Noir Trésor di Cassandra Morgana (/viewuser.php?uid=6337)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Il male di vivere ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: I ribelli ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: L'abisso ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: Verso il nulla ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: Inchiostro corvino ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: Delirium ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: Bisogno d'amore ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: Incoerenza ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: Gli ultimi ribelli ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: Braccata ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11: Incomprensioni ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: Prospettive ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13: Sbronza triste ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14: Calano le tenebre ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15: Anime stanche ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16: Inquietudine ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17: Dove finisce la notte? ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18: Incognite ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19: Brandelli di solitudine ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20: Rosso sensazione ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21: In caduta libera ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22: Lenzuola stropicciate ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23: Smarrirsi ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24: In confidenza ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25: Conosci te stesso ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26: La sete ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27: Il male minore ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28: Il prezzo da pagare ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1: Il male di vivere ***
Noir Trésor
di
Adrienne8588
Capitolo 1
Il male di
vivere
Auguste si
tirò la porta dietro le spalle. Immobile al centro della via, gettò un’ultima
occhiata guardinga verso la sua casa, un attimo prima di lasciarsela alle
proprie spalle. Si risolse infine ad abbracciare con lo sguardo lo scorcio di
quartiere che si apriva dinnanzi ai suoi occhi, scandito dalla regolarità
ripetitiva delle abitazioni borghesi. Così diverse dalle dimore modeste di
contadini e lavoratori manuali, i cui esigui guadagni si consumavano ben presto
negli esosi tributi che, come risaputo, finivano nelle mani del duca du Lac e
dello sparuto gruppo di nobili che controllava la città e gravitava nella sua
orbita, accattivandosene i favori.
I suoi occhi
furono presto trafitti dalla luce livida del crepuscolo inoltrato e dal chiarore
malato dei lampioni ad olio che rischiaravano la via sul far della sera. Un
leggero senso di smarrimento impacciava i suoi passi lungo la strada vuota che
sentiva così diversa, svuotata del brulichio che la pervadeva durante il giorno,
abbastanza spaziosa da consentire il passaggio dei carri dei contadini e dei
venditori che trasportavano la loro merce e, talvolta, di rare vetture patrizie
di passaggio. Le avrebbe riconosciute ad occhi chiusi, nello sfarzo rumoroso che
le faceva sfavillare come diamanti nella pietra vile, nei cavalli superbi che le
trainavano, riflettendo nel piglio severo e nella grazia nervosa la fiera
alterigia dei loro illustri proprietari.
Ecco i loro
nobili, pronti, non appena si fosse presentata l’occasione, a prostrarsi ai
piedi del loro signore come uno sciame d’api su un favo di miele, ignorando
stoicamente lo spettacolo della gente che scendeva indaffarata sulle strade per
procacciarsi il pane con il proprio lavoro o, sempre più di frequente, per
mendicare.
Auguste si
sentiva stringere il cuore man mano che, allontanandosi da quel rione rivestito
di un apparente decoro, si addentrava circospetto nel quartiere povero. Gettò
alcune monete ad un nugolo di ragazzetti cenciosi che gli si era lanciato
addosso frignando, implorando un’elemosina ed aggrappandosi con gesti
studiatamente patetici alla sua giacca di buona fattura. Sorrise. Ci aveva
sempre tenuto, un capriccio inappagato quando, bambino, aveva vissuto più o meno
in quelle stesse condizioni, destreggiandosi come meglio poteva fra gli stracci
e la miseria. E, quasi certamente, quei bambini non dovevano neppure aver fatto
caso se di fronte a loro, pronto ad elargire un pugno di monete d’argento, vi
fosse lui oppure un ricco aristocratico, per quanto a chiunque sarebbe apparso
oltremodo insolito che un nobile si aggirasse in quei quartieri tutto solo,
privo di una scorta, nell’ora in cui non era difficile imbattersi in qualche
tagliagole pronto ad uccidere per un pugno di monete.
Auguste
avvertì un lampo di gelida malinconia attanagliargli la gola; gli occhi grigi,
atteggiati ad un’espressione imperturbabile, scintillarono umidi nella luce
squallida e tremolante dei lampioni. E, in quello stesso istante, un senso di
dolorosa claustrofobia gli si strinse alla bocca dello stomaco: qual era la
differenza tra un odiato aristocratico che avesse deciso di sfidare la fortuna e
mettere a repentaglio la propria vita aggirandosi in quei luoghi, e un uomo
qualunque che, con indosso l’abito buono, se ne andava tutto impettito a
cospirare in tutta tranquillità contro un tiranno?
Probabilmente,
a qualcuno disposto a tutto pur di sfamarsi, poco sarebbe importato se lui fosse
stato conte o barone oppure un disgraziato al pari di loro. La fame e la
disperazione prima o poi portavano gli uomini a lottare ferocemente per un tozzo
di pane, a uccidersi per pochi spiccioli, incapaci di aiutarsi nella disgrazia
comune.
Affrettò il
passo con finta disinvoltura, lasciandosi alle spalle le grida festose dei
marmocchi che si erano guadagnati la giornata. Era rimasto
solo.
Come in un
sogno, gli parve quasi di sentire i fantasmi della sera chiudersi su di lui,
ombre illusorie proiettate sulle pareti irregolari dalla luce incerta dei
lampioni che danzava sulle fronde sotto la sottile bava di
vento.
Era come se
vi fosse intorno a lui qualcosa che testardamente cercava di rifuggire, ma, a
dispetto di ciò, continuava a tenerlo sotto controllo per mezzo di occhi vigili
che lo spiavano, gravandogli sul cuore. Immobile al centro della strada, aguzzò
i cinque sensi, smarrito, una goccia di sudore che gli scivolava di lato sulla
fronte pallida fino a morire sullo scollo della camicia. Istintivamente, portò
la mano al pugnale che teneva nascosto in fondina, le dita strette intorno
all’elsa in un gesto nervoso e maldestro. Non era più avvezzo a maneggiare armi,
eppure, quando percorreva quei vicoli bui per recarsi alle sue riunioni segrete,
sapere di avere con sé un mezzo per difendersi da un possibile aggressore, in
qualche modo lo faceva sentire meno angosciato.
Non era
normale quell’atmosfera così placida ed inquietante, così statica, serena
soltanto in apparenza: ricordava sin troppo da vicino lo stato di quiete che
precede la tempesta.
Ma era
altrettanto probabile che fosse soltanto l’atmosfera lugubre e soffocante della
città dopo il tramonto a destare in lui certe ansie ingiustificate: con ogni
probabilità, doveva essersi lasciato suggestionare dai suoi
fantasmi.
Che
stupido! Bastava
davvero così poco a metterlo in agitazione? C’era davvero qualcosa che non
quadrava, qualche particolare che la sua mente ancora non riusciva a
focalizzare, oppure gli si stava annebbiando il
cervello?
Aveva paura.
Lui, lui che aveva combattuto una sorta di battaglia senza quartiere contro il
suo stesso destino sin dal momento in cui aveva mosso i primi passi. Aveva
lottato gettandosi alle spalle le sconfitte, ignorando le ferite sul suo animo.
Da ragazzo si era spaccato la schiena nelle locande pur di racimolare il
necessario per istruirsi e ambire eventualmente a condizioni appena più
dignitose, coltivando in segreto, quasi inconsapevolmente, quella coscienza
critica che gli era sempre stata connaturale e che l’avrebbe portato ad
un’insofferenza esasperata verso le storture che logoravano il mondo intorno a
lui e delle quali lui stesso era vittima. Aveva parimenti nutrito il desiderio
di lasciare per sempre quel buco rigettato dall’inferno ed ora retto da un
despota. E invece, aveva finito per seguire la confusa vocazione che lo spingeva
a lasciare il proprio contributo là, nella sua città
natale.
Non si era
risparmiato nulla. Gravato sulle spalle da difficoltà economiche non
indifferenti, dopo aver prosciugato i suoi risparmi nel vino e nei libri, in un
primo momento aveva accettato un impiego come giornalista presso la gazzetta
ufficiale, fortemente sottoposta a censura dopo l’avvento del duca. Non aveva
resistito più di due mesi nella veste di scribacchino lustrascarpe del tiranno,
intento a vergare cartaccia di regime sotto la tacita, costante minaccia della
censura e della galera. Se n’era andato. Troppo sbilanciato a suo svantaggio, il
baratto della sua coscienza al prezzo di due soldi.
Non era stato
prudente da parte sua, nel momento in cui già in passato si era trascinato
dietro il marchio di potenziale perturbatore, e il duca di certo non aveva
dimenticato i suoi trascorsi. Che lo ignorasse o meno, su di lui pendeva una
sorta di spada di Damocle, e, senza che nessuno l’avesse chiaramente messo in
guardia in proposito, Auguste sapeva che sarebbe bastato un passo falso,
stavolta, per cadere male.
Non aveva
quasi più nessuno. I suoi genitori erano morti qualche anno prima, stroncati dal
tifo, e lui, dal canto suo, non aveva mai fatto nulla, nel corso della sua vita,
per procurarsi affetti duraturi. Il suo procedere con freddezza e disincanto,
teso ad ossessionanti quanto legittime ambizioni, aveva finito per alienargli
ogni calore umano: si era semplicemente limitato a sfruttare coloro che si erano
trovati a gravitare nella sua stessa orbita, i quali, prontamente, l’avevano
sfruttato a loro volta.
Cosa poteva
aspettarsi, cosa poteva mettere concretamente in gioco ora, uno come lui,
palesemente solo contro un potere assoluto? Troppe cose, se non fosse stato
abbastanza pazzo da rischiare ogni giorno. Cos’altro, lui che viveva ogni giorno
nell’incertezza, in mezzo ai complotti, guardandosi costantemente alle spalle e
covando progetti ambigui? Era tutto assurdamente folle, da parte
sua.
La sua morte
sarebbe forse andata a discapito di qualcuno? Con ogni probabilità, no. Fra
coloro che si opponevano gravava una sorta di tacito accordo secondo cui non
sarebbe stato il peggiore dei mali morire per la Causa. Una morte eroica non avrebbe costituito che
un esempio. Tuttavia, Auguste riteneva a ragione che ognuno di loro in realtà
mascherasse l’umana paura con quell’idealismo un po’ esasperato, e nessuno in
realtà dormisse sonni tranquilli.
I ragazzi
avevano accettato spontaneamente la sua autorità senza chiedergli nulla in
cambio: avevano bisogno di qualcuno abbastanza lucido da guidarli verso
obiettivi concreti, di una sorta di punto fermo in grado di indirizzare i loro
slanci e contenere gli spiriti troppo ardimentosi dal commettere gesti
avventati, sebbene alcuni di loro, di tanto in tanto, finissero per sfuggire al
controllo. Vi era stima fra loro, ma forse parlare di amicizia, da parte sua,
sarebbe stato eccessivo.
E man mano
che la sua vita andava avanti, dispiegandosi ogni giorno di fronte a lui come
una tela bianca, Auguste nutriva sempre più l’impressione che ogni giorno si
susseguisse uguale a se stesso, come un incubo ricorrente. Voleva
idealisticamente cambiare quella piccola fetta di mondo, eppure doveva
riconoscersi incapace persino di cambiare la propria vita, che proseguiva come
un’alienante tela di Penelope. Ogni buon proposito sfumava la notte, mille
contraddizioni che si scontravano nella sua mente nelle lunghe ore insonni. La
vita scorreva, eppure lui non la sentiva, non riusciva a recepirla. I giorni si
susseguivano tetri davanti a lui, senza sfiorarlo, come una fugace illusione: lo
scorrere del tempo non era un fattore che incideva sulla sua
coscienza.
Aveva
ventinove anni e si sentiva già vecchio. In fondo, non aveva fatto nulla di
speciale, a parte ficcarsi in testa progetti irrealizzabili e tramare contro il
Potere. Non era stato un buon figlio, non era stato un buono sguattero di
taverna né un buono studente né un buon gazzettiere. E, attualmente, non era
granché neppure come ribelle.
Sì, non vi
era molto di concreto da mettere in gioco: magari avrebbe dovuto soltanto
stringere i denti oppure buttarsi nell’alcool per sopire alla propria
frustrazione. Eppure non sarebbe arrivato a tanto; semmai per lui ci fosse stata
qualche debole speranza di riscatto, non vi avrebbe rinunciato
apaticamente.
Si era reso
conto che, tutto sommato, non era neppure la morte il suo principale timore. Né
le sconfitte in quanto tali, giacché, confrontandocisi costantemente, aveva
finito per farsi le ossa. Le ossa, anche se non il cuore. La mente si riempiva
giorno dopo giorno di progetti e idee più o meno concrete, con quel senso di
vuoto che continuava a pesargli sul cuore, e ne
soffriva.
Aveva mai
preso seriamente in considerazione le proprie debolezze? A coloro che avevano a
che fare con lui, doveva piuttosto suscitare l’impressione che non ne avesse:
come poteva qualcuno che non fosse lui stesso, del resto, per quanto perspicace,
riuscire a penetrare la solida corazza di fredda e spiazzante razionalità di una
persona che sembrava non avere sentimenti?
Era caduto
nelle stesse trame che aveva tessuto: si era lasciato corrompere dall’ansia
febbrile e divorante di mille progetti e, in loro nome, si era martoriato
l’anima. I suoi pensieri confusi non convergevano in alcun punto comune,
esacerbando la sua disperazione.
In tutta la
sua vita, che ora gli pareva tanto simile a quella di un gatto selvatico,
soltanto una volta aveva conosciuto l’amicizia sincera. Ed ora, in nome di
utopici desideri, stava per sacrificare anche questo.
Sospirò. Non
poteva permettere che accadesse: era questo il campanello che gli martellava
nella mente dacché aveva messo piede fuori casa, e nonostante avesse ormai preso
la sua decisione. Sarebbe stato difficile tornare indietro, ma forse poteva
ancora fare qualcosa. Doveva parlare con Lucien.
Lucien… Il
suo unico punto di riferimento. L’amico d’infanzia che gli era sempre stato
accanto, la persona con la quale aveva condiviso i momenti tristi e le piccole
gioie. L’unico di cui si fidasse ciecamente e che ricambiasse la sua fiducia, il
solo verso il quale avesse mai provato un affetto
sincero.
Non poteva
lasciare che l’unico angolo della sua vita capace di riempirgli il cuore di un
sentimento che sgorgasse direttamente dal proprio animo, e non dall’interesse di
controverse aspirazioni, venisse meno, sfumasse come una bolla di sapone, per
poi perdersi. Non poteva sacrificare il suo unico attaccamento in nome di un
Bene nel quale non credeva più neppure lui stesso.
E forse non
sarebbe stato nemmeno così tardi per mutare ancora una volta la sorte degli
eventi. Come aveva sempre fatto o, per lo meno, si era ingegnato a fare. Doveva
agire in fretta, e doveva parlare… Prima che fosse troppo
tardi.
Ce l’avrebbe
fatta, ancora una volta, e non avrebbe ceduto. Aveva sbagliato e già iniziava ad
avvertire l’eco delle conseguenze, ma poteva ancora stornare da sé il male che
aveva generato.
Lunghi anni
non erano serviti a placare il suo animo ardente, un confuso anelito di una
giustizia che oscillava fra la spinta ideale ed il più torbido
egocentrismo.
I suoi sogni
vaporosi ed ambigui l’avevano reso folle, ubriaco, deviandolo dagli affetti più
semplici e naturali, dall’umano bisogno di calore ed attaccamento reciproco, dai
valori genuini. Mancava in lui un autentico afflato altruistico, la cui profonda
carenza rendeva vana e contraddittoria ogni idea che la sua mente partorisse.
Aveva perso di vista ciò che era la base, ed ora rischiava di addentrarsi in un
vicolo cieco.
Aveva
compreso quasi subito i propri errori, forse già troppo tardi. Troppo tardi per
tornare indietro, magari; non da rinunciare ad arginare gli effetti più deleteri
delle proprie scelte avventate.
Voltò
l’angolo per l’ennesima volta nelle strade tortuose e buie, accompagnato dal
sibilo sinistro del vento leggero che si era alzato, rimbombandogli furiosamente
nel petto, in sincronia con il battito del suo cuore
impazzito.
Fa’ che non
sia troppo tardi… Fa’ che non sia tutto perduto. Che possa recuperare il
recuperabile. Ti prego. Ti prego!
Una folata
più violenta gli sollevò il mantello scuro e gli scompigliò sulle spalle i
lunghi capelli bruni, tirati rigidamente dietro la nuca e costretti in un
codino.
Era ancora
presto, ma forse non sarebbe stato il primo a giungere a destinazione. Doveva
riuscire a parlare con Lucien e a chiarire le sue ragioni, viso a viso, prima
che arrivassero gli altri. Prima si fosse tolto quel dente che gli doleva,
meglio sarebbe stato per tutti.
Si fermò
ansante dinnanzi alla dimora dell’amico, il venticello gelido che gli penetrava
nelle ossa e lo faceva rabbrividire. La temperatura si era raffreddata
rapidamente, malgrado si trattasse di una caliginosa sera di maggio. Al mattino
il leggero tepore nell’aria era stato persino gradevole, rammentava, ma, in capo
a poche ore, una cappa d’umidità aveva reso l’aria fredda e
pesante.
Attese,
ansimando e riprendendo fiato, prima di vibrare qualche debole colpo sulla
porta: d’un tratto, gli era venuto a mancare il coraggio. Ma non poteva
tergiversare. Era vero: non sarebbe riuscito a tenere inchiodato con franchezza
il proprio sguardo in quello di Lucien, perché quello che aveva fatto, quello
che stava diventando… era troppo.
La porta si
aprì dinnanzi a lui con un cigolio, quasi prima che riuscisse a sfiorare il
legno con il palmo della mano, nell’inconscio tentativo di sospingerla davanti a
sé sotto una leggera pressione.
L’interno
buio lo accolse come un’austera processione di fantasmi, e Auguste avvertì
dipingersi chiara sul volto una malcelata delusione: la porta aperta doveva
presumibilmente stare a significare che qualcuno era già arrivato. E lui aveva
perso ancora una volta l’occasione di chiarire la questione una volta per
sempre.
I suoi occhi
impiegarono una manciata di secondi a metabolizzare l’oscurità della stanza. Le
candele spente, la stanza vuota, il silenzio innaturale. Nessuna presenza
intorno a lui, nessun movimento nell’aria.
- Lucien,
sono io, Auguste!
La voce
tremante e insicura riecheggiò per la casa, infrangendosi sulle pareti,
risuonando su per la lunga scalinata e spezzandosi in echi
inquietanti.
Perdio, considerò
Auguste: Lucien non era uno sprovveduto e, almeno per quel genere d’incontri,
avrebbe dovuto per lo meno osservare un minimo di precauzione. Non era da lui. E
lasciare la porta aperta, che fosse in casa oppure no, non rappresentava il più
fulgido esempio di prudenza, con i ladri e i tagliagole che assediavano le
strade a quell’ora tarda; questo, senza ancora aver considerato la fondamentale
segretezza in cui avrebbero dovuto svolgersi le riunioni. Per Giuda, sarebbe
stato come concedere su un piatto d’argento a qualche pattuglia di passaggio, a
qualche schifoso cane del duca, l’occasione di cogliere un presunto oppositore
del potere in flagranza di reato, intento ad intrattenere strani raduni in casa
sua.
Auguste si
deterse la fronte imperlata di sudore freddo, il respiro affannoso. Stava male:
intorno a lui c’era qualcosa che non andava, si disse, ripensando all’indefinita
minaccia che aveva avvertito lungo il tragitto e che aveva ritenuto un parto
malato della sua mente suggestionata. Che diavolo era
successo?
Era accaduto
qualcosa: Lucien doveva essere uscito di casa di gran fretta, senza preavviso,
al punto da abbandonare la casa aperta dietro di sé.
Avvertì il
proprio cuore saltare un battito, quando, alla sua sinistra, percepì un colpo
leggero vibrare sui vetri. Istintivamente, la sua mano si mosse fulminea, per la
seconda volta, sulla raffinata impugnatura del
coltello.
Eppure, al di
là della finestra socchiusa, non vide altro se non un pipistrello che urtava le
imposte con le ali, simile ad un ubriaco, ingannato dai suoi stessi
sensi.
Si diede
mentalmente dello stupido: come poteva farsi prendere dal terrore a causa di
strane coincidenze e di ingiustificati presentimenti?
Sollevato,
ripose il temibile oggetto nella tasca, quando, volgendo nervosamente qua e là
lo sguardo, le pupille dilatate sì da catturare le immagini circostanti
nell’oscurità, qualcosa attirò la sua attenzione.
Non era
solo.
Vi era
qualcuno mollemente adagiato sulla poltrona, e gli dava la schiena, il corpo
rivolto verso un fuoco morente, le deboli braci agonizzanti che irradiavano un
pallido calore. Ma quella posa non poteva essere naturale; era come un disegno
realizzato dalla mano inesperta di un bambino.
Riconobbe la
linea diritta e sottile del profilo di Lucien, i suoi
capelli…
Ma quella
figura non poteva appartenere ad una persona viva.
Auguste non
riusciva a stabilire un collegamento fra ciò che il senso della vista percepiva
dinnanzi a lui e una qualche facoltà mentale.
Si capacitò
che il suo amico era morto solo quando, scorrendo con lo sguardo allucinato su
qualcosa che avrebbe preferito cancellare per sempre dalla propria mente, vide
un rivolo sottile di sangue colare a un lato del suo collo, la pelle resa
cinerea dal gelo della morte.
Ps: ringrazio
di cuore Cami e Monella per le loro recensioni, le quali mi
hanno fatto immensamente piacere. Mi raccomando: continuate a seguire la mia
storia! Alla prossima!
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Capitolo 2 *** Capitolo 2: I ribelli ***
Capitolo
2
I
ribelli
L’atmosfera
a poco a poco si era acquietata, tornando tersa e tranquilla: la cupa foschia e
le nubi che fino a pochi istanti prima correvano lungo la volta del cielo,
mostrando e a tratti nascondendo il volto della luna piena, si erano diradate,
aprendo un varco nitido nella notte. Era come se un mostro, appollaiato sino a
quel momento sull’astro paglierino dopo aver dato la caccia alla preda, si fosse
ritirato a rimirare da un cantuccio nascosto l’effetto della propria opera,
leccandosi le labbra, fiero del proprio operato.
Dopo la
tempesta, era tornata quella calma ingannevole che pareva nascondere le proprie
insidie sotto un’apparenza vagamente ostile e carica di
languore.
Un’ombra
dai contorni incerti, rivelata dai raggi della luna piena, parve far capolino
come un fantasma fuggiasco in quella stanza in cui ancora vibravano note dense
di sangue.
Ma, più
probabilmente, doveva essersi trattato di un incubo momentaneo… Una sorta di
tremenda suggestione: nessuno lo spiava.
Il corpo
privo di vita di Lucien giaceva inerte sul piccolo divanetto scuro e, ad
un’occhiata sommaria alle sue spalle, sarebbe parso tranquillamente assopito
nella lettura di un libro, in attesa degli ospiti della serata. Ma la sua posa,
agli occhi di Auguste che indugiavano febbrili e ossessivi su ogni singolo
particolare, aveva qualcosa d’innaturale: troppo molle ed abbandonata per
appartenere ad una figura addormentata, il busto reclinato, il viso esangue che
puntava verso il cielo in un ultimo anelito di libertà, le lunghe gambe
distese.
Auguste
si risolse a distogliere momentaneamente lo sguardo da quella visione. Ansante,
bagnato di un gelido madore, il cuore che pareva schizzargli fuori dal petto,
scosse nervosamente la testa, come a volersi liberare di angosciosi pensieri
ancorati tenacemente al cervello.
Lucien
non poteva essere morto.
Riprese
a scrutarlo, sforzandosi di restare lucido. Forse, avrebbe potuto fare qualcosa,
o almeno così cercava d’illudere la propria mente in subbuglio. Sbatté le
palpebre fino a vedere più chiaro nella penombra e, facendosi coraggio, portò la
mano tremante a sfiorare la gola di Lucien con il gesto razionale di un medico,
sì da constatare se respirasse ancora. Lo tastò convulsamente, un tocco delicato
e malfermo. Nulla, nulla, neppure il più flebile movimento che potesse lasciar
presagire un soffio di vita. Non una sola molecola d’ossigeno nelle vie
respiratorie, nessun alito vitale a rinfrescare i polmoni inerti. Il battito
assente. Immobile, le povere vene svuotate d’ogni energia vitale, il volto
livido ed esanime.
Il suo
viso. Sembrava bello e disteso come sempre, non il minimo accenno di sofferenza
o di paura in quel che restava dei suoi ultimi istanti. Sarebbe parso
addirittura normale, se non fosse stato per il gelido pallore che conferiva al
volto senza vita quella venatura innaturale.
Auguste
non poté sostenere ulteriormente quella vista ed i pensieri folli e confusi che
lo tormentavano. Ogni singolo dettaglio sembrava pulsare di vita propria,
suscitando in lui un’attenzione morbosa che si risolveva in una fitta al cuore
sempre più intensa. Stava impazzendo! Era impazzito, ne era
sicuro.
Le gambe
non lo ressero. Ricadde sulle ginocchia, a peso morto, il capo fra le mani,
troppo scosso persino per lasciar sfuggire qualche lacrima dagli occhi lucidi e
congestionati o strapparsi i capelli per la disperazione. Era…
troppo.
Non era
giunto in tempo, aveva lasciato che tutto si consumasse nel silenzio, fragile ed
impotente di fronte alla fatalità; incapace, ancora una volta, di mitigare
quella piega così amara in cui mai avrebbe immaginato potessero volgere gli
eventi.
E, in
mezzo a quel vortice a senso unico di dolore, panico e disperazione, una rabbia
cieca e devastante si fece strada in lui, gelandogli ogni goccia di
sangue.
Perché
Lucien aveva lasciato che accadesse? Il sangue purpureo che impregnava la sua
pelle e la seta leggera della camicia era fresco e continuava a colare
lentamente, imbevendo tutto.
Stupido!
Se si fosse reso conto in tempo del pericolo, avrebbe potuto resistere ancora,
solo qualche istante: istante che gli avrebbe concesso d’intervenire e stornare
da lui la morte.
Perché
hai permesso che accadesse, Lucien? Perché non mi hai lasciato il tempo
d’intervenire, perché hai voluto dannarmi per
l’eternità…?
* *
*
-
Un’aggressione. Ritorsioni di qualche potente al quale è stata inavvertitamente
pestata la coda? Un “simpatico” avvertimento da parte del bastardo che pensa di
soggiogarci - non ancora per molto, volesse Dio… Qualcosa tipo “fattevi gli
affaracci vostri o farete la stessa fine”? – proruppe concitata una figura alta
alle sue spalle.
- Taci,
Dorian! – lo redarguì una voce dalla cadenza più bassa e roca – Nessuno ha
chiesto il tuo parere.
- Ma deve esserci, per Giuda, una ragione a
tutto questo – rincarò la dose il più giovane,
irremovibile.
Auguste
non li ascoltava, estraneo a tutto ciò che era accaduto intorno a lui
nell’ultima mezz’ora. Poco gli importava delle vaghe supposizioni degli altri
ribelli e del capo della polizia cittadina: ipotesi confuse e senza alcun
fondamento che non avrebbero fatto altro che ingolfargli il cervello d’inutili
perplessità.
- Bada a
come parli, Dorian! Anche i muri hanno orecchie, di questi
tempi.
Il
giovane dai capelli biondi si limitò a scuotere nervosamente il capo, scoccando
un’occhiata insofferente in direzione del commissario, un’espressione di sfida
dipinta sul bel volto. Per poi riprendere a misurare con passi tesi e concitati
il perimetro della stanza.
Dorian
era così diverso da lui, si ritrovò a meditare Auguste; così diverso nel modo di
catalizzare l’angoscia e la tensione in eccesso: il suo temperamento collerico
gli lasciava esternare con rinnovato impeto il dolore, la rabbia, il crescente
nervosismo.
La
tensione che impregnava la stanza era diventata per tutti così densa e palpabile
da non concedere quasi neppure lo spazio di un respiro. E quel piccolo sfacciato
si prendeva la libertà di insultare il signore di Noir Trésor persino di fronte
ad un uomo che, lì di fronte a loro, in quel momento si ergeva a rappresentante
di un’autorità.
Era una
fortuna che il capo della polizia cittadina fosse del tutto dissimile da quegli
uomini rigorosi, ligi al proprio dovere al servizio del duca; un bene per
Dorian, incappare non nel commissario intransigente capace di fargli passare il
peggior quarto d’ora della sua vita, ma in un questurino indolente che, per
codardia, fingeva di non sentire: troppo vigliacco per fare la spia o
intervenire con mano pesante contro le voci sovversive in città, altrettanto
vile per risolversi definitivamente a schierarsi dalla parte dei
ribelli.
E forse,
convenne Auguste, quell’uomo sarebbe stato capace, se ciò avesse prodotto per
lui dei vantaggi, di prostrarsi ai piedi del tiranno. Era Alphonse du Lac,
dopotutto, l’uomo al quale quel viscido di Lambert doveva la propria fortuna:
era stato lui ad avergli elargito su un piatto d’argento quella posizione che
gli permetteva di mantenere un alone di rispettabilità, nonché di percepire un
ragguardevole compenso. Al cospetto del suo benefattore, teneva un contegno
tanto rigido e compito quanto ipocrita, comportamento che non di rado gli aveva
alienato la stima e la simpatia della popolazione. Ma, voltate le spalle e
smessa la propria divisa, assicuratosi di avere le spalle adeguatamente coperte,
era un uomo del popolo che sapeva menar le parole nella giusta direzione,
sparando in tutta tranquillità su quanto non gli andasse dell’amministrazione
del duca, dei suoi collaboratori, del suo regime, senza per questo pervenire ad
alcuna soluzione concreta che chiarisse la sua posizione. Auguste lo reputava
senza mezzi termini uno che sputava nel piatto in cui mangia, e gli altri
avevano finito per compatire quell’uomo opaco ed untuoso. E, tutto sommato,
innocuo, per loro fortuna.
Auguste
udiva i tacchi degli stivali di Dorian battere sul pavimento come martelli,
finché il ragazzo non si fermò accanto a lui, lo sguardo fisso sul corpo senza
vita di Lucien adagiato compostamente sul divano, mentre i due uomini, il medico
che lo stesso Dorian si era preoccupato di mandare a chiamare e quell’intrigante
questurino, scrutavano la salma con occhi gelidi e parlottavano fitto fitto tra
loro, attenti a non lasciarsi udire dai presenti.
Con la
coda dell’occhio, Auguste vide Dorian strapparsi in un moto isterico il nastro
stretto intorno alla coda di folti capelli ondulati che gli ricadeva oltre le
scapole. Il giovane scosse le chiome bionde come un cane infastidito dal caldo,
riavviandole all’indietro, e si riannodò il codino.
Dorian
era un fascio di nervi pronto ad esplodere: Auguste poteva quasi avvertire
l’aria intorno a sé, come un miraggio, risentire del respiro alterato e nervoso
del compagno e delle vibrazioni di collera. Al contrario di lui, che si ostinava
tenacemente a ricacciare dentro di sé un dolore che lo stava
uccidendo.
Giaceva
miseramente accoccolato sul pavimento, sconvolto e del tutto assente agli eventi
circostanti, lo sguardo vacuo inchiodato al pavimento, reggendosi la fronte con
la mano. Di rado si era sentito così debole, sconfitto, in balia di forze
superiori.
Gli
uomini presenti nella stanza insieme con lui non erano altro che ombre
inconsistenti che, per una semplice casualità, si agitavano davanti ai suoi
occhi. Percepiva le loro parole ed i loro gesti incredibilmente lontani da sé,
ovattati, come forme evanescenti viste attraverso uno
specchio.
Non gli
importava di ciò che si muoveva senza posa intorno a lui; non aveva più alcuna
importanza che quelli continuassero a blaterare inutilmente ipotesi più o meno
realistiche circa i motivi e la dinamica dell’accaduto. Non gli sarebbe
importato nulla neppure se avessero preso ad azzuffarsi nella speranza di
trovare un colpevole fra loro; neppure se l’avessero preso, gettato in mezzo
alla mischia e condotto in catene fino ai carceri.
No, si
era immerso senza neppure rendersene conto in una dimensione mentale parallela
dove macabre e sfuggenti illusioni, opera di entità malvagie, lo stavano
conducendo fino alla follia.
Si
riscosse lievemente, quando intercettò l’occhiata eloquente che il commissario
Lambert indirizzò a Dorian, per poi rivolgere un gesto della mano nella sua
direzione.
-
Portalo fuori a prendere una boccata d’aria, Dorian – biascicò con voce incolore
– Questo sta per sentirsi male, e un morto, per stanotte, è più che
sufficiente.
Dorian
si limitò ad una smorfia d’insofferenza, circondandogli le spalle con il braccio
e obbligandolo, quasi, a risollevarsi in piedi.
Gli
occhi di Auguste erano pozzi senza fondo. Per un istante, meditò se fosse stato
sufficiente strangolare il commissario per quell’infelice
affermazione.
Cosa
credi di saperne di me, stupido asino imparruccato? Avrebbe
voluto gridargli, se solo la sua mente non fosse stata immersa altrove,
dall’altra parte dello specchio che confondeva la sua
realtà.
Attraversò
la stanza come un automa, scortato da Dorian che gli teneva insistentemente la
mano sulla spalla come se fosse stato sul punto di crollare da un momento
all’altro, simile ad un fuscello mosso dal vento.
La sala
sembrava diversa da quando vi aveva buttato lo sguardo l’ultima volta – solo
pochi istanti prima di apprendere la fine del suo amico. Le pareti gli parevano
più buie e scure, come se l’alito dell’angoscia e della disperazione, in qualche
modo, vi fosse rimasto appiccicato.
Vide i
volti dei presenti, ma senza prendersi la briga d’identificarli. Ombre… Solo
ombre evanescenti. Forse si sarebbe svegliato in tempo dall’incubo. Forse. Se
già non fosse stato troppo tardi.
-
Auguste, sei sicuro di sentirti bene?
La voce
di Dorian lo riscosse definitivamente. La vista gli si snebbiò, dissipando
quella patina d’opacità che fino a quel momento gli aveva impedito di vedere
lucidamente.
- Certo,
Dorian. Io sto bene. Non è questo il problema – replicò con rinnovata
freddezza.
Già: non
era lui il problema. A chi credeva di darla a bere? Per quanto ancora? Oh, Dorian! Possibile che
nessuno di voi si renda conto di cos’ha veramente di
fronte?
Vide i
lineamenti delicatamente scolpiti sul volto del ragazzo contrarsi
nell’incertezza alle sue parole. Distolse lo sguardo. Quando mai Dorian si sarebbe
umanamente preoccupato per lui, se fino a quel momento la sua principale
occupazione era stata sì appoggiare le sue idee, anche se superficialmente e in
un’ottica del tutto personale, e poi cercare costantemente di combinargliene
sotto il naso qualcuna delle sue? Forse, non poteva considerarlo degno di
fiducia a pieno titolo, benché, a dire il vero, nessuno seguisse regole
precostituite. E, purtroppo per lui, Dorian doveva trovare sin troppo
divertente, come una sfida appetitosa, agire di testa propria, guidato dalla sua
passionalità, sfuggendo a qualsiasi supervisione e spesso procurando sfilze di
grane.
Fernand
sapeva fare persino di peggio. Se Auguste riusciva ancora a controllare e tenere
a freno l’impetuoso Dorian, sebbene egli agisse fondamentalmente in modo
autonomo, infischiandosene di tutto e spesso pentendosi delle sue stesse azioni,
Fernand era addirittura subdolo. Con lui, parlare era sempre tempo sprecato:
l’avrebbe contraddetto fino alla nausea ed avrebbe agito comunque di propria
iniziativa, qualunque cosa ne pensasse, operando in segreto e presentandosi
davanti a lui con fare così sfacciato, da finto innocente, da muovergli il
desiderio istantaneo di prenderlo a pugni.
L’aveva
scorto di sfuggita, ritto ed impassibile come una statua di marmo, lo sguardo
indolente. Aveva percorso distrattamente con lo sguardo la linea del suo volto
sottile, così fredda e pura da sembrare innaturale, e, come un gioco, aveva
tentato di cogliere qualche vaga emozione su quei lineamenti distesi in
un’espressione atarassica sul volto pallido.
I
capelli sciolti, lunghi fino alle spalle, come un’ombra ai lati del suo viso, a
rimarcare il taglio affilato dei lineamenti che ne attutiva l’impatto androgino;
la camicia, allacciata disordinatamente sul petto a scoprire una stretta
porzione del torace, circonfuso di quella grazia dimessa che gli conferiva
un’apparenza quasi aristocratica, una venatura vagamente inquietante: se non
fosse stato per quei penetranti occhi azzurri e per la sfumatura fredda che la
luce smorta conferiva al castano chiaro dei suoi capelli, il quadro d’insieme
sarebbe stato nettamente bicromatico.
Fernand,
i modi che talvolta si configuravano non troppo differenti da quelli di un
ragazzo riottoso ed imprudente: voleva tutto e subito. Nella sua ingenuità
giovanile, doveva essersi persuaso, insieme al suo degno compare, che fosse
tanto eroico quanto fattibile buttar giù un tiranno dal suo trono a suon di
pugnalate. Dorian e Fernand sembravano fatti della stessa pasta, meditò Auguste,
e la malefica accoppiata rischiava piuttosto di mettere a repentaglio la loro
sicurezza e mandare tutto in fumo. Fernand, in particolare, ai suoi occhi non
era che un ragazzo impulsivo la cui sconsideratezza andava tenuta a freno prima
che divenisse troppo tardi.
Fissava
diritto dinnanzi a sé, impassibile come una scultura
classica.
Fernand.
Lui, al contrario degli altri, non sembrava particolarmente scosso dagli ultimi
avvenimenti. Se ne stava lì, calmo e distaccato.
Piccolo
serpente malefico,
considerò fra sé Auguste, mordendosi nervosamente il labbro. Negli ultimi tempi,
Fernand non era stato esattamente in buoni rapporti con Lucien. Certo, questo
non rappresentava un motivo sufficiente a non fare una piega alla notizia della
sua morte, ma non era umanamente credibile che quel ragazzino appena svezzato
riuscisse a mostrarsi ancora più freddo e criptico di lui.
Non del
tutto, forse: il fatto stesso che Fernand avesse aderito con trasporto alla loro
causa e fosse uno dei principali fautori delle opere di sedizione, lasciava
presagire che un fondo di generosità dovesse pur possederlo, sepolto in qualche
angolo remoto di quel cuoricino di ghiaccio, al di là di contorte ambizioni o di
personali smanie di rivalsa.
Nonostante
tutto, ad Auguste era balenata per un attimo nella mente l’espressione ferita e
furiosa di Fernand in occasione della loro ultima discussione, solo pochi giorni
addietro.
Fernand
non doveva aver gradito di ritrovarsi sbattuto senza appello nel torto palese,
privo di qualunque consenso e con le spalle al muro a proposito di quella
questione che al momento, per quanto si sforzasse di far mente locale, Auguste
non riusciva proprio a rammentare nella sua interezza. Ricordava però l’energia
con cui Lucien l’aveva diffidato da intraprendere qualsiasi iniziativa, da
muovere anche solo un passo senza le certezze necessarie ed il benestare di
tutti. Rivedeva ancora la fermezza scolpita negli occhi d’acquamarina, fissi con
disarmante franchezza sugli oceani in tempesta che erano divenute le iridi di
Fernand, tanto cupe e fosche da sembrare quasi sprizzare scintille per il
profondo rancore che vi si annidava.
Ed
avendo Fernand un carattere fiero, con ogni probabilità non avrebbe regalato
tanto facilmente l’occasione di farsi rimirare in quello stato; se non fosse
stato così orgoglioso – Auguste ne era quasi sicuro – forse non sarebbe riuscito
a contenere le lacrime di rabbia che gli erano lampeggiate furiosamente negli
occhi, a quella che doveva aver sentito bruciare sulla pelle come una cocente
umiliazione. Vulnerabile, per un istante, insospettabilmente
vulnerabile.
Talvolta
Auguste cercava di convincersi che Fernand non fosse altro che un ragazzo
arrabbiato e un po’ allo sbando: forse innocuo, dopotutto, nella sua prevedibile
smania di voler crescere un po’ in fretta. Solo un
ragazzo.
Al suo
fianco, Auguste posò lo sguardo sulla sorella di Fernand, Ambrosie, lo sguardo
molle e indolente, lo stesso piglio distaccato e lievemente arrogante del
fratello.
La
somiglianza spiccata che i due condividevano nell’aspetto non sarebbe stata mai
paragonabile a ciò che accomunava i loro atteggiamenti. Ambrosie era più bionda
del fratello, aveva un viso minuto dallo sguardo incisivo, forse un po’
particolare per essere definito esattamente bello, quasi un’antitesi dei canoni
di bellezza femminile in voga, idealizzati nei dipinti e nei ritratti di gusto
vagamente barocco, recanti figure femminili dai corpi procaci, i volti slavati e
gli occhi sottili e sfuggenti.
Ambrosie
si muoveva con una grazia nervosa, troppo decisa per essere attribuita
immediatamente ad una donna. In lei, piuttosto, sembravano convivere
paradossalmente la sfrontata alterigia di un’aristocratica e la genuina
risolutezza di una ragazza del popolo, lo sguardo fresco e malinconico pervaso
di un lieve sottofondo d’inadeguatezza e sospetto.
Per
tutto il resto, quella donna restava un mistero, almeno quanto
Fernand.
Com’erano
giunti a Noir Trésor? Cosa li aveva condotti in quel nucleo di tirannide e
corruzione? Quali obiettivi si proponevano? Poteva ancora fidarsi di
loro?
Interrogativi
destinati in quel momento a giacere insoluti: per quanto Auguste si fosse
sforzato di penetrare quella rigida corazza di reticenza, non era riuscito a
comprendere a fondo fino a che punto Ambrosie fosse idealmente coinvolta nel
loro progetto, e se e dove risiedesse in lei il confine fra l’ambizione di
protagonismo e l’aspirazione sincera. Sembrava essere entrata a far parte della
congrega quasi per caso, forse sulla falsariga di suo fratello, forse spinta
dall’amicizia che la legava a Dorian, da qualche arcana aspirazione personale o
dal vanitoso, giovanile desiderio di far convergere le proprie traboccanti
energie verso un punto concreto.
-
Torniamo dentro – si rivolse asciutto a Dorian – Questo venticello mi ha fatto
venire mal di testa.
Finalmente,
capitolo concluso! Purtroppo, è un periodo un po’ “maledetto”, tra la fine della
scuola e l’imminente Maturità.
Spero
sia almeno all’altezza delle aspettative e che non deluda i lettori di “Noir
Trésor.
Dunque,
ringrazio con grande affetto Cami,
Mikiinsa e Monella che hanno recensito i capitoli
precedenti, nonché per le belle cose che mi avete detto e per il vostro
incoraggiamento. Comunque sia… Grazie, grazie, grazie, anche a tutti coloro che
stanno leggendo “Noir Trésor”, ancora “in incognito”!
Con
affetto,
Alla
prossima!
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Capitolo 3 *** Capitolo 3: L'abisso ***
Capitolo
3
L’abisso
Auguste
si lasciò ricadere esausto su una poltrona. Il mondo innanzi a lui avrebbe
ripreso a girare, che egli lo desiderasse oppure no. Sospirò: doveva cercare di
reagire e di non perdere la testa. La notte scorreva di fronte ai suoi occhi,
nell’aria piatta ed opprimente, come foriera di nuove sventure. Il chiarore
lunare, insieme alla luce dei lampioni lungo la via, penetrava nella stanza buia
attraverso la finestra, giocando con il debole alone proiettato dalle candele
accese e vincendone la luce slavata e smorta.
Lucien
era morto, e la mente di Auguste andava per conto proprio, rifiutandosi di
funzionare adeguatamente, razionalizzando quanto era accaduto e riflettendo
circa la responsabilità dell’assassinio: troppe domande gli si affollavano nella
mente, confondendolo. E lui era troppo debole per scuotersi e cercare delle
risposte dentro o fuori di sé. Non avevano alcuna importanza le elucubrazioni
della polizia cittadina e del medico che aveva appena terminato di esaminare la
salma: non era stato neppure a sentirli. Lui era l’unico che potesse tentare di
ricercare autentiche spiegazioni. A costo di tacere per sempre, se l’esito
finale delle sue ricerche l’avesse obbligato a questo. Quale giustizia vi
sarebbe stata, in una città che ormai era come l’ombra di se stessa, governata
da un uomo corrotto? Quale giustizia, quale umanità?
Lucien
era morto e la vita avrebbe continuato a scorrere
impassibile.
Era
come se il mondo intero per lui si tingesse di nero, come una macchia
d’inchiostro che divora tutto indistintamente, senza
speranza.
Per
un attimo fu sfiorato dall’insana idea di farla finita una volta per sempre con
il calvario che era diventata la sua vita, e mettere per sempre fine al proprio
dolore. Sarebbe stato sufficiente somministrarsi del veleno o piantarsi un
pugnale nel petto, e sarebbe scivolato nell’oblio della fine. Come un sonno, un
lungo sonno non popolato da incubi.
Nulla
aveva più un senso. E allora, aveva forse senso che lui restasse in vita a
contemplare lucidamente i propri errori e le proprie
illusioni?
Eppure,
nel buio e nella follia del suo dolore, una sensazione contrastante si faceva
largo in lui, un lume capace di rischiarare il più amaro sconforto e di tenerlo
in vita.
Auguste
non era un vigliacco. Auguste aveva imparato ad affrontare ogni situazione di
petto, senza esitazioni. La sua missione non era ancora terminata, meditò, e non
si sarebbe conclusa a breve. Aveva ancora troppo da perdere, troppi progetti da
portare a compimento, troppi punti oscuri della sua intera esistenza da
chiarire, per concedersi l’ingrato, vile lusso di abbandonare ogni cosa a se
stessa e fuggire nell’oblio.
Ma
quella confusa, nebulosa ambizione che in passato l’aveva tenuto in vita, ora
non c’era più. Sorrise con disincantata amarezza: una volta era così. Da quel
momento, tutto era cambiato, da qualunque prospettiva.
Ma
forse avrebbe potuto ancora fare qualcosa, e non era affatto il suicidio la
soluzione concreta ai suoi problemi. Doveva far chiarezza sulla morte di Lucien
e portare avanti la sua missione con gli altri ribelli, si ripeteva, come una
triste nenia. Doveva dare un valore alla propria esistenza, per quanto vago gli
fosse il concetto, e malgrado in quel momento la sua vita, per lui, non avesse
valore più di quella di un insetto. Ma non gli era concepibile neppure porre
fine alla sua dannata parabola terrena da suicida, sopraffatto dalla sua stessa
follia.
Non
ho ancora saldato i miei conti. Non ho ancora ottenuto ciò per cui ho sempre
lottato, e vi è ancora tempo per iniziare a pagare i miei
debiti.
Paradossalmente,
gli parve di avvertire gli occhi di Lucien fissi su di sé, indistinti nel suo
pensiero, ed era una sensazione che non poteva ignorare. La sua mente si
addentrava attraverso sentieri a lui del tutto estranei.
Serrò
convulsamente le palpebre, cercando di ignorare le fitte di dolore al petto che
gli procurava ogni singola immagine del suo amico richiamata dalla propria
mente. Ma questo non poteva impedirgli di soccombere ai fantasmi che lo
tormentavano.
Gli
occhi di Lucien lo fissavano, e Auguste non riusciva a stabilire cosa vi fosse
nel suo sguardo: tristezza, forse. Lucien era deluso da lui, dal suo
comportamento. Ed ora vi era in lui il rimpianto di non averlo ascoltato nel
momento in cui l’aveva messo in guardia contro i pericoli cui andava incontro a
causa del suo agire. Forse Lucien l’avrebbe perdonato per quel legame che tra
loro si era spezzato. O, almeno, gli sarebbe piaciuto
crederlo.
L’immagine
di Lucien affiorava lenta nella sua mente, dapprima vaga e sfumata, divenendo
sempre più chiara man mano che il suo pensiero s’immergeva in quel
sogno.
L’ovale
del volto incorniciato da lisce ciocche color corvo che sfuggivano alla lunga
coda, come l’aveva visto l’ultima volta. I lineamenti del volto, minuti eppure
ben delineati, erano atteggiati in un’espressione indecifrabile. Auguste non
riuscì ad afferrare il suo sguardo, a comprenderne appieno le
sfumature.
Come
vivere, ora, privo del suo solo punto di riferimento, dell’unico amico che aveva
mai incrociato lungo la sua strada, senza quell’equilibrio che soltanto lui
aveva conferito alla sua vita?
E
poi, chiaro come un lampo in piena notte, ricordò ciò che aveva sancito quasi
indissolubilmente il loro legame.
* *
*
Di
quel giorno rammentava ancora il lieve smarrimento che aveva prodotto in lui la
vista dell’immane distesa d’acqua, il mare infinito, specchio tumultuoso che si
estendeva a perdita d’occhio dinnanzi a lui. Gli parve di poter sentire ancora
le onde vivaci infrangersi con ritmo regolare contro lo scafo della modesta
imbarcazione sulla quale viaggiavano, l’abisso color cobalto che si estendeva
innanzi a loro, privo di un punto d’approdo nelle vicinanze, quasi la nave, con
tutti i suoi passeggeri, stesse fluttuando nell’aria.
E
loro stavano su quell’imbarcazione, esuli, costretti a fuggire, a nascondersi,
ad abbandonare Noir Trésor almeno finché le acque non si fossero
calmate.
I
brevi, angosciosi momenti che avevano rapidamente seguito il colpo di Stato
messo in atto dal potente Alphonse du Lac e la sua successiva presa di potere,
erano stati così implacabili e repentini da non lasciare agli oppositori alcuno
spiraglio di possibilità di riorganizzare i loro ranghi e tentare una reazione.
I nobili avevano appoggiato il nuovo astro nascente. Auguste ricordava la
“caccia alle streghe” contro gli avversari politici che aveva seguito i
drammatici avvenimenti, dalla presa di potere del duca fino al lento assestarsi
della nuova situazione. Sarebbe stato il popolo, con l’andare del tempo, a
patire gli effetti più nefasti della guerra civile e delle conseguenti
repressioni.
Era
stato un periodo breve e bruciante che avrebbe lasciato il segno sulla
città.
Fu
allora che Auguste e Lucien si allontanarono dalla loro città natale, sfuggendo
così alla terribile sequela di arresti e condanne. Molti amici dell’Accademia
cittadina, contrari al dominio autoritario del duca, erano finiti nei carceri o
sul patibolo.
Ricordava
la sterminata distesa d’acqua sotto i suoi occhi. Avevano scelto la via più
sicura per sfuggire alle persecuzioni, ma poi sarebbero
tornati.
Ed
era stato allora che il ventiquattrenne Auguste, avendo da sempre vagheggiato
l’idea di lasciare Noir Trésor, aveva compreso che il suo destino era legato
alla sua città e che non si sarebbe dato pace fino a quando non fosse stata
fatta giustizia sull’uomo che aveva perseguitato e mandato a morte i suoi amici
e compatrioti. Noir Trésor aveva forse bisogno di quel modesto e utopistico
contributo. Non si sarebbero arresi: dovevano portare a termine il progetto
affiorato nella loro mente se non per un’utilità immediata, almeno per infondere
una speranza negli animi generosi che un giorno avrebbero raccolto le loro
aspirazioni e segnato il tramonto di quel periodo buio. Noir Trésor non si
sarebbe avviata, insieme al suo signore, ad un destino certo di ingiustizie e
barbarie; i suoi stessi cittadini avrebbero cancellato quegli attimi
terribili.
Ricordava
l’angoscia del suo primo viaggio in mare, la paura di non giungere a
destinazione o di non poter fare più ritorno a Noir
Trésor.
Il
volto pallido di Lucien s’imporporava sotto i raggi rossastri del sole al
tramonto. Auguste vide i suoi capelli bruni riverberare di sfumature differenti
secondo la luce da cui erano colpiti: ora assumevano i toni del rame scuro, ora,
sotto la luce della luna delle lunghe notti di viaggio, parevano tendere quasi
al blu del cielo cupo.
Quella
notte il vento si era alzato in maniera del tutto inaspettata, increspando
pericolosamente lo specchio del mare in onde tumultuose che sballottavano la
nave da una parte all’altra. Il capitano aveva assicurato che non vi sarebbe
stato nulla da temere: la rotta era sicura, e il maltempo sopraggiunto non
rappresentava un pericolo concreto per la sicurezza della navigazione. Eppure,
Auguste non era riuscito a tranquillizzarsi del tutto.
Era
tutto così diverso,
rammentava ora: ero giovane; la mia
volontà ancora non era permeata ed indebolita da fosche tinte
pessimistiche.
La
vicinanza di Lucien, in un certo senso, rappresentava per lui un’ancora di
salvezza, uno scoglio cui aggrapparsi nella tempesta delle sue contraddittorie
passioni. Lucien era la sua controparte: non meno agguerrito e determinato nella
volontà di contrastare i mali della sua realtà, ma riflessivo, quasi empatico.
Era l’unico in grado di incoraggiarlo e confortarlo, di offrirgli una spalla su
cui piangere e alla quale aggrapparsi. Lucien era la sua antitesi e il suo
simile, la sua parte complementare e la sua catarsi.
Era
diverso, allora; era tutto completamente, stupendamente diverso. Un sogno nel
quale cullarsi, confronto al suo presente.
Lucien
era lì con lui, e la sua disperazione ed il suo mal di vivere erano relativi,
circoscritti, controbilanciati e mitigati da una presenza amica. Allora non
sarebbe riuscito a figurarsi come sarebbe stato, senza il suo unico amico,
procedere dinnanzi ad un mondo che non perdonava l’errore, combattere i suoi
fantasmi, affrontare le sue battaglie contro se stesso ed il resto del mondo
completamente solo.
Un
sentore di tempesta si era ormai diffuso nell’aria; il mare agitato era lo
specchio del suo animo fumoso e tormentato. Gli erano venute a mancare le basi,
ancora una volta, ma con Lucien accanto ogni suo moto di sconforto assumeva un
colore differente che mai virava completamente al nero.
Possibile
che soltanto adesso, a distanza di cinque anni, a poche ore dalla sua scomparsa,
lui, Auguste, riuscisse a rendersi pienamente conto con granitica certezza di
quanto Lucien fosse importante per lui?
Il
ricordo di quel giorno non era mai sfumato, men che mai in quel momento. Ogni
singolo istante che si affacciava spregiudicato nella sua mente era una goccia
d’acqua in una torrida estate, una stilla d’ambra dal
cielo.
-
Come va, Auguste? – gli aveva domandato Lucien con voce pacata, scendendo
sottocoperta ed oltrepassando la soglia dell’umida cabina ove trascorrevano le
lunghe notti insonni – Non avrai il mal di mare? Sembri un cadavere in
piedi.
-
Ti ringrazio del complimento – gli fece Auguste con un mezzo sorriso malizioso e
sarcastico – Ad ogni modo non è nulla, sta’ tranquillo. Soltanto un po’
d’emicrania, il che è normale, considerando che, a furia di ondeggiare di
continuo, avrò dormito sì e no cinque ore. Distribuite in tre notti,
intendo.
Fece
scorrere una mano sulla tempia che gli pulsava ad intervalli irregolari,
irradiando le fitte da una parte all’altra del capo. Il debole lume della
lucerna ad olio era sufficiente ad impedirgli di tenere gli occhi aperti.
Strinse le palpebre, cercando di ignorare il dolore. Di certo, non doveva avere
un aspetto sano: gli occhi color antracite erano cerchiati dalle occhiaie
scure.
Una
vampata di calore gli salì alle guance, inattesa, quando avvertì con tutti i
suoi cinque sensi la vicinanza di Lucien. Il sangue aveva preso a rombargli
furiosamente: poteva avvertirne chiaramente il flusso impazzito palpitargli
nelle vene, ripercuotendosi sulle tempie doloranti.
-
Ora passa, sta’ tranquillo – lo rassicurò paternamente Lucien, la voce
lievemente arrochita, il tono ipnoticamente dolce.
Auguste
pregò in cuor suo che la penombra impedisse a Lucien di scorgere il suo volto
che, da pallido, si era improvvisamente tinto di cremisi.
Un
immenso languore gli attanagliò il petto e lo rese instabile, rapito, come
ubriaco. Era la vicinanza di Lucien a farlo sentire debole e privo di difese?
Doveva forse tutto questo alla propria mente confusa, scombussolata dai profondi
mutamenti che gli erano ricaduti addosso nel corso dell’ultima settimana: Noir
Trésor sull’orlo del disastro, le liste di proscrizione, l’esilio, l’insolito
viaggio via mare, le sue cupe riflessioni, l’altalenante sconforto, la sua
energia vitale che andava e veniva.
Aveva
sempre ritenuto – a torto, rifletté in seguito – di essere forte, volitivo,
determinato al limite della spregiudicatezza. Lucien era riflessivo, implacabile
nella sua spiazzante lucidità. I ruoli si erano improvvisamente invertiti, ma
Lucien sembrava avere, come sempre, la situazione sotto controllo. Lui, al
contrario, era languido e cedevole come cera fusa nelle sue
mani.
Auguste
temette di sussultare come impazzito, in preda ad un estenuante formicolio sotto
la pelle, quando avvertì la mano di Lucien scostargli con esasperante lentezza i
capelli sciolti, lasciandogli le spalle scoperte. Abbassò lo sguardo, indifeso,
la camicia leggera insufficiente a proteggere la sua pelle bruciante, e lo
sguardo di Lucien simile a lava incandescente che gli lambiva il corpo. Era una
carezza rovente che percorreva la spalla nuda, là dove la camicia abbondante era
scivolata lungo il braccio, scoprendone un’ampia porzione. La linea squadrata
dell’ossatura decisa s’intersecava con la morbida curvatura del deltoide, la
pelle chiara e lievemente ambrata luccicava al chiarore della
lucerna.
Auguste
credette di scivolare in un estatico torpore, quando le dita di Lucien si
posarono sulla sua pelle, sfiorandolo con esasperante delicatezza ed esercitando
una leggera pressione nel solco appena sopra la clavicola. Il movimento
rotatorio del pollice alla base del collo lo prostrò totalmente. Dovette
concentrarsi, trattenere il fiato per non lasciarsi andare sospirando contro il
corpo di Lucien, così vicino al suo da avvertire il respiro regolare giocare sui
suoi capelli.
La
strana reazione che pareva sprigionare il contatto della mano di Lucien su di
lui, per Auguste era palpabile come una scossa, una torpedine che squassava
violentemente ogni singola fibra del suo essere, e la tensione fra loro tale da
tagliarsi con un coltello.
Non
doveva essere così per Lucien, che manteneva il naturale dominio di sé: il suo
atteggiamento era soltanto insolitamente dolce, nulla di più, mentre indugiava
in quel semplice massaggio alla base del collo che per Auguste si caricava di
sensazioni e significati sconosciuti.
Non
poteva comprendere il perché di quelle strane ed ambigue emozioni. Rabbrividiva
al suo tocco, sperando soltanto che Lucien, così vicino, non percepisse il
palpito impazzito del suo cuore.
Era
riuscito fino a quel momento, con uno sforzo notevole da parte sua, a
controllare il tremito di ogni fascio muscolare, quando, ormai privo di forze,
cedendo sotto quel tocco che più che un massaggio era divenuto un circolo
esasperante di carezze, chiuse gli occhi e si abbandonò in un flebile gemito
contro il busto del suo amico.
-
Ehi! – proruppe Lucien, sorridendo e cingendogli cameratescamente le ampie
spalle – Dio, come sei pallido! Vieni a prendere una boccata d’aria; stare qua
dentro a subire l’oscillazione delle onde ti farà scoppiare la
testa.
Auguste
si riscosse e tirò un sospiro: fortunatamente, Lucien non si era reso conto di
quanto fosse agitato. S’infilò la giacca e lo seguì sul ponte, barcollando lungo
il breve tragitto a causa delle onde che, gonfiandosi in loro prossimità,
sollevavano, inclinavano e facevano ondeggiare pericolosamente l’imbarcazione.
L’effetto era aggravato dalla sua non ritrovata stabilità: la testa gli girava,
e, più ripensava a quanto era accaduto dentro di sé a causa di quell’enigmatico
contatto fisico, più si sentiva debole e confuso. A dispetto di tutto ciò, uno
strano calore gli invadeva il petto. Era tutto così confuso,
sfumato.
-
Osserva il mare – gli sussurrò Lucien, quando l’ebbe raggiunto sul parapetto –
Devi osservare, prevedere il movimento delle onde. Se i tuoi sensi si abituano,
il fisico non ne risentirà.
-
Come nella vita? – dedusse Auguste con fare filosofico, quasi fra sé – L’abisso
burrascoso del mare è la vita: se l’intelletto riesce a focalizzarne le
difficoltà, il trionfo del tuo io è inevitabile.
Era
tornato quello di sempre. Lucien per un attimo lo osservò rapito, seguendo la
linea fiera del suo volto.
-
Guarda – Lucien puntò il dito verso un punto non meglio precisato oltre
l’orizzonte.
Auguste
seguì l’indicazione gestuale con lo sguardo, socchiudendo gli occhi per vedere
più chiaramente.
-
Riesci a vedere qualcosa laggiù? Se il vento si calma un po’ e magari soffia a
nostro favore, entro domani il viaggio sarà concluso.
-
Già – meditò Auguste, ammiccando con occhi pensosi, lo sguardo fine e penetrante
– Non pensavo che la vita a Noir Trésor mi sarebbe potuta
mancare.
-
Torneremo – sentenziò Lucien, calmo e risoluto – Se il mare volubile ce lo
permette. E se la vita, altrettanto mutevole, vorrà concedercelo. Il duca du Lac
ha vinto solo la sua prima battaglia; per la guerra, vi sarà tempo e luogo –
concluse, citando con petulanza un popolare luogo comune.
-
Il nostro è un esilio temporaneo. Dobbiamo solo riorganizzare le nostre file, ma
torneremo, Lucien. Torneremo e ci impossesseremo di quel che ci è stato
tolto.
Quei
discorsi, affrontati in verità ormai cento e mille volte, dacché si erano messi
in viaggio, per supplire all’angosciosa, mal celata malinconia, erano
intervallati dagli ondeggiamenti sempre più bruschi della nave, che li
costringevano a tenere gli occhi vigili fissi sulle acque e a starsene
aggrappati al parapetto.
Il
muto languore che li aveva colti al pensiero della patria che stavano
abbandonando come esuli criminali, li aveva magicamente isolati dal mondo
circostante.
Auguste
continuava a ripetere a se stesso e a Lucien i soliti, vecchi discorsi, simili
ormai alle nenie in latino che il vecchio curato ripeteva dal pulpito più volte
durante il giorno. Voleva mascherare il proprio irrequieto nervosismo dietro una
normalità che lui, per primo, non sentiva; fingere che nulla fosse cambiato
dentro di sé e dissimulare di fronte a se stesso e a Lucien l’indescrivibile
carosello di emozioni inspiegabili e sconosciute che ancora gli bruciavano sotto
la pelle al pensiero di quelle mani da pianista che lo
sfioravano.
Mi
si è fuso il cervello,
si ripeteva invano.
La
gabbia di cristallo che entrambi avevano creato, riservandola ai loro discorsi e
ai loro individuali pensieri, fu infranta dalle urla dei marinai
affannati.
-
Ehi, tornate sottocoperta! Il mare si mette al peggio!
Svelto,
Lucien afferrò Auguste per un braccio, dirigendosi al riparo. I passi decisi
erano resi difficoltosi dai colpi che le onde impazzite vibravano contro la
robusta imbarcazione, facendola traballare pericolosamente sul livello del mare
e ostacolando la loro corsa.
Ad
Auguste parve di avvertire in lontananza il timone roteare vertiginosamente,
stretto nelle mani del nocchiere, e sfuggire al suo controllo. Nello stesso
istante, vide le acque incresparsi densamente in diretta prossimità della nave e
contrarsi in un’onda più potente del previsto a causa di una raffica di vento
che aveva gonfiato le vele.
-
Venite via! Venite via! È pericoloso!
Gli
annoiati passeggeri che sino a quel momento erano rimasti ad ammirare
pigramente, aggrappati al massiccio parapetto, lo spettacolo dei flutti che
s’imbiancavano di frizzante spuma in prossimità dello scafo, si affrettarono a
rientrare sottocoperta.
L’imbarcazione
parve rallentare la propria andatura, preparandosi a ricevere il colpo come un
fiero combattente intabarrato nella sua armatura.
Lucien
sbandò nel tentativo di recuperare l’equilibrio; la corsa disperata che aveva
ingaggiato non contribuiva a mantenerlo stabile sulle sue gambe, mentre lottava
contro il movimento della nave che si opponeva strenuamente al suo
cammino.
Auguste
lo udì ridere istericamente, forse a causa dell’ansia crescente, forse della
scarica d’adrenalina.
-
Posso sapere cosa ci trovi di tanto buffo? – gli gridò, affannato e
sbigottito.
-
Mi sembra di essere ubriaco…
Poi,
l’impatto immane, la nave che si sollevava bruscamente in seguito al vuoto
creatosi al di sotto di essa. Alcuni passeggeri, presi alla sprovvista, furono
scaraventati da una parte all’altra.
Auguste
ruggì terrorizzato, quando, oltre alla terra sotto i piedi, gli venne a mancare
la presa su Lucien. Scivolò lungo le lisce travi di legno rese umide e scivolose
dagli schizzi d’acqua.
In
seguito ad una botta in testa che non ricordava come aveva preso, vide per un
attimo lampi e luminescenze ovunque. Ma ciò non gli impedì di distinguere con
cruda lucidità il corpo sottile di Lucien, scaraventato nello spostamento
d’aria, abbattersi contro il parapetto, trascinato come un ramoscello sotto la
brezza della sera.
Il
colpo che Lucien ricevette in pieno petto gli tolse il respiro, facendo venir
meno le sue energie e costringendolo a piegarsi su se stesso come un insetto
pungolato.
L’urlo
ferino di Auguste, denso di terrore, squarciò il rombo delle onde e il sibilo
sinistro del vento, quando vide Lucien rotolare oltre il parapetto della nave e
scomparire nell’infuriare del mare in tempesta.
Il
mio cantuccio:
Eccomi
di ritorno dopo un lungo esilio causa esame. Come sempre, vado leggermente di
fretta… È un periodo davvero un po’ “maledetto”, e, sinceramente, quest’ultimo
capitolo inizialmente non soddisfaceva le mie aspettative e, dunque, potrebbe
sempre essere soggetto di piccole revisioni. Avverto che questo periodo gli
aggiornamenti potrebbero essere molto sporadici.
Ringrazio,
come sempre, Cami e Monella per i loro incoraggiamenti ed i
loro commenti davvero carini. Sono felice che Noir Trésor vi appassioni… E mi
raccomando: continuate a seguire i miei deliri. Alla prossima!
=^.^=
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Capitolo 4 *** Capitolo 4: Verso il nulla ***
Capitolo
4
Verso
il nulla
Il
ricordo di quei momenti angosciosi, si rendeva conto Auguste, da quel momento in
poi aveva assunto contorni sempre più confusi e sfumati.
Rammentava
vagamente la paura, la disperazione, il tumulto, l’agitazione, le urla, il buio
e la follia mescolarsi in un inferno di emozioni caotiche ed irrazionali. Non
ricordava i volti delle persone che lo circondavano, ma soltanto le voci
concitate che si sovrapponevano le une sulle altre, disperdendosi in un ronzio
che offuscava le sue percezioni.
-
C’è un uomo in mare…!
Ricordava
in seguito di essersi scagliato, furioso e col cuore in fermento, verso il
parapetto della nave, nel punto in cui Lucien era stato scaraventato con forza
immane per poi essere sbalzato tra le onde che si accanivano sulla superficie
agitata del mare.
Ricordava,
come impazzito, di essersi sfilato il farsetto con uno strattone e di aver
tentato di togliersi gli stivali, pronto a gettarsi sconsideratamente in acqua
per recuperare il suo amico.
Due
uomini l’avevano afferrato saldamente per le braccia, allontanandolo
forzatamente ed impedendogli di compiere un gesto inconsulto dettato dal panico
che lo agitava e gli toglieva la ragione.
Un
sogno, o forse un incubo. La confusione gli ottundeva i sensi: il brusio che gli
riempiva la testa e le indefinite macchie di colore che si agitavano ovunque
davanti ai suoi occhi gli impedivano di uscire da quello stato di profonda
agitazione senza punto d’approdo.
-
Siete sicuro di non essere ferito?
Soltanto
allora, Auguste si accorse del filo sottile di sangue che gli colava da un
angolo della bocca.
-
Non è nulla – gridò, agitato e fuori di sé – Mi sono solo morso il labbro.
Lucien potrebbe annegare!
Visse
gli attimi immediatamente successivi immerso in una sorta di angoscioso
delirio.
Non
seppe neppure come fu possibile correre in aiuto di Lucien in quelle condizioni
e strapparlo agli artigli del mare in tempesta. Non lo seppe mai, ma non era
importante. Tutto ciò che gli importava era rivedere gli occhi azzurri del suo
amico scintillare colpiti dalla luce sanguigna del
tramonto.
Fu
adagiato su dure assi di legno, sul ponte della nave.
Il
corpo esanime, immobile, gli abiti fradici che aderivano come una seconda pelle
alle membra prive di forza.
Auguste
credette d’impazzire. I movimenti e le voci che lo circondavano erano una
soffocante camicia di forza.
Chiamate
un medico! C’è un medico a bordo?
E’
quasi annegato… Non respira più…
Le
grida concitate intorno a lui lo confondevano, ovattate come in un incubo
contorto e nebuloso.
Un
uomo imponente tentò di trattenerlo, ma Auguste, con la forza della
disperazione, riuscì a svincolarsi e si lanciò su Lucien.
-
Al diavolo! – ruggì, scrollandosi quelle braccia possenti di
dosso.
S’inginocchiò
accanto a Lucien. I capelli corvini gocciolanti gli lambivano il collo ed i lati
del viso quasi cianotico.
Immobile…
-
Lucien – la voce gli si incrinò – Sono qui!
Gli
afferrò convulsamente la mano inerte. Non aveva molto senso perdere la testa
proprio in quel momento.
Non
temere, amico mio. Respirerò io per te. Respirerò per te.
Improvvisamente,
sapeva cosa fare. Vincendo il tremito e l’affanno che lo scuotevano, le membra
malferme, respirò profondamente.
Poi
la sua bocca si unì a quella di Lucien, trasferendo il respiro in quella povera
gola riarsa dall’acqua di mare.
Riprendi
a respirare. Torna in vita; respirerò io per te.
Ripeté
l’operazione, l’angoscia che gli gonfiava il petto insieme all’ossigeno che
inspirava profondamente per trasferirlo nelle vie respiratorie di
Lucien.
Si
separò da lui, affannato ed esausto, solo quando Lucien ricominciò a dare
segnali di vita. Fu scosso da un ansito profondo, poi prese a tossire buttando
fuori l’acqua salata che aveva ingerito.
Auguste
ebbe l’ultimo guizzo di lucidità e lo aiutò a rigirarsi su un fianco per
liberare le vie respiratorie. Poi, tutta l’angoscia provata negli ultimi istanti
si rovesciò violentemente su di lui, imperlandogli le ciglia di
lacrime.
-
Auguste…
Ancora
non riusciva a focalizzare gli attimi appena trascorsi. Lucien era vivo. Lucien
aveva ripreso conoscenza, e lui
l’aveva riportato in vita.
-
Cos’è successo, Auguste… – lo richiamò con un filo di voce, confuso, lo sguardo
implorante perso nel vuoto.
-
Tranquillo, amico mio. Sta’ tranquillo… – lo rassicurò Auguste, in un
soffio.
Gli
passò un braccio intorno alle spalle, sorreggendogli il busto leggermente
sollevato. Non gli importava della propria camicia ormai incrostata di
salsedine. Tranquillo, amore mio, sei
al sicuro, sei con me. Non avrei permesso ti accedesse nulla. Non potevo
permetterlo!
Vide
Lucien forzare le deboli palpebre nel tentativo di spalancare maggiormente gli
occhi ed avere così una visuale meno sfocata di ciò che lo circondava. Del suo
volto chino su di lui.
Auguste
si rese conto di quanta fatica costasse il minimo movimento ai suoi muscoli
privi di forze.
-
Calmo. Non è nulla – lo rassicurò con voce dolce – Non muoverti. Devi riposare.
Devi riprenderti.
Lucien
socchiuse le labbra, forse nel tentativo di dirgli qualcosa, il flebile sforzo
già eccessivo per il suo fisico già provato. Reclinò la testa all’indietro,
ansimando sommessamente, e si accasciò privo di sensi.
-
Lucien!
Eppure,
era ormai sicuro che ormai stesse bene. Il petto si sollevava e si abbassava
ritmicamente.
Solo
allora riuscì a posare per davvero gli occhi sulla realtà circostante, a
rendersi conto di dove si trovava. Il ponte della nave, mille occhi fissi su di
loro. Passeggeri incuriositi, uomini dell’equipaggio. Il vento non si era
calmato, ma ormai non vi era più pericolo.
-
Si può sapere cosa diavolo avete fatto? – gli gridò qualcuno – Dovevate
attendere il mio arrivo.
Un
medico.
-
Non vedete che ora sta bene? Respira – rispose piccato.
Vide
la gente intorno a lui mormorare e puntargli addosso sguardi critici e pungenti.
Non se ne curò: se Lucien era scampato al pericolo, per una volta il merito era
stato suo. Tutto il resto non aveva importanza.
Aveva
posato le labbra su quelle di un altro uomo – certo non per altro fine se non
quello di praticargli una respirazione bocca a bocca, necessaria a far
riaffiorare il respiro nel suo petto. Che sciocchezze andava a pensare, la folla
annoiata in vena di storielle piccanti sulle quali soffermarsi nel trascorrere
il tempo del viaggio? Lucien sarebbe potuto morire, se non avesse ripreso
immediatamente a respirare. Non aveva baciato Lucien, aveva solo cercato di
salvargli la vita.
L’esperienza
aveva sciolto le sue immediate paure, riempiendolo di sollievo; eppure, le
membra molli e tremanti sembravano sul punto di cedere.
Percorse
distrattamente i meandri della nave, quasi allucinato, fino a dirigersi alla
volta della piccola cabina, al capezzale di Lucien.
Riposava.
Il
volto di Auguste si corrugò in una strana smorfia di commozione, come se stesse
per scoppiare in lacrime, benché la tensione, il sollievo e le emozioni che gli
aleggiavano nel petto fossero troppo intensi per poter essere contenuti in un
semplice pianto liberatorio.
Osservò
intenerito i lunghi capelli corvini, sparsi disordinatamente sul morbido
guanciale, increspati e resi più rigidi al contatto con l’acqua salata.
Indossava abiti asciutti, ed i suoi lineamenti erano distesi in un sonno
leggerissimo che lo faceva sospirare lievemente. Auguste percorse quei tratti
con lo sguardo liquido e febbrile, mentre procedeva verso di lui accorciando
progressivamente la distanza che li separava.
Scorse
convulsamente con lo sguardo sui suoi occhi dal taglio fine ed allungato, sulla
linea diritta del naso sottile che andava a tracciare un profilo raffinato e
pulito. Le labbra morbide e sottili, ben disegnate, avevano ripreso un colore
rosato, e le guance erano nuovamente soffuse del suo colorito
naturale.
Perché,
improvvisamente, la vista di Lucien gli provocava quello strano, viscerale
calore? Perché lo faceva vacillare sulle proprie gambe, procurandogli un
formicolio ormai sin troppo familiare alla bocca dello
stomaco?
Lucien.
Il rischio di perderti è scongiurato. Non ho più alcun motivo di temere. Niente
ha importanza.
Non
avrebbe voluto svegliarlo per nulla, eppure moriva dalla voglia di rivedere le
preziose acquemarine che gli luccicavano fra le ciglia nere. Quando la sua mano
sfiorò dolcemente quella di Lucien, le dita s’intrecciarono alle sue e,
inaspettatamente, una mano delicata gli sfiorò il volto in una languida
carezza.
-
Auguste, sei tu? – il tono fresco ed estasiato con cui lo accolse era quello di
chi, dopo il suo pellegrinare, sta per ricevere un bicchiere
d’acqua.
Non
ci volle molto ad Auguste per capire che il suo sguardo era carico d’affetto e
gratitudine.
-
Va meglio ora, Lou?
Lou.
Non lo chiamava con quell’infantile diminutivo da quando, bambini, giocavano con
gli altri monelli del circondario e rincorrevano i gatti che, adulti e cuccioli,
si aggiravano nelle case dei poveri a mendicare a loro volta gli avanzi di
qualche popolano pietoso. Oppure, lascivi, si strusciavano ben pasciuti contro
le sottane sdrucite delle cuoche che si affannavano nelle cucine di qualche
residenza nobiliare. Il duca du Lac era capace di spendere per i suoi animali –
per non parlare dei suoi adorati cani da caccia – più di quanto non spendesse
nell’arco di una settimana una famiglia plebea per il proprio sostentamento,
meditò Auguste in una sorta di remoto disappunto.
Lucien
pensava che Auguste fosse come uno di quei felini randagi che rincorrevano,
tormentavano e coccolavano da bambini. Un animo fiero, indipendente e selvatico;
una roccia, quando gli si toccavano i suoi cuccioli, come una gatta che sfodera
gli artigli: si sarebbe buttato nel fuoco per i suoi affetti, la sua famiglia, i
suoi cari.
I
capelli scuri, lievemente ondulati, non più trattenuti dal nastro nero,
incorniciavano il suo volto tagliente, addolcendone i lineamenti gradevolmente
irregolari. Non tutti, forse, erano in grado di cogliere quella bellezza così
particolare ad un primo sguardo, ma, più verosimilmente, il fascino e la forza
che emanava il suo sguardo erano più incisivi di un’asettica alchimia di
proporzioni codificate per sancire schematicamente cosa è bello e cosa non lo è.
E Auguste, in quel momento, per Lucien era la cosa più bella, più luminosa
nell’universo intero.
-
Riesci a ricordare qualcosa? – gli domandò Auguste a bruciapelo, rigirandosi
distrattamente tra le dita una ciocca dei suoi capelli.
Gli
occhi di Lucien si offuscarono improvvisamente, a disagio, sfuggendo il suo
sguardo.
Ho
perso un’altra buona occasione di tacere,
si disse Auguste. Perché riportargli alla mente l’orribile disavventura in cui
si era giocato la pelle? Perché sconvolgere di nuovo la sua mente con il ricordo
del terrore e dell’angoscia che doveva aver provato in quei
momenti?
Il
medico l’aveva rassicurato che il suo amico se l’era cavata con una costola
rotta ed un grande spavento. Perché non lasciarlo tranquillo come l’aveva
trovato?
La
caduta. L’abisso. L’altezza della nave… Il ricordo gli avrebbe impedito d’ora in
avanti di guardare giù da una grande altezza con animo sereno. Con ogni
probabilità, la volta successiva in cui avrebbe avuto occasione di salire su una
nave, sarebbe stato colto da vertigini nell’ammirare lo specchio dell’acqua
sotto di sé.
Ricordava
il colpo in pieno petto che gli aveva spezzato il fiato, il respiro che gli
veniva a mancare. L’orribile sensazione di capogiro, il mare agitato sotto i
suoi occhi che si tingeva improvvisamente di rosso e le macchie luminose che
lampeggiavano ovunque dinnanzi a lui, ad intermittenza. La caduta, non l’avrebbe
dimenticata tanto presto. Gli era parso di precipitare nel vuoto, gli disse in
seguito, senza mai toccare una qualsiasi superficie sotto di
sé.
L’impatto
con l’acqua, agitata in mille vortici e risucchi, era stato tremendo. Le onde
l’avevano presto sommerso del tutto, trascinandolo senza sosta a loro
piacimento. Non era riuscito a riemergere, benché agitandosi e lottando con
tutte le sue forze, con rabbia. Aveva cercato di risalire, ma il mare l’aveva
ributtato immediatamente sotto. Aveva perso l’orientamento. Nel panico, ad un
certo punto non era più stato in grado di capire da che parte nuotare per
rivedere il cielo, ed aveva urgente bisogno di riprendere fiato. L’imbarcazione
enorme che incombeva su di lui gli aveva procurato una sgradevole sensazione di
brividi di gelida angoscia lungo la colonna vertebrale. Ad una simile morte,
sarebbe stato di gran lunga preferibile per lui concludere la sua sciagurata
parabola terrena in una fallimentare insurrezione contro il tiranno, con le armi
in pugno, a Noir Trésor.
Poi
non ricordava più nulla. Solo la paura, l’adrenalina allo stato puro, tale da
stordirlo. Questo era tutto ciò che rammentava della terribile esperienza, ed il
ricordo gli era riaffiorato nella mente.
-
Il buio, Auguste. Soltanto il buio completo.
-
Perdonami. Non dovevo – Auguste reclinò a sua volta lo sguardo, imbarazzato per
lo sproposito.
Lucien
era ancora scosso.
-
Cosa, Auguste? Di cosa dovrei perdonarti? – incalzò Lucien, gli occhi luccicanti
– Di avermi salvato la vita, forse?
Sussultò
leggermente, inghiottendo le lacrime.
-
Non devi ringraziarmi. Devi sapere che… – le parole sfumarono nei suoi
pensieri.
Cosa
dovresti sapere, Lucien? Che ti amo, forse? Sembrerebbe meno ridicolo, se lo
esprimessi a parole? È così dura da digerire, da comprendere, da razionalizzare.
E, in questo caso, temo che la mia dannata razionalità non possa proprio
nulla.
Gli
strinse la mano e se la accostò al volto, senza dire più nulla. Lì, un
mucchietto informe, inginocchiato ai piedi del letto di Lucien. Le gambe
cominciavano a dolergli, ma non se ne curò.
Sono
felice che stia bene, Lucien. Ho rischiato di perderti, ed ora sei di nuovo con
me. E questo mi basta, davvero. Non ho mai chiesto di più.
-
Auguste…
Si
riscosse, richiamato da Lucien.
-
Avvicinati.
Quella
voce… Ipnotica. Allettante. Innocente e diabolica, ambigua. Non poté decifrarne
la sfumatura.
Avvicinati.
Come un leone che tenta di adescare la debole preda. Come un domatore che
affronta un gattino.
Vide
Lucien socchiudere gli occhi, lo sguardo circospetto. Doveva rivelargli
qualcosa…
Il
cuore cominciò a balzargli nel petto. Accostò lievemente il volto a quello di
Lucien, che pareva attirarlo col suo sguardo scintillante e
mutevole.
Auguste
sentì il viso andargli in fiamme, quando le labbra di Lucien sfiorarono le sue
con esasperante dolcezza. Per un attimo si sentì avvampare fino alla radice dei
capelli, incapace di concepire il più semplice ragionamento
logico.
Fu
una scossa. Una scarica che percorse ogni fibra del suo corpo. Le labbra di
Lucien erano morbide. Si era leggermente trattenuto, alla sua reazione. Lucien
temeva di averlo sconvolto, di essere rifiutato.
Lo
smarrimento di Auguste durò l’attimo in cui il sangue in eccesso defluì
rapidamente dalle sue guance, facendo riaffiorare il suo colore naturale. Poi
non ebbe più alcun dubbio.
Un
gemito roco gli sfuggì dalle labbra, mentre, lentamente, le schiudeva a lambire
in un crescendo d’intensità la bocca di Lucien. Assaporò con discrezione e
delicatezza, in un muto contatto, la parte interna delle labbra del suo amico,
descrivendone il contorno e sfiorandolo con una lascivia quasi crudele. Avrebbe
perso il controllo.
Una
sensazione di morbido lo avvolse come una brezza sottile. Le labbra di Lucien
erano vellutate, leggermente umide. Assaporò quel gusto lievemente salato: era
come sprofondare in un sonno ristoratore, in un brivido sensuale che penetra fin
sotto la pelle, che dona l’oblio; che gli lambiva il petto, irradiando il suo
calore ad ogni singola molecola.
Languiva,
come percorso da mille carezze. Eppure, non smise di sfiorargli le labbra con le
sue. Non l’avrebbe lasciato.
Si
allontanò solo per un istante, riprendendo fiato. Il battito del cuore era
progressivamente accelerato, rendendogli affannoso il respiro, senza lasciargli
la tregua necessaria ad indugiare languidamente, ancora per un po’, in quel
contatto che gli aveva inondato il cuore di un piacere liquido e snervante,
simile alle onde che avevano tentato di inghiottire il suo unico
amore.
Era
una calamita, era un etere che lo lasciava fluttuare beato in una dimensione
paradisiaca. Forse, le sensazioni di cui, secondo gli Antichi, si godeva nei
Campi Elisi, dovevano essere qualcosa di molto simile. Nelle sue vene frementi
gli pareva scorrere non più sangue, ma acqua del Lete.
E
avrebbe voluto trasmettere le sue sensazioni alla persona che amava attraverso
il ritmo calibrato delle carezze.
-
Vieni qui… – gli sussurrò Lucien, attirandolo maggiormente a sé, le braccia
strette intorno alle sue solide spalle.
Temeva,
quasi, di staccarsi nuovamente da lui.
Le
loro labbra si cercarono nella rete della penombra.
Auguste
gli cinse la vita compatta. Nessuna sensazione in lui, tranne quel torpore,
quell’estasi quasi divina, era tanto potente da guidare le sue
azioni.
Gli
depose dei baci leggeri dal torace seminudo fino alla
fronte.
Nulla
aveva senso al di fuori di tutto ciò. Il suo mondo, la sua vera essenza era
racchiusa fra quelle quattro pareti e tra le braccia di
Lucien.
Lo
amava… Poteva dirlo, ora? Cos’era cambiato intorno a
lui?
E
intanto, le dita fini di Lucien scorrevano tra i suoi capelli, lisciandoli ed
arruffandoli gentilmente, finché Auguste non scivolò nel sonno, le membra
intorpidite da quel formicolio incessante che gli gonfiava il cuore di gioia e
di estenuante tensione. Il profumo della pelle di Lucien era più intenso di
qualsiasi droga, di qualunque miscela atta a generare l’oblio dei
sensi.
Dormì
come un cucciolo stanco nella dolce serenità di una culla, lì, nella piccola ed
umile cabina di una nave che trasportava loschi esuli politici, sbattuta dal
mare che ancora non aveva placato la sua ira. Dormì inginocchiato ai piedi del
letto del suo amico, parzialmente disteso accanto a lui, cullato dal battito
regolare del suo cuore.
Il
mio cantuccio.
Andiamo
ora ai ringraziamenti.
Ringrazio
innanzitutto Cami… Molto originale
la tua similitudine. Ho presente il sapore agrodolce a cui ti riferisci. Dici
che anche in questa storia vi è una sorta di commistione tra la dolcezza dei
sentimenti e l’implacabilità e l’amarezza della morte?
Grazie
a Cami e a tutti i lettori ancora avvolti dall’ignoto.
Ed
una richiesta fondamentale: Commentate! =^.^=
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5: Inchiostro corvino ***
Capitolo
5
Inchiostro
corvino
-
Basta così, dottore. Credo, almeno per il momento, di aver tratto tutte le
deduzioni sul caso – decretò sbrigativo il commissario, soffocando uno sbadiglio
con malcelata negligenza.
Era
stato destato in piena notte. Si era appena messo a riposare: aveva fatto a
malapena in tempo a chiudere gli occhi, dopo una serata trascorsa nel suo
piccolo e sgangherato ufficio ad archiviare vecchie pratiche di casi insoluti,
che quel biondino esagitato l’aveva praticamente buttato giù dal letto,
chiamandolo a gran voce come un ossesso dalla strada in basso e vibrando colpi
su colpi sul piccolo uscio di legno. Aveva messo su un chiasso indiavolato da
svegliare mezzo rione.
-
Credo proprio che abbiate ragione voi, commissario – fece di rimando il giovane
medico, coprendo con un candido lenzuolo il volto del giovane che quella notte
aveva esalato il suo ultimo respiro, inespressivo nel gelido rigore della morte
– E che il vostro lavoro possa dirsi concluso. Almeno per
stasera.
L’attempato
gendarme si grattò meditabondo nel punto in cui un tempo vi era l’attaccatura
dei capelli e dove ora la calvizie, celata dall’imponente parrucca, avanzava
inesorabile sulla cute non più giovane. Palesemente nervoso, l’uomo non faceva
altro che maneggiare e risistemare in continuazione quella capigliatura
vistosamente posticcia.
-
Spiegatevi meglio, dottore.
-
Escluderei con assoluta certezza l’ipotesi del suicidio. Vedete, in base alla
dinamica da me dedotta, è praticamente impossibile che sia stato lui stesso ad
assestarsi il colpo mortale.
Il
dottore mimò la pugnalata in un gesto eloquente, mentre il commissario
socchiudeva silenzioso i piccoli occhi porcini, saettando con lo sguardo ora sul
volto dell’interlocutore, ora scorrendo distrattamente intorno alla stanza e sui
presenti.
-
Osservate la ferita – il dottore scoprì nuovamente il cadavere – Il colpo, secco
e preciso, gli ha quasi reciso la giugulare. Inoltre, la ferita è molto piccola,
quasi un foro nella carne. Da questo posso dedurre, oltre alle piccole
dimensioni dell’arma adoperata, che il colpo che gli ha dato la morte non è
stato sferrato di taglio, ma come un fendente.
Il
commissario sorrise spazientito. Che quel damerino acculturato mettesse forse in
dubbio la sua autorità e la sua competenza?
-
Dite un po’, dottore – gli occhi dell’anziano questurino si strinsero in un moto
irritato – Che cosa credete mi abbiano insegnato all’Accademia? Suvvia,
tranquillizzatevi: sappiamo entrambi che le vostre congetture non possono
sbagliare. Ad ogni modo, caro mio, concordiamo entrambi che questi bei signori
avranno tutti qualcosa d’interessante da raccontarci.
* *
*
L’abisso
in cui, quella notte lontana, rischiai di perdere il solo ed unico bene che
questa vita miserabile mi aveva concesso, fu del tutto simile ad una distesa
d’inchiostro scuro che ti sommerge e ti invischia la pelle, capace perfino di
penetrarti nel cuore e avvelenare il tuo sangue e la tua
anima.
I
capelli neri di Lucien che spuntano dal lenzuolo con cui il dottore ha avuto il
buon senso di ricoprire la salma straziata dal pugnale somigliano a lucido
inchiostro che cola implacabile.
E’
un mare in tempesta che mi seppellisce nell’oblio, è inchiostro vischioso che
scivola sul mio cuore come la dannazione che macchierà la mia vita. Il peso del
male che ormai da troppo tempo mi corrode è un marchio impresso a fuoco nelle
carni. È così, e da questo momento in poi, la pace mi è negata.
Vorrei
tornare indietro ed evitare in tempo un abisso di dolore dal quale non posso
fuggire e che sempre continuerà a tormentarmi nei miei
incubi.
Vorrei
tornare indietro, Lucien, e morire con te in quella notte di tempesta. Vorrei
che quell’uomo di cui stento a ricordare il volto non mi avesse impedito di
buttarmi alla cieca giù dal parapetto della nave, nel tentativo disperato, che
mi sarebbe stato letale, di gettarmi subito dietro di te per strapparti al
pericolo.
Auguste
rammentava, nella furia di quel momento, di non aver affatto riflettuto che un
simile gesto gli sarebbe valso una morte sicura.
Ora,
ripensandoci, avrebbe preferito per entrambi quel tipo di morte, benché ingrata,
anche se questo avesse significato non giungere mai a destinazione né, in
seguito, fare ritorno a Noir Trésor.
Se
così fosse stato, non avrebbe mai acquistato consapevolezza dei propri
sentimenti, ma avrebbe disperso la propria coscienza nell’oblio di un sonno
senza fine.
Non
avrebbe conosciuto la gioia di trovarsi Lucien fra le braccia, il sollievo del
rischio scongiurato. Non avrebbe sentito la morbidezza dei suoi capelli sotto le
dita né il profumo della sua pelle che gli confondeva i sensi, mentre
impallidiva, avvampava e perdeva la ragione sotto il tocco rovente di calibrate
carezze. Una morte prematura avrebbe implicato la conseguenza di non poter mai
giacere tra le sue braccia ed assaporare l’amore con lui.
Quanti
ricordi, in quelle lunghe notti d’esilio, rintanati come i peggiori criminali
nelle stanze tutte uguali e disadorne di squallide e dozzinali locande, immersi
nell’apatia a crogiolarsi nell’inattività e a contemplare il passato nell’attesa
trepidante e nell’ebbrezza di un imminente ritorno!
Quando,
in un tempo dal quale sembrava lo separassero ormai secoli, le labbra di Lucien
l’avevano svegliato nel cuore della notte, irradiando nel suo petto un fremito
destinato a non dargli pace, Auguste aveva creduto di essere
impazzito.
Al
solo ricordo, ogni suo bacio gli bruciava sulla pelle con la stessa intensità.
Ma non era quella di una languida carezza la sensazione che percorreva il suo
corpo; non gli strappava brividi di piacere, non lo riempiva di quel calore che
sapeva di miele e che si diffondeva in ogni fibra del suo essere,
ottenebrandogli i sensi, togliendogli la ragione, sostituendo ogni goccia di
sangue che scorreva bollente nelle sue vene con l’etere del paradiso, mescolando
il piacere fisico ad un piacere superiore, una gioia che sembrava non
finire.
Non
erano queste le sensazioni che gli suscitava, in quel momento, il ricordo. I
baci, le carezze e le parole sussurrate durante quelle lunghe notti, nella
miseria dell’esilio, erano aghi che gli trafiggevano il cuore; erano mille
coltellate nella carne viva. Il dolore della disperazione che gli invadeva e gli
dilaniava il cuore a piccoli morsi si era sostituito al piacere di quei
momenti.
Come
poteva, ora, ripensare a quegli istanti? Come poteva far rivivere dentro di sé
quel passato che non sarebbe tornato? Non era degno di riportare in vita quei
momenti. La disperazione che il ricordo gli procurava, letale come stille di
veleno, era un lusso ed un tormento che non si sarebbe dovuto
concedere.
Auguste
si sentì cedere. Non avrebbe sopportato un dolore tanto acuto senza impazzire e
sentirsi morire ogni istante di più. Era come essere preso e mutilato; era come
se, a sangue freddo, fosse stato privato di una parte del suo corpo. L’arma che
aveva estirpato la vita dal corpo indifeso di Lucien era la stessa che gli aveva
strappato il cuore.
Era
troppo doloroso. Troppo. In un misto micidiale di dolore e follia, fu come se
una lama acuminata gli penetrasse in mezzo alle scapole, spaccandogli il cuore e
smembrando in due il suo corpo. Il respiro gli si spezzò in un ansito di puro
dolore, e Auguste ricadde con il busto in avanti, annaspando e nascondendo tra
le lunghe dita tremanti il volto madido di sudore freddo.
-
Auguste! Auguste, ti prego.
Due
mani forti, sebbene sottili, l’avevano afferrato per le spalle, riportandolo
alla realtà: le stesse mani che ora gli accarezzavano il viso, un balsamo
refrigerante ma insufficiente a recare sollievo ad una ferita
mortale.
Le
macchie azzurre che si agitavano davanti ai suoi occhi, impedendogli una visione
nitida, lentamente si diradarono, fino a permettergli di mettere a fuoco il
volto di Fernand.
-
Ehi… – mormorò Auguste con voce debole – Va meglio, amico. Va meglio,
ora.
-
Non facciamo scherzi, d’accordo?
Auguste
si lasciò andare contro lo schienale della poltrona, sciogliendo la tensione che
gli spasmi di dolore gli avevano procurato.
Stringeva
ancora nel pugno un lembo della camicia nell’atto di artigliarsi il petto
dolorante. Il contatto amichevole di Fernand aveva sopraffatto il suo cedimento
fisico e morale, lasciando ricadere morbide le sue membra
contratte.
-
Dorian… – la voce flebile del giovane penetrò nella mente di Auguste come una
nenia rasserenante – Pensi che sia in grado di sottostare ad un interrogatorio
da parte di quegli aguzzini?
Sul
volto di Auguste comparve un sorriso tirato e sarcastico. Punto sul vivo,
rispose al posto dell’interpellato.
-
Cerca di essere serio, Fernand: secondo te, dovrei farmi intimidire dalle
domande di un pinguino incipriato?
Gli
occhi di Fernand s’illuminarono: a quanto pareva, la ripresa doveva essergli
parsa repentina. Era l’Auguste che conosceva.
-
Almeno per oggi, Auguste, lascia perdere le battaglie – s’intromise Dorian – Sei
molto provato, è inutile che lo nascondi. È la seconda volta che rischi un
malore.
-
Non devi preoccuparti, Dorian, davvero. Dopo aver visto Lucien… morto – la voce
gli s’incrinò – Credo che affrontare il diavolo in persona non potrebbe
sconvolgermi tanto.
- È
uscito di senno – sussurrò Fernand a Dorian – Non si risparmia nulla e vuole
tenersi dentro la sua disperazione, senza riflettere su quanto male si stia
procurando da solo.
-
Se il commissario ha voglia d’incrementare le sue strane congetture puntando il
dito su qualcuno, credo che con Auguste cadrà male. È la persona più adatta a
levargli certe assurde idee dalla testa.
-
Non capisci, Dorian – gli occhi di Fernand s’incupirono – Ha bisogno di una
valvola di sfogo al suo dolore. Ma è così orgoglioso da non ammetterlo neppure a
se stesso.
-
Purtroppo è fatto così: è ottuso, ma è fatto così. Non sa riconoscere i momenti
di debolezza; e, anche quando lo fa, alza le spalle e tira
avanti.
Fernand
seguì con lo sguardo pensoso la camminata di Auguste che, da vacillante, cercava
di apparire spavalda. Lo vide dirigersi impettito e indolente verso il
commissario che l’aveva bruscamente richiamato per le domande di
rito.
-
Fernand – Dorian gli posò una mano sul braccio con decisione – Se posso darti un
consiglio, ti suggerirei vivamente di lasciarlo un po’ a crogiolarsi in pace nel
suo dolore. È inutile tentare di farlo ragionare: si basta da solo, non ha
bisogno di consigli né di spalle su cui piangere. Capisci?
Il
ragazzo annuì distrattamente, lo sguardo perso nei suoi
pensieri.
- E
se proprio vogliamo andare per il sottile – riprese con foga Dorian – Gli sono
umanamente vicino e mi dispiace per la fine orribile di Lucien, ma, capisci, i
nostri obiettivi sono ben altri, al di là di quel che riguarda
Auguste.
Fernand
fulminò Dorian con lo sguardo, sfuggendo bruscamente al suo
contatto.
-
Tu non sai proprio pensare ad altro? Per te esistono solo i tuoi maledetti
propositi e la tua personale sete di vendetta. Dici di non fidarti pienamente di
Auguste e che, a tuo parere, la sua è solo ambizione, eppure non sei molto
diverso.
-
Ora cerca di calmarti! – Dorian gli strinse nuovamente il polso sottile, con
decisione – Di questo, ne abbiamo già parlato.
Tagliò
categoricamente il suo discorso con uno sguardo di pietra e senza lasciare a
Fernand alcunché da replicare
-
Dico solo che quanto è successo, per tragico e sconvolgente che sia, deve avere
una sua spiegazione che è nostro compito scoprire. E se la mia logica non
m’inganna, direi che tutto questo non può che essere riconducibile al duca. Lui
può avere fonti d’informazione sul nostro conto, può saperne più di quanto
ognuno di noi possa immaginare, e noi dobbiamo correre ai ripari – il suo
sguardo indugiò su Fernand, il volto teso nella concentrazione – Eppure…
Potremmo utilizzare tutto questo per aprire gli occhi alla gente su che razza di
criminale sia il signore che pretende di governarci! Un “signore” che uccide i
propri “sudditi”. Mi conosci bene, Fernand, e sai che non avrò pace finché non
vedrò strisciare quel bastardo.
-
Allora, avevo ragione – proruppe Fernand a malincuore.
Si
guardò attorno, circospetto, prima di riprendere a parlare. Non era prudente
dissertare su questioni tanto delicate, quando un cane del duca occupava la
stessa stanza, intento a fiutare possibili sospetti. Non poteva sentirli
dall’angolo appartato in cui si erano sistemati.
-
Accusi Auguste di quegli stessi comportamenti che poi sei il primo a tradurre in
pratica. Se davvero Auguste non è in buona fede, tu non sei molto diverso da
lui. In questo momento, non m’importa chi davvero si celi dietro la sua maschera
di ghiaccio. Io stasera ho visto un uomo soffrire le pene dell’inferno: anche
lui merita un conforto amichevole.
-
Non ti sto impedendo di andare ad asciugare le sue lacrime. Personalmente, la
vista di un uomo come Auguste ridotto in quello stato mi ha sconvolto. Ma io lo
conosco, ho letto la disperazione nei suoi occhi e so che nulla, in questo
momento, potrà regalargli il conforto di cui ha bisogno.
-
Dorian… A volte mi domando come un uomo come te possa avere un unico chiodo
fisso nella testa. Per te esiste solo la nostra causa e nient’altro, e continuo
a non capire la tua insana ossessione. Per me è diverso – chinò il volto, quasi
si rivolgesse a se stesso, prima che a Dorian – Io non ho mai avuto nulla da
perdere, se escludi la mia dignità. Tu… A volte mi fai
paura.
Dorian
evitò di guardarlo, a disagio. I suoi occhi divennero due larghi pozzi senza
fondo.
Fernand
poté giurare di averlo visto per un momento sbattere le palpebre per liberarsi
di un velo di lacrime fra le ciglia.
-
Ho i miei motivi per essere diffidente: credimi, Fernand – riprese Dorian – Non
ho perso di vista la realtà. I miei occhi vedono la sofferenza indicibile di
quel poveretto, ma mi sento orribilmente impotente. La disgrazia ha colto tutti
di sorpresa. Già, una terribile sorpresa! Dunque, amico mio, tanto vale, se non
altro, non perdere di vista almeno il nostro scopo
fondamentale.
Fernand
arrossì, rendendosi conto repentinamente di aver urtato la sensibilità del suo
amico.
-
Scusami, Dorian, se ho dubitato di te.
-
Non temere – un sorriso che sapeva di tristezza gli piegò le labbra rosee – Mi
hai solo frainteso. Auguste è stato colpito da questa disgrazia più di chiunque
altro di noi: è palese che ora non sia in grado di sobbarcarsi tutti i problemi
che il nostro progetto comporta. Per quanto mi riguarda… Forse hai ragione. Ci
sto perdendo la testa dietro a questa maledetta faccenda. E forse non sono
meglio di lui né di nessun altro – Dorian riprese fiato, interrompendo il suo
monologo alquanto imbarazzato – Eppure, caro Fernand, ho conosciuto un lato del
tuo carattere che non avrei mai sospettato: puoi diventare esageratamente
altruista, all’occorrenza. Ti credevo un sovversivo senza scrupoli, e
invece...
-
Non dovevi esserti fatto esattamente un’ottima opinione di me – azzardò Fernand,
non sapendo se prendere l’affermazione sibillina del compagno come un insulto o
un commento che voleva essere vagamente ironico per spezzare l’opprimente
tensione.
-
Al contrario – Dorian tornò improvvisamente serio – Credevo tu fossi come me. Un
complice ideale.
-
Sarai contento di constatare che, nella mia proverbiale indifferenza, conosco
anche il sentimento dell’amicizia.
-
Considerati fortunato, Fernand. Devi considerarti fortunato per non aver ancora
perso di vista il legame fondamentale che rende gli individui “umani” a tutti
gli effetti. Davanti a te, hai da un parte una specie di pazzo squilibrato –
alluse ironicamente a se stesso – e dall’altra, un pezzo di ghiaccio che sa
tramare, ma non amare.
Fernand
sorrise lievemente di fronte all’amara ironia che Dorian aveva sfoderato quasi a
sproposito. Sembrava molto più provato di quanto non volesse lasciar
trasparire.
Dorian
era irruente e sconsiderato come lui; ma, talvolta, Fernand trovava che il suo
comportamento non differisse poi enormemente da quello di
Auguste.
Quest’ultimo
adoperava il suo gelido raziocinio in ogni aspetto della sua esistenza. Dorian,
al contrario, diventava un fascio di nervi vestito di fiamme se si trattava di
cospirare contro il duca o di scagliarsi contro un’ingiustizia. Ma, per il
resto, si chiudeva a riccio.
Fernand
socchiuse gli occhi per un istante, soprappensiero. Poi, il suo sguardo puntò
verso il soffitto. La fioca luce delle candele che si consumavano lentamente non
era sufficiente ad illuminare l’intero ambiente, cosicché il ballatoio
sovrastante appariva buio ai suoi occhi.
Scrutando
il suggestivo gioco di chiaroscuri che la pallida illuminazione proiettava, a
Fernand parve che una pesante cappa oscura incombesse su di loro con opprimente
intensità.
L’ombra.
Le
tenebre.
Forse
gli assassini osservavano i loro movimenti, nascosti in qualche anfratto immerso
nel buio. Ma ciò era del tutto improbabile, giacché il commissario aveva appena
ordinato ai suoi uomini di perlustrare l’intera dimora.
O
forse vi era qualcosa di ben più pericoloso ed arcano che rifiutava di rivelarsi
ai loro occhi.
Il
ragazzo si ravviò i capelli all’indietro, come a voler liberare la propria mente
da pensieri inquietanti e poco propizi. Decise di concentrare nuovamente la sua
attenzione su Auguste, il quale si dirigeva nuovamente verso di loro dopo aver
sostenuto il breve interrogatorio.
Fernand
non ricordava di aver mai visto Auguste tanto scuro in
volto.
L’uomo
fissò negli occhi uno per uno tutti i presenti, lo sguardo ora intenso, ora
assente.
-
Cos’a voleva sapere il commissario? – gli domandò Ambrosie in un sussurro,
parlando per la prima volta in tutta la sera.
La
ragazza, rimasta in disparte sino a quel momento, simile ad una statua di marmo
o ad una sorta d’occhio impassibile, si unì improvvisamente agli altri ribelli,
affiancando Auguste.
- È
un’ottima domanda – considerò il capo dei ribelli fissando un punto impreciso
dinnanzi a sé, quasi potesse oltrepassare con lo sguardo i suoi compagni come
ombre evanescenti – State un attimo a sentirmi: prima o poi, probabilmente
stanotte stessa, il commissario avrà qualcosa da domandare ad ognuno di noi. È
necessario a questo punto che tutti forniamo le stesse risposte senza tradirci.
Potrebbe appigliarsi a qualunque imprecisione.
Ambrosie
annuì. L’ampia tesa del cappello che portava calcato sulla fronte proiettava
mutevoli ombre sul suo sguardo color turchese.
-
Non possiamo andargli a raccontare che ci accingevamo a riunirci la notte a
congiurare contro un dittatore – incalzò Auguste, dopo essersi seduto –
Seguitemi: stasera, sono stato alla locanda. Dopodiché, mi sono reso conto di
dover restituire questa a Lucien…
Prese
dalla tasca un’antica spilla di fine fattura.
-
È
un po’ esile, come scusa… – commentò sarcasticamente
Dorian.
Auguste
roteò gli occhi, spazientito.
-
Cerca di capire, Dorian! Non sapevo dove altro appigliarmi per evitare di
contraddirmi da solo e legarmi un cappio attorno al collo. La storia che ho
messo su in pochi secondi di riflessione forse sarà sciocca, ma, fino a questo,
si regge in piedi. Sono andato a casa di Lucien… e mi sono ritrovato di fronte
questa scena. Lì per lì, sconvolto, non sapendo cosa fare, sono corso a chiedere
aiuto a Fernand e Ambrosie…
-
E, lasciami indovinare – lo interruppe la ragazza – Per semplificare il tutto,
Dorian si trovava con noi. E si è recato in caserma.
-
Esattamente. È tutto chiaro? Daremo tutti la stessa versione, e gli sgherri del
duca, per il momento, non ci daranno fastidio. Solo che…
Lo
sguardo di Auguste, sino a quel momento risoluto ed inflessibile, assunse un
aspetto liquido a causa delle lacrime che vi si annidavano pungendogli gli
occhi.
-
Continua – lo sollecitò Ambrosie con voce insolitamente
dolce.
-
Non volevo mentire sulla morte di Lucien. Sono riuscito ad essere bugiardo
persino sulla morte del mio amico. Mi sono sentito un
vigliacco.
-
Non devi – lo contraddisse la ragazza, con determinazione – È necessario
proteggerci dai sospetti che ricadranno su di noi. Quale giustizia potremmo
sperare di ottenere da simili governatori? Non hai agito scorrettamente,
Auguste. Alle autorità non importa nulla di chi effettivamente è responsabile
dell’assassinio di Lucien. Loro tenteranno di usare quanto è successo per
incastrare qualcuno di noi. Lucien sarebbe stato d’accordo con noi – proseguì, e
la voce le tremò leggermente – Tanto vale ricercare la verità da soli, piuttosto
che comportarci da ingenui ed aspettarci miracoli da parte di una specie di
teatrino che di “giustizia” porta soltanto il nome.
Fernand
distolse lo sguardo. Era un fatto più unico che raro che Auguste, l’uomo tutto
d’un pezzo, osasse aprire il suo cuore a qualcuno e mostrare qualche
insicurezza. Istintivamente, il ragazzo si diresse verso la piccola credenza
posta in un angolo della sala e versò del liquore in un
bicchiere.
-
Prendi, Auguste. Ne hai bisogno.
Auguste
osservò scetticamente il contenuto del piccolo calice.
-
Fernand, lo sai che non amo imbottirmi d’alcool.
-
Neanch’io. Ma ne hai bisogno. Per una volta. Sei sconvolto, e non ti fa bene
inghiottire il tuo dolore.
Ecco.
Aveva trovato il coraggio: gli aveva detto quel che pensava e sapeva che sarebbe
stato soltanto per il suo bene.
-
Ad ogni modo, ti ringrazio – concluse laconicamente Auguste, porgendogli il
bicchiere ormai vuoto.
Calò
nuovamente il silenzio, finché Auguste non si drizzò in piedi di scatto,
scostandosi rapidamente.
-
Scusate… – mormorò con la voce carica di pianto.
Fernand
sentì il proprio cuore spezzarsi, ma non osò muovere un muscolo. Aveva visto
Auguste oscillare continuamente fra la disperazione, la feroce repressione del
proprio dolore e il continuo manifestarsi di un carattere fiero che gli
imponeva, per quanto gli era possibile, di tenere in pugno le redini della
situazione. L’aveva visto schizzare repentinamente da uno stato d’animo
all’altro come impazzito, negando a se stesso la propria fragilità e soffocando
ogni umano cedimento, fino a non poterne più. L’aveva visto trattenere a stento
il tremito delle membra contratte, l’aveva visto impallidire, gli occhi che
luccicavano sotto le ciglia scure, arrossati e
congestionati.
-
Non ce la faccio più… – gli parve di sentirgli dire.
Fece
per seguirlo, tormentandosi mentalmente su come concedergli un minimo conforto,
ma Dorian lo trattenne.
-
Lascia stare, Fernand – gli sussurrò con dolcezza – Non è il caso. Non
servirebbe a nulla. Non provocarlo. Non pretendere che il suo dolore abbia il
sopravvento su di lui. Non farlo sentire peggio.
Lasciami
andare da lui! Avrebbe
voluto gridargli. Non posso lasciarlo
solo. Non posso!
-
Mi dispiace, Fernand – riprese Dorian – Mi dispiace. Non possiamo fare niente
per lui né per noi stessi, ora. Niente, capisci?
Fernand
abbassò tristemente il capo. Dorian aveva tremendamente ragione. Non poteva
essere utile in alcun modo ad Auguste. Il suo sguardo indugiò sul viso di
Ambrosie, cercando un brandello di solidarietà almeno nella sorella. Lui non
aveva la forza di schiodare i propri passi da quel maledetto divano sul quale
era apaticamente sprofondato. Non rimproverava Dorian: lui era deciso e sicuro
della propria posizione. Non agiva per un cattivo fine e, in un certo qual modo,
aveva ragione.
Vide
il volto pallido di Ambrosie accennare un sorriso amichevole nella sua
direzione. Aveva compreso.
La
ragazza si diresse a piccoli passi verso Auguste, seguendo il suo breve e
casuale tragitto.
-
Auguste… – mormorò dolcemente – Ti prego. Non puoi fingere che dentro di te non
sia accaduto nulla. Riesco a vedere il tuo dolore chiaramente come se guardassi
dentro di me. Ti senti in colpa per qualcosa che hai o non hai fatto, e ora
vorresti negarti persino il conforto di un abbraccio. Non devi avere paura… Sei
umano. Avvicinati.
Ambrosie
gli prese delicatamente una mano tra le sue.
-
So che non cambierà niente, so che probabilmente sto sbagliando anch’io e che
rischierò di farti del male. Hai bisogno di sfogarti: non puoi impazzire. Tutti
ne abbiamo bisogno.
Auguste
si costrinse ad incontrare lo sguardo della donna. Ambrosie tentò di
sorridergli, annebbiata dalle sue stesse lacrime, ma il suo viso si corrugò
lievemente in una smorfia incomprensibile. L’uomo non resistette. La vista delle
lacrime di quella ragazza che conosceva da poco tempo gli strinse il petto in
una fitta soffocante. La cinse convulsamente, attirandola verso di
sé.
Non
vi era nulla di sensuale in quell’abbraccio. Ambrosie avrebbe potuto essere una
sorellina minore. E lui, era chiaro, non avrebbe mai sfiorato una donna senza il
suo chiaro consenso.
Era
l’abbraccio amichevole che voleva fungere da reciproco sollievo tra due
disperati.
La
ragazza sentì le spalle di Auguste sussultare sotto il suo tocco lieve. Anche
senza poterlo vedere in volto, sapeva che le sue guance erano allagate di
lacrime.
Aveva
esaurito parole che mai le erano parse tanto banali, eppure la sincerità era
stata utile a qualcosa. Le piangeva il cuore a vedere quell’uomo impenetrabile e
risoluto ridotto ad una maschera di dolore, ma sapeva che dopo, forse, sarebbe
stato sopraffatto da una sorta di catarsi.
Dorian
incrociò le braccia sul petto.
-
Siete contenti, ora? Siete riusciti a farlo piangere. Siete riusciti a vedere il
sangue. Accidenti a voi due! Avrei dovuto legarvi entrambi. Mi piange il cuore a
vederlo così. Una crisi di nervi non gli sarà vantaggiosa: ne sono sicuro.
-
Non lo so, Dorian, non lo so – replicò Fernand, sull’orlo dell’esasperazione –
L’unica cosa che possiamo fare è medicarci le ferite: con un abbraccio o con
l’indifferenza, non ha molta importanza. Io vorrei lenire in qualche modo la sua
sofferenza, mi capisci? Ma so che questo non è nelle mie possibilità. Mi è
negato. Forse, hai ragione: ogni tentativo sarebbe vano. Ma non possiamo
spararci un colpo in testa!
Dorian
si portò una mano alla fronte, scuotendo il capo con triste
rassegnazione.
-
Al di là di ciò, questa faccenda non mi piace. Non so perché, ma ho
l’impressione che sia una trappola ben studiata. Usare l’omicidio di un uomo
come esca: di questo e altro riterrei capaci certe
carogne.
-
Lascia stare, Dorian – lo interruppe Fernand, con voce flebile e cantilenante –
Ne riparleremo con la mente lucida. Abbiamo bisogno di
tranquillità.
Auguste
si distaccò imbarazzato dall’abbraccio di Ambrosie. Riprese fiato, asciugandosi
gli occhi.
-
Perdonami, Ambrosie. Mi sono lasciato andare. È tutto…
assurdo.
-
Lucien era il tuo amico più caro. È comprensibile che ora tu sia a
pezzi.
Lo
sguardo di Auguste s’incupì, mentre le sue labbra si piegavano in un mezzo
sorriso che, paradossalmente, racchiudeva tutto il suo
dolore.
-
Non esattamente, Ambrosie. Non esattamente – sussurrò – Io, Lucien… Lo
amavo.
Salve,
ragazzi!
Mi scuso,
innanzi tutto, per il terribile ritardo con cui ho aggiornato, ma, tra esame di
Maturità, pranzi e cene con gli ormai ex compagni di classe, mi sono un po’
incagliata! Comunque sia, 89/100!^^
Questo è
un capitolo di passaggio, anche se, mi sono resa conto, è venuto su molto più
lungo del previsto. Spero di non avervi tediato nella lettura e, naturalmente,
di non avervi deluso!
Grazie a
tutti voi che seguite “Noir Trésor” nell’ombra, nonché, e in particolare,
Monella e Cami per i loro commenti.
Alla
prossima! =^.^=
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6: Delirium ***
Capitolo
6
Delirium
La
brezza notturna accarezzò il volto accaldato di Fernand, non appena egli rimise
piede all’aperto. Fuori, finalmente, da quella stanza che l’aveva gettato nel
terrore. Il cielo, sopra la sua testa, era trafitto da brandelli di nubi color
piombo.
Era
uscito dall’incubo, anche se solo fisicamente: i pensieri continuavano ad
affollarsi nella sua mente, benché, per un istante, tornare a respirare a pieni
polmoni l’aria fresca di una notte maledetta che volgeva al declino, gli aveva
restituito una fugace illusione di libertà.
Alla sua
destra, Auguste procedeva lungo la strada buia, stretto nel mantello scuro e
chiuso nel suo silenzio carico di dolore. Lo vide sussurrare qualcosa ad
Ambrosie, la quale, in risposta, gli rivolse un sorriso rassicurante e riprese a
camminare.
Per un
istante, Fernand fremette dal desiderio di scoprire quale recente segreto li
unisse; tuttavia, preferì non dire nulla ed allungò il
passo.
Non
ricordava più l’ultima volta in cui sua sorella avesse mostrato tanta confidenza
con qualcuno. Da tempo, ormai, sembrava essersi chiusa in una fredda diffidenza,
protetta da una coltre di ferro, quasi nutrisse un’incomprensibile ostilità nei
confronti di quel mondo che aveva raccolto le loro esistenze con rancore e con
indifferenza.
Indipendente
e fiera, Ambrosie dava l’impressione della persona chiusa in se stessa e nel suo
carattere duro ed indecifrabile. Sarebbe forse passata completamente
inosservata, scivolando eterea nell’ombra del suo riflessivo silenzio come una
ninfa dei boschi; eppure, la sua presenza in quel luogo ed in quella situazione
appariva così insolita che l’attenzione di un fugace osservatore difficilmente
non si sarebbe catalizzata su di lei almeno per un
istante.
Fernand
lo sapeva: Ambrosie era affermazione e negazione, era trasparenza ed ambiguità,
ingenuità e sagace malizia. Non cercava di catalizzare l’attenzione su di sé,
eppure, senza avvedersene, la sua mente acuta catturava l’osservatore in una
trama ben più sottile. Sembrava svagata e completamente inconsapevole di quel
fascino che talvolta esercitava.
Alle
riunioni dei ribelli era solita parlare di rado – quelle rare occasioni in cui
la vera Ambrosie sembrava venire allo scoperto – e i suoi interventi raramente
si dimostravano incoerenti.
La sua
impronta fortemente razionale, indipendentemente da quanto lei desiderasse
lasciar trasparire, era continuamente accesa da contraddittorie passioni. Era
una giovane donna decisa a far sì che nessuno decidesse per lei, tanto che
tutto, nella sua vita, sembrava essere stato studiato a puntino sì che non
soddisfacesse le aspettative di nessuno. Sola, lontano dalla famiglia, viveva in
tutto e per tutto come un uomo; anzi, come un ragazzaccio ribelle: solitaria,
indomabile e distante da ogni consuetudine.
Benché,
secondo una mentalità diffusa, la sua età la rendesse vicina al culmine della
giovinezza, il momento della vita solitamente coronato dal matrimonio, Ambrosie
pareva non avere alcuna intenzione di sposarsi. Le sue aspirazioni in tal
proposito erano vaghe, volte piuttosto ad un amore disinteressato che alla
rigida convenzione di un contratto matrimoniale.
La gente
non vedeva di buon occhio Fernand e Ambrosie e, pertanto, si limitava ad
ignorare la loro singolarità, pur senza evitare di lasciarsi sfuggire amare
frecciatine. Per i più sospettosi, erano “quelli strani”, “la brutta razza”, “i
ragazzi di provincia”, nulla di più.
Una vita
un po’ campata in aria, rifletteva Fernand con una malcelata punta d’orgoglio,
ma che di certo non arrecava danno a chi stava loro intorno, benché tutto – le
loro frequentazioni, il loro comportamento un po’ introverso e sfuggente, il
lieve alone di mistero che non erano riusciti a staccarsi di dosso – li rendesse
vagamente sospetti di manovre sovversive.
In una
città simile, preda di un regime dalle rigide gerarchie, in cui ognuno aveva
finito per diffidare persino della propria ombra, quale fiducia potevano
ispirare uno strano ragazzo dall’aspetto ombroso accompagnato da una sorella
“strega” che preferiva inalberare la sua mente in astrusi ragionamenti del tutto
inconsueti per una donna e leggere sermoni filosofici rubati dalla libreria di
suo fratello, anziché occhieggiare in giro con discrezione, insieme alle
compagne, alla ricerca di un buon partito?
Ambrosie
non godeva di una considerazione migliore della sua, meditava Fernand, poiché
come lui non obbediva rigorosamente a quei tratti comuni che non necessariamente
rendono migliore l’individuo: migliorano forse le apparenze, ma non la sostanza.
Il suo atteggiamento, i suoi interessi in particolare, non erano propriamente
definibili come tipici di una donna. Una donna. Aveva mai pensato a sua sorella
semplicemente come una donna, senza ulteriori implicazioni di sottofondo? No,
concluse il ragazzo, se per “donna” doveva necessariamente intendersi un
individuo che vive in tutto e per tutto in simbiosi con un uomo ed agisce solo
nei modi in cui tutti si aspettano che agisca.
Ambrosie,
in fondo, non faceva nulla di male.
Neanch’io, si
corresse. Non siamo facilmente
inquadrabili all’interno di uno schema, ma non diamo fastidio a
nessuno.
La loro
vita al borgo non era stata molto differente da quella che conducevano
ultimamente. Il fatto che in un villaggio fosse più facile saper vita morte e
miracoli in un baleno agevolava non poco le malelingue nell’arte dello sputare
sentenze. Ogni voce, ogni piccolo scandalo vero o presunto tale non passava mai
inosservato, e le notizie si diffondevano repentinamente a macchia
d’olio.
In
città, in un certo qual modo, si era ripresentata una situazione analoga di
curiosità, sospetto e malcelata insofferenza, almeno nel quartiere, anche se in
maniera più blanda.
La
ragazza si accorse di essere osservata e accorciò il passo, avvicinandosi a
Fernand. Prima che lui potesse rivolgerle parola, gli rivolse uno sguardo
enigmatico, studiandolo attentamente con i grandi occhi malinconici. Scosse
mestamente le spalle, mentre sul suo volto si dipingeva un mezzo sorriso denso
d’impercettibile rassegnazione.
Fernand
fu come folgorato da un’idea. Non vi aveva mai riflettuto in un’ottica simile,
ma vi era una differenza fondamentale che vedeva opposti lui e sua
sorella.
Lui si
era fatto dolorosamente le ossa e non si lasciava più scalfire dalle critiche al
veleno che come spilli acuminati gli si conficcavano nelle spalle ormai avvezze
a tal uso. Per Ambrosie era diverso: il fatto di sentirsi così sola, per di più
oggetto di disapprovazione, la feriva come una lama acuminata conficcata sotto
la pelle. L’orgogliosa Ambrosie non avrebbe voluto mai darlo a vedere, eppure,
sebbene non desiderasse essere una come loro, una ragazza comune, senza cultura
e senza idee strane per la mente, soffriva per la sua
diversità.
Non
facevano nulla di male: perché spargere veleno su di loro e guardarli con tanta
ostilità? Perché erano quelli che di certo chissà cosa nascondevano, e lei era
il maschiaccio, la strega, la pazza: gli epiteti preferiti da chi non sapeva più
a cosa appigliarsi pur di accanirsi su veri e presunti vizi
dell’umanità.
Pazza.
Una semplice parola per abbracciare un concetto troppo ampio in un batter di
ciglia, senza gravarsi della fatica di scavare oltre né prendersi la briga di
analizzare con la dovuta sensibilità quei comportamenti inconsueti che cozzavano
con ciò che era considerato “normale”.
E una
ragazza che viveva da sola, non avvertiva l’impellente ossessione di trovare al
più presto un marito, leggeva le opere dei filosofi, parlava con gli uomini e
covava chissà quali loschi piani sovversivi in compagnia di uno sparuto gruppo
di gente altrettanto poco raccomandabile, non poteva essere definita
“normale”.
Fernand si guardò attorno, sperduto. Erano quasi giunti
alla piazza principale in cui svettavano nella loro imponenzala
Cattedrale e il Palazzo di
Giustizia. Là si sarebbero divisi, ed ognuno avrebbe preso la propria
strada.
Il
ragazzo razionalizzò dolorosamente che l’inquietudine che sentiva incollata
addosso non era una sua singolare sensazione.
Il cielo
scuro sopra di sé, che fino ad un istante prima gli aveva conferito
un’inspiegabile illusione di libertà, ora pareva gravargli sul capo con tutto il
suo peso, provocandogli un orribile senso di
claustrofobia.
La sua
improvvisa fermata lungo il cammino attirò l’attenzione di
Dorian.
-
Fernand, tranquillo. Non c’è nulla da temere – lo rassicurò amichevolmente il
suo amico e, con una mano sulla spalla, gli trasmise per un attimo il suo calore
rassicurante.
Fernand
puntò uno sguardo smarrito verso il cielo, scorrendo poi circospetto
tutt’intorno, alla ricerca di un pericolo imminente. Un pallore innaturale gli
aveva invaso le gote.
- Qua
intorno sta per succedere qualcosa, Dorian.
Aveva
alzato la voce, il terrore negli occhi lucidi e sbarrati.
Auguste
e Ambrosie si voltarono fulminei verso di lui.
In quel
momento, il guizzo di un’ombra saettò fulmineo dinnanzi a loro, balzando fuori
di un vicolo. Un urlo stridulo ferì l’udito dei quattro presenti, facendoli
arretrare di qualche passo, all’erta.
Fernand
spintonò Dorian, si parò dinnanzi a lui come a volerlo proteggere da un
imminente pericolo e protese in avanti il suo pugnale, stringendolo tra le dita
malferme.
-
Rimetti pure quel giochino al suo posto, stupido, perché quello che ti ha tanto
spaventato non è altro che un gatto.
La voce
scettica e quasi divertita di Auguste colpì Fernand come una secchiata d’acqua
gelida. Il ragazzo sentì il viso andargli a fuoco e per un attimo credette che
la quantità di sangue rimasta in circolo nel resto del corpo non fosse
sufficiente a mantenere il cuore in funzione.
Distolse
il viso: in questo modo, rifletté convulsamente, se non altro Auguste non
avrebbe notato il vivo rossore che gli aveva infiammato il volto fino alla
radice dei capelli.
Chinò
mestamente il capo, pieno d’imbarazzo, il respiro ansimante a causa di quel
fugace sollievo che per un attimo l’aveva sfiorato, quando si era reso conto che
il misterioso sicario – che li braccava nei suoi momentanei deliri – non era
che… un gatto.
La
realtà era un’altra: Auguste era capace di farlo sentire piccolo con poche e
semplici parole.
Non
erano mai stati amici e, con ogni probabilità, mai lo sarebbero diventati.
Condividevano il medesimo progetto sovversivo, entrambi operavano in segreto e
si prodigavano per cercare di arginare i danni di una situazione sempre più
insostenibile e controversa. La loro “alleanza” terminava qui. Per il resto,
somigliavano piuttosto a due gatti arruffati intenti a studiarsi in silenzio
senza muovere un muscolo, pronti a sferrare l’attacco al momento
opportuno.
Da una
parte vi era Auguste, così impeccabile e razionale; dall’altra lui, Fernand, il
ribelle, sognatore, impulsivo, un po’ immaturo.
Dorian
riusciva a gestire meglio di lui i contrasti, rifletteva Fernand. Dorian ogni
tanto sapeva anche essere conciliante, almeno quando diventava
necessario.
Tra
Fernand ed Auguste sembrava essere sorto un muro che di certo non poteva essere
spuntato dal nulla: le loro divergenze d’opinione ed i loro caratteri
diametralmente opposti avevano fornito il loro ingente
contributo.
Da parte
di Auguste vi era la spasmodica tendenza a cercare di ostacolare Fernand, di
arginare la sua istintività e di esercitare un certo controllo su una persona
dalle mille sfaccettature che continuava a sfuggirgli, temendo che la sua
impulsività ed il suo modo di agire causassero prima o poi dei problemi. Doveva
certamente ritenerlo un ingenuo ed un idealista, e Fernand lo sapeva: secondo
Auguste, se lui non si fosse costantemente impegnato a riportarlo alla ragione,
sarebbe stato capace da un giorno all’altro di istigare i giovani oppositori ad
una vera e propria azione rivoluzionaria contro il duca.
Fernand
era convinto che Auguste amasse troppo temporeggiare, e questo gli aveva
progressivamente alienato parte della sua fiducia, giacché il ragazzo, a
malincuore, si era persuaso che dietro i piani di Auguste vi fosse una sorta di
personale sete d’ambizione; che stesse forse sfruttando lui e gli altri ribelli
per raggiungere le sue mire. Cominciava inoltre a pesargli l’avere costantemente
il suo fiato sul collo.
Aveva
provato ad alzare la spalla ed andare avanti ad ogni costo, ma ben presto aveva
finito per soccombere all’inattaccabile rigore di un uomo che criticava
aspramente tutto ciò che diceva o faceva.
L’evidente
ostilità che Auguste manifestava nei suoi confronti era capace di farlo
sprofondare nella malinconia. Non l’aveva certo detto apertamente, eppure
cominciava a risentire del potere che quell’uomo esercitava su di
lui.
No, non
l’avrebbe ammesso neppure a se stesso: nonostante le loro posizioni che, al di
là del baricentro comune, li vedevano opposti; nonostante i loro ormai
proverbiali dissidi, Fernand desiderava più di ogni altra cosa ottenere la sua
approvazione e la sua stima, dimostrargli che era un uomo e non un
ragazzino.
E non
era soltanto questo. La vicinanza di Auguste ed il suo sguardo gelido lo
facevano sentire stranamente a disagio, un disagio che non sapeva spiegarsi. Si
sentiva fragile, privo di difese. Non gli piaceva essere soppesato da testa a
piedi da quello sguardo inquisitore che sembrava captare i suoi intimi
pensieri.
Fernand
si costrinse a risollevare lo sguardo. Il suo viso aveva ripreso il naturale
colorito ed il tremito del corpo si era attenuato. Ripose l’arma nella
cintura.
Si
sentiva strano. Un’insolita miscela di sensazioni l’aveva appena travolto come
una marea: la tensione, la paura, il sollievo, l’imbarazzo. Ora si sentiva
debole, svuotato.
- I tuoi
amati gatti, eh, Auguste? – lo apostrofò blandamente Dorian, volendo spezzare la
tensione – Per poco quel cucciolo non ci faceva prendere un
colpo!
L’attenzione
di Fernand si concentrò su Auguste, chino ad accarezzare un piccolo micio
spaventato tutto raccolto su se stesso. La bestiola parve ammansirsi sotto
quella carezza rassicurante e prese a fare le fusa strusciandosi contro gli
stivali di cuoio di Auguste.
Fernand
rammentò che anche Ambrosie amava i gatti: vi era una sorta di empatia tra la
ragazza e quegli animali indipendenti dal corpo elegante e flessuoso e il
portamento fiero, quasi avvolti da un’aura di mistero.
È
passato, si
costrinse mentalmente il ragazzo. Non c’è
più alcun pericolo. Allora, perché sto tremando? Perché non riesco a stare
tranquillo? Possibile che la paura, mista alla vicinanza di Auguste, mi giochi
certi scherzi?
Per un
attimo, Fernand si sentì la testa leggera e temette di crollare a terra. Già,
Auguste già di per sé non lo riteneva propriamente affidabile, rifletté un
istante dopo: così, l’avrebbe reputato oltretutto un bambino senza spina
dorsale.
-
Tranquillo, Fernand – lo rassicurò la sorella, passandogli un braccio intorno
alle spalle – Era solo un falso allarme; va tutto bene.
Fernand
annuì distratto, anche se “tutto bene” non era esattamente l’espressione
adeguata per descrivere il momento.
Ambrosie
si sollevò lievemente sulla punta dei piedi, fingendo di abbracciare il
fratello, e gli sussurrò:
-
Secondo me non te lo sei sognato. È da quando siamo usciti da casa di Lucien che
ho la sensazione che qualcuno - o qualcosa - ci segua.
Fernand
aguzzò la vista, guardingo. Scrutando alla propria sinistra, cercò di penetrare
con lo sguardo attraverso l’oscurità dello stretto vicolo da cui era spuntata la
bestiola inattesa.
Vide il
gatto sfuggire dalle mani di Auguste e defilarsi con un balzo nell’oscurità
dalla quale era piombato innanzi a loro.
