It Was You Saying Goodbye

di HippyQueen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A little piece of you ***
Capitolo 2: *** Here Comes The Weekend ***
Capitolo 3: *** I just love Love ***
Capitolo 4: *** And Never Ask Why ***



Capitolo 1
*** A little piece of you ***


“Mi scusi, cosa dice?”
“Stavo pensando,” ripeto “che forse dovremmo terminare qui la mia terapia.”
“Per quale motivo, signora Stevens? È in via di guarigione. La vedo davvero meglio.”
“Si, ha ragione. Ma vede, sento che questo non fa più bene a me.”
Proprio in quel momento, quando sto dicendo al mio psicanalista che dopo sei anni voglio abbandonarlo per vanificare tutti i suoi sforzi, entra nella stanza una ragazza giovane, sui vent’anni. Non l’ho mai vista, ed è bellissima; ha i capelli castani raccolti in una crocchia, la frangia folta e gli occhi enormi truccati di nero, anch’essi caldi, marroni. La sua carnagione è chiara. Sono folgorata, e so benissimo il perché.
La ragazza lascia sulla scrivania del dottore un documento, gli sussurra qualcosa e se ne va. Secondo la mia indole teatrale, devo seguirla, e così faccio. Lascio tutto, raccolgo solo le mie cose, la mia borsa, me ne vado. Sento il mio dottore scuotere la testa e mormorare qualcosa, ma mi conosce, sapeva che l’avrei fatto. Ed infatti eccomi qua.
La ragazza si siede dietro la sua scrivania, ridacchia con una collega, controlla in cellulare di nascosto, poi alza la testa e si accorge che la sto fissando. Chissà come le appaio. Una donna vecchia, consunta, sui quarantacinque anni; molte donne, alla mia età, credono di essere giovani. Io, al contrario, penso di star per morire. Davanti a me non vedo altri trent’anni in cui divertirmi, ma pochi mesi di sofferenza. È da quando avevo vent’anni che li vedo, quei pochi mesi.
“Posso esserle utile?” mi chiede, con i suoi enormi occhi ridenti. Dovrei dire di no, andarmene subito. E invece non riesco a piantarla qua, perché andarmene sarebbe come cedere alla parte di me che ha preso il sopravvento da quasi quindici anni, ormai. Così la fisso negli occhi e sorrido:
“Posso sapere come ti chiami?”
Mi guarda perplessa per poi rispondere: “Sidney Brown.”
 
“Avremo una figlia, e la chiameremo Sidney, come questa città.”
“Una figlia?”
“Certo, una figlia.”
“Noi non possiamo avere una figlia.”
“Ti prometto che l’avremo.”
 
“Per caso tua madre viene da Philadelphia?”
“No, mi spiace.” Mi sorride, come si sorride alle vecchiette che parlano della loro vita a chiunque. Si prova pena.
“Grazie, Sidney. Ci vediamo.”
“Arrivederci signora. A presto.”
 

A quattordici anni ero una ragazzina molto tranquilla, agli occhi degli altri; dentro, ero una teppista. Nel mio immaginario, ero libera. Ero la libertà fatta a persona.
Una volta dovetti uscire con una ragazza che conoscevo da una vita. Proprio sempre, avete presente, quelle con cui condividi la culla, perché i genitori sono amici, come nel mio caso. Poi crescendo, vi frequentate se capita, finché non avete un cellulare in mano e cominciate a sentirvi tutti i giorni e tu ti rendi davvero conto che non avete in comune e che, soprattutto, se non vi conosceste da così tanto tempo, lei ti odierebbe e non ti frequenterebbe per nulla al mondo. Ma un giorno, comunque, ci uscii. Doveva prendere un regalo, insomma, non era nulla di che, aveva bisogno di qualcuno, era molto tempo che non ci vedevamo, e uscimmo. Mentre l’aspettavo al punto di ritrovo di tutti i giovani e di tutti i vecchi, lo vidi. O la vidi, non lo sapevo. Fissai quel ragazzo/a (ma continuerò parlando di lui al maschile, in quanto fu con quella conclusione che arrivai a casa un’ora e mezza dopo) per dieci minuti. Aspettava qualcuno con un uomo, un uomo vestito sgargiante, una tuta verde fosforescente, la faccia sporca, i capelli lunghi neri, una sacca e una cartina geografica sotto braccio. Lui, be’, lui era bellissimo. L’avrei sognato per mesi, in seguito. Quel ragazzo avrebbe popolato le mie notti. La carnagione chiarissima, come la mia; i capelli lunghi, raccolti in dreadlocks, legati con un elastico molto largo, rosso. Indossava jeans e una giacca scura. Aveva una borsa a sacca, nera e bianca, bellissima. Stanco probabilmente di aspettare in piedi, lanciò la borsa su un cestino per le immondizie piuttosto alto e vi saltò sopra, a sua volta. Quando la sua borsa cadde a terra, lui alzò le spalle e si appoggiò con la schiena al lampione dietro di lui. Fumava qualcosa, rimasi a contemplarlo tutto il tempo. Quel ragazzo fu l’amore platonico del mio ottobre dei quattordici anni. In quella giornata bellissima, così grigia come piace a me, capii che lui era fatto per me. Era bellissimo ed io avevo bisogno di lui. Quando arrivarono i suoi amici, sentii che il nostro legame si stringeva, come un nodo, il nostro legame aveva bisogno di qualcuno di forte che lo tenesse duro. Andò incontro a loro, li salutò, corse incontro a uno, gli saltò addosso, gli cadde la sacca, la riprese di nuovo, parlarono, si misero a cerchio, erano un sacco. C’era una ragazza dai capelli rasta color paglia, i pantaloni larghissimi, una maglia enorme verde bottiglia, le loro sacche come borse, la loro bellezza straordinaria. Cercai di non fissarli troppo a lungo. Uno di loro mi vide, mi sorrise, sorrisi anch’io, abbassai la testa sul telefono per non farmi notare troppo. Ero inadeguata, se fossi stata un po’ più come loro sarei andata là, il mio coraggio sarebbe uscito, un “Adoro i vostri capelli” o “Amo la tua borsa” per poi camminare oltre, ma andandomene essendo sicura di aver lasciato un segno. Invece, mentre loro si incamminavano verso la piazza, la mia amica mi raggiunse e, seguendo il mio sguardo, si liberò in commenti poco gentili nei loro confronti.
“Io lo so”, disse “Lo so che vuoi essere come loro. Ma tua nonna ed io ci capiamo: non ti parleremmo più e lo sai bene.”
Sapevo bene, si, che lei e mia nonna complottavano contro di me. Ma, se posso essere sincera, in quel momento non me ne fregava un cazzo.
 
