München, 1945 di Rika88 (/viewuser.php?uid=9)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il peggior compleanno ***
Capitolo 2: *** Orgoglio e pregiudizio ***
Capitolo 3: *** Una mano in più? ***
Capitolo 4: *** La porta sbagliata ***
Capitolo 5: *** Illusioni infrante ***
Capitolo 6: *** La Mercedes nera ***
Capitolo 7: *** L'Evocatore di Spettri ***
Capitolo 8: *** Capitano ***
Capitolo 9: *** L'errore di Edward ***
Capitolo 10: *** Il nuovo Portale ***
Capitolo 11: *** Alex ***
Capitolo 12: *** Il bambino della foto ***
Capitolo 13: *** Breve visita alle patrie galere ***
Capitolo 14: *** L'uomo nero ***
Capitolo 15: *** Seguire gli ordini ***
Capitolo 16: *** Un cavaliere senza paura ***
Capitolo 17: *** Il tempo di sapere ***
Capitolo 18: *** Nuovi Orizzonti ***
Capitolo 19: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Il peggior compleanno ***
Nuova pagina 1
München, 1945
1. Il peggior compleanno
Sospettavo che quella gita nascondesse qualcosa, a dire il vero.
Quando mio padre, Alphonse Elric, venne a svegliarmi con una scrollata troppo
energica per un uomo solitamente così calmo, risposi con un grugnito di
disappunto, tentando di infilarmi di nuovo sotto le coperte.
- Alzati e vestiti, pigrone - mi disse, in fretta - Andiamo a trovare la
mamma. -
- E dobbiamo farlo proprio a quest'ora del mattino? - chiesi, alzando
controvoglia la testa dal cuscino.
Lui mi porse i vestiti con un gesto secco. Misi a fuoco il suo volto quel tanto
che bastava per riconoscervi un profondo turbamento: se fosse paura di qualcosa,
fretta o altro, non riuscii ad identificarlo sul momento.
- Oggi sarebbe stato il suo compleanno, ricordi? - mi rispose
pazientemente.
Buona scusa, senza dubbio; di solito, per il compleanno della mamma, io, papà e
mia sorella minore Charlotte svolgevamo tutti i lavori di casa, per farla
riposare, e io facevo lo sforzo di evitare commenti: infatti, per una strana
casualità, sono nato il giorno dopo il suo compleanno. Ma nessuno lo trovava un
motivo valido per esonerarmi dalle faccende domestiche o dai compiti.
Quel venti gennaio 1945, per la prima volta, potemmo soltanto rimanercene in
piedi di fronte alla sua tomba, nel cimitero che la nebbiolina umida rendeva più
lugubre di quanto già non fosse, almeno agli occhi di un bambino quale io ero.
Lanciai un'ennesima occhiata a mio padre, il cui volto era in buona parte
nascosto dal cappello e dal bavero del cappotto. Stringeva le labbra fino a
farle quasi sparire, e spostava il peso del corpo da un piede all'altro,
ansiosamente, come chi deve dire qualcosa di molto importante.
Angoscia, ecco cosa rifletteva il suo volto, decisi finalmente.
- Thomas, Lotte... - iniziò, lentamente - devo dirvi una cosa. -
Noi ci irrigidimmo, preoccupati dal suo tono: mia sorella si aggrappò alla sua
mano, mentre io fissai lo sguardo oltre la lapide con il nome di Caroline
Heinrich, mia madre.
- Non siamo venuti qui solo per il compleanno della mamma, vero? - chiesi
Lui si voltò verso di me per un istante, per poi tornare a fissare la nebbia,
sospirando. Finalmente, si decise a parlare:
- Thomas, sai cos'è una cartolina di precetto? - domandò
Presi un respiro profondo, afferrando la situazione.
- Sì. -
- Io no. - si intromise mia sorella, offesa dal fatto che la stavamo
tagliando fuori dalla conversazione
- Vuol dire che deve partire per la guerra, Lotte. - risposi per lui, con
tono acido
Lei lo guardò, con gli occhi sgranati per lo stupore
- Ci...ci lasci da soli? -
Nostro padre si accosciò, per guardarla in faccia.
- No, Lotte. Voi rimarrete per qualche tempo da vostro zio, fino al mio
ritorno. Sarà... - tentò di sorridere - una specie di vacanza. Ti ricordi di
Edward, no? -
Io rimasi in silenzio, guardando la disperazione che traspariva dal volto di mio
padre: tirai su col naso, e mi imposi di non piangere.
Avrei compiuto dodici anni di lì a poche ore: inutile dire, quindi, che non
comprendevo nè m'interessavo alla politica. Della guerra, avevo sentito due
versioni: quella della radio, dei giornali e della scuola (quando ancora era
aperta), fatta di onore e gloria e sacrificio per la Patria, per il Reich; e
quella di mio padre, raccapricciante e senza senso.
A dirla tutta, avevo due versioni praticamente di ogni cosa, e la cosa portava
una gran confusione: se, da un lato, avevo troppa ammirazione per papà per
pensare che mentisse, non riuscivo neppure a credere che lo facessero i miei
conoscenti, gli insegnanti e il resto del mondo. Ne avevo parlato con il mio
migliore amico, Hanno Lindemann, l'unico con cui si potessero avere discorsi
seri, e lui si era limitato a scuotere la testa:
- Stai attento, Tom, o diranno che tu e tuo padre siete dei disfattisti. -
mi aveva avvertito, prima di esporre il suo punto di vista. - Mio padre è
arruolato, e io ne sono orgoglioso, come lo sarei se potessi farlo anch'io, se
la guerra durasse abbastanza. -
Forse avrei dovuto anche io vederla così, invece di pensare solo,
egoisticamente, a me stesso...
Forse.
- Domani vi porterò dallo zio - stava continuando papà, calcandosi il
cappello sulla testa, per difendersi dal vento freddo e tagliente - Io partirò
subito dopo. -
- Domani? - ripetei, sbigottito - Già domani? -
- Mi dispiace rovinarti il compleanno, Thomas. -
- Ma... - mi interruppi, evitando di parlare delle mie paure: mi ripetei
ancora una volta i miei propositi, tirando per l'ennesima volta su col naso. Non
potevo ammettere con i miei amici che avevo pianto come una femminuccia, e,
soprattutto, che avevo paura.
Il pomeriggio dopo, poco prima del tramonto, mentre il nostro trio oltrepassava
frettolosamente la Ludwigskirche trasportando due valigie e una vecchia sacca
(che un tempo fu di mio padre, ma che lui mi regalò quella mattina), mi resi
conto che avevo pochi ricordi dello zio Edward: non lo vedevo da anni, anche
perchè abitava dalla parte opposta della città. Non era venuto al funerale della
mamma, non sapevo il nome della via in cui abitava, nè se viveva da solo.
Imboccata una piccola traversa, trovammo di fronte ad un edificio ad un piano
malridotto quanto gli altri, costruito sopra quello che un tempo era stato un
negozio di antiquariato, trasformato poco prima della guerra in libreria:
l'insegna era grossa, ma della verniciatura restavano solo poche tracce sparse.
Mio padre rinunciò all'aria di finta allegria che aveva tenuto fino ad allora, e
bussò in fretta alla pesante porta di legno a destra della vetrina,
nervosamente, come se avesse avuto paura che, aspettando, gli sarebbe mancato il
coraggio per farlo.
Pochi secondi dopo, un rumore di passi dall'interno della casa ci annunciò la
presenza di un inquilino. Per la prima volta da quattro mesi, vidi quanto di più
simile ad un vero sorriso sul volto di mio padre.
L'Edward Elric che ci aprì la porta non era poi così diverso da quello delle
foto che si trovavano in casa nostra, o da quello che riuscivo a ricordare: un
individuo piuttosto enigmatico, in contraddizione con se stesso fin nel più
piccolo particolare. A quarant'anni, ne dimostrava parecchi di meno, e si
ostinava a lasciar crescere i capelli biondi fino a doverli tenere legati in una
coda, pettinatura più unica che rara in un uomo. Indossava abiti formali, con
addirittura i guanti, ma il colletto della camicia era alzato, più per
insofferenza che per distrazione. Quando si trovò di fronte a mio padre, non
potei non notare che era più basso di metà testa, ma sembrava circondato da una
tale aura di autorità che nessuno avrebbe potuto confondere il fratello minore
col maggiore.
Sentii Lotte aggrapparsi ai pantaloni di papà e tentare di nascondersi dietro la
sua schiena: lui capì il suo disagio, e le scompigliò i ricci biondi con una
mano.
- Eccoci qui - sospirò, rivolgendosi al fratello - Ragazzi, salutate lo
zio e non fate i timidi: vi ricordate di lui, no? È venuto a trovarci per
Natale...quello di due anni fa, se non sbaglio. -
La diplomazia di mio padre: il "ragazzi" era per me, visto che da quando avevo
deciso di essere ormai grande mi infastidiva essere chiamato "bambino", mentre
l'esortazione era rivolta a Charlotte, che era timida con tutti gli adulti che
si trovava davanti, mentre io tendevo a fissare la gente in modo particolarmente
svergognato. Quella del Natale, invece, era una bugia bella e buona: Edward non
era venuto per quella ricorrenza, perchè non la festeggiava; semplicemente,
aveva voglia di vedere il fratello, e un giorno valeva l'altro.
- Al piano di sopra sono in corso le grandi pulizie - esordì mio zio,
cercando penosamente di scherzare - posso farvi accomodare solo nella libreria.
-
- Più che sufficiente. - fu la risposta di mio padre
* * *
Feci strada nel locale, ed indicai la porta del magazzino: Al, tuttavia, propose
ai suoi figli di restare a sbirciare tra gli scaffali, prima di precedermi nel
retro.
Quello che chiamavo - chiamavamo - pomposamente "magazzino" era, prima della
guerra, un prolungamento del negozio: al momento, invece, si era trasformato
nella stanza gelida e piena di spifferi in cui avevo portato un tavolo, una
sedia e, talvolta, depositavo anche la mia persona. La mia sala di lettura
personale, insomma.
Mio fratello ammirò il disordine in silenzio: qualche libro appoggiato su uno
scaffale altrimenti vuoto, il mio soprabito gettato sulla sedia quando me lo ero
tolto di dosso per andare ad aprire, il volume che stavo leggendo aperto sul
tavolo, con i miei occhiali che fungevano da segnalibro.
- Di sopra fa più caldo. - lo rassicurai, vedendolo sfregarsi le mani tra
di loro, nel tentativo di scaldarle - Io stesso scendo di rado nel mio
appartamento, per non sprecare carbone. -
- Di carta ne hai in abbondanza... - mormorò mio fratello
- Non posso, il mio locatario - nonchè datore di lavoro - non me lo
permette. -
Mio fratello stirò appena le labbra, nell'ombra di un sorriso:
- Pensavo non avessi neppure preso in considerazione l'idea di bruciare
dei libri. -
- La maggior parte di quelli contenuti qui dentro sono buoni giusto come
combustibile. - sbottai - Del resto, di questi tempi sono pochi quelli che
possono o vogliono usare i pochi soldi che hanno per dei libri. Ormai teniamo
aperto solo un paio di giorni la settimana. -
- Dunque, hai cominciato ad andare a tempo pieno dal signor Schulz? -
- Per forza: mi paga soprattutto in cibarie, il che, per certi versi, è
meglio. -
Herr Schulz era il proprietario di un podere, fuori città, a cui in
teoria tenevo in ordine i conti; in pratica, arrotondavo riparando ogni cosa si
rompesse, dal tetto ai ripiani delle cantine, e lavorando come bracciante
durante i mesi estivi.
- E i tuoi rapporti con le mucche? -
- Ci odiamo cordialmente. Il latte, comunque, ai tuoi figli non
mancherà... - aggiunsi, disgustato.
Dalla libreria giunsero le voci dei bambini. Al sorrise, con aria lugubre:
- Non tieni libri vietati tra gli scaffali, vero? - mi domandò, tentando
di fare del sarcasmo
- Nulla di sconveniente arriverà in mano ai miei nipoti. - gli promisi
Anche perchè, avevo già fatto sparire praticamente tutto.
Liberai la sedia dalla mia giacca, e feci cenno a mio fratello di sedersi: lui
scosse la testa, senza smettere di rabbrividire.
- Non mi tratterrò a lungo, giusto il tempo di salutare Thomas e Lotte. -
cominciò a frugare nelle tasche dei pantaloni, per poi estrarne un rettangolo di
carta stropicciato - Questo è il recapito dove scrivermi. -
Non degnai di un'occhiata nè il numero del reggimento, nè la macchia umida che
aveva fatto sbavare una parte dell'inchiostro: appoggiai il ritaglio sul libro
aperto, meccanicamente, per poi tornare a fissare mio fratello
- Pensavo che ormai fosse finita... - disse, più a se stesso che a me - e
poi, non avevano mai arruolato nessuno del laboratorio. Invece... -
- Al... - mi
bloccai, accorgendomi di non sapere cosa dirgli: riguardati? Stai attento? Che
idiozia, stava andando al fronte!
- Tieni i ragazzi lontani dai guai. - mi interruppe lui, con voce rotta,
soffocando a stento un singhiozzo.
- Era scontato. - gli risposi, brusco. - Pensavo ti fidassi di me. -
- Conosco le tue innate capacità di procurarti delle grane. - mi disse,
passandosi una mano sugli occhi - Ho saputo perchè non sei venuto al funerale di
Caroline. -
- Nulla di cui tu debba preoccuparti, ho avuto dei problemi quella
mattina... -
- Nella fattispecie, una scazzottata nel vicolo? -
Sobbalzai, preso in fallo. Speravo che quella faccenda non arrivasse alle sue
orecchie, ma, a quanto pareva, vivevo circondato da una manica di pettegoli
disposti a vendere le loro madri pur di far sapere al mondo intero cosa
combinavano gli inquilini delle case a fianco e, soprattutto, quando e in che
modo si cacciavano nei pasticci. Quel giorno avevo abbozzato una scusa, ma, per
avvertire mio fratello, avevo dovuto aspettare innanzitutto di rinvenire, e poi
che la mia guancia sinistra si sgonfiasse abbastanza da permettermi di parlare
senza che il mio interlocutore credesse che io avessi una cucchiaiata di
minestra bollente in bocca.
- Il fatto che io non sia simpatico al vicinato, non significa che i
bambini corrano pericoli. - brontolai
Al sospirò, scoraggiato.
- Ed, hai una minima idea di cosa significhi un'accusa di disfattismo, di
questi tempi? Se... -
- Non farmi la predica, lo so. -
Lui scosse la testa, visibilmente demoralizzato. Doveva essersi già pentito
della sua scelta, perchè aggiunse: - Non vi conoscete molto, è vero, ma sei
l'unico parente stretto a cui posso lasciare Thomas e Lotte: non vedo mio
suocero da settimane...e, del resto, sai in che rapporti sono con lui. -
Certo che lo sapevo: Karl Heinrich era stato il mio datore di lavoro, il
direttore del laboratorio in cui io lavoravo come chimico e Al come biologo. Lui
stesso era stipendiato da un qualche riccastro che doveva averlo nominato in un
momento di sconsideratezza, ma comunque guadagnava abbastanza bene da non
prendere con filosofia il fatto che sua figlia si fosse sposata con un
dipendente, un uomo senza un buon patrimonio. Aveva tentato di farle cambiare
idea prima con le lusinghe, poi con le minacce; Caroline Heinrich, tuttavia,
aveva continuato per la sua strada.
Ho sempre apprezzato mia cognata.
Nel 1933, mentre la Germania ancora risentiva del crollo della Borsa di New York
e la disoccupazione aumentava esponenzialmente, era nato Thomas, e quel vecchio
infame di Heinrich, diviso tra la preoccupazione per l'avvenire della sua
bambina e il disprezzo nei confronti di suo genero e di tutta la sua lurida
parentela, arrivò ad una soluzione che a lui parve accettabile: nominò Alphonse
suo vice e licenziò in tronco me, costringendomi ad un decennio di instabilità,
in cui avevo fatto ogni sorta di lavoro e mi ero spostato per mezzo mondo.
Devo dire che non gli ero mai riuscito simpatico.
- Al - dissi, guardandolo negli occhi - Ti prometto che andrà tutto bene.
Non preoccuparti per i bambini, non gli succederà nulla. -
Lui si passò una mano sulla fronte, con aria stanca.
- Grazie. -
Aprì la porta, e andò dai bambini: erano impegnati a passare in rassegna i
libri, ma appena videro il padre gli andarono incontro, mentre la piccola faceva
scivolare la mano in quella del fratello.
Non credo che Al avesse la voglia nè la forza di fare lunghi discorsi: si limitò
ad abbracciarli entrambi per alcuni minuti. I suoi singhiozzi vennero coperti
solo parzialmente da quelli della piccola Charlotte.
- Fai la brava, Lotte. - sussurrò, accarezzando la testa della figlia -
Buon compleanno, Thomas. -
Alzandosi, si voltò ancora una volta verso di me, facendomi solo un cenno col
capo. Risposi alzando leggermente la mano, mentre un fastidioso bruciore agli
angoli degli occhi mi costringeva a sbattere più volte le ciglia.
* * *
Quando l'alta figura di mio padre sparì oltre la porta della libreria, mi sentii
soffocare, al pensiero di essere rimasto solo. Mi sembrava di essere un puntino
nell'Universo, e la sola idea mi dava le vertigini.
Per non pensarci, tentai di calmare Charlotte con qualche moina: Edward, dopo
alcuni istanti in cui rimase a fissare la porta senza realmente vederla, venne
riscosso da alcuni tonfi sordi provenienti dal piano di sopra, che mi fecero
sobbalzare ed interruppero i lamenti di mia sorella.
- Le pulizie sono finite - esordì Ed - Possiamo salire in casa a
scaldarci: magari anche a mettere qualcosa sotto i denti...avete già cenato? -
- No, zio. - risposi
Lui portò le mani sui fianchi, facendo una smorfia: avevo già fatto una gaffe.
- Niente "zio". - disse - Edward, o Ed, vanno benissimo. -
Non lo conoscevo molto bene, ma tentai lo stesso di fare del sarcasmo:
- Va bene, zio Edward. - ghignai
Lui mi folgorò con lo sguardo, ma non sembrava particolarmente offeso.
Quella del nome fu solo una delle tante stranezze che scoprii, da quel giorno in
poi, nel mio eccentrico parente; all'epoca, non riuscii a darmi una spiegazione
su quel bislacco ordine, ma oggi, che sono a mia volta zio (e prozio, ahimè!),
posso tentare un'ipotesi: la parola "zio" lo faceva sentire vecchio.
Lo stesso motivo per cui, adesso, rifiuta di farsi chiamare "nonno" e
"bisnonno", anche se non lo ammetterebbe mai.
La palazzina, ci spiegò Edward mentre uscivamo da una porta laterale e ci
immettevamo in un atrio piuttosto buio, era di proprietà di un'unica famiglia,
ma si componeva di due appartamenti: il più piccolo, di fianco al negozio, era
quello che aveva in affitto. Nell'altro, al primo piano, abitava il padrone di
casa e, da un paio d'anni, ci dormiva anche lui.
- Per risparmiare. - ipotizzai
Ed confermò, mentre cercava alla cieca l'interruttore per accendere la luce
nell'atrio: Lotte tastò con il piede il primo gradino della scala che portava ai
piani superiori.
- Come sono vecchi... - esclamò, notando l'ansa che cominciavano a fare,
causata da anni e anni di scarpe che passavano continuamente.
- Ah, ma allora ce l'hai ancora la lingua. - la presi in giro
Finalmente, Ed si arrese all'evidenza che non c'era elettricità, e iniziò a
salire le scale a tentoni, tenendoci per mano.
- Il palazzo è uno dei più antichi della zona. - le disse lo zio - La
famiglia di antiquari era piuttosto ricca; ora, però, il capofamiglia è in
guerra, e c'è solo la figlia a controllare che io non ritardi il pagamento -
Un rumore ci fece alzare la testa. Sobbalzai, notando per la prima volta una
ragazza, poco più anziana di me, che ci fissava dalla tromba delle scale: doveva
aver seguito tutta la conversazione, in maniera così silenziosa che non avevo
neppure sospettato la presenza di un'altra persona.
- Ecco, lei è Margarethe - esclamò Edward - Abita con me...o meglio, io
abito con lei, visto che le pago l'affitto. È una persona molto discreta: non
spaventatevi se ve la troverete alle spalle senza che ve ne accorgiate. A me
capitava spesso, e ancora non capisco come riesca a non far scricchiolare le
assi del pavimento! -
Salendo le scale con gli altri, riuscii a vederla abbastanza bene, grazie alla
luce della torcia che teneva in mano, e non potei trattenermi dal pensare che,
anche nell'aspetto, Margarethe sembrava fatta apposta per non essere notata:
aveva un volto anonimo, nè brutto nè bello, con gli occhi scuri e i capelli
castani, e arti così magri da sembrare di vetro.
Lotte, sempre molto più espansiva con i ragazzi piuttosto che con gli adulti, le
sorrise:
- Ciao! - esclamò - Molto piacere: io mi chiamo Charlotte. Lui è mio
fratello, si chiama Thomas. -
La giovane si limitò ad abbassare il capo, in cenno di saluto; Ed, notando la
perplessità di mia sorella, che temeva di averla offesa, le mise una mano sulla
spalla, ridendo:
- Non ti preoccupare, anche lei è felice di fare la tua conoscenza. Però,
- aggiunse - tra i molti pregi di Margarethe, c'è quello del silenzio. -
Non so se mia sorella comprese subito quel che voleva dire: per quel che mi
riguarda, devo ammettere che solo notando la lavagnetta che pendeva dal fianco
della giovane riuscii a capire che era muta.
* * *
Sentivo puzza di guai. Non per colpa di qualcuno in particolare, ma per la
situazione che si era creata. Bastava guardare in faccia il ragazzino, il
maggiore, per capire che era il nipote di Edward: oltre all'aspetto fisico molto
simile, aveva quello sguardo fiero, selvaggio e (devo pur ammetterlo) arrogante
tipico del signor Elric. La bambina, invece, pur essendo così irruente, aveva
gli occhi dolci del fratello di Edward, l'uomo con cui i due erano arrivati e
che era venuto a trovarci quasi ogni giorno, nelle ultime settimane: i ricci
biondi e le lentiggini, invece, doveva averli presi dalla madre, perchè erano
estranei agli Elric.
Non potei fare a meno di chiedermi come avrebbero convissuto due persone come
Edward e Thomas, ma sperai che la piccola Charlotte fosse abituata al carattere
del fratello.
La risposta arrivò prestissimo: per essere precisi, durante la cena.
Si arrivò in argomento in modo del tutto innocente: Thomas chiese allo zio il
biglietto su cui suo padre aveva segnato il recapito a cui inviare le lettere.
- Ce l'ho nella giacca. - fu la risposta
- Possiamo scrivergli già domani? - domandò Lotte, tirando le bretelle del
fratello
- Per me va bene... - il ragazzino s'interruppe per sorbire una
cucchiaiata di minestra - Ottima, Margarethe! -
Grazie, scrissi in fretta.
- Una volta - riprese la bambina - ho visto la lettera che il padre di una
mia amica aveva scritto alla famiglia: era tutta cancellata da righe nere. -
- Forse - ipotizzò il fratello, in un goffo tentativo di spiegazione -
Aveva detto delle cose non vere... -
- È più probabile che avesse detto troppe cose vere. - ribattè l'uomo,
acido.
Ahia, pensai. Ci siamo. Colpii con il palmo della mano il braccio di Edward,
seduto alla mia destra, per farlo tacere, ma era decisamente troppo tardi.
Thomas, infatti, non prese bene l'affermazione.
- Cosa vuoi dire? - chiese, asciutto
- Che non sarebbe una bella pubblicità, per il Reich, se i soldati
tedeschi descrivessero come vivono e muoiono, o avvertissero le famiglie che la
guerra è ormai persa... -
- La guerra non è persa. - lo interruppe Thomas - Altrimenti non
continuerebbero ad arruolare persone. -
- Io direi che il fatto che si continui a cercare carne da macello sia un
indizio lampante di come vada la faccenda. Tuttavia, è da un po' che non ascolto
la radio tedesca: probabilmente, lì stiamo ancora vincendo. -
Charlotte ed io appoggiammo il cucchiaio nel piatto, perplessa lei, preoccupata
io: cercai lo sguardo del signor Elric, per pregarlo di smetterla, ma lui
continuava a mangiare come se nulla fosse. Thomas, al contrario, sembrava
profondamente offeso dalle sue parole.
- Immagino tu sia molto più informato di me sulla vita al fronte. -
ribattè, sarcastico - Quando ci sei stato? -
Ovviamente, conosceva benissimo la risposta
- Non ci sono mai stato. - rispose Ed, fingendo grande calma
- E perchè, se posso saperlo? -
- È una lunga storia...diciamo che ho fatto un favore al figlio di un
personaggio influente. -
Sospirai. Parlare di favore era decisamente un eufemismo, visto che il signor
Elric salvò la vita di quel bambino: me lo ricordo, era il 1934, ed era appena
venuto a vivere in affitto da noi, anche se passava molto tempo fuori,
nell'eterna caccia ad un impiego.
- In che senso? - domandò timidamente Lotte
- L'ho tirato fuori dai rottami di una macchina, nulla di più! - sbottò Ed
- Non è difficile, quando hai un braccio d'acciaio! -
La vicenda fu molto più complessa: fui io stessa a raccontarla ai piccoli Elric,
in seguito.
Era dicembre, e aveva nevicato da poco, lasciando la strada coperta da quel
sottile strato di ghiaccio e neve pigiata che la rende così pericolosa.
Infatti, avevamo aperto il negozio da poco più di due ore, quando sentimmo un
rumore di freni, seguito da uno schianto: io, che all'epoca avevo sette anni,
mio padre e il signor Elric, come molte altre persone, uscimmo in strada per
vedere cosa era accaduto.
A prima vista, non sembrò nulla di particolarmente grave: sì, la bella macchina
si era accartocciata contro un muro, finendo per somigliare a quella fisarmonica
che, all'epoca, avevamo in vetrina, ma l'uomo dai grandi baffi biondi alla guida
era fuori, che le correva intorno, illeso.
Fu Edward ad avvicinarglisi, e a capire per primo cos'era successo: l'uomo non
cercava di attirare l'attenzione sulla macchina sfasciata, ma sul bambino
incastrato all'interno.
- Ho aperto la portiera, ma non riesco ad infilare le mani tra le lamiere
- gli gridò il padre, disperato
L'allora trentenne Edward Elric si sporse, per vedere il ragazzino: era minuto,
con i capelli biondi che si rizzavano leggermente sulla fronte.
- Ti sei fatto male da qualche parte? - gli domandò
Lui si limitò a tirare su col naso. Ed tentò di sorridergli.
- Coraggio...come ti chiami? -
- Klaus. -
- Va bene, Klaus...ti fa male da qualche parte? -
Il bambino scosse la testa: - Ho i piedi bloccati - si lamentò
- Non stento a crederlo... - mormorò Edward, notando che i sedili davanti,
accartocciandosi, lo avevano intrappolato.
Come al solito, decise di fare a modo suo: infilò il braccio destro tra i
rottami e, non potendo affidarsi al tatto, lo usò come metro, per stabilire fino
dove fossero incastrate le gambe del bambino. Riuscì ad arrivare fin quasi alle
caviglie, e la cosa lo confortò.
- Bene, Klaus. - annunciò - Ora cercherò di tirarti fuori: se ti faccio
male, avvertimi. -
Lavorò di buona lena, chiacchierando allegramente con il piccolo: quanti anni
hai? Undici? E che scuola fai? Non la conosco, in che via si trova?
Mentre il padre finiva di mangiarsi le unghie per l'agitazione, finalmente
l'attesa ebbe termine: Ed riuscì, grazie alla protesi d'acciaio, ad aprirsi un
varco tra le lamiere abbastanza grande da permettere a Klaus di spostare le
gambe ed uscire dai rottami della vettura.
Il padre, rabbrividendo, dopo aver controllato la salute del figlio si rivolse
ad Ed:
- Non so come ringraziarvi...- balbettò - davvero, sembrerà la frase più
scontata, ma... -
Fece per tirare fuori il portafoglio, ma l'altro lo fermò:
- Non voglio soldi - lo prevenne, ruvido
- Come si chiama? -
- Edward Elric. -
- Herr Elric,un giorno la ripagherò. E sappia che non è abitudine
della famiglia Holze dimenticare le promesse. -
Alzò il braccio nel saluto nazista, imitato docilmente dal figlio: Ed, suo
malgrado si irrigidì, ma nessuno parve notarlo. Anche perchè, l'occhio del
signor Holze era caduto sul braccio metallico dell'uomo.
Thomas, durante quella maledetta cena, non parve troppo colpito dalla frase
dello zio: ovviamente, non conoscendo tutta la vicenda.
- E allora, cosa c'entra tutto ciò con l'arruolamento? - chiese
In effetti, Ed ricevette la lettera di precetto già nel 1940, appena ritornato
da uno dei suoi viaggi: e, decisamente, non disertò solo per timore di
ritorsioni contro suo fratello Alphonse e la sua famiglia.
Eppure, si rese presto conto che qualcosa non quadrava: alla visita medica, gli
fecero sapere che il dottore voleva vederlo prima, da solo. Edward rabbrividì:
anche se doveva ammettere che non gli avrebbe fatto piacere mostrare gli arti
artificiali a chissà quante persone, con tutte le domande che questi avrebbero
sollevato, la situazione era quantomeno singolare.
- Signor Elric? -
Alle sue spalle, era entrato il medico: un uomo robusto, con grandi baffoni
color grano.
- Posso sapere perchè sono stato mandato qui? - chiese Ed, tentando di
sembrare educato e, di fatto, riuscendo incredibilmente sfacciato.
- Perchè l'ho chiesto io - rispose l'altro, sornione
Gli tese la mano: - Dottor Georg Holze. Le ho fatto una promessa, ricorda? -
Edward trasalì, riconoscendo il padre del piccolo Klaus, e comprendendo il
perchè del saluto ricevuto anni prima; dopo alcuni istanti, riuscì a riprendersi
abbastanza per stringergli la mano.
- Dunque, se non ricordo male, lei ha un braccio destro un po'
particolare...è una protesi? -
- Sì. -
- Fin dove arriva? -
- Fino alla spalla. -
- Posso vederla? -
Il dottor Holze rimase affascinato da quello che definì "l'opera di un genio".
- Non è tedesca, vero? -
- No. -
- Altre protesi? -
- La gamba sinistra. -
Il medico fischiò: - Una vita movimentata, eh? -
Si sedette dietro la scrivania, grattandosi la tempia con una penna, come uno
studente che non sappia cosa scrivere:
- Allora...da quel che ho potuto vedere, lei risulta totalmente privo di
un braccio e di buona parte di una gamba, mi corregga se sbaglio. -
- No, è esatto. -
- Quindi... - l'uomo alzò lo sguardo, sorridendo leggermente - non posso
certo mandare al fronte un menomato, no? -
Edward lo fissò, chiedendosi se quello fosse un insulto. Tuttavia, nelle
intenzioni di Georg Holze non c'era l'offesa, anzi.
- Signor Elric, - annunciò, alzandosi - lei è inabile a combattere. Spero
che questo basti a ringraziarla per aver salvato mio figlio, sei anni fa. -
Ignaro della vicenda, Thomas sembrava decisamente disgustato.
- Questa è un'azione da vigliacchi! Che ringraziamento è? - domandò
- Forse anche un altro medico l'avrebbe fatto: il dottor Holze non fece
domande, è questo il punto. - rispose Ed
- Ciò non toglie che tu non sei mai andato in guerra, quindi non puoi
sputare sentenze come se sapessi tutto! -
Il bicchiere di Edward tremò tra le sue mani, prima che questi lo appoggiasse
bruscamente sul tavolo.
- Il fatto che non abbia partecipato a questa guerra non vuol dire
che non ne sappia niente. E comunque - riprese, alzando la voce - credo di
saperne di più di un bambino che è cresciuto con le sciocchezze della
propaganda! -
- Allora cosa andrebbero a farci i nostri soldati in guerra, se non
proteggere la patria e renderla grande? - esplose Thomas
- Vanno a morire, oppure ad uccidere dei perfetti sconosciuti che, per un
puro caso, hanno la divisa diversa dalla loro! -
- Stai dicendo che papà è un comune assassino! -
- No, questo no: come so che io sarei inutile alla guerra, perchè non
sparerei mai, conosco abbastanza bene tuo padre da sapere che preferirebbe farsi
uccidere, piuttosto che ammazzare l'uomo che gli sta di fronte! -
Gli occhi di Charlotte si riempirono di lacrime, mentre io tentavo di fermare i
due: proprio in quel momento, tuttavia, Thomas balzò in piedi, furibondo.
- Sei un codardo! - gli gridò - Sei un codardo, e di mio padre non te ne
importa niente! -
Incurante della sedia caduta per terra, corse nella sua camera e si sbattè la
porta alle spalle.
* * *
Pensierino della buonanotte:
Se già il primo capitolo mi dà così
tante grane, non voglio sapere cosa farò con gli ultimi!
Il litigio mi lascia molti dubbi: nella mia mente funziona benissimo, ma non so
se per il lettore è altrettanto comprensibile; la mia idea si basava sul fatto
che, se Thomas parte da presupposti totalmente errati, dettati dalla propaganda,
anche Edward ha la sua parte di responsabilità, in quanto, pur avendo ragione,
parla con troppa arroganza. In realtà, temo che anche tutto il racconto di
Margarethe appesantisca lo scambio di battute: in effetti, inizialmente si
trovava nel secondo capitolo, ed era Thomas a raccontarlo, dopo averlo sentito
da Charlotte. In linea teorica funzionava meglio, in pratica non mi convinceva:
una storia narrata da un personaggio, a cui è stata raccontata da un altro, a
cui a sua volta è stata narrata da terzi perde credibilità.
A proposito: no. Il soprannome di Charlotte, Lotte, NON viene da Un ciclone
in convento, ma da I dolori del giovane Werter, di Goethe. Me l'ha
già chiesto talmente tanta gente, che ho anche pensato di cambiarle nome.
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Capitolo 2 *** Orgoglio e pregiudizio ***
Nuova pagina 1
Sono un'autrice ignobile e crudele,
sì. E la maturità imminente mi rende ancora più malvagia.
2. Orgoglio e pregiudizio
Questo è il peggior compleanno che abbia mai avuto, pensavo.
Mi ero infilato nel letto, sotto le coperte, e me ne stavo con il mento
appoggiato sulle mani: a casa mia, il segnale inequivocabile che volevo essere
lasciato in pace, perchè ero di cattivo umore.
Rimuginavo sulla mia sfortuna, che aveva concentrato così tante magagne nel
giorno in cui compivo dodici anni: mio padre era partito, e io mi ritrovavo
lontano da casa mia, in casa di perfetti estranei, di cui uno particolarmente
esasperante.
Inoltre, nessuno si era ricordato del mio compleanno. A parte papà, che mi aveva
fatto gli auguri piangendo e salutandomi, mentre partiva per il fronte.
Fantastico.
Comunque, era destino che non potessi rimanermene da solo troppo a lungo: doveva
essere passata mezz'ora al massimo, quando sentii la voce di mia sorella, a
pochi passi da me:
- Thomas? -
Mi sedetti, togliendomi la coperta di dosso e sbuffando per farle capire che ero
ancora di cattivo umore
- Cosa c'è? - domandai
- Perchè ti sei arrabbiato con lo zio? - mi domandò a bruciapelo
Alzai il mento e misi il broncio, seccato per essere stato preso alla sprovvista
- Perchè ha detto delle cose brutte. E false. -
- E tu come lo sai? -
- Beh... - balbettai, mentre sentivo le guance scaldarsi - perchè non è vero. Lo
dicono tutti. -
Charlotte annuì, con aria di compatimento, mentre io, furioso con me stesso,
cercavo uno straccio di prova a sostegno delle mie tesi
- Insomma, - ripresi - a scuola, alla radio...sui giornali. -
Da qualche parte, tuttavia, una vocina mi ricordava quel che diceva mio padre;
Lotte la seguì a ruota:
- Papà diceva di non ascoltare quel che dicono radio e giornali -
A volte mi chiedo se mia sorella non sia telepatica: poi, concludo sempre che,
semplicemente, è più acuta di me. Da qualche parte devo avere un minimo
d'intelligenza, ma lo uso malvolentieri.
Quella sera, tuttavia, non volevo ammettere di aver sbagliato: innanzitutto, non
ne ero ancora del tutto certo, e poi, non potevo andare a scusarmi...il mio
orgoglio non me l'avrebbe mai permesso; così, presi la decisione più vigliacca:
mi tirai nuovamente lenzuolo e coperta sulla testa.
- Vai via, non ho voglia di parlare con nessuno! -
Sentii la delusione di Charlotte come se fosse stata fisica, ma decisi di non
curarmene.
- Buon compleanno, Thomas. - mormorò appena, andandosene.
- Chiudi la porta! - le gridai di rimando.
Rimasi di nuovo al buio, con l'unica compagnia del fischio del vento
all'esterno, che ogni tanto faceva tremare la finestra della camera: mentre
tornavo a sdraiarmi, ripensai alle parole di Lotte.
Ero certo di aver visto meno di una decina di quotidiani girare per casa nostra:
anzi, l'ultimo foglio di giornale conteneva delle uova comprate alla borsa nera.
Mio padre aveva fatto dell'ironia, dicendo che era il modo migliore per usare
quella cartaccia.
Cominciavo a non sapere più cosa pensare, quando udii bussare alla porta,
lasciata aperta da Charlotte nonostante la mia richiesta. Chiusi gli occhi:
l'ultima cosa di cui avevo bisogno era un altro attacco della mia irriducibile
sorellina, ben decisa a mettere pace.
- Posso entrare? -
Trasalii, riconoscendo la voce: mi tolsi le coperte di dosso, in tempo per
vedere Edward in piedi, sulla porta, ancora con le nocche della mano destra
appoggiate su di essa, la lavagnetta di Margarethe nella sinistra. Con un salto
mi sedetti sul bordo del letto, mentre lui spostava la sedia della scrivania e
ci si sedeva; evitai di fissarlo, mentre lui prendeva tempo fingendo di
osservare i fiocchi di neve che cominciavano a cadere fuori dalla finestra.
- Prima sono stato troppo brusco. - ammise, sempre senza guardarmi - Non avrei
dovuto alzare la voce. -
Per quel piccolo passo verso la riconciliazione, doveva aver ingoiato tutto il
suo orgoglio: rimasi per alcuni secondi in silenzio, prima di decidermi a fare
la mia parte.
- Io non avrei dovuto aggredirti, - dissi, grattandomi il capo per riordinare i
capelli scompigliati dal lenzuolo che mi ero cacciato in testa - nè offenderti.
-
Alzai leggermente lo sguardo, accorgendomi che anche lui mi stava guardando.
- Siamo stati entrambi troppo irruenti. - dichiarò lui, sorridendo - Direi che,
dato che dovremo vivere tutti insieme, sarebbe meglio evitare argomenti di
discussione troppo accesa-
- Allora... - mormorai, imbarazzato - basterà dire a Charlotte di tirarci un
calcio quando vede che ci stiamo scaldando. -
- Margarethe le darà man forte, temo! - annunciò Edward, alzandosi - Del resto,
ci ha tenuto a farmi sapere cosa pensava di me... -
Alzò la lavagnetta: sopra, c'era scritta una sola parola, in stampatello.
Cafone.
Fissai le lettere bianche per alcuni secondi, cercando di trattenermi: poi,
accorgendomi che gli angoli della mia bocca si stavano incurvando verso l'alto
senza che io potessi oppormi, finsi un colpo di tosse poco credibile.
- Ah, è così che mi difendi? - mi domandò infatti Ed - E io che volevo pure
farti gli auguri di compleanno! -
- Non li hai mai saputi, i nostri compleanni. Lo hai sentito da papà, oggi. -
esclamai
- Dubiti di me? -
- Francamente sì! -
Lui alzò le mani, in segno di resa: - I giovani d'oggi sono troppo astuti per i
miei gusti... - brontolò - Ti vanno dei biscotti, per festeggiare? -
Intendiamoci: nessuno dei due aveva cambiato idea, almeno per il momento.
Potremmo definire il nostro un armistizio. Nei giorni successivi, evitando tutto
ciò che poteva trovarci in disaccordo (quindi, tutto quello che riguardasse la
guerra), riuscimmo a conoscerci meglio; non posso negare che avemmo parecchi
battibecchi, ma nessuno di essi merita di essere riportato.
* * *
Sabato pomeriggio. In pratica, il mio giorno di vacanza, in cui potevo stare
seduto dietro il bancone o, più spesso, in magazzino, stiracchiando le ossa
doloranti per i lavori che riusciva a trovarmi il signor Schulz e immaginando
con sgomento le pulizie della domenica, quando il mio locatario buttava all'aria
l'intera casa e, puntualmente, ero oggetto di una variegata gamma di improperi
sullo stato in cui lasciavo i miei vestiti e i miei libri. Fortuna che usavo il
mio appartamento solo come studio, e la mia stanza da letto al piano di sopra
era occupata dai ragazzi.
Mi ero così impegnato a dimenticare il motivo della mia baruffa con Thomas che,
quando mi trovai in mano la prima lettera di Al, ci misi qualche istante per
farmi venire in mente perchè mi ricordava qualcosa. Appena ci riuscii,
sobbalzai, la infilai in tasca senza neppure aprirla e rientrai nella libreria:
Thomas e Charlotte erano appena tornati dal giro di spese con Margarethe, e il
maggiore si era già nascosto tra gli scaffali.
Non credevo che lasciarli liberi di curiosare nel negozio portasse a danni così
irreparabili: non c'era nulla di sconveniente o vietato che potesse arrivare in
mano ai bambini. Invece, avevo fatto i conti senza la curiosità di mio nipote, e
senza considerare il fatto che, tutto sommato, si annoiasse: in poco tempo,
trovò qualcosa che lo appassionava.
Non sapevo cosa pensare: io stesso posso estraniarmi dal mondo esterno,
rimanendo concentrato su un libro per ore, ma i nostri argomenti di lettura
erano e sono assolutamente opposti, visto che io m'interesso a libri
scientifici, dalla fisica alla chimica, alla biologia. Che un dodicenne potesse
leggere, capire ed apprezzare la letteratura tedesca (l'unica presente, ovvio),
mi risultava totalmente incomprensibile.
Beh, del resto è il figlio di una persona eccezionalmente dotata: Al ha passato
interi pomeriggi chino, insieme a me, su giganteschi tomi di alchimia che
risultavano ostici a molti adulti.
- Charlotte! Thomas! Posta! - gridai
Lotte saltò in piedi, per essere certa di essere la prima; suo fratello,
inaspettatamente, arrivò subito, senza che dovessi andare a cercarlo come al
solito.
Estrassi la busta dalla tasca, ed esitai alcuni istanti, sperando che quel
misero oggetto non riaccendesse litigi in casa. Decisi di fidarmi di mio
fratello, e spiegai la lettera.
Ci chinammo tutti e tre. Ugualmente delusi.
Pochissime parole, che a malapena riempivano un foglio. Un testo freddo,
analitico, che descriveva a grandi linee quel che succedeva in qualunque posto
Al si trovasse, e si riscaldava solo quando il soldato lasciava il posto al
padre che si preoccupava che i suoi figli sapessero quanto li amava: la firma
era frettolosa, ma con lo svolazzo finale tipico della mano di mio fratello. Il
mio nome era citato appena una volta, come semplice garante della salute di
Thomas e Lotte; più o meno a metà del testo, due linee nere parallele
interrompevano di netto la calligrafia pulita, ordinata e insolitamente
spigolosa di Alphonse.
Rimanemmo in silenzio per alcuni secondi, interdetti, poi Charlotte corse al
piano di sopra: ritornò dopo alcuni istanti, con una scatola di latta in mano
che profumava ancora dei biscotti che aveva contenuto fino alla sera del
compleanno di Thomas, quando si toglieva il coperchio.
- Mettiamola qui. - mi disse - Così, quando ne arriveranno altre, potremo
tenerle tutte insieme. -
Infilò nuovamente il foglio nella busta, appoggiò tutto sul fondo con cura
reverenziale, e richiuse bene il contenitore. Alla fine, quelle lettere
avrebbero preso un profumo di biscotto che si sarebbe sentito per mesi: qualche
anno fa, quando Al ritrovò la scatola e mi fece vedere la sua corrispondenza,
non potei trattenermi dall'avvicinarne una al naso, per cercare quell'odore. So
che anche Thomas lo ha fatto, quindi non è la vecchiaia che mi rende rimbambito.
Mentre Charlotte tornava al piano di sopra, mio nipote sospirò pesantemente:
poi, parva ricordarsi di qualcosa.
- Edward, Margarethe voleva sapere qualcosa a proposito di un paio di pantaloni.
- mi disse - Sul colore, mi pare. -
Sbuffai: - Ci sta ancora pensando? - brontolai
Due giorni prima, mentre stavo sistemando una mensola pericolosamente storta
nella cantina del podere di Schulz, il vecchio mi si era affiancato, avvolto
nella solita nuvola di fumo di sigaretta.
- Cercano del personale nel laboratorio...come si chiama?...quello di fronte ai
giardini. -
Dato che avevo un cacciavite in bocca, mi limitai a spostare brevemente lo
sguardo su di lui, prima di tornare al mio lavoro.
- Non le interessa? Pensavo che lei fosse un chimico. -
- Conosco il direttore: mi ha già licenziato una volta. -
- Il vecchio sta per andare in pensione...non vorrà passare tutta la vita a
farmi da contabile e riparare mensole?! -
- Come mai sa così tanto, lei che non esce mai da qui? -
- E chi dice che non esco mai? -
Se speravo di trovare un appoggio in mio nipote, mi sbagliavo: si alleò
immediatamente con Margarethe.
- Cosa ti costa provarci? -
- Tuo nonno potrebbe essere persino con un piede nella fossa, ma se sapesse che
sto tentando di farmi assumere di nuovo risorgerebbe all'istante. - sbuffai -
Quindi, perchè andare a mettersi in ridicolo? -
- Che c'entra, non è lui che prende tutte le decisioni... -
- Sì, certo. Non è lui, ma l'idiota che lo ha assunto. Hai da fare, o vuoi che
ti trovi qualcosa io? -
Lui mi lanciò un'occhiata assassina, e sparì dietro gli scaffali.
Perchè tutti si impegnano così tanto a farmi notare che guadagno una miseria?,
mi domandai. Va bene che vivono su quel che porto a casa, ma, accidenti, questo
non li autorizza a mandarmi in giro a lanciarmi in imprese perse in partenza.
Certo, però, che se davvero il vecchio Heinrich non c'è...
Mi accorsi del pensiero che si stava formando nella mia testa appena in tempo
per ricacciarlo indietro: no, non se ne parla. Ho ancora un minimo di dignità.
Allora dov'è la tua dignità, Edward, quando tuo nipote passa parte del già magro
contenuto del suo piatto alla sorellina, cercando di non farsi scorgere, ma in
modo così disastrosamente ingenuo da non poter sfuggire neppure ad un cieco?
Sospirando, diedi un'occhiata all'orologio, accorgendomi di aver perso la
cognizione del tempo. Infatti, in quel momento qualcuno entrò in libreria:
immaginando benissimo di chi si trattasse, mi voltai, in tempo per vedere la mia
cliente preferita richiudersi la porta alle spalle.
Puntuale come al solito.
- Posso esserle utile? - domandai, ironico
Lei si tolse il cappellino che portava, facendo passare gli occhi sui libri
esposti alla sua sinistra.
- Sì, - rispose, con noncuranza - cercavo un libro, ma non ricordo nè il titolo,
nè l'autore. -
- Questo richiederà del tempo per cercarlo. - insinuai, ridacchiando
Finalmente sua signoria si voltò a guardarmi, con aria maliziosa.
- Pazienza. Mi adatterò a passare un po'di tempo con un libraio arrogante e
sfrontato. -
Una donna affascinante, con capelli biondo scuro e occhi azzurri che non
perdevano occasione per deridermi.
Hedwig Steinglocke, la mia "amica speciale".
L'alter ego di Winry Rockbell, il cui cognome era la perfetta traduzione del
suo.
* * *
Lo so. Non è bello origliare, ma, credetemi, non mi ero accorto di nulla: ero
così preso dalla lettura che, quando sentii una risata femminile, per qualche
istante mi chiesi se non avessi le allucinazioni. Posai il libro e sbirciai
attraverso lo scaffale dietro cui me ne stavo seduto: riuscivo a vedere il retro
della libreria dove, appoggiati al tavolo per la mancanza di sedie, c'erano mio
zio Edward e una bella donna, a me sconosciuta. Parlavano molto innocentemente,
ma, anche solo per quel poco che lo conoscevo, potevo dire di non aver mai visto
Ed così espansivo.
Arrossii e smisi di guardare, vergognandomi per la mia curiosità: decisi di
filarmela alla chetichella, ma questo avrebbe significato passare di fronte
all'ingresso del magazzino e farsi vedere. Non me la sentivo di litigare con
Edward per una sciocchezza simile.
Inconsapevolmente, furono Margarethe e Lotte a salvarmi, arrivando in quel
momento.
- Ed, Margarethe vuole passare dalla panetteria, e io l'accompagno. - annunciò
la mia sorellina
- Abbiamo ancora delle tessere? - domandò lui, senza scomporsi
La diciassettenne gli fece un cenno veloce, che solo lui capì. Anche la bella
signorina parve ignorarlo, perchè si affrettò a domandare, curiosa: - Edward,
chi è questa bambina? -
- È mia nipote...dov'è Thomas? - aggiunse, dando le spalle alle tre e cercandomi
tra gli scaffali.
Mi alzai e uscii, chiudendo il libro che stavo leggendo, come se mi fossi
accorto in quel momento che c'era gente.
- Che succede? - chiesi, strofinandomi gli occhi arrossati.
Ti va una passeggiata? domandava la lavagnetta di Margarethe. Annuii,
ringraziandola mentalmente.
- Come mai ti occupi dei tuoi nipoti? - chiese la sconosciuta
- Mio fratello è al fronte...ragazzi, lei è Hedwig Steinglocke, una mia amica. -
ci presentò
Hedwig ci sorrise, con aria gentile: io sentii le mie orecchie riscaldarsi, ma
Lotte si fece seria. Come sempre, davanti ad un adulto a lei estraneo diventava
impenetrabile. Margarethe aggrottò le sopracciglia.
- Che c'è? - le domandai, quando fummo usciti
Che ne pensi della signorina Steinglocke? mi domandò, evasiva.
Io mi strinsi nelle spalle
- Non saprei...mi pare gentile. -
Lei storse il naso.
- Non ti piace? - domandò Lotte
No. dichiarò, lapidaria.
- E perchè? -
Margarethe riflettè per alcuni istanti, la mano con il gesso sollevata a
mezz'aria. Stava pensando ad una frase che una bambina potesse capire.
Cosa ha a che fare con il signor Elric? scrisse infine.
- Mi pare si piacciano... - ribattei, trattenendo le risate. In cuor mio,
pensavo che la padrona di casa dello zio fosse gelosa.
Lei scosse la testa, e fece alcuni gesti veloci, che nè io, nè Lotte
comprendemmo.
* * *
Gelosa?
Non credo che Thomas abbia mai pensato una cosa simile, era un ragazzino
intelligente. Il mio era solo buonsenso: cosa aveva a che fare una bellissima,
ricca e raffinata signorina con Edward Elric?
Mi spiegherò meglio: Hedwig Steinglocke era una di quelle donne stupende che
sanno benissimo di esserlo, ma hanno bisogno che sia loro ricordato in
continuazione. Per questo, necessitano di un uomo capace di farle sentire il
centro dei suoi pensieri e, mi spiace dirlo, quell'uomo non è decisamente il
signor Elric. Lui era capace di chiudersi per ore nel suo gelido appartamento,
attaccato alla scrivania, a lavorare incessantemente, incurante del mondo
esterno: poche donne sopporterebbero un uomo simile, e pochissime sarebbero in
grado di distrarlo dalla sua occupazione. Io ammetto senza difficoltà di aver
rinunciato in fretta, con buona pace di Thomas.
* * *
Margarethe non perse occasione per ricordarmi cosa pensava di Hedwig; la
ignorai, e non mi preoccupai nemmeno di ciò che potessero pensare Thomas e
Charlotte, vedendomi con una donna a loro sconosciuta: non avevamo nulla di
equivoco, nè, del resto, avremmo potuto averlo.
Supponevo di amare Hedwig, ma non accennai mai ad un fidanzamento, per svariati
motivi: innanzitutto, lei era di buona famiglia, mentre io ero un disoccupato
perennemente al verde; inoltre, non mi sentivo sufficientemente sicuro per
chiederglielo, e non solo dei miei sentimenti. C'era una sorta di ritegno tra di
noi, che immaginavo dovuto al fatto che nessuno dei due sapesse esattamente fin
dove ci si poteva spingere. Forse, quando avessi avuto un minimo di sicurezza
economica, mi sarei posto il problema di dare un aspetto ufficiale alla nostra
situazione: per il momento, lei si limitava a comparire ogni sabato pomeriggio,
alle cinque in punto. Discutevamo, chiacchieravamo, confrontavamo le nostre
idee, ma la cosa finiva lì, come si conveniva ad un uomo e ad una donna onesti.
Non ci eravamo mai sfiorati.
- Sono bambini graziosi. - disse all'improvviso lei, ripensando ai miei nipoti.
Ridacchiai:
- Non farti sentire da Thomas - la avvertii - Odia essere considerato un
bambino. -
- Ti deve somigliare... - suggerì, appoggiando la testa sulla mia spalla e
seguendo con un dito il profilo del mio naso, come a mostrarmi una
caratteristica in comune con mio nipote.
- Abbiamo già litigato, quindi direi di sì. Comunque, non somiglia per niente a
mio fratello. -
- Litigato? Perchè? -
Tamburellai le dita sul tavolo, restio a parlarne: - Divergenze di opinioni. -
risposi, evasivo.
Non comprese, ma evitò di insistere. Invece, approfittò della posizione
privilegiata per picchiettare il mio auto-mail con una delle sue unghie: sapevo
che l'idea di un braccio meccanico la incuriosiva, ma era troppo pudica per
chiedermi di tirare su la manica e lasciarglielo vedere. Sebbene avesse la mia
età, riusciva a dimostrare qualche anno di meno, ma, quando aveva quell'aria
combattuta, ricordava una ragazzina impicciona.
Una ragazzina impicciona che avevo conosciuto, anni prima.
* * *
Margarethe faceva raramente la spesa da sola, e solo in giorni stabiliti:
tuttavia, da qualche giorno usciva spesso con Charlotte, che riusciva ad
accattivarsi le simpatie di tutti semplicemente con la sua aria timida e
adorabile da brava bambina. Quel pomeriggio, comunque, non entrò neppure nella
panetteria, ma si limitò a fare un lungo giro dell'isolato.
Oggi c'è il vecchio, spiegò, con una smorfia, io entro solo quando c'è
il nipote.
- La passeggiata serviva soltanto per lasciar soli Edward e la signorina
Steinglocke? - domandai.
Margarethe mi rispose a gesti, poi si corresse, e afferrò la lavagnetta.
Non m'immischio negli affari del signor Edward. Per indicare lo zio, mi
accorsi comparando i gesti alle parole, si toccava la testa, come accennando
alla pettinatura di Edward. Era la prima volta che capivo qualcosa nei movimenti
della diciassettenne.
Stavamo per rientrare, quando risuonò l'allarme aereo, un lugubre boato che
faceva tremare la terra sotto i piedi. Margarethe si morse un labbro, prima di
deviare velocemente verso destra, mentre noi la seguivamo a ruota.
Nei mesi precedenti, i bombardamenti aerei su Monaco si erano fatti sempre più
regolari: passavamo quasi ogni notte nei rifugi. Da quando eravamo a casa di
Edward, tuttavia, era la prima volta che sentivamo la sirena, e ancora non
sapevamo dove fosse il bunker.
Eravamo appena entrati, quando alle nostre spalle comparve Ed, da solo. Hedwig
doveva essersene già andata.
- Mi sembrava strano che non venissero per così tanti giorni... - brontolò,
mettendoci una mano sulle spalle, per non perderci tra la folla.
Avrei preferito farne a meno, fu la risposta di Margarethe.
Non sono un osservatore esperto: mia sorella è molto più in gamba di me. Eppure,
da come buona parte delle persone presenti si voltò a guardarci, anche io non
potei non comprendere in fretta che Edward non era apprezzato nel vicinato:
sembrava che con noi fosse entrato un odore sgradevole. Lui ignorò l'atmosfera
creatasi, e andò a sedersi in disparte. Io stavo per seguirlo, quando qualcuno
mi chiamò:
- Thomas! -
Mi voltai, e vidi il mio migliore amico.
- Hanno! -
Mi avvicinai, seguito da Lotte, e un gruppo di donne lì vicino smise
improvvisamente di parlare, scrutandomi come se fossi stato un bizzarro animale.
Johann Lindemann, o Hanno, come lo chiamavano tutti. Ci conoscevamo dal primo
giorno di scuola: era un ragazzino piuttosto alto e molto magro, che dimostrava
qualche anno in più dei dodici che aveva; tuttavia, gli occhi chiari erano
ancora infantili.
- Sempre al lavoro, vedo! - risi
Indicai il quaderno dalla copertina scura che teneva sotto il braccio, e lui si
unì alla mia risata. Sapevo che amava disegnare, e si portava sempre dietro il
materiale necessario; non mi aveva mai permesso di guardare le sue creazioni,
perché temeva sempre che non piacessero.
- Cosa ci fai qui? - mi domandò, lasciandoci spazio per sederci di fianco a lui
- Vivo a pochi isolati di distanza, - risposi - da mio zio. -
I suoi occhi verdi si posarono su Ed, seduto poco distante da noi. Si strofinò
il naso pieno di lentiggini con un dito, tornando immediatamente a concentrarsi
su di noi.
- Abiti con... - abbassò la voce - con Edward Elric? -
Corrugai le sopracciglia, perplesso: - Sì. - risposi - perchè? -
Lui arrossì, imbarazzato. Probabilmente non mi avrebbe risposto, ma non aveva
fatto i conti con l'uomo alle sue spalle: suo nonno, Johann, il vecchio
panettiere, che prima stava parlando fitto fitto con il fratello maggiore del
mio amico, Wilhelm, il ragazzo timido che Margarethe cercava in negozio, quello
stesso pomeriggio.
- Bella sfortuna, ragazzo! - strillò, con la sua vocetta stridula.
Mi voltai furtivamente verso Ed, sperando che non avesse sentito: improbabile,
visto che l'ultima frase era stata urlata. Tuttavia, sembrava profondamente
assorto nell'osservazione di un qualche punto sulla parete di fronte a lui e,
del resto, non poteva sapere che stavamo parlando proprio di lui.
- Quello... - la voce di Hanno era poco più di un sussurro - ...insomma, perchè
non è andato in guerra? -
- Perchè non può. - risposi, come se fosse una cosa ovvia - È menomato, ha... -
Avrei continuato, ma il vecchio ritenne opportuno far sapere a tutto il
gruppetto come la pensava:
- Certo che è menomato: vi siete mai chiesti perchè non si è sposato? - disse,
alzando un dito con aria saccente e vanificando all'istante tutte le mie
speranze che Edward ignorasse ciò che veniva detto sul suo conto.
Le donne si voltarono dall'altra parte, sorridendo appena per l'impertinenza: i
pochi uomini lì intorno risero apertamente alla battuta sporca.
Avrei voluto sprofondare per la vergogna. Mi sembrava di sentire lo sguardo di
Ed perforarmi la schiena, anche se ero quasi certo che, in realtà, non stesse
guardando dalla nostra parte. Oltretutto, per una volta, Charlotte si comportò
come una qualunque bambina di sette anni:
- Che significa? - domandò, reclinando leggermente la testa, con sguardo
ingenuo.
Le risate aumentarono d'intensità, proporzionalmente al mio imbarazzo.
- Su, su... - una donna mosse stancamente la mano, per chiedere silenzio - Vi
sembrano cose da dire davanti a dei bambini? -
Lotte era confusa: mi tirò la manica della camicia, con aria perplessa:
- Cos'ha fatto Ed? - mi chiese
Ero - sono - principalmente un bastian contrario: davanti a simili dimostrazioni
di stupidità, dimenticai che non avevo una grande simpatia per Edward.
- Proprio niente. - le risposi, seccato - Questi signori non sanno nulla, ma
devono pur passare il tempo. -
Il vecchio panettiere sputò per terra: essere smentito gli dava sui nervi.
- Filate dalla casa di quel disfattista, prima che vi infili strane idee in
testa. - consigliò.
Distolsi lo sguardo dalla figura ossuta, a disagio: a giudicare dalla litigata
di qualche giorno prima, Ed poteva davvero essere considerato un disfattista. Ma
erano le stesse idee di mio padre, e a tutto potevo pensare tranne che papà
facesse qualcosa di sbagliato.
Wilhelm, che probabilmente conosceva già il ritornello, cercò di cambiare
argomento:
- Portate i miei saluti alla signorina Meyer. - ci disse.
Gli sorrisi appena, annuendo: sapevo che le era simpatico, perchè quando c'era
lui dietro il bancone della panetteria, la diciassettenne entrava da sola, dato
che Wilhelm leggeva la lavagnetta senza fare storie.
Un uomo alto e allampanato, che riconobbi come il calzolaio all'angolo, gli tirò
una cameratesca pacca sulla schiena.
- Ehi, vecchio Johann! - esclamò - Tuo nipote progetta di sposare la figlia
dell'antiquario, e tu non ci dici nulla? -
Sperai che la tempesta fosse passata, ma non avevo fatto i conti con la lingua
avvelenata del nonno di Hanno.
- Sciocchezze, ne abbiamo già parlato! Suo padre non gli darà mai il permesso. -
O forse, pensai, sarai tu a non darglielo.
- Nonno, per favore, non urlare... -
- Wilhelm, piantala di fare gli occhi dolci a quella mocciosa! Sposati una che
possa dare una mano in negozio, e non viva alle nostre spalle. -
Ovviamente. Margarethe era muta, quindi non avrebbe mai potuto lavorare da sola
in una panetteria.
- E poi... - il vecchio barbagianni si interruppe per tossire rumorosamente
- Nonno! - implorò il giovane - Non dire queste cose davanti a tutti! -
- E poi, - riprese implacabile l'altro - come puoi fidarti di una donna che vive
sola con un uomo? -
Esplosi. Mi ero ripromesso di non farlo, perchè, dalla litigata con Ed, avevo
imparato che apparire calmi fa saltare i nervi di chi ti sta di fronte molto in
fretta, ma non riuscii più a trattenermi. Forse mio zio non mi era simpatico, ma
quelle accuse infamanti non le meritava neppure lui. E parlare di Margarethe,
sempre buona con me e Lotte, in modo così offensivo mi faceva ribollire il
sangue.
Saltai in piedi come se qualcosa mi avesse punto.
- Queste sono... - come si diceva?, mi chiesi - Queste sono calunnie! Nessuno di
voi sa niente di Margarethe, nè di Edward. Però vi sentite in diritto di
inventare storielle sporche per passare il tempo, alle loro spalle...tra
l'altro, senza neppure un minimo di coerenza. -
Applaudii, con sarcasmo, mentre Johann fissava un punto oltre le mie spalle, con
una smorfia astiosa.
- Bravi, complimenti. - gridai - Persino io avrei più coraggio! -
- Su questo non ho dubbi. -
La mano d'acciaio di Edward si appoggiò sulla mia spalla, spaventandomi.
* * *
Sapevo di perdere la calma molto in fretta, ma era la cosa peggiore che potessi
fare: presi i miei nipoti e decisi di allontanarmi.
- Signori, buonasera. - dissi, voltando le spalle.
- Scappa a nasconderti, Elric. -
Ignorai Ameise, il macellaio. Le sue bistecche erano molto più intelligenti di
lui.
- Lotte... - Thomas prese per mano la sorellina, con un'aria profondamente
offesa che, mio malgrado, mi toccò.
- Chi è il pazzo che ti ha affidato dei bambini? -
- Sono tuoi? -
Risposi, evitando di guardare chiunque avesse parlato.
- Sono i figli di mio fratello. - replicai, neutro, raccogliendo il nastrino per
capelli caduto a Charlotte.
La moglie del calzolaio, sperando di non essere udita, fece sapere la sua
opinione alla vicina. Dimenticando di essere quasi sorda.
- Non aveva un posto più sicuro? - sussurrò a modo suo - Dopo che la polizia,
quella volta...-
- Non scomodate la polizia, Frau Müller, - risposi, fermandomi di colpo e
voltandomi a fissarla - perchè vostro marito e i suoi amici ne sanno sicuramente
più dei poliziotti. -
Rimasi alcuni istanti a godermi l'effetto della stoccata: ovviamente, chiunque
avrebbe potuto ribattere che stavo delirando, ma l'istante di silenzio furioso
degli uomini fu, per me, meglio di un'ammissione.
Portai i bambini da Margarethe: lei non fece cenni, ma capii cosa stava
pensando. Non potendo parlare, spesso le si leggeva in faccia.
- Ed... -
Mi sedetti per terra, appoggiando il mio cappotto sulle spalle di Lotte; Thomas
venne ad accovacciarsi di fronte a me:
- ...sei arrabbiato? - chiese, preoccupato.
- Thomas, - risposi, brusco - non provare mai più a fare una cosa simile. Ora
non ti lasceranno più in pace. -
- Stavano dicendo una marea di sciocchezze! - reagì lui
- E tu sei così stupido da ascoltarle? -
Margarethe mi colpì col palmo della mano sul braccio: nel suo linguaggio, era
come se avesse appena urlato il mio nome, con voce severa. Obbedii al mio
padrone di casa, e presi alcuni respiri per calmarmi; mio nipote, intuendo che
non era il momento per un'altra discussione, si sedette di fianco a me.
- Thomas... - ripresi - non voglio che tu ti metta nei guai per colpa mia. Tuo
padre non me lo perdonerebbe mai; e, tanto per essere chiari, non ho bisogno che
qualcuno prenda le mie difese. Non servirebbe a nulla, perchè quel gruppo di
vecchie mummie si diverte troppo a inventare fandonie, ma metterebbe nei guai
te. -
Lui rimase alcuni secondi in silenzio, mordendosi il labbro
- Di cosa parlava quella donna? - si decise a chiedere infine.
Chiusi gli occhi: - Del motivo per cui non sono venuto al funerale della tua
mamma. -
Era da parecchio che sospettavo che i miei adorabili vicini sapessero molto più
di quel che dicevano, ma le mie erano solo ipotesi. Io non riconobbi nessuno.
Era fine settembre, e il coprifuoco era appena terminato, quando uscii di casa:
il funerale di Caroline Heinrich in Elric sarebbe stato solo alcune ore più
tardi, ma preferivo restare accanto a mio fratello. Erano anni che non ci
vedevamo così spesso come da quando era rimasto vedovo: solo il giorno prima
avevamo passato l'intero pomeriggio insieme, pressochè in silenzio e,
andandomene, avevo intravisto i miei nipoti circondati dai parenti che facevano
a gara per porgere le loro ipocrite parole con cui si sarebbero scaricati la
coscienza. Per qualche minuto avevo pensato di andare a portar via i fratellini,
gridando a quegli individui che a due bambini che hanno appena perso la mamma
non gliene importa niente delle condoglianze di persone che avevano definito la
defunta una "sciocca idealista", perchè si era sposata con un dipendente di suo
padre. Lasciai perdere solo perchè non avevo la minima voglia di mettermi a
litigare davanti alla casa di Al.
Quella mattina, comunque, mi stavo recando di nuovo da mio fratello. L'aria era
piuttosto fredda, e c'era una leggera nebbia: rabbrividii, e tentai di stringere
il nodo della cravatta, sperando puerilmente che servisse da sciarpa.
La traversa in cui si trovava l'ex-negozio di antiquariato dei Meyer era la
quarta, prima che la via in cui sboccava andasse ad immettersi in una più ampia:
ero arrivato all'altezza della seconda, quando ebbi l'impressione di vedere una
persona sporgersi da uno dei balconi. Alzai la testa, ma questa era già
scomparsa nella casa di Müller.
Chiunque mi aspettasse, approfittò al volo della mia distrazione: mi arrivò alle
spalle, afferrandomi e gettandomi a terra. Lanciai un'esclamazione che risuonò
nella via deserta, ma parecchie paia di piedi sopraggiunsero, e qualcuno mi
colpì alla testa con un bastone, o un manico di scopa. Stordito, venni sollevato
per le braccia e trascinato nel vicolo: dovevano esserci sei o sette persone, e
sono assolutamente certo che nessuna di esse indossasse una divisa. Urlai più
forte, per tentare di attirare l'attenzione, ma fui zittito da un colpo tra le
reni, che mi piegò in due. Intrappolato nella stretta di due uomini, venni
colpito più volte al petto, al volto e dovunque capitasse e, quando riuscii ad
assestare un calcio con l'auto-mail ad uno di essi, ricevetti un pugno sulla
guancia sinistra che mi rovesciò al suolo.
Rinunciarono a trattenermi, immaginando che non avessi più la forza per
difendermi dai colpi: per alcuni interminabili secondi, in effetti, fu così;
poi, riguadagnai abbastanza lucidità da scattare in piedi, in uno sforzo
disperato, e correre via, prendendoli di sorpresa.
Non osarono inseguirmi nella via, dove c'era più luce: comunque, non credo che
il loro intento fosse uccidermi. Ci sono metodi più puliti.
Arrancai, zoppicando e ansimando, fino alla casa dei Meyer e, durante il
percorso, mi voltai più volte indietro, cercando con lo sguardo i miei
aggressori o altre persone sui balconi, sicuro che gli uomini della via avessero
assistito alla scena. Dopo qualche disperato tentativo, riuscii ad infilare la
chiave nella toppa, ed entrai nell'atrio. Chiamai Margarethe col poco fiato che
mi restava, e mi infilai nel mio appartamento; cercai di arrivare al letto, ma
caddi in ginocchio sul pavimento davanti ad esso.
La ragazza arrivò in quell'istante: si portò le mani davanti alla bocca,
sconvolta dalle mie condizioni, ma corse ad aiutarmi. Credo di essere svenuto
appena toccai il letto, perchè i miei ricordi ricominciano quando il mio solerte
padrone di casa, ben decisa a controllare che la sua fonte di reddito non ci
lasciasse la pelle, dimenticò il suo disgusto per il sangue: mi passò un panno
umido sul viso, strappandomi un gemito quando toccò le tumefazioni.
Thomas rimase in silenzio, senza guardarmi.
- Ricordo che non c'eri... - mormorò - ma papà venne da te quello stesso
pomeriggio, e ci disse che non era successo nulla di grave. -
Trasalii. Almeno ora sapevo come aveva scoperto cosa mi era successo: mi voltai
verso Margarethe, che scosse le spalle. Era stata lei, spiegò, ad accoglierlo,
non aveva mai pensato che volessi mantenere il segreto con mio fratello. Non lo
aveva fatto entrare per evitargli lo spettacolo poco edificante del fratello
maggiore ridotto ad uno straccio, ma Al doveva aver capito cos'era accaduto.
Il segnale del cessato allarme rimbombò nel rifugio: era ormai sera, noi avevamo
saltato la cena e io ancora non mi ero risolto a riflettere sulle parole del
signor Schultz.
Comunque, ero ben deciso a rifiutare.
Pensierino della buonanotte:
Cosa avevo detto all'inizio del capitolo? Che sono ignobile e crudele. Qualcuno
ha il coraggio di negarlo, dopo aver letto quel che capita a Ed?
No, non mi riferisco a Lindemann e al resto della combriccola, ma a Hedwig: è
così dolce&carina che vien voglia di tirarle un pugno...spero che voi la odiate
in misura proporzionale a quanto io la amo. Certo, io adoro Hedwig: non in
quanto donna, ma in quanto personaggio riuscito esattamente come io volevo.
Ah, le piccole gioie del narratore onnisciente!
E ora, meglio tornare anch'io alla mia scrivania, a ripassare: appena finirò
questa bolgia infernale della maturità riprenderò a scrivere.
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Capitolo 3 *** Una mano in più? ***
Allora, progetti per
quest'estate...hmmmm...
[Rika88 beve rumorosamente il succo di pompelmo con la cannuccia]
Assolutamente nessuno.
Yeah, vacanze, divano e computer!
[Puro sogno, temo..]
Rispondo un attimo a qualche questione sollevata nelle recensioni:
Yolei87: "Peccato che Margarethe non conosca ancora
Winry"...ehm, scusa, ma cosa ti dice che si conosceranno mai?
Martel92: Per quanto riguarda lo...ehm..."scambio di
opinioni" decisamente poco civile tra Ed e i suoi aggressori, io non avevo
pensato ad un'incapacità del primo a difendersi: va bene, non è più un
ragazzino, e probabilmente non si tiene in allenamento (trovare una palestra
dev'essere complicato), ma sarà ancora in grado di sbattere gli auto-mail sulla
testa di un avversario; avevo considerato, invece, la superiorità numerica degli
avversari, l'effetto sorpresa e, soprattutto, il fatto che due di essi lo
tenessero. Puoi essere un campione di lotta libera, ma se due brutti ceffi ti
bloccano le braccia e un numero indefinito ti legna, potrai fare ben poco.
Piuttosto: EdxMargarethe? Sarà perchè sono un'amante delle EdxWinry, ma
l'ipotesi mi pare poco probabile...Margarethe è una ragazzina e, se il padre si
è fidato a lasciarla sola con Ed, vuol dire che è assolutamente certo che non
corre rischi. Oltretutto, il signor Meyer è stato in guerra, quindi avrà
imparato ad usare le armi...
Mao_chan91: ovviamente, non ho la più pallida idea di
come potrebbe comportarsi Ed innamorato. La mia malvagia beta-reader disse che,
se Al è riuscito a dichiararsi ad una donna e a fare due figli, c'è speranza
anche per lui, ma a me sembra difficile fare paragoni tra i due. Ammetto, nella
fanfic, di aver aggirato il problema di una dichiarazione, ma Edward innamorato
è uno dei più grandi grattacapi della vicenda.
3. Una mano in più?
Non rividi Hanno fino al sabato mattina successivo, quando, andando ad aprire,
me lo trovai di fronte; entrò subito, con aria circospetta.
- Avrei voluto venire prima, ma mio nonno mi controllava...cos'è quello? -
Ero sceso nel retro della libreria, seguendo le indicazioni di Margarethe, a
prendere uno scatolone che conteneva la carta da bruciare nella stufa, al posto
dell'ormai introvabile carbone: così, il mio amico mi vedeva con le dita ancora
strette intorno alla maniglia e l'ingombrante oggetto tra le gambe.
Dopo avergli spiegato di cosa si trattava, mi feci aiutare a portarlo al piano
di sopra, visto che Margarethe, dalla porta al primo piano, mi stava già
lanciando occhiate sospettose per il ritardo, ignorando le sue proteste per il
fatto che avrebbe dovuto stringere tra i denti l'eterno quaderno dalla copertina
nera, col rischio di rovinarlo.
- Willi ti saluta, Margarethe. - disse subito Hanno quando arrivammo in casa,
per blandire la diciasettenne - Oggi è andato alla visita medica per
l'arruolamento, e in casa c'è talmente tanto fermento che nessuno si è accorto
che stavo uscendo. -
Io e lei ci lanciammo un'occhiata in tralice: avremmo detto che ci dispiaceva,
ma il mio amico sembrava orgoglioso del fatto. Così, rimanemmo in silenzio.
Appoggiate tutto qui, aveva già scritto il nostro tiranno sulla
lavagnetta, e ora tendeva l'indice verso il divano che faceva da letto allo zio.
Proprio per questo, mi venne in mente che non lo vedevo dalla sera prima.
- Dov'è Ed? - chiesi quindi.
Margarethe si lasciò sfuggire un sorriso di trionfo, mentre, ruotando
solennemente il polso, indicava il piano di sotto.
- Sono giorni che non fa altro che studiare... - capii il motivo della sua
soddisfazione - l'hai convinto a tentare per quel lavoro? -
Lui dice che ha deciso da solo, ma ne dubito.
Anche io: il crudele locatario, pur non potendo parlare, riusciva ad essere
assillante con l'utilizzo di occhiate penetranti e continue; Ed doveva essersi
stancato di tanta insistenza. Oppure, era scappato prima che Margarethe
iniziasse un'altra volta a pulire tutta l'abitazione.
