Potrei amarti

di lupabianca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** prologo ***


Era notte fonda quando la ragazza uscì dal pub, avvolgendosi nel lungo cappotto grigio e sistemandosi sotto al appuccio i capelli neri quanto quella gelida notte. Era uscita così tardi dal pub perchè aveva piovigginato nevischio fino a quel momento e non aveva l'ombrello. Naturalmente il padre non sarebbe andato a prenderla, in quel momento era troppo impegnato ad ubriacarsi in qualche altra bettola. La ragazza si avviò in una stradina stretta, i passi che rimbombavano in quel silenzio spettrale. Rabbrividì. Il suo istinto le diceva che c'era qualcosa che non andava. Sentì il ticchettio di tacchi, da qualche parte lontana, in un'altra via. Il rombo di una macchina dietro di lei. Il suo cuore aumentò i battiti. La macchina era sempre più vicina. Venne presa dal panico e incominciò a correre. Era in preda al'irrazionale consapevolezza che quella macchina l'avrebbe uccisa. Invece la superò, senza curarsi di lei. Sentì un urlo squarciare la notte, ma non proveniva dalla sua gola. Arrivata a un bivio, sentì delle voci provenire dall' altra strada. Si nascose dietro l'angolo e sbirciò. Due uomini con le pistole in mano erano scesi dall'auto, e stavano parlando con un altro. A terra vi era un fagotto. No aspetta, era una PERSONA. Una scarpa con i tacchi alti giaceva poco lontano. Dalla bocca della ragazza uscì un suono strozzato. Uno degli uomini alzò gli occhi, che incrociarono il suo sguardo. Per un attimo sentì il cuore fermarsi, lo sguardo freddo e crudele dell'uomo fisso su di lei. Poi cominciò a scappare. Corse più veloce di quanto avesse mai fatto in tutta la sua vita.

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Capitolo 2
*** capitolo 1 ***


Roma era ancora immersa nella penombra quando Anna uscì di casa. Era il primo giorno di scuola dopo le vacanze di Natale e l'aria fredda le pizzicava le guance. La pesante sciarpa di lana presto si congelò e dura cominciò a sfregare contro le sue gote irritate. Ma ad Anna non importava. Il suo unico pensiero era che doveva sbrigarsi, se voleva passare più tempo con Lui prima di arrivare a scuola, dove sarebbero stati separati dalla massa dei loro amici, ansiosi di salutarli, e soprattutto dalla fatidica campanella. Si erano visti il giorno prima, è vero, ma ogni istante che Anna passava lontano da lui le sembrava inutile e privo di senso. Affrettò il passo, avvicinandosi sempre più alla fermata dell'autobus, dove certamente lui la stava aspettando, come ogni mattina. E infatti lo vide, appoggiato al palo della luce che ancora era acceso, le mani in tasca, si guardava intorno con uno sguardo sornione, il suo tipico sorrisetto strafottente stampato sul volto, mentre poco lontano un capanello di ragazze spettegolava, lanciandogli occhiate fugaci. Ma quando vide Anna il volto del ragazzo si illuminò d'amore, aprendosi in un sorriso di gioia. Il cuore della ragazza cominciò a battere più forte e come un fringuello che si innalza in volo percorse gli ultimi metri che la separavano da lui di corsa. Lui la prese a volo e ridendo la strinse a sè, in un abbraccio così intimo che le ragazzine che li fissavano poco distanti dovettero distogliere lo sguardo, imbarazzate. "Andrea" sussurrò la ragazza, come se quel nome fosse l'unica cosa al mondo che avesse un signficato. "Sì, Scricciolo?" "Mi sei mancato". Andrea scoppiò a ridere: "di già?! Ci siamo visti ieri!" Anna sorrise, un po' incerta "Certo. Tu mi manchi sempre. Ogni momento che passo lontano da te è come se un coltello affondasse sempre di più nella mia carne." Adrea non disse niente. La prese per mano e la condusse verso la panchina della fermata dell'autobus, facendola sedere sulle sue ginocchia. In quel momento arrivò l'autobus, ma era ancora presto, e lo lasciarono passare senza neanche curarsene, mentre le ragazze di prima salivano lanciando loro strane occhiate. Quando finalmente l' autobus ripartì Andrea interruppe il silenzio e le disse con voce grave, fissandola negli occhi: "anche per me è così". Poi la baciò, le labbra, che conoscevano ogni minimo dettaglio di lei, esperte e familiari indugiavano sulle sue labbra, il leggero velo di barba le faceva il solletico. Anna venne percorsa da un brivido e Andrea la strinse ancor più, forse credendo che fosse dovuto al freddo. "Ti amo" gli disse lei. "Vorrei vedere, dopo quasi otto mesi!" Andrea era sempre così, un romanticone a cui però piaceva sdrammatizzare sempre la situazione. "Te lo ricordi allora!" esclamò lei, con un sorrisetto di sfida. "Come potrei dimenticarlo? Mi offende signorina, pensando che possa dimenticare il magico giorno in cui ci baciammo, il 19 maggio dello scorso anno." "Hahaha scemo!" rise Anna e dopo un attimo di esitazione aggiunse: "spero solo che dopo così tanto tempo non ti stuferai di me"
Andrea la guardò serio, fulminandola con i suoi occhi verdi. Poi accostò le labbra al suo orecchio e disse: "MAI". Anna, che fino a quel momento senza rendersene conto aveva trattenuto il respiro, si rilassò. "Anna, io non mi stancherò mai di te. Otto mesi sono troppo pochi. Io vorrei stare con te due, tre anni, anche tutta la vita! Perchè ti amo, ti amo ti amo ti amo ti amo..." e cominciò a farle il solletico, le mani si erano magicamente insinuate sotto il cappotto. Anna ridendo cercò di divincolarsi, e quando stava per scappare lui le immobilizzò le gambe e la spinse contro la panchina, baciandola con forza per trattenerla. Anna subito si rilassò, passandogli le braccia attorno al collo. Passò l'autobus, che con uno sbuffo di smog si fermò, aprendo le porte. "Ho vinto io" sussurrò Andrea sulle sue labbra prima di staccarsi. Entrarono nell'autobus mano nella mano, pronti ad affrontare il primo giorno di scuola dell'anno nuovo.

