Zio per un giorno

di ferao
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La scelta ***
Capitolo 2: *** Le donne di casa ***
Capitolo 3: *** Tra le nove e cinquanta e le dieci e venti ***



Capitolo 1
*** La scelta ***


Le irritanti note iniziali:
salve a tutti! Finalmente torno a pubblicare una storia “seria” (leggasi: estranea al circuito delle follie in cui mi sono buttata ultimamente).
La storia in questione costituisce uno degli attesissimi seguiti alla mia long Una brezza lieve, ma può essere letta indipendentemente da questa; tanto, tutti i dettagli che è necessario conoscere sono e saranno richiamati qui.
Per l’ispirazione devo ringraziare sentitamente lady hawke, la quale non è solo un fulgido esempio di ottima scrittura nell’archivio di EFP, ma è anche un vulcano di idee sconsiderate e geniali.
Per il resto, cercatevi le note in fondo, che non intendo spoilerare tutta la storia qui.
Buona lettura e buon divertimento!
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Zio per un giorno

 
 
 
 
Capitolo 1: La scelta
 
 
 
Sulle prime non si era affatto preoccupato di ciò che stava accadendo. Per niente. Nonostante sapesse, per esperienza diretta, che non era mai bene che la sua dolce metà facesse cose come sedersi al tavolo della cucina per ore e riempire pergamene su pergamene della sua grafia fitta e incomprensibile, Percy Weasley aveva deciso che, almeno per quella volta, si sarebbe risparmiato l’angoscia dell’incertezza e avrebbe semplicemente ignorato ciò che Audrey stava facendo.
Ignorato, certo. E fino in fondo. Niente domande, niente curiosità, niente di niente. Qualsiasi cosa stesse architettando sua moglie, Percy non voleva entrarci. Era ancora vivo in lui il ricordo di quando, all’incirca quindici anni prima, Audrey si era seduta ad un altro tavolo in un’altra casa – ma sempre in cucina, chissà come mai – e aveva iniziato un folle piano per organizzare il loro matrimonio, all’insaputa di lui. Percy se lo ricordava, e ricordava anche come qualunque blando tentativo di sapere cosa Audrey stesse combinando avesse portato solo a mutismi, occhiatacce e terribili accuse come “non-ti-fidi-di-me”.
Insomma, sarebbe stato meglio per tutti se Percy si fosse fatto gli affari suoi. E così fu. Lasciò che sua moglie spargesse ovunque fogli e penne ed evitò con cura di farle domande di qualsiasi tipo.
Tanto, prima o poi lo avrebbe saputo comunque. Grazie al cielo Audrey non gli nascondeva mai nulla.
 
Nel giro di un anno e mezzo, Audrey aveva finito. Risultò che ciò che aveva prodotto così febbrilmente altro non era che un romanzo, su cui la donna fantasticava da molto tempo e che si era decisa a mettere su pergamena solo dopo molte riflessioni e dubbi interiori. La cosa non sorprese Percy, che conosceva la sua passione per la letteratura; non si stupì nemmeno quando, ad una sua incuriosita domanda sul tema del libro, Audrey rispose:
– Non te lo dico, prima voglio vedere se me lo pubblicano. Sai, per scaramanzia.
Percy approvò la decisione, e mantenne un rispettoso silenzio circa il misterioso libro, anche – e soprattutto – nei confronti dei loro parenti.
Ci volle però solo un altro mese, perché la notizia divenisse di dominio pubblico.
– Devo dirvi una cosa – annunciò Audrey nel bel mezzo di una rimpatriata familiare con i Weasley. C’erano tutti: dagli ormai anziani genitori di Percy ai suoi fratelli, e tutta – tutta – la torma dei loro nipoti, ad eccezione di Molly e delle due figlie di Bill, che si trovavano ancora a Hogwarts. Auditorio migliore non poteva esistere.
La notizia che la Obscurus Books aveva accettato con entusiasmo di pubblicare il romanzo di Audrey fu accolta da tutti con grande gioia, nemmeno si fosse trattato di un nuovo bambino in arrivo; in quel momento di festa generale, Percy non poté che sentirsi partecipe dell’estremo orgoglio di sua moglie, la quale – lo sapeva bene – in quel modo aveva realizzato un sogno che teneva nel cassetto sin da quando era ragazza.
Questo orgoglio crebbe esponenzialmente quando giunse a casa loro la prima copia in assoluto del romanzo, una cortesia che la Obscurus Books si premurava di fare a ciascuno dei suoi autori. All’incirca due giorni dopo, il libro fu pubblicato; tutti i Weasley e i numerosi parenti di Audrey se ne procurarono una copia e iniziarono a sfogliarla, curiosi di vedere cosa fosse riuscita a produrre la loro cara ragazza.
Il gradimento, com’era prevedibile, fu pieno e totale da parte di tutti.
Solo Percy si astenne dal precipitarsi subito a leggerlo. Era curioso, certo, e i commenti dei suo fratelli non facevano che peggiorare la situazione, ma frenò l’impazienza e aspettò che si creasse in lui quella predisposizione mentale di attesa controllata che, si diceva, avrebbe aumentato il piacere della lettura e il compiacimento per la scontata bravura di Audrey.
Attese all’incirca dieci, dodici giorni, e quando si sentì pronto prese il libro tra le mani.
Si accomodò sulla sua poltrona preferita e lesse.
E lesse.
E lesse.
E una volta che ebbe terminato, lanciò il libro dall’altra parte della stanza.
 
 
 
 
– Allora, l’hai finito?
Percy sorrise in risposta alla moglie, che lo osservava raggiante dall’altro lato del tavolo. – Il tuo libro? Certo, l’ho letto tutto in giornata. E ho anche riletto alcune parti. È lungo, ma l’ho finito.
Il sorriso di Audrey si allargò ancora di più e i suoi occhi brillarono. – Oh, Perce, – disse, – non hai idea di quanto sia felice. Temevo… che non ti piacesse, o che…
– Perché mai? È un buon romanzo. Trama complessa, ottima grammatica, stile variegato, interessante caratterizzazione dei personaggi e spunti molto originali… insomma, è impeccabile, e per essere un primo libro è eccezionale. Sul serio.
Audrey gongolò e divenne tutta rossa. – Sì, beh, mi ci sono impegnata molto…
– E si vede. Complimenti.
Percy ammiccò, poi chinò la testa e riprese a mangiare in silenzio. – Più che altro – riprese dopo un po’, – mi hanno sorpreso alcune tue scelte. Ad esempio, perché ti sei firmata “A.J. Bennet” invece che “Weasley”?
– Oh, – rispose lei, che si aspettava quella domanda, – è stata un’idea degli editori. Sai, volevano evitare che un eventuale successo del libro fosse legato solo al nostro cognome. È diventato piuttosto famoso, dopo la guerra, e…
– Capisco. Molto onesto, da parte loro.
– Già. Sono stata davvero fortunata a trovare degli editori così.
– E dimmi, sono stati loro a suggerirti di aggiungere… certe parti al libro?
Anche quella domanda non arrivava del tutto inattesa. – No, è stata una mia idea – disse Audrey in fretta. – Sai, pensavo che stessero bene con la trama, e che rendessero il tutto più… corposo, ecco.
– Capisco.
– Già.
– Bene.
Di nuovo silenzio, interrotto solo dai rumori delle posate. Audrey sapeva che sarebbe stato, come dire, imbarazzante dover rendere conto a suo marito di aver inserito certe scene nel suo romanzo, e temeva una sua reazione indignata o infastidita; invece sembrava averla presa piuttosto bene. Fiu.
– A proposito, – disse dopo un po’, sempre con allegria, – siccome le prime due settimane di vendite sono andate oltre ogni aspettativa, la Obscurus ha proposto al Ghirigoro di ospitare una presentazione del mio libro, e questo ha accettato. Devo ancora dirlo a tutti gli altri, volevo che tu lo sapessi per primo, e…
– Una presentazione? Al Ghirigoro? Quando?
– Tra una settimana. Dicono che me lo merito, visto che è una vita che un romanzo scritto da una strega non piaceva così tanto al pubblico!
– Quindi, sarà una presentazione presentazione? Con i giornalisti, i lettori…
– … e i parenti, sì. E firmerò i libri. Una presentazione presentazione, insomma. Non è… meraviglioso?
Percy guardò Audrey negli occhi. Non la vedeva così emozionata da anni – l’ultima volta, forse, era stata quando gli aveva detto di essere incinta per la seconda volta: anche allora aveva quello sguardo luminoso e quel sorriso che la faceva sembrare una bambina.
La gioia fatta persona. Quanto era bella.
Peccato, pensò Percy, che di lì a pochi secondi si sarebbe trasformata in una Banshee.
– Buon per te, cara. Ne sono davvero lieto.
Sentirsi chiamare in quel modo stupì Audrey, e molto. Sebbene, in genere, sia normale che un marito si rivolga alla propria moglie dicendo “cara”, dopo più di quindici anni di matrimonio stabile e felice, lo stesso non poteva dirsi per Percy: in tanti anni che conosceva Audrey, aveva usato vezzeggiativi come “cara”, “tesoro” e “amore” solo in casi molto particolari, e di solito avevano un significato pesantemente sarcastico.
Siccome, però, in quel momento non c’era niente che potesse giustificare uno scoppio di acidità, la donna non si preoccupò più di tanto.
– Grazie, Perce. Per me significa molto che tu…
– Quindi, immagino che siano tutti invitati a questa presentazione. I miei parenti ed i tuoi.
– Ma certo. Non dovrebbe durare molto, ma temo che tra una cosa e l’altra mi porterà via l’intera mattinata. E poi pensavo di portare tutti a pranzo fuori.
– Ottima idea. Vi auguro di divertirvi molto e di passare una bella giornata.
Audrey aggrottò le sopracciglia e smise di sorridere. – Scusa, ma credo di aver capito male. Hai detto “vi auguro”?
– Esatto. – Percy abbassò la testa, pronto a (come direbbero i Babbani) sganciare la bomba.
Sua moglie tacque per qualche istante; quando parlò, la sua voce era cambiata, diventando più simile a un ringhio. – Vorresti forse dire… tu non hai intenzione di venire, vero?
Cercando di non pensare alla morte imminente, Percy prese fiato.
– No, Bennet. Non verrò alla presentazione del tuo libro, né ora né mai.
 
