la rievocazione dei più recenti avvenimenti, suscitando le lacrime e, dopo, i singhiozzi.

Molto tempo dopo, quando anche l’ultima bomba venne sganciata, rientrai in casa. L’assenza di Jack e quella di Aleksandr fu pesante almeno quanto lo era stata la loro presenza.

Immaginavo che Jack avesse raggiunto Sam, speravo che l’avesse fatto prima dell’incursione. Il dolore mi strinse lo stomaco e corsi al telefono solo per trovarlo muto.

Azionai l’interruttore del lampadario più volte, senza successo.

Tagliata fuori dal mondo, senza collegamenti telefonici né elettricità. Sola, in quella casa che ora sembrava tanto immensa, tanto spaventosa.

Senza sapere se Jack fosse ancora vivo e se, con lui, lo fosse anche Aleksandr.

Ripensai a quella mattina di molti giorni prima, quando salendo in mansarda l’avevo trovata vuota e spoglia, esattamente come prima del suo arrivo; come se non ci fosse mai stato.

Aveva badato bene di portare via ogni cosa, prendendomi in parola.

Ma i ricordi, quelli mi facevano abbastanza male da rammentarmi continuamente che sì, lui c’era stato.

E che forse, forse, anch’io avevo commesso lo stesso sbaglio del ragazzino, permettendomi un inconscio slancio di affetto realizzato solo grazie alla sua assenza.

Mi passai una mano sullo stomaco, poco sorpresa di trovarlo chiuso e restio ad essere riempito.

Non mi restò altro da fare che accostarmi alla finestra e osservare le prime gocce di pioggia autunnale picchiare sullo sterrato che una volta aveva accolto la mia automobile, prima che Aleksandr me la rubasse, picchiare sulla facciata della casa, trasformandola in una grottesca figura piangente, percuotere i vetri, gli arbusti bassi, le praterie che, sconfinate, sbiadivano all’orizzonte.

Solo una cosa mi sollevò dal baratro di autocommiserazione e disperazione in cui stavo lentamente scivolando: presto la linea telefonica e quella elettrica sarebbero state ripristinate, presto avrei provato quel sollievo quasi doloroso davanti alla voce calda di Sam che mi confermava che Jack era da lui.

L’elettricità, però, non tornò l’ora successiva, né quella dopo e quando ne furono trascorse una buona manciata mi arresi all’evidenza dei fatti: il pesante bombardamento a Fort Worth aveva irreparabilmente danneggiato le linee elettriche e forse anche quelle telefoniche.

Seduta al tavolo, con la testa tra le mani, fissavo assente la lingua tremolante della candela, accesa con l’approssimarsi della notte, che gettava ombre sinistre e deformate sui muri, rendendo il più innocuo degli oggetti una figura inquietante.

Dentro di me, sentimenti forti e opposti spingevano e lottavano per accaparrarsi la porzione più grande del mio animo. Non posi barriere o freni, lasciai che la mente vagasse in direzioni un tempo proibite, adesso necessarie. C’era la nostalgia di Alek, che mi spingeva irrimediabilmente verso lui; c’era l’odio per le sue origini, per il suo modo di essere e per il suo mestiere che mi allontanava e che, al contempo, mi faceva ritrovare più vicina di quanto volessi.

La verità era che ero così assuefatta alla sua presenza da non sopportarne l’assenza.

Non c’era nessun legame affettivo a tenerci insieme, né romantico o di qualsiasi altra positiva origine. Al contrario, l’astio e l’avversione erano stati dei collanti infallibili.

Ma potevano sentimenti così negativi unire due persone così diverse? Potevano cancellare i colori che ci dividevano? O al contrario li avrebbero ravvivati, accrescendo la reciproca avversione?

Dunque, era quella la vera natura del nostro legame: avevamo bisogno di stare vicini per odiarci, per dare libero sfogo al malessere che ci affliggeva.

Ma ci odiavamo davvero, poi? Due mesi di forzata convivenza non erano stati sufficienti a sbiadire emozioni così cattive, incentivando magari qualcosa di più genuino e salutare?

Di domande ce n’erano quante volevo, di risposte nemmeno a pagarle.

Avrei voluto che quell’ondata soffocante di punti interrogativi si acquietasse, trasformandosi in una placida distesa di punti fermi, avrei voluto cambiare l’ordine delle parole così da non formare più una domanda, ma una risposta.

Sbuffai, accasciandomi tra le mie stesse braccia che, molli, se ne stavano distese sul tavolo.

Mi lasciai cullare dalla pioggia che batteva le finestre, il tetto, la terra rossa.

Poi, il ruggito di un motore spezzò il silenzio e trasalii; la paura si mischiò all’adrenalina, inchiodandomi al mio posto e irrigidendo i muscoli, pronti a scattare.

Qualcuno bussò.

Le dita strinsero istintivamente il serramanico, il pollice pronto ad azionare il meccanismo di rilascio della lama.

Ma quando la porta rivelò la figura curva e fradicia di Alek, il coltello precipitò sul pavimento con un tonfo pesante e cupo.

Le palpebre sfarfallavano e battevano molto più del normale, nel vano tentativo di liberare le ciglia dalla pioggia.

«Allora, mi fai entrare?»

Stordita, mi scansai per farlo passare. Lo vidi chinarsi per raccogliere il coltello e porgermelo, un sorriso nervoso a curvargli la bocca.

«Perché sei tornato?» domandai aspra mentre si privava dei vestiti bagnati, sedendo poi a breve distanza dal fuoco che scoppiettava fragoroso nel camino.

«Avevo fame e mi mancava dormire in un letto vero».

La delusione mi gonfiò il petto, occludendomi la gola. Null’altro, dunque. Tutti i miei lunghi e asfissianti ragionamenti parevano così stupidi, adesso!

«Ti avevo chiesto di sparire!» gridai, prendendomi la testa tra le mani e lasciandomi andare ad una serie di mugolii lamentosi.

«Ho rischiato di rimanerci secco, oggi; abbi un po’ di compassione, eh?» si sfregò le mani, avvicinandole quindi alle fiamme.

Sedetti sul divano dietro di lui, sentendo le spalle incredibilmente più leggere. Era tornato, e sarebbe tornato anche Jack.

«E comunque, lasciatelo dire: sei davvero molto poco ospitale. Sbattermi fuori in quel modo...» si voltò per fissarmi, il fuoco che gettava ombre tremule sul viso, risaltando gli occhi nel chiaroscuro dei suoi lineamenti.

Non c’era un vero sorriso sulle sue labbra, ma qualcosa di molto simile; un ghigno bonario, volto a deridermi senza però la solita cattiveria.

Scioccamente, mi sentii sopraffare da una timidezza che mai mi era appartenuta.

«E tu sei un dannato ladro, mi hai rubato la macchina».

«Touché» disse, e sollevò le mani in segno di resa.

Era un Aleksandr molto diverso da quello che ricordavo. Più umano, in qualche modo, animato da qualcosa di simile alla gentilezza, più incline ad un abbozzo di sorriso che ad un ghigno beffardo.

Un Aleksandr che mi riscoprii a gradire più di quanto fosse lecito.

«Dov’è Jack?»

Inconsapevolmente, affondò la lama in una ferita freschissima che trasudava ancora sangue.

Dovetti attendere che il nodo alla gola si sciogliesse, prima di parlare.

«Da Sam; abbiamo litigato ed è andato via».

«Litigato? E perché?»

«Per colpa tua. Non accettava il modo in cui ti avevo buttato fuori. In qualche modo ti è affezionato» feci una smorfia, stringendomi le ginocchia al petto.

«Che c’è, sei gelosa?»

«No, è solo che non credo sia una buona idea» spiegai, impacciata, desiderosa di parlare d’altro o, meglio, di non parlare affatto.

I silenzi mi mettevano a mio agio, parlare, al contrario, mi infastidiva.

«Lo penso anch’io. Oh» si allungò verso il camino, afferrando la vecchia radio appartenuta a mio nonno.

«In Russia, nei paese poveri, ce ne sono moltissime, di questa» per la prima, vera volta, Aleksandr sorrise di un sorriso autentico, ma nostalgico.

L’azionò, soffermandosi sugli ultimi aggiornamenti di guerra: gli americani avevano fermato l’avanzata dei russi, scontrandosi a Wako, costringendoli ad arretrare fino ad Austin dove, come topi caduti in trappola, avevano perso ben due battaglioni.

Aleksandr non gradì particolarmente la notizia, ma ebbe il buon gusto di non commentare né di spegnere il sorriso fiducioso che mi era spuntato sulle labbra. Sintonizzò la radio su frequenze più placide, fermandosi ad ascoltare una vecchia canzone in voga nel 2000, lenta e melodica.

Si alzò, del tutto a proprio agio nella sua quasi nudità, e mi offrì la mano.

«Oh, no» scossi la testa e la risata risalì dai polmoni, sbocciando sulle labbra. Ridere mi faceva bene, mi allontanava per un attimo dalla realtà, dandomi respiro, tregua.

«Non ti piace ballare?»

«Sì, certo, ma non mi pare proprio il caso».

«A me invece sembra un momento più che giusto; festeggiamo la vittoria dei tuoi...» mi afferrò per un polso, trascinandomi in piedi e stringendomi in vita, «... e la sconfitta dei miei».

Sorrisi con rinnovato disagio, mentre lentamente assecondavo i suoi movimenti ciondolanti.

A distanza così ravvicinata, notai molti dettagli che da lontano mi erano sfuggiti.

Primo tra tutti, era molto più alto di quanto avessi mai pensato; mi superava di una testa abbondante, la mia bocca appena a livello delle sue spalle.

Scoprii che le sue spalle erano larghe, solide, irrobustite dai muscoli tonici che sentivo guizzare sotto le dita ad ogni movimento.

Notai la piccola fossetta sul mento ogni volta che canticchiava la canzone, di come si accentuasse al suono delle “I” e di come si distendesse a quello delle “O”.

Ad incuriosirmi maggiormente, però, fu il segno sbiadito di una spessa cicatrice che sfiorava appena la spalla, come se fosse l’inizio di qualcosa di molto più vasto, più lungo.

Distratta, ne tracciai il profilo, scoprendo che lo sfregio si arrestava al delimitare della biancheria. Distesi le dita solo per scoprirne un’altra, a distanza ravvicinata, e un’altra ancora.

Aggrottai la fronte e solo allora fui consapevole dei suoi occhi che mi fissavano insistentemente, brucianti non d’odio, ma piuttosto di disagio.

«Le scuole militari, da me, sono molto... severe» si attardò a trovare l’aggettivo, pronunciato con chiara riprovazione.

Dondolavamo ancora, sebbene fosse iniziata una nuova canzone sulla scia della precedente, quando gli domandai cosa intendesse.

In risposta, sciolse il goffo abbraccio e mi invitò ad aggirarlo, così da poter osservare la sua schiena illuminata dal bagliore delle fiamme.

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Inizio a pensare che dovrei creare un'enciclopedia per i personaggi perché, a conti fatti, pare che di capitolo in capitolo questi due sbarellino e diventino le versioni dementi di se stessi.

A tal proposito, voglio chiarire giusto un paio di cose.

Alek. L'avrete capito, no? Alek non è cattivo, non è crudele; è solo un ragazzo un po' sborone che nasconde le sue paure dietro l'arroganza. La prepotenza e la falsa determinazione sono gli unici modi che conosce per preservarsi. È diffidente, Alek, non si fida di nessuno, immaginate poi di un americano.

Ma essendo un essere umano, ha avuto dei ripensamenti, ha realizzato che probabilmente il suo atteggiamento è stato errato sin dall'inizio, che quei due giovani ragazzi non volevano fargli del male, che se l'avessero voluto l'avrebbero consegnato ai ranger molto prima o l'avrebbero lasciato morire.

Per questo torna a casa di Valerie e si scusa, si mostra più vicino a quel che è realmente. O quasi.

E poi c'è Valerie che, no, non è innamorata di lui, mettiamolo ben in chiaro. Valerie si era assuefatta alla presenza di Alek, un po' come la storia della rana e dell'acqua calda: Valerie ha imparato a convivere con Alek senza neppure rendersene conto ed è plausibile che, nel momento in cui lui va via, lei realizzi tutto d'un tratto questa situazione. Ma questo, lo ripeto, non vuol dire che lei ne sia innamorata. Non per ora, almeno.

