Come tutto ebbe inizio

di Msstellina001
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'arrivo ***
Capitolo 2: *** Un caffè al giorno toglie la rabbia di torno ***
Capitolo 3: *** McSteamy 2.0 ***
Capitolo 4: *** Pensa all'Africa ***
Capitolo 5: *** PALLOTTOLE, VISIONI, AEREI ***



Capitolo 1
*** L'arrivo ***


L'arrivo

Eccomi qua, di fronte a questo grandissimo ospedale, uno dei migliori ospedali universitari degli Stati Uniti. Hanno voluto me. Per sostituire il chirurgo che è morto, hanno voluto me. Sinceramente ho un po' di paura. Insomma adesso dipende tutto da me, non c’è più il Dottor Mckay che mi segue da vicino assicurandosi che non uccida nessun piccolo umano! D’ora in poi avrò i miei piccoli umani da accudire, vai Arizona Robbins sei un medico fantastico, forza, varca questa soglia ed entra nel tuo nuovo mondo!
“Permesso, mi scusi permesso!”
“Dottor Hunt desiderato al pronto soccorso”
“Allora hai sentito del nuovo sistema Arfi per rilevare la fibrosi cistica del fegato?”
Un gran numero di voci si accavallavano, ma sembrava che grosse emergenze non ce ne fossero visto il grande via vai di medici ed infermieri, la maggior parte con il caffè in mano, e la sala d’attesa per i parenti praticamente vuota.
Vidi passare un gruppo di ragazze in camicie rosa:
“Scusate, sapreste indicarmi l’ufficio del capo? Sono Arizona Robbins, il nuovo chirurgo pediatrico!”
Chiesi, accompagnando il tutto con uno dei miei speciali sorrisi, che molte volte mi aveva aiutato ad avere informazioni molto più personali di queste!
“Se vuole l’accompagno io!”
 Una ragazza mora con i capelli lunghi, leggermente sfumati di rosso, si fece avanti, anche lei aveva un bel sorriso e un volto leggermente arrotondato e bè, come “comitato di benvenuto” devo dire non era niente male!
Accettai volentieri e durante il tragitto cominciai a farle qualche domanda sull’ospedale e i vari dottori, mi disse che era molto difficile trovare qualcuno non fidanzato in quell’ospedale, ma che erano tutti bravissimi dottori e soprattutto ottimi chirurghi.
“E dimmi” le chiesi maliziosamente “ci sono tante dottoresse avvenenti come te in questo posto?!”
Premette il pulsante dell’ascensore e si girò a fissarmi negli occhi sfoggiando il sorriso più malizioso che avessi mai visto.
“Bè avvenenti come me è difficile trovarne! Anzi devo dire che io sono uno dei pochi casi!”
Bene sta al gioco, pensai continuando a sorriderle mentre entravamo in ascensore.
“Vede è stata anche fortunata” continuò “perché stasera sono a sua disposizione se vuole, visto che sono libera!”
“Oh ma perché aspettare fino a questa sera?!”
Mi avvicinai a lei, approfittando anche dell’ascensore vuoto e la baciai con passione, come se da quel bacio avessi dovuto ricavare l’energia per tutta la giornata. Le mie mani scorrevano lungo i suoi fianchi, le sue erano tra i miei capelli ricci e corti, ci baciammo a lungo senza quasi riprendere fiato.
Un secondo prima che l’ascensore si aprisse ci staccammo e ci incamminammo lungo il corridoio fianco a fianco, le nostre mani si sfioravano, ma non avevo nessuna intenzione di prenderla per mano.
Avevo voglia di leggerezza. Ero stata fidanzata a lungo con Julia alla Hopkins e come ci eravamo lasciate mi aveva distrutto. La nostra era una storia fatta di alti e bassi, dopo 2 anni che stavamo insieme, l’amore stava scomparendo, sostituito dall’abitudine. Finché un giorno non mi arrivò l’incarico da questo grande ospedale, era l’occasione della mia vita. Un grande ospedale, un grande reparto, avrei lavorato con grandi chirurghi, c’era solo il problema che Julia non voleva che andassi via ed in più io non credo nelle storie a distanza. La lasciai, dopo una lunga e sfibrante discussione, decidendo di prendere questa occasione al volo e precipitandomi a Seattle con il primo volo utile.
Adesso sì, tutto quello che desideravo era lavorare, fare grandi interventi e avere storie leggere.
Mentre camminavamo, m’indicò qualche medico informandomi su di loro:
“Quello è Derek Shepherd, o dottor Stranamore, un neurochirurgo fantastico, è famoso per i suoi casi impossibili e per i suoi capelli sempre perfetti! Sta con una specializzanda del terzo anno.”
Un dottore alto e muscoloso ci passò accanto e ci sorrise:
“Dottor Bollore” disse la mia accompagnatrice con un tono quasi indignato “o meglio Mark Sloan, sta attenta a lui, ci prova con tutte, sicuramente ci proverà anche con te, anche se devo dire che in questi ultimi giorni si è calmato … oddio non incrociare il suo sguardo per carità!”
Disse abbassando alla svelta gli occhi e fissando il pavimento mentre una signora bassa di colore ci passava accanto.
“Quella è la nazista, Miranda Bailey, meno hai a che fare con lei, meglio starai, è lo specializzando più terribile di tutto l’ospedale, quella donna  mi fa paura! Anzi ho anche seri dubbi che sia una donna!”
“Dai è veramente così terribile?” chiesi scettica.
“Lo vedrai, eccome se lo vedrai!”
Infine arrivammo davanti alla porta del capo, mi diede un bacio veloce sulle labbra e disse:
“Bene ora torno al lavoro, ti passo a prendere io in pediatria a fine turno stasera, poi ti porto da Joe”
“Joe? Non mi serve un uomo mi basti tu!”
“E’ il proprietario del bar qui vicino, scema, la sera ci ritroviamo tutti lì … vedrai ti piacerà! Ah comunque io sono Meg e sto in dermatologia!”
E se ne andò. Rimasi lì a fissarla mentre si allontanava, il camice le aderiva perfettamente al corpo, no non avevo fatto una cattiva scelta!
Mi girai a fronteggiare la porta e bussai, una voce profonda m’invitò a entrare. Il capo era seduto alla scrivania con addosso il camice blu, segno che in caso d’emergenza era pronto ad intervenire, alzò la testa dal foglio che stava consultando e mi guardò.
“Buongiorno sono Arizona Robbins, il chirurgo pediatrico, oggi dovrei iniziare a lavorare qui!” Dissi io molto timidamente.
“Oh sì il sostituto del dottor Kelly, ben arrivata, prego si accomodi così sistemiamo gli ultimi documenti e poi l’accompagnerò agli spogliatoi così potrà cambiarsi e iniziare a lavorare, ha già fatto un giro?”
“No ancora no, sinceramente!”
“Non importa, se avrò tempo l’accompagnerò io stesso! Siamo molto contenti di avere un elemento come lei nella nostra squadra!”
Mi cambiai negli spogliatoi, una grande stanza molto raffinata con tanti armadietti di legno e i tavoli al centro ingombri di fogli, segno che molti colleghi facevano le loro ricerche mediche là dentro. All’uscita trovai ad aspettarmi il capo Webber, che mi portò a visitare i vari reparti, io gli camminavo affianco o meglio, gli pattinavo accanto, visto che dalla Hopkins mi ero portata 3 cose: i miei 2 animaletti da attaccare al camice e le mie scarpe con i pattini a rotelle! Non so se il capo rimase sorpreso dalle rotelle, perché non disse niente, e gliene fui molto grata, giacché un suo commento negativo avrebbe portato la mia autostima a un livello veramente basso; già perché per me sarebbe stato molto più semplice abbordare dieci ragazze insieme, piuttosto che fronteggiare un mio superiore!
Ci fermammo in mezzo al reparto di pediatria, dove mi disse indicando una signora seduta dietro il bancone:
“Vede quella? E’ la dottoressa Bailey, responsabile di un suo caso molto particolare, si studi la cartella e vada a parlare con lei quando ha fatto! Arrivederci dottoressa, buon lavoro e …. benvenuta al Seattle Grace!”
Aggiunse scaricando sulle mie mani venti cartelle di tutti i miei piccoli umani.
Decisi di chiudermi in una stanza a studiare i miei casi prima di affrontare la nazista e quando mi sentii assolutamente ferrata sui miei pazienti, cosa che non richiese più di quindici minuti, andai ad affrontare la specializzanda più terribile dell’intero ospedale.
“Dottoressa Bailey?! Arizona Robbins, ho preso in carico i pazienti del dottor Kelly!”
 Dicendo ciò le tesi la mano e le sorrisi, sperando di accattivarmela un po’, ma non funzionò molto visto che lei con una faccia molto sorpresa mi rispose quasi scettica:
"E’ lei il chirurgo pediatrico?!" Mi strinse la mano con una stretta sbrigativa, e la voce che vibrava di tutta l’indifferenza possibile.
"Sì, lei assiste Jackson Prescott?! Sa con tutto il rispetto per il dottor Kelly, era un medico fantastico, ma mi sorprende che abbia seguito questo tipo di terapia per tanto tempo visto che … non … funzionava!” Continuai io sorridendo.
"Ehm …
"Uh no non sto criticando lei, non è stata una sua decisione!"
"No ma ho appoggiato quella decisione, non c’è stata ancora la svolta, ma … Kelly era certo che se avessimo continuato come stavamo facendo …"
"Il caso di Jack è molto serio e in più …"
"JACKSON"
"Mi scusi?"
"Jackson è il suo nome e se lei sta insinuando che l’abbiamo torturato con interventi inutili …"
"Tanti chirurghi pediatri anziani ritengono che la stricturoplastica funzioni e a volte hanno ragione! Quindi oggi la faremo! Ma con la sua epatopatia dovremo cercare altre soluzioni! Devo scappare … il dottor Kelly aveva molti pazienti! Ci vediamo in sala operatoria!"
E me ne andai lasciandola basita correndo sui miei pattini a rotelle. Così in neanche tre ore dal mio arrivo mi ero appena fatta nemica la Nazista, avevo venti bambini in cura di cui dieci in fin di vita, cinque dei quali avevano avuto trattamenti sbagliati e tutti da rivedere.
Sì questa avventura al Seattle Grace si stava rivelando veramente molto difficile, ma se avevo tenuto testa agli specializzandi del mio corso in qualità di loro capo, non vedevo perché non avrei potuto riuscire a tener testa ad un reparto e … alla NAZISTA!
 
 
 
 
 
Per ora questo è il primo capitolo, spero vi sia piaciuta, magari se potreste commentare e farmi sapere cosa c’è che non va, cosicché io possa migliorare, ve ne sarei molto grata! Comunque la mia idea di Arizona sul lato sentimentale è paragonabile a Mark Sloan, solo al femminile, quindi non sorprendetevi se almeno all'inizio la troverete molto materiale e poco romantica.