I am my hair. I am as free as my hair.
Whenever I’m dressed cool my parents put up a fight/and if I’m hot-shot mum would cut my hair at night/and in the morning I’m short of my identity/I scream mum and dad why can’t I be who I wanna be?/I just wanna be myself and I want you to love me for who I am/I just wanna be myself and I want you to know I am my hair.
Cantai le parole della mia musa, Lady GaGa, senza proibizioni. Le cantai, liberandole dalla mia gola, facendole uscire dalla mia mente. È quello che penso, mi dissi mentre camminavo verso scuola. Era il mio primo anno di liceo, avevo ancora quattordici anni, era ancora inverno. Avevo delle grosse trecce tra i capelli lasciati sciolti, i pantaloni erano larghi, indossavo giacche calde e le mie scarpe erano piuttosto rovinate. Mi sentivo libera. Non avevo problemi con nessuno. Sorridevo. Un ragazzo mi urtò, forse per sbaglio, chi lo sa, nella folla, lo guardai, per urlargli dietro qualcosa, ma mi fermai, intontita.
“Si, scusa” mormorò, distratto, rivolto a me.
Io ero immobile, lo fissavo, fissavo i suoi capelli. Bellissime treccine. Capelli tra il biondo e il castano. Era alto, era libero. Lo fissai negli occhi, mi guardò, non sembrò colpito, ma io si. Lo seguii con lo sguardo nello stesso modo in cui, un mese prima, avevo seguito una ragazza vestita da uomo, sperando di vederla ancora e ancora, trovandola e riconoscendola circa quattro volte prima di perdere l’interesse.
Vidi il suo gruppo d’amici. Io ero sola, sempre stata una ragazza socievole ma solitaria. Era bellissimo. Volevo sapere il suo nome, sapevo che il suo nome sarebbe stato l’apice della mia giornata. Non mi importava che avessi preso la prima insufficienza della mia intera vita; solo volevo conoscere il suo nome, per poterlo sussurrare nel privato della mia stanza.
“Scarlett!” urlai, non appena la vidi, ormai persi di vista i miei nuovi bersagli. Scarlett era una specie di salvezza, la mia nuova migliore amica in quella gabbia. Non amavo particolarmente la mia classe, all’inizio, ma Scarlett mi dava quotidianamente una ragione per svegliarmi la mattina. “Scarlett, ho trovato l’amore della mia vita.”
“Oh mio Dio.” Iniziò lei, sorridendo. “In che scuola è?”
Adoravo come Scarlett mi stesse dietro. Le mie amiche, solitamente, mi tiravano giù. ‘Quanto sei scema’ o ‘Si, Meredith, certo’. Nessuno che mi prendesse davvero sul serio. Neppure quella che doveva essere la mia migliore amica in assoluto. Anzi, lei in primis non era tra le mie fan. Odiava quando cantavo, sebbene fossi brava, odiava qualsiasi cosa facessi, mi faceva sempre sentire inadatta. Criticava me e il mio modo di fare. Eppure le volevo bene, perché non criticava il mio essere libera. Ma anche a quattordici anni, sapevo di cosa avevo bisogno. Sono sempre stata matura, ho sempre capito i miei desideri. E a tredici anni, dopo una lunga pausa dal mondo in cui vivevo su una nuvoletta privata, avevo finalmente capito di volere una svolta di quelle enormi. Volevo conoscere delle persone che mi trascinassero, che mi cambiassero; ero stufa di cambiare da sola, di inventarmi sempre cose nuove per divertire me e chi mi stava attorno. E il cielo mi diede Scarlett. Scarlett è stata davvero una salvezza.
 
Le raccontai del ragazzo mentre ci avviavamo verso la classe; incontrammo due compagne, salutai qualche ragazza che conoscevo di vista, mi imbattei nuovamente nella butch, ma stranamente questa volta non mi interessava essere notata.
“Aspetta, aspetta, di chi state parlando?” mi interruppe Takara. “Chi è questo gran figo?”
Spiegai tutto di nuovo, contenta di poter condividere tutti i miei pensieri con quelle due ragazze, le uniche con cui fossi davvero aperta in quello spazio. Se Scarlett rappresentava una sicurezza, Takara era.. non so, un qualcosa di importante. Il suo nome significava tesoro, come amava ripetere, e in effetti lo era davvero. Conosceva moltissima gente e la frequentava, la sua popolarità era una cosa che adoravo e detestavo allo stesso tempo. Non mi sarei mai permessa di usarla, infatti quando era con altra gente non la disturbavo, a meno che non fosse lei a raggiungermi. E questo non mi permetteva di spendere del tempo con lei qualora lo volessi; durante le ricreazioni, io e Scarlett ci prolungavamo in infiniti giri della scuola, senza destinazione, tanto per parlare. Se Takara fosse stata con noi, probabilmente, qualsiasi cosa sarebbe stata più interessante. Sapevo che Takara adorava Scarlett almeno quanto me, e mi auguravo di andarle a genio allo stesso modo. Non volevo essere la terza incomoda, tantomeno volevo essere tagliata fuori. Mi pareva che a Takara non desse fastidio la mia compagnia, e speravo davvero che le nostre amicizie potessero prolungarsi negli anni.

Mentre andavamo in classe, la vidi di nuovo.
Era una ragazza bellissima, aveva i capelli castani sciolti, liscissimi, la pelle chiara, lo sguardo assorto, pensava a qualcosa, qualcosa che la trasportava lontana da qua. Si mordeva senza rendersene conto l’interno del labbro inferiore, era appoggiata con la schiena al muro, i libri al petto schiacciati contro il seno, uno zaino ai piedi. Sgranò gli occhi marroni mentre si rendeva conto di qualcosa che contava, prese su velocemente le sue cose e corse verso la direzione opposta alla mia. La seguii con lo sguardo finché non svoltò l’angolo, e lo feci anch’io.
Entrai in classe e gettai le mie cose sul banco. Mi sedetti su quello di Scarlett, pensai a quella ragazza, continuai a pensare a lei per tutta la giornata finché, alla fine della terza ora, uscii per fare un giro. Mi sedetti con la mia amica nella piazzola tra le scuole e, senza prestare veramente attenzione, mi guardai attorno forse per la prima vera volta. E li vidi. Vidi nuovamente quei ragazzi, quel ragazzo, quello di quella stessa mattina.
“Fottuto ragazzo” sussurrai. Scarlett seguì il mio sguardo.
“È lui?” annuii. “Be’. Merita, secondo te?”
“Secondo te?”
“Secondo me secondo te?”
“Si.”
“Direi di si.” Sorrise. La guardai e mi misi a ridere.
Continuammo a parlare di lei, dei suoi problemi, e mi fece piacere ascoltarla. Volevo essere importante per lei almeno la metà di quanto lei fosse per me. Volevo davvero essere qualcosa per quelle persone.
 
All’uscita, be’, all’uscita ero sola. Scarlett era corsa via lanciandomi un bacio per non perdere l’autobus e Takara si era volatilizzata, probabilmente per parlare con qualcuno dall’altra parte della scuola. Perciò, abbracciai il mio cellulare mentre mi infilavo gli auricolari e selezionavo una traccia. La mia borsa ingombrante non mi permetteva di muovermi come avrei voluto e temevo di risultare ridicola, tenendo una spalla più alzata dell’altra per non farla scivolare giù. E invece, be’, grazie a dio che quelle spalle non erano uguali. Perché si, venni urtata nuovamente.
“Scusa, scusa” sentii mormorare. Mi voltai e alla mia destra vidi quella ragazza, la ragazza bellissima. Guardava i propri piedi, la testa china, si liberò da me e camminò veloce verso il capolinea. La seguii a pochi passi di distanza, compiaciuta notai che prendeva il mio stesso bus. In un altro momento avrei cercato Takara nella folla, o qualche suo amico che mi aveva presentato. Avrei parlato con qualcuno che conoscevo di vista oppure avrei parlato con un estraneo, come mi era già capitato. Invece, quel giorno, fissai quella ragazza come se fosse un’opera d’arte. Si infilò con grazia nella vettura, prese posto non molto lontana da me, stavamo entrambe in piedi e, assorta nella sua musica, mi rivolse uno sguardo veloce. Sillabava le parole delle canzoni, e la guardavo di sottecchi. Quando i suoi occhi incontrarono i miei, lei sorrise maliziosamente e riportò lo sguardo al finestrino. Continuò a canticchiare ed io, arrossendo, mi guardai i piedi. Seguii il suo esempio e mi concentrai sulla città. Philadelphia era enorme, e la nostra scuola era appena fuori dal centro. Essendo noi tutti abitanti di periferia, gli autobus erano spesso pieni; la metropolitana non ci portava dove volevamo, e poi c’erano molte più probabilità di fare conoscenza via terra, dove la gente è, generalmente, più rilassata.
La vidi alzarsi, la guardai. Sorrideva e scuoteva la testa. Era bellissima. Quando dovette scendere, aiutò una donna con un passeggino a salire e se ne andò contenta della sua opera di bene. Sorrisi, felice per lei. Quella ragazza mi dava sempre una certa felicità interiore che non sapevo spiegarmi.

