I Promessi Tonni

di Shodaime
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1- Mazze e sushi bar ***
Capitolo 2: *** Pollo all'ananas flambè ***
Capitolo 3: *** Rivelazioni, insidie e antenne varie ***
Capitolo 4: *** Ballerine, vampiri e tombini in disordine ***
Capitolo 5: *** Esorcismi, club esclusivi e cubi di rubik ***
Capitolo 6: *** Foto ricordo e funerali in serie ***
Capitolo 7: *** Dati anagrafici e pedaggi autostradali ***
Capitolo 8: *** Multe, alcolici e muri italiani ***
Capitolo 9: *** Tate, pennarelli e quadri famosi ***
Capitolo 10: *** Piccioni in incognito e giochi da tavolo ***
Capitolo 11: *** Citofoni, questioni di famiglia e scarpette di Barbie ***
Capitolo 12: *** Vin santo, gliadiatori e conigli assassini ***
Capitolo 13: *** Parenti famosi, pattine e tv per ragazzi ***
Capitolo 14: *** Preghiere, bagni sadici e traumi cranici ***
Capitolo 15: *** Fermenti lattici, anti-infortunistica ed oggetti antistress ***
Capitolo 16: *** Videogiochi, protesi e belle bionde ***
Capitolo 17: *** Aureole, social network e segni ortografici ***
Capitolo 18: *** Happy ending, adozioni e lapidi low cost ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1- Mazze e sushi bar ***


Quel ramo del lago di Namimori, che volge a mezzogiorno, tra due catene ininterrotte di Sushi restaurants,  tutto a divieti di sosta e boschetti di ciliegi, vide una sera  passare tranquillo Don Yamabbondio, curato del paesino, che dopo aver fatto la sua consueta passeggiatina prima di cena, si fermò accanto alla sua macchina, dove trovò sotto il tergicristalli l’ennesima multa per  divieto di sosta.
Rise, come al solito, proponendosi di aggiungere anche quella alla serie infinita di verbali che stipavano il cassetto della canonica, e stava già rimettendosi in moto quando due loschi figuri si avvicinarono a lui, impedendogli di entrare in macchina.
 
‘’Shishishishi! Ma guarda chi abbiamo qui! Don Yamabbondio! Sei tu che domani devi celebrare il matrimonio tra Tsunia Tonnella e Mukurenzo Tramananasso?’’ Disse uno dei due, un tipaccio coi capelli biondi che gli cascavano sul viso e una quantomeno dubbia coroncina in testa.
E molti più denti della media, da quanto potè constatare il curato.
Don Yamabbondio stava già per ricambiare il saluto con il suo eterno e incrollabile buonumore, confermando che sì, le nozze erano previste per l’indomani alle 11, quando l’altro uomo gli sfondò praticamente  il tettuccio della macchina con un pugno, rischiando seriamente di farlo finire con la testa nel volante.
 
‘’VOOOOOOOOOOI IDIOTA DI UN PRETE! STAMMI BENE A SENTIRE!! QUESTO FOTTUTO MATRIMONIO NON SI DEVE FARE! NE’ ORA NE’ MAI!!’’ Urlò, aggiungendo il finestrino e i bicchieri di uno dei ristoranti lì a fianco a ciò che era riuscito a scassare nel giro di trenta secondi.
 
Yamabbondio lo guardò fisso per il tempo che gli ci volle per riacquistare l’udito, poi tornò a sorridere.
‘’E perché mai dovrei?’’ Domandò, convinto che i due stessero scherzando.
 
‘’Shishishishi!’’ Riprese il ragazzo biondo. ‘’Abbiamo preso in ostaggio la tua mazza da baseball, reverendo. Una mossa falsa, e farà una sporca,brutta fine! Parola di principe!’’
 
Detto ciò, per mantenere un alone di minaccia e mistero, il biondo si trascinò via il compare tenendolo per i lunghi capelli argentati, schivando come per abitudine i fendenti della spada che l’uomo aveva attaccata al braccio. I due sparirono infine oltre l’ennesimo ristorante e un gruppo di turisti tedeschi, lasciando Don Yamabbondio assorto nei suoi pensieri.
 
Era sicuro che quello dei due ragazzi fosse tutto un gioco, tuttavia da un paio di giorni non c’era verso di trovare la sua adorata mazza da baseball autografata. All’inizio aveva pensato che fosse stata la perpetua a nascondergliela dopo che aveva rotto la testa di San Primo con un homerun, ma ora tutto aveva un altro senso.
 
Cosa doveva fare? Cedere? Resistere?
 
E soprattutto. Chi glielo diceva adesso alla perpetua Gokudera che bisognava chiamare il meccanico?

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Capitolo 2
*** Pollo all'ananas flambè ***


Il curato era da questi pensieri impensierito quando, dopo aver spento l’autoradio che fino ad allora aveva cantato insieme a lui il greatest hits delle Spice Girls, posteggiò quello che rimaneva della macchina di Gokudera nello spiazzo della chiesa di San Primo Invongolato.
 
Si guardò intorno, per cercare di riuscire a scorgere i due bontemponi di poco prima, magari nascosti dietro le casse di dinamite della perpetua con una torta e la sua mazza.
 
Ma niente.
In alternativa, però, dietro le casse si annidava una perpetua decisamente accaldata, irritabile e di cattvo umore.
Gokudera si avvicinò al parroco tenendo una cesta di panni da stendere sotto un braccio, un pollo da spennare per la cena nell’altra mano e il rosario appeso alla sigaretta in bocca.
 
‘’Yo!” Lo salutò Yamabbondio, visibilmente nervoso.
 
Ma Gokudera nemmeno lo vide. I suoi occhi focalizzarono il rottame alle sue spalle. Il pollo ruzzolò via e la sigaretta si spense nel cesto, sulla cuffietta da notte della perpetua.
“TU!!! Idiota del seminario!! Che cazzo hai fatto alla mia macchina?’’Ringhiò, mettendo le mani al collo del curato.
 
“Ehi ehi calmati! Non è niente! Due messe e un battesimo e dovremmo starci dentro con le spese!’’ Replicò Yamabbondio, che nel frattempo stava cominciando a sudare vistosamente.
 
Gokudera sospirò, alzando gli occhi al cielo in una pia espressione di paziente e penitente sopportazione.
Poi tirò una ginocchiata nello stomaco al prete.
‘’Adesso siamo pari.’’ Disse, recuperando pollo e bucato. ‘’Quantomeno domani c’è il matrimonio di quello spiantato di Mukurenzo, che di soldi ne ha a palate. Un’offerta a San Primo la farà senz’altro.’’
“Ecco….” Mormorò Yamabbondio, piegato per terra dal dolore, ma sempre col suo sorriso sulle labbra. “No….Non ci sarà nessun matrimonio” Terminò, prima di sentire il suolo staccarsi inesorabilmente da sotto il suo corpo e due mani tenerlo per il bavero.
 
“Cosa vuol dire niente matrimonio?” Lo inquisì Gokudera, con tutta l’aria di una santa donna pronta all’omicidio.
 
“Penso…Che è meglio se ci sediamo e ne parliamo con calma, ok?’’ Rispose Yamabbondio, cercando di respirare.
 
Molte spiegazioni, urla ed esplosioni dopo.
 
“Solo tu. Solo. TU. Potevi farti scassare la macchina, prendere una multa e metterti contro i Buoni di Don Xanxigo  per una dannatissima mazza.’’ Gokudera parlava massaggiandosi le tempie, appoggiato al grande tavolo di legno che occupava la sagrestia della chiesa, e su cui ormai il pollo si stava cuocendo tra i focolai ancora accesi delle esplosioni.
“Non è una dannatissima mazza. E’la mia mazza, e se permetti mi sento in dovere di proteggerla!” Disse Yamabbondio, grave, come ferito nell’orgoglio.
Gokudera stava per chiedergli se stessero parlando della stessa cosa, quando il prete riprese il filo del suo discorso.
“Comunque non ho nessuna voglia di mettermi contro i Belli’’
“Buoni!” Lo corresse Gokudera.
“Beh brutti non sono!’’ Ci pensò su Yamabbondio. Poi scrollò le spalle. “Comunque sia, non voglio nemmeno mettere in pericolo la mia mazza. Quindi se Mukurenzo ci tiene tanto a sposarsi, può andare a Las Vegas come tutti e smettere di dar noia ai poveri curati di Namimori, che già non si confessa fa una vita quel peccatore!” Detto ciò, lasciando dietro di sé una perpetua sgomenta, diede l’estrema unzione al pollo e prese la mazza di riserva, per andare a sfidare i ragazzini dell’oratorio e levarsi sfacciatamente dall’impiccio.
Gokudera stava cercando disperatamente una soluzione alla faccenda, quando fu interrotto dalla porta che si spalancava.
“Kfufufufu….Buonasera perpetua!” Salutò una figura, contornata dalla luce dell’esterno che la faceva apparire come una visione. Una terribile visione dotata di un tempismo eccezionale.
“Mukurenzo!” Si sforzò di salutare Gokudera. “Che ci fai qui? Sei venuto a rendere conto dei tuoi peccati?” Domandò, svogliato, cercando di portare il discorso dal matrimonio alla rissa, cosa che gli risultava francamente molto più allettante.
“Non cercare di fare il finto tonto con me. Ho incontrato Don Yamabbondio, venendo qui per gli ultimi dettagli della cerimonia. Mi è sembrato particolarmente nervoso, così un po’ con le buone, un po’ con le cattive sono riuscito a farmi dire che domani non ha intenzione di celebrare il mio matrimonio, sebbene non sia stato in grado di spiegarmi il perché con un linguaggio umanamente comprensibile. Tutto questo prima che la mazza gli perforasse il polmone destro, s’intende…Ora, cortesemente…” Il ragazzo si sedette sul tavolo, incurante del pollo in via di dissanguamento, per fissare gli occhi in quelli della perpetua. “Mi diresti che diavolo sta succedendo?”

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Capitolo 3
*** Rivelazioni, insidie e antenne varie ***


Mukurenzo non era un ragazzo molto pacato.

 Non era nemmeno particolarmente gentile o affabile, e qualcuno in paese vociferava di una sua strana abitudine a possedere  i corpi delle giovani mondine del posto in modi tali da poterci fare i suoi porci comodi senza mai essere beccato, e senza che mai una sola prova potesse incastrarlo e farlo finire legato mani e piedi nella stalla di uno dei tanti fattori del paese, con il risultato che, mentre le giovani pulzelle agognavano un incontro ravvicinato con lui, davanti alla casa del giovane commerciante più di una vecchietta aveva passato interi pomeriggi recitando anatemi e controincantesimi di sorta.

Il tutto mentre il diretto interessato si godeva lo spettacolo comodamente sdraiato sul suo letto tra le casse di frutta tropicale che commerciava e che l’avevano reso discretamente ricco.
Comunque fosse, niente della nomea e dell’alone oscuro che accompagnava la sua presenza in paese, poteva essere paragonato a come apparve ai pochi sfortunati che ebbero la iella di incontrarlo una volta uscito dalla canonica della chiesa.

Mukurenzo aveva estorto la verità dalla perpetua con tutta la facilità di questo mondo. In realtà pensava che la cosa fosse dovuta alla sua capacità intimidatoriamente persuasiva, ma le motivazioni della perpetua erano altre, ben diverse e comprendevano , oltre al comprensibile desiderio di rimanere con abbastanza carne sulla faccia per poterci appoggiare una sigaretta, come Yamabbondio si era posto nei confronti dei Buoni.

Tanto per cominciare, non gli andava a genio che li avesse definiti belli. Già. Aveva definito “bello’’ un tizio con una coroncina in testa e mai che si fosse degnato di rivolgere una parola gentile a chi ogni giorno gli stirava la tonaca.

 Non che la cosa gli rodesse personalmente, pensava, quanto perché il rapportarsi con persone che potevano influenzare le sue azioni non gli faceva bene e lo allontanava dalla retta via.
Un po’ come era successo quando aveva incontrato Pippo a Disneyland, insomma.

Ma non era solo questo a turbare l’animo della giovane perpetua.

Un losco segreto si annidava tra gli scheletri e i prodotti detergenti del suo passato, un segreto che aveva tenuto nascosto persino a sé stesso per lunghi anni, e che ora era ritornato a galla come il cibo dal lavandino quando Yamabbondio si lavava il piatto senza degnarsi di pulirlo.

Anni prima, infatti, anche Gokudera aveva desiderato diventare uno dei Buoni.

Aveva sostenuto tutte le prove scritte e orali, dimostrato di sapersi muovere con una camminata tamarra e di essere in grado di infierire con tutta la cattiveria che aveva in corpo contro gruppetti di adolescenti terrorizzati. Si era qualificato ai primi posti, arrivando persino al provino a tu per tu con lui, il capo supremo e indiscusso di tutti i brutti ceffi della zona.

Ok, è vero, quando era arrivato il suo turno stava dormendo e l’esame l’aveva sostenuto davanti a un tizio con la cresta verde che continuava a infilargli un boa di piume nel naso, ma Don Xanxigo era pur sempre presente!

Era andato tutto benissimo, eppure…All’ultimo si era presentato quello che gli era sembrato in tutto e per tutto un sacchetto dell’immondizia semovente con un anfibio in cima e della carta igienica attaccata da qualche parte e PAM! Gli aveva bellamente soffiato il posto.

Quale che fosse stato il motivo della sua esclusione, Gokudera non mandò mai davvero giù il boccone, nemmeno dopo aver deciso di consacrare la sua vita al servizio della Chiesa o dopo aver fumato in una sola notte tutta la fornitura di sigarette del tabaccaio di Namimori guardando, in una maratona non-stop che l’avrebbe poi condotto a una seria crisi di personalità,  Ghost, Titanic e tutta la saga de La valle incantata.

Il momento della vendetta era arrivato. E se poteva scatenare una faida tra i Tramananasso e i Tonnella contro Don Xanxigo beh, non sarebbe stato di certo lui a evitarlo.

Così, mentre poche centinaia di metri più in là un furibondo Mukuronzo entrava d’impeto in casa Tonnella, Gokudera chiamava l’ambulanza per Yamabbondio sorridendo tra sé.

D’altronde, la vendetta è un piatto che va servito freddo, dice il proverbio.


O lo diceva Piedino?

In the meanwhile…

“Benvenuto, genero.” Reborn  parlò al vuoto, senza che la furia con cui Mukurenzo entrò in casa scalfisse di un solo millimetro la sua proverbiale compostezza. Chiuse la porta con calma, massaggiandosi le tempie sotto il fedora, prima di seguire il giovane in sala da pranzo, dove sapeva che avrebbe trovato Tsunia.
Si sedette sulla sua sedia a dondolo  per filare della lana con aria distratta, e specchiandosi nella vetrinetta dove tenevano le bomboniere e il servizio buono si assicurò di avere l’aria assolutamente figa che gli si addiceva prima di parlare.

“Non è un buon momento, come puoi  vedere. Gli involtini al forno sono bruciati, l’antenna del televisore se n’è andata a farsi benedire, così che mi sono perso la puntata di Beautiful, e Tsunia è in lacrime perché le ho rivelato di non essere la sua vera madre.” Disse, in uno scemando di intensità, così che il giovane potè solo percepire le ultime parole.

“Tu hai fatto cosa??” Mukurenzo cominciava a diventare irritabile.

“Non….Sei….La mia vera mamma.” Un brontolìo sommesso proveniente da un ammasso di fazzoletti sul divano rivelò la presenza di Tsunia, che ormai aveva ridotto le sue dimensioni a un quarto del cuscino. Tenendo in mano la scatola di fazzoletti guardava ora Mukurenzo con gli occhioni lucidi.

“Avanti di questo passo cos’altro scoprirò? Che non sono una femmina?” Piagnucolò ancora, abbracciando Mukurenzo, così che non potè intercettare lo sguardo che questi si scambiò in proposito con Reborn.

“Ma…Signora Agnese! Era proprio il momento giusto per dire certe cose? Il giorno prima delle nozze??” Fece allora Mukurenzo, scoprendosi indignato da comportamenti senza cuore di cui fino a dieci minuti prima era il maestro assoluto, e nel contempo ipnoticamente attratto dall’ incessante filare della lana.

“Reborn. Prego. Gli ho detto anche che non mi chiamo Agnese. E che quel nome avevo cominciato a usarlo a Caracas.’’ Reborn alzò gli occhi, come pensieroso. “Bei tempi, quelli!” Esclamò, per poi ritornare a filare.

Tsunia ricominciò a piangere più forte di prima.

Mukurenzo prese in mano la situazione, e dato che la sua promessa sposa aveva già abbastanza elementi per poter cedere in tranquillità a una crisi di nervi, non si sentì eccessivamente in colpa e raccontò come stessero le cose con Yamabbondio e Don Xanxigo senza fare troppi complimenti.

