Il mentalista.

di itsjudsie
(/viewuser.php?uid=151708)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. I fantasmi del passato tornano sempre. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. Vecchi ricordi. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. La verità. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. I mali ritornano. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Il piano. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. The end. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. I fantasmi del passato tornano sempre. ***


Capitolo 1.
I fantasmi del passato tornano sempre.

 

«Pronto?»
Silenzio…
 
«Pronto, Lisbon? Che succede?»
Ancora silenzio…
 
«Dai, che non ho voglia di giocare…»
 
«Pronto, Jane.” Questa non era la voce di Lisbon.
Era maschile, calda e profonda, e percepivo del piacere nelle sue parole.
 
Sobbalzai, non me l’aspettavo.
No, in realtà forse sì. Non era da Lisbon chiamarmi e non rispondere, per forza c’era sotto qualcosa.
E quel ‘qualcosa’ non mi piaceva.
 
«Forse tu non hai molta voglia di giocare, ma io sì.»
 
«Chi sei?»Ma che m’importava? Quello che volevo sapere era solo il ‘perché’.
 
«È ancora presto per tutta questa confidenza, signor Jane. L’unica cosa che posso dirti è che i fantasmi del passato tornano sempre.»

 
 


Note: mini,mini,mini,mini inizio.

Se avete già letto qualche mia storia, sapete che mi piace scrivere capitoli corti ;)
Però vi assicuro che i prossimi saranno più lunghi, questo serviva solo per iniziare, era l’antipasto insomma.
 
Mi scuso già adesso se non aggiornerò regolarmente,
ma è che questa è solo una distrazione, prima devo pensare a tutto il resto.
 
Comunque, grazie di aver perso 2 minuti della vostra giornata leggendo questo,
e vi chiedo se potete perderne un altro per recensire.
 
Un bacio.
    

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2. Vecchi ricordi. ***


Capitolo 2. Vecchi ricordi.


«John!» Stentavo a crederci.

«Ma che bravo, Patrick. Devi volermi così tanto bene, da riconoscermi perfino in queste circostanze..»

«Ti prego, lascia andare Theresa..» Si stava perdendo in chiacchiere, questa cosa non mi piaceva.

«Cos’è tutta questa fretta, Patrick? Sei giovane, devi vivere la tua vita con calma.»

«Dove ti trovi? Vengo a prenderti.» Semplice. Diretto. Dovevo saperlo.

«Eh no, non così in fretta. Dimentichi forse chi sono? Caro mio, ogni cosa ha il suo tempo. Tanto so che mi troverai, soprattutto perché si parla della vita della tua fidanzata.»

Click.
Riagganciò, e mi sentii più solo che mai.
 
Guardai l’orologio, erano le 3:00 di mattina.
Al momento al Cbi non c’era nessuno, avrei dovuto aspettare l’alba. Cosa avrei fatto nel frattempo non lo sapevo, ma dopotutto ero un mentalista, qualcosa da fare l’avrei trovato.
Andai alla scrivania e aprii il cassetto, tirando fuori le foto che avevo scattato durante i vari casi al marchio di John il Rosso.
Una parete, il muro esterno di una scuola, il muretto di un cancello, casa mia. Mi sentii gli occhi gonfi e la testa cominciò a pulsarmi lievemente.
Forse non ero pronto.
Oh, al diavolo, sono Patrick Jane. Non c’è cosa al mondo per la quale non sia pronto.
Ma questo faceva male.
Prima la mia famiglia, ora Theresa. Non poteva uccidere me? Avrei sofferto di meno.
Strisciai indietro la sedia sulla quale ero seduto e mi alzai. Con lo sguardo fisso sulle foto mi avvicinai al letto e mi distesi.
Non riuscivo a smettere di guardare ciò che avevo in mano. Era troppo forte.
Le mie guancie cominciarono a rigarsi e diventarono calde.
Cominciai a piangere, e bagnai il cuscino su cui ero poggiato. Le lacrime uscivano senza fermarsi, cominciai a piangere per Theresa, ma poi mi trovai a pensare a tutta la mia vita.
Tutti gli sbagli commessi, tutti gli errori, tutti gli errori, le fatiche, le difficoltà, John.
Mia moglie, mia figlia.
Era un continuo singhiozzare. Mi faceva malissimo la testa, non sarei resistito ancora per molto.
Ritornai alla scrivania ma questa volta aprii un cassetto nascosto, più in basso. Dentro c’era la bottiglia di Alchol di Lisbon.
Mi meravigliai del fatto che l’oggetto che più mi ricordava lei in quel momento sarebbe anche stato il mio unico aiuto per dimenticarla, anche se solo per un istante.
Con calma aprii il tappo e mi sedetti per terra, appoggiandomi con la schiena alla scrivania. Guardai il contenuto della bottiglia e chiusi gli occhi.
Piano, inclinai la testa all’indietro, fino a toccare il legno.
Sempre con gli occhi chiusi, alzai il braccio che stringeva la bottiglia, e li aprii. Avevo la mano che tremava, e il poco liquido all’interno andava da tutte le parti.
Con un impeto di rabbia abbassai il braccio così velocemente ch quando la bottiglia toccò terra, si ruppe in mille pezzi, graffiandomi tutta la mano.
Una scheggia mi finì sotto l’avambraccio e un rivolo di sangue cominciò a uscire dal taglio che mi aveva fatto. Era abbastanza profondo, e bruciava.
Ma quello era il male minore.
Mi asciugai il viso con la manica, e mi diedi un po’ di forza per alzarmi.
Il pavimento era freddo e la stanza un pochino girava.
Mi appoggiai con l’altra spalla al muro per sorreggermi e guardai l’orologio. Segnava le 3:45.
Ne avevo ancora di tempo, per pensare.