 

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Capitolo 2
*** Here Comes The Weekend ***


“Insomma, tu non fai mai niente, no?”
“Liz, seriamente. Vattene.”
“Ma se devo proporti una cosa!”
“No, non devi. Non devi davvero.”
“Ho bisogno di una copertura.”
“Immaginavo.”
“Voglio andare ad un concerto, questa sera, ma sono sicura che non mi lasceranno.”
“Scappa; lo fai sempre!”
“Mi beccheranno. Quindi, ho bisogno di te. Dico che ti accompagno da qualche parte, in un locale. E ti porto davvero dove vuoi. Ti faccio entrare in quella discoteca dove vanno sempre quelli della tua scuola.”
“Non ci voglio andare.”
“Ti porto con me!”
Guardai storto mia sorella maggiore. Aveva solo diciassette anni, allora, aveva la patente da un anno e poteva tranquillamente portarmi in giro. Nonostante tutto, doveva provare sempre il brivido della ribellione adolescenziale, e spesso mi coinvolgeva, come quello specifico finesettimana. 
“Ma perché?”
“Perché sei la mia sorella preferita, naturalmente.”, sorrise lei. “Ti falsifico le firme dei permessi per un mese.”
Cedetti. Sapevo che non potevo spillarle di meglio, quindi sorrisi e acconsentii. Dopotutto, io adoravo passare del tempo con mia sorella. Io e lei eravamo come pepe e sale, assieme, un mix incredibile. I nostri tre anni di differenza non si notavano affatto, anzi, delle volte la gente credeva che fossimo gemelle (una volta un tipo ubriaco ci ha chiesto di fare ‘una cosa a tre’ con le due gemelline, osceno, si, lo so) e, anche se a volte non ci sopportavamo a vicenda, eravamo sempre disponibili l’una con l’altra. 
Liz mi abbracciò da dietro e mi baciò l’incavo della spalla. 
“Ti voglio davvero troppo bene”, sussurrò. Sorrisi. “Non vestirti troppo provocante. Lasciami ora le tue cose, le tengo io nello zaino.”
Aprimmo il mio armadio, demmo una scorsa ai miei abiti, senza trovare, apparentemente, qualcosa di adatto al concerto della boy band del fidanzato di mia sorella. Liz e Taylor non avevano mai davvero avuto una storia seria, ma lei amava dire in giro che si frequentavano, mentre lui cercava sempre una scusa per andare a letto con la prima troietta che capitava a tiro. Per ripicca, mia sorella ci provava col suo migliore amico, litigavano, si “rimettevano” assieme e il gioco ricominciava daccapo. Ora erano per la terza volta nella fase del ‘corteggiamento sfrenato’, quel periodo rose e fiori che sarebbe durato si e no due settimane, per poi dare spazio alla fatidica settimana del ‘sesso prolungato’, in cui Liz avrebbe fatto manca alla scuola per andare a casa di lui; seguita poi, ovviamente, dal mese di ‘ti odio ma ti amo’ per poi conseguire col tradimento reciproco. 
Sia io che Liz ci giocavamo sopra, ma lei prendeva questa relazione molto seriamente. Taylor era il suo primo vero ragazzo: si conoscevano da due anni, ma intraprendevano questo giochetto da circa uno. Lui l’aveva trasformata da brava ragazza a piccola ribelle. 
Liz prese dal mio armadio un paio di calze leopardate che non avrei mai indossato in altra occasione, un paio di shorts neri di eco pelle e una t-shirt larga con strass e paillettes. 
“Dici che è troppo?” mi guardò. “Per te, dico.”
“Solo perché ho quattordici anni? Uhm, no.”
“Magari per uscire mettiti una felpa larga e un paio di jeans.”
Architettammo la nostra copertura in circa un quarto d’ora, e all’arrivo di nostra madre eravamo ognuna nella propria stanza, impegnate a studiare per il giorno dopo. Sapevo benissimo che Liz non stava studiando, bensì smaltendo gli effetti di una canna costruendo un castello incantato con delle bottiglie di plastica colorate, ma quando mia madre entrò in casa urlando, come al solito:
“Dove sono le mie figlie?!”
Uscii dalla mia stanzetta e la raggiunsi in entrata.
“Liz sta studiando inglese, mamma. È da un’ora che è chiusa in camera e non vuole vedere nessuno. Sai com’è, no?”
“Tua sorella è sempre che studia.”
“Già.”, e me ne tornai in camera.
 
Alle nove di sera uscimmo, ridendo come delle deficienti, entrammo nell’auto di mia sorella e percorremmo la via intera. Quando raggiungemmo uno spazio, lei accostò e prese la sua borsa dal sedile posteriore. Ridendo, alzò il volume della radio, davano uno degli ultimi successi di P!nk, cantavo la canzone senza prestare attenzione alle parole. Finché mia sorella non le pronunciò. Canticchiò, ridendo, mentre si toglieva la felpa e si liberava del reggiseno; entrò in un top striminzito nero, levò i jeans larghi per restare in leggins argentati. Si rifece il trucco nello specchietto, allungando le code con l’eyeliner dorato e la matita nera. Prese i tacchi da sotto il sedile e li indossò, poi venne il mio turno. Tentai di destreggiarmi almeno tanto velocemente quanto lei, ma sono sempre stata molto imbranata. Quando fui pronta, lasciai che mi truccasse pesantemente gli occhi, bistrandoli. Per ultima cosa, rollò una canna e l’accese. 
Non ho mai avuto problemi con mia sorella e la sua droga. Non ho ricordi di grandi rivelazioni; più o meno da sempre la vedo con la sigaretta in bocca. Ci sono foto che ho visto, tramite internet, il suo cellulare o anche ricordi che lei stessa mi ha rivelato, che testimoniano la sua iniziazione al fumo a dodici anni. Io, allora, ne avevo nove e non vedevo oltre al mio naso. A nove anni ero in quarta elementare ed ero la bambina più ‘colta’ della classe. Possiamo immaginare di cosa parlasse la mia generazione a nove anni – sì, insomma, concetti che ora si affrontano a sette – e avere una sorella dodicenne sicuramente aiutava. Sapevo tutto sul sesso e su quello che girava attorno. Forse il ricordo più ‘scioccante’ riguardo mia sorella l’ho avuto proprio a nove anni, avendola beccata davanti a un film porno gay. 
“Che cosa è?” le avevo chiesto, comparendo da dietro di lei di soppiatto, dando un’occhiata furtiva al computer. 
“Be’,” aveva risposto lei. “È un film.”
“Perché sono due uomini?”
“Perché due uomini si possono amare.”
“Si possono amare anche due donne?”
“Certo. Vuoi vedere come?”
Ed è così che la mia povera mente innocente di bambina di nove anni è cambiata. La nostra affinità, pure, è cresciuta. Nostra madre era una gran conservatrice. Non voleva che frequentassimo gente diversa. Se avesse solo immaginato quello che io e mia sorella eravamo o facevamo, credo sarebbe uscita di testa. Non dico che non sospettasse, o addirittura sapesse; qualora fosse stato così, be’, sicuramente faceva finta di niente. E noi non ce ne preoccupavamo. Dopotutto, mia sorella era la mia migliore amica al mondo. Certo, non l’avrei mai ammesso con lei, proprio perché eravamo sorelle. 
Oltre a liberarmi la mente dai pregiudizi, Liz mi aveva insegnato quasi tutto.
Comunque, la questione del fumo per me non è mai stata un problema. La stanza di mia sorella non aveva una terrazza, solo un balcone. Si da il caso che la nostra famiglia conoscesse l’intero condominio, e che ci fossero elementi un po’, be’ diciamolo, pettegoli. Allora Liz, a dodici anni, chiedeva asilo politico a me. Passava nella mia stanza, che dava sul cortile e poteva sentire – e vedere – l’auto dei nostri genitori arrivare senza essere notata, si sedeva per essere coperta dalla ringhiera spessa e accendeva una delle sue preziose sigarette. Uno dei primi giorni, lo ricordo, la mia mente di bambina dovette esprimere i suoi dubbi.
“Ma non dicono sempre che le sigarette uccidono?”, avevo chiesto. 
“Lo dicono solo per non fartele comprare. È tutta una gabbia di matti, tutta competizione.”, aveva detto mentre aspirava. “Per ora io sono viva.”
“Dicono che fanno venire il cancro.”
“Dove hai sentito parlare del cancro?”
“Pensavo centrasse con l’oroscopo, però poi ne hanno parlato alla tv. Lo ripetevano troppe volte per parlare dei segni zodiacali.”
Allora Liz aveva alzato le spalle e mi aveva fatta sedere accanto a sé. Non mi ha mai chiesto di fumare, ed io non sono mai stata interessata fino ai dodici anni. Liz non si nascondeva più alla mia finestra, lei usciva e tornava sul tardi, mi raccontava di limonate assurde con i suoi amici e le sue amiche, e per la prima volta nella mia vita, in prima media, ebbi un sogno erotico. Tutti i ricordi di mia sorella si intrecciavano ai miei pensieri, e crescevo in fretta quanto lei, stando al suo passo e trasmettendo tutte le sue conoscenze alle mie amiche, rendendole automaticamente mie. Se mia sorella descriveva la lingua del suo ragazzo mentre si infilava tra le sue labbra, la sensazione si impadroniva di me. Senza aver ancora provato una sigaretta, sapevo rievocare il bruciore al principio della gola. Vivevo in secondo piano, come se avessi due personalità, due vite differenti; ero una bambina undicenne che frequentava il primo anno di scuole medie e componeva brevi temi su come fosse strano il distacco dalle elementari, ma allo stesso tempo ero in prima liceo e volevo disperatamente entrare nelle mutande di una ragazza molto bella ed ambigua.
Non era strano, infatti, che fossi piuttosto solitaria fin dalle medie. Le mie amiche più care erano le amiche di mia sorella, nella mia classe legavo molto con una ragazza che, a quanto pareva, aveva già baciato con la lingua il suo fidanzatino. Io e lei andavamo di pari passo, e da subito conoscemmo tutti i ragazzi di seconda che potrebbero essere stati interessati a noi. Oltretutto, non può sembrare strano che a neanche un mese di scuola avevo cambiato due ragazzi, e stavo facendo un pensierino su questa mia amica. Ricordo, a dodici anni, di averne parlato con una Liz quasi quindicenne.
“Liz,” le avevo chiesto un pomeriggio, esitando sulla sua porta. “Come si fa con una ragazza?”
“Vuoi farti una ragazza?!” aveva sussurrato lei, sbarrando gli occhi e guardandosi in giro, come se ci fosse stato qualcun altro. “Meredith, hai solo dodici anni.”
“Non voglio farmi una ragazza. Voglio solo sapere.”
“Cosa vuoi sapere, esattamente?”
Così Liz mi aveva spiegato che, quando era interessata ad una ragazza, cercava di capire se era etero oppure no e, se non lo era, se almeno era interessata nel fare giochi con lei.
“Che genere di giochi?”, avevo domandato. 
“Diciamo che ai ragazzi le lesbicacce piacciono un sacco. E una volta tanto bisogna sfruttarli, i maschi.”
E mi aveva lasciato così, ancora più confusa di prima.
Io e la mia amichetta aspettammo prima di darci un bacio. E poi capitò, così, che, come aveva prediletto mia sorella, un gruppo di ragazzi molto più grandi ci chiedesse di scambiarci un bacio e noi non rifiutassimo l’offerta. Cominciammo con un bacio a stampo durato dieci secondi, e poi, uscita dopo uscita, cominciammo a baciarci senza che nessuno lo chiedesse. Sedevo in braccio suo, o lei in braccio mio, ogni effusione portava al bacio. Dallo stampo, lei cercò di intrufolarsi dentro la mia bocca e la lasciai fare; quando capì che i miei sentimenti andavano oltre la semplice amicizia, mi lasciò, con una tremenda litigata che portò solo a una mia piccola disperazione, chiudendo i battenti ad ogni mia richiesta di pace. 
Ma nel mio periodo di transizione da ‘bambina dodicenne che ha delle crisi d’intentità’ a ‘ragazza con una cotta per la sua migliore amica’, fumai la mia prima sigaretta in compagnia di mia sorella. Lei, quasi quindicenne, usciva e tornava tardi la sera; un giorno la raggiunsi fuori e mezza disperata le chiesi di accendermi una cicca, di lasciarmi provare perché, come lei stessa diceva, fumare blocca l’ansia. Spiegai in pochi secondi, facendo molte allusioni alla mia amica, il mio problema e Liz fu ben felice di condividere qualche vizio con la sua sorellina.