In casi normali, sarebbe bastata un’affermazione del genere per trasformare la pacifica Audrey in una Banshee. Non trasformarla davvero, ovviamente: era solo il modo scherzoso in cui i suoi parenti definivano i suoi scoppi di rabbia – anche se, a dirla tutta, di scherzoso c’era poco e niente. Più niente che poco.
– Ah. – Il tono di voce gelido come una lapide era il primo sintomo della metamorfosi. – E perché, di grazia?
Percy alzò il capo e la guardò. Il secondo sintomo (rossore diffuso in tutto il volto) si stava rapidamente manifestando; troppo tardi per fare marcia indietro, anche se non l’avrebbe fatto comunque.
Ringraziò mentalmente la signora Bennet, sua suocera, per aver ospitato Molly e Lucy a cena quella sera; sarebbe stato diseducativo, per loro, vedere come il loro padre suscitava istinti omicidi in sua moglie.
– Oh, sei abbastanza intelligente da arrivarci da sola, tesoro. Avanti.
– Se è uno scherzo, non fa ridere. Piantala.
– No, non la pianto. – Percy dismise il tono sarcastico e optò per una rabbia contenuta. – Lo sai, vero, cosa hai fatto?
– Immagino che tu stia per dirmelo – ringhiò Audrey. Il rossore stava rapidamente virando verso un colorito violaceo.
– Hai inserito scene che raccontano nei dettagli la nostra vita intima, accidenti a te – ruggì lui. – Ho dovuto leggerle due volte, perché non credevo possibile che tu avessi fatto una cosa simile.
– Cos… il problema sarebbe questo?! – strillò Audrey.– Tu non verrai alla presentazione del mio libro perché ci sono un paio di scene spinte?! Ma sei impazzito?
Io sarei impazzito? E tu che avevi in testa, quando hai scritto quelle quattro scene? Sì, le ho contate – aggiunse, prima che Audrey potesse ribattere. – Dannazione, Aud! In pratica c’è tutta la nostra prima volta, per non parlare di quelle successive! Per Godric, se penso che l’hanno letto tutti i nostri parenti mi si accappona la pelle!
– Oh, andiamo, non puoi essere davvero arrabbiato per una cosa simile! – esclamò Audrey. – Oggigiorno questi argomenti non sono più un tabù, e inoltre non sono stata affatto volgare nelle descrizioni, me lo hanno detto tutti!
– Certo, peccato che tu non abbia parlato delle esperienze sessuali di tutti, ma delle nostre. Di me e di te, maledizione.
– E di che avrei dovuto parlare?! A qualcosa dovevo pur ispirarmi; preferivi che descrivessi ciò che ho fatto con altri prima di te?
– Avrei preferito che non ne parlassi affatto, ecco cosa.
Se Audrey ormai era pienamente immersa nella sua “fase Banshee”, Percy si difendeva molto bene: si era tenuto dentro quelle osservazioni per un giorno intero, rimuginandole fino a non sopportarle più, e ora voleva sfogare tutta la rabbia e la vergogna accumulate.
Merlino, tutti avevano letto quel libro. I suoi fratelli, i suoi genitori, i cugini di sua moglie, Shacklebolt, forse persino (Godric non volesse!) sua figlia Molly, tutti lo avevano letto; ed era impossibile che qualcuno di loro avesse pensato che nelle scene di sesso Audrey descrivesse qualcosa di diverso da ciò che faceva regolarmente con suo marito. Definire tutto ciò “umiliante” era riduttivo.
– Nemmeno ne avessi parlato in maniera negativa! – ululò Audrey, decisa a difendere strenuamente il suo lavoro. – Dimmi quand’è che il protagonista maschile fa una brutta figura, dimmi!
– Non è questo il punto! – rispose Percy con lo stesso tono. – Sai cosa ho sentito dire l’altro giorno da Ron?
– Spero qualcosa di peggio del solito.
– “Percy? Davvero? Ma se la cosa più sporca che ha fatto in vita sua è stata soffiarsi il naso!” – continuò l’uomo, imitando la voce di suo fratello. – Non riesci proprio a capire quanto sia imbarazzante, per me, una cosa simile?
– No, non lo capisco. E soprattutto, non capisco perché ciò ti impedisca di starmi accanto in un momento così importante della mia vita. Sto realizzando un sogno, cazzo, e tu ti preoccupi di quello che forse la gente pensa di te?
– Di quello che la gente, adesso, sa di me.
– Sei ridicolo.
– E tu sei una cretina.
– La settimana prossima verrai con me, che ti piaccia o no.
– La settimana prossima andrai senza di me, o non andrai affatto. Io non verrò di certo a farmi prendere in giro anche in pubblico.
Si guardarono in cagnesco, entrambi offesi e furibondi. – Fa’ come ti pare – sibilò infine Audrey. – Starò molto meglio senza di te.
– Non ringraziarmi, per me è un piacere – borbottò lui, mentre sua moglie usciva dalla cucina a passo svelto.
 
Non era certo la prima volta che litigavano. Quando erano ancora ragazzi, una ventina di anni prima, tra loro erano volate parole ben più grosse e offese ben più feroci di quelle che si erano scambiati quel giorno; e anche adesso che erano adulti, innamorati e sposati, talvolta sentivano il bisogno di alzare il volume della voce durante le loro discussioni.
Qualsiasi fosse la ragione che li scatenava, però, i loro litigi erano sempre destinati a concludersi entro breve tempo, vuoi perché uno dei due – in genere Percy – arrivava a chiedere scusa, vuoi perché entrambi si rendevano conto di quanto fossero sciocchi e infondati i loro battibecchi.
Quello, però, non era un normale bisticcio. Oh, no. Percy si sentiva profondamente oltraggiato, come mai prima di allora; il fatto poi che sua moglie non comprendesse le sue motivazioni lo feriva ancora di più. Non capiva che tutto ciò lo esponeva al ridicolo persino più del solito? Per tutta la vita era stato oggetto di derisioni più o meno giustificabili, e quello era decisamente il colpo di grazia. Non poteva, non poteva proprio sopportare una cosa simile, né intendeva appoggiarla.
Per questo era fermamente deciso a non stare accanto a Audrey, il giorno della presentazione del suo libro.
Lei, da parte sua, se anche poteva capire una giusta dose di imbarazzo in Percy non riusciva ad accettare il suo atteggiamento così negativo. Va bene, avrebbe dovuto avvertirlo, o almeno chiedergli se era d’accordo sul fatto che lei si ispirasse così tanto alla loro vita intima; ma era il caso di prendersela a quel modo? Dannazione, era tutta la vita che sognava un momento come quello, un momento di minima celebrità, in cui non era più solo l’archivista del Ministero o la magazziniera del Ghirigoro o l’aiutante dell’apotecario Oleg Bennet, ma l’autrice di un libro che piaceva alla gente. Una persona conosciuta.
E l’unica cosa che desiderava era condividere quella gioia con coloro che amava. Perché Percy non lo capiva? Perché non le rimaneva accanto?
 
In sintesi, quel litigio non si concluse entro breve tempo.
 