* * *
Mettiamo in chiaro una cosa: io non sono fissata con le pulizie. Semplicemente,
in quella casa ero l'unica che badasse al disordine e alla polvere che si
accumulava quotidianamente, sopportando sbuffi e proteste dai miei coinquilini.
In quel momento stavo pulendo la cucina (cosa avrà causato quelle macchie vicino
all'ingresso, in nome del Cielo?) insieme a Lotte, quando Thomas infilò la testa
all'interno, perplesso:
- Margarethe, credo di aver sbagliato scatolone... -
Impossibile, c'è solo quello risposi, cercando di nascondere
l'irritazione per la perdita di tempo.
Per tutta risposta, lui mi fece vedere parte del suo contenuto: vecchie foto,
disegni lasciati a metà, parecchi fogli da disegno immacolati.
Tranquillo, è tutta roba vecchia, lo rassicurai, strappandogli di mano le
prime, e gettandole nella stufa. Il ragazzino rimase a bocca aperta:
- Ma non sono ricordi della tua famiglia? -
Sorrisi leggermente, scuotendo la testa: quelli che aveva in mano erano vecchi
oggetti appartenuti a mia madre, e non mi sentivo legata a quel che la mia
distratta genitrice, aspirante pittrice, aveva dimenticato quando se n'era
tornata in Austria, dopo il divorzio da mio padre. Se li avesse rivoluti
indietro, avrebbe avuto quindici anni per farlo, ma non si era mai più fatta
viva, quindi mi sentivo in diritto di disfarmi di tutta quella carta, specie in
quel momento in cui avevamo un bisogno disperato di tutto ciò che poteva essere
bruciato, e solo le lettere del signor Alphonse e di mio padre si salvavano.
- Anche i libri sono da mettere nella stufa? -
Arrossii, e feci segno a Thomas di andarsene.
I libri erano miei, di papà e del signor Edward, ma era decisamente meglio
disfarsene.
* * *
Entrando in casa, l'ultima cosa che mi aspettavo era trovarmi di fronte l'amico
di Thomas: invece, il trio di ragazzini era seduto per terra, senza che
Margarethe lanciasse occhiate malevole ai pantaloni macchiati di Hanno Lindemann.
Probabilmente, considerava gli sbaffi di farina la prova che il ragazzino dava
una mano nel negozio di famiglia, a differenza di quello scansafatiche
dell'affittuario che le era toccato. Oppure, ricordava a se stessa che la fairna
può esere tolta con pochissima fatica, a idfferenza dell'inchiostro sui miei
polsini.
Mi bloccai sulla porta, senza sapere esattamente cosa aspettarmi dal nipote del
panettiere, poi decisi che non sarebbe stato un problema rispondere male,
all'occorrenza.
(La persona che allunga il collo per sbirciare cosa scrivo mi fa notare,
ridacchiando, che non ha ancora scoperto quando per me sarebbe un problema
farlo)
- Buongiorno a tutti. - salutai.
Tre teste si voltarono verso di me.
- Buongiorno, signor Elric. - rispose Hanno.
Rimasi stupito dalla sua educazione, sebbene, in effetti, anche suo fratello
Wilhelm fosse sempre molto gentile quando vedeva me o Margarethe in negozio; per
il nonno che avevano, erano cresciuti straordinariamente bene.
- Quanto sei stato al piano di sotto? -
- Il tuo modo di salutare è quantomeno curioso, Thomas. Comunque, sono sceso
stanotte: non riuscivo a prender sonno. -
- Papà dice sempre - interloquì Lotte, con aria saggia - che la notte è fatta
per dormire. -
- Tuo padre ha sempre avuto più buonsenso di me. - ammisi, appoggiandole la mano
sulla spalla.
Mi infilai in cucina per parlare con Margarethe: qualcuno avrebbe dovuto dire al
piccolo Lindemann che non si fissa la gente, anche se ha fama di essere
disfattista, mancante di attributi, di indulgere in atti impudichi con la
propria locataria minorenne e chissà quali altre nefandezze...sebbene, in
teoria, una opzione escluda l'altra, come Thomas aveva notato solo una settimana
prima.
- Che mi dici del ragazzino? - domandai sottovoce alla diciassettenne.
Lei, che stava fingendo di pulire per poter origliare, si fermò a riflettere,
prima di rispondermi a gesti: secondo me, gli fai paura, ma... non
riuscii a capire il resto della frase.
- Ma...? - ripetei
Me lo scrisse: ma è incuriosito.
- Da me? - faticai a non ridere.
Sei pittoresco diceva la lavagnetta (dubito esista il termine
"pittoresco" nel vocabolario gestuale di Margarethe).
- Hanno se ne va, lo accompagno alla porta! - gridò Thomas
Scossi la testa, divertito mio malgrado dall'idea di passare per il fenomeno da
baraccone del vicinato: sempre meglio che fare la figura del pervertito.
* * *
- Tom, sei sicuro di stare bene? -
Sospirai, seccato:
- Vi siete messi d'accordo, tu e Ed? Anche mio zio da un po' di tempo continua a
chiedermelo. -
- Sei un po' pallido... -
- Non mangio carne da settimane, - risposi, stizzito - ma gli altri sono nella
stessa situazione.-
Hanno si mise il quaderno sotto il braccio, e si sfregò il naso lentigginoso:
- Senti... - iniziò, a disagio - l'ultima volta che ci siamo visti...ecco, io
volevo dirti che...insomma, non volevo parlar male... -
Fece un cenno con il mento, ad indicare la scala da cui eravamo scesi.
- Sì, lo so. - risposi - Credo lo sappia anche Edward. -
- Anche se il nonno dice che è un disfattista e una spia degli americani... -
- Questa mi è nuova! - lo interruppi
- In effetti, è venuta fuori solo tre giorni fa, ma l'ha detto soltanto a Roggen...sai,
il proprietario dell'emporio. -
- Ah, quello con le scarpe di due colori diversi. -
- Esatto. - il mio amico cercò di riprendere il filo - Beh, Willi e mia madre
dicono sempre che, prima di giudicare una persona, bisognerebbe conoscerla: per
cui, io ho deciso di non impicciarmi negli affari di tuo zio, nonostante quel
che dicono gli altri e i libri proibiti che abbiamo visto in quello scatolone. -
Mi morsi il labbro, imbarazzato: avevo sperato che Hanno non se ne fosse
accorto.
Lui, ignorando il mio disagio (o fingendo di ignorarlo), si mise in testa il
berretto, riprese in mano il quaderno su cui disegnava e si preparò ad
accomiatarsi:
- Ci vediamo presto, Tom. Appena mio fratello sarà partito, farò i turni al
posto suo in negozio, quindi, se ti va, puoi passare a prendere il pane, o... -
abbassò la voce, anche se nessuno poteva udirci - altro. -
I Lindemann vendevano sottobanco generi alimentari e parecchi altri articoli a
borsa nera, provenienti da qualche parente sfollato in campagna: noi ricevevamo
gli ortaggi dal signor Schulz, ma, anche se ne avessimo avuto bisogno,
difficilmente Johann Lindemann ci avrebbe allungato qualcosa, vista l'antipatia
per Edward. Ovviamente, per Hanno, l'idea di fare qualcosa di proibito rendeva
la vita in negozio tanto eccitante da fargli dimenticare gli ordini dall'alto.
- Va bene, ma tu puoi venire a trovarci: controllerò io che Ed si comporti
educatamente. -
Lui rise, ma io dicevo sul serio.
* * *
- ...così, adesso, nella lista dei crimini che ho commesso, dovrò aggiungere lo
spionaggio. Sono un disgustoso spione pervertito. -
La mano davanti alla bocca, Hedwig rideva sonoramente; non potevo darle torto,
perchè anch'io mi ero divertito parecchio quando Thomas mi aveva informato, con
aria preoccupata, delle nuove voci che correvano su di me.
- Potevi evitare di far sapere che sei stato negli Stati Uniti. - mi prese il
giro la mia amica.
- Meglio, potevo evitare di andarci a lavorare per due anni e restare qui a
calcolare quanto rende una dannata mucca, o se quel bracciante ha davvero
diritto a sette marchi in più... -
Mi interruppi, colpito dal rumore che avevo appena sentito in libreria, e dal
risuonare di passi che ne era seguito; sbalordito, mi voltai verso la mia
interlocutrice:
- Hedwig, per caso hai qualche potere magico? -
Lei continuò a ridacchiare: per la prima volta, avrebbe potuto ammirare quella
che ormai anche io credevo una specie estinta.
Un cliente.
Uscii dal magazzino, andando a vedere di chi si trattasse, mentre la mia amica
restava seduta comodamente sulla sedia.
Mi trovai di fronte ad un bizzarro individuo: un uomo senza età, che sembrava
stare in piedi solo grazie al suo bastone dall'impugnatura d'argento. Indossava
un abito costoso, ma, con le mani ossute e il viso così rugoso, sembrava un
vecchio albero contorto strizzato in un po' di stoffa.
Aveva un volto familiare: forse era un cliente abituale della libreria, o del
negozio di antiquariato, prima della guerra. Lui, comunque, era così assorto
nell'osservazione di uno scaffale, da non notarmi neppure.
- Posso aiutarla? - domandai, formale
L'uomo sobbalzò, accorgendosi per la prima volta di me.
- Sì, devo... - balbettò, disorientato - avrei bisogno di due libri. Potrebbe
essere così gentile da cercarmeli lei? La mia vista non è più quella di un
tempo... -
Sorrisi, e mi feci dare i titoli, pensando che se io, a quarant'anni, ero già
così miope, quell'uomo avrebbe potuto essere quasi cieco. Infilandomi tra gli
scaffali, rischiai di inciampare in mio nipote, seduto come al solito per terra;
dato che aveva appena terminato la sua lettura, riuscii a farmi dar retta:
- Mi passi quel libro? - chiesi, indicandogli un grosso volume proprio sopra la
sua testa
Lui sbirciò il titolo: era un saggio di chimica.
- Non l'avevi già letto? - mi chiese, sardonico.
- Questa è una libreria, sai? Di solito vendiamo libri. - risposi a tono.
Tornai dall'uomo, rimasto ad aspettare a pochi metri da noi.
- Le faccio il conto. - dissi, avvicinandomi alla cassa.
- Si interessa di scienza? - mi chiese, per il puro gusto di far conversazione.
Forse era anche cieco, ma di certo non sordo; e la voce di mio nipote, quando
lui pensava di essere spiritoso, si faceva piuttosto acuta.
- Un tempo mi vantavo di essere uno scienziato. - risposi, evasivo.
Non mi piaceva chiacchierare. Avevo imparato dalle serpi che vivevano nelle case
vicine che ogni parola può diventare un'arma a doppio taglio, e ormai da anni
pesavo tutte quelle che mi uscivano di bocca, o quasi.
- Gli scienziati sono ormai tutti venduti alla guerra. - sospirò il vecchio - I
pochi che non si piegarono, furono allontanati anni fa. -
- Oppure sono stati arruolati. - brontolai, pensando a mio fratello - Comunque,
non è questo il mio problema. È da parecchio che non entro in un laboratorio. -
- Questo scempio mi disgusta. Lei lavorava qui a Monaco? -
Avevamo idee simili, a quanto pareva.
- Anche, ma ho viaggiato parecchio. -
Il mio ego aveva gongolato, quando ero stato assunto negli Stati Uniti per un
paio d'anni, dopo il licenziamento in Germania. Il Vermont è gelido, ma almeno
qualcuno apprezzava il mio lavoro.
L'uomo estrasse dal taschino un paio di occhiali dalle lenti spesse come fondi
di bottiglia, e li inforcò, controllando il prezzo: il mio calcolo dovette
soddisfarlo, perchè aprì il portafoglio senza fiatare. Mi allungò le banconote
e, alzando lo sguardo, per la prima volta mise a fuoco il mio viso.
Lui mi riconobbe, io no. E non per colpa della miopia.
- Lei? - domandò, fissandomi con gli occhi sgranati.
- Come? - chiesi, perplesso.
- Cosa ci fa lei qui? -
Rimasi a guardarlo, chiedendomi se non mi stesse confondendo con qualcun altro,
quando Hedwig, inconsapevolmente, mi fornì la soluzione. Arrivò alle mie spalle,
stanca di aspettarmi, e riconobbe la persona che mi stava di fronte.
- Ed... - iniziò, prima di interrompersi bruscamente - Lei... che piacere
vederla! - esclamò, allungando la mano perchè gliela stringesse.
- Signorina Steinglocke, piacere mio...è tanto che non vedo sua madre. - mormorò
quello, a disagio, senza smettere di guardarmi come se fossi stato un serpente a
sonagli.
- Vi conoscete? - chiesi.
- La famiglia di mia madre è proprietaria di un piccolissimo istituto di
ricerca, l'Istituto Schneider, e questo signore è l'ex-direttore... - si
interruppe, vedendomi impallidire.
Ebbi la netta sensazione che un fulmine mi avesse appena colpito.
Quante volte avevo scherzato con Al sul banalissimo cognome della donna che
finanziava il nostro laboratorio?
Quante volte avevo maledetto la Schneider e tutta la sua stirpe, per aver messo
sulla poltrona del direttore un verme a cui non importava altro che il proprio
pingue stipendio?
Mi irrigidii, con un brivido di disgusto, riconoscendo l'uomo che avevo di
fronte. Thomas, arrivato in quel momento e ignaro di tutto, si bloccò con la
bocca spalancata.
- Nonno! - esclamò, sorpreso.
Karl Heinrich, la vecchia carogna. Non lo vedevo dal giorno precedente il
funerale di Caroline, ma da allora sembrava che sulla sua figura fossero passati
anni: lo ricordavo con i capelli ancora biondi, anche se forse erano tinti, il
mento arrogantemente alzato, gli occhi sempre pronti a squadrare la gente per
calcolare il suo conto in banca. Come si era trasformato nel cumulo di ossa
scricchiolanti che avevo di fronte, quando non doveva avere più di settant'anni?
Eppure, un tempo avrei potuto descrivere quell'essere viscido fin nei minimi
dettagli: avevo stampato in mente quel giorno in cui convocò me e Alphonse nel
suo ufficio. Iniziò sfoggiando un'aria quasi sofferente, come se avesse dovuto
separarsi da una parte di sè, per comunicare al mio fratellino che era stato
promosso a vicedirettore. Non appena Al, ingenuamente, lo ebbe ringraziato (mio
fratello non aveva ancora capito con che razza di individuo avesse a che fare),
si voltò verso di me.
Ricordo perfettamente che sentii il sudore colarmi lungo la schiena, notando un
luccichio perfido nei suoi occhi: faticando a nascondere l'espressione
trionfante, fece notare a suo genero che avrebbe dovuto trovare dei soldi per
quell'aumento di stipendio improvviso, ma che non si sarebbe dovuto preoccupare,
perchè aveva già risolto il problema. Edward Elric, raccolga le sue cose e se ne
vada. Lei è licenziato.
Il sorriso di Al morì all'istante: si slanciò in avanti, implorando l'uomo di
non farlo.
Lo fermai, perchè era esattamente quel che Heinrich voleva, e me ne andai senza
una parola, lasciando la porta dell'ufficio aperta.
Io e l'uomo dal bastone con l'impugnatura d'argento ci riscuotemmo, sentendo la
voce di Thomas, e ci accorgemmo di essere rimasti immobili: lui con le banconote
in mano, io con il palmo teso, come un mendicante. Lo avrei ritirato, ma mi
costrinsi a pensare a Margarethe e ai ragazzi: non potevo fare il difficile
sulla loro pelle.
Heinrich risolse il problema, come sempre, a modo suo: appoggiò i soldi sul
bancone, per poi rivolgersi al nipote.
- Thomas, cosa fai qui? -
Mi resi conto che non avevo idea dei rapporti che intercorrevano tra nonno e
nipoti.
- Vivo qui. Papà è al fronte. -
Non idilliaci. Il dodicenne era intimidito.
- Non ti sei neppure accorto dell'assenza del tuo vice? - gli domandai,
tagliente, sapendo che non si faceva mai vedere in laboratorio.
- Ho avuto da fare, negli ultimi mesi. -
- Guardarsi le unghie crescere dev'essere impegnativo. - ribattei subito - O
forse, calcolavi cosa comprare con l'ultimo stipendio? -
- Non credo che un libraio sappia cosa deve fare il direttore di un
istituto di ricerca. - mi rispose, calcando la voce sulla parola.
- Negli anni in cui ho lavorato per te, in effetti, non l'ho capito. Forse
perchè non ti ho mai visto fare niente. Dopo hai scaricato tutto ad Alphonse,
non è così? -
Non poteva negare, sapevo che andava esattamente come avevo detto. Ogni tanto
facevo visita alla famiglia di mio fratello, e immancabilmente ero accolto da
mia cognata, che talvolta mi informava che Al non era ancora arrivato, talvolta
che si era addormentato sul divano, stravolto.
Hedwig tossicchiò, per ricordarci la sua presenza.
- Suvvia... - iniziò, sfoderando il miglior sorriso di circostanza - non è il
caso di scaldarsi così. -
Non mi presi la briga di contraddirla. Non pretendevo che una ragazza di buona
famiglia capisse qualcosa di argomenti così venali.
- Grazie per i libri. - disse Heinrich, con freddezza, voltandomi le spalle.
Fissò per alcuni istanti Thomas, appoggiandosi pesantemente al bastone: stavo
per intervenire, prima che offendesse mio nipote con qualche commento su suo
padre, ma, con mio sommo stupore, si accontentò di carezzargli leggermente una
guancia.
- Tua sorella come sta, Tom? - chiese, con una gentilezza inaspettata.
- Bene. - rispose lui - È al piano di sopra, la chiamo? -
Il vecchio scosse la testa, in cenno di diniego. Si allontanò lentamente, con
aria sofferente.
Era stata la morte della sua unica figlia, realizzai all'improvviso, a ridurlo
così. Per questo aveva rifiutato di vedere Charlotte: la bambina è sempre stata
molto simile a Caroline.
La porta si era appena richiusa, quando, da qualche parte fuori del negozio,
giunse un urlo terrorizzato.
* * *
Ci guardammo tutti e tre in faccia,
spaventati.
- Lotte! - esclamai, correndo di sopra.
Sentii i passi di mio zio e della signorina Steinglocke alle mie spalle, mentre
io ero già schizzato nell'atrio.
Margarethe e mia sorella stavano facendo le pulizie nell'appartamento di Ed: la
diciassettenne aveva davvero un'ossessione per l'ordine. Trovai Lotte nella
camera da letto, inginocchiata vicino al cassettone: alcune camicie le erano
cadute di mano quando aveva urlato, e ora piangeva, terrorizzata, con Margarethe
che tentava di calmarla.
- Lotte! - la chiamai, correndole vicino.
Lei mi buttò le braccia al collo, continuando a singhiozzare:
- C'è un...guarda, è orribile! -
Guardai nel cassetto ancora aperto, e sentii il cuore mancarmi un battito. Fu un
attimo, perchè subito dopo mi resi conto dell'equivoco.
Lotte aveva visto una protesi d'acciaio dello zio: solo che quella aveva un
rivestimento di un qualche materiale dello stesso colore della pelle umana, che
la rendeva straordinariamente simile ad un braccio vero.
Cominciai a ridere nervosamente, mentre Ed sospirava, portandosi una mano sugli
occhi.
- Lotte, sciocchina, - la presi bonariamente in giro - è finto, vedi? -
Ci appoggiai un dito sopra, cercando di non rabbrividire per il disgusto: faceva
lo stesso effetto che toccare della pelle vera, ma era gelida. Pur sapendo che
non era un braccio autentico, l'effetto era rivoltante.
Edward si sedette per terra, vicino a noi. Si tirò su la manica destra, per far
vedere a mia sorella la protesi che portava al momento: non aveva rivestimenti
che simulassero l'epidermide umana, e forse per questo era meno impressionante.
- Guarda, Lotte. Questo è un auto-mail, esattamente come quello lì dentro. -
Mosse le dita, sotto gli occhi perplessi di Charlotte. A onor del vero, devo
dire che anche io e la signorina Steinglocke stavamo allungando il collo,
incuriositi. Per quanto mi riguarda, anche se si trattava di mio zio, non avrei
mai avuto il coraggio di chiedergli di farmi vedere quella...cosa.
- È... - Hedwig tossicchiò, imbarazzata - è tutto finto? Il braccio, intendo. -
- Fino alla spalla. - replicò lui
- Come...? -
- Un incidente, nella Grande Guerra. - mentì pronto Ed.
Evitai di guardarlo, mi alzai in piedi e lasciai vagare lo sguardo sul disordine
della scrivania, da cui Edward, come al solito, non aveva tolto i quaderni su
cui lavorava. In realtà, non vi era nulla di comprensibile, ai miei occhi:
pagine e pagine vergate in una calligrafia veloce e disordinata. Nei margini, o
più raramente su qualche foglio bianco, erano incastrate circonferenze di tutte
le dimensioni, con inscritte figure geometriche, linee, scritte così minute da
risultare illeggibili anche per me, che non ero miope come lui.
- Non pensavo che uno scienziato fosse così dotato artisticamente. -
Mi voltai verso Hedwig Steinglocke: non mi ero accorto che fosse dietro di me.
- Non è nulla... - si difese lui, saltando in piedi e raccogliendo i fogli in
fretta. - disegni senza senso. Stamattina non ho fatto in tempo a mettere tutto
a posto. -
Fu salvato da un rumore all'esterno: qualcuno bussava alla porta.
L'amica dello zio decise che era il momento di sparire, e io non potei fare a
meno di sentirmi sollevato per lui: per ben due volte di seguito si era trovato
in una situazione imbarazzante.
Fuori dalla porta c'era di nuovo Hanno, con il suo quaderno dalla copertina
scura sotto il braccio e una luce strana negli occhi.
- Tom, posso entrare un attimo? - mi domandò subito.
- In casa? -
- Nell'atrio va benissimo. -
Preoccupato, lo lasciai passare e chiusi la porta alle mie spalle.
- È successo qualcosa? - chiesi.
Lui si guardò intorno, assicurandosi che non ci fosse nessuno. Mi fece cenno di
avvicinarmi, come se dovesse rivelarmi un grande segreto.
- Mio fratello Wilhelm... - mi sussurrò all'orecchio - non ha passato la visita
per l'arruolamento. -
Rimasi in silenzio: probabilmente, per la famiglia era considerata un'onta.
Forse era per questo che tutti, nella via, odiavano mio zio, visto che lui non
aveva mai fatto mistero di come la pensasse in proposito.
- Oh... - non sapevo cosa dire. Si aspettava che mi mostrassi dispiaciuto? -
Come mai? -
- Costituzione debole, o qualcosa del genere. - il mio amico si strinse nelle
spalle - Il nonno lo ha preso a cinghiate. -
Sollevai un sopracciglio: da quel vecchio, me lo sarei aspettato.
- Senti, - iniziò lui, - io non ho niente contro di lui: so che non è colpa sua.
Come immagino non sia colpa di tuo zio se... -
Lasciò cadere la frase: mi convinsi che la mia ipotesi era esatta, ed evitai di
dirgli che Ed era ben contento di essere a casa sua.
- Insomma, volevo fare qualcosa per la mia famiglia. Appena si saprà questa
cosa...sai come sono quegli altri. -
- E cosa vorresti fare? - domandai
- Quanto sei ingenuo, Tom. Mi voglio arruolare, no? -
Sgranai gli occhi, sicuro che stesse scherzando.
- Tu? - gridai
- Parla piano! - implorò - Sì, io. Conosco gente che l'ha fatto: basta mentire
sull'età. -
- Che sciocchezza! -
Hanno parve deluso.
- Speravo che almeno tu mi aiutassi. -
- Dico solo che è una follia. -
- Libero di pensarla come vuoi. - era offeso dal mio atteggiamento - Non ti ho
chiesto di venire con me. Anche perchè avresti paura. -
Mi consegnò il suo quaderno, con un gesto brusco.
- Vorrei che me lo tenessi fino al mio ritorno. - disse, calmandosi - Se mio
nonno lo trovasse, lo distruggerebbe. Lo do a te perchè so che non guarderai. -
Lo presi in mano, stordito.
- Va bene, - acconsentii - ma... -
- E, per favore, non dire niente. Appena possibile scriverò una lettera ai miei
parenti: prima di allora, fai finta di non sapere nulla. Non parlarne neppure
con tua sorella, e neppure con tuo zio. -
- Va bene, Hanno, ma credo... -
- Tranquillo, - mi interruppe, con fermezza - quando tornerò, si saranno
dimenticati tutti che sono scappato di casa. E mio nonno smetterà di dire che
sono un buono a nulla. -
Rise, imitando il saluto militare, e uscì saltellando.
Ed arrivò in quel momento, chiudendo la porta del suo appartamento.
- Chi era? -
- Hanno, il mio amico. -
- Cosa voleva? -
Rimasi fedele alla promessa appena fatta.
- Nulla. -
A volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi confessato a Ed i propositi di
Johann, dando ascolto alla mia coscienza. Forse sarebbe andata diversamente.
Forse Edward lo avrebbe rincorso, gli avrebbe schiarito le idee con due ceffoni
e l'avrebbe rispedito a casa sua. Non lo saprò mai.
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Capitolo 4 *** La porta sbagliata ***
Nuova pagina 1
Ritengo doveroso segnalarvi due sbadataggini del primo capitolo, di cui mi
sono accorta (con raccapriccio) solo di recente: in primo luogo, il titolo è
identico a quello del primo capitolo di Harry Potter e il Prigioniero di
Azkaban, che ho ripreso in mano casualmente qualche giorno fa. Non credo di
aver esattamente copiato, perchè non lo ricordavo davvero: probabilmente, si
tratta solo di poca originalità.
Il secondo è un errore più grave: Ed definisce Margarethe il proprio
"affittuario"; ovviamente, è il suo locatore, non l'affittuario. Mi consolo
parzialmente della mia ignoranza pensando che, con questo, la mia beta-reader
non potrà più fare commenti acidi per il resto dei suoi giorni...
4. La porta sbagliata
Il giorno il cui Ed si presentò all'Istituto di Ricerca Schneider per
mendicare un posto di lavoro, come diceva lui, fu memorabile. Col senno di
poi, sono arrivato a sorridere dell'intera faccenda, ma allora non lo feci
affatto, anche perchè per colpa mia Edward si trovò in almeno un paio di
situazioni davvero spiacevoli.
Ma andiamo con ordine.
Quella mattina di febbraio (il nove, lo ricordo bene) la iniziai trascinandomi
al tavolo della cucina, dopo una notte pressochè insonne per un persistente mal
di pancia, che imputai ai cavoli della sera prima (non solo per il loro patetico
aspetto, ma anche perchè odio i cavoli, e quella era la quinta giornata di
seguito che pranzavamo e cenavamo con quei dannati ortaggi): oltretutto, come
scoprii appena in piedi, ero afflitto da continui capogiri.
Nessuna sorpresa, quindi, che Ed e Margarethe, prima ancora di salutarmi, mi
avessero guardato come se fossi già bell'e morto.
Lotte, invece, era troppo allegra per accorgersi di me:
- Guarda, Thomas, - cinguettava, tirandomi la manica e parlando senza sosta -
Margarethe mi ha fatto le trecce come mi faceva la mamma, solo che lei le fa
dritte, quelle di mamma erano sempre storte, e poi è arrivata una lettera di
papà, vuoi leggerla? -
Spostai bruscamente il braccio, seccato dal gesto continuo e con la testa che
rimbombava della sua vocetta acuta. Appoggiai il viso su una mano, mentre
addentavo il pane scuro che faceva da prima colazione.
Margarethe, seduta come sempre a capotavola, si alzò per mettermi una mano sulla
fronte:
- Non mi sento la febbre! - protestai.
Edward tossicchiò leggermente.
- Oltre alla lettera di tuo padre, è arrivata anche questa... - mi porse una
busta intatta - per te, dal tuo amico. -
- Hanno! - esclamai sollevato. Non avevo avuto sue notizie da quel pomeriggio in
cui mi aveva annunciato il suo folle piano.
Lessi entrambi i fogli con attenzione, nonostante il malessere che mi
costringeva a strizzare gli occhi per mettere a fuoco le parole: la lettera di
Johann, comunque, era pressoché incomprensibile, a causa delle censure che
coprivano più di metà del testo. Cosa mi voleva dire il mio amico di tanto
scandaloso, lui che era così fiero della sua idea il giorno in cui me l'aveva
rivelata?
Mio padre, invece, era affettuoso come sempre: si preoccupava per noi, metteva
in guardia il fratello maggiore sulla sua scellerata abitudine ad agire
impulsivamente (consiglio che, immagino, entrava da un orecchio dell'interessato
per uscire immediatamente dall'altro), e parlava molto dei suoi commilitoni con
una capacità descrittiva tale che sembrava di vederli mentre parlavano, lì il
sarto che pensa al figlio e alla moglie, là il gigante che ride rumorosamente e
li tiene allegri, laggiù un giovane timido che scrive alla fidanzata...
- Thomas, sapevi della stupida iniziativa di quel ragazzino? -
- No, zio. - mentii - Hanno non mi ha mai detto niente. -
Lui non ci cascò. Doveva essere un esperto bugiardo.
- Allora perchè quel pomeriggio è passato a darti il suo quaderno? -
- Forse ci stava già pensando, ma a me non ha detto nulla. - ripetei,
stancamente, appoggiando nuovamente i fogli sul tavolo.
- E non ti è venuto in mente di chiedere cosa avesse in mente? -
Alzai gli occhi su di lui, esasperato.
- No, non ho chiesto ad Hanno cosa aveva in mente. Ho pensato che non fossero
affari miei. - lo accontentai.
Lui spalancò la bocca, sbalordito dalla mia risposta:
- Non fossero affari miei?? Thomas, il tuo amico ha fatto quanto di più
idiota... -
Si interruppe bruscamente: ricordava la nostra decisione di non parlare di quel
che avrebbe potuto causare una lite, il primo giorno in cui io e Charlotte
eravamo arrivati e, sebbene fremesse per l'indignazione, si costrinse a tacere.
Margarethe, per tentare di distrarci, attirò l'attenzione di Ed e battè più
volte sul proprio polso con l'indice della mano destra. Un gesto universale: si
stava facendo tardi. Mio ziò sospirò, ma non fece cenno di volersi alzare; quel
giorno indossava il vestito buono, con un panciotto apparentemente nuovo e la
camicia pulita, anche se teneva le maniche arrotolate e aveva appoggiato la
giacca dietro lo schienale della sedia e il cappello del signor Meyer in grembo:
per la prima volta dacché lo conoscevo, indossava la cravatta.
Sarebbe sembrato addirittura rispettabile, se non avesse avuto quei capelli
lunghi.
- Ora vado, ora vado... - brontolò - sei così ansiosa di vedermi coperto di
ridicolo? -
Basta che vai a coprirti di ridicolo in orario, rispose seria la ragazza,
alzandosi dal suo posto a capotavola, mentre Lotte raccoglieva le briciole dal
piano di legno e io restavo immobile, la testa appoggiata sul mento. La
diciassettenne mi diede un leggero colpetto sulla spalla perchè la guardassi, e
disegnò con il dito un semicerchio sotto il proprio occhio.
- Come? - chiesi
- Hai delle occhiaie spaventose. - tradusse Ed - Hai dormito stanotte? -
- Non tanto. Credo mi abbiano fatto male i cavoli. -
- Di certo ne avrai mangiati troppi. - rispose lui, sarcastico - Sicuro di non
aver di nuovo passato metà della tua cena a Lotte? -
Non risposi. La lista delle mie menzogne era aumentata troppo, quella mattina;
mi limitai ad alzarmi, seccato dalle continue attenzioni degli altri. Edward,
alle mie spalle, indossò la giacca con l'espressione di un martire, afferrò il
soprabito, buttato sulla sedia vuota di fianco a lui, e andò in salotto a
cercare le chiavi.
- Vengo a chiudere la porta. - mi offrii.
- Non ce n'è bisogno... -
- Lo faccio volentieri. -
A casa, io e Lotte facevamo a gara per aprire e chiudere la porta a papà, quando
andava o tornava dal lavoro: il mio gesto era un tentativo di rappacificazione.
Forse Ed lo intuì, perchè non replicò quando lo precedetti in salotto.
Comunemente si ritiene che esistano due categorie di bugie: quelle dalle gambe
corte e quelle dal naso lungo.
Bene, è una bugia anche quella. Esiste una terza categoria: le bugie dallo
stomaco vuoto.
Lo scoprii quella mattina del nove febbraio 1945, anche se non saprei dire cosa
sia esattamente successo: io vidi soltanto la stanza ruotare vorticosamente
intorno a me, mentre il pavimento mi si avvicinava a grande velocità.
Per alcuni istanti, tutto fu buio.
* * *
Se anche non fosse bastato il tonfo sordo a preoccupare me e Lotte abbastanza da
farci correre in salotto, l'esclamazione di Edward sembrò far tremare i muri, ed
era così volgare che non ritengo opportuno riferirla.
Probabilmente, descrivere quel che successe a Thomas come uno svenimento sarebbe
eccessivo: quando mi avvicinai, il ragazzino era di nuovo più o meno cosciente;
il signor Elric si era inginocchiato di fianco a lui e gli teneva la mano
d'acciaio sulla spalla, scuotendolo leggermente.
E se qualcuno crede che io abbia espresso un pensiero sul ritardo che stava
accumulando o sui suoi pantaloni, ha davvero una misera opinione di me.
- Thomas? - chiamò - Thomas, mi senti? -
Lui mugolò qualcosa, portandosi una mano sugli occhi.
- Margarethe, per favore, potresti aprirmi la porta della camera dei ragazzi? Lo
metto a letto. -
Annuii, lasciando docilmente che Edward prendesse il controllo della situazione:
odio queste circostanze. Feci come mi aveva chiesto, poi andai da Charlotte,
ancora immobile sulla soglia. Non piangeva, ma aveva gli occhi sbarrati di chi
non si è ancora reso conto di quel che è accaduto.
- Thomas sta male? - mi domandò, più perplessa che realmente preoccupata.
Le accarezzai la testa, picchiettando con il gesso sulla mia lavagnetta con
l'altra mano, alla ricerca di una frase precisa, ma che non spaventasse la
bambina.
Il signor Elric, nel frattempo, stava dimostrando dei nervi d'acciaio (mi si
perdoni il gioco di parole, ma non esistono altre espressioni che rendano
l'idea): insensibile alle proteste - piuttosto deboli - del nipote, lo aveva
preso in braccio e portato a letto, restandogli vicino per impedirgli di
alzarsi. Thomas, alla fine, si arrese così velocemente da farci capire che non
stava ancora bene.
- Che è successo? - domandò.
- Stavi per offrire a tuo padre un motivo per commettere un fratricidio, credo.
- rispose Edward, prima di rivolgersi a me - Abbiamo qualcosa da dargli da
mangiare che lo rimetta in piedi? Direi che il problema sia quello, non mi
sembra malato. -
Aggrottai le sopracciglia: io gli avrei dato del brodo di pollo, che fa sempre
miracoli, gli spiegai, ma dove andarlo a prendere il pollo?
L'uomo annuì, con aria pensierosa. Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e
si alzò.
- Esco un attimo. - annunciò, scontroso.
Lo guardai con aria interrogativa, ma lui non si voltò neppure.
* * *
Uscii senza soprabito, nonostante il freddo e il rischio che ricominciasse a
piovere. L'avevo dimenticato nel salotto, per terra, sopra al cappello del padre
di Margarethe.
Percorsi a passo sostenuto la strada fino alla panetteria, poi, invece di
entrare nel negozio, bussai alla porta dei Lindemann... va bene, "bussare"
probabilmente è un eufemismo: battei con la mano aperta, facendo tanto chiasso
da far voltare i pochi passanti.
Come avevo sperato, venne ad aprire Wilhelm Lindemann, che, appena mi vide,
rimase a fissarmi come se fossi un fantasma.
- Wilhelm, ho bisogno di un favore. - esordii in fretta.
Gli spiegai brevemente cosa volevo, dicendogli che era un'emergenza: non sapevo
quanto potesse fare senza il consenso di suo nonno, ma speravo che il vecchio
imbecille non sputasse nel piatto in cui mangiava. Alla fin fine, ero un
cliente.
Il ragazzo rimase ad ascoltarmi, poi si guardò intorno con finta noncuranza:
- Entri, Herr Elric. - disse, infine, dopo aver controllato che certi
avvoltoi suoi parenti non fossero in giro.
Riuscii a sorridere, sollevato: - Ti ringrazio. -
I Lindemann tenevano la merce venduta a borsa nera in cantina: non potei vedere
dove la nascondevano, ovviamente, perchè il ragazzo mi chiese di aspettarlo sul
primo gradino (io scesi fino al quarto), ma lo sentii frugare per due minuti
buoni, producendo ogni tipo di rumore. Quando tornò, comunque, aveva un
sacchetto della panetteria in mano e l'aria trionfante.
- Ho trovato qualcosa! - mi annunciò - Non è molto, ma spero vada bene. -
Sospirai sollevato, e mentre Wilhelm mi raggiungeva mi sentii finalmente
ottimista.
Inutile. Dopo venticinque (...ventiquattro) anni, non avevo ancora imparato la
lezione.
Mai distrarsi nel covo del nemico.
- Wilhelm! -
Se anche non avessi capito a chi appartenesse la voce, l'espressione di puro
terrore che apparve sul volto del giovane sarebbe bastata a rivelarmi che alle
mie spalle c'era Johann Lindemann.
Mi immobilizzai, mentre il vecchio tendeva la mano e il nipote, imbarazzato e
riluttante, gli porgeva il sacchetto oltrepassando la mia spalla.
Il bottino era, per quei tempi, di tutto rispetto: due cosce di pollo intere e
quella che sembrava un'ala, anche se era ridotta ad un ossicino con un po' di
carne attaccata.
- Nonno, è un cliente! - cerco di difendersi Wilhelm - Pagherà tutto, non è vero
signor Elric? -
- A quanto gli hai messo tutto questo? -
Che delizioso quadretto famigliare, pensai.
- Questo è il prezzo che aveva la carne prima della guerra! -
- Nonno, è il doppio! Tu e la mamma avevate stabilito... -
- Io e tua madre avevamo stabilito quel prezzo quando ne avevamo ancora! -
- Facciamola finita, dannazione! - esplosi, voltandomi verso la vecchia mummia -
Quanto vuole? -
La cifra era semplicemente assurda.
- Non ho tutti questi soldi. - ammisi, dopo un istante di silenzio.
- Allora niente carne. - stabilì Johann Lindemann.
Strinsi i pugni, cercando di convincermi che, in fondo, Thomas non era ridotto
poi così male: un po' di riposo e sarebbe stato di nuovo in piedi entro breve.
L'auto-mail scricchiolò leggermente.
Già, e tempo due settimane saremmo stati da capo. Mio nipote non metteva nulla
di sostanzioso nello stomaco da parecchio tempo, al pari di Charlotte e di
Margarethe.
Decisi che potevo anche permettermi di fare un piccolo sacrificio.
* * *
Sarò sincero: mi sentii in colpa per aver mangiato tutto solo quando, ormai, lo
avevo fatto.
- Avrei dovuto lasciarne un po' per voi... - pigolai, guadagnandomi
un'occhiataccia da Margarethe.
- Dov'è lo zio? - le chiese Lotte - É già andato al laboratorio? -
É di sotto, rispose la ragazza, state qui.
La guardai uscire: aveva un'aria strana. Decisi che era successo qualcosa...o
meglio, che lo zio aveva combinato qualcosa. Infatti, non si era ancora fatto
vedere.
Sgattaiolare fuori dalla stanza fu, a dire il vero, più facile del previsto:
Lotte come guardiana non vale nulla, perchè si appisolò nuovamente nel suo
letto, e io potei scendere dal mio e uscire semplicememente stando attento a non
fare troppo rumore.
Ero più o meno a metà delle scale, senza scarpe, quando Margarethe, uscendo
dall'appartamento dello zio, mi vide. Sentii le guance scaldarsi, ma lei si
limitò a scuotere la testa e sospirare: probabilmente, non si era mai aspettata
che sarei stato buono buono a letto.
- Che è successo? - domandai, con molta faccia tosta.
Lei stava piegando quello che, a prima vista, mi sembrò un fazzoletto rosa, ma
si interruppe per scrivere Una geniale trovata di tuo zio. Portagli il
soprabito e il cappello, io nascondo questa roba.
Osservai meglio lo straccio, e sentii lo stomaco contrarsi per il disgusto: era
la copertura dell'auto-mail che lo zio teneva nel cassetto.
Avrei fatto meglio a restarmene a letto. O ad aiutare Margarethe in qualcosa.
Avrei potuto trovarmi una qualsiasi occupazione che mi tenesse lontano da Ed.
Più o meno, fu questo che pensai quando lo vidi.
Era seduto sul letto, ma doveva aver appena messo le gambe oltre il bordo:
piegato in due, le maniche arrotolate fino ai gomiti e la cravatta allentata,
con la mano sinistra si tergeva il sudore dal volto, mentre l'auto-mail pareva
appena appoggiato sulle ginocchia. Inutile dire che non era quello che portava
di solito.
Alzò stancamente lo sguardo su di me, ma non fece cenno di volermi rimproverare.
- Ed, stai...stai bene? - balbettai, imbarazzato dalla mia curiosità
inopportuna.
Mi sedetti di fianco a lui, con il soprabito sulle gambe, mentre mio zio si
raddrizzava, prendendo profondi respiri.
- Dovrei essere io a chiedertelo, ma lasciamo perdere. - sospirò - Ora vado. -
- Perchè? -
- Perchè sono in ritardo di quasi mezz'ora e... -
- No, intendevo... - arrossii, abbassando lo sguardo - perchè l'hai fatto? -
- Fatto cosa? -
- Piantala, non sono stupido. Hai scambiato il tuo auto-mail per un... - cercai
un modo diplomatico per dirlo, ma non lo trovai - pollo. -
Lui mosse leggermente la nuova protesi, come per sincerarsi che funzionasse
davvero.
- In effetti, la parola corretta è "svenduto". Ho svenduto il mio auto-mail... -
Contrariamente alle sue parole, il suo sguardo si addolcì in un'espressione che
non gli avevo mai visto, neppure con Hedwig.
- Il mio meccanico mi ammazzerà. - un'ombra gli passò sul volto, e
improvvisamente si incupì - O meglio, mi ammazzerebbe se sapesse quel che ho
fatto. Il che è impossibile. -
- Ma perchè, Ed? - ripetei.
- Perchè ho pensato fosse giusto così. - prese il soprabito e si alzò,
infilandosi il guanto sulla protesi - Forse è stato impulsivo da parte mia,
ma... -
Arrossì leggermente (le guance tornarono appena al loro colore naturale, a dire
il vero) e si interruppe, mordendosi il labbro.
Mentre usciva, per la prima volta sentii qualcosa di simile all'affetto per
Edward Elric.
* * *
La vita è solo uno scherzo, e tutto lo dimostra, disse qualcuno di cui mi
sfuggiva il nome, e quella mattina, mentre costeggiavo l'Isar in bicicletta
sotto una leggera ma persistente pioggerellina, quell'aforisma mi parve quanto
mai azzeccato, visto che le ultime due ore della mia vita sembravano una
grottesca parodia degli ultimi trent'anni.
Un tempo diedi un braccio in cambio dell'anima di mio fratello. Quel giorno,
invece, avevo dato il suo sostituto di acciaio...mi piacerebbe dire per mio
nipote, ma sembrava sempre di più che lo avessi fatto per una gallina vecchia.
Anzi, per i suoi poveri resti.
Con questo spirito entrai nell'Istituto di Ricerca Schneider.
Nonostante il mio ritardo, feci anticamera per un quarto d'ora abbondante, prima
di riuscire a vedere la mente criminale, così ne approfittai per guardare i
volti di quelli che passavano: conoscevo alcuni dei dipendenti, ma sobbalzai
quando mi sorpassò una donna, più o meno sulla trentina, che il collega al suo
fianco chiamò "dottoressa". A quanto pareva, grazie alla guerra qualche laureata
riusciva a farsi strada in un mondo quasi completamente maschile.
Martha, la segretaria di Heinrich ancora al proprio posto nonostante il capo
fosse andato in pensione, anche se non alla sua scrivania, mi riconobbe...più o
meno:
- Ah, il fratello del vicedirettore! - squittì, cercando disperatamente di
ricordarsi il mio nome - ...ehm...Richard? -
Alzai un sopracciglio, lasciandole il tempo di guardare sulla lista che aveva in
mano, poi allungai il collo, impietosito, per darle una mano.
- Ehi, è scritto sbagliato! - protestai, indicando l'errore con il dito - Non è
"Eduard" alla tedesca, ci vuole la "w"! -
- Oh...chiedo scusa. - una specie di latrato venne dalla porta del direttore -
La signora Schneider è libera, vada pure. -
- Grazie...per curiosità, che ne è stato degli altri candidati? -
- Tre assunti, sette sbattuti fuori. -
Consolante.
Come scoprii varcando la soglia, Martha non era al suo posto perchè dietro la
scrivania, sorprendentemente, c'era la donna che finanziava il laboratorio.
Forse la sedia dell'ufficio del direttore, la cui porta si apriva subito a
sinistra di quella da cui ero appena entrato, era troppo scomoda per lei.
Tutto in Ilse Schneider era rigido e severo: il volto affilato, il naso dritto
che tracciava con la fronte un'unica linea retta, le labbra sottili. Persino
l'abito grigio e i capelli biondo scuro, con appena qualche striatura bianca,
sembravano scolpiti addosso a quella figuretta ossuta che somigliava in modo
impressionante ad una cornacchia.
Fisicamente, lei e sua figlia Hedwig non avevano quasi nulla in comune, ma
l'atteggiamento aristocratico e arrogante (che la mia amica, quando voleva,
sapeva nascondere bene), oltre all'abitudine di squadrare la gente e di fissarla
con gli occhi socchiusi e il mento sollevato, erano piuttosto simili, sebbene
nella signora che avevo di fronte fossero decisamente più accentuati.
- Edward Elric, immagino. - più che parlare, quella donna abbaiava.
Non risposi e non mi mossi, visto che non ero stato invitato a sedermi. Mi
aspettavo qualche commento sul ritardo, ma la signora aveva altri argomenti di
cui parlare.
- Ho appena interrotto una telefonata che la riguardava. - appoggiò la schiena
alla sedia, con le labbra strette ma un'espressione divertita negli occhi,
controllando le mie reazioni - Il precedente direttore, Herr Heinrich,
era molto ansioso di farmi sapere cosa pensava di lei. -
- Sono lusingato che così tante persone si interessino alla mia umile persona. -
risposi.
Dato che la donna che avevo di fronte non faceva nulla per rendersi simpatica,
non vedevo perchè io avrei dovuto farlo.
(La persona alle mie spalle che controlla quel che scrivo mi fa notare che lei
poteva permetterselo, visto che aveva il coltello dalla parte del manico.
Ammetto che forse fui un po' impulsivo, ma in quel momento non mi passò neppure
per l'anticamera del cervello)
- Le giungono nuovi gli aggettivi... - parve frugare nella memoria per
ricordarseli - presuntuoso, egocentrico, irrispettoso e disdicevole? -
John Gay, pensai. Ecco come si chiamava il tipo di cui mi era tornato in mente
l'aforisma.
Esattamente, dove avrò mai letto le affermazioni di uno scrittore satirico
inglese? Mah!
- Non troppo. - risposi, cercando di non sogghignare - Sono presuntuoso ed
egocentrico, perchè ho contestato quasi tutte le decisioni che il signor
Heinrich prese quando ero suo dipendente; sono irrispettoso, perchè gli ho fatto
sapere cosa pensavo di lui e delle suddette decisioni e, come può vedere dal mio
abbigliamento, sono decisamente disdicevole. -
- Si sieda, prego. Non è stato Karl Heinrich ad assumerla? -
- Sì, infatti mi vanto di essere uno dei pochi errori della sua vita. -
replicai, sarcastico, mettendomi comodo e togliendomi il soprabito.
- Perchè questi disaccordi? -
Non risposi: non avrei saputo trovare un modo gentile per dirle che l'uomo che
aveva messo a capo dell'Istituto era un idiota. Se si fosse occupato un po'
della gestione, mettendo più persone a lavorare ad un unico progetto, i
risultati sarebbero stati migliori, invece lui lasciava che tutto continuasse in
uno stato di perenne disordine, a cui Al aveva cercato disperatamente di porre
rimedio.
- Come mai questo improvviso interesse al laboratorio? - domandai, invece.
Lei mi osservò con maggiore attenzione, anche se continuava a sembrare
incredibilmente divertita dalla mia insolenza.
- Diciamo che, ora che il medico mi ha vietato di viaggiare, ho deciso di
cercare altrove le emozioni forti di cui ho bisogno. -
Era ironica come al solito, ma fece un gesto stizzito con la mano: un movimento
brusco, ben diverso dalle movenze controllatissime di Hedwig.
In effetti, l'incontro con sua madre (che speravo con tutto il cuore non sapesse
che la figliola aveva l'abitudine di intrufolarsi in una libreria, il sabato
pomeriggio, e decisamente non per leggere) mi stava facendo notare per la prima
volta le enormi differenze tra Hedwig e Winry, nonostante l'aspetto molto
simile.
Hedwig era aristocratica, controllata in ogni atteggiamento, che sembrava sempre
il frutto di un allenamento allo specchio. Semplicemente bellissima.
Per quanto riguarda Winry...
Beh, Winry era Winry. Non la potevo definire bella, ma di certo era graziosa
(per quanto valga il mio giudizio in fatto di bellezza femminile, e non credo
sia molto), vivace, schietta e spontanea, cosa che non si sarebbe proprio potuto
dire della signorina Steinglocke. Senza contare che lei lo avrebbe trovato
disdicevole.
E poi... ma tralasciamo l'argomento, avrò tempo per tornarci.
- Bene, signor Elric, direi che possiamo concludere qui la nostra chiacchierata.
- la signora Schneider tornò ad appoggiarsi sulla sedia, per godersi la mia
reazione. - Avrei continuato volentieri, ma visto che lei è arrivato con un
ritardo spaventoso... -
Cominciavo ad intuire che l'arpia si era fatta un'idea della mia sorte ancor
prima che entrassi, probabilmente durante la telefonata al grande capo in
pensione. Mi raddrizzai, aspettando il verdetto.
- No, no, prego, si alzi... -
Ahia.
Obbedii, accorgendomi per la prima volta che il soprabito aveva sgocciolato sul
pavimento e sul cappello.
- La porta a destra, Herr Elric. -
Non mi voltai: non avevo bisogno di sapere che la porta alla mia destra era
quella che dava sul corridoio, quindi sostenni lo sguardo della donna e rimasi
impassibile.
Avete presente quando sapete che non potrete mai ottenere qualcosa, eppure,
contro ogni logica, una piccola parte di voi continua a sperarci? Ecco, mi
sentivo proprio così: sapevo che stavo perdendo tempo, ma da quando il signor
Schulz mi aveva detto che...
Inutile parlarne. In questo mondo come in qualunque altro, a nessuno importa
quanto tu ti sia impegnato per giungere al tuo scopo.
- Posso conoscere almeno il motivo della scelta? -
- Per il suo carattere, ovviamente. - unì le dita delle mani, soddisfatta -
Direi che lei è assolutamente inadatto a fare il dipendente di chicchessia. -
- Bene, signora Schneider. - le tesi la mano, l'unico segno di educazione che
ero disposto a concedere a quella strega - Mi sembra che lei si fosse fatta
un'idea di dove spedirmi prima ancora di vedermi. -
- Avevo qualche ipotesi, sì, ma volevo verificare di persona. Si sbrighi, qui si
lavora. -
Mi misi il soprabito su un braccio, le diedi le spalle e aprii la porta. Frau
Schneider si schiarì leggermente la gola.
- Signor Elric... -
Mi voltai, esasperato, e notai il sorrisetto divertito sul vecchio volto
accartocciato allargarsi.
- ...cosa sta facendo? -
- Me ne vado, come mi ha ordinato. - risposi.
- Signor Elric, - ripetè, con l'aria di chi parla ad un bambino scemo - io
intendevo la porta alla mia destra. -
Rimasi con la mano sulla maniglia.
Sapeva che avevo frainteso. Stava giocando sull'equivoco, se non l'aveva creato
apposta per divertirsi alle mie spalle.
La donna scosse la testa con aria di compatimento, si alzò e, senza troppe
cerimonie, mi spinse di fronte alla porta giusta.
- Le ho detto che è inadatto a fare il dipendente, e sono pronta a ribadirlo.
Lei è troppo arrogante, incapace di accettare ordini o decisioni che non
condivide: perciò, - aprì, senza guardarmi, lottando per non ridacchiare sotto i
baffi - ho deciso di tentare un'altra strada. -
Mi prese per il braccio, e mi trascinò nell'ufficio del direttore, che faceva la
muffa finchè Al non ci si era stabilito, facendo tutto il lavoro del legittimo
proprietario, e adesso era tornato ad essere un tugurio polveroso, per di più
buio per le imposte chiuse.
- Credo di non capire. -
O meglio, non potevo credere a quel che sentivo. Era semplicemente assurdo.
- Allora apra le orecchie, perchè non ho intenzione di ripetermi. - mise le mani
sui fianchi - Lei è appena diventato il nuovo direttore del mio Istituto
di Ricerca, per cui spero che si rimboccherà le maniche e cercherà di mettere
ordine in questo posto, perchè non ho la minima intenzione di buttar via i
miei soldi in una struttura che non funziona e nello stipendio di un
incompetente! -
Dovevo avere l'espressione di un pesce lesso, perchè la solerte signora mi
avvicinò la sedia, prima di affacciarsi alla porta dell'ufficio.
- Martha! - chiamò - Un surrogato di caffè per il direttore! Suvvia, signor
Elric, - mi prese in giro - basterà che lei tratti i suoi dipendenti con la
stessa maleducazione che ha dimostrato con me. Mi pare sia in grado di sbraitare
contro chi non le piace, non è così? -
Avevo ancora la bocca spalancata, così cercai di riguadagnare il controllo. La
scrivania non era stata toccata da quando Alphonse l'aveva abbandonata per
essere arruolato, tanto che notai la sua penna tra il materiale da cancelleria:
una bella stilografica d'acciaio che gli avevo regalato io stesso, anni prima.
L'accarezzai con lo sguardo, pensando al mio fratellino e ai pericoli che
correva, mentre io al massimo mi arrabattavo per non far patire troppo la fame
ai suoi figli.
- Signora Schneider, - ripresi, più calmo - tutto ciò non ha senso. Lei non sa
neppure se sono capace di fare il mio mestiere, e mi mette in questa posizione.
-
- Avrò tempo di vederlo, anche se il fatto che lei sia odiato da Karl mi
rincuora. Le do un mese di prova, al termine del quale o vedrà il suo stipendio,
oppure sarà in strada. -
Dato che Martha stava per bussare alla porta aperta, le prese di mano la tazza e
me lo appoggiò davanti.
- Le do cinque minuti per godersi la sensazione di potere, dopodiché la voglio
al lavoro. -
Si diresse verso l'attaccapanni nell'altra stanza e prese il cappotto e la
borsa: era sul punto di andarsene, ma sembrò cambiare idea, perchè si voltò di
nuovo verso di me.
- Ah, Herr Elric, un consiglio. -
- Sì? -
Piegò la testa, in un sorriso diverso da quello che aveva avuto fino ad allora.
Più freddo.
- Lasci mia figlia. Lei non la merita. -
Pensierino della buonanotte: torno a scrivere, corroborata dalle
vacanze e rassicurata da verifiche e informazioni prese in loco: e
comunque, dà una strana sensazione vedere con i propri occhi la città di cui si
è scritto. Specie quando è davvero bella.
In questo capitolo è arrivato uno dei miei personaggi preferiti, Ilse Schneider.
La adoro. Forse è una mia self-inserction inconsapevole...in effetti, la frase
"Le do cinque minuti per godersi la sensazione di potere" mi è venuta spontanea,
perchè è quello che io direi! Davanti a lei, per alcuni istanti Ed mi è sfuggito
di mano: ho dovuto fermarmi quando diceva che a nessuno importa quanto uno si
impegni per raggiungere un obiettivo, perchè quello non era Edward Elric! Ero io
che parlavo attraverso di lui!
(A questo punto, potete cominciare a chiedermi che cavolo di personaggi mi
piacciano...)
E ora dedichiamoci alle risposte ai commenti:
Gothika: mia malvagia prima lettrice e beta-reader,
come ignorare le tue domande (sapendo che tu sguinzaglieresti i dobermann)? Ti
rispondo qui, visto che ho MSN vagamente morto, e temo che aspettare il terzo
giorno sia inutile.
1) Sì, gli occhiali del primo
capitolo erano di Ed: in teoria, li porta solo per leggere. Non c'è un motivo
specifico...forse, a forza di sentirmi dire che continuando a leggere così tanto
dovrò presto mettere gli occhiali, ho proiettato le minacce su di lui. Va bene,
è stupido. Semplicemente, Ed a quarant'anni me lo immagino con gli occhiali per
la lettura.
2) Non c'è nessun errore nel titolo
del terzo capitolo...francamente, speravo che qualcuno se ne accorgesse. Ed,
alla fine del film, ha solo un auto-mail decente: quello fatto da Winry, che lei
gli ha sostituito quando lui è tornato nel suo mondo. Speravo che a qualche
lettore venisse il dubbio su dove si sia procurato quello che tiene nel
cassetto...
3) No, Margarethe non è una mia
self-inserction. Non esattamente, almeno: non condivido il parallelismo
self-inserction=Mary Sue, perchè ad un personaggio che ti rappresenta puoi dare
anche i tuoi difetti (basta essere abbastanza onesta da ammettere di averne), ma
non risco ad immedesimarmi in un personaggio. Molti di loro hanno qualcosa di
mio, nelle mie fanfic, ma nessuno mi rappresenta esattamente.
Siyah: Karl Heinrich, a dire il vero, non è un
personaggio indispensabile ai fini della trama, ma mi è "servito"
indirettamente, soprattutto in questo capitolo. La sua parte nel terzo capitolo,
invece, era semplicememente per smontare la figura di carogna infame che gli ha
appiccicato Ed: in fondo, prima di riconoscerlo, lui stesso ammette che hanno
idee molto simili. Inoltre, Heinrich non è così egoista e dispotico come sembra,
visto che ha sofferto moltissimo per la morte della figlia anche se tra i due i
ponti erano stati tagliati dal matrimonio di Caroline e, ancora più importante,
sembra piuttosto affezionato a Thomas e Charlotte.
Hedwig... Hedwig è figlia del suo tempo. Non può che essere diversissima da
Winry.
Martel92 (o halinor??): mi dispiace che Winry non ti piaccia... Io ho
impiegato un po' di tempo per apprezzarla appieno, ma mi è sempre sembrata la
compagna adatta a Ed, e la mia idea si è rafforzata nelle ultime puntate, quando
Rose flirtava con il nostro Alchimista d'Acciaio e lui aveva l'aria di chi vuole
svignarsela a gambe levate...
No, lo yaoi non mi piace: oltre al fatto che, nell'anime, non esiste nulla che
faccia pensare ad un rapporto omosessuale tra i personaggi, le storie scritte
bene sono poche. Per fortuna Roy Mustang non è un pedofilo, tra Ed e Al c'è un
profondo affetto fraterno e nient'altro, mentre tra Ed e Envy...beh, la
penultima puntata dell'anime dovrebbe aver spiegato come stanno le cose tra
loro, no?
envy_Misako93: aaaaaah, i vecchietti nazi! Scrivere di
loro mi ha fatto un po' ridere, se devo essere sincera: non si rendono neppure
conto di essere ridicoli...
Sono contenta che Margarethe ti piaccia, ma Ed mi prega di ricordarti che lui
cede ai suoi ordini dittatoriali solo perchè lei può sbatterlo fuori di casa in
qualunque momento!
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Capitolo 5 *** Illusioni infrante ***
Nuova pagina 1
Tutto dipende da come lo si guarda.
Per esempio, io non ci metto dei secoli ad aggiornare: semplicemente, ogni volta
che rileggo trovo qualcosa da correggere.
E io rileggo piuttosto spesso, non so se si era intuito dai miei tempi.
5. Illusioni infrante
Come già avevo sospettato, nell'Istituto di Ricerca Schneider (nome un po'
troppo pomposo per una palazzina in cui il poco intonaco rimasto era di un
imbarazzante verde marcio), lavorare era ancora più difficile che dodici anni
prima: ogni tentativo si trascinava nel caos, languiva nella disorganizzazione e
si dissolveva (o forse si suicidava) schiantandosi contro la quasi totale
mancanza di mezzi.
In altri tempi, probabilmente, mi sarebbe venuto un esaurimento nervoso in breve
tempo: in quel febbraio umido e freddo, invece, l'indolenza dei miei colleghi e
i fastidi dovuti alla guerra mi parvero una meravigliosa sfida, dopo tanto tempo
passato alla disperata ricerca di un impiego, anche umile, che mi permettesse di
sopravvivere senza dover chiedere prestiti a mio fratello. Mi gettai con
l'entusiasmo di un adolescente nella mischia e, dopo una settimana, avevo
guadagnato un calo di voce che preoccupò Margarethe e una grande stanchezza, ma
il laboratorio cominciava faticosamente a funzionare.
Esattamente otto giorni dopo la mia sorprendente assunzione, mi trovavo per la
seconda volta nell'ufficio del direttore: avevo passato i precedenti giorni in
giro per l'Istituto, causando la perplessità di quelli che mi vedevano, con le
maniche della camicia arrotolata, chino su colonne di distillazione, palloni o
sostanze nella maggior parte dei casi puzzolenti ("Il direttore è matto...
sembra un bimbo davanti ad un nuovo trenino!"), ma quel pomeriggio mi ero
deciso a dare una controllata ai conti degli ultimi mesi. Sebbene non fossi io a
dover tirare fuori i soldi, non potevo permettermi spese eccessive, o la signora
Schneider mi avrebbe immediatamente licenziato.
- Direttore... ha ancora bisogno di me? -
Alzai lo sguardo su Martha, cercando di capire il motivo di quella domanda: dopo
pochi secondi, mi resi conto che doveva essere l'ora di uscita.
- No, grazie, vada pure: anche io ho finito. -
La povera donna un po' mi impietosiva: doveva essersi resa conto che non avevo
la minima idea di cosa comprendesse il lavoro di segretaria, e probabilmente
viveva nel terrore che la reputassi inutile e proponessi al grande capo di
liberarsene. Infatti, si premurava sempre di elencarmi tutte le formalità
burocratiche sbrigate nella giornata, di riempire la sua scrivania di fogli per
mostrarmi quanto fosse impegnata e, la mattina, mi faceva sempre trovare il
terribile surrogato nel mio ufficio. Non ho mai capito se enfatizzasse le sue
mansioni o lavorasse davvero come una schiava.
- C'è una signorina che chiede di parlarle... la faccio entrare? -
- Una... chi è? - domandai
In quel momento, Hedwig entrò nella stanza, rendendo superflua la risposta.
* * *
Quando alzai lo sguardo dal libro che
stavo leggendo, mi accorsi che il sole cominciava a sparire dietro le case, ed
Edward non era ancora tornato.
A malincuore, riposi il volume, pensando che dovevo aver perso la capacità di
restare cosciente delle ore che passavano mentre io ero impegnata nella lettura:
ma, del resto, da quando mio padre era partito per il fronte e io ero rimasta
l'unica a preoccuparsi della nostra casa, non ero più riuscita a ritagliarmi un
po' di tempo per me.
Seccata per il ritardo del mio indisciplinato affittuario, scivolai in cucina,
alzando la lavagnetta a beneficio dei bambini:
Vostro zio ha intenzione di farsi vivo, stasera?
Un po' mi seccava disturbarli: non avevo mai visto due ragazzini decidere
volontariamente di studiare... perlomeno, io non l'avevo mai fatto. Invece,
subito dopo pranzo, Thomas aveva tirato fuori il suo vecchio libro di
matematica, deciso a portarsi avanti con il programma: Lotte, non so se per vero
desiderio di sapere o solo per compiacere il fratello maggiore, si era seduta al
suo fianco e aveva usufruito dell'insegnante improvvisato.
- Credi che non si sia accorto dell'ora? - domandò il maggiore, guardandosi
intorno come se realizzasse in quel momento che Edward non era tornato.
Probabile, risposi. Sarà meglio andare a chiamarlo, tra poco sarà
buio.
- Vado io, allora. Tanto conosco la strada. - si offrì Thomas.
- Noi cominciamo a preparare la cena? - propose Lotte - Ed ha sempre fame,
quando torna. -
In effetti, cominciavo a chiedermi quale lavoro massacrante compisse in quel
laboratorio, visto che tornava a casa con l'aria di chi ha spostato le montagne.
Forse era solo il terrore di perdere quell'impiego, visto che non si era mai
neppure aspettato di averlo.
Io? Ovvio che sapevo che ce l'avrebbe fatta. Altrimenti, non lo avrei mai...
incoraggiato a provare: tuttavia, quella sera in cui si ripresentò a casa,
dopo il colloquio, sentii un brivido lungo la schiena.
Edward era entrato in silenzio, bagnato fino al midollo, ma si era ricordato di
togliersi le scarpe sul pianerottolo: chiaro segno che era successo qualcosa di
inatteso, altrimenti avrebbe lasciato la solita strisciata umida fino in cucina.
Quando si era seduto a tavola e aveva cominciato a mangiare senza proferire
verbo, mi ritrovai a chiedermi se, per la prima volta, il mio intuito non avesse
fallito...
- Ed? - la voce di Thomas suonava ansiosa. La sua stessa figura, allungata verso
lo zio, trasmetteva preoccupazione: per la prima volta, mi aveva ricordato più
il padre che il suo irascibile congiunto.
- Mh? -
- Hai avuto il posto? - a volte, la sfacciataggine aiuta. La somiglianza con
Alphonse Elric era già scomparsa.
- Sì e no. - rispose Edward, evasivo.
Avrebbe probabilmente lasciato cadere la conversazione, se, alzando gli occhi,
non si fosse accorto che pendevamo dalle sue labbra: così, fingendo
indifferenza, prese un lungo sorso d'acqua per tenerci sulla corda, prima di
riprendere.
- Comunque, - disse, con noncuranza - ricordami di ringraziare tuo nonno. Ha
parlato talmente male di me alla vecchia cornacchia, che lei ha deciso di
assumermi come direttore per ripicca. Credo che quei due non si sopportino. -
Noi avevamo ignorato la parte finale del commento: i bambini avevano strillato
per la gioia, battendo le mani come forsennati.
Ed si era voltato verso di me, con aria sostenuta: stava cercando in ogni modo
di non ammettere che avevo sempre avuto ragione io.
- Se non vengo sbattuto in strada, tra un mese potrò pagarti l'affitto.
Soddisfatta? -
Non avevo risposto. Era inutile far notare a quell'individuo che il mio intuito
femminile era pressochè infallibile.
Mi riscossi, sorridendo al ricordo, e fermai Thomas, che stava già uscendo: si
stava per lanciare per la strada gelida senza neppure una sciarpa, così gli
prestai quella di mio padre.
Ti autorizzo ad usare la forza per staccarlo dai suoi alambicchi!
scrissi, a mo' di saluto.
* * *
- Ti dovevo parlare. - esordì Hedwig, non appena Martha fu sparita.
Mi alzai, per lasciarle la sedia: comunque, la mia amica si era già accomodata
su uno scomodo sgabello sotto la finestra, e non accennò ad alzarsi. Nonostante
la penombra dovuta al palazzo di fronte che copriva il sole, mi accorsi che
indossava un abito costoso, probabilmente fatto su misura, assolutamente
incongruo per quei tempi di magra. Si era acconciata i capelli all'ultima moda
e, con le spalle alla scarsa luce, i pochi difetti del suo viso erano
invisibili.
Mi chiesi se lo stesse facendo apposta, per far colpo su di me: in un primo
momento, il pensiero mi lusingò.
- Come ti trovi qui? - mi chiese gentilmente. - Sei più pallido dall'ultima
volta che ci siamo visti... non è che lavori troppo? -
- Sto bene, grazie. Sono stanco, ma sognavo un impiego simile da anni. -
- Direttore di un laboratorio come questo? - lei sembrò perplessa.
Mi accorsi della gaffe con una certa vergogna: dovevo sembrarle un egocentrico.
- Intendevo dire - mi difesi - che sognavo di trovarmi di nuovo nel mio
elemento... -
- Appunto. Tutto questo non è un po' poco? -
Rimasi in silenzio, sbalordito.
Poco?
- Insomma, sei l'uomo più intelligente che io conosca, e sai fare cose ignote
alla maggior parte delle persone. - continuò Hedwig, assolutamente ignara - Sei
sprecato per questo buco, l'ho detto anche a mia madre. -
- Credo che tu mi stia sopravvalutando... - risi, incrociando le braccia e
appoggiandomi al muro.
Lei piegò leggermente il capo, persa in meditazione: per alcuni istanti, mi
offrì la vista del suo profilo.
Bizzarro, pensai tra me. Sembra in posa. Winry non era così... così...
La parola attraversò la mia mente con incredibile naturalezza: artefatta.
Hedwig aveva la perfezione delle statue greche, ma, esattamente come queste,
sembrava essere priva di spontaneità. Ogni suo piccolo gesto era studiato nei
minimi particolari, per dare una sensazione generale di armonia e leggiadria.
Forse, dopotutto, non lo faceva affatto per me. Era semplicemente la sua natura,
quella di mostrarsi sempre perfetta, ineccepibile.
- Volevo offrirti un impiego. - si decise a rivelare - Non sapevo che fossi
venuto qui. -
- Un impiego? - ripetei meccanicamente.
Ero certo che lei non lavorasse: era una donna, e ricca per giunta.
- Già, qualcosa che di sicuro ti piacerebbe. -
- Hedwig, ho già accettato questo, ed è molto di più di quanto sperassi... - la
fermai.
- Oh, Edward, mia madre sa pensare solo ai quattrini che le girano per le
tasche: non le pareva vero di aver trovato una simile gallina dalle uova d'oro,
disposta per di più a farsi pagare una miseria... ti prego, ascoltami: se tu
accettassi, - si allungò verso di me, prendendomi le mani - potremmo racimolare
abbastanza soldi per pensare al matrimonio. -
Ebbi un sobbalzo: matrimonio?
Hedwig mi guardò, speranzosa: era una donna di quarant'anni, eppure sembrava una
ragazzina alla prima cotta. Mi chiesi nuovamente se non si fosse messa in
ghingheri per corteggiarmi: Winry avrebbe capito che non ne valeva la pena,
perchè non me ne sarei mai accorto, ma, in fondo, Hedwig mi conosceva da molto
meno tempo... sentii le guance riscaldarsi. Il numero di donne che hanno
civettato con me è più o meno uguale a quello delle fanciulle a cui io stesso ho
fatto la corte, e io non mi sentivo in grado di controllare la situazione.
- Di che si tratta? - mi arresi a chiedere, visto che sembrava tenerci così
tanto.
Le sue labbra si aprirono in un sorriso: lasciò andare le mie mani e si sedette
nuovamente composta sullo sgabello, appoggiandosi sulle ginocchia la borsa che
giaceva in terra, e a cui io non avevo fatto caso. Rovistò dentro, spostando le
cianfrusaglie che conteneva con impazienza.
Sposare Hedwig? Con il tenore di vita che era abituata a condurre, mi sarebbe
venuto a costare una fortuna...
Arrossii ancora di più: bei pensieri davvero. La donna che ami ti chiede di
sposarlo, e tu ti metti a fare i conti. Classico pensiero romantico di chi
medita di metter su famiglia, no?
- Scusa se ti faccio perdere tempo... - ridacchiò la mia amica, imbarazzata,
estraendo finalmente un vecchio quaderno dalla borsa - ho pensato tanto a questa
cosa, e ora non riesco a togliermela dalla testa. -
- Parli del lavoro? -
- No, sciocco! - mi guardò, con gli occhi che le brillavano e le guance
arrossate - Del fatto che forse... noi due... sarebbe magnifico, no? -
Abbassai lo sguardo sull'oggetto che mi tendeva, e non risposi. Non riuscivo a
condividere la sua felicità, e onestamente non ne capivo il motivo: forse,
perchè non mi ero mai posto davvero il problema di ufficializzare la mia unione
con lei. O, forse, era tutta colpa della signora Schneider. Da quando l'avevo
conosciuta, continuavo a fare paragoni imbarazzanti tra sua figlia e la mia
Winry.
E poi, magari mi sbagliavo. Il modo di fare di Hedwig poteva anche nascondere
insicurezza, ma io, continuando a pensare a Winry, mi ero convinto che non lo
gradivo...
Mi soffermai sui miei pensieri, come ora scorro le righe di ciò che ho scritto.
Winry, Winry, Winry... Non avevo chiuso la questione anni prima?
Scuotendo la testa per scacciare quella presenza dalla mia mente, mi concentrai
sulla copertina sbiadita del vecchio quaderno; qualcuno aveva scarabocchiato una
spada, o forse un pugnale, con l'elsa posta davanti ad un cerchio disegnato a
mano libera, con due diametri ortogonali tracciati a formare una "X": mi
ricordava qualcosa, ma non ebbi il tempo di pensarci, perchè, quando aprii su
una pagina a caso, fui salutato da qualcosa di molto più familiare.
Cerchi alchemici.
Brutti, alcuni palesemente sbagliati, ma inequivocabili.
Girai in fretta gli altri fogli, diviso tra il panico e lo sbalordimento. Cerchi
alchemici, poche scritte, altri cerchi alchemici. Forse era un incubo.
- Che significa? - chiesi infine, quando fui certo che la mia voce suonasse
sicura.
- Ho visto che quei disegni comparivano su quei lavori a casa tua, non ricordi?
- il sorriso le tremò, incerto - Credevo ti avrebbe fatto piacere lavorare su...
-
- Su questi? - esclamai. - Dove diamine mi avresti trovato impiego, in un
circolo esoterico? -
- Ti assicuro che si tratta di qualcosa di molto serio. -
La oltrepassai, fingendo di andare a guardare fuori dalla finestra. Avevo
bisogno di calmarmi, o le avrei risposto male.
- Hedwig, - ripresi, più educatamente - c'è stato un grosso malinteso. Non so
chi ti ha dato questa spazzatura, ma si tratta di scarabocchi senza senso! -
- Libero di pensare quello che vuoi. Ti faccio solo presente che il tuo salario
sarebbe più o meno il triplo di quello che percepiresti qui. -
Trasalii: non so se furono le sue parole o il suo tono acido a colpirmi come un
pugno. Voltai il quaderno che tenevo in mano, e ricordai dove avevo già visto
quel disegno sulla copertina.
- La Società di Thule... - rabbrividii.
Non di nuovo. Oh, no!
Ridacchiai, acido, prima di prendere un profondo respiro e stringere i pugni,
per controllare i nervi:
- Cos'hai a che fare con tutto ciò, Hedwig? -
- Sono entrata in possesso di quell'oggetto parecchi anni fa. Pensavo
t'interessasse, so che te ne occupasti già una volta, nel '23. -
- Sai cos'è successo ventidue anni fa? -
Lei non rispose, ma un leggero fruscio di stoffa mi fece capire che aveva
portato le braccia conserte al petto. Lo faceva sempre, quando era arrabbiata.
- Fai parte di quel gruppo di fanatici assassini? - le domandai, voltandomi
verso di lei - Cerchi anche tu la via per Shamballa? -
- Rifletti, Edward, tu sei l'unico che sappia far funzionare... -
- Rispondi, Hedwig! - ruggii, accecato dall'ira.
Mi scrutava con uno sguardo di ghiaccio, tremando di sdegno: per alcuni istanti,
pensai che stesse per colpirmi. Invece, si morse il labbro, mentre gli occhi le
si velavano di lacrime.
- Stavo cercando di aiutarti. L'ho fatto per noi. - sussurrò, abbozzando un
sorriso tremulo - Lo scopo di questo non ha importanza... se tu accettassi, ti
pagherebbero bene. Potremmo avere una casa nostra... -
- Certo, in tempo per farcela buttare giù da una bomba! - esclamai, sarcastico -
Se pensi che io mi venda ad una banda di farabutti solo per soldi, ti sbagli di
grosso! -
Hedwig emise un singhiozzo soffocato, prima di darmi le spalle e portarsi le
mani sul viso.
- Se non t'importa nulla di me, - gemette tra le dita - dillo subito! -
- Per te l'amore è una bella casa e un conto in banca pingue? - le domandai. -
Mi dispiace, non sono disposto a dimenticare i miei principi per te, nè per
nessun altro. -
Mi ribolliva il sangue solo a pensarci: possibile che mi fossi innamorato di una
persona capace di passar sopra a tutto per denaro?
