München, 1945

di Rika88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il peggior compleanno ***
Capitolo 2: *** Orgoglio e pregiudizio ***
Capitolo 3: *** Una mano in più? ***
Capitolo 4: *** La porta sbagliata ***
Capitolo 5: *** Illusioni infrante ***
Capitolo 6: *** La Mercedes nera ***
Capitolo 7: *** L'Evocatore di Spettri ***
Capitolo 8: *** Capitano ***
Capitolo 9: *** L'errore di Edward ***
Capitolo 10: *** Il nuovo Portale ***
Capitolo 11: *** Alex ***
Capitolo 12: *** Il bambino della foto ***
Capitolo 13: *** Breve visita alle patrie galere ***
Capitolo 14: *** L'uomo nero ***
Capitolo 15: *** Seguire gli ordini ***
Capitolo 16: *** Un cavaliere senza paura ***
Capitolo 17: *** Il tempo di sapere ***
Capitolo 18: *** Nuovi Orizzonti ***
Capitolo 19: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il peggior compleanno ***


Nuova pagina 1

München, 1945


    1. Il peggior compleanno

Sospettavo che quella gita nascondesse qualcosa, a dire il vero.
Quando mio padre, Alphonse Elric, venne a svegliarmi con una scrollata troppo energica per un uomo solitamente così calmo, risposi con un grugnito di disappunto, tentando di infilarmi di nuovo sotto le coperte.
 - Alzati e vestiti, pigrone - mi disse, in fretta - Andiamo a trovare la mamma. -
 - E dobbiamo farlo proprio a quest'ora del mattino? - chiesi, alzando controvoglia la testa dal cuscino.
Lui mi porse i vestiti con un gesto secco. Misi a fuoco il suo volto quel tanto che bastava per riconoscervi un profondo turbamento: se fosse paura di qualcosa, fretta o altro, non riuscii ad identificarlo sul momento.
 - Oggi sarebbe stato il suo compleanno, ricordi? - mi rispose pazientemente.
Buona scusa, senza dubbio; di solito, per il compleanno della mamma, io, papà e mia sorella minore Charlotte svolgevamo tutti i lavori di casa, per farla riposare, e io facevo lo sforzo di evitare commenti: infatti, per una strana casualità, sono nato il giorno dopo il suo compleanno. Ma nessuno lo trovava un motivo valido per esonerarmi dalle faccende domestiche o dai compiti.
Quel venti gennaio 1945, per la prima volta, potemmo soltanto rimanercene in piedi di fronte alla sua tomba, nel cimitero che la nebbiolina umida rendeva più lugubre di quanto già non fosse, almeno agli occhi di un bambino quale io ero.
Lanciai un'ennesima occhiata a mio padre, il cui volto era in buona parte nascosto dal cappello e dal bavero del cappotto. Stringeva le labbra fino a farle quasi sparire, e spostava il peso del corpo da un piede all'altro, ansiosamente, come chi deve dire qualcosa di molto importante.
Angoscia, ecco cosa rifletteva il suo volto, decisi finalmente.
 - Thomas, Lotte... - iniziò, lentamente - devo dirvi una cosa. -
Noi ci irrigidimmo, preoccupati dal suo tono: mia sorella si aggrappò alla sua mano, mentre io fissai lo sguardo oltre la lapide con il nome di Caroline Heinrich, mia madre.
 - Non siamo venuti qui solo per il compleanno della mamma, vero? - chiesi
Lui si voltò verso di me per un istante, per poi tornare a fissare la nebbia, sospirando. Finalmente, si decise a parlare:
 - Thomas, sai cos'è una cartolina di precetto? - domandò
Presi un respiro profondo, afferrando la situazione.
 - Sì. -
 - Io no. - si intromise mia sorella, offesa dal fatto che la stavamo tagliando fuori dalla conversazione
 - Vuol dire che deve partire per la guerra, Lotte. - risposi per lui, con tono acido
Lei lo guardò, con gli occhi sgranati per lo stupore
 - Ci...ci lasci da soli? -
Nostro padre si accosciò, per guardarla in faccia.
 - No, Lotte. Voi rimarrete per qualche tempo da vostro zio, fino al mio ritorno. Sarà... - tentò di sorridere - una specie di vacanza. Ti ricordi di Edward, no? -
Io rimasi in silenzio, guardando la disperazione che traspariva dal volto di mio padre: tirai su col naso, e mi imposi di non piangere.
Avrei compiuto dodici anni di lì a poche ore: inutile dire, quindi, che non comprendevo nè m'interessavo alla politica. Della guerra, avevo sentito due versioni: quella della radio, dei giornali e della scuola (quando ancora era aperta), fatta di onore e gloria e sacrificio per la Patria, per il Reich; e quella di mio padre, raccapricciante e senza senso.
A dirla tutta, avevo due versioni praticamente di ogni cosa, e la cosa portava una gran confusione: se, da un lato, avevo troppa ammirazione per papà per pensare che mentisse, non riuscivo neppure a credere che lo facessero i miei conoscenti, gli insegnanti e il resto del mondo. Ne avevo parlato con il mio migliore amico, Hanno Lindemann, l'unico con cui si potessero avere discorsi seri, e lui si era limitato a scuotere la testa:
 - Stai attento, Tom, o diranno che tu e tuo padre siete dei disfattisti. - mi aveva avvertito, prima di esporre il suo punto di vista. - Mio padre è arruolato, e io ne sono orgoglioso, come lo sarei se potessi farlo anch'io, se la guerra durasse abbastanza. -
Forse avrei dovuto anche io vederla così, invece di pensare solo, egoisticamente, a me stesso...
Forse.
 - Domani vi porterò dallo zio - stava continuando papà, calcandosi il cappello sulla testa, per difendersi dal vento freddo e tagliente - Io partirò subito dopo. -
 - Domani? - ripetei, sbigottito - Già domani? -
 - Mi dispiace rovinarti il compleanno, Thomas. -
 - Ma... - mi interruppi, evitando di parlare delle mie paure: mi ripetei ancora una volta i miei propositi, tirando per l'ennesima volta su col naso. Non potevo ammettere con i miei amici che avevo pianto come una femminuccia, e, soprattutto, che avevo paura.

Il pomeriggio dopo, poco prima del tramonto, mentre il nostro trio oltrepassava frettolosamente la Ludwigskirche trasportando due valigie e una vecchia sacca (che un tempo fu di mio padre, ma che lui mi regalò quella mattina), mi resi conto che avevo pochi ricordi dello zio Edward: non lo vedevo da anni, anche perchè abitava dalla parte opposta della città. Non era venuto al funerale della mamma, non sapevo il nome della via in cui abitava, nè se viveva da solo.
Imboccata una piccola traversa, trovammo di fronte ad un edificio ad un piano malridotto quanto gli altri, costruito sopra quello che un tempo era stato un negozio di antiquariato, trasformato poco prima della guerra in libreria: l'insegna era grossa, ma della verniciatura restavano solo poche tracce sparse.
Mio padre rinunciò all'aria di finta allegria che aveva tenuto fino ad allora, e bussò in fretta alla pesante porta di legno a destra della vetrina, nervosamente, come se avesse avuto paura che, aspettando, gli sarebbe mancato il coraggio per farlo.
Pochi secondi dopo, un rumore di passi dall'interno della casa ci annunciò la presenza di un inquilino. Per la prima volta da quattro mesi, vidi quanto di più simile ad un vero sorriso sul volto di mio padre.
L'Edward Elric che ci aprì la porta non era poi così diverso da quello delle foto che si trovavano in casa nostra, o da quello che riuscivo a ricordare: un individuo piuttosto enigmatico, in contraddizione con se stesso fin nel più piccolo particolare. A quarant'anni, ne dimostrava parecchi di meno, e si ostinava a lasciar crescere i capelli biondi fino a doverli tenere legati in una coda, pettinatura più unica che rara in un uomo. Indossava abiti formali, con addirittura i guanti, ma il colletto della camicia era alzato, più per insofferenza che per distrazione. Quando si trovò di fronte a mio padre, non potei non notare che era più basso di metà testa, ma sembrava circondato da una tale aura di autorità che nessuno avrebbe potuto confondere il fratello minore col maggiore.
Sentii Lotte aggrapparsi ai pantaloni di papà e tentare di nascondersi dietro la sua schiena: lui capì il suo disagio, e le scompigliò i ricci biondi con una mano.
 - Eccoci qui - sospirò, rivolgendosi al fratello - Ragazzi, salutate lo zio e non fate i timidi: vi ricordate di lui, no? È venuto a trovarci per Natale...quello di due anni fa, se non sbaglio. -
La diplomazia di mio padre: il "ragazzi" era per me, visto che da quando avevo deciso di essere ormai grande mi infastidiva essere chiamato "bambino", mentre l'esortazione era rivolta a Charlotte, che era timida con tutti gli adulti che si trovava davanti, mentre io tendevo a fissare la gente in modo particolarmente svergognato. Quella del Natale, invece, era una bugia bella e buona: Edward non era venuto per quella ricorrenza, perchè non la festeggiava; semplicemente, aveva voglia di vedere il fratello, e un giorno valeva l'altro.
 - Al piano di sopra sono in corso le grandi pulizie - esordì mio zio, cercando penosamente di scherzare - posso farvi accomodare solo nella libreria. -
 - Più che sufficiente. - fu la risposta di mio padre

* * *


Feci strada nel locale, ed indicai la porta del magazzino: Al, tuttavia, propose ai suoi figli di restare a sbirciare tra gli scaffali, prima di precedermi nel retro.
Quello che chiamavo - chiamavamo - pomposamente "magazzino" era, prima della guerra, un prolungamento del negozio: al momento, invece, si era trasformato nella stanza gelida e piena di spifferi in cui avevo portato un tavolo, una sedia e, talvolta, depositavo anche la mia persona. La mia sala di lettura personale, insomma.
Mio fratello ammirò il disordine in silenzio: qualche libro appoggiato su uno scaffale altrimenti vuoto, il mio soprabito gettato sulla sedia quando me lo ero tolto di dosso per andare ad aprire, il volume che stavo leggendo aperto sul tavolo, con i miei occhiali che fungevano da segnalibro.
 - Di sopra fa più caldo. - lo rassicurai, vedendolo sfregarsi le mani tra di loro, nel tentativo di scaldarle - Io stesso scendo di rado nel mio appartamento, per non sprecare carbone. -
 - Di carta ne hai in abbondanza... - mormorò mio fratello
 - Non posso, il mio locatario - nonchè datore di lavoro - non me lo permette. -
Mio fratello stirò appena le labbra, nell'ombra di un sorriso:
 - Pensavo non avessi neppure preso in considerazione l'idea di bruciare dei libri. -
 - La maggior parte di quelli contenuti qui dentro sono buoni giusto come combustibile. - sbottai - Del resto, di questi tempi sono pochi quelli che possono o vogliono usare i pochi soldi che hanno per dei libri. Ormai teniamo aperto solo un paio di giorni la settimana. -
 - Dunque, hai cominciato ad andare a tempo pieno dal signor Schulz? -
 - Per forza: mi paga soprattutto in cibarie, il che, per certi versi, è meglio. -
Herr Schulz era il proprietario di un podere, fuori città, a cui in teoria tenevo in ordine i conti; in pratica, arrotondavo riparando ogni cosa si rompesse, dal tetto ai ripiani delle cantine, e lavorando come bracciante durante i mesi estivi.
 - E i tuoi rapporti con le mucche? -
 - Ci odiamo cordialmente. Il latte, comunque, ai tuoi figli non mancherà... - aggiunsi, disgustato.
Dalla libreria giunsero le voci dei bambini. Al sorrise, con aria lugubre:
 - Non tieni libri vietati tra gli scaffali, vero? - mi domandò, tentando di fare del sarcasmo
 - Nulla di sconveniente arriverà in mano ai miei nipoti. - gli promisi
Anche perchè, avevo già fatto sparire praticamente tutto.
Liberai la sedia dalla mia giacca, e feci cenno a mio fratello di sedersi: lui scosse la testa, senza smettere di rabbrividire.
 - Non mi tratterrò a lungo, giusto il tempo di salutare Thomas e Lotte. - cominciò a frugare nelle tasche dei pantaloni, per poi estrarne un rettangolo di carta stropicciato - Questo è il recapito dove scrivermi. -
Non degnai di un'occhiata nè il numero del reggimento, nè la macchia umida che aveva fatto sbavare una parte dell'inchiostro: appoggiai il ritaglio sul libro aperto, meccanicamente, per poi tornare a fissare mio fratello
 - Pensavo che ormai fosse finita... - disse, più a se stesso che a me - e poi, non avevano mai arruolato nessuno del laboratorio. Invece... -

 - Al... - mi bloccai, accorgendomi di non sapere cosa dirgli: riguardati? Stai attento? Che idiozia, stava andando al fronte!
 - Tieni i ragazzi lontani dai guai. - mi interruppe lui, con voce rotta, soffocando a stento un singhiozzo.
 - Era scontato. - gli risposi, brusco. - Pensavo ti fidassi di me. -
 - Conosco le tue innate capacità di procurarti delle grane. - mi disse, passandosi una mano sugli occhi - Ho saputo perchè non sei venuto al funerale di Caroline. -
 - Nulla di cui tu debba preoccuparti, ho avuto dei problemi quella mattina... -
 - Nella fattispecie, una scazzottata nel vicolo? -
Sobbalzai, preso in fallo. Speravo che quella faccenda non arrivasse alle sue orecchie, ma, a quanto pareva, vivevo circondato da una manica di pettegoli disposti a vendere le loro madri pur di far sapere al mondo intero cosa combinavano gli inquilini delle case a fianco e, soprattutto, quando e in che modo si cacciavano nei pasticci. Quel giorno avevo abbozzato una scusa, ma, per avvertire mio fratello, avevo dovuto aspettare innanzitutto di rinvenire, e poi che la mia guancia sinistra si sgonfiasse abbastanza da permettermi di parlare senza che il mio interlocutore credesse che io avessi una cucchiaiata di minestra bollente in bocca.
 - Il fatto che io non sia simpatico al vicinato, non significa che i bambini corrano pericoli. - brontolai
Al sospirò, scoraggiato.
 - Ed, hai una minima idea di cosa significhi un'accusa di disfattismo, di questi tempi? Se... -
 - Non farmi la predica, lo so. -
Lui scosse la testa, visibilmente demoralizzato. Doveva essersi già pentito della sua scelta, perchè aggiunse: - Non vi conoscete molto, è vero, ma sei l'unico parente stretto a cui posso lasciare Thomas e Lotte: non vedo mio suocero da settimane...e, del resto, sai in che rapporti sono con lui. -
Certo che lo sapevo: Karl Heinrich era stato il mio datore di lavoro, il direttore del laboratorio in cui io lavoravo come chimico e Al come biologo. Lui stesso era stipendiato da un qualche riccastro che doveva averlo nominato in un momento di sconsideratezza, ma comunque guadagnava abbastanza bene da non prendere con filosofia il fatto che sua figlia si fosse sposata con un dipendente, un uomo senza un buon patrimonio. Aveva tentato di farle cambiare idea prima con le lusinghe, poi con le minacce; Caroline Heinrich, tuttavia, aveva continuato per la sua strada.
Ho sempre apprezzato mia cognata.
Nel 1933, mentre la Germania ancora risentiva del crollo della Borsa di New York e la disoccupazione aumentava esponenzialmente, era nato Thomas, e quel vecchio infame di Heinrich, diviso tra la preoccupazione per l'avvenire della sua bambina e il disprezzo nei confronti di suo genero e di tutta la sua lurida parentela, arrivò ad una soluzione che a lui parve accettabile: nominò Alphonse suo vice e licenziò in tronco me, costringendomi ad un decennio di instabilità, in cui avevo fatto ogni sorta di lavoro e mi ero spostato per mezzo mondo.
Devo dire che non gli ero mai riuscito simpatico.
 - Al - dissi, guardandolo negli occhi - Ti prometto che andrà tutto bene. Non preoccuparti per i bambini, non gli succederà nulla. -
Lui si passò una mano sulla fronte, con aria stanca.
 - Grazie. -
Aprì la porta, e andò dai bambini: erano impegnati a passare in rassegna i libri, ma appena videro il padre gli andarono incontro, mentre la piccola faceva scivolare la mano in quella del fratello.
Non credo che Al avesse la voglia nè la forza di fare lunghi discorsi: si limitò ad abbracciarli entrambi per alcuni minuti. I suoi singhiozzi vennero coperti solo parzialmente da quelli della piccola Charlotte.
 - Fai la brava, Lotte. - sussurrò, accarezzando la testa della figlia - Buon compleanno, Thomas. -
Alzandosi, si voltò ancora una volta verso di me, facendomi solo un cenno col capo. Risposi alzando leggermente la mano, mentre un fastidioso bruciore agli angoli degli occhi mi costringeva a sbattere più volte le ciglia.

* * *


Quando l'alta figura di mio padre sparì oltre la porta della libreria, mi sentii soffocare, al pensiero di essere rimasto solo. Mi sembrava di essere un puntino nell'Universo, e la sola idea mi dava le vertigini.
Per non pensarci, tentai di calmare Charlotte con qualche moina: Edward, dopo alcuni istanti in cui rimase a fissare la porta senza realmente vederla, venne riscosso da alcuni tonfi sordi provenienti dal piano di sopra, che mi fecero sobbalzare ed interruppero i lamenti di mia sorella.
 - Le pulizie sono finite - esordì Ed - Possiamo salire in casa a scaldarci: magari anche a mettere qualcosa sotto i denti...avete già cenato? -
 - No, zio. - risposi
Lui portò le mani sui fianchi, facendo una smorfia: avevo già fatto una gaffe.
 - Niente "zio". - disse - Edward, o Ed, vanno benissimo. -
Non lo conoscevo molto bene, ma tentai lo stesso di fare del sarcasmo:
 - Va bene, zio Edward. - ghignai
Lui mi folgorò con lo sguardo, ma non sembrava particolarmente offeso.
Quella del nome fu solo una delle tante stranezze che scoprii, da quel giorno in poi, nel mio eccentrico parente; all'epoca, non riuscii a darmi una spiegazione su quel bislacco ordine, ma oggi, che sono a mia volta zio (e prozio, ahimè!), posso tentare un'ipotesi: la parola "zio" lo faceva sentire vecchio.
Lo stesso motivo per cui, adesso, rifiuta di farsi chiamare "nonno" e "bisnonno", anche se non lo ammetterebbe mai.
La palazzina, ci spiegò Edward mentre uscivamo da una porta laterale e ci immettevamo in un atrio piuttosto buio, era di proprietà di un'unica famiglia, ma si componeva di due appartamenti: il più piccolo, di fianco al negozio, era quello che aveva in affitto. Nell'altro, al primo piano, abitava il padrone di casa e, da un paio d'anni, ci dormiva anche lui.
 - Per risparmiare. - ipotizzai
Ed confermò, mentre cercava alla cieca l'interruttore per accendere la luce nell'atrio: Lotte tastò con il piede il primo gradino della scala che portava ai piani superiori.
 - Come sono vecchi... - esclamò, notando l'ansa che cominciavano a fare, causata da anni e anni di scarpe che passavano continuamente.
 - Ah, ma allora ce l'hai ancora la lingua. - la presi in giro
Finalmente, Ed si arrese all'evidenza che non c'era elettricità, e iniziò a salire le scale a tentoni, tenendoci per mano.
 - Il palazzo è uno dei più antichi della zona. - le disse lo zio - La famiglia di antiquari era piuttosto ricca; ora, però, il capofamiglia è in guerra, e c'è solo la figlia a controllare che io non ritardi il pagamento -
Un rumore ci fece alzare la testa. Sobbalzai, notando per la prima volta una ragazza, poco più anziana di me, che ci fissava dalla tromba delle scale: doveva aver seguito tutta la conversazione, in maniera così silenziosa che non avevo neppure sospettato la presenza di un'altra persona.
 - Ecco, lei è Margarethe - esclamò Edward - Abita con me...o meglio, io abito con lei, visto che le pago l'affitto. È una persona molto discreta: non spaventatevi se ve la troverete alle spalle senza che ve ne accorgiate. A me capitava spesso, e ancora non capisco come riesca a non far scricchiolare le assi del pavimento! -
Salendo le scale con gli altri, riuscii a vederla abbastanza bene, grazie alla luce della torcia che teneva in mano, e non potei trattenermi dal pensare che, anche nell'aspetto, Margarethe sembrava fatta apposta per non essere notata: aveva un volto anonimo, nè brutto nè bello, con gli occhi scuri e i capelli castani, e arti così magri da sembrare di vetro.
Lotte, sempre molto più espansiva con i ragazzi piuttosto che con gli adulti, le sorrise:
 - Ciao! - esclamò - Molto piacere: io mi chiamo Charlotte. Lui è mio fratello, si chiama Thomas. -
La giovane si limitò ad abbassare il capo, in cenno di saluto; Ed, notando la perplessità di mia sorella, che temeva di averla offesa, le mise una mano sulla spalla, ridendo:
 - Non ti preoccupare, anche lei è felice di fare la tua conoscenza. Però, - aggiunse - tra i molti pregi di Margarethe, c'è quello del silenzio. -
Non so se mia sorella comprese subito quel che voleva dire: per quel che mi riguarda, devo ammettere che solo notando la lavagnetta che pendeva dal fianco della giovane riuscii a capire che era muta.

 

* * *


Sentivo puzza di guai. Non per colpa di qualcuno in particolare, ma per la situazione che si era creata. Bastava guardare in faccia il ragazzino, il maggiore, per capire che era il nipote di Edward: oltre all'aspetto fisico molto simile, aveva quello sguardo fiero, selvaggio e (devo pur ammetterlo) arrogante tipico del signor Elric. La bambina, invece, pur essendo così irruente, aveva gli occhi dolci del fratello di Edward, l'uomo con cui i due erano arrivati e che era venuto a trovarci quasi ogni giorno, nelle ultime settimane: i ricci biondi e le lentiggini, invece, doveva averli presi dalla madre, perchè erano estranei agli Elric.
Non potei fare a meno di chiedermi come avrebbero convissuto due persone come Edward e Thomas, ma sperai che la piccola Charlotte fosse abituata al carattere del fratello.
La risposta arrivò prestissimo: per essere precisi, durante la cena.
Si arrivò in argomento in modo del tutto innocente: Thomas chiese allo zio il biglietto su cui suo padre aveva segnato il recapito a cui inviare le lettere.
 - Ce l'ho nella giacca. - fu la risposta
 - Possiamo scrivergli già domani? - domandò Lotte, tirando le bretelle del fratello
 - Per me va bene... - il ragazzino s'interruppe per sorbire una cucchiaiata di minestra - Ottima, Margarethe! -
Grazie, scrissi in fretta.
 - Una volta - riprese la bambina - ho visto la lettera che il padre di una mia amica aveva scritto alla famiglia: era tutta cancellata da righe nere. -
 - Forse - ipotizzò il fratello, in un goffo tentativo di spiegazione - Aveva detto delle cose non vere... -
 - È più probabile che avesse detto troppe cose vere. - ribattè l'uomo, acido.
Ahia, pensai. Ci siamo. Colpii con il palmo della mano il braccio di Edward, seduto alla mia destra, per farlo tacere, ma era decisamente troppo tardi.
Thomas, infatti, non prese bene l'affermazione.
 - Cosa vuoi dire? - chiese, asciutto
 - Che non sarebbe una bella pubblicità, per il Reich, se i soldati tedeschi descrivessero come vivono e muoiono, o avvertissero le famiglie che la guerra è ormai persa... -
 - La guerra non è persa. - lo interruppe Thomas - Altrimenti non continuerebbero ad arruolare persone. -
 - Io direi che il fatto che si continui a cercare carne da macello sia un indizio lampante di come vada la faccenda. Tuttavia, è da un po' che non ascolto la radio tedesca: probabilmente, lì stiamo ancora vincendo. -
Charlotte ed io appoggiammo il cucchiaio nel piatto, perplessa lei, preoccupata io: cercai lo sguardo del signor Elric, per pregarlo di smetterla, ma lui continuava a mangiare come se nulla fosse. Thomas, al contrario, sembrava profondamente offeso dalle sue parole.
 - Immagino tu sia molto più informato di me sulla vita al fronte. - ribattè, sarcastico - Quando ci sei stato? -
Ovviamente, conosceva benissimo la risposta
 - Non ci sono mai stato. - rispose Ed, fingendo grande calma
 - E perchè, se posso saperlo? -
 - È una lunga storia...diciamo che ho fatto un favore al figlio di un personaggio influente. -
Sospirai. Parlare di favore era decisamente un eufemismo, visto che il signor Elric salvò la vita di quel bambino: me lo ricordo, era il 1934, ed era appena venuto a vivere in affitto da noi, anche se passava molto tempo fuori, nell'eterna caccia ad un impiego.
 - In che senso? - domandò timidamente Lotte
 - L'ho tirato fuori dai rottami di una macchina, nulla di più! - sbottò Ed - Non è difficile, quando hai un braccio d'acciaio! -
La vicenda fu molto più complessa: fui io stessa a raccontarla ai piccoli Elric, in seguito.
Era dicembre, e aveva nevicato da poco, lasciando la strada coperta da quel sottile strato di ghiaccio e neve pigiata che la rende così pericolosa.
Infatti, avevamo aperto il negozio da poco più di due ore, quando sentimmo un rumore di freni, seguito da uno schianto: io, che all'epoca avevo sette anni, mio padre e il signor Elric, come molte altre persone, uscimmo in strada per vedere cosa era accaduto.
A prima vista, non sembrò nulla di particolarmente grave: sì, la bella macchina si era accartocciata contro un muro, finendo per somigliare a quella fisarmonica che, all'epoca, avevamo in vetrina, ma l'uomo dai grandi baffi biondi alla guida era fuori, che le correva intorno, illeso.
Fu Edward ad avvicinarglisi, e a capire per primo cos'era successo: l'uomo non cercava di attirare l'attenzione sulla macchina sfasciata, ma sul bambino incastrato all'interno.
 - Ho aperto la portiera, ma non riesco ad infilare le mani tra le lamiere - gli gridò il padre, disperato
L'allora trentenne Edward Elric si sporse, per vedere il ragazzino: era minuto, con i capelli biondi che si rizzavano leggermente sulla fronte.
 - Ti sei fatto male da qualche parte? - gli domandò
Lui si limitò a tirare su col naso. Ed tentò di sorridergli.
 - Coraggio...come ti chiami? -
 - Klaus. -
 - Va bene, Klaus...ti fa male da qualche parte? -
Il bambino scosse la testa: - Ho i piedi bloccati - si lamentò
 - Non stento a crederlo... - mormorò Edward, notando che i sedili davanti, accartocciandosi, lo avevano intrappolato.
Come al solito, decise di fare a modo suo: infilò il braccio destro tra i rottami e, non potendo affidarsi al tatto, lo usò come metro, per stabilire fino dove fossero incastrate le gambe del bambino. Riuscì ad arrivare fin quasi alle caviglie, e la cosa lo confortò.
 - Bene, Klaus. - annunciò - Ora cercherò di tirarti fuori: se ti faccio male, avvertimi. -
Lavorò di buona lena, chiacchierando allegramente con il piccolo: quanti anni hai? Undici? E che scuola fai? Non la conosco, in che via si trova?
Mentre il padre finiva di mangiarsi le unghie per l'agitazione, finalmente l'attesa ebbe termine: Ed riuscì, grazie alla protesi d'acciaio, ad aprirsi un varco tra le lamiere abbastanza grande da permettere a Klaus di spostare le gambe ed uscire dai rottami della vettura.
Il padre, rabbrividendo, dopo aver controllato la salute del figlio si rivolse ad Ed:
 - Non so come ringraziarvi...- balbettò - davvero, sembrerà la frase più scontata, ma... -
Fece per tirare fuori il portafoglio, ma l'altro lo fermò:
 - Non voglio soldi - lo prevenne, ruvido
 - Come si chiama? -
 - Edward Elric. -
 - Herr Elric,un giorno la ripagherò. E sappia che non è abitudine della famiglia Holze dimenticare le promesse. -
Alzò il braccio nel saluto nazista, imitato docilmente dal figlio: Ed, suo malgrado si irrigidì, ma nessuno parve notarlo. Anche perchè, l'occhio del signor Holze era caduto sul braccio metallico dell'uomo.
Thomas, durante quella maledetta cena, non parve troppo colpito dalla frase dello zio: ovviamente, non conoscendo tutta la vicenda.
 - E allora, cosa c'entra tutto ciò con l'arruolamento? - chiese
In effetti, Ed ricevette la lettera di precetto già nel 1940, appena ritornato da uno dei suoi viaggi: e, decisamente, non disertò solo per timore di ritorsioni contro suo fratello Alphonse e la sua famiglia.
Eppure, si rese presto conto che qualcosa non quadrava: alla visita medica, gli fecero sapere che il dottore voleva vederlo prima, da solo. Edward rabbrividì: anche se doveva ammettere che non gli avrebbe fatto piacere mostrare gli arti artificiali a chissà quante persone, con tutte le domande che questi avrebbero sollevato, la situazione era quantomeno singolare.
 - Signor Elric? -
Alle sue spalle, era entrato il medico: un uomo robusto, con grandi baffoni color grano.
 - Posso sapere perchè sono stato mandato qui? - chiese Ed, tentando di sembrare educato e, di fatto, riuscendo incredibilmente sfacciato.
 - Perchè l'ho chiesto io - rispose l'altro, sornione
Gli tese la mano: - Dottor Georg Holze. Le ho fatto una promessa, ricorda? -
Edward trasalì, riconoscendo il padre del piccolo Klaus, e comprendendo il perchè del saluto ricevuto anni prima; dopo alcuni istanti, riuscì a riprendersi abbastanza per stringergli la mano.
 - Dunque, se non ricordo male, lei ha un braccio destro un po' particolare...è una protesi? -
 - Sì. -
 - Fin dove arriva? -
 - Fino alla spalla. -
 - Posso vederla? -
Il dottor Holze rimase affascinato da quello che definì "l'opera di un genio".
 - Non è tedesca, vero? -
 - No. -
 - Altre protesi? -
 - La gamba sinistra. -
Il medico fischiò: - Una vita movimentata, eh? -
Si sedette dietro la scrivania, grattandosi la tempia con una penna, come uno studente che non sappia cosa scrivere:
 - Allora...da quel che ho potuto vedere, lei risulta totalmente privo di un braccio e di buona parte di una gamba, mi corregga se sbaglio. -
 - No, è esatto. -
 - Quindi... - l'uomo alzò lo sguardo, sorridendo leggermente - non posso certo mandare al fronte un menomato, no? -
Edward lo fissò, chiedendosi se quello fosse un insulto. Tuttavia, nelle intenzioni di Georg Holze non c'era l'offesa, anzi.
 - Signor Elric, - annunciò, alzandosi - lei è inabile a combattere. Spero che questo basti a ringraziarla per aver salvato mio figlio, sei anni fa. -
Ignaro della vicenda, Thomas sembrava decisamente disgustato.
 - Questa è un'azione da vigliacchi! Che ringraziamento è? - domandò
 - Forse anche un altro medico l'avrebbe fatto: il dottor Holze non fece domande, è questo il punto. - rispose Ed
 - Ciò non toglie che tu non sei mai andato in guerra, quindi non puoi sputare sentenze come se sapessi tutto! -
Il bicchiere di Edward tremò tra le sue mani, prima che questi lo appoggiasse bruscamente sul tavolo.
 - Il fatto che non abbia partecipato a questa guerra non vuol dire che non ne sappia niente. E comunque - riprese, alzando la voce - credo di saperne di più di un bambino che è cresciuto con le sciocchezze della propaganda! -
 - Allora cosa andrebbero a farci i nostri soldati in guerra, se non proteggere la patria e renderla grande? - esplose Thomas
 - Vanno a morire, oppure ad uccidere dei perfetti sconosciuti che, per un puro caso, hanno la divisa diversa dalla loro! -
 - Stai dicendo che papà è un comune assassino! -
 - No, questo no: come so che io sarei inutile alla guerra, perchè non sparerei mai, conosco abbastanza bene tuo padre da sapere che preferirebbe farsi uccidere, piuttosto che ammazzare l'uomo che gli sta di fronte! -
Gli occhi di Charlotte si riempirono di lacrime, mentre io tentavo di fermare i due: proprio in quel momento, tuttavia, Thomas balzò in piedi, furibondo.
 - Sei un codardo! - gli gridò - Sei un codardo, e di mio padre non te ne importa niente! -
Incurante della sedia caduta per terra, corse nella sua camera e si sbattè la porta alle spalle.

* * *


Pensierino della buonanotte:

Se già il primo capitolo mi dà così tante grane, non voglio sapere cosa farò con gli ultimi!
Il litigio mi lascia molti dubbi: nella mia mente funziona benissimo, ma non so se per il lettore è altrettanto comprensibile; la mia idea si basava sul fatto che, se Thomas parte da presupposti totalmente errati, dettati dalla propaganda, anche Edward ha la sua parte di responsabilità, in quanto, pur avendo ragione, parla con troppa arroganza. In realtà, temo che anche tutto il racconto di Margarethe appesantisca lo scambio di battute: in effetti, inizialmente si trovava nel secondo capitolo, ed era Thomas a raccontarlo, dopo averlo sentito da Charlotte. In linea teorica funzionava meglio, in pratica non mi convinceva: una storia narrata da un personaggio, a cui è stata raccontata da un altro, a cui a sua volta è stata narrata da terzi perde credibilità.
A proposito: no. Il soprannome di Charlotte, Lotte, NON viene da Un ciclone in convento, ma da I dolori del giovane Werter, di Goethe. Me l'ha già chiesto talmente tanta gente, che ho anche pensato di cambiarle nome.

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Capitolo 2
*** Orgoglio e pregiudizio ***


Nuova pagina 1

Sono un'autrice ignobile e crudele, sì. E la maturità imminente mi rende ancora più malvagia.

    2. Orgoglio e pregiudizio

Questo è il peggior compleanno che abbia mai avuto, pensavo.
Mi ero infilato nel letto, sotto le coperte, e me ne stavo con il mento appoggiato sulle mani: a casa mia, il segnale inequivocabile che volevo essere lasciato in pace, perchè ero di cattivo umore.
Rimuginavo sulla mia sfortuna, che aveva concentrato così tante magagne nel giorno in cui compivo dodici anni: mio padre era partito, e io mi ritrovavo lontano da casa mia, in casa di perfetti estranei, di cui uno particolarmente esasperante.
Inoltre, nessuno si era ricordato del mio compleanno. A parte papà, che mi aveva fatto gli auguri piangendo e salutandomi, mentre partiva per il fronte.
Fantastico.
Comunque, era destino che non potessi rimanermene da solo troppo a lungo: doveva essere passata mezz'ora al massimo, quando sentii la voce di mia sorella, a pochi passi da me:
- Thomas? -
Mi sedetti, togliendomi la coperta di dosso e sbuffando per farle capire che ero ancora di cattivo umore
- Cosa c'è? - domandai
- Perchè ti sei arrabbiato con lo zio? - mi domandò a bruciapelo
Alzai il mento e misi il broncio, seccato per essere stato preso alla sprovvista
- Perchè ha detto delle cose brutte. E false. -
- E tu come lo sai? -
- Beh... - balbettai, mentre sentivo le guance scaldarsi - perchè non è vero. Lo dicono tutti. -
Charlotte annuì, con aria di compatimento, mentre io, furioso con me stesso, cercavo uno straccio di prova a sostegno delle mie tesi
- Insomma, - ripresi - a scuola, alla radio...sui giornali. -
Da qualche parte, tuttavia, una vocina mi ricordava quel che diceva mio padre; Lotte la seguì a ruota:
- Papà diceva di non ascoltare quel che dicono radio e giornali -
A volte mi chiedo se mia sorella non sia telepatica: poi, concludo sempre che, semplicemente, è più acuta di me. Da qualche parte devo avere un minimo d'intelligenza, ma lo uso malvolentieri.
Quella sera, tuttavia, non volevo ammettere di aver sbagliato: innanzitutto, non ne ero ancora del tutto certo, e poi, non potevo andare a scusarmi...il mio orgoglio non me l'avrebbe mai permesso; così, presi la decisione più vigliacca: mi tirai nuovamente lenzuolo e coperta sulla testa.
- Vai via, non ho voglia di parlare con nessuno! -
Sentii la delusione di Charlotte come se fosse stata fisica, ma decisi di non curarmene.
- Buon compleanno, Thomas. - mormorò appena, andandosene.
- Chiudi la porta! - le gridai di rimando.
Rimasi di nuovo al buio, con l'unica compagnia del fischio del vento all'esterno, che ogni tanto faceva tremare la finestra della camera: mentre tornavo a sdraiarmi, ripensai alle parole di Lotte.
Ero certo di aver visto meno di una decina di quotidiani girare per casa nostra: anzi, l'ultimo foglio di giornale conteneva delle uova comprate alla borsa nera. Mio padre aveva fatto dell'ironia, dicendo che era il modo migliore per usare quella cartaccia.
Cominciavo a non sapere più cosa pensare, quando udii bussare alla porta, lasciata aperta da Charlotte nonostante la mia richiesta. Chiusi gli occhi: l'ultima cosa di cui avevo bisogno era un altro attacco della mia irriducibile sorellina, ben decisa a mettere pace.
- Posso entrare? -
Trasalii, riconoscendo la voce: mi tolsi le coperte di dosso, in tempo per vedere Edward in piedi, sulla porta, ancora con le nocche della mano destra appoggiate su di essa, la lavagnetta di Margarethe nella sinistra. Con un salto mi sedetti sul bordo del letto, mentre lui spostava la sedia della scrivania e ci si sedeva; evitai di fissarlo, mentre lui prendeva tempo fingendo di osservare i fiocchi di neve che cominciavano a cadere fuori dalla finestra.
- Prima sono stato troppo brusco. - ammise, sempre senza guardarmi - Non avrei dovuto alzare la voce. -
Per quel piccolo passo verso la riconciliazione, doveva aver ingoiato tutto il suo orgoglio: rimasi per alcuni secondi in silenzio, prima di decidermi a fare la mia parte.
- Io non avrei dovuto aggredirti, - dissi, grattandomi il capo per riordinare i capelli scompigliati dal lenzuolo che mi ero cacciato in testa - nè offenderti. -
Alzai leggermente lo sguardo, accorgendomi che anche lui mi stava guardando.
- Siamo stati entrambi troppo irruenti. - dichiarò lui, sorridendo - Direi che, dato che dovremo vivere tutti insieme, sarebbe meglio evitare argomenti di discussione troppo accesa-
- Allora... - mormorai, imbarazzato - basterà dire a Charlotte di tirarci un calcio quando vede che ci stiamo scaldando. -
- Margarethe le darà man forte, temo! - annunciò Edward, alzandosi - Del resto, ci ha tenuto a farmi sapere cosa pensava di me... -
Alzò la lavagnetta: sopra, c'era scritta una sola parola, in stampatello.
Cafone.
Fissai le lettere bianche per alcuni secondi, cercando di trattenermi: poi, accorgendomi che gli angoli della mia bocca si stavano incurvando verso l'alto senza che io potessi oppormi, finsi un colpo di tosse poco credibile.
- Ah, è così che mi difendi? - mi domandò infatti Ed - E io che volevo pure farti gli auguri di compleanno! -
- Non li hai mai saputi, i nostri compleanni. Lo hai sentito da papà, oggi. - esclamai
- Dubiti di me? -
- Francamente sì! -
Lui alzò le mani, in segno di resa: - I giovani d'oggi sono troppo astuti per i miei gusti... - brontolò - Ti vanno dei biscotti, per festeggiare? -

Intendiamoci: nessuno dei due aveva cambiato idea, almeno per il momento. Potremmo definire il nostro un armistizio. Nei giorni successivi, evitando tutto ciò che poteva trovarci in disaccordo (quindi, tutto quello che riguardasse la guerra), riuscimmo a conoscerci meglio; non posso negare che avemmo parecchi battibecchi, ma nessuno di essi merita di essere riportato.


* * *


Sabato pomeriggio. In pratica, il mio giorno di vacanza, in cui potevo stare seduto dietro il bancone o, più spesso, in magazzino, stiracchiando le ossa doloranti per i lavori che riusciva a trovarmi il signor Schulz e immaginando con sgomento le pulizie della domenica, quando il mio locatario buttava all'aria l'intera casa e, puntualmente, ero oggetto di una variegata gamma di improperi sullo stato in cui lasciavo i miei vestiti e i miei libri. Fortuna che usavo il mio appartamento solo come studio, e la mia stanza da letto al piano di sopra era occupata dai ragazzi.
Mi ero così impegnato a dimenticare il motivo della mia baruffa con Thomas che, quando mi trovai in mano la prima lettera di Al, ci misi qualche istante per farmi venire in mente perchè mi ricordava qualcosa. Appena ci riuscii, sobbalzai, la infilai in tasca senza neppure aprirla e rientrai nella libreria: Thomas e Charlotte erano appena tornati dal giro di spese con Margarethe, e il maggiore si era già nascosto tra gli scaffali.
Non credevo che lasciarli liberi di curiosare nel negozio portasse a danni così irreparabili: non c'era nulla di sconveniente o vietato che potesse arrivare in mano ai bambini. Invece, avevo fatto i conti senza la curiosità di mio nipote, e senza considerare il fatto che, tutto sommato, si annoiasse: in poco tempo, trovò qualcosa che lo appassionava.
Non sapevo cosa pensare: io stesso posso estraniarmi dal mondo esterno, rimanendo concentrato su un libro per ore, ma i nostri argomenti di lettura erano e sono assolutamente opposti, visto che io m'interesso a libri scientifici, dalla fisica alla chimica, alla biologia. Che un dodicenne potesse leggere, capire ed apprezzare la letteratura tedesca (l'unica presente, ovvio), mi risultava totalmente incomprensibile.
Beh, del resto è il figlio di una persona eccezionalmente dotata: Al ha passato interi pomeriggi chino, insieme a me, su giganteschi tomi di alchimia che risultavano ostici a molti adulti.
- Charlotte! Thomas! Posta! - gridai
Lotte saltò in piedi, per essere certa di essere la prima; suo fratello, inaspettatamente, arrivò subito, senza che dovessi andare a cercarlo come al solito.
Estrassi la busta dalla tasca, ed esitai alcuni istanti, sperando che quel misero oggetto non riaccendesse litigi in casa. Decisi di fidarmi di mio fratello, e spiegai la lettera.
Ci chinammo tutti e tre. Ugualmente delusi.
Pochissime parole, che a malapena riempivano un foglio. Un testo freddo, analitico, che descriveva a grandi linee quel che succedeva in qualunque posto Al si trovasse, e si riscaldava solo quando il soldato lasciava il posto al padre che si preoccupava che i suoi figli sapessero quanto li amava: la firma era frettolosa, ma con lo svolazzo finale tipico della mano di mio fratello. Il mio nome era citato appena una volta, come semplice garante della salute di Thomas e Lotte; più o meno a metà del testo, due linee nere parallele interrompevano di netto la calligrafia pulita, ordinata e insolitamente spigolosa di Alphonse.
Rimanemmo in silenzio per alcuni secondi, interdetti, poi Charlotte corse al piano di sopra: ritornò dopo alcuni istanti, con una scatola di latta in mano che profumava ancora dei biscotti che aveva contenuto fino alla sera del compleanno di Thomas, quando si toglieva il coperchio.
- Mettiamola qui. - mi disse - Così, quando ne arriveranno altre, potremo tenerle tutte insieme. -
Infilò nuovamente il foglio nella busta, appoggiò tutto sul fondo con cura reverenziale, e richiuse bene il contenitore. Alla fine, quelle lettere avrebbero preso un profumo di biscotto che si sarebbe sentito per mesi: qualche anno fa, quando Al ritrovò la scatola e mi fece vedere la sua corrispondenza, non potei trattenermi dall'avvicinarne una al naso, per cercare quell'odore. So che anche Thomas lo ha fatto, quindi non è la vecchiaia che mi rende rimbambito.
Mentre Charlotte tornava al piano di sopra, mio nipote sospirò pesantemente: poi, parva ricordarsi di qualcosa.
- Edward, Margarethe voleva sapere qualcosa a proposito di un paio di pantaloni. - mi disse - Sul colore, mi pare. -
Sbuffai: - Ci sta ancora pensando? - brontolai
Due giorni prima, mentre stavo sistemando una mensola pericolosamente storta nella cantina del podere di Schulz, il vecchio mi si era affiancato, avvolto nella solita nuvola di fumo di sigaretta.
- Cercano del personale nel laboratorio...come si chiama?...quello di fronte ai giardini. -
Dato che avevo un cacciavite in bocca, mi limitai a spostare brevemente lo sguardo su di lui, prima di tornare al mio lavoro.
- Non le interessa? Pensavo che lei fosse un chimico. -
- Conosco il direttore: mi ha già licenziato una volta. -
- Il vecchio sta per andare in pensione...non vorrà passare tutta la vita a farmi da contabile e riparare mensole?! -
- Come mai sa così tanto, lei che non esce mai da qui? -
- E chi dice che non esco mai? -
Se speravo di trovare un appoggio in mio nipote, mi sbagliavo: si alleò immediatamente con Margarethe.
- Cosa ti costa provarci? -
- Tuo nonno potrebbe essere persino con un piede nella fossa, ma se sapesse che sto tentando di farmi assumere di nuovo risorgerebbe all'istante. - sbuffai - Quindi, perchè andare a mettersi in ridicolo? -
- Che c'entra, non è lui che prende tutte le decisioni... -
- Sì, certo. Non è lui, ma l'idiota che lo ha assunto. Hai da fare, o vuoi che ti trovi qualcosa io? -
Lui mi lanciò un'occhiata assassina, e sparì dietro gli scaffali.
Perchè tutti si impegnano così tanto a farmi notare che guadagno una miseria?, mi domandai. Va bene che vivono su quel che porto a casa, ma, accidenti, questo non li autorizza a mandarmi in giro a lanciarmi in imprese perse in partenza.
Certo, però, che se davvero il vecchio Heinrich non c'è...
Mi accorsi del pensiero che si stava formando nella mia testa appena in tempo per ricacciarlo indietro: no, non se ne parla. Ho ancora un minimo di dignità.
Allora dov'è la tua dignità, Edward, quando tuo nipote passa parte del già magro contenuto del suo piatto alla sorellina, cercando di non farsi scorgere, ma in modo così disastrosamente ingenuo da non poter sfuggire neppure ad un cieco?
Sospirando, diedi un'occhiata all'orologio, accorgendomi di aver perso la cognizione del tempo. Infatti, in quel momento qualcuno entrò in libreria: immaginando benissimo di chi si trattasse, mi voltai, in tempo per vedere la mia cliente preferita richiudersi la porta alle spalle.
Puntuale come al solito.
- Posso esserle utile? - domandai, ironico
Lei si tolse il cappellino che portava, facendo passare gli occhi sui libri esposti alla sua sinistra.
- Sì, - rispose, con noncuranza - cercavo un libro, ma non ricordo nè il titolo, nè l'autore. -
- Questo richiederà del tempo per cercarlo. - insinuai, ridacchiando
Finalmente sua signoria si voltò a guardarmi, con aria maliziosa.
- Pazienza. Mi adatterò a passare un po'di tempo con un libraio arrogante e sfrontato. -
Una donna affascinante, con capelli biondo scuro e occhi azzurri che non perdevano occasione per deridermi.
Hedwig Steinglocke, la mia "amica speciale".
L'alter ego di Winry Rockbell, il cui cognome era la perfetta traduzione del suo.


* * *


Lo so. Non è bello origliare, ma, credetemi, non mi ero accorto di nulla: ero così preso dalla lettura che, quando sentii una risata femminile, per qualche istante mi chiesi se non avessi le allucinazioni. Posai il libro e sbirciai attraverso lo scaffale dietro cui me ne stavo seduto: riuscivo a vedere il retro della libreria dove, appoggiati al tavolo per la mancanza di sedie, c'erano mio zio Edward e una bella donna, a me sconosciuta. Parlavano molto innocentemente, ma, anche solo per quel poco che lo conoscevo, potevo dire di non aver mai visto Ed così espansivo.
Arrossii e smisi di guardare, vergognandomi per la mia curiosità: decisi di filarmela alla chetichella, ma questo avrebbe significato passare di fronte all'ingresso del magazzino e farsi vedere. Non me la sentivo di litigare con Edward per una sciocchezza simile.
Inconsapevolmente, furono Margarethe e Lotte a salvarmi, arrivando in quel momento.
- Ed, Margarethe vuole passare dalla panetteria, e io l'accompagno. - annunciò la mia sorellina
- Abbiamo ancora delle tessere? - domandò lui, senza scomporsi
La diciassettenne gli fece un cenno veloce, che solo lui capì. Anche la bella signorina parve ignorarlo, perchè si affrettò a domandare, curiosa: - Edward, chi è questa bambina? -
- È mia nipote...dov'è Thomas? - aggiunse, dando le spalle alle tre e cercandomi tra gli scaffali.
Mi alzai e uscii, chiudendo il libro che stavo leggendo, come se mi fossi accorto in quel momento che c'era gente.
- Che succede? - chiesi, strofinandomi gli occhi arrossati.
Ti va una passeggiata? domandava la lavagnetta di Margarethe. Annuii, ringraziandola mentalmente.
- Come mai ti occupi dei tuoi nipoti? - chiese la sconosciuta
- Mio fratello è al fronte...ragazzi, lei è Hedwig Steinglocke, una mia amica. - ci presentò
Hedwig ci sorrise, con aria gentile: io sentii le mie orecchie riscaldarsi, ma Lotte si fece seria. Come sempre, davanti ad un adulto a lei estraneo diventava impenetrabile. Margarethe aggrottò le sopracciglia.
- Che c'è? - le domandai, quando fummo usciti
Che ne pensi della signorina Steinglocke? mi domandò, evasiva.
Io mi strinsi nelle spalle
- Non saprei...mi pare gentile. -
Lei storse il naso.
- Non ti piace? - domandò Lotte
No. dichiarò, lapidaria.
- E perchè? -
Margarethe riflettè per alcuni istanti, la mano con il gesso sollevata a mezz'aria. Stava pensando ad una frase che una bambina potesse capire.
Cosa ha a che fare con il signor Elric? scrisse infine.
- Mi pare si piacciano... - ribattei, trattenendo le risate. In cuor mio, pensavo che la padrona di casa dello zio fosse gelosa.
Lei scosse la testa, e fece alcuni gesti veloci, che nè io, nè Lotte comprendemmo.


* * *


Gelosa?
Non credo che Thomas abbia mai pensato una cosa simile, era un ragazzino intelligente. Il mio era solo buonsenso: cosa aveva a che fare una bellissima, ricca e raffinata signorina con Edward Elric?
Mi spiegherò meglio: Hedwig Steinglocke era una di quelle donne stupende che sanno benissimo di esserlo, ma hanno bisogno che sia loro ricordato in continuazione. Per questo, necessitano di un uomo capace di farle sentire il centro dei suoi pensieri e, mi spiace dirlo, quell'uomo non è decisamente il signor Elric. Lui era capace di chiudersi per ore nel suo gelido appartamento, attaccato alla scrivania, a lavorare incessantemente, incurante del mondo esterno: poche donne sopporterebbero un uomo simile, e pochissime sarebbero in grado di distrarlo dalla sua occupazione. Io ammetto senza difficoltà di aver rinunciato in fretta, con buona pace di Thomas.


* * *


Margarethe non perse occasione per ricordarmi cosa pensava di Hedwig; la ignorai, e non mi preoccupai nemmeno di ciò che potessero pensare Thomas e Charlotte, vedendomi con una donna a loro sconosciuta: non avevamo nulla di equivoco, nè, del resto, avremmo potuto averlo.
Supponevo di amare Hedwig, ma non accennai mai ad un fidanzamento, per svariati motivi: innanzitutto, lei era di buona famiglia, mentre io ero un disoccupato perennemente al verde; inoltre, non mi sentivo sufficientemente sicuro per chiederglielo, e non solo dei miei sentimenti. C'era una sorta di ritegno tra di noi, che immaginavo dovuto al fatto che nessuno dei due sapesse esattamente fin dove ci si poteva spingere. Forse, quando avessi avuto un minimo di sicurezza economica, mi sarei posto il problema di dare un aspetto ufficiale alla nostra situazione: per il momento, lei si limitava a comparire ogni sabato pomeriggio, alle cinque in punto. Discutevamo, chiacchieravamo, confrontavamo le nostre idee, ma la cosa finiva lì, come si conveniva ad un uomo e ad una donna onesti. Non ci eravamo mai sfiorati.

- Sono bambini graziosi. - disse all'improvviso lei, ripensando ai miei nipoti.
Ridacchiai:
- Non farti sentire da Thomas - la avvertii - Odia essere considerato un bambino. -
- Ti deve somigliare... - suggerì, appoggiando la testa sulla mia spalla e seguendo con un dito il profilo del mio naso, come a mostrarmi una caratteristica in comune con mio nipote.
- Abbiamo già litigato, quindi direi di sì. Comunque, non somiglia per niente a mio fratello. -
- Litigato? Perchè? -
Tamburellai le dita sul tavolo, restio a parlarne: - Divergenze di opinioni. - risposi, evasivo.
Non comprese, ma evitò di insistere. Invece, approfittò della posizione privilegiata per picchiettare il mio auto-mail con una delle sue unghie: sapevo che l'idea di un braccio meccanico la incuriosiva, ma era troppo pudica per chiedermi di tirare su la manica e lasciarglielo vedere. Sebbene avesse la mia età, riusciva a dimostrare qualche anno di meno, ma, quando aveva quell'aria combattuta, ricordava una ragazzina impicciona.
Una ragazzina impicciona che avevo conosciuto, anni prima.

* * *


Margarethe faceva raramente la spesa da sola, e solo in giorni stabiliti: tuttavia, da qualche giorno usciva spesso con Charlotte, che riusciva ad accattivarsi le simpatie di tutti semplicemente con la sua aria timida e adorabile da brava bambina. Quel pomeriggio, comunque, non entrò neppure nella panetteria, ma si limitò a fare un lungo giro dell'isolato.
Oggi c'è il vecchio, spiegò, con una smorfia, io entro solo quando c'è il nipote.
- La passeggiata serviva soltanto per lasciar soli Edward e la signorina Steinglocke? - domandai.
Margarethe mi rispose a gesti, poi si corresse, e afferrò la lavagnetta.
Non m'immischio negli affari del signor Edward. Per indicare lo zio, mi accorsi comparando i gesti alle parole, si toccava la testa, come accennando alla pettinatura di Edward. Era la prima volta che capivo qualcosa nei movimenti della diciassettenne.
Stavamo per rientrare, quando risuonò l'allarme aereo, un lugubre boato che faceva tremare la terra sotto i piedi. Margarethe si morse un labbro, prima di deviare velocemente verso destra, mentre noi la seguivamo a ruota.
Nei mesi precedenti, i bombardamenti aerei su Monaco si erano fatti sempre più regolari: passavamo quasi ogni notte nei rifugi. Da quando eravamo a casa di Edward, tuttavia, era la prima volta che sentivamo la sirena, e ancora non sapevamo dove fosse il bunker.
Eravamo appena entrati, quando alle nostre spalle comparve Ed, da solo. Hedwig doveva essersene già andata.
- Mi sembrava strano che non venissero per così tanti giorni... - brontolò, mettendoci una mano sulle spalle, per non perderci tra la folla.
Avrei preferito farne a meno, fu la risposta di Margarethe.

Non sono un osservatore esperto: mia sorella è molto più in gamba di me. Eppure, da come buona parte delle persone presenti si voltò a guardarci, anche io non potei non comprendere in fretta che Edward non era apprezzato nel vicinato: sembrava che con noi fosse entrato un odore sgradevole. Lui ignorò l'atmosfera creatasi, e andò a sedersi in disparte. Io stavo per seguirlo, quando qualcuno mi chiamò:
- Thomas! -
Mi voltai, e vidi il mio migliore amico.
- Hanno! -
Mi avvicinai, seguito da Lotte, e un gruppo di donne lì vicino smise improvvisamente di parlare, scrutandomi come se fossi stato un bizzarro animale.
Johann Lindemann, o Hanno, come lo chiamavano tutti. Ci conoscevamo dal primo giorno di scuola: era un ragazzino piuttosto alto e molto magro, che dimostrava qualche anno in più dei dodici che aveva; tuttavia, gli occhi chiari erano ancora infantili.
- Sempre al lavoro, vedo! - risi
Indicai il quaderno dalla copertina scura che teneva sotto il braccio, e lui si unì alla mia risata. Sapevo che amava disegnare, e si portava sempre dietro il materiale necessario; non mi aveva mai permesso di guardare le sue creazioni, perché temeva sempre che non piacessero.
- Cosa ci fai qui? - mi domandò, lasciandoci spazio per sederci di fianco a lui
- Vivo a pochi isolati di distanza, - risposi - da mio zio. -
I suoi occhi verdi si posarono su Ed, seduto poco distante da noi. Si strofinò il naso pieno di lentiggini con un dito, tornando immediatamente a concentrarsi su di noi.
- Abiti con... - abbassò la voce - con Edward Elric? -
Corrugai le sopracciglia, perplesso: - Sì. - risposi - perchè? -
Lui arrossì, imbarazzato. Probabilmente non mi avrebbe risposto, ma non aveva fatto i conti con l'uomo alle sue spalle: suo nonno, Johann, il vecchio panettiere, che prima stava parlando fitto fitto con il fratello maggiore del mio amico, Wilhelm, il ragazzo timido che Margarethe cercava in negozio, quello stesso pomeriggio.
- Bella sfortuna, ragazzo! - strillò, con la sua vocetta stridula.
Mi voltai furtivamente verso Ed, sperando che non avesse sentito: improbabile, visto che l'ultima frase era stata urlata. Tuttavia, sembrava profondamente assorto nell'osservazione di un qualche punto sulla parete di fronte a lui e, del resto, non poteva sapere che stavamo parlando proprio di lui.
- Quello... - la voce di Hanno era poco più di un sussurro - ...insomma, perchè non è andato in guerra? -
- Perchè non può. - risposi, come se fosse una cosa ovvia - È menomato, ha... -
Avrei continuato, ma il vecchio ritenne opportuno far sapere a tutto il gruppetto come la pensava:
- Certo che è menomato: vi siete mai chiesti perchè non si è sposato? - disse, alzando un dito con aria saccente e vanificando all'istante tutte le mie speranze che Edward ignorasse ciò che veniva detto sul suo conto.
Le donne si voltarono dall'altra parte, sorridendo appena per l'impertinenza: i pochi uomini lì intorno risero apertamente alla battuta sporca.
Avrei voluto sprofondare per la vergogna. Mi sembrava di sentire lo sguardo di Ed perforarmi la schiena, anche se ero quasi certo che, in realtà, non stesse guardando dalla nostra parte. Oltretutto, per una volta, Charlotte si comportò come una qualunque bambina di sette anni:
- Che significa? - domandò, reclinando leggermente la testa, con sguardo ingenuo.
Le risate aumentarono d'intensità, proporzionalmente al mio imbarazzo.
- Su, su... - una donna mosse stancamente la mano, per chiedere silenzio - Vi sembrano cose da dire davanti a dei bambini? -
Lotte era confusa: mi tirò la manica della camicia, con aria perplessa:
- Cos'ha fatto Ed? - mi chiese
Ero - sono - principalmente un bastian contrario: davanti a simili dimostrazioni di stupidità, dimenticai che non avevo una grande simpatia per Edward.
- Proprio niente. - le risposi, seccato - Questi signori non sanno nulla, ma devono pur passare il tempo. -
Il vecchio panettiere sputò per terra: essere smentito gli dava sui nervi.
- Filate dalla casa di quel disfattista, prima che vi infili strane idee in testa. - consigliò.
Distolsi lo sguardo dalla figura ossuta, a disagio: a giudicare dalla litigata di qualche giorno prima, Ed poteva davvero essere considerato un disfattista. Ma erano le stesse idee di mio padre, e a tutto potevo pensare tranne che papà facesse qualcosa di sbagliato.
Wilhelm, che probabilmente conosceva già il ritornello, cercò di cambiare argomento:
- Portate i miei saluti alla signorina Meyer. - ci disse.
Gli sorrisi appena, annuendo: sapevo che le era simpatico, perchè quando c'era lui dietro il bancone della panetteria, la diciassettenne entrava da sola, dato che Wilhelm leggeva la lavagnetta senza fare storie.
Un uomo alto e allampanato, che riconobbi come il calzolaio all'angolo, gli tirò una cameratesca pacca sulla schiena.
- Ehi, vecchio Johann! - esclamò - Tuo nipote progetta di sposare la figlia dell'antiquario, e tu non ci dici nulla? -
Sperai che la tempesta fosse passata, ma non avevo fatto i conti con la lingua avvelenata del nonno di Hanno.
- Sciocchezze, ne abbiamo già parlato! Suo padre non gli darà mai il permesso. -
O forse, pensai, sarai tu a non darglielo.
- Nonno, per favore, non urlare... -
- Wilhelm, piantala di fare gli occhi dolci a quella mocciosa! Sposati una che possa dare una mano in negozio, e non viva alle nostre spalle. -
Ovviamente. Margarethe era muta, quindi non avrebbe mai potuto lavorare da sola in una panetteria.
- E poi... - il vecchio barbagianni si interruppe per tossire rumorosamente
- Nonno! - implorò il giovane - Non dire queste cose davanti a tutti! -
- E poi, - riprese implacabile l'altro - come puoi fidarti di una donna che vive sola con un uomo? -
Esplosi. Mi ero ripromesso di non farlo, perchè, dalla litigata con Ed, avevo imparato che apparire calmi fa saltare i nervi di chi ti sta di fronte molto in fretta, ma non riuscii più a trattenermi. Forse mio zio non mi era simpatico, ma quelle accuse infamanti non le meritava neppure lui. E parlare di Margarethe, sempre buona con me e Lotte, in modo così offensivo mi faceva ribollire il sangue.
Saltai in piedi come se qualcosa mi avesse punto.
- Queste sono... - come si diceva?, mi chiesi - Queste sono calunnie! Nessuno di voi sa niente di Margarethe, nè di Edward. Però vi sentite in diritto di inventare storielle sporche per passare il tempo, alle loro spalle...tra l'altro, senza neppure un minimo di coerenza. -
Applaudii, con sarcasmo, mentre Johann fissava un punto oltre le mie spalle, con una smorfia astiosa.
- Bravi, complimenti. - gridai - Persino io avrei più coraggio! -
- Su questo non ho dubbi. -
La mano d'acciaio di Edward si appoggiò sulla mia spalla, spaventandomi.

* * *


Sapevo di perdere la calma molto in fretta, ma era la cosa peggiore che potessi fare: presi i miei nipoti e decisi di allontanarmi.
- Signori, buonasera. - dissi, voltando le spalle.
- Scappa a nasconderti, Elric. -
Ignorai Ameise, il macellaio. Le sue bistecche erano molto più intelligenti di lui.
- Lotte... - Thomas prese per mano la sorellina, con un'aria profondamente offesa che, mio malgrado, mi toccò.
- Chi è il pazzo che ti ha affidato dei bambini? -
- Sono tuoi? -
Risposi, evitando di guardare chiunque avesse parlato.
- Sono i figli di mio fratello. - replicai, neutro, raccogliendo il nastrino per capelli caduto a Charlotte.
La moglie del calzolaio, sperando di non essere udita, fece sapere la sua opinione alla vicina. Dimenticando di essere quasi sorda.
- Non aveva un posto più sicuro? - sussurrò a modo suo - Dopo che la polizia, quella volta...-
- Non scomodate la polizia, Frau Müller, - risposi, fermandomi di colpo e voltandomi a fissarla - perchè vostro marito e i suoi amici ne sanno sicuramente più dei poliziotti. -
Rimasi alcuni istanti a godermi l'effetto della stoccata: ovviamente, chiunque avrebbe potuto ribattere che stavo delirando, ma l'istante di silenzio furioso degli uomini fu, per me, meglio di un'ammissione.
Portai i bambini da Margarethe: lei non fece cenni, ma capii cosa stava pensando. Non potendo parlare, spesso le si leggeva in faccia.
- Ed... -
Mi sedetti per terra, appoggiando il mio cappotto sulle spalle di Lotte; Thomas venne ad accovacciarsi di fronte a me:
- ...sei arrabbiato? - chiese, preoccupato.
- Thomas, - risposi, brusco - non provare mai più a fare una cosa simile. Ora non ti lasceranno più in pace. -
- Stavano dicendo una marea di sciocchezze! - reagì lui
- E tu sei così stupido da ascoltarle? -
Margarethe mi colpì col palmo della mano sul braccio: nel suo linguaggio, era come se avesse appena urlato il mio nome, con voce severa. Obbedii al mio padrone di casa, e presi alcuni respiri per calmarmi; mio nipote, intuendo che non era il momento per un'altra discussione, si sedette di fianco a me.
- Thomas... - ripresi - non voglio che tu ti metta nei guai per colpa mia. Tuo padre non me lo perdonerebbe mai; e, tanto per essere chiari, non ho bisogno che qualcuno prenda le mie difese. Non servirebbe a nulla, perchè quel gruppo di vecchie mummie si diverte troppo a inventare fandonie, ma metterebbe nei guai te. -
Lui rimase alcuni secondi in silenzio, mordendosi il labbro
- Di cosa parlava quella donna? - si decise a chiedere infine.
Chiusi gli occhi: - Del motivo per cui non sono venuto al funerale della tua mamma. -
Era da parecchio che sospettavo che i miei adorabili vicini sapessero molto più di quel che dicevano, ma le mie erano solo ipotesi. Io non riconobbi nessuno.
Era fine settembre, e il coprifuoco era appena terminato, quando uscii di casa: il funerale di Caroline Heinrich in Elric sarebbe stato solo alcune ore più tardi, ma preferivo restare accanto a mio fratello. Erano anni che non ci vedevamo così spesso come da quando era rimasto vedovo: solo il giorno prima avevamo passato l'intero pomeriggio insieme, pressochè in silenzio e, andandomene, avevo intravisto i miei nipoti circondati dai parenti che facevano a gara per porgere le loro ipocrite parole con cui si sarebbero scaricati la coscienza. Per qualche minuto avevo pensato di andare a portar via i fratellini, gridando a quegli individui che a due bambini che hanno appena perso la mamma non gliene importa niente delle condoglianze di persone che avevano definito la defunta una "sciocca idealista", perchè si era sposata con un dipendente di suo padre. Lasciai perdere solo perchè non avevo la minima voglia di mettermi a litigare davanti alla casa di Al.
Quella mattina, comunque, mi stavo recando di nuovo da mio fratello. L'aria era piuttosto fredda, e c'era una leggera nebbia: rabbrividii, e tentai di stringere il nodo della cravatta, sperando puerilmente che servisse da sciarpa.
La traversa in cui si trovava l'ex-negozio di antiquariato dei Meyer era la quarta, prima che la via in cui sboccava andasse ad immettersi in una più ampia: ero arrivato all'altezza della seconda, quando ebbi l'impressione di vedere una persona sporgersi da uno dei balconi. Alzai la testa, ma questa era già scomparsa nella casa di Müller.
Chiunque mi aspettasse, approfittò al volo della mia distrazione: mi arrivò alle spalle, afferrandomi e gettandomi a terra. Lanciai un'esclamazione che risuonò nella via deserta, ma parecchie paia di piedi sopraggiunsero, e qualcuno mi colpì alla testa con un bastone, o un manico di scopa. Stordito, venni sollevato per le braccia e trascinato nel vicolo: dovevano esserci sei o sette persone, e sono assolutamente certo che nessuna di esse indossasse una divisa. Urlai più forte, per tentare di attirare l'attenzione, ma fui zittito da un colpo tra le reni, che mi piegò in due. Intrappolato nella stretta di due uomini, venni colpito più volte al petto, al volto e dovunque capitasse e, quando riuscii ad assestare un calcio con l'auto-mail ad uno di essi, ricevetti un pugno sulla guancia sinistra che mi rovesciò al suolo.
Rinunciarono a trattenermi, immaginando che non avessi più la forza per difendermi dai colpi: per alcuni interminabili secondi, in effetti, fu così; poi, riguadagnai abbastanza lucidità da scattare in piedi, in uno sforzo disperato, e correre via, prendendoli di sorpresa.
Non osarono inseguirmi nella via, dove c'era più luce: comunque, non credo che il loro intento fosse uccidermi. Ci sono metodi più puliti.
Arrancai, zoppicando e ansimando, fino alla casa dei Meyer e, durante il percorso, mi voltai più volte indietro, cercando con lo sguardo i miei aggressori o altre persone sui balconi, sicuro che gli uomini della via avessero assistito alla scena. Dopo qualche disperato tentativo, riuscii ad infilare la chiave nella toppa, ed entrai nell'atrio. Chiamai Margarethe col poco fiato che mi restava, e mi infilai nel mio appartamento; cercai di arrivare al letto, ma caddi in ginocchio sul pavimento davanti ad esso.
La ragazza arrivò in quell'istante: si portò le mani davanti alla bocca, sconvolta dalle mie condizioni, ma corse ad aiutarmi. Credo di essere svenuto appena toccai il letto, perchè i miei ricordi ricominciano quando il mio solerte padrone di casa, ben decisa a controllare che la sua fonte di reddito non ci lasciasse la pelle, dimenticò il suo disgusto per il sangue: mi passò un panno umido sul viso, strappandomi un gemito quando toccò le tumefazioni.
Thomas rimase in silenzio, senza guardarmi.
- Ricordo che non c'eri... - mormorò - ma papà venne da te quello stesso pomeriggio, e ci disse che non era successo nulla di grave. -
Trasalii. Almeno ora sapevo come aveva scoperto cosa mi era successo: mi voltai verso Margarethe, che scosse le spalle. Era stata lei, spiegò, ad accoglierlo, non aveva mai pensato che volessi mantenere il segreto con mio fratello. Non lo aveva fatto entrare per evitargli lo spettacolo poco edificante del fratello maggiore ridotto ad uno straccio, ma Al doveva aver capito cos'era accaduto.
Il segnale del cessato allarme rimbombò nel rifugio: era ormai sera, noi avevamo saltato la cena e io ancora non mi ero risolto a riflettere sulle parole del signor Schultz.
Comunque, ero ben deciso a rifiutare.

Pensierino della buonanotte:
Cosa avevo detto all'inizio del capitolo? Che sono ignobile e crudele. Qualcuno ha il coraggio di negarlo, dopo aver letto quel che capita a Ed?
No, non mi riferisco a Lindemann e al resto della combriccola, ma a Hedwig: è così dolce&carina che vien voglia di tirarle un pugno...spero che voi la odiate in misura proporzionale a quanto io la amo. Certo, io adoro Hedwig: non in quanto donna, ma in quanto personaggio riuscito esattamente come io volevo.
Ah, le piccole gioie del narratore onnisciente!
E ora, meglio tornare anch'io alla mia scrivania, a ripassare: appena finirò questa bolgia infernale della maturità riprenderò a scrivere.

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Capitolo 3
*** Una mano in più? ***


Allora, progetti per quest'estate...hmmmm...
[Rika88 beve rumorosamente il succo di pompelmo con la cannuccia]
Assolutamente nessuno.
Yeah, vacanze, divano e computer!
[Puro sogno, temo..]
Rispondo un attimo a qualche questione sollevata nelle recensioni:
    Yolei87: "Peccato che Margarethe non conosca ancora Winry"...ehm, scusa, ma cosa ti dice che si conosceranno mai?
    Martel92: Per quanto riguarda lo...ehm..."scambio di opinioni" decisamente poco civile tra Ed e i suoi aggressori, io non avevo pensato ad un'incapacità del primo a difendersi: va bene, non è più un ragazzino, e probabilmente non si tiene in allenamento (trovare una palestra dev'essere complicato), ma sarà ancora in grado di sbattere gli auto-mail sulla testa di un avversario; avevo considerato, invece, la superiorità numerica degli avversari, l'effetto sorpresa e, soprattutto, il fatto che due di essi lo tenessero. Puoi essere un campione di lotta libera, ma se due brutti ceffi ti bloccano le braccia e un numero indefinito ti legna, potrai fare ben poco.
Piuttosto: EdxMargarethe? Sarà perchè sono un'amante delle EdxWinry, ma l'ipotesi mi pare poco probabile...Margarethe è una ragazzina e, se il padre si è fidato a lasciarla sola con Ed, vuol dire che è assolutamente certo che non corre rischi. Oltretutto, il signor Meyer è stato in guerra, quindi avrà imparato ad usare le armi...
    Mao_chan91: ovviamente, non ho la più pallida idea di come potrebbe comportarsi Ed innamorato. La mia malvagia beta-reader disse che, se Al è riuscito a dichiararsi ad una donna e a fare due figli, c'è speranza anche per lui, ma a me sembra difficile fare paragoni tra i due. Ammetto, nella fanfic, di aver aggirato il problema di una dichiarazione, ma Edward innamorato è uno dei più grandi grattacapi della vicenda.

    3. Una mano in più?

Non rividi Hanno fino al sabato mattina successivo, quando, andando ad aprire, me lo trovai di fronte; entrò subito, con aria circospetta.
- Avrei voluto venire prima, ma mio nonno mi controllava...cos'è quello? -
Ero sceso nel retro della libreria, seguendo le indicazioni di Margarethe, a prendere uno scatolone che conteneva la carta da bruciare nella stufa, al posto dell'ormai introvabile carbone: così, il mio amico mi vedeva con le dita ancora strette intorno alla maniglia e l'ingombrante oggetto tra le gambe.
Dopo avergli spiegato di cosa si trattava, mi feci aiutare a portarlo al piano di sopra, visto che Margarethe, dalla porta al primo piano, mi stava già lanciando occhiate sospettose per il ritardo, ignorando le sue proteste per il fatto che avrebbe dovuto stringere tra i denti l'eterno quaderno dalla copertina nera, col rischio di rovinarlo.
- Willi ti saluta, Margarethe. - disse subito Hanno quando arrivammo in casa, per blandire la diciasettenne - Oggi è andato alla visita medica per l'arruolamento, e in casa c'è talmente tanto fermento che nessuno si è accorto che stavo uscendo. -
Io e lei ci lanciammo un'occhiata in tralice: avremmo detto che ci dispiaceva, ma il mio amico sembrava orgoglioso del fatto. Così, rimanemmo in silenzio.
Appoggiate tutto qui, aveva già scritto il nostro tiranno sulla lavagnetta, e ora tendeva l'indice verso il divano che faceva da letto allo zio. Proprio per questo, mi venne in mente che non lo vedevo dalla sera prima.
- Dov'è Ed? - chiesi quindi.
Margarethe si lasciò sfuggire un sorriso di trionfo, mentre, ruotando solennemente il polso, indicava il piano di sotto.
- Sono giorni che non fa altro che studiare... - capii il motivo della sua soddisfazione - l'hai convinto a tentare per quel lavoro? -
Lui dice che ha deciso da solo, ma ne dubito.
Anche io: il crudele locatario, pur non potendo parlare, riusciva ad essere assillante con l'utilizzo di occhiate penetranti e continue; Ed doveva essersi stancato di tanta insistenza. Oppure, era scappato prima che Margarethe iniziasse un'altra volta a pulire tutta l'abitazione.


* * *


Mettiamo in chiaro una cosa: io non sono fissata con le pulizie. Semplicemente, in quella casa ero l'unica che badasse al disordine e alla polvere che si accumulava quotidianamente, sopportando sbuffi e proteste dai miei coinquilini. In quel momento stavo pulendo la cucina (cosa avrà causato quelle macchie vicino all'ingresso, in nome del Cielo?) insieme a Lotte, quando Thomas infilò la testa all'interno, perplesso:
- Margarethe, credo di aver sbagliato scatolone... -
Impossibile, c'è solo quello risposi, cercando di nascondere l'irritazione per la perdita di tempo.
Per tutta risposta, lui mi fece vedere parte del suo contenuto: vecchie foto, disegni lasciati a metà, parecchi fogli da disegno immacolati.
Tranquillo, è tutta roba vecchia, lo rassicurai, strappandogli di mano le prime, e gettandole nella stufa. Il ragazzino rimase a bocca aperta:
- Ma non sono ricordi della tua famiglia? -
Sorrisi leggermente, scuotendo la testa: quelli che aveva in mano erano vecchi oggetti appartenuti a mia madre, e non mi sentivo legata a quel che la mia distratta genitrice, aspirante pittrice, aveva dimenticato quando se n'era tornata in Austria, dopo il divorzio da mio padre. Se li avesse rivoluti indietro, avrebbe avuto quindici anni per farlo, ma non si era mai più fatta viva, quindi mi sentivo in diritto di disfarmi di tutta quella carta, specie in quel momento in cui avevamo un bisogno disperato di tutto ciò che poteva essere bruciato, e solo le lettere del signor Alphonse e di mio padre si salvavano.
- Anche i libri sono da mettere nella stufa? -
Arrossii, e feci segno a Thomas di andarsene.
I libri erano miei, di papà e del signor Edward, ma era decisamente meglio disfarsene.


* * *


Entrando in casa, l'ultima cosa che mi aspettavo era trovarmi di fronte l'amico di Thomas: invece, il trio di ragazzini era seduto per terra, senza che Margarethe lanciasse occhiate malevole ai pantaloni macchiati di Hanno Lindemann. Probabilmente, considerava gli sbaffi di farina la prova che il ragazzino dava una mano nel negozio di famiglia, a differenza di quello scansafatiche dell'affittuario che le era toccato. Oppure, ricordava a se stessa che la fairna può esere tolta con pochissima fatica, a idfferenza dell'inchiostro sui miei polsini.
Mi bloccai sulla porta, senza sapere esattamente cosa aspettarmi dal nipote del panettiere, poi decisi che non sarebbe stato un problema rispondere male, all'occorrenza.
(La persona che allunga il collo per sbirciare cosa scrivo mi fa notare, ridacchiando, che non ha ancora scoperto quando per me sarebbe un problema farlo)
- Buongiorno a tutti. - salutai.
Tre teste si voltarono verso di me.
- Buongiorno, signor Elric. - rispose Hanno.
Rimasi stupito dalla sua educazione, sebbene, in effetti, anche suo fratello Wilhelm fosse sempre molto gentile quando vedeva me o Margarethe in negozio; per il nonno che avevano, erano cresciuti straordinariamente bene.
- Quanto sei stato al piano di sotto? -
- Il tuo modo di salutare è quantomeno curioso, Thomas. Comunque, sono sceso stanotte: non riuscivo a prender sonno. -
- Papà dice sempre - interloquì Lotte, con aria saggia - che la notte è fatta per dormire. -
- Tuo padre ha sempre avuto più buonsenso di me. - ammisi, appoggiandole la mano sulla spalla.
Mi infilai in cucina per parlare con Margarethe: qualcuno avrebbe dovuto dire al piccolo Lindemann che non si fissa la gente, anche se ha fama di essere disfattista, mancante di attributi, di indulgere in atti impudichi con la propria locataria minorenne e chissà quali altre nefandezze...sebbene, in teoria, una opzione escluda l'altra, come Thomas aveva notato solo una settimana prima.
- Che mi dici del ragazzino? - domandai sottovoce alla diciassettenne.
Lei, che stava fingendo di pulire per poter origliare, si fermò a riflettere, prima di rispondermi a gesti: secondo me, gli fai paura, ma... non riuscii a capire il resto della frase.
- Ma...? - ripetei
Me lo scrisse: ma è incuriosito.
- Da me? - faticai a non ridere.
Sei pittoresco diceva la lavagnetta (dubito esista il termine "pittoresco" nel vocabolario gestuale di Margarethe).
- Hanno se ne va, lo accompagno alla porta! - gridò Thomas
Scossi la testa, divertito mio malgrado dall'idea di passare per il fenomeno da baraccone del vicinato: sempre meglio che fare la figura del pervertito.
 

* * *


- Tom, sei sicuro di stare bene? -
Sospirai, seccato:
- Vi siete messi d'accordo, tu e Ed? Anche mio zio da un po' di tempo continua a chiedermelo. -
- Sei un po' pallido... -
- Non mangio carne da settimane, - risposi, stizzito - ma gli altri sono nella stessa situazione.-
Hanno si mise il quaderno sotto il braccio, e si sfregò il naso lentigginoso:
- Senti... - iniziò, a disagio - l'ultima volta che ci siamo visti...ecco, io volevo dirti che...insomma, non volevo parlar male... -
Fece un cenno con il mento, ad indicare la scala da cui eravamo scesi.
- Sì, lo so. - risposi - Credo lo sappia anche Edward. -
- Anche se il nonno dice che è un disfattista e una spia degli americani... -
- Questa mi è nuova! - lo interruppi
- In effetti, è venuta fuori solo tre giorni fa, ma l'ha detto soltanto a Roggen...sai, il proprietario dell'emporio. -
- Ah, quello con le scarpe di due colori diversi. -
- Esatto. - il mio amico cercò di riprendere il filo - Beh, Willi e mia madre dicono sempre che, prima di giudicare una persona, bisognerebbe conoscerla: per cui, io ho deciso di non impicciarmi negli affari di tuo zio, nonostante quel che dicono gli altri e i libri proibiti che abbiamo visto in quello scatolone. -
Mi morsi il labbro, imbarazzato: avevo sperato che Hanno non se ne fosse accorto.
Lui, ignorando il mio disagio (o fingendo di ignorarlo), si mise in testa il berretto, riprese in mano il quaderno su cui disegnava e si preparò ad accomiatarsi:
- Ci vediamo presto, Tom. Appena mio fratello sarà partito, farò i turni al posto suo in negozio, quindi, se ti va, puoi passare a prendere il pane, o... - abbassò la voce, anche se nessuno poteva udirci - altro. -
I Lindemann vendevano sottobanco generi alimentari e parecchi altri articoli a borsa nera, provenienti da qualche parente sfollato in campagna: noi ricevevamo gli ortaggi dal signor Schulz, ma, anche se ne avessimo avuto bisogno, difficilmente Johann Lindemann ci avrebbe allungato qualcosa, vista l'antipatia per Edward. Ovviamente, per Hanno, l'idea di fare qualcosa di proibito rendeva la vita in negozio tanto eccitante da fargli dimenticare gli ordini dall'alto.
- Va bene, ma tu puoi venire a trovarci: controllerò io che Ed si comporti educatamente. -
Lui rise, ma io dicevo sul serio.