 
 
Sei giorni dopo, Audrey tornò dal lavoro con un gran sorriso sulle labbra.
Percy ebbe paura. Quel sorriso, rivolto proprio a lui, poteva significare decine di cose diverse, che andavano dal “mi dispiace” all’“avevi ragione tu” al ben più inquietante “sto per ucciderti, Avada Kedavra!”; in quest’ultimo caso, il giornale che teneva tra le mani non avrebbe costituito un efficace riparo e la bacchetta era troppo lontana, per cui poteva solo avere paura.
– Allora, – esordì Audrey, la voce stranamente allegra e squillante. – Cos’hai deciso per domani?
Percy inarcò un sopracciglio. – In che senso?
– Nel senso: sei sempre convinto di non voler venire al Ghirigoro?
– Mia sciocca moglie, – rispose lui, mettendo via il giornale e scuotendo la testa, – l'idea di poter di venire non mi è mai passata per la mente.
Lei non fece una piega. Si piazzò in piedi di fronte a lui, il sorriso smagliante sempre stampato in volto. – Benissimo. Significa che avrai la giornata libera, giusto?
– Beh, – si sistemò gli occhiali, – essendo domenica, giorno della settimana tradizionalmente dedicato al riposo dal lavoro, , avrò la giornata libera.
– Non avrai nulla da fare, quindi.
Che discorso era quello? Strano, molto strano. – N-no, nulla… a meno che Kingsley non mi chiami per motivi urgenti.
– Oh, tranquillo. Ci ho già parlato io, e mi ha assicurato che non ti disturberà.
Cosa?! Audrey aveva parlato con Kingsley affinché lui avesse la domenica completamente libera? E perché mai?
– Ah, beh, g-grazie, sei stata molto… ehm…
– Figurati. Cosa non si fa per il proprio marito! – Audrey sorrise ancora, poi si accomodò sul bracciolo della poltrona. – Quindi, – aggiunse poi, – visto che sarai privo di impegni domani, non ti dispiacerà fare qualcosa per me, vero?
La voce di Audrey era calda e dolce, era difficile pensare che stesse per combinargli qualche tiro mancino. Perché, allora, Percy si sentiva così preoccupato?
– Ecco, io… no, certo che no.
Bene.
La donna si alzò in piedi e si rimise davanti alla poltrona. – È più un favore che fai ai tuoi fratelli che a me, in verità, – disse. – La presentazione del libro potrebbe tirare per le lunghe, e i nostri nipoti si annoierebbero di sicuro…
Nipoti?
– … per cui ho pensato che, visto che sei l’unico che non verrà al Ghirigoro, potresti occuparti di loro finché non sarà finita.
– U-un momento. Di loro chi?
Audrey sgranò gli occhi e si finse sorpresa. – Ma come, loro chi? I nostri nipoti! I figli di Bill, Ron, George, Ginny… e le nostre ragazze, ovviamente, non credo che a loro interesserebbe venire alla presentazione…
– No.
Il monosillabo gli era uscito spontaneamente dalle labbra. Audrey osservò soddisfatta suo marito: era rimasto congelato sulla poltrona, le sue mani stritolavano i braccioli e i suoi occhi mandavano lampi di puro terrore. Goccioline di sudore erano spuntate sulla sua fronte.
– Come dici, caro? – chiese la donna, soave.
– No – rispose lui, boccheggiando. – No. Niente nipoti. No.
– Oh! – ghignò Audrey. – Significa che preferisci venire con me, tesoro?
– Non ho detto questo. – Percy inspirò a fondo e cercò di riprendersi dallo shock. – Non verrò mai alla tua presentazione, mai.
– Beh, allora ti conviene adattarti a fare lo zio per un giorno, amore mio. O preferisci che chieda a tua madre di convincerti?
Il riferimento a sua madre era un colpo basso, e Percy lo incassò malissimo. – Sei una… una…
– Non farmi troppi complimenti, che poi arrossisco. Vado a preparare la cena, massimo un’ora ed è pronta. A dopo!
E sogghignando trionfalmente corse in cucina, lasciando Percy distrutto sulla poltrona.
 
Che fare? Darla vinta a Audrey e seguirla alla presentazione, dimostrando così di approvare il suo operato, oppure rimanere sulle sue posizioni e sopportare stoicamente una mattina e un pomeriggio in compagnia di quelle bestie selvagge dei suoi adorabili nipoti?
La scelta era meno scontata di quanto sembrasse.
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le inutili note finali:
1) Dio, quanto mi mancavano questi personaggi! Avevo un serio bisogno di rituffarmi in questa atmosfera, non sapete quanto!
2) La Obscurus Books è una casa editrice davvero esistente nel mondo magico: tra gli altri ha pubblicato anche “Gli animali fantastici, dove trovarli”. Fonte (sito in inglese): http://www.hp-lexicon.org/wizworld/places/w_pl_diagon.html#obscurus_books
3) Come dicevo sopra, a lady hawke devo la geniale idea di immaginare Percy in versione “babysitter dei suoi nipoti” per un lungo intero giorno – argomento che costituirà il prossimo capitolo. L’idea di Audrey che inserisce scene osé in un suo libro invece mi viene da una mia personale riflessione che ha seguito lo scoppio del caso “50 sfumature di qualsiasicosa”, ossia: cosa pensano i coniugi/compagni/fidanzati degli scrittori circa le scene “spinte” che questi inseriscono nei loro libri e che talvolta sono ispirate a loro? Alcuni saranno anche contenti e lusingati, ma altri…
… ed ecco, ho dovuto scriverci su una fanfiction. Per vostra sfortuna.
4) Grazie ad Agne per il betaggio superlampo! <3


Bon, note finite. Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare presto, abbiate fede!
Grazie di aver letto, e spero che vi sia piaciuto questo prologo!
Sempre vostra,
Fera
 
 
PS: per chi ha seguito UBL… non siete curiosi di vedere com’è cresciuta Molly? Nel prossimo capitolo la vedrete! ;)




 

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Capitolo 2
*** Le donne di casa ***


Capitolo 2: Le donne di casa
 
 

Certe volte Percy pensava che l’unica a volergli davvero bene, in casa sua, fosse Tip. Era, questa, una giovane gatta dal carattere particolarmente acido e scorbutico, che lui e Audrey avevano accolto quando non era altro che un cosino minuscolo e fradicio di neve abbandonato in un vicolo di Everdeen. Tip, o meglio Santippe – nome affibbiatole da Audrey, che lo reputava in linea con il suo temperamento sgradevole –, aveva mostrato sin da subito un’antipatia invincibile per le tre donne di casa, mentre sembrava portare a Percy un amore immenso, viscerale e assolutamente immotivato.
Quando, quella domenica, Audrey andò a svegliare suo marito, sistemato alla bell’e meglio sul divano di casa, Tip era là che faceva le fusa appoggiata allo stomaco di Percy. Le bastò sentire il passo della sua padrona per alzarsi di scatto, soffiare con ferocia e fuggire via ululando.
– Stupida bestia!
– Buongiorno anche a te… – mugugnò Percy, rigirandosi su un fianco.
– Non dicevo a te, dicevo alla tua gatta.
Audrey osservò suo marito che si alzava a sedere e si strofinava gli occhi con aria mesta. Per un momento – ma solo un momento – si sentì dispiaciuta per lui. Imporgli di badare a tutta la truppa dei loro nipoti era stato uno scherzo davvero crudele, sapendo quanto poco Percy amasse i figli altrui.
D’altra parte, era stato lui a scegliersi quella punizione. Eh. Nessuno lo costringeva a starsene a casa: poteva benissimo ritornare sulle sue posizioni, chiederle scusa e accompagnarla al Ghirigoro.
Sì, pensò Audrey, forse poteva concedergli quell’ultima occasione.
– Percy… – mormorò, chinandosi sul divano. – Sei… sei sicuro di voler restare qui?
L’uomo si voltò verso di lei e le scoccò un’occhiata dura. – Che altra scelta mi dai?
– Posso… chiedere ai tuoi fratelli di portare i bambini alla presentazione, se…
– … se in cambio vengo con te.
Audrey annuì. Percy sembrò tentennare un istante, poi scosse la testa. – Grazie dell’offerta, ma non devi preoccuparti. Starò benissimo qui, a casa, con i miei nipoti – rispose gelido, prima di alzarsi e arrancare verso il bagno.
Audrey lo guardò allontanarsi e sospirò.
Stupido ostinato che non sei altro. Che avrò fatto di male, nella vita, per sopportare un simil-ARGH!
Imprecò più volte e saltellò via, scuotendo la gamba destra: al polpaccio, devastato e sanguinante, era saldamente artigliata la gatta Tip.
 
Non sarebbe stata una buona giornata. Percy ne fu certo a partire dall’istante stesso in cui si alzò in piedi: non fece nemmeno in tempo a muovere un passo che la gamba sinistra si fece sentire, molesta come poche altre volte.
Cavolo.
Che sfortuna. Non aveva voglia di sopportare proprio quel giorno anche il simpatico ricordo che la guerra magica gli aveva lasciato; di solito la gamba gli doleva solo durante un cambiamento atmosferico, ad esempio quando si avvicinava una nevicata, ma… forse, quella volta voleva solo indicargli il pericolo imminente.
Eh. Come se non lo sapessi già. Ma grazie, eh, grazie del tempismo. Uff.
Una volta in bagno, si sciacquò il viso e diede al suo cervello mezzo addormentato il tempo di snebbiarsi.
– Va bene, – si disse poi, guardandosi allo specchio, – non è la fine del mondo. Calma. Sono le otto e venti, tra un paio d’ore i tuoi fratelli porteranno qui i loro simpatici e adorabili figli. Tu li saluterai, li sopporterai, farai fare loro i compiti, preparerai loro il pranzo, poi faranno un sonnellino e a quel punto tu avrai finito. Facile. C’è anche Molly ad aiutarti, lei se la cava con i bambini, quindi tranquillo. Andrà tutto bene.
Era un discorso molto convincente, ma l’immagine riflessa nello specchio non sembrava affatto rassicurata.
Bah. Disfattista.
– Pa’? Hai finito? Mi serve il bagno!
Percy sobbalzò, sorpreso. Di solito Molly si alzava tardissimo l’estate, soprattutto di domenica; forse era colpa di Audrey, sì, doveva essere stata lei a costringere la sua bambina a svegliarsi praticamente all’alba, per prepararla a ciò che l’aspettava quel giorno.
Diabolico essere. Pagherà anche questa, oh, se la pagherà. Ma guarda tu.
– Solo un secondo, Nini – rispose. Si asciugò il viso e zoppicò verso la porta, lasciando campo libero a sua figlia.
 
