I cavalli di fuoco

di BlueSkied
(/viewuser.php?uid=242439)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Otto ore ***
Capitolo 2: *** Juno ***
Capitolo 3: *** LaMosse Manor ***
Capitolo 4: *** Hawkeye ***
Capitolo 5: *** Una gabbia dorata ***
Capitolo 6: *** Marine ***
Capitolo 7: *** Come fai a far uscire un topolino da un labirinto? ***
Capitolo 8: *** Lucy ***
Capitolo 9: *** Scommettiamo ***
Capitolo 10: *** Il rosso e il nero ***
Capitolo 11: *** Caleidoscopia I ***
Capitolo 12: *** Caleidoscopia II ***
Capitolo 13: *** Lettere ***
Capitolo 14: *** Lenti ***
Capitolo 15: *** Hades ***
Capitolo 16: *** Trauma ***
Capitolo 17: *** Lividi ***
Capitolo 18: *** Some Velvet Morning ***
Capitolo 19: *** Caleidoscopia III ***
Capitolo 20: *** Caleidoscopia IV ***
Capitolo 21: *** Albert ***
Capitolo 22: *** Tempesta ***
Capitolo 23: *** Celia ***
Capitolo 24: *** Vincitori e vinti ***
Capitolo 25: *** Non scrivere, mai ***
Capitolo 26: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Otto ore ***


Otto ore

Ci siamo quasi. Un piccolo scossone del pullman mi sveglia dal sonno leggero in cui sono caduta verso le tre o le quattro, non ricordo di preciso. Getto un’occhiata fuori e vedo che i boschi radi sono scomparsi e le colline sono più lontane e azzurre nell’alba imminente.
Soffoco uno sbadiglio, controllando il mio zaino accanto a me, mentre  gli altri pochi viaggiatori si stiracchiano e quelli in compagnia sussurrano fra loro. Non vedo l’ora di arrivare.
Sembra passata un’eternità da quando ho mandato il mio cv e la lettera di referenze alle scuderie LaMosse e la mia assunzione è stata accettata. Tutti quelli che si occupano di cavalli nel New England vogliono lavorare per i LaMosse, allevatori di leggende. E adesso, tocca a me. Non ho paura di non essere all’altezza, ho imparato a cavalcare prima di camminare, addestro cavalli fin da quando ho quattordici anni, so cosa devo fare e lo farò al meglio. Non sono nemmeno nervosa, sono impaziente e sveglissima, nonostante siano le sette del mattino e io abbia viaggiato otto ore pur di essere qui. Oggi cambierà tutto, finalmente. Per troppo tempo mi sono sentita dire che non sarei mai stata nessuno, perché mio padre era un fallito, ma dimostrerò che si sbagliano.
Il pullman cambia marcia con un altro lieve sobbalzo, interrompendo i miei pensieri. Stiamo percorrendo una strada dritta, costeggiata di alberi, e intravedo un cartello: “ Benvenuti a Barnes, la città delle Scuderie LaMosse”. Ci siamo, ormai.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Juno ***


Juno

Entro nella stazione trascinandomi dietro il trolley malconcio e lo zaino, trovandola quasi deserta a parte la presenza di una donna dalla pettinatura più che cotonata, dietro il pannello della biglietteria.
Non mi ha visto, è totalmente assorbita da una rivista, così, per farmi notare, busso senza troppa insistenza. La donna alza lo sguardo su di me, squadrandomi da sopra gli occhiali: - Che posso fare per te, cara?- mi chiede, in tono spiccio ma gentile. – Ehm…buongiorno - esordisco – Volevo sapere se c’è qualcuno ad aspettarmi, dalle scuderie LaMosse – dico. Per un attimo mi guarda con aria vacua, così aggiungo: - Mi avevano detto che qualcuno sarebbe passato a prendermi qui…-  Il suo viso s’illumina in un lampo di comprensione: -Oh, sì, certo, certo- esclama, con una risatina a mo’ di scuse – Tu devi essere la sostituta di Jeff. Povero, vecchio Jeff, era proprio l’ora che andasse in pensione- osserva, quasi fra sé e sé, poi si ricorda che ci sono anche io: - Juno arriverà fra poco. Se intanto vuoi darti una rinfrescata il bagno è quello- e me lo indica, un po’ inutilmente, visto che c’è la targhetta sulla porta – E se vuoi mangiare, la caffetteria dall’altra parte della strada fa le migliori uova dello stato- mi assicura, con una strizzata d’occhio confidenziale. Mi limito a restituirle un sorriso certo meno brillante e la ringrazio, avviandomi verso il bagno con lo zaino.
Non mi cambio completamente, metto una maglia pulita, un paio di jeans meno massacrati e mi lego di nuovo i capelli. Non volevo presentarmi da LaMosse troppo in tiro. Voglio che capisca che sono una che lavora, senza distrazioni inutili. Saluto la signora della biglietteria ed esco, mettendomi in un punto particolarmente visibile del piazzale e accendendo una sigaretta.
Questo deve essere un posto tranquillo in ogni stagione: strade ordinate, poche macchine e nessuna novità che resta sconosciuta  a lungo. Ho appena schiacciato il mozzicone nel porta cicche, quando vedo un furgoncino un po’ lurido fermarsi a poca distanza da me. Fango, sabbia e paglia indicano inequivocabilmente scuderia, quindi prendo la mia roba e mi avvicino.
La conducente si rivela essere una ragazzina di diciotto o diciannove anni, con i capelli biondi chiarissimo parzialmente nascosti da un berretto di lana di quelli che cadono un po’ di lato e una felpa nera a fantasia di teschi rosa. Scende rapida dal mezzo e, con mio stupore, mi abbraccia: - Ciao, Emily!- squittisce, entusiasta, come se ci conoscessimo da anni. – Io sono Juno, Juno Pryce, per la verità, ma tu chiamami Juno -  si presenta, staccandosi e scrutandomi dal basso in alto con gli occhioni azzurri spalancati. Mi arriva appena al mento, e io sono bassa, per la media americana. – Piacere, Juno – replico, non sapendo che altro aggiungere. Lei fa un sorriso enorme e prende i miei bagagli, sistemandoli nel cassone del furgoncino e invitandomi a salire.
Una volta arrampicata al posto del passeggero, scopro che l’abitacolo sembra un’esplosione nello studio di un pittore. Tutto, dalla tappezzeria dei sedili al cruscotto è a colori vivacissimi, tanto da fare quasi male agli occhi. Per evitare commenti, mi lego la cintura e guardo il piazzale allontanarsi, mentre ci avviamo lungo quella che credo sia la strada principale.
Juno si mostra subito una compagnia esuberante: - Che figo!- è il suo primo commento – Ci voleva proprio un’altra donna alla scuderia. Io non lavoro proprio lì, diciamo che sono il tramite tra l’allevamento e la città. Le altre sono Pat e Marnie, che sono due dei veterinari e Jane, la cameriera della signora. Tutti quelli che sono alle stalle sono uomini, non ti daranno un attimo di tregua, ma basta che tu molli una sberla al primo che allunga le mani e poi ti lasceranno in pace, fidati. – Ha detto tutto questo senza praticamente prendere fiato. Annuisco, di nuovo senza sapere che dire e lei torna all’attacco, questa volta con le domande: - Dì, ma da dove vieni? Era una scuderia grande? Cosa facevi là? Avevi un cavallo tuo? Forse il padrone ti permetterà di tenerne uno, gli altri stallieri li hanno. -  Altro discorso a perdifiato, tanto che ho dimenticato cosa mi ha chiesto all’inizio.
La guardo per un attimo, incerta, poi comincio a spiegare: - No non avevo un cavallo mio, il mio compito era badare a tutti, li montavo quando serviva-. Non è né esauriente, né dettagliato, ma a quanto pare basta comunque, perché Juno fa: -Wow- spalancando di nuovo quei suoi occhi rotondi e continua a guidare in un silenzio ammirato.
Non sono un tipo molto loquace, quindi non faccio niente per dare il mio contributo alla conversazione, anche perché, dopo qualche minuto, ci pensa di nuovo Juno: - Siamo quasi arrivate – m’informa –Vedrai, non hai mai visto niente di simile. Pronta? – mi chiede, eccitata come se mi stesse mostrando il mio regalo di compleanno. La strada curva fra due colline e la vista si apre improvvisamente su quella che sembra una città in miniatura: quattro stalle monumentali, altri due edifici principali circondati da alberi, di cui uno deve essere la casa padronale, il tutto racchiuso entro una cornice impressionante di recinti, che sembra estendersi per chilometri. Juno mi guarda, con espressione soddisfatta: -Da perderci il fiato, eh?- mi dice, e io faccio segno di sì.
Aveva ragione: una cosa così non l’ho mai vista. 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** LaMosse Manor ***


LaMosse Manor


Attraversiamo lentamente due ali di recinti immensi e ferventi di attività.
Nonostante i sobbalzi e il fracasso del furgoncino non mi permettano di distinguere una sola parola, non ho bisogno di ascoltare per capire cosa sto guardando. Vedo campi per l’allenamento al salto, piste da corsa e da trotto e spazi per il dressage, nessuno dei quali è vuoto. Nel tondino più vicino a me, un addestratore sta facendo lavorare alla corda un baio piuttosto schizzinoso, che si rifiuta, evidentemente, di eseguire gli ordini, perché continua a rinculare e a tirare indietro la testa di scatto. Mi acciglio, cercando di capire quale sia il problema e pensando a cosa farei al posto del tizio, ma l’allontanarsi del furgoncino me li fa perdere di vista.
Torno a guardare davanti a me, senza niente di preciso da dire, e Juno mi scocca un’occhiata: - Ti ci abituerai presto – mi assicura –All’inizio, fa sempre lo stesso effetto a tutti, ma secondo me è il posto più bello del mondo – dichiara, senza esitazione. Le restituisco lo sguardo e lei mi sorride, fiduciosa. Molto prima di quanto mi aspettassi arriviamo di fronte al cancello della casa padronale, sul quale spicca la scritta “LaMosse Manor” e oltre il quale si estende un giardino piuttosto piccolo, ma molto curato, un po’ in contrasto con gli spazi privi di alberi che lo circondano, sembra una specie di oasi verde. Juno spegne il motore e scende, per prendere i miei pochi averi, e io la imito.
Rimango accanto alla portiera chiusa, le mani nelle tasche del parka, senza far trasparire nessuna emozione in particolare. La ragazza mi porge borsone e zaino, con l’ennesimo sorriso su quel volto da bambina: -Buona fortuna! Ci vediamo in giro, Emily – mi saluta, e io ricambio con un gesto della mano. La osservo ripartire alla volta di un angolo remoto di quell’enorme luogo ancora sconosciuto, poi mi avvio al cancello, per avvisare che sono arrivata.

Ad accompagnarmi fino allo studio del signor LaMosse ci pensa un tipo alto e robusto, in stivali e camicia arrotolata alle maniche, che mi si presenta come “ Roman ” e capo stalliere. Senza ulteriori commenti, mi scorta attraverso un elegante salone in stile Anni Venti, su per uno scalone che non sfigurerebbe in un palazzo reale e tra diversi corridoi riccamente arredati, ma un po’ opprimenti, a mio parere.
Questa villa doveva essere in origine una grande casa colonica, a cui via via sono state apportate modifiche sostanziali, probabilmente secondo il gusto dei vari proprietari. L’effetto finale è maestoso, ma assai poco accogliente. Tutto questo bianco e oro fanno più pensare a un cofanetto che a una casa. Mi sto quasi per chiedere quanto ci metteremo ancora, quando Roman si ferma di fronte a una doppia porta immacolata come il resto e bussa energicamente. La risposta arriva abbastanza flebile, attraverso il legno massiccio, e Roman apre e mi spinge davanti a sé, facendomi entrare.

La mia prima, stupida impressione è di trovarmi sul set di una soap opera. L’ampia stanza è occupata da una grossa scrivania d’ebano lucido ingombra di statuette, trofei, pile di documenti e cornici d’argento. Intorno, ci sono alcune poltrone di chintz e un divano in pelle, mentre le pareti accolgono una libreria e svariate fotografie incorniciate. La finestra di fondo si apre sulla quasi totalità dei possedimenti, come un balcone.
Al nostro ingresso, le quattro persone presenti si voltano pigramente, senza smettere di parlare fra loro. Le due donne mi lanciano uno sguardo disinteressato, poi tornano a fare come se non ci fossi, i due uomini invece mi vengono incontro, con atteggiamenti e aspetto diametralmente opposti.
Non ho bisogno di chiedere quale sia Ashton LaMosse, il proprietario. Si fa avanti con decisione, stringendomi brevemente la mano e accogliendomi con un secco: - Signorina Rochester, benvenuta. – Ricambio la stretta, senza comunicare niente della sorpresa che provo. Dalle chiacchiere sentite in tutti questi anni, fra gare e scuderie, mi sono sempre immaginata LaMosse come un texano da caricatura, col cappello da cowboy, gli speroni e uno stelo di sterpaglia in bocca. Niente di tutto questo.
La sua figura alta e imponente, ma decisamente in forma, è avvolta in un completo nero dal bavero alto, con un foulard grigio perla e stivali a punta, lustri come se fossero nuovi. Il suo volto ha lineamenti aguzzi, bocca sottile, naso dritto e occhi piccoli e scuri, come i capelli lisciati indietro e la barba corta e curatissima. L’insieme lo fa apparire come un bizzarro incrocio fra un dandy vittoriano e un boss della mafia. Con un cilindro, una rendigote e le occhiaie, l’illusione sarebbe perfetta. Si appoggia perfino a un bastone intarsiato, e tra le dita stringe un sigaro indubbiamente di pregio.
Ne tira una lunga boccata, scrutandomi, prima di continuare a parlare: - Spero il suo viaggio sia andato bene. Mi permetta di presentarle queste persone. Mio fratello, Arthur LaMosse e socio della scuderia – e lo indica, con gesto vagamente lezioso. Lui mi sorride e fa un cenno col capo. Sembra molto più giovane del fratello, anche se mi pare di ricordare che li dividano pochi anni, e condivide con lui gli stessi occhi e capelli, solo che i suoi sono ricci e ribelli, e i suoi abiti sono molto più semplici, camicia, jeans e stivali da equitazione.
Mi sento molto meno a disagio con lui che con l’altro a dire il vero, tanto che sorrido a mia volta. – Le signore – prosegue LaMosse – Sono mia moglie Elizabeth e mia cognata Florence – Mi volto a guardarle e do loro il buongiorno: la prima è una mora dagli occhi verdi e scintillanti, molto bella, la seconda è un tipo alto e magro, con capelli biondo platino e l’aria di chi considera gli altri esseri umani complete nullità. Chissà cosa sta pensando di me, con i jeans consumati e il parka sbiadito. Ashton LaMosse si rivolge di nuovo a me, distogliendomi da quel pensiero: - Dunque, ho letto le sue referenze e le ho trovate adeguate – Estrae un foglio da una pila sulla scrivania e la scorre con gli occhi: - Un maneggio e tre scuderie piuttosto rilevanti, in tre diversi stati. Si è spostata parecchio – osserva.
Io non dico nulla, perché vedo che non si aspetta una replica, e prosegue – Ho visto anche che è nata in Inghilterra. I suoi genitori lavoravano là, nell’ambito dell’equitazione?- mi chiede. Annuisco: - Mio padre – specifico. - E che cosa faceva, l’addestratore come lei?- vuole sapere ancora. Scuoto la testa, un po’ a malincuore : - Era un fantino – rispondo. Ora mi chiederà di lui, e devo essere molto abile. LaMosse guarda il fratello, con aria perplessa: - Rochester…Rochester…mai sentito – dichiara. L’altro alza le spalle. Mi affretto a spiegare: - Non era nella lega agonistica – Dietro di me, sento uno sbuffo di scherno e mi giro. È stata la bionda, che non fa nulla per nascondere il suo evidente disprezzo. La ignoro e torno a guardare i miei interlocutori, lo stomaco che mi si stringe per l’umiliazione.

Detesto parlare di mio padre o anche solo pensarci, perché è stato un disastro,  come genitore, come uomo e come sportivo. Non aveva talento e non capiva i cavalli, ma finché siamo rimasti in Inghilterra, ci provava, senza risultati. Quando avevo sette anni, decise di trasferirci in America dove, pensava, il pubblico aveva un palato meno esigente. Si sbagliava, naturalmente.
Così, invece di correre, cominciò a scommettere e a perdere, fino a diventare depresso e violento.
Ancora adesso non riesco a dimenticare gli occhi pestati di mia madre. Lei, comprensibilmente, si stancò di lui e lo lasciò, ma non mi portò con sé. Rimasi con i cavalli come unica, vera compagnia, fino a quando mio padre morì, cadendo di sella, e lei decise di riprendermi con sé, per mia disgrazia. Ho sempre imputato a lui la colpa delle mie sfortune successive, magari ingiustamente, ma la gente è sempre stata convinta che io fossi una perdente come lui. Per questo devo convincere i LaMosse che valgo qualcosa. A qualunque costo.

 Forse, parte dei miei pensieri mi si legge in faccia, perché Ashton LaMosse non insiste sull’argomento: - Direi che è sufficiente così. Adesso, Arthur le illustrerà i suoi compiti e le mostrerà il suo alloggio. Di nuovo, benvenuta fra noi, Emily – conclude, voltandosi verso Roman e iniziando a dargli istruzioni. Arthur LaMosse mi si avvicina, con un sorriso conciliante: - Coraggio, sarà una giornata lunga e voglio metterti al lavoro al più presto – mi invita, facendomi passare avanti per uscire. Non guardo nessun altro, ma sento lo sguardo di uno dei presenti addosso, qualcuno che fino a quel momento mi ha praticamente ignorato. Ma forse, è solo una sensazione, decido, avviandomi dietro al più giovane dei fratelli LaMosse, lungo il corridoio.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Hawkeye ***


Hawkeye
 

Quando usciamo da quella villa angosciante, tiro un sospiro di sollievo. Tutto è andato bene e il lavoro è mio, senza riserve. Anche l'incontro con LaMosse non è stato così male, se non fosse stato per il sarcasmo di quella bionda e l'allusione, inevitabile, a mio padre. Ma non importa.
Arthur LaMosse, appena fuori dal cancello, si ferma e dice: - Guarda, Emily. Adesso tu fai parte di questa grande, grande famiglia-. Con un ampio gesto delle braccia, sembra voler accogliere tutta la stupefacente visione davanti ai nostri occhi.
 Ora posso sentire quello che prima non riuscivo ad ascoltare: nitriti, scalpiti, le grida d'incitamento degli uomini al lavoro, il tonfo lontano di un ostacolo abbattuto da un cavaliere maldestro. Suoni di casa. Chiudo gli occhi per un attimo, estasiata, poi mi sento battere su una spalla.
L’uomo con me ride e dice: - Aspetta a essere così felice. Quando spalerai tonnellate di letame, la vedrai diversamente! – Ma non è vero. Ho sempre fatto i lavori più umili, e non mi sono mai lamentata. Mi stringo nelle spalle: - Non mi dispiace spalare il letame. L’importante è stare con i cavalli- replico, tranquilla. Lui mi squadra per un po’, poi batte le mani e dice: - Ok, cominciamo –
Si avvia a passo spedito a sinistra della casa, verso una delle stalle minori, e io gli tengo dietro. Mentre andiamo, mi racconta la storia delle scuderie: - Il nostro bisnonno è stato il primo, nel Wyoming, catturando Mustang da vendere ai cowboy. Suo figlio però vedeva nelle competizioni un mercato più redditizio, ed è venuto qui. Da allora abbiamo Quarter, purosangue inglesi e arabi, qualche Appaloosa, perché io e Ash ne andiamo pazzi, diversi Frisoni, qualche Andaluso e l’anno scorso abbiamo comprato otto Lipizzani per il dressage.- S’interrompe, per salutare un paio di garzoni che portano a lavare coperte, poi prosegue: - Non avevamo mai allevato cavalli da dressage, ora sono una delle punte di diamante delle scuderie.- Scuote la testa, un po’ incredulo: - Non mi piace un granché, il dressage dico, ma a quanto pare è di moda – osserva, con perplessità evidente. Io mi limito a camminargli a fianco e ad ascoltare con attenzione.
Entriamo nella stalla, e pensare che sia una delle più piccole mi fa balzare il cuore in gola: è la più grande che abbia mai visto, col tetto alto come quello di una chiesa e i box ordinati e puliti come se fossero stati installati ieri. LaMosse osserva la mia espressione e ridacchia: - Ci farai l’abitudine – garantisce. – è la seconda volta che me lo dicono, oggi- dichiaro, poco convinta. Lui ride ancora di più: - Sai, sembra tutto grande e meraviglioso, ma poi annoia – dice. Dubito che mi annoierò mai qui, però non mi sembra carino contraddirlo. Mi guardo attorno, osservando i cavalli calmi e tranquilli, intenti al pasto mattutino e lui li indica: - Sarà uno dei tuoi compiti. Il primo pasto è alle otto in punto, l’altro alle sei di sera. Ovviamente, dopo gli allenamenti spettano loro mele e carote. Ogni sera devi andare a prendere il fieno e i sacchi di granaglie nel fienile, che dopo ti mostrerò – mi spiega. Appunto tutto mentalmente, guardando un sauro rosicchiare una manciata di paglia.
Giriamo a destra, e ci troviamo in un altro settore, dove i box hanno le porte dipinte di blu scuro. Arthur si ferma e fa un ampio gesto della mano, come a percorrere virtualmente il pezzo di corsia che divide dieci box: - Questi sono i tuoi ragazzi – dice, mostrandomi i cavalli, ma vedo che uno dei posti è vuoto: - Quello è ancora in allenamento?- chiedo, indicandolo. Arthur alza le spalle, con espressione dispiaciuta: - Ti è capitata una bella gatta da pelare. Uno stallone che abbiamo comprato un mese fa, ma che nessuno riesce a controllare. A volte capita – dichiara. Mi fa venire in mente una cosa: - è un baio?- domando. Lui annuisce: - Ha una testa dura come il granito. Se non ce la farai tu ad addestrarlo, lo venderemo, anche se…- mi scruta, in imbarazzo, e io capisco che pensa che non possa farcela. Mi acciglio: - Lo posso vedere?- chiedo, con il mio tono migliore, ma so che la mia faccia non è in armonia con le mie parole. – Penso che lo riporteranno tra poco. Intanto, ti faccio vedere gli altri – dice, ancora in imbarazzo. Cammina fra loro, indicandoli: - Moon River, Corbin, Night Fury, Thor II, AstraBee, Princess Anne, Foxtrot, Orson Welles e Hobbes. Tutti da salto. Li striglierai, pulirai i loro box e li porterai in allenamento, uno alla volta. Per il cibo te l’ho detto, avrai la chiave della selleria di questa sezione e una volta al mese devi compilare la scheda che ti darò riguardo le condizioni fisiche. Dovrai segnare tutto, fiaccature, ferrature, eccetera. Tutto chiaro?-  Annuisco.
Mi sorride, più disteso: - Il problema è che sembri più giovane della tua età, ma non penso tu sia una sprovveduta, Emily – nota. – Grazie, signor LaMosse – replico, più rilassata, ma lui fa un gesto vago con la mano: - Oh, chiamami pure Art. Tutti lo fanno – dice. – D’accordo…Art. Comincio subito? – chiedo, ma lui scuote la testa: - Prima ti faccio vedere la stanza. Datti una ripulita, mangia qualcosa, ma alle nove e mezzo ti voglio qui – mi ordina. Faccio segno di sì, e Art mi accompagna agli alloggi.
La stanza non è diversa da quella di un motel, con tanto di numero sulla porta, tranne che oltre a bagno e camera da letto c’è anche una piccolissima cucina. È semplice, ma in ordine, quindi è perfetta. Mi viene indicata la lavanderia, l’infermeria e spiegato come fare la spesa, usare il telefono e la connessione internet, anche se li userò poco e nulla. Una volta da sola, mi faccio una doccia veloce e scopro che la dispensa è già stata riempita dell’essenziale prima del mio arrivo. Mentre tosto un po’ di pane, penso che dovrò chiedere se è possibile avere il tè al posto de caffè, ma per il resto è ok. Vorrei avere il tempo di dormire, ma mi vesto in fretta e sono nella stalla con cinque minuti di anticipo.