Ora, non avrei voluto fare tutte queste precisazione perché (e nals mi è testimone) voglio che i lettori, nelle mie storie, traggano le loro conclusioni senza ulteriori spiegazioni, voglio che costruiscano i personaggi così come loro li preferiscono, seguendo una loro chiave di lettura e non la mia.

Ma se è vero questo, è vero pure che queste cose, in una long, non posso permettermelo, in quanto rischierei di compromettere l'intera comprensione della storia.

Ultima precisazione. La scena di quel loro goffo balletto... concedetemela e prendetela come è venuta. Ogni tanto anche la sottoscritta ha piacere nell'immaginare un momento di quiete e di quasi-romanticismo tra due persone (così diverse tra loro, poi; era una tentazione troppo forte!). So che sembra una scena uscita direttamente da una ficcyna e, ahimé, non posso che tacere e annuire.

Passando ai ringraziamenti, vorrei ringraziare di cuore nals, che è tornata a betare 'sta storia qua e di questo le sono infinitamente grata (ti amo oltre ogni concezione, lo sai) e Shadow_soul che si è presa la briga di recensire, spendendo qualche parola per esprimermi il suo parere e di questo non posso che esserne infinitamente contenta (ti risponderò a breve, promesso).

Per la miseria, che nda lunghe! Sarà davvero il caso di congedarsi.

A mercoledì prossimo.

 

 

Passo e chiudo.

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Capitolo 7
*** La tregua ***


Nuova pagina 1


 

 

 

 

Orrore, fu la prima cosa che pensai, immediatamente seguita da dolore e disgusto.

Lunghe e spesse cicatrici gli marchiavano indelebilmente la schiena, come artigli impietosi che scavarono, a loro tempo, nella carne tenera di un ragazzino.

«Sono i segni delle scudisciate, di quelle più forti, almeno» non c’era dolore o pesantezza nella sua voce, solo una vaghissima traccia di rammarico. Era disinvolto, come al solito, come se non gli importasse, come se si stesse parlando di qualcun altro.

«Ma... perché?»

«Perché è la vita militare, perché spesso è difficile, per un adolescente, obbedire agli ordini o tacere davanti all’irruenza e all’arroganza degli addestratori» sorrise divertito, come se avesse rievocato un ricordo particolarmente spiritoso.

«Ma questo non è...», pensai alla parola più giusta, che potesse esprimere al meglio ciò che intendevo, «umano» conclusi, scuotendo la testa.

Si voltò, chinandosi leggermente in avanti per portare i nostri volti alla medesima altezza.

«Quando capirai che le guerre cambiano le persone?» domandò, toccandomi la fronte con l’indice.

«Ho capito una cosa di te: non vuoi rinunciare a te stessa, o qualcosa del genere. Non hai permesso che tutto questo ti cambiasse, sei rimasta fedele alla tua sushchestvovaniye*, alla tua, mmh, non mi viene adesso, scusa. Però sei rimasta te stessa. Stupido, da parte tua; questo non fa di te oggetto di vanto, ma di disapprovazione. Se resti te stessa, ti condanni a vivere nella debolezza. Per questo le persone cambiano, per essere più forti e per insegnare agli altri ad esserlo. I miei superiori, all’accademia, ce lo ripetevano tre volte al giorno e, be’, alla fine finisci col capire che è vero».

Era il discorso più lungo che gli avessi mai sentito pronunciare, le prime parole che non fossero impregnate di sarcasmo, ma, al contrario, serie, adulte.

«Non è comunque umano, esistono modi più gentili per inculcare questo concetto» ribadii, scuotendo la testa. Qualcosa lo fece ridere sprezzante, restituendomi uno scorcio del vecchio Aleksandr.

«Gentile? Siamo soldati, bellezza, non timide ballerine classiche».

Storsi il naso, completamente in disaccordo con la sua visione; la visione di un militare, tuttavia, e per questo, per lui, corretta.

«Stavo ripensando... quando hai detto: “Così non va bene”, che cosa intendevi?» domandai, desiderosa di cambiare discorso.

«Ah, te lo ricordi, eh?» domandò a disagio.

«Sì. Allora?»

«Non mi hai dato il tempo di spiegarmi; intendevo che avremmo dovuto cambiare atteggiamento, venirci incontro per il tempo della nostra convivenza. Ma mi avevi appena buttato fuori, quindi non aveva più senso, la convivenza era già terminata».

Riflettei sulle sue parole, voltando la testa fino a sfiorare, con la tempia, la sua spalla, la sua pelle.

Venirci incontro. Era possibile farlo? Trovare un comune accordo, un compromesso per vivere bene sotto lo stesso tetto? In fondo, ne avevo appena avuto una piccola dimostrazione, no? Era tornato da un paio d’ore, ormai, e non ci eravamo urlati addosso nemmeno una volta.

«Potremmo, sì. Renderebbe tutto più facile» mormorai e sbadigliai, chiudendo gli occhi, cullata dai suoi movimenti ciondolanti che continuavano ancora, sebbene la radio fosse muta da molto tempo.

«Hai sonno?»

«Un po’».

Mi scansai, aggiungendo poi che ero veramente assonnata e che avrei avuto bisogno di dormire. Scrollò le spalle e tornò ad adagiarsi sul tappeto davanti al camino, stringendosi addosso la coperta che, scomposta, se ne era stata ammassata sul divano fino ad un attimo prima.

«Non vai a dormire?» domandai, arrestandomi sulla soglia della porta.

«Dormo qui; la mansarda sarà gelida».

«Ah. Okay, buonanotte, allora».

«’notte» replicò, sollevando una mano in segno di saluto.

Sdraiata sotto una spessa coltre di lana e cotone, passai distrattamente in rassegna la giornata appena trascorsa, di quanto fosse iniziata male e di quanto si fosse conclusa fin troppo bene.

L’ultima immagine che mi accompagnò nel sonno fu quella del suo sorriso nostalgico.

Il mattino mi sorprese con un timido e pallido raggio di sole, sul sorgere dell’alba.

Abituata ad iniziare le giornate di buon’ora, mi alzai, sgranchendomi come un gatto, allungandomi e ritraendomi tra le coperte. Mi passai quindi le mani sul volto, liberandolo dai capelli e dagli ultimi strascichi della dormita.

Mi sentivo inaspettatamente riposata, come se avessi dormito non per poche ore, ma per giorni interi. Il sole illuminò perfino la bizzarra sensazione di benessere che mi strisciava addosso, mettendomi di buon umore.

Mi permisi addirittura di canticchiare piano sotto la doccia o mentre mi asciugavo i capelli o mentre scendevo le scale.

Passai davanti al salotto, puntando dritta in cucina, salvo poi arrestarmi bruscamente e indietreggiare sino a tornare indietro, sulla soglia della stanza.

Aleksandr era mollemente abbandonato sul tappeto e durante la notte, con l’estinguersi delle fiamme, si era fatto più vicino al camino dove, accese e iridescenti, le braci brillavano, ammiccando.

Dormiva scompostamente, a bocca schiusa, come avrebbe fatto un bambino. Di tanto in tanto le sue labbra si muovevano appena, formando parole spezzate e indistinguibili.

Decisi di allontanarmi con passo felpato e chiudermi alle spalle la porta della cucina; avevo la sensazione che la neonata tregua non prevedeva la sveglia all’alba e che di sicuro non l’avrebbe affatto presa bene. Lungi da me, poi, il desiderio di litigare o, peggio, urlare.

L’ostilità mi affaticava, litigare mi intristiva; la pacifica convivenza, al contrario, faceva di me una persona speravo gradevole.

Ancora con la bottiglia del latte tra le dita, mi immobilizzai, rivedendomi dallo spazio lontano dei ricordi, rivedendo il mio atteggiamento scortese e i tratti del viso pregni di rabbia e avversione.

Me ne vergognai. Mi vergognai del mio essere così incostante e contraddittoria. Mi vergognai della mia puerile acidità e dei dispetti adolescenziali che ci eravamo fatti reciprocamente.

Mi strinsi nelle spalle, rinfrancandomi con il nuovo compromesso cui eravamo giunti e che, pensai rammaricata, avremmo potuto raggiungere molto prima.

Quanto tempo ed energie avremmo risparmiato!

Scaldai il latte, tamburellando le dita sul ripiano e rabbrividendo di tanto in tanto. Pur sapendo che sarebbe stato un tentativo vano, azionai l’interruttore della luce alzando gli occhi al lampadario, che rimase irrimediabilmente buio.

«Buongiorno».

Sobbalzai e inavvertitamente urtai la fotografia incorniciata che mi ritraeva in compagnia di nonno Hanks e nonna Rosemary, che impattò contro il pavimento senza tuttavia infrangersi.

«Siamo distratte» sbadigliò, chinandosi poi a raccogliere la foto. Feci per riprenderla, ma approfittò della sua altezza e tese il braccio in alto, dove mai avrei potuto raggiungerlo.

«Rilassati, voglio solo darci un’occhiata. Il tuo latte sta bollendo, comunque» mi informò, puntando l’indice ai fornelli.

Impegnata a travasarlo in due diverse ciotole, lo sentii trascinare la sedia sul pavimento e sedere piano.

«Sei tu?» domandò e accennò un ringraziamento quando gli porsi la scodella e la confezione di biscotti ormai stantii.

Annuii, trangugiando piano la bevanda fumante.

Approfittai di quel momento per studiarlo da sopra l’orlo della tazza; i suoi occhi azzurri vagliavano attentamente lo scatto, dondolando piano sulle figure che l’immagine immortalava.

Sapevo cosa stava guardando: una me più piccola e paffuta, di appena nove anni, seduta sulle spalle di un uomo alto e nerboruto, dai fitti capelli neri screziati d’argento, affiancato da una donnina fragile e minuta, che sorrideva fiduciosa all’obiettivo, carezzandomi i capelli che, lisci, mi ricoprivano la schiena, come un bruno mantello.

«Eri carina» sentenziò infine, sventolando piano la cornice.

Aggrottai la fronte. Ero? Non era stato forse lui a dirmi, non molto tempo prima: “Sei carina”?

Mi strinsi nelle spalle, sprofondando nel consueto silenzio ostinato che mi trovava ogni volta che ricevevo un complimento.

«Non ti piacciono i complimenti» non era una domanda, ma una secca constatazione.

«Mi mettono a disagio» e no, non mi piacevano; avevo sempre la sensazione che fossero delle velate prese in giro.

«Allora niente complimenti per te; non che poi ne meriti tanti, comunque...» mi punzecchiò e quando piegai il viso in una smorfia che pareva voler dire: “Ah, davvero?” lui ghignò, buttando le mani avanti e pregandomi di non scaldarmi, ché stava solo scherzando. 

«Oggi mi aspetta una lunga giornata, bombardamenti permettendo» aggiunsi, scoccando un’occhiata bieca al cielo sereno oltre la finestra.

«Vuoi una mano?» non c’era un vero interessamento nella sua voce, quanto una lieve forma di cortesia. Ci ponderai su, riflettendo che due braccia forti mi avrebbero fatto comodo; i viveri scarseggiavano e senza l’aiuto di Jack avrei impiegato il doppio del tempo per caricare le scorte che Kim mi aveva tenuto da parte.

Fui sul punto di accettare, quando ricordai poi che dovevo assolutamente passare da Sam e convincere Jack a tornare a casa.

«Devo andare da Sam, non saprei come giustificare la tua presenza. Non posso certo permettere che scopra che tu sei il pilota  che non hanno più ritrovato» spiegai, infilando la giacca a vento e afferrando le chiavi.

«Nessun problema», disse, «ti aspetterò in macchina» mi tolse il mazzo di chiavi e si diresse al mio pickup, sedendo al posto passeggero.

Sospirai. Fino ad ora la fortuna era stata dalla mia parte, pregai che anche quel giorno mi aiutasse e soprattutto che aiutasse Aleksandr.