O forse... no, impossibile. Non potevo aver fatto una cosa simile.
Riordinai tutti i pensieri che avevo avuto nell'ultima settimana, da quando
avevo conosciuto Ilse Schneider fino a pochi istanti prima: e la verità mi si
parò davanti in tutta la sua semplicità.
Era chiarissimo. Ed, razza di idiota, come hai fatto a non capirlo? Hai avuto la
risposta sotto gli occhi per tutti i sei anni in cui hai conosciuto Hedwig.
- Vattene, Hedwig. - le dissi, stancamente.
Lei tolse le mani dal viso, e mi guardò, incredula.
- Non... - balbettò - non mi ami più? -
- Temo di non averti mai considerata davvero per quello che sei. - risposi.
Molto diplomatico, ma decisamente riduttivo.
Poveretta, in fondo un po' era colpa mia: non l'avevo mai amata. Non ero
innamorato di Hedwig Steinglocke, ma dell'immagine che vedevo ogni volta che la
guardavo. La illudevo, e illudevo me stesso, cercando in lei un'altra persona.
La donna rimase in silenzio per alcuni secondi: poi, mi strappò bruscamente lo
stramaledetto quaderno di mano.
- Bene. - disse - Benissimo. -
In un attimo, l'aria persa e le lacrime avevano lasciato il posto ad una gelida
furia: il cambiamento mi sconcertò, e non reagii.
- Potevi rendere tutto molto semplice, Edward Elric. - disse, mentre il labbro
inferiore le tremava vistosamente - Ma, come al solito, hai dovuto fare di testa
tua. -
Raccolse la borsa e uscì, sbattendosi violentemente la porta alle spalle.
* * *
Era quasi l'ora del coprifuoco, e mio zio ancora non si vedeva.
Avevo tentato di entrare nel laboratorio, ma la porta era chiusa: tuttavia, la
bicicletta di Edward era ancora appoggiata al muro, così ero rimasto sul
marciapiede ad aspettarlo, tremando dal freddo.
Dopo dieci minuti buoni, mi sembrava di non sentirmi più i piedi: mi mossi un
po', affondando il mento nella sciarpa del signor Meyer, che pizzicava il viso
ma riscaldava, e mi distrassi osservando un'automobile parcheggiata sul lato
opposto della strada, il cui occupante sembrava parlare da solo, dato che
l'autista se ne stava immobile, con lo sguardo fisso davanti a sè. Fingendo
noncuranza, attraversai, per potermi avvicinare e osservarla meglio, pur
restando a distanza: era bella, lussuosa, nera, e aveva l'aria di essere appena
stata pulita da cima a fondo, anche se le ruote e il bordo inferiore della
carrozzeria erano già sporchi di fango. L'autista era un individuo anonimo,
senza nulla che attirasse l'attenzione, mentre il passeggero indossava
l'uniforme dell'esercito: bizzarro, visto che l'auto aveva targa civile.
In quel momento, la porta d'ingresso del laboratorio si spalancò, e ne uscì la
signorina Steinglocke: rimasi sorpreso, ma lei non sembrò notarmi. Stava per
voltare a destra, quando vide la vettura nera e, con passo deciso, si diresse
verso di essa.
Dato che non mi aveva riconosciuto, potei seguirla con lo sguardo mentre apriva
la portiera sulla strada, dal lato opposto a quello dietro cui ero io, e, senza
una parola o un'altra manifestazione di sorpresa per la persona che era a bordo,
si accomodò e fece un cenno stizzito all'autista, che si affrettò a mettere in
moto.
Che strane persone, pensai, guardandoli allontanarsi. Prima lavano la macchina
finchè questa non splende, poi vanno a passare nel fango. Forse le strade
dissestate, dopo le piogge dei giorni precedenti, si erano trasformate in
pantani... ma allora perchè perdere tempo a pulire l'auto, se questa si sarebbe
inevitabilmente sporcata di nuovo?
- Thomas! -
Mi girai, vedendo Edward appena fuori del laboratorio: gli corsi incontro,
cercando di riattivare la circolazione sanguigna nei piedi.
- Sei in ritardo. - gli dissi - Margarethe mi ha mandato... -
- Dov'è la mia bicicletta? -
Guardai il muro, dove avevo visto il mezzo scalcagnato solo pochi minuti prima.
Sparito.
- Ma era qui... - cominciai
- Infatti, eccola. - sentenziò lui, calmissimo, prima di dirigersi verso
sinistra: stavo per seguirlo, quando cominciò a correre verso un uomo che,
notai, si stava allontanando su una bicicletta straordinariamente simile al
rottame dello zio. In poche falcate, Ed gli fu a fianco e, senza una parola, gli
sferrò un pugno con la nuova protesi, facendolo rovinare al suolo.
- Possiamo andare. - mi disse, tornando verso di me trascinandosi dietro il suo
vecchio mezzo.
- Ho visto la signorina Steinglocke. - dichiarai, cercando di non mostrarmi
troppo sorpreso da quella tranquillità assoluta.
- Sì, è venuta a parlarmi... questo nuovo auto-mail è magnifico. Molto migliore
del precedente. - aggiunse soddisfatto Ed, stringendo le dita della protesi a
pugno.
- É successo qualcosa tra voi? - domandai, preoccupato.
- Sì, lei mi ha lasciato... o forse sono io che l'ho lasciata, non saprei dire.
-
Lo guardai, per capire se scherzasse. Era serissimo.
- Perchè? -
- Una lunga storia. -
Rimanemmo in silenzio fino a casa, anche se lo zio continuava a fischiettare.
Non l'avevo mai sentito fischiettare, ed era davvero fastidioso, così, quando
s'interruppe bruscamente, non pensai ad altro che al sollievo per le mie povere
orecchie.
- C'è Wilhelm Lindemann. -
La sua esclamazione improvvisa mi colse impreparato.
- Dove? -
- Di fronte a casa nostra. -
Il suo tono era perplesso, e a ragione: Wilhelm era irriconoscibile. Si agitava
scompostamente, gesticolando in direzione di Margarethe, ferma sulla soglia di
casa. Per sua fortuna, nella via non c'era nessun altro, o lo avrebbero preso
per pazzo.
- Che succede? - domandò Ed, mentre ci avvicinavamo.
Il ragazzo si voltò di scatto per guardarci: aveva il volto cereo, i capelli
spettinati e gli occhi fuori dalle orbite, con un'aria folle che mi spaventò.
Tra le mani tremanti teneva un foglio, che cercò di mettermi in mano,
borbottando qualche parola sconnessa, che non riuscii a cogliere. Il mio primo
pensiero fu che traffici dei Lindemann fossero stati scoperti dalla polizia.
- Che succede, Wilhelm? - ripetè lo zio, mentre Margarethe si stringeva nelle
spalle, perplessa quanto noi.
- Se solo non avessi accettato... - sussurrò finalmente il ragazzo, appoggiando
le spalle al muro di casa Meyer - se non fossi stato così codardo, tutto questo
non sarebbe successo. -
Quelle parole sembrarono riscuoterlo, perchè prese a singhiozzare rumorosamente:
Margarethe gli appoggiò una mano sul braccio, ma lui neppure se ne accorse.
Capito che era inutile insistere, Edward gli prese di mano il foglio
spiegazzato.
- É stata tutta colpa mia... - singhiozzò il diciottenne, senza fermare le
lacrime, ma passandosi istericamente le mani nei capelli - tutta colpa mia.-
Sentii la mano dello zio stringere la mia spalla fino a farmi male, mentre
leggeva: stava impallidendo a vista d'occhio.
- Cosa? Cos'è successo? - chiesi.
- Hanno... - gracchiò Wilhelm, a fatica - Hanno è morto. Pochi giorni fa, dalle
parti di Budapest. -
Indietreggiai, come se mi avesse tirato un pugno.
- No, - mi opposi testardamente - ho ricevuto una sua lettera... ho il suo
quaderno... Ed diglielo tu. Diglielo! -
Lui tacque, chiudendo gli occhi, come per non vedere ancora le parole impresse
su quel pezzo di carta.
- Ed, - sussurrai, tremando - diglielo... -
Non mi rispose.
Colpii violentemente la sua mano per liberarmi, e corsi in casa.
* * *
- É stata tutta colpa mia... - mormorava incessantemente Wilhelm - tutta colpa
mia. Se mi fossi arruolato... -
- Non essere sciocco, nessuno può decidere se essere arruolato o meno. - sbottai
- Vai a casa, non dovremmo più essere in strada. -
- Tutta colpa mia... - continuò meccanicamente il ragazzo - Se mi fossi
rifiutato di... -
- Non è stata colpa tua. - ripetei.
Lui mi lanciò un'occhiata folle, poi cominciò ad allontanarsi: camminava gobbo,
e continuava a scuotere la testa. Margarethe, di fianco a me, piangeva
silenziosamente.
- Vado da Thomas. - dichiarai, appallottolando la cartaccia che tenevo ancora in
mano.
Ero di nuovo sulla soglia della camera dei ragazzi, come quella prima sera di
gennaio, e mio nipote era di nuovo ficcato sotto le coperte, il lenzuolo fin
sopra la testa. Immobile, a parte i singhiozzi che lo scuotevano violentemente.
Lotte era in piedi in un angolo, lo sguardo su di me e una tale impassibilità in
volto che mi chiesi se avesse davvero capito: eppure, doveva aver seguito la
conversazione, perchè la finestra della camera dava sulla strada.
- Thomas... - lo chiamai, senza sapere come continuare.
- Lo sapevo. -
La voce giungeva attutita da sotto il lenzuolo, rauca per il troppo piangere:
tuttavia, non ebbi difficoltà a capire. Mi sedetti sul bordo del letto, in
silenzio.
- Sapevo che Hanno voleva arruolarsi. - la testa bionda riemerse - Mi aveva
lasciato il suo album, e mi aveva chiesto di non parlare a nessuno del suo
progetto. -
Si allungò per aprire un cassetto del comodino, e ne estrasse un quaderno dalla
copertina nera: mentre la sorella si avvicinava, lui si sedette alla mia
sinistra.
- Temeva che suo nonno lo bruciasse... mi ha chiesto di non guardare... -
Il tono di voce di Thomas era sempre più acuto; infatti, dopo alcuni attimi di
silenzio si voltò verso di me, tremando:
- Se solo te lo avessi detto... se solo avessi capito... -
- Non potevi sapere cosa sarebbe successo. Avevi promesso di non dire nulla, e
hai mantenuto... -
Inaspettatamente, Thomas mi affondò il viso sulla spalla, lanciando un gemito
più acuto degli altri e facendomi sobbalzare. Rimasi immobile mentre lui si
aggrappava alla mia manica, sentendomi completamente fuori posto: avrebbe dovuto
esserci Alphonse, lì. Al era suo padre, Al sarebbe stato in grado di far sapere
a quel ragazzino che faceva di tutto per essere adulto che a dodici anni non si
può esserlo, Al sarebbe riuscito a fargli capire che non aveva colpa per la
tragica fine di Hanno.
Appoggiai la mano sulla testa di Thomas, sentendomi goffo come un elefante.
- Avevi ragione tu, zio. Hai sempre avuto ragione tu. - sussurrò lui - Dovevo
darti retta mesi fa. -
Senza dubbio, avrei preferito che lo capisse in qualche altro modo.
Pensierino della
buonanotte: sapevo esattamente cosa doveva succedere in questo capitolo
prima ancora di iniziare a scriverlo, ma ho cambiato tutto almeno una mezza
dozzina di volte... il più grande pregio dello scrivere in prima persona è anche
il suo peggior difetto: riportare i pensieri di un personaggio mi permette di
descriverlo in modo molto più approfondito, ma mi costringe anche ad
un'attenzione ossessiva alla sua personalità, per evitare il più possibile l'OOC.
Bene, e ora rispondiamo a...
Ehi, un attimo, e le altre commentatrici abituali dove sono finite? Devo
smettere di scrivere per farvi commentare?
(Minaccia a vuoto: non riuscirete a farmi smettere di scrivere tanto facilmente)
Yolei: l'Isar è il fiume che
attraversa Monaco: se non erro c'era un qualche riferimento alle sue acque, ma
l'ho tolto perchè non mi sembrava da Ed mettersi a filosofeggiare su corsi
d'acqua e affini, specie quando aveva già molti altri pensieri per la testa.
Non mi sono mai chiesta come sia possibile che Hedwig e Ilse siano parenti, a
dire il vero: non che sia indispensabile tra madre e figlia, ma hanno molti
punti in comune, e una mentalità simile.
Siyah: sì, seguo anche il
manga... o meglio, lo seguivo, visto che al momento non si sa bene quando
uscirà. Comunque, hai fatto la migliore descrizione possibile di Ilse Schneider:
intelligente e perfida. Non è del tutto colpa sua, ma, senza voler anticipare
nulla, si può dire che sia lei che Hedwig siano diventate così per adattarsi
alla loro epoca e, in parte, per ribellarsi: negli anni Quaranta pochissime
donne lavoravano, e ancora meno potevano mettersi a capo di un progetto, per
quanto scalcagnato come il laboratorio.
Beh, l'auto-mail sarà anche andato distrutto, ma... Ed adesso ne ha uno anche
migliore, per sua stessa ammissione.
meby138: come già detto, i
tempi di aggiornamento lunghi sono dovuti alle continue correzioni. Per un
lettore potrebbe essere fastidioso (ma, ehi, se così fosse vuol dire che la ff
vi piace!), ma non riuscirei a pubblicare un capitolo che non mi soddisfi, così
come mi rifiuto di leggere quelle fanfic piene di errori e refusi che potrebbero
essere eliminati semplicemente rileggendo.
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Capitolo 6 *** La Mercedes nera ***
6
6. La
Mercedes nera.
L’appartamento dello zio era piuttosto ordinato, se
si escludeva la sua scrivania: dato che non ci entrava praticamente mai, non
aveva neppure occasione di rovinare il faticoso impegno settimanale di
Margarethe. Il piano di lavoro, invece, benchè abbandonato da quando Edward
passava buona parte delle giornate all’Istituto di Ricerca, sembrava sempre
essere stato colpito da una tromba d’aria.
Quella mattina, per la prima volta dalla sera in cui
avevo saputo della morte di Hanno, ero sceso dal letto col desiderio di fare
qualcosa: visto che non avevo nessuna occupazione al piano di sopra, ero andato
a vedere se riuscivo a mettere un po’ d’ordine nelle stanze sottostanti. Con
gran gioia di Margarethe, immagino.
Lotte, che mi aveva seguito, si era seduta sul
letto, ed era così interessata a qualcosa fuori dalla finestra da non badare
minimamente a me che, sbuffando, avevo cominciato a raccogliere i fogli sparsi e
a rimettere a posto gli oggetti di cancelleria. Non potei fare a meno di
sentirmi un po’ in colpa verso di lei: nei giorni precedenti l’avevo trattata
male ogni volta che provava a parlarmi, mentre ora desideravo ardentemente la
sua compagnia. La sola idea di rimanere solo mi terrorizzava, come se non avessi
passato gli ultimi giorni ricercando proprio quella condizione.
- Tu hai già notato la macchina nera col soldato
dentro? - mi chiese Lotte all’improvviso, sempre senza guardarmi.
- Quale macchina nera? - brontolai distrattamente,
prima di rendermi davvero conto di quel che mia sorella aveva detto - Come fai a
saperlo? Tu non c’eri quando sono andato al laboratorio! -
Lei si voltò, socchiudendo gli occhi.
- Io parlavo della macchina nera parcheggiata quasi
tutti i giorni all’inizio della strada. C’è un soldato dentro. -
Sbalordito, balzai alla finestra, cercando di vedere
l’angolo della via: ovviamente, non c’era nulla.
- La vedo alla sera, quando sono in cucina con
Margarethe e guardo dalla finestra. - mi spiegò la mia perspicace sorellina, con
una nota paziente nella voce che, in altre circostanze, mi avrebbe irritato
parecchio - Il soldato resta in macchina, e un altro uomo scende e svolta nel
vicolo laggiù. -
Misi i fogli in verticale e li battei sulla
scrivania per impilarli, ma continuavo a guardare fuori: il vicolo che Lotte
stava indicando era quello in cui abitavano e avevano la panetteria i Lindemann.
- Io ho visto una macchina nera, con un militare e
un autista, la sera in cui sono andato a cercare Edward al laboratorio... -
dissi, meditabondo - Ci era salita la signorina Steinglocke. -
- Io l’ho notata solo da pochi giorni: lei non
veniva già più a trovare lo zio. -
Davvero singolare, pensai, aprendo un cassetto per
riporre il lavoro di Ed.
- Una macchina che gira dopo il coprifuoco...
strano. - commentai, tirando fuori una cartellina per i
documenti. - Sarebbe... -
Mi interruppi, e allungai la mano verso quel che
aveva attirato la mia attenzione.
- Sarebbe cosa? -
Lotte mi si avvicinò, cercando di capire il motivo
della mia interruzione: spostando la cartellina di cuoio nel cassetto, avevo
rovesciato un sacchetto, da cui erano cadute delle monete.
- Lo zio... nasconde dei soldi? - mormorai,
sbalordito, inginocchiandomi per guardare meglio. Ne afferrai una per osservarla
più da vicino, ma era molto consumata: l’unica cosa che si riusciva a leggere
era parte della data di conio.
- C’è un 33. - rilevò infatti mia sorella.
- Il 1933, ovviamente. -
- Come fai a sapere che non è più vecchia, Thomas?
-
Feci una smorfia: a parte il fatto che Ed non mi
sembrava un appassionato di numismatica, quell’oggetto, pur rovinato, sembrava
avere molto meno di un secolo.
- Questa è più chiara. - dissi, prendendone
un’altra - Si legge anche la scritta intorno... un pochino, ma comunque non è un
Reichsmark... aspetta... -
Mi spostai per sfruttare i primi raggi del sole che
arrivavano nella stanza ancora piuttosto buia, costringendo Lotte a piegare il
collo.
- Repubblica di... non riesco a leggere, è
troppo consumato... A... Amequalcosa. -
Fulminea, una mano d’acciaio si abbatté sul mio
pugno, strappandomi di mano la moneta così violentemente da farmi male:
voltandomi, mi trovai davanti un Edward Elric bianco come uno straccio e
palesemente alterato. Dall’altezza in cui mi trovavo, anche lui riusciva ad
avere un aspetto imponente.
- Cosa state facendo? - gridò, fuori di sé.
Charlotte schizzò a nascondersi dietro la mia
schiena, lasciandomi implicitamente il compito di scusarmi. Cosa che non sono
mai stato capace di fare.
- Perché tieni soldi stranieri nel cassetto? -
domandai infatti, alzandomi per guadagnare centimetri - Non sai che è
pericoloso? -
- Non provare a farmi la predica, razza di
impiccione! -
- Sono americani! - esclamai, indicando le lettere
che eravamo riusciti a leggere. - Già ti accusano di essere una spia, cosa
succederebbe se qualcuno mostrasse queste alla polizia politica? -
Lui, se possibile, sbiancò ancora di più: per la
prima volta, ebbi davvero paura che mi schiaffeggiasse. Dalla porta comparve
Margarethe, spaventata dal baccano, ancora con la borsa in mano.
- Non sono americani. - ringhiò. - E adesso
filate in camera vostra! Subito! -
* * *
Mentre raccoglievo la moneta che Thomas aveva
lasciato cadere e la osservavo, Edward si sedette sul letto, chiudendo il
cassetto con un gesto brusco. Credo che si fosse trattenuto dal tirargli un calcio solo
perché c’ero io.
In condizioni normali, quello sarebbe stato l’ultimo
momento che avrei scelto per parlargli, ma non potevo farne a meno. Così,
appoggiai la borsa con cui ero appena rientrata dalle commissioni per terra, e
gli battei la mano sulla spalla per attirare la sua attenzione.
Lui non alzò gli occhi dalle mani, in cui lasciai
cadere il piccolo oggetto incriminato.
- Lo so. - disse - Stai per farmi notare che non
devo lasciare in giro oggetti potenzialmente pericolosi, e che se lo faccio non
devo lamentarmi se altri li trovano. -
Scossi la testa, anche se lui probabilmente non se
ne accorse. Aveva l’aria esausta, anche se era appena metà mattina.
- Comunque, non sono soldi americani. -
L’avevo intuito: non ci sarebbe stato scritto solo
America, ma United States of America.
Ed lanciò la moneta un paio di volte, afferrandola
al volo con la protesi: la sua stanchezza non aveva nulla di fisico, sospettai,
ma doveva provenire da un’angoscia interiore.
- ‘33... - mormorò, perso in qualche
meditazione.
Aggrottai le sopracciglia.
- Non sono americani. - ripeté, alzando il volto
per guardarmi - E sono assolutamente inutili, qui. -
Pronunciò la parola come se qui fosse un
luogo immensamente distante da quello da cui proveniva il piccolo oggetto di
metallo; lo stesso tono di voce, ricordai, che usava le pochissime volte in cui
parlava del posto da cui proveniva. Perché, ormai non avevo dubbi, quelli erano
i soldi del suo Paese, qualunque esso fosse.
Bizzarro: Edward viveva con me e mio padre da anni,
ma di lui sapevamo pochissimo e, sebbene fosse chiaro che non era tedesco, non
avevamo mai capito da dove venisse esattamente; anche quella moneta non sembrava
provenire da uno Stato di questo mondo.
Ammetto che non ero del tutto immune dalla
curiosità, ma in quel momento c’era qualcosa che mi preoccupava di più dei
segreti di Edward Elric:
Wilhelm vorrebbe parlarti., gli comunicai.
Non sembrò colpito dalla notizia:
- Parlare con me? - chiese ottusamente, con voce
atona. - Perché? -
Non potei rispondere, perché io stessa non sapevo
cosa fosse successo: Willi mi aveva trattenuta nel retro della panetteria,
parlando velocemente e continuando a guardarsi intorno.
- Devo vedere il signor Elric. - aveva
balbettato, come se avesse improvvisamente disimparato a parlare - Chiedigli
di venire subito, è importante. Molto importante. -
Edward non sembrò provare lo stesso interesse che
avevo provato io: si alzò come se fosse l’ultima cosa che desiderasse e aprì
distrattamente l’armadio per prendere soprabito e cappello.
Non poteva trattarsi solo dei bambini; aveva
commesso una grossa leggerezza, è vero, ma non era successo nulla di
irreparabile. Il motivo della sua espressione doveva essere un altro.
Difatti, prima di uscire, Ed si fermò sulla soglia.
Non si voltò verso di me e parlò a voce bassissima, ma capii ugualmente ogni
sillaba:
- Mio fratello è sulla lista dei dispersi. Non
dirlo ai ragazzi. -
* * *
In effetti, non ho idea del perché ne parlai con
Margarethe: avevo deciso di tenere la cosa per me, ed evitare di spaventare gli
altri - i miei nipoti soprattutto -, ma, forse, la verità è che volevo
condividere con qualcuno quel peso. La notizia della sparizione di mio fratello
mi aveva riempito di un’ansia molto maggiore di quella che avevo provato quando
lo avevo visto partire per il fronte.
Disperso, continuavo a ripetermi mentre
camminavo, accorgendomi appena della gente che cominciava ad uscire per strada.
Cioè scomparso, sparito, forse... forse morto...
strinsi i pugni e tentai di allontanare quel pensiero.
Quel giorno non sarei andato a lavorare, decisi: non
avevo la minima voglia di vedere quel laboratorio in cui aveva lavorato lui
per così tanti anni...
... ma no, non potevo starmene a casa. Oltre ad
essere sospetto per i ragazzi, sarebbe stato il modo più veloce per impazzire.
L’unica cosa che desideravo fare era correre a
cercare Al: ed era anche l’unica cosa che non potevo fare, naturalmente. La
sensazione di impotenza mi stava soffocando. Mi ritrovai a pensare, senza sapere
bene come, che forse anche il mio fratellino si era sentito così, più di
vent’anni prima, quando ero finito in questo mondo e l’avevo lasciato solo.
Appena svoltato l’angolo, vidi la fila di persone in
coda per il pane, e mi resi immediatamente conto che, se Wilhelm era dietro il
bancone, parlare con lui non sarebbe stato poi così facile.
Per fortuna, anche il ragazzo doveva averlo messo in
conto, perché distinsi a fatica la sua capigliatura riccia dalla parte opposta
della via, oltre le teste dei clienti; ignorando le proteste, oltrepassai la
fila e mi avvicinai a lui.
- Non potevi metterti in qualche posto in cui fosse
più facile vederti? - brontolai.
- Mi scusi, di solito lì va bene quando aspetto mia
madre... Non avevo calcolato che lei è più bas... -
- CHI SAREBBE IL NANETTO CHE... -
vedendolo impallidire, lanciando occhiate terrorizzate a coloro che si erano
voltati nella nostra direzione, smisi di urlare e mi costrinsi alla calma.
- Preferirei parlarle in un posto tranquillo. -
pigolò lui - Potremmo andare a casa mia? -
- Mio nonno non c’è. - m’informò, chiudendo la
porta d’ingresso alle nostre spalle.
- Lo immaginavo. - risposi, guardandomi intorno.
Wilhelm mi aveva condotto nella cantina in cui,
l’ultima volta, non avevo avuto il permesso di entrare; ora che la vedevo, non
potevo fare a meno di notare che era leggermente più piccola di quella dei
Meyer, e con un diverso genere di caos: al posto dei libri e delle cianfrusaglie
degli ex-antiquari, c’erano parecchi sacchi e qualche cassa di legno, su cui il
ragazzo mi invitò a sedermi. Rifiutai, perché non volevo ricevere i soliti
rimproveri di Margarethe per aver sporcato i pantaloni.
- Spero di non averla spaventata, signor Elric, ma
potrebbe essere una questione di vita o di morte. -
- Non mi spavento molto facilmente. - ribattei,
guardandolo percorrere a grandi passi la cantina.
- Quello che le sto per confessare la farà
sicuramente infuriare, ma la mia coscienza me lo impone. -
Accidenti, pensai. Questo ragazzo ha letto troppi
romanzi.
- Sono tutto orecchi. -
Si fermò, poco prima che mi venisse il mal di mare,
e prese un profondo respiro.
- Poche settimane fa non ho passato la visita di
leva, e questo ha spinto... - si interruppe per alcuni istanti, le labbra che
tremavano - ha spinto mio fratello Hanno ad arruolarsi. -
- Sai benissimo che non è stata colpa tua per
quello che è successo. - ripetei per l’ennesima volta, cercando di suonare
pacato. Non sentivo davvero il desiderio di parlare dei fratelli di nessuno,
sapendo... o meglio, non sapendo quel che era successo al mio.
- Herr Elric, lei non può non essersi
accorto che dall’inizio dell’anno sono stati richiamati al fronte persino i
vecchi che combatterono nella Grande Guerra e i quindicenni della Gioventù
Hitleriana. - ribatté, e la sua voce per la prima volta suonò acida - Crede
davvero che mi avrebbero riformato per una sciocchezza come i polmoni deboli? -
La logicità di quell’affermazione mi lasciò di
sasso.
Rimasi a bocca aperta, e fu come vedere Wilhelm
Lindemann per la prima volta: il ragazzo mi stava di fronte a gambe larghe, con
i pugni stretti e uno sguardo duro che non gli avevo mai visto. Era incredibile
pensare che quello fosse lo stesso giovanotto riservato che avevo conosciuto.
- Signor Elric, - riprese, parlando velocemente, -
quel giorno mi fu promesso che non sarei andato in guerra se avessi fatto un
favore a certa gente. Dovevo tenere d’occhio i suoi movimenti, e riferirli. -
Credevo che quel giorno niente potesse distrarmi dal
pensiero di Al.
Era evidente che mi sbagliavo.
Per parecchi istanti, riuscii solo a guardare il
ragazzo, senza capacitarmi appieno di quel che mi aveva detto; Wilhelm, d’altro
canto, aveva perso tutta la sua sicurezza, tornando ad essere il giovane timido
dagli occhi spaventati.
Quando compresi esattamente la gravità della sua
confessione, mi invase una rabbia tale da annebbiarmi la mente: scattai in
avanti, afferrando Willi per il colletto e scuotendolo con tanta violenza da
fargli battere i denti.
- Chi? - gridai - Chi è questa gente? Come
comunichi con loro? Parla! -
- Non lo so! - piagnucolò terrorizzato - Era un
militare... un ufficiale, credo. Alcune sere viene qui con un’auto nera... una
Mercedes... signor Elric, la smetta, la prego! -
Lo lasciai andare.
- Un ufficiale viene qui, senza che nessuno lo
noti? - obiettai.
- Parcheggiano la macchina all’inizio della strada,
ed è l’autista a scendere. - ansimò Wilhelm, arretrando di alcuni passi. - Vuole
sapere se lei va da qualche parte, se vede qualcuno... mi aveva chiesto di
scoprire qualcosa sulle sue ricerche, ma per quello non ho potuto dire nulla. -
Mi lasciai cadere su una cassa, passandomi le mani
tra i capelli.
Ormai era chiaro: qualcuno mi aveva tenuto
d’occhio attraverso Wilhelm Lindemann. Poi aveva contattato Hedwig, per tentare
di arrivare direttamente a me, oppure perché la sorveglianza del figlio del
panettiere era insufficiente, impossibile stabilirlo. Dunque, doveva almeno
essere a conoscenza delle mie frequentazioni, e avere un’idea ben chiara di come
servirsene a proprio vantaggio.
Per ventidue anni non ne avevo sentito parlare, ma
sarebbe stato ingenuo pensare che la Società di Thule fosse sparita nel nulla.
- Herr Elric... -
- Grazie. -
Quando alzai gli occhi, il volto di Wilhelm
esprimeva sorpresa allo stato puro.
- Non dev’essere stato facile dirmelo. -
Una parte di me desiderava ancora strozzarlo, ma
sarebbe stato crudele recriminare.
Il figlio del panettiere parlò senza avvicinarsi:
- La mia vigliaccheria ha già condannato a morte
mio fratello. -
- Non potevi sapere cosa avrebbe fatto. - replicai,
alzandomi in piedi. Non avevo smesso di pensare al modo in cui il misterioso
ufficiale potesse sapere di me: era uno degli appartenenti alla Società di Thule
che avevo incontrato nel ’23 o un nuovo membro? E in quest’ultimo caso, come
aveva saputo di me?
- Wilhelm, ti hanno mai chiesto qualcosa in
particolare su di me, o volevano solo conoscere le mie abitudini? - tentai,
senza troppa speranza.
- Insistevano per sapere delle sue ricerche,
all’inizio. Però mi hanno anche chiesto se l’ho mai vista fare qualcosa di... -
si interruppe, indeciso sulla parola da usare - insolito. -
- “Insolito” in che senso? -
- Beh... - il ragazzo arrossì - anche a me sembrava
assurdo, ma mi hanno chiesto se ho mai avuto l’impressione che lei sapesse fare
qualcosa di... innaturale. -
Davanti a quell’affermazione, non potei trattenermi:
scoppiai a ridere, incurante della sorpresa del mio interlocutore.
Incredibile, pensai. Quegli idioti stanno dando la
caccia a Mago Merlino!
- Mi hanno anche chiesto delle sue protesi. -
Smisi all’istante di sghignazzare.
Hedwig le aveva viste, è vero. Ma qualcuno più
esperto in medicina aveva avuto l’opportunità di esaminarle più da vicino.
Un ufficiale dell’esercito, guarda caso.
- Wilhelm, un’ultima cosa: - ribattei - è possibile
che l’ufficiale della Mercedes nera fosse lo stesso che ti ha fatto la visita di
leva? -
Lui socchiuse gli occhi, meditando:
- Non posso esserne sicuro. - ammise - Il soldato
sulla macchina non l’ho visto bene: ho notato l’uniforme verde, e vagamente le
mostrine. -
- Il medico era un maggiore alto più o meno come
me, con i baffi biondi?- domandai a bruciapelo.
- Un tenente colonnello, ma in effetti aveva i
baffi. Non conosco il suo nome. -
Sospirai. In cinque anni, poteva essere salito di
grado.
* * *
Ed entrò in casa come una furia, ma per una volta
non ce l’aveva con me. Senza una parola, aprì la stufa e vi gettò dentro tutti i
fogli che avevo tolto dalla sua scrivania al piano di sotto.
Li guardò bruciare con aria imperscrutabile, mentre
io, Lotte e Margarethe eravamo rimasti immobili, troppo sorpresi per fermarlo.
Dopo alcuni interminabili minuti, si alzò:
- Vado a lavorare. - annunciò, come se nulla fosse.
Era ufficiale. Edward era completamente uscito di
senno.
* * *
La Mercedes nera era di nuovo parcheggiata del
cortile della grande casa a due piani in cui ci trovavamo: riuscivo a
distinguere le tracce lasciate dalle ruote sulla ghiaia anche dalla finestra da
cui stavo guardando, su nella soffitta.
- Capitano? -
Non distolsi lo sguardo dalla finestra: oltre il
giardino e i cancelli in ferro battuto della villa, si stendeva la campagna
bavarese, con le sue stradine bianche, le casupole solitarie e i colori ancora
invernali, anche se un timido sole che sbucava a fatica dalla cappa di nuvole
grigie bastava a rallegrarmi come un bambino.
Non mi trovavo più sul Reno, e questa era già
un’ottima notizia.
- Capitano? -
Alla fine, mi voltai verso l’uomo che tentava di
attirare la mia attenzione, accettando il piatto di minestra fumante che mi
offriva:
- Avrebbe dovuto restare ancora a letto. - brontolò
non appena fu certo che lo stavo ascoltando
- Letto? - sorrisi, lanciando un’occhiata
divertita al vecchio materasso buttato per terra, su cui era distesa una coperta
militare. - Grazie, Ernst, ma preferisco stare in piedi. Ormai sono guarito, e
non ho più la febbre. -
- Almeno non sforzi il braccio... Vuole unirsi a
noi per il pranzo? -
Guardai alle spalle del gigante biondo, dove altri
due soldati semplici divoravano avidamente la stessa zuppa. Ad un altro
ufficiale e in condizioni normali non lo avrebbe mai proposto, ma la nostra
situazione era tutto tranne che normale.
- Arrivo subito. -
- Dovrebbe sbrigarsi a mangiare, perché fredda fa
schifo. - brontolò ruvidamente il mio commilitone, con un fare paterno che mi
divertì - Cosa c’è di così interessante là fuori? -
- Tra poco sarà primavera. - risposi semplicemente.
- Pensavo guardasse l’auto del colonnello Holze. -
Pensierino della buonanotte: per non
farvi sentire troppo la mancanza di Hedwig (eh, come no!), in questo capitolo si
rimescolano ancora le carte, e salta fuori anche uno scheletro nell’armadio di
Ed che già si intuiva quando abbiamo visto comparire un auto-mail che non
avrebbe dovuto esserci...
Ormai ci si deve rassegnare: la pace in casa Elric
(se “pace” si può chiamare...) è finita.
Selfish: visto? Tutti odiate
Hedwig, ma non potete fare a meno di speculare su di lei! Oh oh oh, non sapete
quanto ne sia felice... come donna è impossibile, ma come personaggio mi dà
tantissime soddisfazioni. Per ora non è chiaro se amasse Ed o no, perché non
sappiamo bene chi abbia mollato chi: aspetta e continua a leggere, tutto si
spiegherà tra poco.
Sono contenta di averti fatto rivalutare Winry
(caspita, ma quanto è diventata carina nel film? Va bene che anche Ed è stato
migliorato -cosa che non credevo possibile, ehm ehm ehm-, ma lei è si è davvero
fatta una gran bella ragazza!), ma temo di non poterti aiutare per quanto
riguarda Edward e le sue... ehm... attività in campo riproduttivo: la mia
fantasia non si è allontanata troppo dalla trama, quindi non ho idea
dell’esperienza in campo amoroso del Fullmetal Alchemist al di fuori di questa.
Dunque, sei libera di immaginare gli anni tra il 1923 e il 1945 come più ti
aggradano... ma non esagerare, o Ed mi scappa nel magazzino e devo perdere ore a
snidarlo!
Per il Portale, io dal film avevo inteso che Ed, Al
e Roy avessero cancellato i cerchi alchemici, ma che il Portale non si possa
distruggere, visto che, come diceva Hohenheim, ognuno ha un Portale dentro di
sé. Il problema sarà stato per gli Elric scrostare il soffitto della villa della
Società di Thule senza alchimia...
Yolei87: Ed mi fa sapere che la
Schneider sarà simpatica a te, ma lui ritiene che l’aggettivo
cornacchia sia fin troppo gentile per un’arpia simile.
Piuttosto, non ho capito la parte del commento
relativo a Hanno: cioè, doveva morire il panettiere? E come lo giustificavo ai
fini della trama? E, soprattutto, a cosa sarebbe servito? Non credo che la morte
di Johann Lindemann possa scuotere la coscienza di Thomas, a meno che il bambino
non creda che la folgore divina abbia colpito il vecchio... cosa piuttosto
improbabile.
KuRoNeKoChAn: Hedwig non ha
esattamente “venduto” Ed: per quel che lui può supporre, deve aver parlato delle
sue conoscenze a qualcuno della Società di Thule, credendo che l’amico/fidanzato
sarebbe stato felice di poter guadagnare qualche soldo in più. Hedwig è una
donna molto materiale, il suo concetto di felicità include una vita comoda e
sicura, con tutti i piccoli lussi a cui è abituata.
Siyah: no, non mi sei sembrata
critica, anzi, la tua curiosità mi ha fatto enormemente piacere: solo che, per
rispondere esaurientemente al tuo commento, dovrei raccontarti più o meno mezza
fanfiction a venire. Perciò scusa, ma dovrai aspettare: ci sono molti eventi che
ancora non conosci, o che puoi appena intuire. L’unica cosa che posso spiegarti,
è la più banale: Ed porta ancora la coda perché mi sono accorta che, se avessi
detto che si era tagliato i capelli, io stessa non riuscivo a figurarmelo,
quindi probabilmente non ci sarebbe riuscito neppure chi legge. Ho dovuto
piegarmi ad una delle tante forzature dell’anime (la Società di Thule, per
esempio, non avrebbe mai tentato di uscire alla luce del sole, proprio perché
era una società segreta: inoltre, non accettava donne). Se ci pensi, quando
comparvero i “capelloni”, gli hippies, tra gli anni Sessanta e Settanta, erano
considerati delinquenti solo per i capelli lunghi: quindi, figurati che effetto
potevano fare degli uomini come Hohenheim ed Edward stesso, nella Germania degli
anni Venti o, ancora peggio, Quaranta!
Per il comportamento di Ed, ho tentato di seguire il
più possibile l’anime, con qualche licenza: il suo idealismo, il non voler
scendere a compromessi, sono insieme il suo tratto migliore e peggiore.
Ovviamente, questo non rende la vita facile nella Germania nazista. Per
l’adattamento pari a zero, oltre a tutto ciò che non posso dirti, conta che
Edward non avrebbe voluto tornare nel nostro mondo: lo ha fatto perché riteneva
suo dovere farlo, ma ventidue anni di ripensamenti non lo hanno proprio aiutato
a rinforzare la sua decisione. Soprattutto contando che nel frattempo ha
scoperto che la supposta “amicizia” con Winry non era proprio una semplice
amicizia. Al, invece, è venuto da questa parte del Portale perché ha deciso di
farlo, per seguire il fratellone; probabilmente aveva molti meno rimpianti di
lui, e crescendo è riuscito a sposarsi con una donna che amava sinceramente, e a
crearsi un futuro indipendente da Amestris e dai suoi abitanti, slegandosi anche
parecchio dal fratello maggiore; immagino gli manchi il suo mondo, ma riesce a
non pensarci (e con Thomas come figlio, non è difficile...).
Edward ha tentato di lavorare, ma è stato buttato in
strada e umiliato nella cosa che sa fare meglio. Ha tentato di costruirsi una
famiglia, ma si è trovato ad inseguire una chimera, la copia della donna che
davvero amava. Forse è stato anche sfortunato, ma senza dubbio è quello che ha
perso di più abbandonando il suo mondo.
A proposito, il litigio tra Ed e Hedwig è stato un
incontro tra tutti i loro peggiori difetti: lei è frivola e venale, lui
impulsivo e testardo. E ingenuo: decisamente non aveva capito che quella che lui
considerava un’amicizia un po’ più intima del normale era vista dalla
controparte femminile come qualcosa di molto più serio.
Kogarashi: grazie, davvero troppo
gentile. Scrivo perché mi diverte e mi rilassa, e sono felice che la mia fanfic
piaccia anche ad altri, nonostante non segua i topoi delle ff della
sezione di Fullmetal Alchemist.
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Capitolo 7 *** L'Evocatore di Spettri ***
Nuova pagina 2
Rivedendo il film, sono stata colta da un dubbio: ma
Dietlinde Eckhart sa sparare? Passi Ed, che era piuttosto distante, ma Haushofer
era a tre centimetri da lei, ed è riuscita a malapena a sfiorarlo!
Va beh, teliamo...
7. L’Evocatore di Spettri
Entrando nel laboratorio... pardon, nell’Istituto di
Ricerca Schneider, avevo già deciso di buttarmi nel lavoro con più foga del
solito, per cercare di non pensare alla sorte di Al: ci riuscii solo in parte,
tuttavia, perché il pensiero del mio fratellino si intrecciava indissolubilmente
alle paure che mi perseguitavano.
Se qualcuno mi spiava, i miei nipoti e Margarethe
erano in pericolo: e controllare una reazione chimica non avrebbe potuto farmelo
dimenticare, anche se mi stavo imponendo si restare concentrato.
- Signorina Berger, potrebbe passarmi la beuta
con... - me la stava già tendendo - oh, grazie! -
In fondo, dovevo essere soddisfatto: il laboratorio
funzionava bene, nonostante tutti i suoi problemi, e sebbene i dipendenti
fossero in gran parte alla prima esperienza erano seri e coscienziosi. I pochi
che speravano di portarsi a casa lo stipendio a ufo - tutti già in carica quando
avevo lavorato la prima volta lì, più di dieci anni prima - o erano stati
buttati in strada dalla proprietaria, oppure ridotti a più miti consigli dalle
mie sfuriate.
Riponendo la vetreria, mi accorsi finalmente che
qualcosa non quadrava: parecchie persone mi fissavano con insistenza, mentre
fräulein Berger, sempre così calma, aveva tentato più volte di attirare la
mia attenzione tossicchiando con discrezione, e ora saltellava nervosamente da
un piede all’altro da parecchi minuti, lanciando occhiate di sottecchi alla
porta alle mie spalle.
Solo una presenza profondamente malvagia avrebbe
potuto gettare un simile scompiglio nella stanza, ed era proprio una delle
persone che non avevo assolutamente voglia di vedere; per questo, mi voltai il
più lentamente possibile.
E i miei peggiori timori si avverarono.
Ilse Schneider era lì.
- Lei, signor Elric, non ha ancora capito che le
donne amano far aspettare gli uomini, ma non il contrario? -
La vecchia strega si sedette di fronte alla
scrivania del direttore, ricordandomi che teoricamente l’altra sedia era la mia:
stando raramente in ufficio, tendevo a non rendermi conto che là dentro
comandavo io, finché qualche ragazzo (o, più facilmente, ragazza... per una
semplice questione di numeri) appena uscito dall’Università non si rivolgeva a
me chiamandomi “signor direttore”.
Mi posizionai cercando di non apparire nervoso, e
appoggiai le mani sulla scrivania.
- Il mese di prova non è ancora passato. - le feci
notare.
- Lo so, lo so, ma avevo voglia di fare quattro
passi in città. - rispose amabilmente lei.
- E ha deciso di venire a controllarci senza
preavviso? Sono onorato. -
(La solita signora alle mie spalle ha borbottato
qualcosa sul mio atteggiamento con le donne.)
- Io non do mai preavviso, Herr Elric.
Sarebbe sciocco. - il suo irritante sorrisetto ironico le illuminò il viso
scarno - Sa, per i primi dieci minuti mi sono chiesta se lei non stesse solo
fingendo di non avermi vista: poi, quando i suoi dipendenti hanno cominciato ad
avere attacchi di panico, ho capito che faceva sul serio. -
Ricambiai il sorriso sardonico, ma quella volta non
avevo intenzione di subire le sue punzecchiature.
- Signora Schneider, c’è una cosa che mi
incuriosisce: - iniziai, in tono allegro, fingendo di togliere della polvere dal
polsino - Qui ci sono parecchi uomini che avrebbero l’età giusta per essere
arruolati... -
- Cioè tra i dieci e i novant’anni. - commentò lei,
ma la sua espressione si era irrigidita, e il tono era acido.
- Come mai non hanno già sostituito il camice con
la divisa? - terminai.
Accusò il colpo, dal modo in cui i suoi occhi si
dilatarono, ma dopo alcuni istanti si costrinse a ridere:
- Crede che faccia comunella con qualche alto
papavero? - ribatté - Non offenda la sua intelligenza con simili sciocchezze,
direttore. Non sono abbastanza carina per loro. -
- In questo laboratorio non si fa nulla di utile né
alla guerra, né al Partito. Con tutte le industrie chimiche che ci sono, perché
degli uomini sarebbero lasciati a lavorare a qualcosa di così poco produttivo? -
- Nulla di utile? - replicò lei, seria - Sono
giorni che estraete dai chiodi di garofano (che, vorrei sottolineare, sono ormai
introvabili) l’eugenolo che sarà mandato alle industrie farmaceutiche: i nostri
eroici soldati al fronte non avranno più problemi di mal di denti! -
Sobbalzai, non per il sarcasmo implicito, ma per
l’accenno ai soldati al fronte: tuttavia, almeno per quella volta, Frau
Schneider non era consapevole dell’effetto delle sue parole su di me.
- E se chiederà in giro, - continuava - scoprirà
che non c’è nulla di sospetto nella presenza di così tanti uomini: sono davvero
pochi, rispetto a prima della guerra. -
Meditai su quelle parole. Poteva anche essere
vero... dopotutto, doveva esserci ancora qualcuno nelle industrie della città, e
non poteva trattarsi solo di donne.
- Non tollererei supporti di nessun tipo; voglio
essere io a dirigere questo posto, senza aiuti esterni. - concluse lei.
Qualcosa nel suo tono cambiò: era diventato più
secco, più autoritario. Non ebbi bisogno di molto intuito per capire che avevo
toccato un nervo scoperto:
- Per dimostrare a tutti di esserne in grado? -
compresi all’improvviso.
- Molto egoistico, vero? - la Schneider si passò
una mano tra i capelli, e di colpo sembrò più vecchia - Ereditai questo marciume
dal mio defunto fratello, l’anno scorso, senza troppo entusiasmo: un’attività in
perdita, un campo di cui sapevo ben poco... poi, per fortuna, ho conosciuto
Karl. -
- Heinrich? - domandai, sorpreso. - Non mi sembra
il tipo che possa risvegliare l’amore per la scienza in chicchessia. -
- Infatti. Proprio per questo mi sono chiesta come
fosse possibile che un simile omiciattolo potesse essere arrivato così in alto.
-
- E così ha deciso di prendere in mano la
situazione, per mostrare che anche una donna era in grado di farcela. -
completai.
- Di farcela? - abbaiò lei, muovendo
bruscamente la mano, come se intendesse colpire l’aria - Volevo far vedere al
mondo che io, una donna!, potevo essere migliore! Che potevo non solo
mandare avanti questa stamberga, ma migliorarla! -
Trasalii come se mi avesse schiaffeggiato: avevo già
intuito che Ilse Schneider non era una persona qualsiasi, ma non avrei mai
immaginato una simile ambizione! Forse ero stato cieco anch’io: non mi ero mai
reso conto delle restrizioni a cui erano sottoposte le donne di questo mondo, o
meglio, non vi avevo mai badato davvero.
Dovevo avere un’espressione piuttosto frastornata,
perché la mia interlocutrice mi lanciò un’occhiata truce:
- Mi risparmi quello sguardo, signor Elric. -
brontolò, e improvvisamente la gelida valchiria tornò ad essere la donnetta
acida di sempre - Se lei è immune da sentimenti così bassi, tanto meglio. -
- Non lo sa ancora? - chiesi, sfoderando il mio
ghigno migliore - Immaginavo avesse una lista aggiornata dei miei difetti, ora
che può tenermi d’occhio personalmente, senza telefonate di Heinrich. -
La Schneider si raddrizzò leggermente, mentre l’aria
ironica tornava ad aleggiarle sul volto visibilmente più rilassato: come sua
figlia, passava dall’ira alla calma in un tempo sorprendentemente breve. O vi si
costringeva.
- Decisamente, Herr Elric, lei difetta di
ottimismo. Non sono qui per licenziarla. -
Mentalmente, sospirai di sollievo, mentre la
guardavo frugare in borsa con la stessa espressione concentrata che avevo visto
sul viso di Hedwig. Lei, però, estrasse una busta piuttosto malconcia.
- Un anticipo sullo stipendio. Ho lasciato quelli
per i dipendenti a Martha, ma a lei lo consegno personalmente... solo perché
voglio godermi la sua faccia, ovviamente. -
- Grazie. -
- Non questa espressione sarcastica... -
- Non pretenderà che mi metta a contarli qui. -
replicai - Sarebbe da persone rozze! -
Imbarazzanti manifestazioni di giubilo giunsero da
oltre la porta: Martha doveva aver distribuito le paghe, perché tornò il
silenzio solo dopo che qualcuno sibilò “Sssssst!”, probabilmente
indicando il mio ufficio. Arrossii mio malgrado, ma cercai di mantenermi
impassibile mentre riponevo il mio stipendio, sotto lo sguardo falsamente neutro
del grande capo, che si era alzata e faceva cenno di volersi congedare; mi alzai
in piedi anch’io e le aprii la porta.
(Conosco le buone maniere, cosa credete?)
- Ora che mi sono risollevata lo spirito, credo
andrò a comprarmi un paio di scarpe. - dichiarò allegramente - Con le
mostruosità che girano in questo periodo, non c’è dubbio che mi rovinerò il
pomeriggio. -
Beata lei che può permettersi delle calzature nuove
o seminuove, pensai tra me, lanciando un’occhiata depressa alle mie, consumate e
scolorite.
* * *
La soffitta in cui io e i miei commilitoni eravamo
stati sistemati apparteneva ad una vecchia casa di campagna a due piani quasi
disabitata, in cui ogni rumore veniva amplificato fino ad ottenere un effetto
inquietante. Il tetto spiovente rendeva impossibile stare in posizione eretta
vicino alle pareti, dove, in ogni caso, erano stati ammassati gli oggetti più
disparati, probabilmente per liberare delle camere ai piani inferiori. Peccato,
però, che nessuno si fosse sognato di fornirci un letto: avevamo a disposizione
un solo vecchio materasso, e soltanto perché quei tre furfanti lo avevano
richiesto per me, approfittando del fatto che stavo troppo male per ribellarmi.
Dal momento che non avevo più la febbre, comunque, mi sentii libero di alzarmi,
venendo così a trovarmi di fronte a uno dei miei compagni sprofondato in un
divano dall’aria antica, gli stivali logori sul poggiapiedi coordinato,
sprofondato nella lettura.
- Sempre a studiare, eh Klaus? - scherzai.
Il ventiduenne sobbalzò, accorgendosi in quel
momento della mia presenza, e sarebbe scattato in piedi se non glielo avessi
impedito con un cenno.
- Sì, signore. - rispose, arrossendo fino alla
punta dei capelli biondi perennemente ritti sulla fronte - Spero di poter
riprendere l’Università, appena finita la guerra. -
- Che facoltà? - mi informai, sedendomi di fianco a
lui.
- Filosofia, signore. -
- Ah, almeno avremo un vero filosofo nel
gruppo. -
Neppure lo avessi evocato, il diretto interessato
irruppe nella stanza.
Ernst Feuerbach, detto “il Filosofo” per la sua
omonimia con Ludwig Feuerbach: operaio della Bassa Sassonia, il più anziano
della nostra scalcagnata squadra (seppure più vecchio di me di soli sei anni);
un gigante di quasi due metri con i capelli a spazzola e gli occhi scuri, di
fianco al quale Andreas Neubauer, il soldato entrato con lui, spariva quasi
completamente, nonostante la capigliatura tendente al rosso.
- Parli del lupo... - mormorai.
- Portiamo notizie! - esclamò Andreas - Se sono
buone o cattive, non ne ho idea: stasera ci muoviamo. -
- Perché? - Klaus si arrese a chiudere il libro - E
dove andiamo? -
- Non lo sappiamo. - ammise lui - Ma credo non lo
sappia neppure il colonnello Holze: ormai comanda... - e qui la voce prese
un’intonazione sarcastica - “Il Presidente”. -
- Siamo in buone mani... - replicò Klaus, gelido.
Mi alzai, più che altro perché il divano era
estremamente scomodo, e andai a versarmi da bere: manco a dirlo, la birra,
seppure di pessima qualità, era quasi finita. Sospirando, ripiegai sull’acqua.
- Però abbiamo un nome. - interloquì Ernst, cupo -
C’è un uomo che, tra loro, chiamano “lo Stregone”, o l’Evocatore di Spettri. Il
suo vero nome è Edward Elric. -
Trasalii, rischiando di rovesciare la bottiglia,
mentre un’esclamazione soffocata alle mie spalle seguì quel nome: riconobbi la
voce del giovane Klaus.
- Possibile? E perché mio... il colonnello Holze
non me l’ha detto? -
- Figurati che non voleva dir niente neppure a noi.
- gli rispose Andreas stringendosi nelle spalle.
- Capitano, lei...? -
- No, Klaus, ne so tanto quanto voi. - risposi, più
bruscamente di quanto volessi, tornando ad avvicinarmi al gruppo. - E mi
piacerebbe capirci qualcosa. Cosa ci facciamo qui, per esempio. -
- Tanto, ormai... - brontolò Ernst, a voce bassa,
ma non abbastanza da non essere udito.
Intuii quel che voleva dire: anche se ci fossimo
trovati ancora sul Reno, non saremmo stati di alcuna utilità.
Fino a pochi giorni prima eravamo dislocati tutti e
quattro nel piccolo paese di Remagen: un luogo assolutamente anonimo finché gli
americani, il sette marzo, non vi avevano utilizzato l’unico ponte ancora in
piedi per sfondare il fronte ed entrare in Germania; l’apporto fornito alla
guerra, a quel punto, si era ridotto al tentativo di non far allungare la lista
dei caduti con i nostri nomi. Mio malgrado, mi ero ritrovato a capo di quel
gruppo di disperati, guidandoli per vigneti rinsecchiti e boschi, senza sapere
dove stessi andando, ferito al braccio sinistro da alcune schegge di granata che
avevamo estratto solo in parte e che quando ci eravamo riuniti ai nostri avevano
già fatto infezione e mi avevano quasi ucciso.
- Non mi piace tutto questo. - dichiarò Klaus,
preoccupato - Non ha nulla a che fare con la guerra. -
- Sicuro? - gli chiese Feuerbach - Secondo te c’è
qualcosa che non ha a che fare con la guerra, in tutta la Germania? -
Scrutai il soldato più anziano, accorgendomi
finalmente che era strano: non era da Ernst essere così serio e silenzioso, lui
che di solito riempiva i dintorni con il suo vocione sonoro e l’irruente
allegria.
- Va tutto bene? - gli domandai, appoggiandogli una
mano sulla spalla.
Lui non rispose subito, ma parve soppesare le
parole.
- Non mi fido di questa organizzazione. - sussurrò.
Neanch’io. Oltretutto, conoscevo qualcuno che se
avesse scoperto che, anche se indirettamente, stavo lavorando per la Società di
Thule, non mi avrebbe rivolto la parola per il resto della vita.
- Parli del demonio che avrebbero evocato, e che è
valso il soprannome a quel fantomatico Stregone? - ridacchiò Andreas.
- Come? - esclamammo in coro io e Klaus.
- Ieri sera ho sentito per caso un brandello di
conversazione... - ammise Ernst.
- Diciamo che hai origliato. - tradusse il soldato
dai capelli rossi.
- E va beh, è uguale! Dicevano che questo (oh,
dannazione!) Stregone una volta ha evocato un demonio: parecchie persone
avrebbero visto un’armatura vuota muoversi e parlare come se fosse stata viva!
-
Klaus si sforzò educatamente di non ridere, mentre
io non potei fare a meno di alzare un sopracciglio.
- Però, guarda caso, nessuna di queste fantomatiche
“persone” sono qui. - replicò Andreas, acido.
- E allora perché parlarne, Signor So-Tutto-Io? -
- Perché la gente ha l’abitudine di ingigantire le
storie che sente, Filosofo! Figurarsi poi in un circolo esoterico, quale pare
essere questo! -
- Ora non fare la persona colta, che prima della
guerra non eri mai uscito dalla tua sartoria di Lubecca! -
Klaus scosse la testa, sospirando. Ovviamente, non
credeva ad una sola parola.
- Piantala, tu! - esclamò Ernst, vedendolo - Io
riporto solo quel che ho sentito, e non ho bisogno della vostra boria da
laureati per sapere che... naturalmente non mi riferivo a lei, capitano. -
aggiunse in fretta.
- Smettetela. - dissi, alzando la mano per imporre
il silenzio - Ci manca solo che ci mettiamo a litigare tra di noi. -
Per la miseria. A volte sembravano dei bambini.
* * *
Difficilmente vidi Margarethe più allegra di quella
sera: arrivò perfino a tirare fuori una bottiglia di cognac che teneva in serbo
per le occasioni speciali, e che era pressoché piena, dato che Ed era da molto
tempo l’unico maggiorenne in quella casa.
- Non sperare di ubriacarmi! - commentò lui,
versandosene un generoso bicchiere.
L’“anticipo di stipendio” di Edward si era rivelato
essere una somma di tutto rispetto, che probabilmente mio zio non vedeva da
anni, visto che anche lui parve sorpreso: così, quella sera l’umore di tutti ne
fu rinfrancato.
In tempi normali, dichiarò Margarethe,
dovresti essere tu ad offrirci da bere!
- Scordatevelo. Siete troppo giovani. -
- È vero - interloquì Lotte - che una volta tu e
papà andavate a mangiare nelle birrerie? -
- Abbiamo sperimentato praticamente ogni cosa. -
rispose lui - Nessuno dei due è un granché come cuoco. Prima della guerra ci
andavo ancora, a volte. -
- Ed è vero che una volta hai finto di essere
malato per fare andare papà e mamma da soli? -
- Sì, quando erano fidanzati. - ammise - Speravo
che vostro padre non l’avesse capito. -
- Ha sempre detto che il tuo attacco di mal di
schiena è stato un po’ troppo rapido ad andarsene... - commentai.
- E papà dice anche - finì mia sorella - che spera
ancora di restituirti il favore! -
Edward arrossì fino ai capelli, rischiando
seriamente di strozzarsi con il liquore. Per alcuni penosi secondi Margarethe
gli batté sonoramente sulla schiena, fingendo un’aria partecipe, finché lui non
si riprese.
- Quando tuo padre tornerà... - iniziò lui, ma si
bloccò subito, come ricordandosi di qualcosa; riposto il bicchiere, si sporse
per dare un buffetto sulla testa a Lotte, ma i suoi pensieri erano già volati a
qualcosa di molto lontano.
Margarethe, l’unica tra noi che sembrava comprendere
quel che stava pensando Ed, si affrettò a prendere la lavagnetta e scrivervi il
menu previsto per quella sera (ancora cavoli).
Non dovette neppure sopportare i nostri soliti
sbuffi seccati, perché qualcuno bussò sonoramente alla porta al piano di sotto;
la ragazza assunse un’aria interrogativa (chi poteva essere in giro dopo il
tramonto, quando non era permesso neppure mettere in naso fuori di casa?), ma si
affrettò ad alzarsi, sparendo nell’oscurità imposta dal coprifuoco. L’eco dei
suoi passi veloci stava ancora risuonando per le scale, quando la vocina di
Lotte, questa volta più timorosa, tornò a farsi sentire:
- Ed, - pigolò - papà sta bene... vero? -
Lui la guardò per alcuni secondi con uno sguardo
vuoto, come se non ricordasse bene chi fosse, poi fece uno sforzo sovrumano per
sorriderle: allungò le braccia sul tavolo già apparecchiato per prenderle le
manine tra le sue.
- Tuo padre, al momento, è al caldo e al sicuro da
qualche parte. - mentì pietosamente - In questi giorni lavora tanto, e quindi
non può scrivere: però sono certo che vi pensa ogni... -
Il suono assordante dei passi che salivano le scale
lo fece voltare di scatto: quei tonfi non appartenevano di certo alla silenziosa
Margarethe, capace di camminare sulle assi di legno del pavimento senza farle
scricchiolare. Infatti, dopo una manciata di secondi irruppero nella cucina due
soldati armati, che si trascinavano dietro la ragazza, prossima allo svenimento
per il terrore.
Edward lanciò un grido e saltò in piedi, voltandosi
per fronteggiarli: entrambi erano più alti di lui (non che ci volesse molto), ma
uno era un vero gigante, dalla stazza di un toro e le spalle larghe e squadrate.
Il secondo doveva essere poco più basso di mio padre, e aveva una chioma di un
singolare rosso scuro.
- Edward Elric? - chiese il primo.
- Che volete? -
- Dovete seguirci. Tutti e quattro. -
* * *
Non pensavo di essere così attaccato ai miei effetti
personali: ho passato metà della mia vita viaggiando, e gli oggetti che mi hanno
seguito dovunque sono davvero pochi.
Quella sera, tuttavia, vedendo uno di quei bifolchi
(il pel di carota) buttare all’aria il mio appartamento, provai lo stesso
fastidio che avevo avvertito quando, pochi minuti prima, mi avevano perquisito.
Come se girassi per il salotto di casa mia con una
pistola!
- Non ci sono altri fogli? - mi chiese l’energumeno
che ci puntava il fucile contro.
- Solo quelli che avete trovato nella stufa. -
ribattei, acido.
Purtroppo, qualche frammento di carta non era
bruciato, ma si trattava comunque di materiale insufficiente: l’unica copia
completa del mio lavoro ventennale si trovava nella mia testa, al sicuro.
Neanche le monete che avevano già preso dal cassetto mi preoccupavano, perché
potevo farle passare per dei falsi.
Il rosso gettò all’aria l’armadio, spostò i vestiti
(con più garbo di quanto avessi creduto possibile in una perquisizione) e
appoggiò la mia valigia sul letto, dove esaminò il contenuto alla luce di una
torcia: giaceva abbandonata da una dozzina d’anni, ma avrei potuto recitare a
memoria il suo contenuto. Quando l’uomo lanciò distrattamente da parte
l’orologio d’argento da Alchimista di Stato, sospirai mentalmente di sollievo.
- Questo è tuo? - chiese il militare, rivolto a
Thomas.
Mio nipote tremava visibilmente: lo avevo sentito
emettere uno squittio disperato quando avevano aperto il quaderno dalla
copertina nera appartenuto al giovane Hanno Lindemann, che neppure lui aveva mai
osato sfogliare; in quel momento diede un’occhiata alla giacca rossa che il
militare gli mostrava, mentre io desideravo aver dato retta ad Al, quando mi
aveva detto di liberarmene.
- Sì, signore. - mentì il dodicenne, con un filo di
voce.
- Dagliela, Andreas. - disse il secondo soldato -
Ha freddo, non vedi? -
Io non feci commenti, perché era straordinariamente
ovvio che il ragazzo non batteva i denti per il freddo, e Thomas si avvolse
nella giacca che un tempo era stata mia e poi di mio fratello; non potei fare a
meno di notare la somiglianza con suo padre.
Al mi avrebbe schiaffeggiato se avesse saputo cosa
stavo facendo passare ai suoi figli.
- Qui abbiamo finito: usciamo. - dichiarò quello
chiamato Andreas.
- Lasciate i bambini e la ragazza. - provai a dire.
Il gigante abbassò leggermente l’arma: al buio non
riuscivo a vedere bene la divisa, ma mi sembrava della Wehrmacht.
Tutto questo non aveva senso. Da quando era
l’esercito ad effettuare arresti?
- Non possiamo. Non siamo noi a decidere. - mi
rispose, e nella sua voce aleggiò un’inaspettata nota di scusa. Forse
era un padre di famiglia.
Fuori non c’era la Mercedes nera, come avevo
pensato, ma uno scalcagnatissimo camion militare che sembrava essere stato
appena ripescato da una palude, a giudicare dal fango appiccicato sulla
carrozzeria. Non seppi decidere se era un buono o un cattivo segno.
Di una cosa ero certo: non mi arrestavano per
spionaggio.
E questo era un bene.
Ma probabilmente ero appena caduto nella trappola
tesa dai miei vecchi amici della Società di Thule.
E questo non era un bene.
Forse stavamo andando fuori città, ma non avrei
potuto stabilirlo con certezza: a causa dei bombardamenti, anche le strade di
Monaco erano sconnesse, e ogni spostamento, per breve che fosse, richiedeva
parecchio tempo. Oltretutto, faceva ancora piuttosto freddo e noi non avevamo
abiti troppo spessi, a parte la giacca che Thomas aveva passato a Charlotte,
perciò stavamo congelando. Avevo preso la bambina in braccio, per un qualche
moto istintivo (che neppure io sospettavo di avere), e lei era rimasta zitta e
immobile, avvolta nell’abito rosso enorme per lei, con la testa appoggiata sulla
mia spalla e gli occhi sbarrati, troppo terrorizzata anche per piangere.
Margarethe, di fronte a me, non sembrava più sul punto di accasciarsi priva di
sensi, ma il suo autocontrollo non fu rafforzato dalla vista di una macchia di
sangue vecchia di alcuni giorni nel punto in cui stava appoggiando i piedi;
quando si accorse che la stavo fissando, ricambiò lo sguardo.
- Non vi sarà fatto alcun male. -
Margarethe si voltò verso il soldato al suo fianco,
che aveva parlato rivolgendosi a lei: era molto più giovane degli altri due, ed
era rimasto sul camion mentre buttavano all’aria casa Meyer. Per tutto il
viaggio non aveva fatto altro che fissarmi, distraendosi solo in quel momento.
Il mio locatore si limitò a guardarlo (ovviamente),
ma lui arrossì fino alle orecchie e si affrettò a voltarsi.
- Cosa c’entrano loro in tutto questo? - domandai,
stringendo più forte Lotte.
- Eseguiamo gli ordini, signor Elric. - rispose
lui.
Dove l’avevo già visto?, mi chiesi all’improvviso.
Aveva qualcosa di familiare, ma non riuscivo a ricollegarlo a nessuno che
conoscessi.
Come se sapesse a cosa stavo pensando, il giovane si
tolse la bustina dal capo: i capelli biondi erano leggermente alzati sulla
fronte.
- Sono
Klaus Holze, signor Elric. Si ricorda di me? -
Trasalii, mentre il volto del bimbo compariva come
un lampo nella mia mente.
- Klaus... - ripetei.
- Lei mi ha salvato la vita, undici anni fa. -
disse mestamente, mentre Thomas si voltava verso di me con aria sbalordita,
ricordando il mio racconto, la sera in cui Al aveva portato lui e la sorella da
me - Le do la mia parola che farò di tutto per estinguere il mio debito. -
Ci fermammo con un brusco scossone.
Una volta scesi, scoprii che eravamo nel cortile di
una villa di campagna a due piani, incredibilmente ben tenuta anche per un
periodo di pace.
Ville, ville, ville., pensai. Possibile
che questi non sappiano tramare che nelle ville?
In realtà, come scoprii subito, l’aspetto opulento
era una mera illusione: l’atrio e il corridoio interno in cui fummo condotti
erano spogli, e grosse macchie verdastre di muffa e umido comparivano sui muri e
sui soffitti bianchi.
- Il Presidente vorrebbe parlare con lei, dottor
Elric. -
Mi voltai verso l’energumeno, che si era fermato di
fronte ad una porta: era probabilmente l’unica persona al mondo a chiamarmi
“dottor Elric”, e per un istante la cosa mi fece ridere nervosamente.
- E non poteva venire a dirmelo, invece di rapirmi?
-
- I bambini e la ragazza saranno alloggiati nelle
stanze padronali, al secondo piano. -
- No. Restano con me. -
- Dottore... -
- Non lascerò per un solo istante nessuno di loro!
- replicai, alzando la voce, e per sottolineare il concetto appoggiai una mano
sulla spalla di Thomas e l’altra sulla testolina di Charlotte.
- Sono al sicuro. - replicò lui, aprendo la porta -
Non sarà fatto loro alcun male. -
Prima che potessi replicare, mi afferrò per una
spalla e mi trascinò a forza dentro, chiudendosi la porta alle spalle per
impedirmi di fuggire.
E di nuovo tornò l’illusione di lusso.
Mi trovavo in un salone per i ricevimenti dal
soffitto alto ed enormi finestre che, per alcuni istanti, mi ricordò
fastidiosamente un ambiente molto simile e altrettanto sgradevole: il luogo, in
casa di Dante, in cui avevo combattuto contro Greed, dandogli involontariamente
il colpo di grazia. Alcune lampade erano state accese nonostante i divieti, e
più o meno al centro di quell’ambiente vuoto e freddo si trovava un tavolo da tè
apparecchiato e due persone già sedute.
Va bene.
Che mi invitassero ad un tè con pasticcini, in
effetti, non lo avevo previsto.
E neanche che i nostri sequestratori fossero così
fuori dagli schemi da lasciarmi a bocca aperta come un idiota.
Il colonnello Georg Holze era, se possibile, ancora
più grasso di cinque anni prima: condizione invidiabile per la maggior parte dei
tedeschi, che faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena. La divisa era
pulita e stirata, e i baffi, più biondi e folti di quanto ricordassi, lo
rendevano più che mai simile ad un tricheco.
- Herr Elric, - esordì, tossicchiando con
fare imbarazzato - quanto tempo! Sono lieto di vederla in
salute. -
“Quanto tempo”, “sono lieto di vederla in salute”...
quello non era un colonnello delle Forze Armate. Quello era il Cappellaio Matto
di quel libro per bambini che avevo sentito leggere da Al a Thomas, una volta!
- Posso presentarle il Presidente della Società di
Thule? - continuò, indicando chi occupava la sedia di fronte alla sua.
Il Presidente alzò la tazza che teneva in mano, in
cenno di saluto:
- Accomodati pure, Edward. Immagino avrai già
cenato, ma spero che vorrai gradire ugualmente qualcosa, mentre discutiamo di
affari. -
Era impeccabile: vestito, scarpe, acconciatura,
perfetti per una serata mondana. Decisamente distante dall’aspetto mascolino
e marziale di Dietlinde Eckhart.
Lo ammetto. Mi aveva completamente spiazzato, anche
se cercai di non darlo a vedere stampandomi sulla faccia il ghigno sarcastico
più impudente che riuscii a trovare, e incrociando le braccia al petto.
- Grazie mille per l’invito e per la scorta che è
venuta a prenderci. Ti sei davvero preso troppo disturbo, mia cara. -
Hedwig Steinglocke si limitò a sorridermi con aria
accattivante da sopra la sua tazza di tè.
Pensierino della buonanotte:
TA-DA-DA-DAAAAAAN!
Ok. Ora potete ammazzarmi.
In realtà, non avevo pensato subito ad una donna a
capo della Società di Thule, anche perché, seguendo la realtà storica, non
potevano neppure entrarvi: ma mi piaceva l’idea che i capi dei cattivi in
Fullmetal Alchemist siano sempre donne, e volevo continuare la tradizione
inaugurata da Dante e Dietlinde Eckhart.
Che volete farci, forse inconsciamente mi piace
vedere Ed fregato da una donna.
Cambiando argomento: rivedendo Indiana Jones e
l’Ultima Crociata, mi sono accorta di quanto Hedwig somigliasse alla
bellissima nazista... che, tra l’altro, si chiamava Elsa Schneider!
Citazione involontaria! A proposito di citazioni involontarie: i personaggi dei
soldati sono, in realtà, i più “vecchi”, nel senso che sono quelli che inventai
per primi, insieme a Margarethe. Avevo i nomi, le personalità, gli aspetti
fisici, in modo che ognuno fosse diverso dall’altro... solo che, a gennaio, in
occasione della Giornata della Memoria, hanno dato un film (con protagonista
Castellitto) in cui il nazista di turno si chiamava proprio Feuerbach!
Inizialmente ho pensato di cambiare cognome al povero Ernst, per evitare
imbarazzanti paragoni, ma non mi tornava il gioco di parole, e ormai “il
Filosofo” era il Filosofo. Perciò ho deciso, molto tirannicamente, di lasciare
tutto così: non avevo mai letto il libro da cui il film è tratto, quindi non ho
copiato il nome. La mia coscienza è tranquilla.
Ah, nel caso voleste saperlo, il nome di Ilse l’ho
preso dall’opera teatrale (incompiuta) I Giganti della Montagna di
Pirandello.
Vi lascio un po’ di tempo per riprendervi dallo
shock (seee...), appena riuscite ad uscire dalla tensione nervosa che questo
entusiasmante capitolo vi ha dato (ceeeerrto, contaci), fate un’opera di
volontariato e lasciate una recensione? Una recensione piccola, una
recensioncina... piccina picciò... Daaaaaaaai!
Selfish: [Rika88 si volta di
scatto] Cos... MI VEDI? [toglie i piedi dalla scrivania e la pulisce dalle
briciole del panino, nascondendo la cartaccia] Ehm, ma non c’è nulla da vedere!
Ecco, è tutto in ordine!
Tornando seri (insomma...): credo che Ed avrebbe
messo anche un po’ di sadica soddisfazione nel demolire casa Haushofer e tutta
la tana di quei pazzoidi. Te lo vedi, armato di piccone? Io purtroppo sì, e
tutta la dolcezza di Al non basterebbe a fermarlo...
Anche io preferisco la Winry del manga, ma forse il
problema sta semplicemente nel fatto che nell’anime non c’è stato spazio per
sviluppare appieno il personaggio... è molto difficile mettere in pratica tutte
le idee che vengono in mente su un personaggio: per sviluppare Hedwig come
vorrei, avrei bisogno di molti più capitoli, ma sarebbe uno sterile esercizio di
stile, che annoierebbe a morte il lettore.
Ed (e Al, povero) sono IC? Beh, ti ringrazio! Non è
facile far parlare un personaggio non tuo in prima persona, le variazioni sono
inevitabili: per gli Elric ho potuto giustificare la cosa con i ventidue anni
passati, e tutte le loro tribolazioni. In effetti, sono la prima ad ammettere
che il vero Edward non è dotato di quel pungente cinismo che io gli ho
affibbiato.
Wilhelm, poveretto, è un ragazzo molto leale: in
questo caso, poi, è anche tormentato dai sensi di colpa. È assolutamente
convinto di aver mandato a morte suo fratello Hanno. E per la yaoi... sorry, ma
passo il testimone: non sono proprio capace.
KuRoNeKoChAn: Le monete, in
realtà, hanno una loro spiegazione, abbastanza banale. Le ho messe in quel
punto, più che altro, per rimarcare quel che già doveva essere sospetto nel
terzo capitolo, quando Ed esibiva un auto-mail che non è sicuramente di questo
mondo... e che diventerà lampante tra poco!
La confessione di Wilhelm ti ha stupita? Beh, allora
che mi dici del Presidente? E non ho ancora sparato tutte le mie cartucce...
Siyah: Come potrei anche solo
pensare di fare del male al povero, piccolo Al? Alphonse è la coscienza di Ed:
senza di lui, quel pazzo potrebbe combinare qualche altro pasticcio e cacciare
ulteriormente nei guai i tre ragazzi!
Tra l’altro: nel precedente commento avevi citato l’OAV
Kids per far notare che lì Ed si era costruito una famiglia... non so se
ricordi, ma nel primo capitolo Thomas diceva, a proposito dell’odio di Edward
per la parola “zio”, che “lo faceva sentire vecchio.
Lo stesso motivo per cui, adesso, rifiuta di
farsi chiamare “nonno” e “bisnonno”, anche se non lo ammetterebbe
mai.”
Senza contare la “signora” alle sue spalle che
compare ogni tanto nelle note a margine... Ti assicuro che non si tratta di Ilse
Schneider. ^.^
(Non c’entra nulla, però... l’OAV in questione l’ho
visto solo di recente, prima mi dovevo arrangiare con le immagini.
Ma quanto sono carini i tre bimbi??)
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Capitolo 8 *** Capitano ***
Nuova pagina 1
8.
Capitano
- Prego, Edward, siediti pure e serviti senza fare
complimenti! - cinguettò Hedwig, spostando la terza sedia accanto al tavolino
tondo da tè.
- No, grazie, carissima. - risposi, in tono
falsamente amabile - I biscottini e il tè vero mi restano sempre sullo stomaco.