Osservo i miei cavalli, studiandone nomi e caratteristiche. Due arabi e il resto Quarter, tutti già ben addestrati, il mio compito sarà solo quello di allenarli e prendermi cura di loro. Getto un lungo sguardo al box vuoto, chiedendomi cosa mi aspetta, e la risposta arriva da sola, in quel preciso momento: due uomini, uno più vecchio e nerboruto, l’altro giovane e al compenso dall’aria molto fragile, stanno trattenendo a viva forza per la lunghina il nostro testa calda, urlandogli contro. È un Quarter magnifico, dal mantello baio particolarmente intenso, e da quanto posso vedere, leggermente più alto della media di razza. Come l’ho visto fare prima, continua a tirare indietro la testa, e s’impenna leggermente. Qualcosa lo stressa, ma così non capirò mai cos’è, e in più rischia di farsi male.
Cerco di far notare la mia presenza a quei due, perché mi lascino il cavallo, ma il più giovane si distrae e allenta la presa sulla lunghina. L’impennata lo solleva da terra di due buoni palmi, quindi intervengo in fretta: afferro la lunghina e mi metto a distanza di sicurezza, mentre l'animale continua a strattonare. Comincio a parlargli, in tono rassicurante, studiandolo quanto meglio posso, visto che non sta fermo. Mi avvicino lentamente, ma lui si limita a battere lo zoccolo a terra, girando la testa per scrutarmi, diffidente. Ora che abbiamo un contatto visivo, devo mantenerlo per ispirargli fiducia. Sembra funzionare. Non smetto di parlare a bassa voce, avvicinandomi al suo muso. Lo accarezzo e lui si calma, poco alla volta. Non so per quanto prosegue la scena, pochi minuti credo, ma mi sono completamente scordata dei due che l'hanno portato. Alla fine, è tanto tranquillo che riesco a posare senza problemi la testa contro il suo collo, continuando ad accarezzarlo. Chiudo gli occhi, rilassandomi insieme al cavallo. Questo è precisamente il motivo che mi fa fare quello che faccio, ogni santo giorno. Non riesco mai a entrare così in sintonia con le persone, ma con i cavalli sì. Sento che per loro posso fare qualcosa di utile, mentre per la gente sono sempre stata qualcuno da disprezzare.
Un tossicchiare impacciato mi distoglie dall'idillio. Il ragazzo mi guarda a bocca spalncata, mentre il vecchio si rabbuia:
- Come accidenti hai fatto? - mi chiede, con uno stupore assai poco lusinghiero. Conduco lo stallone nel box, prima di rispondere: - Non sopporta i rumori forti - spiego, come se fosse la cosa più naturale del mondo - Stavate urlando, e questo lo innervosisce - aggiungo, accigliandomi e scrutandoli torva tutti e due. Il giovane è un biondo con un ciuffo che gli copre un occhio come un assurdo peekaboo bang maschile, il vecchio è un tipo tarchiato dal volto rugoso tale e quale a una tartaruga.
è proprio lui a ribattere: -Non è stato gestibile un attimo, da quando è arrivato. E ora spunti tu, che in quattro e quattr'otto lo rendi dolce come un agnellino. Ma chi sei, la donna che sussurrava ai cavalli?- e scoppia a ridere, in un modo rasposo e soffocato.
A evidente dispetto delle sue previsioni, rido con lui: -Chissà, può darsi - replico, e a quel punto il giovane si ricorda di chiudere la bocca e si volta verso il vecchio, il viso illuminato di comprensione: - Blaise! - esclama - Questa è la ragazza che hanno chiamato al posto di Jeff! - Si volta verso di me, arrossendo: -Sei Emily, vero? Io sono Sasha Pryce e lui è " Woodback" Malloy - dice, presentando sé stesso e il suo compare: - Eravamo gli assistenti di Jeff, quindi penso che ora siamo i tuoi, no?- aggiunge in fretta. Annuisco: - Bene, tanto piacere. Comunque, da oggi ricordate, niente più strilli a...- Non so il nome di quel meraviglioso cavallo. - Hawkeye - mi viene in aiuto Sasha, poi arrossisce di nuovo, mentre spiega: - Ho suggerito io i nomi per Night Fury, Thor II e lui. Mi piacciono i fumetti- dice, a mo' di scusa. Gli sorrido. è tenero e assomiglia in modo impressionante a Juno, poi mi ricordo che i loro cognomi sono uguali e che quindi, come minimo, sono fratelli. Glielo chiederò, se mi torna in mente. Vado verso il box di Hawkeye e lo osservo a lungo. Già lo amo. 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Una gabbia dorata ***


Una gabbia dorata


Nessuno ci pensa mai, ma niente è più simile a una gabbia di una casa ricca.
Tutte le persone importanti e facoltose, che frequentano queste grandi stanze piene di lusso, vedono la tappezzeria bianca, le cornici dorate, i ritratti, i riconoscimenti, senza neppure immaginare che non sono che orpelli per le sbarre di una prigione. Non dovrei lamentarmi, ho una posizione invidiabile.
Io sono la signora di questa casa, l’ammirata, impeccabile Elizabeth LaMosse, desiderata dagli uomini e temuta dalle donne. Viziata, potente, perfino fatale, secondo alcuni. Ho imparato a riconoscere i mormorii che corrono tra una risata e una chiacchiera durante le eleganti cene in piedi, i vernissage, le celebrazioni per l’ennesima vittoria.
Non è un privilegio dei ricchi sparlare, ma hanno uno  stile riconoscibile nel farlo. Me ne rendo conto proprio adesso, dopo anni,  ma probabilmente già lo sapevo. Solo, non volevo pensarci.
Nonostante tutto, sorrido e alzo il calice di champagne, in risposta a Ashton, dall’altra parte della sala da ballo, gremita di un centinaio di questi azzimati leccapiedi in seta e chiffon. Odio dare ricevimenti, ma fa parte del gioco. La sciocca Florence invece lo adora, e si pavoneggia vicino al pianoforte a coda come se fosse già la padrona di tutto. Per la prima volta, ricordarmi che l’immensa eredità dei LaMosse andrà a lei e ai suoi marmocchi, mi fa infuriare.
Per non farlo vedere, volto le spalle alla sala e fingendo la necessità di un po’ d’aria, esco sulla terrazza illuminata. La musica e i rumori sofisticati della festa arrivano flebili qui, come da una radio accesa in un’altra stanza. Mi appoggio alla balaustra, libera per un istante dal mio ruolo di signora LaMosse, e guardo i recinti e le stalle avvolti nella tranquillità della tarda sera.
Ormai i lavoranti devono essere o a dormire, o più probabilmente in città, ad annegare la stanchezza in una birra, o forse due. Non provo l’impulso di unirmi a loro, come nella scena di un film, e nemmeno il desiderio di condividere la loro vita onesta e semplice. La mia maschera mi può andare stretta, di tanto in tanto, ma non ho detto che non mi piaccia. Solo, vorrei vedere gente diversa.
A parte Roman, non conosco nessun altro degli stallieri o dei garzoni, perché non mi è mai interessato. Art, invece, li chiama tutti per nome e passa più tempo con i dipendenti che con sua moglie. Deve essere per questo che Florence è così acida. Ashton, da vero magnate, si mostra solo in rare occasioni, con l’imperiale distacco che usa con chiunque non sia suo fratello. Non ho idea di cosa i dipendenti pensino di me, ma credo che vedano tutto quello che c’è da vedere: i miei gioielli, i miei capelli sempre in piega, i miei abiti firmati. Ma nessuno di loro, al pari dei nostri amici altolocati, mi vede come un grazioso canarino, che ama la canzone che canta e che guarda il mondo attraverso sbarre dorate. Come potrebbero?

Lancio un’occhiata attraverso i finestroni della sala, circondati dal lucore ocra dei lampadari e degli specchi, e osservo per qualche istante la folla che si muove lentamente, come a seconda di movimenti prestabiliti. Non mi va di tornare al ricevimento, Florence, Ashton e Art se la cavano benissimo senza di me. ho già la mezza idea di chiamare Jane e di andare a dormire, quando mi accorgo che qualcuno ha acceso una piccola luce in una delle stalle minori.
Mi sento come una falena, attratta misteriosamente da quel pallido bagliore. Potrebbe esserci qualche problema, altrimenti perché uno stalliere dovrebbe andare dai cavalli a quest’ora?
Mi guardo alle spalle, per controllare che nessuno mi stia cercando, poi decido rapidamente: sguscio di nuovo dentro, nell’ombra delle altre stanze, e imbocco lo scalone, fino all’ingresso. A Hilston, il maggiordomo, racconto che voglio fare una passeggiata, e lui, come sempre, non fa domande.
Mi sembra d’essere diventata stupida tutto di colpo, una volta fuori dal cancello, ma ormai è fatta. Senza indugiare oltre, mi infilo nella stalla numero tre, ma non so neanche io, davvero, perché lo sto facendo. 
Mi trovo nella penombra, circondata da box e dai rumori quasi impercettibili dei cavalli che dormono. Cammino piano, per non svegliarli, dirigendomi verso la fonte della luce, chiedendomi cosa stia combinando chiunque ci sia. Mi rendo conto di non conoscere affatto questa stalla, che, oltretutto, è la metà della numero uno, quella dove ci sono i cavalli di famiglia, ma non rischio di perdermi. Una delle poche cose che so è che ogni stalla è costruita nello stesso modo delle altre.
Finalmente, arrivo in cima alla corsia illuminata, ma non ho tempo di fare molto, perché una voce, poco più di un sussurro, mi blocca: -Chi c’è?- chiede lo sconosciuto, o meglio, la sconosciuta, perché è una voce femminile.
Sul momento, sono perplessa. Le uniche donne che frequentano le stalle sono le veterinarie, ma poi ricordo. Si tratta certamente della ragazza assunta un mese fa, come si chiama, Evelyn o Ellen.
Mi faccio vedere, così che non si allarmi, e la trovo seduta di fronte all’ultimo box, intenta ad accarezzare il muso di un cavallo alla luce di una torcia poggiata sul pavimento. Appena mi vede, si alza e mi viene incontro, lasciando comunque un buon paio di metri fra lei e me.
- Signora LaMosse – mi apostrofa, riconoscendomi – Che ci fa qui a quest’ora?- chiede, senza mostrare né perplessità né curiosità, come se fossi un soprammobile spostato su un mobile ben conosciuto.
Incrocio le braccia, rivestendomi dell’autorità che mi è propria:
-Potrei farle la stessa domanda, Evelyn – replico, freddamente.
Lei aggrotta la fronte, avvicinandosi di qualche altro passo. Non so se sia la sua espressione abituale, ma ha il cipiglio severo di un falco.
- Emily – ribatte, stancamente.  Provo un leggero disagio per l’errore, ma non mi scompongo, così lei prosegue:
- Sto facendo il mio lavoro, signora LaMosse. Questo animale si è ferito in allenamento e lo stavo controllando – spiega, poi mi guarda e aggiunge: - Ha visto la luce accesa dalla casa?-
Annuisco.
– Mi spiace che si sia disturbata, ma qui è tutto sotto controllo – dice.
Va a dare un’ultima carezza al cavallo, prende la torcia e torna a rivolgersi a me: -Venga, la riaccompagno – e aspetta che la preceda. Usciamo insieme senza una parola.
Mentre ci avviamo verso la villa, Emily estrae un pacchetto di sigarette e me ne offre una, accendendola poi con la propria. Nel breve lampo giallastro dell’accendino, la vedo bene in viso.
Ha davvero quel costante cipiglio di falco che ho notato prima, sebbene i suoi lineamenti siano piuttosto fini. Il colore degli occhi è straordinario, un azzurro – grigio allo stesso tempo limpido e metallico.
Nel complesso, è di una bellezza innegabile, vagamente ambigua, imprevedibile a prima vista.
L’ho osservata, quando è venuta ad assumere l’incarico, ma non ne sono rimasta colpita come adesso, forse perché ero troppo concentrata sugli abiti modesti, sull’aspetto sparuto che aveva.
Percorriamo il breve tragitto ancora in assoluto silenzio, che io rompo solo per ringraziarla, davanti al cancello. Si acciglia di nuovo, come a chiedere perché, ma non dice nulla: si stringe nelle spalle e abbassa il capo, in segno di saluto.
La guardo andare verso gli alloggi dei dipendenti, a un tratto dimentica del ricevimento, delle chiacchiere, dei LaMosse. I suoi occhi sono uno specchio, e mi ci sono vista riflessa come mai avevo fatto prima.   

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Marine ***


Marine

Ho mal di testa. Non è una novità, ma stare così, appena svegli, è orribile.
Chiamo Jane e mi faccio portare la colazione e un’aspirina, sarà una giornata lunga. Per qualche motivo, dopo i ricevimenti, c’ è sempre un sacco da fare. Scendo nel mio studio, pensando a numeri di telefono e biglietti di ringraziamento, ma con mio grande disappunto, trovo Florence ad aspettarmi.
La sua faccia lunga e tirata dal collagene è l’ultima che vorrei vedere. Le rivolgo un sorriso stiracchiato, imputando il mio umore al mal di testa, e lei parte in quarta con il resoconto della serata: - Sai, Liza, questo è stato davvero uno dei nostri migliori ricevimenti. I Porter sembravano non credere ai loro occhi quando hanno visto che Red Butler è stato selezionato per le prossime olimpiadi! Ashton ne è stato molto soddisfatto – osserva, lanciandomi una mezza occhiata. Conosco Florence da diciassette anni, so qual è il suo problema.
Voleva essere al posto mio. è stata pazza di Ashton  fin dai tempi dell’università. Non era una questione di soldi, i suoi erano ricchi quanto e più dei LaMosse, era una questione di prestigio, di rivalsa, o chissà che altro.
Ha provato a intraprendere una carriera agonistica, ma non ha mai capito che montare a cavallo non è come guidare una macchina. La macchina non ti sgroppa, non soffre, non sente i tuoi cambi d’umore. Per questo si era immaginata le bastasse stare al fianco dell’allevatore più ricco e potente dello stato.
Ma le è toccato accontentarsi del vice, l’affascinante e giovanile Art, amichevole con tutti e imperterrito appassionato della monta western. Povera Florence. Annuisco, distrattamente: - Se lui è soddisfatto, allora lo siamo tutti – replico, senza entusiasmo.
Fuori, i recinti sono appannati da un po’ di foschia d’inizio primavera. I cavalli sono già in allenamento, i rumori consueti delle scuderie arrivano debolissimi fino a qui.
Florence mi schiocca le dita davanti al naso, perdendo la sua solita flemma finto aristocratica: -Liza, ci sei?- mi richiama, petulante. Mi riscuoto e faccio segno di sì con la testa: - C’è altro? – chiedo, provando a ricordare quali questioni andavano risolte in serata – Balmore si è deciso a comprare quei puledri? Ha stressato Art per tre mesi –. Mia cognata annuisce, affettata come al solito: - Certo che si è deciso, e non ha tirato sul prezzo come al solito. Un vero miracolo – dichiara, alzando gli occhi al cielo. – Bene – commento – Inviti da qualche parte?-
Florence scorre un appunto: - I Montrose la prossima settimana danno un ricevimento per la laurea della figlia. Oh, saranno insopportabili, e solo perché si è laureata col massimo dei voti ad Harvard – Fa una piccola smorfia e prosegue: - Maud Porter ci ha invitate da lei lunedì, poi giovedì c’è la riunione al country club,  e il mese prossimo aprono le iscrizioni alle gare di contea – conclude, eccitata per qualcosa, all’improvviso: - Sai, Marine vuole partecipare – annuncia, tutta fiera. Non mi sembra un granché come novità, sua figlia lo fa sempre: -E allora?- ribatto, sperando di smontarla, ma una voce ci interrompe:
- E allora, zia Liza, parteciperò al concorso completo –.
Marine LaMosse si fa avanti e siede accanto alla madre, esibendo lo stesso sorriso tronfio che le ho visto centinaia di volte. Alzo un sopracciglio, guardandola, scettica: - Vuoi davvero partecipare al concorso completo? – le chiedo. Lei annuisce, con aria noncurante: - Mi basterà trovare il cavallo giusto – asserisce.
Lei ha già un ottimo cavallo, Lily Worth, uno dei preziosi Frisoni della scuderia. Prima che io possa controbattere, mi anticipa: - Ho già chiesto a papà di trovarmi un allenatore personale e lui ha detto di sì. Dovrebbe proporle la cosa oggi stesso – dice, in tono leggero. Proporle? Non vorrà farsi allenare da…
- Oh, Rochester, stavamo giusto parlando di lei -
La voce di Florence irrompe nella mia testa dolorante, facendomi voltare istintivamente verso la porta:
Emily Rochester  è sulla soglia, fiancheggiata da quel bue ottuso di Roman, con l’aria di non sapere bene il motivo della sua convocazione.

La sua presenza mi urta, in modo subitaneo e senza alcun motivo. Mi infastidisce, sempre ammesso che questo sia fastidio, o Dio sa cosa. La studio, mostrando solo distacco.
Il ricordo di ieri sera è vago e insignificante, ci siamo scambiate una decina di parole in tutto, ma adesso mi accorgo che non l’ho veramente vista prima di questo momento.
Gli stivali da equitazione color testa di moro la alzano di una buona decina di centimetri, ma è piccola di statura. In compenso, ha il fisico di un’atleta, asciutto ed elastico, ben evidente nei muscoli delle braccia e nel ventre piatto e tonico. Ha capelli lunghi, folti e lisci, tenuti liberi attorno al volto che avevo già notato. L’espressione è accigliata, come sempre, ma i tratti sono regolari, gli occhi magnifici e ancora più paralizzanti di come mi sono sembrati ieri sera.
Questa ragazza è bellissima, giovane e soprattutto, forte come l’acciaio. Porterà guai, lo sento.
Non credo d’essere l’unica a pensarla così: nonostante il suo tono cortese, Florence la scruta con evidente disprezzo e Marine si è già messa in silenziosa competizione con lei. Forse non è bene che lo dica, ma non provo nessun affetto per mia nipote.
Marine ha avuto dalla vita ogni occasione per brillare: è bella, ricca e intelligente, peccato che sia irrimediabilmente cattiva. Già fin da piccola è emersa la sua malignità, il suo sarcasmo crudele, la sua ipocrisia. Ora, a sedici anni, è una vipera, subdola e insidiosa.
Non ho ancora idea di che tipo di persona sia Emily Rochester, ma se qualcosa, nell’aspetto della gente, contribuisce a dare un’idea del carattere, di sicuro lei non è né una debole né una vigliacca. Se queste due si dovessero scontrare, se ne vedrebbero di tutti i colori. Non voglio che accada.
Quindi, con un’iniziativa che non è da me, intervengo. – Rochester, ci chiedevamo se i suoi cavalli sono pronti per le prossime gare di contea – dico, rapidamente, prima che Florence o Marine mi interrompano. Loro due mi scoccano un’occhiata identica di perplessità e rabbia, lei aggrotta la fronte, assumendo un’espressione ancora più severa: - Credo che siano pronti, quasi tutti – risponde, stringata. – Ah, bene – replico, con un sorriso di circostanza – Può tornare al suo lavoro. Roman, accompagnala, per favore – la congedo, forse bruscamente, ma non voglio dare a Marine l’occasione di protestare.
Aspetto che se ne vadano, poi, senza ulteriori commenti, vado a cercare Art. è l’unico a cui mia nipote dia un minimo di credito e che possa risolvere questa situazione.
Non mi sfugge lo sguardo di stizza di Florence. Ma nemmeno quello di puro veleno di Marine.           

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Come fai a far uscire un topolino da un labirinto? ***


Come fai a far uscire un topolino da un labirinto?


Sasha e Juno si passano un pacchetto di patatine, seduti sul recinto, e lo scrocchiare della carta argentata fa alzare un orecchio a Hawkeye, dritto come un’antenna.
È appena passata l’ora di pranzo, ma né io né lui abbiamo ancora mangiato. Questo è stato il primo, vero giorno di addestramento in cui abbiamo ottenuto dei risultati. Gli altri cavalli, da un mese a questa parte, non mi hanno dato problemi. Princess Anne e Orson Welles sono i più dotati, particolarmente precisi e puliti nel saltare gli ostacoli. Moon River ama le barriere naturali, torrenti, tronchi e così via. Astrabee è una macchina da dressage, come ho scoperto con sorpresa.
Sto guardando Woodback e Corbin, impegnati in una serie di oxer non particolarmente difficili. Corbin è un animale leggero e rapido, che si è già distinto in passato in diverse gare.
Benché il suo carattere sia ruvido come la cartavetro, Wood è un bravo addestratore, con anni di esperienza. Abbiamo avuto modo d’imparare molto l’uno dall’altra.
Corbin finisce il percorso senza errori e Wood lo conduce di fianco a me e a Hawkeye.
 – Allora, bimba – mi apostrofa il mio assistente, allegro, tirandomi un pugno affettuoso sul braccio – Te l’avevo detto o no, che Corbin è una bellezza?- e sottolinea le sue parole con una delle sue risate soffocate e raspanti.
Prima che possa replicare, Sasha mi anticipa: - Sì, sì, Wood, lo sappiamo che sei fantastico. Ora vediamo come se la cava Hawkeye – e mi lancia un’occhiata incoraggiante. Juno lascia perdere le patatine e alza entrambi i pollici, come a fare il tifo. Sorrido a tutti e tre, non troppo felice di avere un pubblico. 
Addestrare Hawkeye non è stato facile. Wood e Sasha mi hanno raccontato la faccenda del suo acquisto: LaMosse l’ha comprato, insieme a un altro gruppo di cavalli, da un piccolo allevatore fallito, così da poterne inglobare i possedimenti.
Non pensava di fare un granché con nessuno di loro, visto che non erano in condizioni perfette, così li ha venduti a prezzo bassissimo o addirittura regalati.
Hawkeye è risultato essere effettivamente il migliore di quella partita, ma non si è lasciato addestrare da nessuno, e anche con me ha avuto resistenze, i primi giorni. Solo una settimana dopo il mio arrivo sono riuscita a convincerlo a lavorare alla corda e a fare gli esercizi più semplici. Non obbediva agli ordini e io Wood, e Sasha siamo diventati pazzi a cercare di capire il perché.
Poi Pat Wilson, la veterinaria, dopo una visita ben accurata, ha svelato l’arcano: Hawkeye non sente niente dall’orecchio destro. Da allora, con lui mi sono impegnata al massimo:  passo più tempo a strigliare lui che tutti gli altri, per trasmettergli fiducia, e pian piano sta funzionando. All’inizio, sgroppava sempre e cercava di togliersi la sella, ora si lascia montare tranquillamente. Oggi, mi sono decisa. Voglio vedere come si comporta con gli ostacoli.
Non ho paura, sento che ce la può fare. Mi fido di lui, nonostante tutto, perché lui si fida di me. Non ho intenzione di tradirlo dubitando delle sue potenzialità.
Lo accarezzo un paio di volte sul collo e gli sussurro all’orecchio, intrecciando le dita nella criniera nera e soffice. Hawkeye sbuffa, per farmi capire che è pronto, e io monto in sella, sistemandomi in modo da pesargli il meno possibile sulle spalle. Osservo il percorso per qualche secondo, poi tiro leggermente le redini, e Hawkeye inizia a muoversi al passo.
Facciamo un giro del percorso, poi torniamo al punto di partenza. – Ok, piccolo, ce la puoi fare – gli mormoro, facendolo partire al trotto. Le grida d’incitamento di Juno e Sasha mi arrivano lontane.
Ora siamo io e Hawkeye. Prende velocità progressivamente, e il mio battito e il suo diventano una cosa sola. Il mio sguardo è fisso oltre il primo ostacolo, alla linea di colline sullo sfondo.
Il cavallo si raccoglie, stringo le gambe e ricordo la prima volta in cui ho saltato, fingendo di non avere peso. Il tonfo degli zoccoli e il sobbalzo delle mie viscere che tornano al loro posto, gridano vittoria. Il primo è andato.
Solo altri quattro, ben distanziati, per cominciare. Il respiro di Hawkeye  è regolare, come il ritmo delle zampe. Mentre l’aria fischia calda nelle mie orecchie, superiamo anche il secondo e il terzo. Al quarto, Hawkeye esita un attimo di troppo, abbattendo una barriera. Non importa. L’ultimo fila via liscio.
Mi risollevo, mentre torniamo indietro, felice. Gli do qualche piccola pacca e lo accarezzo, per complimentarmi con lui.
Appena smonto, Sasha salta giù dallo steccato e mi batte il cinque e Juno mi abbraccia: - Ah, lo sapevo! Siete davvero grandi insieme, Emily! – squittisce.
Wood mi porge una carota per Hawkeye, che lui fa sparire in un attimo, contento quanto me.
L’ho appena preso per le redini, per riportarlo in scuderia, quando una voce ben nota ci fa voltare tutti e quattro: - Penso di doverti delle scuse, Emily – dice Art LaMosse, accostandosi al recinto in sella al suo Appaloosa, Janice.
Non sono soli: ben dritta su una piccola saura, c’è Elizabeth LaMosse.
Sasha e Juno arrossiscono, mormorando un timido “ buongiorno ”, Woodback si toglie il cappello, e io abbasso appena la testa. Non l’ho vista per un mese, la signora, ora è la terza volta in ventiquattro ore. Non si fa mai vedere , men che meno a cavallo. Tuttavia, non commento la sua presenza e mi limito a replicare: - Perché mai dovrebbe chiedermi scusa, Art?-
Lui ride e indica Hawkeye: - Pensavo che nessuno sarebbe riuscito a cavare nulla da quel cavallo, figurarsi tu. E invece, pare che debba offrirti qualcosa per farmi perdonare – spiega, con un’altra risata.
I ragazzi Pryce sorridono incerti, Wood, dal canto suo, ride a sua volta: - Nessuno ci avrebbe scommesso mezzo dollaro su questa bambina, e lei ci ha messo tutti nel sacco!- esclama.
– Vecchio Woodback, ti fai incastrare da una giovincella? – replica Art, ironico, battuta che fa ridere Wood ancora di più: - Beh, Art, se permetti, meglio farsi incastrare da lei che da uno qualunque! – ribatte.
La signora aspetta che l’eco delle risate si sia spento, prima di parlare: -Ha fatto un buon lavoro con quell’animale, Rochester – dice, a mo’ di complimento, ma il suo viso non è distaccato e gelido come le poche volte in cui ci siamo parlate.
– Grazie – è la mia risposta, laconica e un po’ perplessa.
Ha un aspetto strano a cavallo. Quando l’altra sera è venuta nella stalla, era truccata e avvolta in un sontuoso abito da sera color porpora, il genere di abito che io non porterò mai. Anche questa mattina era vestita elegantemente, sebbene fosse in casa. Vederla con un comune top chiaro, pantaloni in tinta e stivali dall’aria usata, fa uno strano effetto.
Non l’immaginavo così, anche se appare perfettamente a suo agio. Non so quanti anni abbia, ma non ha l’aria rifatta che hanno molte donne della sua classe sociale, quelle che nelle stalle degli ippodromi e alle mostre equine mi guardavano dall’alto in basso, strette nelle loro pellicce e alle loro borse firmate.
Anche Elizabeth LaMosse  mi guarda dall’alto in basso, ma solo perché è a cavallo. Difficile intuire cosa le passi per la testa, i suoi occhi verdissimi sono imperscrutabili e fissi nei miei. Le sue labbra tremano appena, mentre distoglie lo sguardo, come se si fosse riscossa da un pensiero profondo.
La sua cavalla gratta leggermente a terra con uno zoccolo, annoiata dalla sosta e Art parla di nuovo: - Io e Liza dovremmo parlarti in privato di una questione di lavoro – mi spiega, in tono cortese, ma esplicito.
Juno capisce al volo: - Io devo proprio andare – dice – Ciao a tutti!- saluta, montando sul suo furgoncino parcheggiato lì accanto e mettendolo in moto. Wood e Sasha si scambiano un’occhiata e riportano Corbin in stalla.
Hawkeye mi spinge leggermente con il naso: - Devo strigliarlo – dico rapidamente ai due LaMosse – Possiamo continuare questa conversazione alla stalla? – chiedo. Loro fanno cenno di sì e mi seguono.