Tsunia svenne svariate volte, chiedendosi chi mai gliel’avesse fatto fare di non suicidarsi buttandosi dal cavallo a dondolo tutte le volte che ne aveva avuto occasione.

“Che dite di fare?” Domandò Mukurenzo, consultando via cellulare le offerte last minute per Las Vegas.

“Mi portate all’ospedale?” Propose Tsunia dal pavimento.

“Un matrimonio a sorpresa.” Disse allora Reborn, accarezzandosi un inesistente pizzetto.

Gli occhi dei due si fissarono su di lui. In cucina, l’antenna ricominciò a funzionare.

“A sorpresa?” Mukurenzo adorava le idee del suocero/a. “Kfufufufu…Pensavo a qualcosa di più losco, ma questo è abbastanza subdolo.” Assentì, rinunciando mentalmente al suo piano di illusioni, morte, paura e salsa al curry.

“Questo matrimonio si farà.” Proseguì Reborn. “Ho pagato una fortuna di catering e mi sono messo a dieta per entrare nel tailleur che ho comprato. Quindi niente distruggerà la felicità del mio bambino.” Concluse, con aria tragica e orgogliosa, prima di abbracciare Tsunia.

“Co….Come mi hai chiamato?” Domandò una voce soffocata nell’abbraccio, ma più grandi preoccupazioni si profilavano all’orizzonte.
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Ballerine, vampiri e tombini in disordine ***


La degenza di Tsunia all’ospedale durò più del previsto.

Non che fosse particolarmente grave, solo che per qualche strana ragione il primario di neurologia sembrava riluttante a dimettere una persona che si era piantata davanti all’ingresso dei bagni, per poi scoppiare in lacrime dichiarando di non sapere più se dovesse entrare in quello dei maschi o in quello delle femmine.

Così Mukurenzo ebbe tutto il tempo di dedicarsi ai preparativi del suo piano e a consegnare quella partita di ananas che aveva in stock su quello che sarebbe dovuto diventare di lì a poco il loro letto nuziale.

Perché lo sarebbe diventato. Kfufufu se lo sarebbe diventato!

Non aveva di certo intenzione di lasciarsi intimidire da quel tamarretto di provincia di Don Xanxigo, tantopiù che doveva ancora riuscire a capire quali fossero le sue vere e losche motivazioni. Sapeva che quel tale era solito disturbare i poveri abitanti del paesino giusto per passare l’happy hour in allegria, ma fino ad allora l’aveva relativamente lasciato in pace.

Che fosse invidioso dei suoi begli ananassi? O di sua moglie?

A quanto aveva detto Agn…Reborn (il ragazzo si schiaffò una mano in faccia, scuotendo la testa al solo pensiero di cosa potesse essere successo in quei bar di Caracas), quel periodo di calma apparente offerto dalla riabilitazione psicologica di Tsunia non poteva che giocare a loro vantaggio.

Don Yamabbondio, da fesso qual era, avrebbe senz’altro pensato che avessero rinunciato alle nozze; Don Xanxigo sarebbe stato buono per un po’, Reborn avrebbe avuto il tempo di fare un altro po’ di aerobica per entrare alla perfezione nel suo tailleur e Mukurenzo avrebbe potuto giocare con calma le sue carte. Bisognava agire con circospezione e molta cautela, così da non perdere l’occasione di poter far andare a buon fine il matrimonio a sorpresa.

“Tu te ne intendi di matrimoni?” Chiese Reborn, Sorseggiando il suo bianchetto al bar dell’ospedale.

Due piani più su, a Tsunia veniva regalata una nuova camicia con le maniche strette strette.

“Beh seguo Wedding Planners su Real Time, e qualche volta Abito da sposa cercasi…Ma mi fermo lì” Rispose Mukurenzo, pensieroso.

Reborn scosse la testa. “La mia dannata antenna nemmeno me lo prende, Real Time. Comunque non disperare, so chi può aiutarci per essere sicuri che legalmente la cosa sia assolutamente inoppugnabile.” Aggiunse, sottolineando le sue parole con uno sguardo misterioso che, dietro Mukurenzo, fece svenire una delle cameriere.

“Un parroco di Las Vegas?” Domandò Mukurenzo, curioso di sapere se stessero pensando alla stessa persona.

“No idiota! Ti ho detto che io coi tacchi alti in mezzo al deserto non ci viaggio! Il matrimonio si terrà qui, a Namimori. Ma tu devi andare a Bratislava, da un legale di mia conoscenza. Chiedigli consiglio, saprà di certo dirci come muoverci.”

Detto questo Reborn mandò un bacio a un paio di cameriere, lasciò il conto da pagare a Mukurenzo, e se ne andò. In fondo ormai l’orario delle visite era finito, e gli stava pure per scadere il biglietto del parchimetro.

Mukurenzo rimase notevolmente interdetto.

Doveva prepararsi per affrontare un lungo viaggio, e una domanda lo assillava, gettando un breve ma intenso lampo di terrore nei suoi occhi da esperto illusionista e venditore di frutta.

Dove diavolo era Bratislava??
 
Il viaggio fu piuttosto lungo. Mukurenzo non era mai stato in Europa prima d’allora e così, dopo aver salutato con un tenero bacio la sua promessa sposa nel letto di un ospedale, aveva deciso di passare qualche giorno visitando il vecchio continente prima di degnarsi a fare un salto in Slovacchia, il giovane si fece un bel tour europeo a spese del suocera.

Quando si presentò davanti alla porta dell’avvocato, quindi, aveva più l’aria di uno che era appena uscito dal veglione di capodanno che quella di un distinto commerciante in cerca di supporto legale.
Si degnò quantomeno di nascondere la giarrettiera della ballerina del Moulin Rouge che aveva tenuto al collo fino a quel momento, poi citofonò.

“Avvocato Azzeccamorsi….Mai sentito nominare. Un nome parecchio balzano, oserei!” Commentò tra sé, prima che, cigolando in maniera parecchio inquietante, il pesante portone di legno si aprisse, lentamente.

Sul palazzo si addensarono improvvise grosse nuvole nere, da cui provenivano tuoni e fulmini, mentre sul resto della città splendeva il sole.

Mukurenzo guardò perplesso il fenomeno, che di solito si ripeteva in presenza di supercattivi  in agguato. Poi scrollò le spalle.  Il citofono continuava a tacere, e il portone stava ancora aprendosi scricchiolando in modo sinistro.

Mukurenzo pensò che in quel palazzo avessero urgentemente bisogno di far revisionare gli ingressi.

“Mi perdoni, buon uomo… E’ qui lo studio dell’avvocato Azzeccamorsi?”  Domandò, tanto per ingannare l’attesa, a un tale che era appena spuntato da un tombino li a fianco. Lungo mantello, pelle bianca, canini appuntiti e rivolo di sangue sulle labbra.

Che gente strana, questi Slovacchi!

“Co….Come avete detto?” Quello si fece più pallido di prima. “Azzecca…..morsi?”

“Esatto.” Mukurenzo lo guardava perplesso.

Poi il tombino si chiuse di colpo, il gentile signore se la diede a gambe e il portone si spalancò del tutto.

“Venite avanti, Tramananasso. L’avvocato vi sta aspettando.” Disse una voce metallica dal citofono.

Mukurenzo entrò.
 
 
Lo studio non era un granchè. Mukurenzo ne aveva visti di migliori nelle fiction in tv, e persino a Namimori, dove lo avevano portato più volte i genitori di qualche fanciulla disonorata.

Qualche scaffale con dei libri, una scrivania, una parete completamente tappezzata di immagini di quella che aveva tutta l’aria di essere una scuola. Niente di interessante, insomma.

Una cosa catturò però l’attenzione del giovane.

Aveva sentito dire che molti avvocati tenevano il proprio motto in bella vista sulla scrivania. Ma si aspettava qualcosa del tipo “la legge è uguale per tutti” o “giovedì orario continuato e promozione 3 x 2”, ed invece, a chiare lettere nere su fondo dorato, tra il codice civile e la raccolta degli ultimi numeri di Cose di Casa, campeggiava la scritta:

FRANCAMENTE ME NE FOTTO.

Motto particolare, per un avvocato.

“Che diavolo vuoi?” Accompagnato da un curioso intermezzo al pianoforte suonato chissà da dove, l’avvocato apparve alle spalle di Mukurenzo.

In una mano teneva un plico di fogli, nell’altra uno Swiffer.

Lo sguardo di Mukurenzo passò dal curioso allo sconcertato, ma l’avvocato parve ignorarlo.

“Ordine. Serve ORDINE. Sei venuto a portare disordine? Ti parcellerò a morte per questo!” E così dicendo l’avvocato gli passò davanti, pulì la targa sulla scrivania, si sedette sulla poltrona e rimirò la foto della scuola che teneva accanto a sé.

Infine, si degnò di guardarlo.

“Allora, erbivoro. Che diavolo ci sei venuto a fare qui?” Domandò, con aria minacciosa.

Mukurenzo aveva trovato pane per i suoi denti, e ne era immensamente felice. La cubista olandese del giorno prima fece squillare il suo cellulare al suono di ‘’L’unico frutto dell’amor’’ e, diversamente dal suo solito, Mukurenzo chiuse la chiamata.

“Kfufufufu….Ecco come stanno le cose, insetto.” Esordì, mettendosi a sedere. Sarebbe stata una lunga chiaccherata.
 

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Capitolo 5
*** Esorcismi, club esclusivi e cubi di rubik ***


“E così vorresti il mio aiuto per una questione matrimoniale… Fai le mie congratulazioni alla sposa per il coraggio.” L’avvocato si mise più comodo sulla poltrona, guardando appena Mukurenzo con un’aria di palese sfida.

Mukurenzo non si scompose. “Se la tua fama si deve alle pessime battute che spari penso che dovrò farmi rimborsare il viaggio.” Rispose, giocherellando con il cubo di rubik che Azzeccamorsi  teneva, perfettamente riuscito e allineato al resto degli oggetti, sul suo tavolo.

All’avvocato cominciarono a saltare i nervi.

“Qual è il problema? Un rapimento? Lei non ti vuole? Non esiste? Ti accusa di puzzare di frutta?” Domandò, praticamente ringhiando.

“Kfufufufu certo che no! La mia Tsunia adora l’effluvio di manghi e frutti della passione che promanano dal sottoscala…Non so se mi spiego…”
Azzeccamorsi ebbe un conato di vomito.

“Ma il problema è un altro.” Mukurenzo si fece improvvisamente più serio. “Un certo Don Xanxigo, un tamarretto di provincia. Sta cercando di metterci i bastoni tra le ruote. Ha già corrotto la perpetua e rubato la mazza al prete.” Spiegò, grave.

“Cosa ha fatto al prete???” Azzeccamorsi parve allarmato, sia per il prete che per il suo povero e perfettamente ordinato cubo di rubik che ormai versava nel caos più totale.

“Gli ha rubato la mazza. E se gli toccano la mazza impazzisce.” Mukurenzo si fermò. Soppesò le sue parole. “E’ una storia lunga.” Commentò, annuendo.

Azzeccamorsi riprese il controllo e il cubo. Pareva pensieroso, e la cosa sorprese Mukurenzo.

“Erbivoro vattene, non posso aiutarti.” Disse infine, lapidario.

Mukurenzo, che di andarsene pagando una parcella astronomica senza aver risolto niente proprio non ne voleva sapere, non diede cenno di voler cedere.

“E perché, di grazia?’’ Domandò, sporgendosi verso l’avvocato con aria minacciosa e sottilmente divertita, quella che di solito riservava ai fornitori che non volevano pagare e ai bigliettai del cinema che pretendevano di fargli pagare il biglietto. Azzeccamorsi però non fece una piega.

“Una questione di principio, erbivoro. Conosco Xanxigo dai tempi dell’asilo, quando segregammo le maestre nella vasca delle palline.” Azzeccamorsi si concesse un sospiro. “Momenti indimenticabili.” Aggiunse. “Tuttavia non pensare che io sia un tipo nostalgico. Certo, aver partecipato insieme alla gara di “lancia la tequila e mordi a morte il bersaglio” crea un discreto legame tra due persone, tuttavia devo rifiutare in forza di…questo.” Così dicendo, Azzeccamorsi tirò fuori dal cassetto(quello dove teneva i fogli in cui c’era un numero dispari di parole) un opuscolo, che lanciò al giovane.

“Antagonista’s Royal club?” Lesse Mukurenzo, abbastanza interdetto. “E che diavolo sarebbe, un nuovo night di Miami?”

“No, aborto di erbivoro! E’ un club superesclusivo che raccoglie tutti i più grandi cattivi in circolazione! Joker, Loki, l’Uomo Nero, Pimpi, una delegazione di parlamentari e una di piccioni di Piazza San Marco….E per l’appunto ci siamo anche io e Xanxigo. Non è meraviglioso?” Aggiunse, inorgoglito.

“E con ciò?” Domandò Mukurenzo, sbuffando.

“Solidarietà tra cattivi. E’ una delle condizioni del club insieme al “non dar da mangiare ai goblin” e al “tirare sempre l’acqua in bagno”.” Spiegò. “Così, non c’è nulla che possa fare per te erbivoro.
Adesso sparisci, prima che ti faccia assaggiare i miei tonfa legalmente detenuti.”

“Ma….Anche io sono cattivo! Perché non mi avete invitato??” Protestò Mukurenzo.

Azzeccamorsi inarcò un sopracciglio. “Un cattivo. Tu. Con quella risata?” Domandò, scettico.

“Ma si ti dico!! Sono arcicattivo!!” Ribadì il povero promesso sposo. Poi ci pensò. “Pensi sia davvero un problema di risata?”

“Ti fa perdere l’effetto temibile sorpresa e virare su quello spanzata di risate”. Annuì Azzeccamorsi.

“E se migliorassi?” Tentò allora Mukurenzo. La faccenda del matrimonio era ormai solo un ricordo nella sua mente in ben altro affaccendata.

“Potresti metterti in lista d’attesa. Fai tanto esercizio e ne riparliamo.” Disse Azzeccamorsi, in tono accondiscendente.

Mukurenzo annuì. “Tornerò. Kfufu…Scusa. Tornerò e basta!” Così dicendo il ragazzo abbandonò lo studio, lasciò una mazzetta di soldi alla segretaria e se ne andò.

Sarebbe diventato un supercattivo, oltre che un ottimo padre di famiglia. Doveva solo dimostrarlo, e Don Yamabbondio sarebbe stato il suo banco di prova.
 

Quando Mukurenzo tornò a Namimori, trovò ad aspettarlo Reborn, il vetturino delle consegne di anacardi, la solita vecchietta intenta ad esorcismi vari e un gruppo di neurologi e psicologi comodamente seduti sul divano.

A tutti loro Reborn, da brava padrona di casa, non aveva mancato di offrire qualche stuzzichino. Così, tra una tartina e un prosecco, la combriccola si era ben presto dimenticata di Tsunia, che al piano di sopra aveva ricevuto l’ordine di bere molti liquidi e non andare in bagno prima che il dottore gli avesse fatto la visita.

Che avrebbe dovuto aver luogo circa due ore e mezzo prima.

“Signor Tramananasso.” Si fece avanti uno dei medici. “Volevamo farle le nosstre più vive congratulazioni per le nozze imminenti. E chiederle il permesso di portare Tsunia al General Hospital di Oklahoma City. Le spiego, il soggetto si sta rivelando strabiliantemente pieno di complicazioni, e se ci lasciasse il permesso di studiarla lei ci guadagnerebbe una fortuna e in più Tsunia avrebbe tutte le cure adeguate.” Spiegò il dottore.

“America eh? Beh, ho sempre pensato che sarebbe stata una buona meta per la luna di miele.” Rispose Mukurenzo, dopo averci pensato un po’ su.

“Mukurenzo. Ricordati che stai parlando del mio bambino!” Lo redarguì Reborn.

Mukurenzo parve pensieroso. “In effetti Reborn ha ragione. Facciamo Miami?” Propose.

I dottori si consultarono.

“Ma non avrebbe le cure adeguate! Potrebbe finire col credersi un tonno! O un boss della mafia!” Protestarono.

Mukurenzo scrollò le spalle. “C’è il mare lì. Si distrarrà con quello.” Sentenziò, prendendo una tartina.

Dal piano di sopra cominciarono a provenire gemiti di dolore.

Così, dopo aver preso accordi coi medici, aver pagato la trasferta al vetturino e aver preso un aspersorio in testa dalla vecchietta, finalmente la famigliola potè riunirsi in santa pace e parlare di cose ben più urgenti.

“Che ti ha detto Azzeccamorsi?” Domandò Reborn, sparecchiando.

“Niente di utile.” Ringhiò Mukurenzo, passando la scopa.