Note: Come vi avevo promesso, questo capitolo è un po' più lungo del primo,
e l’ho pubblicato subito perché mi dispiaceva lasciare quel piccolissimo capitolo e basta.
 
Prima di tutto volevo spiegarvi una cosa: il dialogo di Red John.
Io l’ho immaginato come l’ultimo episodio della 3° stagione, quando Patrick (in teoria) lo incontra al centro commerciale.
Il mio obiettivo era che voi lo leggeste con la sua voce, lentamente, proprio come il personaggio in quell’episodio.
Poi, ultima cosa, grazie per chi ha letto e/o mi segue (anche da prima di questa ff).
Spero di non avervi annoiato, anzi, se vi va, fatemi sapere come avete trovato questo capitolo.
Critiche, consigli, tutto.
Un bacio!
 


Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3. La verità. ***


Capitolo 3. La verità.

 
Di solito, al Cbi, le prime luci si accendono alle 5:00, con l’arrivo dei ragazzi.
Successivamente, Lisbon viene a svegliarmi, e poi scendiamo giù, lei nel suo ufficio e io sul mio divano.
Ma questa volta non sarebbe andata così.
Alle 5:00 precise mi svegliai. Aprii gli occhi, impastati dalle lacrime di qualche ora prima. Avevo dormito seduto sul pavimento, appoggiato al letto. A quanto pare non avevo avuto la forza di alzarmi neanche da lì.
Sentii subito una fitta al braccio e d’istinto guardai, dato che mi ricordavo poco niente della sera prima.
Ero sporco di sangue fino al gomito e ce n’era anche per terra.
Mi alzai e andai a lavarmi la faccia e mi cambiai. Non potevo presentarmi giù in quello stato.
Sistemai la scrivania e pulii per terra i pezzi di bottiglia. Poi decisi che era arrivato il momento: presi il cellulare e chiamai Cho, dicendogli di venire su sa me con gli altri due.
10 minuti, ed erano già alla porta.
Entrarono, e spiegai loro della telefonata di poco prima.
Eravamo tutti e quattro seduti sul mio letto: io alla fine, Cho dall’altra parte e Grace e Wayne in mezzo. Alle mie parole, lo sguardo di Cho per la prima volta da quando lo conosco (e credo in tutta la sua vita) cambiò. Da impassibile diventò preoccupato.
Aveva capito la gravità della situazione e aveva realmente paura.
Cominciò a giocherellare con le mani, nervoso, e la cosa fece preoccupare anche me. Dopotutto, però, era contenuto.
Al contrario, Grace scoppiò in lacrime, e Rigsby dovette tenerla ferma per far si che non impazzisse. L’abbracciò e le poggiò la testa sul suo petto, come se volesse proteggerla.
Lei smise per un momento di piangere, allora lui lasciò la presa. Si rimise al suo fianco e con un braccio le cinse le spalle, mentre lei gli prese l’altra mano nelle sue.
Con la mano ferita le asciugai un po’ le lacrime come potevo. Mi faceva morire vederla in quello stato. Ma per fortuna c’erano i ragazzi.
 
Dopo aver dato il tempo a Grace di risistemarsi, scendemmo giù negli uffici.
Io mi diressi al mio divano e mi stesi a pensare.
I ragazzi tornarono alle loro scrivanie, come se non fosse successo niente. Non doveva saperlo nessuno, avremmo agito noi quattro da soli.
Rigsby fu chiamato dal direttore perché aveva la camicia sporca (era il trucco di Grace, ma non glielo disse). Si limitò a un «Mi scusi» e tutto tornò come prima.
Solamente, si vedeva che lei era ancora scossa.
Povera ragazza.