Lego io stessa i loro cavalli all’ingresso della stalla e do loro un po’ di fieno.
Art si appoggia alla porta del box di Hawkeye, mentre tolgo al cavallo sottosella e sella, la signora, invece, si fa avanti per aiutarmi. Sono quasi per fermarla, ma poi la lascio fare. Capisco che è lei, principalmente, che deve parlare.
Con la coda dell’occhio, la vedo accarezzare Hawkeye con le sue belle dita curate, e lui sembra non disdegnare quell’attenzione. Mentre comincio a strigliarlo, la donna rompe il silenzio: - Art aveva ragione, sei una che lavora bene – osserva, quasi casualmente, passando al tu come se fosse un indice di confidenza.
Lancio un’occhiata a LaMosse, che annuisce, ma io non dico nulla, così lei prosegue: - Il tuo compito è badare ai cavalli, nessun altro, giusto?- mi chiede. Non capisco. – Giusto – rispondo, domandandomi dove vuole andare a parare.
Esita un attimo, prima di continuare: - Emily, tu non hai mai conosciuto la figlia di Art, Marine, immagino – afferma. Scuoto la testa, abbassandomi per passare la brusca sulla parte superiore delle gambe del cavallo.
Lei aspetta che abbia finito, prima di arrivare al punto: - Marine ha chiesto di te per allenarla al concorso completo – dice.
Mi acciglio, posando la brusca e prendendo la spugna. La strizzo e mi do il tempo di pensare a una replica.
La signora si sposta per permettermi di pulire il muso di Hawkeye, e intanto mi guarda, ansiosa.
– Ci sono gli istruttori qualificati – dico, infine – Io addestro e alleno i cavalli, non mi occupo dei cavalieri – è la mia conclusione, secca. Non starò dietro a una ragazzina viziata. Chissà perché poi ha chiesto di me.
I LaMosse si scambiano qualche parola e nel frattempo, cambio spugna e finisco di pulire Hawkeye.
Quando la signora torna a rivolgersi a me, ho già iniziato a districare la criniera.
– Quindi, tu non vuoi farlo?- mi domanda.
La guardo: - Lei vuole che lo faccia?- chiedo, di rimando. Il suo atteggiamento non lo suggerisce affatto.
Scuote la testa: - No. Né io né Art desideriamo assecondare mia nipote in questo capriccio. Potrebbe renderti la vita molto difficile, Emily – replica. Mi sta mettendo in guardia.
– Allora non lo farò – dico, ma non sono convinta: - Ci saranno conseguenze al mio rifiuto?- voglio sapere, non preoccupata, ma a disagio. È Art a rispondere: - Niente affatto. Volevamo essere sicuri che non accettassi. Tu non conosci Marine. È mia figlia, ma non è una brava ragazza. Non si comporta bene con chi ritiene un pericolo – dichiara.
Smetto di fare quello che sto facendo, e il mio sguardo va da uno all’altro: - Io, un pericolo? E perché?- domando, realmente stupita. Ora davvero non capisco.
La risposta di Elizabeth LaMosse è lapidaria: - Sei qui –
La fisso, duramente, ma Art attira di nuovo la mia attenzione: - Tu sai come fare per fare uscire un topolino da un labirinto di carta?- mi chiede. Cos’è, un indovinello?
 – Lo attiri fuori con dei pezzi di formaggio – rispondo, comunque, inquieta.
Lui mi scruta e annuisce : - Non seguire i pezzi di formaggio, Emily – conclude, serio. Mi saluta e va a slegare Janice.
La signora mi guarda ancora un attimo, con preoccupazione, poi segue il cognato fuori dalla stalla.
Non pensavo di essere un topo in un labirinto.    

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Lucy ***


Lucy

Io e Juno stiamo cavalcando una a fianco all’altra, attraverso i possedimenti dei LaMosse. A Hawkeye fa bene fare una passeggiata in libertà, e anche a me, a dire il vero.
Sono confusa, non so come comportarmi e odio sentirmi così. In verità, ho già deciso di continuare a fare come al solito, ignorando la vaga e ancora sconosciuta minaccia rappresentata da Marine LaMosse, ma non sono sicura che questa sia la decisione giusta. Juno è praticamente cresciuta qui, deve saperne qualcosa in più di lei.
Con Sasha e Wood non ne ho voluto parlare, perché Wood non riesce a tenere la bocca chiusa con gli altri, se beve un po’ di più del solito, e Sasha si agiterebbe e basta.
Con lei penso di potermi aprire più liberamente: nonostante il suo aspetto strano, o meglio, strano per me che ho finito il liceo da dieci anni e che non so niente delle mode giovanili, è un tipo intelligente e molto discreto.
Oggi esibisce una maglietta nera con la stampa di un coniglio che sembra una bambola da voodoo, e lunghi guanti senza punte a strisce viola e nere. Mi ha detto il nome dello stile, ma non me lo ricordo. Sono vecchia per queste cose.
Myles, il suo pony palomino, scuote la criniera chiara, infastidito da un insetto. Tutte le volte che lo vedo, mi stupisco di come sembri che sia stato fatto apposta per lei. Mentre ci sto riflettendo, mi accorgo che Juno mi fissa con i suoi enormi occhi spalancati:
- Emily, sembra che hai visto un fantasma – osserva – Ormai so che non sei una che parla tanto, ma non hai detto una parola! C’è qualcosa che non va?- chiede, ansiosa. Apprezzo molto che arrivi al punto così rapidamente. Detesto tergiversare.
– In realtà, sì – rispondo, e le racconto brevemente cosa è successo ieri con Art e la signora. – Tu cosa sai di Marine?- le domando, quando ho finito.
Lei rotea gli occhi e sbuffa, con aria disgustata: - è la peggiore persona su questo pianeta. Dopo che è morta nostra madre, non faceva che chiamare me e Sasha Pollyanna e Oliver Twist. La sua cricca di amici sono uguali a lei, ma più stupidi. Pensa che tutto le sia dovuto, perché è una LaMosse, e gli altri sono feccia. Sai, credo di sapere perché ce l’ha con te, Emily – rivela, con mio sconcerto.
– Davvero? – replico, sorpresa, e lei annuisce, squadrandomi con occhio esperto: - Sei più bella di lei – asserisce, sicurissima.
È talmente assurdo che scoppio a ridere, rischiando di ribaltarmi giù dalla sella. Hawkeye sbatte la coda, quasi ad ammonirmi.
Riprendo il controllo e guardo Juno negli occhi, con un’espressione “ andiamo – non – scherzare” : - Nemmeno lei può essere così scema. Andiamo, ha sedici anni, io ne ho ventotto! Come può sentirsi oscurata da me? Non ci siamo mai neanche incontrate – dico, ragionevole.
Juno mi restituisce uno sguardo saggio: - Sì, sarebbe perfettamente logico, ma lei è Marine LaMosse. Tu non l’hai mai vista, ma lei ha visto te e vuole essere unica, in ogni cosa. – spiega.
Visto che il mio atteggiamento rimane perplesso, Juno prosegue con la sua spiegazione: - Hai notato che la scuderia ha solo fantini? Lei è la sola amazzone. Ti sei chiesta perché LaMosse non assume donne? Non è solo Marine, c’è anche sua madre dietro. È tutta una questione di soldi, loro sono le eredi, loro decidono le regole – conclude, torva come mai l’ho vista finora.
Apro la bocca per ribattere, ma esito: - Quindi mi stai dicendo che Ashton LaMosse permette a nipote e cognata di tiranneggiare nella sua attività perché erediteranno tutto? – domando, incerta e scandalizzata.
Lei fa segno di sì: - Ovviamente, sono cose che nessuno dice, ma che sanno tutti. Ad Art non interessa più, se non fosse per i cavalli avrebbe già piantato tutto e tutti. La signora…nessuno sa cosa ne pensi, ma da quando sua figlia è morta si è allontanata da tutto ancora di più – racconta, mestamente.
Questi nuovi e oscuri risvolti mi turbano. Rimango in silenzio per un po.’
 – La figlia di LaMosse è morta?- chiedo, parlando di nuovo. Juno annuisce: - Tanti anni fa. Era solo una bambina. Se vuoi, ti porto a vedere la tomba – propone, scrutandomi.
Non vedo perché dovrei accettare, ma lo faccio comunque, più per un motivo di rispetto che di curiosità.


Il cimitero di Barnes è quasi a metà strada tra la città e le scuderie, piccolo quanto me l’aspettavo.
I LaMosse sono l’unica famiglia ad avere una cappella, che spicca subito all’occhio tra le poche file ordinate di lapidi tutte uguali.
Accompagno Juno a una breve visita dai suoi genitori, poi entriamo nella cappella, che la ragazzina mi spiega essere sempre aperta: - La città deve la vita a questa famiglia. In molti vengono a rendere omaggio ai vecchi padroni. Erano molto amati – dice, il che mi fa presupporre che Ashton non sia benvoluto come i suoi predecessori.
I loculi sono meno di quanto pensassi, e piuttosto spogli, nonostante quel che mi ha detto Juno. La tomba evidentemente più recente è anche quella che reca le tracce di visite assidue.
Non c’è fotografia, ma il nome e le date di nascita e morte fanno ben capire chi sia la sepolta, Lucy LaMosse.
Restiamo solo pochi minuti, perché stare qui mi angoscia e mi sconvolge, anche se non capisco perché, non davvero.
Rifacciamo la strada verso le scuderie portando Hawkeye e Myles per le briglie, quasi in assoluto silenzio, finché non lo rompo:
- Non voglio finire incastrata nei rancori e nei segreti di questa famiglia, Juno – mormoro, piena di rabbia.
So bene che le famiglie sono una trappola di bugie, asti e dolori inflitti, dato che l’ho vissuto. Non sarò una pedina per le macchinazioni di un’altra. Juno mi guarda, abbattuta, poi mi circonda la vita con un braccio. Mi lascia sempre spiazzata con questi suoi gesti così liberi e spontanei. Sono davvero poche le persone come lei.
– Mi sa che ci sei già dentro, Emily – constata, con sconforto – Ma io so che tu non ti fai mai scoraggiare da niente, non ti venderai a loro – afferma, sicura. Nonostante tutto, sorrido. La sua fiducia riesce a tirarmi un po’ su di morale. Peccato duri poco.
Quando riportiamo i cavalli in stalla, c’è qualcuno che ci attende, che mi attende.


Il gene dei LaMosse deve essere forte. Non c’è traccia della bionda insignificanza di Florence nei tratti di Marine.
Alta per i suoi sedici anni, ha un corpo sottile e aguzzo come uno spillo, in armonia con i lineamenti affilati del suo viso, del tutto riconducibili sia a Ashton che a Arthur. Anche gli occhi e i capelli scuri, che cadono sulle spalle in boccoli elaborati, sono gli stessi, ma completamente privi sia dell’umanità di quelli di Art, sia della severità di quelli di Ashton. Questi sono occhi maliziosi, serpenteschi, alteri.
È affiancata da un ragazzo smilzo, pallido e dai tratti coniglieschi, che ho già visto qualche volta con altri stallieri. Non so chi sia.
Juno fa saettare rapida lo sguardo verso di me, ma non dà cenno di volersene andare. Sa che è meglio non lasciarmi da sola adesso.
Io abbasso la testa, nel cenno di saluto che uso con i padroni, tranne Art, e porto sia Myles che Hawkeye nei box, senza scompormi per un attimo. Che questa ragazzina dica e faccia quello che vuole.
Infatti, sento il leggero ticchettio dei suoi stivali costosi avvicinarsi a me e mi volto, mostrandomi impassibile.
Marine LaMosse pianta quegli occhi d’inchiostro nei miei e mi porge la mano destra, che per assurdo, mi pare affilata come il resto della sua persona. La stringo, cautamente, e lei esordisce:
- Emily Rochester. Finalmente ci conosciamo. Sono Marine LaMosse, la figlia di Arthur – si presenta.
Ha un tono di voce sorprendentemente dolce e soffice, come quello di una bambina, in totale contraddizione con il suo aspetto.
 – Sono onorata di conoscerla, signorina LaMosse – replico, piatta. Si volge con un gesto lezioso, molto simile a come l’ho visto fare a suo zio, verso il ragazzo con lei:
- Lui è Morgan Porter, il mio ragazzo. Forse l’ha visto in allenamento, è uno dei fantini della scuderia – dice, in tono vago. Stringo brevemente la mano anche a lui, poi incrocio le braccia sul petto, aspettando che lei parli di nuovo. Non ho intenzione di darle spunti o armi da usare contro di me.
Mi studia qualche attimo, inclinando la testa di lato. – Credevo fossi più giovane…preferisco darti del tu, non ti dispiace – osserva. Non me lo sta chiedendo e io faccio finta di niente.
– Avevo chiesto di te per farmi da istruttrice, ma hai declinato l’incarico. Volevo saperne il motivo – prosegue, arrivando al sodo della questione. Ho la risposta pronta: - Non sono un’istruttrice. Sono stata onorata dell’offerta, ma ho ritenuto di non essere all’altezza – spiego, perfettamente calma.
I suoi occhi si stringono, come le sue labbra già sottilissime, e Porter scoppia in una risatina gelida: - Sembra che tu non sia all’altezza comunque, Rochester – mi sbeffeggia, alludendo alla mia statura fisica.
Devo trattenermi dall’alzare gli occhi al cielo. Dio, sono veramente dei mocciosi.
Sorrido, affabile: - Immagino che su questo abbia ragione, signorino Porter – replico. La mia reazione gela l’espressione sulle loro facce. L’ostentata sicumera di Marine vacilla e lei scopre le carte:
- Ti credi molto furba, vero, Rochester? Ti avverto, non metterti contro di me – minaccia, ridicola nella sua spavalderia. Sostengo il suo sguardo maligno senza battere ciglio.
 – Come vuole, signorina LaMosse – ribatto.
Vedendo che non è riuscita a intimidirmi, gira sui tacchi e se ne va, trascinandosi dietro quell’idiota.
Appena sono spariti, Juno espira rumorosamente: - Whew! Ora sì che ti farà passare l’inferno, Emily – esclama, preoccupata.
Mi stringo nelle spalle: - Non mi faccio spaventare da una sciacquetta, Juno – sentenzio. 
Più tardi, a letto, mi sorprendo a rimuginare non su quel breve incontro, ma sulla visita alla cappella dei LaMosse. Non so perché, ma ho la sensazione che se Lucy fosse viva, tutto questo non accadrebbe.
È a lei che penso, ma un attimo prima di addormentarmi, il suo volto, che immagino come una versione più dolce di quello di Marine, diventa quello di sua madre, Elizabeth.
E quel volto piange.       

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Scommettiamo ***


Scommettiamo

Da quanto posso ricordare, è stato un sogno ricorrente fin da quando ero bambina. 
Sono sola, in piedi in mezzo a una spianata rocciosa. Arrivano da lontano, e sono sempre due, uno accanto all’altro. Bruciano, lo vedo dal tremolare dell’aria intorno ai loro corpi, e galoppano verso di me. Criniere e code sono fiamme guizzanti, ne sento il crepitio, è un dettaglio chiaro perché non avverto altri rumori. Non posso e non voglio scappare, anche se stanno per travolgermi, e un attimo prima di colpirmi si scansano, passandomi ai lati.
Non so cosa succeda dopo, nelle intenzioni del mio cervello, perché mi sveglio sempre a quel punto.
L’ho appena raccontato a Sasha, che è fissato col paranormale e adora fare lo psicologo da quattro soldi, ma lui si limita a guardare Astrabee esercitarsi nel piaffer guidata da uno dei fantini della scuderia, un certo Abrahms, che a esercizio terminato, si volta verso di me e dice: - Questa cavalla è ottima, Rochester. L’avete già portata a fare le prove di cross – country? – chiede. Annuisco: - Sì, è molto abile anche in quello. Se gareggiassi, è lei che porterei al concorso completo – gli assicuro.
Abrahms è soddisfatto sia della prestazione che della mia risposta, così mi restituisce le redini con un gran sorriso: - Allora conservala per me – mi raccomanda. Dà una pacca sulla spalla a Sasha e se ne va.
Mentre sto strigliando Astrabee, il ragazzo continua a rimuginare sul mio sogno, col naso per aria e le mani in tasca, poi sembra essere colto da un’idea improvvisa:
- Sai, Emily, credo che i cavalli che sogni siano un avvertimento – dice, tornando sulla terra.
– Sì, occhio alle scottature – replico, ironica. Sasha spalanca gli occhi azzurri, identici a quelli della sorella: - No, dico sul serio! – esclama, serissimo, strappando alla cavalla un leggero nitrito di fastidio. Lui abbassa subito la voce di una tacca: - Lo sappiamo tutti che c’è qualcuno da cui dovresti guardarti, no? – sussurra, con aria complice.
Gli scocco un’occhiata: - Juno te l’ha detto? – gli chiedo. Sono un po’ delusa, pensavo fosse un tipo più riservato, ma lui scuote la testa, smentendomi: - Tutti lo dicono. Porter se n’è vantato ieri sera al Grey Stallion – spiega, apprensivo.
Il Grey Stallion è l’unico pub di Barnes, frequentato da quasi tutti i dipendenti dei LaMosse.
– Di che si è vantato, di preciso?- voglio sapere, stringendo gli occhi e passando meccanicamente la brusca sul mantello di Astrabee. Sasha abbassa la voce ancora di più, e si avvicina a me, quasi volesse dirmi un segreto in un orecchio: - Ha detto…- esita, imbarazzato. Evidentemente è una cosa volgare. Lo incito ad andare avanti, e lui mi lancia uno sguardo di scusa: - Ha detto che ci penserà lui a…far correre la puledrina dei LaMosse. Marine era lì con lui, e ha giurato che ci avrebbe pensato lei a metterle la capezza – racconta, mortificato.
Ricomincio lentamente a spazzolare il mantello della cavalla, senza sapere bene che pensare. Nella mia mente appaiono immagini di pestaggi e cose del genere, ma sono cose che fanno troppo scalpore. Se agiranno, lo faranno con mezzi meno eclatanti.
– Ascolta, Sasha – comincio, dopo una breve pausa – Tu e Juno andate spesso al pub? Stasera lo avete in programma? – domando. Il ragazzo fa segno di sì. – Bene - replico – Perché oggi vengo con voi –

A Barnes non c’è molto, se ti vuoi divertire. Per me non è un problema, visto che mi svago assai di rado, ma per i ragazzi deve essere frustrante.
Le poche volte che sono venuta in città con Juno, lei non ha mai mancato di lamentarsene, e questa sera, non fa eccezione: - Davvero, Emily, non so perché sei voluta venire. Lo Stallion non è niente di speciale, come tutto il resto – .
Si guarda intorno, contraendo le labbra rosate e indica la piazza di Barnes: - Niente. Il vuoto assoluto. Tutti vanno nelle città più grandi, ma io non posso usare il furgoncino come voglio. Sai, c’era un cinema, una volta, poi l’hanno chiuso – dice, tutto di fila. Scocco un’occhiata dubbiosa a suo fratello, che articola, per non farsi sentire da lei: “Non le ho detto niente. Ieri sera non c’era”. Ah, ecco. Faccio finta di niente e tiro la zip del parka, osservando: - Che peccato. Mi piace il cinema –
Juno mi guarda, sorpresa: - Davvero? – chiede, come se le avessi detto che sono seguace di una chiesa aliena.
Annuisco : - Sì. Ho una certa passione per l’età d’oro di Hollywood. Sapete, una volta mi sono fatta sei ore di macchina per andare a vedere una maratona su Von Stroheim – racconto loro, con una mezza risata. Capisco dalle loro espressioni vacue che non hanno idea di chi io stia parlando.
– Non importa – taglio corto, con un gesto della mano.
Siamo arrivati davanti al pub. – Allora, coraggio, non sarà un granché, ma la birra è birra – dichiaro, entrando con l’aria più imperturbabile del mondo.  