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Capitolo 2
*** Un caffè al giorno toglie la rabbia di torno ***


UN CAFFE’ AL GIORNO TOGLIE LA RABBIA DI TORNO
 
“Jenny Williams, anni cinque, ricoverata per convulsioni prolungate e ripetute,non è stata fatta ancora nessuna diagnosi, l’anamnesi completa ci è già stata mandata dal pronto soccorso, ha avuto un ulteriore attacco dieci minuti fa ed è stata trattata con Diazepam”.
Il mio specializzando aveva appena finito di presentare il caso della mia ultima paziente di quella mattina, io mi apprestai a controllare la cartella della bambina prescrivendo tutti i vari esami che le avrei fatto eseguire dai miei specializzandi.
“Allora Jenny, adesso vedi questi signori qui?” La bambina fece sì con la testa senza riuscire a parlare, io proseguii, rivolgendomi più a lei che a sua madre: “Adesso ti prenderanno un po’ di sangue e ti faranno qualche piccolo test, così appena mi daranno i risultati verrò subito da te e ti dirò cos’è quella brutta cosa che ti fa tremare tutta, ok?”
“Ma fa male?” Mi sentii chiedere dalla bambina con una vocetta spaventata.
“Tranquilla, non sentirai nulla, e poi se farai la brava, come sei stata finora, ci sarà una sorpresa per te!”
La bambina sembrò rassicurarsi, affascinata dalla prospettiva di chissà quale regalo, ma sembrava volesse chiedermi qualcos’altro, ma forse si vergognava troppo per farlo, così la incoraggiai a parlare regalandole un altro sorriso raggiante:
“Mi piacciono tanto le tue scarpe! Le posso provare anch’io?” Fece con quella sua voce lieve.
Io le sorrisi, mentre sua madre con gli occhi mi chiedeva scusa, io le dissi: “Molto meglio, te ne troverò un paio della tua misura e te le regalerò!”
Non c’era niente di più bello da vedere, che quegli occhi marroni che brillavano dalla contentezza.
“Bene! Signora mi dispiace ma ho un intervento adesso, se ha qualche domanda si rivolga pure ai miei abili specializzandi, altrimenti verrò da voi più tardi”.
Uscii dalla stanza con ancora in mente la faccina allegra e paffutella della bambina. Adoravo i miei pazienti, i miei piccoli umani, era grazie a loro se riuscivo ancora a sorridere dopo che mio fratello era … dopo che mio fratello se ne era andato. Guardare i sorrisi che ti facevano, anche se pativano mille dolori, come lottavano contro ogni ostacolo, mi aveva fatto capire che nella vita bisogna sempre guardare al futuro, che il dolore esiste, ma per nessuna ragione al mondo ci si deve abbandonare a esso.
C’è chi pensa che i pediatri siano tutti “coccole e sorrisi”, nessuno capisce quanto la pediatria sia da duri, si vedono bambini che soffrono ogni giorno, il loro futuro è tra le tue mani, una vita intera da regalargli.
Mi piace concentrarmi sui miei piccoli umani, faccio del mio meglio per dargli ciò che hanno bisogno e molte volte lotto contro un mostro che è difficile da sconfiggere, ma quando ce la faccio, quando finalmente quell’essere immondo, non cerca più di attentare la vita dei miei pazienti, la gioia che sanno regalarti i bambini mi ripaga di ogni fatica e ogni sforzo.
Mi incamminai verso il bancone per prendere la cartella. L’immagine del mostro si riaffacciò sulla mia mente, pensare a certe cose pochi minuti prima di un intervento non è la cosa migliore. Stavo per fare un intervento che non ero d’accordo di fare, il primo giorno di lavoro, per le mie idee avevo già litigato con la Bailey e per via dei miei pattini a rotelle mi sentivo molto osservata mentre andavo per i corridoi, un gran bel primo giorno non c’è che dire.
Aprii la cartella e rileggendo gli esami già svolti e le procedure cui era stato sottoposto quel bambino, ero ancora fermamente convinta che quell’intervento fosse uno sbaglio. Se si continuava così, nel peggiore dei casi, quel bambino, rischiava di rimanere con dieci centimetri d’intestino. Questa procedura non l’avevo scelta io, ma il mio predecessore e l’ultima cosa che volevo fare era passare per una “perfettina so-tutto-io”, quindi avevo deciso di non cambiare approccio, ma fare un intervento che non si è convinti di fare, mi avevano sempre detto che era la cosa più sbagliata da fare.
Arrivai in sala operatoria e cominciai a lavarmi, mi piaceva l’odore di quel posto, la sala operatoria può far paura, ma in realtà molte volte è il posto più sicuro che esiste sulla faccia della terra.
L’acqua mi scorreva tra le mani, donandomi una sensazione di freschezza, proprio quello che serve per calmare i pensieri. Si aprì la porta all’improvviso ed entrò la Bailey, quando si accorse di me, si arrestò, ebbi come la sensazione di essere trapanata dal suo sguardo scrutatore, ma non ero disposta a tollerare oltre questo comportamento, soprattutto da una specializzanda, così mi girai e la fissai dritta negli occhi a mia volta.
S’instaurò una strana lotta di sguardi, ognuna delle due sapeva che chi avesse distolto lo sguardo per ultima avrebbe avuto la supremazia sull’altra, quasi la sfidavo a rivolgersi a me con qualcuna delle sue famose frecciatine un po’ scorbutiche, ma non lo fece, si limitò a fissarmi. A interrompere quella lotta che si era creata, ci pensò Karev che entrò nella stanza per lavarsi anche lui.
Distogliemmo lo sguardo l’una dall’altra contemporaneamente e finiti di esserci disinfettati entrammo in sala, indossammo i camici e ci appestammo al bambino che l’anestesista aveva già sedato.
Una volta aperta la pancia del bambino, mi resi conto che la situazione era proprio disastrosa, come mi ero immaginata e lo feci presente ai miei colleghi:
“Accidenti, guarda qui che disastro? Gli rimarranno forse dieci centimetri d’intestino quando avremo finito.”
Feci con il tono più sicuro che potessi avere, anche se sentii lo stesso che la mia voce tremava lievemente.
“Calma, calma, non possiamo provare con la tecnica di Bianchi per vedere se possiamo salvarne di più?” Ribatté prontamente la Bailey sempre con quel suo tono un po’ superiore. Io cominciavo a non tollerare oltre il suo comportamento, avevo sperato che la lotta di sguardi di qualche ora prima l’avesse calmata un po’, che le avesse fatto capire quale era il suo posto, ma a quanto pare non era servito a nulla e così sempre cercando di rimanere il più calma possibile le cercai di fare capire quello che lei si ostinava a non voler afferrare:
“L’intestino è morto e il fegato è cirrotico, non c’è più niente da salvare.”
“Sì, ma-”
“DOTTORESSA BAILEY, ” le dissi cominciando a spazientirmi, alzando la voce “questo bambino doveva essere messo in lista per il trapianto almeno un anno fa, è un miracolo che sia ancora vivo.”
Le mie parole finalmente ebbero l’effetto che avevo desiderato, perché la Bailey ammutolì, cominciando a fissarmi con uno sguardo spaventato.
Prima di uscire dalla sala commissionai dei prelievi per testare la funzionalità epatica di Jackson.
Lo avevo detto che era un approccio sbagliato e adesso questo bambino rischiava la vita, per colpa di un dottore incompetente.
 La rabbia che avevo cercato di domare cominciò a impossessarsi di me, uscii dalla sala buttando in malo modo il camice dentro il secchio, mi lavai alla svelta e uscii dalla sala. Da ora in avanti si sarebbe fatto di testa mia.
Andai di persona a riprendere i risultati al laboratorio, odiavo sbagliare, odiavo far soffrire un paziente inutilmente, odiavo ancora di più che il ragazzo non stava male per un errore commesso da me, ma per l’errore di qualcun altro.
Avevo bisogno di un caffè, era l’unica valvola di sfogo che avevo, quando ero stressata, arrabbiata, stanca, io bevevo caffè. Approfittando del fatto che i risultati ci avrebbero messo un po’ a essere prodotti me ne andai verso la caffetteria, erano le due del pomeriggio quindi la trovai molto affollata, presi il mio caffè e già al primo sorso, l’umore tornò un po’ più normale, mi appoggiai ad un tavolino gustandomi la mia bevanda, guardandomi un po’ attorno.
Il dottor Shepherd stava attraversando la caffetteria parlando con un dottore dai capelli rossi, poi si fermò a parlare a un tavolo, dove era seduto il dottor Sloan e un’altra ragazza che mi dava le spalle, mi soffermai su di lei a lungo.
C’era qualcosa che mi attirava, aveva il camice da specializzando, una folta chioma di capelli scuri, che mi ricordavano quelle notti buie senza luna, in cui amavo passeggiare per le strade isolate immergendomi nel silenzio che mi circondava.
Avrei quasi voluto infilare la mia mano tra quei capelli, sentirli morbidi sulle mie dita. In più notai, aveva un modo di comportarsi, strano. Come se cercasse di farsi più piccola, e di non farsi notare. Non muoveva il viso introno, come se avesse paura di incrociare lo sguardo di qualcuno, quando riuscii a guardarla in volto, notai che aveva  due bellissimi occhi, profondi e leggermente affaticati.
 Avevo lo strano impulso di alzarmi e andare ad abbracciarla, ma no, non potevo permettermelo.
 Non potevo permettermi di prendermi una cotta per una sconosciuta qualsiasi. Avevo Meg per ora, poi ce ne sarebbe stata un’altra e poi un’altra e un’altra ancora.
 Anzi prima di Meg avevo Jackson e pensando al mio piccolo umano mi alzai e mi diressi in laboratorio, imponendomi di non girarmi a guardare verso il tavolo della specializzanda.
Quando ricevetti i risultati, il quadro di Jackson si fece ancora più grave, il fegato non funzionava in pratica più, quel bambino sarebbe sopravvissuto molto poco se non gli avessimo trovato degli organi al più presto.
Tornai a reparto per aggiornare la cartella di Jackson, mentre i miei specializzandi mi osservavano e mi vedevano scuotere la testa molto contrariata. La rabbia stava cominciando a tornare.
Sentii i passi della Bailey avvicinarsi e, infatti, poco dopo parlò rivolgendosi a Karev:
“Perché scuote la testa?”
“La funzionalità epatica di Jackson.” Cominciò a risponderle Karev.
Io intervenni:
“Questo ragazzo va messo in lista per il trapianto, oggi.”
“Solo l’intestino o”chiese la specializzanda.
“No anche il fegato.” Continuai io senza lasciarla terminare, ma la Bailey, di nuovo, non era d’accordo, infatti, disse con tutta la "faccia tosta" che aveva:
“Credo che dovremmo sentire un altro parere.”
Cominciavo proprio a non sopportarla più. Presi un foglio e le scrissi il nome del mio primario alla Hopkins, di lui mi fidavo e lui si fidava di me, ma era solo una perdita di tempo, tempo prezioso per il bambino.
“Norman Mckay alla Hopkins” dissi porgendole il bigliettino “primario di chirurgia pediatrica, gli dica che è da parte di Arizona, quando le dirà che Jackson ha bisogno di un trapianto, cosa che farà dopo due minuti, mettetelo in lista.”
Avevo cercato di mantenermi tranquilla, ma un po’ della mia irritazione doveva aver cominciato a trapelare, infatti, la Bailey ribatté:
“Non ha ragione di essere sgarbata con me”.
Di tutte le cavolate che avevo sentito quella, era la più grande:
“Veramente sì, non ha fatto che mettermi in discussione da quando sono arrivata e la capisco, si fidava del dottor Kelly, io sono un’estranea con la coda di cavallo, ma non sono io il problema, è il paziente. QUINDI perché non la smette di pensare a me e non si concentra sul paziente? A Jackson serve un trapianto e se continuiamo a perdere tempo, non ce la farà.”
Detto questo me ne andai. Avevo assolutamente bisogno di un altro caffè.
La giornata proseguì, quasi normalmente, ebbi due emergenze in pronto soccorso, e cominciai la terapia a Jenny, ordinai in internet le scarpe per lei, e poi finalmente venne la sera.
Meg si presentò come aveva detto a fine turno, mi lasciò giusto il tempo di mettere a posto le mie cartelle, poi mi prese la mano e come una furia mi trascinò fuori dall’ospedale verso questo famoso bar.
“Ricordati che io questa notte son reperibile, quindi non posso fare tanto tardi e, sinceramente, avrei preferito passare la serata noi due sole, non tu io e altre mille persone al bar!” Le dissi un po’ contrariata.
Odiavo quando la gente decideva per me. Le decisioni che mi riguardavano, anche quelle più sciocche, dovevano essere mie e non manipolate da altri. Soprattutto non da qualcuno che neanche conosceva i miei gusti.
Lei continuando a camminare si mise a ridere e disse:
“Tranquilla non faremo tardi, poi vedo che sei di cattivo umore e non c’è niente di meglio che sfogarsi assaporando un po’ di cocktail di Joe!”
“Avrei preferito assaporare qualcos’altro …. anzi … qualcun’altro, per sfogarmi!” Le dissi con il  mio tono malizioso.
Lei mi guardò, poi con un largo sorriso mi disse:
“Tranquilla, per quello abbiamo le nostre amate stanze dei medici di guardia! Se sei reperibile, tanto vale andare a dormire direttamente in ospedale!”
“Perfetto, ma ti avverto, che non ho molta voglia di dormire!”
“Ancora meglio allora, perché neanche io ho molto sonno!”
La serata si faceva ancora più interessante della giornata!
Intanto eravamo entrate nel bar, che era affollatissimo. Sembrava che tutto l’ospedale si fosse riversato in quel locale. Era arredato come la maggior parte di tutti i bar, un gruppo di persone giocava a freccette, molte altre erano appoggiate al bancone del bar, cercando di fare le loro ordinazioni e altre ancora erano sedute ai vari tavoli con i bicchieri in mano.
Meg mi trascinò verso un gruppo di ragazze, che scoprii poi, com’era facile da immaginare, erano tutte dottoresse e infermiere dei vari reparti dell’ospedale.
La serata proseguì fino a tardi, risi e scherzai molto. Credo che una ragazza ci provò anche con me, ma Meg mi controllava così stretta che avevo poche possibilità.
Alla fine quando ormai erano le due di notte passate, decidemmo di tornare in ospedale, le misi la mano in una spalla e la tirai via, ma eccola lì.
Nel momento in cui mi girai per andare verso la porta, vidi la specializzanda della caffetteria.
Era seduta al bancone, intenta a fissare Joe, accanto a lei, il dottor Sloan si era appena alzato per raggiungere un’altra ragazza, con la quale andò via insieme. Vidi la specializzanda voltarsi verso una ragazza bionda, ma subito distolse lo sguardo, come se fosse spaventata e tornò a fissare Joe. Sarei voluta andare verso di lei e darle qualcosa di meglio che un barista da fissare, ma Meg ormai premeva per andarsene.
Quanto a me, cercai di ripetermi che della specializzanda non doveva importarmi nulla, ma andare via da quel locale senza averle detto anche solo un ciao, fu la cosa più difficile della mia vita, come se una forza magnetica mi attraesse verso di lei. Una forza misteriosa, ancora più potente della gravità.
Ma con un ultimo sguardo alle mie spalle uscii dal locale, in fondo avevo tutto il tempo del mondo.
 