Durante il tragitto, mi permise di scoprire qualche piccolo dettaglio della sua vita prima della guerra; aveva due sorelle minori, era nato a Mosca ma subito dopo la sua nascita la famiglia era migrata a San Pietroburgo, che descrisse come una città solenne e affascinante, colma di moschee arroccate sulle alture della città, cosicché la loro cupola a cipolla fosse sempre ben visibile ai fedeli.

Mi parlò a lungo della più piccola delle sorelle, Inna, che descrisse come una bambina amabile, dai lunghi capelli neri e enormi occhi azzurri; da come ne parlava non fu difficile intuire che fosse la sua preferita. Ne elogiava la bontà d’animo e la remissività, condannandone tuttavia l’eccessiva timidezza. Quando parcheggiai lontano da casa di Sam, aveva appena terminato di dirmi che Zoya, l’altra sorella, aveva dato alla luce il suo primo figlio, Igor, appena prima che lui partisse per la guerra.

«Bene, resta qui. Mi riprendo Jack e andiamo a Fort Worth» lo avvertii e alzai le spalle davanti alla sua smorfia irritata quando lo chiusi in macchina. Non potevo sfidare la sorte in modo così sfacciato.

Bussai alla porta e la piccola Rachel, una ragazzina alta e smilza, mi sorrise raggiante, abbracciandomi.

«Ciao, Val! Speravo che venissi!» mi salutò, irruenta ed entusiasta come sempre, mentre gentilmente la allontanavo da me.

«Ciao, Rachel. Mi dispiace, piccola, ma sono davvero di fretta; sono venuta a prendere Jack».

«Oh, certo. Lo vado a chiamare subito. Ma non startene lì sulla porta! Vieni, vieni» mi trascinò in casa e mi invitò perfino a prendere una tazza di caffè nel mentre.

Al quinto sorso, Jack apparve sulla soglia, imbronciato.

«Ehi, ciao» lo salutai, facendolo cenno di avvicinarsi; obbedì, seppur sbuffando.

«Aleksandr è tornato ieri sera; torna a casa con me, Jack» sussurrai piano e lo vidi aprirsi in un sorriso soddisfatto.

«Bene,» disse ad alta voce, «prendo le mie cose».

Prima di congedarmi, pregai Rachel di salutare Sam, suo fratello Mark e sua madre.

In macchina, quando fummo ben lontani, Jack e Aleksandr si strinsero la mano in cenno di caloroso saluto, e il ragazzino iniziò a parlare a raffica, domandando senza concedere all’altro il tempo di rispondere.

«Ehi, bellezza, per chi devo spacciarmi, oggi?» domandò Aleksandr quando il cartello di Fort Worth ci diede il benvenuto.

«Mmh, per un mio cugino dell’Illinois mandato qui per sfuggire alle bombe» improvvisai, parcheggiando davanti alla drogheria di Kim.

«Fantastico. Allora oggi sarò il cugino Alex» strizzò l’occhio a Jack, che sorrise complice.

«Smettetela, voi due. E restiamo uniti» l’allusione nella mia voce era chiara, così come il timore che l’affliggeva.

Avevamo appena caricato la seconda cassa d’acqua quando un’ombra lunga e sinuosa oscurò per un secondo il sole. Sollevai lo sguardo al cielo, identificando il profilo noto di un cacciabombardiere che volava in tondo sulle nostre teste.

Vidi un corpo grosso e scuro precipitare dalla pancia dell’aereo; la bomba esplose ancor prima che le sirene suonassero.

 

 

 

 

 


 

*essenza.

 

NdA: Sì, be', questa storia prende sempre più la piega scontata di una ficcyna d'eccellenza, con la peculiarità d'essere scritta grammaticalmente bene (si spera, almeno).

Non ho saputo resistere al passato oscuro e tormentato e doloroso di Alek che, diciamocelo, un po' se lo merita.

A tal proposito, prima che l'intelligence russa bussi a casa mia, butto le mani avanti e dico subito che il modus operandi dell'addestramento militare russo NON comporta le scudisciate (almeno, per quanto ne so io).

Solo che ho sempre visto quest'etnia come un popolo particolarmente, uhm, brutale, quindi ho pensato che le frustate e le punizioni corporali ci stessero.

Il finale di questo capitolo è uno dei miei soliti anzi, se non vi ci siete ancora abituati, bene, fatelo. Perché molti capitoli si concluderanno esattamente così. Che volete farci, la suspance ha il suo fascino!

Come al solito, ringrazio immensamente la mia personalissima Pulce/moglie/beta Nals che, udite udite!, in questo capitolo non ha corretto niente e io ero tipo una gioia continua. Nals, ti amo, lo sai. ♥

Colgo l'occasione anche per ringraziare e Shadow_soul, spero di poter rispondere alle vostre recensioni in tempi brevi, spero. Però nel frattempo vi ringrazio per l'attenzione che mostrate a questa storia; lasciatemi pure il vostro indirizzo, per Natale vi recapiterò vagonate di scatole di biscotti al cioccolato. :3

Infine, grazie a chi segue/ricorda/preferisce questa storia e, come sempre, se qualcuno ha qualcosa da dire sulla storia, lo invito a farlo. Non uccido mica. Non voi, comunque.

Bon, a mercoledì prossimo.

 

 

Passo e chiudo.

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Capitolo 8
*** Il danno ***


Nuova pagina 1


 

 

 

 

Era l’inferno, alla periferia sud di Fort Worth.

Il fuoco divampò e si allungò come una bolla inevitabile, rossa e calda, travolgendo ogni ostacolo sulla propria avanzata. Spinsi Kim all’interno della sua drogheria, urlandole di nascondersi, sgolandomi per sovrastare il fragore delle bombe e lo squillo delle sirene.

Poi, frenetica e nel panico, afferrai Jack e lo spintonai fino a che non fu al sicuro sul posteriore del pickup. Avevo appena individuato Aleksandr, che restituiva un bambino in lacrime alla madre altrettanto sconvolta, quando la seconda bomba esplose alla fine dell’isolato.

L’onda d’urto ci spazzò via come formiche al getto impietoso dell’acqua.

Sentivo la strada umida premermi contro la guancia e strane luci bianche e rosse mi lampeggiavano davanti agli occhi, sovrastando la scena drammatica che scorreva a pochi metri da me. Una scena colorata, vivida, eppure senza alcun suono.

Lo stesso bambino salvato da Aleksandr aveva trovato la propria pira nell’abbraccio materno; li vedevo urlare, vedevo le fiamme mangiarli pezzo per pezzo, li vedevo rotolare sull’asfalto bollente e, infine, giacere esanimi, schiacciati dal fuoco.

Vedevo gli pneumatici rotolare malfermi e infuocati, bruciare, rilasciare una sottile colonna di fumo denso e nero.

Vedevo il panico dilagare e muovere le gambe dei cittadini, che, terrorizzati scappavano alla ricerca di un rifugio.

Vedevo, vedevo, vedevo, ma ero incapace di distogliere lo sguardo dal corpicino immobile e arroventato; un orsacchiotto di pezza bruciava accanto a lui.

Ero incapace di ascoltare e quando strisciai sulle ginocchia per rialzarmi – l’istinto di sopravvivenza era forte e disperato come mai prima d’allora – le vertigini mi ghermirono, lasciandomi prona sull’asfalto.

Mi tastai la guancia solo per trovarla coperta di sangue. Ero ferita? E dove? Alla testa? Alla tempia?

No. Il sangue fiottava dall’orecchio sinistro. Nel silenzio, che così tanto stonava con l’inferno che mi circondava, vidi Aleksandr – i capelli biondi incollati alla fronte sudata e insanguinata – corrermi incontro e prendermi tra le braccia.
E il dolore esplose sul polpaccio, diramandosi in tutto il corpo. Urlai. Ero sicura di stare urlando. Sentivo la gola gonfia e graffiata dalla mia stessa voce, sentivo la bocca aperta in grido muto.

Vidi Aleksandr dirmi qualcosa prima di adagiarmi sul sedile del passeggero, scavalcandomi poi per raggiungere la postazione di guida.

Jack riemerse dal fondo dell’auto, bianco come un cencio. Mi teneva la mano, lo sentivo, pelle contro pelle, ad occhi chiusi, incapace di sopportare le vertigini.

Lo stomaco si accartocciò e forse implose, spingendo la bile e la colazione su per la gola.

Mi chinai in avanti prima di liberarmi, soffocando nella mia stessa saliva.

Solo allora fui consapevole del forte fischio nelle orecchie, raccapricciante colonna sonora del paesaggio in fiamme che mi scorreva accanto ad una velocità impossibile.

L’addome si contrasse, pronto ad una nuova ondata di nausea. Ma l’incoscienza mi trovo prima.

 

«...Pensi che tornerà a sentire?»

«La dottoressa ha detto che la lesione non è grave, che si sarebbe rimarginata spontaneamente. Dobbiamo solo aspettare».

«Ma perché non si sveglia? Sono passati due giorni, ormai».

«Ci vuole tempo, Jack».

A fatica, trovai le palpebre e ricordai come sollevarle. Sfarfallarono, respingendo la luce.

Provai a chiedere cosa fosse successo, ma mi ritrovai ad emettere un rauco e patetico: “Aah”.

Fu però sufficiente a placare l’ansia di Jack, il quale si fiondò al mio fianco, prendendomi la mano.

«Come ti senti?»

La sua voce giunse da lontano, come se mi stesse parlando da est mentre io ero voltata ad ovest. Poi capii. Solo l’orecchio destro era capace di cogliere suoni e rumori, il sinistro pareva morto. Decisi che me ne sarei preoccupata più tardi; ero viva e tanto bastava.

«Uno schifo; dov’è?» gracchiai, aggrappandomi al suo braccio per sollevarmi sul cuscino. Fortunatamente, la stanza rimase immobile al suo posto.

«Chi? Alek? È qui».

Jack allungò il braccio per indicare la figura di Aleksandr in piedi contro la parete. Sollevò il mento e sorrise mesto ed esausto.

Si era ripulito; i capelli biondi, tuttavia, erano stati accorciati di qualche centimetro, liberando la fronte, attorno alla quale era ben stretta una fascia bianca su cui campeggiava una macchia scarlatta, piccola e circolare.

Notai anche le pesanti occhiaie livide e mi domandai da quanto e perché non dormiva.

«Come stai?»

Mi aspettavo un senso di ovattato stordimento, invece ero incredibilmente lucida e ricordavo perfettamente ogni cosa. L’immagine del bambino in fiamme mi tolse l’aria dai polmoni e rabbrividii.

«Tu chiedi a me come sto?».

Mi spiegò che il timpano sinistro era stato lievemente danneggiato e che la dottoressa Hourani era fiduciosa circa la spontanea guarigione; poi indicò la gamba, sostenendo che una scheggia aveva reciso il polpaccio, scheggiando l’osso.

In definitiva, mi attendeva una lunga riabilitazione, mal di testa frequenti e crampi dolorosi alla gamba.

«La dottoressa Hourani? Sam?»

Jack e Aleksandr si guardarono; il primo guardò altrove, l’altro sbuffò, toccandosi inavvertitamente lo zigomo che, solo allora lo notai, era gonfio e tumefatto.

«Il tuo amico non è un tipo diplomatico».

«Cosa?» fissai Jack, il quale mugolò sofferente un: “Hanno fatto a pugni”.

«Perché non ti sei nascosto?» gridai e una fitta di emicrania mi spezzò il respiro.

«Qualcuno doveva pur badare a te mentre il ragazzino andava a chiamarli» si giustificò e l’idea di saperlo a vegliare su di me mi mise a disagio.

«Comunque non mi denunceranno, se è questo che ti preoccupa; Sam», pronunciò il nome con arrogante scherno, «ha detto qualcosa come “la sua vita per la tua”. Ci siamo fatti il fidanzatino, eh?»

Bentornato, Aleksandr versione soldato stronzo e indisponente.

«Oh, piantala» mi lamentai, prendendomi la testa tra le mani.

«Non addormentarti, principessa; il tuo principe azzurro sta per arrivare» e si congedò con un enfatico inchino di commiato, sbattendosi la porta alle spalle.

«Ma che ha?» chiesi a Jack, il quale sorrise con l’aria di chi la sapeva lunga.

«Credo sia geloso di Sam» sussurrò con fare cospirativo, dandomi perfino il gomito.