* * *


- ...così, adesso, nella lista dei crimini che ho commesso, dovrò aggiungere lo spionaggio. Sono un disgustoso spione pervertito. -
La mano davanti alla bocca, Hedwig rideva sonoramente; non potevo darle torto, perchè anch'io mi ero divertito parecchio quando Thomas mi aveva informato, con aria preoccupata, delle nuove voci che correvano su di me.
- Potevi evitare di far sapere che sei stato negli Stati Uniti. - mi prese il giro la mia amica.
- Meglio, potevo evitare di andarci a lavorare per due anni e restare qui a calcolare quanto rende una dannata mucca, o se quel bracciante ha davvero diritto a sette marchi in più... -
Mi interruppi, colpito dal rumore che avevo appena sentito in libreria, e dal risuonare di passi che ne era seguito; sbalordito, mi voltai verso la mia interlocutrice:
- Hedwig, per caso hai qualche potere magico? -
Lei continuò a ridacchiare: per la prima volta, avrebbe potuto ammirare quella che ormai anche io credevo una specie estinta.
Un cliente.
Uscii dal magazzino, andando a vedere di chi si trattasse, mentre la mia amica restava seduta comodamente sulla sedia.
Mi trovai di fronte ad un bizzarro individuo: un uomo senza età, che sembrava stare in piedi solo grazie al suo bastone dall'impugnatura d'argento. Indossava un abito costoso, ma, con le mani ossute e il viso così rugoso, sembrava un vecchio albero contorto strizzato in un po' di stoffa.
Aveva un volto familiare: forse era un cliente abituale della libreria, o del negozio di antiquariato, prima della guerra. Lui, comunque, era così assorto nell'osservazione di uno scaffale, da non notarmi neppure.
- Posso aiutarla? - domandai, formale
L'uomo sobbalzò, accorgendosi per la prima volta di me.
- Sì, devo... - balbettò, disorientato - avrei bisogno di due libri. Potrebbe essere così gentile da cercarmeli lei? La mia vista non è più quella di un tempo... -
Sorrisi, e mi feci dare i titoli, pensando che se io, a quarant'anni, ero già così miope, quell'uomo avrebbe potuto essere quasi cieco. Infilandomi tra gli scaffali, rischiai di inciampare in mio nipote, seduto come al solito per terra; dato che aveva appena terminato la sua lettura, riuscii a farmi dar retta:
- Mi passi quel libro? - chiesi, indicandogli un grosso volume proprio sopra la sua testa
Lui sbirciò il titolo: era un saggio di chimica.
- Non l'avevi già letto? - mi chiese, sardonico.
- Questa è una libreria, sai? Di solito vendiamo libri. - risposi a tono.
Tornai dall'uomo, rimasto ad aspettare a pochi metri da noi.
- Le faccio il conto. - dissi, avvicinandomi alla cassa.
- Si interessa di scienza? - mi chiese, per il puro gusto di far conversazione. Forse era anche cieco, ma di certo non sordo; e la voce di mio nipote, quando lui pensava di essere spiritoso, si faceva piuttosto acuta.
- Un tempo mi vantavo di essere uno scienziato. - risposi, evasivo.
Non mi piaceva chiacchierare. Avevo imparato dalle serpi che vivevano nelle case vicine che ogni parola può diventare un'arma a doppio taglio, e ormai da anni pesavo tutte quelle che mi uscivano di bocca, o quasi.
- Gli scienziati sono ormai tutti venduti alla guerra. - sospirò il vecchio - I pochi che non si piegarono, furono allontanati anni fa. -
- Oppure sono stati arruolati. - brontolai, pensando a mio fratello - Comunque, non è questo il mio problema. È da parecchio che non entro in un laboratorio. -
- Questo scempio mi disgusta. Lei lavorava qui a Monaco? -
Avevamo idee simili, a quanto pareva.
- Anche, ma ho viaggiato parecchio. -
Il mio ego aveva gongolato, quando ero stato assunto negli Stati Uniti per un paio d'anni, dopo il licenziamento in Germania. Il Vermont è gelido, ma almeno qualcuno apprezzava il mio lavoro.
L'uomo estrasse dal taschino un paio di occhiali dalle lenti spesse come fondi di bottiglia, e li inforcò, controllando il prezzo: il mio calcolo dovette soddisfarlo, perchè aprì il portafoglio senza fiatare. Mi allungò le banconote e, alzando lo sguardo, per la prima volta mise a fuoco il mio viso.
Lui mi riconobbe, io no. E non per colpa della miopia.
- Lei? - domandò, fissandomi con gli occhi sgranati.
- Come? - chiesi, perplesso.
- Cosa ci fa lei qui? -
Rimasi a guardarlo, chiedendomi se non mi stesse confondendo con qualcun altro, quando Hedwig, inconsapevolmente, mi fornì la soluzione. Arrivò alle mie spalle, stanca di aspettarmi, e riconobbe la persona che mi stava di fronte.
- Ed... - iniziò, prima di interrompersi bruscamente - Lei... che piacere vederla! - esclamò, allungando la mano perchè gliela stringesse.
- Signorina Steinglocke, piacere mio...è tanto che non vedo sua madre. - mormorò quello, a disagio, senza smettere di guardarmi come se fossi stato un serpente a sonagli.
- Vi conoscete? - chiesi.
- La famiglia di mia madre è proprietaria di un piccolissimo istituto di ricerca, l'Istituto Schneider, e questo signore è l'ex-direttore... - si interruppe, vedendomi impallidire.
Ebbi la netta sensazione che un fulmine mi avesse appena colpito.
Quante volte avevo scherzato con Al sul banalissimo cognome della donna che finanziava il nostro laboratorio?
Quante volte avevo maledetto la Schneider e tutta la sua stirpe, per aver messo sulla poltrona del direttore un verme a cui non importava altro che il proprio pingue stipendio?
Mi irrigidii, con un brivido di disgusto, riconoscendo l'uomo che avevo di fronte. Thomas, arrivato in quel momento e ignaro di tutto, si bloccò con la bocca spalancata.
- Nonno! - esclamò, sorpreso.
Karl Heinrich, la vecchia carogna. Non lo vedevo dal giorno precedente il funerale di Caroline, ma da allora sembrava che sulla sua figura fossero passati anni: lo ricordavo con i capelli ancora biondi, anche se forse erano tinti, il mento arrogantemente alzato, gli occhi sempre pronti a squadrare la gente per calcolare il suo conto in banca. Come si era trasformato nel cumulo di ossa scricchiolanti che avevo di fronte, quando non doveva avere più di settant'anni?
Eppure, un tempo avrei potuto descrivere quell'essere viscido fin nei minimi dettagli: avevo stampato in mente quel giorno in cui convocò me e Alphonse nel suo ufficio. Iniziò sfoggiando un'aria quasi sofferente, come se avesse dovuto separarsi da una parte di sè, per comunicare al mio fratellino che era stato promosso a vicedirettore. Non appena Al, ingenuamente, lo ebbe ringraziato (mio fratello non aveva ancora capito con che razza di individuo avesse a che fare), si voltò verso di me.
Ricordo perfettamente che sentii il sudore colarmi lungo la schiena, notando un luccichio perfido nei suoi occhi: faticando a nascondere l'espressione trionfante, fece notare a suo genero che avrebbe dovuto trovare dei soldi per quell'aumento di stipendio improvviso, ma che non si sarebbe dovuto preoccupare, perchè aveva già risolto il problema. Edward Elric, raccolga le sue cose e se ne vada. Lei è licenziato.
Il sorriso di Al morì all'istante: si slanciò in avanti, implorando l'uomo di non farlo.
Lo fermai, perchè era esattamente quel che Heinrich voleva, e me ne andai senza una parola, lasciando la porta dell'ufficio aperta.
Io e l'uomo dal bastone con l'impugnatura d'argento ci riscuotemmo, sentendo la voce di Thomas, e ci accorgemmo di essere rimasti immobili: lui con le banconote in mano, io con il palmo teso, come un mendicante. Lo avrei ritirato, ma mi costrinsi a pensare a Margarethe e ai ragazzi: non potevo fare il difficile sulla loro pelle.
Heinrich risolse il problema, come sempre, a modo suo: appoggiò i soldi sul bancone, per poi rivolgersi al nipote.
- Thomas, cosa fai qui? -
Mi resi conto che non avevo idea dei rapporti che intercorrevano tra nonno e nipoti.
- Vivo qui. Papà è al fronte. -
Non idilliaci. Il dodicenne era intimidito.
- Non ti sei neppure accorto dell'assenza del tuo vice? - gli domandai, tagliente, sapendo che non si faceva mai vedere in laboratorio.
- Ho avuto da fare, negli ultimi mesi. -
- Guardarsi le unghie crescere dev'essere impegnativo. - ribattei subito - O forse, calcolavi cosa comprare con l'ultimo stipendio? -
- Non credo che un libraio sappia cosa deve fare il direttore di un istituto di ricerca. - mi rispose, calcando la voce sulla parola.
- Negli anni in cui ho lavorato per te, in effetti, non l'ho capito. Forse perchè non ti ho mai visto fare niente. Dopo hai scaricato tutto ad Alphonse, non è così? -
Non poteva negare, sapevo che andava esattamente come avevo detto. Ogni tanto facevo visita alla famiglia di mio fratello, e immancabilmente ero accolto da mia cognata, che talvolta mi informava che Al non era ancora arrivato, talvolta che si era addormentato sul divano, stravolto.
Hedwig tossicchiò, per ricordarci la sua presenza.
- Suvvia... - iniziò, sfoderando il miglior sorriso di circostanza - non è il caso di scaldarsi così. -
Non mi presi la briga di contraddirla. Non pretendevo che una ragazza di buona famiglia capisse qualcosa di argomenti così venali.
- Grazie per i libri. - disse Heinrich, con freddezza, voltandomi le spalle.
Fissò per alcuni istanti Thomas, appoggiandosi pesantemente al bastone: stavo per intervenire, prima che offendesse mio nipote con qualche commento su suo padre, ma, con mio sommo stupore, si accontentò di carezzargli leggermente una guancia.
- Tua sorella come sta, Tom? - chiese, con una gentilezza inaspettata.
- Bene. - rispose lui - È al piano di sopra, la chiamo? -
Il vecchio scosse la testa, in cenno di diniego. Si allontanò lentamente, con aria sofferente.
Era stata la morte della sua unica figlia, realizzai all'improvviso, a ridurlo così. Per questo aveva rifiutato di vedere Charlotte: la bambina è sempre stata molto simile a Caroline.
La porta si era appena richiusa, quando, da qualche parte fuori del negozio, giunse un urlo terrorizzato.

* * *
 

Ci guardammo tutti e tre in faccia, spaventati.
- Lotte! - esclamai, correndo di sopra.
Sentii i passi di mio zio e della signorina Steinglocke alle mie spalle, mentre io ero già schizzato nell'atrio.
Margarethe e mia sorella stavano facendo le pulizie nell'appartamento di Ed: la diciassettenne aveva davvero un'ossessione per l'ordine. Trovai Lotte nella camera da letto, inginocchiata vicino al cassettone: alcune camicie le erano cadute di mano quando aveva urlato, e ora piangeva, terrorizzata, con Margarethe che tentava di calmarla.
- Lotte! - la chiamai, correndole vicino.
Lei mi buttò le braccia al collo, continuando a singhiozzare:
- C'è un...guarda, è orribile! -
Guardai nel cassetto ancora aperto, e sentii il cuore mancarmi un battito. Fu un attimo, perchè subito dopo mi resi conto dell'equivoco.
Lotte aveva visto una protesi d'acciaio dello zio: solo che quella aveva un rivestimento di un qualche materiale dello stesso colore della pelle umana, che la rendeva straordinariamente simile ad un braccio vero.
Cominciai a ridere nervosamente, mentre Ed sospirava, portandosi una mano sugli occhi.
- Lotte, sciocchina, - la presi bonariamente in giro - è finto, vedi? -
Ci appoggiai un dito sopra, cercando di non rabbrividire per il disgusto: faceva lo stesso effetto che toccare della pelle vera, ma era gelida. Pur sapendo che non era un braccio autentico, l'effetto era rivoltante.
Edward si sedette per terra, vicino a noi. Si tirò su la manica destra, per far vedere a mia sorella la protesi che portava al momento: non aveva rivestimenti che simulassero l'epidermide umana, e forse per questo era meno impressionante.
- Guarda, Lotte. Questo è un auto-mail, esattamente come quello lì dentro. -
Mosse le dita, sotto gli occhi perplessi di Charlotte. A onor del vero, devo dire che anche io e la signorina Steinglocke stavamo allungando il collo, incuriositi. Per quanto mi riguarda, anche se si trattava di mio zio, non avrei mai avuto il coraggio di chiedergli di farmi vedere quella...cosa.
- È... - Hedwig tossicchiò, imbarazzata - è tutto finto? Il braccio, intendo. -
- Fino alla spalla. - replicò lui
- Come...? -
- Un incidente, nella Grande Guerra. - mentì pronto Ed.
Evitai di guardarlo, mi alzai in piedi e lasciai vagare lo sguardo sul disordine della scrivania, da cui Edward, come al solito, non aveva tolto i quaderni su cui lavorava. In realtà, non vi era nulla di comprensibile, ai miei occhi: pagine e pagine vergate in una calligrafia veloce e disordinata. Nei margini, o più raramente su qualche foglio bianco, erano incastrate circonferenze di tutte le dimensioni, con inscritte figure geometriche, linee, scritte così minute da risultare illeggibili anche per me, che non ero miope come lui.
- Non pensavo che uno scienziato fosse così dotato artisticamente. -
Mi voltai verso Hedwig Steinglocke: non mi ero accorto che fosse dietro di me.
- Non è nulla... - si difese lui, saltando in piedi e raccogliendo i fogli in fretta. - disegni senza senso. Stamattina non ho fatto in tempo a mettere tutto a posto. -
Fu salvato da un rumore all'esterno: qualcuno bussava alla porta.
L'amica dello zio decise che era il momento di sparire, e io non potei fare a meno di sentirmi sollevato per lui: per ben due volte di seguito si era trovato in una situazione imbarazzante.
Fuori dalla porta c'era di nuovo Hanno, con il suo quaderno dalla copertina scura sotto il braccio e una luce strana negli occhi.
- Tom, posso entrare un attimo? - mi domandò subito.
- In casa? -
- Nell'atrio va benissimo. -
Preoccupato, lo lasciai passare e chiusi la porta alle mie spalle.
- È successo qualcosa? - chiesi.
Lui si guardò intorno, assicurandosi che non ci fosse nessuno. Mi fece cenno di avvicinarmi, come se dovesse rivelarmi un grande segreto.
- Mio fratello Wilhelm... - mi sussurrò all'orecchio - non ha passato la visita per l'arruolamento. -
Rimasi in silenzio: probabilmente, per la famiglia era considerata un'onta.
Forse era per questo che tutti, nella via, odiavano mio zio, visto che lui non aveva mai fatto mistero di come la pensasse in proposito.
- Oh... - non sapevo cosa dire. Si aspettava che mi mostrassi dispiaciuto? - Come mai? -
- Costituzione debole, o qualcosa del genere. - il mio amico si strinse nelle spalle - Il nonno lo ha preso a cinghiate. -
Sollevai un sopracciglio: da quel vecchio, me lo sarei aspettato.
- Senti, - iniziò lui, - io non ho niente contro di lui: so che non è colpa sua. Come immagino non sia colpa di tuo zio se... -
Lasciò cadere la frase: mi convinsi che la mia ipotesi era esatta, ed evitai di dirgli che Ed era ben contento di essere a casa sua.
- Insomma, volevo fare qualcosa per la mia famiglia. Appena si saprà questa cosa...sai come sono quegli altri. -
- E cosa vorresti fare? - domandai
- Quanto sei ingenuo, Tom. Mi voglio arruolare, no? -
Sgranai gli occhi, sicuro che stesse scherzando.
- Tu? - gridai
- Parla piano! - implorò - Sì, io. Conosco gente che l'ha fatto: basta mentire sull'età. -
- Che sciocchezza! -
Hanno parve deluso.
- Speravo che almeno tu mi aiutassi. -
- Dico solo che è una follia. -
- Libero di pensarla come vuoi. - era offeso dal mio atteggiamento - Non ti ho chiesto di venire con me. Anche perchè avresti paura. -
Mi consegnò il suo quaderno, con un gesto brusco.
- Vorrei che me lo tenessi fino al mio ritorno. - disse, calmandosi - Se mio nonno lo trovasse, lo distruggerebbe. Lo do a te perchè so che non guarderai. -
Lo presi in mano, stordito.
- Va bene, - acconsentii - ma... -
- E, per favore, non dire niente. Appena possibile scriverò una lettera ai miei parenti: prima di allora, fai finta di non sapere nulla. Non parlarne neppure con tua sorella, e neppure con tuo zio. -
- Va bene, Hanno, ma credo... -
- Tranquillo, - mi interruppe, con fermezza - quando tornerò, si saranno dimenticati tutti che sono scappato di casa. E mio nonno smetterà di dire che sono un buono a nulla. -
Rise, imitando il saluto militare, e uscì saltellando.
Ed arrivò in quel momento, chiudendo la porta del suo appartamento.
- Chi era? -
- Hanno, il mio amico. -
- Cosa voleva? -
Rimasi fedele alla promessa appena fatta.
- Nulla. -
A volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi confessato a Ed i propositi di Johann, dando ascolto alla mia coscienza. Forse sarebbe andata diversamente. Forse Edward lo avrebbe rincorso, gli avrebbe schiarito le idee con due ceffoni e l'avrebbe rispedito a casa sua. Non lo saprò mai.

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Capitolo 4
*** La porta sbagliata ***


Nuova pagina 1

Ritengo doveroso segnalarvi due sbadataggini del primo capitolo, di cui mi sono accorta (con raccapriccio) solo di recente: in primo luogo, il titolo è identico a quello del primo capitolo di Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban, che ho ripreso in mano casualmente qualche giorno fa. Non credo di aver esattamente copiato, perchè non lo ricordavo davvero: probabilmente, si tratta solo di poca originalità.
Il secondo è un errore più grave: Ed definisce Margarethe il proprio "affittuario"; ovviamente, è il suo locatore, non l'affittuario. Mi consolo parzialmente della mia ignoranza pensando che, con questo, la mia beta-reader non potrà più fare commenti acidi per il resto dei suoi giorni...
 

    4. La porta sbagliata

Il giorno il cui Ed si presentò all'Istituto di Ricerca Schneider per mendicare un posto di lavoro, come diceva lui, fu memorabile. Col senno di poi, sono arrivato a sorridere dell'intera faccenda, ma allora non lo feci affatto, anche perchè per colpa mia Edward si trovò in almeno un paio di situazioni davvero spiacevoli.
Ma andiamo con ordine.
Quella mattina di febbraio (il nove, lo ricordo bene) la iniziai trascinandomi al tavolo della cucina, dopo una notte pressochè insonne per un persistente mal di pancia, che imputai ai cavoli della sera prima (non solo per il loro patetico aspetto, ma anche perchè odio i cavoli, e quella era la quinta giornata di seguito che pranzavamo e cenavamo con quei dannati ortaggi): oltretutto, come scoprii appena in piedi, ero afflitto da continui capogiri.
Nessuna sorpresa, quindi, che Ed e Margarethe, prima ancora di salutarmi, mi avessero guardato come se fossi già bell'e morto.
Lotte, invece, era troppo allegra per accorgersi di me:
- Guarda, Thomas, - cinguettava, tirandomi la manica e parlando senza sosta - Margarethe mi ha fatto le trecce come mi faceva la mamma, solo che lei le fa dritte, quelle di mamma erano sempre storte, e poi è arrivata una lettera di papà, vuoi leggerla? -
Spostai bruscamente il braccio, seccato dal gesto continuo e con la testa che rimbombava della sua vocetta acuta. Appoggiai il viso su una mano, mentre addentavo il pane scuro che faceva da prima colazione.
Margarethe, seduta come sempre a capotavola, si alzò per mettermi una mano sulla fronte:
- Non mi sento la febbre! - protestai.
Edward tossicchiò leggermente.
- Oltre alla lettera di tuo padre, è arrivata anche questa... - mi porse una busta intatta - per te, dal tuo amico. -
- Hanno! - esclamai sollevato. Non avevo avuto sue notizie da quel pomeriggio in cui mi aveva annunciato il suo folle piano.
Lessi entrambi i fogli con attenzione, nonostante il malessere che mi costringeva a strizzare gli occhi per mettere a fuoco le parole: la lettera di Johann, comunque, era pressoché incomprensibile, a causa delle censure che coprivano più di metà del testo. Cosa mi voleva dire il mio amico di tanto scandaloso, lui che era così fiero della sua idea il giorno in cui me l'aveva rivelata?
Mio padre, invece, era affettuoso come sempre: si preoccupava per noi, metteva in guardia il fratello maggiore sulla sua scellerata abitudine ad agire impulsivamente (consiglio che, immagino, entrava da un orecchio dell'interessato per uscire immediatamente dall'altro), e parlava molto dei suoi commilitoni con una capacità descrittiva tale che sembrava di vederli mentre parlavano, lì il sarto che pensa al figlio e alla moglie, là il gigante che ride rumorosamente e li tiene allegri, laggiù un giovane timido che scrive alla fidanzata...
- Thomas, sapevi della stupida iniziativa di quel ragazzino? -
- No, zio. - mentii - Hanno non mi ha mai detto niente. -
Lui non ci cascò. Doveva essere un esperto bugiardo.
- Allora perchè quel pomeriggio è passato a darti il suo quaderno? -
- Forse ci stava già pensando, ma a me non ha detto nulla. - ripetei, stancamente, appoggiando nuovamente i fogli sul tavolo.
- E non ti è venuto in mente di chiedere cosa avesse in mente? -
Alzai gli occhi su di lui, esasperato.
- No, non ho chiesto ad Hanno cosa aveva in mente. Ho pensato che non fossero affari miei. - lo accontentai.
Lui spalancò la bocca, sbalordito dalla mia risposta:
- Non fossero affari miei?? Thomas, il tuo amico ha fatto quanto di più idiota... -
Si interruppe bruscamente: ricordava la nostra decisione di non parlare di quel che avrebbe potuto causare una lite, il primo giorno in cui io e Charlotte eravamo arrivati e, sebbene fremesse per l'indignazione, si costrinse a tacere.
Margarethe, per tentare di distrarci, attirò l'attenzione di Ed e battè più volte sul proprio polso con l'indice della mano destra. Un gesto universale: si stava facendo tardi. Mio ziò sospirò, ma non fece cenno di volersi alzare; quel giorno indossava il vestito buono, con un panciotto apparentemente nuovo e la camicia pulita, anche se teneva le maniche arrotolate e aveva appoggiato la giacca dietro lo schienale della sedia e il cappello del signor Meyer in grembo: per la prima volta dacché lo conoscevo, indossava la cravatta.
Sarebbe sembrato addirittura rispettabile, se non avesse avuto quei capelli lunghi.
- Ora vado, ora vado... - brontolò - sei così ansiosa di vedermi coperto di ridicolo? -
Basta che vai a coprirti di ridicolo in orario, rispose seria la ragazza, alzandosi dal suo posto a capotavola, mentre Lotte raccoglieva le briciole dal piano di legno e io restavo immobile, la testa appoggiata sul mento. La diciassettenne mi diede un leggero colpetto sulla spalla perchè la guardassi, e disegnò con il dito un semicerchio sotto il proprio occhio.
- Come? - chiesi
- Hai delle occhiaie spaventose. - tradusse Ed - Hai dormito stanotte? -
- Non tanto. Credo mi abbiano fatto male i cavoli. -
- Di certo ne avrai mangiati troppi. - rispose lui, sarcastico - Sicuro di non aver di nuovo passato metà della tua cena a Lotte? -
Non risposi. La lista delle mie menzogne era aumentata troppo, quella mattina; mi limitai ad alzarmi, seccato dalle continue attenzioni degli altri. Edward, alle mie spalle, indossò la giacca con l'espressione di un martire, afferrò il soprabito, buttato sulla sedia vuota di fianco a lui, e andò in salotto a cercare le chiavi.
- Vengo a chiudere la porta. - mi offrii.
- Non ce n'è bisogno... -
- Lo faccio volentieri. -
A casa, io e Lotte facevamo a gara per aprire e chiudere la porta a papà, quando andava o tornava dal lavoro: il mio gesto era un tentativo di rappacificazione. Forse Ed lo intuì, perchè non replicò quando lo precedetti in salotto.

Comunemente si ritiene che esistano due categorie di bugie: quelle dalle gambe corte e quelle dal naso lungo.
Bene, è una bugia anche quella. Esiste una terza categoria: le bugie dallo stomaco vuoto.
Lo scoprii quella mattina del nove febbraio 1945, anche se non saprei dire cosa sia esattamente successo: io vidi soltanto la stanza ruotare vorticosamente intorno a me, mentre il pavimento mi si avvicinava a grande velocità.
Per alcuni istanti, tutto fu buio.

* * *


Se anche non fosse bastato il tonfo sordo a preoccupare me e Lotte abbastanza da farci correre in salotto, l'esclamazione di Edward sembrò far tremare i muri, ed era così volgare che non ritengo opportuno riferirla.
Probabilmente, descrivere quel che successe a Thomas come uno svenimento sarebbe eccessivo: quando mi avvicinai, il ragazzino era di nuovo più o meno cosciente; il signor Elric si era inginocchiato di fianco a lui e gli teneva la mano d'acciaio sulla spalla, scuotendolo leggermente.
E se qualcuno crede che io abbia espresso un pensiero sul ritardo che stava accumulando o sui suoi pantaloni, ha davvero una misera opinione di me.
- Thomas? - chiamò - Thomas, mi senti? -
Lui mugolò qualcosa, portandosi una mano sugli occhi.
- Margarethe, per favore, potresti aprirmi la porta della camera dei ragazzi? Lo metto a letto. -
Annuii, lasciando docilmente che Edward prendesse il controllo della situazione: odio queste circostanze. Feci come mi aveva chiesto, poi andai da Charlotte, ancora immobile sulla soglia. Non piangeva, ma aveva gli occhi sbarrati di chi non si è ancora reso conto di quel che è accaduto.
- Thomas sta male? - mi domandò, più perplessa che realmente preoccupata.
Le accarezzai la testa, picchiettando con il gesso sulla mia lavagnetta con l'altra mano, alla ricerca di una frase precisa, ma che non spaventasse la bambina.
Il signor Elric, nel frattempo, stava dimostrando dei nervi d'acciaio (mi si perdoni il gioco di parole, ma non esistono altre espressioni che rendano l'idea): insensibile alle proteste - piuttosto deboli - del nipote, lo aveva preso in braccio e portato a letto, restandogli vicino per impedirgli di alzarsi. Thomas, alla fine, si arrese così velocemente da farci capire che non stava ancora bene.
- Che è successo? - domandò.
- Stavi per offrire a tuo padre un motivo per commettere un fratricidio, credo. - rispose Edward, prima di rivolgersi a me - Abbiamo qualcosa da dargli da mangiare che lo rimetta in piedi? Direi che il problema sia quello, non mi sembra malato. -
Aggrottai le sopracciglia: io gli avrei dato del brodo di pollo, che fa sempre miracoli, gli spiegai, ma dove andarlo a prendere il pollo?
L'uomo annuì, con aria pensierosa. Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e si alzò.
- Esco un attimo. - annunciò, scontroso.
Lo guardai con aria interrogativa, ma lui non si voltò neppure.

* * *


Uscii senza soprabito, nonostante il freddo e il rischio che ricominciasse a piovere. L'avevo dimenticato nel salotto, per terra, sopra al cappello del padre di Margarethe.
Percorsi a passo sostenuto la strada fino alla panetteria, poi, invece di entrare nel negozio, bussai alla porta dei Lindemann... va bene, "bussare" probabilmente è un eufemismo: battei con la mano aperta, facendo tanto chiasso da far voltare i pochi passanti.
Come avevo sperato, venne ad aprire Wilhelm Lindemann, che, appena mi vide, rimase a fissarmi come se fossi un fantasma.
- Wilhelm, ho bisogno di un favore. - esordii in fretta.
Gli spiegai brevemente cosa volevo, dicendogli che era un'emergenza: non sapevo quanto potesse fare senza il consenso di suo nonno, ma speravo che il vecchio imbecille non sputasse nel piatto in cui mangiava. Alla fin fine, ero un cliente.
Il ragazzo rimase ad ascoltarmi, poi si guardò intorno con finta noncuranza:
- Entri, Herr Elric. - disse, infine, dopo aver controllato che certi avvoltoi suoi parenti non fossero in giro.
Riuscii a sorridere, sollevato: - Ti ringrazio. -
I Lindemann tenevano la merce venduta a borsa nera in cantina: non potei vedere dove la nascondevano, ovviamente, perchè il ragazzo mi chiese di aspettarlo sul primo gradino (io scesi fino al quarto), ma lo sentii frugare per due minuti buoni, producendo ogni tipo di rumore. Quando tornò, comunque, aveva un sacchetto della panetteria in mano e l'aria trionfante.
- Ho trovato qualcosa! - mi annunciò - Non è molto, ma spero vada bene. -
Sospirai sollevato, e mentre Wilhelm mi raggiungeva mi sentii finalmente ottimista.
Inutile. Dopo venticinque (...ventiquattro) anni, non avevo ancora imparato la lezione.
Mai distrarsi nel covo del nemico.
- Wilhelm! -
Se anche non avessi capito a chi appartenesse la voce, l'espressione di puro terrore che apparve sul volto del giovane sarebbe bastata a rivelarmi che alle mie spalle c'era Johann Lindemann.
Mi immobilizzai, mentre il vecchio tendeva la mano e il nipote, imbarazzato e riluttante, gli porgeva il sacchetto oltrepassando la mia spalla.
Il bottino era, per quei tempi, di tutto rispetto: due cosce di pollo intere e quella che sembrava un'ala, anche se era ridotta ad un ossicino con un po' di carne attaccata.
- Nonno, è un cliente! - cerco di difendersi Wilhelm - Pagherà tutto, non è vero signor Elric? -
- A quanto gli hai messo tutto questo? -
Che delizioso quadretto famigliare, pensai.
- Questo è il prezzo che aveva la carne prima della guerra! -
- Nonno, è il doppio! Tu e la mamma avevate stabilito... -
- Io e tua madre avevamo stabilito quel prezzo quando ne avevamo ancora! -
- Facciamola finita, dannazione! - esplosi, voltandomi verso la vecchia mummia - Quanto vuole? -
La cifra era semplicemente assurda.
- Non ho tutti questi soldi. - ammisi, dopo un istante di silenzio.
- Allora niente carne. - stabilì Johann Lindemann.
Strinsi i pugni, cercando di convincermi che, in fondo, Thomas non era ridotto poi così male: un po' di riposo e sarebbe stato di nuovo in piedi entro breve.
L'auto-mail scricchiolò leggermente.
Già, e tempo due settimane saremmo stati da capo. Mio nipote non metteva nulla di sostanzioso nello stomaco da parecchio tempo, al pari di Charlotte e di Margarethe.
Decisi che potevo anche permettermi di fare un piccolo sacrificio.

* * *


Sarò sincero: mi sentii in colpa per aver mangiato tutto solo quando, ormai, lo avevo fatto.
- Avrei dovuto lasciarne un po' per voi... - pigolai, guadagnandomi un'occhiataccia da Margarethe.
- Dov'è lo zio? - le chiese Lotte - É già andato al laboratorio? -
É di sotto, rispose la ragazza, state qui.
La guardai uscire: aveva un'aria strana. Decisi che era successo qualcosa...o meglio, che lo zio aveva combinato qualcosa. Infatti, non si era ancora fatto vedere.
Sgattaiolare fuori dalla stanza fu, a dire il vero, più facile del previsto: Lotte come guardiana non vale nulla, perchè si appisolò nuovamente nel suo letto, e io potei scendere dal mio e uscire semplicememente stando attento a non fare troppo rumore.
Ero più o meno a metà delle scale, senza scarpe, quando Margarethe, uscendo dall'appartamento dello zio, mi vide. Sentii le guance scaldarsi, ma lei si limitò a scuotere la testa e sospirare: probabilmente, non si era mai aspettata che sarei stato buono buono a letto.
- Che è successo? - domandai, con molta faccia tosta.
Lei stava piegando quello che, a prima vista, mi sembrò un fazzoletto rosa, ma si interruppe per scrivere Una geniale trovata di tuo zio. Portagli il soprabito e il cappello, io nascondo questa roba.
Osservai meglio lo straccio, e sentii lo stomaco contrarsi per il disgusto: era la copertura dell'auto-mail che lo zio teneva nel cassetto.

Avrei fatto meglio a restarmene a letto. O ad aiutare Margarethe in qualcosa. Avrei potuto trovarmi una qualsiasi occupazione che mi tenesse lontano da Ed.
Più o meno, fu questo che pensai quando lo vidi.
Era seduto sul letto, ma doveva aver appena messo le gambe oltre il bordo: piegato in due, le maniche arrotolate fino ai gomiti e la cravatta allentata, con la mano sinistra si tergeva il sudore dal volto, mentre l'auto-mail pareva appena appoggiato sulle ginocchia. Inutile dire che non era quello che portava di solito.
Alzò stancamente lo sguardo su di me, ma non fece cenno di volermi rimproverare.
- Ed, stai...stai bene? - balbettai, imbarazzato dalla mia curiosità inopportuna.
Mi sedetti di fianco a lui, con il soprabito sulle gambe, mentre mio zio si raddrizzava, prendendo profondi respiri.
- Dovrei essere io a chiedertelo, ma lasciamo perdere. - sospirò - Ora vado. -
- Perchè? -
- Perchè sono in ritardo di quasi mezz'ora e... -
- No, intendevo... - arrossii, abbassando lo sguardo - perchè l'hai fatto? -
- Fatto cosa? -
- Piantala, non sono stupido. Hai scambiato il tuo auto-mail per un... - cercai un modo diplomatico per dirlo, ma non lo trovai - pollo. -
Lui mosse leggermente la nuova protesi, come per sincerarsi che funzionasse davvero.
- In effetti, la parola corretta è "svenduto". Ho svenduto il mio auto-mail... -
Contrariamente alle sue parole, il suo sguardo si addolcì in un'espressione che non gli avevo mai visto, neppure con Hedwig.
- Il mio meccanico mi ammazzerà. - un'ombra gli passò sul volto, e improvvisamente si incupì - O meglio, mi ammazzerebbe se sapesse quel che ho fatto. Il che è impossibile. -
- Ma perchè, Ed? - ripetei.
- Perchè ho pensato fosse giusto così. - prese il soprabito e si alzò, infilandosi il guanto sulla protesi - Forse è stato impulsivo da parte mia, ma... -
Arrossì leggermente (le guance tornarono appena al loro colore naturale, a dire il vero) e si interruppe, mordendosi il labbro.
Mentre usciva, per la prima volta sentii qualcosa di simile all'affetto per Edward Elric.

* * *


La vita è solo uno scherzo, e tutto lo dimostra, disse qualcuno di cui mi sfuggiva il nome, e quella mattina, mentre costeggiavo l'Isar in bicicletta sotto una leggera ma persistente pioggerellina, quell'aforisma mi parve quanto mai azzeccato, visto che le ultime due ore della mia vita sembravano una grottesca parodia degli ultimi trent'anni.
Un tempo diedi un braccio in cambio dell'anima di mio fratello. Quel giorno, invece, avevo dato il suo sostituto di acciaio...mi piacerebbe dire per mio nipote, ma sembrava sempre di più che lo avessi fatto per una gallina vecchia. Anzi, per i suoi poveri resti.
Con questo spirito entrai nell'Istituto di Ricerca Schneider.

Nonostante il mio ritardo, feci anticamera per un quarto d'ora abbondante, prima di riuscire a vedere la mente criminale, così ne approfittai per guardare i volti di quelli che passavano: conoscevo alcuni dei dipendenti, ma sobbalzai quando mi sorpassò una donna, più o meno sulla trentina, che il collega al suo fianco chiamò "dottoressa". A quanto pareva, grazie alla guerra qualche laureata riusciva a farsi strada in un mondo quasi completamente maschile.
Martha, la segretaria di Heinrich ancora al proprio posto nonostante il capo fosse andato in pensione, anche se non alla sua scrivania, mi riconobbe...più o meno:
- Ah, il fratello del vicedirettore! - squittì, cercando disperatamente di ricordarsi il mio nome - ...ehm...Richard? -
Alzai un sopracciglio, lasciandole il tempo di guardare sulla lista che aveva in mano, poi allungai il collo, impietosito, per darle una mano.
- Ehi, è scritto sbagliato! - protestai, indicando l'errore con il dito - Non è "Eduard" alla tedesca, ci vuole la "w"! -
- Oh...chiedo scusa. - una specie di latrato venne dalla porta del direttore - La signora Schneider è libera, vada pure. -
- Grazie...per curiosità, che ne è stato degli altri candidati? -
- Tre assunti, sette sbattuti fuori. -
Consolante.
Come scoprii varcando la soglia, Martha non era al suo posto perchè dietro la scrivania, sorprendentemente, c'era la donna che finanziava il laboratorio.
Forse la sedia dell'ufficio del direttore, la cui porta si apriva subito a sinistra di quella da cui ero appena entrato, era troppo scomoda per lei.

Tutto in Ilse Schneider era rigido e severo: il volto affilato, il naso dritto che tracciava con la fronte un'unica linea retta, le labbra sottili. Persino l'abito grigio e i capelli biondo scuro, con appena qualche striatura bianca, sembravano scolpiti addosso a quella figuretta ossuta che somigliava in modo impressionante ad una cornacchia.
Fisicamente, lei e sua figlia Hedwig non avevano quasi nulla in comune, ma l'atteggiamento aristocratico e arrogante (che la mia amica, quando voleva, sapeva nascondere bene), oltre all'abitudine di squadrare la gente e di fissarla con gli occhi socchiusi e il mento sollevato, erano piuttosto simili, sebbene nella signora che avevo di fronte fossero decisamente più accentuati.
- Edward Elric, immagino. - più che parlare, quella donna abbaiava.
Non risposi e non mi mossi, visto che non ero stato invitato a sedermi. Mi aspettavo qualche commento sul ritardo, ma la signora aveva altri argomenti di cui parlare.
- Ho appena interrotto una telefonata che la riguardava. - appoggiò la schiena alla sedia, con le labbra strette ma un'espressione divertita negli occhi, controllando le mie reazioni - Il precedente direttore, Herr Heinrich, era molto ansioso di farmi sapere cosa pensava di lei. -
- Sono lusingato che così tante persone si interessino alla mia umile persona. - risposi.
Dato che la donna che avevo di fronte non faceva nulla per rendersi simpatica, non vedevo perchè io avrei dovuto farlo.
(La persona alle mie spalle che controlla quel che scrivo mi fa notare che lei poteva permetterselo, visto che aveva il coltello dalla parte del manico. Ammetto che forse fui un po' impulsivo, ma in quel momento non mi passò neppure per l'anticamera del cervello)
- Le giungono nuovi gli aggettivi... - parve frugare nella memoria per ricordarseli - presuntuoso, egocentrico, irrispettoso e disdicevole? -
John Gay, pensai. Ecco come si chiamava il tipo di cui mi era tornato in mente l'aforisma.
Esattamente, dove avrò mai letto le affermazioni di uno scrittore satirico inglese? Mah!
- Non troppo. - risposi, cercando di non sogghignare - Sono presuntuoso ed egocentrico, perchè ho contestato quasi tutte le decisioni che il signor Heinrich prese quando ero suo dipendente; sono irrispettoso, perchè gli ho fatto sapere cosa pensavo di lui e delle suddette decisioni e, come può vedere dal mio abbigliamento, sono decisamente disdicevole. -
- Si sieda, prego. Non è stato Karl Heinrich ad assumerla? -
- Sì, infatti mi vanto di essere uno dei pochi errori della sua vita. - replicai, sarcastico, mettendomi comodo e togliendomi il soprabito.
- Perchè questi disaccordi? -
Non risposi: non avrei saputo trovare un modo gentile per dirle che l'uomo che aveva messo a capo dell'Istituto era un idiota. Se si fosse occupato un po' della gestione, mettendo più persone a lavorare ad un unico progetto, i risultati sarebbero stati migliori, invece lui lasciava che tutto continuasse in uno stato di perenne disordine, a cui Al aveva cercato disperatamente di porre rimedio.
- Come mai questo improvviso interesse al laboratorio? - domandai, invece.
Lei mi osservò con maggiore attenzione, anche se continuava a sembrare incredibilmente divertita dalla mia insolenza.
- Diciamo che, ora che il medico mi ha vietato di viaggiare, ho deciso di cercare altrove le emozioni forti di cui ho bisogno. -
Era ironica come al solito, ma fece un gesto stizzito con la mano: un movimento brusco, ben diverso dalle movenze controllatissime di Hedwig.
In effetti, l'incontro con sua madre (che speravo con tutto il cuore non sapesse che la figliola aveva l'abitudine di intrufolarsi in una libreria, il sabato pomeriggio, e decisamente non per leggere) mi stava facendo notare per la prima volta le enormi differenze tra Hedwig e Winry, nonostante l'aspetto molto simile.
Hedwig era aristocratica, controllata in ogni atteggiamento, che sembrava sempre il frutto di un allenamento allo specchio. Semplicemente bellissima.
Per quanto riguarda Winry...
Beh, Winry era Winry. Non la potevo definire bella, ma di certo era graziosa (per quanto valga il mio giudizio in fatto di bellezza femminile, e non credo sia molto), vivace, schietta e spontanea, cosa che non si sarebbe proprio potuto dire della signorina Steinglocke. Senza contare che lei lo avrebbe trovato disdicevole.
E poi... ma tralasciamo l'argomento, avrò tempo per tornarci.
- Bene, signor Elric, direi che possiamo concludere qui la nostra chiacchierata. - la signora Schneider tornò ad appoggiarsi sulla sedia, per godersi la mia reazione. - Avrei continuato volentieri, ma visto che lei è arrivato con un ritardo spaventoso... -
Cominciavo ad intuire che l'arpia si era fatta un'idea della mia sorte ancor prima che entrassi, probabilmente durante la telefonata al grande capo in pensione. Mi raddrizzai, aspettando il verdetto.
- No, no, prego, si alzi... -
Ahia.
Obbedii, accorgendomi per la prima volta che il soprabito aveva sgocciolato sul pavimento e sul cappello.
- La porta a destra, Herr Elric. -
Non mi voltai: non avevo bisogno di sapere che la porta alla mia destra era quella che dava sul corridoio, quindi sostenni lo sguardo della donna e rimasi impassibile.
Avete presente quando sapete che non potrete mai ottenere qualcosa, eppure, contro ogni logica, una piccola parte di voi continua a sperarci? Ecco, mi sentivo proprio così: sapevo che stavo perdendo tempo, ma da quando il signor Schulz mi aveva detto che...
Inutile parlarne. In questo mondo come in qualunque altro, a nessuno importa quanto tu ti sia impegnato per giungere al tuo scopo.
- Posso conoscere almeno il motivo della scelta? -
- Per il suo carattere, ovviamente. - unì le dita delle mani, soddisfatta - Direi che lei è assolutamente inadatto a fare il dipendente di chicchessia. -
- Bene, signora Schneider. - le tesi la mano, l'unico segno di educazione che ero disposto a concedere a quella strega - Mi sembra che lei si fosse fatta un'idea di dove spedirmi prima ancora di vedermi. -
- Avevo qualche ipotesi, sì, ma volevo verificare di persona. Si sbrighi, qui si lavora. -
Mi misi il soprabito su un braccio, le diedi le spalle e aprii la porta. Frau Schneider si schiarì leggermente la gola.
- Signor Elric... -
Mi voltai, esasperato, e notai il sorrisetto divertito sul vecchio volto accartocciato allargarsi.
- ...cosa sta facendo? -
- Me ne vado, come mi ha ordinato. - risposi.
- Signor Elric, - ripetè, con l'aria di chi parla ad un bambino scemo - io intendevo la porta alla mia destra. -
Rimasi con la mano sulla maniglia.
Sapeva che avevo frainteso. Stava giocando sull'equivoco, se non l'aveva creato apposta per divertirsi alle mie spalle.
La donna scosse la testa con aria di compatimento, si alzò e, senza troppe cerimonie, mi spinse di fronte alla porta giusta.
- Le ho detto che è inadatto a fare il dipendente, e sono pronta a ribadirlo. Lei è troppo arrogante, incapace di accettare ordini o decisioni che non condivide: perciò, - aprì, senza guardarmi, lottando per non ridacchiare sotto i baffi - ho deciso di tentare un'altra strada. -
Mi prese per il braccio, e mi trascinò nell'ufficio del direttore, che faceva la muffa finchè Al non ci si era stabilito, facendo tutto il lavoro del legittimo proprietario, e adesso era tornato ad essere un tugurio polveroso, per di più buio per le imposte chiuse.
- Credo di non capire. -
O meglio, non potevo credere a quel che sentivo. Era semplicemente assurdo.
- Allora apra le orecchie, perchè non ho intenzione di ripetermi. - mise le mani sui fianchi - Lei è appena diventato il nuovo direttore del mio Istituto di Ricerca, per cui spero che si rimboccherà le maniche e cercherà di mettere ordine in questo posto, perchè non ho la minima intenzione di buttar via i miei soldi in una struttura che non funziona e nello stipendio di un incompetente! -
Dovevo avere l'espressione di un pesce lesso, perchè la solerte signora mi avvicinò la sedia, prima di affacciarsi alla porta dell'ufficio.
- Martha! - chiamò - Un surrogato di caffè per il direttore! Suvvia, signor Elric, - mi prese in giro - basterà che lei tratti i suoi dipendenti con la stessa maleducazione che ha dimostrato con me. Mi pare sia in grado di sbraitare contro chi non le piace, non è così? -
Avevo ancora la bocca spalancata, così cercai di riguadagnare il controllo. La scrivania non era stata toccata da quando Alphonse l'aveva abbandonata per essere arruolato, tanto che notai la sua penna tra il materiale da cancelleria: una bella stilografica d'acciaio che gli avevo regalato io stesso, anni prima. L'accarezzai con lo sguardo, pensando al mio fratellino e ai pericoli che correva, mentre io al massimo mi arrabattavo per non far patire troppo la fame ai suoi figli.
- Signora Schneider, - ripresi, più calmo - tutto ciò non ha senso. Lei non sa neppure se sono capace di fare il mio mestiere, e mi mette in questa posizione. -
- Avrò tempo di vederlo, anche se il fatto che lei sia odiato da Karl mi rincuora. Le do un mese di prova, al termine del quale o vedrà il suo stipendio, oppure sarà in strada. -
Dato che Martha stava per bussare alla porta aperta, le prese di mano la tazza e me lo appoggiò davanti.
- Le do cinque minuti per godersi la sensazione di potere, dopodiché la voglio al lavoro. -
Si diresse verso l'attaccapanni nell'altra stanza e prese il cappotto e la borsa: era sul punto di andarsene, ma sembrò cambiare idea, perchè si voltò di nuovo verso di me.
- Ah, Herr Elric, un consiglio. -
- Sì? -
Piegò la testa, in un sorriso diverso da quello che aveva avuto fino ad allora. Più freddo.
- Lasci mia figlia. Lei non la merita. -


Pensierino della buonanotte: torno a scrivere, corroborata dalle vacanze e rassicurata da verifiche e informazioni prese in loco: e comunque, dà una strana sensazione vedere con i propri occhi la città di cui si è scritto. Specie quando è davvero bella.
In questo capitolo è arrivato uno dei miei personaggi preferiti, Ilse Schneider. La adoro. Forse è una mia self-inserction inconsapevole...in effetti, la frase "Le do cinque minuti per godersi la sensazione di potere" mi è venuta spontanea, perchè è quello che io direi! Davanti a lei, per alcuni istanti Ed mi è sfuggito di mano: ho dovuto fermarmi quando diceva che a nessuno importa quanto uno si impegni per raggiungere un obiettivo, perchè quello non era Edward Elric! Ero io che parlavo attraverso di lui!
(A questo punto, potete cominciare a chiedermi che cavolo di personaggi mi piacciano...)
E ora dedichiamoci alle risposte ai commenti:
    Gothika: mia malvagia prima lettrice e beta-reader, come ignorare le tue domande (sapendo che tu sguinzaglieresti i dobermann)? Ti rispondo qui, visto che ho MSN vagamente morto, e temo che aspettare il terzo giorno sia inutile.
        1) Sì, gli occhiali del primo capitolo erano di Ed: in teoria, li porta solo per leggere. Non c'è un motivo specifico...forse, a forza di sentirmi dire che continuando a leggere così tanto dovrò presto mettere gli occhiali, ho proiettato le minacce su di lui. Va bene, è stupido. Semplicemente, Ed a quarant'anni me lo immagino con gli occhiali per la lettura.
        2) Non c'è nessun errore nel titolo del terzo capitolo...francamente, speravo che qualcuno se ne accorgesse. Ed, alla fine del film, ha solo un auto-mail decente: quello fatto da Winry, che lei gli ha sostituito quando lui è tornato nel suo mondo. Speravo che a qualche lettore venisse il dubbio su dove si sia procurato quello che tiene nel cassetto...
        3) No, Margarethe non è una mia self-inserction. Non esattamente, almeno: non condivido il parallelismo self-inserction=Mary Sue, perchè ad un personaggio che ti rappresenta puoi dare anche i tuoi difetti (basta essere abbastanza onesta da ammettere di averne), ma non risco ad immedesimarmi in un personaggio. Molti di loro hanno qualcosa di mio, nelle mie fanfic, ma nessuno mi rappresenta esattamente.
    Siyah: Karl Heinrich, a dire il vero, non è un personaggio indispensabile ai fini della trama, ma mi è "servito" indirettamente, soprattutto in questo capitolo. La sua parte nel terzo capitolo, invece, era semplicememente per smontare la figura di carogna infame che gli ha appiccicato Ed: in fondo, prima di riconoscerlo, lui stesso ammette che hanno idee molto simili. Inoltre, Heinrich non è così egoista e dispotico come sembra, visto che ha sofferto moltissimo per la morte della figlia anche se tra i due i ponti erano stati tagliati dal matrimonio di Caroline e, ancora più importante, sembra piuttosto affezionato a Thomas e Charlotte.
Hedwig... Hedwig è figlia del suo tempo. Non può che essere diversissima da Winry.

    Martel92 (o halinor??): mi dispiace che Winry non ti piaccia... Io ho impiegato un po' di tempo per apprezzarla appieno, ma mi è sempre sembrata la compagna adatta a Ed, e la mia idea si è rafforzata nelle ultime puntate, quando Rose flirtava con il nostro Alchimista d'Acciaio e lui aveva l'aria di chi vuole svignarsela a gambe levate...
No, lo yaoi non mi piace: oltre al fatto che, nell'anime, non esiste nulla che faccia pensare ad un rapporto omosessuale tra i personaggi, le storie scritte bene sono poche. Per fortuna Roy Mustang non è un pedofilo, tra Ed e Al c'è un profondo affetto fraterno e nient'altro, mentre tra Ed e Envy...beh, la penultima puntata dell'anime dovrebbe aver spiegato come stanno le cose tra loro, no?
    envy_Misako93: aaaaaah, i vecchietti nazi! Scrivere di loro mi ha fatto un po' ridere, se devo essere sincera: non si rendono neppure conto di essere ridicoli...
Sono contenta che Margarethe ti piaccia, ma Ed mi prega di ricordarti che lui cede ai suoi ordini dittatoriali solo perchè lei può sbatterlo fuori di casa in qualunque momento!

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Capitolo 5
*** Illusioni infrante ***


Nuova pagina 1

Tutto dipende da come lo si guarda. Per esempio, io non ci metto dei secoli ad aggiornare: semplicemente, ogni volta che rileggo trovo qualcosa da correggere.
E io rileggo piuttosto spesso, non so se si era intuito dai miei tempi.

        5. Illusioni infrante

Come già avevo sospettato, nell'Istituto di Ricerca Schneider (nome un po' troppo pomposo per una palazzina in cui il poco intonaco rimasto era di un imbarazzante verde marcio), lavorare era ancora più difficile che dodici anni prima: ogni tentativo si trascinava nel caos, languiva nella disorganizzazione e si dissolveva (o forse si suicidava) schiantandosi contro la quasi totale mancanza di mezzi.
In altri tempi, probabilmente, mi sarebbe venuto un esaurimento nervoso in breve tempo: in quel febbraio umido e freddo, invece, l'indolenza dei miei colleghi e i fastidi dovuti alla guerra mi parvero una meravigliosa sfida, dopo tanto tempo passato alla disperata ricerca di un impiego, anche umile, che mi permettesse di sopravvivere senza dover chiedere prestiti a mio fratello. Mi gettai con l'entusiasmo di un adolescente nella mischia e, dopo una settimana, avevo guadagnato un calo di voce che preoccupò Margarethe e una grande stanchezza, ma il laboratorio cominciava faticosamente a funzionare.
Esattamente otto giorni dopo la mia sorprendente assunzione, mi trovavo per la seconda volta nell'ufficio del direttore: avevo passato i precedenti giorni in giro per l'Istituto, causando la perplessità di quelli che mi vedevano, con le maniche della camicia arrotolata, chino su colonne di distillazione, palloni o sostanze nella maggior parte dei casi puzzolenti ("Il direttore è matto... sembra un bimbo davanti ad un nuovo trenino!"), ma quel pomeriggio mi ero deciso a dare una controllata ai conti degli ultimi mesi. Sebbene non fossi io a dover tirare fuori i soldi, non potevo permettermi spese eccessive, o la signora Schneider mi avrebbe immediatamente licenziato.
- Direttore... ha ancora bisogno di me? -
Alzai lo sguardo su Martha, cercando di capire il motivo di quella domanda: dopo pochi secondi, mi resi conto che doveva essere l'ora di uscita.
- No, grazie, vada pure: anche io ho finito. -
La povera donna un po' mi impietosiva: doveva essersi resa conto che non avevo la minima idea di cosa comprendesse il lavoro di segretaria, e probabilmente viveva nel terrore che la reputassi inutile e proponessi al grande capo di liberarsene. Infatti, si premurava sempre di elencarmi tutte le formalità burocratiche sbrigate nella giornata, di riempire la sua scrivania di fogli per mostrarmi quanto fosse impegnata e, la mattina, mi faceva sempre trovare il terribile surrogato nel mio ufficio. Non ho mai capito se enfatizzasse le sue mansioni o lavorasse davvero come una schiava.
- C'è una signorina che chiede di parlarle... la faccio entrare? -
- Una... chi è? - domandai
In quel momento, Hedwig entrò nella stanza, rendendo superflua la risposta.


* * *

Quando alzai lo sguardo dal libro che stavo leggendo, mi accorsi che il sole cominciava a sparire dietro le case, ed Edward non era ancora tornato.
A malincuore, riposi il volume, pensando che dovevo aver perso la capacità di restare cosciente delle ore che passavano mentre io ero impegnata nella lettura: ma, del resto, da quando mio padre era partito per il fronte e io ero rimasta l'unica a preoccuparsi della nostra casa, non ero più riuscita a ritagliarmi un po' di tempo per me.
Seccata per il ritardo del mio indisciplinato affittuario, scivolai in cucina, alzando la lavagnetta a beneficio dei bambini:
Vostro zio ha intenzione di farsi vivo, stasera?
Un po' mi seccava disturbarli: non avevo mai visto due ragazzini decidere volontariamente di studiare... perlomeno, io non l'avevo mai fatto. Invece, subito dopo pranzo, Thomas aveva tirato fuori il suo vecchio libro di matematica, deciso a portarsi avanti con il programma: Lotte, non so se per vero desiderio di sapere o solo per compiacere il fratello maggiore, si era seduta al suo fianco e aveva usufruito dell'insegnante improvvisato.
- Credi che non si sia accorto dell'ora? - domandò il maggiore, guardandosi intorno come se realizzasse in quel momento che Edward non era tornato.
Probabile, risposi. Sarà meglio andare a chiamarlo, tra poco sarà buio.
- Vado io, allora. Tanto conosco la strada. - si offrì Thomas.
- Noi cominciamo a preparare la cena? - propose Lotte - Ed ha sempre fame, quando torna. -
In effetti, cominciavo a chiedermi quale lavoro massacrante compisse in quel laboratorio, visto che tornava a casa con l'aria di chi ha spostato le montagne. Forse era solo il terrore di perdere quell'impiego, visto che non si era mai neppure aspettato di averlo.
Io? Ovvio che sapevo che ce l'avrebbe fatta. Altrimenti, non lo avrei mai... incoraggiato a provare: tuttavia, quella sera in cui si ripresentò a casa, dopo il colloquio, sentii un brivido lungo la schiena.
Edward era entrato in silenzio, bagnato fino al midollo, ma si era ricordato di togliersi le scarpe sul pianerottolo: chiaro segno che era successo qualcosa di inatteso, altrimenti avrebbe lasciato la solita strisciata umida fino in cucina.
Quando si era seduto a tavola e aveva cominciato a mangiare senza proferire verbo, mi ritrovai a chiedermi se, per la prima volta, il mio intuito non avesse fallito...
- Ed? - la voce di Thomas suonava ansiosa. La sua stessa figura, allungata verso lo zio, trasmetteva preoccupazione: per la prima volta, mi aveva ricordato più il padre che il suo irascibile congiunto.
- Mh? -
- Hai avuto il posto? - a volte, la sfacciataggine aiuta. La somiglianza con Alphonse Elric era già scomparsa.
- Sì e no. - rispose Edward, evasivo.
Avrebbe probabilmente lasciato cadere la conversazione, se, alzando gli occhi, non si fosse accorto che pendevamo dalle sue labbra: così, fingendo indifferenza, prese un lungo sorso d'acqua per tenerci sulla corda, prima di riprendere.
- Comunque, - disse, con noncuranza - ricordami di ringraziare tuo nonno. Ha parlato talmente male di me alla vecchia cornacchia, che lei ha deciso di assumermi come direttore per ripicca. Credo che quei due non si sopportino. -
Noi avevamo ignorato la parte finale del commento: i bambini avevano strillato per la gioia, battendo le mani come forsennati.
Ed si era voltato verso di me, con aria sostenuta: stava cercando in ogni modo di non ammettere che avevo sempre avuto ragione io.
- Se non vengo sbattuto in strada, tra un mese potrò pagarti l'affitto. Soddisfatta? -
Non avevo risposto. Era inutile far notare a quell'individuo che il mio intuito femminile era pressochè infallibile.
Mi riscossi, sorridendo al ricordo, e fermai Thomas, che stava già uscendo: si stava per lanciare per la strada gelida senza neppure una sciarpa, così gli prestai quella di mio padre.
Ti autorizzo ad usare la forza per staccarlo dai suoi alambicchi! scrissi, a mo' di saluto.

* * *


- Ti dovevo parlare. - esordì Hedwig, non appena Martha fu sparita.
Mi alzai, per lasciarle la sedia: comunque, la mia amica si era già accomodata su uno scomodo sgabello sotto la finestra, e non accennò ad alzarsi. Nonostante la penombra dovuta al palazzo di fronte che copriva il sole, mi accorsi che indossava un abito costoso, probabilmente fatto su misura, assolutamente incongruo per quei tempi di magra. Si era acconciata i capelli all'ultima moda e, con le spalle alla scarsa luce, i pochi difetti del suo viso erano invisibili.
Mi chiesi se lo stesse facendo apposta, per far colpo su di me: in un primo momento, il pensiero mi lusingò.
- Come ti trovi qui? - mi chiese gentilmente. - Sei più pallido dall'ultima volta che ci siamo visti... non è che lavori troppo? -
- Sto bene, grazie. Sono stanco, ma sognavo un impiego simile da anni. -
- Direttore di un laboratorio come questo? - lei sembrò perplessa.
Mi accorsi della gaffe con una certa vergogna: dovevo sembrarle un egocentrico.
- Intendevo dire - mi difesi - che sognavo di trovarmi di nuovo nel mio elemento... -
- Appunto. Tutto questo non è un po' poco? -
Rimasi in silenzio, sbalordito.
Poco?
- Insomma, sei l'uomo più intelligente che io conosca, e sai fare cose ignote alla maggior parte delle persone. - continuò Hedwig, assolutamente ignara - Sei sprecato per questo buco, l'ho detto anche a mia madre. -
- Credo che tu mi stia sopravvalutando... - risi, incrociando le braccia e appoggiandomi al muro.
Lei piegò leggermente il capo, persa in meditazione: per alcuni istanti, mi offrì la vista del suo profilo.
Bizzarro, pensai tra me. Sembra in posa. Winry non era così... così...
La parola attraversò la mia mente con incredibile naturalezza: artefatta.
Hedwig aveva la perfezione delle statue greche, ma, esattamente come queste, sembrava essere priva di spontaneità. Ogni suo piccolo gesto era studiato nei minimi particolari, per dare una sensazione generale di armonia e leggiadria.
Forse, dopotutto, non lo faceva affatto per me. Era semplicemente la sua natura, quella di mostrarsi sempre perfetta, ineccepibile.
- Volevo offrirti un impiego. - si decise a rivelare - Non sapevo che fossi venuto qui. -
- Un impiego? - ripetei meccanicamente.
Ero certo che lei non lavorasse: era una donna, e ricca per giunta.
- Già, qualcosa che di sicuro ti piacerebbe. -
- Hedwig, ho già accettato questo, ed è molto di più di quanto sperassi... - la fermai.
- Oh, Edward, mia madre sa pensare solo ai quattrini che le girano per le tasche: non le pareva vero di aver trovato una simile gallina dalle uova d'oro, disposta per di più a farsi pagare una miseria... ti prego, ascoltami: se tu accettassi, - si allungò verso di me, prendendomi le mani - potremmo racimolare abbastanza soldi per pensare al matrimonio. -
Ebbi un sobbalzo: matrimonio?
Hedwig mi guardò, speranzosa: era una donna di quarant'anni, eppure sembrava una ragazzina alla prima cotta. Mi chiesi nuovamente se non si fosse messa in ghingheri per corteggiarmi: Winry avrebbe capito che non ne valeva la pena, perchè non me ne sarei mai accorto, ma, in fondo, Hedwig mi conosceva da molto meno tempo... sentii le guance riscaldarsi. Il numero di donne che hanno civettato con me è più o meno uguale a quello delle fanciulle a cui io stesso ho fatto la corte, e io non mi sentivo in grado di controllare la situazione.
- Di che si tratta? - mi arresi a chiedere, visto che sembrava tenerci così tanto.
Le sue labbra si aprirono in un sorriso: lasciò andare le mie mani e si sedette nuovamente composta sullo sgabello, appoggiandosi sulle ginocchia la borsa che giaceva in terra, e a cui io non avevo fatto caso. Rovistò dentro, spostando le cianfrusaglie che conteneva con impazienza.
Sposare Hedwig? Con il tenore di vita che era abituata a condurre, mi sarebbe venuto a costare una fortuna...
Arrossii ancora di più: bei pensieri davvero. La donna che ami ti chiede di sposarlo, e tu ti metti a fare i conti. Classico pensiero romantico di chi medita di metter su famiglia, no?
- Scusa se ti faccio perdere tempo... - ridacchiò la mia amica, imbarazzata, estraendo finalmente un vecchio quaderno dalla borsa - ho pensato tanto a questa cosa, e ora non riesco a togliermela dalla testa. -
- Parli del lavoro? -
- No, sciocco! - mi guardò, con gli occhi che le brillavano e le guance arrossate - Del fatto che forse... noi due... sarebbe magnifico, no? -
Abbassai lo sguardo sull'oggetto che mi tendeva, e non risposi. Non riuscivo a condividere la sua felicità, e onestamente non ne capivo il motivo: forse, perchè non mi ero mai posto davvero il problema di ufficializzare la mia unione con lei. O, forse, era tutta colpa della signora Schneider. Da quando l'avevo conosciuta, continuavo a fare paragoni imbarazzanti tra sua figlia e la mia Winry.
E poi, magari mi sbagliavo. Il modo di fare di Hedwig poteva anche nascondere insicurezza, ma io, continuando a pensare a Winry, mi ero convinto che non lo gradivo...
Mi soffermai sui miei pensieri, come ora scorro le righe di ciò che ho scritto.
Winry, Winry, Winry... Non avevo chiuso la questione anni prima?
Scuotendo la testa per scacciare quella presenza dalla mia mente, mi concentrai sulla copertina sbiadita del vecchio quaderno; qualcuno aveva scarabocchiato una spada, o forse un pugnale, con l'elsa posta davanti ad un cerchio disegnato a mano libera, con due diametri ortogonali tracciati a formare una "X": mi ricordava qualcosa, ma non ebbi il tempo di pensarci, perchè, quando aprii su una pagina a caso, fui salutato da qualcosa di molto più familiare.
Cerchi alchemici.
Brutti, alcuni palesemente sbagliati, ma inequivocabili.
Girai in fretta gli altri fogli, diviso tra il panico e lo sbalordimento. Cerchi alchemici, poche scritte, altri cerchi alchemici. Forse era un incubo.
- Che significa? - chiesi infine, quando fui certo che la mia voce suonasse sicura.
- Ho visto che quei disegni comparivano su quei lavori a casa tua, non ricordi? - il sorriso le tremò, incerto - Credevo ti avrebbe fatto piacere lavorare su... -
- Su questi? - esclamai. - Dove diamine mi avresti trovato impiego, in un circolo esoterico? -
- Ti assicuro che si tratta di qualcosa di molto serio. -
La oltrepassai, fingendo di andare a guardare fuori dalla finestra. Avevo bisogno di calmarmi, o le avrei risposto male.
- Hedwig, - ripresi, più educatamente - c'è stato un grosso malinteso. Non so chi ti ha dato questa spazzatura, ma si tratta di scarabocchi senza senso! -
- Libero di pensare quello che vuoi. Ti faccio solo presente che il tuo salario sarebbe più o meno il triplo di quello che percepiresti qui. -
Trasalii: non so se furono le sue parole o il suo tono acido a colpirmi come un pugno. Voltai il quaderno che tenevo in mano, e ricordai dove avevo già visto quel disegno sulla copertina.
- La Società di Thule... - rabbrividii.
Non di nuovo. Oh, no!
Ridacchiai, acido, prima di prendere un profondo respiro e stringere i pugni, per controllare i nervi:
- Cos'hai a che fare con tutto ciò, Hedwig? -
- Sono entrata in possesso di quell'oggetto parecchi anni fa. Pensavo t'interessasse, so che te ne occupasti già una volta, nel '23. -
- Sai cos'è successo ventidue anni fa? -
Lei non rispose, ma un leggero fruscio di stoffa mi fece capire che aveva portato le braccia conserte al petto. Lo faceva sempre, quando era arrabbiata.
- Fai parte di quel gruppo di fanatici assassini? - le domandai, voltandomi verso di lei - Cerchi anche tu la via per Shamballa? -
- Rifletti, Edward, tu sei l'unico che sappia far funzionare... -
- Rispondi, Hedwig! - ruggii, accecato dall'ira.
Mi scrutava con uno sguardo di ghiaccio, tremando di sdegno: per alcuni istanti, pensai che stesse per colpirmi. Invece, si morse il labbro, mentre gli occhi le si velavano di lacrime.
- Stavo cercando di aiutarti. L'ho fatto per noi. - sussurrò, abbozzando un sorriso tremulo - Lo scopo di questo non ha importanza... se tu accettassi, ti pagherebbero bene. Potremmo avere una casa nostra... -
- Certo, in tempo per farcela buttare giù da una bomba! - esclamai, sarcastico - Se pensi che io mi venda ad una banda di farabutti solo per soldi, ti sbagli di grosso! -
Hedwig emise un singhiozzo soffocato, prima di darmi le spalle e portarsi le mani sul viso.
- Se non t'importa nulla di me, - gemette tra le dita - dillo subito! -
- Per te l'amore è una bella casa e un conto in banca pingue? - le domandai. - Mi dispiace, non sono disposto a dimenticare i miei principi per te, nè per nessun altro. -
Mi ribolliva il sangue solo a pensarci: possibile che mi fossi innamorato di una persona capace di passar sopra a tutto per denaro?
O forse... no, impossibile. Non potevo aver fatto una cosa simile.
Riordinai tutti i pensieri che avevo avuto nell'ultima settimana, da quando avevo conosciuto Ilse Schneider fino a pochi istanti prima: e la verità mi si parò davanti in tutta la sua semplicità.
Era chiarissimo. Ed, razza di idiota, come hai fatto a non capirlo? Hai avuto la risposta sotto gli occhi per tutti i sei anni in cui hai conosciuto Hedwig.
- Vattene, Hedwig. - le dissi, stancamente.
Lei tolse le mani dal viso, e mi guardò, incredula.
- Non... - balbettò - non mi ami più? -
- Temo di non averti mai considerata davvero per quello che sei. - risposi.
Molto diplomatico, ma decisamente riduttivo.
Poveretta, in fondo un po' era colpa mia: non l'avevo mai amata. Non ero innamorato di Hedwig Steinglocke, ma dell'immagine che vedevo ogni volta che la guardavo. La illudevo, e illudevo me stesso, cercando in lei un'altra persona.
La donna rimase in silenzio per alcuni secondi: poi, mi strappò bruscamente lo stramaledetto quaderno di mano.
- Bene. - disse - Benissimo. -
In un attimo, l'aria persa e le lacrime avevano lasciato il posto ad una gelida furia: il cambiamento mi sconcertò, e non reagii.
- Potevi rendere tutto molto semplice, Edward Elric. - disse, mentre il labbro inferiore le tremava vistosamente - Ma, come al solito, hai dovuto fare di testa tua. -
Raccolse la borsa e uscì, sbattendosi violentemente la porta alle spalle.

* * *


Era quasi l'ora del coprifuoco, e mio zio ancora non si vedeva.
Avevo tentato di entrare nel laboratorio, ma la porta era chiusa: tuttavia, la bicicletta di Edward era ancora appoggiata al muro, così ero rimasto sul marciapiede ad aspettarlo, tremando dal freddo.
Dopo dieci minuti buoni, mi sembrava di non sentirmi più i piedi: mi mossi un po', affondando il mento nella sciarpa del signor Meyer, che pizzicava il viso ma riscaldava, e mi distrassi osservando un'automobile parcheggiata sul lato opposto della strada, il cui occupante sembrava parlare da solo, dato che l'autista se ne stava immobile, con lo sguardo fisso davanti a sè. Fingendo noncuranza, attraversai, per potermi avvicinare e osservarla meglio, pur restando a distanza: era bella, lussuosa, nera, e aveva l'aria di essere appena stata pulita da cima a fondo, anche se le ruote e il bordo inferiore della carrozzeria erano già sporchi di fango. L'autista era un individuo anonimo, senza nulla che attirasse l'attenzione, mentre il passeggero indossava l'uniforme dell'esercito: bizzarro, visto che l'auto aveva targa civile.
In quel momento, la porta d'ingresso del laboratorio si spalancò, e ne uscì la signorina Steinglocke: rimasi sorpreso, ma lei non sembrò notarmi. Stava per voltare a destra, quando vide la vettura nera e, con passo deciso, si diresse verso di essa.
Dato che non mi aveva riconosciuto, potei seguirla con lo sguardo mentre apriva la portiera sulla strada, dal lato opposto a quello dietro cui ero io, e, senza una parola o un'altra manifestazione di sorpresa per la persona che era a bordo, si accomodò e fece un cenno stizzito all'autista, che si affrettò a mettere in moto.
Che strane persone, pensai, guardandoli allontanarsi. Prima lavano la macchina finchè questa non splende, poi vanno a passare nel fango. Forse le strade dissestate, dopo le piogge dei giorni precedenti, si erano trasformate in pantani... ma allora perchè perdere tempo a pulire l'auto, se questa si sarebbe inevitabilmente sporcata di nuovo?
- Thomas! -
Mi girai, vedendo Edward appena fuori del laboratorio: gli corsi incontro, cercando di riattivare la circolazione sanguigna nei piedi.
- Sei in ritardo. - gli dissi - Margarethe mi ha mandato... -
- Dov'è la mia bicicletta? -
Guardai il muro, dove avevo visto il mezzo scalcagnato solo pochi minuti prima.
Sparito.
- Ma era qui... - cominciai
- Infatti, eccola. - sentenziò lui, calmissimo, prima di dirigersi verso sinistra: stavo per seguirlo, quando cominciò a correre verso un uomo che, notai, si stava allontanando su una bicicletta straordinariamente simile al rottame dello zio. In poche falcate, Ed gli fu a fianco e, senza una parola, gli sferrò un pugno con la nuova protesi, facendolo rovinare al suolo.
- Possiamo andare. - mi disse, tornando verso di me trascinandosi dietro il suo vecchio mezzo.
- Ho visto la signorina Steinglocke. - dichiarai, cercando di non mostrarmi troppo sorpreso da quella tranquillità assoluta.
- Sì, è venuta a parlarmi... questo nuovo auto-mail è magnifico. Molto migliore del precedente. - aggiunse soddisfatto Ed, stringendo le dita della protesi a pugno.
- É successo qualcosa tra voi? - domandai, preoccupato.
- Sì, lei mi ha lasciato... o forse sono io che l'ho lasciata, non saprei dire. -
Lo guardai, per capire se scherzasse. Era serissimo.
- Perchè? -
- Una lunga storia. -
Rimanemmo in silenzio fino a casa, anche se lo zio continuava a fischiettare. Non l'avevo mai sentito fischiettare, ed era davvero fastidioso, così, quando s'interruppe bruscamente, non pensai ad altro che al sollievo per le mie povere orecchie.
- C'è Wilhelm Lindemann. -
La sua esclamazione improvvisa mi colse impreparato.
- Dove? -
- Di fronte a casa nostra. -
Il suo tono era perplesso, e a ragione: Wilhelm era irriconoscibile. Si agitava scompostamente, gesticolando in direzione di Margarethe, ferma sulla soglia di casa. Per sua fortuna, nella via non c'era nessun altro, o lo avrebbero preso per pazzo.
- Che succede? - domandò Ed, mentre ci avvicinavamo.
Il ragazzo si voltò di scatto per guardarci: aveva il volto cereo, i capelli spettinati e gli occhi fuori dalle orbite, con un'aria folle che mi spaventò. Tra le mani tremanti teneva un foglio, che cercò di mettermi in mano, borbottando qualche parola sconnessa, che non riuscii a cogliere. Il mio primo pensiero fu che traffici dei Lindemann fossero stati scoperti dalla polizia.
- Che succede, Wilhelm? - ripetè lo zio, mentre Margarethe si stringeva nelle spalle, perplessa quanto noi.
- Se solo non avessi accettato... - sussurrò finalmente il ragazzo, appoggiando le spalle al muro di casa Meyer - se non fossi stato così codardo, tutto questo non sarebbe successo. -
Quelle parole sembrarono riscuoterlo, perchè prese a singhiozzare rumorosamente: Margarethe gli appoggiò una mano sul braccio, ma lui neppure se ne accorse. Capito che era inutile insistere, Edward gli prese di mano il foglio spiegazzato.
- É stata tutta colpa mia... - singhiozzò il diciottenne, senza fermare le lacrime, ma passandosi istericamente le mani nei capelli - tutta colpa mia.-
Sentii la mano dello zio stringere la mia spalla fino a farmi male, mentre leggeva: stava impallidendo a vista d'occhio.
- Cosa? Cos'è successo? - chiesi.
- Hanno... - gracchiò Wilhelm, a fatica - Hanno è morto. Pochi giorni fa, dalle parti di Budapest. -
Indietreggiai, come se mi avesse tirato un pugno.
- No, - mi opposi testardamente - ho ricevuto una sua lettera... ho il suo quaderno... Ed diglielo tu. Diglielo! -
Lui tacque, chiudendo gli occhi, come per non vedere ancora le parole impresse su quel pezzo di carta.
- Ed, - sussurrai, tremando - diglielo... -
Non mi rispose.
Colpii violentemente la sua mano per liberarmi, e corsi in casa.

* * *


- É stata tutta colpa mia... - mormorava incessantemente Wilhelm - tutta colpa mia. Se mi fossi arruolato... -
- Non essere sciocco, nessuno può decidere se essere arruolato o meno. - sbottai - Vai a casa, non dovremmo più essere in strada. -
- Tutta colpa mia... - continuò meccanicamente il ragazzo - Se mi fossi rifiutato di... -
- Non è stata colpa tua. - ripetei.
Lui mi lanciò un'occhiata folle, poi cominciò ad allontanarsi: camminava gobbo, e continuava a scuotere la testa. Margarethe, di fianco a me, piangeva silenziosamente.
- Vado da Thomas. - dichiarai, appallottolando la cartaccia che tenevo ancora in mano.

Ero di nuovo sulla soglia della camera dei ragazzi, come quella prima sera di gennaio, e mio nipote era di nuovo ficcato sotto le coperte, il lenzuolo fin sopra la testa. Immobile, a parte i singhiozzi che lo scuotevano violentemente.
Lotte era in piedi in un angolo, lo sguardo su di me e una tale impassibilità in volto che mi chiesi se avesse davvero capito: eppure, doveva aver seguito la conversazione, perchè la finestra della camera dava sulla strada.
- Thomas... - lo chiamai, senza sapere come continuare.
- Lo sapevo. -
La voce giungeva attutita da sotto il lenzuolo, rauca per il troppo piangere: tuttavia, non ebbi difficoltà a capire. Mi sedetti sul bordo del letto, in silenzio.
- Sapevo che Hanno voleva arruolarsi. - la testa bionda riemerse - Mi aveva lasciato il suo album, e mi aveva chiesto di non parlare a nessuno del suo progetto. -
Si allungò per aprire un cassetto del comodino, e ne estrasse un quaderno dalla copertina nera: mentre la sorella si avvicinava, lui si sedette alla mia sinistra.
- Temeva che suo nonno lo bruciasse... mi ha chiesto di non guardare... -
Il tono di voce di Thomas era sempre più acuto; infatti, dopo alcuni attimi di silenzio si voltò verso di me, tremando:
- Se solo te lo avessi detto... se solo avessi capito... -
- Non potevi sapere cosa sarebbe successo. Avevi promesso di non dire nulla, e hai mantenuto... -
Inaspettatamente, Thomas mi affondò il viso sulla spalla, lanciando un gemito più acuto degli altri e facendomi sobbalzare. Rimasi immobile mentre lui si aggrappava alla mia manica, sentendomi completamente fuori posto: avrebbe dovuto esserci Alphonse, lì. Al era suo padre, Al sarebbe stato in grado di far sapere a quel ragazzino che faceva di tutto per essere adulto che a dodici anni non si può esserlo, Al sarebbe riuscito a fargli capire che non aveva colpa per la tragica fine di Hanno.
Appoggiai la mano sulla testa di Thomas, sentendomi goffo come un elefante.
- Avevi ragione tu, zio. Hai sempre avuto ragione tu. - sussurrò lui - Dovevo darti retta mesi fa. -
Senza dubbio, avrei preferito che lo capisse in qualche altro modo.



        Pensierino della buonanotte: sapevo esattamente cosa doveva succedere in questo capitolo prima ancora di iniziare a scriverlo, ma ho cambiato tutto almeno una mezza dozzina di volte... il più grande pregio dello scrivere in prima persona è anche il suo peggior difetto: riportare i pensieri di un personaggio mi permette di descriverlo in modo molto più approfondito, ma mi costringe anche ad un'attenzione ossessiva alla sua personalità, per evitare il più possibile l'OOC.
Bene, e ora rispondiamo a...
Ehi, un attimo, e le altre commentatrici abituali dove sono finite? Devo smettere di scrivere per farvi commentare?
(Minaccia a vuoto: non riuscirete a farmi smettere di scrivere tanto facilmente)
        Yolei: l'Isar è il fiume che attraversa Monaco: se non erro c'era un qualche riferimento alle sue acque, ma l'ho tolto perchè non mi sembrava da Ed mettersi a filosofeggiare su corsi d'acqua e affini, specie quando aveva già molti altri pensieri per la testa.
Non mi sono mai chiesta come sia possibile che Hedwig e Ilse siano parenti, a dire il vero: non che sia indispensabile tra madre e figlia, ma hanno molti punti in comune, e una mentalità simile.
        Siyah: sì, seguo anche il manga... o meglio, lo seguivo, visto che al momento non si sa bene quando uscirà. Comunque, hai fatto la migliore descrizione possibile di Ilse Schneider: intelligente e perfida. Non è del tutto colpa sua, ma, senza voler anticipare nulla, si può dire che sia lei che Hedwig siano diventate così per adattarsi alla loro epoca e, in parte, per ribellarsi: negli anni Quaranta pochissime donne lavoravano, e ancora meno potevano mettersi a capo di un progetto, per quanto scalcagnato come il laboratorio.
Beh, l'auto-mail sarà anche andato distrutto, ma... Ed adesso ne ha uno anche migliore, per sua stessa ammissione.
        meby138: come già detto, i tempi di aggiornamento lunghi sono dovuti alle continue correzioni. Per un lettore potrebbe essere fastidioso (ma, ehi, se così fosse vuol dire che la ff vi piace!), ma non riuscirei a pubblicare un capitolo che non mi soddisfi, così come mi rifiuto di leggere quelle fanfic piene di errori e refusi che potrebbero essere eliminati semplicemente rileggendo.

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Capitolo 6
*** La Mercedes nera ***


6

            6. La Mercedes nera.

 

L’appartamento dello zio era piuttosto ordinato, se si escludeva la sua scrivania: dato che non ci entrava praticamente mai, non aveva neppure occasione di rovinare il faticoso impegno settimanale di Margarethe. Il piano di lavoro, invece, benchè abbandonato da quando Edward passava buona parte delle giornate all’Istituto di Ricerca, sembrava sempre essere stato colpito da una tromba d’aria.

Quella mattina, per la prima volta dalla sera in cui avevo saputo della morte di Hanno, ero sceso dal letto col desiderio di fare qualcosa: visto che non avevo nessuna occupazione al piano di sopra, ero andato a vedere se riuscivo a mettere un po’ d’ordine nelle stanze sottostanti. Con gran gioia di Margarethe, immagino.

Lotte, che mi aveva seguito, si era seduta sul letto, ed era così interessata a qualcosa fuori dalla finestra da non badare minimamente a me che, sbuffando, avevo cominciato a raccogliere i fogli sparsi e a rimettere a posto gli oggetti di cancelleria. Non potei fare a meno di sentirmi un po’ in colpa verso di lei: nei giorni precedenti l’avevo trattata male ogni volta che provava a parlarmi, mentre ora desideravo ardentemente la sua compagnia. La sola idea di rimanere solo mi terrorizzava, come se non avessi passato gli ultimi giorni ricercando proprio quella condizione.

 - Tu hai già notato la macchina nera col soldato dentro? - mi chiese Lotte all’improvviso, sempre senza guardarmi.

 - Quale macchina nera? - brontolai distrattamente, prima di rendermi davvero conto di quel che mia sorella aveva detto - Come fai a saperlo? Tu non c’eri quando sono andato al laboratorio! -

Lei si voltò, socchiudendo gli occhi.

 - Io parlavo della macchina nera parcheggiata quasi tutti i giorni all’inizio della strada. C’è un soldato dentro. -

Sbalordito, balzai alla finestra, cercando di vedere l’angolo della via: ovviamente, non c’era nulla.

 - La vedo alla sera, quando sono in cucina con Margarethe e guardo dalla finestra. - mi spiegò la mia perspicace sorellina, con una nota paziente nella voce che, in altre circostanze, mi avrebbe irritato parecchio - Il soldato resta in macchina, e un altro uomo scende e svolta nel vicolo laggiù. -

Misi i fogli in verticale e li battei sulla scrivania per impilarli, ma continuavo a guardare fuori: il vicolo che Lotte stava indicando era quello in cui abitavano e avevano la panetteria i Lindemann.

 - Io ho visto una macchina nera, con un militare e un autista, la sera in cui sono andato a cercare Edward al laboratorio... - dissi, meditabondo - Ci era salita la signorina Steinglocke. -

 - Io l’ho notata solo da pochi giorni: lei non veniva già più a trovare lo zio. -

Davvero singolare, pensai, aprendo un cassetto per riporre il lavoro di Ed.

 - Una macchina che gira dopo il coprifuoco... strano. - commentai, tirando fuori una cartellina per i documenti. - Sarebbe... -

Mi interruppi, e allungai la mano verso quel che aveva attirato la mia attenzione.

 - Sarebbe cosa? -

Lotte mi si avvicinò, cercando di capire il motivo della mia interruzione: spostando la cartellina di cuoio nel cassetto, avevo rovesciato un sacchetto, da cui erano cadute delle monete.

 - Lo zio... nasconde dei soldi? - mormorai, sbalordito, inginocchiandomi per guardare meglio. Ne afferrai una per osservarla più da vicino, ma era molto consumata: l’unica cosa che si riusciva a leggere era parte della data di conio.

 - C’è un 33. - rilevò infatti mia sorella.

 - Il 1933, ovviamente. -

 - Come fai a sapere che non è più vecchia, Thomas? -

Feci una smorfia: a parte il fatto che Ed non mi sembrava un appassionato di numismatica, quell’oggetto, pur rovinato, sembrava avere molto meno di un secolo.

 - Questa è più chiara. - dissi, prendendone un’altra - Si legge anche la scritta intorno... un pochino, ma comunque non è un Reichsmark... aspetta... -

Mi spostai per sfruttare i primi raggi del sole che arrivavano nella stanza ancora piuttosto buia, costringendo Lotte a piegare il collo.