Il locale è molto più grande di quanto mi aspettassi. Probabilmente, perché è l’unico, rifletto.Ha un aspetto meno chiassoso e caotico dei pub in generale, ma è comunque affollato.
Mi fa una certa impressione riconoscere praticamente tutti. Diversi dipendenti delle scuderie e fantini ci salutano, mentre cerchiamo un tavolo.
Tutto qui dentro grida “LaMosse”: le foto di membri della famiglia alle pareti, dei campioni e la sella del più famoso cavallo dell’allevamento, Pennywise, vincitore di tutte le gare più importanti del paese e medaglia d’oro alle olimpiadi, esposta in bella vista sopra il bancone.
Io, Sasha e Juno ci sistemiamo in un piccolo tavolo, abbastanza discosto, e quasi immediatamente, appare una donna in tacchi alti e sorriso smagliante. Bacia sulle guance i ragazzi Pryce, chiedendo calorosamente come stanno, poi mi nota e il suo sorriso impeccabile si allarga ancora di più: - Guarda un po’ chi è uscito dal guscio – osserva, apparentemente deliziata.
Mi porge una mano dalle lunghe unghie smaltate: - Emily cara, benvenuta a Barnes, anche se con un po’ di ritardo. Sono Vanessa, la padrona di questo posto. Fai pure come se fossi a casa tua – si presenta.
Ricambio la stretta e la ringrazio, ormai non più stupita del fatto che mi conoscano tutti. Lei chiede rapidamente cosa vogliamo e ordiniamo tre birre chiare.
La guardiamo tornare verso il bancone e Sasha sospira. Juno gli tira una gomitata e ride: - Sasha è cotto di Vanessa da anni. Ma non ha speranze – mi rivela, alquanto divertita, mentre lui mette un po’ di broncio. – E perché? Il nostro Sasha è così adorabile – dichiaro, con una mezza risata che mi procura un pugno su un braccio.
Quando le risa si spengono, Juno mi si avvicina e abbassa la voce: - Vedi la ragazza al bancone?- dice, indicando con discrezione. Faccio di sì con la testa. – è la sua donna. Di Vanessa – spiega Juno, non senza una certa ammirazione, che condivido in pieno. Non deve essere semplice essere una coppia gay in un posto come questo. È un’esperienza che ho scontato sulla mia pelle, diversi anni fa.
– Sono molto coraggiose – mi limito a osservare, con distacco.
 Un minuto dopo arrivano le nostre birre, e tra una chiacchiera e l’altra, la conversazione verte inevitabilmente sui cavalli.
Ho appena cominciato a credere che le mie aspettative saranno deluse, quando entrano Marine, Morgan e qualche altro rampollo di famiglia ricca.
Il livello di rumore nel Grey Stallion si abbassa quasi impercettibilmente, mentre prendono posto intorno a un tavolo che ha tutta l’aria di essere riservato. Vanessa corre sollecita a servirli, e loro cominciano a fare gli idioti con le bottiglie e cantare canzoni sguaiate. Scivolo un po’ più vicino a Sasha, perché non mi notino subito, e li osservo da lontano.
Marine LaMosse sta in mezzo a loro come un cigno nero in un’assemblea di polli, arrogante e sprezzante. Immagino si accompagni a Morgan Porter solo per poter mettere in evidenza la sua presunta superiorità.
Juno e Sasha mi lanciano occhiate brevissime, poi si affrettano a tornare ai loro bicchieri, mentre ascolto. Come immaginavo, non ci vuole molto perché il discorso cada su di me:
una ragazza che non ho mai visto, tale e quale a una Barbie, si alza in piedi sul tavolo e improvvisa una camminata da modella:
– Guardatemi! – grida ai suoi amici, che ridono come pazzi, – Sono Emily “Tette di velluto”, la cavallina straniera!-
S’inginocchia sul piano del tavolo e mima l’atto di cavalcare: - Chi cavalcherà la cavallina straniera, scommettete, scommettete! – continua a incitarli, mutando il gesto di cavalcare nella parodia ributtante di un atto sessuale.
I miei occhi e il mio cuore sono di pietra, mentre fisso i decerebrati infilare banconote nella cintura di quell’oca. Nessuno li ferma, e nemmeno ci prova.
Se i miei occhi e il mio cuore sono di pietra, non lo è la mia mente.
Ignorando i goffi tentativi di Sasha di fermarmi, estraggo dieci dollari dal mio portafogli e mi alzo. La gente intorno mi vede e cerca di dissuadermi, ma io non sento niente.
– Io voglio scommettere – dichiaro, a voce alta e chiara, fermandomi davanti al tavolo.
Cala un silenzio gelido come l’inverno, tutto il gruppo si volta a guardarmi, ma è sulla ragazza LaMosse che sono concentrata. Getto il denaro sul tavolo, senza smettere di fissarla negli occhi: - Volevo scommettere, ma pazienza, sembra che sia arrivata a giochi fatti. Usateli pure per comprarvi un po’ di cervello – dico, nel mio tono più amabile.
Le labbra di Marine LaMosse tremano, disgustosamente pallide e sottili. Questa ragazza è repellente, come le zampe brulicanti di un insetto.
Si alza di scatto e mi punta un dito contro: - Non sai chi ti sei messa contro, Rochester! – squittisce, stridula. L’espressione sul mio volto non cambia: - Ma davvero? –
Mi aspetto che replichi, ma non vale tanto. Lei e i suoi amici mi squadrano con occhiate stolide.
In realtà, mi dispiace essere scesa al livello di questi ragazzini del liceo, ma non mi piace la prepotenza. Da nessuno.
Senza un’altra parola per loro, pago il conto alla ragazza del bancone, scusandomi per la patetica scenetta e recupero i ragazzi Pryce, che mi guardano con reverenza e timore.
- Sei nei guai, Emily – mi ammonisce Sasha, appena fuori.
Mi stringo nelle spalle: - Non sono i primi -      

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Il rosso e il nero ***


Il rosso e il nero


Il sangue sgocciola in lunghe scie sottili, macchiando lo zerbino.
Wood aggrotta le ciglia e sentenzia: - Maiale. È sangue di maiale, bambina. Devono averlo preso ai macelli, non è difficile – spiega. Non fa commenti sull’insulto dipinto a lettere cubitali sulla porta della mia stanza, e gliene sono profondamente grata. Sono passate quasi due settimane dall’imbarazzante spettacolo al Grey Stallion, onestamente credevo si muovessero prima. Woodback osserva ancora la porta per un po’, poi si passa le mani sui pantaloni e si risistema il cappello:
- Vado a prendere i secchi di vernice. Non ci vorrà molto – mi assicura, ma io lo fermo:
- No, devo farlo io. Grazie, Wood, ma non è necessario – dico, in fretta.
Il vecchio mi scruta con un’occhiata un po’ obliqua: - Ma sei sicura? – chiede, scettico. Annuisco energicamente, e lui alza le spalle, con rassegnazione: - Come vuoi. Torno subito – dice, e se ne va verso la rimessa.
Devono averlo fatto mentre eravamo tutti ai recinti. Per ore, vicino agli alloggi dei dipendenti, non c’è nessuno. Le lettere scarlatte brillano beffarde nella luce gialla del pomeriggio, dichiarandomi: “ Puttana ”.
Non mi aspettavo niente di più elaborato, in effetti.
Se fossi un’ingenua, cercherei di parlarne con i LaMosse, ma so che è inutile. Quindi, come al solito, me la caverò da sola. Ci sono abituata.
Woodback torna con la vernice e io comincio il mio lavoro solitario. Mentre scartavetro le tracce di sangue, rifletto su cosa succederà adesso: mi troverò insetti nella spesa? Strapperanno tutti i miei vestiti? Metteranno colla sulle mie selle? Non ho avuto mai avuto a che fare con questo tipo di bullismo scolastico, quindi non so se arrabbiarmi o meno.
Se avessi quindici anni sarebbe un conto, ma questa è una semplice questione di ragazzini viziati e immaturi. Se non ci pensano i genitori, non posso preoccuparmene io. Non credo che faranno qualcosa di veramente pericoloso, non possono davvero essere così stupidi. Al massimo, sopporterò un po’ di imbarazzo, concludo, passando metodicamente il pennello sul legno.
L’unica cosa che mi secca davvero, è che mi hanno fatto perdere un’ora di lavoro.
Appena finito, corro alla stalla, ma Sasha mi viene incontro, piuttosto agitato:
- Emily, ti hanno chiamata alla stalla numero uno. Hanno un problema con un cavallo – mi dice, d’un fiato.
Lo guardo, un po’ storto: - Perché mai hanno chiesto di me? Ci sono gli stallieri migliori della scuderia, lì…- domando, a metà tra perplessa e scocciata, intravvedendo noie in arrivo.
Infatti, Sasha abbassa la testa, dispiaciuto: - Si tratta del nuovo cavallo di Marine LaMosse – rivela. Mi trattengo dall’alzare gli occhi al cielo e imprecare. – E va bene – mi arrendo.


Appena arrivati alla stalla numero uno, mi accorgo che la situazione è seria.
Tutti i cavalli, nella zona dei box di quelli di famiglia, scalciano e nitriscono, come se qualcosa li stesse facendo impazzire. Roman mi vede sopraggiungere e mi trascina fra un mucchio di gente confusa.
Il motivo del caos è un enorme stallone morello, completamente imbizzarrito, che tenta con ogni mezzo di liberarsi dei tre uomini che lo tengono alla lunghina. Lo schiocco dei denti che mordono a vuoto mi fa rabbrividire, un calcio da quelle zampe può essere fatale. Hawkeye era un orsacchiotto di pezza, in confronto.
Un forte strattone dell’animale manda a terra uno degli uomini, che altri non è che Art. Alle mie spalle, una voce femminile rompe in un gemito di terrore. È Florence, che insieme a Marine e a Elizabeth, assiste alla scena, spaventata a morte.
Incrocia il mio sguardo, e per una volta, non è disprezzo che comunica: è una richiesta di aiuto. D’altro canto, l’espressione di Marine mi fa ribollire il sangue: sta assistendo alla scena con una specie di sorriso perverso.
Distolgo in fretta la mia attenzione da lei, per portarla su Elizabeth LaMosse. Ci guardiamo per un lungo istante, instaurando un patto silenzioso, e mi decido.
Mi faccio avanti a gomitate fra la gente che assiste, mentre il cavallo impenna, rischiando di travolgere anche Ashton LaMosse, che molla la presa. Ora quella bestia nera è libera, e punta dritto verso la folla.
Grido a tutti di levarsi di mezzo, e quelli obbediscono in un baleno. Sto per azzardare una cosa che ho fatto solo una volta, e non so se ci riuscirò.
Mentre il galoppo del cavallo aumenta, un treno contro di me, io comincio a correre verso di lui. Sento da lontanissimo le grida: - Sei impazzita? Ti ammazzerà! – ma non m’importa.
Ora siamo io e lui, i miei occhi nei suoi, sbarrati e folli. Siamo sempre più vicini, e il mio cuore sta per esplodere.
A un passo dall’impatto, scarto rapida a sinistra. Mi sfreccia accanto come una nube nera e afferro saldamente la sua criniera, dandomi la spinta per balzargli in groppa. Per alcuni attimi di delirio, è ingovernabile, come un’auto senza volante, mentre concentro tutte le mie forze a mantenermi in equilibrio su di lui. Riesco a impugnare le redini, infine, con un grido di esultanza. È come stare a cavallo di un roller coaster: cerca di sgropparmi, s’inarca, morde l’aria, ma io tiro le redini, senza paura. Lo stallone inizia a rallentare, ancora isterico ma gestibile.
Lo volto e lo faccio tornare indietro, verso il suo box. Ashton LaMosse capisce e corre ad aprire lo sportello.
Entriamo, ma non riuscirò mai a legarlo così.
Non ho tempo da perdere: incurante del fatto che lì dentro sia pieno di uomini, mi sfilo la maglietta e la strappo con i denti, ricavandone una rozza benda. Con cautela, la metto sugli occhi del cavallo, che sul momento impenna, agitandosi di nuovo, ma inizio a parlargli, ferma e rassicurante. Non si fida affatto di me, ma si calma abbastanza per permettermi di scendere e di legarlo nel box.
Gli tolgo la stoffa dagli occhi e salto fuori dal cubicolo, chiudendo veloce lo sportello dietro di me. Ho le gambe molli, la testa mi gira e sono in reggiseno di fronte a metà scuderia e all’intera famiglia LaMosse. I capelli, benedetti loro, fanno un bell’effetto tenda, ma incrocio le braccia sul petto, in un gesto di pudore istintivo.
Sasha, miracolosamente, sbuca dalla folla con la sua camicia in mano e me la porge. Appena mi sono ricomposta, Ashton LaMosse si fa avanti, pallido, ma distaccato come al solito:
- Credo che tutti noi le dobbiamo un grosso favore, signorina Rochester – dice, stringendomi la mano.
Io non replico,ricambiando la stretta, ma getto un’occhiata allo stallone nero, che ora gratta a terra con uno zoccolo, le orecchie indietro e gli occhi spalancati. – Potete farmene uno, signor LaMosse – dico, infine – Nessuno monti quell’animale -. 
L’uomo mi guarda, con un’occhiata densa di significato. So che ha capito e che seguirà il mio consiglio. Art alza i pollici, in segno di riconoscenza, mentre sua moglie mi restituisce uno sguardo incerto, ma non più sprezzante.
Elizabeth non mi guarda, ma per qualche motivo, vorrei lo facesse.
Marine invece sì, e in lei trovo tutto quello che mi aspettavo: paura, stupore, odio.
Il morello nitrisce, forte.       

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Caleidoscopia I ***


Caleidoscopia I


È diventata una routine.
Non m’interessa sapere che cosa ne pensi la gente, so solo che da quando l’ho vista domare in quel modo tanto avventato il Frisone impazzito, ho capito di doverne scoprire di più. È molto raro che le persone mi sconvolgano, e lei lo sta facendo.
Così, ormai da giorni, mi metto vicino ai recinti, e seguo per ore il suo lavoro. Per ore, senza muovermi, senza dirle nulla, la guardo cavalcare, fingendo d’interessarmi agli allenamenti.
Emily è una persona metodica, non cambia di una virgola le sue abitudini: quando arrivo, china il capo in segno di saluto, come l’ho vista fare con Ashton e Florence, poi inizia. Ferma i cavalli per tutto il tempo necessario, ma lei mangia e si riposa solo il minimo indispensabile. Ha un rapporto cordiale con Malloy e i ragazzi Pryce, ma è con i cavalli che è davvero sé stessa.
Lei e lo stallone baio sembrano una cosa sola, l’uno un’estensione naturale del corpo dell’altra.
Sembrano ergersi per miglia sopra tutto e tutti.
Quando non è in sella, sta istintivamente racchiusa su sé stessa, le mani in tasca, il passo stretto e incerto, quasi smarrita, come un falco preso al laccio.
Se mi era parsa bellissima nella penombra della stalla e nella luce slavata del mio studio, non riesco neanche a descrivere com’ è quando è lanciata al galoppo, i lunghi capelli castani fusi con la criniera corvina del suo baio, ogni muscolo proteso nella corsa, tale e quale a un volo in picchiata.
E nella sua precisione e puntualità, non si ripete mai conducendo gli animali, confrontandosi con loro; ogni trotto, ogni ambio, ogni canter è composto dagli stessi elementi, ma mai uguale, come frammenti d’immagini in un caleidoscopio, esattamente allo stesso modo in cui lei non somiglia mai alla Emily di appena un secondo prima.
Ho paura di dare un nome all’impulso che mi spinge a cercarla ogni giorno, perché io, Elizabeth LaMosse, sono ricca, importante e superficiale. Non posso permettermi un desiderio profondo.
Nessuno vuole questo da me.  

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Caleidoscopia II ***


Caleidoscopia II

A volte vorrei essere nella mente di Hawkeye.
Diventare lui, scordandomi di chi sono. Quando lo cavalco, spesso sento di esserci vicina, ma mai abbastanza.
Hawkeye è molto più libero di me, molto meno complesso, nella sua grandiosità. E io non mi considero una persona complessa. Né tantomeno grande.
Se non avessi i cavalli, non sarei niente, e questo è un pensiero che spaventerebbe chiunque. Ma io ho smesso di avere paura per me. Così come ho smesso di legarmi alle persone.
Forse è per questo che senza il mio lavoro, io non sono nulla. Ma è solo su una sella che riesco a esistere.
Allora non capisco perché, adesso, sto permettendo a qualcuno di gestirmi, inconsciamente, credo.
Prima di prendere il controllo sulla bestia nera, ci siamo guardate.
Elizabeth LaMosse mi ha chiesto con lo sguardo di non lasciare che qualcuno si facesse male. Ho obbedito alla richiesta, la più radicata delle mie abitudini. Ma ho sentito che c’era di più.
Non lo stavo facendo per semplice obbedienza. Lo stavo facendo per lei, che a conti fatti, per me non rappresenta poi molto. Io non mi lego mai alle persone, e lascio difficilmente che lo facciano loro.
Questa volta è diverso. È come se qualcosa ci spingesse l’una contro l’altra.
Non so niente di lei, lei non sa nulla di me, ma di questo sono sicura.
I cavalli di fuoco mi galoppano addosso, e io non faccio niente per spostarmi. Per quanto lo sezioni, il mio sogno non è mai identico all’ultima volta, come se fosse dentro un caleidoscopio.
Non ho idea di quale sarà la prossima figura.   

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Lettere ***


Lettere

Questa mattina ha telefonato una donna, tre volte. Nessuno aveva idea di chi fosse, voleva solo parlare con Emily Rochester, ma lei non ha preso la chiamata.
Qualcuno che non l’avesse osservata tanto a lungo come ho fatto io in questi giorni, non noterebbe nulla di strano. Ma c’è qualcosa di teso nel modo in cui tiene le briglie, e il suo stallone baio, Hawkeye, è più nervoso del solito. Quando torno al recinto, nel pomeriggio, il vecchio Malloy mi dice che la ragazza ha interrotto il suo lavoro ben prima del solito, e che se le voglio parlare è nella sua stanza.
Non ci penso su neanche troppo a lungo, e quasi prima di decidere che scusa inventerò, sto bussando alla sua porta. Mi apre quasi subito, ed è in canottiera e pantaloni corti, come se si fosse appena alzata dal letto. Il suo volto è inespressivo:
- Signora LaMosse – mi dice, a mo’ di saluto. Si guarda e m’invita a entrare:
- Mi dispiace per questo, ma non pensavo venisse a cercarmi qualcuno. Si accomodi pure, vado a cambiarmi – si scusa, chiudendo la porta dietro di me e raccogliendo gli abiti da un servo muto nell’angolo della camera. Immagino che vada a vestirsi in bagno. Mi siedo sul letto, visto che non c’è altro posto, e osservo la stanza, piuttosto anonima.
Gli unici tentativi di personalizzazione sono una piccola cartina delle isole britanniche accanto al letto, una foto di lei in sella a un cavallo baio di diversi anni fa e forse l’ultima cosa che potevo aspettarmi, un cagnolino di peluche, anch’esso decisamente datato, sui cuscini. I pochi oggetti sono sistemati con cura, e hanno un’aria statica, leggermente impolverata, chiaro segno di quanto poco tempo Emily passi qua dentro.
Mentre ancora sto osservando il peluche, senza osare toccarlo, lei torna e s’infila le mani in tasca, a disagio:
- Posso offrirle qualcosa?- mi chiede, in evidente difficoltà. Non deve essere affatto abituata ad avere gente intorno nei suoi spazi privati. La tolgo in fretta d’impaccio:
- No, grazie. Veramente volevo chiederti se mi faresti compagnia per un tè – dico, aspettandomi che rifiuti. Sono certa che per un secondo rapidissimo, mi consideri fuori di testa, ma non lo fa vedere. Si limita ad annuire.

Non so bene cosa pensare, guardandola seduta nel mio studio, intenta a maneggiare la porcellana della tazza con delicatezza estrema. Appare straordinariamente fuori posto, questo è certo. Continua a gettare occhiate fuori dalla finestra, la mente senza dubbio rivolta ai cavalli. Voglio sapere chi è davvero questa ragazza, di cui non so reggere lo sguardo, ma da cui non riesco a distogliere gli occhi.
– Una donna ha chiamato chiedendo di te, credo te l’abbiano detto – inizio, rompendo il silenzio e prendendola molto alla larga. Emily, finalmente, mi rivolge la sua completa attenzione, scrutandomi a lungo, come a soppesare domanda e risposta.
– Sì – replica, infine, in tono neutro.
– Ha detto di chiamarsi Camilla Johnson. La conosci?- vado avanti, mostrando un interesse più che vago.
– è mia madre – mi sento rispondere, senza riuscire ad evitare di sorprendermi.
– E non le hai voluto parlare?- le chiedo, abbandonando il distacco e guardandola dritta negli occhi. Il suo sguardo non esprime niente, quando scuote la testa, in segno di diniego.
 – Non le parlo da nove anni – ammette – Mi dispiace che l’abbia disturbata, non so come abbia fatto a sapere che lavoro qui – si scusa, e mi ricorda la notte nella stalla, quando si è scusata per la luce accesa nella stalla.
–Non ha importanza – replico in fretta, curiosa di saperne di più – Non hai un cellulare? – le domando. È strano.
Altro segno di diniego: - Non mi piace usare il telefonino. Sono molto più fuori moda, se devo dire qualcosa a qualcuno, scrivo lettere – racconta, arrossendo leggermente. La mia osservazione esce spontanea:
- Che meravigliosa abitudine. Non lo fa più nessuno – .
Per la prima, vera volta, Emily mi sorride: - davvero non lo trova strano, signora LaMosse? – mi chiede, sinceramente lieta e stupita.
– Oh, no, è molto bello invece – le assicuro. Esito un po’: - Perché non parli più con tua madre?- chiedo, con la netta sensazione di stare andando troppo oltre. Il suo sorriso si attenua, ma non si spegne: - Non mi piaceva suo marito – spiega, semplicemente. Oh, Dio, non vorrei mai che la sua storia fosse una di quelle orribili vicende di violenze e cose del genere.
A quanto pare, parte delle mie supposizioni mi si devono leggere in faccia, perché lei, inaspettatamente, scoppia a ridere: - Non si preoccupi, non mi ha mai messo le mani addosso. Era troppo idiota, perfino per quello – dice, con la voce venata di reale disprezzo. Il suo sguardo si incupisce per qualche attimo, poi si stringe nelle spalle:
- Pensava che fossi un’incapace, come mio padre. Aveva una scuderia, e mi faceva badare ai cavalli. Quando voleva umiliarmi, mi trascinava davanti agli altri stallieri e mi costringeva a dire: “Io sono Emily Rochester, la figlia di un perdente, violento e buono a nulla e sarò proprio come lui ”, poi mi faceva pulire tutti i box più sporchi. Se mi rifiutavo, avrebbe picchiato il mio cavallo – racconta, in tono spaventosamente piatto.
Mi accorgo che la pena mi ha spinto a coprirmi la bocca con le mani, e le abbasso subito, convinta che lei non ami la compassione, ma non mi sta guardando: è concentrata sul fondo della tazza, come se vi leggesse il proseguimento del suo discorso: - Me l’aveva regalato mio padre, l’unica cosa veramente da padre che abbia mai fatto. Si chiamava Eagle, ed era uno stallone baio, con una marcatura bianca sul muso. L’uomo di mia madre l’ha fatto uccidere: tesero un filo da pesca sul mio percorso, per farlo cadere e azzoppare. È l’unica volta che sono caduta da cavallo. Non sono mai caduta, nemmeno quando stavo imparando. Era più naturale che camminare, per me. Ma lui è inciampato, e io non ho potuto far nulla per evitare che lo abbattessero.
Non ci ho pensato due volte, ho preso le mie poche cose e me ne sono andata.  Mia madre non ha mai preso le mie parti, aveva già un’altra figlia con quel tizio, e io non le ho più parlato. So che mi ha cercato, ma non m’interessa. Non chiamerà più qui, comunque. I suoi tentativi sono sempre piuttosto deboli – conclude, il tono ora appena appena incrinato.
Di solito, quando le persone raccontano cose del genere ci si mostra vicini, empatici. Io la vorrei abbracciare, come si fa con una figlia, una sorella o un marito. Però quello che sento per lei non è né materno, né fraterno. Mi alzo e le poso una mano su una spalla, trattenendomi:
- Mi dispiace moltissimo. È una storia terribile, e non avrei mai dovuto insistere – le dico, sforzandomi di mantenere un tono normale. Lei alza lo sguardo su di me, e i suoi occhi sono liquidi come il mercurio: - La prego non si scusi. Forse è la prima volta che ne parlo con qualcuno – confessa.
Ci guardiamo, a lungo, e se questa fosse un’altra vita, adesso sarei già tra le sue braccia. Emily spezza l’incantesimo, con un repentino ritorno ai suoi modi imperscrutabili e pratici: - Adesso, devo proprio tornare al lavoro, signora LaMosse. Grazie per il tè – dice, distogliendo lo sguardo e alzandosi.
Le rispondo qualcosa di generico, rivestendomi del mio solito ruolo.
Quel suo sguardo di metallo si è come aperto, per un istante, ne sono sicura.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Lenti ***


Lenti


Qualcuno dice che piangere fa dormire meglio, ma non ci ho mai creduto. E ci credo ancora meno , dopo la notte insonne che ho passato.
Mi secca andare al lavoro con gli occhi arrossati e gonfi, quindi userò la scusa del sole per mettere gli occhiali scuri, sempre sperando che Wood e Sasha abbiano il buonsenso di farsi gli affari loro.
Erano anni che non mi concedevo un bel pianto con i fiocchi, anche perché credo di aver parlato di Eagle solo con una persona, prima di Elizabeth LaMosse, o forse neanche l’ho fatto. No, probabilmente, a  Alison non ho raccontato del mio cavallo. Lei odiava i cavalli. Anche adesso, mi chiedo come abbiamo fatto a stare insieme per tre anni.
Comunque, il doppio pensiero del mio amico perduto e della mia unica relazione seria non ha contribuito a farmi riposare. Pensare a Elizabeth LaMosse, mi ha tolto del tutto la capacità di dormire.
Sarebbe decisamente stupido e ipocrita, da parte mia, negare di esserne attratta. Così come è ridicolo semplicemente sperare di avere qualche possibilità. Io non sono il tipo da colpi di testa, niente affatto. E immaginare qualcosa con una donna sposata col mio datore di lavoro, è decisamente un colpo di testa madornale. Ma i sentimenti non sono cavalli da poter imbrigliare.
Odio non sapere cosa fare. O magari lo so, e non oso farlo.
Sono così concentrata sui miei pensieri, che quando esco dalla mia stanza alla volta della stalla, sul momento non mi accorgo che c’è qualcosa di strano. Poi lo vedo.
Hanno inchiodato uno scoiattolo morto alla porta. Il chiodo trafigge la coda grigia e spelacchiata, e le zampette sono legate, come se l’animale fosse incaprettato. È talmente orribile, che per poco non piango un’altra volta, ma la piccola carcassa sembra già vecchia di qualche giorno. Con tutta probabilità, l’hanno raccolta nei campi o sulla strada.
Tuttavia, mi rifiuto di lasciarlo in quello stato: lo stacco, gli slego le zampe e lo seppellisco in un terreno incolto dietro agli alloggi dei dipendenti. Marine mi ha mandato un altro messaggio.