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Capitolo 3
*** I just love Love ***


Liz rollò la canna, l’accese ed aspirò. Chiuse gli occhi e con un sorriso si appoggiò allo schienale. Guardai mia sorella attentamente, e la trovai molto bella. Liz aveva i capelli castano chiaro, scalati, lunghezza media alle spalle; i suoi occhi erano grandi, verdi, il suo naso non importante, le sue labbra ben disegnate.
Mi accomodai a mia volta, rilassandomi mentre mi passava la sigaretta e facevo un tiro. Chiusi gli occhi e la mia mente venne invasa da colori nuovi. Non ero mai veramente fatta, ma anche un solo tiro mi procurava degli effetti collaterali. Così, mentre Liz faceva strane facce allo specchietto retrovisore, scoppiai a ridere.
“Credi che arriveremo sane e salve al concerto?”
“Ah-ah-ah” rispose mia sorella, “Spero tanto di sì!”
“Concerto del cazzo!”
“Ah-ah-ah!”
Sballando un po’, suppongo, arrivammo al concerto. Liz parcheggiò completamente storta, ma nessuna delle due poteva davvero rendersene conto, sebbene avessimo solo fatto qualche tiro, in due, poi.
“Ehi, le sorelle strafatte!”, ci accolse Taylor, il ragazzo di Liz. “Dov’è la mia bambina preferita?”, prese mia sorella e le toccò malamente il seno. Lei ridacchiò e giocherellò con il suo giubbotto, poi prese una pasticca che una ragazza le allungò. Persi mia sorella di vista tra la folla, mentre mi nascondevo in un angolo, cercando di combinare qualcosa di buono. Oh, perché avevo accettato di partecipare a quella festa? Odiavo quel posto. Odiavo Taylor e quello che faceva a mia sorella. Mi sentivo in dovere di proteggerla, ma sapevo che non mi avrebbe mai permesso di separarli. Conoscevo mia sorella troppo bene per sbagliarmi. Lei voleva spassarsela per un’altra sera, una ancora, voleva che inventassi una scusa con nostra madre al telefono, permettendoci così di passare la notte a smaltire i postumi di una sbornia a casa di qualche misericordioso che in cambio avrebbe sicuramente richiesto qualcosa.
Sebbene a quattordici anni io fossi una specie di mostro, ero vergine. Non avevo mai lasciato che uno degli sporchi amichetti di mia sorella mi toccasse; dopo la mia, di amichetta, non avevo avuto relazioni. Non volevo che fosse una cosa stupida, la mia prima volta; suona scontato, ma se non altro volevo essere consapevole di quello che avrei fatto, non svegliarmi la mattina dopo in posizioni di dubbio gusto e chiedermi se per caso non mi fossi spinta troppo in là. Volevo che fosse un ricordo piacevole, dolce, da degustare, non un rimpianto e avevo come il presentimento che le amicizie di mia sorella non fossero le migliori per questo genere di cose.
Nella folla del concerto – un gruppo di drogati che avrebbe cantato delle cover assurde di gruppi punk, steccando di continuo (ma nessuno l’avrebbe notato, fatti com’erano) – trovai qualche mia amica e mi sedetti su uno dei divanetti più lontani con loro.
“Vuoi un drink?”, mi chiese un ragazzo sui diciotto anni, ammiccando un po’ troppo.
“Non ho intenzione di dartela stasera.”, risposi, distogliendo lo sguardo dai suoi denti già rovinati dal fumo. “Né mai.”
Lo persi di vista più o meno subito. Una coppia di ragazzi si baciava davanti a me, forse inconsci di quello che succedeva. Odiavo questo genere di feste, ma per mia sorella potevo sopportarle. Delle volte mi chiedevo che fine avremmo fatto se fossimo state entrambe figlie uniche. Lei, quasi certamente, sarebbe morta a tredici anni; investita, sequestrata, non so; oppure, sarebbe stata rinchiusa in un carcere minorile. Io, al contrario, avrei studiato come una forsennata, sarei stata senza vita sociale, senza amicizie, senza aver mai provato nulla, senza aver mai davvero vissuto; sprecato i miei anni più spensierati, in cui sbagliare era dovere e non piacere, senza rendermene conto o senza davvero pensarci.
Una testa si appoggiò sulla mia spalla ed io, allarmata, mi voltai di scatto.
“Oh” sospirai. “Sei tu.”
Ashley era la migliore amica di mia sorella. Avete presente quelle bambine che si conoscono all’asilo e poi crescono assieme, senza tante differenze? Sono le bambine più alte della classe alle elementari; sono le più mature delle medie; sono le più fiche delle superiori. Okay, forse Liz non era proprio la più matura, ma la sua amicizia con Ashley era di questo tipo. Si conoscevano davvero da sempre e non avevano mai avuto problemi. Quando erano all’asilo, avevano una cotta l’una per l’altra. Si sa, quando si è piccoli non si bada tanto alle regole, ed è una delle poche cose che amo dei bambini. Loro vogliono solo imitare i grandi, se ne fregano davvero di chi hanno accanto. Se i grandi si baciano, anche i bambini vogliono baciare. E che spiegazione si da al bacio? Il bacio è amore, quando sei piccolo. Che cos’è l’amore, mamma? L’amore è quando vuoi  bene a un’altra persona. E da bambini si vuole sempre bene alla propria migliore amica. Si darebbe l’intera cesta dei giochi per lei, e la cesta dei giochi vale cento volte di più della vita. E se da bambini capita, si da un bacio alla propria migliore amica. Be’, Ashley e Liz hanno passato la scuola materna seguendo questo standard di amicizia. Sono passate alle elementari, nella stessa scuola, e si sono affiliate, non separate, come delle volte succede. Sono cresciute insieme, scambiandosi i fidanzatini e tenendosi per mano. Quando sono arrivate alle medie, be’, sono totalmente cambiate assieme. Non è come quando una resta indietro e l’altra intraprendente strade a sé, frequentando altra gente e lasciando l’altra alle spalle. No, nessuna delle due ha avuto paura, anzi, si spronavano a vicenda. Quello che a me è sempre mancato e che ho sempre trovato in mia sorella, ovvero qualcuno che mi spingesse a provare cose nuove e smentire la mia quotidianità. Si sono fatte coraggio e hanno chiesto a dei ragazzi più grandi una sigaretta, quando avevano solo dodici anni. Vestite con jeans scuri attillati, minigonne o vestitini, scarpe coi tacchi e accenni di trucco nero, credendosi molto europee, diedero inizio ad uno nuovo stile di vita. Le sigarette fumate di nascosto nella mia terrazza, gli alcolici, mescolati in borracce sportive. Al primo anno di liceo, le pillole dietro ai pupazzi, le canne la sera fuori con gli amici, le notti passate fuori l’una dall’altra, le mani che non stavano al loro posto, ma scendevano, scendevano sempre più in basso, che sfioravano i seni ma non si soffermavano dove avrebbero dovuto; all’insegna del peccato, secondo il cristianesimo, Liz e la sua migliore amica raggiungevano la gioia l’una nelle braccia dell’altra, soffocando i gemiti con dei baci rubati, che servivano solo a creare un’atmosfera speciale. La mattina dopo, come se niente fosse, ognuna tornava dal proprio ragazzo, suggellando quella complicità con una semplice occhiata.
Ashley era sempre stata fedele a mia sorella, e Liz lo era stata con lei. Nessuna si era mai stancata davvero di quell’amicizia, perché non erano troppo diverse né troppo uguali per annoiarsi. Se nessuna faceva da guastafeste ma, al contrario, offriva sempre nuovi stimoli, come voler chiudere una storia simile?
 