 
Ecco il secondo capitolo. Vorrei ringraziare chi ha letto la storia e soprattutto chi ha recensito. Grazie a Elizabeth che è stata così disponibile. Spero che questa parte vi piaccia più della prima, sto cercando di migliorarmi. Fatemi sapere cosa ne pensate. Grazie mille.

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Capitolo 3
*** McSteamy 2.0 ***


Veramente grazie a tutti quelli che continuano a leggere. Grazie a tutti quelli che hanno recensito, commentato chiedendo di aggiornare. Mi scuso per l’attesa, ma ho avuto da fare con l’università. Grazie ancora a chi ha messo tra le preferite e le seguite questa storiella. Buona lettura e spero vi piaccia, ma vi avverto, è un capitolo un po’ particolare, diciamo.
 

McSteamy 2.0
 
Me ne stavo sdraiata sul letto di quella stanzetta buia, le mani intrecciate sotto la testa, ascoltavo in silenzio i rumori dell’ospedale che cominciava a svegliarsi, era stata una notte tranquilla, nessun cercapersone aveva suonato, nessuno ci aveva interrotto.
Meg si girò su un fianco e mise un braccio intorno alla mia vita, era arrivato il momento di andarmene.
Le spostai il braccio e raccolsi i pantaloni da terra, cercando di fare il più piano possibile, ma il cercapersone cadde dalla tasca con un tonfo sordo.
“Dannazione!” Esclamai.
Meg si svegliò e tenendosi le coperte attorno alla vita si mise a sedere.
“Dove stai andando?” Disse ancora mezza addormentata.
“Vado via, il mio turno di reperibilità sta finendo, me ne torno a casa.” dissi in tono freddo e distaccato.
“Non ci vedremo un’altra volta, vero? ” Disse con un tono sconfortato.
“No, non ci sarà un’altra volta. Ci sarà solo questa volta. Non voglio storie serie, te l’ho detto” Avevo cercato di evitare proprio questo momento.
Stare lì a cercare di far accettare, senza troppi drammi, il fatto che io non volessi storie lunghe, m’infastidiva. Le persone si facevano attese anche solo dopo una notte, ma io avevo i miei progetti, in più la mia voglia di incastrarmi in un’altra relazione disastrosa come quella con Julia era pari a zero.
Tra di noi calò il silenzio, potevo quasi sentire il rumore dei suoi pensieri che lottavano tra di loro, cercavano un modo per farmi rimanere, ma anche volevano convincerla a lasciarmi andare.
Approfittai di quel silenzio per finir di vestire, m’infilai il cercapersone in tasca e mi chiusi la porta alle spalle senza voltarmi, sentii qualcosa infrangersi contro il muro.
Decisi che prima di tornare a casa avrei fatto un giro nelle camere, per vedere se i miei piccoli umani avessero bisogno di qualcosa. Tutti dormivano beatamente, chi aveva tra le braccia un peluche, chi stringeva la mano della mamma o del papà che vegliavano il loro sonno, c’era un bambino che si era addormentato tenendosi le dita dentro le orecchie, molto probabilmente il rumore della macchina che lo aiutava a respirare gli dava troppo fastidio, così andai là e abbassai il volume, ma all’improvviso qualcuno tossì alle mie spalle.
“Scusi dottoressa che sta facendo?”
 Mi voltai a guardare chi avesse parlato e vidi sulla porta un’infermiera che mi guardava con sguardo torvo.
“Non credo di dover dare spiegazioni a lei.” Dissi aspramente.
“No, in realtà mi deve dare spiegazioni, visto che sta toccando il macchinario che tiene in vita il bambino. Ha deciso di cambiare un’altra volta il protocollo di Mich e lo fa nel cuore della notte, senza avvertire me e le mie colleghe che abbiamo il compito di controllarlo?” Aveva detto, continuando a mantenere lo sguardo torvo.
”Sto abbassando il volume del macchinario, poiché, evidentemente” e indicai il bambino con le dita nelle orecchie “da fastidio al bambino!” Le dissi sfidandola a ribattere qualcosa.
Che cosa credeva? Che volessi far del male al mio piccolo umano?
Lei continuò a fissarmi, in silenzio, era appoggiata allo stipite della porta, lo sguardo un po’ stanco, una mano sul fianco, i capelli scuri corti, un po’ spettinati, doveva aver lavorato tutta la notte.
“Allora hanno ragione le altre infermiere, quando dicono che lei si affeziona veramente ai suoi pazienti!” Spezzò il silenzio all’improvviso.
“Perché aveva qualche dubbio?” Le dissi, incerta se mi stesse facendo: o un complimento o una critica per il mio comportamento.
“Bè non può darmi torto, lei ha già la fama di essere un po’ eccentrica!” Alzò le spalle a modo di scuse.
“Eccentrica? Io? Chi mette in giro queste voci?!” Cominciai a chiedere in tono divertito. Neanche un giorno e già avevo la fama di eccentrica, qui e qualche settimana come mi avrebbero chiamato?!
“Credo che sia lei stessa a far di tutto per mettere in giro queste voci! Insomma, se ne va in giro ridendo a destra e sinistra, gli occhi le brillano in continuazione, un bambino si aggrava e lei diventa triste quasi più dei genitori del paziente, in un giorno solo ha cambiato praticamente tutte le procedure dei suoi pazienti e soprattutto” si bloccò incerta se continuare o no.
Mi lanciò uno sguardo per tentare di capire dalla mia espressione, se si era spinta troppo oltre.
Io le sorrisi per tranquillizzarla, sembrò funzionare, infatti, continuò più risoluta.
“Dottoressa, mi scusi, ma è lei quella che va in giro con dei pattini a rotelle ai piedi! Sinceramente da queste parti, non si è mai visto nulla del genere!” Scoppiai a ridere fragorosamente!
Il bambino si mosse scoprendosi, l’infermiera si precipitò a ricoprirlo, e mi ammonì con lo sguardo, rimasi ancora più colpita, essere rimproverata da un’infermiera non mi era mai capitato, anche perché di solito avevo un buon rapporto con loro.
“Già, credo che la cosa dei pattini a rotelle, sia un po’ eccentrica per tutti voi! Ma mi ci trovo così bene che non voglio assolutamente abbandonarli!” Dissi a bassa voce, per non svegliare Mich, continuando a trattenere le risa a stento.
“Per carità, se la fanno lavorare bene, continui pure ad indossarle, ma non si dispiaccia se molto presto la chiameranno tutti pattini a rotelle! Sa qui le voci e i soprannomi viaggiano in fretta!” Un sorriso apparve nel suo volto sempre più stremato. Stavo per risponderle quando si sentì un campanello suonare, lei si mise subito in allerta, mi lanciò uno sguardo di scuse e corse via.
Non ebbi neanche il tempo di fare un passo per uscire dalla stanza che il mio cercapersone cominciò a squillare. Abbassai lo sguardo, sullo schermo le parole “911 camera 15” s’illuminavano a intervalli regolari.
La mente si annebbiò un istante, ma fu subito rimpiazzata dalla solita calma che mi pervadeva nei momenti d’emergenza.
Mi precipitai verso la camera, Jenny era in preda a convulsioni molto forti, sua madre stava ai piedi del letto cercando di mantenere la calma e l’infermiera di prima, stava sistemando bene il cuscino sotto la testa di Jenny.
Prima di intervenire con qualche medicinale, decisi di aspettare qualche minuto per vedere se la convulsione si fosse placata da sola e fortunatamente dopo pochi minuti, tutto tornò alla normalità.
La bimba tornò in sé, spiegai alla madre che quello era un buon segno, infatti, voleva dire che la terapia cui l’avevo sottoposta stava facendo effetto, le feci anche notare che quella era la prima convulsione che aveva dopo un intero giorno ed era durata solo pochi minuti e non dieci o più.
Decisi che per il giorno dopo l’avrei sottoposta a un EEG, così da cercare di capire se fosse o no un caso neurologico.
Uscii dalla stanza seguita dall’infermiera, era completamente stravolta, io avevo dormito poco, anzi per nulla, ma ero stata sdraiata a letto fino ad almeno un’ora prima, lei molto probabilmente ancora si doveva sedere dall’inizio del turno.
“Le posso offrire un caffè?” Le chiesi, cercando di ridestarla.
“Un caffè? No grazie! Tra poco il mio turno finirà e ho già un altro appuntamento! Ho bisogno di rilassarmi un po’! Comunque, dottoressa, mi dia del tu, io son Tia, lavoro nel suo reparto e credo che avremo molte occasioni per prendere un caffè insieme se le va!” Mi disse accennando un sorriso.
Le sorrisi e la salutai con “A presto allora Tia!” e uscii dal reparto dirigendomi verso gli spogliatoi.
Mi cambiai e mi avviai verso casa.
La mia macchina viaggiava tranquilla per la strada semideserta della città, la radio accesa emanava una musica leggera e allegra per tutto l’abitacolo. Una volta arrivata parcheggiai, il bar di fronte al mio palazzo aveva aperto proprio in quel momento, mi ricordai che in casa non avevo nulla da mangiare, così entrai e mi comprai un cappuccino e due cornetti. Stavo per uscire, quando mi sentii chiamare:
