Voci dall'oceano

di Lusio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vita passata ***
Capitolo 2: *** Verso una nuova vita ***
Capitolo 3: *** Il passato segue il presente ***
Capitolo 4: *** Hai perso la tua occasione ***
Capitolo 5: *** Tutto precipita ***
Capitolo 6: *** Le voci dall'oceano ***
Capitolo 7: *** La chiave del futuro è andare avanti ***



Capitolo 1
*** Vita passata ***


Vita passata

 

Una ciocca bionda che cadeva sulla sua guancia; un movimento semplice e molto quotidiano per Quinn Lucy Fabray ma che era capace di riportarla indietro di quattro anni, quando credeva che tutto le fosse concesso per la sua estrazione sociale.

Sì, Quinn Lucy Fabray a quindici anni credeva che tutto le fosse concesso senza conseguenze.

Ma le cose sono fatte per cambiare; ne aveva la prova ogni volta che si immergeva nella fredda vasca da bagno e la fine sottoveste bianca le aderiva sul corpo mostrando i suoi fianchi precocemente sformati. Il motivo per il quale chiedeva alla sua cameriera personale di lasciarla da sola in quei momenti.

Togliendo la forcina liberava, una ad una, le altre ciocche di capelli che le accarezzavano morbidamente l’altra guancia, le spalle, la schiena; quella prima volta era stato Noah (ma preferiva essere chiamato Puck) a scioglierle i capelli.

Era stato un errore, dall’inizio alla fine. Aveva perduto la sua virtù, il rispetto di suo padre e di sua madre, era stata ad un passo dal perdere la sua reputazione davanti al mondo. E aveva perso… non poteva dirlo con certezza visto che non era mai stata sua; no, lo era stata. Per nove mesi nel suo grembo; sua figlia. Aveva perduto anche sua figlia.

Solo il tempo di partorirla, di prenderla in braccio un solo istante e le era stata portata via. Il signor Fabray l’aveva data al padre, con una piccola somma di soldi affinché tenesse la bocca chiusa e non si facesse mai più vedere. Puck prese con sé la bambina e rifiutò i soldi. E fu di parola.

Non si fece mai più vedere ma ciò non gli impedì di ricordare la sua esistenza e quella della bambina grazie alle lettere che arrivavano clandestinamente a Quinn.

Mediante queste missive lei sapeva che lì, da qualche parte, aveva una figlia, identica a lei fino al più piccolo neo e che si chiamava Beth.

Ma, alla fine, anche questo contatto fu troncato; il suo padre-padrone scoprì le lettere scritte da una mano più abituata al lavoro manuale che alla scrittura e, dopo aver cancellato ogni possibile contatto tra loro, costrinse la figlia a bruciarle tutte, una dopo l’altra, lasciandole solo il ricordo di qualche frase e il pensiero di quella creatura che cresceva senza di lei, con un padre e con una donna che la stava tirando su come una propria figlia.

Comunque, Quinn era troppo intelligente per credere che la vita finisse a quel modo e che lei avrebbe dovuto viverla come la protagonista di uno di quei melensi e stucchevoli romanzetti moralistici.

Adesso, a diciannove anni, Quinn Lucy Fabray continuava a credere che tutto le fosse concesso, ma con le dovute conseguenze.

In questo aveva preso da quel padre che non riusciva ad amare, quell’uomo che aveva come unico scopo quello di farsi largo tra la buona società; ma non ne aveva possibilità in quel paesino di provincia dove il massimo a cui si poteva aspirare era un invito ad un ricevimento del sindaco. Il luogo dove poter trovare la propria occasione si trovava al di là dell’oceano: l’America. La patria dei ricchi, dei magnati delle ferrovie, degli Astor, dei Rockefeller.

Sarebbero partiti l’indomani; suo padre aveva speso molti soldi per poter acquistare tre biglietti di prima classe di un nuovo transatlantico che partiva per il suo viaggio inaugurale, diretto in America; l’aveva scelto apposta perché aveva saputo che un sacco di persone importanti si sarebbero imbarcate su quella stessa nave. Quinn non ne ricordava il nome e, francamente, non le interessava granché; riusciva solo a pensare che quel viaggio avrebbe segnato il definitivo distacco da quella vita passata che le pesava sul cuore come un macigno. Finché viveva lì, nel Vecchio Continente, era sicura di toccare la stessa terra, di guardare lo stesso cielo di quella bambina. Anche quel poco stava per esserle tolto.

Sarebbe stata pronta a giurare che anche questo rientrava negli intenti di suo padre.

Una nuova vita oltreoceano. Ma forse, in fondo, sarebbe stata una buona cosa, al di là della “scalata sociale” della sua famiglia; poteva lasciarsi alle spalle gli errori passati e… che assurdità. Come se avesse potuto cancellare quelle “azioni” (non si sarebbe mai abbassata a chiamarle “errori”) con la stessa facilità con la quale districava i nodi nei suoi capelli con la spazzola. Almeno avrebbe voluto districare l’intrico di pensieri che le turbinavano in testa.

- Quinn, tesoro, va’ a dormire. Domani dobbiamo alzarci presto per non perdere l’imbarco.

Non lo avrebbe mai ammesso, ma la voce di sua madre, che fece capolino sull’uscio della sua stanza, le giunse come un salvagente in mezzo ad una tempesta.

- Sì, mamma. Appena avrò finito di sistemarmi – disse Quinn con il suo caratteristico tono distaccato.

- Oh, tesoro, sorridi un poco! – la pregò sua madre dolcemente – Tuo padre ci da la possibilità di andare in America sul Titanic, la “nave inaffondabile”, gomito a gomito con la buona società. Cosa possiamo chiedere di più?

“Tante cose” pensò la ragazza continuando a spazzolare i capelli. L’unica cosa che ci aveva guadagnato da quel brevissimo scambio di parole era stato l’aver ricordato il nome di quella nave. “Titanic”. Che pacchianeria!

 

* * *

 

A casa Hummel-Hudson si respirava un’aria di festa; certe risate che si sentivano solo a Natale. E c’era un buon motivo per festeggiare: quante volte la famiglia di un carrozziere riusciva ad acquistare biglietti per il viaggio inaugurale di un transatlantico diretto in America? E di prima classe per giunta! Certe cose era raro che accadessero in Inghilterra, dove la staticità classista era una tradizione.

Nessuno dei quattro membri della famiglia Hummel-Hudson aveva idea di quello che avrebbero fatto in quel nuovo continente; certamente non rientrava nei loro piani quello di trasferirsi lì in pianta stabile.

Burt, il capofamiglia, aveva la sua azienda di riparazione di automobili da dirigere mentre Carole, la sua seconda moglie, aveva il suo impegno nell’Esercito della Salvezza che la teneva occupata per molti mesi all’anno.

Forse i due figli; per loro il discorso poteva essere diverso. In genere, nei giovani è meno forte quell’attaccamento alla casa natale che contraddistingue i più anziani. A conferma di ciò, Finn, il figlio di Carole, già fantasticava su quello che avrebbe potuto fare nel Nuovo Continente, la fortuna che lo aspettava in quel reticolo di strade e in quella foresta di palazzi, dove i poveri diventavano ricchi in pochi anni. Già si vedeva spaparanzato dietro una scrivania a dirigere uno dei tanti imperi di un qualche metallo importante, o anche solo di qualche prodotto alimentare, con una bellissima moglie ed una schiera di figli, ai quali avrebbe lasciato una ricchissima eredità.

Anche Kurt, il figlio di Burt, sognava in grande anche se in modo diverso dal fratellastro; tra le sue aspirazioni c’erano il teatro, il cinematografo, la recitazione. Basti sapere che era sbiancato di colpo quando aveva saputo che anche l’attrice Dorothy Gibson* avrebbe viaggiato sulla loro stessa nave. Ma il ragazzo, a differenza di Finn, viveva il tutto in maniera più riservata essendo chiuso per natura. In altre circostanze, magari in un'altra vita, sarebbe potuto essere un ragazzo esuberante che non si faceva problemi nel farsi notare dagli altri ma il mondo in cui viveva lo bloccava in una morsa di paura del giudizio altrui; anche per questo sognava di recitare. La recitazione era un modo di esprimersi al di fuori della realtà.

E questo era il mosaico della famiglia Hummel-Hudson il 9 Aprile 1912, la sera prima di imbarcarsi sul Titanic.

- Kurt, ma riesci a crederci? – chiese Finn, entusiasta, lasciandosi cadere su letto dove il suo fratellastro stava sistemando le camicie e i gilet che si sarebbe portati per il viaggio – Andremo in America, in mezzo alle persone che contano.

- Finn, diamine, le mie camicie! – esclamò Kurt, raccogliendo in fretta ma con cura i suoi capi d’abbigliamento – E poi, scusa, che significa “le persone che contano”? Forse noi non siamo come loro in tutto, a parte il conto in banca?

- Dai, sai benissimo cosa intendo – si difese, goffamente, Finn – Ma l’America! Immagina quante cose si possono fare lì.

- Non andiamo a viverci – replicò Kurt, con una nota di rimpianto, ritornando a sistemare i vestiti in valigia.

- Sarebbe bello, però.

Kurt affondò di più il viso nella montagna di panni che straripava dalla sua valigia; non avrebbe dato al suo fratellastro la soddisfazione di vederlo sorridere malinconicamente mentre le guance si tingevano di un tenue rossore.

- Pensi mai a come sarebbe la tua vita lontano da qui? – continuò Finn con più serietà.

- Non so. Vorrei solo che fosse diversa.

Le parole si nutrivano di pensieri; i pensieri avevano bisogno di speranza. E col cuore colmo di speranza, Kurt terminò di preparare la sua valigia.

 

* * *

 

Sarebbe venuto, prima o poi, il giorno in cui il mondo avrebbe conosciuto la tenacia e la tempra di ferro di Sue Sylvester; una cosa che sapevano con certezza sia i suoi conoscenti che lei stessa. Ma, intanto, solo la sua casa di Londra conosceva queste sue doti.

Alcuni soprammobili e due finestre non erano sopravvissuti a ciò quando Sue aveva saputo che non c’erano altri posti d’imbarco disponibili per l’America; l’unico era per il Titanic della White Star Line e lo stravolgimento dei suoi piani non era stato preso per niente bene.

- “La nave inaffondabile” – lesse, disgustata, sul quotidiano che si era fatto portare dal suo maggiordomo quella mattina per informarsi su quella nave “così straordinaria” – Ma per favore! Nessuna donna ha partecipato alla sua costruzione.

Sì, è il caso di aggiungere che Sue era un’accesa femminista; aveva militato tra le suffragette di Emmeline Pankhurst**. Si può quindi capire quanto mal sopportasse certi uomini e la loro arroganza; in questa categoria includeva, naturalmente, i ricchi e i potenti. I proprietari della White Star Line come gli Ismay*** non facevano eccezione.

- Aspettate solo che io riesca ad arrivare in America, poi vedremo chi è veramente in grado si dirigere un’azienda di qualunque tipo – disse gettando via il giornale – “Nave inaffondabile” dei miei stivali! Riuscirei ad affondarla io stessa con un colpo di fionda.

 

* * *

 

- Dave, figliolo, questa non è vita.

In quella stanza singola, di uno dei quartieri poveri dove si rifugiavano gli stranieri e gli ebrei e i cattolici, a parte l’umidità, si sentiva solo quella frase ripetuta in continuazione.

- Dormi papà.

Dave Karofsky non poteva fare altro che rispondere allo stesso modo, con lo stesso tono di voce paziente e monocorde, raggomitolato su se stesso sul suo scomodo materasso di paglia, con uno spillone d’umidità gelida piantato nella nuca, con gli occhi spalancati, fissi contro il muro per non incontrare lo sguardo compassionevole  di suo padre, bloccato nel “letto migliore” della loro stanza, fino ai suoi ultimi giorni, sicuramente.

Da quando andava avanti quella storia? Non da quando erano emigrati dalla loro terra d’origine alla ricerca di una vita migliore, portandosi dietro qualche pezza rattoppata, due scodelle e la pelle temprata dal gelo degli inverni della Russia. Né da quando si erano ritrovati in un’uguale miseria. Da quando sua madre era morta, stroncata dalla polmonite, sì e da quando suo padre si era arreso. Dovevano essere passati quasi otto mesi; Dave li aveva segnati sul muro come un prigioniero che conta i suoi giorni in cella.

“Mondo schifoso”.

Inglesizzare il proprio nome non serviva a nulla se tutti ti allontanavano in quanto straniero e quindi “inferiore” agli altri. Odiava tutto questo; più volte si era ritrovato ad odiare anche quelle persone che si ergevano a padroni del mondo, al punto da scoppiare a ridere quando veniva resa pubblica la notizia di un attentato alla loro persona. E odiava ancora di più se stesso per questi pensieri. I suoi genitori lo avevano educato nel rispetto degli individui a prescindere dalla loro condizione, razza e religione; ma come poteva continuare a seguire quei dettami se il mondo non lo ripagava con la stessa moneta? Anche per questo evitava lo sguardo di suo padre e aveva smesso di andare al cimitero dei poveri dove era sua madre, anche se non c’era né una foto né un nome a ricordarla.

Non nutriva molte speranze nemmeno nell’America. Quelle poche persone che erano ritornate da lì avevano raccontato dell’orribile trattamento che veniva riservato agli stranieri che giungevano lì: venivano ammassati come bestie e trattati molto peggio e, il più delle volte finivano imbrogliati dai loro stessi compatrioti che già si erano inseriti. Venivano visitati da dei medici poco meticolosi; se risultavano “portatori di malattie” venivano reimbarcati e rispediti da dove erano venuti senza nemmeno un rimborso per il viaggio; se riuscivano ad essere ammessi venivano buttati in una città enorme, dove solo i più forti e i più svegli avevano qualche possibilità di fare fortuna.

A che serviva? Forse solo a scrollarsi di dosso quella triste esistenza per trovarne un’altra. Ma almeno lì Dave sarebbe stato da solo, avrebbe potuto pensare a se stesso. Di suo padre non doveva preoccuparsi: una signora, vedova, che prestava servizio come infermiera al sanatorio era disposta ad occuparsi di lui.

Dave poteva cercare la sua vita e voleva farlo. Per questo aveva deciso di farsi umiliare ancora per il suo essere “un povero straniero”; tanto sarebbe stato marinaio solo per una settimana circa, giusto il tempo che il Titanic avrebbe impiegato per raggiungere l’America da Southampton. Poi, tutto il resto avrebbe avuto poca importanza. Avrebbe avuto una vita difficile e dura… ma sarebbe stata sua.

- Dave, figliolo, questa non è vita.

- Dormi papà.

 

* * *

 

- Questa è l’ultima, Puck – disse Blaine, mettendo sul calesse scoperto l’ultima valigia.

- Bene – gli rispose Puck, seduto a cassetta già con le redini in mano – Di’ alle donne di muoversi.

Il loro non era l’unico gruppo di persone povere pronte ad imbarcarsi per l’America proprio quel giorno sul Titanic ma, di sicuro, era quello più curioso e lo si poté capire quando gli altri membri del gruppo si apprestarono a salire sul calesse. I primi a saltare all’occhio erano, senza dubbio, gli “stranieri”: una coppia di asiatici ed una prosperosa ragazza nera; gli altri, a prima vista, potevano risultare dei “perfetti” inglesi dei quartieri bassi ma conoscendo i loro nomi o ascoltando i loro accenti si poteva capire quanto fossero anche loro “cittadini del mondo frammentario”. Ma al di là di tutto questo, erano tutte persone animate da un uguale desiderio di lasciarsi alle spalle una vecchia vita per trovarne una nuova e più ricca.

Quella che sognava più in grande era Rachel Berry, con il suo desiderio di diventare un’artista, di arrivare a calcare le assi di un palcoscenico e a stare davanti ad una cinepresa affinché il mondo intero la conoscesse, senza badare alle sue origini povere o al suo essere ebrea; in America queste cose non avevano importanza. A suo favore, lei aveva ostinazione e testardaggine; per molti questi erano i dettagli più fastidiosi del suo carattere, ed era sicuramente vero, ma erano anche le sue armi più potenti.

Mercedes Jones, la ragazza di colore, invece pur essendo dotata di caratteristiche uguali a quelle di Rachel, nutriva aspirazioni più semplici, dovute al fatto che, per il colore della sua pelle, sapeva che non poteva ambire a tanto ma ciò non le avrebbe impedito di cercare ugualmente una vita migliore, come gli altri compagni di viaggio.

Tra loro, un’altra che nutriva sogni di gloria, ma senza essere munita di grandi doti, era Sugar Motta; italiana da parte di padre, inglese da parte di madre, di povera estrazione ma cresciuta come se fosse stata una piccola principessa, l’unico errore dei suoi genitori. La ragazza era dotata di una spiccata esuberanza e di un cuore sensibile ma anche di una grande arroganza che, però, più che renderla odiosa, la faceva sembrare una divertente macchietta uscita da un libro per bambini.

- Ho più talento di Sarah Bernardt e di Eleonora Duse messe insieme, quindi diventerò più famosa di loro e poi verrò chiesta in sposa da qualche sovrano europeo e cambierò i nomi delle capitali del mondo col mio.

Ecco, questo era una tipica frase di Sugar Motta.

I due ragazzi asiatici, Tina Cohen Chang e Mike Chang (anche loro, come molti, avevano preferito inglesizzare i loro nomi sebbene i loro connotati li smascherassero subito), dovevano sposarsi e preferivano farlo nella terra delle grandi opportunità, dove gli auspici per una vita migliore sarebbero stati più solidi. Per quanto fosse semplice, l’amore che li univa era solido e forte e se ne avvertiva la presenza anche in un solo sguardo che si lanciavano, nel semplice sfiorarsi delle loro mani.

Per ritornare ai due ragazzi introdotti all’inizio, Blaine Anderson si apprestava a seguire le orme di suo fratello maggiore Cooper che era partito per l’America già alcuni anni fa e che già aveva trovato un posto di lavoro nella fabbrica di una nota marca di sigari. Più volte, Blaine, era stato invitato dal fratello a raggiungerlo e alla fine, dopo un ennesimo diverbio con i suoi genitori, aveva deciso di accettare il suo invito. Fuori da quella casa austera, nella quale aveva trascorso i suoi primi anni di vita, lo spirito che già correva attraverso la brezza marina, il ragazzo afferrava la sua esistenza futura a piene mani, urlando: “La mia nuova vita mi aspetta”.

Noah Puckerman, o Puck, come preferiva farsi chiamare, aveva nei suoi piani le medesime intenzioni dei suoi compagni di viaggio, con la sola differenza che i suoi scopi non erano personali, no. Aveva una piccola vita da allevare. Una bambina bionda, dai lucidi occhi scuri che, sotto un leggero strato di polvere, nascondeva un viso bianco come quello di sua madre. Sua figlia. Beth.

Ufficialmente, la piccola aveva, non solo un padre, ma anche una madre, solo che nessuno ci credeva; come era possibile che quello scricciolo, simile ad un fiocco di neve, fosse figlia di una donna dalla pelle olivastra e ormai sulla quarantina, e di un ragazzo dai tratti rudi, entrambi ebrei ma non sposati né tanto meno legati da alcun vincolo? Potevano credere che potesse essere figlia di Puck ma erano certi che Shelby Corcoran era solo sua madre adottiva.

Puck se ne fregava di quello che gli altri pensavano; per lui era importante solo Beth. Se il destino fosse stato più benevolo, le avrebbe senz’altro concesso una vita migliore e più agiata, crescendo con la sua vera madre, ma così non era stato. Allora, lui le avrebbe dato la vita migliore che potesse offrirle e lo avrebbe fatto ad ogni costo. Con lui, poi, ci sarebbe stata Shelby, che amava Beth come se fosse stata veramente sua figlia, e i suoi amici, che conoscevano la sua storia ed erano pronti ad aiutarlo ogni momento.

E questa era la comitiva (una delle tante) che si preparava a lasciare i bassifondi della città per raggiungere il porto di Southampton per imbarcarsi sul Titanic.

Chiamati da Blaine, gli altri membri della compagnia uscirono dal palazzo nel quale abitavano Puck, Shelby e Beth, dove si erano dati appuntamento, e si sistemarono sul calesse, accomodandosi sulle panche o usando i bagagli come sedili. Blaine fece per mettersi a cassetta a fianco di Puck quando due manine piccole ma forti lo afferrarono da dietro per due lembi della camicia.

- Sto io vicino a papà – fece la piccola Beth, saltellando sul suo posto.

- Va bene, piccola – le rispose Blaine con un sorriso prendendola in braccio – Siediti in braccio a me, altrimenti cadi.

- No, no, in braccio a mamma Shelby! – si dibatté la bambina ridendo divertita, vedendosi sospesa sul carro tra le braccia di Blaine.

Alzando gli occhi al cielo e leggermente urtato dal rifiuto della bambina, Blaine passò il suo fardello alla madre che abbandonò il suo posto sulla panca facendo a cambio col ragazzo e accomodandosi a cassetta con Beth in grembo che saltellava, emozionata, sulle sue ginocchia.

Avvertendo accanto a sé la sua ragione di vita, Puck fece partire i cavalli con un secco colpo delle redini, lasciando il loro vecchio paese, portandosi dietro una brillante scia di chiacchiere e risate.

- Quando arriviamo sulla grande barca? – domandò Beth, alzando il viso per poter vedere quello di Shelby.

- Tra un po’, tesoro – le rispose la donna.

- E poi, dove ci porta?

- In America, oltre il mare.

- E come è fatta l’America?

- Be’, è molto grande, con tante persone e palazzi altissimi.

- E nei palazzi ci sono le principesse?

- Non lo so, può darsi – rise Shelby stringendo al seno la bimba.

Con le genuine ed innocenti domande della bambina davanti e il chiassoso ed allegro chiacchiericcio della comitiva nel calesse, quel viaggio durò meno di quanto sarebbe dovuto durare e quando il sole aveva raggiunto il suo punto più alto nel cielo, raggiunsero il porto di Southampton. In mezzo all’enorme massa di gente si stagliava, maestoso ed imponente, il profilo del Titanic, con i suoi quattro fumaioli che sembravano voler sfiorare le bianche nuvole che coprivano quel cielo d’Aprile.

- La barca grande! La barca grande! – esultò Beth, puntando il ditino sottile contro il profilo nero e bianco della nave.

 

* * *

 

Quel giorno, 10 Aprile 1912, una gran folla aspettava sul ponte di Southampton di salire sul Titanic, la “nave inaffondabile”; tra loro c’erano Noah Puckerman con sua figlia e il resto della sua “famiglia”, tra i poveri che dovevano passare attraverso le mano dei medici prima di imbarcarsi; Dave Karofsky, che aveva iniziato il suo lavoro come marinaio già all’alba, tra altri membri della ciurma; e tra gli agiati provvisti di biglietti di prima classe, gli Hummel-Hudson, la signorina Sue Sylvester, che fendeva  la folla come un generale fa con il suo esercito, e i coniugi Fabray con la loro figlia, Quinn desiderosa di lasciarsi alle spalle un passato che le si era appena affiancato senza che lei nemmeno lo sospettasse.  

 

    

 

Nota dell’autore:

* Nota attrice del muto. Salvatasi dal naufragio, girò in quello stesso anno “Saved from the Titanic”, primo film su quel tragico evento, oggi perduto salvo alcuni fotogrammi.

** Attivista inglese a capo del movimento delle suffragette.

*** Padre e figlio, fondatori della White Star Line. Durante il viaggio inaugurale, il figlio, Bruce, succeduto al padre nell’amministrazione della compagnia navale, si salvò salendo su una scialuppa nonostante la precedenza da dare a donne a bambini; questo gesto lo rovinò e lo segnò a vita.

 

E, finalmente, ecco postato il primo capitolo della mia mini-long. Come avrete capito da questo prologo, la storia ha come sfondo il Titanic e la cosa che rimpiango e di non aver iniziato a scrivere prima questa fanfiction per postarla proprio a ridosso del centenario del naufragio. Comunque, l’ho iniziata e la sto continuando ma penso che stavolta non sarò molto regolare con gli aggiornamenti.

Stavolta non mi concentrerò su una coppia in particolare ma su una porzione di personaggi presi nelle loro singole storie che confluiranno, alla fine, in un unico comune destino.

Per il resto, per il succo della storia, ho fatto riferimento a ciò che sto provando in questo periodo.

Per le fonti che mi sono state utile per la documentazione, non solo sulla vicenda del Titanic, ma anche per la vita dei ricchi, dei poveri e degli emigranti dell’epoca:

“Lo spettro del ghiaccio. Vite perdute sul Titanic” di Richard Davenport-Hines

“Le luci del Titanic” di Hugh Brewster

“Titanic. La vera storia” di Walter Lord

Il sito sul Titanic di Claudio Bossi, il migliore in lingua italiana

Spero sia chiaro che James Cameron non centra niente.

Per eventuali curiosità o altro e per tenere d’occhio gli aggiornamenti, potete contattarmi a sulla mia pagina ufficiale:  http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483

Ciao a tutti.