La sedicenne Molly Weasley si era svegliata, alle otto e un quarto di quel mattino, in preda ad una strana angoscia. Non sapeva come, né perché, ma tutti i suoi sensi la stavano mettendo all’erta contro un pericolo imminente. Sbatté gli occhi, perfettamente sveglia e lucida, e muovendosi con più cautela possibile iniziò a voltare la testa: qualsiasi cosa la stesse minacciando, avrebbe venduto cara la pelle prima di soccombere.
Non le servì girarsi del tutto per rendersi conto della situazione. Accovacciata sulla parte libera del suo cuscino, Santippe la fissava con aria assassina; quando si accorse che la ragazza si stava muovendo, diede in un ringhio basso e soffiò furiosa.
Molly rispose con un ringhio e un soffio molto simili, poi si alzò a sedere e lanciò cuscino e gatta contro la parete opposta.
– Stupida bestia! – esclamò, la voce ancora impastata, guardando Tip fuggire. Si strofinò il viso e annaspò in cerca degli occhiali, indispensabili per poter uscire dalla sua stanza senza ferirsi gravemente contro qualche ostacolo. Accidenti a suo padre e alla sua miopia.
Si trascinò verso il bagno, bramosa di fare la doccia e indossare le lenti a contatto. In condizioni normali, dopo essersi sbarazzata di Tip avrebbe semplicemente ripreso a dormire, ma quel giorno non poteva. Oh no. Quello era il giorno in cui i suoi genitori avrebbero dato fondo a tutta la loro immaturità, e lei non intendeva farsi trovare impreparata.
Da anni, ormai, la giovane Molly aveva rinunciato alla speranza di vedere i suoi comportarsi da adulti. Per un motivo o per l’altro, a turno o contemporaneamente, sua madre e suo padre finivano sempre con l’assumere un contegno al limite dell’infantile quando decidevano di litigare; questo l’aveva portata, spesso, a chiedersi se la sua vita non fosse come quel romanzo Babbano in cui gli adulti diventavano bambini e i bambini adulti, ossia se alla fin fine non fosse lei la vera madre di famiglia e i suoi genitori due mocciosi di quattro anni nei corpi di due quasi-quarantenni.
Nell’impossibilità di verificare questa teoria, Molly Weasley si limitava a sopportarli con pazienza e una vaga rassegnazione.
La porta del bagno era chiusa, come al solito. La ragazza sbuffò e bussò, impaziente.
– Pa’? Hai finito? Mi serve il bagno! – biascicò. Non aveva dubbi in proposito: di sicuro c’era dentro suo padre. A quell’ora, sua madre doveva essere già in cucina a scaricare nervosismo ed eccitazione per l’imminente intervista; inoltre, la voce che blaterava scemenze da dentro il bagno poteva appartenere solamente a Percy.
– Solo un secondo, Nini – fu infatti la risposta. Molly si appoggiò alla parete, in attesa; quando Percy uscì, gli rivolse un saluto poco cordiale.
– ‘giorno – grugnì.
– Ciao. Ti ha svegliata la mamma?
– No, la tua gatta. Se lo fa un’altra volta, la uso come Bolide per la prossima partita.
– Fallo e ti caccio di casa. – Percy le diede un bacio sulla fronte e le sorrise. – Lucy?
Spero stia dormendo. – Molly alzò gli occhi al cielo. – Ieri sera era così emozionata per il fatto che avrebbe rivisto tutti i suoi cugini, che ho temuto di doverla Schiantare per farla star buona.
– Non l’hai fatto, vero?! – chiese subito Percy, preoccupatissimo. – È solo una bambina, le faresti seriamente del male, e…
– Pa’. Ti pare che io possa Schiantare Lucy?
La domanda era accompagnata da un cipiglio tale che Percy si rese immediatamente conto di aver detto una scemenza. – Scusa, – disse, – è che sono nervoso. La gamba… e oggi…
Sembrava il preludio di uno dei suoi lunghissimi, noiosissimi ed inconcludenti monologhi. Molly mantenne la calma e si impose, per l’ennesima volta, di fare l’adulta.
– Vorrei davvero stare ad ascoltarti, pa’, – lo interruppe, con più gentilezza che poté, – ma mi serve il bagno. Ora.
– Giusto, scusa. A dopo – rispose subito l’uomo. Molly attese che si fosse scansato dalla soglia, poi si fiondò dentro e chiuse la porta, sentendosi finalmente al sicuro.
Fiu. Scampata. Per adesso.
 
 
 
– Dunque. – La voce di Audrey tradiva tutta l’ansia che la divorava. Ansia per il suo debutto in pubblico, certo, ma anche per quello che sarebbe potuto succedere alla sua bella casetta una volta che l’avesse lasciata nelle mani dei suoi nipoti.
– Dunque. Le stanze sono tutte in ordine, ma non preoccupatevi: se i bambini vogliono giocare, lasciateli fare. I più grandi avranno i compiti con sé; Hermione ha detto che sarebbe splendido se tu, Percy, aiutassi Rose, sai, la matematica non è il suo forte. Il pranzo è già pronto, dovrete solo scaldarlo, e se vogliono la merenda c’è l’impasto per fare i pancake in dispensa. Non fate nulla che non fareste in mia presenza. È chiaro?
Passò lo sguardo sui suoi familiari, tutti e tre schierati davanti a lei, che la osservavano con espressioni molto diverse tra loro. Molly, in particolare, appariva molto seccata.
– Potresti ripetermi perché devo rimanere anch’io qui? – sbuffò. – A me è piaciuto, il tuo libro!
– Nini, te l’ho già spiegato – le rispose Audrey, paziente. – Tuo padre avrà bisogno di una mano per controllare tutti questi bambini in una volta sola, e tu sei la persona più adatta per aiutarlo.
– Chi è causa del suo mal, pianga se stesso – commentò Molly, ignorando l’occhiataccia che Percy le stava inviando. – Per favore, ma’, non lasciarmi qui! Io…
– Pernille. Ho detto di no.
Molly deglutì e chinò il capo. Quando sua madre la chiamava non col diminutivo ma col secondo nome, ossia “Pernille”, significava che non era ancora arrabbiata ma iniziava ad indisporsi. Il passo successivo consisteva nella parola “Molly”: e allora , che ci sarebbe stato poco da scherzare.
– Io sono contenta di stare a casa con papà e gli altri – dichiarò Lucy, allegra. Aveva compiuto nove anni da pochi giorni, e percepiva la visita dei suoi cugini come una specie di festa in ritardo.
– Ma certo, tesoro, perché tu sei una brava bambina – le disse Percy con un sorriso da orecchio a orecchio. – Invece a tua sorella farebbe bene un mese senza Quidditch, che ne dici?
– Non iniziate a litigare – intervenne Audrey, prima che Molly potesse ribattere. Sospirò e si passò una mano sul viso. – Sentite, non voglio passare il resto della giornata a preoccuparmi per ciò che potreste combinare qui da soli, quindi, vi supplico, fate i bravi. E mi riferisco soprattutto a voi due – indicò Percy e Molly. – Lucy sarà bravissima, lo so.
– Certo, mamma! – cinguettò la bambina. Molly e Percy si scambiarono una strana occhiata tra il complice e l’omicida, poi promisero di comportarsi bene.
– Perfetto. Ora, ragazze, posso parlare un momento da sola con papà?
Non appena le due furono uscite dalla cucina, Audrey si avvicinò a Percy. – Ultima occasione: vieni con me o resti qui?
– Resto.
– Così, senza nemmeno pensarci?
– So pensare molto velocemente.
– Buon per te. – La donna fece un sorrisetto. – Divertiti, mi raccomando. Sono sicura che avrai parecchio da fare: moccio da asciugare, cocci da raccogliere, Caccabombe da evitare…
– Pur di non ascoltarti oggi, questo ed altro.
Il sorrisetto si allargò. – Sai, credo che domani inizierò a stendere il mio secondo romanzo. In fondo, ho ancora tante cose da raccontare… ad esempio, pensavo di ambientare qualche scena particolare al Ministero. Che ne dici? In fondo, di ispirazione ce n’è…
Il risultato che ottenne fu quello sperato: Percy arrossì violentemente e abbassò lo sguardo. – È successo solo una volta… – balbettò.
Tre. La Sezione Riservata dell’Archivio se le ricorda bene.
– Andiamo, perché devi fare così? – Stavolta il suo tono di voce era supplichevole. – Non riesci proprio a capirmi?
No, Percy. Ti capisco sempre, ma stavolta no. Buona giornata.
Gli diede un bacio sulla guancia e scappò via, nascondendo la punta di tristezza che le era salita alla fine di quel dialogo.
 