“Arizona? Che fai te ne vai senza salutare?!” A queste parole mi girai, avevo riconosciuto la voce un po’ nasale, della mia vicina di casa, che mi aveva fatto compagnia le prime notti che avevo passato a Seattle, pochi giorni prima di iniziare a lavorare al Seattle Grace.
“Mia! Cosa ci fai qui? Non dovresti ancora essere a letto?” Chiesi divertita, molto probabilmente aveva appena scaricato la sua nuova conquista della nottata e a giudicare dall’ora troppo mattiniera, aveva cercato di liberarsene al più presto!
“Lasciamo perdere, mi ero abituata troppo bene con te! Sei sola? Ti va di farmi un po’ di compagnia?” Il suo sguardo prometteva tutto, tranne che ci saremmo annoiate, i capelli corti neri, quasi rasati, molto spettinati, le davano quel tocco di selvaggio che usava come arma segreta, gli occhi verdi brillavano come diamanti. Io a quel punto ero sveglia più che mai, così accettai, lei prese la sua colazione ed entrammo nel palazzo.
Pigiò il tasto del suo piano, di solito eravamo state sempre da me, poiché lei viveva con sua sorella, così la guardai con un’espressione interrogativa. Ci mancava solo che la sorella ci scoprisse insieme e si arrabbiasse, non sapevo in che rapporti erano, ma non avevo voglia di assistere a una tragedia familiare. Lei sembrò leggermi nel pensiero, poiché disse:
“Mia sorella è al lavoro, non so a che ora torna, poi a lei non importa con chi sto o chi non sto, l’importante è che non le tocchi le sue belle conquiste!” La mia espressione dovette essere molto eloquente, perché lei continuò ridendo.
“Non provare a fare strani pensieri su mia sorella, non ho intenzione di fare a metà con lei!” E scoppiammo in una fragorosa risata, mentre entravamo nel suo appartamento.
Non era grandissimo, aveva due stanze, un grande salone con la cucina, le pareti erano colorate di mille colori. Entrammo in camera sua sedendoci sul letto e siccome avevo fame, tirai fuori i cornetti. Lei balzò in piedi, uscì dalla stanza e dopo due secondi era già tornata con un barattolo di cioccolata fusa e la panna montata.
Inizialmente cominciammo a spalmare il tutto sui cornetti, ma poi, ridendo e giocando ci ritrovammo tutte coperte di cioccolato: le mani, le guance, i nasi.
Lei rideva come una matta, il viso sporco di cioccolato, stando sdraiata sulla schiena, le alzai piano la maglietta, le spruzzai un po’ di panna sull’ombelico e mi chinai con la bocca per pulirla. Cominciai a baciarla salendo sempre più, un bacio e uno spruzzo di panna, poi di nuovo un bacio. Le tolsi la maglia e mi girai per posarla lontana dal letto, lei ne approfittò per abbracciarmi da dietro, cominciò a baciarmi delicatamente il collo spostandomi i capelli, sentii la sua mano sulla mia schiena, la mia maglietta venne sfilata, smise di baciarmi e sentii qualcosa di fresco lungo la schiena, poi un altro bacio, l’odore di cioccolato sulla mia pelle si espanse per tutta la stanza.
La feci distendere sul letto baciandola, il sapore della panna e del cioccolato si unì nelle nostre bocche..
Era tutto molto dolce.
Quando mi svegliai, avevo ancora tracce di cioccolato addosso, così mi alzai per andare a fare una doccia, ma quando uscii dalla camera di Mia, ebbi un "incontro" davvero simpatico.
Mi ritrovai faccia a faccia con Tia, che si doveva essere appena svegliata, era in mutande e reggiseno anche lei e nessuna delle due fece grandi sforzi a coprirsi, ma anzi io le sorrisi e lei scoppiò a ridere.
“Allora mia sorella ha colpito di nuovo? Lei lo sa che Mia è un tipo da una notte e via vero? Non vorrei che poi lei se la prenda con me, perché mia sorella non ha richiamato!”
“Non ti preoccupare Tia, so che persona è tua sorella, io e lei vogliamo le stesse cose, quindi non ti preoccupare!” La rassicurai sorridendo.
All’improvviso le porte delle camere si aprirono e da una uscì Mia e dall’altra una ragazza, che riconobbi come quella che ci aveva provato con me la sera prima, mentre ero con Meg da Joe. Ci fu un momento di silenzio, poi Mia scoppiò a ridere e andò a prendersi un caffè, io mi diressi verso il bagno e la ragazza salutò Tia dicendole di chiamarla quando avrebbe voluto vederla.
La doccia mi servì proprio, mi rilassò la mente pronta ad affrontare un altro pomeriggio intenso in ospedale, pensai a Jenny, a Mich, a Jackson, dei cui organi ancora non se ne sapeva nulla, pensai agli altri diciassette bambini che mi aspettavano nei loro letti d’ospedale. Uscii dalla doccia e mi frizionai i capelli con l’asciugamano.
Una volta pronta uscii dal bagno, salutai Mia, Tia mi chiese di darle un passaggio all’ospedale perché anche lei faceva il pomeriggio, chiudendo la porta, notai lo sguardo di Mia, era mediamente gelosa nel vederci uscire insieme!
Al mio arrivo trovai ad aspettarmi due nuovi pazienti: Marie con l’appendice infiammata e Rose a cui avrei dovuto togliere le tonsille.
Il pomeriggio fu molto frenetico, andarono in arresto due bambini a distanza di dieci minuti l’uno dall’altro. Il carrello delle emergenze passò da una camera all’altra in un secondo, le mie rotelle quasi fumavano per quanto le feci correre in quei minuti.
La dottoressa Bailey, ogni ora, veniva a chiedermi se c’erano novità sugli organi per Jackson.
Jenny scoppiò a piangere mentre faceva l’EEG e nemmeno sua madre fu in grado di calmarla, così mi chiamarono disperati, sperando che con me si calmasse. Fortunatamente con qualche parola "dolce" e qualche sorriso riuscii nel mio intento.
La mia specializzanda, Stevens, scambiò le cartelle dei miei pazienti, quasi rischiando di dare degli anticoagulanti a un bambino che aveva bisogno al più presto di fattore ottavo e coagulanti simili. Fortunatamente Tia se ne accorse in tempo per avvertirmi, così in tutto quel trambusto dovetti anche perdere tempo a rimproverarla per la sua incredibile negligenza, con una sfuriata tale che tutto l’ospedale tremò.
Mich continuava a cercare di staccare la macchina che lo aiutava a respirare, poiché il suo suono gli dava fastidio, con il risultato che dovevamo controllarlo di continuo, infatti, i suoi genitori non potevano venire perché dovevano lavorare. Per tentare di risolvere la situazione mi venne l’idea di regalargli dei paraorecchi a forma di elefante, che avevo visto nel negozietto davanti all’ospedale e fortunatamente funzionò. Faceva ridere quel bambino con degli elefanti che gli uscivano dalle orecchie, ma almeno si era calmato e noi potevamo stare tutti più tranquilli.
La sera ero stremata, avevo la testa che mi scoppiava, le poche ore di sonno che avevo avuto cominciavano a farsi sentire. Mi appoggiai al bancone del reparto, ora momentaneamente tranquillo, non avevo voglia di tornare a casa, ero sicura che una volta varcata la soglia del mio appartamento , il mio cercapersone avrebbe cominciato a squillare, quindi decisi che anche per quella notte avrei dormito lì.
Mi avviai verso lo stanzino del medico di guardia, misi la mano sulla maniglia della porta, quando ne apparve un'altra dal nulla e mi cinse il fianco destro, un’altra mano scostò i miei capelli dall’orecchio e poi un sussurro:
“Vuole un po’ di compagnia, dottoressa?”
La donna cominciò a baciarmi dolcemente il collo, mi girai sorridendo, le misi le mani ai fianchi e le diedi un bacio molto lungo. Mi staccai e le aprii la porta facendole un inchino.
Tia entrò, prese la mia mano e mi costrinse a seguirla.
Neanche quella notte avrei dormito molto!

 
 
Lo so, questo capitolo non è il massimo, c’è molta Arizona in versione “Mark-in-gonnella”, poco ospedale e poca Callie soprattutto, ma se avete la pazienza di aspettare e di continuare a leggere arriverà molto presto! Un capitolo così lo dovevo fare, per far uscire il lato da “sciupa - femmine” della mia Arizona. Perdonatemi se non è proprio bellissimo, ma sto cercando di fare del mio meglio. Fatemi sapere cosa ne pensate grazie, è importante per me.

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Capitolo 4
*** Pensa all'Africa ***


Vorrei ringraziare tutti quanti. Chi legge, chi segue questa storiella, chi ha recensito e chi l’ha messa tra i preferiti. Molto probabilmente non vi piacerà Arizona in alcuni punti, mi dispiace, ma è l’idea che mi son fatta di lei! Buona lettura e grazie ancora a tutti.
 