Reborn lo guardò di soppiatto. “E’ per via della risata vero?” Domandò, sadico.

“LA MIA RISATA NON HA NIENTE CHE NON VA!” Protestò Mukurenzo.

Reborn stava per rispondere che se la sua risata era normale lui allora era un pacifista, ma fu interrotto dall’ingresso di Tsunia, che sembrava in tutto e per tutto in preda alla forza dell’ultima volontà.

“Amore bello! Ti senti bene?Ti vedo….Accesa.Ti stanno davvero benissimo quelle mutandine, sai?” Domandò Mukurenzo, prima di essere buttato praticamente per terra dalla furia di Tsunia.

“Figliolo? Devo di nuovo ricordarti di non giocare con l’accendino di mamma?” Domandò Reborn, perplesso.

“Adesso basta! Mi avete rotto! Ma pensate davvero di potermi fare tutto quello che volete?” Gridò, in piedi sul porta riviste.

Mukurenzo e Reborn si scambiarono un’occhiata interrogativa. Poi il giovane prese di peso la sua promessa sposa, la fece scendere dal suo piedistallo e, stroncando le aspettative di un bell’abbraccio romantico e consolatore, cominciò a frugare tra i giornali finchè non ne tirò fuori quello che aveva tutta l’aria di essere un copione, che prese a consultare con Reborn, sotto lo sguardo attonito e interdetto, nonché fiammeggiante, di Tsunia.

“Sì. Pare proprio che possiamo.” Asserì Reborn, chiudendo il copione in testa a Tsunia per spegnerne l’incendio cefalico.

“Io….Io….Vado in bagno!” Protestò Tsunia, girando i tacchi. La porta del bagno sbattè violentemente.

“E l’America mi fa schifo!!!” Si sentì ancora.

Mukurenzo sospirò. “Quando esce falle mettere il velo, andiamo a sposarci.”

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Capitolo 6
*** Foto ricordo e funerali in serie ***


Don Yamabbondio, quella sera, si sentiva particolarmente allegro.

Non che di solito, sebbene anche lontanamente indispettito, il suo comportamento arrivasse mai a scostarsi troppo da quello di un cane a cui lancino un bastone ricoperto di pancetta, ma c’erano giorni in cui la sua gioia ingiustificata si spingeva ben oltre l’umana comprensione e sopportazione.

Per fortuna, almeno quel giorno non aveva dovuto celebrare alcun funerale, così che quantomeno la perpetua non aveva dovuto fiondarsi a casa del morto a scusarsi con i parenti per come il parroco aveva terminato la funzione con un bel “Andiamo e gioiamo insieme di questa magnifica giornata!” come aveva fatto l’ultima volta che era morta la signorina Yuni.

Ragazza strana, quella Yuni, che ogni due per tre prendeva, salutava il gentile pubblico della sua ditta produttrice di copricapi, cuscini, e copricapi a forma di cuscini, si esibiva in un pianto strappalacrime e dipartiva per i motivi più disparati, salvo resuscitare nel giro di qualche pag…ehm, settimana per ragioni ancora più dubbie. Un vizio di famiglia, quello di morire, che aveva creato non pochi problemi allo stesso curato, il quale ogni volta si ritrovava a dover dare spiegazioni ai bambini del catechismo su quello che ai loro occhi appariva come un palese caso di plagio.

Che poi alcuni tirassero in causa i testi sacri e altri invece South Park, era un’altra faccenda.

Comunque fosse, quella sera Yuni aveva deciso di rimanere tra noi, e Yamabbondio stava seguendo comodamente seduto sul divano della canonica la finale del campionato di baseball tra il Namimori, che a fine primo tempo segnava ben sei punti, e l’Ikebukuro, che segnava tre macchinette scagliate a bordo campo e otto punti di sutura in faccia all’arbitro.
Gokudera, da canto suo, se ne stava nella pace più assoluta della chiesa deserta a spolverare la statua di San Primo, fumando la sua proverbiale sigaretta sotto lo sguardo comprensivo e benevolo del santo.
Ma, se le risate che provenivano dalla canonica lasciavano intendere che Yamabbondio rimaneva in modalità vitello pasciuto e satollo anche durante lo spot pubblicitario di un tosaerba, la perpetua sentiva che tutta quella calma lasciava presagire una tempesta imminente.
Si decise quindi a rimanere bene all’erta: erano passate quasi due settimane dalla brutta faccenda del matrimonio mancato, e sebbene Don Yamabbondio stesse ormai aspettando l’imminente giorno della consegna per riabbracciare la sua adorata mazza, convinto come tutti i paesani che i due innamorati avrebbero ben presto preso un dannato aereo per Las Vegas, qualcosa continuava a turbare il pio e immacolato cuore di Gokudera.
Neanche a dirlo, un urlo all’improvviso squassò il placido silenzio della parrocchia.
“Oh porca…” Gokudera trattenne all’ultimo una sonora imprecazione dalla sua sempre pia e sempre immacolata bocca, e già stava correndo verso la canonica dopo aver lasciato la sigaretta tra le dita benedicenti del patrono.
Aveva già progettato ipotetici piani difensivi in caso di incursioni da parte di ladri, assassini, suonatori di clavicembalo, dotti medici e sapienti. Ma non aveva la minima sicurezza che quello che aveva preparato contro i tentativi di matrimoni d’assalto mentre potava le peonie sarebbe stato in grado di funzionare.
Tanto più che lo sposo in questione era particolarmente testardo, la suocera particolarmente sadica, e il fratello della sposa particolarmente….Tendente ad inalberarsi.
Ma della parentela tra Tsunia e Xanxigo, oltre a lui, pochi ne erano a conoscenza.
E d’altronde, al momento, nessuno aveva intenzione di pensarci.
 
La porta era stata sfondata da una spallata ben assestata di Mukurenzo. Accanto a lui, trascinata come un vero e proprio sacco di patate in abito bianco, Tsunia si era fatta gli ultimi seicento metri sulle ginocchia, ancora senza aver capito perché diavolo avessero dovuto arrivare di corsa quando per strada non c’era un cane.

Ma, a detta di Mukurenzo, il manuale del giovane criminale diceva di fare così, e se già aveva rinunciato a farsi la colonna sonora da solo, almeno l’entrata ad effetto doveva essere compiuta con tutti i crismi.

A terminare il manipolo di assalto che aveva appena invaso il salotto della canonica, Reborn in un tailleur di Armani e due perfetti sconosciuti che avevano raccattato strada facendo per fare da testimoni, pagati con la promessa di un autografo di Mukurenzo l’uno e un osso con cui giocare l’altro, un certo Ken, che tutti in paese davano per zoofilo.

Non che Don Yamabbondio fosse una persona particolarmente pavida, ma trovarsi Mukurenzo tra il tavolino dove teneva il macramè e il televisore, con lo sguardo furente e tenendo per mano una ragazzina che il parroco era sicuro di aver personalmente segnato all’anagrafe come maschietto, in abito da sposa e completamente terrorizzata, gli costò un attimo di indugio quantomeno perché i suoi neuroni si decidessero se quella scena fosse reale o se il povero curato avesse di nuovo inalato troppo incenso.

La visione di Reborn in gonnella, fedora e rossetto rosso con a sfondo l’immagine votiva della Vongola di San Primo, poi, diede un tocco di agghiaccio all’intera scenetta.

Fu quell’attimo di panico che diede a Mukurenzo il tempo di avanzare, brandire Tsunia contro Yamabbondio e cominciare a mettere finalmente in atto il loro matrimonio.

“Kf….Ehm” Il ragazzo si morse le  labbra, conscio che quelli dell’ Antagonista’s avevano occhi e orecchie anche tra le statuine del presepe. “Questa è mia moglie!” Urlò.

“Avanti Tsunia, tocca a te!” Reborn piantò praticamente la pochettes paliettata nei reni della figlia, spingendola verso il parroco.

Tsunia prese fiato. Il tempo parve scorrere infinitamente più lento. Alle sue spalle, un distributore di lattine viaggiava al rallenty verso l’inquadratura della partita. Nel castello di Don Xanxigo, un bicchiere di tequila volava lento verso la testa di uno dei buoni, mentre una farfalla sbatteva le ali prima di essere ingoiata da un camaleonte.

“Questo….E….Questo è mio…..” Tsunia stava per terminare la frase, separando per sempre Don Yamabbondio dalla sua mazza, quando la perpetua fece il suo provvidenziale ingresso in scena, e nello stupore generale saltò sul divano, turnicò in aria lanciando delle bombe e si parò davanti  a Mukurenzo, infilandogli una maglietta con stampato un enorme Hello Kitty mentre le bombe esplodevano lasciando scendere una cascata di brillantini e fiorellini di carta.

“Ma che ca…” Mukurenzo non ebbe il tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo che si ritrovò vestito di rosa, completamente imbrillantinato e con un lecca-lecca gigante in mano.

Ma prima che potesse terminare di parlare, un flash accecò i suoi meravigliosi occhi bicolor.

Quando finalmente riacquistò il dono della vista, si trovò davanti Gokudera con una fotocamera in mano e lo sguardo particolarmente torvo.

La perpetua scagliò Yamabbondio oltre la porta della chiesa, facendolo finire steso di lungo sulla prima panca.

Yamabbondio si autodefinì un homerun controllando di avere ancora tutte le ossa.

A Reborn si scucì l’orlo della gonna.

Tsunia voleva soltanto andarsene a dormire.

Gokudera allora alzò tre dita davanti ad un Mukurenzo a dir poco impietrito.

“Hai tre secondi. La mia fotocamera è collegata ad internet, e se non esci subito da qui per non tornarci più la foto di te vestito in quel modo con tanto di zoom sui brillantini sul tuo stupido testone da ananasso arriverà sulla home dell’Antagonista’s. E non ti conviene cercare di non credermi.” Disse, con sguardo di sfida, mentre sul display del computer alle sue spalle la foto appariva già a schermo intero, rivelando quanto Mukurenzo fosse fotogenico vestito di rosa.

Una goccia di sudore imperlò la fronte del ragazzo mentre cercava di decidere cosa fare.

“Due” Contò Gokudera.

La scelta era tra combattere e rischiare di perdere definitivamente la dignità, o scappare a gambe levate e perderla solo temporaneamente.

“Uno.”

Tsunia si ritrovò a volare fuori dalla finestra ad una velocità sonica, insieme alla pochette di Reborn, diretta a Mukurenzo ma che colpì in pieno la sua testa, cominciando a farle vedere allucinazioni con immagini di strani scrittori italiani che si rivoltano nella tomba. Non ebbe il tempo di focalizzare la scena che venne nuovamente presa di peso, e il mondo ricominciò a correre.

“Do….Dove andiamo?” Rantolò, col velo impigliato ormai nelle caviglie.

“Lontano.” Rispose Mukurenzo, prima di lanciare la sua sposa a Reborn e sparire.

“Neanche in Beautiful una cosa del genere.” Commentò Reborn, prima di caricare Tsunia in macchina e allontanarsi parlando al telefono col suo sceneggiatore di fiducia.

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Capitolo 7
*** Dati anagrafici e pedaggi autostradali ***


Reborn stava già imboccando la tangenziale quando un urto spaventoso accartocciò il cofano della macchina, provocando danni per almeno un paio di centinaia di dollari all’auto e il definitivo venir meno del battito cardiaco di Tsunia, che a quel punto cominciò a rivalutare l’idea di essere rapita dagli alieni, cosa che in gioventù tanto la spaventava.

Allo stato dei fatti, però, dato che la macchina non sembrava essere uscita di strada e Reborn stava, sebbene alquanto interdetto, ancora saldamente alla guida, Tsunia non era del tutto certa che quello che li aveva fermati fosse un evento riconducibile alla normale natura di questo pianeta.

“Ma….Mamma….Che sta succedendo?” Mugugnò Tsunia, ancora avvolta nel velo da sposa.

Reborn non rispose, e anche se avesse voluto farlo non ne avrebbe avuto il tempo, dato che lo sportello del passeggero fu praticamente divelto da una figura incappucciata che si stagliava nel buio della notte, illuminata solo dalla fioca luce di un Mc Drive in lontananza.

“E tu chi sei?” Domandò Reborn, che aveva già impugnato la pistola.

A quel punto la figura si sporse in avanti, arrivando a sporgersi nell’abitacolo. Con un gesto lentissimo portò la mano sul cappuccio, che sfilò con altrettanta comodità, tanto che Reborn ebbe il tempo di sbadigliare, sistemarsi il cappello e controllare la data di scadenza del bollino blu; la radio ebbe il tempo di far partire una musica da film horror, e Tsunia ebbe persino il tempo di trovare parecchi parallelismi tra quella situazione e quella con i Dissennatori di Harry Potter che l’aveva terrorizzata tanto da farla scappare dal cinema nel bel mezzo del film.

Quando finalmente il cappuccio fu tolto, Reborn si lasciò sfuggire una smorfia annoiata. “Ah, sei tu Fra Cristoforhei.” Disse. “Mi devi i danni della macchina. Che fai, concili?” Domandò, uscendo per constatare che i pugni del ragazzo avevano fermato la macchina sfondandone del tutto il muso.

“Reborn! Avevo estremamente bisogno di parlarti!!” Disse il frate, ignorando formalmente la presenza di Tsunia.

“E i cellulari non esistono?” Replicò Reborn, tirando fuori dalla taschina interna del tailleur un blocco per gli appunti per segnarsi i danni.

“E tu perché ti sei vestito così? Sei ESTREMAMENTE ambiguo!!!’’ Rispose il frate, esorcizzando Reborn con gesti a caso delle mani.

Reborn lo guardò male. “Si può sapere che vuoi? Avremmo un attimo fretta.” Disse, totalmente inespressivo come suo solito.

“A cento metri da qui ci sono dei posti di blocco dei buoni, hanno già preparato tutto per prendervi e farvi estremamente male, quindi è meglio se venite con me, vi nascondo io!” Spiegò il frate.

Reborn ci pensò un attimo, poi scrollò le spalle e andò a slegare Tsunia dal seggiolino.

“Dove andiamo?” Domandò. “E chi è quello? Mi fa impressione!!!”

“Non offendere Fra Cristoforhei, cara. Ci ha già pensato madre natura.” La redarguì la madre.

“Cara?? Ma io ricordo che quando ci fu il battesimo era estremamente maschio!” Si sorprese il frate, mentre faceva salire i due nel suo furgoncino.

“Lascia perdere, in questa fiction siamo tutti molto sessualmente incerti.” Sospirò Reborn, che sedutosi al lato passeggero si sistemò le basette e rimise il lip gloss.

“C…Che vuol dire? Perché estremamente maschio?....Che….Che ne sai tu? Dove stiamo andando? E CHE DIAVOLO DI NOME E’ CRISTOFORHEI???” Strepitò Tsunia, mentre il mezzo prendeva una via secondaria per raggiungere la superstrada Namimori-Milano.

“E’ una storia estremamente triste. Mio padre era all’anagrafe per iscrivermi, e stava dicendo di volermi chiamare Cristoforo, quando vide dalla finestra un ladro che stava spaccando il finestrino della sua macchina. Si lasciò sfuggire un “HEI!” ed eccoci qui.” Raccontò. Poi si mise a ridere in modo spaventoso. “Una sfiga estrema, non trovi?’’

Tsunia evitò di rispondere. Sospirò, chiedendosi che fine avesse fatto Mukurenzo.

Poi si limitò a guardare fuori dal finestrino, scorrendo con gli occhi il paesaggio che aveva accompagnato la sua infanzia, e che ora si lasciava alle spalle a bordo di un furgoncino in compagnia di sua madre e di un pazzo sclerato.

“Addio monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime ineguali, su cui tante volte mi si sono scorticate le ginocchia; ville sparse e piene di ananassi sul pendio, addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, non sa nemmeno se sto trabiccolo ha i freni!”

Fu un viaggio lungo e tormentato.

Il Giappone era alquanto distante dalla Brianza, e dopo trentuno soste per rifornimento e altrettante dal meccanico, finalmente all’alba di svariati giorni dopo lo svincolo di Monza apparve davanti agli occhi di Tsunia.

“Siamo…Arrivati?” Domandò, con in mano un cornetto preso all’autogrill e ancora in testa il cappellone di pelo che aveva preso passando dalla siberia.

L’urlo di Fra Cristoforhei quando fu ora di pagare il pedaggio, fu la risposta più ovvia.

“E’ UN TOTALE ESTREMAMENTE ALTO!!” Si stupì il frate.

Reborn alzò le spalle, tirando fuori la carta di credito. “La tratta Caracas- Namimori mi costa molto di più.” Commentò.

Tsunia finse di non aver sentito.

“Dove stiamo andando, esattamente?” Domandò.

“In un posto estremamente sicuro! Sarete protetti nel convento della monaca Sbronza!” Rispose il frate, allegro.