                                                                                           * * *
Anna e Andrea si conoscevano da sempre. All'asilo erano stati fidanzatini, e così anche in terza e quarta elmentare. Erano sempre stati in classe insieme e anche i loro genitori erano molto amici. Prima di mettersi insieme erano migliori amici e ognuno conosceva i segreti dell'altro. Erano una di quelle coppie che dai per scontato che si sposeranno: portavano al collo una collanina con la A, l'iniziale dei nomi di entrambi, ed erano assolutamente perfetti nsieme, anche per quanto riguardava l'aspetto fisico. Lui era alto e muscoloso, lei piccolina ed esile, Andrea con gli occhi verdi e i capelli ricci e castani, Anna con gli occhi marroni e i capelli lisci e biondi. Una rarità, per quell'età. Quando la gente chiedeva loro se si sarebbero sposati loro si guardavano e sorridevano, conversando in quel linguaggio che solo due pesone che hanno condiviso tutto conoscono. Spesso le sue amiche chiedevano ad Anna se pensava fossero anime gemelle, e lei rispondeva di sì. Ma un giorno lo aveva chiesto ad Andrea e lui non aveva risposto, chiudendosi nei suoi pensieri. Questo pensava Anna mentre sull'autobus guardava le loro mani intrecciate, la sua piccola in quella grande. Si riscosse solo quando il mezzo si fermò davanti al suo liceo, uno scientifico né troppo al centro né troppo in periferia, che seguiva ufficialmente il pensiero di destra, ma la maggior parte delle persone che lo frequentavano erano di sinistra.
Dopo aver salutato tutti i loro amici entrarono in classe e Anna come al solito si sedette accanto alla sua migliore amica, Elena. Entrò la professoressa di matematica, la Merini, e tutti si alzarono in piedi. "Seduti, seduti ragazzi. Spero che abbiate passato delle belle vacanze."  La classe assentì con un mormorio. "Bene, bene. Beh, ho una sorpresa per voi ragazzi. Da oggi farà parte di questa classe una ragazza nuova. Tra poco arriverà la preside per presentarvela." Un bisbiglio percorse l'aula, tutti che si scambiavano le loro ipotesi su chi fosse. "Io spero che sia bona!" esclamò Luca, il migliore amico di Andrea, il cui vocione come sempre si alzò su tutti gli altri ed arrivò fino alla prof, che lo guardò malissimo.