PENSA ALL’AFRICA
 
Mi rigirai per la settecentesima volta sul letto.
Quella notte, diciamo dopo cinque giorni di stanzetta e case di altre, era la prima notte che passavo da sola.
In casa mia, sola.
Nel mio nuovo appartamento a Seattle, sola.
Avrei dovuto dormire tranquilla, eppure mi sentivo, in un certo modo, sola.
Non era una solitudine fisica, era una cosa che sembrava stare nel mio cuore, nel mio animo.
Era come avere la sensazione di essere nel posto sbagliato. Era come se non mi sentissi parte di questo posto.
Non mi era mai capitata una cosa simile.
Non volevo qualcun’accanto a me, non era questo di cui avevo bisogno, la solitudine che provavo non poteva essere riempita da dieci minuti in un letto.
Avevo passato le ultime notti a svegliarmi prima dell’alba per andarmene velocemente dalla stanza, senza svegliare nessuno. Per non sentirmi dire, rimani, resta con me. Non era l’altra parte di me che io cercavo.
Avevo bisogno di sentirmi veramente utile per qualcuno. In ospedale avevo tanti pazienti, che dipendevano da me. In soli cinque giorni il mio nome, o meglio il mio soprannome: pattini a rotelle, era sulla bocca di tutti.
Ero trattata da tutti con grande rispetto e nessuno osava contraddirmi, in cinque giorni ero riuscita a farmi accettare da medici e infermieri, persino la Dottoressa Bailey mi aveva accettato, tanto che parlò bene di me a Jackson e sua madre.
Per tutto il reparto di pediatria sembrò una sorta di benedizione.
Non che mi servisse, sapevo come farmi accettare, ma una mano non si rifiuta mai.
In tutto questo, sentivo che potevo fare molto di più, e mi sentivo incompleta, e sola.
Mi alzai dal letto incapace di rimanere sdraiata ancora per altri due minuti. Era buio, dalla finestra non entrava un filo di luce, era proprio notte fonda.
Pigiai la luce della sveglia che illuminandosi mi disse che erano solo le tre del mattino, avevo ancora quattro ore prima di potermi riempire la testa con il caos dell’ospedale.
Andai in cucina e mi versai un bicchiere d’acqua, le pareti verde pastello del salotto mi donarono un po’ di serenità, ma non quella necessaria per farmi addormentare.
Presi il computer mi sistemai sulla poltrona, cominciai a vagare in internet.
L’università di Yale aveva iniziato un nuovo trial clinico sulle cellule staminali, quella di Harvard si preparava a rispondere con un trial sulla ricostruzione del pancreas in seguito ad un trauma.
Mi misi a leggere i vari siti di ricerca pensando che magari in uno di questi avrei trovato la soluzione alla mia "solitudine". Sembrava un'impresa ardua, c'erano grandi ricerche agli inizi, importanti sperimentazioni quasi alla fine, ma niente che attirasse la mia attenzione.
Allora cercai di distrarmi in un altro modo, basta ricerca, basta sperimentazioni; di pazienti a cui pensare ne avevo abbastanza,provai a rilassarmi con un po’ di musica, la mia passione segreta
 Non ero molto intonata, ero una di quelle persone che non cantano sotto la doccia, ma ascoltare della musica che t’invade l’anima e ti libera da ogni pensiero, era il mio passatempo preferito.
Non ero una persona da musica a tutto volume e poi era notte fonda, forse era meglio non rischiare di svegliare i vicini, così presi le cuffie e le inserii nel computer. Ero indecisa su quale canzone sentire, me ne piacevano così tante che avevo solo l’imbarazzo della scelta.
Decisi di affidarmi al destino, pigiai il tasto riproduzione casuale, misi il puntatore su play, chiusi gli occhi e appoggiai la testa all'indietro. La musica partì provando a riempirmi la mente.
 
A fire burns
Water comes
You cool me down
When I'm cold inside
You are warm and bright
You know you are so good for me

 
La musica mi entrò nella mente, provando a invadermi anche il cuore.
Era questo che mi serviva? Qualcuno giusto per me? Veramente la vita si basava sull’amore?
Quello che mi serviva era veramente qualcuno che mi completasse?

You know there's no need to hide away
You know I tell the truth
We are just the same


Anche il destino mi diceva che dovevo trovare qualcuno che fosse un tutt’uno con me.
Lo diceva davvero o me lo stava solo immaginando? Magari il buio e il momento e il periodo di novità stavano solo cercando di suggestionarmi. Stavo interpretando male le parole perché ero condizionata dal momento. Magari era così.

You know
When you're on your own
I'll send you a sign
Just so you know
I am me, the universe and you

Quella canzone stava esagerando, come avrebbe mai potuto un'altra persona colmare il vuoto, creare un tutt’uno con me, io che ero in pratica perfetta, che non sbagliavo mai. Davvero l’amore poteva risolvere ogni problema?
"Io credo di no!" dissi ad alta voce rivolgendomi al muro di fronte.
Chiusi la playlist brutalmente, mi strappai le cuffie dalle orecchie, molto più confusa di prima, la testa mi faceva anche male. L’orologio del computer segnava le cinque e mezza, avevo vagato per siti scientifici per ore senza trovare un’ispirazione o una risposta, ma una canzone mi aveva distrutta e ingarbugliato la mente in soli due minuti.
Stavo per chiudere il computer quando vidi un’icona che lampeggiava sulla barra del desktop.
Ci cliccai sopra e un bambino di colore mi sorrise dallo schermo.
La solita pubblicità che ricerca fondi puntando più sulla pena che sull'amore e il vero desiderio di far del bene.
Poi però il mio occhio cadde sulla parola “chirurgia pediatrica” e poi su "borsa di studio Carter Madison".
Il mio cuore perse un battito, che fosse un segno del destino per dirmi di continuare a leggere o fosse solo dettato dalla stanchezza, non me lo chiesi neanche, continuai a leggere.
Era un bando per ricevere una borsa di studio e poter andare a lavorare in Africa a fare grandi interventi su bambini che non vedevano un bicchiere d'acqua per giorni, figuriamoci un chirurgo pediatrico.
Fare domanda non era neanche così complicato, e i requisiti li avevo tutti.
Sarei dovuta andare in Africa per tre anni, neanche tanto, considerando che non c’era nessuno ad aspettarmi a casa per ora e non sarei stata io a mettermi in cerca di qualcuno, non ora che aveva capito qual era il mio sogno.
Cominciai a compilare la domanda via web, ma avevo a malapena scritto il mio nome che un noiosissimo rumore interruppe il silenzio della mia casa.
Era la sveglia che mi diceva che dovevo alzarmi per andare al lavoro, ma lei era ignara del fatto che io stavo prendendo il mio futuro tra le mani e che molto probabilmente il mio lavoro sarebbe cambiato al più presto e molto in meglio.
Andai in camera e la spensi, ormai era tardi, dovevo prepararmi e andare a occuparmi dei miei piccoli umani Statunitensi, poi avrei pensato a quelli Africani.
Arrivai all’ospedale in perfetto orario, il reparto era tranquillo, i miei pazienti stavano bene, tutto era calmo. Davvero troppo tranquillo.
In ospedale questo momento è detto “la quiete prima della tempesta”, tutta la calma fa solo presagire qualcosa di brutto da un momento all’altro. Decisi di approfittare di quel momento per provare nuovamente a compilare la domanda per la borsa di  studio. Mi ero appena seduta alla scrivania che il mio cercapersone squillò, mi chiamavano dal pronto soccorso.
Arrivata lì, mi accorsi che era una mattinata molto movimentata per quel reparto. Chiesi a un’infermiera quale fosse l’emergenza e lei m’indicò una bambina. Al fianco della quale, oltre alla madre, c’era Izzie Stevens.
Proprio la tirocinante con la testa tra le nuvole mi doveva capitare? Il destino stava congiurando contro di me, e ci stava riuscendo alla grande!
“Salve sono la dottoressa Robbins!” Mi presentai alla madre, poi mi rivolsi alla Stevens: “Qual è il problema?”
“Giuly Graham, anni nove, è caduta dalla scala a pioli che stava in giardino, secondo i raggi X c’è una frattura composta di tibia e perone, ma l’ho fatta chiamare in caso volesse controllare se ci fossero danni a livello interno”.
Dopo aver ascoltato le parole della Stevens, feci un sorriso a Giuly e cominciai a visitarla, ma da quello che vedevo, non c’erano altri problemi. Durante la mia visita, notai che la Stevens era distrattissima, non prestava minimamente attenzione a quello che facevo, sapevo che era fidanzata con Karev, magari avevano litigato e per questo era così distratta, ma non mi fidavo a lasciarle la bambina tra le mani, così decisi di portare io stessa Giuly, in ortopedia.
Mentre salivamo con l’ascensore, la bambina si mise a parlarmi del viaggio in Canada che aveva fatto con i genitori ed io le raccontai che molto presto sarei andata in Africa a salvare bambini più sfortunati di lei, ai suoi occhi diventai un’eroina! Proprio quello che serviva per il mio ego un po’ smisurato! Poi mentre ci avvicinavamo a reparto, vedendo che cominciava ad agitarsi, mi misi a parlare di cartoni animati e fatine, e vidi i suoi occhi illuminarsi, e così, riuscii a calmarla.
In reparto ci venne incontro un’infermiera, mora, capelli corti, un po’ mossi, una faccia che avevo già visto.
“Dottoressa Robbins?! Come mai è venuta di persona?”
Non saprei dire se fosse più buffa l’espressione sorpresa che fece nel vedermi portare una paziente o il fatto che mi avesse riconosciuta al primo sguardo.
“Lei il mio nome come lo conosce?” le dissi non riuscendo a trattenermi, ma poi aggiunsi: “ Non credo di essere né la prima, né l’ultima dottoressa che accompagna di persona i propri pazienti no?”
“Oh sicuramente, ma da Pattini a rotelle … scusi, da una dottoressa come lei, non me lo sarei mai aspettato! Comunque io e lei ci siamo già conosciute, da Joe, lei stava con una ragazza, e non ha fatto molto caso a me!”
Disse, come se stesse parlando del tempo, aveva una bella faccia tosta la ragazza, e dall’aspetto minuto che aveva non lo avrei mai detto.
Le sorrisi, un sorriso che m’illuminò il volto, era da tanto che non sorridevo in quel modo. La musica o l’Africa stavano facendo effetto, ma io preferii scegliere quest’ultima.
“Bene allora, faccio caso a lei ora, visto che con la ragazza è durata un giorno, magari con lei durerà, non so, due giorni?!”
“Mi sta già liquidando dottoressa?! Piacere Coleen!” e allungò la mano verso di me.
Io stavo per stringerla quando rimasi quasi folgorata, alle spalle dell’infermiera si era come materializzata la specializzanda triste della caffetteria.
Mi ricordai di dover respirare, ma l’aria sembrava non volerne sapere di entrare, mai una persona aveva fatto un effetto del genere su di me.
Coleen mi guardò, si accorse che qualcosa non andava, si girò a guardare, con la mano ancora protesa verso di me, chi fosse la causa di quella reazione. Quando capì chi avevo visto, abbassò la mano sconsolata.
“Le sceglie bene le sue prede, dottoressa?” Sentii che disse come se mi stesse parlando da una lontana galassia.
Osservai la ragazza dal camice azzurro prendere una cartella dal bancone, si passò una mano sulla fronte, sembrava distrutta, gli occhi scuri, l’espressione sconfitta, cercava di farsi piccola, ma a me sembrava di leggerle l’anima e leggevo grandi cose, grandi desideri.
 Mi trovai a pensare che avrei esaudito tutto ciò che voleva, le avrei regalato la luna se avesse voluto, avrei, avrei …
Scossi la testa per cercare di tornare in me, quando ritornai a guardare verso il bancone lei si stava allontanando, non sapevo nulla di lei, ma in quel momento avrei fatto la cosa più stupida, anche cominciare a urlare tutti i nomi esistenti al mondo pur di avere una chance per farla girare.
All’improvviso mi sentii osservata, distolsi lo sguardo dalla schiena della ragazza triste e girandomi trovai gli occhi di Coleen che mi fissavano.
Sapevo che non avevo fatto una bellissima figura, stavo flirtando con lei e mi ero bloccata in quel  modo, poi senza motivo, perché non c’era motivo di reagire in quel modo.
Dovevo cercare di convincermi che non c’era motivo per reagire così.
Pensa all’Africa, mi dissi, pensa all’Africa, sembrava funzionare.
Chi era quella donna per farmi reagire in quel modo? Nessuno, non era nessuno.
Pensa all’Africa.
La mia mente stava tornando lentamente alla normalità, il mio cuore ancora batteva velocemente, ma feci dei respiri profondi per calmarmi e far tornare tutto alla normalità.
E’ tutto dato dalla pressione, cercavo di convincermi, pensa all’Africa, dovevo mangiare più a colazione, non è nulla.
“Dottoressa Robbins sta bene?” Mi chiese Coleen con un tono molto sommesso, come se avesse paura di svegliarmi.
“Sì, sì, sto bene, scusami, mi sono, mi ero, mi sono bloccata” Cercai di risponderle balbettando.
“Sì l’ho notato che si era bloccata, e posso anche capirne il motivo!” Nella sua voce notai una nota di amarezza.
“No non c’è nessun motivo, non è nessuno, niente, non è niente” Far uscire le parole mi era costato veramente un grandissimo sforzo.
“Dottoressa stia tranquilla! Non fa quell’effetto solo a lei sa? Ma, mi creda, per adesso, è meglio se la lascia in pace, è distrutta, porterebbe nel baratro anche lei, mi creda. Non è una persona adatta a lei” Mi disse con lo sguardo verso il basso.
Avevo la mente annebbiata, perché mi diceva così, per cercare di riportarmi verso di lei, o perché teneva a me e non voleva farmi soffrire?
Che cosa stavo pensando? Da quando in qua permettevo a qualcuno di dirmi cosa dovevo o non dovevo fare? Pensa all’Africa.
“Chi l’ha distrutta?” Fu l’unica cosa che riuscii a dire.
“E’ stata lasciata nel parcheggio, da, una dottoressa, come si chiamava? Erica Hanh. Come la storia è finita, l’ha distrutta, è scoppiata a piangere in sala operatoria. Nessuno ce la farebbe a risollevarla, si è già sconfitti in partenza.” Disse le ultime parole cercando i miei occhi.
Ebbi la sensazione che volesse cercare di convincermi di non fare nulla con quella ragazza, come se io avessi l’obbligo di ascoltare un suo consiglio.
La scrutai, cercando di capire la sua vera intenzione, era un consiglio o cercava solo di allontanarmi dalla ragazza? Pensa all’Africa.
“Ok non importa, senti, la bambina, prendi la cartella, pensateci voi al gesso, è tutto scritto qui, io, io, devo andare.”
Mi voltai e mi precipitai verso l’ascensore, non era al piano, pigiai nervosamente il pulsante.
La mia testa era satura di pensieri, era tutta in confusione. Pensa all’Africa.
Mai mi era capitato che una ragazza mi facesse questo effetto, cos’era un colpo di fulmine? Pensa all’Africa.
Era la mia anima gemella? Pensa all’Africa.
Era solo perché avevo bisogno di stare con qualcuna? Pensa all’Africa.
Dipendevo davvero così tanto da qualcun’altra? Pensa all’Africa.
L’ascensore si aprì, mi precipitai dentro, e appoggiai la testa alla parete in fondo all’ascensore.
Cominciai a respirare con la bocca aperta, gli occhi chiusi, sentivo gli ingranaggi dell’ascensore lavorare, cercavo di riempirmi  la testa con quei rumori, dovevo smettere di pensare a lei, e pensare che il mio progetto fosse solo uno, l’Africa.
All’improvviso una mano si appoggiò sulla mia spalla.
Mi girai di scatto, trovandomi a fissare negli occhi una ragazza dal camice blu, capelli lunghi, mora, una bellezza molto normale. Ci volle un po’ per metterla a fuoco, ma alla fine la riconobbi.
Era la ragazza che avevo visto uscire dalla camera di Tia qualche giorno prima.
“Dottoressa Robbins, la posso aiutare?” Disse con tono compassionevole.
“Sì che puoi.”
Mi gettai sulle sue labbra, fu un bacio violento, non c’era amore, non c’era sentimento, c’ero solo io e il mio bisogno di riempirmi la mente.
Mi concentrai sulla sensazione delle mie labbra sulle sue, del suo respiro dentro la mia bocca, delle mie mani sui suoi fianchi.
Mi dovevo riempire la mente di sensazioni forti, non volevo amore, dovevo essere brutale, la spinsi verso la pulsantiera e schiacciai il tasto di stop. L’ascensore si bloccò ed io mi persi in lei, brutalmente.
 