 - Repubblica di... non riesco a leggere, è troppo consumato... A... Amequalcosa. -

Fulminea, una mano d’acciaio si abbatté sul mio pugno, strappandomi di mano la moneta così violentemente da farmi male: voltandomi, mi trovai davanti un Edward Elric bianco come uno straccio e palesemente alterato. Dall’altezza in cui mi trovavo, anche lui riusciva ad avere un aspetto imponente.

 - Cosa state facendo? - gridò, fuori di sé.

Charlotte schizzò a nascondersi dietro la mia schiena, lasciandomi implicitamente il compito di scusarmi. Cosa che non sono mai stato capace di fare.

 - Perché tieni soldi stranieri nel cassetto? - domandai infatti, alzandomi per guadagnare centimetri - Non sai che è pericoloso? -

 - Non provare a farmi la predica, razza di impiccione! -

 - Sono americani! - esclamai, indicando le lettere che eravamo riusciti a leggere. - Già ti accusano di essere una spia, cosa succederebbe se qualcuno mostrasse queste alla polizia politica? -

Lui, se possibile, sbiancò ancora di più: per la prima volta, ebbi davvero paura che mi schiaffeggiasse. Dalla porta comparve Margarethe, spaventata dal baccano, ancora con la borsa in mano.

 - Non sono americani. - ringhiò. - E adesso filate in camera vostra! Subito! -

* * *

 

Mentre raccoglievo la moneta che Thomas aveva lasciato cadere e la osservavo, Edward si sedette sul letto, chiudendo il cassetto con un gesto brusco. Credo che si fosse trattenuto dal tirargli un calcio solo perché c’ero io.

In condizioni normali, quello sarebbe stato l’ultimo momento che avrei scelto per parlargli, ma non potevo farne a meno. Così, appoggiai la borsa con cui ero appena rientrata dalle commissioni per terra, e gli battei la mano sulla spalla per attirare la sua attenzione.

Lui non alzò gli occhi dalle mani, in cui lasciai cadere il piccolo oggetto incriminato.

 - Lo so. - disse - Stai per farmi notare che non devo lasciare in giro oggetti potenzialmente pericolosi, e che se lo faccio non devo lamentarmi se altri li trovano. -

Scossi la testa, anche se lui probabilmente non se ne accorse. Aveva l’aria esausta, anche se era appena metà mattina.

 - Comunque, non sono soldi americani. -

L’avevo intuito: non ci sarebbe stato scritto solo America, ma United States of America.

Ed lanciò la moneta un paio di volte, afferrandola al volo con la protesi: la sua stanchezza non aveva nulla di fisico, sospettai, ma doveva provenire da un’angoscia interiore.

 - ‘33... - mormorò, perso in qualche meditazione.

Aggrottai le sopracciglia.

 - Non sono americani. - ripeté, alzando il volto per guardarmi - E sono assolutamente inutili, qui. -

Pronunciò la parola come se qui fosse un luogo immensamente distante da quello da cui proveniva il piccolo oggetto di metallo; lo stesso tono di voce, ricordai, che usava le pochissime volte in cui parlava del posto da cui proveniva. Perché, ormai non avevo dubbi, quelli erano i soldi del suo Paese, qualunque esso fosse.

Bizzarro: Edward viveva con me e mio padre da anni, ma di lui sapevamo pochissimo e, sebbene fosse chiaro che non era tedesco, non avevamo mai capito da dove venisse esattamente; anche quella moneta non sembrava provenire da uno Stato di questo mondo.

Ammetto che non ero del tutto immune dalla curiosità, ma in quel momento c’era qualcosa che mi preoccupava di più dei segreti di Edward Elric:

Wilhelm vorrebbe parlarti., gli comunicai.

Non sembrò colpito dalla notizia:

 - Parlare con me? - chiese ottusamente, con voce atona. - Perché? -

Non potei rispondere, perché io stessa non sapevo cosa fosse successo: Willi mi aveva trattenuta nel retro della panetteria, parlando velocemente e continuando a guardarsi intorno.

 - Devo vedere il signor Elric. - aveva balbettato, come se avesse improvvisamente disimparato a parlare - Chiedigli di venire subito, è importante. Molto importante. -

Edward non sembrò provare lo stesso interesse che avevo provato io: si alzò come se fosse l’ultima cosa che desiderasse e aprì distrattamente l’armadio per prendere soprabito e cappello.

Non poteva trattarsi solo dei bambini; aveva commesso una grossa leggerezza, è vero, ma non era successo nulla di irreparabile. Il motivo della sua espressione doveva essere un altro.

Difatti, prima di uscire, Ed si fermò sulla soglia. Non si voltò verso di me e parlò a voce bassissima, ma capii ugualmente ogni sillaba:

 - Mio fratello è sulla lista dei dispersi. Non dirlo ai ragazzi. -

* * *

 

In effetti, non ho idea del perché ne parlai con Margarethe: avevo deciso di tenere la cosa per me, ed evitare di spaventare gli altri - i miei nipoti soprattutto -, ma, forse, la verità è che volevo condividere con qualcuno quel peso. La notizia della sparizione di mio fratello mi aveva riempito di un’ansia molto maggiore di quella che avevo provato quando lo avevo visto partire per il fronte.

Disperso, continuavo a ripetermi mentre camminavo, accorgendomi appena della gente che cominciava ad uscire per strada.

Cioè scomparso, sparito, forse... forse morto... strinsi i pugni e tentai di allontanare quel pensiero.

Quel giorno non sarei andato a lavorare, decisi: non avevo la minima voglia di vedere quel laboratorio in cui aveva lavorato lui per così tanti anni...

... ma no, non potevo starmene a casa. Oltre ad essere sospetto per i ragazzi, sarebbe stato il modo più veloce per impazzire.

L’unica cosa che desideravo fare era correre a cercare Al: ed era anche l’unica cosa che non potevo fare, naturalmente. La sensazione di impotenza mi stava soffocando. Mi ritrovai a pensare, senza sapere bene come, che forse anche il mio fratellino si era sentito così, più di vent’anni prima, quando ero finito in questo mondo e l’avevo lasciato solo.

Appena svoltato l’angolo, vidi la fila di persone in coda per il pane, e mi resi immediatamente conto che, se Wilhelm era dietro il bancone, parlare con lui non sarebbe stato poi così facile.

Per fortuna, anche il ragazzo doveva averlo messo in conto, perché distinsi a fatica la sua capigliatura riccia dalla parte opposta della via, oltre le teste dei clienti; ignorando le proteste, oltrepassai la fila e mi avvicinai a lui.

 - Non potevi metterti in qualche posto in cui fosse più facile vederti? - brontolai.

 - Mi scusi, di solito lì va bene quando aspetto mia madre... Non avevo calcolato che lei è più bas... -

 - CHI SAREBBE IL NANETTO CHE... - vedendolo impallidire, lanciando occhiate terrorizzate a coloro che si erano voltati nella nostra direzione, smisi di urlare e mi costrinsi alla calma.

 - Preferirei parlarle in un posto tranquillo. - pigolò lui - Potremmo andare a casa mia? -

 

 - Mio nonno non c’è. - m’informò, chiudendo la porta d’ingresso alle nostre spalle.

 - Lo immaginavo. - risposi, guardandomi intorno.

Wilhelm mi aveva condotto nella cantina in cui, l’ultima volta, non avevo avuto il permesso di entrare; ora che la vedevo, non potevo fare a meno di notare che era leggermente più piccola di quella dei Meyer, e con un diverso genere di caos: al posto dei libri e delle cianfrusaglie degli ex-antiquari, c’erano parecchi sacchi e qualche cassa di legno, su cui il ragazzo mi invitò a sedermi. Rifiutai, perché non volevo ricevere i soliti rimproveri di Margarethe per aver sporcato i pantaloni.

 - Spero di non averla spaventata, signor Elric, ma potrebbe essere una questione di vita o di morte. -

 - Non mi spavento molto facilmente. - ribattei, guardandolo percorrere a grandi passi la cantina.

 - Quello che le sto per confessare la farà sicuramente infuriare, ma la mia coscienza me lo impone. -

Accidenti, pensai. Questo ragazzo ha letto troppi romanzi.

 - Sono tutto orecchi. -

Si fermò, poco prima che mi venisse il mal di mare, e prese un profondo respiro.

 - Poche settimane fa non ho passato la visita di leva, e questo ha spinto... - si interruppe per alcuni istanti, le labbra che tremavano - ha spinto mio fratello Hanno ad arruolarsi. -

 - Sai benissimo che non è stata colpa tua per quello che è successo. - ripetei per l’ennesima volta, cercando di suonare pacato. Non sentivo davvero il desiderio di parlare dei fratelli di nessuno, sapendo... o meglio, non sapendo quel che era successo al mio.

 - Herr Elric, lei non può non essersi accorto che dall’inizio dell’anno sono stati richiamati al fronte persino i vecchi che combatterono nella Grande Guerra e i quindicenni della Gioventù Hitleriana. - ribatté, e la sua voce per la prima volta suonò acida - Crede davvero che mi avrebbero riformato per una sciocchezza come i polmoni deboli? -

La logicità di quell’affermazione mi lasciò di sasso.

Rimasi a bocca aperta, e fu come vedere Wilhelm Lindemann per la prima volta: il ragazzo mi stava di fronte a gambe larghe, con i pugni stretti e uno sguardo duro che non gli avevo mai visto. Era incredibile pensare che quello fosse lo stesso giovanotto riservato che avevo conosciuto.

 - Signor Elric, - riprese, parlando velocemente, - quel giorno mi fu promesso che non sarei andato in guerra se avessi fatto un favore a certa gente. Dovevo tenere d’occhio i suoi movimenti, e riferirli. -

 

Credevo che quel giorno niente potesse distrarmi dal pensiero di Al.

Era evidente che mi sbagliavo.

Per parecchi istanti, riuscii solo a guardare il ragazzo, senza capacitarmi appieno di quel che mi aveva detto; Wilhelm, d’altro canto, aveva perso tutta la sua sicurezza, tornando ad essere il giovane timido dagli occhi spaventati.

Quando compresi esattamente la gravità della sua confessione, mi invase una rabbia tale da annebbiarmi la mente: scattai in avanti, afferrando Willi per il colletto e scuotendolo con tanta violenza da fargli battere i denti.

 - Chi? - gridai - Chi è questa gente? Come comunichi con loro? Parla! -

 - Non lo so! - piagnucolò terrorizzato - Era un militare... un ufficiale, credo. Alcune sere viene qui con un’auto nera... una Mercedes... signor Elric, la smetta, la prego! -

Lo lasciai andare.

 - Un ufficiale viene qui, senza che nessuno lo noti? - obiettai.

 - Parcheggiano la macchina all’inizio della strada, ed è l’autista a scendere. - ansimò Wilhelm, arretrando di alcuni passi. - Vuole sapere se lei va da qualche parte, se vede qualcuno... mi aveva chiesto di scoprire qualcosa sulle sue ricerche, ma per quello non ho potuto dire nulla. -

Mi lasciai cadere su una cassa, passandomi le mani tra i capelli.

Ormai era chiaro: qualcuno mi aveva tenuto d’occhio attraverso Wilhelm Lindemann. Poi aveva contattato Hedwig, per tentare di arrivare direttamente a me, oppure perché la sorveglianza del figlio del panettiere era insufficiente, impossibile stabilirlo. Dunque, doveva almeno essere a conoscenza delle mie frequentazioni, e avere un’idea ben chiara di come servirsene a proprio vantaggio.

Per ventidue anni non ne avevo sentito parlare, ma sarebbe stato ingenuo pensare che la Società di Thule fosse sparita nel nulla.

 - Herr Elric... -

 - Grazie. -

Quando alzai gli occhi, il volto di Wilhelm esprimeva sorpresa allo stato puro.

 - Non dev’essere stato facile dirmelo. -

Una parte di me desiderava ancora strozzarlo, ma sarebbe stato crudele recriminare.

Il figlio del panettiere parlò senza avvicinarsi:

 - La mia vigliaccheria ha già condannato a morte mio fratello. -

 - Non potevi sapere cosa avrebbe fatto. - replicai, alzandomi in piedi. Non avevo smesso di pensare al modo in cui il misterioso ufficiale potesse sapere di me: era uno degli appartenenti alla Società di Thule che avevo incontrato nel ’23 o un nuovo membro? E in quest’ultimo caso, come aveva saputo di me?

 - Wilhelm, ti hanno mai chiesto qualcosa in particolare su di me, o volevano solo conoscere le mie abitudini? - tentai, senza troppa speranza.

 - Insistevano per sapere delle sue ricerche, all’inizio. Però mi hanno anche chiesto se l’ho mai vista fare qualcosa di... - si interruppe, indeciso sulla parola da usare - insolito. -

 - “Insolito” in che senso? -

 - Beh... - il ragazzo arrossì - anche a me sembrava assurdo, ma mi hanno chiesto se ho mai avuto l’impressione che lei sapesse fare qualcosa di... innaturale. -

Davanti a quell’affermazione, non potei trattenermi: scoppiai a ridere, incurante della sorpresa del mio interlocutore.

Incredibile, pensai. Quegli idioti stanno dando la caccia a Mago Merlino!

 - Mi hanno anche chiesto delle sue protesi. -

Smisi all’istante di sghignazzare.

Hedwig le aveva viste, è vero. Ma qualcuno più esperto in medicina aveva avuto l’opportunità di esaminarle più da vicino.

Un ufficiale dell’esercito, guarda caso.

 - Wilhelm, un’ultima cosa: - ribattei - è possibile che l’ufficiale della Mercedes nera fosse lo stesso che ti ha fatto la visita di leva? -

Lui socchiuse gli occhi, meditando:

 - Non posso esserne sicuro. - ammise - Il soldato sulla macchina non l’ho visto bene: ho notato l’uniforme verde, e vagamente le mostrine. -

 - Il medico era un maggiore alto più o meno come me, con i baffi biondi?- domandai a bruciapelo.

 - Un tenente colonnello, ma in effetti aveva i baffi. Non conosco il suo nome. -

Sospirai. In cinque anni, poteva essere salito di grado.

* * *

 

Ed entrò in casa come una furia, ma per una volta non ce l’aveva con me. Senza una parola, aprì la stufa e vi gettò dentro tutti i fogli che avevo tolto dalla sua scrivania al piano di sotto.

Li guardò bruciare con aria imperscrutabile, mentre io, Lotte e Margarethe eravamo rimasti immobili, troppo sorpresi per fermarlo. Dopo alcuni interminabili minuti, si alzò:

 - Vado a lavorare. - annunciò, come se nulla fosse.

Era ufficiale. Edward era completamente uscito di senno.

* * *

 

La Mercedes nera era di nuovo parcheggiata del cortile della grande casa a due piani in cui ci trovavamo: riuscivo a distinguere le tracce lasciate dalle ruote sulla ghiaia anche dalla finestra da cui stavo guardando, su nella soffitta.

 - Capitano? -

Non distolsi lo sguardo dalla finestra: oltre il giardino e i cancelli in ferro battuto della villa, si stendeva la campagna bavarese, con le sue stradine bianche, le casupole solitarie e i colori ancora invernali, anche se un timido sole che sbucava a fatica dalla cappa di nuvole grigie bastava a rallegrarmi come un bambino.

Non mi trovavo più sul Reno, e questa era già un’ottima notizia.

 - Capitano? -

Alla fine, mi voltai verso l’uomo che tentava di attirare la mia attenzione, accettando il piatto di minestra fumante che mi offriva:

 - Avrebbe dovuto restare ancora a letto. - brontolò non appena fu certo che lo stavo ascoltando

 - Letto? - sorrisi, lanciando un’occhiata divertita al vecchio materasso buttato per terra, su cui era distesa una coperta militare. - Grazie, Ernst, ma preferisco stare in piedi. Ormai sono guarito, e non ho più la febbre. -

 - Almeno non sforzi il braccio... Vuole unirsi a noi per il pranzo? -

Guardai alle spalle del gigante biondo, dove altri due soldati semplici divoravano avidamente la stessa zuppa. Ad un altro ufficiale e in condizioni normali non lo avrebbe mai proposto, ma la nostra situazione era tutto tranne che normale.

 - Arrivo subito. -

 - Dovrebbe sbrigarsi a mangiare, perché fredda fa schifo. - brontolò ruvidamente il mio commilitone, con un fare paterno che mi divertì - Cosa c’è di così interessante là fuori? -

 - Tra poco sarà primavera. - risposi semplicemente.

 - Pensavo guardasse l’auto del colonnello Holze. -

 

Pensierino della buonanotte: per non farvi sentire troppo la mancanza di Hedwig (eh, come no!), in questo capitolo si rimescolano ancora le carte, e salta fuori anche uno scheletro nell’armadio di Ed che già si intuiva quando abbiamo visto comparire un auto-mail che non avrebbe dovuto esserci...

Ormai ci si deve rassegnare: la pace in casa Elric (se “pace” si può chiamare...) è finita.

 

            Selfish: visto? Tutti odiate Hedwig, ma non potete fare a meno di speculare su di lei! Oh oh oh, non sapete quanto ne sia felice... come donna è impossibile, ma come personaggio mi dà tantissime soddisfazioni. Per ora non è chiaro se amasse Ed o no, perché non sappiamo bene chi abbia mollato chi: aspetta e continua a leggere, tutto si spiegherà tra poco.

Sono contenta di averti fatto rivalutare Winry (caspita, ma quanto è diventata carina nel film? Va bene che anche Ed è stato migliorato -cosa che non credevo possibile, ehm ehm ehm-, ma lei è si è davvero fatta una gran bella ragazza!), ma temo di non poterti aiutare per quanto riguarda Edward e le sue... ehm... attività in campo riproduttivo: la mia fantasia non si è allontanata troppo dalla trama, quindi non ho idea dell’esperienza in campo amoroso del Fullmetal Alchemist al di fuori di questa. Dunque, sei libera di immaginare gli anni tra il 1923 e il 1945 come più ti aggradano... ma non esagerare, o Ed mi scappa nel magazzino e devo perdere ore a snidarlo!

Per il Portale, io dal film avevo inteso che Ed, Al e Roy avessero cancellato i cerchi alchemici, ma che il Portale non si possa distruggere, visto che, come diceva Hohenheim, ognuno ha un Portale dentro di sé. Il problema sarà stato per gli Elric scrostare il soffitto della villa della Società di Thule senza alchimia...

            Yolei87: Ed mi fa sapere che la Schneider sarà simpatica a te, ma lui ritiene che l’aggettivo cornacchia sia fin troppo gentile per un’arpia simile.

Piuttosto, non ho capito la parte del commento relativo a Hanno: cioè, doveva morire il panettiere? E come lo giustificavo ai fini della trama? E, soprattutto, a cosa sarebbe servito? Non credo che la morte di Johann Lindemann possa scuotere la coscienza di Thomas, a meno che il bambino non creda che la folgore divina abbia colpito il vecchio... cosa piuttosto improbabile.

            KuRoNeKoChAn: Hedwig non ha esattamente “venduto” Ed: per quel che lui può supporre, deve aver parlato delle sue conoscenze a qualcuno della Società di Thule, credendo che l’amico/fidanzato sarebbe stato felice di poter guadagnare qualche soldo in più. Hedwig è una donna molto materiale, il suo concetto di felicità include una vita comoda e sicura, con tutti i piccoli lussi a cui è abituata.

            Siyah: no, non mi sei sembrata critica, anzi, la tua curiosità mi ha fatto enormemente piacere: solo che, per rispondere esaurientemente al tuo commento, dovrei raccontarti più o meno mezza fanfiction a venire. Perciò scusa, ma dovrai aspettare: ci sono molti eventi che ancora non conosci, o che puoi appena intuire. L’unica cosa che posso spiegarti, è la più banale: Ed porta ancora la coda perché mi sono accorta che, se avessi detto che si era tagliato i capelli, io stessa non riuscivo a figurarmelo, quindi probabilmente non ci sarebbe riuscito neppure chi legge. Ho dovuto piegarmi ad una delle tante forzature dell’anime (la Società di Thule, per esempio, non avrebbe mai tentato di uscire alla luce del sole, proprio perché era una società segreta: inoltre, non accettava donne). Se ci pensi, quando comparvero i “capelloni”, gli hippies, tra gli anni Sessanta e Settanta, erano considerati delinquenti solo per i capelli lunghi: quindi, figurati che effetto potevano fare degli uomini come Hohenheim ed Edward stesso, nella Germania degli anni Venti o, ancora peggio, Quaranta!

Per il comportamento di Ed, ho tentato di seguire il più possibile l’anime, con qualche licenza: il suo idealismo, il non voler scendere a compromessi, sono insieme il suo tratto migliore e peggiore. Ovviamente, questo non rende la vita facile nella Germania nazista. Per l’adattamento pari a zero, oltre a tutto ciò che non posso dirti, conta che Edward non avrebbe voluto tornare nel nostro mondo: lo ha fatto perché riteneva suo dovere farlo, ma ventidue anni di ripensamenti non lo hanno proprio aiutato a rinforzare la sua decisione. Soprattutto contando che nel frattempo ha scoperto che la supposta “amicizia” con Winry non era proprio una semplice amicizia. Al, invece, è venuto da questa parte del Portale perché ha deciso di farlo, per seguire il fratellone; probabilmente aveva molti meno rimpianti di lui, e crescendo è riuscito a sposarsi con una donna che amava sinceramente, e a crearsi un futuro indipendente da Amestris e dai suoi abitanti, slegandosi anche parecchio dal fratello maggiore; immagino gli manchi il suo mondo, ma riesce a non pensarci (e con Thomas come figlio, non è difficile...).

Edward ha tentato di lavorare, ma è stato buttato in strada e umiliato nella cosa che sa fare meglio. Ha tentato di costruirsi una famiglia, ma si è trovato ad inseguire una chimera, la copia della donna che davvero amava. Forse è stato anche sfortunato, ma senza dubbio è quello che ha perso di più abbandonando il suo mondo.

A proposito, il litigio tra Ed e Hedwig è stato un incontro tra tutti i loro peggiori difetti: lei è frivola e venale, lui impulsivo e testardo. E ingenuo: decisamente non aveva capito che quella che lui considerava un’amicizia un po’ più intima del normale era vista dalla controparte femminile come qualcosa di molto più serio.

                Kogarashi: grazie, davvero troppo gentile. Scrivo perché mi diverte e mi rilassa, e sono felice che la mia fanfic piaccia anche ad altri, nonostante non segua i topoi delle ff della sezione di Fullmetal Alchemist.

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Capitolo 7
*** L'Evocatore di Spettri ***


Nuova pagina 2

Rivedendo il film, sono stata colta da un dubbio: ma Dietlinde Eckhart sa sparare? Passi Ed, che era piuttosto distante, ma Haushofer era a tre centimetri da lei, ed è riuscita a malapena a sfiorarlo!

Va beh, teliamo...

 

            7. L’Evocatore di Spettri

 

Entrando nel laboratorio... pardon, nell’Istituto di Ricerca Schneider, avevo già deciso di buttarmi nel lavoro con più foga del solito, per cercare di non pensare alla sorte di Al: ci riuscii solo in parte, tuttavia, perché il pensiero del mio fratellino si intrecciava indissolubilmente alle paure che mi perseguitavano.

Se qualcuno mi spiava, i miei nipoti e Margarethe erano in pericolo: e controllare una reazione chimica non avrebbe potuto farmelo dimenticare, anche se mi stavo imponendo si restare concentrato.

 - Signorina Berger, potrebbe passarmi la beuta con... - me la stava già tendendo - oh, grazie! -

In fondo, dovevo essere soddisfatto: il laboratorio funzionava bene, nonostante tutti i suoi problemi, e sebbene i dipendenti fossero in gran parte alla prima esperienza erano seri e coscienziosi. I pochi che speravano di portarsi a casa lo stipendio a ufo - tutti già in carica quando avevo lavorato la prima volta lì, più di dieci anni prima - o erano stati buttati in strada dalla proprietaria, oppure ridotti a più miti consigli dalle mie sfuriate.

Riponendo la vetreria, mi accorsi finalmente che qualcosa non quadrava: parecchie persone mi fissavano con insistenza, mentre fräulein Berger, sempre così calma, aveva tentato più volte di attirare la mia attenzione tossicchiando con discrezione, e ora saltellava nervosamente da un piede all’altro da parecchi minuti, lanciando occhiate di sottecchi alla porta alle mie spalle.

Solo una presenza profondamente malvagia avrebbe potuto gettare un simile scompiglio nella stanza, ed era proprio una delle persone che non avevo assolutamente voglia di vedere; per questo, mi voltai il più lentamente possibile.

E i miei peggiori timori si avverarono.

Ilse Schneider era lì.

 

 - Lei, signor Elric, non ha ancora capito che le donne amano far aspettare gli uomini, ma non il contrario? -

La vecchia strega si sedette di fronte alla scrivania del direttore, ricordandomi che teoricamente l’altra sedia era la mia: stando raramente in ufficio, tendevo a non rendermi conto che là dentro comandavo io, finché qualche ragazzo (o, più facilmente, ragazza... per una semplice questione di numeri) appena uscito dall’Università non si rivolgeva a me chiamandomi “signor direttore”.

Mi posizionai cercando di non apparire nervoso, e appoggiai le mani sulla scrivania.

 - Il mese di prova non è ancora passato. - le feci notare.

 - Lo so, lo so, ma avevo voglia di fare quattro passi in città. - rispose amabilmente lei.

 - E ha deciso di venire a controllarci senza preavviso? Sono onorato. -

(La solita signora alle mie spalle ha borbottato qualcosa sul mio atteggiamento con le donne.)

 - Io non do mai preavviso, Herr Elric. Sarebbe sciocco. - il suo irritante sorrisetto ironico le illuminò il viso scarno - Sa, per i primi dieci minuti mi sono chiesta se lei non stesse solo fingendo di non avermi vista: poi, quando i suoi dipendenti hanno cominciato ad avere attacchi di panico, ho capito che faceva sul serio. -

Ricambiai il sorriso sardonico, ma quella volta non avevo intenzione di subire le sue punzecchiature.

 - Signora Schneider, c’è una cosa che mi incuriosisce: - iniziai, in tono allegro, fingendo di togliere della polvere dal polsino - Qui ci sono parecchi uomini che avrebbero l’età giusta per essere arruolati... -

 - Cioè tra i dieci e i novant’anni. - commentò lei, ma la sua espressione si era irrigidita, e il tono era acido.

 - Come mai non hanno già sostituito il camice con la divisa? - terminai.

Accusò il colpo, dal modo in cui i suoi occhi si dilatarono, ma dopo alcuni istanti si costrinse a ridere:

 - Crede che faccia comunella con qualche alto papavero? - ribatté - Non offenda la sua intelligenza con simili sciocchezze, direttore. Non sono abbastanza carina per loro. -

 - In questo laboratorio non si fa nulla di utile né alla guerra, né al Partito. Con tutte le industrie chimiche che ci sono, perché degli uomini sarebbero lasciati a lavorare a qualcosa di così poco produttivo? -

 - Nulla di utile? - replicò lei, seria - Sono giorni che estraete dai chiodi di garofano (che, vorrei sottolineare, sono ormai introvabili) l’eugenolo che sarà mandato alle industrie farmaceutiche: i nostri eroici soldati al fronte non avranno più problemi di mal di denti!  -

Sobbalzai, non per il sarcasmo implicito, ma per l’accenno ai soldati al fronte: tuttavia, almeno per quella volta, Frau Schneider non era consapevole dell’effetto delle sue parole su di me.

 - E se chiederà in giro, - continuava - scoprirà che non c’è nulla di sospetto nella presenza di così tanti uomini: sono davvero pochi, rispetto a prima della guerra. -

Meditai su quelle parole. Poteva anche essere vero... dopotutto, doveva esserci ancora qualcuno nelle industrie della città, e non poteva trattarsi solo di donne.

 - Non tollererei supporti di nessun tipo; voglio essere io a dirigere questo posto, senza aiuti esterni. - concluse lei.

Qualcosa nel suo tono cambiò: era diventato più secco, più autoritario. Non ebbi bisogno di molto intuito per capire che avevo toccato un nervo scoperto:

 - Per dimostrare a tutti di esserne in grado? - compresi all’improvviso.

 - Molto egoistico, vero? - la Schneider si passò una mano tra i capelli, e di colpo sembrò più vecchia - Ereditai questo marciume dal mio defunto fratello, l’anno scorso, senza troppo entusiasmo: un’attività in perdita, un campo di cui sapevo ben poco... poi, per fortuna, ho conosciuto Karl. -

 - Heinrich? - domandai, sorpreso. - Non mi sembra il tipo che possa risvegliare l’amore per la scienza in chicchessia. -

 - Infatti. Proprio per questo mi sono chiesta come fosse possibile che un simile omiciattolo potesse essere arrivato così in alto. -

 - E così ha deciso di prendere in mano la situazione, per mostrare che anche una donna era in grado di farcela. - completai.

 - Di farcela? - abbaiò lei, muovendo bruscamente la mano, come se intendesse colpire l’aria - Volevo far vedere al mondo che io, una donna!, potevo essere migliore! Che potevo non solo mandare avanti questa stamberga, ma migliorarla! -

Trasalii come se mi avesse schiaffeggiato: avevo già intuito che Ilse Schneider non era una persona qualsiasi, ma non avrei mai immaginato una simile ambizione! Forse ero stato cieco anch’io: non mi ero mai reso conto delle restrizioni a cui erano sottoposte le donne di questo mondo, o meglio, non vi avevo mai badato davvero.

Dovevo avere un’espressione piuttosto frastornata, perché la mia interlocutrice mi lanciò un’occhiata truce:

 - Mi risparmi quello sguardo, signor Elric. - brontolò, e improvvisamente la gelida valchiria tornò ad essere la donnetta acida di sempre - Se lei è immune da sentimenti così bassi, tanto meglio. -

 - Non lo sa ancora? - chiesi, sfoderando il mio ghigno migliore - Immaginavo avesse una lista aggiornata dei miei difetti, ora che può tenermi d’occhio personalmente, senza telefonate di Heinrich. -

La Schneider si raddrizzò leggermente, mentre l’aria ironica tornava ad aleggiarle sul volto visibilmente più rilassato: come sua figlia, passava dall’ira alla calma in un tempo sorprendentemente breve. O vi si costringeva.

 - Decisamente, Herr Elric, lei difetta di ottimismo. Non sono qui per licenziarla. -

Mentalmente, sospirai di sollievo, mentre la guardavo frugare in borsa con la stessa espressione concentrata che avevo visto sul viso di Hedwig. Lei, però, estrasse una busta piuttosto malconcia.

 - Un anticipo sullo stipendio. Ho lasciato quelli per i dipendenti a Martha, ma a lei lo consegno personalmente... solo perché voglio godermi la sua faccia, ovviamente. -

 - Grazie. -

 - Non questa espressione sarcastica... -

 - Non pretenderà che mi metta a contarli qui. - replicai - Sarebbe  da  persone rozze! -

Imbarazzanti manifestazioni di giubilo giunsero da oltre la porta: Martha doveva aver distribuito le paghe, perché tornò il silenzio solo dopo che qualcuno sibilò “Sssssst!”, probabilmente indicando il mio ufficio. Arrossii mio malgrado, ma cercai di mantenermi impassibile mentre riponevo il mio stipendio, sotto lo sguardo falsamente neutro del grande capo, che si era alzata e faceva cenno di volersi congedare; mi alzai in piedi anch’io e le aprii la porta.

(Conosco le buone maniere, cosa credete?)

 - Ora che mi sono risollevata lo spirito, credo andrò a comprarmi un paio di scarpe. - dichiarò allegramente - Con le mostruosità che girano in questo periodo, non c’è dubbio che mi rovinerò il pomeriggio. -

Beata lei che può permettersi delle calzature nuove o seminuove, pensai tra me, lanciando un’occhiata depressa alle mie, consumate e scolorite.

* * *

 

La soffitta in cui io e i miei commilitoni eravamo stati sistemati apparteneva ad una vecchia casa di campagna a due piani quasi disabitata, in cui ogni rumore veniva amplificato fino ad ottenere un effetto inquietante. Il tetto spiovente rendeva impossibile stare in posizione eretta vicino alle pareti, dove, in ogni caso, erano stati ammassati gli oggetti più disparati, probabilmente per liberare delle camere ai piani inferiori. Peccato, però, che nessuno si fosse sognato di fornirci un letto: avevamo a disposizione un solo vecchio materasso, e soltanto perché quei tre furfanti lo avevano richiesto per me, approfittando del fatto che stavo troppo male per ribellarmi. Dal momento che non avevo più la febbre, comunque, mi sentii libero di alzarmi, venendo così a trovarmi di fronte a uno dei miei compagni sprofondato in un divano dall’aria antica, gli stivali logori sul poggiapiedi coordinato, sprofondato nella lettura.

 - Sempre a studiare, eh Klaus? - scherzai.

Il ventiduenne sobbalzò, accorgendosi in quel momento della mia presenza, e sarebbe scattato in piedi se non glielo avessi impedito con un cenno.

 - Sì, signore. - rispose, arrossendo fino alla punta dei capelli biondi perennemente ritti sulla fronte - Spero di poter riprendere l’Università, appena finita la guerra. -

 - Che facoltà? - mi informai, sedendomi di fianco a lui.

 - Filosofia, signore. -

 - Ah, almeno avremo un vero filosofo nel gruppo. -

Neppure lo avessi evocato, il diretto interessato irruppe nella stanza.

Ernst Feuerbach, detto “il Filosofo” per la sua omonimia con Ludwig Feuerbach: operaio della Bassa Sassonia, il più anziano della nostra scalcagnata squadra (seppure più vecchio di me di soli sei anni); un gigante di quasi due metri con i capelli a spazzola e gli occhi scuri, di fianco al quale Andreas Neubauer, il soldato entrato con lui, spariva quasi completamente, nonostante la capigliatura tendente al rosso.

 - Parli del lupo... - mormorai.

 - Portiamo notizie! - esclamò Andreas - Se sono buone o cattive, non ne ho idea: stasera ci muoviamo. -

 - Perché? - Klaus si arrese a chiudere il libro - E dove andiamo? -

 - Non lo sappiamo. - ammise lui - Ma credo non lo sappia neppure il colonnello Holze: ormai comanda... - e qui la voce prese un’intonazione sarcastica - “Il Presidente”. -

 - Siamo in buone mani... - replicò Klaus, gelido.

Mi alzai, più che altro perché il divano era estremamente scomodo, e andai a versarmi da bere: manco a dirlo, la birra, seppure di pessima qualità, era quasi finita. Sospirando, ripiegai sull’acqua.

 - Però abbiamo un nome. - interloquì Ernst, cupo - C’è un uomo che, tra loro, chiamano “lo Stregone”, o l’Evocatore di Spettri. Il suo vero nome è Edward Elric. -

Trasalii, rischiando di rovesciare la bottiglia, mentre un’esclamazione soffocata alle mie spalle seguì quel nome: riconobbi la voce del giovane Klaus.

 - Possibile? E perché mio... il colonnello Holze non me l’ha detto? -

 - Figurati che non voleva dir niente neppure a noi. - gli rispose Andreas stringendosi nelle spalle.

 - Capitano, lei...? -

 - No, Klaus, ne so tanto quanto voi. - risposi, più bruscamente di quanto volessi, tornando ad avvicinarmi al gruppo. - E mi piacerebbe capirci qualcosa. Cosa ci facciamo qui, per esempio. -

 - Tanto, ormai... - brontolò Ernst, a voce bassa, ma non abbastanza da non essere udito.

Intuii quel che voleva dire: anche se ci fossimo trovati ancora sul Reno, non saremmo stati di alcuna utilità.

Fino a pochi giorni prima eravamo dislocati tutti e quattro nel piccolo paese di Remagen: un luogo assolutamente anonimo finché gli americani, il sette marzo, non vi avevano utilizzato l’unico ponte ancora in piedi per sfondare il fronte ed entrare in Germania; l’apporto fornito alla guerra, a quel punto, si era ridotto al tentativo di non far allungare la lista dei caduti con i nostri nomi. Mio malgrado, mi ero ritrovato a capo di quel gruppo di disperati, guidandoli per vigneti rinsecchiti e boschi, senza sapere dove stessi andando, ferito al braccio sinistro da alcune schegge di granata che avevamo estratto solo in parte e che quando ci eravamo riuniti ai nostri avevano già fatto infezione e mi avevano quasi ucciso.

 - Non mi piace tutto questo. - dichiarò Klaus, preoccupato - Non ha nulla a che fare con la guerra. -

 - Sicuro? - gli chiese Feuerbach - Secondo te c’è qualcosa che non ha a che fare con la guerra, in tutta la Germania? -

Scrutai il soldato più anziano, accorgendomi finalmente che era strano: non era da Ernst essere così serio e silenzioso, lui che di solito riempiva i dintorni con il suo vocione sonoro e l’irruente allegria.

 - Va tutto bene? - gli domandai, appoggiandogli una mano sulla spalla.

Lui non rispose subito, ma parve soppesare le parole.

 - Non mi fido di questa organizzazione. - sussurrò.

Neanch’io. Oltretutto, conoscevo qualcuno che se avesse scoperto che, anche se indirettamente, stavo lavorando per la Società di Thule, non mi avrebbe rivolto la parola per il resto della vita.

 - Parli del demonio che avrebbero evocato, e che è valso il soprannome a quel fantomatico Stregone? - ridacchiò Andreas.

 - Come? - esclamammo in coro io e Klaus.

 - Ieri sera ho sentito per caso un brandello di conversazione... - ammise Ernst.

 - Diciamo che hai origliato. - tradusse il soldato dai capelli rossi.

 - E va beh, è uguale! Dicevano che questo (oh, dannazione!) Stregone una volta ha evocato un demonio: parecchie persone avrebbero visto un’armatura vuota muoversi e parlare come se fosse stata viva! -

Klaus si sforzò educatamente di non ridere, mentre io non potei fare a meno di alzare un sopracciglio.

 - Però, guarda caso, nessuna di queste fantomatiche “persone” sono qui. - replicò Andreas, acido.

 - E allora perché parlarne, Signor So-Tutto-Io? -

 - Perché la gente ha l’abitudine di ingigantire le storie che sente, Filosofo! Figurarsi poi in un circolo esoterico, quale pare essere questo! -

 - Ora non fare la persona colta, che prima della guerra non eri mai uscito dalla tua sartoria di Lubecca! -

Klaus scosse la testa, sospirando. Ovviamente, non credeva ad una sola parola.

 - Piantala, tu! - esclamò Ernst, vedendolo - Io riporto solo quel che ho sentito, e non ho bisogno della vostra boria da laureati per sapere che... naturalmente non mi riferivo a lei, capitano. - aggiunse in fretta.

 - Smettetela. - dissi, alzando la mano per imporre il silenzio - Ci manca solo che ci mettiamo a litigare tra di noi. -

Per la miseria. A volte sembravano dei bambini.

* * *

 

Difficilmente vidi Margarethe più allegra di quella sera: arrivò perfino a tirare fuori una bottiglia di cognac che teneva in serbo per le occasioni speciali, e che era pressoché piena, dato che Ed era da molto tempo l’unico maggiorenne in quella casa.

 - Non sperare di ubriacarmi! - commentò lui, versandosene un generoso bicchiere.

L’“anticipo di stipendio” di Edward si era rivelato essere una somma di tutto rispetto, che probabilmente mio zio non vedeva da anni, visto che anche lui parve sorpreso: così, quella sera l’umore di tutti ne fu rinfrancato.

In tempi normali, dichiarò Margarethe, dovresti essere tu ad offrirci da bere!

 - Scordatevelo. Siete troppo giovani. -

 - È vero - interloquì Lotte - che una volta tu e papà andavate a mangiare nelle birrerie? -

 - Abbiamo sperimentato praticamente ogni cosa. - rispose lui - Nessuno dei due è un granché come cuoco. Prima della guerra ci andavo ancora, a volte. -

 - Ed è vero che una volta hai finto di essere malato per fare andare papà e mamma da soli? -

 - Sì, quando erano fidanzati. - ammise - Speravo che vostro padre non l’avesse capito. -

 - Ha sempre detto che il tuo attacco di mal di schiena è stato un po’ troppo rapido ad andarsene... - commentai.

 - E papà dice anche - finì mia sorella - che spera ancora di restituirti il favore! -

Edward arrossì fino ai capelli, rischiando seriamente di strozzarsi con il liquore. Per alcuni penosi secondi Margarethe gli batté sonoramente sulla schiena, fingendo un’aria partecipe, finché lui non si riprese.

 - Quando tuo padre tornerà... - iniziò lui, ma si bloccò subito, come ricordandosi di qualcosa; riposto il bicchiere, si sporse per dare un buffetto sulla testa a Lotte, ma i suoi pensieri erano già volati a qualcosa di molto lontano.

Margarethe, l’unica tra noi che sembrava comprendere quel che stava pensando Ed, si affrettò a prendere la lavagnetta e scrivervi il menu previsto per quella sera (ancora cavoli).

Non dovette neppure sopportare i nostri soliti sbuffi seccati, perché qualcuno bussò sonoramente alla porta al piano di sotto; la ragazza assunse un’aria interrogativa (chi poteva essere in giro dopo il tramonto, quando non era permesso neppure mettere in naso fuori di casa?), ma si affrettò ad alzarsi, sparendo nell’oscurità imposta dal coprifuoco. L’eco dei suoi passi veloci stava ancora risuonando per le scale, quando la vocina di Lotte, questa volta più timorosa, tornò a farsi sentire:

 - Ed, - pigolò - papà sta bene... vero? -

Lui la guardò per alcuni secondi con uno sguardo vuoto, come se non ricordasse bene chi fosse, poi fece uno sforzo sovrumano per sorriderle: allungò le braccia sul tavolo già apparecchiato per prenderle le manine tra le sue.

 - Tuo padre, al momento, è al caldo e al sicuro da qualche parte. - mentì pietosamente - In questi giorni lavora tanto, e quindi non può scrivere: però sono certo che vi pensa ogni... -

Il suono assordante dei passi che salivano le scale lo fece voltare di scatto: quei tonfi non appartenevano di certo alla silenziosa Margarethe, capace di camminare sulle assi di legno del pavimento senza farle scricchiolare. Infatti, dopo una manciata di secondi irruppero nella cucina due soldati armati, che si trascinavano dietro la ragazza, prossima allo svenimento per il terrore.

Edward lanciò un grido e saltò in piedi, voltandosi per fronteggiarli: entrambi erano più alti di lui (non che ci volesse molto), ma uno era un vero gigante, dalla stazza di un toro e le spalle larghe e squadrate. Il secondo doveva essere poco più basso di mio padre, e aveva una chioma di un singolare rosso scuro.

 - Edward Elric? - chiese il primo.

 - Che volete? -

 - Dovete seguirci. Tutti e quattro. -

* * *

 

Non pensavo di essere così attaccato ai miei effetti personali: ho passato metà della mia vita viaggiando, e gli oggetti che mi hanno seguito dovunque sono davvero pochi.

Quella sera, tuttavia, vedendo uno di quei bifolchi (il pel di carota) buttare all’aria il mio appartamento, provai lo stesso fastidio che avevo avvertito quando, pochi minuti prima, mi avevano perquisito.

Come se girassi per il salotto di casa mia con una pistola!

 - Non ci sono altri fogli? - mi chiese l’energumeno che ci puntava il fucile contro.

 - Solo quelli che avete trovato nella stufa. - ribattei, acido.

Purtroppo, qualche frammento di carta non era bruciato, ma si trattava comunque di materiale insufficiente: l’unica copia completa del mio lavoro ventennale si trovava nella mia testa, al sicuro. Neanche le monete che avevano già preso dal cassetto mi preoccupavano, perché potevo farle passare per dei falsi.

Il rosso gettò all’aria l’armadio, spostò i vestiti (con più garbo di quanto avessi creduto possibile in una perquisizione) e appoggiò la mia valigia sul letto, dove esaminò il contenuto alla luce di una torcia: giaceva abbandonata da una dozzina d’anni, ma avrei potuto recitare a memoria il suo contenuto. Quando l’uomo lanciò distrattamente da parte l’orologio d’argento da Alchimista di Stato, sospirai mentalmente di sollievo.

 - Questo è tuo? - chiese il militare, rivolto a Thomas.

Mio nipote tremava visibilmente: lo avevo sentito emettere uno squittio disperato quando avevano aperto il quaderno dalla copertina nera appartenuto al giovane Hanno Lindemann, che neppure lui aveva mai osato sfogliare; in quel momento diede un’occhiata alla giacca rossa che il militare gli mostrava, mentre io desideravo aver dato retta ad Al, quando mi aveva detto di liberarmene.

 - Sì, signore. - mentì il dodicenne, con un filo di voce.

 - Dagliela, Andreas. - disse il secondo soldato - Ha freddo, non vedi? -

Io non feci commenti, perché era straordinariamente ovvio che il ragazzo non batteva i denti per il freddo, e Thomas si avvolse nella giacca che un tempo era stata mia e poi di mio fratello; non potei fare a meno di notare la somiglianza con suo padre.

Al mi avrebbe schiaffeggiato se avesse saputo cosa stavo facendo passare ai suoi figli.

 - Qui abbiamo finito: usciamo. - dichiarò quello chiamato Andreas.

 - Lasciate i bambini e la ragazza. - provai a dire.

Il gigante abbassò leggermente l’arma: al buio non riuscivo a vedere bene la divisa, ma mi sembrava della Wehrmacht.

Tutto questo non aveva senso. Da quando era l’esercito ad effettuare arresti?

 - Non possiamo. Non siamo noi a decidere. - mi rispose, e nella sua voce aleggiò un’inaspettata nota di scusa. Forse era un padre di famiglia.

Fuori non c’era la Mercedes nera, come avevo pensato, ma uno scalcagnatissimo camion militare che sembrava essere stato appena ripescato da una palude, a giudicare dal fango appiccicato sulla carrozzeria. Non seppi decidere se era un buono o un cattivo segno.

 

Di una cosa ero certo: non mi arrestavano per spionaggio.

E questo era un bene.

Ma probabilmente ero appena caduto nella trappola tesa dai miei vecchi amici della Società di Thule.

E questo non era un bene.

Forse stavamo andando fuori città, ma non avrei potuto stabilirlo con certezza: a causa dei bombardamenti, anche le strade di Monaco erano sconnesse, e ogni spostamento, per breve che fosse, richiedeva parecchio tempo. Oltretutto, faceva ancora piuttosto freddo e noi non avevamo abiti troppo spessi, a parte la giacca che Thomas aveva passato a Charlotte, perciò stavamo congelando. Avevo preso la bambina in braccio, per un qualche moto istintivo (che neppure io sospettavo di avere), e lei era rimasta zitta e immobile, avvolta nell’abito rosso enorme per lei, con la testa appoggiata sulla mia spalla e gli occhi sbarrati, troppo terrorizzata anche per piangere. Margarethe, di fronte a me, non sembrava più sul punto di accasciarsi priva di sensi, ma il suo autocontrollo non fu rafforzato dalla vista di una macchia di sangue vecchia di alcuni giorni nel punto in cui stava appoggiando i piedi; quando si accorse che la stavo fissando, ricambiò lo sguardo.

 - Non vi sarà fatto alcun male. -

Margarethe si voltò verso il soldato al suo fianco, che aveva parlato rivolgendosi a lei: era molto più giovane degli altri due, ed era rimasto sul camion mentre buttavano all’aria casa Meyer. Per tutto il viaggio non aveva fatto altro che fissarmi, distraendosi solo in quel momento.

Il mio locatore si limitò a guardarlo (ovviamente), ma lui arrossì fino alle orecchie e si affrettò a voltarsi.

 - Cosa c’entrano loro in tutto questo? - domandai, stringendo più forte Lotte.

 - Eseguiamo gli ordini, signor Elric. - rispose lui.

Dove l’avevo già visto?, mi chiesi all’improvviso. Aveva qualcosa di familiare, ma non riuscivo a ricollegarlo a nessuno che conoscessi.

Come se sapesse a cosa stavo pensando, il giovane si tolse la bustina dal capo: i capelli biondi erano leggermente alzati sulla fronte.

 - Sono Klaus Holze, signor Elric. Si ricorda di me? -

Trasalii, mentre il volto del bimbo compariva come un lampo nella mia mente.

 - Klaus... - ripetei.

 - Lei mi ha salvato la vita, undici anni fa. - disse mestamente, mentre Thomas si voltava verso di me con aria sbalordita, ricordando il mio racconto, la sera in cui Al aveva portato lui e la sorella da me - Le do la mia parola che farò di tutto per estinguere il mio debito. -

Ci fermammo con un brusco scossone.

 

Una volta scesi, scoprii che eravamo nel cortile di una villa di campagna a due piani, incredibilmente ben tenuta anche per un periodo di pace.

Ville, ville, ville., pensai. Possibile che questi non sappiano tramare che nelle ville?

In realtà, come scoprii subito, l’aspetto opulento era una mera illusione: l’atrio e il corridoio interno in cui fummo condotti erano spogli, e grosse macchie verdastre di muffa e umido comparivano sui muri e sui soffitti bianchi.

 - Il Presidente vorrebbe parlare con lei, dottor Elric. -

Mi voltai verso l’energumeno, che si era fermato di fronte ad una porta: era probabilmente l’unica persona al mondo a chiamarmi “dottor Elric”, e per un istante la cosa mi fece ridere nervosamente.

 - E non poteva venire a dirmelo, invece di rapirmi? -

 - I bambini e la ragazza saranno alloggiati nelle stanze padronali, al secondo piano. -

 - No. Restano con me. -

 - Dottore... -

 - Non lascerò per un solo istante nessuno di loro! - replicai, alzando la voce, e per sottolineare il concetto appoggiai una mano sulla spalla di Thomas e l’altra sulla testolina di Charlotte.

 - Sono al sicuro. - replicò lui, aprendo la porta - Non sarà fatto loro alcun male. -

Prima che potessi replicare, mi afferrò per una spalla e mi trascinò a forza dentro, chiudendosi la porta alle spalle per impedirmi di fuggire.

E di nuovo tornò l’illusione di lusso.

Mi trovavo in un salone per i ricevimenti dal soffitto alto ed enormi finestre che, per alcuni istanti, mi ricordò fastidiosamente un ambiente molto simile e altrettanto sgradevole: il luogo, in casa di Dante, in cui avevo combattuto contro Greed, dandogli involontariamente il colpo di grazia. Alcune lampade erano state accese nonostante i divieti, e più o meno al centro di quell’ambiente vuoto e freddo si trovava un tavolo da tè apparecchiato e due persone già sedute.

Va bene.

Che mi invitassero ad un tè con pasticcini, in effetti, non lo avevo previsto.

E neanche che i nostri sequestratori fossero così fuori dagli schemi da lasciarmi a bocca aperta come un idiota.

Il colonnello Georg Holze era, se possibile, ancora più grasso di cinque anni prima: condizione invidiabile per la maggior parte dei tedeschi, che faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena. La divisa era pulita e stirata, e i baffi, più biondi e folti di quanto ricordassi, lo rendevano più che mai simile ad un tricheco.

 - Herr Elric, - esordì, tossicchiando con fare imbarazzato - quanto tempo! Sono lieto di vederla in salute. -

“Quanto tempo”, “sono lieto di vederla in salute”... quello non era un colonnello delle Forze Armate. Quello era il Cappellaio Matto di quel libro per bambini che avevo sentito leggere da Al a Thomas, una volta!

 - Posso presentarle il Presidente della Società di Thule? - continuò, indicando chi occupava la sedia di fronte alla sua.

Il Presidente alzò la tazza che teneva in mano, in cenno di saluto:

 - Accomodati pure, Edward. Immagino avrai già cenato, ma spero che vorrai gradire ugualmente qualcosa, mentre discutiamo di affari. -

Era impeccabile: vestito, scarpe, acconciatura, perfetti per una serata mondana. Decisamente distante dall’aspetto mascolino e marziale di Dietlinde Eckhart.

Lo ammetto. Mi aveva completamente spiazzato, anche se cercai di non darlo a vedere stampandomi sulla faccia il ghigno sarcastico più impudente che riuscii a trovare, e incrociando le braccia al petto.

 - Grazie mille per l’invito e per la scorta che è venuta a prenderci. Ti sei davvero preso troppo disturbo, mia cara. -

Hedwig Steinglocke si limitò a sorridermi con aria accattivante da sopra la sua tazza di tè.

 

 

Pensierino della buonanotte: TA-DA-DA-DAAAAAAN!

Ok. Ora potete ammazzarmi.

In realtà, non avevo pensato subito ad una donna a capo della Società di Thule, anche perché, seguendo la realtà storica, non potevano neppure entrarvi: ma mi piaceva l’idea che i capi dei cattivi in Fullmetal Alchemist siano sempre donne, e volevo continuare la tradizione inaugurata da Dante e Dietlinde Eckhart.

Che volete farci, forse inconsciamente mi piace vedere Ed fregato da una donna.

Cambiando argomento: rivedendo Indiana Jones e l’Ultima Crociata, mi sono accorta di quanto Hedwig somigliasse alla bellissima nazista... che, tra l’altro, si chiamava Elsa Schneider! Citazione involontaria! A proposito di citazioni involontarie: i personaggi dei soldati sono, in realtà, i più “vecchi”, nel senso che sono quelli che inventai per primi, insieme a Margarethe. Avevo i nomi, le personalità, gli aspetti fisici, in modo che ognuno fosse diverso dall’altro... solo che, a gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, hanno dato un film (con protagonista Castellitto) in cui il nazista di turno si chiamava proprio Feuerbach! Inizialmente ho pensato di cambiare cognome al povero Ernst, per evitare imbarazzanti paragoni, ma non mi tornava il gioco di parole, e ormai “il Filosofo” era il Filosofo. Perciò ho deciso, molto tirannicamente, di lasciare tutto così: non avevo mai letto il libro da cui il film è tratto, quindi non ho copiato il nome. La mia coscienza è tranquilla.

Ah, nel caso voleste saperlo, il nome di Ilse l’ho preso dall’opera teatrale (incompiuta) I Giganti della Montagna di Pirandello.

Vi lascio un po’ di tempo per riprendervi dallo shock (seee...), appena riuscite ad uscire dalla tensione nervosa che questo entusiasmante capitolo vi ha dato (ceeeerrto, contaci), fate un’opera di volontariato e lasciate una recensione? Una recensione piccola, una recensioncina... piccina picciò... Daaaaaaaai!

 

            Selfish: [Rika88 si volta di scatto] Cos... MI VEDI? [toglie i piedi dalla scrivania e la pulisce dalle briciole del panino, nascondendo la cartaccia] Ehm, ma non c’è nulla da vedere! Ecco, è tutto in ordine!

Tornando seri (insomma...): credo che Ed avrebbe messo anche un po’ di sadica soddisfazione nel demolire casa Haushofer e tutta la tana di quei pazzoidi. Te lo vedi, armato di piccone? Io purtroppo sì, e tutta la dolcezza di Al non basterebbe a fermarlo...

Anche io preferisco la Winry del manga, ma forse il problema sta semplicemente nel fatto che nell’anime non c’è stato spazio per sviluppare appieno il personaggio... è molto difficile mettere in pratica tutte le idee che vengono in mente su un personaggio: per sviluppare Hedwig come vorrei, avrei bisogno di molti più capitoli, ma sarebbe uno sterile esercizio di stile, che annoierebbe a morte il lettore.

Ed (e Al, povero) sono IC? Beh, ti ringrazio! Non è facile far parlare un personaggio non tuo in prima persona, le variazioni sono inevitabili: per gli Elric ho potuto giustificare la cosa con i ventidue anni passati, e tutte le loro tribolazioni. In effetti, sono la prima ad ammettere che il vero Edward non è dotato di quel pungente cinismo che io gli ho affibbiato.

Wilhelm, poveretto, è un ragazzo molto leale: in questo caso, poi, è anche tormentato dai sensi di colpa. È assolutamente convinto di aver mandato a morte suo fratello Hanno. E per la yaoi... sorry, ma passo il testimone: non sono proprio capace.

            KuRoNeKoChAn: Le monete, in realtà, hanno una loro spiegazione, abbastanza banale. Le ho messe in quel punto, più che altro, per rimarcare quel che già doveva essere sospetto nel terzo capitolo, quando Ed esibiva un auto-mail che non è sicuramente di questo mondo... e che diventerà lampante tra poco!

La confessione di Wilhelm ti ha stupita? Beh, allora che mi dici del Presidente? E non ho ancora sparato tutte le mie cartucce...

            Siyah: Come potrei anche solo pensare di fare del male al povero, piccolo Al? Alphonse è la coscienza di Ed: senza di lui, quel pazzo potrebbe combinare qualche altro pasticcio e cacciare ulteriormente nei guai i tre ragazzi!

Tra l’altro: nel precedente commento avevi citato l’OAV Kids per far notare che lì Ed si era costruito una famiglia... non so se ricordi, ma nel primo capitolo Thomas diceva, a proposito dell’odio di Edward per la parola “zio”, che “lo faceva sentire vecchio.

Lo stesso motivo per cui, adesso, rifiuta di farsi chiamare “nonno” e “bisnonno”, anche se non lo ammetterebbe mai.”

Senza contare la “signora” alle sue spalle che compare ogni tanto nelle note a margine... Ti assicuro che non si tratta di Ilse Schneider. ^.^

(Non c’entra nulla, però... l’OAV in questione l’ho visto solo di recente, prima mi dovevo arrangiare con le immagini. Ma quanto sono carini i tre bimbi??)

 

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Capitolo 8
*** Capitano ***


Nuova pagina 1

            8. Capitano

 

 - Prego, Edward, siediti pure e serviti senza fare complimenti! - cinguettò Hedwig, spostando la terza sedia accanto al tavolino tondo da tè.

 - No, grazie, carissima. - risposi, in tono falsamente amabile - I biscottini e il tè vero mi restano sempre sullo stomaco. -

 - Insisto. -

Il gigante dietro di me mi spinse brutalmente a sedere, utilizzando una delle sue enormi mani sulla mia spalla. In quel momento capii come si sente una zanzara schiacciata contro il muro.

 - Sempre così idealista e orgoglioso, Edward... - replicò la donna, scuotendo leggermente la testa, senza smettere di sorridere con condiscendenza - Incorruttibile, non importa che moneta si usi. Tetragono alle lusinghe della ricchezza. -

Mi limitai a fissarla con disprezzo, senza replicare, augurandole mentalmente di strozzarsi con il contenuto della sua tazza, che sorbiva con tranquillità. La situazione doveva essere piuttosto imbarazzante, perché Holze, improvvisamente, tossicchiò leggermente:

 - Se non ha bisogno di me, Presidente, io andrei di sopra: vorrei controllare le condizioni di salute del capitano. -

 - Sinceramente, Georg: era davvero necessario portare quell’uomo qui? Gradirei che il personale preposto alla sicurezza della casa fosse almeno in grado di reggersi in piedi! -

La zampa del soldato si strinse dolorosamente sulla mia spalla: alzando leggermente lo sguardo, mi accorsi che stava digrignando i denti come se lo avessero insultato personalmente.

Il suo superiore non sembrava ugualmente offeso, anzi, si esibì in un sorrisetto imbarazzato, mentre faceva l’atto di alzarsi.

 - Ma no, signora, il mio sottoposto sarà presto in grado... -

 - Non muoverti, Georg! - strillò lei, agitando un biscotto come se fosse un’arma - Abbiamo del lavoro da fare! -

 - Non vorrà andarsene senza aver finito il tè! - replicai, con un sorriso idiota.

L’ufficiale tornò al suo posto, mogio, mentre l’uomo dietro di me finalmente spostava il suo arto sproporzionato dalla mia spalla dolorante.

 - Andando dritti al sodo, Edward, - riprese il Presidente - avremmo bisogno del tuo aiuto per un lavoretto che, per te, dovrebbe essere molto facile... -

 - Il lavoretto deve starti davvero a cuore, Hedwig, visto che per ben cinque anni hai indefessamente finto di essere innamorata di me, arrivando a recitare persino la parte dell’amante tradita quando mi sono rifiutato di aiutarti! -

Qualcuno aprì la porta alle mie spalle, ma non mi stupii troppo nel vedere la piccola sagoma di Ilse Schneider avanzare verso di noi. Era pur sempre la madre della mia carceriera.

 - Ammetterai che sono stata brava. - concesse Hedwig, posando la sua tazza di tè.

 - Se avessi accettato cosa avresti fatto, esattamente? Non mi sembra che il matrimonio fosse realmente nei tuoi progetti. -

La Schneider, in piedi con le braccia incrociate a qualche metro da noi, emise una specie di sbuffo.

Stava per scoppiare a ridere? Possibile?

 - So bene che il primo dovere di ogni donna tedesca è dare figli al Reich, ma io sono stata chiamata a un compito più alto. -

Inarcai le sopracciglia. Per un solo, brevissimo istante, la stupida tracotanza di quella frase mi fece cogliere appieno la comicità di quella situazione, così violentemente che dovetti trattenere una risata: ma subito dopo tornai ad essere il prigioniero di una banda di pazzi, che rischiava la vita propria e di tre ragazzini. Due dei quali affidati a lui da un padre molto apprensivo.

 - E quale sarebbe questo compito, comandare un circolo esoterico di svitati? -

Incredibilmente, il commento non veniva da me.

Mi girai verso Ilse Schneider, alla mia destra, imitato dagli altri due uomini presenti: non potevo sapere la reazione del soldato dietro di me, ma Holze sembrava ancora più a disagio.

Il sorriso di Hedwig, invece, si irrigidì in una smorfia che imbruttì parecchio il suo bel viso.

 - È normale che le persone comuni non comprendano. - dichiarò, parlando lentamente, la voce che trasudava disprezzo - Ma tra queste pareti lavoriamo per rendere grande la Germania, proseguendo sulla scia lasciataci dal mio predecessore, il Presidente Eckhart! -

 - Rendere grande la Germania? - ripeté la madre, e per un istante la sua figura parve farsi gigantesca per l’ira, mentre sbatteva con violenza le manine ossute sul tavolo, facendo tintinnare le tazze - Saremo fortunati se la Germania resterà in piedi, alla fine di questa guerra disgraziata... e la colpa è proprio degli amici tuoi e della tua defunta cugina! -

 - Cugina?! - esclamai, saltando sulla sedia come se scottasse.

 - Certo, la figlia del mio fratellastro! - mi rispose la donna più anziana, continuando a guardare con odio Hedwig - Credeva davvero che si chiamasse Eckhart? Meister Eckhart era un mistico tedesco medievale. Probabilmente, per il Presidente della Società di Thule non era abbastanza dignitoso chiamarsi Schulz! -

 - Schulz? - ripetei, incespicando nella parola - Il signor Schulz era il padre... è suo fratello? -

Ora si spiegava come facesse a sapere che al laboratorio cercavano personale, pur senza aver mai messo il naso fuori dalla sua proprietà!

 - A quanto pare è destino della nostra famiglia generare dei figli indegni. - dichiarò amaramente la signora, facendo un passo indietro e incrociando le braccia sul petto. - Il mio fratellastro, Herbie, si è ritirato nel suo podere fuori città da più di un ventennio, per dimenticare la vergogna di una figlia nazista. -

Sputò l’aggettivo con odio, e le vecchie ossa sembrarono tremare.

 - Mi dispiace, Herr Elric, che non abbia accolto il mio suggerimento di lasciare questa donna, quando ci incontrammo. -

 - Già... - commentai - e dire che lei me lo aveva detto, che non la meritavo. -

Ilse Schneider mi squadrò in silenzio, prima di portarsi una mano alla fronte e sospirare pesantemente:

 - Lei, signor Elric, non ha alcuna fiducia in se stesso. - dichiarò - Ricorda? Io avevo detto “Lei non la merita”. Perché ha subito pensato di essere il soggetto della frase? -

Perché mi era parsa la minaccia di una ricca signora al fidanzato squattrinato dell’unica figlia, ecco perché. Maledizione a lei e ai suoi stupidi giochi di parole!

 - Hai ancora qualcosa da dire? - chiese freddamente Hedwig.

 - Sì. Tuo padre si rivolterà nella tomba. - rispose la madre, voltandosi di scatto e allontanandosi a grandi passi.

 - E tu, che non usi neppure il suo cognome? - le gridò dietro l’altra.

 - Questione di gusti. -

Ilse Schneider si sbatté violentemente la porta alle spalle.

Perché finivo invariabilmente per trovarmi in mezzo a beghe familiari?

* * *

 

Sgattaiolai fuori dalla soffitta (cercando di non far troppo chiasso con gli stivali militari) quando fui certo che tutti si erano dimenticati di me, e scesi in fretta le scale, guardandomi continuamente intorno per evitare di incontrare un qualunque abitante della villa, ora buia e silenziosa.

Avevo trascorso le ore in cui ero rimasto solo percorrendo a grandi passi la stanza e tentando di cogliere qualche parola di senso compiuto dalle voci concitate che sentivo provenire da qualche parte sotto i miei piedi, finché era calato il silenzio; a quel punto avevo deciso che dovevo andare a vedere cosa stesse succedendo, nonostante il divieto assoluto di muovermi dal letto, ufficialmente a causa delle mie condizioni di salute.

E ora?, mi chiesi quando arrivai al pianoterra e mi ritrovai in un corridoio con almeno mezza dozzina di porte uguali.

 - Capitano! -

Sobbalzai per lo spavento, ma si trattava solo di Andreas che rientrava dal cortile.

 - Che ci fa qui? -

 - Abbassa la voce! - sibilai - Lo sai che non dovrei andarmene in giro! -

 - Scusi... -

 - Lascia perdere. Sai dove hanno portato Edward Elric? -

 - No, ma Ernst lo saprà di certo: era nella stanza in cui hanno parlato. -

 - Fammi vedere dove. -

La sala era vuota, come verificai socchiudendo appena la porta, ma c’era un tavolino da tè ancora apparecchiato. Lasciai Andreas all’esterno, con l’ordine di fermare la cameriera nel caso qualcuno la mandasse a pulire, e diedi un’occhiata; sul ripiano c’erano due tazze vuote e una piena di bevanda ormai fredda, parecchie briciole di biscotto ma solo sei intatti (che infilai in tasca, per dividerli con gli altri in seguito) e alcuni tovaglioli di lino spiegazzati. Nessun foglio, o un qualche altro indizio.

Non posso pretendere di improvvisarmi investigatore in due minuti, pensai sospirando. Stavo per andarmene, sconfitto, quando un luccichio per terra attirò la mia attenzione.

 - Capitano, che accidenti... -

Ignorai Ernst, che era appena entrato spintonando Andreas, e mi chinai per raccogliere quella che si rivelò essere una moneta. Mentre il Filosofo e Neubauer si avvicinavano, io mi spostai verso una finestra, per vedere meglio.

 - Che follia, capitano. - mormorò il gigante, che doveva essere passato nella nostra soffitta, perché aveva con sé un bicchiere e una bottiglia di vodka polacca da cui si serviva abbondantemente - Sono tutti pazzi qui. -

Registrai distrattamente che aveva in una tasca una lampadina e nell’altra una torcia, ma non chiesi a cosa gli servissero, rimanendo concentrato sulla moneta; lungo il bordo si leggeva perfettamente la dicitura Repubblica di Amestris, sopra ad uno scudo col simbolo del drago dalle fauci spalancate. Sotto, la data di conio: ‘33.

Impallidii, mentre da qualche parte dietro di me Ernst continuava a parlare:

 - ... hanno passato venti minuti parlando di alchimia e cerchi alchemici e Portali... -

 - Portali?! - ripetei, allarmato.

 - Sì, da quel che ho capito è per questo che ci hanno fatto rapire quell’uomo. - si intromise Andreas.

Non risposi. Stavo cercando una spiegazione alla moneta che avevo in mano, ma l’unica plausibile non mi piaceva affatto.

Il rumore del liquido che scendeva nel bicchiere di Ernst riempì la breve pausa:

 - Sono orrendi. - dichiarò amaramente il soldato dopo che ebbe bevuto - Ricattare un uomo usando i suoi figli! -

 - Figli? Quali figli? - esclamai, voltandomi di scatto.

Ma il Filosofo non mi ascoltava: borbottava tra i denti, fermandosi per bere e versarsi altra vodka.

 - Tutto questo non ha senso... follia pura... -

Esasperato, gli strappai il bicchiere di mano, così bruscamente da rovesciarne il contenuto:

 - Quali figli, Ernst? Ed non ha figli! -

I due uomini mi guardarono come se fossi completamente ammattito.

 - I due bambini, - mi rispose Feuerbach - quelli che sono stati portati al piano superiore, con la ragazza più grande... capitano! Capitano, si sente male? -

La moneta era caduta per terra, ma non me n’ero neppure accorto: la testa mi si era riempita di un rimbombo sordo, e per alcuni istanti non avevo visto più nulla; mi ripresi in tempo per appoggiare una mano alla finestra ed evitare di cadere, ma Ernst mi afferrò comunque per un gomito, arrivando quasi a sollevarmi da terra.

 - Dov’è...? - balbettai - Dov’è quel pazzo? -

* * *

 

Al secondo piano le stanze sembravano più ricche e pulite e la puzza di muffa diminuiva, sostituita da un forte odore di medicinale: io, Thomas e Charlotte fummo sistemati in un ambiente piuttosto ampio, con solo due letti, ma di cui uno era sufficientemente grande da farci dormire i fratellini. Quando entrammo, una donna di servizio stava aprendo le finestre per tentare di scacciare il sentore di ospedale, nonostante la temperatura esterna fosse molto bassa.

Sfinita, mi accasciai sospirando su una poltroncina da lettura. Di fronte a me, Tom si guardava intorno con aria sperduta, tenendo tra le mani il quadernetto nero di Hanno Lindemann, mentre Lotte, con quella giacca scarlatta molto più grande di lei, ricordava abbastanza da vicino Cappuccetto Rosso che scrutava le fauci del lupo.

 - Cosa succederà ora? - pigolò, tirando la manica della camicia del fratello.

 - Non ne ho la minima idea. -

Esposi la mia opinione: fortunatamente in casa portavo sempre la lavagnetta con me, legata in vita, per cui a nessuno era venuto in mente di togliermela.

Probabilmente non ci toccheranno se Ed collaborerà con loro., dichiarai.

Thomas annuì, per niente rinfrancato:

 - Siamo i loro strumenti di ricatto. - dichiarò, lugubre.

Espressione pomposa a parte, aveva innegabilmente ragione: se anche Edward fosse stato contento di liberarsi di me e smettere di pagarmi l’affitto, non poteva rischiare la vita dei nipoti.

 - Se avete bisogno di qualcosa, io sono nella camera qui a destra. -

La cameriera si rivolse a noi tre in modo inaspettatamente gentile, parlando a voce bassa, ma ricevette due occhiate gelide in risposta. Lotte, invece, si limitò a sparire dietro la schiena del fratello.

 - Lavora per quelli là? - domandò il ragazzino, alzando il collo per guardarla in faccia.

 - No, per la signora Schneider. - rispose lei, dandomi l’impressione che l’ipotesi di Thomas la offendesse.

Era già piuttosto buio, così che non potevo vederla bene in viso, ma mi sembrava piuttosto giovane, nonostante i capelli neri fossero acconciati in una pettinatura più adatta ad una vecchia zitella dell’Ottocento... ma, forse, era solo per non che le andassero sul volto mentre lavorava.

 - Se avete fame, posso portarvi qualcosa da mangiare. - continuava - In quest’ala della villa la signorina Steinglocke non viene mai, ma sarebbe meglio che non ve ne andaste troppo in giro. -

Sussultammo tutti e tre, alla menzione del nome:

 - La signorina... - ripeté senza fiato Thomas - allora è lei la mente dietro a tutto ciò! -

Quanta gente abita qui dentro?, scrissi sulla lavagna.

Non pensavo mi rispondesse davvero: insomma, nei libri dicono sempre di non essere autorizzati a farlo.

Lei, in effetti, sembrò a disagio, ma più che altro per il modo in cui mi ero rivolta a lei:

 - Margarethe non può parlare. - le disse Lotte, spuntando da dietro le spalle di Thomas.

 - Oh, capisco. - replicò velocemente la cameriera, e probabilmente arrossì - Comunque, oltre alla padrona e alla signorina, ci sono cinque soldati: il colonnello dorme dall’altra parte della casa, mentre gli altri quattro militari sono in soffitta. -

 - E quali di essi usa la macchina nera? -

Scrutai Lotte con un’occhiata indagatrice: cos’era questa storia della macchina nera, e perché non ne ero a conoscenza? Ma la bambina doveva essere convinta di quel che diceva, per dimenticare paure e timidezza e rivolgersi ad un’estranea.

 - La macchina è del colonnello... - rispose la donna, anche lei perplessa. Si stava evidentemente chiedendo se era il caso di continuare a parlare.

 - Ma l’autista era un civile! - replicò Thomas - Io l’ho visto! -

Tu hai visto COSA?? scrissi.

 - Penso si tratti dell’uomo che porta la verdura. - considerò la cameriera - Il colonnello gli fa guidare l’auto quando deve recarsi in città per delle commissioni. -

Alla parola commissioni Thomas storse il naso in una smorfia, ma lasciò continuare la ragazza:

 - L’autista del colonnello è un capitano, ma al momento non è in grado di guidare. L’ho curato io stessa, e vi assicuro che fino a pochi giorni fa non sapevamo neppure se sarebbe sopravvissuto. Ora perdonatemi, ora devo andare. - terminò, sempre in un sussurro. Notai in quel momento che aveva tenuto per tutto il tempo la testa bassa e le mani intrecciate sotto il grembiule, in un atteggiamento timido che doveva esserle usuale, perché nessuno di noi poteva incutere troppo timore.

 - Come ti chiami? -

La donna, che si trovava già sulla porta, si voltò verso Charlotte: le sorrise con aria materna, e il suo volto  parve molto più giovane di quanto mi fosse apparso prima; doveva avere circa venticinque anni, e con quell’espressione era molto carina. La invidiai.

 - Mi chiamo Clara. - le rispose gentilmente.

 

Una volta rimasti soli, mi imposi di concentrarmi: ora sapevamo quanta gente occupava la casa, ed era già un risultato. Non sapendo niente di nessuno, era meglio considerarli tutti dei nemici, almeno a priori. In seguito avrei fatto dire ai due bambini tutto quel che sapevano su questa macchina di cui continuavano a parlare, ma l’importante, in quel momento, era non attirare l’attenzione, né mettere alla prova la pazienza dei nostri rapitori.

 - Vado a vedere come sta lo zio! -

Ecco, appunto.

Folgorai con lo sguardo Thomas, ordinandogli implicitamente di non muoversi: sfortunatamente, il difetto di non poter urlare a squarciagola è che la gente tende ad ignorarti. Infatti, l’ostinato ragazzino si limitò a consegnarmi il quaderno dalla copertina nera con aria innocente, fingendo di non capire perché mi agitavo.

Lotte, fermalo!, ordinai a gesti.

 - Ma Margarethe! - protestò lei - Papà non sarebbe contento se lo zio si facesse male! -

Certo, ma il signor Alphonse Elric non sarebbe stato contento neppure se i suoi figli si fossero trovati di fronte ad una pistola carica.

 - Cercherò di non farmi vedere. - sussurrò Thomas, che aveva già socchiuso l’uscio e stava uscendo.

Magnifico. Ero stata spaventata a morte, trascinata in un pasticcio a me incomprensibile, avevo la responsabilità di due ragazzini e uno di questi stava tentando di farsi sparare da un soldato alzatosi con la luna di traverso. Che altro poteva esserci di peggio?

Oh, già.

Il giorno successivo sarebbe stato il mio compleanno. Tanti auguri a me.

* * *

 

Il corridoio del secondo piano sembrava deserto, così percorsi i primi metri abbastanza velocemente: tuttavia, mi bloccai quando udii dei suoni provenire da dietro una porta. Sembrava che qualcuno stesse sparecchiando una tavola; mi ricordai che quella sera non avevamo cenato, ma ero ancora troppo teso per avvertire la fame. Dall’interno proveniva una voce femminile che non riconobbi, ma era un borbottio indistinto, che non mi permetteva di capire cosa stesse dicendo.

Stavo già per passare oltre, quando la porta si aprì, e il soldato Klaus Holze mi beccò mentre tentavo di allontanarmi:

 - Che ci fai qui? - mi domandò, più sorpreso che arrabbiato.

 - Una passeggiata. - risposi sfacciatamente.

 - Sai cosa ti succede se ti vedono in giro? -

Alle sue spalle comparve una donna che assomigliava vagamente alla signorina Steinglocke; quando parlò, capii che la voce che avevo sentito prima era sua:

 - Klaus, quei ragazzi avranno fame. Immagino che nessuno si sia degnato di dare a loro o al signor Elric qualcosa da cena. -

 - Temo di no, Frau Schneider. - concordò il giovane.

 - Vado a dire alla signorina Leitner di preparare qualcosa. - dichiarò la signora - Anzi, di dare qualcosa da cena a loro e a voi quattro. -

La signorina Leitner poteva essere Clara, ipotizzai. Non aveva parlato di altri domestici, in effetti.

 - Prima voglio vedere mio zio. - dichiarai, con tutta l’incoscienza dei miei dodici anni.

 - Non credo sia possibile. - mi rispose gentilmente Klaus - Il colonnello Holze lo ha espressamente vietato. -

 - Non mangerò finché non avrò visto lo zio. - ribadii, strappando un sorrisetto divertito alla signora Schneider. Klaus, invece, sembrava sempre più preoccupato.

 - Ascolta... - tentò.

 - No. Voglio vedere lo zio, ed essere certo che stia bene. -

Questa volta, la padrona di casa rise apertamente:

 - Accompagna il ragazzo, Klaus. - ordinò - Se assomiglia anche solo vagamente allo zio, non saranno due frasi ragionevoli a fargli cambiare idea. Ti do qualcosa da mangiare per Herr Elric... Clara! Potresti venire qui, per favore? - gridò, chiamando la cameriera.

Il ragazzo biondo sospirò, sconfitto, mentre la dispotica signora spariva oltre la porta.

* * *

 

In quella cantina dovevano averci tenuto, fino a poco prima, dei prosciutti. Nulla di strano, a parte il fatto che ben pochi potevano ancora avere da parte degli insaccati dopo sei anni di guerra: il problema era che non mangiavo da quella mattina, e, con quel profumo, lo stomaco cominciò a protestare sonoramente. Appoggiai la testa e le braccia sulle ginocchia, e tentai di non pensarci.

Quel che Hedwig voleva da me, lo avevo intuito molto prima che lei tirasse in ballo la questione:

 - Abbiamo bisogno che tu apra il passaggio tra questo mondo e l’altro. - aveva detto, senza troppi giri di parole.

 - Per raggiungere Shamballa? - avevo ribattuto - Eckhart ci aveva provato e, dopo aver perso un buon numero di uomini, era arrivata là e aveva deciso che non le piaceva. -

 - I tempi non erano ancora maturi. - dichiarò la donna, con l’aria ispirata di una profetessa - Non si sapeva a cosa si andasse incontro. Mi spiace dire che mia cugina si era sbagliata: Shamballa - o Amestris, come la chiamate, a giudicare da queste monete - può offrirci molte risorse per potenziare la Germania. -

 - E come? L’alchimia non funziona da questa parte, e anche se lo facesse, ormai neppure un miracolo può tenere in piedi il Reich! -

 - Questa situazione politica, Edward, potrebbe essere solo la base per una Germania ancora più grande e forte! -

Non avevo molte speranze in campo politico, così puntai su obiezioni più pratiche:

 - Non è possibile aprire il varco un’altra volta: - avevo dichiarato - Non avete apparecchiature per far sì che i corpi sopportino l’enorme pressione, senza contare che mancano le materie prime. -

 - Il serpente, vero? - Hedwig aveva annuito - E il sangue di qualcuno nato a Shamballa. Lo so, ma sono certa che puoi rimediare. -

 - Non posso. -

 - Davvero, Ed? Vuoi dirmi che non sei più tornato nel tuo mondo da allora? -

 - Esatto. -

 - E allora, dov’eri tra - e qui aveva dato un’occhiata ad un appunto che le aveva passato il colonnello - il due e il diciassette agosto 1939? -

Purtroppo, temo di aver assunto un’espressione piuttosto colpevole.

 - I nostri informatori hanno dichiarato che il due sera sei entrato in casa, per ricomparire solo il diciotto mattina. Tutto quel tempo senza uscire, almeno per fare la spesa o aprire la libreria dei Meyer? -

 - Non mi ricordo... magari stavo male. -

Hedwig aveva sorriso, con una malvagità tale da farmi sentire un brivido lungo la schiena:

 - Per il bene dei tuoi graziosi nipoti, spero proprio di no. - aveva detto, melliflua, tendendomi il quadernetto che mi aveva già offerto quella sera al laboratorio.

Accidenti a me!

Rinchiuso in quella cella improvvisata, avevo dato un’occhiata allo stupido taccuino che, stando a quanto mi aveva detto Hedwig, era il frutto del duro lavoro del defunto Presidente Eckhart eccetera eccetera, ma che si poteva riassumere in una serie di cerchi alchemici più o meno errati, circondati da formule magiche e invocazioni a divinità nordiche di cui faticavo persino a pronunciare il nome; per fortuna, la misera lampadina sulla mia testa che rappresentava l’unica fonte di luce nella cantina si era folgorata prima che mi venisse l’emicrania, lasciandomi nell’oscurità più totale. Comunque, alla mia cortese richiesta di portarmene una nuova, o almeno delle candele (espressa battendo violentemente sulla robusta porta in quercia), aveva risposto il grugnito del gigante che il colonnello aveva chiamato Feuerbach, e il rumore del suo passo pesante che si allontanava.

Non avevo davvero via d’uscita, questa volta. L’unica possibilità era prendere tempo e sperare che la guerra finisse in fretta.

Quando l’uscio si aprì, alzai ugualmente la testa, anche se non potevo vedere nulla; qualcosa di piccolo e veloce si intrufolò nella cella, seguito da un sibilo spaventato:

 - No... ehi, torna qui! -

 - Zio? Ed? -

Il mio incosciente nipote seguito da Klaus...

 - Smetti di agitarti, o inciamperai. - dissi, secco.

 - Scusa se mi stavo preoccupando per te. - rispose lui, con quell’irritante sarcasmo che mi ricordava vagamente il suo insopportabile nonno, Heinrich.

 - Veramente, dovrei essere io a preoccuparmi per voi. - gli feci notare, mentre lui si avvicinava - State tutti bene? -

 - Sì, e siamo riusciti a scoprire quanta gente abita nella casa... ti ho pestato un piede? - si interruppe, sentendo il mio verso strozzato

 - Era la mia mano! - ringhiai appena riuscii a parlare - E comunque, stavate pensando di scappare?-

 - Se posso permettermi, - si inserì la voce di Klaus - ti chiederei di non pensarci neppure. Anzi, tu e le altre due ragazze dovreste rimanere il più possibile nell’ala della casa della signora Schneider, ed evitare di comparire davanti al naso di sua figlia. È una persona piuttosto imprevedibile. - mentre diceva questo, appoggiò per terra un vassoio e me lo fece scivolare di fianco, per evitare di rovesciare tutto andando a tentoni.

Prosciutto, riconobbi. Evidentemente dovevano finire le scorte che avevano spostato per farmi posto.

 - Cosa vuole da te la signorina Steinglocke, Ed? - mi chiese Thomas - È per questo che ti è stata appiccicata per tutto questo tempo? -

Masticai il boccone che avevo in bocca, prima di rispondere, anche e soprattutto per decidere cosa dire.

 - Thomas, - domandai, infine - cosa sai su Amestris? - 

Prima che lui potesse ribattere, la porta si aprii nuovamente. Udii la voce di Feuerbach imprecare quando il gigante inciampò in un gradino, e i suoi goffi tentativi di cercare la lampadina da sostituire, con l’unico ausilio di una minuscola torcia che teneva in bocca, per avere le mani libere.