 

Lusio

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Capitolo 2
*** Verso una nuova vita ***


Verso una nuova vita

 

Quel mattino, quando del sole c’era solo una tenue e bianca luce e si poteva ancora scorgere in lontananza la velata immagine della luna, Dave si era alzato già senza più traccia di sonno, come era ormai sua abitudine; si alzò e si preparò velocemente e senza far rumore.

Fece per uscire subito dalla stanza ma non poté impedire ai suoi occhi di posarsi su suo padre ancora addormentato; erano anni che non aveva un’espressione serena mentre dormiva e anche questa era una delle tante cose che il ragazzo non riusciva a sopportare. Ma, almeno, appena varcata quella soglia avrebbe potuto lasciarsi tutto, anche quell’espressione alle spalle.

Questo non gli impedì di provare una dolorosa fitta allo stomaco quando distolse lo sguardo ed uscì; solo quando la porta era ormai chiusa si pentì di non avergli nemmeno sfiorato la mano come ultimo saluto. No, non doveva più essere il tempo dei rimpianti; non era più un bambino. Era un uomo.

Mentre scendeva dalle scale incrociò la vedova Bertha, che andava da suo padre ogni giorno, e la salutò con un breve cenno del capo. Si era ripromesso di non lasciarsi più andare ai sentimentalismi ma avvertì ugualmente il sollievo che gli sciolse quel nodo allo stomaco. Suo padre non sarebbe rimasto da solo. Con quella certezza e mille altre aspettative, Dave Karofsky si gettò nel mezzo della strada semideserta, arrivando di gran carriera al porto.

Nonostante la sua mole, non degnò di uno sguardo attento la nave, ma si concentrò solo sulla passerella che conduceva ad uno degli ingressi inferiori; lì c’era un ufficiale tutto impettito nella sua divisa nera con un registro in mano. Gli si avvicinò, raddrizzando la schiena e puntando il petto in fuori.

- Sono qui per il posto di marinaio – disse, mordendosi la lingua subito dopo, per aver lasciato trasparire il suo accento straniero.

- Il suo nome? – si informò l’ufficiale scorgendo il registro, inarcando un sopracciglio.

- Karofsky.

- Ah, sì – fece l’uomo con voce priva d’espressione – Polacco?

- Russo – replicò Dave con un moto d’orgoglio e guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’ufficiale.

- Bene, buono a sapersi – fece quest’ultimo dandogli un tesserino – Andate nella cabina contrassegnata da questo numero, troverete una divisa nell’armadietto, indossatela e presentatevi al ponte di comando. Lì vi diranno cosa fare.

Cercando di ignorare il tono fastidioso del suo superiore, visto che ormai lo era, prese il tesserino e, dandogli un’occhiata per memorizzarne il numero, trovò la cabina nella zona riservata ai membra dell’equipaggio; dentro vi erano già altri tre uomini con indosso delle divise da marinai nere bordate di bianco e con la sigla “White Satr Line” sul retro degli ampi colletti.

Qualcuno faceva roteare il berretto sulla punta dell’indice con fare annoiato; quello doveva essere l’unico inglese mentre gli altri due sembravano irlandesi.

Rispose ai loro saluti con un filo di voce, l’eterno timore di essere giudicato perché straniero nuovamente vivo. La risatina strozzata dell’inglese gli rimbombò crudelmente in testa facendolo sentire ancora più vulnerabile di quanto già non si sentisse mentre si cambiava davanti a loro. La divisa non era fatta su misura ma veniva fornita una taglia unica per tutti e quella gli stava stretta, mettendo maggiormente in risalto il suo fisico robusto ma scoprendogli le braccia; per fortuna, i pantaloni erano della misura giusta.

Aveva appena finito di sistemarsi che qualcuno diede due colpi secchi alla porta ed una voce ordinava in modo monocorde: “Tutti sul ponte di comando”.

I tre marinai saltarono giù dalle loro cuccette ed uscirono fuori dalla cabina infilandosi i berretti; Dave li seguì  e raggiunsero il ponte, dove si stavano radunando altri membri dell’equipaggio. Da quanto vide il ragazzo, non era l’unico a trovarsi in difficoltà: c’era un buon gruppo di stranieri a giudicare dalla fisionomia e l’occhio gli cadde anche su un ragazzetto biondo che aveva il problema inverso al suo riguardo la divisa visto che portava le maniche e gli orli dei calzoni rivoltati più e più volte affinché gli lasciassero scoperti le mani e i piedi. Non doveva avere più di quattordici anni.

C’era chi se la passava peggio di lui.

Dovette rimandare la sua “ispezione” per ascoltare gli ordini e le direttive di un altro ufficiale, sicuramente di grado superiore a quell’altro. Si impresse nella mente ogni cosa, sperando di ricordarseli tutti e sperando solo che quella nave partisse subito. Iniziava già a sentire la testa che gli girava.

Cosa aveva detto? Ah, sì. Dovevano occuparsi dei passeggeri all’imbarco.

Dave venne assegnato all’ingresso di terza classe assieme agli altri marinai “non inglesi”.

“Ma guarda un po’” pensò sarcasticamente.

 

* * *

 

L’aria che si respirava nel porto poteva dare fastidio a chi non era abituato ma i più esposti, ovvero quelli che dovevano imbarcarsi in terza classe erano quelli che meno ne risentivano, salvo alcune eccezioni. Almeno i passeggeri di prima e seconda classe potevano salire tranquillamente sulla nave, mentre quelli di terza dovevano prima essere “esaminati” da medici e marinai per evitare che sul transatlantico si imbarcassero persone che avrebbero potuto diffondere malattie e pidocchi. Più che fastidioso, quel passaggio era umiliante per chi sbirciava un po’ più in alto a vedere i “privilegiati” che non abbassavano nemmeno lo sguardo per ricambiare il gesto. Quelli che notavano questa disparità erano per la maggior parte socialisti e simpatizzanti che viaggiavano con volantini e opuscoli che li avrebbero sicuramente condannati a mesi di carcere per possesso di materiale dissidente e per tentato disordine; per paura che rovistassero nelle valige, li portavano legati al petto con lo spago.

Ma la maggior parte di loro erano semplicemente famiglie umili, non per forza poveri, ma bloccati in una situazione economica o famigliare che li spingeva a fuggire dal loro paese d’origine per trovare un completo benessere. Erano operai, disoccupati, stranieri, anche qualche fuorilegge e qualche ladro o imbroglione. Gomito contro gomito, schiena contro petto, tutti accomunati da un solo biglietto per uno dei transatlantici più grandi e più lussuosi del mondo.

- Spero che le cabine di terza classe siano belle come quelle di prima – disse Tina mentre camminavano su una delle passerelle di terza, aggrappata al braccio di Mike, emozionata sia al pensiero di mettere piede sul Titanic sia per il fatto di star camminando ad una bella altezza sul mare.

- Di certo avranno più topi – rispose Puck, tenendo a bada Beth per evitare che si sporgesse.

- Ho sentito dire che, in confronto alle cabine di terza classe di altre navi, queste del Titanic sono molto più pulite e ben attrezzate – disse Blaine per placare i lamenti delle donne, sconvolte dalla parola “topi”.

Appoggiare il piede sulla nave fu una sensazione strana; pensavano che un solo, singolo passo avrebbe smosso l’imbarcazione facendola ondeggiare come un amo da pesca, invece era tutto troppo statico ed immobile come se non avessero nemmeno lasciato la terra ferma. Quella sensazione di vuoto che avvertirono poteva forse annunciare un futuro mal di mare? Chi lo sa.

I passeggeri di prima classe lo notarono un po’ di meno visto che ad attirare la loro attenzione erano gli interni sofisticati con mobili che andavano da uno stile più sorpassato a quello più moderno, sui quali passavano le mani coperte di guanti con l’aria di voler cercare uno strato di polvere inesistente, desiderosi invece di saggiare la qualità di quegli arredi nuovi di zecca e mai toccati da nessuno, esclusi operai e marinai ovviamente.

Si può dire che il Titanic fosse come un Grand Hotel posto sopra un hotel a quattro stelle, a sua volta posto su un albergo di provincia. Per i passeggeri, anche i più esigenti, non poteva esserci di meglio; forse solo ritrovarsi subito in America, magari con qualche giornalista pronto ad intervistarli per conoscere nei dettagli le sensazioni provate nell’aver partecipato al viaggio inaugurale del transatlantico più bello del mondo.

Tralasciando quei pensieri, i passeggeri delle varie classi, alcuni portandosi dietro i bagagli che non avevano avuto il tempo di posare nelle loro cabine, si affacciarono ai ponti delle loro classi per salutare quella terra del Vecchio Continente e i suoi abitanti che, a loro volta, li salutavano dal porto.

Era mezzogiorno in punto quando la nave si staccò dal porto, riempiendo l’aria col fumo di tre dei quattro fumaioli e col potente suono della sirena. Le urla di entusiasmo dei protagonisti di quell’evento storico per la nautica non riuscirono a superare quel fracasso, unito all’enorme massa di ferro che smuoveva l’acqua. Ma si poteva ugualmente vedere l’entusiasmo sui loro visi, più composto e formale in una buona parti di quelli di prima classe e in una piccola porzione di quelli di seconda, e più acceso e infuocato nella gioventù di tutti gli strati sociali e della terza classe al completo.

Rimasero a godersi quella lieve anticipazione di brezza marina fino a quando il porto e chi vi era rimasto non si ridusse ad un’immagine che fluì verso la sinistra dello sguardo dei passeggeri lasciando sempre più spazio all’impressionante scenario del mare aperto; e avrebbero raggiunto l’oceano solo l’indomani. Gli spiriti più liberi e sognatori avrebbero preferito rimanere sul ponte a godersi quello scenario così nuovo e affascinante ma la sistemazione dei loro effetti personali in cabina richiedeva la loro attenzione e questo a molti non dispiaceva, come al signor Fabray e consorte.

- Santo Dio! Che rumore fastidioso fanno quegli stupidi… cosi – borbottò riferendosi ai fumaioli, trascinandosi dietro la moglie e la figlia mentre un facchino li seguiva con i bagagli – Sei riuscita a notare qualcuno di importante? – domandò alla moglie.

- Credo di aver intravisto la contessa di Rothes ma non ne sono sicura. Ah! E sono sicura di aver visto i coniugi Straus che entravano nel salone; credo che la signora Straus abbia avuto un mancamento per la folla…    

- Lasciamo perdere quei due vecchi montoni. Sono ebrei; meglio non farsi vedere con loro – replicò il signor Fabray – Hai visto qualcun altro?

- Non so; c’è troppa gente. Però sono riuscita a procurarmi una lista dei passeggeri – rispose sua moglie tirando fuori dalla borsa un volantino della White Star Line ed esaminando i nomi che vi erano riportati – Sembra che sia salito a bordo anche il tenente Archibald Butt, il braccio destro del presidente Roosevelt! – esclamò emozionata.

- Che sicuramente si sarà portato dietro quell’invertito del suo amico pittore – Fabray smorzò sul nascere l’entusiasmo della moglie – C’è qualcun altro?

- Sembra che altri saliranno durante lo scalo a Cherbourg. J.J. Astor  con sua moglie, i Widener.

- Ecco! Dobbiamo cercare di intrattenerci con loro, specialmente con Astor. Sarà di sicuro l’uomo più ricco presente su questa nave.

- Ci sarà, poi, anche Benjamin Guggenheim ma sarà meglio evitarlo; viaggia con la sua nuova amante e non credo sia il caso che…

- Che assurdità! Non lo eviteremo per questa stupidaggine.

- Papà, lo sai che anche lui è ebreo? – si intromise Quinn con una punta di malignità.

- Sì, ma lui è “uno che conta” – le rispose tranquillamente il padre – Impara, figliola.

Erano intanto arrivati alla loro cabina, dove il facchino posò i loro bagagli; era una doppia con un letto matrimoniale in una stanza e un letto singolo in un’altra, una toilette completa di ogni confort ed un salottino di ricevimento.

- Quindi, piuttosto che socializzare con una rispettabile coppia di coniugi ebrei, dovremmo sederci allo stesso tavolo con un ricco fedifrago con la sua puttana?

- Modera il linguaggio! – saltò su Fabray, liquidando il facchino con una misera mancia – Cerca di non mostrare agli altri quali sono state le tue ultime “amicizie”.

A quelle parole, Quinn lanciò uno sguardo di pura rabbia e frustrazione in direzione del padre e lanciò il suo cappellino su un divano lì vicino. Sapevano benissimo in quali punti ferirla, ma avrebbe preferito mille volte morire piuttosto che mostrare al padre le sue lacrime.

- Stai tranquillo, non mostrerò proprio niente – disse, alzando il tono di voce – Non ho intenzione di prestarmi a questi tuoi patetici giochetti da arrivista, quindi non contare su di me.

- Non azzardarti a parlarmi in questo modo! – replicò il padre, avanzando contro la ragazza con aria minacciosa – Tu farai quello che voglio io, è chiaro? Finché vivrai sotto il mio stesso tetto mi obbedirai senza fare storie. Quindi levati quell’aria ribelle dalla faccia e cerca almeno di sembrare una ragazza perbene.

- Sono stufa! Stufa di sentirmi dire cosa devo fare! – si lasciò andare Quinn, mentre una lacrima fuggiasca le scivolò, suo malgrado, lungo il naso per perdersi poi tra le sue labbra semiaperte – Voglio essere lasciata in pace, per una volta!

Sentendo che altre lacrime stavano facendo forza per uscire, la ragazza si voltò ed uscì a passo veloce dalla cabina; lì fuori si ritrovò a scansare le molte persone, passeggeri ed inservienti, che camminavano per il corridoio, premendo l’indice e il pollice sulle palpebre per frenare il pianto. Non sentì, dietro sé, la voce imperiosa del padre che la richiamava né si sarebbe aspettata di sentirla; suo padre non era tipo da dare spettacolo in pubblico. Tanto meglio per lei! Sentiva il bisogno di uscire, di prendere aria; il pensiero di essere su una nave in mezzo al mare la faceva sentire ancora più prigioniera di quanto non si fosse mai sentita a casa sua, senza una via d’uscita.

Fu proprio all’uscita su uno dei ponti, non avrebbe saputo dire quale, che si scontrò inevitabilmente con una persona che invece stava rientrando; fu uno scontro abbastanza violento da spezzarle il fiato in gola e farla arretrare di qualche passo, era certa di cadere e, in quel momento, la vergogna di ritrovarsi sul pavimento sotto gli occhi di tutti avrebbe voluto evitarla ma, subito, due mani decise la afferrarono per le spalle salvandola.

- Scusatemi, signorina – disse la persona; dal tono di voce, in un primo momento, Quinn pensò di essersi scontrata con una sua coetanea ma le mani, il gilet a fiori rossi arabescati, sebbene vistoso, erano senza dubbio maschili. Alzando gli occhi non più appannati dalle lacrime e dalla pressione delle dita, vide un ragazzo dall’aria sofisticata priva però di quella freddezza che le si accompagnava nei giovani dell’alta società; quel piccolo dettaglio le avrebbe fatto credere che lui appartenesse alla schiera dei “nuovi ricchi” eppure il portamento sembrava dire il contrario.

- No, scusatemi voi, non dovevo correre così – rispose lei, risistemandosi compostamente.

- State male? Avete bisogno d’aiuto? – si informò il ragazzo.

- No, vi ringrazio; ho solo bisogno di un po’ d’aria. Con permesso – e così dicendo superò il ragazzo, che la tenne d’occhio per scrupolo fino a quando non la perse di vista, ed uscì finalmente sul ponte.

Avrebbe tanto voluto vederlo libero ma ad occuparlo c’erano molti passeggeri, desiderosi di godersi quella fresca brezza marittima, che si erano impossessati di sedie a sdraio e di spazi sulla ringhiera; c’era aria anche per lei ma quel muro di spalle e cappelli lungo la balaustra non le permetteva un’ampia vista sul mare. A quanto sembrava, anche fuori dalla cabina, lontana da suo padre non c’era modo di ritagliarsi uno spazio aperto.

“Meglio di niente” pensò, rassegnata, incamminandosi lungo il ponte.

 

* * *

 

In terza classe, a meno che non si trattasse di famiglie, e anche in quel caso era difficile restare uniti, gli uomini e le donne erano messi in cabine separate. Con i soldi che avevano messi insieme, Puck ed il suo gruppo avevano acquistato biglietti per due cabine: in una si sistemarono lui con Blaine e Mike, mentre le donne nella seconda; visto che i letti per dormire erano solo quattro, si decise che Rachel e Sugar ne avrebbero condiviso uno mentre Beth avrebbe dormito con Shelby; poi, per il resto, c’erano la sala comune e la sala di ritrovo e il ponte di terza dove stare tutti insieme a godersi il viaggio prima di arrivare in America anzi, Mike stava già cercando di corrompere i suoi due compagni di stanza affinché gli lasciassero la cabina libera per una notte e, al tempo stesso, Tina stava pensando di cedere a Rachel il suo letto.

- Voglio andare sopra a vedere il mare – fece Beth dibattendosi sul letto dove Shelby la teneva distesa nell’arduo tentativo di infilarle una sottanina pulita.

- Non prima di esserti coperta bene; sopra fa freschetto e non devi ammalarti – disse Shelby, pazientemente – Cosa pensi che direbbe “Mamma Stella” se ti prendessi un raffreddore?

- “Mamma Stella Mamma Stella Mamma Stella” – si mise a cantare la bimba, mangiandosi le parole o pronunciandole in modo buffo a causa dei denti storti.

- Ho capito – riprese Shelby – Se ti racconto di nuovo la storia di “mamma Stella” mi prometti di stare buona fino a quando non avrò finito di cambiarti?

Beth rispose con un cenno del capo, nascondendo un sorriso emozionato tra le manine.

- Allora – incominciò la donna – “Una volta, alcuni anni fa, dal cielo cadde una piccola stellina luminosa; man mano che la stellina si avvicinava alla terra, diventava sempre più grande fino a diventare una bellissima fanciulla, una principessa del cielo. E sai chi era quella principessa?

- Mamma Stella.

- Un contadino, passando di lì, la vide e subito se ne innamorò. Anche lui era giovane e bello e anche Mamma Stella si innamorò di lui. E sai chi era quel contadino?

- Papà Puck.

- Quella stessa notte Mamma Stella e Papà Puck si giurarono eterno amore e da quell’amore nacque una bellissima bambina. E sai chi era quella bambina?

- Io – rispose entusiasta Beth.

- Ma il cattivissimo Re delle Nubi Temporalesche, invidioso della loro felicità, sollevò un vento fortissimo che spazzò via ogni cosa che incontrava e che portò via Mamma Stella, trascinandola via in cielo. Disperata per essere stata separata dalla sua bambina, la principessa da lassù pregò una donna senza figli di prendersi cura di sua figlia. E sai chi era quella donna?

- Mamma Shelby – rispose ancora Beth, indicando la donna davanti a sé.

- Rassicurata di sapere sua figlia in buone mani, Mamma Stella accettò la sua reclusione nel cielo, assieme alle altre sue sorelle stelle, dove avrebbe potuto vegliare sui sogni della sua bambina fino al giorno in cui avrebbe potuto incontrarla di nuovo.

Nel mentre che aveva raccontato quella fiaba, Shelby riuscì a sistemare la sottanina addosso a Beth, che l’aveva ascoltata rapita come ogni volta; adesso, tranquilla e soddisfatta, era la perfetta riproduzione di una di quelle bambole di porcellana che i giocattolai esibivano nelle vetrine dei loro negozi, con giusto una macchiolina di grasso sull’orlo della vesticciola che non erano riusciti a togliere ad indicare la loro realtà.

- Adesso, sei veramente la bella e brava bambina che sei – disse Shelby mettendola in piedi sul letto e baciandole le guance – Su, usciamo e facciamoci vedere da tutti.

- Anche da Mamma Stella? – chiese la bambina.

- A quest’ora Mamma Stella sta dormendo assieme a tutte le sue sorelle stelline; ma stanotte verrà lei a vederti, mentre dormi.

- Allora la vedrò in sogno?

- Sì, tesoro mio – le rispose teneramente la donna prendendole la mano e accompagnandola fuori dalla cabina.

 

* * *

 

Alle sei e mezzo di sera di quello stesso giorno, il Titanic attraccò nei pressi di Cherbourg, in Francia, dove salirono altri 274 passeggeri, e riprese il viaggio alle otto. Il giorno successivo, alle undici e mezzo di mattina sostò a Queenstown, sulla costa irlandese, dove si imbarcarono altre 120 persone. All’una e mezzo ripartì, stavolta puntando verso l’oceano. A bordo c’erano 2.223 passeggeri.

 

 

 

Nota dell’autore:

Qui ho citato un bel po’ di personaggi realmente esistiti. I più noti sono sicuramente J.J Astor, l’uomo più ricco a bordo del Titanic, assieme a sua moglie Madeleine, Benjamin Guggenheim altro noto industriale dell’epoca, i coniugi Straus, proprietari dei grandi magazzini Macy’s; altri meno noti sono la contessa di Rothes che dopo il naufragio si occupò delle vedove e degli orfani della tragedia assieme ad altre donne, Archibald Butt, persona molto in vista alla Casa Bianca, che viaggiava assieme al suo migliore amico (e forse amante) il pittore Francis Millet.

Loro furono tra le persone che più si distinsero durante il naufragio, nel bene e nel male, tra i sopravvissuti come la contessa di Rothes e la giovane moglie di Astor e tra i morti come tutti gli altri.

Purtroppo, non tutti mostrarono il loro coraggio e il loro senso del sacrificio.

Una cosa su cui ho puntato l’attenzione, e che ritornerà più volte perché è parte integrante della tragedia del Titanic, è la xenofobia e la relegazione dei poveri sul gradino più basso della scala sociale. Per quanto ingiusto, all’epoca tutto ciò era nella norma e nemmeno dopo i fatti del 1912 le cose sembrarono cambiare; infatti, nelle inchieste che seguirono non venne mai ascoltato nessuno dei sopravvissuti della terza classe e solo in tempi più recenti si è portata l’attenzione su questo aspetto dell’epoca. Se ci sono delle vere vittime, sono loro. I ricchi hanno avuto la loro possibilità di salvarsi, che poi l’abbiano colta o meno è stata una loro decisione; i poveri, invece, non hanno avuto nemmeno questa possibilità perché considerati senza importanza e chiusi nella loro “zona” come topi e liberati solo quando era ormai troppo tardi.

Finita la parentesi storico-sociale, passiamo al capitolo.

Ammetto che non mi convince assolutamente il litigio tra Quinn e suo padre ma non ho saputo fare di meglio. Questo capitolo è di passaggio; la storia vera e propria inizierà col prossimo quindi se, come penso, questo capitolo vi ha annoiati, vi chiedo di resistere ancora un po’. E, come ho già segnato nella mia pagina su fb (che potete trovare qui http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483) aggiornerò questa mini-long ogni mercoledì, salvo imprevisti o ritardi.

Ringrazio tutte le persone che mi hanno recensito, che seguono la mia storia e che leggono solo. A tutti quanti, un bacio.

 

Lusio

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Capitolo 3
*** Il passato segue il presente ***


Il passato segue il presente

 

Quinn non si aspettava che a bordo del Titanic ci fossero tanti altri parassiti in cerca di vantaggi economici e finanziari come suo padre; non che la cosa le risollevasse l’animo, tutt’altro: le faceva provare ancora più vergogna. Più che fingere un forte mal di testa per rimanere in cabina o fare avanti e indietro sul ponte di passeggiata nelle ore in cui era meno affollato, non poteva fare altro. Ma questo andazzo non si prolungò oltre il secondo giorno di viaggio; forse era l’aria fresca del mare aperto che apriva non solo il naso ma anche gli occhi e le orecchie, fatto sta che i ricchi magnati di prima classe sembravano avvertire l’odore di lecchino e sanguisuga che suo padre emanava da due piani più giù del salone.

Fabray non era l’unico; ce ne erano altri e meno riservati e più patetici di lui. Almeno questo gli era stato concesso. Comunque, ciò non cambiò il fatto che si ritrovarono, lui e sua moglie, liquidati dai personaggi più importanti lì presenti con qualche mezza frase di cortesia e nient’altro; persino i coniugi Duff-Gordon* girarono alla larga da loro.

Uno sfregio altrettanto bruciante era quello di dover consumare i pasti da soli mentre altri si facevano compagnia in tavolate che ospitavano due o più gruppi di famiglie altolocate; almeno in quelle occasioni il sorriso che Quinn aveva sfoggiato non era simulato. Forse quel risultato avrebbe reso quasi “piacevole” il viaggio. E, forse, a togliere quel “quasi” avrebbe potuto riuscirci un incontro, anzi un rincontro, il terzo giorno di viaggio.

- Sono lieto di rivederla meno agitata, signorina.