Note: capitolo un pò più corto, ma comunque descrittivo.
Avrei voluto raccontare di più, ma mi serviva una pausa tra questa scena e la prossima, e non potevo fare altrimenti.
Spero che il prossimo venga un po' più lungo, ma secondo me va bene anche così.
Io penso che più un capitolo è lungo, più un lettore si stufa. Io personalmente non finirei di leggere e lascerei a metà;)
Quindi preferisco così, almeno leggete tutto, e c'è un po' più di suspance.
Un bacio!

Ps: lo so che Rigsby ha un figlio, ma a me piace immaginare che ami ancora Grace, quindi ci saranno alcune scene Rigspelt, come qui. ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4. I mali ritornano. ***


Capitolo 4. I mali ritornano.

 

Erano passate di poco le 6:00, ed io ero ancora steso sul divano a pensare.
Pensavo alla telefonata, alla sua voce, alla strana situazione in cui ci trovavamo, a come mi ero sentito quando aveva detto “la tua fidanzata”.
Rimossi questi pensieri, ero stufo di tutto.
Non avevo ricordi di essere mai stato più preoccupato di così, ma in fondo non ce n’era bisogno. Conoscevo Lisbon benissimo, mi fidavo ciecamente di lei, e sapevo che era in grado di cavarsela.
E poi John non l’avrebbe mai uccisa.
Sapeva che per farmi soffrire, avrebbe dovuto tenerla in vita. Per stare male veramente, avrei dovuto sentire la sua mancanza, e questa sarebbe stata maggiore, se ci fosse stata qualche possibilità di vederla ancora.
Se fosse morta sapeva che mi sarei rassegnato al fatto che non l’avrei mai più rivista.
Dovevo impazzire per il fatto di non averla accanto.
Perché lui sapeva che un dolore fisico fa molto meno male di una mancanza.
Lo sapeva.

Sentii una tazzina rompersi di scatto e aprii gli occhi.
Mi tirai su per vedere cosa stava succedendo.
Grace aveva per sbaglio fatto cadere il suo caffè, che ora trovava per terra insieme ai pezzi della tazza.
Negli occhi le lessi il ricordo delle mie parole di poco prima, era troppo per lei.
Rigsby si era alzato dalla scrivania ed era corso subito da lei, rassicurando gli altri che non era successo nulla, andava tutto bene.
L’abbracciò, e cercò in qualche modo di rassicurarla. Ogni tanto le sussurrava qualcosa nell’orecchio, per calmarla, e in pochi istanti il suo sguardo pieno di ricordi si svuotò da tutto.
Mentre la teneva stretta, con una mano cominciò ad accarezzarle i capelli.
Lei sembrò calmarsi ancora di più.
Le diede un bacio sulla fronte e tornò alla sua scrivania, mentre lei andò a prendere qualcosa per pulire ciò che aveva combinato.
Quando incrociai lo sguardo di Rigsby gli lessi sul volto della preoccupazione, ma non era solo per Lisbon, era anche per Grace.
Lo capivo.
Infondo, sapevo che l’amava ancora. Anzi, non aveva mai smesso. Neanche ora che stava per avere un figlio dalla donna che credeva di amare, ma in realtà non era così.
L’unica cosa positiva di questa storia era che probabilmente si sarebbero riavvicinati di più.
«Si può sapere dove diavolo è finita Lisbon?» Aprii un occhio per sbirciare.
Davanti a me vidi il capo, a braccia conserte, che attendeva una risposta. Mi sembrava impaziente, continuava a picchiettare per terra col piede.
«No…» Richiusi gli occhi, indifferente.
«Cosa vorrebbe dire ‘no’? potrei sapere cosa sta succedendo?» Feci finta di non aver sentito, si sarebbe stancato e se ne sarebbe andato.
«Aah, lascia perdere! Con te non concludo mai niente.» Missione compiuta. Non sopportavo i ficcanaso, e soprattutto chi voleva sapere ciò che non poteva sapere.
Me ne sarei occupato da solo, non volevo l’aiuto di nessuno. Avevo già la mia squadra, perché scomodare altra gente?
Ah già, perché Lisbon era in pericolo.
Piccoli dettagli che a volte fanno la differenza di un mondo intero.
Decisi che quella sera avrei organizzato una specie di riunione, un ritrovo con i ragazzi per parlare sul da farsi.
Dopotutto, non avevamo molto tempo.