Non fece alcun commento sulla presenza del suo commilitone e di uno dei tre ragazzini prigionieri, né sul fatto che mi stavo ingozzando di pane del giorno prima e prosciutto più che accettabile. O era molto onesto, o molto miope, perché anche alla misera luce della lampada la presenza di due intrusi, seppure ammutoliti al suo arrivo, era evidente.

 - Ehi, piano! - protestai, quando un movimento dell’uomo mi mandò il fascio di luce dritto in faccia, accecandomi. - Non hai sentito il tuo capo? Guarda che potrei trasformarvi tutti in rospi! -

 - Ernst, quando hai finito resta fuori e avvertimi se arriva qualcuno. Portati dietro Klaus. Io faccio due chiacchiere con il Pifferaio Magico. -

Trasalii, riconoscendo la voce che proveniva dall’ingresso: nel caso ne avessi avuto bisogno, comunque, in quel momento tornò la luce.

Se ne stava appoggiato allo stipite, come se faticasse a stare in piedi; aveva i gradi di capitano, ma la sua uniforme era logora quanto quelle degli altri, e ricucita alla meno peggio in alcuni punti sul braccio sinistro: invece, il suo volto era molto più pallido e magro di quelli dei suoi sottoposti, con profonde occhiaie scure e l’ombra di una barba di alcuni giorni. Era l’uomo di cui parlava il colonnello, realizzai con sgomento. Probabilmente, il sangue sul pavimento del camion era suo.

 - Alphonse! - sussurrai.

 

Pensierino della buonanotte: Amo i ricongiungimenti familiari... anche quando rischiano di concludersi con una sfuriata con fiocchi e controfiocchi!

Grazie per il mare di recensioni: dato che adoro sia leggerle (ovvio!) che rispondere, potete immaginare come sia aumentata la mia autostima (per non parlare della mia vanagloria...).

            Mala_Mela: Non ho mai visto Pomi d’ottone e manici di scopa, perciò non ti so dire quanto la mia fanfic possa somigliargli, però mi hanno già detto che la parte iniziale ricordava Le Cronache di Narnia... sai, quando i quattro bambini finiscono in casa del professore acido per sfuggire ai bombardamenti? In effetti, non è il massimo dell’originalità, ma a qualcuno dovevo pur lasciare Thomas e Lotte, mentre il padre è in guerra.

Ah, non aggiorno mai durante le vacanze estive, per una semplice ragione tecnica: c’è poca gente a casa (o, almeno, che abbia voglia di connettersi a Internet per leggere), e la ff finirebbe presto in sesta o settima pagina prima che qualcuno se ne accorga! ^^”””

            DarkMartyx_93: Infatti la donna non è Dietlinde Eckhart, ma Hedwig Steinglocke! Sì, l’ex Presidente è stata eliminata da Hughes alla fine del film.

Dunque, per ricostruire il periodo storico ho usato soprattutto Internet e parecchi libri... non necessariamente saggi o libri di storia, anche solo dei romanzi ambientati in quegli anni; poi ho unito il tutto a varie foto d’epoca (specialmente per l’abbigliamento) e ai racconti orali. Inutile dire, comunque, che c’è qualche licenza: non so il giorno esatto in cui ci fu un bombardamento su Monaco, né cosa combinasse la Società di Thule in quel periodo: d’altronde, anche il film non era troppo accurato, da questo punto di vista (Ed con i capelli lunghi, una donna a capo di Thule quando le donne non vi erano ammesse...).

            FightClub: In effetti, mi chiedevo dove la mia storia fosse scurrile... cioè, immagino che le si possano muovere alcune critiche, ma non mi pareva di essere stata così triviale... ^^”””

            KuRoNeKoChAn: Ho lasciato un altro dei miei assi nella manica alla fine di questo capitolo! Contenta di rivedere Al? :P

            Talpina Pensierosa: Adesso hai capito perché lascio allusioni criptiche ad altre mie fanfiction? Perché non sono così ingenua da credere che tutti vadano a vedere la mia pagina personale per controllare cosa scrivo! :-)

            Selfish: Visto che la tua venerazione fa bene alla mia autostima, ti lascio andare a prendere l’autobus... ma che non succeda più che lasci una recensione così corta, va bene??

(A scanso di equivoci, ci tengo a precisare che scherzo!)

            Babus: Ma certo che le donne, come controparte malvagia, sono migliori: gli uomini partono con lo sterminio di massa per conquistare il mondo, mentre Dante, più furba, in pratica governava una nazione senza neppure sporcarsi le mani, dato che i lavori di bassa macelleria glieli facevano gli altri!

            Eneri_Mess: La variazione dei punti di vista mi serve per dare un’idea più completa della situazione, e rendere meno monotona la narrazione: se, tanto per fare un esempio, fosse tutto scritto dal punto di vista di Ed, andrebbero persi i caratteri dei tre soldati (Ernst, Andreas e Klaus), che per ora solo Alphonse può vedere. Per Edward quei tre sono solo i suoi rapitori, mentre Al li conosce meglio.

            Liris: Non so perché ho aggiunto orologio e cappotto... cioè, in effetti è inutile ai fini della storia. Sarà che sono sentimentale...

                eleo_chan: Ehi, ho forse trovato una mia omonima? No, va bene, non c’entra nulla. Dunque, Margarethe... ehm, mi vengono in mente molti aggettivi, ma non proprio “dolce”: Margarethe non è dolce, anzi, in certi momenti è davvero tirannica! Il motivo ufficiale è che deve tirare avanti da sola, far quadrare i conti ed essere certa che ci sia sempre qualcosa in tavola, e non è una persona che ami piangersi addosso. Il motivo ufficioso... è che mi piace così.

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Capitolo 9
*** L'errore di Edward ***


Nuova pagina 1

9. L’errore di Edward

 

 - Papà? -

Thomas si era girato verso Alphonse con uno scatto così secco da farmi sentire lo spostamento d’aria, ma si era subito inchiodato lì, con un’aria spaventata e confusa, come se non fosse certo che l’uomo di fronte a lui fosse suo padre. Al si accorse subito del suo smarrimento, e gli si avvicinò con lentezza, accosciandosi per poterlo guardare negli occhi.

 - Tom! Andrà tutto bene, vieni qui. - disse, mentre allargava le braccia per stringere il figlio.

Il ragazzino non si mosse: aveva gli occhi così sgranati che temevo seriamente stessero per schizzargli fuori dalle orbite.

 - Che c’è, non mi riconosci? - a dispetto dell’ironia che tentò di mettere nella domanda, mio fratello sembrava sul punto di piangere per la frustrazione - Dai, vieni ad abbracciarmi. -

Riscuotendosi, Thomas gettò le braccia al collo del padre, aggrappandosi con tutta la forza che aveva in corpo e tuffando il viso nella sua giacca, incurante del fatto che fosse sporca e ruvida. Distolsi lo sguardo, imbarazzato per la mia presenza in un momento così intimo, sperando che Klaus e il gigante fossero abbastanza educati da fare altrettanto.

 - Tom... - sussurrò Al con voce roca, staccandosi a malincuore dal figlio per guardarlo negli occhi e accarezzargli la guancia - Non immagini quanto mi siete mancati, tu e Lotte. -

 - Papà, che ti è successo? Stai male? - domandò il dodicenne.

 - Sto bene. - rispose semplicemente l’altro - Ora sto bene. -

Sfortunatamente, in quel momento si ricordò di me: aggrottò le sopracciglia, tornando all’argomento per il quale era giunto lì sotto.

 - Ed, sei tornato ad Amestris? -

Io, che stavo divorando quel che mi aveva portato Klaus, mi fermai di colpo, la schiena ancora curva per non lasciar cadere neanche una briciola di pane per terra. Mi pulii la bocca con una manica, per prendere tempo, mentre mio fratello si sedeva alla mia destra, con l’aria paziente di chi è pronto ad ascoltare una lunga storia.

Senza osare guardarlo, mi limitai ad annuire.

 - Lo immaginavo. - rispose calmo lui - Ho visto una moneta che vi è caduta nella sala al pianterreno: c’era la data del ‘33, che corrisponde al nostro 1939. -

Fece un cenno secco ai due soldati, perché se ne andassero; aspettai che la porta si fosse chiusa, e padre e figlio fossero seduti di fianco a me. Seguendo con lo sguardo Alphonse, notai per la prima volta alcuni capelli bianchi nelle sue basette.

 - Ho continuato a lavorare a quel cerchio alchemico fin da quando tu sei arrivato da questa parte del Portale. - ammisi infine.

 - Perché? - chiese Al, con voce pacata.

 - Per te. Nel caso volessi tornare nel nostro mondo. -

 - Nel  vostro mondo? - si intromise Thomas, e per la prima volta mi resi conto che lui e Lotte non dovevano sapere nulla della nostra storia: difatti, non avevano riconosciuto il nome del Paese da cui provenivamo, né, ovviamente, i cerchi alchemici.

Il padre lo ignorò:

 - Per me? Fratellone... -

 - Non volevo che ti sentissi come mi ero sentito io nei due anni in cui ero rimasto bloccato qui! Avevo il terrore di vederti pentire per quello che avevi fatto! -

Al sembrò profondamente offeso dalla mia affermazione:

 - Intendi seguirti di nascosto? Beh, mi pare di averti detto più volte che non lo ero, e non lo sono tuttora! - distolse lo sguardo, abbracciandosi le ginocchia - Qui c’è la mia famiglia: non me ne andrò. -

 - Lo so. Ora lo so. - dissi, prendendo un profondo respiro - È per questo che, sei anni fa, non ti dissi nulla. -

 - O forse, perché non stavi più lavorando per me, ma per te. -

Non potei negarlo: probabilmente, aveva ragione.

 - Come hai fatto? - mi chiese - Non esistono più homunculus. -

 - Modificando il cerchio di partenza: ho eliminato il problema della pressione e la necessità di un homunculus, e ho ridotto la quantità di sangue necessaria... a scapito della stabilità. - precisai - Dall’altra parte funziona meglio che da questa, e credo che gli abitanti di questo mondo non possano attraversare il Portale. -

Thomas fece per parlare di nuovo, ma si fermò con la bocca aperta: doveva aver intuito che nessuno gli avrebbe risposto.

 - E sei andato da Winry. -

 - Come fai a saperlo? - gli domandai, sbalordito.

 - L’auto-mail che hai in questo momento è diverso da quello che ti ho sempre visto indosso. -

Alzai il braccio destro: in effetti, avevo tenuto quell’arto artificiale in un cassetto,  nel mio appartamento, finché non ne avevo avuto bisogno, dopo aver venduto il mio al vecchio Lindemann per il pollo.

 - Ho pensato che mi sarebbe tornato utile un auto-mail di scorta. - dissi - Con la guerra alle porte... non avevo intenzione di riaprire ancora il Portale. - aggiunsi subito.

 - E adesso? -

Al me lo domandò mentre si allungava per prendere il taccuino del Presidente, che avevo lasciato per terra: lo sfogliò con aria seria, mentre io riprendevo a parlare.

 - Adesso non ho molta scelta. - mormorai, lanciando un’occhiata a Thomas - Anche se dubito di poter migliorare ulteriormente il cerchio alchemico. -

 - Hai davvero intenzione di lavorare per la Società di Thule, quindi. - dichiarò mio fratello, chiudendo di scatto il quaderno.

 - Lo dici come se mi facesse piacere! - sbottai, alzando la voce.

 - Penso solo che sei stato impulsivo come al solito. - replicò lui, con un tono gelido che non ammetteva repliche. Si alzò, facendo cenno al figlio di fare altrettanto.

 - Non è il momento di recriminare! - esclamai, saltando in piedi a mia volta - Posso cercare di perdere tempo e aspettare che gli Alleati arrivino fin qui e costringano la Società di Thule alla fuga, ma se non ci riuscissi dovrai essere tu a... -

 - ... a mettere in salvo i miei figli? Grazie, Ed, questo potevo intuirlo da solo! -

 - Al! - ruggii, afferrandolo per il braccio sinistro.

Lui si lasciò sfuggire un’esclamazione che mi fece lasciare immediatamente la presa.

 - Sei ferito! - esclamai, dimenticando la rabbia.

 - Non è nulla. - rispose bruscamente lui - Andiamo, Thomas. -

 - Al! Al! -

Uscì ignorandomi. Feuerbach, ancora dietro alla porta con Klaus, dovette spostarsi di scatto per non essere travolto dalla gelida furia del mio fratellino.

Quando mi chiusero la porta in faccia, sfogai tutta la mia rabbia tirando un violento calcio al quaderno di Hedwig, incurante del fatto che il gigante era ancora di guardia fuori dalla cantina.

* * *

 

Il solito scriteriato! Davvero, lo avrei strozzato!

Lasciai la cantina, incurante di Klaus ed Ernst, e attraversai il corridoio male illuminato che saliva alla villa, senza smettere di pensare a quanto sconsiderato fosse mio fratello. A malapena mi accorsi di Tom, che per starmi dietro si era quasi messo a correre, finché non fummo davanti ai pochi scalini e alla porta che separava il seminterrato dalla casa, e non ricordai che mio figlio non avrebbe dovuto trovarsi lì:

 - Stai nascosto qui, - gli ordinai - io vado a controllare che non ci sia nessuno in giro. -

 - Papà, non è stata colpa dello zio, davvero! È stata la signorina Steinglocke! -

 - Thomas, non mi va di parlarne! -

Lui si ritrasse come se lo avessi schiaffeggiato: lo stavo trattando come non avevo mai fatto neppure con i miei subordinati, e me ne vergognai.

 - Tom, - ricominciai, più pacato - ora tu torni da Lotte, e non ti muovi più. Intesi? -

 - Va bene. E comunque non è stata colpa di Ed! -

La testardaggine di mio figlio mi fece sorridere:

 - Non ti arrendi mai, vero? -

 - È stata la signorina Steinglocke! - ribadì ostinatamente - Era la fidanzata dello zio, ma è anche il capo dei cattivi. -

 - La fidanzata di chi? - ripetei, sorpreso.

Mio fratello fidanzato? Possibile? E quando avrebbe avuto intenzione di dirmelo?

 - Io credo che lei abbia sempre finto, per... - si interruppe, alzando lo sguardo.

Avevo sentito anch’io: qualcuno discuteva animatamente, da qualche parte alle nostre spalle. Vedevo delle ombre agitarsi per la scala che avremmo dovuto salire per andare ai piani superiori.

 - Torna lì dentro. - sussurrai a mio figlio - Esci solo quando non sentirai più nessun rumore... e non dire a nessuno che mi hai visto, tanto meno che sono tuo padre! A nessuno, capito? -

L’ultima cosa di cui avevo bisogno era diventare anch’io un’arma contro Ed.

Dopo essermi assicurato che Thomas si fosse chiuso la porta alle spalle senza lasciare spiragli per sbirciare, mi avvicinai alla fonte del baccano cercando di apparire indaffarato: un’aria seria, il passo deciso e veloce di chi sa benissimo dove sta andando... piccoli trucchi perché nessuno ti chieda cosa stai facendo. Non avrei saputo rispondere.

Di fronte a me, alla cima delle scale, vidi la cameriera... Clara, mi pareva si chiamasse. Quando ero arrivato lì, febbricitante e più morto che vivo per l’infezione, era stata incaricata di badare a me: la buona educazione imponeva almeno che la ringraziassi, ma non l’avevo ancora fatto, per il semplice fatto che per qualche tempo avevo avuto il dubbio che non fosse mai esistita, ma si trattasse solo del frutto del mio delirio, come tutte le persone sconosciute, lontane o già morte che si aggiravano intorno a me.

L’altra persona... per la miseria, l’altra persona era Winry!

Compresi subito l’errore: aveva i capelli più scuri, e un’espressione altezzosa che non conoscevo. Tuttavia, la somiglianza era sbalorditiva.

 - La risposta è no. Non ho la minima intenzione di prestare la mia auto ad una serva! - stava dicendo, agitando una manina guantata per ribadire il concetto.

 - È l’auto di sua madre, signorina Steinglocke: la signora mi ha sempre permesso di usarla per andare a farle le commissioni, di giovedì. Mi accompagnava Hans, l’uomo che porta la verdura... -

 - Sarà l’auto di mia madre, ma ora la uso io. E poi domani Hans non ci sarà, e non le permetto di guidare. So come va a finire, quando si lascia troppa libertà alla servitù. -

La ragazza incassò l’implicita accusa senza replicare, ma le sue mani strinsero più forte il grembiule che le proteggeva l’abito scuro.

 - I farmaci di sua madre sono finiti, e... -

 - Parliamoci chiaro: mia madre le ha permesso di guidare la Mercedes, stasera, domani o in un qualunque altro giorno? -

In quel momento, la cameriera incrociò il mio sguardo.

 - No, signorina. La signora Schneider pensava che avrebbe potuto accompagnarmi il capitano. È uno dei vostri uomini, no? E domani il colonnello non è qui, quindi è libero. -

La signorina Steinglocke (persino lo stesso cognome di Winry!) si girò a guardarmi, piegando di lato la testa:

 - Ha parlato con mia madre, capitano? -

Dubitavo che la signora a cui le due si riferivano fosse al corrente della mia esistenza: io non l’avevo mai vista, e men che meno le avevo parlato. Mi chiesi perché quella ragazza fosse così certa che l’avrei coperta.

 - Sì, signorina. - risposi, compunto - Mi ha chiesto di rivolgermi a lei per domandarle la macchina per domani mattina, alla solita ora. -

Alla solita ora. Chissà se esisteva, una solita ora. Le mie doti di attore erano meno che inesistenti.

Lei mi scrutò a lungo, con tanta intensità da mettermi in imbarazzo. Poi, inaspettatamente, rovesciò la testa in una risata:

 - Mia madre non avrebbe mai detto nulla di simile, capitano! Eviti di abbellire la verità: posso immaginare cos’ha riferito di me quella strega! -

Si passò una mano tra i capelli, per controllare che fossero in ordine, poi frugò nella borsetta e mi consegnò un paio di chiavi.

 - E sia. - concesse - Non le darò la soddisfazione di andarsene in giro a dire che sto tentando di ammazzarla. Almeno lei, capitano, non puzzerà di sigaro come il suo colonnello. -

* * *

 

Mio padre, a volte, è l’uomo più sospettoso che conosca. Non solo non si fidò a lasciarmi salire al secondo piano da solo, ma rimase nascosto, qualche metro alle mie spalle, per controllare che entrassi davvero nella camera mia e delle ragazze!

Margarethe e Lotte si erano avvicinate non appena avevano sentito aprirsi la porta, e la diciassettenne emise un sospiro sollevato che diceva molto sulla sua fiducia nei miei confronti:

 - C’è da mangiare? - chiesi subito, ricordando quel che aveva detto la signora Schneider al soldato Holze.

Margarethe mi indicò con un cenno gli avanzi che mi avevano lasciato, sul tavolo che occupava il centro della stanza. Se anche si accorse della mia agitazione, la ritenne causata dalla spiacevole situazione in cui ci trovavamo.

 - Ho visto lo zio. - dissi, appena ebbi inghiottito il primo boccone di quella cena così tarda - Sta bene, ma è in un mare di guai. -

Come noi., commentò tetramente Margarethe. Almeno hai capito perché?

 - No. - risposi, e questa volta ero assolutamente sincero.

Nostro mondo, aveva detto Ed. Un mondo chiamato Amestris, forse?

 - Lotte? -

Mi voltai per guardarla in faccia: si era seduta su uno dei due letti, e mi fissava con lo sguardo indecifrabile di una sfinge. Per un istante, ebbi il timore che avesse visto papà... ma no, impossibile. Che fosse una bambina attenta lo sapevo, ma riconoscere un uomo che non dovrebbe trovarsi lì in un corridoio buio era quasi sovrannaturale.

 - Ricordi, - continuai fingendomi disinvolto - quella storia che papà ci raccontava prima di andare a letto? - le chiesi - Quella... quella dei due fratelli. I due fratelli alchimisti. -

C’era un bambino piccolo piccolo, che viveva in un'armatura grande grande. Lui e il fratello maggiore erano alchimisti. Iniziava così.

 - E allora? -

Ahio. Era arrabbiata, non c’erano dubbi. E visto che difficilmente poteva aver litigato con Margarethe, doveva essere colpa mia (come al solito). Ma che avevo combinato quella volta?

 - Era una favola, no? Non era vera? -

La sua maschera gelida si incrinò appena.

 - Che domanda è? -

Margarethe alzò un sopracciglio, come a dire è quel che mi chiedo anch’io. Invece, sulla lavagnetta scrisse: È successo qualcosa con Edward?

Se era successo! Ma come spiegare senza tirare in ballo papà? Oh, accidenti, perché tutti mi chiedevano sempre di nascondere le loro intenzioni? Prima Hanno, poi mio padre...

Scacciai il parallelismo, che mi dava i brividi. No, non era la stessa cosa. Non sarebbe stata la stessa cosa.

 - In un certo senso sì, ma non so quanto lui ne sia responsabile. - ammisi.

In effetti, ora che ci pensavo bene, mi era stato ordinato di non rivelare chi avevo visto, ma non mi era mai stato chiesto di non parlare di quello che papà e lo zio si erano detti.

* * *

 

Quella notte non dormii affatto, e non solo perché nella mia cella non c’era un letto. Percorsi il perimetro della stanza per quelle che mi parvero ore, sia per scaricare la tensione che per scaldarmi un po’: non avevo notato quanto la temperatura fosse scesa, in quel tugurio sottoterra. Tuttavia, gli sbuffi e gli scalpiccii provenienti dall’altra parte mi fecero sapere che neppure il mio carceriere stava molto comodo... accolsi la notizia con gioia sadica.

L’alba trovò un quarantenne lievemente miope e decisamente sconfortato seduto sul pavimento gelido, con le braccia intorno alle ginocchia e la testa piegata, più per il troppo pensare che per il sonno: la luce entrava da alcune finestrelle strette e lunghe, a cui nessuno lavava i vetri da parecchio.

Quando il soldato Feuerbach entrò, ero certo che fosse per ordine di Hedwig: appuntai lo sguardo su di lui, cercando di farlo vergognare di fare il cane da guardia a quella donna.

Voltò gli occhi verso il muro, mortificato, sorprendendo me per primo.

 - Le ho portato la colazione. - borbottò, con voce appena udibile, porgendomi una tazza di caffè - È vero, ed è caldo. -

Stupito, mi affrettai ad accettare l’inaspettato regalo (prima che cambiasse idea). Circondai la porcellana bianca con le dita intirizzite, cercando di scaldarle, e mi riempii i polmoni del profumo.

 - Sono anni che non vedo del caffè vero. - dissi - Solo surrogato. -

 - Anch’io. - ammise lui - Cominciavo a chiedermi se esistesse ancora. Questo lo ha recuperato in cucina Andreas... il mio commilitone dai capelli rossi, intendo. -

 - Grazie... - risposi, indeciso su come interpretare quel comportamento.

Feuerbach rimase davanti a me, e per qualche secondo mi parve che volesse parlare; però, subito dopo mi diede le spalle, e fece per uscire.

Non ero abile nell’indagine dell’animo umano come Al, ma non riuscii più a vedere quel soldato come un nemico. Forse non era un mio alleato, ma almeno non aveva motivo per prendersela con me o i miei nipoti.

 - Mio fratello... cosa gli è successo? -

Tornò a voltarsi, indeciso se rispondere o meno.

 - È stato ferito, questo lo so. - continuai - Ho visto il sangue sul camion, ho sentito come ne parlavano Hedwig e Holze, e quando gli ho toccato il braccio si è ritratto di scatto. Com’è accaduto? -

Il gigante spostò lentamente il peso del corpo da un piede all’altro, evitando di incontrare il mio sguardo.

 - Quando l’esercito americano ha sfondato il fronte, a Remagen, - disse infine - ci siamo ritrovati a scappare alla cieca per i campi e i boschi intorno al Reno. Il capitano era stato ferito al braccio da alcune schegge di granata, ma per tutto il tempo ha guidato il nostro gruppo. -

 - Dunque, è per questo che era stato dato per disperso... - compresi.

 - C’era una gran confusione, è vero. Senza contare che, non appena ci siamo riuniti ai nostri commilitoni, il colonnello Holze ci ha portati qui: aveva una fretta indiavolata, tanto da non curarsi neppure del fatto che la ferita del capitano Elric si era infettata, e rischiava di perdere il braccio, se non la vita. -

Impallidii, troppo inorridito per parlare. Mio fratello in pericolo di vita!

 - Signor Elric, - riprese l’uomo - i due bambini sono i figli del capitano, giusto? -

 - Sì. -

Annuì solennemente.

 - Non si preoccupi, non succederà niente a nessuno di voi. Noi tre dobbiamo troppo a suo fratello per permettere che vi succeda qualcosa. -

Fece per andarsene, ma di nuovo si fermò.

 - Signor Elric... - mi chiese di nuovo, dopo un silenzio imbarazzato - lei non ha mai evocato uno spettro in un’armatura, vero? - 

 - Oh, certo che no! - replicai, con aria innocente - Si trattava di mio fratello! -

* * *

 

Le “commissioni” si rivelarono una faccenda molto più complicata del previsto: Clara Leitner, quel giorno con un sorprendente cappotto rosso carminio e un baschetto dello stesso colore, si riforniva di medicinali in una via vicina al centro città, che era quasi completamente distrutto. Senza contare che, vicino alla villa, non c’era nessuna strada degna di questo nome: solo un sentierino terroso tra i prati di un verde umido per la rugiada.

Questo spiegava perché lavassero la vettura quasi ogni giorno: quella mattina il terreno era duro e compatto, ma sarebbero bastate poche gocce di pioggia per trasformarlo in un pantano.

Pensai di approfittare dell’inaspettata libertà per fare un giro nelle vicinanze, ma dopo meno di mezz’ora ero tornato indietro: la zona era così triste e misera da turbarmi più di quanto fossi già. La famosa Mercedes nera, a cui Thomas aveva accennato più volte la sera prima nella sua frettolosa e pasticciata spiegazione, se ne stava lucida e brillante nell’aria piena di polvere dei palazzi distrutti come un pesce appena pescato e lasciato al sole di quella giornata inaspettatamente bella. Le grandi vie del centro, che ricordavo dalle passeggiate con Caroline e i bambini, erano vuote e brulle come un paesaggio lunare, e i simboli della città che un tempo si trovavano lì scomparsi: il municipio sembrava sbriciolato, e la Frauenkirche aveva i campanili (quelle alte guglie, che vedevo fin da casa nostra!) mozzati, mentre il tetto era in gran parte crollato, lasciando solo i costoloni. Una macabra cassa toracica priva di carne intorno.

Mi appoggiai alla vettura, sospirando.

 - Che faccia scura. È colpa mia? -

Trasalii, accorgendomi finalmente della cameriera, che mi fissava con le testa leggermente piegata sulla spalla destra.

 - Perché dovrebbe essere colpa sua? Stavo solo pensando a cose abbastanza tristi. -

 - Pensavo stesse maledicendo il mio ritardo. A questo proposito, mi scuso per averla coinvolta, - continuò, infilandosi la borsa a tracolla - e per averle fatto perdere tempo. Ora che ci penso, non l’ho ancora neppure ringraziata per avermi coperta con la signorina Steinglocke. -

 - Allora siamo pari: io non ho ancora ringraziato lei per avermi aiutato. -

Abbassò lo sguardo per una frazione di secondo. Ci fronteggiavamo dai due lati dell’auto.

 - Non ha nulla di cui ringraziarmi, capitano Elric, perché non ho fatto proprio niente: ho studiato da infermiera, e per questo sono stata assunta dalla signora Schneider. -

 - Questo non la obbligava a curare un soldato. -

Aveva già allungato la mano verso la maniglia, per aprire la portiera, ma alle mie parole tornò a guardarmi, sorridendo divertita.

 - Di questo passo, finiremo per ringraziarci a vicenda per tutta la giornata, sa? - scherzò.

 - Un po’ impegnativo. - dissi, ridendo - Deve andare da qualche altra parte? -

 - Dipende. Ha fretta di tornare a casa? -

 - No. Mi sto godendo l’ora d’aria, come i carcerati. -

Questa volta rise apertamente.

 - Anche io. Se le va, allora, avrei un altro incarico. L’indirizzo è... - rovistò nelle tasche, per poi estrarne un foglietto spiegazzato - questo qui. -

Riconobbi con stupore la calligrafia di Lotte, oltre all’indirizzo dell’appartamento di Ed.

 - Missione segreta? - le chiesi, incuriosito, sistemandomi al posto del guidatore.

 - Più o meno: stamattina la bambina bionda mi ha aspettato in corridoio per chiedermi un favore. Pare che sia il compleanno della ragazza più grande, e Charlotte mi ha chiesto di recuperare il regalo che le avevano comprato. -

Questo è tipico di Lotte, pensai con orgoglio.

 

La via era il solito buco stretto e scuro, in cui si ha l’impressione di essere spiati da ogni finestra o balcone: e, nonostante mi fossi guardato intorno con attenzione, non ero riuscito a scacciare la spiacevole sensazione. Ero certo che l’intero vicinato sapesse che un ufficiale dell’Esercito e una ragazza con un bizzarro cappotto rosso fossero appena entrati nel vicolo.

 - Ora che ci penso, - dissi a Clara - ha idea di come entrare in casa? -

 - Certo, la mia complice mi ha dato le chiavi! -

Questa volta non mi sentii troppo incline a lodare mia figlia: non volevo sapere come avesse sottratto le chiavi di casa alla proprietaria...

 - Piccolo problema. -

Mi avvicinai alla signorina Leitner, impegnata ad armeggiare con il chiavistello.

 - Che succede? - domandai.

Per tutta risposta, lei spinse la porta con una mano: quella ruotò rumorosamente sui cardini, aprendosi fino a farci vedere il piccolo atrio.

 - Possibile che quei tre idioti si siano dimenticati di chiudere? - brontolai, seccato. Dove avevano la testa? Si sa che l’occasione fa l’uomo ladro, figurarsi in tempi tanto difficili!

 - No, la serratura è manomessa. Qualcuno l’ha forzata. - mi spiegò lei, indicando il chiavistello deformato.

Il sospetto che mi venne in mente non era edificante: un ladro comune, un qualsiasi disperato come ce n’erano tanti in quel periodo, ignaro dell’assenza dei padroni di casa, avrebbe rotto il vetro della libreria per tentare di passare da lì. Non poteva sapere che si sarebbe trovato di fronte alla pesante porta che i Meyer avevano fatto installare anni prima, in seguito ad un’incursione del genere.

Mentre qualcuno a conoscenza di quell’ostacolo, e per di più sicuro che l’abitazione fosse vuota, avrebbe tentato la fortuna con l’ingresso principale. Soffocai l’impulso a guardarmi nuovamente intorno, ed entrai.

 - Aspetti! - sibilò Clara, trattenendomi per il polso.

Incredibilmente, all’interno qualcuno stava litigando.

Le voci giungevano ovattate oltre la porta dell’appartamento al pianoterra (quello di Ed), ma comunque ben udibili. Gli sciacalli erano davvero senza vergogna.

Con la vista annebbiata dall’ira, spalancai l’uscio e irruppi come una nube temporalesca nel salotto, mentre la signorina Leitner si teneva prudentemente a distanza.

Non so che cosa mi fossi aspettato di trovare: in realtà, credo di non aver pensato proprio nulla, mettendo automaticamente mano alla pistola per spaventare eventuali aggressori. Di certo, in ogni caso, non mi aspettavo la scena che mi si presentò di fronte, perché era semplicemente assurda.

Mio suocero, Karl Heinrich, stava minacciando con il suo bastone da passeggio un suo coetaneo.

 

Abbassai la pistola, e tentai di riguadagnare il controllo della mia mascella, senza smettere di fissare il piccolo incontro di boxe geriatrico che si stava tenendo nel salotto di mio fratello.

 - Potrei sapere cosa sta succedendo qui? - chiesi, con tutta l’educazione che riuscii a trovare.

 - È così difficile da capire? - mi rispose Karl, con la tracotanza che usava sempre per salutarmi - Mi sembra scontato: questo lurido individuo sta tentando di rubare ciò che appartiene ai miei nipoti! -

Osservai meglio il secondo vecchietto: anche lui piuttosto basso, era ossuto e scarno come un ramo secco, e con un’espressione cattiva che non mi piacque affatto. In effetti, teneva nella mano destra un cappottino di Charlotte, oltre a un soprabito di Ed e a quello che mi parve un orologio da taschino.

 - Chiunque lei sia, signore, - dichiarai educatamente - le devo chiedere di posare quegli oggetti che non le appartengono. -

 - Col cavolo! - rispose lui, con un’insopportabile vocetta stridula - Quel pezzente di Elric mi deve ancora i soldi per il pollo che gli ho procurato, e il fatto che sia andato all’Inferno non estingue il suo debito. -

Karl fece per colpire l’uomo col bastone... non per le offese a Edward, ovviamente, ma perché dire che lui era cadavere implicava dare per morti anche i bambini. Lo fermai in tempo, anche se la ferita al braccio protestò vivacemente.

Non credevo che mio fratello avesse debiti con qualcuno: lo conoscevo troppo bene.

 - Cosa le deve? -

 - Il prezzo del pollo: - il tono di voce dell’uomo si era abbassato, facendosi untuoso e servile - quell’idiota mi ha pagato con una protesi! Si rende conto, capitano? Una protesi! Che me ne faccio, io? Era ferraccio di pessima qualità. -

Nella mia mente risuonò l’urlo che avrebbe probabilmente lanciato Winry a quelle parole: per nascondere il sorriso, strappai di mano all’uomo gli oggetti che stava rubando. Passai il cappottino e il soprabito a Clara, pensando che mia figlia e il suo disgraziatissimo zio avrebbero potuto avere freddo (in special modo Ed, visto che stava in cantina), e stavo per posare l’orologio, quando mi accorsi di cosa si trattasse.

Il distintivo degli Alchimisti di Stato?

Feci scattare il coperchio, e la data del tre ottobre del ‘10, sormontata dalla parola Ricordare mi comparve davanti, chiara ed inequivocabile.

Ma bene. Altri misteri.

 - Oh, è rovinato. Peccato. -

Ignorai il vecchio, troppo preso da altri pensieri.

Ricordavo benissimo di aver smarrito io stesso quell’orologio a Reole, più di vent’anni prima, durante i concitati eventi che precedettero la distruzione della città e la diserzione di mio fratello: Ed non mi aveva mai detto dell’iscrizione, ma Winry me lo aveva rivelato anni dopo, quando avevo perso la memoria e, quindi, non mi diceva assolutamente niente.

Come poteva, quello stesso oggetto, essere ricomparso in questo mondo, a due decenni di distanza?

 - Bene, signor... -

 - Lindemann. Johann Lindemann. -

 - Signor Lindemann. A quanto ammonta questo ipotetico debito? -

Gli occhi del vecchio scintillarono avidi; non feci commenti sul prezzo assolutamente assurdo, ma, anzi, annuii comprensivo.

 - Capisco: più o meno il prezzo di una serratura nuova, no? -

Lindemann accusò il colpo. Aveva gonfiato il prezzo, è vero, ma non così tanto. Io mi limitai a sorridere innocentemente, fingendo di non aver notato l’occhiata omicida che mi era stata dedicata.

 - Ripasserò tra qualche giorno a controllare. - dissi, infine - Ovviamente, se scoprissi che manca qualche effetto personale, di mio fratello, - Lindemann trasalì vistosamente - dei suoi locatori o dei miei figli, la riterrò responsabile. -

Clara Leitner era scomparsa nell’altra camera qualche minuto prima: ora ricomparve nel salotto con una scatola in mano, e alzò su di me uno sguardo sorpreso e divertito. Lindemann non pareva della stessa opinione.

 - Possiamo andare, capitano Elric? - chiese, tenendo gli occhi sull’anziano.

Credo che si divertisse a vedere il vecchio avido in difficoltà: al solo sentire il mio cognome, era impallidito visibilmente, come se questo avesse reso più tangibile il mio rapporto di parentela con l’abitante di quell’appartamento.

 - Sistemate le questioni economiche, signori, - terminai - vi sarei grato se usciste da questa casa, visto che nessuno di voi ci abita. -

Johann Lindemann sparì all’istante: Karl aspettò che la via fosse libera, combattuto se parlare o meno.

 - I bambini stanno bene. - gli dissi, immaginando cosa volesse sapere - E anche mio fratello, anche se la cosa ti lascerà indifferente. -

 - Almeno Frau Schneider non dovrà cercarsi di nuovo un altro direttore. - mugugnò lui, scrollando le spalle e uscendo a sua volta.

 - Un nuovo cosa? - esclamai, stupito.

Possibile che non potevo allontanarmi di casa senza che il mondo si capovolgesse?

 - Deve cercare qualcosa, capitano? - insistette Clara - Io ho finito. -

 - Ha trovato il regalo, a quanto vedo. - dissi, allungando il collo.

Nella scatola c'era una bella cintura di cuoio, molto robusta. Sarebbe stata di ottima qualità prima della guerra, quindi per quei tempi era quasi principesca.

 - Ottima scelta davvero. - scherzò Clara - Ne avrei bisogno una anche io! -

* * * 

 

Come avevo fatto a perdere una bambina di sette anni che, in teoria, non avrebbe dovuto muoversi da una stanza?

 - Tranquilla, Margarethe. - cercò di confortarmi Thomas, poco prima che mi venisse una crisi isterica - In casa ci sono solo i soldati, e loro sono dalla nostra parte. E anche la signora Schneider. -

Poco importava: dovevo ritrovare Lotte prima che qualcuno di poco raccomandabile se la vedesse davanti. Già quella mattina, tornando dal bagno in fondo al corridoio, l’avevo trovata che confabulava con la cameriera, quando avrebbe dovuto essere nella nostra camera comune ad impegnarsi come noi a cessare di esistere.

Uscii dalla camera e attraversai di corsa lo spazio che mi separava dalle scale, con Tom dietro di me; la villa sembrava deserta, perciò mi arrischiai a scendere al pianoterra.

 - Non dobbiamo sbirciare in tutte le stanze, vero? - mi chiese il dodicenne.

Non lo facemmo, ma solo perché un bagliore di fronte alla porta principale attirò il mio sguardo: una testolina bionda e riccia, attaccata (il Cielo sapeva ancora per quanto, se qualcuno la scopriva lì!) ad una figuretta impalata davanti all’ingresso, lo sguardo fisso nel cortile.

 - Lotte! - ruggì Thomas, volando verso la sorellina.

Lei non parve neppure averlo visto: continuava a guardare i due personaggi che si stavano avvicinando, chiacchierando tra di loro. Non ci avevano ancora scorti.

Clara Leitner la conoscevo, ma l’altro chi era? Immediatamente, lo identificai per il colonnello complice della Steinglocke: non l’avevo mai visto, ma in effetti non mi era mai stato descritto.

In preda al panico, tentai di trascinare via i due bambini.

 - Aspetta, Margarethe! -

L’esclamazione di Thomas fece alzare lo sguardo ai due, che finalmente si accorsero di noi.

Magnifico., pensai. Siamo spacciati, ed Edward con noi.

 - Io non ho detto nulla... - piagnucolò Tom.

Gli scoccai un’occhiata indagatrice, ma non parlava con me: fissava con sguardo implorante l’ufficiale... che, ora che vedevo da vicino le mostrine, mi accorsi essere un capitano, non un colonnello. Un uomo alto e biondo, con un’aria familiare, che si era fermato e guardava i due bambini come se non esistesse altro al mondo.

Lotte sfilò la mano dalla mia, per fare un passo verso l’uomo.

Non era spaventata.

Era furiosa.

Raddrizzò la testa e tirò indietro le spalle; quando parlò, la sua voce era gelida e formale come quella di un adulto. La sua dichiarazione, lapidaria.

 - Buongiorno, papà. -

 

 

Pensierino della buonanotte: da questo capitolo, dovrebbe essere chiaro fino a che punto arrivi la mia venerazione per Al... beh, poveretto, meritava un po’ di spazio, dopo nove capitoli di assenza (almeno a livello fisico, visto che né suo fratello, né i suoi figli si dimenticavano mai di lui). Va bene, questa volta nessuno si è fatto male, se si esclude l’amor proprio di Ed, ma abbiamo capito cos’ha combinato quel mascalzone negli ultimi vent’anni: un bel po’ di cose che avrebbe dovuto fare con più attenzione, e badando a non essere spiato!

 

La storia che il cerchio alchemico per aprire il Portale può essere modificato è, ovviamente, una mia invenzione: visto che Edward aveva modificato quello per la Pietra Filosofale, portando il numero dei vertici a sette, ho ipotizzato che anche questo potesse essere reso più efficiente (almeno relativamente...) cambiando in parte la struttura. La mia teoria può essere accettata o meno, ma io avevo bisogno di una spiegazione per il fatto che Ed non ha avuto bisogno di homunculus, né di tagliarsi le vene per tornare ad Amestris; la faccenda che le persone di questo mondo non possono accedere all’altro è solo una speculazione che segue la precedente: visto che nel film Eckhart si ritrovava coperta di robaccia nera quando Ed e Al passavano da questa a quella parte del Portale senza problemi mi ha fatto pensare ad una “difficoltà” a muoversi per noi di questo mondo. Visto che il nuovo Portale, come dice Edward, è ancora meno stabile, la sua ipotesi è dunque che sia ancora più pericoloso.

E ora sotto con le recensioni:

    Liris: non l’ho scritto chiaramente che Ed era tornato ad Amestris, ma... beh, quando, nel terzo capitolo, è saltato fuori un auto-mail che sicuramente non è stato costruito in questo mondo, qualche dubbio era legittimo! :-)

    Talpina Pensierosa: non sai che fatica scrivere i pezzi in cui Al parla, ma non si sa il suo nome! Avevo sempre paura di rivelare troppo, o fargli dire qualcosa che lo identificasse... la mia speranza era che il lettore intuisse, ma restasse col dubbio: sai, quando leggi e dici “No, dai, non è possibile... eppure...”? Ecco, una cosa del genere. Non so se ha funzionato.

    KuRoNeKoChAn: come, non sei felice di vedere Al? Ecco, ora me lo hai offeso! Dovrò parlarci per mezz’ora prima che esca da sotto il tavolo... su, dai, Al, non fare così! Hai avuto un capitolo quasi tutto per te, e sei anche riuscito a startene da solo con una bella ragazza, mentre tuo fratello è chiuso in cantina a stagionare!

I nomi tedeschi sono inevitabili, purtroppo. In effetti, il luogo dove ambientare la ff non doveva essere necessariamente Monaco: in vent’anni, i fratelli potrebbero essersi trasferiti, anche solo per cercare quella benedetta bomba all’uranio; ma, alla fine, ho deciso di mantenere la stessa ambientazione del film, sia perché il titolo giocasse su quello dell’ultima puntata, sia perché mi affascinava l’idea di scrivere una storia sulla Germania durante la Seconda Guerra Mondiale.

    Fightclub: in questo capitolo, in realtà, c’è molta poca azione (se non vuoi considerare le due mummie rinsecchite che litigano...), ma è uno dei cardini su cui ruota la fanfic, perché spiega buona parte di quel che è successo nel passato. Il resto arriverà.

    beautiful-disaster: sai che tutto ciò non fa bene alla mia vanità? Poi il mio ego si gonfia troppo, e rischio di mettermi a ridere senza motivo come un cattivo da anime... MHUAHAHAHAHAH!

    DarkMartyx_93: in effetti Al non è proprio la persona che ti immagineresti in una divisa... ancor meno quella dell’esercito tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale. Mi piace mettere nei guai i miei personaggi, non so se si vede.

    Selfish: ho capito la tua battuta sulla Verità e Ryuk solo quando Mtv ha cominciato a trasmettere l’anime di Death Note, dato che non avevo mai letto il manga, e... ehi, devo dire che hai ragione! Si vede che il Portale è un altro modo che gli Shinigami hanno per passare il tempo divertendosi, oltre a vedere gli umani ammazzarsi a vicenda tramite quadernetto assassino...

Non saprei dirti quale sia più bello tra anime e manga di Fullmetal Alchemist: a me piacciono molto entrambi. E, no, non posso prestarti Edward per il compito di chimica, perché se solo potesse aiutare qualcuno, quel qualcuno sarebbe una studentessa universitaria iscritta al secondo anno di chimica che giusto in questi giorni ha rubato un paio di voti di biochimica e fisica II!! Tra parentesi, la storia dei chiodi di garofano del settimo capitolo viene da un memorabile pomeriggio nel laboratorio di chimica organica I... ho avuto quell’odore nei capelli per due giorni, e sul camice per molto più tempo!

    Siyah: come, avevi dimenticato la Vera protagonista di questa storia, Colei che tutto può e a cui tutto riesce (per il semplice fatto che chi si mette sulla sua strada viene abbattuto)? In due parole, Ilse Schneider?? Edward te n’è grato (anche a lui piacerebbe dimenticarla), ma lei sta già caricando un vecchio fucile appeso sopra il caminetto degli Steinglocke...

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Capitolo 10
*** Il nuovo Portale ***


Nuova pagina 1

            10. Il nuovo Portale

 

Mentre mio fratello tentava di rabbonire la sua adorabile figlioletta, io rischiavo la morte per assideramento o prostrazione. Fortuna che Klaus Holze, Andreas Neubauer ed Ernst Feuerbach (che per qualche motivo era chiamato “Il Filosofo”) aggiungevano spesso alle mie scarsissime razioni dei generi di conforto rubacchiati dalla cucina, o anche l’inedia sarebbe stata una causa di decesso molto probabile.

La mia tattica per perdere tempo per le due settimane successive al nostro arrivo pareva aver funzionato, visto che eravamo ancora tutti vivi, ma la pazienza di Hedwig si stava esaurendo: agli inizi di aprile, smise di mandare il colonnello Holze a pungolarmi e prese a scendere di persona. Fino a quel momento ero riuscito a tenerla a bada, ma ormai ero a corto di scuse plausibili.

Il tempo passa, Edward Elric.

Stavo facendo di tutto per farlo passare. Dov’erano quei dannati Alleati? Quanto ci mettevano a raggiungere la Baviera? Lavoravo giorno e notte senza interruzioni significative, in una cantina gelida, e il mio fisico non avrebbe retto a lungo, lo sapevo bene, anche se rifiutavo di ammetterlo; negavo l’evidenza, e più mi sentivo stanco, più intensificavo gli sforzi.

Il mio obiettivo primario restava quello di non aprire ai miei nemici la via d’accesso ad Amestris, ma, se disgraziatamente questo fosse avvenuto, non volevo mettere in pericolo delle vite: Hedwig avrebbe potuto decidere di mandare nel Portale uno qualsiasi dei commilitoni di Al, o tutti e tre, e nessuno di loro meritava di morire per eseguire degli ordini privi di senso.

Il tempo passa, Edward Elric.

Il capo della Società di Thule mi fissava dalla parte opposta della cantina, algida e sprezzante. Cercai di voltarmi, per non doverla guardare in faccia, ma il mio corpo era diventato improvvisamente pesante e non riuscivo a muovermi: era come essere pigiato a forza in una scatola.

Sto sognando!, realizzai. Forse avevo anche la febbre, oppure ero semplicemente crollato per la stanchezza. Quando mi ero addormentato?

Il tempo passa, Edward Elric.

Davanti ai miei occhi, Hedwig si trasformò in Winry, anche se lo sguardo sdegnoso non cambiò.

Lo so, amore mio., avrei voluto rispondere. Ma vedi che non posso riaprire il Portale, o il tuo mondo sarebbe di nuovo attaccato da quei pazzi di Thule.

Il muro della cantina, alle spalle di Winry, crollò con un rombo che fece tremare il pavimento, e la luce abbagliante che si sprigionò mi fece temere irrazionalmente che qualcun altro avesse aperto il varco.

Al? Alphonse, sei stato tu? pensai.

Il tempo passa, Edward Elric.

La voce di Winry rimbombò nella stanza, ma non riuscii più a vederla. Non vedevo più neppure la stanza. Ero accecato.

Non andare! È pericoloso!, provai a gridare, ma dalla mia gola non uscì nessun suono, e questo mi terrorizzò. Al, fermala! So che ci sei, che hai aperto tu il Portale!

Ed?

Questa volta fui certo di aver sentito la voce di mio fratello.

 - Al? Al, dove sei? -

 - Sono qui, fratellone. Di fianco a te. -

Sentii la sua mano sulla fronte, e a fatica aprii gli occhi. Alphonse era inginocchiato al mio fianco, e i grandi occhi scuri mi fissavano, preoccupati. Ero sdraiato sul pavimento, coperto da una giacca o un soprabito che non avevo quando mi ero addormentato, e il fastidio che sentivo sotto la schiena mi informò che ero coricato sulla matita che usavo per scrivere; la spostai con malagrazia, e dalla mia camicia si alzò un odore disgustoso di muffa e vestito non lavato.

 - Quanto ho dormito? - chiesi, sentendo la mia voce roca e faticando a riconoscerla.

 - Molto meno di quanto ti sarebbe servito. Ieri sera Ernst non ha più sentito rumori, e quando è entrato a controllare ti ha trovato accasciato a terra, febbricitante. Ha chiamato subito me e il colonnello Holze, e devo dire che è stato difficile credere al mio comandante quando diceva che era solo un’infreddatura. -

Potevo quasi vedere il corpulento colonnello che sudava e si torturava i baffi da tricheco, chiedendosi come avvertire il capo di quel che era successo, e se non fosse meglio tacere e fingere sorpresa nel caso non fosse stata solo un’infreddatura. Ridacchiai alla mia immagine mentale.

La porta della cantina era aperta: dalla mia posizione riuscivo a vedere un paio di scarponi militari. Al mi stava davanti, quindi non potei vedere altro finché lui non si voltò verso di loro, lasciandomi intravedere la sottile figura in ombra di Klaus, di turno a farmi la guardia.

 - Si è svegliato. - sussurrò mio fratello, rivolto al commilitone - Però forse delira, perché sta ridendo da solo. -

 - Sono lucidissimo. - ribattei, stizzito, mettendomi a sedere. Solo in quel momento mi accorsi che quello che avevo addosso era un mio soprabito, anche se ricordavo perfettamente di averlo lasciato a casa Meyer.

 - Sono passato un paio di volte a casa vostra, per dare una controllata. - mi informò Al, intuendo a cosa stessi pensando - Tra l’altro, avete una nuova serratura, dono del signor Lindemann. -

 - Perché il vecchio... oh, credo di aver capito. - sbuffai - Quel lurido sciacallo frugherebbe anche i nostri cadaveri, se ne avesse l’opportunità! -

 - Non ci pensare, al momento è talmente terrorizzato dal capitano Elric che ogni tanto compare per tenerlo d’occhio, da limitarsi a diffondere pettegolezzi nel vicinato. Sapevi che i tuoi vicini sono i peggiori impiccioni che abbia mai visto? - aggiunse, porgendomi un bicchiere che aveva appena riempito con quello che sembrava...

 - Cognac? - sibilai, alzando gli occhi per controllare che il suo subordinato avesse chiuso la porta della cella - Sei pazzo?? Sai cosa succede se uno di quei fanatici ti vede con un liquore francese in mano? -

 - Non è per questo che lo avevate travasato in innocue bottiglie di vino? -

Da quando Alphonse si lasciava andare al sarcasmo?, mi chiesi mentre lui si sedeva più comodamente e alzava il suo bicchiere in un brindisi.

 - Agli Elric, e ai loro piani che non riescono mai. - dichiarai, tetro.

Bevemmo in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri. Personalmente, stavo ripercorrendo mentalmente tutti i tentativi che avevo fatto per rendere più stabile il Portale, negli anni passati e in quelle ultime settimane, e non ci misi molto ad arrivare alla conclusione che i miei passi avanti erano, al momento, puramente teorici. Non potevo provare il nuovo cerchio alchemico su cui stavo lavorando, naturalmente, perché sarebbe stato come regalare a Hedwig il passaggio verso Amestris che tanto desiderava, perciò non sapevo se avevo davvero combinato qualcosa.

 - Hai scoperto qualcosa di nuovo? -

Le considerazioni di Al erano andate nella stessa direzione delle mie, a quanto pareva.

 - Ho proseguito sulla stessa strada di sei anni fa. - risposi - Ma non oso ridurre ulteriormente la quantità di sangue: già così, ho paura che solo noi di Amestris possiamo attraversare indenni il Portale. -

 - Lo avevi già detto l’altra volta. Cosa te lo fa credere? Non credo che, sei anni fa, tu abbia portato il libraio o sua figlia con te. -

 - No, è solo una mia teoria. - rabbrividii al solo pensiero di Margarethe o del signor Meyer che si avvicinavano al Portale - Riguarda quel che è successo nel ‘23, quando io sono arrivato ad Amestris senza grossi problemi, mentre il Presidente... - mi interruppi, ripensando con disgusto a quel che era successo. Non avevo una gran simpatia per nessuno di quelli di Thule, men che meno per il loro capo, ma non avrei augurato una fine simile neppure al mio peggior nemico. Che, nella fattispecie, erano loro.

 - A proposito... - Al si frugò frettolosamente nelle tasche, per poi estrarre il mio vecchio orologio da Alchimista di Stato. - mi spieghi questo come l’hai recuperato? L’avevo perso a Reole, lo ricordo benissimo: credevo fosse andato distrutto insieme alla città. -

 - Non so bene neppure io come si sia salvato... - ammisi, prendendolo in mano e facendo scattare il coperchio - Me lo ha dato Winry, sei anni fa. Pare che, durante degli scavi per costruire una fognatura, dalle parti di Reole, sia saltato fuori il mio orologio: è stato consegnato all’Esercito, ma non ho idea di come siano risaliti a me. Nessuno sapeva dell’iscrizione. - aggiunsi.

 - Non lo avevi detto neanche a me. Come non mi hai detto molte altre cose, sembra. -

 - Mi dispiace. -

Alphonse scosse la testa: non so se era per il tempo passato dalla sfuriata, o per la paura che gli avevo fatto prendere, ma sembrava più conciliante.

 - Non importa: se anche tu non avessi aperto il Portale, la Società di Thule sarebbe ugualmente arrivata a te. Non avrei dovuto aggredirti così. - ammise, ruotando il bicchere e guardando le ultime gocce di liquido, sul fondo, che seguivano il movimento - Dopo tutto quel che hai fatto per i bambini... non ti ho neppure ringraziato. -

 - Perché non devi farlo. -

 - Invece voglio farlo. Anche se li hai cacciati in questo guaio, so che non è esattamente colpa tua. Così come non è colpa tua se Thomas si è fatto odiare da tutti i tuoi vicini per prendere le tue difese, è quasi morto di fame passando il contenuto del suo piatto a Lotte, si è fatto una cultura su quasi tutti i libri proibiti dal regime... -

 - Va bene, va bene! - lo interruppi - Ho capito! -

Tutto sommato, Al scoppiò a ridere sonoramente.

 - Sei tu il padre, non io. - borbottai, offeso - Non so nulla di bambini. -

 - Ed, sei stato magnifico. Dico davvero: hai protetto e curato Tom e Lotte come se fossero figli tuoi... hai persino venduto il tuo auto-mail! - mi appoggiò una mano sulla spalla - Non ho parole per dirti quanto ti sono grato. -

Non potei trattenere un sorriso riluttante.

 - Almeno sono coperto per i prossimi favori che ti chiederò. -

Al appoggiò il bicchiere a terra, e si portò le mani dietro la nuca, fissando il soffitto; non riuscii a seguire il corso dei suoi pensieri, ma vidi ben presto il suo sorriso svanire, gli occhi incupirsi.

 - Hai saputo di Hanno, l’amico di Thomas? - mi chiese dopo un po’.

Annuii, sospirando.

 - Povero ragazzo. - mormorò Al - Anzi, povero bambino. -

Per qualche minuto, nessuno parlò: il silenzio era così completo che sentivo il respiro rumoroso di Klaus Holze, fuori dalla spessa porta della cantina. Doveva essersi preso un raffreddore.

 - Ed... -

 - Mh? -

 - Cosa hai visto quando sei morto? -

Alzai lo sguardo su di lui, spaventato.

 - Che ti prende, Al? -

 - Niente, io... - scosse la testa - Non ricordo bene quel che è successo, a dire il vero. Forse è perché sono finito direttamente nel Portale. Però credo di averti visto, per un momento. -

 - Sì, per un attimo. - mormorai.

Che succedeva a mio fratello? Non avevamo mai parlato di quell’argomento: era troppo penoso, per entrambi. Non è mai bello ricordare la volta in cui ti sei trovato una lama che ti entrava dal petto e ti usciva dalla schiena, e tuo fratello aveva gettato senza rimpianti la sua vita per salvare te, immenso idiota.

 - Lascia perdere. - si arrese Alphonse - Era una domanda stupida. Anzi, ora è meglio che vada, Klaus oggi doveva lavare la Mercedes del padre, e devo controllare... -

 - Hai paura? - gli chiesi.

Non mi rispose, ma la sua faccia parlò per lui. In effetti, non avevo la minima idea di cosa il mio fratellino avesse visto e vissuto, nei mesi in cui era stato al fronte: le mie supposizioni erano parecchie, ma, esattamente come aveva detto Thomas quel primo giorno, non ero mai andato in guerra. Avevo visto come devastava le persone, a livello fisico e psicologico, ma per fortuna non avevo mai combattuto da soldato. Non ce l’avrei mai fatta, ormai ne ero certo.

 - Non ho mai avuto così tanta paura di morire. - ammise lui, semplicemente - Non solo di lasciare orfani i miei bambini, voglio dire. Proprio di morire. -

 - Al, è assolutamente ovvio! Sarebbe da pazzi non aver paura! -

Lui fissò la parete di fronte per parecchio tempo: ad un certo punto, notai una scintilla nei suoi occhi, poco prima che le sue labbra si stiracchiassero in un sorriso reticente.

 - E pensare che una volta mi lamentai perché non potevo provare quella sensazione. - sussurrò, con voce appena udibile.

 - Ammetterai che era una situazione piuttosto particolare. - gli feci notare.

 - Ti riferisci al fatto che io ero un’anima legata ad un’armatura, o che tu eri appena sfuggito ad un serial killer che aveva tenuto prigioniero te e Winry in un mattatoio e aveva tentato di ucciderti a colpi di mannaia? -

Ci guardammo in faccia. In condizioni normali, non avremmo mai parlato di quel che era successo così alla leggera, e in ogni caso non a pochi metri da un soldato che non sapeva nulla di Amestris: quel giorno dovevamo avere i nervi così a pezzi che non solo ne parlammo, ma, dopo esserci fissati per qualche secondo... scoppiammo a ridere.

La nostra sanità mentale era decisamente a rischio.

* * *

 

Quando Hedwig Steinglocke non si trovava nella villa, la sorveglianza era molto meno stretta: dopo la memorabile scenetta di Lotte, era stato chiaro sia a me che ai bambini che quei soldati erano decisamente dalla nostra parte. Due di loro erano padri di famiglia, e la sola idea di far del male a quelli che potevano essere figli loro li ripugnava.

Tuttavia, non avevo intenzione di far dipendere la mia sopravvivenza solo da altri: non potevo aiutare Edward in nessun modo, visto che non avevo la minima idea di cosa stesse facendo, ma c’era una cosa che sapevo fare benissimo, e di cui quella casa aveva un bisogno disperato.

 - Non è necessario che tu lavori come una schiava... - aveva balbettato Clara Leitner, quando avevo preso uno degli strofinacci e l’avevo aiutata a spolverare la stanza in cui eravamo “alloggiati”.

La ignorai. Avevo una gran fiducia in quella ragazza, sia chiaro, perché ci vuole del coraggio a seguire le indicazioni di Lotte senza protestare, e solo per un regalo di compleanno. Però non avevo alcuna intenzione di fare come diceva lei.

Le altre stanze?, chiesi quando finimmo.

 - C’è la camera da letto della signora Schneider... - si arrese la cameriera, con un sospiro. Non poteva negare che ero più veloce di lei. Nessuno desidera davvero allungare un lavoro che può essere fatto in metà tempo con l’aiuto di qualcuno più esperto: perché, ormai ne ero certa, Clara non era una donna delle pulizie.

Capii il suo ruolo quando entrai nella stanza della padrona di casa: sul comodino, la fila di medicinali testimoniava quel che già avevo intuito annusando l’odore di ospedale delle altre stanze. Ilse Schneider doveva essere malata, e la signorina Leitner era la sua infermiera che, forse per supplire alla carenza di personale o alla scarsa possibilità di pagare altre cameriere, si adattava a svolgere più ruoli.

 - Mi scusi, signora. - si stava discolpando davanti alla sua datrice di lavoro - Le ho detto che potevo fare da sola, ma insiste a volermi aiutare! -

La signora Schneider, seduta in una poltroncina vicino al letto, alzò gli occhi dal libro che stava leggendo per squadrarci entrambe. Non pareva affatto una donna malata: sì, certo, era ossuta, ma nessuno era molto in carne dopo sei anni di guerra. Non era neppure pallida, e aveva una voce forte e secca quando esclamò:

 - E qual è il problema? Lasciala fare, se lo desidera! -

Chiuse il volume e piegò la testa, per squadrarmi da capo a piedi.

 - Ti aspetti di essere pagata o tenti solo di lisciarmi? - mi chiese a bruciapelo.

Principalmente la seconda. Non discuto mai di retribuzioni prima di aver mostrato come lavoro.

 - Allora dovresti andare dal Presidente, non da me. -

Esattamente come Clara, pronunciava la parola Presidente con un tono che la faceva diventare un insulto.

Mi piace scegliere per chi lavorare., replicai sorridendo.

 - Allora inizia dai vetri. - stabilì lei, tornando alla lettura.

Quella donna mi piaceva. Aveva un modo di fare simile al mio.

 

Le finestre delle ville, così alte, sono una vera tortura per chi deve lavarle. Quando potei scendere dalla scala, tirai un sospiro di sollievo, e Clara sembrava del mio stesso parere.

 - Fortuna che non soffriamo di vertigini. - sussurrò, mentre eravamo fianco a fianco a pulire i vetri più bassi.

Annuii, e lanciai un’occhiata all’esterno che prima, su quell’aggeggio infernale, mi ero sforzata di non guardare per non farmi girare la testa: il giardino vero e proprio era dall’altro lato della residenza, mentre sotto di noi c’era solo un cortiletto ghiaioso, in cui era parcheggiata la macchina nera che il soldato Holze stava lavando, sotto lo sguardo attento del capitano Alphonse Elric.

 - Che magnifico panorama! - ridacchiò la signora Schneider, alzatasi per affacciarsi a sua volta.

Dal sarcasmo, dedussi che non si riferiva al cortile, né alla Mercedes. Fui sorpresa da una simile allusione da una donna così anziana e distinta, ma la mia reazione non fu neppure lontanamente paragonabile a quella di Clara, che arrossì fino alle orecchie.

 - Non mi abituerò mai al suo modo di fare, signora. - mormorò, strofinando il vetro già pulito.

 - Ah, alla mia età dovrebbe essere concesso poter dire quello che si pensa. -

 - Alla nostra no? -

 - Tu non lo fai mai, Clara. - sottolineò lei.

Fräulein Leitner si strinse nelle spalle.

 - Mi domando se lei si rivolgesse così anche a suo marito. -

Effettivamente, me lo chiedevo anch’io.

 - Certamente. Quando c’incontrammo per la prima volta, rifiutai il secondo valzer che mi chiese dicendogli chiaramente che lui era l’uomo più bello che avessi mai incontrato, ma mi aveva pestato i piedi così tante volte che non me li sentivo più. - Ilse Schneider sorrise placidamente al ricordo - Mi sposò lo stesso. Conosceva già i miei peggiori difetti, quindi non comprava a scatola chiusa, come è successo fin troppo spesso. -

Peccato che mia madre non somigliasse ad Ilse Schneider: se fosse stato subito chiaro che per lei l’arte veniva prima di ogni cosa, famiglia compresa, mio padre non avrebbe fatto l’errore di sposarla.

 - Allora, se e quando un uomo chiederà la mia mano, - replicò la signorina Leitner, stizzita - prima lo informerò che le mie dita dei piedi sono bruttissime, ma la dentatura è buona. Lui ne sarà contento? -

Dipende se cerca una moglie o un cavallo., risposi.

 - A proposito, Clara, mi spieghi cosa stai guardando là fuori? -

Il colorito della cameriera era appena tornato normale: dopo quella domanda, arrossì nuovamente.

 - La campagna, signora. Questa è davvero una magnifica giornata! - rispose stizzita,  con la voce più alta di un paio di ottave.

 - Certo, certo... Non posso darti torto, comunque: è davvero un bell’uomo. -

Era impossibile fingere di non aver sentito, come forse la buona educazione avrebbe richiesto. Le occhiate della cameriera all’esterno non erano neppure state così insistenti, o almeno, io non le avevo quasi notate.

Sbirciai fuori: a capo scoperto, Klaus Holze aveva finito di lavare l’auto del superiore e stava parlando con il signor Elric di qualcosa di molto serio, a giudicare dalle facce; nella situazione in cui ci trovavamo tutti, mi venivano in mente parecchi argomenti seri di cui parlare. Neppure io potei dare torto a Clara: Klaus era decisamente il più bello tra i quattro militari che avevo avuto occasione di vedere. In quel momento, i suoi capelli biondi sembravano quasi cinerei alla luce del primo sole primaverile: teneva il viso alzato, per guardare in faccia il capitano, più alto di lui di parecchi centimetri.

Clara gemette, affondando il viso tra le mani.

 - Si vede così tanto? - chiese, afflitta.

 - Solo per una donna. - concesse la signora, dandole una lieve pacca sulla spalla.

 - Eviti almeno di prendermi in giro. -

 - Perché dovrei? Immagino tu ti stia già facendo del male da sola. -

 - Grazie, so bene che è decisamente fuori dalla mia portata. -

Abbassai lo sguardo sulle mie dita, imbarazzata. Non avevo idea della situazione economica di Klaus Holze e non m’interessava saperlo, ma sospettavo fosse molto più ricco di una donna che lavora come infermiera e cameriera.

Ilse Schneider però non sembrava così contenta dell’autocommiserazione della sua cameriera.

 - Ragazza mia, - dichiarò, infastidita - come madre sarò stata un fallimento, ma permettimi di darti un consiglio: se ti consideri già sconfitta, allora non arriverai da nessuna parte. - e visto che lei non pareva convinta, rincarò - Quelli che a te, giovane ragazzina innamorata, sembrano ostacoli insormontabili, a me paiono solo piccole difficoltà. Hai ventisei anni: e allora? La differenza di età non conta poi molto. -

Alzai la testa, sorpresa da quella affermazione. Non ero sicura dell’età di Klaus Holze... se ricordavo bene, aveva fatto un accenno alla leva del ‘43. Dunque, doveva avere ventidue anni. Non mi ero mai soffermata troppo su fantasie romantiche, e mi consideravo una persona piuttosto razionale, ma quanto doveva essere obnubilata Clara per considerare quattro anni un divario così eccezionale? Vedevo difficoltà ben più ardue da risolvere.

 - Non è quello il problema più grosso, e lei dovrebbe capirlo bene. - replicò la ragazza, tornando al suo lavoro come se nulla fosse successo e confermando involontariamente il mio pensiero.

Tornai a guardare nel cortile: il soldato stava ancora parlando al suo capitano, la fronte aggrottata, gli occhi bassi finché non li alzò verso il superiore, come a chiedere conferma di quel che aveva appena detto. In quel momento, il volto del signor Alphonse Elric si aprì in un sorriso raggiante che non gli avevo mai visto.

 - E comunque, - concluse la padrona di casa - dimostra molti anni di meno. -

Avevo sbagliato, compresi finalmente. Non avevo capito nulla di quel che la signora Schneider e Clara si stavano dicendo. Di chi stavano parlando.

Era straordinariamente ovvio, ora: tra la signorina Leitner e Alphonse Elric c’erano non solo tredici anni di differenza, ma anche e soprattutto lo spettro della defunta signora Elric, la madre di Thomas e Charlotte.

La rivelazione era sorprendente: forse, se avessi osservato con maggiore attenzione Clara quando veniva a portarci da mangiare e trovava il capitano con i suoi figli, avrei potuto intuire qualcosa. Improbabile, visto che lei era estremamente discreta. Provai a ripensarci, ma purtroppo non ne ebbi il tempo: venni distratta da un rumore di passi fuori dalla stanza.

Il suono degli scarponi militari non mi impensierì, ma fu il secondo paio di scarpe ad attirare la mia attenzione: non pretendo di saper riconoscere la foggia di una calzatura solo dal rumore, è ovvio, ma credo di saper distinguere uno stivale da dei tacchi femminili, quando li sento.

L’unica altra donna, oltre a noi, era Hedwig Steinglocke. E le uniche altre persone presenti nel corridoio erano i bambini.

Perché il Presidente della Società di Thule e un militare stavano andando da Thomas e Lotte?

* * *

 

La mano della signorina Steinglocke sulla spalla era estremamente fastidiosa. Pareva di avere un avvoltoio che mi artigliava la camicia.

 - Non c’era alcun bisogno di portarli qui. -

La voce di Edward suonava strana, tesa. Anche lui era molto cambiato dall’ultima volta in cui l’avevo visto: più pallido, sporco, forse persino più magro, non avrei saputo dire. Doveva essere stato portato nel salone al pianoterra ben prima di noi, perché quando entrammo se ne stava accucciato a terra, disegnando sul pavimento con dei gessetti bianchi, sotto la sorveglianza di Ernst Feuerbach e del colonnello Holze.

 - Solo un promemoria, caro Edward. -

Andreas, che era arrivato con lei a prenderci nella nostra stanza, scambiò un’occhiata preoccupata con il commilitone. Allarmato, mi liberai della mano della donna e tirai Charlotte di lato, verso lo zio. La signorina Steinglocke stava proprio di fronte alla porta, e non vedevo modo di aggirarla.

Edward ricominciò a disegnare, lanciandoci ogni tanto un’occhiata di sottecchi: sul pavimento, notai sbalordito, era stato tracciato un enorme cerchio, al cui interno si intersecavano altre linee, bande, scritte incomprensibili e strane figure. Gli altri quattro adulti fissavano l’uomo inginocchiato a terra come se si stessero aspettando qualcosa: Hedwig aveva gli occhi che brillavano fissi su quei tratti di gesso.

Visto che nessuno badava troppo a noi, presi per mano mia sorella e mi avvicinai alla circonferenza più esterna. Edward se ne accorse, e mi sferrò un pugno contro il polpaccio con l’auto-mail, così forte da farmi venire le lacrime agli occhi: saltai indietro, la gamba dolorante.

 - Ho finito. - dichiarò tetramente lo zio, alzandosi a fatica, le ginocchia doloranti. Spazzolò frettolosamente il soprabito con le mani dalla polvere di gesso.

 - Come si attiva? - chiese impaziente Hedwig, avvicinandoglisi.

Edward esitò, scoccandoci un’occhiata. Aveva delle profonde occhiaie, che insieme alla barba incolta lo facevano sembrare molto più vecchio di quanto davvero fosse.

 - Mi serve qualcosa di tagliente. -

La donna lo squadrò, sospettosa.

 - Il Portale si attiva solo col sangue di qualcuno nato ad... dall’altra parte. - le spiegò lui, sempre più riluttante.

Hedwig annuì, e fece un cenno al colonnello, prima di uscire.

 - Dov’è vostro padre? - sibilò Edward, controllando di non essere udito da Holze.

 - Non lo so. - risposi.

 - Nessuno lo ha avvertito di quel che sta succedendo? -

Quella domanda sembrava rivolta più che altro a se stesso, e in ogni caso non avrei saputo né potuto rispondere: non avevo idea di dove fosse papà, e comunque in quel momento rientrò il Presidente, tendendo allo zio un tagliacarte.

 - Sbrigati. - gli intimò, secca, vedendolo esitare - O controlleremo se il sangue di uno dei due bambini funziona. -

Edward abbassò la testa, mordendosi il labbro: poi, con un gesto così veloce che quasi non lo vidi, si fece scorrere il coltello sul palmo della mano, procurandosi un taglio vicino al pollice di qualche centimetro. Impallidii alla vista del sangue che cominciò a colargli lungo il polso, mentre Lotte si nascondeva dietro di me. Lui, cupo, non parve quasi sentire il dolore: appoggiò il palmo ferito a terra, su quel tratto di gesso che formava il cerchio.

Avevo lo sguardo fisso sulla mano sanguinante di Edward, quindi non capii subito perché tutti gli adulti presenti sussultarono o trattennero il fiato. Fu il sussurro di mia sorella a distrarmi:

 - Tom, cos’è quello? -

Al centro della sala e del cerchio tracciato sul pavimento, c’era effettivamente qualcosa: ma cosa, non avrei saputo dirlo neppure io. Doveva essere quel che tutti stavano aspettando, perché Hedwig sembrava sul punto di piangere per la gioia, e il colonnello Holze si lisciava i baffoni, ma a me non sembrava così pericoloso, o particolarmente aggressivo.

 - Perché lo chiamate Portale? Non sembra affatto un portale. - considerò Holze.

 - Il nuovo cerchio alchemico gli dà quella forma. - rispose laconicamente Ed.

Il colonnello baffuto aveva ragione: quella cosa luminosa non aveva neppure lontanamente l’aspetto di una porta. Ricordava più che altro un taglio, come quello che Ed aveva sulla mano. Era come se l’aria della sala si fosse solidificata, per poi strapparsi dal soffitto al pavimento.

Il rumore secco di una pistola caricata riportò l’attenzione di tutti sulla signorina Steinglocke:  - Colonnello Holze, prego. - dichiarò - A lei l’onore. -

L’omone le lanciò un’occhiata vacua, mentre la fronte gli si imperlava di sudore.

 - I-io, signora? - balbettò.

 - Lei. Vada a vedere cosa c’è dall’altra parte. -

 - Aspetta! - gridò Edward - Il varco è instabile, te l’ho detto centinaia di volte. Potrebbe essere pericoloso per chi è di questo mondo. -

Hedwig stirò le labbra in una smorfia, socchiudendo gli occhi. Dopo alcuni istanti, mi accorsi con terrore che stava guardando oltre alla spalla di Ed, dritto verso di noi.

Anche lui se ne accorse e, probabilmente, capì quel che stava pensando quella donna esattamente nel momento in cui lo capii io.

 - NO! - urlò, di nuovo, lanciandosi verso di lei.

Quando la vidi alzare la pistola, pensai davvero che il Presidente stesse per sparare a mio zio: invece, la mano di Hedwig si piegò all’indietro, per poi lasciare abbattere il calcio dell’arma contro il viso di Edward. Dalla mia posizione, alle sue spalle, vidi il suo corpo deviare dalla traiettoria iniziale, scartare violentemente di lato, mentre si abbatteva pesantemente al suolo.

* * *

 

 - Capitano! Capitano! -

Sia io che Klaus ci voltammo, interrompendo la conversazione avvenuta fin lì. Il ragazzo aveva sentito buona parte di quel che io e mio fratello ci eravamo detti, ma aveva dichiarato che non avrebbe fatto parola con nessuno delle cose incomprensibili che ci eravamo detti. Era ben deciso a ripagare Ed per averlo aiutato quando era bambino, e la sua lealtà mi aveva commosso.

 - Quella dietro non è la ragazza che stava con i bambini? -

Klaus aveva ragione, sulla porta c’era Margarethe: ma quella che ci veniva incontro di corsa era la signorina Leitner.

Le andammo incontro, preoccupati da tanta foga, e finimmo per incontrarci a metà del cortile, quando lei dovette fermarsi per riprendere fiato.

 - I... i bambini. - ansimò - Il Presidente ha... ha preso i bambini. -

Sentii il sudore freddo scorrermi lungo la schiena: afferrai la povera ragazza per le spalle, così forte da rischiare di stritolarla.

 - Cosa è successo? - sillabai, furioso.

 - Il Presidente ha preso i bambini e li ha portati nel salone al pianoterra. - riuscì a compitare lei, sull’orlo delle lacrime.

 

Per una volta, emulai una delle entrate ad effetto di mio fratello: visto che era chiusa a chiave, aprii la porta con un calcio ben piazzato, e irruppi all’interno, seguito da uno sconvolto Klaus.

Edward era sulle ginocchia, con il viso tumefatto e sporco di sangue uscito dal naso: situazione in cui lo avevo già trovato parecchie volte, devo ammettere, ma mai mi aveva lanciato una simile occhiata. Aveva gli occhi sbarrati di un folle, o di qualcuno che ha assistito ad un evento orripilante.

Non capii subito quel che si trovava davanti a me, tanto che dovetti sbattere le palpebre, per essere certo che quella cosa ci fosse davvero. Ci misi circa un secondo per capire che quello doveva essere il Portale prodotto dal cerchio alchemico modificato da Edward: ora capivo perché era così titubante sui suoi risultati.

 - Posso sapere il perché di tanta irruenza, capitano? -

Hedwig Steinglocke girava armata, a quanto pareva. Questo spiegava il misero aspetto di mio fratello, perché era improbabile che fosse stato uno dei miei commilitoni a colpirlo.

 - Dove sono i bambini, signorina Steinglocke? - chiesi, bloccandomi sulla porta.

Non erano lì, anche se Clara Leitner e Margarethe dovevano pensarlo davvero per correre da me in quel modo: mancava anche il colonnello Holze.

Nessuno mi rispose. Ernst e Andreas fissavano la lama di luce che era il Portale come inebetiti, mentre Ed restava inginocchiato a terra, fissandosi le mani.

Fui scosso da un conato di vomito, quando capii cosa era appena successo in quella stanza.

 - Avete mandato i bambini... - non riuscii a continuare. Feci per avvicinarmi a mio fratello, ma Hedwig sollevò la pistola verso di me.

 - Non un passo, capitano! - ordinò.

Obbedii, stringendo i denti per non urlare tutto il mio dolore. I due soldati parvero riscuotersi all’apparire dell’arma, spostando gli occhi sbarrati dal Portale alla schiena della signorina Steinglocke.

 - Non ha idea di cosa ha appena fatto. - sussurrai, guardando quella donna.

 - Lei e il signor Elric non sapete dire altro. - sentenziò lei, annoiata - Non ha idea di cosa ha fatto, ha usato due bimbi innocenti per i suoi scopi... -

Deglutii a vuoto, sentendola parlare dei miei figli con così tanta leggerezza. Sentivo lo stomaco contratto, i polmoni schiacciati da un peso che mi toglieva il respiro.

 - Non pretendo che possiate capire: - stava continuando la donna, con calma glaciale - voi guardate solo il presente, mentre io sto già pianificando il futuro, quando anche azioni che oggi paiono discutibili diventeranno... -

 - Delle crudeltà immani. - ruggì Edward.

Lei sospirò.

 - Quando il colonnello Holze tornerà - Klaus, alle mie spalle, trattenne rumorosamente il fiato - sapremo come funziona il varco. In ogni caso... -

Con un movimento del polso, spostò la canna della pistola da me a Edward.

 - Temo che tu sia diventato superfluo. -

Lui non batté ciglio, limitandosi a fissarla con astio. Non tentava neppure di fermare il flusso di sangue che gli usciva dal naso, colando fin sul colletto della camicia.

Mentalmente, ispezionai la mia divisa. La pistola era nella fondina... ma come raggiungerla?

 - Mi mancherà la tua ironia, caro Edward. - dichiarò la donna, togliendo la sicura.

Battei le palpebre.

Gli spari rimbombarono per tutto l’edificio, e sembrarono squassarlo. Furono due, esplosi quasi in sincrono da due pistole alla mia sinistra.

Edward rimase immobile, esattamente come me e Klaus: non parve comprendere cosa era appena successo, non più di quanto lo compresi io. Continuava a fissare un punto davanti a sé, senza accorgersi di essere ancora vivo, e illeso.

Ernst riabbassò la sua pistola d’ordinanza, tremando, nello stesso momento in cui Andreas effettuava lo stesso movimento.

Era passato il tempo di un battito di ciglia. Prima Hedwig Steinglocke era in piedi, l’arma tesa verso la testa di mio fratello. Dopo, era accasciata al suolo, in una pozza di sangue, la stessa espressione di pietra.

Non aveva avuto neppure il tempo di rendersi conto che stava morendo.

 

 

 

Pensierino della buonanotte: che tristezza, perdere un così bel personaggio...

No, fermi, abbassate quei forconi. Scherzavo! Scherzavo!!

            Talpina Pensierosa: quando ho iniziato a scrivere, mi era spiaciuto moltissimo non poter usare anche i pensieri di Lotte, perché la bambina ne avrebbe parecchie, di cose da dire. Solo che non era molto credibile: nessuno di noi ricorda molto bene quel che è successo quando aveva sette-otto anni, perciò il suo racconto, sebbene virtualmente scritto da una donna ormai adulta, sarebbe risultato poco plausibile.

            KuRoNeKoChAn: mi ero stufata di scenette lacrimevoli, così ho deciso che Lotte, per salutare suo padre, avrebbe fatto a modo suo. Ed, in realtà, non è che si sia fatto scoprire... semplicemente, non sapeva che lo stessero spiando! E sì, Steinglocke significa “Campana di Roccia”, esattamente come Rockbell.

            Meby138: Decisamente, è la fine dell’inizio. Per restare in ambito di Seconda Guerra Mondiale, una sorta di D-Day.

Thomas, in realtà, qualcosa sa di Amestris: solo che non può credere che la favola dei due fratelli alchimisti fosse reale, e riguardasse suo padre! Tra l’altro, non so neppure cosa Al abbia raccontato ai figli, visto che la vicenda sua e di Ed non è esattamente una fiaba... solo che avevo in testa da parecchio l’incipit C’era un bambino piccolo piccolo, che viveva in un armatura grande grande: faceva parte di un’altra fanfic su FMA, cronologicamente posteriore a questa, ma non ho resistito!

            Liris: ah, qualcuna a cui piace Al, finalmente! Poverino, io ho sofferto a tenerlo fuori dalla storia per così tanti capitoli, chiedendomi cosa sarebbe riuscito a combinare Ed senza il fratellino che lo controlla!

            Siyah: sì, mia collega nella fede EdWin: Edward rischia il linciaggio. Solo che Winry non avrebbe la forza di andare oltre la solita chiave inglese in testa, quindi posso evitarmi la scena di sangue. Ti consiglio, però, il prossimo capitolo. Il nostro Alchimista d’Acciaio non verrà legato al letto solo perché il suo meccanico ha un’altra idea di vendetta...

            DarkMartyx_93: Al mi è molto simpatico: insieme a Ed, è il mio personaggio preferito. Solo che nella fanfic non è più il ragazzino quattordicenne che seguiva come un’ombra il fratellone, senza altro pensiero che l’incolumità di entrambi: ha dei figli a cui badare e da proteggere, tra l’altro da solo. Figli che aveva affidato a Edward, e che ritrova in grave pericolo grazie al solito fratello. A nessun genitore farebbe piacere.

            Yuna93: se non sei sicura della tua fanfic, non hai nessuno che possa leggerla e darti dei pareri? Va bene, la mia beta reader si è fatta sfuggire degli strafalcioni che io stessa ho trovato rileggendo con più attenzione, quindi non sono molto attendibile, ma un secondo paio di occhi, meno coinvolto, che rilegga e ti dica anche solo se la trama regge può essere utile.

 

 

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Capitolo 11
*** Alex ***


Nuova pagina 1

            11. Alex

 

Avanzai di un passo verso Ed, e gli appoggiai una mano sulla spalla. Lui batté le palpebre, apparentemente sotto shock.

 - Ed... - provai a chiamarlo, scuotendolo leggermente.

Finalmente alzò la testa verso di me, riscuotendosi.

 - Devo andare a prendere i ragazzi. - disse, con voce atona.

Si rimise in piedi, aggrappandosi alla mano che gli tendevo, e si guardò intorno per stabilire l’entità del disastro. I miei tre commilitoni tremavano ancora dalla testa ai piedi, mentre le due donne accorse al rumore degli spari erano rimaste sulla porta, le mani sulla bocca, annichilite davanti allo spettacolo del cadavere di Hedwig Steinglocke e della pozza di sangue che si andava allargando, infilandosi tra le fessure delle piastrelle. Io non dovevo avere un aspetto migliore.