«Geloso? Santo Cielo, e perché mai?» risi incredula, ignorando il pulsare violento dell’orecchio.

«Be’, magari gli piaci» sputò con ovvietà, come se fossi stata una stupida a non aver colto l’evidenza prima.

«Magari», convenni indulgente, «o magari no».

L’arrivo della dottoressa fu provvidenziale e mise a tacere la pronta replica di Jack.

Sam, al suo fianco, era rigido, il volto solo una maschera inespressiva di gelida formalità.

Feci per dire qualcosa, ma la donna iniziò tastarmi, a puntarmi un fascio di luce negli occhi, a chiedere di toccarmi il naso con la punta dell’indice e dirle come mi chiamavo, quando e dove ero nata.

Superai l’esame a pieni voti, a giudicare dal sorriso radioso che le illuminò il volto, facendola apparire decisamente più giovane.

«Per il tuo orecchio non posso fare niente, purtroppo; per la ferita alla gamba tornerò tra due giorni per controllare la sutura. Nel frattempo, in casi di dolore intenso, ti lascio queste iniezioni intramuscolari» spiegò con fare professionale e pratico, lasciandomi una manciata di fiale e siringhe sul comodino.

«Aspetti, aspetti. So quanto sono rari i medicinali, la prego, li risparmi per casi più gravi del mio».

Inaspettatamente, si chinò per  carezzarmi la guancia.

«La tua gentilezza è nobile, davvero, ma ho appena fatto rifornimento da Crockett e Joshua, stai tranquilla; e poi, queste sarebbero solo acqua fresca per un caso più grave».

Scoccò poi un’occhiata a Sam e gli domandò di uscire.

«Perché?» l’aggredì e mi sentii in dovere di difenderla; ma non sapevo che sotto quel viso tondo e gentile si nascondesse una personalità poco intenzionata a soccombere.

«Devo spogliarla per visitarla e non credo che lei gradirebbe essere vista nuda da te» replicò mordace e Sam, dopo avermi letteralmente incenerita con lo sguardo, andò via, sbattendo la porta.

Sospirai e afferrai i lembi della maglietta, ma lei mi prese le dita e scosse la testa.

«Volevo solo dirti che quello che hai fatto per quel soldato è stato un gesto davvero magnanimo. Un altro, al tuo posto, l’avrebbe lasciato morire o ucciso con le sue stesse mani. Sei una brava persona» si complimentò e sentii di non meritare tante belle parole; non l’avevo salvato io, ma Jack; non ero stata io a trattarlo con i dovuti riguardi, ma Jack. Io avrei solo voluto sbarazzarmene, io gli avevo ostinatamente voltato le spalle.

«Arrivederci, Valerie».

«Arrivederci, dottoressa».

La vidi avanzare fino alla porta, per poi arrestarsi e voltarsi appena.

«Non essere troppo dura con Sam. Lui ti vuole bene, lui non capisce...» si strinse nelle spalle e andò via, non concedendomi neanche il tempo di chiedere spiegazioni.

Spiegazioni che mi vennero fornite negli immediati minuti successivi, dalla voce tuonante e furiosa di Sam.

Percorreva furiosamente il perimetro della camera, passandosi le mani tra i capelli sconvolti, spettinati, ritti sulla testa.

«Tu devi consegnarlo!» urlava continuamente, in un rumoroso monologo, senza concedermi il tempo di rispondere; crucciata, incrociai le braccia e lo fissai sfacciata, in attesa di ricevere la parola.

Approfittai di un momento di silenzio.

«Ne hai ancora per molto?»

Mi fissò torvo, ma ebbe la decenza di tacere.

«Non posso consegnarlo, tu sai che non posso farlo» dissi piano, quasi dolcemente.

«Perché non me ne hai parlato? Quel dannato figlio di puttana indossa perfino i vestiti di mio padre!»

«Non te ne ho parlato perché sapevo che avresti reagito esattamente così».

«E come, se no?! Tu sfami un assassino!» urlò, scaraventando sul pavimento un bicchiere colmo d’acqua, che esplose in piccoli pezzi.

«Un assassino, sì, un uomo che ha combattuto per il suo paese; non potremmo forse dire lo stesso noi, dei nostri soldati?» domandai e indietreggiai bruscamente quando sedette sul mio letto; a spaventarmi fu l’improvvisa calma che emanava da lui.

«Ti ha cambiata. Un tempo condannavi i russi, li odiavi. E adesso li ospiti sotto il tuo tetto, parli in loro difesa» scosse la testa.

«In sua difesa» precisai.

«Questo è ancora peggio. Perché? Perché lo vuoi qui a tutti i costi, anche a rischio della vita?»

La domanda mi prese in contropiede; sorrisi scioccamente, affaccendandomi alla ricerca di una risposta.

«Avete una storia?» sbottò rude, stringendo i denti.

«No».

«Ti ha minacciata?»

«No di certo».

«Allora ti sei innamorata di lui?»

Esitai. Ero innamorata di lui?

«No» la marcata dolcezza era tagliente abbastanza da intimargli di tagliare corto.

«Ti fai scopare da lui?»

Un’ ondata di sangue intriso di rabbia e veleno mi esplose sulle guance, portandomi ad arrossire di indignazione.

«Vattene» sputai a denti stretti, massaggiandomi le tempie doloranti.

«Scusa»

«Vai via, per favore. Vai» insistetti piano, prendendomi la testa tra le mani.

Attesi, ad occhi chiusi, e un basso brusio cacofonico giunse all’orecchio sano, interrotto all’improvviso da un tonfo seguito da un rantolo.

Sentii la porta riaprirsi e chiudersi nuovamente.

«Jack ha accompagnato il cane rabbioso alla porta».

Approfittai dello scudo delle mie stesse braccia per sorridere piano. Alzai la testa, chinandomi in avanti e domandandogli di passare alla mia sinistra, così che potessi sentirlo senza difficoltà.

«Sam, lui è...» sorrisi e fissai il soffitto, ritrovandomi poi a scuotere la testa.

«Un figlio di cagna, già» commentò acidamente, facendosi più vicino. Notai che anche l’altro zigomo era arrossato.

«Vi siete presi ancora a pugni?»

«Ci siamo andati leggeri, lo giuro. Tuttavia, se non la pianta con le sue allusioni del cazzo, la prossima—»

«Non ci sarà una prossima volta! Basta! Dovete smetterla, tutti e due!» lo redarguii con una certa difficoltà, tenendomi il fianco pulsante di dolore, forse diretto riflesso della ferita alla gamba.

«Non adesso, ti prego. Mi diverte da morire, è così facile provocarlo!»

«Tu e le tue stronzate mi state facendo scoppiare la testa» sibilai, realizzando effettivamente quanto l’emicrania fosse cresciuta, dolente e inarrestabile.

«Allora, dormi» ordinò sbrigativo, avendo poi l’ardire di distendersi accanto a me, restando tuttavia a distanza di sicurezza.

Le parole di Sam tornarono a galla, indesiderate.

Ti fai scopare da lui?

«Che fai?»

«Rilassati, riposo solo un po’ gli occhi; tu dormi, non ti darò fastidio».

«Non riesco a dormire, con te accanto» mormorai a disagio, spingendolo per convincerlo a scendere dal letto e andare via. Mi afferrò il polso e lo posò sulla mia stessa pancia.

«Piantala. Tra dieci minuti vado via» mi assicurò, chiudendo gli occhi.

Mi addormentai, nonostante tentai di opporre più volte resistenza, e quando mi svegliai il letto era piegato solo dal mio peso, Alek andato chissà dove.

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Orbene, eccoci al settimo capitolo.

Siccome sono una personcina perversa che gode a distruggere i propri personaggi - e, in generale, i propri lavori - ho deciso di inserire un po' di azione, giacché la storia iniziava a farsi un po' piatta.

E poi, perbacco, siamo in tempi di guerra, no? Insomma, è necessario farla vedere, di tanto in tanto.

Però, state tranquilli: Valerie è stata fortunata e la fine del conflitto mondiale è quasi al termine (poiché quasi al termine è anche la storia).

Un monito: se state aspettando un happy ending, bene, evitate di perdere tempo perché non ci sarà.

In un vaghissimo e lontano seguito probabilmente sì, ma in questa storia certamente no. Lettore avvisato, mezzo salvato.

Come al solito, ringrazio e Shadow per le loro recensioni, che mi fanno sempre molto piacere.

A tal proposito, rinnovo il mio invito a recensire, giacché questa storia è seguita da quasi venti persone e mi farebbe piacere sapere cosa vi ha spinto a seguirla, se c'è qualcosa che andrebbe cambiato, se qualcosa non vi ha convinto o se c'è qualcosa che vi ha colpito particolarmente.

So che recensire è un atto tremendamente noioso e che la pigrizia è la piaga delle fan-writer, ma non vi si chiede di commentare tramite un poema, bensì anche solo con poche parole, giusto per capire se questa storia è scadente come io stessa ritengo o se sono io a sottovalutarmi come al solito.

Bene, chiudo qui questa mio invito e ci si rivede mercoledì prossimo.

 

 

Passo e chiudo.

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Capitolo 9
*** La curiosità ***


Nuova pagina 1


 

 

 

 

Feci sogni orribili, quella notte.

Lo avevo messo in conto e avevo cercato di prepararmi, di erigere le difese necessarie, ma tutti i miei sforzi non furono premiati.

Continuavo a rivedere, dalla mia sfera di silenzio, il bambino bruciare sull’asfalto, focalizzandomi spesso sull’orsacchiotto al suo fianco; come o perché, non avrei saputo dirlo. Probabilmente, il giocattolo che bruciava rendeva vivida l’evidenza di una piccola vita che termina.

L'immagine diventava cenere e si addensava in una nuova scena, in un nuovo orrore.

Uno pneumatico rovente che rotolava incerto. Cenere, immagine. Uomini e donne in fuga. Cenere, immagine. Panico nelle bocche mute dei passanti. Cenere, immagine. Una bomba sganciata dal ventre di ferro di un elicottero che mi precipitava addosso, sempre più nera, sempre più pesante, sempre più minacciosa.

La vedevo precipitare, veloce, impietosa e pregavo disperatamente alle mie gambe di muoversi, di spostarsi, di portarmi in salvo.

Ma loro restavano inchiodate al selciato e la bomba mi colpiva in petto. Annaspavo e il sangue fluiva caldo nella bocca, sul mento.

Ansimavo, non ero più padrona del mio corpo. E poi rimase solo il dolore. Accecante, sordo, insistente. Eterno.

Cenere, buio.

Rinvenni biascicando qualcosa, tossendo per scacciare il grumo di saliva che mi soffocava.

Annaspai nel buio e mi tastai la tempia destra, pulsante, estremamente fastidiosa, al pari della gamba gonfia e dolorante.

Un'ombra lunga e sinuosa spezzò il riverbero di un piccolo lume poggiato sul comodino.

Sentii i muscoli irrigidirsi e l'urlo di terrore rimase a fermentare nello stomaco, stringendolo.

«Non farti venire un colpo apoplettico, sono io» mi rassicurò Alek, emergendo dall'ombra come se il suo corpo fosse privo di consistenza.

Rabbrividii.

«Cosa vuoi?» soffiai velenosamente.

«Ti lamentavi; ti si sentiva fin dalla soffitta» spiegò, afferrando la sedia di paglia appena sotto alla finestra e posizionandola accanto al mio letto.

Poi, senza saperne il motivo, mi fissò a lungo, insistente e impertinente, la testa un po' piegata come per carpire qualche segreto.

«Stai male?» mi domandò dopo un lungo silenzio.

«Ovviamente sto male».

Afferrò una siringa e se la rigirò tra le mani, porgendomela.

«Vuoi una di queste iniezioni?»

La volevo? Non potevo davvero sopportare il dolore? Ripensai alla cenere e agli orrori che il sonno mi aveva regalato, ripensai a quella vertigine allo stomaco, al cerchio alla testa. All'orsacchiotto di pezza che lentamente bruciava.

No, non potevo.

«Sì, per favore» mi ritrovai a supplicare, patetica e stupida. Le sue mani affondarono nel materasso e il suo viso, d'un tratto, fu vicinissimo. Si protese verso il mio comodino, tastando per cercare qualcosa.