 


 

Note: fin'ora è il capitolo più lungo, spero lo abbiate apprezzato;)
Come avete visto, adoro la coppia Rigspelt, quindi come vi avevo già accennato ci saranno  scene dedicate a loro (♥)
Comunque, grazie a chi ha letto e recensito, e a chi recensirà anche questo.
Non ho altro da dire, credo di aver già detto tutto con questo capitolo.
Un bacione.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5. Il piano. ***


Capitolo 5. Il piano.
 

Avevo chiamato Cho dicendogli che li avrei aspettati alle 19:00 nella mia stanza, sopra gli uffici.
Dovevamo parlarne, decidere di fare qualcosa. Non avevamo tutto il tempo del mondo.
Non osavo pensare cosa sarebbe successo se qualcosa fosse andato storto.
Anche se non volevo ammetterlo, il tempo passava, e la cosa che più odiavo era che non avevo ancora fatto niente di concreto
Almeno però avevo una certezza. Lisbon non sarebbe morta.
«Jane!»
«Apri, siamo noi!»
Cho e la dolce voce di Van Pelt mi calmarono e addirittura, in un certo senso, mi rassicurarono.
Pur sapendo che la porta non era chiusa a chiave, andai ad aprire.
Appena la aprii, Grace mi si gettò al collo. Non piangeva, e questa volta era  lei che voleva consolare me.
Rimasi sorpreso però. Sorpreso piacevolmente.
Il suo profumo mi fece tornare in mente un sacco di ricordi, ma soprattutto Lisbon. Era lo stesso.
Mi ricordai del giorno del compleanno della ragazza, e del regalo che le avevamo fatto io e Theresa, questo profumo appunto. Lo mettevano tutte e due. Non ci avevo mai fatto caso, però.
Non mi capita spesso di starle vicino, e quelle poche volte non do importanza a questi dettagli.
«Grazie, Grace»
«Jane, il capo sta cominciando a insospettirsi, Lisbon manca da troppo tempo» Wayne aveva notato i suoi continui avanti e indietro nell’ufficio dell’agente.
«E tu inventati qualche scusa. Qualsiasi cosa andrà bene»
 
Driin. Driin.
 
Era il mio cellulare. Sullo schermo c’era scritto ‘sconosciuto’, ma sapevo benissimo chi era. Un cenno del capo da parte di Cho e risposi.
«Ciao Patrick» fece una pausa.. «non sei felice di risentirmi?»
«Dimmi quello che voglio sapere, John.» pronunciai il suo nome con un po’ di disprezzo, ma non se ne accorse. Era troppo impegnato a ‘fare il cattivo.
«E dimmi, cos’è che vuoi sapere?» .. «Ah, si. La tua amichetta è ancora viva» ridacchiò.
«Ed è così che voglio rivederla»
Suonava tanto una minaccia, ma non m’importava. Non avevo paura di quell’uomo, non dovevo temerlo.
«AHAHAHAH» scoppiò in una risata, così forte che la sentirono pure i ragazzi, anche se non era in vivavoce.
La mia mente comunque stava lavorando, era un computer che non si spegneva mai. Non si riposava neanche quando passavo la maggior parte del tempo sul mio divano.
«Mi dispiace Jane, ma non ci troverete tanto facilmente. Rassegnati, è l’unica cosa che puoi fare. Ascolta quello che ti dico, e credimi: non scoprirai mai chi sono, e non vedrai mai più Theresa. Mai.»
Un nodo alla gola. Ma era ciò che voleva. No?
Mai gliel’avrei data vinta, mai.
 
Riattaccai e scossi le spalle.
Gli altri non capirono il mio gesto: Grace spalancò la bocca per lo stupore e Cho mi fulminò con lo sguardo.
Ahh, mi credevano pazzi, sospirai.
«Ragazzi, non è indifferenza la mia» sottolineai «è che so dove si trovano» dissi con tutta la calma del mondo.
La ragazza fece per venirmi incontro ma per poco non inciampò nelle sue stesse scarpe, quindi decise di fermarsi lì dov’era.
 
Wayne si mise a pensare, stava elaborando i dati anche lui.
Ma c’era un dettaglio che ero sicuro avrebbe perso.
 