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Vorrei ringraziare chiunque sia così gentile da leggere la mia prima storia ;)
Come avete potuto vedere, parla d'amore, puro e semplice, ma anche complicato, come ogni amore dovrebbe essere, e tra poco capirete perchè dico così. Vi avverto che non so ancora come finirà. Questa storia mi è venuta in mente l'altra sera, come un'ipirazione, e l'ho scritta subito per non dimenticarla. Spero sia di vostro gradimento e spero che recinserete. Mi scuso nel caso in cui abbia fatto molti errori di ortografia, ma la tastiera del mio computer, che mio nonno definisce un CARCIOFO, è messa piuttosto male. Grazie in anticipo! Scusatemi se dovessi impiegare troppo tempo nell'aggiornare la storia, farò del mio meglio!
Intanto vi auguro buona lettura xD

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Capitolo 3
*** capitolo 2 ***


Cecilia cercò qualcosa su cui posare gli occhi nel comunissimo, anonimissimo muro giallo ocra. "Chissà perchè usano sempre questo colore nelle scuole" si chiese. Spostò il peso del corpo da un piede all'altro. Era un quarto d'ora che aspettava di essere ricevuta dalla preside. Con una mano si spostò i capelli neri dietro l'orecchio: era estremamente a disagio. Ma non solo perchè stava per entrare a far parte di una nuova scuola, ormai era abituata. Piuttosto perchè si trovava in compagnia di suo padre. I suoi rapporti con lui non erano mai stati dei migliori e quando era morta sua madre la situazione era degenerata. Vivevano, o forse si dovrebbe dire convivevano, nella stessa casa, è vero, ma cercavano di evitare il più possibile la compagnia l'una dell'altro. Era da anni che non aveva un discorso serio con suo padre, perchè ogni volta finiva che litigavano, ognuno che criticava lo stile di vita dell'altro. E piano piano si era creato un solco, sempre più grande, che li aveva allontanati e fatti diventare due perfetti sconosciuti che tuttavia condividevano i ricordi di una stessa vita passata. Ed erano proprio questi ricordi a metterli più a disagio quando erano insieme, essendo gli unici ricordi felici che avevano, e in segreto entrambi speravano di tornare a condurre la vita di un tempo senza rendersi conto che non era possibile, soprattutto se continuavano così. Per questo motivo Cecilia stava odiando con tutte le sue forze quell'attesa che sembrava durare anni, quello squallido corridoio davanti all'ufficio della preside, il silenzio teso che la separava da suo padre. Lui cercò di aprire un discorso, ma come al solito sbagliò approccio: "Certo, ti saresti potuta vestire meglio. Come puoi pretendere di fare buona impressione se vai in giro vestita come... come una punk degradata o una cacciatrice di vampiri?!" Cecilia sospirò, era stanca di dover sempre discutere della stessa cosa. "E non sospirare!" "Come mi vesto non sono affari tuoi! Se così mi sento più protetta, tu non ci puoi fare niente!" Non avrebbe mai abbandonato la sua armatura, il suo scudo contro il mondo esterno. Vestirsi in modo che metteva paura e soggezione era l'unico modo che aveva per tenere lontana la gente da lei, l'unico modo che aveva per proteggersi e per sentirsi più forte di loro. L'unico modo per tenere nascoste le sue debolezze, la sua timidezza, che altrimenti sarebbero state usate contro di lei. Nessuno l'aveva mai capita o ascoltata, tutti l'avevano sempre e solo derisa per il suo comportamento strano e per il suo carattere sfuggente, che le avevano sempre impedito di farsi qualche amica. Solitudine... solo lei sapeva dire cosa fosse realmente, un senso di abbandono e di tristezza più totale, la consapevolezza di non essere come gli altri, l'odio e il geloso amore che provava verso se stessa, poichè non era mai stata abituata a provarlo verso qualun altro. Da quando era morta sua madre, otto annni prima, Cecilia non era più stata felice, il suo carattere era diventato ancora più schivo, tormentato e scontroso e si era chiusa nel suo mondo, escludendo tutti. Aveva cambiato due volte scuola