-
- Insisto. -
Il gigante dietro di me mi spinse brutalmente a
sedere, utilizzando una delle sue enormi mani sulla mia spalla. In quel momento
capii come si sente una zanzara schiacciata contro il muro.
- Sempre così idealista e orgoglioso, Edward... -
replicò la donna, scuotendo leggermente la testa, senza smettere di sorridere
con condiscendenza - Incorruttibile, non importa che moneta si usi. Tetragono
alle lusinghe della ricchezza. -
Mi limitai a fissarla con disprezzo, senza
replicare, augurandole mentalmente di strozzarsi con il contenuto della sua
tazza, che sorbiva con tranquillità. La situazione doveva essere piuttosto
imbarazzante, perché Holze, improvvisamente, tossicchiò leggermente:
- Se non ha bisogno di me, Presidente, io andrei di
sopra: vorrei controllare le condizioni di salute del capitano. -
- Sinceramente, Georg: era davvero
necessario portare quell’uomo qui? Gradirei che il personale preposto alla
sicurezza della casa fosse almeno in grado di reggersi in piedi! -
La zampa del soldato si strinse dolorosamente sulla
mia spalla: alzando leggermente lo sguardo, mi accorsi che stava digrignando i
denti come se lo avessero insultato personalmente.
Il suo superiore non sembrava ugualmente offeso,
anzi, si esibì in un sorrisetto imbarazzato, mentre faceva l’atto di alzarsi.
- Ma no, signora, il mio sottoposto sarà presto in
grado... -
- Non muoverti, Georg! - strillò lei, agitando un
biscotto come se fosse un’arma - Abbiamo del lavoro da fare! -
- Non vorrà andarsene senza aver finito il tè! -
replicai, con un sorriso idiota.
L’ufficiale tornò al suo posto, mogio, mentre l’uomo
dietro di me finalmente spostava il suo arto sproporzionato dalla mia spalla
dolorante.
- Andando dritti al sodo, Edward, - riprese il
Presidente - avremmo bisogno del tuo aiuto per un lavoretto che, per te,
dovrebbe essere molto facile... -
- Il lavoretto deve starti davvero a cuore,
Hedwig, visto che per ben cinque anni hai indefessamente finto di essere
innamorata di me, arrivando a recitare persino la parte dell’amante tradita
quando mi sono rifiutato di aiutarti! -
Qualcuno aprì la porta alle mie spalle, ma non mi
stupii troppo nel vedere la piccola sagoma di Ilse Schneider avanzare verso di
noi. Era pur sempre la madre della mia carceriera.
- Ammetterai che sono stata brava. - concesse
Hedwig, posando la sua tazza di tè.
- Se avessi accettato cosa avresti fatto,
esattamente? Non mi sembra che il matrimonio fosse realmente nei tuoi progetti.
-
La Schneider, in piedi con le braccia incrociate a
qualche metro da noi, emise una specie di sbuffo.
Stava per scoppiare a ridere? Possibile?
- So bene che il primo dovere di ogni donna tedesca
è dare figli al Reich, ma io sono stata chiamata a un compito più alto. -
Inarcai le sopracciglia. Per un solo, brevissimo
istante, la stupida tracotanza di quella frase mi fece cogliere appieno la
comicità di quella situazione, così violentemente che dovetti trattenere una
risata: ma subito dopo tornai ad essere il prigioniero di una banda di pazzi,
che rischiava la vita propria e di tre ragazzini. Due dei quali affidati a lui
da un padre molto apprensivo.
- E quale sarebbe questo compito, comandare
un circolo esoterico di svitati? -
Incredibilmente, il commento non veniva da me.
Mi girai verso Ilse Schneider, alla mia destra,
imitato dagli altri due uomini presenti: non potevo sapere la reazione del
soldato dietro di me, ma Holze sembrava ancora più a disagio.
Il sorriso di Hedwig, invece, si irrigidì in una
smorfia che imbruttì parecchio il suo bel viso.
- È normale che le persone comuni non comprendano.
- dichiarò, parlando lentamente, la voce che trasudava disprezzo - Ma tra queste
pareti lavoriamo per rendere grande la Germania, proseguendo sulla scia
lasciataci dal mio predecessore, il Presidente Eckhart! -
- Rendere grande la Germania? - ripeté la madre, e
per un istante la sua figura parve farsi gigantesca per l’ira, mentre sbatteva
con violenza le manine ossute sul tavolo, facendo tintinnare le tazze - Saremo
fortunati se la Germania resterà in piedi, alla fine di questa guerra
disgraziata... e la colpa è proprio degli amici tuoi e della tua defunta cugina!
-
- Cugina?! - esclamai, saltando sulla sedia
come se scottasse.
- Certo, la figlia del mio fratellastro! - mi
rispose la donna più anziana, continuando a guardare con odio Hedwig - Credeva
davvero che si chiamasse Eckhart? Meister Eckhart era un mistico tedesco
medievale. Probabilmente, per il Presidente della Società di Thule non era
abbastanza dignitoso chiamarsi Schulz! -
- Schulz? - ripetei, incespicando nella
parola - Il signor Schulz era il padre... è suo fratello? -
Ora si spiegava come facesse a sapere che al
laboratorio cercavano personale, pur senza aver mai messo il naso fuori dalla
sua proprietà!
- A quanto pare è destino della nostra famiglia
generare dei figli indegni. - dichiarò amaramente la signora, facendo un passo
indietro e incrociando le braccia sul petto. - Il mio fratellastro, Herbie, si è
ritirato nel suo podere fuori città da più di un ventennio, per dimenticare la
vergogna di una figlia nazista. -
Sputò l’aggettivo con odio, e le vecchie ossa
sembrarono tremare.
- Mi dispiace, Herr Elric, che non abbia
accolto il mio suggerimento di lasciare questa donna, quando ci incontrammo. -
- Già... - commentai - e dire che lei me lo aveva
detto, che non la meritavo. -
Ilse Schneider mi squadrò in silenzio, prima di
portarsi una mano alla fronte e sospirare pesantemente:
- Lei, signor Elric, non ha alcuna fiducia in se
stesso. - dichiarò - Ricorda? Io avevo detto “Lei non la merita”. Perché
ha subito pensato di essere il soggetto della frase? -
Perché mi era parsa la minaccia di una ricca signora
al fidanzato squattrinato dell’unica figlia, ecco perché. Maledizione a lei e ai
suoi stupidi giochi di parole!
- Hai ancora qualcosa da dire? - chiese freddamente
Hedwig.
- Sì. Tuo padre si rivolterà nella tomba. - rispose
la madre, voltandosi di scatto e allontanandosi a grandi passi.
- E tu, che non usi neppure il suo cognome? - le
gridò dietro l’altra.
- Questione di gusti. -
Ilse Schneider si sbatté violentemente la porta alle
spalle.
Perché finivo invariabilmente per trovarmi in mezzo
a beghe familiari?
* * *
Sgattaiolai fuori dalla soffitta (cercando di non
far troppo chiasso con gli stivali militari) quando fui certo che tutti si erano
dimenticati di me, e scesi in fretta le scale, guardandomi continuamente intorno
per evitare di incontrare un qualunque abitante della villa, ora buia e
silenziosa.
Avevo trascorso le ore in cui ero rimasto solo
percorrendo a grandi passi la stanza e tentando di cogliere qualche parola di
senso compiuto dalle voci concitate che sentivo provenire da qualche parte sotto
i miei piedi, finché era calato il silenzio; a quel punto avevo deciso che
dovevo andare a vedere cosa stesse succedendo, nonostante il divieto assoluto di
muovermi dal letto, ufficialmente a causa delle mie condizioni di salute.
E ora?, mi chiesi quando arrivai al
pianoterra e mi ritrovai in un corridoio con almeno mezza dozzina di porte
uguali.
- Capitano! -
Sobbalzai per lo spavento, ma si trattava solo di
Andreas che rientrava dal cortile.
- Che ci fa qui? -
- Abbassa la voce! - sibilai - Lo sai che non
dovrei andarmene in giro! -
- Scusi... -
- Lascia perdere. Sai dove hanno portato Edward
Elric? -
- No, ma Ernst lo saprà di certo: era nella stanza
in cui hanno parlato. -
- Fammi vedere dove. -
La sala era vuota, come verificai socchiudendo
appena la porta, ma c’era un tavolino da tè ancora apparecchiato. Lasciai
Andreas all’esterno, con l’ordine di fermare la cameriera nel caso qualcuno la
mandasse a pulire, e diedi un’occhiata; sul ripiano c’erano due tazze vuote e
una piena di bevanda ormai fredda, parecchie briciole di biscotto ma solo sei
intatti (che infilai in tasca, per dividerli con gli altri in seguito) e alcuni
tovaglioli di lino spiegazzati. Nessun foglio, o un qualche altro indizio.
Non posso pretendere di improvvisarmi
investigatore in due minuti, pensai sospirando. Stavo per andarmene,
sconfitto, quando un luccichio per terra attirò la mia attenzione.
- Capitano, che accidenti... -
Ignorai Ernst, che era appena entrato spintonando
Andreas, e mi chinai per raccogliere quella che si rivelò essere una moneta.
Mentre il Filosofo e Neubauer si avvicinavano, io mi spostai verso una finestra,
per vedere meglio.
- Che follia, capitano. - mormorò il gigante, che
doveva essere passato nella nostra soffitta, perché aveva con sé un bicchiere e
una bottiglia di vodka polacca da cui si serviva abbondantemente - Sono tutti
pazzi qui. -
Registrai distrattamente che aveva in una tasca una
lampadina e nell’altra una torcia, ma non chiesi a cosa gli servissero,
rimanendo concentrato sulla moneta; lungo il bordo si leggeva perfettamente la
dicitura Repubblica di Amestris, sopra ad uno scudo col simbolo del drago
dalle fauci spalancate. Sotto, la data di conio: ‘33.
Impallidii, mentre da qualche parte dietro di me
Ernst continuava a parlare:
- ... hanno passato venti minuti parlando di
alchimia e cerchi alchemici e Portali... -
- Portali?! - ripetei, allarmato.
- Sì, da quel che ho capito è per questo che ci
hanno fatto rapire quell’uomo. - si intromise Andreas.
Non risposi. Stavo cercando una spiegazione alla
moneta che avevo in mano, ma l’unica plausibile non mi piaceva affatto.
Il rumore del liquido che scendeva nel bicchiere di
Ernst riempì la breve pausa:
- Sono orrendi. - dichiarò amaramente il soldato
dopo che ebbe bevuto - Ricattare un uomo usando i suoi figli! -
- Figli? Quali figli? - esclamai, voltandomi di
scatto.
Ma il Filosofo non mi ascoltava: borbottava tra i
denti, fermandosi per bere e versarsi altra vodka.
- Tutto questo non ha senso... follia pura... -
Esasperato, gli strappai il bicchiere di mano, così
bruscamente da rovesciarne il contenuto:
- Quali figli, Ernst? Ed non ha figli! -
I due uomini mi guardarono come se fossi
completamente ammattito.
- I due bambini, - mi rispose Feuerbach - quelli
che sono stati portati al piano superiore, con la ragazza più grande...
capitano! Capitano, si sente male? -
La moneta era caduta per terra, ma non me n’ero
neppure accorto: la testa mi si era riempita di un rimbombo sordo, e per alcuni
istanti non avevo visto più nulla; mi ripresi in tempo per appoggiare una mano
alla finestra ed evitare di cadere, ma Ernst mi afferrò comunque per un gomito,
arrivando quasi a sollevarmi da terra.
- Dov’è...? - balbettai - Dov’è quel pazzo? -
* * *
Al secondo piano le stanze sembravano più ricche e
pulite e la puzza di muffa diminuiva, sostituita da un forte odore di
medicinale: io, Thomas e Charlotte fummo sistemati in un ambiente piuttosto
ampio, con solo due letti, ma di cui uno era sufficientemente grande da farci
dormire i fratellini. Quando entrammo, una donna di servizio stava aprendo le
finestre per tentare di scacciare il sentore di ospedale, nonostante la
temperatura esterna fosse molto bassa.
Sfinita, mi accasciai sospirando su una poltroncina
da lettura. Di fronte a me, Tom si guardava intorno con aria sperduta, tenendo
tra le mani il quadernetto nero di Hanno Lindemann, mentre Lotte, con quella
giacca scarlatta molto più grande di lei, ricordava abbastanza da vicino
Cappuccetto Rosso che scrutava le fauci del lupo.
- Cosa succederà ora? - pigolò, tirando la manica
della camicia del fratello.
- Non ne ho la minima idea. -
Esposi la mia opinione: fortunatamente in casa
portavo sempre la lavagnetta con me, legata in vita, per cui a nessuno era
venuto in mente di togliermela.
Probabilmente non ci toccheranno se Ed
collaborerà con loro., dichiarai.
Thomas annuì, per niente rinfrancato:
- Siamo i loro strumenti di ricatto. - dichiarò,
lugubre.
Espressione pomposa a parte, aveva innegabilmente
ragione: se anche Edward fosse stato contento di liberarsi di me e smettere di
pagarmi l’affitto, non poteva rischiare la vita dei nipoti.
- Se avete bisogno di qualcosa, io sono nella
camera qui a destra. -
La cameriera si rivolse a noi tre in modo
inaspettatamente gentile, parlando a voce bassa, ma ricevette due occhiate
gelide in risposta. Lotte, invece, si limitò a sparire dietro la schiena del
fratello.
- Lavora per quelli là? - domandò il ragazzino,
alzando il collo per guardarla in faccia.
- No, per la signora Schneider. - rispose lei,
dandomi l’impressione che l’ipotesi di Thomas la offendesse.
Era già piuttosto buio, così che non potevo vederla
bene in viso, ma mi sembrava piuttosto giovane, nonostante i capelli neri
fossero acconciati in una pettinatura più adatta ad una vecchia zitella
dell’Ottocento... ma, forse, era solo per non che le andassero sul volto mentre
lavorava.
- Se avete fame, posso portarvi qualcosa da
mangiare. - continuava - In quest’ala della villa la signorina Steinglocke non
viene mai, ma sarebbe meglio che non ve ne andaste troppo in giro. -
Sussultammo tutti e tre, alla menzione del nome:
- La signorina... - ripeté senza fiato Thomas -
allora è lei la mente dietro a tutto ciò! -
Quanta gente abita qui dentro?, scrissi sulla
lavagna.
Non pensavo mi rispondesse davvero: insomma, nei
libri dicono sempre di non essere autorizzati a farlo.
Lei, in effetti, sembrò a disagio, ma più che altro
per il modo in cui mi ero rivolta a lei:
- Margarethe non può parlare. - le disse Lotte,
spuntando da dietro le spalle di Thomas.
- Oh, capisco. - replicò velocemente la cameriera,
e probabilmente arrossì - Comunque, oltre alla padrona e alla signorina, ci sono
cinque soldati: il colonnello dorme dall’altra parte della casa, mentre gli
altri quattro militari sono in soffitta. -
- E quali di essi usa la macchina nera? -
Scrutai Lotte con un’occhiata indagatrice: cos’era
questa storia della macchina nera, e perché non ne ero a conoscenza? Ma la
bambina doveva essere convinta di quel che diceva, per dimenticare paure e
timidezza e rivolgersi ad un’estranea.
- La macchina è del colonnello... - rispose la
donna, anche lei perplessa. Si stava evidentemente chiedendo se era il caso di
continuare a parlare.
- Ma l’autista era un civile! - replicò Thomas - Io
l’ho visto! -
Tu hai visto COSA?? scrissi.
- Penso si tratti dell’uomo che porta la verdura. -
considerò la cameriera - Il colonnello gli fa guidare l’auto quando deve recarsi
in città per delle commissioni. -
Alla parola commissioni Thomas storse il naso
in una smorfia, ma lasciò continuare la ragazza:
- L’autista del colonnello è un capitano, ma al
momento non è in grado di guidare. L’ho curato io stessa, e vi assicuro che fino
a pochi giorni fa non sapevamo neppure se sarebbe sopravvissuto. Ora
perdonatemi, ora devo andare. - terminò, sempre in un sussurro. Notai in quel
momento che aveva tenuto per tutto il tempo la testa bassa e le mani intrecciate
sotto il grembiule, in un atteggiamento timido che doveva esserle usuale, perché
nessuno di noi poteva incutere troppo timore.
- Come ti chiami? -
La donna, che si trovava già sulla porta, si voltò
verso Charlotte: le sorrise con aria materna, e il suo volto parve molto più
giovane di quanto mi fosse apparso prima; doveva avere circa venticinque anni, e
con quell’espressione era molto carina. La invidiai.
- Mi chiamo Clara. - le rispose gentilmente.
Una volta rimasti soli, mi imposi di concentrarmi:
ora sapevamo quanta gente occupava la casa, ed era già un risultato. Non sapendo
niente di nessuno, era meglio considerarli tutti dei nemici, almeno a priori. In
seguito avrei fatto dire ai due bambini tutto quel che sapevano su questa
macchina di cui continuavano a parlare, ma l’importante, in quel momento, era
non attirare l’attenzione, né mettere alla prova la pazienza dei nostri
rapitori.
- Vado a vedere come sta lo zio! -
Ecco, appunto.
Folgorai con lo sguardo Thomas, ordinandogli
implicitamente di non muoversi: sfortunatamente, il difetto di non poter urlare
a squarciagola è che la gente tende ad ignorarti. Infatti, l’ostinato ragazzino
si limitò a consegnarmi il quaderno dalla copertina nera con aria innocente,
fingendo di non capire perché mi agitavo.
Lotte, fermalo!, ordinai a gesti.
- Ma Margarethe! - protestò lei - Papà non sarebbe
contento se lo zio si facesse male! -
Certo, ma il signor Alphonse Elric non sarebbe stato
contento neppure se i suoi figli si fossero trovati di fronte ad una pistola
carica.
- Cercherò di non farmi vedere. - sussurrò Thomas,
che aveva già socchiuso l’uscio e stava uscendo.
Magnifico. Ero stata spaventata a morte, trascinata
in un pasticcio a me incomprensibile, avevo la responsabilità di due ragazzini e
uno di questi stava tentando di farsi sparare da un soldato alzatosi con la luna
di traverso. Che altro poteva esserci di peggio?
Oh, già.
Il giorno successivo sarebbe stato il mio
compleanno. Tanti auguri a me.
* * *
Il corridoio del secondo piano sembrava deserto,
così percorsi i primi metri abbastanza velocemente: tuttavia, mi bloccai quando
udii dei suoni provenire da dietro una porta. Sembrava che qualcuno stesse
sparecchiando una tavola; mi ricordai che quella sera non avevamo cenato, ma ero
ancora troppo teso per avvertire la fame. Dall’interno proveniva una voce
femminile che non riconobbi, ma era un borbottio indistinto, che non mi
permetteva di capire cosa stesse dicendo.
Stavo già per passare oltre, quando la porta si
aprì, e il soldato Klaus Holze mi beccò mentre tentavo di allontanarmi:
- Che ci fai qui? - mi domandò, più sorpreso che
arrabbiato.
- Una passeggiata. - risposi sfacciatamente.
- Sai cosa ti succede se ti vedono in giro? -
Alle sue spalle comparve una donna che assomigliava
vagamente alla signorina Steinglocke; quando parlò, capii che la voce che avevo
sentito prima era sua:
- Klaus, quei ragazzi avranno fame. Immagino che
nessuno si sia degnato di dare a loro o al signor Elric qualcosa da cena. -
- Temo di no, Frau Schneider. - concordò il
giovane.
- Vado a dire alla signorina Leitner di preparare
qualcosa. - dichiarò la signora - Anzi, di dare qualcosa da cena a loro e a voi
quattro. -
La signorina Leitner poteva essere Clara,
ipotizzai. Non aveva parlato di altri domestici, in effetti.
- Prima voglio vedere mio zio. - dichiarai, con
tutta l’incoscienza dei miei dodici anni.
- Non credo sia possibile. - mi rispose gentilmente
Klaus - Il colonnello Holze lo ha espressamente vietato. -
- Non mangerò finché non avrò visto lo zio. -
ribadii, strappando un sorrisetto divertito alla signora Schneider. Klaus,
invece, sembrava sempre più preoccupato.
- Ascolta... - tentò.
- No. Voglio vedere lo zio, ed essere certo che
stia bene. -
Questa volta, la padrona di casa rise apertamente:
- Accompagna il ragazzo, Klaus. - ordinò - Se
assomiglia anche solo vagamente allo zio, non saranno due frasi ragionevoli a
fargli cambiare idea. Ti do qualcosa da mangiare per Herr Elric... Clara!
Potresti venire qui, per favore? - gridò, chiamando la cameriera.
Il ragazzo biondo sospirò, sconfitto, mentre la
dispotica signora spariva oltre la porta.
* * *
In quella cantina dovevano averci tenuto, fino a
poco prima, dei prosciutti. Nulla di strano, a parte il fatto che ben pochi
potevano ancora avere da parte degli insaccati dopo sei anni di guerra: il
problema era che non mangiavo da quella mattina, e, con quel profumo, lo stomaco
cominciò a protestare sonoramente. Appoggiai la testa e le braccia sulle
ginocchia, e tentai di non pensarci.
Quel che Hedwig voleva da me, lo avevo intuito molto
prima che lei tirasse in ballo la questione:
- Abbiamo bisogno che tu apra il passaggio tra
questo mondo e l’altro. - aveva detto, senza troppi giri di parole.
- Per raggiungere Shamballa? - avevo ribattuto -
Eckhart ci aveva provato e, dopo aver perso un buon numero di uomini, era
arrivata là e aveva deciso che non le piaceva. -
- I tempi non erano ancora maturi. - dichiarò la
donna, con l’aria ispirata di una profetessa - Non si sapeva a cosa si andasse
incontro. Mi spiace dire che mia cugina si era sbagliata: Shamballa - o
Amestris, come la chiamate, a giudicare da queste monete - può offrirci
molte risorse per potenziare la Germania. -
- E come? L’alchimia non funziona da questa parte,
e anche se lo facesse, ormai neppure un miracolo può tenere in piedi il Reich! -
- Questa situazione politica, Edward, potrebbe
essere solo la base per una Germania ancora più grande e forte! -
Non avevo molte speranze in campo politico, così
puntai su obiezioni più pratiche:
- Non è possibile aprire il varco un’altra volta: -
avevo dichiarato - Non avete apparecchiature per far sì che i corpi sopportino
l’enorme pressione, senza contare che mancano le materie prime. -
- Il serpente, vero? - Hedwig aveva annuito - E il
sangue di qualcuno nato a Shamballa. Lo so, ma sono certa che puoi rimediare. -
- Non posso. -
- Davvero, Ed? Vuoi dirmi che non sei più tornato
nel tuo mondo da allora? -
- Esatto. -
- E allora, dov’eri tra - e qui aveva dato
un’occhiata ad un appunto che le aveva passato il colonnello - il due e il
diciassette agosto 1939? -
Purtroppo, temo di aver assunto un’espressione
piuttosto colpevole.
- I nostri informatori hanno dichiarato che il due
sera sei entrato in casa, per ricomparire solo il diciotto mattina. Tutto quel
tempo senza uscire, almeno per fare la spesa o aprire la libreria dei Meyer? -
- Non mi ricordo... magari stavo male. -
Hedwig aveva sorriso, con una malvagità tale da
farmi sentire un brivido lungo la schiena:
- Per il bene dei tuoi graziosi nipoti, spero
proprio di no. - aveva detto, melliflua, tendendomi il quadernetto che mi aveva
già offerto quella sera al laboratorio.
Accidenti a me!
Rinchiuso in quella cella improvvisata, avevo dato
un’occhiata allo stupido taccuino che, stando a quanto mi aveva detto Hedwig,
era il frutto del duro lavoro del defunto Presidente Eckhart eccetera eccetera,
ma che si poteva riassumere in una serie di cerchi alchemici più o meno errati,
circondati da formule magiche e invocazioni a divinità nordiche di cui faticavo
persino a pronunciare il nome; per fortuna, la misera lampadina sulla mia testa
che rappresentava l’unica fonte di luce nella cantina si era folgorata prima che
mi venisse l’emicrania, lasciandomi nell’oscurità più totale. Comunque, alla mia
cortese richiesta di portarmene una nuova, o almeno delle candele (espressa
battendo violentemente sulla robusta porta in quercia), aveva risposto il
grugnito del gigante che il colonnello aveva chiamato Feuerbach, e il rumore del
suo passo pesante che si allontanava.
Non avevo davvero via d’uscita, questa volta.
L’unica possibilità era prendere tempo e sperare che la guerra finisse in
fretta.
Quando l’uscio si aprì, alzai ugualmente la testa,
anche se non potevo vedere nulla; qualcosa di piccolo e veloce si intrufolò
nella cella, seguito da un sibilo spaventato:
- No... ehi, torna qui! -
- Zio? Ed? -
Il mio incosciente nipote seguito da Klaus...
- Smetti di agitarti, o inciamperai. - dissi,
secco.
- Scusa se mi stavo preoccupando per te. - rispose
lui, con quell’irritante sarcasmo che mi ricordava vagamente il suo
insopportabile nonno, Heinrich.
- Veramente, dovrei essere io a preoccuparmi per
voi. - gli feci notare, mentre lui si avvicinava - State tutti bene? -
- Sì, e siamo riusciti a scoprire quanta gente
abita nella casa... ti ho pestato un piede? - si interruppe, sentendo il mio
verso strozzato
- Era la mia mano! - ringhiai appena riuscii a
parlare - E comunque, stavate pensando di scappare?-
- Se posso permettermi, - si inserì la voce di
Klaus - ti chiederei di non pensarci neppure. Anzi, tu e le altre due ragazze
dovreste rimanere il più possibile nell’ala della casa della signora Schneider,
ed evitare di comparire davanti al naso di sua figlia. È una persona piuttosto
imprevedibile. - mentre diceva questo, appoggiò per terra un vassoio e me lo
fece scivolare di fianco, per evitare di rovesciare tutto andando a tentoni.
Prosciutto, riconobbi. Evidentemente dovevano finire
le scorte che avevano spostato per farmi posto.
- Cosa vuole da te la signorina Steinglocke, Ed? -
mi chiese Thomas - È per questo che ti è stata appiccicata per tutto questo
tempo? -
Masticai il boccone che avevo in bocca, prima di
rispondere, anche e soprattutto per decidere cosa dire.
- Thomas, - domandai, infine - cosa sai su
Amestris? -
Prima che lui potesse ribattere, la porta si aprii
nuovamente. Udii la voce di Feuerbach imprecare quando il gigante inciampò in un
gradino, e i suoi goffi tentativi di cercare la lampadina da sostituire, con
l’unico ausilio di una minuscola torcia che teneva in bocca, per avere le mani
libere.
Non fece alcun commento sulla presenza del suo
commilitone e di uno dei tre ragazzini prigionieri, né sul fatto che mi stavo
ingozzando di pane del giorno prima e prosciutto più che accettabile. O era
molto onesto, o molto miope, perché anche alla misera luce della lampada la
presenza di due intrusi, seppure ammutoliti al suo arrivo, era evidente.
- Ehi, piano! - protestai, quando un movimento
dell’uomo mi mandò il fascio di luce dritto in faccia, accecandomi. - Non hai
sentito il tuo capo? Guarda che potrei trasformarvi tutti in rospi! -
- Ernst, quando hai finito resta fuori e avvertimi
se arriva qualcuno. Portati dietro Klaus. Io faccio due chiacchiere con il
Pifferaio Magico. -
Trasalii, riconoscendo la voce che proveniva
dall’ingresso: nel caso ne avessi avuto bisogno, comunque, in quel momento tornò
la luce.
Se ne stava appoggiato allo stipite, come se
faticasse a stare in piedi; aveva i gradi di capitano, ma la sua uniforme era
logora quanto quelle degli altri, e ricucita alla meno peggio in alcuni punti
sul braccio sinistro: invece, il suo volto era molto più pallido e magro di
quelli dei suoi sottoposti, con profonde occhiaie scure e l’ombra di una barba
di alcuni giorni. Era l’uomo di cui parlava il colonnello, realizzai con
sgomento. Probabilmente, il sangue sul pavimento del camion era suo.
- Alphonse! - sussurrai.
Pensierino della buonanotte: Amo i
ricongiungimenti familiari... anche quando rischiano di concludersi con una
sfuriata con fiocchi e controfiocchi!
Grazie per il mare di recensioni: dato che adoro sia
leggerle (ovvio!) che rispondere, potete immaginare come sia aumentata la mia
autostima (per non parlare della mia vanagloria...).
Mala_Mela: Non ho mai visto
Pomi d’ottone e manici di scopa, perciò non ti so dire quanto la mia fanfic
possa somigliargli, però mi hanno già detto che la parte iniziale ricordava
Le Cronache di Narnia... sai, quando i quattro bambini finiscono in casa del
professore acido per sfuggire ai bombardamenti? In effetti, non è il massimo
dell’originalità, ma a qualcuno dovevo pur lasciare Thomas e Lotte, mentre il
padre è in guerra.
Ah, non aggiorno mai durante le vacanze estive, per
una semplice ragione tecnica: c’è poca gente a casa (o, almeno, che abbia voglia
di connettersi a Internet per leggere), e la ff finirebbe presto in sesta o
settima pagina prima che qualcuno se ne accorga! ^^”””
DarkMartyx_93: Infatti la donna
non è Dietlinde Eckhart, ma Hedwig Steinglocke! Sì, l’ex Presidente è stata
eliminata da Hughes alla fine del film.
Dunque, per ricostruire il periodo storico ho usato
soprattutto Internet e parecchi libri... non necessariamente saggi o libri di
storia, anche solo dei romanzi ambientati in quegli anni; poi ho unito il tutto
a varie foto d’epoca (specialmente per l’abbigliamento) e ai racconti orali.
Inutile dire, comunque, che c’è qualche licenza: non so il giorno esatto in cui
ci fu un bombardamento su Monaco, né cosa combinasse la Società di Thule in quel
periodo: d’altronde, anche il film non era troppo accurato, da questo punto di
vista (Ed con i capelli lunghi, una donna a capo di Thule quando le donne non vi
erano ammesse...).
FightClub: In effetti, mi
chiedevo dove la mia storia fosse scurrile... cioè, immagino che le si possano
muovere alcune critiche, ma non mi pareva di essere stata così triviale... ^^”””
KuRoNeKoChAn: Ho lasciato un
altro dei miei assi nella manica alla fine di questo capitolo! Contenta di
rivedere Al? :P
Talpina Pensierosa: Adesso hai
capito perché lascio allusioni criptiche ad altre mie fanfiction? Perché non
sono così ingenua da credere che tutti vadano a vedere la mia pagina personale
per controllare cosa scrivo! :-)
Selfish: Visto che la tua
venerazione fa bene alla mia autostima, ti lascio andare a prendere l’autobus...
ma che non succeda più che lasci una recensione così corta, va bene??
(A scanso di equivoci, ci tengo a precisare che
scherzo!)
Babus: Ma certo che le donne,
come controparte malvagia, sono migliori: gli uomini partono con lo sterminio di
massa per conquistare il mondo, mentre Dante, più furba, in pratica governava
una nazione senza neppure sporcarsi le mani, dato che i lavori di bassa
macelleria glieli facevano gli altri!
Eneri_Mess: La variazione dei
punti di vista mi serve per dare un’idea più completa della situazione, e
rendere meno monotona la narrazione: se, tanto per fare un esempio, fosse tutto
scritto dal punto di vista di Ed, andrebbero persi i caratteri dei tre soldati
(Ernst, Andreas e Klaus), che per ora solo Alphonse può vedere. Per Edward quei
tre sono solo i suoi rapitori, mentre Al li conosce meglio.
Liris: Non so perché ho aggiunto
orologio e cappotto... cioè, in effetti è inutile ai fini della storia.
Sarà che sono sentimentale...
eleo_chan:
Ehi, ho forse trovato una mia omonima? No, va bene, non c’entra nulla. Dunque,
Margarethe... ehm, mi vengono in mente molti aggettivi, ma non proprio “dolce”:
Margarethe non è dolce, anzi, in certi momenti è davvero tirannica! Il motivo
ufficiale è che deve tirare avanti da sola, far quadrare i conti ed essere certa
che ci sia sempre qualcosa in tavola, e non è una persona che ami piangersi
addosso. Il motivo ufficioso... è che mi piace così.
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Capitolo 9 *** L'errore di Edward ***
Nuova pagina 1
9. L’errore di
Edward
- Papà? -
Thomas si era girato verso Alphonse con uno scatto
così secco da farmi sentire lo spostamento d’aria, ma si era subito inchiodato
lì, con un’aria spaventata e confusa, come se non fosse certo che l’uomo di
fronte a lui fosse suo padre. Al si accorse subito del suo smarrimento, e gli si
avvicinò con lentezza, accosciandosi per poterlo guardare negli occhi.
- Tom! Andrà tutto bene, vieni qui. - disse, mentre
allargava le braccia per stringere il figlio.
Il ragazzino non si mosse: aveva gli occhi così
sgranati che temevo seriamente stessero per schizzargli fuori dalle orbite.
- Che c’è, non mi riconosci? - a dispetto
dell’ironia che tentò di mettere nella domanda, mio fratello sembrava sul punto
di piangere per la frustrazione - Dai, vieni ad abbracciarmi. -
Riscuotendosi, Thomas gettò le braccia al collo del
padre, aggrappandosi con tutta la forza che aveva in corpo e tuffando il viso
nella sua giacca, incurante del fatto che fosse sporca e ruvida. Distolsi lo
sguardo, imbarazzato per la mia presenza in un momento così intimo, sperando che
Klaus e il gigante fossero abbastanza educati da fare altrettanto.
- Tom... - sussurrò Al con voce roca, staccandosi a
malincuore dal figlio per guardarlo negli occhi e accarezzargli la guancia - Non
immagini quanto mi siete mancati, tu e Lotte. -
- Papà, che ti è successo? Stai male? - domandò il
dodicenne.
- Sto bene. - rispose semplicemente l’altro - Ora
sto bene. -
Sfortunatamente, in quel momento si ricordò di me:
aggrottò le sopracciglia, tornando all’argomento per il quale era giunto lì
sotto.
- Ed, sei tornato ad Amestris? -
Io, che stavo divorando quel che mi aveva portato
Klaus, mi fermai di colpo, la schiena ancora curva per non lasciar cadere
neanche una briciola di pane per terra. Mi pulii la bocca con una manica, per
prendere tempo, mentre mio fratello si sedeva alla mia destra, con l’aria
paziente di chi è pronto ad ascoltare una lunga storia.
Senza osare guardarlo, mi limitai ad annuire.
- Lo immaginavo. - rispose calmo lui - Ho visto una
moneta che vi è caduta nella sala al pianterreno: c’era la data del ‘33,
che corrisponde al nostro 1939. -
Fece un cenno secco ai due soldati, perché se ne
andassero; aspettai che la porta si fosse chiusa, e padre e figlio fossero
seduti di fianco a me. Seguendo con lo sguardo Alphonse, notai per la prima
volta alcuni capelli bianchi nelle sue basette.
- Ho continuato a lavorare a quel cerchio alchemico
fin da quando tu sei arrivato da questa parte del Portale. - ammisi infine.
- Perché? - chiese Al, con voce pacata.
- Per te. Nel caso volessi tornare nel nostro
mondo. -
- Nel vostro mondo? - si intromise Thomas,
e per la prima volta mi resi conto che lui e Lotte non dovevano sapere nulla
della nostra storia: difatti, non avevano riconosciuto il nome del Paese da cui
provenivamo, né, ovviamente, i cerchi alchemici.
Il padre lo ignorò:
- Per me? Fratellone... -
- Non volevo che ti sentissi come mi ero sentito io
nei due anni in cui ero rimasto bloccato qui! Avevo il terrore di vederti
pentire per quello che avevi fatto! -
Al sembrò profondamente offeso dalla mia
affermazione:
- Intendi seguirti di nascosto? Beh, mi pare di
averti detto più volte che non lo ero, e non lo sono tuttora! - distolse lo
sguardo, abbracciandosi le ginocchia - Qui c’è la mia famiglia: non me ne andrò.
-
- Lo so. Ora lo so. - dissi, prendendo un profondo
respiro - È per questo che, sei anni fa, non ti dissi nulla. -
- O forse, perché non stavi più lavorando per me,
ma per te. -
Non potei negarlo: probabilmente, aveva ragione.
- Come hai fatto? - mi chiese - Non esistono più
homunculus. -
- Modificando il cerchio di partenza: ho eliminato
il problema della pressione e la necessità di un homunculus, e ho ridotto la
quantità di sangue necessaria... a scapito della stabilità. - precisai -
Dall’altra parte funziona meglio che da questa, e credo che gli abitanti di
questo mondo non possano attraversare il Portale. -
Thomas fece per parlare di nuovo, ma si fermò con la
bocca aperta: doveva aver intuito che nessuno gli avrebbe risposto.
- E sei andato da Winry. -
- Come fai a saperlo? - gli domandai, sbalordito.
- L’auto-mail che hai in questo momento è diverso
da quello che ti ho sempre visto indosso. -
Alzai il braccio destro: in effetti, avevo tenuto
quell’arto artificiale in un cassetto, nel mio appartamento, finché non ne
avevo avuto bisogno, dopo aver venduto il mio al vecchio Lindemann per il pollo.
- Ho pensato che mi sarebbe tornato utile un
auto-mail di scorta. - dissi - Con la guerra alle porte... non avevo intenzione
di riaprire ancora il Portale. - aggiunsi subito.
- E adesso? -
Al me lo domandò mentre si allungava per prendere il
taccuino del Presidente, che avevo lasciato per terra: lo sfogliò con aria
seria, mentre io riprendevo a parlare.
- Adesso non ho molta scelta. - mormorai, lanciando
un’occhiata a Thomas - Anche se dubito di poter migliorare ulteriormente il
cerchio alchemico. -
- Hai davvero intenzione di lavorare per la Società
di Thule, quindi. - dichiarò mio fratello, chiudendo di scatto il quaderno.
- Lo dici come se mi facesse piacere! - sbottai,
alzando la voce.
- Penso solo che sei stato impulsivo come al
solito. - replicò lui, con un tono gelido che non ammetteva repliche. Si alzò,
facendo cenno al figlio di fare altrettanto.
- Non è il momento di recriminare! - esclamai,
saltando in piedi a mia volta - Posso cercare di perdere tempo e aspettare che
gli Alleati arrivino fin qui e costringano la Società di Thule alla fuga, ma se
non ci riuscissi dovrai essere tu a... -
- ... a mettere in salvo i miei figli? Grazie, Ed,
questo potevo intuirlo da solo! -
- Al! - ruggii, afferrandolo per il braccio
sinistro.
Lui si lasciò sfuggire un’esclamazione che mi fece
lasciare immediatamente la presa.
- Sei ferito! - esclamai, dimenticando la rabbia.
- Non è nulla. - rispose bruscamente lui - Andiamo,
Thomas. -
- Al! Al! -
Uscì ignorandomi. Feuerbach, ancora dietro alla
porta con Klaus, dovette spostarsi di scatto per non essere travolto dalla
gelida furia del mio fratellino.
Quando mi chiusero la porta in faccia, sfogai tutta
la mia rabbia tirando un violento calcio al quaderno di Hedwig, incurante del
fatto che il gigante era ancora di guardia fuori dalla cantina.
* * *
Il solito scriteriato! Davvero, lo avrei strozzato!
Lasciai la cantina, incurante di Klaus ed Ernst, e
attraversai il corridoio male illuminato che saliva alla villa, senza smettere
di pensare a quanto sconsiderato fosse mio fratello. A malapena mi accorsi di
Tom, che per starmi dietro si era quasi messo a correre, finché non fummo
davanti ai pochi scalini e alla porta che separava il seminterrato dalla casa, e
non ricordai che mio figlio non avrebbe dovuto trovarsi lì:
- Stai nascosto qui, - gli ordinai - io vado a
controllare che non ci sia nessuno in giro. -
- Papà, non è stata colpa dello zio, davvero! È
stata la signorina Steinglocke! -
- Thomas, non mi va di parlarne! -
Lui si ritrasse come se lo avessi schiaffeggiato: lo
stavo trattando come non avevo mai fatto neppure con i miei subordinati, e me ne
vergognai.
- Tom, - ricominciai, più pacato - ora tu torni da
Lotte, e non ti muovi più. Intesi? -
- Va bene. E comunque non è stata colpa di Ed! -
La testardaggine di mio figlio mi fece sorridere:
- Non ti arrendi mai, vero? -
- È stata la signorina Steinglocke! - ribadì
ostinatamente - Era la fidanzata dello zio, ma è anche il capo dei cattivi. -
- La fidanzata di chi? - ripetei, sorpreso.
Mio fratello fidanzato? Possibile? E quando
avrebbe avuto intenzione di dirmelo?
- Io credo che lei abbia sempre finto, per... - si
interruppe, alzando lo sguardo.
Avevo sentito anch’io: qualcuno discuteva
animatamente, da qualche parte alle nostre spalle. Vedevo delle ombre agitarsi
per la scala che avremmo dovuto salire per andare ai piani superiori.
- Torna lì dentro. - sussurrai a mio figlio - Esci
solo quando non sentirai più nessun rumore... e non dire a nessuno che mi hai
visto, tanto meno che sono tuo padre! A nessuno, capito? -
L’ultima cosa di cui avevo bisogno era diventare
anch’io un’arma contro Ed.
Dopo essermi assicurato che Thomas si fosse chiuso
la porta alle spalle senza lasciare spiragli per sbirciare, mi avvicinai alla
fonte del baccano cercando di apparire indaffarato: un’aria seria, il passo
deciso e veloce di chi sa benissimo dove sta andando... piccoli trucchi perché
nessuno ti chieda cosa stai facendo. Non avrei saputo rispondere.
Di fronte a me, alla cima delle scale, vidi la
cameriera... Clara, mi pareva si chiamasse. Quando ero arrivato lì,
febbricitante e più morto che vivo per l’infezione, era stata incaricata di
badare a me: la buona educazione imponeva almeno che la ringraziassi, ma non
l’avevo ancora fatto, per il semplice fatto che per qualche tempo avevo avuto il
dubbio che non fosse mai esistita, ma si trattasse solo del frutto del mio
delirio, come tutte le persone sconosciute, lontane o già morte che si
aggiravano intorno a me.
L’altra persona... per la miseria, l’altra persona
era Winry!
Compresi subito l’errore: aveva i capelli più scuri,
e un’espressione altezzosa che non conoscevo. Tuttavia, la somiglianza era
sbalorditiva.
- La risposta è no. Non ho la minima intenzione di
prestare la mia auto ad una serva! - stava dicendo, agitando una manina
guantata per ribadire il concetto.
- È l’auto di sua madre, signorina Steinglocke: la
signora mi ha sempre permesso di usarla per andare a farle le commissioni, di
giovedì. Mi accompagnava Hans, l’uomo che porta la verdura... -
- Sarà l’auto di mia madre, ma ora la uso io.
E poi domani Hans non ci sarà, e non le permetto di guidare. So come va a
finire, quando si lascia troppa libertà alla servitù. -
La ragazza incassò l’implicita accusa senza
replicare, ma le sue mani strinsero più forte il grembiule che le proteggeva
l’abito scuro.
- I farmaci di sua madre sono finiti, e... -
- Parliamoci chiaro: mia madre le ha permesso di
guidare la Mercedes, stasera, domani o in un qualunque altro giorno? -
In quel momento, la cameriera incrociò il mio
sguardo.
- No, signorina. La signora Schneider pensava che
avrebbe potuto accompagnarmi il capitano. È uno dei vostri uomini, no? E domani
il colonnello non è qui, quindi è libero. -
La signorina Steinglocke (persino lo stesso cognome
di Winry!) si girò a guardarmi, piegando di lato la testa:
- Ha parlato con mia madre, capitano? -
Dubitavo che la signora a cui le due si
riferivano fosse al corrente della mia esistenza: io non l’avevo mai vista, e
men che meno le avevo parlato. Mi chiesi perché quella ragazza fosse così certa
che l’avrei coperta.
- Sì, signorina. - risposi, compunto - Mi ha
chiesto di rivolgermi a lei per domandarle la macchina per domani mattina, alla
solita ora. -
Alla solita ora. Chissà se esisteva, una
solita ora. Le mie doti di attore erano meno che inesistenti.
Lei mi scrutò a lungo, con tanta intensità da
mettermi in imbarazzo. Poi, inaspettatamente, rovesciò la testa in una risata:
- Mia madre non avrebbe mai detto nulla di simile,
capitano! Eviti di abbellire la verità: posso immaginare cos’ha riferito di me
quella strega! -
Si passò una mano tra i capelli, per controllare che
fossero in ordine, poi frugò nella borsetta e mi consegnò un paio di chiavi.
- E sia. - concesse - Non le darò la soddisfazione
di andarsene in giro a dire che sto tentando di ammazzarla. Almeno lei,
capitano, non puzzerà di sigaro come il suo colonnello. -
* * *
Mio padre, a volte, è l’uomo più sospettoso che
conosca. Non solo non si fidò a lasciarmi salire al secondo piano da solo, ma
rimase nascosto, qualche metro alle mie spalle, per controllare che entrassi
davvero nella camera mia e delle ragazze!
Margarethe e Lotte si erano avvicinate non appena
avevano sentito aprirsi la porta, e la diciassettenne emise un sospiro sollevato
che diceva molto sulla sua fiducia nei miei confronti:
- C’è da mangiare? - chiesi subito, ricordando quel
che aveva detto la signora Schneider al soldato Holze.
Margarethe mi indicò con un cenno gli avanzi che mi
avevano lasciato, sul tavolo che occupava il centro della stanza. Se anche si
accorse della mia agitazione, la ritenne causata dalla spiacevole situazione in
cui ci trovavamo.
- Ho visto lo zio. - dissi, appena ebbi inghiottito
il primo boccone di quella cena così tarda - Sta bene, ma è in un mare di guai.
-
Come noi., commentò tetramente Margarethe.
Almeno hai capito perché?
- No. - risposi, e questa volta ero assolutamente
sincero.
Nostro mondo, aveva detto Ed. Un mondo
chiamato Amestris, forse?
- Lotte? -
Mi voltai per guardarla in faccia: si era seduta su
uno dei due letti, e mi fissava con lo sguardo indecifrabile di una sfinge. Per
un istante, ebbi il timore che avesse visto papà... ma no, impossibile. Che
fosse una bambina attenta lo sapevo, ma riconoscere un uomo che non dovrebbe
trovarsi lì in un corridoio buio era quasi sovrannaturale.
- Ricordi, - continuai fingendomi disinvolto -
quella storia che papà ci raccontava prima di andare a letto? - le chiesi -
Quella... quella dei due fratelli. I due fratelli alchimisti. -
C’era un bambino piccolo piccolo, che viveva in
un'armatura grande grande. Lui e il fratello maggiore erano alchimisti.
Iniziava così.
- E allora? -
Ahio. Era arrabbiata, non c’erano dubbi. E visto che
difficilmente poteva aver litigato con Margarethe, doveva essere colpa mia (come
al solito). Ma che avevo combinato quella volta?
- Era una favola, no? Non era vera? -
La sua maschera gelida si incrinò appena.
- Che domanda è? -
Margarethe alzò un sopracciglio, come a dire è
quel che mi chiedo anch’io. Invece, sulla lavagnetta scrisse: È successo
qualcosa con Edward?
Se era successo! Ma come spiegare senza tirare in
ballo papà? Oh, accidenti, perché tutti mi chiedevano sempre di nascondere le
loro intenzioni? Prima Hanno, poi mio padre...
Scacciai il parallelismo, che mi dava i brividi. No,
non era la stessa cosa. Non sarebbe stata la stessa cosa.
- In un certo senso sì, ma non so quanto lui ne sia
responsabile. - ammisi.
In effetti, ora che ci pensavo bene, mi era stato
ordinato di non rivelare chi avevo visto, ma non mi era mai stato chiesto di non
parlare di quello che papà e lo zio si erano detti.
* * *
Quella notte non dormii affatto, e non solo perché
nella mia cella non c’era un letto. Percorsi il perimetro della stanza per
quelle che mi parvero ore, sia per scaricare la tensione che per scaldarmi un
po’: non avevo notato quanto la temperatura fosse scesa, in quel tugurio
sottoterra. Tuttavia, gli sbuffi e gli scalpiccii provenienti dall’altra parte
mi fecero sapere che neppure il mio carceriere stava molto comodo... accolsi la
notizia con gioia sadica.
L’alba trovò un quarantenne lievemente miope e
decisamente sconfortato seduto sul pavimento gelido, con le braccia intorno alle
ginocchia e la testa piegata, più per il troppo pensare che per il sonno: la
luce entrava da alcune finestrelle strette e lunghe, a cui nessuno lavava i
vetri da parecchio.
Quando il soldato Feuerbach entrò, ero certo che
fosse per ordine di Hedwig: appuntai lo sguardo su di lui, cercando di farlo
vergognare di fare il cane da guardia a quella donna.
Voltò gli occhi verso il muro, mortificato,
sorprendendo me per primo.
- Le ho portato la colazione. - borbottò, con voce
appena udibile, porgendomi una tazza di caffè - È vero, ed è caldo. -
Stupito, mi affrettai ad accettare l’inaspettato
regalo (prima che cambiasse idea). Circondai la porcellana bianca con le dita
intirizzite, cercando di scaldarle, e mi riempii i polmoni del profumo.
- Sono anni che non vedo del caffè vero. - dissi -
Solo surrogato. -
- Anch’io. - ammise lui - Cominciavo a chiedermi se
esistesse ancora. Questo lo ha recuperato in cucina Andreas... il mio
commilitone dai capelli rossi, intendo. -
- Grazie... - risposi, indeciso su come
interpretare quel comportamento.
Feuerbach rimase davanti a me, e per qualche secondo
mi parve che volesse parlare; però, subito dopo mi diede le spalle, e fece per
uscire.
Non ero abile nell’indagine dell’animo umano come
Al, ma non riuscii più a vedere quel soldato come un nemico. Forse non era un
mio alleato, ma almeno non aveva motivo per prendersela con me o i miei nipoti.
- Mio fratello... cosa gli è successo? -
Tornò a voltarsi, indeciso se rispondere o meno.
- È stato ferito, questo lo so. - continuai - Ho
visto il sangue sul camion, ho sentito come ne parlavano Hedwig e Holze, e
quando gli ho toccato il braccio si è ritratto di scatto. Com’è accaduto? -
Il gigante spostò lentamente il peso del corpo da un
piede all’altro, evitando di incontrare il mio sguardo.
- Quando l’esercito americano ha sfondato il
fronte, a Remagen, - disse infine - ci siamo ritrovati a scappare alla cieca per
i campi e i boschi intorno al Reno. Il capitano era stato ferito al braccio da
alcune schegge di granata, ma per tutto il tempo ha guidato il nostro gruppo. -
- Dunque, è per questo che era stato dato per
disperso... - compresi.
- C’era una gran confusione, è vero. Senza contare
che, non appena ci siamo riuniti ai nostri commilitoni, il colonnello Holze ci
ha portati qui: aveva una fretta indiavolata, tanto da non curarsi neppure del
fatto che la ferita del capitano Elric si era infettata, e rischiava di perdere
il braccio, se non la vita. -
Impallidii, troppo inorridito per parlare. Mio
fratello in pericolo di vita!
- Signor Elric, - riprese l’uomo - i due bambini
sono i figli del capitano, giusto? -
- Sì. -
Annuì solennemente.
- Non si preoccupi, non succederà niente a nessuno
di voi. Noi tre dobbiamo troppo a suo fratello per permettere che vi succeda
qualcosa. -
Fece per andarsene, ma di nuovo si fermò.
- Signor Elric... - mi chiese di nuovo, dopo un
silenzio imbarazzato - lei non ha mai evocato uno spettro in un’armatura, vero?
-
- Oh, certo che no! - replicai, con aria innocente
- Si trattava di mio fratello! -
* * *
Le “commissioni” si rivelarono una faccenda molto
più complicata del previsto: Clara Leitner, quel giorno con un sorprendente
cappotto rosso carminio e un baschetto dello stesso colore, si riforniva di
medicinali in una via vicina al centro città, che era quasi completamente
distrutto. Senza contare che, vicino alla villa, non c’era nessuna strada degna
di questo nome: solo un sentierino terroso tra i prati di un verde umido per la
rugiada.
Questo spiegava perché lavassero la vettura quasi
ogni giorno: quella mattina il terreno era duro e compatto, ma sarebbero bastate
poche gocce di pioggia per trasformarlo in un pantano.
Pensai di approfittare dell’inaspettata libertà per
fare un giro nelle vicinanze, ma dopo meno di mezz’ora ero tornato indietro: la
zona era così triste e misera da turbarmi più di quanto fossi già. La famosa
Mercedes nera, a cui Thomas aveva accennato più volte la sera prima nella sua
frettolosa e pasticciata spiegazione, se ne stava lucida e brillante nell’aria
piena di polvere dei palazzi distrutti come un pesce appena pescato e lasciato
al sole di quella giornata inaspettatamente bella. Le grandi vie del centro, che
ricordavo dalle passeggiate con Caroline e i bambini, erano vuote e brulle come
un paesaggio lunare, e i simboli della città che un tempo si trovavano lì
scomparsi: il municipio sembrava sbriciolato, e la Frauenkirche aveva i
campanili (quelle alte guglie, che vedevo fin da casa nostra!) mozzati, mentre
il tetto era in gran parte crollato, lasciando solo i costoloni. Una macabra
cassa toracica priva di carne intorno.
Mi appoggiai alla vettura, sospirando.
- Che faccia scura. È colpa mia? -
Trasalii, accorgendomi finalmente della cameriera,
che mi fissava con le testa leggermente piegata sulla spalla destra.
- Perché dovrebbe essere colpa sua? Stavo solo
pensando a cose abbastanza tristi. -
- Pensavo stesse maledicendo il mio ritardo. A
questo proposito, mi scuso per averla coinvolta, - continuò, infilandosi la
borsa a tracolla - e per averle fatto perdere tempo. Ora che ci penso, non l’ho
ancora neppure ringraziata per avermi coperta con la signorina Steinglocke. -
- Allora siamo pari: io non ho ancora ringraziato
lei per avermi aiutato. -
Abbassò lo sguardo per una frazione di secondo. Ci
fronteggiavamo dai due lati dell’auto.
- Non ha nulla di cui ringraziarmi, capitano Elric,
perché non ho fatto proprio niente: ho studiato da infermiera, e per questo sono
stata assunta dalla signora Schneider. -
- Questo non la obbligava a curare un soldato. -
Aveva già allungato la mano verso la maniglia, per
aprire la portiera, ma alle mie parole tornò a guardarmi, sorridendo divertita.
- Di questo passo, finiremo per ringraziarci a
vicenda per tutta la giornata, sa? - scherzò.
- Un po’ impegnativo. - dissi, ridendo - Deve
andare da qualche altra parte? -
- Dipende. Ha fretta di tornare a casa? -
- No. Mi sto godendo l’ora d’aria, come i
carcerati. -
Questa volta rise apertamente.
- Anche io. Se le va, allora, avrei un altro
incarico. L’indirizzo è... - rovistò nelle tasche, per poi estrarne un foglietto
spiegazzato - questo qui. -
Riconobbi con stupore la calligrafia di Lotte, oltre
all’indirizzo dell’appartamento di Ed.
- Missione segreta? - le chiesi, incuriosito,
sistemandomi al posto del guidatore.
- Più o meno: stamattina la bambina bionda mi ha
aspettato in corridoio per chiedermi un favore. Pare che sia il compleanno della
ragazza più grande, e Charlotte mi ha chiesto di recuperare il regalo che le
avevano comprato. -
Questo è tipico di Lotte, pensai con orgoglio.
La via era il solito buco stretto e scuro, in cui si
ha l’impressione di essere spiati da ogni finestra o balcone: e, nonostante mi
fossi guardato intorno con attenzione, non ero riuscito a scacciare la
spiacevole sensazione. Ero certo che l’intero vicinato sapesse che un ufficiale
dell’Esercito e una ragazza con un bizzarro cappotto rosso fossero appena
entrati nel vicolo.
- Ora che ci penso, - dissi a Clara - ha idea di
come entrare in casa? -
- Certo, la mia complice mi ha dato le chiavi! -
Questa volta non mi sentii troppo incline a lodare
mia figlia: non volevo sapere come avesse sottratto le chiavi di casa alla
proprietaria...
- Piccolo problema. -
Mi avvicinai alla signorina Leitner, impegnata ad
armeggiare con il chiavistello.
- Che succede? - domandai.
Per tutta risposta, lei spinse la porta con una
mano: quella ruotò rumorosamente sui cardini, aprendosi fino a farci vedere il
piccolo atrio.
- Possibile che quei tre idioti si siano
dimenticati di chiudere? - brontolai, seccato. Dove avevano la testa? Si sa che
l’occasione fa l’uomo ladro, figurarsi in tempi tanto difficili!
- No, la serratura è manomessa. Qualcuno l’ha
forzata. - mi spiegò lei, indicando il chiavistello deformato.
Il sospetto che mi venne in mente non era
edificante: un ladro comune, un qualsiasi disperato come ce n’erano tanti in
quel periodo, ignaro dell’assenza dei padroni di casa, avrebbe rotto il vetro
della libreria per tentare di passare da lì. Non poteva sapere che si sarebbe
trovato di fronte alla pesante porta che i Meyer avevano fatto installare anni
prima, in seguito ad un’incursione del genere.
Mentre qualcuno a conoscenza di quell’ostacolo, e
per di più sicuro che l’abitazione fosse vuota, avrebbe tentato la fortuna con
l’ingresso principale. Soffocai l’impulso a guardarmi nuovamente intorno, ed
entrai.
- Aspetti! - sibilò Clara, trattenendomi per il
polso.
Incredibilmente, all’interno qualcuno stava
litigando.
Le voci giungevano ovattate oltre la porta
dell’appartamento al pianoterra (quello di Ed), ma comunque ben udibili. Gli
sciacalli erano davvero senza vergogna.
Con la vista annebbiata dall’ira, spalancai l’uscio
e irruppi come una nube temporalesca nel salotto, mentre la signorina Leitner si
teneva prudentemente a distanza.
Non so che cosa mi fossi aspettato di trovare: in
realtà, credo di non aver pensato proprio nulla, mettendo automaticamente mano
alla pistola per spaventare eventuali aggressori. Di certo, in ogni caso, non mi
aspettavo la scena che mi si presentò di fronte, perché era semplicemente
assurda.
Mio suocero, Karl Heinrich, stava minacciando con il
suo bastone da passeggio un suo coetaneo.
Abbassai la pistola, e tentai di riguadagnare il
controllo della mia mascella, senza smettere di fissare il piccolo incontro di
boxe geriatrico che si stava tenendo nel salotto di mio fratello.
- Potrei sapere cosa sta succedendo qui? - chiesi,
con tutta l’educazione che riuscii a trovare.
- È così difficile da capire? - mi rispose Karl,
con la tracotanza che usava sempre per salutarmi - Mi sembra scontato: questo
lurido individuo sta tentando di rubare ciò che appartiene ai miei nipoti! -
Osservai meglio il secondo vecchietto: anche lui
piuttosto basso, era ossuto e scarno come un ramo secco, e con un’espressione
cattiva che non mi piacque affatto. In effetti, teneva nella mano destra un
cappottino di Charlotte, oltre a un soprabito di Ed e a quello che mi parve un
orologio da taschino.
- Chiunque lei sia, signore, - dichiarai
educatamente - le devo chiedere di posare quegli oggetti che non le
appartengono. -
- Col cavolo! - rispose lui, con un’insopportabile
vocetta stridula - Quel pezzente di Elric mi deve ancora i soldi per il pollo
che gli ho procurato, e il fatto che sia andato all’Inferno non estingue il suo
debito. -
Karl fece per colpire l’uomo col bastone... non per
le offese a Edward, ovviamente, ma perché dire che lui era cadavere implicava
dare per morti anche i bambini. Lo fermai in tempo, anche se la ferita al
braccio protestò vivacemente.
Non credevo che mio fratello avesse debiti con
qualcuno: lo conoscevo troppo bene.
- Cosa le deve? -
- Il prezzo del pollo: - il tono di voce dell’uomo
si era abbassato, facendosi untuoso e servile - quell’idiota mi ha pagato con
una protesi! Si rende conto, capitano? Una protesi! Che me ne faccio, io? Era
ferraccio di pessima qualità. -
Nella mia mente risuonò l’urlo che avrebbe
probabilmente lanciato Winry a quelle parole: per nascondere il sorriso,
strappai di mano all’uomo gli oggetti che stava rubando. Passai il cappottino e
il soprabito a Clara, pensando che mia figlia e il suo disgraziatissimo zio
avrebbero potuto avere freddo (in special modo Ed, visto che stava in cantina),
e stavo per posare l’orologio, quando mi accorsi di cosa si trattasse.
Il distintivo degli Alchimisti di Stato?
Feci scattare il coperchio, e la data del tre
ottobre del ‘10, sormontata dalla parola Ricordare mi comparve davanti,
chiara ed inequivocabile.
Ma bene. Altri misteri.
- Oh, è rovinato. Peccato. -
Ignorai il vecchio, troppo preso da altri pensieri.
Ricordavo benissimo di aver smarrito io stesso
quell’orologio a Reole, più di vent’anni prima, durante i concitati eventi che
precedettero la distruzione della città e la diserzione di mio fratello: Ed non
mi aveva mai detto dell’iscrizione, ma Winry me lo aveva rivelato anni dopo,
quando avevo perso la memoria e, quindi, non mi diceva assolutamente niente.
Come poteva, quello stesso oggetto, essere
ricomparso in questo mondo, a due decenni di distanza?
- Bene,
signor... -
- Lindemann. Johann Lindemann. -
- Signor Lindemann. A
quanto ammonta questo ipotetico debito? -
Gli occhi del vecchio scintillarono avidi; non feci
commenti sul prezzo assolutamente assurdo, ma, anzi, annuii comprensivo.
- Capisco: più o meno il prezzo di una serratura
nuova, no? -
Lindemann accusò il colpo. Aveva gonfiato il prezzo,
è vero, ma non così tanto. Io mi limitai a sorridere innocentemente, fingendo di
non aver notato l’occhiata omicida che mi era stata dedicata.
- Ripasserò tra qualche giorno a controllare. -
dissi, infine - Ovviamente, se scoprissi che manca qualche effetto personale, di
mio fratello, - Lindemann trasalì vistosamente - dei suoi locatori o dei
miei figli, la riterrò responsabile. -
Clara Leitner era scomparsa nell’altra camera
qualche minuto prima: ora ricomparve nel salotto con una scatola in mano, e alzò
su di me uno sguardo sorpreso e divertito. Lindemann non pareva della stessa
opinione.
- Possiamo andare, capitano Elric? - chiese,
tenendo gli occhi sull’anziano.
Credo che si divertisse a vedere il vecchio avido in
difficoltà: al solo sentire il mio cognome, era impallidito visibilmente, come
se questo avesse reso più tangibile il mio rapporto di parentela con l’abitante
di quell’appartamento.
- Sistemate le questioni economiche, signori, -
terminai - vi sarei grato se usciste da questa casa, visto che nessuno di voi ci
abita. -
Johann Lindemann sparì all’istante: Karl aspettò che
la via fosse libera, combattuto se parlare o meno.
- I bambini stanno bene. - gli dissi, immaginando
cosa volesse sapere - E anche mio fratello, anche se la cosa ti lascerà
indifferente. -
- Almeno Frau Schneider non dovrà cercarsi
di nuovo un altro direttore. - mugugnò lui, scrollando le spalle e uscendo a sua
volta.
- Un nuovo cosa? - esclamai, stupito.
Possibile che non potevo allontanarmi di casa senza
che il mondo si capovolgesse?
- Deve cercare qualcosa, capitano? - insistette
Clara - Io ho finito. -
- Ha trovato il regalo, a quanto vedo. - dissi,
allungando il collo.
Nella scatola c'era una bella cintura di cuoio,
molto robusta. Sarebbe stata di ottima qualità prima della guerra, quindi per
quei tempi era quasi principesca.
- Ottima scelta davvero. - scherzò Clara - Ne avrei
bisogno una anche io! -
* * *
Come avevo fatto a perdere una bambina di sette anni
che, in teoria, non avrebbe dovuto muoversi da una stanza?
- Tranquilla, Margarethe. - cercò di confortarmi
Thomas, poco prima che mi venisse una crisi isterica - In casa ci sono solo i
soldati, e loro sono dalla nostra parte. E anche la signora Schneider. -
Poco importava: dovevo ritrovare Lotte prima che
qualcuno di poco raccomandabile se la vedesse davanti. Già quella mattina,
tornando dal bagno in fondo al corridoio, l’avevo trovata che confabulava con la
cameriera, quando avrebbe dovuto essere nella nostra camera comune ad impegnarsi
come noi a cessare di esistere.
Uscii dalla camera e attraversai di corsa lo spazio
che mi separava dalle scale, con Tom dietro di me; la villa sembrava deserta,
perciò mi arrischiai a scendere al pianoterra.
- Non dobbiamo sbirciare in tutte le stanze, vero?
- mi chiese il dodicenne.
Non lo facemmo, ma solo perché un bagliore di fronte
alla porta principale attirò il mio sguardo: una testolina bionda e riccia,
attaccata (il Cielo sapeva ancora per quanto, se qualcuno la scopriva lì!) ad
una figuretta impalata davanti all’ingresso, lo sguardo fisso nel cortile.
- Lotte! - ruggì Thomas, volando verso la
sorellina.
Lei non parve neppure averlo visto: continuava a
guardare i due personaggi che si stavano avvicinando, chiacchierando tra di
loro. Non ci avevano ancora scorti.
Clara Leitner la conoscevo, ma l’altro chi era?
Immediatamente, lo identificai per il colonnello complice della Steinglocke: non
l’avevo mai visto, ma in effetti non mi era mai stato descritto.
In preda al panico, tentai di trascinare via i due
bambini.
- Aspetta, Margarethe! -
L’esclamazione di Thomas fece alzare lo sguardo ai
due, che finalmente si accorsero di noi.
Magnifico., pensai. Siamo spacciati, ed
Edward con noi.
- Io non ho detto nulla... - piagnucolò Tom.
Gli scoccai un’occhiata indagatrice, ma non parlava
con me: fissava con sguardo implorante l’ufficiale... che, ora che vedevo da
vicino le mostrine, mi accorsi essere un capitano, non un colonnello. Un uomo
alto e biondo, con un’aria familiare, che si era fermato e guardava i due
bambini come se non esistesse altro al mondo.
Lotte sfilò la mano dalla mia, per fare un passo
verso l’uomo.
Non era spaventata.
Era furiosa.
Raddrizzò la testa e tirò indietro le spalle; quando
parlò, la sua voce era gelida e formale come quella di un adulto. La sua
dichiarazione, lapidaria.
- Buongiorno, papà. -
Pensierino della buonanotte: da questo
capitolo, dovrebbe essere chiaro fino a che punto arrivi la mia venerazione per
Al... beh, poveretto, meritava un po’ di spazio, dopo nove capitoli di assenza
(almeno a livello fisico, visto che né suo fratello, né i suoi figli si
dimenticavano mai di lui). Va bene, questa volta nessuno si è fatto male, se si
esclude l’amor proprio di Ed, ma abbiamo capito cos’ha combinato quel mascalzone
negli ultimi vent’anni: un bel po’ di cose che avrebbe dovuto fare con più
attenzione, e badando a non essere spiato!
La storia che il cerchio alchemico per aprire il
Portale può essere modificato è, ovviamente, una mia invenzione: visto che
Edward aveva modificato quello per la Pietra Filosofale, portando il numero dei
vertici a sette, ho ipotizzato che anche questo potesse essere reso più
efficiente (almeno relativamente...) cambiando in parte la struttura. La mia
teoria può essere accettata o meno, ma io avevo bisogno di una spiegazione per
il fatto che Ed non ha avuto bisogno di homunculus, né di tagliarsi le vene per
tornare ad Amestris; la faccenda che le persone di questo mondo non possono
accedere all’altro è solo una speculazione che segue la precedente: visto che
nel film Eckhart si ritrovava coperta di robaccia nera quando Ed e Al passavano
da questa a quella parte del Portale senza problemi mi ha fatto pensare ad una
“difficoltà” a muoversi per noi di questo mondo. Visto che il nuovo Portale,
come dice Edward, è ancora meno stabile, la sua ipotesi è dunque che sia ancora
più pericoloso.
E ora sotto con le recensioni:
Liris: non l’ho scritto
chiaramente che Ed era tornato ad Amestris, ma... beh, quando, nel terzo
capitolo, è saltato fuori un auto-mail che sicuramente non è stato costruito in
questo mondo, qualche dubbio era legittimo! :-)
Talpina Pensierosa: non
sai che fatica scrivere i pezzi in cui Al parla, ma non si sa il suo nome! Avevo
sempre paura di rivelare troppo, o fargli dire qualcosa che lo identificasse...
la mia speranza era che il lettore intuisse, ma restasse col dubbio: sai, quando
leggi e dici “No, dai, non è possibile... eppure...”? Ecco, una cosa del genere.
Non so se ha funzionato.
KuRoNeKoChAn: come, non sei felice di vedere Al? Ecco, ora me lo hai offeso!
Dovrò parlarci per mezz’ora prima che esca da sotto il tavolo... su, dai, Al,
non fare così! Hai avuto un capitolo quasi tutto per te, e sei anche riuscito a
startene da solo con una bella ragazza, mentre tuo fratello è chiuso in cantina
a stagionare!
I nomi tedeschi
sono inevitabili, purtroppo. In effetti, il luogo dove ambientare la ff non
doveva essere necessariamente Monaco: in vent’anni, i fratelli potrebbero
essersi trasferiti, anche solo per cercare quella benedetta bomba all’uranio;
ma, alla fine, ho deciso di mantenere la stessa ambientazione del film, sia
perché il titolo giocasse su quello dell’ultima puntata, sia perché mi
affascinava l’idea di scrivere una storia sulla Germania durante la Seconda
Guerra Mondiale.
Fightclub: in questo
capitolo, in realtà, c’è molta poca azione (se non vuoi considerare le due
mummie rinsecchite che litigano...), ma è uno dei cardini su cui ruota la fanfic,
perché spiega buona parte di quel che è successo nel passato. Il resto arriverà.
beautiful-disaster: sai
che tutto ciò non fa bene alla mia vanità? Poi il mio ego si gonfia troppo, e
rischio di mettermi a ridere senza motivo come un cattivo da anime...
MHUAHAHAHAHAH!
DarkMartyx_93: in effetti Al non è proprio la persona che ti immagineresti
in una divisa... ancor meno quella dell’esercito tedesco durante la Seconda
Guerra Mondiale. Mi piace mettere nei guai i miei personaggi, non so se si vede.
Selfish: ho capito la tua battuta sulla Verità e Ryuk solo quando Mtv ha
cominciato a trasmettere l’anime di Death Note, dato che non avevo mai
letto il manga, e... ehi, devo dire che hai ragione! Si vede che il Portale è un
altro modo che gli Shinigami hanno per passare il tempo divertendosi, oltre a
vedere gli umani ammazzarsi a vicenda tramite quadernetto assassino...
Non saprei dirti
quale sia più bello tra anime e manga di Fullmetal Alchemist: a me piacciono
molto entrambi. E, no, non posso prestarti Edward per il compito di chimica,
perché se solo potesse aiutare qualcuno, quel qualcuno sarebbe una studentessa
universitaria iscritta al secondo anno di chimica che giusto in questi
giorni ha rubato un paio di voti di biochimica e fisica II!! Tra parentesi, la
storia dei chiodi di garofano del settimo capitolo viene da un memorabile
pomeriggio nel laboratorio di chimica organica I... ho avuto quell’odore nei
capelli per due giorni, e sul camice per molto più tempo!
Siyah: come, avevi dimenticato la Vera protagonista di questa storia, Colei
che tutto può e a cui tutto riesce (per il semplice fatto che chi si mette sulla
sua strada viene abbattuto)? In due parole, Ilse Schneider??
Edward te n’è grato (anche a lui piacerebbe dimenticarla), ma lei sta già
caricando un vecchio fucile appeso sopra il caminetto degli Steinglocke...
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Capitolo 10 *** Il nuovo Portale ***
Nuova pagina 1
10. Il
nuovo Portale
Mentre mio fratello tentava di rabbonire la sua
adorabile figlioletta, io rischiavo la morte per assideramento o prostrazione.
Fortuna che Klaus Holze, Andreas Neubauer ed Ernst Feuerbach (che per qualche
motivo era chiamato “Il Filosofo”) aggiungevano spesso alle mie scarsissime
razioni dei generi di conforto rubacchiati dalla cucina, o anche l’inedia
sarebbe stata una causa di decesso molto probabile.
La mia tattica per perdere tempo per le due
settimane successive al nostro arrivo pareva aver funzionato, visto che eravamo
ancora tutti vivi, ma la pazienza di Hedwig si stava esaurendo: agli inizi di
aprile, smise di mandare il colonnello Holze a pungolarmi e prese a scendere di
persona. Fino a quel momento ero riuscito a tenerla a bada, ma ormai ero a corto
di scuse plausibili.
Il tempo passa, Edward Elric.
Stavo facendo di tutto per farlo passare. Dov’erano
quei dannati Alleati? Quanto ci mettevano a raggiungere la Baviera? Lavoravo
giorno e notte senza interruzioni significative, in una cantina gelida, e il mio
fisico non avrebbe retto a lungo, lo sapevo bene, anche se rifiutavo di
ammetterlo; negavo l’evidenza, e più mi sentivo stanco, più intensificavo gli
sforzi.
Il mio obiettivo primario restava quello di non
aprire ai miei nemici la via d’accesso ad Amestris, ma, se disgraziatamente
questo fosse avvenuto, non volevo mettere in pericolo delle vite: Hedwig avrebbe
potuto decidere di mandare nel Portale uno qualsiasi dei commilitoni di Al, o
tutti e tre, e nessuno di loro meritava di morire per eseguire degli ordini
privi di senso.
Il tempo passa, Edward Elric.
Il capo della Società di Thule mi fissava dalla
parte opposta della cantina, algida e sprezzante. Cercai di voltarmi, per non
doverla guardare in faccia, ma il mio corpo era diventato improvvisamente
pesante e non riuscivo a muovermi: era come essere pigiato a forza in una
scatola.
Sto sognando!, realizzai. Forse avevo anche
la febbre, oppure ero semplicemente crollato per la stanchezza. Quando mi ero
addormentato?
Il tempo passa, Edward Elric.
Davanti ai miei occhi, Hedwig si trasformò in Winry,
anche se lo sguardo sdegnoso non cambiò.
Lo so, amore mio., avrei voluto rispondere.
Ma vedi che non posso riaprire il Portale, o il tuo mondo sarebbe di nuovo
attaccato da quei pazzi di Thule.
Il muro della cantina, alle spalle di Winry, crollò
con un rombo che fece tremare il pavimento, e la luce abbagliante che si
sprigionò mi fece temere irrazionalmente che qualcun altro avesse aperto il
varco.
Al? Alphonse, sei stato tu? pensai.
Il tempo passa, Edward Elric.
La voce di Winry rimbombò nella stanza, ma non
riuscii più a vederla. Non vedevo più neppure la stanza. Ero accecato.
Non andare! È pericoloso!, provai a gridare,
ma dalla mia gola non uscì nessun suono, e questo mi terrorizzò. Al, fermala!
So che ci sei, che hai aperto tu il Portale!
Ed?
Questa volta fui certo di aver sentito la voce di
mio fratello.
- Al? Al, dove sei? -
- Sono qui, fratellone. Di fianco a te. -
Sentii la sua mano sulla fronte, e a fatica aprii
gli occhi. Alphonse era inginocchiato al mio fianco, e i grandi occhi scuri mi
fissavano, preoccupati. Ero sdraiato sul pavimento, coperto da una giacca o un
soprabito che non avevo quando mi ero addormentato, e il fastidio che sentivo
sotto la schiena mi informò che ero coricato sulla matita che usavo per
scrivere; la spostai con malagrazia, e dalla mia camicia si alzò un odore
disgustoso di muffa e vestito non lavato.
- Quanto ho dormito? - chiesi, sentendo la mia voce
roca e faticando a riconoscerla.
- Molto meno di quanto ti sarebbe servito. Ieri
sera Ernst non ha più sentito rumori, e quando è entrato a controllare ti ha
trovato accasciato a terra, febbricitante. Ha chiamato subito me e il colonnello
Holze, e devo dire che è stato difficile credere al mio comandante quando diceva
che era solo un’infreddatura. -
Potevo quasi vedere il corpulento colonnello che
sudava e si torturava i baffi da tricheco, chiedendosi come avvertire il capo di
quel che era successo, e se non fosse meglio tacere e fingere sorpresa nel caso
non fosse stata solo un’infreddatura. Ridacchiai alla mia immagine
mentale.