Tsunia, per l’ennesima volta, avrebbe voluto chiamare il Telefono Azzurro.

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Capitolo 8
*** Multe, alcolici e muri italiani ***


Quando il furgoncino si fermò, o come pensò Tsunia, arrestò la sua marcia infernale, quello che si parò davanti ai tre aveva l’aria di essere tutto meno che un convento.

“Sembra una caserma.” Commentò Tsunia, scendendo barcollando dal mezzo.

“Tsk. E’ architettura degli anni quaran..trent..novanta, ignorante!” Affermò Reborn con malagrazia, dando prova in un'unica frase della sua totale mancanza di cultura e della poca attenzione che prestava ai cartelli.

Cosa che in effetti lo accomunava a Fra Cristoforhei, dato che il furgone era stato posteggiato bel bello su un divieto di sosta, con buona grazia delle casse dei Vigili di Monza.

“Convento delle Carmelitane con gli Anfibi…” Lesse Tsunia, avvicinandosi. “Ma che razza di ordine è? E poi perché ci sono schizzi di sangue sul cartello??” Domandò, sconvolta.

Reborn alzò le spalle. “Sarà un sacrificio religioso.” Commentò, prendendo i bagagli.

Fra Cristoforhei rise, e Tsunia giurò di aver avvertito una sottile nota di terrore nella sua voce.

“Signore, io devo lasciarvi! Devo andare a pagare la multa e poi a prendere notizie su Mukurenzo… Ha scritto su Facebook che si trova a Milano, e devo controllare che non si metta nei guai con i buttafuori delle discoteche. Di nuovo.”  Così dicendo, con una fretta alquanto sospetta, il buon frate ingranò la retromarica e se ne andò, dando al catorcio il vigore di una Ferrari finchè non scomparve oltre la fitta nebbia monzese.

“A Milano?” Domandò Tsunia alla madre. “Che ci sta a fare a Milano? E cos’è questa storia delle discoteche??” Continuò, in preda all’esasperazione.

“Suvvia tesoro rilassati! Siamo in Italia! La terra del sole, del buon cibo e del buonumore!” La rassicurò Reborn, sorridendo, mentre citofonava al convento.

“Io di sole non ne vedo….” Mormorò Tsunia, mettendosi accanto alla madre.

Aprì una donnona di due metri d’altezza e poco meno di larghezza, con un grembiule lercio e un mestolo in mano.”

“Che volete? L’ora della distribuzione della sbobba è finita, passate stasera.” Grugnì.

“…Alla faccia del buon cibo….”Disse tra sé Tsunia, guardando sconcertata la donna.

“Ma quale sbobba. Dobbiamo vedere la Monaca Sbronza.” Rispose Reborn, apparentemente inflessibile.

La grossa donna parve sconvolta. “ La…Monaca Sbronza?” Domandò. Il mestolo le cadde di mano. Tsunia vide delle formiche morire avvelenate. “Dovete aver fatto qualcosa di terribile!” Concluse, facendo cenno alle due di seguirla.

Reborn vide Tsunia rabbrividire lungo il corridoio del chiostro. Da canto suo, Tsunia decise che anche la parte del ‘’buonumore” era andata a farsi benedire.

Il percorso che condusse le due donne alla cella della Monaca Sbronza assomigliò in modo impressionante a quello che si compie per arrivare alla sedia elettrica. Non che Tsunia ne fosse particolarmente esperta, ma l’atmosfera cupa e la luce soffusa inframezzata da suoni quantomeno spettrali non aiutavano per niente.

La luce di una lampadina cominciò a tremare prima di spegnersi.

Tsunia ebbe la netta sensazione di sentire qualcuno gridare “Uomo morto che cammina nel Miglio Verde!”, e di sentire i suoi passi procedere al rallenty.

Di nuovo.

“Ecco. La cella è questa. Ora, se volete scusarmi, ho un capriolo da arrostire in cucina.” Disse, prima di schizzare via con la velocità di un frate che abbia appena preso una multa.

“E adesso che facciamo?” Domandò a mezza voce Tsunia.

Reborn, da madre amorevole qual era, buttò di peso la figlia nella stanza, usandola come scudo umano.

L’oscurità regnava sovrana. Da una finestrella in alto filtrava la fioca luce del pomeriggio monzese, e tutto quello che riusciva ad illuminare erano un paio di occhi che fissavano le due donne nel buio più totale.

Fissi.

Minacciosi.

E rossi.

Una mano si posò su quello che si rivelò essere un tavolo, dietro cui la figura stava seduta. Accese un lume, rivelando la presenza di una donna giovane, vestita da suora. Ma Tsunia ebbe la netta sensazione che sarebbe stata molto più credibile vestita da terrorista che da monaca. O anche da panda, piuttosto.

In effetti, Tsunia aveva spesso delle ottime intuizioni.

“Tu sei la sposina eh?” Disse la donna, passandosi una mano sulla guancia, dove una strana macchia a forma di fiamma spuntava dal velo insieme a una ciocca di capelli blu.

Tipi strani, questi italiani.

“S…Sì, sono io.” Ammise Tsunia, trovando un briciolo di coraggio che non se ne fosse ancora scappato a fare il minatore in Alabama.

La monaca si alzò, ignorando Reborn, fino a raggiungere un frigo bar accanto all’inginocchiatoio. Ne tirò fuori quella che aveva tutta l’aria di essere una fiaschetta di grappa, e la scolò, prima di tornare a guardare Tsunia.

“Vuoi la mia protezione, dunque…”Mormorò.

“Co….Così pare….” Balbettò Tsunia, guardando la madre.

La monaca le si avvicinò. La guardò per qualche secondo. Poi fece un’espressione disgustata.

“ALLORA MUOVITI E FILA A FARE OTTANTA GIRI DEL CHIOSTRO!!”Urlò. “NON VOGLIO AVERE SOTTO PROTEZIONE UNA BAMBOLINA! SONO STATA CHIARA??”

Tsunia si sentì gelare l’anima nelle vene, e prima ancora di poter pensare qualcosa le sue gambe stavano correndo attorno al chiostro con la forza della loro ultima volontà.

“Prendersela tanto con una ragazza innamorata…Allora è vera quella storia sul tuo amore perduto, eh Monaca Mirch?” Mormorò Reborn, sorridendo nella penombra.

Quel giorno, Reborn,  assaggiò ripetutamente con la testa quanto possano essere saporiti i muri dei conventi italiani.

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Capitolo 9
*** Tate, pennarelli e quadri famosi ***


Tsunia era più o meno al settantaduesimo giro e Reborn al dodicesimo punto di sutura, quando Mukurenzo arrivò in vista di Milano. Di solito in certi casi si descrive come la città apparse agli occhi del protagonista, ma in questo caso dovremmo fare un’eccezione, perché con la sua usuale cappa di smog e la vista annebbiata dai drink della notte precedente, essenzialmente la città non apparve.
Ma Mukurenzo, da bravo illusionista qual era, in quella nebbia al limite del tossico ci sguazzava. E poi, a dirla tutta, il braccialettino che gli avevano dato in discoteca si intonava alla perfezione con il giallo acceso dei fanali delle macchine che provenivano dalla città.

Tante macchine.

Troppe macchine.

Perché c’erano tutte quelle macchine che lasciavano la città? Mukurenzo decise di indagare, e da bravo illusionista qual era (e due), decise di adottare una strategia discreta e subdola.
 

Il commesso dell’Autogrill posò scopa e paletta, e guardò perplesso il ragazzo e la sua dubbissima e attillata  maglietta in stampa militare. Si mise a distanza di sicurezza prima di rispondere.
“Davvero non sai che sta succedendo a Milano?” Domandò interdetto.

“Kfufufufu buon uomo, se l’avessi saputo non sarei entrato qui con la scusa di comprare l’ultimo di Focus e una focaccia alla fontina, no?” Rispose Mukurenzo, con aria di manifesta superiorità.
“Ma non li leggi i giornali? Milano è in preda alla peste!!” Rispose allora  l’uomo.

Ciò che seguì alle sue parole nel piccolo Autogrill alle porte di Milano fu la rappresentazione animata di ciò che Fra Cristoforhey avrebbe definito un “Caos estremo”. Gente che nemmeno sapeva di essere entrata nel locale si riversò in strada, urlando in modo disarticolato.

Si dice che la paura faccia novanta, ma nel caso degli avventori che fuggirono disperati dall’Autogrill fece centoventi. Tale era infatti la media oraria della loro corsa disperata sull’autostrada, tanto che un autovelox poco lontano scattò più di una foto a quelli che sembravano dei perfetti cosplayers dell’Urlo di Munch.

“Ecco. Mi sono giocato la paga.” Sospirò sconsolato l’inserviente.

“La peste? Ma non era stata debellata più o meno duecento anni fa?” Domandò Mukurenzo, alquanto dubbioso.

L’inserviente lo guardò, e Mukurenzo non potè evitare di sentire un brivido percorrergli la schiena quando gli occhi dell’uomo si puntarono su di lui, completamente stravolti. Sembrava lo sguardo di una persona totalmente fuori di testa, come di uno che fosse stato sottoposto a una maratona di 40 ore filate di “S.O.S tata”.

“Questa no!” Sibilò. “E’ un morbo assassino che non lascia scampo! Molti di noi sono già morti, e molti altri moriranno! Ti do un consiglio, straniero fruttiforme….Scappa! Salvati!” Disse, prima di prendere scopa e paletta e allontanarsi sul retro.

Mukurenzo si ritrovò solo, a osservare il suo bel faccino nei monitor delle telecamere di sorveglianza. Tornare indietro avrebbe significato darla vinta a Xanxigo, e perdere definitivamente ogni speranza per poter entrare nell’Antagonista’s. Nonché rifarsi circa diecimila kilometri di autostrada, e dover rimandare ancora il suo matrimonio con l’amata Tsunia. No, si disse, sarebbe rimasto li a Milano, sarebbe sopravvissuto e sarebbe diventato un eroe del male.

Lo schermo della tv lanciò la promozione di una discoteca in centro che quella sera avrebbe fatto il tre per due sui superalcolici.

Mukurenzo, da buon credente, lo prese come un segno del cielo, pagò il parcheggio e si incamminò in città.

Lo spettacolo che si trovò davanti diventava sempre più inquietante ad ogni passo che faceva.

Gente completamente sfigurata gli passava accanto, in lacrime. Molte tombe erano state allestite alla bell’e meglio in enormi campi allestiti per l’occasione, e la Protezione Civile stava sfollando i milanesi in enormi tendopoli all’ombra della Madonnina.

Mukurenzo osservò quei corpi tremendamente sfigurati, e ammise che, sebbene non fosse un esperto in medicina, non aveva mai sentito parlare di piaghe blu, arancioni o fuxia. E nemmeno di parassiti a forma di…Gomme masticate?

Il ragazzo scrollò le spalle, evitando ogni contatto nel proseguire il suo cammino verso l’alloggio che aveva prenotato.

Ma la sua pace non durò molto.

Sembrava una nuvola di polvere scatenata dalle casse di un concerto metal di ciclopi. Si dirigeva verso di lui, e pareva inarrestabile.

Poi cominciò a riconoscere delle sagome umane e delle urla.

Mukurenzo si chiese perché in certi casi l’autrice non ci ficcasse un bel rallenty per permettergli di fuggire.

“Che succede?” Domandò Mukurenzo al primo tizio che gli capitò a tiro, accostandosi al muro di una casa per non essere travolto.

“Sta….Arrivando…La peste!!!!!!” Rispose quello, prima di ricominciare a correre.

Mukurenzo guardò all’orizzonte.

Le sue pupille si restrinsero.

“Chiiiiiiii vuole giocare con Lambo-san??” Disse la peste, con dei pennarelli in una mano e l’altra nel naso.

Mukurenzo cominciò a correre.
 

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Capitolo 10
*** Piccioni in incognito e giochi da tavolo ***


“La….Peste?” Mukurenzo rimase alquanto interdetto alla vista del bambino.

Mukurenzo aveva più o meno l’espressione della mucca che guarda passare il treno, cercando con lo sguardo qualcosa di non ben precisato alle spalle del bimbo, dove però non vide che la desolazione da primo pomeriggio di ferragosto.

Si guardò intorno, notando con quanta velocità il marasma di gente che poco prima aveva rischiato di travolgerlo fosse scomparso nel nulla, lasciandolo da solo nel bel mezzo di Largo Augusto in compagnia di quel mocciosetto e della carriolata di grassi saturi che portava attaccati addosso.

“Tu!” Lambo puntò l’indice contro Mukurenzo dopo esserselo tolto dal naso.

Mukurenzo restò impassibile, sebbene da bravo ed esperto genio del male qual era avesse già individuato una possibile via di fuga nell’Apecar della nettezza urbana abbandonato poco distante.

Si congratulò caldamente con se stesso per l’acutezza del proprio ingegno.

“Tu e Lambo-san adesso giocherete insieme!!” Ordinò il bambino, avvicinandosi con fare minaccioso.

Mukurenzo indietreggiò.

“Kfufufufufu…Pargolo, non credo proprio, sai? I tuoi giochetti non mi interessano, quindi cedimi il passo e lascia che percorra la mia via!” Rispose Mukurenzo, col suo ghigno più malvagio e la commozione che traboccava nel suo cuore per aver potuto finalmente dire una frase ad effetto in pubblico.

Ok, in effetti stava parlando con un bambino vestito da mucca e il pubblico constava di due piccioni e un Apecar, ma si sa, il male può annidarsi sotto qualsiasi spoglie e quei due piccioni potevano tranquillamente essere due osservatori dell’Antagonista’s.

Mukurenzo scrutò i piccioni. I piccioni guardarono Mukurenzo. Uno dei piccioni defecò sull’Apecar. Mukurenzo lo interpretò come un segnale in codice.

Lambo si infilò di nuovo il dito nel naso, prima che i suoi occhi divenissero delle dimensioni di due piattini, che ben presto si colmarono di un liquido trasparente e tremolante a Mukurenzo sconosciuto nel preciso istante in cui dalla gola del pupo cominciò a gorgogliare un suono sommesso e sinistro.

“Devo…Re….si….ste…re…” Farfugliò il bambino.

Mukurenzo si aspettò di vedere un demone prendere le sue vere sembianze da un momento all’altro.

In tutta risposta, Lambo scoppiò a piangere.

La mucca che guardava passare il treno di cui sopra doveva averlo visto deragliare, dato come l’espressione di Mukurenzo virò all’incredulo e poi allo sconcertato, mentre le urla di Lambo si facevano sempre più forti e insopportabili.

I piccioni volarono via.

“BUUUUUUUUHUUUU!!! Sei caaaaaattivo!!! Lambo-san adesso ti da una lezione!!!” Strillò il bambino.

Mukurenzo inarcò un sopracciglio. “E che mi fai, mi strozzi nelle liquirizie?” Domandò, ironico.

Ma Lambo, dall’alto dei suoi cinque anni,  non sapeva nemmeno dell’esistenza della parola “ironico”. Quindi si comportò di conseguenza.

“No!!! Quello si fa con i cattivi veri, e tu con quella risata non mi freghi! Tu sei cattivo come una caccola appiccicosa, quindi per te ci sarà una punizione più adatta!” Lambo si avvicinò minaccioso a Mukurenzo, ignorando completamente di averlo appena ucciso nell’orgoglio.

Detto ciò, Lambo tirò fuori dall’enorme massa di capelli che gli incorniciavano la testa un fischietto, che poi suonò fino a diventare completamente paonazzo. Poi guardò Mukurenzo, cercò di non svenire per la mancanza di ossigeno, e lo additò.

“Portatelo in prigione!!!” Urlò. Mukurenzo si guardò intorno, senza vedere nessuno. Solo dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio durante i quali Mukurenzo ebbe il tempo di guardare attentamente le offerte del negozio più vicino, qualcosa si mosse nell’ombra.

Degli uomini apparvero dal nulla, mettendo Mukurenzo sulla difensiva. Forse quella sarebbe stata la sua grande occasione per un combattimento come si deve, quindi si mise in posizione, e attese di veder avanzare il nemico.

Sembravano una via di mezzo tra degli zombie e i Rabbids, con l’andatura dei primi e l’apparente quoziente intellettivo dei secondi. Avanzavano verso di lui con lo sguardo vuoto, macchie di gelato un po’ ovunque e l’andatura barcollante che ricordava più quella di qualcuno che ha picchiato il mignolo del piede contro lo spigolo del comodino di prima mattina, piuttosto che quella di un morto vivente.

Mukurenzo non sapeva cosa fare: era ormai certo che tutta quella faccenda fosse un test per entrare all’Antagonista’s, quindi  fece tesoro della sua conoscenza di Men in Black ed evitò di colpire quelle piccole Tiffany prima di essere certo che fossero effettivamente ostili.