«Sì!» urlò, facendomi sobbalzare.
Mi girai verso di lui e alzai un sopracciglio, e con le braccia gli feci segno di parlare.
«Sì, ho capito anch’io!» non l’avevo mai visto così entusiasta.
Grace e Kim non capivano, a loro era sfuggito tutto. Ma l’agente Rigsby mi aveva colto di sorpresa. Ora doveva solo confermare quello che sapevo io.
E il dettaglio.
«Avete sentito » cominciò a spiegare quello che era riuscito a capire « mentre Red John parlava, sotto c’erano dei rumori. Sembravano come delle rotaie, avete presente, quel rumore fastidioso quando passa il treno.»
«E c’era il rimbombo tipico degli spazi sotterranei, bravo Rigsby.» gli feci l’occhiolino «Si trovano, in una stazione, questo è ovvio. Però quale?» interrogai i miei colleghi, volevo metterli alla prova «niente? Bene, ve lo dico io: durante la telefonata l’unico rumore era quello, niente traffico, niente clacson. Qui l’unica stazione lontana da qualsiasi strada è  quella nell’Old Sacramento, nella zona disabitata. Quindi, quale miglior posto per nascondere una persona, se non nel nulla?»
 
Bene, per oggi avevo dato, il mio ruolo da investigatore era finito.
O almeno, per qualche ora.
Erano le 20:00, avremmo aspettato le 23:00 per partite.
John, a quest’ora, non se lo sarebbe aspettato.

…Theresa…  



 

Note: scusate se non sono riuscita ad aggiornare prima, ma ho avuto qualche problema con la connessione.
Spero vi piaccia, mi raccomando fatemi sapere che ne pensate ;)
Un bacione
-M

Ps: PENULTIMO CAPITOLO.
La prossima settimana vi posto l'ultimo.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6. The end. ***


Capitolo 6. The end.
 
Passai tre ore a fissare il muro dall’altra parte del mio letto.
Pensavo a John, questa volta l’avrei preso.
Pensavo al piano che avevamo organizzato.
Che comunque non era poi gran che.
Noi → RJ → Theresa.
Poi pensavo anche al fatto che non riuscivo a capire com’ero rimasto così calmo, fin’ora.
Dentro stavo morendo, piano piano. La paura mi stava prosciugando dall’interno, in una morte lenta e dolorosa, che non lasciava scampo. La cura era non provare sentimenti, ma non potevo negarlo. Era anche il motivo per cui John aveva rapito proprio lei. Semplicemente.
Stavo impazzendo, non ce la facevo più, mi mancava tantissimo.
Credo di non aver mai avuto più paura di perderla che in quel momento.
Ero diviso a metà: una parte di me credeva fortemente che l’avrei rivista, l’altra sapeva che dovevo guardare in faccia la realtà.
 
Quando furono le 23:00 non riuscii più a resistere.
Presi la giacca e ci misi in tasca il cellulare, in silenzioso. Prima di uscire recuperai le chiavi della macchina che avevo lasciato nel cassetto, e poi corsi giù per le scale.
Mentre passavo in corridoio mi fermai un istante davanti all’ufficio di Lisbon.
Sentii un nodo in gola e il respiro che mi si spezzava. Per un momento mi cedettero le gambe e mi sentii debole.
La sua assenza mi faceva male.
 
«Ehi, Jane! È tutto pronto.»
«Dì a Cho che ci troviamo nel parcheggio. Guido io.» tirai fuori dalla tasca il mazzo di chiavi e le mostrai trionfante a un Rigsby che sapeva si sarebbe dovuto arrendere alla mia proposta. Che poi più che altro sarebbe stato un dato di fatto.
Lui fece una faccia strana, di disappunto, ma poi alzò le braccia in segno di resa, dandomela vinta.
 
Uscii dal CBI e andai nel parcheggio esterno.
Stavo sempre peggio.
L’unica cosa che volevo fare era piangere. Sfogarmi, far uscire tutte le lacrime che avevo, dalla prima all’ultima. Ma non potevo.
Non era il momento. Ora dovevo solo pensare a quello che avrei fatto, ma anche a quello che sarebbe potuto accadere se avessi fatto un passo falso.
Perché sì, c’era anche questa possibilità.
 
Quando arrivai alla mia macchina c’era la squadra che mi aspettava. Salii su e misi in moto, Cho seduto davanti accanto a me.
 
«Allora, siamo diretti a Old Sacramento?» voleva conferma.
«Come deciso nel piano, sì» o forse..
Non era molto distante dal centro, al lato ovest della città. Avevamo studiato tutto nei minimi dettagli, cosa fare, dove cercare. Pure come reagire. Sangue freddo.
Mancava solo un isolato ormai.
Pochissimo.
Poi sarei stato da lei. E da lui.
Mancava sempre meno, ero ansioso sempre di più.
Pochi minuti ancora mi separavano da tutto. Un tempo brevissimo ma allo stesso tempo interminabile.
Cho mi fissava, non riusciva a immaginarsi come sarebbe andata. Impassibile come sempre, ma sotto vedevo la preoccupazione anche in lui.
Cominciò a rilassarsi, quando all’improvviso feci inversione e senza dare spia fazioni imboccai la strada al contrario ed accelerai più che potei, tra le urla della ragazza e le proteste degli altri due.
 