Mi irrigidii, scattando sulla difensiva.

Fortunatamente si allontanò prima che fossi io a spingerlo via e qualche secondo dopo la stanza riverberò del fascio giallastro di una torcia.

La gettò sull’estremità del letto, puntata dritta sulle nostre facce assonnate e stropicciate.

Incrociai i suoi occhi ingrigiti dalle tenebre, che brillavano come quelli di un gatto.

Era spaventoso.

Non che lui mi prestasse molta attenzione, comunque. Era impegnato a riempire la siringa di un liquido denso e giallastro, seguendo movimenti precisi e sciolti.

Scansò da parte le coperte, invitandomi poi a calare i pantaloni lunghi e sformati del pigiama.

«Eh?»

«I pantaloni, abbassali. La vuoi o no questa?» mi sventolò la siringa davanti al naso e una fitta di intenso dolore spazzò via esitazione, disagio, timidezza, tutto quanto.

Mi rigirai sul fianco, dandogli le spalle, calando poi l’indumento sino alle ginocchia.

Sperai che non commentasse, ma il fischio basso che emise fu comunque imbarazzante e umiliante.

A dispetto della sua natura irruenta e perfino aggressiva, le sue mani erano delicatissime mentre insinuavano l’ago nella carne. L’effetto fu immediato, tanto da procurarmi un compiaciuto sospiro di sollievo, che solleticò il sonno interrotto.

Intontita, mi persi il momento in cui doveva essersi alzato per gettare via l’ipodermica e quasi sussultai quando sentii il materasso piegarsi al suo peso.

«Pensavo fossi tornato in mansarda».

«Il tuo letto è più comodo e non abbiamo neppure il riscaldamento... e tu, be’, tu sei più pratica di un caminetto da accendere» mi informò, le sue labbra che quasi mi sfioravano il collo.

«Smettila».

«Non mi pare ti dia molto fastidio, Valerie» rimbeccò e sussultai violentemente – perché, poi?! – quando lo sentii pronunciare il mio nome, per la prima volta e senza alcuna traccia di derisione o scherno.

«Oh, sta’ zitto» lo redarguii senza cattiveria, sbadigliando.

«Vy ocharovatelʹny, suka da, no prekrasnyy; rano ili pozdno, ya tebya potseluyu*» mormorò in russo, in una cadenza lenta e quasi ipnotica, in un suono morbido e dolce.

«Non te la prendere, ma non ho capito niente» biascicai, in realtà poco interessata alla traduzione che, comunque, non arrivò. Lo sentii ridere piano.

«Dormi» tagliò corto.

«Non vorrai restare qui, vero?»

«Certo che no, stupida. Per quanto tu sia calda e invitante, preferisco andarmene» rimbeccò svelto e quando chiusi gli occhi era già fuori dalla mia stanza

Il mattino seguente, il sole dritto negli occhi e un dolore lontano ma persistente mi diedero il buongiorno.

Mi voltai lentamente, stiracchiandomi. L’orecchio sinistro era ancora sordo, ma la gamba, in compenso, andava molto meglio.

Cautamente, poggiai il piede per terra, valutando quanto e per quanto potesse sostenermi.

Mossi tre passi, esaltata dall’assenza di dolore.

Poi aggrottai la fronte; Aleksandr doveva essere  andato via da un pezzo, come confermavano le lenzuola fredde.

Lo ritrovai in cucina, in compagnia di Jack, il quale gli insegnava come e per quanto tempo bollire il latte delle mie mucche.

Zoppicai sino a lasciarmi andare sulla sedia, scacciando stralci di ricordi infiammati come mosche fastidiose.

«Come va, Val?» domandò Jack, servendomi il latte ancora caldo e qualche biscotto dall’aspetto delizioso, croccante e dorato.

«Molto meglio; cosa avete fatto?» domandai, spiluccando piano la colazione.

Il viso di Jack si illuminò, contento.

«Ho mostrato a Alek come mungere le mucche, abbiamo raccolto le uova e sistemato le provviste. Poi abbiamo fatto un giro del ranch, gli ho mostrato le piante commestibili e quelle velenose, l’ho portato sino ai confini della nostra proprietà e poi siamo scesi giù, all’Ultima spiaggia e gli ho mostrato l’antica quercia e il fiumiciattolo che ci fa da confine. Avresti dovuto esserci, la vegetazione non è mai stata così rigogliosa e sana; gli ho perfino insegnato a montare Kellan» aggiunse, palesemente orgoglioso.

Piegai la testa di lato, mostrandomi sorpresa.

«Bravi» mi complimentai senza particolare entusiasmo e Aleksandr si fece avanti, indicando le chiazze verdi sulle ginocchia e la camicia a quadri insozzata di terra sulla schiena.

«Non proprio; sono caduto un paio di volte» ammise disinvolto e Jack, che sospettavo lo venerasse o che ne fosse innamorato, si lanciò in sua difesa, sostenendo che per essere stata la sua prima volta se l’era cavata molto bene e che aveva un sacco di tempo per migliorare.

Alek gli strizzò perfino l’occhio e lui rise.

«Val, devo andare da, ehm, Sam; voleva vedermi» confessò, come se stesse affrontando un argomento particolarmente ostico.

Mi irrigidii, stringendo le labbra.

«Perché?»

«Non lo so» era sincero, lo si capiva dai suoi occhi verdi, limpidi e veri, senza traccia di menzogna.

«Va bene» sospirai laconica, ingollando anche l’ultimo sorso di latte.

Essere convalescente era sinonimo di annoiarsi fino a morirne. Aleksandr mi aveva trascinato – per quanto lo permettesse la zoppia – fino al divano e, piazzatomi la radio tra le mani, mi disse di rilassarmi e restarmene ferma, aggiungendo che se avessi avuto bisogno di compagnia sarebbe bastato uno schiocco di dita.

Il tono con cui lo disse fu così malizioso da garantirgli subito che la solitudine ed io eravamo grandi amiche e che godevamo della reciproca presenza.

Però, due ore e tre bollettini di guerra dopo, ero quasi tentata di ritrattare la mia versione.

Il divano iniziava a diventare scomodo, mi anchilosava i muscoli e l’osso sacro protestava di dolore.

Quando il senso di disagio divenne insopportabile, mi alzai faticosamente, zoppicando per trovare Aleksandr; non era esattamente una verità che la solitudine mi aggradava. Ero un essere umano, un animale socievole che necessitava della compagnia altrui o anche solo di scambiare qualche vuota chiacchiera.

Lo trovai in mansarda, così assorto da non essersi nemmeno accorto di me. Senza coglierne il motivo, mi nascosi oltre la soglia così che solo la mia testa sporgesse dallo stipite.

Fissava una fotografia piccola e strappata agli orli, seguendone il profilo con la punta dell’indice. I suoi occhi azzurri erano lucidi, in disarmonia con le labbra tirate in un ringhio.

Le sue mani tremavano, le dita si aprivano e si serravano di continuo, come se afferrasse i pezzi di sé per non lasciarli scivolare via.

Mi sentii un’intrusa, come se stessi assistendo di qualcosa a me precluso, di troppo intimo.

Così, il più silenziosamente possibile, andai via, ponderando a lungo su quella fotografia.

Chi ritraeva? Perché era stata così importante da meritarsi un posto nella sua vecchia tuta mimetica? Cosa significava?

«Non ti sei ancora annoiata?»

Sobbalzai. Era sempre talmente silenzioso che pareva scivolare sul pavimento, come un’ombra al calare del sole.

«Non ancora, no» mentii, ma non fui poi così credibile. Lo vidi prendere posto accanto a me per alzarsi poi qualche secondo dopo per rispondere al telefono.

«Era tuo fratello; dice che Kellan è stato spaventato da un tuono e che è fuggito. Vuole che lo vada a riprendere. Devo cercare anche il tuo cavallo?»

Risi.

«Kellan tornerà. Vai a prendere Jack e tornate prima che il temporale arrivi qui».

Qualche minuto più tardi sentii il motore del pickup ruggire e allontanarsi, accompagnato dal cupo rimbombo di fulmini lontani.

Il pensiero della fotografia mi assalì, stuzzicando la parte più curiosa e invadente di me.

Per questo mi diressi in mansarda e, come mai si dovrebbe fare, frugai tra le sue cose, fino a ritrovare lo scatto che tanto mi aveva dato da pensare.

Ritraeva il viso monocromatico di una ragazza dall’espressione tenera, dolce, con grandi occhi che dovevano essere azzurri o verdi.

I capelli lisci e neri le circondavano il volto, adagiandosi piano sulle guance piene. Mi concentrai a lungo sul suo sorriso; un sorriso ingenuo, onesto, di cui non ci si poteva non fidare.

Tutto, in quel delicato volto femminile, ispirava fiducia e protezione.

Voltai la fotografia, incontrando una serie di simboli cirillici. Come quando Aleksandr mi aveva parlato in russo, non ci capii nulla né persi tempo ad interpretare la dicitura.

Mi soffermai piuttosto sul tratto dei simboli, morbido e tondeggiante, vergati forse dal volto immortalato.

Studiai per qualche altro minuto quella giovane donna, che, per qualche ragione, mi fece sentire insignificante.

«Carina questa tua propensione a ficcanasare tra le cose altrui».

Sobbalzai, squittendo spaventata, e la foto volteggiò sinuosa, adagiandosi infine sul parquet lacero.

 

 

 

 

 


 

*sei adorabile, stronza eh, ma adorabile; prima o poi ti bacio.

O almeno, questa è la traduzione secondo Gugol Transleit, perciò non prendetela per oro colato. Anzi.

 

 

NdA: Le feste sono quasi trascorse e io vi propino un altro capitolo.

Ci tengo a precisare che questo capitolo è interamente dedicato/regalato a Jè, che è la mia più fedele seguace e che non manca mai di commentare qualsiasi cosa io pubblichi. Quindi spero vivamente che questo capitolo sia stato di suo gradimento. :3

Ciò detto, non credo di avere qualcosa da aggiungere stavolta, a parte il solito ringraziamento a nals che ha gentilmente e pazientemente betato il capitolo. :3

Non mi resta che augurarvi buone feste ed esprimere un sentito grazie a chi segue questa storia. :)

 

 

Passo e chiudo.

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Capitolo 10
*** La svolta ***


Nuova pagina 1


 

 

 

 

Mi raggiunse in due falcate ampie e ferine, agguantando la fotografia per riporla tra le sue cose; poi, ignorando il momentaneo handicap che mi affliggeva, mi strattonò per un polso, sbattendomi letteralmente fuori dalla camera.

«Hai ragione, non avrei dovuto» chiarii immediatamente, avendo anche il buon gusto di mostrarmi pentita e imbarazzata.

«No, non avresti dovuto. Non mi pare di aver mai ficcanasato tra le tue, di cose» mi redarguì aspramente e seppi con certezza d’aver distrutto il labile sentiero di pace e tregua che avevamo percorso per pochissimo tempo. Innalzò le barriere e mi chiuse fuori, inchiodandomi con occhi nuovamente ostili, nuovamente colmi d’odio.

«Infatti», convenni mansueta, «prima ero venuta a cercarti e ti ho visto guardare quella foto. Ero solo—»

«Curiosa, certo» concluse per me, deglutendo e respirando profondamente, più volte, come se stesse cercando di mantenere la calma.

«È bella» mi lasciai sfuggire, sussurrando; avevo gli occhi bassi e non mi accorsi della sua mano che, veloce e forte, volò al mio viso, schiaffeggiandomi.

Alzai la testa, la bocca aperta in una grottesca espressione di sgomento. In risposta al dolore, sentii gli occhi pungere e colmarsi di lacrime mentre mi strofinavo piano la zona lesa.

Lo vidi indietreggiare, letteralmente sconvolto, e aprire la bocca più volte per dire qualcosa, optando poi per il silenzio.

Il gesto mi umiliò profondamente, tanto fu inaspettato e deciso, ma, ancor di più, mi ferii.

Sapevo che Aleksandr fosse una testa calda, con scarso self control e una disarmante tendenza ad adoperare la violenza anche per le sciocchezze. Ma mai, mai, lo avrei creduto capace di picchiare una donna, sebbene io stessa più volte avessi corso il rischio.