Qualunque
cosa potesse pensare Auguste in proposito, Fernand era sicuro di non essersi
soltanto immaginato la presenza che avvertiva alle sue spalle. Ambrosie gli
aveva confermato i suoi sospetti, e certo non la si poteva definire una persona
facile a lasciarsi prendere da inutili paure. Il fatto che si aggirasse a notte
inoltrata – o forse era quasi l’alba: aveva perso la cognizione del tempo – per
le strade buie e deserte di Noir Trésor dopo aver assistito all’esito di un
omicidio, era la prova di quanto sua sorella sprezzasse il pericolo senza
scadere nell’imprudenza, ma interpretando lucidamente i segnali
dell’oscurità.
Auguste.
Da quando avevano oltrepassato la soglia della dimora di Lucien, lo vedeva
strano: non aveva quasi aperto bocca durante il tragitto, salvo per ricordargli
di essere un bambino stupido che si lascia impressionare da un gatto. La
disperazione sembrava aver lasciato spazio ad una cupa e solitaria
rassegnazione, nonché alla chiusura completa nella nebbia delle sue amare
riflessioni. Auguste era sconvolto, ed era chiaro e comprensibile quanto
l’accaduto l’avesse traumatizzato.
Fernand
procedette in silenzio, lo sguardo fisso sulla nuca di Auguste, i cui passi
spediti ne tradivano l’implicito nervosismo.
Aveva
chiuso ogni porta: sarebbe stato ormai vano, da parte sua, ogni tentativo di
parlargli, di confortarlo, di alleviare il peso che gli gravava sul
cuore.
Procedettero
fino alla piazza, finché le loro vie non si divisero.
A
Fernand si strinse il cuore, quando vide Auguste proseguire per la sua strada
come un cane randagio, dopo aver rifiutato la sua offerta di
accompagnarlo.
- Ti
ringrazio, Fernand. Preferisco stare da solo. Sul serio.
Ti
ringrazio, Fernand. Da quando si conoscevano, l’atteggiamento
più amichevole che Auguste avesse mai manifestato nei suoi confronti era stato
complimentarsi con lui per essere arrivato puntuale alla
riunione.
Il mezzo
sorriso che si era dipinto sui suoi lineamenti asciutti, unito a quello sguardo
pieno di mesta gratitudine, aveva colpito Fernand come un pugno in pieno
volto.
- Spero
che stia bene – gli sfuggì in punta di labbra, quando Auguste si fu
allontanato.
- Credo
gli farebbe bene mandar giù un po’ d’alcool – considerò Dorian, tradendo nei
suoi modi spicci una certa apprensione – Purtroppo – proseguì – Prima o poi sarà
costretto a fare i conti con il suo dolore. Ma per stasera, dico, farebbe meglio
a rimandare l’appuntamento. Dovrebbe cercare di distrarsi, di stordirsi, di
pensare ad altro.
- Già –
concordò Ambrosie con voce piatta – Tutti ne avremmo bisogno,
stanotte.
La
ragazza rivolse un lieve cenno di saluto ai due uomini.
- E tu,
dove avresti intenzione di andare? – la trattenne Fernand, interdetto,
afferrandole il braccio.
-
Ricordi quel progetto cui tenevi tanto, caro fratellino? – gli fece di rimando
la ragazza, sibillina.
- Sei
pazza? Hai idea di che ore siano?
- Oh,
sì! L’ora in cui la stamperia si mette al lavoro, pronta a sfornare di buon’ora
tanti giornali belli caldi per i concittadini che desiderano mantenersi
informati – gli rispose Ambrosie, ironica, lo sguardo
cospiratore.
Fernand
annuì con un lieve cenno del capo accompagnato da un inevitabile
sorriso.
- Ti
prego di far attenzione.
- Non
preoccupati, Fernand. Non è distante. E “Madame” mi attende! – terminò le sue
spiegazioni con un ridicolo inchino indirizzato alla persona presa in
questione.
-
Possiamo venire con te – propose Dorian.
- Ma che
dici? – lo corresse la ragazza – Più siamo, più desteremmo sospetti. Lei mi
conosce ed è già in combutta con noi.
* *
*
Ambrosie
si diresse verso la stamperia. Aveva rifiutato l’offerta di farsi scortare lungo
la strada da suo fratello e da Dorian. Del resto, non aveva nulla da temere:
bastava procedere ancora per qualche passo, svoltare all’angolo, e sarebbe
giunta a destinazione. Dov’era il problema? Era quasi l’alba: ancora poco, e la
piazza e le strade si sarebbero riempite di vita.
Quello
che si apprestava ad attraversare non era neppure un quartiere pericoloso: le
strade erano ampie e ben lastricate, tanto da permettere il passaggio delle
imponenti vetture dei nobili fra eleganti residenze di ricchi mercanti o palazzi
gentilizi dai cornicioni aggettanti.
Nonostante
questo, una tenue inquietudine sembrava quasi opporsi al suo cammino, rendendole
affannoso il respiro ed accorciando i suoi passi. La ragazza accarezzò
distrattamente la consistenza rigida del lungo pugnale che portava con sé,
nascosto nella manica.
Qualcuno
li aveva seguiti: Fernand aveva ragione, e lei stessa non si era sbagliata
nell’aver condiviso sin da subito il suo presentimento.
In
quella zona della città non era così frequente imbattersi in ladri e tagliagole,
che a fine giornata dovevano ritenere senza dubbio più sicuro rintanarsi nei
quartieri poveri, lontano dal potere e dalle autorità. Se avesse urlato,
considerò Ambrosie, il potenziale malintenzionato sarebbe stato facilmente
scoperto e non sarebbe riuscito a fare molta strada.
La donna
allungò il passo, imboccando nervosamente la curva.
Quasi
non fece in tempo a muovere un altro passo che una figura alta, sgusciando dal
buio della rientranza di un portone, la trasse a sé, afferrandola con decisione
ed immobilizzandola.
Inutile
divincolarsi ed inutile gridare, considerò la ragazza: l’assalitore la tenne
stretta e le premette una mano sulla bocca.
-
Ambrosie, Ambrosie… Non gridare, ti prego. Stai calma… così – le sussurrò
l’assalitore, allentando la presa su di lei così da permetterle di guardarlo in
volto.
Gli
occhi turchini della ragazza, dilatati per la paura, passarono repentinamente
dal panico allo stupore.
L’uomo
la lasciò andare delicatamente, quando ebbe la certezza che non gli si sarebbe
rivoltata contro per paura.
- Tu? –
Ambrosie corrugò le sopracciglia fini in un moto di sorpresa ed irritazione –
Posso sapere cosa diavolo ci fai qui?
* *
*
-
Dannazione!
Fernand
imprecò con rabbia, quando tentò di rigirare con forza la chiave nella toppa e,
avendo profuso troppa energia, il minuscolo oggetto metallico girò a vuoto,
sfuggendogli dalle dita e facendogli urtare la mano contro una scaglia di legno
tagliente e quasi del tutto scrostata.
- Prima
o poi dovrò decidermi a farci dare una sistemata – considerò, dopo aver
ritrovato la calma.
- È una
casa molto antica – fece Dorian, distrattamente, mentre gli esaminava il dito
ferito.
Il
taglio era superficiale, ma sanguinava. Fernand si portò la piccola ferita alla
bocca e la tamponò provvisoriamente. Il sapore aspro e metallico del sangue gli
punse piacevolmente la lingua, cosicché il ragazzo esercitò istintivamente una
lieve suzione.
- Lascia
fare a me – gli ingiunse benevolmente Dorian, raccogliendo la chiave ed aprendo
la porta.
- Entra
– gli disse Fernand – Dobbiamo parlare di alcune cose.
Dorian
oltrepassò l’ingresso, si tirò la porta alle spalle e seguì il padrone di casa.
Sapeva che quella di Fernand era una scusa: gli ultimi eventi l’avevano scosso
profondamente, nonostante, fino all’ultimo, avesse cercato riparo dietro una
maschera d’ostinata impassibilità.
E non
che Fernand temesse un pericolo in particolare: forse aveva semplicemente paura
della solitudine e avvertiva il bisogno di una presenza
amica.
- Sei
nervoso – constatò Dorian.
- Puoi
dirlo. Questa è stata la goccia finale – commentò il più giovane con malcelata
stizza.
- Sei
ancora in collera con Ambrosie? – indagò Dorian.
- Non
con Ambrosie – lo corresse Fernand, gelido.
Si passò
nervosamente una mano tra i capelli, prima di riprendere il suo
discorso.
- Con
quel bastardo di Raphäel Lemoine, eccome! – sbottò alla fine – Ho fatto bene a
sorvegliare di nascosto mia sorella. Volevo assicurarmi che non accadesse nulla
durante il tragitto, tutto qui. Quando quel figuro è sbucato dal nulla e l’ha
afferrata, per poco non sono uscito allo scoperto per riempirlo di pugni! –
rincarò la dose.
- Come
vedi, è stato l’ennesimo falso allarme – tentò di rassicurarlo
Dorian.
- Non è
questo il punto, Dorian. Preferirei essere morto, piuttosto che vedere mia
sorella tra le grinfie di quel bastardo.
- Non
essere melodrammatico! In primo luogo, Ambrosie ha dimostrato di essere in grado
di cavarsela da sé, e sono quasi certo che metterà alle strette Raphäel fino a
farsi rivelare cosa ci facesse alle nostre calcagna. In secondo luogo, se tu per
un attimo riuscissi a tenere da parte le tue personali antipatie, capiresti che
da lui non c’è nulla temere.
- Se
dici che non torcerebbe un capello ad Ambrosie, siamo d’accordo – replicò
Fernand, soppesando con freddezza le proprie considerazioni – Non mi piace
l’atteggiamento di mia sorella nei suoi confronti.
-
Insomma, Fernand, che ti prende? Non vorrai recitare la parte del fratello
geloso…
- Io li
conosco, quelli come lui – lo interruppe Fernand, stizzito – Amano giocare con i
sentimenti di chi ancora ha il coraggio di stargli attorno. Quando le ha messo
le mani addosso… Mio Dio!
Fernand
si coprì il volto con le mani, in un eccesso d’ira.
- Ti
avverto, Dorian – proseguì, il volto arrossato e gli occhi scintillanti di
collera – Prima o poi, quel tizio porterà i miei nervi a cedere, e allora
nessuno venga a rimproverarmi, quando l’avrò gonfiato di
botte!
- Molto
dipende da Ambrosie, dalla sua capacità di restare lucida e di non illudersi
troppo sul suo conto. Se poi le cose andranno per il meglio, e io me lo auguro
di tutto cuore, non avrò nulla in contrario – azzardò Dorian, un sorriso sagace
sul volto.
Fernand
lo fulminò con un’occhiataccia.
-
Raphäel è soltanto un imbecille, un santarellino dagli occhi dolci che non sa
far altro che seminare sofferenze ed illusioni fra coloro che gli stanno
intorno. Si nasconde dietro ai suoi modi da bravo ragazzo, dietro a una morale
fasulla che altro non è se non un castello d’ipocrisia. Odio i tipi come lui. Il
suo falso buonismo mi dà sui nervi, e davvero non saprei cosa aspettarmi da uno
così.
- Posso
sapere che ti ha fatto? Ascolta, Fernand: ora calmati. Abbiamo questioni ben più
urgenti su cui soffermarci.
-
Questioni più urgenti, un accidente! – Fernand alzò la voce, concitato –
Quell’essere viscido insidia in modo sin troppo palese mia sorella: dovrei forse
stare a guardare?
- Ti
ricordo – Dorian alzò gli occhi al cielo, spazientito – che Ambrosie non è una
bambina né, tanto meno, una stupida. Ragiona, Fernand: ha le sue grane a cui
badare. Per caso vuoi metterle anche tu i bastoni fra le ruote? Vuoi impedirle
di coltivare la sua amicizia con Raphäel, sapendo che questo la renderebbe
infelice? Sempre, ben inteso, che Ambrosie sia il tipo da lasciarsi calpestare
dal suo fratellino.
Fernand
sospirò.
- Vorrei
soltanto che quell’individuo non avesse mai incrociato la nostra strada. Vorrei
che se ne andasse il più lontano possibile da Noir Trésor e che ci lasciasse in
pace.
- Stai
esagerando, Fernand. Tuttavia, sono d’accordo con te sul tenere gli occhi aperti
con lui.
- Ti
ringrazio, Dorian – Fernand gli sorrise – Sei fra i pochi che riescono a
tranquillizzarmi e a farmi capire quando sto esagerando. Io non farò nulla, ma
potrei non rispondere di me, se quell’individuo causasse qualche dispiacere a
mia sorella.
Dorian
sedette nel piccolo salotto della modesta dimora. Si prese la testa fra le mani,
snervato. Non gli piaceva contraddire in continuazione il suo amico Fernand come
un fastidioso grillo parlante; tuttavia, voleva il meglio per lui, a costo di
diventare petulante per smorzare i suoi toni accesi. Raphäel non l’aveva
impressionato in modo positivo; tuttavia, preferiva aspettare, prima di
scagliare giudizi definitivi. Dopotutto, era la tensione accumulata durante
quella terribile notte a rendere Fernand tanto irritabile.
- Ora mi
spieghi cosa stai facendo? – gli domandò, interrotto nei suoi pensieri dai
movimenti del giovane amico.
- Non lo
vedi? – Fernand gli sventolò sotto il naso una bottiglia di vino rosso – Seguo
il tuo consiglio.
- In
effetti, si ragiona meglio di fronte ad un buon bicchiere di vino – gli concesse
Dorian.
Osservò
Fernand sfilarsi la giacca ed allentarsi la pettorina che cominciava a
soffocarlo.
- Non
riesco a non pensare a Lucien… – gli confidò il giovane in un sussurro – Non
eravamo così amici – riprese un istante dopo, gli occhi lucidi – Gli imputavo
l’ostilità da parte di Auguste nei miei riguardi.
-
Crucciarti non serve. Semplicemente, non avete avuto modo e tempo di conoscervi
e capirvi. Sono certo che se Lucien avesse potuto approfondire la tua
conoscenza, non avrebbe potuto non trovarti…
Meraviglioso,
concluse tra sé, disperdendo le sue parole nel suo flusso di
pensiero.
-
Trovarmi? – Fernand sbatté le palpebre, confuso.
Dorian
gli si avvicinò, un sorriso malizioso dipinto sul bel volto
nordico.
- Un
irriducibile piantagrane quale sei. Ma generoso e sincero.
Fernand
gli sfiorò distrattamente il dorso della mano, mentre sul suo viso una scintilla
di gratitudine si sovrapponeva al velo di tristezza che non si era ancora
dissolto.
Il volto
di Dorian avvampò.
- Che ti
prende? Ti senti bene?
- Uh?
No, non è nulla. Niente, stai tranquillo – Dorian si portò una mano alla tempia
– Credo sia stato il vino. Non preoccuparti.
Si
deterse la fronte umida, ricomponendosi.
- Forse,
per stasera non dovresti più bere… – azzardò Fernand.
-
Sciocchezze – ribatté Dorian – Ci sono abituato. Se non sbaglio, siamo qui per
rivedere alcuni dettagli della nostra operazione. C’è ancora qualcosa che mi
sfugge.
Fernand
prese un ampio respiro, prima di rispondere.
-
Allora, Dorian, ricapitoliamo: la vecchia strega è d’accordo con Ambrosie.
Domattina, all’insaputa delle autorità e dei maledetti nobili, insieme alla
Gazzetta saranno distribuiti sottobanco i nostri speciali
opuscoli.
- E
stavolta, Auguste non avrà niente da ridire.
-
Poveretto, dopo quel che sta passando, quasi mi spiace giocargli un colpo basso
– sussurrò Fernand, mutando espressione.
- Mi
dispiace – gli fece eco Dorian – Però, osserva la situazione da un’altra
prospettiva: in fin dei conti, non abbiamo mai pronunciato un giuramento di
fedeltà nei suoi confronti. Noi agiamo in modo autonomo.
-
Auguste ha bisogno del nostro appoggio, Dorian.
- Ed è
esattamente quello che faremo. Ma le nostre iniziative, progettate e messe in
atto ormai da tempo, credo abbiano ben poco a che vedere con affari di natura
privata.
Per il
momento, Fernand preferì lasciar cadere il discorso. Poi, con un sorriso
enigmatico, gli porse alcune bozze accuratamente
ripiegate.
- Se non
ti dispiace – annunciò – Qua puoi leggere in tutta calma l’anteprima di quel che
fra poche ore sarà dato in pasto ai nostri concittadini.
- Ti
ringrazio, Fernand. Credo che ricaverò ottimo materiale per la nostra prossima
“incursione”…
Inaspettatamente,
Dorian sollevò la bottiglia ormai vuota
- Non ci
posso credere… Fernand, sei certo di non essere impazzito?
-
Eh?
Le
guance del ragazzo, solitamente pallide, erano riscaldate da un lieve rossore.
Fernand si sforzava di tenere aperte le palpebre sugli occhi
luccicanti.
-
Fernand, sei quasi astemio. Non reggi una goccia d’alcool: credevo che un
bicchiere fosse sufficiente a farti dormire sonni
tranquilli.
- Non
dirmi, amico mio! – la voce lievemente strascicante di Fernand denunciava un
leggero stato di ebbrezza – Anche tu, da oggi, sei d’accordo con Monsieur
Auguste? “Non farlo bere, quello è già tocco di suo”! No, stavolta avevo bisogno
di una dose maggiore, credimi. E… Mi raccomando, Dorian – gli ingiunse subito
dopo, cambiando bruscamente argomento – Acqua in bocca su quanto ti ho spiegato.
Non una parola, intesi?
Dorian
annuì.
- Se non
ti dispiace, Fernand, tolgo il disturbo. Ho bisogno di riposare almeno qualche
ora. Dopodiché, penso proprio che mi metterò all’opera per sfornare un altro dei
miei articoli.
- Credo
farò lo stesso – Fernand annuì stancamente.
- No. Tu
adesso cerchi di riposare un po’. Sei esausto e mezzo
ubriaco.
Dorian
si chiuse la porta alle spalle, sperando, una volta tanto, che quel piccolo
delinquente seguisse il suo consiglio.
La
strada scorse così rapida sotto il suo passo spedito che quasi non si rese conto
di essere giunto in fondo alla via. Il pallido bagliore dell’alba cominciava a
rischiarare il cielo ad oriente, affacciandosi oltre le costruzioni più
basse.
Che
stupido!
Lungo la
strada, Dorian si rese conto di aver scordato le bozze degli articoli a casa di
Fernand.
No, non
fu proprio quello il motivo che lo spinse a tornare indietro sui suoi passi, si
concesse. Le bozze erano un semplice pretesto elaborato dalla sua
mente.
Si
fermò, affannato, sotto il vecchio portone della dimora dei due fratelli.
Trasalì.
Non è
possibile, si
disse. Avrei fatto meglio a non
allontanarmi così di fretta. Deglutì a fatica. Nell’enfasi del discorso,
poco lucido per via dell’alcool, Fernand aveva dimenticato il portone di casa
aperto.
Dio
mio, pregò
silenziosamente Dorian. Fa’ che non sia
accaduto nulla di male, ti scongiuro. Fa’ che sia una sua stupida svista. Per
favore.
Il viso
pallido come uno straccio, Dorian spinse delicatamente il portone, il quale
cedette come una tenda sotto le sue dita tremanti. Cautamente, il ragazzo
s’introdusse all’interno dell’appartamento. Di Fernand neppure
l’ombra.
Per un
errore così stupido, giuro che me la paga, si
disse silenziosamente. Giuro che stavolta
lo picchio!
Dorian
scivolò come un’ombra nella camera del suo amico, il cuore in
tumulto.
Il
sollievo fu così intenso da fargli girare la testa. Quasi temette di perdere i
sensi.
Il suo
amico… Il suo amico era lì, giovane e bello come un angelo. Giaceva abbandonato
sul letto, contornato dalle sue carte.
È
chiaro: era così stanco che quasi non si è accorto di essere crollato sul
proprio lavoro.
Con mani
febbrili, Dorian raccolse i fogli abbandonati in parte sul letto, in parte sul
pavimento. Erano abbozzi di articoli satirici sul malgoverno a Noir Trésor e
sugli abusi della classe dirigente, appunti di varia natura e un diario
personale.
Dorian
si affrettò a riporre tutto sullo scrittoio, compresi il pennino e il calamaio,
abbandonati sul comodino. Non era corretto, da parte sua, frugare nelle sue
carte senza il consenso del diretto interessato.
Quasi
senza che se ne accorgesse, la sua attenzione fu calamitata dalla figura che
riposava nel giaciglio di fronte a lui.
Il sonno
doveva averlo colto all’improvviso, si ritrovò a pensare Dorian. Calzava ancora
gli stivali ed era vestito di tutto punto. Lo jabot slacciato lasciava ricadere
morbidamente lo scollo della camicia, scoprendogli il torace pallido. I morbidi
capelli castani giacevano sul cuscino, sparsi ad aureola intorno a quel volto di
porcellana.
Dorian
indugiò con lo sguardo sui lineamenti delicati del viso di Fernand, distesi in
un’espressione indecifrabile. Dormiva un sonno leggero, sospirando lievemente di
tanto in tanto.
Lo
osservò rapito.
È così
giovane,
rifletté. Così giovane. Non si risparmia
nulla e, a fine giornata, crolla per la stanchezza, prostrato dal sonno. E
dall’alcool, in questo caso.
Pazzo!
Si addormenta ubriaco, dimentica la porta aperta. Fortuna che ho deciso di
tornare indietro.
Caro
Fernand, non mi pare la mossa più sicura, dopo quel che è accaduto di fresco a
Lucien. Sei pazzo, Fernand, pazzo. Un esasperante, adorabile
pazzo.
Sei solo
un ragazzo. Sei così fragile… Certi pensieri non dovrebbero gravare sulle tue
giovani spalle, e invece… Guarda come siamo ridotti, costretti ad ingoiare
giorno dopo giorno il fiele di una tirannia sempre più insostenibile, a vedere
l’ingiustizia e l’orrore che si consuma sotto i nostri occhi, ad illuderci nella
speranza di un cambiamento, auspicando che il nostro contributo sia
determinante. E a girare a vuoto nei nostri utopistici
propositi.
È questo
che è diventata la vita del giovane ribelle che non riesce a seppellire la
propria dignità sotto le macerie della rassegnazione.
Dio, che
mi sta prendendo? Le
dita tremanti di Dorian percorsero con estenuante ostinazione la linea morbida
delle labbra di Fernand. È seta. Rosea,
scarlatta.
Dorian
credette di muoversi in uno di quei sogni nebulosi e confusi, quando, perso ogni
barlume di lucidità, si ritrovò a sfiorare timidamente le labbra di Fernand con
le sue, come un bimbo che con golosa curiosità addenta un frutto
dolcissimo.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7: Bisogno d'amore ***
Capitolo
7
Bisogno
d’amore
Il
venticello fresco dell’alba filtrava nella penombra della camera attraverso
alcuni spifferi.
I
contorni della stanza e di ogni oggetto apparivano a Dorian confusi e sfumati
come in un sogno ingannatore. Il suo sguardo indugiò languidamente sui tratti
morbidi ed affilati del volto di Fernand. Era tutto così tremendamente strano,
intorno a sé, concluse: strano quel che accadeva dentro e al di fuori di sé. Era
l’unica sensazione che la sua mente fosse in grado di sintetizzare. Ed era
strano osservare il viso di Fernand da quella prospettiva e percorrere
febbrilmente i suoi lineamenti rilassati in quell’insolita espressione,
completamente diversa dal misto d’ironia e strafottenza in cui era solito
atteggiare il suo volto. Le palpebre erano appena poggiate, le morbide labbra
leggermente dischiuse. Era un’ombra di tristezza quella che aleggiava sul suo
volto.
C’è
qualcosa che ti fa soffrire giorno dopo giorno: è così, Fernand? È come un morbo
che ti consuma dentro e ti corrode l’anima. Qual è la causa del tuo dolore,
Fernand?
Sospirò.
Sembrava un cucciolo indifeso.
Fernand…
Dorian
tentò di riscuotersi, ma l’unico perno intorno al quale gravitavano i suoi
pensieri era strettamente legato alla delicata presenza dinnanzi a sé. Il suo
respiro accelerò pericolosamente. Non era possibile: era lui, quello che stava
fuggendo ad ogni controllo razionale.
Respirò
profondamente, soffocando ogni ansito, ma il profumo stupendo che i capelli di
Fernand e la sua pelle d’avorio emanavano impregnava ogni cosa intorno a sé,
dalle candide lenzuola ai suoi stessi sensi, inebriandoli
profondamente.
Cercò
convulsamente la mano di Fernand e la strinse tra le sue. E, senza quasi
rendersene conto, per la seconda volta, la sua bocca si posò peccaminosamente su
quella del suo amico.
Il
suo amico.
E
non si limitò a sfiorare timidamente quei due petali rosati col timore di essere
scoperto: l’estasi di cui, senza avvedersene, era caduto preda, lo spinse ad
esplorare spasmodicamente le labbra di Fernand e a farle gelosamente sue,
premendole avido sotto le proprie come a suggere un favo di miele
dolcissimo.
Sapeva
che, se fosse sprofondato un po’ di più nelle arcane sensazioni che lo rapivano,
avrebbe presto perduto il controllo. Tuttavia, l’ebbrezza del desiderio lo
spinse ad indugiare pericolosamente: allentata ogni remora ed incertezza, lambì
con voluttà le labbra di Fernand e le schiuse dolcemente sotto il suo tocco,
andando ad accarezzarne assetato la parte interna, umida e
morbida.
L’indecifrabile
sensazione che lo percorse fu simile all’essere irrorato da fresca rugiada, e lo
strano calore che gli invadeva il petto, irradiandosi repentinamente ad ogni
fibra del suo essere, gli parve preannunciare l’atmosfera celestiale del
paradiso. Il lieve respiro di Fernand sotto il suo era una carezza refrigerante
sul suo viso accaldato.
Dorian
si ridestò dal profondo torpore, quando, scorrendo distrattamente lungo il volto
di Fernand ad un palmo dal suo, così vicino da non coglierne esattamente i
tratti, incrociò inaspettatamente i suoi occhi aperti e luminosi nella
penombra.
Si
scostò bruscamente, lo sguardo attento e vigile del ragazzo che lo trafiggeva
imperioso.
Il
lampo di vergogna che lo pervase, intenso come una stilettata, lo indusse ad
allontanarsi di scatto, come se improvvisamente il corpo di Fernand scottasse.
Il movimento fulmineo lo sbilanciò, così, quasi senza rendersene conto, si
ritrovò disteso ai piedi del letto, gli occhi sbarrati nell’oscurità ed il viso
color cremisi.
Fernand
sbatté le ciglia, liberandosi dalla nebbia del sonno.
-
Dorian… Tu? – gemette, insonnolito.
Il
giovane temette per un istante che il cuore gli balzasse fuori dal petto o che
cedesse definitivamente. Il suo respiro accelerò.
Non
guardarmi, Fernand.
Non
guardarmi,
pregò silenziosamente.
Chinò
il capo, non potendo sostenere ancora lo sguardo del suo
amico.
Come
esco da qui? Con quale coraggio gli parlerò e lo guarderò negli occhi,
domani?
Gli
occhi turchesi di Fernand lo fissarono per lunghi istanti che gli parvero una
lenta ed estenuante agonia. Poi, inaspettatamente, il ragazzo scoppiò a
ridere.
Il
cocente imbarazzo lasciò spazio, sul viso di Dorian, allo stupore. Si risollevò
in piedi, disorientato, riuscendo, finalmente, ad articolare qualche
parola.
-
Trovi questa situazione tanto comica?
Fernand
riuscì a soffocare a stento le risa. Si premette le mani sul volto, ravviandosi
distrattamente i capelli.
-
Perdonami, Dorian – sussultò – Eri davvero… buffo.
Dorian
rifletté su quale doveva essere il suo attuale aspetto: i capelli umidi e
arruffati incollati al viso, gli occhi lucidi, il volto sudato e arrossato per
il calore e la soggezione. Tuttavia, gli pareva, onestamente, che nella sua
situazione vi fosse qualcosa di ben più insolito e sconcertante della sua
faccia.
-
Spero di non averti spaventato – si costrinse a dire – Le bozze. Già, ricordi? –
tergiversò – Le avevo dimenticate da te, tutto qui. E… la porta era
aperta.
Fernand
spalancò gli occhi, sbigottito.
-
Aperta? Vuoi dire che io stesso stavo per mettermi in pericolo in casa mia? Ti
ringrazio, Dorian. Sono davvero felice che tu sia qui.
Fernand
s’interruppe di colpo, leggendo l’imbarazzo sul volto dell’altro, chiaro come
stampato a grandi caratteri su un libro. Dorian si sforzò di sorridergli, mentre
nel suo cuore si agitavano mille emozioni contrastanti: prima fra tutte, una
gran voglia di fuggire.
-
Dorian… – Fernand si sollevò in ginocchio sul materasso, fino ad incontrare il
suo sguardo – Che ti prende? È… è per quello?
Dorian
lo osservò timidamente.
-
Non preoccuparti. È probabile che il vino abbia giocato strani scherzi ad
entrambi. Ora va tutto bene. Riposa, io tolgo il disturbo.
Fece
per allontanarsi, ma Fernand si sporse in avanti e lo trattenne abbrancandogli
un lembo della giacca.
Dorian
riprese a fissare il suo giovane amico. Vide i suoi occhi inumidirsi appena,
scintillando in controluce, e le sopracciglia corrugarsi delicatamente in un
lieve smarrimento.
-
Dorian, stai tranquillo. Hai paura di me?
Smarrito,
Dorian non rispose, limitandosi a rivolgergli uno sguardo di angosciosa
tenerezza. Attese, immobile, finché Fernand non gli cinse le spalle e unì
nuovamente le labbra alle sue.
Un’ennesima
ondata di calore infiammò il viso di Dorian, per poi irradiarsi al resto del suo
corpo. Sprofondare in un oceano d’acqua tiepida e profumata, immergersi
nell’estasi divina come in un lungo sonno, gli parvero le uniche esperienze
paragonabili a ciò. Poteva accarezzare i lunghi capelli di Fernand ed avvertirne
appieno la consistenza vellutata, mentre assaporava il gusto dolcissimo ed
inebriante delle sue labbra senza riserve, senza più sentirsi come un ladro
pronto a trafugare di nascosto qualcosa che non gli
appartiene.
Le
braccia di Fernand gli circondarono il collo trattenendolo presso di sé con
vigore, nel timore di perdere il suo possesso.
Fernand
si aggrappava a lui. Fernand aveva bisogno di lui, del suo respiro e del suo
calore su di sé; lottava per tenere le labbra unite alle sue in quel magico
contatto, cercando di dar tregua al proprio respiro accelerato ed
affannoso.
Dorian
avvertì le labbra di Fernand schiudersi con dolcezza sulle sue ed esplorarne
delicatamente i contorni. Il piacere che lo inondò fu così violento e lancinante
da squassargli il petto, immettendo in lui una strana sensazione di liquido,
quasi il suo cuore avesse assunto lo stato fuso come un ferro posto ad
arroventare. Accarezzò la nuca di Fernand e lo spinse verso di sé, geloso di
quell’intreccio momentaneo e della gioia fugace che li avvinceva. Avrebbe
desiderato prolungare quel bacio strappato sin quando le loro energie fisiche
l’avessero consentito, avrebbe voluto stringere a sé Fernand fino a divenire
parte di lui. Non voleva lasciarlo, non voleva andarsene di nuovo. Lottò contro
l’impulso di piangere di gioia e sollievo: non si sarebbe separato da
lui.
Fu
Fernand ad interrompere il loro congiungimento, quasi con rammarico. Dorian
respirò profondamente, preso da una sete inesauribile e dall’insaziabile
desiderio di assaporare da lui l’inimmaginabile, nutrendosi della sola vista del
suo viso d’avorio come di una linfa vitale, saziandosi dei suoi lineamenti
delicatamente scolpiti e dei laghi di sterminata malinconia dei suoi
occhi.
Lentamente,
tracciò con due dita il contorno dell’ovale sottile del suo volto e gli scostò i
capelli dalla fronte pallida. Nella penombra che rendeva ovattata la sua
visuale, il suo sguardo fu colpito da un lieve sfolgorio: gli occhi di Fernand
scintillarono, la superficie cristallina tremò di mille bagliori, prima che le
lacrime tracciassero due solchi umidi sulle sue guance. Il giovane strinse la
presa sulle sue spalle fino a fargli quasi male.
-
Stammi vicino, Dorian. Non mi abbandonare – mormorò.
Era
un’invocazione d’aiuto. Il ghiaccio che sino allora aveva gelato la superficie
dei suoi sentimenti si era infranta, non potendo più trattenerne l’istintivo
ardore. Quello che vedeva dinnanzi a sé era il vero Fernand, privo di ogni
alibi, solo con le sue emozioni, la sua forza e la sua
fragilità.
Le
mani di Fernand scesero lungo le sue spalle fino a circondargli la vita e
attirarlo a sé. Ben presto, si ritrovò disteso sul morbido letto, al fianco del
suo giovane amico.
Fernand
lo abbracciò, insinuandogli il volto nell’incavo tra il collo e la
spalla.
-
Fernand – gli sussurrò Dorian, quasi in un soffio – Tranquillo. Tranquillo. Ti
sono vicino.
L’omicidio
di Lucien. La paura, la tensione, lo sconforto. Il timore di non riuscire a
rialzarsi. E qualche altra passione, ben più oscura ed inafferrabile, si agitava
nel suo petto senza dargli tregua né farlo dormire la
notte.
Gli
sfiorò le spalle: era un tenue fuscello tra le sue mani. Quasi senza rendersene
conto, sollevò appena il suo corpo, portandolo su di sé. La schiena calda e
solida di Fernand sul suo cuore pulsante gli diede i
brividi.
-
Mi dispiace, Dorian. Mi sono… Lasciato andare, tutto qui – Fernand si asciugò le
lacrime con il dorso della mano, rivolgendogli un mezzo
sorriso.
-
Non devi preoccuparti. È così per tutti. E tutto intorno a noi diventa ogni
giorno più insostenibile.
Gli
accarezzò il torace attraverso la camicia, sfiorato dal vago pensiero che la
pelle nuda di Fernand fosse ancora più serica e calda del candido
indumento.
-
Va tutto bene, ora – concluse il giovane, mentre gli scostava una ciocca di
capelli arruffata dal viso e gli sfiorava la guancia con le
labbra.
- E
tu sei così giovane. Per quanto ti sforzi di mandare giù bocconi amari, giorno
dopo giorno, emerge chiaramente in te la sensibilità e la passione di chi lotta
contro qualcosa di troppo complesso e sfuggente. Lasciati soccorrere. Chiedi il
mio aiuto, quando senti il bisogno.
-
Fernand – riprese Dorian dopo una lunga pausa – Volevo domandartelo da qualche
tempo: cosa ti ha spinto a Noir Trésor? Non hai mai parlato della tua vita,
prima di giungere in questa città.
Il
giovane deglutì, soprappensiero, prima di rispondere. Per un attimo, un lampo
d’antico dolore gli pervase le iridi color zaffiro, oscurandole. Tuttavia,
l’ombra inafferrabile sul suo volto svanì rapidamente così come vi era
affiorata. Fernand respirò profondamente ed espose asetticamente un resoconto di
avvenimenti che parevano non più in grado di turbarlo.
-
Sono scappato di casa… Beh, più o meno. È una storia che avrai sentito almeno
cento volte: in paese era sopraggiunta la carestia, e in casa la situazione
economica non prosperava. Per rimpinguare le finanze e sistemarmi nel modo più
indolore, i miei genitori volevano spingermi ad un matrimonio d’interesse – la
sua voce s’infranse – Le mie ragioni contarono poco e niente, nel momento in cui
rappresentavo un’occasione da giocare nel modo migliore. Non siamo nobili né
ricchi, non vi sono mai stati in gioco vincoli di sangue da rinsaldare,
tuttavia, dagli interessi economici non sono immuni neppure i poveri contadini.
Al contrario, quando incombe lo spettro della fame, ogni misera occasione
diventa una goccia d’acqua preziosissima. Alla fine, ho preso in pugno la
situazione e me ne sono andato: volevo dimostrare al vecchio di potermela cavare
agendo di mia iniziativa. E volevo trovare una soluzione alternativa senza
piegarmi a stolti compromessi.
-
Dunque – lo interruppe Dorian – Questo, già da allora, significava per te
estirpare il problema alla radice, ovvero rovesciare la tirannia? È un progetto
ambizioso.
Fernand
scosse il capo.
-
Non ancora. Ero del tutto sprovveduto e molto confuso. Ogni mese inviavo loro
dei soldi, come continuo a fare tutt’ora. Posso contribuire all’andamento della
mia famiglia trovando da me un altro sistema e mantenendomi lontano da sciocche
iniziative.
- E
Ambrosie?
-
Per lei, la soluzione sarebbe stata ancora più semplice. Una dote matrimoniale
sarebbe stata troppo dispendiosa e, con sette bocche da sfamare, casa mia
diventava sempre più stretta. Mio padre è un mercante caduto in rovina: con la
sua mentalità borghese, era fuori questione che Ambrosie provvedesse per sé
lavorando alla locanda. Ed un’alternativa era lì, a portata di mano: il
monastero. Anni addietro, la mia famiglia riuscì a far mandar giù la stessa
soluzione ad una nostra sorella maggiore, Vivienne. Lei non lo disse mai
apertamente, ma sapevo che, a suo tempo, aveva scelto di prendere il velo per
evitare il matrimonio combinato. Mio padre non poteva accettare un’altra
insubordinazione: a sentire lui, se tutti i genitori avessero assecondato i
“capricci” dei figli, interi regni e famiglie sarebbero finiti in disgrazia. Per
un po’ di tempo, Ambrosie finse di accettare la decisione di mio padre. Entrò in
convento come educanda, ma, in seguito, con l’aiuto di Vivienne, che già aveva
sperimentato le medesime pressioni, riuscì a sfuggire ad un destino che non le
apparteneva. Pochi mesi più tardi, ci ritrovammo entrambi a Noir Trésor, soli e
senza radici, ma decisi a batterci con le nostre forze, senza ricorrere a quei
compromessi che sembrano volgere le situazioni sfavorevoli in meglio, ma che in
realtà si rivelano utili soltanto al potere che vuole mantenere il controllo su
di noi per reprimere ogni presa di coscienza, per scoraggiarci dall’opporci e
dal credere in un cambiamento, per sigillarci nella nostra ignoranza, nella
nostra grettezza e nel nostro egoismo. Vogliono mantenere vivo il controllo su
di noi, e la nostra ignoranza è loro complice.
-
Tuo padre sa che sei un ribelle?
-
Se sapesse, mi riporterebbe a casa in catene – rispose laconico Fernand, con un
sorriso amaro.
-
Non hai esattamente degli ottimi rapporti con la tua famiglia – considerò
logicamente Dorian.
- I
nostri rapporti si sono sempre basati sulla reciproca freddezza. Io mi limito ad
assolvere i miei doveri di figlio, contribuendo a procurare qualche soldo in
più. È così, e non m’importa d’altro.
-
Mi dispiace, Fernand. Non lo meriti.
-
Nessuno merita questo stato di cose. Piuttosto, Dorian – azzardò il giovane,
spostando finalmente il fulcro del discorso da sé al suo amico – Non mi è mai
stato chiaro il motivo per cui ti sei schierato apertamente contro il
tiranno.
Dorian
fuggì il suo sguardo. Al buio, senza che Fernand potesse rendersene conto, sul
suo volto comparvero due chiazze rosse come se fosse stato preso a schiaffi. Un
groppo gli aveva stretto lo stomaco, come se nella sua mente fosse
improvvisamente riaffiorato qualcosa che costantemente si sforzava di non
riportare alla luce e di nascondere a se stesso e agli
altri.
-
All’epoca del colpo di Stato del duca du Lac, quel bastardo uccise i miei
genitori – le sue parole giunsero lapidarie come una
pugnalata.
Fernand
strinse le palpebre. Lui e sua sorella evitavano ormai da mesi di mettere piede
al borgo, pur mal sopportando la lontananza dai fratelli minori, a causa
dell’astio mal represso e della soggezione che era capace di incutere loro una
figura paterna rigida ed autoritaria. Non voleva male ai suoi genitori: il
dolore nel veder soffocati i suoi slanci e il muro della chiusura mentale contro
il quale si era scontrato invano, uscendo sconfitto ed umiliato, lo portava a
mantenere i rapporti distaccati ai limiti della cordialità, a fuggire e a
mantenere il riserbo sulla propria vita.
Dorian
non aveva il problema del conflitto di due generazioni. Dorian aveva perso suo
padre senza la speranza di saperlo, un giorno, fiero di lui, di sentirsi
compreso ed apprezzato. Quasi si pentì di aver parlato tanto schiettamente. E
sapeva che qualunque frase di circostanza e qualsiasi accenno di commiserazione
sarebbe servito soltanto a farlo stare peggio. Senza volerlo, aveva risvegliato
con la sua ingenua indiscrezione vecchie ferite ormai sopite dalla tempra forte
del suo amico. Riuscì soltanto a ricambiare il suo abbraccio su quel letto ormai
sfatto che raccoglieva i loro corpi come un nido.
Cullato
dalle carezze di Dorian e dall’estenuante tristezza che gli tamburellava nel
petto, Fernand socchiuse le palpebre e si assopì lentamente. Era quasi mattino,
ma non gli importava nulla. Ogni suo gesto quotidiano, in quel momento, aveva
un’importanza relativa.
-
Non ho voglia di alzarmi, Dorian – cantilenò, la voce impastata dal sonno – Sono
stanco. Fuori è ancora buio, e fa freddo. Voglio restare qui. Non m’importa di
nulla. È… troppa fatica, ogni mattina, aprire gli occhi, abbandonare l’oblio del
sonno e tuffarsi in un inferno quotidiano che non mi porta a
niente.
Infastidito,
Fernand si fece scudo con la mano da uno spiraglio di luce che illuminava nella
stanza. Lo sconforto si era fatto strada dentro di lui, minando il suo slancio
passionale. Di tanto in tanto, tra fatica, sconfitte e brevi e fugaci successi,
le sue speranze venivano a mancare, e allora gli sembrava di essere
perduto.
-
Stai qui, adesso – gli fece Dorian con voce dolce e lievemente arrochita – Sei
con me, Fernand. Non pensarci. Non pensare più a nulla.
L’apprensione
ed il lieve senso di colpa, al pensiero del piano che avrebbe portato a termine
in capo a poche ore, contribuivano a renderlo instabile ed inquieto, rifletté
Dorian, osservandolo con espressione grave e carica d’affetto. Il leggero
stordimento che gli aveva procurato il vino l’aveva indotto ad aprirgli il suo
cuore e a parlare liberamente, svelandogli, anche se parzialmente, alcune fra le
ragioni del proprio tormento.
Fernand
era sfuggente, complicato e deliziosamente esasperante. Per tutta la durata di
quelle ore trascorse in sua compagnia, Dorian non aveva fatto altro che sondare
la profonda inquietudine che opprimeva il suo giovane amico, scrutandone l’animo
in profondità ed osservandolo da prospettive completamente differenti dal
normale.
Il
fruscio di una carezza percorse la guancia di Fernand per poi morire sul mento
delicato. Il giovane si avvinse a Dorian con crescente vigore, mentre le sue
labbra cercavano quelle del compagno per assaporarne nuovamente la ritrosa
sensualità.
Dorian
osservò gli occhi febbrili e scintillanti di Fernand, le pupille dilatate per il
languore che offuscava la razionalità ed il persistente, lieve stato d’ebbrezza.
Lo vide tendersi in un sospiro sommesso, quando le sue labbra affondarono
avidamente sul suo collo. Senza rendersi pienamente conto delle proprie azioni,
Dorian fece scivolare la camicia dalle spalle di Fernand e, fremendo per
l’elettrica tensione di un contatto proibito, scorse impudicamente con la mano
lungo il torace nudo. Gli pareva di poter cadere in deliquio da un momento
all’altro, mentre assaporava rapito la delicata e composta bellezza di quel
corpo slanciato e tornito, la consistenza morbida della pelle e quella marmorea
e definita dei muscoli contratti per la tensione. Voleva assaggiarlo a piccoli
morsi, come una pietanza raffinata e squisita.
Tremante,
Dorian gli circondò la vita mirabilmente fine, dopo aver assaporato e tormentato
di baci le spalle ampie dall’ossatura sottile ma decisa. Lo udì sussultare,
quando, per poco, non gli morse la pelle delicata del fianco. Indugiando
lentamente intorno alla cintola, Dorian gli sfiorò l’inguine con estenuante
esitazione.
Fernand
si morse il labbro, trattenendo un gemito. Inarcò voluttuosamente la
schiena.
Dorian
riprese ad osservarlo, gli occhi lucidi e l’espressione indecifrabile. Gli
depose un bacio sotto l’ombelico.
Fernand
posò uno sguardo assente su di lui. Ci volle un po’ perché razionalizzasse quel
che era stato in procinto di accadere e riuscisse a calmare il fremito che gli
aveva percorso le membra per poi lasciarlo insoddisfatto. Faticosamente, riuscì
a snebbiare la vista e lasciar regolarizzare il respiro: l’improvvisa sensazione
di vuoto l’aveva scosso come una violenta vertigine.
Dorian
aveva rinunciato.
-
Quando vuoi, Fernand – sibilò – Dimmi di smettere, ora. Non sopporterei che
stasera, alla locanda, quando questi momenti saranno ormai congelati dal
trascorrere delle ore e dall’intrusione in merito della nostra coscienza, tu
possa vergognarti di me ed evitare il mio sguardo o, peggio, disprezzarmi. Non
voglio sciupare il mio sentimento per qualcosa di puramente fisico – proseguì –
Ho la sensazione di rivolgerti un oltraggio ogni qual volta prendo in esame
troppo da vicino un aspetto unicamente sensuale della
situazione.
-
Non dire questo – lo interruppe Fernand, sfiorandogli le labbra – Ti conosco e
so che non è così.
-
Sei bello, ed io ti desidero: è questa la verità – proruppe Dorian, a disagio –
Eppure, è riduttivo. Non voglio sminuire il mio sentimento per qualcosa di
meramente carnale ed inquinare così la nostra amicizia. Fernand, a me basta che
tu mi stia vicino, non mi permetto di pretendere altro. Tutto il resto, verrà in
seguito, se e quando lo vorrai.
-
Basta così, Dorian – Fernand gli sorrise con affetto e gratitudine – Ho fiducia
in te e amo la tua sincerità; eppure, lasciami dire che ora
esageri.
Gli
sorrise: la presenza di Dorian gli aveva scaldato il cuore. Aveva un’eccezionale
empatia nel carpire i suoi sentimenti. L’aveva raccolto nel momento del bisogno,
quando una forviante depressione si era insidiata in lui, prostrandolo; aveva
preso il suo cuore fra le mani e l’aveva riacceso di speranze. L’aveva trattato
come un cristallo, ascoltando le sue inquietudini e stringendolo fra le braccia
fino a diradare definitivamente il grigio dello sconforto che sembrava essersi
impossessato della sua mente.
Fernand
gli circondò gentilmente le spalle, affondando il volto tra i suoi capelli
biondi.
-
Che hai, Dorian? – aveva colto la lieve sfumatura malinconica nel suo sguardo
che si sforzava di restare fermo.
-
Ti voglio bene, solo questo.
Fernand
lasciò aderire morbidamente le labbra a quelle del suo amico e si accoccolò
contro il suo corpo come un gattino in cerca d’attenzioni.
-
Vorrei stare sempre così, Dorian. Senza la paura di svegliarmi da questo sogno
che mi fa sentire al sicuro.
-
Con me sei al sicuro, Fernand.
Da
chiunque, incluso me stesso, concluse
il ragazzo fra sé, un attimo prima d’immergersi in un sonno senza sogni dettato
principalmente dalla stanchezza accumulata.
Un
brivido di freddo lo riscosse, facendolo ridestare di soprassalto. Dorian
sobbalzò: doveva essersi addormentato con Fernand stretto tra le braccia. Un
vento gelido filtrava dalla finestra semiaperta e agitava la tenda di modesta
fattura in una danza sinistra. Una folata particolarmente violenta doveva aver
forzato la fragile imposta appena accostata, fino a provocarne
l’apertura.
Dorian
si affrettò ad indossare la giacca, rabbrividendo. Per quanto tempo si era
assopito al fianco del suo amico? Non sapeva neppure che ore fossero. Non poteva
essere particolarmente tardi: il sole non era alto. Poi si avvide che il disco
del sole era solo momentaneamente oscurato da uno strato di nubi. Si affrettò a
richiudere la finestra, ed il movimento brusco scosse Fernand dal suo fragile
sonno, facendolo mugolare sommessamente; lo vide tremare appena e stringersi
nelle spalle. Istintivamente, Dorian raccolse la camicia stropicciata, confusa
tra le bianche lenzuola, e gliela avvolse intorno alle spalle, per poi
coprirlo.
Il
cielo si era fatto improvvisamente grigio e pesante. Dorian osservò il volto di
Fernand e, nel chiarore ancora incerto del mattino che si preannunciava cupo, si
avvide del suo colorito particolarmente pallido. Il riposo doveva averlo aiutato
a smaltire gli effetti dell’alcool, fra i quali il leggero rossore che gli aveva
ravvivato le gote.
Perché
continuo a sentirmi inquieto e a preoccuparmi di dettagli di così poca
importanza? Si
chiese.
Era
tutto a posto, si convinse: Fernand aveva sempre avuto un aspetto un po’
emaciato, e in questo non vi era nulla di cui
preoccuparsi.
Eppure,
Dorian non riuscì ad evitare che un brivido di sordo rammarico gli stringesse il
petto, quando, con un lieve tonfo, il portone si chiuse definitivamente alle sue
spalle, ed egli si ritrovò solo, sulla strada, a fissare il cielo
bruno.
Il
mio cantuccio:
Nonostante
“a cavallo” delle vacanze estive, ce l’ho fatta a finire il capitolo: spero non
deluda le vostre aspettative. Ringrazio, come sempre, tutti voi che seguite
“Noir Trésor”, in particolar modo Calliope e
Lyra84…
Che bello, una new-entry! Sono contenta che la mia storia sia di tuo
gradimento.
Mi
raccomando, continuate a seguire la fiction e a lasciarmi di tanto in tanto
qualche commentino, che non fa mai male… Sempre che la cosa vi faccia
piacere.^^
Un
abbraccio, alla prossima!
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 8: Incoerenza ***
Capitolo
8
Incoerenza
Una
pioggia sottile ferì il volto cereo di Auguste per tutta la durata del suo
penoso tragitto verso casa. Mai il percorso gli era parso tanto lungo e
snervante, il corpo gravato dalla cappa d’insostenibile dolore che corrompeva il
suo animo. Un’angoscia senza fine, inesorabile, gli dilaniava il cuore a piccoli
morsi e, dopo aver prosciugato ogni sua energia morale e reso vano e patetico
ogni suo sforzo di reagire, si era impossessata delle sue membra, risucchiando
ogni goccia d’energia fisica, accorciando i suoi passi ed irradiando il cupo
malessere ad ogni fibra del suo corpo.
Stremato,
quasi incosciente, Auguste fissò la volta color piombo che incombeva sulla sua
disgraziata città e, accecata dalla disperazione, la sua mente fu sfiorata
dall’inconsulto desiderio che il cielo si richiudesse su di lui ed inghiottisse
il suo dolore. L’avrebbe liberato da quel male lacerante, annegandolo e
disperdendolo fra torbidi ricordi dal sapore di veleno e dissolvendolo in
essi.
Il
nulla.
Il
nulla.
Era la sola risposta e l’unica soluzione al suo dolore: lasciarsi passivamente
sommergere dalle sue stesse incancellabili colpe e dal desiderio insano di
smarrirsi nell’oblio, come se non fosse mai nato.
Dal
cielo corrucciato, il suo sguardo si spostò gradualmente sulla città
circostante, nido di spergiuri ed assassini, ammasso di mura gelide stillanti
sangue.
Auguste
arretrò di un passo. Lo stesso colore del cielo gli pareva innaturale. Non era
azzurro né grigio a causa delle nubi né dorato per l’avanzare dell’aurora: era
livido. Ad oriente, un pallido sole, ancora seminascosto dagli edifici
circostanti, tentava di squarciare le tenebre con il suo chiarore
malato.
Lucien
era morto come un animale scannato, ed i flebili raggi solari solleticavano
insolenti i suoi occhi stanchi, gonfi di lacrime non
piante.
Aveva
smesso di piovere. Le sue lacrime, confuse con il pianto del cielo, morirono
insieme alle ultime stille di pioggia, cessando momentaneamente di rigargli il
volto contro la sua volontà. La vita scorreva nelle sue vene, straziandolo, ed
il sole aveva il coraggio di sorgere e di rivelare impietoso la sua
desolazione.
Ormai
a pochi passi dal portone brunito della sua austera dimora, Auguste sentì le
ginocchia cedergli e ricadde pesantemente sui gomiti. Non tentò di
rialzarsi.
Ignorò
gelidamente i sassolini aguzzi che gli si erano conficcati nei palmi delle mani,
ferendoli impietosamente.
Riuscì
soltanto a sollevare fieramente verso il cielo lo sguardo allucinato, il viso
coperto da un velo di lacrime brucianti.
Che
cosa faccio ancora qui?
Ruggì. Il sole si mostra nuovamente ai
miei occhi e mi sputa in faccia che sono ancora vivo nonostante tutto; mi dona
la vita, dopo che il mio Lucien ne è stato barbaramente
privato.
Annientami,
piuttosto che costringermi a vivere come una larva, impotente di fronte al mio
destino! Cosa aspetti?
Quasi
in una tacita risposta, il pallido disco solare spuntò definitivamente oltre le
costruzioni e lo spesso strato di nebbia, trafiggendo imperioso gli occhi di
Auguste con i suoi raggi.
Al
diavolo tutto, maledizione!
Auguste
rivolse nuovamente un’occhiata sdegnosa e tracotante verso il vuoto, verso
l’astro che, illuminandolo, osava rivolgere uno sguardo pietoso a quella vita
che non aveva più senso. Serrò la mascella in un moto d’odio e disincantata
fierezza, prima che il suo atteggiamento sprezzante si sciogliesse in una nuova,
violenta crisi di pianto. Accasciato lì, in mezzo alla via, come un sacco di
stracci fradici.
-
Auguste… Auguste, sei forse impazzito?
Una
voce nota riecheggiò nella sua testa, ma non fu sufficiente a riscuoterlo del
tutto. Esitante, Auguste rivolse lo sguardo verso la figura altera che sostava
compunta dinnanzi al portone aperto.
- E
ora, cosa ti è successo? – soggiunse la donna.
Quel
tono, un poco più carezzevole di quello adoperato pochi istanti prima, era
percorso da una fremente agitazione.
Lo
raggiunse in mezzo alla strada bagnata di pioggia. Auguste fissò distrattamente
le eleganti scendiletto ormai impregnate d’acqua piovana.
La
donna gli sfiorò timidamente la giacca con la mano delicata; poi,
inavvertitamente, Auguste si sentì prendere il braccio e trascinare dentro con
un’energia che gli parve innaturale attribuire ad Emilie. Privo di volontà, il
volto quasi assente, si lasciò condurre fino al salone.
-
Auguste, che ci facevi fuori a quest’ora? – domandò la donna, inasprendo
involontariamente la propria espressione.
Quel
fare indiscreto e vagamente inquisitore lo infastidì profondamente, benché egli
non fosse abbastanza lucido da recepirne l’intrinseca ed umana
apprensione.
Smettila,
Emilie. Taci, e sarà meglio per tutti. Non sei mia moglie e neppure mia madre
per sindacare sulla mia vita. Non rendere tutto ancora più
complicato.
-
Auguste… Auguste, hai deciso di farmi preoccupare sul serio? – la voce della
donna perse la sua determinazione fino ad infrangersi in un singulto disperato –
Parlami, Auguste, te ne supplico. Sei sconvolto e non dici nulla. Parlamene,
amore mio.
Riscaldato
da quell’abbraccio impacciato e materno, Auguste avvertì quanto la stretta di
Emilie non fosse confortante come avrebbe desiderato. Si abbandonò
distrattamente sul seno morbido della sua compagna, sfiorando con il volto il
tessuto sottile e profumato della veste da camera. Cullato da quel dolce tepore
che gli impregnava la mente, Auguste cercò la forza di enunciare a qualcuno che
non fosse se stesso il resoconto di quella notte
terribile.
-
Emilie, Lucien è… – si fermò di colpo e fissò il vuoto oltre il volto della
donna, trapassandolo quasi fosse trasparente.
-
Gli è accaduto qualcosa, Auguste? So che ti recavi da lui – la sua espressione
s’indurì – Per… quella faccenda.
Auguste
le rivolse un cenno con la mano, ottenendo perentorio il suo silenzio. Sapeva
che Emilie alludeva chiaramente alle sue imprudenti, sediziose attività
clandestine.
Non
dire altro, Emilie.
-
Lucien è morto – sentenziò infine.
La
vide impallidire e strofinarsi nervosamente le dita candide le une sulle
altre.
-
Un incidente?
Auguste
scosse mestamente il capo e scandì bene le sue ultime
parole.
- È
stato ucciso. Scannato come le bestie al macello.
Tacque,
non riuscendo a proferire nient’altro: Emilie l’aveva messo alle strette.
Strizzò dolorosamente le palpebre: non voleva vedere altre lacrime né sentire le
urla ed il pianto. Non era in grado di sostenere sulle sue spalle la propria
pena: quanto avrebbe potuto reggere le lacrime altrui?
Le
labbra di Emilie si piegarono in una smorfia d’orrore, mentre, sconvolta, si
portava le mani alla bocca nel soffocare un grido. La sua espressione smarrita
sottintendeva l’amarezza e la costernazione che aveva occultato di fronte a lui.
Auguste la vide singhiozzare sommessamente fino ad inghiottire le lacrime e far
cessare ogni singulto. Si rese conto di aver sottovalutato il suo
temperamento.
-
Mi… dispiace – sussurrò la donna, frastornata.
Auguste
lesse l’imbarazzo negli occhi scuri e scintillanti che risaltavano sulla pelle
d'avorio come baratri senza fine. Tuttavia, non si mosse e non disse nulla.
Incrociò le braccia sul petto, immobile: qualsiasi atteggiamento consolatorio
sarebbe stato superfluo ed inutile e non avrebbe costituito un valido sostegno
per nessuno dei due.
Le
carezze di Emilie gli facevano male come se gli ricordassero con costanza di
essere un misero relitto in mezzo al mare in tempesta, sballottato dalla furia
degli eventi e privato della sua forza vitale.
-
Sei fradicio. Ti porto qualcosa d’asciutto – asserì la donna, la voce arrochita
dal pianto represso.
Non
comprendi, Emilie. Annaspi nel vuoto, non sapendo come prendermi. Cosa credi
m’importerebbe se il mio corpo, in questo preciso istante, si tramutasse in
ghiaccio per poi sciogliersi e disperdersi in milioni di
frammenti?
Auguste
sentì la collera montare inarrestabile dentro di sé.
Non
per causa sua. Non era sua la colpa. Perdonami, Emilie.
Perdonami.
-
Sono davvero importanti, in questo momento, gli abitucci caldi? – proruppe con
crudele sarcasmo – Vuoi la verità, Emilie? A me non importa di nulla, tanto meno
di me. Di nulla. E tutto mi si ritorce inesorabilmente contro. Sarei disposto a
sprofondare all’inferno, se questo fosse veramente necessario ad annullare il
dolore e cancellare le ultime cinque ore della mia vita. Invece, non ne sono
capace o non ne ho la forza, e ogni mio respiro per me è una boccata di veleno.
Non c’è nulla che io possa fare, e neanche tu. Niente!
-
Vuoi che un malanno ti mandi all’altro mondo? – lo contraddisse la donna con
petulanza.
-
Non m’importa – ripeté Auguste nel suo agghiacciante ritornello – Non
m’importa.
-
Credi forse che startene bagnato e al freddo ti riporterà indietro Lucien? – lo
provocò Emilie.
-
Non lo nominare! Non nominarlo neppure! – ruggì Auguste.
I
suoi pugni si strinsero fino a far sbiancare le nocche e a conficcare le unghie
nel palmo.
Per
un attimo, i due si studiarono come due belve pronte ad azzannarsi, irritate
dalla reciproca presenza.
Poi,
distolsero entrambi lo sguardo, inquieti.
-
Fa’ come vuoi. A me importa di te, Auguste, con tutto quel che ne consegue.
Sappi soltanto che… ti sarò vicina – mormorò Emilie con freddezza e distacco,
uscendo dalla stanza.
Auguste
era rimasto solo: la consapevolezza gli strinse il cuore.
La
sua rabbia si era disciolta come neve al sole dopo lo scatto iniziale e dopo
essersi confrontato con lo sguardo fermo di Emilie. Non poteva biasimarla se,
nonostante tutto, si sforzasse di stargli accanto perché le faceva pena. Già:
quando aveva letto negli occhi della sua compagna la più scarna commiserazione,
la sua collera si era tramutata in tristezza e vergogna. Ora fissava immobile e
meditabondo la scacchiera disegnata sul pavimento dalle piccole mattonelle. Un
ronzio incessante gli riempiva la testa.
In
silenzio, Auguste si sciacquò le mani in un catino d’acqua e si bagnò la faccia.
Se Emilie, dopo la sua reazione esasperata, avesse iniziato a coltivare il
sospetto di qualcosa di poco chiaro fra lui e Lucien, qualcosa che, secondo le
sterili regole della decenza, andava oltre il limite, avrebbe avuto i suoi buoni
motivi.
Strattonò
con forza il morbido panno intorno alle punte gocciolanti dei suoi capelli,
asciugandole di fretta.
Questo
no!
Proruppe in un anelito d’orgoglio disperato. Nessuno infangherà la memoria del mio amico,
per nulla al mondo. A costo di portarmi il mio segreto nella tomba. Il nostro…
amore, chiamatelo come più vi piace, ha diritto al rispetto che solo chi l’ha
provato è in grado di garantire.
Non
aveva senso rigirarsi nel letto e tirarsi le lenzuola sulle spalle. Aveva
freddo, eppure il suo sangue bruciava come acido. Spazientito, mandò giù
l’ultima goccia di liquore e ripose di malagrazia il piccolo bicchiere vuoto sul
comodino.
Nel
momento in cui Auguste soffiò sulla candela, dei passi leggeri annunciarono
l’ingresso di Emilie nella stanza.
-
Stai meglio?
Auguste
la osservò: era chiaro come il sole quanto vederlo in quello stato l’avesse
ferita ed amareggiata.
Malgrado
la penombra che le luci dell’alba riuscivano solo parzialmente a penetrare,
Auguste riuscì a distinguere i riflessi di rame sui capelli scuri che ricadevano
in folti boccoli sul seno e lungo la schiena. Gli occhi, impenetrabili,
spiccavano come due tizzoni ardenti sul chiarore di crema del suo
volto.
Gli
si accostò. Senza aggiungere altro, gli prese il volto tra le mani e lo
baciò.
-
Non avere paura, Auguste. Non devi temere.
Io
non ho paura. Non ho mai avuto coscientemente paura: è sempre stato il mio
peggior difetto, non aver mai interiorizzato la mia paura. Vedi, non ho paura di
alzar la spalla e lasciarmi andare dinnanzi a tutto, persino di fronte alla
morte delle persone care.
Auguste
si sollevò a sedere e strinse il corpo minuto di Emilie contro il proprio, in un
incosciente bisogno di calore.
Come
tacita risposta, la donna slacciò con enfasi i nastri che le allacciavano la
camicia da notte sul busto e si scoprì il petto.
Il
contrasto fra le spalle esili ed i seni pesanti e floridi faceva pensare ad una
giovane e fertile giovenca. Svelta, la donna quasi strappò lo jabot sulla
camicia del compagno ed accostò il proprio corpo al suo, premendo il proprio
petto contro il torace solido di Auguste.
L’uomo
reclinò la testa all’indietro in un lieve sospiro, imprimendo nei propri sensi
e, in seguito, nella mente, il profumo celestiale che suggellava il
momento.
Emilie
salì sullo spoglio talamo, accostandosi più agevolmente a lui. Sedette
cavalcioni sul suo grembo e ondeggiò mollemente il bacino sfiorando la carnale
rigidità del suo amante.
Auguste
ansimò quasi senza accorgersene. Aveva perso il controllo non solo della propria
mente, che ormai viaggiava per proprio conto, ma anche del suo corpo. Non era
stato difficile perdere la ragione e tuffarsi a capofitto in una circostanza
dettata unicamente dal suo istinto malato, dopo essersi stordito con l’alcool e
dopo che la sua angoscia, simile ad una ragnatela appiccicata alle pareti
intorno a lui, si era tramutata in tensione erotica.
-
Ci sono io, Auguste. Ci sono io.
È
ciò di cui ho veramente bisogno? È opportuno annegare un giusto dolore
nell’appagamento sensuale?
Auguste
era stordito ed innegabilmente eccitato. Se la sua mente non era in grado di
percepire sensazioni di considerevole intensità, il corpo era difficilmente
governabile. Il fatto che i calzoni stretti soffocassero in una morsa
d’insopportabile tensione la sua turgida, fremente virilità, costituiva il segno
indiscutibile di come impulso e ragione schizzassero in direzioni opposte.
Soltanto che, stavolta, l’istinto stava riguadagnando
terreno.
Emilie
prese a tormentare tra le labbra la fragile cute del suo collo, mentre, di tanto
in tanto, gli affondava voluttuosamente con i denti nella
pelle.
Auguste
soffocò un gemito di desiderio spasmodico, quando un ennesimo morso di Emilie
attaccò la solida carne della spalla.
Basta,
Emilie. Basta! Non sono un animale.
Quali
sensazioni era convinta di evocare in lui, mentre avviluppava fra le proprie
ginocchia i fianchi compatti di un uomo distrutto che stava per fare l’amore con
lei e che, contemporaneamente, si abbeverava nel calice della
falsità?
Emilie
si sfilò con un gesto fluido la camicia da notte che ormai le era d’intralcio.
Il serico indumento andò a confondersi nel groviglio delle lenzuola. Alla stessa
fine furono destinati gli indumenti che separavano il corpo di Auguste dalla
nudità.
Privo
di veli, Auguste si sentiva ancora più vulnerabile. Dov’erano il suo orgoglio,
la sua dignità e tutto ciò che lo rendeva un uomo degno di questo nome? Si era
dissolto, insieme ai suoi indumenti ed alla sua coscienza
martoriata.
Chi
sei fuori, Auguste? Quale costume, quale maschera ricopre meglio la tua nudità
morale? Chi è il vero Auguste?
Era
un uomo, fisicamente eccitato e privato della propria dignità, che si accingeva
a strofinare il proprio ventre nudo contro quello di una donna che, in quel
momento, percepiva quasi sconosciuta.
Un
fremito di sorda eccitazione lo scosse come una corda rimasta tesa troppo a
lungo. In un impeto puramente istintivo, Auguste congiunse le mani intorno alle
anche vellutate di Emilie e la trasse completamente su di sé, immettendosi
prepotentemente nel suo umido grembo.
Emilie
si piegò su di lui e lo baciò sulle labbra, mentre Auguste ricadeva supino in
preda a spasmi di piacere.
Cosa
succede? Perché il mio essere uomo si esplicita unicamente in ciò che mi rende
affine alle bestie?
* *
*
Auguste
si sistemò un lembo del lenzuolo sulle spalle nude e infreddolite. La brezza che
filtrava attraverso gli spifferi, a contatto con la pelle sudata, lo fece
rabbrividire.
Come
stai, Auguste? Sei più sereno, ora che i tuoi lombi sono sazi?
Osservò
i lineamenti di Emilie, distesi nel sonno del giusto. La linea morbida
dell’ovale, gli zigomi pronunciati ed il rosso vivo delle labbra conferivano al
suo volto un tratto peccaminoso.
Davvero
per te è soltanto un pretesto, Auguste? Guardati allo specchio e di’ a te stesso
cosa provi per questa persona.
La
amava? La amo,
ammise.
È
la mia seconda condanna: io amo. Non posso fare a meno di ricambiare, anche se
in un modo del tutto distorto, i sentimenti di chi mi è vicino, anche se,
talvolta, avveleno il mio cuore con sentimenti al di là dell’ossessione.
Confesso: sono condannato ad amare senza essere ricambiato, a ripagare l’amore
con il tradimento e la menzogna, a mentire a me stesso ed a trascinare tutti con
me nell’abisso. Soffrire e far soffrire: io ho imparato bene questa
lezione!
Voglio
bene ad Emilie,
ammise ancora una volta, ma quel che ho
fatto non era nulla di ciò di cui entrambi avevamo bisogno. È stato un
palliativo, uno sfogo furioso ed irragionevole.
Un
miserabile folle e vizioso: ecco in cosa mi sto trasformando.
Io
non faccio l’amore per diletto: lo giuro; e, se anche è successo, vorrei
soltanto che Emilie non mi serbasse rancore. Non posso negare, anche se
inconsciamente, di riservare una parte del mio cuore ad ognuna delle persone
amiche che ho incrociato nella mia vita.
Ora
vorrei riuscire a ripiegarmi su me stesso e a capire quale strascico ha lasciato
nel mio cuore uno sfogo sessuale – e non certo il primo di una lunga e triste
serie – scaturito dalla disperazione e dall’istinto
irrazionale.
Cos’hai
provato, cosa provi, ora?
Vuoi
proprio che lo dica? Nulla. Nulla capace di scaldarmi il petto e riaccendermi il
cuore.
Sospirò:
ogni singolo momento da lui percorso in quegli stralci di vita gli pareva una
recita infame costellata di punti oscuri, incertezze e decisioni incoerenti
dettate da motivazioni incomprensibili che sfuggivano al suo raziocinio. Era
come se una serie di sovrastrutture mentali a lui sconosciute lo portassero in
determinati momenti a compiere un determinato tipo di scelta piuttosto che un
altro: decisioni che, a ben vedere, poco avevano a che vedere con la sua vita,
le sue aspirazioni e gli intrinseci desideri.
Raggomitolato
sul letto sfatto, le lenzuola stropicciate avvinte al corpo nudo per proteggersi
dal freddo e dai suoi fantasmi, raccolto su se stesso, Auguste volgeva le spalle
ad Emilie. Non era stata una buona idea quella di fare sesso: il calore della
passione aveva sì sopito, in parte, il suo dolore, gelandone gli slanci più
autodistruttivi, ma, come prezzo da pagare, gli aveva lasciato addosso una
sensazione di freddo e di vuoto dell’anima.
La
donna che, assopita al suo fianco, condivideva il suo letto, era ormai una
statua di marmo: assolto quel che fino a quel momento era stato in suo potere,
aveva perso la sua capacità d’infondergli un fugace
calore.
La
sua gioia e la sua coerenza non erano più di questo mondo: senza Lucien non
sarebbe stata mai più la stessa cosa, sebbene con tutte le contraddizioni che la
sua situazione aveva presentato sin da principio.
Un
ennesimo sospiro gli fornì una nuova, fresca boccata d’ossigeno, e, mentre
scivolava lentamente in una sorta di dormiveglia, sentiva che i bei ricordi,
richiamati con delicatezza dal suo istinto, non gli bruciavano più come un rogo
nel cuore. Era forse presto per dirlo, ma, in quel momento, erano piuttosto un
dolce balsamo che scorreva sulle sue ferite.
Non
era la stessa cosa,
si rendeva conto con cruda consapevolezza: nulla gli avrebbe ridato
quell’irrefrenabile languore che aveva riempito le notti in cui Lucien era
giaciuto con lui. Quelle ore intense di stillante passione erano andate perdute,
scivolate tra le sue dita prima che egli se ne fosse
avveduto.
Il
mio cantuccio:
Buonasera,
lettori carissimi! Come vedete, anche se con un “lievissimo” ritardo di ben un
mese e tre giorni, ho mantenuto la promessa e sono riuscita a postare l’ottavo
capitolo. Non è un capitolo molto lungo né particolarmente significativo ai fini
della trama; spero mi perdonerete e, soprattutto, spero di non aver deluso le
aspettative.
Ringrazio
tutti coloro che, sopportando stoicamente i miei terrificanti ritardi
nell’aggiornare, seguono il mio lavoro: prima fra tutti, Monella, che puntuale recensisce ogni
mio capitolo. Senza ripetermi ulteriormente riguardo al piacere che mi fanno i
tuoi commenti, sempre molto gentili, ti rassicuro per quanto riguarda la parte
“d’azione”, che arriverà, così come la tematica propriamente “vampiresca”.
Purtroppo ho il pallino per indugiare molto nelle presentazioni, nella
descrizione dei personaggi e nella loro introspezione. Insomma, ogni tanto
finisco per “incartarmi” un po’ nei loro pensieri e nei loro mutevoli stati
d’animo. Inoltre, tendo molto a cercare di dare un quadro quanto più compiuto
della situazione, onde evitare incoerenze o scarsa comprensione da parte del
lettore.
Il
racconto non è già scritto per intero, lo sto stendendo pian piano capitolo per
capitolo, dunque, anticipo da ora che si potrebbe andare incontro a
“dilungamenti” o, al contrario, passare subito all’azione concreta con dei colpi
di scena. La trama l’ho già ben in mente, ma, ogni volta che mi metto di buona
lena alla tastiera, per me è un’avventura a sé, e… insomma, non si può mai
sapere per certo in quale modo potrebbe volgere questo o quel
capitolo!
Al
prossimo aggiornamento!^^
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 9: Gli ultimi ribelli ***
Capitolo
9
Gli
ultimi ribelli
Auguste
respirò profondamente l’atmosfera intorno a sé. Era diversa, per quanto egli
tentasse d’inabissarsi con la mente nei suoi ricordi e di rievocare l’effluvio
salino che aleggiava sulla città portuale nella quale lui e Lucien, costretti
all’esilio, avevano trovato rifugio.
La
delicata brezza marina spirava giorno e notte dall’ampio braccio di mare che
separava quei luoghi dalla sua terra natia.
Le
limpide acque, severe custodi, parevano proteggere quel luogo dalla corruzione
dei secoli con il loro incantesimo. La vita scorreva attraverso le vie tortuose
come se il tempo si fosse fermato, preservato dal mormorio ipnotico delle
onde.
-
Passerà – era stata la ferma promessa di Lucien – L’esilio è una fase obbligata
e necessaria, se vogliamo tornare vivi a Noir Trésor ed attuare quel che abbiamo
in mente. Attenderemo che le acque si siano calmate. Non lasceremo la nostra
città in pasto al tiranno. Non senza lottare, perlomeno – l’aveva frequentemente
rassicurato.
Glielo
aveva ripetuto fino alla nausea, a dire il vero. Eppure, Auguste non stava bene.
La mancanza della sua patria e la consapevolezza di essere scampato da vile
convergevano nella sua mente in una perenne, febbrile attesa ed un’amarezza che
si concretizzava nella più cocente disillusione. Sempre più spesso si era
ritrovato, suo malgrado, a riflettere su quanto vano e remoto, in quel momento,
gli apparisse ogni tentativo di riscatto; ed il suo animo ruggente, prigioniero
nel lento progredire di giornate vuote e prive del suo slancio ideale, si
risolveva in un disperato ripiegamento su se stesso che gli lacerava il
cuore.
Il
pallido trascorrere dei giorni si cristallizzava nelle pareti scrostate della
modesta locanda nella quale risiedeva senza una meta, sospeso tra una forza che
veniva meno e la volontà disperata d’impugnare ancora le armi e scacciare
l’usurpatore.
Ma
il giovane Auguste aveva smesso da tempo di cullarsi nel limbo delle illusioni:
quando il duca du Lac, appoggiato dalla nobiltà reazionaria, si era insediato al
potere a Noir Trésor con la forza delle armi, la città, scossa dai sanguinosi
avvenimenti, era insorta, tentando una confusa e folle
difesa
Auguste
aveva visto con i suoi occhi l’impeto patriottico di giovani intellettuali e dei
loro seguaci soffocato in una carneficina in piena regola.
Non
aveva dimenticato come il duca, privati i cittadini della loro libertà, avesse
indiscriminatamente marchiato con l’accusa di tradimento chiunque avesse osato
opporsi e posti così a tacere gli ultimi focolai di resistenza alla sua ascesa
al potere.
Non
si era smarrito nel limbo dei suoi ricordi il sangue che ancora era stato
versato nelle sommarie esecuzioni dei giovani patrioti. Lo sapeva, Auguste:
alcuni avrebbero terminato i loro giorni nei carceri; altri avevano scelto
volontariamente la via dell’esilio, lasciando che a Noir Trésor l’incendio
divampasse fino a scemare e che il duca cessasse di dare la caccia agli ultimi
ribelli o presunti tali.
Non
era vigliaccheria, da parte loro. Non era codardia, si
ostinava a ripetersi, fino a stordirsi nel turbinio dell’ossessione, mentre
fissava il soffitto biancastro.
Non
riusciva a dissipare la fitta di angoscioso smarrimento che gli si agitava nel
petto. Ripensava all’amaro destino dei loro compagni, periti sopra un patibolo o
durante i sanguinosi scontri in città tra le bande armate dei ribelli e
l’esercito mercenario del duca.
Auguste
aveva sofferto la sua decisione fino all’ultimo istante.
Nei
medesimi istanti in cui i suoi amici pagavano sulla forca il proprio orgoglio e
l’amore di patria, lui stava al sicuro in una località sconosciuta, intento a
leccarsi le ferite e ad ubriacarsi in tranquillità. Sospirò dolorosamente: non
era stato d’aiuto a nessuno.
Non
era necessario che qualcuno lo marchiasse come vigliacco: il suo tacito senso di
colpa bastava da solo a trafiggerlo come uno spillo nelle carni che non gli
offriva tregua.
Era
scivolato in uno stato di prostrazione e d’apatia in un limbo assurdo ed
asfissiante. Trascorreva ormai il suo tempo chiuso in quella scalcinata locanda,
annegando nell’alcool e nella solitudine la frustrazione e la rabbia impotente.
Viveva alla giornata. Le scorte di denaro che, nella furia di abbandonare Noir
Trésor, era riuscito a portare con sé, stavano progressivamente
esaurendosi.
Avrebbe
dovuto in qualche modo prendere in pugno la situazione, raccogliere le sue forze
e ristabilire una parvenza d’ordine nella sua vita. Rimediare un impiego come
sguattero o come gazzettiere per procurarsi da vivere d’ora in avanti era stata
la prospettiva più valida e sensata che gli si fosse aperta dinnanzi. Se solo ne
avesse avuto la volontà e la forza. In verità, riflettendoci con emotivo,
altezzoso distacco, considerò che ficcare il naso nel buco della serratura di
qualche chiacchierato aristocratico dei dintorni per conto di un libellista
senza scrupoli era davvero l’ultima delle sue velleità.
Espirò,
contrariato: l’oste reclamava già i soldi dell’alloggio, e lui tergiversava. In
quelle poche settimane in cui era approdato in città, aveva già avuto modo di
farsi conoscere presso gli avventori della locanda: l’avevano sarcasticamente
apostrofato il filosofo, l’intellettuale
annoiato, a causa dell’alone di mistero che promanava il suo sguardo
perennemente assorto.
Noir
Trésor appariva ora ai suoi occhi una realtà che distava mille miglia; l’ipotesi
di farvi ritorno era divenuta utopia.
Non
fossero mai tornati…
Il
fatto che Lucien, ripescato per i capelli, fosse uscito indenne da una morte
pressoché sicura per annegamento, era forse stato un segnale
propizio.
Già,
poi vi era lui: Lucien.
Lucien
era un maestro nel non lasciar trapelare la sua aspra frustrazione ed il suo
sconforto. La lastra di ghiaccio che costituiva la sua pelle nivea sembrava aver
congelato al suo interno le sue pulsioni più negative. Lucien aveva dissimulato
il proprio dispiacere sin dal momento in cui il suo obbiettivo principale,
dacché avevano lasciato Noir Trésor, era divenuto infondere nuovamente coraggio
nel suo amico. A volte, a dire il vero, i suoi stessi cedimenti facevano sì che
i ruoli si capovolgessero e che divenisse dovere preciso di Auguste offrirgli
tutto il supporto di cui aveva bisogno.
Lucien
doveva essere per lui un sostegno, non un deterrente; per questo motivo,
raramente si lasciava sorprendere in momenti di sconforto: doveva riscuotere il
leone, non gravarlo delle proprie insicurezze.
Auguste
taceva e si fidava della sua buonafede; di tanto in tanto lo stringeva tra le
braccia e lo confortava a sua volta.
Nulla
era stato più accennato da parte loro riguardo al bacio sulla
nave.
Giaceva
indolente sul suo piccolo letto cigolante, il tricorno calato sulla fronte per
proteggersi dalla luce fulva del crepuscolo che penetrava nella camera,
proiettandovi particolari bagliori. Il suo sguardo scorreva distratto scrutando
ora il soffitto, ora la punta dei propri stivali, ora i particolari della stanza
intorno a lui.
Fu
l’ingresso di Lucien ad interrompere il suo momentaneo
isolamento.
I
capelli che gli accarezzavano la schiena erano umidi e lasciavano dedurre che
Lucien si era da poco immerso in una tinozza d’acqua calda a sciacquare via
dalle sue membra stanchezza e nervosismo e schiarire la mente mentre il corpo si
rilassava: uno dei pochi “lussi” al quale si abbandonavano con
voluttà.
Auguste
non comprendeva quale nesso coesistesse tra i suoi grigi e tetri pensieri e lo
strano disagio che gli provocava la presenza dell’amico. Gli eventi erano
precipitati sulle sue spalle con impeto tale da rendergli difficile sciogliere
la confusione che avvertiva dentro di sé e fugare gli incoerenti ed insensati
pensieri che albergavano in lui.
Nella
mente, si raffigurava mille gocce percorrere rapide come minuscole cascate il
corpo tornito di Lucien, colare dai capelli intrisi d’acqua e scorrere lungo le
gambe.
La
tensione sprigionatasi nell’esiguo spazio che li separava era tangibile. Rapito
da quell’insolito fervore, Auguste scorse con lo sguardo sul torace dell’amico,
scoperto dalla camicia, e nella sua mente se lo figurò indugiare pigramente con
un morbido panno sul corpo bagnato, lambendo gentilmente ogni stilla d’acqua
dalla sua pelle.
Auguste
si riscosse dai suoi insensati deliri mordendosi il labbro, ed ebbe la grazia di
arrossire, quando lo sguardo ceruleo dell’amico si posò su di
lui.
La
completa apatia in cui si era confinato tradiva il bisogno di agire
concretamente e avere la mente impegnata, al punto che il suo pensiero, non
potendo vagare giorno e notte su affanni e sensi di colpa, traeva spunto da
qualunque pretesto capace di accendergli il cuore.
Avrebbe
voluto guardare Lucien negli occhi nutrendo la sola, disinteressata amicizia che
sempre aveva avvertito nei suoi confronti, ma, più passavano i giorni, più si
rendeva conto che le morbide labbra del suo amico bruciavano sulle sue con
maggior intensità.
Lo
osservò, di spalle, mentre si spazzolava distrattamente i
capelli.
Se
non avesse afferrato il lenzuolo sotto di sé e, facendo appello a tutte le sue
forze, non avesse ordinato al proprio corpo di restare ancorato a quel letto,
avrebbe raggiunto Lucien di fronte alla specchiera ed avrebbe insinuato le dita
tra i suoi capelli, impossessandosi gelosamente delle sue labbra. Mentalmente,
udì il tonfo della piccola spazzola che cadeva sul pavimento, mentre Lucien
cedeva ai suoi baci o, nella peggiore delle ipotesi, lo scostava bruscamente con
il gelo negli occhi. Una raffinata forma di tradimento alla loro amicizia? In
quel momento, il suo amico era uno scrigno prezioso da proteggere e tenere
stretto ad ogni costo, e il suo corpo assurgeva a inedito ricettacolo
d’incontenibile sensualità. Perché la loro amicizia era stata minata
dall’attrazione fisica, morbo insidioso che poteva portarli alla felicità o alla
depravazione e all’agonia?
Non
era così: lo amava. Il terrore di perderlo su quella maledetta nave ed una serie
di sensazioni contrastanti avevano innescato in lui reazioni emotive troppo
rapide e violente per essere sintetizzate con chiarezza.
-
Seta?
Le
dita di Auguste scorsero tentennanti sul nastro che riteneva la chioma corvina
di Lucien.
-
Che bel damerino da salotto…
Nelle
sue brevi parole vi era una doppia sfumatura di sensualità e di pungente
ironia.
-
Spero tu non voglia rassomigliare a quei polli incipriati –
soggiunse.
-
Vorresti paragonarmi ad uno dei nostri infingardi nobili che si sono venduti al
duca du Lac? Potrei offendermi – replicò Lucien con il medesimo atteggiamento
sarcastico – Cos’altro potrei fare? – riprese, il volto serio – Lasciarmi andare
all’indolenza e alla delusione, come… qualcuno di mia
conoscenza?
Tornò
a scrutare con freddezza la propria immagine riflessa.
Auguste
scosse stancamente il capo.
Potrei
essere il ritratto della decadenza di ogni ideale,
dedusse Auguste, esaminando a sua volta nello specchio il proprio volto segnato
da due leggere occhiaie ed i capelli arruffati. Non si era neppure preso il
disturbo di ravviarseli, dopo essersi immerso nel solito bacile fumante a
compiacersi del proprio gelido disincanto, fissando il vuoto dinnanzi a sé fino
ad uscire rabbrividendo dall’acqua ormai fredda, i palmi coperti di
grinze.
-
Se tu ti biasimi – riprese Lucien – Cosa dovrebbero fare i polli incipriati che durante gli
scontri si sono rintanati nei loro lussuosi palazzi, per poi “sfilare dietro il
carro del vincitore”?
-
Dovrebbero andare tutti all’inferno, ecco che cosa! I nostri amici sono morti.
Ho visto un ragazzo piangere, mentre suo padre era trainato verso il patibolo
sul carro dei condannati a morte. Ed io non ho potuto fare nulla per
loro.
-
Auguste, non sei un ragazzino. Ogni rivoluzione vede i suoi vincitori… e i suoi
vinti – ribatté tristemente.
-
Non sono neppure un ingenuo. A cosa ci porterà, ora, l’aver combattuto in prima
fila per poi retrocedere dinnanzi al pericolo della morte e scegliere la via più
semplice?
-
La via più semplice? La tua faccia, in questo momento, non dice esattamente che
tu abbia scelto la strada più facile. Che cosa avresti creduto di ottenere
sventolando la bandiera dell’oppositore sulla faccia del duca e finendo dritto
sulla forca?
-
Un ribelle in meno – proseguì Auguste con petulanza – E un uomo in
più.
- I
morti non sono più d’aiuto a nessuno.
-
Anch’io, a molte miglia di distanza, non sono d’aiuto a nessuno. Il duca ha
messo a ferro e fuoco la città, sulle tracce dei sovversivi. Se io ed altri ci
fossimo consegnati nelle sue mani, forse quel cane avrebbe evitato di impiccare
metà della popolazione.
Lucien
scosse nuovamente il capo.
-
Ascoltami, Auguste. Voglio che stavolta rifletta seriamente. Secondo te, è più
facile accettare di morire per una causa, oppure sacrificare la personale
autoaffermazione e, nelle nostre possibilità, continuare ad operare in silenzio,
guardando alla realtà e confidando che, se non nell’immediato, il nostro
progetto potrà essere attuato in un prossimo futuro, con le basi che noi stiamo
costruendo?
-
Dovrei affidare ai cari posteri le mie responsabilità?
-
Auguste, è più semplice presentarsi come oppositore e lavarsi la coscienza nel
sangue, oppure chinare il capo, ingoiare bocconi amari, ma con la consapevolezza
che saremo noi, in seguito, ad alimentare una speranza?
-
Parlami di azioni concrete, Lucien, non di voli della mente. Non posso vivere da
illuso, sognando un Deus ex machina
che arrivi e si faccia carico delle mie responsabilità?
-
Non mi sono spiegato – riprese Lucien, alterato – Tu sai che torneremo a Noir
Trésor. E sai che senza una guerra civile di mezzo, il duca non potrà trovare un
pretesto qualsiasi per condannarci deliberatamente. Terremo gli occhi aperti. Se
davvero vogliamo rovesciare la tirannia, dobbiamo aspettare che la situazione si
assesti. Prima di tentare qualsiasi azione, abbiamo bisogno di tempo per capire
i punti deboli del duca du Lac. Una rivolta non si organizza in pochi giorni e
con un cappio parzialmente legato attorno al collo. Noi dobbiamo creare le
premesse, perché sarà il popolo a far cadere il tiranno, non Lucien, o Auguste
il martire.
Auguste
sorrise sarcasticamente.
-
Dopo che il duca avrà ben accomodato il suo blasonato fondoschiena sul suo trono
da usurpatore, dubito che vi sarà ancora qualcuno disposto ad assestargli una
spinta.
-
In un clima rovente come quello che attualmente dilaga a Noir Trésor, con il
duca fresco di vittoria, opporsi significa soccombere. Ma presto il duca
s’illuderà di aver vinto ed abbasserà la guardia. Un popolo sottomesso, per lui,
è un popolo innocuo. Auguste, credi ancora nella nostra
causa?
-
Vorrei che non fosse tutto inutile.
-
Non è mai inutile vivere per uno scopo preciso. E tu ti stai battendo come un
leone.
Auguste
rise amaramente.
-
Fuggire significa lottare?
-
Nessuno di noi ha mai ceduto. Io non mi sono mai arreso, e nemmeno tu. Fra tutte
le strade che potevamo intraprendere, noi abbiamo scelto quella più irta di
sofferenze. Marchiati come vigliacchi, come traditori. Abbiamo visto il sangue
dei nostri amici schizzare su di noi e trafiggerci come spilli arroventati. La
loro morte bruciava su di noi, eppure non potevamo fare nulla. Lasciavamo Noir
Trésor con l’orgoglio che ci gelava il sangue e la dignità a pezzi, ma non è
così. Se fossimo morti, ora chi porterebbe avanti il nostro progetto? Chi si
macererebbe l’esistenza per un frammento di giustizia?
-
Non lo so, Lucien, non lo so!
-
Cosa faremmo da morti?
-
Staremmo sotto una lapide? – Auguste sollevò le sopracciglia, spazientito –
Anzi, no, in una fossa comune con uno strato di calce
viva.
- A
chi potremmo apportare il nostro aiuto? A nessuno. Il nostro progetto potrebbe
essere attuato in futuro? Non lo puoi sapere, se non esisti
più.
-
Non so cosa significa esistere o non esistere. So cosa vuol dire
vivere.
-
Moriresti per un ideale?
Auguste
distolse lo sguardo per un momento, a disagio.
-
Mi sentirei un ipocrita se ti rispondessi immediatamente di sì. No. A
bruciapelo, non posso saperlo.
-
Tu hai fatto di più. Hai stretto i denti e hai scelto di
resistere.
Auguste
ammutolì, sconcertato.
-
Personalmente – riprese Lucien – Non so che farmene del concetto di “eroe”. Ti
reputo una persona generosa, Auguste. La gloria personale non ha mai arrecato
benefici duraturi ad un popolo, e poco ha a che vedere con la felicità. Le morti
intrepide non sempre apportano aiuto a qualcuno, e raramente sono i singoli a
cambiare le cose.
- A
parte qualche mostro sanguinario che con la forza piega la realtà a proprio
arbitrio, direi di sì.
Tacque.
Non seppe sostenere con precisione se fosse la forza delle argomentazioni di
Lucien a farlo momentaneamente desistere su quel terreno, o il calore che gli
bruciava il petto.
-
Cos’hai in progetto, stasera? – gli domandò Lucien, cambiando bruscamente
argomento.
Auguste
scosse le spalle.
-
Nulla. Sono stanco e non mi va di passare la notte nelle
osterie.
-
L’alcool non servirà a farti sentire meglio.
-
Ho parlato di “alcool”, nel particolare?
Auguste
sollevò un sopracciglio con fare sagace, nell’istante in cui prese una piccola
bottiglia di vetro e si servì di un’abbondante sorsata, sin quando il liquido
paglierino non gli riscaldò piacevolmente la gola.
Lucien
alzò gli occhi al cielo e si risparmiò ogni commento.
-
Io voglio aiutarti – proruppe in un sussurro.
Auguste
gli fece cenno di fermarsi.
-
Tu stai facendo l’impossibile. Ho compreso qual è la mia situazione, ma,
nonostante tutto, non riesco ancora ad accettarlo. Non riesco a stare
tranquillo.
- È
normale. Come tutti noi, nutrivi delle speranze e sei stato orribilmente deluso.
Cerca soltanto di non farne un’ossessione e non lasciarti trascinare dallo
sconforto.
-
Come potrei non pensarci? Sai meglio di me che certe immagini non mi
abbandoneranno mai.
-
La ferita è troppo fresca. Non puoi pretendere di estinguere in un battito di
ciglia il senso di colpa che avverti. Un senso di colpa che non ha ragion
d’essere – le sue parole sfumarono.
-
Non sono un codardo – ripeté Auguste, più per auto convincersene che per altro –
E non sono neppure un eroe. Sono soltanto… confuso, e non riesco a togliermi
dalla mente certi folli pensieri. Che cosa sono, allora?
-
Vuoi che sia io a darti una risposta? – lo provocò Lucien.
Auguste
annuì stancamente, mettendo giù la penna d’oca che fino ad un momento prima si
era ingegnato ad affilare. Voleva tentare di buttare giù qualche riga ed
offrirsi di collaborare alla gazzetta. Cercava una
motivazione.
Nel
tumulto dei suoi pensieri, si rese conto che la soluzione, e forse la sua gioia,
era lì a portata di mano, malgrado non riuscisse ad
afferrarla.
Il
cielo iniziava ad imbrunire, dissolvendo il riverbero sempre più fievole del
tramonto.
D’un
tratto, gli occhi di Auguste, abituati al seppur debole lume, piombarono
nell’oscurità, nell’istante in cui qualcuno soffiò sulla
candela.
Prima
che potesse esalare un respiro, due mani gli si posarono sulle spalle, leggere e
scure come le ali di un corvo.
Auguste
respirò affannosamente e cercò di svincolarsi da quella presa che, benché lieve,
lo tratteneva con una forza d’origine oscura; ma i suoi piedi sembravano
ancorati al pavimento.
In
un anelito di lucidità, il ragazzo si accorse di non poter stabilire in quale
punto particolare del suo corpo indugiassero quelle mani sottili: le sentì nello
stesso momento accarezzare i suoi fianchi, risalire sul petto e scivolare lungo
la schiena poco protetta dal tessuto sottile della
camicia.
Quante
erano le carezze che scorrevano su di lui? Non
riusciva a riordinare nel tempo ogni singolo evento, ogni singolo, erotico
tocco.
Lucien
gli scostò i capelli dal collo con un gesto fluido.
Solo
quando avvertì sulla pelle il suo respiro, Auguste dedusse che non era stato un
ingannevole parto della sua immaginazione.
-
Non sarei di grande aiuto se rispondessi alla tua domanda, Auguste. Nessuno è
totalmente obiettivo, quando si tratta della persona che si ama.
Auguste
rabbrividì, quando Lucien gli soffiò sul collo quelle parole brucianti e
repentine.
Tremante,
si volse verso di lui svincolandosi dall’abbraccio etereo che gli circondava il
busto. Scuotendo le palpebre per snebbiare la vista, riuscì a distinguere gli
occhi di Lucien aperti e lucidi nell’oscurità, i tratti regolari del suo volto
composti in un’espressione serena. Due dita pallide scivolarono su di lui,
seguendo il perimetro della sua guancia.
-
Mi dispiace, Auguste.
Il
giovane scosse nervosamente la testa: Lucien aveva interpretato la sua iniziale
perplessità come un tacito cenno di rifiuto?
-
Di cosa?
Sorridendo,
Auguste lo cinse timidamente con le braccia ed unì le labbra alle sue. Ora posso.
Lucien
sfiorò la sua bocca in punta di lingua, ed un estatico formicolio agitò il corpo
di Auguste, percorrendogli la spina dorsale ed avviando la sua graduale ascesa
verso vette che non conosceva.
-
Non resisto, Lou. Non ti resisto… – ansimò.
-
Non dire sul serio – gli ingiunse Lucien, prendendosi benevolmente gioco di lui
– Io ho resistito. Dalla notte sulla nave, per la
precisione.
-
Non ricordarmi quella notte – gli sussurrò Auguste – Sarei morto, se ti fosse
accaduto qualcosa.
-
Invece, se sono qui, lo devo a te. Indipendentemente da ciò, concedimelo, in
questi anni non mi sono mancate le occasioni per capire che ti
amavo.
Per
un istante, entrambi tacquero, l’uno tra le braccia dell’altro, scossi e turbati
al ricordo dell’incidente durante il viaggio.
Era
stato un comodo movente? Una provvidenziale scintilla? Non era importante;
contava soltanto la reciproca consapevolezza.
Insinuandosi
con le labbra nell’incavo del collo, Auguste risalì lentamente sino a
mordicchiare il lobo dell’orecchio del suo amico.
Sussultando
in seguito al suo attacco, Lucien lo attirò a sé stringendogli la vita tra le
mani e portando i fianchi di Auguste a contatto con i propri. Se avesse potuto
guardarlo in viso in piena luce, gli occhi scintillanti ed il volto accaldato
sarebbero stati indizi sufficienti di quanto Auguste fosse eccitato, senza
ricercare morbosamente inequivocabili conferme.
Auguste
trasalì ad un contatto così intimo e, come riflesso dell’intenso stimolo
ricevuto, accostò le labbra sulla spalla di Lucien, baciandolo avidamente e
contendendosi con la lingua e con i denti la conquista di ogni palmo della sua
pelle. Stringendo Lucien a sé, indietreggiò quel poco che bastava per
raggiungere il letto alle sue spalle. Ricadde sul materasso, e Lucien con
lui.
-
Ti ho fatto male? – gli domandò Lucien, crollato disteso lungo sul suo corpo,
mentre, d’istinto, gli posava un bacio sulla fronte.
-
Non è nulla… – fece Auguste di rimando, troppo impegnato a slacciare l’ampio
colletto della camicia del compagno.
Lo
amava:
quella miscela caotica di acute sensazioni, connessa al suo stato d’animo, gli
procurava un languore ed un’eccitazione senza uguali.
Spudorato
come un assassino, Lucien liberò la camicia di Auguste dalla cintola ed
introdusse indiscretamente una mano all’interno dell’indumento, lambendogli il
torace bollente.
Auguste
inarcò la schiena, sciogliendo ogni reticenza in un lungo sospiro e meditando
che, per quella notte, Lucien non gli avrebbe dato respiro: non si sarebbe
accontentato di estendere i suoi baci lungo la gola e sulla porzione scoperta
del petto.
Armeggiando
convulsamente con i lacci, tentoni, Lucien tentava di spogliarlo della camicia.
Le sue labbra si schiusero impietosamente su di lui e corsero a lambire
generosamente quella linea immaginaria che, dallo sterno, s’inabissava a
separare gli ampi pettorali.
Non
vi è da stupirsi se basta lambirmi appena per farmi tremare: è sufficiente
sfiorarmi con lo sguardo per evocare in me un piacere senza
uguali.
L’amore
che Auguste sentiva verso di lui – che sempre aveva provato – gli divampò nel
petto come una scossa; il suo cuore, immettendo indecifrabili sensazioni a
ciascuna fibra del suo corpo, rendeva ogni brano della sua pelle recettivo ed
estremamente sensibile al più debole sfioramento che Lucien gli rivolgeva. Era
come se fosse avvolto da una cortina invisibile che, anziché ripararlo da
assalti esterni, lo esponeva quanto mai al godimento che le carezze di Lucien
gli procuravano.
Amarlo
potenziava l’effetto di ogni bacio e di ogni carezza. Ogni singolo gesto di
Lucien infondeva in lui un oscuro piacere la cui causa fondamentale era l’amore
che gli ardeva nelle vene e rendeva il suo corpo e la sua volontà plasmabili
come creta.
Avvertì
le mani di Lucien scendere sui suoi fianchi ed indugiarvi, mentre le labbra si
avventuravano ad esplorare insaziabili la pelle vellutata ed i muscoli modellati
con grazia sull’addome asciutto che digradavano sinuosamente fino alle anche in
rilievo.
Risvegliatosi
dal suo erotico torpore, Auguste si sfilò spasmodicamente la camicia, che oramai
giaceva inutilmente arrotolata intorno al torace, e si sollevò a
sedere.
-
Ti amo. È tutto – gli ripeté ancora Lucien, prima di accostarsi al suo volto ed
impossessarsi delle sue labbra morbide e dischiuse – Potrei dire che ti amo
perché mi hai salvato la vita; o perché sei così bello. Le mie parole sono
riduttive: capisci? È come volersi spiegare perché il sole sta nel cielo.
Perdonami – rise imbarazzato – Dico una marea di
stupidaggini.
Sul
volto di Auguste comparve un sorriso enigmatico. L’ombra sempre più densa che
calava nella stanza rendeva ovattati i contorni delle cose, così come i loro
volti. Ancora una volta, Auguste si sentiva sospeso in una soffusa, intangibile
sensazione d’estasi profonda. Il corpo era il veicolo attraverso il quale
stavano ponendo fisicamente in atto un amore di tipo sensuale, che tuttavia non
racchiudeva l’unico aspetto della situazione; le loro menti vagavano in una
dimensione cristallina, trasmettendo al corpo impalpabili sensazioni tradotte in
piacere carnale.
Inaspettatamente,
Auguste sospinse Lucien con dolcezza, portandolo a giacere supino sotto di sé, e
riprese a baciarlo avidamente, ricambiando generosamente le convulse carezze con
cui il suo compagno indugiava a piene mani sulla sua
schiena.
Strusciare
la propria erezione contro quella altrettanto pulsante di Lucien ad ogni loro
flessuoso movimento si stava trasformando in un’estenuante e lenta tortura, una
morsa dalla quale temette di non uscire più.
Abbandonò
momentaneamente quella bocca che aveva ferocemente bramato e scivolò al fianco
di Lucien, trafelato.
Un
istante di respiro,
implorò silenziosamente, vinto dalle raffiche di piacere che si abbattevano su
di lui. Uno
soltanto…
Veloce,
Lucien si gettò impietoso sulla preda, sfiorando implacabile la striscia di
pelle sopra la cintola dei calzoni e soffermandosi con la lingua a disegnare
voluttuosi circoli di concentrica ostinazione intorno
all’ombelico.
Il
gemito che emise Auguste fu una manifesta ambivalenza fra la dichiarata soglia
di sopportazione dell’esasperante piacere ed il desiderio bruciante di un
contatto più intimo. Smanioso, intrecciò le dita tra i capelli setosi del suo
amico.
-
Ti fidi? – gli domandò Lucien a bruciapelo, dopo aver posato un tenero bacio
sulla sua pelle accaldata e percorsa da minuscole gocce di
sudore.
Auguste
annuì, riprendendo fiato.
-
Vuoi che continui? – incalzò Lucien.
Auguste
rispose un flebile “sì”, il cuore in subbuglio e la voce arrochita dal
desiderio.
Lucien
gli abbracciò la vita, in un misto di tenerezza e desiderio di possesso. Il suo
sguardo, esitando giù in basso, lo percorse come un tocco
leggero.
Auguste
trattenne un mugolio strozzato, quando la mano di Lucien discese lungo il ventre
ed affondò con irruenza oltre i pantaloni, sfiorandogli l’inguine nudo in
un’estenuante carezza.
La
tensione gli s’incuneò fin nelle ossa, mentre cinque dita ardenti si facevano
strada alla cieca là dove era più sensibile, fino a tastare con impazienza la
sua erezione prepotente.
Si
morse il labbro e, con la mano malferma, raggiunse quella di Lucien. La prima
idea che lo sfiorò fu quella di bloccare il suo amico, prima che il suo folle
desiderio spezzasse ogni ultimo, flebile baluardo di resistenza, erompendo con
ferocia e gettandoli in un subisso di sensazioni sconosciute. Strinse le
palpebre, scosso da uno spasmo di piacere, e le sue dita tremanti sfiorarono il
braccio di Lucien in un debole tocco che sancì il suo completo
assenso.
Spalancò
gli occhi, sforzando la sua vista nell’oscurità della stanza. Intravide
confusamente i loro abiti sparsi sul letto e sul pavimento. Nudi, si
apprestavano ad amarsi. Scorse la sagoma flessuosa di Lucien. Chino sul suo
corpo, si prendeva cura di lui e del suo piacere come di un cucciolo bisognoso
d’attenzioni. Rapito dall’estasi erotica, Auguste gli regalò istintivamente una
lenta carezza, ricambiando in parte il piacere che Lucien gli regalava. In
silenzio, sfiorò in punta di dita le sue labbra, umide dei baci roventi che si
erano scambiati. Le stesse labbra che erano calate implacabili sul suo sesso,
derubandolo di ogni stilla di lucidità.
Lo
cinse tra le braccia, sfiorandogli il petto con le labbra e perdendosi nel suo
profumo. Lucien gli rivolse un sorriso rassicurante, benché, nella penombra, i
suoi contorni fossero appena distinguibili, e lo lasciò andare dolcemente
disteso tra le lenzuola.
-
Auguste – mormorò roco Lucien – Posso fare l’amore con te?
-
Ti voglio, Lou… – riuscì a rispondergli – Ti voglio che potrei
morirne.
Auguste
vide il proprio inguine scomparire nuovamente dietro la massa scura dei capelli
di Lucien. Sussultò, quando, come una scossa, avvertì le sue dita sfiorarlo tra
i glutei e, pochi istanti dopo, qualcosa di umido lo lambì nello stesso punto,
reso ancor più sensibile da quelle brevi, studiate carezze. Da principio, fu
colto da un singolare senso d’intrusione, non appena avvertì la prima falange
affondare prudentemente in lui, e si contrasse d’istinto.
-
Sta’ tranquillo, Auguste, non temere. Sei con me – gli ingiunse dolcemente
Lucien, per poi riprendere a toccarlo con circospezione.
Auguste
sospirò: avrebbe voluto riprendere le redini della situazione, com’era sempre
stata sua abitudine, lanciandosi su Lucien ed uccidendolo di piacere; ma, ora
come ora, la sua volontà pareva essersi annullata al servizio dell’urgenza
incalzante di unirsi alla persona che amava.
Il
piacere che Lucien gli procurava era qualcosa di vago ed indecifrabile che non
poteva riassumere a parole; mai come in quel momento si era reso conto di non
riuscire a stabilire se fossero più intensi gli impulsi che le sue facoltà
sensibili irradiavano al suo sesso, o il liquido piacere che gli allagava il
petto al pensiero che stava per fare l’amore con Lucien. Era certo che il suo
piacere, fisico ed emotivo, nel percorso dalla mente ad ogni estremità del suo
corpo, passava necessariamente attraverso il cuore.
I
ricordi di quei momenti erano quanto mai annebbiati: la sua logica e la
percezione temporale erano venute meno.
Al
buio, udì soltanto il loro respiro grondante d’impazienza, lo strusciare dei
loro corpi sulle seriche lenzuola ed il lieve schioccare delle labbra di Lucien
che si dischiudevano ritmicamente sulla sua pelle sensibile in una miriade di
baci.
Ricordava
di aver artigliato affannosamente il lenzuolo sotto di sé, quando Lucien era
penetrato in lui.
Si
morse il labbro, trattenendo un gemito d’ambigua natura, ogni muscolo del corpo
teso fino allo spasmo. La fronte contratta era imperlata di sudore ed i capelli
gli ricadevano scomposti sul viso, complici dell’oscurità nell’occultare la sua
espressione.
Riuscì
in parte a rilassarsi gonfiando d’ossigeno i polmoni ed espirando
profondamente.
-
Vuoi che smetta?
Dal
tremito della voce di Lucien, Auguste dedusse quanto l’aveva intimorito l’idea
di causargli in qualche modo dolore.
Si
sollevò faticosamente sui gomiti, scuotendo energicamente il
capo.
-
No. Resta un attimo così. Non muoverti…
Ubbidiente,
Lucien arrestò la sua corsa. Lo abbracciò timidamente congiungendo le mani
all’altezza del torace, per poi discendere a ghermirgli il sesso fremente,
ammansendo con instancabili carezze la tensione che attanagliava il corpo di
Auguste e dirottando sapientemente le sue sensazioni.
Auguste
non aveva mai immaginato di poter trarre tale piacere dall’agognata unione con
la persona che amava. A ben pensarci, niente di tutto ciò che stava provando era
lontanamente quantificabile. Era difficile razionalizzare che lui e Lucien in
quell’istante fossero un’unica cosa e
che, per mezzo dei loro corpi, si erano congiunti
inscindibilmente.
Abbandonato.
Era così che si sentiva: abbandonato dalle proprie forze, dalla ragione e dalla
facoltà di riflettere e formulare pensieri coerenti a proposito di quel che
stava accadendo dentro di lui. La sua mente l’aveva abbandonato a sé nello
stesso modo in cui il suo corpo si era accasciato piacevolmente sconfitto sotto
le audaci carezze di Lucien; prigioniero, per propria volontà, dell’impeto della
sua passione.
A
dire il vero, riflettendoci, Auguste si rese conto che, paradossalmente, era
piuttosto Lucien ad aver quasi disatteso se stesso per dedicarsi solamente a
lui, artefice incontrastato del suo piacere.
Rimase
in bilico tra vaghe sensazioni, nel momento in cui un affondo delicato ed
intenso gli tolse il respiro, incendiandogli i lombi.
Tremante,
Auguste ricadde su un fianco. Il suo respiro accelerò vertiginosamente e si
risolse in un lungo sospiro, finché le labbra di Lucien non premettero
provvidenzialmente sulle sue. Le loro lingue s’intrecciarono e si strinsero in
una lotta sensuale in sintonia con i loro corpi vibranti.
Il
singolo fatto di avvertire le iridi cristalline di Lucien su di sé, di giacere
fra le sue braccia e di assaporare i suoi baci era sufficiente ad infiammarlo e
a scalfire sino ad un punto di non ritorno la sua ferrea volontà. La verità era
che, sin dal primo istante in cui aveva messo piede in quella stanza – e, forse,
nella sua vita –, Lucien non aveva fatto altro che porre mano alla sua corazza
di freddezza e disincanto per poi scinderla pezzo dopo
pezzo.
Ora,
quel che la consapevolezza di trattenere Lucien nelle sue carni gli provocava
non era esprimibile con la sola forza delle parole. Lucien l’aveva smontato e
ricreato, sciogliendo il suo cuore e la sua razionalità, plasmandolo come bronzo
fuso sotto di sé. Lucien aveva sgretolato la sua maschera e gli aveva offerto
senza riserve la consapevolezza di amare.
Sentì
le labbra di Lucien farsi strada tra i capelli umidi che gli aderivano al collo.
I suoi baci ricaddero spietati sul muscolo teso della spalla, per poi morire
sulla schiena. Il suo respiro profondo, come un soffio fresco sulla pelle,
concesse per un attimo una sorta di pallido refrigerio alla sua schiena
accaldata.
I
movimenti di Lucien erano diventati convulsi, il respiro ansante; le sue mani si
strinsero possessivamente su di lui sussultando. Le dita avvolsero come una
morsa il suo membro in una presa che suonò quasi violenta.
Auguste
non si avvide subito che entrambi erano giunti al limite.
Quasi
non si accorse che Lucien si era abbandonato con la testa sulla sua spalla, in
una muta resa.
Non
si rese conto del flebile mugolio che fece vibrare l’aria intorno a sé, né del
calore che gli invase il basso ventre, sospinto da un’ondata di piacere
particolarmente acuta che scosse ogni sua fibra nervosa. Si sentì nudo – era forse simile a quel che aveva
provato Adamo, scacciato dal Paradiso Terrestre? –, fluttuante in un mare di
tiepido etere e sfiorato da fiamme che, lambendolo, non gli causavano dolore.
Cadde in deliquio.
Avvertì
su di sé fu la morbida carezza del lenzuolo che Lucien fece scorrere gentilmente
su di lui. Poi, il sonno lo vinse.
Le
tende ingiallite e di modesta fattura che schermavano la finestra ondeggiarono
come fantasmi evanescenti, mosse dalla brezza del mattino. Una stanza disadorna
di una modesta locanda di una sperduta cittadina portuale, crocevia di mercanti
e, non di rado, di fuggiaschi, era divenuta il teatro del loro amore,
manifestatosi a chiare lettere come inciso sul metallo fuso. Le pareti avrebbero
protetto e custodito il loro segreto: un segreto che li avrebbe aiutati a
sopportare le avversità di un esilio che giorno dopo giorno era sempre più
ingrato ed incerto.
Si
erano amati. Per Auguste si era aperta una dimensione sconosciuta che lui,
giovane di ventiquattro anni, bramava di scoprire e di godere nelle sue migliori
accezioni.
Le
irregolari pareti dall’intonaco screpolato per via dell’umidità erano state mute
testimoni della loro unione fisica ed emotiva. Sempre in quella stanza, Auguste
aveva accolto Lucien tra le braccia e l’aveva fatto suo, ricambiando in parte il
piacere che quella notte gli aveva donato la consapevolezza di non essere solo.
Si erano amati ed appartenuti.
* *
*
Cos’era
cambiato, ora? Quale pazzia, quale luccichio aveva deteriorato un sentimento
che, di suo, sembrava nato per progredire incontaminato da qualsiasi agente
esterno?
Il
campanile di Noir Trésor batteva il mattino, ed Auguste, accecato dalle lacrime,
stringeva nel pugno il nastro blu che la prima notte in cui aveva fatto l’amore
con lui, rimembrava, si era confuso sulla nuca di Lucien con il nero dei suoi
capelli.
Il
suo carattere si era presto indurito. Il ritorno a Noir Trésor aveva fatto sì
che giorno dopo giorno il suo animo s’irrorasse di stille di veleno che avevano
esacerbato in lui il germe della vendetta. Da passione politica, la sua era
divenuta ossessione unita alla brama di vendetta e di
potere.
Era
mai stato, il suo, un amore di patria disinteressato, come per lungo tempo aveva
desiderato lasciar credere a se stesso e agli altri, o la sua amarezza, al
contatto con il suo animo inquieto, aveva inesorabilmente finito per corrompere
ogni puro sentimento?
Cos’è
cambiato?
Me
lo chiedo invano ogni giorno. Sento che prima o poi impazzirò senza giungere ad
alcuna risposta. Noir Trésor ha inquinato la mia anima. Dovevo tenermene alla
larga; e questo avrei potuto comprenderlo quando ancora ero in tempo. Invece,
come il canto di una perfida sirena, la promessa del riscatto mi ha ricondotto
qui ad avvelenare la mia vita con una vendetta che, a distanza di anni,
apparentemente non ha più un senso, se non quello di dannarmi l’anima e agitarmi
da una parte all’altra come una scheggia impazzita, senza lasciarmi approdare ad
alcuna conclusione. E questo sarà il medesimo destino di chi ancora è abbastanza
folle da starmi accanto.
Quale
riscatto? Io non volevo questo. Non lo volevo. Ricordo, come se fosse ieri, la
morte dei miei amici. Esiste forse una giusta lotta che non esiga l’esoso
tributo di sangue?
Probabilmente,
è soltanto una mia utopia: un’utopia che mi sta trascinando all’inferno. La mia
rivoluzione non doveva essere improntata ad un nuovo bagno di sangue e al
proliferare dell’odio fra bande rivali. Doveva piuttosto spazzare via
quest’inferno. E invece, quando noi riprenderemo in pugno le armi, non faremo
che prolungare all’infinito quest’infernale, eterna catena di rancori e vendette
che non trova soluzione, nel momento in cui ho imparato a mie spese che il
sangue non può che richiamare altro sangue. Può apparire scomodo, ma è
così.
Sono
stato capace di tutto pur di seguire ciecamente una causa che, senza che me ne
accorgessi in tempo, ha divorato lentamente il mio cuore come un morbo. Mi sono
lasciato trasportare dall’insano desiderio di ripulire il nostro dolore con il
sangue del tiranno: fu questo il mio terribile errore di valutazione. Ho
disatteso tutto, e poco importava del tesoro che possedevo nell’amore di Lucien
senza che ne fossi consapevole appieno.
Da
quando sono tornato a Noir Trésor, tutto si è inquinato, sporcato, avvelenato,
corrotto; ogni slancio di speranza acquistava per me un volto cupo e al tempo
stesso tremendamente allettante, strettamente correlato alla smania di rivalsa
che mi ha contaminato. Il desiderio di autoaffermazione si è fatto strada in me,
e così ho tradito ogni mio principio.
Il
mio rapporto con Lucien è degenerato; non vi era giorno che non stesse ad
ascoltare, inorridito, scuotendo tristemente il capo, le mie bacate teorie. Non
mi riconosceva più, e non mi riconoscevo nemmeno io.
Non
l’ho ascoltato, e sono andato per la mia strada senza rendere conto a nessuno.
La mia passione patriottica, nata con i più altruistici presupposti, ha
avvelenato la mia esistenza come una maledizione.
L’immondo
circolo di vendette è ricominciato, e stavolta io ho pagato il prezzo più
alto.
È
davvero così, Auguste? Sei sicuro che sia troppo tardi per
cambiare?
Ora
non ha più senso. Ho già scontato la pena più terribile. Persino la mia vita
sarebbe stata un prezzo irrisorio, paragonata al veder morire per causa mia
l’unica persona che ho amato. Non ha senso combattere, non ha senso restare, non
ha senso fuggire via da vigliacco, non ha senso morire, non ha più senso
nulla!
Oggi,
una donna dorme nel mio letto. Ho preso con me la prima donna nei cui occhi
abbia scorto qualcosa che somigliasse anche vagamente all’amicizia o
all’amore.
Perché
hai mentito a te stesso sin dal primo istante, Auguste? Perché il tuo ritorno a
Noir Trésor è stato sin da subito minato dal compromesso e dall’ipocrisia?
Perché tutto ha preso avvio da una bieca farsa di te
stesso?
Perché
dovevo darmi un’apparenza rispettabile, che domande! Monsieur Auguste de
la Garde
tornava a Noir Trésor ed era cambiato, capisci? Non più il ragazzo scapestrato
dal passato sedizioso. Auguste sarebbe passato inosservato all’elite reazionaria
e conservatrice e, quando sarebbe giunto il momento, sotto le mentite spoglie di
un cittadino qualsiasi, si sarebbe trasformato nella peggiore spina nel fianco
del tiranno.
Pensavi
che convivere con una donna dall’indubbia reputazione, senza alcun vincolo
riconosciuto, avrebbe giovato alla tua fama?
Emilie
non è una poco di buono. Se giungesse a vergognarsi di me, ne avrebbe ogni
sacrosanto diritto. Soltanto lei può sapere cos’ha passato accollandosi la
responsabilità non solo di reggere il mio gioco, ma addirittura di offrirmi il
suo amore.
Non
potevo sposarla. Almeno questo, glielo dovevo. Lucien mi avrebbe capito, se, per
contrastare ogni sospetto riguardo al mio inatteso ritorno, avessi cercato di
costruirmi un’effimera parvenza di vita. Lucien ha visto il peggio di me, e mi
ha perdonato, benché il nostro rapporto fosse ormai
incrinato.
Non
potevo fargli anche questo. Non potevo.
Auguste
buttò le gambe fuori del letto e si strinse le tempie pulsanti. Non aveva preso
sonno nemmeno per un istante.
Ora
come ora, non sapeva cosa avrebbe fatto quel giorno. Né quello che avrebbe fatto
in capo ad un’ora o ad un minuto.
C’era
ancora spazio, per lui, a Noir Trésor? All’inferno, solitamente ognuno trova il
girone che più gli si addice.
Lo
scricchiolio del legno risuonò nella stanza, mentre faceva scorrere lentamente
il cassetto. Estrasse la sua rivoltella.
Restò
a rimirare in estatico silenzio l’arma che si adattava agevolmente alla sua
salda presa, abbagliato dall’ambiguo splendore dell’impugnatura scolpita nel
ferro e della forma così armoniosa della canna.
Non
aveva mai amato l’uso delle armi, nonostante il suo animo reclamasse vendetta,
sì da aver alienato in lui ogni impulso propriamente umano. Retaggio delle
tremende lotte alle quali aveva preso parte in gioventù prima di veder perire i
suoi amici, la sola vista del sangue era sufficiente a stringergli lo stomaco in
una morsa d’angoscia.
Resterò
a Noir Trésor? Godrò ancora per un po’ del personale soggiorno che mi fa
pregustare la dannazione? Ancora non lo so. Non so cosa farò domani. Non so cosa
farò di me stesso. Ma prima che si compia il mio destino, qualunque esso sia,
ben due conti aspettano di essere saldati.
Vorrei
che un proiettile d’argento trovasse presto la sua nobile dimora nel bel mezzo
della fronte del duca, di colui che è più colpevole di chiunque altro. Eppure,
stavolta Auguste saprà accontentarsi…
Un
triste sogghigno tagliò in due il suo volto, mentre uno sfuggente luccichio
risplendette per un istante nei suoi occhi.
Si
affrettò a mettere via la sua pistola, quando udì lo scricchiolare del letto ed
un breve mugolio che annunciarono il risveglio di Emilie.
I
due si vestirono senza parlare.
Vide
Emilie, riposto nella toeletta il morbido piumino impregnato di cipria,
dirigersi all’ingresso. Non vi badò. Il mondo che stava là fuori non era in cima
alla lista dei suoi pensieri.
Si
riscosse solo quando la donna fece la sua ricomparsa nella stanza, rossa in
volto e palesemente agitata. Auguste avvertì il proprio cuore accelerare,
benché, dopo la scoperta della notte precedente, ormai avvertisse tutto distante
da sé.
-
Cos’altro succede, Emilie?
Potrebbe
succedere qualcos’altro?
-
Non ti piacerà, Auguste – rispose asciutta la donna.
Gli
porse una manciata di fogli che, a prima vista, gli parvero la bozza non
opportunamente rifinita di una gazzetta.
Auguste
vi posò distrattamente lo sguardo e, non appena qualche insolito particolare
attrasse la sua attenzione, il suo volto sbiancò.
Il
mio cantuccio:
Salute
a tutti voi, lettori di Noir Trésor!
Ringrazio
innanzitutto Monella per il suo
immancabile commento. Lieta che NT continui ad appassionarti e che sia stata...
come dire, "comprensiva" per quanto riguarda i miei sbalzi narrativi! Eh sì,
come vedi, amo alternare spesso l'azione alle lunghe introspezioni, nella
speranza che tutto ciò, a lungo andare, non diventi troppo pesante. Comunque,
presto si passerà all'azione concreta. Ti rivelo un'altra cosa: inizialmente ero
abbastanza combattuta sul genere in cui collocare NT: ora come ora, chi legge,
penserà "Hai visto forse un vampiro?". Diciamo che anche quella parte arriverà,
sempre per lo stesso motivo per il quale amo dilungarmi.
Inutile
dire che ringrazio tantissimo i miei lettori... Potreste lasciare un commentino
ogni tanto, no?
Alla
prossima!^^
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Capitolo 10 *** Capitolo 10: Braccata ***
Capitolo
10
Braccata
Ambrosie
scosse la testa bionda; il suo sguardo si posò distratto sul sole
nascente.
Si
morse il labbro con fare pensoso: il suo primo, per così dire, “incarico” di una
certa rilevanza era stato condotto a termine senza alcun apparente intralcio e,
fra non molto, la sottile alchimia delle parole che lei e suo fratello si erano
ingegnati a trasferire sulla carta, avrebbe dato il suo contributo alla causa
iniettando a piccole dosi nella coscienza del popolo la consapevolezza e la
speranza che resistere al tiranno non era più un’illusione sepolta nel grigiore
degli anni.
In
realtà, ancor prima di virtuosismi dialettici atti a persuadere la gente ad
abbracciare astratte idee di libertà, erano stati la penuria di cibo ed il
vertiginoso ammontare delle imposte a scuotere la popolazione facendo leva sulla
paura di una carestia imminente.
Allarmato
dal fioco ma sempre costante dilagare delle proteste, il duca du Lac si era
premurato di far arrestare a titolo d’esempio alcuni fra i presunti istigatori
degli sporadici tumulti e di porre la città sotto presidio
armato.
La
situazione era ferma ad un punto di stallo: entrambi i contendenti, da una parte
il popolo e dall’altra il tiranno, temporeggiavano in un eterno
aut-aut.
Ambrosie
era fermamente convinta che buona parte dei mali che affliggevano gli uomini
fosse imputabile all’avidità di coloro che, traendo quasi necessariamente il
proprio benessere dal sangue e dalle lacrime altrui, esasperavano le naturali
difficoltà che la vita presenta. Il duca non rappresentava un’eccezione alla
categoria, ma la ragazza rammentava che spesso non era soltanto la sete di
potere ed il logorio di un dominio ingiusto a rendere gli uomini spietati
soverchiatori, ma persino la quotidiana lotta per la sopravvivenza in un tessuto
sociale incerto e la stanchezza di chi ha sempre vissuto sotto il giogo di
qualcun altro.
Tutto
questo, si domandava Ambrosie, aveva direttamente a che fare con lei? Ogni
giorno che passava, sentiva sempre più incostante e precario, come un abito
troppo stretto, quel posto che con fatica si era ritagliata a Noir Trésor, e la
sua mente vagava nel dubbio se quella realtà nella quale si stava
prepotentemente ingerendo le appartenesse veramente.
Tutto
sembrava assurdo e privo di qualsiasi connotazione logica: dalla certezza sempre
più fragile che questo facesse effettivamente parte della sua vita era ormai
scaturito un dubbio costante che minava i suoi fragili equilibri. Non era sicura
che Noir Trésor le appartenesse, e non era più un evento raro, oramai, percepire
ogni accezione della realtà che la circondava come fuori di lei.
Era
credibile, almeno ai suoi stessi occhi, che il suo arrivo e la sua permanenza in
città fossero stati del tutto casuali e disinteressati, motivati soltanto da
semplice afflato umanitario e da un evanescente amore per la libertà? A dire la
verità, Ambrosie temeva che da un momento all’altro il suo io gettasse la
maschera, rivelandole che il suo strenuo prodigarsi era stato soltanto frutto di
un egoistico desiderio di autoaffermazione accortamente dissimulato dietro una
facciata di millantato altruismo.
Lei
e suo fratello erano soltanto due ragazzi che, quasi per partito preso, avevano
deciso di porsi contro una realtà deludente uccidendo simbolicamente la figura
immaginaria del “tiranno” che imbrigliava i loro slanci e sulla quale
riversavano ogni frustrazione.
Che
cosa aveva a che fare la mediocrità della sua vita con i problemi di un popolo
che moriva di fame e al quale lei non apparteneva né per nascita né per
mentalità? Le sue passioni sembravano non convergere in alcun punto in comune:
eppure, la policromia del suo animo, spezzata e distorta da contraddittorie
aspirazioni, si rispecchiava idealmente nei bisogni e nelle esigenze di un
popolo angariato da un potere arbitrario.
Il
suo io si disgregava, e da quelle mille frammentazioni scaturiva il denominatore
comune delle tendenze più inconciliabili: Ambrosie vedeva se stessa negli occhi
di tutti coloro che bramavano senza poter raccogliere l’oggetto di un desiderio
sempre più divampante e vitale.
In
secondo luogo, Ambrosie desiderava quasi con prepotenza essere testimone dei
cambiamenti che lentamente si profilavano. Di più: adoperandosi in prima
persona, lei stessa sarebbe stata complice ed artefice.
Ma
ora, improvvisamente, il sistema precario sul quale, giorno dopo giorno, si era
convinta di aver sommariamente stabilito le sue priorità, stava crollando tra le
sue mani come un castello di carte.
Gli
occhi chiusi e privi di vita di un uomo che, per un certo periodo, aveva
collaborato con loro, Lucien, le avevano impietosamente rivelato quanto
astratta, inutile e nociva fosse stata la loro decantata missione; e tutto, per
Ambrosie, era evaporato dinnanzi ai suoi occhi come un ameno inganno sul quale,
per un breve periodo, era stato piacevole far affidamento. Le loro false
speranze erano state utili soltanto ad uccidere uno di loro: forse non il primo, forse neppure
l’ultimo. La responsabilità della morte di Lucien era imputabile in piccola
parte ad ognuno di loro.
Tutti
avevano dato il loro inconsapevole contributo alla disgrazia che si era
consumata sotto i loro occhi impotenti: a causa della leggerezza e della
vanagloria di un drappello di ragazzi immaturi ed avventati, Auguste aveva perso
Lucien. Il solo pensiero era sufficiente a farle tremare i polsi, in un eccesso
di dolore e frustrazione.
Aveva
sempre ammirato in silenzio la lucidità di Lucien ed il coraggio di Auguste. Le
loro esistenze erano state stravolte e traumatizzate dall’arrivo del duca du
Lac: il loro spirito di ribellione e le loro odierne aspirazioni poggiavano su
basi concrete e contavano su una precisa ragione insita nella
realtà.
Lei
era soltanto una comparsa, una fanciulla riottosa che, quasi senza riflettere,
aveva deciso di abbracciare una causa e di impugnare la bandiera del ribelle.
Sospirò: non sarebbe mai stata come loro. La coerenza di pensiero e d’azione era
un’ancora di salvezza che non faceva altro che ricercare, ma che le appariva
distante come un miraggio; e più la inseguiva, più finiva per inciampare sui
suoi stessi passi.
Lucien
aveva combattuto la sua battaglia
nella sua terra e ne aveva pagato il
prezzo per tutti. Auguste – così forte che, fino a quel momento, nulla le era
parso in grado di scalfirlo –, non riuscendo più a soffocare il dolore dentro di
sé, spinto quasi sull’orlo della follia, le aveva confessato fra le lacrime la
disperazione di aver perso l’unica persona che amava.
E
tutto era finito lì.
Dopo
quel che era accaduto – quasi un monito funesto –, la sua mente si era
prontamente riaccesa al pensiero della missione che stava accingendosi a portare
a termine, inebriata dalla speranza di successo. Si era infilata di soppiatto
alla stamperia, come da copione, e aveva adempiuto con disinvoltura al proprio
compito, quasi non fosse mai accaduto nulla.
Niente
l’aveva fermata o dissuasa dal suo proposito; niente era stato in grado di
spegnere la sua ingannevole eccitazione e distoglierla dalle sue velleità. Se
solo per un istante avesse ragionato con mente lucida, avrebbe rinunciato,
almeno in una simile contingenza, ad agire di testa sua e si sarebbe
decorosamente ritirata nella sua dimora a leccarsi una ferita ben più
profonda.
Per
rendersi dolorosamente conto di quanto fatuo ed irragionevole fosse il suo
attaccamento alla causa, le era sufficiente riflettere su quanto la paura
dell’assassino in circolazione e il dolore per la morte di uno dei ribelli si
fossero dissipati come neve sotto i primi raggi primaverili, quando Raphäel
Lemoine era comparso improvvisamente al suo fianco.
Cosa
sei, Ambrosie? Cosa sei? Non sei ancora pronta a combattere, eppure vuoi
assumerti con leggerezza fardelli più grossi di te. Se davvero fossi abbastanza
matura, riusciresti a fermarti un istante e riflettere: sono più importanti i
tuoi avventati disegni dal dubbio esito o il fatto che uno di voi è morto in
circostanze ambigue? La morte, almeno il suo pensiero, dovrebbe bastare a farti
ritornare per un istante sui tuoi passi.
Raphäel
era una delle fragili motivazioni che, come una goccia d’acqua che scava la
roccia, aveva fatto inconsapevolmente maturare in lei la decisione definitiva di
accettare la propria sfida e addentrarsi nel complesso tessuto di Noir
Trésor.
Raphäel
l’aveva trascinata di soppiatto in un angolo e le aveva domandato per quale
motivo si arrischiava a quell’ora tarda della notte. Non era normale e nemmeno
prudente, da parte sua, girovagare per le strade a notte
inoltrata.
Quasi
si era pentita, quando, presa dal timore e dallo sgomento, gli si era rivoltata
contro come una gatta selvatica.
Potrei
chiederti la stessa cosa, Raphäel. A qualche isolato di distanza, un uomo è
appena stato ucciso. Nel momento in cui nessuno può dirsi totalmente al sicuro,
né in casa propria né fuori, non trovi nulla di più costruttivo da fare che
terrorizzare il raro, incauto passante?
* *
*
-
Calma, Ambrosie. Ho visto, ero presente a quel che è accaduto. Quando è arrivata
la polizia, ho preferito allontanarmi per non essere costretto a rispondere a
domande imbarazzanti circa la mia presenza. Tutti ci stavamo recando da Lucien
per uno dei nostri incontri. Concorderai con me che le autorità, è tanto meglio
per tutti restino all’oscuro sulla natura delle nostre
riunioni.
Palesemente
scosso, Raphäel si ravviò nervosamente i ciuffi scomposti.
Ambrosie
lasciò scorrere con noncuranza il suo sguardo, lungo inesauribili istanti, sulla
figura alta del ragazzo che le stava accanto, quasi tentasse di nutrisse il suo
animo di un nettare dolcissimo.
Era
strano, eppure, non fu capace di impedire ai suoi occhi di soffermarsi tanto a
lungo su dettagli apparentemente così marginali.