La porta della cantina era aperta: dalla mia
posizione riuscivo a vedere un paio di scarponi militari. Al mi stava davanti,
quindi non potei vedere altro finché lui non si voltò verso di loro, lasciandomi
intravedere la sottile figura in ombra di Klaus, di turno a farmi la guardia.
- Si è svegliato. - sussurrò mio fratello, rivolto
al commilitone - Però forse delira, perché sta ridendo da solo. -
- Sono lucidissimo. - ribattei, stizzito,
mettendomi a sedere. Solo in quel momento mi accorsi che quello che avevo
addosso era un mio soprabito, anche se ricordavo perfettamente di averlo
lasciato a casa Meyer.
- Sono passato un paio di volte a casa vostra, per
dare una controllata. - mi informò Al, intuendo a cosa stessi pensando - Tra
l’altro, avete una nuova serratura, dono del signor Lindemann. -
- Perché il vecchio... oh, credo di aver capito. -
sbuffai - Quel lurido sciacallo frugherebbe anche i nostri cadaveri, se ne
avesse l’opportunità! -
- Non ci pensare, al momento è talmente
terrorizzato dal capitano Elric che ogni tanto compare per tenerlo
d’occhio, da limitarsi a diffondere pettegolezzi nel vicinato. Sapevi che i tuoi
vicini sono i peggiori impiccioni che abbia mai visto? - aggiunse, porgendomi un
bicchiere che aveva appena riempito con quello che sembrava...
- Cognac? - sibilai, alzando gli occhi per
controllare che il suo subordinato avesse chiuso la porta della cella - Sei
pazzo?? Sai cosa succede se uno di quei fanatici ti vede con un liquore
francese in mano? -
- Non è per questo che lo avevate travasato in
innocue bottiglie di vino? -
Da quando Alphonse si lasciava andare al sarcasmo?,
mi chiesi mentre lui si sedeva più comodamente e alzava il suo bicchiere in un
brindisi.
- Agli Elric, e ai loro piani che non riescono mai.
- dichiarai, tetro.
Bevemmo in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri.
Personalmente, stavo ripercorrendo mentalmente tutti i tentativi che avevo fatto
per rendere più stabile il Portale, negli anni passati e in quelle ultime
settimane, e non ci misi molto ad arrivare alla conclusione che i miei passi
avanti erano, al momento, puramente teorici. Non potevo provare il nuovo cerchio
alchemico su cui stavo lavorando, naturalmente, perché sarebbe stato come
regalare a Hedwig il passaggio verso Amestris che tanto desiderava, perciò non
sapevo se avevo davvero combinato qualcosa.
- Hai scoperto qualcosa di nuovo? -
Le considerazioni di Al erano andate nella stessa
direzione delle mie, a quanto pareva.
- Ho proseguito sulla stessa strada di sei anni fa.
- risposi - Ma non oso ridurre ulteriormente la quantità di sangue: già così, ho
paura che solo noi di Amestris possiamo attraversare indenni il Portale. -
- Lo avevi già detto l’altra volta. Cosa te lo fa
credere? Non credo che, sei anni fa, tu abbia portato il libraio o sua figlia
con te. -
- No, è solo una mia teoria. - rabbrividii al solo
pensiero di Margarethe o del signor Meyer che si avvicinavano al Portale -
Riguarda quel che è successo nel ‘23, quando io sono arrivato ad Amestris senza
grossi problemi, mentre il Presidente... - mi interruppi, ripensando con
disgusto a quel che era successo. Non avevo una gran simpatia per nessuno di
quelli di Thule, men che meno per il loro capo, ma non avrei augurato una fine
simile neppure al mio peggior nemico. Che, nella fattispecie, erano loro.
- A proposito... - Al si frugò frettolosamente
nelle tasche, per poi estrarre il mio vecchio orologio da Alchimista di Stato. -
mi spieghi questo come l’hai recuperato? L’avevo perso a Reole, lo ricordo
benissimo: credevo fosse andato distrutto insieme alla città. -
- Non so bene neppure io come si sia salvato... -
ammisi, prendendolo in mano e facendo scattare il coperchio - Me lo ha dato
Winry, sei anni fa. Pare che, durante degli scavi per costruire una fognatura,
dalle parti di Reole, sia saltato fuori il mio orologio: è stato consegnato
all’Esercito, ma non ho idea di come siano risaliti a me. Nessuno sapeva
dell’iscrizione. - aggiunsi.
- Non lo avevi detto neanche a me. Come non mi hai
detto molte altre cose, sembra. -
- Mi dispiace. -
Alphonse scosse la testa: non so se era per il tempo
passato dalla sfuriata, o per la paura che gli avevo fatto prendere, ma sembrava
più conciliante.
- Non importa: se anche tu non avessi aperto il
Portale, la Società di Thule sarebbe ugualmente arrivata a te. Non avrei dovuto
aggredirti così. - ammise, ruotando il bicchere e guardando le ultime gocce di
liquido, sul fondo, che seguivano il movimento - Dopo tutto quel che hai fatto
per i bambini... non ti ho neppure ringraziato. -
- Perché non devi farlo. -
- Invece voglio farlo. Anche se li hai cacciati in
questo guaio, so che non è esattamente colpa tua. Così come non è colpa tua se
Thomas si è fatto odiare da tutti i tuoi vicini per prendere le tue difese, è
quasi morto di fame passando il contenuto del suo piatto a Lotte, si è fatto una
cultura su quasi tutti i libri proibiti dal regime... -
- Va bene, va bene! - lo interruppi - Ho capito! -
Tutto sommato, Al scoppiò a ridere sonoramente.
- Sei tu il padre, non io. - borbottai, offeso -
Non so nulla di bambini. -
- Ed, sei stato magnifico. Dico davvero: hai
protetto e curato Tom e Lotte come se fossero figli tuoi... hai persino venduto
il tuo auto-mail! - mi appoggiò una mano sulla spalla - Non ho parole per dirti
quanto ti sono grato. -
Non potei trattenere un sorriso riluttante.
- Almeno sono coperto per i prossimi favori che ti
chiederò. -
Al appoggiò il bicchiere a terra, e si portò le mani
dietro la nuca, fissando il soffitto; non riuscii a seguire il corso dei suoi
pensieri, ma vidi ben presto il suo sorriso svanire, gli occhi incupirsi.
- Hai saputo di Hanno, l’amico di Thomas? - mi
chiese dopo un po’.
Annuii, sospirando.
- Povero ragazzo. - mormorò Al - Anzi, povero
bambino. -
Per qualche minuto, nessuno parlò: il silenzio era
così completo che sentivo il respiro rumoroso di Klaus Holze, fuori dalla spessa
porta della cantina. Doveva essersi preso un raffreddore.
- Ed... -
- Mh? -
- Cosa hai visto quando sei morto? -
Alzai lo sguardo su di lui, spaventato.
- Che ti prende, Al? -
- Niente, io... - scosse la testa - Non ricordo
bene quel che è successo, a dire il vero. Forse è perché sono finito
direttamente nel Portale. Però credo di averti visto, per un momento. -
- Sì, per un attimo. - mormorai.
Che succedeva a mio fratello? Non avevamo mai
parlato di quell’argomento: era troppo penoso, per entrambi. Non è mai bello
ricordare la volta in cui ti sei trovato una lama che ti entrava dal petto e ti
usciva dalla schiena, e tuo fratello aveva gettato senza rimpianti la sua vita
per salvare te, immenso idiota.
- Lascia perdere. - si arrese Alphonse - Era una
domanda stupida. Anzi, ora è meglio che vada, Klaus oggi doveva lavare la
Mercedes del padre, e devo controllare... -
- Hai paura? - gli chiesi.
Non mi rispose, ma la sua faccia parlò per lui. In
effetti, non avevo la minima idea di cosa il mio fratellino avesse visto e
vissuto, nei mesi in cui era stato al fronte: le mie supposizioni erano
parecchie, ma, esattamente come aveva detto Thomas quel primo giorno, non ero
mai andato in guerra. Avevo visto come devastava le persone, a livello fisico e
psicologico, ma per fortuna non avevo mai combattuto da soldato. Non ce l’avrei
mai fatta, ormai ne ero certo.
- Non ho mai avuto così tanta paura di morire. -
ammise lui, semplicemente - Non solo di lasciare orfani i miei bambini, voglio
dire. Proprio di morire. -
- Al, è assolutamente ovvio! Sarebbe da pazzi non
aver paura! -
Lui fissò la parete di fronte per parecchio tempo:
ad un certo punto, notai una scintilla nei suoi occhi, poco prima che le sue
labbra si stiracchiassero in un sorriso reticente.
- E pensare che una volta mi lamentai perché non
potevo provare quella sensazione. - sussurrò, con voce appena udibile.
- Ammetterai che era una situazione piuttosto
particolare. - gli feci notare.
- Ti riferisci al fatto che io ero un’anima legata
ad un’armatura, o che tu eri appena sfuggito ad un serial killer che aveva
tenuto prigioniero te e Winry in un mattatoio e aveva tentato di ucciderti a
colpi di mannaia? -
Ci guardammo in faccia. In condizioni normali, non
avremmo mai parlato di quel che era successo così alla leggera, e in ogni caso
non a pochi metri da un soldato che non sapeva nulla di Amestris: quel giorno
dovevamo avere i nervi così a pezzi che non solo ne parlammo, ma, dopo esserci
fissati per qualche secondo... scoppiammo a ridere.
La nostra sanità mentale era decisamente a rischio.
* * *
Quando Hedwig Steinglocke non si trovava nella
villa, la sorveglianza era molto meno stretta: dopo la memorabile scenetta di
Lotte, era stato chiaro sia a me che ai bambini che quei soldati erano
decisamente dalla nostra parte. Due di loro erano padri di famiglia, e la sola
idea di far del male a quelli che potevano essere figli loro li ripugnava.
Tuttavia, non avevo intenzione di far dipendere la
mia sopravvivenza solo da altri: non potevo aiutare Edward in nessun modo, visto
che non avevo la minima idea di cosa stesse facendo, ma c’era una cosa che
sapevo fare benissimo, e di cui quella casa aveva un bisogno disperato.
- Non è necessario che tu lavori come una
schiava... - aveva balbettato Clara Leitner, quando avevo preso uno degli
strofinacci e l’avevo aiutata a spolverare la stanza in cui eravamo
“alloggiati”.
La ignorai. Avevo una gran fiducia in quella
ragazza, sia chiaro, perché ci vuole del coraggio a seguire le indicazioni di
Lotte senza protestare, e solo per un regalo di compleanno. Però non avevo
alcuna intenzione di fare come diceva lei.
Le altre stanze?, chiesi quando finimmo.
- C’è la camera da letto della signora Schneider...
- si arrese la cameriera, con un sospiro. Non poteva negare che ero più veloce
di lei. Nessuno desidera davvero allungare un lavoro che può essere fatto in
metà tempo con l’aiuto di qualcuno più esperto: perché, ormai ne ero certa,
Clara non era una donna delle pulizie.
Capii il suo ruolo quando entrai nella stanza della
padrona di casa: sul comodino, la fila di medicinali testimoniava quel che già
avevo intuito annusando l’odore di ospedale delle altre stanze. Ilse Schneider
doveva essere malata, e la signorina Leitner era la sua infermiera che, forse
per supplire alla carenza di personale o alla scarsa possibilità di pagare altre
cameriere, si adattava a svolgere più ruoli.
- Mi scusi, signora. - si stava discolpando davanti
alla sua datrice di lavoro - Le ho detto che potevo fare da sola, ma insiste a
volermi aiutare! -
La signora Schneider, seduta in una poltroncina
vicino al letto, alzò gli occhi dal libro che stava leggendo per squadrarci
entrambe. Non pareva affatto una donna malata: sì, certo, era ossuta, ma nessuno
era molto in carne dopo sei anni di guerra. Non era neppure pallida, e aveva una
voce forte e secca quando esclamò:
- E qual è il problema? Lasciala fare, se lo
desidera! -
Chiuse il volume e piegò la testa, per squadrarmi da
capo a piedi.
- Ti aspetti di essere pagata o tenti solo di
lisciarmi? - mi chiese a bruciapelo.
Principalmente la seconda. Non discuto mai di
retribuzioni prima di aver mostrato come lavoro.
- Allora dovresti andare dal Presidente, non da me.
-
Esattamente come Clara, pronunciava la parola
Presidente con un tono che la faceva diventare un insulto.
Mi piace scegliere per chi lavorare.,
replicai sorridendo.
- Allora inizia dai vetri. - stabilì lei, tornando
alla lettura.
Quella donna mi piaceva. Aveva un modo di fare
simile al mio.
Le finestre delle ville, così alte, sono una vera
tortura per chi deve lavarle. Quando potei scendere dalla scala, tirai un
sospiro di sollievo, e Clara sembrava del mio stesso parere.
- Fortuna che non soffriamo di vertigini. -
sussurrò, mentre eravamo fianco a fianco a pulire i vetri più bassi.
Annuii, e lanciai un’occhiata all’esterno che prima,
su quell’aggeggio infernale, mi ero sforzata di non guardare per non farmi
girare la testa: il giardino vero e proprio era dall’altro lato della residenza,
mentre sotto di noi c’era solo un cortiletto ghiaioso, in cui era parcheggiata
la macchina nera che il soldato Holze stava lavando, sotto lo sguardo attento
del capitano Alphonse Elric.
- Che magnifico panorama! - ridacchiò la signora
Schneider, alzatasi per affacciarsi a sua volta.
Dal sarcasmo, dedussi che non si riferiva al
cortile, né alla Mercedes. Fui sorpresa da una simile allusione da una donna
così anziana e distinta, ma la mia reazione non fu neppure lontanamente
paragonabile a quella di Clara, che arrossì fino alle orecchie.
- Non mi abituerò mai al suo modo di fare, signora.
- mormorò, strofinando il vetro già pulito.
- Ah, alla mia età dovrebbe essere concesso poter
dire quello che si pensa. -
- Alla nostra no? -
- Tu non lo fai mai, Clara. - sottolineò lei.
Fräulein Leitner si strinse nelle spalle.
- Mi domando se lei si rivolgesse così anche a suo
marito. -
Effettivamente, me lo chiedevo anch’io.
- Certamente. Quando c’incontrammo per la prima
volta, rifiutai il secondo valzer che mi chiese dicendogli chiaramente che lui
era l’uomo più bello che avessi mai incontrato, ma mi aveva pestato i piedi così
tante volte che non me li sentivo più. - Ilse Schneider sorrise placidamente al
ricordo - Mi sposò lo stesso. Conosceva già i miei peggiori difetti, quindi non
comprava a scatola chiusa, come è successo fin troppo spesso. -
Peccato che mia madre non somigliasse ad Ilse
Schneider: se fosse stato subito chiaro che per lei l’arte veniva prima di ogni
cosa, famiglia compresa, mio padre non avrebbe fatto l’errore di sposarla.
- Allora, se e quando un uomo chiederà la mia mano,
- replicò la signorina Leitner, stizzita - prima lo informerò che le mie dita
dei piedi sono bruttissime, ma la dentatura è buona. Lui ne sarà contento? -
Dipende se cerca una moglie o un cavallo.,
risposi.
- A proposito, Clara, mi spieghi cosa stai
guardando là fuori? -
Il colorito della cameriera era appena tornato
normale: dopo quella domanda, arrossì nuovamente.
- La campagna, signora. Questa è davvero una
magnifica giornata! - rispose stizzita, con la voce più alta di un paio di
ottave.
- Certo, certo... Non posso darti torto, comunque:
è davvero un bell’uomo. -
Era impossibile fingere di non aver sentito, come
forse la buona educazione avrebbe richiesto. Le occhiate della cameriera
all’esterno non erano neppure state così insistenti, o almeno, io non le avevo
quasi notate.
Sbirciai fuori: a capo scoperto, Klaus Holze aveva
finito di lavare l’auto del superiore e stava parlando con il signor Elric di
qualcosa di molto serio, a giudicare dalle facce; nella situazione in cui ci
trovavamo tutti, mi venivano in mente parecchi argomenti seri di cui parlare.
Neppure io potei dare torto a Clara: Klaus era decisamente il più bello tra i
quattro militari che avevo avuto occasione di vedere. In quel momento, i suoi
capelli biondi sembravano quasi cinerei alla luce del primo sole primaverile:
teneva il viso alzato, per guardare in faccia il capitano, più alto di lui di
parecchi centimetri.
Clara gemette, affondando il viso tra le mani.
- Si vede così tanto? - chiese, afflitta.
- Solo per una donna. - concesse la signora,
dandole una lieve pacca sulla spalla.
- Eviti almeno di prendermi in giro. -
- Perché dovrei? Immagino tu ti stia già facendo
del male da sola. -
- Grazie, so bene che è decisamente fuori dalla mia
portata. -
Abbassai lo sguardo sulle mie dita, imbarazzata. Non
avevo idea della situazione economica di Klaus Holze e non m’interessava
saperlo, ma sospettavo fosse molto più ricco di una donna che lavora come
infermiera e cameriera.
Ilse Schneider però non sembrava così contenta
dell’autocommiserazione della sua cameriera.
- Ragazza mia, - dichiarò, infastidita - come madre
sarò stata un fallimento, ma permettimi di darti un consiglio: se ti consideri
già sconfitta, allora non arriverai da nessuna parte. - e visto che lei non
pareva convinta, rincarò - Quelli che a te, giovane ragazzina innamorata,
sembrano ostacoli insormontabili, a me paiono solo piccole difficoltà. Hai
ventisei anni: e allora? La differenza di età non conta poi molto. -
Alzai la testa, sorpresa da quella affermazione. Non
ero sicura dell’età di Klaus Holze... se ricordavo bene, aveva fatto un accenno
alla leva del ‘43. Dunque, doveva avere ventidue anni. Non mi ero mai soffermata
troppo su fantasie romantiche, e mi consideravo una persona piuttosto razionale,
ma quanto doveva essere obnubilata Clara per considerare quattro anni un divario
così eccezionale? Vedevo difficoltà ben più ardue da risolvere.
- Non è quello il problema più grosso, e lei
dovrebbe capirlo bene. - replicò la ragazza, tornando al suo lavoro come se
nulla fosse successo e confermando involontariamente il mio pensiero.
Tornai a guardare nel cortile: il soldato stava
ancora parlando al suo capitano, la fronte aggrottata, gli occhi bassi finché
non li alzò verso il superiore, come a chiedere conferma di quel che aveva
appena detto. In quel momento, il volto del signor Alphonse Elric si aprì in un
sorriso raggiante che non gli avevo mai visto.
- E comunque, - concluse la padrona di casa -
dimostra molti anni di meno. -
Avevo sbagliato, compresi finalmente. Non avevo
capito nulla di quel che la signora Schneider e Clara si stavano dicendo. Di
chi stavano parlando.
Era straordinariamente ovvio, ora: tra la signorina
Leitner e Alphonse Elric c’erano non solo tredici anni di differenza, ma anche e
soprattutto lo spettro della defunta signora Elric, la madre di Thomas e
Charlotte.
La rivelazione era sorprendente: forse, se avessi
osservato con maggiore attenzione Clara quando veniva a portarci da mangiare e
trovava il capitano con i suoi figli, avrei potuto intuire qualcosa.
Improbabile, visto che lei era estremamente discreta. Provai a ripensarci, ma
purtroppo non ne ebbi il tempo: venni distratta da un rumore di passi fuori
dalla stanza.
Il suono degli scarponi militari non mi impensierì,
ma fu il secondo paio di scarpe ad attirare la mia attenzione: non pretendo di
saper riconoscere la foggia di una calzatura solo dal rumore, è ovvio, ma credo
di saper distinguere uno stivale da dei tacchi femminili, quando li sento.
L’unica altra donna, oltre a noi, era Hedwig
Steinglocke. E le uniche altre persone presenti nel corridoio erano i bambini.
Perché il Presidente della Società di Thule e un
militare stavano andando da Thomas e Lotte?
* * *
La mano della signorina Steinglocke sulla spalla era
estremamente fastidiosa. Pareva di avere un avvoltoio che mi artigliava la
camicia.
- Non c’era alcun bisogno di portarli qui. -
La voce di Edward suonava strana, tesa. Anche lui
era molto cambiato dall’ultima volta in cui l’avevo visto: più pallido, sporco,
forse persino più magro, non avrei saputo dire. Doveva essere stato portato nel
salone al pianoterra ben prima di noi, perché quando entrammo se ne stava
accucciato a terra, disegnando sul pavimento con dei gessetti bianchi, sotto la
sorveglianza di Ernst Feuerbach e del colonnello Holze.
- Solo un promemoria, caro Edward. -
Andreas, che era arrivato con lei a prenderci nella
nostra stanza, scambiò un’occhiata preoccupata con il commilitone. Allarmato, mi
liberai della mano della donna e tirai Charlotte di lato, verso lo zio. La
signorina Steinglocke stava proprio di fronte alla porta, e non vedevo modo di
aggirarla.
Edward ricominciò a disegnare, lanciandoci ogni
tanto un’occhiata di sottecchi: sul pavimento, notai sbalordito, era stato
tracciato un enorme cerchio, al cui interno si intersecavano altre linee, bande,
scritte incomprensibili e strane figure. Gli altri quattro adulti fissavano
l’uomo inginocchiato a terra come se si stessero aspettando qualcosa: Hedwig
aveva gli occhi che brillavano fissi su quei tratti di gesso.
Visto che nessuno badava troppo a noi, presi per
mano mia sorella e mi avvicinai alla circonferenza più esterna. Edward se ne
accorse, e mi sferrò un pugno contro il polpaccio con l’auto-mail, così forte da
farmi venire le lacrime agli occhi: saltai indietro, la gamba dolorante.
- Ho finito. - dichiarò tetramente lo zio,
alzandosi a fatica, le ginocchia doloranti. Spazzolò frettolosamente il
soprabito con le mani dalla polvere di gesso.
- Come si attiva? - chiese impaziente Hedwig,
avvicinandoglisi.
Edward esitò, scoccandoci un’occhiata. Aveva delle
profonde occhiaie, che insieme alla barba incolta lo facevano sembrare molto più
vecchio di quanto davvero fosse.
- Mi serve qualcosa di tagliente. -
La donna lo squadrò, sospettosa.
- Il Portale si attiva solo col sangue di qualcuno
nato ad... dall’altra parte. - le spiegò lui, sempre più riluttante.
Hedwig annuì, e fece un cenno al colonnello, prima
di uscire.
- Dov’è vostro padre? - sibilò Edward, controllando
di non essere udito da Holze.
- Non lo so. - risposi.
- Nessuno lo ha avvertito di quel che sta
succedendo? -
Quella domanda sembrava rivolta più che altro a se
stesso, e in ogni caso non avrei saputo né potuto rispondere: non avevo idea di
dove fosse papà, e comunque in quel momento rientrò il Presidente, tendendo allo
zio un tagliacarte.
- Sbrigati. - gli intimò, secca, vedendolo esitare
- O controlleremo se il sangue di uno dei due bambini funziona. -
Edward abbassò la testa, mordendosi il labbro: poi,
con un gesto così veloce che quasi non lo vidi, si fece scorrere il coltello sul
palmo della mano, procurandosi un taglio vicino al pollice di qualche
centimetro. Impallidii alla vista del sangue che cominciò a colargli lungo il
polso, mentre Lotte si nascondeva dietro di me. Lui, cupo, non parve quasi
sentire il dolore: appoggiò il palmo ferito a terra, su quel tratto di gesso che
formava il cerchio.
Avevo lo sguardo fisso sulla mano sanguinante di
Edward, quindi non capii subito perché tutti gli adulti presenti sussultarono o
trattennero il fiato. Fu il sussurro di mia sorella a distrarmi:
- Tom, cos’è quello? -
Al centro della sala e del cerchio tracciato sul
pavimento, c’era effettivamente qualcosa: ma cosa, non avrei saputo dirlo
neppure io. Doveva essere quel che tutti stavano aspettando, perché Hedwig
sembrava sul punto di piangere per la gioia, e il colonnello Holze si lisciava i
baffoni, ma a me non sembrava così pericoloso, o particolarmente aggressivo.
- Perché lo chiamate Portale? Non sembra
affatto un portale. - considerò Holze.
- Il nuovo cerchio alchemico gli dà quella forma. -
rispose laconicamente Ed.
Il colonnello baffuto aveva ragione: quella cosa
luminosa non aveva neppure lontanamente l’aspetto di una porta. Ricordava più
che altro un taglio, come quello che Ed aveva sulla mano. Era come se l’aria
della sala si fosse solidificata, per poi strapparsi dal soffitto al pavimento.
Il rumore secco di una pistola caricata riportò
l’attenzione di tutti sulla signorina Steinglocke: - Colonnello Holze, prego. -
dichiarò - A lei l’onore. -
L’omone le lanciò un’occhiata vacua, mentre la
fronte gli si imperlava di sudore.
- I-io, signora? - balbettò.
- Lei. Vada a vedere cosa c’è dall’altra parte. -
- Aspetta! - gridò Edward - Il varco è instabile,
te l’ho detto centinaia di volte. Potrebbe essere pericoloso per chi è di questo
mondo. -
Hedwig stirò le labbra in una smorfia, socchiudendo
gli occhi. Dopo alcuni istanti, mi accorsi con terrore che stava guardando oltre
alla spalla di Ed, dritto verso di noi.
Anche lui se ne accorse e, probabilmente, capì quel
che stava pensando quella donna esattamente nel momento in cui lo capii io.
- NO! - urlò, di nuovo, lanciandosi verso di
lei.
Quando la vidi alzare la pistola, pensai davvero che
il Presidente stesse per sparare a mio zio: invece, la mano di Hedwig si piegò
all’indietro, per poi lasciare abbattere il calcio dell’arma contro il viso di
Edward. Dalla mia posizione, alle sue spalle, vidi il suo corpo deviare dalla
traiettoria iniziale, scartare violentemente di lato, mentre si abbatteva
pesantemente al suolo.
* * *
- Capitano! Capitano! -
Sia io che Klaus ci voltammo, interrompendo la
conversazione avvenuta fin lì. Il ragazzo aveva sentito buona parte di quel che
io e mio fratello ci eravamo detti, ma aveva dichiarato che non avrebbe fatto
parola con nessuno delle cose incomprensibili che ci eravamo detti. Era ben
deciso a ripagare Ed per averlo aiutato quando era bambino, e la sua lealtà mi
aveva commosso.
- Quella dietro non è la ragazza che stava con i
bambini? -
Klaus aveva ragione, sulla porta c’era Margarethe:
ma quella che ci veniva incontro di corsa era la signorina Leitner.
Le andammo incontro, preoccupati da tanta foga, e
finimmo per incontrarci a metà del cortile, quando lei dovette fermarsi per
riprendere fiato.
- I... i bambini. - ansimò - Il Presidente ha... ha
preso i bambini. -
Sentii il sudore freddo scorrermi lungo la schiena:
afferrai la povera ragazza per le spalle, così forte da rischiare di
stritolarla.
- Cosa è successo? - sillabai, furioso.
- Il Presidente ha preso i bambini e li ha portati
nel salone al pianoterra. - riuscì a compitare lei, sull’orlo delle lacrime.
Per una volta, emulai una delle entrate ad effetto
di mio fratello: visto che era chiusa a chiave, aprii la porta con un calcio ben
piazzato, e irruppi all’interno, seguito da uno sconvolto Klaus.
Edward era sulle ginocchia, con il viso tumefatto e
sporco di sangue uscito dal naso: situazione in cui lo avevo già trovato
parecchie volte, devo ammettere, ma mai mi aveva lanciato una simile occhiata.
Aveva gli occhi sbarrati di un folle, o di qualcuno che ha assistito ad un
evento orripilante.
Non capii subito quel che si trovava davanti a me,
tanto che dovetti sbattere le palpebre, per essere certo che quella cosa
ci fosse davvero. Ci misi circa un secondo per capire che quello doveva essere
il Portale prodotto dal cerchio alchemico modificato da Edward: ora capivo
perché era così titubante sui suoi risultati.
- Posso sapere il perché di tanta irruenza,
capitano? -
Hedwig Steinglocke girava armata, a quanto pareva.
Questo spiegava il misero aspetto di mio fratello, perché era improbabile che
fosse stato uno dei miei commilitoni a colpirlo.
- Dove sono i bambini, signorina Steinglocke? -
chiesi, bloccandomi sulla porta.
Non erano lì, anche se Clara Leitner e Margarethe
dovevano pensarlo davvero per correre da me in quel modo: mancava anche il
colonnello Holze.
Nessuno mi rispose. Ernst e Andreas fissavano la
lama di luce che era il Portale come inebetiti, mentre Ed restava inginocchiato
a terra, fissandosi le mani.
Fui scosso da un conato di vomito, quando capii cosa
era appena successo in quella stanza.
- Avete mandato i bambini... - non riuscii a
continuare. Feci per avvicinarmi a mio fratello, ma Hedwig sollevò la pistola
verso di me.
- Non un passo, capitano! - ordinò.
Obbedii, stringendo i denti per non urlare tutto il
mio dolore. I due soldati parvero riscuotersi all’apparire dell’arma, spostando
gli occhi sbarrati dal Portale alla schiena della signorina Steinglocke.
- Non ha idea di cosa ha appena fatto. - sussurrai,
guardando quella donna.
- Lei e il signor Elric non sapete dire altro. -
sentenziò lei, annoiata - Non ha idea di cosa ha fatto, ha usato due bimbi
innocenti per i suoi scopi... -
Deglutii a vuoto, sentendola parlare dei miei figli
con così tanta leggerezza. Sentivo lo stomaco contratto, i polmoni schiacciati
da un peso che mi toglieva il respiro.
- Non pretendo che possiate capire: - stava
continuando la donna, con calma glaciale - voi guardate solo il presente, mentre
io sto già pianificando il futuro, quando anche azioni che oggi paiono
discutibili diventeranno... -
- Delle crudeltà immani. - ruggì Edward.
Lei sospirò.
- Quando il colonnello Holze tornerà - Klaus, alle
mie spalle, trattenne rumorosamente il fiato - sapremo come funziona il varco.
In ogni caso... -
Con un movimento del polso, spostò la canna della
pistola da me a Edward.
- Temo che tu sia diventato superfluo. -
Lui non batté ciglio, limitandosi a fissarla con
astio. Non tentava neppure di fermare il flusso di sangue che gli usciva dal
naso, colando fin sul colletto della camicia.
Mentalmente, ispezionai la mia divisa. La pistola
era nella fondina... ma come raggiungerla?
- Mi mancherà la tua ironia, caro Edward. -
dichiarò la donna, togliendo la sicura.
Battei le palpebre.
Gli spari rimbombarono per tutto l’edificio, e
sembrarono squassarlo. Furono due, esplosi quasi in sincrono da due pistole alla
mia sinistra.
Edward rimase immobile, esattamente come me e Klaus:
non parve comprendere cosa era appena successo, non più di quanto lo compresi
io. Continuava a fissare un punto davanti a sé, senza accorgersi di essere
ancora vivo, e illeso.
Ernst riabbassò la sua pistola d’ordinanza,
tremando, nello stesso momento in cui Andreas effettuava lo stesso movimento.
Era passato il tempo di un battito di ciglia. Prima
Hedwig Steinglocke era in piedi, l’arma tesa verso la testa di mio fratello.
Dopo, era accasciata al suolo, in una pozza di sangue, la stessa espressione di
pietra.
Non aveva avuto neppure il tempo di rendersi conto
che stava morendo.
Pensierino della buonanotte: che
tristezza, perdere un così bel personaggio...
No, fermi, abbassate quei forconi. Scherzavo!
Scherzavo!!
Talpina Pensierosa: quando
ho iniziato a scrivere, mi era spiaciuto moltissimo non poter usare anche i
pensieri di Lotte, perché la bambina ne avrebbe parecchie, di cose da dire. Solo
che non era molto credibile: nessuno di noi ricorda molto bene quel che è
successo quando aveva sette-otto anni, perciò il suo racconto, sebbene
virtualmente scritto da una donna ormai adulta, sarebbe risultato poco
plausibile.
KuRoNeKoChAn: mi ero
stufata di scenette lacrimevoli, così ho deciso che Lotte, per salutare suo
padre, avrebbe fatto a modo suo. Ed, in realtà, non è che si sia fatto
scoprire... semplicemente, non sapeva che lo stessero spiando! E sì,
Steinglocke significa “Campana di Roccia”, esattamente come Rockbell.
Meby138: Decisamente, è la
fine dell’inizio. Per restare in ambito di Seconda Guerra Mondiale, una sorta di
D-Day.
Thomas, in realtà, qualcosa sa di Amestris: solo che
non può credere che la favola dei due fratelli alchimisti fosse reale, e
riguardasse suo padre! Tra l’altro, non so neppure cosa Al abbia raccontato ai
figli, visto che la vicenda sua e di Ed non è esattamente una fiaba... solo che
avevo in testa da parecchio l’incipit C’era un bambino piccolo piccolo, che
viveva in un armatura grande grande: faceva parte di un’altra fanfic su FMA,
cronologicamente posteriore a questa, ma non ho resistito!
Liris: ah, qualcuna a cui
piace Al, finalmente! Poverino, io ho sofferto a tenerlo fuori dalla storia per
così tanti capitoli, chiedendomi cosa sarebbe riuscito a combinare Ed senza il
fratellino che lo controlla!
Siyah: sì, mia collega
nella fede EdWin: Edward rischia il linciaggio. Solo che Winry non avrebbe la
forza di andare oltre la solita chiave inglese in testa, quindi posso evitarmi
la scena di sangue. Ti consiglio, però, il prossimo capitolo. Il nostro
Alchimista d’Acciaio non verrà legato al letto solo perché il suo meccanico ha
un’altra idea di vendetta...
DarkMartyx_93: Al mi è
molto simpatico: insieme a Ed, è il mio personaggio preferito. Solo che nella
fanfic non è più il ragazzino quattordicenne che seguiva come un’ombra il
fratellone, senza altro pensiero che l’incolumità di entrambi: ha dei figli a
cui badare e da proteggere, tra l’altro da solo. Figli che aveva affidato a
Edward, e che ritrova in grave pericolo grazie al solito fratello. A nessun
genitore farebbe piacere.
Yuna93: se non sei sicura
della tua fanfic, non hai nessuno che possa leggerla e darti dei pareri? Va
bene, la mia beta reader si è fatta sfuggire degli strafalcioni che io stessa ho
trovato rileggendo con più attenzione, quindi non sono molto attendibile, ma un
secondo paio di occhi, meno coinvolto, che rilegga e ti dica anche solo se la
trama regge può essere utile.
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Capitolo 11 *** Alex ***
Nuova pagina 1
11. Alex
Avanzai di un passo verso Ed, e gli appoggiai una
mano sulla spalla. Lui batté le palpebre, apparentemente sotto shock.
- Ed... - provai a chiamarlo, scuotendolo
leggermente.
Finalmente alzò la testa verso di me, riscuotendosi.
- Devo andare a prendere i ragazzi. - disse, con
voce atona.
Si rimise in piedi, aggrappandosi alla mano che gli
tendevo, e si guardò intorno per stabilire l’entità del disastro. I miei tre
commilitoni tremavano ancora dalla testa ai piedi, mentre le due donne accorse
al rumore degli spari erano rimaste sulla porta, le mani sulla bocca,
annichilite davanti allo spettacolo del cadavere di Hedwig Steinglocke e della
pozza di sangue che si andava allargando, infilandosi tra le fessure delle
piastrelle. Io non dovevo avere un aspetto migliore.
- Andremo insieme a cercarli. - dichiarai - E non
provare a dirmi che sarà pericoloso, perché non sarà questo a fermarmi. -
Edward scosse la testa, rassegnato.
- Non lo farò. - sentenziò - Non aveva funzionato
l’altra volta, non vedo perché dovrebbe farlo ora. -
Ci avvicinammo alla fenditura luminosa che doveva
essere il nuovo Portale.
- Funziona come quello vecchio? - chiesi.
- Direi di sì. - Indeciso se parlare o meno, Ed
abbassò la testa.
- Se hai qualche altra brutta notizia, dammela
subito, per favore. - sbottai - Non voglio restare in ansia. -
- No, non è per te. - riluttante, si voltò verso il
più giovane dei soldati. Il povero Holze impallidì ancora di più, davanti
all’espressione seria di mio fratello.
- Mio padre... - sussurrò - c’è qualche possibilità
che sia ancora vivo? -
- Non lo so, Klaus. - ammise lui - Finora, solo io
avevo provato a oltrepassare questo nuovo Portale. Non posso dire cosa succede a
chi è nato in questo mondo. -
La chiave di tutto è il sangue, meditai. È il sangue
di una persona nata ad Amestris ad aprire il passaggio tra i due mondi, ed è
quello stesso sangue a garantirne la sopravvivenza attraverso di esso: allora
(il cuore mi saltò in gola a quel pensiero), allora forse Lotte e Tom potevano
essere salvi, incolumi da qualche parte nel nostro mondo! In fondo, almeno per
metà possedevano quel sangue: era il mio!
Edward dovette intuire a cosa stessi pensando,
perché annuì.
- Non credo che sia la conoscenza alchemica a fare
la differenza. - mi disse - Almeno due delle volte in cui ho attraversato il
Portale, ne sono uscito del tutto inconsciamente, dunque chiunque, al mio posto,
avrebbe potuto fare altrettanto. Inoltre, vista l’eccezionalità della loro
nascita, possiamo sperare che non abbiano alter ego ad Amestris. -
L’avevo dimenticato! Se nel Portale l’anima e il
corpo dei miei figli si fosse separata, e se dall’altra parte ci fossero stati i
corpi dei loro alter ego...
Scacciai il pensiero. Era semplicemente
terrificante. No, Ed doveva aver ragione: Thomas e Charlotte erano nati da una
situazione altamente improbabile, da un individuo venuto da un altro mondo.
Questo poteva aver scombinato il parallelismo tra i due universi abbastanza da
rendere irripetibile la loro esistenza.
- Spero che i miei bambini siano davvero unici come
ho sempre sostenuto. - mormorai, inquieto. Feci scorrere lo sguardo sui miei
commilitoni, e tutti e tre lo ricambiarono con più sicurezza di quanto avessi
creduto possibile, dopo ciò a cui avevano assistito.
Per la prima volta, mi accingevo a dare loro un
ordine che non ammetteva repliche.
- Chiudete a chiave la porta del salone. - comandai
- Nessuno deve entrare, tanto meno avvicinarsi al cerchio tracciato in terra:
ormai dovrebbe esservi chiaro che una simile azione metterebbe gravemente a
repentaglio la vostra vita. -
- Sissignore! - esclamarono, quasi in coro.
- Klaus, se tuo padre è vivo ti assicuro che lo
porteremo indietro. -
- Grazie, signore. - il ragazzo guardò ancora una
volta il Portale - Capitano, se ho capito bene dall’altra parte c’è un mondo
parallelo, è esatto? -
- Sì, è così. - risposi.
- Allora, non sarebbe possibile... - si fermò,
senza sapere come continuare. Fu Ernst a dare voce al suo pensiero:
- Non sarebbe possibile per voi, i bambini e il
colonnello restare di là per un po’? - chiese.
- Mi sopporti così poco da non volermi più vedere,
Filosofo? - replicai, sorridendo per mettere in chiaro che non ero offeso.
- La fretta con cui la Società di Thule ha aperto
il Portale, - meditò lui, cercando Ed per averne conferma - ci ha fatto
credere... soprattutto a Klaus, in verità... ci ha fatto credere che ormai la
guerra stia per finire. Forse, sarebbe più sicuro per voi restare dove lei,
capitano, non è un soldato ufficialmente disperso. -
- Ha ragione. - mi fece notare mio fratello - Se
qualcuno vi trovasse qui, per di più in divisa... -
Annuii, anche se la mia sorte era l’ultimo dei miei
pensieri.
- Per noi non sarebbe un problema, - dissi - ma
voi? Cosa farete? -
- La signora Schneider ci ha promesso degli abiti
civili. - Andreas sorrise debolmente - Ci inventeremo una storia qualsiasi, nel
caso qualcuno venisse a fare domande. A mio parere è difficile, ma è meglio
essere pronti a tutto. -
Io ero già pronto a tutto. Avrei riportato a casa i
miei figli, a qualunque costo.
* * *
Tutto quel che ricordo del Portale è il giallo e il
nero.
Va bene, non è un granché come descrizione, ma non
aspettatevi rivelazioni sconcertanti. Non è la mia memoria a vacillare, checché
ne pensiate: semplicemente, attraversando il Portale non ebbi tempo né modo di
vedere nulla. Nel momento in cui la mano grassa e sudaticcia del colonnello
Holze mi portò all’interno, venni risucchiato da una forza eccezionale
all’interno di quel tunnel dorato, né più né meno che una foglia in balìa di un
tifone. Persi di vista mia sorella, ed ebbi appena il tempo di notare le strane
bande nere che si muovevano contro il giallo luminoso che riempiva quello
spazio, una notte di stelle cadenti dai colori invertiti. Poi, fui
scagliato contro una superficie solida, così forte che temetti di essermi rotto
qualche costola.
Dunque, nel Portale c’è qualcosa di solido?, mi
domandai.
Aprii un occhio.
Nessun movimento. Rassicurato, alzai la testa.
C’era di nuovo quel taglio nell’aria, ma questa
volta era dietro di me... e c’era anche Charlotte, seduta per terra a poca
distanza, con il naso per aria. Sospirai di sollievo, poi mi decisi a tirarmi su
anch’io e a guardarmi intorno.
Non eravamo più nella sala da cui eravamo partiti,
ma non ci trovavamo neppure in alcun posto che avessi mai visto. Inizialmente,
credetti di trovarmi all’aperto, e mi chiesi chi avesse ammassato gli scatoloni
di cartone che ci circondavano in un luogo in cui avrebbero preso la pioggia: ma
poi mi accorsi del soffitto di roccia sopra di noi, ad un’altezza incalcolabile.
Una grotta. Solo, non pensavo ne esistessero di così
ampie.
- Sembra un incrocio tra una cantina e un
magazzino. - mormorai, colpito.
- Solo molto più grande. - replicò Lotte.
Le scatole erano più o meno tutte delle stesse
dimensioni, ed erano state impilate fino a formare dei percorsi tortuosi, come
pareti di un labirinto di cartone: alzandomi sulle punte dei piedi, vidi che da
un’estremità proseguivano fino ad una parete di roccia, in cui si apriva
un’apertura, mentre dall’altra finivano all’improvviso, anche se la caverna
proseguiva a perdita d’occhio.
- Andiamo di là. - decisi - Voglio vedere quanto è
larga questa grotta. -
Non fu una buona idea: quando ci trovammo vicino
alle ultime scatole, capimmo che avremmo dovuto camminare per ore per
raggiungere la parete opposta. E ai lati la roccia sembrava ancora più distante,
anche se seguiva più o meno una forma circolare.
- Qui dentro entrerebbe comodamente una città. -
dissi, disorientato.
- Credo che ci fosse davvero una città. Guarda là.
-
Davanti a noi, si stendevano in effetti cumuli di
macerie: alcuni scheletri di edifici sembravano dover crollare da un momento
all’altro, e la maggior parte delle costruzioni era già un groviglio di ferro,
legno marcio e mattoni. Pensai subito agli effetti di un bombardamento, ma non
capivo come dei bombardieri potessero essere entrati lì dentro: non vedevo
aperture, lassù.
- Usciamo, Tom. - implorò Charlotte, tirandomi le
bretelle con tutta la forza che aveva in corpo - Ho paura. Qui non c’è nessuno.
-
- Va bene. - concessi, ripensando all’apertura che
avevo visto - Torniamo indietro. -
La luce del Portale era un ottimo punto di
riferimento, perciò ritornammo lì: Lotte non resistette alla curiosità di
sbirciare in uno scatolone, ma ci trovò solo dei medicinali. Io, invece, notai
per la prima volta qualcosa di nero sul pavimento, una strisciata di un paio di
metri che partiva dal Portale e arrivava poco lontano dal punto in cui mi ero
trovato sdraiato: sembrava la bava di un’enorme lumaca, solo che aveva una
consistenza solida come l’esoscheletro di un insetto. Avevo una gran voglia di
toccarlo, ma non mi fidavo a farlo a mani nude. Veniva da Portale, in fondo: e
se fosse stato vivo?
- Guarda cos’ho trovato! - strillò Lotte,
correndomi incontro, le braccia ingombre della sua nuova scoperta.
- Dove hai preso quei giocattoli? - domandai.
Lei mi mostrò una corda per saltare e un bastone con
una testa di cavallo di legno, con aria palesemente soddisfatta. Almeno ha
smesso di piagnucolare, pensai sollevato.
- Erano nascosti in una scatola... quella là, vedi?
-
Difficile sbagliarsi: era l’unica che si
distinguesse dalle altre, perché qualcuno vi aveva scritto, con una calligrafia
infantile e un grosso pastello blu, DI ALEX. Ma non delusi la mia
sorellina facendoglielo notare. Invece, presi il bastone e con quello
picchiettai sul composto nero ai miei piedi. Come avevo immaginato, era qualcosa
di duro, ed era anche ben attaccato al pavimento, comunque non si mosse, né ebbe
alcuna reazione: dunque, me ne disinteressai.
- Andiamo? - cantilenò Charlotte, impaziente.
- Sì... -
Ai piedi della scala, non fui più certo che fosse
un’idea sensata: dopo i primi gradini ben visibili, la rampa spariva in una
penombra che diventava presto buio fitto.
- E se restassimo qui e aspettassimo? - proposi -
Magari qualcuno verrà a salvarci... lo zio, per esempio! -
La mia sorellina mi lanciò un’occhiata disgustata.
- Stavo scherzando, ovviamente! - mentii subito.
Nel tunnel, delle luci si accesero all’improvviso,
con un sonoro click! che ci fece sobbalzare per lo spavento.
- Nascondiamoci! - sussurrò Lotte.
- Chi c’è? -
Alzammo lo sguardo verso la voce. Non vedevo nulla,
ma ad aver parlato era sicuramente un bambino. O una bambina? Non lo capii, ma
il panico si dissolse.
- Chi c’è? - ripeté lo sconosciuto.
Dei passi rapidi risuonarono per la scala, e in
breve fu visibile anche da dove ci trovavamo noi.
Era un maschio, e non poteva avere più di quattro o
cinque anni: vedevo anche da distante i capelli biondo chiaro, e quando ci fu
vicino notai pure gli occhi scuri. Indossava gli abiti più strani che avessi mai
visto... per la mia mentalità di ragazzino degli anni ‘40, intendo. Erano avanti
di almeno una cinquantina d’anni rispetto ai calzoni, alla camicia e alle
bretelle che portavo io. Stavo ancora ammirando le sue scarpe di tela, che mi
parevano molto comode, quando lui scese l’ultimo gradino. Se la mia stima
iniziale della sua età era esatta, era piuttosto alto: eguagliava Lotte.
- E voi cosa ci fate qui? - ci domandò, serissimo.
- Non lo sappiamo. - ammise mia sorella - Tu sei
Alex? -
Il piccolo appuntò su di lei lo sguardo, ma quasi
non cambiò espressione.
- Come lo sai? -
- Abbiamo trovato i tuoi giocattoli... ma li
abbiamo rimessi a posto! - aggiunse lei, in fretta - Erano davvero belli. -
- Li ho nascosti qui sotto perché i bambini che mi
prendono in giro non li trovassero. - spiegò Alex, senza abbandonare l’aria
seria e solenne, che lo faceva sembrare un vecchio saggio in miniatura. Parve
meditare un attimo, prima di concedere: - Però tu puoi giocarci, se vuoi. -
- Grazie. - Lotte lo gratificò con il migliore dei
suoi sorrisi, e finalmente anche il bambino sorrise.
- Sai dove siamo? - gli chiesi.
- Nella nostra cantina. - replicò lui, come se
fosse la cosa più scontata del mondo - Come siete entrati? -
- Diciamo che ci siamo persi, in un certo senso. -
tagliai corto - A proposito, io mi chiamo Thomas, e lei è mia sorella Charlotte.
-
- Io sono Alexander Stonebridge. Posso
accompagnarvi di sopra, se volete. -
Forse sarebbe stato più saggio non allontanarsi dal
Portale, nel caso qualcuno venisse a cercarci: ma, sinceramente, cominciavo ad
essere stufo di starmene in quella grotta fredda.
Accettammo con gioia.
* * *
Al distolse lo sguardo, disgustato da quella vista.
- Non ci sono altre tracce. - decretai - Né di
loro, né di Holze. -
Quella chiazza nera sul pavimento veniva certamente
dal Portale, ed era molto simile alla sostanza che aveva ricoperto Dietlinde
Eckhart ventidue anni prima. Forse i ragazzi o il colonnello erano rimasti
impigliati in quella roba? Se così fosse stato...
- Stanno bene. - dichiarai, deciso, allontanando le
congetture più catastrofiche.
Mio fratello annuì, ma continuò a non guardare.
- Siamo nella città sotto Central City, vero? -
chiese, allontanandosi di qualche passo con la scusa di guardarsi intorno.
- Sì, senza dubbio. Sei anni fa questi scatoloni
non c’erano, credo, ma non ci giurerei: il Portale si era aperto da un’altra
parte, più vicino... più vicino al passaggio che porta in quel tempio
abbandonato. -
Oltrepassammo in fretta gli scatoloni, degnando
appena di un’occhiata il contenuto, e ci avvicinammo ad una soglia che immetteva
in una rampa di scale buie. Diedi un’occhiata, ma non riuscii a vedere nulla.
- Non conosco questo passaggio. - ammisi - Non è
quello da cui sei arrivato tu quella volta, con Wrath? -
- No, anche se gli somiglia. Potrebbe essere quello
che avevano usato Sheska e Winry. - corrugò la fronte, contando mentalmente - Un
passaggio da quel tempio cristiano. Uno da casa di Dante... -
- Quale? -
- Quello che ho usato nel ‘23... allora non me lo
ricordavo, ovviamente, ma era lo stesso che avevo già percorso quando... - si
interruppe - quando ero la Pietra Filosofale. -
- Chissà questo allora dove sbuca... - mi chiesi.
Al non stette a far troppi sofismi: appoggiò le mani
contro la parete e cominciò a salire, così deciso da costringermi a seguirlo
quasi di corsa.
- Alphonse! - sibilai - Al, vai piano! Se inciampo
poi dovrai perdere ancora più tempo per venirmi a riprendere al fondo di queste
dannate scale! -
- Allora vedi di non inciampare! - rimbeccò lui.
Quando arrivammo ad un corridoio, comunque, nessuno
dei due fu troppo contento di notare l’interruttore della luce. A quanto pare,
metterne uno anche dall’altro capo delle scale era considerato inutile dalla
direzione.
- Si direbbe un ospedale. -
- Come fai a dirlo? - mi chiese Alphonse, ancora
col fiato corto.
- Dalla puzza. E poi, le scatole là sotto erano
piene di medicinali. -
Il corridoio era in penombra, ma ben tenuto: non
c’era polvere né muffa, le pareti odoravano ancora di vernice fresca (che non
nascondeva l’inconfondibile odore di ospedale) e sul pavimento era stesa una
moquette verde che attutiva i suoni. In giro non c’era nessuno, ma da sopra le
nostre teste giungevano voci e rumori di passi di molte persone che si
muovevano. Al mio fianco, Al si sbottonò velocemente la giubba della divisa.
- Cosa fai? -
- Non è una buona idea farsi vedere in giro con
un’uniforme che non è quella di Amestris. - mi disse lui, gettandosi la giacca
su un braccio. Il suo abbigliamento era comunque singolare, ma almeno non era
subito riconoscibile come un soldato. Cercai di non fissare troppo a lungo la
fasciatura che ancora si vedeva sotto la camicia, dov’era stato ferito.
- Credi che i ragazzi siano ancora all’interno
dell’edificio? -
Non sapevo quanto amassero gli ospedali: poco,
temevo, visto che la loro mamma ci aveva passato molto tempo, nell’ultimo
periodo.
- Lo spero. - lo sguardo di mio fratello si incupì
- Se sono usciti per strada, passerò al setaccio l’intera Central City. -
- Iniziamo ad ispezionare questo posto: - proposi -
chiediamo a tutti quelli che incontriamo. Non penso che due bambini soli e
vestiti in modo bizzarro passino inosservati. -
Inaspettatamente, ad Al sfuggì un sorriso malizioso.
- Peccato essere solo in due. Se tu sapessi come
contattare Winry, faremmo prima. -
* * *
Alzai la testa di scatto.
- Hai detto qualcosa? - chiesi alla mia vicina.
La giovane donna parve sorpresa:
- No, affatto. Va tutto bene, Winry? - Mi si
avvicinò con aria sollecita - Forse sei stanca. -
Non ero affatto stanca, e per dimostrarglielo tornai
a lavorare all’auto-mail che stavo riparando. Non avevo molta voglia di fare
conversazione, anche se non per colpa di Amelia: semplicemente, preferivo
fingermi occupata e pensare ai fatti miei.
Inutile girarci intorno: non mi piaceva affatto la
mia nuova sistemazione, e mia cognata non poteva farci nulla. Quando avevo
accettato la sua proposta di trasferirmi per un po’ a Central City, speravo che
questo risollevasse le mie finanze e il mio umore, ma ero andata incontro ad una
cocente delusione: le persone che decidevano di farsi impiantare auto-mail erano
sempre meno, le riparazioni non fruttavano molto e, quel che era peggio, il mio
ex marito non perdeva occasione per farmelo notare.
- È la naturale evoluzione delle tecniche mediche.
- mi ripeteva, con aria saccente - Ormai nessuno è più disposto a patire tutte
quelle sofferenze, Winry. -
- Almeno lasciami lavorare come medico, Arthur! -
protestavo - Non sarò brava quanto te, ma posso almeno aiutarti: in fondo, per
fare l’ingegnere di auto-mail bisogna anche avere qualche conoscenza di
anatomia. -
Ma “fiducia” non rientrava nel vocabolario di Arthur
Stonebridge, e così mi ero ritirata in quella parte della clinica adibita a
pediatria, accanto ai miei cognati, dove almeno potevo sbrigare il poco lavoro
che avevo senza rendere conto a nessuno: d’altronde, c’erano quindici infermieri
per controllare poco meno di quaranta bambini, dunque il mio aiuto difficilmente
era richiesto.
Non vedevo l’ora di andarmene da quel mortorio.
L’affitto della casa di Central City era pagato (da Artie, il ricattatore!)
ancora per due settimane, poi sarei stata libera; meditavo di trasferirmi
definitivamente all’estero, per esempio a Drachma, dove l’arte degli auto-mail
era appena agli albori... certo, l’idea di lasciare Amestris era dolorosa, ma
sarebbe stato meglio sia per me che per il mio bambino.
A proposito...
- Alex è con tuo figlio, Amelia? - chiesi - Non lo
vedo da parecchio. -
Amelia Fletcher, nata Stonebridge, si affacciò alla
finestra per controllare.
- No. - mi rispose - Edwin è da solo, e non credo
che Alexander sia tra i bimbi che giocano laggiù... Emerson, scendi subito da
quell’albero! - gridò ad un piccolo selvaggio già con un piede sulla pianta
che cresceva al centro del cortile.
Appoggiai la protesi sul tavolo, e riposi i miei
attrezzi.
- Allora è meglio che vada a cercarlo. - decisi.
- Non ti preoccupare, di sicuro è andato a giocare
in magazzino come al solito. - sorrise, rassicurante - Sei la madre più
fortunata del mondo: hai un figlio che a quattro anni è già più assennato di uno
di venti. -
Sì, ma era anche solo come un eremita. E io che
l’avevo portato via da Resembool per farlo socializzare! Peccato non aver fatto
i conti con l’inconsapevole crudeltà dei bambini: avevano subito riconosciuto
Alexander come uno straniero, un elemento estraneo, e l’avevano isolato. Non
solo perché era sano, ma anche per quel suo carattere così bizzarro, che stupiva
me per prima, e lo rendeva perennemente serio e controllato.
Il mio piccolo alieno. Se non avesse avuto i miei
stessi lineamenti, avrei pensato che fosse stato scambiato nella culla con il
figlio di una qualche creatura sovrannaturale, come succede nelle favole.
Per prima cosa, andai da Arthur: dubitavo che il
bambino fosse lì, ma di sicuro Artie e gli altri medici percorrevano i corridoi
in lungo e in largo, e le probabilità che qualcuno lo avesse incrociato erano
piuttosto alte.
- No, non l’ho visto, mi dispiace. - mi rispose,
alzando a malapena lo sguardo da un referto - Ma mia sorella ha ragione, forse
si è solo stancato di giocare con Edwin ed è sceso in magazzino. -
Si girò verso il collega che stava entrando:
incidentalmente, era proprio il marito di Amelia.
- William, hai visto per caso Alex? -
William Fletcher mi strizzò l’occhio, con aria
complice:
- Il folletto è di nuovo sparito? - mi chiese -
Sarà andato a controllare che la sua pentola d’oro sia ancora dove l’ha
nascosta, ai piedi dell’arcobaleno. - ridacchiò, ma poi tornò serio - L’ho
intravisto dalle parti del magazzino: era con altri due bambini. -
- Due bambini? Chi? - Artie parve sorpreso, e in
quella domanda innocente ci mise molto più sarcasmo di quanto gradissi.
- Non ne ho idea. -
- Come sarebbe? Sei o non sei un pediatra? -
William arrossì: era più giovane di noi, poco più
che trentenne, e teneva molto al giudizio di Arthur. Questo non potevo negarlo,
Artie nel suo lavoro era uno dei migliori.
- Sì, ma quei due non erano di certo miei pazienti:
non significa molto, - si difese - probabilmente sono in visita a qualche
parente. -
Sinceramente, ero più interessata a mio figlio.
- Grazie dell’aiuto, Willie, vado a controllare. -
Non mi piaceva scendere nelle cantine. Doveva essere
autosuggestione, il che spiegava perché Alex, al contrario, non avesse alcuna
difficoltà: io, invece, ero ben consapevole di trovarmi in quella che meno di
venticinque anni prima era stata la residenza del Comandante Supremo King
Bradley, e non sarebbe stata una mano di vernice a distrarmi da quel pensiero:
pochi anni prima si era deciso di non lasciar ulteriormente marcire l’edificio,
ma di trasformarlo in qualcosa di utile per la popolazione. Progetto lodevole
quello di aprire un ospedale, ne convenivo, però per me era difficile non
pensare a tutto quel che era successo lì dentro; almeno, sarebbe stato saggio
murare quella scala che io e Sheska avevamo percorso da ragazze.
Adesso non farti prendere da paure irrazionali,
Winry!, mi rimproverai, continuando ad avanzare decisa in direzione delle
cantine.
- Scusi... -
Oltrepassai lo sconosciuto prima di accorgermi che
parlava con me, e dovetti fermarmi di botto e ruotare su me stessa per averlo di
fronte.
- Ha bisogno di qualcosa? - chiesi, un po’ troppo
bruscamente, alzando il capo per guardarlo in faccia.
Lui indietreggiò e non mi rispose, limitandosi a
fissarmi come se fossi un fantasma.
- Signore, si sente poco bene? -
Era molto pallido, e stava impallidendo
ulteriormente. Il suo abbigliamento mi ricordò vagamente quello di un soldato,
ma non seppi spiegarmi il perché: di certo, era inconsueto, con degli stivali
fin troppo pesanti per quella stagione.
- Winry? - sussurrò.
Trasalii. La voce mi era sconosciuta, ma ora che lo
guardavo bene in faccia, ero certa di aver già visto quell’uomo... dove? Quando?
- Ci conosciamo? -
Si riprese dalla sorpresa, e sorrise. Quando il suo
volto si aprì in quel sorriso, lo riconobbi immediatamente.
- Non è possibile... - ansimai, appoggiando una
mano contro il muro - Al! -
Alphonse Elric. Il tredicenne di ventidue anni prima
si trovava di nuovo di fronte a me, trasformato (impossibile!) in un uomo.
Non c’era dubbio, quei due erano nati per
esasperarmi.
- Al! - strillai di nuovo, saltandogli al
collo. Era così alto che dovette piegarsi, o sarei rimasta appesa - Non ci posso
credere, sei irriconoscibile! -
- Tu invece non sei cambiata affatto! - replicò
lui, ridendo.
- Cosa... oh, no, non voglio sapere cosa ci fai
qui. Di sicuro sei vittima di una delle trovate di tuo fratello. -
- Hai una stima così bassa di me? -
Mi stavo giusto chiedendo quando sarebbe comparso.
Sbirciai oltre la spalla di Al, verso la mia
personale fonte di preoccupazione. Non riuscii a continuare a sorridere.
- Quante volte ancora mi dirai che non ci vedremo
più, per poi saltare di nuovo fuori? - gli chiesi, secca.
Edward Elric accusò il colpo. - Mi dispiace. - chinò
la testa, contrito.
- Lascia stare. - tagliai corto - Lo dici sempre. -
- Winry, - Al mi prese la mano - stiamo cercando
due bambini, un maschio e una femmina. Sono usciti da quelle scale là in fondo:
li hai visti? -
Doveva essere la giornata dei bimbi smarriti...
Un attimo. Cosa aveva detto Willie, a proposito di
Alex?
L’ho incrociato dalle parti del magazzino: era
con altri due bambini.
Tutto tornava. Dovevo immaginare che, se il mio
folletto avesse legato con qualcuno, non sarebbe stato di questo mondo.
- Come è successo che dei bambini si sono trovati
in questo guaio? - domandai, guardando Ed. In un modo o nell’altro, doveva
essere colpa sua.
- È una lunga storia. - replicò Al, in fretta - È
importante. -
Il sorriso era scomparso, e ora il mio vecchio amico
era l’immagine stessa dell’angoscia. Sembrava pronto a correre in qualsiasi
direzione gli avessi indicato.
- Winry, ti prego. - insistette - Sono i miei
figli. -
Lo disse con una voce così carica d’affetto, che non
potei non credergli, anche se per me Alphonse Elric era ancora il ragazzino di
ventidue anni prima. Sospirai, sentendomi improvvisamente vecchia.
- Io stavo cercando il bambino che è con loro: -
dissi - se lo conosco, starà mostrando loro i suoi tesori. -
Ero abbastanza sicura che Alex nascondesse i suoi
giocattoli preferiti nei luoghi meno frequentati dell’ospedale: il magazzino e
il sottotetto. Se nel primo non c’era, doveva essere là sopra.
* * *
- Attenti alla testa. Questo posto ha il soffitto
molto basso. - Winry si interruppe, e quando parlò di nuovo la sua voce era
ironica - Oh, scusa Ed. -
Incassai il colpo senza rispondere. Aveva tutto il
diritto di essere arrabbiata con me.
Comunque, il sottotetto era vuoto.
- Credevo di conoscere tutti i posti in cui quel
furfante si rifugia. - borbottò Winry mentre scendevamo di nuovo, ancora più
sporchi e impolverati.
Non so perché notai la toilette. Forse non stavo
neppure guardando davvero la porta, ma la donna persa nei suoi mugugni che avevo
di fianco.
- Non lo metto in dubbio. - dissi, avvicinandomi
alla porta - Forse, semplicemente, il tuo furfante ha traslocato di recente. -
Bussai educatamente.
- Potrei parlare con i miei nipoti, per favore? -
domandai.
Inutile negarlo: fui profondamente soddisfatto
quando la porta si spalancò e riconobbi la testolina riccia di Charlotte.
- Papà! - strillò, correndo da Al.
- Il mio scricciolo! - esclamò lui,
inginocchiandosi e spalancando le braccia per accoglierla - Calma, calma, lascia
un po’ di abbraccio anche per tuo fratello! -
Indietreggiai per lasciare spazio all’euforia di
quella famigliola, e quasi inciampai nel terzo bambino.
- Scommetto che tu sei il proprietario del
magnifico tesoro che abbiamo visto di sopra. - dissi.
Il piccolo alzò uno sguardo serissimo su di me, e mi
fece passare all’istante la voglia di scherzare, lasciandomi sul volto solo una
smorfia: a parte i grandi occhi scuri, aveva gli stessi tratti di Winry. Una
somiglianza così oltraggiosa da non lasciar spazio a dubbi.
- Alex, - sbottò lei, prendendo il bimbo per mano e
tirandolo via dal bagno - non posso passare la giornata a starti dietro. -
- Mi dispiace, mami. - dichiarò solennemente lui.
Questa era la peggiore forma di vendetta che potesse
escogitare quella donna straordinaria e impossibile. Se per causa mia aveva
sofferto anche solo la metà di quanto fece soffrire me la parola mami,
allora c’era da domandarsi perché non mi avesse strozzato a mani nude non appena
le ero comparso di fronte... ma, ovviamente, lei non si sarebbe accontentata di
una fine così rapida, per me.
Alphonse spostò velocemente lo sguardo da me a Winry.
- Sei sposata? - chiese, mettendoci tutto il tatto
di cui era capace.
- Divorziata, in realtà. - sbuffò lei, prendendo in
braccio il biondino.
- Non eri sposata, sei anni fa. - riuscii a dire,
nonostante la sensazione di una mano che mi stringesse la gola.
- No, infatti. Il nostro è stato un matrimonio
piuttosto breve. -
Ma non privo di risultati, pensò la parte più
egoista di me. Allontanai il pensiero meschino, cercando di non incrociare lo
sguardo del figlio di Winry, che invece mi stava studiando attentamente, dalla
sua posizione privilegiata tra le braccia di sua... della... ah, non riuscivo
neppure a pensare quella parola!
- Siete tutti in condizioni pietose. - disse lei,
squadrando Alphonse e i bambini - E immagino che non sappiate dove andare. -
- Cercheremo una pensione. - mormorai.
- E come hai intenzione di pagarla? - sospirò -
Sapevo che sarebbe finita così. Fortuna che a casa mia c’è una camera per gli
ospiti. -
Pensierino della buonanotte:
Quando un bel personaggio se ne va, deve essere
sostituito da uno altrettanto bello, vero? Dopo Hedwig, quindi, arriva il
piccolo Alex, questa strana creatura perennemente seria che vivacizzerà non poco
le vicende dei fratelli Elric. In particolare di uno di loro.
Liris: Finalmente anche Al ha
avuto la sua entrata ad effetto! Ah, erano dieci capitoli che aspettavo quel
momento!
Talpina Pensierosa: Come hai
visto, i cuccioli di casa Elric stanno benissimo. Non poteva essere altrimenti,
a dire il vero: l’idea di trovarmi il loro paparino che sfonda la porta di casa
mia e viene a riempirmi di botte non mi piace granché...
Siyah: Niente perdite di arti...
Non posso essere così crudele verso quei poveri bambini. Preferisco maltrattare
lo zio. XD
meby138: Non è vero che aggiorno
ogni sei mesi U.U Pubblico un nuovo capitolo ad ogni fine di trimestre
universitario, cioè, come dice la parola stessa, ogni tre mesi! *annuisce
vigorosamente* Bisogna essere precisi!
Non so perché abbia cacciato la povera Clara in
questo pasticcio sentimentale, a dire il vero: quando avevo iniziato a scrivere,
mi ero data la regola (che uso sempre) “niente coppiette di troppo”, per
non finire a scrivere una specie di soap opera. C’è da dire che mi ero anche
riproposta di non tirare per le lunghe la parte relativa ad Amestris, per non
scivolare nell’amarcord più scontato, ma credo che questa sia una pia
illusione... che mondo sarebbe senza Mustang e/o Armstrong? :)
Leuconoe: Innanzitutto,
complimenti per il nick! Al liceo, Orazio era il mio autore latino preferito a
pari merito con Catullo.
Tornando alla fanfiction, e
lasciando da parte Leuconoe e il carpe diem, credo che alcuni dei
personaggi della serie si vedranno, nonostante avessi deciso di non farlo per
non dover scrivere se e con chi si sono sposati, quanto hanno figliato eccetera.
Cercherò di evitare la soap, per quanto mi è possibile. Per rispondere ai tuoi
dubbi: NO, Ed non è tornato da Winry SOLO per gli auto-mail, ma la scusa era
quella. E le date tra i due mondi sono diverse perché nel film Il
Conquistatore di Shamballa il nostro 1923 corrisponde al 1917 del
“calendario continentale” di Amestris, dunque ho tenuto questa differenza di sei
anni.
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Capitolo 12 *** Il bambino della foto ***
Nuova pagina 1
12. Il
bambino della foto.
- Non hai avvertito che te ne andavi? -
- Il bello di non lavorare per nessuno, Ed, è che
posso andarmene quando voglio. - rimbeccai, senza alzare lo sguardo dai fornelli
- Sto in quell’ospedale solo per far piacere a mia cognata. Piuttosto, sei
sicuro che quell’... affare sotto l’edificio sia sparito? -
Lui scrollò le spalle con noncuranza:
- Certo. Questo nuovo Portale è molto instabile, e
non resta aperto a lungo. -
Aveva parlato con sicurezza, le braccia incrociate
al petto. Non ne era affatto sicuro, ma non poteva esimersi dal fare lo
sbruffone.
La casa in cui ci trovavamo era grande più o meno
come quella di Resembool, così che non mi venisse voglia di scappare. Artie era
uno stratega nato: sapeva benissimo che, appena arrivata, mi sarei chiesta
quanto gli fosse costato prendere in affitto un appartamento simile in pieno
centro città, mi sarei fatta venire i sensi di colpa e non avrei avuto il
coraggio di fargli sprecare i soldi lasciando quelle quattro mura prima dello
scadere dei sei mesi.
Beh, almeno ora questo stupido regalo sarebbe
tornato utile. C’era una sola stanza per gli ospiti, ma potevo far dormire i due
ragazzini in camera di Alex.
- Purtroppo non ho molto da offrirvi, - mi scusai,
mettendo in tavola i resti dell’arrosto del giorno prima - spero vi
accontentiate di avanzi riscaldati. -
- Non c’è problema, - mi rassicurò Edward - siamo
buone forchette. Per quel che mi riguarda, se non ci fosse stata la figlia del
mio locatore, sarei morto di fame anni fa. -
- Cercava di prenderti per la gola? - chiesi,
sbattendo le presine in un angolo con più energia del dovuto.
- No, cercava di farsi pagare. -
Quando Ed diceva che erano buone forchette,
usava un eufemismo: in realtà, quel gruppetto era semplicemente disperato. Quei
due poveri bambini fecero sparire la carne nel giro di pochissimo, senza neppure
alzare lo sguardo dal piatto, si servirono di nuovo e finirono quel che il padre
e lo zio avanzarono, fingendo di essere sazi. Poi pulirono i piatti con tanta
perizia che avrei potuto fare a meno di lavarli.
So di essere stata maleducata, ma rimasi a bocca
aperta e occhi sbarrati per almeno due minuti, prima di incrociare lo sguardo
imbarazzato e pieno di scuse di Al, seduto di fianco a me.
- Lei cucina benissimo, signora. - si ricordò di
dire Thomas, quando il padre gli diede una gomitata discreta.
Ero sconvolta.
Il tavolo era piccolo e quadrato, così le due coppie
di fratelli Elric si trovavano divise ai due lati, un grande vicino ad un
piccolo: perciò, io ero tra Ed e Al, e Alex sedeva da solo a capotavola tra i
due bambini, di modo che non desse gomitate a nessuno.
- Alex, impugna la forchetta con la destra. -
ripetei per l’ennesima volta.
Mio figlio è mancino, cosa che teneva la mia mente
sempre allenata per prevedere quali semplicissimi oggetti sarebbero diventati
armi improprie, o quali gesti abituali avrebbero potuto rivelarsi estremamente
scomodi. Dopo aver visto come impugnava le forbicine per bambini con la sua
manina sinistra, non sapevo dove avrei trovato il coraggio per dargli delle
forbici vere prima dei trent’anni.
Lui non mi sentì nemmeno: era rapito dalla
conversazione con Charlotte. Pendeva letteralmente dalle sue labbra. Sperai che
non si stesse prendendo una cotta; non volevo vederlo soffrire quando lei se ne
fosse andata.
- Tom ha ragione, cucini sempre molto bene. -
dichiarò Al con allegria.
- Hanno bussato? - chiese il ragazzino, alzando la
testa dal piatto per la prima volta.
Calò il silenzio, anche se fu superfluo: non stavano
bussando, ma direttamente aprendo la porta con le chiavi. E c’era solo una
persona, oltre a me, che le avesse. Sospirai, gettando il tovagliolo sul piatto
e alzandomi; arrivai alla porta in tempo per trovarmi Arthur di fronte.
- Disturbo? - domandò con la sua migliore faccia da
schiaffi.
- Stavamo cenando. - lo informai a denti stretti.
Senza neppure chiedere il permesso, avanzò fino alla
porta della sala da pranzo (beh... ad essere sincera, era sempre la cucina) per
dare un’occhiata ai nuovi arrivati. Per fortuna, dopo una bella lavata erano
tutti presentabili: per Ed e Al avevo pure rimediato dei vestiti di ricambio,
anche se il primo aveva le maniche rimboccate e il secondo i polsi in vista.
- Quelle non sono le mie camicie? - chiese infatti
il villano.
- Ed, Al, lui è Arthur Stonebridge, il mio ex
marito. - lo presentai, giusto per amore delle buone maniere. - Artie, ti
presento Edward e Alphonse Elric, dei miei vecchi amici d’infanzia: sono
capitati in città per un... disguido. - improvvisai - Erano anni che non ci
vedevamo, allora li ho invitati qui. Anche perché, con i bambini piccoli... -
Tacqui, a corto di balle da propinargli. Thomas non
si poteva davvero definire piccolo.
- No, no, capisco. Questi sono i due nuovi amici di
Alex, no? - si avvicinò per scompigliare i capelli del bambino, ma lui era
troppo preso dalla descrizione che Lotte gli stava offrendo di un qualcosa che
chiamava “tram”.
- È una macchina - stava dicendo - dove tu ti siedi
e ti sposti per la città. Ci sono tante stazioni... -
- Come un treno? - chiese mio figlio.
- Sì, esatto. - la piccola annuì con forza, facendo
oscillare i riccioli. - Solo che viaggia tra le case. -
- Ma così le città si riempiono di fumo! -
- No, no! Non fa fumo! -
- Allora non va a carbone? - le domandò Arthur,
sorridendo.
Lotte lo fissò, frustrata. Ovviamente, per lei il
carbone era un qualcosa nero che sporcava le dita, ma non aveva nulla a che
vedere con i treni.
- No, a elettricità. -
Ci voltammo tutti verso Edward. Io mi irrigidii,
guardandolo attentamente per invitarlo a tacere.
- Prende l’elettricità dai fili che gli passano
sopra. - continuò invece lui, serissimo, appoggiando le posate nel piatto e
unendo le dita.
Artie alzò così tanto le sopracciglia da farmi
temere che stessero per sparirgli tra i capelli lunghi e neri: poi scoppiò a
ridere sonoramente, e Ed lo imitò.
- Elettricità! - ripeté Arthur, accarezzandosi il
pizzetto - Che fantasia che avete, tutti e due! È sua figlia? -
- No, sono entrambi opera di mio fratello. -
L’altro lo squadrò con evidente curiosità: sapendo
benissimo cosa stesse cercando di indovinare, lo afferrai per la giacca e lo
trascinai di nuovo nell’atrio.
- Artie, possibile che tu non abbia la minima idea
di come ci si comporta con un bambino? - sibilai, per non farmi sentire. - Cosa
vuoi che ne sappia di come funziona un treno!? -
- Scusa, ma era così convincente che mi sono
lasciato trascinare. -
Scossi la testa, decisa a non farmi distrarre dai
suoi occhi grigi. Non ripeto mai lo stesso errore due volte.
Aprii la porta.
- Come hai visto, sono impegnata. -
Lui non si mosse: mi scrutava con palese interesse.
- È lui? - mi chiese.
- Di che parli? -
- Lo sai benissimo. Spero non sia l’altro: non ti
ci vedo nel ruolo della rovina-famiglie. -
Continuai a fare la finta tonta.
- Non so a cosa ti riferisci. -
- Certo, certo, non ho intenzione di invadere la
tua sfera privata. Ero passato solo per fare due chiacchiere: Amelia mi ha detto
che oggi sei sparita all’improvviso... - tossicchiò - temevo che ci fosse
qualche problema con Alex, ecco tutto. -
- Sei stato gentile. -
Ci baciammo velocemente sulle guance, poi riuscii a
farlo uscire. Quando chiusi la porta, mi sentii sollevata: non avrei saputo cosa
inventarmi se Artie mi avesse chiesto da dove venivano i miei amici, o perché
non avevo mai parlato di loro. E, oltretutto, mi infastidiva la capacità con cui
mi leggeva dentro.