 - Andremo insieme a cercarli. - dichiarai - E non provare a dirmi che sarà pericoloso, perché non sarà questo a fermarmi. -

Edward scosse la testa, rassegnato.

 - Non lo farò. - sentenziò - Non aveva funzionato l’altra volta, non vedo perché dovrebbe farlo ora. -

Ci avvicinammo alla fenditura luminosa che doveva essere il nuovo Portale.

 - Funziona come quello vecchio? - chiesi.

 - Direi di sì. - Indeciso se parlare o meno, Ed abbassò la testa.

 - Se hai qualche altra brutta notizia, dammela subito, per favore. - sbottai - Non voglio restare in ansia. -

 - No, non è per te. - riluttante, si voltò verso il più giovane dei soldati. Il povero Holze impallidì ancora di più, davanti all’espressione seria di mio fratello.

 - Mio padre... - sussurrò - c’è qualche possibilità che sia ancora vivo? -

 - Non lo so, Klaus. - ammise lui - Finora, solo io avevo provato a oltrepassare questo nuovo Portale. Non posso dire cosa succede a chi è nato in questo mondo. -

La chiave di tutto è il sangue, meditai. È il sangue di una persona nata ad Amestris ad aprire il passaggio tra i due mondi, ed è quello stesso sangue a garantirne la sopravvivenza attraverso di esso: allora (il cuore mi saltò in gola a quel pensiero), allora forse Lotte e Tom potevano essere salvi, incolumi da qualche parte nel nostro mondo! In fondo, almeno per metà possedevano quel sangue: era il mio!

Edward dovette intuire a cosa stessi pensando, perché annuì.

 - Non credo che sia la conoscenza alchemica a fare la differenza. - mi disse - Almeno due delle volte in cui ho attraversato il Portale, ne sono uscito del tutto inconsciamente, dunque chiunque, al mio posto, avrebbe potuto fare altrettanto. Inoltre, vista l’eccezionalità della loro nascita, possiamo sperare che non abbiano alter ego ad Amestris. -

L’avevo dimenticato! Se nel Portale l’anima e il corpo dei miei figli si fosse separata, e se dall’altra parte ci fossero stati i corpi dei loro alter ego...

Scacciai il pensiero. Era semplicemente terrificante. No, Ed doveva aver ragione: Thomas e Charlotte erano nati da una situazione altamente improbabile, da un individuo venuto da un altro mondo. Questo poteva aver scombinato il parallelismo tra i due universi abbastanza da rendere irripetibile la loro esistenza.

 - Spero che i miei bambini siano davvero unici come ho sempre sostenuto. - mormorai, inquieto. Feci scorrere lo sguardo sui miei commilitoni, e tutti e tre lo ricambiarono con più sicurezza di quanto avessi creduto possibile, dopo ciò a cui avevano assistito.

Per la prima volta, mi accingevo a dare loro un ordine che non ammetteva repliche.

 - Chiudete a chiave la porta del salone. - comandai - Nessuno deve entrare, tanto meno avvicinarsi al cerchio tracciato in terra: ormai dovrebbe esservi chiaro che una simile azione metterebbe gravemente a repentaglio la vostra vita. -

 - Sissignore! - esclamarono, quasi in coro.

 - Klaus, se tuo padre è vivo ti assicuro che lo porteremo indietro. -

 - Grazie, signore. - il ragazzo guardò ancora una volta il Portale - Capitano, se ho capito bene dall’altra parte c’è un mondo parallelo, è esatto? -

 - Sì, è così. - risposi.

 - Allora, non sarebbe possibile... - si fermò, senza sapere come continuare. Fu Ernst a dare voce al suo pensiero:

 - Non sarebbe possibile per voi, i bambini e il colonnello restare di là per un po’? - chiese.

 - Mi sopporti così poco da non volermi più vedere, Filosofo? - replicai, sorridendo per mettere in chiaro che non ero offeso.

 - La fretta con cui la Società di Thule ha aperto il Portale, - meditò lui, cercando Ed per averne conferma - ci ha fatto credere... soprattutto a Klaus, in verità... ci ha fatto credere che ormai la guerra stia per finire. Forse, sarebbe più sicuro per voi restare dove lei, capitano, non è un soldato ufficialmente disperso. -

 - Ha ragione. - mi fece notare mio fratello - Se qualcuno vi trovasse qui, per di più in divisa... -

Annuii, anche se la mia sorte era l’ultimo dei miei pensieri.

 - Per noi non sarebbe un problema, - dissi - ma voi? Cosa farete? -

 - La signora Schneider ci ha promesso degli abiti civili. - Andreas sorrise debolmente - Ci inventeremo una storia qualsiasi, nel caso qualcuno venisse a fare domande. A mio parere è difficile, ma è meglio essere pronti a tutto. -

Io ero già pronto a tutto. Avrei riportato a casa i miei figli, a qualunque costo.

* * *

 

Tutto quel che ricordo del Portale è il giallo e il nero.

Va bene, non è un granché come descrizione, ma non aspettatevi rivelazioni sconcertanti. Non è la mia memoria a vacillare, checché ne pensiate: semplicemente, attraversando il Portale non ebbi tempo né modo di vedere nulla. Nel momento in cui la mano grassa e sudaticcia del colonnello Holze mi portò all’interno, venni risucchiato da una forza eccezionale all’interno di quel tunnel dorato, né più né meno che una foglia in balìa di un tifone. Persi di vista mia sorella, ed ebbi appena il tempo di notare le strane bande nere che si muovevano contro il giallo luminoso che riempiva quello spazio, una notte di stelle cadenti dai colori invertiti. Poi, fui scagliato contro una superficie solida, così forte che temetti di essermi rotto qualche costola.

Dunque, nel Portale c’è qualcosa di solido?, mi domandai.

Aprii un occhio.

Nessun movimento. Rassicurato, alzai la testa.

C’era di nuovo quel taglio nell’aria, ma questa volta era dietro di me... e c’era anche Charlotte, seduta per terra a poca distanza, con il naso per aria. Sospirai di sollievo, poi mi decisi a tirarmi su anch’io e a guardarmi intorno.

Non eravamo più nella sala da cui eravamo partiti, ma non ci trovavamo neppure in alcun posto che avessi mai visto. Inizialmente, credetti di trovarmi all’aperto, e mi chiesi chi avesse ammassato gli scatoloni di cartone che ci circondavano in un luogo in cui avrebbero preso la pioggia: ma poi mi accorsi del soffitto di roccia sopra di noi, ad un’altezza incalcolabile.

Una grotta. Solo, non pensavo ne esistessero di così ampie.

 - Sembra un incrocio tra una cantina e un magazzino. - mormorai, colpito.

 - Solo molto più grande. - replicò Lotte.

Le scatole erano più o meno tutte delle stesse dimensioni, ed erano state impilate fino a formare dei percorsi tortuosi, come pareti di un labirinto di cartone: alzandomi sulle punte dei piedi, vidi che da un’estremità proseguivano fino ad una parete di roccia, in cui si apriva un’apertura, mentre dall’altra finivano all’improvviso, anche se la caverna proseguiva a perdita d’occhio.

 - Andiamo di là. - decisi - Voglio vedere quanto è larga questa grotta. -

Non fu una buona idea: quando ci trovammo vicino alle ultime scatole, capimmo che avremmo dovuto camminare per ore per raggiungere la parete opposta. E ai lati la roccia sembrava ancora più distante, anche se seguiva più o meno una forma circolare.

 - Qui dentro entrerebbe comodamente una città. - dissi, disorientato.

 - Credo che ci fosse davvero una città. Guarda là. -

Davanti a noi, si stendevano in effetti cumuli di macerie: alcuni scheletri di edifici sembravano dover crollare da un momento all’altro, e la maggior parte delle costruzioni era già un groviglio di ferro, legno marcio e mattoni. Pensai subito agli effetti di un bombardamento, ma non capivo come dei bombardieri potessero essere entrati lì dentro: non vedevo aperture, lassù.

 - Usciamo, Tom. - implorò Charlotte, tirandomi le bretelle con tutta la forza che aveva in corpo - Ho paura. Qui non c’è nessuno. -

 - Va bene. - concessi, ripensando all’apertura che avevo visto - Torniamo indietro. -

La luce del Portale era un ottimo punto di riferimento, perciò ritornammo lì: Lotte non resistette alla curiosità di sbirciare in uno scatolone, ma ci trovò solo dei medicinali. Io, invece, notai per la prima volta qualcosa di nero sul pavimento, una strisciata di un paio di metri che partiva dal Portale e arrivava poco lontano dal punto in cui mi ero trovato sdraiato: sembrava la bava di un’enorme lumaca, solo che aveva una consistenza solida come l’esoscheletro di un insetto. Avevo una gran voglia di toccarlo, ma non mi fidavo a farlo a mani nude. Veniva da Portale, in fondo: e se fosse stato vivo?

 - Guarda cos’ho trovato! - strillò Lotte, correndomi incontro, le braccia ingombre della sua nuova scoperta.

 - Dove hai preso quei giocattoli? - domandai.

Lei mi mostrò una corda per saltare e un bastone con una testa di cavallo di legno, con aria palesemente soddisfatta. Almeno ha smesso di piagnucolare, pensai sollevato.

 - Erano nascosti in una scatola... quella là, vedi? -

Difficile sbagliarsi: era l’unica che si distinguesse dalle altre, perché qualcuno vi aveva scritto, con una calligrafia infantile e un grosso pastello blu, DI ALEX. Ma non delusi la mia sorellina facendoglielo notare. Invece, presi il bastone e con quello picchiettai sul composto nero ai miei piedi. Come avevo immaginato, era qualcosa di duro, ed era anche ben attaccato al pavimento, comunque non si mosse, né ebbe alcuna reazione: dunque, me ne disinteressai.

 - Andiamo? - cantilenò Charlotte, impaziente.

 - Sì... -

Ai piedi della scala, non fui più certo che fosse un’idea sensata: dopo i primi gradini ben visibili, la rampa spariva in una penombra che diventava presto buio fitto.

 - E se restassimo qui e aspettassimo? - proposi - Magari qualcuno verrà a salvarci... lo zio, per esempio! - 

La mia sorellina mi lanciò un’occhiata disgustata.

 - Stavo scherzando, ovviamente! - mentii subito.

Nel tunnel, delle luci si accesero all’improvviso, con un sonoro click! che ci fece sobbalzare per lo spavento.

 - Nascondiamoci! - sussurrò Lotte.

 - Chi c’è? -

Alzammo lo sguardo verso la voce. Non vedevo nulla, ma ad aver parlato era sicuramente un bambino. O una bambina? Non lo capii, ma il panico si dissolse.

 - Chi c’è? - ripeté lo sconosciuto.

Dei passi rapidi risuonarono per la scala, e in breve fu visibile anche da dove ci trovavamo noi.

Era un maschio, e non poteva avere più di quattro o cinque anni: vedevo anche da distante i capelli biondo chiaro, e quando ci fu vicino notai pure gli occhi scuri. Indossava gli abiti più strani che avessi mai visto... per la mia mentalità di ragazzino degli anni ‘40, intendo. Erano avanti di almeno una cinquantina d’anni rispetto ai calzoni, alla camicia e alle bretelle che portavo io. Stavo ancora ammirando le sue scarpe di tela, che mi parevano molto comode, quando lui scese l’ultimo gradino. Se la mia stima iniziale della sua età era esatta, era piuttosto alto: eguagliava Lotte.

 - E voi cosa ci fate qui? - ci domandò, serissimo.

 - Non lo sappiamo. - ammise mia sorella - Tu sei Alex? -

Il piccolo appuntò su di lei lo sguardo, ma quasi non cambiò espressione.

 - Come lo sai? -

 - Abbiamo trovato i tuoi giocattoli... ma li abbiamo rimessi a posto! - aggiunse lei, in fretta - Erano davvero belli. -

 - Li ho nascosti qui sotto perché i bambini che mi prendono in giro non li trovassero. - spiegò Alex, senza abbandonare l’aria seria e solenne, che lo faceva sembrare un vecchio saggio in miniatura. Parve meditare un attimo, prima di concedere: - Però tu puoi giocarci, se vuoi. -

 - Grazie. - Lotte lo gratificò con il migliore dei suoi sorrisi, e finalmente anche il bambino sorrise.

 - Sai dove siamo? - gli chiesi.

 - Nella nostra cantina. - replicò lui, come se fosse la cosa più scontata del mondo - Come siete entrati? -

 - Diciamo che ci siamo persi, in un certo senso. - tagliai corto - A proposito, io mi chiamo Thomas, e lei è mia sorella Charlotte. -

 - Io sono Alexander Stonebridge. Posso accompagnarvi di sopra, se volete. -

Forse sarebbe stato più saggio non allontanarsi dal Portale, nel caso qualcuno venisse a cercarci: ma, sinceramente, cominciavo ad essere stufo di starmene in quella grotta fredda.

Accettammo con gioia.

* * *

 

Al distolse lo sguardo, disgustato da quella vista.

 - Non ci sono altre tracce. - decretai - Né di loro, né di Holze. -

Quella chiazza nera sul pavimento veniva certamente dal Portale, ed era molto simile alla sostanza che aveva ricoperto Dietlinde Eckhart ventidue anni prima. Forse i ragazzi o il colonnello erano rimasti impigliati in quella roba? Se così fosse stato...

 - Stanno bene. - dichiarai, deciso, allontanando le congetture più catastrofiche.

Mio fratello annuì, ma continuò a non guardare.

 - Siamo nella città sotto Central City, vero? - chiese, allontanandosi di qualche passo con la scusa di guardarsi intorno.

 - Sì, senza dubbio. Sei anni fa questi scatoloni non c’erano, credo, ma non ci giurerei: il Portale si era aperto da un’altra parte, più vicino... più vicino al passaggio che porta in quel tempio abbandonato. -

Oltrepassammo in fretta gli scatoloni, degnando appena di un’occhiata il contenuto, e ci avvicinammo ad una soglia che immetteva in una rampa di scale buie. Diedi un’occhiata, ma non riuscii a vedere nulla.

 - Non conosco questo passaggio. - ammisi - Non è quello da cui sei arrivato tu quella volta, con Wrath? -

 - No, anche se gli somiglia. Potrebbe essere quello che avevano usato Sheska e Winry. - corrugò la fronte, contando mentalmente - Un passaggio da quel tempio cristiano. Uno da casa di Dante... -

 - Quale? -

 - Quello che ho usato nel ‘23... allora non me lo ricordavo, ovviamente, ma era lo stesso che avevo già percorso quando... - si interruppe - quando ero la Pietra Filosofale. -

 - Chissà questo allora dove sbuca... - mi chiesi.

Al non stette a far troppi sofismi: appoggiò le mani contro la parete e cominciò a salire, così deciso da costringermi a seguirlo quasi di corsa.

 - Alphonse! - sibilai - Al, vai piano! Se inciampo poi dovrai perdere ancora più tempo per venirmi a riprendere al fondo di queste dannate scale! -

 - Allora vedi di non inciampare! - rimbeccò lui.

Quando arrivammo ad un corridoio, comunque, nessuno dei due fu troppo contento di notare l’interruttore della luce. A quanto pare, metterne uno anche dall’altro capo delle scale era considerato inutile dalla direzione.

 - Si direbbe un ospedale. -

 - Come fai a dirlo? - mi chiese Alphonse, ancora col fiato corto.

 - Dalla puzza. E poi, le scatole là sotto erano piene di medicinali. -

Il corridoio era in penombra, ma ben tenuto: non c’era polvere né muffa, le pareti odoravano ancora di vernice fresca (che non nascondeva l’inconfondibile odore di ospedale) e sul pavimento era stesa una moquette verde che attutiva i suoni. In giro non c’era nessuno, ma da sopra le nostre teste giungevano voci e rumori di passi di molte persone che si muovevano. Al mio fianco, Al si sbottonò velocemente la giubba della divisa.

 - Cosa fai? -

 - Non è una buona idea farsi vedere in giro con un’uniforme che non è quella di Amestris. - mi disse lui, gettandosi la giacca su un braccio. Il suo abbigliamento era comunque singolare, ma almeno non era subito riconoscibile come un soldato. Cercai di non fissare troppo a lungo la fasciatura che ancora si vedeva sotto la camicia, dov’era stato ferito.

 - Credi che i ragazzi siano ancora all’interno dell’edificio? -

Non sapevo quanto amassero gli ospedali: poco, temevo, visto che la loro mamma ci aveva passato molto tempo, nell’ultimo periodo.

 - Lo spero. - lo sguardo di mio fratello si incupì - Se sono usciti per strada, passerò al setaccio l’intera Central City. -

 - Iniziamo ad ispezionare questo posto: - proposi - chiediamo a tutti quelli che incontriamo. Non penso che due bambini soli e vestiti in modo bizzarro passino inosservati. -

Inaspettatamente, ad Al sfuggì un sorriso malizioso.

 - Peccato essere solo in due. Se tu sapessi come contattare Winry, faremmo prima. -

* * *

 

Alzai la testa di scatto.

 - Hai detto qualcosa? - chiesi alla mia vicina.

La giovane donna parve sorpresa:

 - No, affatto. Va tutto bene, Winry? - Mi si avvicinò con aria sollecita - Forse sei stanca. -

Non ero affatto stanca, e per dimostrarglielo tornai a lavorare all’auto-mail che stavo riparando. Non avevo molta voglia di fare conversazione, anche se non per colpa di Amelia: semplicemente, preferivo fingermi occupata e pensare ai fatti miei.

Inutile girarci intorno: non mi piaceva affatto la mia nuova sistemazione, e mia cognata non poteva farci nulla. Quando avevo accettato la sua proposta di trasferirmi per un po’ a Central City, speravo che questo risollevasse le mie finanze e il mio umore, ma ero andata incontro ad una cocente delusione: le persone che decidevano di farsi impiantare auto-mail erano sempre meno, le riparazioni non fruttavano molto e, quel che era peggio, il mio ex marito non perdeva occasione per farmelo notare.

 - È la naturale evoluzione delle tecniche mediche. - mi ripeteva, con aria saccente - Ormai nessuno è più disposto a patire tutte quelle sofferenze, Winry. -

 - Almeno lasciami lavorare come medico, Arthur! - protestavo - Non sarò brava quanto te, ma posso almeno aiutarti: in fondo, per fare l’ingegnere di auto-mail bisogna anche avere qualche conoscenza di anatomia. -

Ma “fiducia” non rientrava nel vocabolario di Arthur Stonebridge, e così mi ero ritirata in quella parte della clinica adibita a pediatria, accanto ai miei cognati, dove almeno potevo sbrigare il poco lavoro che avevo senza rendere conto a nessuno: d’altronde, c’erano quindici infermieri per controllare poco meno di quaranta bambini, dunque il mio aiuto difficilmente era richiesto.

Non vedevo l’ora di andarmene da quel mortorio. L’affitto della casa di Central City era pagato (da Artie, il ricattatore!) ancora per due settimane, poi sarei stata libera; meditavo di trasferirmi definitivamente all’estero, per esempio a Drachma, dove l’arte degli auto-mail era appena agli albori... certo, l’idea di lasciare Amestris era dolorosa, ma sarebbe stato meglio sia per me che per il mio bambino.

A proposito...

 - Alex è con tuo figlio, Amelia? - chiesi - Non lo vedo da parecchio. -

Amelia Fletcher, nata Stonebridge, si affacciò alla finestra per controllare.

 - No. - mi rispose - Edwin è da solo, e non credo che Alexander sia tra i bimbi che giocano laggiù... Emerson, scendi subito da quell’albero! - gridò ad un piccolo selvaggio già con un piede sulla pianta che cresceva al centro del cortile.

Appoggiai la protesi sul tavolo, e riposi i miei attrezzi.

 - Allora è meglio che vada a cercarlo. - decisi.

 - Non ti preoccupare, di sicuro è andato a giocare in magazzino come al solito. - sorrise, rassicurante - Sei la madre più fortunata del mondo: hai un figlio che a quattro anni è già più assennato di uno di venti. -

Sì, ma era anche solo come un eremita. E io che l’avevo portato via da Resembool per farlo socializzare! Peccato non aver fatto i conti con l’inconsapevole crudeltà dei bambini: avevano subito riconosciuto Alexander come uno straniero, un elemento estraneo, e l’avevano isolato. Non solo perché era sano, ma anche per quel suo carattere così bizzarro, che stupiva me per prima, e lo rendeva perennemente serio e controllato.

Il mio piccolo alieno. Se non avesse avuto i miei stessi lineamenti, avrei pensato che fosse stato scambiato nella culla con il figlio di una qualche creatura sovrannaturale, come succede nelle favole.

Per prima cosa, andai da Arthur: dubitavo che il bambino fosse lì, ma di sicuro Artie e gli altri medici percorrevano i corridoi in lungo e in largo, e le probabilità che qualcuno lo avesse incrociato erano piuttosto alte.

 - No, non l’ho visto, mi dispiace. - mi rispose, alzando a malapena lo sguardo da un referto - Ma mia sorella ha ragione, forse si è solo stancato di giocare con Edwin ed è sceso in magazzino. -

Si girò verso il collega che stava entrando: incidentalmente, era proprio il marito di Amelia.

 - William, hai visto per caso Alex? -

William Fletcher mi strizzò l’occhio, con aria complice:

 - Il folletto è di nuovo sparito? - mi chiese - Sarà andato a controllare che la sua pentola d’oro sia ancora dove l’ha nascosta, ai piedi dell’arcobaleno. - ridacchiò, ma poi tornò serio - L’ho intravisto dalle parti del magazzino: era con altri due bambini. -

 - Due bambini? Chi? - Artie parve sorpreso, e in quella domanda innocente ci mise molto più sarcasmo di quanto gradissi.

 - Non ne ho idea. -

 - Come sarebbe? Sei o non sei un pediatra? -

William arrossì: era più giovane di noi, poco più che trentenne, e teneva molto al giudizio di Arthur. Questo non potevo negarlo, Artie nel suo lavoro era uno dei migliori.

 - Sì, ma quei due non erano di certo miei pazienti: non significa molto, - si difese - probabilmente sono in visita a qualche parente. -

Sinceramente, ero più interessata a mio figlio.

 - Grazie dell’aiuto, Willie, vado a controllare. -

Non mi piaceva scendere nelle cantine. Doveva essere autosuggestione, il che spiegava perché Alex, al contrario, non avesse alcuna difficoltà: io, invece, ero ben consapevole di trovarmi in quella che meno di venticinque anni prima era stata la residenza del Comandante Supremo King Bradley, e non sarebbe stata una mano di vernice a distrarmi da quel pensiero: pochi anni prima si era deciso di non lasciar ulteriormente marcire l’edificio, ma di trasformarlo in qualcosa di utile per la popolazione. Progetto lodevole quello di aprire un ospedale, ne convenivo, però per me era difficile non pensare a tutto quel che era successo lì dentro; almeno, sarebbe stato saggio murare quella scala che io e Sheska avevamo percorso da ragazze.

Adesso non farti prendere da paure irrazionali, Winry!, mi rimproverai, continuando ad avanzare decisa in direzione delle cantine.

 - Scusi... -

Oltrepassai lo sconosciuto prima di accorgermi che parlava con me, e dovetti fermarmi di botto e ruotare su me stessa per averlo di fronte.

 - Ha bisogno di qualcosa? - chiesi, un po’ troppo bruscamente, alzando il capo per guardarlo in faccia.

Lui indietreggiò e non mi rispose, limitandosi a fissarmi come se fossi un fantasma.

 - Signore, si sente poco bene? -

Era molto pallido, e stava impallidendo ulteriormente. Il suo abbigliamento mi ricordò vagamente quello di un soldato, ma non seppi spiegarmi il perché: di certo, era inconsueto, con degli stivali fin troppo pesanti per quella stagione.

 - Winry? - sussurrò.

Trasalii. La voce mi era sconosciuta, ma ora che lo guardavo bene in faccia, ero certa di aver già visto quell’uomo... dove? Quando?

 - Ci conosciamo? -

Si riprese dalla sorpresa, e sorrise. Quando il suo volto si aprì in quel sorriso, lo riconobbi immediatamente.

 - Non è possibile... - ansimai, appoggiando una mano contro il muro - Al! -

Alphonse Elric. Il tredicenne di ventidue anni prima si trovava di nuovo di fronte a me, trasformato (impossibile!) in un uomo.

Non c’era dubbio, quei due erano nati per esasperarmi.

 - Al! - strillai di nuovo, saltandogli al collo. Era così alto che dovette piegarsi, o sarei rimasta appesa - Non ci posso credere, sei irriconoscibile! -

 - Tu invece non sei cambiata affatto! - replicò lui, ridendo.

 - Cosa... oh, no, non voglio sapere cosa ci fai qui. Di sicuro sei vittima di una delle trovate di tuo fratello. -

 - Hai una stima così bassa di me? -

Mi stavo giusto chiedendo quando sarebbe comparso.

Sbirciai oltre la spalla di Al, verso la mia personale fonte di preoccupazione. Non riuscii a continuare a sorridere.

 - Quante volte ancora mi dirai che non ci vedremo più, per poi saltare di nuovo fuori? - gli chiesi, secca.

Edward Elric accusò il colpo. - Mi dispiace. - chinò la testa, contrito.

 - Lascia stare. - tagliai corto - Lo dici sempre. -

 - Winry, - Al mi prese la mano - stiamo cercando due bambini, un maschio e una femmina. Sono usciti da quelle scale là in fondo: li hai visti? -

Doveva essere la giornata dei bimbi smarriti...

Un attimo. Cosa aveva detto Willie, a proposito di Alex?

L’ho incrociato dalle parti del magazzino: era con altri due bambini.

Tutto tornava. Dovevo immaginare che, se il mio folletto avesse legato con qualcuno, non sarebbe stato di questo mondo.

 - Come è successo che dei bambini si sono trovati in questo guaio? - domandai, guardando Ed. In un modo o nell’altro, doveva essere colpa sua.

 - È una lunga storia. - replicò Al, in fretta - È importante. -

Il sorriso era scomparso, e ora il mio vecchio amico era l’immagine stessa dell’angoscia. Sembrava pronto a correre in qualsiasi direzione gli avessi indicato.

 - Winry, ti prego. - insistette - Sono i miei figli. -

Lo disse con una voce così carica d’affetto, che non potei non credergli, anche se per me Alphonse Elric era ancora il ragazzino di ventidue anni prima. Sospirai, sentendomi improvvisamente vecchia.

 - Io stavo cercando il bambino che è con loro: - dissi - se lo conosco, starà mostrando loro i suoi tesori. -

Ero abbastanza sicura che Alex nascondesse i suoi giocattoli preferiti nei luoghi meno frequentati dell’ospedale: il magazzino e il sottotetto. Se nel primo non c’era, doveva essere là sopra.  

* * *

 

 - Attenti alla testa. Questo posto ha il soffitto molto basso. - Winry si interruppe, e quando parlò di nuovo la sua voce era ironica - Oh, scusa Ed. -

Incassai il colpo senza rispondere. Aveva tutto il diritto di essere arrabbiata con me.

Comunque, il sottotetto era vuoto.

 - Credevo di conoscere tutti i posti in cui quel furfante si rifugia. - borbottò Winry mentre scendevamo di nuovo, ancora più sporchi e impolverati.

Non so perché notai la toilette. Forse non stavo neppure guardando davvero la porta, ma la donna persa nei suoi mugugni che avevo di fianco.

 - Non lo metto in dubbio. - dissi, avvicinandomi alla porta - Forse, semplicemente, il tuo furfante ha traslocato di recente. -

Bussai educatamente.

 - Potrei parlare con i miei nipoti, per favore? - domandai.

Inutile negarlo: fui profondamente soddisfatto quando la porta si spalancò e riconobbi la testolina riccia di Charlotte.

 - Papà! - strillò, correndo da Al.

 - Il mio scricciolo! - esclamò lui, inginocchiandosi e spalancando le braccia per accoglierla - Calma, calma, lascia un po’ di abbraccio anche per tuo fratello! -

Indietreggiai per lasciare spazio all’euforia di quella famigliola, e quasi inciampai nel terzo bambino.

 - Scommetto che tu sei il proprietario del magnifico tesoro che abbiamo visto di sopra. - dissi.

Il piccolo alzò uno sguardo serissimo su di me, e mi fece passare all’istante la voglia di scherzare, lasciandomi sul volto solo una smorfia: a parte i grandi occhi scuri, aveva gli stessi tratti di Winry. Una somiglianza così oltraggiosa da non lasciar spazio a dubbi.

 - Alex, - sbottò lei, prendendo il bimbo per mano e tirandolo via dal bagno - non posso passare la giornata a starti dietro. -

 - Mi dispiace, mami. - dichiarò solennemente lui.

Questa era la peggiore forma di vendetta che potesse escogitare quella donna straordinaria e impossibile. Se per causa mia aveva sofferto anche solo la metà di quanto fece soffrire me la parola mami, allora c’era da domandarsi perché non mi avesse strozzato a mani nude non appena le ero comparso di fronte... ma, ovviamente, lei non si sarebbe accontentata di una fine così rapida, per me.

Alphonse spostò velocemente lo sguardo da me a Winry.

 - Sei sposata? - chiese, mettendoci tutto il tatto di cui era capace.

 - Divorziata, in realtà. - sbuffò lei, prendendo in braccio il biondino.

 - Non eri sposata, sei anni fa. - riuscii a dire, nonostante la sensazione di una mano che mi stringesse la gola.

 - No, infatti. Il nostro è stato un matrimonio piuttosto breve. -

Ma non privo di risultati, pensò la parte più egoista di me. Allontanai il pensiero meschino, cercando di non incrociare lo sguardo del figlio di Winry, che invece mi stava studiando attentamente, dalla sua posizione privilegiata tra le braccia di sua... della... ah, non riuscivo neppure a pensare quella parola!

 - Siete tutti in condizioni pietose. - disse lei, squadrando Alphonse e i bambini - E immagino che non sappiate dove andare. -

 - Cercheremo una pensione. - mormorai.

 - E come hai intenzione di pagarla? - sospirò - Sapevo che sarebbe finita così. Fortuna che a casa mia c’è una camera per gli ospiti. -

 

Pensierino della buonanotte:

Quando un bel personaggio se ne va, deve essere sostituito da uno altrettanto bello, vero? Dopo Hedwig, quindi, arriva il piccolo Alex, questa strana creatura perennemente seria che vivacizzerà non poco le vicende dei fratelli Elric. In particolare di uno di loro.

            Liris: Finalmente anche Al ha avuto la sua entrata ad effetto! Ah, erano dieci capitoli che aspettavo quel momento!

            Talpina Pensierosa: Come hai visto, i cuccioli di casa Elric stanno benissimo. Non poteva essere altrimenti, a dire il vero: l’idea di trovarmi il loro paparino che sfonda la porta di casa mia e viene a riempirmi di botte non mi piace granché...

            Siyah: Niente perdite di arti... Non posso essere così crudele verso quei poveri bambini. Preferisco maltrattare lo zio. XD

            meby138: Non è vero che aggiorno ogni sei mesi U.U Pubblico un nuovo capitolo ad ogni fine di trimestre universitario, cioè, come dice la parola stessa, ogni tre mesi! *annuisce vigorosamente* Bisogna essere precisi!

Non so perché abbia cacciato la povera Clara in questo pasticcio sentimentale, a dire il vero: quando avevo iniziato a scrivere, mi ero data la regola (che uso sempre) “niente coppiette di troppo”, per non finire a scrivere una specie di soap opera. C’è da dire che mi ero anche riproposta di non tirare per le lunghe la parte relativa ad Amestris, per non scivolare nell’amarcord più scontato, ma credo che questa sia una pia illusione... che mondo sarebbe senza Mustang e/o Armstrong? :)

            Leuconoe: Innanzitutto, complimenti per il nick! Al liceo, Orazio era il mio autore latino preferito a pari merito con Catullo.

Tornando alla fanfiction, e lasciando da parte Leuconoe e il carpe diem, credo che alcuni dei personaggi della serie si vedranno, nonostante avessi deciso di non farlo per non dover scrivere se e con chi si sono sposati, quanto hanno figliato eccetera. Cercherò di evitare la soap, per quanto mi è possibile. Per rispondere ai tuoi dubbi: NO, Ed non è tornato da Winry SOLO per gli auto-mail, ma la scusa era quella. E le date tra i due mondi sono diverse perché nel film Il Conquistatore di Shamballa il nostro 1923 corrisponde al 1917 del “calendario continentale” di Amestris, dunque ho tenuto questa differenza di sei anni.

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Capitolo 12
*** Il bambino della foto ***


Nuova pagina 1

            12. Il bambino della foto.

 

 - Non hai avvertito che te ne andavi? -

 - Il bello di non lavorare per nessuno, Ed, è che posso andarmene quando voglio. - rimbeccai, senza alzare lo sguardo dai fornelli - Sto in quell’ospedale solo per far piacere a mia cognata. Piuttosto, sei sicuro che quell’... affare sotto l’edificio sia sparito? -

Lui scrollò le spalle con noncuranza:

 - Certo. Questo nuovo Portale è molto instabile, e non resta aperto a lungo. -

Aveva parlato con sicurezza, le braccia incrociate al petto. Non ne era affatto sicuro, ma non poteva esimersi dal fare lo sbruffone.

La casa in cui ci trovavamo era grande più o meno come quella di Resembool, così che non mi venisse voglia di scappare. Artie era uno stratega nato: sapeva benissimo che, appena arrivata, mi sarei chiesta quanto gli fosse costato prendere in affitto un appartamento simile in pieno centro città, mi sarei fatta venire i sensi di colpa e non avrei avuto il coraggio di fargli sprecare i soldi lasciando quelle quattro mura prima dello scadere dei sei mesi.

Beh, almeno ora questo stupido regalo sarebbe tornato utile. C’era una sola stanza per gli ospiti, ma potevo far dormire i due ragazzini in camera di Alex.

 - Purtroppo non ho molto da offrirvi, - mi scusai, mettendo in tavola i resti dell’arrosto del giorno prima - spero vi accontentiate di avanzi riscaldati. -

 - Non c’è problema, - mi rassicurò Edward - siamo buone forchette. Per quel che mi riguarda, se non ci fosse stata la figlia del mio locatore, sarei morto di fame anni fa. -

 - Cercava di prenderti per la gola? - chiesi, sbattendo le presine in un angolo con più energia del dovuto.

 - No, cercava di farsi pagare. -

Quando Ed diceva che erano buone forchette, usava un eufemismo: in realtà, quel gruppetto era semplicemente disperato. Quei due poveri bambini fecero sparire la carne nel giro di pochissimo, senza neppure alzare lo sguardo dal piatto, si servirono di nuovo e finirono quel che il padre e lo zio avanzarono, fingendo di essere sazi. Poi pulirono i piatti con tanta perizia che avrei potuto fare a meno di lavarli.

So di essere stata maleducata, ma rimasi a bocca aperta e occhi sbarrati per almeno due minuti, prima di incrociare lo sguardo imbarazzato e  pieno di scuse di Al, seduto di fianco a me.

 - Lei cucina benissimo, signora. - si ricordò di dire Thomas, quando il padre gli diede una gomitata discreta.

Ero sconvolta.

Il tavolo era piccolo e quadrato, così le due coppie di fratelli Elric si trovavano divise ai due lati, un grande vicino ad un piccolo: perciò, io ero tra Ed e Al, e Alex sedeva da solo a capotavola tra i due bambini, di modo che non desse gomitate a nessuno.

 - Alex, impugna la forchetta con la destra. - ripetei per l’ennesima volta.

Mio figlio è mancino, cosa che teneva la mia mente sempre allenata per prevedere quali semplicissimi oggetti sarebbero diventati armi improprie, o quali gesti abituali avrebbero potuto rivelarsi estremamente scomodi. Dopo aver visto come impugnava le forbicine per bambini con la sua manina sinistra, non sapevo dove avrei trovato il coraggio per dargli delle forbici vere prima dei trent’anni.

Lui non mi sentì nemmeno: era rapito dalla conversazione con Charlotte. Pendeva letteralmente dalle sue labbra. Sperai che non si stesse prendendo una cotta; non volevo vederlo soffrire quando lei se ne fosse andata.

 - Tom ha ragione, cucini sempre molto bene. - dichiarò Al con allegria.

 - Hanno bussato? - chiese il ragazzino, alzando la testa dal piatto per la prima volta.

Calò il silenzio, anche se fu superfluo: non stavano bussando, ma direttamente aprendo la porta con le chiavi. E c’era solo una persona, oltre a me, che le avesse. Sospirai, gettando il tovagliolo sul piatto e alzandomi; arrivai alla porta in tempo per trovarmi Arthur di fronte.

 - Disturbo? - domandò con la sua migliore faccia da schiaffi.

 - Stavamo cenando. - lo informai a denti stretti.

Senza neppure chiedere il permesso, avanzò fino alla porta della sala da pranzo (beh... ad essere sincera, era sempre la cucina) per dare un’occhiata ai nuovi arrivati. Per fortuna, dopo una bella lavata erano tutti presentabili: per Ed e Al avevo pure rimediato dei vestiti di ricambio, anche se il primo aveva le maniche rimboccate e il secondo i polsi in vista.

 - Quelle non sono le mie camicie? - chiese infatti il villano.

 - Ed, Al, lui è Arthur Stonebridge, il mio ex marito. - lo presentai, giusto per amore delle buone maniere. - Artie, ti presento Edward e Alphonse Elric, dei miei vecchi amici d’infanzia: sono capitati in città per un... disguido. - improvvisai - Erano anni che non ci vedevamo, allora li ho invitati qui. Anche perché, con i bambini piccoli... -

Tacqui, a corto di balle da propinargli. Thomas non si poteva davvero definire piccolo.

 - No, no, capisco. Questi sono i due nuovi amici di Alex, no? - si avvicinò per scompigliare i capelli del bambino, ma lui era troppo preso dalla descrizione che Lotte gli stava offrendo di un qualcosa che chiamava “tram”.

 - È una macchina - stava dicendo - dove tu ti siedi e ti sposti per la città. Ci sono tante stazioni... -

 - Come un treno? - chiese mio figlio.

 - Sì, esatto. - la piccola annuì con forza, facendo oscillare i riccioli. - Solo che viaggia tra le case. -

 - Ma così le città si riempiono di fumo! -

 - No, no! Non fa fumo! -

 - Allora non va a carbone? - le domandò Arthur, sorridendo.

Lotte lo fissò, frustrata. Ovviamente, per lei il carbone era un qualcosa nero che sporcava le dita, ma non aveva nulla a che vedere con i treni.

 - No, a elettricità. -

Ci voltammo tutti verso Edward. Io mi irrigidii, guardandolo attentamente per invitarlo a tacere.

 - Prende l’elettricità dai fili che gli passano sopra. - continuò invece lui, serissimo, appoggiando le posate nel piatto e unendo le dita.

Artie alzò così tanto le sopracciglia da farmi temere che stessero per sparirgli tra i capelli lunghi e neri: poi scoppiò a ridere sonoramente, e Ed lo imitò.

 - Elettricità! - ripeté Arthur, accarezzandosi il pizzetto - Che fantasia che avete, tutti e due! È sua figlia? -

 - No, sono entrambi opera di mio fratello. -

L’altro lo squadrò con evidente curiosità: sapendo benissimo cosa stesse cercando di indovinare, lo afferrai per la giacca e lo trascinai di nuovo nell’atrio.

 - Artie, possibile che tu non abbia la minima idea di come ci si comporta con un bambino? - sibilai, per non farmi sentire. - Cosa vuoi che ne sappia di come funziona un treno!? -

 - Scusa, ma era così convincente che mi sono lasciato trascinare. -

Scossi la testa, decisa a non farmi distrarre dai suoi occhi grigi. Non ripeto mai lo stesso errore due volte.

Aprii la porta.

 - Come hai visto, sono impegnata. -

Lui non si mosse: mi scrutava con palese interesse.

 - È lui? - mi chiese.

 - Di che parli? -

 - Lo sai benissimo. Spero non sia l’altro: non ti ci vedo nel ruolo della rovina-famiglie. -

Continuai a fare la finta tonta.

 - Non so a cosa ti riferisci. -

 - Certo, certo, non ho intenzione di invadere la tua sfera privata. Ero passato solo per fare due chiacchiere: Amelia mi ha detto che oggi sei sparita all’improvviso... - tossicchiò - temevo che ci fosse qualche problema con Alex, ecco tutto. -

 - Sei stato gentile. -

Ci baciammo velocemente sulle guance, poi riuscii a farlo uscire. Quando chiusi la porta, mi sentii sollevata: non avrei saputo cosa inventarmi se Artie mi avesse chiesto da dove venivano i miei amici, o perché non avevo mai parlato di loro. E, oltretutto, mi infastidiva la capacità con cui mi leggeva dentro.

* * *

 

La signora Winry rimase silenziosa per tutta la cena: l’arrivo... o meglio, l’irruzione di quell’uomo pareva averla offesa profondamente.

Mentre Lotte continuava a parlare a vanvera con Alex di tutto quel che le passava per la testa, io non potei fare a meno di lanciare occhiate furtive alla signora Stonebridge: la sua somiglianza con Hedwig Steinglocke era semplicemente sbalorditiva. Fisicamente, differivano soltanto nel colore e nel taglio dei capelli, ma per il resto sarebbero potute passare per sorelle gemelle. Non si poteva dire la stessa cosa del carattere, per fortuna: la madre di Alex non era algida e distante quanto Hedwig, né possedeva quell’aria eterea che le avevo visto nella libreria dei Meyer, e per questo sembrava molto più reale, meno falsa della donna che avevo conosciuto dall’altra parte del Portale. Anche la sua rabbia era diversa dagli scatti d’ira del Presidente della Società di Thule, più discreta e taciturna.

 - Papà, allora in questo mondo esistono davvero i doppi delle persone del nostro! - esclamai, quando lui ci accompagnò a dormire.

Lui sorrise, mentre con una mano raddrizzava le nostre scarpe, ai piedi del letto.

 - Sì, anche se, come avrai capito, spesso la somiglianza è solo fisica. - mi rispose, appoggiandosi di fianco a me al davanzale della finestra.

La città chiamata Central City era straniera, inquietante, soprattutto dopo il tramonto, seppure completamente illuminata. Ricordavo vagamente un tempo in cui anche Monaco, la sera, si accendeva di lampioni e luci provenienti dalle case, prima della guerra e del coprifuoco, ma non riuscivo bene a metterlo a fuoco.

 - Papà... - ripetei.

 - Sì? -

 - La favola che ci raccontavi la sera parlava di questo mondo, vero? -

 - Sì, Tom. -

 - I due fratelli alchimisti eravate tu e lo zio, non è così? -

Questa volta ci mise di più per rispondermi: - Sì, è così. -

Mi allontanai dalla finestra per infilarmi a letto, dove Lotte si era già appisolata.

 - Era tutto vero? - domandai ancora, perplesso. - Esistono davvero l’alchimia, la Pietra Filosofale, i militari di cui parlavi... Anche gli homunculus? -

 - Quelli non più. - mi rassicurò mio padre, inginocchiandosi di fianco al letto per non svegliare mia sorella.

 - Ed è per questo che sembri più giovane della tua vera età? -

 - Ho trentanove anni, - disse, cauto - ma non posso negare che il mio corpo ne abbia solo trentacinque: ora non si nota quasi più, ma da ragazzo è stato un problema. -

 - Davvero Ed non sopportava che gli si dicesse che è basso? -

 - Questo, non dire a tuo zio che te l’ho raccontato. -

Mi interruppi per girarmi sul fianco e poterlo guardare in faccia.

 - Però, - sussurrai, abbassando ancora la voce - tu hai sempre detto che, nella battaglia finale con i cattivi, il fratello maggiore moriva, il minore consumava l’armatura che gli faceva da corpo per riportarlo in vita e l’altro entrava nel Portale per salvarlo a sua volta... ma questo è impossibile, no? Un morto resta morto. -

Papà sospirò, intuendo benissimo a cosa mi stessi riferendo.

 - Tom, quando vi raccontavo quella storia non pensavo che un giorno avreste scoperto che era reale. - ammise, serio. - In ogni caso, credo che tu conosca già la risposta: il fratello minore riusciva a riportare in vita il maggiore solo perché lui stesso era la Pietra Filosofale, ma per farlo dovette consumarla, distruggendo il legame stesso che teneva la sua anima in questo mondo. Il maggiore, poi, non lo resuscitò esattamente, ma ne recuperò il corpo vero e lo riunì all’anima. Si tratta, insomma, di casi assolutamente eccezionali. - si interruppe, per accarezzarmi la testa - Un morto resta morto, hai ragione. Infatti, i due bambini non riuscirono a trasmutare la loro mamma. -

Sospirammo pesantemente entrambi.

 - Ora dormi, e vedi di non sognare gli homunculus. - mi disse, alzandosi.

 - Torniamo a casa presto, vero? -

 - Sì, non ti preoccupare, Tom. -

 - Papà? -

Stava già per chiudere la porta, ma rimase con la mano sulla maniglia.

 - Cosa? -

 - Se ho gli incubi posso venire da te? - chiesi, vergognandomi come un ladro.

 - Certamente. -

* * *

 

Asciugai le stoviglie approfittando dell’assenza di Winry, che stava sistemando la camera degli ospiti, e le misi in ordine la credenza: aveva organizzato la casa in modo molto simile a quella di Resembool, e non era troppo difficile orientarsi. Dovevo solo avere l’accortezza di non farmi trovare in cucina, così che non potesse cominciare a protestare.

Stavo quindi sgattaiolando via quando, in corridoio, sentii un gridolino provenire dalla camera di Winry, in cui Alex sarebbe dovuto essere pacificamente addormentato. Allungando il collo, intravidi il bambino seduto per terra, dietro una torre di cubi di legno alta quanto lui: se l’aveva tirata su nel breve tempo in cui l’avevamo perso di vista, aveva un futuro assicurato come muratore.

 - Non dovresti essere a letto? - gli chiesi.

 - Non ho sonno. - rispose lui, senza alzare gli occhi. Stava posizionando gli ultimi cubi sulla sua costruzione per costruire la punta, la fronte aggrottata per la concentrazione; solo dopo aver posto ancora due mattoni levò lo sguardo su di me:

 - Tu sei il bambino della foto? - mi domandò a bruciapelo.

 - Il bambino della foto? - ripetei, confuso.

Per tutta risposta, lui si alzò agilmente, si avvicinò al comodino della madre, prese il libro appoggiato sopra e ne estrasse la fotografia che faceva da segnalibro. Me la porse con un’espressione imperscrutabile, come un giudice che ascolta il testimone, e mi osservò mentre mi avvicinavo alla finestra per avere un po’ di luce e vedere meglio.

Conoscevo quella foto: per anni era rimasta appesa nell’officina Rockbell, a Resembool, e difatti si notava il foro della puntina. Era una delle meglio riuscite tra quelle che ritraevano me, Al e Winry da piccoli.

 - Tu sei il bambino della foto? - chiese nuovamente Alex, mettendosi sulla punta dei piedi e indicando con il dito il mio viso ritratto nella foto.

 - Sì, sono io. - risposi, sorridendo davanti alla mia espressione. Winry doveva avermi appena fatto qualche scherzo, perché sembravo davvero offeso... chissà cos’era successo. Non lo ricordavo affatto.

Alex rispose al sorriso, annuendo solennemente come se fosse proprio quello che voleva sentirsi dire. Era la prima volta che non gli vedevo stampata in faccia quell’aria da sfinge, e dovevo ammettere che così sembrava quasi un bambino come tutti gli altri: quasi, dicevo, perché comunque il suo volto era molto più adulto di quello che avevano avuto Thomas o Lotte alla sua età, o qualunque altro bimbo che avessi mai visto. I grandi occhi scuri, l’unico tratto che non aveva ereditato da Winry, sembravano sempre oltrepassarmi, fissandosi su qualcosa che solo lui poteva vedere e sapere: mi disorientavano, e inoltre mi lasciavano la sensazione di averli già visti su qualche altro viso. Un’impressione vaga, frustrante come quando si ha una parola sulla lingua, che per motivi che non potevo ammettere neppure a me stesso mi inquietava. Fu proprio questo (furono quei motivi) a spingermi a restare quando lui riprese a giocare, ignorandomi.

 - Alex, quanti anni hai? - mi decisi a chiedere, alla fine.

 - Quattro. - rispose lui, senza neppure alzare lo sguardo su di me.

Presi un profondo respiro. Quattro anni. Io ero tornato sei anni prima, quindi non c’era alcuna possibilità che fosse figlio mio... Il mio stomaco diede un balzo quando pensai a quelle parole. Erano quelli i motivi che mi avevano trattenuto, ma a ben pensarci il mio presentimento era del tutto fantasioso: non ricordavo affatto i genitori di Winry, perciò era plausibile che uno dei due avesse gli occhi scuri. La verità era che mi ero creato un mare di dubbi a partire da una sensazione.

Ignaro di tutto, Alex andava esaurendo i cubi: erano giocattoli di legno, con sopra disegnati i numeri da zero a nove, molto simili a quelli che anche Thomas aveva avuto quando era piccolo (credo di averglieli regalati proprio io), che di solito si usano per insegnare a contare. Il bambino aveva ormai innalzato una struttura alta e piuttosto instabile, ma chinandomi mi accorsi che non stava andando a caso: sceglieva attentamente i suoi mattoni dalla loro scatola, e li posizionava in un ordine ben preciso.

 - Sai già contare, Alex? - chiesi, stupito.

 - Sì, ma li ho già messi in ordine crescente. - replicò lui - Ora li metto uno sì e uno no. -

 - Alternati? - ribattei, scordando di stupirmi per l’uso dei termini ordine crescente. - Pari con pari e dispari con dispari? - in effetti, era così che li stava impilando, ma dall’occhiata confusa che mi diede compresi che non ne aveva intenzione. Lui li stava solo mettendo uno sì e uno no.

 - Questi sono numeri pari. - gli spiegai, indicandoli - E questi sono dispari. -

Scrutò me e i suoi giochi, come per assorbire l’informazione. Poi raccolse un paio di cubi ancora nella scatola, e li mise affiancati, formando il numero trentasette.

 - Questo è pari o dispari? - mi domandò.

L’ultima cosa che volevo era iniziare una lezione di matematica ad un’ora in cui il bambino avrebbe dovuto essere a letto...

 - Alex, è questo il modo di comportarsi con gli estranei? -

Trasalii e mi voltai, sentendo la voce di Winry alle mie spalle.

 - Da quanto sei lì? - chiesi, a disagio.

 - Sono appena arrivata. - mi tranquillizzò lei, anche se avvertii una punta di acidità nella sua voce.

 - È dispari! - esultò Alex - Mamma, è dispari! -

 - Sì, tesoro, ma ora di’ buonanotte e vai a letto. - rispose Winry, senza riuscire a trattenere un sorriso indulgente.

Obbediente, lui si voltò verso di me.

 - Buonanotte signore. Dormi bene. - declamò, pasticciando con i verbi e le formule di cortesia.

 

Aspettai che Winry si fosse chiusa la porta alle spalle, prima di schiarirmi la gola:

 - È un bambino davvero dolce. - dichiarai.

E questo, nonostante suo padre sia quel cafone di stasera, aggiunsi mentalmente.

 - Sì, è vero. - rispose lei, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio - Ed è anche molto sveglio. -

 - L’ho notato. - risposi, ridendo.

 - Sul serio? Non... - si interruppe, lanciando un’occhiata fugace alla porta. Mi fece un cenno, e ci spostammo in cucina.

 - Non ti sembra strano? - continuò Winry, incrociando le braccia al petto - Insomma, i bambini della sua età usano i cubi per giocare, non per farci gli esercizi di matematica. -

 - Ma per lui è un gioco. - replicai, stringendomi nelle spalle - Non sono un’autorità in materia, ma non credo ci sia nulla di male. Mi sembra troppo intelligente per trattarlo come un bambino qualsiasi. -

 - Dici davvero? -

 - Perché dovrei mentire? - borbottai, impacciato. - Lo hai sempre sotto gli occhi, quindi dovresti saperne più di me. -

Fece una smorfia, e i suoi occhi ebbero un lampo. Avrei scommesso qualunque cosa che stava pensando al distratto padre di Alex.

 - Oh, io so che è dolce, e molto sveglio. Solo che... - sospirò - è sempre così serio. E non lega con nessuno: mi stupisce che sia riuscito a diventare amico di Charlotte nel giro di poche ore. L’ho portato qui per cercare di farlo stare con dei suoi coetanei, ma non è servito a molto. - Winry si accigliò e si morse il labbro inferiore per la frustrazione. - Lo isolano subito. È come se intuissero che non è come loro. E Artie non mi aiuta, visto che riesce solo a dire che crescendo cambierà, non c’è ragione di preoccuparsi, prima o poi metterà la testa a posto e smetterà di essere tanto strano! -

Sì, in effetti Artie non sembrava un campione di tatto.

 - Se lo dice lui... - replicai vagamente. Non mi sembrava il caso di mettere il becco in faccende che non mi riguardavano.

Winry mi fissò, con un sorriso cinico sul volto.

 - Ed, puoi tranquillamente dire quel che pensi. Sì, Arthur non ha la minima idea di come si trattino i bambini, e spesso è terribilmente venale. Secondo lui, tutto ha un prezzo, tutto può essere comprato. Trova il mio lavoro assolutamente inutile, perché ormai nessuno si fa più impiantare degli auto-mail, ma dopo avermi costretta a venire qui non mi ha neppure permesso di aiutarlo in ospedale. -

 - E allora, - replicai - perdona la franchezza: perché lo hai sposato? Non sei il tipo che si sposa per denaro, e sono certo che saresti perfettamente in grado di cavartela da sola. -

Bruscamente, Winry si portò le mani ai fianchi, e mi trapassò con uno sguardo accusatore.

 - Perché? - sibilò, mantenendo a fatica un tono di voce basso. - Per un motivo molto semplice, Edward Elric: perché lui c’era sempre. Quando volevo parlargli, dovevo solo chiamarlo. -

Abbassai la testa, ferito, mentre lei distoglieva il viso.

 - Io non sono come tua madre, Ed. Non ho la pazienza di aspettare in eterno un uomo che non torna mai, e che non sono neppure sicura che condivida i miei sentimenti. -

 - Winry! - esclamai - Io... -

 - Tu - mi accusò lei - ogni volta piombi in casa mia come se nulla fosse, fai i tuoi comodi e poi mi lasci di nuovo! Ora dimmi cosa devo pensare: perché io non credo che questo sia il comportamento di un uomo che diceva di amarmi! -

 - Faccio i miei comodi? - digrignai i denti, per non mettermi a urlare e svegliare i bambini. - Winry, non avevo la minima idea che saremmo arrivati fino a quel punto... - lei si lasciò scappare un’esclamazione sarcastica - e questa volta, è stata davvero un’emergenza: avevano trascinato i miei nipoti nel Portale, era mio dovere venire a riprenderli! -

 - Avevano, chi? Di nuovo quelli dell’altra volta? -

 - Sì. La Società di Thule. - sospirai, passandomi una mano tra i capelli. - A quanto pare, sei anni fa mi stavano tenendo d’occhio, e si sono insospettiti quando mi hanno visto sparire per un paio di settimane. -

Lei prese un paio di respiri profondi, ma non rispose: mi diede le spalle, fingendo di piegare gli strofinacci della cucina, per poi appenderli di nuovo nella stessa posizione di prima.

 - Ho visto che hai addosso l’auto-mail nuovo. - commentò dopo un po’, senza interrompere il suo inutile lavoro.

 - Purtroppo quello vecchio ha avuto un incidente. - risposi, mantenendomi sul vago per non doverle raccontare che fine aveva fatto. - Comunque, una persona aveva definito il tuo lavoro l’opera di un genio. -

Non poté trattenere un sorriso, che intravidi anche se era voltata.

 - Quello che hai addosso è stato uno degli ultimi auto-mail che ho costruito. - meditò. - Ultimamente mi limito a riparare protesi più vecchie: in ogni caso, appena sarò libera di andarmene tornerò a Resembool e venderò l’officina. -

 - Cosa? - esclamai, sobbalzando.

 - Ho un figlio, Ed! - sbottò, spazientita dalla mia ottusità. - Non posso rischiare di trovarmi senza soldi. Senza contare che, con i tentativi di invasione da parte dei Paesi confinanti, l’ipotesi di una guerra non è mai stata così reale. Ho visto quei due poveri bambini: - si interruppe, piegando la testa verso la stanza dove i miei nipoti dormivano - sembrava non toccassero cibo da giorni. E Al, quanto è pallido e smunto! E tu? Ti sei visto? Devi avere almeno dieci chili di meno di sei anni fa! -

Quello, in realtà, dipendeva in massima parte dalla mia ultima sistemazione...

 - Non voglio vedere Alex ridotto così. - dichiarò, lasciando cadere per terra gli strofinacci e voltandosi finalmente verso di me, sull’orlo delle lacrime - All’estero potrò ricominciare a lavorare come ingegnere di auto-mail, o come medico, se non avessi alternative: il bambino è piccolo, si abituerà. E per me, un posto vale l’altro. -

Giuro, non so come mi venne in mente. In condizioni normali non avrei mai proposto una follia simile: dovevo essere umiliato dal paragone che Winry aveva fatto con mia madre, avvicinando implicitamente me a mio padre, e quelle ultime parole fecero scattare un qualche meccanismo nella mia testa. Fatto sta che la afferrai per una spalla e la costrinsi a guardarmi:

 - Se per te un posto vale l’altro, - dissi - vieni con me! -

 - C-cosa? - balbettò, sgranando gli occhi.

 - La guerra ormai sta finendo, e presto ci sarà un intero continente da ricostruire: troveremo dello spazio anche per noi! Di certo ci sarà una richiesta enorme di medici, con tutti i feriti che torneranno a casa. La Baviera ti piacerà, è verde come la campagna intorno a Resembool, e Monaco è una città enorme, e poi... e poi Alex potrebbe vedere sempre Lotte, e non sarebbe più solo: non avrebbe la difficoltà di dover imparare una lingua straniera, e partirebbe alla pari dei suoi coetanei, se non di più!, visto quanto è intelligente. Casa mia è vicina a dei giardini che si estendono per chilometri, e... -

Ed è un buco.

Mi interruppi, rendendomi finalmente conto del fiume di idiozie che stavo dicendo.

Vivevo in due misere stanze, troppo piccole anche per una sola persona, in una via di malelingue e pettegoli che avrebbero reso la vita impossibile a chiunque. Non sapevo se avevo ancora il mio lavoro, perché non avevo più notizie del laboratorio. E Alex? Già spostarsi in un altro Paese avrebbe reso difficile per lui vedere il padre, ma io stavo proponendo di non farglielo incontrare mai più. Senza contare che, in ogni caso, la Germania era in ginocchio: ancora per molti anni ci sarebbe stato da far la fame.

Lasciai cadere le braccia lungo il corpo, vergognandomi delle mie parole.

 - Io... - iniziò Winry, senza guardarmi.

 - Lascia stare. - tagliai corto - Scusa, è stato piuttosto imbarazzante. Vado a letto. Dimentica quel che ho detto. -

* * *

 

Mi scordai di rallegrarmi del fatto di trovarmi in un letto vero, dopo mesi, perché crollai addormentato non appena mi sdraiai, e non sentii neppure Ed tornare nella stanza che dividevamo. Tuttavia, quando mi svegliai, la mattina seguente, mio fratello era nel letto di fianco al mio, con il lenzuolo attorcigliato intorno alle gambe come se si fosse rigirato per ore. A ben pensarci, poteva benissimo essere così, meditai mentre mi vestivo: per fortuna, la sera precedente anche lui doveva essere troppo stanco per mettersi a rimuginare su chissà cosa.

Winry aveva appoggiato sul comodino i pochi oggetti che avevamo con noi: recuperai la foto che tenevo nella giubba dell’uniforme, e me la misi nella tasca della camicia, prima di sbirciare l’orologio da polso.

Scarico da giorni, peccato che l’avevo dimenticato. Scrollando le spalle, mi rassegnai ad uscire dalla camera, per andare in bagno a rasarmi. Non lo avevo fatto la sera prima, quando eravamo arrivati, perciò non sapevo che idea si fosse fatto esattamente il signor Stonebridge di noi; forse aveva pensato che fossimo dei selvaggi appena tornati dalla giungla, che non avevano avuto neppure il tempo di tagliarsi la barba.

La casa era ancora silenziosa, a parte i rumori provenienti dalla cucina dove, scoprii, Winry era già al lavoro.

 - Mi sono perso qualcosa? - domandai, guardando la tavola imbandita. - Dove sono i venti ospiti che aspetti? -

Lei ridacchiò, ma non smise di cucinare.

 - Buongiorno! - disse invece. - Dormito bene? -

 - Benissimo, direi. Spero tu non ti sia svegliata prima solo per sfamarci. -

 - Io mi sono svegliata alla solita ora, veramente. - rispose.

Lanciai un’occhiata all’orologio appeso al muro, e dovetti ammettere che probabilmente era vero: eravamo più vicini all’ora di pranzo che a quella della colazione. Se il fuso orario tra i mondi era lo stesso, dovevo aver dormito più di undici ore.

 - Evviva. - scherzai. - Più che una dormita, questo è stato un letargo! -

 - Non c’è nulla di cui rammaricarsi: - dichiarò lei - comincia pure a servirti, gli altri mangeranno dopo. -

 - Va bene, ma solo se ti fermi e smetti di cucinare per noi: mi stai facendo sentire un parassita. -

Lei sorrise, permettendomi di toglierle il coltello di mano per affettarmi da solo il pane e accontentandosi di passarmi il barattolo della marmellata.

 - Almeno questo mi permetti di farlo? - mi prese in giro. - Me lo devi, visto che state insegnando le vostre cattive abitudini a mio figlio: stamattina anche lui non si è ancora visto. -

 - Non pretenderai che una persona che non ha dormito per quattro anni faccia una predica sullo svegliarsi presto, vero? -

 - Ah, è vero! - disse, spalancando gli occhi - Ti è tornata la memoria, giusto? -

 - Sì, quando ho attraversato il Portale per la prima volta, ventidue anni fa. - risposi. - Forse è stato anche quello uno scambio equivalente: i miei ricordi in cambio dell’esilio dal mondo da cui provenivo. -

Scrollai le spalle: a differenza di Ed, non l’avevo mai trovato un grande sacrificio. Mi bastava poter stare con lui. Poi, quando incontrai Caroline e quando nacquero i miei figli, i legami con quel nuovo mondo divennero indissolubili.

Anche Winry doveva averci pensato, perché cambiò repentinamente argomento:

 - Ho visto la foto che porti in tasca. - mi sorrise. - Quella è tua moglie? Ed mi aveva detto che è una donna molto bella: immagino che tu non veda l’ora di tornare da lei. -

Deglutii il boccone, nonostante il groppo alla gola che quelle parole mi avevano fatto salire.

 - Sono vedovo. - sussurrai. - Mia moglie è mancata sei mesi fa. -

Winry impallidì, portandosi una mano alla bocca e trattenendo il fiato.

 - Mi... mi dispiace. - mormorò, imbarazzata.

 - Non potevi saperlo. - le feci notare, appoggiando la fetta di pane sbocconcellata nel piatto e congiungendo le mani davanti al viso - Ad essere del tutto sincero, ho cominciato ad accettare l’idea solo mentre ero al fronte. Prima, a casa, ogni mattina mi svegliavo ed... - mi morsi il labbro, distogliendo lo sguardo dagli occhi di Winry, che mi fissavano con un’ombra di pietà - ed ero certo che lei fosse nell’altra camera, a preparare la colazione per tutti. -

La mia amica annuì, passandosi velocemente un dito sotto gli occhi:

 - Anche a me succedeva, quando la nonna Pinako... - lasciò in sospeso la frase, ma fece un gesto vago con la mano. - Forse mi dirai che non è la stessa cosa, ma per me era una madre e un padre insieme, e scommetto che sarebbe stata una bisnonna magnifica per Alex. Sono passati quasi dieci anni, ma è ancora strano non averla sempre intorno, a Resembool. -

Ed mi aveva detto della morte della zia solo alcuni giorni prima, con sei anni di ritardo rispetto a quando l’aveva scoperto lui. Ero stato sul punto di iniziare una discussione, ma lui era sempre più prostrato e affamato, così mi ero impietosito e avevo lasciato perdere, tenendo per me il dolore.

 - Tra l’altro, - ripresi, giusto per parlar d’altro - mi dispiace averti coinvolta anche questa volta. Il tuo ex marito non sapeva che avevi ospiti, immagino... -

 - Non c’è problema, tranquillo. Ci siamo lasciati di comune accordo l’anno scorso... È stato un matrimonio molto breve, in effetti, ma siamo ancora buoni amici. -

Le credei a metà: la sera prima mi era sembrata davvero seccata per l’intrusione, e non a torto. Comunque, non dissi niente, e per parecchi minuti Winry restò a guardarmi mangiare in silenzio assoluto. Quando tentai di aiutarla a pulire, rifiutò decisamente.

 - Tanto tra poco arriverà il resto della truppa, no? - mi disse.

 - Non parlarmi di truppa. - ribattei - Tre mesi da soldato mi sono bastati per capire che non voglio più averci nulla a che fare! -

 - Ah, sì, Ed mi aveva detto che, in quel mondo, la leva è obbligatoria. -

 - Lui non è stato richiamato grazie ai tuoi auto-mail. - la lusingai.

Winry scosse la testa, ma non sorrise all’adulazione.

 - Al... ecco, mi stavo chiedendo... - aprì il rubinetto, e quasi non sentii il seguito, nonostante avesse alzato la voce in un’imitazione di spensieratezza - per quanto tempo vi fermate? -

Non era quello che si stava chiedendo, pensai. Aveva un’aria strana.

 - Non lo sappiamo con esattezza, ma non preoccuparti: Ed si è portato dietro quelle monete di Amestris che aveva con sé dall’altra parte, perciò non ti disturberemo oltre. -

 - No, no! - protestò lei. - Anzi, sono contenta se vi fermate un po’. Insomma, anche un bel po’, se capisci cosa intendo. -

Abbassai lo sguardo. Sì, avevo capito.

 - Grazie, Winry, ma voglio riportare i bambini nel loro mondo. - risposi - Per quanto mi riguarda, questo è stato il mio ultimo viaggio ad Amestris. -

 - Oh, so bene che hai ragione! - esclamò, sospirando - E in fondo sapevo anche che avresti risposto così: lo avrei fatto anch’io. Tom e Lotte sono già abbastanza grandi, per loro sarebbe difficile adattarsi ad una realtà così nuova ed estranea. E per voi, forse non è così diverso, visto che non vivete più ad Amestris da decenni. Solo che... - si asciugò in fretta le mani, per potersi avvicinare e guardarmi in faccia - Ieri ho visto quanta fame avevate, tutti quanti, e mi si è stretto il cuore al pensiero di rimandarvi a tirare la cinghia. -

 - Sei molto gentile, Winry. -

 - O molto egoista. - stirò le labbra in un sorriso amaro - Senza contare che, da quel che mi ha detto Ed, nel vostro mondo la guerra sta per finire: qui, con tutta probabilità, inizierà tra poco. No, no, è meglio che voi quattro torniate dall’altra parte del Portale. -

 - Aspetta. - la interruppi - Non posso garantire per Ed. -

 - Ed verrà con voi. - dichiarò lei, volgendo la testa verso la porta - Perché non se la sentirebbe di ricominciare un’altra volta tutto da capo, in un nuovo mondo e in un nuovo conflitto, e perché non potrebbe mai lasciarti solo. In fondo, lo capisco: tornerò a casa il tempo necessario per fare i bagagli e andarmene a Drachma, perché, se restassi anche solo un’ora in più, non avrei più il coraggio di farlo. -

Feci per ribattere, ma un frastuono dall’esterno coprì la mia goffa risposta: un suono lacerante, acuto e continuo che conoscevo benissimo, ma che mai avrei creduto di sentire da quella parte del Portale. Winry per lo spavento lasciò cadere il piatto che teneva in mano, che s’infranse senza che il tonfo riuscisse a farsi udire. Dal corridoio, come se fossero stati evocati, comparvero i miei figli ed Edward, perfettamente svegli.

 - Cosa fate lì impalati? - urlò lui, per sovrastare il rumore. - Non sentite la sirena dell’allarme aereo? -

 

Pensierino della buonanotte (davvero, dovrei trovare un nome più intelligente!): uff, che capitolo difficile! Troppo calmo, tutto fatto di meditazioni (leggi: seghe mentali) dei personaggi... Era necessario per spiegare un paio di cosette, ma ho riscritto il dialogo tra Ed e Alex tre volte. È molto complicato far comportare un bambino come... come quello che è: un bambino. E insieme far capire che è molto intelligente: prima dei cubi si parlava di un aereo giocattolo, ma ancora non avevo detto neppure che ad Amestris esistono gli aerei! Volevo che questa rivelazione arrivasse alla fine del capitolo. Perciò ho buttato tutto e riscritto da capo con i sempreverdi cubi con i numeri, che sono anche facili da immaginare per chi legge. Non è bellissimo Ed quando ha a che fare con i bimbi?

            Liris: mi pare di capire che provi una leggera... impalpabile... quasi inconscia avversione per Winry, esatto? Alex è più simpatico perché è più piccolo: magari tra venti o trent’anni sarà un delinquente con problemi di droga... no, ok, è improbabile.

            Babus: basta avere pazienza, e il nuovo capitolo arriva. Visto?

            meby138: povera! Gli orecchioni! Sono onorata che il mio capitolo ti sia servito a passare cinque minuti in allegria. Sul “meccanica preferita” ho dei dubbi, visto che buona parte dei fan della serie sembrano odiarla, e sinceramente non capisco bene il perché: a me piace molto, anche se nel manga è sviluppata un po’ meglio.

            Selfish: ringraziarmi perché Hedwig è morta? Beh, ehm, era solo un’esigenza di trama, non c’è bisogno di amarmi per questo... No, ok, fai pure che mi piace.

            Siyah: non credevo che Alex riscuotesse così tanto successo! A me piace moltissimo, ma a me piacciono tutti i bambini della serie, Thomas incluso (che non si considera affatto un bambino). Su Ed, non credo che Winry abbia partorito solo per fargli un dispetto, soprattutto dopo aver dichiarato che non ha intenzione di regolare la sua vita in funzione delle comparsate di Edward. Per l’alchimia, verrà inserita molto in fretta: dobbiamo lasciare un po’ a bocca aperta i piccoli Elric!

            Leuconoee: guarda che un figlio come Alex è una bella gatta da pelare! Oltre al fatto che devi tirarlo su di morale ogni volta che gli altri bambini lo isolano, devi convivere con una specie di monaco buddista... mancino! Io, alla giovane età di ventuno anni, ogni tanto ancora impugno la forchetta con la sinistra, e mia madre ci ha rinunciato a farmelo notare...

Comunque: Alex ha quattro anni. E mi segno la tua proposta di matrimonio, però dovrai metterti in fila perché mi si è già dichiarata Selfish :)

            Yolei87: no, Holze non è diventato la pappetta nera sul pavimento, poveruomo! E la grotta sotto Central City mi serve, darla a Scheska significherebbe trovarla invasa dai tomi. Edward non pensava davvero che Winry si conservasse per lui, anche perché non pensava di rivederla, ma in effetti sapere che si è sposata (e, quindi, innamorata, almeno per un certo periodo) è comunque un brutto colpo. E anche se il matrimonio con Artie è fallito, Alex resta lì, ignaro testimone di quel che è successo in passato.

(Non so da dove mi sia uscita questa frase... hmmm, devo venderla a quelli che fanno gli incarti per i cioccolatini.)

Edwin era, ovviamente, Papà Fletcher. Edwin Fletcher junior nascerà solo tra una quarantina di anni! Ora mi spieghi perché stiamo parlando di una fanfic che non pubblicherò mai?

               

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Capitolo 13
*** Breve visita alle patrie galere ***


Nuova pagina 1

            13. Breve visita alle patrie galere

 

Uscimmo in strada di corsa, senza prendere né cappotti né soprabiti, nonostante il tempo fosse peggiorato e fuori soffiasse un vento freddo. La via in cui si trovava la casa di Winry era piuttosto grande, ma era piena di gente che correva in ogni direzione.

 - Dov’è il bunker? - chiese Al, gridando per farsi sentire nel frastuono e trattenendo per le spalle i figli per non perderli tra la folla.

 - Il… cosa? - domandò di rimando Winry.

 - Il rifugio anti-aereo! - le spiegai. - Dove vi nascondete quando attaccano con gli aerei? -

 - Non era mai successo prima! - strillò lei. Teneva in braccio Alex, ancora in pigiama, che torceva il collo per guardare il cielo plumbeo. Il bambino aveva mostrato solo una lieve sorpresa quando la madre lo aveva strappato dal letto in cui ancora dormiva, ma aveva riguadagnato immediatamente la sua aria distaccata. Sperai fosse colpa del sonno, e che la paura sarebbe venuta in seguito, così da farlo almeno sembrare umano.

 - Andiamo all’ospedale! - esclamò Alphonse - Scendiamo nella città sotto Central City! -

A quelle parole, Winry si riscosse, e parve ritrovare un po’ di sangue freddo.

 - Giusto. - disse - Da questa parte! -

Central City era stata interamente ricostruita dopo  l’attacco della Società di Thule del 1923, che l’aveva quasi rasa al suolo: non c’erano tracce di bombardamenti, perciò non ebbi difficoltà a capire l’isteria collettiva e la mancanza di organizzazione. Era chiaro che nessuno si aspettava un attacco dal cielo... Neppure io, se era per quello. Non c’erano mai stati velivoli ad Amestris, né nelle nazioni vicine, e per fortuna: vista l’inimicizia tra il nostro Paese e gli Stati confinanti, sarebbero bastati pochi anni per distruggerci a vicenda.

 - Pare che in molti abbiano avuto la nostra stessa idea. - commentai, vedendo l’ospedale preso d’assalto. Prima di raggiungere la porta d’ingresso venni spintonato una decina di volte, e la situazione non migliorò nei corridoi: per alcuni secondi persi di vista gli altri, nonostante l’altezza di mio fratello lo rendesse un ottimo punto di riferimento. Mi ritrovai schiacciato contro una parete dalla fiumana impazzita, e cominciavo seriamente a pensare che ben presto sarei caduto e sarei stato calpestato, finché una mano robusta non mi afferrò per il braccio, trascinandomi in avanti.

 - Serve aiuto? - mi domandò Arthur Stonebridge, che fendeva coraggiosamente la marea umana.

 - Grazie. - dissi, a malincuore. - Da qualche parte devono esserci Winry e mio fratello. -

L’ex marito non mi andava troppo a genio, ma dovetti dargli atto che aveva fegato: si buttò a capofitto tra la gente, trascinandomi verso le scale che avevamo percorso io, Al e i ragazzi solo il giorno prima.

 - Come fa tutta questa gente a conoscere questo passaggio? - gli chiesi.

 - Qualche settimana fa si era parlato di un attacco di aeromobili. - mi spiegò, senza lasciarmi andare il braccio.

Aeromobili. Doveva essere il modo in cui chiamavano gli aerei.

 - Sui giornali erano stati indicati i passaggi per arrivare in quella specie di grotta sotto la città. Non lo sapeva? -

 - No, noi... noi eravamo all’estero. - inventai, restando sul vago.

Riuscimmo a scendere le scale senza romperci l’osso del collo, e finalmente, oltrepassate le scatole dell’ospedale, intravidi la testa bionda di Al. Di fianco a lui, Winry guardava nella nostra direzione, sempre tenendo in braccio Alex. La grotta era abbastanza ampia da permettere alle persone di disperdersi: molti erano seduti, sui vecchi muri diroccati o per terra, e si riusciva già a respirare meglio.

 - Mantenete la calma! - gridava un soldato in un megafono, ad un centinaio di metri da noi - Qui non c’è alcun pericolo. Saranno distribuite coperte e bevande calde! -

 - L’organizzazione per lo sfollamento lasciava a desiderare. - commentai, avvicinandomi ai due - Ma mi pare che stiano rimediando. -

 - Abbiamo un problema. - dichiarò Al. Era teso, pallido. Abbassai lo sguardo sulle sue mani: la sinistra teneva ancora la manina di Lotte, ma Thomas mancava all’appello.

* * *

 

La sola presenza di Ed parve infondere coraggio in Al, che prima aveva nascosto l’ansia per non far preoccupare ulteriormente la piccola Lotte.

 - Coraggio! - disse - Dev’essere sicuramente qui intorno: è sceso dallo stesso passaggio che abbiamo usato noi, quindi non si sarà allontanato troppo. -

 - Hai ragione. - ammise Al, prendendo un profondo respiro. Sorrisi, accorgendomi di come, in fondo, molte cose non fossero affatto cambiate nei ventidue anni passati: quei due davano sempre il meglio quando erano uniti.

 - Se volete scusarmi, - si intromise Artie - io mi allontanerei. Qualcuno potrebbe aver bisogno di un medico: intanto, chiederò in giro se hanno visto il ragazzino. -

 - Va bene, grazie. - rispose Alphonse.

Il mio ex marito mi baciò frettolosamente sulla guancia, per poi accomiatarsi: il suo tatto mi stupì, visto che non era mai stato bravo ad intuire i sentimenti altrui. Soprattutto, non era mai stato bravo a capire quando è ora di levarsi dai piedi.

 - Dividiamoci e cerchiamolo. - propose Ed.

 - No. - mi opposi - Rischieremmo di perderci di vista anche noi. Restiamo qui: hai ragione, Thomas deve essere nelle vicinanze. Ora che la gente si sta sedendo, sarà più facile vederlo. -

 - Potrebbe essere ancora laggiù, tra quelle scatole. - fece notare Al - Da là non riuscirebbe di certo a vederci. -

 - Va bene, andrò io a vedere. - decise Edward - Voi rimanete seduti... su quel muretto. - lo indicò - È abbastanza in vista, così riuscirò ad individuarvi al ritorno. -

Annuimmo entrambi; Lotte si avvicinò allo zio e gli tirò l’orlo della camicia.

 - Tom ha paura quando resta da solo. - gli disse, con un’aria angustiata e materna che riuscì a strappare un sorriso a tutti e tre.

 - Non ti preoccupare, - la tranquillizzò il padre - sono certo che non si è fatto male. -

Mio figlio, che credevo essersi addormentato sulla mia spalla, alzo improvvisamente la testa.

 - Mi sarebbe piaciuto vedere un aeromobile. - dichiarò.

 - A me no. - ribattei.

* * *

 

Rimasi in piedi, guardandomi intorno e sentendo la paura aumentare ogni minuto che passava: ero stato letteralmente strappato via dalla stretta di mio padre, e spinto nella grande caverna dalla folla terrorizzata. Non credevo che papà, Ed e la signora Winry fossero troppo distanti, eppure non riuscivo a trovarli, nonostante camminassi avanti ed indietro.

 - Papà! - gridai per l’ennesima volta - Lotte! -

Nulla. Un mare di facce sconosciute. Strinsi i denti e ricacciai le lacrime indietro, dicendomi che mettermi a frignare non sarebbe servito a nulla.

 - Papà! Papà! - sentivo la mia voce farsi stridula, isterica. Quel mondo sembrava sempre di più un incubo fatto apposta per farmi impazzire: finché avevo mia sorella, mio padre e persino quel rompiscatole di mio zio Edward potevo anche reggere, ma trovarsi da solo in quel posto ignoto, pieno di gente spaventata, era mille volte peggio.

Quando qualcuno mi appoggiò una mano sulla spalla, feci un salto.

 - Scusami! Non volevo spaventarti. -

Mi voltai. Seduto su un pezzo di cemento come se fosse stato un trono, un perfetto sconosciuto mi stava fissando: ricordava un po’ il soldato Feuerbach, ma incredibilmente era ancora più alto e robusto del gigantesco militare. Avevano però la stessa aria gentile, e persino i medesimi occhi azzurri, anche se la persona che mi stava di fronte era quasi del tutto calva, fatta eccezione per un ciuffo bianco sulla fronte.

 - Ti sei perso? - mi domandò. Quando parlava, la bocca si intravedeva appena dietro un paio di folti baffi biondi, piegati all’insù.

 - Sì, signore. - ammisi, abbassando lo sguardo. Papà e mamma mi avevano ripetuto almeno mille volte di non parlare agli sconosciuti, ma non riuscivo ad aver paura di quell’uomo, nonostante l’aspetto minaccioso.

Lui mi sorrise, tendendomi una mano grossa il doppio della mia.

 - Siediti un momento. - mi invitò, facendomi spazio. - Tra poco tutti si calmeranno, e sarà più facile trovare i tuoi genitori. Come ti chiami? -

 - Thomas. - risposi, obbedendo.

 - Hai fame, Thomas? - fece un cenno ad un uomo vestito con una divisa blu, che si avvicinò a passi svelti. Era lo stesso uomo che prima gridava nel megafono, e ce n’erano parecchi abbigliati nello stesso modo che si aggiravano per quel bunker naturale. Osservai la strana uniforme, chiedendomi come potessero mimetizzarsi con quel colore così sgargiante; mi accorsi per la prima volta di tremare, sia per la tensione che per il freddo. La grotta era molto più fredda del giorno prima.

 - Il ragazzo si è perso. - gli disse l’uomo - I genitori si sono già rivolti a voi? -

Il militare - un caporale, ora che vedevo le mostrine - era educato, ma nascose male la fretta.

 - Signore, abbiamo già decine di segnalazioni di persone scomparse: in questo caos, è facilissimo perdere di vista i propri congiunti. - Tuttavia, fece un cenno ad un commilitone e ci offrì una tazza di quello che sembrava caffè.

 - Dammi il tuo nome, così se i tuoi parenti ti cercheranno, potremo dire loro dove sei. - mi suggerì, frugandosi nelle tasche ed estraendone un foglio stropicciato e una matita cortissima. - Basta che tu stia fermo qui e non te ne vada in giro. -

 - Va bene. - annuii, accettando la giacca che il gigante mi offriva. Pesante, di ottimo tweed, poteva contenere almeno un’altra persona della mia corporatura. - Mi chiamo Thomas Elric. Da qualche parte ci devono essere mio padre e mio zio. -

Il signore di fianco a me fece un buffo verso, un risucchio di aria nelle narici come chi trattiene bruscamente il fiato. Il soldato si limitò a prendere appunti, per poi salutarci con un cenno e tornare al lavoro.

Bevvi un sorso. Non avevo mai assaggiato del caffè vero, e non ero certo che mi piacesse... era un po’ troppo amaro.

 - Hai detto che qui intorno ci sono tuo padre e tuo zio? -

 - Sì, li ho persi di vista mentre venivamo qui. - incrociai i piedi e distolsi lo sguardo. Gli occhi azzurri dell’uomo mi scrutavano con interesse. Finsi di interessarmi al caporale che ci aveva parlato, e ora veniva trattenuto da un uomo.

Il signor Stonebridge?, mi domandai. Che mi stesse cercando? Rimasi deluso: indicò qualcosa al militare e si allontanò.

Probabilmente mi ero sbagliato.

 - Va tutto bene? - mi chiese lo sconosciuto al mio fianco, senza smettere di guardarmi.

 - Sì, mi era sembrato di riconoscere una persona, ma devo essermi confuso. -

 - Come si chiamano le persone che erano con te? - la voce dell’uomo sembrò enormemente interessata. Per un attimo mi domandai se non avesse un secondo fine, ma qualcosa alle sue spalle mi distrasse.

 - Zio! - gridai, riconoscendolo.

Ed si voltò di tre quarti e mi individuò: portò le mani ai fianchi, seguendomi con lo sguardo mentre correvo verso di lui saltellando, la giacca di tweed che ondeggiava come un mantello. Non ero mai stato così felice di vederlo.