Non appena la porta si fu chiusa dietro Audrey, Percy sospirò e decise di darsi da fare.
– Benissimo, donne. Abbiamo u-che cosa stai facendo?
– Prendo un libro – rispose Molly, la quale, forte del suo metro e cinquantacinque di altezza, tentava a fatica di raggiungere uno scaffale dell’ampia libreria in salotto. – Mi daresti una mano?
– Ma a che ti serve? Tra poco arriveranno i tuoi zii, e…
Appunto. Avrò pur bisogno di un passatempo, no?
Dopo questa frase ci fu silenzio. – Non ho capito – disse poi Percy, sicuro invece di aver capito benissimo.
– Beh, – Molly si staccò dalla libreria e mosse qualche passo verso il padre, – non pretenderai davvero che io me ne stia tutto il giorno qui ad asciugare moccio, raccogliere cocci ed evitare Caccabombe, no?
Il fatto che Molly avesse ripetuto quasi le stesse parole di Audrey non sorprese Percy, abituato a questa affinità tra madre e figlia; ciò che lo stupì fu la pretesa che la ragazza andava avanzando. Aprì la bocca per rispondere, ma lei si era diretta con passo svelto verso il camino e si era messa a guardare dentro un barattolo poggiato lì vicino.
– Mmm… è quasi finita, ma per oggi dovrebbe bastarmi. Tanto per il ritorno me la presta Ted.
– Di che diavolo parli?!
– Della Metropolvere, pa’. – Molly lo guardò sgranando gli occhi. – Vado a studiare da Ted, oggi pomeriggio.
– Ted chi?
Okay, quella era una domanda idiota, segno che suo padre stava davvero uscendo di testa. Molly sbuffò, spazientita.
– Quanti Ted conosci, papà? Ted Lupin, ovvio! È l’unico della mia classe con quel nome!
– E perché… proprio oggi… ma luglio è appena iniziato, hai quasi due mesi per studiare!
– Padre, ne abbiamo già parlato. Tra due anni Ted e io avremo i M.A.G.O., non possiamo rimanere indietro coi programmi se vogliamo diventare Auror. E poi scusa, dovresti essere contento: dici sempre che non studio abbastanza!
Non era vero: Percy non aveva mai detto una cosa del genere a sua figlia; non l’aveva mai nemmeno pensato, visto che aveva una media dell’Oltre Ogni Previsione, era un Prefetto e un’accanita lettrice come lui. In quel momento, però, Percy non ebbe la prontezza di negare, né di ribattere alcunché di sensato.
– No, – gracchiò invece. – N-no, tu non… tu non puoi abbandonarmi! I-io… No!
– Oh, senti, parliamoci chiaro! – lo aggredì Molly, sbattendo il barattolo di Metropolvere sulla mensola del camino. – Tu sei in punizione, non io. Tu hai accettato di badare ai marmocchi, non io. Tu hai problemi con il libro di mamma, non io.
– Il libro d-aspetta, aspetta un momento! Prima hai detto che ti è piaciuto! Non dirmi che… Non l’avrai mica…?
– Letto? Certo che sì! – La ragazza ghignò, incapace di trattenersi. – Non lo sapevi? La mamma me lo spediva via via che completava i capitoli, per chiedermi pareri circa la forma e lo stile. Un consulto esterno, diciamo.
Quello fu un colpo tremendo per il povero Percy: d’improvviso, né la gamba buona né quella malandata lo sostennero più. Allungò un braccio e si appoggiò alla parete più vicina, sopraffatto. – T-tu… tu…
– Eh, già.
Oh, no. Percy non sapeva immaginare qualcosa di peggio. La sua bambina, la sua piccola Nini… corrotta alla tenera età di sedici anni, e per colpa della sua stessa madre! Che parlava dei suoi rapporti con suo padre, oltretutto!
Bennet mi pagherà anche questa, maledetta arpia. Questo è davvero troppo! Che motivo aveva di mettere Nini in mezzo?!
– Senti, – fece Molly, in tono più mite, – non puoi essere davvero così arrabbiato. Al mondo ci sono miliardi di libri molto peggiori e infinitamente più sporchi di quello che ha scritto la mamma, perché te la prendi così tanto?
Senza staccarsi dalla parete, Percy guardò sua figlia negli occhi. Che le poteva dire? Come faceva a parlarle del senso di vergogna che lo accompagnava come una costante sin da prima che avesse la sua stessa età? Come si spiega, a una ragazza di sedici anni moderna e priva di chiusura mentale, qualcosa che risiede nel più profondo di noi stessi e contro cui si è lottato tutta la vita, uscendo sempre – sempre – sconfitti?
Esatto. Non lo si può fare.
– Sei giovane per capirlo – rispose. Abbassò lo sguardo, si rimise dritto e si schiarì la voce. – Ad ogni modo, oggi non ti muoverai da casa, a prescindere dal motivo.
– Ma…
– No, Nini. Ho bisogno di te. Per favore.
Molly non colse la sfumatura nascosta in quella frase; dimenticò di fingersi adulta di fronte alla stupidità del genitore e reagì come avrebbe reagito qualunque altro adolescente nella stessa situazione: scoccò un’occhiata furibonda a suo padre e se ne andò via, mettendo nei suoi passi tutto l’impeto che la sua corporatura minuta le consentiva.
Percy non fece una piega mentre la ragazza scappava in camera sua, ma quando fu fuori dalla portata del suo sguardo crollò le spalle e sospirò triste.
– Godric, che ho fatto di male… – mormorò, mentre si passava una mano sul viso.
Sentì qualcosa di tiepido afferrargli l’altra mano e stringerla. – Tranquillo, papà. Ci sono io – gli disse Lucy sorridendo, gli occhioni azzurri pieni di affetto e le dita intrecciate alle sue.
Percy la guardò con stupore, poi le sorrise, commosso. – Sì, piccola mia. Lo so.
Lo so.
In quella, qualcuno bussò alla porta.
 
 
 












Le sciocche note d'autrice:
Salve salvino! Lo ammetto, il capitolo non è come lo avevo immaginato all'inizio. Nel mio piano originario, a quest'ora saremmo dovuti già entrare nel vivo dell'azione; solo che, mentre scrivevo, ho preso gusto a parlare solo di questi personaggi e del modo in cui si stanno preparando a questa giornata "particolare". Per cui, eccovi un inutilissimo e deludentissimo capitolo di "transizione", che però ha il pregio di iniziare a illustrarvi i Weasley-Bennet in tutto il loro splendore.
Notine varie:

1) Sento il bisogno di chiarirlo, perché ho la seria paura di essere stata fraintesa: Audrey non ha scritto la versione magica delle "50 sfumature di coseacaso". No. Il suo è un romanzo normale in cui ci sono scene un po' più dettagliate, e basta. Nessuno dei miei personaggi sarebbe in grado di ri produrre una COSA come le 50 sfumature.
2) Il paese in cui abitano i nostri amici si chiama Everdeen. Esso, ovviamente, non esiste - o almeno, non lo troverete sulle mappe Babbane, trattandosi di un villaggio magico sullo stampo di Hogsmeade (maggiori dettagli nei prossimi capitoli... credo). Il nome, ebbene sì, è un omaggio a "Hunger Games", la cui protagonista fa di cognome Everdeen; quando ho dovuto pensare a un nome per questo paese mi è venuto subito in mente questo, sia perché sono molto legata a quella saga, sia perché mi sembrava un buon nome per un paese (richiama un po' nomi esistenti come Aberdeen, ad esempio). 
Niente, volevo chiarire nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo. ^^
3) Santippe, personaggio storico che dà il nome alla bizzosa gatta dei Weasley, era la moglie del filosofo Socrate, divenuta proverbialmente nota per la sua acidità e la sua antipatia. Se suo marito le desse o meno dei validi motivi per comportarsi così, è questione che preferisco lasciare agli storici.
4) Il romanzo Babbano cui fa riferimento Molly è "Monsieurs les enfants" ("Signori bambini") di Daniel Pennac. Ve lo consiglio, a me è piaciuto tantissimo!
5) Lo ammetto, non so assolutamente se esista un corrispettivo inglese di "Chi è causa del suo mal pianga se stesso". Non lo so. E per questo ho avuto una gran paura a mettere questo proverbio italiano in bocca a Molly. Spero mi perdonerete un'eventuale forzatura nell'ambientazione, ché è stata fatta in buona fede.

6) Tutti, TUTTI dovete leggere questa storia, perché è una Percy/Audrey e perché è tenerissima e perché l'autrice è adoraBBile.
Andate qua: Earth & Clouds




Bene, miei cari. Attendo i vostri fangherleggiamenti, i vostri insulti e le vostre aspre critiche. Se volete lanciarmi verdure, vi chiedo solo di non inviarmi cicoria, che (nonostante le mie origini) non riesco a sopportarla.
Al prossimo capitolo, dove - stavolta per davvero - inizierà il peggio.
Grazie di aver letto, e a presto!