Quinn riconobbe subito quella voce inconfondibile pur avendola ascoltata una sola volta e per nemmeno un minuto. Era il ragazzo col quale si era scontrata il giorno della partenza, elegante come quel giorno, stavolta però il suo gilet era blu notte.

- E io sono lieta di non averla nuovamente travolto, signorino – rispose la ragazza.

- Prego, Kurt Hummel; niente “signore”, mi fa sentire vecchio, e soprattutto niente “signorino”, mi fa sentire un bambolotto di bassa lega.

- Se la mettete così, allora, togliete quel “signorina” e sostituitelo col mio nome: Quinn Fabray.

- Viaggiate con i vostri genitori? – cercò di conversare Kurt, vedendo che il ghiaccio era rotto – Credo di avervi visti nella sala ristorante per i fatti vostri.

Per Quinn fu un sollievo non sentire nominati gli imbarazzanti approcci di suo padre che non dovevano certamente essere passati inosservati a quel ragazzo che sembrava dotato di un buon occhio sia per le persone che per la moda. Questa cortesia glielo fece piacere ancora di più.

- Mi dispiace di non poter ricambiare dicendovi di aver visto voi e chi vi accompagna – rispose Quinn, cortesemente.

- E’ un buon segno, allora – replicò Kurt, ridacchiando – Significa che il mio fratellastro non ha fatto nulla di così imbarazzante da essere notato.

- O Dio – esclamò la ragazza, lasciando comparire sul viso un sorriso divertito – Allora voi, Kurt, viaggiate con il vostro fratellastro?

- E con mio padre e la mia matrigna.

Continuarono la conversazione sul versante tradizionale, parlando del più e del meno fino a quando Kurt non si azzardò ad invitare Quinn e i suoi genitori al tavolo della sua famiglia per il pranzo e lei fu lieta di accettare.

Quando lo disse a sua madre e a suo padre, la prima dimostrò tutta la sua approvazione e la sua contentezza al pensiero di non dover ripetere l’umiliazione dei primi giorni appena passati, mentre il secondo si preoccupò solo di informarsi sugli Hummel-Hudson salvo poi storcere naso e bocca dopo aver saputo che non si trattava di una famiglia nota o facoltosa; comunque, pur brontolando, non fece alcuna obiezione. In cuor suo sperava, magari, di attirare l’attenzione di qualcuno facendosi vedere a tavola in compagnia.

Così, all’ora di pranzo, i Fabray entrarono nella sala ristorante nei loro abiti migliori e con l’aria più aristocratica possibile che facevano il loro bel effetto con la musica dell’orchestra in sottofondo. Nella marea di abiti eleganti, capelli impomatati e gioielli luminosi, Quinn trovò subito la sua nuova conoscenza; seduti con lui c’erano anche un distinto signore calvo comodamente seduto sulla sua sedia, con accanto una signora di mezza età vestita semplicemente e con un dolce sorriso materno sul volto e un ragazzone alto e, a quanto pareva, un po’ in difficoltà con l’uso delle posate**.

I Fabray non dovevano essere gli unici ospiti di quel tavolo perché, lì seduta, c’era anche una signora dall’aria arcigna, impettita nel suo vestito alla garçon che le dava l’aria di una giornalista e non sembrava avere alcun grado di parentela con nessuno degli altri commensali.

Kurt vide Quinn a sua volta e la invitò con un cenno a raggiungerli; all’arrivo dei Fabray, il ragazzo, suo padre e il suo fratellastro si alzarono educatamente per dare loro il benvenuto mentre le donne rimasero ai loro posti, l’una salutando educatamente i nuovi arrivati, l’altra degnandoli appena di uno sguardo troppo impegnata a “torturare” il suo agnello in salsa alla menta.

- Signor Fabray, siamo lieti di avere voi e la vostra famiglia come ospiti al nostro tavolo – fece Burt Hummel, calorosamente – Non vorrei sbagliarmi ma credo che ci siamo già visti.

- Davvero? Non credo di ricordare – rispose Fabray accomodandosi, cercando di apparire educatamente interessato.

- Sì! – continuò Burt, ancora più convinto – Voi avete, per caso, una Daimler del 1909?

- Sì, ne ho una – confermò Fabray, orgoglioso di esibire verbalmente uno dei suoi beni.

- Allora già ci siamo incontrati: mi sono occupato io stesso del motore del vostro gioiellino. Sono a capo di un’azienda di riparazioni di automobili.

A sentire quella più precisa presentazione, Fabray non riuscì a nascondere un’espressione costernata che rischiava di tramutarsi in autentico disgusto. Aveva nutrito la sempre viva speranza di aver trovato una possibile “chiave d’accesso” al mondo dell’alta élite e invece si ritrovava seduto allo stesso tavolo di un carrozziere dalle mani sudice. Automaticamente, gli occhi gli caddero sui due artefici di quell’incontro: sua figlia Quinn e il figlio di quell’Hummel. Forse quello era tutto un piano di quel ragazzino per circuire sua figlia sperando di contrarre un matrimonio vantaggioso?

Un vistoso colpo di tosse interruppe le sue elucubrazioni.

La donna con l’aria da zitella inacidita stava iniziando a battere rabbiosamente il coltello contro il bordo del suo piatto e il mento puntato in alto.

- Oh, scusateci Sue – le disse Carole, battendole gentilmente il dorso della mano – Signori, lasciate che vi presenti la signora Susan Sylvester.

- Prego, “signorina” – la corresse Sue – Il matrimonio non rientra nella lista delle cose che ho intenzione di fare.

Fabray fu costretto a mordersi la lingua per frenare la battuta poco educata che le parole della donna gli avevano stuzzicato; solo Quinn si accorse del suo pensiero, vista l’occhiataccia che gli lanciò.

- Anche la signorina Sylvester è una donna in carriera – disse Burt – Scrive sui giornali ed è impegnata nel movimento femminista.

- Davvero? – fece la signora Fabray, molto interessata – E di cosa vi occupate in quel campo?

- Cerco di fare quello che i nostri antenati avrebbero dovuto fare secoli fa: impedire che il mondo vada in malora – rispose Sue – E la cosa migliore da fare al momento per realizzare ciò è riequilibrare la distribuzione dei poteri.

- Cioè? – chiese la signora Fabray sempre più interessata, sostenuta moralmente dalla figlia e dalla signora Hummel-Hudson.

- Togliere gli uomini da quelle postazioni in cui fanno più danni e sostituirli con noi donne; anche se in questo modo, credo, non avremo più nemmeno un paio di favoriti al governo, a meno che anche tra noi donne non diventi una moda farsi crescere una disgustosa mezza barba attaccata ai lati della faccia.

Quella veloce risposta strappò una risata a tutti, ognuno con la propria gradazione di suono: da quella più alta di Burt e Finn a quella più bassa di Carole e della signora Fabray, passando per quella più raccolta di Quinn e Kurt e finendo per quella silenziosa e inesistente di Fabray.

- Quindi, secondo voi, un governo gestito da donne sarebbe migliore di quello attuale gestito da uomini? – chiese quest’ultimo cercando di nascondere lo scherno nella sua voce.

- Finora sono stati gli uomini a salassarci con spese inutili per guerre altrettanto inutili – rispose Sue senza perdere la sua pungente compostezza.

- Se vi interessa la mia opinione – continuò Fabray – non credo proprio che dare il potere alle donne possa risolvere i problemi del mondo anzi sono sicuro che li aggraverebbe ulteriormente.

- Per rispondere al vostro “se”: no, la vostra opinione mi interessa meno della musica che stanno pizzicando quegli pseudo-musicisti – e Sue indicò l’orchestra in sala che stava suonando un “Allegro”, forse di Mozart – E, per rispondere alla vostra opinione: le vostre parole non fanno che confermare quanto ho detto.

- E’ risaputo che, per natura, le donne sono deboli e facili a lasciarsi andare alle emozioni e, di conseguenza, inadatte al ruolo di governanti.

- Ma, a quanto mi risulta, a fare grande l’Inghilterra è stata Elisabetta I e Caterina II ha fatto lo stesso con la Russia, per non parlare di Caterina di Svevia e di Caterina de Medici.

- Temo che questi esempi non valgano visto che le donne che avete citato conservano una cattiva nomea***.

- Visto che sembrate così colto, sapreste spiegarmi perché solo alle donne viene concesso il “privilegio” di una memoria così oscura e torbida? Se non sbaglio, anche la Storia è una cosa che gli uomini si divertono a scrivere.

Vedendo la piega che stava prendendo quella “non tanto tranquilla conversazione”, Burt si lasciò andare ad un sonoro colpo di tosse e, nello stesso momento, sua moglie Carole batté elegantemente il coltello da dessert contro il bicchiere dicendo:

- Vi prego, bandiamo per sempre da questa tavola i discorsi politici e polemici.

- Infatti – disse Quinn – Siamo sulla nave più bella del mondo, dovremmo goderci questi giorni.

E proprio in quel momento, Quinn pensò sinceramente quello che disse. Solo qualche giorno fa quest’idea non la sfiorava nemmeno e quello su cui viaggiava era solo una nave passeggeri come tante e la sua destinazione una patetica scusa per giustificare il desiderio di avanzamento di suo padre, eppure, dopo tanto tempo, sentiva il cuore pieno di una serenità che credeva di non poter più provare. Forse era la presenza di quelle persone sincere e vere che la faceva sentire così bene.

- Ha ragione – concordò con lei Kurt – Chissà se avremo ancora dei giorni così.

- Dio! Kurt, detto così sembra che dovremo morire tutti alla fine di questa traversata! – esclamò il suo fratellastro Finn.

- Voglio dire che non ci capiterà mai più di partecipare al viaggio inaugurale di uno dei più bei transatlantici che esistono – si corresse Kurt, mentre le guance gli si coloravano di rosso.

- Bene – si lasciò convincere Sue – Dopo aver sentito la “voce dell’innocenza” possiamo, allora, cambiare argomento.

- Veramente, io avrei diciannove anni – reagì Kurt.

- Non sperare di ingannarmi con quei dentini da latte.        

Il pranzo continuò tra vari argomenti di conversazione arricchiti dalle sarcastiche battute di Sue; così si passò dai lavori e dagli impegni mondani di ognuno, ciò che li spingeva a fare quella traversata oceanica (e, su questo, Fabray fu molto bravo a omettere la verità), fino a che si arrivò a parlare dei giovani.

- Naturalmente – esordì Fabray, orgogliosamente, parlando anche a nome delle moglie – nostra figlia sa benissimo che, al nostro arrivo in America, la aspetta il suo debutto in società e, a Dio piacendo, un buon matrimonio.

Quinn posò in maniera brusca il suo calice di vino rosso, forse in maniera troppo brusca e, per evitare che la sua irritazione si notasse ulteriormente, appoggiò le mani in grembo e scaricò la tensione stritolando il tovagliolo, mentre le guance le si tingevano di rosso vivo.

- Credo di poter esprimere la mia opinione in merito – rispose al padre senza preoccuparsi di nascondere la ribellione insita nelle sue parole.

- Brava la ragazza! – esclamò Sue, entusiasta – Vai così! Fatti valere!

- Quinn, ne abbiamo già parlato mille volte – sibilò Fabray – E, per favore, controllati.

Per tutta risposta, Quinn alzò seccamente il mento lasciando che il suo sguardo si perdesse in un punto indefinito della sala, in direzione dell’orchestra.

- Perdonatemi Carole – chiese la signora Fabray timidamente, spostando l’attenzione dal marito e dalla figlia – Non vorrei che mi consideraste indelicata, ma non credo di aver capito chi sia vostro figlio tra i vostri due ragazzi.

- Non preoccupatevi nemmeno – la tranquillizzò Carole – Dal punto di vista tecnico è Finn mio figlio ma, se teniamo in considerazione l’affetto, Kurt è mio figlio tanto quanto Finn.

- E per me è lo stesso – le fece eco Burt, prendendole la mano – Questo è il bello della nostra famiglia. Come disse Carole il giorno del nostro matrimonio: “Siamo quattro persone trasformate in famiglia”****.

A quello scambio di affetto famigliare si unirono, in maniera diversa e meno espansiva, anche Finn e Kurt, mentre Quinn e sua madre avvertirono una tenue invidia pervaderle, e Fabray si passò con nonchalance una mano sulla bocca per nascondere uno sbadiglio.

- Oddio! Che eccesso di zucchero! – commentò sarcasticamente Sue, con aria disgustata – Credo proprio che oggi salterò il dolce.

- E cosa avete pensato per il futuro dei vostri ragazzi? – cambiò argomento Fabray.

- Abbiamo abbastanza fiducia in loro da lasciare che gestiscano da soli la loro vita – rispose Burt, suscitando lo sconcerto del suo interlocutore – Il nostro Kurt aspira ad intraprendere la carriera teatrale.

- Ah! Interessante – disse Fabray, malcelando una risatina di scherno che non venne ignorata da Quinn che vide, con mortificazione, il viso di Kurt velato di una malinconia subito spazzata via da un sorriso divertito. Se aveva aspirazioni da attore, ne aveva anche le capacità.

Se in un primo momento aveva provato semplice simpatia per quel ragazzo, adesso non poté fare a meno di ammirarlo. In lui vedeva la forza interiore che lei pensava di non avere.

 

* * *

 

- Mi dispiace molto per come si è comportato mio padre. Da quanto avrai notato non è una persona con la quale si può sperare di avere una conversazione civile.

Quinn e Kurt camminavano tranquillamente sul ponte di passeggiata, approfittando del fatto che fosse poco affollato, visto che dopo pranzo gli uomini si ritiravano in sala fumatori mentre le donne si intrattenevano in sala lettura per gli ultimi pettegolezzi, per godersi tranquillamente l’aria pomeridiana che spirava dal mare d’Aprile e il tenue sole che dava un po’ di conforto contro il vento fresco.

Il pranzo era proseguito tranquillamente, nonostante il crudele e velato sarcasmo di Fabray, in contrasto con quello più aperto e, in un certo senso, simpatico di Sue Sylvester. Tutti gli altri commensali avevano dimostrato più educazione e (Quinn lo pensò con un senso di trionfo) e classe non dandogli retta e continuando a parlare tranquillamente; dopo che gli stewart ebbero portato via l’ultima portata, mentre le signore, esclusa Sue, preferirono ritirarsi nelle rispettive cabine e gli uomini si salutarono educatamente per andare; Fabray ad elemosinare le solite attenzioni in sala fumatori, Burt e Finn a parlare con alcuni amici di famiglia che avevano visto, i due più giovani si erano defilati fuori per smaltire tutte quelle portate e parlare più liberamente; tra le altre cose avevano scoperto di avere in comune una fissazione per la cura del corpo quindi tennero senza problemi un buon passo di marcia lungo il ponte.

- Anzi, sembra che si diverta a far perdere la calma a chi ha a che fare con lui – continuò la ragazza.

- Non preoccuparti – replicò Kurt, rassegnato – Sono abituato alle critiche degli altri.

- Trovo difficile crederlo. Tu e la tua famiglia siete… così diversi. Voi siete buoni.

- E perché non dovremmo esserlo?

- Voglio dire… non siete come la maggior parte delle persone che ho conosciuto, persone come mio padre.

- Fidati. Lo status o la bontà non ti assicurano una difesa contro il pregiudizio.

- Questo lo so anch’io – replicò Quinn, lasciando scorrere una mano sul ventre ricordando quei mesi scanditi solo dalla condanna di chi la circondava senza un briciolo di comprensione – Che brutta razza l’uomo.

- Siamo tutte delle brutte razze: c’è quella dominante che crede di avere potere universale su tutto ciò che tocca e domina; ci sono quelle predatrici e già dal nome si capisce la loro funzione e il loro modo di vivere; poi ci sono quelle tranquille, gli invisibili, quelli che rimangono in silenzio accontentandosi di quello che hanno; infine, ci sono i derelitti, quelle razze che sono poste al gradino più basso, rifiutati da tutti perché diversi dagli altri, per la religione, il paese d’origine… o altro. Per ironia della sorte, quest’ultima razza è la più numerosa. E’ una struttura che, credo, potrebbe applicarsi tranquillamente a chi viaggia su questa nave.

- Tu a quale “razza” appartieni?

- All’ultima – rispose Kurt, semplicemente.

In quel momento, guardandolo negli occhi, Quinn credé di trovarvi una risposta sottintesa, come se Kurt avesse cercato di confessarle il suo più profondo segreto con quella semplice risposta. Una parola non detta con la quale Kurt si metteva completamente a nudo, sapendo di rischiare tanto. Il minimo che Quinn avrebbe potuto dargli era un segno di accettazione o rifiuto che fosse e, se avesse potuto, lo avrebbe stretto in un abbraccio, ma c’erano troppi occhi che potevano vederli ( anche due paia d’occhi sarebbero stati troppi).

Si erano fermati lungo la balaustra che delimitava il ponte di prima e che si affacciava su quello di Kurt dandogli una lieve stretta affettuosa.

- Anche io – rispose Quinn.

Kurt sorrise sollevato, abbassando lo sguardo sul sottostante ponte di terza classe dove alcuni passeggeri, emigranti a giudicare dall’aspetto, passavano il tempo chiacchierando e giocando; si notavano, in particolare, un ragazzo che camminava a gattoni portando in groppa una bambina che rideva divertita , tenendosi ai riccioli neri del ragazzo, mentre un altro li seguiva muovendosi in maniera buffa.

- E pensare che molti di loro preferirebbero essere al nostro posto, quando io non so che darei per essere spensierato come quel gruppetto lì – commentò Kurt, permettendosi di indugiare sul ragazzo che portava quel piccolo fardello biondo – Noi invidiamo loro e loro invidiano noi; forse è per questo che Mark Twain ha scritto “Il Principe e il Povero”.

Ma Quinn non lo aveva ascoltato, stava guardando sconvolta quella scena, proprio mentre il secondo ragazzo prendeva la bambina e la sollevava in aria… quando anche lui vide Quinn.

 

* * *

 

- Noah, cos’è successo? – si informò Shelby allarmata dopo aver visto il ragazzo rientrare come una furia con Beth in braccio.

- L’ho vista – rispose Puck, stringendo più forte la bambina, come se avesse potuto paura che sentisse – Anche lei è qui.

- Chi? – chiese Shelby, senza capire.

- Lei! – esclamò Puck, soffiando la risposta e allora la donna, finalmente, capì.

- Quinn.

 

 

 

Nota dell’autore:

* Cosmo e Lucile Duff-Gordon, coppia dell’alta società, poco ben vista perché lei era una divorziata. Lui era uno schermidore, lei una stilista. Si salvarono entrambi su una scialuppa che conteneva solo dodici persone e, in seguito, furono accusati di aver corrotto i marinai affinché non ritornassero indietro a salvare le persone che erano in acqua.

** In certe occasioni e in certi ambienti non sono avari con le posate.

*** A suo tempo, Elisabetta I fu definita “l’eretica”; Caterina di Russia fu accusata di essere una messalina, Caterina di Svevia un’ermafrodita, Caterina de Medici un’avvelenatrice.

**** Vediamo se indovinate questa citazione ; D

 

E con questo capitolo inizia la storia vera e propria… non che duri molto, a dire il vero.

Dite la verità: ve l’aspettavate la Kuinn friedship? Il fatto è che, ormai, in questo fandom si trovano solo Hummelberry e Kurtana e mi è venuta voglia di portare una ventata di novità. Anzi, prossimamente riporterò un altro po’ di Kurtcedes che mi piace tanto.

Scrivere le parti di Sue è forse la cosa più divertente che mi sia mai capitato di fare; mi chiedo perché non ho mai utilizzato il suo personaggio finora.

Cosa pensate che accadrà adesso che Quinn e Puck si sono rivisti? Spero di avervi incuriositi abbastanza da continuare a seguire questa storia.

Per altre cose, vi lascio sempre il link della mia pagina http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483

Ringrazio tutte le care persone che hanno inserito questa mia mini-long tra le preferite e le seguite e che lascia una recensione e chi legge solo.

Grazie.

 

Lusio

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Capitolo 4
*** Hai perso la tua occasione ***


Hai perso la tua occasione

 

Per tutto il resto della giornata, Quinn cercò di convincersi che non era vero ciò che aveva visto, che era stato uno scherzo della sua mente, unita al freddo sole d’Aprile e all’aria di mare; il dialogo con Kurt l’aveva fatta sentire vulnerabile come non si era più sentita da tanto e le aveva fatto affiorare tutti i ricordi del suo passato e buona parte di essi erano pieni del volto di Puck, dei suoi baci dolci ma anche rudi come l’ambiente nel quale era cresciuto, delle sue braccia che la stringevano così forte da spegnerle il respiro in petto, di quel ventre che non era più suo e che diventava più grosso ogni mese che passava. Sì, doveva essere così: quello non era Puck, erano i suoi pensieri che avevano preso corpo lì sul ponte di terza classe.

Eppure, quella sera stessa ritornò di nuovo alla balaustra e alla tenue luce delle stelle e delle luci sul ponte le parve di vedere nuovamente la sua ombra spiarla di nascosto come se anche essa volesse accertarsi della sua reale esistenza. Anche allora poteva esserci una spiegazione: il buio, l’impressione, i suoi pensieri, mille altre cose.

Solo quando andò a coricarsi le passò sugli occhi, come un velo che scivola via da uno specchio, l’immagine viva e guizzante come una fiammella dorata della bambina in braccio all’immagine di Puck. Poteva essere…

“Perché non l’ho vista meglio?” pensò per tutta le ore che seguirono, torturandosi i palmi delle mani con le unghie ben curate.

Il giorno dopo ritornò ancora a quella balaustra e, come se si fossero dati un appuntamento, vide ancora quella figura adesso troppo solida e reale per essere definita un’ombra o un ricordo . Ogni dubbio svanì quando i loro occhi si incrociarono nuovamente. Era Noah Puckerman sul ponte di terza ed era Quinn Lucy Fabray sul ponte di prima.

Accompagnata da Kurt, Quinn trascorse l’intera giornata sul ponte, incurante del freddo ma più terrorizzata dalla solitudine e desiderosa di avere un sostegno; non se la sentì di raccontargli la verità in modo che capisse la causa della sua ansia e, comunque, lui non le chiese nulla, forse capendo cosa la tormentava come lei aveva compreso il vero essere del ragazzo. E, come Quinn aveva fatto con lui, Kurt non le voltò le spalle e le rimase accanto fino a quando ella non capì che, se qualcosa, qualsiasi cosa, andava fatta avrebbe dovuto prendere lei l’iniziativa.

Quasi a volerle dare una spinta, il destino o il caso o qualunque cosa fosse, le venne in aiuto.

Il quinto giorno di viaggio, il 14 Aprile, era domenica. Si sarebbe tenuta una funzione religiosa presenziata dal capitano Smith in persona alla quale era stato concesso di partecipare anche ai passeggeri di seconda e di terza classe protestanti anche se si sarebbe tenuta in prima classe; così, solo per quel giorno si videro, nella stessa stanza, passeggeri di prima classe nei loro abiti migliori seduti nelle prime file, alcuni passeggeri di seconda e, ai margini estremi, su sedie più lontane se non in piedi, pochi passeggeri di terza. Non c’era poi così tanta gente; la maggior parte delle persone a bordo era troppo impegnata a godersi la traversata e tutte le comodità che la nave concedeva, altri erano cattolici (in terza classe c’erano anche ebrei, musulmani e altri) e visti i problemi che c’erano con i protestanti si preferiva evitare eventuali contatti religiosi.

Tra la schiera dei cattolici c’erano anche i Fabray, ma il capofamiglia non era uomo da farsi degli scrupoli, non quando gli si presentava l’ennesima occasione di farsi notare dall’élite, anche se quell’ “occasione” era identica a tutte le altre e, sicuramente, avrebbe portato ai medesimi risultati. Quindi si presentarono anche loro alla funzione; quella volta Quinn non si ribellò.

Mentre entravano, lo sguardo le cadde su una piccola scena all’apparenza di poca importanza: due giovani donne di terza classe che discutevano animatamente con uno degli steward che stava cercando di impedire l’accesso ad una di loro perché di colore.  Non era una cosa che a Quinn interessasse al momento ma un piccolo dettaglio attirò la sua attenzione: quando passò di fianco a loro, la giovane donna di colore diede una gomitata alla sua compagna, dal viso allungato e i capelli ramati, indicando nella direzione di Quinn e mormorandole qualcosa che non riuscì a cogliere nella marea di persone che parlavano nella sala.

Pensò di aver preso un abbaglio e che ad attirare l’attenzione delle due passeggere fosse stato qualcun altro sulla sua stessa scia; ma non era così. Un istante prima che potesse prendere posto, la giovane dal viso affilato le si accostò e, con una voce bassa ma squillante, le chiese:

- Siete voi la signorina Fabray?

- Sì. Perché? – replicò Quinn ponendosi sulla difensiva.

- Questa è per voi – concluse rapidamente la giovane consegnandole un pezzo di carta piegato in due e uscendo rapidamente dalla sala.