 - Com’è che riesci sempre a cacciarti nei guai? - mi chiese, burbero.

Quasi non lo sentii: mi buttai contro di lui, abbracciandolo.

 - Ho avuto paura. - ammisi, il viso affondato nella sua camicia.

 - Adesso non fare così... - bofonchiò, a disagio, dandomi delle pacche piuttosto goffe sulla testa. - Ci guardano tutti. E dove hai preso questa giacca? -

 - Me l’ha prestata quel signore laggiù... - mi girai per indicarlo, ma il gigante si era alzato, e ora si trovava ad un paio di metri da noi.

 - Edward Elric. - scandì, come se non fosse certo della pronuncia. Sentii le braccia di Ed scivolargli lungo il corpo, rimbalzando mollemente. Alzai la testa, e vidi la sorpresa dipinta sul suo volto.

 - Maggiore Armstrong. - sussurrò.

* * *

 

Ed e Tom ancora non si vedevano. Cominciavo ad essere davvero preoccupato.

 - Sono certa che torneranno tra poco. - mi rincuorò Winry, appoggiandomi una mano sul braccio.

 - Sì. - le risposi, poco convinto.

Lotte, seduta tra di noi con Alex, stava tentando di pettinarsi con le dita i capelli: avvertendo la mia tensione, si abbracciò a me, cingendomi la vita con qualche difficoltà.

 - Non ti preoccupare. - mi disse, serissima. - Tom è bravo, e anche Edward. -

Non potei fare a meno di sorridere, chinandomi per darle un bacio sulla testa arruffata. Mia figlia idolatrava il fratello maggiore. Era il suo eroe da sempre, tanto che passava sopra al suo caratteraccio, scordava tutte le volte in cui lui la trattava male e lo considerava capace di praticamente ogni cosa.

Winry ridacchiò.

 - Credo di avere un déjà-vu. - sentenziò, con voce dolce. - Guardando i tuoi figli, mi sembra di rivedere te ed Edward da piccoli. -

 - In effetti, tenere a bada Thomas prosciuga tutte le mie forse. - convenni. Mi guardai intorno, cercando tra la folla mio figlio e mio fratello, ma non ce n’era traccia. Dove si erano cacciati? Ed aveva già trovato Tom? Cercai di scorgere uno dei militari che giravano lì intorno, per andargli a chiedere se li aveva visti, e ne notai tre a pochi metri da noi, intenti a parlottare. Feci per alzarmi, quando uno di quelli alzò gli occhi e mi guardò.

Per qualche motivo, sentii un brivido lungo la schiena. L’uomo non distolse lo sguardo, ma, anzi, disse qualcosa agli altri e tutti e tre si diressero nella nostra direzione. Inconsciamente, strinsi un braccio a Lotte.

 - Buongiorno, signore. - esordì il caporale che mi aveva guardato, andando a mettersi proprio di fronte a noi ma ignorando sia Winry che i bambini. - Il suo nome, prego? -

 - Perché? - si intromise la mia amica, irrigidendosi.

 - Semplice formalità. Stiamo raccogliendo tutti i nomi, per aiutare a riunire le famiglie. È facile perdersi, in questa calca. Lei è la moglie? -

 - No. - risposi in fretta. - Mi chiamo Alphonse Elric. -

Il graduato lanciò un’occhiata al soldato alla sua sinistra. Non mi piacque affatto. Ebbi la netta impressione che quei tre conoscessero già benissimo il mio nome.

 - Va bene, signor Elric. - riprese l’uomo. - Potrebbe seguirci? -

 - Cos’ho fatto, caporale? - gli chiesi, sentendo il sudore scivolarmi lungo la schiena.

 - È solo un controllo. -

Per un istante, temetti che Edward avesse combinato qualcosa. Sarebbe stato tipico di lui, cacciarsi nei guai quando avremmo dovuto mantenere un basso profilo. Ma di certo non avrebbe trascinato volontariamente me nella sua ultima impresa.

Mi alzai, rassegnato. Lotte si aggrappò all’orlo della mia camicia, rischiando di cadere a terra.

 - Papà! - strillò. - Dove vai? Voglio venire anch’io! -

 - No, Lotte. Resta qui con Winry, e aspetta... - un pensiero mi attraversò la mente - e aspetta Thomas. -

Ma certo! Edward!

Lanciai un’occhiata di sottecchi a Winry, mentre uno dei due soldati semplici, a dispetto della pretesa di cortesia e rilassatezza, mi prendeva per un braccio.

Era impallidita. Anche lei doveva essere giunta alla stessa conclusione.

 

La città sotto Central City era stata quasi completamente distrutta dai razzi della Società di Thule, perciò lo spazio a disposizione per le persone rifugiatesi lì era ulteriormente aumentato. Tuttavia, scoprii che era stato costruito un edificio proprio a ridosso della parete di quella grotta creata con l’alchimia, e fu lì che i tre militari mi condussero; sparire all’interno fu quasi gradevole: avevamo camminato per quasi dieci minuti tra le occhiate curiose della gente, e sentirmi trattare come un criminale davanti a mezza città mi aveva umiliato abbastanza. Per fortuna non avevamo incontrato Edward e Thomas.

Naturalmente, la sensazione scomparve quando fui condotto in una stanza con solo un tavolo e due sedie, e chiuso dentro. In quel momento, tutti lasciarono cadere la patetica bugia del “è solo un controllo”.

Passò circa un quarto d’ora prima che arrivasse qualcuno: nella fattispecie, un ufficiale della polizia militare che sembrava uscito direttamente da uno di quei gialli che Thomas leggeva a casa. Mi squadrò da capo a piedi con espressione neutra, e appoggiò sul piano di legno un fascicolo impolverato, prima di sedersi di fronte a me.

 - Sono il tenente Howard. - si presentò, senza far cenno di volermi stringere la mano. - Signor Elric, lei sa perché è qui? -

 - No. - mentii.

 - Un informatore - mi spiegò - ci ha segnalato la presenza in città di suo fratello Edward, il quale, non c’è bisogno che glielo ricordi, è ricercato da ventiquattro anni per diserzione. -

Aprì il fascicolo, e mi mise davanti una vecchissima foto di mio fratello adolescente. Era così brutta che Ed aveva effettivamente un’aria da criminale incallito.

 - Inizialmente, i soldati che l’hanno prelevata l’hanno scambiata per lui. - riprese Howard, col tono di voce piatto di chi recita a memoria. - Ma si sono accorti subito che lei non ha alcun auto-mail. -

 - Molto bene: non sono mio fratello. - sentenziai acido. - Posso andare? -

Sapevo benissimo dove sarebbe andato a parare il tenente.

 - Lei è ricomparso nello stesso lasso di tempo in cui lo ha fatto suo fratello. Bizzarra coincidenza. -

 - Tenente, - dichiarai - sono stato all’estero e sono tornato di recente, è vero. Ma ero in compagnia dei miei figli e di nessun altro. - mi morsi il labbro. - Perché tutto questo interesse per Ed, a più di vent’anni di distanza? Quando scomparve, nessuno venne a chiedermi se sapevo dove fosse. -

 - La situazione politica è cambiata, e anche l’esercito. - rispose lui, sibillino. - Nei primi anni della repubblica c’era ben altro da fare che perseguire dei ragazzini che avrebbe dovuto indossare un’uniforme scolastica, invece di quella dell’esercito. -

 - E ora non avete nient’altro da fare? - rimbeccai, stizzito.

* * *

 

Ed mi stupì: invece di correre immediatamente a cercare Al, si sedette pesantemente di fianco a me, il mento appoggiato sulle mani. Non fece neppure commenti sul fatto che non ero rimasta dove mi aveva lasciata, così evitai di raccontargli che la gente vicina a me aveva cominciato a scrutarmi con sospetto da quando i militari avevano portato via Alphonse.

 - Non servirebbe a niente consegnarsi. - disse. - Mi arresterebbero, ma di certo non lascerebbero andare mio fratello: anzi, lo considererebbero mio complice. -

Era logico, oggettivo e sensato: esattamente il tipo di ragionamento che l’Edward che conoscevo non avrebbe fatto, almeno riguardo ad Al. Mi stupì, e probabilmente la mia espressione glielo indicò, anche se lui equivocò:

 - Coloro che nascondono dei disertori sono complici. - mi spiegò, con un tono così irritante che lo avrei colpito.

 - Lo so benissimo! - rimbeccai. - Ma non per questo possiamo lasciare Alphonse nei guai! Sai quanti anni di galera rischia di farsi? -

I bambini spostavano lo sguardo tra di noi, cercando di capire di cosa parlassimo. Persino Alex sembrava essersi scordato degli aeromobili.

 - Sei un disertore? - ripeté sbalordito Thomas.

 - Non infierire. - grugnì Edward, alzando il viso per rivolgergli un’occhiataccia.

Come avevano fatto due individui così simili a vivere sotto lo stesso tetto senza sbranarsi?

 - Sei stato in guerra, zio? -

 - No! -

 - E allora perché hai disertato? - il ragazzino pronunciava quella parola con una strana intonazione, come se non sapesse decidere se essere disgustato o ammirato.

 - Perché tuo padre si era cacciato in un guaio. O meglio, - si corresse Ed, con un’onestà inconsueta - perché ci si era trovato. Non fu colpa sua. -

 - Non è mai stato lui la fonte di guai. - ribadii, rivolgendomi al ragazzino ma parlando allo zio.

Il maggiore Armstrong, che fino ad allora se n’era rimasto alle spalle di Thomas con l’aria di chi si sente completamente fuori posto, fece un passo avanti e si inserì, non solo metaforicamente, nella conversazione:

 - Posso andare a parlare con qualche soldato. - si offrì. - Non sono più nell’esercito, ma ho ancora qualche conoscenza in alto loco che potrebbe aprirci delle porte. -

 - Non quelle del carcere, temo. - brontolò Ed.  - Ma tentare non costa nulla. La ringrazio, maggiore. -

L’uomo si allontanò, lasciando la sua giacca a Thomas. Rimanemmo a fissare la sua schiena, sconsolati, ma in cuor nostro non avevamo molte speranze. Anche Ed doveva sapere che il maggiore era tale solo di nome, visto che aveva lasciato l’esercito l’anno in cui lui era finito dall’altra parte del Portale. Una scelta che non si era mai pentito di aver fatto, credo, ma in quel momento maledettamente inopportuna.

Alex si appoggiò al mio ginocchio, la guancia premuta contro il mio braccio.

 - Mamma, cosa significa alto loco? - domandò, curioso.

Sembrava incapace di avvertire la tensione. Di certo non poteva capire quel che stava succedendo, ma possibile che non si fosse spaventato neppure un po’ per i rumori del bombardamento che venivano da sopra le nostre teste, o per i soldati? Neppure la paura di quelli che ci circondavano poteva trasmettergli ansia.

 - Un’altra volta, Alex. - risposi, brusca.

 - E intelaiatura? -

 - Questa dove l’hai sentita? -

 - Da te! -

 - Non riparare mai auto-mail davanti al bambino. - disse Ed, con l’ombra di un sorriso. - Se impara a maneggiare gli attrezzi alla stessa velocità con cui memorizza le parole, rischi di trovarti la casa smontata. -

 - È lei, signora, che costruisce le protesi di Edward? - mi domandò Thomas. La sorpresa nella sua voce era evidente.

 - Sì. - non volevo vantarmi, o metterci più orgoglio del necessario, ma probabilmente lo feci. - Ma il loro nome è auto-mail, non protesi: non è la stessa cosa... -

 - Winry, per favore, evitaci il trattato! -

 - Senti chi parla! - sbottai. - Scommetto che ti prudono le dita, vero? -

 - Non so di che parli! -

 - Non hai ancora avuto l’occasione di esibirti, da quando sei qui! Perché non trasmuti qualcosa qui, davanti a tutti? -

 - Perché servirebbe solo ad attirare l’attenzione dei militari! -

 - Ah, non perché i ragazzi sono stufi marci di vedertelo fare? A proposito, perché tuo nipote non ti chiama zio? -

Lotte scosse la testa, rivolgendosi verso gli altri due bambini con un’espressione di infinita pietà stampata in volto. Alex sospirò.

 - Sono proprio dei bambini. - dichiarò, plateale.

Aveva imitato perfettamente il tono che usavo io.

* * *

 

Quasi quasi avrei preferito che il maggiore Armstrong non si fosse allontanato. Era di gran lunga l’unico adulto del nostro gruppo.

Avevo capito circa la metà di quel che Edward e la signora Stonebridge si dicevano, e ben presto persi interesse nel loro litigio: iniziai a guardarmi intorno, cercano l’enorme stazza del simpatico e gentile signore, e fui il primo a individuarla, circa una ventina di minuti dopo.

 - Ho buone e cattive notizie. - ci annunciò, senza scomporsi per il battibecco in corso.

 - Prima le cattive. - disse Ed.

 - Non ho potuto vedere Alphonse. Non è più nella sede sotterranea dell’esercito. -

Sede sotterranea dell’esercito? Non brillavano certo per fantasia, in quanto a nomi.

 - L’hanno già... - si interruppe, guardando con rammarico mia sorella, ma decise che ormai era impossibile nasconderle quel che stava accadendo. - L’hanno già trasferito in carcere? -

 - Temo di sì. - il maggiore abbassò la testa, sconfortato. - Esiste una rete di gallerie costruita insieme alla sede sotterranea, che collega gli edifici in mano all’esercito: probabilmente i militari possono muoversi indisturbati anche durante i bombardamenti. Era da anni che si temeva l’eventualità di attacchi dal cielo, quindi c’è stato tutto il tempo di creare delle linee di comunicazione che non potessero essere danneggiate. -

 - La buona notizia? - domandò Winry Stonebridge, lugubre.

Il signor Armstrong tornò ad illuminarsi, come se se ne fosse ricordato solo in quel momento:

 - Che ho preteso di usare il telefono, e sono riuscito a fare un paio di telefonate. - dichiarò, con malcelata soddisfazione. - Forse sono riuscito a mettere in moto qualcosa, anche se potrebbe volerci tempo. Dipende. -

 - Dipende da cosa? - chiese Edward, dubbioso.

 - Da quanto tempo la persona che ho chiamato ci metterà ad arrivare qui. Vive fuori città, e oggi è il suo giorno di riposo: avrebbe persino finto di non essere in casa, ma per fortuna la moglie ha ugualmente risposto al telefono. -

 - Magnifico. - brontolò mio zio. - Con un bombardamento in corso, e le strade distrutte, ci vorranno ore. -

 - Non essere così pessimista, Edward Elric. - ribatté tranquillo l’uomo, alzando una mano per invitarlo al silenzio. - Arriverà presto. Innanzitutto, i nostri nemici non possiedono abbastanza bombe per far durare a lungo questo disastro, e poi... -

Il maggiore esitò. All’improvviso, parve un po’ imbarazzato.

 - E poi, mi ha chiesto un favore in cambio, e scommetto che non vedrà l’ora di esigerlo. - terminò, neutro.

Ed e Winry si scambiarono un’occhiata.

 - Un amico disinteressato. - commentò lo zio, alla fine.

 - Coinvolge anche te e Alphonse. - buttò lì l’uomo, sempre più a disagio. - Se non obbedirete, non ci metterà troppo a incarcerarvi entrambi. -

Edward lanciò quello che mi parve un vero e proprio ringhio.

 - Chi accidenti si crede di essere, il suo amico? - esclamò, muovendo un piede come se volesse dare un calcio a qualcosa (o qualcuno).

 - Uno a cui non si può dire di no. - ammise il maggiore.

* * *

 

Il carcere militare di Central City era un modello di ordine ed essenzialità. Una perfetta metafora dell’esercito.

Mi ci trasferirono non appena la situazione in superficie si calmò, con un’organizzazione invidiabile: quando tornammo a livello del suolo, c’era già una camionetta che ci aspettava. Per tutto il percorso, venni trattato né più né meno che come un pacco, senza che nessuno mi rivolgesse la parola o mi spiegasse perché mi portassero lì, visto che non sono mai stato arruolato nell’esercito di Amestris. Alla fine cominciai a temere che avessero capito che ero un soldato, anche se non vedevo come.

Finii in cella da solo. Una stanzetta quasi vuota, in cui gli unici colori erano il grigio acciaio dei pochissimi mobili - un letto, un armadio, un tavolo - e il bianco di tutto il resto, dalle lenzuola alle pareti ritinteggiate da poco, dove la vernice aveva formato delle bollicine che si sfaldavano appena ci si appoggiava un dito sopra.

Finalmente, si fece vivo qualcuno.

 - Sono stato nominato suo avvocato d’ufficio, signor Elric. - dichiarò il militare, sistemandosi ossessivamente gli occhiali sul naso.

 - Ho bisogno di un avvocato? - domandai, furioso. - Nessuno si è degnato di avvertirmi che avrei dovuto chiamarne uno, o anche solo di elencarmi i capi di accusa! -

Il poveretto trasalì: era alto e allampanato, con un’espressione da topo in trappola stampata sulla faccia. Sembrava che l’avessero lasciato cadere nella divisa dall’alto.

 - Oh... Ehm... Increscioso, davvero. Rimedio subito. - prese a frugare nella borsa che si portava dietro, mentre io mi sedevo sul letto e prendevo un respiro profondo, evitando di far notare che, più che increscioso, era illegale. - Ecco qui: favoreggiamento, spionaggio internazionale... -

 - Cosa? - lo interruppi.

Ecco il perché del carcere militare! Non ero solo il complice di un ricercato, ma anche una spia!

 - Lei ha dichiarato di essere stato all’estero, negli ultimi anni. - mi ricordò pazientemente l’avvocato. - Potrebbe ripetere dove? - 

 - A Drachma. - risposi. Era quel che avevo già detto al tenente Howard, perché, se avevo capito bene, Drachma era lo Stato con cui non eravamo in guerra in quel periodo.

 - Qualcuno può testimoniarlo? -

 - Qualcuno può testimoniare che non aiuterei mai un altro Paese ad attaccarci! - mi indignai, balzando in piedi. - Mi faccia parlare con uno dei militari che conosco! Il maggiore Armstrong, o il tenente Hawkeye, o il colonnello Mustang... - l’uomo scosse tristemente la testa - Il tenente Havoc? Il maresciallo Falman? -

Lasciai cadere le spalle per lo sconforto: probabilmente le persone che conoscevo non lavoravano più a Central City. Magari non facevano neppure più parte dell’esercito.

 - Farò qualche ricerca. - disse alla fine l’avvocato. - Però non so se sarà utile al processo: immagino siano tutti amici che non vede da anni. -

 - I gradi saranno certamente diversi, - insistetti - ma sono certo che si ricordano di me e di mio fratello. -

 - Se almeno collaborasse su quello... - mi propose, avvicinandosi. La luce era scarsa, ma riuscii a distinguere i gradi da capitano sulle spalline.

 - Non so dove sia Edward. - tagliai corto bruscamente.

 - Lei sa che rischia l’ergastolo, vero? -

 - Non so dove sia. - ripetei.

L’uomo annuì, poco convinto. Batté le nocche sulla porta perché gli venisse aperta:

 - Ha poco tempo per decidere se collaborare o meno. - disse, con una nota contrita nella voce. - Cercherò di aiutarla in ogni modo, ma temo che lei sia in grossi guai. -

Fece per uscire, ma la guardia che aveva aperto, invece di lasciarlo passare, gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, consegnandogli un biglietto.

 - Ma chi? - chiese l’avvocato, perplesso. Lesse in fretta quel che c’era scritto sul foglietto, e sollevò le sopracciglia. Per alcuni secondi lottò con la sorpresa, poi, riguadagnata l’espressione neutra che aveva quando era entrato, si rivolse nuovamente a me.

 - Voglia scusarmi un secondo. -

Sparì all’esterno, e la porta metallica fu richiusa. Sferrai un pugno sul tavolo, cercando di sfogare la rabbia e il terrore: poche indagini, anche solo qualche domanda, e avrebbero capito che non ero mai stato a Drachma. A quel punto, avrebbero sicuramente stabilito che negli ultimi vent’anni avevo fatto la spia al soldo di uno dei nostri bellicosi vicini.

La verità era impossibile da raccontare. Non avevo bugie che potessero reggere a lungo. Peggio di tutto, avrei messo in pericolo Winry, che mi aveva ospitato, ed Edward, che era il vero obiettivo.

I miei bambini sarebbero rimasti in questo mondo, o Ed li avrebbe riportati indietro? Nessuna delle due ipotesi mi faceva stare meglio: nel primo caso, avrei condannato Tom e Lotte a vivere in un universo che non era il loro e in cui si erano trovati per caso, senza poter decidere; nel secondo, li avrei praticamente resi orfani, in una Germania distrutta dalla guerra.

Mi passai le mani tra i capelli, disperato, voltandomi verso la minuscola finestrella per guardare attraverso le sbarre. Non mi ero mai chiesto cosa succedesse ai carcerati durante un bombardamento, ma era evidente che non potevano fuggire nei rifugi. Se un ordigno avesse mai colpito l’edificio... rabbrividii al solo pensiero.

La vecchia ferita al braccio ricominciò a dolere, per i movimenti bruschi che avevo fatto: la divisa carceraria aveva le maniche corte nonostante facesse ancora freddo, così la fasciatura era esposta. Ci passai cautamente la mano sopra, e la sentii pungere come se avessi degli spilli piantati dentro.

Forse sarebbe stato meglio se fossi morto sul Reno, pensai amaramente. O dopo, sul camion, mentre tornavamo in Baviera: del resto, ero stato così male, e gli scossoni del viaggio avevano peggiorato talmente tanto le mie condizioni, che non capivo come fossi sopravvissuto.

La porta si aprì di nuovo, e io, sospirando, mi voltai per ascoltare cosa fosse ancora successo; ritenevo che peggio di così non potesse andare (a meno che non avessero ripristinato la pena di morte negli ultimi dieci minuti), ma non potevo esserne certo. Dopo aver trascorso una vita di fianco a Ed, chiunque arriverebbe a pensare che il peggio sia sempre dietro l’angolo.

Non fu l’avvocato ad entrare, ma un altro ufficiale. Un uomo alto, sulla cinquantina, che riconobbi con sorpresa. A parte l’ingrigirsi dei capelli, non era cambiato affatto.

 - Quando il maggiore Armstrong mi ha buttato giù dal divano dicendo che i fratelli Elric erano tornati e si erano già infilati in un pasticcio, - esordì, - non credevo che si riferisse a te. È un piacevole cambiamento. - 

 - Forse - ribattei, senza riuscire a trattenere il sarcasmo - è piacevole per lei. Per me non lo è affatto, colonnello Mustang. -

Lui si passò distrattamente una mano sulla benda che copriva l’occhio sinistro, ma non parve offeso.

 - Generale Mustang. - mi corresse, serafico. - Sai che stai cominciando a parlare come tuo fratello? -

 

 

Pensierino della buonanotte:

Capitolo finito in tempo, nonostante il cambio dei periodi universitari - da trimestri a semestri -, il fatto che ho ripreso a scrivere sul blog, gli esami fuori periodo e i continui rimaneggiamenti. Per farmi perdonare per la latitanza dell’alchimia (ehh, abbiate pazienza fino al prossimo capitolo!), ho ridotto al massimo la permanenza del povero Al in gattabuia... volevo tirarla in lungo per un paio di capitoli, ma studiando meglio la faccenda mi è sembrato ridondante: c’era già stata una scena in cui i fratelli si ritrovavano, e non serviva a nulla tenerli di nuovo sulle spine troppo a lungo. Senza contare che Alphonse sarebbe (così, teoricamente...)  uno dei personaggi principali, e mi seccava escluderlo di nuovo dall’azione.

Ah, a proposito di personaggi principali: avete per caso notato chi è tornato? So che potrebbero esservi sfuggiti, visto che nell’anime erano giusto comparse... nel prossimo capitolo potrete godervi un colonnello generale appena buttato giù dal divano, e quindi perfido a dovere!

            bacinaru: mi inchino e ti ringrazio per i complimenti! Che cosa è stato difficile capire, all’inizio? Non lo chiedo con fare polemico, ma mi interessa davvero saperlo: vedi, l’autore mentre scrive sa perfettamente chi parla, cosa sta facendo e cosa sta per fare, e a volte non si rende conto che per un estraneo non è così automatico il collegamento... per esempio, nella prima riga dopo un cambio di punto di vista cerco sempre di inserire qualcosa che faccia capire chi sta parlando, ma non so se per il lettore è davvero chiaro.

Molto bella l’idea degli occhi, su cui io stessa ho lavorato a lungo: nella prima stesura (quando ero giovane e ingenua) avevo scritto che Artie aveva gli occhi azzurri, poi mi sono ricordata che è geneticamente impossibile che il figlio di due genitori con gli occhi azzurri abbia gli occhi scuri! Così, dopo aver avuto una visione mistica del mio prof di scienze del liceo che pretendeva la mia testa, ho cambiato e ho messo gli occhi grigi... Non per una questione di geni, o per far speculare i lettori, a dire il vero: semplicemente era un colore che non si era mai visto nell’anime. E temo che la discrepanza di anni tra i due mondi non possa aiutarti, perché è solo a livello di date: a differenza di molti anime in cui i mondi hanno il tempo che scorre in maniera diversa, Amestris e la Terra sembrano essere in sincrono. =)

            Liris: temo che questi capitoli saranno una vera tortura per te, perché Winry c’è sempre U.U Mi serve un personaggio femminile che dia il suo punto di vista, dopo aver perso Margarethe...

            Selfish: Alex, croce e delizia della sua mamma biologica e dell’autrice che l’ha creato... ecco cosa succede a giocare al Padreterno: niente Portali, manine nere o Verità saccenti, ma personaggi da mantenere coerenti con loro stessi e (più o meno) credibili.

            Leuconoee: no, Thomas e Lotte non sono in grado di usare l’alchimia, perché non l’hanno mai studiata. Non si tratta di una forma di magia, di cui si diviene capaci attraversando il Portale, ma di una scienza esatta che richiede studio e fatica...

Mi è appena passata per la testa l’immagine del colonnello Holze che gira per Central City operando miracoli tipo Cornelo OoO”” che orrore! Devo dare una controllatina ai miei due ultimi neuroni...

            Siyah: quello che odio nelle fanfiction ambientate dopo il film è proprio il ridursi di Winry ad una pseudo-Trisha, o peggio... cavolo, no! Alla fine del film dice chiaramente che ora non ha più nessuno da aspettare! Va bene, la cosa dev’essere sicuramente devastante per lei, perché Ed e Al sono stati i suoi migliori amici fin dall’infanzia (e amo pensare che Edward sia qualcosina di più...), ma Winry è una ragazza piuttosto determinata e volitiva, che di sicuro sarà in grado di farsi una vita che vada oltre i fratelli Elric.

            Yolei87: il fatto che manchi un Homunculus rende il Portale decisamente evitabile, a ben vedere. Solo che a me serviva, quindi mi sono dovuta trovare una giustificazione plausibile. Per quanto riguarda la mano con cui scrive Alex, non è importante, l’ho aggiunto solo come tocco di colore: e NON è vero che il bimbo somiglia a Near! :( Lui è più... Meno... Ok, forse un pochino gli somiglia. Però è più dolce. Con Nina condivide giusto l’età: la povera bambina non dimostrava nessun talento precoce, era una semplice piccolina di quattro anni. Molto più realistica di Alex, te lo concedo, ma ai fini della trama non avrebbe avuto alcuna utilità se non ci si fosse messo in mezzo quel bastardo psicopatico di Tucker.

Envy, per fortuna, non incontra il povero Thomas, per il semplice fatto che è defunto: se no, altro che paura!, del povero figlioletto di Al non rimarrebbe abbastanza da fare da voce narrante alla storia.

Ad Amestris non c’è nessun complotto in corso, tra parentesi: è una “normale” guerra.

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Capitolo 14
*** L'uomo nero ***


Nuova pagina 1

            14. L’uomo nero

 

Quando suonò il cessato allarme, e finalmente uscimmo dall’enorme grotta, per la prima volta da quando mi trovavo in quel mondo chiamato Amestris mi sentii a casa. Non si trattava affatto di una bella sensazione: il senso di familiarità mi venne quando riconobbi tutti i segni della devastazione del bombardamento. Case crollate, persone che girovagavano con gli occhi fuori dalle orbite, come sonnambuli... E poi polvere, polvere dappertutto. Persino l’aria ne era impregnata, e rendeva difficile respirare. Tutto era immerso in una foschia bianca di particelle che fluttuavano pigramente, stentando a posarsi. La temperatura non si era alzata, e io avevo le dita irrigidite dal freddo, con le unghie bluastre.

La signora Winry, che ancora teneva Alex in braccio per non perderlo tra la folla, cercò di coprire gli occhi di Lotte, quando questa si voltò a guardare una scarpa che giaceva sul marciapiede, vicino ad un’abitazione crollata.

 - Non guardare, tesoro. - le disse con dolcezza, cercando di trascinarla via.

 - È solo una scarpa. - ribatté lei, sensatamente. - Non vuol dire che qualcuno sia morto. -

La risposta fredda sbalordì la madre di Alex, ma non me: a Monaco capitava spesso di trovare oggetti di vita quotidiana buttati in strada, dopo i bombardamenti e nei giorni successivi. Tutte le volte che ce ne trovavamo uno di fronte, nostro padre diceva, con forzato ottimismo, che non vuol dire che qualcuno sia morto. La casa è distrutta, vedi? Se i muri sono caduti in fuori, perché quel che era dentro avrebbe dovuto restare al suo posto?

 - Magari il padrone della scarpa era nella grotta. - proseguì mia sorella. - Magari ora tornerà e si arrabbierà, perché non solo non ha più una casa, ma gli è anche rimasta solo una scarpa! -

Il maggiore Armstrong, davanti a me, rabbrividì, e si abbassò verso Edward.

 - Mi fa paura. - sussurrò, ignaro che lo stavo ascoltando. - Non è normale che un bambino sia abituato a tanta devastazione. -

Mio zio sospirò pesantemente.

 - Nel mondo in cui sono nati Thomas e Charlotte, - gli spiegò, - c’è una guerra in corso da sei anni. Non credo che la bambina si ricordi com’era vivere in tempo di pace. - 

Il gigante ci lanciò uno sguardo fugace, così triste che mi fece compassione. Tutti quanti, lì, mi fecero compassione, nel loro non sapere cosa li attendesse: la signora Winry, Alex, il maggiore, le persone che incrociavamo... Per tutta la vita ero stato io quello guardato con pietà, per la mia infanzia trascorsa sotto le bombe, per gli stenti della vita di tutti i giorni, per la mia cecità di fronte a quello che stava accadendo nel mondo - nel mio mondo. Adesso, era come se mi trovassi in un punto rialzato, a guardare in basso uomini piccoli come formiche che vivevano gli stessi eventi in cui ero già passato. Adesso ero io quello consapevole, e loro gli ignari.

* * *

 

Il colon... generale Mustang fu di poche parole per tutto il viaggio: le strade erano ricoperte di buche e macerie, e doveva prestare la massima attenzione alla strada. Mi chiesi se la sua visione fosse ottimale, con un occhio solo, ma non glielo avrei mai domandato direttamente; mi limitai a restare in silenzio, guardando di fronte a me.

 - Non sembri stupito. - mi disse, ad un certo punto.

 - Lei lo è? - ribattei.

 - Avevo già visto città distrutte, naturalmente... anche Central City, come ricorderai, fu fatta a pezzi dagli uomini provenienti da quell’altro mondo. Ma un attacco dal cielo, su un obiettivo civile... no, mai visto nulla del genere. -

 - Vuole dirmi che Amestris non ha mai effettuato bombardamenti su città nemiche? - chiesi, con una punta di acidità che non riconoscevo in me. - Allora, cosa ve ne fate degli aeroplani... pardon, aeromobili? -

Lui si voltò brevemente verso di me, sul viso un misto di divertimento e sorpresa.

 - Ma come siamo diventati salaci. - scherzò. - Va bene: diciamo che sono io a non aver mai visto un bombardamento, visto che non sono in Aviazione. E non credevo che i nostri nemici fossero così progrediti da poterci già imitare. -

 - Il problema di usare nuove armi, è che prima o poi te le copiano. - ribattei.

 - Di nuovo quel tono! Stai diventando troppo simile a tuo fratello. Dov’è finito l’Alphonse Elric che conoscevo? -

Difficile dirlo, pensai, riconoscendo il viale che portava a casa di Winry solo grazie alle sei o sette piante ancora in piedi. Forse il vecchio Alphonse Elric è morto a Remagen, dove ha combattuto soltanto per salvare se stesso e i suoi compagni di sventura. Forse è stato sepolto insieme a sua moglie, mentre il suo corpo, ormai ridotto ad un guscio vuoto, continuava a vivere solo per i suoi bambini.

Non risposi alla domanda del generale, ma lui dovette leggere qualcosa sul mio viso. Dopo aver fermato l’auto in un punto più o meno sgombro dai detriti, rimase seduto al posto del guidatore, guardandomi.

 - Che ti è successo, Al? - mi chiese, alla fine. - Cosa ti ha cambiato fino a questo punto? -

 - La vita, generale. - replicai, aprendo la portiera. - Ci cambia tutti. E neppure Ed può proteggermi da lei, nonostante ci provi. -

Non ribatté, ma mi precedette verso la casa di Winry, ora visibile tra altre abitazioni risparmiate. Sembrava piuttosto sicuro, come se fosse stato lì varie volte.

 - E Acciaio? - mi domandò quando fummo davanti al giardinetto polveroso.

 - Il solito incosciente. - risposi.

La villetta sembrava aver retto bene: non vidi crepe, o altri segni di cedimento: solo in un punto, sotto il tetto, era caduto parte dell’intonaco, lasciando i mattoni in vista.

Fu Ed a venire ad aprirci. Mi squadrò da capo a piedi, angosciato.

 - State tutti bene? - domandai. - Non siete feriti? -

Per tutta risposta, da dietro di lui, sbucarono i miei figli, spettinati e con i vestiti stazzonati, ma incolumi: Thomas se ne rimase fermo, mentre Lotte pretese subito di essere presa in braccio, con un sorriso radioso.

 - Allora, scricciolo! - esclamai, baciandole la punta del naso. - Stamattina non hai ancora fatto colazione! -

 - La signora Winry stava preparando qualcosa. - disse Tom.

 - Qualcosa? - scherzai, ricordando la mangiata pantagruelica che avevo fatto quella mattina... erano passate solo poche ore? Sembravano anni. Eppure, l’ora di pranzo doveva essere già passata.

La cucina era per metà occupata dall’enorme stazza del maggiore Armstrong. Lo riconobbi subito, anche se con lui il tempo era stato meno clemente che con il generale: intorno agli occhi aveva un fitto reticolo di rughe, piccole ma ben visibili. Mi sembrò persino che si fosse abbassato un po’ di statura, ma forse era solo una mia impressione.

Gli sorrisi, e lui mi guardò con sorpresa.

 - Alphonse... - iniziò. Mi parve di leggere - nei suoi occhi, nell’espressione imbarazzata con cui si interruppe - la frase quanto sei cresciuto!, così comicamente inadatta. L’ultima volta che ci eravamo incontrati, a Reole, ero un tredicenne con i capelli lunghi, e non ricordavo più nulla di lui. Si dibatté nell’incertezza, chiedendosi se la memoria mi fosse tornata o meno. Lo avvertii come se potessi udire i suoi pensieri.

 - Grazie per aver badato a mio fratello. - risi, tendendogli la mano. - Lo sa com’è fatto: non posso lasciarlo cinque minuti da solo. -

Tom comparve al mio fianco, dicendo: - È stato il maggiore a trovarmi quando mi ero perso, nella grotta. -

 - L’ho incontrato per caso... - si schermì lui.

Per tutto quel tempo, Ed aveva squadrato con astio il generale Mustang; dovette fare uno sforzo sovrumano per non fare commenti mentre tornavamo in cucina, e stare zitto mentre Winry salutava l’ufficiale e mi abbracciava come se fossi un naufrago che ha appena toccato terra, rischiando di strozzarmi mentre minacciava di insegnare un po’ di buone maniere a mezzo Quartier Generale. Quando fummo tutti seduti, mio fratello riuscì addirittura a voltarsi verso il generale e a dire, quasi civilmente: - Grazie per aver aiutato Alphonse. -

Il viso dell’altro si illuminò di un sorrisetto sarcastico che, lo sapevo, era l’inizio di una tempesta.

 - Acciaio! - esclamò allegramente. - Porti malissimo i tuoi anni, sai? -

I bambini sgranarono gli occhi; alzarono persino la testa dal bicchiere di latte che stavano trangugiando. Alex mostrò moderato interesse, aggrottando le sopracciglia; si leccò i baffi bianchi sul labbro superiore.

 - Chiuda il becco, vecchio bastardo, e ci dica subito cosa vuole da noi! - ringhiò mio fratello.

Mi schiarii la gola.

 - Potremmo non insegnare parole nuove ai bambini? - chiesi. Poi, giusto per cambiare argomento, mi voltai verso Winry. - La casa è danneggiata? Non ho visto crepe o danni evidenti, ma... -

 - Tutto a posto. - mi rassicurò lei. Non aveva toccato cibo, e sembrava piuttosto pallida: se nel momento del pericolo aveva reagito piuttosto bene, ora si stava rendendo pienamente conto di quel che era successo. - Solo qualche soprammobile rotto, e un paio di piatti... -

Si alzò per prendere un sacchetto, e mi mostrò il contenuto: cocci bianchi, di ceramica smaltata per quel che ne capivo, che formavano un corpo femminile.

 - Ho buttato il resto, ma a questa ci ero affezionata. - ammise. - Mi serva da lezione: non lascerò più oggetti fragili in giro. -

Sembrava realmente affranta, e al contempo vergognosa di esserlo. Stavo per proporre di incollarla, quando mi ricordai che c’era un metodo molto più rapido e preciso, in quel... cioè, nel nostro mondo.

 - Ed, perché non ci pensi tu? - suggerii.

Anche lui non ci aveva pensato: ci mise alcuni secondi per capire a cosa mi riferissi, e subito dopo dovette darsi mentalmente dello stupido, come avevo fatto io.

 - Ma certo! - esclamò. - Winry? -

 - Oh, non ti preoccupare, per così poco... - si schermì lei.

 - Sei tu ad aver detto che non vedo l’ora di mettermi in mostra! - scherzò lui, alzandosi in piedi (e ignorando il generale, che sembrava seccato per l’interruzione). Rovesciò i piccoli pezzi bianchi e lucenti sul tavolo, col gesto consumato di un prestigiatore. Con l’aria seria e la fronte aggrottata, alzò lentamente le mani fino all’altezza delle spalle. Mio fratello ha sempre avuto un discreto senso del teatro, e in quel momento aveva calamitato l’attenzione anche di quelli che sapevano perfettamente cosa stava per fare.

Batté i palmi insieme, e subito si sprigionò la scintilla azzurra che ricordavo, crepitante come una scarica elettrica. Mi resi conto di essermi piegato in avanti, verso di lui, come i tre bambini. Ed allungò le braccia verso i cocci, in un unico movimento fluido, e la luce azzurra circondò il tavolo e ci abbagliò. Quando svanì, il mucchietto di cocci aveva assunto di nuovo la forma di una ballerina, lucida e candida.

Sorrisi.

 - Niente dettagli di cattivo gusto? Niente borchie? - gli chiesi.

Non mi degnò di una risposta, ma consegnò il soprammobile a Winry.

 - Se fossi in te, lo metterei in un posto sicuro. - disse, impacciato. - C’è qualcos’altro che possiamo ripararti? -

 - No, grazie. - tagliò corto lei, tenendo gli occhi fissi sulla porcellana per non incontrare lo sguardo di Edward.

Quindi, non era solo una mia impressione, pensai. Tra quei due c’era davvero qualcosa che non quadrava. Risaliva a sei anni prima? Ed non mi aveva parlato di litigi o discussioni, ma in effetti era stato straordinariamente sintetico. Probabilmente non avrebbe neppure accennato al fatto che era tornato Winry, se io non lo avessi intuito dal suo auto-mail nuovo, e anche in quel momento non si era sbottonato sulle due settimane passate a casa sua.

Ignari della tensione sotterranea che si era creata, i miei bambini si stavano ancora riprendendo dallo shock; il silenzio di Thomas si era protratto davvero a lungo, ora che ci pensavo.

 - Una magia! - gridò Charlotte, saltando in piedi.

 - La magia non esiste! - protestò Tom. Potevo immaginare quel che stava succedendo nella sua mente razionale: tutti i suoi punti fermi erano andati in pezzi, negli ultimi due giorni. Nonostante leggesse molto, era un ragazzino con i piedi fermamente per terra, e aveva alcune certezze: tra queste, quella che la magia e il paranormale non esistono. Un’idea a cui devo aver contribuito.

 - Era magia! - gli rispose la sorella, arrabbiata per la sua cecità. - Come fai a dire che non esiste? -

 - Puoi farlo di nuovo, signore? - si intromise Alex.

Era rimasto così silenzioso che ci eravamo quasi scordati della sua presenza. Il bambino aveva allungato una mano per tirare la manica di Ed e attirare la sua attenzione, e ora lo fissava con uno sguardo supplice così tenero che avrebbe commosso i sassi.

 - Non ora, Alex. - lo deluse Winry, carezzandogli la testa. - Ora il generale e il maggiore devono parlare con i nostri ospiti. Perché voi bambini non venite con me? Cerchiamo qualcosa con cui giocare. -

 - Era magia, vero papà? - tentò di nuovo Lotte, ben decisa a non farsi trascinare via senza aver prima ottenuto una risposta.

 - Non proprio, tesoro. - risposi, tentando di pensare a una spiegazione che lei potesse capire. - Era alchimia. Ricordi la storia dei due fratelli alchimisti che ti raccontavo la sera, quando eri più piccola? È una specie di magia, ma non è proprio magia. -

 - Hai raccontato la nostra storia ai ragazzi? - chiese Ed, sbalordito. - Non è una favola della buonanotte! -

 - Che c’è di male? - rimbeccò Winry. - L’ho fatto anche io! -

 - Avete... Oh, ci rinuncio! I genitori siete voi. -

Il generale piegò la testa e lo guardò di sottecchi. Decisi di non dargli la possibilità di punzecchiare ulteriormente Ed, o non avrei saputo come fermare la rissa.

 - Generale, qual è il prezzo della mia liberazione? - domandai, secco.

Tutta l’attenzione si catalizzò su di me. Sembrava che, improvvisamente, mi fossero spuntate due teste, da come mi guardavano.

* * *

 

Non ero ancora abituata a quegli scatti, da parte di Alphonse. Da bambino era incredibilmente paziente: prima rimuginava a lungo sui suoi pensieri, e noi quasi non ce ne accorgevamo. Quando esplodeva, però, era dirompente... mi ricordavo ancora perfettamente quel che era capitato la volta in cui ero andata a trovare Ed in ospedale, dopo la loro sortita in quel Laboratorio-Numero-Qualcosa, poco prima della morte del signor Hughes. E sicuramente se lo ricordava anche Edward.

 - Posso parlare, finalmente? Molto bene. - il generale incrociò le braccia al petto, l’occhio che passava dall’uno all’altro dei fratelli Elric più grandi. - Ho bisogno di qualcuno per un lavoretto che dovrebbe rimanere segreto. Si tratta di pubblica sicurezza: l’Esercito vuole evitare il panico in città. -

 - Aspettate, porto via i bambini! - mi intromisi. - Non voglio che abbiano nulla a che fare con i vostri traffici pericolosi... perché lo so che sarà qualcosa di pericoloso! -

 - I bambini non corrono rischi. Acciaio, quando siete tornati? -

 - Ieri pomeriggio, all’incirca a quest’ora. - gli rispose Ed.

 - Voi quattro? C’era qualcun altro con voi? -

 - C’era il colonnello Holze. - rispose Thomas, al posto dello zio. Come Lotte (e, mi spiace dirlo, Alex), non sembrava volersi perdere la discussione. Sperai che almeno i più piccoli non fossero in grado di capire quel che si sarebbe detto, soprattutto quando - già lo sapevo - si sarebbe tirata in ballo l’alchimia.

Il generale Mustang si rivolse al ragazzino come se fosse anche lui un adulto.

 - Quindi, c’era un quinto essere umano? Dov’è ora questo colonnello? -

 - Non lo sappiamo. - il ragazzino scosse le spalle. - Lui era agli ordini della donna che ha costretto Ed ad aprire il Portale, ed è entrato con noi dietro suo ordine: volevano sperimentare se le persone che vivono dall’altra parte possono attraversarlo incolumi. Però, quando io e mia sorella ci siamo ritrovati in questo mondo, lui era sparito. -

 - Non sappiamo dove sia. - continuò Al. - Però devo aggiungere che non lo abbiamo cercato. -

Mustang si portò una mano al mento, meditabondo.

 - Credete sia possibile che anche quest’uomo sia arrivato ad Amestris, ma sia... cambiato? -

 - Cosa intende per cambiato? - domandò Edward, preoccupato.

Sospirando, il generale accavallò le gambe. Centellinava le informazioni con attenzione, come se temesse di parlare troppo; pensai subito che lo facesse per esasperare Ed, ma poi dovetti ammettere che non sarebbe stato da lui scherzare su un argomento, potevo intuirlo, molto serio.

Possibile che stesse scegliendo le parole giuste, per proteggere i bambini? Roy Mustang?

Sì, mi dissi, era possibile. Forse lo stava facendo anche per me.

 - Ieri sera, e questa mattina, - si decise a rivelare - i militari che sorvegliano i sotterranei di Central City hanno segnalato qualcosa di anomalo che si aggirava per la grotta e alcune gallerie collegate. Inizialmente hanno pensato ad un intruso, ma i due uomini di pattuglia che se ne sono occupati sono... finiti all’ospedale militare. -

Il volto di Ed si fece di pietra. Io mi portai una mano al viso, spaventata.

 - Sono gravi? - chiese subito Al.

 - Non hanno neppure un graffio. - ci tranquillizzò il generale. - Erano sotto shock. Hanno dichiarato di aver visto un uomo completamente nero, come se fosse stato coperto di una qualche sostanza simile al petrolio, che invece di essere liquida lo copriva dalla testa ai piedi. Se ne stava appeso al soffitto di una galleria, e quando li ha visti è scappato. -

 - Com’era successo al Presidente della Società di Thule, nel ‘23. - disse Ed. Strinse le mani a pugno, così forte che le nocche divennero bianche. - Sì, potrebbe essere Holze. Maledizione, avremmo dovuto cercarlo ieri. -

 - Non potevamo. - gli ricordò Al, appoggiandogli una mano sulla spalla. - Stavamo cercando Tom e Lotte. Ignoravamo l’esistenza di un sistema di gallerie. E, in ogni caso, sarebbe già stato troppo tardi: dev’essere diventato così nel Portale. -

Edward annuì, afflitto. Poi tornò ad alzare lo sguardo su Mustang.

 - Se ho capito bene, generale, noi dovremmo aiutarla a cercarlo. - sentenziò, di nuovo pacato. - E poi, che gli succederà? -

 - Non ne ho idea. - ammise l’ufficiale. - Facendo il tragitto inverso, nel Portale, potrebbe tornare normale? -

 - No. - rispose Ed, senza esitazione. - L’altra volta non era successo. -

 - Povero Klaus... - mormorò Al.

Thomas sospirò. Fisicamente, somigliava molto di più a Ed che a suo padre: avevano persino alcune espressioni facciali simili.

 - Però, portandolo di nuovo nel nostro mondo, - rilevò, - potremmo mostrare alla signorina Steinglocke che il suo piano non può funzionare. Sarà l’unica cosa che le importa, visto che ha mandato il colonnello con noi solo per sapere cosa ci sarebbe successo. La Società di Thule non ha più nessun motivo per cercare un passaggio per questo mondo. -

 - Ed è meglio così. - sentenziò il maggiore Armstrong, guardando Thomas con nuovo rispetto.

 - C’è il pericolo che altre persone di quel mondo cerchino di venire qui? - chiese il generale, allarmato. - Esiste ancora l’organizzazione che aveva tentato di invaderci? -

 - Non è proprio un’organizzazione. - rispose il ragazzino, visto che il padre e lo zio esitavano a rispondere. - C’era giusto quest’uomo, e la donna da cui prendeva ordini: lei si fa chiamare “il Presidente”, ma il suo vero nome è Hedwig Steinglocke. Ha ingannato Ed, e poi... - si voltò verso di me - e poi era identica alla signora Winry. Proprio identica. -

 - Cosa? - trasecolai.

 - Non era identica. - puntualizzò Lotte. - Lei era cattiva e antipatica. -

 - Va bene, ma fisicamente erano praticamente identiche. -

 - Gabbato da una donna, Acciaio? - domandò Mustang, interessato.

 - Una mia sosia malvagia? - strillai, nello stesso istante.

Ed cominciava ad arrossire. Se per la rabbia o l’imbarazzo, era impossibile stabilirlo.

Thomas si sentì in dovere di difendere lo zio. Peggiorando la situazione.

 - Lui non sapeva che lei era cattiva. - protestò. - Erano fidanz... -

 - Ti sei spiegato! - lo interruppe Edward, frenetico.

Se Mustang stava per commentare, ebbe il buon gusto di non farlo. Al mi lanciò un’occhiata di sottecchi che mi infastidì: pensava di assistere ad una scenata isterica? Sono una persona molto razionale, io!

 - Torniamo all’argomento principale, per favore? - domandai. E visto che Ed stava per parlare, lo prevenni: - Puoi fare quel che vuoi, con chi vuoi. Non m’interessa quanto mi somigli. Quando inizierete a cercare quell’uomo? -

 - Meglio muoversi di notte, quando c’è meno gente in giro. - sentenziò Mustang. - Le gallerie sono illuminate, comunque. -

Che brutto ipocrita...

Non mi riferisco al generale, ovviamente.

Arriva qui, sparando parole smielate, e poi viene fuori che sarei solo un rimpiazzo della sua fidanzata malvagia! Decisi che ne avevo abbastanza, e uscii dalla stanza. Nel corridoio, sentii Ed brontolare: - Suppongo che cominceremo questa notte... Per me va bene. Al, immagino che non riuscirò a convincerti a restare qui al sicuro, vero? -

 - Immagini bene. -

 - Valeva la pena tentare. -

Seguirono alcuni secondi in cui l’unico rumore fu quello di una sedia che si spostava. Al disse qualcosa ai suoi figli, e sentii Alex dichiarare che avrebbe prestato volentieri i suoi giocattoli ai nostri ospiti. O a Lotte, più probabilmente.

 - Winry... non è come credi. -

Mi prese di sorpresa: non pensavo che mi avrebbe seguita davvero. Mi voltai verso Ed, ma mantenni l’aria sostenuta.

 - Non usare la classica frase del marito fedifrago, per favore. -

 - Non sono mai stato innamorato di Hedwig. L’ho pensato, per qualche tempo, ma non era così. - 

 - Cosa vuoi dire? O sei innamorato di una persona, o non lo sei. - ribattei.

 - Per te è davvero così facile capire la differenza? - mi chiese, mesto.

Non risposi, e non lo guardai. Il sole stava tramontando, e il corridoio era già in penombra, tanto che mi era difficile vedere bene Ed, che pure mi stava di fronte. Mi sembrava di essere tornata a sei anni prima, quando lui si era presentato sulla porta di casa mia, a Resembool.

Anche allora era il tramonto, e anche allora aveva l’aria mesta di chi non sa  cosa dire. Avevo avuto la tentazione di picchiarlo fino a fargli perdere i sensi, per fargli scontare tutti gli anni passati a chiedermi cosa facesse, come stesse, se lui e Al fossero felici... ma non l’avevo fatto. Lo avevo lasciato entrare, e mi ero chiusa la porta alle spalle, escludendo il resto del mondo dalla mia felicità. Finchè la porta rimaneva chiusa, lui era solo mio.

 - Non pensavo fossi diventato così filosofico. - dissi.

 - Winry... -

E poi sentii di nuovo quel rumore. La serratura della mia porta d’ingresso che scattava, aperta dall’esterno.

Ancora, e di nuovo, il mondo si intrometteva nella mia vita. Chiusi gli occhi, cercando di dominarmi per non urlare tutta la mia esasperazione.

 - Maledizione! - sibilai, invece, girandomi.

Inaspettatamente, Ed mi afferrò per un polso. Lo guardai da sopra la spalla.

 - Non ho amato Hedwig. Ho amato la donna che vedevo attraverso di lei, e per questo non mi sono accorto del pericolo. -

* * *

 

 - Sei qui! Per fortuna stai bene... - l’insopportabile Artie si interrupe non appena mi vide, e per fortuna avevo già lasciato andare il braccio di Winry (ora che ci pensavo... ma cosa mi era venuto in mente? Che sciocchezze avevo detto? Perché, quando mi venivano idee simili, non mi centrava un fulmine??). Gli sorrisi con innocenza, pregustando quel che stava per capitargli.

 - Artie, il fatto che mi hai pagato l’affitto non ti dà il diritto di piombarmi in casa senza preavviso! - protestò infatti Winry, mentre le guance le si arrossavano per la rabbia.

 - Però ho il diritto di controllare se tu e Alex state bene! - si difese lui, arretrando involontariamente di un passo.

Povero sprovveduto. Se sperava di vincere con le lusinghe, non aveva capito nulla. Tentò una ritirata nella prima stanza con la porta aperta... incidentalmente, la cucina: si trovò quindi di fronte a ben cinque estranei, oltre a suo figlio. Mi misi a distanza di sicurezza, tornando a sedermi vicino a mio fratello.

 - Allora suoni alla porta e aspetti che io ti apra, come fanno tutti! - gridò Winry, esasperata. - Dammi all’istante le chiavi: non voglio più vederti entrare in casa in questo modo. -

 - Aspetta un attimo! - si riprese lui, raddrizzando la schiena e sovrastando Winry con il suo corpaccione da bellimbusto. - Come hai detto, signora, sono io che ti ho pagato l’affitto! -

 - Certo, per obbligarmi a stare qui! -

Il maggiore Armstrong tossicchiò, sperando che i due si ricordassero di non essere soli. Al era arrossito per l’imbarazzo. Thomas spostò rumorosamente la sedia verso di me.

 - Quando siete nei paraggi, - commentò pacatamente Mustang, rivolgendosi ad Alphonse ma parlando con me, - non ci si annoia mai. -

Il prode Artie si prese un momento per osservare tutte le persone che affollavano la casa. Aggrottò le sopracciglia alla vista di una divisa dell’Esercito, e il suo cipiglio si incupì ulteriormente davanti all’uniforme carceraria di Al (che aveva fatto incupire anche me: maniche corte con quel clima? E la fasciatura? Per forza il mio fratellino aveva male al braccio, da quanto tempo non la cambiava?), malamente coperta da una giacca che Mustang doveva avergli prestato. Anche io, il maggiore e i bambini fummo inclusi nel suo sguardo fosco, e per un attimo mi chiesi perché Thomas rispose con un’occhiata così obliqua... più del solito, voglio dire. Credevo che la riservasse a me.

 - Giusto! Posso sapere, Winry, cosa ci fa un militare in casa mia, e perché uno dei tuoi misteriosi amici è vestito da carcerato? -

 - Non sarebbero affari tuoi, comunque il generale Mustang è un mio conoscente. E il signor Armstrong te lo ricorderai, spero! Mi è venuto a trovare a Resembool nel periodo in cui è nato Alex. Nostro figlio si chiama così in suo onore. - lo sguardo di Winry si addolcì per qualche istante, mentre si posava sulla testa dell’imperturbabile bambino.

 - Non divagare: non hai risposto alla seconda parte della mia domanda. - puntualizzò Arthur.

Lotte si aggrappò ai pantaloni di suo padre, con gli occhi colmi di lacrime. Alex se ne accorse.

 - Non ti preoccupare. - le disse, con la mortale serietà di un bambino di quattro anni. - Lo fanno sempre, ma poi smettono. -

Vidi mio fratello mordersi il labbro inferiore, e distogliere lo sguardo da Alex; capivo come si sentiva. Lui e Caroline si erano amati profondamente, e i loro figli erano cresciuti in un’atmosfera famigliare allegra, nonostante tutto quel che accadeva nel mondo esterno. Anche noi, che pure non avevamo quasi ricordi di Hohenheim, sapevamo comunque che lui e nostra madre erano vissuti insieme felicemente. L’idea che un bimbo così piccolo fosse abituato a urla, strepiti e recriminazioni, e lo accettasse con rassegnazione, era straziante sia per lui e per il suo istinto paterno, che per me. Sospirai.

Thomas, impermeabile alla tensione che si era creata, sembrava assorto. Quando si accorse che lo stavo guardando, controllò che nessuno lo notasse e si chinò verso di me.

 - Ed, posso chiederti una cosa? - e, senza aspettare che gli dessi il permesso: - Tu credi che qualcuno abbia detto ai militari dove trovare te e papà? -

 - Di che parli? - domandai, sospettoso.

 - Stamattina ho visto il signor Stonebridge parlare con un soldato, nella grotta. Credevo... credevo che chiedesse di me, li avvertisse che mi ero perso, ma ha indicato la direzione in cui si trovavano Lotte, papà e la signora Winry, e il soldato è andato da quella parte. -

Sentii un brivido lungo la schiena.

 - Non puoi esserne sicuro. - dichiarai, però, cercando di sembrare sicuro. - C’era tantissima gente, e il signor Stonebridge è un medico. È normale che abbia a che fare con chi sta coordinando la sicurezza. -

Mio nipote non si lasciò convincere. Non ne ero convinto neppure io. Magari Al e Winry avevano rivisto Arthur dopo che li avevo lasciati, ma è difficile pensare che un medico, in una calca simile, abbia il tempo di correre da un soldato per denunciare la scomparsa di un ragazzino.

Però non aveva senso: denunciandoci, avrebbe fatto finire nei guai anche Winry.

La discussione coniugale, intanto, era andata avanti, e ad un certo punto Stonebridge doveva essersi reso conto che l’ex moglie non gli avrebbe raccontato cosa stava succedendo. Per qualche motivo, diede a me la colpa di questo: me ne resi conto quando interruppe i mormorii di Thomas, mettendosi di fronte a me e dando una violenta manata sul tavolo.

 - C’entri tu, non è vero? - mi accusò. - In qualche modo, sei tu che porti le disgrazie qui dentro! -

Questa volta, Mustang non nascose il divertimento.

 - Beh, a quanto pare ti ha inquadrato subito. - disse, beffardo.

Ero indeciso su chi omaggiare per primo di un bel pugno sul muso.

 - Ti assicuro che non è colpa mia se l’esercito di Aerugo ha deciso di venire proprio oggi a bombardare Central City. - dissi alla fine ad Arthur. - E poi, come vedi, qui dentro nessuno si è fatto male: una fortuna incredibile, no? Lo saprai meglio di me, visto che sei un medico. Perciò, dove sono le disgrazie che avrei portato? -

L’uomo digrignò le labbra in una smorfia che imbruttiva la sua affascinante faccia da schiaffi, e cercò di pensare ad una replica sensata. Ripresi a sorridergli, giusto per infastidirlo.

 - Cosa avete a che fare tu e tuo fratello con l’Esercito? - mi chiese, alla fine.

Thomas fu sul punto di dire qualcosa... qualcosa di molto stupido, se lo conoscevo. Gli sferrai un calcio sotto il tavolo, senza distogliere lo sguardo da Stonebridge.

 - Come ha detto prima Winry, non sono affari tuoi. - sottolineai, serafico.

Mi piaceva vedere i suoi occhi riempirsi di una luce omicida. Se avesse saputo cosa avevo in mano io, contro di lui, ci avrebbe pensato due volte prima di accusarmi di alcunchè. Peccato non poter fare allusioni a quel che Thomas mi aveva raccontato... Oltre a non aver prove, mi sarei abbassato al suo livello: due galletti che lottano per la femmina. Winry ci avrebbe uccisi entrambi.

Ero certo che Stonebridge fosse il tipo che, invece di rischiare in prima persona, va a fare la spia: anche adesso, arruffava la penne ma non si decideva a fare la sua mossa. Forse aveva davvero intuito chi fossi - i miei auto-mail mi rendevano riconoscibile, anche se Arthur non poteva averli visti bene, ed era risaputo che l’Alchimista d’Acciaio girava sempre insieme a suo fratello -, o forse aveva solo tentato di sgombrare la casa di Winry dalla mia presenza. Più probabile la prima, visto che lei non era più affettuosa con me di quanto lo fosse con lui.

 - Ho il diritto di sapere se mia... la mia ex-moglie - si corresse subito - ha in casa delle persone poco raccomandabili. -

Finsi di essere colpito dalla sua arguzia: - Persone poco raccomandabili... che si portano dietro dei ragazzini! - esclamai, ispirato. - Assolutamente geniale! Però, detective, se posso darti la mia opinione... - mi sporsi verso di lui, come per rivelargli qualche importante segreto: - Non continuerei a fare arrabbiare la padrona di casa piombandole in casa all’improvviso e accusando i suoi ospiti. È molto suscettibile. -

Arrossì fino all’attaccatura dei capelli, ma di rabbia. Si raddrizzò e fece un rapido dietro-front, borbottando qualche parola di commiato ai presenti e baciando Alex sulla testa.

Non potei trattenermi: gli andai dietro, e riuscii ad afferrare la porta prima che la chiudesse. Lo sorpresi a tal punto che si scordò di arrabbiarsi, perciò potei uscire e accostare la porta alle mie spalle, per non che ci sentissero all’interno.

 - Se il tuo problema è la gelosia, - gli dissi chiaro e tondo - sappi che sei completamente fuori strada. -

Ci mise un po’ a registrare l’informazione... per la miseria, che uomo lento di comprendonio!... ma la notizia non sminuì la sua rabbia, che tornò ad apparire sul suo volto esattamente come qualche secondo prima.

 - Eri tu quello di sei anni fa? - mi domandò, brusco.

 - Sì, ma ora non c’è più nulla. Anzi, direi che mi odia. - non specificai chi, visto che non ce n’era bisogno.

 - Possibile. Quando l’ho incontrata per la prima volta, era a pezzi per colpa tua e del tuo abbandono. Eppure ti ha sempre difeso, dicendo che dovevi tornare da tuo fratello e scempiaggini simili... - storse le labbra in un ghigno sarcastico - Spero non ti dispiaccia se, quando mi hai lasciato campo libero, ho tentato di infilarmici. Converrai che, vista la donna, ne valeva la pena... l’ho conosciuta alla vostra festa della tosatura, la primavera dopo che te n’eri andato. -

Improvvisamente si fece pensoso, come se stesse rivedendo quel momento: - Era la più bella di tutte. - aggiunse. - Non sono più riuscito a staccarle gli occhi di dosso. -

Sorrisi. Aveva fatto tornare in mente anche a me un momento particolare, avvenuto sei anni prima. Dovevo essere tornato da cinque o sei giorni, perciò, se non sbaglio, era la seconda volta che facevamo l’amore. Quando mi ero svegliato, Winry era già scivolata fuori dal letto: in vestaglia, seduta di fronte allo specchio, stava cercando di domare i capelli; la massa ribelle si alzava in tutte le direzioni, e lei passava con pazienza la spazzola in ciascuna delle ciocche, aiutandosi a volte con le dita. Aveva gli occhi gonfi di sonno, e un paio di volte sbadigliò sonoramente, ma io non potei staccare gli occhi da quella lotta silenziosa, ammaliato. Era irresistibilmente buffa, e allo stesso tempo così bella da togliermi il fiato, con i capelli che catturavano la luce del sole nascente e formavano una specie di aureola intorno al suo capo.

 - A volte fa questo effetto. - mormorai.

 - Hai intenzione di riprovarci? - mi chiese Stonebridge, bruscamente.

 - Credo di non avere più possibilità, e forse è meglio così: presto dovremo tornare a casa, e io non posso portarla con me. Quindi, puoi smettere di essere geloso, perché non sono una minaccia di cui liberarsi spedendola in prigione con una soffiata ai militari. -

Accusò il colpo. Non era tanto diverso dai codardi che abitavano vicino alla libreria di Herr Meyer e di sua figlia Margarethe: la coda di paglia li rendeva aggressivi, ma non avevano l’astuzia per mentire, né la faccia tosta di replicare subito.

 - Non so di cosa parli. - sbottò infatti, distogliendo in fretta lo sguardo.

 - No, certo. Peccato che Thomas ti abbia visto. - aggiunsi, giusto per fargli credere che avevo in mano prove certe. - Voglio pensare che tu l’abbia fatto per il bene di Winry e Alex, quindi non dirò niente. Vedi, però, - mi avvicinai, con aria minacciosa, - di non mettere mai più mio fratello in una situazione di pericolo. Prenditela con l’Elric giusto. -

 

Pensierino della buonanotte: il mio ego mi impone di finire su questa frase. Prenditela con l’Elric giusto è una delle battute di cui sono più orgogliosa, a ragione o a torto potete deciderlo voi. E Winry dovrebbe solo ringraziare, visto che ha due uomini che stanno per sbranarsi per le sue grazie... subito prima di essere uccisi a colpi di chiave inglese da lei medesima, naturalmente.

Prima di rispondere alle recensioni (quante! Chebbello!! *.*), un ringraziamento speciale a Yolei87, che ha proposto la mia fanfiction per le Storie Scelte di EFP. Sappi che è qualcosa come un mese che giro bullandomi a destra e manca, ed è tutta colpa tua. Per dire, ti ho perdonato pure il fatto che, in tre mesi, non hai ancora letto il capitolo precedente... e, già che ci sono, vorrei farti gli auguri: buon Natale e felice 2011! XD

            bacinaru: Thomas altalena comportamenti da io-sono-grande-trattatemi-da-adulto a comportamenti infantili.. .tipo, zompettare addosso a Edward, nello scorso capitolo. In quel caso specifico, non ho difficoltà ad ammetterlo, ha risentito un po’ di una mia fobia, quella di perdersi in un luogo affollato: in una situazione simile, anche io salterei addosso alla persona che venisse a salvarmi... anche se non si tratta di Edward Elric, ecco U.U Giusto per farti un esempio, sono riuscita a perdermi in Piazza San Marco durante il Carnevale, grazie a delle mie (gentilissime) compagne di liceo che, nonostante avessero visto che stavo scattando una foto, hanno pensato bene di andarsene senza avvertirmi. Giuro, ero ben più vecchia di Thomas ma stavo per avere una crisi isterica!

E, sì, Mustang è Mustang. O lo si ama, o lo si odia. Io generalmente lo amo.

            Leuconoee: Sei perdonata per aver capito in ritardo chi ha fatto la soffiata, dato che anche i nostri personaggi non hanno modo di dimostrarlo... è più una questione di intuito. I militari di Amestris... poveretti, cerca di capirli: una vita sotto una dittatura, a eseguire passivamente degli ordini senza chiedersi se sono giusti o meno... è ovvio che ora sono un po’ ottusi. Non sono proprio abituati a costruire un ragionamento critico: se tu gli dici di cercare un sedicenne sparito ventidue anni prima, capaci che cercano proprio un sedicenne, invece di un quarantenne!

Winry è cambiata più che altro nel suo atteggiamento verso Ed, e per buoni motivi, aggiungerei: il suo carattere dovrebbe essere simile a quello dell’anime (se sono riuscita a renderlo come volevo), solo più disincantato. Poi, in fondo, resta una persona molto emotiva, protettiva verso le persone a cui vuole bene, ma consapevole del fatto che - di solito - non può proteggerle: c’è qualcosa più grande di lei, là fuori. Per questo il suo pensiero, per proteggere suo figlio, era fuggire in un altro Paese.

            Liris: Mustang si è reso utile. Solo che adesso chi lo ferma più?

            Siyah: Non ci sarà un flashback completo, ma alcuni episodi isolati, come in questo capitolo. Ora potete scatenare le vostre fantasie pruriginose, ma sappiate che non ho intenzione di alzare il rating!

La moglie del generale non apparirà, quindi potete immaginare che sia chi volete... io una candidata ce l’avrei, però.

            Fae (... o Talpy? Chi ha letto e recensito?): mamma mia, che onore! Sono finita persino su Criticoni, devo averla proprio fatta grossa: tutto ciò non fa bene alla mia umiltà...

            Obito Uchiha: già dal nick ti voglio bene, sappilo. È il mio secondo personaggio preferito, dopo l’inarrivabile Kakashi. Grazie per i complimenti, e, come avrai scoperto nel frattempo, io pubblico una volta al mese... ma solo ogni tre mesi. E questa volta sono pure in ritardo, grazie ad un periodo d’esami infernale, in cui sono arrivata ad avere tre prove in tre giorni consecutivi. Sono uno straccio.

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Capitolo 15
*** Seguire gli ordini ***


Nuova pagina 1

            15. Seguire gli ordini

 

 - Pittoresco. Davvero, perché non aprite questa zona al pubblico e fate pagare un biglietto? -

 - Perché alcuni corridoi sono pericolanti, Acciaio. Finora non è ancora successo nulla di grave, ma magari stasera sarò fortunato. -

Trattenni un sorriso, e lanciai un’occhiata complice al maggiore Armstrong, che camminava alla mia sinistra. Da quando eravamo ridiscesi nelle gallerie scavate sotto Central City, Ed non aveva smesso un attimo di fare commenti sarcastici, e il generale Mustang gli rispondeva per le rime: sembravano due bambini, come al solito.

 - Certe cose non cambiano mai. - sussurrai al maggiore. I suoi baffi candidi fremettero, mentre nascondeva a fatica il divertimento.

Avevamo deciso di onorare il pagamento al generale quella sera stessa, subito dopo il tramonto: Ed non voleva avere nessun debito in sospeso con lui, come ribadì più volte, e comunque le gallerie erano illuminate, quindi non c’era differenza tra esplorarle di giorno o di notte. Inoltre, aveva fatto notare il maggiore, se ci fossimo imbattuti nel colonnello Holze e fossimo riusciti a condurlo con noi, una volta tornati in superficie il buio lo avrebbe nascosto da occhi indiscreti.

Consultai la mappa che il generale ci aveva fornito, avvicinandomi all’ennesima lampada installata sulle pareti scabre: camminavamo da circa un’ora, e le gallerie si stavano facendo più strette e basse, oltre che più fitte. La zona in cui ci trovavamo era denominata Area 0052, e ricordava un’immensa tana di coniglio: lì era stata avvistata la creatura che aveva allarmato il generale, e che un tempo era stata il padre di uno dei miei uomini, oltre che l’ufficiale medico che mi aveva salvato la vita. O, almeno, che mi aveva curato: dovevo ammettere che il colonnello Holze era molto più impegnato a seguire i deliri del Presidente della Società di Thule che a badare a me, e dopo l’iniziale preoccupazione che non gli morissi sul camion che ci portava in Baviera aveva delegato la mia sopravvivenza alla cameriera di casa Schneider-Steinglocke. Tuttavia, il suo disinteresse per la mia salute non era un motivo sufficiente per volerlo morto, com’è ovvio, né per augurargli di finire nel Portale e uscirne... come? Di certo devastato nel fisico, ma nella mente?

 - La puzza di piscio di gatto è vera? -

 - Da qui in avanti è più difficile proseguire. - commentai, prima che il generale rispondesse.

 - Questo è uno dei settori più vecchi. - spiegò il maggiore, avanzando fino all’ennesima biforcazione. - I passaggi sono più numerosi e meno regolari. -

 - In effetti, prima la strada era obbligata. - notai, ripensando ai passi percorsi. - Invece, da dieci minuti a questa parte abbiamo trovato tantissime intersezioni con altri corridoi. -

 - Allora sarà meglio dividerci. - sentenziò Edward, portando le mani ai fianchi e guardandosi intorno. - Non da soli, ovviamente: in due gruppi separati riusciremo ad esplorare un’area maggiore in meno tempo. Inoltre, siamo tutti alchimisti, quindi non avremmo difficoltà a difenderci... se ce ne fosse bisogno. - aggiunse, a voce più bassa.

Il generale infilò le mani in tasca: - Molto bene. - disse. - Al può venire con me, e tu andrai con il maggiore. Così, se lo incontreremo, ci sarà sicuramente una persona che possa riconoscere. -

Annuii, anche se lui stava già entrando nel corridoio a sinistra e mi dava le spalle. Feci un rapido cenno di saluto agli altri due e lo seguii, controllando con preoccupazione che il soffitto non si abbassasse tanto da dover procedere chino.

 - Quante volte è già stato qui sotto, generale? - gli domandai, notando che non consultava la mappa che ognuno di noi aveva.

Si fermò il tempo necessario perché mi affiancassi a lui, e tolse le mani dalle tasche del soprabito perché il passaggio era così stretto che i suoi gomiti lo riempivano.

 - Quattro o cinque volte, ma molti anni fa, mentre questa zona era in costruzione: sembra molto difficile orientarsi, ma in realtà ogni bivio è contrassegnato con una lettera e un numero crescente. Vedi? -

Seguii con lo sguardo il suo dito, osservando meglio le scritte in vernice rossa che prima avevo ignorato, nonostante fossero abbastanza grandi da occupare metà della parete. In effetti, erano riportate anche sulla cartina. E le lampade erano posizionate proprio sopra, così da renderle perfettamente leggibili.

 - Lei la fa semplice. - dissi, sorridendo. - Ma come fa a sapere se si sta allontanando o avvicinando ad un’uscita, o se sta girando in tondo? -

 - Segui la lettera e il numero, e ti ritroverai sicuramente fuori. - mi rispose lui, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Forse lo era, ma a me non era proprio venuto in mente.

 - Capisco. - bofonchiai, per pura educazione. Lui lo intuì e sorrise a sua volta, ma non fece ulteriori commenti.

Il lavoro si era dimostrato piuttosto noioso: una condizione preferibile ad uno scontro, certo, ma continuammo a camminare per quel dedalo di gallerie per così tanto tempo che persi la cognizione del tempo. Per evitare di rovinare ulteriormente gli abiti che Winry ci aveva prestato, che oltretutto erano troppo leggeri per stare lì sotto, avevo indossato di nuovo la divisa, ma mi ero rifiutato di prendere la pistola: in caso di bisogno, mi sarei difeso alzando muri con l’alchimia o creando barriere, ma non avrei mai sparato a nessuno. Eppure, quando un rumore ci fece fermare di colpo portai istintivamente una mano alla cintura, dandomi dello stupido subito dopo. Il generale si piegò leggermente, nonostante non ci fosse nulla dietro cui ripararsi in caso di attacco, e alzò una mano per chiedere silenzio. Entrambi restammo in ascolto, trattenendo persino il respiro.

Il rumore giunse di nuovo, rimbombando in modo tale da rendermi impossibile capire da dove venisse. Qualcosa raspava, e per qualche istante sperai si trattasse di un topo: ma poi venne un colpo di tosse decisamente umano, che mi fece rizzare i capelli in testa. Di certo, non si trattava né di Ed, né del maggiore.

Il generale alzò un dito nella mia direzione, poi indicò qualcosa davanti a noi. Aggrottai le sopracciglia, prima di intuire che stava dicendo a ore due; come avesse fatto a capirlo, era un mistero. Allungò un piede, appoggiando la suola a terra centimetro dopo centimetro, per fare meno rumore possibile. Un passo. Un altro passo, alla stessa esasperante lentezza. Un altro passo.

Lo seguii, e cominciai a preoccuparmi quando lo vidi sollevare la mano destra, chiusa nel guanto, e appoggiare il pollice contro indice e medio: deglutii, e sperai che non ci fosse bisogno dell’alchimia.

Eravamo arrivati all’ennesimo bivio. A destra, uno dei corridoi che si diramavano era stranamente al buio, a parte per il riverbero delle lampade che illuminavano l’intersezione in cui ci trovavamo e un’altra alla fine del cunicolo, a una decina di metri: si intravedeva a malapena un cumulo scuro sul pavimento, come un sacco malamente gettato in terra.

Dovremmo bloccare l’altro passaggio., pensai, abbassando gli occhi sulla mappa. Ma era assurdo prepararsi a fronteggiare un possibile nemico con una cartina in mano! Voltai la testa verso il generale, sperando che anche lui ci avesse pensato, ma ero nella zona buia creata dalla benda sull’occhio; non mi vide, e io non osavo attirare la sua attenzione in nessun modo.

 - Ehi, ehi! -

Sobbalzai, e il cuore mi saltò in gola. Il cumulo nero aveva parlato! Si mosse, si sollevò sprigionando un odore disgustoso, un misto di alcol e sporco, fino a rivelare il viso in penombra di un perfetto sconosciuto, che non avrei potuto scambiare neppure per sbaglio per il colonnello Holze.

Sentii la tensione allentarsi, e mi venne una gran voglia di ridere. Quel vecchino ricordava in maniera sorprendente l’uomo che avevo sorpreso in casa di Edward, quel signor Lindemann che sembrava odiarlo così tanto (ed era contraccambiato con pari ardore).

 - Cercatevi un altro posto per andare a dormire! - ci ordinò, calcandosi meglio sulla testa un cappello di lana.

 - Questa zona è interdetta ai civili! - esclamò il generale. Anche lui doveva essersi ripreso solo in quel momento dalla sorpresa, e forse si stava dando dell’idiota esattamente come facevo io. Tuttavia, la nascose meglio, e si avvicinò all’uomo a passi pesanti.

Il poveretto mise finalmente a fuoco la divisa sotto il soprabito e... credo che sbiancò, anche se non saprei dirlo con certezza. Di certo, sul suo volto il fastidio fu rapidamente sostituito dal terrore.

 - Me ne vado! - esclamò, saltando in piedi. - Perdonatemi, signore... Vossignoria... Eccellenza... non sapevo... ho visto, e ho creduto... sarei rimasto solo per questa notte... -

 -  Certo, solo per questa notte... - brontolò l’ufficiale, dando un’occhiata alle coperte e ai resti di cibo sparsi intorno. Doveva essere lì dentro da parecchio.

 - Ha un posto dove andare? - chiesi, preoccupato per lui.

 - Alla Stazione Centrale, se quei bastardi di Aerugo non l’hanno ancora fatta crollare! - rispose quello, raccogliendo in fretta i suoi cenci. - Posso andare lì, Eccellenza? -

 - Macché Eccellenza... - borbottò il generale, voltando le spalle e sbuffando.

Mi spostai per lasciar passare il vecchio, notando la lampada rotta sulla parete: forse l’aveva spaccata proprio lui, per non essere disturbato dalla troppa luce. - Dovrei fargliela pagare, con quel che costa la manutenzione qui sotto... - disse Mustang, con una smorfia. Nonostante la penombra, si leggeva ancora abbastanza bene la scritta B23, larga quattro dita, e che occupava buona parte del muro.

 - Credo non avesse neppure i soldi per comprarsi da mangiare. - ribattei tristemente.

 - Dall’odore, direi che quelli per bere non gli mancano. -

Evitai di commentare, e lasciai che il generale si allontanasse di qualche passo per controllare che il senzatetto se ne fosse davvero andato - e sbollire la rabbia contro se stesso per essersi allarmato per nulla. Mi chinai ad esaminare i rifiuti che il vecchio aveva lasciato, spostando con cautela i vetri della lampada rotta e di una bottiglia con il collo rotto. C’era solo un sacchetto unto, uno straccio che poteva essere stato qualunque cosa e... una cintura? Sì, era identica a quella che portavo io, anche se molto più consumata...

Sentii un brivido corrermi lungo la schiena. La afferrai, e guardai la grossa fibbia metallica.

Gott mit uns, c’era scritto. Dio è con noi. Era la frase incisa sulle cinture dei soldati tedeschi della Wehrmacht.

L’alter ego di Herr Lindemann aveva balbettato non sapevo... ho visto, e ho creduto...: cosa aveva visto? Dei rifiuti lasciati da qualcuno che era lì prima di lui, evidentemente.

Riesaminai i cocci di vetro: la bottiglia aveva un’etichetta di una marca di liquore prodotto nel nord di Amestris, e alcuni pezzi della lampada che aveva illuminato il cunicolo erano sporchi di una qualche sostanza scura e oleosa, che a causa dei guanti che indossavo (sopra c’erano dei cerchi alchemici, e gli altri tre avevano insistito che li indossassi, per ogni evenienza) non avevo notato subito. Me ne sfilai uno, e feci passare un dito.

Il generale stava ritornando, e dalla calma dei suoi passi non doveva aver scoperto molto. Rimasi accovacciato tra la sporcizia.

 - Abbiamo una traccia, anche se non so quanto sia vecchia. - gli dissi, sfregando la punta delle dita sporche tra di loro e annusando. - Questo non è di certo l’acetilene delle lampade, e quella cintura è identica alla mia. Credo che il colonnello sia stato qui. -

Non ricevetti risposta, e mi voltai per mostrargli la scheggia.

Alle mie spalle, si intravedeva soltanto una sagoma scura: non solo per il buio, ma perché l’uomo dietro di me era completamente nero.

Lanciai un grido per la sorpresa, e mi sbilanciai sulle ginocchia. Caddi seduto tra la sporcizia, e sentii alcune schegge ferirmi i palmi delle mani che avevo appoggiato per terra nel tentativo di restare in equilibrio.

 - Colonnello! - esclamai, tirandomi indietro e sbattendo la schiena contro la parete.

Lui non si mosse. Non ebbe reazioni di nessun tipo, in realtà: rimase immobile di fronte a me, senza tentare né di attaccare, né di fuggire.

 - Colonnello Holze. - ripetei, a voce più bassa. - Mi riconosce? Sono il capitano Elric. Si ricorda di me? Remagen? La Baviera? -

Piegò lentamente la testa su una spalla. Il suo volto, al pari del resto del corpo, era coperto di uno strato scuro, come se gli fosse stato colato addosso un barile di petrolio: non vedevo nulla che somigliasse a occhi, o bocca, o naso, perciò era anche impossibile capire cosa pensasse. O se pensasse ad alcunché. Però mi dava l’impressione di essere perplesso.

 - Va bene. Ora mi alzerò. - lo avvertii, alzando i palmi delle mani per fargli vedere che ero disarmato. Cosa del tutto vera, in effetti, perché nella mano destra non avevo il guanto, e quello alla sinistra si era strappato quando ero scivolato.

* * *

 

Io e il maggiore Armstrong ci irrigidimmo appena sentimmo i passi alle nostre spalle; ci voltammo di scatto, pronti a difenderci se fosse stato necessario, e fummo quasi travolti da un vecchietto cencioso che correva verso di noi con le braccia ingombre di ogni genere di cianfrusaglia.

 - Ma che... - balbettai, quando mi accorsi che era identico a Johann Lindemann. Non mi sarei mai abituato a quella storia degli alter ego.

Il nonnetto ci scansò senza degnarci di uno sguardo, ma lanciando occhiate preoccupate alle sue spalle: il col... generale Mustang lo seguiva a qualche metro di distanza, camminando con calma indolente.

 - Che è successo? - gli domandai, ignorando l’uomo che si allontanava.

 - Lo abbiamo trovato che dormiva in una galleria. - spiegò concisamente lui, scrollando le spalle. - Direi che conosce questo posto molto meglio di tutti noi, quindi è inutile accompagnarlo ad un’uscita. È abbastanza spaventato da andarsene davvero, e non tornare per un bel po’. -

 - E Al? -

 - È rimasto indietro. - sorrise, e agitò pigramente una mano in aria. - Non ti preoccupare, Acciaio: a differenza di te, tuo fratello può essere lasciato da solo per più di cinque minuti senza timore che si cacci nei guai! -

Stavo per rispondere con qualcosa di pungente, ma le mie parole furono coperte da un grido che riconobbi subito provenire da mio fratello, nonostante fosse distorto dal rimbombo delle gallerie. Ci irrigidimmo, e vidi i volti degli altri due distorcersi in una smorfia terrorizzata che doveva essere identica alla mia. Mustang imprecò, girandosi nella direzione da cui era venuto, e io corsi subito in avanti, urtandolo involontariamente.