* * *
La signora Winry rimase silenziosa per tutta la
cena: l’arrivo... o meglio, l’irruzione di quell’uomo pareva averla offesa
profondamente.
Mentre Lotte continuava a parlare a vanvera con Alex
di tutto quel che le passava per la testa, io non potei fare a meno di lanciare
occhiate furtive alla signora Stonebridge: la sua somiglianza con Hedwig
Steinglocke era semplicemente sbalorditiva. Fisicamente, differivano soltanto
nel colore e nel taglio dei capelli, ma per il resto sarebbero potute passare
per sorelle gemelle. Non si poteva dire la stessa cosa del carattere, per
fortuna: la madre di Alex non era algida e distante quanto Hedwig, né possedeva
quell’aria eterea che le avevo visto nella libreria dei Meyer, e per questo
sembrava molto più reale, meno falsa della donna che avevo conosciuto dall’altra
parte del Portale. Anche la sua rabbia era diversa dagli scatti d’ira del
Presidente della Società di Thule, più discreta e taciturna.
- Papà, allora in questo mondo esistono davvero i
doppi delle persone del nostro! - esclamai, quando lui ci accompagnò a dormire.
Lui sorrise, mentre con una mano raddrizzava le
nostre scarpe, ai piedi del letto.
- Sì, anche se, come avrai capito, spesso la
somiglianza è solo fisica. - mi rispose, appoggiandosi di fianco a me al
davanzale della finestra.
La città chiamata Central City era straniera,
inquietante, soprattutto dopo il tramonto, seppure completamente illuminata.
Ricordavo vagamente un tempo in cui anche Monaco, la sera, si accendeva di
lampioni e luci provenienti dalle case, prima della guerra e del coprifuoco, ma
non riuscivo bene a metterlo a fuoco.
- Papà... - ripetei.
- Sì? -
- La favola che ci raccontavi la sera parlava di
questo mondo, vero? -
- Sì, Tom. -
- I due fratelli alchimisti eravate tu e lo zio,
non è così? -
Questa volta ci mise di più per rispondermi: - Sì, è
così. -
Mi allontanai dalla finestra per infilarmi a letto,
dove Lotte si era già appisolata.
- Era tutto vero? - domandai ancora, perplesso. -
Esistono davvero l’alchimia, la Pietra Filosofale, i militari di cui parlavi...
Anche gli homunculus? -
- Quelli non più. - mi rassicurò mio padre,
inginocchiandosi di fianco al letto per non svegliare mia sorella.
- Ed è per questo che sembri più giovane della tua
vera età? -
- Ho trentanove anni, - disse, cauto - ma non posso
negare che il mio corpo ne abbia solo trentacinque: ora non si nota quasi più,
ma da ragazzo è stato un problema. -
- Davvero Ed non sopportava che gli si dicesse che
è basso? -
- Questo, non dire a tuo zio che te l’ho
raccontato. -
Mi interruppi per girarmi sul fianco e poterlo
guardare in faccia.
- Però, - sussurrai, abbassando ancora la voce - tu
hai sempre detto che, nella battaglia finale con i cattivi, il fratello maggiore
moriva, il minore consumava l’armatura che gli faceva da corpo per riportarlo in
vita e l’altro entrava nel Portale per salvarlo a sua volta... ma questo è
impossibile, no? Un morto resta morto. -
Papà sospirò, intuendo benissimo a cosa mi stessi
riferendo.
- Tom, quando vi raccontavo quella storia non
pensavo che un giorno avreste scoperto che era reale. - ammise, serio. - In ogni
caso, credo che tu conosca già la risposta: il fratello minore riusciva a
riportare in vita il maggiore solo perché lui stesso era la Pietra Filosofale,
ma per farlo dovette consumarla, distruggendo il legame stesso che teneva la sua
anima in questo mondo. Il maggiore, poi, non lo resuscitò esattamente, ma ne
recuperò il corpo vero e lo riunì all’anima. Si tratta, insomma, di casi
assolutamente eccezionali. - si interruppe, per accarezzarmi la testa - Un morto
resta morto, hai ragione. Infatti, i due bambini non riuscirono a trasmutare la
loro mamma. -
Sospirammo pesantemente entrambi.
- Ora dormi, e vedi di non sognare gli homunculus.
- mi disse, alzandosi.
- Torniamo a casa presto, vero? -
- Sì, non ti preoccupare, Tom. -
- Papà? -
Stava già per chiudere la porta, ma rimase con la
mano sulla maniglia.
- Cosa? -
- Se ho gli incubi posso venire da te? - chiesi,
vergognandomi come un ladro.
- Certamente. -
* * *
Asciugai le stoviglie approfittando dell’assenza di
Winry, che stava sistemando la camera degli ospiti, e le misi in ordine la
credenza: aveva organizzato la casa in modo molto simile a quella di Resembool,
e non era troppo difficile orientarsi. Dovevo solo avere l’accortezza di non
farmi trovare in cucina, così che non potesse cominciare a protestare.
Stavo quindi sgattaiolando via quando, in corridoio,
sentii un gridolino provenire dalla camera di Winry, in cui Alex sarebbe dovuto
essere pacificamente addormentato. Allungando il collo, intravidi il bambino
seduto per terra, dietro una torre di cubi di legno alta quanto lui: se l’aveva
tirata su nel breve tempo in cui l’avevamo perso di vista, aveva un futuro
assicurato come muratore.
- Non dovresti essere a letto? - gli chiesi.
- Non ho sonno. - rispose lui, senza alzare gli
occhi. Stava posizionando gli ultimi cubi sulla sua costruzione per costruire la
punta, la fronte aggrottata per la concentrazione; solo dopo aver posto ancora
due mattoni levò lo sguardo su di me:
- Tu sei il bambino della foto? - mi domandò a
bruciapelo.
- Il bambino della foto? - ripetei, confuso.
Per tutta risposta, lui si alzò agilmente, si
avvicinò al comodino della madre, prese il libro appoggiato sopra e ne estrasse
la fotografia che faceva da segnalibro. Me la porse con un’espressione
imperscrutabile, come un giudice che ascolta il testimone, e mi osservò mentre
mi avvicinavo alla finestra per avere un po’ di luce e vedere meglio.
Conoscevo quella foto: per anni era rimasta appesa
nell’officina Rockbell, a Resembool, e difatti si notava il foro della puntina.
Era una delle meglio riuscite tra quelle che ritraevano me, Al e Winry da
piccoli.
- Tu sei il bambino della foto? - chiese nuovamente
Alex, mettendosi sulla punta dei piedi e indicando con il dito il mio viso
ritratto nella foto.
- Sì, sono io. - risposi, sorridendo davanti alla
mia espressione. Winry doveva avermi appena fatto qualche scherzo, perché
sembravo davvero offeso... chissà cos’era successo. Non lo ricordavo affatto.
Alex rispose al sorriso, annuendo solennemente come
se fosse proprio quello che voleva sentirsi dire. Era la prima volta che non gli
vedevo stampata in faccia quell’aria da sfinge, e dovevo ammettere che così
sembrava quasi un bambino come tutti gli altri: quasi, dicevo, perché comunque
il suo volto era molto più adulto di quello che avevano avuto Thomas o Lotte
alla sua età, o qualunque altro bimbo che avessi mai visto. I grandi occhi
scuri, l’unico tratto che non aveva ereditato da Winry, sembravano sempre
oltrepassarmi, fissandosi su qualcosa che solo lui poteva vedere e sapere: mi
disorientavano, e inoltre mi lasciavano la sensazione di averli già visti su
qualche altro viso. Un’impressione vaga, frustrante come quando si ha una parola
sulla lingua, che per motivi che non potevo ammettere neppure a me stesso mi
inquietava. Fu proprio questo (furono quei motivi) a spingermi a restare quando
lui riprese a giocare, ignorandomi.
- Alex, quanti anni hai? - mi decisi a chiedere,
alla fine.
- Quattro. - rispose lui, senza neppure alzare lo
sguardo su di me.
Presi un profondo respiro. Quattro anni. Io ero
tornato sei anni prima, quindi non c’era alcuna possibilità che fosse figlio
mio... Il mio stomaco diede un balzo quando pensai a quelle parole. Erano quelli
i motivi che mi avevano trattenuto, ma a ben pensarci il mio presentimento era
del tutto fantasioso: non ricordavo affatto i genitori di Winry, perciò era
plausibile che uno dei due avesse gli occhi scuri. La verità era che mi ero
creato un mare di dubbi a partire da una sensazione.
Ignaro di tutto, Alex andava esaurendo i cubi: erano
giocattoli di legno, con sopra disegnati i numeri da zero a nove, molto simili a
quelli che anche Thomas aveva avuto quando era piccolo (credo di averglieli
regalati proprio io), che di solito si usano per insegnare a contare. Il bambino
aveva ormai innalzato una struttura alta e piuttosto instabile, ma chinandomi mi
accorsi che non stava andando a caso: sceglieva attentamente i suoi mattoni
dalla loro scatola, e li posizionava in un ordine ben preciso.
- Sai già contare, Alex? - chiesi, stupito.
- Sì, ma li ho già messi in ordine crescente. -
replicò lui - Ora li metto uno sì e uno no. -
- Alternati? - ribattei, scordando di stupirmi per
l’uso dei termini ordine crescente. - Pari con pari e dispari con
dispari? - in effetti, era così che li stava impilando, ma dall’occhiata confusa
che mi diede compresi che non ne aveva intenzione. Lui li stava solo mettendo
uno sì e uno no.
- Questi sono numeri pari. - gli spiegai,
indicandoli - E questi sono dispari. -
Scrutò me e i suoi giochi, come per assorbire
l’informazione. Poi raccolse un paio di cubi ancora nella scatola, e li mise
affiancati, formando il numero trentasette.
- Questo è pari o dispari? - mi domandò.
L’ultima cosa che volevo era iniziare una lezione di
matematica ad un’ora in cui il bambino avrebbe dovuto essere a letto...
- Alex, è questo il modo di comportarsi con gli
estranei? -
Trasalii e mi voltai, sentendo la voce di Winry alle
mie spalle.
- Da quanto sei lì? - chiesi, a disagio.
- Sono appena arrivata. - mi tranquillizzò lei,
anche se avvertii una punta di acidità nella sua voce.
- È dispari! - esultò Alex - Mamma, è dispari! -
- Sì, tesoro, ma ora di’ buonanotte e vai a letto.
- rispose Winry, senza riuscire a trattenere un sorriso indulgente.
Obbediente, lui si voltò verso di me.
- Buonanotte signore. Dormi bene. - declamò,
pasticciando con i verbi e le formule di cortesia.
Aspettai che Winry si fosse chiusa la porta alle
spalle, prima di schiarirmi la gola:
- È un bambino davvero dolce. - dichiarai.
E questo, nonostante suo padre sia quel cafone di
stasera, aggiunsi mentalmente.
- Sì, è vero. - rispose lei, spostandosi una ciocca
di capelli dietro l’orecchio - Ed è anche molto sveglio. -
- L’ho notato. - risposi, ridendo.
- Sul serio? Non... - si interruppe, lanciando
un’occhiata fugace alla porta. Mi fece un cenno, e ci spostammo in cucina.
- Non ti sembra strano? - continuò Winry,
incrociando le braccia al petto - Insomma, i bambini della sua età usano i cubi
per giocare, non per farci gli esercizi di matematica. -
- Ma per lui è un gioco. - replicai,
stringendomi nelle spalle - Non sono un’autorità in materia, ma non credo ci sia
nulla di male. Mi sembra troppo intelligente per trattarlo come un bambino
qualsiasi. -
- Dici davvero? -
- Perché dovrei mentire? - borbottai, impacciato. -
Lo hai sempre sotto gli occhi, quindi dovresti saperne più di me. -
Fece una smorfia, e i suoi occhi ebbero un lampo.
Avrei scommesso qualunque cosa che stava pensando al distratto padre di Alex.
- Oh, io so che è dolce, e molto sveglio.
Solo che... - sospirò - è sempre così serio. E non lega con nessuno: mi stupisce
che sia riuscito a diventare amico di Charlotte nel giro di poche ore. L’ho
portato qui per cercare di farlo stare con dei suoi coetanei, ma non è servito a
molto. - Winry si accigliò e si morse il labbro inferiore per la frustrazione. -
Lo isolano subito. È come se intuissero che non è come loro. E Artie non mi
aiuta, visto che riesce solo a dire che crescendo cambierà, non c’è ragione
di preoccuparsi, prima o poi metterà la testa a posto e smetterà di essere tanto
strano! -
Sì, in effetti Artie non sembrava un campione
di tatto.
- Se lo dice lui... - replicai vagamente. Non mi
sembrava il caso di mettere il becco in faccende che non mi riguardavano.
Winry mi fissò, con un sorriso cinico sul volto.
- Ed, puoi tranquillamente dire quel che pensi. Sì,
Arthur non ha la minima idea di come si trattino i bambini, e spesso è
terribilmente venale. Secondo lui, tutto ha un prezzo, tutto può essere
comprato. Trova il mio lavoro assolutamente inutile, perché ormai nessuno si fa
più impiantare degli auto-mail, ma dopo avermi costretta a venire qui non mi ha
neppure permesso di aiutarlo in ospedale. -
- E allora, - replicai - perdona la franchezza:
perché lo hai sposato? Non sei il tipo che si sposa per denaro, e sono certo che
saresti perfettamente in grado di cavartela da sola. -
Bruscamente, Winry si portò le mani ai fianchi, e mi
trapassò con uno sguardo accusatore.
- Perché? - sibilò, mantenendo a fatica un tono di
voce basso. - Per un motivo molto semplice, Edward Elric: perché lui c’era
sempre. Quando volevo parlargli, dovevo solo chiamarlo. -
Abbassai la testa, ferito, mentre lei distoglieva il
viso.
- Io non sono come tua madre, Ed. Non ho la
pazienza di aspettare in eterno un uomo che non torna mai, e che non sono
neppure sicura che condivida i miei sentimenti. -
- Winry! - esclamai - Io... -
- Tu - mi accusò lei - ogni volta piombi in
casa mia come se nulla fosse, fai i tuoi comodi e poi mi lasci di nuovo! Ora
dimmi cosa devo pensare: perché io non credo che questo sia il comportamento di
un uomo che diceva di amarmi! -
- Faccio i miei comodi? - digrignai i denti,
per non mettermi a urlare e svegliare i bambini. - Winry, non avevo la minima
idea che saremmo arrivati fino a quel punto... - lei si lasciò scappare
un’esclamazione sarcastica - e questa volta, è stata davvero un’emergenza:
avevano trascinato i miei nipoti nel Portale, era mio dovere venire a
riprenderli! -
- Avevano, chi? Di nuovo quelli dell’altra
volta? -
- Sì. La Società di Thule. - sospirai, passandomi
una mano tra i capelli. - A quanto pare, sei anni fa mi stavano tenendo
d’occhio, e si sono insospettiti quando mi hanno visto sparire per un paio di
settimane. -
Lei prese un paio di respiri profondi, ma non
rispose: mi diede le spalle, fingendo di piegare gli strofinacci della cucina,
per poi appenderli di nuovo nella stessa posizione di prima.
- Ho visto che hai addosso l’auto-mail nuovo. -
commentò dopo un po’, senza interrompere il suo inutile lavoro.
- Purtroppo quello vecchio ha avuto un incidente. -
risposi, mantenendomi sul vago per non doverle raccontare che fine aveva fatto.
- Comunque, una persona aveva definito il tuo lavoro l’opera di un genio.
-
Non poté trattenere un sorriso, che intravidi anche
se era voltata.
- Quello che hai addosso è stato uno degli ultimi
auto-mail che ho costruito. - meditò. - Ultimamente mi limito a riparare protesi
più vecchie: in ogni caso, appena sarò libera di andarmene tornerò a Resembool e
venderò l’officina. -
- Cosa? - esclamai, sobbalzando.
- Ho un figlio, Ed! - sbottò, spazientita dalla mia
ottusità. - Non posso rischiare di trovarmi senza soldi. Senza contare che, con
i tentativi di invasione da parte dei Paesi confinanti, l’ipotesi di una guerra
non è mai stata così reale. Ho visto quei due poveri bambini: - si interruppe,
piegando la testa verso la stanza dove i miei nipoti dormivano - sembrava non
toccassero cibo da giorni. E Al, quanto è pallido e smunto! E tu? Ti sei visto?
Devi avere almeno dieci chili di meno di sei anni fa! -
Quello, in realtà, dipendeva in massima parte dalla
mia ultima sistemazione...
- Non voglio vedere Alex ridotto così. - dichiarò,
lasciando cadere per terra gli strofinacci e voltandosi finalmente verso di me,
sull’orlo delle lacrime - All’estero potrò ricominciare a lavorare come
ingegnere di auto-mail, o come medico, se non avessi alternative: il bambino è
piccolo, si abituerà. E per me, un posto vale l’altro. -
Giuro, non so come mi venne in mente. In condizioni
normali non avrei mai proposto una follia simile: dovevo essere umiliato dal
paragone che Winry aveva fatto con mia madre, avvicinando implicitamente me a
mio padre, e quelle ultime parole fecero scattare un qualche meccanismo nella
mia testa. Fatto sta che la afferrai per una spalla e la costrinsi a guardarmi:
- Se per te un posto vale l’altro, - dissi - vieni
con me! -
- C-cosa? - balbettò, sgranando gli occhi.
- La guerra ormai sta finendo, e presto ci sarà un
intero continente da ricostruire: troveremo dello spazio anche per noi! Di certo
ci sarà una richiesta enorme di medici, con tutti i feriti che torneranno a
casa. La Baviera ti piacerà, è verde come la campagna intorno a Resembool, e
Monaco è una città enorme, e poi... e poi Alex potrebbe vedere sempre Lotte, e
non sarebbe più solo: non avrebbe la difficoltà di dover imparare una lingua
straniera, e partirebbe alla pari dei suoi coetanei, se non di più!, visto
quanto è intelligente. Casa mia è vicina a dei giardini che si estendono per
chilometri, e... -
Ed è un buco.
Mi interruppi, rendendomi finalmente conto del fiume
di idiozie che stavo dicendo.
Vivevo in due misere stanze, troppo piccole anche
per una sola persona, in una via di malelingue e pettegoli che avrebbero reso la
vita impossibile a chiunque. Non sapevo se avevo ancora il mio lavoro, perché
non avevo più notizie del laboratorio. E Alex? Già spostarsi in un altro Paese
avrebbe reso difficile per lui vedere il padre, ma io stavo proponendo di non
farglielo incontrare mai più. Senza contare che, in ogni caso, la Germania era
in ginocchio: ancora per molti anni ci sarebbe stato da far la fame.
Lasciai cadere le braccia lungo il corpo,
vergognandomi delle mie parole.
- Io... - iniziò Winry, senza guardarmi.
- Lascia stare. - tagliai corto - Scusa, è stato
piuttosto imbarazzante. Vado a letto. Dimentica quel che ho detto. -
* * *
Mi scordai di rallegrarmi del fatto di trovarmi in
un letto vero, dopo mesi, perché crollai addormentato non appena mi sdraiai, e
non sentii neppure Ed tornare nella stanza che dividevamo. Tuttavia, quando mi
svegliai, la mattina seguente, mio fratello era nel letto di fianco al mio, con
il lenzuolo attorcigliato intorno alle gambe come se si fosse rigirato per ore.
A ben pensarci, poteva benissimo essere così, meditai mentre mi vestivo: per
fortuna, la sera precedente anche lui doveva essere troppo stanco per mettersi a
rimuginare su chissà cosa.
Winry aveva appoggiato sul comodino i pochi oggetti
che avevamo con noi: recuperai la foto che tenevo nella giubba dell’uniforme, e
me la misi nella tasca della camicia, prima di sbirciare l’orologio da polso.
Scarico da giorni, peccato che l’avevo dimenticato.
Scrollando le spalle, mi rassegnai ad uscire dalla camera, per andare in bagno a
rasarmi. Non lo avevo fatto la sera prima, quando eravamo arrivati, perciò non
sapevo che idea si fosse fatto esattamente il signor Stonebridge di noi; forse
aveva pensato che fossimo dei selvaggi appena tornati dalla giungla, che non
avevano avuto neppure il tempo di tagliarsi la barba.
La casa era ancora silenziosa, a parte i rumori
provenienti dalla cucina dove, scoprii, Winry era già al lavoro.
- Mi sono perso qualcosa? - domandai, guardando la
tavola imbandita. - Dove sono i venti ospiti che aspetti? -
Lei ridacchiò, ma non smise di cucinare.
- Buongiorno! - disse invece. - Dormito bene? -
- Benissimo, direi. Spero tu non ti sia svegliata
prima solo per sfamarci. -
- Io mi sono svegliata alla solita ora, veramente.
- rispose.
Lanciai un’occhiata all’orologio appeso al muro, e
dovetti ammettere che probabilmente era vero: eravamo più vicini all’ora di
pranzo che a quella della colazione. Se il fuso orario tra i mondi era lo
stesso, dovevo aver dormito più di undici ore.
- Evviva. - scherzai. - Più che una dormita, questo
è stato un letargo! -
- Non c’è nulla di cui rammaricarsi: - dichiarò lei
- comincia pure a servirti, gli altri mangeranno dopo. -
- Va bene, ma solo se ti fermi e smetti di cucinare
per noi: mi stai facendo sentire un parassita. -
Lei sorrise, permettendomi di toglierle il coltello
di mano per affettarmi da solo il pane e accontentandosi di passarmi il
barattolo della marmellata.
- Almeno questo mi permetti di farlo? - mi prese in
giro. - Me lo devi, visto che state insegnando le vostre cattive abitudini a mio
figlio: stamattina anche lui non si è ancora visto. -
- Non pretenderai che una persona che non ha
dormito per quattro anni faccia una predica sullo svegliarsi presto, vero? -
- Ah, è vero! - disse, spalancando gli occhi - Ti è
tornata la memoria, giusto? -
- Sì, quando ho attraversato il Portale per la
prima volta, ventidue anni fa. - risposi. - Forse è stato anche quello uno
scambio equivalente: i miei ricordi in cambio dell’esilio dal mondo da cui
provenivo. -
Scrollai le spalle: a differenza di Ed, non l’avevo
mai trovato un grande sacrificio. Mi bastava poter stare con lui. Poi, quando
incontrai Caroline e quando nacquero i miei figli, i legami con quel nuovo mondo
divennero indissolubili.
Anche Winry doveva averci pensato, perché cambiò
repentinamente argomento:
- Ho visto la foto che porti in tasca. - mi
sorrise. - Quella è tua moglie? Ed mi aveva detto che è una donna molto bella:
immagino che tu non veda l’ora di tornare da lei. -
Deglutii il boccone, nonostante il groppo alla gola
che quelle parole mi avevano fatto salire.
- Sono vedovo. - sussurrai. - Mia moglie è mancata
sei mesi fa. -
Winry impallidì, portandosi una mano alla bocca e
trattenendo il fiato.
- Mi... mi dispiace. - mormorò, imbarazzata.
- Non potevi saperlo. - le feci notare, appoggiando
la fetta di pane sbocconcellata nel piatto e congiungendo le mani davanti al
viso - Ad essere del tutto sincero, ho cominciato ad accettare l’idea solo
mentre ero al fronte. Prima, a casa, ogni mattina mi svegliavo ed... - mi morsi
il labbro, distogliendo lo sguardo dagli occhi di Winry, che mi fissavano con
un’ombra di pietà - ed ero certo che lei fosse nell’altra camera, a preparare la
colazione per tutti. -
La mia amica annuì, passandosi velocemente un dito
sotto gli occhi:
- Anche a me succedeva, quando la nonna Pinako... -
lasciò in sospeso la frase, ma fece un gesto vago con la mano. - Forse mi dirai
che non è la stessa cosa, ma per me era una madre e un padre insieme, e
scommetto che sarebbe stata una bisnonna magnifica per Alex. Sono passati quasi
dieci anni, ma è ancora strano non averla sempre intorno, a Resembool. -
Ed mi aveva detto della morte della zia solo alcuni
giorni prima, con sei anni di ritardo rispetto a quando l’aveva scoperto lui.
Ero stato sul punto di iniziare una discussione, ma lui era sempre più prostrato
e affamato, così mi ero impietosito e avevo lasciato perdere, tenendo per me il
dolore.
- Tra l’altro, - ripresi, giusto per parlar d’altro
- mi dispiace averti coinvolta anche questa volta. Il tuo ex marito non sapeva
che avevi ospiti, immagino... -
- Non c’è problema, tranquillo. Ci siamo lasciati
di comune accordo l’anno scorso... È stato un matrimonio molto breve, in
effetti, ma siamo ancora buoni amici. -
Le credei a metà: la sera prima mi era sembrata
davvero seccata per l’intrusione, e non a torto. Comunque, non dissi niente, e
per parecchi minuti Winry restò a guardarmi mangiare in silenzio assoluto.
Quando tentai di aiutarla a pulire, rifiutò decisamente.
- Tanto tra poco arriverà il resto della truppa,
no? - mi disse.
- Non parlarmi di truppa. - ribattei - Tre mesi da
soldato mi sono bastati per capire che non voglio più averci nulla a che fare! -
- Ah, sì, Ed mi aveva detto che, in quel mondo, la
leva è obbligatoria. -
- Lui non è stato richiamato grazie ai tuoi
auto-mail. - la lusingai.
Winry scosse la testa, ma non sorrise
all’adulazione.
- Al... ecco, mi stavo chiedendo... - aprì il
rubinetto, e quasi non sentii il seguito, nonostante avesse alzato la voce in
un’imitazione di spensieratezza - per quanto tempo vi fermate? -
Non era quello che si stava chiedendo, pensai. Aveva
un’aria strana.
- Non lo sappiamo con esattezza, ma non
preoccuparti: Ed si è portato dietro quelle monete di Amestris che aveva con sé
dall’altra parte, perciò non ti disturberemo oltre. -
- No, no! - protestò lei. - Anzi, sono contenta se
vi fermate un po’. Insomma, anche un bel po’, se capisci cosa intendo. -
Abbassai lo sguardo. Sì, avevo capito.
- Grazie, Winry, ma voglio riportare i bambini nel
loro mondo. - risposi - Per quanto mi riguarda, questo è stato il mio ultimo
viaggio ad Amestris. -
- Oh, so bene che hai ragione! - esclamò,
sospirando - E in fondo sapevo anche che avresti risposto così: lo avrei fatto
anch’io. Tom e Lotte sono già abbastanza grandi, per loro sarebbe difficile
adattarsi ad una realtà così nuova ed estranea. E per voi, forse non è così
diverso, visto che non vivete più ad Amestris da decenni. Solo che... - si
asciugò in fretta le mani, per potersi avvicinare e guardarmi in faccia - Ieri
ho visto quanta fame avevate, tutti quanti, e mi si è stretto il cuore al
pensiero di rimandarvi a tirare la cinghia. -
- Sei molto gentile, Winry. -
- O molto egoista. - stirò le labbra in un sorriso
amaro - Senza contare che, da quel che mi ha detto Ed, nel vostro mondo la
guerra sta per finire: qui, con tutta probabilità, inizierà tra poco. No, no, è
meglio che voi quattro torniate dall’altra parte del Portale. -
- Aspetta. - la interruppi - Non posso garantire
per Ed. -
- Ed verrà con voi. - dichiarò lei, volgendo la
testa verso la porta - Perché non se la sentirebbe di ricominciare un’altra
volta tutto da capo, in un nuovo mondo e in un nuovo conflitto, e perché non
potrebbe mai lasciarti solo. In fondo, lo capisco: tornerò a casa il tempo
necessario per fare i bagagli e andarmene a Drachma, perché, se restassi anche
solo un’ora in più, non avrei più il coraggio di farlo. -
Feci per ribattere, ma un frastuono dall’esterno
coprì la mia goffa risposta: un suono lacerante, acuto e continuo che conoscevo
benissimo, ma che mai avrei creduto di sentire da quella parte del Portale.
Winry per lo spavento lasciò cadere il piatto che teneva in mano, che s’infranse
senza che il tonfo riuscisse a farsi udire. Dal corridoio, come se fossero stati
evocati, comparvero i miei figli ed Edward, perfettamente svegli.
- Cosa fate lì impalati? - urlò lui, per sovrastare
il rumore. - Non sentite la sirena dell’allarme aereo? -
Pensierino della buonanotte (davvero,
dovrei trovare un nome più intelligente!): uff, che capitolo
difficile! Troppo calmo, tutto fatto di meditazioni (leggi: seghe mentali) dei
personaggi... Era necessario per spiegare un paio di cosette, ma ho riscritto il
dialogo tra Ed e Alex tre volte. È molto complicato far comportare un bambino
come... come quello che è: un bambino. E insieme far capire che è molto
intelligente: prima dei cubi si parlava di un aereo giocattolo, ma ancora non
avevo detto neppure che ad Amestris esistono gli aerei! Volevo che questa
rivelazione arrivasse alla fine del capitolo. Perciò ho buttato tutto e
riscritto da capo con i sempreverdi cubi con i numeri, che sono anche facili da
immaginare per chi legge. Non è bellissimo Ed quando ha a che fare con i bimbi?
Liris: mi pare di capire che
provi una leggera... impalpabile... quasi inconscia avversione per Winry,
esatto? Alex è più simpatico perché è più piccolo: magari tra venti o trent’anni
sarà un delinquente con problemi di droga... no, ok, è improbabile.
Babus: basta avere pazienza, e il
nuovo capitolo arriva. Visto?
meby138:
povera! Gli orecchioni! Sono onorata che il mio capitolo ti sia servito a
passare cinque minuti in allegria. Sul “meccanica preferita” ho dei dubbi, visto
che buona parte dei fan della serie sembrano odiarla, e sinceramente non capisco
bene il perché: a me piace molto, anche se nel manga è sviluppata un po’ meglio.
Selfish: ringraziarmi perché
Hedwig è morta? Beh, ehm, era solo un’esigenza di trama, non c’è bisogno di
amarmi per questo... No, ok, fai pure che mi piace.
Siyah: non credevo che Alex
riscuotesse così tanto successo! A me piace moltissimo, ma a me piacciono tutti
i bambini della serie, Thomas incluso (che non si considera affatto un bambino).
Su Ed, non credo che Winry abbia partorito solo per fargli un dispetto,
soprattutto dopo aver dichiarato che non ha intenzione di regolare la sua vita
in funzione delle comparsate di Edward. Per l’alchimia, verrà inserita molto in
fretta: dobbiamo lasciare un po’ a bocca aperta i piccoli Elric!
Leuconoee: guarda che un figlio
come Alex è una bella gatta da pelare! Oltre al fatto che devi tirarlo su di
morale ogni volta che gli altri bambini lo isolano, devi convivere con una
specie di monaco buddista... mancino! Io, alla giovane età di ventuno
anni, ogni tanto ancora impugno la forchetta con la sinistra, e mia madre ci ha
rinunciato a farmelo notare...
Comunque: Alex ha quattro anni. E mi segno la tua
proposta di matrimonio, però dovrai metterti in fila perché mi si è già
dichiarata Selfish :)
Yolei87: no, Holze non è
diventato la pappetta nera sul pavimento, poveruomo! E la grotta sotto Central
City mi serve, darla a Scheska significherebbe trovarla invasa dai tomi. Edward
non pensava davvero che Winry si conservasse per lui, anche perché non pensava
di rivederla, ma in effetti sapere che si è sposata (e, quindi, innamorata,
almeno per un certo periodo) è comunque un brutto colpo. E anche se il
matrimonio con Artie è fallito, Alex resta lì, ignaro testimone di quel che è
successo in passato.
(Non so da dove mi sia uscita questa frase... hmmm,
devo venderla a quelli che fanno gli incarti per i cioccolatini.)
Edwin era, ovviamente, Papà Fletcher. Edwin Fletcher
junior nascerà solo tra una quarantina di anni! Ora mi
spieghi perché stiamo parlando di una fanfic che
non pubblicherò mai?
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Capitolo 13 *** Breve visita alle patrie galere ***
Nuova pagina 1
13.
Breve visita alle patrie galere
Uscimmo in strada di corsa, senza prendere né
cappotti né soprabiti, nonostante il tempo fosse peggiorato e fuori soffiasse un
vento freddo. La via in cui si trovava la casa di Winry era piuttosto grande, ma
era piena di gente che correva in ogni direzione.
- Dov’è il bunker? - chiese Al, gridando per farsi
sentire nel frastuono e trattenendo per le spalle i figli per non perderli tra
la folla.
- Il… cosa? - domandò di rimando Winry.
- Il rifugio anti-aereo! - le spiegai. - Dove vi
nascondete quando attaccano con gli aerei? -
- Non era mai successo prima! - strillò lei. Teneva
in braccio Alex, ancora in pigiama, che torceva il collo per guardare il cielo
plumbeo. Il bambino aveva mostrato solo una lieve sorpresa quando la madre lo
aveva strappato dal letto in cui ancora dormiva, ma aveva riguadagnato
immediatamente la sua aria distaccata. Sperai fosse colpa del sonno, e che la
paura sarebbe venuta in seguito, così da farlo almeno sembrare umano.
- Andiamo all’ospedale! - esclamò Alphonse -
Scendiamo nella città sotto Central City! -
A quelle parole, Winry si riscosse, e parve
ritrovare un po’ di sangue freddo.
- Giusto. - disse - Da questa parte! -
Central City era stata interamente ricostruita dopo
l’attacco della Società di Thule del 1923, che l’aveva quasi rasa al suolo: non
c’erano tracce di bombardamenti, perciò non ebbi difficoltà a capire l’isteria
collettiva e la mancanza di organizzazione. Era chiaro che nessuno si aspettava
un attacco dal cielo... Neppure io, se era per quello. Non c’erano mai stati
velivoli ad Amestris, né nelle nazioni vicine, e per fortuna: vista l’inimicizia
tra il nostro Paese e gli Stati confinanti, sarebbero bastati pochi anni per
distruggerci a vicenda.
- Pare che in molti abbiano avuto la nostra stessa
idea. - commentai, vedendo l’ospedale preso d’assalto. Prima di raggiungere la
porta d’ingresso venni spintonato una decina di volte, e la situazione non
migliorò nei corridoi: per alcuni secondi persi di vista gli altri, nonostante
l’altezza di mio fratello lo rendesse un ottimo punto di riferimento. Mi
ritrovai schiacciato contro una parete dalla fiumana impazzita, e cominciavo
seriamente a pensare che ben presto sarei caduto e sarei stato calpestato,
finché una mano robusta non mi afferrò per il braccio, trascinandomi in avanti.
- Serve aiuto? - mi domandò Arthur Stonebridge, che
fendeva coraggiosamente la marea umana.
- Grazie. - dissi, a malincuore. - Da qualche parte
devono esserci Winry e mio fratello. -
L’ex marito non mi andava troppo a genio, ma dovetti
dargli atto che aveva fegato: si buttò a capofitto tra la gente, trascinandomi
verso le scale che avevamo percorso io, Al e i ragazzi solo il giorno prima.
- Come fa tutta questa gente a conoscere questo
passaggio? - gli chiesi.
- Qualche settimana fa si era parlato di un attacco
di aeromobili. - mi spiegò, senza lasciarmi andare il braccio.
Aeromobili. Doveva essere il modo in cui
chiamavano gli aerei.
- Sui giornali erano stati indicati i passaggi per
arrivare in quella specie di grotta sotto la città. Non lo sapeva? -
- No, noi... noi eravamo all’estero. - inventai,
restando sul vago.
Riuscimmo a scendere le scale senza romperci l’osso
del collo, e finalmente, oltrepassate le scatole dell’ospedale, intravidi la
testa bionda di Al. Di fianco a lui, Winry guardava nella nostra direzione,
sempre tenendo in braccio Alex. La grotta era abbastanza ampia da permettere
alle persone di disperdersi: molti erano seduti, sui vecchi muri diroccati o per
terra, e si riusciva già a respirare meglio.
- Mantenete la calma! - gridava un soldato in un
megafono, ad un centinaio di metri da noi - Qui non c’è alcun pericolo. Saranno
distribuite coperte e bevande calde! -
- L’organizzazione per lo sfollamento lasciava a
desiderare. - commentai, avvicinandomi ai due - Ma mi pare che stiano
rimediando. -
- Abbiamo un problema. - dichiarò Al. Era teso,
pallido. Abbassai lo sguardo sulle sue mani: la sinistra teneva ancora la manina
di Lotte, ma Thomas mancava all’appello.
* * *
La sola presenza di Ed parve infondere coraggio in
Al, che prima aveva nascosto l’ansia per non far preoccupare ulteriormente la
piccola Lotte.
- Coraggio! - disse - Dev’essere sicuramente qui
intorno: è sceso dallo stesso passaggio che abbiamo usato noi, quindi non si
sarà allontanato troppo. -
- Hai ragione. - ammise Al, prendendo un profondo
respiro. Sorrisi, accorgendomi di come, in fondo, molte cose non fossero affatto
cambiate nei ventidue anni passati: quei due davano sempre il meglio quando
erano uniti.
- Se volete scusarmi, - si intromise Artie - io mi
allontanerei. Qualcuno potrebbe aver bisogno di un medico: intanto, chiederò in
giro se hanno visto il ragazzino. -
- Va bene, grazie. - rispose Alphonse.
Il mio ex marito mi baciò frettolosamente sulla
guancia, per poi accomiatarsi: il suo tatto mi stupì, visto che non era mai
stato bravo ad intuire i sentimenti altrui. Soprattutto, non era mai stato bravo
a capire quando è ora di levarsi dai piedi.
- Dividiamoci e cerchiamolo. - propose Ed.
- No. - mi opposi - Rischieremmo di perderci di
vista anche noi. Restiamo qui: hai ragione, Thomas deve essere nelle vicinanze.
Ora che la gente si sta sedendo, sarà più facile vederlo. -
- Potrebbe essere ancora laggiù, tra quelle
scatole. - fece notare Al - Da là non riuscirebbe di certo a vederci. -
- Va bene, andrò io a vedere. - decise Edward - Voi
rimanete seduti... su quel muretto. - lo indicò - È abbastanza in vista, così
riuscirò ad individuarvi al ritorno. -
Annuimmo entrambi; Lotte si avvicinò allo zio e gli
tirò l’orlo della camicia.
- Tom ha paura quando resta da solo. - gli disse,
con un’aria angustiata e materna che riuscì a strappare un sorriso a tutti e
tre.
- Non ti preoccupare, - la tranquillizzò il padre -
sono certo che non si è fatto male. -
Mio figlio, che credevo essersi addormentato sulla
mia spalla, alzo improvvisamente la testa.
- Mi sarebbe piaciuto vedere un aeromobile. -
dichiarò.
- A me no. - ribattei.
* * *
Rimasi in piedi, guardandomi intorno e sentendo la
paura aumentare ogni minuto che passava: ero stato letteralmente strappato via
dalla stretta di mio padre, e spinto nella grande caverna dalla folla
terrorizzata. Non credevo che papà, Ed e la signora Winry fossero troppo
distanti, eppure non riuscivo a trovarli, nonostante camminassi avanti ed
indietro.
- Papà! - gridai per l’ennesima volta -
Lotte! -
Nulla. Un mare di facce sconosciute. Strinsi i denti
e ricacciai le lacrime indietro, dicendomi che mettermi a frignare non sarebbe
servito a nulla.
- Papà! Papà! - sentivo la mia voce farsi
stridula, isterica. Quel mondo sembrava sempre di più un incubo fatto apposta
per farmi impazzire: finché avevo mia sorella, mio padre e persino quel
rompiscatole di mio zio Edward potevo anche reggere, ma trovarsi da solo in quel
posto ignoto, pieno di gente spaventata, era mille volte peggio.
Quando qualcuno mi appoggiò una mano sulla spalla,
feci un salto.
- Scusami! Non volevo spaventarti. -
Mi voltai. Seduto su un pezzo di cemento come se
fosse stato un trono, un perfetto sconosciuto mi stava fissando: ricordava un
po’ il soldato Feuerbach, ma incredibilmente era ancora più alto e robusto del
gigantesco militare. Avevano però la stessa aria gentile, e persino i medesimi
occhi azzurri, anche se la persona che mi stava di fronte era quasi del tutto
calva, fatta eccezione per un ciuffo bianco sulla fronte.
- Ti sei perso? - mi domandò. Quando parlava, la
bocca si intravedeva appena dietro un paio di folti baffi biondi, piegati
all’insù.
- Sì, signore. - ammisi, abbassando lo sguardo.
Papà e mamma mi avevano ripetuto almeno mille volte di non parlare agli
sconosciuti, ma non riuscivo ad aver paura di quell’uomo, nonostante l’aspetto
minaccioso.
Lui mi sorrise, tendendomi una mano grossa il doppio
della mia.
- Siediti un momento. - mi invitò, facendomi
spazio. - Tra poco tutti si calmeranno, e sarà più facile trovare i tuoi
genitori. Come ti chiami? -
- Thomas. - risposi, obbedendo.
- Hai fame, Thomas? - fece un cenno ad un uomo
vestito con una divisa blu, che si avvicinò a passi svelti. Era lo stesso uomo
che prima gridava nel megafono, e ce n’erano parecchi abbigliati nello stesso
modo che si aggiravano per quel bunker naturale. Osservai la strana uniforme,
chiedendomi come potessero mimetizzarsi con quel colore così sgargiante; mi
accorsi per la prima volta di tremare, sia per la tensione che per il freddo. La
grotta era molto più fredda del giorno prima.
- Il ragazzo si è perso. - gli disse l’uomo - I
genitori si sono già rivolti a voi? -
Il militare - un caporale, ora che vedevo le
mostrine - era educato, ma nascose male la fretta.
- Signore, abbiamo già decine di segnalazioni di
persone scomparse: in questo caos, è facilissimo perdere di vista i propri
congiunti. - Tuttavia, fece un cenno ad un commilitone e ci offrì una tazza di
quello che sembrava caffè.
- Dammi il tuo nome, così se i tuoi parenti ti
cercheranno, potremo dire loro dove sei. - mi suggerì, frugandosi nelle tasche
ed estraendone un foglio stropicciato e una matita cortissima. - Basta che tu
stia fermo qui e non te ne vada in giro. -
- Va bene. - annuii, accettando la giacca che il
gigante mi offriva. Pesante, di ottimo tweed, poteva contenere almeno un’altra
persona della mia corporatura. - Mi chiamo Thomas Elric. Da qualche parte ci
devono essere mio padre e mio zio. -
Il signore di fianco a me fece un buffo verso, un
risucchio di aria nelle narici come chi trattiene bruscamente il fiato. Il
soldato si limitò a prendere appunti, per poi salutarci con un cenno e tornare
al lavoro.
Bevvi un sorso. Non avevo mai assaggiato del caffè
vero, e non ero certo che mi piacesse... era un po’ troppo amaro.
- Hai detto che qui intorno ci sono tuo padre e tuo
zio? -
- Sì, li ho persi di vista mentre venivamo qui. -
incrociai i piedi e distolsi lo sguardo. Gli occhi azzurri dell’uomo mi
scrutavano con interesse. Finsi di interessarmi al caporale che ci aveva
parlato, e ora veniva trattenuto da un uomo.
Il signor Stonebridge?, mi domandai. Che mi
stesse cercando? Rimasi deluso: indicò qualcosa al militare e si allontanò.
Probabilmente mi ero sbagliato.
- Va tutto bene? - mi chiese lo sconosciuto al mio
fianco, senza smettere di guardarmi.
- Sì, mi era sembrato di riconoscere una persona,
ma devo essermi confuso. -
- Come si chiamano le persone che erano con te? -
la voce dell’uomo sembrò enormemente interessata. Per un attimo mi domandai se
non avesse un secondo fine, ma qualcosa alle sue spalle mi distrasse.
- Zio! - gridai, riconoscendolo.
Ed si voltò di tre quarti e mi individuò: portò le
mani ai fianchi, seguendomi con lo sguardo mentre correvo verso di lui
saltellando, la giacca di tweed che ondeggiava come un mantello. Non ero mai
stato così felice di vederlo.
- Com’è che riesci sempre a cacciarti nei guai? -
mi chiese, burbero.
Quasi non lo sentii: mi buttai contro di lui,
abbracciandolo.
- Ho avuto paura. - ammisi, il viso affondato nella
sua camicia.
- Adesso non fare così... - bofonchiò, a disagio,
dandomi delle pacche piuttosto goffe sulla testa. - Ci guardano tutti. E dove
hai preso questa giacca? -
- Me l’ha prestata quel signore laggiù... - mi
girai per indicarlo, ma il gigante si era alzato, e ora si trovava ad un paio di
metri da noi.
- Edward Elric. - scandì, come se non fosse certo
della pronuncia. Sentii le braccia di Ed scivolargli lungo il corpo, rimbalzando
mollemente. Alzai la testa, e vidi la sorpresa dipinta sul suo volto.
- Maggiore Armstrong. - sussurrò.
* * *
Ed e Tom ancora non si vedevano. Cominciavo ad
essere davvero preoccupato.
- Sono certa che torneranno tra poco. - mi rincuorò
Winry, appoggiandomi una mano sul braccio.
- Sì. - le risposi, poco convinto.
Lotte, seduta tra di noi con Alex, stava tentando di
pettinarsi con le dita i capelli: avvertendo la mia tensione, si abbracciò a me,
cingendomi la vita con qualche difficoltà.
- Non ti preoccupare. - mi disse, serissima. - Tom
è bravo, e anche Edward. -
Non potei fare a meno di sorridere, chinandomi per
darle un bacio sulla testa arruffata. Mia figlia idolatrava il fratello
maggiore. Era il suo eroe da sempre, tanto che passava sopra al suo
caratteraccio, scordava tutte le volte in cui lui la trattava male e lo
considerava capace di praticamente ogni cosa.
Winry ridacchiò.
- Credo di avere un déjà-vu. - sentenziò, con voce
dolce. - Guardando i tuoi figli, mi sembra di rivedere te ed Edward da piccoli.
-
- In effetti, tenere a bada Thomas prosciuga tutte
le mie forse. - convenni. Mi guardai intorno, cercando tra la folla mio figlio e
mio fratello, ma non ce n’era traccia. Dove si erano cacciati? Ed aveva già
trovato Tom? Cercai di scorgere uno dei militari che giravano lì intorno, per
andargli a chiedere se li aveva visti, e ne notai tre a pochi metri da noi,
intenti a parlottare. Feci per alzarmi, quando uno di quelli alzò gli occhi e mi
guardò.
Per qualche motivo, sentii un brivido lungo la
schiena. L’uomo non distolse lo sguardo, ma, anzi, disse qualcosa agli altri e
tutti e tre si diressero nella nostra direzione. Inconsciamente, strinsi un
braccio a Lotte.
- Buongiorno, signore. - esordì il caporale che mi
aveva guardato, andando a mettersi proprio di fronte a noi ma ignorando sia
Winry che i bambini. - Il suo nome, prego? -
- Perché? - si intromise la mia amica,
irrigidendosi.
- Semplice formalità. Stiamo raccogliendo tutti i
nomi, per aiutare a riunire le famiglie. È facile perdersi, in questa calca. Lei
è la moglie? -
- No. - risposi in fretta. - Mi chiamo Alphonse
Elric. -
Il graduato lanciò un’occhiata al soldato alla sua
sinistra. Non mi piacque affatto. Ebbi la netta impressione che quei tre
conoscessero già benissimo il mio nome.
- Va bene, signor Elric. - riprese l’uomo. -
Potrebbe seguirci? -
- Cos’ho fatto, caporale? - gli chiesi, sentendo il
sudore scivolarmi lungo la schiena.
- È solo un controllo. -
Per un istante, temetti che Edward avesse combinato
qualcosa. Sarebbe stato tipico di lui, cacciarsi nei guai quando avremmo dovuto
mantenere un basso profilo. Ma di certo non avrebbe trascinato volontariamente
me nella sua ultima impresa.
Mi alzai, rassegnato. Lotte si aggrappò all’orlo
della mia camicia, rischiando di cadere a terra.
- Papà! - strillò. - Dove vai? Voglio venire
anch’io! -
- No, Lotte. Resta qui con Winry, e aspetta... - un
pensiero mi attraversò la mente - e aspetta Thomas. -
Ma certo! Edward!
Lanciai un’occhiata di sottecchi a Winry, mentre uno
dei due soldati semplici, a dispetto della pretesa di cortesia e rilassatezza,
mi prendeva per un braccio.
Era impallidita. Anche lei doveva essere giunta alla
stessa conclusione.
La città sotto Central City era stata quasi
completamente distrutta dai razzi della Società di Thule, perciò lo spazio a
disposizione per le persone rifugiatesi lì era ulteriormente aumentato.
Tuttavia, scoprii che era stato costruito un edificio proprio a ridosso della
parete di quella grotta creata con l’alchimia, e fu lì che i tre militari mi
condussero; sparire all’interno fu quasi gradevole: avevamo camminato per quasi
dieci minuti tra le occhiate curiose della gente, e sentirmi trattare come un
criminale davanti a mezza città mi aveva umiliato abbastanza. Per fortuna non
avevamo incontrato Edward e Thomas.
Naturalmente, la sensazione scomparve quando fui
condotto in una stanza con solo un tavolo e due sedie, e chiuso dentro. In quel
momento, tutti lasciarono cadere la patetica bugia del “è solo un controllo”.
Passò circa un quarto d’ora prima che arrivasse
qualcuno: nella fattispecie, un ufficiale della polizia militare che sembrava
uscito direttamente da uno di quei gialli che Thomas leggeva a casa. Mi squadrò
da capo a piedi con espressione neutra, e appoggiò sul piano di legno un
fascicolo impolverato, prima di sedersi di fronte a me.
- Sono il tenente Howard. - si presentò, senza far
cenno di volermi stringere la mano. - Signor Elric, lei sa perché è qui? -
- No. - mentii.
- Un informatore - mi spiegò - ci ha segnalato la
presenza in città di suo fratello Edward, il quale, non c’è bisogno che glielo
ricordi, è ricercato da ventiquattro anni per diserzione. -
Aprì il fascicolo, e mi mise davanti una vecchissima
foto di mio fratello adolescente. Era così brutta che Ed aveva effettivamente
un’aria da criminale incallito.
- Inizialmente, i soldati che l’hanno prelevata
l’hanno scambiata per lui. - riprese Howard, col tono di voce piatto di chi
recita a memoria. - Ma si sono accorti subito che lei non ha alcun auto-mail. -
- Molto bene: non sono mio fratello. - sentenziai
acido. - Posso andare? -
Sapevo benissimo dove sarebbe andato a parare il
tenente.
- Lei è ricomparso nello stesso lasso di tempo in
cui lo ha fatto suo fratello. Bizzarra coincidenza. -
- Tenente, - dichiarai - sono stato all’estero e
sono tornato di recente, è vero. Ma ero in compagnia dei miei figli e di nessun
altro. - mi morsi il labbro. - Perché tutto questo interesse per Ed, a più di
vent’anni di distanza? Quando scomparve, nessuno venne a chiedermi se sapevo
dove fosse. -
- La situazione politica è cambiata, e anche
l’esercito. - rispose lui, sibillino. - Nei primi anni della repubblica c’era
ben altro da fare che perseguire dei ragazzini che avrebbe dovuto indossare
un’uniforme scolastica, invece di quella dell’esercito. -
- E ora non avete nient’altro da fare? - rimbeccai,
stizzito.
* * *
Ed mi stupì: invece di correre immediatamente a
cercare Al, si sedette pesantemente di fianco a me, il mento appoggiato sulle
mani. Non fece neppure commenti sul fatto che non ero rimasta dove mi aveva
lasciata, così evitai di raccontargli che la gente vicina a me aveva cominciato
a scrutarmi con sospetto da quando i militari avevano portato via Alphonse.
- Non servirebbe a niente consegnarsi. - disse. -
Mi arresterebbero, ma di certo non lascerebbero andare mio fratello: anzi, lo
considererebbero mio complice. -
Era logico, oggettivo e sensato: esattamente il tipo
di ragionamento che l’Edward che conoscevo non avrebbe fatto, almeno riguardo ad
Al. Mi stupì, e probabilmente la mia espressione glielo indicò, anche se lui
equivocò:
- Coloro che nascondono dei disertori sono
complici. - mi spiegò, con un tono così irritante che lo avrei colpito.
- Lo so benissimo! - rimbeccai. - Ma non per questo
possiamo lasciare Alphonse nei guai! Sai quanti anni di galera rischia di farsi?
-
I bambini spostavano lo sguardo tra di noi, cercando
di capire di cosa parlassimo. Persino Alex sembrava essersi scordato degli
aeromobili.
- Sei un disertore? - ripeté sbalordito
Thomas.
- Non infierire. - grugnì Edward, alzando il viso
per rivolgergli un’occhiataccia.
Come avevano fatto due individui così simili a
vivere sotto lo stesso tetto senza sbranarsi?
- Sei stato in guerra, zio? -
- No! -
- E allora perché hai disertato? - il ragazzino
pronunciava quella parola con una strana intonazione, come se non sapesse
decidere se essere disgustato o ammirato.
- Perché tuo padre si era cacciato in un guaio. O
meglio, - si corresse Ed, con un’onestà inconsueta - perché ci si era trovato.
Non fu colpa sua. -
- Non è mai stato lui la fonte di guai. - ribadii,
rivolgendomi al ragazzino ma parlando allo zio.
Il maggiore Armstrong, che fino ad allora se n’era
rimasto alle spalle di Thomas con l’aria di chi si sente completamente fuori
posto, fece un passo avanti e si inserì, non solo metaforicamente, nella
conversazione:
- Posso andare a parlare con qualche soldato. - si
offrì. - Non sono più nell’esercito, ma ho ancora qualche conoscenza in alto
loco che potrebbe aprirci delle porte. -
- Non quelle del carcere, temo. - brontolò Ed. -
Ma tentare non costa nulla. La ringrazio, maggiore. -
L’uomo si allontanò, lasciando la sua giacca a
Thomas. Rimanemmo a fissare la sua schiena, sconsolati, ma in cuor nostro non
avevamo molte speranze. Anche Ed doveva sapere che il maggiore era tale
solo di nome, visto che aveva lasciato l’esercito l’anno in cui lui era finito
dall’altra parte del Portale. Una scelta che non si era mai pentito di aver
fatto, credo, ma in quel momento maledettamente inopportuna.
Alex si appoggiò al mio ginocchio, la guancia
premuta contro il mio braccio.
- Mamma, cosa significa alto loco? -
domandò, curioso.
Sembrava incapace di avvertire la tensione. Di certo
non poteva capire quel che stava succedendo, ma possibile che non si fosse
spaventato neppure un po’ per i rumori del bombardamento che venivano da sopra
le nostre teste, o per i soldati? Neppure la paura di quelli che ci circondavano
poteva trasmettergli ansia.
- Un’altra volta, Alex. - risposi, brusca.
- E intelaiatura? -
- Questa dove l’hai sentita? -
- Da te! -
- Non riparare mai auto-mail davanti al bambino. -
disse Ed, con l’ombra di un sorriso. - Se impara a maneggiare gli attrezzi alla
stessa velocità con cui memorizza le parole, rischi di trovarti la casa
smontata. -
- È lei, signora, che costruisce le protesi di
Edward? - mi domandò Thomas. La sorpresa nella sua voce era evidente.
- Sì. - non volevo vantarmi, o metterci più
orgoglio del necessario, ma probabilmente lo feci. - Ma il loro nome è
auto-mail, non protesi: non è la stessa cosa... -
- Winry, per favore, evitaci il trattato! -
- Senti chi parla! - sbottai. - Scommetto che ti
prudono le dita, vero? -
- Non so di che parli! -
- Non hai ancora avuto l’occasione di esibirti, da
quando sei qui! Perché non trasmuti qualcosa qui, davanti a tutti? -
- Perché servirebbe solo ad attirare l’attenzione
dei militari! -
- Ah, non perché i ragazzi sono stufi marci di
vedertelo fare? A proposito, perché tuo nipote non ti chiama zio? -
Lotte scosse la testa, rivolgendosi verso gli altri
due bambini con un’espressione di infinita pietà stampata in volto. Alex
sospirò.
- Sono proprio dei bambini. - dichiarò, plateale.
Aveva imitato perfettamente il tono che usavo io.
* * *
Quasi quasi avrei preferito che il maggiore
Armstrong non si fosse allontanato. Era di gran lunga l’unico adulto del nostro
gruppo.
Avevo capito circa la metà di quel che Edward e la
signora Stonebridge si dicevano, e ben presto persi interesse nel loro litigio:
iniziai a guardarmi intorno, cercano l’enorme stazza del simpatico e gentile
signore, e fui il primo a individuarla, circa una ventina di minuti dopo.
- Ho buone e cattive notizie. - ci annunciò, senza
scomporsi per il battibecco in corso.
- Prima le cattive. - disse Ed.
- Non ho potuto vedere Alphonse. Non è più nella
sede sotterranea dell’esercito. -
Sede sotterranea dell’esercito? Non
brillavano certo per fantasia, in quanto a nomi.
- L’hanno già... - si interruppe, guardando con
rammarico mia sorella, ma decise che ormai era impossibile nasconderle quel che
stava accadendo. - L’hanno già trasferito in carcere? -
- Temo di sì. - il maggiore abbassò la testa,
sconfortato. - Esiste una rete di gallerie costruita insieme alla sede
sotterranea, che collega gli edifici in mano all’esercito: probabilmente i
militari possono muoversi indisturbati anche durante i bombardamenti. Era da
anni che si temeva l’eventualità di attacchi dal cielo, quindi c’è stato tutto
il tempo di creare delle linee di comunicazione che non potessero essere
danneggiate. -
- La buona notizia? - domandò Winry Stonebridge,
lugubre.
Il signor Armstrong tornò ad illuminarsi, come se se
ne fosse ricordato solo in quel momento:
- Che ho preteso di usare il telefono, e sono
riuscito a fare un paio di telefonate. - dichiarò, con malcelata soddisfazione.
- Forse sono riuscito a mettere in moto qualcosa, anche se potrebbe volerci
tempo. Dipende. -
- Dipende da cosa? - chiese Edward, dubbioso.
- Da quanto tempo la persona che ho chiamato ci
metterà ad arrivare qui. Vive fuori città, e oggi è il suo giorno di riposo:
avrebbe persino finto di non essere in casa, ma per fortuna la moglie ha
ugualmente risposto al telefono. -
- Magnifico. - brontolò mio zio. - Con un
bombardamento in corso, e le strade distrutte, ci vorranno ore. -
- Non essere così pessimista, Edward Elric. -
ribatté tranquillo l’uomo, alzando una mano per invitarlo al silenzio. -
Arriverà presto. Innanzitutto, i nostri nemici non possiedono abbastanza bombe
per far durare a lungo questo disastro, e poi... -
Il maggiore esitò. All’improvviso, parve un po’
imbarazzato.
- E poi, mi ha chiesto un favore in cambio, e
scommetto che non vedrà l’ora di esigerlo. - terminò, neutro.
Ed e Winry si scambiarono un’occhiata.
- Un amico disinteressato. - commentò lo zio, alla
fine.
- Coinvolge anche te e Alphonse. - buttò lì l’uomo,
sempre più a disagio. - Se non obbedirete, non ci metterà troppo a incarcerarvi
entrambi. -
Edward lanciò quello che mi parve un vero e proprio
ringhio.
- Chi accidenti si crede di essere, il suo amico? -
esclamò, muovendo un piede come se volesse dare un calcio a qualcosa (o
qualcuno).
- Uno a cui non si può dire di no. - ammise il
maggiore.
* * *
Il carcere militare di Central City era un modello
di ordine ed essenzialità. Una perfetta metafora dell’esercito.
Mi ci trasferirono non appena la situazione in
superficie si calmò, con un’organizzazione invidiabile: quando tornammo a
livello del suolo, c’era già una camionetta che ci aspettava. Per tutto il
percorso, venni trattato né più né meno che come un pacco, senza che nessuno mi
rivolgesse la parola o mi spiegasse perché mi portassero lì, visto che non sono
mai stato arruolato nell’esercito di Amestris. Alla fine cominciai a temere che
avessero capito che ero un soldato, anche se non vedevo come.
Finii in cella da solo. Una stanzetta quasi vuota,
in cui gli unici colori erano il grigio acciaio dei pochissimi mobili - un
letto, un armadio, un tavolo - e il bianco di tutto il resto, dalle lenzuola
alle pareti ritinteggiate da poco, dove la vernice aveva formato delle bollicine
che si sfaldavano appena ci si appoggiava un dito sopra.
Finalmente, si fece vivo qualcuno.
- Sono stato nominato suo avvocato d’ufficio,
signor Elric. - dichiarò il militare, sistemandosi ossessivamente gli occhiali
sul naso.
- Ho bisogno di un avvocato? - domandai, furioso. -
Nessuno si è degnato di avvertirmi che avrei dovuto chiamarne uno, o anche solo
di elencarmi i capi di accusa! -
Il poveretto trasalì: era alto e allampanato, con
un’espressione da topo in trappola stampata sulla faccia. Sembrava che
l’avessero lasciato cadere nella divisa dall’alto.
- Oh... Ehm... Increscioso, davvero. Rimedio
subito. - prese a frugare nella borsa che si portava dietro, mentre io mi sedevo
sul letto e prendevo un respiro profondo, evitando di far notare che, più che
increscioso, era illegale. - Ecco qui: favoreggiamento, spionaggio
internazionale... -
- Cosa? - lo interruppi.
Ecco il perché del carcere militare! Non ero solo il
complice di un ricercato, ma anche una spia!
- Lei ha dichiarato di essere stato all’estero,
negli ultimi anni. - mi ricordò pazientemente l’avvocato. - Potrebbe ripetere
dove? -
- A Drachma. - risposi. Era quel che avevo già
detto al tenente Howard, perché, se avevo capito bene, Drachma era lo Stato con
cui non eravamo in guerra in quel periodo.
- Qualcuno può testimoniarlo? -
- Qualcuno può testimoniare che non aiuterei mai un
altro Paese ad attaccarci! - mi indignai, balzando in piedi. - Mi faccia parlare
con uno dei militari che conosco! Il maggiore Armstrong, o il tenente Hawkeye, o
il colonnello Mustang... - l’uomo scosse tristemente la testa - Il tenente Havoc?
Il maresciallo Falman? -
Lasciai cadere le spalle per lo sconforto:
probabilmente le persone che conoscevo non lavoravano più a Central City. Magari
non facevano neppure più parte dell’esercito.
- Farò qualche ricerca. - disse alla fine
l’avvocato. - Però non so se sarà utile al processo: immagino siano tutti amici
che non vede da anni. -
- I gradi saranno certamente diversi, - insistetti
- ma sono certo che si ricordano di me e di mio fratello. -
- Se almeno collaborasse su quello... - mi propose,
avvicinandosi. La luce era scarsa, ma riuscii a distinguere i gradi da capitano
sulle spalline.
- Non so dove sia Edward. - tagliai corto
bruscamente.
- Lei sa che rischia l’ergastolo, vero? -
- Non so dove sia. - ripetei.
L’uomo annuì, poco convinto. Batté le nocche sulla
porta perché gli venisse aperta:
- Ha poco tempo per decidere se collaborare o meno.
- disse, con una nota contrita nella voce. - Cercherò di aiutarla in ogni modo,
ma temo che lei sia in grossi guai. -
Fece per uscire, ma la guardia che aveva aperto,
invece di lasciarlo passare, gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, consegnandogli
un biglietto.
- Ma chi? - chiese l’avvocato, perplesso. Lesse in
fretta quel che c’era scritto sul foglietto, e sollevò le sopracciglia. Per
alcuni secondi lottò con la sorpresa, poi, riguadagnata l’espressione neutra che
aveva quando era entrato, si rivolse nuovamente a me.
- Voglia scusarmi un secondo. -
Sparì all’esterno, e la porta metallica fu richiusa.
Sferrai un pugno sul tavolo, cercando di sfogare la rabbia e il terrore: poche
indagini, anche solo qualche domanda, e avrebbero capito che non ero mai stato a
Drachma. A quel punto, avrebbero sicuramente stabilito che negli ultimi
vent’anni avevo fatto la spia al soldo di uno dei nostri bellicosi vicini.
La verità era impossibile da raccontare. Non avevo
bugie che potessero reggere a lungo. Peggio di tutto, avrei messo in pericolo
Winry, che mi aveva ospitato, ed Edward, che era il vero obiettivo.
I miei bambini sarebbero rimasti in questo mondo, o
Ed li avrebbe riportati indietro? Nessuna delle due ipotesi mi faceva stare
meglio: nel primo caso, avrei condannato Tom e Lotte a vivere in un universo che
non era il loro e in cui si erano trovati per caso, senza poter decidere; nel
secondo, li avrei praticamente resi orfani, in una Germania distrutta dalla
guerra.
Mi passai le mani tra i capelli, disperato,
voltandomi verso la minuscola finestrella per guardare attraverso le sbarre. Non
mi ero mai chiesto cosa succedesse ai carcerati durante un bombardamento, ma era
evidente che non potevano fuggire nei rifugi. Se un ordigno avesse mai colpito
l’edificio... rabbrividii al solo pensiero.
La vecchia ferita al braccio ricominciò a dolere,
per i movimenti bruschi che avevo fatto: la divisa carceraria aveva le maniche
corte nonostante facesse ancora freddo, così la fasciatura era esposta. Ci
passai cautamente la mano sopra, e la sentii pungere come se avessi degli spilli
piantati dentro.
Forse sarebbe stato meglio se fossi morto sul Reno,
pensai amaramente. O dopo, sul camion, mentre tornavamo in Baviera: del resto,
ero stato così male, e gli scossoni del viaggio avevano peggiorato talmente
tanto le mie condizioni, che non capivo come fossi sopravvissuto.
La porta si aprì di nuovo, e io, sospirando, mi
voltai per ascoltare cosa fosse ancora successo; ritenevo che peggio di così non
potesse andare (a meno che non avessero ripristinato la pena di morte negli
ultimi dieci minuti), ma non potevo esserne certo. Dopo aver trascorso una vita
di fianco a Ed, chiunque arriverebbe a pensare che il peggio sia sempre dietro
l’angolo.
Non fu l’avvocato ad entrare, ma un altro ufficiale.
Un uomo alto, sulla cinquantina, che riconobbi con sorpresa. A parte
l’ingrigirsi dei capelli, non era cambiato affatto.
- Quando il maggiore Armstrong mi ha buttato giù
dal divano dicendo che i fratelli Elric erano tornati e si erano già infilati in
un pasticcio, - esordì, - non credevo che si riferisse a te. È un
piacevole cambiamento. -
- Forse - ribattei, senza riuscire a trattenere il
sarcasmo - è piacevole per lei. Per me non lo è affatto, colonnello
Mustang. -
Lui si passò distrattamente una mano sulla benda che
copriva l’occhio sinistro, ma non parve offeso.
- Generale Mustang. - mi corresse, serafico.
- Sai che stai cominciando a parlare come tuo fratello? -
Pensierino della buonanotte:
Capitolo finito in tempo, nonostante il cambio dei
periodi universitari - da trimestri a semestri -, il fatto che ho ripreso a
scrivere sul blog, gli esami fuori periodo e i continui rimaneggiamenti. Per
farmi perdonare per la latitanza dell’alchimia (ehh, abbiate pazienza fino al
prossimo capitolo!), ho ridotto al massimo la permanenza del povero Al in
gattabuia... volevo tirarla in lungo per un paio di capitoli, ma studiando
meglio la faccenda mi è sembrato ridondante: c’era già stata una scena in cui i
fratelli si ritrovavano, e non serviva a nulla tenerli di nuovo sulle spine
troppo a lungo. Senza contare che Alphonse sarebbe (così, teoricamente...) uno
dei personaggi principali, e mi seccava escluderlo di nuovo dall’azione.
Ah, a proposito di personaggi principali: avete per
caso notato chi è tornato? So che potrebbero esservi sfuggiti, visto che
nell’anime erano giusto comparse... nel prossimo capitolo potrete godervi un
colonnello generale appena buttato giù dal divano, e quindi perfido a
dovere!
bacinaru: mi inchino e ti ringrazio per i complimenti! Che cosa è stato
difficile capire, all’inizio? Non lo chiedo con fare polemico, ma mi interessa
davvero saperlo: vedi, l’autore mentre scrive sa perfettamente chi parla, cosa
sta facendo e cosa sta per fare, e a volte non si rende conto che per un
estraneo non è così automatico il collegamento... per esempio, nella prima riga
dopo un cambio di punto di vista cerco sempre di inserire qualcosa che faccia
capire chi sta parlando, ma non so se per il lettore è davvero chiaro.
Molto bella l’idea
degli occhi, su cui io stessa ho lavorato a lungo: nella prima stesura (quando
ero giovane e ingenua) avevo scritto che Artie aveva gli occhi azzurri, poi mi
sono ricordata che è geneticamente impossibile che il figlio di due genitori con
gli occhi azzurri abbia gli occhi scuri! Così, dopo aver avuto una visione
mistica del mio prof di scienze del liceo che pretendeva la mia testa, ho
cambiato e ho messo gli occhi grigi... Non per una questione di geni, o per far
speculare i lettori, a dire il vero: semplicemente era un colore che non si era
mai visto nell’anime. E temo che la discrepanza di anni tra i due mondi non
possa aiutarti, perché è solo a livello di date: a differenza di molti anime in
cui i mondi hanno il tempo che scorre in maniera diversa, Amestris e la Terra
sembrano essere in sincrono. =)
Liris: temo che questi capitoli saranno una vera tortura per te, perché
Winry c’è sempre U.U Mi serve un personaggio femminile che dia il suo punto di
vista, dopo aver perso Margarethe...
Selfish: Alex, croce e delizia della sua mamma biologica e dell’autrice che
l’ha creato... ecco cosa succede a giocare al Padreterno: niente Portali, manine
nere o Verità saccenti, ma personaggi da mantenere coerenti con loro stessi e
(più o meno) credibili.
Leuconoee: no, Thomas e Lotte non sono in grado di usare l’alchimia, perché
non l’hanno mai studiata. Non si tratta di una forma di magia, di cui si diviene
capaci attraversando il Portale, ma di una scienza esatta che richiede studio e
fatica...
Mi è appena
passata per la testa l’immagine del colonnello Holze che gira per Central City
operando miracoli tipo Cornelo OoO”” che orrore! Devo dare una controllatina ai
miei due ultimi neuroni...
Siyah: quello che odio nelle fanfiction ambientate dopo il film è proprio il
ridursi di Winry ad una pseudo-Trisha, o peggio... cavolo, no! Alla fine del
film dice chiaramente che ora non ha più nessuno da aspettare! Va bene, la cosa
dev’essere sicuramente devastante per lei, perché Ed e Al sono stati i suoi
migliori amici fin dall’infanzia (e amo pensare che Edward sia qualcosina di
più...), ma Winry è una ragazza piuttosto determinata e volitiva, che di sicuro
sarà in grado di farsi una vita che vada oltre i fratelli Elric.
Yolei87: il fatto che manchi un Homunculus rende il Portale decisamente
evitabile, a ben vedere. Solo che a me serviva, quindi mi sono dovuta trovare
una giustificazione plausibile. Per quanto riguarda la mano con cui scrive Alex,
non è importante, l’ho aggiunto solo come tocco di colore: e NON è vero che il
bimbo somiglia a Near! :( Lui è più... Meno... Ok, forse un pochino gli
somiglia. Però è più dolce. Con Nina condivide giusto l’età: la povera bambina
non dimostrava nessun talento precoce, era una semplice piccolina di quattro
anni. Molto più realistica di Alex, te lo concedo, ma ai fini della trama non
avrebbe avuto alcuna utilità se non ci si fosse messo in mezzo quel bastardo
psicopatico di Tucker.
Envy, per fortuna,
non incontra il povero Thomas, per il semplice fatto che è defunto: se no, altro
che paura!, del povero figlioletto di Al non rimarrebbe abbastanza da fare da
voce narrante alla storia.
Ad Amestris non
c’è nessun complotto in corso, tra parentesi: è una “normale” guerra.
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Capitolo 14 *** L'uomo nero ***
Nuova pagina 1
14. L’uomo nero
Quando suonò il cessato
allarme, e finalmente uscimmo dall’enorme grotta, per la prima volta da quando
mi trovavo in quel mondo chiamato Amestris mi sentii a casa. Non si trattava
affatto di una bella sensazione: il senso di familiarità mi venne quando
riconobbi tutti i segni della devastazione del bombardamento. Case crollate,
persone che girovagavano con gli occhi fuori dalle orbite, come sonnambuli... E
poi polvere, polvere dappertutto. Persino l’aria ne era impregnata, e rendeva
difficile respirare. Tutto era immerso in una foschia bianca di particelle che
fluttuavano pigramente, stentando a posarsi. La temperatura non si era alzata, e
io avevo le dita irrigidite dal freddo, con le unghie bluastre.
La signora Winry, che
ancora teneva Alex in braccio per non perderlo tra la folla, cercò di coprire
gli occhi di Lotte, quando questa si voltò a guardare una scarpa che giaceva sul
marciapiede, vicino ad un’abitazione crollata.
- Non guardare, tesoro. -
le disse con dolcezza, cercando di trascinarla via.
- È solo una scarpa. -
ribatté lei, sensatamente. - Non vuol dire che qualcuno sia morto. -
La risposta fredda sbalordì
la madre di Alex, ma non me: a Monaco capitava spesso di trovare oggetti di vita
quotidiana buttati in strada, dopo i bombardamenti e nei giorni successivi.
Tutte le volte che ce ne trovavamo uno di fronte, nostro padre diceva, con
forzato ottimismo, che non vuol dire che qualcuno sia morto. La casa è
distrutta, vedi? Se i muri sono caduti in fuori, perché quel che era dentro
avrebbe dovuto restare al suo posto?
- Magari il padrone della
scarpa era nella grotta. - proseguì mia sorella. - Magari ora tornerà e si
arrabbierà, perché non solo non ha più una casa, ma gli è anche rimasta solo una
scarpa! -
Il maggiore Armstrong,
davanti a me, rabbrividì, e si abbassò verso Edward.
- Mi fa paura. - sussurrò,
ignaro che lo stavo ascoltando. - Non è normale che un bambino sia abituato a
tanta devastazione. -
Mio zio sospirò
pesantemente.
- Nel mondo in cui sono
nati Thomas e Charlotte, - gli spiegò, - c’è una guerra in corso da sei anni.
Non credo che la bambina si ricordi com’era vivere in tempo di pace. -
Il gigante ci lanciò uno
sguardo fugace, così triste che mi fece compassione. Tutti quanti, lì, mi fecero
compassione, nel loro non sapere cosa li attendesse: la signora Winry, Alex, il
maggiore, le persone che incrociavamo... Per tutta la vita ero stato io quello
guardato con pietà, per la mia infanzia trascorsa sotto le bombe, per gli stenti
della vita di tutti i giorni, per la mia cecità di fronte a quello che stava
accadendo nel mondo - nel mio mondo. Adesso, era come se mi trovassi in
un punto rialzato, a guardare in basso uomini piccoli come formiche che vivevano
gli stessi eventi in cui ero già passato. Adesso ero io quello consapevole, e
loro gli ignari.
* * *
Il colon... generale
Mustang fu di poche parole per tutto il viaggio: le strade erano ricoperte di
buche e macerie, e doveva prestare la massima attenzione alla strada. Mi chiesi
se la sua visione fosse ottimale, con un occhio solo, ma non glielo avrei mai
domandato direttamente; mi limitai a restare in silenzio, guardando di fronte a
me.
- Non sembri stupito. - mi
disse, ad un certo punto.
- Lei lo è? - ribattei.
- Avevo già visto città
distrutte, naturalmente... anche Central City, come ricorderai, fu fatta a pezzi
dagli uomini provenienti da quell’altro mondo. Ma un attacco dal cielo, su un
obiettivo civile... no, mai visto nulla del genere. -
- Vuole dirmi che Amestris
non ha mai effettuato bombardamenti su città nemiche? - chiesi, con una punta di
acidità che non riconoscevo in me. - Allora, cosa ve ne fate degli aeroplani...
pardon, aeromobili? -
Lui si voltò brevemente
verso di me, sul viso un misto di divertimento e sorpresa.
- Ma come siamo diventati
salaci. - scherzò. - Va bene: diciamo che sono io a non aver mai visto un
bombardamento, visto che non sono in Aviazione. E non credevo che i nostri
nemici fossero così progrediti da poterci già imitare. -
- Il problema di usare
nuove armi, è che prima o poi te le copiano. - ribattei.