Più o meno c’ero riuscita, avevo calmato i pensieri.
Sinceramente se provavo a pensare alla ragazza triste, un brivido mi scorreva lungo la schiena, ma era qualcosa di sopportabile. Ora avevo un altro pensiero che mi occupava la mente al pari di quello.
L’Africa.
La sera, nella calma del mio reparto, riaprii la pagina web della domanda e la compilai.
Prima di premere il tasto d’invio mi fermai a fissare lo schermo.
Era veramente quello che volevo? Volevo passare veramente tre anni in Africa? Quella ragazza, perché mi aveva sconvolto tanto?
Decisi che sarebbero state domande senza risposta, o che semplicemente non avevano bisogno di risposta, il mio progetto adesso era l’Africa, solo quello importava.
Pigiai il tasto d’invio.
Era fatta, l’Africa mi aspettava, se fosse andato tutto bene. Molto probabilmente non avrei visto più quella ragazza, e se l’avessi rivista, sapevo che mi sarebbe bastato pensare all’Africa.
Avevo un’altra notte di reperibilità, non volevo tornare a casa da sola, meglio non rischiare, avevo l’Africa, ma era meglio rimanere qui dove potevo tenere sottocontrollo i miei pensieri.
Mi avvicinai alla porta della stanzetta, nessuno mi fermò, sentii i muscoli rilassarsi al solo contatto con il materasso, considerando che non dormivo da ventiquattro ore era anche logico.
Chiusi gli occhi, e mi abbandonai ai sogni.
Una ragazza mi si avvicinava camminando sulla terra deserta, ero circondata da bambini di colore che mi sorridevano, la vidi farsi sempre più vicina, un leone ruggì, la riconobbi era la ragazza triste, un bambino mi tirò la maglia per farmi vedere il fiore che aveva colto, la ragazza allungò una mano verso di me, allungai le mie.
Un rumore improvviso mi fece svegliare, era il mio cercapersone che suonava.
 
 
 
 
La canzone, come credo la maggior parte di voi sappia, è: Universe& U.
Spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo. Fatemi sapere cosa ne pensate. Grazie mille a tutti.
A presto credo. (Non è una promessa ma ci proverò, l’ansia per la season premiere fa brutti scherzi e la fantasia galoppa)!

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Capitolo 5
*** PALLOTTOLE, VISIONI, AEREI ***


Vi chiedo umilmente scusa per tutto questo ritardo. Ma sono stata veramente impegnata tra famiglia e università e non ce l’ho fatta ad aggiornare prima. Scusate veramente.
Ora, ringrazio veramente tanto, tutti coloro che hanno recensito e messo la storia tra le preferite o le seguite o chi ha semplicemente letto!
Vi ringrazio veramente molto.
Questo, è di nuovo un capitolo un po’ particolare e forse non sarà l’unico, credo che anche il prossimo sarà dello stesso genere, dipende dall’ispirazione e da quanto Shonda mi farà impazzire tra pause e tragedie varie!
Che altro dire … buona lettura e spero vi piaccia!

 