In uno degli infiniti corridoi che si incrociavano non c’era luce: mi fermai, scivolando leggermente in avanti a causa delle suole consumate. Alphonse era in piedi, schiacciato contro la parete, la schiena contro una scritta a vernice rossa, apparentemente incolume a parte alcuni tagli sulle mani. Di fronte a lui...

Feci cenno a Mustang e al maggiore di fermarsi, prima che venissero visti. Non distolsi lo sguardo dalla... persona? Creatura? Speravo ci fosse ancora qualcosa di umano nel colonnello Holze. Il Presidente Eckhart, nel ‘23, era rimasta fino all’ultimo la stessa pazza psicotica, in fondo...

D’accordo, non era un buon paragone.

Al mi vide con la coda dell’occhio. Non si mosse, e non lo fece neppure l’uomo di fronte a lui.

 - Colonnello Holze. - disse, parlando con voce bassa e pacata. - Sta bene? Si ricorda di noi? Sono il capitano Elric, e questo è mio fratello. Ricorda? - ripeté di nuovo.

Holze mosse lentamente la testa verso di me. Al pari del resto del corpo, anch’essa era ricoperta dalla sostanza nera: non capivo come potesse vedere, o anche solo respirare. Eppure in qualche modo doveva riuscirci, perché mi diede proprio l’impressione che mi stesse squadrando con attenzione.

 - Non le vogliamo fare del male. - aggiunse Al.

Dal colonnello provenne un suono gracchiante, che ci fece trasalire per lo stupore. Stava cercando di parlare? Trattenni il respiro quando mi accorsi che la materia scura sul suo viso si stava muovendo, fino a lasciare scoperto il volto baffuto di Holze. Mi stava fissando, con un paio di occhi che non riconobbi, così freddi e vuoti. Ripeté il suono:

 - B... mb... n. -

 - Che cosa? - chiesi.

 - Ba... mb... n. -

 - Bambino? Intende suo figlio? Klaus non è qui. - lo tranquillizzai.

 - Bambino. - gracchiò quella voce che non conoscevo. La pronuncia migliorava ogni volta che parlava, ma non sembrava afferrare davvero il senso di quello che gli stavamo dicendo. - Dove bambino? -

Cercai con la coda dell’occhio il generale e il maggiore, a qualche metro alla mia destra. Riuscivo a distinguere la stazza dell’Alchimista Nerboruto, ma Mustang non era con lui.

Che diavolo aveva in mente?

 - Klaus è a casa. In Baviera. - spiegai lentamente.

 - Controllare bambino. -

Rabbrividii, capendo a chi si stesse davvero riferendo. Al lo realizzò più o meno nello stesso istante, perché vidi la sua espressione cambiare.

 - Sta parlando di Thomas e Lotte! - disse, angosciato.

 - Non ce n’è bisogno, colonnello. - feci un cauto passo in avanti, e lui non sembrò preoccuparsene. - I bambini sono al sicuro, con noi. -

 - Controllare bambini. Seguire ordini. - replicò. Fece anche lui un passo in avanti nella mia direzione, e me lo ritrovai a meno di mezzo metro di distanza. Cercai di non fare movimenti bruschi, anche se mi spostai leggermente all’indietro quando lui si chinò verso di me, emettendo uno strano rumore col naso.

Mi sta fiutando??, mi chiesi, allibito. Avevo appena formulato il pensiero, che l’ufficiale si fece indietro, avvicinandosi ad Alphonse e annusando la sua camicia come un cane. Mio fratello mi lanciò un’occhiata dubbiosa, ma neppure lui si oppose.

 - Venga con noi. - propose gentilmente. - Vedrà che i bambini stanno bene. Poi torneremo tutti dall’altra parte del Portale. -

 - Controllare bambini. Seguire gli ordini. -

 - Certo, ma... - Al fece per allungare una mano verso il braccio del colonnello; probabilmente aveva deciso che il poveruomo non sembrava volerci attaccare. Tuttavia, il gesto dovette inquietare la mente sconvolta di Holze, perché saltò all’indietro con un movimento rapidissimo, che feci fatica a seguire con lo sguardo. Saltammo anche noi due, per lo spavento, e l’ufficiale scappò nella direzione opposta a quella in cui ero arrivato, verso i corridoi illuminati.

 - Aspetti! - gridai, preoccupato.

In pochi secondi - anzi, millesimi di secondo! - la situazione ci sfuggì completamente di mano: il maggiore Armstrong si materializzò alle mie spalle, e Mustang si parò di fronte al fuggitivo, impedendogli il passaggio. Giusto per creare ancora un po’ più di caos, l’idiota pensò bene di spaventare Holze schioccando le dita e creando delle scintille che lo fecero indietreggiare con un gemito. Immagino non avesse tenuto conto che chi stavamo fronteggiando si comportava più da animale che da essere umano, e come gli animali aveva una paura istintiva e atavica del fuoco.

Balzai in avanti e afferrai mio fratello, rimasto immobile nel bel mezzo della bagarre: quel guerrafondaio del generale sarebbe stato capace di cuocerlo e poi venire da me con aria afflitta a chiedermi scusa.

 - Fermatevi! - implorò Al mentre lo tiravo indietro. - È innocuo, non c’è bisogno di trattarlo così! -

Ovviamente, aveva appena pronunciato quelle parole che l’innocua creatura appoggiò il palmo della mano su una parete della galleria, creando un cerchio alchemico la cui intensa luce verde ci costrinse a ripararci gli occhi con le mani.

 - Tutti a terra! - gridò il maggiore, e per maggior sicurezza ci gettò violentemente al suolo. Feci appena in tempo a chiedermi cosa diavolo ne sapesse Holze di alchimia, che il muro esplose in una nube di polvere e detriti. La creatura sparì nel buco formato dal crollo, correndo nel passaggio parallelo a quello che ci trovavamo; nonostante gli occhi che lacrimavano per il pulviscolo nell’aria, mi alzai goffamente in piedi e cercai di inseguirlo, con Alphonse dietro di me.

 - Torna indietro! - gli ordinai. - Ora che è spaventato può essere più pericoloso! -

Non mi rispose. Non avevo mai davvero creduto che mi obbedisse, a dire il vero.

 

Guardammo in tutti i corridoi che ci capitarono a tiro. Tenemmo le orecchie aperte, sperando di sentire il suono dei passi.

Tutto inutile. Lo avevamo perso.

Non solo. Ci eravamo persi anche noi!

 - Secondo te siamo già passati di qua? - chiesi dopo un po’, quando non ne potei più di correre.

Alphonse recuperò la sua cartina, strappata in così tanti punti da essere inservibile. Nonostante tutto, ridacchiò: - Cosa sarebbe successo se non fossi rimasto con te? - mi domandò.

 - Ora non fare il presuntuoso: neppure tu sai dov’è l’uscita. -

 - No, - ammise lui, - ma so come trovarla. Me lo ha spiegato il generale. - Indicò il numero e la lettera dipinti con la vernice rossa sul muro di quella galleria. - Siamo nel passaggio E88. Cerchiamo i numeri decrescenti contrassegnati dalla stessa lettera, e arriveremo all’uscita. Ad un’uscita, almeno. -

Il cunicolo perpendicolare a quello, in effetti, era segnato come E87. Cominciammo a camminare.

 - Mi domando, - riprese dopo un po’ - perché il colonnello Holze sia ridotto così. Al Presidente Eckhart non era successo nulla di simile. -

 - Credo sia una questione di tempo. - commentai. - Anche lei, dopo un po’, aveva dato segni di cedimento: quando eravamo tornati dall’altra parte del Portale, era completamente fuori di sé. -

 - Già. Voleva a tutti i costi tornare di qui per distruggere questo mondo, anche se era ferita in modo tale da reggersi a malapena in piedi. -

 - Cambiamo argomento. - sbottai, a disagio.

Per alcuni secondi, Al non parlò. L’unico rumore che sentivo era quello del suo respiro che andava regolarizzandosi, da qualche parte dietro di me.

 - Ed... -

 - Mh? -

 - Cos’è successo sei anni fa tra te e Winry? -

 - Affari miei! - esclamai, con una voce così isterica che mi diedi fastidio da solo. Alphonse ridacchiò, il verme!

 - Avete litigato, vero? Per suo marito? -

 - Non era ancora sposata. - rettificai. - E comunque no, non abbiamo litigato. -

 - Allora cosa... - lasciò in sospeso la frase. Trattenne rumorosamente il fiato, poi lo rilasciò facendo altrettanto chiasso. - Non ci credo! - esclamò.

 - A cosa? - domandai innocentemente, senza fermarmi né tantomeno voltarmi.

 - Ma... È come una sorella! -

 - Forse per te. -

Con la coda dell’occhio, lo vidi cercare di recuperare la calma. Era leggermente arrossito.

 - Solo una volta? -

 - Solo una volta cosa? -

 - Piantala, Ed! -

 - ... No. - ammisi, sentendo un fastidioso calore sul viso. - E comunque, non sono affari tuoi. Io non ti ho mai chiesto nulla della tua vita coniugale, no? -

 - Quindi è possibile che Alex... -

 - No. - tagliai corto. - Ha quattro anni, me l’ha detto lui stesso. -

 - La cosa ti rende felice o triste? -

Non risposi. Non lo sapevo neppure io.

Lo sentii sospirare. - Riusciremo a tirare fuori di qui il colonnello e riportarlo a casa? - mi chiese.

 - Non ne ho idea. -

E, in ogni caso, anche se ci fossimo riusciti, e lui fosse sopravvissuto ad un secondo passaggio nel Portale, cosa sarebbe cambiato? Il poveretto avrebbe dovuto come minimo essere rinchiuso da qualche parte. Nonostante avesse riguadagnato in fretta la capacità di parlare, non pareva in grado di formulare un discorso coerente: inoltre, nella sua mente sembrava essere rimasto solo l’ultimo ordine che gli era stato impartito, quello di controllare i ragazzi, oltre a una ferrea ostinazione a seguirlo...

Mi fermai di colpo. Al per poco non mi venne addosso.

 - Che c’è? - domandò, in ansia.

 - Thomas e Lotte. - esalai. - Ho detto al colonnello Holze che erano con noi, e lui ci ha annusati... - mi voltai e lo presi per le spalle. - Non capisci? Ora sa come trovarli! -

 - Seguendo il nostro odore! - comprese lui, il viso distorto in una smorfia di puro terrore.

 - Dobbiamo uscire di qui, Al! Adesso! -

* * *

 

La signora Winry sembrava molto più ansiosa di me e Lotte.

 - Mi domando quanto ci vorrà. - ripeté per l’ennesima volta, mentre se ne stava seduta in una delle due poltrone del salotto e lanciava di continuo occhiate alla finestra.

Io non dissi niente, ben sapendo che quando c’era di mezzo mio zio anche l’operazione più semplice poteva diventare lunga e complicata: mi stupiva che la madre di Alex, che pure lo conosceva da quando era nata, non avesse ancora compreso quel che a me era sembrato ovvio in due mesi di convivenza. Però in effetti dovevo ammettere che quella donna era un po’ incoerente: quando papà ed Edward se n’erano andati, aveva dichiarato seccamente che non aveva la minima intenzione di aspettarli alzati, e che se fossero tornati a qualche ora assurda della notte sarebbero rimasti a dormire sul marciapiede. Eppure ormai la mezzanotte era passata da un pezzo, e non solo lei non era andata a letto, ma si era persino dimenticata di mandarci noi tre!

Ovviamente, tutti noi ne avevamo approfittato: Alex e mia sorella stavano disegnando, sdraiati sul tappeto, dopo aver sparso pastelli dappertutto. Io avevo recuperato un libro dalla libreria alle mie spalle, e passavo il tempo con quello. Non un granché, se devo essere sincero: una storia piuttosto stupida, grondante sangue e malvagità, e talmente assurda che persino io stentavo a crederci. Winry Stonebridge aveva commentato - con tono acido - che era del suo ex marito.

 - Guarda, mamma! - esultò Alex, mostrando fieramente un suo disegno, una specie di croce grigia immersa in un mare azzurro con delle meduse bianche.

 - Un giorno mi spiegherai perché ti piacciono tanto gli aeromobili... - commentò sua madre, con un sorriso stanco.

 - Sono belli. - replicò lui. - E volano. -

 - Anche gli uccelli volano. - commentò Lotte, con logica ineccepibile. Alex fece una smorfia, ma non trovò argomenti per ribattere.

Lasciai da parte il libro nel momento in cui mi fu chiaro che l’assassino era il fratello maggiore, e rimasi a guardare di sottecchi la signora Winry. Seduta in poltrona, a sua volta stava fingendo di leggere, ma i suoi occhi saettavano alla finestra e poi verso il corridoio che portava nell’atrio. Accavallava le gambe, poi le distendeva. Muoveva un piede. Faceva una smorfia. Tornava ad accavallare le gambe, e il ciclo ripartiva. Stava facendo diventare nervoso anche me.

 - Lotte, non hai sonno? - chiesi, giusto per infastidirla. Lei alzò il viso dal foglio giusto per scoccarmi un’occhiata assassina, e io la lasciai in pace.

 - Già, dovreste andare a letto! - si rese finalmente conto la signora Stonebridge.

 - Non ho sonno! - protestò immediatamente suo figlio.

 - Potremmo aspettare che tornino papà ed Ed, signora? - implorai.

Lei ci pensò su, poi si arrese: - E va bene. - concesse. - Ma ad una condizione. -

 - Quale? - domandò subito Charlotte.

 - Che la piantiate di chiamarmi signora Winry. Non sono tanto vecchia, sapete? -

Sorrisi. Era più o meno la stessa cosa che ci aveva detto Ed quando ci aveva ordinato di non chiamarlo mai zio.

Mi piaceva starmene in quella stanza, nonostante l’ansia. Era come tornare a una di quelle serate le serate a casa nostra, prima della guerra, quando potevamo tenere la luce accesa quando e quanto volevamo, e si poteva sprecare tutta la carta che si voleva per disegnare. Mi piaceva anche la signora... cioè, Winry, che mi ricordava mia madre nelle serate in cui papà rincasava tardi: lei cominciava a percorrere il corridoio, dalla porta alla loro camera e ritorno, con alcuni intervalli solo per controllare cosa stavamo facendo noi due. Quando suonava il campanello, si avviava in fretta ad aprire dicendo a se stessa che quella volta gliene avrebbe dette quattro, ma non lo ha mai fatto: sapeva che non era colpa di papà se c’era più lavoro del solito.

Quando suonò il campanello, anche Winry esclamò: - Adesso mi sentono! -

Saltò in piedi e uscì dalla stanza a passo di carica. La sentimmo bofonchiare mentre apriva.

 - Cosa diavolo credono, che sia qui per loro? Fosse per me, li lascerei chiusi fuori... Arrivo, arrivo, volete smontarmi il campanello?? Siete due... -

Il ringhio della donna si trasformò in un urlo che mi fece gelare il sangue. Saltammo in piedi, e la vedemmo tornare di corsa in salotto, con gli occhi fuori dalle orbite: ma, invece di entrare, si parò di fronte all’ingresso della stanza e spalancò le braccia, impedendo il passaggio a chi le stava davanti.

Spalancai la bocca, ma non riuscii ad emettere suono, vedendo quella creatura nera senza volto. Sembrava coperta di fango, o catrame, che però restava saldamente attaccato al suo corpo. Lotte strillò e si nascose dietro di me.

L’essere guardò... o meglio, credo stesse guardando... Winry.

 - Controllare i bambini. Seguire gli ordini. - gracchiò, con voce attutita dalla sostanza scura che gli copriva la bocca.

 - Non osare avvicinarti ai bambini! - gridò Winry. La ammirai per il coraggio, perché nonostante tremasse da capo a piedi non indietreggiò di un passo.

Quello tese le mani, grosse e nere, e nell’aria comparve un cerchio simile a quelli che lo zio disegnava a Monaco, acceso di una luce verde.

Magia... no, alchimia!, pensai, subito prima che una folata d’aria bollente ci colpisse tutti e quattro. Volammo all’indietro, insieme a mobili, soprammobili e tutto quel che c’era nella stanza, come se fosse esplosa una bomba nel salotto.

Colpii violentemente la libreria con la schiena. Caddi, e quella mi rovesciò addosso tutto ciò che conteneva: mi riparai la testa con le mani, anche se non avevo modo di proteggermi dalle vampate roventi che si infilavano nei vestiti, negli occhi e nei polmoni. Credetti di soffocare, e probabilmente, tra questo e la botta, per alcuni istanti persi i sensi, perché non mi accorsi di essere stato afferrato fin quando non mi ritrovai a scivolare con le ginocchia sul tappeto.

 - Aiuto! - gridai, istintivamente. Mi guardai intorno: Winry era riversa al suolo, immobile, e temetti che fosse morta. Lotte non si vedeva da nessuna parte. Alex Stonebridge penzolava dall’altra mano dell’uomo nero.

 - Lasciami! Lasciami! - strillava, lanciando calci e pugni all’aria. - Mamma! -

Mi dimenai a mia volta, e scoprii che l’essere mi stava tenendo non per la camicia, come il bambino, ma per le bretelle. Me le sganciai in fretta, e rovinai al suolo come un sacco.

Per mia fortuna, aveva i riflessi lenti: perse tempo a fissarmi con stupore, e io riuscii ad aggrapparmi ad Alex, tirando per cercare di strapparglielo. Non era facile: la sostanza nera era leggermente oleosa, e mi scivolava.

 - Levagli le zampe di dossi, bestione! - ringhiai.

Mosse la mano libera, come per allontanare un insetto fastidioso. Il bambino aspettò che fosse a tiro e gliela morse con tanta violenza che la mascella gli tremò.

Inaspettatamente, la creatura accusò il colpo: gemette e ritirò la mano, cercando di staccare il piccolo senza mollare la presa sulla camicia. In effetti, ora che ero così vicino notavo che la fanghiglia non era una copertura rigida, come credevo, ma una sorta di seconda pelle; non ho mai capito se avesse delle terminazioni nervose anche lì dentro, o se il morso fosse stato così forte da arrivare fino alla sua carne. Io ne approfittai per alzarmi in piedi e tirargli un pugno in piena faccia, mettendoci tutta la mia forza. Sentii le dita scricchiolarmi, ma in effetti urtai ossa e carne, e non una cosa rigida: anzi, sotto le mie falangi - e il mio sguardo terrorizzato -, la sostanza nera cominciò a muoversi, a spostarsi, lasciando vedere il volto sottostante. Riconobbi il colonnello Holze, l’uomo che ci aveva portati nel Portale, minacciato dalla signorina Steinglocke. L’uomo nero che erano andati a cercare papà e lo zio aveva trovato noi!

 - Lei? - esclamai.

Il suo sguardo mi attraversò. Non mi aveva affatto riconosciuto: per lui ero solo l’intrigante che lo ostacolava mentre cercava di seguire gli ordini. Ero un ostacolo da superare, o eliminare. Nella sua mente non c’era traccia del fatto che io facessi parte di quegli ordini.

Alzò la mano, per riformare il cerchio. Sperai che liberasse Alex per avere entrambe le mani libere: a quel punto, sarebbe bastato cercare di correre a ripararsi dietro qualcosa - c’erano parecchi oggetti dietro cui farlo, ora che tutti i mobili erano rovesciati per terra. Inoltre, proprio in quel momento Winry sollevò la testa e disse, con la poca voce che aveva in gola:

 - Al! -, perché mio padre era appena piombato nella stanza, saltando addosso all’aggressore con un balzo.

Invece l’ufficiale con i baffoni non lasciò andare Alex. Schioccò le dita della mano destra. Si sprigionarono poche scintille, ma lo spostamento d’aria fu, se possibile, ancora più imponente, e mi sbatté contro la parete a velocità maggiore. Una pesante credenza, già rovesciatasi, si ribaltò nuovamente, scoprendo Lotte rannicchiata sotto. Il lampadario crollò, investendo mio padre in un turbine di gocce di vetro tintinnanti prima che potesse raggiungere il piccolo ostaggio.

Sentii la voce di Ed che chiamava il fratello, all’esterno. Conoscendo mio padre, doveva essersi precipitato qui e aver lasciato indietro gli altri: alzai la testa, per capire dove fossi finito e dove si trovassero la creatura e tutti gli altri.

Ero dietro la poltrona, a giudicare dalla fodera a fiori. Mi facevano male le costole. Il colonnello baffuto era ancora in piedi al centro della stanza, ma aveva voltato la testa sentendo mio zio. Forse temette che gli avesse già tagliato la via di fuga più ovvia - la porta d’ingresso -, perché sollevò Alex, ancora penzoloni, e gli circondò la vita con un braccio per trattenerlo più saldamente. Poi avanzò verso la finestra che già la prima detonazione aveva mandato in frantumi, ignorò il debole tentativo di Winry di aggrapparglisi ad una caviglia e il suo grido inarticolato, e uscì da lì.

Merda, pensai stancamente. L’idiota non si era neppure accorto che aveva rapito il bambino sbagliato.

 

 

Pensierino della buonanotte: pensavo venisse fuori un capitolo corto, invece è risultato essere uno dei più lunghi... questo per dire quanto io stessa abbia il controllo delle mie storie. Un grazie a Leuconoee per aver segnalato la mia fanfic per il concorso Storia coi migliori personaggi originali: accedeva solo chi aveva il maggior numero di voti, ma almeno potrò dire di aver guadagnato il punto della bandiera! E visto che ora si concorre per chi scrive più recensioni e più lunghe... cosa state aspettando?

            Siyah: da un certo punto di vista, in amore Al è quello messo meglio (il che è tutto dire!!): almeno lui si è sposato, si è costruito una famiglia, non si è fatto troppi viaggi mentali inutili e non ha sopportato vent’anni di tira e molla, mordi e fuggi, vai, torna, rivai e ritorna...

Sto cercando di non mettere un flashback unico di quel che accadde sei anni prima, perché spezzerebbe l’azione. Inserisco qualcosa qua e là, quando ha senso che Ed o Winry ripensino a quel che è successo. In realtà, già adesso si può intuire che il commiato tra quei due non sia stato nulla di epocale: una cosa del tipo “Beh, io ora vado!”, come già faceva il buon (?) vecchio (??) Hohenheim...

            Yolei87: visto che almeno stavolta hai commentato, puoi scrivere quel che ti pare come ti pare, ma chère! Allora: no, il tenente Howard non è il futuro generale Howard, perché ci sono oltre sessant’anni di distanza tra le due fanfic. Quindi, o il tenente ha cinque anni, o il generale ne ha ottanta, ed entrambi i casi mi paiono poco credibili. Il tenente può essere uno zio, o magari anche il padre, oppure solo un omonimo. Chissà?

(Beh, io lo so. Ovviamente.)

Non ho scritto che cosa pensasse Ed quando usava l’alchimia perché in quel momento mi era più comodo usare Al, e perché avevo intenzione di soffermarmi sulle reazioni di Thomas e Lotte: in ogni caso, il nostro Acciaio dovrebbe usare ancora le sue manine magiche, quindi c’è sempre tempo.

Niente da fare: Ed non ha avuto occasione di spaccare la faccia ad Artie. Non credo lo farà mai, visto che sta cercando - in modo molto velato - di far capire ad una certa persona che lui è più responsabile e affidabile di Stonebridge.

            mery_wolf: anche a me piace molto il periodo storico... cioè, in realtà mi affascina tutto ciò che va dalla Belle Epoque fino alla fine del secondo conflitto mondiali, però in questo caso mi piaceva l’idea di ambientare la fanfic nella Germania della seconda metà degli anni ‘40, durante la caduta del nazismo. Anche solo per fare qualcosa di diverso dal solito, visto che, girando su fanfiction.net, ho notato che le poche ff ambientate durante la Seconda Guerra Mondiale si svolgono sempre in America: è vero che è possibilissimo che gli Elric si siano rifugiati lì all’ascesa di Hitler, però, sinceramente, che gusto c’è a scrivere una storia che si svolge in un periodo di guerra se tanto la guerra è lontana?

              bacinaru: che tristezza vedere un quarantenne e un - rapido conto - cinquantaquattrenne che battibeccano come due bambini... non lo ammetteranno mai, ma loro sono i primi a divertirsi...

            Kiki75: complimenti per la costanza di esserti ripresa tutti i quattordici capitoli precedenti! Grazie per i complimenti immeritati, in realtà per muovere i personaggi del canon uso semplicemente... l’anime. Fullmetal Alchemist è già fatto così bene, con caratteri così ben delineati, che a me è bastato solo aggiungere qualche sfumatura dovuta alle peripezie che io ho pensato per loro nei venti anni passati, e il gioco era fatto. Anche a me Mustang piace molto, specialmente quando Ed è nelle vicinanze: quando litigano (anzi, quando il colonnello punzecchia Edward e lui si incavola) sono esilaranti!

            Obito Uchiha: beh, il sensei resta sempre il sensei, ma un posticino nel mio cuore per Obito lo trovo facilmente. Come si può non amare uno che, dopo essere stato trattato per una vita come una pezza da piedi dal compagno di squadra e aver visto la ragazza che amava fare gli occhi dolci al suddetto compagno di squadra, decide di donare proprio a lui l’occhio sano rimastogli dopo che una frana lo ha ridotto a una frittatina? Obito è il portabandiera dei personaggi sfigati di Naruto - cioè, un po’ tutti.

Lo so che siete tutte curiose di vedere Ed a Artie su un bel ring mentre si riempiono di legnate, ma il nostro alchimista ha deciso che deve fare il bravo bambino per dimostrare di essere migliore di Quello Là. Quindi, per ora, nisba.

            Leuconoee: ti ho già ringraziata per il voto all’inizio del pensierino, dove tutti possono leggere e vergognarsi per essere dei lavativi *sguardo corrucciato*, quindi passo direttamente alla recensione. Spero che la quantità di azione sia stata di tuo gradimento (pure troppa, eh? =) ): Mustang resta un po’ in secondo piano, più che altro perché non è una delle voci narranti, però mi diverto un mondo a metterlo di fianco a Ed e lasciare che la natura faccia il resto. Si divertono troppo assieme quei due, altroché. E per le lacrime di Winry... poveretta, temo che da adesso in avanti ne verserà un bel po’. Io mi sono già trasferita in un bunker a prova di bomba e di chiave inglese, giusto per andare sul sicuro... *lancia un’occhiata preoccupata alla porta a tenuta stagna* Per quanto riguarda il sarcasmo... beh, dopo essere stata presa, mollata, ripresa e rimollata, essersi sposata, aver divorziato ecc ecc, o la prendi così oppure ti tagli le vene!

            Talpina Pensierosa: ho capito, più Mustang per tutti! Non è così difficile, a me piace da morire! Nella mia personale classifica se ne sta ad un dignitoso terzo posto, dopo Ed e Al, e da quando è morto Hughes non deve neppure dividerlo con altri. Sta un po’ diventando presuntuoso per questo fatto, ma appena dice qualcosa in proposito Edward lo zittisce, lui risponde e si scatena una rissa...

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Capitolo 16
*** Un cavaliere senza paura ***


Nuova pagina 1

            16. Un cavaliere senza paura

 

Mi lasciarono da sola in camera mia. Sembravano indecisi su cosa aspettarsi da me - una crisi isterica, un mancamento, un’aggressione fisica...

Non feci nulla di tutto ciò, ovviamente. Presi un profondo respiro, recuperai la valigetta del pronto soccorso e uscii, dicendomi che avrei avuto il tempo di piangere tutte le mie lacrime quando fossi stata sola.

Per prima cosa, chiamai Artie. Ne aveva il diritto, in fondo. E poi era un medico, e Al aveva perso i sensi per alcuni minuti quando il lampadario gli era crollato addosso, perciò sarebbe stato meglio controllare che non avesse nulla di serio. Le sue pupille erano normali, e non riscontrai altri segni di commozione cerebrale o peggio, ma in quel momento trovavo più tranquillizzante l’idea che Arthur desse il suo parere.

Arrivò in meno di cinque minuti, nonostante abitasse in un altro quartiere. Mi abbracciò senza dire niente, sull’ingresso, il respiro pesante tra i miei capelli.

 - Com’è successo? - mi chiese, con voce soffocata.

Scossi la testa, e lui non fece altre domande; lanciò solo un’occhiata veloce a Ed, mentre si dirigeva nella camera degli ospiti. Ricevette in risposta il suo stesso sguardo perso, replicato sul volto tirato di Edward.

Mentre lui si occupava di Al, io visitai Thomas e Lotte. La bambina non aveva altro che dei graffi: la credenza le era volata addosso, ma lei era così minuta da riuscire a rannicchiarsi tra le mensole e uscirne illesa. La lasciai vicina al padre e al fratello, visto che l’unica cosa di cui aveva bisogno era essere tranquillizzata.

Thomas aveva una costola incrinata. Si lasciò spogliare, visitare e medicare senza aprire bocca. Sembrava più piccolo e gracile: era difficile credere che quel corpicino scheletrico e denutrito fosse riuscito a trattenere il mostro nero, anche solo per qualche minuto. Avevo pensato di dargli un antidolorifico, ma alla fine gli offrii una fetta di torta e un bicchiere di latte. Cercai di abbracciarlo senza fargli male.

 - Sei stato molto coraggioso, Thomas. - gli dissi. - E di questo ti ringrazio. -

 - Non sono riuscito ad aiutare Alex. - rispose lui, tetro.

Era esattamente quello che mi sarei aspettata da un Elric. Gli strinsi delicatamente una mano, evitando le sbucciature sulle nocche, e guardai suo padre: Artie lo aveva aiutato a mettersi a letto, e ora stava chiudendo la borsa che si era portato dietro.

 - Non credo abbia riportato problemi alla scatola cranica. - sentenziò, senza voltarsi, ma parlando a Edward che se ne stava sulla porta in disparte. - È stata una bella botta, ma senza troppe conseguenze. -

Alphonse stiracchiò le labbra nell’ombra di un sorriso e si voltò verso il fratello.

 - Così non hai scuse per mettermi da parte. - disse. E visto che Ed stava per parlare, aggiunse: - So che lo avresti fatto. Ma non riuscirai ad impedirmi di aiutarvi. -

 - Al momento non c’è molto che possiamo fare. - dichiarò l’altro, appoggiando una mano sulla testa di Charlotte. - Il generale è andato a buttare giù dal letto tutte le sue amicizie tra esercito e polizia: li costringerà a frugare in ogni angolo di Central City, questo è certo, e saranno molto più efficaci del nostro piccolo gruppo. -

Era sensato, ma nessuno di noi in quel momento aveva bisogno di ragionamenti sensati, men che meno io. Lasciai la stanza e andai a chiudermi in camera mia. Non volevo sentire discorsi pieni di buonsenso finché non fosse spuntata una traccia su dove potesse trovarsi mio figlio.

 

La traccia spuntò due giorni dopo, con la ricomparsa del generale Mustang. Quarantotto interminabili ore, in cui tutti nessuno di noi combinò molto. Perlomeno, io non lo feci. Rispettai il mio proposito e piansi fino a consumarmi gli occhi, e per il resto del tempo cercai di trovarmi qualcosa da fare per non cedere al panico. Finalmente, la mattina del secondo giorno dal rapimento di mio figlio fui svegliata dal rumore della porta d’ingresso che si apriva e dal mormorio di Edward, qualcosa di simile ad un “Alla buon’ora!”. Mi resi conto per la prima volta che non lo avevo più visto né sentito, nonostante vivessimo sotto lo stesso tetto: eppure nessuno di noi cinque era uscito. Era rimasto sempre intorno al fratello? O aveva fatto di tutto per evitarmi?

 -  Datti una calmata, Acciaio! - rispose la voce del generale, anch’essa poco più di un sibilo. - Non è come sfogliare un elenco telefonico! -

Balzai giù dal letto, e nel farlo feci cadere il libro che tenevo sul comodino. Irrazionalmente, mi fermai a cercarlo, a tentoni sul tappeto, nella poca luce che filtrava dalle persiane chiuse.    - Vieni con me. -

Sentii i passi dei due uomini dirigersi verso la cucina, e chiudersi la porta alle spalle;

 - Vado a svegliare Winry? - sentii chiedere da Ed.

 - Aspetta. Sono le cinque di mattina, è inutile buttarla giù dal letto per un’ipotesi non confermata. -

Mi irrigidii. Non la pensavo allo stesso modo.

 - Allora vediamo di confermarla! - sbottò Edward, a voce troppo alta.

 - Spiritoso! Ascolta, hai presente il quartiere residenziale? Bene. È quasi deserto, visto che chi poteva è fuggito per paura dei bombardamenti. Però in una villa in viale Repubblica c’è ancora il custode, che vive nella dependance. -

 - ... immagino di dovermi sorbire tutta la storia, vero? -

 - Lasciami finire: ieri sera il custode ha telefonato alla polizia, perché da due giorni sente il pianto di un bambino provenire da un’abitazione lì vicino, che lui sa per certo essere disabitata! -

Strinsi inconsciamente il libro al petto.

 - Non è possibile che invece i proprietari siano tornati? Per controllare i danni dopo il bombardamento, per esempio... -

 - No. Non hanno bambini. -

Seguirono alcuni istanti di silenzio. Potevo quasi vedere Edward che abbassava gli occhi, corrugava la fronte e serrava le labbra, assorto. Uscii silenziosamente dalla mia stanza e mi avvicinai alla cucina, per ascoltare meglio.

 - Va bene. - sentenziò. - Vale la pena dare un’occhiata. Andremo io e Al. -

 - Troppo rischioso. - si oppose il generale. - Ci penserà la polizia: i loro uomini sono addestrati. -

 - Addestrati a vedersela con un essere che usa l’alchimia? Non credo proprio. -

Trattenni a stento un gemito. Per fortuna, lo sbuffo dubbioso di Mustang lo coprì completamente.

 - E voi due riuscireste a convincerlo a restituirvi il bambino? -

 - Abbiamo maggiori probabilità di riuscirci di una squadra armata. Alphonse aveva potuto persino parlargli, prima che Holze venisse spaventato. -

 - È una follia. -

Entrai, facendoli trasalire.

 - Per favore, generale, - lo supplicai, - li lasci fare. Ed ha ragione, quell’uomo potrebbe ascoltarli. -

 - Winry, così saranno in tre ad essere in pericolo. -

 - Lo so. - ammisi, appoggiando una mano sul braccio di Edward. - Ma lei può assicurarmi che, davanti a delle armi spianate, quella creatura non perda la testa e... - il nodo in gola al solo pensiero mi impedì di proseguire.

Mustang alzò le mani e sospirò. Il suo occhio sano era serio, triste e gonfio. Mi chiesi se anche lui non dormisse da giorni.

* * *

 

Non ricordavo di aver mai visto il generale così affaticato. Mentre accompagnava Al e me alla casa, facendo un riassunto a beneficio di mio fratello di quanto ci eravamo detti, ebbi modo di notare la barba non rasata e l’incarnato pallido, che alla scarsa luce stradale sembrava diventare giallognolo. Avrei dovuto trovare una scusa per farlo restare a casa di Winry, mi dissi; magari per tenere d’occhio la stessa Winry ed impedirle di venire con noi. Invece c’era anche lei in auto, ed ero stato proprio io a perorare la sua causa perché fosse presente.

 - Se non la portiamo noi, - avevo detto al generale e ad Al, - ci seguirà ugualmente. E poi, chissà, potrebbe aiutarci. Potrebbe esserci bisogno di calmare Alex. - avevo aggiunto subito, prima che uno degli altri due mi chiedesse se volevo portarla di fronte ad Holze.

Non c’è che dire: come cavaliere non valgo nulla. Non ero riuscito a tenere lontano dai guai né la fanciulla in pericolo né il giovane scudiero, e lasciavo che a guidare il destriero fosse un uomo privo di un occhio. Speravo almeno che non ci fermasse qualche vigile.

 

Viale Repubblica doveva essere un gran bel posto, di giorno e senza crateri prodotti dalle bombe: si trovava a pochi isolati dalla nuovissima piazza Hughes, su cui si trovava il Parlamento. Dietro gli alberi e i tetti delle ville si intravedeva la sommità di quella costruzione che somigliava ad una macchina da scrivere.

La nostra casa era una villetta relativamente piccola, con una bella veranda al piano terra e vasi di fiori morti sui terrazzi del primo piano; non c’erano luci accese, e non si sentiva nulla, cosa che mi diede i brividi. Dormivano? Alex aveva smesso di piangere?

Ovviamente, Mustang non aveva lasciato il posto sguarnito: nascosti nell’ombra, contai almeno una decina di uomini in divisa, con le armi pronte.

 - Le regole sono queste: - ci illustrò a bassa voce il generale - se restate dentro per più di mezz’ora, noi entriamo. Se sentiamo dei colpi di arma da fuoco, noi entriamo. Se vi sentiamo urlare, noi entriamo. Se... -

 - Se vedete i nostri cadaveri venire gettati dal balcone entrate? - lo interruppi, seccato.

 - Sì. - replicò lui imperturbabile.

 - Bene. Grazie per non averci messo ansia. -

Al sospirò, ma tenne gli occhi bassi e proseguì nel compito che lo assorbiva completamente: infilarsi i guanti con i cerchi alchemici. Winry gliene aveva prestati un paio robusti, di pelle, che probabilmente erano appartenuti a Stonebridge.

 - Fate attenzione. - disse Winry. - Dovete uscire tutti e tre sani e salvi. -

Al l’abbracciò, baciandola sulla fronte come se fosse stata una dei suoi figli.

 - Lo faremo. Promesso. - le disse.

C’era dell’aria calda. Non capii bene da dove venisse, ma la sentii arroventarmi guance e orecchie. Ci misi alcuni istanti a capire che ero arrossito, più o meno quando mi venne voglia di prendere mio fratello per un orecchio e staccarlo da lì.

Che verme che sono., mi dissi distogliendo lo sguardo. Geloso di Alphonse.

 - Andiamo? - chiesi.

Winry si sciolse dall’abbraccio, asciugandosi gli occhi. Allungò una mano, ma ci ripensò subito e mi sfiorò a malapena un braccio con la punta delle dita. Nella sua agenda mentale sotto il mio nome dovevano esserci le parole “porco traditore”, come minimo.

Attraversammo in fretta il giardino della villetta, controllando che alle finestre non ci fosse nessuno. Arrivati alla porta, scoprimmo che, ovviamente, era chiusa.

 - Questa volta voglio farlo io. - sussurrò Al, sorridendo nonostante la tensione. Batté le mani e le appoggiò sul legno, con gesto consumato, come se avesse smesso di usare l’alchimia solo due minuti prima. Il rumore della serratura che cedeva ci fece rabbrividire (io avrei semplicemente fatto un buco nella porta, ma il mio fratellino era il solito gentiluomo anche nello scasso), anche se fu talmente debole che lo sentimmo solo noi due.

 - Tu piano terra e io primo piano? - chiesi.

 - Sicuro che sia una buona idea dividerci? - replicò Al.

 - No, però almeno se uno di noi se lo trovasse di fronte potrebbe distrarlo fino all’arrivo dell’altro. Ammesso che si lasci distrarre. - concessi.

 - E che non abbia ancora imparato a usare l’alchimia del fuoco del generale. - fece notare Alphonse.

Quello sarebbe stato un problema.

Feci per appoggiare un piede sulle scale, ma mi fermai appena in tempo. Erano di legno, e non sembravano nuovissime: il minimo scricchiolio mi avrebbe tradito. Controllai velocemente che Al fosse entrato in una stanza, sperai che nessuno mi vedesse in quel momento, poi mi tolsi le scarpe e salii i gradini a balzelli.

Questo agli eroi dei romanzi non capita mai: le imprese non si compiono con un paio di calze, che tra l’altro sono state rammendate così tante volte (da Margarethe, non da me) da non avere quasi più stoffa... ma tanto non potevo scendere più di così nella stima di una certa signora.

Sul pianerottolo del primo piano, mi fermai, vedendo una lama di luce nel corridoio altrimenti buio. Filtrava da una porta socchiusa, che raggiunsi. In realtà il pannello di legno era stato staccato brutalmente dai cardini, e poi nuovamente appoggiato al suo posto, e io conoscevo pochi ladri che si sarebbero presi il disturbo di farlo. Mi contorsi per sbirciare senza espormi troppo alla vista, e il cuore mi saltò immediatamente in gola: Alex era raggomitolato su un divano al centro della stanza, gli occhi chiusi e un pollice in bocca. Per alcuni terrificanti istanti temetti il peggio, ma subito dopo notai il suo respiro, e rifiatai anche io. Il bambino doveva essere completamente esausto, se davvero aveva strillato per due giorni. Holze era dietro di lui e mi dava le spalle, e sul momento non capii cosa stesse combinando.

Mi infilai frettolosamente le scarpe e osservai attentamente la camera: quella dove mi trovavo era l’unica porta, e le due finestre erano coperte da quella che mi sembrò carta da pacco, per evitare che la luce fosse visibile dall’esterno. Per il resto, c’era solo il tavolino davanti al sofà su cui era appoggiata la candela accesa che rischiarava appena l’ambiente e un tappeto polveroso sotto entrambi i mobili.

Avevo bisogno di Al. Ritornai sui miei passi per cercarlo, e quando ricomparve nell’atrio attirai la sua attenzione con frenetici gesti della mano, indicandogli di salire. Gli feci anche segno di togliersi le scarpe per non far rumore, e lui ebbe il buongusto di non ridere; abbassò però lo sguardo sui dannatissimi stivali militari che aveva deciso di indossare di nuovo insieme alla divisa, e sul suo viso comparve una smorfia di disappunto. Avrebbe impiegato un’eternità per levarseli!

Mi trattenni dall’alzare gli occhi al cielo per non ferire i suoi sentimenti, e tornai a controllare nella stanza. Compresi finalmente che Holze stava mangiando, in una maniera animalesca che mi disgustò. Alzò la testa, facendomi ritrarre istintivamente, ma si limitò a ruttare sonoramente e tornare alla sua cena, senza dar segno di essersi accorto della mia presenza. Abbassai di nuovo lo sguardo su Alex.

E incrociai un paio di enormi occhi castani.

Mi portai un dito davanti alla bocca, sperando che il povero bimbo non si agitasse. Poi mossi la mano per fargli segno di restare fermo. Controllai di nuovo Al, che non aveva fatto grandi progressi.

Se solo il divano fosse più vicino, mi dissi, o Holze più distante! Serrai gli occhi, e mi morsi un labbro. Rifletti, Ed, rifletti. Come avvicinarsi al bambino senza essere visti?

Un movimento di Alex riportò la mia attenzione su di lui. Il cuore mi mancò un battito quando lo vidi scivolare sul tappeto senza emettere suono: pensai che stesse per mettersi a correre verso di me, ma lui aveva già dato prova di essere molto più intelligente di quanto mi aspettassi, perché non si alzò da terra. Prese a gattonare verso di me.

Ero impietrito. Lo guardai avvicinarsi come se ogni centimetro fosse lungo un chilometro. Due metri, un metro e mezzo. Un rumore di passi sulla scala. La testa di Holze si spostò lievemente verso sinistra. In una frazione di secondo capii che Al non sarebbe mai arrivato prima che Holze si accorgesse dei movimenti del bambino. 

Agii d’impulso. Spalancai la porta con un calcio e feci un passo in avanti. Chiusi le dita sulle braccia ossute di Alex e lo tirai verso di me senza sforzo, in un gesto brusco che probabilmente gli fece male. Holze fu subito in piedi, e io istintivamente strinsi più forte il piccolo, cercando di coprirlo il più possibile con le braccia.

 - Ed! - gridò Alphonse, subito dietro di me, sulla porta.

Appoggiai la mano sulla testa bionda di Alex, avvertendo le sue piccole mani che mi stringevano convulsamente la camicia.

 - Bambino! - ruggì la creatura nera.

Se fosse riuscito a usare l’alchimia, e scaraventarmi contro il muro come aveva fatto con Winry, Thomas e Lotte la volta precedente, non sarei più riuscito a difendere il bambino. Non avevo altra possibilità: diedi le spalle a Holze e tesi Alex a mio fratello.

 - Corri! - gli ordinai. - Portalo immediatamente fuori, io lo trattengo! -

Vidi un moto di ribellione nei suoi occhi, ma non gli lasciai il tempo di protestare. Non avevamo tempo. Gli gettai letteralmente il piccolo tra le braccia, e tornai a fronteggiare il mio avversario.

Non feci in tempo, ovviamente. Una folata bollente mi sollevò da terra e mi sbatté sulla parete a destra, facendo scricchiolare l’automail.

Mi ritrovai a faccia in su senza sapere come ci ero finito. Holze aveva superato il divano, e puntava alla misera candela sul tavolino.

No!, pensai, battendo istintivamente le mani. Il cemento del pilone portante alle mie spalle si trasformò in un pugno diretto verso l’uomo, che lo costrinse a scartare di lato. Ne approfittai per saltare in piedi e aggredirlo frontalmente.

 - Bambino! - ripeté lui. Lo colpii una volta con l’automail, una seconda. Parò il terzo colpo, gli tirai un calcio. Lui rispose con un pugno alla mascella. Lo colpii allo stomaco. Mi sgambettò, il bastardo!, e batté le mani. Dalla parete di mattoni uscì un’enorme mano diretta verso di me.

Errore! Utilizzai di nuovo il mio pilone, e il pugno disintegrò la manona.

Risi, asciugandomi con il dorso della mano il sangue che usciva dal labbro spaccato.

 - I mattoni che compongono le pareti interne non sono altro che argilla. I piloni portanti di una casa sono di cemento armato. - gli dissi.

Quando un uomo dalla mano d’argilla incontra un uomo dal pugno di cemento, l’uomo dalla mano d’argilla è un uomo morto!*

Ringhiò come un cane pronto ad azzannare, ma aveva il respiro affannoso. Anche io, del resto, ed ero molto più indolenzito di quanto credessi possibile: ogni muscolo del mio corpo protestava, impreparato ad uno sforzo simile e consumato da mesi di privazioni. Non ero più un ragazzino. Certe acrobazie erano ormai troppo per me. Per fortuna, neppure Holze era messo meglio: sotto la scorza nera c’era pur sempre un cinquantenne robusto che doveva aver fatto ben poca attività fisica nonostante fosse un militare. Era veloce, d’accordo, ma la sua resistenza aveva dei limiti.

 - Fuoco! - ansimò.

 - Scordatelo! - ribattei, chinandomi per tornare ad attaccarlo se avesse tentato di schioccare le dita.

 - Fuoco! - ripeté, la voce colma di panico.

Finalmente, sentii l’odore. Fumo? Mi voltai.

La maledetta candela si era rovesciata durante la lotta, rotolando giù dal tavolino e appiccando il fuoco al tappeto. Non mi piacque la velocità con cui si propagavano le fiamme.

 - Colonnello, dobbiamo uscire da qui! - dissi, tendendo una mano (l’automail, per sicurezza) verso di lui.

 - Fuoco! - strillò la creatura, saltando indietro. - Fuoco, fuoco, fuoco! -

 - Stia tranquillo, possiamo salvarci. Venga con me! -

Mi ignorò. Si appiattì contro la parete, tremando, e cominciò a muovere freneticamente le dita della mano destra.

 - Non lo faccia! - gridai, intuendo i suoi intenti.

La folata arrivò, spingendomi indietro e rovesciandomi. Era sempre bollente, ma meno violenta di prima; puntellandomi su un gomito, mi sollevai.

 - Misericordia! - esalai.

Sapevo che l’alchimia del fuoco era una tecnica molto difficile da apprendere e controllare. Holze non ne era capace: aveva copiato i rudimenti, ma questi non bastavano minimamente. Quella volta era riuscito a usare l’ossigeno per accendere la fiamma, ma non era stato in grado di dirigerla, causando un’esplosione di scintille che aveva incendiato praticamente ogni cosa, compresi noi due. Mi battei le mani addosso per spegnere i vestiti, mentre la creatura nera lanciava urla sempre più forti, accecata dal dolore a dalla paura.

 - Dannazione, stia fermo! - ringhiai, togliendomi in fretta il soprabito e gettandoglielo addosso. Mancai il bersaglio, ma solo perché Holze si spostò subito. - E magari già che c’è veda di collaborare! Sto cercando di aiutarla! -

 - Ed! -

Alphonse era ricomparso, e ora fissava sbalordito un grazioso salotto alto-borghese che si trasformava in un forno. Lo fermai prima che decidesse di diventare la braciola da cuocere.

 - Al, corri fuori! Chiedi a Mustang se può chiamare i pompieri, e fai allontanare tutti. È completamente fuori controllo. -

Giusto per dare credibilità alle mie parole, Holze batté le mani e subito uno spuntone di cemento forò la parete un paio di metri sopra le nostre teste.

 - Io cerco di fermarlo. - decisi.

Lui non parve felice della mia idea (non lo ero neppure io): si tolse la giacca della divisa e me la lanciò, prima di sparire di corsa.

 - A noi due! - esclamai. - Ho promesso a Klaus che l’avrei riportata indietro, e lo farò! -

Sollevò il viso nero ustionato.

 - Klaus? -

Trattenni il fiato. Ricordava qualcosa?

 - Klaus, sì. Suo figlio. - Da qualche parte, sentii il rumore di un crollo. - Che ne dice di andare a parlare di lui fuori da qui? -

Mi fissò a lungo, e visto che non sembrava volermi aggredire ne approfittai per avvicinarmi. Non si oppose; gli passai la giacca di Al sulla schiena per spegnere le scintille. Che capisse o meno, mi importava poco. C’era ancora qualcosa di umano in lui!

 - Venga con me! - lo presi per una mano e cominciai a trascinarlo fuori, evitando il tappeto in fiamme. - Faccia attenzione... Metta il piedi qui... attento! -

Dal soffitto cadevano schegge di legno infuocato, mentre gli scricchiolii si moltiplicavano. Quanto avrebbero retto quei muri? Tutto il materiale usato nella lotta era stato tolto da altre parti, la struttura stessa della casa doveva essere compromessa.

Holze strillò, quando una fiammella gli cascò in testa, bruciando una parte della sostanza nera che lo ricopriva. Gli passai la giacca sulla testa per spegnerla.

 - Tutto a posto. - dissi. - Ora... -

L’uomo nero mi spinse a terra e, mentre ancora mi riprendevo dalla sorpresa, saltò indietro. Batté le mani.

 - Non tocchi i muri! - urlai.

Da sotto la giubba scaturì una fiamma, che in un istante avvolse il colonnello e lo trasformò in una torcia. Emise un gemito raccapricciante, che ancora oggi risuona nei miei incubi, e dopo pochissimi istanti si accasciò al suolo.

Rimasi a guardare quella scena orribile senza riuscire a distogliere lo sguardo, né a correre in avanti per aiutarlo. Non avrei potuto fare comunque nulla, e in ogni caso non sapevo più dove andare: il fuoco mi circondava le caviglie, iniziava ad attaccarsi all’orlo dei pantaloni e non mi lasciava nessuna via di fuga.

Uno schianto sulla mia testa mi strappò allo stato di trance. Alzai gli occhi, in tempo per vedere il soffitto venirmi incontro e i muri richiudersi sopra di me.

Merda, pensai, battendo per l’ultima volta le mani.

* * *

 

Passò un’ora prima che trovassero il corpo.

 - Signor Elric... - mi chiamò uno dei pompieri, esitante.

Ad Amestris, il corpo dei Vigili del Fuoco faceva parte dell’esercito. Quindi, il generale Mustang aveva fatto valere tutta la sua autorità per mobilitarne il più possibile: sembrava che tutto il Quartier Generale di Central City fosse lì, impegnato a scavare. E pensare che era crollata solo metà della villetta, mentre l’altra restava in piedi, spettrale nella polvere che non si era ancora posata del tutto.

Mi alzai, ignorando la testa, la schiena, le braccia e le gambe che dolevano: avevo continuato anche io a spostare macerie a mani nude, senza badare a tutti quelli che mi ripetevano di andare a riposare. Il generale Mustang girò il viso, per fissare l’uomo che era arrivato con l’occhio sano.

 - Dovrebbe seguirmi. Se la sente? -

Stava cercando di usare tutta la delicatezza di cui era capace, ma non fu difficile capire il perché di quella richiesta: spostai rapidamente lo sguardo su Winry, in piedi oltre il recinto che separava il giardino dalla pubblica via. Era immobile, gli occhi sgranati e il volto di pietra, e stringeva Alex tra le braccia con furia possessiva, come sfidando il mondo a strapparglielo di nuovo. Non riuscii a capire se avesse sentito, ma doveva aver comunque intuito.

 - Arrivo. - dissi.

Mi accompagnò davanti ad una sorta di buco tra i detriti. Era là, al centro di quel cratere artificiale.

Esattamente come avevo immaginato, il cadavere era completamente carbonizzato. Al buio, mi riuscì difficile anche solo vederne i contorni tra le macerie. Mi inginocchiai sul bordo, e i miei muscoli si torsero dolorosamente, ma me ne accorsi appena.

C’era ben poco di umano in quell’ammasso contorto. Niente capelli, niente vestiti, solo ossa annerite e poca carne, rossa e così puzzolente  che dovetti trattenere un conato di vomito. Tremai convulsamente per la tensione, e allungai il collo per osservare meglio.

 - Lo riconosce? - mi chiese qualcuno.

Non risposi. Continuavo a guardare quella povera creatura, pensando freneticamente e piantandomi le unghie nelle cosce.

Se solo mi fossi sbrigato. Se solo avessi corso più velocemente...il generale mi aveva già detto che sarebbe servito solo a farmi seppellire insieme a quei due, e una parte di me lo sapeva benissimo. Ma la verità è che, davanti alla morte, difficilmente si ascolta la voce della ragione.

Sentii del movimento alle mie spalle, poi il gemito di Winry. Pochi istanti dopo, lei mi fu a fianco, un’onda di capelli biondi che invase il mio campo visivo; si era gettata bocconi alla mia sinistra, le mani sul viso.

 - Al... - mi implorò, graffiandosi le guance.

Le passai un braccio intorno alle spalle e la strinsi.

 - Non è lui. - dichiarai.

Winry si voltò di scatto, così come tutti quelli che ci stavano attorno.

 - Come fai a dirlo? - mi chiese, aggrappandosi alla mia camicia. Voleva credermi con tutte le sue forze, ma non ci riusciva.

 - Le scarpe. -

La voce del generale Mustang suonò calma, sicura, il tono del professionista che sta facendo il suo lavoro. Per un istante mi chiesi quante persone lui avesse ridotto in quello stato. Fu un pensiero fugace, subito scacciato da un sollievo che quasi mi fece piangere.

Il cadavere non aveva più i vestiti, ma le scarpe non erano bruciate del tutto: si vedeva ancora la spessa suola degli stivali militari, che le fiamme non erano riuscite a squagliare completamente.

 - Ed indossava delle scarpe basse, con le stringhe. - spiegai, a Winry come a me stesso. - Le sue suole erano molto più sottili di queste, tanto più che erano vecchie e logore. -

Lei mi ascoltò ad occhi spalancati, bevendosi ogni parola. Poi si coprì il viso con le mani è scoppiò in lacrime.

 - C’è ancora speranza... - sussurrò, con voce spezzata. - C’è ancora speranza. -

La abbracciai, senza dire nulla. Lei riusciva ancora a crederci, io facevo sempre più fatica a convincermene; la vista del corpo devastato del colonnello Holze, invece di tranquillizzarmi, stava cominciando a rendermi ancora più rassegnato al peggio.

Dovevano essere vicini, al momento del crollo. Se lui era ridotto così, cosa poteva essere rimasto di Ed?

 - Alphonse? - mi chiamò Winry, ricomponendosi. - Mi sei testimone. Appena riesco a riportare a casa quell’idiota di tuo fratello, non gli permetterò mai più di scapparmi. Mai più. -

C’era una nota isterica nella sua voce. Cercai in tasca un fazzoletto da offrirle, ma quando lo trovai lo macchiai con le mie dita sporche. Lei non ci fece neppure caso, e me lo strappò di mano per asciugarsi gli occhi, le mani che tremavano appena.

 - Lo ami, Winry? - chiesi.

Si morse il labbro.

 - Non posso impedirmelo. - ammise con dolcezza.

 - Anche lui ti... - mi interruppi. Stavo per dire anche lui ti amava.

Stavo già usando il passato. Il pensiero mi fece rabbrividire.

Da qualche parte, qualcuno urlò.

* * *

 

Qualcuno urlò? Non me ne accorsi. In realtà, non mi accorsi di nulla finché qualcuno non mi toccò una guancia con un dito; solo allora ripresi conoscenza. Aprii a fatica le palpebre, che sembravano appiccicate tra loro, trovandomi di fronte un uomo nero dalla testa ai piedi: viso nero, capelli neri, abiti neri. Pensai fosse Holze, che forse la sostanza nera lo avesse protetto, ma mi accorsi subito che quella pellicola scura in particolare era solo un impasto di fuliggine e sudiciume.

 - Finalmente! A forza di schiaffeggiarti, mi stavano cominciando a far male le mani! - sbottò quello, alzando cinque dita polverose come il resto del corpo.

 - Mi hai a malapena sfiorato, Al. - rettificai. La mia voce suonò così roca e debole che feci fatica a riconoscerla. Mio fratello si alzò faticosamente in piedi e lasciò il posto ad un paio di pompieri.

Non ricordo granché dei minuti che seguirono. So solo che avvertivo fitte in ogni parte del corpo, e che quando mossi l’automail scoprii che del braccio restava giusto qualche cavo, un po’ di metallo annerito e contorto e tre dita.

Winry mi avrebbe ammazzato. Sarebbe stata così furiosa da non accorgersi che il mio braccio vero era rotto, oppure ne avrebbe approfittato per staccarmelo a morsi.

Comunque, quei simpatici ragazzi assoldati dal generale mi tirarono fuori dalle macerie senza ulteriori danni alla mia carcassa. Uno di loro era abbastanza espansivo da spiegarmi pure come avevo fatto a salvarmi:

 - Due travi sulla sua testa si sono incastrate tra di loro, e hanno fermato la parete che le è crollata addosso. - diceva allegramente. - Non mi spiego come sia possibile, ma le fiamme devono essere state spente dalla polvere, se no avrebbero consumato tutto l’ossigeno presente nel buco in cui lei era finito... -

 - ... oltre alle tue misere ossa, Acciaio. - terminò Mustang, gioviale.

 - Veramente ho usato l’alchimia. - rettificai, punto sul vivo. - Ho spostato l’ossigeno e... in ogni caso, grazie per la spiegazione scientifica. - mi voltai verso Al. - Holze? L’avete trovato? -

Nonostante la maschera di sporcizia, vidi la sua espressione mutare di colpo. Chiusi gli occhi.

 - È morto, vero? - chiesi.

 - Mi dispiace. -

 - Alla fine si era ricordato di suo figlio. - mi coprii il volto con quel che restava dell’automail e piansi.

 

 

 

 

* Solo per questa frase meriterei di essere scuoiata. Non ho resistito. È saltata fuori mentre ero sola in casa e ne approfittavo per immaginare i movimenti di Ed e Holze in una stanza di medie dimensioni (nella fattispecie, il salotto di casa mia... non ridete. Sono una persona pignola metodica).

 

Pensierino della buonanotte: non ho mai saputo che pensare del colonnello Georg Holze. Mi dispiaceva ucciderlo, anche se razionalmente sapevo che era inevitabile, che intraprendendo la strada “sostanza nera + follia” lo avevo di fatto condannato a morte; però mi rattristava l’idea di eliminare un personaggio che alla fin fine non sembrava poi così cattivo. Ha anche aiutato Ed, un tempo, quando lo aveva dichiarato inabile alla leva. La sua colpa è stata la passività mostrata con Hedwig, il suo non opporsi ai piani del Presidente: ha badato solo al suo orticello, e anche la decisione di salvare Alphonse sul Reno era dettata solo da interessi personali (aveva bisogno di soldati per il piano di Hedwig, così ha ne ha approfittato per portar via il figlio Klaus dal fronte: la vita di Al era del tutto contingente, se anche fosse morto non si sarebbe affranto). Einstein diceva che “Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l'inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare”, e Holze ne è la prova vivente - o morente, dipende dai punti di vista.

Ora passo a rispondere, scusandomi in anticipo se a dicembre tardassi a pubblicare: in teoria dovrei laurearmi, quindi è possibile che in questi mesi sia un po’ impegnata, sempre se riuscirò a placcare il relatore della mia tesi e costringerlo ad ascoltarmi, cosa che mi ha reso difficile pubblicare in tempo questo capitolo...

Nota dell'ultimo minuto: grazie a Leuconoee per avermi fatto notare l'erroraccio degli occhi di Alex, che da castani sono diventati azzurri nella prima versione di questo capitolo! Sono corsa a correggere vergognandomi come una ladra...

            Obito Uchiha: Winry incinta per un anno intero? L’incubo di tutte le donne in gravidanza! Poveretta...

            Leuconoee: non so se considerare quella di Winry una crisi isterica o meno: cioè, in una situazione simile sarebbe stato ragionevole, e anche in tutte quelle in cui si è trovata nella serie... ora che scrivo, sto cominciando a pensare che il problema di questa ragazza non sia la lacrima facile, quanto l’innegabile fatto che la gente intorno a lei si fa sempre un male cane...

Sì, la faccenda della glassatura nera è inventata a partire da quel poco che si è visto nel film, e cioè che i soldati con le armature e Miss Ora Spacco Tutto Con Le Mie Armate Del Male sono usciti ridotti come cormorani della Louisiana, mentre Ed e Al hanno fatto avanti e indietro senza danni. Ho pensato quindi di spiegare la cosa nel modo più semplice possibile, e cioè che le persone nel nostro mondo non possano attraversare il Portale (questo conduce a tutta una serie di domande tipo “ma allora ci sono differenze genetiche tra le due popolazioni?” a cui non voglio neppure tentare di rispondere...); la storia della pazzia di Holze è ancora più inventata, perché il Presidente ha dato segni di squilibrio (...cioè, di squilibrio più forte del solito...) solo alla fine, prima che l’alter ego di Hughes la uccidesse. Del resto, anche in questo capitolo ho inventato tutto quel che capita quando non si padroneggia l’alchimia del fuoco, usando un po’ di conoscenze in chimica e molta fantasia... alla fine, tre anni di chimica a cosa mi son serviti? A scrivere fanfiction! Andiamo bene...

Sì, ho dei grossi problemi a rendere i combattimenti. Lo ammetto. Oltre ai problemi logistici - finisco sempre per creare battaglie in salotti o altre stanze chiuse, ma questa è colpa mia -, temo sempre di spezzare la tensione: ho cercato di seguire il tuo consiglio, facendo frasi più brevi e lasciando i pensieri a dopo, ma senza le riflessioni del personaggio il testo diventava noioso da morire. Sembrava di seguire un incontro di tennis alla radio... Per quanto riguarda il numero di capitoli, annuncio che ne mancano solo più due più l’epilogo, quindi... manca poco!

Lindemann? Avevo paura che la gente non si ricordasse più di lui: fortuna che non è così!

            Kiki75: Alex è intonso! Alla fine dello scorso capitolo, a dire il vero, mi sentivo un po’ stupida a creare tutta quella tensione: chi crederebbe, pensavo, che io voglia davvero uccidere Alex? Per questo stesso motivo non ho tirato per le lunghe la ricerca di Ed sotto le macerie: era impossibile crederlo morto per davvero, chiunque si aspetta che lo tirino fuori ancora vivo.

            Liris: la scena di Winry è vista con gli occhi di Edward, che hanno già dimostrato di non essere per nulla obiettivi su quell’argomento... guarda se si può, mi stava diventando geloso del fratello!

 

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Capitolo 17
*** Il tempo di sapere ***


17. Il tempo di sapere

 

Resembool. Il luogo idilliaco di cui mio padre, Ed e Winry parlavano come se si trattasse del Paradiso in terra, con occhi sognanti e un sospiro nostalgico appena trattenuto.

Resembool, il paese più noioso in cui abbia mai messo piede. Un buco che contava più pecore che abitanti, e dubito che la situazione sia cambiata: sembra uno di quei posti in cui tutto si mantiene sempre invariato. Potevo capire perché Winry volesse andarsene. L’avrei fatto anch’io.

- È normale che la pensi così. – mi disse mio padre con pazienza, il giorno che tornavamo dal cimitero in cui era seppellita mia nonna Trisha. – Sei nato e vissuto in una città enorme. –

- Anche Lotte, - ribattei – ma lei non sembra contrariata. –

Per mia sorella, quei prati sconfinati erano il più grande parco giochi che avesse mai visto, e Alex il suo compagno ideale; per buona parte del giorno sparivano dalla circolazione, e sapevamo che si trovavano ancora nei dintorni solo grazie alle risate e agli strilli che sentivamo chiaramente nel silenzio appena rotto da belati e scampanellii di greggi, oppure perché tra l’erba alta si intravedeva una testa dorata che sfrecciava. Infatti, mi sorpresi quando li vidi tutti e due seduti ai piedi di Edward, calmi e zitti come non lo erano da giorni, gli occhi sulle sue mani.

I movimenti di mio zio erano più facili da prevedere: da quando era uscito dall’ospedale, due settimane dopo il terribile incidente, e tutti quanti eravamo arrivati a Resembool, si era limitato a brevi spostamenti dentro e intorno alla casa di Winry, per quanto gli permettevano le sue ossa doloranti e rotte in più punti. La padrona di casa gli aveva vietato categoricamente di aiutarla a impacchettare i suoi averi per il trasloco a Drachma, e dopo avergli riparato gli auto-mail danneggiati continuava a tenerlo d’occhio come e più che Alex per controllare che mio zio non cominciasse a strafare come suo solito. Cautela che condividevamo tutti, in realtà, ma alla fine eccessiva: Ed se n’era rimasto buono, anche perché si stancava facilmente e i muscoli atrofizzati dall’inattività dovevano ancora rinforzarsi. Quel pomeriggio, comunque, se ne stava davanti all’officina ad osservare quello che da lontano mi parve un uccello con un’ala rotta. Era invece uno dei tanti giocattoli volanti di Alex, con corpo di cavallo. A quanto pareva, perché qualcosa interessasse il bambino doveva potersi sollevare da terra, equini compresi.

Non ero sicuro che mio zio fosse bravo nei lavori manuali, finché non mi ricordai dell’alchimia. Difatti, in un battito di ciglia (e di mani!) il giocattolo fu di nuovo intero, e persino con una criniera più fluente di prima e alcuni dettagli a dir poco raccapriccianti, come sella e finimenti borchiati e alcuni inquietanti spuntoni che coronavano la coda. Mio padre e Winry sospirarono, ma non fecero commenti; i bambini lo osservavano ammirati, e non sembrarono neppure accorgersi delle modifiche. Persino Arthur Stonebridge, seduto su una sedia vicina, aveva smesso di leggere per osservare l’operazione con aria dubbiosa.

- Sei sicuro che quell’affare volerà? – gli chiese. Mio zio non lo degnò di una risposta. Invece raddrizzò la schiena, sollevò il cavallo volante e lo osservò da ogni angolazione, con la cura di un orologiaio, prima di consegnarlo ai due bambini.

- Eccolo qui. – disse. – Trattatelo bene! –

- Diamogli un nome! – esclamò Alex, eccitato.

I due corsero via per provare il nuovo giocattolo, discutendo sul battesimo dell’aria del loro gioiello, sotto gli occhi divertiti degli adulti presenti. Winry sembrava la più felice. Appoggiata allo stipite della porta d’ingresso, in una salopette logora e impolverata, teneva le braccia incrociate al petto e gli occhi sulla testa di suo figlio, sorridendo tra sé.

- Non l’ho mai visto così felice. – dichiarò.

- La sua passione per tutto ciò che vola sfiora l’ossessione! – rise Arthur.

- Se non diventerà un meccanico, - disse mio padre – potrà sempre essere un ottimo pilota! –

- Non dirlo neppure per scherzo, Al! – protestò la madre apprensiva.

L’unica cosa che mi piaceva di Resembool era l’aria distesa che si respirava in casa, nonostante la presenza sotto lo stesso tetto di Arthur e Winry. Lei non scattava appena l’ex-marito apriva bocca, e lui era più educato, anche se questo probabilmente era dovuto al fatto che, con Ed fuori gioco, si sentiva l’unico galletto del pollaio, il solo in grado di aiutare Winry con scatoloni e mobili pesanti. Per qualche motivo, non vedeva mio padre come un rivale, e non lo infastidiva che lui fosse d’aiuto. All’epoca non capivo il perché: del resto, sapeva che mio padre era vedovo, quindi, tecnicamente, un potenziale rivale… non ci pensai troppo a lungo. Riuscii persino ad avere un paio di conversazioni costruttive con il signor Stonebridge, che come me amava molto leggere, ma il fatto che non conoscessi uno solo dei capolavori della letteratura di quel mondo gli fece assumere in fretta un tono supponente che infastidiva me e mise a dura prova la pazienza di mio padre, il quale quanto ad apprensione non era secondo a nessuno.

- Oh, a proposito… - Winry si schiarì la gola – ho finito di fare i bagagli. –

Il clima si raffreddò di colpo. Ed e papà si scambiarono un’occhiata: quello era il segnale che aspettavano. Era arrivato il momento di andarsene. Lo avevano procrastinato con le scuse che Ed era convalescente, Winry andava aiutata nel trasloco, che non sapevamo se la guerra nel nostro mondo fosse finita… ma il tempo era davvero scaduto. E poi tutti sapevamo che il povero Klaus Holze era di certo in pena per la sorte di suo padre: la verità sarebbe stata dura, ma logorarsi nel dubbio non poteva essere tanto meglio.

- Domani torniamo a casa. – dichiarò mio padre. La sua voce non era né allegra né triste. Semplicemente piatta.

- Oh, aspettate almeno un giorno in più! – protestò Winry. – Domani sarà il compleanno di Alex! –

- Winry, - disse pacatamente Arthur, - Alex compirà cinque anni, sa a malapena cosa vuol dire una festa di compleanno. Non obbligare i tuoi ospiti a restare, se non vogliono… -

- No, certo. – si corresse in fretta la donna, arrossendo. – Solo, credo che gli farebbe molto piacere se lo passerete con noi! Non abbiamo mai invitato nessuno, per una volta che ha un’amica... – si interruppe e ci lanciò un’occhiata implorante.

Ed e papà si guardarono.

- Beh, - iniziò lo zio – in effetti sarebbe carino... lui e Lotte sembrano inseparabili. E poi potremmo dare una mano per fare una festicciola carina, visto che ci hai praticamente impedito di aiutarti a impacchettare i mobili. –

Mio padre mi interrogò con lo sguardo.

- Buona idea. – commentai. Uno o due giorni in più non mi avrebbero di certo ucciso di noia. E poi era l’ultima occasione che avevo per fare una scorpacciata della buonissima torta di Winry, prima di tornare alla solita dieta di guerra.

- Allora è deciso. – annuì Ed. Winry lanciò uno strillo di gioia, e io non riuscii a fare a meno di guardare la faccia di Arthur Stonebridge. Il suo sorriso sembrava più un rictus.

* * *

 

Alex non aveva mai avuto una festa di compleanno in senso stretto. Del resto, aveva imparato da poco il giorno del suo stesso compleanno: quando era più piccolo, semplicemente un bel giorno si alzava e tutti gli facevano gli auguri, ma aveva un’idea vaga del perché. Senza contare che tutti includeva me, Artie e la zia Amelia, quindi non era neppure una festa degna di questo nome. Perciò, mi impegnai perché il sette maggio di quell’anno potesse essere epocale: grazie a Lotte, mio figlio fu distratto abbastanza a lungo da permettere a noi altri di preparare addobbi casalinghi… e piuttosto stentati, ma ci dovemmo arrangiare con quel che c’era in casa.

- Comincio a sentire le dita insensibili! – scherzò Arthur ad un certo punto del pomeriggio. – Non pensavo che le catene di anelli di carta fossero così faticose da costruire! –

- La colla è pessima. – mi scusai. – Non la uso mai, deve essere anche secca. –

- L’abbiamo allungata con un po’ d’alcol. – mi tranquillizzò Al, senza neppure alzare gli occhi dalla creazione che gli scivolava dal ginocchio fin sul pavimento, come una coda multicolore.

- Stasera la cucina sembrerà un carcere. – ridacchiò Ed.

- Qualcuno ha altre idee? – lo rimbeccai.

- Passo. – si arrese lui. – E comunque, davanti alle tue torte è difficile notare le decorazioni della stanza. –

Accettai il complimento, e tornai a lavorare sul dolce in questione, canticchiando. Era una bella giornata. L’avrei resa ancora più bella per Alex, e poco importava che l’avrebbe scordata presto, come capita ai bambini.

 

Non la scordò, anche se torta e decorazioni c’entrano poco. Ogni tanto me ne parla ancora, e so per certo che l’ha raccontata ai suoi figli. Non so in che termini: se come una fantastica barzelletta o in toni da tragedia… più probabile la prima. Alex ha un senso dell’umorismo particolare, ereditato da suo padre, direi, perché nessuna persona sensata è in grado di capirlo. Mi piace considerarlo l’unica vera eccentricità di mio figlio. Beh, a parte gli aerei.

La causa della trasformazione di un semplice compleanno in una data memorabile è di Ed, ovviamente. È sempre colpa sua. Però a iniziare fu Arthur – e anche questo è piuttosto scontato.

All’inizio, fu un commento sgradevole davanti al regalo degli Elric: un aquilone che tutti gli Elric avevano contribuito a creare, senza alchimia. Ed lo aveva costruito con bacchette di legno e carta, poi Al e Thomas l’avevano decorato, colorandolo e aggiungendo una bella coda con della carta crespa che non ricordavo di avere in soffitta. Lotte aveva aggiunto un grosso fiocco rosso e legato dei bottoni, che pendevano tutti intorno come perline: suo padre non aveva avuto il coraggio di fermarla, e io non avrei voluto che lo facesse.

- Tratta bene i tuoi regali. – disse Artie. – Se questo nuovo aquilone si rompe, nessuno te lo riparerà. –

Edward gli lanciò un’occhiata che avrebbe steso un elefante. Alex, fortunatamente ignaro di tutto, annuì e basta.

Sul momento non ci badai, e non ritenni neppure che il mio ex marito parlasse per invidia. Il suo regalo – un aeromobile, neppure a dirlo – era più bello e costoso del giocattolo di legno, e questo soddisfaceva gli standard di Arthur. Inoltre, Alex aveva mostrato lo stesso entusiasmo per entrambi. Doveva essere solo una frecciatina velenosa rivolta a Edward, però a sbottare fui io:

- Artie, eviteresti di rovinare la festa al bambino? – sibilai.

- Ah, è sua la festa? – replicò lui, velenoso.

Trattenni una rispostaccia solo perché i bambini erano tutti a portata di orecchio. Mi rivolsi proprio a loro, facendo notare che era ora di andare a letto.

- Ha ragione. – disse Alphonse, spegnendo sul nascere le proteste di Thomas, che senza aggiungere altro si alzò e si accomiatò al pari degli altri. Mi chiesi, con trepidazione, se un giorno sarei stata anche io in grado di farmi obbedire così da Alex, come riusciva a fare Al. Avevo una gran voglia di chiedergli come facesse, ma lui avrebbe di sicuro risposto che non era nulla di speciale…

E poi, non c’era tempo. Se ne sarebbero andati tutti la mattina dopo. Io e Alex avremmo preso il treno nel pomeriggio. Stava finendo tutto velocemente.

- Mi aiuti a portare su Ala di Cartone? –

- Cosa, amore? – chiesi, interdetta. Lui alzò l’aquilone. – Oh, certo. Si chiama Ala di Cartone? –

- Sì. E lui è Ala di Ferro. – puntualizzò, sollevando nell’altra mano l’aeromobile.

Portammo a letto i bambini e Ala di Cartone. Ala di Ferro sarebbe rimasto sveglio tutta la notte per fare la guardia, spiegò seriamente Alex, così se gli aeromobili di Aerugo fossero arrivati avrebbe potuto mandarli via prima che bombardassero Resembool. Ovviamente Ala di Cartone non poteva, perché non era un vero aeromobile e non l’avrebbero riconosciuto.

- Allora, - suggerì Ed, - è meglio metterli entrambi vicini alla finestra, così se Ala di Ferro si addormenta il suo amico può svegliarlo. –

Questo lo convinse definitivamente. Spensi la luce della sua cameretta, e chiusi la porta. Mi accorsi di sorridere ancora perché vidi la stessa espressione sul volto degli altri.

- Se ora dorme davvero, - dissi – e non si mette a giocare, questa sarà una giornata memorabile. -

- Propongo di finire la birra e poi imitare i piccoli. – suggerì Al.

- Ottima idea. – approvai. - Voi andate pure, io vado un attimo a togliermi queste scarpe, mi stanno uccidendo! –

- Te l’avevo detto di tenere le pantofole. – mi prese in giro Artie.

- Le tenevo in serbo per un’occasione speciale. – risposi, volutamente ambigua. Solo con lui dovevo sempre pesare le parole.

Andai in camera mia, e calciai quelle stupide décolleté sotto il letto, maledicendo chi le aveva costruite male fino alla quarta o quinta generazione; mi sedetti sul letto a massaggiarmi i piedi indolenziti, e lo sguardo mi cadde sul libro vicino al comodino. Lo aprii e recuperai la foto che usavo come segnalibro.

Io, Ed, Al. Una vita prima. Prima di tutto. Chissà se Alex sapeva chi rappresentava quella fotografia, se aveva capito di averli conosciuti entrambi in quei giorni…

Quando qualcuno aprì la porta, non alzai neppure gli occhi per controllare chi fosse.

- Hai bisogno di qualcosa, Artie? -

Lui si schiarì la gola.

- Mi piacerebbe accompagnarti alla stazione, domani. – dichiarò.

- Grazie, sei molto gentile. – risposi, neutra. – Però non è il caso che ti disturbi. Domani avevo comunque intenzione di accompagnare Ed, Al e i bambini a Central City, avremmo preso lo stesso treno. –

- Non vedo che bisogno ci sia di partire al mattino, se la coincidenza è al pomeriggio. Non puoi restare ancora qui? Quei quattro saranno in grado di trovare il treno da soli, se davvero hanno vissuto qui per anni! –

- Ti sembra carino mettere alla porta degli ospiti? –

Lui si sedette di fianco a me, e gli cadde lo sguardo sulla foto che tenevo in mano.

- Winry… - sospirò. – Sei sicura che sia gente di cui ti puoi fidare? –

- Sciocchezze! – sbottai. – Li conosco da sempre. E in ogni caso, ora non ha più molta importanza, no? –

- Lo dico per te. Se davvero li conosci da così tanto tempo, dovresti sapere che Edward Elric è un disertore che l’Esercito cerca da anni. -

- Lo so. – risposi con naturalezza.

- Lo sai? – esclamò lui, sbigottito.

- Non alzare la voce. Certo che lo sapevo, e da molto più tempo di te… - socchiusi gli occhi, mentre un sospetto si faceva strada nella mia mente: - non sarai stato tu ad andare a denunciarli, vero?? –

Strinse le labbra e si voltò.

- Come hai potuto, Artie? – gridai.

- Era mio dovere, in quanto cittadino ligio alle leggi. – si difese, gonfiando il petto. – Non è che hai intenzione di andare con loro in qualunque posto siano diretti, vero? –

- Ora non far sembrare che sia tutta una macchinazione ai tuoi danni! Non ho mai pensato nulla di simile. –

- Guarda che a me non interessa. –

- Davvero? Allora questa non è una scenata di gelosia? – lo punzecchiai.

- Perché dovrebbe esserlo? – replicò, incrociando le braccia al petto. – Sei tu che ti sei praticamente buttata tra le mie braccia, quattro anni fa, per colpa di quell’imbecille. Sei libera di farti di nuovo usare, ma stavolta non venire a cercare consolazione da me! -

In quel momento esplosi.

* * *

 

Disposi le candeline abbandonate sul tavolo in modo da formare un sole a cinque raggi. Alex aveva soffiato con tutte le sue forze, ma all’inizio ne aveva spente solo quattro.

Di sopra, nessun accenno ad una fine della discussione. Anzi, peggiorava. Alzai lo sguardo per incontrare quello di Al, sopra il boccale. Dannazione a lui e alle abitudini che aveva preso nell’Esercito! Se avesse avuto meno birra, avremmo potuto fingere di andare fuori a prendere una boccata d’aria, ed evitare di restarcene in ascolto! Senza neppure parlare, entrambi bevemmo più in fretta, continuando a scambiarci sguardi ansiosi.

- Ma certo! Certo! Adesso che hai trovato qualcun’altro che mantenga te e quell’alienato di tuo figlio, non hai più bisogno di me, non è vero? -

Sentii le guance bruciare, questa volta per la rabbia. Alex era in camera sua, e di certo capiva perfettamente quel che veniva detto.

- Non osare mai più parlare così di Alex! -

Povero bambino. Forse era impegnativo, con quel suo modo di fare così fuori dagli schemi, ma questo era indice di un’intelligenza vivace, e chiunque l’avrebbe capito, anche senza essere un medico. Avevo l’impressione che Stonebridge odiasse tutto quel che è fuori dall’ordinario: un bimbo troppo sveglio, due uomini che saltano fuori dal nulla, estranei in casa sua... tutto ciò su cui non avesse il controllo lo infastidiva, perchè ne aveva paura. Chissà allora come aveva fatto a innamorarsi di Winry, che è fuori dal comune sotto molti punti di vista. Forse gli piaceva l’idea di fare la parte del buon samaritano che consola la fanciulla afflitta, appena mollata da un cafone che non la merita. Mi sembrò di risentirlo, alcune settimane prima, quando mi aveva detto Spero non ti dispiaccia se, quando mi hai lasciato campo libero, ho tentato di infilarmici. Converrai che, vista la donna, ne valeva la pena... l’ho conosciuta alla vostra festa della tosatura, la primavera dopo che te n’eri andato. Il discorso di uno spaccone. Scossi la testa tra me e me, e avvicinai di nuovo il bicchiere alle labbra.

... alla vostra festa della tosatura...

Imbecille. Che diavolo ci era venuto a fare, poi, alla festa della tosatura? È un medico, non un veterinario!

... la primavera dopo che te n’eri andato...

Che enorme cre...

Aspetta un attimo.

Al aggrottò le sopracciglia, vedendo che mi ero immobilizzato.

- Tutto bene? - mi chiese.

Lo ignorai.

Primavera??

- Ed? -

Appoggiai il bicchiere. Dato che, quando glielo avevo chiesto, Alex mi aveva detto di avere quattro anni, era plausibile che Artie fosse comparso sulla scena intorno alla primavera del ‘34, in tempo per metterlo in cantiere.

Però Alex aveva cinque anni. Lo aveva detto proprio Arthur. Avevo visto cinque candeline sulla torta.

Contai sulle dita, freneticamente.

Una volta. Due volte. Tre, per maggior sicurezza. Il volto di Alphonse ormai era una maschera di preoccupazione.

- Ed! -

Ero sempre stato bravo con i calcoli. E capivo qualcosa di gravidanze: sapevo benissimo che la nascita di solito avviene circa duecentosessantasei giorni dopo il concepimento. Più o meno nove mesi.

Ergo, dal sette di maggio del ‘34, cioè del 1940, si doveva tornare indietro fino al quindici agosto del 1939, giorno più, giorno meno.

Quel giorno, Arthur non poteva essere con Winry: non solo perché non si conoscevano ancora, ma perché c’ero io.

L’estremità di uno dei festoni appeso tra di noi, una catena di stelle filanti che Alphonse e Thomas avevano incollato con pazienza per metà pomeriggio, si staccò e cadde tra noi, oscillando pigramente senza raggiungere il tavolo. Mi attraversò il campo visivo un paio di volte, prima di fermarsi davanti al mio naso, dividendo perfettamente a metà il volto di mio fratello.

- Al! - ansimai. - Alex... Alex è mio figlio! -

Alphonse irrigidì le spalle. Aprì la bocca, ma non riuscì a trovare nulla da dire, e se ne rimase a ripetersi mentalmente - lo sapevo - gli stessi calcoli che avevo fatto io.