Ashley mi guardò con i suoi enormi occhi azzurri. Ashley era una ragazza semplice, dai lineamenti dolci; i suoi capelli erano biondi come il deserto del Sahara nelle cartine fisiche (come sostenevano i suoi fratelli minori), i suoi occhi del color del mare. Adoravo gli occhi di Ashley; ti ci potevi vedere riflessa dentro, ti ci potevi perdere, come in un oceano. Come quando guardi il mare e ti chiedi: tutto questo finisce, ad un certo punto? La risposta la sai, ma non ci puoi credere. Quella distesa d’acqua non ha fine. Non ha inizio. Non la si può racchiudere finché rappresenta una libertà. Quando guardavo l’oceano delle coste a sud della Florida, be’, aprivo le braccia e chiedevo all’aria di portarmi via, sussurrando parole dolci al vento che sembrava esaudire le mie preghiere.
Gli occhi di Ashley erano così.
“Non credo di volermi sballare, stasera”, mi disse. “Però tua sorella sembra strafatta.”
“Si è fumata una canna, prima, si.”, okay, questo glielo concessi. Ashley era un po’ quella più responsabile delle due. “E credo che Taylor le abbia dato qualcosa di strano.”
“Una volta ci siamo ubriacate e ci siamo ritrovate a letto assieme.”
“Sì, Ashley. Quanto hai bevuto stasera?”, la presi. I suoi occhi cominciavano a dilatarsi e a muoversi; il suo alito sapeva da alcool e io ero consapevole del fatto che avrei dovuto farle da babysitter per quella serata. “Da quanto tempo sei qui?”
“Uhm.. che ore sono, Meredith? Però, vedi, non ho bevuto tantissimo.. è che quel ragazzo al bar è davvero un gran pezzo di gnocco, non credi?” lo indicò spudoratamente, senza farsi tanti problemi. Io rivolsi lo sguardo in quella direzione, trovando un ragazzo abbastanza carino che shakerava un drink.
“Vuoi portarmi a casa, Meredith?”, mi chiese. “Posso dormire da te? Mia madre mi uccide se mi vede così!”
Acconsentii, riluttante, e trovai due mie amiche che se ne stavano appunto andando. A loro parere il concerto era un disastro, e io non avevo intenzione di dar loro torto. Mi diedero un passaggio in macchina, nascoste sotto i sedili, ad aspirare l’odore di piedi, caramelle alla menta e briciole di pane, e potei portare Ashley dentro casa.
Mia madre, all’erta, saltò sul divano non appena sentì la porta spalancarsi.
“Meredith? Dove sei stata? Dov’è tua sorella? Oh, ciao Ashley, come mai sei qui?”, si alzò dal sofà e s’incamminò verso di noi. Mi studiò e scrutò la ragazza che era con me. Le spiegai, allora, con tono stanco, che Liz si era fermata da delle sue amiche e  che Ashley non aveva i genitori a casa, per quella sera. Sì, insomma, inventai qualche scusa per non farmi fare il terzo grado; mia madre capì che stavo mentendo, oppure si bevve le mie bugie, non lo so e non lo voglio sapere; mi lasciò andare nella mia stanza con Ashley a seguito.
Questa, non appena entrammo, si gettò sul mio letto, si stese supina e mi guardò; portò le braccia alla testa. Indossava una canottiera nera che le evidenziava il seno sodo, e un paio di jeans attillati. Giocherellò con il suo cellulare e mise una canzone che non mi sarei mai aspettata di sentire in una situazione simile; una canzone molto provocante, molto sensuale, molto vecchia e soprattutto molto lesbo.
Mi fece cenno di avvicinarmi ed io non seppi, su due piedi, cosa fare. Ma non mi importava. Ero sola; mia madre era al piano inferiore, la televisione accesa, troppo terrorizzata da ciò che avrei potuto fare per apparire senza preavviso.
Ma le cose non dovevano andare così. Mentre mi chinavo verso Ashley per baciarla, lo stomaco mi si strinse in una morsa assurda, tanto dovetti piegarmi per sottrarmi, almeno in parte, al dolore. Eppure non passava. Lei era troppo ubriaca per rendersene conto; io non ero innamorata di lei, non volevo che lei fosse nel mio letto, non la trovavo abbastanza attraente per considerarla in quel modo, non era il mio tipo, non potevo sforzarmi troppo. Ashley cercò di baciarmi, mi scostai violentemente e mi rimisi seduta. Non aveva odore a coprire quello dell’alcool, la canzone era finita, non era lei, non era lei. Non era lei la mia prima donna. Non poteva essere lei. Ashley cercò di baciarmi la spalla. Non sentivo niente, se non un martello pneumatico all’altezza dello stomaco; non era eccitazione, non era felicità, era una sirena d’allarme: cretina, cretina, scappa finché sei in tempo, non te ne potrai più andare fra due minuti: vattene ora.
E fu quello che feci; scostai Ashley, la spintonai via.
“No, Ashley, no!”, la trattai come un cane. Le urlai dietro cose orribili, e lei mi guardò con quegli occhi enormi, i capelli smorti, mi fissava confusa, come un cane bastonato. Non capiva perché la stessi rifiutando, non capiva che non ero Liz, io non ero mia sorella; non trattavo il mio corpo come un luogo pubblico. Non avrei lasciato che fosse Ashley ad impadronirsi dei miei segreti.
La spintonai fino alla stanza di Liz, le dissi di dormire là e di lasciarmi in pace. Credo di averla sentita piangere, quella notte, ma ero troppo scossa per sentirmi in colpa. Tornai al mio letto, spensi le luci e mi infilai sotto le coperte, chiudendo gli occhi, ancora vestita come una battona sotto la felpa larga. Mi coprii le orecchie per non sentire i singhiozzi – forse immaginari – dalla stanza accanto, la televisione dal piano di sotto, le urla di mia sorella che udivo solo nella mia testa. Non riuscivo a piangere o a provare emozioni; mi contorsi nel mio letto, piegata in due per il forte dolore allo stomaco, cercai di non pensarci ma non riuscivo a distoglierne la mente. Ogni cosa che mi balenava in testa portava ad Ashley, al sesso, al rifiuto, alla solitudine, alla disperazione. Io non ero disperata, non ero sola, o si? Erano quelli i motivi che mi avevano portato ad uscire, quel venerdì sera, con mia sorella, pur sapendo benissimo a cosa sarei andata incontro? Avevo accettato di portare a casa l’amica di Liz, cosciente di quello che sarebbe poi successo? Avevo fatto in modo che la situazione mi sfuggisse di mano? Avevo illuso Ashley, facendole credere che ci sarei stata, per poi andarmene, battere in ritirata?
 