Uno di loro gli morse un braccio.

Mukurenzo decise che sì, erano ostili. Ed erano davvero tanti!

Mise allora in pratica la sua arte di illusionista, e aveva appena alzato la mano per far apparire il suo tridente quando gli venne bloccata da una corda. Un’altra legò l’altra mano.

Mukurenzo era in trappola.

“Portatelo in prigione” Ripetè Lambo, con espressione sadica. “E senza passare dal Via!”  Precisò.

“Senza passare dal via?” Cercò di capire Mukurenzo, mentre già lo trascinavano lontano da lì.

“E’ la peste” Gli sussurrò uno degli uomini più vicini. “Ha trasformato questa città in un enorme Monopoli vivente!”Disse poi, con voce stralunata.

Improvvisamente, Mukurenzo capì.  Largo Augusto, tutta la gente che si affollava alla stazione, L’Apecar verde messo come segnalino… Si sentì un dannatissimo prescelto per gli Hunger Games.

“Oh per San Primo invongolato.” Balbettò, ma le sbarre della gattabuia si erano già chiuse alle sue spalle.

 
Intanto, molte ore di volo (e ancora più ore di macchina)  più a est…


 
Don Xanxigo varcò la soglia del castello con la malagrazia di un pachiderma con la pancreatite.

Un paio di guardie tentarono di fermarlo per puro attaccamento alla divisa, ma tutto ciò che ottennero fu un ancora più intenso attaccamento al muro, data la forza con cui Xanxigo ce li calciorotò contro.

Non era mai entrato in quella struttura, eppure avanzava a passo sicuro cercando la stanza del trono.

“Boss.”

Xanxigo continuò a incedere.

“BOSS!”

Xanxigo pareva assorto anima e corpo nell’ira funesta dei suoi pensieri.

“VOOOOOOOOOOOOOOI IDIOTA DI UN BOSS DA QUELLA PARTE CI SONO I BAGNI!”

Solo allora Xanxigo si degnò di prestare un minimo di attenzione al Buono che lo aveva seguito fino al picco scosceso, diroccato e totalmente contrario alle più elementari normative sulla sicurezza edilizia dove sorgeva il castello.

Cambiò direzione, sfondò l’enorme porta di legno bianco, e finalmente entrò nella sala del trono.

“Ti aspettavo da un momento all’altro, Xanxigo!” Disse la voce gioiosa e pacata che proveniva dallo scranno, totalmente candido anche quello.

“Ho bisogno del tuo….ausilio, Imbianchettato.”

L’Imbianchettato sorrise, mangiando un altro marshmallow. “Non vedo l’ora di poter cominciare a giocare!”

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Capitolo 11
*** Citofoni, questioni di famiglia e scarpette di Barbie ***


Don Xanxigo sbuffò, in piedi nella enorme stanza completamente bianca. Pareti bianche, mobili bianchi, scaffali bianchi con sopra libri bianchi che Xanxigo scommetteva essere bianchi anche all’interno.

E poi c’era lui, l’uomo che tutti chiamavano l’Imbianchettato per ovvi motivi. Uno dei criminali più potenti della zona, che per anni era sfuggito alla polizia di Namimori dal momento che, vivendo perennemente nel suo candido castello, ed essendo bianca anche la targhetta del citofono, la solerte e ingegnosissima polizia di Namimori non era ancora riuscita a capire dove mai potesse nascondersi.

“E sentiamo…Di cosa dovrei occuparmi questa volta?” Domandò l’imbianchettato, con la sua solita espressione allegra da agente assicurativo che ha a che fare con un sempliciotto che a malapena sa pronunciare il suo nome.

“E’ per via di quella cretina di mia sorella.” Cominciò Xanxigo, che dopo aver fallito vari tentativi riuscì a trovare la poltrona bianca sul tappeto bianco senza rovinare sul pavimento.

L’Imbianchettato rise, mangiando un altro dei suoi marshmallows. In qualità di membro dell’Antagonista’s non poteva tirarsi indietro, ma le continue faide nella famiglia di Xanxigo lo divertivano infinitamente, quasi più che riguardare la sua collezione di film bianchi su fondo bianco con i sottotitoli bianchi.

“Che ha combinato questa volta?” Domandò l’Imbianchettato, con fare accondiscendente, fingendo di non sapere tutta la storia che, in realtà, si era fatto leggere da uno scagnozzo da Efp. Eh già perché quei caratteri neri proprio non riusciva a guardarli, lui.

Xanxigo colse il bluff dell’uomo, ma sebbene avesse pensato seriamente alla possibilità di scoprire se gli scorresse sangue o latte nelle vene, si limitò a raccontare del matrimonio e della fuga di sua sorella.

“Devi riportarla a Namimori. Poi rinchiudila in una torre, in un call center, falla andare nell’ora di punta sulla Salerno-Reggio Calabria, insomma fa un po’ quello che ti pare ma non farla sposare con Mukurenzo!” Disse perentorio Xanxigo.

“Mukurenzo? Quello degli ananas?” Domandò l’imbianchettato. “Ma sposarsi uno con una risata simile…”

“Lo so!” Lo interruppe Xanxigo, evidentemente in collera da come la sua pelle si stava crepando, rendendo la sua faccia simile a un Ciobar appena raffreddato .

“E’ ancora per la faccenda dell’eredità?” Domandò l’Imbianchettato, fagocitando l’ultimo marshmallow, per poi aprire un’altra busta presa da una cesta che, manco a dirlo, Xanxigo nemmeno si era accorto esserci.

“Già. Nostro padre ci ha lasciato in eredità una vera  fortuna, frutto della centenaria storia dell’impero della famiglia Tonnella. Purtroppo il vecchio non è stato abbastanza furbo da guardarsi almeno un paio di puntate di Forum e capire che avrebbe dovuto fare un testamento decente, quindi quando è schiattato sono rimaste in vigore per noi figli le antiche usanze della famiglia.” Raccontò Xanxigo.

“Una cosa alla “dividiamo il tutto e volemose bbene?”” Domandò l’Imbianchettato.

“No. Tutto il malloppo resta a me perché sono il maggiore, finchè uno dei due non si sposa. Il primo che si accasa si prende tutto.” Continuò, con una malcelata smorfia d’ira.

“Beh quantomeno le finanze sarebbero al sicuro…Tsunia mi sembra una ragazzina sveglia…” Commentò l’Imbianchettato.

“Ma se non sa nemmeno di essere un maschio!!” Sbottò Xanxigo.

“Potresti sempre sposarti prima tu!” Propose l’Imbianchettato, sorridendo contento.

Xanxigo prese più o meno il colore della tappezzeria.

“Sposarmi? Io? Ma non dire assurdità, feccia! E con chi dovrei sposarmi, poi?” Ringhiò.

“Beh ci sarebbe quel tipo che ti corre sempre appresso urlando…”Propose l’Imbianchettato, guardandosi le unghie.

“Cosa??” Domandò Xanxigo sconvolto. “Ma è un uomo!!”

L’Imbianchettato lo guardò. “E da quando in questa fanfiction questo è un dato certo?” Domandò.

“Ne sono sicuro.”Disse perentorio Xanxigo.

“Uh davvero? Allora hai già zuppato il biscottino!” Esclamò l’Imbianchettato, con l’espressione da fangirl assatanata.

Xanxigo indietreggiò. “Non era quello che intendevo, feccia. Comunque hai ragione, io penso a trovarmi chi sposare, ma nel frattempo devi tenermi buona la tonna.” Fece, minaccioso, arretrando.

L’Imbianchettato sorrise. “Ma certo, Xanxigo…Come potrei rifiutare a un collega un favore così divertente?” Esclamò, ancora con quel sorriso inquietante.

Xanxigo sentì l’urgenza di tenersi ben stretta la biancheria intima e scappare in fretta da quel posto. “Allora ci si vede.” Disse, aprendo la porta.

“Ehm…Xanxigo…Quelli sono i bagni!” Gli gridò l’Imbianchettato da quello che ormai era il fondo della sala.

Xanxigo scosse la testa, prendendo finalmente l’uscita giusta.

“VOOOOOOOOOOOOOOOOI! CHE DIAVOLO TI HA DETTO QUELLO?” I decibel di un aereo che passa a bassa quota su un mega concerto rock di pachidermi imbizzarriti perforarono i timpani di Xanxigo nonappena uscito dalla sala del trono.

“Ma quanti diavolo di bagni hanno in questo posto??” Ringhiò, senza aggiungere altro.

 
 Nel frattempo, nelle prigioni di Milano…

 
Mukurenzo era allo stremo delle sue forze. Era stato costretto a giocare per due ore buone a nascondino, per altre due ore a Shangai vivente ed ora era alla quarta ora di “Crea la moda con Barbie”.

Sentiva le sue forze scemare, la malattia impossessarsi del suo bel corpo di giovane di belle speranze e la libertà farsi sempre più lontana. Aveva il respiro affannoso, le mani completamente distrutte dalla piaga a forza di pennarellate e un paio di scarpette di Barbie bloccate in gola dopo il tentativo di suicidio che l’aveva colto dopo il Fruttolo di metà pomeriggio.

“Pietà…Pietà di me…” Mormorò Mukurenzo sul suo giaciglio di palline di plastica. Cominciava ad avere le allucinazioni, e al momento vedeva dall’altra parte della cella, invece che la pista per le Micro Machines, la scrivania dell’avvocato Azzeccamorsi, il quale lo stava deridendo.

“Non sarai mai un buon antagonista! Disonore! Disonore su di te! Disonore sulla tua famiglia! Disonore sulla tua mucca!” Diceva l’allucinazione, sovrapponendosi all’ottava replica di fila di Mulan.

“…Io non ho una mucca!” Gemette il giovane, quando qualcuno entrò nella sua cella.

“Ehi…Ehi! Alzati!” Disse una voce. Mukurenzo ci mise un po’ a inquadrare una ragazzina con la sua stessa acconciatura a frutta tropicale.

“Chi sei tu?” Domandò Mukurenzo, mettendosi in piedi alla bell’e meglio per non sfigurare davanti alla ragazza.

“Questo non importa, Mukuro-sama! Qui nessuno si accorge di me perché sembro una bimba innocua, ma sono una sua grande fan da tempo! Sono qui per farla fuggire!” Disse la ragazza.
Mukurenzo diede la colpa alle visioni.

“O…Ok! Che devo fare?” Domandò.

“Qui ho il carrellino della merenda…Ci si nasconda dentro, io la porterò fuori e potrà scappare con la complicità dell’ora in cui tutto tace e il mondo sembra popolato solo di spettri!” Disse entusiasta la ragazza.
“Mezzanotte?” Domandò Mukurenzo.

“No,l’ora del pisolino pomeridiano!” Precisò la ragazza. “E’ stato un piacere vederla, Mukuro-sama!” Disse poi, infilando il ragazzo nel carrello della frutta, dove, nemmeno a dirlo, Mukurenzo non si trovò troppo a disagio.

Una volta raggiunto l’esterno della prigione Mukurenzo corse con tutte le forze che aveva, uscendo dalla città in meno di dieci minuti, per ragiungere un posto che sapeva essere sicuro.

Bussò alla porta praticamente senza fiato. Quantomeno, la corsa gli aveva fatto uscire di gola le scarpette di prima.

“Nfufufufu!” Esclamò l’uomo che aprì la porta. “Cugino Mukurenzo! Come mai da queste parti?”

“Kfufufufu! Si sforzò di ridere senza rantolare Mukurenzo. “E’ una lunga storia.” Disse, entrando.

 
Intanto, nei pressi di Monza…
 

I Buoni parcheggiarono il loro tipico furgoncino malfamato nelle vicinanze del convento delle Suore con gli Anfibi.

“Sei sicuro che sia questo il posto?” Domandò uno di loro al capo della spedizione.

Il capo sogghignò. “Sicurissimo, korà!”

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Capitolo 12
*** Vin santo, gliadiatori e conigli assassini ***


Tsunia aveva appena finito di mettere a terra l’ultimo paio dell’enorme catasta di anfibi che le consorelle le avevano affidato quel pomeriggio perché fossero lucidati, sistemati, e perché tutti i lacci venissero scambiati a seconda del giorno di nascita del santo patrono della città più vicina a quella di nascita di ognuna di loro, chiaramente conteggiando in base al calendario astronomico e a quello di Frate Indovino per capire da dove cominciare.

Ciò che rimaneva della giovin pulzella era in tali faccende affaccendata, quando sentì dei passi arrestarsi alle sue spalle. Vide il riflesso della figura che lo sovrastava specchiata nel marmo del colonnato che aveva lucidato quella mattina dopo aver recitato la sacra lista delle armi in dotazione, prima ancora che il suo stanco corpo le permettesse di rabbrividire.

“TSUNIA TONNELLA.” Il tono della Monaca Sbronza era sempre tanto dolce e garbato quanto una torta di fragole impastata con una trivella.

Tsunia scattò in piedi, come aveva appreso da una settimana di levatacce e grida perpetue. “S…Sì, Sua Santità!” Tsunia disse quelle parole senza riflettere.

La Monaca le mise una mano sulla testa e cominciò a stringere la presa, sollevando Tsunia dal terreno.

La ragazza cominciò a credere che non avrebbe più toccato terra da viva.

“Seriamente, recluta. Ti sembro una santità, io?” Ringhiò la donna.

Tsunia si sentì in trappola. “Ehm….Ecco, io….Mamma!!” Tsunia vide Reborn, e vide la luce.

Reborn chiuse lo specchio riflettente da abbronzatura, e Tsunia non vide più la luce. Ma la Monaca si era distratta, e questo quantomeno le faceva guadagnare un paio di minuti di vita.

Tuttavia la Monaca non lasciò la presa, limitandosi a guardare in cagnesco Reborn che avanzava nel chiostro, facendo lo slalom tra i sacchi di sabbia per le esercitazioni in trincea e firmando autografi alle statue che incontrava.

“Sua Santità!” Salutò allegro Reborn. “Mi hai fatto chiamare? Stavo giusto prendendo il sole di questa magnifica giornata italiana!” Tsunia cercò di indursi uno svenimento.

Nella mezz’ora che seguì, mentre in infermeria cercavano di estrarre la penna che la Monaca aveva avuto l’accortezza di infilare in orizzontale nella trachea di Reborn, Tsunia seppe per quale motivo sua madre era stata fatta chiamare e soprattutto perché aveva trovato un fucile più alto di lei nel suo armadio.

“Co…Cosa vuol dire uno scontro a fuoco?” Domandò la ragazzina, terrorizzata.

La Monaca si mise seduta più comoda sulla sedia del confessionale. “Quello che ho detto. Ogni anno il nostro convento sfida quello delle Consorelle del Mestolo da Polenta in una sfida rituale per definire i nuovi assetti territoriali della provincia…Sai, a che prezzo vendere le ostie, chi debba ottenere i restauri della soprintendenza…”Il volto della Monaca divenne improvvisamente più inquietante del solito. “…E a chi vanno le partite migliori di vin santo.” Disse, la voce bassa e sibilante da Gollum in crisi di astinenza.

“Ma…Sfidare qualcuno…A soft air…Non è sleale?” Domandò Tsunia, mentre ormai la Monaca si era alzata per andare a caricare armi e bagagli nel pullmino già gremito di consorelle armate fino ai denti.

“Ogni anno ci alterniamo. Un anno la sfida è di cucina, l’altra di armi.” La Monaca sistemò Tsunia sul seggiolino preparato per lei. La promessa sposa si domandò se fossero proprio necessari i pupazzetti coi sonaglini di cui era accessoriato, ma preferì tacere.

“E San Primo mi sia testimone, a fine giornata ci sono molti più feriti nell’anno in cui ci si sfida in cucina.” Disse sconsolata la Monaca, prima di sedersi al suo posto e cominciare a tracannare grappa.

Tsunia avrebbe voluto chiedere perché stessero portando anche lei, ma preferì seguire l’esempio della terza delle scimmiette disegnate sullo zainetto che le avevano regalato e rimase zitta.
 
Poco distante, dietro un cespuglio…
 
“Shishishishi! Ma bravo il nostro uomo d’assalto! Non dovevamo prendere la ragazzina mentre andava a fare la spesa e andarcene? E’ proprio un gran colpo prelevarla in mezzo a una dozzina di donne armate fino ai denti!” L’ufficiale dei Buoni che era stato mandato come supporto alla spedizione di rapimento non riusciva a fermare le sue risate.

Lìufficiale ricevette un sonoro ceffone dietro la testa, che fece rotolare la sua coroncina pericolosamente vicina ad un tombino. “Che ne potevo sapere io?? Quando qualcosa riguarda Lallinia niente è mai da dare per scontato.” Il giovane sorrise. I suoi compari dovettero scacciare a pedate gli uccellini e gli scoiattolini che erano accorsi a circondare la sua aura gaudente al ricordo dell’amata.