alle elementari, una perchè aveva picchiato un bambino, un'altra perchè aveva urlatocontro la maestra, spinta dalla rabbia accumulata nei confronti del mondo. Alle medie c'era stato un periodo di calma, anche perchè il padre aveva rinunciato a pensare che nelle altre scuole sarebbe stata meglio e aveva capito che il problema non erano gli altri, ma lei. In primo liceo aveva picchiato un ragazzo perchè ci aveva provato con lei, e da quel momento nessuno le si era più avvicinato, per il suo sollievo, ma tutti avevano cominciato a sparlarle dietro, i bisbigli maligni delle altre ragazze l'avevano perseguitata. Aveva provato a tornare alla stessa scuola, quell'anno, essendosi ormai abituata, ma una ragazza un giorno le aveva detto in faccia che pensava fosse un essere spregevole, una malata, ed Cecilia l'aveva mandata all'ospedale con il setto nasale rotto. Il preside l'aveva minacciata di espellerla e di bocciarla, così lei  aveva deciso di andarsene da sola. Per questo si era iscritta, quasi a metà anno, in quella nuova scuola. Quando l'aveva visitata per la prima volta, durante le vacanze di Natale, aveva sentito che forse lì avrebbe potuto costruire qualcosa, che quella sarebbe potuta diventare la sua casa. Ci teneva a fare bella figura, ma non aveva potuto fare a meno di vestirsi così. La maglietta con le borchie sulle spalle e un teschio disegnato, i jeans stretti con le catene che tintinnavano dalla cintura, i grossi anfibi, tutto rigorosamente nero, le dava un'idea di massiccia potenza che non aveva, e odiava e amava quasta dipendenza con tutte le sue forze. Ma anche il padre, con la sua aria ipocritamente impeccabile, la induceva a vestirsi così, come ribellione verso di lui e le sue stupide regole di rigorosità, che puntualmente tutte le sere infrangeva per andare a ubriacarsi in qualche pub, dove si giocava lo stipendio. Era stato segnato dalla morte della moglie quanto lei, ma aveva reagito peggio di una bambina di otto anni. Non era stato capace di riprendersi dal dolore e da quel momento aveva a mala pena sopportato la presenza di Cecilia in casa, l'unico legame che gli era rimasto con la moglie che tanto avrebbe voluto dimenticare, ma lei glielo portava sempre alla memoria, con la sua sorprendente somiglianza alla madre. Non l'aveva riempita di affetto e di attenzione come gli altri padri avrebbero fatto, anzi, l'aveva scansata, allontanata da se con fastidio, costringendola a dover imparare a farcela da sola e lasciandola sola ogni sera. Da piccola Cecilia sofriva per il comportamento del padre, ma adesso, se lo trovava in casa, usciva, ed aspettava con impazienza la sera, quando sarebbe potuta stare da sola, in pace, a casa, lei e il suo gatto Randagio.
Finalmente la porta si aprì, strappandola dal suo disagio, e un signore uscì dall'ufficio della preside. "Prego, entrate" disse una voce dall'interno. Cecilia e suo padre entrarono, ritrovandosi in  un ambiente piccolo, pulito e accogliente. Le pareti, escluse quella da cui si accedeva e quella con un finestra che dava sul cortile, erano ricoperte di libri, anche questi tenuti bene. In ogni spazio libero della stanza vi erano vasi con piante particolari, e al centro vi era una scrivania stracarica di scartoffie e registri vari, dietro cui si intravedeva la testa di una piccola signora anziana. Quasta si alzò, stringendo loro le mani calorosamente. "Sono la professoressa Tamarri" si presentò. "Tu devi essere Cecilia Sasso" le sorrise benevolmente. "Essattamente, professoressa" disse la ragazza. La preside le piaceva. Era piccolina ed esile sì, ma ispirava grande autorità. Gli occhi acuti penetravano a fondo, senza fermarsi davanti alle apparenze, aveva l'aria simpatica e amorevole, ma anche un cipiglio severo che faceva capire che la sua autorità non poteva essere contestata. Davanti a lei Cecilia sentì per la prima volta che voleva fare buona impressione, ma non le importava di essere vestita da "dura", come diceva lei, perchè sapeva che quella vecchina avrebbe l'avrebbe capita.