Dopo una cinquantina di metri mi fermai e scesi dalla macchina.
Continuavano a chiedermi spiegazioni, ma mi seguirono lo stesso, con le pistole pronte.
Arrivai a una specie di capannone e spalancai le porte. Dentro era tutto buio, non riuscivo a distinguere nulla.
Poi ad un certo punto le luci si accesero, quasi accecandoci per la differenza di luminosità da due istanti prima, e si scoprì uno spettacolo che, lo ammetto, temevo avremmo potuto vedere.
Era uno spazio molto grande e i muri erano alti come quattro piani. E le pareti.
Le pareti erano ricoperte da cima a fondo del marchio di John. Saranno stati 500 simboli di sangue, lungo tutta la stanza bianca.
Ma di Theresa nessuna traccia.
 
Grace stava tremando.
Lo sapevo anche se era dietro di me e non la vedevo, ma sentivo Wayne che sottovoce cercava di calmarla.
«Va tutto bene, sono qui. Ma non guardare.»
Chiunque sarebbe rimasto impressionato da questo spettacolo raccapricciante. Potevo immaginare la paura della ragazza, quasi la percepivo.
 
«Stai tranquilla, andrà tutto bene, credimi. Ti fidi di me?» non c’era verso.
Mi voltai verso di lei «Piccola e dolce Grace.» Mi guardò con lo sguardo di chi preferirebbe trovarsi in qualsiasi altro posto invece che lì. «Ascoltami» le misi una mano sulla spalla, piano, quasi temessi di farle del male. La paura dal suo volto sparì e si voltò, incamminandosi verso la porta, l’unica zona non illuminata dell’immensa stanza, da cui eravamo distanti pochi metri.
Fece per aprirla, nessuno di noi stava guardando, e sentimmo un grido. Ci girammo di scatto e Grace non c’era. Ma la porta era rimasta chiusa.
Mi voltai in tutte le direzioni, cercando di trovare qualunque cosa, un movimento, un’ombra. Poi il mio sguardo venne catturato da un cigolio proveniente dall’altro e restai a bocca aperta.
 
Theresa.
 
Era ammanettata alla ringhiera, in un piccolo soppalco sopra la nostra testa. Svenuta, immagino, stava stesa e non si muoveva. Era imbavagliata e aveva i polsi legati.
 
Dentro di me non capii più niente. Una confusione mai avuta s’impossessò di tutto ciò che di razionale mi rimaneva. Dalla mia mente si cancellò ogni cosa, da quello che stavo pensando, alla paura che provavo. Mi sentii vuoto ma allo stesso tempo come se avessi ritrovato la metà di me che avevo perso e mi sentivo finalmente completo.
Era la prima volta in tutta la mia vita che perdevo il controllo, e non riuscivo comunque a capirne il perché.
Poi, però, dopo un attimo di vuoto completo, mi tornò in mente che ero lì per un motivo.
 