Fera

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Capitolo 3
*** Tra le nove e cinquanta e le dieci e venti ***


 
Capitolo 3: Tra le nove e cinquanta e le dieci e venti
 
 
 
Convincere i Weasley ad affidare i propri figli a Percy non era stato affatto semplice come può sembrare. Audrey aveva dovuto sfoggiare tutte le proprie capacità di persuasione per vincere le resistenze di alcuni di loro, in particolare dei più giovani, convinti – e non a torto – che il vecchio Perce fosse la persona meno adatta al mondo in assoluto a tener dietro a dei poveri bambini innocenti.
Alla fine, però, e con un piccolo aiuto da parte della signora Weasley (la prima), tutti avevano acconsentito a che “zio Percy” si accollasse quel compito, perché, come aveva detto saggiamente l’anziana donna, “è ora che inizi a dimostrare un po’ di maturità”.
– Va bene, ma perché deve dimostrarla a spese dei miei figli? – si lagnò Ron, quella domenica mattina.
– Ron, Percy non è mica l’orco delle fiabe. Al massimo – asserì Hermione, mentre aiutava Hugo a infilarsi la maglietta, – li farà stare seduti a disegnare.
– Non voglio disegnare – sbuffò Hugo emergendo a fatica dalla maglietta, il faccino improvvisamente imbronciato.
– E allora non disegnerai. – Hermione sorrise e gli diede un buffetto su una guancia. – Rosie, sei pronta?
– Sì, mamma. – La bambina si affacciò alla stanza di suo fratello. – Però nemmeno io voglio disegnare.
– Tu dovrai fare i compiti di matematica, signorina. Hai preso i libri, sì?
L’accenno all’odiata materia bastò per far immusonire anche Rose. – Ma mamma, devo proprio? La scuola ricomincerà a settembre! – piagnucolò. – E poi a Hogwarts non si studia matematica, a che mi serve impararla adesso?
– Rose, ubbidisci a tua madre. I compiti vanno fatti, a prescindere dalla loro utilità. Vai a prendere i libri, marsh!
L’intervento di Ron, per quanto pronunciato con tono affettuoso, bastò a far rientrare la piccola ribellione di Rose: la ragazzina chinò la testa e tornò in camera sua, trascinando i piedi in segno di scontento.
Hermione attese che se ne fosse andata, poi guardò suo marito e ridacchiò. – "A prescindere dalla loro utilità?"
Ron alzò le spalle. – Che ti devo dire… In tanti anni che vivo con te, potrei aver imparato qualcosa.
– Allora, impara anche a dare il buon esempio: sei ancora in pigiama, e ho detto a Audrey che saremmo arrivati presto al Ghirigoro. Datti una mossa!
Non aspettandosi quell’attacco, l’uomo tentò di impietosire Hermione con un ultimo, patetico sguardo pieno di afflizione, ma ovviamente non ci riuscì.
– E va bene, – borbottò. – Andiamo a portare i miei figli da zio Percy. Spero solo che non dovremo pentircene…
E se ne andò in camera, le spalle curve, trascinando i piedi come Rose.
 
 
In un’altra città, in un’altra casa Weasley, i preparativi erano di tipo completamente diverso.
– Moglie! Cosa stai facendo?!
La domanda era stata praticamente urlata nell’orecchio della povera donna, ma costei era troppo abituata a sorprese del genere per esserne turbata. Si limitò a rigirarsi dall’altra parte, ad avvolgersi di più nelle lenzuola e a borbottare una frase che doveva essere “È domenica mattina, lasciami in pace”, ma che risuonò come un insieme di rantoli confusi.
– Questo è pazzesco! – seguitò a dire l’uomo che aveva urlato poco prima. – Oggi è una giornata quasi storica… e lei dorme! DORME! Parola mia, donna, tu non sei mia moglie: sei solo una sua copia più carina e meno vestita.
– George, piantala. Ho capito – bofonchiò lei contro il cuscino. Con un sonoro sbadiglio si tirò su e si strofinò il viso. – Che succede?
– Come, che succede? Non ricordi che giorno è oggi?
A quelle parole, Angelina Weasley spalancò gli occhi. – Oh, cavolo…
Esatto.  
Suo marito George, autore di quella sveglia inopportuna, era in piedi accanto al letto, vestito di tutto punto e con la sua miglior espressione di disapprovazione in volto. – Non posso credere – seguitò, – che tu sia in grado di dormire fino alle nove e cinquanta sapendo cosa accadrà oggi, davvero non posso…
Le nove e cinquanta?!
George annuì severo, e si sarebbe lanciato subito in una finta filippica sullo stampo di quelle di Percy, se Angelina gliene avesse dato il tempo: questa invece scattò in piedi e corse in bagno, da cui uscì nemmeno un minuto dopo già lavata, pettinata e persino… truccata? Sì, truccata.
– Merlino Merlino Merlino è tardi! – strillò Angelina. – Dobbiamo essere a Diagon Alley per le dieci e un quarto! Devo preparare la colazione! Vestire i bambini! Svegliarli! È tardi!
Nel dir ciò si era lanciata a capofitto verso le scale, diretta alla cameretta dei bambini. Sembrava un uccello impazzito, notò George; di questo passo avrebbe cercato di uscire dalla finestra frantumando i vetri a testate.
Dovrei proprio fermarla, poveretta. Sì sì. Tra un po’.
– Geooooooorge!
Okay, forse era meglio che quel tra un po’ diventasse subito: sette “o” in “George” indicavano che la situazione era ben grave.
– Arrivo, tesoro! – Si Smaterializzò, per apparire nella stanza di Freddie e Roxanne. – Che cosa c’è?
Fece uno sforzo disumano per trattenersi: Angelina era in piedi al centro della stanza e guardava alternatamente i due lettini, vuoti e rifatti.
– G-george… i bambini! Sono scomparsi!
– Cosa? Dici sul serio?
Il suo tono di voce, in un altro momento, lo avrebbe tradito, ma Angelina era troppo scossa per riuscire a sospettare qualcosa. Si voltò invece a guardarlo, gli occhi pieni di confusione e spavento. – Certo che dico sul serio! Qui non ci sono! Oh cielo, George, che ho fatto? Se solo mi fossi svegliata in tempo! Dobbiamo trovarli! Dobbiamo…
Si interruppe, interdetta. Di fronte a lei, suo marito si stava letteralmente accartocciando su se stesso, in preda a spasmi incontrollabili. Il che significava solo una cosa: se la stava facendo sotto dal ridere.
Il panico scemò, lasciando finalmente il posto alla consueta lucidità. – George, – disse, mettendosi le mani sui fianchi, – che cosa hai combinato, stavolta?
L’uomo impiegò qualche secondo a calmarsi. Alla fine, però, riuscì a parlare. – N-niente, amore – rispose, asciugandosi una lacrima.
– Amore un corno. Allora? Dove sono i miei bambini?
Uffa, mi sono fatto sgamare troppo facilmente. Sto invecchiando.
– Va tutto bene, ti dico. Seguimi e vedrai.
Prese la moglie per mano e l’accompagnò in cucina, dove, educatamente seduti al tavolo, Freddie e Roxanne mangiavano placidi le loro tazze di latte e cereali. Erano già stati lavati e vestiti, e i loro zainetti erano pieni dei giocattoli considerati indispensabili per l’avventura che li attendeva.
– Oggi è un giorno speciale, – mormorò George, osservando Angelina sorridere rassicurata. – I miei cuccioli dovranno far uscire di testa lo zio Percy, e non posso permettere che arrivino in ritardo neanche di un minuto.
Angelina sbuffò, divertita. – Va bene, – ridacchiò, – ma era proprio necessario farmi quasi prendere un infarto?
– Certo! – rispose George con finto sussiego. – Come posso dare loro il buon esempio, altrimenti?
La donna non rispose; si limitò a scuotere la testa in segno di rassegnazione. – Sei pessimo, – commentò, prima di correre ad abbracciare i suoi bambini.
 
 
 