Ancora frastornata, Quinn accartocciò subito quel messaggio nel pugno col timore che i suoi genitori se ne accorgessero ma, per sua fortuna, ciò non accadde.

Per tutto il tempo che durò la funzione quel biglietto bruciò nella sua mano e la sua mente non poté fare a meno di correre alle parole ancora sconosciute che vi erano impresse ed ebbe il solo desiderio che quella messa protestante finisse subito. E quando, alla fine, il pastore congedò i fedeli, approfittando della folla che usciva rumorosamente, si allontanò accusando un capogiro ed uscì sul ponte e sedendosi sulla prima sdraio libera.

Senza curarsi della gente che avrebbe potuto vederla, dispiegò la lettera e ne lesse le parole scritte in quella grafia poco esperta che ben conosceva.

 

Vieni stasera alle dieci alla balaustra del ponte di prima, verso il cancelletto che lo separa dal ponte di terza. Io sarò lì.

 

                                                                                                                                 Puck

 

“E’ così. Non ci si può liberare del passato” pensò.

Rialzandosi fieramente, Quinn si accostò alla balaustra strappando un brandello di quel biglietto ad ogni passo che faceva; suo padre l’aveva costretta a bruciare tutte le lettere che aveva ricevuto da Puck in passato e non c’era motivo di risparmiare quell’ultima, scritta in fretta e furia e senza un briciolo di sentimento.

Quando i suoi gomiti toccarono il legno della balaustra, aprì le mani e liberò i frammenti di carta che, nel vento che li trascinò, persero il significato concreto che avevano nella loro interezza e salirono su, su dove, se avessero avuto gli occhi, avrebbero potuto vedere ciò che i passeggeri del Titanic nemmeno potevano immaginare; ma se anche avessero potuto, non vi avrebbero dato importanza. In fondo, viaggiavano su una nave inaffondabile.

 

* * *

 

Avrebbe potuto vivere quelle ore col cuore in gola adesso che aveva una motivazione concreta ma… perché mai? A cosa sarebbe servito? Ormai sapeva che non era stato tutto un gioco della sua mente e darsi un’ulteriore pena l’avrebbe solo fatta stare peggio. A pensarci meglio non capiva nemmeno perché si fosse spaventata così. Forse perché il suo passato ritornava a presentarle il conto.

Finita la cena disse ai suoi genitori che usciva per andare a prendere un po’ d’aria.

- Copriti bene, tesoro, e non prendere freddo – si raccomandò sua madre – E non fare tardi.

Quinn si limitò a rispondergli con un “sì” e rivolse un breve cenno del capo a Kurt, alzatosi per accompagnarla, facendogli capire che “doveva” andare da sola; il ragazzo la capì al volo e si rimise seduto.

Uscita sul ponte fu investita dall’aria gelida della notte e si strinse nel suo scialle foderato di pelliccia. Quella era una notte bellissima: limpida e punteggiata di stelle, con solo una leggera foschia a velarla; persino il mare era calmo, senza onde ad incresparlo, escluso il movimento della nave.

Più si avvicinava alla balaustra più i suoi passi si facevano pesanti e quando la raggiunse si lasciò scivolare lungo la barra di legno fino al cancelletto; si vede che le sue mani, rese insensibili dal freddo, erano più veloci o forse erano talmente irrigidite che il cervello non riusciva più a controllarle.

Quando giunse, lui era lì, aggrappato al cancelletto sulle scale che portavano sul ponte di prima e che venivano usate dai marinai e dagli altri membri dello staff. Era imbacuccato in un cappotto nero sbiadito che lo copriva fino alle orecchie ma era lui, Quinn lo riconobbe subito; poteva ancora sentire il suo odore misto al profumo pungente del freddo.

Probabilmente anche lui avvertì l’odore di Quinn visto che si voltò verso di lei prima ancora di sentire i suoi passi silenziosi. Come all’epoca dei loro incontri.

- Arrivi sempre silenziosa – furono le prima parole che Puck le disse dopo anni di silenzio.

- Le vecchie abitudini sono dure a morire – gli rispose Quinn; la sua voce aveva subito più cambiamenti in confronto a quella di Puck.

- Avrei preferito che tu mi venissi dietro le spalle e mi baciassi la nuca, come hai sempre fatto – disse Puck, senza però alcuna traccia di rimpianto nelle sue parole.

- Quello è il passato; ed è quello che non ritorna.

Puck si sistemò  meglio sul bordo del cancelletto appoggiandosi con i gomiti visto che le mani non le sentiva più, assumendo una posa molto più confidenziale, cosa che spinse Quinn ad irrigidirsi e ad arretrare di un passo. Puck fece finta di non accorgersene per non complicare ulteriormente quella situazione già difficile di per sé.

- Ti trovo bene – le disse con sincero apprezzamento.

- Grazie – rispose Quinn, educata ma fredda – Ti direi la stessa cosa anch’io ma non mi crederesti.

- Infatti. Lo sappiamo che non possiamo essere messi sullo stesso piano.

- Cosa ci fai tu qui?

- In questo momento mi sto godendo questa splendida serata – le rispose Puck, sarcasticamente – Sai com’è, non avevo niente di meglio da fare allora ho deciso di spendere quei pochi soldi che avevo per acquistare un biglietto di terza classe ed imbarcarmi su questa splendida nave.

- Se mi hai fatta venire qui, ad incontrarti, per prenderti gioco di me, hai fatto male i conti – replicò Quinn, piccata, già pronta a girarsi per andarsene.

- Cosa pensi che ci faccia qui? – riprese Puck, seriamente – Quello che fanno tante altre persone che viaggiano con me in terza classe: vogliamo raggiungere l’America.

- Se Dio vuole, ci arriveremo tutti in America, tra qualche giorno.

- Non vogliamo andarci per motivi frivoli come i vostri, tipo una vacanza o un viaggio di piacere. Noi stiamo attraversando l’oceano per costruirci una vita migliore di quella che avevamo prima.

- Vi auguro, allora, di riuscirci se è questo che volete – disse Quinn mantenendo un tono distaccato.

- Non hai altro da dirmi a parte queste cortesie da salotto?

- Sei tu che mi hai mandata a chiamare.

- Sei tu che mi hai visto per prima… tutte e due le volte.

- Dimmi subito cosa vuoi senza girarci attorno – scattò Quinn.

Puck rimase in silenzio per qualche istante, urtato dalla rabbia che palpitava nelle parole della ragazza ma tenne lo sguardo fisso su di lei, sperando magari di ferirla in qualche modo, dare anche a lei un assaggio di quello che lui aveva dovuto sopportare da solo in quegli ultimi anni; prima lui era quello povero e bistrattato e lei era quella ricca e avvantaggiata e in quel momento i ruoli si erano invertiti, pur continuando ad essere l’uno il povero e l’altra la ricca.

- Non mi chiedi di nostra figlia? – scandì lentamente, ogni parola simile alla mannaia che usavano i macellai per affettare la carne.

Ottenne ciò che voleva: Quinn impallidì come un cencio e si strinse ancora di più nello scialle; negli occhi lucidi un misto di sentimenti contrastanti.

- L’ho vista, quasi – mormorò con una voce carica d’emozione che tolse a Puck il desiderio di infierire ulteriormente.

- Sta crescendo bene – si limitò a raccontare – E’ ogni giorno più identica a te in ogni dettaglio: gli occhi, i capelli, le mani… il carattere – aggiunse concedendosi un sorriso – persino il neo che tu hai vicino all’ombelico, anche lei lo ha.

Ecco una cosa che non avrebbe dovuto dire, quella frase che riportava i ricordi a quegli anni in cui avevano imparato a scoprirsi l’un l’altra, a vedere che sotto i vestiti erano uguali, una carne di una stessa materia, con le loro imperfezioni e i segni che li contraddistinguevano. Forse presero entrambi coscienza solo in quel momento del fatto che il passato era ritornato di nuovo; si era riaffacciato quando i loro sguardi si erano nuovamente incrociati e in quel momento era fra loro, a legarli con i suoi fili invisibili.

- Vorrei poterla vedere – sussurrò Quinn, come in preghiera.

- Forse arriva un po’ in ritardo questo tuo interesse – replicò Puck, riprendendo il suo tono severo.

- Io mi sono sempre interessata di lei! – ruggì Quinn, inalberandosi – Non osare dire il contrario!

- E come lo hai dimostrato? Leggendo le lettere che ti inviavo e rispondendo quando potevi prima che tuo padre ci tagliasse anche questa via di comunicazione? Potevi dimostrarlo in un modo diverso, migliore: potevi venire da noi.

- E come avrei potuto, con mio padre che mi sorvegliava a vista e che non mi permetteva mai di uscire se non accompagnata?

- Una volta mi dicesti che l’unica cosa che volevi era ribellarti a lui. Non credo che tu sia cambiata al punto da esserti arresa.

- Io non mi sono arresa! – Quinn si sentì punta nel vivo – Pensi che per te siano stati difficili questi anni, ma tu almeno avevi degli amici, delle persone pronte a sostenerti, avevi… nostra figlia – da quanto ricordava, quella era la prima volta che lo affermava ad alta voce, rendendola una cosa concreta e non più solo una marea di sensazioni e ricordi; quell’affermazione la fece sentire, per la prima volta, libera da un peso ma piena di una voglia e di una smania intensi – Io, invece, sono rimasta da sola, a lottare ogni giorno contro mio padre e il suo egoismo, senza nessuno al mio fianco, senza nemmeno il sostegno di mia madre che è sempre stata sottomessa e arrendevole nei confronti di mio padre. In tutti questi anni, l’unica cosa che avrei voluto è essere libera.

- E allora cosa ti costava mollare tutto e andartene. Tuo padre non ti ha mica tenuta incatenata nella cantina di casa vostra.

- Hai almeno una minima idea di quello che ho passato da sola?

- Ti stai arrampicando sugli specchi. Cos’è che, veramente, ti fa così tanta paura da impedirti di reagire?

- Ma cosa vuoi? – esclamò Quinn, esausta, con le lacrime che avrebbero voluto uscire ma erano frenate dall’orgoglio – Pensi forse che io possa facilmente buttare all’aria un’intera esistenza sperando che gli altri lo accettino? Pensi che io sia libera, come te, di fare ciò che voglio liberamente? Quando avevo quindici anni lo pensavo ma ho dovuto rivalutare tutto quello che è successo nella mia vita. E se anche decidessi che non mi importa e che voglio lo stesso lasciar perdere tutto e andarmene per crearmi una vita mia, che cosa otterrei? Rimarrei sola. Perché, sicuramente, non posso pretendere che tu mi accolga nella tua vita, vero? – concluse lei, constatando una verità certa, priva di ogni speranza alla quale, in un primo momento, Puck non riuscì a rispondere.

- E’ vero. Hai avuto un’occasione quattro anni fa, ma l’hai persa – le rispose, alla fine, con una sincerità dettata più dal rispetto che dal rancore – Hai avuto la possibilità di scegliere; se avessi scelto me e la bambina ti sarei stato accanto ogni giorno della mia vita perché avresti dimostrato di essere la donna che mi ha conquistato; ma hai preferito prendere la strada più semplice. Nel tuo sguardo  vedo ancora quel fuoco che hai sempre avuto, eppure continui a lasciarti bloccare dalla paura; non posso che sperare che tu, un giorno, decida di passare dalle parole ai fatti e decida di crearti quella vita che meriti. Sappi che per me eri, anzi sei ancora importante, più di quanto credi perché il legame che ci unisce è di quelli che non si rompono, per quanto si cerchi di farlo. Cerca di essere importante anche per te stessa – la sua mano, che era corsa a cercare quella di lei, ritornò ad aggrapparsi alla barra di legno.

Mai come in quel momento Quinn provò il forte desiderio di andarsene via, per nascondere quel maledetto pianto che l’avrebbe solo fatta sentire debole e patetica. In qualche modo (forse il legame che li univa, forse il fatto che Puck riconoscesse ogni suo atteggiamento) il ragazzo decise di liberarla.

- Prima che tu te ne vada, c’è una cosa che voglio darti – disse, tirando fuori un foglio dalla tasca del cappotto – E anche per questo che ti ho fatta venire qui. Anzi, ora che ci penso, era solo per darti questa.

Quinn lo prese con titubanza e quando l’ebbe in mano la vide: una fotografia, una bambina piccolissima, nel suo semplice vestitino senza merletti o nastri, lo sguardo serio e imbronciato di chi è annoiato e stanco di stare fermo, i capelli che si perdevano nel colore giallognolo del ritratto fotografico. Due istanti l’aveva vista viva: quando l’aveva partorita e su quel ponte e quell’immagine immobile sarebbe stata l’unica cosa che avrebbe mai avuto di sua figlia. Questo fu uno dei mille motivi che la obbligarono a sciogliere violentemente il nodo che aveva in gola.

Non volendo infierire oltre, Puck si voltò per non rubarle quel momento – Buonanotte – le sussurrò, scendendo le scale, ricordando una Quinn più giovane e meno timorosa stesa al suo fianco in una stanza buia e anonima, ritornando nella sua cabina. Quando Quinn alzò gli occhi dalla fotografia per parlargli, lui era già sparito.

Il freddo ritornò in quel momento, più forte di prima.

Quando ritorno anche lei nella sua cabina, si lasciò cadere sul letto ancora vestita con il ritratto della bambina stretto al seno come se fosse stata vera e viva lì con lei, mentre le lacrime bollenti solcavano le guance intirizzite.

Nell’aria c’era ancora quel filo invisibile che continuava a tenere legati quella passeggera di prima classe e quel passeggero di terza, gettandoli in una spirale di immagini di un passato che non moriva e di possibilità di una vita che non ci sarebbe mai stata, se non nei loro sogni; quei sogni che mostravano una piccola casetta in campagna, un uomo che ritornava a casa dopo una giornata di lavoro nei campi, una donna che lo accoglieva con un bacio e che usciva fuori per chiamare una bambina che giocava col suo cagnolone a dirle che era ora di cena… la bambina che rispondeva: “Vengo mamma”.

Ed era solo un sogno.

 

* * *

 

Era passato un altro giorno, il quinto da quando il Titanic era salpato da Southampton. Ormai mancava poco; solo qualche giorno e sarebbero arrivati in America. Forse sarebbero arrivati anche in anticipo, aveva sentito dire in giro che era stato dato l’ordine di caricare i motori al massimo per arrivare prima in porto. Quel viaggio stava finalmente per finire.

Stranamente, quella sera, a Dave ritornò in mente suo padre. Da quando aveva messo piede su quella nave aveva cercato di non pensarci; aveva deciso di lasciarsi tutto alle spalle e, per sua fortuna, tutto il lavoro lo aveva aiutato a tenere la mente occupata. Quella sera spettava a lui il compito di controllare che tutte le porte di comunicazione tra le varie classi fossero chiuse a chiave; quella mattina, durante la funzione, c’era stato un gran via vai e Dave aveva dovuto sopportare in silenzio i commenti dispregiativi dei “marinai inglesi” sulla presenza di tutti quegli “stranieri”, chiusi sotto chiave la notte come topi in gabbia. Forse era stato questo a fargli ritornare in mente suo padre.

Se lo vedeva, come sempre, steso su quel letto freddo e sporco a mormorare sottovoce, con la vedova Bertha che gli passava delle pezze bagnate sulla fronte per evitare che gli salisse la febbre.

Papà.

La nostalgia iniziò a farsi sentire, forse troppo in anticipo. Chissà come sarebbe stato ritornare indietro, in quel vecchio quartiere, in quella umida stanza e dire “Papà, sono ritornato”. Di sicuro suo padre avrebbe ripreso con la solita litania: “Dave, figliolo, questa non è vita”.

Eppure nemmeno una vita da solo, con suo padre al di là dell’oceano, sarebbe stata tale.

Magari, se fosse riuscito a mettere da parte un bel po’ di soldi, sarebbe potuto ritornare a prenderlo e portarlo con sé; avrebbero potuto portare anche la vedova Bertha. Sarebbe stato difficile ma non impossibile.

“Sì, farò così: arriverò in America, lavorerò sodo, guadagnerò quanto è possibile per comprare una casa e quando avrò abbastanza soldi ritornerò in Inghilterra, prenderò mio padre e lo porterò con me in America”.

Questa decisione lo rasserenò più dell’idea di evadere da quella dura esistenza che lo aveva animato i giorni prima della partenza. Se aveva sentito che qualcosa gli mancava, adesso era sicuro di avere tutto.

Senza accorgersene era arrivato alla fine del ponte di passeggiata; aveva saltato l’ultima porta di comunicazione; infilandosi le mani in tasca e battendo i piedi intorpiditi, fece per ritornare indietro quando lo scampanio della campana delle vedette attirò la sua attenzione; dovevano aver visto qualcosa e a giudicare dalla violenza dei colpi di campana doveva trattarsi di qualcosa di grave.

Incuriosito, Dave si avvicinò e si sporse attraverso il parapetto per vedere cosa stesse accadendo, ma in quella notte buia non riusciva a vedere nulla; si chiese se non fosse stato un sogno ad occhi aperti delle vedette visto che avevano smesso di suonare la campana. In compenso gli parve di sentire un lontano grido stridulo, venato di paura; riuscì a distinguere solo “Dritto di prua”. Avevano qualcosa davanti, sulla loro traiettoria.

Per dei minuti buoni, Dave rimase in quella posizione sperando di riuscire a scorgere qualcosa, ma niente. Quando la vide.

Bluastra nella notte, con dei riflessi bianchi causati dalla luna, enorme, con due cime che si levavano in alto come due montagne gemelle, una massa di ghiaccio galleggiante sull’acqua*. Era quella la cosa che le vedette avevano visto? Adesso era di lato alla nave, probabilmente il timoniere aveva virato per evitarla.

Dave sentì il sangue gelarglisi nelle vene a quella vista. E il cuore gli mancò un battito quando le assi di legno sotto i suoi piedi sussultarono come se la nave stesse scivolando su un mare di biglie e un pezzo di quella massa di ghiaccio precipitò sul ponte di terza frantumandosi in tanti frammenti.

- O mio Dio! Ma cosa è successo? – esclamò con sgomento.

 

* * *

 

Quello che sul ponte era sembrato un tremito, nelle cabine di prua sembrò una scossa simile ad un terremoto; questo è quello che pensò Rachel, svegliandosi di soprassalto e scostando il braccio di Sugar che le gravava sul petto. Non era stato un incubo; quel tremore era continuato anche mentre si sollevava sul gomito, perfettamente sveglia e non fu l’unica a sentirlo: nello stesso istante anche Tina si riscosse dal suo sonno e dal letto di Shelby si sentì il pianto leggero della piccola Beth, spaventata dal rumore che aveva accompagnato quel brusco ondeggiare. Richiamate dal pianto della bambina, anche le altre donne si svegliarono.

- Ma cosa succede? – chiese Mercedes ancora assonnata.

- Avete sentito quel fracasso e come si è smossa la cabina? – si informò Rachel allarmata.

- Sarà una tempesta – suggerì Tina, alzandosi per vedere fuori dall’oblò ma solo per essere smentita dal mare calmo che le si parò davanti; scorse solo una leggera ombra bianca scomparire da destra ma forse era solo uno scherzo del sonno.

- Vado a svegliare gli altri – fece Rachel, scavalcando Sugar che si era ributtata sul letto senza dire nulla, abbracciando il cuscino e rimettendosi a dormire, e alzandosi per andare nella cabina degli uomini – Cerchiamo di capire se è successo qualcosa.

Quando uscì vide che altre persone avevano avuto la sua stessa idea.

Nella cabina risuonarono ancora i gemiti di paura di Beth che Shelby cercava di tranquillizzare.

 

* * *

 

Kurt aveva sempre avuto difficoltà ad addormentarsi; non ci riusciva se prima non leggeva almeno un capitolo di uno dei suoi amati libri, ma anche mentre leggeva non perdeva il suo contatto col mondo esterno. Quindi avvertì subito quel rombo lontano che gli ricordò l’apertura di un pesante cancello arrugginito seguito da un lieve tremito della lampada da notte accanto al suo letto.

- Finn – chiamò piano il suo fratellastro addormentato in una massa informe di coperte e cuscini – Hai sentito? – ma ottenne come risposta solo un grugnito e Finn si girò nel letto senza nemmeno svegliarsi.

Leggermente inquieto, Kurt posò la sua copia di “Agnes Grey”** sul comodino e scese dal letto per andare a bussare alla porta della stanza di suo padre e di Carole e accertarsi che non fosse successo qualcosa; male che andasse avrebbero perso solo un’oretta di sonno. Ma quando i suoi piedi nudi toccarono il pavimento si accorse di una cosa che aumentò il suo timore: non si avvertiva più il tenue e ormai familiare rumore dei motori della nave.

 

* * *

 

Erano le 23:40 circa del 14 Aprile 1912. A 1.518 delle 2.223 persone a bordo del Titanic restavano poche ore di vita.

 

 

 

Nota dell’autore:

* Ancora oggi si hanno dei dubbi su quale sia stato l’iceberg contro il quale si scontrò il Titanic. Nei giorni che precedettero e che seguirono il naufragio ne furono fotografati vari in quella zona; per seguire le testimonianze e i disegni di alcuni dei sopravissuti, compreso uno delle vedette) io sono più propenso a credere che il famigerato iceberg sia questo (la qualità purtroppo è bassa ma non si trova altro) http://it.wikipedia.org/wiki/File:Titanic_iceberg.jpg

** Primo romanzo della più giovane e, a torto, la più ignorata, delle sorelle Bronte, Anne. Vi si narra la semplice vicenda di un’istitutrice, ma è anche una denuncia alla cattiveria e alla falsità delle classi agiate. Il secondo e ultimo romanzo di Anne Bronte, “The Tenant of Wildfell Hall”, narra invece una storia molto più scandalosa per l’epoca: una donna che abbandona il marito violento e decide di crescere il figlio da sola.

 

Non ho molto da dire su questo capitolo, se non che è quello che più ho amato scrivere.

E metto anche le mani avanti e vi dico che, a causa dei miei impegni, non potrò essere più preciso e costante con gli aggiornamenti. Mi spiace. Ho già il prossimo capitolo completato che deve solo essere revisionato e trascritto a computer ma mi restano ancora due capitoli per completare la fanfiction e preferirei prima portarmi avanti e poi continuare.

Per essere sempre aggiornati potete controllare la mia pagina: http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483

Grazie a tutte le persone che continuano a seguirmi : )

Ciaoooo!!!!!

 

Lusio

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Capitolo 5
*** Tutto precipita ***


Tutto precipita

 

Avevano detto che non era successo nulla. Che era tutto a posto. Che, forse, avevano solo perso un’elica. Quello era il Titanic, la “nave inaffondabile”.

Continuavano a dire di non preoccuparsi ma tra i marinai si iniziava a parlare di una collisione con un iceberg, di un danno sulla fiancata di prua, di vari compartimenti allagati; la maggior parte ci credeva poco: pensavano che i marinai con più anni di esperienza alle spalle volessero solo prendersi gioco dell’inesperienza di quelli alle prime armi. Eppure molti avevano visto il primo ufficiale Murdoch e il secondo ufficiale Lightoller andare nella cabina del capitano Smith, assieme al signor Bruce Ismay e al signor Thomas Andrews, il progettista del Titanic, armato di mappe e carte varie e, dopo alcuni minuti, uscirono tutti pallidi e abbattuti.

Dave, che non era avvezzo alla vita in mare e a tutto quello che poteva derivarne, non riusciva a capire nemmeno una parola di quello che dicevano gli altri, non capiva neanche se si poteva stare tranquilli o se c’era pericolo. Quell’andirivieni agitato stava iniziando a fargli venire la nausea.

I loro superiori avevano sguinzagliato camerieri ed altri membri dello staff per i corridoi delle varie classi a rassicurare i passeggeri che chiedevano informazioni su quanto stava succedendo, sul perché la nave si fosse fermata, dicendo che era tutto a posto e che potevano anche ritornare a dormire.

Alla fine, dopo… quanto tempo? Non aveva tenuto il conto ma Dave era sicurissimo che fosse passato un bel po’ di tempo, più del dovuto sicuramente. Alla fine diedero loro un ordine preciso:

- Dite a tutti i passeggeri di indossare subito i salvagente e di radunarsi sui ponti lance e fateli imbarcare sulle scialuppe. Precedenza a donne e bambini.

C’era bisogno di aggiungere altro? No; avevano capito tutti cosa volevano dire quelle parole.

“Stiamo affondando”.

“Ma, allora, perché ci hanno chiesto di chiudere le porte di comunicazione della seconda e della terza classe?”

Queste e mille altre erano le domande che Dave Karofsky e molti altri marinai si posero mentre iniziavano a radunare tutti i passeggeri di prima classe.

 

* * *

 

Fu una cosa a dir poco fastidiosa per i passeggeri di prima classe doversi alzare dal letto, a mezzanotte passata, “per una semplice precauzione”, come avevano spiegato loro i camerieri, con tutto il carico di sonno che si portavano addosso; e in più era stato chiesto loro di indossare i salvagente: degli “oggetti” che per la loro rigidità ricordavano, alla lontana, le panciere che indossavano gli uomini ben pasciuti che non ci tenevano a mostrare il loro grasso alle gentildonne dell’alta società.