Non ne faccio parola con Sasha e con il vecchio Wood, e nessuno dei due commenta i miei occhiali da sole, perché il ragazzo sfoggia un paio di occhiali a specchio con la montatura di un rosa caramella, che ha quasi steso il povero Woodback.
Ignorando i suoi rimbrotti e la difesa infarcita di parole trendy di Sasha, porto Corbin in allenamento,e la mia angoscia svanisce pian piano.
La signora arriva nel primo pomeriggio, come al solito, e anche lei, con mia sorpresa, ha gli occhi coperti da lenti fumé. Non posso concentrarmi troppo su di lei, perché sto facendo fare il percorso a salti a Princess Anne, ma ogni volta che le passiamo davanti, le getto un’occhiata. Non fa nemmeno finta di guardare gli altri cavalli.
Quando finisco il percorso, vado direttamente da lei, per chiederle cosa ne pensa. Sembra riscuotersi all’improvviso, e si limita a notare che Princess Anne ha un salto molto lungo.
Mentre sto strigliando la cavalla, prendo una decisione improvvisa. 
Lascio sempre Hawkeye per ultimo, da un po’ di tempo, perché preferisco portarlo a cavalcare, piuttosto che allenarlo nei recinti. Tenendo lo stallone per la capezza, vado di nuovo da Elizabeth LaMosse:
- Stavo pensando a un modo per sdebitarmi con lei per ieri- esordisco, tranquillamente – Se posso, volevo chiederle  se verrebbe a fare una cavalcata con me – dico, sperando di non aver esagerato.
Mi guarda per un attimo, non sapendo che rispondere, a quanto pare, ma si riprende in fretta: - Ma certo, sì, è una splendida idea – replica, in tono formale, non lasciando trasparire nient’altro
– Prepareresti tu il mio cavallo, Emily?- chiede, o meglio, ordina in tono di richiesta. Ovviamente, dico di sì.


La sua cavalla saura è un animale di rara mitezza, dolce e leggermente svagata.
Dato che ogni cavallo ha qualcosa del carattere del padrone, immagino che la signora sia un po’ così, anche se non lo dà per nulla a vedere.
Anche adesso, cavalcando di fianco a me, ha una postura perfetta in sella, quasi artificiale, assolutamente non rilassata. Più o meno come si mostra sempre a tutti.
Non sono una gran conversatrice, e l’unico argomento che mi viene in mente per rompere il ghiaccio sono i cavalli. Non posso che puntare su quello.
– Da quanto tempo ha Iris?- le chiedo, con interesse professionale. Lei le scompiglia la criniera, in modo familiare, il primo gesto spontaneo che le vedo fare:
- Cinque anni. È la figlia della cavalla che Ashton mi regalò dopo il matrimonio – spiega, con un sorriso nostalgico
– Sai, l’adoravo. Winged Rose, elegante e mite. Facevo le gare di dressage, con lei – prosegue, in tono più confidenziale.
Il suo viso è illuminato, come se fosse realmente tornata indietro nel tempo, e per qualche attimo riesco a immaginarla poco più che ventenne, nella divisa da amazzone.
– Art mi ha detto di non amare il dressage – osservo, facendola ridere:
- Oh, Art! Lui e i suoi Appaloosa. Credo che tu già lo sappia, ma non è il tipo da monta inglese – dice, alzando gli occhi al cielo. Non mi aspettavo si sciogliesse così in fretta, ma è irriconoscibile, rispetto al solito.
– Comunque, – aggiunge – Ero piuttosto brava. Poi quando sono rimasta incinta ho dovuto smettere e dopo… beh, non ho avuto voglia di ricominciare – racconta, l’eco della risata ormai spento del tutto.
Si perde per un attimo, lo sguardo ai campi, poi il suo tono di voce cambia, diventando più morbido e intimo:
- Quando abbiamo parlato, ieri, sono rimasta molto colpita da quello che mi hai raccontato. Vedi, tra gente elevata, o che si crede tale, non è elegante parlare di disgrazie. I pettegolezzi sono un argomento molto più piacevole alle cene in piedi. Mi capita di ascoltare ore di sciocchezze su amanti e denaro, senza mai poter confessare quanto ancora soffro per la morte di mia figlia.
Non interessano a nessuno le tragedie – ammette, e ora capisco il perché dei suoi occhiali scuri.
Vorrei dire che mi dispiace, che quello che ho passato io in confronto è niente, ma Elizabeth LaMosse va avanti, con un sospiro: - Non voglio lamentarmi, sono una persona privilegiata. In fondo, ho tutto quello che voglio, tranne…- esita, e le vengo in aiuto: - Tranne quello che conta – completo.
Ci siamo fermate, inconsapevolmente quasi, e mi tolgo gli occhiali, subito imitata da lei. Sta succedendo la stessa cosa di ieri. Qualcuno, senza fantasia, direbbe che lei ha gli occhi di un gatto, ma lo sguardo dei gatti è guardingo, indagatore, impassibile.
Il suo è veramente più simile a quello di un cavallo, altrettanto sensibile, altrettanto parlante.
Lo abbassa, quasi all’improvviso, e dice: - Laggiù ci sono dei posti dove sedersi. Vorrei mostrarti una cosa -.
Annuisco, a fatica quasi, e ci avviamo verso una piccola macchia d’alberi. 
La fotografia è un po’ stinta, ma riporta l’aspetto di Lucy LaMosse identico a come l’immaginavo: un visetto a punta, grandi occhi scuri e boccoli di un castano tendente al nero. Non ha più di quattro anni, la foto è stata scattata qualche mese prima della morte.
Il groppo in gola che mi ha tormentato tutta la notte si stringe di nuovo, quando Elizabeth ricomincia a parlare, in tono sommesso:
- Dopo, io e Ashton siamo diventati due estranei. Florence ha cresciuto i suoi figli, gli eredi dei LaMosse, e anche se la gente chiama me “signora”, lei lo è di fatto. Non è bello che lo dica, ma per mesi ho desiderato che a morire fosse stata Marine e non Lucy. Ho smesso di provare rancore, ma non voglio bene a mia nipote.
Florence è stupida, ma non cattiva. Marine è l’esatto contrario. L’unica cosa a cui tenga, a parte sé stessa è suo fratello, Al, e spero che questo l’aiuti a migliorarsi, prima o poi.
Ma la mia bambina mi manca sempre, sempre, sempre. Non avevo nessuno con cui parlarne, prima di adesso –
Le lacrime iniziano a scorrere sulle sue guance, e io faccio l’unica cosa che posso fare, anche se temo di non ricordarmi come si fa.
Sussulta, quando l’abbraccio, ma non mi respinge. Affonda il viso nella mia spalla, abbandonandosi ai singhiozzi, e mi circonda con le braccia.
I cavalli di fuoco lasciano impronte ardenti sul mio cuore.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Hades ***


Hades


Sono andata al cimitero. Da anni non lo facevo, perché non ne avevo il coraggio, ma quello che è successo due giorni fa mi ha aiutato. Questi tredici anni sono stati come avere la bocca cucita, e finalmente, qualcuno mi ha ascoltato gridare. Non l’ avrei mai creduto possibile, specialmente con una persona come Emily, che pensavo lontanissima da me. Non opposta, diversa. Ma forse stiamo cercando entrambe la stessa cosa.

Torno a casa e le urla di Florence mi arrivano distinte, come se fosse nella stanza accanto. Il fatto che stia rimproverando Marine ha dell’incredibile. Di solito, gliele fa passare tutte. Ma stavolta deve aver combinato qualcosa di serio.
Da quanto posso origliare, Florence ha scoperto che sua figlia va a cavalcare di notte, ma il problema è il cavallo.
Nemmeno Marine può essere così incosciente.
Decido di intervenire e trovo mia cognata con gli occhi fuori dalle orbite per l’indignazione e mia nipote, di contro, ha le braccia incrociate sul petto e l’espressione arrogante che la contraddistingue, assolutamente indifferente alla rabbia della madre. – Qual è il problema? Florence, stai strillando come una pazza – chiedo, cercando di calmarla.
Lei mi punta gli occhi addosso e allarga le braccia, come se quello che sta per dire sia inesprimibile a parole:
- Devi aiutarmi, Liza. È colpa mia, lo so, le ho sempre lasciato fare quel che voleva, e ora pago lo scotto – farfuglia, vicino  all’isteria.
Le poso una mano sul braccio e l’invito a spiegarmi tutto, ma Marine mi precede, roteando gli occhi, spazientita e facendo un passo avanti:
- Zia Liza, mia madre sta esagerando. Ho ogni diritto di allenarmi con Hades! – esclama, sicurissima di sé.
La guardo storto: - Hades? Gli hai anche dato un nome? Quell’ animale è pericoloso, lo sai. Se non fosse stato per Emily Rochester…- ma lei m’interrompe:
- Ah! Si può sapere cos’ha fatto di tanto speciale? Un volgare trucco da rodeo – osserva, disgustata, poi mi fissa dritto negli occhi:
- Quel cavallo è mio, e io lo monterò, con o senza il vostro permesso. L’ho già sistemato dai Porter, e né voi, né papà, né zio Ashton potete impedirmi di allenarmi con lui!- dichiara, bizzosamente, pestando un piede a terra.
So che non dovrei farlo, ma se lo merita. Lo schiaffo le riempie quei suoi occhi prepotenti di lacrime e l’ammutolisce, per un benedetto istante:
- Adesso mi ascolti – sibilo, gelida – Tu non salirai mai più in sella su quel cavallo e puoi scordarti cellulare, uscite e computer per un mese. Se non ci pensa tua madre, ti raddrizzerò io. Non puoi fare come ti pare, Marine! È ora che qualcuno te lo faccia capire – sentenzio, implacabile.
Il suo volto è di pietra, totalmente inespressivo, ma so che sta tramando qualcosa.
Per evitare altri problemi, chiamo Roman e gli dico di chiuderla in camera sua. Marine non fa scenate, non si ribella e si lascia portare via.
Florence ce l’ha sicuramente con me perché l’ho schiaffeggiata, ma fosse stato per lei sua figlia l’avrebbe avuta vinta per l’ennesima volta.
Ma so bene che non è ancora sconfitta.


- Davvero sta cavalcando quel Frisone?-
La domanda di Emily è semplice e scettica, e la sua espressione è ancora più accigliata del normale.
Annuisco e lei si appoggia allo stipite della porta, gli occhi puntati al maniscalco, che sta ferrando una delle sue Arabe, Moon River.
– Devono aver trovato un modo per calmarlo, ma in così poco tempo non riesco davvero a capire come abbiano fatto – ipotizza, dopo una lunga pausa.
Mi stringo nelle spalle: - Non lo so e non m’importa. Quello che mi preoccupa è cosa farà adesso. Nessuno l’ha mai contestata, è troppo viziata e orgogliosa per lasciar perdere. Insisterà per pura ripicca – spiego.
Emily mi scruta, e scuote la testa: - Può fare i capricci quanto vuole, ma è minorenne e dovrà fare come dite voi, signora LaMosse. Domani è il giorno dell’iscrizione alle gare di contea. Se ci tiene a partecipare, dovrà piegarsi – osserva, ma mi sembra troppo ottimistico.
– Dovrai esserci anche tu, no? Una delle tue cavalle è in gara, se non sbaglio – dico, colpita da un’idea improvvisa.
Lei fa segno di sì e specifica: - Astrabee -
- Forse potresti parlare tu con Marine. Io non so cos’abbia contro di te, ma penso ti tema, in qualche modo. Se tu riuscissi a farle capire cos’ha da perderci e da guadagnarci, magari potrebbe cambiare idea – propongo, senza alternative valide.
Il suo sguardo si fa così severo da diventare quasi arcigno:
- Signora LaMosse, io capisco tutte le sue ragioni, ma Marine non mi starà mai a sentire, e l’ultima cosa che credo è che mi tema. Perché non ne parla con suo marito, invece?  Penso che di lui sua nipote abbia abbastanza paura– replica, razionalmente.
– Tu non conosci Ashton, Emily. Si limiterebbe a dire che Marine sta facendo di tutto per vincere – le assicuro, cupamente, e lei si stupisce:
- Il signor LaMosse sa quanto sia imprevedibile quella bestia. Non permetterà mai a sua nipote di cavalcarlo – dichiara, ma io scuoto la testa:
- Se gli danno la prove che si può montare, darà retta a Marine – ribatto, sicura di quanto sto dicendo.
Emily adesso è davvero indignata: - Questo non ha alcun senso. Sua nipote è una ragazzina, io ho quattordici anni di esperienza, lui è il padrone! Non vorrà farmi credere che la parola di qualche teenager valga più della mia, o della sua autorità?- 
Se il nostro fosse un mondo normale, le sue argomentazioni sarebbero pacifiche, chiunque lo saprebbe.
Per questo mi vergogno della mia replica: - Ma tu sei l’ultima della ruota, Emily. Io so quanto vali, ma questa è la verità. È la tua parola contro la sua - 
Lei stringe gli occhi e le labbra, con feroce determinazione: - Allora vuol dire che ci parlerò io col signor LaMosse – decide, irremovibile.
So che mi sta disprezzando in questo momento, e vorrei, davvero, che i suoi sforzi valessero qualcosa.
In preda ai sensi di colpa, la inseguo, mentre sta riportando la cavalla ai box.
– Aspetta, Emily, aspetta. Io apprezzo quello che vuoi fare,veramente, e so che hai ragione su ogni cosa – le dico, in fretta, mentre lei tiene lo sguardo in basso, impaziente e ancora arrabbiata:
- Ma Ashton non ti darà retta, io so com’è fatto – aggiungo, e lei mi guarda, lo sguardo più comprensivo:
- Io ho capito che con me, signora LaMosse, lei è diversa da com’è con tutti gli altri. Deve tornare a far valere la sua voce anche con suo marito. Provi a parlarci, se vuole aiutare sua nipote. Se non ascolterà me, ascolterà lei, deve farlo.
Mi scusi se sono stata impertinente, ma è quello che penso, e non voglio mentirle – dice, in tono sommesso.
Mi sta quasi pregando.
E capisco all’istante, che per lei, lo farò.  

  

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Trauma ***


Trauma


Questa mattina ci siamo alzati tutti molto prima del solito. Ogni giorno d’iscrizione è un giorno caotico, a suo modo. Non è solo affermare che si parteciperà e con quali cavalli. A conti fatti, è un’esibizione prima della gara vera e propria. Ci si mostrerà, ci si vanterà e s’inizieranno rivalità che andranno avanti anche per anni. Ma per me è solo un giorno di lavoro un po’ più faticoso degli altri.
Con le mani infilate nelle tasche del parka e il cappuccio sulla testa, osservo Wood e Sasha svegliare Astrabee, che ha il difetto di essere veramente pigra e tutti e tre la conduciamo davanti alla stalla numero uno, dov’è parcheggiato il van per i partecipanti.
Essendo una delle scuderie più famose e rinomate della costa est, i LaMosse hanno il diritto di concorrere con un cavallo per competizione: uno per il salto, uno per il dressage, uno per il cross-country e uno per il concorso completo, che riunisce tutte e tre le discipline.
È quest’ultimo a preoccuparmi.
Ogni dipendente delle scuderie è presente, e anche Art e il padrone, ma non c’è traccia della signora o di Marine, il che, per qualche beato istante, mi fa ben sperare. Un mormorio che corre attraverso la folla riesce a far esplodere le mie speranze come bolle di sapone.
Un tipo davanti a me, che conosco a malapena visto che lavora nella stalla numero due, a un certo punto dà di gomito al suo vicino e gli fa:
- Ehi, ma quello non è il cavallo pazzo che ha quasi tirato sotto Art? –
Sasha si gira verso di me di scatto: - Ma Emily, non avevi detto al padrone di non farlo montare a nessuno?- esclama, con gli occhi sbarrati.
Mi limito ad annuire e ad assumere un’espressione cupa, mentre guardo Roman che tiene per la capezza il Frisone e lo fa salire sul van, senza alcun problema.
Marine LaMosse appare in quel momento, con il trionfo inciso in ogni particolare di quel suo volto pallido e beffardo. Passandoci davanti, mi cerca con lo sguardo e mi trova. Il mio viso resta totalmente inespressivo, mentre sul suo si disegna un sorriso di vera malignità.
Quelli di fronte a me si scostano alla velocità del fulmine, quando la vedono venire verso di noi.

- Emily Rochester, la grande domatrice di cavalli – mi apostrofa, sprezzante, fermandosi dritta davanti a me. Mi squadra e sorride ancora, serafica: - Non ti pare che abbia fatto un buon lavoro? E senza giochetti da cowboy, guarda un po’. Ti farò dare il permesso di sederti in prima fila alla gara. Spero davvero che ti divertirai – dichiara, grondando fiele da ogni parola. Ingoio la replica acida che sta per salirmi alle labbra e chino il capo:
- Le auguro buona fortuna, signorina LaMosse – dico, in tono piatto.
Non rialzo lo sguardo finché non se n’è andata, ma vedo le espressioni degli uomini intorno a me, le conosco bene: imbarazzo, scherno, scetticismo. Tutte cose che mi hanno perseguitato per quattordici anni.
Li ignoro e chiedo a Woodback di aiutarmi a portare Astrabee. Mentre la stiamo legando nel van, lui si abbassa verso di me e dice:
- Non ti preoccupare, bambina. Noi sappiamo che tu hai ragione –
Lo guardo e lui ha un sorriso incoraggiante stampato sulla faccia rugosa.
Sorrido a mia volta, grata. Per una volta, non sono completamente sola.


Arriviamo al sito di gara in leggero ritardo, ma nessuno inizierebbe mai senza i cavalli dei LaMosse. Sarà una giornata lunga.
Verso mezzogiorno, io, Wood e i ragazzi Pryce condividiamo dei panini e un thermos di caffè, e ancora si stanno svolgendo le chiamate per le discipline western. Il cartello con i nomi di fantini, cavalli e scuderie si riempie con lentezza disarmante.
Non ho più visto nessuno della famiglia, e sono insieme delusa e preoccupata. Speravo di trovare un modo di parlare con la signora e di vedere il cavallo, così da riuscire a dissuadere LaMosse all’ultimo minuto, ma temo sarebbe inutile e pretenzioso da parte mia.
Ho appena deciso che Marine si spezzi il collo a piacer suo, senza più occuparmi della faccenda, quando Art ed Elizabeth LaMosse arrivano ai box. – Emily, cercavamo proprio te – esordisce Art, senza preamboli – Vogliono che tu dia un’occhiata a Hades – dice.
Guardo la signora, sconcertata, e lei mi restituisce uno sguardo addolorato oltremisura.
Mi rendo conto all’improvviso che Ashton LaMosse deve tenere in conto le opinioni di sua moglie quanto un ronzino zoppo, e quelle degli stallieri quanto uno zoppo e cieco.
– Non si preoccupi, è tutto a posto – le sussurro, passandole accanto.
Ad aspettarmi trovo, ovviamente, Marine, il padrone e un paio di giudici di gara, uno rotondo e compito, l’altro alto e arcigno .
Stringo la mano a entrambi e incrocio le braccia sul petto, in attesa:
- Signorina Rochester, ci è stato detto che lei ha espresso dei dubbi riguardo all’affidabilità del cavallo della signorina LaMosse – spiega uno dei due, quello alto, senza perdere tempo.
Non mi lascio affatto intimidire dalla situazione, perché sono sicura delle mie argomentazioni: - Sì, ritengo che il cavallo in questione non sia sicuro da montare – replico, con calma.
Il secondo giudice alza un sopracciglio, con una smorfietta d’imbarazzo:
- Signorina Rochester, noi non dubitiamo della sua competenza, Ashton ci ha raccontato del valido aiuto da lei prestato in soccorso di Arthur. Tuttavia, pensiamo che lei abbia espresso un giudizio affrettato – dice, in tono untuoso.
– L’animale è perfettamente in grado di gareggiare, e ha grandi potenzialità – aggiunge il tipo arcigno, in armonia con il suo aspetto
– Crediamo che quello a cui lei ha assistito sia stato un episodio isolato – spiega, come se stesse cercando di convincermi che due più due fa quattro. Mi acciglio, per nulla persuasa dai loro bei discorsi:
- Io so solo quello che ho visto e fatto. Non voglio mettere in dubbio la parola di nessuno, ma penso sia imprudente lasciare cavalcare quel cavallo a una ragazza giovane come la signorina LaMosse. Non ha l’esperienza necessaria per gestirlo – dichiaro, impassibile.
Ashton LaMosse, finalmente, interviene, facendo un passo avanti:
- Ed è per questo, Emily, che mia nipote ha proposto una piccola prova, se lei accetta. Prima Hades  sarà montato da Marine, poi da lei, così ognuno potrà constatarne la validità e sicurezza – dice.
Non guardo nemmeno Marine, ma so che ha vinto.
Mi ha incastrato, sa benissimo che non posso disobbedire a un ordine diretto di suo zio.
Così, stringo le labbra e accetto, arrendendomi.


Nella vita ho badato ad almeno un migliaio di cavalli, ognuno con il suo carattere: certi bizzosi, certi dolci, altri ribelli, altri placidi.
Riconosco la natura di un cavallo dopo qualche minuto, capisco se ci sarà sintonia o no.
Mentre preparo Hades per Marine, so che tra di noi non ci saranno mai buoni rapporti.
Come cavallo, farebbe morire d’invidia chiunque: sanissimo, dal pelo lucido e corvino, muscoli scattanti e ogni qualità estetica più apprezzata negli equini. Ma i suoi occhi sono sfuggenti, selvaggi, come pozze di oscurità inafferrabili.
Non mi piace, è più forte di me. E io non piaccio a lui. Mi sta comunicando che devo temerlo, e se c’è una cosa che odio, è avere paura di un cavallo. La paura rende irrazionali e deconcentrati, è la peggiore compagnia di cavalcata.
Ma non posso soffermarmi sul mio nervosismo, così stringo il sottopancia e lascio il cavallo a Marine.
Come mi aspettavo, lo conduce con sicurezza e spavalderia, ma lui non è rilassato.
Noto i chiari segni di condizionamenti aspri, ma la gente qui con me è troppo soddisfatta e attaccata al denaro e al prestigio per pensarci.
Quando Marine lo riporta indietro, ha cura di rivolgermi lo stesso sorriso odioso di prima, prima di consegnarmi le briglie.
Non ho intenzione di mostrarmi esitante, ma prima di saltare in sella, accarezzo la superba criniera del Frisone, ma non provo il senso di calore e rassicurazione che mi dà Hawkeye. È come intrecciare le dita in una ragnatela insidiosa.
Respiro profondamente, per calmarmi, e monto in sella.
Guardo tutti i presenti: i giudici ostili, Marine maligna, LaMosse impositivo, Art perplesso ed Elizabeth terrorizzata e in colpa.
È su di lei che il mio sguardo si ferma più a lungo, colmo di rassicurazioni, poi lo distolgo, quasi di scatto, e parto.
La mia sensazione non è diversa da quando l’ho domato, è come avere una locomotiva fra le gambe.
Gli zoccoli pestano cupi sul terreno, anche se stiamo solo trottando, ogni muscolo guizza con isteria.
Il respiro di Hades è grosso e pesante, come se dovesse sputare fuoco e la sua testa non è mai ferma.
Gli faccio fare un giro del recinto, con solo un paio di momenti da brivido, quando alza la testa di colpo, ma riesco a farlo tornare indietro senza troppe complicazioni. Siamo a pochi metri dai box, e io sto finalmente cominciando a tranquillizzarmi, quando accade.
Non so né da dove venga, né cosa l’abbia provocato, ma improvvisamente, qualcosa scoppia sulla sabbia davanti a me.
Hades s’impenna, repentino, e parte al galoppo, a testa bassa, fuori controllo.
Nulla di quello che dico o faccio ha effetto su di lui, e l’unica cosa che posso fare è tentare di frenarlo, tirando le redini.
In prossimità dei box ci riesco, ma non posso farlo stare fermo da sola.
Vedo qualcuno correre verso di noi in tutta fretta, ma il cavallo comincia a sgroppare.
Un colpo particolarmente violento, alla fine, mi fa cadere.
Urto la sabbia con un lato del corpo, forte e tutta l’aria mi esce di schianto dai polmoni. Ho la prontezza di spirito di rotolare via dalla mira degli zoccoli, ma non ho idea del mio stato.
Il lato sinistro del corpo pulsa ferocemente e il respiro mozzo brucia come un’ustione.
È la seconda volta che cado da cavallo.   