Il
corpo sottile del ragazzo avrebbe fatto pensare ad un osservatore distratto che
si sarebbe spezzato da un momento all’altro; eppure, mai come in quel momento
Raphäel le era parso così solido e rassicurante. Il suo incarnato candido pareva
risplendere di una luce cristallina sotto il freddo chiarore dei
lampioni.
Il
suo sguardo indugiò sul volto affusolato del ragazzo, seguendo il profilo della
fronte spaziosa che s’inarcava lievemente in prossimità dell’attaccatura dei
capelli. Lunghi e folti riccioli scuri gli ricadevano sulle spalle, legati con
noncuranza. Gli occhi, due ferite affilate che sembravano scavare in profondità
il volto niveo, la fissavano con spontanea indiscrezione, quasi desiderassero
disarmarla.
-
Sei sicura che Madame Bertie abbia ancora intenzione di prendersi a cuore i
nostri “giochetti” senza secondi fini?
Era
stato Raphäel ad interrompere finalmente quel lungo ed ingombrante silenzio.
Aveva preso a camminare al suo fianco, scortandola compitamente lungo il suo
percorso.
Ambrosie
lo ringraziò mentalmente per aver infranto la barriera d’insidioso, sottile
imbarazzo che per una lunga manciata di secondi si era frapposta tra loro,
impegnati a studiarsi e a scrutarsi a vicenda.
-
La faccenda è più complicata di quanto possa immaginare. Sembrava semplice,
all’inizio. Era un gioco – riprese la ragazza, assorta – “Giocavamo” a fare i
ribelli. Giocavamo ad un gioco che credevamo di conoscere e che eravamo quasi
certi di poter vincere. Ora ci siamo dentro fino al collo, e le regole non sono
più tanto facili da comprendere, perché mutano a seconda del nemico che ci
troviamo di fronte. Nemico che non sempre sappiamo riconoscere in
tempo.
-
Pensi che una reazione del duca abbia a che fare con… la morte di Lucien? –
Raphäel pareva voler sondare prudentemente il terreno.
-
Non lo so, Raphäel. Procedo a tentativi. È la sola risposta che mi sia venuta in
mente. Se ne escludessimo l’eventualità, saremmo costretti, d’ora in avanti, a
dubitare costantemente gli uni degli altri.
-
Hai mai pensato che tra noi ci sia un traditore? Una spia? – insinuò Raphäel,
tagliente.
-
Che sciocchezze… – Ambrosie affrettò il passo, superando il ragazzo – Chiunque
sia stato e qualunque sia stato il motivo che l’ha spinto a farlo, di certo per
l’assassino sarebbe vantaggioso riuscire a seminare fra noi il morbo del
sospetto e della sfiducia. Beh, credo di poter fugare ogni dubbio: Auguste è
giunto per primo da Lucien e, credimi, ho ottimi motivi per non considerare
nemmeno per un istante l’ipotesi che ci abbia mentito. Ho incontrato Dorian
lungo la strada. Fernand era ancora a casa, quando sono uscita, e ci ha
raggiunti subito dopo. Non potrei sospettare di nessuno di loro, e in nessun
caso.
Raphäel
annuì pensieroso, mentre arcane congetture si scontravano con la logica del
resoconto della ragazza.
-
Perché hai scelto di portare avanti questa causa nonostante tutto,
Ambrosie?
Come?
La
domanda a bruciapelo colpì la ragazza come il fulmine che annuncia la
tempesta.
Era
uno degli aspetti di Raphäel che maggiormente la infastidiva e, nello stesso
tempo, la attraeva e la inquietava: sapeva sempre, misteriosamente, quale tasto
premere, quale corda far vibrare per persuaderla, per far vacillare le sue
certezze o sondare il suo animo impenetrabile. Raphäel aveva un difetto:
riusciva a penetrare la sua corazza. Con lui, la maschera era destinata a
crollarle dal volto ed infrangersi al suolo.
Un
gran brutto difetto, Raphäel, grazie al quale, giorno dopo giorno, mi
hai conquistato.
Che
cosa avrebbe dovuto dire? Che, salvo i ribelli e tutto ciò che concerneva loro,
Ambrosie non esisteva, era pura ombra evanescente? Che il prodigarsi per una
causa forse persa in partenza fosse l’unica cosa in grado di riaccenderle il
cuore, di renderla viva, di tradurre la sua stessa esistenza, ai suoi occhi, in
qualcosa di più completa e degno di essere vissuto fino in fondo; che tutto
questo per lei rappresentava una speranza ed un motivo per restare in piedi e
che, solo procedendo verso un preciso scopo, la sua vita acquisiva un senso,
impedendole di smarrirsi?
Ci
sono tante contraddizioni in me: io stessa ne sono consapevole. Non di rado è
accaduto che le azioni più nobili prendessero avvio da motivazioni personali non
necessariamente sublimi e volte ad un bene comune. Non m’importa molto, in fin
dei conti, come e perché è iniziato tutto questo; ora m’interessa soltanto
andare fino in fondo e lasciarmi alle spalle questa notte
maledetta.
Fissò
lo sguardo verso le stelle sopra di sé, riuscendo finalmente a distogliere lo
sguardo da Raphäel. Prese un po’ di tempo nel tentativo di eludere la domanda
che le era stata rivolta senza alcun preavviso.
Il
solo fatto che Raphäel camminasse e respirasse ad un palmo da lei era
sufficiente a renderla tesa come la corda di un violino.
La
sua mente girava a vuoto intorno all’ostacolo: la verità era che aveva paura, e
non le bruciava tanto ammetterlo, quanto focalizzarne il vero motivo. Raphäel le
gettava addosso un’ansia che la ragazza poteva spiegarsi solo alla luce del
fatto che l’unico timore che in quell’istante la attraversava era che lui non
fosse suo.
Cosa
significa aver vissuto parte della tua esistenza svincolandoti con fierezza da
qualunque condizione abbia minato la tua libertà, e poi renderti conto che
esiste al mondo una persona, una realtà, un’accezione in grado di esercitare un
tale potere su di te; e che più la vorresti fuggire, più risenti
dell’attrazione, come il metallo e la calamita?
Probabilmente,
non accuserei le conseguenze del mio desiderio, se soltanto avvicinarsi al fuoco
non comportasse necessariamente bruciarsi. Riuscirei persino ad ignorare le mie
sensazioni, se mi fosse possibile concepire unicamente Raphäel come un semplice
compagno, complice o alleato. Ma non è nulla di tutto questo, e la distanza mi
fa più paura del saperlo vicino.
Lei
stessa si rendeva conto che, alla presenza di Raphäel, la sua inquietudine
diveniva tangibile: il controllo che la ragione esercitava su di lei doveva
essere costantemente ricercato e quasi forzato, poiché la sua mente si smarriva
altrove. Ogni sua percezione era tanto amplificata da rendere instabili i suoi
stati d’animo: lo spavento derivante dall’essersi trovata, per un istante,
ghermita da un assalitore senza volto ed il successivo sollievo avevano prodotto
in lei uno scatto quasi rabbioso; ora, la vicinanza di Raphäel quasi le impediva
di formulare pensieri coerenti e di trovare una via di fuga in quel vicolo cieco
in cui la loro discussione si era arenata.
Chi
sei, in realtà, Raphäel?
Non
erano chiari neppure i rapporti che univano Raphäel ai ribelli. Sapeva che, come
Auguste, anche Raphäel era guardato con sospetto dal duca e dai suoi
fedelissimi, i quali vedevano in lui un potenziale agitatore. E che collaborava
con una setta sovversiva, la quale operava in città con gran segretezza e con
un’organizzazione così capillare da rendere oltremodo arduo carpire informazioni
in proposito.
Sapeva,
inoltre, che da qualche tempo Auguste accarezzava l’iniziativa di avvicinarsi a
questo misterioso e ben più esteso movimento rivoluzionario. Ambrosie non aveva
potuto che guardare di buon occhio all’idea, benché le opinioni in proposito
fossero state quanto più divergenti. Lucien si era dichiarato favorevole, almeno
inizialmente, pur sostenendo quanto fosse necessario procedere con la massima
discrezione e ritenendo a maggior ragione che piccoli gruppi operanti su diversi
fronti per lo stesso obiettivo risultassero meno controllabili da parte del
duca. Per contro, coalizzarsi in un’unica, importante congrega a livello
cittadino e non più privato avrebbe comportato maggiori rischi nell’essere
identificati. Fernand si era opposto con veemenza all’iniziativa, asserendo
senza parafrasi che sarebbe stato più conveniente per loro affidarsi al demonio
in persona, piuttosto che a Raphäel Lemoine. Persino Dorian le era parso
piuttosto refrattario all’idea; tuttavia, a differenza di Fernand, sembrava
nutrire per Raphäel un’ammirazione più che notevole.
Auguste
aveva cercato astutamente di portare Raphäel dalla propria parte; il ragazzo,
dal canto suo, aveva sempre offerto generosamente la propria collaborazione,
restando però sul vago riguardo alle proprie iniziative. In seguito, il
comportamento ambiguo di Raphäel aveva esacerbato l’animo di Fernand, il quale
aveva finito per scagliarsi contro Auguste, colpevole, a suo avviso, di aver
posto la propria congrega in posizione subalterna rispetto a Raphäel; e la
discussione che ne era conseguita per poco non era degenerata in una vera e
propria lite.
Ambrosie
non riteneva corretto sfruttare il proprio innegabile ascendente su Raphäel per
estorcergli informazioni: stranamente, sin da principio il ragazzo le era parso
disponibile a parlarle spontaneamente circa alcuni suoi progetti, ritenendola
non a torto una persona discreta.
-
Le tre – mormorò asciutta, intenta ad osservare la torre dell’orologio che
svettava in uno scorcio della piazza, sovrastando gli alti edifici che ne
impedivano la completa visuale – Madame Bertie ci friggerà
vivi!
La
stamperia clandestina, situata in una via secondaria, era stata ricavata nel
retrobottega di una modesta caffetteria nella quale ogni mattino si procedeva
alla vendita autorizzata della gazzetta e, di tanto in tanto, alla
distribuzione, rigorosamente sottobanco, di scritti satirici volti ad attaccare
il potere politico con modalità non sempre tra le più velate. Era “Madame” ad
occuparsi di coordinare i lavori e finanziare il progetto.
Al
loro ingresso, Ambrosie e Raphäel furono accolti dalla voce acuta ed isterica
della donna.
-
Avete tempo due ore. Due ore! Dopodiché, quel che si farà in tempo a stampare,
sarà stampato, e arrivederci a tutti. Avete aperto bene le orecchie, voialtri,
imbrattacarte e mangiapane a tradimento?
Il
viso incipriato si corrugò in una smorfia indecifrabile, quando i suoi occhi
ebbero messo a fuoco i due nuovi arrivati. Ambrosie la vide distintamente
modellare il volto rugoso in un sorriso sarcastico, impegnata com’era a
trattenere fra i denti una nuova, stizzita sequela d’improperi all’indirizzo dei
suoi indolenti collaboratori. Madame Bertie era una donna oltremodo stravagante
dalla loquela sofisticata capace di saltare con disinvoltura dalla più aulica
declamazione alle imprecazioni più fantasiose.
- È
completamente squilibrata – mormorò Raphäel con il solo labiale, curandosi bene
che “Madame” non lo udisse.
-
Mademoiselle Ambrosie! – la donna la soppesò con un sorriso ipocrita che faceva
rassomigliare la sua faccia ad una grottesca maschera di gesso – Di quale
sordida eresia brami rendermi scellerata complice e sostenitrice, quest’oggi?
Razza illegittima di Giuda, ah, maledetti ragazzacci! Nulla si salva, ormai,
dalle vostre dannate penne. È restato forse qualcosa che per voi sia sacro ed
inviolabile? Sciocchezze! E chissà cosa direbbe di voi il duca, se giungesse a
sapere come ricambiate la sua grandezza d'animo? Ah,
disgraziati!
Ambrosie
le porse gli articoli, mentre un sorriso obliquo che cercava di sembrare
spavaldo le affiorò sul volto pallido.
“Madame”
seguitò a recitare fino alla nausea le solite, beffarde invettive sui giovani
“dissacratori”, ponendo l’accento, con una sorta di malcelato orgoglio, su
quanto lei stessa fosse la principale artefice ed ispiratrice del progetto e su
quanto parteggiasse apertamente per gli oppositori del
duca.
La
donna arpionò senza cerimonie il polso di Ambrosie, attanagliandolo tra le dita
scheletriche.
- E
voi che diavolo ci fate qua, monsieur Lemoine? Non vi hanno ancora chiuso in
gabbia? – proruppe, mordace – Avete accompagnato la signorina, capisco. Beh,
v’istruirò sulla pressoché totale vanità delle vostre gesta, mio baldo figliolo:
a costei basterebbe aprire bocca e mettere in movimento la sua forcuta e
velenosa lingua per atterrire un’intera banda di briganti.
Ambrosie
e Raphäel si scambiarono uno sguardo d’ironica
rassegnazione.
-
Continuate a far lavorare gli artigli, voialtri! E poche chiacchiere – ringhiò
la donna, rimbeccando sguaiatamente i lavoratori distratti – Vado a meditare
sull’inutilità della compilazione di un nuovo “poema”.
“Madame”
la trascinò con sé in un angolo della stanza. La ragazza la udì mormorare tra sé
ingiurie confuse verso la categoria maschile.
-
Uomini: credono che ogni dama abbia bisogno di un cavaliere con la spada? Razza
di Giuda!
Inforcò
gli occhiali, scorse scrupolosamente il manoscritto, confutando e polemizzando
di tanto in tanto e, solo quando ritenne soddisfacente il risultato, finalmente
la strega la licenziò con modi spicci.
Raphäel
sembrava essersi dileguato, mentre era stata impegnata a discutere con “Madame”.
Le venne incontro trafelato, in capo a qualche minuto, ed insieme ripresero la
via di casa.
* *
*
Ora,
ripensando all’ardire di quella notte, Ambrosie si sentiva rabbrividire. Un
omicidio che, quasi certamente, racchiudeva qualche raccapricciante segreto, si
era consumato soltanto poche ore prima; tutti, compresa la loro stessa
organizzazione, erano in pericolo. Raphäel l’aveva gentilmente scortata durante
tutto il percorso fino alla stamperia e, da lì, fin sulla porta di casa. Era
stata una fortuna, ora che ci pensava. Fortuna, già: se soltanto il suo cortese
accompagnatore non si fosse chiamato Raphäel Lemoine; se soltanto nella loro
vicinanza non vi fosse insito un rischio ben più oscuro ed
inafferrabile.
Pazza:
non riesci che a pensare a te stessa ed alle tue dannate ossessioni.
Se
l’assassino fosse stato ancora in giro, ognuno di loro, quella notte, gli
avrebbe generosamente offerto su un piatto d’argento la possibilità di eliminare
il secondo ribelle della serata: lei o Raphäel; forse Dorian o Auguste o,
magari, Fernand.
Non
aveva avuto alcuna esitazione a penetrare nelle tenebre di Noir Trésor in una
notte come quella. Ora, il semplice stare alla finestra della sua dimora la
rendeva nervosa: tremava e non riusciva a spiegarsene il motivo. Si sentiva
stranamente osservata, braccata, eppure sapeva che non poteva esserci nessuno in
casa, ad eccezione sua e di suo fratello.
Anche
Lucien, forse, ha pensato questo.
Ambrosie
cercò di scacciare dalla mente certe insensate suggestioni, quando un tonfo –
forse una porta che si chiudeva, forse un oggetto caduto accidentalmente – la
fece trasalire. Il cuore le si fermò per un attimo, per poi riprendere a
martellarle nel petto con un ritmo sempre più incalzante.
Stai
calma. Non è nulla. Non può esserci nessuno. Nessuno!
Dov’era
Fernand?
Ora che il pensiero l’aveva sfiorata, rammentò di non averlo visto né sentito,
dopo che la via del ritorno per loro si era divisa al quadrivio presso la
piazza.
Calma,
Ambrosie. Cerca di mantenere per un attimo la calma e di
ragionare.
Già,
ragionare: non è facile, quando la paura ha ormai preso il sopravvento su di te,
congelando sul nascere ogni facoltà intellettiva. E se è vero che il terrore può
uccidere, in questo momento la tua mano brandisce nientemeno che un
pugnale.
Raphäel
era con me: non può essergli accaduto nulla, sempre che il probabile assassino
non si sia arrischiato ad aggredirlo nel breve tragitto che divide le nostre
dimore.
Dorian
era con mio fratello, ma, per il resto, nulla mi vieta di pensare
che…
No,
è assurdo. Dovrei pensare a trarre deduzioni logiche, non perdere la
testa.
Fernand
respira nella stanza a fianco…
Chi
mi garantisce che respira ancora?
Eppure,
Raphäel era con me. Con mio fratello vi era Dorian. Soltanto Auguste ha
preferito stare da solo, e spero vivamente che non gli sia accaduto nulla; né a
lui né a nessun altro.
Gli
occhi vigili e dilatati per la paura, le membra tese e lo stiletto in pugno,
Ambrosie si avvicinò con circospezione alla stanza nella quale riposava suo
fratello.
Sono
fortunata che casa mia sia piccola e che possa controllarla agevolmente con uno
sguardo. Se mi fossi trovata in spazi più ampi, ora avrei già
gridato.
Inspirò
l’aria troppo immobile intorno a sé e batté qualche debole colpo alla porta con
il dorso della mano.
-
Fernand! Sei in casa? – la voce le uscì dalle labbra roca e
spezzata.
Nessuno
rispose. L’aria intorno a lei era troppo rarefatta ed evanescente e non rendeva
il suo respiro più agevole. Un sibilo incessante le punse le
orecchie.
Troppo
silenzio. Troppa calma. Tutto troppo immobile per sembrare…
Naturale.
-
Fernand!
La
ragazza girò la maniglia con uno strattone e spalancò la porta. Una lieve,
insolita folata di vento la fece sussultare atterrita.
Un
istante dopo si riscosse.
Dannati
spifferi! Lo sapevo: doveva esserci una spiegazione logica. Terrorizzata da
semplici correnti d’aria che hanno fatto sbattere una porta o qualche imposta o
chissà cos’altro.
Con
cautela, la ragazza mollò la presa sulla maniglia dietro di sé, sospingendola
lievemente. La porta sbatté alle sue spalle.
Avevo
ragione? Nulla di cui temere.
Eppure,
Ambrosie non riusciva a dissipare la tensione che ancora avvertiva intorno a sé.
La stanza pareva come più grande rispetto al solito, gli spazi dilatati.
L’ambiente circostante stava letteralmente sfuggendo al suo
controllo.
Sto
impazzendo,
ammise. Sto semplicemente
impazzendo. Sono
questi i princìpi della follia?
Avvertì
qualcosa frusciare sotto i suoi piedi. Fogli: le bozze di suo fratello sparse
sul pavimento. Un catino d’acqua rovesciato. Di fronte a sé, il letto
sfatto.
Non
di nuovo. No!
Fernand
era pallido, ed il suo petto si alzava e si abbassava impercettibilmente sotto
la camicia stropicciata.
Ambrosie
lo afferrò e lo scosse energicamente. Il sollievo le invase il cuore come un
balsamo refrigerante, quando due occhi di cobalto si spalancarono assenti,
fissandosi nei suoi.
-
Ambrosie, che diavolo… – riuscì a biascicare il ragazzo, sbattendo le palpebre
ed abituandosi gradualmente alla luce.
-
Fernand, stai bene?
-
Uh?
Lentamente,
Fernand si tirò su a sedere e si massaggiò le tempie.
-
Stai calma, Ambrosie. È tutto a posto. Non so cosa ti abbia spaventata tanto, ma
non è successo nulla.
-
Oh, dei! – la ragazza sedette al fianco del fratello, respirando profondamente e
cercando di riprendere il controllo di sé.
-
Ti sei soltanto lasciata impressionare, tutto qui; e non sei la
sola.
-
Potevi degnarti di rispondere.
-
Devo aver perso i sensi per qualche istante. Mi sono alzato pochi minuti fa e,
mentre mi lavavo la faccia, devo aver avuto un capogiro o qualcosa del genere.
Ho fatto in tempo a raggiungere il letto e sdraiarmi.
-
Come ti senti, adesso? – gli domandò Ambrosie, aiutandolo a distendersi di
nuovo.
-
Non so – Fernand scosse il capo, confuso – Soltanto un po’
debole.
-
Devo preoccuparmi? – la ragazza gli sfiorò la fronte con le labbra – Non sei
caldo, per fortuna.
-
“Madame” ha sollevato questioni come sempre? – cambiò repentinamente discorso
Fernand.
-
Non mi ha trattenuta molto a lungo. Sembrava relativamente tranquilla, rispetto
al solito – Ambrosie controllò l’ora – Se siamo fortunati, in questo momento gli
opuscoli dovrebbero già essere in giro.
La
ragazza mosse lo sguardo, soprappensiero. Infine, decise saggiamente di omettere
il dettaglio di chi era con lei. Al
solo pensiero che Raphäel avesse avuto la possibilità di infilare il naso nei
loro affari, Fernand sarebbe saltato su come un gatto
arruffato.
Non
era sicuramente la situazione adatta. Era meglio, per il momento, che Fernand se
ne stesse tranquillo. Avrebbe avuto tempo a sufficienza, in seguito, per
litigare con suo fratello riguardo Raphäel.
-
Cerca di riposare, Fernand – gli ingiunse con dolcezza – Potevi almeno
chiamarmi, se ti sei accorto di non stare bene.
-
Non era necessario disturbarti solo per questo, Ambrosie.
-
Già… Razza di sciagurato!
La
ragazza incrociò le braccia sul seno, mentre un finto broncio le affiorava sulle
labbra.
Grazie
al cielo è tutto a posto, almeno stavolta. Voglio solo che Fernand stia bene:
soltanto questo.
Il
mio cantuccio:
Buonasera,
lettori di NT!
Comincio
subito a ringraziare quanti ancora seguono il mio racconto con passione, nuovi e
vecchi lettori (le new-entry sono sempre ben accette!), nonché quanti, di
recente, hanno inserito “Noir Trésor” fra i loro
Preferiti.
Vi
ringrazio tutti, commentatori e lettori ancora “nell’ombra”, con particolare
riferimento a:
Monella,
la quale non mi fa mai mancare il suo impagabile appoggio. Ti ringrazio
tantissimo, tesoro… Spero che il decimo capitolo sia di tuo
gradimento!
Kathlyne:
che bello, una new-entry! Inutile dire che la tua recensione mi ha fatto
incredibilmente piacere! Lieta che la mia fiction ti stia piacendo e sia di tuo
gusto. Mi raccomando, continua a seguire NT!^^
Alla
prossima, augurandomi che questo capitolo, causa impegni universitari, non sia
un pochino “frammentato” fra i vari “sbalzi di stesura”.
A
presto!^^
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11: Incomprensioni ***
Capitolo
11
Incomprensioni
Con
una mossa tesa ed impacciata, Ambrosie cercò di nascondere dietro la schiena lo
stiletto che, terrorizzata, aveva preso con sé come ultima precauzione,
prima di varcare l’ingresso della stanza di suo
fratello.
Sospirò,
contrita: non voleva che Fernand si rendesse conto di quanto, ancora una volta,
quelle arcane sensazioni senza alcun realistico riscontro l’avessero gettata nel
panico.
Arricciò
ansiosamente le labbra delicate: probabilmente era stata tutta una delirante
allucinazione derivante dalla tensione degli ultimi avvenimenti, ma, d’altro
canto, Ambrosie era quasi convinta che l’atmosfera sinistra che le si era
improvvisamente addensata intorno, chiudendosi su di lei in una morsa
angosciosa, fosse stata qualcosa di più che un’astrusa suggestione. C’era
qualcosa, ma non riusciva a stabilire se si trattasse di una minaccia
concreta o, ancora una volta, di una sua proiezione
mentale.
Persino
Fernand, la notte precedente, era stato colto sulla via del ritorno dalle sue
medesime sensazioni, tanto da lasciarsi trarre in inganno dal semplice movimento
furtivo di un gatto. Sospirò: ricordava com’era scattato fulmineo sulla
difensiva, gli occhi blu sgranati per la paura che spiccavano come buchi neri
sul volto esangue e contratto.
Suo
fratello era strano: non poteva negarlo. Le aveva assicurato, senza giri di
parole, di star bene; ma, dopo il sollievo iniziale, la ragazza, non pienamente
convinta, aveva cominciato a nutrire dei dubbi.
Fernand
era pallido, e Ambrosie, intrecciando casualmente le dita alle sue e facendo sì
che lui ricambiasse la stretta, aveva tastato con le sue stesse mani quanto
fosse debole.
-
Saresti così gentile, sorella cara – proruppe sommessamente il ragazzo – da
mettere via il gingillo affilato che nascondi dietro di
te?
La
ragazza trasalì. Sfuggito alla sua presa febbrile, il pugnale ricadde sul
pavimento.
-
Risparmiati l’ironia – gli intimò, piccata, mettendo via l’arma, quasi la sola
vista le procurasse fastidio e imbarazzo – Ero terrorizzata: va meglio
così? E sono quasi certa di aver sentito chiaramente una porta aprirsi e
richiudersi di scatto. Ti saresti raggelato, se, per un’intera notte, non avessi
fatto altro che nutrire sempre più fortemente il sospetto che qualcosa ti stia dando la
caccia.
* *
*
Porta
che sbatteva? Dio… Dorian!
Il
ragazzo ebbe la presenza di spirito di nascondere il viso tra le mani,
mascherando così l’incontenibile rossore che l’aveva imporporato fino alla
radice dei capelli.
Seguì
con lo sguardo il movimento fluido di Ambrosie, la quale si diresse pensierosa
verso la finestra, tutta intenta e concentrata a seguire il filo delle sue
inestricabili congetture.
Sarebbe
stato meglio se Ambrosie e Dorian si fossero incrociati; se non altro, non
sarebbe stato compito mio trovare una spiegazione plausibile alla sua presenza.
Ma, fortunatamente, Ambrosie non si è resa conto di
nulla.
-
Credo proprio – annunciò Ambrosie, assorta, dopo essersi schiarita la voce –
Che, fra qualche istante, avremo visite.
-
Eh? – Fernand si riscosse di colpo, sollevandosi a
sedere.
-
Direi con assoluta certezza – proseguì la ragazza – che l’uomo che si sta
dirigendo in questo momento verso casa sia proprio Auguste. E non mi sembra si
stia recando in visita di cortesia.
Il
panico travolse Fernand come una marea impazzita. Il ragazzo non riuscì a
trattenere un ansito di sorpresa.
-
Possibile che abbia già scoperto tutto?
- A
quanto sembra, è possibile – Ambrosie non si scompose – Che cosa intendi
fare?
-
Di certo, è qui per chiedere la mia testa – proruppe Fernand con un moto
risentito – Non è chiaro, è cristallino: qualcuno alza il becco contro il duca e
decide di parlare al popolo con libera lingua. Chi è l’autore del misfatto? Quel
pazzo di Fernand: è matematico.
Ambrosie
vide gli occhi del fratello scintillare imploranti.
-
Se chiede di me, digli che non mi sento bene.
La
ragazza incrociò le braccia, irritata, sovrastando la pallida figuretta
accoccolata tra le coperte aggrovigliate.
-
Prima o poi, dovrai affrontare le conseguenze del tuo “piano geniale” – ribatté
seccamente.
Fernand
si tirò le lenzuola fin sopra il naso, inasprendo lo sguardo ed imitando il
medesimo atteggiamento contrariato della sorella.
-
Ah, adesso che qualcuno se l’è presa a cuore, il piano sarebbe mio? Parlerò con
lui. Ma non adesso – si rigirò stancamente, sistemandosi la coperta intorno alle
spalle con il fare ostinato di chi non avrebbe mutato le proprie intenzioni
neppure sotto le più affilate minacce – Il mondo non gira intorno ad Auguste,
così com’è vero che nessuno di noi ha mai stipulato un giuramento di eterna
fedeltà nei suoi confronti. Ne discuterò con lui più tardi, alla locanda, se e
quando sarà il momento, e sempre che lui, nel frattempo, non abbia già
provveduto a scorticarmi vivo.
-
Immagino che tu sia troppo debole perché possa alzarti da quel letto – lo
pungolò Ambrosie, sarcastica.
- È
la verità – rispose asciutto il fratello.
-
Razza di sfrontato! – mormorò Ambrosie a denti stretti, mentre si dirigeva a
lunghi passi all’ingresso – Un momento! – gridò.
-
Apri, Ambrosie.
La
voce concitata di Auguste le giunse dall’altra parte del portone, risoluta ed
energica, mentre lei lottava contro il massiccio
passante.
Nel
momento in cui l’uscio si spalancò, Auguste la spinse da parte non troppo
bruscamente e si diresse spedito verso il modesto salone. Si guardò
minuziosamente intorno, come un falco alla ricerca della preda ambita;
dopodiché, la sua attenzione si concentrò su
Ambrosie.
-
So che Fernand è in casa.
-
Auguste – lo richiamò la donna, un’espressione interrogativa sul volto – Azzardo
troppo, se ti chiedo di spiegarmi a cosa devo tanto
fervore?
Ambrosie
si morse il labbro, rendendosi conto di quanto la sua voce, nel maldestro
tentativo di apparire tranquilla e padrona della situazione, suonasse artefatta
e piena d’apprensione.
-
Ho bisogno di parlare con tuo fratello, Ambrosie. È molto importante – reclamò
Auguste, tentando, a sua volta, di mantenere il
controllo.
La
ragazza respirò profondamente, guadagnando tempo. Lo sguardo febbrile di Auguste
saettava inquieto per la stanza, inquadrato negli occhi pesti e cerchiati di chi
non ha dormito neppure un istante. I capelli gli ricadevano disordinati sulle
guance.
L’uomo
le rivolse un breve ed eloquente gesto del capo, attendendo impaziente una
risposta.
Ambrosie
pregò che la sua mezza verità suonasse credibile: la persona che le stava di
fronte non sembrava disposta a tollerare alcun
compromesso.
-
Fernand non si sente bene. Da stamattina.
Auguste
alzò gli occhi al cielo.
-
Ambrosie, non è il momento di giocare, te lo assicuro. Lo dico per
entrambi.
- È
la verità – la ragazza balzò sulla difensiva, lo sguardo duro – Non abbiamo
motivi per mentirti, credimi.
-
Tu, forse. Ma credo possa ugualmente offrirmi un’esaustiva spiegazione.
Riconosci questi opuscoli?
Auguste
le consegnò un plico di fogli rozzamente rilegati. Seduto sul divano, accavallò
altezzosamente le lunghe gambe, mentre la ragazza scorreva i fogli con finta
noncuranza.
-
Devo attendere ancora a lungo, perché il signorino mi degni della sua venerabile
presenza? – scandì l’uomo, mordace.
-
Ti pregherei di non infierire. Sono seriamente preoccupata per mio
fratello.
Ambrosie
gli posò addosso uno sguardo che non ammetteva repliche. Almeno quella era la
verità.
Auguste
respirò profondamente, imponendosi ancora una volta di restare calmo.
All’occorrenza, quella donna riusciva a rendersi più esasperante di Fernand.
Sospirò: ammirava la giovane Ambrosie, ma, in quell’occasione, l’avrebbe
volentieri scrollata fino a farsi confessare la verità riguardo alle manovre
inconsulte di quel piccolo irresponsabile di suo fratello. Scacciò con decisione
l’idea dalla sua mente: l’ultima cosa che avrebbe voluto mettere in pratica in
vita sua era mettere le mani addosso ad una
ragazza.
Osservò
Ambrosie, soppesandola con lo sguardo. Gli parve così minuta da apparire quasi
fragile: tutta la sua forza sembrava risiedere nell’espressione ferma ed
imperscrutabile del volto. Dieci anni esatti in meno di lui, lo sguardo fiero e
pulito, lo stesso orgoglio tracotante del fratello. Non sta
mentendo.
Sorrise.
Era completamente diversa da Emilie: una bellezza fredda, immersa nel suo biondo
pallore impenetrabile, le mani sottili che si muovevano con grazia nervosa, le
membra delicate ed eleganti, i fianchi ed i seni poco pronunciati. Una vena
d’inquietudine negli occhi.
-
Qualcosa non va, Ambrosie? – la sua voce si
ammorbidì.
-
È… Fernand – sussurrò la ragazza, prestando sufficiente attenzione affinché
l’oggetto del suo discorso, che riposava nella stanza a fianco, non la udisse –
Poco fa, ha avuto un malore.
- E
ora, sai dirmi come sta? – incalzò l’uomo.
Ambrosie
si strinse nelle spalle.
-
Non saprei. Sta riposando. Sembrava molto debole, e lui stesso ignora la causa
del suo malessere.
-
Hai pensato di farlo visitare da un medico?
La
ragazza gli scoccò un’occhiata ironica.
-
Sai com’è fatto Fernand.
-
Già, lo conosci bene, e credo di conoscerlo abbastanza anch’io. Fernand pretende
troppo da se stesso.
-
Spero non via sia nulla di cui preoccuparsi. Se l’episodio dovesse ripetersi,
giuro che da un medico ce lo spedisco a calci!
Auguste
si ravviò i capelli in un gesto brusco. L’intera faccenda, ad essere sincero,
cominciava ad allarmarlo.
La
sua attenzione tornò a focalizzarsi sugli opuscoli.
-
Dunque, Ambrosie, cosa pensi delle “utili” letture che ti ho
procurato?
-
Tutto il bene possibile – rispose la ragazza, non senza una punta di malizia –
Insomma, Auguste! Era tempo che qualcuno si rendesse conto che mezza Noir Trésor
fa la fame in mezzo a nugoli di avvoltoi.
-
Smettiamola, una buona volta, di scherzare! Non è divertente – ribatté, secco –
Tu, piuttosto, sapevi nulla? – insinuò, serafico.
-
Ci puoi scommettere.
La
ragazza gli rivolse un mezzo sorriso astuto: aveva la situazione sotto
controllo.
-
Ma certo! Come non averci pensato prima? – Auguste schioccò le dita, tagliente –
Giustamente, avete macchinato il tutto alla perfezione, tanto che, come sempre,
l’unico ad esserne rimasto all’oscuro era Auguste, lo scemo. È
così?
-
Mi dispiace – Ambrosie chinò lo sguardo – Avremmo dovuto discuterne all’ultima
riunione.
-
Già – l’uomo distolse il viso a sua volta, il cuore trafitto da mille strali di
dolore – Spero almeno che abbiate agito con discrezione, benché non condivida i
vostri metodi.
-
Guardiamo in faccia la realtà, Auguste – Ambrosie si sforzò di non suonare
troppo pungente – Quale altro strumento abbiamo a nostra disposizione, se non
tentare di trasmettere consapevolezza? – il volto della ragazza s’illuminò – Io
credo che un popolo cosciente di questo stato di cose e delle angherie che da
molto tempo è costretto a sopportare, possa fare molto. Infondere speranza e
consapevolezza dovrebbe essere fra i nostri principali obiettivi. Vorrei fosse
possibile fare dell’informazione e della coscienza della gente le nostre armi
contro il dispotismo e l’ignoranza, sua complice. In alternativa, quale altra
concreta possibilità possiamo proporci? Presentarci al duca du Lac e sparargli
un colpo di pistola?
-
Onestamente – mormorò Auguste, soprappensiero – è un’idea che, per un certo
periodo, io stesso avevo preso in considerazione. Ma promettimi di non dirlo mai
a Fernand: matto com’è, il nostro amico sarebbe capace di tradurre veramente in
pratica il proposito.
…E
io non voglio vederlo marcire in una lurida prigione. Non voglio vederlo pagare
sul patibolo per un’idea che in realtà riguarda noi tutti. Non voglio riporre
sulle sue giovani spalle una responsabilità tanto grave. Non voglio che Fernand
soffra come ho sofferto io.
Auguste
tacque, un velo di tristezza ad annebbiargli gli occhi
chiari.
La
ragazza strinse le palpebre, a disagio. Ancora una volta, il dolore palpabile
che si annidava in quel volto stanco e tirato l’aveva gettata in una condizione
di lacerante impotenza. Quasi senza riflettere, Ambrosie circondò la mano di
Auguste con le sue e se la portò sulla guancia, sfiorandola
appena.
I
minuti scivolarono su di loro, rapidi come gocce di
pioggia.
-
Ambrosie, Ambrosie – la voce di Auguste risuonò stanca e vagamente allucinata –
Vorrei che mi sciogliessi da un terribile dubbio. Spiegami: da che parte
stai?
-
Dalla vostra, è naturale – rispose la ragazza, con
prontezza.
-
Continui a sfuggirmi. Cerco di trovare un nesso alle tue azioni, ma non riesco a
seguire un filo comune. Non credevo che anche tu appoggiassi le avventate ed
infantili iniziative di tuo fratello.
-
Se entrambi vi sforzaste di parlare, almeno una volta, anziché aggredirvi
a vicenda, forse avremmo un inconveniente in meno. Io mi sforzo di non cogliere
tutto il negativo da una parte e il giusto dall’altra. Ci provo o, per lo meno,
cerco di mantenere il proposito. Le nostre fatiche rischiano di cadere nel
vuoto, finché tra noi vi saranno tensioni e motivi di rancore. Apprezzo
l’impegno di mio fratello; ma, per certi aspetti, non posso non esprimere la mia
contrarietà.
-
Se intendi ciò che riguarda Raphäel Lemoine, sai bene quanto ritenga importante
l’avvicinarmi ad una congrega di più ampio respiro. E spero caldamente che
almeno tu riesca a trovare un compromesso con Fernand. Chiunque condivida un
progetto di resistenza alla tirannia dovrebbe restare unito. Non approderemo mai
ad una conclusione, se continueremo a lottare divisi ed osteggiarci a
vicenda.
-
Sono d’accordo – lo interruppe Ambrosie – Potrò anche azzardare, se dico che tu
e mio fratello ne siete l’esempio più rilevante. Sbagliate entrambi, e prima
porrete fine alle vostre controversie, meglio sarà per tutti:
credimi.
Auguste
respirò profondamente, spazientito.
-
Conosci un modo indolore per far ragionare Fernand? Saprai meglio di me quando
mi sia difficile trovare il modo giusto di prenderlo, sì da evitare di
attaccarlo o essere attaccato: è questa la verità. Parlaci e prova tu a farlo
ragionare: è il più grande aiuto che puoi darmi.
La
ragazza annuì, il volto serio.
-
Un’ultima cosa – la trattenne Auguste, posando con malagrazia i libelli sul
tavolo – State attenti nel manovrare questa roba. E scegliete con cura le
persone cui è bene divulgarla.
Si
diresse verso la porta.
-
Dove vai, se non sono indiscreta? – accennò
Ambrosie.
-
Dove vado? – la mano di Auguste esitò sulla maniglia, mentre la superficie dei
suoi occhi tremava umida – Devo andare da
lui.
Il
cuore della ragazza si strinse in uno spasmo angoscioso. Gli posò maternamente
una mano sulla spalla, gli occhi lucidi.
-
Auguste, se hai bisogno di… conforto, di qualunque cosa,
io…
-
Lascia stare – declinò l’uomo, un lieve sorriso carico di tristezza che si
allargava sul suo volto – Vai. Ti ringrazio di
tutto.
La
ragazza lo seguì con lo sguardo, mentre Auguste, spedito, si allontanava dalla
sua vista.
I
suoi passi la condussero nuovamente da Fernand.
-
Dunque – la interrogò suo fratello, una punta d’asprezza nella voce – Sei
riuscita ad ammansirlo?
La
ragazza assentì stancamente.
-
Parliamo chiaro, Fernand. Auguste sta soffrendo orribilmente per la scomparsa di
Lucien: ti prego di non peggiorare la situazione. Rimandate, almeno per un po’,
le vostre discussioni.
Fernand
le voltò le spalle con il pretesto di guardare al di là della finestra. Le
parole di Ambrosie, involontariamente, l’avevano ferito. Cercò d’impedire ai
propri occhi di riempirsi di lacrime, ma il sole che gli bruciava sul volto
rendeva ancor più ostico il suo intento. Infine, si lasciò andare ad un triste
sospiro.
Evita
di snervarlo. Non peggiorare la situazione. Non
angustiarlo.
Perché
sei capace soltanto di irritarlo, di esasperarlo e di complicargli ulteriormente
l’esistenza. Non puoi essergli utile: cerca almeno di non essergli
dannoso.
Non
ho mai voluto essere “utile”! Non utile come può essere uno sterile strumento,
un seguace senza volto, un burattino
senz’anima.
Non
voglio essere un intralcio, per lui. Non voglio gravare sulle sue spalle,
insieme al dolore che lo consuma. Non voglio essere per lui la causa di altri
mali.
Vorrei
soltanto proseguire diritto lungo la strada che ho scelto, senza incertezze,
evitando scontri sempre più dolorosi da cui usciamo entrambi sconfitti. Le
ferite bruciano ancora.
Vorrei
fuggire da questa prigione che mi sono ritagliato addosso senza saperlo. Vorrei
tornare indietro e non inciampare più sulla sua
strada.
Ma
non posso. Non voglio!
Rinunceresti
all’aria che respiri?
Auguste
mi ha preso e smembrato lentamente. Io l’ho ripagato di tutto senza sconti. Ma
il dolore non è un pretesto che basti a mantenermi lontano da
lui.
Si
può voler fuggire la propria condanna e, nello stesso tempo, non poter più farne
a meno?
Non
so cosa voglio. Ma, nello stesso tempo, ne ho
paura.
-
Fernand, perdonami – la voce femminile scivolò morbida su di
lui.
Ambrosie
gli prese il volto tra le mani.
È
davvero tanto debole il mio controllo sulle emozioni più
subdole?
Fernand
si morse dolorosamente il labbro.
-
Vorrei mettere in chiaro una cosa – le sussurrò, atono – Io non odio
Auguste. Detesto l’idea di accumulare altro insensato rancore. Questa
situazione mi pesa. La nostra… ostilità – Fernand sollevò gli occhi al cielo,
confuso.
Il
solo parlare di “ostilità” è un masso che mi opprime il petto. Chi ha stabilito
che deve essere così?
“Odio”:
chi è così stolto da credere a simili assurdità?
- …
la nostra ostilità non avrebbe motivo d’esistere. Non ha nessuna ragion
d’essere, Ambrosie; se solo… Non lo so. È più forte di
me.
-
Tieni molto a lui, è così? – le dita di Ambrosie scivolarono sulle sue spalle
tremanti.
-
Io apprezzo molto Auguste. Come ti sentiresti a sapere che la persona che stimi
più di tutte, ti ritiene poco più che una spina nel
fianco?
Fratello
mio, se così fosse anche per me?
-
Non è così, Fernand – Ambrosie si sforzò di dissuaderlo – Auguste è una persona
fredda e pragmatica, intransigente con se stessa e con gli altri, ma riconosce
il valore di chi ha di fronte. Non lasciarti ingannare dalle apparenze: io mi
fido del suo giudizio.
Scioltosi
dall’abbraccio della sorella, Fernand si diresse in silenzio verso la piccola
toeletta e prese a spazzolarsi distrattamente i
capelli.
-
Stai bene, ora? – indagò la ragazza.
Fernand
annuì col capo.
-
Adesso va meglio. Ho solo bisogno d’aria. Usciamo, andiamo a far
colazione.
* *
*
Un
cero ardeva al centro della sala, unica fonte d’illuminazione, proiettando
tutt’intorno un chiarore cupo e solenne ed un’impercettibile caligine che
offuscava la vista ai presenti. Le imposte erano chiuse, ed il lutto si
mescolava all’aroma opprimente della cera che si scioglieva e dello stoppino che
bruciava.
La
stanza era spoglia ed asettica, magicamente ripulita d’ogni traccia dell’orrore
che vi aveva avuto luogo. Un lugubre drappo color fumo celava alla vista dei
presenti la superficie del divano, striata da scure e larghe chiazze di sangue.
Lui, Auguste, sapeva cosa vi si celava. Distolse lo
sguardo.
Quel
divano.
Quella
stanza.
Rabbrividendo,
si premette le mani sugli occhi che bruciavano. L’atmosfera funerea che, sin dal
primo istante in cui aveva di nuovo messo piede in quella casa, gli si era
incanalata fin nelle ossa, turbandolo quasi quanto l’essersi ritrovato dinnanzi
a Lucien privo di vita.
Disagio,
vergogna, imbarazzo, dolore ed una sorta d’angoscia inspiegabile: le sole
sensazioni ad aver preso il sopravvento su di lui.
Sino
a quel momento, aveva scioccamente ritenuto che la sua pena fosse qualcosa da
covare in solitudine e da custodire gelosamente dentro di sé. Ma ora non era più
solo in quella casa. Il dolore non era una sua
esclusiva.
Invano
si sforzò, nella confusione, di mettere a fuoco i volti dei presenti, finché la
sua attenzione non fu catturata da una pallida figura dal portamento austero, la
cui bellezza a tratti vagheggiava la compostezza neoclassica di un’antica dea,
di una Diana prematuramente sfiorita dagli affanni e dall’impassibile scorrere
del tempo. Qualcosa scattò nella mente di Auguste: i lisci capelli corvini,
severamente raccolti; gli occhi azzurri, il profilo aristocratico e le labbra
sottili. I tratti sin troppo familiari.
Dopo
tanto tempo…
Fa’
che non sia lei: la madre di Lucien, Rose. Non riuscirò a sostenerne lo sguardo.
Non ne avrò il coraggio.
Auguste
si strinse tristemente nel soprabito scuro, fissando il candido lenzuolo che
copriva la salma di Lucien. Gli addetti all’ingrato compito avrebbero chiuso per
sempre le nobili spoglie del suo amico in una gelida cassa lignea e, di lì, il
mattino seguente, si sarebbero svolte le esequie.
Era
tutto così… impersonale, sprofondato nella più gretta, indifferente
quotidianità, mentre lui, lui aveva perso una ragione di
vita.
La
madre di Lucien piange sommessamente. E, a fianco a lei, suo marito fissa il
vuoto.
La
donna mosse alcuni passi verso di lui e gli posò timidamente una mano sulla
spalla. Auguste per poco non avvertì il proprio cuore esplodergli nel petto.
Inghiottì le lacrime. Incapace di articolare qualsiasi frase coerente, strinse a
sé la donna, tremante.
-
Tu non hai colpa, Auguste. Non hai colpa – singhiozzò Rose con discrezione – Hai
fatto tutto quel che hai potuto per il mio Lucien. Solo, non sei giunto in
tempo, ma non potevi sapere. Non potevi sapere…
La
donna sussultò flebilmente, soffocando le lacrime sulla spalla di Auguste, il
quale strizzò dolorosamente le palpebre arrossate, perdendosi nei suoi
pensieri.
Il
padre di Lucien stava compunto in un angolo. Non gli si accostò. Si limitò a
fissarlo, torvo.
Auguste
si accinse ad abbandonare quel luogo, annaspando alla ricerca
d’aria.
È
troppo. Troppo… Straziante.
Una
mano forte gli attanagliò il polso. Auguste cedette, arrestando i propri
passi.
Manca
poco. Così poco, alla mia rovina. Straziatemi anche voi, e poi lasciatemi morire
del veleno che mi soffoca il cuore.
Gli
occhi di Emmanuel, il padre di Lucien, bruciavano nei suoi come
lava.
-
Vi piace ancora giocare a fare i ribelli?
Auguste
avvertì le parole dell’uomo, ferme e vagamente deliranti, stridere come cardini
non oliati. Chinò lo sguardo, sconfitto, colpito a morte da quella voce e da
quello sguardo enigmatico e pieno d’astio.
-
Sia maledetta la vostra amicizia – proseguì l’uomo – Maledetti i vostri stupidi
sogni di gloria e la vostra dannata pazzia! Se foste annegati voi tutti nella
vostra sciagurata, folle ambizione, e se tu non ti fossi mai avvicinato a lui,
ora mio figlio starebbe ancora in piedi. Adesso, però, devi ascoltarmi
attentamente.
La
presa dell’uomo si strinse convulsamente sul polso di Auguste, quasi volesse
stritolarlo. Il ragazzo serrò stoicamente i denti, sentendo le ossa
scricchiolare nella stretta sempre più assillante.
Vide
la mano libera di Emmanuel infilarsi furtiva dentro il mantello scuro, per poi
trarne un oggetto acuminato. Un coltello.
Auguste
deglutì a fatica, il volto cereo.
Finiscimi,
implorò silenziosamente, gli occhi stretti a fessura nello spasmo angoscioso che
lo scuoteva. Lava via il sangue di tuo figlio con il mio, se questo ritieni
necessario. Metti a tacere il mio dolore ed il mio rimorso come giudichi più
opportuno, e che tutto finisca per sempre.
Con
grande incredulità da parte di Auguste, l’uomo allentò la presa sul polso
arrossato e dolorante e, imponendogliene la presa, gli mise forzatamente in mano
il pugnale e gli chiuse le dita sul manico.
-
Sai molte cose riguardo a Lucien, ragazzo – gli soffiò in faccia con voce roca –
Di certo, tu conoscerai molti più retroscena intorno alla tua morte di quel che
dici di sapere. Vai e trova l’assassino. È tutto.
Auguste
assentì in un debole cenno, il volto teso ed una sensazione di gelo a
percorrergli la spina dorsale, irradiandosi alle sue
membra.
-
Condoglianze, Auguste.
Emmanuel
si congedò con un rigido abbraccio meno rassicurante di quanto sarebbe voluto
apparire, e sparì oltre la soglia dell’abitazione.
Auguste
si massaggiò miseramente il polso indolenzito. Era nuovamente solo. Lui e la sua
disperazione. Sospirò, pentendosi di aver rifiutato l’offerta da parte di
Ambrosie di accompagnarlo. La ragazza avrebbe forse rappresentato per lui una
parvenza di supporto nell’affrontare il suo inferno; eppure, ancora una volta,
aveva finito per agire secondo la sua maledetta volontà, ignorando quelle
insolite, amorevoli offerte d’aiuto che di rado gli erano
rivolte.
Si
diresse mestamente alla volta della piazza
cittadina.
* *
*
Il
tardo pomeriggio investiva Noir Trésor della luce ramata del crepuscolo,
intercalata qua e là dalle lunghe ombre proiettate lungo le vie dalle case e
dagli edifici.
A
quell’ora della sera, la locanda pullulava già di avventori: giovani senza meta,
agitatori nell’ombra, gente del popolo che, di ritorno dal duro lavoro,
sfruttava la sua unica, astratta possibilità di esprimere senza censure i propri
malumori riguardo al cattivo governo e alle condizioni economiche sempre più
precarie, se non addirittura prossime alla miseria.
L’odore
pungente del vino si mescolava a quello dell’olio che bruciava nelle lucerne e
al fumo dei sigari che aleggiava nell’ambiente in morbide spirali, formando una
torbida cappa sopra le testa degli avventori.
-
Ehi, ragazzo – un giovane dai capelli biondi e dal fiero portamento che
contrastava stranamente con lo sguardo gentile, richiamò l’attenzione dello
sguattero – Altro vino per me e per il mio amico. Pulito, stavolta, il
bicchiere – gli intimò scherzosamente.
-
Ebbene, mon ami – Dorian si rassettò con certosina precisione lo jabot
merlettato – A cosa brindiamo?
Uno
sguardo deliziosamente luciferino lampeggiò nelle iridi di
Fernand.
-
Alla riuscita del nostro piano – Fernand schioccò la lingua con fare eloquente –
Guarda come si agitano. Guarda come hanno divorato i nostri articoli: fioccano
le idee, la protesta si estende. Presto le nuove istanze e le sollevazioni
raggiungeranno Palazzo du Lac con un’intensità ed un’iniziativa tale da
travolgere il duca come un fiume che, stavolta, gli sarà impossibile
arginare.
Il
ragazzo accompagnò le sue parole con un sorriso
cospiratore.
Dorian
sentì le labbra inaridirsi: il vino non era sufficiente a placare l’agitazione
derivante dai recenti avvenimenti e dalla vista di Fernand. Represse l’ardente,
inconsulto desiderio di stringerlo a sé.
Alla
sua sinistra, Ambrosie si guardava intorno nervosamente, con fare sospettoso. La
sua presenza era del tutto inconsueta in un luogo come quello, ma la ragazza,
intuendo la tempesta che di lì a poco si sarebbe scatenata, aveva insistito, con
un pretesto, per accompagnare i due amici.
-
Dimmi, Ambrosie: che te ne pare, dunque, del nostro “campo di battaglia”? –
Dorian rivolse il suo sguardo sulla donna, la quale si sistemò distrattamente
una forcina dalla quale era sfuggita una lunga ciocca color
miele.
-
Splendi come un diamante nel fango, Dorian. A dover essere sincera, non mi è
parso di scorgere qua intorno molte facce rassicuranti. Sarebbe un azzardo, da
parte nostra, far subito leva sul malcontento immediato di una massa
incontrollabile la cui aspirazione è creare disordini di certo controproducenti.
Dobbiamo prestare attenzione: la situazione può facilmente sfuggire di
mano.
Fernand
irrigidì le spalle.
-
Non capisco dove voglia arrivare – controbatté, risentito – Ma comincio a
chiedermi come sia possibile che la sola, momentanea vicinanza di
quell’uomo sia sufficiente a volgerti contro di
me.
-
Ora stai esagerando, Fernand. Non è come pensi. Se provassi ad evitare, almeno
qualche volta, di riversare su Auguste le cause di ogni tuo problema,
riusciresti ad essere realistico: il discorso, in questo momento, riguarda
noi due. Vorresti concedermi, gentilmente, la possibilità di rivolgerti
un consiglio senza che ciò comporti necessariamente urtare la tua sensibilità? –
Ambrosie lo fissò con espressione arguta.
-
Mi spiace, Ambrosie – il ragazzo chinò lo sguardo, in palese disagio; non voleva
alienarsi l’approvazione di sua sorella, fra i pochi che ancora lo appoggiavano;
ma il solo sentir nominare Auguste era in grado di tendere i suoi
nervi.
-
Non era ciò che intendevo – proseguì, la voce malferma – Volevo dire soltanto
che prima si muoverà il popolo, meglio sarà per
tutti.
-
Ed io volevo ricordarti che un piede in fallo, stavolta, equivale a mandare
davvero tutto all’aria.
Dorian,
rimasto in disparte sino a quel momento, intento a seguire la schermaglia
verbale dei due fratelli, si rivolse al ragazzo:
-
Ragiona, Fernand: credo che, per oggi, sia stato fatto abbastanza. Riconosco che
il nostro è un passo piuttosto breve, a dispetto di quel che ci proponevamo, ma
cerca di capire che, per una mossa tanto arrischiata, non vale la pena rischiare
ulteriormente.
Fernand
intrecciò le braccia sul petto, inquieto.
-
Io sono convinto, al contrario, che la situazione abbia bisogno di una scossa.
Ancora non basta, ragazzi, capite? Abbiamo corso gravi rischi nel portare a
termine la nostra operazione, e, se nessuno raccoglierà l’occasione, entro
domani tutto sarà già inutile e dimenticato. Ora hanno un pretesto per
scagliarsi contro il duca. Guarda intorno a te: leggono, inveiscono, fanno
sfoggio della loro indignazione. Eppure, di organizzare una resistenza unita
ancora non si parla. Domani, i libelli per i quali abbiamo rischiato la galera
saranno poco più che testi arguti sui quali sghignazzare in
privato.
Il
ragazzo si ravviò all’indietro i capelli con fare contrariato. Si alzò di scatto
e prese a misurare a lunghi passi lo stretto corridoio che, dall’ingresso della
taverna, si diramava, fra isole disordinate di tavoli e panche, fino al
malandato bancone in cui l’oste mesceva da bere.
-
Non so cos’abbia in mente tuo fratello – Dorian si morse il labbro, impensierito
– Ma non mi piace per nulla.
-
Ha bevuto? – indagò Ambrosie.
-
Soltanto qualche bicchiere di vino.
La
ragazza scosse il capo, sconcertata.
-
Allora, è chiaro. Dobbiamo fermarlo, prima che commetta qualche altra
imprudenza.
-
Credo sia troppo tardi…
Rassegnato,
Dorian puntò lo sguardo in direzione di Fernand.
Ambrosie
sgranò gli occhi, impressionata, portandosi contemporaneamente le mani sul volto
in un gesto rassegnato.
Basta
stare a guardare! Basta osservare impotenti mentre si muore di fame! È giunto il
momento che si dia avvio ad un’iniziativa rivoluzionaria che spazzi via il duca
du Lac ed il suo dominio sulla città.
-
Troppo tardi, troppo tardi – la ragazza saettò con lo sguardo dal viso di Dorian
alla scena che si stava consumando a qualche passo da
lei.
Presa
parola alla discussione sempre più accalorata che si era accesa fra gli
avventori della locanda, Fernand si era posto in testa alle requisitorie in
qualità d’arringatore.
I
vostri figli fanno la fame…
I
nostri concittadini muoiono, vittime di un sistema che vuole soffocare ogni
libertà attraverso il panico diffuso…
Le
parole di Fernand si persero confuse nella mente di
Ambrosie.
Taci,
ti supplico. Prima che sia troppo tardi.
Dobbiamo
prendere le armi e scuotere l’ingiusta supremazia sin dalle radici per mezzo
delle quali si è ancorata nella nostra terra e nelle nostre
vite…
L’ambiente
piombò nel silenzio, mentre le parole di Fernand frustavano l’aria, impetuose.
Qualcuno fischiò nella sua direzione, qualcun altro applaudì, altri ancora lo
imitarono, entusiasti.
-
Questo ragazzo ha ragione – un uomo attempato si accostò al giovane e gli tese
la mano con deferenza – Siamo stanchi di chinare il capo davanti all’usurpatore
e di accettare ogni sua prevaricazione.
Non
dice nulla di nuovo: niente che ancora non si sappia. Ma è tutto ciò che la
gente vuole sentirsi dire. E la situazione sta
degenerando.
Basta!
-
Dorian, dobbiamo fermarlo – la voce di Ambrosie risuonò
stridula.
Si
aggrappò al braccio di Dorian
- È
mezzo ubriaco, ha perso il senso del pericolo ed ora ha ottenuto i consensi di
tutto il locale.
-
Se permettete, potete lasciarlo a me.
Dorian
e Ambrosie sobbalzarono, quando la figura di Auguste comparve alle loro
spalle.
Gli
ansiti che gli scuotevano il respiro, i capelli sciolti e gli abiti in disordine
lasciavano intuire che Auguste si era precipitato in quel luogo di corsa,
palesemente sconvolto. Reggeva tra le mani, stretto al petto, un mazzo di
opuscoli.
- È
tutta qui la vostra… discrezione? – gli occhi dell’uomo si posarono gelidi su
Ambrosie – Non mi pare abbiate scelto bene le persone a cui indirizzare i vostri
dannatissimi libelli. Questi, li ho confiscati nella piazza: è meglio che stiano
con me al sicuro. Avete la più pallida idea di ciò che avete fatto? Avete
sobillato un’intera città; se queste… cose finiscono in mano a qualche
autorità, sarà un bagno di sangue.
Auguste
si diresse con passi furenti verso il giovane
arringatore.
-
Hai controllato non vi siano in giro oggetti contundenti? – Ambrosie si coprì
gli occhi – Finirà male. Malissimo.
Dorian
seguì Auguste.
-
Basta, Fernand; credo che per oggi possa bastare.
Dietro
Auguste e Dorian, Ambrosie scorse Raphäel, il quale pareva essere spuntato dal
nulla
Perfetto,
si disse. Ora, il quadro è al completo.
Auguste
spintonò bruscamente Dorian.
-
Fatti da parte, Dorian. In casi come questo, il tuo amico capisce un solo
linguaggio, purtroppo.
Sul
viso di Fernand comparve un sorrisetto subdolo, quando scorse
Auguste.
-
Osserva con i tuoi occhi.
-
Ho visto già abbastanza – gli occhi dell’uomo scintillarono di collera –
Davvero, i miei complimenti: hai quasi gettato sulla forca un intero popolo
facilmente suggestionabile… Per sua sfortuna. Sei felice, ora? Puoi riprenderti
questi.
In
uno scatto d’ira, Auguste scagliò gli opuscoli, mirando al volto di Fernand. I
fogli si sparsero per il pavimento della stanza.
-
Solo tu ti ostini a non capire di cosa ha bisogno Noir Trésor. Quanto, ancora,
dobbiamo chinare la testa, mentre il duca sfrutta e raggira come meglio può i
suoi schiavetti ubbidienti?
-
Il popolo di Noir Trésor ha bisogno di riforme che un tiranno non potrà mai
garantirgli. Ha bisogno di costruire solide basi economiche e morali per
rovesciare una tirannia; di certo, non di un ragazzino sciocco, egoista e
megalomane. Credi che gettarsi nella bocca del leone sia un modo per risolvere i
problemi?
Il
ragazzo indietreggiò, ferito dalle sue parole.
-
Neppure patteggiare con certa gente è una valida alternativa – gli occhi di
Fernand si strinsero con disappunto, fissandosi su Raphäel – Che ti prende,
Auguste? Hai trovato un nuovo socio in affari?
Un
nuovo socio con cui rimpiazzare quello vecchio?
Fernand tacque, arrossendo: solo un istante dopo, si avvide, nella collera, di
aver involontariamente sottinteso qualcosa che non avrebbe
voluto.
Una
cinquantina sguardi saettarono nervosamente da Fernand ad Auguste. L’aria tesa
preannunciava non troppo velatamente che di lì a poco i due contendenti si
sarebbero quasi di certo divorati a vicenda.
Fu
Dorian a frapporsi tra loro.
-
Auguste, ascoltami per un momento: Fernand non intendeva insultare nessuno, men
che mai…
L’uomo
se lo scrollò di dosso, sordo ai suoi richiami, continuando a fissare
gelidamente Fernand. Gli occhi gli s’inumidirono, mentre il respiro accelerava
paurosamente.
- È
questo che pensi, Fernand?
-
Non intendevo… quello. Non oserei mai. Il tuo problema, Auguste, è che hai
sempre avuto paura.
Le
parole del ragazzo risuonarono come una tromba che annuncia la battaglia
imminente.
- È
questo che pensi di me? – ripeté Auguste, investendo il ragazzo – Un vigliacco
che si circonda di altrettanti vigliacchi. Compreso lui. È così? – il suo
viso si corrugò in una maschera di dolore – Perché mi fai questo,
Fernand?
Perché
mi fai questo?
Il
braccio di Auguste si mosse fulmineo, ed il dorso della mano colpì Fernand in
pieno volto.
Il
ragazzo arretrò, stordito. Incespicando sui propri stessi piedi, si ritrovò, in
capo ad un istante, disteso sul pavimento appiccicoso della locanda, un fianco
dolorante e mille occhi su di sé.
Immobile,
le piccole losanghe bianche e nere del pavimento che si confondevano sotto il
suo sguardo, il cuore sanguinante ed il gelido biasimo trasudante dagli occhi di
Auguste che bruciava su di lui, inchiodandolo a
terra.
Potrei
dire l’identica cosa: perché mi fai questo, Auguste? Perché non riusciamo a
condividere lo stesso ossigeno senza dilaniarci?
Era
deluso, triste, furente: deluso, per l’infima considerazione che Auguste aveva
dimostrato possedere nei suoi riguardi. Triste, perché, colpendolo, aveva
sancito il suo disprezzo; furente, perché, nonostante tutto, non riusciva a
odiare quel bastardo capace soltanto di umiliarlo e di arrecargli disperazione e
sofferenze.
Ignorò
la mano che gli tese Dorian. Ignorò Raphäel che cercava di calmare Auguste e di
farlo ragionare; fino a quel momento, su di lui non avrebbe speso neppure un
soldo: ora, per un istante, il suo comportamento gli parve quasi
ammirevole.
A
fatica, si risollevò in piedi.
Perché
mi fai questo, Fernand?
-
Di certo, non devo rendere conto a nessuno di quel che faccio – sibilò ad
Auguste – Men che mai ad uno stronzo come te!
Senza
rendersi pienamente conto del proprio gesto, il ragazzo tirò indietro il pugno e
glielo sfracellò in faccia.
Ignorò
il veleno che gli mordeva l’anima e l’orribile senso di oppressione che gli
invadeva il petto. Ignorò le lacrime che gli accarezzavano le ciglia, mentre i
propri passi irruenti lo conducevano fuori di quella sudicia locanda, il freddo
che gli pungeva il viso ed il cuore. Fuggì finché gli occhi non cominciarono a
bruciargli, finché la sua corsa non disperse le lacrime nel
vento.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12: Prospettive ***
Capitolo
12
Prospettive
-
Fernand, torna indietro, ti prego.
Sordo
alle esortazioni di Dorian, Fernand sgusciò via come una freccia, eludendo il
debole tentativo, da parte dell’amico, di trattenerlo e riportarlo alla ragione.
Si dileguò senza una parola.
Solo
allora, Ambrosie si diresse là dove aveva appena avuto luogo la lite, i cui
fuochi si erano appena estinti nell’aria sotto il gelo
dell’amarezza.
Alcuni
avventori, delusi dallo spettacolo ormai definitivamente andato a monte,
ripresero a bere e conversare fra loro come se nulla fosse accaduto; solo
qualche spirito particolarmente acceso, allettato dall’eventualità di
un’insurrezione, proseguì sulla scia di Fernand, indugiando pigramente intorno
all’argomento della serata nella discrezione che conferiva qualche tavolo
appartato.
Sembra
che la tempesta si sia placata,
rifletté la ragazza, avvertendo l’atmosfera, scossa dalla tensione fra due
contendenti, acquietarsi lentamente, non senza lasciare dietro di sé una scia di
languore.
A
dire il vero, la tempesta vera e propria è stata addirittura scongiurata;
peccato, soltanto, che il preavviso non sia stato sufficiente a disperdere i
fumi del rancore.
In
mezzo al fitto mormorio, da uno dei tavoli vicini, una voce attirò la sua
attenzione.
-
Questa è sfortuna bella e buona. Avrei addirittura puntato sul
de la Garde.
-
Io sul ragazzo. Sembrava determinato.
Ambrosie
si morse la lingua, benché, dinnanzi a quelle sciocche affermazioni, fosse stata
presa dal desiderio di scagliarsi contro chi aveva appena ridotto l’accaduto
alla mera scommessa di un combattimento fra cani. Sospirò, mentre il fiele
scemava lentamente.
Era
preferibile cercare di passare inosservata il più possibile, almeno quella sera:
le erano stati sufficienti i commenti osceni di alcuni uomini, non appena aveva
messo piede in quel luogo corrotto di miseria morale, per farle capire che
quello non era il suo posto. Lo
sapeva da sé e, in quel momento, non le importava.
-
Vado a cercare Fernand – Dorian si premette il tricorno scuro sul capo,
imboccando l’uscita.
La
ragazza gli rivolse uno sguardo supplichevole, aggrottando nervosamente le
sopracciglia fini.
-
So quello che stai per chiedermi – Dorian tornò rapidamente sui suoi passi,
prendendo dolcemente le mani di Ambrosie tra le sue.
Lo
sguardo della ragazza tornò quello indefesso di sempre.
-
Devono riconciliarsi: non possiamo
permetterci che la spaccatura fra loro diventi incolmabile. Dobbiamo convincerli
a parlare.
Prima
che si lacerino a vicenda: mio fratello ci sta sputando il sangue, su questa
dannata faccenda.
Ambrosie
rivolse la sua attenzione su Auguste. L’uomo giaceva prostrato a terra,
accasciato su se stesso, le mani premute sul viso insanguinato. Raphäel,
chino al suo fianco, si accertò sulle sue condizioni, per poi aiutarlo a
rimettersi in piedi.
-
Oste! – reclamò Raphäel, rivolgendosi all’uomo ben in carne indaffarato dietro
il banco – Una camera: vi pago la differenza.
Prima
che il
ragazzo raggiungesse il locandiere, Ambrosie si diresse dinnanzi all’uomo e, con
noncuranza, pagò di sua tasca.
-
Madaaame!
Sussultò,
atterrita, quando il soggetto dall’aria poco rassicurante che, completamente
ubriaco, stazionava ormai da ore nell’osteria infastidendo i presenti, le
stracciò di mano il sacchetto di stoffa contenente il
denaro.
L’uomo
si rigirò tra le dita adunche le poche monete, esaminandole con occhio
critico.
-
Sono tutti qua i vostri risparmi, signora? – le sibilò,
beffardo.
-
Restituitemi i miei soldi!
Ambrosie
si avvide di quanto la sua voce suonasse tremante ed acuta, come quella di una
bambina privata di un giocattolo.
-
Mia bella signora, quanta fretta! – l’uomo nascose il sacchetto dietro la
schiena, allontanandolo dalla sua portata – Che ne dite di scendere ad un
accordo? Avrete il triplo di quanto contenuto qua dentro, se solo vi mostrerete
gentile… – tentò di irretirla.
Ambrosie
avvampò per la collera e l’imbarazzo. Sentì il sangue schizzarle fin nel
cervello e pulsarle spasmodicamente nelle tempie.
-
Come osate? – ruggì.
-
Rendile i suoi soldi e fatti da parte, balordo!
La
voce di Raphäel
risuonò dura ed inflessibile come mai Ambrosie ricordò di averla
udita.
-
Se no, cosa succede, piccolo cicisbeo? – l’uomo sghignazzò, sprezzante – Ti
concederai al posto della tua damigella? – e scoppiò in una risata
volgare.
Ambrosie
rammentò, in seguito, di non aver mai scorto negli occhi di Raphäel
tanta furia ferina. Vide il volto del ragazzo tingersi di un pallore cereo. Gli
occhi, assottigliandosi pericolosamente, risplendettero delle fiamme
dell’inferno.
La
ragazza strinse il braccio di Auguste e si rifugiò nell’anticamera disadorno che
separava il locale dal retrobottega. Sulla destra, due rampe di scale che
conducevano alle stanze al piano di sopra s’inerpicavano ripide di fianco alla
parete irregolare. Porse ad Auguste un fazzoletto con cui tamponarsi il naso
sanguinante.
-
Non osare toccarla – sibilava intanto Raphäel, glaciale, rivolto all’uomo che
aveva tentato d’importunarla e derubarla.
-
Vuoi altre grane, stasera, Lemoine?
Dio…
Non era sufficiente la lite fra Auguste e mio
fratello.
Sconvolta,
Ambrosie osservò Raphäel
arrotolarsi la manica della camicia all’altezza del gomito con studiata
lentezza. Un sorriso sornione si dipinse sul suo volto
pallido.
-
Cominci a darmi sui nervi, Lemoine! – mormorò
l’avversario.
Il
ragazzo si sottrasse con grazia al suo assalto, scostandosi rapidamente. Si
volse verso l’aggressore, fronteggiandolo altezzoso, e gli si scagliò addosso a
sua volta.
Ambrosie
vide con sorpresa l’avversario rovinare pesantemente tra i tavoli sotto
l’assalto di Raphäel, rovesciando diverse sedie nella caduta. L’uomo biascicò
alcune bestemmie sommesse, terrorizzato, improvvisamente ed in modo del tutto
inaspettato, dalla presenza del ragazzo, e si allontanò
rapidamente.
-
Raphäel, ti ringrazio – sussurrò Ambrosie, mentre il ragazzo le porgeva i suoi
soldi con un sorriso – Ma non era necessario, davvero, commettere altre
imprudenze.
-
Sciocchezze – Raphäel
si diresse su per le scale, sorreggendo Auguste e ricambiando lo sguardo
malevolo del proprietario della locanda – Era un vecchio pazzo ubriaco. Se
Fernand fosse stato qui, l’avrebbe fatto nero per molto meno –
ridacchiò.
Non
sei spiritoso, Raphäel.
La ragazza seguì i due uomini nella stanza loro
assegnata.
* *
*
Per
tutto il tempo trascorso, da quando Fernand, in un moto del tutto imprevisto,
l’aveva scaraventato a terra con un pugno, Auguste si era chiuso
impenetrabilmente nei suoi pensieri, quasi assente a tutto ciò che lo
circondava, limitandosi ad assecondare passivamente Raphäel e
Ambrosie.
Dischiuse
faticosamente le palpebre; ma non era il dolore al volto a tormentarlo. Sospirò:
a nulla era valso imporsi di scacciare la collera ed il dolore che infuriavano
dentro di sé, di evitare di interpretare in maniera distorta il più lieve
fremito ostile intorno a sé e scagliarsi furioso su chi gli stava di fronte,
sfogando su di esso la propria immane sofferenza e
frustrazione.
Lui
era capace soltanto di distruggere inesorabilmente tutto ciò che toccava, e
stavolta era stato Fernand a subirne gli effetti.
Gli
aveva fatto male quasi senza avvedersene, trascinato dalla furia crescente. Il
dolore fisico che aveva impresso in lui colpendolo al volto non era che una
trascurabile componente dello scudo di rovi che stava innalzando dinnanzi a sé.
Si era avventato su Fernand senza riflettere nemmeno per un attimo intorno alle
conseguenze del suo gesto.
Troppo
comodo, Auguste, troppo comodo, ora, ricercare veri o presunti colpevoli al di
fuori di te.
Senza
neppure rendersene conto, aveva finito quasi per demonizzare l’inoffensivo
Fernand, attribuendo erroneamente al comportamento di quello strano ed avventato
ragazzo quanto di più cinico la sua mente fosse stata in grado di
articolare.
L’aveva
soppesato gelidamente, a sole poche ore dalla morte di Lucien, il sangue del suo
amico ancora caldo sulla camicia, e, in un guizzo di follia – la follia di chi
sente di dover rigettare il proprio odio su qualcuno –, aveva interpretato il
suo apparente distacco come una sorta di macabro compiacimento della fine di una
persona che non di rado aveva osteggiato le sue
iniziative.
Invece,
Fernand non aveva altra colpa se non quella di essersi avvicinato non troppo
cautamente alla belva ferita e di aver tentato, a modo suo, di riscuoterla e
lenire in qualche modo il suo dolore, per poi ricevere in cambio il rifiuto,
l’indifferenza e il disprezzo.
Quando
Fernand l’aveva accusato di vigliaccheria – o così aveva creduto –, Auguste
aveva perso la ragione: non potendo sopportare l’accusa insita nelle sue parole,
l’aveva colpito, cieco di collera, incurante delle
ripercussioni.
La
veglia per Lucien, gli sguardi ostili su di me, carichi di biasimo e sospetto;
il pensiero che il mio amico non c’è più; il rischio di un’incauta sollevazione
contro il duca, proprio nel momento in cui, prostrato dalla disperazione, ben
poco posso fare per stornare gli effetti deleteri di un’improvvisata ribellione;
e la rabbia dell’essere stato ingannato, mi hanno inflitto il colpo di grazia,
annientando definitivamente l’unica parvenza di senno che mi era
rimasta.
Non
ho visto più nulla oltre lo spesso strato di dolore che mi ha annebbiato la
vista.
Non
ho visto gli occhi di Fernand scintillare di qualcosa che non era disprezzo: ed
era molto più semplice ed immediato leggervi quello e quello soltanto, e
avventarmi su di lui. Ho ignorato la mano che mi ha teso: ho visto ingiustamente
in lui uno sciacallo che approfitta meschinamente della mia
debolezza.
Picchiarlo,
colpire simbolicamente l’arroganza di chi, al culmine della tua follia, ti
sembra guardare con sufficienza ed irridere alla tua disperazione, ti ha fatto
stare meglio?
No,
perché, un istante dopo, quando ho visto sanguinare le ferite che io stesso ho
prodotto, scalfendolo senza pietà e abbattendolo al suolo, ho
desiderato soltanto morire.
Non
devo rendere conto a nessuno di quel che faccio; men che meno ad uno stronzo
come te!
Non
hai detto nulla, Fernand: è il minimo.
È
così: io distruggo tutto ciò che sfioro, come un perverso re Mida. E quanti
provano ad avvicinarsi a me tendendomi una mano ed offrendomi il loro appoggio,
sono coloro che maggiormente pagano il prezzo.
Fernand
non ha colpa se Lucien non c’è più.
Fernand
ha solo provato a soccorrerti.
Ed
io non ho solo ignorato e respinto il suo aiuto, ho fatto di più: l’ho
annientato con uno sguardo, gli ho sputato in faccia tutto il veleno che ho
covato, ingiustamente, per tutto questo tempo.
L’ho
ferito ed umiliato. Sono stato ingiusto con lui. Ingiusto e stronzo, come
sempre.
- È
meglio fargli qualche impacco con acqua fredda; diversamente, domani si
ritroverà un livido esteso su tutta la faccia. Certo che tuo fratello ha un bel
destro, Ambrosie.
La
ragazza sedette sul bordo del letto, accigliata, meditando che forse non sarebbe
stata una cattiva idea trattare il bel faccino di Raphäel
nello stesso modo in cui Fernand si era preso cura di quello di Auguste, e
dimostrargli che, probabilmente, l’attitudine a menar sodo era virtù di
famiglia.
Si
massaggiò vigorosamente le tempie, espirando irritata. La situazione all’interno
della congrega non avrebbe potuto prendere una piega peggiore: ora, il problema
fondamentale non era costituito più da Raphäel, bensì da Fernand ed
Auguste.
Certo,
il tormentato periodo recentemente trascorso aveva gettato impietosamente luce
su una serie di fattori che avevano portato all’esasperazione le spaccature e le
spinte individuali già presenti: la smania vagamente accentratrice di Auguste, i
dissidi con Lucien, la successiva rappacificazione fra i due nel momento in cui,
nell’orizzonte dei ribelli, aveva fatto il suo irruente ingresso Fernand.
Entrambi avevano convogliato le proprie energie nel gestire quel ragazzo troppo
impetuoso.
Ma
la sua visuale cambiava del tutto nel momento in cui, a bruciapelo, aveva
scoperto che tra Lucien e Auguste vi era stato qualcosa che andava oltre il
vincolo dell’amicizia. Da parte sua, la ragazza non era ancora riuscita a
razionalizzare il dato di fatto e dargli la giusta collocazione negli intricati
meandri di alleanze e contrasti nei quali più si addentrava con la mente, più
difficilmente riusciva a tracciare un quadro
coerente.
I
frequenti scontri e dissensi fra Auguste e Fernand non avevano mai assunto una
levatura simile, rammentava Ambrosie, neppure quando era misteriosamente
comparso sulla scena Raphäel. Tuttavia, l’ostinazione in proposito da parte di
Fernand e Auguste, asserragliati sulle rispettive posizioni e intenti a non
concedere all’altro un solo palmo di terreno, era stata quasi decisiva
nell’alimentare il muro che era sorto tra i due e che si era ripercosso
all’interno della stessa fazione.
I
fragili equilibri, già duramente compromessi, non avevano retto alla prematura
scomparsa di Lucien, il quale, in mancanza di obbiettività da parte di tutti gli
altri, troppo impegnati a ribadire le proprie posizioni, sembrava essere rimasto
l’unico capace di riportare una sorta di armonia. La disgrazia, piuttosto che
raffreddare gli animi e spingere i membri del clan a riavvicinarsi, aveva
generato l’effetto diametralmente opposto, ossia far esplodere tutto il rancore
e l’amarezza che Auguste e Fernand si erano sforzati, sino allora, di
contenere.
La
ragazza sospirò: avevano commesso un tragico errore nel non rimandare la
diffusione dei loro dannati opuscoli. Strinse le labbra, pervasa dallo
sconforto: Auguste aveva comprensibilmente interpretato il gesto come una sfida
manifesta nei suoi confronti nel momento in cui era più
vulnerabile.
Avevano
sbagliato tutto: erano stati stolti e privi di riguardo verso ciò che era appena
accaduto.
Il
litigio fra Auguste e Fernand spinto fino alle percosse fisiche, Raphäel,
l’assassinio di Lucien…
Pensieri sempre più opprimenti e confusi convergevano nella mente di
Ambrosie.
La
ragazza si sollevò in piedi, scuotendo la testa: basta! L’intera faccenda la stava
facendo diventare matta, e, dettaglio non propriamente trascurabile, la presenza
di Raphäel non era affatto l’ideale per infonderle la calma necessaria a
sciogliere le proprie perplessità, affrontare il discorso con Auguste e
convincerlo a riconciliarsi con Fernand.
Il
suo sguardo si posò stanco su Raphäel, quando, all'improvviso, riprese forma
dinnanzi a lei la scena della rissa con l’ubriaco della locanda e le balenò
nella mente ciò che inspiegabilmente aveva innescato in lei tanta inquietudine:
quel ragazzo, con la furia di un unico attacco, aveva piegato come un fuscello
un avversario più grosso e più forte di lui, di certo avvezzo a fare a botte
nelle osterie. Era vecchio e ubriaco,
aveva addotto Raphäel come fiera giustificazione.
Ma
Ambrosie non poteva negare di aver avvertito un fremito di puro terrore serpeggiarle lungo la schiena,
quando, nel tumulto, aveva intercettato gli occhi del ragazzo arrossati e
stravolti dall’ira. Rabbrividì: le era quasi parso che, in quel momento, Raphäel
sarebbe stato capace d’incenerire il nemico con il solo sguardo.
Osservò
il corpo del ragazzo: intuì la slanciata eleganza del busto sotto il frusciare
della candida camicia che accompagnava gentilmente i suoi movimenti. Raphäel era
alto e aveva le spalle squadrate, anche se non particolarmente robuste, e la
vita piuttosto fine.
Gli
esaminò le mani: non aveva i palmi induriti e le dita nodose di un alacre
lavoratore, né gli avambracci solidi e abbruniti dal sole di chi coltiva la
terra. Le sue mani somigliavano piuttosto a quelle di un pianista, e i polsi e
le braccia, che la ragazza poté vedere sotto all’orlo delle maniche rimboccate,
avevano un tratto sottile e raffinato. L’unico segno che lo identificava come
uomo del popolo, oltre agli abiti umili, era rappresentato dalle lievi
screpolature sulle dita, tipiche di chi è poco avvezzo a lavorare
duramente.
L’incarnato
pallido del viso risentiva appena delle lunghe ore sotto il sole impietoso, e la
vaga sfumatura rosea sulle guance era la sola nota di colore sulla sua
persona.
Raphäel
non aveva il fisico del picchiatore delle taverne, ma neppure un’apparenza
fragile. Era soltanto un ragazzo forte al quale l’evenienza aveva insegnato a
non farsi massacrare dai prepotenti, rifletté Ambrosie, sebbene la scena di poco
prima l’avesse oltremodo inquietata.
Esaminando
l’espressione gentile sul suo viso e la generosità con cui ora si prendeva cura
di Auguste, bagnandogli la faccia e ripulendolo dal sangue, per un attimo non
riuscì ad attribuire alla stessa persona l’espressione diabolica che aveva visto
aleggiare sul suo volto.
-
Mi spiace per tuo fratello – azzardò Raphäel – Ma stavolta ha oltrepassato ogni
limite.
Ambrosie
annuì, assente. Non poteva dargli torto,
benché lei stessa si stesse sforzando di trovare un punto in comune per
riconciliare Fernand ed Auguste. Pregò in cuor suo che almeno Dorian riuscisse a
persuadere quella testa calda di suo
fratello.
-
Non è così, Raphäel – ribatté Auguste, rivolgendogli la parola per la prima
volta da quando si era consumato il feroce scontro con
Fernand.
-
Auguste – il ragazzo scattò verso di lui – Stai bene?
L’uomo
annuì, distratto. Si sollevò a sedere, massaggiandosi la spalla dolorante in
seguito alla caduta.
-
Credo di sì. Scusate – mormorò – Ero soprappensiero.
Lo
sguardo di Auguste si posò duro su Ambrosie.
-
Sottovaluti tuo fratello. Ha un concetto piuttosto vago di concordia, ma, in compenso, potrebbe
tornare utile per abbattere a suon di pugni le guardie personali del
duca.
Punta
dalla sua aspra ironia, Ambrosie prese fiato prima di parlare, riordinando i
pensieri.
-
Auguste, so che non servirà a nulla, ma sappi che sono molto dispiaciuta per
quanto è accaduto e, sempre che per te abbia qualche valore, sono pronta a
porgerti le scuse anche da parte di mio fratello.
L’uomo
la interruppe con un gesto secco della mano.
-
Lasciami finire, Ambrosie – nei suoi occhi affiorò un’espressione più
condiscendente, quasi rassegnata – Non c’è bisogno che ti scusi in qualche modo.
Non è questo il punto. Fernand ha sbagliato, ma, se non altro, il pugno è
servito a farmi riflettere un po’: sono stato io, da principio, a condurre
all’esasperazione le nostre divergenze e, dopo aver fomentato inconsapevolmente
una serie di reazioni da parte sua, ho proseguito per la stessa strada fino ad
assestargli il colpo finale.
Sul
volto di Ambrosie si dipinse un’espressione
confusa.
-
Perché dici questo? Tu hai soltanto cercato d’impedire che Fernand combinasse
quello che per te sarebbe stato un disastro.
Lo
sguardo di Auguste si posò sull’altro uomo
presente.
-
Perdonami, Raphäel – gli ingiunse – Potrei discutere un momento in privato con
Ambrosie?
-
Non è necessario – s’intromise la ragazza, ma Raphäel si era già avviato
compitamente verso la porta.
Auguste
scosse malinconicamente il capo.
- I
danni sono all’origine, Ambrosie. Il mio atteggiamento nei confronti di Fernand
è sempre stato scorretto: l’ansia di controllarlo e porre un limite alla sua
impulsività mi ha fatto esplodere la situazione fra le mani. Fernand non ha
visto in me un alleato, ma un nemico che cercava di manovrarlo, e ha preso le
distanze. Per tutto questo tempo, non ho fatto altro che osteggiare ogni sua
iniziativa e, peggio di tutto, umiliarlo, ed ho inasprito sempre di più i nostri
rapporti. E quando Fernand ha cercato di avvicinarsi a me, io l’ho sempre
respinto ed ignorato. Non è del tutto colpa sua: non ha creato lui questa
situazione, e forse non l’ha mai voluta. Ma ora che finalmente sono riuscito a
farmi odiare, non vedo alcuna soluzione.
-
Fernand ha tanti difetti, ma non ti odia – affermò Ambrosie con inflessibile
sicurezza – E’ l’unica cosa di cui sono certa. Conosco mio fratello e credo di
saper almeno intuire ciò che gli si agita nella mente. Cerca di analizzare
lucidamente i fatti, Auguste: Fernand non ti disprezza; al contrario, ha quasi
una venerazione nei tuoi confronti, al di là di quel che può apparire. Il tuo
comportamento apparentemente ostile gli ha fatto perdere la testa. Pensa ai suoi
gesti, avventati e discutibili quanto vuoi, alla luce di ciò: la prospettiva
dell’accaduto cambia radicalmente.
-
Dopo questo, Ambrosie? – Auguste sollevò un sopracciglio, scettico – Lo pensi
ancora? Non credo che Fernand possa più nutrire uno straccio di stima e di
rispetto nei riguardi di una persona che affibbia una frustata dietro l’altra al
suo orgoglio. Quale sentimento farebbe maturare in te, Ambrosie, anche con le
più buone intenzioni di questo mondo, una persona capace di farti solo del male?
Che tu lo desideri oppure no, il dolore che procuri, legittimamente, non può che
richiamare l’odio verso quella che è la causa della propria
sofferenza.
Ambrosie
tacque per qualche istante, turbata dalle sue affermazioni. Il ragionamento di
Auguste, come sempre, racchiudeva in sé una logica disarmante, per quanto la
ragazza si sforzasse di coglierne le intrinseche contraddizioni. Nonostante
questo, non riusciva a far combaciare idealmente le congetture di Auguste con le
motivazioni di fondo che avevano spinto il braccio di Fernand a
colpirlo.
Il
discorso non fa una piega,
rifletté: ma non è questo il caso di
Fernand.
- I
tuoi intenti non erano cattivi, Auguste. Fernand capirà che da parte tua non vi
è mai stato disprezzo verso di lui, e che volevi soltanto proteggerlo dalle
conseguenze di un’azione rischiosa.
-
Io parlo della nostra situazione in generale, non esclusivamente a quel che è
successo oggi. Ho tirato la corda troppo a lungo, con lui: cosa può avergli
dimostrato, tutto ciò? Una persona che lo disapprova in quanto tale e che non si
è mai posta il problema che il proprio atteggiamento lo facesse soffrire: è
questa la realtà. Se, dopo quanto è successo, Fernand mi detesta, ha ottimi
motivi per farlo.
Ambrosie
distolse mestamente lo sguardo, mentre cercava di ritrovare il consueto
slancio.
-
Per questo devi parlargli, Auguste: è stato tutto un malinteso, un dannato
malinteso, capisci? Non commettere gli stessi errori di mio fratello. Se non
provi a risolvere con lui le vostre incomprensioni, non farai altro che
incrementare la portata della questione. Fernand si convincerà definitivamente
che tu lo disprezzi, ed i vostri contrasti non si saneranno più. Soffrirete:
neppure mio fratello voleva la vostra inimicizia.
-
L’ho compreso troppo tardi. Ho avuto bisogno di un pugno in piena faccia che mi
schiarisse le idee. Lui non desiderava essermi ostile. Io, piuttosto, ho fatto
tutto quel che potevo fare per meritarmi tutto il suo
risentimento.
-
Parlerò con mio fratello – Ambrosie si alzò in piedi di scatto, spazientita –
Siete entrambi così ottusi da tenere per voi le vostre astruse conclusioni in
proposito, senza confrontarvi in modo costruttivo; preferite soffrire e farvi
del male l’un l’altro.
-
Lascia stare, Ambrosie. Chiederò perdono a Fernand: almeno questo, glielo
devo.
-
Non sei l’unico a doversi far perdonare qualcosa – mormorò la ragazza,
accennando con lo sguardo al livido violaceo che si stava formando sotto
l’occhio di Auguste, vicino al naso.
L’uomo
s’infilò nuovamente la giacca, pronto ad abbandonare quel luogo orribile.
Sospirò, esasperato.
-
Non so cosa fare con lui, Ambrosie: è la verità.
-
La differenza fra me e te, Auguste – azzardò la ragazza – è che vediamo la
situazione da due angolazioni opposte. Ma credo di conoscere meglio di te mio
fratello – puntualizzò – Tu, come Fernand, sei convinto che questo scontro abbia
suggellato irreparabilmente la vostra inimicizia. Tra voi ci sono pesanti
incomprensioni, eppure non vedo l’ombra del rancore. Pensa un po’ a tutta la
situazione da questo punto di vista: la lite ha fatto sì esplodere le vostre
fragilità e incertezze; ma credo che uno sfogo apparentemente distruttivo, in
questo caso, potrebbe porre le basi affinché possiate chiarire le vostre
ostilità e riuscire finalmente a comprendervi, senza travisare i reciproci
atteggiamenti e tormentarvi a vicenda.
-
Il tuo ragionamento non è inesatto, Ambrosie. Ma guarda quel che è accaduto:
l’ho picchiato, capisci? L’ho avvilito. Gli ho gettato addosso nel modo più
eloquente un rancore che, l’ho capito solo un istante dopo, non aveva ragione
d’esistere.
-
Con le parole avresti potuto fargli ancora più male. Certo, questo non
giustifica che l’abbia schiaffeggiato.
-
Non pretendo assolutamente che Fernand mi perdoni. Sarebbe già un passo
considerevole se non abbandonasse definitivamente la nostra associazione, magari
continuando a portare avanti la sua causa autonomamente: è sempre stato il suo
sogno. Ma penso che nemmeno in quel caso si libererebbe tanto facilmente di me –
ammise, una punta d’imbarazzo a velargli lo sguardo triste – Credo che riuscirei
a stargli ugualmente addosso per proteggerlo dalla sua
incoscienza.
-
Hai davvero così poca fiducia in lui? – insinuò Ambrosie, graffiante, mentre,
quasi aggrappata alla ringhiera, discendeva con circospezione i rozzi ed
irregolari scalini di pietra.
-
Ne abbiamo già discusso, Ambrosie – la precedette Auguste, anticipando l’attacco
che la ragazza era in procinto di sferrargli – Ho capito il mio errore e,
soprattutto, ho compreso che la situazione attuale deriva innanzitutto dai miei
atteggiamenti: Fernand ha commesso l’ennesima imprudenza nel tentativo di
svincolarsi da qualcuno che gli teneva il fiato sul collo. Non interferirò più
nelle decisioni di Fernand, ma non per questo lascerò che si getti liberamente
nelle fauci del lupo. La mia non è diffidenza nei suoi confronti: ho intuito la
piega che sta prendendo il suo atteggiamento e so a cosa può
condurlo.
-
Non riesci proprio a mutare atteggiamento con lui?
-
Non ce la faccio. Fernand è capace di spiazzarmi anche soltanto aprendo bocca. È
libero di odiarmi e di disprezzarmi: non ha torto. Io ero come lui, fino a non
molto tempo fa: imprudente, sconsiderato, coraggioso fino all’avventatezza…
Volevo tutto e lo volevo subito. Mi dicevo di essere disposto anche a morire per
la nostra rivoluzione. Capisci? Sai a cosa sarebbe tornata utile la fine
gloriosa del giovane Auguste, sacrificato sull’altare di una libertà che ancora
non esiste? A nulla. Lucien mi ha insegnato ad affrontare la situazione non come
un ragazzino incosciente, ma come un uomo. Ed è una vita che io ci sto
provando.
La
superficie degli occhi di Auguste luccicò di disarmante malinconia. Le iridi
d’antracite, per un istante, divennero così fonde e cupe da richiamare in sé
l’abisso di sterminato dolore in cui la sua stessa anima sembrava essersi
smarrita, fluttuando in un limbo oscuro che assumeva tratti sempre più
infernali.
Ambrosie
temette per un attimo che Auguste stesse per piangere e gli posò debolmente una
mano sulla spalla.
- A
volte chinare momentaneamente il capo e lavorare nell’ombra per un progetto più
grande comportano maggior sacrificio che sventolare la bandiera del ribelle ed
immolarsi gratuitamente per un ideale – la voce di Auguste tremò, arrochita dal
pianto che gli bruciava in gola, mentre ripeteva le parole di Lucien – Fernand
non è molto diverso da me.
Ambrosie
si strinse mestamente nelle spalle, mentre Auguste, al suo fianco, inghiottiva a
fatica le lacrime.
Capisco
come ti senti, Auguste. Ed io non sono in grado di darti l’aiuto di cui avresti
bisogno. Ho soltanto tirato fuori ad una ad una le tue debolezze, dopo averle
ricercate con una lanterna in mano: non so quanto questo sia servito a farti
stare meglio. Ho suscitato in te il senso di colpa nei confronti di Fernand, e
non era ciò che volevo.
Io
desidero soltanto che le ferite che tu e mio fratello vi siete procurati si
rimarginino. Perché voi, ragazzi, siete tutto ciò che resta di me, l’unico punto
fermo della mia vita che scorre inutile, senza che io la avverta su di me e la
comprenda, ma lasciandomi andare passivamente ad essa. Sono brava a portare
impietosamente alla luce le vulnerabilità altrui, ma se mi fermassi un attimo e
guardassi dentro di me, non avrei di che rallegrarmi.
La
differenza fondamentale tra noi è che voi vivete, amate, odiate, sperimentate
sulla vostra pelle la gioia ed il dolore. Io vivo, gioisco, soffro, ma di
riflesso: m’ingerisco quasi di prepotenza in questioni che, fino a non molto
tempo fa, poco avevano a che fare con me e con la mia vita, pur di restare in
piedi.
Io
voglio vivere. Voglio vivere, provare l’ebbrezza del rischio che buttarsi a
capofitto nella vita comporta. Ma ho paura. E non ho
certezze.
- È
meglio che tu vada a riposare – la voce di Ambrosie aveva assunto una sfumatura
più dolce, benché venata di un’incomprensibile
inquietudine.
Auguste
annuì con un mezzo sorriso, immobile dinnanzi al portone della sua dimora. La
strada era letteralmente scivolata sotto i suoi piedi durante il tragitto senza
che egli se ne rendesse conto, quasi i suoi passi, sinora, si fossero agitati
sospesi nella nebbia.
-
Domani mattina mi aspetta la prova più dura: il funerale di
Lucien.
Pronunciò
le ultime parole con voce quasi priva d’espressione, come se gli strascichi di
dolore l’avessero ripiegato su se stesso, prosciugando ogni sua energia e
instillando in lui una cupa rassegnazione.
-
Stavolta non ti abbandono – lo rassicurò la ragazza.
Auguste
rigirò lentamente la chiave nella serratura.
-
Dovrei riaccompagnarti a casa, Ambrosie. Sta imbrunendo.
-
Non è necessario – declinò la ragazza – è appena ad un isolato di distanza. Me
la caverò.
Ambrosie
si diresse verso casa.
Il
sole era tramontato da un pezzo, e sulle strette e polverose vie incombevano le
ombre della sera, intercalate qua e là dalla luce pallida dei lampioni. Qualche
debole bava di vento tentava di spazzare via i sottili nastri di nebbia che
erano calati sulla città insieme ad una notte priva di
stelle.
Raphäel
era già andato via, rammentò la ragazza, quando aveva lasciato la locanda in
compagnia di Auguste. Non avrebbe voluto estrometterlo così bruscamente dalle
loro discussioni, ma Auguste era stato categorico.
Sospirò:
era già sufficiente che lei si fosse presa il lusso di soppesare sfacciatamente
le azioni ed i sentimenti altrui. Ma si trattava di suo fratello e di Auguste,
un uomo che stimava profondamente.
Si
trattava di loro. In quel momento, loro rappresentavano la sua famiglia, il
suo punto fermo e l’unica parte di mondo che ruotasse intorno a
lei.
Senza
i ribelli, Ambrosie era polvere, era un’ombra stanca che si affannava ad
inseguire il nulla.
Raphäel …
La voce della ragazza si spezzò nei suoi pensieri. Perché sei distante? Non fai che sfuggirmi.
Sfuggi ad ogni parvenza di controllo. La tua vicinanza mi mette addosso un
brivido che non riesco a spiegarmi, ma la lontananza mi
distrugge.
Sei
piombato sulla mia esistenza come un uragano; ed io non avevo alcuna certezza
come arma di difesa.
Non
è possibile!
Dovrei
fuggire. Fuggire, prima che sia troppo tardi. Invece, continuo ad avvicinarmi
alle fiamme come una ragazzina capricciosa che sfida impertinente il
Fato.
Vivere
non significa necessariamente poter operare con serenità le proprie scelte. Ed
io non ne ho la forza. Non ho la forza di lasciarmi
andare…
Rivide
il suo modesto appartamento nel quartiere popolare. Le tende di un delicato
color crema e la malinconia dei suoi ospiti appesa alle pareti
immacolate.
Almeno
stavolta, poteva risparmiarsi di dover starsene in pensiero per suo fratello:
sapeva che con Dorian era al sicuro, al sicuro da quel che all’esterno si
complottava per loro.
Dorian
non era tornato all’osteria: era impossibile che non fosse riuscito a
raggiungere Fernand. Evidentemente, l’opera di convincimento si era rivelata più
problematica del previsto.
Eppure,
non riesco a star bene. Non sto bene.
Le
dita sottili della ragazza catturarono la stoffa impalpabile delle tende. Le
ginocchia le cedettero. Pianse.
Il
mio cantuccio:
Buonasera!
Ebbene sì, non sono stata molto puntuale con gli aggiornamenti, devo ammettere.
Si tratta, stavolta, di un capitolo, per così dire, “di passaggio”, ma spero
ugualmente che apprezzerete.
Ringrazio
tutti coloro che continuano a seguire “Noir Trésor”, anche senza aver ancora
lasciato un commentino.
In
particolare, tra coloro che leggono e commentano NT,
ringrazio
Cami:
bentornata, carissima! Sono felice che NT non stia deludendo le tue aspettative!
Beh, per quanto riguarda la questione degli impegni universitari, non potrei
darti torto, soprattutto adesso che ci sono dentro anch’io! È faticoso
conciliare gli aggiornamenti delle proprie fiction (viaggio nella media di due
aggiornamenti al mese, quando va bene), lettura delle fiction preferite ed
incombenze di studio.
Al
prossimo aggiornamento!^^
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Capitolo 13 *** Capitolo 13: Sbronza triste ***
Capitolo
13
Sbronza
triste
Fernand
corse all’impazzata, senza meta. La brezza tagliente frustava impietosa il suo
viso. Fuggiva: la sua corsa rabbiosa gli aveva regalato l’illusione di poter
disperdere nel vento il dolore che gli appannava i sensi.
Oltrepassò
alla cieca le strade grigie che scorrevano come ombre sotto i suoi piedi; ignorò
il tumulto dei passanti affrettati che incrociavano il suo cammino, l’aria dal
sapore di fiele che gli penetrava con prepotenza nei polmoni, i vicoli angusti e
solitari e la tetra solitudine che gli mordeva l’anima.
-
Guarda dove vai, razza di sciagurato! – lo apostrofò duramente un mercante che
rincasava dopo una lunga giornata di lavoro.
Urtandolo,
per poco non aveva ribaltato il carretto con la mercanzia che lo sconosciuto
trasportava con zelante fatica.
Ma
a Fernand non importava nulla di ciò che si agitava e si muoveva al di fuori di
sé, da quando il suo mondo si era configurato chiaramente per lui nei begli
occhi scintillanti d’odio che Auguste gli aveva incollato addosso, un istante
prima di atterrarlo con un manrovescio carico di quella collera e quel rancore
che gli aveva serbato per mesi, chiuso nel suo astioso silenzio, e che soltanto
allora gli aveva scaraventato addosso con la furia bruciante di un anatema.
Fernand l’aveva compreso soltanto allora.
Lo
zigomo colpito bruciava come marchiato a fuoco, mentre il vento infieriva
crudele sulla sua carne e sul suo animo straziato.
Arrestò
la sua corsa solamente quando, sostenendosi disperatamente alla parete di un
edificio ruvida e priva d’appigli, realizzò che un ulteriore passo l’avrebbe
schiantato al suolo, stroncato dalla fatica.
Le
gambe non gli ressero, tanto che in una manciata di secondi si ritrovò
accasciato in un cantuccio della strada polverosa. In quel vicolo così fosco,
tetro, squallido e claustrofobico poteva idealmente rispecchiarsi il suo animo
strappato da una forza oscura che gli spezzava il respiro. Ignorando le membra
doloranti ed i palmi delle mani escoriati, Fernand lottò per riprendere a
respirare regolarmente e soffocare i singulti di pianto che si sovrapponevano
prepotentemente all’intenso ansimare e al battito convulso. La sua mano corse ad
artigliare affannosamente il petto dolorante che si alzava e si abbassava nello
spasimo, quasi il cuore fosse in procinto di sfondare la prigione della cassa
toracica, anelando la libertà.
Si
passò nervosamente una mano sul volto congestionato, madido di lacrime e di
sudore: il mondo aveva ripreso a ruotare vorticosamente intorno ai suoi occhi,
nel caleidoscopio di confusi bagliori che lo schermo delle lacrime proiettava
dinnanzi a sé.
Le
sue dita si strinsero intorno alle sbarre sottili della bassa finestra in linea
con il piano della strada che permetteva alla fioca luce della sera di
illuminare il seminterrato sottostante.
Maledetto,
sibilò. Maledetto, schifoso
bastardo!
Ti
odio. Ti odio, perché nessuno, prima d’ora, mi aveva mai inflitto tanto dolore
con un semplice sguardo, condito da un’umiliante
percossa.
Chi
sei, maledetto? Chi sei tu, in grado di farmi questo?
Vorrei
provare a odiarti, in verità. Forse, la prospettiva neppure ti
dispiacerebbe.
Vorrei
non poter provare nei tuoi confronti nulla che prescinda dal disprezzo, ma, ora
come ora, so che non farò in tempo ad alzarmi da quest’oscuro angolo d’inferno
che sarò immancabilmente pronto a ricadere nel mio cruciale e tremendo
errore.
Fernand
respirò profondamente, tentando di riscuotersi e di governare i pensieri che si
agitavano incontrollati nella sua mente in subbuglio.
Mi
ha picchiato. Non ha minimamente esitato a colpirmi, spedendomi dritto lungo il
pavimento della locanda, come uno straccio sporco.
Auguste,
chi è, per te, Fernand?
Una
sciagura che ti è disgraziatamente piombata sul capo e che ogni volta ti costa
la fatica di ricondurre al proprio posto.
È
andata così: appurato che i libelli ed i miei discorsi alla locanda avevano
suscitato nella gente l’entusiasmo di opporsi alla tirannia del duca, Auguste ha
avuto paura di questo giovane sciagurato ed ha pensato che il modo migliore per
stornare la tragedia in atto fosse umiliare pubblicamente l’arringatore di
troppo, uccidendo il suo presunto ascendente sulla
folla.
Il
gesto di Auguste racchiude quest’unico significato: tutto qui. Per quanto
concerne me, non vi è nient’altro. Niente che giustifichi la sua
ostilità.
Io,
Fernand, cosa sono per lui, in fin dei conti? Una spina nel fianco, una piaga
infetta da sanare al più presto.
Rabbrividendo,
Fernand sfiorò la mano con cui, di rimando, aveva colpito il volto di Auguste, e
gli parve che il violento impatto gli bruciasse ancora sulle
nocche.
Si
era risollevato, furente. La rabbia, unico alito vitale, era stato il solo
impulso che, in quel momento, l’aveva indotto a puntare i palmi delle mani sul
pavimento e far leva per rialzarsi in piedi.
La
collera più densa: il solo sentimento, potente ed adrenalinico come una scossa,
che in quell’istante aveva provato nei confronti di
Auguste.
Rabbia,
perché non conoscevano altro modo di comprendersi ed interagire, se non
dilaniarsi reciprocamente.
Rabbia,
pura, cristallina, priva di sfumature, perché, in un guizzo di lucidità, Fernand
aveva sbattuto duramente la faccia contro la verità priva di veli: tutto ciò cui
lo stava conducendo il vago sentimento d’ammirazione morbosa ed affetto
incondizionato verso Auguste era la disperazione che quell’uomo gli elargiva a
piene mani.
Solo
dolore, dispiacere, umiliazioni: era l’unico modo in cui quel dannato bastardo
ripagava il suo amore.
Non
riesco a odiarlo, neppure dopo quello che mi ha fatto; la consapevolezza mi
trafigge il petto come mille lame acuminate.
Non
era così che doveva andare. Volevo parlargli; volevo stargli vicino e prendermi
cura del suo dolore. Volevo provare ad essergli amico. Invece, a causa di un mio
capriccio, non ho fatto altro che incanalare la sua collera su di
me.
L’ho
colpito perché ho visto nei suoi occhi la freddezza e l’indifferenza. L’ho
colpito, perché non potevo sopportare un istante di più quello sguardo carico di
disprezzo.
Eppure,
non ho scelto io di amarlo.
Fernand
nascose il volto fra le mani, in un eccesso di dolore.
Una
pioggia sottile prese a conficcarsi su di lui come tanti gelidi spilli che gli
rigavano il volto, mescolandosi al tepore bruciante delle sue
lacrime.
Non
è colpa sua se tutto ciò che è in grado di assicurarmi, come compenso per la mia
molesta presenza, è il dolore, unico risvolto. Ed io non riesco a mantenere quel
distacco che mi consentirebbe di non stare male. Odiarlo sarebbe un balsamo
sulle mie ferite: eppure, non mi è concesso.
E’
un tormento che non conosce sollievo. La sua sofferenza mi si ripercuote
addosso, perché vederlo soffrire e non poter fare nulla per lui è un veleno che
mi corrompe. Senza volerlo, ho ottenuto soltanto di infierire su di lui: nulla
di più.
Tante
volte il suo sguardo si è posato su di me, impenetrabile, ed ogni volta ho
vissuto nel terrore, perché sapevo che ogni suo cenno di riprovazione sarebbe
stato uno schiaffo in pieno volto.
L’unico
sistema di difesa che sia riuscito a mettere in atto per dissimulare l’influsso
che Auguste, inconsciamente, esercita su di me, è stato agire di mia iniziativa
e fingere che il suo giudizio per me non contasse nulla. Ho sbagliato in pieno,
perché lui ha interpretato il mio atteggiamento come astio da
incrementare.
Ci
siamo ingannati a vicenda. Quando crollerà il muro di freddezza e rancore che
abbiamo eretto fra noi?
Fernand
si accoccolò in un angolo squallido di quel vicolo e pianse la disperazione che
in quegli ultimi mesi aveva fomentato dentro di sé, sospeso in un insopportabile
limbo.
La
pioggia fine e pungente saettava in mille scaglie umide davanti ai suoi occhi,
disegnando lievi e caliginose voragini sospinte dal vento ed infilandosi tra i
suoi capelli umidi.
-
L’ho visto. È fuggito da quella parte.
Un
urlo lo riscosse bruscamente dal suo abisso. Fernand si sollevò in piedi,
trafelato.
Un
uomo lo fronteggiava con gli occhi stravolti che lampeggiavano di collera sotto
la bassa fronte bruna ed il cappellaccio calcato sul capo.
Il
mercante che ho quasi travolto: cosa vuole, ora?
-
Restituiscimi il maltolto, pezzo di farabutto!
Fernand
arretrò di un passo, preso alla sprovvista, non riuscendo a schivare il poderoso
pugno che l’uomo gli vibrò all’addome. Contrasse istintivamente i muscoli dello
stomaco, evitando d’incassare in pieno il colpo, ma l’intensità della percossa
fu tale da fargli perdere l’equilibrio e piegarlo al
suolo.
-
Ti ho visto scappare, maledetto – lo sconosciuto lo afferrò di malagrazia per i
risvolti della marsina, strattonandolo e costringendolo a sollevare il capo –
Restituiscimi la borsa, disgraziato, se vuoi conservare integro il faccino da
damerino che ti porti appresso!
Fernand
si ritrovò nuovamente scaraventato contro la dura terra, il volto ferito dalla
polvere. Per un attimo, divenne tutto scuro dinnanzi a
lui.
-
Lascialo andare, o ti ammazzo come un porco! – ruggì una voce, sopraggiunta alle
sue spalle solo in quel momento.
Vide
il braccio del suo aggressore trattenuto da un giovane dai lunghi capelli biondi
che brandiva minaccioso un lungo stiletto, dirigendolo alla gola
dell’uomo.
-
Vattene – soggiunse il ragazzo armato, un sussurro che non ammetteva
repliche.
Il
mercante indietreggiò un paio di passi, il volto livido, fino ad allontanarsi
con passi sempre più spediti, tirandosi dietro il suo modesto
carretto.
- A
proposito: rieccoti la tua roba – Dorian scagliò nella sua direzione una piccola
borsa, che rimbalzò con un tonfo sordo sul selciato – Ti è caduta – precisò con
un velo di sarcasmo, la voce glaciale.
Fernand
si tirò su a sedere, frastornato.
- È
tutto a posto? – Dorian si chinò su di lui.
Non
c’è nulla che stia al suo posto.
-
Sto bene – un sussulto.
Fernand
avrebbe voluto schermare il suo dolore, ricomponendo all’istante l’armatura di
gelo che sempre anteponeva fra le proprie debolezze ed il resto del mondo, ma il
fluire disperato delle lacrime non aveva cessato di solcargli il volto
pallidissimo.
Il
pianto trattenuto dentro di sé era un nodo d’angoscia che gli soffocava il
respiro e lo costringeva alla bocca dello stomaco come un duro fardello. Aveva
creduto che sopprimere le lacrime avesse potuto preservare lo scudo di freddezza
che si ostinava ad innalzare quale baluardo di difesa sulle proprie fragilità.
Parimenti, lo sfogo delle lacrime avrebbe potuto se non altro costituire per lui
un momentaneo sollievo: dolore represso che sgorgava via dal suo animo inquieto
sotto forma di acqua salata che purifica le passioni più contorte e laceranti.
Invece, il liquido rovente che gli irrorava le guance sortiva piuttosto un
effetto corrosivo sul suo cuore.
Il
sangue che cola dalla ferita è soltanto una mera conseguenza che non apporta
alcun sollievo alla medesima.
-
Sicuro che vada tutto bene? – Dorian diresse lo sguardo su Fernand,
esaminandolo.
-
Non è nulla, Dorian – soggiunse il più giovane – Ai pugni nello stomaco ci sono
abituato – ribatté con amarezza.
-
Perché sei scappato? – incalzò Dorian.
Fernand
chinò il capo, il volto in fiamme, evitando quanto possibile lo sforzo di
formulare una risposta.
-
Non capisco, Fernand – Dorian gli cinse le spalle con un braccio, attirandolo su
di sé, mentre con la mano libera scostava la lunga ciocca ondulata che gli era
ricaduta sul viso.
Non
capisco neppure io: cosa pretendi di cavarne fuori?
-
è… difficile. Difficile
accollarsi il disprezzo e l’avversione da parte di una persona che… – Fernand
sollevò gli occhi al cielo, alla ricerca di un termine adeguato – a cui tieni;
la cui considerazione, per te, nonostante tutto è importante.
Capisci?
-
Dovevi restare e costringerlo a ragionare, a costo di prenderlo a pugni.
D’altronde, stavolta Auguste non ha tutti i torti a dire che siamo stati degli
incoscienti nel far scoppiare la bega degli opuscoli in un momento tutt’altro
che favorevole – riprese Dorian, quasi parlando fra sé – Ed è stato folle
illudersi che Auguste avrebbe chiuso entrambi gli occhi.
Svincolandosi
dall’abbraccio che tentava di riscaldarlo, Fernand ancorò uno sguardo tagliente
su Dorian con fare sarcastico ed inquisitore.
-
“Te l’avevo detto, Fernand”? – alzò
gli occhi al cielo, esasperato – A quando l’immancabile conclusione della
faccenda? Mi meraviglio.
-
Non servirebbe a nulla – replicò asciutto Dorian.
-
Cosa non serve a nulla?
Il
giovane dai capelli biondi si portò una mano alla fronte,
disorientato.
-
Recriminare quel che è accaduto.
Fernand
incrociò le braccia sul petto. Benché si sforzasse di sostenere il confronto con
gelida noncuranza, non riusciva ad impedire al proprio corpo di sussultare,
scosso da un violento affanno, né alla superficie dei suoi occhi arrossati di
tremolare sotto lo scintillio delle stille di dolore che lottava per ricacciare
indietro.
-
Dorian, non c’è nulla. Nulla, capisci?
-
Perché non gli hai spiegato le tue ragioni, anziché aggredirvi a
vicenda?
Fernand
sbuffò.
-
Non potevo perdere la faccia ancora una volta.
- E
forse, neppure avrebbe capito – concluse tristemente Dorian in un sussurro – Era
accecato dal dolore e dalla rabbia.
Fernand
si morse il labbro che tremava pericolosamente. Sollevò il capo nel vano
tentativo d’impedire a roventi fiotti di lacrime di scivolare lungo le guance
inermi.
Non
credevo potessi sentirmi così… Confuso, umiliato,
mortificato.
-
Non posso fare nulla. Nulla. Ho gettato al vento l’ultima carta rimasta da
giocare. Potrei tornare indietro, ecco: tornare indietro a qualche mese fa ed
evitare accuratamente d’incrociare la mia esistenza con quella di quel
dannatissimo Auguste de la Garde. Ma non è possibile. Non è
possibile!
-
Ti prego, Fernand, ti prego.
Dorian
chinò mestamente il capo e lasciò che Fernand affondasse il volto nell’incavo
della sua spalla, scosso da spasmodici singulti e vacillante sulle proprie
gambe. Si strinse a sua volta nelle spalle sussultanti del ragazzo,
abbrancandogli la giacca con le dita nervose. Serrò dolorosamente le
palpebre.
Cosa
mi succede? Vi è qualcosa di strano nel non tollerare l’esistenza di qualcosa in
grado di ridurlo in questo stato?
Mi
tremano le mani: se lo sconosciuto che ha osato colpirlo avesse indugiato ancora
qualche istante davanti a me, credo l’avrei ucciso, accecato dalla frustrante
consapevolezza che tornare alla locanda e spezzare qualche osso ad Auguste non
sarebbe utile a nessuno.
Non
serve a nulla: la mia collera gioverebbe poco a Fernand, e non posso
semplificare tutto riversando ogni colpa su Auguste. Dopo tutto ciò che gli è
piombato sulla testa nel corso di soli due giorni, non mi meraviglio che sia
così poco in sé.
Non
sono stato capace d’impedire che il nostro dolore ci si ritorcesse contro,
annullando la nostra volontà di reagire e portandoci a riversare le nostre
angosce gli uni sugli altri. Non sono stato in grado neppure di proteggere
Fernand.
Stiamo
soffrendo tutti, e questo ci spinge soltanto ad esasperare i nostri dissensi.
Perché non ho impedito a Fernand ed Ambrosie di consegnare i maledetti libelli
nelle mani di quella donna senza scrupoli? Perché siamo stati così ciechi, così
presi dalle nostre spinte egoistiche da non curarci di
Auguste?
Non
so neppure come avrei reagito, al suo posto, se dopo la perdita di una persona
cara i miei compagni non avessero saputo far altro che banchettare sopra le mie
sciagure e portare avanti in tutta tranquillità dubbie iniziative: con ogni
probabilità, anch’io l’avrei vissuta come un
tradimento.
Fernand
non ha mai avuto cattive intenzioni nei confronti di Auguste, e così nessuno di
noi. Ma abbiamo peccato solo d’ingenuità.
Perché
neppure l’odio nei confronti di colui che è responsabile dei nostri mali riesce
ad unirci?
Non
ha colpa Fernand né Auguste.
-
Dov’è mia sorella, Dorian?
-
Alla locanda, con Auguste e…
Tacque:
Il nome di Raphäel, in quel momento, sarebbe stato per Fernand un pugno in pieno
petto.
-
Ho già capito – il volto di Fernand assunse una piega risentita – Non contento
di plagiare Auguste, quel cane sta tentando di portare anche Ambrosie dalla sua
parte. Non ha proprio remore di nulla.
-
Basta così, Fernand: cercare a tutti i costi un responsabile non ti aiuterà a
stare meglio.
-
Dici sul serio? In fondo, parte della colpa è sua, se Auguste si sta
allontanando da noi e se Ambrosie sembra nascondere
qualcosa.
-
Lascia fuori Raphäel da faccende che non lo riguardano. In questo momento, il
problema è fra te ed Auguste.
-
Neppure tu puoi fare a meno di lasciarti trasportare dal diabolico ascendente di
quel damerino vestito da straccione che irretisce le gonnelle con il suo musetto
da bravo ragazzo? È così?
Le
mani sottili di Fernand si strinsero sul colletto di Dorian in una morsa
svogliata.
L’alcool
ed il dispiacere gli hanno dato il colpo di grazia.
-
Perché bevi, Fernand? Il vino ti fa smarrire la lucidità.
-
Al diavolo l’alcool, e al diavolo voi tutti!
-
Ti fai del male: dici cose di cui ti pentiresti, agisci in maniera avventata.
Perché, Fernand?
-
Non lo so neanch’io, Dorian: non lo so! – il giovane si strofinò le labbra nel
debole tentativo di eliminare l’aroma d’alcool fastidiosamente incollato alla
bocca – Portami via da questo vicolo ripugnante.
Dorian
lasciò scorrere una flebile carezza sul volto di Fernand, sfiorando pensieroso
il segno che la percossa aveva tracciato sullo zigomo
d’avorio.
- È
solo un graffio – replicò Fernand, con distacco – Aveva un anello o qualcosa del
genere.
Dorian
gli prese affettuosamente il viso tra le mani, squadrandolo con infinita
malinconia.
- A
casa, cercherò qualcosa per medicarti. Ora, andiamo via: la pioggia ti sta
inzuppando da capo a piedi. Hai freddo?
Istintivamente,
fece per sfilarsi il lungo soprabito che lo proteggeva dalla pioggia sottile e
sferzante.
-
Ti ringrazio, Dorian; non è necessario – con un gesto della mano, Fernand
respinse l’offerta – Casa tua non è poi così distante.
* *
*
-
Fernand, mi spiace: purtroppo, nonostante sia ormai maggio inoltrato, nel mio
appartamento, la sera, si gela.
Il
giovane annuì con un cenno del capo, chiuso nei suoi pensieri, osservandolo
distrattamente sfilarsi il cappotto gocciolante.
Lo
vide dirigersi verso il caminetto a riattizzare un fuoco quasi
morto.
-
Siediti ad asciugarti, Fernand: ti prenderai una
polmonite.
-
Devo aver dimenticato il mantello alla locanda – mugugnò il
ragazzo.
Chiuse
gli occhi, assorto, proteggendosi dallo sfolgorio delle fiamme che lo
abbagliava.
- I
tuoi capelli sono fradici – osservò Dorian, tastandogli una ciocca increspata
tra le dita – E la giacca non è ridotta meglio. Ti porto qualcosa di
asciutto?
Fernand
si sfilò l’indumento, riponendolo su di una sedia.
-
Lascia stare; non è importante – allungò pigramente le gambe verso il caminetto
acceso – Si asciugherà in fretta. Sono molto stanco,
davvero.
Chiuse
gli occhi, abbandonandosi in un indolente languore, quando Dorian prese a
tamponargli i capelli umidi con un panno pulito.
-
Hai sentito la novità? – riprese a parlare Fernand.
-
Uh?
-
Il duca du Lac ha fatto arrestare alcuni presunti intellettuali dalla lingua
troppo affilata e sottoporre tutte le stampe a censura; come se non bastasse, ha
inviato delle truppe in città: dunque, Noir Trésor è ufficialmente sotto il
presidio dei suoi sciacalli.
-
Già – annuì mestamente Dorian – Ho saputo soltanto stasera: motivo in più per
cui Auguste ha fatto la cosa giusta, almeno una volta, nel far sparire i nostri
opuscoli dalla circolazione, prima che la diffusione divenisse irreparabile e si
estendesse fino a raggiungere le mani sbagliate.
Dorian
intinse il suo fazzoletto di stoffa in un catino d’acqua tiepida e se ne servì
per ripulire la leggera abrasione sul viso di Fernand.
- E
così, ancora una volta, Fernand ha fatto la figura dell’idiota – mormorò il
ragazzo con voce vagamente delirante.
Dorian
trasalì, quando Fernand, distendendo il proprio corpo alla ricerca della
posizione più comoda, gli sfiorò la spalla con la testa, per poi accostarsi
dolcemente a lui. Gli arruffò gentilmente i capelli.
-
Tu ed Auguste vi chiarirete, o vi ci potrei persino costringere. In fondo è
stata colpa dell’incoscienza di quella donnaccia, Madame Bertie o come diavolo
si fa chiamare, se i nostri libelli hanno rischiato di finire nelle tasche
sbagliate. Auguste voleva soltanto proteggerti: ne sono
sicuro.
Fernand
scosse il capo.
-
Lo dici soltanto per cercare di non allarmarmi: ad un primo sguardo, tutto
lascia pensare che Auguste abbia ogni interesse di questo mondo a stornare il
pericolo dai suoi compagni. In realtà, la situazione è più complessa: Auguste mi
detesta, ed ora più che mai.
-
Perché ne sei così strenuamente convinto?
Fernand
scrollò tristemente le spalle, strette nella camicia leggera che si asciugava
lentamente nel dolce tepore che rapidamente si diffondeva nella piccola
sala.
-
Auguste mi sempre disapprovato ciò che facevo e, dacché sono entrato a far parte
di questa fottuta organizzazione, non ha fatto altro che avversare apertamente
tutte le mie iniziative come per partito preso. Inoltre, credo che, giunti a
questo punto, fare un passo indietro sarebbe impensabile: Auguste ha gettato la
maschera, ha dichiarato apertamente il suo disprezzo e, peggio di tutto, credo
mi ritenga in qualche modo responsabile della morte di
Lucien.
Dorian
si volse di scatto verso di lui.
-
Che assurdità è questa? Cosa c’entrano le tue iniziative con
Lucien?
-
Recentemente, le divergenze fra loro si erano in qualche modo placate. Fatto sta
che, nel corso di queste ultime riunioni, ogni qual volta io ed Auguste abbiamo
dissentito su qualcosa, Lucien ha spesso preso le difese del suo amico,
schierandosi esplicitamente contro di me. Auguste non perdona la mia presunta
malevolenza e, quasi quasi, riterrà che io sia in qualche modo compiaciuto della
sua fine. Non lo so, Dorian, è una sensazione a pelle: è dall’altra sera che
Auguste non fa che evitarmi e sembra tollerare sempre meno la mia
presenza.
-
No, Fernand, assolutamente: credo che le spiegazioni stiano
altrove.
-
Hai qualche idea migliore a riguardo? – un’ombra di sarcasmo vibrò per un
istante sul volto di Fernand.
-
Non lo so. Ma escludo a priori che Auguste ti odi. Sarebbe un’ipotesi troppo
fantasiosa: si può odiare l’uomo che dall’alto del suo potere ci opprime e ci
abbandona a noi stessi nel momento del bisogno; di certo, Auguste avrà in odio
chi ha ucciso il suo amico, ma non te.
-
Il fatto, Dorian, è che in fondo abbiamo ucciso noi Lucien. Ognuno ha la sua
parte di colpa. Noi ci siamo esposti, Lucien ne ha pagato il
prezzo.
-
No, Fernand: non ti seguo. Ti stai contorcendo sempre di più nei tuoi
ragionamenti, forse perché vuoi ad ogni costo un pretesto plausibile per
giustificare la tua malata convinzione che Auguste ti
detesti.
-
Cosa te ne dà la certezza?
Dorian
alzò gli occhi al cielo.
-
Non vi è ragione. Dovrebbe guardarti in faccia e decidere di odiarti, ma… Non
sarebbe possibile. Non è possibile.
Lo
sguardo di Dorian scivolò curioso sul viso di Fernand, studiando minuziosamente
ogni sfumatura malinconica dipinta su quei tratti minuti e
raffinati.
Fernand
distolse il volto, a disagio, senza riuscire a scandagliare l’espressione
indecifrabile che l’amico gli rivolgeva, sì da coglierne le
contraddizioni.
-
Stai tranquillo, Fernand: proverò a parlare con Auguste. Quell’uomo avrà pure le
sue pecche, ma sa essere ragionevole.
-
Vorrei tanto chiarire che io non ho mai desiderato nulla di male riguardo
Lucien; e se a volte ho agito in maniera impulsiva, non ho avuto intenzioni
negative. Io… – il ragazzo si raggomitolò su se stesso, gli occhi lucidi – Sto
male, se penso a quel che è accaduto a Lucien: sul serio. Lui… Non meritava
questo. Nessuno lo meritava. Mi spezza il cuore pensare che una persona che ho
conosciuto e stimato non ci sia più; che non la rivedrò mai più. Il mio peggior rimpianto è
certamente il non essere riuscito ad avvicinarmi un po’ di più a lui e a
comprendere le sue ragioni e le sue angosce. So che non mi ha mai apprezzato
come desideravo, ma era sincero. Ed era sempre gentile con me; è stato il primo
a venire in mio soccorso, quando, appena approdato a Noir Trésor, ero come un
cucciolo smarrito e davvero non sapevo dove sbattere la
testa.
Fernand
tirò su col naso, gli occhi arrossati.
D’un
tratto, Dorian si drizzò in piedi, turbato dalla crudeltà del ricordo, quasi a
voler tenere soltanto per sé il suo personale momento di sconforto. Compì il
giro della stanza con passi rapidi ed inquieti, per poi riprendere la sua
postazione al fianco di Fernand. In silenzio, gli circondò le spalle con un
braccio.
-
Che hai, Dorian?
-
Niente – rispose il giovane, riavviandosi nervosamente i capelli – Soltanto un
po’ di mal di testa.
-
Non sono l’unico ad aver alzato il gomito, stasera.
-
Già – rincarò la dose Dorian, affibbiandogli un buffetto sulla guancia – Ma
vorrei che non lo facessi più. Fermati, finché sei in tempo: la disperazione
porta con sé cattivi doni.
- A
volte, Dorian – riprese Fernand – Mi capita di pensare a quanti pericoli
corriamo a causa delle nostre attività, e a quanto Auguste, in questo momento in
particolare, sia vulnerabile e privo di difese. Potrei morire, se di nuovo
accadesse qualcosa ad uno di voi. Qualcuno vuole danneggiarci, ed il fatto che
siamo divisi in un momento così critico non potrà che agevolare le sue future
manovre. Mi viene da rabbrividire. Se soltanto, ancora una volta, non ne avessi
combinata un’altra delle mie, e se qualche volta non avessi dato ascolto al mio
maledetto orgoglio, forse tra noi non ci sarebbe questa spaccatura incolmabile,
e forse non ci ritroveremmo così soli ed esposti al
pericolo.
Dorian
gli rivolse un sorriso benevolo.
-
Questa situazione ti pesa enormemente, Fernand: prima Lucien, ora i dissidi con
Auguste – sospirò – So quanto ti fa star male. Farò il possibile per
riconciliarti con lui: te lo prometto.
Coraggio,
Fernand, dillo; se non a Dorian o ad Ambrosie o a chiunque altro ti sia stato
vicino in questi momenti, almeno a te stesso. Ammettilo con te
stesso.
Io
amo Auguste: è questa la verità.
Fernand
attese in silenzio, lasciandosi andare e aderendo maggiormente al corpo
dell’amico.
-
Dorian?
-
Sì?
-
Perché fai tutto questo?
Il
ragazzo lo strinse maggiormente a sé.
-
Mi fa male vederti soffrire.
Gli
occhi turchesi di Fernand si fissarono su di lui come lanterne, non paghi della
sua risposta. Sorrise, quando due chiazze color porpora infiammarono le gote di
Dorian.
-
Vuoi torturarmi: è così – Dorian gli prese il mento tra le dita – Ti diverti a
mettermi a disagio, come se non ti sia bastato il mio imbarazzo la notte scorsa,
la fatica di riuscire a confessarti che…
Fernand
ammirò in estatico silenzio il volto pallido e teso di Dorian, scrutando quegli
occhi azzurri che bruciavano nei suoi. Scorse lentamente lungo il suo profilo
che si stagliava in controluce nel riverbero del focolare, sulla linea delicata
degli zigomi e del naso sottile ed affilato, vagamente appuntito. Seguì i
mutevoli giochi di luce che la danza delle fiamme proiettava sul suo viso,
accarezzando con lo sguardo i capelli ondulati che sfuggivano dal nastro,
ombreggiandogli le guance.
Lo
sguardo di Dorian scorreva febbrile tutt’intorno, per poi tornare ad indugiare
assetato sul suo, attirato sul suo volto come una
calamita.
-
Ti ringrazio, Dorian. Ti ringrazio… di esserci ora, per me. Sei l’unica persona
veramente amica.
La
bocca di Fernand si posò languidamente su quella di Dorian, schiudendosi in un
umido bacio.
- …
ti voglio bene, Fernand. Non mi lasci nemmeno concludere – gli ingiunse
scherzosamente Dorian, prima di riprendere possesso con voluttà delle labbra
roventi del suo amico.
Cullato
dalle carezze di Dorian, sfinito, Fernand si era assopito sul divano, adagiato
tra il morbido schienale ed il calore del corpo dell’amico che aderiva al
suo.
Le
dieci. Così tardi… Il tempo è un tiranno, un mostro affamato di vita che non ci
dà tregua.
Dorian
buttò giù le gambe dall’improvvisato giaciglio, avendo cura di non ridestare
bruscamente Fernand dal suo sonno leggero. Si erano addormentati un paio
d’ore.
-
Fernand, svegliati… – gli sussurrò dolcemente vicino all’orecchio, colpendo
inavvertitamente la pelle sensibile con l’erotica carezza del suo
respiro.
Poi,
un insolito particolare catturò la sua attenzione. Gli scostò delicatamente i
capelli dal collo.
-
Fernand!
Il
giovane dischiuse gli occhi e strinse la mano di Dorian, facendo leva per
sollevarsi a sedere.
-
Scusami: devo essermi addormentato – mugolò insonnolito.
-
Solleva un attimo la testa – gli ingiunse Dorian, un’inspiegabile venatura
allarmata nella voce.
-
Ehi, vuoi dirmi che ti prende?
-
Che hai fatto sul collo?
Dorian
sfiorava dolcemente due minuscoli segni rossi che, soltanto in quel momento,
aveva intravisto sul lato sinistro del collo.
-
Che strano! Pensa che, sinora, non mi ero accorto di nulla. Ti fa male
così?
Esercitò
una lieve pressione con le dita.
-
No, al massimo mi fai il solletico – Fernand si ritrasse – Mi spieghi
cos’ho?
Il
ragazzo gli porse uno specchio.
-
Giudica tu.
Fernand
esaminò perplesso i due forellini allineati che spiccavano quasi impercettibili
sulla gola pallida.
-
Non saprei. Mi avrà punto qualche insetto.
Dorian
si strinse nelle spalle, confuso, scosso da uno strano fremito
d’apprensione.
-
Coraggio, dobbiamo andare.
-
Già; prima che mia sorella mi spelli vivo!
-
Ambrosie non mi sembra il tipo di donna che si comporta da mamma-chioccia con i
suoi pulcini.
-
Già – il ragazzo s’infilò il soprabito che Dorian gli porse per proteggersi
dall’umidità della notte – A quest’ora, sempre che non si sia trattenuta con
Auguste, dovrebbe essere a casa e ancora non ha avuto mie notizie. Senza contare
che ognuno di noi, da solo in un simile momento, è una preda appetitosa per i
sicari del duca o per chiunque altro abbia deciso di sbarazzarsi di noi. Temo
soprattutto per mia sorella: non mi va di mollarla a casa o in giro da
sola.
