Pantofole di lana in un largo sacco color prugna

di 8WeirdSisters8
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** In senso europeo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Tipo una dedica, ma molto meno lusinghiera: i personaggi di questa storia sono tutti, più o meno liberamente, ispirati ai divertenti, dissennati, eccentrici, ossessionati e ossessionanti soggetti che ingombrano vistosamente la mia vita.  Amici chiacchieroni, cugini con la piacevole tendenza a cadere in stati semicomatosi sul divano di casa mia secondo esigenza, vecchie zie ficcanaso e conoscenti di cui, a voler parlar bene, si è costretti a dire che vestono con eleganza: sono loro la mia fonte d’ispirazione e sarebbero loro a potermi citare in giudizio se si riconoscessero in questa storia.

È per questo che non la leggeranno mai.

 

Prologo

 

 

Non è che fosse esattamente un gran lettore. Non masticava libri dalla mattina alla sera. Tanto meno dalla sera alla mattina, lasso di tempo che dedicava, senza particolari problemi o eccezioni degne di nota, al sonno più quieto che fosse possibile esibire a chi abitasse proprio sopra la stazione.

Però si deve riconoscere che le sue letture erano davvero poco convenzionali. Leggeva con inedito piacere il retro della scatola di cereali e i foglietti illustrativi dei farmaci. S’immergeva di frequente nella lettura compita e attenta dell’elenco telefonico. Aveva un’insana passione per i libretti delle istruzioni.

C.J. Yancoskji si barcamenava con pigrizia fra le abitudini di una vita eccezionalmente noiosa, anche se faceva cose che nessuno fa mai – come studiare il manuale di costruzione della scarpiera prima di provare a montarla, azione nella quale la maggior parte degli uomini improvvisa, rivendicando non si sa bene quale congenita capacità di montaggio di mobili.

C.J. Yancoskji non sapeva nemmeno cosa fosse l’improvvisazione. In parte perché nelle sue letture questa parola non era mai compresa. In parte perché… insomma, avete capito. Se avesse messo un piede fuori dalla routine quotidiana sarebbe letteralmente impazzito.

 

Paula Winters impazziva due-tre volte l’anno. Era una giornalista che faceva su e giù per il paese per questa o quella manifestazione teatrale, riusciva a tenere lezioni di recitazione ad una cinquantina di aspiranti attori senza speranze di calcare una scena, nel tempo libero organizzava spettacoli lei stessa, tutti di discreto successo, non mancava di guardare ogni film che uscisse al cinema e si affannava a comprimere, nello striminzito spazietto libero rimasto in agenda, il corso di pilates, che frequentava a sere alterne senza risultati di sorta.

Le rimaneva, di tanto in tanto, il tempo di una litigata telefonica con sua sorella, che a mille chilometri di distanza, le strillava contro la sua insoddisfazione.

Così, un po’ per gioco, un po’ per suggestione, Paula si presentava occasionalmente al pronto soccorso denunciando la comparsa di sintomi del tutto compatibili con lo stress da superlavoro, e quando le si diceva che le sarebbe bastato riposarsi per riprendersi, si faceva ricoverare nel reparto psichiatrico, di sua spontanea volontà e contro il parere dei medici.

«E speriamo che ce la tengano stavolta!» strillò alla cornetta sua sorella. Ma dall’altra parte, avevano già messo giù.

 

Ora, se C.J. e Paula si fossero conosciuti, forse – dico, forse – ne sarebbe venuto qualcosa di buono per entrambi. Forse il temperamento di C.J. avrebbe aiutato Paula a darsi una calmata, a prendersi del tempo per… beh, per non fare proprio nulla. O per fare dei puzzle, che è come dire la stessa cosa. Forse Paula avrebbe introdotto delle meravigliose, insperate novità nella vita di C.J. e lo avrebbe iniziato, con la rassicurante saggezza della veterana, al mondo degli imprevisti, dei gustosi eventi fortuiti, delle variegate, impalpabili emozioni di giornate sempre diverse e sempre sorprendenti.

 

Forse sarebbe andata proprio così. Ma questa non è la storia di come C.J. e Paula si conobbero.