- Di nuovo quel tono! Stai
diventando troppo simile a tuo fratello. Dov’è finito l’Alphonse Elric che
conoscevo? -
Difficile dirlo, pensai,
riconoscendo il viale che portava a casa di Winry solo grazie alle sei o sette
piante ancora in piedi. Forse il vecchio Alphonse Elric è morto a Remagen, dove
ha combattuto soltanto per salvare se stesso e i suoi compagni di sventura.
Forse è stato sepolto insieme a sua moglie, mentre il suo corpo, ormai ridotto
ad un guscio vuoto, continuava a vivere solo per i suoi bambini.
Non risposi alla domanda
del generale, ma lui dovette leggere qualcosa sul mio viso. Dopo aver fermato
l’auto in un punto più o meno sgombro dai detriti, rimase seduto al posto del
guidatore, guardandomi.
- Che ti è successo, Al? -
mi chiese, alla fine. - Cosa ti ha cambiato fino a questo punto? -
- La vita, generale. -
replicai, aprendo la portiera. - Ci cambia tutti. E neppure Ed può proteggermi
da lei, nonostante ci provi. -
Non ribatté, ma mi
precedette verso la casa di Winry, ora visibile tra altre abitazioni
risparmiate. Sembrava piuttosto sicuro, come se fosse stato lì varie volte.
- E Acciaio? - mi domandò
quando fummo davanti al giardinetto polveroso.
- Il solito incosciente. -
risposi.
La villetta sembrava aver
retto bene: non vidi crepe, o altri segni di cedimento: solo in un punto, sotto
il tetto, era caduto parte dell’intonaco, lasciando i mattoni in vista.
Fu Ed a venire ad aprirci.
Mi squadrò da capo a piedi, angosciato.
- State tutti bene? -
domandai. - Non siete feriti? -
Per tutta risposta, da
dietro di lui, sbucarono i miei figli, spettinati e con i vestiti stazzonati, ma
incolumi: Thomas se ne rimase fermo, mentre Lotte pretese subito di essere presa
in braccio, con un sorriso radioso.
- Allora, scricciolo! -
esclamai, baciandole la punta del naso. - Stamattina non hai ancora fatto
colazione! -
- La signora Winry stava
preparando qualcosa. - disse Tom.
- Qualcosa? - scherzai,
ricordando la mangiata pantagruelica che avevo fatto quella mattina... erano
passate solo poche ore? Sembravano anni. Eppure, l’ora di pranzo doveva essere
già passata.
La cucina era per metà
occupata dall’enorme stazza del maggiore Armstrong. Lo riconobbi subito, anche
se con lui il tempo era stato meno clemente che con il generale: intorno agli
occhi aveva un fitto reticolo di rughe, piccole ma ben visibili. Mi sembrò
persino che si fosse abbassato un po’ di statura, ma forse era solo una mia
impressione.
Gli sorrisi, e lui mi
guardò con sorpresa.
- Alphonse... - iniziò. Mi
parve di leggere - nei suoi occhi, nell’espressione imbarazzata con cui si
interruppe - la frase quanto sei cresciuto!, così comicamente inadatta.
L’ultima volta che ci eravamo incontrati, a Reole, ero un tredicenne con i
capelli lunghi, e non ricordavo più nulla di lui. Si dibatté nell’incertezza,
chiedendosi se la memoria mi fosse tornata o meno. Lo avvertii come se potessi
udire i suoi pensieri.
- Grazie per aver badato a
mio fratello. - risi, tendendogli la mano. - Lo sa com’è fatto: non posso
lasciarlo cinque minuti da solo. -
Tom comparve al mio fianco,
dicendo: - È stato il maggiore a trovarmi quando mi ero perso, nella grotta. -
- L’ho incontrato per
caso... - si schermì lui.
Per tutto quel tempo, Ed
aveva squadrato con astio il generale Mustang; dovette fare uno sforzo sovrumano
per non fare commenti mentre tornavamo in cucina, e stare zitto mentre Winry
salutava l’ufficiale e mi abbracciava come se fossi un naufrago che ha appena
toccato terra, rischiando di strozzarmi mentre minacciava di insegnare un po’
di buone maniere a mezzo Quartier Generale. Quando fummo tutti seduti, mio
fratello riuscì addirittura a voltarsi verso il generale e a dire, quasi
civilmente: - Grazie per aver aiutato Alphonse. -
Il viso dell’altro si
illuminò di un sorrisetto sarcastico che, lo sapevo, era l’inizio di una
tempesta.
- Acciaio! - esclamò
allegramente. - Porti malissimo i tuoi anni, sai? -
I bambini sgranarono gli
occhi; alzarono persino la testa dal bicchiere di latte che stavano
trangugiando. Alex mostrò moderato interesse, aggrottando le sopracciglia; si
leccò i baffi bianchi sul labbro superiore.
- Chiuda il becco, vecchio
bastardo, e ci dica subito cosa vuole da noi! - ringhiò mio fratello.
Mi schiarii la gola.
- Potremmo non insegnare
parole nuove ai bambini? - chiesi. Poi, giusto per cambiare argomento, mi voltai
verso Winry. - La casa è danneggiata? Non ho visto crepe o danni evidenti, ma...
-
- Tutto a posto. - mi
rassicurò lei. Non aveva toccato cibo, e sembrava piuttosto pallida: se nel
momento del pericolo aveva reagito piuttosto bene, ora si stava rendendo
pienamente conto di quel che era successo. - Solo qualche soprammobile rotto, e
un paio di piatti... -
Si alzò per prendere un
sacchetto, e mi mostrò il contenuto: cocci bianchi, di ceramica smaltata per
quel che ne capivo, che formavano un corpo femminile.
- Ho buttato il resto, ma
a questa ci ero affezionata. - ammise. - Mi serva da lezione: non lascerò più
oggetti fragili in giro. -
Sembrava realmente
affranta, e al contempo vergognosa di esserlo. Stavo per proporre di incollarla,
quando mi ricordai che c’era un metodo molto più rapido e preciso, in quel...
cioè, nel nostro mondo.
- Ed, perché non ci pensi
tu? - suggerii.
Anche lui non ci aveva
pensato: ci mise alcuni secondi per capire a cosa mi riferissi, e subito dopo
dovette darsi mentalmente dello stupido, come avevo fatto io.
- Ma certo! - esclamò. -
Winry? -
- Oh, non ti preoccupare,
per così poco... - si schermì lei.
- Sei tu ad aver detto che
non vedo l’ora di mettermi in mostra! - scherzò lui, alzandosi in piedi (e
ignorando il generale, che sembrava seccato per l’interruzione). Rovesciò i
piccoli pezzi bianchi e lucenti sul tavolo, col gesto consumato di un
prestigiatore. Con l’aria seria e la fronte aggrottata, alzò lentamente le mani
fino all’altezza delle spalle. Mio fratello ha sempre avuto un discreto senso
del teatro, e in quel momento aveva calamitato l’attenzione anche di quelli che
sapevano perfettamente cosa stava per fare.
Batté i palmi insieme, e
subito si sprigionò la scintilla azzurra che ricordavo, crepitante come una
scarica elettrica. Mi resi conto di essermi piegato in avanti, verso di lui,
come i tre bambini. Ed allungò le braccia verso i cocci, in un unico movimento
fluido, e la luce azzurra circondò il tavolo e ci abbagliò. Quando svanì, il
mucchietto di cocci aveva assunto di nuovo la forma di una ballerina, lucida e
candida.
Sorrisi.
- Niente dettagli di
cattivo gusto? Niente borchie? - gli chiesi.
Non mi degnò di una
risposta, ma consegnò il soprammobile a Winry.
- Se fossi in te, lo
metterei in un posto sicuro. - disse, impacciato. - C’è qualcos’altro che
possiamo ripararti? -
- No, grazie. - tagliò
corto lei, tenendo gli occhi fissi sulla porcellana per non incontrare lo
sguardo di Edward.
Quindi, non era solo una
mia impressione, pensai. Tra quei due c’era davvero qualcosa che non quadrava.
Risaliva a sei anni prima? Ed non mi aveva parlato di litigi o discussioni, ma
in effetti era stato straordinariamente sintetico. Probabilmente non avrebbe
neppure accennato al fatto che era tornato Winry, se io non lo avessi intuito
dal suo auto-mail nuovo, e anche in quel momento non si era sbottonato sulle due
settimane passate a casa sua.
Ignari della tensione
sotterranea che si era creata, i miei bambini si stavano ancora riprendendo
dallo shock; il silenzio di Thomas si era protratto davvero a lungo, ora che ci
pensavo.
- Una magia! - gridò
Charlotte, saltando in piedi.
- La magia non esiste! -
protestò Tom. Potevo immaginare quel che stava succedendo nella sua mente
razionale: tutti i suoi punti fermi erano andati in pezzi, negli ultimi due
giorni. Nonostante leggesse molto, era un ragazzino con i piedi fermamente per
terra, e aveva alcune certezze: tra queste, quella che la magia e il paranormale
non esistono. Un’idea a cui devo aver contribuito.
- Era magia! - gli
rispose la sorella, arrabbiata per la sua cecità. - Come fai a dire che non
esiste? -
- Puoi farlo di nuovo,
signore? - si intromise Alex.
Era rimasto così silenzioso
che ci eravamo quasi scordati della sua presenza. Il bambino aveva allungato una
mano per tirare la manica di Ed e attirare la sua attenzione, e ora lo fissava
con uno sguardo supplice così tenero che avrebbe commosso i sassi.
- Non ora, Alex. - lo
deluse Winry, carezzandogli la testa. - Ora il generale e il maggiore devono
parlare con i nostri ospiti. Perché voi bambini non venite con me? Cerchiamo
qualcosa con cui giocare. -
- Era magia, vero papà? -
tentò di nuovo Lotte, ben decisa a non farsi trascinare via senza aver prima
ottenuto una risposta.
- Non proprio, tesoro. -
risposi, tentando di pensare a una spiegazione che lei potesse capire. - Era
alchimia. Ricordi la storia dei due fratelli alchimisti che ti raccontavo la
sera, quando eri più piccola? È una specie di magia, ma non è proprio magia. -
- Hai raccontato la nostra
storia ai ragazzi? - chiese Ed, sbalordito. - Non è una favola della buonanotte!
-
- Che c’è di male? -
rimbeccò Winry. - L’ho fatto anche io! -
- Avete... Oh, ci
rinuncio! I genitori siete voi. -
Il generale piegò la testa
e lo guardò di sottecchi. Decisi di non dargli la possibilità di punzecchiare
ulteriormente Ed, o non avrei saputo come fermare la rissa.
- Generale, qual è il
prezzo della mia liberazione? - domandai, secco.
Tutta l’attenzione si
catalizzò su di me. Sembrava che, improvvisamente, mi fossero spuntate due
teste, da come mi guardavano.
* * *
Non ero ancora abituata a
quegli scatti, da parte di Alphonse. Da bambino era incredibilmente paziente:
prima rimuginava a lungo sui suoi pensieri, e noi quasi non ce ne accorgevamo.
Quando esplodeva, però, era dirompente... mi ricordavo ancora perfettamente quel
che era capitato la volta in cui ero andata a trovare Ed in ospedale, dopo la
loro sortita in quel Laboratorio-Numero-Qualcosa, poco prima della morte del
signor Hughes. E sicuramente se lo ricordava anche Edward.
- Posso parlare,
finalmente? Molto bene. - il generale incrociò le braccia al petto, l’occhio che
passava dall’uno all’altro dei fratelli Elric più grandi. - Ho bisogno di
qualcuno per un lavoretto che dovrebbe rimanere segreto. Si tratta di pubblica
sicurezza: l’Esercito vuole evitare il panico in città. -
- Aspettate, porto via i
bambini! - mi intromisi. - Non voglio che abbiano nulla a che fare con i vostri
traffici pericolosi... perché lo so che sarà qualcosa di pericoloso! -
- I bambini non corrono
rischi. Acciaio, quando siete tornati? -
- Ieri pomeriggio,
all’incirca a quest’ora. - gli rispose Ed.
- Voi quattro? C’era
qualcun altro con voi? -
- C’era il colonnello
Holze. - rispose Thomas, al posto dello zio. Come Lotte (e, mi spiace dirlo,
Alex), non sembrava volersi perdere la discussione. Sperai che almeno i più
piccoli non fossero in grado di capire quel che si sarebbe detto, soprattutto
quando - già lo sapevo - si sarebbe tirata in ballo l’alchimia.
Il generale Mustang si
rivolse al ragazzino come se fosse anche lui un adulto.
- Quindi, c’era un quinto
essere umano? Dov’è ora questo colonnello? -
- Non lo sappiamo. - il
ragazzino scosse le spalle. - Lui era agli ordini della donna che ha costretto
Ed ad aprire il Portale, ed è entrato con noi dietro suo ordine: volevano
sperimentare se le persone che vivono dall’altra parte possono attraversarlo
incolumi. Però, quando io e mia sorella ci siamo ritrovati in questo mondo, lui
era sparito. -
- Non sappiamo dove sia. -
continuò Al. - Però devo aggiungere che non lo abbiamo cercato. -
Mustang si portò una mano
al mento, meditabondo.
- Credete sia possibile
che anche quest’uomo sia arrivato ad Amestris, ma sia... cambiato? -
- Cosa intende per
cambiato? - domandò Edward, preoccupato.
Sospirando, il generale
accavallò le gambe. Centellinava le informazioni con attenzione, come se temesse
di parlare troppo; pensai subito che lo facesse per esasperare Ed, ma poi
dovetti ammettere che non sarebbe stato da lui scherzare su un argomento, potevo
intuirlo, molto serio.
Possibile che stesse
scegliendo le parole giuste, per proteggere i bambini? Roy Mustang?
Sì, mi dissi, era
possibile. Forse lo stava facendo anche per me.
- Ieri sera, e questa
mattina, - si decise a rivelare - i militari che sorvegliano i sotterranei di
Central City hanno segnalato qualcosa di anomalo che si aggirava per la grotta e
alcune gallerie collegate. Inizialmente hanno pensato ad un intruso, ma i due
uomini di pattuglia che se ne sono occupati sono... finiti all’ospedale
militare. -
Il volto di Ed si fece di
pietra. Io mi portai una mano al viso, spaventata.
- Sono gravi? - chiese
subito Al.
- Non hanno neppure un
graffio. - ci tranquillizzò il generale. - Erano sotto shock. Hanno dichiarato
di aver visto un uomo completamente nero, come se fosse stato coperto di una
qualche sostanza simile al petrolio, che invece di essere liquida lo copriva
dalla testa ai piedi. Se ne stava appeso al soffitto di una galleria, e quando
li ha visti è scappato. -
- Com’era successo al
Presidente della Società di Thule, nel ‘23. - disse Ed. Strinse le mani a pugno,
così forte che le nocche divennero bianche. - Sì, potrebbe essere Holze.
Maledizione, avremmo dovuto cercarlo ieri. -
- Non potevamo. - gli
ricordò Al, appoggiandogli una mano sulla spalla. - Stavamo cercando Tom e
Lotte. Ignoravamo l’esistenza di un sistema di gallerie. E, in ogni caso,
sarebbe già stato troppo tardi: dev’essere diventato così nel Portale. -
Edward annuì, afflitto. Poi
tornò ad alzare lo sguardo su Mustang.
- Se ho capito bene,
generale, noi dovremmo aiutarla a cercarlo. - sentenziò, di nuovo pacato. - E
poi, che gli succederà? -
- Non ne ho idea. - ammise
l’ufficiale. - Facendo il tragitto inverso, nel Portale, potrebbe tornare
normale? -
- No. - rispose Ed, senza
esitazione. - L’altra volta non era successo. -
- Povero Klaus... -
mormorò Al.
Thomas sospirò.
Fisicamente, somigliava molto di più a Ed che a suo padre: avevano persino
alcune espressioni facciali simili.
- Però, portandolo di
nuovo nel nostro mondo, - rilevò, - potremmo mostrare alla signorina Steinglocke
che il suo piano non può funzionare. Sarà l’unica cosa che le importa, visto che
ha mandato il colonnello con noi solo per sapere cosa ci sarebbe successo. La
Società di Thule non ha più nessun motivo per cercare un passaggio per questo
mondo. -
- Ed è meglio così. -
sentenziò il maggiore Armstrong, guardando Thomas con nuovo rispetto.
- C’è il pericolo che
altre persone di quel mondo cerchino di venire qui? - chiese il generale,
allarmato. - Esiste ancora l’organizzazione che aveva tentato di invaderci? -
- Non è proprio
un’organizzazione. - rispose il ragazzino, visto che il padre e lo zio esitavano
a rispondere. - C’era giusto quest’uomo, e la donna da cui prendeva ordini: lei
si fa chiamare “il Presidente”, ma il suo vero nome è Hedwig Steinglocke. Ha
ingannato Ed, e poi... - si voltò verso di me - e poi era identica alla signora
Winry. Proprio identica. -
- Cosa? - trasecolai.
- Non era identica. -
puntualizzò Lotte. - Lei era cattiva e antipatica. -
- Va bene, ma fisicamente
erano praticamente identiche. -
- Gabbato da una donna,
Acciaio? - domandò Mustang, interessato.
- Una mia sosia malvagia?
- strillai, nello stesso istante.
Ed cominciava ad arrossire.
Se per la rabbia o l’imbarazzo, era impossibile stabilirlo.
Thomas si sentì in dovere
di difendere lo zio. Peggiorando la situazione.
- Lui non sapeva che lei
era cattiva. - protestò. - Erano fidanz... -
- Ti sei spiegato! - lo
interruppe Edward, frenetico.
Se Mustang stava per
commentare, ebbe il buon gusto di non farlo. Al mi lanciò un’occhiata di
sottecchi che mi infastidì: pensava di assistere ad una scenata isterica? Sono
una persona molto razionale, io!
- Torniamo all’argomento
principale, per favore? - domandai. E visto che Ed stava per parlare, lo
prevenni: - Puoi fare quel che vuoi, con chi vuoi. Non m’interessa quanto mi
somigli. Quando inizierete a cercare quell’uomo? -
- Meglio muoversi di
notte, quando c’è meno gente in giro. - sentenziò Mustang. - Le gallerie sono
illuminate, comunque. -
Che brutto ipocrita...
Non mi riferisco al
generale, ovviamente.
Arriva qui, sparando parole
smielate, e poi viene fuori che sarei solo un rimpiazzo della sua fidanzata
malvagia! Decisi che ne avevo abbastanza, e uscii dalla stanza. Nel corridoio,
sentii Ed brontolare: - Suppongo che cominceremo questa notte... Per me va bene.
Al, immagino che non riuscirò a convincerti a restare qui al sicuro, vero? -
- Immagini bene. -
- Valeva la pena tentare.
-
Seguirono alcuni secondi in
cui l’unico rumore fu quello di una sedia che si spostava. Al disse qualcosa ai
suoi figli, e sentii Alex dichiarare che avrebbe prestato volentieri i suoi
giocattoli ai nostri ospiti. O a Lotte, più probabilmente.
- Winry... non è come
credi. -
Mi prese di sorpresa: non
pensavo che mi avrebbe seguita davvero. Mi voltai verso Ed, ma mantenni
l’aria sostenuta.
- Non usare la classica
frase del marito fedifrago, per favore. -
- Non sono mai stato
innamorato di Hedwig. L’ho pensato, per qualche tempo, ma non era così. -
- Cosa vuoi dire? O sei
innamorato di una persona, o non lo sei. - ribattei.
- Per te è davvero così
facile capire la differenza? - mi chiese, mesto.
Non risposi, e non lo
guardai. Il sole stava tramontando, e il corridoio era già in penombra, tanto
che mi era difficile vedere bene Ed, che pure mi stava di fronte. Mi sembrava di
essere tornata a sei anni prima, quando lui si era presentato sulla porta di
casa mia, a Resembool.
Anche allora era il
tramonto, e anche allora aveva l’aria mesta di chi non sa cosa dire. Avevo
avuto la tentazione di picchiarlo fino a fargli perdere i sensi, per fargli
scontare tutti gli anni passati a chiedermi cosa facesse, come stesse, se lui e
Al fossero felici... ma non l’avevo fatto. Lo avevo lasciato entrare, e mi ero
chiusa la porta alle spalle, escludendo il resto del mondo dalla mia felicità.
Finchè la porta rimaneva chiusa, lui era solo mio.
- Non pensavo fossi
diventato così filosofico. - dissi.
- Winry... -
E poi sentii di nuovo quel
rumore. La serratura della mia porta d’ingresso che scattava, aperta
dall’esterno.
Ancora, e di nuovo, il
mondo si intrometteva nella mia vita. Chiusi gli occhi, cercando di dominarmi
per non urlare tutta la mia esasperazione.
- Maledizione! - sibilai,
invece, girandomi.
Inaspettatamente, Ed mi
afferrò per un polso. Lo guardai da sopra la spalla.
- Non ho amato Hedwig. Ho
amato la donna che vedevo attraverso di lei, e per questo non mi sono accorto
del pericolo. -
* * *
- Sei qui! Per fortuna
stai bene... - l’insopportabile Artie si interrupe non appena mi vide, e per
fortuna avevo già lasciato andare il braccio di Winry (ora che ci pensavo... ma
cosa mi era venuto in mente? Che sciocchezze avevo detto? Perché, quando mi
venivano idee simili, non mi centrava un fulmine??). Gli sorrisi con innocenza,
pregustando quel che stava per capitargli.
- Artie, il fatto che mi
hai pagato l’affitto non ti dà il diritto di piombarmi in casa senza preavviso!
- protestò infatti Winry, mentre le guance le si arrossavano per la rabbia.
- Però ho il diritto di
controllare se tu e Alex state bene! - si difese lui, arretrando
involontariamente di un passo.
Povero sprovveduto. Se
sperava di vincere con le lusinghe, non aveva capito nulla. Tentò una ritirata
nella prima stanza con la porta aperta... incidentalmente, la cucina: si trovò
quindi di fronte a ben cinque estranei, oltre a suo figlio. Mi misi a distanza
di sicurezza, tornando a sedermi vicino a mio fratello.
- Allora suoni alla porta
e aspetti che io ti apra, come fanno tutti! - gridò Winry, esasperata. - Dammi
all’istante le chiavi: non voglio più vederti entrare in casa in questo modo. -
- Aspetta un attimo! - si
riprese lui, raddrizzando la schiena e sovrastando Winry con il suo corpaccione
da bellimbusto. - Come hai detto, signora, sono io che ti ho pagato l’affitto! -
- Certo, per obbligarmi a
stare qui! -
Il maggiore Armstrong
tossicchiò, sperando che i due si ricordassero di non essere soli. Al era
arrossito per l’imbarazzo. Thomas spostò rumorosamente la sedia verso di me.
- Quando siete nei
paraggi, - commentò pacatamente Mustang, rivolgendosi ad Alphonse ma parlando
con me, - non ci si annoia mai. -
Il prode Artie si prese un
momento per osservare tutte le persone che affollavano la casa. Aggrottò le
sopracciglia alla vista di una divisa dell’Esercito, e il suo cipiglio si incupì
ulteriormente davanti all’uniforme carceraria di Al (che aveva fatto incupire
anche me: maniche corte con quel clima? E la fasciatura? Per forza il mio
fratellino aveva male al braccio, da quanto tempo non la cambiava?), malamente
coperta da una giacca che Mustang doveva avergli prestato. Anche io, il maggiore
e i bambini fummo inclusi nel suo sguardo fosco, e per un attimo mi chiesi
perché Thomas rispose con un’occhiata così obliqua... più del solito, voglio
dire. Credevo che la riservasse a me.
- Giusto! Posso sapere,
Winry, cosa ci fa un militare in casa mia, e perché uno dei tuoi
misteriosi amici è vestito da carcerato? -
- Non sarebbero affari
tuoi, comunque il generale Mustang è un mio conoscente. E il signor Armstrong te
lo ricorderai, spero! Mi è venuto a trovare a Resembool nel periodo in cui è
nato Alex. Nostro figlio si chiama così in suo onore. - lo sguardo di Winry si
addolcì per qualche istante, mentre si posava sulla testa dell’imperturbabile
bambino.
- Non divagare: non hai
risposto alla seconda parte della mia domanda. - puntualizzò Arthur.
Lotte si aggrappò ai
pantaloni di suo padre, con gli occhi colmi di lacrime. Alex se ne accorse.
- Non ti preoccupare. - le
disse, con la mortale serietà di un bambino di quattro anni. - Lo fanno sempre,
ma poi smettono. -
Vidi mio fratello mordersi
il labbro inferiore, e distogliere lo sguardo da Alex; capivo come si sentiva.
Lui e Caroline si erano amati profondamente, e i loro figli erano cresciuti in
un’atmosfera famigliare allegra, nonostante tutto quel che accadeva nel mondo
esterno. Anche noi, che pure non avevamo quasi ricordi di Hohenheim, sapevamo
comunque che lui e nostra madre erano vissuti insieme felicemente. L’idea che un
bimbo così piccolo fosse abituato a urla, strepiti e recriminazioni, e lo
accettasse con rassegnazione, era straziante sia per lui e per il suo istinto
paterno, che per me. Sospirai.
Thomas, impermeabile alla
tensione che si era creata, sembrava assorto. Quando si accorse che lo stavo
guardando, controllò che nessuno lo notasse e si chinò verso di me.
- Ed, posso chiederti una
cosa? - e, senza aspettare che gli dessi il permesso: - Tu credi che qualcuno
abbia detto ai militari dove trovare te e papà? -
- Di che parli? -
domandai, sospettoso.
- Stamattina ho visto il
signor Stonebridge parlare con un soldato, nella grotta. Credevo... credevo che
chiedesse di me, li avvertisse che mi ero perso, ma ha indicato la direzione in
cui si trovavano Lotte, papà e la signora Winry, e il soldato è andato da quella
parte. -
Sentii un brivido lungo la
schiena.
- Non puoi esserne sicuro.
- dichiarai, però, cercando di sembrare sicuro. - C’era tantissima gente, e il
signor Stonebridge è un medico. È normale che abbia a che fare con chi sta
coordinando la sicurezza. -
Mio nipote non si lasciò
convincere. Non ne ero convinto neppure io. Magari Al e Winry avevano rivisto
Arthur dopo che li avevo lasciati, ma è difficile pensare che un medico, in una
calca simile, abbia il tempo di correre da un soldato per denunciare la
scomparsa di un ragazzino.
Però non aveva senso:
denunciandoci, avrebbe fatto finire nei guai anche Winry.
La discussione coniugale,
intanto, era andata avanti, e ad un certo punto Stonebridge doveva essersi reso
conto che l’ex moglie non gli avrebbe raccontato cosa stava succedendo. Per
qualche motivo, diede a me la colpa di questo: me ne resi conto quando
interruppe i mormorii di Thomas, mettendosi di fronte a me e dando una violenta
manata sul tavolo.
- C’entri tu, non è vero?
- mi accusò. - In qualche modo, sei tu che porti le disgrazie qui dentro! -
Questa volta, Mustang non
nascose il divertimento.
- Beh, a quanto pare ti ha
inquadrato subito. - disse, beffardo.
Ero indeciso su chi
omaggiare per primo di un bel pugno sul muso.
- Ti assicuro che non è
colpa mia se l’esercito di Aerugo ha deciso di venire proprio oggi a bombardare
Central City. - dissi alla fine ad Arthur. - E poi, come vedi, qui dentro
nessuno si è fatto male: una fortuna incredibile, no? Lo saprai meglio di me,
visto che sei un medico. Perciò, dove sono le disgrazie che avrei portato? -
L’uomo digrignò le labbra
in una smorfia che imbruttiva la sua affascinante faccia da schiaffi, e cercò di
pensare ad una replica sensata. Ripresi a sorridergli, giusto per infastidirlo.
- Cosa avete a che fare tu
e tuo fratello con l’Esercito? - mi chiese, alla fine.
Thomas fu sul punto di dire
qualcosa... qualcosa di molto stupido, se lo conoscevo. Gli sferrai un calcio
sotto il tavolo, senza distogliere lo sguardo da Stonebridge.
- Come ha detto prima
Winry, non sono affari tuoi. - sottolineai, serafico.
Mi piaceva vedere i suoi
occhi riempirsi di una luce omicida. Se avesse saputo cosa avevo in mano io,
contro di lui, ci avrebbe pensato due volte prima di accusarmi di alcunchè.
Peccato non poter fare allusioni a quel che Thomas mi aveva raccontato... Oltre
a non aver prove, mi sarei abbassato al suo livello: due galletti che lottano
per la femmina. Winry ci avrebbe uccisi entrambi.
Ero certo che Stonebridge
fosse il tipo che, invece di rischiare in prima persona, va a fare la spia:
anche adesso, arruffava la penne ma non si decideva a fare la sua mossa. Forse
aveva davvero intuito chi fossi - i miei auto-mail mi rendevano riconoscibile,
anche se Arthur non poteva averli visti bene, ed era risaputo che l’Alchimista
d’Acciaio girava sempre insieme a suo fratello -, o forse aveva solo tentato di
sgombrare la casa di Winry dalla mia presenza. Più probabile la prima, visto che
lei non era più affettuosa con me di quanto lo fosse con lui.
- Ho il diritto di sapere
se mia... la mia ex-moglie - si corresse subito - ha in casa delle persone poco
raccomandabili. -
Finsi di essere colpito
dalla sua arguzia: - Persone poco raccomandabili... che si portano dietro dei
ragazzini! - esclamai, ispirato. - Assolutamente geniale! Però, detective, se
posso darti la mia opinione... - mi sporsi verso di lui, come per rivelargli
qualche importante segreto: - Non continuerei a fare arrabbiare la padrona di
casa piombandole in casa all’improvviso e accusando i suoi ospiti. È molto
suscettibile. -
Arrossì fino
all’attaccatura dei capelli, ma di rabbia. Si raddrizzò e fece un rapido
dietro-front, borbottando qualche parola di commiato ai presenti e baciando Alex
sulla testa.
Non potei trattenermi: gli
andai dietro, e riuscii ad afferrare la porta prima che la chiudesse. Lo
sorpresi a tal punto che si scordò di arrabbiarsi, perciò potei uscire e
accostare la porta alle mie spalle, per non che ci sentissero all’interno.
- Se il tuo problema è la
gelosia, - gli dissi chiaro e tondo - sappi che sei completamente fuori strada.
-
Ci mise un po’ a registrare
l’informazione... per la miseria, che uomo lento di comprendonio!... ma la
notizia non sminuì la sua rabbia, che tornò ad apparire sul suo volto
esattamente come qualche secondo prima.
- Eri tu quello di sei
anni fa? - mi domandò, brusco.
- Sì, ma ora non c’è più
nulla. Anzi, direi che mi odia. - non specificai chi, visto che non ce n’era
bisogno.
- Possibile. Quando l’ho
incontrata per la prima volta, era a pezzi per colpa tua e del tuo abbandono.
Eppure ti ha sempre difeso, dicendo che dovevi tornare da tuo fratello e
scempiaggini simili... - storse le labbra in un ghigno sarcastico - Spero non ti
dispiaccia se, quando mi hai lasciato campo libero, ho tentato di infilarmici.
Converrai che, vista la donna, ne valeva la pena... l’ho conosciuta alla vostra
festa della tosatura, la primavera dopo che te n’eri andato. -
Improvvisamente si fece
pensoso, come se stesse rivedendo quel momento: - Era la più bella di tutte. -
aggiunse. - Non sono più riuscito a staccarle gli occhi di dosso. -
Sorrisi. Aveva fatto
tornare in mente anche a me un momento particolare, avvenuto sei anni prima.
Dovevo essere tornato da cinque o sei giorni, perciò, se non sbaglio, era la
seconda volta che facevamo l’amore. Quando mi ero svegliato, Winry era già
scivolata fuori dal letto: in vestaglia, seduta di fronte allo specchio, stava
cercando di domare i capelli; la massa ribelle si alzava in tutte le direzioni,
e lei passava con pazienza la spazzola in ciascuna delle ciocche, aiutandosi a
volte con le dita. Aveva gli occhi gonfi di sonno, e un paio di volte sbadigliò
sonoramente, ma io non potei staccare gli occhi da quella lotta silenziosa,
ammaliato. Era irresistibilmente buffa, e allo stesso tempo così bella da
togliermi il fiato, con i capelli che catturavano la luce del sole nascente e
formavano una specie di aureola intorno al suo capo.
- A volte fa questo
effetto. - mormorai.
- Hai intenzione di
riprovarci? - mi chiese Stonebridge, bruscamente.
- Credo di non avere più
possibilità, e forse è meglio così: presto dovremo tornare a casa, e io non
posso portarla con me. Quindi, puoi smettere di essere geloso, perché non sono
una minaccia di cui liberarsi spedendola in prigione con una soffiata ai
militari. -
Accusò il colpo. Non era
tanto diverso dai codardi che abitavano vicino alla libreria di Herr
Meyer e di sua figlia Margarethe: la coda di paglia li rendeva aggressivi, ma
non avevano l’astuzia per mentire, né la faccia tosta di replicare subito.
- Non so di cosa parli. -
sbottò infatti, distogliendo in fretta lo sguardo.
- No, certo. Peccato che
Thomas ti abbia visto. - aggiunsi, giusto per fargli credere che avevo in mano
prove certe. - Voglio pensare che tu l’abbia fatto per il bene di Winry e Alex,
quindi non dirò niente. Vedi, però, - mi avvicinai, con aria minacciosa, - di
non mettere mai più mio fratello in una situazione di pericolo. Prenditela con
l’Elric giusto. -
Pensierino della
buonanotte: il mio ego mi impone
di finire su questa frase. Prenditela con l’Elric giusto è una delle
battute di cui sono più orgogliosa, a ragione o a torto potete deciderlo voi. E
Winry dovrebbe solo ringraziare, visto che ha due uomini che stanno per
sbranarsi per le sue grazie... subito prima di essere uccisi a colpi di chiave
inglese da lei medesima, naturalmente.
Prima di rispondere alle
recensioni (quante! Chebbello!! *.*), un ringraziamento speciale a
Yolei87, che ha proposto la mia fanfiction per le Storie Scelte di EFP.
Sappi che è qualcosa come un mese che giro bullandomi a destra e manca, ed è
tutta colpa tua. Per dire, ti ho perdonato pure il fatto che, in tre mesi, non
hai ancora letto il capitolo precedente... e, già che ci sono, vorrei farti gli
auguri: buon Natale e felice 2011! XD
bacinaru:
Thomas altalena comportamenti da io-sono-grande-trattatemi-da-adulto a
comportamenti infantili.. .tipo, zompettare addosso a Edward, nello scorso
capitolo. In quel caso specifico, non ho difficoltà ad ammetterlo, ha risentito
un po’ di una mia fobia, quella di perdersi in un luogo affollato: in una
situazione simile, anche io salterei addosso alla persona che venisse a
salvarmi... anche se non si tratta di Edward Elric, ecco U.U Giusto per farti un
esempio, sono riuscita a perdermi in Piazza San Marco durante il Carnevale,
grazie a delle mie (gentilissime) compagne di liceo che, nonostante avessero
visto che stavo scattando una foto, hanno pensato bene di andarsene senza
avvertirmi. Giuro, ero ben più vecchia di Thomas ma stavo per avere una crisi
isterica!
E, sì, Mustang è Mustang. O
lo si ama, o lo si odia. Io generalmente
lo amo.
Leuconoee:
Sei perdonata per aver capito in ritardo chi ha fatto la soffiata, dato che
anche i nostri personaggi non hanno modo di dimostrarlo... è più una questione
di intuito. I militari di Amestris... poveretti, cerca di capirli: una vita
sotto una dittatura, a eseguire passivamente degli ordini senza chiedersi se
sono giusti o meno... è ovvio che ora sono un po’ ottusi. Non sono proprio
abituati a costruire un ragionamento critico: se tu gli dici di cercare un
sedicenne sparito ventidue anni prima, capaci che cercano proprio un sedicenne,
invece di un quarantenne!
Winry è cambiata più che
altro nel suo atteggiamento verso Ed, e per buoni motivi, aggiungerei: il suo
carattere dovrebbe essere simile a quello dell’anime (se sono riuscita a
renderlo come volevo), solo più disincantato. Poi, in fondo, resta una persona
molto emotiva, protettiva verso le persone a cui vuole bene, ma consapevole del
fatto che - di solito - non può proteggerle: c’è qualcosa più grande di lei, là
fuori. Per questo il suo pensiero, per proteggere suo figlio, era fuggire in un
altro Paese.
Liris:
Mustang si è reso utile. Solo che adesso chi lo ferma più?
Siyah:
Non ci sarà un flashback completo, ma alcuni episodi isolati, come in questo
capitolo. Ora potete scatenare le vostre fantasie pruriginose, ma sappiate che
non ho intenzione di alzare il rating!
La moglie del generale non
apparirà, quindi potete immaginare che sia chi volete... io una candidata ce
l’avrei, però.
Fae (...
o Talpy? Chi ha letto e recensito?): mamma mia, che onore! Sono
finita persino su Criticoni, devo averla proprio fatta grossa: tutto ciò non fa
bene alla mia umiltà...
Obito Uchiha:
già dal nick ti voglio bene, sappilo. È il mio secondo personaggio
preferito, dopo l’inarrivabile Kakashi. Grazie per i complimenti, e, come avrai
scoperto nel frattempo, io pubblico una volta al mese... ma solo ogni tre mesi.
E questa volta sono pure in ritardo, grazie ad un periodo d’esami infernale, in
cui sono arrivata ad avere tre prove in tre giorni consecutivi. Sono uno
straccio.
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Capitolo 15 *** Seguire gli ordini ***
Nuova pagina 1
15. Seguire gli ordini
- Pittoresco. Davvero,
perché non aprite questa zona al pubblico e fate pagare un biglietto? -
- Perché alcuni corridoi
sono pericolanti, Acciaio. Finora non è ancora successo nulla di grave, ma
magari stasera sarò fortunato. -
Trattenni un sorriso, e
lanciai un’occhiata complice al maggiore Armstrong, che camminava alla mia
sinistra. Da quando eravamo ridiscesi nelle gallerie scavate sotto Central City,
Ed non aveva smesso un attimo di fare commenti sarcastici, e il generale Mustang
gli rispondeva per le rime: sembravano due bambini, come al solito.
- Certe cose non cambiano
mai. - sussurrai al maggiore. I suoi baffi candidi fremettero, mentre nascondeva
a fatica il divertimento.
Avevamo deciso di onorare
il pagamento al generale quella sera stessa, subito dopo il tramonto: Ed non
voleva avere nessun debito in sospeso con lui, come ribadì più volte, e comunque
le gallerie erano illuminate, quindi non c’era differenza tra esplorarle di
giorno o di notte. Inoltre, aveva fatto notare il maggiore, se ci fossimo
imbattuti nel colonnello Holze e fossimo riusciti a condurlo con noi, una volta
tornati in superficie il buio lo avrebbe nascosto da occhi indiscreti.
Consultai la mappa che il
generale ci aveva fornito, avvicinandomi all’ennesima lampada installata sulle
pareti scabre: camminavamo da circa un’ora, e le gallerie si stavano facendo più
strette e basse, oltre che più fitte. La zona in cui ci trovavamo era denominata
Area 0052, e ricordava un’immensa tana di coniglio: lì era stata
avvistata la creatura che aveva allarmato il generale, e che un tempo era stata
il padre di uno dei miei uomini, oltre che l’ufficiale medico che mi aveva
salvato la vita. O, almeno, che mi aveva curato: dovevo ammettere che il
colonnello Holze era molto più impegnato a seguire i deliri del Presidente della
Società di Thule che a badare a me, e dopo l’iniziale preoccupazione che non gli
morissi sul camion che ci portava in Baviera aveva delegato la mia sopravvivenza
alla cameriera di casa Schneider-Steinglocke. Tuttavia, il suo disinteresse per
la mia salute non era un motivo sufficiente per volerlo morto, com’è ovvio, né
per augurargli di finire nel Portale e uscirne... come? Di certo devastato nel
fisico, ma nella mente?
- La puzza di piscio di
gatto è vera? -
- Da qui in avanti è più
difficile proseguire. - commentai, prima che il generale rispondesse.
- Questo è uno dei settori
più vecchi. - spiegò il maggiore, avanzando fino all’ennesima biforcazione. - I
passaggi sono più numerosi e meno regolari. -
- In effetti, prima la
strada era obbligata. - notai, ripensando ai passi percorsi. - Invece, da dieci
minuti a questa parte abbiamo trovato tantissime intersezioni con altri
corridoi. -
- Allora sarà meglio
dividerci. - sentenziò Edward, portando le mani ai fianchi e guardandosi
intorno. - Non da soli, ovviamente: in due gruppi separati riusciremo ad
esplorare un’area maggiore in meno tempo. Inoltre, siamo tutti alchimisti,
quindi non avremmo difficoltà a difenderci... se ce ne fosse bisogno. -
aggiunse, a voce più bassa.
Il generale infilò le mani
in tasca: - Molto bene. - disse. - Al può venire con me, e tu andrai con il
maggiore. Così, se lo incontreremo, ci sarà sicuramente una persona che possa
riconoscere. -
Annuii, anche se lui stava
già entrando nel corridoio a sinistra e mi dava le spalle. Feci un rapido cenno
di saluto agli altri due e lo seguii, controllando con preoccupazione che il
soffitto non si abbassasse tanto da dover procedere chino.
- Quante volte è già stato
qui sotto, generale? - gli domandai, notando che non consultava la mappa che
ognuno di noi aveva.
Si fermò il tempo
necessario perché mi affiancassi a lui, e tolse le mani dalle tasche del
soprabito perché il passaggio era così stretto che i suoi gomiti lo riempivano.
- Quattro o cinque volte,
ma molti anni fa, mentre questa zona era in costruzione: sembra molto difficile
orientarsi, ma in realtà ogni bivio è contrassegnato con una lettera e un numero
crescente. Vedi? -
Seguii con lo sguardo il
suo dito, osservando meglio le scritte in vernice rossa che prima avevo
ignorato, nonostante fossero abbastanza grandi da occupare metà della parete. In
effetti, erano riportate anche sulla cartina. E le lampade erano posizionate
proprio sopra, così da renderle perfettamente leggibili.
- Lei la fa semplice. -
dissi, sorridendo. - Ma come fa a sapere se si sta allontanando o avvicinando ad
un’uscita, o se sta girando in tondo? -
- Segui la lettera e il
numero, e ti ritroverai sicuramente fuori. - mi rispose lui, come se fosse la
cosa più ovvia del mondo. Forse lo era, ma a me non era proprio venuto in mente.
- Capisco. - bofonchiai,
per pura educazione. Lui lo intuì e sorrise a sua volta, ma non fece ulteriori
commenti.
Il lavoro si era dimostrato
piuttosto noioso: una condizione preferibile ad uno scontro, certo, ma
continuammo a camminare per quel dedalo di gallerie per così tanto tempo che
persi la cognizione del tempo. Per evitare di rovinare ulteriormente gli abiti
che Winry ci aveva prestato, che oltretutto erano troppo leggeri per stare lì
sotto, avevo indossato di nuovo la divisa, ma mi ero rifiutato di prendere la
pistola: in caso di bisogno, mi sarei difeso alzando muri con l’alchimia o
creando barriere, ma non avrei mai sparato a nessuno. Eppure, quando un rumore
ci fece fermare di colpo portai istintivamente una mano alla cintura, dandomi
dello stupido subito dopo. Il generale si piegò leggermente, nonostante non ci
fosse nulla dietro cui ripararsi in caso di attacco, e alzò una mano per
chiedere silenzio. Entrambi restammo in ascolto, trattenendo persino il respiro.
Il rumore giunse di nuovo,
rimbombando in modo tale da rendermi impossibile capire da dove venisse.
Qualcosa raspava, e per qualche istante sperai si trattasse di un topo: ma poi
venne un colpo di tosse decisamente umano, che mi fece rizzare i capelli in
testa. Di certo, non si trattava né di Ed, né del maggiore.
Il generale alzò un dito
nella mia direzione, poi indicò qualcosa davanti a noi. Aggrottai le
sopracciglia, prima di intuire che stava dicendo a ore due; come avesse
fatto a capirlo, era un mistero. Allungò un piede, appoggiando la suola a terra
centimetro dopo centimetro, per fare meno rumore possibile. Un passo. Un altro
passo, alla stessa esasperante lentezza. Un altro passo.
Lo seguii, e cominciai a
preoccuparmi quando lo vidi sollevare la mano destra, chiusa nel guanto, e
appoggiare il pollice contro indice e medio: deglutii, e sperai che non ci fosse
bisogno dell’alchimia.
Eravamo arrivati
all’ennesimo bivio. A destra, uno dei corridoi che si diramavano era stranamente
al buio, a parte per il riverbero delle lampade che illuminavano l’intersezione
in cui ci trovavamo e un’altra alla fine del cunicolo, a una decina di metri: si
intravedeva a malapena un cumulo scuro sul pavimento, come un sacco malamente
gettato in terra.
Dovremmo bloccare
l’altro passaggio., pensai,
abbassando gli occhi sulla mappa. Ma era assurdo prepararsi a fronteggiare un
possibile nemico con una cartina in mano! Voltai la testa verso il generale,
sperando che anche lui ci avesse pensato, ma ero nella zona buia creata dalla
benda sull’occhio; non mi vide, e io non osavo attirare la sua attenzione in
nessun modo.
- Ehi, ehi! -
Sobbalzai, e il cuore mi
saltò in gola. Il cumulo nero aveva parlato! Si mosse, si sollevò
sprigionando un odore disgustoso, un misto di alcol e sporco, fino a rivelare il
viso in penombra di un perfetto sconosciuto, che non avrei potuto scambiare
neppure per sbaglio per il colonnello Holze.
Sentii la tensione
allentarsi, e mi venne una gran voglia di ridere. Quel vecchino ricordava in
maniera sorprendente l’uomo che avevo sorpreso in casa di Edward, quel signor
Lindemann che sembrava odiarlo così tanto (ed era contraccambiato con pari
ardore).
- Cercatevi un altro posto
per andare a dormire! - ci ordinò, calcandosi meglio sulla testa un cappello di
lana.
- Questa zona è interdetta
ai civili! - esclamò il generale. Anche lui doveva essersi ripreso solo in quel
momento dalla sorpresa, e forse si stava dando dell’idiota esattamente come
facevo io. Tuttavia, la nascose meglio, e si avvicinò all’uomo a passi pesanti.
Il poveretto mise
finalmente a fuoco la divisa sotto il soprabito e... credo che sbiancò, anche se
non saprei dirlo con certezza. Di certo, sul suo volto il fastidio fu
rapidamente sostituito dal terrore.
- Me ne vado! - esclamò,
saltando in piedi. - Perdonatemi, signore... Vossignoria... Eccellenza... non
sapevo... ho visto, e ho creduto... sarei rimasto solo per questa notte... -
- Certo, solo per questa
notte... - brontolò l’ufficiale, dando un’occhiata alle coperte e ai resti di
cibo sparsi intorno. Doveva essere lì dentro da parecchio.
- Ha un posto dove andare?
- chiesi, preoccupato per lui.
- Alla Stazione Centrale,
se quei bastardi di Aerugo non l’hanno ancora fatta crollare! - rispose quello,
raccogliendo in fretta i suoi cenci. - Posso andare lì, Eccellenza? -
- Macché Eccellenza... -
borbottò il generale, voltando le spalle e sbuffando.
Mi spostai per lasciar
passare il vecchio, notando la lampada rotta sulla parete: forse l’aveva
spaccata proprio lui, per non essere disturbato dalla troppa luce. - Dovrei
fargliela pagare, con quel che costa la manutenzione qui sotto... - disse
Mustang, con una smorfia. Nonostante la penombra, si leggeva ancora abbastanza
bene la scritta B23, larga quattro dita, e che occupava buona parte del
muro.
- Credo non avesse neppure
i soldi per comprarsi da mangiare. - ribattei tristemente.
- Dall’odore, direi che
quelli per bere non gli mancano. -
Evitai di commentare, e
lasciai che il generale si allontanasse di qualche passo per controllare che il
senzatetto se ne fosse davvero andato - e sbollire la rabbia contro se stesso
per essersi allarmato per nulla. Mi chinai ad esaminare i rifiuti che il vecchio
aveva lasciato, spostando con cautela i vetri della lampada rotta e di una
bottiglia con il collo rotto. C’era solo un sacchetto unto, uno straccio che
poteva essere stato qualunque cosa e... una cintura? Sì, era identica a quella
che portavo io, anche se molto più consumata...
Sentii un brivido corrermi
lungo la schiena. La afferrai, e guardai la grossa fibbia metallica.
Gott mit uns,
c’era scritto.
Dio è con noi. Era la frase incisa sulle cinture
dei soldati tedeschi della Wehrmacht.
L’alter ego di Herr
Lindemann aveva balbettato non sapevo... ho visto, e ho creduto...: cosa
aveva visto? Dei rifiuti lasciati da qualcuno che era lì prima di lui,
evidentemente.
Riesaminai i cocci di
vetro: la bottiglia aveva un’etichetta di una marca di liquore prodotto nel nord
di Amestris, e alcuni pezzi della lampada che aveva illuminato il cunicolo erano
sporchi di una qualche sostanza scura e oleosa, che a causa dei guanti che
indossavo (sopra c’erano dei cerchi alchemici, e gli altri tre avevano insistito
che li indossassi, per ogni evenienza) non avevo notato subito. Me ne sfilai
uno, e feci passare un dito.
Il generale stava
ritornando, e dalla calma dei suoi passi non doveva aver scoperto molto. Rimasi
accovacciato tra la sporcizia.
- Abbiamo una traccia,
anche se non so quanto sia vecchia. - gli dissi, sfregando la punta delle dita
sporche tra di loro e annusando. - Questo non è di certo l’acetilene delle
lampade, e quella cintura è identica alla mia. Credo che il colonnello sia stato
qui. -
Non ricevetti risposta, e
mi voltai per mostrargli la scheggia.
Alle mie spalle, si
intravedeva soltanto una sagoma scura: non solo per il buio, ma perché l’uomo
dietro di me era completamente nero.
Lanciai un grido per la
sorpresa, e mi sbilanciai sulle ginocchia. Caddi seduto tra la sporcizia, e
sentii alcune schegge ferirmi i palmi delle mani che avevo appoggiato per terra
nel tentativo di restare in equilibrio.
- Colonnello! - esclamai,
tirandomi indietro e sbattendo la schiena contro la parete.
Lui non si mosse. Non ebbe
reazioni di nessun tipo, in realtà: rimase immobile di fronte a me, senza
tentare né di attaccare, né di fuggire.
- Colonnello Holze. -
ripetei, a voce più bassa. - Mi riconosce? Sono il capitano Elric. Si ricorda di
me? Remagen? La Baviera? -
Piegò lentamente la testa
su una spalla. Il suo volto, al pari del resto del corpo, era coperto di uno
strato scuro, come se gli fosse stato colato addosso un barile di petrolio: non
vedevo nulla che somigliasse a occhi, o bocca, o naso, perciò era anche
impossibile capire cosa pensasse. O se pensasse ad alcunché. Però mi dava
l’impressione di essere perplesso.
- Va bene. Ora mi alzerò.
- lo avvertii, alzando i palmi delle mani per fargli vedere che ero disarmato.
Cosa del tutto vera, in effetti, perché nella mano destra non avevo il guanto, e
quello alla sinistra si era strappato quando ero scivolato.
* * *
Io e il maggiore Armstrong
ci irrigidimmo appena sentimmo i passi alle nostre spalle; ci voltammo di
scatto, pronti a difenderci se fosse stato necessario, e fummo quasi travolti da
un vecchietto cencioso che correva verso di noi con le braccia ingombre di ogni
genere di cianfrusaglia.
- Ma che... - balbettai,
quando mi accorsi che era identico a Johann Lindemann. Non mi sarei mai abituato
a quella storia degli alter ego.
Il nonnetto ci scansò senza
degnarci di uno sguardo, ma lanciando occhiate preoccupate alle sue spalle: il
col... generale Mustang lo seguiva a qualche metro di distanza, camminando con
calma indolente.
- Che è successo? - gli
domandai, ignorando l’uomo che si allontanava.
- Lo abbiamo trovato che
dormiva in una galleria. - spiegò concisamente lui, scrollando le spalle. -
Direi che conosce questo posto molto meglio di tutti noi, quindi è inutile
accompagnarlo ad un’uscita. È abbastanza spaventato da andarsene davvero, e non
tornare per un bel po’. -
- E Al? -
- È rimasto indietro. -
sorrise, e agitò pigramente una mano in aria. - Non ti preoccupare, Acciaio: a
differenza di te, tuo fratello può essere lasciato da solo per più di cinque
minuti senza timore che si cacci nei guai! -
Stavo per rispondere con
qualcosa di pungente, ma le mie parole furono coperte da un grido che riconobbi
subito provenire da mio fratello, nonostante fosse distorto dal rimbombo delle
gallerie. Ci irrigidimmo, e vidi i volti degli altri due distorcersi in una
smorfia terrorizzata che doveva essere identica alla mia. Mustang imprecò,
girandosi nella direzione da cui era venuto, e io corsi subito in avanti,
urtandolo involontariamente.
In uno degli infiniti
corridoi che si incrociavano non c’era luce: mi fermai, scivolando leggermente
in avanti a causa delle suole consumate. Alphonse era in piedi, schiacciato
contro la parete, la schiena contro una scritta a vernice rossa, apparentemente
incolume a parte alcuni tagli sulle mani. Di fronte a lui...
Feci cenno a Mustang e al
maggiore di fermarsi, prima che venissero visti. Non distolsi lo sguardo
dalla... persona? Creatura? Speravo ci fosse ancora qualcosa di umano nel
colonnello Holze. Il Presidente Eckhart, nel ‘23, era rimasta fino all’ultimo la
stessa pazza psicotica, in fondo...
D’accordo, non era un buon
paragone.
Al mi vide con la coda
dell’occhio. Non si mosse, e non lo fece neppure l’uomo di fronte a lui.
- Colonnello Holze. -
disse, parlando con voce bassa e pacata. - Sta bene? Si ricorda di noi? Sono il
capitano Elric, e questo è mio fratello. Ricorda? - ripeté di nuovo.
Holze mosse lentamente la
testa verso di me. Al pari del resto del corpo, anch’essa era ricoperta dalla
sostanza nera: non capivo come potesse vedere, o anche solo respirare. Eppure in
qualche modo doveva riuscirci, perché mi diede proprio l’impressione che mi
stesse squadrando con attenzione.
- Non le vogliamo fare del
male. - aggiunse Al.
Dal colonnello provenne un
suono gracchiante, che ci fece trasalire per lo stupore. Stava cercando di
parlare? Trattenni il respiro quando mi accorsi che la materia scura sul suo
viso si stava muovendo, fino a lasciare scoperto il volto baffuto di Holze. Mi
stava fissando, con un paio di occhi che non riconobbi, così freddi e vuoti.
Ripeté il suono:
- B... mb... n. -
- Che cosa? - chiesi.
- Ba... mb... n. -
- Bambino? Intende suo
figlio? Klaus non è qui. - lo tranquillizzai.
- Bambino. -
gracchiò quella voce che non conoscevo. La pronuncia migliorava ogni volta che
parlava, ma non sembrava afferrare davvero il senso di quello che gli stavamo
dicendo. - Dove bambino? -
Cercai con la coda
dell’occhio il generale e il maggiore, a qualche metro alla mia destra. Riuscivo
a distinguere la stazza dell’Alchimista Nerboruto, ma Mustang non era con lui.
Che diavolo aveva in mente?
- Klaus è a casa. In
Baviera. - spiegai lentamente.
- Controllare bambino.
-
Rabbrividii, capendo a chi
si stesse davvero riferendo. Al lo realizzò più o meno nello stesso istante,
perché vidi la sua espressione cambiare.
- Sta parlando di Thomas e
Lotte! - disse, angosciato.
- Non ce n’è bisogno,
colonnello. - feci un cauto passo in avanti, e lui non sembrò preoccuparsene. -
I bambini sono al sicuro, con noi. -
- Controllare bambini.
Seguire ordini. - replicò. Fece anche lui un passo in avanti nella mia
direzione, e me lo ritrovai a meno di mezzo metro di distanza. Cercai di non
fare movimenti bruschi, anche se mi spostai leggermente all’indietro quando lui
si chinò verso di me, emettendo uno strano rumore col naso.
Mi sta fiutando??,
mi chiesi, allibito. Avevo appena formulato il pensiero, che l’ufficiale si fece
indietro, avvicinandosi ad Alphonse e annusando la sua camicia come un cane. Mio
fratello mi lanciò un’occhiata dubbiosa, ma neppure lui si oppose.
- Venga con noi. - propose
gentilmente. - Vedrà che i bambini stanno bene. Poi torneremo tutti dall’altra
parte del Portale. -
- Controllare bambini.
Seguire gli ordini. -
-
Certo, ma... - Al fece per allungare una mano verso il braccio del colonnello;
probabilmente aveva deciso che il poveruomo non sembrava volerci attaccare.
Tuttavia, il gesto dovette inquietare la mente sconvolta di Holze, perché saltò
all’indietro con un movimento rapidissimo, che feci fatica a seguire con lo
sguardo. Saltammo anche noi due, per lo spavento, e l’ufficiale scappò nella
direzione opposta a quella in cui ero arrivato, verso i corridoi illuminati.
- Aspetti! - gridai,
preoccupato.
In pochi secondi - anzi,
millesimi di secondo! - la situazione ci sfuggì completamente di mano: il
maggiore Armstrong si materializzò alle mie spalle, e Mustang si parò di fronte
al fuggitivo, impedendogli il passaggio. Giusto per creare ancora un po’ più di
caos, l’idiota pensò bene di spaventare Holze schioccando le dita e creando
delle scintille che lo fecero indietreggiare con un gemito. Immagino non avesse
tenuto conto che chi stavamo fronteggiando si comportava più da animale che da
essere umano, e come gli animali aveva una paura istintiva e atavica del fuoco.
Balzai in avanti e afferrai
mio fratello, rimasto immobile nel bel mezzo della bagarre: quel guerrafondaio
del generale sarebbe stato capace di cuocerlo e poi venire da me con aria
afflitta a chiedermi scusa.
- Fermatevi! - implorò Al
mentre lo tiravo indietro. - È innocuo, non c’è bisogno di trattarlo così! -
Ovviamente, aveva appena
pronunciato quelle parole che l’innocua creatura appoggiò il palmo della mano su
una parete della galleria, creando un cerchio alchemico la cui intensa luce
verde ci costrinse a ripararci gli occhi con le mani.
- Tutti a terra! - gridò
il maggiore, e per maggior sicurezza ci gettò violentemente al suolo. Feci
appena in tempo a chiedermi cosa diavolo ne sapesse Holze di alchimia, che il
muro esplose in una nube di polvere e detriti. La creatura sparì nel buco
formato dal crollo, correndo nel passaggio parallelo a quello che ci trovavamo;
nonostante gli occhi che lacrimavano per il pulviscolo nell’aria, mi alzai
goffamente in piedi e cercai di inseguirlo, con Alphonse dietro di me.
- Torna indietro! - gli
ordinai. - Ora che è spaventato può essere più pericoloso! -
Non mi rispose. Non avevo
mai davvero creduto che mi obbedisse, a dire il vero.
Guardammo in tutti i
corridoi che ci capitarono a tiro. Tenemmo le orecchie aperte, sperando di
sentire il suono dei passi.
Tutto inutile. Lo avevamo
perso.
Non solo. Ci eravamo persi
anche noi!
- Secondo te siamo già
passati di qua? - chiesi dopo un po’, quando non ne potei più di correre.
Alphonse recuperò la sua
cartina, strappata in così tanti punti da essere inservibile. Nonostante tutto,
ridacchiò: - Cosa sarebbe successo se non fossi rimasto con te? - mi domandò.
- Ora non fare il
presuntuoso: neppure tu sai dov’è l’uscita. -
- No, - ammise lui, - ma
so come trovarla. Me lo ha spiegato il generale. - Indicò il numero e la lettera
dipinti con la vernice rossa sul muro di quella galleria. - Siamo nel passaggio
E88. Cerchiamo i numeri decrescenti contrassegnati dalla stessa lettera,
e arriveremo all’uscita. Ad un’uscita, almeno. -
Il cunicolo perpendicolare
a quello, in effetti, era segnato come E87. Cominciammo a camminare.
- Mi domando, - riprese
dopo un po’ - perché il colonnello Holze sia ridotto così. Al Presidente Eckhart
non era successo nulla di simile. -
- Credo sia una questione
di tempo. - commentai. - Anche lei, dopo un po’, aveva dato segni di cedimento:
quando eravamo tornati dall’altra parte del Portale, era completamente fuori di
sé. -
- Già. Voleva a tutti i
costi tornare di qui per distruggere questo mondo, anche se era ferita in modo
tale da reggersi a malapena in piedi. -
- Cambiamo argomento. -
sbottai, a disagio.
Per alcuni secondi, Al non
parlò. L’unico rumore che sentivo era quello del suo respiro che andava
regolarizzandosi, da qualche parte dietro di me.
- Ed... -
- Mh? -
- Cos’è successo sei anni
fa tra te e Winry? -
- Affari miei! - esclamai,
con una voce così isterica che mi diedi fastidio da solo. Alphonse ridacchiò, il
verme!
- Avete litigato, vero?
Per suo marito? -
- Non era ancora sposata.
- rettificai. - E comunque no, non abbiamo litigato. -
- Allora cosa... - lasciò
in sospeso la frase. Trattenne rumorosamente il fiato, poi lo rilasciò facendo
altrettanto chiasso. - Non ci credo! - esclamò.
- A cosa? - domandai
innocentemente, senza fermarmi né tantomeno voltarmi.
- Ma... È come una
sorella! -
- Forse per te. -
Con la coda dell’occhio, lo
vidi cercare di recuperare la calma. Era leggermente arrossito.
- Solo una volta? -
- Solo una volta cosa? -
- Piantala, Ed! -
- ... No. - ammisi,
sentendo un fastidioso calore sul viso. - E comunque, non sono affari tuoi. Io
non ti ho mai chiesto nulla della tua vita coniugale, no? -
- Quindi è possibile che
Alex... -
- No. - tagliai corto. -
Ha quattro anni, me l’ha detto lui stesso. -
- La cosa ti rende felice
o triste? -
Non risposi. Non lo sapevo
neppure io.
Lo sentii sospirare. -
Riusciremo a tirare fuori di qui il colonnello e riportarlo a casa? - mi chiese.
- Non ne ho idea. -
E, in ogni caso, anche se
ci fossimo riusciti, e lui fosse sopravvissuto ad un secondo passaggio nel
Portale, cosa sarebbe cambiato? Il poveretto avrebbe dovuto come minimo essere
rinchiuso da qualche parte. Nonostante avesse riguadagnato in fretta la capacità
di parlare, non pareva in grado di formulare un discorso coerente: inoltre,
nella sua mente sembrava essere rimasto solo l’ultimo ordine che gli era stato
impartito, quello di controllare i ragazzi, oltre a una ferrea ostinazione a
seguirlo...
Mi fermai di colpo. Al per
poco non mi venne addosso.
- Che c’è? - domandò, in
ansia.
- Thomas e Lotte. -
esalai. - Ho detto al colonnello Holze che erano con noi, e lui ci ha
annusati... - mi voltai e lo presi per le spalle. - Non capisci? Ora sa come
trovarli! -
- Seguendo il nostro
odore! - comprese lui, il viso distorto in una smorfia di puro terrore.
- Dobbiamo uscire di qui,
Al! Adesso! -
* * *
La signora Winry sembrava
molto più ansiosa di me e Lotte.
- Mi domando quanto ci
vorrà. - ripeté per l’ennesima volta, mentre se ne stava seduta in una delle due
poltrone del salotto e lanciava di continuo occhiate alla finestra.
Io non dissi niente, ben
sapendo che quando c’era di mezzo mio zio anche l’operazione più semplice poteva
diventare lunga e complicata: mi stupiva che la madre di Alex, che pure lo
conosceva da quando era nata, non avesse ancora compreso quel che a me era
sembrato ovvio in due mesi di convivenza. Però in effetti dovevo ammettere che
quella donna era un po’ incoerente: quando papà ed Edward se n’erano andati,
aveva dichiarato seccamente che non aveva la minima intenzione di aspettarli
alzati, e che se fossero tornati a qualche ora assurda della notte sarebbero
rimasti a dormire sul marciapiede. Eppure ormai la mezzanotte era passata da un
pezzo, e non solo lei non era andata a letto, ma si era persino dimenticata di
mandarci noi tre!
Ovviamente, tutti noi ne
avevamo approfittato: Alex e mia sorella stavano disegnando, sdraiati sul
tappeto, dopo aver sparso pastelli dappertutto. Io avevo recuperato un libro
dalla libreria alle mie spalle, e passavo il tempo con quello. Non un granché,
se devo essere sincero: una storia piuttosto stupida, grondante sangue e
malvagità, e talmente assurda che persino io stentavo a crederci. Winry
Stonebridge aveva commentato - con tono acido - che era del suo ex marito.
- Guarda, mamma! - esultò
Alex, mostrando fieramente un suo disegno, una specie di croce grigia immersa in
un mare azzurro con delle meduse bianche.
- Un giorno mi spiegherai
perché ti piacciono tanto gli aeromobili... - commentò sua madre, con un sorriso
stanco.
- Sono belli. - replicò
lui. - E volano. -
- Anche gli uccelli
volano. - commentò Lotte, con logica ineccepibile. Alex fece una smorfia, ma non
trovò argomenti per ribattere.
Lasciai da parte il libro
nel momento in cui mi fu chiaro che l’assassino era il fratello maggiore, e
rimasi a guardare di sottecchi la signora Winry. Seduta in poltrona, a sua volta
stava fingendo di leggere, ma i suoi occhi saettavano alla finestra e poi verso
il corridoio che portava nell’atrio. Accavallava le gambe, poi le distendeva.
Muoveva un piede. Faceva una smorfia. Tornava ad accavallare le gambe, e il
ciclo ripartiva. Stava facendo diventare nervoso anche me.
- Lotte, non hai sonno? -
chiesi, giusto per infastidirla. Lei alzò il viso dal foglio giusto per
scoccarmi un’occhiata assassina, e io la lasciai in pace.
- Già, dovreste andare a
letto! - si rese finalmente conto la signora Stonebridge.
- Non ho sonno! - protestò
immediatamente suo figlio.
- Potremmo aspettare che
tornino papà ed Ed, signora? - implorai.
Lei ci pensò su, poi si
arrese: - E va bene. - concesse. - Ma ad una condizione. -
- Quale? - domandò subito
Charlotte.
- Che la piantiate di
chiamarmi signora Winry. Non sono tanto vecchia, sapete? -
Sorrisi. Era più o meno la
stessa cosa che ci aveva detto Ed quando ci aveva ordinato di non chiamarlo mai
zio.
Mi piaceva starmene in
quella stanza, nonostante l’ansia. Era come tornare a una di quelle serate le
serate a casa nostra, prima della guerra, quando potevamo tenere la luce accesa
quando e quanto volevamo, e si poteva sprecare tutta la carta che si voleva per
disegnare. Mi piaceva anche la signora... cioè, Winry, che mi ricordava mia
madre nelle serate in cui papà rincasava tardi: lei cominciava a percorrere il
corridoio, dalla porta alla loro camera e ritorno, con alcuni intervalli solo
per controllare cosa stavamo facendo noi due. Quando suonava il campanello, si
avviava in fretta ad aprire dicendo a se stessa che quella volta gliene avrebbe
dette quattro, ma non lo ha mai fatto: sapeva che non era colpa di papà se c’era
più lavoro del solito.
Quando suonò il campanello,
anche Winry esclamò: - Adesso mi sentono! -
Saltò in piedi e uscì dalla
stanza a passo di carica. La sentimmo bofonchiare mentre apriva.
- Cosa diavolo credono,
che sia qui per loro? Fosse per me, li lascerei chiusi fuori... Arrivo, arrivo,
volete smontarmi il campanello?? Siete due... -
Il ringhio della donna si
trasformò in un urlo che mi fece gelare il sangue. Saltammo in piedi, e la
vedemmo tornare di corsa in salotto, con gli occhi fuori dalle orbite: ma,
invece di entrare, si parò di fronte all’ingresso della stanza e spalancò le
braccia, impedendo il passaggio a chi le stava davanti.
Spalancai la bocca, ma non
riuscii ad emettere suono, vedendo quella creatura nera senza volto. Sembrava
coperta di fango, o catrame, che però restava saldamente attaccato al suo corpo.
Lotte strillò e si nascose dietro di me.
L’essere guardò... o
meglio, credo stesse guardando... Winry.
- Controllare i
bambini. Seguire gli ordini. - gracchiò, con voce attutita dalla sostanza
scura che gli copriva la bocca.
- Non osare avvicinarti ai
bambini! - gridò Winry. La ammirai per il coraggio, perché nonostante tremasse
da capo a piedi non indietreggiò di un passo.
Quello tese le mani, grosse
e nere, e nell’aria comparve un cerchio simile a quelli che lo zio disegnava a
Monaco, acceso di una luce verde.
Magia... no, alchimia!,
pensai, subito prima che una folata d’aria bollente ci colpisse tutti e quattro.
Volammo all’indietro, insieme a mobili, soprammobili e tutto quel che c’era
nella stanza, come se fosse esplosa una bomba nel salotto.
Colpii violentemente la
libreria con la schiena. Caddi, e quella mi rovesciò addosso tutto ciò che
conteneva: mi riparai la testa con le mani, anche se non avevo modo di
proteggermi dalle vampate roventi che si infilavano nei vestiti, negli occhi e
nei polmoni. Credetti di soffocare, e probabilmente, tra questo e la botta, per
alcuni istanti persi i sensi, perché non mi accorsi di essere stato afferrato
fin quando non mi ritrovai a scivolare con le ginocchia sul tappeto.
- Aiuto! - gridai,
istintivamente. Mi guardai intorno: Winry era riversa al suolo, immobile, e
temetti che fosse morta. Lotte non si vedeva da nessuna parte. Alex Stonebridge
penzolava dall’altra mano dell’uomo nero.
- Lasciami! Lasciami!
- strillava, lanciando calci e pugni all’aria. - Mamma! -
Mi dimenai a mia volta, e
scoprii che l’essere mi stava tenendo non per la camicia, come il bambino, ma
per le bretelle. Me le sganciai in fretta, e rovinai al suolo come un sacco.
Per mia fortuna, aveva i
riflessi lenti: perse tempo a fissarmi con stupore, e io riuscii ad aggrapparmi
ad Alex, tirando per cercare di strapparglielo. Non era facile: la sostanza nera
era leggermente oleosa, e mi scivolava.
- Levagli le zampe di
dossi, bestione! - ringhiai.
Mosse la mano libera, come
per allontanare un insetto fastidioso. Il bambino aspettò che fosse a tiro e
gliela morse con tanta violenza che la mascella gli tremò.
Inaspettatamente, la
creatura accusò il colpo: gemette e ritirò la mano, cercando di staccare il
piccolo senza mollare la presa sulla camicia. In effetti, ora che ero così
vicino notavo che la fanghiglia non era una copertura rigida, come credevo, ma
una sorta di seconda pelle; non ho mai capito se avesse delle terminazioni
nervose anche lì dentro, o se il morso fosse stato così forte da arrivare fino
alla sua carne. Io ne approfittai per alzarmi in piedi e tirargli un pugno in
piena faccia, mettendoci tutta la mia forza. Sentii le dita scricchiolarmi, ma
in effetti urtai ossa e carne, e non una cosa rigida: anzi, sotto le mie falangi
- e il mio sguardo terrorizzato -, la sostanza nera cominciò a muoversi, a
spostarsi, lasciando vedere il volto sottostante. Riconobbi il colonnello Holze,
l’uomo che ci aveva portati nel Portale, minacciato dalla signorina Steinglocke.
L’uomo nero che erano andati a cercare papà e lo zio aveva trovato noi!
- Lei? - esclamai.
Il suo sguardo mi
attraversò. Non mi aveva affatto riconosciuto: per lui ero solo l’intrigante che
lo ostacolava mentre cercava di seguire gli ordini. Ero un ostacolo da superare,
o eliminare. Nella sua mente non c’era traccia del fatto che io facessi parte di
quegli ordini.
Alzò la mano, per riformare
il cerchio. Sperai che liberasse Alex per avere entrambe le mani libere: a quel
punto, sarebbe bastato cercare di correre a ripararsi dietro qualcosa - c’erano
parecchi oggetti dietro cui farlo, ora che tutti i mobili erano rovesciati per
terra. Inoltre, proprio in quel momento Winry sollevò la testa e disse, con la
poca voce che aveva in gola:
- Al! -, perché mio padre
era appena piombato nella stanza, saltando addosso all’aggressore con un balzo.
Invece l’ufficiale con i
baffoni non lasciò andare Alex. Schioccò le dita della mano destra. Si
sprigionarono poche scintille, ma lo spostamento d’aria fu, se possibile, ancora
più imponente, e mi sbatté contro la parete a velocità maggiore. Una pesante
credenza, già rovesciatasi, si ribaltò nuovamente, scoprendo Lotte rannicchiata
sotto. Il lampadario crollò, investendo mio padre in un turbine di gocce di
vetro tintinnanti prima che potesse raggiungere il piccolo ostaggio.
Sentii la voce di Ed che
chiamava il fratello, all’esterno. Conoscendo mio padre, doveva essersi
precipitato qui e aver lasciato indietro gli altri: alzai la testa, per capire
dove fossi finito e dove si trovassero la creatura e tutti gli altri.
Ero dietro la poltrona, a
giudicare dalla fodera a fiori. Mi facevano male le costole. Il colonnello
baffuto era ancora in piedi al centro della stanza, ma aveva voltato la testa
sentendo mio zio. Forse temette che gli avesse già tagliato la via di fuga più
ovvia - la porta d’ingresso -, perché sollevò Alex, ancora penzoloni, e gli
circondò la vita con un braccio per trattenerlo più saldamente. Poi avanzò verso
la finestra che già la prima detonazione aveva mandato in frantumi, ignorò il
debole tentativo di Winry di aggrapparglisi ad una caviglia e il suo grido
inarticolato, e uscì da lì.
Merda,
pensai stancamente. L’idiota non si era neppure accorto che aveva rapito il
bambino sbagliato.
Pensierino della
buonanotte: pensavo venisse fuori
un capitolo corto, invece è risultato essere uno dei più lunghi... questo per
dire quanto io stessa abbia il controllo delle mie storie. Un grazie a
Leuconoee per aver segnalato la mia fanfic per il concorso Storia coi
migliori personaggi originali: accedeva solo chi aveva il maggior numero di
voti, ma almeno potrò dire di aver guadagnato il punto della bandiera! E visto
che ora si concorre per chi scrive più recensioni e più lunghe... cosa state
aspettando?
Siyah:
da un certo punto di vista, in amore Al è quello messo meglio (il che è tutto
dire!!): almeno lui si è sposato, si è costruito una famiglia, non si è fatto
troppi viaggi mentali inutili e non ha sopportato vent’anni di tira e molla,
mordi e fuggi, vai, torna, rivai e ritorna...
Sto cercando di non mettere
un flashback unico di quel che accadde sei anni prima, perché spezzerebbe
l’azione. Inserisco qualcosa qua e là, quando ha senso che Ed o Winry ripensino
a quel che è successo. In realtà, già adesso si può intuire che il commiato tra
quei due non sia stato nulla di epocale: una cosa del tipo “Beh, io ora vado!”,
come già faceva il buon (?) vecchio (??) Hohenheim...
Yolei87:
visto che almeno stavolta hai commentato, puoi scrivere quel che ti pare come ti
pare, ma chère!
Allora: no, il tenente Howard non è il futuro generale Howard, perché ci sono
oltre sessant’anni di distanza tra le due fanfic. Quindi, o il tenente ha cinque
anni, o il generale ne ha ottanta, ed entrambi i casi mi paiono poco credibili.
Il tenente può essere uno zio, o magari anche il padre, oppure solo un omonimo.
Chissà?
(Beh, io lo so.
Ovviamente.)
Non ho scritto che cosa
pensasse Ed quando usava l’alchimia perché in quel momento mi era più comodo
usare Al, e perché avevo intenzione di soffermarmi sulle reazioni di Thomas e
Lotte: in ogni caso, il nostro Acciaio dovrebbe usare ancora le sue manine
magiche, quindi c’è sempre tempo.