Ma ogni volta era stato capace di controllarsi, ogni volta era stato un bluff.

Una singola lacrima precipitò veloce sul mento e la spazzai via con un gesto lento del dorso della mano.

In altri tempi forse avrei replicato il gesto, forse avrei urlato, forse l’avrei nuovamente cacciato. Invece, restai muta e sorrisi in direzione del pavimento, stringendomi nelle spalle e voltandomi per andare via.

«Valerie» mi chiamò e quando mi voltai – troppo velocemente – lui era già davanti a me.

Sentii le sue mani tremanti stringersi sul mio volto, piano, delicate, scendere poi sul collo e sulle spalle, per tornare poi nuovamente al mio viso.

Mormorò una sequela fitta di scuse, alternando parole russe a parole inglesi, senza mai trovare il coraggio di guardarmi negli occhi.

«Va tutto bene» dissi apatica, senza alcuna emozione, senza alcuna rassicurazione, senza niente.

«No, non è vero. Non... è...» strinse i denti, aggiungendo qualcosa in russo.

«Senti», mi alterai, stringendogli il mento per forzarlo a guardarmi, «smettila di parlare in russo. Non capisco nulla e mi sento un’idiota. Sei in America, adesso» lo redarguii e sentii la pelle tendersi tra le mie dita, curvarsi in un sorriso accennato, timido, sbagliato.

«Vse chto vy khotite» replicò lentamente e non ebbi nemmeno il tempo di irritarmi; la sua bocca mi trovò prima.

Che relazione turbolenta, la nostra. Quando credevo di aver commesso un fallo, quando pensavo che la tregua fosse giunta al termine, tutto si era capovolto un’altra volta e tutto era terminato sulle nostre labbra.

Ogni muscolo si contrasse, contrariamente alle dita, che allentarono la stretta e che ritirai al petto. Sentivo le gambe pronte a scappare, le braccia pronte ad allontanarlo, ma l’indecisione mi paralizzò, seconda solo alla goffaggine.

Alek – Alek! – mi incoraggiava con movimenti lenti e studiati, sentivo la sua lingua scivolare sul mio labbro inferiore e nella linea dritta della bocca, invitandomi a schiuderla.

Obbedii, remissiva e molto poco lucida, e assecondai le movenze delle sue labbra e della sua lingua. Mi preoccupai quando mi sentii pervadere da uno stranissimo senso di onnipotenza, malamente mescolato all’adrenalina in circolo e alla voglia di toccarlo.

Non volevo più fuggire, anzi farmi più vicina. Colse l’impercettibile cambiamento del mio umore e il bacio si trasformò velocemente: non più dolce e lento, ma rapido, rude, erotico.

Poi, come una folata di brezza autunnale, tutto finì. L’attimo dopo stavo già scendendo le scale a piccoli balzi, due gradini alla volta, goffa, sbilenca e zoppicante, dirigendomi a passo di carica verso il vecchio capannone che ospitava la riserva di fieno e mangime dei miei animali. Era il mio nascondiglio, la mia fortezza, il luogo dove poter sciogliere le briglie alle emozioni che mi passavano in viso senza essere vista o giudicata.

Era tutto sbagliato. Sconfitta e abbattuta, mi lasciai cadere su un mazzo di fieno, prendendomi la testa tra le mani.

Rabbia e sgomento mi trovarono indifesa, contendendosi equamente l’intero spazio del mio animo.

Perché l’aveva fatto? Perché baciarmi se fino ad mese prima sbandierava tanto orgogliosamente la propria avversione nei miei confronti?

Quando il buio mi impedii di vedere oltre le mie scarpe, arrancai passi lenti e incerti verso casa, le cui finestre buie si conformavano perfettamente alla facciata annerita dall’avvento della notte. Aggrottai la fronte, fermandomi.

Jack e Alek erano entrambi in casa, perché diavolo non avevano acceso le luci?

La risposta fu: perché Jack dormiva e Alek era rintanato nella propria camera.

L’idea di bussare mi solleticò per qualche secondo e il mio piede era già sul primo gradino quando cambiai intenzione, facendo un brusco dietrofront, diretta in cucina.

Sintonizzai la radio su una frequenza che trasmetteva vecchissime canzoni degli anni ’80 e mi trastullai con i preparativi della cena. Era un diversivo abbastanza impegnativo da distrarmi, ma non sufficientemente da scacciare il ricordo della sua bocca e dei suoi occhi così vicini, così azzurri, così trasparenti...

«Interrompiamo le trasmissioni radio per riportare, a reti unificate, l’ultimissimo comunicato stampa della Casa Bianca. “Fratelli e sorelle americani, è con immenso orgoglio e gioia che vi informo della nostra vittoria. Le armate russe hanno innalzato bandiera bianca, le abbiamo allontanate dal nostro Paese. La guerra è finita. Sono vicino alle vostre perdite e garantisco che già da domani provvederemo ad intraprendere il lungo e faticoso cammino per la ricostruzione. Ricordate questo giorno come il giorno in cui gli Stati Uniti d’America sono tornati ad essere un Paese libero».

Il piatto mi scivolò dalle dita, impattando contro il pavimento. Le dita mi tremavano così forte da contrarsi in spasmi dolorosi, quasi volendo contenere la gioia selvaggia, quasi temendo che fosse tutto un terribile bluff.

Ma non poteva esserlo, non con la voce del Presidente che  continuava ad elogiare l’operato delle forze armate, ad elencare le battaglie che si erano rivelate essenziali per la vittoria della guerra.

«Oh, mio Dio. Jack! Jack!» strillai, scrollandolo con foga.

«Cosa?»

«Abbiamo vinto, Jack! Abbiamo vinto, la guerra è finita! Finita!»

Vidi i suoi occhi sgranarsi di stupore; poi, i suoi folti capelli neri mi oscurarono la vista, le sue braccia strette intorno ai miei fianchi

«È finita, è finita, è finita» cantilenava e rideva, coinvolgendomi in un goffo balletto di esultanza, alzandomi perfino da terra.

Stavamo ancora festeggiando quando qualcuno bussò forte alla porta, quando quel qualcuno si rivelò un Sam entusiasta e ridente, bello come mai mi era sembrato.

Mi strinse forte – nulla a che vedere con l’amichevole abbraccio di Jack – e tuffò il viso tra i miei capelli, sospirando.

«Abbiamo vinto!» sussurrai frenetica, stringendomi a lui.

In quel momento, tutto svanì, tutto venne perdonato. Il nostro ultimo quanto burrascoso incontro dimenticato, i dissapori mai esistiti. Eravamo solo Val e Sam, due ragazzi costretti a portare sulla schiena il peso della guerra, complementari l’uno all’altra.

«Lo so. È finita, Val, finita» mi assicurò, scoccandomi poi un lungo bacio sulle labbra.

Impietrita e sorpresa, me ne restai rigida tra le sue braccia, le dita goffamente strette alle sue spalle. Ad occhi sgranati, lo vidi sollevare le palpebre e fissare qualcosa dietro me; le sue labbra si curvarono, contro le mie, in un sorriso cattivo.

E poi li sentii. Freddi, insistenti, inespressivi, gli occhi di Alek piantati sulla mia nuca.

Mi sentii stranamente in dovere di allontanarmi velocemente da Sam e, codarda com’ero, non ebbi nemmeno il coraggio di voltarmi per fronteggiare l’altro.

«Il Presidente dice che dobbiamo festeggiare e io voglio prenderlo in parola. Venite da me, tu e Jack» mi chiese, ignorando ostentatamente Aleksandr, del quale colsi il suono di un ghigno di scherno, seguito dai suoi passi pesanti sulle scale.

«Non sei stato molto carino» lo schernii, ricevendo in risposta uno sbuffo contrariato.

«Senti, la guerra è finita, adesso può anche andarsene, no?»

«No!» esclamai in fretta, arretrando davanti ai suoi occhi, scuri, densi, brucianti.

«Valerie», disse, afferrandomi per le spalle, «dimmi che non hai commesso la stronzata di innamorarti di lui».

Strinsi i denti e sospirai.

«Non si tratta di questo, Sam. È solo che non posso – non voglio – mandarlo via; è una sua scelta».

Sam sorrise, accostando la fronte alla mia.

«Tu meriti di meglio. Meriti una persona migliore, che ti capisca, che ti supporti».

«Una persona come te, è questo che vuoi dire?»

Annuì, baciandomi i capelli. Era strano; sapevo che questo momento, presto o tardi, sarebbe arrivato, lo sapevo da molto tempo, eppure mi sentii presa alla sprovvista, incapace di negare, incapace di spezzare la sua tenacia.

Incapace di infliggergli consapevolmente del male.

«Sam—»

«Lo so, lo so. Per te non è mai stato lo stesso, ma forse con il tempo impareresti ad amarmi» propose, senza tuttavia crederci davvero.

«Forse. O forse no. Sam, non è questo che voglio» farfugliai, facendo sempre più fatica a tenere insieme il discorso, gestirlo con le parole giuste.

«No, certo, non è questo che vuoi da me» precisò, ma fui sollevata di non trovare ostilità nella sua voce.

«Quindi, non venite?»

«No, Sam. Non senza Aleksandr».

Ci pensò su per qualche secondo, riuscendo infine a strapparsi dalla mente quelle parole che suonarono come una specie di insulto.

«Allora fai venire anche lui. Ultimamente non abbiamo avuto molto tempo per noi».

Che era come dire: “Accetto la sua presenza pur di riuscire a farmi vedere sotto una luce diversa”.

Quante forti, insistenti speranze destinate a sciuparsi!

«Meglio di no. Ma ti prometto che passerò presto a trovarti, andremo a cavallo insieme» giurai, perché ad ogni parola lo sentivo scivolare sempre più lontano da me.

«Va bene» concesse, baciandomi un’ultima volta – sulle labbra, velocemente – prima di inforcare il cappello e congedarsi.

Solo allora mi accorsi di Jack, in piedi e nascosto dalla soglia.

«Mi dispiace» mormorò, parte del viso celata dallo stipite.

«Non è colpa di nessuno» sospirai, decidendo che rimandare il momento del confronto con Alek non era più possibile.

Bussai due, tre, quattro volte, ma non venne mai ad aprirmi, fino a quando non fui io ad abbassare la maniglia per sentirla sprofondare nel vuoto, bloccata dalla sicura.

Spalle contro la porta, mi passai le mani sul viso, tenendole premute sugli occhi, sulle guance, sulla bocca per molto tempo.

Ripensai ai due baci – così diversi eppure egualmente intensi – ricevuti nel giro di poche ore di distanza e sentii il cuore battere come se dovesse implodere a momenti.

«Alek, quello che è successo con Sam... è stato solo un momento di euforia, abbiamo vinto la guerra, eravamo felici... Alek... Alek, vorrei...»

Cosa volevo, esattamente?

Avere tempo, prima di tutto. Tempo per rimettere in ordine le cose, considerarle sotto la luce giusta, attribuire loro il corretto significato, tempo per scandagliare tra i molti sentimenti che mi animavano, analizzarli e sezionarli a mente fredda, giungendo infine a capire cosa provassi per Alek e cosa per Sam.

Restai accasciata contro quella porta, senza tenere il conto dei minuti e dei secondi che mi scivolavano addosso, lenti e costanti.

Poi, in un qualche momento che non riuscivo a collocare, il sonno mi prese con sé.

E gli incubi tornarono.

 

 

 

 

 


 

*tutto quello che vuoi.

O almeno, questa è la traduzione secondo Gugol Transleit, perciò non prendetela per oro colato. Anzi.

 

 

NdA: Oh, cielo, che capitolo intenso.

Solo a leggerlo mi è venuta l'asma mentale. Tant'è. Suvvia, non fate quelle facce, sapevate che questo momento sarebbe arrivato, così come sapevate che questo è il penultimo capitolo. Eh.

Nel prossimo capitolo ci sarà la scelta definitiva di Valerie e... niente, non mi scucio e non spoilero.

Ringrazio come sempre chi segue questa storia e chi la recensisce. Un grazie speciale a Els che ha recensito tutti i capitoli e che sta stravedendo (posso dirlo?) per questa storia, lusingandomi non poco. :3

Ci si ribecca la settimana prossima con l'ultimo capitolo.