-
Dobbiamo fare in fretta, Fernand: fra mezz’ora c’è il
coprifuoco.
Fernand
sgranò gli occhi.
- È
davvero arrivato a tanto, quel fottuto aguzzino?
Dorian
sollevò un sopracciglio con fare mordace.
-
Sa che i “miserabili traditori” amano congiurare nell’ombra e colpire col favore
delle tenebre come i vampiri, i ladri e gli assassini.
-
Sarà – Fernand si morse un’unghia, soprappensiero, mentre un mezzo sorriso
cospiratore si faceva largo sul suo volto – Tuttavia, se ci pensi bene, questa
situazione può offrirci spunti interessanti.
Dorian
inasprì il suo sguardo.
-
Basta, Fernand. Almeno per il momento, deponi le armi.
Il
più giovane arricciò le labbra, vagamente contrariato.
-
Scherzavo. Hai ragione tu. Abbiamo altro cui pensare.
Fernand
si tirò il cappello sulla fronte, per poi incamminarsi mestamente con Dorian
attraverso le strade buie e tortuose, sulla via di casa.
Il
mio cantuccio:
Buonasera
a tutti coloro che ancora seguono (e apprezzano… Spero!)
NT!^^
Stavolta
mi sono lasciata un po’ attendere, lo ammetto, causa scrittura “su due fronti” e
impegni universitari!
Avrei
voluto preparare qualcosa di più originale come augurio di Buon Natale ai
lettori, ma, come vedete, il tempo è stato davvero “tiranno”; dunque, spero
vivamente che apprezziate lo stesso questo tredicesimo capitolo. Sono contenta
di essere riuscita ad aggiornare prima di Natale: spero che il risultato non
deluda le aspettative.
Al
prossimo aggiornamento e… Buone feste a tutti!^^
|
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Capitolo 14 *** Capitolo 14: Calano le tenebre ***
Capitolo
14
Calano
le tenebre
Ambrosie
si riscosse dal proprio doloroso torpore in un guizzo di disperata lucidità. Si
passò una mano sugli occhi, dissipando con un gesto secco le lacrime che le
avevano intriso il volto e premevano imperiose tra le lunghe
ciglia.
Scosse
la testa come a voler liberarsi da un pensiero insopportabilmente molesto: erano
davvero queste le antiche, vaghe promesse ed illusioni che il suo gelido e
dilagante scetticismo aveva irreparabilmente distorto, trasfigurando dinnanzi a
lei ogni singolo aspetto della realtà che, ora come ora, le appariva pervaso di
un grigio piombo sempre più tendente al nero totale?
Sospirò:
il continuo crogiolarsi nell’amarezza si era insinuato nella sua quotidianità
come una linfa nociva, cristallizzando lentamente la facoltà di recepire la
realtà con la carica di sentimento che essa reca con sé, e che ora giaceva
miseramente sepolta sotto il rigore di un’arida ragione.
Rabbrividendo,
Ambrosie fu sfiorata dal timore di aver perso la capacità di offrire sollievo,
in qualche modo, al dolore che nascondeva accuratamente dentro di sé. Da quanto
tempo, ormai, non piangeva? La tragica ed improvvisa morte di Lucien era stata
capace soltanto di farle inumidire lievemente gli occhi, nulla di più. Per il
resto, il gelo totale: timori taciuti ed una disperazione dal sapore oscuro che
procedeva inesorabile dentro di lei, soffocandole il respiro e minando ogni
slancio ideale verso il resto del mondo che non fosse dettato da stimoli esterni
o forzati.
Era
stata questa, sinora, la sua esistenza? Una recita malriuscita fra scenari
polverosi: vivere la grigia realtà del borgo, troppo stretta dentro la propria
pelle, per poi tentare, un giorno come un altro, di spiccare il volo come un
passero appena uscito dal nido che non tiene in conto in conto l’eventualità di
fracassarsi al suolo; e, una volta raggiunta la meta fisica delle proprie
illusioni, scontrarsi contro un muro di pietra e rendersi contro, proprio
malgrado, di non essere in grado di stabilire alcuna corrispondenza al di fuori
di sé.
Senza
una maschera sul cuore, sarei davvero priva di difese, incapace di reggere con
la sola forza delle spalle il mio fardello.
Cosa
c’è, fuori di queste mura? Vi ho sbattuto la testa più e più volte, inutilmente;
mi chiedo se sia mai una mia colpa o una sorta di strana maledizione, il fatto
di vivere la realtà di riflesso, come dietro ad uno specchio, e non riuscire a
stabilire rapporti con l’altro che vadano al di là della semplice cordialità o
del mero interesse.
Il
fatto è che neppure il pensiero della morte di un amico è stato in grado di
scuotermi dalla mia rigida ed impenetrabile staticità: sono come un fantasma che
rivive la sua vita percorrendola a ritroso senza assaporarla. L’unica cosa,
l’unico pensiero veramente importante che sia capace, di tanto in tanto, di
farmi sputare sangue e lacrime, è costituito unicamente da me
stessa.
Il
peso della mia inettitudine è un affanno così egoistico e deleterio da
monopolizzare totalmente le mie energie, affievolendo su di me persino l’idea
della morte.
Vorrei
che Fernand si facesse vivo al più presto: solo questo; poi, sarò libera
d’infilarmi tra le lenzuola fredde ed aspettare pazientemente che almeno il
sonno rechi con sé una sorta di conforto, vincendo la mia
tristezza.
Un
lieve bussare la distolse dai propri pensieri. La ragazza si diresse spedita
verso la porta. Quasi senza riflettere, fece per sollevare il passante, quando
un improvviso lampo di lucidità le fece abbandonare l’immediato proposito. Una
fredda sensazione di terrore, istintivamente, la fece
arretrare.
-
Sei tu, Fernand? – la voce tremò.
-
Ambrosie? Sono Raphäel.
Un
misto di sollievo e lieve disagio prese languidamente possesso della sua mente.
Ambrosie si strofinò nuovamente la mano sugli occhi, nel disperato tentativo di
cancellare gli ultimi segni di pianto.
Non
mi vedrai piangere. No.
Ignorò
i propri capelli che, sfuggiti dall’improvvisata impalcatura di forcine,
ciondolavano in folte ciocche sulla schiena ad ogni suo
movimento.
Perché
ciò che in un determinato momento sembra essere in grado di procurarmi una sorta
di gioia fuggevole, inspiegabile ed inebriante, è inesorabilmente destinato a
finire annacquato nell’angoscia che prende il
sopravvento?
La
ragazza aprì con circospezione, quel poco che bastò a permettere l’ingresso al
ragazzo dal soprabito scuro schizzato di pioggia. I lunghi capelli arruffati gli
ricadevano scomposti sulle spalle, intrisi d’acqua, e sul volto risoluto vi era
una sfumatura inaspettatamente allarmata.
-
Cosa fai in giro a quest’ora, Raphäel? Non sai del nuovo decreto del duca? –
proruppe Ambrosie.
Raphäel
scosse impercettibilmente le spalle, mentre una piega ironica gli percorreva
fugace le labbra pallide.
-
Una persona che negli ultimi quattro anni della sua vita non ha fatto altro che
muoversi da cospiratore sotto una tirannia, sa quali accorgimenti adottare per
aggirare gli ostacoli ed evitare di farsi sorprendere in
flagrante.
La
ragazza annuì distrattamente.
Continui
a non raccontarla giusta. Cosa ti spinge qui, Raphäel?
-
Fernand non ha ancora fatto ritorno? – incalzò il ragazzo.
Ambrosie
scosse il capo in segno di diniego, mentre il timore che qualcosa non fosse
andato per il verso giusto, ancora una volta, prese a farsi strada in lei come
un veleno che, gradualmente, comincia a scorrere nel
sangue.
-
Non credo sia il caso di… – per un attimo, il suo sguardo si soffermò
tristemente sul volto di Raphäel.
Tacque
prima di lasciarsi inavvertitamente sfuggire qualcosa di poco
gentile.
Il
ragazzo parve intuire il suo pensiero ed annuì con imperturbabile
rassegnazione.
-
Hai perfettamente ragione, Ambrosie: in questo momento, forse sono l’ultima
persona che tuo fratello ha intenzione di trovarsi di
fronte.
Se
è così, dunque, perché sei qua?
-
Sono preoccupato per Fernand – la precedette Raphäel.
-
Sono sicura che Dorian sia riuscito a recuperarlo e a parlargli – soggiunse la
ragazza, tentando di alleggerire l’atmosfera opprimente – Ma ora entra e siediti
a scaldarti, Raphäel – indicò con la mano il focolare – I tuoi abiti ed i tuoi
capelli sono fradici.
Ambrosie
si strinse istintivamente nelle spalle, mentre il suo sguardo scorreva
distrattamente sulla figura di Raphäel e seguiva i movimenti nervosi ed
aggraziati delle dita sottili del ragazzo che provvedeva a slacciare i bottoni
della giacca. Il chiarore della fiamma conferiva al suo viso un aspetto quasi
etereo.
La
ragazza accostò le mani l’una all’altra, palesemente a disagio, tentando di
scaldarsi nel tepore del fuoco acceso. Il silenzio che avvolgeva la stanza stava
diventando ingombrante.
-
Vado a prendere del vino – annunciò.
-
Non capisco cosa stia prendendo a tuo fratello – Raphäel scrollò istintivamente
il capo, dopo che Ambrosie gli ebbe porto una coppa di denso liquido color
cremisi.
-
Non so cos’abbia in mente, ma, ad essere sincera, un po’ mi preoccupa. Non mi
piace l’atmosfera che si respira ultimamente: è come se tutto ci piombasse sul
capo all’improvviso, senza lasciarci neppure il tempo di trovare un riparo.
Spero che Fernand e Dorian si facciano vivi al più presto e che, nel frattempo,
non siano andati alla ricerca di qualche nuova grana.
-
Hai visto come si è scagliato su Auguste? – rincarò la dose Raphäel, alludendo
direttamente alla lite della locanda – Sembrava furibondo. Mi spiace che sia
così difficile, per lui, accettare questa situazione; e mi pare di comprendere
in modo piuttosto chiaro che il mio ingresso nella congrega abbia contribuito ad
infiammare gli animi.
-
Fernand non ce l’ha con te – lo interruppe Ambrosie, quasi meccanicamente –
è soltanto un po’… diffidente. Ha
bisogno di certezze.
-
Non credo sia il solo motivo della sua ostilità. Ho la sensazione che sin dal
primo istante tuo fratello si sia impuntato inflessibilmente contro ogni
proposta di collaborazione fra le due associazioni. Quando, poi, si è ritrovato
costretto a fare i conti con Auguste e Lucien… Beh, credo che questo l’abbia
esasperato nell’inasprire le sue posizioni.
-
Fernand teme che la situazione degeneri – intervenne prontamente la ragazza –
Non per causa tua, Raphäel. Io sono fermamente convinta che il nodo del problema
dipenda esclusivamente da Auguste e Fernand e dalle loro ataviche divergenze.
Non penso che Fernand nutra personali rancori nei tuoi confronti, ma, al tempo
stesso, dopo tutto quel che è stato detto e fatto, non credo sia disposto ad
ammettere con tanta leggerezza che Auguste aveva ragione.
Ambrosie
chinò il capo, distogliendo lo sguardo: sapeva quanto il suo indefesso
ingegnarsi ad imbastire pallide giustificazioni a quel che, ormai, era diventato
troppo chiaro agli occhi di tutti per poter essere facilmente dissimulato, non
sarebbe stata un’impresa da poco. Ancor meno lo sarebbe stato convincere Raphäel
che Fernand non gli serbasse aperto risentimento.
Sospirò
tristemente: non poteva certo andare a raccontare al diretto interessato che suo
fratello, molto più credibilmente, non aveva mai visto di buon occhio il
rapporto che si era instaurato fra loro, e l’unica cosa che desiderava in
proposito, al momento, era far sì che Raphäel Lemoine si eclissasse dalle loro
vite così come vi era piombato, prima che nascessero ulteriori implicazioni. La
vera ragione della malevolenza da parte di Fernand, ora come ora, non era
imputabile ad altri se non a lei e Raphäel ed al loro ambiguo
rapportarsi.
-
Fernand ed Auguste sono un dato di fatto – annuì il ragazzo, pensoso – Ma ciò
non esclude che i miei rapporti con tuo fratello non siano mai stati
particolarmente amichevoli.
-
Credo sia una mera questione d’orgoglio, Raphäel: Fernand non tollera di essere
stato osteggiato e messo da parte da Auguste.
-
Io e lui non siamo mai stati amici, Ambrosie – precisò il ragazzo, socchiudendo
stancamente gli occhi – E davvero temo che mai lo saremo.
Quattro
secchi colpi vibrati dall’esterno al portone d’ingresso, per la seconda volta,
consentirono provvidenzialmente ad Ambrosie di spezzare la languida sensazione
d’attesa e sospetto che aveva attanagliato entrambi.
-
Sono loro – dichiarò Raphäel con voce atona.
La
ragazza avvertì l’affermazione del ragazzo vibrarle nella mente, mentre si
accingeva ad assicurarsi dell’effettiva presenza di Dorian e Fernand e ad aprire
loro l’ingresso.
-
Fernand, tutto a posto? – Ambrosie si gettò al collo del fratello – Dobbiamo
parlare – soggiunse con circospezione.
-
Più tardi – le sussurrò Dorian, alle sue spalle, con un vago gesto della
mano.
Dorian
si diresse verso il salone, abbozzando un mezzo sorriso ed un cenno di saluto a
Raphäel. Fernand fece il suo ingresso subito dietro di lui, per poi fermarsi
basito in capo a pochi passi.
-
Ehm…
I
due contendenti si squadrarono in silenzio per una lunga manciata di secondi, in
un torbido miscuglio d’imbarazzo ed ostilità.
-
Salve, Raphäel – fu Fernand ad interrompere il pesante scambio di occhiate che
per un breve istante aveva quasi cristallizzato l’atmosfera intorno a loro,
senza premurarsi che il proprio scostante saluto suonasse di particolare
calore.
Ambrosie
si schiarì la voce prima di apprestarsi a parlare, ed una rapida occhiata sui
volti dei presenti fu sufficiente a farle percepire con vertiginosa intensità la
crescente tensione che pervadeva la stanza.
-
Raphäel, Dorian. Credo sia meglio non vi avventuriate ancora per le strade,
sotto il coprifuoco. Dunque, per farla breve, accettate la nostra
ospitalità.
-
Sono d’accordo con Ambrosie – assentì prontamente Dorian, sorridendo prima in
direzione della ragazza, poi di Fernand.
Cogliendo
la sottile allusione alla notte precedente, trascorsa in compagnia di Dorian, il
ragazzo si sentì avvampare. Chinò il capo, seguendo il gioco mutevole delle
fiamme che volteggiavano in cima all’esiguo cumulo di legna e brace: un’altra
notte con Dorian a pochi passi da lui non poteva essere propriamente definita
una scelta tranquilla. Per un attimo, gli balenò nella mente la terrificante
eventualità di essere sorpreso da sua sorella – o, peggio, da Raphäel Lemoine –
con le labbra di Dorian incollate alle sue, mentre una mano si faceva strada
dentro la sua camicia. Un rischio irrisorio, a ben vedere, in confronto a quel
che sarebbe accaduto, nell’ipotesi peggiore, se soltanto avesse scorto con i
suoi occhi Raphäel sfiorare sua sorella. Represse all’istante le folli
supposizioni che l’alcool ancora in circolo nel suo corpo gli aveva fatto
partorire, mentre, al solo pensiero, sentì le mani formicolargli e il sangue
ribollire nelle tempie.
-
Un’idea fantastica! – replicò acidamente, storcendo le labbra in un’espressione
sarcastica – Dato che abbiamo un po’ di tempo da trascorrere, potremmo sempre
inaugurare un nuovo modello di vita comunitaria, come tanti piccoli monaci –
concluse.
-
Hai forse un’idea migliore? – lo rimbeccò Ambrosie, scoccandogli
un’occhiataccia.
-
Non credo sia una cattiva intenzione evitare di isolarci, dopo quanto è successo
– ribadì Dorian.
-
Per me può andar bene – mormorò impassibile Fernand, di spalle, intento a
versarsi un bicchiere d’acqua, obbligandosi a mantenere la
calma.
Ambrosie
e Dorian abbandonarono la stanza e, in silenzio, si diressero a preparare i
letti per i due ospiti.
- È
quasi un miracolo, Ambrosie! Alla fine, siamo persino riusciti a mettere
momentaneamente d’accordo cane e gatto – le fece il
giovane.
Poi,
assicurandosi cautamente di non essere udito dagli altri due, una venatura
maliziosa a percorrergli sguardo, le insinuò:
-
Se per te va bene, potrei aiutarti a tenere a bada il fratellino, cosicché tu
possa trascorrere in tutta serenità un po’ di tempo con
lui.
La
ragazza arrossì di colpo: possibile che il lieve interesse che sentiva, suo
malgrado, nei confronti di quello strano ragazzo, fosse divenuto così
evidente?
-
Dorian? Va’ pure al diavolo! – gli scandì, apprestandosi a sistemare le lenzuola
pulite.
Fernand
esalò un profondo respiro, accostandosi rigidamente al camino e portandosi il
bicchiere alle labbra.
Poteva
avvertire, ad un palmo da lui, gli occhi di Raphäel scrutarlo al di sotto del
morbido ventaglio delle ciglia scure. Trasse un secondo, intenso sospiro,
cercando di apparire disinvolto e padrone di sé, benché fastidiosamente
osservato e soppesato fino all’osso da due occhi indagatori. Infine, prese
coraggio e si schiarì la voce.
-
Raphäel? Ti spiace se approfitto per parlarti ad un certo proposito? – esordì
con voce piatta.
Il
ragazzo annuì appena.
Fernand
prese per sé un pugno di secondi, scavando nei meandri della propria mente alla
ricerca di una formula indolore attraverso la quale proporre la sua idea
all’interessato.
-
Non mi piace per niente la situazione che si è creata al di fuori e all’interno
della congrega – valutò l’espressione indolente di Raphäel – Soltanto ora mi
sono reso conto di quanto Lucien avesse ragione, quando tentava, invano, di
metterci in guardia e di dissuaderci da iniziative avventate. Nessuno ha preso
sul serio la plausibilità dei segnali che volevano avvertirci che i nostri
delicati progetti non erano più al sicuro. Fino a quando non c’è scappato il
morto, appunto. Capisci cosa intendo dire? Le spie del duca, o forse qualche
banda rivale, potrebbero essere da tempo sulle nostre tracce. Dopo quanto è
accaduto, credo che la soluzione migliore sia sospendere momentaneamente le
nostre manovre ed attendere che si calmino le acque: operare con sicurezza, come
vedi, non è più possibile.
Soltanto
allora, Raphäel si risolse ad incrociare il suo sguardo. Fernand sentì le iridi
scure bruciare insistenti sulle sue.
-
Potresti aver ragione, dopotutto. Ma questi discorsi, credo sarebbe meglio li
affrontassi direttamente con Auguste. Oppure, cerchi in me un alleato? – le
labbra del ragazzo s’incurvarono in una piega vagamente
sarcastica.
Fernand
incassò il colpo e distolse lo sguardo, cercando, ancora una volta, di mantenere
il controllo.
-
Non è questo il punto della situazione, Raphäel – la sua voce tremò appena,
scossa da un singulto d’indignazione prontamente soffocato – Anche tu, se è vero
quanto dici, appoggi un’organizzazione le cui mire sono affini alle nostre,
benché non abbia mai fornito precisi chiarimenti in merito a ciò o riguardo ai
tuoi complici. Se davvero vogliamo allontanarci dal mirino di chi ci stia dando
la caccia, non penso che mettersi su a negoziare improbabili alleanze e
collaborazioni, in questo momento, sia la carta vincente per non attirare su di
noi l’attenzione di chi ci sta braccando da vicino. Credo sarebbe bene, almeno
per il momento, allentare la presa; senza mettere in conto che, unendoci,
offriamo loro l’opportunità di stanarci al gran completo.
-
Un gran bel giro di parole, Fernand, e tutto per intimarmi di farmi da parte? –
il ragazzo sollevò scetticamente un sopracciglio.
-
Stammi a sentire, Raphäel – Fernand alzò gli occhi al cielo con fare esasperato
– Non ti è forse bastato che Lucien ci abbia rimesso la
vita?
Raphäel
gli sorrise, tagliente.
-
Questa è bella da parte tua, Fernand, dico sul serio: citare a tuo favore la
morte di un amico ed usare quanto è accaduto in funzione dei tuoi interessi, per
liberarti in maniera semplice e pulita di chi ti è scomodo. È quasi… – Raphäel
sollevò uno sguardo mordace su di lui, ispirato – Nobile, oserei dire, da parte
tua, uomo della rivoluzione.
Fernand
si sentì fremere. Artigliò duramente il bicchiere che reggeva in mano; le dita
vibrarono pericolosamente sulla presa, facendo ondeggiare il boccale al punto
che il suo contenuto, per poco, non si sparse sul
pavimento.
-
Stammi a sentire, Raphäel! Se ti sforzassi, una volta in vita tua, di guardare
appena più in là del tuo naso, si potrebbe eventualmente riuscire a concludere
qualcosa di concreto. Se ci tieni, sappi che è una battaglia persa in partenza,
da parte tua, la malata pretesa che mi metta a scalpitare per sbandierare la mia
buona fede di fronte ad un essere infarcito di preconcetti sul mio conto che non
vuole schiodarsi dalla mente l’idea - troppo comoda, in fin dei conti, per
essere accantonata con leggerezza - del Fernand estremista ed
accentratore!
- E
quindi, sentiamo: quale sarebbe la scelta migliore?
Gli
occhi di Fernand lampeggiarono alteri.
- A
quanto pare – riprese il ragazzo con voce più calma – non ti accontenti di una
versione edulcorata della realtà – allargò le braccia, teatralmente rassegnato –
Seguimi con attenzione. Io non so che tipo di persona sei, non so cos’abbia in
mente né in che cosa consistano, nella prassi, i tuoi fantomatici propositi, ma
la mia idea non è completamente assurda come sembra: chi ci garantisce che colui
che ha ucciso Lucien avesse proprio noi
nel suo obiettivo? Qualcosa potrebbe farti pensare, dico eventualmente, che
i sicari non stessero cercando noi, ma fossero in realtà sulle tue tracce? I tuoi spostamenti li hanno
condotti, per puro caso, a Lucien, ed il resto, come puoi vedere da te, è
storia.
-
Arriva al dunque – gli ingiunse Raphäel, secco.
Le
labbra di Fernand si arricciarono in un moto sprezzante.
-
è presto fatto: sarai d’accordo
con me, ora, nel riconoscere che la tua presenza potrebbe costituire per noi un
pericolo. Ti darò un consiglio, Raphäel: fossi in te, abbandonerei Noir Trésor
quanto prima, almeno per un po’. Se rifletti un attimo, ti renderai conto da te
che tutti i problemi, per una strana combinazione, sono iniziati nel momento in
cui Auguste ti ha avvicinato. E, se proprio ci tieni, sappi che potrei estendere
il discorso ad una ben nutrita gamma di questioni, come i dissidi fra i ribelli.
Sbaglio, se dico che, da quando sei qui, non hai fatto altro che generare
contrasti a non finire? Come se non bastasse, ogni stabilità vien meno, e tutti,
ora come ora, siamo quanto mai esposti e sguarniti nell’eventualità di un'altra
offensiva. È abbastanza? Certo che tu ed Auguste avete avuto una magnifica idea,
quel giorno: non vi è altro da aggiungere. E ciò che mi fa imbestialire delle
persone come te, Raphäel, non è tanto che attirate guai e controversie come api
al miele, quanto il fatto che coloro che hanno la disgrazia di starvi accanto ne
scontano le conseguenze. E neppure questo è in grado di distogliervi dalle
vostre brighe. Il coronamento della situazione, dopo settimane di atteggiamenti
pericolosi ed ambigui, è che Lucien ora è morto. Ti pare ancora una serie di
coincidenze?
-
Ora basta! – gli occhi di Raphäel si ridussero ad una fessura che a malapena
lasciava filtrare la luce.
I
suoi passi lo condussero verso il ragazzo. Lo sovrastò.
-
Parli come se tutto ti fosse dovuto – proseguì, gli occhi arrossati e
scintillanti di collera – Hai mai pensato che il fattore scatenante della
discordia potresti essere proprio tu? Messa su questo piano, la definizione di
piantagrane potrebbe calzare meglio su di te, credimi. Agisci di testa tua
appena puoi, senza domandare pareri a nessuno; contesti ostinatamente, il più
delle volte a vuoto, tutto ciò che sul momento non ti va giù. Sei quello che più
di chiunque altro causa continue discussioni: all’inizio, vi siete scannati per
bene tu e Lucien, poi è toccato ad Auguste e, infine, è venuto il mio turno, e
sono cascato male. È sufficiente? A volte mi chiedo, Fernand, se davvero
t’importi qualcosa della nostra causa
o se il tuo sia piuttosto un perverso teatrino per catapultare ogni attenzione
su di te. Forse, in particolare, l’attenzione di Auguste.
Fernand
sentì il sangue montargli in volto e dovette controllare l’impulso di
scagliargli addosso il bicchiere che stringeva tra le
dita.
-
Il titolo di lustrascarpe di Auguste non può più sottrartelo nessuno. Cosa dire,
a questo proposito, di uno zerbino che scodinzola come un cane davanti all’osso
per accattivarsi la benevolenza di mia sorella? Adulare il prossimo, del resto,
è tutto ciò che ti riesce bene – gli insinuò Fernand con voce
gelida.
-
Vacci piano, amico mio. È forse un torto, il fatto che la mia presenza sia
gradita alle donne? La tua, anche ai ragazzi, in base alle mie
supposizioni.
Raphäel
non proseguì la sua provocazione, investito da un getto d’acqua gelida in pieno
volto. Il bicchiere finì sul pavimento in migliaia di scaglie di
vetro.
-
Maledetto bastardo… – Fernand sussultò da capo a piedi, il volto cereo e gli
occhi iniettati d’odio – Ringrazia che ho rotto il bicchiere, o non mi sarei
accontentato di battezzarti con il solo contenuto. Ad ogni modo, immagino che
gli uomini d’onore come te agli oggetti contundenti preferiscano le
mani.
Il
ragazzo fece per gettarsi sul rivale, ma il suo slancio furente abortì sul
nascere. Vacillò, tentando di riacquistare l’equilibrio e portandosi
contemporaneamente una mano alla fronte terrea e madida di
sudore.
Il
tono di Raphäel si tinse di una nota allarmata; il suo viso aveva perso
all’improvviso il piglio irriverente, ed il panico si era impossessato di
lui.
-
Fernand! Fernand, che ti prende, ora?
Arretrò
di un passo, quando Fernand, abbandonato il tentativo di sorreggersi
provvisoriamente alla mensola del camino, gli si accasciò
addosso.
-
Fernand, sollevati, ti prego.
Raphäel
lo sorresse per le spalle, cercando di rimetterlo in
piedi.
-
Non… toccarmi… – mugolò flebilmente il giovane, il volto pallidissimo
seminascosto dalle mani e dall’intrico dei capelli
scomposti.
Tentò
di sottrarsi di scatto alla presa di Raphäel, ma, troppo debole per reggersi da
solo, ricadde sulle ginocchia.
-
Fernand…
-
Raphäel – gli sussurrò con una stilla di voce, lottando contro le proprie
palpebre che, minacciando di richiudersi, avevano gettato un nero sipario sulla
porzione confusa e ondeggiante della stanza che scorgeva dinnanzi a
sé.
Le
dita di Fernand artigliarono con fare convulso un lembo della camicia di
Raphäel.
-
Io… ti avverto per l’ultima volta – proseguì – Vattene da Noir Trésor ed evita,
quantomeno, d’includere Ambrosie nelle tue mire. Tu… Devi stare lontano. Lontano
da noi.
Si
sentì risollevare contro la propria volontà da due mani forti, mentre la realtà
intorno a lui si dibatteva nel caos. Il mulinare confuso di voci si confondeva
nella sua mente in una sorta di giostra infernale, facendogli pulsare le tempie.
Fu la stretta di Dorian sulla sua mano ed il tocco confuso sulle gote esangui a
tener vigile la sua attenzione ed evitargli di sprofondare
nell’incoscienza.
Ora
si sentiva più sereno. L’aria fresca gli penetrò nei polmoni. Gli parve di
affondare lentamente nell’oblio, mentre la visuale della stanza diveniva sempre
più ovattata e distante. Le lenzuola candide e soffici sotto le dita, la mano
sottile di Ambrosie stretta alla sua. Sospirò impercettibilmente: stava
bene.
-
Fernand, che ti succede?
-
Non è la prima volta – replicò cupa la ragazza.
-
Sembra svenuto.
-
Fernand, riesci a sentirmi?
Ambrosie.
-
Ti vedo e ti sento – riuscì a replicare – È solo che… sono molto
stanco.
-
Cos’hai, Fernand? – la mano di Dorian gli sfiorò la fronte imperlata di un
madore gelido – Tu non stai bene.
-
Non ho nulla, davvero – si affrettò a ribattere Fernand.
Tentò
di riaprire gli occhi ed allungare una carezza in direzione dell’amico, volendo
istintivamente rassicurarlo, ma la visuale sempre più sfocata davanti a sé lo
dissuase dal proposito.
-
Ho solo bisogno di riposare. Sono stanco – ripeté.
-
Sai dirmi cosa ti senti? – incalzò la sorella.
-
Niente, davvero. Soltanto un po’ di debolezza. È un banale capogiro: te lo
assicuro. Tra poco starò meglio. Passa in fretta… di
solito.
-
In soli due giorni – azzardò la sorella – Non è più tanto normale,
Fernand.
Il
ragazzo mutò espressione, ignorando le sue parole.
-
Ambrosie, ora avvicinati – le ingiunse repentinamente, il debole sguardo color
turchese che tentava di ritagliarsi uno spiraglio fra le palpebre
socchiuse.
La
strinse a sé, per quel che l’esigua forza delle braccia gli permise, finché i
loro volti quasi non si sfiorarono.
-
Non andare via, Ambrosie.
La
voce spezzata e carica d’apprensione s’incuneò nella mente della ragazza,
facendola trasalire.
-
Io… Non me ne vado di qui, Fernand. Ma non capisco cosa cerchi di dirmi… –
mormorò Ambrosie, un debole squittio pervaso d’angoscia.
-
Allontana quell’uomo – le sussurrò Fernand, il volto quasi allucinato, quando fu
abbastanza vicino – Ora. Non permettere che inquini la nostra esistenza
dividendoci e ponendoci l’uno contro l’altro. Allontanalo, prima che sia troppo
tardi, prima che…
-
Fernand, non capisco, davvero.
-
Ti sta avvelenando. Sta avvelenando tutto. Non lasciare che distrugga quel che
ci rimane.
Il
mio cantuccio:
Buonasera
a tutti!^^
Fra
un intervallo e l’altro dello studio matto e disperatissimo, ritorno (non
proprio) puntuale ad aggiornare NT. Non è lunghissimo, come capitolo, ma spero
risulti ugualmente di vostro gradimento.
Volevo
ringraziare i lettori, in particolare hanabi che, con il suo gentilissimo
commento, mi ha fatto infinitamente piacere (soprattutto nel paragonare le
atmosfere di NT a quelle della Rice, scrittrice che stimo tantissimo)! Ringrazio
inoltre chi, sinora, mi ha aggiunta tra i preferiti. Scusandomi per l’ormai
impronunciabile ritardo con cui aggiorno, vi do appuntamento al prossimo
capitolo!^^
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Capitolo 15 *** Capitolo 15: Anime stanche ***
Capitolo
15
Anime
stanche
Accasciato
sul divano con fare indolente, Auguste fissava assorto il soffitto sopra di sé,
le dita pallide e nervose che indugiavano incuranti a ravviare i capelli
arruffati che gli ombreggiavano il volto tirato e privo d’espressione. Trasalì,
quando i suoi occhi intercettarono improvvisamente lo sguardo interrogativo di
Emilie che lo scrutava in viso. Sobbalzò, quasi una presenza estranea ed arcana
fosse giunta presso di lui senza alcun preavviso, furtiva nel cuore della notte,
a spezzare il filo dei suoi incubi.
-
Che hai fatto alla faccia, Auguste? – la voce della donna rimbombò nella sua
testa con lo stesso cupo vigore di una campana che annuncia lo stato di
pericolo.
Soltanto
allora, riscossosi dal proprio angoscioso torpore, l’uomo si avvide che
l’oggetto dell’attenzione di Emilie era l’ematoma che campeggiava sul suo volto,
tracciando una piccola mezzaluna violacea a metà strada fra il naso e l’occhio
sinistro.
Si
morse nervosamente il labbro, mentre la mano scorreva sul volto con
rassegnazione, tastando sotto le dita il mento reso ispido dalla barba di
qualche giorno. Avrebbe preferito far fronte a qualunque cosa: tutto, in quel
momento, ma non rammentare il carico di rancore che la sua ennesima lite con
Fernand gli aveva rovesciato addosso, costringendolo ancora una volta a guardare
in faccia la propria degradazione.
-
Sono caduto – mentì.
- È
lecito, da parte mia, immaginare che tu abbia nuovamente fatto a botte? – lo
precedette la donna, tuonando la sua secca riprovazione.
Auguste
scrollò le spalle con risentita indifferenza.
-
Ho avuto una discussione con Fernand – sentenziò, asciutto, evitando lo sguardo
di Emilie, la quale, a sua volta, distolse il viso con malcelata
irritazione.
-
Anche questo, ora – mormorò la donna tra sé.
-
Ad ogni modo, preferirei non parlarne, se non ti dispiace. Non ora – si affrettò
a troncare il discorso Auguste.
Vide
Emilie indugiare soprappensiero sul proprio volto riflesso nello specchio della
piccola toeletta e sciogliere con un gesto fluido la chioma bruna raccolta in un
nodo sulla nuca, lasciandola ricadere morbidamente sulle
spalle.
-
Ho sentito dire – proruppe in capo a qualche istante, tentando di squarciare
l’insopportabile tensione – che “Madame” ha in progetto una serie d’incontri nel
suo salotto.
- A
voler essere sincero – Auguste ricambiò brevemente il suo sguardo – Non
m’importa molto delle iniziative di quella megera; finché non interferiscono con
le mie, perlomeno. Dopo quel che è accaduto a causa dei libelli e della loro
imprudente diffusione, tutto ciò che desidero a proposito della Bertie è che si
tenga alla larga da tutto ciò che ha lontanamente a che fare con la nostra
associazione.
Lo
sguardo della donna s’inasprì. Calando pigramente la spazzola sui propri
capelli, scrutò il compagno attraverso lo specchio.
-
Non riesci a pensare a nient’altro – mormorò con voce gelida – Ormai, le tue
trame ai danni del duca stanno diventando una specie di ossessione
insanabile.
Auguste
avvertì la laconica e bruciante rapidità della sentenza percuotergli il volto
come una violenta sferzata, la cui fulminea intensità si diradava lentamente in
lui, lasciandogli addosso un lungo strascico d’angoscia. Una sensazione di vuoto
e di doloroso rimorso, non troppo dissimile da ciò che aveva provato un istante
dopo aver schiaffeggiato Fernand, cristallizzò le sue parole in punta di
labbra.
Tacque
e chinò mestamente il capo, ferito.
-
Immagino sia completamente superfluo – rincarò la dose Emilie – Domandarti di
venire con me.
Auguste
sentì un lampo di collera attraversargli repentino le tempie come una rapida
fitta.
Era
davvero rimasto l’unico, fra tutti, a non rendersi conto che il mondo si
muoveva, che le ore scorrevano ed i giorni s’accavallavano l’un l’altro senza
curarsi minimamente se lui si sentisse pronto oppure no a riprendere a
respirare?
Perché
la manifestazione evidente della sua disperazione, così potente da essere
divenuta l’inevitabile prospettiva attraverso la quale si era rassegnato a
raffrontarsi con la sua vita, suonava così tremendamente assurda agli occhi di
chi contemplava dall’esterno la sua miseria?
Perché
nessuno si sforzava di comprendere o, se non altro, di considerare con lucidità
quel che gli ultimi avvenimenti avevano prodotto in lui?
Non
poté trattenersi.
-
Ti sei già risposta da sola – replicò, tagliente – Punto numero uno: non
metterei piede nel salotto… “culturale” di quella donna neppure imbalsamato. In
secondo luogo, preferirei che tu, Emilie, evitassi con me certe provocazioni
ambigue e che parlassi chiaramente.
-
Tu non ci sei mai – sbottò la donna, con fare requisitorio – Non ci sei per me,
non ci sei per nessuno: completamente assente, preso soltanto da te stesso e dai
tuoi ribelli. Cosa sei in questa casa, Auguste? Chi sei veramente? Te lo sei mai
domandato? Non ho torto a credere che tutto questo, per te, non sia nient’altro
che un insensato pretesto per non restare solo, la notte. Cos’altro
rappresenta?
Questo
no si
disse Auguste. Strinse le palpebre, soffocando un eccesso di dolore, rassegnato
alla cruda consapevolezza di ciò che era diventato. Per Emilie, per Lucien… Per
Fernand, che inutilmente aveva tentato di scavare nel torbido della sua
disperazione.
Emilie
aveva ragione: lui non c’era mai stato per nessuno e soltanto ora si rendeva
conto di quanto non fosse mai stato facile, per lei, fare i conti ogni giorno
con una presenza indecifrabile, sfuggente e profondamente lacerata in mille
frammenti di realtà che continuavano a sfuggirle via tra le
dita.
Un
uomo che non la ama: squallidamente, questo è quanto. Sfiderei chiunque a non
essersene reso conto.
È
dura confrontarsi ogni giorno con una realtà che sembra tramarti contro, ridurti
a mera scenografia dell’impronunciabile tragedia che si consuma dinnanzi ai tuoi
occhi, e poi tentare, senza successo, di ricucire insieme i brandelli e di
donare una parvenza di normalità ed una coerenza a ciò che è irragionevole ed
assurdo per antonomasia.
Ma
io non ho più la volontà né la forza per donare amore o qualunque cosa ne possa
rappresentare un debole surrogato. Non ne sono più capace, se mai lo sono stato:
io non so amare nessuno, tranne me stesso, forse. E Lucien.
-
è… successo così di fresco –
esalò timidamente – Dammi un po’ di tempo per accettarlo. Te ne
prego.
Chi
credi d’ingannare, ancora, tu ed i tuoi pretesti?
-
Tutto questo non penso abbia nulla a che vedere con il nostro rapporto, Auguste.
Io non mi riferisco al particolare di ciò che sta accadendo oggi. Non è questa
la causa né il nodo del problema: c’è sicuramente dell’altro – ribatté duramente
Emilie.
E
tu mi chiedi ora, ora che non sono in grado neppure di guardare lucidamente a me
stesso e decidere cosa fare nel mio immediato, di riprendere in mano un legame
esausto e deteriorato per causa mia e di ingegnarmi a tenere insieme un rapporto
– o qualunque cosa gli somigli?
Auguste
si morse dolorosamente il labbro.
-
Vuoi qualcuno che ti tenga compagnia nelle tue serate? Il mondo è pieno di
damerini da salotto.
Ecco:
puntuale e preciso, il dardo colpisce nel segno. Quando il gioco si fa
difficile, ecco allora che Auguste sfodera prontamente il suo unico asso nella
manica.
Ma
io sto per recarmi al funerale della persona che amavo: il nesso è chiaro, è il
tassello mancante del mosaico che nessuno, nell’ottica ristretta di ciò che
appare dal di fuori, può riuscire a decifrare.
Perché
mi si domanda di affrontare la mia desolazione come un uomo nel pieno delle
proprie facoltà, ora che sono poco più che uno spettro e desidererei soltanto
trovare il modo più indolore per annegare nella mia
disperazione?
-
Vuoi farne una malattia e continuare a ridurre la tua vita ad un mucchio di
macerie? Come preferisci.
-
Un giorno, Emilie! – la rimbeccò Auguste – È trascorso appena un giorno. E tu mi
chiedi di indossare una maschera e di gettarmi tutto dietro le
spalle?
-
No. Ti chiedo solo di non trasformare la tua esistenza in un inferno di rancore
e di rimpianti. Per il tuo bene e di chi ti sta accanto.
Emilie
si lisciò nervosamente la scollatura del pallido negligé, per poi avviarsi con
fare irritato verso il letto matrimoniale.
Auguste
non rispose. Indugiò nella penombra, indeciso se distendersi al fianco della sua
donna e tentare di occultare nel sonno il dolore disperato che gli ammorbava
l’anima, oppure abbandonare dignitosamente il teatro della sua
sconfitta.
Infine,
prese con sé una coperta ed una bottiglia di vino e si raggomitolò di fronte al
focolare, pronto, un’altra notte, ad affrontare privo di alcun supporto, sepolto
nel cumulo di stracci della sua esistenza, la sua personale battaglia con il suo
fantasma.
La
verità era che nulla pareva in grado di donargli conforto. Se anche qualcuno vi
aveva tentato, era stato subito costretto, suo malgrado, a deporre le armi
dinnanzi al muro di orgogliosa insofferenza che lui, Auguste, aveva opposto di
fronte a sé, ed evitare, piuttosto, di essere investito dagli strali di veleno
che costituivano quella sorta di scudo impenetrabile.
Sospirò:
la sua rabbia l’aveva condotto soltanto a maltrattare il giovane Fernand,
incrementando così l’insanabile frattura tra i suoi uomini e umiliando senza
motivo quel ragazzo irruente che – ripensandoci, soltanto ora – non era mai
stato in cattiva fede.
Chinò
tristemente il capo, scuro in volto: era riuscito a travolgere con la sua furia
cieca ed autodistruttrice persino la donna che viveva con
lui.
In
silenzio, Auguste portò la bottiglia alle labbra, assaporando il liquido forte
che gli scaldava il petto e cullandosi nell’illusione che qualche sorso di vino
potesse costituire per lui un blando sollievo. Immobile, seguì pigramente con lo
sguardo la danza ipnotica delle fiamme dinnanzi a sé, lasciando che il calore
del fuoco gli infiammasse le gote.
Qualcosa
scattò nella sua mente. Destatosi all’improvviso, si risollevò in piedi ed
attese, incerto su dove andare, respirando profondamente l’aria secca e
pungente. Senza riflettere, girò sui tacchi e si diresse nuovamente in camera,
rapito dai suoi stessi gesti e dal flebile calpestio dei propri passi sul
pavimento. Lasciò scorrere in un cigolio sinistro l’ultimo cassetto del comodino
dal quale, senza riflettere, estrasse la sua pistola, per poi affrettarsi ad
abbandonare in silenzio la stanza, nutrendo silenziosamente la speranza che
Emilie non si fosse accorta delle sue manovre equivoche.
Si
deterse distrattamente con il dorso della mano la fronte umida. Il freddo
metallo dell’arma che stringeva fra le dita gli aveva trasmesso un brivido
carico di languore lungo la schiena, immediatamente seguito da una violenta
sensazione di vertigine. Allentò la presa: la vista della brace rossastra e
delle fiamme che tremolavano come minuscoli spettri, aveva fatto sì per un
istante che l’orribile visione del sangue s’imponesse con ferocia nella sua
mente. Distolse rapidamente lo sguardo.
Ritornano, puntuali: vecchi fantasmi che
si sovrappongono ad angosce presenti.
Nascondendo
il volto tra le mani, Auguste tentò di recuperare il controllo. Da quando la sua
esistenza era stata travolta dalla guerra civile a Noir Trésor, seguita dal
colpo di Stato che aveva concesso al duca du Lac d’insediarsi al potere in
città, Auguste aveva conservato dentro di sé, come doloroso strascico dei
drammatici eventi vissuti, un’irrazionale e morbosa avversione per le armi ed il
sangue. Ora, il pensiero di quel che stava accingendosi a portare a compimento,
non poteva che rievocare disperatamente in lui l’immagine di Lucien privo di
vita, un rivo di sangue sul collo che colava fino ad inzuppare la
camicia.
Quasi
gli cedettero le gambe, mentre, inebriato, seguitò a percorrere con lo sguardo
il manico intarsiato della pistola, per poi soffermarsi a contemplare per intero
il fulgido, ambiguo splendore dell’arma.
Serrò
le palpebre: doveva
farlo.
Per
lui, forse; per Lucien o, molto più
probabilmente, per se stesso: ogni implicazione era
relativa.
Sarebbe
stato utile a qualcosa? Sapeva che nulla gli avrebbe restituito Lucien, ma la
sua coscienza – o quel che ne era restato – gli suggeriva che, se la morte del
suo amico fosse rimasta ignorata ed impunita, lui sarebbe
impazzito.
Un
mero, egoistico, personale desiderio di vendetta; nulla di eroico o degno di
lode. Nulla, se non l’ennesimo gesto autodistruttivo e sconsiderato di un uomo
distrutto.
Pensi
che sarà più semplice, dopo, guardarti nello specchio al
mattino?
Ho
forti dubbi.
Non
spendere altro tempo in superflue riflessioni. Vinci la tua
paura.
Qualcuno
potrà trarre qualche vantaggio dal mio gesto?
Trascurabile
dettaglio di cui, in questo momento, non m’importa. Non a
me.
Un
amaro sorriso tagliò in due il suo volto, rischiarato appena dalla pallida luce
tremolante; gli occhi grigi lampeggiarono di follia, quando il suo sguardo
afferrò dietro le imposte il movimento di due figure che strisciavano
nell’ombra.
Un
sibilo acuto gli sfuggì dalle labbra; le membra tremanti si contrassero nella
tensione, mentre si accertava che la pistola fosse carica e, in un gesto
divenuto ormai istintivo, tastò all’interno nella tasca, assicurandosi della
presenza del pugnale.
L’una
per difendersi, l’altro per offendere.
Brandì
l’arma dinnanzi a sé ed attese, immobile, dietro l’uscio.
Sento
freddo. Mai freddo come ora. Devo mantenere il controllo: soltanto
questo.
Auguste
serrò le palpebre, stordito dall’orribile rimescolio di sensazioni contrastanti
che gli ribolliva nel petto, il respiro ridotto ad un sibilo ansimante, mentre
discostava il portone con malagrazia.
Immobile,
esaminò le due figure, la pistola stretta dietro la
schiena.
Ce
la puoi fare?
Auguste
scrutò i due uomini dinnanzi a sé, tentando di dissimulare la propria tensione
in una maschera indecifrabile.
Il
più anziano dei due distorse in un breve sogghigno il volto bruno e coriaceo,
solcato dalle rughe e da una cicatrice che gli segnava trasversalmente la
fronte, fino a morire sullo zigomo.
-
Armi e munizioni com’era nei patti, direttamente dal deposito degli sciacalli
del duca – sentenziò il più giovane, che ad Auguste parve poco più che un
ragazzo avido e collerico.
-
Bene – ribatté Auguste con voce piatta.
Pensoso,
lasciò scorrere ancora per qualche istante il proprio sguardo sui due
fuorilegge, soffermandosi sulle else dei pugnali che spuntavano non troppo
celatamente dalle cinture.
Un
sicario che si rispetti non se ne va mai in giro senza recare con sé, per ogni
sfortunata evenienza, qualche ferro del mestiere; specie se va a spasso dopo il
coprifuoco in una città controllata da un altro criminale e si reca a far visita
ad un uomo rispettabile.
Auguste
dovette sforzarsi di camuffare in qualche modo la risata isterica che gli era
salita alla gola.
-
Che aspetti? Tira fuori la somma per la quale ci si è accordati dopo tanta
fatica, e a mai più rivederci.
-
Intanto, prova a chiudere per bene la tua boccaccia – ribatté Auguste – o
rischierai di svegliare la mia donna.
-
Oh, abbiamo una donna?
-
Non osare avvicinarti – gli soffiò Auguste, perentorio.
Mosse
lo sguardo. Troppo
tardi.
Richiamata
dalle voci, immobile all’ingresso della stanza, Emilie fissava sconcertata i
presenti.
-
Auguste, chi diavolo…
-
Torna in camera e sbarra la porta, Emilie – le ingiunse, il volto contratto –
Ora.
-
Ehi, Auguste, quanta fretta! – lo interruppe il più giovane dei due sicari –
Stai sereno: nel caso in cui non abbia con te tutti i soldi, potremmo sempre
chiudere un occhio e, in cambio, prenderci la signora per una
mezz’oretta…
-
Torna dentro, Emilie. Ti spiegherò più tardi – Auguste alzò la voce, gli occhi
venati d’inquietudine – E tu – soggiunse, rivolto al giovane – Cerca di tornare
nell’argomento della serata, se non vuoi ritrovarti a sputare
sangue.
-
Non ci siamo intesi – intervenne il più anziano con fare sospettoso, quando la
donna ebbe abbandonato la stanza – Sarai l’unico a sputare sangue, stasera, se
non ti deciderai a collaborare e se non onorerai il tuo debito quanto
prima.
-
Soltanto un momento – Auguste prese tempo, costringendosi a fissare negli occhi
l’uomo che gli aveva parlato – Siete sicuri che non vi sia stato alcun
impiccio?
-
Noi sappiamo come rimettere al proprio posto i ficcanaso – replicò il vecchio,
scuotendo impaziente la lunga e rada capigliatura ormai ingrigita – A parte un…
piccolo, insignificante contrattempo che, fortunatamente, non ha provocato guai
di sorta, direi che tutto è filato come l’olio.
-
Già. È andato tutto per il meglio. Meraviglioso – sussultando
impercettibilmente, Auguste tentò di farsi ombra con la mano in modo tale da
mascherare una lacrima che era fuggita prepotente che ora gli scivolava lungo lo
zigomo.
-
Bene, Auguste, il necessario per armare i rivoltosi è al sicuro. Ora, fuori i
quattrini.
-
Ho giusto con me – scandì Auguste, lo sguardo circonfuso di un alone di follia –
una quantità piuttosto interessante di belle monete d’argento. Dal valore
approssimativo di cinquecento scudi. Pensa un po’: sono proprio cinquecento! –
ripeté con voce cantilenante ed assorta.
-
Allora, che diavolo aspetti? Tirale fuori, e piantala, una volta per sempre, con
certi giochetti! – lo aggredì il giovane, assestandogli uno
scossone.
-
Che diavolo avete capito?
Lui
stesso si stupì di quanto la sua voce suonasse stranamente
calma.
-
Intendevo, per l’esattezza, un altro tipo di monete d’argento.
Queste.
Auguste
tese rigidamente l’arma dinnanzi a sé.
Intravide
la realtà precipitare davanti ai suoi occhi, caotica e indistinta come in un
sogno confuso, come in un infernale carosello, ma non smarrì la propria
lucidità. Fulmineo, tirò indietro il braccio, cercando di colpire con la canna
della pistola il ragazzo che, dopo lo sgomento iniziale, si era lanciato su di
lui nel maldestro tentativo di disarmarlo. Il giovane riuscì a schivare il
colpo, ma il repentino movimento lo sbilanciò, facendogli perdere
l’equilibrio.
-
Bravo – cinguettò Auguste, sarcastico – Resta pure seduto. Ora, da ragazzo
ragionevole quale sei, da’ qua il tuo pugnale e le altre armi che tieni
nascoste. E tu, nonno – soggiunse, rivolto all’altro – Segui il buon
esempio.
-
Pagherai cara la tua schifosa impudenza, Auguste de la Garde, maledetto figlio
di una cagna! – inveì il vecchio tra i denti.
-
Certo, certo – Auguste tese nuovamente la pistola dinnanzi a sé, mantenendo i
due uomini sotto tiro – Pagherò, come desiderate. Io estinguo sempre i miei
debiti: di me, non potete certo dubitare. Adesso, se lor signori me lo
consentono, si va a fare un lungo giro. Non c’è niente di meglio di una
passeggiata al chiaro di luna, quando gli affari sono andati a gonfie vele, ed
un buon uomo ha tutto il sacrosanto diritto di riposare e godersi i frutti della
propria fatica. È andato tutto per il meglio, non trovate? Salvo qualche
contrattempo lungo la strada, a ben dire: ma nulla cui una stilettata ed una
buona dose di fortuna non sappiano porre rimedio, no? Nulla che un sicario di
professione non sappia sistemare a dovere!
-
Non so cosa tu stia biascicando né cos’altro abbia in mente. Stai molto attento,
de la Garde: sei sempre stato furbo, ma stavolta hai oltrepassato il
limite.
-
Me ne ricorderò senz’altro; ma adesso, preoccupatevi piuttosto di alzare i
tacchi. E niente scherzi.
Ignorando
le minacce e le proteste dell’uomo, Auguste spinse i due oltre la porta, pronto
a seguirli nella notte, mentre, sotto il velo di discrezione che le tenebre gli
offrivano, il suo volto si corrugava nell’impulso della disperazione, e due
fiotti di lacrime roventi gli annebbiavano la vista.
Il
mio cantuccio:
Bene
bene… Finalmente sono riuscita ad aggiornare NT, anche se in tempi un tantino
“biblici” causa impegni universitari.
Ringrazio,
come sempre, tutti i lettori, in particolare coloro che hanno lasciato le loro
recensioni. In particolare:
Mikayla:
carissima, sono contenta che NT sia di tuo gradimento! Ho molto apprezzato la
tua recensione ed i tuoi consigli. Effettivamente, mi capita di tanto in tanto
di rileggere la storia e di correggere e cambiare qualcosina qua e là (dettagli
puramente stilistici, la trama, ovviamente, resta invariata), in quanto capita
anche a me di scoprire qualche frase che “stona” leggermente”… Credo sia tutto
da imputare al fatto che, man mano che si acquisisce dimestichezza scrivendo, lo
stile tende ad evolvere… Beh, in meglio, si spera! Spero che continui a seguire
Noir Trésor e che la storia sia di
tuo gradimento!^^
Poppy:
ti
ringrazio tantissimo per la tua recensione! Sono contenta che i personaggi siano
di tuo gradimento… In particolare, sono molto lieta che Ambrosie ti piaccia: in
effetti, nonostante sia io una ragazza, trovo stranamente più complesso
caratterizzare un personaggio femminile. Dunque, sono contenta di essere, in
parte, riuscita nel mio intendo! Alla prossima!^^
Renovatio:
ti ringrazio tantissimo per la tua recensione, graditissima! Sono contenta che
abbia apprezzato il mio modo di scrivere, nonché i personaggi. Naturalmente, la
trama pian piano si dipanerà ed emergeranno sempre di più le implicazioni
emotive dei vari personaggi… Ed i misteri, pian piano, finiranno per venire alla
luce. Spero che NT continui ad essere di tuo gradimento e che continui a seguire
l’evolversi della storia. A presto!^^
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Capitolo 16 *** Capitolo 16: Inquietudine ***
Capitolo
16
Inquietudine
Un
flebile gemito, accompagnato dal lieve agitarsi del corpo stanco fra le lenzuola
sottili, fu sufficiente a ridestare l’attenzione di Dorian, distogliendolo
bruscamente dal lieve torpore che l’aveva pervaso per qualche indecifrabile
istante.
Il
giovane trasalì; sbatté le palpebre, liberandosi della nebbia del sonno che
proiettava un velo opaco dinnanzi alla propria visuale, ed il suo sguardo si
concentrò nuovamente sulla figura immersa nel sonno. Un guizzo di terrore gli
serpeggiò lungo la schiena informicolita, quando avvertì il respiro di Fernand
accelerare improvvisamente. Spalancando le palpebre per distinguerne più
agevolmente i contorni nella penombra, Dorian lo osservò far leva sulle deboli
spalle, nell’inconscio e vano tentativo di mutar posizione sullo scomodo
giaciglio.
Deglutendo
a fatica, Dorian seguì con lo sguardo il movimento del suo giovane amico, il
braccio che si sollevava tremante, portando la mano delicata a sfiorare
mollemente il collo. Il volto di Fernand si modellò in un’espressione di
eloquente fastidio, come se qualcosa
avesse appena scalfito la parte che ora indugiava a strofinare con sonnolento
languore.
Il
cuore di Dorian saltò un battito, arrestando per un istante il proprio palpitare
furioso, mentre, come un doloroso, lugubre scampanellio nella testa, i frammenti
del mosaico precipitarono nella sua mente fino a tentare di assumere una certa
forma di coerenza, avvicinandosi pericolosamente a quella che, in un lampo,
parve essere la loro postazione corretta. Trattenne il
fiato.
Nessun
segnale era del tutto innocente.
Immobile,
osservò accigliato i tratti del viso di Fernand distendersi nuovamente nella
quiete del sonno ed il movimento del braccio ricadere molle sulle lenzuola.
Ritorse nervosamente una ciocca di capelli biondi tra le dita, in attesa, scosso
da un brivido d’indefinibile angoscia che gli si era sinistramente insinuato
lungo la spina dorsale.
Non
era stata un’allucinazione.
Intento
a vegliare meticolosamente su Fernand, su ogni moto impercettibile che il suo
sonno tradiva, Dorian si avvide soltanto allora dell’ombra sottile comparsa alle
sue spalle. Ambrosie si accostò al capo del letto, il volto indecifrabile nel
suo pallore altero ed accennò in direzione di Fernand con un gesto
lieve.
Dorian
prese un lungo respiro, rovistando nella propria mente alla ricerca di parole
adatte a rivelare ad Ambrosie le proprie nebulose constatazioni riguardo
all’improvviso malessere di Fernand. Esitando con mano incerta, scostò dal collo
del giovane adagiato sul letto i lunghi capelli scomposti ed indicò con un gesto
la fonte dei propri timori.
Vide
Ambrosie sbiancare alla luce tremolante della candela e portarsi una mano alle
labbra con fare pensoso, in quell’unico gesto di debolezza che mai la vide
manifestare, dall’istante in cui Fernand si era accasciato privo di
forze.
Ghiaccio.
Simile
al ghiaccio, ad un primo, superficiale contatto.
Chiunque,
in questo momento, comincerebbe a nutrire i propri timori sulla natura di eventi
che non sembrano prestarsi a ragionevoli spiegazioni: ora come ora, Ambrosie non
rappresenta un’eccezione. Ma neppure un giustificato terrore pare piegarla al
punto da tradire in lei qualche sintomo di fragilità e scalfire la sua coltre di
gelida razionalità.
Il
ghiaccio non cede dinnanzi alla paura.
Un
lampo di consapevolezza lo scosse: non era la prima volta che Fernand si era
sentito male.
Non
è la prima volta… Non è la prima volta che Fernand accusa malori ingiustificati?
Che si abbatte al suolo sotto i nostri occhi, senza apparente
motivo?
Se
davvero le cose sono andate così, non è una mia malata allucinazione che tutto
ciò cominci ad assumere contorni inquietanti.
-
Cos’ha sul collo? – Ambrosie sfiorò la gola del fratello in corrispondenza degli
impercettibili forellini rosso vivo che spiccavano sulla carne
pallida.
Dorian
scosse il capo, scuro in volto, impotente dinnanzi agli eventi, la voce che
s’incrinava sotto la cappa di un’angosciosa e ancor torbida
consapevolezza.
-
Vorrei saperlo, Ambrosie.
La
ragazza si morse dolorosamente il labbro, soffocandone il
tremito.
-
Tisi? – mormorò in un fievole squittio.
Il
giovane serrò le labbra in segno di diniego.
-
è la prima cosa che ho escluso –
rispose asciutto, reprimendo dentro di sé la propria
angoscia.
-
Fernand non fa che ignorare il problema. Perché non me ne hai parlato subito,
Dorian? – incalzò Ambrosie, il cui fare inquisitorio e nervoso si amalgamava
ormai perfettamente all’ansia martellante che lentamente riguadagnava il
sopravvento.
-
Io non credevo… – Dorian si morse nervosamente le unghie, la mente in
subbuglio.
-
Bisogna chiamare un dottore! – lo interruppe bruscamente la
ragazza.
Riguadagnata
repentinamente la propria fermezza, la voce di Ambrosie echeggiò roca e priva di
sfumature di panico nella sua impronta risoluta.
Il
ragazzo annuì mestamente. Mosse gli occhi tutt’intorno, a disagio, pervaso da un
vago senso d’oppressione.
-
Dannato du Lac! – la mano corse ad artigliare il petto in un gesto carico di
profonda frustrazione, ormai fuori d’ogni controllo.
Un
bagliore d’ira, di rimando, percorse gli occhi di
Ambrosie.
-
Che diavolo… Dorian, cosa dici? Credi che questo abbia importanza, ora? Il
divieto di vagare di notte per la città? Se è questo ciò che temi, allora io
dico che il duca du Lac e le sue recenti disposizioni possono andarsene
bellamente all’inferno! – proruppe la donna, trafelata, lasciando che la propria
lucidità, parsa incrollabile fino a quel momento, sfumasse in un sibilo acuto –
Mio fratello ha bisogno di un medico.
Dorian
indugiò sul da farsi, misurando la piccola stanza con passi
incerti.
Serrò
le palpebre, tastando dolcemente fra le dita il polso di Fernand. Il calore
della pelle dell’amico e la percezione del battito regolare sotto il suo tocco
gli infusero una tenue, incomprensibile parvenza di
serenità.
-
Fernand… Sta soltanto dormendo – sussurrò, rapito – Lamentava una grande
stanchezza. Ed averlo ammesso è già tanto, per uno come tuo fratello. Fernand ha
solo bisogno di riposare.
Ambrosie
corrugò la fronte. Crollò sulla sedia di fianco al capezzale del fratello, il
volto fra le mani.
-
Non è normale, Dorian. Non di nuovo! – scrollò le spalle in un mesto sospiro,
sprofondata in quell’angolo della stanza, all’ombra delle proprie opprimenti
riflessioni – Non ce la faccio. Vorrei che gli ultimi giorni trascorsi fossero
stati semplicemente una specie d’incubo spaventoso. Un orribile
incubo.
È
ciò che vorremmo tutti.
Dorian
fece per dischiudere le labbra come a voler replicare, per poi risolversi al
silenzio. Immobile accanto alla finestra chiusa, fissò la nuca bionda di
Ambrosie.
-
Forse… è meglio che io vada a
chiamarlo io – azzardò.
La
ragazza si volse nella sua direzione, posando lo sguardo su di
lui.
-
Lascia stare, Dorian – gli sussurrò, accompagnando le sue parole con un gesto
stanco – Per stanotte.
-
Sembrava solamente… Stanco – mormorò il ragazzo in una sorta d’ipnotica, fioca
cantilena, il respiro che faticava ad oltrepassare l’ostica barriera delle
labbra tremolanti – Finché non è crollato in questo strano torpore. E tutto può
sembrare, fuorché un sonno tranquillo.
Il
flusso dei pensieri che, fuori controllo, Dorian manifestava ad alta voce,
s’interruppe solo quando, con un gesto perentorio della mano, Ambrosie gli
impose di tacere. Un colpo secco vibrato al portone si propagò per l’ambiente.
La ragazza aggrottò le sopracciglia, mentre lo sguardo circospetto mutava
fulmineamente la sua prospettiva, allontanandosi dal viso contratto di Dorian ed
indugiando tentoni in direzione del rumore sordo che li aveva distolti dalle
loro congetture.
-
Fernand… Ambrosie! Aprite!
Ambrosie
si sollevò di scatto, un istante dopo aver identificando la voce che la
reclamava al di là dell’ingresso.
Emilie…
Cosa fa, a quest’ora?
Sollevò
il passante.
-
Emilie, che diavolo…
-
Fammi entrare, Ambrosie.
La
ragazza non fece quasi in tempo a richiudersi l’uscio alle spalle, che Emilie la
spinse da parte, precipitandosi oltre l’ingresso con passi furiosi, il volto
congestionato dalla tensione.
Ambrosie
e Dorian si scambiarono un’occhiata sgomenta; persino Raphäel, raggomitolato
fino a quel momento in un angolo dell’androne in un muto dormiveglia, lasciando
quasi in sospeso la propria presenza, riemerse dalla propria indolente
solitudine e posò uno sguardo vigile ed interrogativo sulla donna appena
sopraggiunta.
Dorian
avvertì l’angoscia strisciargli nel petto con un’intensità tale che, per un
istante, ebbe l’illusione che il proprio corpo ne fosse scalfito fino in
superficie.
-
Cos’altro è accaduto? – il giovane incrociò le braccia sul petto, controllandone
il tremito.
-
Non si tratta di me – puntualizzò Emilie.
Il
duro sguardo color caffè, che Dorian giurò di non aver mai visto sconvolto come
in quel momento, saettò intorno alla stanza e sui
presenti.
-
Riguarda Auguste.
* *
*
Il
volto di Fernand s’increspò in un misto fra paura e frustrazione, quando Emilie
ebbe concluso il proprio confuso resoconto.
Si
era ridestato di soprassalto, richiamato dall’improvviso trambusto e dal parlare
concitato della donna che era piombata improvvisamente in casa sua. Era stato
sufficiente udire il nome di Auguste risuonare fra le pareti con funerea
intensità, perché Fernand si fosse precipitato nell’androne come una furia, il
volto disfatto, le membra nervose e gli stivali ai piedi.
Rivide
per un istante gli occhi di Auguste bruciare nei propri in un monito di
disapprovazione. In una rocambolesca panoramica, rivide la mano dell’uomo che lo
stava conducendo sull’orlo della follia scattare fulminea e
colpirlo.
Ma,
con ogni probabilità, ora è Auguste ad essere in pericolo, e di tutto il resto
poco importa. Non so cos’abbia in mente né cos’abbia a che vedere tutto ciò con
i ribelli o con Lucien, malgrado qualunque congettura in proposito mi
terrorizzi.
Auguste
gioca con la propria vita come in una volgare scommessa fra gli ubriachi di
un’osteria, ed io non posso aiutarlo.
Non
so dove sei né dove vuoi arrivare questa notte, ma so che stai andando incontro
alla rovina, lentamente, forse in questo momento, forse domani stesso, ed io non
posso nulla per impedirlo.
-
Io… Devo andare da lui – fu la sua risposta istintiva.
Il
volto di Fernand s’infiammò di collera e malcelata delusione, nel momento in cui
ravvisò sui volti dei presenti lo stesso disarmante, inappellabile dissenso che
da sempre – tanto da averlo reso ormai avvezzo – aveva percepito negli occhi di
Auguste, posto di fronte alle sue più stravaganti
iniziative.
No,
non andrai da nessuna parte, Fernand.
C’era
forse bisogno di puntualizzarlo?
Chinò
mestamente lo sguardo, la sconfitta che gli bruciava sulla carne viva. Per un
istante, il suo inconscio si era nuovamente illuso di poter in qualche modo
offrire ad Auguste il proprio aiuto. Qualunque fosse stata la natura effettiva
delle circostanze. Invece, si era ritrovato con la propria volontà ancorata al
pavimento, privo di qualsiasi certezza e possibilità d’azione concreta. Nessuna
certezza riguardo a ciò che aveva in mente Auguste: il
buio.
Fernand
sapeva di essere in grado a malapena di reggersi in piedi – Ambrosie aveva
ragione, e a rammentarglielo nella sua bruciante oggettività era bastato un solo
sguardo categorico. Aveva ignorato le premure di sua sorella e di Dorian. Si era
lasciato andare stancamente sul divano, le tempie pulsanti ed una sgradevole
sensazione di vertigine ad assillarlo.
Ma
quella notte, Auguste aveva deciso di regolare fantomatiche faccende in sospeso
di proprio conto e di mettere a repentaglio se stesso.
Fernand
aveva dovuto rassegnarsi a restare a guardare, e la snervante consapevolezza di
essere ancora una volta impossibilitato a muovere un solo dito per Auguste fece
sì che il suo ultimo baluardo di giudizio si smarrisse fra le trame della
disperazione.
Immobile
sul divano disadorno, Fernand si strinse nella camicia stropicciata,
rabbrividendo al gelo dello sconforto, nella cocente, sfiancante attesa di una
soluzione che non giungeva dalla bocca di nessuno dei
presenti.
Emilie
stava compunta accanto al camino, il volto tirato che tradiva un’inquietudine
accortamente dissimulata, e Fernand ebbe la netta sensazione che fosse più
infastidita che preoccupata dagli avvenimenti che si erano consumati dinnanzi ai
suoi occhi, dei quali si era impegnata a tracciare un resoconto pressoché chiaro
ed attendibile.
In
ansia più per le effettive sorti di un amore che aveva estorto ad Auguste con
l’astuzia, giorno dopo giorno, piuttosto che per le reali intenzioni del suo
uomo. Maledetta
arpia.
Troppo
comodo se fosse davvero così, Fernand?
Lo
sguardo di Raphäel indugiava troppo di frequente in direzione di Ambrosie, in
attesa, quasi, di un gesto d’assenso da parte della ragazza. Le iridi corvine
che fremevano fra le palpebre delicate, spiccavano come due perle scure
sull’incarnato d’alabastro. Fernand intercettò dolorosamente lo scambio di
sguardi, prima di distogliere il viso in un moto
d’insofferenza.
Hai
forse capito come giocare la situazione a tuo favore, Raphäel. Hai compreso lo
spirito di questa città, ma ciò non ti fa onore. Hai intravisto in tutto questo
un’occasione appetitosa che ti consentirà di farti bello agli occhi di mia
sorella, di Auguste o, forse, dei ribelli al gran
completo?
Dorian
pareva l’unico ancora in grado di ragionare lucidamente circa le cause ed il
significato degli strani avvenimenti che avevano visto Auguste discutere
concitatamente con due sconosciuti poco affidabili, per poi condurli verso i
suoi propositi con la minaccia. Troppo preso dalle proprie congetture, Dorian,
lo sguardo smarrito in un punto impreciso dinnanzi a sé, per curarsi
dell’eventualità di captare possibili risvolti d’interesse personale insiti
nelle loro sventure.
Grazie
al cielo, qualcuno è ancora in possesso di un cervello
pensante.
-
Non azzardo – dichiarò Emilie con malcelata petulanza – Ma i due uomini che
Auguste ha minacciato di morte, credo fossero a conoscenza di segreti poco
convenienti. E questo, Auguste sembrava saperlo bene.
L’angoscia
e l’incertezza erano ormai sfumati sul volto di Emilie, recando spazio al suo
tono consueto, autoritario e vagamente pretenzioso.
-
Cosa volete insinuare? – la interruppe Fernand, il volto acceso di un malcelato
livore.
Raphäel
parve condividere le sue perplessità dinnanzi all’atteggiamento astioso e
diffidente della donna.
Persino
il buon Raphäel comincia a nutrire dei dubbi. Ma lui, con ogni probabilità, è
proprio il tipo che non riporrebbe completa fiducia neppure su sua madre. Il
presunto ascendente che esercita su Ambrosie è l’unico dato certo che lo
riguarda.
-
Intendo proprio dire, Fernand – riprese Emilie, sibillina – che Auguste non è
uno sprovveduto e, se ha ritenuto di dover… convincere quei due uomini a
seguirlo, è ben consapevole di quale sia la ragione.
Il
ragazzo avvertì un fremito d’irritazione attraversarlo fino alla punta delle
dita.
-
Intendete forse dire che nasconde qualcosa? Auguste ha perso il suo miglior
amico ed è comprensibilmente furioso. Non so cos’abbia a che vedere con tutto
questo, ma i vostri sospetti sono così… Tremendamente stupidi ed infamanti!
Pretendete forse di conoscere tutto di lui?
-
Fernand!
Vide
Ambrosie tentare di dissuaderlo con un’occhiata carica di rimprovero dalla
strada rischiosa che stava impudentemente imboccando, malgrado, con ogni
probabilità, lei stessa condividesse i suoi punti di
vista.
La
diretta interessata ignorò il blando tentativo da parte della ragazza di sedare
gli animi e rivolse a Fernand uno sguardo sarcastico.
-
Credi di saperlo tu, ragazzo? Allora, ti pregheremo fin da ora di illuminarci in
proposito! Perdonami – insinuò, tagliente – Non ho tenuto in conto che forse eri
forse troppo impegnato a fare a botte nelle taverne e a divulgare opuscoli
satirici illegali, trascinando Auguste nelle tue trovate, perché potessi
cogliere simili sottigliezze. È così?
Un
intenso rossore incipriò le gote di Fernand. Il giovane chinò lo sguardo,
ferito.
-
è questo ciò che pensate? –
squittì – Non vi è mai andata giù la causa per la quale lottiamo: è così. Perché
non vi sforzate di essere obiettiva almeno nei riguardi di
Auguste?
-
Lo sarei, Fernand – Emilie lo soppesò con lo sguardo duro – Se avessi la più
pallida garanzia che tutto ciò non rappresenti per lui il passaggio obbligato
verso la rovina. Sei troppo giovane: forse, se riuscissi almeno una volta a
guardare obiettivamente ai vostri intenti e levarti dagli occhi quelle bende
d’idealismo sconsiderato, capiresti che la posta in gioco è ben più elevata di
quanto immagini.
-
Credo possa bastare.
Fu
Ambrosie a frapporsi con decisione tra i due contendenti.
Gli
occhi di Dorian, diventati all’improvviso tremendamente seri, saettarono da lui
ad Emilie, soppesando entrambi con gravità.
-
Scannarvi non vi servirà a nulla – soggiunse, asciutto – Credo sia più opportuno
mettere per il momento da parte le vostre… divergenze d’opinione e concentrarvi
su fatti reali, piuttosto che su strane supposizioni.
Fernand
annuì, assorto.
- A
dire il vero – sussurrò impercettibilmente – Credevo di aver deposto le armi da
tempo.
Emilie
stette ritta ed immobile a contemplare il fuoco morente; poi, inaspettatamente,
mosse qualche timido passo in direzione del ragazzo.
Fernand
credette di aver scorto per la prima volta in quelle iridi altezzose una sorta
di manifestazione benevola nei suoi riguardi.
-
Non ti sono ostile, Fernand. Non voglio accusarti di nulla, e non credo che tu
desideri trascinare nei guai i tuoi compagni – le labbra piene, una macchia
rossa che s’imponeva prepotente sull’incarnato chiaro, si dischiusero appena,
abbozzando un vago sorriso – Entrambi desideriamo che Auguste rientri a casa
stanotte. Non sei convinto?
Il
giovane si strinse mestamente nelle spalle.
Non
sono certo se sia la mia percezione ad ingannarmi, ma credo – temo, piuttosto? –
di aver intravisto in lei qualcosa che mi porta a dedurre, non a torto, che
Emilie abbia deciso, per una volta, di anteporre il bene di Auguste ai propri
voleri.
Serrò
le palpebre, cullandosi languidamente nel cupo, insidioso sconforto che sentiva
scorrere inarrestabile dentro di sé. La fredda luce della luna filtrava nella
sala, mescolandosi al tiepido chiarore delle candele accese e delle ultime
fiamme del focolare che si avviavano al proprio declino in una triste
danza.
Sua
sorella Ambrosie guardava risoluta dinnanzi a sé, posando gli occhi di tanto in
tanto sui volti dei presenti. Sembrava risoluta e fiera, improvvisamente decisa
su cosa fare. Fernand trasalì appena, sconcertato dal mutato atteggiamento, e
prese a soppesare silenziosamente i gesti volitivi che tradivano l’ansia
febbrile della ragazza e lasciavano intuire il malcelato nervosismo che le
attraversava la mente.
Il
ragazzo sentì il proprio cuore procurargli una fitta lungo il petto: ancora una
volta, gli occhi azzurri di Ambrosie puntavano chiaramente su di lui. Trattenne il
respiro.
Si
sforzò di non considerare quanto la figura di Raphäel si fosse scolpita
inesorabilmente in lei e nel suo animo, talora turbandola, talora infondendole
quella strana ed inspiegabile eccitazione, quello slancio irrequieto e
adrenalinico che la spingevano ad impugnare le redini dell’iniziativa e a
muoversi con inconsueto slancio e sicurezza.
Fernand
serrò i pugni fino a far sbiancare le nocche, le unghie che si conficcavano
dolorosamente sul palmo della mano.
Troppe.
Troppe volontà, troppe forze si dibattono alla cieca le une contro le altre
fuori di me, fuggendo dinnanzi ai miei occhi, troppo fulminee perché io possa
afferrarle. Mi perdo…
In
fin dei conti, Raphäel non è cattivo; è solo troppo infiocchettato di buoni
pensieri, ai miei occhi, piuttosto che d’intenzioni realmente
tangibili.
Se
davvero fosse così, perché non riesco a non sentirmi come vittima di una trama
oscura che sembra condizionare e manipolare tutto ciò che si muove intorno a
me?
-
Dobbiamo trovare Auguste – proruppe d’un fiato Raphäel.
Un
silenzio teso pervase la stanza come una cappa caliginosa.
-
Dobbiamo trovarlo – proseguì – e assicurarci che stia
bene.
Fernand
intravide nelle parole del ragazzo l’impronta delle intenzioni che Dorian ed
Ambrosie avevano nutrito sin dal momento in cui Emilie aveva rivelato loro
l’accaduto.
-
Non è semplice, Raphäel – lo interruppe Emilie, il volto scettico – Nessuno ha
idea di dove sia diretto, né di che intenzioni abbia
davvero.
Il
volto pallido del giovane si corrugò in un sorriso indecifrabile, mentre un
chiarore sibillino gli rischiarava le iridi.
-
Ammettiamo per un’assurda ipotesi, madame – esordì, la voce soffusa di una
sottile venatura sarcastica.
Distolse
furbescamente lo sguardo dalla donna.
-
Ammettiamo che un’idea circa la meta di Auguste stia prendendo forma nella mia
mente. Per quanto io possa sbagliarmi.
Fernand
corrugò la fronte, soprappensiero. Raphäel cerca di confondere le idee
all’avversario, considerò, studiandolo di nascosto.
La
voce di Raphäel echeggiava nella sua mente con una cadenza ipnotica ed
estremamente affascinante, evocando nell’animo di Fernand le movenze sinuose ed
allettanti di un serpente.
Eppure,
le sue intenzioni non sono malvagie. Non possono esserlo. Se così fosse, non
affiderei tanto spregiudicatamente l’incolumità di Auguste – del mio Auguste! –
alle sue enigmatiche deduzioni.
-
Chissà… – proseguì Raphäel, cogitabondo – Se ci impegnassimo a ragionare con un
po’ di calma e a ricordare,
potrebbero sempre emergere particolari interessanti. Chi sono i due uomini che
discutevano con Auguste, Emilie?
-
Non lo so – si affrettò a ribadire la donna con falso
zelo.
Negli
occhi vigili di Emilie trapelava ormai con chiarezza disarmante una diffidenza
tangibile nei riguardi del ragazzo e la ferrea ostinazione nei propri
intenti.
-
So soltanto che Auguste non si fidava di loro, e a ragione –
concluse.
Raphäel
scosse le spalle, annuendo con fare indolente.
-
Se non altro, dalla vostra camera siete senz’altro riuscita a udire parte della
loro discussione, dico bene?
Emilie
lo fissò con somma frustrazione. Arricciò le labbra, sconfitta, ritraendosi come
una gatta al cospetto di un aggressore più forte di lei.
Aveva
ottime ragioni a voler tenere per sé quanto era riuscita a carpire riguardo alle
intenzioni di Auguste e non era del tutto sicura di quanto, nell’interesse del
suo compagno, fosse opportuno ragguagliare Raphäel e gli altri circa gli
avvenimenti di quella notte.
Raphäel
la sovrastava da vicino con la sua figura alta, lo sguardo fiero e pulito di chi
sa come ottenere quanto gli occorre senza ricorrere alle minacce o all’inganno.
Emilie cedette.
-
Parlavano d’impadronirsi di armi e munizioni destinate alle milizie del duca –
sputò fuori le parole come a volersi liberare di un boccone amaro – Di un lavoro
sporco svolto dai due malviventi per suo conto… Di qualche compromesso. Poi,
evidentemente, qualcosa non è andato per il verso giusto.
-
Capisco – Raphäel sorrise trionfante, e l’apparente gentilezza del suo sguardo
sortì l’effetto di inasprire in modo quasi inconsapevole la propria vittoria su
Emilie, la quale lo fulminò con un’occhiata gelida ed
ostile.
Non
aveva prestato riguardo al turbinio di reazioni che i nuovi particolari in
merito sortirono nei presenti.
Dorian
fu il primo a riscuotersi dal momentaneo, iniziale sgomento e dalle rapide
riflessioni che avevano seguito le rivelazioni della donna. Rivolse uno sguardo
d’intesa a Fernand ed Ambrosie, per poi annuire con benevolenza in direzione di
Raphäel.
-
Hai idea su cosa fare ora, Raphäel? – Dorian sorrise ambiguo, calandosi il
tricorno sul capo.
-
Al deposito di munizioni – lo precedette – È là che sono
diretti.
- È
meglio che venga con voi – s’intromise di colpo Fernand e, in un gesto
meccanico, indossò la giacca.
Le
tue intenzioni sono così prevedibili, Fernand; i tuoi gesti avventati, come
sempre, sono trasparenti come uno specchio d’acqua alla luce dell’alba. E
qualcuno, in questa stanza, ha ben compreso come tenere a bada i fervori dei
fratelli LaRoche.
Persino
Ambrosie si mosse in direzione di Dorian e Raphäel, alla disperata ricerca di un
ferreo pretesto per prendere parte alla spedizione dei due
uomini.
-
Fernand.
Il
ragazzo non poté fare a meno di trasalire, quando una mano pallida si posò
delicata e prepotente sulla sua spalla, trattenendolo sul posto con una presa
appena percettibile. Fernand si volse rapito in direzione di Raphäel, ormai ad
un palmo da lui. Immobile, il giovane sbatté le palpebre e lo fissò in viso.
Raphäel lo sovrastava di una spanna, così vicino da poterne percepire il respiro
su di lui. Fernand indugiò con lo sguardo sulla massa arruffata di folti capelli
corvini che circondava il volto bianchissimo di Raphäel; in silenzio, ne studiò
i tratti sottili, nitidi nella penombra, composti in fattezze intrinsecamente
attraenti nella loro irregolarità, lo sguardo fermo circonfuso di un alone
indecifrabile e vagamente inquietante.
-
Ascoltami – esordì mestamente Raphäel in un sussurro – Stavolta, sono convinto
che una persona in più non farà alcuna apprezzabile differenza. Un solo uomo
sarebbe davvero poco, in fin dei conti; ma tre, siamo già in troppi – si morse
il labbro – Per il duca, tre ribelli in un unico colpo sarebbero una vera
fortuna: è già abbastanza rischioso avventurarsi sotto il coprifuoco, con le
guardie del duca che pattugliano la città. Ma non si tratta soltanto di questo:
in un’altra situazione, nessuno rifiuterebbe il tuo intervento, ma non questa
notte. Sei ancora così debole… È meglio così, Fernand:
credimi.
Se
quello stesso individuo, quel Raphäel Lemoine che aveva sedotto sua sorella, si
era introdotto in casa sua, l’aveva insultato e provocato al punto tale da
generare in lui una reazione violenta, avesse osato indirizzargli un simile
discorso soltanto poche ore prima, Fernand era certo che gli avrebbe lasciato un
segno sulla faccia come ricordo, prima ancora che riuscisse ad avvicinarsi a lui
con atteggiamento così confidenziale.
-
Non m’importa – replicò il ragazzo, il volto angosciato e confuso – A me
interessa soltanto che qualcuno ritrovi Auguste quanto
prima.
Ed
ora, che diavolo succede? Vi è qualcosa di nuovo nel fatto che Fernand LaRoche
manchi totalmente della capacità di starsene al proprio
posto?
Non
voglio compatimenti da parte di nessuno. Non voglio sentire “mi dispiace,
Fernand”.
Ora,
mi aspetta soltanto l’attesa.
Chinando
lo sguardo, troppo orgoglioso per insistere, Fernand annuì distratto e si
strinse al braccio di Ambrosie, la quale parve condividere la sua medesima
frustrazione, benché avesse pilotato di nascosto la situazione, trasmettendo i
propri intenti a Dorian e Raphäel.
Dorian
gli rivolse un sorriso appena accennato e velato di tristezza, mentre con un
dito gli scostava un ricciolo dalla guancia.
-
Non dovete preoccuparvi – sussurrò a Fernand ed Ambrosie – Auguste non è uomo da
correre rischi senza aver calcolato, e sono certo che Raphäel abbia un asso
nella manica.
-
Io farei a meno di coltivare cieche convinzioni, Dorian – Emilie sovrastò il
gruppetto con un moto di disappunto.
-
Abbiamo forse una scelta migliore? – ribatté il giovane con petulanza – Salvo,
com’è ovvio, ignorare completamente il fatto che Auguste potrebbe eventualmente
essere in difficoltà ed abbandonarlo alla propria mercé. O magari… Ma che
sciocco, perché non averci pensato prima? Avvertire le autorità e lasciare tutto
nelle loro mani: sono certo che, nella posizione di Auguste, non vi sua
alternativa più valida! – concluse, sarcastico.
Emilie
seguì con lo sguardo carico di disprezzo il tragitto di Raphäel e Dorian, finché
quest’ultimo non richiuse il portone alle proprie spalle.
-
Pazzi! – sibilò con cupa amarezza, quando i due ebbero abbandonato la dimora di
Ambrosie e Fernand – Sono completamente pazzi. Che cosa sperano di
ottenere?
Ambrosie
non poté trattenere un mezzo sorriso compiaciuto, nonostante un filo d’angoscia
le stringesse il petto al pensiero di cosa, in quel momento, si stesse
inevitabilmente consumando fra le mura di Noir Trésor.
- E
tu, Ambrosie, non sei migliore di loro.
Il
mio cantuccio:
Salve
a tutti!
Innanzitutto,
chiedo infinitamente scusa per il ritardo (mai accumulato un intervallo così
lungo. *Soltanto* qualche mesetto innocente, che volete sia mai!^^). Purtroppo,
tra lezioni, esami, crisi d’ispirazione e casini vari, le cose hanno finito per
procedere inevitabilmente a rilento.
Passo
subito subito ai ringraziamenti: ai lettori, a quanti finora hanno seguito le
vicissitudini di Noir Trésor – magari
spedendomi sotto sotto qualche improperio, causa atroce ritardo
nell’aggiornamento –, a coloro che hanno aggiunto NT tra i Preferiti, nonché a
tutti coloro che hanno lasciato una piccola recensione al mio
lavoro.
In
particolare, Renovatio, la cui
recensione con relativa, splendida analisi del personaggio di Auguste mi ha
fatto incredibilmente piacere!^^
Acqua
torbida in superficie che non ha paragoni con quella del fondo… Ho amato questa
frase, capace di riassumere nelle sue sfaccettature la personalità di Auguste.
Estendo i miei ringraziamenti e mi scuso in anteprima se ho dimenticato
qualcuno… Purtroppo, alle 3.37 della notte di fronte alla pagina di Word può
accadere questo e altro!
Alla
prossima!^^
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Capitolo 17 *** Capitolo 17: Dove finisce la notte? ***
Capitolo
17
Dove
finisce la notte?
Dorian
affondò leggermente con gli stivali nello strato di fango che appesantiva il suo
passo sulla via di terra battuta duramente fustigata dalla pioggia incessante.
Arrestò forzosamente il proprio cammino, ansimando per la fatica e sorreggendosi
precariamente alle mura di un’abitazione.
Quanto
tempo era trascorso, senza fermarsi un istante, dacché si erano buttati in
quella folle ricerca? Immobile, Dorian si strofinò il volto fradicio di pioggia,
martoriato dall’infuriare crudele del vento che rendeva ogni singola stilla di
pioggia una minuscola, tagliente sferzata sulla pelle; sbatté rapidamente le
ciglia, nel tentativo di liberare le palpebre dalle gocce d’acqua piovana che
gli irritavano gli occhi. Ansimando profondamente, approfittò dei brevi istanti
di riposo di cui si era fortuitamente impossessato per riprendere fiato, ma
un’improvvisa folata d’aria gelida gli penetrò sin nei polmoni, mozzandogli il
respiro in una stretta che ben presto si tradusse in una sgradevole sensazione
di soffocamento. I suoi occhi s’inumidirono; tempestivo, scacciò via le lacrime
in un gesto secco, per poi dirigere nuovamente lo sguardo dinnanzi a sé e
tentare di penetrare con le proprie facoltà visive oltre la coltre caliginosa
che la pioggia e l’oscurità della notte proiettavano sulla propria
visuale.
Scorrendo
distrattamente sulla figura ammantata di nero che procedeva davanti a lui,
Dorian fu certo di percepirne il passo nervoso legato dalla sua medesima fatica,
benché il procedere spavaldo non tradisse il più debole accenno di
stanchezza.
Raphäel
si volse indietro solo quando non avvertì più alle proprie spalle il passo ormai
arrancante del compagno.
-
Dorian? Tutto a posto?
No.
Ti pare logico?
Il
giovane si fece schermo con la mano, proteggendosi dalla pioggia che gli batteva
insistente sulla faccia e dallo smorto chiarore del lampione che lo abbagliava,
finché non mise a fuoco Raphäel Lemoine che gli tendeva la
mano.
-
Coraggio…
Dorian
avvertì per un istante il calore amichevole della sua voce attraversarlo come
una fugace carezza lungo il viso; poi, una fitta dolorosa lo colse alla
sprovvista, trafiggendogli le tempie. Annaspò a mezz’aria, tastando con una
punta di sollievo il braccio che Raphäel gli aveva teso ed aggrappandosi
affannosamente a quell’unico supporto. Un languore sfiancante s’impadronì di
lui, offuscando la sua coscienza, e Dorian avvertì dentro di sé la sensazione,
priva di ragione e fondamento, che il proprio corpo stremato fosse in procinto
di sciogliersi come fango sotto la pioggia.
Si
piegò in avanti, accecato da una sorta di vertigine, mentre i suoi sensi
sollecitati evocavano prepotenti nella sua mente quella sensazione ormai
familiare di vuoto opprimente, simile del tutto a ciò che aveva provato cinque
anni prima, quando Noir Trésor si era svelata dinnanzi a lui come se fosse stata
la prima volta. E, stringendo ossessivamente fra le dita il mantello di Raphäel
quale unico appiglio con la realtà circostante, Dorian si avvide dolorosamente
che, sebbene avesse tentato spasmodicamente d’ingannare se stesso, disperdendo
le proprie energie in mille pretesti, mai, neppure per un istante era cessata in
lui la tragica consapevolezza di essere desolatamente solo, senza impronta di
conforto, dinnanzi alla propria condanna all’oblio.
Il
primo ricordo che riusciva a richiamare alla memoria riguardo alla propria
esistenza, era stato osservare le vie e le mura della città con gli occhi di un
uccellino appena uscito dal nido, nella mente l’ineluttabile consapevolezza che
quella che gli era stato detto essere la sua patria, la sua vita, la sua
esistenza, in quell’istante si era rivelata, ai suoi occhi privi di ricordi,
estranea e perduta come la percezione remota di una realtà tramandata nei
secoli. E frugare spasmodicamente in frammentate reminiscenze, alla ricerca di
un passato del quale si era reso conto, con drammatica lucidità, di non
rammentare più un solo brandello, era equivalso per lui ad ispezionare giorno
dopo giorno, con l’ardore della follia ed una sempre rinnovata delusione, un
cesto vuoto.
-
Dove andiamo, Raphäel? – mormorò con voce febbrile.
Dorian
fu certo di aver scorto lo sguardo risoluto ed imperscrutabile dell’altro
colorarsi di un tono inquieto.
- A
cercare Auguste – rispose il ragazzo con ovvietà,
fissandolo.
-
Auguste… – Dorian si lasciò andare sfinito contro il corpo di
Raphäel.
Il
lembo del lungo soprabito che stringeva in mano in un guizzo di forza
spasmodica, fu per lui, in quell’istante, il solo ponte di contatto fra la sua
mente in delirio e la realtà tangibile.
Ignorò
le miriadi di gocce incandescenti che sulla sua fronte madida di sudore si
mescolavano a quelle gelide della pioggia.
-
Auguste – proseguì in un’inquietante cantilena, lo sguardo perso – mi doveva
delle risposte. Mi deve la verità. Mi deve ciò che forse nessun altro potrà mai
rivelarmi.
Le
iridi scure di Raphäel scintillarono di bruciante perplessità, immerse nel
pallore del suo volto che, sotto il lampeggiare di un fulmine, assunse un
aspetto quasi perlaceo.
-
Di che diavolo parli? – lo incalzò, non senza abbandonare la presa sul suo corpo
barcollante.
- È
importante, Raphäel, è importante. Devi credermi – farneticò, gli occhi lucidi –
Cos’è un uomo che, tolti cinque anni della sua esistenza trascorsi nel dubbio e
nell’errore, non sa chi è?
-
Vorrei saperlo. Vorrei davvero saperlo, cos’è in realtà – sussurrò Raphäel,
immerso in fumosi pensieri, dopodiché aiutò Dorian a trascinare i suoi passi
esausti fino alla rientranza di un portone, parzialmente al riparo dalla
pioggia.
Scostò
dal suo volto i capelli ormai fradici e gli tastò la
fronte.
-
Come immaginavo – mormorò sommessamente.
Dorian
accennò a un debole sorriso, assaporando il momentaneo sollievo arrecatogli dal
tocco refrigerante della mano fredda sulla fronte rovente.
-
Stai letteralmente bruciando di febbre, amico mio, e ti reggi a malapena –
Raphäel mosse lo sguardo intorno a sé, angosciato, alla ricerca disperata di una
soluzione nella sua mente labirintica – Non puoi proseguire –
considerò.
Il
giovane non ebbe il tempo necessario a risollevare lo sguardo sulla figura
pallida ed arruffata in bilico dinnanzi a sé, quando, in capo a qualche secondo,
le dita di Dorian si avvinghiarono sul suo polso come
tenaglie.
-
Al diavolo! – ringhiò il ragazzo, l’espressione del viso
stravolta.
Serrò
le labbra, la mascella tremante e contratta per la
tensione.
-
Io… Posso farcela.
Raphäel
lo squadrò con fare scettico.
-
Sei più cocciuto di tutti i tuoi compagni messi insieme.
-
Oh, al diavolo tutto! – rincarò la dose Dorian, ignorando con ferrea ostinazione
lo sguardo carico di dissenso fisso sul proprio volto – Dobbiamo trovare Auguste
prima che sia troppo tardi, sperando che qualcuno non gli abbia già fatto la
festa. Auguste sa molte cose, ed io non posso lasciare che quell’impiastro si
porti nella tomba le risposte su cui… Su cui è una vita che non fa che
tergiversare.
Raphäel
corrugò la fronte, stranito dinnanzi a nebulose, inattese rivelazioni; era certo
che Dorian non stesse delirando: al contrario, a udire le sue parole, si faceva
strada in lui la sensazione sempre più lampante di non aver mai visto il suo
amico lucido e razionale come in quel momento.
Aveva
catturato sin da principio l’espressione un po’ superficiale e indolente, dal
primo istante in cui aveva posato lo sguardo per la prima volta su quel ragazzo
dai folti capelli biondi, i grandi occhi malinconici d’aquila ferita, attorniato
alla sua destra ed alla sua sinistra da due ragazze dalle labbra dipinte e lo
sguardo adescatore. Era il quadro che gli si era presentato da principio,
perlomeno fino al momento in cui Auguste e Lucien avevano accolto quel giovane
riottoso nelle fila degli oppositori del duca, imbottendolo di chiacchiere
sovversive fino ad ottenere il suo assenso.
Dorian
il rivoluzionario, cinico e astuto cospiratore ai danni del duca! Raphäel aveva
visto in lui, in un secondo momento, il ritratto della persona fredda, intuendo
le egoistiche ragioni che quasi certamente, al di là di un attaccamento
veritiero, lo spingevano a perseguire la sua missione. Aveva visto il ragazzo
sfuggente e malinconico che di tanto in tanto s’infiamma e agisce d’impulso,
rivelando inediti sprazzi collerici. Aveva visto l'insospettabile dolcezza,
mentre si prendeva cura del suo giovane amico Fernand e rassicurava Ambrosie.
Aveva intuito la razionale fiducia che egli pareva riporre nella ragazza,
lasciandosi istintivamente guidare dal suo fervore. E, certo non ultimo, l’aveva
visto liberarsi senza rimpianti della sua ennesima
maschera.
-
Continuo a non capire. Parli… degli avvenimenti dell’altra notte? – azzardò
Raphäel, rabbrividendo, il volto che si corrugava in un moto d’apprensione –
Credi anche tu che Auguste sappia più di quel che dice riguardo alla morte di
Lucien?
Dorian
scosse il capo con decisione, come a volersi liberare di un pensiero assillante
e nocivo. Tentò di mettere ordine nei suoi pensieri.
-
Prima, Raphäel, molto prima di tutto ciò; non si tratta esclusivamente di questi
ultimi avvenimenti – distolse il viso, come a voler eludere il discorso –
Nell’assurda ipotesi che sia questo il nodo della discussione, sappi che sono
pronto a giurare in qualsiasi momento che Auguste non avrebbe mai fatto del male
a Lucien. Ma quel che dici è vero in parte: Auguste nasconde tante cose.
Nasconde la verità sul mio conto, nasconde ciò che accadde veramente i primi
anni che seguirono la guerra civile; ed ancora, a distanza di anni, continua a
celare dettagli su dettagli riguardo a fantomatiche iniziative che preferisce
portare avanti di suo conto, senza chiedere consiglio a nessuno. Auguste è un
dissimulatore, ma agisce a fin di bene, o, almeno, qualcosa gli fa credere che
sia così. Non è facile intuire i suoi punti deboli. Non è mai stato facile, in
qualunque modo si sia tentato di decifrarlo.
- E
teme di rivelarti qualcosa sul tuo passato… – meditò Raphäel, abbandonato ogni
strascico di circospezione nel voler sondare le reticenze di quel ragazzo
enigmatico verso il quale ancora non riusciva a nutrire piena
fiducia.
Dorian
trasalì impercettibilmente, ed un guizzo di razionalità insinuò in lui il dubbio
che non sarebbe stata una buona idea rendere partecipe della propria miseria
quello che, fino a qualche ora prima, altro non era se non un mezzo sconosciuto
dalla mente perspicace avida di segreti altrui. Immobile, senza dire nulla,
fissò il proprio sguardo su di lui, nel tentativo disperato di carpire una
provvidenziale sfumatura che gli permettesse di comprendere se egli agisse in
buona fede oppure no.
Gli
occhi di Raphäel lo scrutavano penetranti e seri, spilli acuminati che lo
trafiggevano in un involontario battito di ciglia. Dorian fu certo, per un
istante, di percepire in quello sguardo quanto mai allettante una venatura
rassicurante e sincera, soffusa di un inconsueto afflato altruistico. Stava
dinnanzi a lui, ritto e orgoglioso come una statua scolpita nel marmo, incurante
del temporale che gli aveva inzuppato i capelli e gli abiti, le rare movenze del
corpo spontanee e nervose, il volto pulito e risoluto di colui al quale non
occorre tessere fallaci promesse pur di procacciarsi l’altrui
fiducia.
Meticoloso
come un mercante che esamina con sospetto l’acquirente sconosciuto, Dorian
scrutò le iridi corvine di Raphäel che parevano irradiare un vago senso di
calore, e percepì la strana inquietudine che il movimento rapido della mano
affusolata fra i capelli tradiva, insieme ad un’inconscia brama di controllo. Un
presentimento liquido e dilagante eruppe nella mente di Dorian, accrescendo,
insieme al potere di quello sguardo, il peso della solitudine che gli gravava
sul cuore.
Chinò
lo sguardo, combattuto fra un’eccessiva diffidenza che lo metteva in guardia dal
rivelare ulteriori particolari circa la sua condizione, giacché sapeva – e
temeva – di essersi svelato sin troppo; dall’altra parte, la consapevolezza
della propria solitaria malinconia che lasciava scaturire in lui lo slancio ed
il desiderio di squarciare il velo del proprio gelido ed autolesionistico
riserbo.
-
Vedi il segno che ho sulla testa?
Dorian
si scostò con la mano la lunga ciocca ondulata che gli ricadeva sul viso,
scoprendo la tempia delicata percorsa dalla cicatrice leggera di una profonda
scalfittura parzialmente celata all’attaccatura dei capelli. Sul suo volto
comparve un sorriso sarcastico.
-
Ciò che vedi è quel che resta dell’amorevole omaggio del duca du Lac, la sera in
cui i traditori gli consegnarono la città. Tutto quello che ora posso dirti, fu
Auguste a rivelarmelo, a dire il vero, senza preoccuparsi particolarmente di
quanto, sin d’allora, avessi compreso che mentiva. Stando a quanto mi disse,
quella notte, insieme a dei compagni, organizzai un’imboscata ad un contingente
del duca acquartierato sotto le mura della città posta sotto presidio armato, ma
l’iniziativa non andò a buon fine, e fummo catturati e condotti nei carceri.
Mentre la guerra civile infuriava, il duca decretò sommarie condanne a morte per
tutti i prigionieri accusati di tradimento… Tradimento, capisci, Raphäel? – Dorian
rise istericamente – All’alba, le prigioni furono circondate ed invase dai
ribelli con un attacco a sorpresa il cui fine era impedire l’esecuzione delle
sentenze a morte. Non servì a nulla: Auguste disse che nessuno dei prigionieri
riuscì a salvarsi.
Dorian
respirò profondamente, il volto estatico, mentre un fiume di sensazioni pareva
premergli incessante sulle labbra, desiderando di liberarsi degli argini ormai
irrimediabilmente abbattuti della sistematica reticenza conservata fino a quel
momento.
-
Fui tra i pochi a riportare a casa la pelle, benché ancora oggi non riesca a
capacitarmene – riprese, in capo ad una manciata di secondi – Durante lo
scontro, un mercenario del duca tentò di portare a termine l’ordine ricevuto e
mi colpì alla testa. Credeva di avermi ucciso insieme ad altri prigionieri, e,
in effetti, riuscii a scampare solo per miracolo alle ferite riportate e
all’incendio che divampò. Fu Auguste a trascinarmi fuori da quell’inferno e a
portarmi in salvo. Non ha mai chiarito il perché del suo gesto, e il resoconto
sull’accaduto, se vi rifletti per qualche istante, ha dei risvolti… improbabili,
diciamo così. Ad ogni modo, mi svegliai soltanto un paio di giorni dopo, Dio sa
in quali condizioni… Non ricordavo nulla, così come tu mi vedi in questo
momento.
Dorian
tacque, interrompendo il fluire frenetico del proprio racconto. Fissò la mano
che Raphäel gli aveva posato sulla spalla, quasi ad incoraggiarlo a
proseguire.
-
Auguste fece a malapena in tempo ad informarmi di quanto mi era accaduto –
riprese in un mesto sussurrare che contrastava visibilmente con la frenesia che
l’aveva pervaso fino a pochi istanti prima – O forse si limitò ad imbastirmene
una versione pressoché attendibile, chi può dirlo? Mi affidò a persone per così
dire di sua fiducia e, con Lucien, scomparve dalla circolazione. Si rifece vivo
in capo ad un anno, mi rintracciò e si prese cura di me, o almeno vi tentò; era
come se si sentisse in colpa per qualche oscura ragione – Dorian chinò
tristemente il viso, lasciando sfumare il discorso nei propri
pensieri.
-
Ma… – Raphäel prese fiato prima di parlare, guadagnando tempo – Perdona la mia
indiscrezione: Auguste non ti fece mai parola almeno riguardo alla tua
famiglia?
Dorian
sobbalzò, preso alla sprovvista. Scostò di malagrazia la mano amichevole che
aveva indugiato sulla sua spalla, trasmettendogli l’illusione di una confessione
indolore. Raphäel lo studiava senza mutare espressione, gli occhi neri avidi di
penetrare nei suoi intimi pensieri come la volpe che s’introduce di soppiatto
nell’ovile incustodito.
Sapevo
che l’avresti detto, prima o poi. Cosa ti dà il diritto di carpire i miei
segreti senza che io possa nulla per impedirlo, vittima di diaboliche
congiunzioni che m’incatenano ai tuoi occhi, nella vaga illusione di potermi
fidare?
Dorian
distolse dolorosamente lo sguardo. Tentò di recuperare il controllo di sé in
modo da non permettere che la propria disperazione erompesse furiosamente in un
oceano di lacrime e di amarezza. Non sarebbe crollato. La pioggia che gli
bagnava il volto, con ogni probabilità, si sarebbe confusa tra le lacrime che,
quasi senza preavviso, avevano preso a scorrergli lungo le guance. I suoi occhi
luccicarono minacciosi nella penombra.
-
Di mia madre non ho mai saputo nulla – replicò con voce atona, sbrigativo –
Nulla, capisci? Mio padre, a quel che mi fu detto, perì durante gli scontri, e
non so nient’altro.
Raphäel annuì
mestamente.
-
Perdonami, Dorian.
Il
giovane scosse il capo, quasi a voler cancellare l’impressione che Raphäel si
sentisse in qualche modo responsabile della sua angoscia.
-
Non volevo farti stare peggio. Ne hai mai parlato con nessuno? –
seguitò.
-
No – rispose Dorian, quasi in automatico – Ne siamo al corrente soltanto noi
due, se eccettui Ambrosie e Fernand. In parte.
Fernand,
già. Il mio giovane amore infelice, condannato, per un sadico, tremendo gioco
del destino, ad un amore altrettanto infelice. Ambrosie, il mio debole lume di
coscienza, l’unico spiraglio che mi è parso d’intravedere in questa tana di lupi
feriti, troppo presi a fuggire dai propri fantasmi per costituire un autentico
punto di forza cui aggrapparsi; lei è un appiglio che mi sfugge dalle mani, che
vorrei e non riesco ad afferrare.
E
Raphäel Lemoine che si aggira indisturbato nella mia mente, pronto a dissolvere
le mie vane certezze, disposto tanto ad offrire la propria spalla, quanto a
lasciarmi vacillare.
Respirò
profondamente, la mente confusa, lasciando diradare i propri pensieri nella
greve cappa di silenzio che era calata fra loro, lo sguardo di Raphäel che
vagava sibillino su di lui.
Ed
ora, cosa ti aspetti che faccia? Non dici più nulla? Non hai ottenuto tutto ciò
che desideravi sapere: è così? Dovrei forse lasciarmi andare sotto il parziale
riparo di uno squallido portone, in attesa dell’alba, sperando che le forze mi
consentano di barcollare fino a casa? Dovrei elemosinare la tua
pietà?
Dorian
si riscosse bruscamente.
-
Ora potremmo riprendere la nostra ricerca, se non chiedo troppo – esordì con
voce asciutta – Sempre che tu abbia la buona grazia di spiegarmi dove diavolo
hai intenzione di trascinarmi.
Raphäel
corrugò la fronte, soprappensiero.
-
Hai udito le parole di Emilie? Auguste aveva in sospeso alcuni affari con
rivenditori d’armi rubate. Per la precisione, armi e munizioni destinate, in
origine, all’esercito del duca. Se ho ben compreso la faccenda, credo di avere
un’idea piuttosto chiara sull’identità delle persone con cui ha a che fare e sul
luogo della ricettazione.
Dorian
annuì.
-
Se ne sei davvero convinto, aggiungerei che non c’è un istante da perdere: nella
possibilità remota che Auguste si sia lasciato fregare e, in questo momento, si
trovi impegnato in una sana capatina all’altro mondo, la speranza di poter
estorcergli le verità cui ambisco finirebbe immancabilmente a prostituirsi –
scandì con fare sarcastico, lo sguardo duro.
Sul
volto di Raphäel comparve un sorriso d’ironico, sfrontato
compiacimento.
-
Fiero e diritto al bersaglio, poche chiacchiere e sentimentalismi di sorta –
commentò – La vita di Auguste conta nella misura in cui può tornarti utile
un’illuminante chiacchierata riguardo ai vecchi tempi: è
così?
Il
volto di Dorian avvampò per la sorpresa e il risentimento. Vai a farti fottere, Raphäel, fu tentato
di rispondergli, al colmo dell’imbarazzo. Poi, inaspettatamente, una risatina
isterica gli graffiò la gola.
-
Finiamola una volta per sempre di sparare idiozie. Con tutto il rispetto che
nutro nei tuoi riguardi, Raphäel, proprio tu, non puoi venire qui e propinarmi
certe piacevolezze! La tua bella concezione così disinteressata, illuminata ed
infiorettata di buoni propositi, tanto accorata e densa d’ideali, può far presa
su Auguste, forse, su Ambrosie, benché io nutra giusto qualche perplessità in
proposito, ma, di certo, non su di me. Raccontala a qualcun altro, amico mio, la
favola del buon rivoluzionario che opera animato solo ed unicamente dalla volontà di
perseguire il bene di un popolo che è pronto a puntare il dito su di lui e
spedirlo, dalla piazza o dalla locanda in cui arringa il suo incostante
uditorio, direttamente in carcere e sulla forca non appena i cani da guardia del
duca incalzano. Nessuno si giocherebbe la propria vita senza una buona ragione
per farlo. È inutile che t’intestardisca a sondare la vera o presunta
plausibilità delle intenzioni altrui e cercare di sancire la differenza fra il
patriota che agisce per puro scopo altruistico, e il comune mortale che conserva
un occhio di riguardo per i possibili risvolti d’interesse personale che
potrebbero derivargli dall’impugnare una bandiera scomoda soltanto in apparenza.
Per cui, con me puoi pure gettare la maschera – Dorian gli sorrise indulgente –
Ti preferisco schietto e privo di inutili fronzoli, mon ami.
Raphäel
ricambiò di buon grado il suo sguardo d’intesa, mascherando il lieve turbamento
che aveva prodotto in lui quel discorso franco e privo di consolatori eufemismi
attraverso il quale, per la prima volta, qualcuno si era avvicinato
pericolosamente a denudare una minuscola porzione di lui.
-
Libero di credere quel che preferisci – replicò Raphäel, senza lasciar trapelare
il leggero smarrimento che l’aveva colto – Ad ogni modo, Dorian, accusarti su
due piedi di non avere a cuore nemmeno per un po’ la vita di un amico non
rientra esattamente nel mio stile.
-
Parliamo chiaro – lo interruppe Dorian – Non posso certo dirmi entusiasta, a
pochi giorni dall’uccisione di Lucien, all’idea di perdere un’altra persona. Ad
ogni modo, Raphäel, ora che conosci il nodo che mi lega ad Auguste, ti
pregherei, d’ora innanzi, di non giudicare i miei intenti e di non sottovalutare
i motivi che mi spingono a ricercare la verità ad ogni costo né il mio
attaccamento alla causa e ai miei compagni.
-
Sei sicuro di farcela a proseguire? – mutò repentinamente discorso
Raphäel.
-
Non è la prima volta che prendo un colpo di freddo, e non credo morirò per
questo – lo liquidò Dorian con decisione.
-
Sei ancora molto caldo.
-
Ed ho la testa che mi scoppia, tanto per fare il punto della situazione –
istintivamente, portò la mano a sfiorare la vecchia ferita ormai appena visibile
sulla tempia, ferita che gli aveva lasciato come strascico la perdita della
memoria e occasionali fitte di dolore – Proseguiamo.
* *
*
- È
stata una trovata di tutto rispetto, la tua, devo
riconoscerlo.
Il
volto di Dorian s’incupì in un’espressione di stizzito sarcasmo. Tamburellò
nervosamente con le dita, le braccia incrociate sul petto, nel tentativo di
dissimulare la stanchezza ed il profondo malessere che lo rendevano malfermo
sulle gambe.
-
Non capisco. Sul serio, non capisco. Eppure non vi è altra spiegazione, ed i
miei calcoli non erano campati in aria – lo sguardo vigile di Raphäel saettò a
destra e a manca, confuso.
-
Già – replicò Dorian – Se solo potessimo spingerci all’esterno delle mura di
questa città maledetta!
-
Con i soldati di guardia pronti a coglierci in flagrante, sarebbe certo l’ideale
– rincarò la dose Raphäel – E poi, senza dubbio, avremo modo e tempo per
spiegare come c’eravamo soltanto avventurati alla ricerca di un nostro amico in
vena di scherzi che, giusto per ingannare la monotonia, non aveva trovato un
diversivo migliore della compravendita clandestina di armi trafugate al duca in
persona; e avrebbe senz’altro restituito il maltolto, come necessariamente si
deduce.
Dorian
ansimò dolorosamente. Serrò le palpebre, eludendo il senso di vertigine che la
vista annebbiata gli procurava. Represse un moto d’ira.
-
Riesci a vedere qualcosa?
Raphäel scosse il
capo.
-
Qua, dubito che vi sia anima viva, se si eccettuano le guardie sugli
spalti.
Protetto
dal fortuito nascondiglio che la penombra di un vicolo periferico gli aveva
offerto, il giovane aguzzò la vista e tentò di proiettare lo sguardo al di là
della densa foschia, spingendosi con le proprie facoltà visive oltre le porte
della città accuratamente presidiate. Al di là delle mura superbe, la campagna
addormentata, disseminata da rare dimore intercalari e baracche di pescatori, si
estendeva a perdita d’occhio, immersa nella notte ormai in declino e rischiarata
ad oriente dal pallido chiarore dell’alba che lasciava intravedere, simile ad
una scia serpentina fra la bruna vegetazione, il solco argenteo del fiume fino
al molo poco distante. La pioggia era cessata, il vento si stava placando.
Raphäel si massaggiò le tempie in un moto di cupa frustrazione, alla ricerca di
una soluzione alternativa che potesse offrire motivazioni lineari e plausibili
alla scomparsa di Auguste.
-
Potrà sembrarti una follia – proruppe infine con fare ambiguo, un sorriso
paradossalmente divertito che campeggiava sul suo viso – ma temo di aver
compreso i movimenti del nostro uomo.
Dorian
annuì, lo sguardo assente, sentendosi vacillare; poi, senza che un disperato
guizzo d’accortezza lo inducesse a cercare un provvidenziale sostegno, avvertì
il dolore al capo ottenebrargli i sensi, finché non si lasciò andare a peso
morto contro il corpo di Raphäel.
-
Io… Sto bene, dannazione… – biascicò, il volto cereo corrugato in una smorfia
sofferente – Ora è passato, Raphäel, dico davvero – soggiunse, tradendo nella
voce un malcelato nervosismo.
Sbatté
le palpebre, la realtà circostante che seguitava a vorticare in una danza
furiosa davanti ai suoi occhi, la mente in deliquio, i pensieri che vi si
addensavano senza seguire alcun disegno coerente, e l’alta figura di Raphäel
Lemoine china a sostenere il suo corpo tremante.
-
Credo possa bastare così, Dorian. Torniamo indietro.
Il
ragazzo emise un indecifrabile mugugno d’assenso. Con fatica, si raddrizzò sulle
proprie gambe. Non sarebbe stato particolarmente gravoso stringere i denti
un’altra mezz’ora di cammino: le membra lo avrebbero retto ancora, ma la testa
gli faceva troppo male.
-
Sono stanco. E… Non ricordavo facesse tanto freddo –
sussurrò.
Raphäel
gli passò un braccio attorno alle spalle.
-
Sei allo stremo delle forze, amico mio. Riesci a resistere ancora per qualche
isolato?
Il
ragazzo acconsentì con un cenno appena percettibile del capo; chiuse gli occhi,
quando, per la seconda volta, fu sfiorato da un tocco quanto mai fresco e
delicato. Scosso da un impercettibile sospiro, intrecciò le dita a quelle di
Raphäel in un gesto del tutto istintivo e portò per un istante la sua mano sulla
propria guancia accaldata.
In
silenzio, volgendosi di lato, il giovane strinse le palpebre fin quando la fitta
caligine che gli ottenebrava la visuale si diradò, consentendogli, via via che i
tratti divenivano sempre più nitidi dinnanzi a sé, di discernere il volto di
Raphäel nel gioco di luminescenze confuse che lo abbagliava, individuando
progressivamente i capelli scuri e la bocca rosata che spiccava sul candore del
viso.
- E
così, Raphäel… – rammentò, delirante – Ora sai tutto quel che mi riguarda. Io…
Non dovevo metterti di mezzo, capisci?
-
Non devi preoccuparti – Raphäel gli scostò i capelli biondi dal
viso.
In
quel momento, Dorian si avvide della breve, pericolosa distanza che divideva i
loro volti. Rabbrividì, distogliendo lo sguardo in un sussulto, ed i suoi occhi
s’inumidirono di lacrime trattenute.
Dunque,
questo è quanto, Raphäel. La mia bocca sarebbe dovuta restare serrata dinnanzi a
qualunque tipo di richiesta; non avevo tenuto in conto di poter spiattellare i
fatti miei ad un mezzo estraneo. Eppure, la fragilità della mia solitudine mi ha
vinto miseramente.
Guardami
negli occhi, Raphäel: nulla è come appare. Non oserei mai formulare una mera
richiesta d’aiuto. Le mie labbra si chiudono saldamente soltanto all’idea, ma
nessuno si è mai avvicinato a tal punto a quella parte di me che bramavo
soltanto tenere nascosta. Eccetto Fernand, e in una sola
occasione.
Fuggo,
quando in realtà vorrei gettarmi ai tuoi piedi e chiederti di non abbandonarmi
al mio dolore.
Non
lasciarmi solo, Raphäel. Non mi abbandonare anche tu. Ho tentato di aggrapparmi
ad Auguste, l’unico che avrebbe potuto offrirmi il suo aiuto se soltanto non si
fosse chiuso nella sua muta ed ostinata reticenza, ma lui mi ha voltato le
spalle, rifiutandosi di rendermi partecipe di una verità che mi
appartiene.
Ed
ora… Non capisco che cosa stia avvenendo in me. Perché sento l’esigenza che tu
mi stia accanto? Quale incantesimo, quale maledizione i tuoi occhi hanno tessuto
su di me?
Non
abbandonarmi, Raphäel. Non chiedo nulla, ma questa sta divenendo più che una
semplice richiesta d’aiuto.
Senza
rendersi conto pienamente di quanto stesse accadendo, Dorian si strinse a
Raphäel. Tremante, pervaso da un languore dal sapore oscuro, insinuò il proprio
volto nell’incavo fra il collo e la spalla, lasciando morire le proprie lacrime
sul panno scuro del soprabito del compagno. Immobile, abbrancò possessivamente
le spalle di Raphäel, aggrappandosi con furia spasmodica al mantello gocciolante
e constatando dolorosamente quanto non vi fosse altra via d’uscita, nemmeno la
più glaciale indifferenza, che potesse opporre una sfacciata resistenza ai
propri mali: neppure cercare di relegarli nell’oblio. La sua ancora di salvezza,
l’unica in grado di concedere al suo animo prostrato un rasserenante tepore, in
quel momento si configurava paradossalmente con le ampie spalle del giovane
Raphäel Lemoine, immobile ed impassibile dinnanzi al suo abbraccio carico di
disperazione, sordo alla sua muta richiesta di un gesto d’affetto, di un moto di
comprensione e solidarietà che costituisse per lui un balsamo leggero sulle
ferite. Le braccia di Raphäel ricaddero rigide lungo i fianchi, il volto
atteggiato in un sorriso imbarazzato e sorpreso, appena impressionato dal gesto
dell’altro; il suo sguardo, gentile ma scostante, non tradiva in sé alcuno
slancio di dedizione, quasi sfiorato, improvvisamente, dal dubbio di essersi
avvicinato troppo, di avergli offerto simbolicamente il proprio aiuto e dato
prova, erroneamente, di un attaccamento che non sentiva.
Si
era mostrato falsamente partecipe del suo dolore soltanto per ottenere le
informazioni che desiderava? Se il suo corpo ne avesse avuto la forza
necessaria, se la sua volontà in quel momento non fosse stata così fragile,
Dorian ne fu certo, gli avrebbe afferrato e stretto fra le mani il lungo collo
bianco fino a fargli sputare fuori a che diavolo di gioco stesse
giocando.
Quasi
senza il tempo necessario a razionalizzare i propri timori, Dorian percepì la
mano sottile di Raphäel carezzargli la nuca ed insinuarsi fra i suoi capelli.
Non aveva ricambiato il suo abbraccio anelante un appiglio, considerò, ma nel
suo sguardo aleggiava un impulso amichevole.
In
silenzio, lambì con lo sguardo la piega rosea delle labbra di Raphäel, incurvata
in un vago sorriso benevolo che desiderava infondere sicurezza; scorse rapito
lungo l’ovale fine del volto, la fronte ampia e serena, seguendo il contorno del
profilo affilato e leggermente irregolare, non privo di una delicata
raffinatezza. I capelli, ravviati disordinatamente all’indietro, gli
ruscellavano fin sulle scapole come una soffice criniera. Non era esattamente
bello: tuttavia, Dorian non riuscì a decifrare quale delicata alchimia
componesse i lineamenti alteri e vagamente appuntiti del suo viso in una
proporzione tanto attraente.
Raphäel
gli rivolse un breve tocco rassicurante sulla spalla, per poi riprendere il
tragitto.
-
Dove hai intenzione di portarmi, ora? – proruppe Dorian a metà percorso, nel
breve istante di lucidità cui pervenne dacché si era accasciato esausto e
febbricitante tra le braccia di Raphäel – Casa mia si trova esattamente
dall’altra parte della città.
- È
troppo distante – replicò Raphäel, sibillino – Molto meglio chiedere “asilo
politico” da Auguste: non sei d’accordo?
Auguste?
Dorian
spalancò le palpebre, smarrito: cadeva nel vuoto persino il motivo per cui
quella notte si erano avventurati alla fantomatica ricerca di
Auguste.
Il
suo volto si modellò in un sorrisetto spazientito: era troppo, con Raphäel che
pareva nutrire un insano divertimento nel disorientarlo con le sue idee astruse.
Troppi misteri, troppi punti oscuri che lo confondevano. Ripensò a tutte le
stranezze nelle ultime ore trascorse, rendendosi progressivamente conto di
quanto quegli strani atteggiamenti divenissero sempre più
esasperanti.
-
Ma Auguste non… – tacque di colpo, interrompendo il flusso delle proprie
parole.
Il
suo volto s’illuminò, quando, quasi inaspettatamente, comprese quale intuizione
si stesse aggirando da un bel po’ nella mente del
compagno.
-
Hai capito bene, Dorian. Ora come ora, chi può escludere che Auguste, in questo
momento, non dorma serenamente il sonno del giusto?
Dorian
trattenne a stento una risata fuori luogo, meditando fra sé che “serenamente” e
“Auguste” non parevano esattamente vocaboli adatti a convivere pacificamente
all’interno di un’unica frase. Tuttavia, accantonò, per una volta, l’intenzione
di dar voce alle proprie bizzarre riflessioni: il malessere e la tensione
facevano oscillare pericolosamente il suo animo dalla tristezza ad una sorta di
malata ironia. Chiuse gli occhi, sostenuto da Raphäel lungo il cammino,
lasciandosi guidare istintivamente dai suoi passi.
-
Avevo ragione – Raphäel scosse il capo, meditabondo – C’è un lume acceso. Se
siamo abbastanza fortunati, qualcosa mi dice che Auguste non si è lasciato
fregare.
Dorian
annuì, assorto, troppo debole per sollevare lo sguardo sul tenue chiarore che
filtrava dalla finestra chiusa.
-
Dammi la tua pistola, Dorian.
Il
giovane inarcò il sopracciglio in uno sguardo stranito.
-
Cos’altro hai in mente, per stasera? Credevo fossero finite le
sorprese.
Raphäel
socchiuse gli occhi con fare sagace.
-
Una candela accesa, Dorian. O Auguste si è affrettato con le… trattative e,
nella migliore delle ipotesi, è riuscito ad uscirne integro e a non causare
altri disastri. Oppure qualcun altro si è introdotto in casa sua. Sappiamo
soltanto che c’è qualcuno in casa… Non necessariamente di chi si
tratta.
Un
lampo di paura balenò per un istante nelle iridi azzurre di Dorian, stemperato
dal languore che la febbre aveva prodotto in lui: se soltanto fosse stato in
pieno possesso delle proprie facoltà, a quel punto, considerò, con ogni
probabilità, si sarebbe introdotto in casa armato del primo oggetto contundente
che gli fosse capitato sotto mano. Stavolta, fu costretto ad accasciarsi sfinito
accanto al portone, lasciando l’iniziativa a Raphäel.
- È
soltanto una precauzione: non voglio allarmarti.
Uno
sguardo di leggero disappunto si posò su Dorian.
-
Avrei dovuto riaccompagnarti a casa e procedere da solo – meditò fra sé Raphäel
– In due, potevamo certo sentirci più al sicuro, ma così, non sono certo di
riuscire a proteggere due persone.
Dorian
chinò mestamente il capo, rendendosi conto di quanto, in quel momento, la sua
presenza rappresentasse un fardello ed un pericolo per entrambi, impossibilitato
com’era a proteggere se stesso e, eventualmente, l’altro.
L’espressione
fredda di Raphäel mutò in un mezzo sorriso incoraggiante. Circospetto, tastò il
portone.
-
Come immaginavo – sussurrò – La porta è aperta.
È
un mistero come, nel momento in cui ci coglie la paura, temendo un generico
pericolo, ci lasciamo ingannare da banali accorgimenti, rifletté
distrattamente Dorian, e il suo pensiero corse a Fernand, la notte in cui
soltanto il suo provvidenziale intervento aveva posto rimedio alla sua
imprudente disattenzione.
La
notte in cui Lucien era morto aveva sconvolto ogni loro certezza, annegandoli
nella confusione e ridefinendo i contorni del rischio concreto cui ogni giorno
andavano incontro; Dorian rammentò il sentimento di rabbia inconsulta che aveva
colto Fernand, al punto da annebbiargli la mente, alla vista di Raphäel che
s’ingeriva con disinvoltura nelle sue iniziative con il benestare di sua
sorella. Ora, riflettendovi, Dorian si rese conto che, al di là di tutto il
resto, la vicinanza di Raphäel non era poi così male.
Lo
udì lasciarsi andare ad un sospiro di sollievo, quando la porta si fu spalancata
dinnanzi a lui. I lineamenti del suo volto si rilassarono in un’espressione di
sollievo.
-
Per questa volta ci è andata bene – sibilò.
Entrarono.
Il tiepido bagliore di una candela accesa rischiarava l’androne immerso nella
semioscurità, creando un curioso gioco di chiaroscuri sulle pareti in fondo alla
stanza e nella fosca cavità del focolare spento e polveroso. Una bottiglia di
vino vuota giaceva abbandonata in un angolo. Dorian sbatté le palpebre, ed i
suoi occhi, abituandosi gradualmente alla penombra, poterono finalmente mettere
a fuoco ciò che gli premeva più di ogni altra cosa. Deglutì, immobile, il
braccio rigido intorno alle spalle di Raphäel che l’avevano sorretto durante il
tragitto.
Auguste
giaceva sul divano, le membra distese in una posa indolente, ed il respiro
affannoso ed il profondo sollevarsi e abbassarsi del torace tradivano l’intensa
agitazione che gli attanagliava le viscere, come se qualcosa l’avesse spaventato
a morte. I capelli arruffati incollati al viso, la fronte umida e gli zigomi
lievemente chiazzati di rosso denunciavano una modesta ebbrezza. Sobbalzò,
percosso da una folata di puro terrore, nell’attimo in cui percepì all’interno
della stanza il movimento delle due figure nell’ombra. I tratti del suo volto
tornarono distesi, non appena identificò dei due intrusi.
Dorian
si avvide di quanto l’ombra terrorizzata e sconvolta che offuscava la superficie
tremante e lucida degli occhi di Auguste non si fosse diradata. Avvertì il suo
sguardo trafiggerlo come una coltellata ben assestata, non appena fu nel raggio
della sua visuale.
Auguste
soppesò Raphäel e Dorian, atterrito, le sopracciglia aggrottate come se una pena
infinita gli gravasse sul cuore, tentando di mascherare l’espressione stravolta
ed indifesa.
-
Che diavolo ci fate da queste parti?
Raphäel
attese prima di rispondere. Lasciò andare Dorian su una poltrona e gli rivolse
uno sguardo eloquente, facendogli intendere che avrebbe pensato lui a chiarire
la faccenda con Auguste.
-
Eravamo solo preoccupati per te – replicò laconicamente – Tua moglie ci ha detto
tutto – si affrettò a precisare con circospezione.
Auguste
distolse lo sguardo, senza reprimere una nota di contrarietà nella
voce.
-
Emilie non è mia moglie, non è una dei ribelli e non sa cosa significhi esserlo
– tagliò corto – È tipico di chi ancora non c’è dentro fino al midollo,
ragionare nella semplice ottica del pericolo.
-
Non cercare di confondere le acque – gli intimò Raphäel, lo sguardo duro – Che
hai fatto delle armi?
Il
volto di Auguste impallidì. Serrò le palpebre, distogliendo lo
sguardo.
-
Non mi va di discuterne, Raphäel, non ora. Lasciami tranquillo –
mormorò.
-
Mi spiace approfittare della fragilità dei tuoi nervi, Auguste, ma, nel momento
in cui un tuo gesto poco cosciente rischia di mettere seriamente a repentaglio
le nostre iniziative, penso che abbiamo tutti il diritto di sapere cos’è
accaduto stanotte. Che ne è stato dell’acquisto delle
armi?
-
Di che armi parli, Raphäel? – Auguste gli rivolse un breve sogghigno sarcastico,
mutando repentinamente espressione.
-
Sai a quali armi mi riferisco, e non mi pare il caso di perderci in futili
dettagli – soggiunse il più giovane con voce asciutta.
Auguste
lo studiò in silenzio, le braccia incrociate sul petto, gli occhi socchiusi in
un moto infastidito.
-
Niente armi – decretò infine.
Raphäel
vide comparire nelle sue mani un piccolo sacco di tela
rigonfio.
-
Questi sono i vostri cinquecento scudi e, nel momento in cui l’affare è saltato,
non mi servono più. È stato un piacere.
Raphäel
fece scorrere fra le mani le monete d’argento che gli erano state porte,
disorientato.
-
Che cosa significa questo, Auguste?
-
Significa che due bastardi hanno cercato d’ingannarci. Non c’è stato alcun furto
– improvvisò Auguste, lo sguardo alterato.
-
C’è stato, te lo posso assicurare – lo contraddisse Raphäel con logica
inoppugnabile – Che fine ha fatto, piuttosto, la
refurtiva?
-
Sparita, presuppongo. I nostri uomini “di fiducia”, chissà per quale ragione,
avevano una gran fretta di portare a termine l’affare e darsi alla macchia senza
lasciare tracce che potessero ricollegarli al furto. Avrebbero poi recuperato in
tutta calma il bottino. Cos’altro c’è che non va, Raphäel? – sbottò infine,
recuperando il proprio piglio rigido e sprezzante – Lo scambio è andato a farsi
benedire, sono d’accordo, ma a te questo non importa, nel momento in cui hai di
nuovo con te i soldi. Ed ora, se non ti dispiace, vorrei non sentir più parlare
di questa faccenda. Fine della questione – gli intimò fra i
denti.
Raphäel
serrò le labbra, annuendo poco convinto. Vide Auguste allungarsi stancamente sul
divano, l’espressione impenetrabile del volto tradita dall’inquietante luccichio
in fondo allo sguardo allucinato a causa dell’alcool e
dall’apprensione.
-
Spero di aver sciolto ogni dubbio – Auguste chiuse gli occhi, ravviandosi i
capelli con fare indolente.
Raphäel
si volse nuovamente verso Dorian, meditando fra sé che forse sarebbe stato
meglio tornare sull’argomento nel momento in cui Auguste avesse recuperato la
propria lucidità, quando qualcosa richiamò l’attenzione di
entrambi.
-
Che diavolo hai fatto al braccio, Auguste?
-
Eh? – il giovane sollevò il braccio innanzi a sé in un istintivo moto di
difesa.
Senza
preamboli, Raphäel serrò le dita sul suo polso, esaminando impressionato la
manica che ricadeva abbondante. Vide distintamente Auguste mordersi il labbro,
irritato. Persino Dorian lo fissava con gli occhi sgranati, e sul suo volto vi
era una grande tensione.
-
Questo è sangue, Auguste, fino a prova contraria.
Auguste
si ritrasse in un sibilo frustrato, come un gatto impreparato dinnanzi ad un
attacco improvviso.
- È
fondamentale, per te, sapere che quei due hanno… Come dire, opposto resistenza?
C’è stata una colluttazione, tutto qui, e, se tutto ci fa ben sperare, credo che
i nostri uomini abbiano abbandonato ogni velleità di raggirarci – esaminò
l’ampia chiazza rossa sulla propria camicia, meditabondo – Non è sangue mio, ad
ogni modo.
Un
largo sorriso tagliò in due il volto pallido di Raphäel come uno squarcio
sanguinolento.
-
Geniale, Auguste. E ora, ti aspetti forse che io ti creda?
Le
mani di Raphäel si strinsero come tenaglie sul suo
colletto.
-
Libero di pensarla come preferisci. In ogni caso, non sono tenuto a rendere
conto a te – gli sussurrò Auguste con petulanza e, con uno scatto infastidito,
si liberò della sua presa.
-
Se è andata esattamente come dici tu – replicò Raphäel, livido in faccia – Cosa
mi garantisce che i tuoi complici non tenteranno di
ricattarci?
-
Non tenteranno di fare un bel nulla, a quanto sembra – la voce di Auguste tremò
– Te lo posso assicurare: la mia è pressoché una certezza. Del resto, la roba è
ancora nelle loro mani: ne facciano quel che preferiscono. Non sarebbe astuto,
da parte loro, denunciarmi per aver commissionato il furto ed ammettere di
essere stati loro a sottrarre le
munizioni del duca. Inoltre, se mi conosci bene, Raphäel, il sangue non mi è mai
piaciuto. Polveri e fucili per armare il
popolo contro la tirannia? Divertente, se quel che desideri è una
carneficina in piena regola. Se la cosa non ti dispiace, amico mio, la nostra
collaborazione termina qui – sentenziò.