Mi voltai verso i ragazzi, che mi stavano fissando con negli occhi un misto di paura e confusione.
Non feci in tempo a fare una passo che qualcuno pronunciò il mio nome.
«Patrick.» mi voltai verso il punto da cui veniva la voce. Il muro. Nessuno. Ma com’era possibile?
«Devo davvero farti i complimenti, caro Jane. Sapevo che eri molto bravo, ma non avrei mai immaginato così tanto. Mi hai sorpreso. Però anch’io sono stato bravo, non trovi?»
«John » incrociai le braccia « allora mia hai sottovalutato. Però devo ammetterlo, anch’io l’ho fatto. Non credevo saresti riuscito a organizzare un piano del genere. Però le cimici al CBI sono state un colpo basso.»
«Stai attento, ragazzo. Mi hai già sfidato una volta, ti ricordi com’è andata?» altro colpo basso.
«Però adesso siamo qui. C’è tempo. Tu hai fretta? Nemmeno io. Quindi, raccontami come hai fatto, sono proprio curioso.»
«Per cosa? Scoprire i tuoi trucchetti? Oh, non è stato per niente difficile. La prossima volta organizzati meglio, è un consiglio da amico. Mi sono accorto che ci stavi spiando molto presto, per fortuna. Il fatto che mi hai chiamato la seconda volta proprio quando i ragazzi erano con me. Come facevi a saperlo? E come facevi ad essere sicuro che non avresti corso il rischio di essere rintracciato? Nella mia stanza sarebbe stato impossibile farlo, quindi dovevi essere stato avvertito da qualcuno, o in questo caso da qualcosa.»
«E il tuo amico, dietro di te, era caduto nella mia trappola, però tu non ci sei cascato anche se hai fatto finta fino all’ultimo, per poi arrivare e qui e trovarmi impreparato. Molto astuto, devo riconoscertelo. Solo una mente come la tua l’avrebbe capito.»
«Sì, ho trovato un’altra piccola telecamera in macchina, quindi se avessi svelato lì il mio piano l’avresti saputo subito. Quindi siamo andati fino al posto deciso e all’ultimo momento ho cambiato direzione. Così non avresti avuto il tempo per prepararti. Come ho capito tutto? Nello stesso modo in cui Rigsby è arrivato alle sue conclusioni. Sbagliate, ma è comunque stato bravo. Bene, nella telefonata c’erano dei rumori. Il treno e l’eco. Come avevamo capito tutto portava alla stazione di Old Sacramento. Ma a loro è sfuggito un dettaglio che però a me non è scappato. All’inizio anch’io avevo sentito solo questo. Ma poi c’ho ripensato, e mi è venuto in mente un rumore a cui prima non avevo fatto caso. Un ‘click’ metallico all’inizio e uno alla fine, e non mi sembrano rumori riconducibili a dei treni. Così ho pensato “ma cosa centrano?”, “cosa ci facevano in quella telefonata?” E, sì, sono arrivato ad una conclusione. L’unica spiegazione logica era che quei ‘click’ appartenevano all’accensione e allo spegnimento di un registratore, perché verso la fine, dopo le tue parole e dopo il secondo ‘click’, ho sentito un’ altra cosa, che centra poco con i treni, o sbaglio? Quante stazioni conosci vicino al corso di un fiume? Qui, nessuna, quindi scartai l’idea che ti fossi spostato dalla California. Dopotutto è me che vuoi, quindi non aveva senso andare lontano. E, bene, l’unico fiume qui vicino è appunto il Sacramento River. E a quanto vedo, tutte le mie deduzioni erano esatte. Ma dovevo rischiare. Quindi ora che ne dici di darmi quello che voglio? E questa volta vale doppio.» Theresa e Grace.
«Davvero molto astuto, di nuovo i miei complimenti. Ma non avrai ciò che vuoi. Non mi arrendo così facilmente, neanche adesso che mi hai scoperto. Saluta per l’ultima volta le tue amichette.»
In alto, sopra a Lisbon di accese una luce, e vidi che vicino a lei adesso c’era anche Grace.
Pure lei legata, e pure lei svenuta.
Sentii dietro di me Rigsby sussultare. Immaginai la sua reazione: le gambe che cedono, gli occhi sgranati. Dopotutto John aveva colpito anche lui nel suo punto debole.
«Caro Patrick. Ipnotizzarla non è servito a niente sai? La paura che ho visto nei suoi occhi.»
«Capo, che facciamo?» Capo. Cho mi aveva chiamato così.
Era Theresa il capo, e non seppi se era una buona cosa oppure no. Se anche lui temesse il peggio, o se semplicemente mi vedeva al suo posto perché sapeva quello che provavo. Sì, ormai doveva essersi capito.
 
«Bene, Patrick, ora dimmi: esattamente, come pensi di uccidermi? Perché è questo che vuoi.»
Mentre parlava cercavo di trovare il punto da cui veniva la sua voce. Guardai in alto, dove c’erano le due ragazze, poi nella parte opposta. Non riuscivo a capire, più mi sforzavo, meno riuscivo a concentrarmi.
Poi, ad un certo punto, lo vidi.
O almeno, vidi la sua ombra nell’oscurità, mentre mi fissava.
Però se ne accorse e cominciò a correre.
Rigsby e Cho seguirono il mio sguardo e scattarono, la pistola puntata.
Questa volta ero sicuro: l’avremmo preso.
I ragazzi trovarono una scaletta per salire e si arrampicarono.
Io rimasi lì, fermo, a guardare. Mi sentii impotente, non potevo fare nulla. Ero un mentalista io, non un poliziotto. Non avevo una pistola e neanche un paio di manette. Avevo solo tanta vendetta. Bastava?
Arrivarono su e si guardarono intorno. A pochi metri da loro, le ragazze erano ancora stese per terra. Ma non erano lì per loro.
«A destra!» urlai la direzione in cui l’avevo visto scappare. Cominciarono a correre e in fondo a quel ‘corridoio’ trovarono una porta che stando già non si vedeva.
Girarono la maniglia ma non si aprì. Allora provarono con un calcio, ma niente. Cho fece cenno all’altro di spostarsi e si fece indietro. Puntò la pistola e fece fuoco. Non successe nulla. Aprì le munizioni e vide che era scarica.
Ma come..
John.
 