 

Questa è la storia di come C.J. Yancoskji e Paula Winters si incontrarono diverse volte senza mai conoscersi e di come entrambi, individualmente e inconsapevolmente, contribuirono alla serie di imponderabili e controversi eventi che portò all’omicidio efferato di Dotty Eglentyne, vedova Burke, maestra di pianoforte in pensione e giocatrice d’azzardo a tempo pieno.

Ma non è il caso di affrettare il racconto.

 

 

 

 

 

 

Avvertimento di fondamentale importanza:

Se mi fate sapere che ne pensate, non mi offendo. Ve lo dico a scanso di equivoci.

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Capitolo 2
*** In senso europeo ***


 

 

In senso europeo

 

 

 

«Quando hai qualcosa che non va, te lo si legge in faccia, bambina mia. Me lo ripeteva sempre mia madre…» 

Sally Thompson stava tenendo banco qualche metro più in là, in viso l’espressione decisa di chi sta intrattenendo un audience di un certo livello. I capelli giallastri ondeggiavano al ritmo del suo panegirico autopromozionale mentre faceva ciondolare le tozze gambe giù dallo sgabello in cima al quale era appollaiata.

In ufficio la conoscevano tutti e lei, per parte sua, si teneva premurosamente informata sugli affari privati di ciascun collega, cosa che non riscuoteva la grata ammirazione degli stessi, come lei si sarebbe giustamente aspettata.

 

Si direbbe che qualcosa che non andava, in faccia, l’avesse sempre.

«Quell’insopportabile espressione di pettegola sempre in cerca di particolari scabrosi. Gliela cancellerei con piacere se potessi!» esclamò, come da rito, Fanny Long agitando il cancelletto smunto che C.J. custodiva di solito nel primo cassetto della sua scrivania. C.J. la guardò in tralice ma non fece obiezioni. Fanny, un discutibile caschetto moro e un crogiolo di rughe intorno agli occhi, era forse l’unica persona che potesse definirsi sua amica. Aveva da sempre un posto libero in macchina, un senso dell’umorismo volubile, ma capace, e soprattutto un odio profondo e radicato per Sally Thompson.

Se credete che queste cose non riescano a fondare un’amicizia, non avete mai conosciuto gente come Sally.

Era grassoccia e piuttosto volgare, un barile di malignità pronto ad esplodere. Era anche eccezionalmente dotata di quella finta umiltà che tanto disgustava Fanny e che le aveva permesso di raggiungere il ruolo di segretaria in quell’ufficio.

C.J. era addetto agli acquisti. Di cosa, non aveva poi molta importanza. Cosa facesse Fanny era infine un mistero. Per lo più, assolveva all’importante compito di tonificare i glutei, contraendo i muscoli del sedere mentre era alla scrivania.

 

«…che poi è morto, poveretto. Mi è molto dispiaciuto per lui, anche se non lo conoscevo. Ma d’altronde, io sono così sensibile che riesco a dispiacermi anche per gente che non conosco, come Piotr appunto. E che – detto tra noi – mi avevano riferito essere un vero alcolizzato.»

Fanny inarcò pericolosamente le sopracciglia.

«Insomma, non mi stupisco che sia schiattato… dopo tutti i suoi vizietti.» Sally s’interruppe per esibirsi in una risatina gutturale, una specie di frivolo singulto, che nelle sue intenzioni doveva avere un tono delicatamente allusivo.

Poi riprese con espressione impietosita: «E non potevo mancare al funerale, sapete. Ho fatto le condoglianze alla famiglia. Sono sicura che mi siano molto grati per esserci andata anche se non lo conoscevo affatto.»

Fanny fece schioccare la lingua. C.J. guardò il suo bianchetto con apprensione.

«Se non per sentito dire, ecco!» Di nuovo quel garrulo ridacchiare, mentre sollevava la mano per mimare una bottiglia che viene portata alle labbra.

 

Fanny scattò in piedi:  «Tu sei… tu sei una−»

«Una gran brava persona. Dovremmo tutti seguire il tuo esempio» si affrettò a completare C.J. Sally destinò loro un’occhiata sospettosa, poi l’idea di dedicarvi più attenzione del dovuto sembrò attraversarla e riprese a proclamare l’infinito elenco delle sue virtù, ahimè, ogni tre per due smentite dalle cattiverie che riusciva a infilargli in mezzo.