- Ma siamo certi che questi… “cosi” siano sicuri? – si domandò Kurt, guardando dubbioso il suo salvagente, mentre suo padre, Carole e Finn indossavano tranquillamente i loro – Sono così rigidi ed ingombranti che, sono sicurissimo, in acqua impedirebbero i movimenti. E poi li trovo esageratamente antiestetici.

- Kurt non è il momento dei tuoi scrupoli da modaiolo – lo riprese suo padre – Ci hanno chiesto di indossarli e lo faremo, fino a quando non si sarà risolto questo problema, qualunque esso sia. Tra un po’ potrai togliertelo.

- Burt, non pensi che sia il caso di portarci dietro i bagagli, o almeno lo stretto necessario? – si informò Carole buttando un occhio sui vestiti nell’armadio.

- Non penso che sia il caso – le rispose suo marito – Prendiamo giusto i cappotti o geleremo fuori. Su andiamo.

E gli Hummel-Hudson uscirono dalla loro cabina, muovendosi in mezzo ad una folla di altri passeggeri, chi ancora assonnato, chi irritato, chi spaventato per quell’avvenimento a cui non sapevano ancora dare un nome; alcuni, invece di indossare i salvagente, preferivano portarli in mano come stava facendo Kurt. Tra il mormorio generale si levò alta una voce inconfondibile sia per il tono che per la portata: Sue Sylvester si fece largo tra la folla, agitando il suo salvagente come un bastone per togliere di mezzo chi si trovava sul suo tragitto.

- Lo sapevo! – declamava in modo trionfante – Lo sapevo che era tutto troppo perfetto. Ero sicura che ci sarebbe stato qualcosa di storto in questo viaggio. Ah, signori Hummel-Hudson – fece lei affiancandosi a Burt e Carole – Statemi vicini. Ho intenzione di scrivere un articolo infuocato per il mio giornale su quanto questi viaggi tanto declamati siano, in realtà, delle fregature e avrò bisogno di più testimonianze possibili e conto sulla vostra indignazione.

- Susan, credo che sia un po’ presto per pensare già a queste cose – disse Carole.

- Non è mai troppo presto per dare un bel calcio negli zebedei alla società.

Con Sue che si era unita a loro, riuscirono ad uscire sul ponte lance a tempo record, superando i vari assembramenti che si andavano a formare nei corridoi e nella sala ristorante dove la maggior parte dei passeggeri di prima si era raccolta per evitare l’aria gelida della notte, facendo passare quel tempo chiacchierando o giocando a carte. Al loro solito posto, i sette componenti dell’orchestra suonavano un allegro motivetto, come se fosse stata l’ora di cena senza la cena.

Fuori sul ponte, invece, i marinai erano occupati freneticamente con la preparazione delle prime scialuppe e non era certo un lavoro facile per loro che non avevano mai fatto alcuna esercitazione al riguardo, che non sapevano quanto peso quelle scialuppe avrebbero potuto sopportare, che non sapevano se qualche altra nave nei paraggi sarebbe arrivata in loro soccorso, che non sapevano se avrebbero potuto vedere il sole sorgere ancora. Il responsabile del ponte lance di destra, Lightoller, rendeva le cose ancora più snervanti con i suoi ordini urlati a squarciagola, più per sovrastare il rumore che per vera agitazione e proprio per il fatto che lui non stesse perdendo il suo sangue freddo lo rendeva quasi odioso.

Non c’era tempo da perdere; portata all’esterno della nave con delle gru una scialuppa, si passava subito a quella successiva e così via su entrambi i lati della nave (il responsabile del ponte di sinistra era Murdoch). Mentre un gruppo continuava queste manovre, Lightoller e altri marinai chiamarono fuori un gruppo di passeggeri di prima classe.

- Per favore, fate silenzio! – urlò Lightoller per farsi sentire – Adesso le donne e i bambini dovranno salire sulle scialuppe. Solo le donne e i bambini. Vi preghiamo di mantenere la calma. Presto risolveremo il problema. Su, avanti.

Non tutte le donne erano propense a eseguire quell’ordine, prima di tutto perché ciò avrebbe comportato il doversi separare da mariti, padri, fratelli e figli grandi e poi anche perché quelle scialuppe erano così piccole e fragili mentre il Titanic era grande e sicuro… Dio, quella nave era inaffondabile! Cosa c’era da preoccuparsi? E gli uomini erano dello stesso avviso.

Ma i più previdenti non si fecero pregare. Tra loro c’erano gli Hummel-Hudson.

- Carole, hai sentito l’ufficiale. Dai, sali sulla scialuppa – disse Burt, accompagnando la moglie verso la piccola imbarcazione, seguiti dai loro due figli.

- Non potrei aspettare un po’? – si schernì la donna, restia a lasciarli tutti e tre lì.

- Mamma, non preoccuparti – Finn diede man forte a Burt – Hanno già detto che non è nulla di grave. E’ solo una precauzione. Adesso vai.

- Ma… no… io… - Carole si aggrappò al braccio del figlio, stritolandoglielo e lanciando uno sguardo spaventato in direzione del marito e del figliastro in una muta preghiera, chiedendo solo qualche minuto in più.

- Potreste aiutare mia moglie a salire? – chiese educatamente Burt ad uno dei marinai che subito prese delicatamente Carole per un braccio, le fece superare il piccolo vuoto tra la nave e la scialuppa e la fece accomodare su quest’ultima. Istintivamente, la donna tese una mano verso i suoi cari come se avesse voluto dare loro una carezza; non erano bambini che si spaventavano e poteva permettersi qualche gesto apprensivo. Un sorriso buffo di Finn riuscì a farla sorridere – Potrebbe salire anche mio figlio Kurt? Ha solo quattordici anni – chiese nuovamente Burt al marinaio.

- Papà, ma cosa stai dicendo? – esclamò Kurt, sgranando gli occhi per lo stupore e ricevendo una gomitata nel fianco da parte del padre.

- Mi dispiace, signore, ma ci è stato ordinato di imbarcare solo donne e bambini per adesso – rispose il marinaio che sembrava aver capito quel piccolo sotterfugio.

- Ma c’è ancora molto posto… - replicò Burt, indicando i molti posti vuoti della scialuppa.

- Abbiamo ricevuto ordini precisi, mi spiace – concluse secco il marinaio.

Proprio in quel momento un urlo isterico si levò da lì vicino: Sue, che si era spinta in prima fila per prendere nota delle modalità di imbarco e di rilascio in mare delle scialuppe per poterne dare un’attenta descrizione sul suo giornale, era stata afferrata, di punto in bianco, da un marinaio fin troppo agitato che stava facendo salire più donne possibile sulla scialuppa. Aveva afferrato la donna per la vita magra e stava cercando di far salire anche lei.

- Ma come si permette! Mi tolga le mani di dosso! – strillò Sue, dibattendosi e agitando il suo salvagente che teneva sempre in mano

- Per favore, signora, salga sulla scialuppa – fece il marinaio cercando di non perdere l’equilibrio.

- Non ho intenzione di salire su nessuna scialuppa fino a quando non lo avrò deciso io! E poi, sono una signorina!

- Come vuole ma adesso salga!

E senza troppe cerimonie, Sue Sylvester venne scaraventata malamente nella scialuppa; atterrando sul legno perse una delle sue scarpe, la afferrò e la agitò contro il marinaio come se avesse voluto colpirlo.

- Questa me la pagate! Giuro che vi massacrerò nel mio articolo! – strillò, mentre la sua voce veniva smorzata dal rumore delle corde che calavano in mare la scialuppa.

Carole tenne gli occhi fissi sulla sua famiglia fino a quando la vista glielo consentì.

Erano le 00:40 quando venne calata la prima scialuppa. A bordo c’erano solo 28 persone; c’era spazio per altri 37 passeggeri. Su ordine di Lightoller, la scialuppa avrebbe dovuto fermarsi ad altezza del ponte di seconda classe per far salire altre donne e bambini ma la paura del peso eccessivo spinse i marinai a passare oltre. Solo allora i marinai aprirono le porte di comunicazione  di seconda e altri iniziarono a guidare piccoli gruppi di terza classe sui ponti lance.

Cinque minuti dopo che la prima scialuppa era stata calata in mare, venne sparato il primo razzo di segnalazione.

L’orchestra del Titanic si spostò sul ponte e iniziò a suonare per tranquillizzare gli animi.

 

* * *

 

Dopo che le prime scialuppe si erano allontanate, gli animi iniziarono a smuoversi. Forse fu la folla che dietro si ingrossava di minuto in minuto, la tensione che si faceva sempre più densa, la leggera inclinazione della nave che molti riuscivano a notare nell’acqua che sembrava più alta in direzione degli oblò di prua. Sebbene alcuni pensassero ancora che fosse più sicuro rimanere a bordo, altri iniziavano a valutare seriamente l’ipotesi di abbandonare la nave, almeno fino a quando “il problema non fosse stato risolto” come continuavano a dire i marinai. Ma c’erano sempre le donne che si rifiutavano di lasciare i loro uomini; e se c’erano uomini che convincevano le loro donne a salire sulle scialuppe, ce ne erano altri che premevano per salire con loro.

Fabray, dopo essersi messo addosso tutti gli oggetti di valore che possedeva e aver detto alla moglie di fare lo stesso, si diresse sul ponte lance con la sua famiglia; lì, la moglie e la figlia furono subito invitate a salire su una scialuppa che proprio in quel momento stava per essere calata in mare. Ma quando anche Fabray fece per seguirle venne subito fermato.

- Mi dispiace signore ma al momento imbarchiamo solo donne e bambini – gli disse il marinaio, parandoglisi davanti.

- Ma che assurdità! – esclamò Fabray, indignato – Dovrei lasciare da sole mia moglie e mia figlia?!

- Non dovete preoccuparvi – cercò di calmarlo il marinaio – I marinai responsabili di questa scialuppa…

- Judy! Quinn! Scendete subito! – Fabray ignorò le parole del marinaio e, scavalcando, tese la mano verso le due donne per riportarle a bordo.

Con un gemito di insofferenza, Judy Fabray si alzò e fece per afferrare la mano del marito ma Quinn, sconvolta e disgustata da quella arrendevolezza, la fermò tirandole un lembo della gonna.

- Mamma, sei impazzita! – le urlò contro – Resta qui. E’ pericoloso.

- Oh, tesoro – la donna si rivolse alla figlia con aria combattuta e supplichevole; forse, per la prima volta nella sua vita da moglie e madre di famiglia, sentì lo scombussolamento nel petto che è pegno dell’indecisione, tra l’amore per il coniuge e l’amore per la prole e per la propria vita.

Ma anche quella volta fu suo marito a decidere per lei, strattonandola violentemente di nuovo a bordo del Titanic e, prontamente, il suo posto fu preso da una donna con un bambino in braccio.

- Quinn, vieni subito qui! – riprese Fabray con la stessa veemenza di prima tenendo la moglie al suo fianco.

- Mamma, ti prego, ritorna sulla scialuppa; c’è ancora posto – Quinn lo ignorò e continuò a rivolgersi alla madre, che la fissava con una muta preghiera, chiedendole di fare come le ordinava suo padre.

- Quinn! – urlò Fabray, senza più un briciolo di pazienza – Ti ho detto di venire qui!

“Al diavolo” pensò Quinn in quel momento. Non sapeva cosa stava succedendo ma non c’erano dubbi che la situazione fosse critica, altrimenti non sarebbero state calate in mare le scialuppe, questo poteva capirlo persino lei. La cosa più intelligente che potesse fare era rimanere lì dov’era ma vedere sua madre, sull’orlo delle lacrime, su quella nave che hai suoi occhi stava assumendo sempre più le sembianze di una trappola per topi, con suo padre e il suo egoismo che lo seguiva come un’ombra su tutto quel prossimo disastro; farci finire dentro anche loro se lui non aveva la certezza di salvarsi.

Si alzò solo per sua madre, per non lasciarla da sola, stringendo i denti per non lanciare quell’urlo che le stava scoppiando in petto, rifiutando di afferrare la mano di suo padre e, mentre si allontanavano per trovare un marinaio capace di chiudere tutti e due gli occhi sulla presenza di un uomo su una scialuppa, si permise di guardare indietro, verso quella che avevano appena abbandonato; almeno il suo posto era stato preso da una donna in un avanzato stato di gravidanza.

“Chissà se sarà una bambina?” pensò quasi inconsciamente.

Per tutta la fila destra non riuscirono ad assicurarsi alcun posto sulle scialuppe, molte delle quali dovevano ancora essere preparate; passarono quindi al ponte di sinistra dove le manovre erano molto più veloci e Fabray notò con piacere che sulla scialuppa che stavano calando proprio in quel momento si trovavano anche degli uomini; stringendo più forte il braccio della moglie, la trascinò verso la scialuppa che stavano riempiendo e, senza aspettare un qualsiasi permesso, salì a bordo della piccola imbarcazione e si sistemò comodamente tirando un sospiro di sollievo mentre sua moglie ancora ansimava per la tensione. Ma si accorsero quasi subito che Quinn era rimasta sul Titanic.

- Quinn! – la richiamò di nuovo suo padre – Che stai aspettando? Sali!

Ma lei rimase immobile, gli occhi che brillavano di un fuoco che era sempre stato assente in tutte le loro precedenti discussioni; una luce che sembrava aver aspettato solo quel momento per brillare.

- Quinn, che stai facendo? – fece nuovamente Fabray.

- Quello che tu non hai avuto il fegato di fare – rispose Quinn; così dicendo prese per un braccio una donna di seconda classe che stava guardando quella scialuppa come un animale affamato e la aiutò a salire.

I coniugi Fabray fissarono sbalorditi quel gesto senza riuscire a dire una parola, ma in fondo nemmeno Quinn se la sentì di dire qualcosa. Aveva sempre aspettato quel momento e alla fine era giunto, forse sulla spinta delle parole di Puck che ancora le rimbombavano nelle orecchie; pensava che, allora, avrebbe avuto tante cose da dire, tanti rospi da vomitare, tanti pesi che nel corso degli anni aveva semplicemente alleggerito, ma ora sentiva che non aveva importanza. Un silenzio dai mille significati che era anche la più fredda delle vendette. Eppure, mai come in quei secondi in cui vide i suoi genitori sparire assieme alla scialuppa che veniva calata in mare, provò un così palpabile sentimento di tenerezza, in suo padre che continuava a guardarla come un cavaliere che vede il suo cavallo fuggire via al galoppo, in sua madre che, rendendosi conto di quanto stava accadendo, tentava di rialzarsi e urlava disperata il suo nome.

Rimase lì ferma fino a quando non fu certa che la scialuppa fosse stata libera di prendere il largo; allora si riscosse e andò. Si sarebbe salvata; per conto suo ma si sarebbe salvata.

Ma prima c’erano Puck e a Beth.   

 

* * *

 

In terza classe si erano mosse poche persone. All’inizio, quando tutto era iniziato, i marinai e gli steward li avevano rassicurati e avevano detto loro di ritornare a letto; in seguito, solo alcuni ritornarono per condurre piccoli gruppi sul ponte lance ma quasi nessuno si preoccupò da far sapere cosa stava succedendo, almeno a quelli che capivano l’inglese. Infine, venne chiesto a tutti di radunarsi in sala comune e aspettare nuove direttive; intanto i cancelli vennero chiusi e due steward rimasero a sorvegliare quello principale per evitare eventuali agitazioni. Agitazioni che non tardarono a prendere piede.

In sala comune c’era un interminabile chiacchiericcio; alcuni gruppi di passeggeri si erano riuniti per capire meglio cosa fare, mentre religiosi cattolici, protestanti ed ebrei giravano per la sala assistendo gli anziani, le donne con i loro figli e chi aveva bisogno di conforto spirituale.

Il gruppo di Puck si era sistemato su alcune sedie prese dalla tavolata comune e spostate il più vicino possibile alla scala principale, in attesa di Blaine che, assieme ad altri uomini, era andato a controllare i danni che i marinai si ostinavano a tenere segreti, nonostante il pavimento su cui camminavano si stesse visibilmente inclinando tanto da far scivolare i bicchieri sulla lunga tavolata. Intanto si erano messi addosso quanta più roba possibile e le ragazze si erano messe in seno i loro pochi oggetti di valore e i soldi nelle tasche interne delle sottane. Seguendo gli ordini dei marinai avevano indossato tutti il salvagente; Beth aveva un aspetto buffissimo con quell’enorme “indumento” che le lasciava scoperte a malapena le gambette che si agitavano frenetiche mentre Shelby cercava di tenerla tranquilla sulle sue ginocchia.

Dopo un po’, accompagnati da un forte chiasso dalle voci multietniche, ritornarono Blaine e gli altri uomini, tutti con le scarpe e gli orli dei calzoni bagnati, rossi in volto e con gli occhi sgranati. Mentre gli altri uomini si avvicinavano ai loro nuclei familiari, Blaine si diresse verso il suo gruppo.

- Ragazzi, qui stiamo imbarcando acqua! – esclamò con tono agitatissimo – Stiamo affondando rapidamente! Dobbiamo uscire!

- Blaine calmati! – gli soffiò rabbiosamente nell’orecchio Puck stritolandogli un braccio; la paura e l’agitazione del ragazzo stavano contagiando anche gli altri: le ragazze erano sbiancate e Sugar sembrò sul punto di svenire mentre Tina si gettò tra le braccia di Mike e Shelby strinse di più a sé Beth.

- Calmarmi?! – replicò Blaine liberandosi dalla stretta di Puck – Come posso calmarmi? Tu hai visto l’acqua che saliva? Hai sentito quanto era gelida? No; io sì, invece. Pensi che dovremo stare qui, tranquilli, aspettando di annegare, solo per non spaventare donne e bambini? Dobbiamo uscire da qui, subito!

- Dei marinai hanno accompagnato sul ponte alcuni gruppi di passeggeri – disse Rachel, cercando di calmare gli animi – Magari, se aspettiamo un po’, verranno a prendere anche noi; o forse, a momenti, apriranno i cancelli e ci faranno uscire.

- Rachel, hai idea di quanti siamo in terza classe? – riprese Blaine, cercando di controllarsi – Se anche ci facessero uscire a gruppi non faranno mai in tempo e chissà se ci sarà ancora spazio per noi sulle scialuppe. Torno a ripeterlo: se vogliamo salvarci dobbiamo uscire di qui.

Ormai, il tempo delle riflessioni, della calma, della pazienza erano finiti e questo lo capirono anche gli altri, come anche tutti gli altri passeggeri di terza messi in guardia dal racconto degli altri uomini che avevano visto lo spaventoso scenario dell’acqua che scivolava, gelida, sui pavimenti sempre più inclinati dei corridoi della nave. Sì, dovevano andarsene subito da quella trappola.

Alcuni dei più giovani si erano già spinti sulle scale e si erano aggrappati alle grate del cancello, agitandole con forza e dicendo ai due steward di guardia di aprire e di farli uscire. Con tono conciliante, i due uomini cercarono di calmarli e, soprattutto, di allontanarsi dalla cancellata per evitare incidenti, che presto avrebbero aperto i cancelli ma, fino ad allora, dovevano stare calmi.

Fiato sprecato.

Raccogliendosi in modo compatto, anche Puck e gli altri si diressero sulle scale che si stavano facendo pericolosamente affollate, avanzando lentamente col timore di precipitare. Alcuni passeggeri, esasperati, si tolsero gli ingombranti salvagente che li facevano sentire troppo impacciati e li facevano soffocare in mezzo a quella calca. Proprio a causa dei salvagente, Shelby fu costretta a mettere a terra Beth, che non la smetteva di agitarsi, tenendole forte la mano per paura di perderla.

- Stammi vicina, tesoro – le disse – Non lasciare la mia mano.

La situazione iniziò a degenerare; si arrivò ad un punto tale che gli steward furono costretti a prendere una decisione importante, senza aspettare degli ordini superiori che, sapevano, non sarebbero ai arrivati.

- Fate silenzio, per favore. Calmatevi! – disse uno di loro, alzando il tono di voce – Adesso apriremo i cancelli ma daremo la precedenza a donne e bambini. Vi preghiamo di far passare davanti le donne e i bambini.

Visto che erano tra i primi, Puck, Blaine e Mike spinsero delicatamente le donne in avanti per permettere loro di accostarsi al cancello principale; l’unica ad opporre una certa resistenza fu Tina che rimase aggrappata al braccio del suo compagno. Davanti a loro c’erano altre donne, molte con i loro bambini; quando i cancelli furono aperti cautamente furono loro le prime ad uscire. Poi, non si sa cosa accadde.

Un uomo, forse uno di quelli che aveva visto cosa stava accadendo a prua, terrorizzato dal pensiero di dover restare lì ad aspettare che l’acqua salisse ancora, si gettò violentemente in mezzo a quel gruppo di donne e uscì mettendosi a correre come un folle per il corridoio. Da quel gesto dettato da paura nacque un caos che nessuno si sarebbe immaginato.

L’instabile equilibrio sul quale cercarono tutti di mantenersi crollò; alcune persone caddero rovinosamente dalle scale, altre si gettarono con forza contro i cancelli con l’intento di uscire. Vista la piega che aveva preso la situazione, gli steward non poterono fare altro, per evitare una crisi di panico anche sul ponte, che chiudere nuovamente i cancelli; questo non fece che acutizzare ancor di più l’esasperazione generale.

In quel parapiglia, in mezzo a strilli e urla, si levò il grido disperato di Shelby, che era stata spinta contro la parete da una fiumana di persone che era riuscita ad uscire; ma non aveva gridato per il colpo ricevuto. Spaventata da quanto stava accadendo intorno a loro aveva cercato di riprendere Beth in braccio; il tempo di lasciarle la manina per prenderla per i piccoli fianchi coperti dall’enorme salvagente ed erano state entrambe travolte da quell’ondata di uomini e donne impazziti dalla paura. Istintivamente Shelby aveva cercato di afferrare la bambina ma le sue mani incontrarono solo il vuoto e l’urto contro il muro la fece quasi vacillare; ma il suo istinto di madre fu più forte del dolore e subito si gettò anche lei contro il cancello che venne chiuso proprio in quel momento.

- Beth! Beth! – urlò disperata, vedendo sparire lungo il corridoio quel gruppo che le avevano investite. Beth era lì in mezzo, trascinata via senza una possibilità di liberarsi.

- Cos’è successo? – esclamò Puck, prendendola per le spalle ma già temendo di sapere cos’era accaduto.

- Beth! Beth! – continuò a ripetere la donna, le lacrime che le scorrevano sulle guance – Beth è lì fuori! Da sola!

- O mio Dio! – urlò a sua volta Puck aggrappandosi alle grate del cancello e scuotendole rudemente come facevano molti altri – Aprite! Maledizione, aprite brutti figli di puttana! Aprite!

Ma gli steward non avrebbero aperto. Ora sapevano tutti che non l’avrebbero fatto. Se volevano salvarsi sarebbero dovuti uscire da soli.

 

* * *

 

L’orchestra continuava a suonare come se nulla fosse ma aveva lasciato perdere le allegre musiche da salotto ed era passata ad inni spirituali; come se stessero preparando il Requiem per il Titanic e tutte le persone che ancora portava a bordo, mentre l’acqua iniziava lentamente a lambire la prua.

Quinn si muoveva in mezzo ad una folla agitata di uomini e donne che si assiepava intorno alle scialuppe che ora venivano caricate al massimo, dopo che le prime, piene solo a metà, si erano già allontanate. Ma il primo pensiero della ragazza non era quello di imbarcarsi. Era ritornata al ponte di destra perché era lì che c’era quel piccolo cancelletto presso il quale si era incontrata con Puck; se solo avesse potuto attraversarlo o magari anche scavalcarlo e raggiungerli; che fosse pericoloso o meno, non aveva importanza. Il suo posto era con sua figlia; non aveva più dubbi o timori.

Avrebbe messo le ali ai piedi pur di fare in fretta; il tempo in quella situazione era l’unica cosa difficile da trattenere. Ma il destino traccia sempre un percorso sconosciuto per noi ed esso ci si spiana davanti senza che nemmeno ce ne accorgiamo; su quello di Quinn c’era Kurt, con suo padre e il suo fratellastro, che si erano riparati accanto all’ingresso esterno del salone. Stavano discutendo sul da farsi visto che sembravano non esserci possibilità di salvezza per loro.

Quando la vide, Kurt rimase a fissarla sbalordito per qualche istante, sperando di aver preso un abbaglio, prima di gettarsi davanti a lei con un salto, evitando una famiglia che stava correndo verso una scialuppa lì vicino.

- Quinn, misericordia! Cosa fai ancora qui? – le chiese con agitazione – Dove sono i tuoi genitori?

- Si sono già imbarcati su una scialuppa. Io non potevo – rispose lei, tranquillamente.