PALLOTTOLE, VISIONI, AEREI 
 
Mi precipitai verso il corridoio da cui la chiamata veniva, cercando di aggiustarmi al meglio il camice.
”Sono sveglia, sono qui, che succede?” Chiesi alla Bailey, mentre svoltavo nel corridoio da cui mi aveva chiamato.
 ”Salve, la pressione di Jackson è un po’ scesa rispetto a ieri, niente di preoccupante, ma, con qualche telefonata e insistendo, magari potremmo farlo salire di qualche posto nella lista dei trapianti.” La sua voce era incerta.
Mi venne incontro a metà del corridoio allontanandosi dalla camera che stava guardando fino a due secondi prima.
“Dottoressa Bailey! Mi ha convocata d’urgenza alle due e mezza di mattina, per chiacchierare?” Chiesi alterandomi, ma sempre con una nota simpatica nel tono.
“A lei piace chiacchierare! E’ una chiacchierona!”
“Non alle due e mezza di mattina! Senta, è piccolo, è quasi in cima alla lista, l’UNOS  gli troverà gli organi quando saranno disponibili, stare svegli tutta la notte a parlarne, non servirà a niente.” Sospirai, e mi allontanai un po’ da lei.
 “Vado a dormire un po’, faccia altrettanto!” Le dissi nel tono più tranquillo che potessi trovare.
“Gli resta poco tempo.” Il suo sguardo passò dalla finestra della camera di Jackson a me in una frazione di secondo, tutta la sua insicurezza era impressa nel tono della sua voce.
“E’ sempre così, benvenuta in pediatria.”
Mi girai, alzando le spalle, ormai ero abituata a questi drammi, con i bambini ci si fa l’abitudine. Non che non provassi emozioni, ma bene o male, le riuscivo a tenere sottocontrollo, almeno in apparenza.
La Bailey mi aveva svegliato proprio sul più bello, dannazione!
E per l’ansia che quella chiamata, nel cuore della notte, mi aveva messo, il sonno era scomparso.
Dovevo riuscire a chiudere gli occhi un altro poco.
Mi avviai nuovamente verso la stanza del medico di guardia, ma non potei neanche aprire la porta, perché dagli eloquenti rumori, si capiva benissimo che qualcuno là dentro, non stava assolutamente dormendo!
Mi voltai e andai al bancone, sbuffando.
Ormai ero sveglia e anche se avevo detto alla Bailey che era inutile agitarsi, decisi di fare qualche telefonata all’UNOS, per cercare di smuovere qualcosa per Jackson, giacché si stava molto aggravando.
"Qui UNOS, desidera?" mi rispose una voce di uomo, profonda e molto sveglia, nonostante l’ora.
"Salve sono la dottoressa Robbins, la chiamo dal reparto di pediatria chirurgica del Seattle Grace. Senta io, qui, ho un bambino, Jackson Prescott, è stato messo in lista per un trapianto di fegato e intestino. Siccome è quasi in cima alla lista, mi chiedevo se, se per caso, ci fossero delle novità riguardo gli organi?" cercai di usare una voce sicura e autoritaria, ma non credo avessi fatto del mio meglio, visto che mi sentii rispondere con una voce al quanto alterata.
"Senta, lo sa quante volte al giorno, riceviamo telefonate del genere? Voi chirurghi credete che gli organi crescano sugli alberi? Le persone muoiono e voi chiedete, chiedete e chiedete. Non sapete fare altro? Gli organi arriveranno quando saranno disponibili."
"Come si permette di giudicarmi, io sto facendo il mio lavoro, lei veda di fare il suo, e mi trovi questi maledetti organi".
Riagganciai la cornetta in malo modo, e mi accorsi di essere osservata.
"Arizona, stavo per venirti a chiamare. Va tutto bene?" Aggiunse guardando il mio volto arrossato, forse perché avevo urlato un po’ troppo al telefono.
"Noeel!” Esclamai sorridendo.“Tutto ok, solo un guaio con l’UNOS, si sistemerà tutto, speriamo. Mi volevi chiamare per?"
"Va bene, se vuoi, li richiamo io a quelli dell’UNOS, sai che mi conoscono bene là!" Mi sorrise facendomi l'occhiolino.
"Sì, me le ricordo le tue conoscenze maschili, molto approfondite! Dai adesso dimmi qual è il problema?" Dissi sorridendo.
"Giusto, ci ha avvertito l’ambulanza che ci sta trasportando un bambino che è rimasto coinvolto in una sparatoria, il proiettile è rimasto in sede, è stato colpito ad un braccio, puoi venire anche tu, te la senti?”
“Sì, me la sento, perché non dovrei sentirmela, sono reperibile, perché non dovrei sentirmela?!” Dissi, con la voce che mi tremava, tanto che ne rimasi sorpresa.
Noeel mi guardò sospettosa:
“Mi ricordo che le sparatorie ti hanno sempre fatto un brutto effetto da quando …” Si bloccò improvvisamente, come se avesse un rospo in gola, che non riuscisse a mandare né su né giù.
La guardai, sapevo perché si fosse bloccata, in fondo, quello che era successo, aveva toccato anche lei, era da poco, ma lei era la sua ragazza.
 
La luce filtrava dalla finestra, le tende tirate.
Ero seduta sul divano, il libro di chirurgia in mano, una pila di appunti accanto a me.
Mia madre e mio padre parlavano a bassa voce in cucina per non disturbarmi. Potevo vedere il pulviscolo che vagava per la stanza, indorato dalla flebile luce del sole che riusciva a passare attraverso la coltre spessa delle tende.
Il campanello suonò.
Aprii la porta.
Un ufficiale dell’esercito apparve davanti a me, una lettera in mano, chiese di mio padre.
Lui era già alle mie spalle, afferrò la lettera che l’ufficiale gli stava porgendo, vidi mia madre mettersi le mani davanti alla bocca, il militare si tolse il cappello.
La lettera cadde dalle mani di mio padre, la afferrai da terra, riuscii a leggere solo poche parole:
Timothy Robbins, durante una sparatoria, cercava di salvare i compagni rimasti intrappolati, è saltato in aria con una granata, le nostre più sentite condoglianze.
 
Il ricordo di quel giorno mi assalì improvviso.
Un terremoto scatenatosi nel più profondo del mio cuore.
Mi aggrovigliò i visceri, facendomi del male.
Sentii le gambe cedermi, le gocce di sudore scendermi, fredde, lungo la schiena.
Poi delle mani mi presero, sentii delle mani appoggiarsi sulle mie spalle e scuotermi.
“Arizona? Arizona? Riprenditi, smettila di pensare a Tim. Arizona è passato, lascia stare, lascia andare i pensieri. Smettila e reagisci.”
Sentii la voce di Noeel farsi sempre più chiara, prima sembrava ovattata, poi sempre più forte. Finché non rimbombò quasi dentro il mio orecchio.
Mi stava abbracciando, io ero lì, le gambe mi reggevano quasi per miracolo.
Scossi la testa, cercando di scacciare quei ricordi.
Noeel mi fissava, cercando di capire se fossi scoppiata a piangere o fosse tutto passato.
Sentivo il cuore che mi pulsava nelle orecchie, piano, piano riuscii a mettere a fuoco la stanza, i colori tornarono alla normalità.
Erano anni ormai che non rivivevo quel momento, l’avevo sognato qualche volta, ma mai mi era successo di rivederlo davanti ai miei occhi.
“Sì, sto bene, scusami, non so cosa mi sia preso.” Dissi con la voce un po’ più sicura.
Respirai profondamente.
“Ok, andiamo da questo bambino, basta perdere tempo.” Il mio tono era tornato quello di sempre, calmo e tranquillo, ora sapevo che niente mi avrebbe impedito di aiutare il bambino.
Arrivammo al pronto soccorso appena in tempo per assistere all’arrivo dell’ambulanza.
Il reparto era affollatissimo, molte persone erano rimaste coinvolte nella sparatoria e il bambino sembrava essere quello meno grave.
 Feci una rapida ma accurata visita al bambino, il proiettile aveva attraversato il braccio in obliquo dall’alto verso il basso, fermandosi quasi in superficie. Fortunatamente non aveva fatto grossi danni, avevo già liberato una sala operatoria e ce lo portammo di corsa.
L'intervento fu pressoché rapido.
Dovetti allargare un po’ la fessura delle ferite per rendermi conto dei reali danni causati dal proiettile. Trovai il proiettile incastrato nella mano, insieme al dottor Small di traumatologia, lo estrassi.
Ricucii i tessuti lacerati, decidemmo che il gesso per tenergli fermo il braccio durante la convalescenza, glielo avremmo messo dopo, prima di svegliarlo.
Lo feci portare in terapia intensiva, per tenerlo sotto controllo nel post operatorio. Per vedere se il proiettile aveva già causato un’infezione.
Rimasi un po’ accanto al letto del bambino, non volevo che stesse da solo, anche se era ferito solo lievemente. Così aspettai con lui l’arrivo dei suoi genitori.
Gli stringevo la mano, quei capelli biondi corti erano illuminati dalla luce al neon della stanza, non so perché, ma mi ero affezionata a quel bambino più del dovuto.
Forse perché mi ricordava Tim.
Sentii dei passi alle mie spalle, vidi arrivare due persone accompagnate da Noeel.
Erano i genitori di Francesco.
Vidi la madre precipitarsi al letto del bambino, strinse la mano del figlio, bisbigliava parole dolci passando una mano delicatamente sul viso del piccolo, la voce le tremava, e vidi delle lacrime scenderle, erano lacrime di paura, ma anche di gioia, alla fine il suo bambino si era salvato.
Il padre rimase un po’ indietro una mano sulla spalla della moglie, per farle sentire la sua presenza, la paura che spariva lentamente dagli occhi, Lo sguardo immobile, a fissare quel tubo che usciva dalla gola del figlio.
 
L’hangar era grande.
La luce entrava dalle porte spalancate.
Si vedeva la sagoma di un grande aereo, fermo là fuori.
Un gruppo di militari portava in spalla una bara, con sopra la bandiera americana, facevano da ala, altri militari, molti ufficiali. Stavano sull’attenti, immobili.
Un grido mi riempì le orecchie.
Vidi mia madre accasciarsi a terra, Noeel cercava di sostenerla, la prese sottobraccio e la portò fuori.
L’eco delle sue grida riempirono quell’hangar, grigio e freddo.
Mio padre rimase immobile, senza mostrare nulla, ma i suoi occhi parlavano per lui.
La paura di non riuscir a sopravvivere a questa perdita, era impressa nelle sue iridi e lì sarebbe rimasta per molto, molto tempo.
Fissai quella bara coperta da una bandiera, mio fratello non era lì dentro.
Di lui non era rimasto nulla.
Una bandiera era tutto quello che avevamo.
Non piansi, il mio orgoglio me lo impediva, il mio cuore batteva normale.
Non provavo più nulla, non sentivo nulla.
Una parte di me se ne era andata con lui e chissà se sarei mai tornata a sorridere.
Una mano si appoggiò sulla mia spalla, mi girai, mi ritrovai i suoi occhi davanti al viso, il volto era serio, ma dicevano che lui sarebbe rimasto, lui, la mia roccia, Nick, il nostro migliore amico, ormai solo mio.
Lui non mi avrebbe abbandonato.
 