Niente da fare: Ed non ha
avuto occasione di spaccare la faccia ad Artie. Non credo lo farà mai, visto che
sta cercando - in modo molto velato - di far capire ad una certa persona che lui
è più responsabile e affidabile di Stonebridge.
mery_wolf:
anche a me piace molto il periodo storico... cioè, in realtà mi affascina tutto
ciò che va dalla Belle Epoque fino alla fine del secondo conflitto mondiali,
però in questo caso mi piaceva l’idea di ambientare la fanfic nella Germania
della seconda metà degli anni ‘40, durante la caduta del nazismo. Anche solo per
fare qualcosa di diverso dal solito, visto che, girando su fanfiction.net, ho
notato che le poche ff ambientate durante la Seconda Guerra Mondiale si svolgono
sempre in America: è vero che è possibilissimo che gli Elric si siano rifugiati
lì all’ascesa di Hitler, però, sinceramente, che gusto c’è a scrivere una storia
che si svolge in un periodo di guerra se tanto la guerra è lontana?
bacinaru:
che tristezza vedere un quarantenne e un - rapido conto - cinquantaquattrenne
che battibeccano come due bambini... non lo ammetteranno mai, ma loro sono i
primi a divertirsi...
Kiki75:
complimenti per la costanza di esserti ripresa tutti i quattordici capitoli
precedenti! Grazie per i complimenti immeritati, in realtà per muovere i
personaggi del canon uso semplicemente... l’anime. Fullmetal Alchemist è
già fatto così bene, con caratteri così ben delineati, che a me è bastato solo
aggiungere qualche sfumatura dovuta alle peripezie che io ho pensato per loro
nei venti anni passati, e il gioco era fatto. Anche a me Mustang piace molto,
specialmente quando Ed è nelle vicinanze: quando litigano (anzi, quando il
colonnello punzecchia Edward e lui si incavola) sono esilaranti!
Obito Uchiha:
beh, il sensei resta sempre il sensei, ma un posticino nel mio cuore per Obito
lo trovo facilmente. Come si può non amare uno che, dopo essere stato trattato
per una vita come una pezza da piedi dal compagno di squadra e aver visto la
ragazza che amava fare gli occhi dolci al suddetto compagno di squadra, decide
di donare proprio a lui l’occhio sano rimastogli dopo che una frana lo ha
ridotto a una frittatina? Obito è il portabandiera dei personaggi sfigati di
Naruto - cioè, un po’ tutti.
Lo so che siete tutte
curiose di vedere Ed a Artie su un bel ring mentre si riempiono di legnate, ma
il nostro alchimista ha deciso che deve fare il bravo bambino per dimostrare di
essere migliore di Quello Là. Quindi, per ora, nisba.
Leuconoee:
ti ho già ringraziata per il voto all’inizio del pensierino, dove tutti possono
leggere e vergognarsi per essere dei lavativi *sguardo corrucciato*, quindi
passo direttamente alla recensione. Spero che la quantità di azione sia stata di
tuo gradimento (pure troppa, eh? =) ): Mustang resta un po’ in secondo piano,
più che altro perché non è una delle voci narranti, però mi diverto un mondo a
metterlo di fianco a Ed e lasciare che la natura faccia il resto. Si divertono
troppo assieme quei due, altroché. E per le lacrime di Winry... poveretta, temo
che da adesso in avanti ne verserà un bel po’. Io mi sono già trasferita in un
bunker a prova di bomba e di chiave inglese, giusto per andare sul sicuro...
*lancia un’occhiata preoccupata alla porta a tenuta stagna* Per quanto riguarda
il sarcasmo... beh, dopo essere stata presa, mollata, ripresa e rimollata,
essersi sposata, aver divorziato ecc ecc, o la prendi così oppure ti tagli le
vene!
Talpina
Pensierosa: ho capito, più Mustang per tutti! Non è così difficile, a me
piace da morire! Nella mia personale classifica se ne sta ad un dignitoso terzo
posto, dopo Ed e Al, e da quando è morto Hughes non deve neppure dividerlo con
altri. Sta un po’ diventando presuntuoso per questo fatto, ma appena dice
qualcosa in proposito Edward lo zittisce, lui risponde e si scatena una rissa...
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Capitolo 16 *** Un cavaliere senza paura ***
Nuova pagina 1
16. Un cavaliere senza paura
Mi lasciarono da sola in
camera mia. Sembravano indecisi su cosa aspettarsi da me - una crisi isterica,
un mancamento, un’aggressione fisica...
Non feci nulla di tutto
ciò, ovviamente. Presi un profondo respiro, recuperai la valigetta del pronto
soccorso e uscii, dicendomi che avrei avuto il tempo di piangere tutte le mie
lacrime quando fossi stata sola.
Per prima cosa, chiamai
Artie. Ne aveva il diritto, in fondo. E poi era un medico, e Al aveva perso i
sensi per alcuni minuti quando il lampadario gli era crollato addosso, perciò
sarebbe stato meglio controllare che non avesse nulla di serio. Le sue pupille
erano normali, e non riscontrai altri segni di commozione cerebrale o peggio, ma
in quel momento trovavo più tranquillizzante l’idea che Arthur desse il suo
parere.
Arrivò in meno di cinque
minuti, nonostante abitasse in un altro quartiere. Mi abbracciò senza dire
niente, sull’ingresso, il respiro pesante tra i miei capelli.
- Com’è successo? - mi
chiese, con voce soffocata.
Scossi la testa, e lui
non fece altre domande; lanciò solo un’occhiata veloce a Ed, mentre si dirigeva
nella camera degli ospiti. Ricevette in risposta il suo stesso sguardo perso,
replicato sul volto tirato di Edward.
Mentre lui si occupava di
Al, io visitai Thomas e Lotte. La bambina non aveva altro che dei graffi: la
credenza le era volata addosso, ma lei era così minuta da riuscire a
rannicchiarsi tra le mensole e uscirne illesa. La lasciai vicina al padre e al
fratello, visto che l’unica cosa di cui aveva bisogno era essere
tranquillizzata.
Thomas aveva una costola
incrinata. Si lasciò spogliare, visitare e medicare senza aprire bocca. Sembrava
più piccolo e gracile: era difficile credere che quel corpicino scheletrico e
denutrito fosse riuscito a trattenere il mostro nero, anche solo per qualche
minuto. Avevo pensato di dargli un antidolorifico, ma alla fine gli offrii una
fetta di torta e un bicchiere di latte. Cercai di abbracciarlo senza fargli
male.
- Sei stato molto
coraggioso, Thomas. - gli dissi. - E di questo ti ringrazio. -
- Non sono riuscito ad
aiutare Alex. - rispose lui, tetro.
Era esattamente quello
che mi sarei aspettata da un Elric. Gli strinsi delicatamente una mano, evitando
le sbucciature sulle nocche, e guardai suo padre: Artie lo aveva aiutato a
mettersi a letto, e ora stava chiudendo la borsa che si era portato dietro.
- Non credo abbia
riportato problemi alla scatola cranica. - sentenziò, senza voltarsi, ma
parlando a Edward che se ne stava sulla porta in disparte. - È stata una bella
botta, ma senza troppe conseguenze. -
Alphonse stiracchiò le
labbra nell’ombra di un sorriso e si voltò verso il fratello.
- Così non hai scuse per
mettermi da parte. - disse. E visto che Ed stava per parlare, aggiunse: - So che
lo avresti fatto. Ma non riuscirai ad impedirmi di aiutarvi. -
- Al momento non c’è
molto che possiamo fare. - dichiarò l’altro, appoggiando una mano sulla testa di
Charlotte. - Il generale è andato a buttare giù dal letto tutte le sue amicizie
tra esercito e polizia: li costringerà a frugare in ogni angolo di Central City,
questo è certo, e saranno molto più efficaci del nostro piccolo gruppo. -
Era sensato, ma nessuno
di noi in quel momento aveva bisogno di ragionamenti sensati, men che meno io.
Lasciai la stanza e andai a chiudermi in camera mia. Non volevo sentire discorsi
pieni di buonsenso finché non fosse spuntata una traccia su dove potesse
trovarsi mio figlio.
La traccia spuntò due
giorni dopo, con la ricomparsa del generale Mustang. Quarantotto interminabili
ore, in cui tutti nessuno di noi combinò molto. Perlomeno, io non lo feci.
Rispettai il mio proposito e piansi fino a consumarmi gli occhi, e per il resto
del tempo cercai di trovarmi qualcosa da fare per non cedere al panico.
Finalmente, la mattina del secondo giorno dal rapimento di mio figlio fui
svegliata dal rumore della porta d’ingresso che si apriva e dal mormorio di
Edward, qualcosa di simile ad un “Alla buon’ora!”. Mi resi conto per la prima
volta che non lo avevo più visto né sentito, nonostante vivessimo sotto lo
stesso tetto: eppure nessuno di noi cinque era uscito. Era rimasto sempre
intorno al fratello? O aveva fatto di tutto per evitarmi?
- Datti una calmata,
Acciaio! - rispose la voce del generale, anch’essa poco più di un sibilo. - Non
è come sfogliare un elenco telefonico! -
Balzai giù dal letto, e
nel farlo feci cadere il libro che tenevo sul comodino. Irrazionalmente, mi
fermai a cercarlo, a tentoni sul tappeto, nella poca luce che filtrava dalle
persiane chiuse. - Vieni con me. -
Sentii i passi dei due
uomini dirigersi verso la cucina, e chiudersi la porta alle spalle;
- Vado a svegliare
Winry? - sentii chiedere da Ed.
- Aspetta. Sono le
cinque di mattina, è inutile buttarla giù dal letto per un’ipotesi non
confermata. -
Mi irrigidii. Non la
pensavo allo stesso modo.
- Allora vediamo di
confermarla! - sbottò Edward, a voce troppo alta.
- Spiritoso! Ascolta,
hai presente il quartiere residenziale? Bene. È quasi deserto, visto che chi
poteva è fuggito per paura dei bombardamenti. Però in una villa in viale
Repubblica c’è ancora il custode, che vive nella dependance. -
- ... immagino di
dovermi sorbire tutta la storia, vero? -
- Lasciami finire: ieri
sera il custode ha telefonato alla polizia, perché da due giorni sente il pianto
di un bambino provenire da un’abitazione lì vicino, che lui sa per certo essere
disabitata! -
Strinsi inconsciamente il
libro al petto.
- Non è possibile che
invece i proprietari siano tornati? Per controllare i danni dopo il
bombardamento, per esempio... -
- No. Non hanno bambini.
-
Seguirono alcuni istanti
di silenzio. Potevo quasi vedere Edward che abbassava gli occhi, corrugava la
fronte e serrava le labbra, assorto. Uscii silenziosamente dalla mia stanza e mi
avvicinai alla cucina, per ascoltare meglio.
- Va bene. - sentenziò.
- Vale la pena dare un’occhiata. Andremo io e Al. -
- Troppo rischioso. - si
oppose il generale. - Ci penserà la polizia: i loro uomini sono addestrati. -
- Addestrati a vedersela
con un essere che usa l’alchimia? Non credo proprio. -
Trattenni a stento un
gemito. Per fortuna, lo sbuffo dubbioso di Mustang lo coprì completamente.
- E voi due riuscireste
a convincerlo a restituirvi il bambino? -
- Abbiamo maggiori
probabilità di riuscirci di una squadra armata. Alphonse aveva potuto persino
parlargli, prima che Holze venisse spaventato. -
- È una follia. -
Entrai, facendoli
trasalire.
- Per favore, generale,
- lo supplicai, - li lasci fare. Ed ha ragione, quell’uomo potrebbe ascoltarli.
-
- Winry, così saranno in
tre ad essere in pericolo. -
- Lo so. - ammisi,
appoggiando una mano sul braccio di Edward. - Ma lei può assicurarmi che,
davanti a delle armi spianate, quella creatura non perda la testa e... - il nodo
in gola al solo pensiero mi impedì di proseguire.
Mustang alzò le mani e
sospirò. Il suo occhio sano era serio, triste e gonfio. Mi chiesi se anche lui
non dormisse da giorni.
* * *
Non ricordavo di aver
mai visto il generale così affaticato. Mentre accompagnava Al e me alla casa,
facendo un riassunto a beneficio di mio fratello di quanto ci eravamo detti,
ebbi modo di notare la barba non rasata e l’incarnato pallido, che alla scarsa
luce stradale sembrava diventare giallognolo. Avrei dovuto trovare una scusa per
farlo restare a casa di Winry, mi dissi; magari per tenere d’occhio la stessa
Winry ed impedirle di venire con noi. Invece c’era anche lei in auto, ed ero
stato proprio io a perorare la sua causa perché fosse presente.
- Se non la portiamo
noi, - avevo detto al generale e ad Al, - ci seguirà ugualmente. E poi, chissà,
potrebbe aiutarci. Potrebbe esserci bisogno di calmare Alex. - avevo aggiunto
subito, prima che uno degli altri due mi chiedesse se volevo portarla di fronte
ad Holze.
Non c’è che dire: come
cavaliere non valgo nulla. Non ero riuscito a tenere lontano dai guai né la
fanciulla in pericolo né il giovane scudiero, e lasciavo che a guidare il
destriero fosse un uomo privo di un occhio. Speravo almeno che non ci fermasse
qualche vigile.
Viale Repubblica doveva
essere un gran bel posto, di giorno e senza crateri prodotti dalle bombe: si
trovava a pochi isolati dalla nuovissima piazza Hughes, su cui si trovava il
Parlamento. Dietro gli alberi e i tetti delle ville si intravedeva la sommità di
quella costruzione che somigliava ad una macchina da scrivere.
La nostra casa era una
villetta relativamente piccola, con una bella veranda al piano terra e vasi di
fiori morti sui terrazzi del primo piano; non c’erano luci accese, e non si
sentiva nulla, cosa che mi diede i brividi. Dormivano? Alex aveva smesso di
piangere?
Ovviamente, Mustang non
aveva lasciato il posto sguarnito: nascosti nell’ombra, contai almeno una decina
di uomini in divisa, con le armi pronte.
- Le regole sono
queste: - ci illustrò a bassa voce il generale - se restate dentro per più di
mezz’ora, noi entriamo. Se sentiamo dei colpi di arma da fuoco, noi entriamo. Se
vi sentiamo urlare, noi entriamo. Se... -
- Se vedete i nostri
cadaveri venire gettati dal balcone entrate? - lo interruppi, seccato.
- Sì. - replicò lui
imperturbabile.
- Bene. Grazie per non
averci messo ansia. -
Al sospirò, ma tenne gli
occhi bassi e proseguì nel compito che lo assorbiva completamente: infilarsi i
guanti con i cerchi alchemici. Winry gliene aveva prestati un paio robusti, di
pelle, che probabilmente erano appartenuti a Stonebridge.
- Fate attenzione. -
disse Winry. - Dovete uscire tutti e tre sani e salvi. -
Al l’abbracciò,
baciandola sulla fronte come se fosse stata una dei suoi figli.
- Lo faremo. Promesso.
- le disse.
C’era dell’aria calda.
Non capii bene da dove venisse, ma la sentii arroventarmi guance e orecchie. Ci
misi alcuni istanti a capire che ero arrossito, più o meno quando mi venne
voglia di prendere mio fratello per un orecchio e staccarlo da lì.
Che verme che sono.,
mi dissi distogliendo lo sguardo. Geloso di Alphonse.
- Andiamo? - chiesi.
Winry si sciolse
dall’abbraccio, asciugandosi gli occhi. Allungò una mano, ma ci ripensò subito e
mi sfiorò a malapena un braccio con la punta delle dita. Nella sua agenda
mentale sotto il mio nome dovevano esserci le parole “porco traditore”, come
minimo.
Attraversammo in fretta
il giardino della villetta, controllando che alle finestre non ci fosse nessuno.
Arrivati alla porta, scoprimmo che, ovviamente, era chiusa.
- Questa volta voglio
farlo io. - sussurrò Al, sorridendo nonostante la tensione. Batté le mani e le
appoggiò sul legno, con gesto consumato, come se avesse smesso di usare
l’alchimia solo due minuti prima. Il rumore della serratura che cedeva ci fece
rabbrividire (io avrei semplicemente fatto un buco nella porta, ma il mio
fratellino era il solito gentiluomo anche nello scasso), anche se fu talmente
debole che lo sentimmo solo noi due.
- Tu piano terra e io
primo piano? - chiesi.
- Sicuro che sia una
buona idea dividerci? - replicò Al.
- No, però almeno se
uno di noi se lo trovasse di fronte potrebbe distrarlo fino all’arrivo
dell’altro. Ammesso che si lasci distrarre. - concessi.
- E che non abbia
ancora imparato a usare l’alchimia del fuoco del generale. - fece notare
Alphonse.
Quello sarebbe stato un
problema.
Feci per appoggiare un
piede sulle scale, ma mi fermai appena in tempo. Erano di legno, e non
sembravano nuovissime: il minimo scricchiolio mi avrebbe tradito. Controllai
velocemente che Al fosse entrato in una stanza, sperai che nessuno mi vedesse in
quel momento, poi mi tolsi le scarpe e salii i gradini a balzelli.
Questo agli eroi dei
romanzi non capita mai: le imprese non si compiono con un paio di calze, che tra
l’altro sono state rammendate così tante volte (da Margarethe, non da me) da non
avere quasi più stoffa... ma tanto non potevo scendere più di così nella stima
di una certa signora.
Sul pianerottolo del
primo piano, mi fermai, vedendo una lama di luce nel corridoio altrimenti buio.
Filtrava da una porta socchiusa, che raggiunsi. In realtà il pannello di legno
era stato staccato brutalmente dai cardini, e poi nuovamente appoggiato al suo
posto, e io conoscevo pochi ladri che si sarebbero presi il disturbo di farlo.
Mi contorsi per sbirciare senza espormi troppo alla vista, e il cuore mi saltò
immediatamente in gola: Alex era raggomitolato su un divano al centro della
stanza, gli occhi chiusi e un pollice in bocca. Per alcuni terrificanti istanti
temetti il peggio, ma subito dopo notai il suo respiro, e rifiatai anche io. Il
bambino doveva essere completamente esausto, se davvero aveva strillato per due
giorni. Holze era dietro di lui e mi dava le spalle, e sul momento non capii
cosa stesse combinando.
Mi infilai
frettolosamente le scarpe e osservai attentamente la camera: quella dove mi
trovavo era l’unica porta, e le due finestre erano coperte da quella che mi
sembrò carta da pacco, per evitare che la luce fosse visibile dall’esterno. Per
il resto, c’era solo il tavolino davanti al sofà su cui era appoggiata la
candela accesa che rischiarava appena l’ambiente e un tappeto polveroso sotto
entrambi i mobili.
Avevo bisogno di Al.
Ritornai sui miei passi per cercarlo, e quando ricomparve nell’atrio attirai la
sua attenzione con frenetici gesti della mano, indicandogli di salire. Gli feci
anche segno di togliersi le scarpe per non far rumore, e lui ebbe il buongusto
di non ridere; abbassò però lo sguardo sui dannatissimi stivali militari che
aveva deciso di indossare di nuovo insieme alla divisa, e sul suo viso comparve
una smorfia di disappunto. Avrebbe impiegato un’eternità per levarseli!
Mi trattenni dall’alzare
gli occhi al cielo per non ferire i suoi sentimenti, e tornai a controllare
nella stanza. Compresi finalmente che Holze stava mangiando, in una maniera
animalesca che mi disgustò. Alzò la testa, facendomi ritrarre istintivamente, ma
si limitò a ruttare sonoramente e tornare alla sua cena, senza dar segno di
essersi accorto della mia presenza. Abbassai di nuovo lo sguardo su Alex.
E incrociai un paio di
enormi occhi castani.
Mi portai un dito
davanti alla bocca, sperando che il povero bimbo non si agitasse. Poi mossi la
mano per fargli segno di restare fermo. Controllai di nuovo Al, che non aveva
fatto grandi progressi.
Se solo il divano
fosse più vicino, mi dissi, o Holze più distante! Serrai gli occhi, e
mi morsi un labbro. Rifletti, Ed, rifletti. Come avvicinarsi al bambino senza
essere visti?
Un movimento di Alex
riportò la mia attenzione su di lui. Il cuore mi mancò un battito quando lo vidi
scivolare sul tappeto senza emettere suono: pensai che stesse per mettersi a
correre verso di me, ma lui aveva già dato prova di essere molto più
intelligente di quanto mi aspettassi, perché non si alzò da terra. Prese a
gattonare verso di me.
Ero impietrito. Lo
guardai avvicinarsi come se ogni centimetro fosse lungo un chilometro. Due
metri, un metro e mezzo. Un rumore di passi sulla scala. La testa di Holze si
spostò lievemente verso sinistra. In una frazione di secondo capii che Al non
sarebbe mai arrivato prima che Holze si accorgesse dei movimenti del bambino.
Agii d’impulso.
Spalancai la porta con un calcio e feci un passo in avanti. Chiusi le dita sulle
braccia ossute di Alex e lo tirai verso di me senza sforzo, in un gesto brusco
che probabilmente gli fece male. Holze fu subito in piedi, e io istintivamente
strinsi più forte il piccolo, cercando di coprirlo il più possibile con le
braccia.
- Ed! - gridò Alphonse,
subito dietro di me, sulla porta.
Appoggiai la mano sulla
testa bionda di Alex, avvertendo le sue piccole mani che mi stringevano
convulsamente la camicia.
- Bambino! -
ruggì la creatura nera.
Se fosse riuscito a
usare l’alchimia, e scaraventarmi contro il muro come aveva fatto con Winry,
Thomas e Lotte la volta precedente, non sarei più riuscito a difendere il
bambino. Non avevo altra possibilità: diedi le spalle a Holze e tesi Alex a mio
fratello.
- Corri! - gli ordinai.
- Portalo immediatamente fuori, io lo trattengo! -
Vidi un moto di
ribellione nei suoi occhi, ma non gli lasciai il tempo di protestare. Non
avevamo tempo. Gli gettai letteralmente il piccolo tra le braccia, e tornai
a fronteggiare il mio avversario.
Non feci in tempo,
ovviamente. Una folata bollente mi sollevò da terra e mi sbatté sulla parete a
destra, facendo scricchiolare l’automail.
Mi ritrovai a faccia in
su senza sapere come ci ero finito. Holze aveva superato il divano, e puntava
alla misera candela sul tavolino.
No!, pensai,
battendo istintivamente le mani. Il cemento del pilone portante alle mie spalle
si trasformò in un pugno diretto verso l’uomo, che lo costrinse a scartare di
lato. Ne approfittai per saltare in piedi e aggredirlo frontalmente.
- Bambino! -
ripeté lui. Lo colpii una volta con l’automail, una seconda. Parò il terzo
colpo, gli tirai un calcio. Lui rispose con un pugno alla mascella. Lo colpii
allo stomaco. Mi sgambettò, il bastardo!, e batté le mani. Dalla parete di
mattoni uscì un’enorme mano diretta verso di me.
Errore! Utilizzai
di nuovo il mio pilone, e il pugno disintegrò la manona.
Risi, asciugandomi con
il dorso della mano il sangue che usciva dal labbro spaccato.
- I mattoni che
compongono le pareti interne non sono altro che argilla. I piloni portanti di
una casa sono di cemento armato. - gli dissi.
Quando un uomo dalla
mano d’argilla incontra un uomo dal pugno di cemento, l’uomo dalla mano
d’argilla è un uomo morto!*
Ringhiò come un cane
pronto ad azzannare, ma aveva il respiro affannoso. Anche io, del resto, ed ero
molto più indolenzito di quanto credessi possibile: ogni muscolo del mio corpo
protestava, impreparato ad uno sforzo simile e consumato da mesi di privazioni.
Non ero più un ragazzino. Certe acrobazie erano ormai troppo per me. Per
fortuna, neppure Holze era messo meglio: sotto la scorza nera c’era pur sempre
un cinquantenne robusto che doveva aver fatto ben poca attività fisica
nonostante fosse un militare. Era veloce, d’accordo, ma la sua resistenza aveva
dei limiti.
- Fuoco! -
ansimò.
- Scordatelo! -
ribattei, chinandomi per tornare ad attaccarlo se avesse tentato di schioccare
le dita.
- Fuoco! -
ripeté, la voce colma di panico.
Finalmente, sentii
l’odore. Fumo? Mi voltai.
La maledetta candela si
era rovesciata durante la lotta, rotolando giù dal tavolino e appiccando il
fuoco al tappeto. Non mi piacque la velocità con cui si propagavano le fiamme.
- Colonnello, dobbiamo
uscire da qui! - dissi, tendendo una mano (l’automail, per sicurezza) verso di
lui.
- Fuoco! -
strillò la creatura, saltando indietro. - Fuoco, fuoco, fuoco! -
- Stia tranquillo,
possiamo salvarci. Venga con me! -
Mi ignorò. Si appiattì
contro la parete, tremando, e cominciò a muovere freneticamente le dita della
mano destra.
- Non lo faccia! -
gridai, intuendo i suoi intenti.
La folata arrivò,
spingendomi indietro e rovesciandomi. Era sempre bollente, ma meno violenta di
prima; puntellandomi su un gomito, mi sollevai.
- Misericordia! -
esalai.
Sapevo che l’alchimia
del fuoco era una tecnica molto difficile da apprendere e controllare. Holze non
ne era capace: aveva copiato i rudimenti, ma questi non bastavano minimamente.
Quella volta era riuscito a usare l’ossigeno per accendere la fiamma, ma non era
stato in grado di dirigerla, causando un’esplosione di scintille che aveva
incendiato praticamente ogni cosa, compresi noi due. Mi battei le mani addosso
per spegnere i vestiti, mentre la creatura nera lanciava urla sempre più forti,
accecata dal dolore a dalla paura.
- Dannazione, stia
fermo! - ringhiai, togliendomi in fretta il soprabito e gettandoglielo addosso.
Mancai il bersaglio, ma solo perché Holze si spostò subito. - E magari già che
c’è veda di collaborare! Sto cercando di aiutarla! -
- Ed! -
Alphonse era ricomparso,
e ora fissava sbalordito un grazioso salotto alto-borghese che si trasformava in
un forno. Lo fermai prima che decidesse di diventare la braciola da cuocere.
- Al, corri fuori!
Chiedi a Mustang se può chiamare i pompieri, e fai allontanare tutti. È
completamente fuori controllo. -
Giusto per dare
credibilità alle mie parole, Holze batté le mani e subito uno spuntone di
cemento forò la parete un paio di metri sopra le nostre teste.
- Io cerco di fermarlo.
- decisi.
Lui non parve felice
della mia idea (non lo ero neppure io): si tolse la giacca della divisa e me la
lanciò, prima di sparire di corsa.
- A noi due! -
esclamai. - Ho promesso a Klaus che l’avrei riportata indietro, e lo farò! -
Sollevò il viso nero
ustionato.
- Klaus? -
Trattenni il fiato.
Ricordava qualcosa?
- Klaus, sì. Suo
figlio. - Da qualche parte, sentii il rumore di un crollo. - Che ne dice di
andare a parlare di lui fuori da qui? -
Mi fissò a lungo, e
visto che non sembrava volermi aggredire ne approfittai per avvicinarmi. Non si
oppose; gli passai la giacca di Al sulla schiena per spegnere le scintille. Che
capisse o meno, mi importava poco. C’era ancora qualcosa di umano in lui!
- Venga con me! - lo
presi per una mano e cominciai a trascinarlo fuori, evitando il tappeto in
fiamme. - Faccia attenzione... Metta il piedi qui... attento! -
Dal soffitto cadevano
schegge di legno infuocato, mentre gli scricchiolii si moltiplicavano. Quanto
avrebbero retto quei muri? Tutto il materiale usato nella lotta era stato tolto
da altre parti, la struttura stessa della casa doveva essere compromessa.
Holze strillò, quando
una fiammella gli cascò in testa, bruciando una parte della sostanza nera che lo
ricopriva. Gli passai la giacca sulla testa per spegnerla.
- Tutto a posto. -
dissi. - Ora... -
L’uomo nero mi spinse a
terra e, mentre ancora mi riprendevo dalla sorpresa, saltò indietro. Batté le
mani.
- Non tocchi i muri! -
urlai.
Da sotto la giubba
scaturì una fiamma, che in un istante avvolse il colonnello e lo trasformò in
una torcia. Emise un gemito raccapricciante, che ancora oggi risuona nei miei
incubi, e dopo pochissimi istanti si accasciò al suolo.
Rimasi a guardare quella
scena orribile senza riuscire a distogliere lo sguardo, né a correre in avanti
per aiutarlo. Non avrei potuto fare comunque nulla, e in ogni caso non sapevo
più dove andare: il fuoco mi circondava le caviglie, iniziava ad attaccarsi
all’orlo dei pantaloni e non mi lasciava nessuna via di fuga.
Uno schianto sulla mia
testa mi strappò allo stato di trance. Alzai gli occhi, in tempo per vedere il
soffitto venirmi incontro e i muri richiudersi sopra di me.
Merda, pensai,
battendo per l’ultima volta le mani.
* * *
Passò un’ora prima che
trovassero il corpo.
- Signor Elric... - mi
chiamò uno dei pompieri, esitante.
Ad Amestris, il corpo dei
Vigili del Fuoco faceva parte dell’esercito. Quindi, il generale Mustang aveva
fatto valere tutta la sua autorità per mobilitarne il più possibile: sembrava
che tutto il Quartier Generale di Central City fosse lì, impegnato a scavare. E
pensare che era crollata solo metà della villetta, mentre l’altra restava in
piedi, spettrale nella polvere che non si era ancora posata del tutto.
Mi alzai, ignorando la
testa, la schiena, le braccia e le gambe che dolevano: avevo continuato anche io
a spostare macerie a mani nude, senza badare a tutti quelli che mi ripetevano di
andare a riposare. Il generale Mustang girò il viso, per fissare l’uomo che era
arrivato con l’occhio sano.
- Dovrebbe seguirmi. Se
la sente? -
Stava cercando di usare
tutta la delicatezza di cui era capace, ma non fu difficile capire il perché di
quella richiesta: spostai rapidamente lo sguardo su Winry, in piedi oltre il
recinto che separava il giardino dalla pubblica via. Era immobile, gli occhi
sgranati e il volto di pietra, e stringeva Alex tra le braccia con furia
possessiva, come sfidando il mondo a strapparglielo di nuovo. Non riuscii a
capire se avesse sentito, ma doveva aver comunque intuito.
- Arrivo. - dissi.
Mi accompagnò davanti ad
una sorta di buco tra i detriti. Era là, al centro di quel cratere artificiale.
Esattamente come avevo
immaginato, il cadavere era completamente carbonizzato. Al buio, mi riuscì
difficile anche solo vederne i contorni tra le macerie. Mi inginocchiai sul
bordo, e i miei muscoli si torsero dolorosamente, ma me ne accorsi appena.
C’era ben poco di umano
in quell’ammasso contorto. Niente capelli, niente vestiti, solo ossa annerite e
poca carne, rossa e così puzzolente che dovetti trattenere un conato di vomito.
Tremai convulsamente per la tensione, e allungai il collo per osservare meglio.
- Lo riconosce? - mi
chiese qualcuno.
Non risposi. Continuavo a
guardare quella povera creatura, pensando freneticamente e piantandomi le unghie
nelle cosce.
Se solo mi fossi
sbrigato. Se solo avessi corso più velocemente...il generale mi aveva già detto
che sarebbe servito solo a farmi seppellire insieme a quei due, e una parte di
me lo sapeva benissimo. Ma la verità è che, davanti alla morte, difficilmente si
ascolta la voce della ragione.
Sentii del movimento alle
mie spalle, poi il gemito di Winry. Pochi istanti dopo, lei mi fu a fianco,
un’onda di capelli biondi che invase il mio campo visivo; si era gettata bocconi
alla mia sinistra, le mani sul viso.
- Al... - mi implorò,
graffiandosi le guance.
Le passai un braccio
intorno alle spalle e la strinsi.
- Non è lui. -
dichiarai.
Winry si voltò di scatto,
così come tutti quelli che ci stavano attorno.
- Come fai a dirlo? - mi
chiese, aggrappandosi alla mia camicia. Voleva credermi con tutte le sue forze,
ma non ci riusciva.
- Le scarpe. -
La voce del generale
Mustang suonò calma, sicura, il tono del professionista che sta facendo il suo
lavoro. Per un istante mi chiesi quante persone lui avesse ridotto in
quello stato. Fu un pensiero fugace, subito scacciato da un sollievo che quasi
mi fece piangere.
Il cadavere non aveva più
i vestiti, ma le scarpe non erano bruciate del tutto: si vedeva ancora la spessa
suola degli stivali militari, che le fiamme non erano riuscite a squagliare
completamente.
- Ed indossava delle
scarpe basse, con le stringhe. - spiegai, a Winry come a me stesso. - Le sue
suole erano molto più sottili di queste, tanto più che erano vecchie e logore. -
Lei mi ascoltò ad occhi
spalancati, bevendosi ogni parola. Poi si coprì il viso con le mani è scoppiò in
lacrime.
- C’è ancora speranza...
- sussurrò, con voce spezzata. - C’è ancora speranza. -
La abbracciai, senza dire
nulla. Lei riusciva ancora a crederci, io facevo sempre più fatica a
convincermene; la vista del corpo devastato del colonnello Holze, invece di
tranquillizzarmi, stava cominciando a rendermi ancora più rassegnato al peggio.
Dovevano essere vicini,
al momento del crollo. Se lui era ridotto così, cosa poteva essere rimasto di
Ed?
- Alphonse? - mi chiamò
Winry, ricomponendosi. - Mi sei testimone. Appena riesco a riportare a casa
quell’idiota di tuo fratello, non gli permetterò mai più di scapparmi. Mai
più. -
C’era una nota isterica
nella sua voce. Cercai in tasca un fazzoletto da offrirle, ma quando lo trovai
lo macchiai con le mie dita sporche. Lei non ci fece neppure caso, e me lo
strappò di mano per asciugarsi gli occhi, le mani che tremavano appena.
- Lo ami, Winry? -
chiesi.
Si morse il labbro.
- Non posso impedirmelo.
- ammise con dolcezza.
- Anche lui ti... - mi
interruppi. Stavo per dire anche lui ti amava.
Stavo già usando il
passato. Il pensiero mi fece rabbrividire.
Da qualche parte,
qualcuno urlò.
* * *
Qualcuno urlò? Non me ne
accorsi. In realtà, non mi accorsi di nulla finché qualcuno non mi toccò una
guancia con un dito; solo allora ripresi conoscenza. Aprii a fatica le palpebre,
che sembravano appiccicate tra loro, trovandomi di fronte un uomo nero dalla
testa ai piedi: viso nero, capelli neri, abiti neri. Pensai fosse Holze, che
forse la sostanza nera lo avesse protetto, ma mi accorsi subito che quella
pellicola scura in particolare era solo un impasto di fuliggine e sudiciume.
- Finalmente! A forza di
schiaffeggiarti, mi stavano cominciando a far male le mani! - sbottò quello,
alzando cinque dita polverose come il resto del corpo.
- Mi hai a malapena
sfiorato, Al. - rettificai. La mia voce suonò così roca e debole che feci fatica
a riconoscerla. Mio fratello si alzò faticosamente in piedi e lasciò il posto ad
un paio di pompieri.
Non ricordo granché dei
minuti che seguirono. So solo che avvertivo fitte in ogni parte del corpo, e che
quando mossi l’automail scoprii che del braccio restava giusto qualche cavo, un
po’ di metallo annerito e contorto e tre dita.
Winry mi avrebbe
ammazzato. Sarebbe stata così furiosa da non accorgersi che il mio braccio vero
era rotto, oppure ne avrebbe approfittato per staccarmelo a morsi.
Comunque, quei simpatici
ragazzi assoldati dal generale mi tirarono fuori dalle macerie senza ulteriori
danni alla mia carcassa. Uno di loro era abbastanza espansivo da spiegarmi pure
come avevo fatto a salvarmi:
- Due travi sulla sua
testa si sono incastrate tra di loro, e hanno fermato la parete che le è
crollata addosso. - diceva allegramente. - Non mi spiego come sia possibile, ma
le fiamme devono essere state spente dalla polvere, se no avrebbero consumato
tutto l’ossigeno presente nel buco in cui lei era finito... -
- ... oltre alle tue
misere ossa, Acciaio. - terminò Mustang, gioviale.
- Veramente ho usato
l’alchimia. - rettificai, punto sul vivo. - Ho spostato l’ossigeno e... in ogni
caso, grazie per la spiegazione scientifica. - mi voltai verso Al. - Holze?
L’avete trovato? -
Nonostante la maschera
di sporcizia, vidi la sua espressione mutare di colpo. Chiusi gli occhi.
- È morto, vero? -
chiesi.
- Mi dispiace. -
- Alla fine si era
ricordato di suo figlio. - mi coprii il volto con quel che restava dell’automail
e piansi.
* Solo per questa frase
meriterei di essere scuoiata. Non ho resistito. È saltata fuori mentre ero sola
in casa e ne approfittavo per immaginare i movimenti di Ed e Holze in una stanza
di medie dimensioni (nella fattispecie, il salotto di casa mia... non ridete.
Sono una persona pignola metodica).
Pensierino della
buonanotte: non ho mai saputo che pensare del colonnello Georg Holze. Mi
dispiaceva ucciderlo, anche se razionalmente sapevo che era inevitabile, che
intraprendendo la strada “sostanza nera + follia” lo avevo di fatto condannato a
morte; però mi rattristava l’idea di eliminare un personaggio che alla fin fine
non sembrava poi così cattivo. Ha anche aiutato Ed, un tempo, quando lo aveva
dichiarato inabile alla leva. La sua colpa è stata la passività mostrata con
Hedwig, il suo non opporsi ai piani del Presidente: ha badato solo al suo
orticello, e anche la decisione di salvare Alphonse sul Reno era dettata solo da
interessi personali (aveva bisogno di soldati per il piano di Hedwig, così ha ne
ha approfittato per portar via il figlio Klaus dal fronte: la vita di Al era del
tutto contingente, se anche fosse morto non si sarebbe affranto). Einstein
diceva che “Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai
combinati dai malfattori, ma per l'inerzia dei giusti che se ne accorgono e
stanno lì a guardare”, e Holze ne è la prova vivente - o morente, dipende
dai punti di vista.
Ora passo a rispondere, scusandomi in anticipo
se a dicembre tardassi a pubblicare: in teoria dovrei laurearmi, quindi è
possibile che in questi mesi sia un po’ impegnata, sempre se riuscirò a
placcare il relatore della mia tesi e costringerlo ad ascoltarmi, cosa che mi ha
reso difficile pubblicare in tempo questo capitolo...
Nota dell'ultimo minuto: grazie a Leuconoee per avermi fatto notare l'erroraccio degli occhi di Alex, che da castani sono diventati azzurri nella prima versione di questo capitolo! Sono corsa a correggere vergognandomi come una ladra...
Obito
Uchiha: Winry incinta per un anno intero? L’incubo di tutte le donne in
gravidanza! Poveretta...
Leuconoee: non so se considerare quella di Winry una
crisi isterica o meno: cioè, in una situazione simile sarebbe stato ragionevole,
e anche in tutte quelle in cui si è trovata nella serie... ora che scrivo, sto
cominciando a pensare che il problema di questa ragazza non sia la lacrima
facile, quanto l’innegabile fatto che la gente intorno a lei si fa sempre un
male cane...
Sì, la faccenda della
glassatura nera è inventata a partire da quel poco che si è visto nel film, e
cioè che i soldati con le armature e Miss Ora Spacco Tutto Con Le Mie Armate Del
Male sono usciti ridotti come cormorani della Louisiana, mentre Ed e Al hanno
fatto avanti e indietro senza danni. Ho pensato quindi di spiegare la cosa nel
modo più semplice possibile, e cioè che le persone nel nostro mondo non possano
attraversare il Portale (questo conduce a tutta una serie di domande tipo “ma
allora ci sono differenze genetiche tra le due popolazioni?” a cui non voglio
neppure tentare di rispondere...); la storia della pazzia di Holze è ancora più
inventata, perché il Presidente ha dato segni di squilibrio (...cioè, di
squilibrio più forte del solito...) solo alla fine, prima che l’alter ego di
Hughes la uccidesse. Del resto, anche in questo capitolo ho inventato tutto quel
che capita quando non si padroneggia l’alchimia del fuoco, usando un po’ di
conoscenze in chimica e molta fantasia... alla fine, tre anni di chimica a cosa
mi son serviti? A scrivere fanfiction! Andiamo bene...
Sì, ho dei grossi
problemi a rendere i combattimenti. Lo ammetto. Oltre ai problemi logistici -
finisco sempre per creare battaglie in salotti o altre stanze chiuse, ma questa
è colpa mia -, temo sempre di spezzare la tensione: ho cercato di seguire il tuo
consiglio, facendo frasi più brevi e lasciando i pensieri a dopo, ma senza le
riflessioni del personaggio il testo diventava noioso da morire. Sembrava di
seguire un incontro di tennis alla radio... Per quanto riguarda il numero di
capitoli, annuncio che ne mancano solo più due più l’epilogo, quindi... manca
poco!
Lindemann? Avevo paura
che la gente non si ricordasse più di lui: fortuna che non è così!
Kiki75:
Alex è intonso! Alla fine dello scorso capitolo, a dire il vero, mi sentivo un
po’ stupida a creare tutta quella tensione: chi crederebbe, pensavo, che io
voglia davvero uccidere Alex? Per questo stesso motivo non ho tirato per le
lunghe la ricerca di Ed sotto le macerie: era impossibile crederlo morto per
davvero, chiunque si aspetta che lo tirino fuori ancora vivo.
Liris:
la scena di Winry è vista con gli occhi di Edward, che hanno già dimostrato di
non essere per nulla obiettivi su quell’argomento... guarda se si può, mi stava
diventando geloso del fratello!
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Capitolo 17 *** Il tempo di sapere ***
17. Il
tempo di sapere
Resembool. Il luogo idilliaco di
cui mio padre, Ed e Winry parlavano come se si
trattasse del Paradiso in terra, con occhi sognanti e un sospiro nostalgico
appena trattenuto.
Resembool, il paese più noioso in
cui abbia mai messo piede. Un buco che contava più pecore che abitanti, e
dubito che la situazione sia cambiata: sembra uno di quei posti in cui tutto si
mantiene sempre invariato. Potevo capire perché Winry
volesse andarsene. L’avrei fatto anch’io.
- È normale che la pensi così. – mi disse mio padre con
pazienza, il giorno che tornavamo dal cimitero in cui era seppellita mia nonna Trisha. – Sei nato e vissuto in una città enorme. –
- Anche Lotte, - ribattei – ma lei non sembra contrariata. –
Per mia sorella, quei prati sconfinati erano il più grande
parco giochi che avesse mai visto, e Alex il suo compagno ideale; per buona
parte del giorno sparivano dalla circolazione, e sapevamo che si trovavano
ancora nei dintorni solo grazie alle risate e agli strilli che sentivamo
chiaramente nel silenzio appena rotto da belati e scampanellii di greggi,
oppure perché tra l’erba alta si intravedeva una testa dorata che sfrecciava.
Infatti, mi sorpresi quando li vidi tutti e due seduti ai piedi di Edward,
calmi e zitti come non lo erano da giorni, gli occhi sulle sue mani.
I movimenti di mio zio erano più facili da prevedere: da
quando era uscito dall’ospedale, due settimane dopo il terribile incidente, e
tutti quanti eravamo arrivati a Resembool, si era
limitato a brevi spostamenti dentro e intorno alla casa di Winry,
per quanto gli permettevano le sue ossa doloranti e rotte in più punti. La
padrona di casa gli aveva vietato categoricamente di aiutarla a impacchettare i
suoi averi per il trasloco a Drachma, e dopo avergli
riparato gli auto-mail danneggiati continuava a tenerlo d’occhio come e più che
Alex per controllare che mio zio non cominciasse a strafare come suo solito.
Cautela che condividevamo tutti, in realtà, ma alla fine eccessiva: Ed se n’era
rimasto buono, anche perché si stancava facilmente e i muscoli atrofizzati
dall’inattività dovevano ancora rinforzarsi. Quel pomeriggio, comunque, se ne
stava davanti all’officina ad osservare quello che da lontano mi parve un
uccello con un’ala rotta. Era invece uno dei tanti giocattoli volanti di Alex,
con corpo di cavallo. A quanto pareva, perché qualcosa interessasse il bambino doveva
potersi sollevare da terra, equini compresi.
Non ero sicuro che mio zio fosse bravo nei lavori manuali,
finché non mi ricordai dell’alchimia. Difatti, in un battito di ciglia (e di
mani!) il giocattolo fu di nuovo intero, e persino con una criniera più fluente
di prima e alcuni dettagli a dir poco raccapriccianti, come sella e finimenti
borchiati e alcuni inquietanti spuntoni che coronavano la coda. Mio padre e Winry sospirarono, ma non fecero commenti; i bambini lo
osservavano ammirati, e non sembrarono neppure accorgersi delle modifiche. Persino
Arthur Stonebridge, seduto su una sedia vicina, aveva
smesso di leggere per osservare l’operazione con aria dubbiosa.
- Sei sicuro che quell’affare volerà? – gli chiese. Mio zio
non lo degnò di una risposta. Invece raddrizzò la schiena, sollevò il cavallo
volante e lo osservò da ogni angolazione, con la cura di un orologiaio, prima
di consegnarlo ai due bambini.
- Eccolo qui. – disse. – Trattatelo bene! –
- Diamogli un nome! – esclamò Alex, eccitato.
I due corsero via per provare il nuovo giocattolo,
discutendo sul battesimo dell’aria del loro gioiello, sotto gli occhi divertiti
degli adulti presenti. Winry sembrava la più felice.
Appoggiata allo stipite della porta d’ingresso, in una salopette logora e
impolverata, teneva le braccia incrociate al petto e gli occhi sulla testa di
suo figlio, sorridendo tra sé.
- Non l’ho mai visto così felice. – dichiarò.
- La sua passione per tutto ciò che vola sfiora
l’ossessione! – rise Arthur.
- Se non diventerà un meccanico, - disse mio padre – potrà
sempre essere un ottimo pilota! –
- Non dirlo neppure per scherzo, Al! – protestò la madre
apprensiva.
L’unica cosa che mi piaceva di Resembool
era l’aria distesa che si respirava in casa, nonostante la presenza sotto lo
stesso tetto di Arthur e Winry. Lei non scattava
appena l’ex-marito apriva bocca, e lui era più educato, anche se questo
probabilmente era dovuto al fatto che, con Ed fuori gioco, si sentiva l’unico
galletto del pollaio, il solo in grado di aiutare Winry
con scatoloni e mobili pesanti. Per qualche motivo, non vedeva mio padre come
un rivale, e non lo infastidiva che lui fosse d’aiuto. All’epoca non capivo il
perché: del resto, sapeva che mio padre era vedovo, quindi, tecnicamente, un
potenziale rivale… non ci pensai troppo a lungo.
Riuscii persino ad avere un paio di conversazioni costruttive con il signor Stonebridge, che come me amava molto leggere, ma il fatto
che non conoscessi uno solo dei capolavori della letteratura di quel mondo gli
fece assumere in fretta un tono supponente che infastidiva me e mise a dura
prova la pazienza di mio padre, il quale quanto ad apprensione non era secondo
a nessuno.
- Oh, a proposito… - Winry si schiarì la gola – ho finito di fare i bagagli. –
Il clima si raffreddò di colpo. Ed e papà si scambiarono
un’occhiata: quello era il segnale che aspettavano. Era arrivato il momento di andarsene.
Lo avevano procrastinato con le scuse che Ed era convalescente, Winry andava aiutata nel trasloco, che non sapevamo se la
guerra nel nostro mondo fosse finita… ma il tempo era
davvero scaduto. E poi tutti sapevamo che il povero Klaus Holze
era di certo in pena per la sorte di suo padre: la verità sarebbe stata dura,
ma logorarsi nel dubbio non poteva essere tanto meglio.
- Domani torniamo a casa. – dichiarò mio padre. La sua voce
non era né allegra né triste. Semplicemente piatta.
- Oh, aspettate almeno un giorno in più! – protestò Winry. – Domani sarà il compleanno di Alex! –
- Winry, - disse pacatamente
Arthur, - Alex compirà cinque anni, sa a malapena cosa vuol dire una festa di
compleanno. Non obbligare i tuoi ospiti a restare, se non vogliono…
-
- No, certo. – si corresse in fretta la donna, arrossendo. –
Solo, credo che gli farebbe molto piacere se lo passerete con noi! Non abbiamo
mai invitato nessuno, per una volta che ha un’amica... – si interruppe e ci
lanciò un’occhiata implorante.
Ed e papà si guardarono.
- Beh, - iniziò lo zio – in effetti sarebbe carino... lui e
Lotte sembrano inseparabili. E poi potremmo dare una mano per fare una
festicciola carina, visto che ci hai praticamente impedito di aiutarti a
impacchettare i mobili. –
Mio padre mi interrogò con lo sguardo.
- Buona idea. – commentai. Uno o due giorni in più non mi
avrebbero di certo ucciso di noia. E poi era l’ultima occasione che avevo per
fare una scorpacciata della buonissima torta di Winry,
prima di tornare alla solita dieta di guerra.
- Allora è deciso. – annuì Ed. Winry
lanciò uno strillo di gioia, e io non riuscii a fare a meno di guardare la
faccia di Arthur Stonebridge. Il suo sorriso sembrava
più un rictus.
* * *
Alex non aveva mai avuto una festa di compleanno in senso
stretto. Del resto, aveva imparato da poco il giorno del suo stesso compleanno:
quando era più piccolo, semplicemente un bel giorno si alzava e tutti gli
facevano gli auguri, ma aveva un’idea vaga del perché. Senza contare che tutti includeva me, Artie
e la zia Amelia, quindi non era neppure una festa degna di questo nome. Perciò,
mi impegnai perché il sette maggio di quell’anno potesse essere epocale: grazie
a Lotte, mio figlio fu distratto abbastanza a lungo da permettere a noi altri
di preparare addobbi casalinghi… e piuttosto
stentati, ma ci dovemmo arrangiare con quel che c’era in casa.
- Comincio a sentire le dita insensibili! – scherzò Arthur
ad un certo punto del pomeriggio. – Non pensavo che le catene di anelli di
carta fossero così faticose da costruire! –
- La colla è pessima. – mi scusai. – Non la uso mai, deve
essere anche secca. –
- L’abbiamo allungata con un po’ d’alcol. – mi tranquillizzò
Al, senza neppure alzare gli occhi dalla creazione che gli scivolava dal
ginocchio fin sul pavimento, come una coda multicolore.
- Stasera la cucina sembrerà un carcere. – ridacchiò Ed.
- Qualcuno ha altre idee? – lo rimbeccai.
- Passo. – si arrese lui. – E comunque, davanti alle tue
torte è difficile notare le decorazioni della stanza. –
Accettai il complimento, e tornai a lavorare sul dolce in
questione, canticchiando. Era una bella giornata. L’avrei resa ancora più bella
per Alex, e poco importava che l’avrebbe scordata presto, come capita ai
bambini.
Non la scordò, anche se torta e decorazioni c’entrano poco.
Ogni tanto me ne parla ancora, e so per certo che l’ha raccontata ai suoi
figli. Non so in che termini: se come una fantastica barzelletta o in toni da tragedia… più probabile la prima. Alex ha un senso
dell’umorismo particolare, ereditato da suo padre, direi, perché nessuna
persona sensata è in grado di capirlo. Mi piace considerarlo l’unica vera
eccentricità di mio figlio. Beh, a parte gli aerei.
La causa della trasformazione di un semplice compleanno in
una data memorabile è di Ed, ovviamente. È sempre
colpa sua. Però a iniziare fu Arthur – e anche questo è piuttosto scontato.
All’inizio, fu un commento sgradevole davanti al regalo
degli Elric: un aquilone che tutti gli Elric avevano contribuito a creare, senza alchimia. Ed lo
aveva costruito con bacchette di legno e carta, poi Al e Thomas l’avevano
decorato, colorandolo e aggiungendo una bella coda con della carta crespa che
non ricordavo di avere in soffitta. Lotte aveva aggiunto un grosso fiocco rosso
e legato dei bottoni, che pendevano tutti intorno come perline: suo padre non
aveva avuto il coraggio di fermarla, e io non avrei voluto che lo facesse.
- Tratta bene i tuoi regali. – disse Artie.
– Se questo nuovo aquilone si rompe, nessuno te lo riparerà. –
Edward gli lanciò un’occhiata che avrebbe steso un elefante.
Alex, fortunatamente ignaro di tutto, annuì e basta.
Sul momento non ci badai, e non ritenni neppure che il mio
ex marito parlasse per invidia. Il suo regalo – un aeromobile, neppure a dirlo
– era più bello e costoso del giocattolo di legno, e questo soddisfaceva gli
standard di Arthur. Inoltre, Alex aveva mostrato lo stesso entusiasmo per
entrambi. Doveva essere solo una frecciatina velenosa rivolta a Edward, però a
sbottare fui io:
- Artie, eviteresti di rovinare la
festa al bambino? – sibilai.
- Ah, è sua la
festa? – replicò lui, velenoso.
Trattenni una rispostaccia solo perché i bambini erano tutti
a portata di orecchio. Mi rivolsi proprio a loro, facendo notare che era ora di
andare a letto.
- Ha ragione. – disse Alphonse,
spegnendo sul nascere le proteste di Thomas, che senza aggiungere altro si alzò
e si accomiatò al pari degli altri. Mi chiesi, con trepidazione, se un giorno
sarei stata anche io in grado di farmi obbedire così da Alex, come riusciva a
fare Al. Avevo una gran voglia di chiedergli come facesse, ma lui avrebbe di
sicuro risposto che non era nulla di speciale…
E poi, non c’era tempo. Se ne sarebbero andati tutti la
mattina dopo. Io e Alex avremmo preso il treno nel pomeriggio. Stava finendo
tutto velocemente.
- Mi aiuti a portare su Ala di Cartone? –
- Cosa, amore? – chiesi, interdetta. Lui alzò l’aquilone. –
Oh, certo. Si chiama Ala di Cartone? –
- Sì. E lui è Ala di Ferro. – puntualizzò, sollevando
nell’altra mano l’aeromobile.
Portammo a letto i bambini e Ala di Cartone. Ala di Ferro
sarebbe rimasto sveglio tutta la notte per fare la guardia, spiegò seriamente
Alex, così se gli aeromobili di Aerugo fossero
arrivati avrebbe potuto mandarli via prima che bombardassero Resembool. Ovviamente Ala di Cartone non poteva, perché non
era un vero aeromobile e non l’avrebbero riconosciuto.
- Allora, - suggerì Ed, - è meglio metterli entrambi vicini
alla finestra, così se Ala di Ferro si addormenta il suo amico può svegliarlo.
–
Questo lo convinse definitivamente. Spensi la luce della sua
cameretta, e chiusi la porta. Mi accorsi di sorridere ancora perché vidi la
stessa espressione sul volto degli altri.
- Se ora dorme davvero, - dissi – e non si mette a giocare,
questa sarà una giornata memorabile. -
- Propongo di finire la birra e poi imitare i piccoli. –
suggerì Al.
- Ottima idea. – approvai. - Voi andate pure, io vado un
attimo a togliermi queste scarpe, mi stanno uccidendo! –
- Te l’avevo detto di tenere le pantofole. – mi prese in
giro Artie.
- Le tenevo in serbo per un’occasione speciale. – risposi,
volutamente ambigua. Solo con lui dovevo sempre pesare le parole.
Andai in camera mia, e calciai quelle stupide décolleté
sotto il letto, maledicendo chi le aveva costruite male fino alla quarta o
quinta generazione; mi sedetti sul letto a massaggiarmi i piedi indolenziti, e
lo sguardo mi cadde sul libro vicino al comodino. Lo aprii e recuperai la foto
che usavo come segnalibro.
Io, Ed, Al. Una vita prima. Prima di tutto. Chissà se Alex
sapeva chi rappresentava quella fotografia, se aveva capito di averli
conosciuti entrambi in quei giorni…
Quando qualcuno aprì la porta, non alzai neppure gli occhi
per controllare chi fosse.
- Hai bisogno di qualcosa, Artie?
-
Lui si schiarì la gola.
- Mi piacerebbe accompagnarti alla stazione, domani. –
dichiarò.
- Grazie, sei molto gentile. – risposi, neutra. – Però non è
il caso che ti disturbi. Domani avevo comunque intenzione di accompagnare Ed,
Al e i bambini a Central City, avremmo preso lo
stesso treno. –
- Non vedo che bisogno ci sia di partire al mattino, se la
coincidenza è al pomeriggio. Non puoi restare ancora qui? Quei quattro saranno
in grado di trovare il treno da soli, se davvero hanno vissuto qui per anni! –
- Ti sembra carino mettere alla porta degli ospiti? –
Lui si sedette di fianco a me, e gli cadde lo sguardo sulla
foto che tenevo in mano.
- Winry… - sospirò. – Sei sicura
che sia gente di cui ti puoi fidare? –
- Sciocchezze! – sbottai. – Li conosco da sempre. E in ogni
caso, ora non ha più molta importanza, no? –
- Lo dico per te. Se davvero li conosci da così tanto tempo,
dovresti sapere che Edward Elric è un disertore che
l’Esercito cerca da anni. -
- Lo so. – risposi con naturalezza.
- Lo sai? –
esclamò lui, sbigottito.
- Non alzare la voce. Certo che lo sapevo, e da molto più
tempo di te… - socchiusi gli occhi, mentre un
sospetto si faceva strada nella mia mente: - non sarai stato tu ad andare a denunciarli, vero?? –
Strinse le labbra e si voltò.
- Come hai potuto, Artie? –
gridai.
- Era mio dovere, in quanto cittadino ligio alle leggi. – si
difese, gonfiando il petto. – Non è che hai intenzione di andare con loro in
qualunque posto siano diretti, vero? –
- Ora non far sembrare che sia tutta una macchinazione ai
tuoi danni! Non ho mai pensato nulla di simile. –
- Guarda che a me non interessa. –
- Davvero? Allora questa non è una scenata di gelosia? – lo
punzecchiai.
- Perché dovrebbe esserlo? – replicò, incrociando le braccia
al petto. – Sei tu che ti sei praticamente buttata tra le mie braccia, quattro
anni fa, per colpa di quell’imbecille. Sei libera di farti di nuovo usare, ma
stavolta non venire a cercare consolazione da me! -
In quel momento esplosi.
* * *
Disposi le candeline abbandonate sul tavolo in modo da
formare un sole a cinque raggi. Alex aveva soffiato con tutte le sue forze, ma
all’inizio ne aveva spente solo quattro.
Di sopra, nessun accenno ad una fine della discussione.
Anzi, peggiorava. Alzai lo sguardo per incontrare quello di Al, sopra il
boccale. Dannazione a lui e alle abitudini che aveva preso nell’Esercito! Se
avesse avuto meno birra, avremmo potuto fingere di andare fuori a prendere una
boccata d’aria, ed evitare di restarcene in ascolto! Senza neppure parlare,
entrambi bevemmo più in fretta, continuando a scambiarci sguardi ansiosi.
- Ma certo! Certo! Adesso che hai trovato
qualcun’altro che mantenga te e quell’alienato di tuo figlio, non
hai più bisogno di me, non è vero? -
Sentii le guance
bruciare, questa volta per la rabbia. Alex era in camera sua, e di certo capiva
perfettamente quel che veniva detto.
- Non osare mai più parlare così di
Alex! -
Povero bambino.
Forse era impegnativo, con quel suo modo di fare così fuori dagli schemi, ma
questo era indice di un’intelligenza vivace, e chiunque l’avrebbe capito, anche
senza essere un medico. Avevo l’impressione che Stonebridge
odiasse tutto quel che è fuori dall’ordinario: un bimbo troppo sveglio, due
uomini che saltano fuori dal nulla, estranei in casa sua... tutto ciò su cui
non avesse il controllo lo infastidiva, perchè ne
aveva paura. Chissà allora come aveva fatto a innamorarsi di Winry, che è fuori dal comune sotto molti punti di vista.
Forse gli piaceva l’idea di fare la parte del buon samaritano che consola la
fanciulla afflitta, appena mollata da un cafone che non la merita. Mi sembrò di
risentirlo, alcune settimane prima, quando mi aveva detto Spero non ti
dispiaccia se, quando mi hai lasciato campo libero, ho tentato di infilarmici. Converrai che, vista la donna, ne
valeva la pena... l’ho conosciuta alla vostra festa della tosatura, la
primavera dopo che te n’eri andato. Il discorso di uno spaccone. Scossi la
testa tra me e me, e avvicinai di nuovo il bicchiere alle labbra.
... alla vostra
festa della tosatura...
Imbecille. Che
diavolo ci era venuto a fare, poi, alla festa della tosatura? È un medico, non
un veterinario!
... la
primavera dopo che te n’eri andato...
Che enorme cre...
Aspetta un attimo.
Al aggrottò le
sopracciglia, vedendo che mi ero immobilizzato.
- Tutto bene? - mi chiese.
Lo ignorai.
Primavera??
- Ed? -
Appoggiai il
bicchiere. Dato che, quando glielo avevo chiesto, Alex mi aveva detto di avere quattro anni, era plausibile che Artie fosse comparso sulla scena intorno alla primavera del
‘34, in tempo per metterlo in cantiere.
Però Alex aveva cinque anni. Lo aveva detto proprio
Arthur. Avevo visto cinque candeline sulla torta.
Contai sulle dita,
freneticamente.
Una volta. Due
volte. Tre, per maggior sicurezza. Il volto di Alphonse
ormai era una maschera di preoccupazione.
- Ed! -
Ero sempre stato
bravo con i calcoli. E capivo qualcosa di gravidanze: sapevo benissimo che la
nascita di solito avviene circa duecentosessantasei giorni dopo il
concepimento. Più o meno nove mesi.
Ergo, dal sette di
maggio del ‘34, cioè del 1940, si doveva tornare indietro fino al quindici
agosto del 1939, giorno più, giorno meno.
Quel giorno,
Arthur non poteva essere con Winry: non solo perché
non si conoscevano ancora, ma perché c’ero io.
L’estremità di uno
dei festoni appeso tra di noi, una catena di stelle filanti che Alphonse e Thomas avevano incollato con pazienza per metà
pomeriggio, si staccò e cadde tra noi, oscillando pigramente senza raggiungere
il tavolo. Mi attraversò il campo visivo un paio di volte, prima di fermarsi
davanti al mio naso, dividendo perfettamente a metà il volto di mio fratello.
- Al! - ansimai. - Alex... Alex è mio
figlio! -
Alphonse irrigidì le
spalle. Aprì la bocca, ma non riuscì a trovare nulla da dire, e se ne rimase a
ripetersi mentalmente - lo sapevo - gli stessi calcoli che avevo fatto io.
- Oh, per la... - balbettò fiaccamente, - per
la miseria! -
Si passò una mano
tra i capelli, scompigliandoli, poi tornò a fissarmi con gli occhi sgranati.
Gli stessi occhi scuri di Alex. Come avevo fatto a non accorgermene? Erano gli
occhi di mia madre.
Mi scolai quel che
restava nel bicchiere.
- Devo andare a parlare con Winry. - dissi.
Certo, il momento
non era proprio dei migliori. Sembrava che quei due dovessero arrivare alle
mani da un momento all’altro. Ciononostante, decisi che avevo il sacrosanto
diritto di sapere, e salii le scale deciso ad aspettare il momento buono per
interromperli.
Persi tutta la mia
grinta appena arrivai davanti alla porta. Me ne rimasi come un idiota dietro
l’uscio chiuso, aspettando un momento di quiete.
- Continua pure a giocare con i tuoi
aggeggi metallici. - stava dicendo Stonebridge, la
voce ovattata dietro il pannello di legno, ma comunque così forte da rimbombare
in tutta la casa. - Quando sarai in mezzo ad una strada, io non ti aiuterò
di certo! -
- E chi li vuole i tuoi soldi! -
strillò Winry. - Possibile che tu non sappia
pensare ad altro? Giudichi il mondo in base al costo! -
- Certo, perchè è
su questo che il mondo si basa! -
- Per fortuna Alex non ti è rimasto
abbastanza vicino da essere contagiato dalle tue ossessioni! -
Sbirciai
istintivamente verso la camera di Alex. La porta era socchiusa. Cominciai ad
avvertire il sangue rombarmi nelle orecchie, mentre una furia sorda cresceva
dentro di me, come una creatura viva che cercasse di uscire. Strinsi i pugni
per trattenerla.
- È immune dalle mie ossessioni,
come le chiami, perché vive fuori dal mondo. Diventerà un disadattato, e sarà
solo colpa tua! -
La creatura diede
una codata da qualche parte vicino al mio stomaco, e
non ci vidi più dalla rabbia. Afferrai la maniglia ed entrai, così inaspettato
che i due trasalirono e si fermarono come burattini. Winry
era praticamente di fronte a me, mentre Arthur aveva voltato la testa per
guardarmi. Mi avvicinai a lui e, senza dire una parola, gli sferrai un pugno
che lo fece rovesciare a terra. Scordai i muscoli doloranti, il fatto che Stonebridge fosse molto più grosso di me, la presenza di
tutte le altre persone in casa. Guardai Artie
rovesciarsi a terra emettendo uno squittio sorpreso, per poi portarsi una mano
alla guancia e alzare uno sguardo sbigottito su di me.
- Fuori. - dissi,
indicando la porta.
Una parte di me avrebbe desiderato che si ribellasse e mi
aggredisse, almeno avrei avuto la scusa per dargliene ancora. Lui invece non
fiatò né si oppose, ma saltò in piedi e si eclissò; non mi curai neppure di
controllare, ma rimasi immobile, a testa bassa, ansando per lo sforzo e la
rabbia.
Ascoltai i suoi passi scendere pesantemente le scale,
arrivare al piano terra e percorrere il corridoio, dove incrociò Alphonse e lo spintonò – a giudicare dall’esclamazione di
protesta di mio fratello. Quando la porta d’ingresso si chiuse con uno
schianto, alzai lentamente il viso. Anche Winry era
rimasta pietrificata, e incrociando il mio sguardo parve afflosciarsi sul
letto, stringendo ancora tra le dita il pezzo di carta che avevo intravisto
prima, ma non avevo considerato... in quel momento, mi accorsi che si trattava
della foto che Alex mi aveva mostrato a Central City,
la sera in cui eravamo arrivati.
Sei tu il bambino
della foto? mi aveva chiesto. E io avevo confermato, chiedendomi il perché
di tanto interessamento.
- Hai detto ad Alex che suo padre era il bambino della foto? – domandai.
Winry sollevò la testa di scatto,
arrossendo.
- Come lo sai? –
Scossi la testa, e andai a sedermi di fianco a lei,
prendendo in mano la fotografia e guardandola con occhi nuovi.
- Ecco perché me lo ha chiesto... – sussurrai. Un pensiero
mi fece rabbrividire: - Ha saputo che ero suo padre prima ancora che io
scoprissi di avere un figlio. –
- Dannazione ad Artie e alla sua
boccaccia! – sibilò Winry.
- Per una volta gli devo essere grato, invece. – ribattei. –
A quanto pare, tu non avresti avuto intenzione di dirmelo. –
- E cosa sarebbe cambiato? – sbottò lei, e dalla stizza la
sua gamba ebbe uno scatto e sbatté contro il mio ginocchio d’acciaio. – Ora lo
hai scoperto. Domani tornerai nel tuo nuovo mondo, e non lo vedrai più. Non
sarebbe stato meglio non sapere? -
Strinsi le labbra. Forse sì. Forse sarebbe stato meglio non aver generato un figlio, in
generale, vista la situazione in cui ci trovavamo noi due. Però Alex c’era, e dopo
averlo conosciuto non riuscivo a desiderare completamente che sparisse.
- No, non sarebbe stato meglio. – decisi. – Sono felice di
averlo visto. Sono felice... – mi interruppi, imbarazzato. – Sono felice di
aver contribuito a farlo esistere. –
Chissà quando era
stato, esattamente. Sperai che non si trattasse né della prima né dell’ultima
volta in cui io e Winry avevamo fatto l’amore:
entrambe difettavano di romanticismo, avevamo addosso troppa foga, per motivi
diversi. Le volte intermedie erano andate meglio: dopo aver aspettato per
decenni, ci eravamo presi il nostro tempo... non avevamo più fretta.
- Ti somiglia. – disse Winry. –
Non riuscivo a credere che non lo notassi. –
- Non è vero! – protestai. – Ha lo stesso colore di occhi di
Al e della mamma, ma per il resto è identico a te. –
- I lineamenti sono i tuoi. Ha persino il tuo stesso naso! –
Ripensai al volto di Alex. Non avevo notato nulla di
particolare che potesse essere ricondotto a me, ad essere sincero: avrei dovuto
guardare meglio. L’avrei fatto il giorno dopo, nel viaggio in treno. Almeno
sarei stato sicuro di imprimermi a fondo nella memoria il viso di mio figlio...
Il viso che aveva a
cinque anni, mi corressi. Se fossi tornato a Monaco, non lo avrei mai visto
compiere i sei. Né i sette. Né i diciotto. Non avrei mai saputo quando gli
sarebbe caduto il primo dente, quando avrebbe iniziato la scuola...
- Devo tornare indietro con Al. – mi dissi, parlando ad alta
voce. – Lui ha lasciato Amestris solo per seguirmi. –
- Ed, sono sicura che Al capirà se tu volessi... – si
interruppe, e io mi voltai a guardarla. C’era una luce nei suoi occhi... di
speranza? Possibile?
- Tu vorresti che restassi qui? – le domandai. – Dopo che me
ne sono andato e ti ho lasciata sola? Dopo... aspetta, com’era?... che ho fatto i miei comodi? –
- Devo ammettere che te li ho lasciati fare. – ribatté lei
con dignità. – E mi sono piuttosto divertita. –
Sorrisi, ma non mi lasciai sviare.
- Non devi decidere ora. – stabilì Winry,
appoggiando la foto sul comodino per non dovermi guardare. – Fallo domattina, e
poi... -
- Winry, no. – decisi. – Sul
serio, non credo che ce la farei a cambiare di nuovo tutta la mia vita. E per
di più rischiare di passarla a scappare dall’esercito. –
Fu sul punto di insultarmi. O di colpirmi. O entrambe. Lo
vidi chiaramente, ma non potevo farci niente. Non avevo la forza di
ricominciare un’altra volta da capo, in un mondo che ormai riconoscevo a
fatica. Non riuscivo a pensare di dover rientrare in una guerra, ora che
speravo di essermela lasciata alle spalle. Allo stesso tempo, non aveva senso
seguire Winry a Drachma:
oltre alle difficoltà che le avrei fatto ricadere addosso (attraversare la
frontiera con un disertore? Temo sia reato...), sarebbe stata solo un’altra
forma di esilio, e io ero stufo.
- Voglio un posto da chiamare casa. – dissi. Lo volevo disperatamente. Lo cercavo da trent’anni,
da quando avevamo bruciato la prima casa.
- E questa cos’è? – ribatté Winry.
- Questa è un’abitazione che domani si svuoterà. – risposi.
– Era casa mia solo perché c’eri tu. –
Lei si morse il labbro inferiore e si alzò di scatto, per
allontanarsi da me. Afferrò uno scatolone che giaceva in terra ancora aperto e
finse di guardarci dentro.
- Molto bene. – esordì appena recuperò il controllo sulla
sua voce. – Vuoi salvare capra e cavoli, e così facendo scontenti tutti. –
- Sembra il riassunto della mia vita. – sospirai.
- Già, ma se questa volta ascolti me prima di gettarti a
testa bassa e combinare disastri, potremmo limitare i danni. – Si sedette di
nuovo vicino a me, incrociando le braccia al petto.
- Hai una soluzione? –
Ce l’aveva, come temevo. Era la possibilità a cui non avevo
mai voluto pensare.
- No. – decretai.
- È l’unica strada percorribile. – fece notare lei.
- Maledizione, ho detto no!
Con che faccia lo racconterei ad Al?? –
- Promettimi almeno di prenderla in considerazione! –
- L’ho già fatto sei anni fa, e l’ho scartata! –
- Fallo di nuovo, e stavolta mettici più impegno! –
- Bene, passerò tutta la notte a trovare dei motivi per non seguire il tuo piano strampalato. –
- Ottimo! –
Ehm...
No.
Non passai tutta la notte a cercare motivi. Non ci pensai
affatto. Quella donna terribile mi trovò altro da fare.
- Qualche idea? – mi domandò Winry
la mattina dopo, fingendosi interessata. La sua voce arrivava ovattata alle mie
orecchie, visto che parlava con la bocca appoggiata alla mia spalla nuda.
Grugnii, e me la strinsi più vicina.
- Nessuna. Stavo pensando a quando uscirò da quella porta e
guarderò in faccia mio fratello. – borbottai.
- Ah. –
- Gli dirò che siamo rimasti a giocare a scacchi fino a
tardi. –
- Sai giocare a scacchi? –
Aprii gli occhi, e la trovai che mi guardava con aria
innocente. Sgusciò dal mio abbraccio e appoggiò la testa sulla mano,
puntellandosi con il gomito per osservarmi dall’alto in basso. I capelli
sciolti scivolarono a coprirle le spalle e i seni, eliminando una fonte di
distrazione non indifferente.
- Allora? – mi domandò.
Sospirai.
- Facciamo a modo tuo. – mi arresi. – Però poi non dire che
non ti avevo avvertito! –
Pensierino della
buonanotte: ohi, voi due! Rivestitevi all’istante, che se no mi tocca
alzare il rating!
Eccomi qui, in ritardo mostruoso come avevo preannunciato:
era mia intenzione pubblicare dopo la tesi, ma visto che questa è stata
ritardata fino al venti, e io ho continuato a scrivere nei buchi di tempo, sono
riuscita ad organizzarmi un po’ prima. E a dare libero sfogo alla mia
sensibilità EdWin, non so se lo avete notato.
Oh, e vi ho già detto che adoro Alex? Ecco, nel caso non si
fosse capito, lo ribadisco. Adoro Alex. È una questione genetica, credo, perché
adoro pure il suo papà...
bacinaru: grazie mille per i complimenti! Sì, questo è – ufficialmente – il
penultimo episodio. C’è ancora l’ultimo e l’epilogo: inizialmente mi ero data
come termine l’addio ad Amestris (se no sarei andata
avanti in eterno!), ma alla fine mi sono concessa un mini-episodio che spieghi
che fine hanno fatto i nostri amati Elric... sempre
ufficialmente, in realtà volevo scrivere dei pargoli cresciuti! Sono la prima a
non seguire le mie stesse regole, lo so.
Leuconoee: oddio, grazie per l’appunto sul colore degli occhi di Alex!! Che
vergogna... nella primissima stesura, Alex aveva anche gli occhi azzurri di Winry: ho cambiato in seguito, un po’ per dare a Ed una
qualche prova della paternità, e un po’ perché io stessa volevo che Alex avesse
anche qualcosa del notevole papà... però la parte della liberazione del bambino
l’ho presa parola per parola da questa stesura (cosa strana, perché di solito
rimaneggio tutto), e mi son scordata di ricontrollare! Che mi serva da lezione.
La frase sull’argilla e il cemento purtroppo non era un proverbio
cinese...veniva da Per un pugno di
dollari, è una delle frasi celebri di Clint Eastwood: quindi, un
anacronismo enorme. Mi salvo pensando che non sia un pensiero dell’Ed degli
anni Quaranta, ma dell’Ed che sta raccontando, che quindi ha già visto quel
film.
Concordo sul fatto che Holze ha fatto una fine
molto peggiore di Hedwig (arso vivo... mamma mia!).
Mi sarebbe piaciuto il contrario, però ho incontrato parecchi problemi: Hedwig non era stupida, non si sarebbe buttata in un
Portale sapendo quel che era successo al Presidente che l’ha preceduta; Holze non aveva motivo per uccidere Ed una volta che
l’arpia se n’era andata; soprattutto, volevo che Edward tornasse da Winry senza rimorsi di coscienza nei confronti di Hedwig, per non complicare ulteriormente la loro situazione
sentimentale con un’ex fidanzata sosia ammazzata involontariamente...
E per rispondere al tuo dubbio amletico: la bellezza è un’arte. Hedwig l’ha coltivata per anni, mentre Winry
se ne frega e gira per casa in salopette, bandana e chiave inglese sporca di
grasso. È per questo che mi è simpatica.
Liris: concordo, Ed fa la sua porca figura sempre e ovunque. Sconfigge i
cattivi, salva gli innocenti, e soddisfa carnalmente le donne, praticamente un
eroe da romanzo! L’unico difetto è la fedeltà assoluta ad una sola donna... ma
va beh, lo adoro anche per questo.
Siyah: la tua anima EdWin è soddisfatta da
questo episodio? :) Non ti preoccupare, lo so che la mia fanfic è scivolosa è fugge subito sul fondo del fandom. È timida.
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