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Lividi ***


Lividi


Non è stato facile fingere distacco.
Quando Hades si è messo a sgroppare, ho tremato, come se in sella ci fossi io. Speravo che Emily riuscisse a resistere, l’altra volta ce l’ha fatta, ma non è stato così.
Ho lasciato che fossero gli uomini a soccorrerla, non avrebbe avuto senso correre da lei. Ai loro occhi, per me Emily Rochester è una semplice sottoposta.
Si è tirata su, ma non riusciva a reggersi sulle gambe. Si è appoggiata ad Art per uscire dal recinto, e ha guardato verso di noi. Mi ha chiesto scusa, muovendo appena le labbra, ma non ho potuto rispondere niente, perché Marine mi osservava. Per reprimere l’impulso di tirarle un altro ceffone, sono tornata a casa, adducendo come scusa il mal di testa.
Stanotte non ho dormito affatto, in ansia, e credo mi si legga in faccia.
– Liza, cara, ma che brutta cera hai oggi – nota Florence, scrutandomi dal’altro lato del tavolo della colazione.
– L’emicrania non mi ha fatto chiudere occhio – dico, stancamente
– Ma ora va meglio – aggiungo, per chiudere l’argomento. Florence annuisce, in segno di compiacimento e fa girare il caffè nella tazza: - Che affare imbarazzante – commenta, tirando su col naso
 – Devo ammettere che credevo fosse più abile. Maud Porter mi ha telefonato ieri sera, e mi ha detto che quel cavallo ha buttato giù dalla sella la Rochester come una pivellina qualsiasi! – racconta, con una risatina sgradevole.
Sobbalza, quando sbatto la tazza sul tavolo: - Oh, Maud Porter, la donna che non distingue un cavallo da un somaro, chissà quali altre brillanti opinioni ha in merito! – scatto, in tono velenoso.
Mia cognata mi fissa con gli occhi sbarrati:
- Ma Liza! – esclama, indignata – Non capisco cosa ci sia da innervosirsi tanto. È solo uno stalliere – dichiara, indifferente. Questo mi fa imbestialire anche di più:
- Ti ricordo, Florence, che quella ragazza ha salvato la pelle a tuo marito, e stava cercando di aiutare tua figlia – sibilo, gelida. Lei mi lancia un’occhiata altezzosa: - Tutta fortuna. Marine ha dimostrato di cavarsela molto meglio di lei – afferma.
Vorrei replicare dell’altro, ma ho l’impressione che Maud Porter abbia detto ancora qualcosa che mi interessa.
M’impongo la calma e chiedo: - Comunque, Maud ti ha detto come sta? -
Florence annuisce, in tono vago: - Non si è fatta niente di grave. Il dottore le ha dato una settimana di riposo – spiega, annoiata. Io mi sento diventare molle dal sollievo.
 – Bene – commento, neutra. Florence attacca una lunga filippica sulle gare e sulla partenza di domani di Art e Ashton, ma io l’ascolto a malapena: devo trovare un modo di sfruttare questi sei giorni in cui avrò la possibilità di stare da sola con Emily, e in realtà, ho già un’idea. Spero di avere il coraggio di portarla fino in fondo.
 
Juno impreca. La guardo, sorpresa, perché lei assai raramente si lascia sfuggire insulti più pesanti di “scemo”, ma la capisco.
 Si è appena versata la pomata per i miei lividi su una mano e qualcuno sta bussando alla porta.
Mi lancia uno sguardo di scuse, e afferra una manciata di fazzoletti di carta, gridando:
- Arrivo,un attimo! – Scalpiccia in fretta verso la porta e io sbuffo, tirando giù la maglietta con una smorfia, e ficcandomi di nuovo sotto le coperte. Sento un breve scambio di battute, e dopo un istante, Elizabeth LaMosse appare a fianco del mio letto, l’aria imbarazzata e stanca, con una scatola di dolci fra le mani.
– Buongiorno. Mi scuserà se non mi alzo – la saluto, invitandola a sedersi sullo sgabello traballante che Juno mi ha caritatevolmente portato.
– Scusa se ti disturbo, ma volevo…ecco, vedere come stavi, Emily – dice, accomodandosi.
Mi stringo nelle spalle, automaticamente, senza pensare che mi fa male: - Ahi…beh, poteva andarmi peggio. Ho ematomi enormi dalla spalla al fianco e una micro frattura al gomito – replico.
Juno sta lì, dondolando sulle scarpe da tennis multicolor , in evidente difficoltà: - Allora, Emily, magari torno più tardi, eh? – dice.
La famiglia la intimidisce, tranne Art, che non intimidirebbe nemmeno un porcellino d’India.
Annuisco: - Grazie, Juno, casomai lo chiedo a Sasha – ribatto, sorridendole. Lei ci saluta entrambe con la mano ed esce, chiudendo piano la porta.
La signora si rilassa vistosamente. Posa la scatola sul comodino e si sporge verso di me, prendendomi una mano: - Dio, non sai quanto mi dispiace. L’ho detto e ridetto a Ashton, ma lui non mi ha ascoltato. Ha insistito per vedere se Marine riusciva a portare il cavallo – spiega, sull’orlo delle lacrime.
Per un attimo, la consapevolezza di avere la sua mano nella mia mi distrae, ma riesco a essere presente a me stessa:
- Signora LaMosse, non deve scusarsi. Marine ha avuto quello che voleva, e io ho fatto la figura dell’allocco. Scommetterei ogni dollaro che possiedo che la cosa che è esplosa nel recinto era un petardo, e che a farlo esplodere sia stato Porter, ma non posso provarlo, quindi ho chiuso. Spero solo che adesso sua nipote sia soddisfatta – dichiaro, incupendomi.
La sua espressione non si attenua: - Non saresti dovuta finire nelle grinfie di Marine, è colpa mia – dice, con un sospiro.
Sembra che voglia sdebitarsi con me in ogni modo. Si guarda intorno e nota il tubetto di pomata ancora quasi pieno: - è per i lividi?- chiede. Faccio segno di sì.
Lo prende e gira dall’altra parte del letto, a sinistra: - Pensi che potrei aiutarti io?- chiede ancora, arrotolandosi le maniche della maglia.
– Oh, no, signora LaMosse, la prego, non è necessario…- mi oppongo, debolmente.
Devo essere arrossita. Non posso impedire alla mia mente di slittare verso la sensazione che mi darà essere toccata da lei, ma sarebbe stupido da parte mia fare i capricci come una bambina.
Annuisco e mi tolgo la maglietta, stendendomi sul fianco sano. Cerco di concentrarmi su qualcos’altro, mentre inizia ad applicare la medicazione con precisi movimenti circolari, ma ogni pensiero s’incastra nella rete leggera che i polpastrelli mi disegnano sulla pelle, soffici come velluto. Vorrei non smettesse mai.
Sto fremendo, ma è una reazione che si può attribuire al freddo, volendo. In prossimità del seno, la mano esita, quasi con pudore, ed Elizabeth sussurra: - Un corpo così bello, devastato –
Sospira di nuovo e prosegue. L’ha detto così piano che posso far finta di non aver sentito, ma adesso mi sembra d’avere le viscere annodate.
Vorrei fare una cosa qualsiasi, ma ho paura. Come ho già detto, non sono un tipo impulsivo.
Dà gli ultimi tocchi, ma lascia la mano poggiata sul fianco, pronta a parlare di nuovo: - Domani mio marito e mio cognato partono per i mercati annuali. Abbiamo un posto, un cottage, a una decina di miglia da qui, e pensavo di passarci qualche giorno. Ti andrebbe di farmi compagnia? Là ti riposeresti meglio che qui – dice, in tono morbido.
Cerco la mano che lei tiene ancora sul mio fianco e la stringo, voltandomi.
Lascio che le mie dita scivolino fra le sue, ancora inumidite di crema, e la guardo.
C’è esattamente quello che spero nei suoi occhi, e non esito ad accettare.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Some Velvet Morning ***


Some Velvet Morning


Sono andati via tutti.
Ashton e Art sono partiti ieri sera, Florence si è portata i suoi ragazzi nella capitale e ho dato il permesso a Jane di andare a trovare i suoi genitori. È la terza volta che disfo la valigia, indecisa su cosa portare. Mi sembra di essere una liceale che va per la prima volta in vacanza da sola con gli amici. O con il fidanzato.
In verità, l’intera questione mi terrorizza. Ho paura che farò o dirò qualcosa di stupido, tipo cambiare idea all’ultimo secondo e rendermi conto che in realtà, mi sono sbagliata. Ma ieri mi sono spinta troppo oltre per tornare indietro. So cosa ho provato, cosa provo, so che nome dargli. Ma immagino che chiunque, se a trentotto anni si trovasse ad essere all’improvviso un’altra persona, si sentirebbe un po’ confuso. Come minimo. Potrei aver frainteso ogni cosa. Potrei non essere all’altezza.
L’improvviso bussare alla porta mi fa sussultare. È Hilston, che mi annuncia che lei è qui. Non sono pronta, in tutti i sensi, ma non posso fare la figura dell’idiota, così gli dico di farla accomodare nel mio studio. Ormai sono in ballo.
Trovo Emily seduta nello stesso posto in cui era l’unica volta in cui è stata qui, nello stesso identico atteggiamento, cioè, con lo sguardo fuori dalla finestra. Appena entro, si alza e mi saluta, e senza che io glielo chieda, mi prende la valigia.
Resta un paio di passi dietro di me, mentre usciamo, e quando, finalmente, siamo alla larga da orecchie indiscrete, le chiedo: - E le tue cose? –
Fa cenno con la testa verso il garage: - Ho pensato non volesse far sapere al suo maggiordomo che partiva con me, signora LaMosse – replica, semplicemente.
Molto astuto, anche se in realtà, non ci sarebbe niente di male. Per adesso.


Durante il viaggio in macchina finiamo a parlare di musica e scopro che la sua canzone preferita è “ Some Velvet Morning”.
Non so se sia perché io sono così nervosa, ma lei mi pare incredibilmente rilassata.
Mi racconta di aver sentito la canzone per la prima volta perché accudiva una giumenta di nome Nancy Sinatra: - Era carinissima, povera bestia, ma era tonta. Se le ordinavi di andare da una parte, lei andava dall’altra, e se ti arrabbiavi si stendeva a terra e si rotolava come un cane – dice, con una risata. È la prima volta che la sento ridere. È un suono così gradevole che mi trattengo dal ridere a mia volta per sentirlo.
– Comunque, - prosegue – Uno degli stallieri che lavoravano con me, un giorno ha portato lo stereo e mi ha fatto sentire un cd di Nancy Sinatra. Ho usato metà del mio stipendio del mese dopo per comprarmi l’intera discografia. Vado pazza per la sua voce – mi confida. Fa una pausa, poi ricorda che suo padre ascoltava i Beatles, e che da quando lui è morto non riesce più a sopportare le loro canzoni. – Ogni volta che sento “ Hey, Jude ” mi metto a piangere – confessa, in tono amaro.
Per distrarla, le racconto che la mia cantante preferita è sempre stata Edith Piaf, e anche se mi vergogno un po’, intono “ La vie en rose ”.
Quando ho finito, mi accorgo che lei mi sta guardando con tanto d’occhi: - Signora, lei ha una voce meravigliosa – dice, con ammirazione.
Mi fa arrossire, e cerco di minimizzare, ma lei fa una smorfia: - Ma qualcuno l’ha mai sentita cantare? – mi chiede, con incredulità.
Scuoto la testa: - A nessuno è mai interessato – ammetto, quasi distrattamente, ma Emily si acciglia e mormora fra sé: -Incompetenti-.
Esita un secondo, poi mi dice: - A me farebbe piacere sentirla cantare, se vuole. Abbiamo un sacco di tempo – 
- Grazie, davvero. Non me l’ha mai detto nessuno – replico, più felice di quanto possa immaginare.
Ci guardiamo, e se non fossimo in mezzo alla strada, inchioderei all’istante.
Cerco di ricordarmi la mia prima cotta, il mio primo ragazzo, ma non è un paragone utile.
Mi concentro di nuovo totalmente sulla strada, fin troppo consapevole che lei è così vicina a me.
 

I primi tre giorni al cottage scorrono come la vita di un’altra.
È passato troppo tempo da quando ho avuto delle vere amiche, però deve essere stato esattamente così.
Passiamo ore a parlare, e il bello è che la metà delle volte non siamo d’accordo, e risolviamo le questioni in un modo veramente strano: facciamo a braccio di ferro. Ovviamente, io perdo sempre.
Emily ha l’innata capacità di tirar fuori una cena di tutto rispetto con tre ingredienti, e mi ha insegnato a farlo.
– L’importante è che riempia e non sappia di plastica – è l’idea di base.
Di contro, io le ho spiegato come sopravvivere a una cena di gala, il che, ironicamente, si basa sul principio contrario: - L’importante è che le tue parole siano di plastica e non riempiano le orecchie degli astanti –
La cosa ci ha fatto ridere per un bel po’. Penso di non aver mai riso così tanto come in questi giorni. E di non aver mai parlato così tanto di me.
Ho raccontato tutto a Emily, della mia infanzia deprimente con genitori assenti, dell’adolescenza in una scuola privata e femminile e il desolante matrimonio, quasi combinato, fra me e Ash: - Non l’avrei voluto sposare, non m’interessava. Avevo ventidue anni e volevo girare il mondo. Ma mio padre pensava fosse una così buona idea! – ho esclamato, tirando rabbiosamente dalla sigaretta.
Lei mi ha guardato per un po’, poi ha semplicemente sentenziato: - Non è troppo tardi per fare una scelta diversa –
Detto questo, ha schiacciato il suo mozzicone nel portacenere e mi ha proposto di fare una passeggiata.
Non avendo niente da fare, facciamo lunghi giri intorno al lago anche per quasi tutto il giorno.
Questa è stata ieri pomeriggio, e lei ne ha approfittato per parlare di sé.
Non si era mai aperta così, e credo che quello che ha detto mi sia veramente servito a chiarirmi le idee su tutta questa faccenda.


- Lo sa perché scrivo lettere, signora LaMosse? Quando avevo più o meno dodici anni, iniziai una corrispondenza con un’amica di penna, una ragazza australiana di nome Myrta. Aveva qualche anno più di me e stava in casa-famiglia, all’epoca.
Le ero davvero affezionata, e quando mi scrisse che non poteva più mandarmi lettere, ci rimasi veramente male.
Per giorni ho fantasticato di saltare su un aereo e cercarla, poi mi è passata. Avevo le sue lettere, che erano tutto quello che mi serviva per ricordarmi di lei.
Ancora non lo sapevo, ma avevo già scelto come sarebbe stata la mia vita. Al liceo m’innamorai disperatamente di una mia compagna di classe. Non potevo dirglielo, così iniziai a mandarle lettere, fingendo di essere un ragazzo.
Alla fine lei s’innamorò davvero di lui, ma io non rivelai mai la verità. Ora sapevo la scelta che avevo fatto.
Non è stato facile far finta per anni, con tutti, di essere quello che non ero. È stato doloroso accettarlo e poi sapere di non poterlo condividere.
Ho avuto una ragazza, l’ho amata, ma lei mi ha ingannato. Sono stata molto depressa, mi chiedevo sempre se non avrei dovuto provare ad essere qualcun altro.
Ma io non potevo imporre nemmeno a me stessa di fare qualcosa così contrario alla mia volontà.
Non c’è mai una sola strada da percorrere, signora –


La sto guardando da non so quanto tempo. È seduta davanti alla finestra, il morale a terra perché non può cavalcare.
È così radicato in Emily, che spesso si mette a cavalcioni sulla sedia. I lunghi capelli le nascondono il viso poggiato su una mano. Sta immobile come una statua e se non avessi imparato a conoscerla, direi che dorme. Ma è vigile e frustrata, magari sta anche pensando alla stessa cosa a cui sto pensando io. Però è il mio turno di agire.
Come se mi leggesse nel pensiero, si alza.
Quando la abbraccio da dietro non si scosta, come temevo, non si meraviglia, china la testa sulla mia spalla e cerca le mie mani, stringendole, poi si scioglie piano dall’abbraccio e si volta, fronteggiandomi.
– Lei è sicura che sia questo che vuole? – mi chiede, sussurrando.
Tra tutte le cose che mi aspettavo che dicesse, questa non era fra le prime.
 – Io voglio te – replico, ma lei sorride e scuote la testa: - No, non si vuole mai qualcuno. Si vuole sempre qualcosa da qualcuno – ribatte.
È talmente vicina che le mie labbra sembrano battere, a contatto col suo respiro. Le stringo, per evitare di farmi deconcentrare.
– Tu cos’è che vuoi, allora? – le chiedo, leggermente provocatoria.
Il suo sorriso si allarga: - Io vorrei da lei che fosse con gli altri come si dimostra con me. Vorrei che fosse felice, perché se lo merita. E vorrei che mi baciasse, molto spesso e per molto tempo, signora LaMosse – risponde, senza esitazione.
È una risposta così bella e spiazzante che non so come replicare. In più, ho l’impressione che il cuore finirà per saltarmi fuori dal petto.
Vedendomi in difficoltà, Emily m’incoraggia: - Ha capito cosa vuole da me? – mi domanda, dopo avermi lasciato il tempo di riflettere.
Faccio segno di sì, lentamente: - Vorrei che mi baciassi, ora. Vorrei che m’insegnassi a fare l’amore con te. E vorrei che mi dessi del tu e cominciassi a chiamarmi Elizabeth – aggiungo.
Lei sorride, divertita, ed esaudisce la mia prima richiesta.
Quando le nostre labbra si separano, mi guarda in quel suo modo limpido e metallico: - Direi che anche le altre due si possono soddisfare subito, Elizabeth – mormora, cominciando a sbottonarsi la camicia.    

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Caleidoscopia III ***


Caleidoscopia III


Quante cose s’imparano, dopo aver dormito un po’di volte con la stessa persona. Il sonno e la condivisione ci lasciano senza difese e senza continuità.
Cosa so di Elizabeth che fino a poche settimane fa non sapevo?
So che impara in fretta, che è rimasta sola troppo a lungo e che riesce a starmi abbracciata tutta la notte, senza cambiare posizione. So che il suo corpo è più morbido e delicato del mio, che mi piace vederla in gonna, che le sue labbra sanno di rossetto, anche quando se lo toglie.
L’abitudine rende familiari immagini mai neppure vagheggiate, e io non avrei mai pensato di avere qualcuno come lei.
I frammenti si susseguono davanti ai miei occhi soprattutto quando non c’è.
Lei seduta a gambe accavallate che si trucca, che si tira giù il vestito prima di salire in macchina, che mi guarda mentre torno a occuparmi dei cavalli e sorride, rassegnata, sapendo che dovrà dividermi con loro.
A volte, con il respiro ancora spezzato, mi scivola tra le braccia, affonda le mani nei miei capelli e dice: “ Non ti avrò mai interamente”, il che è vero.
So che si sente in colpa e un po’ si vergogna, di tutto questo, lo capisco quando mi vede svestirmi e abbassa gli occhi d’istinto, pensando di essere troppo vecchia per me, che quello che sta facendo non è giusto, e ripeterle che dieci anni di differenza non sono nulla e che il suo matrimonio è una farsa non serve.
E per questo, nemmeno lei sarà mai interamente mia, ma non mi dispiace. Non voglio possederla o limitarla.
Voglio che sia felice, proprio come le ho detto, e voglio anche continuare ad essere felice, per quanto non ha importanza, quando mi cerca e mi sussurra che mi ama.
Non m’importa cosa succederà.
Per ora, le figure del mio caleidoscopio sono belle abbastanza.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Caleidoscopia IV ***


Caleidoscopia IV


A volte non mi sembra vero, a volte non mi sembra sensato, eppure è successo.
È difficile cercare di essere quella di prima, far finta di niente, quando nulla è come prima. Non mi era mai successo, mai pensavo sarebbe successo, ma è così.
Diventa terribilmente e magnificamente reale ogni volta che i nostri sguardi s’incrociano, mentre passo non per caso davanti al recinto, quando fingiamo di esserci quasi estranee nel cortile.
Non posso impedire alla mia mente d’indugiare in un mosaico di ricordi, mai abbastanza vividi, anche se ormai la quantità del tempo che passiamo insieme, dovrebbe renderli tali.
Lei che dorme a pancia in giù, i capelli che la coprono come un mantello, la sua nudità, nervosa e splendente, le sue braccia così rassicuranti. Potrei stare nella loro stretta per un’intera vita.
Ma Emily è una creatura sfuggente, anche quando si apre per confidarsi.
Può stare anche un’ora immobile, immersa in un labirinto di pensieri di cui mi dà solo parte del percorso.
Non dice mai bugie, ma non va fino al fondo della verità.
Le ho chiesto di raccontarmi della sua ragazza di un tempo, una specie di beffardo e bellissimo manichino dai capelli rossi, secondo la sua descrizione, ipocrita, sensuale e disperato.
Per questo si erano conosciute, entrambe deluse dalla vita e senza una strada da seguire.
Ma Emily era troppo razionale  e onesta per sopportare a lungo il suo carattere lunatico e ingannatore.
Erano stati tre anni di delirio, di passione devastante, di ferite inferte da ambo le parti e poi hanno detto basta.
Mentre parlava, il suo tono di voce saliva e scendeva, e le parole esitavano e decantavano nella bocca oscura e morbida che ho imparato a conoscere.
Non riesco ancora a leggere i suoi occhi, anche se posso sempre specchiarmi in essi come in un microscopio puntato verso la mia anima.
Ogni particolare del suo corpo mi è familiare, so tutti i modi con cui darle piacere, ma lei non si abbandona a me.
Per quanto possa diventare forte il nostro legame, il suo spirito galoppa su zoccoli di fuoco di cui io non so tenere il passo.
È abbastanza forte da sostenere me e lei insieme, ma non chiederà il mio aiuto, se mai le servirà.
Devo rassegnarmi al fatto di non potere fare niente per lei, tranne quello che già faccio.
Mi ha chiesto di essere felice, io insieme a lei lo sono.
Nient’altro.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Albert ***