Mentre lui la tirava per un gomito, Fanny sbottò: «Ma perché lo hai fatto? Prendere esempio da lei? Sì, se volessimo avere la certezza di finire all’inferno!»

«Per favore, hai intenzione di entrare nella sua lista nera?» replicò lui pacatamente, mentre la guidava fuori dall’ufficio e poi giù per le strette scale che conducevano fuori dall’edificio.

«Ma ci siamo già entrambi! Si sarà già appuntata le calunnie da dire ai nostri funerali!»

Lui grugnì qualcosa di ben poca importanza in risposta. Qualcosa riguardante il sudore che gli faceva scivolare gli occhiali giù per il naso.

«Perché si presenterà ai nostri, ci puoi scommettere. Va a quelli degli sconosciuti…»

Entrarono nel bar dietro l’angolo.

«Ma poi perché lo fa?» chiese con ingenua curiosità lui.

«Perché cerca di racimolare gente che venga al suo. Spera che i congiunti delle persone che va ad oltraggiare si presentino quando toccherà a lei.»

 

Prima che una folata di vento spazzasse le foglie sul marciapiede dal quale erano appena spariti, fu udibile l’ultimo commento sulla questione: «Se continua così, saranno i congiunti a darle una ragione per fare un funerale.»

 

 

*  *  *

 

Fanny amava combattere battaglie perse. Si può dire che avesse a cuore una sfilza di problemi senza soluzione, di questioni senza via d’uscita e di gente in stato davvero irrecuperabile.

Chiaro che C.J. faceva parte di questa categoria.

Così, a tradimento, gli rivolgeva domande con cui sperava di coglierlo di sorpresa.

«Visto qualche buon film di recente?»

La domanda rimbombò, col suo tono di modulata disinvoltura, nel locale semi-vuoto.

 

Potsdamer Café Deluxe, fondato una ventina d’anni prima da una coppia di patriottici berlinesi, era balzato agli onori della cronaca quando, negli anni ’90, Francis Ford Coppola vi aveva girato una piccola scena di un suo film. Di fatto, protagonista della scena era stato il muro di mattoni, quello sul retro, sul quale un piacente giovanottone di ventinove anni, che interpretava un adolescente squilibrato, aveva fatto pipì come segno di protesta contro la società.

«E anche kontro l’iciene forse… io non rikorda bene» aggiungeva, senza un filo di sarcasmo, l’ottantenne Herr Schnitzler, quando raccontava la vicenda ai clienti.

Dopo essere passato di proprietà diverse volte e avere sopportato, per un breve periodo, la trasformazione in Potsdamer Lavasecco Express, adesso non era che un poco frequentato bar, in mano a un John Smith qualunque. La clientela era poca e tranquilla (tranquilla perché poca) e C.J. pensava semplicemente che non esistesse di meglio per passare un po’ di tempo fuori casa.

 

Riservò a Fanny un mite sguardo interrogativo, mentre rispose:  «No.»

C’era del candore quasi commovente nella sua sincerità.

Fanny poggiò un gomito sul bancone, con aria sconfitta.

«Come hai passato il weekend?»

«Niente di speciale, io..»

Ho dormito, ho mangiato, ho letto le informazioni nutrizionali stampate sulle confezioni di tutto quello che ho mangiato e ho dormito di nuovo.

Era questo che avrebbe voluto dire, ma qualcosa nello sguardo fiammeggiante dell’amica lo indusse a tacere sulla verità.

«Ma perché non sei uscito? O non hai guardato un film? O letto un libro? Sveglia C.J.! Ci sono un mucchio di cose che possiamo− puoi fare!»

La brusca correzione non fece suonare nessun campanello in lui, che si limitò a fare spallucce.

Fanny si preparò a cominciare di nuovo. In quello, un biondino acneico sbucò da sotto il bancone.

«Salve, gente!»

Domata la sorpresa, i due ricambiarono il saluto.

«Ciao, Pat…»

Pat era il barista. Lavorava lì da diversi anni. Non era particolarmente intelligente, ma sapeva esattamente quanto ghiaccio mettere nello scotch di Fanny. E anche quanto cacao in polvere spargere sul caffellatte di C.J.

Quest’ultimo era astemio, nel caso fosse necessario specificarlo. Ma il suo barista di fiducia glielo perdonava. Anche se giovane, non aveva grilli per la testa ed era sempre molto comprensivo con i suoi clienti.