Raphäel
trasalì alle sue parole. Il suo volto avvampò di collera.
-
Se è così che stanno le cose – mormorò con freddezza – Tu non hai capito nulla
di me. Non sono un fanatico né un tagliagole.
-
Buon per te, ragazzo. Ora, se non vi sono altre richieste che presuppongano la
mia collaborazione, ti pregherei di andare a riposare e di togliere il disturbo
non appena cesserà il coprifuoco – un sorriso di carta gli increspò le labbra –
Non sono così vigliacco da buttarti fuori e procurarti altri rischi da sommare a
quelli che hai già corso di tua iniziativa.
-
Io avrei un’altra richiesta, se la cosa non ti dispiace
troppo.
Soltanto
in quel momento, Auguste si avvide della presenza ostile di Dorian, gli occhi
cerulei che bruciavano nei suoi lampeggiando di dolore e di una collera
oscura.
-
Saresti stato pronto a mettere in pericolo la tua vita e l’esistenza di una
congrega di persone che lottano per restituire la libertà al popolo ed abbattere
il tiranno – lo aggredì – Pronto a portarti il mio passato nella tomba. È così,
Auguste? Non ti è mai importato di nulla, in verità. Accusi Fernand di
comportarsi da incosciente e di rappresentare un pericolo per la nostra
sicurezza, sei capace di trattarlo alla stregua di un appestato, ma non sei
migliore. Non fai che mettere in dubbio la buona fede di chiunque ti si
avvicini, ma raramente ti poni il dubbio di essere effettivamente nel giusto
oppure no. Proprio tu, Auguste, la cui unica definizione che ti calza bene è bugiardo: sono anni che con noncuranza
mi neghi ciò che ho diritto di conoscere sul mio passato. A me non importa molto
ciò che sei veramente; sono solo stanco di essere preso in giro, e non sarai tu
a levarmi dalla mente una convinzione che ormai è divenuta certezza: mi devi
molte spiegazioni.
Lo
sguardo di Auguste saettò fulmineo dall’uno all’altro dei presenti, pervaso da
un’intrinseca angoscia che gli faceva palpitare il cuore come impazzito. Le
parole fluirono dalle sue labbra pervase da una cupa
agitazione.
-
Tieni fuori Fernand dalle nostre beghe – gli intimò, risentito – In secondo
luogo, Dorian, io non ti devo proprio nulla. Credo che quel che sai possa
bastarti. Smetti di tormentarmi: è perfettamente inutile.
Gli
occhi di Dorian lampeggiarono di follia. Nonostante la debolezza che gli
ottundeva i sensi, in capo ad un istante gli fu addosso. Auguste si ritrovò
riverso sul freddo pavimento, la spalla dolorante per il duro impatto ed il peso
di Dorian che lo inchiodava al suolo.
-
Solo quando tu smetterai di nascondermi la verità con i tuoi giochi patetici –
scandì Dorian, il viso arrossato e stravolto.
Auguste
tentò di puntellarsi sui gomiti.
-
Credimi, è meglio così. Che tu non sappia… – mormorò,
allucinato.
-
Cos’è che non devo sapere? – gridò Dorian.
-
Tornatene a casa e fatti una bella dormita, Dorian. Hai una febbre da cavallo.
Riprenderemo il discorso quando sarai un po’ più lucido, se è questo ciò che
desideri.
Gli
occhi del ragazzo si socchiusero minacciosi nella
penombra.
- È
una bugia – sussurrò – Un’ennesima bugia. Un altro dei tuoi trucchetti per
idioti.
Auguste
volse il capo da una parte all’altra, in una spasmodica ricerca
d’aiuto.
-
Te ne stai immobile, Raphäel? Fa’
qualcosa… Portalo a casa, drogalo, immobilizzalo, fa’ come ti pare, ma toglimelo
di dosso! È completamente uscito di senno.
Dorian
sussultò, ferito, per un istante, dalla fulminea brutalità delle sue parole;
distrazione che permise ad Auguste di risollevarsi a sedere e scrollarselo di
dosso con uno strattone. Raphäel si precipitò su di lui, cercando di calmarlo,
ma Dorian fu più veloce. Tempestivo, gli occhi gonfi di lacrime, allungò il
braccio in direzione di Auguste e lo schiaffeggiò.
Colpito,
il giovane si ritrasse come scalfito da un pugnale.
I
momenti che seguirono parvero a Dorian galleggiare in un inferno invaso dalla
nebbia. Auguste si portò lentamente una mano alla guancia colpita, lo sguardo
freddo come un’arma puntata, un istante prima di vibrare il colpo
mortale.
- È
quello che vuoi, Dorian? – sussurrò Auguste, il volto triste e la voce priva di
sfumature.
Il
ragazzo ebbe appena la forza di sollevare il capo verso di lui. Le lacrime
avevano preso a rigargli il volto.
-
Che cosa accadde quel giorno, Auguste? Chi è veramente Dorian Desgrais? –
cantilenò.
Il
viso di Auguste si corrugò dolorosamente, pervaso dall’angoscia di un peso
infinito sul cuore.
-
Chi è Dorian Desgrais… – ripeté, immerso nei suoi pensieri – È una buona
domanda.
Il
suo volto s’illuminò di uno strano sorriso che strideva con lo strazio immane
che si annidava in fondo ai suoi occhi. Allungò la mano verso il basso tavolino
posto accanto al divano, recuperando un bicchiere di vino. Si servì di una lunga
sorsata prima di rispondere, nella vana illusione di recuperare una stilla di
razionalità. Strinse le palpebre in un eccesso di dolore.
-
Un’ottima domanda. Dorian Desgrais non esiste.
Dorian
Desgrais non esisteva.
Allora…
Che cos’era? Che cosa era stato, per tutto quel tempo, se non un’ignobile
farsa?
Non
vide la mano di Auguste lisciargli paternamente i capelli, per poi sostare sul
suo viso, immergendosi nel fluire imperioso ed incontrollato delle sue lacrime.
Non avvertì il calore delle braccia di Raphäel avvolgergli le spalle
nell’abbraccio che gli aveva negato in precedenza.
Accoccolato
in un angolo della stanza, appena cosciente, la mente in subbuglio, il cuore
lacerato, il corpo che sussultava come impazzito in preda a singulti, annegato
nel suo stesso pianto.
Rimase
così, senza che lo scorrere del tempo influisse sulle proprie percezioni, finché
la febbre, il dolore e la stanchezza non lo vinsero.
Il
mio cantuccio:
Salve
a tutti coloro che ancora seguono NT!^^
Tirando
un sospiro di sollievo, posso dire di essere finalmente riuscita ad aggiornare e
a vincere la crisi d’ispirazione.
Passo
subito a ringraziare i lettori, in particolare Francesca Akira89, che ringrazio per
avermi scritto le sue impressioni sulla storia. Lieta che la storia ti sia
risultata interessante! Dunque: l’elemento sovrannaturale della storia, per il
momento, è molto, molto velato… Dissemina qualche fuggevole indizio qua e là, ma
non si svela o, per lo meno, non si rivela in maniera del tutto implicita. Penso
che la storia riserverà molte sorprese!
Diciamo
che la “brutta bestia” è stata riuscire a trovare la giusta “collocazione” per
NT (in Sovrannaturale – Vampiri)…
Essendo presente l’elemento sovrannaturale, ho ritenuto questa la sezione più
adatta, anche se, a ben vedere, la definizione vera e propria di “genere”
risulta un pochino ostica.
Infine,
sul fatto che fra quattro personaggi maschili, chi più chi meno, tutti
presentino tendenze omosessuali… Eh, qua ammetto di non aver fatto nulla per
abbattere lo “stereotipo” per eccellenza delle shounen ai (e, in effetti, non mi
sono adoperata per questo, a ben vedere)! XD… A dire il vero, un personaggio si
rivelerà etero, ora che ci penso… Okay, okay, basta, non spoilero
altro!
Alla
prossima! =^.^=
|
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Capitolo 18 *** Capitolo 18: Incognite ***
Capitolo
18
Incognite
Dorian
Desgrais non esiste; tasselli confusi s’incastrano in un indefinito mosaico,
fino a dar vita a un’immagine fumosa e vaga. La nebbia della menzogna che
ottunde i contorni di ogni oggetto è tappa obbligata e
necessaria.
E
in un confuso, inestricabile agglomerato di contraddizioni, la mia ragione cessa
di sintetizzare la realtà e si frantuma in un turbinio impazzito, la cui caotica
dispersione in mille frammenti confonde le coordinate stesse, sospese in
precario equilibrio, su cui regge il significato di esistere. È
quanto.
E
se questo, per assurdo, fosse vero, quale diabolico artificio fa sì che, in
questo preciso istante, in un luogo poco importante ai fini di tutto ciò, un
uomo di carne e di sangue, da tutti conosciuto come Dorian Desgrais, respiri,
pensi, soffra e contempli l’assurdo dinnanzi a sé?
* *
*
Un
cielo d’aprile inoltrato riverberava un mite chiarore, ammantando di un velo
d’austera ed impercettibile malinconia la campagna che si stendeva a perdita
d’occhio e le acque tranquille del fiume, fino alla linea immaginaria
dell’orizzonte. Il sole ormai alto nel cielo rischiarava una tersa mattinata
primaverile.
Doveva
essere mattino, sebbene una fitta caligine gli adombrasse la vista, proiettando
sui tenui colori del paesaggio delicato un alone sommesso che sulla tela della
sua immaginativa evocava piuttosto le parvenze di un’aurora brumosa o di un
crepuscolo appena accennato.
Nel
punto in cui la via polverosa, biforcandosi al crocicchio, tagliava il paesaggio
disseminato d’arbusti fioriti in due percorsi, l’uno che correva verso la
riserva di caccia, l’altro che si snodava superbo verso il fiume, fino al molo,
un ragazzo avanzava con incedere sereno, batuffolo d’aria in sella ad un nervoso
destriero, il volto infantile incorniciato da una massa d’indisciplinati
riccioli biondi e gli occhi socchiusi sotto i raggi del sole che lo
abbagliavano.
Il
giovane si arrestò, piantando gli speroni sui fianchi possenti della propria
cavalcatura, la cui mole appariva spropositata in rapporto alla figura piccola
ed esile che la dominava. Si volse in direzione della
città.
Non
poteva avere più di tredici anni, rifletté Dorian, e la sua mente assorta
considerò quanto, in quegli attimi sospesi fra sentieri remoti del suo animo,
gli fossero del tutto ignote le circostanze e le ragioni della sua evanescente
presenza, quale ruolo e quale prospettiva essa rivestisse; e per quale motivo il
suo sguardo, quasi mosso da oscuri, imperscrutabili legami, indugiasse
liberamente ad inquadrare da scorci inediti la figuretta snella che procedeva
fiera, incurante della sua presenza. Poteva accarezzarne ogni dettaglio, dalla
giovanile superbia del portamento alla svagata incuria del laccio che gli
riteneva i capelli sulla nuca, fino alle dita forti e sottili che impugnavano le
redini con molle sicurezza.
E,
in quello stesso istante, Dorian avvertì alle proprie spalle, inconfondibile nel
brusio ovattato e remoto che lo circondava, lo scalpitare di un cavallo che
trottava nella sua direzione. Non ebbe il tempo di allontanarsi, i piedi
ancorati al terreno in una sorta d’incantesimo, la volontà cristallizzata
nell’innata consapevolezza che nessuno si sarebbe avveduto della sua presenza.
Neppure lui.
Lo
scalpiccio sul terreno presto divenne nitido, finché un secondo cavaliere, che
egli non fece in tempo a vedere in volto, s’impose sulla sua visuale, procedendo
ignaro verso il ragazzino dai capelli biondi.
Poi,
la visione cominciò a sfumare davanti ai suoi occhi, sfocata ed incerta come un
sogno che svanisce in prossimità di un risveglio denso di languore, i suoni
sempre più smorzati e confusi.
-
Ora ti raggiungo, Dorian! – proruppe il secondo arrivato all’indirizzo del suo
giovane amico.
…Dorian?
Ricorda,
Dorian.
Ricorda
il cavallo che scalpita al quadrivio, ricorda il profumo di un lontano mattino
d’aprile, ricorda le corse per la campagna, il sole e la brezza sul viso.
Ricorda il ragazzo esile e biondo che doma senza difficoltà l’orgoglioso
destriero.
Eri
tu, Dorian.
E
poi, ecco che l’idillio svanisce, la rugiada evapora in superficie, e tutto si
dissolve in un tempestivo risveglio.
Soltanto
un sogno.
* *
*
Dorian
avvertì una mano, lieve come una carezza, scostargli la lunga ciocca dispettosa
che gli era ricaduta sul viso. Ammiccò appena, un debole sussulto trattenuto fra
le labbra, quando il suo sguardo fu trafitto con la medesima intensità di una
fucilata dal riverbero prepotente che si riversava sul suo volto attraverso le
imposte spalancate sulla stanza.
-
Ben svegliato, principino.
Il
giovane socchiuse debolmente le palpebre sottili e sbatté le ciglia finché la
vista non si snebbiò. I suoi sensi, immersi in un sonnolento torpore,
percepirono la voce suadente di Raphäel Lemoine vibrare nell’aria intorno a sé
in perfetta sintonia con quanto lo circondava: le coperte soffici, le lenzuola
fresche sul suo corpo, il placido chiarore del mattino che, se in un primo
istante l’aveva fastidiosamente abbagliato, ora si colorava di dolci sfumature
dorate. E Raphäel, la cui presenza l’aveva lasciato un attimo interdetto,
torreggiava accanto al suo capezzale, gli occhi vivaci ed il viso sereno di un
angelo dai capelli neri. Leggiadro e incantevole, si ritrovò a considerare, suo
malgrado, Dorian, la mente affollata da nebulosi pensieri ed i sensi
illanguiditi dal recente risveglio.
Stretto
nella giacca scura e nella candida semplicità dello jabot annodato sul petto, i
riccioli luminosi e l’incarnato chiaro acceso di un insolito colorito rosato,
l’oggetto della sua concentrazione stava diritto dinnanzi a lui, intento a
soppesare con assorta disinvoltura i tomi sistemati con cura certosina sulla
libreria antistante.
-
Vai ad una festa? – esordì Dorian, la voce cantilenante impastata di
sonno.
-
Non esattamente – gli occhi di Raphäel si posarono solerti su di lui, lame
incandescenti fra le ciglia scure, e nel suo sguardo non vi era neppure l’ombra
dell’etereo distacco della notte precedente.
Dorian
fu quasi sfiorato dal pensiero che fossero trascorsi giorni interi, dal momento
in cui gli pareva non potesse coesistere legame alcuno fra il gelido e razionale
atteggiamento che Raphäel aveva ostentato non molte ore prima – qualche ora? Un
intero mattino? Non era in grado di stabilire con esattezza coordinate logiche e
temporali fra un prima e un dopo – ed il calore che in quel momento trasudava il
suo sguardo affabile.
-
Un funerale, ad essere sincero – proseguì il ragazzo – Fra tre
ore.
-
Oh, cielo… – proruppe Dorian, scattando a sedere come un fulmine – Il funerale!
Io… Devo…
-
No, Dorian, non è necessario – lo interruppe Raphäel, perentorio – Nelle tue
condizioni, sei dispensato.
Il
braccio di Raphäel gli circondò le spalle nude. Obbediente, il volto rassegnato,
Dorian acconsentì a distendersi di nuovo.
-
Non prendere il mio come il capriccio di un bimbo malato, Raphäel. Si dà il caso
che ora stia meglio – mormorò roco, fronteggiandolo.
Raphäel
socchiuse gli occhi, una piega di sagace, furtiva ironia che gli percorreva le
labbra.
-
Sarei pronto a crederti sulla parola, Dorian, se giusto cinque ore fa non fosse
stato proprio il sottoscritto a riportarti a casa. Di peso, mon ami.
Dorian
intrecciò le braccia sul petto, vagamente infastidito da tanta premurosa
diffidenza.
-
Ah, dunque, le cose stanno così. Agli ordini, mamma – cinguettò serafico, punto sul
vivo all’idea che Raphäel potesse rinfacciargli di essersi preso cura di lui,
benché, non a torto, Dorian presumesse che fargli pesare un atto generoso da
parte sua non rientrasse esattamente nello stile di un tipo come
Raphäel.
Il
giovane parve ignorare la velata polemica, indulgendo sulla palese provocazione
che trapelava dalle brevi parole indirizzategli. Si chinò su di lui, e la mano
fulminea corse a tastargli la fronte.
Dorian
trasalì: il suo sguardo saettò disperatamente intorno alla stanza come un
naufrago in cerca di un appiglio tra i flutti che lo sballottano senza posa e a
proprio piacere; ma la luce intensa del giorno lo schiaffeggiava in pieno viso,
lasciando cadere nel vuoto ogni speranza, seppure remota, di celare dietro un
velo provvisorio il rossore che gli era montato furiosamente sulle guance.
Sbatté le palpebre, stordito, in preda ad un oscuro languore che gli ribolliva
nelle vene; invano, s’impose di smettere di fissare con occhi liquidi ed assenti
il lieve movimento del torace di Raphäel che si alzava e si abbassava
ritmicamente sotto la camicia, in sintonia con il respiro, e la curva delicata
delle clavicole in rilievo che scompariva al di là delle vesti, là dove il suo
sguardo si era arenato e seguitava ad indugiare
pericolosamente.
E
l’inspiegabile calore che dal petto gli pervadeva le membra, accompagnato da un
tremito che egli si sforzava di rendere quanto più impercettibile, dissonava
curiosamente con l’aggraziata fermezza che accompagnava i gesti di Raphäel e la
fresca, asciutta sensazione che emanava il suo corpo sottile: sensazioni che
parevano accrescere, per contrasto, la vivida tensione che attanagliava
Dorian.
- A
quanto pare, ora stai meglio – mormorò Raphäel – La temperatura è calata,
ringraziando il cielo.
Ma
Dorian non lo ascoltava più: immobile, si morse nervosamente l’unghia del
pollice, lo sguardo basso perso fra le pieghe delle lenzuola e l’aroma della
colonia di cui Raphäel si era generosamente cosparso incollato alle
labbra.
Calma.
Puoi ancora mantenere una parvenza di controllo. È solo l’apprensione che ti ha
giocato strani scherzi.
Il
sogno di stanotte, per quanto reale ed inquietante possa apparirti, non è
sintomo di alcuna fantomatica rivelazione: la sola fonte delle tue verità di
nome fa Auguste de la Garde, e lui non vuole, non deve o,
forse, non può rivelarti: è tutto ciò che sai.
E
la sola presenza di Raphäel non basta ad innescare in te una tale agitazione e a
giustificare la tua libera caduta nel panico.
Ma
quel profumo…!
Gli
parli quasi con asprezza, per poi scoprirti inspiegabilmente sconfitto in un
casuale sfioramento.
-
Dorian? Dicevo che non mi pare una buona idea uscire e strapazzarti
ulteriormente. Ora che succede?
Il
ragazzo scosse il capo, assorto.
-
È… è accaduto di nuovo – sussurrò.
-
Cosa, Dorian? – Raphäel aguzzò lo sguardo, mentre le mani si stringevano
paternamente alle sue.
- I
sogni… Quelle cose lì, Raphäel – tagliò corto Dorian, d’un fiato – Non capita
spesso. Era… confuso. Eppure, mi sono
visto, tredicenne, cavalcare al di là del fiume. Poi…
Nulla.
Le
dita sinuose di Raphäel s’intrecciarono alle sue con crescente
vigore.
-
Tranquillo, Dorian, tranquillo – gli sussurrò in una dolce cadenza – Cerca solo
di ricordare cos’hai visto. Che qualche reminiscenza tenti di venire alla luce?
– azzardò.
Il
giovane scosse tristemente il capo, pentendosi, un istante dopo, delle proprie
azzardate confessioni.
-
No, è tutto qui, non vi è nient’altro. Solo, volevo domandarti un favore,
Raphäel: l’ultimo, per oggi.
Deglutì,
lo sguardo incredibilmente lucido fisso sull’altro: prima fosse riuscito a
troncare la questione, meglio sarebbe stato per tutti.
-
Ti chiedo di dimenticare ciò che hai
visto e udito stanotte.
Raphäel
scosse il capo, frastornato.
-
Temo non sia possibile, Dorian. Non fuggire da chi vuole
aiutarti.
È
mero, disinteressato altruismo, Raphäel, è solo semplice curiosità o vi è un
fine nascosto in tutto quel che fai? Vale la pena fidarsi di te: è la mia
situazione a essere troppo complessa perché io possa crearmi delle
illusioni.
Dorian
tese la mano dinnanzi a sé, categorico.
-
Alt. Non otterrai nulla a prenderti a cuore propositi astrusi destinati in
partenza al nulla di fatto e rovinarti l’esistenza dietro ad una vana follia.
Dimentica.
Distolse
il volto, reso altero da una piega ostinata che pareva non concedere alcuna
replica. No, era meglio che Raphäel si mettesse l’anima in pace: lui non avrebbe
fatto nulla, stavolta. Niente più iniziative azzardate.
E,
fra le trame di una disperazione che prendeva corpo con crescente forza, ponendo
sempre più a dura prova il reggersi delle sue vaghe speranze, veniva meno in lui
la disincantata sfrontatezza che gli era propria; veniva meno la smania di
agire, di acciuffare il primo disgraziato di turno che si fosse preso a cuore la
sua causa e coinvolgerlo in arcane iniziative.
-
Non è così – Raphäel lo fissò, lo sguardo infiammato di una cieca insistenza –
Auguste prima o poi si deciderà a cantare. Crollerà: se quel che si ostina a
riserbare per sé è davvero importante, non reggerà ancora a lungo – convenne, un
luccichio d’indecifrabile malizia che tremolava in fondo agli occhi
scuri.
Dorian
spalancò le palpebre, sbigottito dinnanzi all’atteggiamento indefesso e
spregiudicato del compagno.
-
Approfitteresti di un momento in cui è fragile?
Come
fai a restare così calmo e imperturbabile?
-
No, decisamente no. Non ve ne sarà bisogno – Raphäel sorrise, sibillino –
Auguste non è il bastardo che credi. Non del tutto,
almeno.
-
Ne sei davvero convinto? – proruppe Dorian con voce alterata – Potrei
considerarmi fortunato a decifrare soltanto un decimo di tutto ciò che ruota
intorno ad Auguste. Il sangue sulla sua camicia, giusto per fare un esempio, e
lui completamente illeso… Questo, ti dice nulla? Ai tuoi occhi, Auguste appare
ancora come un uomo sul quale riporre la propria fiducia?
Raphäel
si sfiorò le labbra con fare meditabondo.
-
Non correre, Dorian. È credibile che Auguste si sia premurato di dare il
benservito ai due sciacalli che erano quasi riusciti a giocarci e si
apprestavano ad abbandonare indisturbati la città con il nostro denaro. Deve
essere andata così, Dorian, almeno fino a quando qualcosa non proverà il
contrario. Ma questo, a ben vedere, ha poco a che spartire con ciò che ti
riguarda.
-
Ce l’ha eccome, ed Auguste è riuscito a incantare anche te. Dovrei ancora
starmene buono ai suoi ordini e riporre il valore della mia esistenza spezzata
sulle reticenze di una persona che dice di giocare a carte scoperte, per poi
rivelarsi nient’altro che un fumoso ammasso d’incoerenze che sfugge ad ogni
spiegazione razionale? Auguste si guarda bene dal lasciar trapelare ciò che vuol
fare della nostra associazione.
-
Auguste è stato chiaro nel giustificare la sua assenza.
-
Ed è stato ancora più bravo nel privarci di dieci anni di vita, scomparendo
all’improvviso alla vigilia del funerale di Lucien – soggiunse Dorian,
risentito.
-
Dobbiamo informare gli altri. Ancora non sanno se Auguste è vivo oppure no –
mutò repentinamente discorso Raphäel, soprappensiero – Emilie non ha sue notizie
dalla notte scorsa, Fernand era addirittura terrorizzato.
-
Da fare quanto prima – tagliò corto Dorian – Ma ora, se me lo concedi,
preferirei chiudere qui la nostra discussione.
Sospirò:
sarebbe stato tutt’altro che saggio da parte sua, quel giorno, tentare ancora di
parlare con Auguste. Vide Raphäel annuire contrito in un cenno impercettibile
del capo, prima di distogliere lo sguardo.
-
Raphäel… – Dorian accennò in direzione dell’amico, dopo un intervallo in cui
nessuno dei due ebbe proferito parola, limitandosi a gettare di tanto in tanto
occhiate furtive sull’altro, in un
silenzio terso che pareva foriero di tensioni taciute – Mi avvicineresti la
camicia?
Raphäel
lo squadrò con fare diffidente.
-
Non avrai intenzione di uscire? – squittì.
Insisti?
Dorian
sollevò gli occhi al cielo, spazientito, le labbra increspate in un finto
broncio.
-
Magari, soltanto di vestirmi? – ribatté con fare
sprezzante.
-
Se ti osservassi un po’ meglio intorno, ti accorgeresti che la camicia è sotto
il tuo naso – gli occhi di Raphäel luccicarono ironici.
Dorian
si tirò il lenzuolo sulle spalle, scoccandogli uno sguardo teatralmente
implorante e chiedendosi per quale arcana ragione Raphäel seguitasse a stargli
addosso come un’ombra ineffabile, intercettando abilmente le sue frecciatine e
scherzandoci insieme come vecchi compari. E malgrado lui, Dorian, l’avesse
trattato con freddezza, premurandosi di troncare bruscamente il precario legame
che li univa. Il segreto che, per un caso fortuito, si erano ritrovati a
condividere quella notte, fra le vie scure di Noir Trésor. L’aveva tagliato
fuori dalla questione in un battito di ciglia, semplificando il tutto in
vorticosi e confusi giri di parole, il cui significato effettivo pareva recitare
letteralmente: evita, da questo momento,
di mettere bocca su quanto hai appreso, e noi due andremo molto
d’accordo.
L’aveva
trattato da estraneo, piuttosto che da amico: che diritto aveva, ora, di abusare
ancora della sua disponibilità?
Raphäel
lo fissò interdetto e, inaspettatamente, esplose in una risata
improvvisa.
- E
adesso, che diavolo succede? – Dorian si riscosse
bruscamente.
-
Oh, santo cielo! – balbettò Raphäel – Dimmi che non è così, te ne prego! Proprio
non riesco, non riesco a immaginare un Dorian così altezzoso da… Evitare di
farsi vedere nudo… [1]
Dorian
ebbe la matematica certezza di essere arrossito. L’avrebbe preso volentieri a
pugni per quell’impunita, innata sfrontatezza con cui si divertiva a metterlo in
imbarazzo. E doveva svicolare prima possibile dall’imbarazzante malinteso, prima
di dare spazio a nuovi equivoci, modellando il proprio viso in un’espressione di
sfida.
Un
mezzo sorriso che sapeva di scherno ed irriverente malizia comparve sul suo
volto, quando, scrollandosi di dosso le coperte, si tirò su a sedere, pronto a
riappropriarsi della sua dannata camicia.
È
questo il Dorian che tutti conoscono, la variante di più semplice
individuazione: esasperante nel suo evanescente, smaccato velo d’ironia, l’umore
mutevole che oscilla senza posa fra la tristezza e la riflessione, in mezzo a
sporadiche sfumature pungenti e sarcastiche. Un pazzo, forse?
Dissimulò
abilmente il lieve senso di vertigine che l’aveva colto nell’attimo in cui si
era risollevato in piedi. Sentì la testa girargli, ma si sforzò di non farci
caso.
-
Non sono nudo, per la
cronaca.
-
Però sei vanitoso – Raphäel si ravviò i capelli in un gesto distratto,
raccogliendo tacitamente la sfida.
Dorian
arricciò le labbra, avvertendo il suo sguardo bruciare su di
lui.
In
mancanza d’altro, ci si appiglia a qualunque cosa si presti ad essere anteposta
provvisoriamente al nulla… Chiamala bellezza, amico mio, chiamala vanità,
chiamala l’amara ironia di chi si barcamena in uno stentato equilibrio su fili
di metallo, troppo sottili perché possano reggere, ma abbastanza duri da
ferirti.
E
guerra sia, caro il mio Raphäel.
Scostò
i riccioli biondi dalla spalla e si avviò con l’incedere lento e sfrontato di un
gatto, i soli calzoni indosso a proteggerlo dalla completa nudità, verso
l’agognata camicia che giaceva abbandonata su una sedia a pochi passi dal
letto.
-
Fine dello spettacolo, Raphäel – sibilò, tagliente, sistemandosi con cura il
serico indumento sulle spalle ampie.
Raphäel
tacque, limitandosi a ghignare divertito nella sua
direzione.
- E
gradirei anche potermi dare una rinfrescata al viso, con il vostro permesso –
insistette Dorian – Sempre che per te questo non implichi l’inedito pericolo che
mi defili da sotto il tuo naso da un momento all’altro, pronto di tutto punto,
sfuggendo alla tua custodia non appena ti distrarrai.
Uscirei
da questa stanza, certo: lo farei soltanto per il gusto di tapparti la
bocca.
-
Fa’ pure con comodo, Dorian: con te posso persino correre il rischio di
lasciarti fuggire – Raphäel gli sorrise con fare amichevole dal lato opposto
della stanza, la lunga mano affusolata che tastava distrattamente la consistenza
sottile della tenda, lo sguardo che mirava indolente, al di là della finestra,
la via sottostante, il brulichio di gente indaffarata che si dirigeva alla volta
del piccolo mercato nella piazza del rione.
Dorian
si tamponò il viso con un panno pulito, dopo essersi sciacquato con cura,
indugiando sul proprio riflesso nello specchio antistante. Immobile, fissò il
proprio volto disfatto in seguito all’orribile notte trascorsa, i begli occhi
azzurri incassati nelle occhiaie scure che spiccavano sul pallore cereo e quasi
innaturale.
Il
ragazzo piegò la testa all’indietro nell’atto di radunare la massa dei suoi
capelli in un codino, ma qualcosa calamitò la sua attenzione. Trattenne il
fiato.
Sulla
pelle della gola che riluceva di un candore immacolato, due punture allineate
spiccavano in corrispondenza della giugulare, rosse di sangue
fresco.
-
No! – ruggì.
Sussultando,
il giovane si portò la mano alle minuscole ferite aperte, avvertendo la ruvida
consistenza della pelle sottile smangiata ai bordi.
-
No, no, no! – seguitò in un’atroce nenia.
-
Dorian!
Raphäel
fu subito al suo fianco, il volto pervaso d’inquietudine.
-
Anche… Anche Fernand. Raphäel, è accaduta la stessa cosa a Fernand – gemette
Dorian con voce stridula – Stessi sintomi, stessi segni sul collo, e non sono il
solo a essersene reso conto. Non era una mia impressione, non era una sciocca
coincidenza! E ora…
Paralizzato
dal terrore, Dorian crollò in ginocchio sul pavimento, la scacchiera di losanghe
bianche e nere che roteava sotto i suoi occhi, le membra scosse da un tremito
violento e spasmodico e il capo stretto fra le mani, finché l’accesso di terrore
non gli confluì dolorosamente in gola, dispiegandosi in un grido
lancinante.
Nulla
è più come prima.
Ed
ora, fra le trame di un nuovo timore oscuro ed inafferrabile, ecco che tutto
sembra quasi perdere consistenza ai tuoi occhi: il fanciullo biondo del tuo
sogno, il funerale, l’impianto confuso che regge e motiva la tua esistenza,
Auguste e le sue ambiguità; perfino il desiderio immotivato ed improvviso, privo
di cause e antecedenti, di stracciare la camicia buona di Raphäel Lemoine ed
accostare timidamente le labbra alla sua pelle color alabastro, perde di
significato – ed è così: il desiderio ha percorso la tua mente, Dorian, anche
solo per un istante, e nessuno lo sa meglio di te, per quanto ti guardi bene
dall’ammetterlo.
Ma
in questo momento, scaraventato fra le trame di un ignoto pericolo a causa
dell’oscuro morbo che ti prosciuga le vene, tutto questo non conta che
relativamente.
[1] Doverosa
precisazione: la scena quivi riportata, con gli arrangiamenti del caso, strizza
l’occhio ad una scena presente in Versailles no bara (o Lady Oscar che dir si voglia), manga che
adoro: praticamente, Oscar è stata ferita, e, nel momento in cui le si deve
cambiarle le bende, la nonnina scaccia André ed il conte di Fersen presenti
nella stanza. E quest’ultimo, astuto, fa alla ragazza (convinto che si tratti di
un lui): “Non sarete così altezzoso da non farvi vedere nudo”! Beh, capirete da
voi che i due casi sono “lievemente” diversi: nel caso di Oscar, si trattava di
un seno da nascondere, onde evitare di palesarsi inequivocabilmente come
donna.
Nel caso
di Dorian, rassicuro da eventuali malintesi: si tratta semplicemente di un
canonico torace maschile! E di una battuta idiota.
Ho
ritenuto giusto precisare le fonti per correttezza.
Il
mio cantuccio:
Buonasera
a tutti!^^
Bene.
Eccomi finalmente giunta alla sezione ringraziamenti, più varie &
eventuali.
Avendo
ripreso finalmente a scrivere a pieno ritmo (e anche a studiare…), stavolta
posso dire di aver aggiornato in tempi un po’ meno
tremendi!
*Sospiro
di sollievo*: questo è un capitolo che, in un certo qual modo, segna una
“svolta”. Qualcosa comincia a dipanarsi fra le maglie del mistero… Ma siccome
preferisco “lasciar intuire” piuttosto che palesare (e sì, sono bastardissima in
questo!), che dire: lascio l’eventualità nelle mani del lettore. Tutto è a sua
discrezione, sacro ed inviolabile diritto.
Passando
ai ringraziamenti veri e propri, come non citare la recensione di Renovatio? Ancora una volta, carissima,
leggere le tue impressioni ed i tuoi commenti sulle vicende mi ha fatto
incredibilmente piacere. Per me, e penso un po’ per ogni autore, il commento del
lettore è indispensabile ed irrinunciabile!
Dunque,
dunque: Emilie, per quanto non si erga particolarmente quanto a statura morale,
non è un personaggio del tutto negativo (sebbene antipatico. E sono felice di
essere riuscita a “centrare” la scarsa simpatia del personaggio!)… Anche se sono
propensa a pensare che il suo innegabile fondo di negatività sia dato
soprattutto dal ruolo che riveste nel tessuto della trama e nel rapporto con gli
altri personaggi (tanto per spezzare una lancia: sfiderei chiunque a stare al
fianco di Auguste, che con la testa non è che ci sia proprio del tutto, e a
mantenere un impeccabile equilibrio…). Sono felice che tu sia riuscita a
cogliere la contrapposizione fra le due donne… Per quanto ambedue ne riservino
delle belle!
Auguste
e Fernand: l’indissolubile binomio fra cose non dette e totale incapacità
d’interagire pacificamente, evitando possibilmente di divorarsi a vicenda. Un
motivo c’è… Forse anche due o tre, ora che ci penso.
Stavolta
è stato il turno di Dorian di “raccontare” la propria parte in causa nella
storia e, esponendo il suo buon carico di angosce, di guadagnarsi il proprio
“quarto d’ora di celebrità”. Il biondino piomba nel baratro delle proprie
incertezze, e il buon Raphäel tergiversa… Okay, glisso ora, prima che fra i
tasti scappi qualche spoiler!
Spero
che anche questo capitolo sia di tuo gradimento: ancora grazie e buon
proseguimento!
Ps:
“Auguste è fuori di testa, lucidamente fuori di testa”… Giuro: qua ho riso
davvero! Quel che io ho impiegato pagine e paginare a sciorinare nelle
prospettive più disparate e nelle più impensabili sfaccettature… Beh, è stato un
po’ riassunto in poche parole! XD
Ringrazio
ancora i lettori al completo, coloro che si palesano e coloro che stanno
nell’ombra… Al prossimo aggiornamento!
|
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Capitolo 19 *** Capitolo 19: Brandelli di solitudine ***
Capitolo
19
Brandelli
di solitudine
Orrore
e dubbio confondono i suoi pensieri affannati
E
dal profondo l’Inferno gli si agita dentro
Poiché
l’Inferno ha dentro di sé
L’Inferno
attorno a sé
E
non c’è passo che valga ad allontanarlo
Dall’Inferno
che in lui alberga.
(Milton,
Paradiso Perduto)
Nessun
timore. Nessuna emozione, nessun riflusso di quel dolore disperato che l’aveva
incatenato per due giorni e due notti, fino alla parziale conclusione, aveva
percorso il cuore di Auguste, nell’istante in cui aveva allungato la mano
dinnanzi a sé, sospingendo per l’ultima volta l’uscio appena accostato che
riparava da sguardi indiscreti l’interno della dimora di Lucien, ingrato
sepolcro aperto al pubblico.
Si
morse nervosamente il labbro, avvertendo per un poco il sapore aspro ed acuto
del proprio sangue.
Eppure,
non vi è sangue che tenga, quando nelle proprie vene non scorre altro che veleno
e rancore; non vi è sofferenza utile a espiare la colpa, alleviando la
consapevolezza della propria bestialità.
Non
vi è rimpianto nel cuore di chi ha consacrato la propria anima alla più cupa
dannazione, spogliandosi di ogni residuo d’umanità e gettando in pasto ai cani
la propria coscienza nell’attimo stesso in cui ha stretto l’arma in pugno con
gli occhi iniettati di una follia che, indefessa, segue il proprio tragico corso
senza conoscere vincoli né rimpianti.
Non
può essere ricettacolo di un amore assoluto e libero da condizionamenti dettati
dall’odio, l’animo di colui che maledice l’uccisore, per poi ripulire il sangue
versato con altrettanto sangue.
E
questo non cancellerà quel che è stato, non mi salverà dall’abisso trasudante
fiele nel quale sto annegando, non mi dispenserà dal disprezzo e dall’odio che
si deve all’assassino.
Ad
Auguste de la Garde è stato risparmiato il
paradossale sollievo che gli avrebbe arrecato piangere le lacrime del giusto
dinnanzi alla salma della persona che porterà con sé nella tomba l’ultimo
residuo d’umanità del suo amante, insieme a quell’irrazionale, dolce sentimento
spezzato da un colpo di pugnale alla gola e corroso dal germe della
follia.
Non
sono l’angelo vendicatore, non sono l’eroe che vendica l’amato ucciso: sono la
belva ferita che si pasce della distruzione dei propri stessi assassini; e non
sarei degno neppure di pronunciare il nome di Lucien, se quell’atavica ipocrisia
che regola il mio atteggiarmi fra altrettante maschere di circostanza non mi
riempisse la bocca.
Auguste
si osservò tutt’intorno, smarrito: lo sguardo assente non indugiò più di qualche
breve istante sui volti che incrociava, non s’impresse abbastanza a lungo da
identificare le ombre che fluttuavano dinnanzi a lui. Non gli
importava.
In
silenzio, contemplò la stanza per l’ultima volta; l’androne immerso nel buio,
così ampio, ai suoi occhi, da infondergli un fatale senso d’instabilità. Seguì
il triste tremolio della fiammella in cima al cero che ardeva nella penombra,
dinnanzi alla bara aperta. Ma nessuna, nessuna delle sensazioni che l’avevano
pervaso soltanto una sera prima, nel momento in cui aveva rimesso piede in
quella casa, attraversava in quel momento la sua mente ormai svuotata, immobile,
scevra da ogni implicazione; soltanto un brivido di freddo che gli attanagliava
il petto in una morsa gelida e gli s’incuneava nelle ossa, diffondendosi nel
resto del corpo in un fremito d’orrore che lo scuoteva fino alle
estremità.
È
così. Non vi è rimorso, non vi è rimpianto, non vi è in me la disperazione che
mi spingerebbe a gettarmi ai piedi della cassa e darmi la morte con lo stesso
pugnale attraverso cui ho creduto di poter se non altro placare la mia sterile,
deleteria brama di vendetta. E questo, se possibile, è il tormento peggiore che
possa patire.
L’amore
per Lucien non ha bilanciato l’odio verso coloro che ti hanno privato di ciò che
amavi più di ogni altra cosa al mondo.
Non
è un’equazione complessa, Auguste: lo slancio che ti porta ad impugnare le
insegne dell’odio, semplicemente, agisce su di te con maggior intensità rispetto
a tutto ciò che dovrebbe condurre le tue azioni ad un fine positivo.
Desolatamente, è tutto qui, e prima ne prenderai coscienza, prima imparerai a
convivere con ciò che sei diventato. O che sei sempre stato.
Auguste
distolse bruscamente lo sguardo dalla fiammella che gli ardeva in fondo alle
iridi e serrò le palpebre con vigore, impedendo al leggero madore impigliato fra
le ciglia sottili di tramutarsi in una fragile lacrima sugli occhi che
bruciavano.
E
ciò che egli maggiormente avvertiva come un angosciante paradosso non era il
dolore inafferrabile che gli ribolliva nel petto sotto una cappa d’indifferenza,
smorzato dalla furia degli eventi ed occultato sotto il cono d’ombra del proprio
straniamento, quanto il rimescolio di sensazioni ovattate che rifiutava di
essere catalogato con semplicità sotto l’appellativo di “sentimento” o
“sensazione”. Era di più: era una prospettiva, una patina che velava la realtà
dinnanzi ai suoi occhi, un modo alienante di esistere.
Auguste
deglutì a fatica, avvertendo la familiare consistenza di una stilla di pianto
scorrere impercettibile lungo la guancia, granello di sabbia innocuo solo in
apparenza e prossimo a divenire valanga. E, facendo appello al proprio coraggio,
insinuò lo sguardo oltre il lungo cilindro di candida cera che si consumava con
molle ed ineluttabile intensità, simile al lento stillicidio che scavava
voragini di palpitante angoscia sul suo cuore, e si costrinse a proiettare la
propria visuale sulla cassa lignea che ospitava ed avrebbe racchiuso per
l’eternità il corpo senza vita di Lucien.
Arriveranno
presto. Vengono, chiudono la bara, e poi…
Auguste
trasalì, il cuore scalfito in superficie dalle parole che percepiva confuse
intorno a sé.
Nell’indifferenza.
Tutto si consumerà nell’indifferenza, nell’ozioso, consolatorio distacco che
lentamente sta trascinando anche me, seppure recalcitrante a riconoscerlo
appieno.
È
davvero così riduttivamente semplice? È la mia stoltezza a non permettermi di
accettare serenamente che, non appena tutto sarà compiuto, ogni brandello che
resta della mia coscienza non sarà che fumo negli occhi, ancora per un po’,
prima di dissolversi nel progredire dei giorni? È… è normale. Tutto
assurdamente, tragicamente “normale”. È forse così? Non vi è
nient’altro.
La
mia stella polare smette di brillare, cessa d’indicare la via, e il marinaio
prosegue nel suo viaggio incurante di ciò, nell’ingenua consapevolezza a priori
che nulla sia mutato nel cielo sopra di sé.
Deglutendo
a fatica, Auguste calò lo sguardo su Lucien. Il volto candido, sfiorato appena
dalla danza inquietante del pallido lume, gli apparve rischiarato da uno
statuario splendore nel chiaroscuro di luminescenze ed ombre fuggevoli. Carezzò
con il proprio sguardo le labbra delicate soffuse di un tenue barlume rosato, le
dita morbidamente intrecciate sul petto, il bavero rialzato che, sorretto dalla
voluminosa cravatta, celava con discrezione la ferita mortale che gli aveva
perforato la gola.
Sei
bello. Sei tanto bello che il pensiero di vederti deporre sotto la nuda terra da
braccia sconosciute, protetto da un guscio gelido, e di non vederti mai più,
potrebbe rendermi preda di una furia cieca e distruttrice, di una follia che mi
spingerebbe a gettarmi su coloro che fra qualche istante ti strapperanno
definitivamente anche alla mia vista.
I
miei occhi si cullano e s’ingannano in questi ultimi istanti, ed io m’illudo di
poter ininterrottamente accarezzare con le mie facoltà visive l’armonia del tuo
viso d’avorio, di confondere in eterno realtà e sogno perdendomi nella curvatura
impalpabile delle tue ciglia, nel velluto dei tuoi capelli corvini, nella tua
immagine impressa dinnanzi a me, e mi sforzo d’ignorare che, tempo qualche
istante, sarò privato anche della puerile, effimera, irragionevole
illusione.
Il
suo estatico torpore fu dissolto dal muto palesarsi dinnanzi a sé di due figure
che lentamente si accostarono al suo fianco, di fronte al feretro scoperto:
Monsieur e Madame Mirand, i genitori di Lucien.
E
così, il momento è giunto. Il momento in cui… devo salutarti,
Lou.
Auguste
sobbalzò impercettibilmente. Scorse Emmanuel Mirand, il volto sciupato
atteggiato in un luttuoso contegno, abbandonare il braccio della moglie e
muoversi verso di lui. Un lieve sfioramento sul gomito gli ricordò che il suo
compito era concluso. Chinò il capo, mentre il cuore gli tormentava furiosamente
il petto.
Emmanuel
accennò al portone d’ingresso con un vago gesto del capo, ed Auguste annuì in
una lieve scrollata di spalle, il volto pallido e smarrito, intercettando per un
istante lo sguardo di Rose Mirand aleggiare alle spalle del marito con fare
inquisitore, carico di un risentito disappunto, per poi addolcirsi con fare
sottilmente complice nel posarsi su di lui.
Forse,
posso ancora contare su un alleato.
La
signora Mirand potrebbe rivelarsi l’unica persona in grado di tenere in scacco
gli impulsi irragionevoli di suo marito ed alleviare gli effetti deleteri del
dolore di un padre che non ha mai accettato le scelte di un figlio
rivoluzionario fino alla morte. Ed ora che Lucien non c’è più, Rose è una donna
infelice: amava suo figlio e desiderava fosse libero; ha anteposto la felicità
di Lucien persino nel momento in cui vivere in accordo con la libertà del cuore
ha significato per lui accogliere sulle proprie spalle il fardello del pericolo
e di una posizione arrischiata. Rose è simile a Lou: conosceva bene suo figlio,
certo sa degli accordi fra me ed Emmanuel e ha compreso tutto.
Ma
che senso ha, ora?
Auguste
attese una manciata di secondi, lo sguardo che schizzava nervoso dal portone
semichiuso al volto impenetrabile della signora Mirand. Imboccò furtivamente
l’uscita diretta sul viottolo che costeggiava
l’abitazione.
-
Che notizie mi porti, Auguste?
Il
giovane sollevò lo sguardo privo d’espressione; senza indugio, le dita tremanti,
cercò all’interno del mantello ed estrasse il pugnale.
- È
vostro, Monsieur Mirand – mormorò con voce asciutta, controllando il fremito
d’angoscia che gli stringeva la gola.
Il
padre di Lucien spalancò gli occhi. Auguste non riuscì a cogliere nel suo
sguardo nessuna sfumatura condiscendente nei suoi riguardi: nessun guizzo
d’umanità per il pazzo che, nel momento in cui vi era in gioco la vita, aveva
trascinato Lucien con sé nel baratro, fino al misero epilogo che, per un caso
sciagurato, era toccato soltanto ad uno di loro.
Eppure,
una volta mi voleva bene; era gentile con lo strano ragazzo che stravedeva
Lucien.
Ma
io non merito nulla di tutto ciò; non merito nessuna forma d’indulgenza. Perché
si tratterebbe in ogni caso di una bugia.
-
Cosa diavolo significa? – Emmanuel Mirand soppesò fra le mani l’arma che gli era
stata restituita – Parla chiaro con me, Auguste, perché non ho alcuna intenzione
di tollerare ancora a lungo le tue commedie.
-
Significa che ho fatto come voi mi avete detto – Auguste lo fronteggiò con
espressione dura – E, come finalmente avrete inteso, non è servito a nulla. A
nulla, perché vendicarvi in contemporanea di chi fisicamente ha vibrato il colpo
e di colui che, inconsapevolmente, ha condotto Lucien alla morte, non vi
restituirà vostro figlio.
-
Tu…?
Auguste
serrò le palpebre: le sue parole sferzanti, della cui intrinseca indiscrezione
si era avveduto soltanto un istante dopo averle pronunciate, avrebbero con ogni
probabilità sortito in Emmanuel, di lì a poco, una reazione violenta. Era pronto
ad incassare il colpo senza replicare.
-
Proprio io – proseguì – Sono ciò che voi avete prodotto quando mi avete messo in
mano un coltello. Ma non l’ho fatto per voi e neppure per Lucien. Lucien non mi
avrebbe mai… Persuaso ad uccidere. Posso però dire… Che l’ho fatto per me stesso e nulla di più. Nessuno di
noi lo desiderava veramente, ma io non ho considerato nulla di tutto
ciò.
Auguste
tacque, sconcertato dal gelido impatto delle parole che fluivano dalle sue
stesse labbra, stille di veleno.
E
non vi è nulla su cui vale la pena ragionare, Emmanuel, poiché significherebbe
assumere con leggerezza su di sé la licenza d’impazzire dietro assurdi
ripiegamenti, girare in tondo senza approdare a nulla.
Guardami:
ciò che vedi dinnanzi a te, padre, non è nient’altro che ciò che tu stesso hai
plasmato con le tue mani, ciò che deliberatamente hai voluto fare di me. Hai
creato il mostro, Emmanuel, e la tua folle creatura è sfuggita alla tua
supervisione. Volevi usarmi come un’arma priva di anima, e la tua sfortuna,
contro ogni umana aspettativa, è che ce l’hai fatta per davvero. Hai voluto il
sicario, l’assassino, il vendicatore: cosa puoi fare, ora, se non ingegnarti a
convivere pacificamente con il rancore ed il debito crudele che ci lega a doppio
filo?
Emmanuel
lo misurò lentamente fino alla punta dei capelli, per poi proiettare il proprio
sguardo oltre la sua persona, quasi fosse divenuto evanescente. Auguste arretrò
di un passo.
-
Dunque, l’hai fatto veramente – mormorò Emmanuel, ed Auguste fu certo di
scorgere negli occhi del padre di Lucien il più cocente, spassionato disprezzo,
disprezzo verso tutto ciò che era: cospiratore, assassino,
vigliacco.
-
Volete forse denunciarmi?
-
Se avessi voluto farlo, credimi, avrei agito tempo addietro. Sarebbe stato
meglio se mi fossi liberato di te prima che attirassi la disgrazia su mio
figlio.
Auguste
strinse le palpebre in un impulso di dolore e di collera impotente. Va’ all’inferno, avrebbe voluto
gridargli, va’ all’inferno e restaci,
maledetto bastardo! Perché non sei meno responsabile di me della morte di
Lucien. Perché mi avresti estromesso dalla sua vita, fosse dipeso da te, con i
suoi sogni, per quanto ingannevole e deleterio fosse ciò che io incarnavo per
lui, e ti saresti battuto per impedire a tuo figlio di vivere come desiderava,
in nome delle vostre fottute paure.
-
Eppure, non farò nulla di tutto ciò. Non l’ho fatto prima, non lo farò in futuro
– Emmanuel gli si fece più vicino – Non posso impedirti di entrare in chiesa e
partecipare al suo funerale, ma, dopo stasera, desidero che tu sparisca dalla
nostra esistenza e non ti ripresenti più. Mia moglie insiste nel voler scoprire
cosa veramente sia accaduto a nostro figlio, capisci, ma tu terrai la bocca
chiusa, e con questo spero vivamente che non mi faccia pentire di aver desistito
dal proposito di gettarti a marcire in prigione. È tutto.
Auguste
annuì con cieca rassegnazione, scosso dal repentino, violento impulso di
allontanarsi da quella strada, da quel luogo, da quella gente: era tutto ciò che
gli restava di lui, insieme ai ricordi che ogni istante di più gli facevano
pesare il mero fatto di essere ancora vivo. Era la gabbia di lacrime che
l’avrebbe inseguito dovunque egli si fosse recato.
-
Ora vattene, Auguste de la Garde.
Sparisci.
Sparisci.
Ed
io me ne andrò, monsieur Mirand, come desiderate voi. Ma in me non svanirà il
ricordo straziante, né in voi la consapevolezza.
Senza
aggiungere altro, Auguste imboccò la stretta via che l’avrebbe condotto
fisicamente lontano dal suo incubo, il volto allucinato, i pensieri impigliati
in qualche remoto angolo della sua mente svuotata e confusa. La strada, umida e
fangosa per le ultime tracce di pioggia, irriducibili dinnanzi al calore del
sole, scorreva sotto i suoi passi quasi senza che egli ne avvertisse
l’impatto.
Il
rimpianto, unico ed infido compagno, solitario residuo del suo amore disperato,
avrebbe circoscritto le trame della sua esistenza, scolpito nella sua mente con
la forza erosiva dello scalpello che intacca la resistenza del marmo, come il
nome di Lucien sulla candida pietra sepolcrale.
Auguste
socchiuse mestamente gli occhi, fessure gravide di languore che luccicavano sul
volto livido, per poi portare tristemente i propri passi oltre l’angolo della
via.
Era
finita. Tutto era compiuto, eppure la consapevolezza non aveva arrecato in lui
un solo spiraglio di sollievo.
Un
impatto violento lo fece trasalire bruscamente, e la repentina intensità
dell’urto gli serpeggiò addosso, arrestando i suoi passi in un precario
equilibrio, mentre la mano cercava tentoni una rientranza sulla parete cui
potersi provvisoriamente appigliare per non incespicare sui suoi stessi passi e
ritrovarsi con la faccia nella polvere. Auguste sospirò flebilmente, il respiro
affannoso, portando distrattamente la mano a sfiorare il petto dolorante nel
punto in cui quel qualcosa o qualcuno l’aveva urtato con forza. Fissò lo sguardo
dinnanzi a sé.
Che
diavolo…
-
Perché non guardi dove vai? – proruppe collericamente l’incauta figura che gli
era piombata addosso, un istante dopo aver ripreso stabilità sulle proprie gambe
facendo leva sul suo soprabito.
Sollevò
lo sguardo. La massa disordinata di setosi capelli biondo scuro celava
parzialmente alla vista un viso minuto dai tratti gradevolmente irregolari. I
grandi occhi affilati dalle iridi di cobalto luccicavano orgogliosi,
incorniciati da lunghe ciglia mirabilmente scure.
Per
un istante, i due si squadrarono in volto con fare
interrogativo.
- …
Auguste?! – sussultò il più giovane.
L’interpellato
inarcò impercettibilmente il sopracciglio.
In
persona. E… Potrei dire di te le stesse identiche cose, Fernand.
Tacquero.
Il velo opaco del silenzio era calato come un gelido sipario sul volto di
Fernand, adombrato dalle tracce inconfondibili di una notte insonne, la fronte
corrugata che tradiva l’ineffabile processo logico in atto nella mente: restare
fermo e ancorato in quel misero riquadro lastricato all’incrocio fra le due vie
deserte ed affrontare lucidamente lo spettro delle proprie incertezze, oppure
allontanarsi con fare sdegnoso?
In
silenzio, Auguste fissò il proprio sguardo alle spalle del ragazzo, verso un
breve scorcio di cielo mattutino impregnato di uno slavato chiarore e inquadrato
fra le sagome delle abitazioni svettanti. Nubi d’organza sottile filtravano i
fievoli raggi dorati che si frantumavano dinnanzi ai suoi occhi in un pulviscolo
luccicante, producendo un curioso contrasto con la figura in ombra di Fernand,
muta ed indecifrabile di fronte a lui. L’espressione altera del bel volto era
stemperata dalla venatura di lieve estenuazione che gli circondava le orbite e
dal tremore che gli impacciava le labbra.
-
Auguste, io…
Il
giovane mosse qualche passo confuso, le sopracciglia aggrottate in una ragnatela
di fulminei, convulsi pensieri, tanto che Auguste fu sfiorato per un istante
dall’idea che egli non desiderasse altro se non allontanarsi al più presto
dall’uomo che soltanto una sera prima aveva approfittato di un semplice pretesto
per rivoltarglisi contro come un gatto selvatico sorpreso a pochi palmi dal suo
potenziale assalitore.
Non
ebbe il tempo necessario a addurre improvvisate scusanti, che la mano di
Auguste, tempestiva, gli attanagliò il polso sottile in una presa che di certo
non sortì in lui l’effetto rassicurante che avrebbe desiderato
infondervi.
Un
raggio improvviso riversò uno spiraglio di luce oltre il largo cornicione
aggettante di un palazzo, facendosi largo oltre l’intrico di nubi olivastre che
percorrevano l’aria satura di vapore ed illuminando i capelli arruffati di
Fernand di una tenue aureola in controluce.
Auguste
non avvertì la brezza pungente fustigargli il viso accaldato e dissipare il
gelido madore che gli aveva inumidito la fronte durante la patetica resa dei
conti con Emmanuel Mirand. Percepì soltanto il battito sostenuto di Fernand
infuriare nelle vene dei polsi, la pelle fredda sotto le sue dita. Corrugò la
fronte. L’avrebbe abbracciato, forse, l’avrebbe pregato di dimenticare quanto
era accaduto, se questo fosse stato utile a farlo stare meglio e se soltanto
egli stesso non difettasse a tal punto nella volontà di porre rimedio ai propri
errori.
-
Sei freddo – mormorò assorto, sciogliendolo dolcemente dalla sua
morsa.
Lo
vide buttare distrattamente lo sguardo sull’impronta bianca e rossa che, per un
istante, gli spiccò netta sul polso, le labbra percorse da un fugace sorriso,
prima che le sopracciglia scure gli si contraessero in una piega angosciata. Il
suo volto s’irrigidì nuovamente in un’espressione tesa.
Fernand
sembrava smarrito, turbato, la mente che arrancava nel sintetizzare
repentinamente nuove informazioni, fin quando non realizzò di poter accantonare,
per il momento, il timore assillante che Auguste avesse davvero posto a
repentaglio la propria vita.
-
Stai bene, Auguste? – esordì, la voce malferma.
Auguste
trasalì. Il ragazzo gli artigliò le spalle, cingendolo in una stretta spasmodica
colma d’inquietudine e malcelato sollievo.
-
Fernand… – le braccia di Auguste ricaddero rigide lungo i
fianchi.
Serrò
le palpebre, un impulso doloroso e indecifrabile che no, non voleva saperne di
tramutarsi in sollievo.
Fernand
non lo odiava per quel che gli aveva fatto: non aveva fuggito irosamente il suo
sguardo, non gli aveva rinfacciato l’offesa. Fernand aveva temuto in silenzio
per lui, quando Emilie gli si era precipitata in casa mettendolo convulsamente
al corrente di com’era scomparso nella notte in compagnia di due sconosciuti ai
quali lo univano ignote trame, e una pistola stretta nel pugno – lui! Auguste,
che feriva piuttosto con le parole e con la dura, spiazzante razionalità dei
gelidi occhi grigi; il cui solo pensiero della fredda impugnatura dell’arma
stretta fra le dita era in grado di farlo trasalire, di fargli franare la terra
sotto i piedi, di trasmettergli quell’alienante sensazione di
capogiro.
L’aveva
percosso e umiliato, eppure in quel momento a Fernand pareva non importare altro
che l’esserselo ritrovato integro dinnanzi agli occhi.
Cosa
diavolo aveva fatto, quella notte? Quale spirale autodistruttiva lo induceva a
fuggire qualunque conforto?
Non
fu un abbraccio affettuoso, circonfuso di calore. Le mani di Fernand erano
rigide, strenuamente aggrappate alle sue spalle, il corpo tremante, i nervi a
fior di pelle.
Il
volto di Auguste si rilassò in un sorriso stanco, le dita corsero a sfiorare
istintivamente lo zigomo di Fernand percorso da una leggera escoriazione nel
punto in cui l’aveva colpito.
Fernand…
Auguste
serrò le palpebre, le membra pervase da un fervido languore che la mente si
sforzava d’incanalare in ogni fibra del suo corpo, alla ricerca di un fragile
appiglio da contrapporre alla disperazione; ogni sua percezione era concentrata
su quei soffici capelli irrimediabilmente scompigliati che gli accarezzavano il
collo.
-
Fernand, io… Mi dispiace – sussurrò.
-
Ti dispiace…?
La
reazione lucida di Fernand esplose fulminea. Per un istante, Auguste si ritrovò
costretto, suo malgrado, ad indietreggiare di qualche passo, preso alla
sprovvista dal violento strattone per mezzo del quale il giovane l’aveva
allontanato da sé. Immobile, fissò il volto di Fernand contorto in
un’espressione accigliata, le guance chiazzate di rosso, i frementi occhi
azzurri che bruciavano su di lui come spilli arroventati. La mano chiusa a pugno
vibrava stretta contro il petto.
Vuoi
colpirmi di nuovo, Fernand? Fallo ancora, se è ciò che desideri, ma poi
dimentica. Per favore.
Il
ragazzo dischiuse appena le labbra per dire qualcosa, i tratti del viso percorsi
da una profonda agitazione, le narici dilatate come un giovane levriero pronto a
lanciarsi sulla preda. Poi, inaspettatamente, il risentimento e l’apprensione
sfumarono sul suo volto sotto il tepore rasserenante di un crescente
sollievo.
-
Sei proprio stronzo – gli soffiò.
Auguste
sollevò gli occhi al cielo, l’angolo della bocca incurvato in un mezzo sorriso
sbilenco.
-
Preferirei passare direttamente alle novità, se non ti
dispiace.
-
Le novità? – Fernand gli scoccò uno sguardo eloquente – Queste, dovresti
riferirmele tu. Puoi spiegarmi almeno che cosa diavolo ti sta passando per la
testa?
Come
da copione.
Auguste
deglutì nervosamente. Distolse lo sguardo, cercando di guadagnare tempo alla
ricerca di una risposta che giustificasse in maniera quanto più esauriente le
sue mosse. Sospirò, contrito: non voleva parlarne, non voleva ritrovarsi con le
spalle al muro, com’era avvenuto nell’alienante, patetico confronto che aveva
visto Raphäel e Dorian coalizzati e decisi a strappargli di bocca rivelazioni
dalla portata insidiosa di un’arma a doppio taglio. Dorian, già: quel piccolo
serpente l’aveva messo alle strette nel momento in cui era più vulnerabile, e
solo per miracolo era riuscito a non tradirsi. Dorian si era limitato a rivelare
ai propri occhi l’altro volto di Auguste: un angosciante labirinto i cui meandri
vorticosi da altro non erano costituiti se non da miriadi di cassetti che al
loro interno celavano ad occhiate indagatrici nuove maschere, bugie, mezze
rivelazioni, segreti rivestiti da barriere di carta, un altro e un altro
ancora.
Non
Fernand, ora, non di nuovo, essere sorpreso in quello stato, oltre la coltre
nebbiosa che occultava i suoi passi, il suo mal architettato teatrino ed i suoi
schermi fuorvianti. Non in quel modo e non in quel
momento.
-
Cos’è successo stanotte, Auguste? – incalzò il più
giovane.
I
denti candidi scintillarono fra le labbra tirate di Auguste, dischiuse in un
sorriso forzato e sofferto. Allungò una mano sulla spalla di Fernand in una
presa falsamente rassicurante. Il ragazzo trasalì al suo tocco come punto da uno
strale arroventato.
Resisti,
Auguste: resisti ora, e potrai farlo in qualunque
momento.
- È
tutto a posto ora, Fernand – tagliò corto – Ho sistemato tutto: non vi è nulla
da temere; non nell’immediato, se non altro.
-
Non tergiversare.
-
Se davvero vuoi i particolari – sul volto teso di Auguste comparve un breve
luccichio di spazientita indignazione – puoi sempre interpellare il tuo amico Raphäel: sono certo che saprà
ragguagliarti al meglio.
-
Non è mio amico – si affrettò a ribattere Fernand con voce
gelida.
-
Eppure avete tanti di quei punti in comune che una vostra eventuale
collaborazione mi fa quasi paura – lo sguardo di Auguste assunse un’impronta
duramente sarcastica – Volete agire, volete la rivoluzione, volete il sangue del
tiranno e dei suoi cani da guardia: volete tutto e lo volete subito. È tutto per
voi. Ed io ho persino seguito i tuoi accalorati suggerimenti - pensavo proprio a
te, Ferdinand, alla linea di lotta da
te a lungo propugnata, quando ho disposto la fornitura di fucili e munizioni
commissionando il furto. Ho accettato, perché sono una fottuta testa
calda.
Ferdinand:
l’aveva volutamente apostrofato con il suo nome di battesimo, quasi a voler
sancire la gravità delle proprie affermazioni.
Il
ragazzo sbatté le palpebre, trafitto dall’impeto delle parole di Auguste, ma la
sua attenzione fu subito riscossa da una risata tagliente.
-
Sarebbe stato divertente, Fernand, se tutto fosse andato a buon fine, non credi
anche tu? Rivoltare contro il duca le sue stesse armi, quelle che in origine
erano destinate a lui!
-
Ed ora? – Fernand lo fissò in volto, disorientato.
-
Nulla – Auguste si ricompose – Non se n’è fatto nulla.
Lentamente,
Auguste portò la mano a sollevare delicatamente il volto di Fernand fino a
dirigere il suo sguardo su di sé, le dita che indugiavano distratte in un
impercettibile sfioramento lungo il contorno fragile della mandibola. La sua
espressione si addolcì.
-
Non sono arrabbiato con te, Fernand – gli sussurrò gentilmente, modellando il
proprio viso in un’espressione che potesse apparire vagamente
serena.
Fernand
sembrava confuso, stordito, la mente annebbiata dinnanzi all’andirivieni
incessante di caotiche sensazioni che gli era stato riversato addosso con fare
convulso, fumo negli occhi.
-
Auguste… – il giovane annuì debolmente, l’ombra di un sorriso vagamente
accennata sul viso delicato.
Auguste
lo fissò senza dire nulla, assorto, il volto privo d’espressione, un grumo di
tristezza ancorato al petto che si scioglieva gradualmente, allentando la sua
morsa man mano che lo sguardo di Fernand indugiava benevolo su di lui, privo di
asperità, per la prima volta, di sfumature ostili, indecifrabili o diffidenti.
Lo vide allungare cautamente una mano verso di lui.
-
Stai piangendo – mormorò Fernand, sfiorandogli il viso nel punto in cui una
lacrima rovente gli rigava la pelle.
Auguste
scosse la testa, come a volersi liberare in un fulmineo battito di ciglia di
quell’effetto improvviso.
-
Dici? – sottrasse di scatto il proprio volto al tocco di
Fernand.
Serrò
dolorosamente le mascelle, prima di chinare il capo ed abbattersi sconfitto sul
ragazzo.
Scosso
da sussulti, le braccia allacciate intorno a Fernand, la fronte premuta contro
la consistenza ruvida della giacca. Il viso sprofondato nell’incavo della
spalla, perché no, non gli avrebbe offerto uno spettacolo tanto
patetico.
Fissò
distratto l’alone biancastro che le sue lacrime avevano lasciato sulla stoffa
scura, insieme alla cipria con la quale aveva tentato, con pessimi risultati, di
occultare il livido bluastro sul proprio volto.
Un
damerino dal viso ben rasato e incipriato che con fredda noncuranza si reca al
funerale della persona che egli stesso ha contribuito a portare alla tomba, il
volto duro ed impassibile dinnanzi a chi, non del tutto a torto, lo addita quale
vero responsabile: il ritratto dell’ipocrisia.
Scrutò
interrogativo il viso di Fernand oltre il velo caliginoso che gli ottenebrava la
vista, i lineamenti affilati che si confondevano dinnanzi a lui in un
caleidoscopio di lacrime e mutevoli luminescenze. L’ovale pallido gli apparve
come lo schizzo appena abbozzato di un ritrattista frettoloso che con rapide
pennellate ne aveva descritto i contorni. E Fernand sembrava tanto piccolo ed
esile, stretto contro il suo corpo, benché egli, Auguste, non lo sovrastasse
eccessivamente.
Era
crollato per la seconda volta, la seconda dacché Lucien era morto, una muta resa
fra le braccia di una persona nella quale aveva intuito un flebile anelito di
comprensione. Com’era avvenuto con Ambrosie, quell’orribile notte, sulla soglia
della stanza in cui l’unica persona che egli amava era stata uccisa. Ambrosie,
fiera e labirintica razionalità che si sforzava di celare al proprio interno gli
impulsi più irrazionali della passionalità; e Fernand, orgoglio disperato che si
dibatteva fra passioni imperscrutabili e discordanti, opponendo un fervore
dirompente, quasi sconsiderato, al gelo che irradiava dentro di lui un cuore
ferito.
Auguste
allentò la propria stretta, costringendosi a non fuggire lo sguardo. Tirò su col
naso.
-
Il padre di Lucien ha acconsentito a malapena che io assista al funerale,
nonostante detesti la mia presenza. Non poteva impedirmelo – sibilò con voce
atona – Implicitamente, mi ritiene responsabile della sua morte. Hanno compreso,
Fernand. Hanno compreso tutti; ed io sono l’unico che si sforza… Di non
capire.
Tacque,
prima che le sue stesse parole lo spingessero a barcamenarsi in direzioni in cui
non desiderava addentrarsi. Per quanto ancora sarebbe rimasto un segreto, il
fatto che lui e Lucien erano amanti? Forse non era ancora il momento. E se
Emmanuel Mirand avesse già subodorato qualcosa, con ogni probabilità, non si
sarebbe limitato a scacciarlo. O forse, a suo tempo poteva aver quanto meno
sospettato, preferendo poi tacere fino alla fine nel timore che tutto ciò
potesse gettare discredito su suo figlio, sedotto dal demonio che l’aveva
lasciato affondare con sé nell’abisso.
-
Che cosa, Auguste? – Fernand parve alterarsi – Chi può nutrire un’idea
simile?
Auguste
scosse il capo, strofinandosi gli occhi congestionati col dorso della
mano.
-
Non servirà parlare, stavolta. È tutto finito.
Il
giovane lo stringeva ancora a sé, le dita che scorrevano fra i capelli
arruffati. Nella sottile penombra che il bavero rialzato proiettava sul suo
volto, Auguste intravide lo sguardo di Fernand luccicare fremente, la scura
gradazione cobalto dell’iride vibrare imperiosa sul volto
arrossato.
-
Non è finita. Abbiamo bisogno di te.
Auguste
sgranò gli occhi per un istante, interdetto: era l’ultima affermazione che
avrebbe giurato potesse fuoriuscire dalla bocca di
Fernand.
-
Ricordi… La sera dell’ultimo dell’anno – riprese il ragazzo con voce pacata,
perso nei propri pensieri, mutando drasticamente discorso non appena ebbe
compreso che non sarebbe riuscito a cavare da Auguste una parola di più – Ancora
non saprei dire, quella sera, chi fosse più ubriaco fra me e Dorian. Hai pensato
tu a trascinarci fuori di lì, quando ormai non ero nemmeno in grado di reggermi
sulle mie gambe. È logico pensare che tu fossi l’unico sobrio, là
dentro?
Auguste
sorrise sbigottito: Fernand aveva troncato improvvisamente la discussione e
stava certamente cercando di confonderlo nel momento in cui proseguire su quella
scia avrebbe comportato sempre più il rischio d’inoltrarsi per sentieri
pericolosi.
Dove
ha deciso di colpire, stavolta? Dove vuole arrivare?
Che
voglia soltanto… Distrarmi, almeno per qualche istante, con ricordi
inoffensivi?
-
Ricordo, Fernand – la mano di Auguste scivolò distrattamente su una ciocca
ondulata dell’amico.
Poi,
un groppo improvviso gli strinse la gola, spezzandogli il respiro. Arrestò il
flusso dei propri pensieri.
Possibile
che…
-
Io… – biascicò il ragazzo – Non credevo…
Auguste
riprese il controllo. Beffardo, considerò in tutta tranquillità di poter
accarezzare con mano, in un ineffabile gioco di sguardi, la confusione e il
turbamento che affioravano sul volto di Fernand.
Pensò
a quanto sarebbe stato bello, in quel momento, relegare le proprie azioni in una
sorta di paradosso onirico, una prospettiva in cui, eccezionalmente, un gesto
avventato da parte sua non avrebbe compromesso i precari equilibri fra lui e
Fernand, ripercuotendosi negativamente su eventi futuri.
Sarebbe
tanto, troppo semplice…
-
Hai capito, Fernand – gli prese dolcemente il mento fra due dita – Se è quel che
intendo. Un ricordo sfumato di labbra sconosciute. Questo –
sussurrò.
Auguste
sentì il tremore delle sue membra, le palpebre spalancate per la sorpresa, le
gote che avvampavano. Percepì il respiro fresco di Fernand accarezzare
dolcemente le proprie labbra fino a morire in un soffuso
sfioramento.
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Capitolo 20 *** Capitolo 20: Rosso sensazione ***
Capitolo
20
Rosso
sensazione
Auguste
sentì le labbra di Fernand scivolare soffici e delicate in un lento strofinio
sotto le sue; lambendolo in punta di labbra in un soffio sfuggente, percorse il
contorno sottile della mandibola lungo l’ovale del volto che digradava
dolcemente, e lasciò che la vaga carezza scemasse a un filo dal suo
orecchio.
Avvertì
il battito del ragazzo infuriare sotto la pelle, il respiro giocare
distrattamente sui suoi capelli, lo sguardo illanguidire e velarsi di
nebbia.
Vacillò,
le palpebre socchiuse, i muscoli tesi nel tentativo di contrastare
l’impertinente, torrida sensazione di formicolio all’altezza del basso
ventre.
-
Auguste… – la voce affiorò nella gola secca di Fernand come provata da una lunga
apnea – Cosa…
- …Cerco
di fare?
Un mero
istinto di sopravvivenza lo indusse ad atteggiare il volto in un’espressione di
falsa sicurezza.
Quale
inspiegabile luccichio gli martellava nella testa?
-
Cercavo solo di darti un’idea, uh, di quel che è successo quella famosa notte di
Capodanno, cheri – azzardò Auguste
con voce roca, un sorriso sarcastico atto a mascherare il proprio disagio in
quell’assurdo vicolo cieco di ricordi sfumati e mere supposizioni in cui aveva
voluto cacciarsi per forza.
Perché
le stesse parole ed i pensieri di Fernand avevano finito per precipitare
liberamente in quella direzione?
-
Qualunque cosa io abbia fatto in quella tristemente famosa notte non fa testo, se consideri
che ero completamente, inequivocabilmente ubriaco – scattò Fernand, il volto
accaldato.
Auguste
annuì con fare sagace.
- Mi
spiace solo non poterti offrire una dimostrazione pratica di quella che è stata
la tua performance, Fernand. E converrai con me che non sarebbe carino, in mezzo
ad una strada, per quanto deserta sia…
Tacque.
Il volto di Fernand gli parve in procinto di andare a
fuoco.
- Cosa
diavolo vuoi dire? – stridette il giovane, disorientato.
Istintivamente,
Auguste si passò la lingua sul labbro superiore,
compiaciuto.
- Che se
fino a questo momento, a domanda precisa, avrei giurato quasi certamente di
sopportarti meglio da sbronzo che da sobrio, ora dovrò ritrattare ed ammettere
che non è poi così male, in condizioni normali e per la prima volta in assoluto,
intrattenere qualcosa che somigli ad un dialogo pacifico con l’inamovibile
Ferdinand laRoche. Magari, col tempo, riusciremmo persino a non scannarci e
scambiare qualche battuta come fra vecchi amici.
Un mezzo
sorriso indulgente percorse le labbra di Fernand. Erano divenuti un’eventualità
così sporadica, quegli inediti frammenti di rilassata quotidianità aventi come
protagonista l’indefesso Auguste de la Garde, sempre più cupo e scuro, lo
sguardo mobile ed inquieto incastonato nelle orbite cerchiate di stanchezza,
perso in fondo alle sue angosce di cospiratore maledetto. Come se, da un certo
momento in poi, in un personale eccesso di responsabilità o di puntiglio, si
fosse tacitamente imposto di rinunciare alla tregua di un istante di abbandono e
ad ogni parvenza di serenità.
Riprendere
a respirare; tornare fra i comuni mortali ed abbandonare, almeno per un momento,
i panni ingombranti del rivoluzionario dalla volontà di roccia e dai nervi a
pezzi, meditò Fernand con una punta di sarcasmo.
Eppure,
quasi senza avvedersene, sfiorando nel buio dell’inconsapevolezza il filo di un
pensiero alternativo, era riuscito in qualche modo a pizzicare una di quelle
rare corde capaci di distoglierlo dal suo inferno e catalizzare la sua
attenzione su ricordi indolori. E lui, Fernand, sarebbe stato ancora più felice
se la scelta fosse quantomeno ricaduta su qualcosa che non implicasse per lui
l’increscioso risvolto di farlo sprofondare
nell’imbarazzo.
Auguste
non aveva fatto mai nulla per contenere la spiccata attitudine a stuzzicare di
proposito la sua irascibilità: benché i loro rapporti non fossero mai stati
squisiti al punto da lasciarli indulgere placidamente in cameratesche
confidenze, e malgrado entrambi assecondassero quasi per natura la reciproca
tendenza ad infiammarsi l’un contro l’altro, nessuno dei due si era mai
preoccupato di approfondire in sede privata i loro rapporti, se non altro per
cercare di comprendere ed appianare le cause delle loro
tensioni.
Auguste
sembrava nutrire il solito gusto perverso nel provocarlo e tentare di
scombussolare le sue certezze; eppure, unica palpabile differenza, quello che
Fernand vedeva in quel momento dinnanzi a sé ricordava piuttosto un amico che
gioca a punzecchiarti in maniera tutto sommato inoffensiva e priva di cattive
intenzioni, che non la figura dall’apparenza ostile dalla quale guardarsi
costantemente le spalle.
Auguste,
il suo Auguste stava lì di fronte a
lui, a dispetto delle previsioni meno rosee intessute nell’arco di quella notte
di estenuante attesa; Auguste non lo guardava più con ostilità, e lui, con la
sua stessa presenza, lasciandolo sfogare tra le sue braccia e tendendogli quasi
casualmente un cenno amichevole, pareva inaspettatamente aver infuso sulle sue
spalle quella stilla di momentaneo sollievo in grado, se non altro, di
mantenerlo in piedi sulle sue gambe.
Auguste
fuori di sé, che oscilla incessante fra la reticenza, il rimorso e la
disperazione, incatenandolo ai suoi occhi arrossati in una muta e quanto mai
implicita richiesta d’aiuto, per poi, beffardo, stravolgere di colpo le regole e
scagliarsi rapace su di lui.
E poi
c’era quella caliginosa sensazione di morbido fiele, quelle labbra – non più
sconosciute –, quel profumo che l’aveva sfiorato come velluto impalpabile,
trasmettendogli nel brivido del distacco quel sapore che, nel fumoso delirio di
una notte ormai lontana nel tempo, aveva gustato sul filo dell’inconsapevolezza.
Auguste l’aveva fatto e non si era posto scrupoli di sorta, sadico e leggero
come il leone che approfitta dell’indifesa gazzella.
-
Dobbiamo parlare, Auguste – accennò il ragazzo con rinnovata compostezza, un
lampo di freddo raziocinio in fondo alle iridi.
Auguste
gli rivolse un impercettibile cenno del capo, trasalendo appena, lo sguardo
sfuggente.
- Non è
indispensabile – un mezzo sorriso gli increspò le labbra.
Fernand
spalancò le palpebre, interdetto.
- La… la
faccenda di quei dannati libelli, Auguste. Io… Mi dispiace – esalò in un
sussurro.
Auguste
agitò debolmente la mano come a voler vanificare un pensiero superfluo e
molesto.
- Lascia
stare, Fernand – il suo sguardo parve arenarsi in un punto impreciso sulla
fronte del ragazzo ed indugiare brevemente su di lui, fragile pretesto nel suo
raggio visivo – Sono convinto che non avrebbe senso ricominciare da capo e
scandagliare nel dettaglio. Non sarà necessario, stavolta.
- Vorrei
soltanto – Fernand respirò profondamente, quasi a ricercare il coraggio in un
sottile alito di sollievo nel suo petto – Capire se… Se la mia presenza sia
ormai di troppo, dopo quanto è successo.
Auguste
ripose fulmineo la sua attenzione su di lui.
- Dopo
che cosa?
- Dopo
quel che è accaduto a Lucien.
Auguste
scosse il capo.
- Non
vedo un nesso logico.
-
Sembrava quasi che mi ritenessi… Responsabile, forse. Che la mia presenza fosse
divenuta un peso.
Auguste
si ritrasse come percosso da una frustata. Le sopracciglia si corrugarono in un
moto perplesso.
- Cosa
ti fa pensare…
Fernand
chinò tristemente lo sguardo, dissentendo.
- Tutto
ciò che è successo ha reso evidente quanto le nostre linee di lotta siano
diventate inconciliabili, e che un eterno “muro contro muro” fra menti discordi
non può durare ancora a lungo.
- È una
sciocchezza – lo interruppe Auguste.
-
Allora, parla chiaro – la voce di Fernand s’indurì senza che egli se ne
avvedesse, gli occhi assottigliati in una piega risoluta – Spiegami ora,
Auguste! L’ultima cosa che desidero in proposito è ritrovarmi nuovamente preso
alla sprovvista nel limbo dei tuoi perenni “non dire” che sembrano promettere
cambiamenti di veduta, illudermi che i problemi siano risolti, quando in realtà
si limitano a giacere sul fondo, per poi ritrovarci punto e a capo, stasera o
domani o chissà quando, a contrariarci a vicenda e a prenderci a pugni nelle
locande.
- No,
non accadrà – Auguste pareva ribadire un concetto oltremodo ovvio – Perché ora
cambia tutto.
- Che
cosa cambia? Cosa vuoi fare della congrega, Auguste? – le labbra di Fernand
fremettero.
Auguste
sollevò gli occhi al cielo alla ricerca di una risposta che non sarebbe
arrivata.
- Dammi
solo un po’ di tempo per riflettere, Fernand – per un istante, il suo sguardo
parve accendersi dell’antico slancio nel perseguire l’unico scopo che mai gli
fosse parso congeniale – Tutto si appianerà. Parlerò con voi, te lo prometto –
la voce sfumò sibillina.
- Quanti
anni hai, Fernand?
La
domanda a bruciapelo scosse Fernand come un improvviso mutamento di rotta in
mare aperto.
-
Come?
- Quanti
anni hai, Fernand? – Auguste sorrise con quel fare sfuggente che cominciava
ormai a fiaccare la pazienza di Fernand.
-
Venti.
-
Vent’anni – Auguste gli rivolse uno sguardo paterno – Avevo vent’anni come te,
Fernand. Mi piaceva definirmi rivoluzionario, nonostante avessi solo una vaga
idea di ciò che significasse, e con la mia poca coscienza nel calarmi nel ruolo,
le idee astratte e la scarsa sottigliezza nel concretizzarle, avrei fatto
impallidire persino la
Bertie. Gli amici dell’Accademia, in qualche modo, dovevano
aver instillato nella mia mente giovane ed influenzabile tante di quelle idee
contorte, inattuabili e dense d’interpretazioni distorte che, se le cose fossero
andate diversamente, con ogni probabilità mi sarei persuaso che la città avrebbe
potuto sollevarsi da un giorno all’altro, spodestare i du Lac e tirar su una
repubblica in quattro e quattr’otto. Avrai capito che razza di testa calda dalle
idee confuse sarebbe venuta fuori da quell’impasto incoerente di parole vuote,
cattive interpretazioni della realtà e posizioni prive di consapevolezza di un
ragazzo che aveva fame d’illusioni. Poi venne il duca Alphonse e ci fece
rimpiangere il ramo diretto della dinastia. Tu – una piega affabile, velata
d’amarezza, percorse il viso di Auguste – hai una linearità di pensiero,
Fernand. Nonostante tutto. Filtrata dai tuoi occhi, la realtà non è
un’impalcatura astratta di nette antitesi, ma ne hai compreso le contraddizioni
in atto. Ragioni come un uomo, non come un ragazzo inesperto infarcito di
concetti sistematicamente distorti, serviti su una tavola mal apparecchiata da
parte di chi vuol fare di un popolo una scheggia
impazzita.
- Cosa
te lo fa pensare? – Fernand distolse lo sguardo.
Si
strinse nel soprabito, a disagio.
- Sai
riconoscere i tuoi errori, ad esempio.
- Dopo
che qualcuno mi lancia in testa i
miei scritti come corpi contundenti e mi prende a schiaffi – puntualizzò
polemicamente Fernand, lo sguardo asciutto.
Auguste
ringraziò, per la prima volta, che un discreto rossore sul proprio volto
l’avesse fatto apparire, almeno ai suoi stessi occhi, un po’ meno
impunito.
- Hai
capito che la causa dei nostri mali non è esclusivamente quel tiranno arroccato
lassù, divenuto quasi immaginario sulla bocca della gente e contro cui è
diventato ormai sin troppo semplice, quasi proverbiale, puntare il dito ed
inveire sottovoce, scaricando ogni responsabilità.
Fernand
aggrottò le sopracciglia.
- Ma è
anche vero che nessuno più del duca du Lac trae vantaggio da un popolo
soggiogabile e si danna l’esistenza affinché a nessuno passi mai per la mente
l’idea, traducibile in pratica, di ridimensionare il suo
potere.
- I
bravi uomini dalla mente illuminata e dai forbiti discorsi hanno molte cose più
urgenti di cui occuparsi – un lampo di sarcastica indignazione attraversò le
iridi di Auguste – Certo capirai, impegnati come sono a fare e rompere alleanze,
ad addormentarsi la sera avendo in odio il duca ed a risvegliarsi suoi amici.
Per codardia, per avidità di ricchezze e potere che tacita ogni scrupolo morale,
o per l’odio che li spinge a tradirsi gli uni gli altri e servirsi di bassezze e
menzogne come pretesto per vendicare vecchi torti. Non sono migliori del duca:
solo questo, Fernand, per quanto sia bene rifuggire le semplificazioni. L’odio,
la miseria esistenziale, l’avidità di chi desidera avere tutto e subito,
l’invidia e la rivalità che spingono bande rivali e singoli individui ad
osteggiarsi a vicenda, dimenticando la matrice comune dei loro scopi, ed a
consegnare al duca i propri avversari. L’incertezza, Fernand, il sospetto, la
tristezza, la paura astratta radicata nelle menti, il rancore e la disperazione
che ormai permeano la città come trame invisibili. Cinque mesi di discussioni,
di incontri, di progetti e disaccordi, di idee che sembrano, ad un primo sguardo
in superficie, l’una l’antitesi dell’altra, Fernand, stavano quasi per
spaccarci. Eppure, stavolta non accadrà. Non fra noi –
concluse.
- Non
hai ancora risposto alla mia domanda – Fernand concentrò lo sguardo su di lui –
Cosa vuoi fare… Dei ribelli, dei progetti ancora in atto?
Auguste
abbozzò un sorriso come se ciò gli costasse un’immane
fatica.
- Saprai
a tempo debito, Fernand – concluse con fare sbrigativo, troncando la discussione
sul nascere.
Si calcò
il tricorno sulla testa e distolse lo sguardo col fare pacato e indulgente di
chi avrebbe sorriso, magari, avrebbe certo confuso le acque in sfuggenti giri di
parole, ma, risoluto, avrebbe serrato le labbra dinnanzi alla prospettiva di
rivelare ciò che all’interlocutore premeva; e si sarebbe negato fino allo
sfinimento, se l’occasione lo avesse richiesto.
Fernand
serrò il pugno abbandonato lungo il fianco in un riflusso di
frustrazione.
- Dove
vai, ora?
Auguste
accorciò il passo, permettendo a Fernand di coprire il breve tratto che li aveva
distanziati.
- Da
Dorian.
-
Credevo dovesse raggiungerci.
Auguste
scosse il capo.
- Se è
come credo, non ne sono troppo sicuro.
-
Auguste. Sforzati ogni tanto di parlar chiaro! – Fernand si stupì di come, dopo
tutta l’angoscia e le fisime che gli aveva procurato quell’uomo, riuscisse
ancora ad eludere del tutto spontaneamente l’artificioso filtro della ragione
sulle proprie parole e a rivolgersi a lui con imperiosa confidenza – Vi siete
incontrati?
Auguste
scosse il capo in un cenno affermativo.
-
Raphäel era con lui.
Dunque? Gli
occhi blu di Fernand si dilatarono in un’espressione eloquente, in
attesa.
- Mi
sono piombati in casa come due fantasmi. Erano preoccupati – Auguste serrò le
labbra, disarmato, riflettendo su quanto, ormai, valesse la pena vuotare
parzialmente il sacco – Dorian si è sentito male.
- Che
diavolo gli è successo?
-
Raphäel praticamente lo sorreggeva su di sé. Aveva la febbre molto alta e…
diceva un sacco di cose assurde – si risolse Auguste, un nodo d’amarezza che gli
offuscava le iridi e gli faceva tremare la voce.
- E ora?
– Fernand seguitò a stare al passo, il volto allarmato e lo sguardo diretto e
limpido che puntava persistente su Auguste, malgrado egli s’ingegnasse in tutti
i modi a distogliere lo sguardo cercando di non suscitare l’impressione di
sentirsi a disagio o di voler celare qualcosa.
- E ora
stiamo andando a vedere come sta – replicò, asciutto – È stata una fortuna che
Raphäel sia rimasto con lui.
Fernand
si morse istintivamente il labbro, un’impercettibile nota d’inquietudine e di
lieve irritazione che gli fece allungare il passo alla volta della
piazza.
* *
*
- Perché
non aprite, dannazione! – mormorò tra i denti Fernand, il braccio bloccato a
mezz’aria nell’atto di vibrare un colpo secco col dorso della mano sul legno del
portone chiuso.
Auguste
lo seguì con la coda dell’occhio, tormentando distrattamente fra le dita un capo
del nastro stretto intorno al codino. Sospirò: Fernand non faceva nulla per
nascondere il nervosismo e quel filo sottile di livore, esacerbato dal
crescente, logorante sospetto che quella notte Raphäel Lemoine avesse
approfittato dei riflessi indeboliti di Dorian. Libero, in base alle suggestive
illazioni che la sua mente contorta s’impegnava ad intrecciare con la realtà, di
soggiogarlo a suo piacimento e, magari, intessere fruttuose conversazioni tese a
ricavare informazioni appetitose sul conto suo o di
Ambrosie.
Gli
occhi rivolti al cielo, il volto rassegnato, Auguste si chiese se l’ossessione
numero uno di Fernand ed i suoi infondati, snervanti sospetti avessero mai
cessato di agitarsi in quella testolina arruffata sempre in
fermento.
- Sei
geloso? – gli soffiò con voce incolore, arrischiandosi in un inavveduto pretesto
finalizzato a distogliere la sua attenzione, piuttosto che ad innescare le
solite sequele di vani battibecchi che facilmente ne
conseguivano.
Se ne
avvide tuttavia solo l’istante immediatamente successivo, quando Fernand si
volse verso di lui, il sopracciglio deliziosamente
inarcato.
- Oh,
va’ al diavolo anche tu! – ribatté, superata l’iniziale perplessità che gli
aveva trattenuto l’imprecazione in punta di labbra.
- Hai un
vocabolario sempre più limitato, mon
ami.
Il
ragazzo scosse nervosamente il capo, spazientito.
- E tu
somigli a Dorian in maniera sempre più esasperante, quando cerchi di “farmi
ragionare”. Sarei curioso almeno di scoprire quale nuova, bizzarra teoria ha
ricamato la tua mente fino a giungere ad una mia fantomatica… “gelosia”? –
Fernand incrociò le braccia sul petto, un pallido sorrisetto sulle labbra
delicate che pareva anticipare l’ennesimo duello a base di sarcasmo e colpi
serrati.
Attese.
- Via,
Fernand. Sei talmente geloso di Raphäel che raramente riesci a scindere
questioni di causa maggiore da personali dissapori.
Lo vide
affondare le mani nelle tasche del farsetto, scuro in
volto.
- Se
questa è la tua idea, potrei citare a mia discolpa motivazioni ben più
ragionevoli che chiariscano una volta per sempre perché l’amicizia
disinteressata del buon Raphäel non mi abbia mai convinto ad accettare senza
riserve il pacco completo e ad accollarmi con leggerezza tutte le sue ombre e le
sue reticenze, senza risposte e senza certezze. Ne abbiamo già parlato, Auguste
– concluse, annoiato.
- Ho
imparato a fidarmi di lui, Fernand. E sono convinto che sia un ragazzo migliore
di quel che appare; le sue prospettive d’azione racchiudono un’impronta di fondo
di gran lunga più generosa e ideale di quanto non abbiano mai implicato per il
sottoscritto. È un pregio e un difetto, a ben vedere, la sua onestà e la totale
mancanza di distacco nel reagire all’ingiustizia, ed avrai di certo capito cosa
intendo – i suoi occhi indugiarono insistenti su Fernand – quando dico che un
aspetto comune a voi due, da un certo momento in poi, ha iniziato a farmi paura.
Il tuo atteggiamento nei suoi confronti ha molto di personale, Fernand. Non nego
l’evidenza del forte ascendente che Raphäel sembra esercitare attorno a sé e
capisco quanto tutto questo possa sembrare fumo negli occhi sulle sue vere
intenzioni. E tu, Fernand, sembri averne direttamente paura.
- Quella
specie di… carisma - oh, Dio, chiamalo pure come preferisci! - …che riversa da
tutti i pori, come vedi e come sarebbe meglio che al più presto qualcuno,
gentilmente, lo rendesse edotto, non lo ripara dallo spettro delle cattive
intenzioni che ognuno di noi, prima o dopo, finisce per trascinarsi dietro come
fardello accessorio. La cappa immacolata del buon rivoluzionario, del ragazzo
del popolo che si spacca la schiena giorno e notte, la sua abilità a conciliare
vita privata, povertà annessa, e velleità sovversive, svicolando come
un’anguilla dalle più legittime pretese di una garanzia sul suo conto, e magari
adempire in tutta calma ai propri affari, non credo resterà incontaminata ancora
a lungo, seguitando a fare di lui, agli occhi di tutti, la persona di cui
potersi fidare a scatola chiusa. Rigirala come meglio preferisci, Auguste, ma
sono tuttora scettico di fronte a scintille troppo manifeste. E per quanto
riguarda il resto, di lui mi sembra di capire sempre meno ogni giorno che passa.
Piace molto ad Ambrosie; Emilie, che sembrava detestarlo a priori in quanto
ribelle, non ha esitato, al momento opportuno, a spiattellare a lui e soltanto a
lui, il campione dell’arrampicata verbale, tutto ciò che è riuscita ad origliare
della tua chiacchierata con i tuoi ricettatori di fiducia – gli affibbiò una
gomitata sul fianco, pressato da un ennesimo dubbio incalzante, e lo soppesò con
occhi glaciali – altra faccenda di cui mi racconterai con calma e a tempo
debito. E poi Dorian, Dorian che fino all’altro giorno non l’aveva degnato di
qualcosa in più di uno sguardo, eccolo, in un battito di ciglia, scoprirsi il
suo compagno prediletto di scorribande notturne.
- Dorian
stava così male che, probabilmente, non avrebbe fatto una piega neppure se a
scortarlo fino a casa fosse stato il du Lac in persona – convenne Auguste – Io
cercherei di guardare a Raphäel, e a chiunque altro al suo posto, con
l’oggettività che la nostra posizione richiede e considerare quanto più
possibile la persona nel suo agire, tralasciando i luccichii accessori; e ti
assicuro che, almeno fino a questo momento, Raphäel Lemoine si è rivelato un
collaboratore prezioso.
Per un
istante, Auguste fu certo di aver scorto negli occhi di Fernand un’ombra carica
di tristezza.
- Pensi
che io… – azzardò il ragazzo – Sia geloso del suo ascendente? Del fatto che
si procacci benevolenza e fiducia a piene mani, come e quando vuole,
sciogliendosi con disinvoltura da ogni straccio di sospetto circa la sua buona
fede? Della rete di rapporti, di situazioni, di legami di fiducia sulla parola
che è riuscito ad intessere intorno a sé, attirando nella sua orbita persino
Ambrosie e Dorian e rigirandosi attorno al dito mignolo la mole d’implicazioni
in atto che ha innescato intorno a sé con il suo
comportamento?
Auguste
deglutì a fatica, un lampo di repentina consapevolezza, rendendosi conto di
quanto sconsideratamente si fosse avventurato sul filo di una lama sguainata, e
di quanto poco sarebbe bastato, ancora, per sortire definitivamente in Fernand
uno scoppio d’ira e ritrovarsi scaraventato di nuovo al doloroso punto di
partenza.
Ho
sbagliato di nuovo, con lui. Sbagliato il momento, sbagliato il modo in cui,
senza avvedermene, lascio vacillare fino a cadere nel vuoto quell’unico
spiraglio d’opportunità che in qualche modo mi era stato fortuitamente offerto
per riaggiustare le ferite. Un errore, un grosso errore, sollecitare i suoi
punti deboli senza rendermi conto appieno della portata delle mie insinuazioni.
E questo è solo uno dei tanti demeriti.
Di nuovo
lì, punto e a capo, ad interrogarmi su cosa è giusto e cosa non lo è; dove far
leva, ora come ora, per dissipare le sue angosce o esasperarle, a mia
scelta.
- Lui
t’inquieta – azzardò Auguste – Irrazionalmente. Sfugge al più raffinato dei tuoi
schemi mentali. Questo è chiaro, malgrado non riesca ad afferrarne le cause. E,
con ogni probabilità, non parleresti in questo modo, se la questione non si
fosse estesa fino a coinvolgere direttamente i tuoi affetti. È
così?
Fernand
lasciò scorrere uno sguardo assorto su di lui, quasi senza osservarlo, sfidando
lungo l’arco ingannevole di un istante la propria forza di sopportazione. Si
riscosse.
- Oh, al
diavolo!
Auguste
sbatté le palpebre stanche, disorientato, quando Fernand, senza preavviso, si
lanciò sul portone chiuso con tutto il peso del suo corpo, assestandogli una
vigorosa spallata. Ebbe la presenza di spirito di afferrarlo, ormai sbilanciato
in avanti, evitandogli per un soffio di volare lungo disteso sul pavimento
dell’anticamera, oltre la porta forzatamente dischiusa dinnanzi a
lui.
Si
ritrasse di colpo, il braccio proteso davanti agli occhi a fargli scudo dal
tiepido riverbero del sole che dall’imposta spalancata s’infrangeva nella sala
come dietro ad un caleidoscopio, una miriade di confusi bagliori d’ambra pallida
fra le candide tende. Auguste lasciò che la propria vista, immersa fino a quel
momento nella penombra di un grigio pianerottolo, si riabituasse all’impatto
violento con la luce diretta. Avvertì Fernand ansimare contro di lui. Inspirò
profondamente, trattenendosi a stento da qualunque reazione dettata
dall’impulso: rientrava tutto a pieno titolo nello stile di Fernand, in quel
genere di trovate improvvise che gli faceva montare su una gran voglia di
prenderlo a schiaffi.
- Stai
bene?
Il
ragazzo annuì, massaggiandosi distrattamente la spalla.
Auguste
si osservò intorno in silenzio.
- Dove
diavolo sono andati? – Fernand mosse lo sguardo qua e là per la stanza, nervoso,
un velo d’inquietudine a gravargli sulle palpebre
spalancate.
- Da
nessuna parte – lo rassicurò Auguste, guardingo – Dorian, per lo meno, non può essere da nessun’altra parte,
nelle sue condizioni. Vieni!
La
prima, fulminea sensazione che Auguste, sul limitare della porta, avvertì
serpeggiare lungo la spina dorsale e, da lì, sovrapporsi prepotente ad ogni
altra percezione, fu un dolore acuto al braccio, accompagnato dall’impressione
di un imminente soffocamento. Un istante dopo, il suo sguardo intercettò la mano
di Fernand stretta sul suo braccio in un muto spasimo di terrore, le dita chiuse
a tenaglia e le unghie quasi conficcate nella carne. Soffocò
un’imprecazione.
Un
gemito soffuso e continuo, simile al lamento di un animale ferito, aleggiava
nella stanza come una nenia sommessa e distante di cui, in un primo momento,
Auguste ignorò la provenienza. Vide le sopracciglia di Fernand contrarsi sul
volto livido in una morsa carica d’inquietudine, tacita conferma dei suoi
timori.
Districando
i propri sensi da ogni deleteria suggestione, Auguste lasciò confluire le
proprie percezioni sulla figura raggomitolata in un angolo della stanza, un
bozzolo tremante dai lunghi capelli biondi. Affilò lo
sguardo.
Dorian.
Sembrava
stringere qualcosa in mano con forza spasmodica, ma quel che s’impose
ferocemente dinnanzi agli occhi di Auguste, riducendo ad irrilevante scenografia
ogni altro elemento dinnanzi a sé – la stanza, i presenti, l’intero impianto
razionale intorno a lui – fu la piccola pozza scarlatta che si allargava sotto
il braccio del ragazzo accoccolato sul marmo gelido, liquido insulto sulla mano
pallida che lo imbrattava fino al polso e fra le dita.
Socchiuse
gli occhi, sforzandosi di vedere oltre lo strato di nebbia che incrinava la sua
visuale. E poi una figura vestita di scuro, china accanto a Dorian, reclamarlo
in un fioco sussurro, il viso contratto in un moto d’agitazione improvvisa e le
gote accese di un vivo rossore. Si ritrasse. Era Raphäel
Lemoine.
Auguste
sentì la testa girargli ed una sorta di nube color sangue calare pesantemente
sui suoi occhi. Boccheggiò, le gambe in procinto di cedere, la mano stretta allo
stipite della porta, l’altra che vagava alla ricerca di un provvidenziale
appiglio su Fernand, e le labbra aride socchiuse in un ansito di terrore che non
trovò sfogo. Invano la mente si dibatteva nel ripudiare dal suo campo visivo
l’immagine che vi si era ossessivamente imposta; invano quel suo unico anelito
di disperata lucidità lottava per impedire al suo sguardo di arenarsi
all’infinito, come in un delirante incantesimo, in quell’oceano tinto di
cremisi. Strizzò le palpebre, tentando di scacciare il doloroso groppo
d’angoscia che gli si era ancorato al petto, spezzandogli il respiro ed
irradiando in lui un malessere oscuro, un suadente richiamo
all’oblio.
Fu il
precipitare degli eventi intorno a lui a riscuoterlo ed impedirgli di perdere i
sensi, insieme alle urla che gradualmente si imponevano sul ronzio caotico ed
ovattato che gli martellava nella testa.
Vide
Fernand, venuta meno la sua molle presa su di lui, fiondarsi al centro della
stanza vorticante e gettarsi come una furia su Raphäel, allontanandolo da Dorian
con uno strattone ed inchiodandolo al pavimento.
- Cosa
gli hai fatto, maledetto bastardo?
-
Fernand, cosa diavolo ti salta in mente, ora? – gli sussurrò Auguste, la voce
ridotta ad un sibilo roco, portandosi faticosamente a separare i due
contendenti.
Stordito,
Raphäel si risollevò a fatica, massaggiandosi la nuca dolorante. Per un istante,
i suoi occhi si socchiusero su Fernand in due fessure gravide di un acceso
rancore e di una furente, oscura frustrazione, tanto che Auguste temette di
vederlo scagliarsi su Fernand con il ferreo proposito di fargli quanto più male
possibile. Tuttavia, Raphäel si limitò a chinare mestamente il capo, i
lineamenti sottili composti in un’espressione
indecifrabile.
- Io… –
sembrava confuso.
Sollevò
il viso su di lui, lo sguardo allucinato come reduce da un
incubo.
Auguste
non ebbe altra scelta se non sforzarsi, nonostante tutto, di mantenere una
parvenza di controllo. Raphäel sembrava sconvolto; Fernand squadrava la sua
nemesi vivente con il fermo proposito di farla a pezzi, non appena si fosse
allentato il suo sguardo vigile su di lui. Dorian giaceva rannicchiato ai suoi
piedi, appena cosciente, il volto cereo corrugato in una maschera di dolore, il
palmo della mano attraversato da un lungo taglio, e tutti i suoi sforzi residui
sembravano concentrati ad arrestarne l’abbondante sanguinamento con un panno
ormai zuppo.
-
Raphäel – Auguste gli posò la mano sulla spalla, sforzandosi d’imprimere nel suo
tocco un’impronta rassicurante – Cos’ha Dorian? Che cos’è
successo?
- Già:
cos’è accaduto, mentre era con te? –
Fernand rimarcò le sue parole in una sfumatura carica di
veleno.
Raphäel
si morse stizzosamente il labbro, un impercettibile lampo di collera ad
increspargli la fronte. Allungò una mano sul pavimento, per poi agitare sotto il
naso arricciato di Fernand una grossa scheggia di vetro.
- Uno
specchio rotto, Fernand – gli soffiò con voce falsamente carezzevole – Ci si è
ferito inavvertitamente.
Auguste
vide il sangue affluire sulle gote di Fernand e correre ad infiammargli il volto
fino alla radice dei capelli.
- E
dunque? – proruppe il giovane, una venatura vagamente isterica nella voce – Se…
se è vero che fino a qualche ora fa bruciava di febbre, che diavolo ci faceva in
mezzo a questa stanza? Qua c’è dell’altro. Io… non credo di aver mai visto
Dorian così terrorizzato in tutta la sua vita. E tu non hai detto
tutto.
- Che diavolo ci faccia Dorian in mezzo alla
stanza, accanto al lavabo, è una buona domanda, Fernand – gli sussurrò
Raphäel con voce gelida – Che si stesse semplicemente lavando la faccia? –
scandì le proprie parole con fare sarcastico, mimando teatralmente l’atto con
enfasi melodrammatica.
-
Dorian, come ti senti? – Fernand circondò premurosamente con un braccio le
spalle dell’amico.
Auguste
scosse il capo in direzione di Raphäel, rassegnato; quindi, lottando a denti
stretti contro il panico e il senso di nausea che la vista del sangue aveva
prodotto in lui, avvolse provvisoriamente in un panno pulito la mano ferita del
ragazzo e lo cinse con un braccio attorno alla vita, aiutandolo a rimettersi in
piedi. Lo sguardo severo saettò repentino da Fernand a Raphäel, una muta
intimazione a evitare di azzuffarsi in quel breve
intervallo.
Li vide
scrutarsi con occhi ostili – incerti entrambi se mollare la presa fosse una
scelta opportuna oppure no – e sperò in cuor suo che, almeno per il momento,
quei due sciagurati avessero la buona grazia di deporre le
armi.
Si
lasciò ricadere stancamente su una sedia, il capo stretto fra le mani, mille
ombre dinnanzi ai suoi occhi, cercando di recuperare il bandolo della vorticosa
realtà che gli ribolliva nella mente in tumulto.
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Capitolo 21 *** Capitolo 21: In caduta libera ***
Capitolo
21
In
caduta libera
Auguste
socchiuse le palpebre sotto le lame di luce che occhieggiavano nella stanza;
lentamente, cercò di convogliare la propria attenzione su quanto si muoveva
intorno a lui, sforzandosi per quanto possibile, fra le spire di
quell’inquietudine ormai attecchita nella sua mente, di allontanare da sé la
sensazione martellante che qualcosa non andasse; che qualche oscuro, basilare,
sconosciuto tassello gli fosse stato taciuto.
Il
suo sguardo si concentrò sulla figura di Fernand, curva al capezzale di Dorian,
la mano pallida strettamente allacciata a quella dell’amico; profusa in quel
gesto, quella dolcezza fraterna che difficilmente avrebbe attribuito proprio a
lui, così misurato e trattenuto nelle sue esternazioni
d’affetto.
In
silenzio, nella discrezione che quell’angolo in disparte gli aveva fortuitamente
offerto, li aveva osservati confabulare fitto fitto, ed un’incomprensibile nota
allarmata nella voce gli aveva fatto aguzzare i sensi su quel mormorio concitato
e sconnesso del quale era riuscito a captare poco e nulla.
Poi
Raphäel aveva fatto nuovamente ingresso nella stanza, scuro in volto, e Fernand
si era affrettato a troncare la conversazione, lo sguardo palpitante di
sospettosa frustrazione fisso su di lui.
Ora
Dorian si era leggermente assopito – doveva fingere, ne era sicuro –
inconsapevole cuscinetto fra i due contendenti che, uno alla sua destra ed uno
alla sua sinistra, continuavano a scrutarsi di sottecchi con fare
ostile.
Un
quadro non poco esaustivo, considerò Auguste, nel tentativo d’ingannare le
incontrollabili riflessioni che sentiva affiorare nella sua mente, al limite del
delirio. E la mano di Fernand indugiava ancora, troppo insistente, su quella di
Dorian. Troppo a lungo. Auguste cercò d’ignorare il nodo di bruciante amarezza
che, inaspettatamente, aveva preso a tormentarlo alla bocca dello
stomaco.
D’istinto,
si schiarì voce, ricacciando indietro quell’impressione di soffocamento che, in
un’alienante reazione a catena, gli aveva indotto da principio la vista del
sangue, denso suggello di allucinanti reminiscenze e suggestioni, i cui effetti
affievolivano lentamente la presa su di lui. Detergendosi la fronte, si
costrinse a concentrare la propria attenzione su un qualche dettaglio, un
pensiero qualsiasi che non fosse l’esile contatto tra Fernand e
Dorian.
Le
dita bianche di Raphäel che scorrevano agili nell’intrico dei lunghi riccioli
bruni.
Fernand
non aveva completamente torto, rifletté: tutto in Raphäel, riscossosi dalla
sorpresa iniziale, faceva pensare ad un sadico piacere nel reggere con indefessa
ostinazione lo sguardo astioso di quello che, senza ragioni apparenti, era
divenuto il suo naturale antagonista. E non si preoccupava di alimentare così la
collera dell’altro, ogni istante di più, mentre con la mano seguitava a
giocherellare insistentemente sui propri capelli come in uno strano
rituale.
Gli
piace il controllo sugli altri; vuole tastare le mosse altrui, avere la
situazione in pugno. Ciò che a te non è mai riuscito.
Stai
diventando paranoico, Auguste, maledettamente paranoico ed ossessivo, perché ti
ostini a vedere segreti, complotti e cattive intenzioni dovunque metta piede. E
poi, magari, riesci persino a far quadrare i conti, se è vero che dieci minuti
non sono stati sufficienti né a Raphäel né a Dorian a sciorinare una versione
chiara e coerente sull’accaduto.
-
Sta meglio ora? – biascicò a mezza voce, giusto per spezzare la
tensione.
Fernand
si limitò ad annuire distrattamente.
Raphäel
intercettò il suo sguardo con espressione vagamente smarrita, come distolto
senza preavviso dalla trama di arcane congetture.
-
La febbre è calata del tutto; è strano, per com’era stanotte, ma penso che entro
domani sarà come nuovo.
-
Da quando sei diventato più esperto del medico del borgo, Raphäel? – lo pungolò
Fernand con intento esplicitamente polemico.
Raphäel
gli rivolse un sorrisetto sarcastico, le sopracciglia inarcate in un cipiglio
non troppo indulgente.
-
Da quando studio medicina – si affrettò a puntualizzare.
-
Tu? – Fernand arricciò il naso – Amico, sarei felice del tuo “salto di qualità”;
ma vedi, con i fedelissimi del duca infiltrati ovunque ed ogni aspetto della
vita in città tenuto sotto controllo capillare… Non vedo per noi grandi
prospettive. Università, accademie, corporazioni: ai loro occhi, fucine di
potenziali cospiratori da asserragliare sotto la loro supervisione. Con
rispetto, e visti gli infelici precedenti, non sono così convinto che uno come
te… – il suo sguardo scivolò rapidamente lungo la figura di Raphäel – sarebbe il
benvenuto. Senza ricchezze, intendo dire, senza nessuno che garantisca per te. A
meno di cospicue donazioni come lasciapassare, e non mi pare questo il tuo
caso.
Raphäel
fece spallucce, tradendo tuttavia l’espressione piccata.
-
Forse che gli stracci, amico mio, non precludono la passione e l’intelletto;
sarà pure che sono bravo e non mi manca l’intuito. Ad esempio, Fernand,
ultimamente ti vedo un po’… debole, emaciato. Sembreresti quasi un po’ anemico,
se l’apparenza non mi trae in inganno.
Fernand
fissò sbigottito il sorriso di cera che stirava le labbra di Raphäel. Benché
lungi dal godere della sua piena stima – e Fernand doveva riconoscerlo – Lemoine
non era un individuo meschino, capace di giocare sporco sfruttando i punti
deboli dell’avversario; ciò nonostante, la sua lapidaria sentenza tradiva in sé
una tale sicurezza, frammista ad una sorta di malcelato dispiacere, che Fernand
parve smarrirsi.
Pericolosamente
vicino a lui, una luce sibillina in fondo alle pupille, Raphäel allungò la mano
e tastò con due dita il collo di Fernand.
Il
giovane represse un moto di fastidio.
-
Ti si legge in faccia – gli soffiò Raphäel, serafico – Il consiglio più semplice
che posso darti, Fernand, è di farti un bicchiere di vino rosso alla nostra
salute. Bello tranquillo – concluse con una pacca sulla spalla troppo affettata
per poter dirsi amichevole.
Fernand
si portò una mano alla gola, in soggezione.
Troppo
tardi. Aveva già visto quanto c’era da vedere.
-
Fernand, che hai?
Senza
che il ragazzo potesse impedirlo, Auguste gli aveva allentato il colletto fino a
scoprire la parte incriminata, radunando tutta la sua attenzione su quelle che
parevano due minuscole punture quasi cicatrizzate.
Auguste
trattenne un ansito di sollievo, sebbene quel sordo, indecifrabile sospetto,
incuneato a fondo nella sua mente, non l’avesse sciolto completamente da un
dubbio che rifiutava di prendere una forma ben distinta nella sua
testa.
-
Cos’hai fatto?
Fernand
indietreggiò, eludendo la sua presa, il volto alterato.
-
Cosa vuoi che ne sappia! L’unica cosa che mi viene in mente è che mi sia
tagliato radendomi.
- È
strano. Pensare che non l’avevo notato. A prima vista, non sembrano esattamente
dei tagli.
-
Allora non ne ho assolutamente idea – tagliò corto il ragazzo – Piuttosto –
riprese in capo a qualche secondo con rinnovata prontezza – Credo sia ora di
andare.
-
No, non così in fretta, mon
ami.
Fernand
sentì il proprio cuore saltare un battito, quando quelle brevi parole
strascicate lo raggiunsero sul limitare della porta.
-
Troppa fretta – mormorò Dorian, la voce roca ed impastata di chi, con scarso
successo, tenta a più riprese di recuperare un po’ di sonno perduto – Perché,
sai, a questo punto, e bando ai segreti idioti, sarei curioso anch’io di
conoscere la ragione di quei dannati segni sul collo che, al contrario di me,
sembrano lasciarti tanto indifferente. Sì, è successo anche a me, se ancora non
lo sapessi.
Fernand
impallidì. Prima che supposizioni di qualsiasi natura si facessero largo in lui,
volse lo sguardo in direzione di Dorian e lo fulminò con un’occhiata al
veleno.
Di’
dello svenimento e ti ammazzo!
-
Lascia perdere! – biascicò a labbra strette.
-
Che avete ancora da confabulare, voi due?
Auguste.
Ora siamo al completo.
In
silenzio, Fernand fissò Dorian con occhi imploranti. Nonostante tutto, Raphäel
non l’aveva tradito – non del tutto, perlomeno. Si era limitato a tirare il
sasso e poi sorvolare abilmente. Perché avrebbe dovuto farlo proprio
Dorian?
-
Raphäel, arriviamo al dunque. Penso che almeno tu sappia dirmi cosa… – incalzò
Auguste.
-
Te ne ho parlato, Auguste – lo interruppe Raphäel – Dorian non stava bene, la
febbre deve avergli provocato qualche mezza allucinazione. Non è un evento così
singolare.
-
Raphäel, diglielo! – lo aggredì Dorian, puntellandosi sui gomiti – Hai visto
anche tu i segni sul mio collo? Magari, se provi ad osservare meglio… – con la
mano sana, si slacciò la camicia fino al petto, lasciandola ciondolare molle
sulle spalle.
-
Che cosa, Dorian? – lo fronteggiò Raphäel con fare
esasperato.
-
Ero senza camicia – scandì Dorian con voce gelida – È praticamente impossibile
che non abbia notato la stessa cosa che ho notato io; a giudicare poi dalla…
“attenzione” con cui mi hai soppesato – un violento rossore gli crebbe
rapidamente sulle gote, contrastando con il piglio strafottente – Dubito ti sia
lasciato sfuggire qualcosa di così lampante.
Per
poco Fernand non cadde dalla sedia. Non vide l’immediata reazione di
Raphäel.
Un
intenso formicolio all’altezza del petto, come un disperato frullare di ali, si
tradusse rapidamente in una specie di sussulto seguito dal liquido, soffocante
calore di un impulso indefinito, privo di aggettivi, che in un primo momento non
riuscì a focalizzare.
Dorian!
A cosa diavolo stava alludendo? La sua voce era piombava su quell’affermazione
come un fendente; un sussurro lascivo e beffardo ed il luccichio che preannuncia
il colpo di grazia.
E
poi la rabbia, come uno schiaffo in pieno volto, a bruciare su di lui; un
inspiegabile, corrosivo rancore verso Raphäel ed i suoi occhi impertinenti,
verso Dorian e la sua espressione ambigua, e la flebile speranza che
quell’immagine fuorviante abbandonasse al più presto la sua
mente.
Dorian,
nudo. O quasi, la pelle d’avorio sottile tesa sulla delicata impalcatura di ossa
e muscoli, fremente e vulnerabile sotto il fuoco ingannevole dello sguardo di
Raphäel che, distratto, la accarezzava con occhi sfuggenti senza mai sfiorarne
le fragili trame.
C’era
qualcosa che non andava. Era tutto distante, capovolto. Nulla quadrava, tutto
cambiava. Tutto da riscrivere, il ruolo di Raphäel in primo
luogo.
Osservò
Dorian, le sterminate iridi di cielo in fondo a quelle palpebre gentili, i
capelli scomposti sulle spalle. L’amico che l’aveva protetto ed accarezzato, che
l’aveva stretto a sé quando Auguste gli aveva vomitato addosso la sua rabbia. Il
dolore bruciava ancora. Frammenti di un desiderio taciuto che, ferendolo, gli
sfuggivano come sabbia fra le dita; e quella sua parte di mondo, quel fragile,
sconosciuto nido di serenità e certezza, sconvolto, minato alle fondamenta e
spazzato via da un paio d’occhi di fredda ardesia.
-
Raphäel – riprese Auguste – è
vero?
Fernand
seguì minuziosamente le mosse di Raphäel, intento a fissare soprappensiero il
volto di Dorian contorto in collerica trepidazione, soffermandosi poi su
Auguste, sul suo sguardo fermo e inflessibile che lo rendeva, ad un’occhiata
sommaria, tutto fuorché propenso ad accettare bizzarre teorie suffragate dalla
parola di un ragazzo in palese stato d’agitazione, febbricitante fino a poche
ore prima, e di uno che, messo tra due fuochi, pareva non sapere da che parte
guardare. Attese.
-
Non ricordo, Auguste, non posso confermare – Raphäel deglutì rumorosamente, a
disagio – Dorian sembrava terrorizzato da qualcosa, non lo nego; ho provato a
tranquillizzarlo, ma non sono riuscito a capire cosa l’avesse sconvolto a tal punto. Era
molto debole, ha avuto un capogiro e si è ferito con lo specchio. È tutto quello
che so.
-
Dorian, fa’ vedere! – proruppe Auguste, spazientito, trascinandosi verso di
lui.
-
Non aspettavo altro – gli soffiò il giovane con petulanza, esponendo il collo
alla vista – Ora vi convincerete che non sono un
visionario.
-
Dorian, per favore! – mormorò Fernand con un filo di voce.
-
Lascia che veda con i suoi occhi – lo interruppe Dorian, mellifluo – Se non
altro si convincerà che io la dico,
ogni tanto, la verità – lo sguardo
allucinato aleggiò a più riprese su Auguste, mentre una sfumatura astiosa gli
modellava il volto in una smorfia carica di veleno – Chi meglio di te, Auguste,
che ne sei il detentore?
Auguste
indietreggiò come percosso da una frustata, mentre un cupo strascico di dolore
calava sul suo viso, scavando un abisso di nebbia nei suoi
occhi.
Fernand
si sentiva confuso, impotente di fronte a quei tasselli privi di una propria
collocazione che gli piovevano sul capo come gocce di un temporale estivo, senza
lasciargli il tempo di trovare un riparo, di inquadrarli in un contorno
provvisorio. Non capiva. Vide Raphäel frapporsi tra i due, plausibilmente ad un
passo dalla lite, ed Auguste, rigido, limitarsi a scoccare una breve occhiata di
trasverso in direzione di Dorian, sussurrandogli con voce
piatta:
-
Dorian, non hai nulla; sarà stata la tua impressione, un sogno o chissà
cos’altro, credimi.
-
N-nulla? – il viso di Dorian divenne cinereo.
- È
tutto a posto, Dorian – Raphäel gli arruffò gentilmente i capelli, prima di
avviarsi verso la porta in un vago cenno di saluto.
Sembrava
non desiderare altro che andarsene al più presto.
-
Ma… Non è vero, non può essere, io… – Dorian sembrava stordito, la voce ridotta
ad un sussurro.
Fernand
riuscì ad infilare lo sguardo nell’incavo del collo di Dorian, esaminandolo da
ambo le parti. I forellini rossi erano spariti. O non vi erano mai
stati.
-
Te lo sarai immaginato, è così – rincarò la dose, in attesa che Raphäel e
Auguste varcassero la porta.
Dorian
restò per un istante ammutolito a fissare il vuoto. Poi, di scatto, prese a
risistemarsi la camicia con fare alterato.
-
Fernand? – gli soffiò – Vattene a fanculo anche tu!
-
Ti dico di calmarti! – gli ingiunse Fernand tra i denti, afferrandolo poco
cerimoniosamente per un braccio e costringendolo a sdraiarsi – Ne parliamo.
Aspetta soltanto che vadano via!
-
Fernand! – la voce roca di Auguste lo raggiunse dall’angusto
pianerottolo.
Raphäel
stava compunto al suo fianco, bianco e nero nella penombra incolore, e Fernand
riuscì a cogliere per un istante l’espressione stranamente sollevata sul suo
volto. Le labbra rosee gli conferivano un aspetto quasi
sensuale.
-
Cominciate pure ad andare. Io… Preferisco restare con lui.
-
Buona idea, Fernand. Già che ci sei, assicurati che se ne stia a letto e non
faccia qualche altra cazzata – soggiunse Auguste con fare irritato, accennando
brevemente col capo al riottoso occupante della stanza
attigua.
Fernand
non riuscì a far altro che tirare un sospiro di sollievo, quando la porta si fu
richiusa alle sue spalle, un gelido ammasso d’amarezza che gli s’insinuava lungo
la schiena.
Dorian
l’avrebbe spellato vivo. Se non altro, non sarebbe stato l’unico ad aver da
chiarire, rifletté, mordendosi nervosamente il labbro.
-
Spiegami che cosa diavolo ti è preso! – Dorian l’aveva raggiunto di soppiatto
nella sala d’ingresso, contro ogni raccomandazione, vestito e calzato di tutto
punto.
- E
tu cerca di filare a letto, se non vuoi che ti ci spedisca a calci – lo rimbeccò
Fernand con voce ferma, cercando di assumere su di sé una parvenza
d’autorità.
Dorian
gli rise in faccia.
-
Punto numero uno, sono in casa mia. Punto numero due, non prendo ordini da un ragazzino.
Fernand
lo fissò accigliato, incassando tacitamente la provocazione: sapeva quanto
odiasse essere definito “ragazzino”.
-
Errore. Chiamarmi “ragazzino”, ottenendo così di mandarmi in bestia, è un
privilegio speciale di cui può godere soltanto il tuo amico
Auguste.
- E
tu rispondi alla mia domanda: hai per caso deciso di coalizzarti con lui contro
di me?
Fernand
sollevò gli occhi verso il soffitto.
-
Non hai capito. Cercavo solo di evitare di mettere in piazza gli affari miei e
tuoi in loro presenza. Volevo mandare all’aria il discorso quanto prima, senza
destare sospetti, e parlarne direttamente con te.
Dorian
annuì con espressione scettica.
-
Come ti senti ora? – incalzò Fernand.
-
Quantomeno riesco a reggermi in piedi. Meglio, rispetto a
prima.
Non
convinto, Fernand allungò la mano e gli tastò la fronte.
-
Non sei caldo. È molto strano, stando al resoconto di
Auguste.
-
Auguste esagera sempre – lo precedette Dorian con una punta
d’asprezza.
-
Concorderai però con me quanto non sia perfettamente normale che una persona che
brucia di febbre, in capo a qualche ora non solo sia fresca come una rosa, ma
sembri essersi rimessa di tutto punto.
-
Di tutto punto, non esattamente, ma concordo con te che forse non è del tutto
normale. Io… non lo so. Mi sembra d’impazzire.
Fernand
prese un respiro profondo, guadagnando tempo. Neppure lo stesso Dorian, in fin
dei conti, sembrava avere un’idea chiara.
-
Mi racconti cos’è successo?
-
Non sono stato bene. Quando mi sono svegliato, stamattina, sembrava fosse tutto
finito, e mi sono alzato per darmi una rinfrescata… Forse ho avuto una ricaduta,
ma l’unica cosa che ricordo con esattezza sono quei forellini insanguinati sul
collo, proprio com’è successo a te – Dorian si tastò istintivamente la gola, là
dove le minuscole ferite sembravano non aver lasciato alcuna traccia, e la pelle
era levigata sotto il suo tocco.
Non
contento, si osservò scrupolosamente allo specchio.
-
Poi… – proseguì – Raphäel dice che ho avuto una crisi di
nervi.
- E
lui che faceva? Dormiva? – lo pungolò Fernand, e l’assurdo sospetto che aveva
ripreso a serpeggiargli nella mente gli fece contrarre istintivamente i muscoli
del viso.
-
Stava lì e basta. Mi ha riaccompagnato a casa ed è restato con me durante la
notte. È stato gentile. Ah, prima che ricominci con le solite requisitorie, ti
annuncio che non è affatto stronzo come… “alcuni” lo
dipingono.
-
Bene – Fernand annuì nell’atto di ravviarsi distrattamente i
capelli.
Ignorò
quell’oscuro groppo di tristezza che lo tormentava con
insistenza.
-
Basta, Dorian: puoi dirlo – sbottò.
-
Dirti cosa? – Dorian sbatté le palpebre, disorientato.
Fernand
ebbe la sensazione che la terra fosse in procinto di cedere sotto i suoi piedi e
dovette fare appello a tutta la sua forza d’animo per dar voce alle torbide
supposizioni che gli si accalcavano nella mente. Sapeva di essere sul punto di
inoltrarsi per sentieri malagevoli, ma la volontà di cavarsi dal dubbio aveva
concretamente prevalso su una ragionevole reticenza. Svelata la propria
diffidenza, non gli restava in pugno neppure la manciata di secondi necessaria
ad imbastire un’alternativa compatibile con la luce equivoca che gli era
balenata negli occhi, dritta su Dorian.
-
Avete… Insomma, avete fatto l’amore, o qualcosa del genere? – sputò fuori, quasi
d’inerzia.
Era
fatta.
Un
attimo, ed una parte di lui rimpianse di aver parlato avventatamente, quando
vide Dorian avvampare in viso.
-
Oh, dannazione! Fernand, fottiti!
-
Touché! Ti ha praticamente spogliato con gli occhi, amico mio, stando almeno a
ciò che tu stesso mi hai inavvertitamente confermato – Fernand assaporò con una
venatura sadica il prepotente imbarazzo di Dorian, il retrogusto amaro della sua
stessa frustrazione incollato alle labbra.
Sarebbe
stato quasi divertente proseguire su quella scia, simulando abilmente una
disinvoltura in realtà lungi da lui.
-
Ero spogliato.
-
Peggio.
Dorian
nascose il volto fra le mani con plateale esasperazione.
-
Mio Dio, Fernand, che diavolo hai nella testa? Segatura?
-
Ti avrà toccato, baciato… – proseguì – Come immaginavo. Vi sarete
divertiti.
Idiota,
idiota, idiota! Perché vuoi farti del male a tutti i
costi?
-
Davvero pretendi una risposta? – Dorian quasi gridava, i begli occhi cerulei
deliziosamente luccicanti sul volto in fiamme – No. No! Nulla di tutto questo.
Dio, Fernand, questa è follia! Hai un’opinione assurda di Raphäel, di me… di
tutto, se davvero hai pensato a questo. Capisco da parte tua non ritenerlo un
buon rivoluzionario, ma se per ipotesi fosse andata davvero come tu dici,
tecnicamente lo stai accusando di un abuso in piena
regola.
Fernand
socchiuse le labbra, per poi costringersi definitivamente a tacere. La stanza
era divenuta all’improvviso troppo piccola intorno a lui, le pareti troppo
strette, nauseanti schermi di quell’incubo insensato in cui era caduto con tutte
e due le gambe. Sconfitto, si affrettò a distogliere lo sguardo, meditando fra
sé di non aver mai desiderato come in quel momento che le losanghe scure del
pavimento si aprissero in una voragine sotto i suoi piedi, lasciandolo
sprofondare fra le macerie. Lui, le sue folli congetture e la deviante,
irragionevole insicurezza che gli lasciava dar voce ad uno sproposito dopo
l’altro.
Bel
colpo, Fernand. Il migliore di una lunga serie. Semplicemente
patetico.
Sospirò,
ipnotizzato dalla punta delle proprie scarpe. Si stava giocando per pochi scudi
la fiducia di Dorian.
-
Io… Perdonami – azzardò.
Dorian
gli posò una mano sulla spalla. Era freddo, scostante, palesemente a
disagio.
-
Lascia stare.
-
Non intendevo appioppargli difetti secondo la mia immaginazione – insistette – È
solo che, per un attimo, ho avuto l’impressione che...
Dorian
lo osservò di sguincio, dissimulando l’espressione tagliente in un sorriso
spazientito.
-
D’accordo, proviamo a semplificare un po’ tutto: il fatto che io sia affascinante non implica
necessariamente che abbiamo scopato – replicò con una punta di caustica
supponenza.
-
Ma va’ al diavolo!
-
Sei monotematico.
Fernand
distolse lo sguardo. Neppure la pressante inquietudine riguardo agli ultimi
eventi impediva a Dorian di darsi da fare a logorare la sua pazienza in una
sofisticata alchimia di affermazioni a doppia chiave di
lettura.
-
Fernand?
Dorian
era tornato serio, le iridi offuscate da una patina di gravità che a Fernand
parve quasi innaturale, dissonante sul suo viso.
-
S-si vede così tanto? – biascicò, la voce resa instabile da un singulto
soffocato.
Cosa,
Dorian?
Che
sei confuso, che temi di essere impazzito, che non riesci più a fissare
coordinate plausibili, a districare i labili confini fra ciò che è realtà e ciò
che, con ogni probabilità, potrebbe a tempo debito rivelarsi l’accidentale
reflusso di una tua fuorviante suggestione?
Che
sei caduto preda di un’angoscia indefinita, subdola, paralizzante, uno
stillicidio privo di contorni entro cui prendere forma, ma in grado di rendere
vano ogni tuo slancio vitale e di inchiodare la tua volontà in una tela dalle
trame di metallo?
Che
vorresti negare, cancellare per sempre, catalogare come un parto malato della
tua testa, l’essenza di Raphäel, la sua immagine tenacemente ancorata nella tua
mente ed ogni singola manifestazione della sua presenza radicata in te fino a
procurarti dolore? Che vorresti fuggire, mentire fino alla follia, negare a te
stesso il fatto che in lui c’è qualcosa che non riesci ad afferrare con mano,
rifiutare la possibilità che tutto questo sia in grado di farti
male.
E
non lo diresti, nessun logorante sospetto ti sconvolgerebbe la mente, se già non
fossi caduto nella tua stessa rete, se già non ti fossi inconsapevolmente
aggrappato alla mutevole corrente d’aria di un desiderio
irragionevole.
Allora
è così: ho visto giusto, dopotutto. Se fossi saggio, lo ammettesti senza girarci
intorno, perché, vedi, ho visto abbastanza: ho colto il semplice dettaglio, sono
stato tratto in inganno, ma, da qui in poi, non è stato difficile estrapolare la
sostanza. Ti aggrapperai a lui. Seguirai la scia di
Ambrosie.
Ed
io perderò uno dei pochi appigli che mi restano.
-
Va tutto bene, Dorian – mormorò con voce assorta, soppesando distrattamente una
ciocca bionda dei suoi capelli.
Non
convinci neppure te stesso, Fernand. È il dubbio che ti rende evasivo, facile
alla menzogna, ma troppo inadatto a recitare una parte
soddisfacente.
Gli
occhi di Dorian luccicarono febbrili.
-
Attento, Fernand – proruppe in una strana cantilena.
- A
cosa dovrei… Stare attento?
Dorian
spalancò gli occhi nella luce vivida che colpiva in pieno il suo volto
dall’espressione indecifrabile.
-
Tu… Mi credi? Mi credi, quando ti dico che ho visto quei segni rossi spiccare
sulla mia gola, quasi come il morso di un animale?