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Capitolo 4
*** capitolo 3 ***


La preside scortò Cecilia fino alla sua nuova classe. Quella era la parte che odiava di più: dover entrare per la prima volta in classe ed essere messa sotto esame da parte di tutti. Si fermarono davanti a una porta, bianca come tutte le altre, su cui era attaccata una targhetta che citava: "2° D". La preside la guardò con i suoi occhietti penetranti e gentili: "Pronta?" Cecilia annuì, cercando di mandare giù il groppo che le si era formato in gola. La preside bussò, abbassò la maniglia, aprì la porta... la ragazza notava tutti quei dettagli come se fossero compiuti a rallentatore. Fece i primi passi dentro l'aula, odiando i suoi anfibi che quando sbattevano per terra emettevano un rumore pesante e ovattato, reso un po' metallico dalle borchie. I ragazzi dell'aula si alzarono in piedi alla vista della preside, dicendo buon giorno. Quando si risedettero calò il silenzio, gli occhi di tutti puntati su di lei. Per un attimo Cecilia desiderò di non essersi vestita così, desiderò di essere come loro, anonima, normale, in modo da passare inosservata. Con quegli abiti che la facevano apparire dura e imponente era difficile farsi piccola piccola, tanto da scomparire. Dopo quegli attimi di tensione finalmente la preside ruppe il silenzio, iniziando il suo discorso: "Mmm mmmh, buon giorno ragazzi, e buon rientro a scuola. Come vedete avete una nuova compagna! Il suo nome è Cecilia Sasso, spero che la tratterete bene e che la aiuterete ad ambientarsi nella nuova scuola. Ho piena fiducia in voi ragazzi. Adesso devo andare, ho molte cose urgenti da sbrigare, buon anno nuovo e buona lezione!" e così la preside se ne andò, abbandonando Cecilia in piedi davanti alla classe.  "Bene Cecilia, benvenuta! Puoi sederti in quel posto in fondo, accanto a Giulia" disse la sua nuova professoressa. "Gg-grazie" gracchiò lei, andando in fretta a sedersi, cercando di allontanare l'attenzione di tutti da lei. Quando si sedette potè finalmente rilassare le mani, che aveva contorto e torturato tutto quel tempo senza accorgersene ed ora erano tutte rosse. "Ciao" le disse la ragazza seduta accanto a lei. Non ricordava come si chiamasse. La ragazza sembrò intuirlo, così le porse la mano: "Piacere di conoscerti Cecilia, io sono Giulia". Le sorrise con curiosità, ma tanto adorabilmente che Cecilia non si sentì a disagio, anzi, ricambiò il sorriso. Sentiva che forse, finalmente, avrebbe avuto un'amica.
                                                                           
                                                                                * * *
La prima impressione di Andrea sulla nuova arrivata fu che le ricordava una bambola di porcellana con l'armatura, o una caricatura, tanto era buffa. Mentre la professoressa le faceva il terzo grado, chiedendole fin dove fosse arrivata nel programma, da che scuola venisse eccetera eccetera, il ragazzo non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Era di una bellezza commovente: sembrava un fiore delicato, un mughetto o un non ti scordar di me, con quella sua pella bianca, la corporatura esile, i capelli neri e i grandi occhi blu che spiccavano in quel viso angelico che sembrava non essere mai stato sfiorato da alcuna malizia. Ma la sua bellezza era indurita dai vestiti che indossava, neri e spaventosi, pieni di borchie, spuntoni metallici, teschi. Sembrava quasi una di quelle ingenue bambine dei film horror, solo che lei sembrava sapere già dell'esistenza delle creature mostruose. Sembrava sapere già tutto. Aveva gli occhi segnati dall'esperienza della sofferenza. Questo era ciò che più spaventava e affascinava Andrea. Quando la lezione inziò, Cecilia si accorse che lui la stava fissando. Gli lanciò un' occhiataccia e lui si risvegliò dal suo sogno, arrossendo. Per tutto il resto della lezione e anche nelle ore successive sentì il disagio della ragazza aumentare, non riusciva a rimanere attenta con tutti quanti che si giravano a guardarla come se fosse un raro pezzo da collezione. Per questo quando suonò la ricreazione Andrea non si precipitò da lei come fecero tutti gli altri. Capiva che aveva bisogno di respirare. Si sarebbe avvicinato a lei l'indomani, quando ormai l'eccitazione della classe sarebbe cessata e la novità passata di moda. Di tutt'altro avviso era la sua ragazza, che invece non vedeva l'ora di conoscere Cecilia e non passò la prima ricreazione dell'anno nuovo con lui, come invece avrebbe tanto voluto. Dio, quanto gli era mancata.

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