– Sono già arrivati? – domandò Lucy, fissando la porta con curiosità.
Percy consultò l’orologio. – Non credo, sono solo le nove e cinquanta. Forse la mamma ha dimenticato qualcosa…
… o forse sono davvero arrivati in anticipo. Oh no. Oh no no no. Per favore, no.
Strinse la mano di Lucy e si avvicinò all’uscio. – Coraggio, – si disse, – non è la fine del mondo.
– Che cosa, papà?
– Nulla.
Non poteva mostrarsi insicuro di fronte a sua figlia. Con un gesto rapido e deciso, aprì la porta.
Fu come se un uragano, un tornado e un terremoto si fossero incontrati lì per caso e avessero deciso di festeggiare la rimpatriata invadendo la casa più vicina – ossia quella di Percy. Il pover’uomo fu travolto da un’onda d’urto che, nell’ordine, lo spinse indietro di due metri, gli scompigliò i capelli e gli strappò Lucy di mano.
– Tesoro di nonna! Fatti abbracciare! – gongolò l’onda d’urto, la quale – ora Percy riusciva a vederla bene – assomigliava in maniera impressionante alla signora Molly Weasley. Questa teneva tra le braccia Lucy e la sommergeva di baci, cui la piccola rispondeva entusiasta.
– Ehilà! – salutò Arthur Weasley, varcando la soglia subito dopo. Si muoveva a fatica, ingombrato da pacchi, pacchetti e strani involti di cui Percy non era sicuro di voler conoscere il contenuto.
– Scusaci se non abbiamo avvisato, – continuò Arthur, – ma tua madre ci teneva a passare, sai com’è… Potresti aiutarmi, per favore?
Percy si riscosse e andò incontro a suo padre, togliendogli i pacchi dalle mani. Nel frattempo, richiamata dalle voci, anche Molly (la giovane) era corsa all’ingresso e stava salutando i nonni con gioia.
– Restate qui anche voi? – domandò Lucy speranzosa. Sua nonna le sorrise, ma scosse la testa.
– No, passerotto. Siamo venuti solo per portarvi il pranzo.
Per poco i pacchi non caddero di mano a Percy. – Il… pranzo? – balbettò. – Ma… non dovevi, ci ha già pensato Audrey…
– Oh, figuriamoci – ribatté la donna. – Non sa regolarsi con le quantità, di sicuro ha preparato meno del necessario.
La mente di Percy corse alla cucina, dove giacevano almeno quattro teglie di lasagne (ricetta a cura di Magda Bennet), diversi Leberkäse (souvenir di Ingeborg Bennet dall’ultimo viaggio in Baviera), parecchi cespi di insalata già pronta da condire e, ultimo ma non meno importante, un numero compreso tra il venti e l’infinito di biscotti al cioccolato. E l’impasto per i pancake da preparare a merenda.
Decisamente Audrey non sapeva regolarsi con le quantità, ma in senso contrario a quello che voleva insinuare la signora Weasley.
– Mamma, grazie, ma non serviva… – iniziò a dire Percy, ma capì subito che non ci sarebbe stato verso di fermare sua madre. Nei successivi due minuti la signora Weasley non ascoltò nulla e nessuno, perché troppo intenta a distribuire abbracci e raccomandazioni alle adorate nipotine che non vedeva dalla bellezza di tre giorni. Dopodiché, seguita dal marito, imboccò di nuovo la porta e scomparve in fretta.
La quiete calò all’improvviso nella stanza, disturbata solo dal pigro ronzio di un moscone ritrovatosi per caso tra il tornado e l’uragano. Lucy guardò prima suo padre, poi sua sorella, infine tirò un grosso sospiro. – La nonna è tanto cara, – dichiarò con fare solenne, – ma quando esagera, esagera.
Quella piccola perla di saggezza, pronunciata da un esserino che sapeva risultare adorabile a chiunque, ebbe il curioso effetto di distendere gli animi dei presenti: Molly e Percy dimenticarono l’astio di poco prima e si scambiarono un sorriso intenerito, e persino Tip, che si era nascosta sotto il divano, osò mettere il muso fuori con fare relativamente poco ostile.
In quel momento, Percy si sentì d’un tratto pieno di fiducia e buoni propositi; guardò Molly chinarsi su Lucy per stamparle un bacio sulla guancia e pensò che era da tanto che non passava un’intera giornata con entrambe le sue figlie, e che forse non sarebbe andata poi così male. Anzi, pensò, a conti fatti nulla poteva andare male finché aveva loro accanto.
Già. Nulla può andare male, finché ho Lucy e Molly.
Era così preso da quell’atmosfera di pace e serenità che invadeva la stanza, che per un istante fu tentato di dire quella frase ad alta voce e spazzare via sedici anni di paternità inflessibile e severa (o almeno, così la reputava lui); e l’avrebbe fatto, se in quello stesso istante non si fosse accesa una fiamma verde nel camino.
… cosa?! È già ora?!
Ebbene sì: le lancette dell’orologio, implacabili e beffarde, segnavano le dieci spaccate. Anche Tip parve accorgersene, e soffiando tornò a rintanarsi sotto il divano, mentre il moscone sbatacchiò più volte contro la finestra più vicina finché non riuscì a scappare via. A Percy sarebbe tanto piaciuto seguire il suo esempio – tranne che per la parte degli sbatacchiamenti, ovvio.
D’un tratto i pacchi tra le sue braccia si fecero incredibilmente pesanti; contemporaneamente, la gamba sinistra tornò a farsi sentire con prepotenza. È davvero ora.
– Pensaci tu, – borbottò rivolto a Molly, lanciandole un’occhiata eloquente. – Io vado a sistemare questa roba.
E si dileguò in cucina.
 
 
Diversamente da quanto si potrebbe pensare, quella dei Weasley non era una famiglia del tutto unita. Certo, i fratelli mantenevano degli ottimi rapporti tra di loro, e così i loro figli; ogni volta che uno aveva bisogno degli altri, l’aiuto richiesto arrivava immediatamente. E i nonni Weasley erano sempre felicissimi di ospitare qualunque dei nipoti per qualsiasi ragione e per tutto il tempo necessario, specie d’estate quando, volendo, potevano accoglierli tutti insieme.
Però… non erano uniti, ecco. Tanto per dirne una, era assai difficile che si trovassero tutti quanti radunati per più di una volta al mese, eccetto occasioni particolari o feste comandate. Si poteva dire che i nipoti di Arthur e Molly fossero cresciuti assieme? Sì, se per “crescere” si intende “incontrarsi a qualche compleanno, a qualche pranzo o per una settimana in estate e approfittare dell’occasione per giocare a dar fuoco agli gnomi in giardino”.
Il motivo di ciò si spiega facilmente: dopo la guerra e i numerosi matrimoni ad essa seguiti, i Weasley erano diventati decisamente troppi per potersi permettere molte adunanze collettive; a ciò si aggiungevano i naturali impegni lavorativi o con le famiglie delle diverse signore Weasley, che contribuivano a rendere ben difficili le rimpatriate globali.
Tutto ciò serve a spiegare come mai, a conti fatti, Percy non conoscesse poi così bene i suoi nipoti. Sapeva ciò che c’era da sapere, come i nomi, i compleanni, le età e qualche dettaglio circa i rispettivi caratteri, ma a parte quello non sarebbe stato in grado di dire granché su di loro.
Di Dominique e Victoire – tredici e quattordici anni – sapeva che erano diligenti e studiose, ma la fonte di quella informazione, ossia Molly, era tutt’altro che affidabile in proposito; in quel momento poi sembravano tutto tranne che diligenti, vista la lunghezza (o meglio, la non-lunghezza) dei loro vestiti. Poco distante da loro, a due passi dal camino, il decenne Louis – piccola copia di Bill con innestati i capelli di mamma Fleur – aveva già raggiunto il suo abituale compagno di disastri, ossia James. Sì, disastri: era ancora vivo in Percy il ricordo dell’ultimo Natale passato alla Tana, un Natale che né lui né il povero Ghoul della soffitta avrebbero mai dimenticato…
Albus e Rose, otto anni, fissavano affascinati la discreta libreria del salotto – la bambina doveva esserci abituata, pensò Percy, ma di sicuro in casa di Ginny e Harry Potter non circolavano molti volumi. Non si sarebbe stupito se anche il placido Albus, prima o poi, fosse diventato un teppista al pari dei suoi predecessori.
Freddie, un anno più giovane di loro, stava usando la mano sinistra per stringere quella della sua sorellina più piccola, e la destra per sistemare una faccenda importante all’interno di una narice, una faccenda che pareva assorbirlo molto a fondo e che doveva richiedere uno sforzo di concentrazione non indifferente.
Infine, defilati in un angolo, Lily e Hugo osservavano gli altri con timore, come se si sentissero in difficoltà per il fatto di essere due dei più piccoli.
Nessuno di loro badava a Percy, probabilmente perché quel poco che ricordavano su di lui era condito da un’intensa aura di tedio. Non era forse quello, lo zio che li sgridava non appena combinavano qualche marachella, anche minima? E non era sempre lui quello che prima si offriva di aiutarli a fare i compiti, e poi finiva col raccontare storie noiose su quanto fosse bravo a scuola e quanto i professori fossero severi ai suoi tempi?
E non era sempre lui che…
– Ahem. Buongiorno, ragazzi.
Tutti si voltarono. Zio Percy era in piedi davanti a loro e li osservava con un’espressione tra il serio e l’ansioso. I più grandi risposero al saluto, i più piccoli si limitarono a guardarlo a loro volta. Roxanne, quattro anni, gli guardò i piedi e fece un gran sorriso.
– Ti piace il rosa! – trillò entusiasta.
Percy alzò gli occhi al cielo e si rifiutò di commentare. Quelle pantofole erano comode e funzionali al punto giusto, e soprattutto erano un regalo di Lucy: va bene, il color salmone le rendeva leggermente appariscenti, ma lui non intendeva comunque liberarsene solo perché andavano contro il comune senso dell’estetica.
– Dunque, – riprese, come se nulla fosse, – oggi i vostri…
– È vero, zio? Ti piace il rosa? – chiese James.
– Non è rosa, Jimmy: è salmone – puntualizzò Lucy, in piedi accanto a lui. James aveva solo qualche mese più di lei, per cui la bambina si sentiva in diritto di considerarlo il suo cugino preferito e quindi di battibeccare con lui ogni volta che voleva.
– Va bene, Lu, ma sembra rosa. Non ti pare?
– A mio papà non piace il rosa, quindi se porta quelle pantofole significa che non sono rosa.
– Ha ragione Lucy, – intervenne Lily, la quale arrossì subito dopo aver parlato.
A quel punto Percy avrebbe voluto riprendere il suo discorso e fermare quelle chiacchiere infantili, che già iniziavano a urtarlo; ormai però era troppo tardi: l’affermazione di Lily aveva dato il via a una discussione cui quasi tutti i ragazzi vollero prendere parte.
– Ma il salmone non è un pesce?
– È anche un colore.
– I pesci sono grigi, se sono color salmone quelle ciabatte dovrebbero essere grigie.
– Ma no, deficiente, il salmone è rosa!
– Il salmone è salmone, Jimmy.
– Deficiente a chi?
– A me piace il rosa!
– Anche a me!
– Deficiente a te, deficiente!
Allibito, Percy assistette alla degenerazione di quel semplice dialogo senza sapere come fermarla: James e Albus stavano per venire alle mani, incitati da tutti gli altri in un tripudio di confusione e strilli; Victoire e Dominique mostravano tutta la loro superiorità dando le spalle ai piccoli e chiacchierando fittamente con Molly, l’unica con cui sembrassero interessate a intrattenere rapporti. Infine, nello stesso punto in cui si trovava all’inizio, Freddie sembrava esser venuto a capo dell’annosa questione che lo aveva tenuto impegnato fino a quel momento: il risultato, però, sembrava molto più appiccicoso del previsto, e il bambino non sapeva proprio che farsene.
– Vuoi le botte? Le vuoi?
– Vuoi che dico a tutti che ti fai la pipì a letto? Lo vuoi?
– Va bene, adesso basta!
I due giovani Potter si erano già messi le mani al collo, quando la voce improvvisamente stentorea dello zio li richiamò all’ordine. Come se nulla fosse, si lasciarono e si rimisero in ordine i vestiti.
– Molto bene. Dicevo. Oggi i vostri genitori avranno da fare fino alle cinque del pomeriggio, quindi…
Le cinque? – Rose sgranò gli occhi. – Mamma mi aveva detto fino alle tre!
Percy la guardò perplesso. – Beh, forse si è sbagliata…
– Mia mamma non sbaglia mai – replicò la bambina, rigida.
– La mia ha detto che venivano a riprenderci stasera. Ma le cinque non sono stasera – fece Louis pensoso.
– Papà ha detto che potevamo anche restare qui per sempre – concluse Freddie.
… e certo, ci mancherebbe solo questo. Accidenti.
– In ogni caso, – riprese Percy, – sarà un lungo tempo da passare insieme, quindi…
– Oh no! – gemette Rose. – Dovrò fare matematica fino alle cinque!
– Matematica? Che sfiga!
– Jimmy, non dire quella parola. Non mi piace.
– Scusa, Lu.
– Insomma! Mi fate parlare o no?!
Tutti si zittirono di nuovo, ma non sarebbe durata ancora a lungo. – Quello che voglio dirvi è: comportatevi bene e non ci saranno problemi di nessun tipo. Chiaro?
Squadrò i ragazzi uno per uno finché non annuirono tutti. – Freddie, hai capito anche tu?
Freddie annuì distrattamente, concentrato più su ciò che teneva tra le dita che su quanto gli accadeva attorno. Non solo era appiccicoso, ma anche piuttosto schifoso; doveva liberarsene alla svelta.
Dopo qualche istante di riflessione, il bambino non trovò di meglio che passare le dita su una povera sedia innocente lì accanto; subito dopo guardò Percy e sorrise soddisfatto.
– Capito, zio! Saremo bravi! – disse, e come se nulla fosse tornò a dare la mano a Roxanne.
 