Fernand
lasciò scorrere le dita tremanti su di lui, fra le onde irregolari dei suoi
capelli, fino a sfiorare prudentemente il collo dal candore incontaminato. Gli
accarezzò distrattamente la nuca e lo esaminò in silenzio.
Era
bello. Un’avvenenza oggettiva, priva d’implicazioni, disegnata con pennellate
sottili di vivace immediatezza, ora pervasa di un’impronta consunta, languida,
sofferente. Era pallido come se avesse addosso la tisi, i solchi della
stanchezza marcati intorno alle orbite scure, come se le pieghe di una profonda
estenuazione gli avessero scavato i lineamenti.
-
Non hai nulla, Dorian, come avrai visto tu stesso – gli ribadì con espressione
incolore.
-
Ma io ho visto! – la voce di Dorian divenne un sibilo acuto saturo d’angoscia –
Le ho viste, quelle strane ferite, le ho toccate con queste mani, non stavo
sognando!
Fernand
deglutì, a disagio: Dorian gli aveva piantato in faccia un’occhiata bruciante,
gli occhi sgranati nelle orbite arrossate, segno che non avrebbe tollerato
obiezioni, come un ultimatum.
-
Non ho detto che stai mentendo, Dorian: non avendo visto con i miei occhi ciò
che mi hai descritto, concedimi il beneficio di mettere in conto l’eventualità
che tu stesso sia stato tratto in inganno!
Indietreggiò,
atterrito, quando vide Dorian sollevarsi di scatto. Per un attimo temette una
reazione impulsiva da parte sua.
-
Accidenti, Fernand! – lo incalzò, un sorriso tagliente appena abbozzato, in
attesa di colpire – A sentirti parlare così, giuro, per un attimo ho temuto che
Auguste avesse preso il controllo della tua mente. O ti avesse rifilato un
qualche raffinato lavaggio del cervello. Sono felice che non sia davvero così…
Se è tutto come credo, se queste sono le tue parole e non le sue. Un solo
consiglio, Fernand: non lasciarti trarre in inganno da lui e dal suo modo di
capovolgere la realtà pur di far quadrare i conti come più gli aggrada. Non dare
per scontata la sua buona fede – sussurrò, gli occhi gonfi di una gelida
frustrazione – Ha sempre cercato di mostrarsi affidabile e ragionevole; da qui,
guadagnarsi la fiducia, e poi colpire una volta al riparo. Il tuo adorato
Auguste, con ogni probabilità, starà preparando il terreno per la mia disfatta,
e presto vedrai con i tuoi occhi quali pretesti tirerà fuori pur di dipingermi
come un paranoico. Se i miei calcoli non m’ingannano, Auguste ha troppo
interesse, stavolta, a minare la mia credibilità… Per un sacco di motivi che
ora, davvero, non mi va di raccontare – s’interruppe.
-
Stupendo, Dorian! In queste condizioni, a chi dovrei
credere?
Dorian
gli rivolse un gesto vago con la mano, come a voler allontanare da sé qualche
dettaglio di scarsa importanza. Sembrava stanco.
-
Fa’ finta di non aver sentito l’ultima parte. Ora come ora, per me Auguste può
andarsene bellamente a farsi fottere. Sappi soltanto che non è sincero come
vuole far credere. Non con me.
Fernand
sospirò, stremato: d’un tratto, era come venuto a gravargli sulle spalle il
desiderio insopprimibile di un istante di normalità, senza discorsi fumosi e
assurde congetture a tormentargli il sonno e la veglia. Un altro segreto ancora,
un’altra teoria stravagante come goccia finale, ne era sicuro, e si sarebbe
abbattuto al suolo in preda ad un collasso.
-
Basta così, Dorian! – lo supplicò – Io non ci capisco più nulla. È… è assurdo,
con te che continui a trascurare dettagli che non ti fanno comodo e a propinarmi
frammenti sconnessi. Cambiamo discorso, per favore; non ti obbligo a rivelarmi
qualcosa che non vuoi, ma finiamola qui.
-
Come desideri tu – Dorian non pareva troppo dispiaciuto – Volevo solo che almeno
tu mi credessi.
-
Non ho mai dubitato un solo momento che tu dica il vero. Il problema è stabilire
fino a che punto fossi lucido in quel momento.
Dorian
scosse mestamente il capo, rassegnato.
Sapeva
come la pensava: quello era un discorso che avrebbe visto volentieri e con
maggior immedesimazione sulla bocca di Auguste, non su di lui. Auguste che,
senza mezzi termini, Dorian doveva ritenere poco più che un intrigante, e al
quale non doveva riserbare una miglior considerazione di quella che lui nutriva
nei riguardi di Raphäel Lemoine. Dorian e Auguste erano in pericolosa rotta di
collisione, e lui non riusciva a comprendere le reciproche implicazioni.
Nessuno, a dire il vero, si era preoccupato che lui
capisse.
Dorian
era troppo confuso, centellinava gelosamente le informazioni, sorvolando su
tutto ciò che desiderava tenere per sé; Auguste troppo ermetico, inquadrato in
prospettive troppo discordi l’una dall’altra, di volta in volta, a seconda di
colui che parlava.
Dorian
si lasciò andare ad un accorato sospiro, le braccia mollemente incrociate come
uno scolaretto svogliato, le spalle curve sotto il peso di un alienante
abbandono.
Lo
vide radunarsi i capelli dietro la nuca in un gesto nervoso – e si rese conto
che sarebbe stato in grado di ripercorrere fedelmente ognuno di quei singoli
gesti, basandosi unicamente sulla propria memoria. Gli occhi erano velati di un
cupo sconforto, le dita affusolate annaspavano incerte fra i riccioli scomposti.
Un
incontenibile, doloroso riverbero di dolcezza gli accelerò il battito, recando
con sé un familiare calore all’altezza del petto, mentre scorreva con lo sguardo
sul broncio tipicamente infantile che campeggiava sulle labbra sottili di
Dorian, in antitesi con l’espressione troppo dura su quei contorni levigati,
troppo vecchia su quegli occhi dalla fredda, giovanile bellezza; troppo grave su
quei laghi dalla luce mutevole.
E
il sorriso rassegnato che si aprì sul suo volto, la triste consapevolezza nei
suoi occhi, fu sufficiente per un attimo ad arrestargli il sangue nel suo
circolo forsennato, scavando un baratro d’angoscia davanti a lui. Gli occhi
erano lucidi, frementi in quel pallido sprazzo d’ombra, ma Dorian non piangeva,
le mascelle contratte nel rifiuto sdegnoso della manifestazione stessa del suo
dolore, fiero rigetto di ogni accessoria sublimazione. Una realtà, il guizzo di
un miraggio dal quale lui, Fernand, per il momento era
escluso.
-
Dorian…
Il
suo viso era caldo, la pelle sottile sotto il suo tocco; i capelli che
ricadevano disordinatamente sulle spalle gli insinuarono fra le dita la
sensazione di soffice seta. Chiuse gli occhi. Anche la sua bocca avrebbe
mantenuto intatto il suo tepore, l’intrinseca possibilità di regalargli
l’illusione dell’oblio. E, forse, nel dischiudere le labbra sulle sue,
catturandole in una fluida carezza, sarebbe riuscito persino a sentirlo un po’
più suo.
Avvertì
il suo respiro sfiorargli il viso; istintivamente, socchiuse le palpebre nella
luce viva che lo colpiva di lato, proiettando un ricamo di luminescenze rosso
acceso dinnanzi ai suoi occhi. Ammiccò nervosamente, scacciando la sensazione
che l’aveva fastidiosamente distolto dal suo intento.
Le
ciglia di Dorian scintillavano debolmente in controluce, i contorni così vicini
da apparirgli sfocati. Lo accarezzò attraverso la camicia. Era bello tenerlo
stretto ancora una volta, affondare il volto nell’incavo fra collo e spalla,
sentire i suoi capelli sfiorargli il viso, le labbra fremere sotto le sue,
malgrado non fosse riuscito a ricacciare in un remoto cantuccio della sua mente
quella spiacevole sensazione di distanza, di barriere
invisibili.
Non
era come con Auguste. Auguste era desiderio taciuto, bruciante, acuto; era una
stilettata in pieno petto nel suo irrealizzabile, utopistico appagamento; era
fumo in faccia dal profumo cui non poteva rinunciare, era la sistematica
negazione di ogni certezza. E faceva male.
Dorian
era stato per lui quanto di più simile vi fosse ad un nido accogliente, ad una
colonna in grado, seppure in mancanza di supporti accessori, di tenere in piedi
la sua esistenza. Era l’unica fonte di luce rimastagli, così fragile e delicata,
e lui non l’avrebbe perduta.
Fernand
sentì la presa sulle labbra venir meno, la sua bocca incresparsi debolmente in
una sorta di sorriso, le mani strette su di lui all’attaccatura del bacino.
Gemette.
-
Dorian? Dorian, io… – la voce fuggì dalle sue labbra come un mormorio
indistinto.
Dorian
lo baciò con impaziente voluttà, la nostalgia del distacco impressa nel contatto
fulmineo.
-
…Credo di dover andare.
-
Vai via di già? – ora giocherellava sui merletti della sua camicia,
riassettandola distrattamente.
Fernand
si sfiorò istintivamente le labbra arrossate. Si strinse nelle
spalle.
-
Gliel’ho promesso. Sono da te appena possibile. Tu non…?
Dorian
lo precedette, scrollando svogliatamente il capo in segno di
dissenso.
-
Non credo che Auguste mi voglia in mezzo alle scatole.
-
Era soltanto preoccupato per te.
-
Mah, fa lo stesso – Dorian gli rivolse un gesto annoiato con la mano, come a
voler scivolare su una questione non troppo rilevante.
-
Che fai, ora? – Fernand raccattò il proprio soprabito e se lo sistemò sulle
spalle con studiata lentezza.
Non
si sentiva tranquillo al pensiero di lasciarlo solo.
-
Ne approfitto per darmi una sistemata come si conviene. Tu, piuttosto, tieni a
mente quel che ti ho detto – gli ingiunse Dorian,
sibillino.
Che
non siamo più al sicuro? Che Auguste si rigira intorno al dito mignolo le nostre
insicurezze, o chissà quali altre fantasiose teorie.
La
paura, Dorian, non è la carta giusta per barcamenarsi agevolmente fra le trame
di ciò che non si arriva a comprendere. E tu hai tradotto tutto nel dubbio, da
ogni prospettiva.
Fernand
barcollò nella penombra lungo la scalinata irregolare della vecchia abitazione,
sfiorando con dita incerte la parete ruvida, in cerca di potenziali appigli. Si
volse indietro, verso Dorian immobile sulla porta. Non sorrideva
più.
* *
*
Il
campanile a vela svettava bianco contro il chiarore malato del cielo, la piccola
chiesa era per lui una visione sfocata in fondo allo stretto vialetto ricoperto
di ghiaia, incastonata nel proliferare indiscriminato di pericolanti edifici gli
uni a ridosso degli altri nel quartiere ovest della città, le mura severe che
incombevano al di là delle fronde degli alberi.
L’acciottolato
irregolare aveva reso precari i suoi passi, tanto che Auguste dovette più e più
volte ricercare un appiglio provvidenziale su Raphäel. Accecato dalle gocce di
sudore che gli scivolavano prepotenti fra le ciglia, gli occhi che bruciavano,
si liberò del proprio cappello. Non ne avrebbe avuto bisogno. Immobile, lasciò
vagare il proprio sguardo lungo il percorso serpentino di quel viottolo
periferico ormai in stato d’abbandono, sui lunghi fili d’erba che spuntavano
impertinenti fra i ciottoli, e poi su, lungo il nastro di cielo che emergeva a
stento, stretto fra gli alti cornicioni e l’angustiante distanza che divideva i
due opposti lati della via.
Annaspando
in un ovattato tumulto di sensazioni, la paura del vuoto annegata nel gelo di un
disperato, viscerale impulso di difesa, Auguste si sforzò di allontanare il
proprio sguardo dalla mano affilata di Raphäel che indugiava sulla sua spalla in
un gesto intrinsecamente rassicurante, come a voler captare la sua tristezza e
convogliarla in un indolore, rasserenante fluire di
ricordi.
Auguste
era certo che in un altro momento, con ogni probabilità, non avrebbe esitato a
confermare la fiducia riposta su quel ragazzo né si sarebbe lasciato sfuggire
l’eventualità di scandagliare l’uomo Raphäel dietro la figura sfuggente di
Raphäel Lemoine il rivoluzionario. Se solo Fernand non gli avesse insinuato un
dubbio così assillante, e se lo stesso Raphäel non fosse divenuto così
inspiegabilmente fumoso dinnanzi a domande precise, messo alle strette di fronte
al delirio di Dorian.
Sarebbe
forse stato altrettanto piacevole approfondire la sua conoscenza in altra sede,
si ritrovò a domandarsi, la sua attenzione strettamente allacciata all’eloquio
allettante di Raphäel, tanto da dissipare in lui, per un istante, il pensiero di
Lucien. E di Fernand.
“La
cappa immacolata del buon rivoluzionario non credo resterà incontaminata ancora
a lungo, seguitando a fare di Raphäel, agli occhi di tutti, la persona di cui
potersi fidare a scatola chiusa”.
Attento,
Auguste.
Perché,
Fernand, perché ti ostini a non voler guardare alla realtà che sta dinnanzi ai
tuoi occhi, preferendo accanirti sull’esile filo di spiegazioni alternative che
qualche labirintico recesso della tua mente non vuole
abbandonare?
Il
vero Raphäel è quello che vedi dinnanzi a te, e l’ho sempre saputo: non esiste
discrimine fra la persona generosa, capace di ascoltare e di prendersi a cuore
le difficoltà di chi gli sta accanto, ed il rivoluzionario di ghiaccio dalla
volontà indefessa e dagli oscuri propositi. E non vi è nulla da temere in tutto
ciò.
Auguste
strinse le palpebre come insopportabilmente ferito dai raggi del sole; vacillò,
quando il pensiero di Fernand e Dorian lampeggiò nella sua mente in tutta la sua
devastante chiarezza, le loro dita che si sfioravano, i segreti ed i progetti
che li univano a doppio filo, chiusi fra quelle quattro mura soltanto per loro, gli
sguardi complici, l’ansia febbrile di pianificare quelle che sarebbero state le
loro mosse successive, di condividere una realtà.
Fernand
non aveva dimenticato chi poteva considerare amico, a chi poter palesare le
proprie incertezze, e lui era rimasto fuori senza appello, occasionale
intruso.
Era
stato un imprudente abbaglio, da parte sua.
Stai
andando a seppellire Lucien, e neppure in certi frangenti il tuo cuore è immune
dal pensiero ossessivo di te stesso, dall’angoscia ammorbante e terribilmente
egoistica che l’idea della solitudine continua a provocare in
te.
Scosse
il capo, cercando d’ingannare la propria mente scorrendo con lo sguardo sulla
gente che sostava sul sagrato della chiesa. Raphäel pareva completamente assorto
su un qualche punto lontano e impreciso dinnanzi a sé, le braccia incrociate sul
petto in una posa indolente. Il caldo e la mancanza di riposo durante la notte
sembravano averlo sfiancato, eppure non erano del tutto vani i suoi sforzi nel
dissimulare l’incipiente stanchezza. Inconsciamente, Auguste si ritrovò ad
imitarne l’atteggiamento.
-
Arrivano – gli sussurrò Raphäel, assorto, accennando impercettibilmente alla
piccola processione che si era formata dinnanzi a loro – Strano non riesca a
individuare Ambrosie.
-
Temo le prenderà un colpo nel vedermi qui. Non sono sicuro che Fernand si sia
dato una gran pena per informare gli altri del cessato allarme – ribatté Auguste
con una punta d’acidità.
Raphäel
lo perforò con lo sguardo.
-
Credo che i convenevoli con Dorian lo impegneranno più del
dovuto.
Auguste
distolse il viso: Raphäel aveva tanti pregi, ma fra questi non doveva
propriamente rientrare il buon senso di sorvolare su considerazioni
spiacevoli.
-
Ecco tua moglie.
Auguste
socchiuse le labbra nell’atto quasi meccanico di correggere quell’improprio
“moglie” con qualche termine che meglio rendesse l’idea, ma qualcosa trattenne
ogni sua esternazione sul nascere. Perfino Raphäel ammutolì vistosamente, il
volto più pallido di quanto non fosse di consueto.
Emilie,
impronta familiare e sbiadita confusa nella moltitudine, una fugace apparizione
nel lento andirivieni di ombre e figure che si muovevano dinnanzi ai suoi occhi
con enfatica gravità. Ipocriti.
E
lei. Un’andatura da regina, il velo
scuro che frusciava al suo passaggio, adombrando il viso
altero.
Che
diavolo ci fa?
Auguste
seguì rapito quell’incedere sinuoso, quell’apparizione discreta, fino a quando
la sua figura non fu inghiottita nella penombra della chiesa, in un denso viavai
di stoffe scure e di occhi ignari dall’artificiosa parvenza
contrita.
Emilie.
Al suo fianco, un giovane sconosciuto dai tratti nordici la scortava
compito.
Auguste
avvertì come di riflesso una fitta bruciante, priva di strascichi emozionali,
attraversargli il cuore ormai assuefatto, insensibile ad ogni caparbia
sollecitazione, la gola arida, il freddo nelle ossa. Remoto, distante, come un
sogno dai contorni sfumati che lascia dietro di sé un indecifrabile vuoto nel
petto al risveglio.
Lui
l’aveva compreso da subito, e quello non era altro che il prevedibile rovescio,
ideale risposta alla sua perenne assenza.
Auguste
fu distolto soltanto dalle dita di Raphäel che gli si chiusero sul polso.
Sembrava impressionato.
-
Ch… chi era quel…? – riuscì a proferire con voce stentata.
Raphäel
socchiuse gli occhi finché le iridi sottili non si ridussero a specchi
d’intellegibile oscurità nella fessura delle palpebre. Scosse il
capo.
-
Non ho idea. È un forestiero, mi pare si chiami Etienne Giroud, ma non so
nient’altro, solo che è in città da poco tempo.
Auguste
si sentì girare la testa in una vertiginosa alternanza di collera e
indifferenza. Scrollò le spalle.
-
Auguste, io… – gli occhi di Raphäel scintillarono umidi.
Sentì
la sua stretta farsi irruente sul polso e si costrinse a sorridere, senza poter
impedire alla propria mente d’inerpicarsi altrove.
Ma
Raphäel non era Lucien: così bello e gentile, fragile solo nell’apparenza, ma
non era Lucien, come non lo era Fernand – così esasperante e sfuggente – e non
lo era neppure Emilie.
Etienne
Giroud o come diavolo si chiamava. Sembrava giovane. Improvvisamente, Auguste
sentì i suoi ventinove anni gravargli sul petto come un macigno insopportabile,
come se qualcosa d’indefinito gli stesse sfilando via la vita fra le mani, ogni
istante più inarrestabile.
Vissuto,
vecchio persino per Emilie che, quasi come naturale decorso della loro parabola
discendente, aveva finito per trattare con lui né più né meno di come avrebbe
fatto con un fratello più giovane di sei anni.
Bugiardo,
contraddittorio, fedifrago, cospiratore, criminale. E
vecchio.
Buono
soltanto a celare dietro un fragile velo tutto ciò che lo riguarda, escluso il
suo nome di battesimo, nonché a servirsi di te per mascherare agli occhi di
tutti, te compresa, l’amore per un altro uomo.
Non
potevi trovare di meglio, Emilie.
Inspiegabilmente,
Auguste sentì il principio di una risata isterica solleticargli la gola.
Annaspando, abbandonò con uno strattone il braccio di Raphäel e raggiunse un
angolo solitario del viottolo deserto, un lembo del mantello a contenere il
debole sussulto di quell’accesso di risa senza senso.
Pensò
a Lou. A quel legittimo dolore, cristallizzato sotto la sua pelle, che egli si
sforzava di alimentare con enfasi ossessiva, indugiando fra le pieghe più
profonde del proprio animo; a quell’unica angolatura emotiva capace di farlo
sentire vivo, ancorché vulnerabile.
Ed
era soltanto l’inizio. L’inizio della sua rovina.
Ritornò
composto sui propri passi.
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Capitolo 22 *** Capitolo 22: Lenzuola stropicciate ***
Capitolo
22
Lenzuola
stropicciate
-
Dorian? Sono io.
Fernand
avanzò tentoni nella penombra, non prima di essersi richiuso la porta alle
spalle. Braccia strette sul petto, si lasciò andare accanto al focolare spento,
il sole cocente di mezzodì che arroventava l’aria al di là delle imposte chiuse,
il caldo alito primaverile sopraggiunto troppo bruscamente a infiacchire i suoi
passi – e il bizzoso mutare del vento, troppo secco e repentino, verso sera, per
rinunciare allo scudo simbolico di un rigido soprabito, ingombrante carezza
sulle spalle.
Un
profumo dolciastro di fiori di campo catturò i suoi sensi come un assalto
prepotente, forzò le maglie sottili del silenzio e della penombra che facevano
da taciturni compagni alla sua attesa, e Fernand considerò quanto non fosse
propriamente un toccasana, per uno che rientrava da un
funerale.
Scosse
il capo, vano tentativo di sgombrare la mente dalle accidentali, confuse
corrispondenze che sentiva propagarsi spontanee in lui, dalla mente fino alle
estreme propaggini sensoriali, destabilizzandolo. Sospirò: lui desiderava solo
un rifugio momentaneo in qualche breve istante tranquillo, la mente vuota e i
secondi che scorrono fra le dita, ma un senso d’oppressione al petto gli
impediva d’ingannarsi fra innocui dettagli.
Pensò
al funerale. Aveva voglia di piangere.
Ambrosie:
non l’aveva individuata subito nel chiaroscuro della navata gremita, nella massa
priva di colori e di volti – solo vesti scure, bisbigli e sguardi palpitanti, e
un senso soffocante d’attesa.
Solo
in un secondo momento i suoi sensi erano riusciti a modellarsi su quella sorta
di composto estraniamento, i fumi densi d’incenso che gli bruciavano in fondo
alle pupille.
Ecco
i suoi ribelli, macchie d’inchiostro solitarie, disseminate nella moltitudine,
qua gli uomini, là le donne; Ambrosie celata sotto la veletta scura, Auguste che
non sembrava più neanche umano; e il brusio e i graffi delle spine di rosa
nell’atto di deporre i fiori sulla bara, nell’intreccio caotico di mani
pietose.
E
quel persistente, ineffabile timore che gli pungeva il petto, trepidante sentore
di assenza che gli scavava una voragine nel cuore.
La
paura che Auguste cedesse al gelo della sconfitta. Che da un momento all’altro
venisse a mancargli l’aria, soffocato, sprofondato in quell’ossimoro di caotica
solennità; che perdesse le redini di quell’irreale autocontrollo, smarrito in
fondo al cieco labirinto della propria disperazione.
Perché
sarebbe caduto con lui.
E i
Mirand. Li aveva scorti di sfuggita, solo un attimo, al termine della funzione,
nello spiazzo antistante alla chiesa – doveva presumibilmente averli avuti
dinnanzi agli occhi per tutta la durata delle esequie, pur essendosene avveduto
solo in quel momento.
Un
persistente campanello d’allarme gli era esploso nella mente, mentre gli occhi
scrutavano spasmodicamente ogni volto lungo la sua traiettoria in un caotico,
infernale viavai. Alla ricerca di lui.
Ma
Auguste aveva provveduto quanto prima a sottrarsi alla
vista.
E
questo, Fernand non l’aveva previsto. E da lì l’aveva perso.
-
Fernand, sono in camera. Io… Non credevo fossi già di
ritorno.
Fernand
lo ringraziò mentalmente per aver provvidenzialmente spezzato il suo
involontario, meticoloso ripercorrere ogni istante del proprio limbo. Sbatté le
palpebre sotto i colpi leggeri di quel richiamo suadente, ovattato, e fece per
raggiungerlo.
-
Tu… Tu sei un incosciente! Si può sapere cosa ti passa per la
testa?
Fernand
si prese il volto fra le mani, le palpebre ostinatamente socchiuse nello strato
denso di vapore che l’aveva schiaffeggiato in pieno petto, i sensi invasi da
quel profumo delicato che ben presto si era sostituito di prepotenza ad un
preesistente sentore d’amarezza, di ombra indecifrabile che gli martellava nella
mente.
Che
l’aria stessa possa risentire della paura appiccicata alle
pareti?
L’abisso
che non conosci, può avere un odore?
Vide
Dorian inarcare placidamente il sopracciglio, immerso fino al petto e alle
ginocchia in quella tinozza d’acqua calda, i capelli bagnati che gli
gocciolavano sulla schiena nuda, la mano coperta da una fasciatura sottile
tenuta compitamente fuori, le dita che sfioravano distratte il pavimento, e ogni
piega di tensione dissolta sul suo viso.
Fernand
deglutì, cercò di distogliere lo sguardo, l’impatto fresco della visione che gli
rimbalzava nella mente, attutita dal caliginoso strato di vapore che ottundeva i
contorni.
-
Cosa c’è che non va, stavolta, mon
ami? Preferivi che me ne stessi tutto sfatto?
-
Sei pazzo! Se… se per disgrazia ti fossi sentito male, non ci sarebbe stato
nessuno ad aiutarti: a questo avevi pensato?
-
Basta così, Fernand… – Dorian lo liquidò in un mugolio annoiato, gesticolando
pigramente in quella che pareva una blanda negazione – Io. Sto. Bene. Non so se
dovrò scrivermelo da qualche parte e firmarlo dieci volte, prima che te ne
convinca del tutto, ma sto così bene che potrei
addormentarmi.
-
Ecco, appunto. Può bastare.
Fernand
indugiò davanti alla porta, incerto se restare oppure uscire, lasciandogli il
tempo di risistemarsi.
-
No, resta! – gli occhi di Dorian si dischiusero limpidi su di lui, precedendolo,
quasi avesse deciso solo in quel momento di degnarlo della sua completa
attenzione.
Incrociò
le gambe con disinvoltura, il movimento flessuoso appena percepibile tra le
crespe sfilacciate di schiuma. Le linee sinuose d’ambra pallida, l’intreccio
delicato della muscolatura che emergeva in controluce, a Fernand parevano
configurarsi davanti a lui come parte integrante della caligine sottile che
intrappolava le sue percezioni.
Sbatté
le palpebre, i sensi impigliati fra contorni evanescenti, soffusi. Non era
pronto a riprendere il controllo, a costringere il suo volto in una maschera
risoluta, a dirgli vestiti, ora, Dorian,
ho bisogno di parlarti. Troppo fragile, la mente imbrogliata
altrove.
-
Fernand, ti senti bene?
Il
giovane annuì, gli occhi lucidi.
-
Auguste? – azzardò Dorian.
-
Sparito così com’è arrivato – gli soffiò impercettibilmente Fernand, quasi a
voler allontanare i suoi pensieri come pulviscolo
nell’aria.
-
Mi dispiace, Fernand. Avrei dovuto esserci – Dorian si morse nervosamente
l’unghia – Anche se Auguste… Non mi voleva, sì, si era ben
capito.
-
Volevi goderti un po’ di sana, ingessata formalità. E certe facce…! – Fernand
rabbrividì – Beh, alla fine ti consolerà se non altro sapere che Raphäel era con
lui. Già, Raphäel, l’amico di tutti; la sua presenza era da
protocollo.
- O
magari… Che ad Auguste servisse la solita spalla per la sua commedia quotidiana.
A questo hai pensato, Fernand?
-
Non parliamo di Auguste, per favore! Almeno, non in questi termini. È già
distrutto di suo, senza bisogno che qualcuno infierisca.
-
Se davvero volessi elencarti ogni singolo motivo su cui poter eventualmente infierire, Fernand, allora fai finta che
non abbia mai detto nulla! Auguste dovrebbe almeno imparare a non nascondersi
dietro al solito dito. Oh, sono troppe, troppe le cose che non sai! – soggiunse
Dorian in un sussurro appena udibile – D’accordo: come non detto – lo anticipò –
Non ho voglia di litigare.
Ma
Fernand non lo ascoltava più; tratteneva il fiato, la mente rapita da ciò che
vedeva emergere lentamente dinnanzi ai suoi occhi nella sua struttura portante:
la crescente certezza, dentro di lui, che ancora una volta Dorian stesse
giocando senza scoprirsi: sornione, vestito solo di sottili ricami di vapore,
tergiversava, scagliava il dardo, saggiava di soppiatto le sue reazioni e
prendeva le misure, studiando il momento esatto per colpire, in che modo
colpire, quali corde far vibrare.
Veloce,
si liberò della giacca, la camicia allentata sul collo che si arricciava in
pieghe sottili sui gomiti e sulle spalle. Boccheggiava, la gola inaridita, il
ribollio del sangue a percuotergli le tempie per il repentino accesso di calore
al viso. Gli occhi lacrimavano sotto l’impertinente, destabilizzante carezza di
quel profumo ingannevole.
Nulla
era casuale. Dorian aveva qualcosa in mente: aveva allestito la scena con
l’accortezza di uno stratega, e gli sguardi penetranti e furtivi che di tanto in
tanto gli piantava in volto, dovevano di certo far parte di quella fine,
complessa strategia illusoria. Persino la nudità sfacciata, appena celata sotto
nubi leggere di schiuma.
Che
scherzo è questo, Dorian?
Bastardo:
tu avevi previsto. Avevi previsto ogni sfumatura.
Si
sentì vacillare.
-
Fernand? Sei sicuro di star bene?
Il
giovane riuscì per un soffio ad evitare di scivolare sul pavimento umido. Si
costrinse ad allacciare nuovamente lo sguardo a quello di Dorian, vago desiderio
di rubare il segreto, la chiave di lettura dalla superficie di quelle iridi
agitate da uno scintillio mutevole.
-
Tu, piuttosto. Mi stupisce come possa non bruciare di caldo, là
dentro.
Dorian
scosse le spalle.
-
C’è davvero tanto caldo qui dentro? Sarà la tua
impressione.
-
No, non credo – Fernand agitò il braccio in un ampio gesto, cercando di diradare
quella caligine opprimente che, con ogni probabilità, doveva esistere unicamente
nella sua testa, come parto imperfetto di una mente che amplifica le
percezioni.
In
silenzio, Fernand si portò alle sue spalle. La pelle bagnata riluceva di deboli
bagliori, sottili rivoletti d’acqua che si confondevano lungo la curva della
schiena.
-
Scusami se la situazione… – Dorian si tirò indietro i capelli fradici,
descrivendo un minuscolo ricamo di gocce d’acqua sul pavimento retrostante –
Come dire, potrebbe risultare… imbarazzante.
Fernand
si strinse nelle spalle e sorrise compiaciuto.
E
qua sei stato prevedibile, Dorian: sei meno astuto di quanto tu pensi,
nonostante tutto.
- A
dire il vero, non sono io quello che potrebbe eventualmente sentirsi in
imbarazzo.
-
Bravo.
Dorian
si portò nuovamente sulla spalla la massa dei capelli intrisi d’acqua, scoprendo
la base del collo.
Un’idea
balenò furtiva nella mente di Fernand, fugace, repentina. Per un istante, fu
tentato di scagliargli addosso qualcosa di poco contundente – un cuscino avrebbe
fatto al caso suo. Poi sentì l’impronta rasserenante di un sorriso distendergli
meccanicamente i muscoli del viso.
Dorian:
lui, ancora una volta. Il Dorian che conosceva. Fantasioso, lunatico.
Indecifrabile. Immagini contraddittorie in sospeso nella sua mente, realtà in
apparente contrasto, caselle immaginarie prive d’incastro.
Aveva
temuto da un certo momento in poi che la questione Raphäel prima, in un secondo
momento Auguste, potessero in qualche modo segnare il discrimine fra loro. E lui
avrebbe certo preferito che Dorian smettesse una volta per sempre di opporre
quel muro di amarezza e sarcasmo, utile soltanto a distorcere ulteriormente la
realtà, ogni qual volta il nome di Auguste rimbalzava sulle sue labbra. O quanto
meno provasse a renderlo partecipe di quelle che potevano essere le sue ragioni.
Gliene avrebbe parlato, ma non ora. Aveva detto e fatto
abbastanza.
Nella
sua mente si configurava la sola costante che, nel suo immaginario, fosse
riuscito a circoscrivere su Dorian. L’amico affettuoso e comprensivo, i baci che
si erano scambiati, il liquido contatto che bruciava su di lui. La reticenza
apparente, le guance accaldate che bruciano di desiderio e qualche strascico
d’imbarazzo. Un istante, un soffio, le labbra che si uniscono in un ipnotico,
rasserenante tepore simile all’incoscienza. E magari era anche giusto che fosse
andata così, o forse no. Non sapeva dirlo.
L’ossessivo,
continuo ripetersi di un gesto, scandito dal trascorrere dei giorni e dalla
paura di privarsene. Innamorarsi ogni giorno di una medesima scena di una
medesima pièce, senza che l’emozione della novità venisse meno, ogni volta
ignorandone paradossalmente l’epilogo sospeso a metà. Un puntuale ripercorrersi,
con la stessa enfasi ossessiva, voluto, ricercato; rivivere il medesimo istante,
le medesime sensazioni replicate all’infinito, sospese in un irrinunciabile
rituale, con un prima e un dopo a far da momentanea
cornice.
Seguì
la curva delle sue spalle, l’armonia dei contorni.
E
il suo nome, persino il suo nome pareva inconsapevolmente rimarcare le morbide
volute color grano dei suoi capelli, gli spigoli appena accennati che scandivano
i tratti del suo viso. Dorian: la
durezza iniziale, l’esplosione preceduta dalla lingua che batte sugli alveoli,
per poi scivolare con dolcezza fino a sfumare.
Non
lo stava ingannando. Non mi sto
ingannando, si ripeté.
Voleva
però cavarsi il dubbio, afferrare le sue intenzioni. Ed ora aveva la possibilità
di suggellare, di raccogliere qualcosa che, per qualche istante, aveva temuto di
smarrire.
Dorian
tremò, quando la sua mano gli sfiorò la spalla, indugiando lenta lungo il
petto.
L’avrebbe
baciato di nuovo, fino ad imprimersi in lui, senza perdersi ancora una volta nel
suo alienante vicolo cieco, rivivendo tutto da principio come un’inappagata
ossessione. Perché era stato lui stesso ad innescare il meccanismo, sin dal
momento in cui, fingendo di dormire, aveva ricambiato il suo bacio per la prima
volta.
Avvertì
sotto le sue labbra la pelle sottile dell’orecchio; sorrise, quando lo udì
trasalire: doveva aver catturato il suo punto debole.
-
Fernand…
Dorian
si ritrasse, sornione. Senza vederlo in volto, Fernand ebbe quasi la certezza
che avesse socchiuso le palpebre, anticipando la sua resa. Reclinò il capo
all’indietro.
Attento,
Dorian: sei stato astuto, devo sinceramente complimentarmi con te, ma avevi
dimenticato di mettere in gioco te stesso, il tuo ruolo in primo
piano.
-
Ti piacciono le cose a metà? – il debole sussurro fuggì dalle labbra di Fernand
quasi involontario, sciolto dai vincoli della ragione, confuso intreccio di
parole e pensiero.
Percepì
appena il leggero vibrare della sua voce sulla pelle di
Dorian.
- A
dir la verità, le adoro – Dorian si morse il labbro – Adoro la possibilità di
lasciarmi andare a qualcosa che amo particolarmente. Che forse verrebbe meno,
sottoposto a un razionale divenire.
-
Interessante teoria… – Fernand si chinò su Dorian fino ad assaporarne pienamente
il profumo.
In
silenzio, incurante della propria camicia che s’inzuppava a contatto con il
corpo bagnato, lo circondò con le braccia, la pelle levigata del ventre che
scorreva sotto le sue dita.
Aveva
gettato lì sul tavolo la sua sfida, senza una logica in atto a supportare le sue
stesse azioni, e ora l’avrebbe baciato, un’altra volta e poi ancora, se
necessario, il desiderio che affiorava in punta di labbra, troppo palese agli
occhi dell’altro.
Dorian
parve assecondare la sua tacita richiesta; mosse le labbra sulle sue, poi, senza
preavviso, lo morse delicatamente.
-
Che fai?
-
È… è meglio che mi asciughi.
Era
arrossito.
Fernand
distolse il viso: avrebbe potuto infierire, ma non era il
caso.
-
Buona idea, allora. Ti aspetto di là.
Dorian
annuì col capo, un’impronta di sollievo così tangibile sul volto, che per poco
Fernand non scoppiò a ridere: quasi di certo, a Dorian doveva essere balenato in
mente che sarebbe stato troppo, davvero troppo – rifletté – palesargli di colpo,
così incautamente, la propria eccitazione. Come se ciò non fosse stato
implicito, senza bisogno di scrutarlo in basso, attraverso quel provvidenziale
velo di schiuma che lo celava dalla vita in giù.
Fernand
si limitò ad abbracciare con lo sguardo la stanza
circostante.
Si
erano tessuti a vicenda la stessa rete, e lui si era lasciato annebbiare la
mente come da una melodia tremendamente allettante; complice e vittima, aveva
dato il suo tacito assenso, ed ora non gli restava che completare l’opera
trascinando anche Dorian con sé, senza implicazioni accessorie, senza pensare ad
altro se non a far chiarezza con la sola luce
dell’istinto.
Un
fruscio alle sue spalle ridestò nuovamente la sua attenzione, e la figura di
Dorian riemerse oltre la tenda che divideva la stanza in due
ambienti.
-
Vedo che ora ti senti più a tuo agio – Fernand lasciò scivolare il proprio
sguardo su Dorian, i calzoni indosso e il torace scoperto.
-
Sei strano oggi, Fernand. Cosa ti prende? – Dorian scosse il capo, stranito,
allungando la mano sul suo viso fino a dirigerlo verso di
sé.
-
C’è che… Quel che è accaduto poco fa: avrei potuto anche offendermi – Fernand
eluse con noncuranza la presa di quelle dita sottili sul
mento.
Dorian
sospirò.
-
Volevo che ci pensassi almeno qualche minuto, prima di prendere qualunque
decisione.
Era
serio.
-
Chi dice che ce ne fosse realmente bisogno? – Fernand scosse il capo,
sibillino.
Dorian
gli sorrise, indulgente.
-
Qual è il tuo gioco, Fernand?
Un
ghigno impercettibile attraversò il volto del ragazzo.
-
No, Dorian: qual è il tuo.
-
Nessuno in particolare. A parte, in questo preciso momento, cercare di capire
cosa ti sta dicendo la tua mente.
Fernand
annuì con fare impacciato.
-
Beh, è abbastanza, se ti dico che… ad un certo punto, sembrava volessi chiedermi
di fare l’amore con te, ma è come se qualcosa ti abbia fatto desistere
improvvisamente.
Dorian
distolse lo sguardo per qualche istante, soprappensiero.
-
Può darsi.
-
Non hai che da spiegare. Ci sono
molte cose da cui potresti cominciare – Fernand agitò la mano come a voler
abbracciare simbolicamente la stanza.
Avrebbe
colto la sua provvidenziale occasione.
-
Perché certe contraddizioni mi confondono terribilmente. Devo portare qualche
esempio? L’indecisione che sembra accompagnarti costantemente; questo è qualcosa
che davvero, in effetti, meriterebbe attenzione. Troppi punti in sospeso. Che
motivi hai per non fidarti di Auguste, per dare puntualmente in escandescenze
qualora si parli di fiducia. Cosa ci
trovi in Raphäel. Il… perché dei tuoi atteggiamenti inconciliabili nei miei
diretti confronti: lanci il sasso e ti tiri indietro. Mi baci come… Come se
fosse sempre la prima volta, fingi che non sia successo niente, e poi torni
all’attacco.
-
Non lo so – Dorian si strinse nelle spalle, l’espressione troppo guardinga per
apparire spontanea; sembrava nervoso – Se vuoi prenderla larga e andare di nuovo
a parare su quel che è successo ieri notte, dovrai accontentarti del fatto che
ne so quanto te.
-
Non mi riferisco a quello, te l’ho spiegato, e non mi accontenterò di un “non
so, non mi va di parlarne, è una storia lunga”.
-
Da dove vuoi cominciare? – Dorian prese a spazzolarsi distrattamente i capelli
umidi.
-
Da Auguste… Ad esempio – rispose istintivamente il
giovane.
-
Da Auguste… – gli fece eco Dorian, come a voler radunare le proprie idee nel
giro di un istante, selezionare ciò che sarebbe stato opportuno dire e ciò che
invece non lo sarebbe stato – Non è una cattiva scelta. Prima, però, vorrei
chiederti qualcosa anch’io – una luce indistinta gli percorse le iridi, lo
sguardo saettò vivido su di lui attraverso lo specchio.
-
Cosa…
-
Com’eri quando eri piccolo, Fernand? – Dorian accavallò lentamente le gambe,
come nel mezzo di una chiacchierata distensiva da assaporare tra ameni ricordi –
Sai, me lo chiedevo. Ero curioso.
Fernand
spalancò le palpebre, interdetto di fronte al brusco salto di
prospettiva.
-
Cosa c’entra ora questo…?
-
Nulla di che. Pensavo - non chiedermi il motivo - a come fosse Fernand da
bambino.
La
cadenza della voce tradiva una tenerezza tale che le labbra di Fernand si
distesero inavvertitamente in un sorriso.
-
Un piantagrane come adesso, temo. Ma… Non capisco il tuo discorso. Sul serio. Ti
ho… raccontato tante volte la mia storia, almeno per sommi capi… Sei tu, al
solito, quello che parte all’assalto e poi rimane sul
vago.
Dorian
annuì distrattamente, come a voler fuggire qualche immaginario
dettaglio.
-
Lo credi davvero? Pensare che fino a stamattina ero in vena di
confidenze!
-
Ad esempio? – lo incalzò Fernand.
-
Ad esempio – Dorian sollevò gli occhi al cielo, l’espressione turbata, le guance
deliziosamente chiazzate di cremisi – Forse non ti ho mai raccontato veramente
del mio primo periodo in città. Il fatto è che… mi ero invaghito di Lucien. Sì,
esatto. La cosa andò avanti per mesi, da parte mia, con una convinzione tale da
rasentare il patologico – sorrise dietro ad un improvviso velo d’amarezza – E
oggi, guarda oggi, com’è strano che ben tre persone, fino all’ultimo momento e
del tutto inconsapevolmente, abbiano quasi congiurato per tenermi segregato in
casa senza lasciarmelo neanche salutare per l’ultima volta! Sarebbe quasi buffo,
se le circostanze non fossero state così tragiche.
-
Dorian, sei stato male tutta la notte, se te ne fossi dimenticato, e non devi
assolutamente sentirti in colpa né biasimare chi ha preferito lasciarti
tranquillo ed evitarti almeno i funerali. Se vuoi sapere come la penso – Fernand
sollevò il viso con petulanza – è molto meglio che Lucien lo ricordi vivo. Per
quanto riguarda il resto… Se davvero me ne avessi parlato in precedenza, dubito
che avrei potuto dimenticarmi tanto in fretta.
Gli
sfiorò la guancia con un tocco leggero, confidenziale, nelle sue parole
l’intento di dirottare rapidamente il discorso là dove gli premeva, anche a
costo di sommergerlo nel fiume di caotiche curiosità e considerazioni che gli si
rimestavano nella mente.
-
Hai parlato del tuo “primo periodo in città”, se non sbaglio – riprese – Se ho
ben compreso, non era solo la mia impressione, da quando ti ho conosciuto, che
anche tu venissi da fuori. Nord, immagino. E… se così fosse, chissà, forse hai
anche qualche antenato aristocratico. Molte famiglie nobili hanno ascendenza
nordica.
-
Basta così, Fernand!
Gli
occhi di Dorian luccicavano imperiosi sotto un precario ventaglio di lacrime
parzialmente trattenute.
Fernand
trasalì. Si costrinse infine a tacere, stordito. Ancora una volta, senza
avvedersene, doveva essere andato a sfiorare inavvertitamente corde troppo
suscettibili d’essere scosse.
-
Dorian? Tutto bene? – riprese in un timido sussurro – Fammi capire almeno cos’ho
detto di male, se non chiedo troppo.
-
Non… Oh, ti prego, lascia stare! Davvero.
Fernand
vide il volto di Dorian infiammarsi di una decisa sfumatura purpurea. Lottava
per contenere l’agitazione che gli faceva tremare le dita, le vene percorse dal
battito martellante sotto il suo stesso tocco, gli occhi
lucidi.
Di
colpo, Fernand si trovò chino davanti a lui, seduto sui talloni, le dita sottili
strettamente intrecciate a quelle dell’amico, a lenire quell’esplosione
d’angoscia repentina.
-
No, Dorian. Non lascerò correre – si risolse – Non posso non sforzarmi quanto
meno di capire.
Dorian
gli accarezzò distrattamente i capelli, l’espressione
combattuta.
-
Mi hai accennato tante volte al tuo passato, Fernand – riprese con voce pacata
in capo a lunghi istanti in cui era parso del tutto assorto a riordinare
disorganici ammassi di pensieri – E… Non riuscirò mai a dirti quanto mi abbia
fatto piacere. Ti sarai chiesto sicuramente cos’avrò fatto in tutto questo tempo
– una pausa grondante tristezza, lo sguardo che fuggiva, l’inquietudine che gli
si addensava nella voce – Ecco: me lo sono chiesto
anch’io.
-
Cosa ti sei chiesto? – di riflesso, Fernand serrò la presa sulle sue
mani.
-
Cosa sono stati per me gli anni di cui non ricordo quasi nulla, Fernand.
Escludendo il raccontino mal costruito che Auguste avrà imbastito anche a te,
non appena gli si sarà presentata l’occasione, sul perché mi abbia raccattato,
chissà come, chissà dove, e un mucchio di altre balle – soggiunse in un guizzo
irritato.
-
Non ricordi? C-cos’è che… non ricordi? Posso aiutarti? In… che senso non
ricordi? – Fernand sbatté nervosamente le palpebre,
interdetto.
Sentì
il proprio cuore saltare un battito, e per poco non cadde a sedere sul
pavimento.
-
Nel senso letterale del termine: che ad un certo punto… c’è come un vuoto, e
tutto il resto è incomprensibile e confuso, e non mi fido di Auguste. E questo,
almeno, posso provarlo. Ti ho… sconvolto? Ho fugato qualche tua
perplessità?
-
Aspetta, Dorian, aspetta! – Fernand scosse vigorosamente il capo come a voler
rimettere idealmente a posto nella sua testa i frammenti – Io so solo quel che
ha detto Auguste. Della guerra civile… Di come ti ha aiutato a scampare alla
forca. E ti ha nascosto fino al suo ritorno, quando la scia di processi e
condanne a morte era ormai esaurita.
-
Ecco, bravo. Conosci anche tu la versione di Auguste. Ora, prego, dimmi se tutto
ciò sta in piedi. Cinque anni fa, quando il du Lac prese il potere, quanti anni
avevo? Diciotto, esatto. Come sono arrivato ad unirmi alle bande dei ribelli? Un
mistero – Dorian sollevò i palmi delle mani verso il cielo in un gesto
rassegnato – E tu conosci Auguste, non è così?
Fernand
aggrottò le sopracciglia, stranito. Stava per perdere nuovamente il
filo.
-
Ecco, se conosci Auguste, saprai quanto è probabile che lui, proprio lui, che prima di fare qualunque cosa
deve ponderare cento e mille volte, lui che sembra ritenere tutti troppo
avventati o incompetenti o direttamente troppo stupidi per i suoi schemi
cavillosi… Com’è che può aver spedito un ragazzo di diciott’anni allo sbaraglio
nel pieno di una guerra civile, a farsi ammazzare in una dannata polveriera? Non
regge, Fernand, e ho avuto tempo e modo d’informarmi su certi…
dettagli.
- E
conoscendo te, Dorian – azzardò Fernand – Nulla toglie che abbia agito di tua
diretta iniziativa, e che poi sia toccato magari ad Auguste o a qualcun altro
toglierti d’impiccio.
Dorian
gli rivolse un sorrido grondante amarezza.
-
Auguste come lo conosco io, nel suo
unico habitat naturale, intento ad architettare tutto fino allo sfinimento, che
si lascia sfuggire sotto il naso un manipolo di disperati, felici di andare a
far danni mentre fuori infuria una rivoluzione? Piuttosto, mi avrebbe ficcato in
catene dentro una nave e imbarcato per un altro
continente.
Fernand
tacque, a disagio.
-
Quando ormai il mio destino sembrava già bello e pattuito e centellinavo i miei
ultimi giorni in una cella, una nutrita schiera di guerriglieri armati circondò
i carceri… E sì, c’era anche il nostro Auguste, nonostante, ora come ora, sia
ben difficile immaginare che sappia anche solo impugnare un fucile. Il resto è
storia.
Dorian
attese, lo sguardo vigile, quasi a cercar conferma negli occhi di Fernand, se
proseguire oppure no.
-
Altra incongruenza clamorosa. Non riuscendo a cavare il sangue da solo, ho
raccolto informazioni in lungo e in largo da fonti neutre, e sai la conclusione?
Auguste ha infilato un’incoerenza dietro l’altra, come volevasi dimostrare. Un
giorno ti farò vedere il famoso carcere, e poi mi dirai se secondo te è a prova
d’assedio oppure no.
-
Se non è possibile penetrare una fortezza con un regolare assedio, l’inganno può
essere un’alternativa efficace. Infiltrare qualcuno, che so… – tentò di tenergli
testa Fernand.
-
No, c’è di meglio, credimi! Fonti certe, Fernand: all’epoca delle due guerre
civili, le prigioni non avevano esattamente la funzione che Auguste mi ha
descritto in un primo momento. C’era forse l’urgenza sistematica di intasare le
celle di rivoltosi sopraffatti durante azioni di guerriglia, in attesa di
regolari processi che non sarebbero mai avvenuti? I ribelli presi in flagranza
di reato, salvo casi eccezionali, venivano direttamente passati a filo di spada.
Al massimo impiccati, e senza un processo. Se le cose fossero davvero andate
come dice Auguste, ora non starei qui a parlarne con te.
Fernand
socchiuse le palpebre, disorientato; fra le mani, un tentativo di difesa sempre
più effimero.
-
Auguste era presente a questi eventi – insistette – e non è un idiota: se anche
avesse voluto mentire deliberatamente, non si sarebbe invischiato in errori
tanto palesi e smascherabili.
-
Oh, ma è proprio questo il punto – gli occhi di Dorian scintillarono luciferini
sotto le ciglia morbide – A quanto pare, Auguste semplicemente non ha avuto il
tempo materiale di prepararsi una bella bugia a prova di sciocco, e sarà stato
senz’altro costretto ad abbozzare
qualcosa su due piedi all’ultimo momento. Perché all’epoca in cui furbescamente
ha “spostato” gli avvenimenti, lui probabilmente neppure si trovava più a Noir
Trésor; era matematicamente impossibile che potesse afferrarci su ogni singolo
dettaglio e far collimare ogni tassello senza sbavature, nel momento in cui si è
trovato a mentire in quel poco tempo che gli restava a disposizione.
Presumibilmente, Auguste non vide che i primi fuochi della fallimentare
rivoluzione del popolo contro il tiranno: quando le forche a pieno regime e le
palle di cannone cominciarono ad impartire i primi seri “avvertimenti”, Auguste
era già in viaggio con Lucien verso luoghi di cui non ricordo neppure il nome.
Auguste, esatto. E… Se davvero in città correvo tutti questi pericoli, dopo
essere stato tirato fuori di prigione per i capelli, non ti pare un controsenso,
da parte sua, evitare di spedire anche me in qualche posto dimenticato dalla
civiltà, lontano dal duca, ma piuttosto mollarmi in città sotto gli ultimi
fuochi della guerra civile?
Fernand
strizzò le palpebre, stretto in un accesso d’angoscia che gli rimordeva il
petto.
Pensò
ad Auguste: al suo desiderio di soccorrerlo, di stringerlo, di non lasciarlo
precipitare in quella voragine di disperazione spalancata sotto di lui, di cui
non pareva lontanamente quantificabile né dove né quanto se ne estendessero i
confini. Pensò a quel bacio appena accennato, alla sua concezione di ribelle, di
rivoluzione, di essere uomo, a quella patina di tristezza nei suoi occhi, e per
poco non si sentì mancare.
Sempre
peggio, sempre più in basso. Contorni sempre più ingannevoli, soffusi,
sfuggenti. Sempre più giù, verso il baratro.
A
chi doveva credere?
E
poi avvertì la presa di Dorian salda sulle sue spalle, il volto che mutava
espressione, esaurita l’enfasi nervosa del ragionamento in
atto.
-
D’accordo, ho sbagliato ancora una volta – la sua voce tremò sotto lo sfolgorio
indistinto che gli attraversava le iridi chiare – Ti prego solo, Fernand:
ragiona! Tu non c’entri niente con tutto questo. Auguste ti vuole bene…
Qualsiasi cosa nasconda, qualunque idea malata abbia in mente, sono pronto a
credere che non abbia agito in cattiva fede nei nostri diretti riguardi. Certo,
lo detesto un po’ per questo, ma mi rifiuto di credere che sia andata
esattamente così. E Lucien, che è stato al suo fianco fino all’ultimo istante,
non gli avrebbe permesso di giocare sporco nei nostri
confronti.
Fernand
si sentiva girare la testa. La stanchezza, l’angoscia, la frustrazione di non capire, il ribollio emotivo di una
giornata infernale gli premevano sulle tempie doloranti come piccole spade di
Damocle sul suo capo, una sensazione di nebbia davanti agli occhi che gli
ottundeva i sensi.
- E
tu, invece – un flebile mormorio affiorò sulla sua bocca, una cadenza roca che,
in un primo istante, quasi non riconobbe come sua – Sei certo di volermi bene,
Dorian Alexandre Desgrais? –
scandì.
Fernand
percepì la sua stessa presa sugli avambracci di Dorian divenire serrata,
convulsa, attirarlo a sé fino a trainarlo d’inerzia sul pavimento nudo, accanto
a lui. Fece scorrere le dita fra i capelli umidi che, asciugandosi all’aria,
s’inanellavano in un delizioso turbinio sulle spalle nude. Rapito, la mente
oscurata da una sorda, disperata sete di fisicità, percorse con lo sguardo
quelle ciocche ondulate che gli ombreggiavano il viso e la linea nitida, quasi
tagliente, del naso e degli zigomi.
Riemerse
da quel sogno quando le sue dita artigliarono Dorian alla nuca, e le labbra
premettero sulle sue.
-
Basta verità arrischiate, per ora! – biascicò in una punta irriverente, la voce
delirante che gli raschiava la gola – Questo… è reale,
Dorian.
Tacque.
La furia del desiderio impellente di baciarlo, di toccarlo, di sentirlo era tale che per un istante
temette di cadere in deliquio, un formicolio dal sapore oscuro che gli divampava
nel petto.
Inerte,
riuscì a malapena ad assecondare lo sforzo da parte di Dorian di aiutarlo a
tirarsi su in piedi, per poi spingerlo sul letto.
Sentì
il peso del suo corpo su di lui, l’avanzare inarrestabile e repentino delle sue
labbra sulla superficie della gola tradursi ben presto in minuscole fitte, come
spilli conficcati sotto la pelle in un’ondata di concentrica
ostinazione.
La
mano di Dorian esplorava la sua pelle sotto la camicia come guidata da una sorta
di desiderio puntiglioso, spire di puerile curiosità che si accanivano su di
lui. Un gemito roco gli sfuggì dalle labbra strette a fessura, le membra tese,
senza che egli avvertisse più su di sé le redini di quel crudele autocontrollo
atto a contenere il visibile, urlante manifestarsi della sua
eccitazione.
Serrò
furiosamente le dita sulle lenzuola, una fitta particolarmente intensa a
sconvolgere la stabilità delle sue membra e gli impianti mentali che avevano
sorretto e motivato i suoi gesti fino a quel momento, quando Dorian provò a
sfilargli delicatamente la camicia. Avvertì il morbido fruscio della seta sulla
pelle martoriata di brividi, il respiro ridotto ad un rantolo affannoso,
torrido, insufficiente a recare sollievo alla gola riarsa. L’estasi come una
stoccata diretta allo stomaco, tanto intensa da recare con sé, serpeggiando
lungo la spina dorsale, uno strascico quasi doloroso,
lancinante.
-
Fernand? – la voce di Dorian lo riportò alla realtà per qualche breve istante –
Fernand, ti sto solo accarezzando…
Si
era fermato, catturando rapidamente il suo viso in un’occhiata di traverso, una
vena vagamente allarmata sul volto, la mano che gli sfiorava con noncuranza il
torace scoperto ed i capezzoli contratti sotto il suo
tocco.
Fernand
gettò indietro la testa in un mugolio appena
comprensibile.
-
Uhh… C-così è… È peggio!
Dorian
lo soppesò con occhi curiosamente beffardi, per poi chinarsi su di lui e
afferrargli il lobo dell’orecchio fra le labbra. Rise.
-
Così impari a farmi fare certe… “figure”! – gli soffiò, sarcastico, lasciandogli
il tempo d’inquadrare la sottile allusione al problema di non poca rilevanza che
a sua volta gli aveva provocato a tradimento, mentre stava immerso nell’acqua,
senza nulla con cui coprirsi se non un’evanescente coltre di
schiuma.
-
Carogna… – gli sibilò Fernand di rimando, quasi divertito da quell’insolita,
dispettosa schermaglia.
- È
ciò che volevi, Fernand, non è così? – Dorian indugiò febbrile, un lieve
sussurro disturbato dal respiro ansante, sfiorandolo con dita leggere là dove i
calzoni stretti lo costringevano in una morsa impietosa.
Approfittava
delle sue incertezze, della debolezza della sua volontà strettamente impegolata
fra schemi inestricabili e confusi.
Il
giovane annuì disperatamente, un gemito gutturale che si spense in una selva di
ansiti impazienti, il corpo proteso verso Dorian.
Sentì
la stoffa bruciante dell’ultimo indumento scivolare lungo le cosce, le labbra
lucide di Dorian troppo vicine alla sua erezione prepotente, e il suo profumo su
di lui.
Chiuse
gli occhi. Si sentiva esposto, vulnerabile, come se persino l’aria immobile
intorno a lui sfregasse sulle parti scoperte con lo stesso vigore di una brezza
persistente, facendolo sentire scoperto, bagnato, la sensibilità ridotta
all’estrema soglia di sopportazione.
Non
credevo fosse… così. Con un amico che conosce il tuo corpo come conosce se
stesso.
Fernand
sussultò, percosso dalla duplice carezza dei suoi capelli sciolti e del respiro
accelerato che infieriva sulla pelle in fiamme: un’estenuante sensazione di
solletico che fiaccava la sua resistenza. Dorian lo baciò su un
fianco.
-
Fernand, l’hai mai fatto? – un velo d’imbarazzo calò sul volto del
giovane.
Sembrava
soprappensiero, esitante.
Fernand
soffocò un accesso di risa isteriche: era strano provare a impostare qualcosa
che somigliasse a un discorso osservandosi negli occhi da quella prospettiva
così insolita, così intima.
-
Non con un ragazzo – precisò.
Dorian
annuì meditabondo, le mani che gli massaggiavano distrattamente le cosce.
Inaspettatamente, puntellandosi sui gomiti, si portò su di lui e lo strinse
sotto di sé, per poi calare sulla sua bocca indifesa.
-
Shh…
Fernand
inarcò la schiena sotto l’assalto di una carezza, squassato dal respiro
affannoso, due dita delicate che indugiavano intorno al capezzolo arrossato.
Sospirò.
-
Lascia fare a me… – proseguì Dorian – Rilassati e lascia fare a
me!
-
Rilassarmi? Rilassarmi? D-Doriaan… – Fernand non poté spiegarsi neppure in
seguito, neppure a grandi linee, dove stesse attingendo l’energia, l’impulso
logico necessario a ribattere alle sue parole; la voce era un lamento appena
percettibile, i muscoli rilassati a sottintendere la sua resa – Non ce la
faccio…
Dorian
lo baciò a labbra chiuse, allungandogli una carezza sulla fronte
madida.
-
Va tutto bene, Fernand. E… sembra che ti piaccia – lo stuzzicò – Forse un po’ troppo.
Basta,
Dorian, basta, avrebbe
voluto gridargli. Basta giocare,
finiscila qui, oppure… Smetti di esitare!
Distolse
lo sguardo. Avrebbe voluto trovare un rifugio, anche solo per pochi istanti, in
qualche recesso razionale in fondo alla sua mente, sfuggire a quel tremito
feroce che lo attanagliava fin nelle ossa. E non era facile, non era facile con
le labbra di Dorian incollate alla gola a seguire la linea della giugulare, il
suo profilo sfocato davanti agli occhi, il contorno delle anche in rilievo che
si muovevano sulle sue come un delicato gioco a incastro, e quelle stilettate di
piacere sempre più serrate che lo istigavano a perseverare in quella sorta di
folle rituale.
Un
sibilo acuto gli invase la gola, quando la frustrante scossa del distacco
improvviso si manifestò in un’illusoria folata di freddo su di lui, i capelli
umidi incollati alle guance, la sensazione bruciante di essere il solo ad aver
perso totalmente il controllo. La sua volontà giaceva sul fondo, offuscata dai
brividi che gli rimordevano la cute delicata e da un’idea allettante e
ingannevole che gli si era radicata nella mente fino a distorcere ogni profilo
razionale, convogliando ogni dubbio verso direzioni
prestabilite.
Ed
ora attendeva, rassegnato e impaziente, la consapevolezza di sé, della sua
collocazione, come una visuale sempre più distante: foschia
all’orizzonte.
Dorian
gli sorrideva fiducioso, e Fernand fu tentato per un istante di dirgli fermati, riflettici ancora un attimo; forse
non doveva andare così, ti sto ingannando. Ci stiamo ingannando: era una possibilità
troppo invitante, troppo semplice da attuare, troppo attraente per essere
abbandonata alla leggera, e noi ci siamo precipitati a capofitto, senza alcuna
coerenza.
Solo
per un istante.
L’ultimo
quadro propriamente nitido dinnanzi a sé fu Dorian accucciato fra le sue gambe –
che egli aveva istintivamente spalancato, scalciando pigramente per liberarsi
dell’intralcio dei pantaloni arrotolati a mezza coscia. E quelle mani che gli
cingevano i fianchi, quasi a rassicurarlo, i capelli biondi sparsi sul suo
ventre a celare ai suoi stessi occhi la sua eccitazione.
Socchiuse
le palpebre, giocando a indovinare, oltre le proprie ciglia, le linee della
figura che sostava dinnanzi a lui, focalizzando l’oggetto della sua attenzione
nel caleidoscopio di una prospettiva tanto intima: la testa bionda china su di
lui, l’ondeggiamento così sensuale e ipnotico, le labbra sottili e delicate che
si dischiudevano su di lui, introducendolo in un universo caldo e sconosciuto,
come uno sguardo distratto sull’ignoto.
Fernand
gridò, le dita strette ad artiglio sul proprio viso, pallido tentativo di
attutire l’urlo che gli era salito in gola. Uno spasimo nervoso gli fece
inarcare il bacino, mentre quell’ineffabile, umida sensazione di vuoto lo
agitava fino alla punta delle dita. Lo stava sentendo e assaporando con il
proprio corpo; lui, l’altro di sé, il suo Dorian, stretto nella debole presa
delle sue gambe, un abbraccio immaginario che desiderava tenerlo avvinto a sé il
più a lungo possibile.
…Forse
non è che un singolo aspetto di quel che può dirsi “conoscenza” dell’altro: una
profonda e destabilizzante accezione, libera di sofisticati condizionamenti; la
perfetta complementarietà di frammenti non omogenei della stessa
materia.
E
lui, loro: la dolcezza di un paio di
labbra e di una lingua delicata che saggiavano curiose i suoi rilievi, come un
prudente sfioramento; dal lato opposto, il suo sesso eretto, l’appendice più
sensibile del suo corpo quale mezzo ricettivo attraverso cui sentire l’altro di
sé, il calore di quelle labbra accoglienti, la cavità umida e rovente della
bocca, la lingua che si muoveva impaziente sulla pelle in
fiamme.
D’istinto,
Fernand gli insinuò le dita fra i capelli, accarezzandolo con accorta
delicatezza, quasi con il timore di scalfirlo, d’infrangere la sua visione. Si
morse le labbra, rabbrividendo, scivolando nell’ombra liquida di un nebuloso
oblio.
Vivi,
Fernand; vivi e chiudi gli occhi. Lasciati vivere.
Il
mio cantuccio:
Buonasera
a tutti!^^ Finalmente riesco ad aggiornare in tempi “moderatamente” lunghi…
Purtroppo, causa affollamento di esami (due nello stesso giorno, e portati a
termine con successo!^^) e, soprattutto, quindici giorni di morte apparente del
pc, le cose hanno finito inevitabilmente per protrarsi più a lungo di quanto
previsto!
Ringrazio
come sempre i lettori, nonché le sempre graditissime new-entry che hanno
inserito NT tra i Preferiti o le Storie seguite, per poi passare ad un
ringraziamento ad personam a coloro che hanno lasciato i loro commenti e le loro
impressioni, ovvero
Witch:
carissima, ben ritrovata! Probabilmente non dirò nulla di nuovo, ma il tuo
commento mi ha fatto infinitamente piacere^^, non vedo perché non dirlo. Come
dire, è bellissimo cogliere le varie sfumature dall’angolazione propria del
lettore. “Fumoso, nebbioso, soffocante”: aggettivi che, in effetti, ben
s’addicono al capitolo, con il suo intrecciarsi di punti di vista differenti,
verità che, in effetti – e lo dico io per prima, proprietaria “di fatto” dei pg,
ma forse, per il resto, priva di un controllo effettivo su di loro, sul loro
interagire: come dire, hanno *quasi* una vita propria che puoi limitarti solo a
registrare fedelmente, a intuire dietro il velo, in base a ciò che pian piano
appare –, riflette in sé, idealmente, il progressivo smarrirsi dei personaggi, i
misteri che vengono a galla ma senza svelare verità incontestabili. E sono molto
contenta che abbia colto sfumature che, quasi inconsapevolmente, ho voluto
conferire, in parallelo con il muoversi dei personaggi sulla scena. Poi, certo,
non svelerò ora chi di loro effettivamente, tra Auguste, Fernand e Dorian, ha
visto giusto, chi mente e chi invece s’inganna. E *se* le loro percezioni
saranno confermate dagli eventi oppure no. Mi ha molto colpito il paragone con
la “Zattera della Medusa” (giusto per divagare un po’, con questo tuo paragone
sono tornata indietro con la mente al periodo in cui ho studiato quest’opera e
relativo autore col programma di storia dell’arte della quinta liceo… Che
nostalgia, nonostante siano passati appena due anni da allora!): oscurità che
sembra non lasciare speranza, una luce ingannevole all’orizzonte. Fra parentesi,
adoro quell’opera!^^ Raphäel: un mistero, credo sia il termine che più di ogni
altro può calzargli. Un mistero anche per me, in una certa misura. Ed è strano,
devo ammettere, gestire l’intrecciarsi delle reazioni degli altri personaggi in
sua presenza: quando scrivo di lui, mi è praticamente impossibile tralasciare la
mole d’implicazioni, di perplessità, di reazioni contrastanti che muove intorno
a sé. Fernand, pur non provando stima per lui ed essendo alquanto sospettoso in
merito (ma quel ragazzo è tutto fatto a modo suo, eh: da prendere con le pinze,
in effetti), ne è inconsciamente inquietato; Dorian (che, sì, è propriamente
sull’orlo di una crisi di nervi, e di certo la sua situazione, le sue angosce,
quel vuoto di memoria che gli pesa sulle spalle, sembrano condizionarne non poco
gli sviluppi; fa addirittura male, per certi versi, specie quando adotto il suo
PoV, che spero essere riuscita precedentemente a rendere senza stucchevolezze di
sorta), che da un lato se ne sente un filo soggiogato, dall’altro è spinto ad
osservarlo da prospettive inedite, che non necessariamente finiranno per
sovrapporsi ai tratti che emergono ad una prima occhiata; e anche Auguste, da un
certo momento in poi, sembra riuscire ad andare oltre la figura asettica del
complice senza aggettivi che fino a quel momento era stata per lui la visione
dominante, a vederne il lato propriamente umano, disposto anche a stabilire un
velo d’empatia. Spero davvero di non aver rivelato troppo: il fatto è che quando
m’immergo a parlare di *loro* potrei andare avanti per ore. Mi ha fatto molto
piacere il tuo commento e spero che questo nuovo capitolo non deluda le tue
aspettative (spero soprattutto che la lemon – che poi chiarirò meglio nel
prossimo capitolo, ormai ufficialmente “in cantiere” – risulti ben inserita e
motivata nel contesto!). Un bacio!
Fata:
tesoro, innanzitutto, ben ritrovata su questi lidi! Quando ho letto la tua
recensione, ad essere sincera, sono rimasta inizialmente senza parole: potrei
estendere questo discorso ad ogni commento ricevuto, in privato, in pubblico,
qua o su altri lidi, in cui trapela decisamente come il lettore ha “sentito” le
vicende, i pg, le implicazioni emotive sottese; l’analisi che sta alla base e
che, paradossalmente, permette all’autore di trovare corrispondenze,
significati, angolature nuove tramite il lettore. Vi è una reciprocità, in
effetti; raramente l’interazione è lineare, parlante-ascoltatore. Per farla
breve, mi ha fatto infinitamente piacere, e forse non riesco neppure ad
esprimere effettivamente quanto.^^ Partiamo da Auguste: in effetti, a voler
proprio sintetizzare il tutto, nei casini l’avevamo lasciato, con poche certezze
riguardo alla sua incolumità, e nei casini lo ritroviamo. Devo ammettere
innanzitutto che neppure per me è stato facile gestirlo in questi particolari
frangenti: un po’ perché ha una sua personalità ben spiccata, poverino, ed è
giusto lasciarlo esprimere, dargli carta bianca, nel bene o nel male (se no,
entra in sciopero); un po’ perché, anche quando il quadro si palesa – e neanche
del tutto, a dire il vero – non è facile tradurlo. Fa male, quasi, vederlo
agitarsi in un grigio piombo dalle rare sfumature, con tutta una mole
d’implicazioni inattese che sembra precipitargli sulle spalle, quasi senza
tangerlo più visibilmente, e, da autrice, dar voce a queste sue sfaccettature.
Lucien, Emilie, Fernand: ognuno di loro, in proporzioni differenti, ha o ha
avuto per lui un impatto positivo e negativo, che pian piano sta venendo alla
luce. Forse Lucien l’avrebbe salvato; forse Auguste ha intravisto qualcosa in
Fernand, ma uno scudo sempre presente fra loro, capace di manifestarsi nelle
accezioni più differenti, ha rimesso tutto in gioco, regalandogli un dubbio, un
“freno” non pienamente definibile. Emilie: per quanto, da “matrigna letteraria”,
non condivida alcuni suoi atteggiamenti, mi ritrovo costretta ad ammettere che,
con ogni probabilità, forse le cose non sarebbero potute andare altrimenti: o
magari sì, ma con un contesto di partenza diverso da parte di entrambi, diversa
la cornice, la materia su cui intervenire. In effetti, ben poco fra loro sembra
essere nato sotto i migliori auspici, e di certo si potrebbe citare
eventualmente, come parziale attenuante, senza giustificazioni o consolazioni di
sorta, il fatto che la poveretta si è beccata Auguste nel momento peggiore. Per
la faccenda dei forellini sul collo, in effetti, ci sarebbe tanto da dire, se
ciò non comportasse cominciare a tirar fuori spoiler grandi quanto una casa – e,
considerata la proverbiale logorrea che mi coglie quando si parla di NT, fra le
righe qualcosa potrebbe sempre uscir fuori, mea culpa. Le effettive spiegazioni
in merito, chissà, potrebbero rivelarsi insospettate. O magari rivelarsi neppure
così insospettabilmente fantasiose… Chissà! Per il resto, in una riflessione più
propriamente conclusiva (se no il capitolo che sta qui sopra chissà quando
finirò per pubblicarlo!), posso dire di aver *adorato* ogni sillaba di questa
tua analisi: dalle riflessioni generali sull’impianto della storia – e sono
*loro*, in effetti, i personaggi, a dipanare i fili: a me spetta l’onore di
riannodarli man mano che la storia procede, e spero di rendere il lavoro al
meglio – fino ai singoli personaggi. Come avrò sicuramente avuto modo di dire
tante volte, lo sguardo approfondito del lettore rappresenta certamente un
momento di riflessione, una prospettiva irrinunciabile che non di rado getta
luce su singoli punti, implicazioni, angolature magari rimaste apparentemente
nell’ombra. Ed NT, sicuramente, è anche un prodotto di tutto questo. So che mi
comprendi! Sperando che questo nuovo capitolo – parzialmente scritto sotto
esame, riveduto&corretto in seguito, ma su, son dettagli: ho fatto di
peggio!^^ – sia di tuo gradimento (con annessa lemon^^), do appuntamento alla
prossima. Un bacio!
|
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Capitolo 23 *** Capitolo 23: Smarrirsi ***
Capitolo
23
Smarrirsi
Il
corpo di Fernand fu percorso da un contatto accogliente, caldo sulla pelle;
avvertì il fruscio delle lenzuola candide raggrinzate intorno a lui, l’impronta
tiepida di membra amiche scolpita sulle pieghe del lino, il suo profumo
rassicurante così vivo su di lui. E un letto che non era il
suo.
Tutto,
qualunque accenno intorno a lui gli riportasse alla mente l’immagine del suo Dorian, riviveva nell’impalpabile
sinfonia di colori che i suoi sensi evocavano davanti a lui, non appena le
palpebre stanche proiettavano un sipario rosso vivo sulla sua visuale. Il
serpeggiare d’ambra pallida dei suoi capelli, lo specchio di cobalto e fiducia
incondizionata in fondo alle pupille, la fiducia che Dorian aveva riposto in
lui, e il candore di un sorriso, le labbra come seta nella
penombra.
Dorian
sorrideva. Sorrideva sempre – aveva ormai imparato ad indagare le linee mutevoli
del suo viso, Fernand – un attimo prima che la sua bocca si richiudesse avida su
qualche piega particolarmente sensibile del suo corpo così esposto. Tanto da
fargli rivivere istante dopo istante, ancora caldo sulla pelle, l’oscillare
vertiginoso fra l’agognare e il rifuggire l’ebbrezza, il sollievo, la sferza
temibile e devastante di un orgasmo.
Fernand
si sentì quasi mancare, il ricordo di quelle mani leggere che lo lambivano, che
viaggiavano su di lui come su un bizzarro strumento musicale, un’arpa o un
cembalo; corde sottili da far vibrare in un impalpabile strofinio, tasti su cui
scorrere con amorevole perizia. Arrossì, quando l’impatto di uno strascico
tangibile, non più tassello incerto e solitario supportato unicamente dal suo
pensiero, lo schiaffeggiò nella forma di un’impronta arrossata appena visibile
intorno al capezzolo.
La
sua mente non si capacitava ancora di quali fantomatici artifizi si fosse
servito Dorian per definire ed estendere i contorni di quanto vi fosse al mondo
in grado di regalargli la scossa di un brivido, di produrre in lui un’estasi
capace di scompaginare i suoi impianti emotivi a ogni singolo livello; il suo
respiro, i suoi sensi, la sua razionalità, come sogno e realtà che si
compenetrano.
Non
si capacitava dell’istante in cui, di colpo, la sua cute fosse divenuta tanto
sensibile e ricettiva da rendere l’impulso di un leggero sfioramento
insopportabilmente vivo su di lui, come una scintilla sulla pelle nuda; né di
come una sorta di rilettura ex novo, di prospettiva sconosciuta gli si fosse
spalancata dinnanzi agli occhi, regalandogli le membra meravigliose di Dorian da
congiungere idealmente alle sue, e l’esistenza di anfratti così vivi e
incontaminati della sua coscienza, della sua percettività così lungamente
sollecitata. O forse persino del suo stesso corpo, rifletté; sin dal primo
istante in cui Dorian aveva preso ad esplorarlo, scorrendo con le sue mani e le
sue labbra su di lui: perché mai aveva sfiorato così da vicino il rischio
concreto di perdere i sensi fra le braccia di un amante.
Dorian
aveva riscritto i confini, gli estremi entro cui tendere e lasciar vibrare le
corde più fragili.
Fernand
distolse istintivamente il viso, le palpebre strizzate al ricordo concreto di
quelle labbra sul suo petto, sul suo ventre, strette intorno al suo sesso
palpitante. I suoi ricordi si allungavano in propaggini sfilacciate e confuse
fin dove un vago sentore di consapevolezza – dello spazio che lo circondava, dei
frammenti di tempo che gocciavano su di lui, scanditi dal respiro ansante –
aveva rivestito le sue percezioni, per poi perdersi fra le maglie di un’estasi
dilagante.
Poi,
uno spesso strato di nebbia era calato sui suoi occhi, ogni coordinata
sensoriale sconvolta e ricreata di prepotenza, i lombi avvolti in fiamme, quando
Dorian era affondato in lui in una sottile intrusione in punta di dita,
spingendosi sfrontato là dove nessuno aveva mai osato e ridisegnando sul suo
corpo, come su una tela intatta, una linea immaginaria di straziante
suscettibilità sotto il solo imperio delle sue mani.
Era
Dorian a creare l’alchimia in grado di farlo smarrire, a calcare il percorso
proibito. E a lui non restava che lasciarsi rendere passivamente edotto della
possibilità messa in atto, la razionalità perduta, soffocata nell’intreccio
d’inedite corrispondenze che il suo demone dagli occhi gentili tesseva per
lui.
Fernand
sbatté le palpebre, la mente in subbuglio, le membra scosse da brividi. Sollevò
lo sguardo.
Il
suo demone torreggiava su di lui, un’impronta vagamente sarcastica sul viso
fiero, il sorriso placido e sornione che spiccava sull’incarnato roseo, sulle
labbra delicate tese sulla fila candida dei denti. Lo soppesava in
silenzio.
Fernand
sentì un fremito profondo percorrergli la spina dorsale; fissò quel sorriso
d’intrinseca, fallace innocenza, l’espressione ferma e tranquilla del suo volto,
e per un istante fu sfiorato dalla bramosia irrazionale di sporcare, in qualche
modo, contaminare quelle labbra vellutate: raschiare via quell’impressione di
candore apparente, magari attaccandole di soppiatto con l’irruenza dirompente di
un bacio, fino ad imprimervi quella patina lucida di voluttà manifesta,
l’aspetto di labbra bagnate che hanno amato e giocato fino allo
sfinimento.
Aveva
quasi dovuto lottare, solo pochi istanti prima, per spazzare via
quell’innaturale autocontrollo che aveva reso Dorian, fino ad un certo momento,
concentrato esclusivamente sul piacere dell’altro. Fernand ricordava, come in un
sogno, di essergli quasi piombato addosso, il tremito di un desiderio rabbioso
in punta di dita; di averlo premuto su di sé, accanendosi su di lui fino a
infondergli momentaneamente il suo stesso nebuloso
deliquio.
Dorian
lo studiava con occhi vigili, il volto che non accennava a tradire l’emozione,
neppure sotto il ricamo imprevedibile del suo tocco che lo stimolava
distrattamente. Fernand tentava di stabilire dove stesse la linea continua, la
corrispondenza diretta che correlasse con chiarezza quel viso angelico a quel
corpo che chiedeva attenzione, cavalcioni su di lui, l’erezione prepotente che
strusciava contro la sua.
Fernand
si affrettò a dissipare gli irragionevoli, bellicosi propositi su cui
s’inerpicava la sua mente nell’eludere domande dall’impatto destabilizzante,
quando un movimento fluido da parte di Dorian lo riportò alla realtà,
catturandolo nella centellinata dolcezza di un bacio dall’impronta
rassicurante.
Deglutì,
soprappensiero, un nodo di pressante incertezza che gli stringeva la gola. Vi
era una nota eccentrica in tutto ciò; qualcosa che strideva nel quadro
d’insieme, e che lui non si era posto lo scrupolo
d’indagare.
-
Tutto bene, Fernand? – Dorian sollevò lo sguardo su di lui, le iridi circonfuse
di calore.
Fernand
dischiuse le labbra come a voler formulare una richiesta, ma un velo d’imbarazzo
gli congelò le parole sulla punta della lingua. Distolse il viso, a
disagio.
Era
un’idea assurda.
-
Dorian… – gli prese il volto fra le mani, e la fisica consapevolezza delle
proprie anche strette fra le sue cosce lo fece inarcare istintivamente – Dorian,
io… Ti voglio. In me.
Fernand
distolse il viso. Aveva spezzato, stravolto ogni parvenza d’equilibrio: e certo
Dorian nutriva per lui e per la loro amicizia un rispetto troppo radicato,
troppo intimo e profondo, perché nella sua ottica pensasse, anche solo per un
istante, di approfittare sadicamente della sua debolezza, di quel desiderio
irrazionale e incalzante. Aveva avuto tempo e modo, Dorian, di chiarire le sue
posizioni, e aveva scongiurato, rifuggito la sola eventualità di scardinare le
basi su cui fin da principio si fondava il loro rapporto, la loro reciproca
fiducia. Sarebbe stato come corroderne le fondamenta. E lui aveva preferito
lasciare tutto così. Intatto, sospeso. Deliziosamente a metà.
Ora,
il consenso manifesto da parte sua cambiava tutto: aveva dissolto in un battito
di ciglia le loro elucubrazioni più fantasiose, i discorsi lasciati a metà e
quelli mai pronunciati, la tensione erotica così viva nel contatto casuale delle
mani: tensione che aveva offuscato, imbrigliato i loro orizzonti in qualcosa
parso quanto mai evanescente fino a quel momento; una sorta di calamita, di
molla invisibile che li aveva proiettati idealmente l’uno verso l’altro in un
labirinto di percorsi imprevisti.
E
lui, lui voleva fare l’amore con Dorian. Lo voleva!
Incuneò
lo sguardo su di lui, gli occhi blu dilatati sul volto pallido che tentavano di
cogliere nelle linee della sua espressione qualsiasi sfumatura potesse
suggerirgli la direzione potenziale di ciò che sarebbe stato in seguito. Un
rifiuto, un assenso. Qualcosa.
Dorian
aveva distolto lo sguardo come sorpreso nella tana del lupo, un lampo
d’imbarazzo ad incendiargli le guance, la tensione del dubbio improvviso
nascosta in fondo alle iridi chiare. Poi, senza che Fernand potesse sottrarsi
alla tirannia di mani desiderose di sentire il tepore della sua pelle sotto le
dita, si portò su di lui, le braccia salde intorno al suo corpo, le labbra
pericolosamente vicine.
Fernand
sospirò, l’eccitazione che si miscelava dolorosamente al dilemma, all’angoscia
di una risposta che non arrivava; e più tardava ad arrivare, più la sua mente
paventava complesse teorie direttamente dalla bocca di
Dorian.
Il
suo piccolo demone sembrava aver ripreso fattezze e limiti umani, il volto
combattuto, le labbra mobili, tremanti, indecise fra il silenzio e la
parola.
-
Fernand – la voce oltrepassò a fatica la barriera della labbra dischiuse,
lasciando dietro a sé uno strascico che Fernand sentì come
sofferto.
Come
se quel che stava per dire gli costasse troppo.
Trattenne
il fiato.
Si
sentiva girare la testa, il suo nuovo, provvisorio impianto che cedeva il passo
ad un’oscurità densa e viscosa come inchiostro, quando Dorian riaprì
bocca.
-
Questo, mon ami… Dovresti chiederlo a
chi ami davvero – gli sussurrò.
Fernand
sentì come qualcosa incrinarsi in lui. Boccheggiò, il respiro disturbato dal
contrasto quasi doloroso di quel fremito dilagante che gli contraeva i muscoli;
stordito, attese che la sua mente gli cucisse idealmente sulle labbra le parole,
la formula corretta di una richiesta fattibile di spiegazioni. Perché tutto,
tutto ciò aveva dell’assurdo. Avrebbe voluto gridare, ribaltare sotto di sé in
un colpo di reni quell’enigma vivente dai capelli biondi che lo dominava con la
sua presenza; schiaffeggiarlo, dirgli come osava, come osava insinuargli lui
stesso idee che non gli appartenevano, possibilità ingannevoli cui non aveva
neppure prestato attenzione o che si era sforzato di ignorare, di rilegare in un
angolo della sua mente; o forse, verità cui Dorian era pervenuto prima di lui
stesso.
E
come osava inabissarsi nella sua mente, scrutare nelle pieghe più recondite del
suo animo, svelare l’eventualità che lui voleva negare con tutte le forze e
ricacciare nel dimenticatoio: chiudere gli occhi su ogni implicazione
sfavorevole e precipitare a capofitto in quel limbo dai contorni deliziosamente
sfumati, godendone le sole accezioni rassicuranti.
Voleva
Dorian, senza compromessi, senza mezze parole, senza risvolti dal sapore
aspro.
Lo
vide sorridere quasi stentatamente, una patina malinconica, indecifrabile sulle
palpebre sottili, e sul suo viso vi era una piega d’inesprimibile rimpianto che
in qualche modo lo faceva apparire più vecchio.
Dorian
gli prese il volto fra le dita, sfiorandogli la punta del naso in un gesto
confidenziale, come a volergli estorcere un assenso, hai ragione, è così, dimentica. La
conferma che dalle sue labbra non sarebbe mai uscita.
Fernand
scosse il capo, la fronte madida, le membra che cedevano sotto l’assalto
prolungato di un corpo che smaniava di conoscere, di percorrere spasmodicamente,
fino a forzare le resistenze della sua anima e rubarne il
segreto.
Non
era così. Non è così, Dorian. Ti stai ingannando.
-
No! – sussultò, un sorriso imbarazzato sulle labbra distese – Io... Non è così.
Io… Ti sbagli, Dorian, è così, ti sbagli, devi credermi!
-
Shh… – Dorian discese in punta di dita fino alla fessura delle labbra socchiuse,
categorico, mimando su di lui il gesto che intima il silenzio – Va bene
così.
Fernand
serrò le labbra, soffocando l’impulso di urlare, un guizzo di frustrazione che
correva in parallelo con le ondate di piacere procurate in lui dal contatto,
dallo strofinio ipnotico e continuo di quella pelle dalla consistenza serica
sulla sua.
Smarrito,
si aggrappò istintivamente a Dorian, le dita che tremavano sotto l’assalto di
una brama ferina. Le mani strette intorno alla vita del compagno, scorse lungo
la linea squadrata della schiena, la pastosità della muscolatura apprezzabile
sotto le dita, per poi ridiscendere a descrivere nell’arco di una carezza la
compatta rotondità dei glutei. Sospirò: per un istante fu tentato di imitare
l’impeto giocoso e impunito che il bel Dorian aveva usato nei suoi riguardi,
indugiare con noncuranza lungo la fessura morbida delle natiche, spingersi
dov’era più vulnerabile. E magari, abbandonarlo sadicamente a sé, nella sua
selva di brividi e singulti di piacere, dopo averlo ingannevolmente trainato
verso il punto di non ritorno, barcamenandosi in bilico fra sensi ed emozione e
colpendo a tradimento quel bottone in grado di scatenare in lui la scossa di un
piacere alienante, torrido, repentino.
Dorian
avrebbe perso il controllo, avrebbe abbandonato la sua presa su di lui, avrebbe
smesso di giocare con le sue residue certezze, scivolando nella sua stessa rete:
era un’idea che non gli dispiaceva.
Perché
inserire ora in un’ottica razionale le parole di Dorian avrebbe significato
accettare l’eventualità di un ipotetico fraintendimento che forse aveva tratto
in inganno entrambi, foderato i loro occhi e le loro percezioni di evanescenti
promesse. E piangere per quel sentimento dal reciproco valore che si era
soltanto limitato a sfiorare il risvolto tangibile. Dorian gli aveva instillato
a piccole dosi il dubbio martellante e crudele di un’ipotesi verosimile ma non
realizzata.
Serrò
le palpebre, il movimento fluido dei fianchi di Dorian mentre s’inarcava su di
lui, i sensi ottenebrati da un irreale turbinio: avvertì il movimento convulso
di Dorian che puntava le ginocchia, avanzava su di lui col bacino, il frusciare
ipnotico delle lenzuola sotto di lui.
Fernand
arretrò d’istinto, le palpebre serrate, una frustata delirante, piacere
inquinato da angosce residue: avrebbe fermato Dorian, in un altro momento,
l’avrebbe esortato a parlare e avrebbe respinto ogni arcana congettura. Il
guizzare persistente di una dolorosa frustrazione, la rabbiosa urgenza di
smentire astruse, forvianti riletture da parte del suo amico – perché doveva, doveva essere così! – si
diradò in lui come un nastro di nebbia al mattino, il pensiero che si sfaldava
sotto le sferzate ripetute di un liquido estraniamento, la ragione che allentava
la presa, quando, stretto nella tela, percepì soltanto le movenze di Dorian che
cercava la giusta angolazione su di lui, le gambe che cedevano, le carni che si
aprivano ad accoglierlo; poi, il contatto bruciante, una scossa lancinante lungo
la schiena che lo investì fino alle estremità. Gridò.
Dorian
non sorrideva più. Fernand indugiò con occhi tremanti su quel viso raffinato,
deliziosamente contratto sotto l’infuriare imperioso di fitte più intense e
serrate di quanto lui stesso avesse previsto. O forse gli aveva fatto
inavvertitamente male, ma la stessa rappresentazione mentale, l’idea stessa, da
parte di Dorian, di sentirlo e trattenerlo dentro di sé, aveva scombussolato e
ridefinito le sue percezioni.
Era
bello, etereo, solenne, composto, le membra tese mentre lo lasciava scivolare in
lui, le gote arrossate, gli occhi luccicanti sotto le palpebre socchiuse, la
fronte imperlata di un madore sottile nel chiaroscuro delle tende tirate, nel
riverbero tremolante di un pomeriggio dal chiarore rovente che avevano rilegato
al di là delle imposte chiuse, fuori del loro piccolo
cielo.
Dorian
era crollato, vittima quanto lui di un’estasi che soffocava la sua volontà,
spezzava le redini del suo controllo su ogni dinamica, condizionava e
sconvolgeva le sue impalcature. Aveva smarrito il suo controllo, la mente in
deliquio, i muscoli contratti nel convogliare il suo desiderio destabilizzante
in direzioni di più agevole calibratura.
Fernand
agitò impercettibilmente il bacino verso di lui, cercando l’intesa, l’intreccio
ideale, la reciprocità. Rise, quando lo vide cedere, trafitto, teso in uno
spasimo incandescente.
* *
*
Il
bicchiere vuoto oscillava tra le dita malferme di Auguste, il chiarore
traballante di vecchie lucerne si rifrangeva attraverso la superficie irregolare
del vetro in caleidoscopici frammenti davanti a lui. Strizzò le palpebre,
cercando di snebbiare la sua visuale oltre i bagliori ondeggianti che gli
bruciavano in fondo alle iridi, disturbato dalla cortina di capelli scuri che
gli schermava il viso, la superficie ruvida del tavolo a contatto della guancia.
Non aveva la forza di ritirarsi su.
Trasalì,
il respiro mozzato a metà da un conato improvviso, una stilettata decisa al
diaframma che si stemperò tuttavia in un ansito soffocato, quando avvertì la
mano dello sguattero sfilargli timidamente il bicchiere dalla debole presa della
mano. Tossì.
-
Cercavo… te – mormorò con voce roca, lievemente strascicata, senza sollevare la
testa né lo sguardo dal piano del tavolo – Un altro, per
favore.
-
Eh? – il ragazzo si osservò tutt’intorno, confuso, alla ricerca dell’ombra di un
assenso da parte dell’oste dietro il banco: se assecondare le richieste degli
ultimi avventori della serata oppure, a risposta negativa, cosa fare
dell’ubriacone che pareva aver messo radici in quell’angolo silenzioso e
appartato sin dal tardo pomeriggio, deciso, con ogni probabilità, a prosciugare
entro sera le loro riserve di vino.
Auguste
sorrise al pensiero.
-
Di certo, non ti ho chiesto l’acquasantiera, ragazzo – sollevò lo sguardo sul
giovane, cogliendone sommariamente i tratti in un alone vorticante e sfocato –
Altro vino, no? E… già che ci sei, potresti pure riferire al tuo padrone - da
parte mia, è chiaro - di evitare di sfruttare ragazzini nella sua lurida
bettola. Potrebbero incappare in qualche brutto incontro…
Girò
lo sguardo per la stanza semivuota.
La
presenza di prostitute agghindate e ceffi poco raccomandabili sembrava essere
ben tollerata dal locandiere, al fronte della possibilità di un maggior profitto
che affondava le sue radici in un agile destreggiarsi con le altrui
debolezze.
-
Ho… sei fratelli, io, monsieur. I Lambert sono stati generosi – azzardò
timidamente il giovane, rosso in viso.
Lo
sguardo di Auguste aleggiò diffidente sulla figura rubizza e corpulenta che
continuava a mescere da bere. Strinse le palpebre, scuro in
volto.
-
Che faccia da porco! Non ci vuole molto a capire che… – mormorò fra sé, la voce
ridotta ad un soffio indignato – Attento a te, ragazzo!
Soprappensiero,
sfiorò con lo sguardo la figuretta scattante intenta a profondersi in un breve
inchino, caracollare spedita verso l’oste e di lì sparire nel labirinto di
tavoli e panche sbeccati e polverosi.
Gli
ricordava vagamente Fernand, ma non aveva i suoi colori decisi – pelle bianca e
iridi di profondo cobalto come una pennellata fredda – né i suoi lineamenti
cesellati. E lui stava diventando pazzo.
Socchiuse
gli occhi, crollando nuovamente sul piano dinnanzi a sé, i capelli in faccia, la
visuale offuscata sotto l’avanzare di un violento
capogiro.
Il
suo Lucien sottoterra; Emilie, indispettita al punto tale da infliggergli, senza
alcun riguardo per il funerale, il luogo, il morto, per quella giornata, per suo
dolore lancinante, lo sgarbo e l’umiliazione di presentarsi davanti a lui al
braccio del suo nuovo amante dalla faccia lattiginosa e dallo slavato, giovanile
vigore. L’aveva ferito. E il patetico incontro con Dorian, il suo incubo
personale, lo strazio di dover tacere, fuggire i suoi sguardi, negare, ancora e
ancora e ancora. Dorian, che lo considerava un ipocrita e che di certo, fosse
dipeso da lui, in quelle ultime ventiquattro ore avrebbe trovato cento e mille
pretesti per strangolato, per la sola colpa di esistere e di
tacere.
E
Fernand, infine. Quel cucciolo dagli occhi affilati e dai gesti impetuosi che,
gentilmente, aveva declinato ogni offerta di coinvolgimento da parte sua,
estromettendolo cordialmente dai suoi immediati orizzonti, quasi a trattare con
un vecchio, collerico genitore che cerca di arginare la tua libertà, di
ghermirti con i suoi tentacoli, confonderti la mente e portarti sui suoi
propositi con raffinati e alienanti giri di parole. Era stato un abbaglio. Un
rovinoso abbaglio.
Avrebbe
preferito scomparire, piuttosto che trovarsi ridotto ancora una volta a
polverosa, irrilevante tappezzeria, impotente ed inutile dinnanzi agli
interpreti che popolavano il suo mondo, il cuore gonfio di pena e le labbra
serrate in un grido senza voce. Ingollò d’un fiato il vino che gli era appena
stato porto. Forse avrebbe potuto contare su Ambrosie, unico, potenziale
supporto, e guadagnare se non altro la fiducia e l’appoggio dei due Laroche, ma
non aveva idea, non da dove cominciare, non se tutto questo fosse davvero
importante.
Ma
ciò che faceva più male, più di tutto il resto, era il riscontro, nudo e privo
di attenuanti, di ogni singolo anello che egli fosse riuscito a identificare
quale fonte d’angoscia immediata. No, non era abbastanza, non ancora; men che
mai poteva rappresentare un senso pienamente compiuto, perché era il minimo, era
l’abito nero del lutto, la facciata immediatamente riscontrabile, la prima,
sfavorevole impressione, l’infinitesima parte del suo
inferno.
E
lui doveva dimenticare, dimenticare
per non impazzire; smettere di risollevarsi invano per poi precipitare di nuovo,
in capo a pochi istanti, di cercare ingannevoli appigli là dove non trovava
altro che ulteriori inganni: prendere coraggio e lasciarsi scivolare oltre il
liscio dirupo dell’incoscienza. Almeno una manciata d’ore dai contorni scuri,
quella notte soltanto. Costrinse nuovamente la sua visuale sotto palpebre di
piombo.
Un
sensibile formicolio nella testa, un mormorio debole ed insistente di sottofondo
pervase le sue facoltà uditive.
Inavvertitamente,
aguzzò i sensi.
-
Sei sicura, Louise, di non conoscerlo?
-
No, non mi sembra una faccia familiare.
-
Ti dico di sì: l’avrai visto quasi di certo in compagnia di Monsieur Desgrais e
di… oh, loro, i soliti, insomma. Magari, proprio in cerca di un posto sicuro
dove la gente si faccia gli affari propri.
-
Intendi… Monsieur de la Garde? Santo cielo, non può essere: non
può essersi combinato così!
-
Invece è proprio lui, è Auguste de la Garde: insisto. Cosa può essergli
capitato, poveretto, da essere ridotto in questo
stato?
-
Monsieur Auguste, mi sentite?
Auguste
si sentì scuotere per le spalle da mani sconosciute. Avvertì qualcuno scostargli
dal volto i capelli arruffati, la sagoma confusa di una figura sgargiante
imporsi dinnanzi a lui, e le voci, il mormorio, le sue percezioni sempre più
distanti, ovattate, scoordinate al punto d’arrivo.
Poi
si abbatté al suolo.
-
In fede mia, da tempo non ricordavo nella mia locanda una sbronza simile… Di
solito, preferiscono prendere una stanza o altrimenti imboscarsi fuori di qui,
per le loro porcherie!
Una
voce dalla carica rabbiosa lo sovrastò di prepotenza, percosse i suoi sensi
offuscati, senza tuttavia sfiorarlo con il suo ruvido
impatto.
-
Monsieur Lambert, siate generoso: accettate la differenza per una stanza! Solo
una notte.
-
Scordatevelo! Non affitto stanze a una prostituta, a nessuna cifra. È troppo,
davvero troppo quello che mi state chiedendo, Mademoiselle Ginette: non
m’importa che voi siate puntualmente qua ogni sera a adescare clienti: su
questo, come vedete, lascio correre come nei patti. Ma se qualche imparruccato
venisse stanotte a ficcare il naso nei miei affari, beh, non ci metterebbe molto
a farsi due o tre conti e, di qui, accusarmi su due piedi di tenere abusivamente
luoghi di malaffare non autorizzati o concedere addirittura le mie stanze. Ed
io, sia chiaro, non ho alcuna intenzione di andare in galera o mandare in malora
la mia unica fonte di guadagno a causa di uno sciagurato che non sa neppure
quanto vino è in grado di mandar giù. È… fuori
discussione!
-
Oh, ma non c’è granché da preoccuparsi –
una punta aspra, sarcasmo dal profumo di beffarda indecenza – C’è sempre il commissario vostro
cugino[1], che certo non manca di apprezzare i particolari servigi
che solo quelle come noi sanno offrirgli al meglio. Quando si reca qua in
visita, è raro se ne torni nel suo ovile senza una delle sue puttane
preferite.
-
Questo non significa nulla, e niente mi autorizza a concedere trattamenti di
favore. Sia chiaro: voglio il vostro amico ed i suoi quattro stracci fuori di
qui entro un’ora e, in ogni caso, prima che scatti il coprifuoco. Per il resto,
arrangiatevi!
Auguste
faticò a districare dinnanzi a sé le linee di una visuale confusa, a rimettere a
posto la coerenza delle figure. Era la squallida locanda dei Lambert, il
soffitto basso e scrostato sopra di lui, che ogni volta gli dava l’impressione
di schiacciarlo al suolo. Deglutì a fatica, tentando d’ingannare il senso di
nausea che gli stringeva lo stomaco; sussultò, quando avvertì la timida carezza
di qualcosa di umido e freddo – che sospettò essere uno straccio sporco – sulle
tempie doloranti.
Un
senso improvviso di disagio, di torpore alla schiena riportò la sua attenzione
sulla superficie rigida del tavolo sopra il quale doveva essere stato adagiato
senza troppe cerimonie. Fece per rimettersi in piedi, più per liberarsi da una
posizione scomoda che per altri motivi, ma la sua impresa fallì miseramente
sotto l’assalto di un repentino capogiro che lo spedì dritto fra le braccia
della giovane prostituta dai capelli scuri.
-
Monsieur de la
Garde…
-
Monsieur. Monsieur…! – una risata gracchiante guidò lo sguardo di Auguste
sull’uomo trasandato che lo fissava con occhi porcini dall’espressione
sprezzante e sospettosa – Se per voi, Mademoiselle Louise, questo qua è un signore, beh, per me non è che un
disgraziato che è stato sbattuto fuori di casa dalla moglie, magari non ha
neppure con sé i soldi per pagare, e certo non merita miglior considerazione di
un topo di fogna – infierì.
-
La vostra facciata di finto perbenismo, in un luogo schifoso come la vostra
locanda, è al dir poco rivoltante! – lo rimbeccò la ragazza,
piccata.
-
Ragazzo, stai meglio, adesso? Ce la fai a uscire di qui con le tue
gambe?
Auguste
si sentì tirare su di prepotenza e toccare la faccia da mani rozze. Volse il
capo, d’istinto.
-
Monsieur Lambert, ha bisogno di stendersi, deve riposare – di nuovo la voce
della ragazza che non era ancora riuscito a vedere in volto – È… una brava
persona, vi prometto che non avrete guai con lui.
-
Fosse pure il capo delle Guardie o il duca du Lac in persona – ribadì Lambert,
sprezzante – dovrà ritenersi fortunato che mi fidi sulla sua parola, sul fatto
che verrà a saldare di persona non appena si sarà ripreso. E voi garantirete per
lui. Nel frattempo, preferisco che se ne vada a ubriacarsi, a vomitare e a
contrattare con le puttane dove preferisce, ma se non altro fuori di
qui.
-
Temete che un gendarme di passaggio butti uno sguardo troppo da vicino sui
vostri… “affari”, Monsieur Lambert? E che, prima o poi, non basti più vostro
cugino a coprire i vostri impicci? – lo affrontò la donna con
petulanza.
-
Fuori. Di. Qui!
Auguste
abbandonò momentaneamente la presa sulla ragazza, sorreggendosi in precario
equilibrio al pilastro portante, troppo stanco per assimilare e razionalizzare
gli insulti che gli erano stati affibbiati da quell’uomo untuoso ed
opportunista. Tutto scivolava sulla pelle come olio.
Strinse
le palpebre, cercando di diradare le luminescenze sfocate che disturbavano la
sua visuale. Doveva essersi leggermente ripreso. Appena più
lucido.
-
Lambert. O come diavolo vi chiamate – gli intimò con voce asciutta, appena
trascinata, un barlume di gelida razionalità, fra le mani un piccolo sacco con
poche monete – Lambert, dico bene: come quel voltabandiera di vostro cugino.
Tenetevi stretto quanto vi dovevo, controllate se c’è tutto, e a mai più
rivederci!
Barcollando
in precario affidamento sul senso di equilibrio che gli trasmetteva il contatto
delle dita sulle pareti, si affrettò a guadagnare sdegnosamente l’uscita sul
viottolo antistante la locanda, il cielo che imbruniva sopra di
lui.
-
Monsieur de la
Garde, aspettate! – la prostituta con i capelli rossi, ansante
sul limitare della porta, catalizzò nuovamente la sua attenzione trattenendolo
per la manica – Io… Permettetemi di accompagnarvi!
Auguste
si strinse nelle spalle, lasciandosi andare sotto un viscido ammasso d’amarezza,
schiena contro il muro, disorientato, prostrato come da una lunga apnea che non
gli avesse lasciato in corpo forze sufficienti a ricominciare a respirare, una
volta fuori dell’acqua; soltanto la sterile, inespressa, vitale necessità d’aria
pulita, smania impotente.
Si
era lasciato alle spalle il funerale e la famiglia di Lucien in tutta fretta.
Aveva vagato qua e là senza un’idea precisa su dove portare i propri passi – non
a casa, perché non aveva nessuna intenzione di affrontare Emilie, d’incontrare
il suo sguardo, un altro pugnale conficcato nel fianco.
Non
ricordava di preciso come poi fosse finito nella fatiscente locanda dei Lambert,
a contemplare con rassegnato distacco la propria cieca apatia, la propria
polverosa miseria. Aveva smarrito ogni impianto razionale che potesse far da
tramite ideale fra l’azione impulsiva e il ragionamento in atto e mantenere un
raccordo sottile tra follia e consapevolezza. E lui, quelle redini non le aveva
ancora riprese in mano: vi aveva preferito il buio, la negazione della propria
volontà.
-
Dove vorreste accompagnarmi, mesdemoiselles? – biascicò, senza staccare lo
sguardo dal cielo livido del tardo crepuscolo – A casa, forse? Non sarebbe una
cattiva idea, se io lo avessi ancora, un posto dove
andare.
-
Oh, non dite sciocchezze! – la seconda delle due ragazze, i capelli scuri
portati sfacciatamente sciolti sotto un voluminoso cappello, era comparsa al suo
fianco senza neppure concedergli una manciata di secondi per razionalizzare
l’assalto su doppio fronte – La vostra donna. Starà attendendo il vostro
ritorno. A meno che per stasera non preferiate… – gli insinuò con occhi
cospiratori.
-
Non sono sposato, non c’è alcun problema – la precedette con voce
gelida.
-
Oh!
Auguste
vide le due donne scambiarsi uno sguardo sinistramente complice e confabulare
ridacchiando al suo indirizzo.
-
Ecco, non era poi così difficile dedurre che persino la signora Emilie, dall’alto delle sue
pretese da matrona schizzinosa, non fosse poi così diversa da noi che non siamo
delle signore.
-
È… perché non siamo sposati? Tutto qui? – Auguste sentì un impercettibile
impulso di collera risalire serpeggiando sulle gote accaldate – Questa è davvero
una stronzata, perdonatemi: la signora Emilie è adulta e responsabile
di se stessa, non ha genitori o mariti o fratelli a cui render conto, e non è
colpa sua se io non ho alcuna intenzione di sposarla.
-
Beh, ad ogni modo, non potete restare qui in eterno – convenne la ragazza dai
capelli rossi, una breve occhiata d’assenso in direzione della compagna – Avete
bevuto troppo; se non ve la sentite di rientrare in questo stato, per stanotte
potremmo ospitarvi noi.
-
Voi? – Auguste sentì le gambe cedere per un istante, frastornato dinnanzi alla
proposta dalla logica stringente da parte della ragazza.
Henriette,
Georgette… Ginette. Doveva chiamarsi Ginette, Ginette o qualcosa di
simile.
Chinò
il capo: non aveva scelta.
La
sua lucidità veniva meno, abbandonandolo e riaccendendosi a tratti, barlumi
sempre più sporadici ad attraversargli la mente, a dominare la sua volontà con
mani sempre più deboli.
Una
casa di malaffare?
Auguste
strizzò le palpebre, sorretto dalle due donne in una provvidenziale stretta che
– Auguste ormai non contava più le singole occasioni – gli aveva più volte
evitato di ritrovarsi a baciare forzatamente il duro lastricato. Barcollava
ormai vistosamente, quando giunsero a destinazione, alle loro spalle un reticolo
serpeggiante di viuzze di terra battuta che Auguste dubitava sarebbe stato in
grado, in quel momento, di ripercorrere a ritroso seguendone l’identico
percorso.
Un
chiarore slavato di vecchie lucerne pervadeva l’ambiente chiuso che gli si
palesò dinnanzi agli occhi quasi di prepotenza, un alienante tripudio di colori
chiassosi, di scarno mobilio infiorettato con gusto dozzinale, di profumi che
sapevano di polveroso, di stantio. E a lui girava la
testa.
Dovrai
accontentarti, per stanotte, Auguste, ed è inutile che storci il naso, perché
non sei il migliore, e non è facile stabilire se farà prima lo sporco di questo
luogo a contaminare i tuoi abiti puliti, o se saranno piuttosto il tuo veleno e
la tua tristezza a invaderne ed offuscarne i colori, come una densa patina scura
sulle pareti.
-
N-non capisco… – mormorò, la voce impastata – Com’è che siete finite…
Qui?
-
Oh, non è difficile immaginare, cheri
– gli sussurrò Louise con discrezione, lo sguardo circospetto – Ricordate una
certa compagnia di attori girovaghi? Ci esibivamo alle feste rionali o nei
giorni di mercato. Beh, la compagnia ha fallito, e attualmente, per vivere
contiamo solo su quella che è la nostra “seconda
attività”.
Auguste
annuì distrattamente; chiuse gli occhi, cercando di eludere le fitte che gli
martellavano nelle tempie con crescente vigore. Vacillò.
-
Si mette male! – un lamentio ovattato e confuso in fondo alla sua testa, le due
donne che si affrettavano a stringere la presa sulle sue spalle – Ancora qualche
passo, da questa parte, e poi potrete riposare fino a domani mattina, ce la
fate?
Non
ancora. Non ancora.
-
Non è stata un’impresa facile, trascinarvi sin qui.
Auguste
si ravviò i capelli in un gesto indolente. Esausto, nella nebbia che ottundeva i
sensi e quell’unica stilla di razionalità, cercava d’inquadrare il motivo per
cui quelle due ragazze che gli avevano prestato aiuto sostassero imperterrite
sul limitare della porta, gli occhi fissi su di lui, senza accennare ad un
saluto.
Sospirò,
in attesa che le due togliessero il disturbo: voleva liberare le proprie membra
distrutte da quegli abiti ormai spiegazzati e polverosi, sprofondare nell’etere
del sonno e dimenticare tutto fino al mattino seguente.
Abbozzò
un breve cenno con il capo, a metà strada fra un cortese inchino di commiato ed
un saluto sbrigativo, ma il lieve sbilanciamento in avanti fu il colpo di grazia
che, in capo a qualche minuto o qualche secondo – non riusciva a stabilire
quanti sottomultipli di tempo avessero percosso l’aria intorno a lui in quel
singolo istante, e tutto era ovattato e tremolante, in bilico – lo proiettò in
avanti in un accesso di vertigini, sorretto al volo e quasi per
miracolo.
-
Va tutto bene, io…
-
Non ce la fate proprio – due paia d’occhi lo inchiodarono al suolo con fare
interrogativo, meditabondo – Voi avete bisogno di qualcuno che vi aiuti, che si
prenda cura di voi – sentenziò una voce studiatamente
calma.
-
Non sarà necessario – tentò di precederle Auguste – Il… letto non è che a pochi
passi. Ce la posso fare. Io… vi ringrazio di tutto e…
-
Il letto, già. Hai detto bene – un sorriso speculare piegò deliziosamente due
paia di labbra dipinte, enigmatiche bambole di porcellana dallo sguardo languido
e sfuggente.
Auguste
deglutì a fatica.
Erano
passate di colpo dal “voi” al “tu”.
E
lo spintonavano dolcemente verso il suo giaciglio.
-
Siediti, Auguste! È ora di mettersi un po’ in libertà.
-
In… libertà? – Auguste reclinò istintivamente il capo all’indietro, quando due
mani pallide s’infilarono sfacciate fra i suoi capelli, sfilandogli il nastro
che gli riteneva il codino, per poi passare con giocosità impunita a godere del
contatto con la sua cute sensibile, e di lì riservare alla sua cravatta lo
stesso trattamento del nastro.
- I
tuoi vestiti – considerò con espressione sorniona la prostituta dai capelli
rossi – Ora ce li giochiamo! Potresti star scomodo, soffrire il caldo durante la
notte… Con questo rischieresti di strozzarti nel sonno!
Accennò
maliziosamente al davantino della camicia, per poi allungare di soppiatto la
mano su di lui, strapparne un lembo fino a scioglierne l’intreccio e scoprire
una stretta porzione di torace.
-
Non esagerate, Ginette!
Auguste
si sentì afferrare delicatamente per le spalle e sospingere lungo disteso sul
comodo giaciglio, i polsi presto bloccati sopra il capo, tenuti uniti dal nastro
che gli era stato sottratto. Provò a divincolarsi debolmente, ma era troppo
ubriaco per coordinare membra e cervello in una reazione concreta, e il torpore
che pervadeva la sua mente e i suoi sensi era troppo pesante, troppo radicato ad
ogni singolo fascio di nervi, per lasciargli intatte le facoltà necessarie a
stabilire cosa fosse giusto fare, quando decidere di fermarsi, e com’era che si
articolava la parola “basta”, quando il momento esatto per desistere, la
circostanza in cui abbozzare un fiacco disappunto.
Serrò
le palpebre. Non sapeva neppure quanto tempo fosse trascorso, perché la sua
visuale assumeva un’impronta via via più dilatata, troppo molle e ineffabile per
impiantarvi punti di riferimento tangibili.
Giaceva
su quel letto intatto, i polsi languidamente legati, il capo reclinato
all’indietro a suggere baci, assaporando soltanto lo sfregare di labbra umide e
il lento fruscio degli indumenti che gli venivano sfilati, senza che nessuno, in
quella stanza, si preoccupasse del suo completo consenso.
-
La camicia, Louise! Sarà il caso di liberargli le
braccia?
-
Soltanto un attimo; in ogni caso, è talmente ubriaco che, anche se lo volesse,
non potrebbe opporre alcuna resistenza…!
I
suoi abiti si accumulavano a terra, composti ai piedi del letto come pezzi della
sua dignità, della sua consapevolezza di sé, del suo essere razionale; l’uno
dopo l’altro, in ordine, con zelo, giacca cravatta camicia scarpe calzoni. E
poi, poi restava lui con la sua debolezza, le sue
fragilità.
- È
andato, oh, è andato! – le due sembravano invasate.
E
ridevano, pregustando il momento successivo.
Auguste
sentì il velo scuro dell’oblio, un’estasi vorace calare su di lui con dita
prepotenti, invischiando ogni sensazione, ed una fitta acuta e dilagante
propagarsi rapidamente in lui, risalire le estremità fino ad esplodere in un’eco
languida nel petto, nella forma acuta e inequivocabile di piacere fisico.
Un
paio di labbra ostinate indugiavano capricciose sulla sua bocca riarsa,
discendevano esitanti lungo la linea del collo, per poi attaccare con bramosia
la pelle nuda del torace; e un altro paio di labbra, più in basso, avevano
trovato il loro momentaneo trastullo, strette con impeto possessivo sulla sua
erezione.
Auguste
si morse le labbra, la mente prigioniera di un’attesa liquida e dilagante che
pareva aver smarrito in se stessa le lenti attraverso cui osservare
coerentemente la realtà dall’altra parte del suo caleidoscopio e recepire la
portata effettiva degli eventi.
Non
era male il pensiero che non avrebbe ricordato nulla, risvegliandosi al mattino
tra quelle lenzuola che evocavano dinnanzi a lui la polvere dei secoli, il
profumo nauseabondo di cipria stantia e un beffardo, ingannevole sentore di
tenebra.
* *
*
Fernand
si avvolse torpidamente le lenzuola intorno alle spalle, una lama di luce che,
filtrando dallo spiraglio tra le imposte accostate, gli tremolava distrattamente
sul volto, stuzzicando le palpebre socchiuse, e una sorta di peso tiepido sul
petto. Sospirò. Al suo fianco, Dorian che di tanto in tanto lo stringeva
blandamente a sé, il suo respiro su di lui.
Assottigliò
le palpebre nella penombra, combattuto tra quel filo di luce della strada che
gli impicciava la vista, e l’oscurità vischiosa della stanza, cui le pupille
stentavano a adattarsi. Fu un improvviso battito d’ali al di là delle imposte
socchiuse a ridestare i suoi sensi, come un pipistrello che annaspa a vuoto;
poi, un dolce alito di vento sulla pelle, la freschezza del crepuscolo a
rinfrancargli le membra accaldate. O forse era quasi l’alba. Rabbrividì appena,
confuso, tentando di cambiare posizione con l’accortezza di non ridestare Dorian
a causa di uno scossone improvviso, le palpebre pesanti che minacciavano di
richiudersi e proiettarlo di nuovo nella nebbia del sonno.
Dorian
ansimò appena, il respiro palpitante contro la sua spalla, il volto disteso nel
dormiveglia. D’istinto, allungò le dita su di lui, scorrendo sulla superficie
serica del torace fino a tastargli dolcemente un capezzolo sotto il
palmo.
Fernand
sorrise: era la sua nuova, momentanea, personale monomania. La sua pelle, il suo
profumo a pervadergli ogni facoltà sensibile, a guidare le sue mani fra i
meandri dell’inconsapevolezza di un sonno leggero e gravido di parole taciute,
di sensazioni dai confini sfilacciati e dall’incerta collocazione, il corpo
stanco languidamente adagiato accanto a lui, spalla contro spalla, le dita che
indugiavano possessive sulla cute delicata. Fernand seguì distrattamente con lo
sguardo i contorni appena soffusi nella semioscurità, l’ombra delle ciglia che
sporgeva sulle guance, la linea del naso leggermente appuntita. Diverso, ancora
diverso dal folletto dalla dispettosa, irruente sensualità che si era lasciato
andare su di lui, che l’aveva lasciato libero di indugiare curioso e insistente
sulla sua pelle, chissà se questo farà
impazzire anche te, Dorian, o se preferisci essere accarezzato in quest’altro
punto, mentre ti muovi su di me.
-
Fernand… – Dorian sussultò appena, sfiorato dal suo flebile abbraccio come da
una coltre evanescente.
Fernand
considerò per un istante quanto la voce del suo amico suonasse ancora più bella,
più profonda, leggermente arrochita dal sonno. Assorto, ritorse una lunga ciocca
bionda fra le dita.
-
Dorian, sei sveglio?
Il
ragazzo annuì in silenzio, le membra ancora intorpidite, agganciandosi ancor più
strettamente a lui, una mano sul suo fianco.
-
Bene – Fernand deglutì, a disagio, lasciando alla propria mente il tempo
necessario a plasmare il dubbio che gli rimordeva nella testa – Ora, però,
dovresti ascoltarmi – sentenziò.
-
Fernaand…! – Dorian si agitò sommessamente nella penombra, un sospiro lamentoso
appena impercettibile – Qualunque cosa, ma ora, ti supplico, non rovinare questo
momento! Ti prego.
Fernand
sbuffò, le braccia incrociate sul petto, liberandosi di una ciocca arruffata che
gli era ricaduta sul volto e gli solleticava le labbra.
Ecco
cosa intendo, Dorian, quando dico che sei e-sa-spe-ran-te.
-
Vorrei parlar chiaro, se possibile – esordì, sforzandosi di mantenere un neutro
distacco.
Ancora
per poco.
-
Ma io avevo già capito.
-
No, non hai capito.
Fernand
fremette alla ricerca di qualcosa, un preambolo, una versione edulcorata con cui
tamponare quel breve, imbarazzante lasso di silenzio.
-
D’accordo – si risolse – Io non… capisco il tuo rifiuto,
ecco.
-
Infatti, ho pensato bene di spiegartene il motivo… in anteprima – lo corresse
Dorian.
-
Dorian, caro – il viso di Fernand si modellò in un sorrisetto spazientito – A
questo punto avrei preferito che come scusa mi dicessi… Ma non lo so! Che morivi
dalla voglia di sentirmi dentro di te? – lo stuzzicò, una punta di tagliente
sarcasmo a contrargli i lineamenti.
Dorian
rise.
-
Potrebbe essere vero – gli concesse, lo sguardo vagamente torbido, attraversato
dal semplice ricordo – Ma sai che non è neppure questo, il
nocciolo.
-
Grazie, l’avevo capito da solo – lo fulminò Fernand,
gelido.
- E
allora, dov’è il problema, mon
ami?
-
Va’ al diavolo! Il problema è che ci sono restato male, ecco. Va bene, ora? E…
Accidenti, riesci a turbarmi ogni volta che apri bocca per espormi un dubbio. Mi
cuci addosso… cose a cui non avrei mai neppure pensato, se non fossi arrivato tu
a mettermi il tarlo nella testa.
-
Fantastico, Fernand! – Dorian si sollevò sui gomiti, il volto così vicino da
sfiorarlo – Ascolta un po’: l’ho capito io guardandoti in faccia, che vi era, in
effetti, qualche stonatura di troppo, e non l’hai capito tu. Ma no, non ancora;
tu devi negare, ignorare la realtà.
-
Quale realtà, Dorian? – Fernand sbatté le palpebre,
disorientato.
-
Che non avrei dovuto essere io, il primo. Non sarebbe stato
corretto.
-
Dove sta scritto?
-
Questo dovresti saperlo tu, mon ami.
Sta nella tua testolina.
-
Non chiamarmi mon ami! – gli ringhiò
Fernand, facendogli grottescamente il verso.
-
Perché mai? – Dorian gli prese il viso tra le mani, un sorriso ironicamente
benevolo, la voce fastidiosamente calma, gentile – Non sei più il mio miglior
amico?
Fernand
sorrise, gli occhi pericolosamente assottigliati. Gli schioccò un bacio sulle
labbra, veloce, a tradimento.
-
Io sì, lo sono, il tuo miglior amico; tu, un inenarrabile imbecille! – gli
soffiò.
-
Oh, meno male! – Dorian levò gli occhi al cielo in un gesto teatrale – Mi stavo
preoccupando. Sì, sei tu, Fernand. E se davvero si tratta di te, dovevo
aspettarmelo da un momento all’altro, un immancabile elogio. Beh, in tutta
sincerità, mi aspettavo che l’effetto durasse più a lungo. Qualcosa tipo “sei
bello” sarebbe stato meglio.
-
Ma non sarebbe stato originale.
Fernand
si tirò su a sedere, sfinito, lo sguardo che vagava rapito su Dorian, la figura
aggraziata che spuntava nell’intrico delle lenzuola sfatte, la sottile peluria
bionda sul torace che riluceva nel chiarore sommesso della stanza; e quegli
occhi pensosi, distratti, le sopracciglia scolpite a rimarcare i lineamenti
affilati, quasi aguzzi.
In
silenzio, Fernand cercava d’imprimere nella sua mente ogni dettaglio. Lui, Dorian, il suo faro, bianco e
biondo in quella penombra sempre più fragile davanti ai suoi occhi; la luce che, per un’astrusa associazione
d’idee, la sua visuale gli richiamava nella mente. Dorian si stava assopendo di
nuovo.
Fernand
strizzò le palpebre: sentì il respiro abbandonarlo d’un tratto, mozzarsi in gola
al pensiero del sospetto che Dorian aveva insinuato in lui – o di ciò che forse
aveva visto davvero in lui – scardinando ancora una volta le sue certezze.
Sospirò, maledicendo il suo sguardo troppo acuto o la sua mente troppo
visionaria.
E
lui, lui aveva bruciato la sua chance con il suo Dorian, il suo amico
prezioso.
-
Dorian, scusa. Io… avrei bisogno di pensare. Vorrei stare un po’ da solo –
esalò.
Lo
udì mugugnare qualcosa d’incomprensibile in risposta, la mente che ormai
precipitava nel sonno.
Si
risollevò in piedi, la sensazione di essere arrossito almeno un po’, mentre,
nudo, raccattava con diligenza i suoi indumenti e si rivestiva con solerzia, ben
presto confortato dalla certezza che, se anche Dorian avesse gettato uno sguardo
su di lui, pure scorrendovi con famelica ostinazione, non avrebbe assaporato
nient’altro che il corpo che egli stesso aveva baciato ed esplorato con sapiente
e meticolosa passione in ogni singola curvatura.
Tacque,
impossibilitato a cavarsi fuori di lì senza uno sforzo considerevole; ogni
momento, ogni formula gli sembrava sbagliata, azzardata e
frettolosa.
-
Dorian… Sto andando via – mormorò con un filo di voce, i pugni stretti lungo i
fianchi.
Sentiva
l’impulso spasmodico di piangere, di ridestare di colpo Dorian, gettarsi di
prepotenza fra le sue braccia e urlargli zitto, la prossima volta, zitto, stupido,
non mettermi in testa bizzarre idee che fanno star male entrambi! Non dire più
nulla, nulla!
Scorse
rapidamente con lo sguardo sull’amico placidamente addormentato. L’ultima volta,
si ripromise, l’ultima volta, e poi sarebbe andato; solo un attimo, prima di
catapultare i propri passi fuori di casa e, di lì, sul freddo lastricato della
via sottostante, gli abiti leggeri a proteggere maldestramente il suo corpo, il
mantello penzoloni sulle spalle e il cuore pesante.
Ed
era l’alba, oppure il tramonto?
Invano
tentò di staccare dalla propria mente almeno per un istante il pensiero univoco
e persistente di Dorian, la sensazione sempre più pressante di aver scorto il
luccichio di una lacrima lungo la sua guancia, poco prima di uscire da quella
stanza e imboccare veloce la stretta scalinata, verso Noir Trésor che riposava.
Di essere poi tornato timidamente sui suoi passi, ancora pochi scalini sotto i
suoi piedi, la realtà ovattata dinnanzi ai suoi occhi stanchi, come
un’ossessione; come aveva cercato di captare qualcosa al di là di quel portone
che solo qualche istante prima aveva richiuso pesantemente alle proprie spalle,
il solito pipistrello distratto che urtava contro le finestre con le sue ali
d’organza scura.
E
avvertiva salda su di lui la presa di una profonda suggestione, una sottile bava
di vento che, come un’allucinazione, recava vaghe parole recepite oltre il
portone e trascinate con sé; la voce bassa che lui amava, una nenia confusa,
qualcosa tipo scusa, Fernand, scusa,
cerca di capire, volevo essere amico fino all’ultimo. Perdonami, amico,
perdonami perdonami perdonami!
[1]
Ricordate il commissario che fece la sua breve “comparsata” nel secondo
capitolo?
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Capitolo 24 *** Capitolo 24: In confidenza ***
Capitolo
24
In
confidenza
Un
irresistibile impulso ad arretrare attanagliò le membra di Fernand davanti alla
porta di casa, non appena fu giunto a destinazione, un passo e poi un altro,
polvere sottile sotto i tacchi.
Per
un istante, fu tentato d’indugiare ancora nel labirinto corrosivo e alienante
del dubbio che gli intossicava la mente; caracollare ancora un po’, senza posa,
sotto gli occhi indifferenti di quella falce di luna ancora alta nel cielo
livido.
Si
chiedeva quanto fosse trascorso; se qualcuno, nel frattempo, avesse accusato la
sua momentanea assenza. E di certo il letto di Dorian bruciava ancora, caldo di
lui, dello strofinio incandescente dei loro corpi.
Aveva
cercato, anelato, preteso con l’ossessione di un capriccio quei baci,
quell’amplesso rovente, crepitante di lacrime e di risposte negate. Si era
lasciato andare, esausto, sulle lenzuola arrotolate, la pelle di Dorian che
ancora palpitava sotto l’assalto delle sue mani. E non aveva trovato le
spiegazioni che cercava. Solo l’inganno di nuove
incoerenze.
La
sua ultima visuale. Lui, il suo
miglior amico, la simmetria carica di languore delle membra placidamente distese
sul letto in disordine, l’illusione di una stilla di pianto sul volto rilassato
in una pallida imitazione del sonno.
Allungò
il passo, e l’ordine inconsapevole degli eventi disposti lungo la scia
dell’abitudine lo proiettò dentro casa, il portone chiuso alle sue spalle, e
dritto, di lì, dritto verso il suo letto freddo e vuoto. Per non pensare
più.
Soltanto
ad Ambrosie avrebbe regalato a pieno diritto la vista dei suoi occhi gonfi di
lacrime, le guance roventi, le dita tremanti a rendere difficoltosa la presa
sugli oggetti. Se proprio non avesse potuto farne a meno.
E
solo a lei avrebbe permesso di lasciar scorrere le dita candide fra i suoi
capelli. Per trovare un momento di pace e scivolare
nell’incoscienza.
Solo
lei ed io. E via tutto il resto, fuori, fuori di qui! Riportatemi indietro il
mio Dorian, il mio amico prezioso!
-
Vuoi parlare?
Fernand
tirò su col naso. Soltanto allora si rese conto di essere capitolato barcollante
fra le braccia di sua sorella, un nodo d’angoscia che finalmente trovava il suo
sterile sfogo in forma di lacrime, come ghiaccio fra le
ciglia.
Sbatté
le palpebre: la verità era che mancava un aggancio, un appiglio razionale, un
qualcosa che giustificasse con parole sicure la sua angoscia, che potesse
ricondurre la sua esplosione disperata a un qualsivoglia frammento di realtà con
una motivazione logica a far da cemento; mancava un’etichetta in grado di
raccogliere, di denominare le sue sensazioni, la sintesi di un rapporto
causa-effetto. Perché stava male, perché le lacrime?
Mancava
la scintilla da cui lasciar dispiegare il suo provvidenziale sfogo, e non era
facile risolversi a confidarsi o a tacere. Avrebbe preferito precipitare fra le
dita pesanti del sonno e addormentarsi, sfinito, magari assaporando ancora un
po’ la blandizia di rivoletti salati lungo gli zigomi, sulle labbra socchiuse, e
di lì direttamente sulla veste di Ambrosie. Chiuse gli occhi, in attesa, gli
ultimi singulti di un pianto silenzioso che gli morivano nel petto. Ma lei, forse lei avrebbe
compreso.
Si
tirò su a fatica e scosse il capo, stordito, accogliendo quasi come un soffio di
vuoto momentaneo l’assenza delle carezze che avevano percorso pazienti il suo
viso, mondandolo di ogni traccia di pianto. Non era Ambrosie, in realtà, il
problema, né l’impatto con gli indecifrabili cambiamenti in atto intorno a loro.
Non era neppure il timore d’incuneare lo sguardo in fondo a quelle iridi
dall’impronta volitiva a frenare i suoi passi, quanto la tragica assenza di un
ponte fra parola e sensazione, l’utopia di un codice ideale attraverso il quale
attribuire un nome concreto ad un oggetto dai contorni
soffusi.
Gli
occhi di Ambrosie fissi nei suoi non gli avevano regalato l’immagine di un
freddo inquisitore pronto a indagare a proprio uso e consumo i suoi stati
d’animo, quanto piuttosto la sensazione di scrutare in fondo alle proprie
pupille viste attraverso uno specchio, un reciproco indagarsi di due strappi
gemelli dello stesso angolo di cielo. Come una miscela alienante di soggezione e
coscienza di sé.
-
È… successo – sussurrò debolmente, senza sapere, in concreto, dove le sue parole
l’avrebbero condotto.
-
Cosa, Fernand?
Il
ragazzo si lasciò sfuggire un breve sospiro rassegnato, un velo di conforto sul
volto teso, quando l’impatto leggero di un abbraccio dissipò parzialmente il
cocente imbarazzo, la frustrazione di non trovare le parole, guancia contro
guancia.
E
il respiro di Ambrosie palpitava su di lui, come alla ricerca di un indizio
attraverso il filtro della sua pelle.
-
Non è il tuo profumo, Fernand – decretò infine la ragazza, un sorriso
languidamente beffardo sul viso delicato, le iridi di freddo cobalto così
tragicamente uguali, gemelle,
speculari alle sue.
La
consapevolezza non gli dava il conforto sperato, perché era come non trovare le
parole dinnanzi a se stesso e a nessun altro.
-
Sei un’indovina? – Fernand incrociò le braccia sul petto,
sospettoso.
Perplesso,
vide Ambrosie allungare la mano pallida verso di lui e sollevargli dolcemente il
viso verso di sé, sì da ottenere la piena visuale sulla sua gola. Fernand si
ritrasse di scatto.
-
Posso sapere cos’ho, stavolta, e che cosa ti prende? Cos’è preso a tutti voi, a
dire il vero, che nelle ultime ventiquattro ore sembrate trovare nel mio collo
la fonte principale del vostro interesse… – sogghignò – Temete forse i
vampiri?
Ambrosie
scosse candidamente la testa bionda. Una luce placidamente sarcastica, annidata
in fondo alle iridi, che forse in un’altra occasione l’avrebbe mandato su tutte
le furie. Tacitamente, sadicamente provocatoria. E sembrava esserne non poco
consapevole.
-
No, niente “vampiri”, stavolta – dichiarò Ambrosie con fare condiscendente, una
residua venatura d’ironia a percorrerne i lineamenti – Oh, giudica tu! – si
risolse infine, brandendo uno specchio dinnanzi a sé e puntandolo verso suo
fratello.
Fernand
vide distintamente i propri occhi dilatarsi e spiccare lucidi nell’accesso di
rossore che gli era esploso repentino sulle gote, e di lì fino alla radice dei
capelli, nell’istante in cui tutta la sua attenzione fu calamitata dall’isoletta
color cremisi che spezzava, ampia e frastagliata come una chiazza di vino, la
superficie immacolata della gola.
Il
primo impulso fu di portarsi le mani dinnanzi alla bocca a trattenere
un’imprecazione, quando vide sua sorella scoppiare a ridere nel modo che sua
madre avrebbe di certo apostrofato come “del tutto sconveniente per una
signora”.
Fernand
si tirò il bavero della giacca fin sotto il mento e, per un istante, temette che
il palpitare furioso del sangue sulle tempie degenerasse in un
collasso.
-
Oh, accidenti a lui! È… Cazzo! È
orribile! – esplose un istante dopo, mordendosi il labbro.