“Puoi smetterla per favore? E’ disgustoso.” Il terzo componente della squadra scacciò un grosso scoiattolo che aveva cercato di azzannarlo alla gola. Si sistemò il cappuccio sugli occhi, maledicendo madre natura, l’uomo del monte, nonno Nanni e tutto quelli che avevano a che fare con tutta la fauna che cercava costantemente di spedirlo al creatore. Solo perché aveva l’altezza di un bambino di due anni, questo non voleva dire che potessero sbeffeggiarlo, o passargli avanti nella fila in posta, ne tantomeno che potessero azzannarlo orde di pulcini inferociti che canticchiavano orride canzoncine estive!

“Shishishishi! Sembra che dovremo agire nel bel mezzo di una faida tra donne…Al principe piace!” Esclamò irrisorio l’altro Buono.

Egidiello non parve per nulla turbato. Turbato sarebbe stato al più qualsiasi oculista che avesse visitato il giovane vassallo dell’Imbianchettato dopo che ebbe rivisto, dopo sì tanto tempo, la sua amata Lallinia.

Era passato tanto tempo dal giorno in cui si erano separati, eppure lui non l’aveva mai dimenticata. Non aveva dimenticato i suoi magnifici capelli blu, la sua voce suadente, i suoi…

“Egidiello per l’amor del cielo!” Scoiattoli e uccellini erano tornati all’attacco, forti di un paio di cervi e la base della colonna sonora di Biancaneve, e un coniglietto puffoso aveva azzannato alla gola il piccoletto incappucciato.

“Andiamo a portare a termine la missione, korà!” Si risolse Egidiello, tornando a bordo del furgoncino in direzione dei famosissimi boschi attorno a Monza.

 
Boschi di Monza, schieramento Suore con gli Anfibi, un paio di ore dopo.

 
La tenda del comando era affollata. Da ogni parte Tsunia vedeva un andirivieni continuo di monache in perfetto assetto da battaglia. Alcune lucidavano le armi, altre si esercitavano ai bersagli, altre ancora stilavano rapporti su quanto le esploratrici avevano visto al di là della linea di trincea.

La giovane cercò disperatamente sua madre, inciampando negli anfibi troppo grossi. Sotto l’elmetto, sentiva il cervello bollire.

Trovò Reborn comodamente sdraiato su un lettino nella radura, a leggere Diva e Donna sorseggiando the freddo.

“Ma…Madre?” Domandò Tsunia.

“Ciaossu bimba! Qualcosa ti turba?” Domandò Reborn, senza staccare lo sguardo dall’oroscopo di Branco.

Tsunia era basita. “Ma…Madre…Tutto questo…Dovrebbe essere normale?” Balbettò, sorridendo istericamente.

“Sono italiani.” Reborn scrollò le spalle, prendendo la crema solare. “Gente focosa, che ti devo dire. Ora, per cortesia, mi spalmeresti la crema dietro le basette?”

Tsunia tornò all’accampamento solo dopo aver preso seriamente in considerazione l’idea di fuggire nei boschi e darsi alla macchia.

Stava giusto per arrivare alla tenda, quando la Monaca la tirò dentro per spiegarle quale sarebbe stato il suo ruolo.

Che, in parole povere, consisteva nel rimanere immobile in mezzo al campo di battaglia, dare il ‘’VIA’’ ai combattimenti e cercare di non farsi prendere dai nemici.

“Sono una bandieruola! Un fazzoletto! Un vessillo!” Disse Tsunia, scandalizzata.

“No.”Precisò la Monaca, con un sorriso quasi rassicurante. Poi la calciò fuori.

“Sei una vittima sacrificale!” Esclamò.

Tsunia era sola. Percepiva il nemico che la osservava dall’altro lato del campo, e le monache alle sue spalle pronte a far fuoco. Sentì i rumori del bosco, lo scrosciare tranquillo di un torrente poco lontano, il suono ritmico di un picchio contro un pino alla sua destra e quello della sirena della nettezza urbana alla sua sinistra.

Avanzò piano, passando le mani sull’erba alta. Anche se era ingiallita dai pesticidi, sembrava grano, e per un attimo si sentì Massimo Decimo Meridio.

Si fermò. Tutto il mondo pareva tacere.

“Avanti…Dai il Via…” Da dov’era, la Monaca non poteva vedere Tsunia, ma l’avrebbe sentita di sicura. Le armi delle monache erano pronte, così come le catapulte piene di cibo velenoso delle loro avversarie del Mestolo da Polenta. La tensione si tagliava con un grissino.

Passarono interminabili secondi, uno stormo di cinciallegre e un gruppo di ciclisti.

“VIA!” Sentirono infine gli schieramenti.

“Via?” Si domandò la Monaca. Perché a parlare era stata la voce di un uomo. E nessuno aveva intenzione di credere che Tsunia fosse diventata uomo proprio in quel momento.

La donna alzò lo sguardo come potè, intravedendo qualcuno che portava via di peso Tsunia nel bosco.

Le pupille si restrinsero negli occhi rossi, cercando di svignarsela.

“EGIDIELLO!!!” Ruggì la Monaca.

La battaglia cominciava male.

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Capitolo 13
*** Parenti famosi, pattine e tv per ragazzi ***


Egidiello, con Tsunia caricata su una spalla con tutta la grazia di uno scaricatore di porto che stia trasportando un tonno appena pescato, stava raggiungendo la scaletta dell’elicottero provvidenziale preso a noleggio dall’autorimessa di mezzi locomotivi provvidenziali dell’Antagonista’s, quando la soave voce della Monaca costrinse il suo animo di giovine innamorato ad arrestare il proprio incedere verso l’alato destriero che lo attendeva, per incontrare la graziosa fanciulla.

La graziosa fanciulla di cui sopra gli sparò due colpi sui piedi, insozzando di vernice rossa l’armatura scintillante che l’uomo immaginava d’indossare.

“Ringrazia che sia caricato a vernice.” Mormorò la Monaca, avvicinandosi. A Tsunia quell’improvviso abbassamento di voce fece avere i brividi ad ogni singola sinapsi del suo cervello.

“Ridammi la pupa e ti lascio andar via sulle tue gambe.” Aggiunse, raggiungendoli.

Sulla faccia di Egidiello si dipinse un sorriso beota. “Lallinia! Mia amata! Cuore del mio cuore, finalmente i nostri destini tornano a incrociarsi, korà!” Un alone di luce e brillantini prese a circondare Egidiello.

La Monaca indietreggiò, orripilata.

Dall’elicottero il tizio incappucciato urlò all’uomo di darci un taglio. “Le colombe e gli usignoli stanno cominciando a maciullarsi nelle pale dell’elicottero!! Piantala di fare Biancaneve e porta le tue cavalleresche chiappe quassù, prima che mandi il lupo cattivo a vomitarti addosso la nonna!” Urlò.

 Ma Egidiello pareva totalmente rapito dalla visione della Monaca.

“Ma che diavolo ha quel tipo?” Al sicuro dietro le trincee, Reborn stava finendo di mettersi lo smalto.

“E’ una storia triste.” Rispose una delle consorelle, che stava assistendo alla scena dalla postazione anticarro lì accanto. “Il libro sacro del gossip narra che un tempo quei due stessero  insieme,  una storia alla Romeo e Giulietta, per intenderci. Il padre di lei proprio non ne voleva sapere, e quando le comunicò la notizia che l’avrebbe mandata a Uomini e Donne per trovarsi un buon partito lei mandò lui all’altro mondo spaccandogli in testa una bottiglia magnum di champagne che Egidiello aveva portato per trascorrere una delle loro seratine in allegria, proprio come si fa per varare le navi.” La monaca scosse la testa, sconsolata. “ Quel giorno è ancora ricordato come “il varo del capitano” .

 Reborn ebbe la decenza di fingersi dispiaciuto, mentre controllava se lo smalto fosse colato troppo sul mignolo. “Che storia triste.” Commentò.

“Già.” Rispose la monaca. “Uno spreco di champagne del genere non s’era mai visto. Comunque i due giovanotti furono puniti. Lallinia fu costretta a prendere i voti. Mentre Egidiello…”

“Gli hanno estirpato il cervello?” Buttò lì Reborn.

“Peggio. Sessione di sette giorni e sette notti di visione intensiva di Come d’incanto, de La Melevisione e di Shrek Terzo. Per insegnargli le buone maniere, dissero. Ne è derivato un essere a metà tra principe Giglio e Azzurro, con le facoltà linguistiche di Giselle. Una cosa disumana.”

Reborn stava giusto per commentare che nemmeno lui avrebbe mai pensato a una puizione tanto abominevole, quando nel campo di battaglia la situazione precipitò.

“Mia dolce damigella, ti imploro, lascia questa valle di lacrime e fuggi meco verso il nostro reame d’amore e felicitade, korà!”

La Monaca fu scossa da spasmi d’ira, ma si impose di avvicinarsi con calma. “Chiedi a una delle puzzole che ti circondano di prestarti un cervello e ne riparliamo. Egidiello, seriamente, adesso fai il bravo e posa la ragazza. Piano piano! Va tuuuutto bene!”

“Se ti ridò la ragazza poi tu mi dai un bacio?”

La Monaca si impose di non sparargli in mezzo agli occhi. “Ma certo! Ora  da ravo, mettila giù…”

Egidiello stava per posare a terra Tsunia, la quale in tutto quel tempo non aveva saputo se essere più spaventata dall’alone di luce che la circondava o dai cerbiatti che avevano cominciato ad annusarla insistentemente, quando con un perfetto lancio al lazo il Buono con la coroncina strattonò via principe e tonna, facendo rapidamente prendere quota all’elicottero.

“MAMMAAAA!” Gridò Tsunia, disperata.

“Mi dispiace figlia mia, non posso aiutarti! Lo smalto è ancora fresco!” Le urlò Reborn di rimando.

Un anfibio colpì l’elicottero, schiantandosi sulla faccia di Egidiello.

“Me la pagherai!!”  Ruggì Lallinia.

Intanto, le monache col Mestolo da Polenta issarono bandiera bianca all’istante.

 
Otto ore di volo dopo, castello dell’Imbianchettato.

 
Tsunia venne trascinata al cospetto del padrone di casa, nella grande stanza del trono dove due falegnami stavano giustappunto cercando di riparare la porta divelta da suo fratello.

L’Imbianchettato le venne incontro sorridendo, salutandola educatamente.

Tsunia si sentì quasi a suo agio.

“E così tu sei Tsunia…Davvero una ragazza incantevole, non c’è che dire. La tua pelle è così…Candida…” Gli occhi dell’Imbianchettato ebbero un lampo. Tsunia smise di sentirsi tranquilla.

“Gra…Grazie!” Mormorò, indietreggiando di un passo. “Po…Posso sapere perché…Sono qui? E’ stato Xanxigo a volermi rapire?” Ebbe il coraggio di chiedere.

L’imbianchettato ridacchiò, mangiando un marshmallow prima di risponderle.

“Avrai le tue risposte a tempo debito mia cara, ma non ora. Vieni, ti faccio vedere una cosa.” Così dicendo, l’Imbianchettato la guidò lungo un mastodontico corridoio totalmente bianco, sulle cui pareti campeggiavano immensi ritratti di famiglia.

“Vedi cara, la mia è una famiglia nobile e antica, piena di personaggi illustri. Qui puoi vedere Gandalf il Bianco, ritratto prima dell’incidente che lo rese inesorabilmente girigio… Laggiù c’è la mia bisnonna Biancaneve, santa donna, peccato per il matrimonio con un principe di un colore assolutamente orribile ma si sa, le questioni dinastiche non si discutono con gli accostamenti cromatici… Oltre l’incredibile uomo delle nevi, invece,  puoi vedere…”

“Ma non era abominevole l’uomo delle nevi?” Lo interruppe Tsunia.

L’imbianchettato fece una mezza smorfia. “Tutte malelingue!” Commentò, allontanandosi in fretta dal quadro.

“E quello laggiù?” Tsunia era stata colpita da un ritratto alquanto ovino.

“Quello” Esordì l’Imbianchettato, la voce rotta da una studiata tona drammatica. “E’ Fiocco di Neve, il mio avo che per anni governò i monti di Namimori, dalle Alpi a Francoforte.” Raccontò, tutto orgoglioso.

Tsunia preferì tenere da parte i suoi dubbi geografici. “Ma…Fiocco di Neve…Non era una capra?” Domandò invece.

L’Imbianchettato fece un gesto impaziente con la mano, proseguendo oltre. “Nient’altro che maldicenze anche queste. Le ha messe in giro quella ragazzina coi capelli neri che se la faceva col vecchio dell’Alpe. Scoprimmo soltanto anni dopo che aveva studiato un piano con l’Omino Bianco per farlo infiltrare a palazzo e distruggere la nostra famiglia. E ora, piccola…” L’Imbianchettato si fermò di colpo, guardando i piedi di Tsunia.

La ragazza non capì. “Va…Tutto…Bene?” Domandò.

L’Imbianchettato guardò oltre le sue spalle. Fu allora che Tsunia capì. Nemmeno fosse stata un camaleonte, la ragazza sbiancò.

“Tu…Non hai messo..Le pattine…Quando sei entrata?” Mormorò l’uomo, guardando sconvolto le orme di fango scuro e viscido che costellavano il candido pavimento del corridoio.

“Io…Ecco…Nessuno mi ha detto di farlo!” In effetti Tsunia non aveva tutti i torti: appena scesi dall’elicottero lei e gli altri dovettero ripararsi di corsa all’interno,  per evitare la pioggia di frecce della mezza dozzina di Cupido che erano apparsi a Egidiello dopo l’incontro con la Monaca, e che li avevano seguiti fin li.

L’Imbianchettato, però, pareva in vena di tutto meno che di perdono.

“Gettatela nella cella della tortura!” Urlò alle guardie, che apparvero come dal nulla per prelevare la povera Tsunia, la quale ormai desiderava solo una morte veloce e indolore.

“No! Non torturatemi! Pulirò tutto!” Implorò. L’Imbianchettato rise.

“Non mi incanti, ragazzina…Sarai sottoposta alla peggiore delle torture: sarai immersa in una stanza dalle pareti arancioni e i mobili blu! Un accostamento agghiacciante!! Esiste punizione più crudele??” L’uomo rise di gusto, evidentemente compiaciuto di se stesso.

Tsunia era interdetta, ma preferì non dire nulla. Sarebbe stata imprigionata in quel castello per chissà quanto tempo. Sperava ardentemente cheil suo povero, amatissimo Mukurenzo riuscisse in qualche modo a ritrovarla, ma al momento era più incline a scommettere sulla partecipazione di Lallinia ad “Abito da sposa cercasi” che sulla possibilità che il suo promesso sposo riuscisse a salvarla.

Sospirò, mortalmente preoccupata per il suo baldo promesso sposo, mentre le guardie la trascinavano via facendo attenzione a non farle toccare terra coi piedi.

“Comincia a pregare, fangosa pulzella!” Rise l’Imbianchettato.

E in effetti, sebbene dei mobili blu non gliene potesse importare di meno, una volta nella cella Tsunia prese il santino di San Primo Invongolato che teneva in tasca ed accolse il suggerimento.

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Capitolo 14
*** Preghiere, bagni sadici e traumi cranici ***


Cercando di ignorare l’orrido arredamento che la circondava, Tsunia si rannicchiò in un angolino, tra il comodino istoriato di Hello Kitty e la piantana tempestata di lustrini arancioni.

Chiedendosi quanto tempo avrebbe passato in quella cella, si affidò alla sua unica possibilità di consolazione e speranza di poter uscire presto di li per poter riabbracciare finalmente la sua carissima mammina e il suo amato Mukurenzo che, ne era certa, in quel momento stavano facendo il diavolo a quattro per ritrovarla.

Così, piena di fiducia, la giovane fanciulla si frugò nelle tasche, gettò via cellulare e cercapersone e strinse tra le mani il santino di San Primo che le aveva dato Don Yamabbondio in occasione del quattordicesimo funerale della signorina Yuni.

Tra i preparativi per le nozze, le uscite in discoteca con Mukurenzo e il fatto che ogni volta che ritardava si ritrovava a correre con una fiamma in testa e dei boxer da uomo come unico capo d’abbigliamento, il che suscitava l’ira funesta della perpetua, la quale la cacciava fuori dalla chiesa a suon di calcioni, ultimamente Tsunia non aveva frequentato con costanza il catechismo, così che le sue capacità di preghiera erano abbastanza arrugginite.

Decise di tentare lo stesso. In fondo, non si era mai sentito che San Primo fosse rimasto sordo alle richieste di una giovane pulzella in preda alla disperazione, e Tsunia sperò ardentemente che il Santo  in quel momento non fosse in altre faccende affaccendato.