 
 
No. Dai, riprenditi. Non puoi sfiorare l’isteria ad ogni difficoltà. Avanti! Che ti succede? Esci da questo bagno e fai il tuo dovere, per Circe!
Niente: il riflesso nello specchio era più testardo di un mulo. Percy cercava da due buoni minuti di convincerlo a comportarsi da uomo e a non frignare come una mammoletta, ma quello non voleva proprio saperne e seguitava a scuotere il capo, esasperato.
Dannazione.
L’uomo sapeva, sapeva di star esagerando, lo sapeva benissimo. Non era successo nulla di grave, solo un po’ di confusione e… e del moccio sulla sua sedia. Nulla, paragonato a ciò che aveva vissuto anni prima, alla guerra e a tutto il resto; perché doveva avere una crisi di nervi per quello?
Sapeva di star esagerando, lo sapeva. Tuttavia, non poteva fare altrimenti.
Era più forte di lui, lo era sempre stato: quelli che a chiunque sarebbero apparsi come dei comportamenti più che normali per dei bambini e delle adolescenti – mettersi le dita nel naso, litigare per delle sciocchezze, indossare minigonne – a Percy sembravano solo delle espressioni di incommensurabile volgarità e grettezza, tutte cose che odiava vedere negli altri esseri umani a prescindere dall’età. Per questo detestava occuparsi dei suoi nipoti, e per questo la punizione di Audrey era terribilmente perfetta.
Ma non cederò. Non devo. Non posso. In fondo cosa sarà mai qualche ora? Posso resistere senza problemi fino a oggi pomeriggio, d’altronde sono già le…

… che caz-eh no, eh! Non diciamo scemenze! Stupido orologio!
Il povero orologio, in realtà, era solo colpevole di svolgere troppo bene il suo lavoro: le sue lancette segnavano le dieci e venti esatte, non un minuto di più.
Percy gemette, appoggiando la fronte sullo specchio. Dieci e venti. Era passata meno di mezz’ora da quando i giovani Weasley e Potter erano entrati in casa sua; meno di mezz’ora, e già era stanco marcio dei loro bisticci e della loro sporcizia. E delle loro voci. E dei loro respiri.
Scrollò il capo e si riprese: con insolita decisione, tentò ancora di convincere il proprio riflesso che poteva tenere a bada un branco di ragazzini, accidenti, era o non era in pratica il vice-Ministro della Magia? Aveva avuto a che fare coi Mangiamorte, cosa voleva che fossero dodici – si asciugò una goccia di sudore – bambini in confronto? E in ogni caso era meglio se tornava di là a controllarli invece di restare lì a parlare con se stesso, perché okay, lui poteva non sopportare la loro presenza, ma lasciarli da soli era un rischio, un grossissimo rischio, chissà cosa avrebbero potuto combinare se non fosse tornato, avanti, doveva assolutamente uscire da quel bagno e…
CRASH!
 
Ecco, appunto.
 
 
 
 










 

 
 







Rieccomi! Vi sono mancata? No? Fa niente, voi mi siete mancati ^^
Speravo di mantenere un ritmo più sostenuto con questa storia, ma ho tante cose da fare e soprattutto mi piace troppo occuparmi di questa ff, per cui credo che le cose dureranno ancora per un po’.
(Anche perché sto finalmente prendendo l’abitudine di non fare capitoli più lunghi di cinque pagine Word. I poveretti che hanno seguito UBL sanno che ho una tendenza alla grafomania assurda, e che per me il nirvana sono 12 pagine, ma… insomma, meglio di no.)
 
Le (in)evitabili note:
1) “Parola mia, donna”: l’avete riconosciuta? Ma certo! È una citazione dal primo libro, esattamente da pagina 90 della prima edizione: troviamo queste stesse parole rivolte a Molly da Fred, quando lui le fa credere di essere George e si finge indignato per il mancato riconoscimento.
… in effetti, se non sbaglio di grosso quella è la primissima battuta di Fred nella saga.
… *il DOLORE.*
2) Leberkäse: http://it.wikipedia.org/wiki/Leberk%C3%A4se
Onestamente non ho idea se sia buono o no. Però mi serviva una ricetta bavarese (ogni scusa è buona per nominare Inge!) e questo mi sembrava un piatto piuttosto appetibile per dei bambini. Credo.
3) La “mia” famiglia Weasley non è unitissima? No. E ve lo spiego subito: non trovo credibile che quella marea di persone sia sempre “tutti-insieme-appassionatamente”; reputo molto più probabile che, a seguito dell’accumularsi di impegni eccetera, non si incontrassero tutti quanti più spesso di quanto ho detto.
Ma è una mia idea, eh. Magari in realtà non è così.
4) La cronologia delle nascite è una mia invenzione, chiaramente: ho tenuto fermi i punti “canon” (Victoire, i figli di Harry) e ho sparpagliato gli altri bimbi a buffo.
Per chi non avesse letto UBL/non lo avesse capito, nel Feraverse la più grande non è Victoire ma Molly. Ehm.
5) “Vuoi che dico a tutti che…” e altre frasi: sì, lo so, sono vagamente sgrammaticate, ma solo perché pronunciate da dei bambini.
6) La – ehm – escavazione di Freddie è un’auto-citazione da un’altra mia fanfiction, solo che qui la questione è descritta in maniera meno disgustosa, o almeno credo.
7) Per le ciabatte color salmone di Percy, devo mio malgrado ringraziare MedusaNoir, visto che quell'idea l'ha avuta lei. Grazie, sorella. *limona*
8) … non so, come capitolo mi sembra un po’ moscio. Ad ogni modo, spero vi sia piaciuto almeno un pochino, in caso contrario sono qui pronta a ricevere insulti e frutta marcia. ^^
 
Grazie di aver letto!
Sempre vostra
Fera

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