Ambrosie
si deterse distrattamente le lacrime che le erano affiorate sulle
ciglia.
-
Dio, Fernand! Eviterò d’infilare il coltello ancora più a fondo, ma permettimi
di dire che era da un bel pezzo che non ti trovavo divertente fino a questo
punto!
-
Grazie tante! – ribatté Fernand con una punta d’asprezza.
Si
sentiva ridicolo. Ridicolamente colto in flagrante e puntualmente
deriso.
-
Continua, avanti, continua a “divertirti”! – le sibilò con voce gelida – Caso
mai, nel frattempo m’ingegnerò a trovare il modo più rapido e indolore per
sprofondare sotto le mattonelle.
-
Non è così grave, sul serio – ora Ambrosie cercava di tamponare il suo
imbarazzo, dopo l’infelice exploit – A patto che tutto ciò resti fra noi,
s’intende – puntualizzò, ricomponendosi di fretta.
Fernand
chiuse gli occhi, a disagio, assecondando in silenzio l’iniziativa della ragazza
di coprire alla meglio l’impronta dispettosa della sua ultima serata sotto uno
strato di cipria. Gli risistemò premurosamente il nodo della
cravatta.
-
Ecco, così va decisamente meglio – decretò con malcelata ironia, lo sguardo che
vagava critico sulla sua opera.
Fernand
deglutì a fatica, considerando fra sé quanto l’attenzione esercitata dalla punta
delle proprie scarpe rivestisse per lui l’alternativa del tutto provvidenziale
per evitare ulteriori scambi di sguardi nel giro di qualche istante. Avrebbe
preferito che la sua riluttanza immotivata crollasse dal suo volto come una
maschera di creta, lasciandogli il sollievo di condividere la sua inesprimibile,
irrazionale angoscia con la persona che più di tutte, nell’arco della sua vita,
fosse riuscita a frugare in fondo alle sue reticenze, a vedere oltre lo specchio
dei suoi occhi sfuggenti. Ma le parole non gli affioravano nella testa, come
quando aveva maldestramente esortato Dorian a chiarire le sue ennesime
ambiguità. Il buio.
-
Dove sei stata, Ambrosie?
Fernand
tacque. Non era una richiesta originale, e lui conosceva la risposta, la stessa
che in capo a qualche istante gli si era modellata nella mente come un marchio.
Per un attimo fu sfiorato dalla sensazione angustiante di essere stato
tragicamente tagliato fuori dai suoi orizzonti.
Erano
cambiate troppe cose, in quella manciata d’ore. Non abbastanza da dividere le
loro vie, considerò in uno sprazzo di sollievo misto a pungente rammarico.
Doveva riguadagnare terreno, disperatamente, urgentemente: almeno con lei,
adesso che era in tempo. Aveva già rischiato di perdere Dorian, di mettere
azzardatamente a repentaglio le sue uniche certezze, i suoi capisaldi – o chissà
che non avessero già provveduto da soli, a logorare tutto.
-
Ti assicuro che è tutto a posto, Fernand – lo precedette Ambrosie – Fra noi non
cambia nulla. Tu, piuttosto. Se è come ho compreso, giurami che non dovrò temere
da un momento all’altro di essere chiamata “zia”! No, no, aspetta – lo incalzò –
Una ragione dev’esserci per forza, e prego, prego che tu non venga a dirmi che
non si tratti di quella… Com’è che si chiamava? Clothilde… Che ti abbia seguito
appositamente fin qui e messo nuovamente gli occhi addosso – avesse voluto Dio
che fossero stati soltanto gli occhi,
quella volta…?
-
Perché ora vuoi ritirare fuori quella maledetta faccenda? Non ti è mai andata
giù, è così. Dopo tanto tempo. Quando la smetterai? – Fernand sorrise,
sibillino.
Sapeva
che Ambrosie non diceva sul serio, malgrado avesse ritirato fuori l’argomento
del tutto a sproposito e senza alcun preavviso. Sapeva che non l’avrebbe
spuntata facilmente, stavolta, perché quasi di certo lei aveva ancora un asso
nella manica. Neppure Ambrosie avrebbe però potuto contare su solide garanzie di
vittoria.
- È
completamente diverso – proruppe la ragazza, e Fernand fu certo di aver scorto
sulle sue guance un luccichio di fiera indignazione.
-
Completamente diverso, stavolta, capisci? Avevi sedici anni. Quella… Clothilde –
sputò fuori quel nome quasi si trattasse di qualcosa di sgradevolmente
dolciastro incollato alla lingua – Aveva spudoratamente approfittato della
situazione, alla festa del borgo. Ricordi? Ti aveva attirato nel vecchio fienile
e… Di certo avrà avuto di che gloriarsi, con le sue degne comari – concluse con
un velo di divertita acidità che Fernand avvertì insopportabilmente
caustico.
-
Sei incorreggibile – il ragazzo sollevò gli occhi al cielo – Ad ogni modo… Non
mi era piaciuto veramente. Sei più felice, ora? Poi… Non lo so. So soltanto che
qualche mese più tardi Clothilde andava in sposa a quel giovane marchese di
città, e da lì non seppi più nulla. Mercanti da generazioni, esattamente come
nostro padre, prima che cadesse in disgrazia. Poi, per loro, la svolta: si
legano al duca Alphonse du Lac, seguono il suo astro nascente e investono parte
delle proprie rendite nell’acquisto del titolo nobiliare; a quel punto, non
restava che maritare le figlie con ottimi partiti dal nome altisonante, ed ecco
che i sacrifici di una vita intera trovano il loro giusto coronamento su tutti i
fronti. Fine delle trattative. Come vedi, fra me e lei non fu che uno scambio
equo.
-
Da quando sei diventato cinico, Fernand? Non volevo che stessi male, tutto qui –
la voce di Ambrosie si era addolcita – E non lo voglio nemmeno
adesso.
-
Ma ora è passato, avrai compreso. Non è stata un’esperienza edificante, sono
d’accordo con te. Ma, come vedi, sono ancora in piedi – sentenziò Fernand – E tu
non hai motivo di rinverdire la vecchia sagra della
gelosia.
-
Lo so – gli occhi di Ambrosie si assottigliarono minacciosamente – Mi limito
soltanto a ripagarti con la stessa moneta.
Fernand
fu scosso da un lampo d’irritazione.
-
Ah, bene, tutto comincia a quadrare. E noto con piacere come si siano invertiti
i ruoli. E se è davvero qui che vuoi arrivare, puoi tranquillamente scordartelo,
sorella cara, che riveda da cima a fondo le mie considerazioni su Raphäel
Lemoine e su quel tuo insano e pericoloso capriccio!
-
Ho forse fatto il suo nome? – la ragazza si volse alla finestra, offrendogli il
profilo, le labbra irrigidite in un’espressione dura.
Sarebbe
parsa quasi buffa, gli occhi grandi, i lineamenti minuti e quell’espressione
grave dipinta sul viso.
-
Lasciami scegliere la mia felicità, te ne supplico, Fernand! – la sua voce
sembrava essersi accesa in un pigolio supplicante, quasi insolito su quelle
labbra capricciose – Non asserragliarti in posizioni di principio che potrebbero
portarti soltanto a cozzare contro il muro che tu stesso hai sollevato! – lo
redarguì.
Fernand
fu preso dall’impulso di afferrarla, di stringere le dita su quel polso sottile.
Tuttavia, un istintivo sfioramento fu sufficiente a farlo ritrarre come se la
sua pelle scottasse. E avvertì la vecchia ferita bruciare come sotto una
manciata di sale.
-
Non dire così, perché non è così! – serrò le mascelle, trattenendo un singulto
isterico – La tua felicità? Come ti
vengono in mente certe cose? Raphäel non è quello che sembra. Ci sta giocando
tutti come tante graziose marionette. Scusami se insisto, ma del resto non
sappiamo che obbiettivi ha con noi, non abbiamo alcuna garanzia. E lui agisce
indisturbato: sa tutto di noi, è libero di rigirarci a suo
piacimento.
- A
che devo l’ennesima filippica, Fernand? – Ambrosie lo fronteggiò con espressione
tagliente – È sempre lo stesso discorso. Giorni, settimane, mesi! Hai paura che
ti porti via la tua sorellina. Che mi illuda di qualcosa e poi getti tutto nel
dimenticatoio. Che io m’intestardisca e punti i piedi fino a scontrarmi con la
cruda realtà. E allora… Povera Ambrosie, la piccola, sciocca, sentimentale
idealista! È ciò che pensi.
-
Forse, perché in fondo lo sei. E lui
ha già illuso tutti – mormorò Fernand con voce strascicata, l’unghia del pollice
stretta fra i denti, sì da poter negare all’occorrenza.
Socchiuse
le palpebre, aspettandosi da un momento all’altro uno scoppio d’ira, seguito
dall’ennesima, esasperante discussione priva di un approdo concreto. L’ultima di
una triste serie. O uno scappellotto sulla nuca.
Invece,
con sua sorpresa, Ambrosie gli sorrise cameratescamente, l’espressione sagace
che le era così diabolicamente congeniale quando si trattava di architettare
fantasiosi complotti come fra le spire di un gioco affascinante e pericoloso,
adrenalina in punta di dita.
Cosa
si erano messi in testa, quel giorno?
Sarebbe
stato bello scherzare all’infinito, poter giocare ancora ai ribelli, vivere
tutto come un sogno da bambini viziati, le cui conseguenze non sarebbero giunte
a disturbarli durante la veglia.
-
Ti amo, fratello mio – Ambrosie lo strinse fra le braccia, e i capelli biondi
danzarono fra le sue dita.
La
sovrastava. Fernand considerò che avrebbe potuto avvolgerla completamente fra le
sue braccia, come una bambola insospettabilmente riottosa. Forse, era ancora lui
il fratello
maggiore.
-
Una volta, però, non eri molto più alto di me – gli soffiò la ragazza,
delicatezza estrema che fluiva dalle labbra, un sussurro vagamente delirante –
Ora no. Sei diventato un uomo. Ho fiducia in te. E… Lui avrà compreso.
Per
poco Fernand non si sentì mancare.
-
Come fai a sapere che…?!
-
Che è un lui? Parole tue – seguitò a
pungolarlo Ambrosie, le iridi indagatrici fisse sul suo
viso.
Fernand
roteò gli occhi verso il cielo.
-
Rettifico: tu non sei una donna, sei una specie di inquisitore. Ma… Cosa cambia
per te, in fin dei conti?
-
Cambia tutto, Fernand. Cambia che sei innamorato. E… tutto questo, in verità,
non mi rende più tranquilla.
-
Forse ho risolto un certo tuo problema basilare, Ambrosie: non volevi correre il
rischio che un’altra donna ti mettesse da parte. Astuta…
-
Basta pensare questo di me, Fernand! – Ambrosie si riscosse, un luccichio di
collera in fondo alle pupille – Non c’entra nulla. Che razza di opinione
schifosa e becera ti sei fatto di me? Pensi davvero che sia così egocentrica e
meschina?
-
No, non lo penso, a dire il vero – Fernand arretrò d’un passo, la mano che
correva istintiva a sistemare la lunga ciocca bionda che le era caduta sul viso
– Penso solo che non vi sia sistema più facile per farti
arrabbiare.
-
Va’ al diavolo!
-
Come sta Raphäel? – azzardò Fernand.
-
Certe domande suonano quasi imbarazzanti, sulla tua bocca – il volto di Ambrosie
era tornato serio.
-
Anche se non gode esattamente delle mie simpatie, ciò non significa che debba
passarsela male, non credi?
La
ragazza scosse il capo.
-
No, comunque sia. Non se la passa meglio del solito, a dire il vero. Cosa
pensavi? Non è ancora iniziata la stagione della mietitura. Ora come ora, non ha
un’occupazione – concluse con malcelato nervosismo.
-
Già. Ed ora, pare che se ne sia messa in testa un’altra delle sue: diventare
medico. Ci pensi? Raphäel medico! Cosa farà? Venderà sua nonna per entrare nella
corporazione? Non che voglia fare il guastafeste, ma… è
strano.
-
La sua forza di volontà è ammirevole, invece. Non lo sottovaluterei. È strano
che abbia studiato. Che sia così… colto. Sa un sacco di cose che non
immagineresti. E si esprime quasi come un nobile. Eppure, da quando lo conosco,
non ha svolto che lavori di bassa manovalanza, come se volesse ostinatamente
restare nell’ombra.
-
Che tipo! L’ho sempre detto che per me nascondeva
qualcosa.
-
Se n’è andato di casa. Non ha vissuto sempre in questa
città.
-
Pare sia nata una nuova usanza, tra quelli che amano sfidare lo spauracchio
della miseria: partire in cerca di grane – ribatté Fernand, avvertendo per la
prima volta quello strano ragazzo affine, in una certa misura, alla sua
realtà.
-
Tu, per lo meno, quando la situazione ha iniziato a pesarti, hai trovato il
pretesto buono per andartene: curare gli affari in città per conto di nostro
padre – constatò Ambrosie – Lui, invece… Sembra scollegato da tutto, sospeso
nell’aria. Tutto ostinatamente alla giornata.
-
Avrà avuto qualche guaio con la giustizia là dove viveva prima, suppongo.
Conoscendolo anche solo superficialmente, non scarterei l’ipotesi. Qualcosa di
cui non vuole parlare, chissà. Anche se ci sono troppe cose di cui “non si vuol
parlare”, a dire il vero; e lui non è un’eccezione.
-
Un motivo in meno per venire a fare il solletico al duca da vicino, se ci pensi
– ribatté logicamente la ragazza.
Fernand
si alzò di scatto.
-
Perché stiamo qua a interrogarci su cosa Raphäel abbia combinato in passato per
comportarsi in tutto e per tutto come un reietto che cerca di ridare un’assurda
parvenza di normalità alla sua vita?
-
Non lo so. Vorrei solo aiutarlo.
-
Non sai nulla di lui. Raphäel Lemoine, provenienza non si sa, condizione
personale non si sa, vent’anni o giù di lì.
-
Ventuno. Ha ventun anni – lo corresse meccanicamente
Ambrosie.
-
Questa te la concedo – Fernand sollevò gli occhi al cielo, spazientito,
folgorato all’improvviso dal desiderio pressante di lasciar cadere il discorso
quanto prima.
Qualunque
cosa, considerò in un fulmineo accesso d’imbarazzo incandescente: persino il
resoconto del suo ultimo incontro con Dorian – non aveva racimolato neppure il
coraggio di fare il suo nome. Persino quella sarebbe stata un’alternativa degna
di considerazione, pur di abbandonare le acque torbide in cui si stava
inoltrando.
-
Avevo ragione, dunque? – proseguì tuttavia, sforzandosi di contenere entro i
limiti dell’impercettibilità quella sottile venatura d’accusa che gli
serpeggiava nella voce – Resta il fatto che non sai quasi nulla di lui,
Ambrosie. Non più di quello che sappiamo tutti, per lo meno. Tranne il fatto che
è affascinante, che sembra avere un seguito in città; e, se si trattasse solo di
questo, di certo non morirebbe per non aver mai nulla di appropriato da dire per
tirarsi fuori d’impiccio.
-
Per te è davvero così importante… sapere di lui? – indagò la
ragazza.
-
Se vuoi metterla su questo piano, sì, lo è eccome. Vorrei soltanto togliermi il
dubbio che Raphäel non sia veramente dei nostri. O che nutra qualche interesse
personale.
-
Accantonando per un attimo Raphäel e quel che lo riguarda, al momento c’è
dell’altro a cui pensare. Auguste. Ci ha convocati tutti in mattinata, nel caso
nessuno ti avesse ancora riferito il messaggio. E a quanto ho capito, pare abbia
in serbo qualcosa di urgente. Per tutti – mormorò la ragazza, a
bruciapelo.
Fernand
sentì un ammasso gelido stringergli la spina dorsale, per poi annidarsi
tenacemente all’altezza della nuca. Le labbra asciutte, cercò di controllare il
tremito nella voce.
-
C-come lo sai? Chi ti ha detto… – abbozzò.
-
Raphäel. Era con lui. È proprio qui che volevo arrivare.
-
Già… – Fernand annuì, disorientato.
Auguste
aveva in mente qualcosa. Di nuovo. Aveva deciso da solo. Fernand
tremò.
-
Ho paura, Ambrosie. Ho paura di ciò che può essergli saltato in mente stavolta.
Se le cose stanno come temo, allora sarà meglio raggiungerlo quanto prima –
concluse.
* *
*
Un
fluire discontinuo di sensazioni, sprazzi isolati e confusi di coscienza a
rimestargli nella mente. Nessuna riflessione, nessun pensiero articolato su un
filo lineare.
Solo
il ricordo di quel delirio vibrante in bilico tra voluttà e repulsione,
l’immagine delle due donne dal volto dipinto nel suo stesso letto, due maschere
inquietanti e sfuggenti che vorticavano davanti ai suoi
occhi.
Poi,
il breve paradosso di un istante tranquillo, quando aveva riaperto gli occhi,
ormai mattino inoltrato, la mente sgombra, annebbiata. Accoccolata contro il suo
corpo nudo, reduce della notte trascorsa, la ragazza dai capelli scuri si era
stretta a lui nella nebbia del sonno. L’aveva sentita mugolare qualche frase
incomprensibile; “sei bello”, o qualcosa del genere.
E
forse era stato allora che l’improvvisata impalcatura di nebbia che velava le
sue percezioni si era disciolta dinnanzi ai suoi occhi. Ed era tornata la
consapevolezza, prepotente come un’ossessione. Nel turbinio ingannevole di un
istante, gli era balenato nella mente che nessuno gliel’aveva mai detto. Che era
bello. Tranne Lucien.
Aveva
tentato di scacciare l’idea dalla mente, si era riappropriato della sua roba e,
senza una parola, aveva calcato con passi furiosi il percorso tortuoso che
l’aveva riportato a casa.
Poi,
ricordava solo di essere stato male, l’alcool che gli ribolliva ancora nelle
vene, o forse un fastidioso residuo ancorato al cervello. Emilie non era
tornata.
E
lui aveva maturato la sua decisione sulla scia un istinto sbagliato che,
martellandogli nella coscienza, ogni volta tentava di ispirargli la scelta
giusta. La scelta
giusta!
Restava
solo da attendere che i suoi compagni si facessero vivi, e anche stavolta
sarebbe andata, scivolando via tra le dita.
Respirò
profondamente, gli occhi socchiusi nella luce troppo intensa che gli scavava
voragini di pulsante dolore alle tempie.
Fu
uno schianto improvviso a schiaffeggiargli brutalmente la realtà sulla faccia. E
no, non sarebbe stato facile.
Buongiorno,
Auguste! È una bella giornata, dopotutto.
-
Perché l’hai fatto, Dorian, perché l’hai fatto?
Auguste
si premette le mani sulla fronte, una fitta prepotente che gli esplodeva nel
cranio. Era bastata una maledetta porta sbattuta a farlo
sobbalzare.
-
Cos’avrei fatto di male, stavolta?
-
Accidenti a te e a quella diavolo di porta!
Strizzò
le palpebre, quasi a impedire che gli salissero le lacrime agli occhi. Dorian
indugiava intorno a lui mantenendo una certa distanza, come se temesse di
scalfirlo o di esserne scalfito. Trattenne il fiato.
-
Stai bene, Auguste? – Dorian si era fatto coraggio e gli aveva posato una mano
amichevole sulla spalla.
Ora
sembrava seriamente preoccupato.
-
Mi rispondi, Auguste? Cosa ti prende?
Auguste
provò a riaprire prudentemente gli occhi. L’aspetto di Dorian aveva in sé un
impatto notevole, e del malessere di due notti prima pareva non conservare altro
che la fasciatura alla mano. La febbre gli era calata un po’ troppo in fretta
del previsto, a dire il vero, e sul suo volto erano scomparsi quasi del tutto i
segni di quella leggera estenuazione che gli aveva percorso i lineamenti, quando
l’aveva sorpreso in preda ai brividi, raggomitolato sul pavimento, di fianco
alla suggestiva pozza di sangue di una ferita da niente. Era davvero bastato
così poco a mandare entrambi nel panico?
-
Hai bevuto di nuovo, è così – constatò il giovane con voce
piatta.
-
Da cosa puoi dedurlo, stavolta? – Auguste considerò quanto non fosse una cattiva
idea guadagnare un po’ di tempo.
-
Hai un aspetto orribile.
Auguste
per poco non scoppiò a ridere di fronte a quell’aristocratico nasetto a punta
che si arricciava impercettibilmente. Era quanto mai consolidato che Dorian non
possedesse esattamente il dono della diplomazia, e da certe sue uscite in
particolare non era poi così difficile dedurre che, sotto molti aspetti, fosse
ancora un ragazzino. Un ragazzino cresciuto male, spezzato e sospeso a metà,
considerò in una punta di sordo rimorso. Gli faceva quasi
tenerezza.
-
Ti ringrazio. La faccia, comunque, me la sono lavata,
stamattina.
-
Non ti sei preso la briga di guardarti bene allo specchio, a quanto
sembra.
Auguste
inspirò profondamente, fingendosi oltremodo seccato.
-
Sempre più divertente, Dorian.
-
Oh, insomma! Lo dicevo per te. Volevo… che ti distraessi per qualche attimo su
qualcosa di poco importante – Dorian aveva preso a tormentarsi nervosamente le
dita, a disagio – Hai bisogno di qualcosa? Di un bicchiere d’acqua, di
distenderti…
Auguste
scosse il capo.
-
No, Dorian. Ti ringrazio.
-
Perché ci hai convocati, se non ti senti bene?
-
Tra un po’ starò meglio – lo precedette Auguste,
sibillino.
Dorian
incrociò le braccia sul petto, il volto stranito.
-
Hai vinto. Ed io continuo a non capire nulla.
-
Capirai tra un po’ – per un istante, Auguste sentì le forze venire
meno.
Si
prese il capo fra le mani, sorreggendosi sui gomiti.
-
Aspetta soltanto che arrivino gli altri. Solo questo –
soggiunse.
I
suoi occhi fissarono Dorian e, per un istante, Auguste sentì i propri lineamenti
modellarsi in uno strano sorriso, un fioco desiderio di fiducia che tuttavia
lasciò nuovamente spazio alla tristezza, non appena l’impulso
scomparve.
Vide
Dorian stringersi nelle spalle, scettico, per poi distogliere rapidamente lo
sguardo. Doveva essersi arreso all’evidenza.
-
Non puoi restare così – riprese in capo a una manciata di
secondi.
Auguste
scosse mestamente il capo; gli occhi chiusi, seguitò a massaggiarsi
distrattamente le tempie.
-
Aspetto che passi. Cos’altro faresti, al mio posto?
-
Non berrei? – azzardò il ragazzo.
-
Già, grazie per avermelo ricordato.
Dorian
scorse su di lui con lo sguardo venato di sottile sarcasmo. Poi, del tutto
inaspettatamente, Auguste si sentì strattonare pigramente per il risvolto della
marsina.
-
Ho trovato – Dorian stava escogitando qualcosa – Prova a levarti la giacca,
Auguste!
-
Uh?
-
Levati la giacca, ti dico!
Auguste
si lasciò andare a un sospiro teatrale.
- È
proprio necessario continuare a tormentarmi?
-
Starai meglio, dopo, te l’assicuro.
-
Non è il caldo né tanto meno la mia giacca, il problema, se non ci avessi fatto
caso – azzardò.
Ma
prima che avesse il tempo di sottrarsi ad un’estranea iniziativa, avvertì le sue
mani scorrere sui bottoni della giacca e scuoterlo per il colletto, come per
indurlo a sfilarsela del tutto. Auguste irrigidì le spalle, d’istinto, per poi
acconsentire in capo a qualche istante, persuaso che forse, se avesse finto di
assecondarlo, Dorian l’avrebbe lasciato un po’ in pace.
-
Si può sapere cos’avete tutti quanti, oggi, contro i miei vestiti? – proruppe,
di getto, per poi morsicarsi la lingua in capo a qualche istante, avvampando in
viso.
Era
meglio che nessuno sapesse. Dorian in particolar modo.
- A
cosa ti riferisci? – il ragazzo si sporse verso di lui, le iridi cerulee
percorse da una luce interrogativa.
- A
nulla, Dorian. Dimentica quello che ho detto!
Il
giovane scrollò le spalle.
-
Oh, come preferisci.
Auguste
inspirò profondamente, confidando in cuor suo che forse il mal di testa si
sarebbe attenuato almeno un po’, prima che giungessero gli altri. Aveva bisogno
della propria completa lucidità.
Il
suo cuore mancò un battito, quando, senza preavviso, sentì le mani di Dorian
scivolare come serpenti su di lui, scostargli i capelli ed ancorarsi saldamente
alle sue spalle, i pollici che affondavano decisi alla base del collo, scorrendo
fin sotto le scapole. Trasalì.
-
Dorian! Posso sapere cosa ti è saltato in mente stavolta?
-
Sta’ calmo, Auguste, e cerca di rilassarti! Salti su davvero per poco. E se
davvero sei sempre così… – gli insinuò con voce melliflua – Sempre sul “chi
vive” e con i nervi costantemente a pezzi, allora capisco davvero perché
invecchi in fretta. Beh, ora cerca solo di stare un po’ zitto! – la voce di
Dorian suonò imperativa – Sei così teso che mi sembra di massaggiare una lastra
di marmo.
Auguste
tentò di distogliere momentaneamente il fulcro delle proprie percezioni da
quelle dita divine che infierivano su di lui, scorrendo in tondo sulla cute che
rabbrividiva e sciogliendogli lentamente i muscoli del
collo.
-
Bravo, Dorian. Spiacente, ma io non sto invecchiando: non ancora, per lo meno; e
poi, dimmi un po’: per caso sei venuto fin qui per subissarmi di inutili
osservazioni che non hanno capo né piedi?
-
No. Ho solo visto che non stavi per niente bene e, come vedi, provo a fare ciò
che è nelle mie possibilità per aiutarti.
Auguste
fremette, in attesa di vibrare il suo prossimo affondo. Gli veniva da
ridere.
-
Sempre che non mi stia sbagliando, Dorian, ma non eri tu quello che fino
all’altro ieri pareva detestarmi in modo più che appassionato? – lo
pungolò.
Dorian
sussultò leggermente, circondando a piene mani le spalle di Auguste e indugiando
lentamente sulle clavicole in rilievo che spuntavano dallo scollo lento della
camicia.
-
Non ti sbagli affatto… – Auguste non poteva vedere Dorian in viso, tuttavia in
quel momento ebbe pressoché la certezza che un gran sorriso beffardo e
compiaciuto gli fosse affiorato sul volto – Ti detesto ancora, disperatamente e
con passione.
-
Bene – asserì con voce asciutta – Posso solo esserne felice, di stare in qualche
modo nei tuoi pensieri.
Un
affondo secco e repentino di dita risolute intervenne a strappargli un gemito
stupefatto, un attimo prima di convogliare la fredda tensione che gli percorreva
i muscoli in un turbinare di brividi lungo la schiena. Auguste serrò le
palpebre, un debole sussulto che moriva tra le labbra, testimone solitario
dell’ansito disperato che aveva prontamente ricacciato nel petto.
Tremò.
Smettila,
Dorian, smettila con questo gioco idiota! Ora.
Lo
udì ridacchiare sommessamente, presenza indecifrabile alle sue spalle, per poi
sfilargli il nastro dal codino, a tradimento.
Quel
gesto… Auguste avvertì per un istante uno spiacevole formicolio all’altezza
dello stomaco, un impercettibile lampo di disgusto. Annaspò a vuoto, l’impulso
di stracciargli dalle mani quello stupido nastro, ma Dorian fu più svelto.
Auguste deglutì a vuoto, quando avvertì la morbida consistenza del tessuto
stringergli dolcemente la gola. E il respiro di Dorian accarezzargli i
capelli.
-
Sei sorpreso, Auguste? – un sussurro strisciante gli solleticò l’orecchio – No,
non dimenarti, fa’ il bravo! E dimmi: sei proprio sicuro, in questa situazione,
che non saresti pronto a confessare… qualunque cosa desiderassi
chiederti?
Auguste
sbatté le palpebre, gli occhi umidi di lacrime soffocate, la paura che si
congelava in un groppo di tristezza e nessun altro pensiero nella mente. Dorian
stava impazzendo.
-
M-mi dispiace, Dorian, te lo giuro… – Auguste sentiva la pressione del laccio
aumentare, un fremito di terrore che gli attanagliava la
gola.
Corse
qua e là con lo sguardo, nel tentativo impossibile di infilare lo sguardo in
quello di Dorian e fissarlo in volto. Ma Dorian gli stava alle spalle,
seguitando imperterrito nella patetica farsa di tenerlo in pugno. Che magari,
chissà, non si sarebbe neppure rivelata una farsa.
Scusami,
piccolo, scusa per tutto! Se ti ho fatto impazzire. Se ho fatto di te qualcosa
che non saresti voluto essere. Perdonami, se ho reso tutto
difficile!
Il
respiro leggero che gli sfiorava la pelle scandiva i secondi con una quieta
regolarità che per lui profumava inspiegabilmente di diabolico. Come un
martellare ipnotico in fondo alla testa.
Poi,
l’incubo si diradò dinnanzi ai suoi occhi, così come le sue percezioni viziate
l’avevano evocato. Il nastro gli ricadde sulle ginocchia. Volse lo sguardo,
stranito. Dorian rideva fino alle lacrime, piegato in due sul basso tavolino di
legno.
-
Sei così suggestionabile, Auguste. Dio, davvero credevi
che…
Auguste
spalancò le palpebre, sbigottito. Poi venne la collera, una secchiata gelida in
pieno volto.
-
Va’ in malora, stronzo! Ti sembra… Ti sembra divertente?
-
Non arrabbiarti, Auguste! Ti vengono le rughe… – Dorian era scivolato nuovamente
al suo fianco, reggendosi precariamente sullo schienale della
sedia.
Lo
accarezzò timidamente.
-
Era… La mia offerta di pace, se non sono inopportuno –
proseguì.
-
Tu sei sempre inopportuno – Auguste
se lo scrollò di dosso con un moto infastidito – Mi fa… rabbrividire la tua
superficialità. Cielo, ti rendi conto? Il fatto che sia capace di scherzare su…
Oh, non ti reputavo così sciocco!
-
Lo so, è stato di cattivo gusto, te lo concedo. Ma era una tentazione troppo
appetitosa, giocare con i tuoi nervi tesi. E, per inciso, nemmeno io ti reputavo
così sciocco da caderci con tutte e due le gambe.
-
Una tentazione veramente appetitosa, rubarmi dieci anni di vita – lo interruppe
Auguste, facendogli grottescamente il verso – Va bene, lo ammetto: ero davvero
spaventato, e tu sai essere orrendamente inquietante. E Auguste è un deficiente
che se la fa sotto. Ora che hai raggiunto il tuo scopo, puoi anche andartene
tranquillo all’inferno.
Dorian
tentava di recuperare un filo d’equilibrio, le membra rese fragili dall’accesso
di risa, finché non riuscì a sporgersi verso di lui e a schioccargli un bacio
sulla guancia.
-
Perdonami, davvero, ti giuro che sarà l’ultima volta che mi prendo gioco di
te.
-
Della mia salute mentale – lo corresse Auguste con voce
ghiaccia.
Sospirò,
gli occhi socchiusi a fessura, una maschera d’indignazione sul viso. Se almeno
fino a quel momento era riuscito a trattenere l’istinto di picchiarlo, con ogni
probabilità lo doveva soltanto a quel fragile luccichio d’innocenza offuscata in
fondo alle iridi, scevro di cattive intenzioni palesi, che aveva intercettato
mentre il suo sguardo si posava su di lui, inquadrato in quegli occhi dal taglio
malinconico.
-
Non… non potrei mai farti una cosa simile. E no, non scherzo stavolta – Dorian
sembrava meno intenzionato che mai a lasciarlo respirare.
Gli
si era nuovamente accostato come una presenza ingombrante, le mani che si
facevano timidamente strada sulle sue spalle, quasi a voler chiedergli perdono,
ricercando nel contatto casuale delle mani una qualche forma di sostegno e le
parole che faticava a trovare nella sua mente.
I
pensieri quasi certamente giravano a vuoto dinnanzi a lui senza lasciarsi
afferrare ed inquadrare nella forma di una frase.
-
Non è vero che ti detesto, Auguste. Cioè, qualche volta soltanto. D’accordo:
mentirei se dicessi di non averti detestato almeno una volta. Volevo soltanto
dire… – le sue labbra s’incresparono nell’incertezza, gli occhi si smarrirono –
Sei pur sempre l’uomo che mi ha salvato da morte certa. E credo di aver imparato
a volerti bene, in un certo qual modo, anche se sono in collera con te e non
accetterò mai le ragioni con cui cerchi di giustificare il tuo
silenzio.
-
Dorian, ti prego, basta così, basta, te ne supplico!
Auguste
si riscosse solo quando si rese conto di averlo attirato istintivamente a sé
nell’enfasi di troncare d’urgenza il discorso che l’aveva spinto a gettarglisi
addosso e gridargli contro. Fissò la testa bionda morbidamente accostata alla
sua spalla, e per un attimo sentì bruciare dentro di sé il desiderio irrazionale
che quel flusso di disorganiche e confuse considerazioni cessasse per sempre e
non tornasse mai più a tormentare la sua coscienza, il sonno e la
veglia.
Che
Dorian se ne stesse almeno un po’ tranquillo finché non fossero giunti gli
altri: gli sarebbe bastato questo.
Sospirò,
centellinando il fiato residuo che gli era rimasto nei polmoni. Lasciò vagare il
proprio sguardo fra le crepe della parete dinnanzi a sé, la consapevolezza di
quei pallidi occhi azzurri fermi su di lui che gli trasmettevano un’intrinseca
vulnerabilità direttamente sotto la pelle, per osmosi.
Vulnerabilità
dall’impatto sfuggente, delicata come i suoi colori, dissimulata nei lineamenti
sottili del volto ingannevolmente sereno; e quegli occhi malinconici, la
tristezza caliginosa in fondo alle pupille che emergeva come una chiazza di
sangue su una veste immacolata, inquietante stonatura nell’insieme, come un
terribile errore d’esecuzione a malapena percettibile.
-
È… è strano vederti degnarmi di qualcosa in più di uno sguardo di sufficienza –
le sopracciglia di Dorian s’inarcarono in un moto
sarcastico.
-
Pensi che ti sia ostile? – Auguste trasalì leggermente.
Il
ragazzo annuì vigorosamente, prima ancora che egli potesse terminare la
frase.
-
Sei ingiusto, Dorian – Auguste si riscosse appena, un mormorio impercettibile
intrappolato fra le labbra socchiuse – Non era così diverso cinque anni fa. Non
siamo sempre stati animati da sfiducia reciproca.
Distolse
il volto, cercando di sfuggire per un momento da quegli occhi che indugiavano
curiosi su di lui, una nube sospettosa sul viso.
-
Che motivo avresti avuto, per tenermi fra le braccia, mentre, fino a prova
contraria, nel periodo che intendi, te ne stavi a farti onestamente i fatti tuoi
Dio solo sa dove?
Auguste
mosse disperatamente lo sguardo intorno alla stanza, alla ricerca di un
diversivo, di un alleato che non arrivava. Dorian incalzava nell’ombra, e lui
stavolta non aveva pronti gli argini per contenere l’ennesima, legittima
irruzione da parte di quel ragazzo che lui stesso non aveva fatto altro che
prendere e rivoltare a suo piacimento, verità e menzogne sapientemente
intrecciate, nel desiderio egoistico e folle di tenerlo sotto quella malefica
campana di vetro fatta di abili distorsioni orchestrate ad hoc, con l’indefesso
terrore di affrontare le conseguenze reali e tangibili delle sue azioni, senza
maschere, una volta che avrebbe tolto il velo; perso in quell’assurda ossessione
che ancora la sua mente usava erroneamente denominare come
“proteggerlo”.
Un
raggio di sole, diretto, ruvido di polverosa foschia, rischiarò le guance di
Dorian, il viso così vicino al suo da descriverne contorni nitidi, rivelando
nelle iridi torbide la lecita sete di conoscenza perennemente frustrata dagli
esiti delle ricerche, come un’equazione sospesa nel vuoto.
Auguste
artigliò convulsamente un lembo della propria camicia, serrò le palpebre per non
gridare.
Maledetto
lui!
Maledetto
per quelle domande insidiose che gli ficcava a viva forza nella testa, fino a
farlo impazzire; maledetto per essere riuscito ancora una volta a prenderlo in
trappola, soli fra quelle quattro pareti e costretti a guardarsi in faccia.
Maledetto, perché aveva maledettamente ragione, e per quell’ossessione disperata
e legittima. E maledetto lui stesso per aver accettato la soluzione assurda che
quel giorno lontano la propria mente gli aveva suggerito: voltare la faccia
dall’altra parte e dissimulare quanto sapeva dentro ad un’assurda quanto
appetibile cornice di precarie bugie.
Non
era stata dissimile la sua reazione, cinque anni prima, la guerra civile che
infuriava sopra la sua testa, il suo nome sulla lista di proscrizione e un
groppo oscuro che gli annebbiava il cervello, quando si era stretto al braccio
di Lucien come per trovare la forza. La smania incontenibile ed il bisogno quasi
logistico di condividere almeno con
lui il recente segreto.
Attraverso
i passaggi sottostanti la città, di cui le fazioni ribelli si erano servite per
lungo tempo quali strategici collegamenti fra basi e nascondigli sotterranei
sparsi lungo l’intero raggio abitato, aveva condotto Lucien fino allo scantinato
della locanda dei Bertrand, punto di raccordo tra i cunicoli scavati nella
pietra.
- È
la taverna dei Bertrand… Non capisco, Auguste.
Lucien
l’aveva fissato con le iridi d’acquamarina visibilmente agitate da un
presentimento angoscioso, le orbite scure che spiccavano nitide sul volto livido
di troppe notti insonni.
L’aveva
rimproverato a lungo, ricordava, in seguito. L’aveva messo in guardia. Persino
lui.
-
Ti mostrerò una cosa, Lucien.
Tremante,
lasciando che la vista immersa nella penombra si abituasse al debole chiarore
della lucerna, l’aveva preceduto oltre le spesse tende rattoppate che riparavano
una porzione dell’ambiente.
Dinnanzi
a loro, un pagliericcio coperto da lenzuola lise e, sprofondato in
quell’improvvisato giaciglio, un giovane dai capelli biondi su un letto di
sangue e fuliggine, il respiro rantolante e la faccia
sporca.
Auguste
aveva trattenuto il fiato, in attesa di una reazione. Ricordava ancora il lampo
d’inquietudine rabbiosa che aveva attraversato il volto di Lucien. Rammentava
come si era portato le mani al volto, trasalendo; come si era rivoltato contro
di lui, il terrore che viaggiava nelle vene come adrenalina, spontaneamente
convogliato in un accesso di collera tale che, per un momento, Auguste aveva
temuto che lo colpisse.
-
Chi è questo ragazzo, Auguste? Sta molto male, cosa ci fa
qui?
- È
sopravvissuto all’incendio nelle carceri. È uscito vivo per miracolo. Un attimo
in più, e ci avremmo rimesso la pelle entrambi – solo una neutra constatazione
aveva trovato spazio sulle sue labbra tremanti.
-
Chi è questo ragazzo,
Auguste?
Stessa
domanda, stessa luce tagliente in fondo ad occhi intorbidati dal sospetto:
cinque anni di distanza. Prima Lucien, il suo Lou, ora Dorian in prima
persona.
Auguste
sentì il cuore contrarglisi dolorosamente nel petto, i ricordi che lo
sommergevano, sollecitando beffardi le sue percezioni annebbiate. Per un istante
temette di non riprendersi più, come se il torrente di lacrime che gli bruciava
negli occhi potesse tormentarlo in eterno, senza mai risolversi a scivolare
lungo le gote.
-
Osservalo meglio, Lucien! L’hai già visto; qualche settimana fa, ricordi? Era
con noi.
Aveva
scostato il telo da quella figuretta prostrata nell’incoscienza, i lunghi
capelli intrisi di sangue.
Lucien
aveva distolto lo sguardo, sbigottito, le parole congelate in fondo alla
gola.
-
Sì, è così come pensi, Lucien – l’aveva preceduto d’impulso, senza attendere
risposta, una lieve nota impertinente nella voce; e fu certo, almeno per un
istante, di essersi sentito egoisticamente fiero, come a stringere un trofeo –
Esattamente colui che temi che sia.
-
Tu sei pazzo, Auguste. Completamente pazzo!
-
Cos’avresti fatto tu, al mio posto? – rammentava di essere scattato in piedi,
fronteggiandolo quasi con rabbia – L’avresti lasciato morire? L’avresti
consegnato al duca Alphonse in cambio di un bel purosangue con cui abbandonare
la città in attesa di tempi migliori?
-
Ha bisogno di cure. Cure che noi non siamo nelle condizioni di garantirgli. È
ridotto male. E noi siamo in guerra, Auguste, ci siamo immersi fino agli occhi,
e là fuori c’è un esercito schierato, con il duca che smania di mettere le mani
su ogni ribelle ancora vivo in città: non possiamo tenerlo nascosto a lungo, a
meno che tu non voglia lasciarlo morire in questa
prigione.
-
No, ce la farà, invece. Lui vuole vivere, è caduto tra braccia sicure mentre gli
altri perivano, e non mollerà adesso. È un dono del cielo, non
capisci?
-
Ha perso molto sangue. Cosa vuoi fare di questo ragazzo,
Auguste?
-
Lui è uno di noi. Il miglior asso nella manica che potessimo desiderare. Il
problema, Lucien, più che la ferita alla testa, è che è rimasto esposto troppo a
lungo al fumo, prima che potessi raggiungerlo e caricarmelo sulle
spalle.
-
Cosa vuoi fare, Auguste?
-
Sarà più al sicuro quando i disordini saranno cessati e noi saremo lontani da
qui.
-
Ragioni su tempi troppo lunghi, Auguste. Sono questi, i giorni che potrebbero
essergli fatali.
-
Madame Bertrand e suo marito se ne prenderanno cura fino al nostro
ritorno.
-
Serve un medico, in questo momento, non una balia.
-
Rimandiamo la nostra partenza, Lucien: te ne prego!
-
Hai bisogno di lui?
-
No. Dorian ha solo diciotto anni. Non
deve morire. Sappiamo entrambi chi
è, ma nessuno deve sapere, tranne
noi. Il duca crede che sia morto, non è a lui che darà la
caccia.
-
Dorian. Lui è Dorian! Ne parli come se fosse un tuo vecchio amico o un fratello
di sangue. Per te è già uno di noi.
-
È uno di noi e starà con
noi.
E
poi più nulla, spezzoni confusi, trattative dell’ultimo minuto. Lucien l’aveva
stretto al petto, e da quel punto in poi non riusciva a riallacciare altri
ricordi frammentari, altri pezzi di discorsi rubati all’enfasi angosciosa di
quegli attimi.
Il
capo gli doleva, e la smania di riallacciare ogni tassello diveniva un peso
sempre più insopportabile ed assurdo, come scavarsi il cuore a mani
nude.
Dorian
era vivo e stava bene, seguitò a ripetersi come un mantra: era tutto ciò che
contava. Tutto sarebbe filato liscio, se lui avesse continuato a
tacere.
Avrebbe
continuato a mantenere la situazione perfettamente sotto controllo, scongiurando
ogni tentativo, da parte di quell’incosciente dai nervi in ebollizione, di
rovinare la sua opera d’arte, magari commettendo qualche sciocchezza e
offrendosi al duca su un piatto d’argento. Non avrebbe reso vana la sua fatica
di strapparlo alle fiamme, di nasconderlo, di proteggerlo, di crearlo dal nulla.
Dorian Alexandre Desgrais, che tentava di ribellarsi alla confortante cappa di
velluto da cui si era lasciato plagiare. Questo no, non dopo tutti i suoi
sforzi.
Lui
era il suo affanno, le sue lacrime; era il sangue di Lucien, in ultima istanza,
e il prodotto di tutto questo.
-
Fai l’uomo, Dorian, anziché il bambino, te ne prego! – si risolse, infine,
allontanandolo bruscamente da sé e ripristinando con il suo scatto gelido le
antiche distanze – Gli altri stanno per arrivare.
Ed
erano arrivati, puntuali al richiamo del loro stanco
mentore.
Ambrosie
e Fernand, stretti in un inquieto mutismo carico d’interrogativi circa quella
convocazione dalla pretenziosa ufficialità.
Raphäel
li seguiva a pochi passi, gli occhi vivaci incassati nelle orbite stanche,
carichi di un’ottimistica, fiduciosa perplessità, braccia incrociate sul petto.
In attesa di qualche trovata geniale che gli fosse balenata nella testa durante
la notte; qualcosa su cui profondere la sua energia, fosse stato uno spunto,
un’idea, magari un’inversione di rotta improvvisa e non per questo priva di una
sua ragion d’essere. Era un ragazzo giudizioso, Raphäel.
Non
vi era nulla di nuovo sotto il sole, d’altronde. Ma non stavolta, non per loro.
Chissà se avrebbero mai sospettato…
Si
schiarì la voce. Evitò accuratamente lo sguardo di Fernand che sentiva
bruciargli addosso con insistenza, frustrato da quella reciprocità negata con
indefessa, noncurante ostinazione.
Dorian
sedeva in disparte, come offeso dal suo atteggiamento che ora era tornato quello
di sempre, freddo e scostante, quasi un getto di veleno.
-
Io… Abbandono il progetto.
* *
*
Buonasera
a tutti, ben ritrovati su queste pagine!
Capitolo
per alcuni versi “di passaggio” (alla faccia delle quindici pagine e rotte), ma
che mi ha permesso e di approfondire maggiormente il rapporto tra quei due
mattacchioni di Auguste e Dorian e di aprire finalmente qualche scorcio sul
passato di quest’ultimo. Un *piccolo* scorcio, vabbè… Ma questi son
dettagli.^^
Aggiornamento
che approda su questi lidi con più ritardo di quanto in realtà avessi previsto,
in effetti. Mea culpa, stavolta ho scassato un po’ anch’io, devo ammetterlo: il
capitolo era pressoché concluso, solo che poi sono ricominciate le lezioni, e da
lì è stata un po’ una salita. Non sono mancati scleri e perplessità di vario
genere, ma alla fine, come dire, ad avere la meglio è stata la mia indefessa
passione per questa storia che ormai viaggia per i due annetti e passa, dacché
vide la luce nella mia testolina e sul web, alla quale sono morbosamente
affezionata e che – lo dico con malcelato orgoglio – se non ci fosse stata,
forse io in primis sarei diversa da come sono, e forse non mi avrebbe permesso
di addentrarmi in punta di piedi nel mondo meraviglioso e affascinante della
scrittura che ormai sento parte di me.
Ringrazio
tutti coloro che seguono o che continuano a seguire questa storia, coloro che
hanno aggiunto Noir Trésor tra i
Preferiti e le Storie Seguite, nonché chi mi ha aggiunto tra gli Autori
Preferiti. Un *grazie* speciale va ovviamente a coloro che con le loro
impressioni hanno allietato il mio rientro dalle vacanze (ebbene sì, purtroppo
risale ad allora l’ultimo aggiornamento) nonché, in particolare, il mio
cuoricino di autrice perfezionista e capricciosa che, senza false modestie di
sorta, ammette in tutta sincerità che NT non sarebbe ciò che è senza i loro
commenti, analisi e incoraggiamenti.
In
particolare:
Fata:
fermo restando che attendo sempre con ansia di leggere le tue splendide
recensioni, fermo restando che quando mi scrivi che senti NT un po’ parte di te,
non posso che annuire commossa e versare pure qualche lacrimuccia di gioia in
proposito, poiché riconosco che senza i tuoi commenti, le tue stupende analisi,
la sensibilità con la quale leggi i
ragazzi di NT, le inedite angolature attraverso le quali, commento dopo
commento, mi permetti d’inquadrare i personaggi, i loro tormenti, i sentimenti,
il dipanarsi delle situazioni, questa storia non sarebbe ciò che è attualmente;
forse qualche volta avrei faticato un po’ di più a ritrovare il bandolo della
matassa. Forse io stessa non sentirei i pg esattamente nel modo in cui li sento.
Forse Auguste starebbe peggio. Insomma, *grazie*, in una sola parola. Fermo
restando tutto questo bel po’ po’ di cose, si diceva, ero rientrata la sera
stessa dalle vacanze estive, e ho acceso il pc. Ho trovato due meravigliosi
commenti di due meravigliose lettrici. Ho pianto. O, se non altro, devo esserci
andata vicina. Perché quando trovi qualcuno che ti regala letture così
appassionate, capaci quasi di svelarti in anteprima quelle pieghe che forse
ancora giacevano in una sorta di volteggiare nebuloso, c’è poco, davvero poco da
aggiungere. E credo che, forse, in questi casi, un semplice “grazie” sia un
pochino riduttivo.
Ora
proverò ad procedere un po’ con ordine a questa mia non breve risposta, se no chissà dove
andrei a parare. Questione vampiri: non ti sei sbagliata. E sì, la faccenda è
rimasta in ombra, in effetti, a favore di altre dinamiche. Volevo inizialmente
costruire il mondo, le trame necessarie ad accoglierli: così è cominciata. Sono
nati Auguste, Fernand, Dorian, Ambrosie… Catalizzando prepotentemente ogni
singola sfaccettatura della storia con le *loro* storie. Non che abbia tenuto
del tutto da parte la questione sovrannaturale, ecco, così come non ho potuto
fare a meno di disseminare messaggi tutt’altro che sublimali qua e là, ma ecco,
hai perfettamente ragione a dire che è stata la dimensione emotiva a farla da
padrona. Forse, in soldoni, è proprio lei l’incontrastata protagonista della
storia, si tratti nello specifico di umani, vampiri, di questo o quel
personaggio.
Dorian,
Fernand e Auguste: la triade che, nei fatti, s’impone nell’impianto della
storia. Dorian forse è “nato” con qualche mesetto di ritardo rispetto agli altri
due, Dorian come lo conosciamo ora, intendo, ma la cosa non fa poi una gran
differenza. Sembra quasi di vederlo lì che sgomita per “rubare lo scettro” agli
altri due. È “cresciuto” in questi ultimi mesi, a dir la verità, e ti dirò che
per me si rivela di volta in volta una sorpresa sempre maggiore trattare di lui,
riportare sulla carta la sua storia, i suoi tormenti, il contributo che con la
sua impronta sta donando a NT. Da certi punti di vista, lui è un mistero anche
per me, così enigmatico e contraddittorio, con la sua generosità quasi al
limite, ma trovo piacevolissimo “rigirarlo”, dipingerlo, scoprirlo, crearlo pian
piano. Dal tuo commento ho evinto che, fortunatamente, nonostante il tempo che
intercorra tra un capitolo e l’altro, nonché tra il momento in cui il
personaggio prese vita nella mia mente e ora, sono riuscita a mantenere IC
Fernand (e, esperienza, può succedere anche di mandare OOC un proprio pg
originale; è un po’ difficile, ma può succedere anche questo). Ciò non significa
che il più piccolino non sia destinato a crescere. Forse è cambiato leggermente
il mio modo di rapportarmi a lui… Diciamo che il rapporto autore-personaggio si
è “evoluto”, in un certo qual modo.
E
poi arriva Auguste. A volte penso che Auguste, sotto sotto, almeno un filino
debba detestarmi. Almeno qualche volta. O forse sarà il contrario, chissà.
Perché ogni volta che tutti siamo convinti che quest’uomo abbia toccato il
fondo, immediatamente lui, non contento di ciò, comincia a scavare. Dal momento
che i fatti lasciano pensare che abbia fatto tutto da solo e che la sottoscritta
c’entri nella misura in cui si è limitata a riportare per iscritto, declino
parzialmente sulla responsabilità dell’accaduto. Che poi, trattare di lui a
volte fa anche male. E chissà che mi direte di ciò che il signor de
la Garde
combina giusto qua sopra…
Qua,
a dir la verità, ci starebbe bene anche qualche piccola riga di scuse causa
scleri assortiti su LJ e dintorni. Il momento nero c’è stato e non posso
negarlo. Posso però, in questo preciso istante, tirare un sospiro di sollievo e
ammettere che anche stavolta, incrociando le dita che tutto andasse bene, tra me
e il momento semi-depressivo, ho vinto ancora io. Almeno, spero. Che poi,
sarebbe un discorso anche lunghetto da riassumere, ma mi rendo conto a
posteriori di come NT in tutto il calderone di cattivi pensieri c’entrasse solo
e soltanto relativamente, e pure in una piccola percentuale. E che ha ragione
chi dice che smettendo di scrivere (o anche solo di condividere quanto scritto)
mi fregherei da sola, se è vero che NT e tutto quel che vi gira intorno
rappresentano una parte importante di me. E sul fatto che ciò è vero potrei
metterci la mano sul fuoco. A meno che proprio l’ispirazione non si
volatilizzasse così, da un momento all’altro. Ipotesi che reputo remota – e nel
dubbio, in mancanza d’altro, tocco ferro!
Che
poi, con lettori come voi, se parlassi di mancanza di riscontro sui generis, il
discorso somiglierebbe un po’ ad una bestemmia. Perché leggere queste due
recensioni è stata un’iniezione di adrenalina. Di gioia. Di autostima. Poi è
venuta la momentanea tempesta, anche se NT c’entrava soltanto di
sfuggita.
Sulla
questione stile, che dire: lo stile è un po’ un mistero. La prima versione
(quella del 2007, diciamo, i primi capitoli non ancora riveduti e corretti)
presentava narratore onnisciente e talvolta PoV misti, almeno in una certa
misura; poi, da un certo momento in poi, ho provato ad usare PoV singoli, o
comunque più definiti, e in effetti, così, mi è sembrato di poter gestire meglio
la storia. Di dare un impatto a prima vista più professionale e soprattutto più
intimistico, più naturale, meno “forzato” dalla mano del narratore. Così ho
cercato di “riadattare” un po’ il tutto. Su Ysal mi pare circoli ancora la
vecchia stesura. L’ambientazione simil-Francia diciottesimo secolo, in effetti,
è stata un inconsapevole terno al lotto: per quanto difficile sia per me
ricondurre NT a un filone, a un genere ben definito, un po’ strizza l’occhio al
gotico-fantasy, anche se non del tutto. Generi che nella forma canonica
prediligono ambientazioni o richiami medievaleggianti. Qua c’è stata la prima,
inconsapevole inversione di tendenza, nel momento in cui ho scelto
l’ambientazione simil-settecentesca. Vi è poi da aggiungere che, appena
cominciato a scrivere NT, non avevo letto ancora le Cronache dei Vampiri della Rice (alle
quali va tutta la mia imperitura ammirazione).
Termino
qui, perché ci sarebbe davvero tanto da dire, se no non so a che ora finirò, e
perché credo che ormai sappia tutto ciò che penso in proposito. Un bacio, alla
prossima!^^
Witch:
ben ritrovata, tesoro!^^
Dunque,
dunque, come dicevo poc’anzi, in effetti contavo stavolta di accumulare meno
ritardo nell’aggiornamento. Eppure, eccomi qui (soprattutto perché adesso posso
cominciare con tutta tranquillità il prossimo capitolo… E sai a che mi riferisco
nello specifico!^^).
Innanzitutto,
mi ha fatto enormemente piacere leggere le tue opinioni a proposito di questi
ultimi due capitoli – che poi, erano l’uno il continuo dell’altro, per non
sfornare un mega capitolo di una trentina di pagine; quindi, condivido appieno
la scelta di recensirli insieme. Sono davvero molto felice che i due capitoli ti
abbiano impressionato positivamente, così come sono lieta del fatto che Dorian,
“colui che – nella mia mente – nacque dopo gli altri”, rientri fra le tue
preferenze: ho investito molto in questo personaggio, in effetti, e, non di
meno, ho finito per affezionarmici in maniera quasi morbosa. Nondimento, sono
felice di leggere i riscontri circa l’imporsi sulla scena di questo ragazzo un
po’ sfuggente. Trattare con Dorian, far luce sulle sue sfaccettature, devo
ammettere che si rivela di volta in volta qualcosa di diverso: questo
personaggio sembra vivere una dimensione emotiva tutta sua, forse anche
leggermente “sfasata” – come “sfasati” sono i suoi ricordi, ciò che dovrebbe
rappresentare per lui delle ideali radici in cui identificarsi –, ravvisabile
nelle sue reazioni, nei suoi mutevoli percorsi emotivi, nei suoi sbalzi, nel suo
vivere le sensazioni e le situazioni che via via gli si presentano in un
rimescolio cerebrale tutto suo, dagli esiti poco prevedibili. Diciamo che tende
a “metabolizzare” le cose a ritmi un po’ anomali, instabili: la percezione di un
sentimento evolve a ritmi forse eccessivi rispetto a quella che grosso modo
dovrebbe essere la norma. E lui è tanto capace di affezionarsi morbosamente a
qualcosa, quanto poi non dico a disinteressarsene rapidamente, ma se non altro a
lasciar evolvere, a sintetizzare e convertire il sentimento in qualcosa di
diverso. O forse è un espediente, un debole tentativo di difesa per non essere
scalfito dalla possibilità che un suo affetto non sia
contraccambiato.
Credo
che nel rapporto con Fernand l’ambiguità propria di Dorian emerga in tutta la
sua estensione: un po’ amico, un po’ amante, lo vuole, non lo vuole, lo attrae
nelle sue spire, poi si tira indietro, gli si concede per non dover concedergli
di essere il primo per lui. Qui c’è stato proprio un capovolgimento dei ruoli,
un lento virare dei sentimenti che Dorian nutre nei confronti di Fernand verso
approdi meno ingombranti e meno portatori d’illusioni e dolore di quanto avrebbe
potuto rivelarsi, almeno in teoria, un “innamoramento” sui generis. Nonostante
ciò, nulla nega che lui sia innamorato o che questo brusco convogliamento dei
suoi sentimenti verso porti apparentemente più sicuri sia stato per lui indolore
– anzi, credo che rinunciare simbolicamente e accettare il ruolo dell’amico al
cento per cento l’abbia scalfito nel profondo. Perché c’è l’ombra di Auguste fra
loro: Dorian lo sente, eppure lo accetta. E questo è sufficiente a scombussolare
il ruolo che avrebbe potuto ricoprire nella vita di
Fernand.
Non
posso non darti ragione, poi, quando dici che tra Dorian e Fernand è davvero
difficile stabilire chi sia più innocente. Dorian e il suo altruismo esasperato,
il suo modo singolare di “farsi da parte”, di annaspare alla ricerca di una
collocazione ideale in quel tessuto, o Fernand e la sua totale
confusione?
Fernand,
poveretto, è davvero perso: così poco consapevole di ciò che vuole
effettivamente, che quasi quasi ha fatto prima Dorian, dall’esterno, a cavargli
la verità di bocca senza bisogno di interrogarlo in proposito. O di fidarsi
ciecamente delle sue parole. L’ha capito prima Dorian di lui, che non sarebbe
stata la scelta ideale, almeno da un certo punto di vista, eppure il più giovane
dei due continua a navigare nel buio. A temere l’eventualità e a voler
strenuamente cercare un rifugio alternativo.
Che
dire poi di Auguste: una parte di lui sembra essere morta con Lucien. E, senza
di questa, lui naviga nel buio, quasi privo di difese da contrapporre alla
disperazione che si fa strada in lui senza accennare a qualche battuta
d’arresto. Auguste non è facile da rendere, in effetti: oltre ad andare per
conto suo, masochisticamente, il più delle volte, finisce pure per fare male.
Sente una grandissima responsabilità pendere sul suo capo, e mai come ora sente
questa responsabilità pesargli così enormemente. Dorian, Fernand, i ribelli, le
macerie nelle quali si aggira: per lui è come se tutto stia precipitando
lentamente in una miscela quasi letale. Per quanto riguarda il segreto di
Dorian, è il caso emblematico di quei punti oscuri che si è sempre ostinato a
serbare per sé, con tutte le insidie e il senso di colpa che la scelta poteva
comportare. Ancora una volta, Lucien era l’unica persona con la quale avesse la
possibilità di condividere parzialmente il suo fardello.
Il
particolare del piccolo pipistrello che sbatte le ali sulle imposte chiuse, lo
ammetto in tutta sincerità, è stato “vagamente” un colpo basso: non ho potuto
resistere a piazzarci il dettaglio ad hoc, il messaggio smaccatamente allusivo,
e in effetti è stato “suggestivo” e utile alla circostanza! Che poi, chiunque
sia il vampiro (ehm… Ehm!), pare avere giusto *due* preferenze quando si dedica
pazientemente alle sue scorribande al calar del sole. Spero che comunque la
questione vampiri (da cui, non per altro, la storia omaggia innanzitutto con la
scelta della categoria di scritti in cui è smistata), nel momento in cui
s’imporrà nel tessuto della storia, risulti all’altezza delle
aspettative.
Bene,
bene, ora è meglio che mi affretti a pubblicare, se no è sempre in agguato il
rischio di accumulare ulteriore ritardo…! Di molte cose si era già parlato, mi
sarò sicuramente ripetuta un’infinità di volte, ma il piacere di dilungarmi
ancora un po’ sulla questione NT, come sempre, è stato irrinunciabile e
voluta.
Alla
prossima, un bacio!^^
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Capitolo 25 *** Capitolo 25: Conosci te stesso ***
Capitolo
25
Conosci
te stesso
Una
tacita sinfonia di sguardi percorse la stanza in un crescendo di tensioni
taciute, un allacciarsi sussultante e reciproco.
Fernand
sbatté le palpebre, il respiro impigliato in fondo alla gola come un pugno
vibrato sullo sterno. Osservò il volto di Auguste: lo sguardo febbrile, così
solenne sul volto cereo – solo un istante prima! – pareva aver smarrito la sua
forza galoppante nell’istante stesso in cui l’ultima sillaba era rotolata giù
dalle labbra, costrette in un’espressione rigida.
Lo
vide voltarsi di scatto, provò a catturare per un istante il tumulto di quegli
occhi luccicanti, le pieghe sottili che fino a quel momento gli avevano
contratto la fronte sotto la stretta di una decisione in atto, prossime a
disciogliersi sul suo viso come una coltre di lacrime, come un velo scomodo. E
poi il suo sguardo si era fatto esausto, vuoto, una mano che correva a reggere
la fronte, ogni traccia dell’antica energia dissipata in una nube scura di
deliranti propositi.
E
fu forse in quell’istante che comprese che no, stavolta Auguste non sarebbe
tornato indietro, neppure se fosse precipitato in fondo al baratro, sempre più
giù.
Fernand
lasciò ricadere il proprio sguardo a lambire il suolo, abbandonata ogni
frenetica velleità di guardare in faccia Auguste, d’intrecciare il proprio
sguardo con il suo e domandargli perché. Per un attimo temette che
sarebbero crollati a terra entrambi, privi di forze, in un’inquietante,
grottesca simultaneità.
Invece
riuscì soltanto a raccogliere gli ultimi residui di coraggio e fissare
nuovamente in viso i presenti. I capelli di Dorian ricadevano indolenti come
pigri raggi di sole sulle spalle rilassate, sul volto inquadrato in un ritratto
di noia e cerea incredulità. Dorian, immobile come una scultura fredda, immerso
nel suo angolo isolato, l’espressione diffidente.
Fernand
sentì una fitta d’angoscia attraversarlo, come un’eco dolorosa sulla pelle. Lo voleva.
E
poi un sospiro rassegnato, l’intensità di una frustata capace di scuotere l’aria
immota tutt’intorno. Quasi non riuscì a sintetizzare nella propria mente, a
collocare nello schema di una successione lineare, la marcia indignata che
condusse Dorian fuori dalla stanza, un ampio gesto delle mani a sottintendere un
nervoso disappunto.
È
solo una sceneggiata allestita su due piedi, Fernand,
gli parve di sentirlo ruminare fra i denti, la rete di un’apatica, sdegnosa
indolenza a imbrigliare potenziali slanci di collera. Vuole soltanto fare l’eroe ribelle.
Tranquillo, ha tutto sotto controllo. Come sempre.
Fernand
scosse il capo, combattuto, frenesia in punta di dita. Quasi non avvertì la
stanza scorrere dinnanzi a lui né i suoi stessi passi echeggiare sul pavimento
lungo la sua traiettoria. Avvertì però chiaramente gli stupidi svolazzi della
camicia di Auguste arricciarsi fra le proprie dita strette a tenaglia, e lo
scossone violento che costrinse il cadavere che gli stava davanti a rivolgere
forzatamente lo sguardo su di lui, i capelli svolazzanti intorno al viso,
fuggiti allo straccetto inutile che gli penzolava sulla spalla. Auguste che
lottava per fuggire il suo sguardo.
Fernand
sentì le proprie dita tremare, chiuse intorno al suo trofeo. Per un attimo fu
tentato di scrollarlo fino a cavare da quel buco nero che era la sua testa una
spiegazione plausibile a tutto ciò, ma poi fu sfiorato dal terrore che Auguste
potesse intuire in lui l’impronta di un pianto sapientemente trattenuto, gli
occhi come tizzoni ardenti.
-
Era… era davvero questa la tua… sorpresa? – gli soffiò con voce incolore
– Era questa la tua fantomatica soluzione a ogni problema? Tutto
orrendamente… premeditato, e tu lo sapevi. Due giorni fa… Mi hai ingannato. I
tuoi bei discorsi… Ti sarai divertito, ti sarai goduto la mia faccia di fronte
alle tue bugie?
Serrò
le palpebre. Avrebbe voluto piangere, gridargli addosso e scalfire a suon di
schiaffi quelle gote di gesso fino a veder mutare quell’espressione orrendamente
assente, persa in un abisso d’angoscia, di recenti e antiche menzogne. A costo
di vedere il sangue.
Furono
due paia di mani ferme a staccarlo da lui. Il volto colmo d’apprensione,
Ambrosie osservava Auguste, le sopracciglia corrugate sul viso delicato e la
superficie mutevole degli occhi accesa di un umido bagliore. Le mani di Raphäel
lo trattenevano in una presa quasi gentile, vellutata su di lui, le dita sottili
come ganci metallici ancorati alle spalle. Avvertì le proprie labbra incresparsi
impercettibilmente in un singulto di pianto, la voce
smarrirsi.
-
Fernand, ora basta! – gli ingiunse bonariamente Ambrosie, l’espressione
allarmata del viso stemperata dalla calma apparente che cercava di infondervi –
Almeno per ora. Non vedi che sta male?
E
Dorian che sostava altezzoso sul limitare della porta, le membra nervose
fasciate dagli indumenti eleganti, inquietante binomio con l’espressione
insofferente che conferiva al suo volto una sfumatura quasi inumana. Annuì con
un secco cenno del capo.
-
Ha ragione lei, Fernand – acconsentì, lo sguardo basso sul pavimento – Non è il
momento; non otterrai nulla, se lo prenderai a pugni.
E
poi, tutto precipitava. Inesorabile, come una valanga in procinto di venirgli
addosso, e i suoi piedi ancorati al suolo.
-
Fernand… – come un sogno, vide Auguste barcollare incerto verso di lui, fino a
trovare un precario appiglio su Raphäel.
Deglutì,
a disagio, lo sguardo fisso su quegli occhi febbricitanti, su quelle labbra
distese in un mezzo sorriso sarcastico, privo di qualunque venatura di
gioia.
-
Fernand… – sussurrò, beffardo – Basta sceneggiate. Dovresti solo essere felice,
immagino: non c’è più nessuno a tenerti alla catena, come vedi; nessuno a
rimetterti al tuo posto o ad annoiarti con discorsi da vecchi pusillanimi e
rincretiniti. Nessun capetto borioso ad ostacolarti con le sue chiacchiere
inutili: sono tutti andati via, guarda un po’! – una risata amara, prossima
all’aggressione verbale, uno squillo di campane funebri – Non vedi la nostra piccola congrega? È tua, ora. Fanne ciò che preferisci… nei
limiti in cui gli altri saranno d’accordo, ben inteso. Per il resto, è tutto
tuo. Come volevi. Era il tuo sogno. Ora, divertiti!
-
Che diavolo stai farneticando? – Fernand sentì due fiotti di lacrime scorrergli
senza preavviso sul volto, come lava incandescente – Cosa significa questo? Sei
impazzito? Era… Mentivi, allora. Mentivi, l’altro giorno. Tutti i tuoi fottuti
discorsi da manipolatore schifoso… Mi ritieni solo un… un odioso parassita
capace nonostante tutto di approfittare della tua debolezza per ottenere quello
che desidera. Come osi? Mi hai preso in giro. Volevi tastare le mie reazioni,
volevi veder scorrere il sangue e assestarmi il colpo di grazia. È la tua
vendetta? Di cosa dovevi vendicarti, stavolta?
Del
fatto che ti amo, maledetto figlio di puttana?
-
Non ho detto che vuoi approfittare della mia difficoltà – Auguste pareva quasi
aver recuperato un barlume di lucidità, dopo le deliranti, caustiche
insinuazioni che gli aveva vomitato addosso – Ho detto soltanto che con questo
bel progetto che vedi davanti a te, io non c’entro più nulla. Fanne quello che
preferisci! Ti chiedo però di perdonarmi, se in questo momento la tua vista
potrebbe urtarmi leggermente. È… è più forte di me. Forse non sei il ragazzino
ficcanaso e arrivista che credevo fino a non molto tempo fa… Ma proprio non
riesco a sopportare la tua congrega,
la tua iniziativa un istante di più.
La tua dannata bramosia di agire che ha finito per ammorbare tutto, per
trascinarci ancora più a fondo in questa follia. Quell’entusiasmo malato, eppure
così stranamente opportuno. Quasi… provvidenziale. Ecco, da questo momento in
poi, a me non importa più nulla. Sarete voi gli artefici.
-
Stai mentendo… Menti anche adesso, e forse neppure t’importa che la tua farsa
sia così malriuscita da sfiorare il ridicolo. Almeno, spero per te che sia così.
Perché io non voglio nemmeno crederci – Fernand si sforzò di ricacciare indietro
un groppo di tristezza inchiodato al petto che difficilmente, comprese, sarebbe
riuscito a sopprimere del tutto.
Non
era vero niente. Era solo il desiderio malato e fuori luogo di autoconvincersi
che si trattasse dell’ennesima, maldestra recita di Auguste. Aveva ragione
Dorian, per forza, e non poteva
essere diversamente.
-
Se questo ti aiuta a stare meglio, sogna, Fernand!
-
Preferisco pensare che tu sia completamente ubriaco, che magari ti sia bevuto il
cervello, oppure che questo sia il tuo ennesimo tentativo di prenderci in giro a
dovere, intorbidare un po’ le acque per poi riprendere a fare i tuoi comodi con
il benestare di tutti. A confondermi le idee, a spedirmi sull’altare o
all’inferno a seconda di come ti svegli al mattino o dall’atteggiamento che di
volta in volta ti si rivela utile per manovrare la situazione a puntino. Ma
com’è buono Auguste, com’è saggio Auguste! – Fernand proruppe in uno scroscio di
risa isteriche – Perché questa, tutto sommato, è la cosa che ti riesce meglio.
Se davvero è così, permettimi almeno di chiamare le cose con il loro nome. E
queste, se me lo concedi, non sono altro che le patetiche acrobazie di un
vigliacco impostore.
Fernand
tentò di mordersi la lingua, convulsamente, ma le parole che gli premevano sulle
labbra erano sgorgate via di getto, come lacrime non trattenute. Aveva usato la
parola magica, e qualcosa, per un istante, gli parve balenare in fondo alle
iridi di Auguste. Arretrò, d’istinto, afferrandosi provvidenzialmente al braccio
di Ambrosie, quando vide Auguste riscuotersi dal suo torpore allucinato,
divincolarsi da Raphäel e gettarsi sulla sua traiettoria.
-
Questo no, Fernand! – gli soffiò – Sei libero di pensare ciò che preferisci, ma
io non sono un vigliacco né, tanto meno, un impostore.
- E
allora dimmelo tu, in queste circostanze, che cosa sei. Qual è l’appellativo che
ti descrive meglio, sentiamo… – Fernand si morse nervosamente il labbro, temendo
un epilogo violento da un momento all’altro.
Lo
vide distogliere lo sguardo, scuotere il capo, rassegnato.
-
Di me non hai capito un accidente, Fernand.
- E
non credo di essere l’unico, qua dentro – lo interruppe Fernand, una sensazione
fredda come veleno che gli corrodeva la gola – E sono convinto che la cosa non
sia mai stata tanto reciproca, fra noi.
-
Non ho mai chiesto di capirti né di entrare nella tua testa. Ho detto solo che
non m’immischierò più in faccende di vitale importanza che ora, com’è giusto che
sia, dipenderanno esclusivamente da voi e non più da me. Ho sbagliato… Forse eri
tu la persona adatta a coordinare l’iniziativa, sin dall’inizio. Non lo so, ma
non vedo neppure perché dovrei sforzarmi di sopportare ancora a lungo – concluse
con un mezzo sorriso – Alla luce di questo, Fernand, mi meraviglio soltanto di
come tu possa pensare che io non nutra stima e fiducia nei tuoi riguardi. Non
sei contento, almeno un po’? Ti sto cedendo tutto, se non l’hai capito. Che
diavolo vuoi ancora? Non è abbastanza? Hai vinto.
Fernand
sentiva la testa vorticargli come in preda al mal di mare e, per un istante, gli
parve di scorgere sul volto tirato di Auguste una nota di rimpianto
accuratamente dissimulata in strafottenza, un messaggio da
decifrare.
-
Non… non era così che volevo che andasse – gemette – Non era ciò che volevo. A
te non importa nulla, non mi apprezzi, non ti fidi di me e l’altro giorno mi hai
solo riempito la testa di parole vuote. Non t’importa di sapere se la tua è una
decisione appropriata oppure no. Vuoi scaricare parte della tua responsabilità
su qualcun altro, perché è troppo gravoso accollartela da solo. Vuoi...
umiliarmi, chissà! Lavarti la coscienza. Ed io della tua generosa concessione
non so che farmene, se vuoi metterla su questo piano. Credevi che stessi qui a
dannarmi l’esistenza giorno e notte e a condividere il tuo fardello per
intrufolarmi nel tuo impero di menzogne e rubarti il cibo di bocca, prendendomi
meriti che non mi appartengono… E con questo posso solo dire che di come sono,
Auguste, di cosa volevo in realtà, non hai capito un
cazzo.
* *
*
-
Auguste. Cosa significa… questo? Avremmo… ripreso quel discorso, se ne avessi
sentito il bisogno. Cos’è successo, ora?
Ambrosie.
Arriva
la seconda dose. Non è stato ancora abbastanza.
Auguste
si sentì stringere la nuca da un doloroso riflusso di rimpianto. Se lo chiedeva
anche lui: cos’era successo, in quel frattempo? Perché Ambrosie aveva le mani
rigidamente piantate sui fianchi, perché qualunque vaga impronta d’indulgenza
sembrava scomparsa dal suo viso? Gli stessi occhi blu di Fernand, lo sguardo
strettamente incollato al suo.
Sembravano
trascorsi secoli. Lei aveva mantenuto viva la speranza in quella discussione
dall’impronta ragionevole, la mente aperta alla novità, alla scintilla di un
risvolto ottimistico.
Auguste
lasciò ingannare la propria vista nel riverbero di luce sulla
parete.
-
Vorrei sapere dov’è che non vedi il nesso, Ambrosie. O forse, proprio non
ricordi cosa si era detto a proposito di tuo fratello. La mia fiducia come
irrinunciabile pegno di pace, come inizio. È così importante, ora, che la mia
presenza non sia più inclusa nel pacchetto?
Lei
scosse il capo, uno sfolgorio d’indignazione in fondo alle pupille. La mano di
Raphäel le copriva la spalla. Forse assentiva, o chissà cos’altro gli stesse
dicendo la sua mente contorta.
-
Sarà l’inizio di un bel nulla, Auguste. Ti prendi gioco di lui, poi
improvvisamente gli vuoi far carico di qualcosa che reputi già scomodo per te,
quasi per spregio. Dio, Auguste! Ti sei bevuto il
cervello?
Auguste
si sentì attraversare da un freddo riverbero d’irritazione. Chinò lo sguardo,
risentito. Dieci anni in meno di lui, fuoco liquido in fondo alle iridi come
specchi d’acqua in tempesta, un impeto d’istintivo, feroce dissenso. Troppo
causticamente dissonante, lì davanti a lui; troppo simile a Fernand.
Incontrollabile. Poi, inaspettatamente, avvertì una risata liberatoria
bruciargli in fondo alla gola, le labbra tirate in un sorriso non
voluto.
-
Perché no? E tu saresti la sua luogotenente ideale.
-
Ti ringrazio da parte di Fernand per il regalo – un sibilo freddo pervase la
voce di Ambrosie, l’espressione piccata.
Auguste
si morse nervosamente il labbro. Lasciò saettare lo sguardo intorno alla stanza,
alla ricerca di un indizio utile.
Lasciami
in pace, donna. Non sei che un cucciolo dal cuore sazio d’informe ambizione di
protagonismo, un ragazzo mancato. E tuo fratello, la manifestazione visibile
della mia deliziosa, personale maledizione!
Fernand,
Ambrosie, Raphäel, Dorian: un esperimento degno di suscitare il mio morboso
interesse. Se soltanto fosse almeno tale, se solo vi sforzaste di capire. Ma io
non sarò più qui. Rien ne va plus.
-
Ho sbagliato, Ambrosie. Avrei dovuto comprenderlo… molto tempo addietro. La vostra fottuta missione sentiva il
bisogno di una seppur minima componente d’irrazionalità. Di… un moto ideale a
far da sottofondo, una passione in gioco, una volontà appassionata, non una
specie d’impalcatura indefinita, retta da nient’altro che un impersonale senso
del dovere campato in aria, nel quale non riesci più a credere nemmeno tu. Di un
cuore, dopotutto, oltre che di una mente logica. Un coraggio spontaneo, audace,
fantasioso. Mi piace Fernand, da questo punto di vista. Sarebbe semplicemente
fantastico. Ed io ho capito che non ero la persona giusta: sappi che mi fa male
ammetterlo, ma è tutto qui, nulla di cervellotico.
-
Ci prendi in giro, Auguste. Oppure sei completamente impazzito. È il tuo
ennesimo colpo di testa. Tu e Lucien non parlavate così.
-
Lucien, certo. Lui era il sistema compiuto. In lui c’era… una coerenza logica
tra aspirazione e gesti concreti, tra mente e cuore. Una base notevole, un
sogno, la persona di cui in quel
momento avevamo bisogno. Cosa nega, ora, che questa specie di chimera possa
essere incarnata proprio da Fernand? Mi meraviglio solo che proprio tu, che lo
conosci meglio di chiunque altro, proprio non riesca a riconoscerne lo slancio.
Nemmeno lui stesso, del resto. Eppure ha tutte le carte in
regola.
Gli
occhi di Ambrosie si strinsero minacciosamente. Scosse il capo,
scettica.
-
Io invece mi chiedo che senso ha ora arrovellarsi il cervello, cercare di
estrapolare qualcosa di buono da un calderone di assurdità assortite. Lo farai
di nuovo, Auguste. Lo umilierai nello stesso modo in cui adesso sembri volergli
elargire una possibilità in cui non credi neppure tu. Ti godrai il canovaccio in
anteprima? E poi, cos’altro farai?
-
Ne sei veramente convinta, Ambrosie. Cosa pensi in realtà?
-
Credo che Fernand non meriti i tuoi stupidi regali. Che non è un inetto. E, se
le cose dovessero davvero andare come dici tu, se non altro con lui non dovremmo
guardarci da bugie, improvvisi salti nel buio e teatrini mal
imbastiti.
- È
assoldato: non riesci proprio ad accettare che l’opportunità che ho dato a
Fernand sia qualcosa su cui meditavo da tempo e che per me ha una ragion
d’essere. Lo istruirò su tutto quello che vorrà, se ce ne sarà bisogno. Sarò a
sua totale disposizione. Ma no, Ambrosie, non chiedermi d’includere anche me al
vostro fianco come prova della mia credibilità. Da questo momento, siete liberi
di considerare prive di valore le mie parole e gestirvi come meglio preferite. A
me non importa più nulla, stavolta non entrerò in merito.
Ambrosie
si strinse nelle spalle, lo sguardo che dardeggiava tagliente su di lui,
inchiodandolo al pavimento, in attesa dell’appellativo calzante da
indirizzargli.
-
Mi hai deluso – chinò il capo – Il tuo è solo un… modo non troppo villano di
uscirtene comodamente di scena, anche se non del tutto. Ti conosco,
ormai.
Auguste
strinse la presa sul legno rassicurante della sedia cui si era
provvidenzialmente aggrappato, le membra molli, sopraffatte dalla sconfitta come
in seguito ad una lotta dalla quale fosse uscito
malconcio.
-
Come tu desideri, Ambrosie – le sorrise, la scrutò di
sottecchi.
Seguì
a denti stretti il moto collerico del capo che le fece danzare i capelli intorno
al volto, un bagliore confuso davanti a lui.
-
Preferirei parlarne con te quando avrai lasciato smaltire del tutto gli
strascichi dell’alcool, Auguste. E ora è meglio che tu vada a riposare, sul
serio, e che la smetta di fare discorsi astrusi.
Auguste
distolse lo sguardo. Osservò Raphäel. Stava compunto al fianco della ragazza, lo
sguardo rigido davanti a sé, distaccato, come di fronte ad un manipolo di attori
mediocri intenti ad agitarsi sulla scena in modo poco credibile. Un moto
d’irritazione gli attraversò le membra.
Ambrosie
aveva il volto stanco, pervaso di una sottile indignazione; Raphäel sembrava
quasi divertito di fronte ad uno spettacolo vano.
E
tu da che parte stai, Raphäel, stavolta? Sei ambiguo, non parli più. Sei
d’accordo con lei? Vi siete riempiti entrambi la bocca delle medesime,
confusionarie idee? E tu condividi il suo pensiero, la sua opinione su di me e
sulle mie decisioni, o, in alternativa, ci reputi tutti quanti
stupidi.
-
Ambrosie, basta, ora. Auguste non sta bene.
Per
un istante, gli parve di scorgere il viso della ragazza solcato da una collera
silenziosa, quasi smorzata, tremante. Gli occhi scintillanti. Poi, di colpo, si
sottrasse alla mano che la tratteneva: all’improvviso, sembrava non importarle
troppo.
Raphäel
teneva le braccia intrecciate sul petto, l’abbozzo di un sorriso freddo che gli
increspava un angolo della bocca. Auguste si sentì
tremare.
-
Prova a farlo ragionare tu, Raphäel, se ci riesci – rimarcò Ambrosie, pungente,
gli occhi fissi sul ragazzo come su una statua indifferente – Quando non è
ubriaco, magari.
E
non è altro che un gioco, dunque, una farsa patetica che rischia di consumare le
nostre energie, che ci sta trascinando alla deriva, dietro qualcosa che non vale
la pena, forse? Lo credi anche tu, Ambrosie?
Io
sono ubriaco, d’accordo. Sono molto ubriaco. Potrei mettermi a danzare per la
stanza, se questo servisse ad avvallare ulteriormente un dato inequivocabile.
Vorrei soltanto essere lasciato solo, ora; sul serio, lo vorrei
disperatamente.
Si
sentì barcollare, i passi incerti. Avrebbe bevuto di nuovo, forse, avrebbe
baciato ancora Fernand, com’era stato in quel lontano giorno di festa, e si
sarebbe goduto la sua confusione, la sua faccia sconvolta, il tremolio delle
labbra. L’avrebbe accarezzato fino a vederlo avvampare, sciogliersi sotto il suo
tocco, gli occhi assenti, venati di follia. Fino ad annientare il suo fantasma
ineffabile.
* *
*
Fernand
era pressoché certo che quel vestito color tortora dalla stoffa morbida avesse
visto circostanze migliori, rispetto all’ormai monotono rituale delle sue
lacrime che ne inumidivano il davanti. Tutto ciò lo faceva sentire umiliato, se
ne rendeva conto: era come ripercorrere una trama già scritta di cui non potesse
fare a meno. Più forte di lui, di nuovo.
Era
schizzato fuori dalla stanza, un attimo prima di esplodere, incerto se vomitare
tutta la sua rabbia addosso a quel pazzo o saltargli alla gola, oppure
abbandonarsi al profondo smarrimento che gli offuscava la vista e lasciarsi
crollare di fronte ai suoi occhi gelidi e folli.
Ambrosie,
abbracciami!
Le
dita strette sulle sue spalle, il viso nascosto nel suo petto, tra le sue
braccia, i capelli ondulati che si confondevano nei suoi.
Non
volevo realmente incontrare lui, immergermi nel suo mondo come in un lago di
pece e restarne invischiato fino a tal punto.
E
forse non sarei nemmeno dovuto scappare come un reietto, abbandonando la mia
casa con un pretesto casuale. Mi sarebbe bastato restare con te, Ambrosie.
Vorrei soltanto restare così, chiuso fra queste
braccia.
-
Era completamente, orrendamente ubriaco. Non aveva mai parlato
così.
-
Non ce la faccio più… – Fernand si
sentiva cedere, le forze che scemavano sotto l’imperio di un
abbraccio.
Avvertiva
alle proprie spalle la presenza di Dorian, qualcosa che gli vibrava sulla nuca
scossa da singulti. Non se ne curava. Lo sguardo ceruleo del suo amico scorreva
su di lui, poi su Ambrosie e viceversa.
-
Non credo ad una parola di tutto ciò che ha detto.
Diversamente,
caro Dorian, non si spiega il motivo per cui sei rimasto così calmo e
indifferente, e Raphäel con te. Siete ottimisti, quasi fiduciosi, per quanto
concerne Auguste: non riuscite neppure a concepire che possa arrivare a tanto. A
perdere il lume della ragione e riporre tutto nelle mani di quell’inenarrabile
testa calda di Fernand. Auguste dovrebbe essere come minimo impazzito, ad aver
rivalutato nell’arco di una notte il suo tradizionale avversario. Invece, ha
preferito tirarsi fuori lui: troppi i galli dalla cresta ben spiegata che
richiedevano costante attenzione.
-
…Perché, se dovessi prendere come attendibile ogni singola cazzata che ha detto
poco fa, sarei costretto a farmi di lui l’idea di un pazzo furioso a cui per
caso è frullata in testa l’idea di giocare un tiro crudele ai danni del suo
compagno più giovane.
Basta
così, Dorian.
Fernand
serrò le palpebre. Era come percorrere fedelmente, dinnanzi a sé, il gesticolare
nervoso con cui Dorian accompagnava le proprie parole, i riccioli dorati che
vorticavano intorno alle gote arrossate.
Si
morse il labbro, mentre l’immagine, il ricordo prepotente balzava ai suoi occhi
a tradimento. La sera prima, il volto estatico di Dorian a un filo dall’orgasmo,
un grido soffocato in fondo alle iridi delicate, come un segreto fra loro. Il
corpo teso e meraviglioso che si agitava lentamente, fino a contrarsi in uno
spasmo quasi doloroso.
Dorian
che gli scompigliava affettuosamente i capelli, che confabulava sottovoce con
Ambrosie, sguardi furtivi che s’intrecciavano, cospiratori
nell’ombra.
Vattene,
Dorian. Non contaminare il mio momento. Non dopo avermi respinto miseramente.
Lasciami a lei.
Dorian
lo accarezzava lentamente, gli torturava i capelli fra le dita, sussurrandogli
parole rassicuranti sulla pelle. Un quadro meraviglioso nella sua mente. Stretto
fra le braccia di Ambrosie, il pianto che scemava e le carezze di Dorian che gli
piovevano sul capo.
Ora,
mio Dorian. Faresti ancora l’amore con me?
-
Fernand, forse dovresti… Provare a riparlare con Auguste in un secondo momento –
azzardò Ambrosie dopo un lasso di tempo che a tutti e tre i presenti era parso
poco meno che eterno – Quando… Avrà ripreso a ragionare,
dico.
Fernand
ebbe la sensazione di riemergere da una sorta di limbo d’ovatta, le voci soffuse
intorno a lui. Per un istante temette di essere sprofondato nel sonno e di aver
smarrito qualche nodo fondamentale, i capelli appiccicati alle guance
arrossate.
-
Che diavolo dovrei dirgli ancora? – sussurrò, confuso – Di andare a farsi
fottere, lui e i suoi lampi di genio? Neppure tu riesci a renderti conto che
Auguste, nella sua follia, questa volta stava parlando sul serio. Non è forse
così? – si prese il capo fra le mani, esasperato, i capelli arruffati
strettamente avviluppati nel movimento convulso delle dita – Mi sembra di stare
nel bel mezzo di una congiura. È la congiura degli
scettici!
-
No, non è neanche così – Ambrosie scosse il capo, lo sguardo vago,
soprappensiero.
- E
allora, è troppo chiedere di essere resi edotti su certe raffinate sottigliezze
che solo voi riuscite a cogliere? – incalzò Fernand,
spazientito.
-
C’è qualcos’altro. Auguste non era completamente in preda alla follia di un
disegno assurdo che solo la sua mente sembrava conoscere – una pausa
imbarazzata, alla ricerca delle parole giuste attraverso le quali propinare ad
un interlocutore la più bizzarra delle teorie – Però, credo che abbia
volutamente omesso qualcosa. Così, forse, la sua ultima trovata potrebbe anche
acquistare un senso.
-
Sarebbe bello. Peccato che io non sia così stupido da lasciarmi abbagliare
un’altra volta dalle sue occasionali lusinghe. Che diavolo vuole da me,
stavolta? Aspetterà che metta un piede in fallo, per poi riprendere il vecchio
discorso da capo?
-
Fernand ha ragione – Dorian mosse un passo in avanti, il volto pensoso – Auguste
non ha in mente nulla in particolare. È solo stanco, distrutto dalla situazione;
ha tessuto tante di quelle trame che ora non sa più nemmeno lui come
districarsi, dove riafferrare il bandolo. Vorrà soltanto… Gettare l’esca,
prendere un po’ di tempo. Farsi coccolare, sentirsi dire quanto è meraviglioso e
speciale, la sua presenza irrinunciabile, per poi riprendere in pugno la
situazione non appena si sentirà abbastanza corteggiato.
-
Eppure… – Ambrosie si strinse nelle spalle, persa nelle sue riflessioni – L’idea
di Auguste, ripensandoci, non è poi così assurda come può sembrare. Solo, vorrei
che gettasse via la maschera sulle sue intenzioni e chiarisse per filo e per
segno quali saranno i limiti del gioco, stavolta. Penso che dovrebbe parlare
chiaramente, Fernand, senza lasciare zone d’ombra, evitando di farti carico del
suo ennesimo colpo di testa per poi nascondersi con
noncuranza.
Fernand
indugiò su Ambrosie e Dorian, i loro occhi fissi su di lui, in attesa di una
risposta. Sua sorella e il suo miglior amico.
A
calamitare definitivamente la sua attenzione fu la fasciatura sottile che
avvolgeva la mano di Dorian e, dalla disinvoltura del suo gesticolare e del suo
imprimere la presa sugli oggetti, Fernand dedusse che doveva essere
completamente pazzo, a non prestarvi attenzione neppure per un istante. Oppure,
che la ferita fosse davvero superficiale.
Distolse
lo sguardo, stordito.
-
Ora basta! – scosse il capo – Vi rendete almeno conto di che razza di teorie
assurde state sviscerando? Vi ascoltate, almeno, mentre parlate? Io… Continuo a
non capirci nulla, sul serio.
-
Fernand, lascia stare. Una cosa soltanto – Ambrosie catturò repentinamente il
suo sguardo, e a Fernand parve quasi di avvertire, come un’ombra, una sorta di
tacito consenso da parte di Dorian – Cerca di parlare con Auguste. È lui che
può, che deve chiarirti le sue
trovate, nel momento in cui stavolta ti riguardano così da vicino. Prendilo per
i capelli, se sarà necessario, fa’ come preferisci, ma cerca di farti spiegare
come stanno davvero le cose, che razza di idea ha partorito
stavolta.
-
Grazie dello spassionato suggerimento! – Fernand distolse lo sguardo,
un’impronta di lieve sarcasmo sul volto tirato.
Forse
Ambrosie non lo pensava sul serio, rifletté. Non era del tutto prevenuta nei
riguardi di Auguste, o forse aveva qualche asso nella manica pronto
nell’evenienza. A che gioco stava giocando, anche lei?
E
Dorian sembrava sulle spine, teso come se il suo corpo fosse fatto di corda,
l’espressione del viso resa volutamente imperscrutabile da qualche scintilla di
disperato autocontrollo.
* *
*
Dorian
scosse il capo, quasi a volersi liberare di un pensiero ancora nebuloso,
embrionale, eppure insopportabilmente fastidioso. Troppe cose che non andavano,
passaggi troppo sfuggenti e repentini per riuscire a coglierli in tutta la loro
pienezza, ad attribuirvi un significato ed una
sistemazione.
-
Dorian, qualcosa non va? Sei pallido…
Taci,
Raphäel. Taci, ché è meglio per tutti. È un consiglio spassionato, il mio. Non
esasperare la situazione, perché sarà sufficiente una piuma, stavolta, per far
pendere l’ago da una parte o dall’altra.
Volse
il capo, quasi infastidito dalla sua presenza, da quella mano diretta sulla sua
spalla.
È
troppo comodo, ora, Raphäel. Mi hai illuso, anche tu. Hai simulato abilmente
un’amicizia nei miei riguardi che in realtà era ben lungi da te. Almeno, finché
ti sono stato utile per estorcermi con calma tutte le informazioni che
desideravi. Ora il quadro sarà di certo più chiaro nella tua mente. Giochi con
me, o è solo la mia impressione?
-
Non c’è nulla che non va, davvero – le sue dita si strinsero intorno alla falda
del cappello che teneva fra le mani, quasi non sapesse che cosa
farne.
Accennò
con un breve cenno del capo alla stanza di fianco, la porta semiaperta che
lasciava filtrare uno spiraglio di luce.
-
Come sta Auguste? È rinsavito, oppure dobbiamo aspettarci altre bestialità?
Vide
Raphäel chinare per un istante lo sguardo, come se davvero gli fosse importato
qualcosa. Alla sua destra, Ambrosie incalzava, lo sguardo mobile,
vivo.
Per
caso non è ancora paga di aver spedito suo fratello dritto dritto nella tana del
leone?
Persino
tu, Dorian: l’hai incoraggiato, hai annuito di fronte alla sua idea. Non gli hai
detto “fermati, lascia stare, lascialo perdere, lascialo cuocere ancora un po’
nel suo brodo”.
Che
imperdonabili incoscienti!
-
Considerato che è reduce da una notte in cui ha alzato un po’ troppo il gomito e
che mangia poco e nulla da giorni, direi neanche troppo
male.
Che
diavolo vi siete detti, in quella stanza? Che diavolo ha da confabulare, in
questo preciso istante, con Fernand?
Ambrosie
sembrava tesa come una corda di violino, gli occhi scintillanti. Dalla foga
nervosa con cui cercava di convogliare le proprie parole in una richiesta non
troppo impertinente, Dorian dedusse che gli interrogativi che le si addensavano
nella mente non dovevano discostarsi troppo dai suoi.
-
Cosa vi siete detti? – proruppe infine.
Dorian
fu preso da un insolito impulso ilare che per un istante gli contrasse le labbra
in una specie di sorriso di scherno. Ambrosie non aveva retto alla smania di
sapere ed aveva finito per parlare per entrambi. Un vero calcio in faccia alla
diplomazia.
Raphäel
scosse il capo in un cenno di diniego.
-
Nulla di particolare. Solo che aveva bevuto e che preferiva parlarne in un
secondo momento. Sono riuscito a propinargli una scodella di minestra, tanto per
riscaldarsi un po’ lo stomaco, e a convincerlo a riposare.
-
E… Fernand?
Se
Ambrosie sembrava sull’orlo di una crisi di nervi, Raphäel sembrava non dare
gran peso alle domande che gli erano rivolte.
Ce
l’hai spedito tu in questa situazione, mia cara,
avrebbe voluto gettarle in faccia Dorian. Hai fatto leva sulle sue crescenti
perplessità. Che cosa pretendi, adesso?
Che
bravi amici, noi due!
-
Nulla. Ha detto soltanto che avrebbe voluto riparlarne direttamente con
lui.
-
…E ci ha praticamente sbattuti fuori – concluse Dorian al suo posto, una
malcelata punta d’orgoglio nello sguardo a mascherare la leggera
indignazione.
E
da dove gli derivava, ora, quello scintillio d’angoscia che lo faceva sentire
malfermo sulla sua rassicurante postazione?
Si
tirò su in piedi, di scatto.
-
Che ti prende, Dorian? Non vorrai metterti a… origliare i loro discorsi? –
Ambrosie gli rivolse un’occhiata complice.
-
Perché no? Non è qualcosa che riguarda soltanto loro – azzardò, avvertendo le
proprie guance avvampare incomprensibilmente.
Cos’era
che non andava, per l’ennesima volta?
-
Ne sei davvero sicuro, Dorian?
Dannazione,
Dorian! Non eri neppure l’unico a non sapere.
-
Andiamo… – proseguì la ragazza, conciliante – È chiaro come il sole che il
problema di Auguste si chiama Fernand Laroche.
Almeno
ha la decenza di arrossire,
meditò Dorian fra sé.
Gran
bella gabbia di matti: i miei complimenti. Una gabbia di matti in cui ognuno si
compiace della reciproca follia come dogma condiviso.
Fra
te e tuo fratello, Ambrosie, non so davvero chi…
Fu
Raphäel a spezzare quell’ineffabile gioco di sguardi.
-
Bene, bene: a quanto pare, il segreto di Pulcinella non è più un segreto per
nessuno. A questo punto, dico, potremmo anche avere il buongusto di togliere il
disturbo, non trovate?
Dorian
sentì un accesso di collera esplodergli in volto. Collera che riuscì agevolmente
a convogliare in un moto sarcastico.
-
Tu sei il peggiore di tutti, Raphäel – ringhiò – Davvero, mi rifiuto di
immaginare cosa stia pasticciando in questo momento nella tua mente. Mi vengono
i brividi al solo pensiero.
-
Non essere ingenuo, amico mio.
Dorian
colse l’impercettibile, fulmineo inarcamento del sopracciglio sotto i riccioli
scuri che gli ricadevano mollemente sul viso.
Distolse
lo sguardo.
Possibile
debba far così male?
-
Cominciate pure ad andare, davvero.
-
Tu che diavolo farai, ora? – Ambrosie gli si era aggrappata al braccio, quasi
implorante, lo sguardo colmo di febbrile agitazione.
Le
labbra di Dorian si distesero in un sorriso.
-
Ti riferirò, naturalmente – le soffiò, circospetto, stretto nella morsa di
un’evanescente promessa.
Sarebbe
bastato portare i propri passi verso quella maledetta porta in fondo alla stanza
e buttarvi dentro lo sguardo con disinvolta noncuranza. Deglutì a
fatica.
Ce
l’ho spinto io, Fernand, in questa situazione. Io gli ho infilato il tarlo nella
testa, e Ambrosie ha fatto il resto. E ora, a chi crediamo di darla a bere, la
nostra beata ingenuità?
Vadano
al diavolo anche Raphäel e la sua espressione sagace, le iridi come schegge
pronte a conficcarsi nella mia carne. Bravo, Raphäel, perché non ci voleva un
genio per arrivarci: come dici, scusa? Soffrirò? Ci resterò male, qualunque cosa
vedrò al di là di quella dannata porta? Bella scoperta. Fernand mi farà male,
d’accordo. Ma non che tu sia riuscito a fare meglio. Vi equivalete, in questo
senso.
Era
una voce che gli martellava in fondo alla testa: l’hai voluto tu, Dorian. Hai caldeggiato
per bene l’epilogo ideale di questa situazione. E hai avuto l’occhio lungo. Cosa
puoi desiderare di più, adesso? Il prodotto resterà comunque
uguale.
Forzò
la propria vista sotto la luce diretta che per un istante l’aveva abbagliato,
cogliendolo di sorpresa. Si costrinse poi a posare uno sguardo fugace sulle due
figure immobili su quel letto spoglio, impersonale, le lenzuola immacolate.
C’era
un grosso gatto grigio fumo che ronfava placidamente, acciambellato ai piedi del
suo padrone.
Dorian
respirò profondamente. Si era avveduto solo in quel momento della presenza
dell’animale.
Scorse
sulla figura di Auguste, le lunghe gambe distese. E Fernand, i capelli arruffati
sulla nuca, spalle rivolte verso di lui. Si era costretto ad osservarlo solo in
quel momento, venuta meno in lui l’ostinazione di lasciar impigliare la propria
attenzione in giro per la stanza, indugiando su particolari di scarsa rilevanza.
Come il gatto che si stiracchiava inarcando la schiena o la giacca di Auguste
abbandonata su una sedia.
E
poi Auguste si era mosso, l’eleganza di un cigno impressa nelle membra stanche.
Così diverso dalla creatura pallida e arruffata di poc’anzi, in preda ad
un’autentica crisi di nervi, mentre accusava Fernand.
E
ora. Attirava Fernand su di sé come se si trattasse del gesto più naturale del
mondo, e Dorian in un primo momento aveva faticato a discernere dove
terminassero i capelli dell’uno e iniziassero quelli dell’altro. Sfumavano l’uno
nell’altro in una sorta di umida carezza, come di labbra che si strofinano
lentamente le une sulle altre ad assaporare il reciproco
contatto.
Un
palpito ipnotico aveva riempito la stanza dinnanzi ai suoi occhi, denso come una
patina di fumo. Dorian aveva distolto lo sguardo, cercando di autoconvincersi
che serrare le palpebre sino a farsi dolere i muscoli della faccia sarebbe stata
la soluzione ideale. Aveva portato i propri passi lontano da lì senza neppure
accorgersene, per poi crollare inerme sul pavimento, ginocchia strette contro il
petto. Come se qualcosa gli avesse impedito di respirare per un lasso di tempo
interminabile, ed ora si trovasse suo malgrado a lottare per riemergere dal
fondo, da una lunga, forzata apnea. Come se qualcuno gli avesse cacciato la
testa dentro un recipiente colmo di veleno, costringendolo a respirarne gli
effluvi. Intossicato.
Dannazione,
Dorian. Respira! Che diavolo ti aspettavi di diverso? L’hai voluto tu, ficcatelo
bene in testa, affinché ora non te ne vada a nasconderti dietro al solito,
delicato dito. Hai fatto carte false per spingere Fernand verso l’inevitabile.
Verso ciò che sapevi, dopotutto. Ed ora, se la cosa non ti dispiace, potresti
anche iniziare a raccogliere i frutti.
Scappare:
era l’unica azione coerente che le sue membra si sentissero di mettere in atto.
Uscire da quella casa prima di diventare matto.
Perché
si sentiva… così, maledizione? Cosa gliene dava il
diritto?
La
luce, lo spazio aperto della via antistante gli dava le vertigini, i vicoli
maledettamente polverosi che turbinavano sotto i suoi
piedi.
Non
ti è andata così male, Dorian. È tutto sotto controllo, come previsto, senza
sbavature. Pulito, una volta tanto, nello stesso modo che avevi facilmente
pronosticato. O così sembra.
Eppure,
alla luce di tutto questo, cosa diavolo sono quelle stupide lacrime sulla tua
faccia? Che diavolo è successo?
Auguste
l’ha umiliato, ancora una volta. Soltanto mezz’ora fa. Gli ha sputato addosso il
veleno della sua immane frustrazione.
Ed
ora – proprio in questo momento – cosa gli dà il diritto di fare ciò che
fa?
C’è
qualcosa che sfugge: frammenti smarriti malauguratamente nel fondo del baratro.
Ho perso qualche nodo fondamentale. Cosa manca a completare il quadro? E… mi è
mai importato tanto, dopotutto?
Va’
al diavolo, Auguste! E prova a restarci abbastanza a lungo, stavolta, se la cosa
non è di troppo disturbo.
* *
*
Il
chiarore tremolante di una candela, solitaria nella stanza, vibrava fra le
pieghe delle tende che piovevano dall’alto baldacchino. Schermavano il dormiente
da sguardi indiscreti.
Un
lampo in fondo alle iridi, nostalgia di un inganno feroce; dinnanzi a lui, la
luce si confondeva fra le pieghe della stoffa pesante, creando zone d’ombra
quasi livide. Troppo debole per ferire i suoi occhi, non era che la pallida
imitazione del brivido crudele che ogni giorno gli incuneava nella mente, come
un morbo, la smania di una sfida personale, tracotante ai limiti della
stoltezza. Così contraria ad una natura che ancora si sforzava di non accettare
come ineluttabile.
E
poi quel lusso, quel lusso sfacciato che non era nelle sue corde: non lo era mai
stato, non avrebbe cominciato adesso, e il ricordo di lenzuola di seta, arazzi e
tende di fine broccato bruciava ancora sulla pelle. Quella stanza lo metteva
orribilmente in soggezione, per contrasto, come una macchia scura su un
pavimento immacolato, mille dita puntate contro come spade sguainate, giudici
inflessibili poco inclini al perdono. Come trovarsi al di fuori del proprio
elemento.
Un
istante, un unico gesto istintivo, secco. Quasi strappò quelle stupide tende
poste come schermo ingannevole, un’ansia bramosa e febbrile che gli serpeggiava
nelle dita pallide. Cinque ganci acuminati protesi verso la stoffa scura, come
vermi pronti a corrodere quella stanza voluttuosa, l’impatto beffardo dinnanzi
ai suoi occhi.
E
poi, un sorriso si allargò sulle sue labbra sottili, un fremito d’insolita
dolcezza che scorreva nelle sue vene come un balsamo refrigerante. Avrebbe
pianto, se non si fosse affrettato a soffocare quanto prima il tumulto di un
sentimento improvviso. E se la mente capricciosa non l’avesse riportato,
prepotente, sull’urgenza incalzante della sete che gli tormentava la gola
riarsa. Si sentì quasi vacillare, quando il suo corpo finalmente acconsentì a
lasciarsi andare sul bordo del letto, ad imitare una postura seduta; piano, per
non svegliarlo troppo bruscamente. Lui,
lì, pochi passi ritagliati nello spazio che li
separava.
-
Ben svegliata, mia splendida stella.
L’altro
si mosse veloce, tirandosi su a sedere, le palpebre stanche, pesanti di sonno
residuo.
E
lui riusciva a percepire la sua mente come in un bozzolo di
nebbia.
-
Che diavolo… – afferrò il movimento delle labbra incolori: no, non era un buon
segno, e lui non aveva ancora molto tempo a disposizione.
Attraverso
il tocco leggero delle dita che tentavano di allacciarsi timidamente alle sue,
poté percepire la confusione, il profondo senso di vertigine che gli faceva
portare le mani a massaggiare le tempie, come a lenire un dolore immaginario,
illusorio. Ma no, non doveva sentire male, in realtà.
Sospirò:
avrebbe provveduto a lui come aveva fatto tutte le notti, dacché l’aveva
osservato dormire sul suo letto, avvolto da un pesante torpore. Ma le sue sole
forze, stavolta, non gliel’avrebbero concesso. Doveva uscire, costruire la sua
libertà, fornirgliene lo strumento irrinunciabile. Si era cullato troppo a lungo
nell’attesa, ma ormai era tempo di agire.
-
Non sei più la mia stella? – gli soffiò, un’inconsapevole venatura capricciosa
nella voce, come una nenia infantile – Ora sei la mia stella. La mia splendida
stella della sera – soggiunse in un mugolio impercettibile, dalla consistenza
evanescente di un pensiero, la mano che correva ad accarezzargli i capelli,
possessiva.
Lui
era suo. La sua creatura
meravigliosa. Ed era pronto ad affrontarne le conseguenze.
Lo
vide sorridere, beffardo. Sembrava un gioco protratto troppo a
lungo.
-
Non scherzare. Che cosa vuoi dire?
-
Shh… – sibilò fra i denti, tracciando un’immaginaria linea verticale sulle
labbra dell’altro, come ad intimargli dolcemente il silenzio – Dico che ti devo
delle scuse… A dire il vero.
Il
semplice gesto di sfiorarlo fu una scossa che serpeggiò fra le loro carni, una
sorta di ponte ideale.
E
le sue labbra, così pallide. Preoccupante, orrendamente preoccupante. Sarebbe
cominciato così: una generica mancanza che ti serpeggia addosso, una sorta di
disagio, come starsene infilati dentro una veste troppo stretta. E poi sarebbe
arrivato il tormento della sete, come una stilettata, come uno scatto fulmineo a
tenderti i muscoli di tutto il corpo, a privarti della tua
ragione.
Doveva
fare qualcosa, al più presto.
Quel
che temevo: un quarto d’ora, per la verità.
-
Non ti ho chiesto delle scuse – gli ingiunse l’altro con fare conciliante – Mi
accontenterei… di una spiegazione. Solo questo.
Ma
lui aveva già scosso il capo in un cenno di muto diniego, interrompendolo di
colpo attraverso quel linguaggio non verbale che, in capo a qualche tempo,
sarebbe divenuto il tramite ideale, la forza di una crescente intimità. Un filo
invisibile fra loro, un solo gesto dalla potenza disarmante di una fucilata, un
messaggio stampato a chiare lettere, sospeso fra loro, intrappolato fra due
solitudini.
-
Il fatto è che… Temo di aver esagerato con il laudano, amico mio. Tutto qui – si
affrettò a replicare – Sei rimasto incosciente tre notti di fila. Guarda un
po’…!
Distolse
lo sguardo. L’altro rideva, la camicia che, dispettosa, gli scivolava giù dalla spalla, scoprendo
la perfezione lattea della pelle come uno squarcio su marmo ben levigato; era
quasi inquietante: una statua dagli occhi vividi, la materia dura quasi
opalescente sotto quel debole bagliore ormai agonizzante.
-
Davvero fa … ridere?
-
Rido perché ciò che vedo davanti a me parla chiaro. Non resisterai ancora a
lungo, amico. È la tua natura.
E
lui, a quelle parole, avvertì i propri lineamenti indurirsi involontariamente
sul viso, la pelle tirare come uncinata da fili invisibili pronti a tenderla a
loro piacimento. L’espressione aspra, categorica, priva di
sfumature.
Sta’
zitto e ascolta! Raccogli quanto più di ciò che è necessario sapere, perché non
ci sarà una “prossima volta”. Non sarà neanche necessario, a dir la
verità.
-
Non è un gioco. La mia… natura? – sorrise – La controllo come e quando voglio,
credimi, e non sarà questo il mio problema. Imparerai anche
tu.
-
Bugiardo.
Sentiva
la collera martellargli nel petto. Ed ora, se le sue azioni fossero state
abbastanza impulsive da sgusciare via dal suo rigido autocontrollo, gli si
sarebbe avventato addosso, inchiodandolo al suolo sotto il proprio
peso.
No:
tutto sarebbe sfociato in una lotta inutile, come due ubriachi o due cani
selvatici che si contendono un osso. E, se avessero indugiato ancora in quelle
stanze, sarebbe giunto presto il momento in cui ognuno di loro non sarebbe stato
in grado di aiutare l’altro. Dovevano uscire. Prima
possibile.
-
Vestiti, anziché stare lì a fissarmi – lo apostrofò con voce incolore, lo
sguardo che fuggiva – Devo mostrarti una cosa. È fondamentale – lasciò che le
sue parole si colorassero di una velatura maliziosa,
sibillina.
-
Ti sei deciso a… istruirmi, dunque?
Come
una madre farebbe con la sua creatura: esattamente.
Il
suo sguardo saettò ancora un istante intorno alla stanza, collerico, come una
bestia braccata e ferita. Assottigliò minacciosamente le palpebre. Il pensiero
di ciò che sarebbe accaduto in capo a pochi minuti era sufficiente a gelargli il
cuore in una morsa di spine.
-
Penso solo che sia giunto il nostro momento. E, bada bene, sarà la prima e
l’ultima volta che ti lascerò il privilegio di… assistere – puntualizzò,
perentorio.
Avvertì
soltanto l’eco delle sue ultime parole, smarrite in qualche angolo oscuro dei
suoi appartamenti, impigliate in un’immaginaria voluta di quell’aria tiepida e
rarefatta che colmava il vuoto fra loro. E forse, con un po’ di fortuna,
quell’ultimo strascico sospeso fra parola e pensiero doveva essere stato
pressoché impercettibile fra loro. Sarebbe restato così, latente, una frase in
sospeso, uno sguardo complice scoccato di sfuggita nell’atto di abbandonare la
stanza con passo leggero, per poi fermarsi e misurare la breve
attesa.
Prima
ed unica volta, amico mio.
Penso
non mi vedrai farlo di nuovo, stella mia. Non in tua
presenza.
Manterrò
il mio sepolcrale riserbo, e ti sarà sufficiente ciò che
vedrai.
-
Sta’ indietro! – l’aveva investito con voce ringhiosa, entrambi avvolti nella
penombra sotto il vecchio arco di pietra che fungeva da filtro provvisorio tra i
quartieri popolani e Noir Trésor la bella, la cittadella ben arroccata con i
palazzi aristocratici e il castello del duca e le mura dall’impatto
severo.
La
consistenza della pietra sotto il palmo delicato era tiepida, ruvida, come un
vibrare di vita propria, di antichi segreti da cui abbeverarsi attraverso i
sensi. Socchiuse le palpebre. Isolati, inaccessibili frammenti di vita, remoti,
perduti; antico e presente. E le sue dita erano fredde.
Si
sforzò di procedere, un sibilo appena accennato all’altezza dell’orecchio, la
voce ferma che tentava di sottrarsi all’ansia crescente.
-
Mi hai sentito? Non devi muoverti né prendere iniziative o, peggio, fermarti a
discutere su quanto ti dirò. E, soprattutto – proseguì in un gemito roco,
gravido di una complicità quasi perversa, le dita contratte ad artigliargli la
spalla – Cerca di tenere su quel maledetto cappuccio. Guai se qualcuno ci
vedesse – lo redarguì.
Il
suo sguardo vagò per qualche istante sui lunghi capelli che spuntavano dal
bavero tirato fin sulla bocca, ombre soffici e mutevoli su guance
d’alabastro.
Trasalì,
e la frustata di una cocente necessità vibrò fin sulla punta delle dita,
un’isteria oscura a far da cornice alla sua maledizione, pronta a risolversi in
una reazione incontrollabile, qualora avesse disatteso un istante di più
l’improrogabile urgenza. Un bieco istinto d’autoconservazione o qualcosa di ben
più terribile, di inafferrabile? Come una battaglia con se stesso perduta in
partenza. Deglutì a vuoto.
Osserva
bene, figlio; impara bene la lezione; dopo, sarai libero di maledire e detestare
questo per tutti i giorni in cui continuerai a calcare questo mondo con i tuoi
passi.
-
Lui… – la sua voce vibrò, i lineamenti del volto che si contraevano nella follia
– Lui che corre! Le lacrime bruciano ancora…
Riuscì
a percepire un lieve fremito d’orrore sul volto del compagno. Un gemito
infernale che implodeva nella sua testa. Un grido privo di voce, una specie di
“no” dall’eco infinita. Le ultime forze di quella fievole scintilla che aveva
lottato strenuamente, venivano meno, si ritraevano, sconfitte. L’ultimo fremito
di un’umana consapevolezza che si dimenava in lui, a vuoto, e non accettava
l’ineluttabilità crudele. Prima dell’inevitabile.
Hai
perso di nuovo la tua scommessa, caro mio.
Collassò
su se stesso.
La
sua dolce, piccola preda piangeva, schiena contro il muro… Oh, la dolcezza
inafferrabile della mano con cui si strofinava goffamente la faccia, desiderio
manifesto di disperdere nel vento le lacrime, il dolore che gli pungeva il
petto. E quanto male inutile, intorno a quell’essenza così
delicata…
E
forse sarebbe stato sufficientemente accorto da rendersi conto per tempo
dell’orrido esserino dalle grandi ali scure che zigzagava da un capo all’altro
dello stretto viottolo. Se solo la sua visuale non fosse stata compromessa a tal
punto dalle lacrime che gli bruciavano gli occhi, tanto da infrangere la
porzione di mondo che si mostrava dinnanzi a lui.
Lo
sentiva: i riccioli biondi scomposti,
la trama sfilacciata di un pensiero in tumulto.
E
poi lo vide annaspare a vuoto, le braccia protese davanti al viso, pallido
tentativo di scongiurare il rischio di uno scontro di cui si era avveduto troppo
tardi; troppo tardi, per poterlo eludere del tutto.
L’impatto
gli esplose addosso, espandendosi dal centro da cui traeva origine ogni fibra
del piccolo corpo, quando, in quel preciso frangente, il diabolico incantesimo
s’infranse. Un urlo inudibile, la materia che costituiva il suo corpo ormai in
procinto di riprendere la forma originaria, di trasformarsi e ridar vita ai
muscoli deliziosamente allungati sulla solida impalcatura delle ossa, alle dita
simili ad affilate, graziose propaggini per indagare l’ignoto, forzarlo alla
propria mercé.
Un
pipistrello ingannato dai propri sensi sottili, acuti come minuscole
lame?
Certo
non ti sarà capitato spesso: è tutto così grottescamente surreale, e tu sei un
ragazzo giudizioso, Dorian, poco incline a lasciarti
ingannare.
Neppure
la presenza alle sue spalle, celata dal lungo mantello, doveva essere troppo
dissimile, ai suoi occhi stravolti dal terrore, da quei sogni angosciosi nelle
prime ore del mattino, quando il torpore che avviluppa i sensi si sfalda in un
risveglio che ti coglie di soprassalto, la coscienza ancora impregnata di
paura.
Ben
svegliato, Dorian. Credo che non sia mai stato splendido come in questo
momento.
Sapeva
cosa fare. Qualcosa tipo attirarlo a sé, una mano premuta sulla bocca a
soffocare l’urlo che presto gli sarebbe salito alla gola sotto l’imperio
dell’istinto; e l’altra mano, attenta a non spezzargli qualche osso sotto la
pressione di una forza dirompente sulla materia cedevole.
Sei
così fragile e delicato. Da divorare dolcemente, senza alcuna fretta a rovinare
il nostro momento.
Lotti
come una piccola belva costretta in cattività, le dita tese ad artigliare il
vuoto, come a voler dilaniare il tuo assalitore, e il tuo corpo si dibatte
invano.
L’ultimo
indugio fu il movimento impalpabile con cui provvide a scostargli i capelli che
celavano il collo alla sua vista. Un gesto soave della mano lo indusse a
reclinare dolcemente il capo sotto la sola luce dell’istinto, rivelando il
candore paradisiaco di quel ritaglio di pelle fra orecchio e collo, la mandibola
deliziosamente contratta sotto la cute alabastrina, pulsante di sangue e di
vita; e, di lì, il suo sguardo prese a scorrere sempre più giù, lungo il
percorso della gola, prima d’inabissarsi oltre le vesti.
Intuì
il percorso della giugulare, il battito ben scandito sotto le sue dita mentre lo
sfiorava e protendeva il volto verso di lui, lambendo per un attimo in punta di
labbra il tracciato spezzato e tortuoso di una lacrima sulla guancia rovente,
spazzata via dalla furia di quegli ultimi istanti.
E
poi non vide più nulla, nel momento in cui s’immerse prepotente in lui, piccoli
denti acuminati come spilli contro la carne tenera di quella gola fantastica.
Nient’altro, se non la sua essenza che esplodeva viva dentro di lui: il sangue
di Dorian, il suo corpo che si tendeva inconsapevole verso di lui nella morsa di
un delirio selvaggio, devastante, i sensi che si confondevano in una danza
infernale, fino a sbiadire l’uno nell’altro.
Sei
tanto, tanto bello, mio piccolo Dorian…
Respira
anche per me e per la mia giovane creatura, mio Dorian, e te ne sarò quanto mai
grato.
Perché,
in capo a qualche ora, quando l’estasi mi avrà abbandonato e sarò tornato in me,
allora giacerò sotto il peso della più cocente disperazione, e la colpa mi
corroderà le viscere.
Respira
anche per me, stanotte.
Ps:
dedico questo capitolo – l’ultima parte in particolare^^ – alla mia carissima Witch che ama tanto i vampiri… Sperando
di non aver strizzato troppo l’occhio ad Anne Rice, scrittrice che, parentesi,
adoro.
Pps:
ultimo capitolo per questo 2009 che va ormai agli sgoccioli, in cui approfitto
anche per lasciare a chi passerà da queste parti i miei più cari auguri per uno
splendido 2010.
A
presto!
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Capitolo 26 *** Capitolo 26: La sete ***
Capitolo 26
La
sete
Capovolto.
Il mondo capovolto dinnanzi ai suoi occhi, vivo, pulsante di suggestioni
inafferrabili, la linea spezzata di un pensiero che, stravolgendo l’ordine
logico delle cose, annacquava e plasmava senza criterio ogni singolo
oggetto.
Una
pressione crescente gli pungeva il cranio, come se perfino i suoi capelli
fossero divenuti un peso insopportabile che lo attirava dolorosamente in basso.
Tante minuscole trafitture di spillo sotto la cute, come se il suo corpo fosse
stato tramutato in fragile vetro.
E
forse a quella cosa non importava granché, se le sue
giunture cominciavano a dolere, a bruciare sotto la pelle
tesa.
Piangevo…
per Fernand. È tutto ciò che riesco a ricordare, a convogliare in una
successione coerente; l’unica sensazione viva, come un ferro rovente incuneato a
forza dentro la ferita.
E
no, non rimuoverlo, ti prego: farà male. So che ne morirò, ma ti prego, lascia
tutto così. Scorrerà meno sangue.
E
poi… Tutto in fumo. Ogni impianto scompaginato da uno sbuffo d’aria nella notte;
la variazione impercettibile di un istante in cui nulla, nulla rappresenta più
un legame con quella realtà che pesa come piombo.
Il
buio.
I
suoi sensi riuscivano solo a frantumare le percezioni in un groviglio in cui
tutto era stravolto, trasfigurato, precipitato nel caos, in un inestricabile
tumulto fra realtà e immaginazione, annegato in un intrico di percezioni
sconnesse che la sua sensibilità cutanea sintetizzava a fatica, che la mente si
rifiutava di raccogliere. Una nenia ipnotica nella testa a far da cornice, da
sottofondo illusorio della sua discesa vertiginosa
nell’incoscienza.
Eppure
faceva caldo tra le sue braccia, nonostante il suo respiro così freddo, un’unica
nota carezzevole che ne stemperava l’impatto metallico, innaturale sul suo
viso.
Attendeva,
Dorian, sulla pelle i brividi di un desiderio improvviso, inconsulto. Qualcosa
di conosciuto, un alienante
déjà-vu che gli serpeggiava nelle carni. Tutto amplificato intorno a lui,
nebuloso, distorto. Strizzò le palpebre. Tutto così… assurdo!
Vieni,
avrebbe voluto ingiungergli con voce soffice. Alla creatura che lo teneva sotto
il proprio imperio insindacabile. Ti desidero. Non indugiare ancora,
metti fine all’agonia di un’attesa snervante.
Sei
bellissimo, Dorian.
Solo
un sibilo confuso nella sua mente, un debole miraggio. E il suo corpo scosso da
un moto convulso, quando un formicolio intenso gli si addensò alla base del
collo e risalì sottopelle con un moto circolare, ipnotico. Tanto da ritrovarsi
inarcato verso la creatura che lo teneva avvinto a sé. Come la falena attratta
dalla fiamma, oscillava verso di lui a chiedergli di più. Desiderio dirompente e
sconosciuto, eco remota dall’intensità tremenda.
Ogni
percezione giaceva capovolta davanti ai suoi occhi. E tutto sfumava, diventava
vivo, divampava di mille luccichii confusi, il battito del cuore un rombo
martellante che gli esplodeva nelle tempie, un intenso languore che gli mordeva
il petto, sovrapponendosi ad ogni altra facoltà
sensoriale.
E
poi, di nuovo, il buio. L’insondabile buio.
*
* *
Era
stato poco più che un istante. La presa del suo compagno salda su di lui, quasi
dolorosa. Lui. Il vampiro
giovane. L’aveva ghermito alle spalle di sorpresa, unghie di diamante a
perforargli la carne, e l’aveva scagliato lontano.
Niente
male, per un novizio, avrebbe detto in un’altra occasione. Davvero niente male.
Ora invece sentì la pelle del volto tendersi in uno spasimo d’ira, le labbra
contratte in un soffio, come una fiera a cui è stato strappato il cibo di
bocca.
Lui.
La sua creatura torreggiava su di lui, le dita
frementi di rabbia. L’aveva afferrato come uno straccio e strappato via, lontano
da Dorian, per poi scaraventarlo contro il muro. Lontano da
lui.
Digrignò
i denti, un lampo di frustrazione a contrargli le viscere. Poi, lentamente, la
rabbia scivolò via come gocce di pioggia, e un guizzo di razionalità riaffiorò
sul suo volto livido, modellandolo in un’espressione meno
ferina.
Sospirò:
un secondo soltanto, e avrebbe potuto annientarlo. La sua creatura. L’aveva
tradito.
Distratto,
si portò una mano alle labbra, nettandole dal sangue
rappreso.
Come
stille di veleno. Veleno che torna a perseguitarmi, puntuale, appena le stelle
tramontano sulla volta del cielo.
E
per un istante riuscì persino a non curarsi di lui né di quel tremito oscuro in
punta di labbra, come il battito di un cuore impazzito: c’era solo l’istante in
cui lui e Dorian erano stati una sola cosa che respirava, una sola sorgente di
sangue e spirito dirompente. Poi due mani l’avevano strappato via di lì,
infrangendo la sua estasi.
Il
suo compagno immortale gli volgeva le spalle, chino sul corpo privo di sensi di
Dorian. Veloce, se lo strinse al petto come un fagotto, appena si avvide di
quanto fosse vicino. I suoi occhi serpeggiarono di
collera.
-
Dannazione! – gli parve di sentirlo soffiare tra i denti.
Quei
piccoli, adorabili canini vergini. Bianchi e incontaminati come il suo volto,
come il manto di tristezza che gli aveva gettato addosso.
-
Dio, è… È Dorian! – il suo sguardo scorse su di lui, in attesa; poi una specie
di ringhio basso, gutturale – Che cosa gli hai fatto?
E
lui, in tutta risposta, lo fissò con rabbia. Come se, di colpo, la sola vista
gli desse la nausea. E il desiderio di schiaffeggiarlo.
-
Avanti… – lo incalzò con un sussurro gelido, buttando le sue rimostranze nel
dimenticatoio – Forza. Fammi vedere se hai imparato la
lezione.
-
Rispondi alla mia domanda.
-
La mia era una risposta. Pensi che per te sarà… diverso? Migliore? Pensi di
resistere ancora a lungo alla sete? Hai le labbra livide. Hai bisogno di
sangue.
Il
suo sguardo scivolò sul volto di Dorian. Il colore gli era già fuggito dalle
guance. Avrebbe resistito ancora un po’. All’assalto della seconda delle belve
affamate che avevano fatto di lui il loro singolare
banchetto.
Ignorando
le proteste del suo compagno che cercava di sottrarglielo, accostò il viso alla
gola di Dorian e lo ripulì del filo di sangue che colava dalla piccola ferita.
Un attimo prima di riporre lo sguardo su di lui e affrontarlo.
-
Coraggio, mordilo! – gli sibilò con voce ghiaccia, dopo un lasso di tempo che
gli parve eterno.
Gli
premette le dita sulle labbra incontaminate.
Ridacchiò
fra sé, quando avvertì le piccole zanne penetrare nel polpastrello con un impeto
collerico che lo fece sussultare.
Ce
l’hai ancora con me, piccolo? Non avevamo altra scelta: lo
sapevi.
-
Osserva – proseguì – Un piccolo… accorgimento, se così vorrai chiamarlo.
Stavolta non lascerò niente al caso. Promesso. Niente errori… da principianti!
Potevamo mandare tutto in fumo, capisci? Scatenare il panico. Stavolta, invece,
starò attento a non lasciare tracce.
Un
piacere sadico gli annacquò i sensi, quando vide i lineamenti scolpiti sulla
carnagione di marmo della sua creatura contrarsi in uno spasmo inorridito.
Metodico, attese che qualche goccia di sangue di vampiro dalle sue dita colasse
sui piccoli fori sul collo di Dorian.
Lui aveva
distolto lo sguardo, quando i margini delle minuscole ferite si riaccostarono
l’un l’altro, celando ogni segno visibile. Sorrise.
-
Un piccolo trucco per amici sospettosi dalla vista acuta –
concluse.
-
E… adesso? – il volto della sua creatura era il ritratto del
terrore.
Indugiava.
-
Adesso cìbati di lui, se lo desideri. Ma fallo con garbo, mon ami.
-
Sei un bastardo. Vuoi esasperarmi.
-
E tu cerca di muoverti! – lo redarguì, spazientito, allungando il passo lungo la
strada, i suoi rimbrotti a rimestargli nella testa, ossessivi, come una
cantilena inquietante.
-
Tu sei pazzo! Qualcuno… Ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui. Non
risponde più, dannazione…! Cosa gli hai fatto?
Qualcosa
gli folgorò nella mente. Tornò sui suoi passi, le labbra increspate in un mezzo
sorriso accondiscendente. Non aveva mai avuto l’intenzione di abbandonarlo lì,
al centro della città, giovane e inesperto, con il corpo del reato stretto fra
le mani. Ma voleva misurare le sue reazioni, la sua paura, saggiarlo
lentamente.
Era vicino, adesso. E Dorian,
esanime tra le sue braccia, un cumulo di stracci estremamente prezioso. I
capelli biondi, ributtati disordinatamente all’indietro, rilucevano sotto il
pallido chiarore lunare.
-
Dorian, mi senti? – seguitava quell’altro, indefesso, un fastidioso miagolio che
gli pungeva le orecchie.
Povero
piccolo sciocco! Sei quasi peggio di me.
-
Dobbiamo… portarlo via.
-
Taci una volta per tutte, incosciente! – lui stesso trasalì al sibilo metallico
che gli aveva spezzato la voce – Ci mancherebbe che non fosse svenuto! Che ci
vedesse in faccia.
Dorian…!
Contrasse
le palpebre, un accesso di dolore inchiodato al petto.
Fingi
che non sia accaduto nulla.
-
Dove l’hai perso, stavolta, il tuo unico barlume di umanità? – gli insinuò il
vampiro giovane, beffardo – L’ultima volta era sotto il tuo
letto…
E
lui si sforzò ancora una volta di rimanere calmo, un sorriso esasperato sulle
labbra scarlatte.
-
Parli di… umanità? La tua è
avventatezza, la forma peggiore di stupidità che potessi cacciare fuori –
veloce, accennò con il mento alla bassa costruzione in fondo alla strada, al
crocevia – Per di là. È tutto sotto controllo, e la locanda dei viscidissimi
Lambert farà al caso nostro. Ci sono le lenzuola pulite e le puttane ad
allietare la compagnia: cosa pretendi di più?
Si
fissarono per lunghi istanti, in attesa.
Sciocco
principiante!
L’avrebbe
rispedito a casa a suon di calci e l’avrebbe tenuto lì fino a che non fosse
stato di nuovo in grado di mettere il cervello all’opera. Se solo la sua
presenza non fosse così dannatamente utile.
Lentamente,
volse la testa verso di lui con un sorriso carico
d’indulgenza.
-
Avvicinati… – gli sussurrò – E promettimi che non farai nulla. Nessuna
iniziativa da incoscienti.
Veloce,
sollevò la manica fino al gomito; strinse le palpebre, nell’attimo in cui le sue
stesse unghie si conficcarono nella pelle candida del polso, e il disegno
violaceo delle vene in rilievo fu infranto dalla furia dell’artiglio acuminato
che penetrava a fondo. Dal sangue che sprizzò tutt’intorno, frantumando davanti
ai suoi occhi quella visione eburnea.
Barcollò
sotto la cappa torbida di un orgasmo. In un ultimo guizzo di lucidità, afferrò
il compagno per la nuca e gli premette la faccia sulla ferita pulsante. Come un
cucciolo a cui insegnare come bere il latte dal piatto.
E
poi fu solo la pace, una carezza liquida che gli sfiorò il viso, catalizzando di
prepotenza ogni altra percezione. Si sentì venir meno, la mano libera premuta
sul volto a soffocare un grido devastante, i cuori che acceleravano
all’unisono.
Bevi
da me, piccolo disgraziato! Sei un bambino che abbisogna di essere
imboccato.
-
Può bastare – gli ingiunse, categorico, respingendolo con un gesto che non
ammetteva reazioni.
Si
pulì con noncuranza e gli allungò una carezza sui capelli.
Lui aveva
mutato espressione, le labbra deliziose bagnate di rosso come un ragazzino
ingordo che si imbratta la faccia avventandosi sul cibo con voracità – e il
pensiero lo nauseò. I suoi capelli erano morbidi, le iridi vibranti di
sensazioni taciute sotto le sue dita, la bocca un frutto delicato. Era
bellissimo.
La
malinconia che gli serrava il respiro negli attimi immediatamente successivi al
forzato banchetto, incalzò su di lui come una brezza gelida, una carezza
beffarda prossima a diventare bufera. La magia sarebbe svanita, e un altro pezzo
di sé stesso perduto, una scommessa azzardata al tavolo dei
bari.
-
Voglio andare via… – era la propria voce, ed era cambiata: la sentì scorrere
nella gola, leggera, smarrita.