- Cosa dici? Perché non potevi?

- Ci sono delle persone che hanno bisogno di me in questo momento.

Non c’era bisogno di aggiungere altro, o almeno così credeva; non aveva mai avuto bisogno di spiegarsi in maniera più dettagliata, fino a quel momento, ma non era il tempo di comprendere per quanto lo si potesse fare come Kurt aveva fatto ugualmente.

- Cerca di capirmi – lo pregò lei, comunque.

- Ti capisco, ma non chiedermi di condividere il tuo pensiero – così dicendo, Kurt le afferrò il polso e si gettò con lei in quella folla di persone che si era radunata attorno alla scialuppa; avendo entrambi un fisico magro e slanciato riuscirono a muoversi facilmente, senza incontrare troppi ostacoli.

- No, Kurt, ti prego – fece Quinn cercando di liberarsi dalla sua presa – Lasciami! Devo andare in terza classe. Devo trovarli.

- Quinn – cercò di calmarla Kurt – stanno facendo uscire anche le donne e i bambini di terza classe. Sono sicuro che, chiunque tu stia cercando, lo troverai. Fidati – continuò sperando inutilmente di risultare sincero ma ci sarebbe riuscito se, invece di calmarla, le avesse urlato contro “Sali subito su una scialuppa e salvati”, ma fece il massimo che poté.

Quinn poteva ancora ribellarsi ma era passata quasi un’ora da quando tutto aveva iniziato a precipitare e dove prima c’era il timore per le piccole e fragili scialuppe, adesso c’era una vera paura di rimanere su quell’immensa nave sempre più inclinata; Kurt la spinse con tutta la premura e la violenza possibile  tra le braccia di un robusto marinaio che la mise, senza tanti complimenti nella piccola imbarcazione.

La ragazza non poté nemmeno rialzarsi perché altre donne le vennero addosso. Lanciò un suo sguardo di rimprovero velato di lacrime in direzione di Kurt che la guardava, di rimando, con occhio aggrottato ma sollevato; era riuscito a mettere in salvo una vita, lui. Ma anche Quinn poteva ancora farlo.

- Kurt! – gli gridò – Andate al ponte di sinistra: lì permettono di salire anche agli uomini.

La gratitudine che lesse sul volto di Kurt, mentre questi spariva tra la folla, però non diede sollievo al suo cuore anzi, sentiva che le rimaneva quell’intento mancato dalla quale si stava allontanando sempre più.

Ma non poteva accadere! Non adesso che sembravano non esserci più possibilità.

“Solo una” pregò Quinn, quando un fremito le fece capire che la scialuppa stava per essere calata “Ti prego, dammi sono un’ultima possibilità o, almeno, salvali in qualunque modo. Ti prego”.

 

* * *

 

Le scialuppe non erano sufficienti per tutti e Dave, pur di non pensare a quante persone sarebbero morte in quel disastro, al fatto che sicuramente anche lui non sarebbe sopravvissuto, raccoglieva come un forsennato donne e bambini e facendoli salire, a volte anche con la forza, sulle imbarcazioni. Era stato anche ripreso da quel cuore di pietra di Lightoller per aver fatto salire anche un ragazzino di tredici anni senza il suo permesso; lo vide arrivare a puntare la pistola, che si era procurato per mantenere l’ordine, contro un altro ragazzo, anch’egli di tredici anni, per impedirgli di salire su una scialuppa e salvarsi; lo avevano lasciato, piegato in due, sul ponte a piangere disperato.

Stavano diventando tutti pazzi. Le loro teste stavano, piano piano, smettendo di funzionare correttamente.

Li stavano facendo impazzire tutti quei disperati che smaniavano per salvarsi, quegli stoici che preferivano andare incontro alla morte con noncuranza, quegli esaltati del progresso che continuavano a ripetere che non sarebbe accaduto nulla, quella dannata orchestra con i suoi stramaledettissimo inni sacri, quel ponte sempre più inclinato, quell’acqua che già stava sommergendo la prua.

“Si gioca a ‘tira e molla’ con la fine” era stato il commento sarcastico di un marinaio accanto a lui che, durante le manovre, era riuscito ad infilarsi in una delle scialuppe.

Erano arrivati alle ultime imbarcazioni di salvataggio… e c’erano ancora centinaia e centinaia di persone a bordo del Titanic. Le prime scialuppe erano state riempite per metà o meno perché non erano sicuri della resistenza e della portata che avrebbero potuto sopportare ma era stato deciso che sarebbero ritornate indietro a prendere altri passeggeri, invece, non era andata così. Li avevano lasciati lì, in agonia.

Mentre anche quella scialuppa stava per essere calata in mare, Dave si tirò indietro sentendo la nausea stringergli lo stomaco quando, inavvertitamente, sul ponte lasciato libero dai passeggeri che erano corsi verso quella successiva, vide una bambina che piangeva disperata, guardandosi attorno con aria spaesata.

Quando non si pensa, si agisce.

Dave corse subito verso la bambina e la prese in braccio strappandole un piccolo grido di terrore subito soffocato dalle lacrime. Diede un rapido sguardo intorno a sé, aspettandosi di vedere una donna o un uomo andargli incontro a reclamare quella povera creatura ma nessuno si fece avanti.

Poco importava se avrebbe avuto il dolore di un genitore sulla coscienza; quella bambina andava messa in salvo.

La scialuppa… la stavano calando.

“Dio, ti prego, dammi solo un istante” pregò Dave, con più fervore di quanto non avesse mai fatto correndo a rotta di collo nel punto dove la scialuppa veniva calata in mare.

Quando arrivò, grazie a Dio, non aveva ancora raggiunto il ponte di seconda.

- Aspettate! – urlò con tutto il fiato che aveva in gola, sporgendosi pericolosamente verso il vuoto con la bambina urlante che, terrorizzata dal buio visto sotto di lei, si aggrappò al braccio di Dave che la sosteneva – Prendete la bambina! La bambina!  

Dal gruppo di donne nella scialuppa si alzò una figura bianca, che nella notte brillava come un faro, con le braccia tese verso l’alto pronta a prendere quella piccola vita alla quale spettavano ancora tanti e tanti anni da vivere.

Era un bel salto ma le avrebbe fatto più bene che male, pensò Dave. Con un trasporto paterno, posò un rapido e fugace bacio sulla testolina bionda della bimba e la lasciò scivolare tra le braccia della bianca figura sulla scialuppa che la prese al volo per stringerla teneramente a sé per calmare il suo pianto.

Per la prima e ultima volta, in quella maledetta notte, Dave sentì qualcosa di molto simile alla felicità.

Quella bambina era Beth e la figura che l’aveva afferrata nel suo volo era Quinn.

Il destino aveva di nuovo mischiato le sue carte da gioco.

 

 

 

Nota dell’autore:

L’iceberg e vari errori di sottovalutazione furono la causa della collisione e del conseguente naufragio del Titanic. Per la morte di tante persone, a questi fattori vanno aggiunti l’assenza di un numero sufficiente di scialuppe e l’incompetenza messa nelle manovre di imbarco. Sebbene, all’inchiesta che seguì, il governo inglese elogiò il comportamento e il sangue freddo della sua marina, dalle testimonianze dei sopravvissuti possiamo dedurne il contrario. I marinai non sapevano come muoversi, non erano state fatte prove e simulazioni di ciò che avrebbero dovuto fare in caso di emergenza. Davano tutti per scontato che il Titanic fosse realmente “inaffondabile”.

Sulla salvezza delle persone che erano riuscite a salire sulle scialuppe hanno giocato un ruolo decisivo i due ufficiali Murdoch e Lightoller addetti all’imbarco, rispettivamente, nei ponti di sinistra e di destra. Mentre il primo diede precedenza a donne e bambini e riempiendo poi eventuali vuoti con alcuni uomini, il secondo permise di imbarcare “solo” donne e bambini e anche con quest’ultimi si dimostrò severo, a causa dell’età. L’episodio di lui che punta la rivoltella contro un ragazzino di tredici anni per non farlo salire è, purtroppo, vero.

La cosa più ironica è che Lightoller fu l’unico degli ufficiali a sopravvivere al disastro.

Per quanto riguarda il trattamento riservato ai passeggeri di terza classe, sappiamo dalle testimonianze  che, in un primo momento, alcuni marinai scesero per accompagnare piccoli gruppi sul ponte lance (visto che i corridoi erano come un labirinto) ma, ad un certo punto, forse per il caos che si stava creando sui ponti di imbarco, non ritornarono più a riprenderli. Alcuni dei passeggeri decisero di raggiungere i ponti da soli mentre altri rimasero intrappolati.

 

Eccomi di ritorno. Mi dispiace di avervi fatto attendere ma in quest’ultimo periodo mi sono trovato ad affrontare dei problemi non indifferenti e dovrò aspettare ancora un mese per vedere se una parte è risolta, mentre, per l’altra parte, la cosa sarà parecchio lunga.

Comunque, voglio rassicurarvi, dicendo che questa fanfiction l’ho quasi terminata; mi resta solo l’ultimo capitolo. Il girono di aggiornamento resterà comunque il mercoledì. Vi chiedo ancora scusa per i ritardi (lo so, non sono da me, visti i miei precedenti di puntualità ma concedetemi le attenuanti XD)

Come sempre, per qualsiasi cosa, vi rimando alla mia pagina: http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483

Ringrazio di cuore tutte le persone che continuano a seguirmi <3

 

Lusio

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Capitolo 6
*** Le voci dall'oceano ***


Le voci dall’oceano

 

Quando, finalmente, anche i passeggeri di terza classe riuscirono a raggiungere i ponti superiori era troppo tardi; la maggior parte delle scialuppe erano già state messe in mare e si erano già allontanate lasciandosi dietro più di mille persone. I più fortunati erano stati quelli che avevano raggiunto il ponte lance dalle uscite secondarie, scortati dai marinai, ma i tre quarti di loro che erano rimasti si liberarono solo abbattendo i cancelli che li tenevano prigionieri in quella trappola d’acqua e gettandosi a rotta di collo verso le uscite. Tra questi c’erano Puck, Shleby e gli altri del loro gruppo.

L’acqua aveva quasi sommerso l’intera prua e adesso sembrava salire di livello più velocemente come anche l’inclinazione della nave che stava diventando sempre più precaria. Tra le persone rimaste a bordo, quelli che non si soffermavano sulle poche scialuppe rimaste, si spingevano verso la poppa sperando di resistere più a lungo in attesa di eventuali soccorsi mentre i più disperati si gettavano in mare aggrappandosi a sedie, sdraio ed altri oggetti finiti fuori bordo; molti di loro non sopravvivevano all’impatto violento con l’acqua gelida.

Usciti finalmente fuori, a causa delle situazioni e dei disordini, tutti i componenti del piccolo gruppo si ritrovarono presto separati gli uni dagli altri: Shelby, non appena sentì sulla pelle la fredda aria della notte, si mise a correre lungo il ponte affollato chiamando a gran voce “Beth! Beth!” subito seguita a ruota da Puck.

- Non aspettateci! – gridò ai suoi amici – Salite subito su una scialuppa!

Così i due sparirono alla vista di quelli che rimasero, i quali si ritrovarono a loro volta divisi: Mike e Tina vennero spinti dalla calca verso la poppa, lontano dalle ultime scialuppe rimaste; invece Rachel, Mercedes, Sugar e Blaine si ritrovarono proprio tra le persone che cercavano di salire sulla penultima scialuppa del ponte di destra. Quando avrebbero terminato con le imbarcazioni in legno, sarebbero passati ai quattro canotti più piccoli, che si trovavano a prua, due dei quali posti sopra il tetto della zona degli ufficiali. 

Tina e Mike vennero sospinti verso l’ultima scialuppa. Sebbene molti uomini cercassero di infilarcisi dentro, i marinai, anche con gran fatica, li buttavano fuori per dare spazio a donne e bambini. Con la buona occasione che si trovavano a portata di mano, Mike fendé la folla, approfittando della sua statura e della sua fluidità di movimenti, spingendo Tina davanti a sé. Arrivati davanti alla scialuppa, le diede un’altra piccola spinta per farla salire. Ma la ragazza si aggrappò ancora più saldamente al braccio del compagno.

- Avanti Tina, sali – la incentivò lui – Non perdere tempo.

- Vieni anche tu, Mike – disse la ragazza con decisione; non era affatto una preghiera o una richiesta.

- Non posso; adesso devono salire le donne e i bambini – replicò Mike, spingendola ancora e ottenendo in cambio il solo effetto di far puntare i piedi a Tina, che continuava a fissarlo con fermezza – Non preoccuparti, io me la caverò. Pensa a te stessa.

- Senza di te non vado – la sicurezza nella sua voce non lasciava dubbi sulla decisione che stava prendendo.

- Tina, per favore, non fare la bambina!

- Non sono una bambina! Sono una donna, sono libera di scegliere; e scelgo di rimanere con te.

- Adesso basta! Mi sono stufato!

Mike decise di lasciar perdere la gentilezza e con tutta la violenza e la rudezza che quel particolare frangente gli consentiva fece per gettare di peso Tina nell’imbarcazione; ma la ragazza lo prese alla sprovvista e con una forza che, forse, nemmeno lei pensava di avere, fece forza sulle punte dei piedi e si spinse a sua volta contro Mike, artigliandogli le braccia con la stessa violenza che lui aveva usato. Colto di sorpresa, Mike finì quasi per soccombere e ricevette il colpo di grazia quando Tina si tese ancora di più verso di lui catturando le sue labbra circondate da un leggero filo di barba. Il ragazzo si lasciò trascinare da quell’impeto che ricordava i primi giorni del loro primo ed unico amore giovanile, la loro fuga dal quartiere dei poveri della fredda città inglese verso il loro mondo ideale baciato dal sole dell’estate. La morbidezza che possono avere le labbra di chi è povero con al centro il sapore umido e ferroso della lingua palpitante come una fiamma.

Se quello non fosse stato un modo per vivere, Mike avrebbe tanto voluto morire con quelle sensazioni in petto.

Quando si staccarono erano lontani dalla scialuppa, dalla paura che li circondava, da tutto il resto; erano ritornati in quel loro mondo ideale per non lasciarlo mai più.

- Rimango con te – disse Tina aggiustandogli i capelli scomposti.

- Vinci sempre tu – disse Mike prendendole dolcemente la mano.

 

* * *

 

Quando Quinn aveva detto a Kurt della licenza che davano agli uomini di salire sulle scialuppe sull’altro ponte, il timore del ragazzo era che altri avrebbero potuto sentirlo e, di conseguenza, precipitarsi nella medesima direzione per precederli in quella possibilità di salvezza. Certo, era un pensiero egoista, ma c’era poco da essere solidali con gli altri in quel momento.

Senza perdere tempo, ritornò dal padre e dal fratellastro e li mise al corrente di quanto Quinn gli aveva detto, con poche spicce parole per evitare che altri li sentissero e li portò verso il ponte di sinistra. Purtroppo per loro, le manovre di imbarco da quella parte erano più veloci e quando arrivarono stavano caricando l’ultima scialuppa. L’ultima per quel ponte.

Allarmati da ciò, aumentarono rapidamente il passo, l’unica fortuna era che non ci fosse la stessa calca del ponte di destra e questa è la cosa più ironica e più triste.

- Potremo salire anche noi? – domandò subito Burt col cuore in gola al marinaio addetto all’imbarco.

- Mi spiace, è rimasto posto solo per un’altra persona.

Quando bisogna decidere, sapendo che si deve scegliere tra la vita e la morte di più di una persona, è questa la cosa più difficile che possa capitare e quello che un genitore non vorrebbe mai gli si presentasse.

Burt voltò il viso sbiancato e quasi invecchiato di colpo solo per vedere lo smarrimento di Finn e il terrore di Kurt; ma il primo trovò la forza di fargli un cenno con gli occhi indicando il più giovane di loro. Il padre non poté nascondere un egoistico sollievo a quella concessione. Afferrò saldamente Kurt per le spalle e lo sospinse verso la scialuppa.

- Kurt, vai tu – disse.

Ma il ragazzo, come destatosi di colpo, si divincolò dalla presa del padre, cercando di ritornare indietro.

- Papà, no! – esclamò – Fai salire Finn!

- Smettila di voler fare l’eroe – replicò Burt, esasperato, sostenuto da Finn.

- Fai salire Finn! – ripeté Kurt, ostinato – La fuori c’è già Carole. E’ meglio se va lui.

- Posso cavarmela anche a nuoto – reagì Finn, deciso a non sembrare debole, sebbene la paura lo stesse attanagliando allo stesso modo di Burt e Kurt – Sono giovane e robusto, sono sicuro di poter resistere all’acqua fredda.

- Anche io sono giovane, cosa credi? – Kurt afferrò il braccio di Finn, stringendoglielo fino a fargli male – E’ meglio se sale papà – gli sussurrò a pochi centimetri dall’orecchio.

- Che state borbottando? – fece Burt, recuperando il figlio – Non perdiamo altro tempo. Kurt sali!

- No, papà! Vai tu! Sei malato, non resisteresti in acqua.

- Io qui non ti lascio – gridò Burt, stringendo la sua presa sulle braccia di Kurt, negli occhi una tempesta di rabbia, paura e frustrazione.

- Papà, hai sentito Finn: siamo giovani, abbiamo più possibilità di farcela se cadiamo in acqua. Tu hai avuto dei problemi di cuore, solo lo shock dell’acqua fredda potrebbe esserti fatale – si svincolò dalla sua presa per poi afferrargli il colletto della camicia – Ho perso una madre; non voglio perdere anche un padre.

- E io ho perso una moglie e non voglio rischiare di perdere anche mio figlio – replicò Burt mentre una lacrima scivolava lungo la guancia piena.

- Burt – si fece avanti Finn, sostenendo il fratellastro adesso – c’è mia madre lì fuori. Non voglio che rimanga da sola. Io e Kurt vi raggiungeremo, a nuoto o aggrappati a qualcosa se è possibile ma ce la caveremo.

- Signori non possiamo più aspettare! – esclamò il marinaio esasperato, dando l’ordine che la scialuppa venisse calata in mare.

- Benissimo, allora! – urlò Burt, ormai al limite – Allora resteremo tutti e tre qui!

Più che dalle parole del padre, Kurt fu più colpito dalla vista di quell’ultima scialuppa che, ancora pochi minuti e sarebbe sparita dalla loro vista. Fu come un riflesso condizionato. Quasi non capì come era accaduto né come ci fosse riuscito. Fatto sta che un momento prima suo padre era davanti a loro, il volto arrossato e fremente per la collera, e quello dopo era nella scialuppa malamente sostenuto dal marinaio e da uno dei passeggeri imbarcati, la collera spazzata via dallo sbigottimento. Kurt sentiva i palmi delle mani che gli dolevano e che pulsavano per la troppa forza che aveva messo in quella spinta inaspettata tanto per il padre e Finn, rimasto indietro a guardare, stupito, quanto per lui stesso.

C’è sempre quel particolare momento, nel rapporto che c’è tra un genitore ed un figlio, in cui i loro ruoli si invertono e il figlio si fa genitore per prendersi cura di quest’ultimo. Non è un regolamento di conti né un ricambiare un favore; è semplicemente amore.

“Comprendimi papà. Ti voglio bene”.

- Non preoccuparti papà. Ce la faremo – gli gridò Kurt vedendolo sparire assieme all’intera scialuppa, mentre li chiamava disperato, cercando in tutti i modi di districarsi dalla presa di chi gli impediva di risalire a bordo del Titanic.

A riscuotere Kurt, stavolta, ci pensò Finn che gli strinse delicatamente una spalla.

- Kurt, dobbiamo cercare di andarcene da qui.

- E come? – gli chiese Kurt mentre una triste consapevolezza copriva i suoi occhi – Non ci sono più scialuppe.

- Dall’altro lato ne sarà rimasta qualcuna.

- Lì non ci faranno mai salire. Non quando ci sono ancora tante donne e tanti bambini.

“Potresti passare anche tu per un bambino e salvarti, se solo volessi” pensò Finn mordendosi le labbra per non lasciarsi prendere dall’ansia – Intanto ritorniamo al ponte di destra; poi vedremo cosa fare. Magari riusciamo ad infilarci in una di quelle in mezzo alla confusione.

O magari, come Kurt aveva fatto con suo padre, Finn pensava di fare lo stesso con il fratellastro, ma presto. La nave si stava inclinando pericolosamente e questo rendeva sempre più difficile muoversi; ogni tanto si vedeva qualcuno scivolare giù, nell’acqua che saliva sempre più velocemente, divorando quel gigante di ferro. Fino a quel momento, sotto le urla e le grida di tutte le persone ancora sul Titanic, si poteva sentire ancora l’orchestra che suonava, inarrestabile e invincibile; ma quando il ponte si inclinò ulteriormente, il piccolo pianoforte messo fuori assieme agli altri strumenti, perse una nota, ne sbagliò un’altra e ne perse un’altra ancora, fino a che non scivolò giù, inghiottito dalle acqua nere ancora illuminate dalle luci della nave, con il pianista che cercava disperatamente di afferrarlo. Perso un componente, quelli che erano rimasti non ressero a lungo. Cadde il violoncellista, cadde il secondo violinista, il più giovane, cadde anche il primo violinista, caddero tutti uno dopo l’altro, aggrappati ai loro strumenti che fungevano come inutili salvagente. Il direttore d’orchestra ebbe solo il tempo di legarsi in vita i suoi spartiti prima di raggiungere i suoi compagni.

Ormai quello che regnava sull’intera nave non poteva più chiamarsi “confusione” o “caos” e “panico totale” non poteva lontanamente esprimere quello che regnava incontrastato in quel piccolo frammento d’oceano. Tanta era la gente che Finn non riusciva a vedere dove si trovassero le ultime scialuppe e incominciava a disperare che ce ne fossero ancora; non sapeva che c’erano ancora dei canotti, due dei quali erano già stati messi in mare.

Si voltò, sperando di trovare un aiuto in Kurt… ma non lo vide. Dietro di lui, di fianco a lui, davanti a lui c’erano solo sconosciuti. Kurt non c’era. Lo aveva perso.

“No! Ti prego, no!” pensò disperato vedendo da lontano una donna che scivolava lungo il ponte con un urlo.

Senza arrendersi a quello che sembrava l’inevitabile, Finn corse spingendo chiunque gli capitasse sotto mano, chiamò Kurt a gran voce per ritrovarlo.

 

* * *

 

Lasciati da Puck e Shelby e separati da Tina e Mike, i componenti rimasti del gruppo, Blaine, Rachel, Mercedes e Sugar si erano ritrovati davanti ad una delle ultime scialuppe rimaste, anche se non lo sapevano. Molti ancora speravano che tutti sarebbero usciti vivi da quel disastro, anche se era meglio essere tra i primi.

Con i marinai che tenevano lontani gli uomini, le ragazze si infilarono in mezzo a quella muraglia di braccia: Rachel e Sugar che tenevano Mercedes in mezzo a loro per paura che non la facessero salire perché di colore; Sugar trascinò con loro anche Blaine, tenendolo per il polso. Rachel, con un saltò, si ritrovò sulla scialuppa, traboccante di donne e bambini e qualche signore che cercava di non farsi notare, seguita a ruota da Mercedes e mentre faceva lo stesso anche Sugar, quest’ultima si sentì tirare indietro, tanto che fu costretta ad aggrapparsi ad una signora seduta lì vicino per non cadere fuori bordo. Voltandosi, videro che Blaine veniva spinto indietro da uno dei marinai.

- No! Fatelo salire! Fatelo salire! – gridò Rachel, non riuscendo però a farsi sentire in quell’accozzaglia di voci che si sovrastavano a vicenda.  

Blaine rimase fermo lì, pallido e tremante, lanciando sguardi disperati in direzione della scialuppa da dove le sue amiche lo incentivavano a saltare e raggiungerle, non sapendo che fare vinto dalla paura e dagli scrupoli nel vedere che altre donne, con i loro bambini attaccati al collo, cercavano di salire su quella piccola imbarcazione già fin troppo piena.

- Avanti, Blaine! – continuavano ad urlargli – Sali! Fai presto!

- Non fa niente. Non fa niente – mormorò Blaine, non riuscendo a farsi sentire, mascherando il panico dietro un fintissimo e traballante sorriso tranquillo, indietreggiando piano, lontano dalla ressa di gente, il petto che si gonfiava e sgonfiava d’aria in maniera convulsa, mentre i richiami di Rachel, Mercedes e Sugar si facevano sempre meno nitidi fino a sparire in quel mare di voci e rumori.

Senza aspettare altro, continuando a contenere le persone che ancora cercavano di saltare su quell’ultima salvezza, i marinai calarono la scialuppa piena di donne terrorizzate e bambini urlanti e uomini raggomitolati su se stessi. Le manovre erano molto più difficili stavolta.