Lui era scappato da lì, non eravamo riusciti a prenderlo neanche questa volta.
Mi diressi verso la scaletta e salii, dovevamo liberare le ragazze.
 
John se n’era andato. La battaglia era finita pari. Lui era riuscito a scappare e noi avevamo Theresa e Grace.
 
Con passo veloce mi avvicinai e le guardai.
Sembrava stessero dormendo.
Erano bellissime, tutte e due, e sentii una stretta al cuore.
Poi guardai lei.
Mi abbassai e senza pensarci con la mano le accarezzai la guancia e poi i capelli.
Mi sentii di nuovo bene, dopo tanto tempo. Era come se la metà di me che era rimasta sola avesse finalmente trovato ciò che le mancava, e che la faceva sentire inutile.
Sì, perché io senza di lei ero inutile.
 
Con la coda dell’occhio vidi i due agenti tornare indietro da dove erano corsi poco prima, e spostai la mia attenzione sulle manette. In un attimo le aprii, e lo appoggiai per terra.
«Pensateci voi, io vado fuori a vedere se ci sono tracce di John.» Cho sembrava.. strano. Aveva preso questo caso come personale, voleva vendetta anche lui.
Mi passò accanto e scese giù, dirigendosi verso la grande porta. Poi uscì.
«Grazie, svegliati. Ti prego. Mi senti?» ma la ragazza non rispose.
Mi avvicinai e le toccai ancora la spalla, due colpetti. Lei aprì gli occhi e appena vide Wayne scattò a sedere e le buttò le braccia al collo.
Piangeva. Lui la strinse a sé, seduto sui talloni, e per poco non perse l’equilibrio. Poi la portò giù, piano, e la portò in macchina.
 
Restammo io e Theresa.
Dormiva ancora.
Da una parte avevo paura di svegliarla, però dall’altra volevo vedere i suoi occhi. Mi mancavano.
Mi mancava lei.
«Tess.. » non avevo il coraggio neanche di pronunciare il suo nome completo.
«Mmh.. » forse mi aveva sentito? Però aveva ancora gli occhi chiusi. Doveva essere stata una reazione involontaria, immaginai.
Le presi la mano e incrociai le dita tra le sue. Sentii un calore dentro, una sensazione nuova, un brivido mi percorse la schiena.
Sempre tenendole la mano, mi sedetti accanto gambe incrociate, e girai lo sguardo verso le pareti.
La cosa che più temevo era che il sangue fosse il suo, ma vedevo che stava bene. Non era ferita, e questo mi sollevava tantissimo.
Però, chissà di chi era. I simboli erano tantissimi, e sperai che ognuno non fosse di una persona diversa.
«Patrick» si era svegliata. La guardai e vidi che aveva il volto rigato dalle lacrime. Non volevo sapere cosa aveva passato.
 Con l’altro braccio si tirò su a sedere e l’aiutai.
Ci trovammo seduti uno di fronte all’altro, per mano.
Sembravamo due ragazzini al parco insieme, a giocare sull’erba.
«Patrick» ripeté il mio nome.
Avrei voluto che il tempo si fermasse. Ero rimasto due giorni senza di lei, ma mi sembravano anni. E ora, era qui davanti a me.
Si avvicinò un po’ con la testa, e lo feci anch’io.
Continuavamo a guardarci, nessuno dei due aveva il coraggio di distogliere lo sguardo.
Poi un altro po’, poi ancora.
Ci ritrovammo a pochi centimetri di distanza. Vedevo ancora le lacrime sulle sue guance, erano piccole goccioline che brillavano nella poca luce che c’era.
Con l’altra mano cercai di asciugarle un po’, ma mi accorsi che stavo piangendo anch’io.
Continuando a guardarla, mi avvicinai sempre di più.
Poi chiudemmo gli occhi insieme.

 

Note:ho solo una domanda da farvi: VI HO SORPRESI?
Vi prego, fatemi sapere che ne pensate, ci tengo molto.
 
Ps: non ho nient’altro da dire, solamente che mi è piaciuto tantissimo
scrivere questa long, e ringrazio tutti quelli che fin’ora hanno recensito.
 
Un bacione.
-M
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1363649