Albert


Hawkeye è un cavallo diffidente. Dopo più di due mesi, ancora è riluttante a prendere carote o a farsi accarezzare da qualcuno che non sia io.
Piega l’orecchio sano indietro e gira la testa, come per scrutare meglio Juno, che sta tentando di dargli un pezzo di mela.
– E dai, Hawk! – lo invita lei, sventolando il frutto davanti al suo naso.
Lui sbuffa e mi guarda, come a chiedermi se deve fidarsi, poi accetta il cibo e comincia a masticarlo lentamente.
Juno batte le mani, felice come una bambina: - Ah! È la prima volta che mi riesce, con lui!- esclama.
Io lo accarezzo, con un mezzo sorriso sulla bocca. In quanto a rapporti interpersonali siamo molto, molto simili. Ma io mi sono sciolta un po’, Hawkeye ancora no, non del tutto.
Quando sono tornata dalla convalescenza, ho parlato con LaMosse, concordando di comprarlo. Mi ha fatto un buon prezzo, Hawkeye non è un cavallo da competizione.
In un colpo solo, ho le due cose che desideravo di più, e questo non può che rendermi ben propositiva.
In questi dieci giorni, io e Elizabeth ci siamo viste di nascosto diverse volte, e sto cominciando a convincermi che può funzionare, anche se non ho idea per quanto. Sono stata tentata di parlarne con Juno, ma poi ho capito che era un rischio troppo grosso. Ma lei è una ragazzina estremamente furba, deve aver capito qualcosa.
Anche adesso, sento che mi punta gli occhi addosso, cercando di ricavare qualche indizio dai miei gesti ed espressioni. Lei e suo fratello sono due ottimi psicologi fai da te, almeno finché non cominciano a tirare fuori assurdità. Ma io so bene di essere imperscrutabile e dotata di un talento particolare nel tutelare i fatti miei.
Hawkeye ci ha preso gusto nel mangiare dalle mani di Juno, e mi tocca richiamarlo all’ordine:
- Ehi, tu, basta adesso. Juno, passami i sacchi di pastone, devo dare da mangiare agli altri – le dico. Lei salta giù dal recinto e va a rovistare nel retro del furgoncino, mentre io riporto il cavallo nel box.
– Sai chi è passato stamattina?- mi arriva la voce di Juno, metallica nello spazio angusto. Tira fuori la testa dal cassone e mi porta i sacchi: - Marine è venuta a chiedere come stavi – mi dice, posandoli accanto alla porta della stalla.
La sorpresa mi fa accigliare: - Davvero? Ma quanta premura…- commento, aprendo un sacco con troppa violenza e sparpagliando cereali sul pavimento. Prendo la scopa e comincio a spazzare, con un sospiro rassegnato: - E non ha detto nient’altro? – voglio sapere. Juno scuote la testa: - Mi è sembrato strano, ma forse Art l’ha convinta a farlo – ipotizza.
Un verso d’incredulità mi fa sussultare: non ho sentito arrivare nessuno.
Sia io che Juno guardiamo verso il recinto e vediamo una figura a me del tutto sconosciuta, anche se non faccio fatica a intuire chi sia.
Il ragazzino è alto per la sua età, undici o dodici anni, anche in lui predominanti le caratteristiche dei LaMosse: riccioli scuri, occhi neri e labbra sottili. Albert LaMosse ci scocca un’occhiata condiscendente, non dissimile da quelle di sua sorella, ma in lui c’è più sarcasmo che cattiveria.
Avanza pigramente verso di noi: - Potete aspettare anche tutta la vita, prima che qualcuno convinca Mare a fare qualcosa – dice, con una smorfia a metà tra l’ammirato e il rassegnato.
Dire che l’idolatra è poco, anche se nel modo confidenziale con cui un fratello minore vede una sorella maggiore. Orgoglioso di lei ed estremamente indulgente con i suoi difetti.
“ Mare” è un nomignolo che mi stupisce, e che probabilmente è una bonaria presa in giro. Dubito che a lei piaccia farsi chiamare “ Giumenta”, e credo che Albert davanti a lei non lo faccia. Chissà perché, ho anche l’idea che questa sua sortita sia una specie di trasgressione che il ragazzino si è preso nei confronti della sorella.
La mia ipotesi sembra confermata quando si avvicina e mi tende la mano: - Credo che tu lo sappia, ma sono Albert LaMosse. Tu devi essere la coraggiosa imbranata – si presenta.
Gli stringo la mano, accigliandomi di nuovo, mio malgrado: - Sono lieta di conoscerla, signorino LaMosse – replico, senza commentare l’epiteto. Questo ragazzino parla come un libro stampato.
Lui incrocia le braccia sul petto e mi fissa, con aria critica: - Sai, non mi stupisce che tu sia caduta da Hades. Mi spaventa, quel cavallo – ammette, con tranquillità.
– Invece, questo è il tuo?- mi chiede, guardando dentro il box di Hawkeye. Annuisco: - Quasi –
Albert si stringe nelle spalle: -Ha un’aria comune, proprio come te. Non te la prendere per come si comporta Mare. Quando si annoierà, ti lascerà in pace – mi assicura.
– Bene – commenta, voltandosi – Penso che me ne andrò. A Marine non farebbe piacere sapere che sono qui – dice, andandosene.
L’incontro lascia me e Juno alquanto perplesse, ma non possiamo parlarne oltre, perché comincia a piovere, e dobbiamo correre a riportare i cavalli nella stalla.    

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Tempesta ***


Tempesta


La pioggia non ha concesso tregua per tutto il giorno e tutta la notte, e oggi sta continuando. Abbiamo portato i cavalli ad allenarsi nei campi coperti, ma il vecchio Wood brontola da ore.
– Ascolta, Art, il capo sei tu, ma dammi retta, il tetto della stalla numero tre andava riparato due mesi fa. Chiama qualcuno o giuro, ci vado io stesso! – sta dicendo a Art, che fa di tutto per calmarlo: - Blaise, io so che sei uno dei nostri migliori uomini, ma i manutentori l’hanno ricontrollato il mese scorso e non ha niente che non va – gli assicura.
Stanno andando avanti così da una buona mezz’ora, in un angolo del campo, e Sasha continua a guardare in quella direzione, distraendosi completamente da Orson Welles, che gratta a terra con uno zoccolo, annoiato.
– Sasha, stai attento – lo ammonisco. Lui sembra ricordarsi solo in quel momento di dov’è, e mi restituisce uno sguardo perplesso: - Art la sta prendendo troppo alla leggera – commenta, scuotendo la testa.
– Wood queste cose le sa. Conosce la stalla meglio delle sue tasche - 
Io non posso che trovarmi d’accordo: - Sì, lo so. Ma Art sembra convinto di avere ragione – replico. Sasha si acciglia: - Beh, si sbaglia. Quando il tetto della stalla crollerà, poi vedremo – mugugna.
Sasha vede Woodback come un nonno o come un padre, si fida ciecamente di lui, e anch’io. Se perfino lui è così preoccupato, vuol dire che c’è un rischio serio, ma se Blaise non riesce a convincerlo, dubito che potremo farlo noi.
Seguiamo la conversazione ancora per qualche attimo, poi Wood se ne va, con un gesto di stizza. Temo che la sua arringa non abbia funzionato. Infatti, viene verso di noi a passo di marcia e sputa per terra, un gesto di disprezzo che non gli appartiene affatto.
- Arthur è uno scemo – dichiara, senza mezzi termini – La parte pericolante del tetto è proprio quella sopra i nostri box. Dobbiamo trovare un modo per spostare i cavalli, stanotte, o la pioggia farà venire giù tutto – ci dice, in tono serissimo. Annuisco: - Ci sono quei quattro o cinque box vuoti dall’altra parte. Possiamo mettere i cavalli più esposti lì – suggerisco.
Se non diamo una prova del reale pericolo della stalla, non ci lasceranno mettere gli animali negli altri edifici, e i cigolii che Wood sostiene di aver sentito non sono un atto d’accusa sufficiente.
Woodback è d’accordo: - Va bene, lo facciamo prima di chiudere la stalla, e preghiamo che il tetto regga - decide, in tono amaro.

Quella parte del piano fila liscio: mettiamo i cavalli nei box più lontani dalla parte a rischio e spostiamo gli altri dall’altro lato della stalla, senza che nessuno possa nemmeno sospettarlo.
In effetti, il tetto sembra non avere niente di strano, ma la pioggia battente non rende facile distinguere i rumori, eppure, Blaise sembra sempre più convinto. Tant’è che, quando Sasha c’invita tutti e due a una bevuta al “Grey Stallion”, lui declina con decisione: - Voglio rimanere qui, stasera. Ho un presentimento. Come quando mio padre a Pimlico fu certo della vittoria di Seabiscuit – dice.
Io e Sasha ci guardiamo: Wood ci ha raccontato decine di volte la storia di suo padre che era stalliere a Pimlico quando si sfidarono Seabiscuit e War Admiral, è una specie di suo vangelo personale. Non lo tirerebbe fuori se la questione non fosse importante. Così andiamo, d’accordo però sul non fare tardi.
Con mio grande sollievo, la pioggia sembra aver costretto Marine e la sua compagnia, per una volta, a disertare il pub.
Sasha comincia a chiacchierare con alcuni amici della scuderia, ma io sono troppo distratta per unirmi alla conversazione.
Sono in pensiero per i cavalli, per Wood e per Elizabeth, che non vedo da qualche giorno. M’innervosisce non sapere nulla di lei.
Sono talmente concentrata da non accorgermi che Vanessa mi sta guardando, con in viso l’espressione di chi la sa lunga.
– Com’è lei?- mi chiede, abbassando la voce e sporgendosi verso di me attraverso il bancone.
Lo stupore mi fa fare molte cose contemporaneamente: abbasso il bicchiere di colpo, arrossisco, mi guardo intorno per accertarmi che nessuno stia ascoltando e apro la bocca per ribattere, ma non mi viene in mente nulla di intelligente da replicare. – Come l’hai capito? – riesco a dire, infine, dopo un sorso di birra chiarificatore.
Lei si stringe nelle spalle, con noncuranza: - è un istinto che si sviluppa con gli anni – risponde, tranquilla.
– Tu vieni dalla città, vero? – le chiedo – Come sei finita a Barnes? -  Adesso sono curiosa.
Abbiamo parlato parecchio nelle serate che ho passato qui, ma non mi sembra di essermi lasciata sfuggire nulla di così personale. Voglio capire chi ho davanti.
Vanessa sorride e continua ad asciugare bicchieri: - I miei sono di qui. Quando ho spiegato loro le mie scelte di vita, mi hanno lasciato la casa, dicendo che l’unica cosa che potevano fare per me ormai era assicurarsi che avessi un posto dove stare, poi il vecchio proprietario mi ha venduto il locale – racconta.
– Quand’ero nella capitale era più facile. C’erano più luoghi d’incontro e un po’ meno pregiudizi. Venendo qui pensavo che sarei rimasta da sola per il resto della vita, finché non ho conosciuto Nathalie – Sorride ancora di più, guardandola servire ai tavoli. Esito un po’: - Non deve essere stato semplice – commento.
Lei scuote la testa: - Non lo è mai, a meno di non vivere a New York. Ma qui ci piace, la gente ci vuole bene, nonostante tutto – spiega.
Mi scruta, con particolare intensità: - Credo che nessuno sappia di te, alla scuderia, o sbaglio?- mi chiede.
– No, non sbagli. Ma credo sia una cosa che non sia necessario far sapere. Sono affari miei – replico, sulla difensiva.
Vanessa ride, alzando le mani: - Non preoccuparti, Emily, non m’impiccerò. Però poi sarà più facile. Se non lo fosse, potrete andarvene. Non credo che tu voglia occuparti dei cavalli degli altri tutta la vita – dice, dimostrando di nuovo di avere un acume notevole nell’intuire i pensieri altrui. Non rispondo niente, ma le sorrido, piuttosto grata.
È un assai raro piacere poterne parlare con qualcuno.

Mentre torniamo verso la scuderia, continuo a pensare alle sue parole, considerando in modo diverso cose che prima avevo analizzato solo vagamente.
Sasha parla il minimo indispensabile, concentrato a guidare ora sotto una pioggia molto più forte. Sentire il furgoncino traballare nelle raffiche di vento, mi riporta di botto alla realtà.
– Non mi piace, Emily – mi confida il ragazzo, scuro in volto. Non ho bisogno di chiedergli cosa. Siamo stati fuori non più di un’ora e mezza, e già le condizioni del tempo sono peggio di prima. Tutti e due abbiamo insieme fretta e paura di tornare, non avendo idea di cosa troveremo.
Appena varchiamo i cancelli, i nostri timori più grandi sembrano essersi realizzati. È pieno di gente che corre concitata verso le stalle. Uno, che si rivela essere Roman, ci fa segno di fermarci e di scendere. È coperto da un impermeabile, ma è fradicio lo stesso.
Mentre gli andiamo incontro, comincia a gridare e a gesticolare: - Forza, sbrigatevi! Metà del tetto della tre è crollato! – Abbiamo appena il tempo di guardarci, angosciati, poi iniziamo a correre, facendoci largo a spintoni fra la folla radunata nella corte. Qualcuno sta tentando di tenere a bada i cavalli già fuori, mentre altri gridano istruzioni e avvertimenti a un gruppo che, a quanto intuisco, è dentro a cercare di far uscire gli altri.
La mia testa sembra scoppiare. Un unico pensiero rutila nella mia mente confusa: Hawkeye è lì dentro, e forse c’è anche Woodback. Non lo sopporto, e ignorando quelli che tentano di fermarmi, corro dentro.
L’enorme voragine nel soffitto fa colare dentro acqua come se fosse una cascata. Quattro box sono rimasti sotto le macerie, e un pugno di uomini è indaffarato attorno all’ultimo.
Le mie viscere si rilassano e si stringono contemporaneamente: Hawkeye era in uno di quelli risparmiati dal crollo, ma in quello a cui stanno lavorando c’era Astrabee.
Mi faccio avanti, e proprio Wood mi afferra e mi tira indietro: - Non guardare, bambina. Gli altri tre box erano vuoti, e gli altri siamo riusciti a farli uscire, ma lei è rimasta sotto. Vieni, non possiamo fare più nulla, qui siamo solo d’intralcio – mi dice, costringendomi a seguirlo, deciso, ma non senza una certa gentilezza. La sua voce è stanca e rotta.
Lo shock m’impedisce di realizzare subito la cosa, così mi trovo a balbettare: - Ma tu stai bene. E gli altri cavalli stanno bene – Wood annuisce: - Sì. Hawkeye è fuori insieme agli altri. Vatti ad asciugare, bambina, poi ci sarà bisogno di te – dice, accompagnandomi lontano dal caos.
Solo vicino agli alloggi, l’adrenalina scende di colpo e capisco che Astrabee è morta.
Mi premo forte le mani sul viso e grido fra i denti, mentre comincio a singhiozzare.
Mi dibatto, per un secondo, quando qualcuno mi circonda con le braccia, ma poi riconosco la stretta e il profumo, e mi lascio andare sulla sua spalla.
Elizabeth mi stringe a sé, gli abiti completamente bagnati: - Pensavo che fossi lì dentro, pensavo che fossi lì dentro – continua a ripetere, piangendo a sua volta. Mi sciolgo in parte dall’abbraccio, per guardarla negli occhi: - Ero fuori. Astrabee è morta – le dico, stringendole le mani così forte da farle sicuramente male, ma lei non ci fa caso.
Mi bacia le labbra, la fronte, gli occhi, e io affondo le dita nei suoi capelli grondanti. Ho bisogno di lei.           

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Celia ***


Celia


L’incidente alla stalla numero tre è stato un bruttissimo affare. Ashton e Art hanno litigato furiosamente e non si rivolgono parola da almeno due settimane: Ashton ha dato a Art dell’idiota, quest’ultimo ha replicato accusandolo di essere un taccagno, e di aver assunto i tecnici meno costosi e più incompetenti.
Non so dove stia la verità, probabilmente da entrambe le parti, ma come al solito nessuno ha chiesto la mia opinione, né tantomeno quella di Florence, che non fa che strepitare da giorni che i suoi figli potevano rimanere uccisi, solo perché Albert e Marine, il giorno dell’incidente, sono stati visti da quelle parti.
C’è stato un gran via vai qui alla Manor, tra avvocati, sindacalisti dei dipendenti e consulenti edili, tutti concordi sulla stessa conclusione: il tetto ha avuto un cedimento strutturale a causa della cattiva manutenzione. Oltre al danno di aver perso una delle stalle e un cavallo di buona qualità, c’è stato da fare i conti con la pessima pubblicità che il fatto ha causato alla scuderia. Molti contratti d’acquisto e vendita già stipulati sono stati scissi improvvisamente, con una conseguente perdita stratosferica di denaro.Forse questo insegnerà ad Ashton ad essere meno avido e a Art ad essere meno credulone.
Tuttavia, io ho avuto altro a cui pensare. Per Emily è stato devastante, e io ho cercato di aiutarla.
Non l’ho più vista piangere da quella sera, ma non si sfoga in nessun altro modo. È come se ripiegasse e nascondesse il dolore in un angolo segreto e irraggiungibile della sua mente. Ho provato a convincerla a confidarsi con me, ma non le va di lamentarsi: “ Non serve a niente e ti renderei solo triste” dice, troncando il discorso, e occupandosi più di me che di sé stessa.
Anche quando mi stringe tra le braccia e vorrei trasmetterle la mia presenza, la sicurezza che riesce a infondere in me è superiore a qualsiasi cosa potrei darle io.
Forse la cosa che più mi spaventa è sapere che Emily potrebbe sopravvivere senza di me, mentre io ormai dipendo da lei. Non sono così forte.


Trovo Emily intenta, per la seconda volta, a dipingere la porta della sua stanza.
Mi sente arrivare e mi saluta, guardandosi intorno, con più circospezione del solito: - Ti ha vista nessuno, ieri sera? – mi chiede, riferendosi al nostro ultimo incontro.
– No, dopo mezzanotte non c’è più nessuno qui – le rispondo, – Perché? -  aggiungo, preoccupata all’improvviso.
Dà un altro paio di passate con il pennello, prima di replicare: - L’altra volta hanno scritto solo “ Puttana”, ora “ Puttana lesbica” – dice, guardandomi, mortificata e in imbarazzo.
Sul momento, la notizia mi fa spaventare, ma poi mi rendo conto che non è possibile che qualcuno abbia scoperto qualcosa:
- Emily, non lo sa nessuno. Siamo state più che prudenti, probabilmente ti hanno vista parlare con la proprietaria del “ Grey Stallion”. O forse lo ritengono un insulto più degradante – dico, cercando di essere ragionevole.
Lei mi scruta, accigliandosi come al suo solito, ma so che sta riflettendo. Alla fine, annuisce: - Hai ragione, Elizabeth. Mi dispiace, io non voglio che tu abbia guai a causa mia – dice, amareggiata.
Spazientita, le tolgo il pennello di mano e la induco a guardarmi: - Smettila. Sei la cosa migliore che mi sia mai capitata, fossero anche i guai peggiori del mondo, li accetterei volentieri – le assicuro. Lei annuisce: - Sì, lo so. Per questo vorrei evitarteli – replica, restituendomi quel suo sguardo a specchio, e io so cosa sta per fare.
Per pochi istanti perfetti, ci siamo solo noi, poi il resto del mondo irrompe di nuovo con la sua invadenza, quando le sue labbra lasciano le mie. – Ma credo di non poter farlo – aggiunge, con un mezzo sorriso rassegnato.
Per un po’, l’aiuto a ritinteggiare, poi arriva la ragazza Pryce, correndo.
– Emily! – grida, verso di noi. Ci voltiamo entrambe, meravigliate.
Juno non fa più caso a me, ormai, anche se Emily ha mantenuto il segreto anche con lei: - Emily, c’è qualcuno per te al cancello – l’informa.
Lei, per tutta risposta, assume il suo cipiglio da falco: - E chi sarebbe?- chiede, in tono ostile. Ha uno strano intuito per queste cose. Juno si stringe nelle spalle: - Non l’ha voluto dire. È una ragazza della mia età, credo – risponde, perplessa.
Emily, con nostro stupore, impreca sottovoce. Sul momento, sembra che dirà a Juno di mandarla al diavolo, poi cambia idea:
- Ok, arrivo – si arrende, seccamente.
 

La sconosciuta è appoggiata a una macchina di seconda o anche terza mano, e ha l’inconfondibile aspetto di una liceale.
La maglia di un gruppo musicale, fuseaux e scarpe da ginnastica colorate coprono la sua figura esile e incredibilmente familiare. Lei e Emily hanno la stessa altezza e lo stesso tipo di corporatura, ma la ragazzina ha un viso più dolce, meno segnato, molto più infantile.
Credo di aver capito di chi si tratta, e Emily conferma la mia teoria: - Celia – la saluta, asciutta.
Celia fa qualche passo verso di lei e l’abbraccia: - Ciao, Emily. Ti ho cercata tanto – dice.
Lei ricambia l’abbraccio freddamente e si acciglia ancora di più: - Che ci fai qui? E come mi hai trovato? – le chiede, certamente per capire come fare in modo che questo non accada più. La ragazzina si stringe nelle spalle: - Ho chiesto a tutti, e alla fine mi hanno detto che lavoravi qui – replica, in evidente imbarazzo.
Emily si passa una mano sul viso, un gesto a metà tra la rabbia e lo sconcerto, poi si volta verso di noi: - Mi scusi, signora LaMosse, scusa, Juno. Questa è la mia sorellastra, Celia Johnson – la presenta, con l’aria di chi preferirebbe farsi seppellire vivo. Celia ci stringe la mano, molto educatamente, e in realtà non la trovo così spiacevole, anche se ormai so che ogni cosa riguardi la sua famiglia per Emily è veleno.
La ragazza s’incupisce, nello stesso identico modo di lei, ma non ribatte nulla. Non è venuta per litigare.
Si volta di nuovo verso la sorella e le prende le mani, a mo’ di supplica: - Non arrabbiarti, ti prego. La mamma non sa che sono qui, crede che sia andata a vedere l’università – dice, ansiosamente. Emily la scruta, con espressione incerta:
- Devi già cominciare il college? Mi ero dimenticata di quanti anni avevi – osserva, cupa, poi aggiunge: - Perché sei venuta a cercarmi, allora?- le domanda, con insistenza.
Celia abbassa lo sguardo, in difficoltà: - Mio padre è morto lo scorso mese. La mamma ha chiamato qui per dirtelo, ma mi ha detto che non hai voluto parlarle – spiega, triste.
Sul volto di Emily vedo passare ogni tipo di emozione, ma lei non lascia trasparire nulla: - Mi spiace per te – commenta, infine. La ragazzina scuote la testa: - Oh, è stato un disastro come padre. È stato quasi meglio così – confessa, sbrigativamente.
– La cosa più importante è che, verso la fine, si è pentito di come si è comportato con me e anche con te.
Mi ha lasciato la stalla e la casa, ma io non voglio occuparmene. D’accordo con la mamma, ho deciso di passare tutto a te. Noi andremo a stare ad Albany, voglio studiare Medicina – racconta, poi estrae una busta, che di sicuro contiene i documenti necessari e gliela porge: - Quando vorrai prenderne possesso, firma i fogli e mandaceli. Io spero davvero che questo possa compensare, almeno in parte, quello che è successo in passato- Fa una pausa, come per darsi coraggio- Pensaci, d’accordo? C’è il mio indirizzo, dentro. Me lo ricordo che non usi il telefono – dice, arrossendo.
Vedo benissimo che Emily è tentata di ridarle la busta, ma so anche che non lo farà.
Rimane in silenzio a lungo, prima di parlare, poi rompe il silenzio: - Grazie, allora. Io… ti auguro in bocca al lupo per lo studio, Celia. Magari mi farò sentire. Fai buon viaggio, e stai attenta – le dice, lasciandosi di nuovo abbracciare e guardandola salire in macchina.
Quando il cancello si chiude e la sua sorellastra è ormai lontana, Emily s’infila la busta in tasca, senza ulteriori commenti, poi si volta verso di me: - Devo tornare al lavoro, signora LaMosse. Juno, vieni – dice, chinando la testa e allontanandosi con lei. Avremo molto di cui parlare.    