 

 

Passo e chiudo.

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Capitolo 11
*** L'addio ***


Nuova pagina 1


 

 

 

 

Alek si rifiutò di vedermi e parlarmi. A notte inoltrata, che l’euforia per la vittoria statunitense era già scemata, mi risvegliai di soprassalto e non mi rimase altro da fare che arrancare verso la mia camera da letto.

Quella notte non riuscii più a dormire. Il sonno mi girò intorno senza mai ghermirmi completamente, sprofondandomi in fastidiosi stati di dormiveglia, fatti di sogni insensati e confusionari.

Quando il sole gettò fasci luminosi sulla terra, inaugurando un nuovo giorno – nuovo in ogni senso possibile – mi stropicciai il viso stanco e non riposato e scostai le coperte.

Il pensiero di Alek non mi abbandonò mai. Sentivo l’esigenza di chiarire quanto prima. La guerra era finita e non avevo più tempo. Immaginavo sarebbe andato via, tornato a casa sua, in un altro emisfero, in un altro continente.

Perciò, dopo una doccia impacciata e dopo essermi liberata della benda ormai inutile, mi trascinai sino alla mansarda per trovare la porta spalancata e il suo interno completamente vuoto. Di lui restavano solo fugaci tracce: una carta nel cestino, un bicchiere sul comodino, il letto riordinato frettolosamente. Qualcosa, appena sotto la finestra, brillò, ammiccando.

La riconobbi ancor prima di prenderla tra le dita: la spilla della sua divisione, quella spilla incrinata in due metà asimmetriche. Per scrupolo e con l’amara consapevolezza che non vi avrei trovato nulla, aprii l’armadio alla ricerca della sua tuta mimetica, ovviamente assente.

Solo il ripiano più basso ospitava i vecchi vestiti del padre di Sam. Il gesto aveva un significato inequivocabile: addio.

Per questo, quando furiosa scesi in cucina, rischiai di inciampare nei miei stessi piedi quando lo vidi in piedi davanti al bancone, a trangugiare caffè.

Indossava la sua tuta – che moltissimi giorni prima avevo messo a lavare – da cui spuntava la tel'njaška a righe bianche e blu. Il basco azzurro era abbandonato sul tavolo.

A colpirmi fu il senso di ordine e compostezza che emanava da lui. Si era accuratamente sbarbato e aveva pettinato indietro i capelli, scoprendo la fronte. Il suo viso era una maschera di gelida indifferenza.

«Che fai?» domandai, avvicinandomi. Non seppi se fu un gesto conscio o meno, ma lui indietreggiò con disinvoltura, evitandomi.

«Bevo un caffè prima di andarmene».

Non che ci volesse un genio, questo l’avevo capito da me.

«E perché vuoi andartene?» avvertì l’ansia nella mia voce, perché le sue labbra si piegarono in un sorriso serafico.

Oh, bentornato soldato Lebedev.

«La guerra è finita, è ora di tornare in patria. In questa fogna ho perso fin troppo tempo».

Mi domandai se si riferisse al mio ranch o all’America. Ma tutto ciò che riuscii a dire fu: «Non mi pare che ti sia dispiaciuto troppo».

Probabilmente fu la cosa sbagliata perché la sua bocca tornò ad essere una linea dritta e dura e i suoi occhi mi studiarono con scherno.

«Ho dovuto adattarmi. In verità», disse, facendosi vicino, «fare il carino con te non è servito a niente. Avrei voluto infilarmi tra le tua gambe, ma, ahimè, ho fallito. Sono certo che Sam avrà più fortuna di me, state così bene insieme. Siete uguali, tu e lui».

Con il tempo, avevo imparato a capire che quando l’accento russo era particolarmente evidente nella sua voce, Alek era nervoso.

Nondimeno, c’era una cosa che non avevo colto affatto: Alek non era affezionato né a Jack né a me. La sua era stata una recita ben costruita, un castello di equivoci e frasi ambigue interpretate male, proprio come desiderava.

Questo era quello che mi imponevo di pensare, almeno. Perché non potevo permettermi di afferrare l'altra metà di quella medaglia, di considerarla, di ritenere le sue parole una mera bugia. Perché questo avrebbe implicato cose e sentimenti per cui non ero pronta.

Chiudere gli occhi era più semplice.

Seguendo questa mia malata linea di pensiero, riuscivo a vedere con disarmante lucidità le motivazioni che l’avevano spinto ad agire; bisognava accaparrarsi l’amicizia di Jack perché il ragazzino sarebbe stato forte abbastanza da buttarlo fuori a calci. Bisognava accaparrarsi la mia, di amicizia, perché ero attraente abbastanza da poter soddisfare qualche sua perversa fantasia, oltre il primordiale desiderio carnale.

Ma era davvero così semplice chiuderli, gli occhi?

Lo fissai a labbra schiuse e dovevo avere un’aria davvero stupida.

«Avanti, non prendertela. Te la sei presa?» aggiunse frettolosamente, preoccupato. Abile attore, consumato bugiardo.

Russo fin nel midollo.

Sorrisi stordita.

«No, no affatto» mi concessi una pausa leggera, soppesando le parole.

«Non è colpa tua», continuai, «è che sei fatto così. È colpa nostra, mia e di Jack, che abbiamo sempre interpretato male tutti i tuoi gesti e tutte le tua parole» recitai bene la mia parte, eravamo due attori talentuosi, dopotutto.

Mi sentii parlare con voce ferma, rassegnata, per nulla incollerita. Un moto di gioia mi strinse lo stomaco quando registrai d’essermi ascoltata con entrambe le orecchie.

Il sinistro, a quanto pareva, era definitivamente guarito. Un’altra bella notizia, un’altra bella notizia di cui non riuscivo a rallegrarmi.

Il cerchio di stupore e sgomento e sospetto che mi stringeva la testa non allentava la morsa, non mi permetteva di provare i giusti sentimenti, schiacciati dal peso delle domande.

«Bene, nessun rancore allora?» tese la mano, come in un ultimo, benevolo gesto.

La chiusura della storia, il punto alla fine della frase, la parola fine vergata in fondo al foglio.

La strinsi con foga, come se fosse mio desiderio incrinarne ogni articolazione. Il cerchio alla testa si allentò.

«Nessun rancore» convenni.

Nessun rancore davvero. Non gli avrei donato quell’ultima soddisfazione di vedere il mio sangue incendiarsi di rabbia e la mente rimuginare su un proposito di vendetta.

Lo avrei scaraventato in un angolo lontano della testa, sepolto dagli impegni quotidiani, incatenato, imprigionato, occultato.

O quanto meno, ci avrei provato.

«Bene. Ho saputo che l’aeroporto di Dallas-Forth Worth ha riaperto i battenti. Mi domandavo se—»

«Nessun problema, ti ci porto» lo interruppi bruscamente, ammorbidendo quindi il tono imperioso con un sorriso tirato.

Aleksandr Lebedev doveva uscire dalla mia vita e volevo essere io ad accompagnarlo all’uscita.

Eppure. Eppure.

«Pensi che i tuoi torneranno a casa?» domandò all’improvviso e qualcosa, nella sua facciata disinvolta, si incrinò.

Mi strinsi nelle spalle. Il pensiero di mio padre e mio fratello era troppo doloroso, avevo bisogno di calma e serenità per considerare l’ipotesi della loro morte.

«Allora, partiamo immediatamente?» chiese, impaziente.

«Certo».

Quando intrapresi il breve tragitto dalla cucina alla mia camera da letto, ebbi la sensazione di lasciarmi alle spalle molti pezzi di me stessa.

 

Inchiodai appena sotto uno dei rarissimi semafori sopravvissuti alle bombe, tornato finalmente in funzione.

Preferii scrutare il cielo sulle nostre teste e ignorare gli enormi pilastri di cemento che un tempo avevano sorretto belle villette a schiera, le fondamenta sradicate dal cuore della terra, gli alberi dal tronco mozzo e annerito come il corpo di un moccolo di candela.

«Nervosa?»

«Affatto».

Eppure, quando ingranai la prima e le ruote slittarono sull’asfalto impolverato la mia negazione si rivelò talmente fasulla che Alek sbottò in una risata compiaciuta, sistemando la cerniera della tuta.

«Toglimi una curiosità, prima di partire» disse all’improvviso, gli occhi puntati sulle distese di grano un tempo lussureggianti, ora ridotte ad un cumulo di sterpaglie carbonizzate.

Non ero certa di voler rispondere. Quale che fosse stata la sua domanda, sospettavo sarebbe stata estremamente personale. Potevo perfino tirare ad indovinare su cosa vertesse.

«Che fine ha fatto tua madre?»

Sorrisi stizzita. Avrei potuto scommettere tutti quei pochi dollari che mi erano rimasti e li avrei riavuti indietro con i dovuti interessi.

«La vita domestica non faceva per lei. Quando io e Adrian eravamo ancora molto piccoli, fece le valigie e andò via di notte, come una ladra. Non la vedo da più di diciotto anni. Fine» aggiunsi seccamente, sperando che capisse l’antifona e che non insistesse.

Ma l’informazione sembrò accontentarlo perché, per grande parte del viaggio, tenne gli occhi puntati in un punto cieco, nel vuoto, a rimuginare.

Quando avvistai l’indicazione stradale – sbilenca e penzolante – che indicava l’uscita per l’aeroporto, il ricordo di quella misteriosa fotografia – la fine di tutto – mi balzò davanti agli occhi, con così tanta intensità che quasi sbandai.

«Toglimi una curiosità, prima che tu te ne vada. Chi era la ragazza della foto?» domandai velocemente, prima di avere ripensamenti.

Azzardai un’occhiata solo per vederlo irrigidirsi sul sedile, le spalle tese e la mascella contratta. Era palese che l’argomento lo mettesse in imbarazzo e non me ne dispiaceva nemmeno un po’. Non avevo assolutamente dimenticato tutte le sue carinerie dal fine pervertito. Non le avevo dimenticate e non le avevo neppure analizzate.
Benché armata dei migliori propositi, sapevo bene che quella notte mi sarei rigirata tra le lenzuola, sopraffatta da emozioni negative e domande.

Sapevo che avrei sviscerato il suo comportamento fin nel profondo per giungere a chissà quale conclusione.

«Mia sorella. Ma è una storia troppo lunga per essere raccontata in un paio di miglia o poco più» precisò, utilizzando il mio stesso tono fermo e incontrovertibile.

La risposta mi confuse, come se non lo fossi già abbastanza. E tuttavia, non feci ulteriori domande. Fissai la strada senza vederla veramente, chiedendomi se si trattasse di Inna o di Zoya o di una sorella di cui aveva opportunamente omesso l’esistenza. Quando le mie congetture raggiunsero un livello tale da confondersi ed accavallarsi tra loro, il profilo basso e frastagliato dell’aeroporto internazionale spezzò la linea dell’orizzonte.

Da quanto ne sapevo, era stato riaperto per permettere ai soldati stranieri di tornare in patria; anche ai russi era stato concesso il perdono. Gli Stati Uniti avevano preferito spartire i territori russi con gli alleati, smembrando la nazione fino a ridurla ad una dimensione irrisoria, come l’Austria e la Svizzera.

Ai soldati nemici non era stato torto un capello; si era deciso, di comune accordo, che in quei sei anni i morti erano stati fin troppi. Nessuno doveva più macchiare la propria bandiera del suo sangue.

«Eccoci» dissi, posteggiando il pickup poco lontano dall’entrata principale. Riflettei che Alek non aveva nessun bagaglio con sé, nessun ricordo da portar via.

Come me, forse anche lui desiderava lasciarsi l’esperienza americana alle spalle.

«Vediamo un po’» mormorò soprappensiero, scrutando i tabelloni elettronici che, in alcuni punti, erano guasti. Le destinazioni, nonostante alcune lettere mancanti, erano chiare e l’aereo per Mosca partiva da lì ad un quarto d’ora.

Era previsto uno scalo intermedio a Shangai e da lì la rotta era relativamente breve per giungere in Russia.

«Bene, il tuo volo parte tra quindici minuti» dissi, arretrando.

«Già».

«Allora, buon viaggio» lo salutai, stringendomi nelle spalle.