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Capitolo 4
*** And Never Ask Why ***


La mattina dopo mi svegliai alle sei. Non dovevo andare a scuola; non avevo grandi programmi. Eppure ricevetti un messaggio, e confusa, controllai il cellulare.
 
Vorrei solo sapere dove cazzo sei finita. Sei con Ashley?
 
Risposi a mia sorella con un semplice augurio che non ho intenzione di ripetere – non si sa mai. Cercai di tornare a dormire, ma sentendo nominare Ashley, mi tornò tutto in mente. E capii anche che c’era una sola cosa da fare.
Così, alle sei di mattina, quando fuori era ancora notte, essendo fine ottobre, presi dall’armadio un paio di jeans e un maglione pesante di lana nero. Mi vestii in fretta, passai al bagno, mi lavai e pettinai il più velocemente possibile, scorrazzai in cucina senza far rumore. Mangiai qualche biscotto mentre aspettavo che il caffè fosse pronto, un’usanza della mia famiglia prettamente europea, ereditata da qualche lontano parente emigrato agli inizi del ‘900. Spesso mi capitava di chiedermi quali fossero le mie origini – sapevo che non discendevo dai padri fondatori, bensì davvero da qualche europeo – ma volevo sapere di più; i miei antenati erano a Versailles, tra divertimenti e balli, oppure mia nonna minacciava di tagliare la testa alla regina?
Mi persi un po’, divagando senza meta, immaginandomi anziana, per figurare quindi una qualche possibile antenata, tutta sottane e crinoline. Non funzionò come avrebbe dovuto, così dirottai i pensieri verso qualcosa di più pratico. Sapevo di cosa avevo bisogno? Avevo idea di quello che avrei fatto?
Mentre aspettavo che il caffè fosse pronto, capii di avere paura. Io avevo davvero paura, a quel punto della mia vita; a quattordici anni io cominciai a vivere davvero, per questo ne parlo. Prima che cos’ero stata? Dai nove anni avevo vissuto l’ombra di mia sorella, respirando e vivendo della sua polvere. Seguivo le sue impronte senza verificare se il mio piede fosse più piccolo del suo. Avevo passato gli anni delle medie crescendo, sì, a modo mio,  ma avendo sempre impresso l’esempio di Liz. Non avevo veramente avuto una madre: era sempre assente, sempre via per viaggi di lavoro. Quando non c’era, mia nonna prendeva il suo posto, ma poi questa si è rotta una gamba ed è stata rinchiusa in una casa di riposo. Non so come io abbia reagito a questa specie di scomparsa della mia nonna; certo, ero legata a lei, ma non rappresentava una certezza nella mia vita. Avevo bisogno di gente che si prendesse cura di me perché ero stanca di occuparmi io degli altri; eppure con lei, sebbene avesse non so quanta più esperienza di me, sentivo il bisogno di proteggerla. Le sue ossa sembravano troppo leggere per sostenere il suo stesso peso; la sua faccia pareva troppo rugosa per potersi contrarre, le sue labbra invisibili per formulare parole. Le cose che amavo di più di lei erano il modo di insultare le cose – “Quella puttana, quella sveglia si è rotta e mi ha svegliato alle tre!” – ed il tè. La mia nonna che non parlava mai davvero con me, mi aveva fatto amare il tè. Io odiavo gli infusi, li detestavo tutti, almeno finché lei non mi fece assaggiare uno strano composto di caramello e vaniglia. Per i suoi gusti era troppo dolce, per me era il paradiso. Così lei cominciò a prepararmi una tazza di tè ogni volta che la vedevo; con questo non significa che ci parlassimo. Conoscevo lei e i suoi ideali, e sapevo anche che se lei mi avesse conosciuto davvero mi avrebbe odiato. Quando insultava qualcuno o qualcosa, senza veramente voler offendere un suo caro, mi urtava davvero nel profondo e, alle volte, ci stavo male. Con l’andare del tempo, però, capii cosa potessi o dovessi dire in sua presenza; mi inventai una seconda personalità, una ragazza dolce e disponibile, da sfoggiare con lei.
I miei genitori sono divorziati, sono stata affidata a mia madre e non vedo molto spesso mio padre. Il loro rapporto è uno stereotipo. Sono la classica coppia separata  da dieci anni che mantiene i rapporti freddi; non litigano mai, non si parlano neppure. Si salutano come si può salutare un collega, non una persona da cui hai avuto due figlie. Eppure, mantenevano questa facciata con il mondo intero. In più, mio padre viveva a Tucson, in Arizona; dopo aver rotto con mia madre, decise di fare tabula rasa e rincominciare daccapo, da tutt’altra parte.
So che forse risulta incredibile, ma io adoro mio padre. Amo mio padre cinquanta volte di più di quanto io ami mia madre. Anche questo non è giusto, però è innegabile. Non mi importa se lo vedo praticamente una volta ogni due mesi; so che non mi giudicherà mai, perché mio padre ha un compagno adesso. Quando avevo dieci anni, passai un’estate in Arizona con lui e, a quanto mi dicevano, un suo amico. Avevo appena cominciato ad esplorare il mondo, Liz mi aveva iniziata all’amore universale e non pensavo più che non ci fossero altre vie d’uscita all’eterosessualità. Naturalmente, però, mio padre non ne era a conoscenza; mi propinò, per un mese intero, la storia che la convivenza con il suo ‘amico’ era temporanea: non era riuscito a pagare il mutuo, aveva dovuto offrirgli un posto, no? Quale essere munito di cuore avrebbe potuto non compiere tale azione?
Non ci credetti. Non so se lo fecero apposta, ma già dalla seconda settimana non si nascosero ai miei occhietti innocenti; quando pensavano che non li guardassi, si abbracciavano, si prendevano per mano, si scambiavano dei baci. Stavano assieme da pochi mesi. E la recita continuò finché io, da piccola insolente, non apparvi in soggiorno, trovandoli abbracciati. Sbuffai:
“Ma è possibile, perché vi nascondete sempre? Ormai lo so che siete fidanzati. Non sono stupida!”
Così mio padre vive da quattro anni con il suo compagno e sono felici così. Passo da lui ogni estate, ma solitamente viene a trovarmi ogni due mesi.
 
Tempo di fare considerazioni sulla mia famiglia, finii la colazione. E riprese la frenesia: scappai in camera, preparai una borsa, presi le scarpe e lasciai un biglietto: In cerca di Liz.
Poi uscii di casa senza guardarmi indietro.
 