“Sa….San Primo che sei nei Vongola… Sia fatta la tua ultima volontà! Ma…Ti prego…Salvami da questa cella di disperazione e paliettes, e riportami sana e salva dal mio amato! Se…Esaudirai questo mio desiderio, io…”

La ragazza fece una pausa. In effetti non aveva pensato a cosa offrire in cambio per i servigi di San Primo. Ma l’idea la fulminò all’istante.

“Io…”Riprese “Faccio voto di castità permanente!” Esclamò risoluta.

Poi guardò il santino. “San…San Primo…Perché mi pare tu abbia assunto un’espressione alquanto scettica?”

San Primo non rispose, limitandosi ad accentuare il suo sguardo da“Mi prendi in giro?”  sul pezzetto di carta.

Tsunia si sentì offesa.

“Beh cosa credi, che una bella ragazza come me non riuscirebbe a tener fede a un giuramento? Mi sottovaluti, Altissimo, purissimo e Giottissimo!”

Preoccupata per quel suo improvviso eccesso di blasfemia, Tsunia mise via il santino. Le ci volle il tempo che impiegò per alzare lo sguardo per comprendere a cosa fosse dovuto lo scetticismo del Santo.

Davanti a lei, infatti, come nei peggiori dei suoi recenti incubi, illuminate dalla fioca luce di una lampada al neon semifulminata come prescritto dai migliori film horror, stavano due porte del bagno.

Una per le donne.

Una per gli uomini.

Le sagome che vi erano raffigurate sopra assunsero  per una frazione di secondo nell’immaginazione di Tsunia la faccia trolleggiante di San Primo e quella ancora più troll di sua madre.

Tsunia le guardò a lungo, con lo sguardo della mucca che guarda passare il treno.

Poi scoppiò a piangere.

Sarebbe stata una lunga nottata.
 


 
Sarebbe stata una lunga nottata.

Questo l’Imbianchettato lo capì da subito, quando scoprì che uno dei suoi millemila cuscini bianchi ripieni di bianche piume d’oca era stato rammedato con un filo celeste, cosa che, ovviamente, gli fece perdere il sonno e lo portò a girarsi e rigirarsi nel letto in preda a una furibonda irrequietezza.

Da fuori poteva sembrare che la vita di un supercattivo, superfigo,  superpotente e, quando andava a fare la spesa, anche supermercato  come lui fosse tutta rose e fiori, e invece non era così.

Innanzitutto perché era abbastanza difficile trovare rose e fiori completamente bianchi, e poi perché gli attacchi dei suoi nemici cromatici erano sempre dietro l’angolo. L’assalto del Barone Rosso, per esempio. O quello del Cavaliere Oscuro. I bastioni del palazzo erano appena stati rimessi in sesto dopo la sortita del malefico signore dell’Albero Azzurro.

Tutto questo lo stancava e turbava profondamente, tanto che l’Imbianchettato aveva più volte pensato di mollare tutto e andarsi a fare una bella vacanza. Idea che aveva scartato quando aveva scoperto che le bianche spiagge delle Maldive in realtà erano giallino chiaro e che in una settimana bianca può sempre capitare di vedere dei ciuffetti d’erba qua e là.

Il pensiero del malvagio signore andò alla ragazzina che aveva imprigionato per conto di Don Xanxigo. Certo, l’avrebbe trattata con tutto il rispetto che si conviene, ma per quanto tempo  l’avrebbe dovuta tenere lì, questo di certo era un interrogativo preoccupante.

Prima di poterla rilasciare, bisognava aspettare che Xanxigo trovasse moglie.

Il che era più improbabile che vedere un autoarticolato ballare la lap dance dopo essere uscito in bikini da una torta al limone.

Pensò alla sua pelle così candida rispetto a quella del fratello, a come si era scusata per l’oltraggio del fango… E per la prima volta nella sua vita, l’Imbianchettato, sentì la cupa nube del rimorso aleggiare sopra la sua candida capoccia.

Cupa.

Molto cupa.

L’Imbianchettato si alzò, deciso a spazzare via quella inestetica macchia scura nei suoi pensieri.  Sotto una catasta di marshmallows, scovò l’antico  libro della sapienza, della speranza e di tutte le risposte di cui un uomo potesse aver bisogno. Emanava una fulgida luce, come fosse una stella nella notte scura, irradiando sapienza al solo sfiorarlo.

L’Imbianchettato lo prese, usando il brillante splendore della saggezza per  farsi luce tra le scartoffie. Finalmente trovò l’elenco del telefono, lo scorse per un paio di secondi, e poi, tra il numero di Bianca e Bernie e quello di Barbabianca, trovò finalmente ciò che faceva al caso suo.

Il telefono squillò, la comunicazione partì, ma prima ancora che l’Imbianchettato potesse dire nulla, dall’altro capo del telefono provenne un suono sordo, seguito da quello di qualcosa che andava in frantumi, dal miagolio di un gatto e da un paio di colpi di pistola.

L’uomo attese pazientemente, allontanando la cornetta dall’orecchio per non rimanere sordo da un timpano.

“Pa…Pace a te, chiunque tu sia.” Mormorò una voce dolorante.

L’Imbianchettato sospirò. “Cardinal Cavalloneo. Da quanto tempo. Sempre quel piccolo problemino di deambulazione?” Domandò, cortese.

“Ognuno deve portare la sua croce, fratello. Sulla mia mi ci sono spaccato i denti più di una volta, ma se questa è la volontà…”

“Taglia corto, Cavalloneo. Ho bisogno di un consulto, e subito.” Lo interruppe l’Imbianchettato, impaziente.

Il Cardinale rise. “Sei fortunato! Giusto oggi sono arrivato in città. Che dici, ti passo a trovare?” Chiese allegro.

“No, vengo io da te.” Rispose l’Imbianchettato. Poi chiuse la conversazione. “Altrimenti saresti in grado di sfasciarmi il palazzo dopo tre minuti.” Pensò. Poi tornò a letto, ansioso per ciò che lgi avrebbe riservato il domani. 

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Capitolo 15
*** Fermenti lattici, anti-infortunistica ed oggetti antistress ***


Il mattino seguente l’intera Namimori era in un fermento tale che quando l’Imbianchettato raggiunse il palazzo del Cardinale gli sembrava di aver attraversato, più che una città, un vasetto di yogurt .
Posteggiò tra Alessia Marcuzzi e i bagni pubblici e, dopo aver salutato un bifidus che passava di la, si ripassò mentalmente la parte di copione che aveva scritto, rigorosamente bianco su bianco, durante la notte insonne che aveva appena trascorso. Si domandò come mai non fosse in grado di rileggere le sue mirabolanti battute e, finalmente, dopo un lungo ed arduo slalom tra i fedelissimi preti di Cavalloneo, riuscì a giungere al cospetto del cardinale.

Se durante il percorso a ostacoli che aveva dovuto affrontare per arrivare fin li tutte le protezioni di gomma che erano state piazzate sugli spigoli dei mobili gli erano sembrate un’idea carina, e il girello della Chicco corredato di paramenti sacri dava un’austera aura di santità alla sala della mensa,  ciò che trovò una volta vartata la gommapiumosa soglia dello studio cardinalizio riuscì persino a fargli dimenticare di rabbrividire davanti all’accozzaglia di miriadi di colori che inondavano l’intera stanza, come neanche Barbara di Paint Your Life sarebbe riuscita a fare in una delle sue giornate peggiori.
“Benvenuto fratello!” Lo salutò Cavalloneo, col suo usuale sorriso caloroso.


“Non chiamarmi fratello, per favore.” Tagliò corto l’Imbianchettato. Non che per lui fosse un problema troppo eccessivo che il prelato familiarizzasse con lui (non poteva più aver difficoltà al riguardo dopo che all’Antagonista’s  Pimpi aveva cominciato a chiamarlo nonno). Il vero problema per l’Imbianchettato, nobile cattivo tra i cattivi e possessore di un posteggio personale al suddeto club esclusivo, era riuscire a rapportarsi in modo amichevole con un uomo in tonaca che pendeva dal lampadario per mezzo di un’imbracatura primipassi.

Che al momento gli ballonzolava spavaldo davanti, apparentemente refrattario alla totale assenza di dignità che dilagava nell’ambiente.

“Esattamente, sua eminenza…Come diavolo c’è finita là dentro?” Domandò l’Imbianchettato , con tutta la candida compostezza di cui poteva essere capace davanti a uno spettacolo poco edificante come quello.

“Ho detto ai miei uomini di lasciarci soli, e hanno ritenuto di dover utilizzare alcuni accorgimenti per evitare che mi infili inavvertitamente l’arpersorio nel naso. Di nuovo.” Dicendo ciò, Cavalloneo ballonzolò fino alla sedia della scrivania, appoggiandosi come poteva alla gommapiuma che ne circondava lo schienale.

“Allora…Di cosa volevi parlarmi?” Domandò.

L’Imbianchettato inspirò a fondo, riorganizzando i pensieri.

“Scusa, ma è una faccenda piuttosto privata…” Mormorò infine.

“Oh, chiedo perdono, hai ragione tu!” Si scusò Cavalloneo, spegnendo la radiolina per il controllo neonati posizionata tra la statuetta di Santa Elena Desiderata e quella di Sant’Alaude Ammanettato.
Sentendosi maggiormente al sicuro dalle intercettazioni, l’Imbianchettato  raccontò al suo confessore i turbamenti e tumulti interiori che avevano squassato la perfetta e candida tranquillità della sua anima durante i fatti della giornata precedente. In quel momento Tsunia era ancora rinchiusa nella cella della tortura e, questo non era difficile immaginarlo, probabilmente era riversa sul pavimento in preda alla colite, ancora indecisa su quale porta del bagno dovesse prendere.

Quando finalmente la situazione fu chiara, la busta di marshmallow d’emergenza fu svuotata e l’ovetto Kinder delle quattro fu mangiato, il cardinal Cavalloneo decise che solo una soluzione estrema poteva mettere quiete nell’anima turbata del suo fin troppo candido amico.

Mentre un provvidenziale raggio di sole illuminava la sua santa figura, una colomba si appoggiò al davanzale della finestra intonando inni sacri in colombese. Fu con quest’atmosfera che Cavalloneo, davanti agli occhi di un incredulo Imbianchettato, inondato di ispirazione divina sciolse le sacre bende dell’imbracatura, poggiò i piedi per terra e, senza sfracellarsi al suolo nemmeno una volta e senza nemmeno lasciare gli incisivi sulle mattonelle del pavimento, raggiunse sano e salvo l’altro lato della stanza.

Qui, circondato da angioletti festosi e dagli animali del bosco che si erano persi poco prima inseguendo Egidiello, egli si avvicinò alla cesta dove teneva il corredo da messa, per poi tirare fuori una scatolina di legno e portarla all’Imbianchettato senza cadere, scheggiarsi o beccarsi qualche strana forma di tetano.

“Che miracolo è mai questo?” Mormorò l’Imbianchettato, pieno di stupore.

“Aprilo! E’ la soluzione a tutti i tuoi mali, figliolo!” Gli rispose Cavalloneo.

Tremante di pio timore, l’Imbianchettato prese l’involucro tra le mani tremanti. Lo soppesò, lo socchiuse e, finalmente, col cuore in gola e la colomba di cui prima sulla spalla, lo aprì.

La luce sparì, i cori tacquero e la colomba lasciò un ricordino sulla spalla dell’Imbianchettato prima di volare fuori dalla finestra insieme a tutto il resto della fauna boschiva.

“E questo che accidenti sarebbe?” L’Imbianchettato guardò l’interno della scatola con puro raccapriccio.

Ma Cavalloneo non sembrava turbato dalla sua reazione.

“E’ un cubo di Rubik!” Rispose, sorridendo.

“Un cubo di chi?? Domandò sconvolto l’Imbianchettato. Quel coso era colorato. Troppo colorato. Sentiva l’estremo bisogno di lavarsi le mani con la candeggina dopo averlo toccato.

“Me l’ha regalato un avvocato…O forse è più esatto dire che me l’ha scagliato contro nel tentativo di allontanarmi dal suo palazzo durante la mia ultima visita pastorale a Bratislava…Azzeccamorsi, mi pare si chiamasse…” Il prelato era perso nei suoi ricordi, e un sorriso che all’Imbianchettato parve assolutamente sinistro, privo di ogni logica e partorito direttamente dai meandri più oscuri del fanservice malcelato, si dipinse sul suo viso.

“E’colorato. Non lo voglio.” Lui, da canto suo, pareva irremovibile.

“Non fare così, Imbianchettato! Questo oggetto divino è un antistress, un valido placebo durante le notti insonni e soprattutto una sfida d’intelligenza! Davvero getti la spugna così facilmente?”

Cavalloneo sapeva su quali argomenti puntare.

L’Imbianchettato titubò al lungo, tentato. Se avesse rifiutato una sfida cosa avrebbero detto di lui? E poi se grazie a quel cubo Cavalloneo era riuscito a fare più di dodici passi senza finire al pronto soccorso, allora forse…

Quello fu ricordato come il giorno della conversione dell’Imbianchettato. Non che fosse del tutto rinsavito, piuttosto prese ad avere una particolare mania nei confronti di tutto ciò che è a quadri e semovente.

La leggenda narra che in realtà Checker Face non sia altro che l’Imbianchettato dopo la conversione, e che la base Melone, così come fu denominato il suo castello in seguito, con i suoi compartimenti spostabili non sia altro che un enorme cubo di Rubik.

Ma questa è un’altra storia.

L’Imbianchettato stava scendendo allegramente le scale che portavano alla cella di Tsunia per avvisarla che era libera e che doveva sbrigarsi a sposare Mukurenzo prima che Xanxigo facesse la sua mossa, col cuore gonfio di gioia e un maglioncino a quadri addosso, quando il suo cellulare squillò.

Guardò distrattamente di chi fosse il messaggio che gli era arrivato, prima che la contentezza gli si gelasse nelle vene.

“Domani mi sposo, feccia. Porta il tuo culo alla mia villa e procurati un regalo.”

Xanxigo.

Si sposava.

Il giorno dopo.

Ma chi diamine poteva essere tanto folle da sposare quell’animale?

“Tsunia! Mia diletta esci, e fai in fretta, mettiti quel velo e chiama Mukurenzo! Altrimenti la mia conversione non sarà completa e non avrò il mio Power up!!” L’Imbianchettato irruppe nella cella come una furia.

Tsunia lo guardò dal pavimento, sconvolta e cianotica. Tanto per cambiare, non aveva capito un gran che della situazione, ma fintanto che le avrebbero dato un bagno unisex, le andava bene lo stesso.

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Capitolo 16
*** Videogiochi, protesi e belle bionde ***


“Questa cosa ha del raccapricciante.” Avvolto da un bellissimo abito da sposa che aveva tutta l’aria di essere il risultato di un incrocio tra quello della principessa Diana e quello di Fiona in cui una delle due non si sia fermata al semaforo rosso, il buono guardava sconvolto e alquanto schifato la sua immagine riflessa nello specchio della camera di Don Xanxigo.

“Me ne sbatto altamente, feccia. Sbrigati a finire di impacchettarti che abbiamo la chiesa preparata per le dieci.” Fu la risposta che gli concesse il malvagio signorotto, che non si degnò nemmeno di interrompere la sua consueta partitina mattiniera ad Angry Tequilas, riadattamento del gioco con gli uccellini che gli stava decisamente più congeniale.

“VOOOOOI!!!! E che diamine, stupido capo! Potresti quantomeno mostrare un briciolo di sensibilità! E’ un giorno dannatamente importante!!” Il buono dai lunghi capelli argentei raccolti in un grazioso chignon intrecciato di perline chiuse con un calcio la porta della stanza, provocando un trauma cranico non indifferente al wedding planner che da due giorni si era accampato al castello, con telecamere al seguito e mazzetti di pisello odoroso infilati fin dietro le orecchie.

“Che accidenti vuoi, la carrozza e le promesse d’amore eterno? Stupida feccia.” A quanto pareva, lo sposo ci teneva a ricordare alla squalesca e anche un po’ squallida sposina li accanto che se la portava all’altare era solo perché non aveva trovato altre offerte decenti, e perché il prete gli aveva impedito di sposare il quarto di manzo rosolato al barolo che tanto amava.

“VOOOOOOI! Che cazzo dici, pirla di un boss? A me non frega niente di certa roba!!” Precisò il buono, brandendo il bouquet con la grazia e la leggiadria che soltanto un nano ubriaco avrebbe saputo avere impugnando la sua ascia.

“Come vuoi tu però non muoverti troppo. Più ti vedo più mi disgusti, principessina.” Lo sfottò di Xanxigo non ebbe risposta verbale né floreale solamente perché una telefonata improvvisa interruppe l’idillio prematrimoniale dei due.