Arrivati quasi a poca distanza dall’acqua una delle funi delle gru si inceppò; l’altra invece continuò la sua opera fino a che la scialuppa non si ritrovò con una parte sospesa a mezza altezza sul mare in maniera pericolante. Solo i richiami dei marinai coperti dalle grida di puro terrore delle persone a bordo avvertirono quelli che si stavano occupando delle manovre. Nonostante le luci ancora accese, il buio e il panico complicavano di molto la situazione, ma essere cauti non era per niente possibile: un solo sbaglio, un attimo di esitazione e le persone sulla scialuppa avrebbero rischiato la vita.

- Presto! Smuovete quella fune! – urlò Lightoller per poi cambiare subito il suo ordine quando, da sotto, delle grida ancora più forti gli portarono alla mente un possibile scenario di gente che si dibatteva, che finiva nelle acque gelate, della scialuppa che precipitava su di loro – No! Fermi! Fermi ho detto!

I marinai gli rivolsero eloquenti sguardi di impotenza. Adesso sì che veniva spazzato via l’ultimo brandello di coraggio e di autocontrollo di cui si vantavano gli inglesi.

- Che qualcuno ci aiuti! – saltò su uno dei più giovani, rivolgendosi a tutti coloro che correvano su e giù per il ponte, senza nessuno reale speranza di soccorso quanto di condivisione di una preoccupazione e di una responsabilità che, ormai, era diventata troppo grande per il solo staff della nave condannata. Ma nessuno, pur volendo, avrebbe potuto aiutarli. Erano troppo impegnati ad aiutare se stessi.

Lo stesso giovane marinaio, quasi impazzito per la tensione, afferrò la prima persona che gli capitò sotto mano, un ragazzone alto e ben piazzato che chiamava a gran voce “Kurt! Kurt!”.

- Vi prego! Ci serve aiuto! – disse il marinaio, trascinandolo verso la gru.

- No! Non posso! – tentò di liberarsi Finn, perché era di lui che si trattava – Devo trovare mio fratello.

- Vi prego! – continuò il marinaio, mostrandogli con un gesto, per quel poco che si poteva vedere nel buio, la tragedia che si stava consumando nella tragedia – Ci sono donne e bambini lì in mezzo!

- No! Dio Santissimo! – Finn non sapeva nemmeno a cosa fosse dovuta quell’esclamazione; in testa aveva solo un carosello di immagini di sua madre e di Burt sulle scialuppe, di Kurt che non riusciva nemmeno a focalizzare, come se fosse talmente lontano da non riuscire ad afferrarlo nemmeno col pensiero.

- L’accetta! Prendete l’accetta! – fu l’ordine di Lightoller.

C’era un’accetta, infatti, lì contro la parete di un interno, in una di quelle teche d’emergenza.

- Che qualcuno la prenda per tagliare la fune!

Le braccia del giovane marinaio erano troppo scarne per maneggiare quell’arnese, mentre le braccia dell’ufficiale erano troppo impegnate ad indicare ai marinai come sostenere la struttura per evitare che collassasse con risultati catastrofici. Finn doveva trovare Kurt; ma adesso c’erano anche le urla d’aiuto di tute quelle persone che sicuramente non sarebbe più riuscito a togliersi dalla testa.

“Un colpo ben assestato. Al massimo due. Non ci vorrà più di qualche secondo” pensò Finn, correndo verso la teca, frantumandola con un deciso colpo di gomito e afferrando l’accetta per poi dirigersi a passo deciso contro la fune inceppata – Levatevi di mezzo! – esclamò levando pericolosamente quell’arma di salvezza sulla testa, scansando il giovane marinaio e chi gli stava accanto, per poi abbatterla con un colpo secco sulla corda tesa che vibrò, facendo vacillare la scialuppa sospesa in maniera sbilenca sull’acqua, quasi ad imitare la nave che cercava di abbandonare. Un secondo colpo, poi un terzo; al quarto la fune si staccò violentemente, lasciando scivolare in mare la scialuppa senza gravi danni.

Finn ebbe solo il tempo di lasciar cadere l’accetta sul ponte e voltarsi per ritornare subito alla ricerca di suo fratello quando, con un rumore stridente, sentì come una violenta sciabolata che gli sferzava l’occhio; l’altro capo della fune tranciata che si era tesa all’indietro in seguito al taglio.

Un dolore bruciante come una pugnalata; una nebulosa confusione; il terreno che gli mancava sotto i piedi; un senso di vuoto accompagnato da acuti strilli femminili.

Atterrò con uno schianto nella scialuppa che si allontanava, afferrato al volo da un gruppo di giovani donne che attutirono il salto che poteva essere fatale.

Quando riprese i sensi non riusciva a muoversi: il più piccolo movimento gli causava una fitta lancinante alla spalla e alla parte superiore della schiena, come una scarica elettrica. E un velo sanguigno gli oscurava la vista. Attraverso quel velo intravide con raccapriccio le luci del Titanic che si facevano piano piano, più lontane e più sfocate.

“No. Kurt. Devo trovare Kurt” pensò prima di cadere di nuovo nell’incoscienza, mentre il velo si faceva sempre più rosso fino a diventare nero.

 

* * *

 

I canotti A e B, gli ultimi mezzi di salvezza rimasti, si trovavano sul tetto di prua; e lì l’acqua arrivava alle gambe e il ponte era più inclinato e scivoloso. Mentre la maggior parte delle persone rimaste correva verso la poppa che si stava elevando al cielo stellato, alcuni disperati si erano ammassati lì per tentare un ultimo scatto di salvezza.

Ad un certo punto, Dave Karofsky aveva lascia la sua postazione presso le scialuppe per andare lì, dove poteva essere più utile: la sua terra natale gli aveva lasciato come retaggio di natura una certa resistenza al freddo; le sue braccia potevano quindi aiutare chi non lo era. Ma non era preparato all’impatto con l’acqua gelida. Soffocando imprecazioni tra le labbra serrate, si diresse verso il gruppo di marinai tra i quali c’era anche Lightoller che, con grandi difficoltà, cercava di tirar giù il canotto B; dall’altro lato il risultato era stato disastroso: il canotto A si era capovolto e si cercava inutilmente di rimetterlo nella posizione adatta mentre l’acqua saliva sempre più speditamente, sommergendo ogni cosa e ogni persona.

Riuscì a resistere in un primo momento, ma ad ogni movimento l’acqua si sollevava a schizzi colpendolo con tanti gelidi artigli e sentiva sempre più il calore che lo abbandonava. Alcuni dei marinai che gli erano accanto scivolarono via privi di forze, trascinate verso il fondo dal debole gorgo della nave che affondava. Dave, aggrappandosi allo sforzo, alla fatica dei suoi muscoli tesi per sostenere, assieme ai pochi rimasti, il peso del canotto, resistette con tutte le sue forze.

E l’acqua saliva sempre più, accogliendo su di sé, cento e cento persone che scivolavano lungo i ponti inclinati, alcuni persino da grandi distanze, trascinando con loro tutti quelli contro cui si scontravano.

Puck e Shelby stavano ancora cercando disperatamente Beth; l’avrebbero cercata anche sul fondo dell’oceano se avessero potuto. A loro fu fatale la corsa frenetica per ritrovare la bambina. Si scontrarono con la paura di altre persone come loro: smarrite, alla ricerca di qualcuno o di qualcosa, di chi amavano o di una qualsiasi salvezza. Ma la loro piccola Beth, l’unica che volessero trovare, non c’era. Setacciarono in lungo e in largo i ponti della nave, spesso ritornando in punti già visti, col pensiero ossessivo che magari avrebbero potuto ritrovarla proprio lì, dove erano già passati. Purtroppo, quando l’equilibrio sulla nave si fece più disagevole, risalire divenne un’impresa per loro che si erano pericolosamente avvicinati alla prua, completamente sommersa e quasi scomparsa sott’acqua; Shelby inciampò nella sua gonna e cadde e Puck, con le gambe salde a terra e le braccia che si tenevano al parapetto, si lasciò andare a sua volta per recuperarla. Si fermarono quando si ritrovarono tra la massa di persone che si accalcava sul canotto B.

Mentre l’acqua fredda toglieva loro il fiato e li faceva saltare come molle, Puck riuscì ad afferrare la donna urlante per il polso cercando di ritrascinarla verso il ponte; ma quei maledetti salvagente impedivano ogni movimento; Puck era sempre stato un bravo nuotatore ma con quel coso addosso non riusciva nemmeno a fare una bracciata, poteva solo fare leva con le gambe ma questo lo sfiancò e a ciò contribuì il freddo che gli intorpidiva i muscoli come se fossero stati tramutati in pietra. Allora, vedendo il canotto affianco a loro, vi guidò Shelby.

- Presto, sali! – le urlò, spingendola in mezzo alle persone che vi si accalcavano.

- No! No! – si dibatté lei – Dobbiamo trovare Beth!

- La troverò, giuro che la troverò – affermò Puck, sicuro delle sue parole – Ma tu sali. E’ inutile che rimaniamo tutti e due qui.

- No! Non me ne vado senza Beth! – strillò Shelby, cercando di svincolarsi.

Senza farsi problemi, Puck spintonò da ogni parte chi si trovava davanti, fino ad arrivare ai bordi del canotto e sollevò Shelby, che continuava a dibattersi forsennatamente per quanto le permettesse il salvagente, e fece per appoggiarvela dentro. Quando accadde.

Un’onda, generata forse da una qualche fuoriuscita dalla parte sommersa del Titanic, si abbatté su di loro. Il canotto B si capovolse finendo alla deriva con giusto qualcuno ancora aggrappato ad esso; tra loro c’era Shelby.

Altri, come Puck e Dave furono trascinati dalla parte opposta. Storditi dall’impatto, molti non riuscirono a muoversi, e in alcuni stava già per sopraggiungere l’ipotermia. Puck, invece, scorse Shelby aggrappata alla scialuppa da lontano; e, sbracciandosi, cercò di raggiungerla anche se ad ogni movimento che faceva aveva sempre l’impressione di indietreggiare.

All’improvviso un crepitio sinistro e profondo sovrastò le urla delle persone in acqua, seguito dai sostegni del primo fumaiolo che si rompevano. Dave ebbe l’impressione che il fumaiolo giallo dalla sommità nera si allungasse verso l’alto e si facesse sempre più grande fino a coprire il cielo stellato sopra le loro teste. Non si accorse nemmeno di cosa realmente stava accadendo, come tutti gli altri, come Puck che cercava inutilmente di nuotare via. Accadde tutto in una frazione di secondi.

“Papà” pensò Dave inconsciamente.

Poi, il fumaiolo si abbatté su di loro generando un’altra onda che spazzò via tutti quelli che si trovavano nelle vicinanze, comprese le persone che si erano aggrappate alla scialuppa capovolta. Anche Shelby venne sbalzata via, lontana, nell’oceano buio.

 

* * *

 

Kurt sapeva che stava per morire. Tutti lo sapevano ma, come è logico, nessuno si rassegnava a questa idea; se non c’era più possibilità di salvarsi, si poteva solo cercare di ritardare quel momento: senza più scialuppe restava solo la poppa dl Titanic che saliva lentamente verso l’alto, verso l’atmosfera meno umida del cielo. E si radunavano tutti lì, pigiati gli uni su gli altri, con pochissimo spazio per muoversi e persino per respirare. Kurt si sentiva stretto al punto da avere l’impressione di essere sollevato per essere espulso da quella massa come un tappo di bottiglia che salta; la sensazione peggiore che potesse provare, quella di sentirsi impotente e senza forze, quasi soffocato da altri che versavano nelle sue stesse condizioni.

Aveva cercato Finn dovunque ma senza alcun risultato: come voler cercare un ago specifico in un pagliaio. Non aveva più nemmeno il salvagente che aveva lasciato chissà dove poco prima di vedere Quinn. Quanto tempo era passato da quel momento? Poco, eppure sembrava che fosse passata un’eternità. E in quel momento provava la dolorosa sensazione che il tempo fosse passato troppo in fretta; un minuto prima era ancora a casa sua, con suo padre, Carole e Finn, e quello dopo cercava di farsi largo tra una folla impazzita dalla paura, su una nave che affondava, per raggiungere il parapetto, per riuscire di nuovo a respirare, per cadere in acqua, per poter avere gli occhi liberi e riuscire a fuggire alla fine per un solo minuto in più.

Quando era più piccolo gli dicevano che se si era buoni si andava in Paradiso, dopo la morte, mentre i cattivi finivano all’Inferno, ma chi gli assicurava che esistesse veramente una vita dopo la morte? Era questa la sua paura più grande in quegli ultimi istanti; non il Titanic che trascinava con sé, nelle profondità dell’oceano innocenti e non, non il pensiero dell’acqua fredda che avrebbe fermato il suo cuore in pochi minuti, ma la paura di chiudere gli occhi per sempre e trovare solo il nulla, l’assenza di pensiero e sensazioni. A che serviva morire se non avevi la certezza di poterti riunire alle persone che amavi quando sarebbe giunto il momento?

“Mamma”, Kurt la vide, con i capelli castano chiaro che alla luce del sole parevano rossi, e gli occhi che erano i suoi stessi occhi e il sorriso che portava marchiato nel suo cuore. Sapere che l’avrebbe vista non appena avesse chiuso gli occhi avrebbe reso tutto più sopportabile. E la mancanza di certezza lo tenne aggrappato alla vita con tutte le sue forze.

Con un grande sforzo riuscì a mettere una mano sul legno del parapetto; ma i suoi muscoli erano talmente stirati e doloranti che quando si rilassò un istante per lasciar riprendere fiato al suo corpo, sentì il peso delle persone attorno a lui gravargli addosso e spingerlo via.

“Ecco, ci siamo” pensò, già vedendosi scivolare lungo il ponte per poi scontrarsi con l’acqua; ma una mano salda gli afferrò il polso riportandolo contro il parapetto, al quale Kurt si tenne stretto con entrambe la mani.

Alzò lo sguardo per vedere chi gli aveva concesso quei minuti in più (ringraziarlo sarebbe stato assurdo ma uno sguardo non costava nulla) e vide due occhi dorati, arrossati per il pianto come dovevano essere anche i suoi. Le labbra di quel ragazzo tentarono di stendersi in un sorriso tremante e vacillante.

- Andrà tutto bene – parve dirgli – Andrà tutto bene.

“No, non andrà bene. Ma, almeno, non sono solo. Non siamo soli” pensò Kurt, ricambiando l’accennato sorriso melanconico e afferrando la mano del ragazzo che lo strinse ancora di più a sé, mentre le persone si facevano sempre più numerose.

Poi, le luci del Titanic si spensero, acutizzando le urla delle persone rimaste a bordo.

Le mani di Kurt e Blaine si strinsero più forte.  

 

* * *

 

Quanto puoi sentirti impotente nel sapere che migliaia di persone vicino a te stanno morendo e non puoi fare niente per salvarle?

Quanto puoi soffrire pensando che una persona che ami sta gridando aiuto ma hai troppa paura per fare alcunché?

Come ti senti quando l’impotenza, la sofferenza e la paura sono un tutt’uno?

Chiedilo alle persone che, dalle scialuppe, assistettero agli ultimi momenti dell’ “inaffondabile” Titanic, le mani intirizzite abbandonate sui remi, le bocche spalancate in un urlo muto, gli occhi che non riuscivano a staccarsi dall’immagine della poppa della nave che puntava verso il cielo stellato, le sue luci ancora accese per mostrare, crudelmente, quella tragedia che si consumava di notte, il brusio e le grida che tradivano la presenza di centinaia di persone ancora a bordo.

Il fumaiolo che crollò, seppellendo sotto la sua fatale massa di ferro tante persone già finite in acqua non fu nulla in confronto al gran finale.

Ad un tratto, le luci vacillarono, lampeggiarono e si spensero, lasciando tutto al buio, illuminato solo dal tenue chiarore della luna e delle stelle e dei loro riflessi sulla superficie del mare.

Lo scenario si spostò dagli occhi alle orecchie, con quelle urla disperate che perforavano i timpani. Che vennero coperte da un rumore più forte e più profondo.

- Tutti i mobili stanno precipitando – dissero alcuni degli spettatori dalle scialuppe.

- Le caldaie stanno esplodendo – dissero altri.

Era troppo buio; non poterono vedere il Titanic, il “gigante di ferro degli oceani”, spezzarsi in due come uno stuzzicadenti; intravidero solo la poppa della nave abbassarsi per poi risollevarsi in alto, stagliata contro la luna, simile ad una lapide, spogliata dei suoi fumaioli, con grappoli di persone che si lasciavano cadere.

- E’ finita. Sta andando.

Una fila di oblò sparì sott’acqua, poi toccò a quella successiva e poi a tutte le altre, mentre l’acqua gorgogliava. Solo pochi minuti e non c’era più nulla. Il Titanic non esisteva più. Al suo posto c’era solo una macchia d’acqua schiumante. E quelle urla; le urla di chi ancora si aggrappava alla vita; quelle urla che non si poteva fingere di non udire. Urla che ti ossessionano a vita.

Le persone sulle scialuppe potevano tapparsi le orecchie, coprire quelle urla con il pianto, con il battere dei remi sulla superficie dell’acqua e per una di loro che sarebbe voluta ritornare indietro a salvare qualcuno ce ne erano dieci che avevano troppa paura per farlo. La maggioranza vince sempre anche a costo di vivere per sempre con un rimorso che non darà mai tregua.

Come quelle urla che sembrarono durare in eterno, a tratti come il frinire dei grilli, a tratti come il lamento sul Muro del Pianto, e poi sempre più deboli. Prima erano mille, poi cento, ora cinquanta, ora dieci, ora due, ora una e, infine, il silenzio. E quelle voci dall’oceano rimasero solo nella mente di chi non li aveva ascoltati.

Sono ancora lì, a invocare aiuto. A chiedere perché li hanno abbandonati.

 

* * *

 

- Si può sapere cosa stiamo aspettando?! – esclamò Sue Sylvester, stringendo il remo che aveva tra le mani con tanta forza da farsi sbiancare le nocche – Andiamo ad aiutare quelle persone!

Quella decisa affermazione, pronunciata con tono di comando, non incontrò certo, salvo alcune eccezioni, un consenso generale, soprattutto da parte del marinaio responsabile della loro scialuppa, aggrappato al timone come un animale ferito.

- No! – affermò quest’ultimo, con tono altrettanto deciso – Se andiamo in mezzo a loro, si aggrapperanno tutti alla scialuppa e ci faranno finire tutti in acqua. Così non si salverà nessuno.

- Questa poi! – saltò su Sue, piccata.

- Vi prego – si fece avanti Carole, bianca e con gli occhi arrossati – Non possiamo lasciarli lì, a morire; potrebbero esserci donne e bambini tra loro. Potrebbero anche esserci i nostri cari – continuò rivolgendosi alle altre donne a bordo, intontite dagli eventi, incapaci di reagire.

- No! Finché sono io al comando di questa scialuppa, si farà come dico io – quasi urlò il marinaio.

Quelle ultime parole ebbero il solo effetto di far imbestialire di più Sue che, lasciando andare il remo, si alzò e si fece largo tra le donne, avvicinandosi al marinaio.

- Ma che razza di marinaio ci hanno dato – disse, disgustata – Si metta lei ai remi e dia a me il timone, visto che non sa nemmeno come usarlo.

Come colto da una crisi di panico, l’uomo ebbe uno scatto improvviso e, con una mano, spinse via Sue che cadde addosso alle donne dietro di lei, lasciandola sconvolta e infuriata da quell’attacco.

- Non azzardatevi a muovervi! – urlò lui, la voce stridula per il panico – Sono io qui che da gli ordini e se oserete ancora contraddirmi non mi farò alcuno scrupolo a gettarvi fuori bordo – concluse, sicuramente non credendo nemmeno lui alle parole che aveva pronunciato, aggrappato al timone, terrorizzato.

Con le unghie che le straziavano i palmi delle mani, le lacrime di frustrazione che avrebbero voluto uscire dagli occhi, Sue riuscì solo a mormorare un “Vigliacco” ignorato da tutti, visto che suonò come un’accusa per quelli che non avevano reagito.

Carole non riuscì a staccare gli occhi dal punto in cui era sparito il Titanic e dove le voci si stavano spegnendo, il cuore che le faceva male come se ne avesse perso un pezzo.

 

* * *

 

Era tutto calmo e silenzioso attorno a lei, adesso. Non si sentiva più nulla; erano finiti i pianti, i lamenti, le urla, non si vedeva più nessuno muoversi.

C’era una tale pace, adesso. Ma faceva anche così freddo.

Shelby non sentiva più né i piedi e le gambe, né le mani e le braccia e tutto il resto del suo corpo, tutto era diventato di freddo ghiaccio. Anche lei non era niente più di una statua di bianco ghiaccio come tutte le altre che costellavano quel piccolo pezzo d’oceano.

Forse, riusciva a sentire solo un lieve dolore alle orecchie che le dolevano come due spilli che la infilzavano ai lati della testa. Ma poi anche il suo volto divenne insensibile; non aveva più orecchie, né naso, né bocca, e gli occhi puntati contro il cielo stellato solcato di nebbia, erano fissi come due macchie di colore dipinte sul vetro.

Un piccolo suono lontano proveniva dall’acqua , sotto i molti strati del suo salvagente. Il cuore che, debolmente, pompava quelle poche gocce di sangue rimaste.

Sperava che negli ultimi istanti, la sua mente corresse ai momenti più felici della sua esistenza, la sua infanzia, i suoi genitori, il suo primo vestito da ragazza grande, il suo primo amore ma la sua testa era completamente svuotata, insensibile, senza niente. Doveva aver perso anche il senso del tempo perché vide, ad un certo punto, attraverso i suoi inanimati occhi, il buio della notte diradarsi per essere sostituito da una tenue luce, ma non era del giorno, poteva ancora capirlo. Non era la luce  dell’alba. Eppure, era luce.

Il freddo si fece ancora più intenso, tanto da diventare bruciante e perdere il suo stesso significato e non essere più tale. Una nuova sensazione attraversò il suo corpo; non più freddo, né caldo. Semplicemente un nuovo stato a cui non avrebbe saputo dare un nome.

Delle mani la afferrarono e fecero per staccarla dal ghiaccio che teneva bloccato il suo corpo; non vedeva i volti di chi la sosteneva, eppure sapeva chi erano; avrebbe potuto pronunciare tranquillamente i nomi di ognuno se avesse potuto muovere la bocca.

“E’ il momento” quel breve pensiero la investì come un fulmine; riusciva di nuovo a pensare e a sentire ma senza usare la sua testa e il suo corpo. Sicuramente, tra un po’, sarebbe riuscita di nuovo a parlare.

Ma qualcosa la teneva ancora legata, un nodo di dolore che voleva sciogliere per sentirsi in pace.

Con fatica e lentezza si voltò in direzione del buio che stava per lasciarsi alle spalle, facendo più in fretta che poté, prima che anche il suo cuore diventasse di ghiaccio. E la vide. Era lontana da lì, la sua piccola Beth, in salvo, tra le braccia di chi l’avrebbe protetta.

- Grazie – poté dire senza usare le labbra.

E, sollevata, lasciò che quell’ultimo filo si staccasse e si lasciò andare.

Il buio alle sue spalle, la luce davanti a sé.

 

 

 

Nota dell’autore:

Da studi più recenti risulta che il Titanic si spezzò in un punto già sommerso dall’acqua; ciò spiegherebbe il perché solo due sopravvissuti parlarono di questo particolare, per poi non venire creduti da nessuno, visto che, complice il buio e la paura, nessuno vide la nave spezzarsi. Solo il ritrovamento del relitto nel 1985, confermò quelle uniche due testimonianze.

 

Non ho molto altro da dire.

Ci tengo particolarmente a questo capitolo perché è quello che mi ha dato più emozioni nello scriverlo, in particolare per le parti di Kurt, dell’ultima fase dell’affondamento e la parte finale.

Non mi è venuto bene come avrei voluto, ma ho fatto del mio meglio; la mia unica spina nel cuore sarà che per tutta la fanfiction ho messo troppe forzature. Non me ne vogliate, già mi sto odiando io.

Per il prossimo (ed ultimo) capitolo dovrete aspettare un po’ perché devo ancora terminarlo e voglio che mi venga bene.

Se volete mandarmi a quel paese mi trovate a questo indirizzo:   

http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483

Fatemi sapere cosa ne pensate.

Ciao a tutti ed un grazie a chi continua a seguirmi.

 

Lusio

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Capitolo 7
*** La chiave del futuro è andare avanti ***


La chiave del futuro è andare avanti

 

Quinn non aveva mai desiderato tanto di dormire come in quel momento; quella notte li aveva provati tutti ed ora che sembrava tutto finito la fatica mentale e fisica iniziava a farsi sentire. Almeno a lei era stata risparmiata la fatica dei remi, visto che portava in braccio quella bambina; non che con lei si stesse più tranquilli. Parlare di “tranquillità” in quel frangente, poi, era un assurdità. Per quanto l’avesse stretta a sé, consolata e baciata, alla fine si era calmata perché stremata dal pianto e si era assopita.