Non stavo davvero scappando, mi resi conto, mentre mi dirigevo verso la fermata del bus, senza una vera meta. Salii sul primo autobus che passò, senza neanche badare alla linea. Ero felice perché la mia musica mi sparava note in testa a volume altissimo, uscendo come acqua dagli auricolari. Avevo bisogno di quella carica assurda. Così, guardandomi attorno, dondolando la testa a ritmo, incontrai il suo sguardo e lo riconobbi. Era il ragazzo della mia scuola, il ragazzo di cui avevo parlato a Scarlett. Era il ragazzo che meritava, o così avevamo deciso. Crebbe in me una certa ansia; non sapevo dove stesse andando – dopotutto, non sapevo neanche dove io stessi andando – ma non dovevo perdere anche quest’occasione. Quell’estate avevo fatto una lunga lista di propositi per la stagione autunnale e quella invernale, uno tra questi smetterla di accettare i limiti. Chi mi diceva che non ero in grado di presentarmi a quel ragazzo?
Così, rischiando di rigurgitare l’intera colazione, tanto lo stomaco mi premeva, tanto l’ansia mi stringeva la gola, mi avvicinai a lui e sorrisi. Proprio quando cercavo qualcosa di stupido per attaccare bottone, lui si spostò di scatto e scese. Disperata, urlai “No!”, e smontai con lui. Nel farlo, però, inciampai e caddi a terra. Lui si girò, mentre io, rossa di vergogna, mi rialzavo, mi guardai indietro per verificare che lui se ne fosse andato e con fare serio mi preparai a risalire, quando sentii una mano stringermi il braccio.
Ora, io non so l’autodifesa. Non ho mai fatto dei corsi, non sono brava a picchiare. Anzi, non ho mai picchiato nessuno, siamo sinceri. Non ho idea di come si faccia. Ma quando cammino per strada, soprattutto nella periferia di Philadelphia, dove abito, ho sempre il terrore che qualcuno mi stia seguendo. Era successo, molte volte, ma l’avevo sempre scampata. Quella volta, ho avuto davvero paura.
Eppure, quando mi girai pronta ad urlare, la paura e l’ansia e l’adrenalina che si mescolavano in me, vidi che era quel ragazzo a stringermi il braccio. Sentii il panico: voleva violentarmi? Voleva farmi del male? Il suo volto pareva preoccupato, non veramente cattivo. Così lo guardai meglio. Aveva gli occhi chiari, un misto tra verde ed azzurro, il naso importante, un po’ aquilino; le sopracciglia folte, i capelli selvaggi, quei capelli biondi che amavo. Un misto di dreadlocks, treccine e ricci, una cosa adorabile, una specie di ribellione, anzi no, un modo per esprimere la confusione mentale dell’adolescenza. Era bello, sicuramente non per tutti, ma per me si. Era bellissimo ed ero convinta che fosse anche una bella persona.
Nonostante tutti i miei pensieri gentili, mi stringeva forte un braccio e mi fissava negli occhi con fare preoccupante. Così cacciai un urlo.
“No, cosa fai?! Sei matta?! Perché urli?”, lasciò il mio braccio, si spostò di un passo e mi guardò storto.
“Mi.. mi stavi trattenendo!”, sbottai, isterica.
“Forse non te ne sei accorta, ma quell’autobus ti avrebbe trinciato un piede se ti fossi mossa.”
“Oh.” Lo guardai con occhi grandi, alle prime luci dell’alba. Che cazzo ci facevo in un posto sconosciuto con un ragazzo con cui non avevo mai parlato prima alle sette di mattina?
“Sì, be’, ti ho appena salvato da un’amputazione, sai com’è. Capita tutti i giorni.”
Lo studiai meglio. Mi guardava con fare scocciato, un po’ sarcastico, seccato più dal mio mutismo che dalla mia scarsa riconoscenza.
“Devo ringraziarti, allora, immagino.”, gli dissi.
“Credo che sia abbastanza.”, si guardò in giro ed abbozzò un sorriso. Poi, con mia piacevole sorpresa, allungò una mano. “Victor.”
Imbarazzata ed inizialmente titubante, mi presentai a mia volta, stringendogli la salda mano. Quel contatto mi mise in guardia: concedendogli di toccarmi il palmo, gli avevo automaticamente dato l’accesso alla mia conoscenza, giusto? Era così che andavano le cose. Quando parlavo con gente nuova, dopo il nome, seguiva una stretta di mano e dopo questa un’intera conversazione. Gli stavo davvero promettendo qualcosa. E lui a me.
“Allora,” cominciò, destando nuovamente i miei sospetti. “Dimmi, Meredith, dove sei diretta?”
“Io non vado da nessuna parte.”
“Sbaglio o sei un po’ dura? Ti dispiacerebbe seguirmi? Devo andare a lavorare.”
Presi tempo guardandomi in giro. Ci trovavamo in una piazza con delle bancarelle; i venditori le stavano ancora allestendo, data l’ora; le auto ci sfrecciavano accanto, noi troppo vicini al marciapiede per evitare lo smog. Non c’era quasi nessuno per quelle strade, io non avevo realmente una direzione né uno scopo, se non quello di seguirlo, seguire Victor ovunque fosse andato. Crebbe in me dell’ansia, che attribuii alla mancanza di conoscenza di ciò che avrei fatto. Anche questa era colpa di mia sorella, colpa di Liz: seguendola ovunque e calcando le sue stesse orme per una vita intera, non avevo mai conosciuto il vero gusto del rischio né avevo imparato ad apprezzarlo.
E poi, insomma: ci trovavamo nei pressi di una chiesa. Non ero cristiana ed avevo il sospetto che nemmeno lui lo fosse ma.. un po’ di umanità di sicuro era nel cuore di tutti.
“Questo dipende da dove devi andare.”, esordii, pronta a seguirlo. “Io odio i guai e so come farla pagare alle persone.”
“Su questo non ho dubbi,”, rispose scrutandomi serio. “Da questa parte.”
Mi condusse verso le bancarelle. Superammo una fioraia solitaria e un paio di fruttivendoli intenti a sistemare gli acquisti. Erano solo le sette di mattina eppure ognuno era al proprio posto, rassegnato a una nuova giornata. In tutto quel conformismo alle regole, mi sentii per la prima volta davvero ribelle, davvero viva. Ero uscita di casa lasciando una ragazza con cui si supponeva avessi avuto un rapporto, nessuno sapeva dove mi trovavo davvero, non avevo studiato per un test della settimana successiva, seguivo un ragazzo di cui conoscevo solo il nome. Il cuore mi batteva a mille nel petto, mi sentivo leggera, venti volte più leggera di quanto mi facesse sentire uno spinello. Non capivo Liz, in quel momento: come darsi a una droga, per quanto leggera, se con una semplice fuga si potevano acquisire tutte queste emozioni? Come rovinare la propria vita se in poco tempo e così semplicemente, soprattutto, potevo governare il mondo intero?
Seguii Victor fino a una bancarella di libri usati. Una ragazza coi dreadlocks era seduta aldilà del tavolino pieghevole. Indossava una giacca pesante nera, un paio di guanti di lana con le dita tagliate, lasciato coperto solo il mignolo. Aveva un cappello grigio che le copriva la fronte, i capelli lasciati liberi. Alzò lo sguardo e sorrise calorosamente. I suoi occhi erano verdi e i suoi capelli biondo sporco; aveva delle lentiggini simpatiche attorno al naso, non molto grosso ma importante. I suoi denti presentavano imperfezioni, ma nulla di tutto ciò le dava meno radiosità. In quel cielo grigio mattutino, avevo trovato due persone in grado di rimpiazzare il sole.
“E dimmi, Victor, sei in ritardo a causa di questa bella ragazza?”, esordì. La sua voce era dolce, lieve, appena un sussurro. Non mi irritava né ricordava quella di qualcun altro. Capii all’istante che quella voce sarebbe per sempre appartenuta a lei, nei miei ricordi. Con un sorriso ancora più luminoso allungò una mano verso di me: “Leslie.”
La strinsi accennando un sorriso, chiedendomi cosa ci fosse tra lei e Victor. Si somigliavano abbastanza da essere fratelli, ma i loro sguardi avevano un che di intimo che non pareva lecito.