Ma tutti abbiamo almeno una pecca e quella di Pat era la sua passione per il bar in cui lavorava e, in particolare, per il Fantastico Muro di Francis Ford Coppola.

Era stato proprio Pat a porre un’etichetta placcata in oro sul muro in questione che ricordasse ad ogni passante – e in quel vicolo è legittimo supporre che al massimo passasse qualche gatto randagio – che lì il famoso regista aveva messo la sua firma. L’urina aveva funto da inchiostro, certo, ma era un dettaglio su cui era facile sorvolare. Un ragazzino dalle aspirazioni vandaliche aveva completato l’opera armato di bomboletta spray, così adesso l’etichetta celebrativa era totalmente oscurata dalla scritta “MURO DELLA FAMOSA PISCIATA”, che campeggiava, a lettere cubitali sbavate di rosso, sulla stessa parete.

Ciò non smorzò mai l’entusiasmo di Pat. Entusiasmo che trovava ogni volta la sua manifestazione nelle logorroiche, spumeggianti conversazioni che intratteneva con se stesso.

«Un muro celebre. Come a Berlino! E questo si trova in un bar berlinese! Oh, il destino!», per poi aggiungere, completamente affascinato dalla vicenda: «I cicli e i ricicli storici…»

«Pat, tu cos’hai fatto nel weekend?» Fanny interruppe quelle affabulazioni insensate.

«Non posso dirtelo» fece quello, serio serio.

«E perché?» gli chiese, inarcando un sopracciglio.

«Perché poi dovrei ucciderti…» sghignazzò lui.

«Oh, molto originale» Fanny sembrò fare un enorme sforzo per non alzare gli occhi al cielo.

 

Se lo avesse fatto, avrebbe notato il malriuscito abbozzo di Crêpe che pendeva dalle travi con fare mollemente minatorio e che rappresentava l’ultimo, penoso tentativo di Pat di arricchire le proprie capacità culinarie in senso europeo. Sarebbe bastato alzare lo sguardo, solo quello, per evitare la catastrofe, ma in un moto di considerevole indulgenza, Fanny preferì mostrarsi più delicata e non lo fece.

Così, nell’attimo stesso in cui schiuse la bocca per chiedere a C.J. di accompagnarla al cinema quella sera, la Crêpe si staccò e, dopo un grazioso librarsi in aria, atterrò con fatale precisione sulla sua testa.

Fanny urlò. Pat urlò. C.J. la fissò costernato e questo è tutto quanto possiamo aspettarci da un tipo mansueto come lui.

«Cos’è?! Cos’è?!»

«La Crêpe! È solo la pastella della Crêpe

«Perché?!» Fanny, scattata in piedi, si dimenava.

«Ma perché cosa?!»

Nel trambusto generale, non ci si capiva più niente. Più volte Pat cercò di allungare uno straccio malconcio a Fanny, che, fra un saltello e un singhiozzo isterico, lo respingeva via con un gesto stizzito della mano.

«Devo andare!» disse infine, e si catapultò fuori, lasciandosi alle spalle le scuse forsennate di Pat.

C.J. si affrettò a seguirla, dopo uno sguardo contrito a Pat, come se sentisse di doversi fare perdonare per il fastidio procurato.

 

Ci fu un secondo di requie. La porta del bar non si era ancora chiusa, che una donna accalorata fece il suo ingresso sbraitando al telefono.

«Che cosa significa che ho l’obbligo morale, in quanto sorella, di mantenerti?! Per quanto mi riguarda, puoi anche prostituirti!»

Era, com’è chiaro, Paula Winters.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio blabla:

Grazie, grazie e grazie alle recensitrici e al recensore del precedente capitolo.

Grazie, grazie e grazie ai seguitori, al preferitore e alla ricordatrice.

E visto che, per la maggior parte, chi ha recensito ha anche seguito/preferito/ricordato, allora vi toccano sei Grazie a testa.

L’ultimo l’aggiungo qui, così fan sette, che come numero mi piace di più: grazie!

Come sempre, chi mi vuole fare sapere che ne pensa, può farlo senza timore di ottenere uno scappellotto in risposta. Piuttosto un dolcetto.

Buonanotte, Signor Goryunov.

 

WS

 

 

 

 

 

 

 

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