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Vincitori e vinti ***


Vincitori e vinti


Non riesco a capire bene se sto meglio o no.
Anche se sono passate settimane dal crollo e dalla visita a sorpresa di Celia, non so se ho ancora realizzato tutto quello che è successo. La busta che la mia sorellastra mi ha lasciato è lì, sul mio comodino, intatta. I cavalli di cui devo occuparmi ora sono solo nove. Sembra quasi che la mia mente lavori a fatica e anche chi è intorno a me se ne accorge.
Abrahms, il fantino che prima montava Astrabee, mi sventola una mano davanti agli occhi: - Emily, sei ancora tra noi?- dice, sarcastico, richiamando la mia attenzione.
Siamo nel campo coperto adiacente alla stalla numero uno, dove sono stati trasferiti i miei cavalli mentre la tre è in riparazione, e io mi sono bloccata, con la spazzola nella criniera di Princess Anne. Mi riscuoto, districando gli ultimi nodi, e gli passo le redini: - Sì, scusa. Ero sovrappensiero – mi scuso, ma lui scuote la testa: - Non preoccuparti. Siamo tutti un po’ distratti a ridosso della gara – commenta.
Monta in sella alla cavalla e va a prepararsi per gli ultimi allenamenti, mentre Sasha mi si avvicina: - Juno mi ha detto che dormi male. Stai bene?  – mi chiede, mordendosi un labbro con aria apprensiva. Annuisco, senza pensare a una vera risposta: - Stai tranquillo, è come ha detto Abrahms, sono solo nervosa per l’inizio delle gare – lo rassicuro, in realtà non convinta.
Lui alza un sopracciglio, subodorando la frottola, ma non commenta.
- Princess Anne è la migliore, dopo Astrabee. Io penso che possa vincere la gara di cross-country – dice, invece, cambiando argomento.
– Sì, lo credo anche io, e Wood è d’accordo con me – replico, lieta del fatto che Sasha capisca sempre al volo le situazioni spinose.
Rimaniamo un po’ a guardare gli allenamenti, poi parla di nuovo: - Ho sentito dire che Hades è imbattibile – mi racconta. Non mi stupisce affatto.
– Dovremmo vederlo all’opera – ribatto, osservando uno degli Inglesi della stalla due eseguire una serie di perfetti oxer.
Sasha mi dà di gomito: - Sembra che potremo farlo proprio ora – dice, indicando l’ingresso del campo.
Marine sta entrando con il suo istruttore personale, conducendo il Frisone per la lunghina. L’attività si ferma per qualche istante, fra calorosi saluti da parte dei leccapiedi e occhiate in tralice dagli invidiosi. Inutile dire, che la signorina LaMosse monopolizza rapidamente il recinto e che, ovviamente, tutti s’interrompono immediatamente per guardarla.
Impossibile credere che quello sia lo stesso cavallo che ha perso la testa nelle stalle e che mi ha sgroppato.
Il dressage è una disciplina che richiede la massima sintonia tra cavaliere e cavallo e Marine e Hades sembrano parte l’una dell’altro, come me e Hawkeye. L’animale esegue ogni esercizio al millimetro, e lei non mostra la minima incertezza.
Ma se il rapporto tra me e Hawk è profondo e simbiotico, tra loro io recepisco chiaramente una fredda sottomissione del cavallo al volere dell’umana. È domato, ma non sopito, controllato, ma sconosciuto.
Un drago divoratore di vergini tenuto a bada con ossicini di pecora. Molto più obbediente, ma non meno pericoloso.
Tra la gente intervenuta ad assistere, scorgo anche Art e Ashton LaMosse. Se il primo esprime un’intensa disapprovazione mista a rassegnazione, il secondo è gonfio d’orgoglio e indifferenza. Davvero, pensavo fosse una persona migliore.
– Non gli importa nulla di sua nipote o del cavallo – dico a Sasha, con disprezzo – Vuole che vincano, fine della storia –
Il ragazzo annuisce: - Capisco perché Marine è così stronza – commenta.
Siamo obbligati ad assistere all’intera simulazione di prova, tranne quella di cross- country che è stata fatta ieri, e alla fine, la ragazza si prende anche un bello scroscio di applausi decisamente ipocriti, ma meritati. Non so che cavalli abbiano le altre scuderie, ma Hades è veramente imbattibile.
Mentre io e Sasha stiamo per tornare al lavoro, una voce nota mi richiama: - Rochester, venga qui, per favore – Marine mi aspetta, già scesa di sella: - Vorrei che strigliasse Hades. Mi piacerebbe parlarle, se non ha nulla in contrario – dice, accogliendomi con uno dei suoi sorrisi assassini. Naturalmente, non posso avere nulla in contrario.


Il box di Hades è il più comodo e grande della stalla. Mentre lo porto dentro per strigliarlo, non posso evitare di essere nervosa. I lividi ormai sono spariti, ma l’umidità occasionale e i movimenti bruschi mi portano ancora fitte al gomito. Sono stata molto fortunata.
Inizio a lavorare, con calma, fingendo che questo sia un cavallo qualunque, ma la sua cattiva indole emerge in piccolissimi segnali, come il tendersi nervoso dei muscoli e le froge dilatate. Di nuovo, capisco come sia stato costretto a imparare a stare fermo e a farsi toccare, ma dentro freme, represso. Mi muovo più lentamente del solito, per non dargli spunti per sfogarsi proprio con me, e ci sto mettendo un sacco di tempo a fare le cose più elementari.
Sono concentrata, ma tendo l’orecchio per sentire l’avvicinarsi di passi che aspettavo.
Marine si avvicina al box e mi studia per pochi attimi, prima di entrare accanto a me e di mettersi ad accarezzare la criniera dell’animale: - Non è bellissimo?- dice, la voce in reale venerazione.
Nulla da dire, probabilmente Hades è il cavallo più bello che abbia mai visto, però mi dà la sensazione di ammirare la lama che mi trapasserà. Mi limito ad annuire, in attesa che lei prosegua. Qualunque cosa abbia in mente, di certo non può farmi piacere.
Si volta a guardarmi, in silenzio, poi afferra una ciocca dei miei capelli e se la rigira fra le dita, apparentemente, incantata dai riflessi.
Non reagisco affatto, e lei la lascia andare: – Anche tu sei bella, lo dicono tutti – continua, abbassando la voce, in un modo che fa venire i brividi.
Mi ostino a non reagire, chiedendomi cosa diavolo dovrà ancora succedere, e Marine mi prende la mano che tengo posata sul collo di Hades e mi apre le dita, sfiorando il palmo come se la volesse leggere. Mi fermo e la guardo, perplessa, e lei mi restituisce uno sguardo curioso: - Sono così ruvide. Penso che strigliare cavalli tutto il giorno le faccia diventare così – nota.
Fa una piccola pausa, poi si punta il mento con un dito, in un gesto di perplessità simulata: - Davvero a Liza piace farsi toccare da mani così?- chiede, in tono cantilenante.
La temperatura si abbassa all’istante di almeno venti gradi. Lei sa.
Il cuore m’ inizia a rombare, impazzito, ma io non muovo un muscolo.
La guardo dritta negli occhi e Marine sorride, nauseante e trionfante: - Non hai nemmeno intenzione di negarlo. Beh, sei un tipo intelligente, di questo te ne devo dare atto. Sì, io ho occhi e orecchie dappertutto. Non ci credevo, all’inizio, ma poi, sai, l’evidenza è una prova schiacciante – spiega, in tono melenso.
Reprimo il conato di vomito che mi assale, la voglia di strangolarla, e sospiro profondamente: - Cos’è che vuoi da me?- le chiedo, atona, gettando alle ortiche ogni formalità.
Se possibile, il suo sorriso si fa più largo: - Da te niente e nemmeno dalla mia cara zia. Ho solo voluto informarti che il tuo delizioso e illecito idillio sta per finire – dice, stringendosi nelle spalle.
Mi sembra di avere le viscere di piombo, ma non le darò ulteriori soddisfazioni: - Lo hai già detto a tuo zio?- chiedo, piatta. Marine scuote la testa, noncurante: - Oh, no, sarà la ciliegina sulla torta della mia vittoria, domani – dice.
Mi viene quasi da ridere: - Tu non perdi mai, vero, Marine LaMosse?- osservo.
Adesso, la sua espressione è satanica: -Esatto, io non perdo mai – conferma, poi si avvicina al mio orecchio: - Ti consiglio di divertirti finché puoi, troia lesbica – sussurra, poi si volta ed esce, sulle ceneri della sua distruzione.
 

Ora che non ho più tempo, ho capito cosa fare. Ho firmato i documenti, e ho scritto a Celia e nostra madre, la lettera più difficile che abbia scritto finora.
È una splendida sera di fine primavera, calda e dorata e sono seduta sul letto, in attesa.
Sono pronta al dolore che proverò, ma ho bisogno di prepararmi al distacco.
Ho con me qualcosa che mi ricorda tutte le persone e le cose importanti della mia vita. La foto di Eagle, le lettere della mia amica di penna, un nastro per capelli di Alison, uno dei braccialetti colorati di Juno e Sasha, una carta truccata di Wood. Mancano le più importanti, e devo averle ora.
Elizabeth arriva, col suo passo silenzioso, sorpresa che le abbia chiesto di vederci così all’improvviso. Si toglie le scarpe in fretta e mi abbraccia, ma io la freno.
Non ho, ovviamente, intenzione di dirle nulla, ma so che questa sarà l’ultima volta in cui staremo insieme.
La faccio sedere davanti a me, sul materasso, e la guardo a lungo, chiedendole di non dire niente.
Inizio a spogliarmi, lentamente, imprimendo dentro di me la consapevolezza dei suoi occhi sul mio corpo. L’aiuto a svestirsi, fissando nella memoria ogni sensazione, e moltiplicando ogni bacio per cento.
Le mie mani e le mie labbra registrano tutti i dettagli di lei, lo spazio fra le sue scapole dove mi piace appoggiare la fronte, la pelle serica del suo collo, i seni su cui ho dormito, i recessi ben noti del suo sesso, la bocca morbida e tremante, la cascata di capelli soffici e corvini. Metto in ogni carezza e sospiro una promessa d’amore muta e un addio taciuto.
Quando l’affanno si placa e lei scivola nel sonno, io resto sveglia, l’anima marchiata della sua ombra.
Ora posso affrontare i colpi.           

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Non scrivere, mai ***


Non scrivere, mai


La prima cosa che ho notato, stranamente, appena rientrata in casa, è stata la foto del mio matrimonio, appesa accanto al letto. La tengo lì più per mantenere le apparenze, che per un reale legame affettivo. Ci sono talmente abituata che non la guardo nemmeno più, ma i miei occhi ci si sono posati subito.
Ho provato uno strano vuoto alla bocca dello stomaco, in totale contrasto con il senso di felicità che mi ha pervaso tutta la notte. Sono agitata e non so perché.
Florence, con il suo ciarlare della gara, non fa che rendermi ancora più nervosa. Dio, quando questa stupida giornata sarà finita, sarò contenta.
La solita concitazione che precede eventi del genere, accompagna tutto il viaggio in macchina fino all’arena. Marine siede tutta impettita, ancora più gongolante del solito.
L’abbiamo visto tutti, quel suo cavallo è una macchina da guerra, ha già la vittoria in tasca. Il concorso completo è più impegnativo di quello che ha fatto finora, ma non si preoccupa affatto.
Albert è piuttosto silenzioso, cosa abbastanza rara, e non infastidisce sua sorella come al solito. Continua a lanciarmi occhiate, senza alcun motivo e io lo lascio perdere.
Appena arriviamo, Ashton prende la nipote e la porta ai box, ignorandoci del tutto. Queste sono le occasioni in cui può sfoggiare il suo fanatismo e la sua smania di competere, so com’è fatto.
Dovrei andare a fare la parte della signora LaMosse e spettegolare con le altre primedonne già riunite, ma non posso impedirmi di cercare Emily con lo sguardo, che però deve essere già a occuparsi dei cavalli.
Non è mai stata come ieri notte. Non so cosa darei per essere con lei, invece che qui.
Con un sospiro rassegnato, mi costringo ad essere gentile con quell’oca giuliva di Maud Porter, che parla delle qualità del figlio a voce altissima, quasi volesse venderlo all’asta.
Florence, dal canto suo, non intende tirar fuori una modestia che, d’altronde, non le appartiene e comincia a decantare le possibilità di vittoria di Marine a voce ancora più alta. Sembrano essersi dimenticate entrambe che i loro figli sono fidanzati. L’inizio delle chiamate per il dressage interrompe il battibecco, e dimostra davanti a un pubblico ancora più ampio la netta superiorità di Hades.
La folla applaude ammirata alle sue movenze eleganti, ma io riesco solo a vederlo mentre sbalza di sella Emily.
Al termine della gara, l’ego di Marine è così gonfio da sollevarla da terra. Ed è solo la prima prova.
Mi distraggo completamente durante i cinque chilometri del cross- country, perché Emily è poco lontana da me, intenta non a osservare la gara, ma a guardarsi intorno, ansiosa come mai l’ho vista. Non ho modo di parlarle, e tutto questo non fa che agitarmi ulteriormente. C’è qualcosa che decisamente non va.
Durante il pranzo, rischio seriamente di rovesciare il piatto in testa a Florence, le cui chiacchiere inutili mi trapassano il cervello come un tarlo. Il sorriso di circostanza che ho sul viso deve sembrare una paresi, ormai, ma naturalmente a nessuno importa. Continuo a sorbirmi complimenti e pettegolezzi come un cocktail amaro, senza sentire una sola parola.
Il pomeriggio scorre lentissimo, fino al salto a ostacoli, quando Marine e Hades, stracciano la concorrenza per la terza volta. Spero che, finalmente, questo strazio sia finito, però c’è la cerimonia di premiazione e poi ci sarà il ricevimento, ma non ne posso più. Guardo mia nipote sollevare la coppa dorata quasi con noia, distribuendo sorrisi sfacciati a tutti, e spero che ora sia soddisfatta.
Non è Art, suo padre, a raccogliere le congratulazioni e a spingerla davanti agli obiettivi dei fotografi sportivi, ma Ashton, che guarda i suoi concorrenti con occhi da squalo, lo sguardo del vincitore che dissacra il cadavere del nemico. Questa gara è il lasciapassare per le competizioni nazionali, e il nome dei LaMosse spiccherà sugli altri ancora una volta.
Non m’interessa niente di tutto questo. Da qualche parte, in questa arena, Emily si tormenta per qualcosa e io non posso fare niente per lei. Non ho mai odiato il mio ruolo quanto adesso.
 

A un certo punto, Roman viene a chiamarmi. Stiamo quasi per salire in macchina per tornare a casa e dare gli ultimi ordini per il ricevimento, ma lui dice che Ashton mi vuole parlare subito. Dico a Florence di andare, assicurandole che Marine e Al torneranno con Art, e mi lascio accompagnare fino ai box.
L’atmosfera non potrebbe essere più diversa da com’era poco fa. La gente lì dentro ha sguardi tirati, imbarazzati, c’è un brusio come di api infuriate. Mi fissano, come chi guardi qualcosa di orrendo che non ha mai visto prima, e la terra comincia a dondolarmi sotto i piedi. Cosa sta succedendo. Cosa sta succedendo. Cosa sta succedendo.
Roman mi spinge in uno degli uffici dei giudici, dove ci sono già Ashton, Marine e…Emily. Smetto subito di farmi domande. Mio marito chiude la porta dietro di me e mi fronteggia: - Elizabeth, ho saputo qualcosa d’increscioso che riguarda te e questa donna. Vorrei che tu mi dicessi che non è vera una sola parola – dice, calmo, distaccato, come se stesse trattando un affare.
Sento le mie labbra tremare, vorrei negare tutto, vorrei respingere ogni accusa, non per me, ma per lei. Non riesco a dire niente. La guardo, ma lei tiene gli occhi puntati su Ashton, con una terribile determinazione: – Sì, è tutto vero – dice, in tono fermo, senza la minima esitazione. L’espressione di Marine mi fa venire voglia di picchiarla. Non so come abbia fatto a scoprirlo, ma deve essere stata lei a denunciarci.
Ashton chiude gli occhi, infastidito. Non c’è traccia di dolore o delusione nel suo gesto. È solo un fastidio.
– Ovviamente – esordisce, guardando Emily – Lei comprende che questo rende inopportuna la sua presenza in scuderia. Non saranno divulgati i motivi del suo licenziamento, e avrà la liquidazione che le spetta – le assicura. Lei annuisce, inespressiva, poi porta lo sguardo su di me, finalmente.
Quello che vedo mi spezza il cuore. Lo sapeva. Sta facendo tutto questo per tutelarmi, ma io sono stanca di essere impotente e inascoltata.
– Ashton!- esclamo, pretendendo la sua attenzione, e lui mi guarda, meravigliato: - Io l’amo. Come mai ho amato nessuno. Non pensare di risolvere così la cosa, non riuscirai a tenermi a lungo lontana da lei! Fai pure finta di nulla, non cambierò idea. L’amo. Sono innamorata di lei, e questo è qualcosa che non puoi controllare a tuo piacimento! – dichiaro, furente.
Lui mi scruta come se non mi avesse mai visto e probabilmente è così.
Non fa in tempo ad aprire bocca, che qualcuno comincia a battere colpi sulla porta con violenza.
Ashton sussulta e l’apre in fretta: - Non voglio essere disturbato!- sbraita, ma è Art che lo afferra per le spalle e lo scrolla:
- Dannazione, Ash! – grida – Il cavallo è impazzito un’altra volta, ha sfondato il box! È tutta colpa tua, lo sapevi che era pericoloso! –
La prima a cogliere davvero la situazione è Emily, che corre fuori, seguita da Marine. Io, Ashton e Art ci scambiamo uno sguardo confuso, poi andiamo loro dietro.
Il senso di deja-vù è terribile. Hades, come una furia nera, corre fra i box, terrorizzando gli altri cavalli.
Molti uomini cercano di fermarlo in ogni modo, gridando, ma la bestia scalcia, completamente fuori controllo.
Lo strillo di Marine mi ghiaccia il sangue nelle vene: - Al!-
Tutti si voltano nella direzione in cui indica, e vediamo Albert dritto sulla traiettoria del cavallo. Non so perché sia lì, e non m’importa. Nessuno può salvarlo. Da vile che sono, mi copro gli occhi e mi volto, non potendo far nulla per far cessare il rombo assordante delle urla intorno a me. Non ho mai sentito Marine gridare così.
Il silenzio scende di botto, come una frana, e riapro gli occhi all’improvviso, terrorizzata.
Due tizi stanno costringendo il cavallo a tornare indietro e da una parte, scosso dai brividi, c’è mio nipote spaventato a morte ma illeso. Accanto a lui, scarmigliata e con le braccia graffiate dalla scivolata, c’è Emily.
Non vedo altro, perché le gambe cedono e i miei sensi spariscono.
 

Mi risveglio a casa, in camera mia. È sera, e sento la musica dai piani inferiori. Il ricevimento deve essere iniziato già da molto. Mi alzo a sedere e mi accorgo che accanto a me c’è Ashton.
Mi porge un bicchiere d’acqua, una pastiglia e indica un abito sul servo muto: - Appena riesci ad alzarti, vestiti e scendi. I tuoi ospiti ti stanno aspettando, Elizabeth – dice, asciutto. Lui è in smoking e sorseggia un Martini.
Non prendo il medicinale, ma bevo e lo guardo: - Dimmi che non l’hai già mandata via – lo supplico.
Mio marito scuote la testa: - Ora devi smettere di pensarci. È stato un errore, tutto qui. Ti vestirai e tornerai ad essere la signora LaMosse. Nessuno ne dovrà sapere nulla. Quella ragazza non è più affar tuo – dichiara, calmo in modo snervante.
Scaglio il bicchiere attraverso la stanza e rimango a guardare i frammenti di vetro sul tappeto, prossima a singhiozzare:
- Piantala di startene lì come se l’intera faccenda non ti riguardasse!- urlo, frustrata e disperata – Se non t’importa niente di me, perché vuoi che rimanga? Pensi che non sia capace di andare a cercarla, adesso, di andarmene con lei?- sbraito, piangendo davvero.
La testa mi pulsa, ma è niente in confronto allo squarcio che ho dentro. Ashton mi fissa, odioso: - Calmati, ora. Questo è inopportuno e imbarazzante. Hai ragione, Elizabeth, non m’importa cosa pensi o come ti senti, m’importa degli obblighi che hai verso di me. Senza un regolare divorzio non ti lascerò andare proprio da nessuna parte. Non infangherai il nome dei LaMosse con una torbida storiella viziosa. Una donna. Devi essere impazzita, mia cara. È così…metropolitano – sentenzia, prendendo un sorso con la massima tranquillità e facendosi pure una risatina.
Se non fossi così stanca e svuotata, gli tirerei un pugno. E quello che mi fa più rabbia, è che so di non esserne capace. Non riuscirei a gettarmi tutto alle spalle, così, e scappare insieme a Emily.
Nonostante tutto, resto la viziata, ricca, stupida Elizabeth LaMosse. Ma non posso lasciarla andare via così.
Mi arrendo, apparentemente. Mi preparo, scendo al ricevimento, ascolto le chiacchiere, riesco perfino a fare i complimenti a Marine, che però è pallida e sconvolta quanto me. Credo che inizi a provare almeno un minimo senso di colpa.Appena restiamo da sole, mi chiede perdono. Non so se ci riuscirò. 
Quando la festa è al suo culmine, come ho fatto una sera di pochi mesi fa, sguscio fuori.
I ragazzi Pryce sono davanti alla sua stanza, e mi rendo conto che lei ha chiesto loro di aspettarmi qui.
Mi dicono che è al cancello, e tutti e due hanno gli occhi rossi e gonfi.
Corro, volo.
Emily Rochester è appoggiata al fianco di una macchina presa in prestito, con un trailer agganciato.
Sta fumando, ma appena mi vede, getta la sigaretta e mi si avvicina. Vorrei abbracciarla, ma lei mi tiene a distanza, per il momento.
– Mi dispiace, non c’era niente altro da fare – dice, guardandomi dritta negli occhi con quel suo sguardo chiaro e argentino.
Mi prende le mani: - Ce la farai, lo so. Sarà difficile, ma puoi farcela –
Scuoto la testa, piangendo senza ritegno, ma lei mi accarezza i capelli: - Non avere paura. Ora ti dico cosa dovrai fare –.
Mi porge una busta sigillata: - Qui dentro c’è l’indirizzo di dove andrò a stare. Se un giorno tu dovessi capire che non sarai mai pronta per venire da me, scrivimi una lettera. Se sarai pronta, invece, non scrivere, ma vieni. Mi troverai là ad aspettarti – dice, mettendomi la busta in mano.
Non ce la faccio a vederla andare via, e mi avvinghio a lei: - Non è possibile che non c’è altro che possa fare. Io non voglio restare qui – mormoro, la voce rotta.
Lei mi scruta, assumendo di nuovo il cipiglio da falco: - Ma devi. Non per me, non per tuo marito, ma per te stessa. Tu sai di essere legata a questo posto, ma un giorno riuscirai a recidere quel legame. Quando quel giorno arriverà, vieni da me – sussurra, a un soffio dalle mie labbra.
– Cosa posso fare, nel frattempo?- le chiedo, completamente smarrita.
– Non scrivermi, mai- risponde.
Ci scambiamo un ultimo bacio, che sembra durare troppo poco.
Hawkeye, nel trailer, sbuffa piano, quando lei sale in macchina.
Anche quando è ormai lontana resto lì, a guardare la strada.
I cavalli di fuoco hanno portato via l’unica persona che abbia mai amato e dovrò percorrere un sentiero difficile, per ritrovarla.

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Epilogo ***


Epilogo


Due anni dopo


L’uragano Sandy ha colpito principalmente le zone costiere, ma questo non mi ha impedito di preoccuparmi.
Ho telefonato a Sasha, per sentire come vanno le cose alla scuderia, e lui mi ha detto che non hanno avuto danni.
Juno viene a trovarmi, quando ha qualche giorno libero dall’università ed è diventata amica di mia sorella.
Marine mi scrive spesso, raccontandomi delle competizioni che ha vinto e ho saputo che gareggerà alle olimpiadi di Rio de Janeiro.Ci siamo parlate, a lungo, e lei ora ha davvero capito i suoi errori. L'ho perdonata. 
Ogni tanto, qui alla stalla, passa qualcuno più curioso degli altri che mi chiede com’era lavorare per i LaMosse. Di solito rido, e mi stringo nelle spalle: - Il lavoro è lavoro – rispondo a tutti.
È un po’ strano avere una piccola stalla tutta mia, ma è esattamente quel che volevo e Hawkeye è felicissimo. Cavalchiamo per ore, liberi su questi campi che una volta detestavo.
Tornare qui non è stato traumatico come temevo.
Il passato torna raramente a darmi problemi, perché ho un presente quasi perfetto. Quasi.
Controllo la cassetta della posta ogni giorno e la lettera che spero non arrivi mai, non è ancora arrivata.
Sto guardando il notiziario, un po’ in apprensione per gli aggiornamenti sul maltempo, anche se qui siamo abbastanza interni da scampare il peggio, quando il ragazzo che mi aiuta a tenere i cavalli viene a chiamarmi: - Emily, c’è qualcuno al cancello – annuncia, perplesso.
– Davvero?- chiedo, stupita quanto lui – E chi è?-
Fa un gesto vago: - Una signora, sui quaranta. Elegante, bella macchina, e ha con sé un cavallo sauro – spiega.
Scatto in piedi quasi prima di accorgermene: - Non è un cavallo, è una giumenta – lo correggo, automaticamente.
Vado al cancello, trattenendomi dal correre, e lei scende dall’auto.
Non è cambiata, forse è un po’ più magra.
Si avvicina lentamente, e restiamo a guardarci. Ci saranno ore, settimane, magari anni per parlare.
Vado ad aprire il trailer di Iris e la faccio scendere.
Sorrido a Elizabeth: - Sei stanca per una cavalcata?- le chiedo. Lei fa cenno di no.



                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 Fine



   


Angolo Autrice:

Un grazie infinito a tutti coloro che hanno letto questa storia, sono davvero contenta che sia piaciuta e sono grata a chi mi ha fatto notare qualche errore. Alla prossima, con una storia che spero sia ancora più bella.

                     

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1302659