- Oh, per la... - balbettò fiaccamente, - per la miseria! -

Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli, poi tornò a fissarmi con gli occhi sgranati. Gli stessi occhi scuri di Alex. Come avevo fatto a non accorgermene? Erano gli occhi di mia madre.

Mi scolai quel che restava nel bicchiere.

- Devo andare a parlare con Winry. - dissi.

Certo, il momento non era proprio dei migliori. Sembrava che quei due dovessero arrivare alle mani da un momento all’altro. Ciononostante, decisi che avevo il sacrosanto diritto di sapere, e salii le scale deciso ad aspettare il momento buono per interromperli.

Persi tutta la mia grinta appena arrivai davanti alla porta. Me ne rimasi come un idiota dietro l’uscio chiuso, aspettando un momento di quiete.

- Continua pure a giocare con i tuoi aggeggi metallici. - stava dicendo Stonebridge, la voce ovattata dietro il pannello di legno, ma comunque così forte da rimbombare in tutta la casa. - Quando sarai in mezzo ad una strada, io non ti aiuterò di certo! -

- E chi li vuole i tuoi soldi! - strillò Winry. - Possibile che tu non sappia pensare ad altro? Giudichi il mondo in base al costo! -

- Certo, perchè è su questo che il mondo si basa! -

- Per fortuna Alex non ti è rimasto abbastanza vicino da essere contagiato dalle tue ossessioni! -

Sbirciai istintivamente verso la camera di Alex. La porta era socchiusa. Cominciai ad avvertire il sangue rombarmi nelle orecchie, mentre una furia sorda cresceva dentro di me, come una creatura viva che cercasse di uscire. Strinsi i pugni per trattenerla.

- È immune dalle mie ossessioni, come le chiami, perché vive fuori dal mondo. Diventerà un disadattato, e sarà solo colpa tua! -

La creatura diede una codata da qualche parte vicino al mio stomaco, e non ci vidi più dalla rabbia. Afferrai la maniglia ed entrai, così inaspettato che i due trasalirono e si fermarono come burattini. Winry era praticamente di fronte a me, mentre Arthur aveva voltato la testa per guardarmi. Mi avvicinai a lui e, senza dire una parola, gli sferrai un pugno che lo fece rovesciare a terra. Scordai i muscoli doloranti, il fatto che Stonebridge fosse molto più grosso di me, la presenza di tutte le altre persone in casa. Guardai Artie rovesciarsi a terra emettendo uno squittio sorpreso, per poi portarsi una mano alla guancia e alzare uno sguardo sbigottito su di me.

- Fuori. - dissi, indicando la porta.

Una parte di me avrebbe desiderato che si ribellasse e mi aggredisse, almeno avrei avuto la scusa per dargliene ancora. Lui invece non fiatò né si oppose, ma saltò in piedi e si eclissò; non mi curai neppure di controllare, ma rimasi immobile, a testa bassa, ansando per lo sforzo e la rabbia.

Ascoltai i suoi passi scendere pesantemente le scale, arrivare al piano terra e percorrere il corridoio, dove incrociò Alphonse e lo spintonò – a giudicare dall’esclamazione di protesta di mio fratello. Quando la porta d’ingresso si chiuse con uno schianto, alzai lentamente il viso. Anche Winry era rimasta pietrificata, e incrociando il mio sguardo parve afflosciarsi sul letto, stringendo ancora tra le dita il pezzo di carta che avevo intravisto prima, ma non avevo considerato... in quel momento, mi accorsi che si trattava della foto che Alex mi aveva mostrato a Central City, la sera in cui eravamo arrivati.

Sei tu il bambino della foto? mi aveva chiesto. E io avevo confermato, chiedendomi il perché di tanto interessamento.

- Hai detto ad Alex che suo padre era il bambino della foto? – domandai.

Winry sollevò la testa di scatto, arrossendo.

- Come lo sai? –

Scossi la testa, e andai a sedermi di fianco a lei, prendendo in mano la fotografia e guardandola con occhi nuovi.

- Ecco perché me lo ha chiesto... – sussurrai. Un pensiero mi fece rabbrividire: - Ha saputo che ero suo padre prima ancora che io scoprissi di avere un figlio. –

- Dannazione ad Artie e alla sua boccaccia! – sibilò Winry.

- Per una volta gli devo essere grato, invece. – ribattei. – A quanto pare, tu non avresti avuto intenzione di dirmelo. –

- E cosa sarebbe cambiato? – sbottò lei, e dalla stizza la sua gamba ebbe uno scatto e sbatté contro il mio ginocchio d’acciaio. – Ora lo hai scoperto. Domani tornerai nel tuo nuovo mondo, e non lo vedrai più. Non sarebbe stato meglio non sapere? -

Strinsi le labbra. Forse sì. Forse sarebbe stato meglio non aver generato un figlio, in generale, vista la situazione in cui ci trovavamo noi due. Però Alex c’era, e dopo averlo conosciuto non riuscivo a desiderare completamente che sparisse.

- No, non sarebbe stato meglio. – decisi. – Sono felice di averlo visto. Sono felice... – mi interruppi, imbarazzato. – Sono felice di aver contribuito a farlo esistere. –

Chissà quando era stato, esattamente. Sperai che non si trattasse né della prima né dell’ultima volta in cui io e Winry avevamo fatto l’amore: entrambe difettavano di romanticismo, avevamo addosso troppa foga, per motivi diversi. Le volte intermedie erano andate meglio: dopo aver aspettato per decenni, ci eravamo presi il nostro tempo... non avevamo più fretta.

- Ti somiglia. – disse Winry. – Non riuscivo a credere che non lo notassi. –

- Non è vero! – protestai. – Ha lo stesso colore di occhi di Al e della mamma, ma per il resto è identico a te. –

- I lineamenti sono i tuoi. Ha persino il tuo stesso naso! –

Ripensai al volto di Alex. Non avevo notato nulla di particolare che potesse essere ricondotto a me, ad essere sincero: avrei dovuto guardare meglio. L’avrei fatto il giorno dopo, nel viaggio in treno. Almeno sarei stato sicuro di imprimermi a fondo nella memoria il viso di mio figlio...

Il viso che aveva a cinque anni, mi corressi. Se fossi tornato a Monaco, non lo avrei mai visto compiere i sei. Né i sette. Né i diciotto. Non avrei mai saputo quando gli sarebbe caduto il primo dente, quando avrebbe iniziato la scuola...

- Devo tornare indietro con Al. – mi dissi, parlando ad alta voce. – Lui ha lasciato Amestris solo per seguirmi. –

- Ed, sono sicura che Al capirà se tu volessi... – si interruppe, e io mi voltai a guardarla. C’era una luce nei suoi occhi... di speranza? Possibile?

- Tu vorresti che restassi qui? – le domandai. – Dopo che me ne sono andato e ti ho lasciata sola? Dopo... aspetta, com’era?... che ho fatto i miei comodi? –

- Devo ammettere che te li ho lasciati fare. – ribatté lei con dignità. – E mi sono piuttosto divertita. –

Sorrisi, ma non mi lasciai sviare.

- Non devi decidere ora. – stabilì Winry, appoggiando la foto sul comodino per non dovermi guardare. – Fallo domattina, e poi... -

- Winry, no. – decisi. – Sul serio, non credo che ce la farei a cambiare di nuovo tutta la mia vita. E per di più rischiare di passarla a scappare dall’esercito. –

Fu sul punto di insultarmi. O di colpirmi. O entrambe. Lo vidi chiaramente, ma non potevo farci niente. Non avevo la forza di ricominciare un’altra volta da capo, in un mondo che ormai riconoscevo a fatica. Non riuscivo a pensare di dover rientrare in una guerra, ora che speravo di essermela lasciata alle spalle. Allo stesso tempo, non aveva senso seguire Winry a Drachma: oltre alle difficoltà che le avrei fatto ricadere addosso (attraversare la frontiera con un disertore? Temo sia reato...), sarebbe stata solo un’altra forma di esilio, e io ero stufo.

- Voglio un posto da chiamare casa. – dissi. Lo volevo disperatamente. Lo cercavo da trent’anni, da quando avevamo bruciato la prima casa.

- E questa cos’è? – ribatté Winry.

- Questa è un’abitazione che domani si svuoterà. – risposi. – Era casa mia solo perché c’eri tu. –

Lei si morse il labbro inferiore e si alzò di scatto, per allontanarsi da me. Afferrò uno scatolone che giaceva in terra ancora aperto e finse di guardarci dentro.

- Molto bene. – esordì appena recuperò il controllo sulla sua voce. – Vuoi salvare capra e cavoli, e così facendo scontenti tutti. –

- Sembra il riassunto della mia vita. – sospirai.

- Già, ma se questa volta ascolti me prima di gettarti a testa bassa e combinare disastri, potremmo limitare i danni. – Si sedette di nuovo vicino a me, incrociando le braccia al petto.

- Hai una soluzione? –

Ce l’aveva, come temevo. Era la possibilità a cui non avevo mai voluto pensare.

- No. – decretai.

- È l’unica strada percorribile. – fece notare lei.

- Maledizione, ho detto no! Con che faccia lo racconterei ad Al?? –

- Promettimi almeno di prenderla in considerazione! –

- L’ho già fatto sei anni fa, e l’ho scartata! –

- Fallo di nuovo, e stavolta mettici più impegno! –

- Bene, passerò tutta la notte a trovare dei motivi per non seguire il tuo piano strampalato. –

- Ottimo! –

 

Ehm...

No.

Non passai tutta la notte a cercare motivi. Non ci pensai affatto. Quella donna terribile mi trovò altro da fare.

- Qualche idea? – mi domandò Winry la mattina dopo, fingendosi interessata. La sua voce arrivava ovattata alle mie orecchie, visto che parlava con la bocca appoggiata alla mia spalla nuda.

Grugnii, e me la strinsi più vicina.

- Nessuna. Stavo pensando a quando uscirò da quella porta e guarderò in faccia mio fratello. – borbottai.

- Ah. –

- Gli dirò che siamo rimasti a giocare a scacchi fino a tardi. –

- Sai giocare a scacchi? –

Aprii gli occhi, e la trovai che mi guardava con aria innocente. Sgusciò dal mio abbraccio e appoggiò la testa sulla mano, puntellandosi con il gomito per osservarmi dall’alto in basso. I capelli sciolti scivolarono a coprirle le spalle e i seni, eliminando una fonte di distrazione non indifferente.

- Allora? – mi domandò.

Sospirai.

- Facciamo a modo tuo. – mi arresi. – Però poi non dire che non ti avevo avvertito! –

 

 

Pensierino della buonanotte: ohi, voi due! Rivestitevi all’istante, che se no mi tocca alzare il rating!

Eccomi qui, in ritardo mostruoso come avevo preannunciato: era mia intenzione pubblicare dopo la tesi, ma visto che questa è stata ritardata fino al venti, e io ho continuato a scrivere nei buchi di tempo, sono riuscita ad organizzarmi un po’ prima. E a dare libero sfogo alla mia sensibilità EdWin, non so se lo avete notato.

Oh, e vi ho già detto che adoro Alex? Ecco, nel caso non si fosse capito, lo ribadisco. Adoro Alex. È una questione genetica, credo, perché adoro pure il suo papà...

bacinaru: grazie mille per i complimenti! Sì, questo è – ufficialmente – il penultimo episodio. C’è ancora l’ultimo e l’epilogo: inizialmente mi ero data come termine l’addio ad Amestris (se no sarei andata avanti in eterno!), ma alla fine mi sono concessa un mini-episodio che spieghi che fine hanno fatto i nostri amati Elric... sempre ufficialmente, in realtà volevo scrivere dei pargoli cresciuti! Sono la prima a non seguire le mie stesse regole, lo so.

Leuconoee: oddio, grazie per l’appunto sul colore degli occhi di Alex!! Che vergogna... nella primissima stesura, Alex aveva anche gli occhi azzurri di Winry: ho cambiato in seguito, un po’ per dare a Ed una qualche prova della paternità, e un po’ perché io stessa volevo che Alex avesse anche qualcosa del notevole papà... però la parte della liberazione del bambino l’ho presa parola per parola da questa stesura (cosa strana, perché di solito rimaneggio tutto), e mi son scordata di ricontrollare! Che mi serva da lezione.

La frase sull’argilla e il cemento purtroppo non era un proverbio cinese...veniva da Per un pugno di dollari, è una delle frasi celebri di Clint Eastwood: quindi, un anacronismo enorme. Mi salvo pensando che non sia un pensiero dell’Ed degli anni Quaranta, ma dell’Ed che sta raccontando, che quindi ha già visto quel film.

Concordo sul fatto che Holze ha fatto una fine molto peggiore di Hedwig (arso vivo... mamma mia!). Mi sarebbe piaciuto il contrario, però ho incontrato parecchi problemi: Hedwig non era stupida, non si sarebbe buttata in un Portale sapendo quel che era successo al Presidente che l’ha preceduta; Holze non aveva motivo per uccidere Ed una volta che l’arpia se n’era andata; soprattutto, volevo che Edward tornasse da Winry senza rimorsi di coscienza nei confronti di Hedwig, per non complicare ulteriormente la loro situazione sentimentale con un’ex fidanzata sosia ammazzata involontariamente...

E per rispondere al tuo dubbio amletico: la bellezza è un’arte. Hedwig l’ha coltivata per anni, mentre Winry se ne frega e gira per casa in salopette, bandana e chiave inglese sporca di grasso. È per questo che mi è simpatica.

Liris: concordo, Ed fa la sua porca figura sempre e ovunque. Sconfigge i cattivi, salva gli innocenti, e soddisfa carnalmente le donne, praticamente un eroe da romanzo! L’unico difetto è la fedeltà assoluta ad una sola donna... ma va beh, lo adoro anche per questo.

Siyah: la tua anima EdWin è soddisfatta da questo episodio? :) Non ti preoccupare, lo so che la mia fanfic è scivolosa è fugge subito sul fondo del fandom. È timida.

 

 

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Capitolo 18
*** Nuovi Orizzonti ***


18. Nuovi orizzonti

 

Mio fratello era strano. Rimase silenzioso per buona parte del viaggio in treno, se interpellato rispondeva a monosillabi, lanciava continuamente occhiatacce a Winry – la quale, a sua volta, rispondeva con sorrisetti trionfanti. Attribuii quei comportamenti alla scoperta della sua paternità, e alla notte precedente, in cui non era tornato a dormire nel letto di fianco al mio, finché non mi resi conto che Ed stava anche facendo di tutto per non incontrare il mio sguardo.

Quando arrivammo alla stazione di Central City, riuscii ad afferrarlo per un braccio e allontanarlo leggermente dal resto del gruppetto, complice la calca di pendolari della mattina presto.

- Va tutto bene? – domandai, guardandolo dritto negli occhi.

- Certo! – esclamò, troppo in fretta. – Andiamo, stiamo perdendo di vista gli altri... –

Non lasciai andare la presa, né distolsi lo sguardo. Lui si morse il labbro.

- Cosa stai architettando? –

- Non sono io. – si discolpò. – Davvero, te lo giuro. –

- Ora mi stai spaventando: è così orribile? – chiesi, sentendo un brivido corrermi lungo la schiena.

- Temo di... –

- Ehi, voi due! –

Alzai gli occhi, vedendo il generale Mustang agitare un braccio per attirare la nostra attenzione. Winry, Alex e i miei figli erano accanto a lui, e ci fissavano con curiosità. Insieme a parecchie altre persone nella stazione. Ed approfittò della mia distrazione per allontanarsi, gridando qualche saluto scurrile all’ufficiale; io mi avviai controvoglia, sistemandomi meglio sulla spalla lo zaino che conteneva i vecchi abiti di Edward, Tom e Lotte e la mia uniforme, da riportare indietro con noi al posto dei vestiti troppo moderni che Winry ci aveva prestato. Tutti gli altri avevano almeno un bagaglio ciascuno, che però appartenevano tutti alla nostra amica: era nel bel mezzo di un trasloco, dopotutto, perciò era comprensibile che sfruttasse noi – senza valigie – per portare tutto quello di cui avrebbero avuto bisogno nel breve periodo lei e Alex. Meno comprensibile che si spostasse con mezza Resembool, ma non avrei mai fatto commenti in proposito...

Un’idea mi colpì violentemente, più forte di un pugno. E mille volte più dolorosa.

Edward. E Winry. Lo sapevo, ovviamente – anche senza la storia di Alex, c’era chiaramente qualcosa di insolito tra loro, quella mattina – ma credevo che, se mio fratello avesse preso una decisione in proposito, mi avrebbe almeno avvertito!

Resterà con lei., mi dissi. È così ovvio. Mi sembrava di avere un macigno nel bel mezzo della cassa toracica, ma in fondo lo capivo: se fosse esistito un qualsiasi mondo in cui avessi potuto stare con Caroline, ci sarei corso. Però comprendere non rendeva più facile accettare l’idea che ci saremmo di nuovo separati, e questa volta per sempre.

- Tutto bene, Al? –

Sobbalzai, sentendomi rivolgere la stessa domanda che avevo fatto poco prima a Edward. Guardai Winry, e mi costrinsi ad annuire e sorridere.

- Sì, scusate. Togliamoci da questa calca. –

 

Pranzammo in un ristorante nella parte ovest di Central City, a pochi isolati dall’ospedale. Sapevo che sarebbe stato l’ultimo pranzo decente prima di parecchio tempo, perciò mi dispiacque non riuscire a fare onore alla tavola come i miei figli; piluccai controvoglia sia la bistecca che gli spinaci, e presi il dolce al cioccolato solo perché gli altri insistettero. Quando mi ritrovai nell’enorme grotta sotto la città, di fronte al Portale, mi sembrò che fossero passati pochi minuti dal momento in cui lo avevamo varcato; il generale fugò subito quella sensazione, mettendomi in mano una cassetta metallica delle stesse dimensioni di un mattone, ma molto più leggera.

- La creatura nera. – mi spiegò, neutro.

Deglutii, abbassando lo sguardo su quel che restava del colonnello Holze. Edward mi appoggiò una mano sul braccio, e guardandolo mi accorsi che era impallidito di colpo.

– Avete detto che aveva una famiglia, dall’altra parte. – continuò Roy Mustang, grattandosi la benda sull’occhio. – Ho ritenuto meglio farlo cremare, così da essere sicuro che... beh, che nessuno lo vedesse. –

- Grazie. – disse a fatica mio fratello. Il generale annuì, stringendo le labbra.

- Di nulla. Ora vedi di risparmiarmi la scena strappalacrime, d’accordo? –

- La sola idea di piagnucolarti addosso mi disgusta. – commentò con finta allegria Ed.

Sollevai un sopracciglio. Allora, quando aveva intenzione di dire quel che aveva intenzione di fare? Non adesso, a quanto pareva. Diede una pacca sulla testa a Thomas e Lotte, poi infilò le mani in tasca.

- Andate prima voi. – disse. – Al, metti quella cassetta nella sacca, e tieni bene i ragazzi: non voglio correre rischi. -

- Bene. – sbottai, obbedendo controvoglia. – E tu? –

Appoggiò a terra la sacca di Winry, massaggiandosi la spalla con ostentazione.

- Un attimo e ti raggiungo. Prima devo... scambiare due parole con Winry. – sentenziò, a fatica.

- Prego? – domandai.

- Non vorrai anche un resoconto dettagliato, spero! Sono faccende private. – ribatté sussiegoso.

- Oh... – balbettai, sentendomi arrossire. – Io... io credevo che... –

- Che sarei rimasto? Neanche per sogno. – brontolò lui.

Desiderai prendermi a schiaffi: credevo di conoscere mio fratello, invece non avevo capito nulla. Ma com’era possibile? Non poteva dire sul serio; non poteva lasciarla davvero. E lei lo accettava con calma?

- Perché? – domandai debolmente. – Non ha senso. Lei è la donna che ami. E lui è tuo figlio. Come fai ad abbandonarli, pur sapendolo? -

Il generale fischiò, e si rivolse serafico a Winry: - Glielo hai detto tu? Non può esserci arrivato da solo. –

- Lo sottovaluti. – rispose lei, con lo stesso tono.

Ed sbuffò, ma non raccolse la provocazione.

- Potrei parlare? – chiese. – Grazie mille. Al, - riprese, - ho spiegato la situazione a Winry, e siamo giunti a un accordo. Sai quel che penso: non voglio vivere di nuovo una guerra, e trasferirmi a Drachma non è molto diverso dal finire per l’ennesima volta in un mondo che non conosco. –

- Sì, ma... –

- Potresti darmi fiducia, per una volta? – mi implorò, sorridendo. – Vai avanti con Lotte e Thomas, io definisco gli ultimi dettagli e ti seguo. -

Sospirai; la vita era sua, e aveva diritto di fare quel che gli pareva, in fondo. O, almeno, a un po’ di intimità con Winry. Mi rivolsi quindi al generale Mustang, che mi strinse la mano con tanta foga che temetti volesse maciullarmi la mano,

- Buona fortuna, generale. – dissi, sentendomi commosso al pensiero di salutare definitivamente quell’uomo.

- Anche a te, Alphonse. E ai tuoi bambini. –

- Grazie... mi saluti sua moglie. – aggiunsi, sorridendo.

Lui rispose con una risata imbarazzata; mi voltai verso la mia amica d’infanzia, baciandola sulla fronte. Come toccare una statua di marmo, pensai, da quanto era rigida: la scrutai attentamente, per cercare di capire se fosse emozionata o furiosa con me.

- Ciao. – mormorai, sentendomi un cretino. Mi sorrise calorosamente, spostandosi Alex da un braccio all’altro; il bambino tollerò di essere maneggiato con magnanimità degna di un grande sovrano, ma non smise di rosicchiare il biscotto che aveva in bocca.

- Ci vediamo presto? – domandò, rivolgendosi principalmente a Charlotte.

- Sì, sì. – borbottò in fretta la madre, senza guardare nessuno in faccia. – Saluta per bene, adesso. –

Lui agitò obbediente una mano: - Ciao Lotte. Ciao Tom. Ciao signor Alphonse. –

Non riuscii a fare a meno di ridere, nonostante tutto. Mi chinai per essere all’altezza del suo visetto.

- Me lo fai un regalo? – chiesi. Lui annuì con convinzione. – Mi chiameresti zio Al? –

- Zio Al. – ripeté attento. – Ciao zio Al! –

Gli diedi un buffetto sul naso, e mi allontanai di un passo; ma non potei fare a meno di voltarmi ancora una volta verso Ed.

- Allora... ti aspetto? – domandai, ancora incerto se crederci o meno. – Sicuro? –

- Dammi cinque minuti. – mi assicurò lui.

I bambini mi si aggrapparono alle braccia: nessuno dei due sembrava troppo tranquillo, alla vista del Portale. Vista la loro precedente esperienza, li capivo benissimo... dopotutto, neppure io ero del tutto a mio agio.

- Forza! – esclamai, stringendo le loro mani più forte che potevo. Respirai a fondo, e non distolsi lo sguardo.

* * *

 

- Credo... – borbottai. – Credo che vomiterò. –

Mio padre ridacchiò debolmente, senza alzarsi. Lotte mi assestò un calcio. Si alzò in piedi con agilità, guardandosi intorno per verificare dove ci trovavamo.

- È la stessa sala da cui siamo partiti. – esclamò, sorpresa: sospettai che, come me, non credesse davvero che saremmo ritornati nel posto giusto. Alle sue parole, sia io che papà schizzammo a sedere; la penombra era rotta dalla violenta luce del Portale alle nostre spalle, che investiva gli oggetti e noi tre rendendoci quasi opalescenti. Qualche lama di luce polverosa filtrava dalle persiane. Storsi il naso alla puzza di chiuso e muffa, appoggiai le mani per terra e mi rialzai, trovandomi i polpastrelli e i vestiti ricoperti da una patina grigia di sudiciume.

- Sì, siamo decisamente tornati indietro. – commentai.

- Sembra abbiano seguito il mio ordine di non aprire questa stanza né avvicinarsi al Portale. – disse mio padre, cercando di pulirsi le maniche impolverate. Non se n’era accorto, ma a pochi passi da lui c’era una chiazza marrone che, nonostante non ricordasse più in alcun modo la sostanza originaria, mi fece ulteriormente rivoltare lo stomaco.

- Sangue! – rantolai, indicandola. Lui trasalì e mi guardò come se non mi conoscesse, per poi voltarsi a controllare quel che stava succedendo.

- Dannazione... – sibilò. – Potevano almeno pulire! -

- Tu sai di chi è? – gli chiesi.

- Della signorina Steinglocke. – replicò asciutto.

- Della... oh. – abbassai nuovamente lo sguardo. – È morta? –

- Sì. – mi diede un’occhiata ammonitrice, indicando con il mento mia sorella, che ci fissava con gli occhi enormi.

- Chi è stato? – proseguii.

- O Ernst o Andreas. Non lo so. – ribatté, stringendosi nelle spalle. – E non mi interessa saperlo. -

Per essere sicuro che non ricominciassi a fare domande, si avvicinò alla porta e spinse la maniglia. Ovviamente, non successe nulla. Se la stanza era in quelle condizioni, voleva dire che Margarethe non era riuscita a raggiungerla... e per impedire all’irriducibile locatore di Edward di pulire da qualche parte, bisognava come minimo sprangare ogni ingresso a tale luogo.

- Come facciamo a uscire di qui? – si chiese.

- Bussiamo! – propose Lotte. Venne vicino a me, togliendomi una nuvoletta grigia di polvere che si era appiccicata alle bretelle, e io ricambiai cercando di riordinare i suoi riccioli.

- Quante possibilità ci sono che qualcuno passi proprio nell’istante in cui bussi? – le feci notare.

- Prima o poi qualcuno lo farà. – commentò, senza scomporsi.

- Beh, certo, magari tra due o tre giorni, se siamo... –

- Chi c’è? -

Cacciai un grido di sorpresa, e mio padre saltò indietro dalla porta, portandosi una mano al petto.

- Chi c’è? – ripeté la voce proveniente dall’altro lato del pannello.

- Ernst? – lo chiamò papà, avvicinando l’orecchio. – Ernst, sono Alp... il capitano Elric. –

Ci fu un momento di silenzio stupefatto, in cui si sentì un bisbiglio, seguito da un rumore di passi... poi la voce – che stavolta anche io riconobbi per quella del soldato Feuerbach – tornò a farsi sentire.

- Capitano, è lei? –

Mio padre non poté trattenersi dal ridere.

- Mi sembra di avertelo appena detto. – fece notare.

Di nuovo silenzio.

- Allora mi saprà dire chi le ha estratto la scheggia dal braccio destro, a Remagen. –

Io e Lotte ci scambiammo un’occhiata perplessa, poi fissammo papà; ci dava le spalle, ma potevo immaginare benissimo la sua espressione, con le sopracciglia sollevate. Tutto aveva pensato – derive all’interno del Portale, morte da ricoprimento di sostanza nera... – tranne che i suoi uomini non credessero che fossimo davvero tornati.

- Il mio braccio destro sta benissimo. – gli rispose, incredulo. – La scheggia era nel sinistro: me l’avrebbe dovuta togliere Andreas, ma all’ultimo ha cominciato a tremargli la mano, e ci ha pensato Klaus. Per fortuna, – aggiunse, sarcastico, - o mi avrebbe dissanguato, quel macellaio! –

Immediatamente la serratura si mosse, con un gemito acuto da animale agonizzante che mi fece portare istintivamente le mani alle orecchie. Il soldato Feuerbach emerse dal buio, grande come lo ricordavo e molto più gioviale.

- Appena in tempo! – esclamò.

- Per che cosa? – chiese mio padre.

- Non ci crederete mai... ma dov’è suo fratello? – le bionde sopracciglia del gigante si unirono sul naso, mentre si voltava a destra e sinistra per scrutare la sala. Scandagliando il vuoto alle mie spalle, i suoi occhi si spalancarono. In quel momento, una mano d’acciaio si appoggiò sulla mia spalla, facendomi strillare per la sorpresa.

- Sono così spaventoso? – domandò Ed, ridendo.

- Mamma mia... – pigolai, riprendendo fiato.

- Porca vacca. – mormorò Feuerbach, i bulbi oculari ormai grossi come piattini. I suoi due commilitoni arrivarono in tempo per sentire il commento profano, e per inchiodarsi sulla soglia come bambini timidi... o meglio, come bambini timidi a cui fosse appena comparso davanti un fantasma. Andreas Neubauer arrivò a cercare a tentoni la pistola nella fondina, per fortuna senza trovare né l’una né l’altra.

Mi girai verso mio zio per fargli un appunto sulle sue entrate ad effetto, ma mi zittii all’istante quando compresi che la causa di tanto scalpore non era affatto la sua uscita dal Portale, ma l’apparizione sovrannaturale della defunta Hedwig Steinglocke al suo fianco, con un bambino tra le braccia, quattro tra valigie e sacche ai piedi e un’espressione soddisfatta sul volto.

* * *

 

Ci vollero alcuni minuti per spiegare la situazione. Il più incredulo sembrava proprio mio fratello.

- Come hai potuto? – esalò a fatica.

- Non sono riuscito a dissuaderla. – ammisi, porgendogli una sedia per paura che avesse un mancamento.

- Non prendertela con lui, Al. – lo pregò Winry, con una delicata pacca sulla spalla. – Sono stata io a proporre l’idea e a ignorare le sue proteste. –

- Ma... – balbettò lui, fuori di sé come e più dei suo commilitoni, - ma come... tu, e tuo figlio... non vedrete mai più nessuna delle persone che conoscete. –

- Sì, mi è dispiaciuto non poter salutare mia cognata Amelia. – ammise lei, con una scrollata di spalle noncurante ma una luce triste negli occhi. – Le ho scritto una lettera. Del resto, con la guerra imminente, anche nel mio mondo sarebbe stato difficile mantenere i contatti. –

- Hai ancora la possibilità di rivederla. – le ricordai. – Tra un mese. –

Era la clausola del nostro accordo su cui non avevo voluto transigere: avrei lasciato aperto il Portale per trenta giorni, di modo che Winry e Alex potessero avere la possibilità di osservare la vita che avrebbero fatto in questo mondo e, nel caso, tornare indietro immediatamente.

- Sì, sì, certo. – concesse lei, muovendo una mano in aria con noncuranza. Guardava ogni particolare con attenzione, l’espressione concentrata identica a quella sul volto di Alex, ed era ricambiata da occhiate perplesse, curiose o apertamente spaventate. Ci eravamo trasferiti nella stanza in cui i miei nipoti e Margarethe erano stati tenuti prigionieri dalla pazza alter ego della mia signora, che non era decisamente fatta per contenere dieci persone. Clara Leitner, la cameriera, era rossa in volto, e il mio locatore se ne stava pigiata in un angolo. Era assente la padrona di casa: Frau Ilse Schneider, in effetti, nonostante avesse di certo sentito il fracasso non si era fatta vedere. Per lei doveva essere molto dura vedersi la copia della figlia morta in casa, nonostante il loro rapporto fosse stato molto difficile. O proprio per questo. All’appello mancava anche Klaus Holze: aveva ricevuto con molta compostezza l’urna e un racconto riveduto e corretto sulla morte del padre, ma subito dopo aveva annunciato l’intenzione di ritirarsi.

- Quindi, - stava dicendo Clara proprio in quel momento, - voi non sapete nulla di quel che è successo in queste settimane! –

- Nulla di nulla. – confermò Al. – Però ho notato che i ragazzi non sono in divisa: allora... la guerra è finita? -

La giovane donna annuì. – Ieri hanno firmato la resa. –

Tirai un sospiro di sollievo, e chiusi gli occhi. – Per fortuna. – sussurrai. – Per fortuna. -

- Ora bisognerà ricostruire. –

La signora Schneider si stagliò nella stanza, simile più che mai a un corvo; avanzò con lentezza, la pelle esangue in contrasto con i colori severi degli abiti. Mi fissò direttamente, con quei suoi occhi glaciali privi del sarcasmo acido che conoscevo.

- È vero, ma sapere che, nonostante tutto quel che è successo, c’è ancora qualcosa su cui ricostruire... – mi interruppi, lanciando un’occhiata veloce a Winry. – È qualcosa che non avevo creduto possibile. –

La signora grugnì, un verso piuttosto singolare, però adatto alla Ilse Schneider che ricordavo.

- Sono stata in città, l’altrieri. – mi informò. – Se avessi saputo che Fräulein Leitner guida così bene, glielo avrei chiesto molto tempo prima. L’Istituto è ancora in piedi, nonostante tutto: spero di poterlo mettere in moto il più presto possibile... le industrie chimiche prima o poi ripartiranno, no? Potrò contare su di voi, quando avrò finito? - piegò la testa verso di me e mio fratello, il quale trasalì per il tono diretto. Poveretto, non la conosceva affatto.

- Non sono più in condizione di rifiutare. – brontolai. Infilai le mani in tasca e sbuffai. – Posso anche tenere a bada Margarethe che mi chiede l’affitto, ma dovrò pur dare da mangiare a mia moglie e mio figlio, no? –

- Cosa ti fa supporre che io non ne sia in grado? – mi chiese la moglie in questione. Cercò di suonare supponente, ma era arrossita in maniera incontrollata: con un certo ritardo, mi accorsi che avevo usato per la prima volta la parola moglie, e immediatamente divenni del suo stesso colore. Per fortuna, la Schneider voltò le spalle e sparì di nuovo, con la stessa lentezza con cui era arrivata, senza ascoltare il seguito del battibecco.

- Non esistono auto-mail. – le spiegai.

- Sono un medico. Avrete dei medici anche qui, no? -

- Ci sono un paio di cose che non conosci di questo mondo: - dissi. – per esempio, il maschilismo dilagante. –

Come si sente la Schneider?, mi chiesi. Le ho praticamente portato in casa la copia della figlia morta. Potrà anche nascondere a tutti i suoi veri sentimenti, ma deve essere comunque provata. Anche se sia io che lei lo avremmo voluto, quel fatto non poteva essere ignorato. Mi scusai con un cenno con Winry e gli altri, e corsi dietro alla donna, nel corridoio; la raggiunsi in fretta, al fondo del corridoio. Sentì i miei passi e si voltò, una mano già sul corrimano della scala: mi accorsi con imbarazzo di non sapere affatto cosa dire, di non aver preparato nulla. Fu così lei a parlare per prima.

- Dunque, Herr Elric. – esordì, stirando le labbra, già sottili, in un sorriso che sembrava più un taglio sul viso. Si intravedevano i denti dietro, bianchi e perfetti come quelli di una ragazzina. – In quel mondo i bambini nascono e crescono nel giro di un mese? –

- In realtà no. – ammisi. – Funziona tutto alla solita maniera. Solo che quel mondo è abitato da alter ego delle persone di questo. – aggiunsi, fissandola. Per la prima volta, lei sfuggì il mio sguardo, controllando una macchia inesistente sulla gonna e serrando la mascella fino a quando non fu certa di avere il controllo della voce. Allora sollevò la testa di scatto:

- Uguali fisicamente, - concesse, dura, - ma molto diverse caratterialmente. –

- Già. – replicai.

- Beh, meglio per lei. E per Frau Elric. – sospirò. – Ho visto l’espressione di quella donna, quando guarda lei, signor Elric. Credo che Hedwig sarebbe stata incapace di provare qualcosa del genere per un altro essere umano. In quanto sua madre, immagino sia colpa mia. –

- Sciocchezze! – ribattei. – La gente di solito è capacissima di rovinarsi da sola, nonostante tutte le sagge raccomandazioni che riceve. L’ho fatto anche io, e non sono mai riuscito a riparare del tutto ai miei errori. –

Ilse sorrise, inaspettatamente gentile. – Dubito che abbia combinato qualcosa di così grave, signor Elric: lei è una di quelle persone che fanno sempre la dannata cosa giusta, e chi se ne importa delle conseguenze. –

- Si stupirebbe nel sapere cosa sono riuscito a combinare nella mia scapestrata gioventù. – risposi. – Però questa volta ha ragione: ho intenzione di tenere ancora chiuso il suo salotto per lasciare a Winry e Alex una via di fuga da questo mondo, se lo vorranno. Me lo permette, Frau Schneider? –

- Non sono così crudele come lei crede, signor Elric. – annuì graziosamente, con quell’aria aristocratica che Hedwig aveva ereditato, in maniera distorta. – E visto che il suo stupido idealismo la spinge così verso il masochismo, se vuole far fuggire la donna che ama che ne dice di portarla a fare un giro in città? Le presto la macchina, se lo desidera. –

Sollevai le sopracciglia, stupito per non averci pensato: toccare con mano la devastazione avrebbe fatto capire bene a Winry in cosa si stava imbarcando.

- Lo farebbe davvero? – chiesi.

- E lei? – ribatté, provocatoria.

- Certo che sì! –

Sospirò, tornando la solita arpia sarcastica. – Di nuovo, fraintende il mio pronome: non lei lei, Herr Elric. Intendo sua moglie. -

* * *

 

- Mi sento una stupida. – borbottai, senza osare alzare gli occhi dalle mie mani, abbandonate sulle ginocchia.

- Non lo sei. – mi rassicurò Ed, schivando una buca all’ultimo secondo. – Anzi, quei vestiti ti donano. –

- Anche il cappello? – lo sfidai.

- Anche il cappello. – mi assicurò lui, riuscendo a non ridere.

Cominciavo a chiedermi se non fosse tutto un subdolo trucco di Ed per spaventarmi... no, mi ripetei per la trentesima volta, impossibile. Lui non sa nulla di vestiti, non avrebbe mai compreso la necessità di una donna di trovare un vestito adatto alla gita che aveva ideato. Girava con pantaloni logori, camicia e gilet impolverati e un paio di scarpe sul punto di cascare a pezzi, e di sicuro non si sarebbe scandalizzato se gli fossi comparsa davanti con gli stessi calzoni e la maglietta con cui avevo lasciato Amestris. Io, invece, non solo avevo esaminato i vestiti delle due altre ragazze presenti, ma anche intercettato le loro occhiate perplesse, comprendendo in fretta di essere totalmente fuori posto: passare per la stramba del paese non è il modo migliore per iniziare una nuova vita. La signora Schneider, meno ritrosa della cameriera e della giovane Margarethe, mi aveva concesso di prendere in prestito un abito di sua figlia visto che sicuramente avrete la stessa taglia... un velato accenno che aveva fatto arrossire anche Edward.

Certo, se solo la signorina Hedwig Steinglocke avesse posseduto un qualsivoglia straccio adatto! Non chiedevo della tela robusta (nessuno compra un vestito pensando di metterselo per passeggiare tra le macerie), ma la profusione di organza e seta, tailleur e camicette sarebbe stata adatta giusto a un incontro con un Capo di Stato, e le dozzine di scarpette ordinatamente riposte al fondo di quell’armadio enorme non avrebbero retto neppure a un sentiero inghiaiato. Persino Clara Leitner, più avvezza di me a quel mondo in generale e a quella casa in particolare, aveva avuto delle difficoltà a trovare nell’armadio un abito che potessi indossare. Sfortunatamente, avevo dovuto dipendere quasi completamente da lei e da Margarethe.

- La mamma è bellissima! – dichiarò Alex, sporgendosi pericolosamente dal sedile posteriore per poterci guardare.

- Sentito? – commentò Edward. – La voce dell’innocenza. –

Risposi con un ringhio. Appena mi fosse stato possibile, mi sarei vendicata, fossero passati degli anni. Tanto non avrei scordato molto in fretta lo stupido vestito verde che portavo, né le scarpe nere, né tantomeno il cappellino.

Oh, soprattutto il cappellino.

- Ci sono altri bambini dove abiti tu? – stava chiedendo mio figlio.

- Sì, alcuni, per quel che ricordo. – Sterzando per evitare un tratto sconnesso, trattenne a stento un’imprecazione. Controllò che il bambino non ci avesse badato, e si affrettò a cambiare discorso: – Sei già stato su una macchina, vero, Alex? –

Lui annuì con convinzione, muovendosi sul sedile. – Su quella del signor Mustang. Ma non era così morbida. -

- Sì, credo sia molto morbida. – sorridemmo entrambi per quella buffa espressione. – In teoria, Winry, tu ti saresti dovuta sedere dietro: una signora non sta di fianco all’autista. –

- Ti sembro una signora? –

- Abbastanza. Ti mancano i guanti. –

- Lo so. La signorina Leitner me lo ha illustrato con dovizia di particolari, subito prima di passare a criticare i miei capelli: alla fine, pur di chiudere la conversazione, me li sono tirati su alla meglio... questo chignon non è di moda, vero? – chiesi, ironica.

- Non sono un’autorità in materia. – si difese. – Però Al non ha fatto commenti, e lui ne capisce qualcosa più di me. –

- È semplicemente troppo educato: non ha detto niente neppure sul cappellino. –

- Ne ho già visti di simili. -

Almeno era intonato. E non aveva la veletta che invece spuntava dagli altri. Restava però il fatto che fosse troppo piccolo per proteggere davvero dal sole, quindi ai miei occhi si trattava solo di un disco di panno cacciato di sghimbescio sulla testa.

- A proposito di Al, - dissi, tanto per cambiare argomento, - non ti sembra che il suo mal di schiena sia saltato fuori un po’ troppo in fretta? –

Ed tossicchiò ed evitò di guardarmi.

- In effetti, è una vecchia storia. –

- Nel senso che è cronico? – mi allarmai.

- No, no! – si affrettò a rassicurarmi. – Nel senso che... beh, quando lui si trovò per la prima volta da solo con Caroline, fu perché io avevo finto un improvviso mal di schiena e me ne ero rimasto a casa. –

- Oh. – arrossii in modo incontrollabile, trasformandomi in una specie di paralume verde-giallo-rosso con un ridicolo cappello in testa. – Credevo... –

- La gita era aperta anche a lui, ma deve aver deciso di lasciarci soli. Noi tre. – aggiunse, sorridendo e alzando gli occhi verso lo specchietto retrovisore.

- Capisco. Pensavo si trattasse di Clara Leitner. –

- Chi? – domandò Edward, aggrottando le sopracciglia.

- La cameriera della signora Schneider. Margarethe mi ha detto che è innamorata di Al. –

- Che cosa? –

- Già. –

- Oh. –

- Non ne sapevi nulla? –

- Non ho mai visto la signorina Leitner prima di oggi: quando eravamo qui, io ero chiuso in cantina. –

- Quella Hedwig sapeva davvero come metterti in riga! –

- Spiritosa! – dopo una smorfia, tornò serio. – Quella pettegola di Margarethe! –

- Ha qualche speranza? –

- Intendi Fräulein Leitner? – Ed espirò rumorosamente. – Al momento temo di no. Caroline è morta da meno di un anno, dopotutto... e poi così all’improvviso... lui sta cominciando a riprendersi appena adesso... –

- Comunque, - mi informai, - non esistono regole precise in questo mondo che lo vietino, no? Che so, differenze di età, o di classe sociale? I vedovi possono risposarsi? –

Ed ridacchiò: - Allora ti ho davvero spaventata quando ti ho parlato del maschilismo! -

- Niente affatto! – ribattei. – Sto solo cercando di imparare. -

E continuai a farlo per tutto il tragitto, che, per forza di cose, fu piuttosto lungo. La campagna verde brillante e semideserta cominciò a riempirsi di case... o meglio, di molti ruderi irriconoscibili, pochi scheletri di case e pochissime case vere e proprie. La città crebbe in fretta, e presto fu quasi impossibili vedere il cielo.

- È enorme! – esclamai, sorpresa. – Sembra Central City! –

- Sì, Monaco è una delle città più grandi della Germania. -

- Tu vivi qui? – chiese Alex.

- Esatto. Ora ti faccio vedere dove. -

 

Piccolo, buio e leggermente ammuffito, l’appartamento non era davvero fatto per tre persone. Neanche per una, a dire il vero. E per di più imperava il caos.

- Sono i risultati della perquisizione. – si difese Ed. – Però almeno ho ancora un tetto. Moltissime persone non sono così fortunate. –

Evitai di fargli notare che doveva scoraggiarmi, non difendersi: era la prima volta che non cercava di mettermi ansia, con storie di guerra, fame, distruzione e maschilismo imperante. Mi aveva persino lasciata sedere su una sedia discretamente comoda, mentre controllava che nessuno avesse approfittato della sua assenza per derubarlo.

- Manca qualcosa? – chiesi gentilmente quando ritornò.

- No. Anzi, c’è una serratura nuova! – si grattò la testa, perplesso. – Roba da non credersi... scommetto che c’è lo zampino di Al! –

Uno scampanellio lontano attirò l’attenzione di Alex, altrimenti impegnato a scrutare i fogli sparsi un po’ dovunque sul pavimento. Mi voltai anch’io, tenendo in mano i pantaloni che stavo piegando.

- Suonano alla porta. – lo avvisai.

- L’ho sentito. Probabilmente qualche serpe del vicinato ci ha visti e sta controllando che sia davvero io. –

- Ansiosi di rivederti? –

- No, ansiosi di arraffare quel poco che c’è... mi stai mettendo a posto l’armadio? – domandò, accorgendosi per la prima volta dell’indumento che sventolavo davanti al naso.

- Sì. Questa casa ne ha un gran bisogno. –

Scrollò le spalle, e fece per voltarsi... prima di accorgersi che Alex era sparito.

- Oh, già! – esclamai, gettandomi le braghe sul braccio e scavalcando in fretta un altro cumulo di vestiti gettati in terra. – Lui adora andare ad aprire la porta! Tutti quelli che lo conoscono lo viziano o gli portano regali. –

- Maledizione! – grugnì Ed, sentendo il rumore di una serratura che scattava. – Se lo mangeranno vivo! –

Non fu così, ovviamente; quella particolare regione di mondo poteva avere mille problemi, ma tra questi non c’era il cannibalismo. Mio figlio tornò indietro saltellando tra gli oggetti sparsi in terra, e annunciò tutto contento: - C’è il signor Mustang! -

- Il signor Mustang?? – ripetemmo noi due, in coro e con la medesima espressione sbalordita. E in effetti, la figura che entrò nella camera, chinando la testa per non batterla contro l’architrave troppo bassa (per chiunque non fosse Ed), avrebbe potuto essere il fratello gemello di Roy Mustang: le uniche differenze erano la mancanza della benda sull’occhio e... l’uniforme.

Non potei fare a meno di abbassare lo sguardo nella zona dove avrebbero dovuto esserci i pantaloni: al loro posto, non solo si trovava una specie di gonna blu a quadri, ma pure un... marsupio, immaginai, fatto con la pelle di un qualche animale – un tasso, credo – i cui occhietti sembravano proprio fissarmi. Cominciai a sentire il viso bruciare.

- Buongiorno, madam. – mi salutò l’ufficiale, portando una mano alla bustina che teneva in testa. – Capitano Robert Mustroad, dei Calgary Highlanders. – aggiunse, come se questo dovesse spiegare tutto.

- Piacere mio... – esalai, cercando Ed per averne aiuto.

- Elric! Hai parlato di me a tuo figlio? – continuò l’ufficiale, con un sorrisetto sarcastico che lo rese ancora più simile al suo alter ego, e mi distrasse parzialmente dal suo marsupio con gli occhi.

- In un certo senso. – tagliò corto lui, prima di decidersi a spiegarmi qualcosa: - Ho conosciuto il signor Mustroad... o Mustang, come gli piace farsi chiamare, - aggiunse con un ghigno a mio beneficio – cinque anni fa, mentre mi trovavo in America. È canadese, ma ha origini scozzesi, non so se si vede. -

- Non provare a fare commenti sul kilt, Elric. Fa parte dell’uniforme. –

- Non ne avevo intenzione: volevo solo chiederti di tenere i tuoi attributi lontani da mia moglie, perché la stanno fissando con troppo interesse. –

Mi alzai in piedi piuttosto velocemente, optando per una finta noncuranza. Offrii una sedia al nostro ospite, sperando che il mio sorriso fosse convincente:

- Vuole accomodarsi, mister Mustroad? – domandai, concentrandomi sulla sua giacca grigia con le mostrine dorate. - Temo di non avere nulla da offrirle da bere: siamo ritornati a casa proprio in questo momento, quindi ci trova un po’ impreparati ad accoglierla come si deve. -

Lanciai un’occhiata a Ed, che si stava sedendo a sua volta. Lui mi restituì un sorriso riluttante.

- Ti scongiuro, - brontolò, - non provare a trasformarti in una moglie devota. -

* * *

 

- Non si preoccupi, madam. Dovrei essere io a scusarmi: passavo solo per parlare con suo marito, sono partito appena ho saputo dell’armistizio giusto per venirlo a cercare. E, per la cronaca, gli amici mi chiamano Mustang. Vale anche per le loro mogli. –

- Come sapevi dove trovarmi? – gli domandai, giusto per impedire a quel farfallone matricolato di infastidire Winry con i suoi occhi dolci. O con quelli dell’animale che gli penzolava davanti alle gambe. Era sposato già quando lo avevo conosciuto, e aveva dei figli, ma non perdeva occasione per fare lo scemo con qualunque donna gli passasse davanti.

- Oh, in realtà mi ero già informato un po’ di tempo fa. – rispose, sistemandosi comodo e appoggiando le mani sulle ginocchia nude. Winry continuò ad arrossire in maniera incontrollabile. - Avevo una conoscenza, qui a Monaco, sempre nel campo della chimica, ovviamente. –

- Ovviamente. – mi voltai verso la mia signora, per spiegarle: - Il qui presente signor Mustang bazzica nel campo dell’aeronautica, per la precisione nei carburanti per velivoli. L’ho conosciuto proprio lavorando in questo campo, tramite un comune amico, il professor Goddard. –

- Lavori agli aeromobili? – domandò Alex, gli occhi sgranati per l’eccitazione.

Mustang ridacchiò. – Tale padre... – disse, allungando una mano per arruffare i capelli al bimbo. – Il tuo papà però si interessava di più ai razzi, come me. Molto meglio di un semplice aereo! –

Scrollai le spalle; quella dei razzi era un’infatuazione giovanile, però dubitavo che ci si potesse allontanare troppo dalla Terra. E poi, ora non ne avevo più bisogno.

- Beh, questa mia conoscenza purtroppo è deceduta qualche anno fa, così ho dovuto incrociare le dita e sperare che la sua vedova sapesse dove fossi finito. E lo sapeva, per fortuna. – concluse, con un sorriso sardonico.

- Ah, e chi sarebbe questa donna? – interloquì Winry, interessata.

- La vedova? Oh, si chiama Steinglocke. Ilse Steinglocke. –

- Ilse Steinglocke? – ripetei. – Ilse Schneider? -

- Non ho la minima idea di quale fosse il suo cognome da nubile. Suo marito Joseph era una specie di inventore, col pallino per tutto ciò che vola... come questo giovanotto qui, mi sembra di capire. – Alex si nascose dietro la mia sedia, vergognoso. – Purtroppo qualche anno fa è rimasto vittima di una delle sue creazioni. Un disgraziato incidente di volo. –

- Precipitato? – domandò Winry, preoccupata.

- Oh, no. Colpito in testa da una latta di pesche sciroppate a cui aveva attaccato un piccolo reattore. Voleva spararla in orbita, invece quella è precipitata... morto sul colpo. Terribile. –

Lei sembrò indecisa sulla faccia da assumere alla notizia di un tizio probabilmente suonato che aveva pensato di mettere un reattore a una latta. Alla fine optò per un’espressione partecipe.

- Comunque, ho viaggiato tutta la notte per arrivare fin qui, e fatto pesare un paio di amicizie per potermi muovere nel settore americano senza problemi. Poi ho chiesto in giro. A proposito, sai che i tuoi vicini erano convinti che fossi morto? –

- Immagino, ci hanno portati via in piena notte con un camion militare. Sei stato fortunato a trovarmi, sono qui solo di passaggio. -

- Beh, sarò breve. La mia permanenza nell’esercito finirà presto, e mi piacerebbe tornare al mio vecchio amore... – si piegò verso di me, e i nastri attaccati al suo glengarry scivolarono davanti al suo orecchio destro. – Se ti interessa, sei il benvenuto. –

Sollevai le sopracciglia. Ero tornato da poche ore, e mi avevano già offerto due lavori: meglio che negli ultimi cinque anni.

- Ci vorranno anni prima che tu riesca a mettere in moto un’idea del genere! – gli feci notare.

- Oh, negli Stati Uniti comincia ad esserci parecchio interesse per i viaggi spaziali. –

- È molto tempo che non mi occupo di razzi. Forse dovresti cercare qualcuno di più adatto... – incrociai le braccia al petto. – C’è un altro allievo di Goddard che ha continuato su questa strada. Si chiama Wernher. –

- Ah, von Braun. – Mustang annuì. – Lo so. Si è consegnato agli americani giusto una settimana fa. – le sue labbra si stirarono in un sorriso amaro. – Aveva paura degli inglesi, per via delle V-2. E per me va bene, visto che buona parte dei miei parenti sono inglesi, e in effetti non avevo molta voglia di lavorare con lui. Almeno per ora. –

Winry mosse le gambe, a disagio. Mi strinse il braccio con una mano, perplessa.

- La signora Schneider però ti ha già proposto di lavorare come direttore del suo laboratorio. – mi fece notare.

- Oh, non ti preoccupare. – commentai. – Per ora non mi muoverò dalla Germania. Non sarebbe neppure saggio. – mi voltai verso l’ufficiale. – Soprattutto visto come sono trattati i tedeschi in America al momento. –

- Lo so. – ammise Roy, alzandosi in piedi. – Volevo solo sapere se sei interessato; io devo tornare al mio reggimento, ma conto di venire a far visita a te e alla tua bella famigliola. Magari nel frattempo avrai messo a posto le tue braghe. – aggiunse, indicando con il mento quelle che Winry aveva piegato ma lasciato sul pavimento, perché non aveva avuto il tempo di scoprire l’armadio in camera mia.

- E tu ne avrai trovate un paio. – ribattei, alzandomi per accompagnarlo alla porta.

Lui rise, e sollevò le mani in segno di resa. – Ti prometto che non porterò più il mio sporran davanti a tua moglie. –

- È vero? – chiese Alex, indicando il tasso che penzolava poco sopra il suo naso. – Posso toccarlo? –

- Preferirei di no. – sbuffai. – In ogni caso, Roy: vengo solo se viene anche mio fratello. –

Ridacchiò. – Beh, perché no? Ho sentito talmente tanto parlare di lui, che non vedo l’ora di conoscerlo! -

Nonostante tutto, quando quella specie di canadese anglo-scozzese se ne fu andato, offrendo ai miei amorevoli vicini ulteriore materia per i pettegolezzi, mi sentii stranamente elettrizzato. Winry probabilmente se ne accorse, perché lasciò perdere la casa disastrata per venirmi a stringere le braccia con affetto.

- Sembra una bella cosa. –

- Lo è. Le sue ginocchia sono molto meno belle delle mie. –

- Oh, senza dubbio. Questa America è distante? -

- Dall’altra parte del mondo. -

- Quindi sarà davvero bene che Al e la sua famiglia vengano con noi. – stabilì lei.

- Ci siamo già trovati alle due parti opposte dell’Atlantico, a dire il vero. E comunque, è inutile parlarne adesso: Roy Mustang sta come al solito seguendo la sua personale utopia. – cercai di chiudere il discorso afferrando un paio di camicie buttate in un angolo, ma Winry mi tagliò la strada.

- Mi sembra che le utopie di Roy Mustang tendano ad avverarsi. -

- Manderai le persone nello spazio? – mi domandò mio figlio, guardandomi con gli occhi spalancati. Ricambiai lo sguardo, cercando una risposta ragionevole, ma trovai dannatamente difficile spegnere le sue speranze.

- Vedremo. – concessi.

Lui sorrise tutto contento, e sua madre con lui.

- Potrebbe essere un fiasco. Oppure voi due tra un mese potreste decidere di tornare a casa. - aggiunsi, visto che se ne stavano scordando.

- Oh, hai ragione. – Winry si sedette sulla seggiolina di vimini e calciò via le scarpe con soddisfazione. Allungò maliziosamente un piede nudo verso di me. – Ecco fatto. Sono tornata a casa. –

 

 

Pensierino della buonanotte: ed eccoci arrivati all’ultimo capitolo. *si asciuga di nascosto una lacrimuccia* Anzi, scusate se è stato più lungo del solito, ma non ho potuto farne a meno. Dovrei riuscire a pubblicare l’epilogo già per l’inizio di aprile, a meno di sorprese (leggersi: a meno che rileggendolo non mi faccia così schifo da cancellarlo e riscriverlo da capo). Comunque, se siete arrivati fino qui spero che gli darete un’occhiata. J

Nessuna domanda su come mi sia saltato in mente di infilare Roy Mustang in un kilt: è iniziato tutto mentre cercavo una qualche arma in cui infilare il suo alter ego, ma ero partita dall’idea di un personaggio inglese, per non ricadere nello stereotipo da film americano “americani buoni/resto del mondo cattivo”. Poi mi sono allargata al Commonwealth in generale... e qui la mia mente ha cominciato a giocare strani scherzi, e io ho dovuto seguirla. Se siete interessati a fare la conoscenza del tasso, vi consiglio di consultare questa pagina. Esiste un sito Internet dei Calgary Highlanders, altrimenti se l’argomento vi interessa potete semplicemente cercare su Wikipedia. In questo capitolo, poi, c’è stato il maggior numero di personaggi realmente esistiti citati: Goddard, ovviamente, e poi il barone Wernher von Braun, che qualche anno dopo la fine di questa storia diventerà piuttosto famoso anche in America...

Siyah: Artie ha taaaaanti difetti, è vero. Venale. Egoista. Attaccabrighe. Geloso in modo patologico. Però non ce l’ha esattamente con Alex, anzi, in linea di principio gli voleva abbastanza bene da accettare di fargli da padre: solo che, nel momento in cui si è trovato in rotta con Winry, ha usato il bambino come arma – se mi passi il termine –, colpendo lui per arrivare ai genitori. Ha detto cose che a mente fredda non avrebbe mai espresso ad alta voce.

Liris: ahimè, questo calo di recensioni fa piangere il mio cuoricino *lancia occhiate allusive allo schermo* Winry, donna crudele, sapevi benissimo che il tuo cavaliere dall’armatura scintillante era in crisi d’astinenza da almeno sei anni...

 

 

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Capitolo 19
*** Epilogo ***


Epilogo

 

20 luglio 1969, Houston

 

Aprii la porta che mio padre era ancora in fondo al vialetto. Come al solito, era riuscito ad attirare l’attenzione di tutti sulla sua entrata in scena.

- Complimenti per il ritardo! – commentai.

- Oh, buonasera anche a te, Alex. È bello essere accolti con affetto dal sangue del proprio sangue. – rispose lui, impassibile, tenendosi il cappello nonostante in quella afosa giornata texana non ci fosse un alito di vento.

- Se per colpa tua mi perdo qualcosa, - lo minacciai, - ti tolgo il saluto fino alla pensione! –

- Mia o tua? – mi chiese lui, pulendosi le scarpe con perizia e infilandosi in casa mia passandomi direttamente sotto il braccio. – Se la prima, non mi preoccupo più di tanto. Per la seconda... –

Non riuscii a fare a meno di ridere, mentre lo accompagnavo in salotto, davanti al televisore dov’era raccolta tutta la famiglia. I posti migliori erano già tutti occupati: undici adulti e un nugolo di bambini sembravano capaci di far esplodere la mia casetta, e molti avevano trovato posto solo per terra, sul tappeto.

Lo zio Al, uno dei pochi privilegiati, si alzò dal divano per lasciare spazio a papà di fianco alla mamma, trovandosi così vicino al tavolo del rinfresco; afferrò un bicchiere e lo porse a suo fratello.

- Rinfrescati la gola e racconta che è successo. – gli disse.

- Quegli idioti hanno sbagliato a calcolare la quantità di carburante necessaria. – sbottò lui, scuotendo la testa. – Io l’avevo detto, ma loro, no!, tirano al risparmio! Li stiamo mandando sulla Luna, dannazione, non a New York! –

- Per fortuna è andato tutto bene. – commentò Thomas, togliendosi gli occhiali per pulirli. Era uno di quelli che stava per terra, ed era buffo vedere quel distinto professore in giacca e cravatta, più inglese che tedesco nell’aspetto, a gambe incrociate tra figli e nipoti. Una volta avevo visto una foto del mio nonno paterno, Hohenheim Elric, e Tom era senza dubbio quello che in famiglia gli somigliava di più. Papà una volta lo aveva fatto notare, emettendo subito dopo una specie di ringhio che aveva fatto ridere mio cugino fino alle lacrime.

- Alla fine Armstrong ha deciso quale sarà la frase storica? Shakespeare? – chiesi, curioso.

- A dire il vero non lo so. – ammise mio padre. – Credo che lo sentiremo appena scenderà dall’Eagle. –

Mamma ridacchiò, e approfittò del fatto che fossi a tiro per scompigliarmi affettuosamente i capelli. Non perdeva mai occasione per farmi notare che erano troppo lunghi.

- Fammi indovinare: - scherzò lo zio, rivolgendosi a papà. – Sei rimasto fino all’ultimo là per insultarli, vero? –

- Oh, no. – rispose modestamente lui. – C’erano persone più qualificate di me per farlo. In realtà mi stavo solo godendo l’allunaggio dalla postazione migliore, e avresti dovuto farlo anche tu. –

- Ma io l’ho fatto! – scherzò Al, voltandosi e passando un braccio intorno alla vita di sua moglie. Zia Clara si allungò per arrivare a baciarlo sulla guancia, e lui si chinò per renderle il tragitto più breve.

- Piantatela, voi due! – sbottò Ed. – Qui ci sono già abbastanza coppie. Abbiate un po’ di rispetto per vostra figlia. –

La suddetta rispose con una scrollata di spalle. Erika Elric, la più giovane tra i miei cugini, aveva diciannove anni e una gran voglia di indipendenza: se suo fratello somigliava al nonno, lei era straordinariamente simile a mia nonna Trisha, anche se, a detta del padre, non ne condivideva il carattere dolce e amabile. Anzi, somigliava parecchio allo scontroso zio. Era nata esattamente un anno dopo che lo zio Al era arrivato in casa nostra, si era seduto e aveva annunciato, pacato, ma con gli occhi spalancati come se anche lui stentasse a crederci, che avrebbe sposato Clara Leitner, la cameriera di Ilse Schneider, più giovane di lui di tredici anni ma caparbiamente innamorata dalla prima volta in cui l’aveva visto. I pettegolezzi non avevano intaccato la loro felicità coniugale, perciò alla fine si erano spenti come la fiamma di una candela. Senza contare che, pochi anni dopo, l’attenzione si sarebbe spostata sulla secondogenita dello zio, Charlotte.

- Vuoi dei sandwich, zio? – chiese mia cugina, avvicinandosi con il vassoio. Era davvero bella, con i riccioli trattenuti da una fascia scura; da ragazzino avevo una terribile cotta per lei, e ci ero rimasto malissimo quando si era sposata, giovanissima, con un affascinante giovanotto che le aveva presentato la signora Schneider. Il fatto che lui fosse un barone sassone la cui famiglia possedeva una fabbrica, un paio di tenute, un castello e parecchi ettari di parco non aveva fatto altro che aumentare il mio senso di inadeguatezza.

- Che c’è da ridere, Alex? – mi chiese, accorgendosi che la guardavo.

- Niente. – risposi. – Stavo solo pensando che domani potrò vantarmi di aver organizzato una festa in cui una baronessa passava con le tartine e suo marito serviva il vino. –

- Il suo vino. – sottolineò Fritz. – Che schifezze bevete qui nel Nuovo Mondo? –

- Quelle di mio padre. – lo zittì bonariamente Maude, sua cognata, e l’unica nata e vissuta in America. La moglie di Thomas e il marito di Lotte condividevano – unici in famiglia – un’ampia conoscenza sulla viticoltura, dovuta ai possedimenti dei rispettivi padri. E non perdevano occasione per punzecchiarsi sull’argomento. La piccola Maude non era seconda a nessuna, in quel campo: merito dei geni, dato che era figlia dell’ex datore di lavoro di mio padre e zio Al, quel Robert Mustang che li aveva fatti venire negli Stati Uniti e a me ricordava tanto lo zio Roy che mi regalava le caramelle e mi lasciava sedere sulle ginocchia, nel mondo in cui ero nato. Il raffronto tra i due mi fece correre un brivido lungo la schiena: chissà se il generale di Amestris era ancora vivo. E Alex Armstrong. E gli zii William e Amelia, e mio cugino Edwin. E Artie, che quando era di buonumore mi aveva fatto da padre. Ricordando tutte quelle persone, mi avvicinai alla finestra, e alzai lo sguardo verso la Luna, come se potessi vedere la navicella che quella sera vi era atterrata.

- Stai pensando ad Amestris? –

Sorrisi alla giovane donna che mi si affiancò: capelli rossi fiammanti, una profusione di lentiggini, un sorriso dalle irresistibili fossette. E grandi occhi nocciola, fissi su di me con un pizzico di apprensione.

- Già. – ammisi. – Stasera mi sembra di essere più vicino. Però so benissimo che non rivedrò mai più quel mondo. Anche se non mi ricordo molto, è comunque triste. –

- Lo immagino. –

Diedi le spalle alla finestra per guardarla. Le presi tra le dita una ciocca di capelli, spostandogliela dietro l’orecchio.

- Suppongo che la tua situazione abbia delle somiglianze con la mia. – dissi, sorridendo. – Sei partita dalla Germania, lasciando la tua famiglia, per seguire negli Stati Uniti un triste individuo che pensa solo al lavoro. Povera Heidi, che destino crudele! -

- Beh, a dire vero il triste individuo non pensa solo al lavoro. – sottolineò maliziosamente, abbassando lo sguardo sul voluminoso ostacolo che ci teneva a leggera distanza l’uno dall’altra.

Ridacchiai maliziosamente. – Ah, che giorno felice sarà quello in cui potrò di nuovo dividere il letto solo con mia moglie! -

- Un giorno distante, se il tuo erede somiglia al piccolo Eduard e inizia a piangere appena tramonta il sole! –

- Eduard è figlio di Thomas e Maude. Al suo interno ci sono i geni degli Elric e quelli di Roy Mustang in perenne conflitto, mi stupisco che il povero bambino non sia ancora uscito di senno! –

- Alex! – mi chiamò mio padre. – Fai sedere quella povera ragazza, non vorrei che rendesse la serata più emozionante scodellando qui il vostro primogenito! -

Sospirai teatralmente, e offrii il braccio a mia moglie: - La mia famiglia ci ostacola, amore mio. Ci vediamo al balcone. –

- Sarei una Giulietta piuttosto ingombrante! – scherzò lei, tornando alla poltrona che le era stata lasciata proprio per evitare che dovesse sedersi per terra.

- Scende, scende! – strillò Caroline, una dei figli del barone. Corsi anch’io sul bracciolo della succitata poltrona, in tempo per vedere Neil Armstrong, sul piccolo schermo del nostro televisore, appoggiare cautamente un piede a terra. Ondeggiò, come se ci avesse ripensato, poi avanzò, senza staccare le mani dal corrimano della scaletta. Mi resi conto di aver trattenuto il fiato solo quando sentii gli altri espirare di colpo.

- È fatta! – sussurrò mia madre, eccitata. Potevo scommettere che aveva avuto quell’espressione anche quando ero stato io a muovere i primi passi.

- Un piccolo passo per un uomo... ma un grande balzo per l’umanità. – gracchiò la voce dell’omino sullo schermo.

Applaudimmo tutti quanti, in maniera abbastanza insensata, ma avevamo bisogno di scaricare la tensione accumulata: mi sentivo come se fossi io a muovermi sul suolo lunare, con gli occhi di tutto il mondo puntati addosso.

- Qui ci vuole un brindisi! – esclamò Thomas, appoggiando una mano a terra per alzarsi. Lo precedetti, facendogli cenno di non scomodarsi.

- Vado io. – mi offrii. – Un bel brindisi agli astronauti e, già che ci siamo, agli scienziati che hanno reso possibile il grande balzo. – lanciai un’occhiata allusiva a mio padre e mio zio, che ricambiarono ridacchiando come due bambini colti in fallo.

- Davvero non ti serve aiuto, Alex? –

- No, Tom, resta pure seduto comodo sul tappeto! –

- Veramente, cercavo proprio una scusa per sollevare il mio didietro da questo letto da fachiro! - ribatté caustico mio cugino, seguendomi nella piccola cucina lì a fianco.

Sollevai le mani, a dire che non sapevo cosa farci: - L’ha comprato Heidi. Al sesto mese. Non ho potuto oppormi, dovresti capirmi. -

Annuì con un sorriso complice: me lo aspettavo, dal marito della figlia minore di Roy Mustang. Gli passai la bottiglia di champagne che tenevo in serbo per l’occasione, a mo’ di consolazione.

- Almeno Maude non gira per casa in kilt, sporran e pugnale infilato nel calzino, come fa suo padre. – mi fece notare, comprendendo il mio gesto. – Al massimo impreca in gaelico, il che non è male, visto che ancora non lo parlo abbastanza bene da capirlo. –

- Direi di prendere anche del succo di frutta per i bambini... Aspetta: pugnale nel calzino? – mi ricordai all’improvviso.

- Mio suocero me l’ha mostrato il giorno che gli ho chiesto il permesso di sposare Maude. - spiegò lui, con un brivido teatrale.

Scacciai dalla mente l’immagine del colonnello in congedo che sollevava un polpaccio nudo, abbassava la calza e mostrava la lama lì nascosta. Io sarei fuggito.

- Va tutto bene? – mio padre si affacciava dalla porta, con aria neutra.

- Sì, ci stavamo solo scambiando ricordi sui rispettivi suoceri. – replicai, recuperando per sicurezza anche un paio di bicchieri dalla credenza, visto che i bambini avevano già minacciato di spaccarne un paio.

Papà commentò la mia affermazione con un verso nasale, a metà tra un grugnito e uno sbuffo. Probabilmente voleva solo sottolineare il suo fermo dissenso al proposito del padre di Heidi di spaccarmi la testa se avessi fatto soffrire la sua principessa.

- Ti sei mai pentito? – mi chiese all’improvviso.

- Di aver sposato Heidi? – sbottai, allarmato. Avevo dato quell’impressione?

- Credo che Ed abbia cambiato bruscamente argomento. – mi fece notare mio cugino, con un sorriso allusivo.

Impiegai un attimo a capire di cosa stessimo parlando – tempo che Tom sfruttò per squagliarsela nell’altra stanza e lasciarci soli. Quando ci arrivai, sollevai le sopracciglia di scatto, stupito di come i pensieri miei e di mio padre si fossero mossi nella stessa direzione in momenti molto vicini.

- Parli di Amestris. Se mi è mai venuta voglia di tornarci. – dissi.

Annuì, lanciando un’occhiata alla testa di mamma che spuntava da sopra il divano.

- Eri un bambino, ma ti ricorderai qualcosa. Ti mancano le persone che conoscevi? –

Mi appoggiai al ripiano di marmo vicino al lavello. – Un po’. Mi mancano i miei zii, soprattutto, e il generale Mustang e il signor Armstrong. A volte mi capita di sognarli, ci crederesti? – domandai, sorridendo.

- Sì. – ammise lui. – Tuo zio mi ha raccontato che, nei due anni in cui eravamo separati, anche lui mi sognava qualche volta. Sogni incredibilmente simili a quel che mi capitava davvero in quel momento. –

- Aspetta un attimo: Edward Elric, lo scienziato, sta ammettendo la possibilità di qualcosa di così antiscientifico come i sogni premonitori? – alzai le mani a proteggermi la testa. – Il mondo sta per implodere! Si salvi chi può! –

Incrociò le braccia al petto e attese pazientemente che la smettessi. – Posso parlare? – chiese poi. Glielo concessi con un cenno. – Bene. Voglio solo aggiungere che, visto che nessuno sa come funzioni il Portale, non mi sento di avanzare ipotesi in nessun senso. –

- Un ottima risposta da chimico. – abbassai lo sguardo sul bicchiere che tenevo ancora in mano, notando una lieve imperfezione nel vetro, che aveva formato una bollicina. - Vedendo quasi tutti i giorni il Roy Mustang di questo mondo, non posso fare a meno di chiedermi come stia quello che ho conosciuto ad Amestris. E a volte mi manca persino Artie... l’Artie Buono, intendo. – aggiunsi in fretta, sarcastico.

- L’Artie Buono? – papà fece una smorfia che valeva più di mille parole. – Non credevo esistesse un individuo simile: o almeno, io non l’ho incontrato. -

- Nella mia mente c’erano due Arthur Stonebridge: - gli spiegai. - lo Zio Artie che mi faceva regali e mi guardava disegnare, e il Cattivo Artie che diceva cattiverie su di me come se non fossi presente o non potessi capire, e mi faceva piangere perché non ero un Bravo Bambino. –

- Non eri un Bravo Bambino? – fece mio padre, calcando sulle parole per imitare il modo in cui le avevo pronunciate io. – Tu? –

- Beh, non nel senso che avrebbe dato Arthur al termine, non ti pare? – ribattei.

- In quel caso, nessuno di noi lo era. –

- No. – distolsi lo sguardo. – Ma quando avevo cinque anni avrei voluto esserlo. Sarebbe stato tutto molto più facile; anche dopo che siamo arrivati qui. – aggiunsi lentamente.

- Forse. – dovette ammettere papà. – In fondo, sei stato tu a far dubitare Winry della sua scelta, quando gli altri bambini ti prendevano in giro. Stava davvero per prenderti e riportarti ad Amestris. –

- Ah, quella volta? – dissi, con finta noncuranza. – Credevo ti riferissi a quando il mio aeromodello ha rotto il vetro ed è planato sul tavolo apparecchiato. –

- In entrambi i casi ho sudato freddo. – replicò lui, serissimo. Sapevo che mentalmente aveva aggiunto la volta in cui il mio aeromodello mi era praticamente esploso in mano e avevo rischiato di perdere un occhio. Avevo dodici anni, e mio padre mi disse che ero stupido quanto il defunto signor Steinglocke, che morì colpito dalla latta a cui aveva messo un motore. Doveva essere davvero fuori di sé dal terrore per insultarmi.

- Però in tutti i casi la mamma ci ha ripensato. E a me fa piacere così. – ridacchiai. – E poi, ogni tanto mi capita di incontrare qualche faccia conosciuta: se gli alter ego continuano a capitarmi davanti, immagino che anche le persone che ho conosciuto ad Amestris stiano bene e siano felici. Io lo sono. – aggiunsi, a suo beneficio.

- Per Heidi? –

- Per Heidi, ma non solo. – piegai la testa, per guardare mia madre nel salotto, impegnata a dispensare chissà quali consigli a mia moglie. - Mi piace il mio lavoro al laboratorio del signor Mustang; mi piace costruire aeromodelli; mi piacciono le serate con Lotte e Tom e le loro famiglie; adoro persino il Natale, nonostante tutti i tuoi pregiudizi sulle feste religiose e sulle religioni in generale! -

- Piccole cose. Una vita che avresti potuto avere anche ad Amestris, Natale a parte. –

- Non tutte. – replicai, passandogli la bottiglia di succo di frutta perché si rendesse utile. – Forse non avrei mai conosciuto mia moglie; di certo, non avrei avuto te. – guardai di nuovo nell’altra stanza. – La mamma non avrebbe avuto te. – aggiunsi.

Arrossì, come capitava tutte le volte che io o mia madre gli facevamo un complimento particolarmente lusinghiero.

- Se ne sarebbe fatta una ragione. – borbottò.

- Forse sì, ma non sarebbe stata felice come in questi anni. –

- Neppure io, senza di voi. –

Voltai la testa verso di lui, e lui sostenne il mio sguardo. Mio padre è la persona più orgogliosa che io conosca, ma ogni tanto riesce ad esprimere ciò che prova con una facilità disarmante. Sentii a mia volta le guance riscaldarsi, e sorrisi timidamente. Lui mi passò accanto, per fingere di cercare in un cassetto l’apribottiglie.

- È molto egoista, da parte mia, - continuò dopo una breve pausa in cui aveva fatto più rumore di quanto fosse necessario, – ma sono dannatamente contento che Winry mi abbia messo all’angolo, ventiquattro anni fa. –

- A dire il vero anch’io. – concordai.

- Nonostante tutti gli stenti del dopoguerra? E le discriminazioni perché siamo tedeschi? – stirò le labbra, mentre pronunciava la parola tedeschi. Ovviamente, non lo eravamo affatto, ma arrivavamo dalla Germania, perciò in America ci avevano sempre chiamati i tedeschi, spesso pronunciando l’aggettivo come se fosse un insulto – e per molti, quando arrivammo, a pochi anni dalla fine della guerra, lo era davvero. All’inizio mi faceva imbestialire il non poter dire che non lo ero affatto, e dover sopportare offese che neppure meritavo. Crescendo, ci ho fatto il callo: come mio padre e mio zio, ho iniziato a rispondere con la semplice frase Sì, sono tedesco. Non nazista., accompagnata da un sorriso cordiale. In fondo, la Germania è la mia patria d’adozione, in questo mondo, e le devo almeno un po’ di lealtà per questo.

- Ad Amestris stava iniziando una nuova guerra, ricordi? E chissà quante altre ce ne sono state nel frattempo: la mia vita non sarebbe stata facile neppure lì. Senza contare che, con un esempio come te in famiglia, non mi sarei mai arruolato, perciò avrei gli stessi problemi che ho qui. –

- Già, ma... ehi, che problemi? – scattò subito.

- Tranquillo, - sospirai, avviandomi verso il mio salotto invaso, - non ho detto ad alta voce quel che penso della faccenda del Vietnam. Resta il fatto che, dato che non ho la cittadinanza americana e dunque non partirò mai, qualcuno fa commenti sgradevoli sul mio didietro al caldo mentre i bravi ragazzi americani vanno a morire per portare la democrazia dall’altra parte del mondo. –

- Non sono mai stato tanto felice che tu non sia americano. – commentò mio padre.

Lo zio Al, scattato sulle lunghe gambe per recuperare il vassoio che tenevo in mano, arrivò in tempo per udire l’ultima frase di suo fratello, e scoppiò in una risata sonora, che sembrò riempire la stanza almeno quanto l’alta figura che l’aveva generata: - Discorsi patriottici in casa Elric? Oggi è davvero una data storica! – esclamò.

- No, - lo contraddisse pacato papà, - stavo facendo ad Alex un discorsetto tra padre e figlio, quando ti ho visto e mi sono venuti dei dubbi sulla sua paternità. –

Mio zio mi passò allegramente un braccio intorno alle spalle, e finse di guardarmi per bene; in realtà, quella della dubbia paternità era una vecchia battuta a casa nostra, nata quando cominciai a crescere... o meglio, ad allungarmi in maniera incontrollabile: nel giro di un anno superai entrambi i miei genitori, e in due e mezzo mi attestai sulla statura di mio zio. A quindici anni, oltre alla voce che cambiava e a peli che crescevano dovunque, il fatto di sfiorare con la testa i lampadari contribuì a farmi sentire un estraneo nel corpo di qualcun altro. E mio padre non mi aiutò, con quella stupida storiella del padre biologico.

- Pa’ vorrei farti notare che tu stesso, fisicamente, somigli più a mio cugino che a me, quindi sei davvero un basso pulpito... ops! – aggiunsi. L’intero uditorio cominciò a ridacchiare, peggiorando l’umore di papà; alzò le mani, stizzito.

Questa te l’ha insegnata tua madre, vero? – domandò.

– Veramente corrisponde di più al tuo senso dell’umorismo. – ribatté piccata la mamma. – La frecciata velenosa è decisamente nel tuo stile, e Alex ha imparato alla perfezione l’arte. –

- Ovviamente, l’ho istruito a dovere in proposito, con pugno di ferro! –

- Okay, genitore moderno. – tagliai corto, sedendomi sul bracciolo della poltrona di Heidi. – Ora però stai giù, che non ho intenzione di perdermi tutta la diretta. –

Condii il mio ordine con uno sguardo ammonitore che stavo perfezionando per utilizzarla poi sul mio erede, ma che non avrebbe mai funzionato se mamma non fosse intervenuta, appoggiando una mano sulla spalla di suo marito per farlo sedere di fianco a sé e aggiungendo un’occhiata solidale rivolta a me. Alzai gli occhi al cielo e lei rise, cosa che incuriosì papà, il quale comunque immaginò cosa stesse succedendo e non fece domande per evitare altre stoccate. Quei due, lasciati da soli, riuscivano a battibeccare all’infinito: in effetti, lo facevano dacché li vedevo insieme, e continuavano a divertirsi un mondo.

Ecco fatto. Sono tornata a casa., aveva detto la mamma il giorno in cui eravamo arrivati da questa parte del Portale. Tutto sembrava volerla contraddire, iniziando da quella stanzetta di un appartamento in affitto a Monaco di Baviera, povero, malconcio e sottosopra per via di una precedente perquisizione. E il mondo all’esterno non era affatto messo meglio.

Eppure aveva tenuto duro, e l’aveva spuntata. Aveva sistemato quella stanza, e sconvolto la vita dell’uomo che vi abitava. Aveva dato una mano nella ricostruzione, offrendo la sua esperienza di medico nonostante la diffidenza delle persone che ci vivevano. Mi aveva cresciuto senza farmi sentire l’alieno di un’altro mondo che effettivamente ero. Edward Elric, d’altro canto, si era calato nel suo ruolo inaspettato di marito e padre con determinazione ed entusiasmo, e come tutte le cose in cui metteva determinazione ed entusiasmo era riuscito a spuntarla. Mio padre è un uomo dannatamente testardo.

- Stai sorridendo. A che pensi? – mi domandò Heidi.

Sospirai, osservando il salotto devastato dalla mia enorme, rumorosa e assurda famiglia.

- Che siamo felici. – risposi.

 

(Ultimo) pensierino della buonanotte: eccoci arrivati. Finito! Cioè, nella mia testa c’è materiale per una fanfic più o meno eterna – praticamente un ricongiungimento con l’OAV Kids, per intenderci, tra i primi a darmi l’idea della ff – ma ho il sospetto che non freghi niente a nessuno.

Un ultimo ringraziamento a tutti coloro che hanno letto, più uno a chi ha recensito. *si inchina* Se siete riusciti a sopportare gli aggiornamenti trimestrali fino ad arrivare a leggere queste ultime righe vi meritate tutta la mia gratitudine e un saluto da Alex...saluta, Alex!

*Alex agita la manina*

Bravo bambino!

Leuconoee: no, povera, non direi che è colpa di Winry... a meno che la scoperta della paternità di Alex non fosse così orribile e scontata da spingere i lettori a smettere di recensire per correre a farsi curare le carie, ma anche in quel caso la colpa non sarebbe stata di Winry. Bensì di Alex. Ho sempre avuto l’idea che l’ultimo capitolo sarebbe stato allegro: insomma, alla fine segna l’inizio di una vita condivisa tra Ed e Winry, praticamente il coronamento di quarant’anni di inseguimenti, tira e molla, addii e ricomparse... c’è davvero di che essere felici! E poi c’è Mustang in kilt. E io adoro Mustang in kilt, se non fosse un semplice alter ego e un personaggio più che secondario ci scriverei uno spin-off sopra!

Grazie per i complimenti e la fedeltà, cercherò di farmi regalare da Roy uno sporran a forma di tasso per te.

Liris: ho capito, Winry viene accusata di ogni cosa. Ci tengo a far sapere che il buco nell’ozono non è opera sua, non è stato creato dalla lacca che ha usato per tenere su il cappellino. E abbiamo la seconda fan del Mustang’s kilt, prima o poi ne farò un banner e lo metterò su Facebook... anzi, meglio, sulla mia pagina personale di EFP, se no a che serve...

Siyah: non so se c’entrano gli aggiornamenti distanziati (del resto, è sempre stato così, anche quando avevo undici recensioni), secondo me è semplicemente perché Fullmetal Alchemist non viene più trasmesso da Mtv... e visto che sei l’unica che mi ha trattato bene Winry, come premio hai vinto un salutino da parte di Mustang in kilt: saluti, Mr. Mustang!

*Robert Mustang agita la manina. Il tasso concorda*

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