La stanza tornò a fuoco davanti a me così all’improvviso, che strinsi gli occhi quasi accecata dalla luce, Noeel stava spiegando cosa fosse successo ai genitori e cosa avremmo fatto poi.
I suoi occhi si spostavano dai genitori a me, ogni cinque secondi.
Sentivo i battiti del mio cuore fin dentro le orecchie, lo stomaco sembrava si stesse aggrovigliando dentro di me.
Avevo bisogno di andarmene da lì, mi precipitai fuori con la scusa di un’emergenza.
Aprii la prima porta che dava sulle scale, e appoggiai la testa al vetro freddo.
Odiavo reagire in quel modo, di solito sapevo tenere sotto controllo le mie emozioni, ero brava a tenermi dentro le cose, ma avevo come la sensazione che, di lì a poco, sarebbe successo qualcosa che avrei fatto contro voglia. Poi tutte quelle visioni, non facevano altro che mettermi ancora più angoscia.
Sentii la porta aprirsi alle mie spalle, mi girai lentamente, respirando profondamente.
Noeel entrò piano, piano, strisciando attraverso la porta che aveva appena sfressurato.
“Stai bene?” Mi chiese preoccupata.
“Sì, sto bene, non so che mi è preso oggi.” Dissi continuando a respirare profondamente, e riuscendo infine a guardarla negli occhi.
Mi mise una mano sulla guancia e mi accarezzò delicatamente.
“Arizona … smettila di pensare a Timothy, non ti fa bene, hai una faccia stanchissima e siamo solo all’inizio del turno, se continui così, non ci arriverai alla fine.” Mi sussurrò con voce lieve e delicata senza togliere la mano dalla mia guancia, aveva cominciato anche a disegnare dei cerchi concentrici con il pollice.
Quel movimento regolare e senza interruzione, mi rilassava, chiusi gli occhi e respirai.
Finalmente avevo la testa libera dai pensieri, a parte quella sensazione persistente che qualcosa di poco piacevole sarebbe accaduto di lì a poco.
Riaprii gli occhi, e mi ritrovai a fissare il mio riflesso in quelli chiari di Noeel, mi avvicinai lentamente al suo viso, forse inconsapevolmente.
Lei mi bloccò ridendo.
“Arizona che fai? Non vorrai mica baciarmi?” E scoppiò in una sonora risata.
Che diavolo mi prendeva? Volevo baciare l’unica vera amica che avevo in quella città, l’unica che conosceva il mio passato e che riusciva a capirmi al primo sguardo, anche se erano anni che non ci parlavamo più?
Scossi la testa e scoppiai a ridere anch’io.
“No no per carità! Non ho nessuna intenzione di rovinare la nostra amicizia! Troverò il modo per consolarmi!” Le dissi facendole l’occhiolino.
“So io cosa ti ci vuole, un bel caffè, dalla stanza dei medici! Dai andiamo” Mi prese per mano e mi trascinò, letteralmente, per tutto il reparto di pediatria, mentre io scivolavo sui miei pattini a rotelle!
Entrammo nella stanza e la trovammo completamente deserta, mi fece sedere e cominciò a prepararmi il caffè, quando la porta si aprì ed entrò Coleen, l’infermiera di ortopedia.
Mi misi a fissarla con sguardo interrogativo, poiché lei sembrava non volesse pronunciare alcuna parola, ma continuava a passare lo sguardo da me a Noeel.
“Coleen?” Richiamai la sua attenzione.
Al suono della mia voce, Noeel si girò verso di lei e Coleen sussultò uscendo da quella specie di trance in cui era entrata.
“Dottoressa Robbins mi scusi, mi hanno mandato a cercarla da reparto, mi hanno detto di chiederle che, se per lei va bene, saremmo pronti a mettere il gesso a Francesco: ” Disse con una voce molto titubante.
Il suo sguardo divenne ancora più perplesso quando Coleen mi abbracciò passandomi il caffè.
“Va benissimo, pensaci tu a Francesco, portalo pure a reparto, lo verrò a controllare dopo, grazie mille di avermi avvertito!”
Sembrava che i piedi si fossero incollati al suolo, perché non accennava il minimo movimento, continuava a far passare lo sguardo da me a Noeel che ora in uno slancio di particolare affetto, aveva messo la sua mano sulla mia mentre sfogliava una rivista medica.
“Coleen qualche problema?” le chiesi allora io per sbloccarla, visto che quel fissare cominciava a darmi fastidio.
“No nessun problema, solo che mi chiedevo, se … no niente tutto a posto non volevo nulla, a parte mi chiedevo se voleva prendere un caffè … più tardi … con me … in caffetteria. Ma vedo che è già impegnata, quindi no … niente … glielo chiederò un’altra volta!” Un sorriso timido le apparve in volto.
Noeel scoppiò a ridere e senza sapere come riuscì a dire:
“Arizona … sei fantastica! Riesci a trovare il modo per consolarti anche senza cercarlo! Ok, credo di aver capito che vi devo lasciare sole!” Si alzò passando una mano sopra le mie spalle.
“Arizona ci vediamo più tardi, se non sarai impegnata! Voglio sentire come stai.” Aggiunse mettendo la mano sulla maniglia della porta e lanciando un debole sorriso a Coleen.
Noeel se ne andò, senza che mi desse il tempo di fermarla.
Coleen si girò a guardarla andare via e poi concentrò il suo sguardo su di me.
 Aveva un sorrisetto furbo, che molte volte avevo rivisto sui miei pazienti, dopo aver fatto qualcosa che non avrebbero dovuto fare.
Poi sul serio, aveva i lineamenti da ragazza e sicuramente aveva almeno otto anni meno di me.
“Sei una ragazzina!” mi lasciai sfuggire.
“Come scusi?” Mi chiese, molto probabilmente perché non riusciva ad afferrare, come mai lo avessi detto proprio in quel momento.
“Sei una ragazzina, avrai, non so, quanti anni meno di me? Otto, dieci?” Le ripetei, spiegandomi meglio.
“In verità dovrebbero essere undici, ma non vedo quale sia il problema!” Disse con un sorriso furbo.
“Il problema è che io son un tuo superiore e sono molto più grande di te, tu sarai al primo mese di lavoro, e magari anche alla tua prima …” La vidi avvicinarsi verso di me piano, piano, le mani in tasca, un aria di sfida in volto.
Ok era una ragazzina, ma come ci sapeva fare!
Mi ritrovai il suo viso a pochi centimetri dal mio, dischiuse le labbra, sentii il suo profumo invadere le mie narici.
“Sono alla mia prima cosa?” Bisbigliò avvicinandosi ancora di più.
 
La mia stanza.
Era un pomeriggio caldo.
La luce entrava dalla finestra aperta, portando dentro quella leggera brezza primaverile.
Avevo la mano sul suo fianco, abbracciandola.
Lei mi stava sopra, aveva appoggiato la testa sul mio petto.
Stavamo leggendo un libro insieme, quando alzò la testa e mi guardò.
Mi girai e mi persi nei suoi occhi.
Joanne.
Mi piaceva da morire quella ragazza.
Sempre sorridente, sembrava una bambina in perenne eccitazione per l’arrivo di Babbo Natale.
Sentii le sue labbra sulle mie.
Il mio primo bacio.
Mosse lentamente le labbra, cercando di aumentare ancora di più il contatto tra noi.
Come la cosa più semplice del mondo, quel bacio fiorì dal nulla e mi attorcigliò lo stomaco.
Non riuscivo a pensare più nulla, se non alle sue labbra sulle mie.
 
Sentii qualcosa di morbido tra le labbra.
Aprii gli occhi, che chissà come, avevo chiuso.
Trovai Coleen che aveva appoggiato delicatamente la sua bocca sulla mia.
“No, non posso.” Mi staccai da lei.
Lei mi guardò confusa.
“Mi dispiace non posso.” Bisbigliai.
Non potevo baciarla mentre in realtà mi ritrovavo a rivivere il mio primo bacio.
Ero crudele e senza cuore, magari cambiavo donna con la stessa frequenza con cui si cambiano calzini, ma alla fine un po’ di sentimento l’avevo, soprattutto perché lei era una ragazzina e non volevo baciarla mentre pensavo ad un’altra.
“Ma perché? Non mi dirà che centra l’età vero?” Disse titubante e leggermente offesa.
“Un po’ anche l’età! Mi dispiace, non posso spiegarti, non ti sto dicendo no, ti sto dicendo non adesso.” Le dissi cercando di tranquillizzarla.
“Ma …”
Non riuscì a finire la frase, il suo cercapersone squillò.
“Accidenti, mi ero scordata di Francesco, mi scusi, devo andare, ma … ci rivediamo presto vero?” Mi disse titubante.
“Vai, ne riparleremo. Tratta bene il mio paziente!” Le dissi sorridendo.
Ero stremata.
Nel momento che uscì dalla stanza, lasciando la porta aperta, mi presi la testa tra le mani e mi premei forte le tempie come per cercare di comprimere tutto quel grande macello di pensieri.
Avevo bisogno di un altro caffè.
Mi alzai e me lo versai, quando sentii la voce della Bailey alle mie spalle.
“Ho preparato una lista con i migliori gastroenterologi pediatrici del paese, una di noi potrebbe convincerne uno a venire ed eseguire una TIPS su di lui” Disse lei, senza quasi riprendere il fiato, io mi volsi a guardarla, mentre giravo il mio caffè con il cucchiaino.
“Fare una TIPS su un bambino cui serve un fegato nuovo?” Chiesi molto titubante.
“Sì!” Mi sorrise.
“Un cerotto su una ferita d’arma da fuoco!” Dissi sarcastica.
“Ha un’idea migliore?” Chiese lei subito indispettita.
“Certo! Aspettare la UNOS, avere fiducia, perché lei non ci riesce?!”
“Perché sono stanca di aspettare mentre il bambino peggiora.”.
Presi un sorso del mio caffè e la lasciai parlare,mentre il suo tono aumentava sempre più, aspettando che scatenasse il suo melodramma.
“ Jackson è stanco e anche sua madre, l’unica persona che sembra felice di starsene con le mani in mano ad aspettare è lei …”.
Questo era troppo di nuovo, questa specializzanda non aveva il senso della misura, bisognava di nuovo intervenire pesantemente.
“Senta, ho avuto pazienza con lei, sono stata gentile, ma mi sono stancata …”.
“Ehi..” Sentii una voce di uomo tentare di richiamare la nostra attenzione, ma non ci feci caso più di tanto, avevo già mille problemi di mio, non volevo certo farmi maltrattare da una specializzanda qualunque.
“.. di sentirmi dire da lei come devo fare il mio lavoro d’accordo …”  Urlai anchio.
“Ehm..” Ancora di nuovo l’intruso cercò di parlare.
“D’accordo ..” Provò a bloccarmi la Bailey, ma ormai ero inarrestabile.
“..Dottoressa Bailey..” Karev, l’intruso, alzò la voce un po’ di più per cercare di calmarci.
“…. ho altri venti bambini in reparto …” Urlai contro la Bailey.
 “… son preoccupata per questo bambino …” Incalzò lei.
“..state zitte! Con rispetto parlando, zitte con rispetto parlando, perché abbiamo gli organi.” Disse Karev bloccandoci e urlando.
Tutte e due ci girammo a guardarlo con il fiatone per quanto avevamo urlato, rimanendo così senza parole, perché la notizia che avevamo tanto aspettato era finalmente arrivata.
“Ok Karev, per che ora ce li manderanno?” Chiesi io prendendo le redini del gioco in mano.
“Veramente ho parlato con l'UNOS e non possono mandarceli, dobbiamo andare noi a prenderli. C’è un aereo che ci aspetta all’aeroporto qua vicino.”
Aereo?
Ok, ecco che la brutta sensazione che avevo si avverava.
Odio volare.
Non sopporto gli aerei.
Mi sento più vicina alla morte quando volo.
Sospirai.
“Ok mi vado a cambiare ci vediamo nella hall. Karev tu verrai con me.” Dissi con tono autoritario e uscii dalla stanza senza degnare di uno sguardo la Bailey.
Bene, questo era il momento, la mia paura per gli aerei stava per essere messa alla prova.
 
 

 
Alcune note finali: ho cercato ovunque, letteralmente, notizie su interventi per asportare pallottole, persino sul manuale di chirurgia di una mia amica, ma non ho trovato nulla. Quindi se quell’intervento è descritto male, qualcuno me lo dica per favore perché cercherò di porvi rimedio, ma sul serio non sapevo più dove sbattere la testa.
Altra cosa, UNUS, non so se si scrive così o meno, ho cercato in internet qualunque banca degli organi americana, ma di lei nessuna traccia, quindi, tra la pronuncia italiana e quella inglese ho tirato fuori questa sigla qui, come per l’intervento, se fosse sbagliato, sarei molto felice di saperlo.
Grazie di nuovo a tutti coloro che leggeranno . Come sempre, ogni commento è ben accetto.
Grazie mille di nuovo per la pazienza.

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