Lui gli
si stagliò davanti agli occhi, visione prepotente come un agglomerato di
contrasti abbaglianti – il volto di candida biacca, le labbra cremisi
voluttuose. L’indecisione crescente e la consapevolezza del cambiamento
impallidivano in un’impronta severa, risoluta.
-
Prima dovrai… rimediare a questo – gli rammentò, accennando con occhi fugaci
alla figura arruffata di Dorian accoccolata ai suoi piedi, il respiro
leggero.
E
lui annuì scuotendo il capo, e il corpo di Dorian fu di nuovo tra le sue
braccia.
-
Resta qui. Lo porterò alla locanda.
-
Non così.
Immobile
al centro della via, per poco non scoppiò in lacrime. Il suo granitico
autocontrollo cedeva sotto i colpi serrati di un disperato estraniamento; e
stavolta era stato lui, il suo giovanissimo novizio, la sua creatura, a porre
rimedio alla sua avventatezza. Soffiò, infastidito. E poi osservò il fardello
che reggeva tra le braccia con disinvoltura, e provò a considerare fra sé dove
stesse l’inganno, stavolta.
Dorian
aveva una statura notevole, e l’ampiezza generosa delle spalle lasciava intuire
un corpo asciutto e muscoloso. Avrebbe suscitato curiosità, là dentro, il fatto
che lui lo sollevasse come un gatto senza tracce di fatica sul
volto.
La
sua creatura aveva l’occhio lungo. Sarebbe stato perfetto. Un perfetto
intrigante.
Svelto,
lasciò tintinnare fra le dita un pugno di monete.
-
Sistemerò tutto: non devi preoccuparti.
-
Come sta Dorian? – seguitò l’altro, imperterrito, con l’insistenza di un ossesso
– Gli hai fatto… male?
Sospirò.
Sarebbe divenuta la nuova monomania, se non avesse provveduto a fugare quanto
prima quel suo dubbio ancestrale. Lo fissò con occhi beffardi. Lui e la sua bocca impiastricciata di
sangue.
-
Ti risulta che io ti abbia fatto del
male?
Lo
soppesò di capo a piedi, il sopracciglio impercettibilmente
inarcato.
-
Non… non ricordo – le palpebre gli si assottigliarono
nell’incertezza.
Se
non altro, è sincero.
Distolse
lo sguardo. Restavano due opzioni: troncare là il discorso, oppure chiudergli
una volta per tutte quella bocca che sapeva di sangue con qualcosa davvero in
grado di destabilizzarlo. Ghignò, mentre sceglieva le pedine da scagliare sul
tavolo da gioco, un sorriso insinuante ad increspargli il
volto.
-
Allora… Prova a immaginare l’orgasmo di un uomo. Ecco… Pensa ora di travalicare
il limite fisico. Qualcosa che sia fisicamente impossibile, come… Un orgasmo di
seguito all’altro, senza sosta, potenziato fino all’estremo, nel giro di pochi
secondi. Fisicamente insopportabile e meravigliosamente devastante per queste
membra ancora tenere e cedevoli. Ecco, qualcosa di simile – cinguettò,
accennando maliziosamente a Dorian.
Piccolo,
sensuale Dorian…!
Se
qualcuno – l’oste, magari – gli avesse chiesto spiegazioni sul momento, gli
avrebbe raccontato del suo amico dai lunghi capelli biondi, della sua sbronza
colossale e dell’assoluto bisogno di una dormita.
La
tua ubriachezza non sarebbe fuori luogo, se qualcuno dei tuoi amici apprendesse
la tua destinazione per questa notte, mio caro Dorian. Noi sappiamo entrambi il
perché, ed entrambi sapremo fornire – quanto meno a noi stessi – una spiegazione
passabile per vera.
I
soldi sono al sicuro dentro il tuo mantello. Paga la notte e vattene a
casa.
Ho
pensato a tutto.
Indugiò
con lo sguardo sul suo volto privo di espressione, immobile in una specie di
trance indotta, mentre si premurava di infilarlo sotto coltri candide,
rimboccate fin sotto il mento.
Per
un attimo assaporò il desiderio di sfiorargli la fronte con un bacio,
impalpabile come un ansito leggero. La sua pelle calda palpitò sotto le sue
labbra, veicolo inconsapevole per sondarlo impunemente nella notte, i suoi
pensieri come sogni confusi che si sovrapponevano l’uno sull’altro, come un
tenero calore capace di immergerlo totalmente nella visione, di accoglierlo in
sé.
Perdonami…
Dorian.
*
* *
La
sera di Auguste fu un torpore febbricitante venato di incubi sconnessi e pieni
d’angoscia; il suo unico, debole frangente di lucidità gli rammentò soltanto di
Raphäel Lemoine, il volto pallido serrato in un’espressione rasserenante,
nell’atto di somministrargli qualcosa.
Tutti
cominciano a temere per la mia incolumità fisica. Credono che il mio sia un
suicidio distillato nella danza crudele dei giorni e dei mesi, ben occultato fra
essi. Una morte annunciata e consumata con comodo, un lungo stillicidio. Gettare
la spugna e smettere di mantenersi in vita.
Da
quando non mandavi giù un pasto decente, Auguste? Da quando non trascorrevi una
notte di vero riposo?
È
come giacere su un letto di spine la sera e ingoiare vetro nell’arco della
giornata.
No,
non lasciarti morire: lo avevi promesso. Tutto, ricordi? Tutto, ma non la resa
ultima. Non la fuga, il nulla da cui non si torna indietro, l’insulto estremo
alla sua memoria.
Qualunque
altra cosa, Auguste.
Anche
se ti sembra che il tuo stesso corpo rifiuti di mantenerti in vita, e ogni
respiro è una boccata di fiele.
Sto
bene. Non mi lascerò andare: promesso.
E
poi, il delirio. Un lungo incubo privo di immagini che non lascia tracce al
risveglio: neppure il ricordo, solo il sudore sulla fronte e il respiro come un
torchio impazzito.
Quel…
quell’incosciente, maledetto Raphäel Lemoine: deve avermi drogato senza farne
parola con nessuno. Accidenti a lui, dannato moccioso intrigante, e al suo
stupido intruglio.
Strizzando
le palpebre nella spessa coltre di nebbia che gli incatenava i sensi, avvertì
per un istante un bagliore luminoso dinnanzi a sé, una lama di luce che
comunicava con il mondo esterno. O forse con lo stesso limbo in cui era
precipitato.
D’istinto,
piantò le unghie sulle lenzuola sfatte, artigliandole, sopraffatto da un
capogiro nel faticoso tentativo di sollevare il capo.
L’unica
sensazione fu un lungo brivido, come un battito mancato. E poi un volto che, in
un lampo, mise a fuoco.
Un
viso che no, non era quello di Raphäel Lemoine, sedicente cerusico da quattro
soldi.
Era
un volto di ragazzo, incorniciato da lunghi capelli ondulati, con occhi come
tizzoni ardenti piantati nella neve e un sorriso sarcastico, l’immagine distorta
da una sensazione fissa, persistente.
Auguste
sbatté le palpebre e si costrinse ad incatenare lo sguardo sulla sua visione
estatica. La morbidezza di tratti peccaminosamente androgini. Non ricordava cosa
fosse accaduto in capo a qualche ora prima. C’era lui e c’era il caos, la
caligine che ottunde le percezioni.
Fernand.
È
restato a vegliare in silenzio, dopo che gli ho detto di tutto. Dev’essere
impazzito.
Forse
ho davvero oltrepassato il limite.
Perché
ricordo la quiete dopo la tempesta, la droga che entra sfacciatamente in circolo
senza che me ne renda conto, la pelliccia serica di un gatto accoccolato accanto
a me, il corpo che vibra contro la mia mano aperta.
E
poi lui che irrompe dinnanzi a me, il volto congestionato che si sforza di
apparire indifferente. Gli occhi scintillanti, la smania di chiudere al più
presto una maledetta questione, prima di impazzire persi in fondo alla strada
sbagliata.
E
poi, lottando contro il tremito che fino a pochi istanti prima gli impacciava le
membra, cerca di ingannare l’insopprimibile cappa d’imbarazzo allungando una
carezza al mio gatto, prima di ritagliarsi un proprio angolo all’estremo opposto
del letto e sedere in disparte, raccolto su se stesso. Lui e il
gatto.
Ricordo
il fremente nervosismo con cui si ravviava i capelli dietro la nuca. Sulle
spine, indeciso su quale fosse il filo più inoffensivo da cui iniziare a
sbrogliare il sermone della pace.
Ricordo
di averlo odiato, almeno per un istante. Per un attimo avrei preferito lasciarlo
marcire nella sua angoscia, nel suo dolore.
Solo
perché è lui, Fernand Laroche.
E,
se fossi abbastanza malvagio, forse riuscirei a detestarlo almeno un po’, per il
fatto di esistere e di essere foschia inafferrabile.
Per
tutto ciò che è e rappresenta. Perché esiste, respira a pochi centimetri dalla
mia faccia e osa presentarsi davanti a me con il suo dannato
bagaglio.
Perché
non è altro che un fatale conglomerato di tutto ciò che non sono e non potrò mai
essere.
È
gelo negli occhi, è istinto di fiamma. È coraggio, volontà indefessa e
incorrotta. È l’animo fiero che ruggisce in faccia all’ingiustizia, e non lo
farebbe, no, se non per un moto sincero del cuore.
È
il corollario di tutto ciò di cui difetto tragicamente. È lo slancio e la
purezza. È un piccolo angelo appena nato, e la luce implacabile che lo
avvolge.
Perdonami
se ti ho fatto del male, Fernand. Se l’unica impressione che ti ho lasciato
addosso, incollata alle ossa, è di averti preso e stracciato in due, per poi
lasciarti lì, col cuore agonizzante.
Ma
tu sei… meraviglioso, anche se dalla mia bocca non le sentirai mai, queste
parole. Perché, se anche è vero che ti ho lasciato un’eredità scomoda, non devi
ringraziarmi mai, ma sputarmi in faccia, perché ti sto cacciando nel profondo
inferno, e credimi, è il male minore.
È
il tuo odioso momento di gloria, mio Fernand.
Lui
se ne stava lì di fronte a me, senza muoversi. Potevo intuire la linea delicata
del suo volto, l’ovale pallido come una visione nella nebbia, nel brusio che
offuscava ogni percezione.
Sei
tu, Fernand? A inchiodarmi dolorosamente a terra, impotente e sconfitto, o sono
i tuoi occhi, la piega vagamente diabolica delle tue labbra?
Lui
socchiudeva le palpebre.
Non
parlare, Fernand. Ecco, non ora. Perché sentirei e ascolterei soltanto ciò che
la mente seleziona sulla base di criteri oscuri. Sentirei la conferma dei miei
timori.
E
la tua sola vista, le labbra che smaniano per parlare, è sufficiente a far
defluire il sangue dal mio viso.
Il
suo volto è un velo di verità intrinseca, di chi ha deciso di denudarsi senza
rimpianti. È un’artistica macchia di sangue su un drappo di
seta.
Si
tormenta una ciocca di capelli con dita rapide, tremanti. E poi si decide a
parlare.
Quindi
sarei io, la soluzione di tutto?
Preferisci
tagliare corto, Auguste, puntare dritto alla soluzione che ti sembra più facile:
lasciare tutto in sospeso e convincere la tua mente che sì, che non potevi più
accollarti le tue responsabilità e continuare a lottare con noi?
Cosa
sono io, Auguste, in tutto questo?
Sono
la scelta di comodo, il male minore, l’insulto ben dissimulato, l’occasione di
ripiombarmi addosso nel momento meno opportuno, di sviscerare i miei errori e
dire “sì, Fernand, avevo ragione; te l’avevo detto, Fernand, ora levati dai
piedi e lascia stare”?
Ma
tu sei la giovinezza e il coraggio che non ho, Fernand. Io… sono stanco. Non
sono la persona che credevi. Perché grido e giro attorno al dramma senza
approdare a nulla, nell’ipotesi buona. Moltiplicando la portata del danno,
nell’ipotesi peggiore. E questo è quanto.
Non
puoi dire che non sia stato un buon “capo”, da questo punto di vista: non posso
dire di aver scelto male i collaboratori. Ti sembra poco?
Non
puoi dire che non abbia l’onestà di tirarmi fuori dalla questione, quando la mia
presenza è di troppo, un cattivo burattinaio che non riesce più a tirare le
fila.
È
davvero così… detestabile, piena di interpretazioni distorte, la mia decisione?
Se è così, incasserò il tuo parere e andrò per la mia strada. Perché non
rimpiango ciò che ho fatto.
Il
resto sarà carta bianca, nei limiti della vostra incolumità.
Lui
impallidiva sotto il chiarore smorto di una luce stentata, malaticcia. Diceva
che ero un dannatissimo testardo – ancora una volta. Che ero completamente
pazzo, se pensavo davvero certe cose. O che baravo in modo così spudorato da non
lasciare un margine d’errore. In tal caso, avrebbe provveduto personalmente a
prendermi a calci fino a convincermi a riprendere in mano quello che secondo lui
sarebbe stato il mio preciso dovere.
Non
chiedo la luna, Auguste. Chiedo di recuperare il recuperabile. Non gettare tutto
sul banco delle scommesse, alla rinfusa, il Caso unico giudice dagli occhi
velati.
Ma
io voglio andare via, Fernand. Vorrei solo specchiarmi in questi occhi di
prezioso cobalto e dire che la mia vita inizia e finisce qua.
Cos’è
questa… storia, Auguste? Hai forse paura? Illuminami.
La
paura non è cosa di cui vergognarsi, Fernand. E stavolta non ho peccato di
incoerenza.
È
una soluzione stronza, Auguste. E… sbagliata. Vuoi sbarazzarti di te stesso. Di
noi. Di tutto ciò in cui credevi.
Non
è così, Fernand.
Decidi
almeno tu che cosa fare: vattene oppure resta.
Non
ricordo cosa sia accaduto dopo, perché i contorni si confondevano sull’orlo del
precipizio. Credo di aver perduto il filo.
Ti
stai uccidendo con le tue mani.
Diceva.
Può
darsi. Perché neppure il duca, neppure il fatto di non vivere in una città
libera, può togliermi l’ultima libertà. Ma non è il mio caso.
Tu
hai bisogno di… qualcosa che ti faccia di nuovo vedere quel maledetto spiraglio,
Auguste. Hai bisogno di qualcosa da amare davvero.
Amare
può diventare il tuo supplizio permanente, Fernand, e mi meraviglio che proprio
tu non te ne sia reso conto.
Non
si può amare un cumulo di polvere che ti schiaffeggia in viso durante il
sonno.
Per
quanto mi riguarda, non ho bisogno di nulla, e questa è già una proiezione
eccessiva, se ci pensi, un ragionamento troppo alto, prematuro. Possibile non te
ne sia ancora reso conto, Ferdinand? È così… elementare.
Ho
solo bisogno di seguire ancora un po’ con lo sguardo il gioco di luci sulle
pareti in penombra, un bagliore improvviso a rischiarare le mie impalcature. E
di osservare le farfalle al di là della mia finestra. Chiedo davvero
troppo?
Ricordo
che ad un certo punto abbiamo riso entrambi. A lungo, in un modo quasi…
isterico. Liberatorio.
Prima
che il suo volto d’aria impalpabile e sottile non si confondesse in un delirio
di lava incandescente; qualcosa di tremendamente imprevisto, come l’innocenza
stessa, che si posava a sfiorarmi le labbra.
E
poi, giuro, è stato solo un subisso di brividi sotto la pelle, un’allucinazione
più tangibile delle altre, un lento precipitare in un mosaico di follia, dove
ogni singolo tassello si confondeva sotto il mio tocco.
Le
labbra che scorrevano le une sulle altre come un incastro
perfetto.
Sì,
questo siamo noi, Ferdinand.
Ed
ecco: morire adesso, per la seconda volta, non è una scelta da scartare a
priori.
*
* *
Fernand
sorrideva dall’angolo opposto della stanza. In maniche di camicia, le braccia
strette contro il petto, in attesa. Il sorriso che emergeva con
strafottenza.
Che
diavolo è successo, stanotte?
Aveva
un nonsoché di beffardo, il modo in cui si avvicinava, i capelli scomposti
intorno al volto di ghiaccio sottile.
Che.
Diavolo. È. Successo. Stanotte.
-
Cosa ci fai qui?
Fernand
si limitò a ravviarsi in un gesto civettuolo, divertito, i capelli che gli erano
ricaduti sulla faccia.
-
Nulla. Dormivi. Come ti senti?
Auguste
si tirò su a sedere, constatando con sorpresa quanto, in capo a… qualche ora?
Qualche minuto? Non avrebbe saputo stabilirlo. Quanto ogni traccia di malessere
fosse scomparsa in lui. L’incubo che gradualmente si era dissolto davanti ai
suoi occhi, a parte quel sibillino sentore di stanchezza accumulato sulle ossa,
reduce da un sonno scomposto che non ha apportato il sollievo
dovuto.
-
Meglio…
Distolse
lo sguardo. Era stato ingannato, la sua razionalità strappata via, presa in
prestito per una manciata di ore.
Si
strofinò la faccia. Perché voleva ricordare. Lo voleva
disperatamente.
Fernand
sollevò gli occhi al cielo come se attendesse una risposta. Scosse il
capo.
-
Perché… proprio io, Auguste?
Te
l’ho spiegato. Dannato ragazzino.
-
Fingerò di non aver sentito, Fernand… – sogghignò: voleva godersi le scintille
di rabbia che presto avrebbero increspato quel volticino senza
tempo.
-
Non ho intenzione di ripetermi – rimarcò.
-
Non stiamo giocando, Auguste.
-
Lo dico per questo.
Silenzio.
Fernand
si lasciò scivolare sul pavimento, il mento sulle ginocchia, in attesa che gli
spigoli vivi del sospetto più cocente scemassero
nell’aria.
Auguste
distolse lo sguardo. La nebbia che continuava a oscillare davanti ai suoi
occhi.
C’è
un altro motivo cruciale, anche se sarebbe meglio che non lo sapessi. E no:
scordatelo che venga a dirti a viso aperto che sono un vigliacco. Ciò che tu,
nella tua posizione mentale, chiameresti vigliaccheria.
Si
tirò su in piedi, si diede un’occhiata sommaria. Aveva gli abiti stazzonati, ma,
per il resto, non sembrava reduce da un torpore delirante. Non sentiva più la
testa pulsare.
-
Avvicinati, Fernand.
Lo
osservò da vicino. Aveva gli occhi arrossati dal dubbio, le sopracciglia
delicate modellate in un’espressione serena. Solo le labbra tradivano un che
d’infantile e di sfrontato: il modo in cui le arricciava
impercettibilmente.
Per
un attimo, si ritrovò a distogliere il viso dal suo. Aveva maturato l’occasione,
ed erano labbra che conosceva, tiepide contro le sue.
Era
soltanto questo.
Ed
era dannatamente diverso, ora, come una sensazione amplificata, assaporare la
sua bocca senza che la visuale fosse offuscata da filtri come la disperazione o
come l’intruglio che dona l’oblio che Raphäel gli aveva somministrato a
tradimento.
Fermami
adesso, Fernand. Te ne prego. Perché è così… dannatamente sbagliato, imprevisto.
Non sono ciò che tu pensi.
Fernand
non parlava. Non accennava a respingerlo. Dischiudeva le labbra, e in lui non vi
era il gelo del rifiuto né uno sguardo d’accusa. Esplodeva contro di lui, la sua
stessa presenza come un’esplosione di colore; era il sangue che correva ad
incendiargli le gote, il respiro che vibrava sotto il guscio sottile della
gola.
Era
la voluttà aggressiva, costellata di deboli sprazzi di controllo, con cui
lasciava scivolare le labbra sulle sue.
Era
la frenesia con cui gli prendeva le mani e se le portava intorno ai fianchi,
Fernand, le spalle scosse da un fremito profondo.
Erano
mille tasselli che collimavano sul suo viso, che stravolgevano il suo
ritratto.
È
atrocemente… sbagliato, Fernand. Non è giusto. Non siamo nel
giusto.
Abbiamo
fatto l’amore, stanotte, Fernand?
Non
farebbe una gran differenza dissipare la tenebra del sospetto. Non è cambiato
nulla.
Lui
premeva il proprio corpo contro il suo e con il respiro gli sussurrava che lo
voleva, che voleva essere suo, una lacrima capricciosa a tracciare un languido
ricamo sul suo volto.
Auguste
serrò le palpebre, assaporando il suo profumo. Perché dopo, dopo nulla sarebbe
stato come prima, e non sarebbero tornati indietro.
Vieni,
mio Fernand. Sali su quest’altare e chiudi gli occhi, e non pensare neanche per
sbaglio che qualcosa non ti sia dovuto.
Era
una tela bianca da dipingere, Fernand. Da orlare di rosso e di lacrime
roventi.
Era
il colletto arioso della camicia troppo grande che gli oscillava intorno ai
fianchi, mentre il corpo emergeva dall’intrico dei vestiti, fine alabastro
culminante in un paio di spalle squadrate.
Era
quella decina di dita sottili che gli insinuava alla base della nuca,
spingendolo verso di lui, sempre più giù.
Era
il ricciolo scomposto che gli ondeggiava candidamente sulla spalla, mentre, in
silenzio, lasciava che due labbra sconosciute disegnassero una rete di vibrante
estenuazione intorno alle clavicole.
Era
il calore che lo assaliva all’inguine, mentre si lasciava trascinare schiena
contro il tavolo.
Era
il gemito che incideva l’aria intorno a lui, il respiro come una rapida carezza,
Fernand. Il profumo in cui si sarebbe cullato in eterno.
Stava
lì, chino tra le gambe di Fernand voluttuosamente distese, a modellare il suo
corpo in una fitta d’impaziente desiderio. A scavargli addosso le voragini di
una bramosia dirompente.
Sapeva
di miele, Fernand, di una smania oscura e prepotente. Auguste lo osservava,
beveva la sua lenta deriva della coscienza, il suo crescente
smarrirsi.
I
suoi fianchi dicevano sì.
Che lui, Fernand, voleva fare l’amore con lui, e non sarebbe tornato indietro.
Era pallido e grondava d’impazienza, le labbra socchiuse in un lungo sospiro, il
corpo che ondeggiava lento contro il suo, il piacere convulso tradotto in uno
strofinio ipnotico.
Auguste
l’aveva accarezzato a lungo, mentre lo esplorava con impellente accanimento,
assaporandolo lentamente e ascoltando il vibrare sotto la
pelle.
Aveva
un’enfasi quasi… sofferta, Fernand, abbandonato su se stesso, furioso
nell’accogliere ogni fitta di piacere che gli veniva donata. Come se il languore
di una sensazione protratta a lungo fosse semplicemente… troppo. Troppo per lui.
Di un’intensità dolorosa, prossima a sprofondarlo nel
delirio.
Era
nudo, desiderio privo di filtri. Era ghiaccio reso ardente da qualche strano
gioco di luci; era bellezza e piacere incontaminato.
Auguste
tremò, nell’istante in cui penetrò in lui, e Fernand lo accolse con un morbido
assenso, la mente ottenebrata dal deliquio. Si contorse in uno spasimo, la
schiena inarcata.
Fu
un istante. Fernand gemette, un sospiro roco, spezzato, pulsante. Si tirò su
facendo leva sui gomiti, i muscoli contratti. Strizzò le palpebre come sotto una
raffica violenta, il corpo che si distendeva sotto il suo, quasi a volerlo
accogliere dentro di sé con ogni singola cellula. Le sue membra si serrarono su
di lui come un guscio, il volto acceso di una sensazione sconosciuta; e per un
attimo Auguste ebbe l’impulso di piangere, di interrompere quel folle volo e
deporre Fernand su un letto di piume, nudo e intatto nel marmo pregiato della
sua pelle. Così come l’aveva trovato.
Perdonami,
piccolo…
Solo
che poi sentì i suoi fianchi cedere, avanzare lentamente, attorcigliarsi a lui e
mulinare dolcemente, in attesa. Era un fascio di nervi guizzanti. Lui. Fernand.
Distratto,
Auguste gli disegnò una carezza lungo il petto, e indugiò ancora una volta, a
lungo, sul suo sesso, pressato nello strofinio crudele di due epidermidi di
diversa gradazione.
Fernand
si sarebbe lasciato morire, fuso in quell’abbraccio famelico, un oceano di lava
in punta di dita, e poi sarebbe caduto in deliquio, il battito
sconnesso.
Lui
invece preferì celare il proprio volto nell’incavo della sua spalla, immergersi
nel labirinto dei suoi capelli e baciarlo, ripagarlo del dolore che gli aveva
arrecato da sempre, dal giorno in cui, per un caso fortuito, si erano trovati
nella stessa stanza a dividersi la stessa manciata d’ossigeno, in un luogo e in
un tempo qualunque.
Aveva
voglia di piangere. Di lasciar collassare ogni frustrante malinteso nel grido di
un orgasmo; orgasmo che gli avrebbe offerto a piene mani.
A
lui, il suo bellissimo Fernand che cercava le sue
labbra e lo teneva stretto a sé.
Al suo Fernand che si lasciava annegare in
un’ampolla d’etere dolcissimo, un guizzo d’incoscienza nelle iridi d’inchiostro
liquido, mentre scivolava contro la superficie del tavolo, il cuore leggero e il
volto assente, scavato nella nebbia.
Auguste
udì soltanto un mugolio incomprensibile; osservò la propria mano, bagnata del
seme di Fernand, rilucere lievemente nella penombra, e per un istante avvertì un
moto di tenerezza, un senso profondo di appartenenza.
Poi
Fernand si abbatté su di lui, la cute solcata da brividi.
E
chissà, chissà quali frammenti di pensiero fluttuavano in quell’istante nella
sua mente scollegata da tutto il resto, velata. Frammenti che sarebbero restati
così. Incontaminati, raccolti sotto la barriera delle palpebre
socchiuse.
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Capitolo 27 *** Capitolo 27: Il male minore ***
Capitolo
27
Il
male minore
Auguste
sbatté le palpebre sotto il cono di luce calda gli si era abbattuto sul volto,
forzando il suo risveglio.
L’intero
istante successivo fu dominato dalla visione di Fernand accoccolato lì accanto,
i capelli chiari che gli ruscellavano sulle spalle. Riposava al suo fianco, il
capo timidamente reclinato sulla sua spalla, e per un istante i suoi lineamenti
delicati che sfumavano davanti ai suoi occhi in un velo sottile di caligine, tra
il biancore abbagliante delle lenzuola e le curve dell’oblio che gli offuscavano
la mente.
Scosse
le ciglia, quasi a voler sottrarsi al magnete che continuava a proiettare il suo
sguardo su di lui, un velo sottile di penombra che si addensava intorno agli
occhi socchiusi e sotto le ciglia, inedita dolcezza raccolta nella piega delle
labbra.
Sospirò.
L’aveva sorretto tra le braccia e deposto sul letto come un fagotto estremamente
prezioso. Solo qualche ora prima. E Fernand aveva accostato la guancia umida
alla sua, offrendosi debolmente alla sua stretta.
Auguste
avvertì il suo essere collassare nelle scintille di quella
notte.
Un
istante. Fernand che gridava il suo piacere di fuoco liquido e si lasciava
andare alla deriva. Forse aveva davvero perso i sensi tra le sue braccia –
oppure era troppo stanco, stremato dall’ondata densa di piacere che gli si era
infranta addosso; troppo, per riprendere di coscienza e trascinarsi a letto con
la sola forza delle sue gambe.
La
lama di luce che lo aveva distolto dal suo sonno di piombo riprese a
solleticargli le ciglia. Il suo primo istinto fu di stringersi a Fernand,
braccia abbandonate lungo i fianchi e muscoli rilassati, il viso immerso nel
sonno simile ad uno strato di marmo sottile appena mosso in superficie. La trama
di un istante fissata in un sospiro leggermente
strascicato.
Auguste
sbatté le palpebre, mentre Fernand si allungava lentamente al suo fianco.
Sembrava… diverso, intimamente
diverso – solo rispetto a poche ore prima –, come se la frenesia di quella notte
si fosse adoperata a riempire una tela vuota. In silenzio, osservò i suoi
capelli allargarsi sul guanciale come una cascata, come il ricamo deliziosamente
cesellato delle sue giunture. Pelle bianca e muscoli tesi sotto la cute, e il
petto e le spalle ricettacoli di eburnea perfezione.
Mio
Ferdinand…
Era
stato con lui. I suoi capelli intrecciati fra le dita, labbra contro labbra, e
le loro intimità a sfiorarsi.
Si
strinse a lui: no, non l’avrebbe distolto dal suo torpore. Voleva solo sentirlo
caldo e vivo sulla propria pelle, strettamente allacciato a lui com’era stato
quella notte. Perché tutto era accaduto in una notte.
Spalancò
gli occhi nell’incertezza. Fernand si mosse nella nebbia del sonno che si
affievoliva dinnanzi a lui, e per qualche attimo si lasciò cullare dalle sue
braccia.
Auguste
gli scostò i capelli dal viso, scendendo poi a disegnare in punta di dita il
contorno nitido delle spalle. Serrò le palpebre, la confusione liquida e
mutevole del risveglio che gli scompaginava la mente.
Lo
amava. Era solo questo. Nient’altro, in fin dei conti.
Avvertì
un morso di tenerezza, un atavico istinto di protezione serrargli lo stomaco,
quando Fernand rotolò verso di lui, imprimendo un contatto più stretto fra loro.
E respirando contro il suo petto.
Un
bacio appena accennato sulla fronte fu sufficiente ad accelerare la sua ascesa
dall’oblio alla veglia. Fernand si riscosse.
-
Auguste, io… – biascicò con voce roca, come un gatto geloso d’attenzioni:
attenzioni che presto si affrettò a reclamare, piantandogli addosso i suoi occhi
di metallo e sussurrandogli obbedisci.
Auguste
immaginò la linea diritta dei suoi fianchi nell’atto di ruotare verso di lui, il
movimento morbido attutito dalle lenzuola. Non era ancora giunto il gelo della
consapevolezza a spezzare l’incanto, né la percezione nominale di ogni
implicazione esterna.
Un
lampo che gli esplodeva nella mente, repentino. Lucien, Emilie. Dorian. Ambrosie
e Raphäel che forse – chissà… – giocavano a farlo impazzire con i loro giochetti
d’astuzia, lei con l’intreccio ipnotico delle parole, lui con quegli occhi
ambigui e con la somministrazione di droghe a tradimento.
E
chissà quale altro conflitto nell’aria.
Ed
ora, era innocente ciò che era accaduto, oppure si trattava ancora una volta
d’imboccare la strada sbagliata con il più ampio margine di
rischio?
Fernand
scosse il capo, quasi a leggere i suoi dubbi.
-
Auguste, non serve dubitare ora. Mi basta quello che ho visto. Che ho sentito
sulla pelle. È reale. Siamo io e te.
Non
parlare in astratto, Fernand. Non recitare filastrocche imbastite sul momento.
Non tentare l’ennesima astuzia. Vuoi chiedermi se tutto questo, per me, ha
significato qualcosa?
-
Non vedo di cosa potrei dubitare,
Fernand. Abbiamo fatto l’amore, è piuttosto chiaro.
-
Abbiamo fatto l’amore… – gli fece eco
Fernand, la voce pericolosamente serpentina, per poi stringersi nelle
spalle.
Auguste
distolse lo sguardo. Avvertì l’impronta di un sorriso formicolargli sulle
labbra, al pensiero di conoscere ormai pressoché alla perfezione ciò che si
celava sotto le lenzuola. La pallida levigatezza della sua pelle, l’armonia
delle sue membra decise. Il calore palpitante del suo sesso mentre lo stringeva
a sé.
- E
questo non toglie che lo rifarei – si affrettò a
sottolineare.
-
Cosa succede, Auguste? – Fernand si tirò su, puntellandosi sui
gomiti.
Una
ciocca di capelli gli ricadde davanti al viso.
-
Succede che hai vinto.
-
Io non… – Fernand lasciò vagare lo sguardo intorno alla stanza, smarrendosi nei
suoi pensieri.
O,
chissà, forse voleva solo guadagnare tempo. Estirpargli le parole a tempo debito
con un paio di tenaglie affilate.
-
Credo di amarti, Fernand. È questo che ti getta nel
panico?
Fernand
aggrottò la fronte. Per un istante, Auguste fu certo di veder scorrere sul suo
viso un lampo quasi sofferente. E poi una sorta di sorriso – un’ombra sfuggente
sulle labbra, presto celata dalla massa arruffata dei suoi capelli –, mentre si
lasciava avvolgere dal suo abbraccio.
-
Quindi, Auguste… Era questo. Il tuo problema
impronunciabile!
-
Non si chiama problema e non è
soltanto questo, Fernand.
-
Si chiama gelosia, Auguste. Ti sei
ficcato in testa che per qualche strano motivo io avrei i requisiti per portare
a buon fine ciò che tu ti sei limitato a iniziare. E se questo da una parte ti
era sembrato utile per sollevarti delle tue responsabilità, dall’altra ti sta
portando all’ossessione. È così? Da quanto?
Auguste
si sforzò di mantenere lo sguardo fermo.
-
Dannazione, Fernand! Perché riesci sempre ad inquinare tutto a tutti i costi, a
vedere il marcio dappertutto e in qualsiasi momento?
-
Oh, era una piccola constatazione. Ed è qualcosa che ora riguarda me e te a
pieno titolo, stavolta. Avrò forse il diritto di sapere perché improvvisamente
vuoi che stia con te?
-
Che razza di domanda idiota…!
-
Cos’ha riacceso il tuo interesse nei miei confronti, Auguste? Fino a ieri mi
guardavi come se mi odiassi. Poi sei diventato… strano.
Auguste
soffocò l’impulso di scoppiare a ridere.
-
Sei bello, Ferdinand. Come dovrei guardarti, scusa?
-
‘fanculo!
-
Sei terribile! – Auguste si svincolò lentamente dall’abbraccio, un misto
d’ironia e perplessità – Ti rendi conto almeno un po’? Mi abbracci e al tempo
stesso cerchi di ferirmi… Dannata lingua tagliente!
-
Quindi – Fernand sorrise, sibillino – Sarei una specie di demone tentatore… È
corretto?
-
No. Penso solo che tu sia un po’ troppo abile a confondere le idee. Non
marciarci sopra a lungo, Fernand. Pensi che non stia giocando a carte
scoperte?
- È
che… non è chiaro dove tu voglia arrivare. Solo questo – Fernand si ravviò
nervosamente i capelli.
- E
dove vorrei arrivare…? Sentiamo un po’ dove vorrei
arrivare.
-
Oh, questo dovresti saperlo tu. A indorare la pillola fino a portarmi sui tuoi
propositi, naturalmente. È la logica del male minore, Auguste: meglio quella
gran testa calda del Laroche… di qualcuno tipo Dorian, magari – un sorrisetto sagace
gli increspò le labbra, gli occhi stretti a fessura.
Auguste
fece appello a tutta la propria volontà per mascherare la sensazione di gelo che
gli aveva attanagliato le ossa, non appena il nome di Dorian gli era rimbalzato
nella testa.
-
Mi fido di te, Fernand – si limitò a sussurrargli.
-
Non ti fidi di Dorian.
-
Dorian non c’entra nulla. Si parla di me e di te, in questo
momento.
-
Già. Però, se permetti, vorrei essere sicuro di meritare davvero la fiducia
dell’ultima persona che mi sarei aspettato. E della persona con cui ho appena
fatto l’amore.
Auguste
stirò le labbra in un mezzo sorriso spazientito: adesso era guerra
aperta.
-
Immagino che il tuo amico dai riccioli biondi ti abbia riempito la testa a
dovere. Della sua versione,
naturalmente. Sai, Fernand: sono meno sprovveduto di quanto voi pensiate. È
difficile immaginare che lui non si sia mai lasciato andare a qualche
confessione al suo miglior amico davanti a un bicchiere di vino. Sbaglio? –
sorrise, condiscendente.
Giocare
sulle reazioni di Fernand stava diventando un’allettante caccia al tesoro. E, se
fosse stato abbastanza cauto, sarebbe persino riuscito a non sconfinare nella
lite.
-
Questo non è importante, Auguste – Fernand scosse il capo, le braccia incrociate
sul petto – Io vorrei… poter fare qualcosa, davvero.
-
No – lo interruppe Auguste – Tu non farai un bel niente. Lascia stare. Non
parlarne. Fai conto di non aver mai sentito nulla.
-
Non posso fingere di non sapere nulla. Pensi che io sia… venuto a letto con te
per perorare la sua
causa?
-
Non è neanche questo – Auguste si sforzò di sorridere, rassicurante – No,
Fernand… Dannazione! Penso che il signor Desgrais abbia messo un po’ troppo di
suo dentro questa testolina – gli soffiò, le dita che correvano ad arruffargli i
capelli sulle tempie.
-
Il signor Desgrais che non è il
signor Desgrais? – puntualizzò Fernand, caustico.
-
Dio…! – Auguste sollevò gli occhi al cielo, il fianco scoperto di fronte alla
stoccata improvvisa.
Per
un istante si domandò quanto sarebbe stato lecito e conveniente impacchettare
ben stretti in catene quei due sciagurati e spedirli in qualche posto lontano e
sicuro senza colpo ferire.
-
Fernand, non sono affari che ti riguardano!
-
Pardon, io credevo che mi riguardassero eccome… – un bagliore luciferino gli
lampeggiò in fondo alle iridi – Sono o non sono il nuovo… capo? Avrò diritto di sapere come
diavolo muovermi nel marasma che ti sei lasciato alle
spalle?
-
Innanzitutto, tu non sei a capo di nulla e non sei il capo di nessuno – si
affrettò a redarguirlo Auguste – Come se non bastasse, le cose a cui ti
riferisci non hanno niente a che vedere con te né con ciò che ti chiedo di
fare.
-
D’accordo, come vuoi tu… –Fernand annuì, lo sguardo scettico fisso in un punto
imprecisato in fondo alla stanza – Anche se non sono sicuro di aver
capito.
-
Hai capito, Ferdinand! – Auguste lo scosse per le spalle, lo sguardo fermo –
Lascia fuori Dorian da questa faccenda. Non metterti e non farlo mettere in
situazioni di pericolo. E dato che il tuo amico ti sta molto a cuore, la cosa
migliore che puoi fare per lui è fare in modo che se ne stia il più possibile
alla larga. Lontano, esposto il meno possibile… Non lasciare che agisca in prima
linea. Che si avvicini a Palazzo du Lac.
-
Insomma… – Fernand arrotolò distrattamente una ciocca di capelli tra le dita –
Dovrei tramutarmi né più e né meno in ciò che tu sei stato per mesi nei nostri
confronti. Dovrei recitare la mia parte. Trattarvi tutti da bambini scemi e
imbastire segreti uno dopo l’altro. Sai che noia…!
-
Proprio così. Non c’è nulla di divertente – replicò Auguste, secco – E
assecondare Dorian è quanto di più imprudente possa fare.
-
Dove vuoi arrivare? – Fernand spalancò le palpebre,
interdetto.
-
Non voglio vedervi giocare a viso aperto.
-
Tipo?
-
Tipo scatenare tumulti in città… Perché lo so, Fernand, vi conosco, non sono un
ingenuo: è la prima cosa che cerchereste di fare, che state caldeggiando da
secoli, non è così? Vi dareste alla pazza gioia. Ed è ciò che temo più di tutto
il resto. Soprattutto per Dorian… non è mai stato troppo ragionevole da questo
lato. Pensa che uccidendo il duca risolverebbe ogni
problema.
-
Auguste, parla chiaro! – Fernand scosse la testa, spazientito – Perché non provi
a… parlare con lui? Con Dorian, anziché con me?
Auguste
chinò lo sguardo. Per un attimo fremette nel desiderio bruciante di aggredirlo
con parole abbastanza dure da cancellare in lui ogni velleità d’infilare il naso
nelle faccende tra lui e Dorian. E, con Fernand, sapeva che sarebbe stata una
scommessa persa in partenza: avrebbe finito soltanto per esacerbare il desiderio
di Fernand di agire di testa sua.
Sospirò:
era chiaro come il sole che la piccola serpe aveva agito in modo da far pendere
l’ago della bilancia dalla propria parte, a fare di Fernand un suo alleato
prezioso. E doveva averlo imbottito per bene di chiacchiere, rifletté,
mordendosi nervosamente il labbro.
E
ora era necessario contrapporre qualcosa a proprio favore. Ad esempio,
snocciolargli la sua versione dei
fatti, la sua campana – ma era quanto
di più avventato avesse potuto fare.
-
Ferdinand… – gli sussurrò alla fine – Basta così. Non ne verresti a
capo.
-
Ma Dorian… sta male. Non si fida di te, non si fida più di
nessuno.
-
Me ne ero reso conto anche da solo. Ed è il male minore – concluse, serrando le
labbra.
Era
quasi ipnotico il modo in cui Fernand giocherellava con il bordo del lenzuolo.
Distrattamente. Qualcosa gli suggeriva che il piccolo intrigante numero due
avesse qualche altra carta consistente da giocare.
-
Allora, mettiamola così – Fernand mosse di nuovo lo sguardo su di lui, i palmi
in bella vista come a dire non c’è trucco
e non c’è inganno – Io non metterò il naso nelle tue… nelle vostre faccende personali. Non farò
domande. Questo però non toglie che esiga chiarezza almeno da parte tua – chinò
lo sguardo, colpevole – Io non c’entro nulla, siamo d’accordo. Però credo che tu
sia l’unico, in questo momento, a dover aiutare Dorian. Soltanto
questo.
Auguste
sorrise, accondiscendente.
-
Temo ti stia chiedendo se ciò che ho fatto finora, qualunque cosa sia, abbia
avuto lontanamente a che fare con il bene di Dorian: è questo il dubbio che ti
rode?
Fernand
gettò il capo all’indietro, soprappensiero, un misto di stupore e sollievo a
pervadergli i lineamenti.
-
Esatto… – cinguettò, sornione – Riesci a leggermi nel
pensiero?
Ad
Auguste parve pressoché doveroso regalargli un breve sorriso. Si sporse verso di
lui. Non è stato difficile,
stavolta.
-
Perché avrei scelto te, se non fosse
così? – gli sussurrò – In ogni caso, la risposta è sì. Per Dorian sarebbe il danno
minore.
-
Il danno minore? Devastarlo di dubbi? Tenerlo all’oscuro… di se stesso, del suo
passato… della stessa causa per cui sta lottando? È… meglio?
Auguste
fu tentato di domandargli a bruciapelo fino a che punto Dorian l’avesse
introdotto alla conoscenza di cose che non avrebbe dovuto sapere. Fino a che
punto si fosse spinto in là con le sue confidenze da ubriaco – perché doveva
essere stato senz’altro ubriaco, Dorian, per lasciarsi andare a confessioni da
perfetto incosciente.
Tuttavia,
qualcosa, ancora una volta, gli disse che ancora una volta tacere sarebbe stata
la scelta migliore. Barcamenarsi a stento, in bilico su un filo di lana,
basandosi sulla semplice intuizione e sulle mezze verità che galleggiavano in
quel delizioso cervello in fermento.
-
Non è il momento, Fernand. La posizione di Dorian è delicata, e vorrei che tu mi
aiutassi a… proteggerlo da quello che potrebbe fare – Auguste sentì la testa
girargli, la sua stessa richiesta come una spada arroventata a un soffio dalla
sua pelle – Per favore.
- E
da cosa dovrei proteggerlo? – Fernand inarcò un sopracciglio,
dubbioso.
Legittimo,
dannazione. Dubbio legittimo. E legittimo, a questo punto, chiedersi se la
persona con cui ha appena condiviso il letto non sia completamente pazza o in
preda a strane visioni.
-
Da se stesso, Fernand. Da certi gesti avventati pienamente nel suo stile. Ora,
se permetti, preferirei chiudere la questione. Almeno… per adesso – tentò di
risolvere.
E
poi tacque. In silenzio, osservò Fernand, raggomitolarsi sotto il velo sottile
delle lenzuola, meditabondo, un velo di tristezza incollato alle palpebre. Per
un istante gli si figurò nella mente il suo corpo nudo, le braccia nervose tese
ad abbracciarsi le ginocchia e i brividi sulla sua cute, sotto quell’unico
schermo di stoffa sottile che li divideva, celandogli il suo corpo – e la loro
notte di cristallo fragile, splendido nei suoi bagliori
mutevoli.
Fu
colto da un fremito di dolcezza. Era lì accanto a lui, una barriera sottilissima
a separarli, e solo un istante per squarciare l’intrico dei dubbi che
continuavano a rincorrersi, interponendosi tra loro.
Fernand
si fissò le mani, quasi a evitare i suoi occhi.
-
Perché hai scelto me, Auguste? – domandò di colpo, riaccendendo come per magia
l’enfasi di un discorso che si era sforzato di ricacciare nel limbo del non
detto.
-
Mi pare di avertene parlato. Mi fido di te, Fernand.
Lo
vide trattenere a stento una risatina beffarda.
-
Tu ti fidi di me?! Del Fernand impulsivo,
scavezzacollo e menefreghista? – sogghignò.
- È
ovvio che non lo sei – Auguste s’impose la calma – Dannazione: vuoi costringermi
a riprendere da capo fottutissimi discorsi, visti cento e mille volte? Vuoi che
ricominci a elencarti per filo e per segno tutto ciò che penso? Credevo di
essere stato esaustivo. Possibile che trovi divertente rifugiarti ancora in
vecchi pregiudizi?
Fernand
sollevò gli occhi al cielo.
-
Non eri in te quella sera, Auguste. Stavi andando a seppellire Lucien, non eri
lucido e l’unica cosa che desideravi era sbarazzarti del tuo
fardello.
-
Io voglio sbarazzarmi di un fardello,
Fernand. Ma vorrei anche lasciarlo in buone mani. Se possibile, migliori di
quelle che le hanno precedute.
Era
così. Sputò fuori la mezza rivelazione che si teneva annodata alla gola da
giorni o forse da mesi, come un veleno covato troppo a lungo, come una
pallottola conficcata nella ferita, da rimuovere al più
presto.
Fernand
si dondolò su se stesso, gli occhi semichiusi.
-
Voglio tornare al borgo… – mormorò sul filo di un pensiero espresso a voce alta,
le labbra malferme – Preferisco gli occhi di mio padre che mi guardano con
sufficienza, come il ragazzino viziato e troppo schizzinoso per sporcarsi le
mani…
-
Questo non è vero – Auguste alzò la voce senza quasi rendersene conto,
interrompendolo – Tu non desideri tornare a casa, Fernand.
-
Perché proprio me, Auguste? – Fernand gli scoccò un’occhiata
implorante.
Auguste
chinò lo sguardo. La verità bruciava. Era sufficiente anche un solo
brandello.
-
Perché io ho sbagliato, Ferdinand – proruppe – Ho sbagliato sin dal primo
istante. A guardarti come un ragazzo petulante e vanaglorioso… Troppo freddo e
concentrato su se stesso per portare avanti qualcosa non finalizzato alla
propria autoaffermazione. Invece no, non è stato così. Ho scelto te perché era
la cosa più giusta – deglutì, a disagio – Perché sei la sintesi delle qualità
che mi mancano per portare tutto a compimento come dovrei. Perché io… non sono
come te, Fernand. C’è bisogno di qualcuno a cui non tremi la mano, che non si
porti addosso il fango di troppe sconfitte e incertezze.
-
Questo non è corretto, Auguste… Ti stai dando del vigliacco da solo – Fernand
cercava di tergiversare con un’enfasi che gli riempì il cuore di nostalgia – Che
diavolo avrei io di speciale?
-
Fa’ come ti ho detto, Fernand. Sono domande inutili. Ti basti sapere che c’è
bisogno di Fernand e non di Auguste. Io non ho il tuo coraggio. Sei giovane, sai
come stanno le cose, ed io ho stima e fiducia per te. Cosa
manca?
-
Una motivazione che stia in piedi.
Auguste
lasciò che sulle sue labbra affiorasse un sorriso tirato.
-
Rigirala come vuoi, ma non hai molta scelta. Se io abbandono il campo, dopo di
me resti tu. Pensi che mi sia divertito, in tutto questo tempo…? Ciò che fa
male, Fernand, è che io l’ho sempre saputo. E bruciava, maledizione. Pensare che
in casa mia esistesse qualcuno più adatto di me e che io mi stessi semplicemente
rifiutando di vederlo, di ammetterlo a me stesso, mentre usurpavo qualcosa che
non mi apparteneva più da tempo… Questa era la mia causa, Fernand. Poi sei
arrivato tu… è arrivato qualcuno migliore di me. Eri la persona giusta, ed io
non avevo più senso. Specie dopo quel che è successo. O io o te,
Fernand.
-
Sei geloso…
-
Di cosa? Del fatto che tu abbia dieci anni in meno di me, che non ti trascini
certi errori dietro le spalle e che abbia ancora i nervi sani? Non c’è nulla di
cui essere gelosi né di andare fieri, Fernand. La tua presenza è un dono del
cielo.
-
Non adularmi, ora. È che non vuoi Dorian tra i piedi. E ti sei tirato
elegantemente fuori dalla questione al momento giusto.
-
Hai indovinato – Auguste si costrinse a fissarlo negli occhi – Non voglio Dorian
tra i piedi per la sua incolumità
personale. Ma chissà, volendo potrei estendere lo stesso discorso a chiunque
altro. A te, o a tua sorella.
-
Che cosa diavolo ti ha fatto Dorian?
Auguste
ebbe l’illuminazione, tanto che per un momento temette di esplodere in una
risata inarrestabile. Cosa gli aveva
fatto Dorian… La tentazione di prenderlo in giro, di metterlo
definitivamente nel sacco era più forte che mai.
-
Nulla di personale, Fernand… A parte questo – gli soffiò, sfiorandogli la gola
nel punto in cui un segno rosso campeggiava in tutta la sua
evidenza.
Il
chiarore del mattino, sempre più esteso nella stanza, giocò a suo
favore.
Un’espressione
di trionfo gli stirò i muscoli del volto, quando vide Fernand avvampare di
colpo. E poi si rese conto che era meglio di mettere fine al suo giochetto nel
momento stesso in cui era iniziato, e prima che Fernand equivocasse sul
serio.
-
Queste sono sciocchezze, Auguste…
-
Scusa… Non ho potuto resistere.
-
Bravo, Auguste. Sei riuscito a farmi sentire in imbarazzo.
-
Non si può dire sia stata una passeggiata.
Silenzio.
Fernand fece saettare lo sguardo su di lui, le labbra che si dischiudevano in un
sorriso indecifrabile.
-
Non puoi farlo, Auguste.
-
Che cosa non posso fare? – Auguste trasalì; una parte di lui fu tentata di
scoccargli un’occhiata divertita.
-
Confondere le due cose, mischiarle fra loro. La fiducia che sembri volermi accordare, e il fatto
che…
Auguste
indietreggiò d’istinto, puntellandosi i gomiti, mentre Fernand accostava il viso
al suo, con noncuranza.
-
Beh. Che ti sia invaghito di me, no? Io ti piaccio… – scandì con tutta
naturalezza, un lungo miagolio che gli s’incuneò
sottopelle.
-
Sei terribile… – Auguste scosse il capo, scettico, evitando lo
sguardo.
A
tentoni, allungò la mano oltre il bordo del letto, verso il pavimento, alla
ricerca della propria camicia abbandonata da qualche parte intorno al
letto.
Poi
Fernand si sporse verso di lui, il volto punteggiato da una viva enfasi ironica
e, sfrontato, gli catturò le labbra con le sue.
-
Così diventi prevedibile, mon ami… –
gli sibilò, a un filo della superficie ultrasensibile della sua
bocca.
Auguste
lasciò scorrere una mano sul suo petto – contorni da tracciare dolcemente, in
punta di dita –, vana ambizione di cancellare dai suoi occhi quell’espressione
sfacciatamente padrona di sé, da burattinaio astuto.
-
Non c’entra nulla, Fernand – tentò di rassicurarlo – Sono due cose separate, e
questa è l’insinuazione più fantasiosa che abbia mai
sentito.
E
poi, qualcosa lo costrinse a socchiudere gli occhi. Trattenne il fiato. Non
vedeva Fernand in volto, ma poteva sentirlo ridacchiare sommessamente, mentre si
piegava su di lui e lo attaccava di sorpresa alla gola in un tripudio di leggeri
sfioramenti. Il suo respiro pareva uno spasimo di gioia all’idea di farlo
fremere sotto di sé, di calibrare dolcemente ogni sua sensazione. Illudersi di
tenerlo per qualche istante in proprio pugno.
-
Non del tutto, Auguste – Fernand sollevò il capo, piantandogli nuovamente
addosso le iridi azzurre – Questo… baciarmi, toccarmi, fare sesso con me, ti dà
motivo di conoscermi nel suo
significato più completo. E forse di manipolarmi in futuro, chissà… Sono un
foglio bianco ben mappato.
-
Che sciocchezze, Fernand! Come puoi prendere per buone delle assurdità simili?
Mi accusi di… sfruttarti? Di manipolarti usando il mio corpo? Mi dai della
puttana? – Auguste sentì uno sgradevole formicolio stringergli la gola come un
senso di strangolamento: era la vertigine che gli provocavano le velate
provocazioni di Fernand, in sospeso tra la convinzione sentita e il ragionamento
astruso – Allora potrei dire la stessa cosa di te: perché abbiamo appena fatto
l’amore e tu mi parli di Dorian? Dopotutto, sei stato anche con
lui…
Fernand
impallidì, scostandosi da lui come alla ricerca di una boccata d’aria, di una
via di fuga. Tanto che per un attimo Auguste credette che fosse davvero sul
punto di scappare, lasciandolo in pasto ai dubbi che lui stesso gli aveva spinto
a forza nella testa.
-
Mi stai umiliando… – Fernand tirò su con naso, i capelli buttati sulla faccia
come a voler schermare gli occhi lucidi – Ti giuro che non lo farei
mai.
-
Fernand – cautamente, Auguste gli prese il volto tra le mani, stringendolo in
una carezza – Non… dubitavo di te. Davvero. Non mentivi stanotte né in questo
momento. Non l’ho pensato nemmeno per un istante.
Fernand
sbatté le ciglia. Una patina di fiducia fece capolino nei suoi occhi come un
alone appena percettibile.
-
Allora sarò sincero. È come dici. È vero: sono stato con Dorian. Abbiamo parlato
a lungo, e lui… mi ha raccontato la sua storia.
-
Cosa sai di lui, adesso? – Auguste temette di cedere all’impulso di vacillare o
di compiere qualche passo falso.
E
poi il viso di Fernand si indurì in un sorriso astuto.
-
Le stesse identiche cose che dovresti sapere tu, Auguste. Tranne ciò che non
dici. E che riguarda lui.
-
Mi dispiace.
Auguste
trattenne il fiato. Osservò Fernand inarcare un sopracciglio, scettico, un mesto
scuotimento del capo.
-
Devi parlare a Dorian, non a me – ripeté, quasi una nenia.
-
D’accordo. Allora parliamo di noi – azzardò.
Nel
silenzio carico che seguì, Auguste avvertì distintamente le labbra di Fernand
serrarsi, le ciglia ondeggiare lentamente. Le sue braccia lo circondarono, il
viso tornò a nascondersi nell’incavo della sua spalla, come a rivolgergli una
domanda a cui neppure lui stesso avrebbe voluto dare voce.
Non
vi era l’ansia di baciarlo, di accostarsi a lui e poi ritirarsi fulmineo in uno
scatto sornione e sensuale. C’erano i suoi lunghi capelli ondulati a
nascondergli il volto, e quella stretta, quella vicinanza quasi ossessiva che
gli impediva di mettere a fuoco i contorni, l’espressione rivelatrice del suo
viso.
-
Fernand – riprese, un sussurro – Decidi tu cosa fare. Se restare o andare via.
Se fidarti di me oppure no. Se… sei con me o con Dorian.
E,
prima che lui stesso se ne rendesse conto, le sue dita corsero a sfiorare di
nuovo la piccola impronta arrossata sulla gola di Fernand. Il segno delle labbra
di Dorian. Si ritrasse, di colpo.
Perché,
no, stavolta non aveva diritto di pretendere una risposta, di sentirsi infelice
o messo da parte, di avanzare velate pretese o rivolgergli sorrisini caustici
sotto cui celare il suo profondo, irrazionale senso di abbandono. Non aveva il
diritto di raffigurarsi nella mente Fernand e Dorian stretti l’uno all’altro
sotto lo stesso cielo, né domandarsene la ragione. O sentire il proprio cuore
vacillare pericolosamente all’idea.
-
Devo rispondere adesso? – Fernand gli
affondò il viso nella spalla, respirando contro i suoi
capelli.
Lasciandogli,
come strascico imprevisto, un brivido lungo la spina
dorsale.
-
No, Fernand. Perdonami… – si morse il labbro.
Non
ho diritto di domandare, di pretendere, di dichiararmi parte in causa, di
stabilire un ultimatum.
Non
c’ero, per te, Fernand. Non ci sono mai stato.
Tutto
quello che ci ha uniti a doppio filo, fino a questo momento, si riduce a qualche
occhiata in tralice dal significato incerto, all’ostilità reciproca, alla
volontà di sbranarsi alla prima occasione pur di cancellare l’incubo di non
riuscire a sfiorarsi. La paura di dover lasciare i sentimenti a giacere sul
fondo, di sentire la loro morsa appena attutita, la rabbia che ribollisce sotto
le macerie. Come un malefico sostrato con cui confrontarsi
costantemente.
Meglio
evitare di estinguere le fiamme e rischiare dopo di morire nel
gelo.
Meglio
urlarsi addosso ad armi snudate, se necessario, piuttosto che reprimere la
tensione, smorzare il grido, lasciarlo spegnere nella polvere, e nel mentre
posare le pietre per innalzare un muro sempre più alto.
Fernand
si prese il capo fra le mani, soprappensiero.
-
Cosa vuoi che faccia, adesso? – squittì, angosciato,
capitolando.
Come
se le sue braccia fossero l’unico rifugio disponibile nell’intero perimetro
della stanza – l’unico angolo strategico che non lo costringesse a guardarlo
negli occhi per l’eccessiva vicinanza –, proprio accanto alla fonte dei timori
che gli rimestavano nella testa.
-
Niente, Fernand. Niente che tu non vorrai. Non sei obbligato a scegliere se
restare o andartene… Non è a me che devi rendere conto – Auguste si ritrovò a
pronunciare le ultime parole come una sorta di maledizione in punta di lingua –
Parla con tua sorella. Con Dorian… Con chi ritieni necessario. Se
vuoi.
Fernand
annuì distrattamente, uno strofinio di capelli sulla spalla nuda. L’espressione
di chi non vede l’ora di abbandonare un discorso troppo fumoso e denso di
pericoli. Un’arma a doppio taglio.
In
silenzio, avvolto da una sorta di momentaneo torpore, Auguste si ritrovò a
tracciare distrattamente con le dita una linea lungo il torace di Fernand. Dalla
grazia nervosa della fossetta giugulare alla linea dello sterno, dove lasciò
morire la sua carezza palpitante. Fernand sussultò a quella vibrazione sottile –
la cute si costellò di brividi. Intrecciò le dita alle sue, cercando di lenire
in un gesto dal sapore fraterno la scintilla di libidine residua che
inavvertitamente aveva scatenato il contatto dei loro
corpi.
- È
strano, Auguste – Fernand socchiuse gli occhi – Abbiamo fatto l’amore, e tu sai
pensare solo alla tua adorata congrega… A cosa faremo
adesso.
Ecco
un’altra stoccata in pieno petto.
-
Shh… – Auguste pensò che intrappolare le labbra di Fernand sotto le sue fosse un
sistema sicuro e collaudato per allisciare la piega difficile che il discorso
stava per riprendere.
Fernand
che tornava alla carica, disarmante e senza peli sulla
lingua.
-
Devo chiederti se ti è piaciuto? – proseguì.
-
Domanda banale e scontata – Fernand gli piantò addosso un’occhiata sarcastica,
la voce strascicata – E conosci anche la risposta. Io e te non potremmo… barare,
neanche volendo, credimi.
Auguste
pensò che l’ideale sarebbe stato starsene così in eterno – con Fernand stretto
tra le braccia, e lui tra le sue, il volto accostate al suo – e tutto il resto
chiuso fuori da quella porta. Senza angosce.
Fu
l’unico pensiero che gli attraversò la mente, mentre Fernand aderiva con tutto
il suo corpo a lui, il desiderio di assaporare la sua pelle che danzava nel
sangue. Si umettò le labbra, sornione, a metà strada tra un felino selvatico e
dispettoso e un soldato ribelle.
Ed
era inutile continuare a logorare quegli istanti con la barriera fuorviante
della parola. Auguste distolse lo sguardo, sorridendo, ogni tassello che tornava
magicamente a posto.
Dopotutto,
lì di fronte a sé non vi era che lui, Fernand. Il ragazzo inaffidabile e
imprevedibile che, a poche ore dalla morte sospetta di uno di loro, diffondeva
libelli vergati di suo pugno e tentava di convertire in fiamma di dissenso la
noia degli avventori di un’osteria. Il ragazzo che gli sferrava un pugno sul
naso, per poi presenziare pallido e avvilito, il giorno seguente, al funerale
del compagno caduto. E poi, ancora, eccolo di nuovo tentare di infrangere la sua
armatura di dolore. Con una parola aspra e provocatoria o con una
carezza.
Sospirò:
era come se a un certo punto si fosse spezzato un tramite fra prima e dopo. E
ora Fernand non era che l’amante. L’uomo del destino.
E
lui, Auguste, ci avrebbe riflettuto all’infinito, si sarebbe cullato nel suo
enigma di miele – pensieri sin troppo palesi addensati nelle pieghe della
fronte, destinati ad esaurirsi in un’eco –, se solo quattro colpi secchi, come
un bussare impaziente, non avessero frantumato il suo
idillio.
* *
*
Gli
ultimi residui del livore della notte adombravano ancora il cielo, quando il
vampiro si trovò a rimettere di nuovo piede nelle sue
stanze.
Un
appartamento nel piano seminterrato di un quartiere tranquillo sarebbe ancora
stato un rifugio solido e dignitoso. Congedò il suo giovane compagno con un
gesto stanco della mano, prima di tornare a liberare nella sua mente il
ribollire dei pensieri, reso impenetrabile dalla maschera gelida del volto. Una
piccola finestra sbarrata, dinnanzi a lui, proiettava la sua vista direttamente
sulla via retrostante, il piano dell’acciottolato irregolare in linea con i suoi
occhi. Sorrise: quella pallida apertura ignorata dagli stanchi passanti sarebbe
stato l’ultimo pertugio in cui i raggi del sole avrebbero osato
penetrare.
E
lui era stanco: tremendamente stanco, e il rischio sfiorato troppo grande,
quando aveva preso Dorian tra le sue braccia, per permettersi di dissipare le
sue preziose energie offrendo il proprio volto ai capricci del chiarore diurno
che di lì a poco sarebbe sopraggiunto. Soprappensiero, scrutò il proprio volto
nello specchio, il colorito rosa soffuso sulle guance che per almeno qualche ora
avrebbe reso il suo aspetto quello di un comune ventenne, piacente anche se non
esattamente bello, i riccioli scuri tirati indietro sulla fronte pallida e
vagamente inclinata, il profilo tagliente. Lo sguardo facile ad ammorbidirsi o a
diventare di pietra. Il ragazzo ingenuo che era stato. L’ossessione di non
accettare fino in fondo la sua natura era forse l’ultima traccia tangibile del
suo passato, del suo spirito generoso, delle antiche
utopie.
Era
stanco della sua crudele follia, dell’illusione di continuare a condurre la vita
che per un uomo mortale sarebbe stata la norma. Di rivelare a se stesso la
propria natura soltanto la notte, quando la sete sopraffaceva ogni altra
percezione, e allora diveniva belva senza altro scrupolo se non quello di trarre
dalla carne e dal sangue il suo piacere e la sua
sussistenza.
Aveva
subito la sua seconda metamorfosi: da uomo mortale a bevitore di sangue che
vorrebbe volgere verso un fine benevolo il suo potere sovrumano; a eclettico
mago della sorte, capace di procedere il bilico su un filo troppo sottile, di
giocare tra vita e morte, renderle entità interscambiabili. Lui, che aveva
salvato la vita di quello che ora era il suo novizio e compagno immortale,
bevendo la sua vita e donandogli lui stesso la morte. La morte per beffare la
morte stessa.
Perché
ridevi, sciocco? Pensi possa esserci ancora del bello, del buono, del nobile e
misericordioso, in ciò che ho fatto quando ti ho reso uguale a
me?
Ho
voluto mostrarti l’altro lato della scomoda medaglia che portiamo appesa al
collo senza averlo scelto. Ti insegnerò il poco che conosco, che ho appreso col
dolore delle lacrime e del sudore di sangue.
Ti
insegnerò a volgere al bene il tuo potere sotto la luce del sole. E ti insegnerò
a diventare belva e a cibarti di sangue e di vita, prima che l’Aurora rosata
porti con sé il sollievo di un dolce tepore e ci schiaffeggi crudelmente il male
che abbiamo fatto, l’orgia mostruosa grazie alla quale siamo ancora in piedi,
sanguisughe dalle guance brillanti e gli occhi accesi di vita.
Di qualche vita rubata durante la notte.
-
Che cosa succede, adesso? – lui.
Ancora
lui. Sogghignava, sardonico nella sua parziale ignoranza. Accarezzava
distrattamente le pesanti tende rosso cupo.
-
Sei triste. È il senso di colpa per ciò che hai fatto.
-
Taci, figlio. Non era una provocazione né un compendio dei vantaggi dell’essere
vampiri. E prima imparerai quanto occorre, meno dovrò
ripetermi.
-
Sono tuo figlio, adesso? – arrotolò una ciocca di capelli lisci tra le dita di
marmo, voluttuoso.
-
Non puoi capire. Ti ho mostrato il lato crudele. Quello di cui non potrai mai
fare a meno e che ti manterrà in vita fino ai tuoi ultimi giorni. Non devi
biasimare tutto ciò né lasciarti andare ad una scandalosa ironia. Non
sottovalutare la vita.
- È
un male necessario.
-
Potrebbe non esserlo.
-
Quindi, adesso che cosa farai? Trascorrerai cinque giorni e cinque notti
ignorando il morso della sete, fino a quando non sarai troppo debole per
sollevarti dalla tua cassa e mi implorerai di procurarti il sangue che ti
occorre?
-
Potrei resistere all'impulso – dichiarò, petulante – Si tratterebbe solo di
trovare l’alternativa.
E,
per un istante, vide gli occhi del giovane oscurarsi
minacciosamente.
-
Ti reputavo saggio. Non ho mai sentito che un vampiro abbia prosperato andando contro la propria natura e
rifiutando il sangue, e nonostante ciò restare in vita. Devi essere disperato...
È la disperazione e il rimorso per ciò che hai fatto. È il pianto per le perdite
che hai provocato notte dopo notte. Non sei saggio, amico. Non sarà meglio,
dopo.
-
Non ce la faccio. Sto... male. Stavo per uccidere Dorian. E gli avrei chiuso gli
occhi per sempre, se avessi perso il controllo anche solo per un
istante.
-
Sei un vampiro.
-
Nemmeno tu ne eri felice. Sembravi inorridito. Mi hai odiato, è così? Hai visto
la belva divoratrice, l’assassino che non si ferma di fronte a
nulla.
-
Ma poi ho compreso la lezione nuda e cruda, senza spiegazioni di sorta. È il
male necessario.
-
Piccolo ingenuo! Credi sia finita qui? Pensi che io sia un mostro, un essere
maledetto. Ed è così. Io sono quell’essere. È solo che grazie alla mia
maledizione tu sei scampato alla morte. Forse non era ciò che desideravi
veramente, ma in quel momento hai visto in me l’eroe della fiaba. Una specie di
dio luminoso che ti restituiva la vita con lo scotto di una menzogna. Invece non
hai visto altro che un essere immondo. Che non ti ha reso la
vita.
-
Vorresti morire? Mandare tutto all’aria? - il vampiro giovane sembrava smarrito,
terrorizzato.
Buon
per te, mio giovane amico.
-
Non potrei. Neanche se lo volessi.
-
Potresti gettarti nel fuoco.
-
Ma tu me lo impediresti. Non è una soluzione. Io devo trovare la
soluzione. Non capisci? Abbiamo il segreto dell’immortalità tra le mani.
Potremmo... rinnovare quest’esistenza. Il significato stesso di esistere. Creare
una nuova stirpe. Trasformare la nostra condizione di demoni in quella di
divinità benevole. Abbiamo un grande potere.
Il
giovane sollevò gli occhi al cielo come di fronte ai deliri di un vecchio
pazzo.
- E
allora, sentiamo: come concilieresti la tua santa volontà di cambiare il mondo
con il fatto che non riesci neppure a scacciare il piccolo tiranno di una
cittadina da nulla? È questo che ti suggerisce il tuo nobile animo volto al
bene?
-
Infatti è l’ennesima menzogna... Non dicevo neppure sul serio. Non siamo
divinità, ed è orribile anche solo ritenerlo possibile. Siamo due cadaveri
mantenuti in vita da sangue innocente che accresce il loro potere con l’andare
del tempo. E non ci rendiamo conto di essere irrimediabilmente sconfitti sin dal
primo momento in cui iniziamo a nutrirci di sangue, a mietere le prime
vittime.
Il
giovane si accucciò ai suoi piedi. Fiducioso, come anche lui era stato a suo
tempo.
-
Cosa vuoi che faccia?
-
Voglio che impari tutto ciò che avrò da insegnarti. Da questo momento in poi.
Che faccia gelosamente tuo tutto ciò che apprenderai e che da qui cercherai una
nuova strada.
-
Ma sono un dannato cadavere strappato alla tomba! Sono uguale a
te.
-
Sei un vampiro. Sei felice?
-
Sei stato tu a volerlo. Non io.
- E
per questo mi serberai rancore a vita? Un giorno impazzirai, mi darai la caccia
e cercherai di annientarmi? Oppure mi amerai, perché come una seconda madre ti
ho restituito una vita che non è propriamente vita?
-
Basta sofismi da quattro soldi! Io sto in piedi. Penso, vedo, sento. Osservo il
mondo da angolature che non avrei mai immaginato. Vedo con occhi di vampiro.
Posso assaporare la bellezza, la gioia. Ridipingerla di nuovi
colori.
-
La bellezza, già. La gioia. E il dolore. Non dimenticarlo. Cento volte
tanto.
-
Non ti ringrazio. E non ti odio. Le tue intenzioni non erano malvagie. Hai
disposto della mia vita, ma fino all’ultimo hai tentato quanto fosse in tuo
potere per salvarmi.
-
Cosa avresti fatto, se fossi stato al mio posto?
-
Non lo so. Non sono al tuo posto. Non ho la tua anima, il tuo cuore. Né i tuoi
occhi, le tue mani. I tuoi capelli... – e, con un guizzare fulmineo, la sua mano
corse ad accarezzargli il viso.
Scivolò
veloce sul suo collo, lisciandogli i capelli e radunandoli in una coda sulla
nuca.
-
Potresti apprenderlo, piccolo, lo sai? Potresti bere da me, aprire le tue vene e
la tua mente e accogliermi in te. Penetrare la mia anima, scandagliare la mia
mente, i miei pensieri. Essere una cosa sola.
- È
come fare l’amore?
-
Non altrettanto intenso. Non altrettanto... umano. Sai qual è il tuo difetto
peggiore, figlio? Pensi ancora come un uomo. E non sei un
uomo.
-
Devi insegnarmi tu.
-
Bugiardo. Ti stai ingannando. O mi stai ingannando... Chi potrà dirlo? Tutto ciò
che vedi davanti a te, è come se fosse stato riscritto da capo. Vedi e
percepisci ciò che prima non potevi vedere né percepire con facoltà sensoriali
limitate. Ora sono cambiate le categorie con cui osservi e assapori tutto ciò
che ti svolazza intorno. Pensa a un prisma, a un caleidoscopio attraverso cui
puoi guardare la realtà. È cambiato. Diverso. Tutto più intenso, amplificato, le
sfaccettature moltiplicate all’infinito, in un modo che si avvicina sempre più
intimamente all’essenza ultima delle cose. E tu invece no: continui a
inciampare, a ingannarti. A parlare come se potessi ancora servirti delle stesse
categorie mentali di quando eri mortale. Non è così. Lo sai, ma parli come se il
sottoscritto non avesse ancora capito che la tua è una scherzosa
ripicca.
E
poi, improvvisamente, si accorse di avere il volto fradicio di lacrime. Un
ricamo rosso sangue sulle ciglia e giù lungo gli zigomi.
-
Perdonami.
-
Io... Ho assalito Dorian! Non m’importava nulla, in quel momento. E se avessi
premuto un po’ più intensamente sulla giugulare, lui a quest’ora si dibatterebbe
tra la vita e la morte, sfiancato e prosciugato.
-
Ma ti sei trattenuto. Dorian sta bene. Te ne sei accertato tu stesso. Sul
momento, non mi sono neppure fidato sulla tua parola. Ho preferito assicurarmene
personalmente. Ammetto di averti
odiato, in quell’istante. Di aver desiderato spazzarti via. Sembravi... diverso.
Freddo, insensibile persino al dolore.
-
Bravo. Ed è ciò che sono. Ciò che siamo veramente… La nostra versione più
autentica. È il momento solenne in cui si esplicita la nostra natura nella sua
pura accezione. E fai bene a disprezzare tutto ciò.
-
Ma non l’hai fatto. Hai avuto rispetto per la vita di Dorian. Vuoi tornare alla
locanda e controllare che stia bene? – azzardò il vampiro
giovane.
-
Potrei. Ma è superfluo.
E
poi, per un attimo, fu quasi certo che il suo novizio l’avesse preso in parola
e, goffamente, cercasse di affinare i suoi nuovi poteri per potergli leggere
nell’animo, oltre il filtro mobile delle iridi. Per un attimo temette quasi di
potersi commuovere. Il suo piccolo… Così adorabile, ingenuo e
puro!
-
Lo ami – domandò il più giovane – È così? Ami Dorian?
E
lui decise che era giunto il momento di interrompere il breve legame mente con
mente, spirito e spirito. Accavallò le gambe, distogliendo lo sguardo e
abbozzando un sorriso di labbra sanguigne.
-
Può anche darsi. Non lo so. L’amore come l’hai inteso in questo momento è
concetto tipicamente umano. Ma può essere qualcosa che si avvicina, qualcosa in
grado di eguagliarlo. Sì. Amo te. Amo Dorian. Ma vorrei che lui non ricambiasse
mai il legame. Ed io stavo quasi per legarlo a me. Non potevamo
rischiare.
-
Cosa farai adesso?
-
Nulla, figliolo. Aspetterò che si svegli e dimentichi tutto. Tutto ciò che
ricorderà avrà lo stesso valore di un sogno frutto
dell’ebbrezza.
Il
vampiro giovane sorrise.
- È
strano pensare che... Un ragazzo poco più che ventenne, sia mio
padre.
Lui
si strinse nelle spalle.
-
Sono colui che ti ha creato. Non basarti sul mio aspetto, sulle poche rughe
della mia faccia. Ho sei anni in più di te.
-
Eri un ragazzo, allora, quando qualcuno ti ha reso come sei
ora.
-
Non è passato molto tempo. Sono tra i più giovani e deboli della mia razza.
Avevo ventun anni, quando sono stato fatto vampiro.
* *
*
Fernand
avvertì un sibilo stupefatto morirgli in gola, le braccia di Auguste scioglierlo
dalla loro stretta.
Qualcuno
che bussava giù in strada. Quattro tocchi taglienti, nocche ossute sul
legno.
Quasi
si catapultò giù dal letto, coprendosi distrattamente con il lenzuolo e
affrettandosi a indossare pantaloni e camicia. Per un istante quasi maledì se
stesso e la fastidiosa, imprevedibile tonalità vermiglia che gli aveva
incendiato le guance, quando gli occhi impertinenti di Auguste, laghi
perfettamente calmi in superficie, gli si erano riversati addosso, scorrendo su
di lui quasi fosse un’interessante suppellettile. Sui riquadri di pelle lasciata
nuda dalla foga di rivestirsi alla meno peggio e di dare un nome a quelle
insistenti, fastidiose percosse sulla porta.
Distolse
lo sguardo: una parte della sua mente, quella lucida e assai più disincantata,
gli diceva che non c’era alcun bisogno di comportarsi come una fanciullina
pudica, e che Auguste aveva già avuto modo e tempo, quella notte, di
concentrarsi vista e tatto sulle sue intimità generosamente scoperte. Neppure la
sua sorellina Ambrosie aveva battuto ciglio o dato segni di chissà quale
profondo sconvolgimento, quando le aveva rivelato di essere stato con Dorian,
con un altro ragazzo ovvero con il suo miglior amico.
L’altra
parte, invece, gli sussurrava che qualcosa nell’aria si era
spezzato.
Infastidito,
si mosse in direzione della finestra.
-
Ti piace quello che vedi, Auguste? – gli sibilò a
bruciapelo.
Vagamente
inacidito.
-
Sei vestito, Fernand. Cosa potrei vedere che non abbia già visto? Sei bello in
ogni possibile declinazione.
Fernand
si ritrasse con un soffio inferocito. E infilò lo sguardo oltre la finestra.
Pentendosi subito dopo, quando una fitta al petto, qualcosa a metà fra la
gelosia e il timore di essere miseramente scoperto, contribuì a rendere il suo
decisivo risveglio una scudisciata in pieno volto.
-
Visite per te, Auguste – sussurrò, gelido, senza spiegarsi quella sfumatura di
rabbia impotente che gli serpeggiava nella voce e nel tremore delle
dita.
-
Emilie?
Fernand
si vergognò solo un po’ del proprio fremito di trionfo, quando vide Auguste
sbiancare.
-
Proprio così – sogghignò – È venuta a chiedere la tua testa, suppongo. Sei un…
marito? Compagno? Irresponsabile. Inaffidabile, lunatico e completamente fuori
di testa. Cosa pensi che voglia, ancora, da te?
Auguste
inarcò un sopracciglio con quel modo di fare flemmatico che finiva sempre per
dargli sui nervi.
-
Hai esaurito la lista dei titoli onorifici, Fernand? Io credo che Emilie sia qui
per mandarmi all’inferno una volta per sempre. Sai, qualcosa mi dice che non
abbia alcuna intenzione di stare ancora con me.
-
Oh, alleluia! Però, ecco, c’è una conseguenza a cui non avevo
pensato…
Fernand
avrebbe voluto imporsi di tacere, ma un nodo d’amarezza stretto alla gola gli
impediva di tener ferma la lingua. Si passò una mano sulle labbra,
meditabondo.
–
Se Emilie ti ha lasciato – sputò fuori – Quale migliore occasione per mandare al
diavolo ogni scrupolo del caso e divertirti con uno scemo disposto ad
assecondarti?
-
Fernand, sei una serpe! Vuoi provocarmi ignorando che sono stato sincero e mi
sono confidato con te? Mi reputi tanto stupido? Mio Dio… Ti butterei fuori a
calci, se fossi sicuro che è ciò che pensi veramente e che non siano stupidi
giochetti di parole, bugie per cavar fuori verità! È così? E allora ripeto che
non ho nulla da nasconderti; che ho una sola faccia, ed è quella che vedi in
questo momento e la stessa che hai visto stanotte.
-
Va bene, Auguste, hai ragione… – Fernand si impose di annuire, esasperato, senza
riuscire tuttavia a scacciare quel cattivo presentimento che assumeva i contorni
di un magone strisciante - È meglio che vada – si risolse, stringendosi nelle
spalle.
E,
mentre si accingeva a sciacquarsi il viso nel catino d’acqua che Auguste gli
aveva porto, per un attimo sperò gli tornasse utile a dissipare almeno un po’ il
sospetto e la nebbia dagli occhi.
-
Cerca di fare in fretta – gli ingiunse Auguste, un velo di risentimento nella
voce.
Fernand
si diresse verso la porta, zoppicando su uno stivale solo e lottando per
infilare l’altro, quando il volto bianco di Emilie s’impose sul suo campo visivo
come un miraggio di folti capelli scuri finemente acconciati. Trattenne il
fiato.
Così
poco tempo a disposizione per schiarire le idee e tentare di far tornare ogni
cosa al proprio posto… Di imbastire una storia verosimile. Fernand, l’idiota
sentimentale, e gli squilibri ormonali di casa de la Garde.
E
poi, deglutendo con fatica, i lineamenti del volto modellati in una specie di
smorfia, si costrinse ad abbozzare un sorriso forzato. Anche se lo svantaggio di
saper arricciare il naso in un moto di istintivo disprezzo fu sufficiente a
rendere vano lo sforzo.
-
Salve, Ferdinand.
Che
diavolo ci fai qui, maledetto impiastro? Maledetta testa calda che insieme ad
altre vipere hai rischiato di mandare il mio Auguste in rovina… Ecco,
se Emilie l’avrebbe detto a voce oltre che con gli occhi, se non altro le sue
parole sarebbero suonate un po’ più sincere.
-
Io… stavo andando via – riuscì a biascicare, sillaba dopo sillaba trascinate
controvoglia una dietro l’altra.
Grazie,
signori, ma preferirei non essere presente, quando volerà qualche oggetto
contundente che, data la mia fortuna nel capitare tra incudine e martello,
potrebbe colpirmi in pieno.
E,
solo quando fu sicuro di aver oltrepassato la porta, il battito impazzito del
suo cuore cominciò ad acquietarsi lentamente, suggerendogli che forse ora era al
sicuro, all’aperto a respirare l’aria tersa del mattino. Un cenno di saluto
lasciato in sospeso dietro a sé e il rischio non calcolato, nella fretta, di
prendere male le misure e ritrovarsi lungo disteso sul pavimento
dell’anticamera, vittima di un incontro ravvicinato tra la propria fronte e lo
spigolo della porta.
Lontano
dai fumi dell’ira di casa de la
Garde, prima che l’ordigno delle menzogne e del rancore gli
esplodesse in faccia. Prima di ritrovarsi a piangere lacrime amare, lì, come un
bambino lasciato solo al buio. Erano forse un po’ meno aspre, quelle che gli
infuriavano giù per le guance bollenti, mentre si precipitava all’altro capo
della via?
Buonasera
a tutti!^^
Ventisettesimo
capitolo concluso, quasi non ci credo. Poiché lo studio e gli appelli di
settembre incombono, passo subito ai ringraziamenti dovuto, ossia i lettori
abituali e non, nonché coloro che hanno aggiunto NT tra i preferiti e le
seguite.
Il
mio ringraziamento va in particolare a Witch e Yami che mi hanno lasciato il loro
commento, perciò passo subito a rispondere alle
recensioni.
Witch:
carissima, grazie innanzitutto del tuo commento^^. Nonostante se ne sia parlato
tantissimo in chat… Piccoli spoiler annessi, XD. Sono contenta che il pezzo sui
due vampiri, che finalmente cominciano a svelare la loro maschera (uhm… ma forse
no: diciamo che ci hanno fatto l’onore mostrarsi sulla scena, nel bel mezzo
dell’azione, ecco), ti sia piaciuto. Abbia raggiunto il livello di tensione che
desideravo, ecco. Dorian è un cucciolo, povero… Inizialmente il capitolo mi
sembrava un po’ confuso… I nomi per il momento non vanno svelati (XD), anche se
le eventuali *ipotesi* lettori mettono sempre una certa
curiosità!
Yami:
ciao, carissima, ti ringrazio per aver recensito questo capitolo, nonché per
continuare a seguire NT, nonostante le attese tra un aggiornamento e l’altro,
XD. Dunque: ammetto di essere stata un po’ cattivella nell’aver accuratamente
evitato di svelare nemmeno in parte l’identità dei due vampiri… Come sempre, le
ipotesi del lettore mettono sempre una certa curiosità! Chissà, forse in questo
capitolo ci sarà qualche tassello in più sulle motivazioni del vampiro più
anziano, del suo modo di vivere la propria condizione, della sua personalità. E
qualche piccolo indizio all’orizzonte. La lemon Auguste/Fernand era nell’aria
sin dal primo capitolo (XD)… E sono contenta di essere riuscita a rendere il
fatto che Auguste si fosse curato più di Fernand che si se stesso. Insomma,
tendo a rifuggire un po’ dalla lemon meccanica fine a se stesse, un po’
stereotipata. O, almeno, spero di essere riuscita a rendere questo. In questo
capitolo vedremo un po’ le reazioni dei due la mattina dopo, al risveglio.
Ovviamente entrambi hanno ben pensato di fare le bizze, e poco mancava che
litigassero. Insomma, hanno caratteri che s’infiammano facilmente e di tanto in
tanto rischiano persino di rovinare in un battito di ciglia ciò che hanno appena
faticosamente costruito. Terribili, insomma, XD. Dorian… Penso che a questo
punto ciò che prova per Fernand vada molto, molto più in là della semplice
amicizia con contatto fisico annesso (e che contatto!). Io stessa ho tirato
quasi un sospiro di sollievo al fatto che il vampiro non sia intenzionato a
fargli del male. Sì, perché ormai, naturalmente, sono loro a comandare, a
decidere le trame.
Okay.
Penso di aver concluso. Ringrazio ancora tutti, ricordando ancora una volta che
i commenti sono l’Amore, e sperando che quest’ultimo capitolo sia di vostro
gradimento.^^
Un
abbraccio, alla prossima! =(^.^)=
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Capitolo 28 *** Capitolo 28: Il prezzo da pagare ***
Capitolo
28
Il
prezzo da pagare
Seduto
in un angolo in penombra, nell’ozio mattutino della locanda, Dorian lasciava
scorrere lo sguardo su ogni avventore al suo passaggio. Nessun elemento
dell’intera stanza catturava la sua attenzione per un lasso di tempo
accettabile: beveva ogni dettaglio dell’ambiente, ma senza vederlo
davvero.
Il
solo interrogativo che gli rimbalzava nella mente, perché lì e non nella sua
casa, tra le sue quattro mura familiari. E quale volo assurdo, quella notte,
l’aveva proiettato da casa di Auguste – dal suo intento masochistico di seguire
attimo dopo attimo la complessa opera di seduzione di Fernand ai danni del
padrone di casa – alla strada cosparsa di polvere sotto il baluginio malevolo
dei lampioni; e poi, da lì, per qualche assurdo sbalzo temporale, qualche
bicchiere di troppo – o chissà quale altra astruseria gli avesse suggerito il
morso di un’irrazionale gelosia –, direttamente alla locanda dei Lambert immersa
nel mattino inoltrato. Un salto repentino che la mente faticava a ricomporre in
una trafila logica.
Dorian
posò il bicchiere sul tavolo e si prese il viso tra le mani. Impossibile tentare
di ricucire la successione logica degli eventi: troppi punti
oscuri.
Chissà
se davvero, a un certo punto, gli fosse saltato in mente di mettere a tacere
l’odioso ribollire dell’animo con una dose d’alcool; se la sua coscienza si
fosse attenuata, annegata insieme alla piccola moltitudine infelice che come
lui, quella sera, aveva portato i propri passi fino alla bettola dietro
l’angolo. Se davvero, a un certo punto, un’anima pietosa l’avesse raccattato
privo di sensi e infilato sotto le lenzuola di una stanza
qualsiasi.
Sospirò.
Qualcosa l’aveva dispensato da una
notte all’addiaccio, perché difficilmente i Lambert avrebbero tollerato
avventori ubriachi a bottega chiusa.
Chiuse
gli occhi. No, non poteva, in quelle condizioni, essere stato in grado di
trascinarsi fino al piano di sopra, con la mente tanto annebbiata da non
trattenere nessun frammento di ricordo. Buio completo, da quando aveva
abbandonato la dimora di Auguste fino al mattino, quando aveva strizzato gli
occhi sotto il chiarore pungente dell’alba, tra pareti sconosciute e l’odore
dolciastro e nauseabondo di mobili vecchi e qualche strano intruglio che
ribolliva nelle cucine. Per un istante, prima che i sensi mettessero bene a
fuoco la stanza, con orrore l’aveva sfiorato dal dubbio che una ronda di
passaggio l’avesse pescato ubriaco in un vicolo e sbattuto in cella. Per una
volta, ringraziò la signora Bertrand e le sue abitudini
mattiniere.
Il
motivo per cui quella mattina, per quanto si sforzasse, non sarebbe riuscito a
cavar fuori un resoconto attendibile della sua notte brava, stava in quei
frammenti che, per uno strano gioco della sua memoria, sembravano essere stati
cancellati dalla sua mente.
Sospirò.
Non era un sintomo che deponeva a suo favore, e qualcosa, nelle occhiate ostili
dei Lambert, sembrava rammentarglielo con enfasi
ossessiva.
Dorian
distolse lo sguardo e si sentì avvampare. Se davvero aveva bevuto tanto da non
ricordare più nulla, l’ebbrezza poteva essersi rivelata causa di azioni
avventate, così come sembravano suggerirgli quelle occhiatacce. Come aprire
bocca più del dovuto, o al limite invitare qualche compiacente sconosciuto a
fare l’amore con lui lì su un tavolo sgombro, incurante di tutto e con l’unica
speranza di affogare al più presto il proprio fiele in un abbraccio rovente.
Magari, ingannarsi e fingere di essere Fernand tra le braccia di Auguste –
perché Dorian lo stupido ce lo aveva spinto a viva forza, nell’onda di quella
passione latente, e questa era la giusta conclusione. O Auguste che bacia
Fernand, ignaro di un paio d’occhi fatalmente abili che si muovono nell’ombra; e
poi di nuovo Dorian che si ripete di aver agito per il bene del suo miglior
amico, nel momento in cui vorrebbe solo strapparsi i capelli e distruggere
tutto. Tornare indietro e scegliere di non essere lui, la mano invisibile che fa
precipitare gli eventi.
Non
c’era stata altra scelta,
gli diceva una voce sottile nella sua testa. Non c’era stata mai una scelta; e se anche
ci fosse stata, decidere non sarebbe spettato a te.
Era
andata così: una grigia, nauseante via di mezzo senza sentieri all’orizzonte;
solo il rischio calcolato di proseguire per quella strada obbligata senza sapere
cosa cercare.
Il
suo intervento non era stato determinante nell’accelerare qualcosa già in
atto.
La
sua parte meno razionale a tratti gli suggeriva di tornare là e scaraventare
Auguste contro il muro; ma solo per un attimo, un serpeggiante, puerile
desiderio di ripicca senza soluzioni concrete.
Sarebbe
tornato sui propri passi con il cuore pesante, continuando a domandarsi cosa ci
facesse in quella dannata locanda senza un percorso tangibile che ce l’avesse
condotto.
Soprappensiero,
si massaggiò le tempie doloranti e attese un’illuminazione. Silenzio. Per quanto
sforzasse la propria memoria, nulla gli rammentava di essere uscito da casa di
Auguste con l’intenzione di bere o scopare o escogitare qualche altro modo
ancora più raffinato per farsi del male.
Non
c’erano i postumi di un’ubriacatura coi fiocchi, rifletté, il polso che tremava
appena nel sorreggere il bicchiere colmo. Solo un senso di sfinimento, niente di
più; niente che si potesse ricondurre al vino più che alla
stanchezza.
Se
davvero quella sera aveva bevuto tanto da annullare ogni ricordo, allora non era
possibile che, in capo a un paio d’ore, si fosse diretto sulle sue gambe giù per
le scale, a chiedere una ciotola di sciacquatura dei
piatti.
Unica
traccia visibile dell’illustre sconosciuto che l’aveva traghettato fino al piano
di sopra, le quattro monete di bronzo che si era ritrovato addosso. Ricordava
bene: non aveva dei soldi con sé, quella sera. Non era neppure uscito di casa
intenzionato, alla prima occasione, di lasciarsi andare a qualche bicchiere di
troppo. Non era stato previsto.
Si
strinse nelle spalle. Forse erano solo vecchie crisi di amnesia che riprendevano
le briglie della sua esistenza, l’abisso come destinazione, perché tutto ciò che
circondava la notte appena trascorsa, era nebbia e ignoto.
Il
crescente brusio che invase la stanza, lo riscosse dai suoi pensieri. Dorian
sollevò lo sguardo, inquadrando di colpo davanti a sé la faccia incipriata del
commissario Lambert. Un paio di occhi porcini che luccicavano nella sua
direzione.
Fu
un attimo, e lo stomaco gli si contrasse in un conato di vomito, quando dinnanzi
ai suoi occhi balenò il dubbio di aver tanto perso il controllo, quella notte,
da lasciarsi sedurre da un uomo simile. Che magari ammirava compiaciuto la
carcassa sanguinante, residuo dell’ultimo banchetto, da qualche cantuccio in
penombra.
Rabbrividì,
ma l’istinto gli suggeriva di escludere l’ennesima, catastrofica ipotesi, ogni
sforzo teso a dissipare l’oscurità che velava la sua mente, un orribile
presentimento a serrargli la gola.
Il
commissario gli rivolse un cenno con la mano e passò oltre. Dorian si impose di
accantonare la questione. Con la coda dell’occhio, intravide un codazzo festante
radunarsi intorno al vecchio, prostitute comprese.
Dorian
chinò lo sguardo sulla superficie irregolare del tavolo. Pregò di passare
inosservato. Il sangue aveva iniziato a rimbombargli dolorosamente nelle tempie,
e non aveva nessuna intenzione di lanciarsi in bizzarri
convenevoli.
Fu
quasi un accordo siglato con lo sguardo. Louise e Ginette sfilarono davanti ai
suoi occhi senza degnarlo di uno sguardo, caracollando vicino al commissario in
una duplice, affettata sinfonia di ossequi.
-
Signore mie, cosa ci fate qui a quest’ora? – proruppe Lambert – Non si era detto
al tramonto…?
L’allusione
beffarda suscitò nelle due ragazze una risata argentina.
Dorian
arricciò il naso, mentre cercava di aguzzare l’udito. Tutto quel che sarebbe
riuscito a captare si risolse in un sottile chiacchiericcio. Intuì solo che,
dopo le idiozie di circostanza berciate a gran voce, il commissario doveva aver
scucito una notizia tanto appetitosa da doversi riferire a bassa voce e da
tacitare immediatamente il piccolo uditorio. L’atmosfera di triviale
convivialità si era ripiegata in un acuto, nervoso
bisbiglio.
E
poi, senza preavviso, il commissario fissò lo sguardo nel suo con un sorrisetto
storto e procedette verso di lui. Dorian chinò lo sguardo, rassegnato, giacché
il suo progetto di svignarsela ed evitare così sgraditi convenevoli, era
naufragato sul nascere. Con uno sforzo non indifferente, riuscì a modellare i
propri muscoli facciali in un sorriso smaccato, camuffando la delusione. C’erano
urgenze ben più martellanti su cui sputare il sangue.
-
Ecco, Dorian, diteglielo anche voi! – la voce acuta di Ginette lo perforò da una
tempia all’altra.
La
prostituta lo raggiunse agitando i riccioli rossi e allargando le braccia verso
il cielo con fare declamatorio. Prese posto al suo fianco, abbarbicandosi al suo
braccio e sporgendo in avanti le labbra in un falso
broncetto.
-
Diteglielo anche voi che non è modo di trattare con una
signora!
Dorian
cercò di sottrarsi alla sua stretta e sollevò lo sguardo sull’altra ragazza,
Louise: dall’espressione delusa, speculare alla sua, dedusse che almeno loro ce
le avevano provate tutte, fino a quel momento, per distogliere le attenzioni del
commissario da lui ed evitargli qualche seccatura. O forse stava bollendo
qualcosa di più grosso.
Il
volto del commissario si contrasse in un ghigno.
-
Voi lo sapete, Dorian? No che non lo sapete, figurarsi, così giovane e bello… –
cinguettò con voce querula – E questo piace alle signore, del resto. Tuttavia,
si può dire la stessa cosa della… “qualità” delle prestazioni, se la vostra
testa bionda ha colto ciò che intendo?
Per
un attimo Dorian si sentì comprimere tra la nausea che gli contraeva lo stomaco,
e l’esigenza di replicare qualcosa di abbastanza volgare da ammutolirlo almeno
per un po’.
Non
seppe dire se fosse già accaduto, di trovare tanto fastidiosa la presenza del
commissario, ma quella vocetta insinuante lo stava mettendo a dura prova peggio
del previsto.
-
Certo che lo capite, non siete un bambino. Il latte dalla bocca ve l’hanno già
leccato via. Quello che voglio dire, che mademoiselle Ginette continua a negare,
è che spesso i giovani di bell’aspetto come voi si rivelano… freddi. Belli da
vedere, ma al dunque, una collezione
di borse dell’acqua calda. Come dire, non badano alla… “sostanza”, pensano basti
un faccino grazioso. Una donna vuole un amante capace, non solo un bel damerino
da salotto. Ma non tutti sapete mettere a frutto gli insegnamenti dei più
anziani – sussurrò, per poi scoccargli un’occhiata impertinente in mezzo alle
gambe, a bruciapelo – Sì, non si può dire a voi manchi la “sostanza” là sotto,
però… Può essere che la giovinezza, il fatto che quei capelli là siano ancora i
vostri, vi facciano trascurare le doti del buon amante.
Dorian
meditò se insultarlo fosse una decisione saggia. Forse il fatto che non
indossasse la divisa e figurasse di fronte a lui come un compagno di bevute
qualunque, gli avrebbe concesso piccole licenze senza il rischio di incappare in
qualche grana.
-
Non mi riferisco al caso vostro, Dorian – Lambert rincarò la dose – Vogliate
scusarmi se vi ho tirato in mezzo, ma la piccola sfrontata pretende la ragione…
– soggiunse, un cenno divertito verso Ginette.
-
Il signor Dorian non è un cliente, commissario – chiosò la ragazza con voce
sottile – Non ha bisogno di pagare per una bella donna nel suo
letto.
Dorian
intrecciò le braccia sul petto, le labbra serrate in un sorrisetto
spazientito.
-
Se sono tutte quale notizie del giorno, commissario, con permesso, io leverei il
disturbo. Abbiamo scoperto che chi è stato premiato da Madre Natura non si
impegna abbastanza a scopare, buono.
-
Beh, una vera novità ci sarebbe – il
commissario sollevò gli occhi al cielo; una pausa, come a soppesare la tensione
– Ma prima è meglio salutare le signorine Ginette e Louise. Non vorrei che
qualche mio sottoposto le sorprendesse in qualche ronda di controllo, finissimo
tutti nei guai. Niente puttane, a quest’ora. Il duca ha raddoppiato i controlli
in città. È la legge – sussurrò, senza trattenere una nota sarcastica – …che va
rispettata. Alla lettera.
Rimasti
soli di fronte a un tavolo traballante e due bicchieri mezzi pieni, il
commissario Lambert si guardò intorno e prese posto di fronte a Dorian. Aveva
cambiato faccia.
-
Tenete gli occhi aperti, ragazzo – masticò – E parlate piano, ché i tavoli hanno
occhi e orecchie.
O
forse Louise e Ginette hanno avuto il loro daffare per riferirmi le novità prima
che voi ci metteste le zampe.
-
Preferite aspettare che sia quella cornacchia della Bertie a darvi l’annuncio… o
qualche serpe tra i vostri amici? – ridacchiò a bassa
voce.
Dorian
sollevò un sopracciglio. Accettò con uno strattone il sigaro che il suo insolito
compare gli aveva appena allungato.
-
Prendete, amico. Ne avrete bisogno – incalzò il
commissario.
Dorian
sentì gli occhi bruciare per la profonda boccata. Poi un piacevole raschiare in
fondo alla gola, e l’aroma del tabacco che aleggiava intorno a
lui.
-
Posso sapere cos’è successo, commissario, o avete già cambiato idea? – lo
pungolò.
-
Due cadaveri, ragazzo.
Dorian
annuì, distratto, scuotendo le palpebre.
-
Ce ne sono già tanti, in città. Là fuori, ad esempio. Vedete quanti morti che
camminano…?
Alcuni
siedono pure dietro i tavoli delle questure…
-
Lasciatemi parlare, maledizione! Stamattina, all’alba. Li hanno trovati dei
pescatori, a ovest dietro il molo. La corrente li ha spinti verso le rocce, e
stamattina galleggiavano a riva. Non erano in buono stato, ma sembrano un
vecchio e un ragazzo. C’erano fori di proiettile.
Dorian
soffiò via una piccola nube di fumo, meditabondo.
-
Non sarebbe la prima volta che qualcuno da quelle parti cerchi di fare il furbo
e si dia al bracconaggio. Un banale incidente, e il responsabile avrà ben
pensato di far sparire il risultato della sua
“distrazione”…
- È
ciò che contavo di fare all’inizio: archiviare tutto come incidente di caccia,
fare un po’ di domande in giro e dissipare presto il panico. È solo che… tre
cadaveri nel giro di due settimane, non è normale. Non passeranno inosservati.
Prima il figlio di Emmanuel Mirand… Adesso questi due disgraziati che non hanno
nemmeno un nome.
Dorian
deglutì a vuoto. Posò il sigaro e intrecciò le braccia sul petto per mascherare
il tremore delle mani.
- E
cosa pensate di fare?
-
Se fosse per me, assolutamente nulla. Non voglio guai. Ma di là… – il
commissario puntò lo sguardo verso la finestra aperta, e poi da lì verso l’alto,
la cittadella – Dubito che si lasceranno convincere da una spiegazione banale… e
sospetta. Respingerebbero i fascicoli e non archivierebbero proprio un
accidente. Mi ci farebbero tornare su all’infinito, e non sarebbero contenti
fino a sbattere qualcuno sul patibolo. Comunque andranno le cose, passerà molto
tempo. Potrei aspettare che se ne dimentichino, parlare con qualche amico dei
piani alti, ché dichiari chiusa la questione a tempo e luogo. Ma la macchia si
sta allargando troppo per passare inosservata. Prima il vostro amico Mirand… Ora
questi due. Dovrò almeno fingere che le indagini procedano e pizzicare qualche
testa calda – una pausa studiata, durante la quale Dorian non si accorse che il
volto del commissario aveva mutato espressione – Il vostro amico Auguste de
la Garde. Si
decidesse a collaborare, una volta tanto! Invece lui fa il furbo: sa tutto, ma
al dunque, come per magia non ha mai visto niente.
Dorian
mise giù il bicchiere di scatto. Per un istante fu quasi certo che il suo
autocontrollo non avrebbe retto a ciò che si andava delineando nella sua mente,
e tutto quel che vedeva lasciava solo emergere dinnanzi a lui un ritratto a
sangue vivo. Un bicchiere lasciato infrangere inavvertitamente al suolo o un
tremore da servetta impressionabile avrebbero offerto uno spunto in più ai
sospetti della serpe.
Con
orrore, vide un sorrisetto viscido allargarsi sul volto del commissario. Lo vide
all’improvviso, quando due dita ruvide calarono sul suo volto e gli artigliarono
rudemente le guance.
-
Dopotutto… – biascicò a mezza bocca il commissario, e sul suo volto pareva
scomparso ogni accenno di tensione e ragionevolezza: solo una brama ferina –
Potrebbe essere necessario un piccolo… “incoraggiamento”, affinché il
sottoscritto sia ancora più solerte nel lavorarsi qualche vecchio, aristocratico
somaro là sopra, e potrei pure cambiare idea su quelli come voi, Dorian, e
convincermi che dopotutto anche i giovani e belli chiavano bene… Stasera alle
nove. Puntuale.
* *
*
La
porta richiusa alle sue spalle, Dorian mosse qualche passo nel suo appartamento
e si sentì svenire. Barcollò incerto per la stanza, fino a lasciarsi andare
inerte contro la parete, il capo stretto fra le mani.
Non
era il momento adatto perché il panico si impadronisse di ogni stilla di
lucidità. Poco tempo per riflettere, e l’unica cosa che lui desiderava era
barricarsi dentro casa e scomparire almeno per una decina di giorni. Come se
Lambert fosse uno stupido.
Ansimando,
si sfregò la faccia, cercando di dominare la tensione, le lacrime che gli
pungevano in fondo agli occhi e il tremito feroce.
Se
Lambert commissario aveva detto “alle nove”, significava un’ora a disposizione
per patteggiare, da lì al coprifuoco. Forse c’era persino la possibilità che il
bastardo avesse buttato giù quella specie di ricatto per gonfiare i muscoli e
dimostrare di saper adoperare, all’occorrenza, tutto il potere di coercizione
che il suo status gli conferiva. E pure abusarne.
Oppure,
rifletté con orrore, si sarebbe trascorso la sua seconda notte in quel posto
orribile. Dopo il coprifuoco non ci sarebbe più stato
scampo.
Dorian
strinse le palpebre, respirando profondamente. Poi, un
lampo.
Auguste.
Rammentava bene il suo stato, la sera in cui era penetrato in casa sua con
Raphäel. L’istantaneo, profondo sollievo nel saperlo tutto intero, al sicuro
nelle sue stanze. Sollievo e qualche punto interrogativo di
troppo
Adesso,
come un incubo, le tessere del mosaico tornavano dolorosamente a posto. E
l’immagine balenò davanti ai suoi occhi nella sua logica inappuntabile. Come un
vortice che lo trascinava giù.
Auguste
fuori di sé, una bottiglia di vino tracannata a metà e la faccia stravolta di
chi ha appena visto il diavolo.
Auguste
con l’aria affannata di chi è rientrato di corsa, inseguito dai lupi. Riverso
sul divano, a recuperare il respiro e la ragione in tutta
calma.
Auguste
reduce dalla sua notte di calcolata follia. La reticenza a parlare. La refurtiva
svanita nel nulla, le monete restituite a Raphäel…
Poi
la febbre era giunta a togliergli la lucidità, insieme alle frecce avvelenate
che neppure quella volta Auguste aveva mancato di scagliargli
addosso.
E
lui non era un ingenuo: immaginava quali fossero i delitti di chiunque avesse
preso parte a una guerra civile, ma ora che ogni frammento occupava il suo posto
in quel dannato quadro, tutto gridava al peggio.
Tutto
gli parlava di Auguste, l’uomo che l’aveva salvato e gli aveva insegnato a
ricominciare a respirare. Un uomo che non aveva esitato ad uccidere a sangue
freddo e portare avanti la sua recita infame, mentendo e ingannando
tutti.
Forse
lui stesso aveva messo in pericolo Lucien e ne aveva pagato le conseguenze. E di
nuovo, come se niente fosse, decideva di farsi da parte, di concludere l’opera e
tirarsene fuori da vigliacco. Lavarsi la coscienza e scaricare tutto sulle loro
spalle. Il terribile meccanismo a catena che lui aveva innescato, in cui lui li
aveva tirati dentro. La sottile guerra sotterranea alla quale lui stesso aveva
dato inizio, circondato da altri disperati e da ragazzini
sprovveduti.
Auguste
era in preda alla follia, o forse così terribilmente lucido che il vero suicidio
sarebbe stato fidarsi ancora di lui.
Dorian
avvertì la collera scorrergli addosso come uno spasmo doloroso. Per un attimo fu
tentato di rinunciare a raggiungere il commissario alla locanda, a patteggiare
la salvezza di Auguste e la sopravvivenza della congrega. Lasciarlo cadere nelle
mani del nemico senza battere ciglio.
Se
davvero le cose erano andate così. Se davvero Auguste li aveva
ingannati.
Se
per caso la sua mente non avesse in serbo qualcosa di così raffinato da ritenere
inopportuno coinvolgere persino loro, piccoli stupidi che si fidavano di
lui.
Se
davvero, nel giro di quattro anni, quello stesso Auguste, assassino e così pieno
di scheletri da non venirne mai a capo, avesse fatto qualcos’altro che non fosse
raccoglierlo dalla strada e allontanare da lui ogni concreta velleità di
attentare alla vita del duca. Era stato lui a distoglierlo dall’idea di
assassinare l’uomo che gli aveva tolto il padre e tutta la sua
vita.
Bravo,
Auguste. Hai giocato a meraviglia. Ti sei procacciato la nostra stima e hai
agito alle nostre spalle.
Dorian
si raggomitolò sul pavimento e strinse i pugni, le lacrime che premevano sulle
ciglia.
La
prima volta che Auguste l’aveva condotto con sé… L’aveva chiamato con il suo
nome e gli aveva ficcato nel petto quelle sei parole.
Tuo
padre? L’ha ucciso il duca.
Dopo,
solo il filarsi impercettibile di vetri rotti, qualcosa che scricchiola, e un
grido che per qualche strana combinazione sembrava proprio provenire dalla sua
gola, come un raschiare sulla carne viva, come una singolare
esplosione.
Ricordava
un insolito brusio e Auguste che lo stringeva a sé, che gli premeva il viso
contro il suo petto; cullandolo tra le sue braccia, gli aveva sussurrato tra i
capelli e trasmesso tutto ciò che conosceva.
Un
assassino come educatore. Che aveva domato la sua collera inconsapevole e gli
aveva regalato un’effimera ragione di vita.
Adesso
era polvere davanti ai suoi occhi; non serviva cercare i puntelli per
scongiurare il crollo, sforzarsi di mantenere in piedi la
menzogna.
L’ineffabile
Auguste l’aveva ingannato. Gli aveva mentito perché non impazzisse. E poi era
inciampato sui suoi stessi passi.
Non
era abbastanza ciò che si ostinava a tenergli nascosto, e che bruciava come
fuoco. Ciò che si ostinava a tenere nascosto in un angolo, distante da ogni
sguardo, a sedimentarsi giorno dopo giorno.
Era
giusto che lui gli dovesse qualcosa?
Perché
se avesse mancato alla sua resa dei conti, se avesse lasciato che qualcun altro
si ingegnasse a stabilire comodi collegamento tra la morte di Lucien e i
cadaveri in riva al fiume, le conclusioni sarebbero precipitate dinnanzi a lui
senza speranza di arginare l’imprevedibile. Lambert avrebbe fatto il vigliacco
come sempre.
Trasalì.
L’occasione che il duca e il suo entourage attendevano da anni, fiere acquattate
tra i cespugli.
Dorian
si sforzò di fare mente locale. Auguste l’aveva detto mille volte: il duca non
si sarebbe mai abbassato a intervenire in occasione di reati comuni e zuffe tra
disgraziati. Non se la questione non si fosse fatta politicamente interessante.
Se mai
Auguste fosse finito sotto processo, allora sarebbe stato uno
schiocco di dita; un nobile fedele al duca avrebbe corrotto i testimoni, e senza
colpo ferire si sarebbero sbarazzarsi di una vecchia conoscenza. Sarebbe bastato
lasciar agire uno dei suoi fedelissimi, signorotti ambiziosi, piccole spie
disseminate in città e gendarmi corrotti.
Dorian
si prese il capo fra le mani, il cuore in tumulto. Qualcuno, a suo tempo, aveva
compreso che per prendere Auguste nella rete sarebbe stato più facile annullare
la condanna in contumacia e permettergli di fare ritorno in città. Meglio che
lasciare le serpi fuori città, libere di fare danni e organizzare sacche di
resistenza.
Quattro
anni di clandestinità, e Auguste non era ancora diventato abbastanza astuto da
non perdersi in trucchetti da prestigiatore e smanie da rivoluzionario fallito.
Come un ragnetto troppo ambizioso che alla fine si ritrova invischiato nella
propria tela.
Le
conseguenze sarebbero giunte come un fiume in piena. A meno che non fosse stato
lui a giocarsi la sua possibilità e sperare in un buon patteggiamento. Troncare
le gambe alla faccenda sul nascere. Non c’era più molto tempo per spremersi le
meningi alla ricerca di una strategia. Avrebbe dovuto parlare con… con Ambrosie,
con Raphäel. Con Auguste. E mollargli un pugno di tutto
cuore.
Oppure
cedere a Lambert – arginare l’inondazione quando è ancora pioggia sottile,
corrompendo un uomo da nulla.
Sarebbe
stato umiliante e patetico, rivelare il prezzo da pagare per quel salvataggio
sull’orlo del burrone. Il commissario non avrebbe collaborato a insabbiare il
caso, finché lui non avesse dato il via.
Non
si accorse di essere precipitato in una nube di sogni
agitati.
* *
*
C’era
il pallore di vetro del volto di Lucien dietro un velo di fumo, le dita di marmo
intrecciate sul petto; l’aveva sfiorato e gli era parso di sentire il fremito
del respiro perduto. Auguste stava in piedi di fronte a lui, il viso simile a
gesso, tanto da fargli dubitare quale fosse tra i due il morto: quello disteso o
quello in piedi. Non vi era aria di funerale. C’era un’indifferenza diffusa.
C’era l’ossessione serpeggiante sul volto di Fernand, e Ambrosie e Raphäel
seduti su un divanetto in fondo alla stanza, lei sulle ginocchia di lui in un
gesto da considerarsi azzardato. Discutevano fitto.
Poi
la stanza evaporò, e vide di nuovo Auguste, intento a minacciare il commissario
Lambert con una pistola e intimargli di sparire; solo che poi nello scontro
partiva un colpo che rischiarava a giorno la stanza, uno sprazzo lampeggiante
che gli lasciava distinguere a malapena i contorni.
All’improvviso
era per strada, con una pioggia insistente che picchiava sul selciato, e nastri
di nebbia striscianti che si sollevavano dal suolo, impicciando i suoi passi.
Poi Lucien lo trascinava fino ad una specie di taverna per ripararsi dalla
pioggia. Là dentro, qualcuno cianciava alle sue spalle: una voce sottile come
uno stiletto gli dava del miserabile e lo chiamava bastardo, puttana ufficiale
di una masnada di traditori.
* *
*
Si
ridestò di soprassalto, la faccia premuta contro il pavimento e un braccio
insensibile, la mente annebbiata dall’accozzaglia di sequenze illogiche che gli
aveva recato il suo sonno sul letto di spine. Non era passato il senso di
vertigine che l’aveva ridestato il mattino.
Nei
suoi sogni, Lucien era un’immagine tangibile e nessuno faceva menzione della sua
morte. E Auguste era inquietante come sempre.
Dorian
si strofinò la faccia, infastidito. Era pomeriggio inoltrato, uno squallido
chiarore giallastro che inondava i muri delle case al di là della finestra,
monito beffardo del giorno che declinava. Una nuvola di pulviscolo dorato
danzava davanti ai suoi occhi, colpito da un cono di luce viva – lo stesso che
aveva gentilmente provveduto a strapparlo via dal suo
sonno.
Mancava
poco, e un nodo d’angoscia gli costringeva la gola alla sola prospettiva di
mettere piede fuori casa. Non quella sera, non dopo quei
discorsi.
Ricordò
che una volta aveva davvero vagabondato nelle stradine periferiche sotto la
pioggia fino a perdersi, riparandosi di tanto in tanto nelle rientranze dei
portoni. Case troppo alte che si richiudevano su di lui in una morsa di tenebra.
Poi era successo qualcosa, e si era ritrovato di fronte al volto familiare di
Lucien Mirand, uno degli esiliati che avevano da poco fatto rientro in città
senza professioni d’innocenza.
Ricordava
la terra battuta e le mura fradice, il selciato gelido sotto le scarpe troppo
leggere, le braccia avvolte intorno al corpo per proteggersi dal freddo, i
vestiti fradici incollati addosso. La taverna dei Lambert, l’olio che bruciava
nelle lucerne e l’odore di chiuso di stanze non
arieggiate.
A
ridestarlo completamente fu il contatto dell’acqua fredda sulla faccia, che lo
fece trasalire.
Tre
giorni prima, Auguste aveva fatto irruzione in casa sua buttando giù la porta.
Dorian si guardò intorno alla ricerca di uno specchio, un’imprecazione soffocata
fra i denti. Lo specchio rotto che per poco non gli aveva distrutto la
mano…
Sospirò:
non avrebbe potuto adoperare la forza di entrambe le mani, in caso di impellente
bisogno di stringere il collo al commissario Lambert. O ad Auguste, e non
immeritatamente.
E
poi, il cuore in subbuglio, la mente impacciata al pensiero di dover mettere le
parole una di seguito all’altra per stornare il peggio, sbatté l’uscio alle
proprie spalle e scese in strada.
* *
*
Mezz’ora
all’apocalisse. Dorian raccattò il bicchiere colmo dalle mani dello sguattero e
scosse il capo in un blando ringraziamento. Il ragazzo si profuse in un breve
inchino e filò via di gran volata.
Dorian
socchiuse gli occhi nel baluginio tremolante delle lucerne. L’odore d’olio
bruciato gli fece girare la testa, un principio di nausea come una calamita
irresistibile che lo trascinava in basso. Aguzzò l’udito, tentando
disperatamente di ritagliarsi fuori dall’odioso brusio che gli pungeva le
orecchie.
La
risata dell’oste per un attimo gli rammentò quella, simile e altrettanto
perforante, del commissario Lambert.
Ventotto
minuti all’alba. Lambert minore che strillava qualcosa all’indirizzo del giovane
sguattero, prima di rispedirlo tra gli avventori. Dorian avvertì un accesso di
collera rimordergli lo stomaco. Strinse i denti: se avesse osato maltrattare il
ragazzino, e qualcosa lì in fondo al retrobottega gli avesse confermato il
peggio, non avrebbe più risposto di sé, e tutto sarebbe andato a puttane:
l’accordo di cinque minuti con Lambert maggiore, l’insabbiamento del caso, il
gioco da consumarsi sul filo di lana. Tutto.
Lentamente,
soppesò il bicchiere tra le dita. Seguì le ombre che danzavano sulla superficie
oscillante del liquido.
Dorian
si sentì quasi soffocare, nell’attimo in cui ingollò d’un fiato il liquore. Un
pugno dritto allo sterno. Trattenne il respiro, gli occhi che bruciavano,
lasciandosi andare con la schiena contro il muro, la panca malandata che
cigolava sotto il suo peso. Sollevò lo sguardo al soffitto, mentre una specie di
artificiosa tranquillità – non dissimile dalla follia – gli distendeva i
muscoli, e si sentì meglio.
Il
commissario Lambert approfittò di quell’istante ritagliato nell’ovatta per
palesare la propria presenza, inquadrato nella porta ad arco tra bottega e
sottoscala.
Dorian
deglutì a fatica. I suoi nervi si tesero per qualche attimo, ma subito cedettero
al curioso calore che gli montò fin nel cervello. Socchiuse gli occhi, le labbra
distese in un sorriso.
Lambert
gli scoccò un’occhiata sardonica e accennò verso un angolo
appartato.
Dorian
annuì di sottecchi. Si risollevò in piedi con le gambe molli e accettò il
secondo sigaro della giornata.
Si
lasciò ricadere seduto di fronte al commissario. Non riuscì a domandarsi dove i
suoi stessi gesti volessero portarlo. Improvvisava. Lo sguardo perso sulle
mosche che volavano, accostò il sigaro alle labbra in un gesto fluido, studiato.
Ammiccante.
Ridacchiò.
Forse stava diventando un po’ isterico. Forse, stordendosi abbastanza, avrebbe
retto tranquillo fino all’indomani mattina. Comunque fosse andata. E poi il
sonno si sarebbe trascinato via il ricordo.
-
Vuoi qualcosa da bere? – il commissario schioccò le dita in direzione dello
sguattero.
Allungandosi
verso il tavolo, cercava di allentare le distanze.
Dorian
annuì, muscoli della faccia costretti in un sorriso smaccato. Un conato di
vomito, presto messo a tacere da un’abbondante sorsata dritta in gola, e poi
tutto andò liscio. Perfettamente al suo posto.
Il
volto del commissario era tutto un ghigno compiaciuto, ogni gesto calmo,
misurato. Una piega sarcastica nell’angolo della bocca, mentre gli sfilava il
bicchiere di mano contro la sua volontà. Un brusio impercettibile dentro la
testa.
Continuò
ad annuire senza ascoltare una sola parola, come un tic, come un sogno in cui il
tempo scorre veloce.
Annuì
persino quando Lambert lo afferrò per una manica e lo costrinse ad alzarsi.
Vacillò per un attimo, la stanza un bagliore confuso che gli vibrava nella
testa. L’alcool che faceva il suo corso, le gote in fiamme e una gran voglia di
scoppiare a ridere, dire qualcosa di irriverente e mandare tutto a
monte.
Aggrappato
al corrimano, il passo malfermo, un’inedita scintilla di lucidità gli fece
buttare lo sguardo sulla schiena del commissario che procedeva davanti a lui. Il
sorriso di creta gli morì sulle labbra, e per la terza volta fu tentato di
tornare indietro, di fingere che fosse stato tutto un orrendo malinteso, di non
reprimere ancora la sensazione di disgusto – ma fu solo un
istante.
In
silenzio, osservò Lambert. Più basso di lui, robusto ma con un nonsoché di
rilasciato. Il passo trascinato di un paio di gambe sottili che si tiravano
dietro con una certa agilità un corpo da bevitore consumato. Sorrise: più che
del vecchio puttaniere in pensione, gli dava l’idea piuttosto di un grosso
tacchino. Strinse i pugni: avrebbe potuto sopraffarlo con facilità e tagliare la
corda in tempo. In un’altra occasione e senza la testa di Auguste da portare in
salvo.
Con
un gesto nervoso, scostò via alcune ciocche di capelli che erano andate a
solleticargli il viso. Tirò su col naso e poi rimase lì, a metà strada tra piano
terra e primo piano, accasciato contro la ringhiera.
Il
commissario fece tintinnare un mazzo di chiavi, si volse di scatto e lo soppesò
da capo a piedi. Una piega interrogativa sulla fronte e le guance paonazze, e
quel sorriso odioso, come una maschera grottesca.
Dorian
distolse lo sguardo, uno strano senso di déjà-vu che non voleva saperne di
andarsene. Abbozzò un passo, e un brivido giù per la schiena gli fece quasi
perdere l’equilibrio. L’ennesima vampata di calore al viso giunse a sciogliergli
i nervi. Altri quattro passi verso il baratro. Un sospiro.
Le
pareti danzarono intorno a lui come fantasmi, quando varcò la soglia della
camera. La stanza lo accolse con il suo abbraccio polveroso e il rumore di porte
sbattute.
Dorian
si osservò intorno; osservò il commissario che si era lasciato andare su una
seggiola e lo scrutava come l’attrazione principale di una fiera ben riuscita.
Scorse il mazzo di chiavi che gli pendeva dalla cintura, e comprese di essere in
gabbia. Immobile al centro della stanza, come un albero spazzato dal
vento.
Lambert
sollevò gli occhi al cielo. Si grattò la nuca, soprappensiero – qualche capello
scuro che sfuggiva dalla parrucca. Tese le mani davanti a sé, il viso composto
in un’espressione accondiscendente, come a dover trattare con un bambino o con
un matto.
-
Non ho pagato per osservare il tuo bel faccino, Desgrais –
masticò.
Aveva
tolto quel “voi”, così fuori luogo tra cliente e puttana.
-
Non voglio i vostri soldi – Dorian si morse il labbro.
Lo
morse a sangue.
-
Già… – il commissario si passò una mano sulla faccia rasata, meditabondo – Tu
vuoi qualcosa di più. Vuoi che copra il culo a quel tuo amico… anche se in
cambio mi prenderò il tuo, e non mi pare t’importi granché.
Curioso.
Il
vostro non lo scollereste da quella dannata sedia neppure se vi rapissero vostra
madre sotto gli occhi. È così che vi destreggiate con i ratti più grossi:
spaventando quelli piccoli.
Dorian
intrecciò le braccia sul petto, spostando il peso da un piede all’altro, il
soffitto scuro che pendeva su di lui come un ammasso di ragnatele; il disegno
monotono della tappezzeria come un intreccio di serpenti.
Lambert
spalancò gli occhi come alla ricerca di qualcosa, di una nota stonata
nell’aria.
-
…che ti spogli io, ragazzo, non mi pare sia compreso nel prezzo –
cinguettò.
Dorian
si sforzò di deglutire e reprimere la rabbia, ma si rese conto in quel momento
di avere la bocca terribilmente asciutta. La gola riarsa e le labbra come
corteccia, e il sapore dell’alcool incollato alla lingua.
Il
commissario si sfilò la giacca e la gettò sul tavolo. Un aroma di cipria e di
qualche profumo dozzinale si sparse nella stanza, schiaffeggiandolo in pieno
volto. Dorian indietreggiò.
Vide
Lambert socchiudere le palpebre, indulgente. E fissarlo in volto con due iridi
come spilli.
-
Ho capito – riprese a lisciarsi la pettorina, meditabondo – Non ti ricordi come
si fa. È passato anche del tempo, da quando eri nel giro. Eppure l’arte di
prenderlo in bocca non si dimentica da oggi a domani – e gli scoccò l’ennesimo
sorrisetto storto.
Dorian
si sentì stringere da una morsa d’angoscia e per un attimo fu sul punto di
rotolare al suolo. Dovette stringere le palpebre e concentrarsi per restare in
piedi, la fronte corrugata e un senso di vuoto in fondo al
petto.
C’era
il solito, fottuto tassello che non tornava mai a posto. E il commissario lo
prendeva in giro: per lui era tutto uno scherzaccio tra compagnoni di bevuta. Si
era tanto immedesimato nel ruolo, da rendersi straordinariamente credibile a
trattarlo da puttana.
-
Spogliati, dai – Lambert si esaminò distrattamente i polsini della camicia,
annoiato.
Forse
stava perdendo interesse.
-
Hai un bel pacco e un bel fondoschiena, d’accordo? – rincarò la dose – L’unico
peccato è che continui a startene impalato.
Dorian
si morse il labbro, sforzandosi di mantenere la calma e lo stato allucinatorio
necessario a staccarsi al più presto da inevitabili
contingenze.
Non
era neppure la prima volta.
Un
lampo di consapevolezza lo fece trasalire; a malincuore, obbedì al comando e si
contorse per liberarsi della giacca. Quindi, con dita incerte, esitò tra le
pieghe della cravatta, sciogliendo lentamente il nodo.
Lambert
sollevò un sopracciglio, scettico.
-
Sì, così mi fai addormentare… – sussurrò.
Dorian
chinò lo sguardo. Il pavimento a scacchiera gli ondeggiava sotto gli occhi, nel
chiarore tremolante delle candele. A breve sarebbe calata la notte, chiudendolo
dentro il suo incubo di cristallo. Ma i suoi occhi si sarebbero abituati alla
tenebra, e lui avrebbe serrato le palpebre lasciandosi cullare dolcemente, in
attesa della deriva.
Quando
la sua mente cominciò a vacillare, la luce delle candele bruciava sulla sua
pelle nuda. Tutto ridicolmente distante, confuso sotto uno spesso strato di
vapore.
Lambert
si lasciò sfuggire un fischio d’approvazione e si coprì il volto con le mani.
Una risatina maligna si spanse nell’aria, penetrando nella
nebbia.
-
Santo Iddio… – borbottò – Sei biondo dappertutto.
Dorian
chiuse gli occhi, il viso verso il cielo, ogni brano di pelle esposto alla luce
e all’ombra. E a uno sguardo che scivolava addosso come inchiostro viscido, come
qualcosa che lascia impronte di fango che non vengono via. Lo sentì colare
lentamente lungo le spalle, addensarsi intorno ai fianchi, giù lungo il ventre.
Sulle gambe diritte che lo inchiodavano al suolo.
Dorian
chiuse gli occhi, il silenzio era piombo fuso incollato alle pareti. Sentì la
testa girare e barcollò fino alla piccola toeletta all’angolo. Puntò i gomiti,
le palpebre serrate per non scorgere il proprio riflesso nello specchio, e mille
altre immagini – solo nella sua testa –, annunciate da una cantilena
sottile.
Rilassati
e finirà presto.
Non
pensare a nulla.
Soffia
sulla candela, spegni la mente e stai sereno. Distaccato, gelido. Non sei tu,
quello piegato in una posizione equivoca sul mobile da
toeletta.
Non
pensare alle mani che violano il corpo. Che indugiano verso l’inguine e si
muovono.
È
tutto… meccanico. Solo un gesto freddo e meccanico. Le sue mani che tastano dove
sanno di poterti estorcere qualche brivido. Di
terrore.
Rilassati,
e tutto andrà meglio.
-
Cerca di fare in fretta! – ringhiò, quando sentì un paio di dita calde
scorrergli lungo la colonna vertebrale.
-
Ehi! – il commissario si scostò appena, prorompendo in una risata
beffarda.
E
poi, con orrore, Dorian avvertì quelle stesse dita ruvide avvitarsi dolcemente
intorno al suo sesso. Strinse i denti, e un impulso improvviso di sfuggire il
contatto. Chiuse gli occhi, pressato contro il mobile da toeletta, desiderando
di diventare aria e cenere.
- È
un peccato, sai? Certo, se proprio vuoi, posso accontentarti adesso – Lambert
gli soffiò tra le scapole; scese più in basso – Ma qui ci avrei fatto
miracoli…
Dorian
socchiuse gli occhi, la vista annebbiata, tentando di smarrirsi nel luccichio
tremolante della candela. A interrompere il suo estraniamento fu uno strattone
improvviso alla nuca, e i capelli che gli ricaddero davanti al viso. Poi sentì
Lambert sogghignare, mentre gli tormentava un ricciolo
biondo.
Dorian
si chiese se non fosse eccessivo vivere quel gesto come un’intima umiliazione, o
se fosse piuttosto il liquore ingurgitato, quella sera, a non decidersi a fare
il proprio dovere.
-
…e anche tu avresti potuto fare miracoli, Dorian. Qualche annetto fa. Con un
fondoschiena simile, a quest’ora ti saresti vestito d’oro.
Dorian
inspirò profondamente e si morse le dita. Non poteva imprecare o divincolarsi;
al massimo poteva mordersi il labbro.
-
Muoviti… – biascicò tra i denti.
Muoviti,
vecchio schifoso. Falla finita con questa tortura. Ora.
-
D’accordo, quanta fretta…
Dorian
represse un grido, quando Lambert entrò in lui. Boccheggiò, il respiro
incastrato in gola.
Lambert
rideva, ma lui non lo ascoltava.
-
Visto, io ho provato ad avvertirti…
Il
secondo affondo gli spezzò il fiato. Dorian premette il viso contro la
superficie fredda del piano, la coscienza coagulata in qualche anfratto
nascosto.
Obbedisci
e poi vattene.
-
No, non sei cretino. Lo sapevi che avrebbe fatto male. Ora sta’
calmo…
Dorian
conficcò le unghie nel legno.
Solo
un atto meccanico, senza nessuna implicazione.
Il
commissario si piegò su di lui fino a schiacciarlo sotto di sé. Dorian si sentì
soffocare.
Non
sentirai un mezzo sussurro…
Un
attimo, e una mano impertinente corse a scostargli i capelli dalla faccia.
Dorian scosse il capo per scansarsi. Poi sentì le dita di Lambert sfiorargli il
collo.
-
Ma che bel monile… – tubò.
Dorian
trasalì. Le solite dita prepotenti soppesavano l’anellino d’oro che portava
appeso all’orecchio.
-
Strano, un prostituto di strada che se ne va in giro con questa roba addosso… –
sghignazzò – Che damerino!
Dorian
sentì un accesso di collera esplodergli nel petto. Il suo unico, incerto
spiraglio visuale si colorò di vermiglio. Di scatto, schiaffò via quella mano
appiccicosa e fece per liberarsi della sgradita presenza con un colpo di reni.
Avrebbe ribaltato la situazione a suo favore – in un’altra occasione, forse –,
perché non era un fuscello esposto al vento, dannazione, e il commissario era
vecchio e flaccido.
Ma
stavolta la ribellione fu presto domata da un paio di mani risolute che lo
abbrancarono per i fianchi con un gesto rude, premendolo contro quel dannato
mobile traballante.
-
Lascialo! – soffiò Dorian, portandosi una mano all’orecchio – È di mia
madre.
Il
commissario si lasciò sfuggire un sibilo e allentò la
presa.
-
Diavolo… Tua madre!
Tutto
ciò che mi resta di lei…
-
Regalo di un cliente ricco – altre risa sguaiate – E tu sei tutto tua madre,
vedo.
No,
sua madre no. Non ne aveva diritto. Dorian strinse le palpebre. Tentò di
afferrare qualcosa oltre il velo di lacrime che gli adombrava la vista. Non il
suo volto riflesso, e quell’immagine orribile, con un bastardo che torreggiava
su di lui, lo teneva stretto e lo tastava tra le gambe. Non gli importava: era
tutta un’orribile farsa.
E
poi, di colpo, tutto fu di nuovo sereno, un senso di freschezza che gli pervase
piacevolmente i polmoni. Le gambe cedettero, e scivolò
nell’oblio.
* * *
Buonasera a tutti!^^ Dopo tempi biblici, finalmente torno ad aggiornare questa storia che è ormai diventata una storia infinita... Ringrazio i nuovi e i vecchi lettori, ringrazio chi ha recensito e chi ha aggiunto NT tra le storie preferite/seguite/da ricordare.
Poiché le note a piè di pagina non vengono mai per caso (specie dopo la *geniale* trovata delle risposte immediate ai commenti), approfitto per fare un po’ di pubblicità non-occulta. Se vi capita e, dopo 14 pagine di capitolo, siete ancora in vena di affaticarvi le retine tramite lettura al pc, consiglio
Portami a vedere le stelle, originale scritta a quattro mani con Lady Aika; e
Il bacio dell’aspide, altra mia originale, venuta alla luce dopo NT, ma a cui sono ugualmente affezionata.
Bene, ringrazio chiunque sia arrivato sin qui e do appuntamento al prossimo capitolo!^^ <3
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