Mi chiesi perché avesse associato la parola ‘bella’ alla mia presenza. Non ero una bella ragazza. Avevo degli enormi occhi che variavano tra il grigio scuro ed il verde, mai una tonalità sicura, come se non ci fosse determinazione in me; nemmeno il mio naso aveva personalità. Le mie labbra  erano larghe ma non avevo una bella bocca. Nulla in me aveva un che di originale o bellissimo. Non ero come avrei voluto. I miei capelli erano rovinati, lunghi ed ondulati, castani con meches rosse, verdi, bionde e blu; delle treccine vi sbucavano, ideate per renderli più presentabili ed ordinati, con scarso successo.
“Leslie è mia sorella.”, confermò Victor, distraendomi dalla mia auto considerazione. “E Leslie, no, Meredith non è la causa del mio ritardo. Chiedo perdono; sai bene che non ero a casa questa notte. I ragazzi mi hanno trattenuto sveglio.”, fece l’occhiolino. Mi domandai quanto avesse censurato per uscirsene con un discorso tanto stupido. Probabilmente mi considerava una bambina ancora prima di conoscermi o sapere, addirittura, la mia età anagrafica.
“Be’, non mi importa.”, continuò Leslie. Il suo sorriso non si attenuò, tanto pensai che lo stesse prendendo in giro. Si alzò, chiuse con uno scatto il libro che stava leggendo prima che arrivassimo e afferrò da dietro sé una sedia pieghevole, sporgendola verso di me. “Meredith, ti fermi con noi?”
“Sono senza meta.”, me ne uscii, guardandola fisso negli occhi.
L’espressione di Leslie si fece confusa, non avendo io risposto alla sua domanda. Victor ridacchiò ed io lo incenerii con lo sguardo.
“Ho appena conosciuto questa ragazza eppure credo che non mi annoierò.”, sentenziò, prendendo posto sulla sedia che la sorella aveva assegnato a me. Ripensandoci, si rialzò subito. “Vieni, Meredith, aiutami a sistemare i libri.”
Attesi il consenso silenzioso di Leslie prima di guardare dove Victor fosse diretto. Dietro la bancarella si trovava un pick-up riverniciato di recente di un rosso vermiglio; lo spazio disponibile per i carichi, dietro, era pieno di scatoloni coperti da un telo azzurro plastificato, a scopo di salvaguardare il cartaceo.
La voglia di pesi nelle mie braccia cercò di impedirmi il movimento, ma il mio buonsenso ebbe la meglio. Mi avvicinai a quel ragazzo tanto da poterne sentire l’odore. Non sapeva di un profumo commerciale, ma emanava freschezza, menta e sudore. Il contrasto e l’armonia erano indescrivibili. Sentii qualcosa muoversi dentro di me, sentii il sangue salirmi alle guancie, così mi concentrai sui libri. Victor mi consegnò delle pile da portare a Leslie, quattro metri più avanti. La ragazza stette seduta al suo posto, sistemando prezzi e grandi classici. Quando avemmo scaricato abbastanza pezzi da dimostrare una buona fornitura, Victor si sedette a terra e prese una sigaretta. Non me ne offrì una ed io non la chiesi. La gente dalle nostre parti detestava il fumo. Non è una buona abitudine, farlo non ti rende figo bensì pericoloso. Altro motivo per cui non ero vista bene, a scuola: mia sorella era un’accanita fumatrice. Papà, in Arizona, delle volte fumava. Lo faceva quando c’era il tramonto e stava nella casa vicino al deserto. Non sapevo cosa fumasse, ma lo faceva. L’odore delle sue sigarette era a me irriconoscibile, ma c’era sempre quell’innocenza che sia io che lui volevamo conservare; l’idea di non conoscere l’evidenza.
Mi sedetti accanto a Leslie e lei smise di leggere. Diedi un’occhiata al titolo: Anna Karenina, un classico. La curiosità vinse la mia scontrosità.
“Perché vendete libri?”
Leslie mi squadrò, decidendo se parlare di sé ad una sconosciuta oppure no.
“Non sai molto di Victor, vero?”
“Almeno quanto tu sai di me. Senza pensare che magari conosci mia sorella.”
“Tua sorella?”
“Si chiama Liz Stevens.”
Un barlume di riconoscimento si svegliò nello sguardo di Leslie, per poi morire subito. Corrucciò le labbra e la sua fronte si increspò, mentre lei ci pensava sul serio.
“Credo di aver sentito parlare di lei.”
Victor, dal marciapiede, alzò lo sguardo.
“Mia sorella sa farsi ricordare.”, dichiarai, alzando le spalle. Con la coda dell’occhio vidi Victor aspirare. Distolsi lo sguardo in fretta, sentendomi arrossire.
“Non ci facciamo problemi a parlare di noi.”, Leslie si fece passare la sigaretta dal fratello per fare un tiro. “Non è vero, Victor? Perché vendiamo i libri?”, lo disse con tono accusatorio.
“Vendiamo i libri perché vogliamo andare al college.”
“Vendiamo i libri”, il tono di Leslie si fece duro e scontroso. “perché non riusciremmo a pagarci da mangiare.”
Il mio stomaco si contrasse in una morsa; ero abituata alla gente più disagiata rispetto a me, ma il pensiero dei due fratelli in difficoltà mi imbarazzò. Cominciavo a trovarmi bene con loro e non volevo parere una piccola viziata. Mia sorella aveva i soldi per le droghe, mia madre la pagava senza chiedere informazioni; Victor doveva sudare e vendere libri il sabato mattina anche solo per comprarsi le sigarette.
“Mi dispiace.”, dissi, per mascherare la tensione. Leslie scoppiò a ridere.
“Non ti devi dispiacere; in un certo senso, è stata una scelta nostra.”, sospirò Victor.
Pensai intendesse dire che avevano perso i soldi nelle droghe o nel gioco.
Leslie si schiarì la gola. “Scelta di chi?”
“Scelta mia.”
“Potresti cominciare tu a spiegare, allora.”, il suo sorriso enorme e caldo era scomparso, dando spazio all’astio.
Controllai l’orologio, non più a mio agio; erano quasi le otto e mezza di mattina. Il mio cellulare avrebbe cominciato a suonare dopo poco, così decisi di spegnerlo. Mia madre sarebbe andata su tutte le furie, ma dopo aver ipotizzato che avrei potuto essere scappata con un ragazzo, avrebbe sicuramente scaldato una tazza di tè e sfogliato un giornale, dirottando altrove i suoi pensieri.
“Non c’è niente da spiegare.”, il tono di Victor era seccato. Aveva perso ogni volontà di confidarsi e sentivo che anche per Leslie era così. Il nostro parlottare venne interrotto da un uomo anziano che indossava una coppola, piegato sulla bancarella con le mani dietro alla schiena.
Ciao”, disse.
I’m sorry. I don’t understand.”, scandì Leslie, dopo aver portato il collo in avanti, cercando di assicurarsi che l’uomo avesse parlato in inglese. L’anziano, però, ripeté la parola italiana e scoppiò a ridere.
“Vedo che avete della letteratura italiana.”
“Ne abbiamo poca, signore. Ma molti libri inglesi e russi, dia un’occhiata!”, Leslie aveva sfoderato nuovamente il sorriso da miglior venditrice dell’universo.
“Conosco Shakespeare e conosco Tolstoj. Non sono loro che mi tengono sveglio la notte, capisci ragazza? Voglio qualcosa che mi riporti alla mia terra, qualcosa a basso prezzo!”
“Abbiamo ‘La divina commedia’.”, disse Leslie, cercando sotto il tavolo. “Ovvero un testo molto antico, italiano. L’originale doveva essere latino. Credo l’abbia scritto Dante Alighieri. È famoso. Come Omero. Ha presente?”
“Mi prendi per stupido, ragazza?”, l’uomo pareva divertito. “So benissimo chi è Dante Alighieri. Io e lui condividiamo lo stesso mare! La stessa terra!”
Allungò una banconota da venti a Leslie, e lei fece per dargli indietro il resto ma lui la fermò.
“Ti prego, bambina. Comprati qualcosa, un caffè. Tieni questi soldi; da quando mi hanno portato via la mia nipotina non ci sono giovani a cui migliorare la giornata distribuendo del caldo denaro.”
Leslie continuò a fissare la banconota sul tavolo mentre l’anziano si allontanava, stringendo al petto il libro appena comprato.
“Prendi quei soldi.”, ordinò Victor, e la ragazza li nascose nei guanti.
Decisi che era il momento di andarmene.

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