“Chi diavolo sei, cosa vuoi e parla in fretta.” Xanxigo non era esattamente un uomo che avrebbe fatto fortuna a lavorare in un call center.

“Sono Azzeccamorsi, erbivoro. La chiamata è internazionale quindi col piffero che mi dilungo!”

A sentire che dall’altro capo del telefono c’era il suo consulente legale, Xanxigo si irrigidì.

“Che vuoi, feccia? Hai detto che per il matrimonio era tutto a posto.” Ringhiò.

Dall’altro capo del telefono, con l’annuario della scuola aperto davanti e le action figures dei collaboratori scolastici della Nami in fila per essere lucidati, l’Azzeccamorsi sospirò.
“Non puoi prendere la mano di Squalo.” Disse lapidario.


Xanxigo ebbe l’istinto di scagliare il telefono contro il soggetto in questione, e se non lo fece fu solo perché voleva delle motivazioni e perché mirare verso il buono avrebbe implicato dover guardare di nuovo quello svolazzio di tulle che gli faceva venire l’emicrania.

“Che cazzo dici, feccia! Ti devo ricordare che a momenti  mia sorella potrebbe sposarsi con quel vegetale e mandarmi a monte i piani?” Urlò. Il telefono scricchiolò nella sua mano, rimanendo integro soltanto perché, in un lampo di pura genialità e ribellione contro la quantità spropositata di cellulari che doveva comprare ogni settimana, Lussuria gli aveva regalato un indistruttibile Nokia 3310.

“Questo è un problema tuo, erbivoro. Io mi limito ad applicare la legge.” Disse l’avvocato, con tono annoiato.

“E perché mai non potrei prendere la sua mano?” Chiese Xanxigo, mentre le cicatrici si andavano allargando sulla sua faccia diffondendosi con la rapidità di un link idiota su facebook.

“Perché non ha la mano, imbecille! Dove glielo metti l’anello, al naso? Ascoltami bene. C’è una soluzione, ma dovresti fare un lungo viaggio e, per la cronaca, ti sconsiglio di affrontarlo in macchina, gira brutta gente ultimamente.”

Pronto a tutto pur di portare a termine il suo piano, Xanxigo non si spaventò minimamente.

“Parla.” Disse semplicemente. Accanto a lui, il buono era talmente proteso per cercare di ascoltare la comunicazione che a Xanxigo bastò un mezzo cenno della testa per assestargli una testata sul naso e ridurlo agonizzante sul pavimento, perfetto cosplay della Sposa cadavere.

“Devi procurarti una mano. Che sembri vera, dannazione, non ti faccio sposare un pescecane con la pinna da Pinocchio! C’è un solo posto dove puoi trovarne una senza dover andare a riesumare cadaveri. Ti auguro buon viaggio, e cerca di fare in fretta. Pare che l’Imbianchettato abbia ceduto al candido fascino della tua sorellina.”

In preda al turpiloquio e ad un’ira che avrebbe fatto scappar via con la lancia tra le gambe l’Achille dei bei tempi andati, Xanxigo chiuse la comunicazione.

“Aspettami qui feccia. Vado a procurarti un accidenti di arto e torno.” Annunciò.

“Posso togliermi questa merda di dosso?” Domandò una voce dal pavimento.

“No.” Rispose il suo boss, per pura cattiveria, prima di uscire.

Sul display del suo Nokia apparve un indirizzo.

La destinazione era Milano.
 

Tre giorni dopo.
 

“Mukurenzo!” Tsunia quel giorno aveva due ottimi motivi per essere raggiante. Il primo era che dopo tante e cotante sventure, finalmente poteva rivedere il viso del suo promesso sposo. Il secondo era che, a dispetto del desiderio di sua madre e a conferma di un suo briciolo di emancipazione, nel frattempo un chirurgo le stava togliendo quella dannata raggiera che le si era ormai conficcata nel cranio, cosa che se la rendeva meno raggiante fisicamente, le dava comunque una buona dose di sollievo interiore.

“Kfufufufu! Ma ciao splendore! Finalmente ci rivediamo! Sei un incanto come al solito!” Il sorriso di Mukurenzo scaldò il cuore della giovane.

“Oh. E anche tu, Tsunia, sei niente male oggi!” Mukurenzo mise via lo specchietto in cui si era rimirato fino ad allora e tornò a guardare lo schermo del computer.

Così come si era scaldato, come una fetta di pane scaldata male al microonde, il cuore di Tsunia tornò a raffreddarsi.

Non ebbe tempo di rispondere però, che Reborn fece capolino nella schermata della videochiamata, inguantato il un abitino paliettato, cimelio dei bei tempi di Caracas.

“Mukurenzo si può sapere che chaos stai facendo ancora li a Milano? Lunedì la perpetua torna dal pellegrinaggio ad Acuto , e se ci becca è capace di convincere Yamabbondio che non dobbiamo celebrare il funerale di Yuni ma un matrimonio!” Spiegò Reborn, finendo di applicarsi le ciglia finte specchiandosi nello schermo.

“Kfufufufu! Rilassati donna, è sabato sera! Movida milanese e domani sarò da voi!” Disse Mukurenzo, rilassatissimo.

“Mamma! Digli qualcosa!” Tsunia invece, tanto per cambiare, era sconvolta.

Reborn alzò le spalle inglitterate. “Hai ragione, il sabato sera è sacro!” Infilato il fedora in testa e raccomandato a Tsunia di controllare il ragù sul fuoco, Reborn uscì per la sua seratina tra amiche a Namimori.

La comunicazione si interruppe, e Tsunia rimase da sola come una particella di sodio in un’acqua di marca.

Andò ad appallottolarsi sul divano, vaschetta di gelato alla mano e replica di Mamma ho perso l’aereo in televisione.

Sapeva che per quanto la lasciassero sola, a lei non sarebbero mai capitate le magiche avventure del tizio del film. Vita piatta e noiosa la sua, finchè si trattava di fare cose unisex.
Sperò che Mukurenzo non avrebbe fatto troppi bagordi quella sera.

Quello che la giovane non sapeva, era che di li a poco la serata del suo promesso sposo avrebbe preso una piega decisamente inaspettata.

E, almeno questa volta, non si trattava di belle bionde che si rivelavano chiamarsi Sergei oppure Ivan.

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Capitolo 17
*** Aureole, social network e segni ortografici ***


“Uh uh uh uh aaah! Illusion!”

“Mukurenzo…”

“Illusion!

“…Mukurenzo?”

“It's just an illusion!

In all this confusion!”

“Mukurenzo, ti  dovrei parlare…sarebbe una cosa  urgente…”

“Uh uh uh uh AAAH!” Mukurenzo fu trascinato giù di peso dal cubo sul quale si stava scatenando al ritmo di un evergreen anni ’80 che gli risultava parecchio congeniale, lasciando per un po’ lo scettro di Tony Manero  dei poveri  a suo cugino Daemonortolo, che come lui a certi ritmi proprio non ci sapeva resistere.

“Ma si può sapere che accidenti vuoi? Non lo vedi che sono impegnato?”  Mukurenzo si massaggiò l’orecchio per il quale l’aveva afferrato quello sconosciuto coi capelli biondi e una trendyssima aureola in testa.

Mukurenzo si domandò perché all’ingresso nel locale a lui avevano dato soltanto i soliti starlight da quattro soldi.

“Ma come, non mi riconosci? Sguardo che conquista, sorriso ultraterreno, luminescenze dietro il coppino…” Lo straniero pareva interdetto.

Mukurenzo assottigliò gli occhi, cercando di far funzionare il cervello sebbene dopo qualche drink cominciava ad avere l’impressione di avere in testa un ananas.

“Sei…Qualcuno a cui devo dei soldi?” Buttò li.

“In effetti ti ho beccato più di una volta a rubare dal cestino delle offerte.” L’uomo pareva irritato.

“Ascoltami bene.” Proseguì, massaggiandosi le sante tempie. “Non lo faccio di certo per te, ma per quella povera pecorella pia e fedele che ti sta aspettando a casa. Tecnicamente dovrei essere contrario a questa cosa, ma dato che con la mia onniscienza e con la copia dei Promessi Sposi che è uscita in allegato al Corriere so già come andrà a finire questa faccenda, voglio darti una mano per poter finalmente convolare a nozze con quell’aulente fiorellino giapponese.” Annunciò.

Mukurenzo assottigliò ancora di più gli occhi. “Xanxigo, vero?” Disse.

“Accipicchia, mi stai diventando perspicace!” Rispose San Primo, sollevato.

“Oh Xanxigo! Ti sei fatto la tinta!” Esclamò allora Mukurenzo, prima di ricevere un santo manrovescio che lo spedì dritto steso per terra là dove di li a poco avrebbe dovuto esibirsi nel Canta Tu di Avril Lavigne.

Sogni di gloria che andavano infrangendosi.

“Sono San Primo, pezzo di imbecille! San. Primo!! La vedi l’aureola? Eh?” Lo incalzò l’uomo, tirandolo su per il bavero della felpina verde fluo.

“Su facebook sembravi diverso.” Cercò di giustificarsi il giovane.

San Primo cercò di recuperare la calma e di spiegare a Mukurenzo la situazione. Xanxigo era in città, e se non si fosse dato una mossa a fare qualcosa di li a poco tutta l’eredità della bella Tsunia sarebbe finita tra le mani (un po’ vere e un po’ posticce) dei Buoni.

Un affronto che Mukurenzo proprio non poteva permettersi, quantomeno alla luce dell’ultimo estratto conto che gli aveva mandato la banca.

Avviandosi verso il centro città, le ultime parole del santo riecheggiarono nella testa del promesso sposo:

Questa operazione non s’ha da fare! Né ora, né domani, né possibilmente dopodomani!

Bisognava soltanto trovare Xanxigo e neutralizzarlo. Avrebbe finalmente dato prova del suo valore, sconfiggendo uno dei membri più in vista dell’Antagonista’s.  Kfufufufu, se questa volta non ci sarebbe riuscito!
 


Questa volta, non ci sarebbe riuscito.

Mukurenzo  entrò nella camera dell’ospedale dotato di mascherina e tonnellate di gel igienizzante sulle mani. Non credeva che la peste stesse dilagando ancora così tanto a Milano, nè tantomeno avrebbe mai immaginato di trovarsi al capezzale di Xanxigo durante i suoi ultimi, drammatici istanti di vita.

La peste l’aveva beccato in pieno. Lui aveva usato “Lancio di Tequila”, ma quella aveva risposto con “Sonaglini gommosi e appiccicaticci”. Fu superefficace.

Il boss dei Buoni giaceva nel letto dell’ospedale, i segni delle piaghe ancora visibili sul corpo martoriato di pennerellate. Uno stciker a forma di coniglietto puffoso gli stava suggendo dal collo gli ultimi esili effluvi di vita del corpo ormai esangue.

“…Feccia.” Riuscì a rantolare. Mukurenzo provò una gran pena a vedere un mito crollare così, roba che gli era successa solo una volta in passato, quando aveva scoperto che mettendo una tartaruga nel plutonio non ne salta fuori un ninja col carapace.

“L’a….L’a…!” Xanxigo cercava di dire qualcosa.

“La mano? Non temere, la porterò io alla tua pulzella!” Si offrì eroico Mukurenzo.

“No! L’aaaa!” Xanxigo stava ormai lasciando questo mondo.

“La famiglia? E’ una cosa molto importante…” Provò Mukurenzo.

“L APOSTROFO A…!”

Fu allora che Mukurenzo comprese. Xanxigo stava di certo offrendogli il suo posto all’Antagonista’s!

Emozionato come solo Miss Italia saprebbe essere, il giovane assicurò Xanxigo che avrebbe portato onore al suo ricordo. Poi, concessagli l'estrema unzione con del succo di frutta, Mukurenzo se ne andò, per  correre a sposare la sua Tsunia.

Adesso l’aveva tolto il piede dall’alimentatore di fiamme d’ira, ma ormai era troppo tardi.

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Capitolo 18
*** Happy ending, adozioni e lapidi low cost ***


 
“Questo è ESTREMAMENTE un problema!” Urlò Fra Cristoforhei, prendendo un altro biscotto.

Seduto accanto a lui sul divano, Reborn era armato di mini aspirapolvere e di sguardo truce per fare in modo che l’uomo non le riempisse il divano di briciole mentre uccideva visivamente sua figlia, rannicchiata contritamente su una sedia.

“Io…Io l’ho fatto per Mukurenzo!” Balbettò la giovane, sentendosi colpevole di chissà quale crimine.

“Ma sì! Vuoi fare un favore al tuo uomo? Inibisciti sessualmente!” Sbroccò sua madre.

“Kfufufu..Ci dev’essere una soluzione! Me l’ha detto anche San Primo quando ci siamo trovati in discoteca!” Disse Mukurenzo, che da parte sua era felice come un pupo mentre si provava alternativamente il vestito da sposo e quello per l’ingresso trionfante al club.

“Tu…Hai trovato chi…Dove???” Domandò sconvolta la perpetua, uscendo dal bagno.

“E tu che ci fai in casa mia?” Le chiese Reborn.

“Ormai Xanxigo è morto, quindi volevo vedere dove andate a parare.” Rispose tranquilla, accendendosi una sigaretta.

“In…In effetti Fra Cristoforhei è un uomo di chiesa…Potrebbe sciogliermi lui dal voto!” Tentò Tsunia.

E, miracolo tra i miracoli, questa volta non rimase inascoltata.

“Ma è un’idea ESTREMAMENTE GENIALE!” Esclamò il frate, alzandosi in piedi rovesciando il vassoio di biscotti.

“Grazie, grazie!” Rispose Reborn, mentre tutti si congratulavano con lui per la bellissima trovata.

Tsunia ebbe voglia di piangere.

“Allora è fatta. Col potere conferitomi dall’ordine di San Primo Invongolato, io ti sciolgo estremamente dal tuo voto estremo! Vai e procrea, Tsunia!” Disse solenne, sebbene la giovane non fosse del tutto certa che le parole di rito fossero proprio quelle.
 
Il matrimonio fu celebrato quel giorno stesso. Tsunia e Mukurenzo vissero insieme giorni felici, fino a quando la coppietta non scoprì un piccolo problema logistico che impediva loro di mettere al mondo dei pargoli. Ma decisero di adottare la ragazzina che aveva salvato Mukurenzo  a Milano e di prendersi un cane: Tsunia fu felice dia vere accanto qualcuno con del cervello che l’ascoltasse quando parlava, e Mukurenzo pareva felicissimo di avere lì la piccola Chrome.

Reborn fece ritorno a Caracas, dove incontrò un salvatore di antichi vasi che la riportò agli splendori della giovinezza, mentre la perpetua fu assoldata come informatore dai buoni. Don Yamabbondio riebbe la sua mazza, e ancora non ha capito molto di tutto quello che è successo, mentre l’Imbianchettato finì la riabilitazione e cominciò a tentare di conquistare questo e tutti gli altri mondi.

Il cardinale Cavalloneo e l’Azzeccamorsi continuarono a scriversi. Lettere minatorie, ma a scriversi.

Per quel che riguarda la Monaca Sbronza e il suo amato Egidiello, i due rischiarono di uccidersi a vicenda più di una volta. Poi la monaca riuscì a far ubriacare i cerbiatti e le colombelle, e da allora tra loro regnò una pacifica tregua che gli scommettitori giurano fosse prematrimoniale.

Ovviamente, Mukurenzo non entrò mai nell’Antagonista’s se non armato di un piede di porco, cosa che gli fece guadagnare una notte in gattabuia e la derisione di Pimpi. Ma questa è un’altra storia.

Vissero tutti così felici e contenti, a parte Squalo che sta ancora urlando contro la tomba del suo boss senza la mano che il promesso ormai sposo aveva dimenticato all’ospedale di Milano. Si scoprirà solo in seguito che Xanxigo era parente di Yuni, e che la qualità delle tombe di granito nel cimitero di Namimori non è delle migliori. O che quantomeno non reggono gli scoppi d’ira.

 
 
Finisce qui l’avventura dei Promessi Tonni. Vorrei ringraziare tutti voi che vi siete suppati questi diciotto capitoli di insana follia. Ringrazio Revenant, Hinata 92 Dark_light e Kyoite per avermi supportato e recensito con una costanza straordinaria, le ringrazio per la pazienza e l’immensa gentilezza ^^ E grazie a tutti quelli che hanno recensito!

Ringrazio Cristina perché senza di lei che mi spronava non avreste mai letto queste oscenità, e ringrazio Tsuna, Mammon, Byakuran, Colonnello e Yamamoto per avermi ispirata ogni giorno. Davvero ragazzi, siete magnifici.

Spero alla prossima!

Shodaime.

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