La tristezza mi pervase. Mesi di convivenza sfumati tutti in un gesto freddo e distaccato, impersonale. Ripescai appositamente quei pochi, bei ricordi che avevo di lui, quasi volendomi persuadere a provare un poco di nostalgia. Ma non accadde. I ricordi più recenti erano anche i più vividi. E le menzogne erano veleno.

«Grazie» mi fissò sfacciatamente, quasi in attesa. Accolsi il suo invito alla svelta, avanzando a passo svelto verso l’uscita.

Era tutto finito. Così, nel peggiore e nel più desolante dei modi. Quella che avevo prospettato come un’amicizia solida e duratura, magari sincera, era scemata in un gelido addio in un aeroporto affollato.

La rabbia mi risalì dallo stomaco e stavo quasi per sferrare un calcio ad uno pneumatico bruciato quando la voce tagliente di Alek sferzò il silenzio.

«Non posso crederci! Mi lasceresti davvero partire così?»

Mi voltai fulminea, incredula.

«Cosa?!»

«Sei un’idiota. Speravo che abboccassi alle mie provocazioni e invece sei una dannata credulona, un’ingenua, una stupida» mi aggredì, spintonandomi.

«Ehi!» mi difesi, spingendolo a mia volta.

«Credevo avessi un’opinione più alta di me» sbottò, quasi ringhiando.

E pensai di essere finita in un universo parallelo, invertito.

«Tu dici che avresti voluto solo portarmi a letto e io dovrei avere un’opinione più alta di te, infido bugiardo?! Dimmi, Alek, hai mai voluto bene al ragazzino? O hai approfittato anche di lui? E già che ci sei, quali delle tue parole devo considerare vere e quali false? Perché, dannazione, sei così bravo a mentire che non riesco a capire quando lo fai o quando no».

Andava tutto per il verso sbagliato. Mi ero ripromessa di analizzare tutto dopo, ma la rabbia mi aveva trovato prima. Nessun rancore? Non proprio.

«Come al solito sei giunta alla conclusione sbagliata» mi fece notare.

«Ah, piantala!» strillai e sì, me ne vergognai anche molto quando due giovani coppie di fidanzati si voltò a fissarci con fare comprensivo.

«Dimmi che vuoi che io parta, dimmi che vuoi stare con quel figlio di troia, dimmi che quando ti ho baciata non hai sentito assolutamente nulla» mi strinse il braccio e sentii i nervi protestare sotto le sue dita.

Dunque, avevamo scoperto il nervo principale di tutta quell’assurda pagliacciata.

E sicuramente non avremmo potuto parlarne lì, in quello spiazzo polveroso e con il rombo assordante di un aereo che decollava, diretto a Shangai.

E anche se avessimo preso tempo, non sarebbe cambiato nulla comunque. Se mio padre e mio fratello fossero tornati, non avrebbero mai accettato Alek e Sam non mi avrebbe mai più neppure guardata.

Ma era davvero un prezzo così alto? I sentimenti si potevano davvero pesare e scartare quelli in eccesso?

Scoccai un’occhiata rammaricata a quel volo. Alek doveva andarsene e questo era quanto.

«Voglio che tu parta» dissi stancamente, solo per sentirmi afferrare bruscamente per il mento.

«Ripetimelo».

E invece, mi ritrovai a studiare con languore i suoi occhi azzurri, fin troppo lucidi, fin troppo chiari.

Solo quattro parole.

«Voglio che tu parta» ripetei e trattenni il fiato, senza battere ciglio. Quel che mi esplose dentro, invece, non lo dimenticai mai e continuò a tormentarmi anche nei giorni a seguire. Fu lui il primo ad abbassare gli occhi e allontanarsi come se lo avessi profondamente ferito.

«È un addio?» domandò e il tono definitivo della sua voce non lasciava spazio ad equivoci.

«Sì», convenni, «è un addio».

Lo vidi avanzare di una sola, singola falcata e chinarsi sul mio orecchio.

«Il prossimo volo è alle venti di stasera. Io sarò qui. Pensaci».

Il suo sussurro, benché non avesse nulla di suadente o persuasivo, mi portò a tentennare, improvvisamente insicura.

Avrei voluto dirgli di restare, che avevo già sperimentato il senso tagliente della sua mancanza, che di Sam non me ne importava niente e che se ne sarebbe fatto una ragione.

Avrei voluto essere sincera, senza freni né limiti. Solo sincera.

Dirgli almeno che gli volevo bene e che non mi interessavano le sue intenzioni, giacché ero certa che fossero menzogne e che, in fondo, anche lui tenesse a me.

Forse avrei voluto dirgli anche che quel bacio mi aveva rammentato di essere viva più di quanto non avessero fatto le bombe o le risate di Jack o la solida presenza di Sam.

Ma tutto ciò che mi limitai a dire fu: «Addio, Alek».

Lo spinsi dolcemente via, sbattendo la portiera. Avrei voluto frenare, invertire la marcia e tornare da lui, eppure tenni le dita ben strette sul volante e vidi per quella che credevo essere l’ultima volta la figura di Alek che, lentamente, sbiadiva nella nuvola di terra rossa sollevata dagli pneumatici.

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Zanzanzan. Fine.

Teoricamente la storia finisce qui. E finisce proprio con questa conclusione all'americana, con l'automobile che si allontana in molte nuvole di terra rossa.

O almeno, questa era la fine che avrei desiderato, perché i presupposti per attuarla c'erano tutti. Ma praticamente non ho saputo resistere e mi sono rifatta nell'epilogo.

Alla fine è capitato che anche io mi sia innamorata di questi due e che mi sembrava giusto concedere loro il lieto fine, dopo tante tragedie e tanto angst.

Quindi, ai fan della Valek (ossì, ho dato anche i nomi alle ship, giusto per risparmiare tempo e caratteri) dico: state tranquilli, l'epilogo sarà di vostro gradimento.

Ai fan della Salerie (Sam/Valerie, per intenderci) invece dico: *patpat* vi rifarete nel sequel, se e quando verrà scritto.

Riguardo questo capitolo, ebbene, spero che sia stato confusionario abbastanza. Le molte frasi in corsivo - in chiaro disaccordo con il contesto in cui sono inserite - avevano il solo scopo di creare un senso di ansia e confusione, così da potervi far sentire più vicini a Valerie.

Se ci sia riuscita, ahimé, io non posso dirlo. Ma potete farlo voi; il mio invito a recensire è sempre valido.

Accidenti, mi sembra ieri che postavo il prologo e invece siamo già arrivati alla fine del viaggio!

Ebbene, stando così le cose, io mi sento in dovere di ringraziare tutte le persone che hanno recensito, tutte quelle che hanno inserito la storia tra preferite, ricordate e seguite.

E visto che siamo arrivati alla fine, mi tolgo anche il famoso sassolino nella scarpa: mi ha molto rammaricata vedere che questa storia è stata seguita da più di venti persone e che solo tre o quattro abbiano espresso il loro parere.

Una recensione non sarebbe costata nulla, se non qualche minuto del vostro tempo. E non dico questo perché mi premeva avere tante recensioni (della quantità, francamente, me ne sbatto, così come me ne sono sempre sbattuta e sempre ne ne sbatterò), ma perché mi premeva avere dei giudizi obiettivi e sinceri. Tant'è. Ovviamente io ci ho fatto il callo, ma molto bravi autori si scoraggiano proprio per questo e gettano la spugna, giacché si sentono poco apprezzati ad essere seguiti da tante persone ed essere poi ripagati con il nulla.

Ho sentito tante persone lamentarsi di autori bravi che hanno mollato EFP; ebbene, prima di lamentarsi forse occorrerebbe chiedersi perché quel tale autore o quella tale autrice abbiano chiuso la baracca.

Comunque, non spetta a me impartirvi ramanzine sulla moralità (credo che da una certa età in poi si abbia un minimo di autocritica e auto-giudizio) o roba del genere, perciò chiudo la parentesi.

Non sentitevi offesi, era qualcosa che mi premeva di dire sin dai primi capitoli e che tuttavia mi sono riservata per la fine.

 

Ciò detto, l'appuntamento ultimo è fissato per mercoledì prossimo, con l'epilogo.

Ancora una volta, grazie. È stato un bel giro.

 

 

 

Passo e chiudo.

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


Nuova pagina 1


 

 

 

 

«E poi cosa è successo? Mamma, dimmelo!»

La giovane scansò la frangia dalla fronte della figlia, chinandosi per baciarla.

«Questa è un’altra storia, tesoro. Adesso a letto, forza».

«Cosa vuoi che sia successo? Lui è tornato in Russia, vero mamma?»

Il bambino si stropicciò gli occhi, stiracchiandosi nel lettino fino a che la maglia del pigiama azzurro non scoprì la pancia piatta.

Sospirò pazientemente, la giovane donna, rimboccando per bene le coperte del bimbo.

«Non è vero, Hanks! Lei è tornata, lei lo amava!» protestò la bambina, stringendo i pugni.

«Ma per favore! Erano solo amici e lui era russo, non sarà di sicuro restato qui!»

«Bambini», li interruppe, «basta, su. È ora di dormire; magari domani vi racconto il seguito».

«Mamma, mamma aspetta! Dimmi almeno se lei tornò!» squittì, aggrappandosi al collo della ragazza.

Valerie sospirò, sedendo sul letto.

«Sì, tesoro, lei tornò».

«Oh! E lui cosa le disse?»

«Be’», temporeggiò, captando l’ombra di suo marito oltre la porta, «le disse che le voleva bene e che senza di lei proprio non poteva stare» tagliò corto, spingendola dolcemente sul materasso.

La ragazzina mugolò contenta, il fratello invece sbuffò.

«Che smidollato».

«Chi è uno smidollato?» domandò il padre, entrando in camera.

Valerie mosse la mano, sminuendo la questione.

«Nessuno, caro».

«Oh, papà, papà! La mamma ci ha raccontato una storia bellissima! Allora, ascolta: c’era questa ragazza americana e questo soldato russo che...» la bambina si lanciò in un dettagliato ma ristretto resoconto della storia che la madre le aveva proposto quella sera, lasciando infine un sorriso ironico sul viso dell’uomo.

«E, dimmi Val, che fine ha fatto quello smidollato russo?»

Valerie si strinse nelle spalle, baciando la fronte di ciascuno dei suoi figli, spegnendo quindi la luce.

Oltre la porta chiusa, i bambini borbottavano e discutevano della storia.

La ragazzina, Margo, propendeva al romanticismo; il maschio, Hanks, si mostrava più pratico e  cinico.

«Non dovresti raccontare queste cose ai ragazzini, sai come sono fatti» la redarguì bonariamente, baciandole la nuca scoperta.

Valerie rise.

«Tanto, prima o poi...»

«Già. Ma non mi hai detto che fine ha fatto quel russo idiota» la punzecchiò, tirandole una ciocca di capelli. Gli schiaffeggiò la mano, fissandolo con aria di rimprovero.

«Vaporizzato. Sparito nel nulla, per la gioia di lei».

Lui rise, baciandole le labbra.

«Spasibo» mormorò con una perfetta inflessione russa, abbracciandola.

Valerie sorrise.

«Spasibo a te, Alek».

«Allora», cantilenò lui, stringendole la mano per trascinarla in veranda, «raccontami cosa accadde quando lei andò a riprenderlo all’aeroporto».

«Bene», iniziò, schiarendosi la gola con fare saccente, «alle venti meno dieci minuti la ragazza correva a perdifiato nell’aeroporto e credeva che ormai fosse troppo tardi. Invece lui era lì, seduto, tutto triste e abbattuto...»

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Zanzanzan. Fine.

L'ho detto nello scorso capitolo, ma questa volta è la fine per davvero.

Gente, questo è un periodo intenso e turbolento, quindi il mio tempo è assolutamente limitato.

Pertanto, non mi dilungo oltre e ringrazio di cuore tutti coloro che hanno recensito (risponderò quanto prima), che hanno seguito questa storia e che l'hanno inserita tra preferiti e ricordate.

Questa storia è stata una bellissima esperienza e chissà che non ci si riveda presto con il sequel!

A risentirci presto! 

 

 

Passo e chiudo.

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