Quinn avrebbe voluto sfilarsi una manica della sua giacca per coprire meglio la bimba ma il salvagente glielo impediva e quindi dovette limitarsi a stringerla ancora di più e a soffiarle il suo alito caldo sulle manine intirizzite.

Avrebbe dovuto sentirsi orgogliosa per quella vita strappata al pericolo, ma quel visino imbronciato ancora scosso dai singhiozzi le riportò alla mente la sua missione fallita: a Beth, a Puck. Continuava a chiedersi “si saranno salvati?”, “forse sono su un’altra scialuppa?”, “perché ho lasciato che Kurt mi facesse salire su questa scialuppa?”. Le ritornò in mente anche Kurt, suo padre e il suo fratellastro. Forse loro erano riusciti a mettersi in salvo. Ma Beth e Puck. Quali sicurezze poteva nutrire per loro?

Ma poi, potevano dirsi davvero in salvo? Separati, su quelle piccole imbarcazioni in mezzo all’oceano, senza un po’ di luce a parte la luna e le stelle? Qualche altra nave, più sicura del Titanic, li avrebbe soccorsi o si sarebbero ritrovati a solcare le acque come spettri di una tragedia appena conclusasi? Se continuava con questi interrogativi sentiva che sarebbe impazzita.

“Vorrei solo addormentarmi, come questa bambina, addormentarmi e smettere di pensare”.

Quasi sul punto di assopirsi, sentì un piccolo movimento seguito da un debole piagnucolio da parte della bambina.

- Cosa c’è piccola? – le sussurrò teneramente con uno stanco sospiro. Un calore umido sul suo grembo fu la risposta. Fu tentata, di scatto, di allontanarla ma la stanchezza unita alla compassione la frenarono; iniziò a cullarla e ad accarezzarle la testolina bionda – No, no, non piangere. Non è nulla, piccola, non è nulla. Tranquilla, non è nulla. Non piangere, su. Va tutto bene.

Dopo un po’, i lamenti si placarono e anche Quinn cadde in dormiveglia, lasciandosi andare a pochi minuti di riposo, prima che le prime luci rischiarassero il cielo.

A risvegliarla la seconda volta ci pensarono le persone sulla scialuppa, scosse da una forte agitazione. La ragazza fu quasi tentata di far finta di nulla e di continuare a tenere gli occhi chiusi; l’ultima cosa che voleva era un ennesimo motivo per allarmarsi. Ma quando una donna, seduta a fianco a lei, esclamò “Una nave! Laggiù!” spalancò di scatto gli occhi, vedendo in lontananza proprio una nave.

In quel momento non importava quanto fosse meno maestosa e meno ricca del Titanic; nessuno era mai stato così sollevato al pensiero di non essere più soli e abbandonati nell’oceano.

Per segnalare la loro presenza, alcuni diedero fuoco a fazzoletti e a pezzi di carta che si trovavano nelle loro tasche, sventolandole a mo’ di lanterne; una signora fece accendere anche il suo ricco e grande cappello, alzandolo sulle teste di tutti come la fiaccola della Statua della Libertà.

Quando la raggiunsero, lessero sulla sua fiancata “Carpathia”.

Dal ponte chiesero “Ci sono feriti?” Risposta negativa. E di nuovo “Ci sono bambini?” Risposta affermativa. E assieme ad una scaletta calarono anche un sacco di tela legato ad una corda. “Usate questa per far salire i bambini. Avanti, chi sale per prima?”

Gli eventi, la stanchezza, il dolore avevano tolto la forza di muoversi alle donne sulle scialuppe; ma Quinn, col cuore della bambina che sentiva battere contro il suo, si alzò all’istante e si avvicinò all’enorme fiancata della nave. Quando fece per mettere nel sacco la piccola, quest’ultima le si strinse ancora di più al collo, non volendo essere lasciata.

- Non avere paura – le disse subito Quinn – Non ti lascio, tranquilla. Ti metto in questo sacco così puoi salire sulla nave, poi ti riprendo subito appena siamo sopra.

- No, nave no – pianse debolmente la bambina – Nave brutta. Nave si rompe e va in acqua.

- No, no, no – la baciò Quinn, sentendosi stringere il cuore – Questa nave non si rompe, tranquilla, non si rompe – e la adagiò nel sacco facendo una leggera pressione affinché la lasciasse.

E senza lasciare i suoi occhi che la fissavano facendo capolino dal sacco, salì la scala di corde, arrivando a bordo nello stesso momento in cui i marinai avevano issato la bambina, riprendendola subito in braccio per tranquillizzarla.

- Avete bisogno di qualcosa, signora? – le chiese educatamente un marinaio.

- Del latte caldo, per la bambina – rispose subito Quinn – E, se è possibile, anche un cambio di biancheria e un vestito pulito.

- Per voi, signora?

- No, sempre per la bambina. A me non occorre nulla – rispose nuovamente, dimenticando lo stato pietoso in cui versava lei stessa.

Furono accompagnate in una cabina messa a disposizione da una dei passeggeri del Carpathia; c’erano già molti altri naufraghi del Titanic: i più ricchi erano stati ospitati nelle cabine dei passeggeri della nave che li aveva raccolti; i più poveri erano stati spostati nei solai assieme ai feriti o nelle sale di ritrovo delle varie classi. Quinn venne fatta accomodare in una piccola cabina di seconda classe.

- La signora che alloggia qui – disse il marinaio – sta assistendo alcune delle persone che abbiamo raccolto qualche ora fa. E’ un’infermiera, sapete? Ma ha lasciato detto che la sua cabina era a disposizione di chiunque ne avesse avuto bisogno.

- Grazie. Potrei permettermi, quindi, di usare la toilette per pulire la bambina?

- Sì, certo. Vi farò portare subito del latte e un cambio per la bimba.

Leggermente in imbarazzo, il marinaio uscì subito dalla cabina, lasciandole da sole.

Sicuramente ancora sconvolta da quello che aveva vissuto, la bambina non alzò la testa dal seno di Quinn e le manine tennero strette i bordi del salvagente di Quinn, decise a non lasciarla. Ma la ragazza non poteva lasciarla in quelle condizioni pietose.

- Su, piccola, adesso ci laviamo, ci mettiamo dei vestiti puliti e ci prendiamo un po’ di latte così poi… - si interruppe, dopo averla fatta sedere  sul piccolo letto della cabina per toglierle l’ingombrante salvagente (dopo esserselo tolto a sua volta per essere più libera nei movimenti), colpita dall’espressione triste e imbronciata… che era sicurissima di aver già visto, come quei capelli biondi, i contorni stessi del viso – Mi vuoi dire come ti chiami, tesoro? – le chiese dolcemente, ridestandosi.

La bambina rimase in silenzio, con lo sguardo basso.

Proprio in quel momento il marinaio ritornò portando con sé un vestito pulito e un cambio di biancheria di una fattura molto più curata di quella che la bambina senza nome aveva, per poi uscire di nuovo promettendo di portare subito anche il latte.

Visto che la piccola senza nome si ostinava a tenderle le braccia, Quinn la riprese in braccio, appoggiandosela sul fianco e, prendendo vestiti e biancheria col braccio libero la portò nella toilette; non era grande come quella della sua cabina, pensò rabbrividendo ricordando che quel piccolo spazio intimo si trovava, in quel momento, sul fondo dell’oceano, ma quel che le occorreva c’era: un lavandino e degli asciugamani.

Mise la bambina seduto sul rivestimento in legno che circondava il lavandino e le tolse il vestitino e la biancheria sporca e quando la lasciò nuda, con i piedini che si strofinavano tra loro per il freddo, vide un’altra cosa che le trapassò il petto da parte a parte: un neo vicino all’ombelico. Si passò involontariamente la mano sul ventre, lì dove sapeva esserci un segno identico a quello che vedeva.

Poteva essere… ma forse no, forse era un caso… ma perché, allora… era la paura di sbagliarsi o di illudersi o forse proprio che tutto quello che pensava fosse vero…

Un breve lamento a labbra serrate da parte della bambina a causa del freddo, riportarono alla realtà Quinn che subito, quasi a voler tenere la mente occupata, prese uno degli asciugamani, lo bagnò con dell’acqua tiepida e iniziò a passarlo sulle gambine, sulle intimità e sul pancino infantili ripulendoli dall’urina; ma tutto questo non le impediva certo di pensare. Se teneva lo sguardo basso vedeva quel neo e se lo alzava incontrava quel volto familiare.

- Voglio papà Puck e mamma Shelby – mormorò la bambina mentre due lacrime le fuggivano dagli occhi.

Ogni muro, ogni resistenza crollò in quel preciso istante.

Quinn rivolse gli occhi, stavolta in maniera definitiva, a… poteva chiamarla per nome.

- Beth.

Sentendosi interpellata, quest’ultima alzò a sua volta lo sguardo, incuriosita e titubante.

Stava accadendo tutto troppo in fretta e Quinn sentì ancora la stanchezza assalirla; ma aveva aspettato quel momento da anni, lo aveva desiderato, se ne era resa conto quel giorno sul ponte del Titanic, ma non se lo sarebbe mai immaginato, né lo avrebbe mai voluto così, da sola, senza sapere che dire pur avendo tante cose da dire. Ma forse, anzi sicuramente, era troppo presto per entrambe.

Per le parole ci sarebbe stato tempo… ma adesso…

Come per darle una risposta, Quinn si alzò la veste fin sopra il ventre scoprendo ed indicando quello stesso punto un po’ più sopra dell’ombelico, desiderosa di farle capire con un dito quello che non avrebbe saputo spiegarle a parole.

Con quel linguaggio per lei comprensibilissimo, Beth rispose a Quinn indicando a sua volta il suo stesso neo. Si presentarono in quel modo bizzarro.

- Mamma Stella? – chiese Beth, spostando il ditino da sé verso Quinn che la fissò un po’ basita.

- Mamma – disse la ragazza indicandosi, con un groppo alla gola che le strozzò la parola.

Era una situazione stranissima e anche imbarazzante ma Quinn avrebbe solo voluto abbracciarla; sentiva il forte desiderio di stringere  quel piccolo pezzo di sé che aveva ritrovato ma non avrebbe mai voluto forzare la bambina a fare una cosa che lei non voleva. Eppure, inaspettatamente, Beth si sporse verso di lei con le piccole braccia tese per ricevere un abbraccio; non c’era gioia o emozione alcuna sul suo viso però, sembrava solo che stesse adempiendo ad un obbligo, per educazione e Quinn non avrebbe potuto richiedere di più. Più in là, magari… Ma adesso aveva l’obbligo di cercare Puck e la donna che aveva cresciuto Beth per rassicurarli sulla salvezza di quest’ultima; sicuramente per restituirla, ma adesso l’aveva vista, erano entrate insieme in una nuova vita e non si sarebbero mai più perse.

Chissà la confusione che ci sarebbe stata nel ritrovare i parenti e gli amici persi di vista… e di certo, il dolore per chi non ce l’aveva fatta. Avrebbe cercato di rintracciare anche gli Hummel-Hudson per accertarsi della loro sopravvivenza.

Quinn asciugò Beth e la rivestì con i panni puliti portati dal marinaio. La riportò, poi, sul letto per farla riposare un po’; anche quando fece per distenderla, la bambina si tenne aggrappata a lei e Quinn non poté fare altro che stendersi a sua volta sul letto.

Dopo un po’ la porta della cabina si aprì ed una signora magra, con addosso una vestaglia di lana, entrò portando su un vassoio due tazze di latte fumante.

- No, state, state – fece la donna vedendo Quinn pronta ad alzarsi – Mi hanno detto di voi e mi sono permessa di portarvi personalmente il latte per la bambina ed ho pensato di portarne anche per voi. Ah, se vi occorrono dei vestiti puliti potete usare in miei, naturalmente. Sono l’inquilina della cabina.

- Mi dispiace per il fastidio che vi stiamo dando – si scusò Quinn.

- Non ditelo nemmeno – replicò la donna, sincera – Dopo quello che avete passato – e non aggiunse altro per paura di mettere il dito in una piaga ancora fresca e, di questo, Quinn le fu grata – Che bella bambina – cambiò argomento la donna guardando Beth addormentata – E’ vostra?

- Sì. E’ mia figlia.

E con quelle parole, Quinn diede la buonanotte alla vecchia se stessa per accogliere la nuova.

 

* * *

 

Da quando era salita sul Carpathia, la battagliera Sue Sylvester non aveva detto nulla, non si era lamentata né aveva strepitato contro l’organizzazione dei soccorsi. Aveva rifiutato ogni aiuto offertole dallo staff e dai passeggeri della nave, si era rimboccata le maniche ed aveva iniziato a girare tra tutti i suoi compagni di sventura; non chiedeva loro a quale classe appartenessero, chiedeva solo se avessero bisogno qualcosa e, assieme ad altre donne iniziò a prendersi cura dei feriti e delle madri con i loro figli che avevano perso i loro compagni.

Quando il grosso dei naufraghi fu recuperato, gli ufficiali del Carpathia, con l’aiuto degli ufficiali in seconda del Titanic, ricostruirono il corso degli eventi e stilarono una lista approssimativa dei passeggeri del transatlantico affondato, chiedendo anche alle persone a bordo nomi e informazioni su possibili dispersi in modo da aiutarli a ritrovare amici e parenti separati durante gli imbarchi.

Essendo nell’elenco di quelli di prima classe, Carole riuscì subito a ritrovare suo marito Burt; ebbero solo il tempo di abbracciarsi per poi concentrarsi su ciò che per loro era più importante: i loro figli. Girarono disperati per tutta la nave chiedendo loro notizie ad ogni marinaio munito di un elenco di nomi o ad ogni persona che conoscevano ma con nessun risultato. Col cuore in gola, i due coniugi andarono nella sala adibita a infermeria e zona ospedaliera, passando in rassegna tutte le brandine, con la speranza di trovare Kurt e Finn, magari anche feriti ma almeno vivi. Arrivarono anche a sollevare le coperte per vedere meglio chi vi si nascondeva e nessuno disse loro nulla, forse per la stanchezza o più probabilmente perché potevano capire il loro stato d’animo.

- Eccolo – scattò Carole ad un tratto, correndo verso una determinata branda seguita da un pallido Burt.

C’era Finn su quella brandina, con un braccio fasciato e un occhio bendato e la schiena appoggiata interamente su un cuscino sollevato. Una ragazza minuta stava cercando di fargli mandar giù qualche cucchiaio di brodo.

- Finn! Finn sei vivo – disse Carole gettandosi ai piedi della branda afferrando le mani del figlio, strappandogli un leggero gemito – Cosa gli è successo? – chiese con apprensione alla ragazza che si era alzata in piedi.

- E’ caduto nella scialuppa dove mi trovavo – spiegò lei, la voce fievole per l’agitazione – A quanto ho capito ha spezzato una delle funi che si era inceppata e che ci impediva di scendere in mare e quella stessa fune lo ha colpito all’occhio e lo ha fatto cadere. Io e due mie amiche gli abbiamo fasciato l’occhio meglio che potevamo, ma si è ferito anche al braccio e alla schiena. Dopo passerà il medico per visitarlo.

Ma le parole della ragazza, sebbene ascoltate con attenzione da Carole, furono subito coperte da quelle più forti, allarmate, di Burt che aveva raggiunto la moglie al capezzale di Finn dopo essere rimasto per un bel po’ fermo a guardarsi intorno, sperando di incontrare lo sguardo di suo figlio.

- Dov’è Kurt? – quasi urlò l’uomo, chinandosi su Finn – Finn, dov’è Kurt?

Finn non ebbe alcuna reazione, come se avesse avuto due bende su entrambi gli occhi invece di una.

Comprendendo il momento delicato, la ragazza, mormorando qualche parola di scuse che nessuno sentì, posò la scodella di brodo su una sedia lì vicino e se ne andò lanciando delle occhiate colme di rimorso verso quel doloroso terzetto.

- Finn, dimmi dov’è Kurt? – strepitò di nuovo Burt, trattenendosi per non strattonare il ragazzo.

- Finn, ti prego, cos’è successo? – ebbe solo la forza di chiedere Carole , temendo il peggio.

- L’ho cercato dappertutto – la voce di Finn uscì rauca e gracchiante dal profondo della sua gola secca – C’era tanta gente che correva e urlava. Io lo chiamavo ma nessuno rispondeva. Poi quel ragazzo mi ha chiesto di aiutarli ed io ho usato l’accetta per tagliare la corda. Mi hanno colpito in faccia. Sono caduto. Ho cercato di ritornare indietro e risalire sulla nave ma la gente mi impediva di muovermi. Io dovevo risalire. Nessuno lo voleva capire. Non potevo lasciarlo solo. Dovevo trovarlo. Lui è mio fratello… - quel confuso ammasso di mezze frasi si ridusse ad un rantolo ripetuto all’infinito , il delirio di una mente sconvolta e ferita.

- O mio Dio, no! – saltò su Burt, correndo come un pazzo continuando a chiamare – Kurt! Kurt!

Mentre Carole affondava il viso nel petto di Finn, soffocando un grido, e suo figlio continuava a borbottare sotto voce in maniera lamentosa, senza pensare alla scarica di dolore che la stretta della madre gli causava.

 

* * *

 

Dopo essersi ristorate e riposate, Quinn decise di salire sul ponte con Beth, sia per far prendere un po’ d’aria a quest’ultima, sia per farsi registrare e farsi dare notizie di Puck o di qualcun altro che volesse sapere della bambina. Il sole era sorto su un nuovo giorno e sullo sfondo del mare, quasi bianco dopo averlo visto completamente nero la notte prima; ciò di cui erano stati testimoni aveva lasciato i suoi segni su tutti, sulle persone che si erano autorecluse negli interni, su quelle che guardavano il mare con occhi sbarrati e rabbiosi, su chi vagava sul ponte del Carpathia come uno spettro, su Beth che, terrorizzata, rimaneva aggrappata a Quinn e il visino sepolto nell’incavo del collo della ragazza; e anche Quinn si sentiva rabbrividire e non certo per il freddo.

Disse il suo nome e quello della bambina al primo marinaio munito di elenco che incontrò e gli diede anche il nome di Noah Puckerman e di Shelby Corcoran (sperava di non aver sbagliato nome) cercando loro notizie.

- Non sono sugli elenchi – e Quinn si sentì morire a quelle parole – Ma non dovete preoccuparvi; dobbiamo ancora registrare altre persone e chissà quante altre dobbiamo ancora recuperare. Provate a domandare di nuovo tra un’ora, o due – Quinn si sentì un po’ rassicurato ma il senso di dolore non la lasciò; diede un bacio a Beth fingendo di rassicurarla quando, in realtà, era lei ad aver bisogno di rassicurazione.

Si era completamente scordata dei suoi genitori tanto che rimase per qualche istante stupita quando sentì la voce di sua madre chiamarla, emozionata, seguita da una stretta soffocante. L’odore dei capelli biondicci che le solleticarono il naso era senza ombra di dubbio di sua madre.

- Oh, Quinn, Quinn – piagnucolò la donna senza nemmeno accorgersi della bambina tenuta in braccio dalla figlia che iniziava a dimenarsi in mezzo a quelle due masse che quasi la schiacciavano – Non hai idea di quanta paura ho avuto. Temevo di non rivederti mai più.

Alle spalle di Judy Fabray, Quinn vide avanzare anche la figura di suo padre che, prima, le lanciò un’occhiata basita che si cambiò, poi, in truce e severa.

- Cosa ti è saltato in mente!? – esclamò, spingendo la moglie a lasciare la sua presa sulla figlia per guardarla in faccia – Sai cosa ci hai fatto passare? Tu... – proprio in quel momento Fabray notò la bambina in braccio a Quinn – E questa da dove salta fuori?

In quei pochi secondi, Quinn si era già preparata a non dare importanza a qualunque cosa il padre le avrebbe detto; ciò che l’aveva spinta a separarsi da loro quella fatidica notte era ancora viva dentro di lei e, sicuramente, suo padre non si era nemmeno sforzato di capirla. Per lui era stata una mossa ribelle dettata da un’indole capricciosa. Un solo secondo e aveva capito che non aveva motivi per mentire sull’identità di Beth e sul perché fosse con lei.

- Non la riconosci? – chiese al padre, con una punta di dispetto nella voce – No, non credo. Non ti sei nemmeno preoccupato di vederla quando è nata ma una certa somiglianza dovresti almeno notarla.

- Quinn, dà questa mocciosa a qualche marinaio e vieni subito con noi – saltò su Fabray.

Aveva capito, come anche sua moglie che guardava Quinn e Beth come se stesse lottando per non stringerle ancora a sé ma la figura autoritaria del marito la frenava.

- No, io non verrò con voi – rispose Quinn, con una serietà disarmante.

- Quinn, per favore, smettila con questo tuo atteggiamento – replicò suo padre, con aria minacciosa – Fai come ti ho detto ed evitiamo scenate.

- Io non sto facendo nessuna scenata. Sto solo dicendo che non verrò con voi.

- Cosa diamine stai dicendo? Sei impazzita!

- No, anzi adesso ragiono meglio di prima.

- Quinn, ti avverto…

- E’ inutile – lo interruppe Quinn senza scomporsi – Puoi minacciarmi e strepitare quanto vuoi, ormai non mi interessa più quello che pensi, quello che hai da dire. Ancora non l’hai capito? Eppure non ho tremato quando ti ho visto né ho abbassato la testa. Non sono più la Quinn che conoscevi; la vecchia Quinn è rimasta sul Titanic. Adesso so cosa voglio fare della mia vita, ho scoperto la forza che pensavo di non avere. Voglio essere libera e indipendente, ne ho tutto il diritto.

- Quinn, ti avverto, finché vivrai sotto il mio tetto…

- Qui non siamo sotto il tuo tetto e non sono più una bambina. Non ti sto chiedendo alcun permesso, ti sto solo riferendo le mie intenzioni; pensavo di essere stata chiara ieri notte ma, se invece non lo sono stata, torno a ripeterlo per correttezza: prendo la mia strada ed è diversa dalla vostra. Non riguarda più voi e me, ma solo me… e lei – strinse un po’ più forte Beth che stava guardando quella scena senza azzardarsi a fiatare, guardando una volta Quinn e un’altra quei due signori a lei sconosciuti.

Come Judy Fabray era sbiancata e guardava la figlia con gli occhi appannati dalle lacrime, Fabray era arrossito per la collera e solo la presenza di altre persone che andavano su e giù, con lo sguardo smorto, fermò la sua intenzione di gridare.

- Ah, sono queste le tue intenzioni – disse lui, con una calma inquietante – E come speri di sopravvivere nel mondo? Non hai niente.

- Sono viva, sono sopravvissuta, ho due bracca e due gambe che funzionano… ho mia figlia. E questo basta.

Fabray sembrò sul punto di scoppiare, più per il fatto di non riuscire a trovare una risposta a quelle parole che per le parole stesse. Ma sì, che facesse pure come voleva; dopo solo qualche giorno sarebbe ritornata strisciando sotto il tetto paterno, allora avrebbe riso lui. Sì, sarebbe andata così, ne era certo… sì, sarebbe andata così… sarebbe andata…

- Judy, vieni via – ordinò alla moglie, facendo per andarsene, ma lei non si mosse: spostò lo sguardo dall’uno all’altra, come stava facendo Beth solo che, a differenza di quest’ultima, aveva più consapevolezza e più possibilità di prendere partito. Da una parte, ancora una volta, c’era suo marito, l’uomo che amava nonostante tutto, e dall’altra sua figlia che era tutto ciò che lei non era mai stata, che aveva vista bambina fino a quel momento ma che adesso era la donna della quale ogni madre è orgogliosa. “Ho fatto così poco eppure come è cresciuta. Mia figlia”. La donna fece per dire qualcosa ma Fabray la richiamò nuovamente.

Judy non disse nulla; lanciò un ultimo sguardo a Quinn e a Beth e seguì il marito.

 

* * *

 

Le due scialuppe guidate dall’ufficiale Lowe, che erano ritornate indietro per recuperare qualche sopravvissuto tra le persone finite in mare, ritornarono con solo sei persone strappate ancora vive dall’acqua gelata; altre due erano morte assiderate dopo essere state ripescate ed erano state ributtate fuori bordo.

Tutti gli altri erano morti; 1.518 persone.

Quando anche quei sei sopravvissuti furono issati a bordo del Carpathia mediante delle barelle improvvisate, la maggior parte delle 700 persone che aveva a lungo atteso capì che non avrebbe mai più rivisto i suoi parenti, i suoi amici, i suoi cari. Puck, Shelby, Kurt, Blaine, Mike, Tina, Dave e altri mille nomi; di loro non era rimasto altro che un freddo involucro ricoperto di ghiaccio galleggiante sull’acqua.

“Come potrò dirle cos’è accaduto?” pensò Quinn, guardando Beth che, vedendo alcuni bambini aveva preferito scendere dal suo fianco per unirsi a loro. “Dovrò dirle di suo padre, di Shelby, di questa notte ma non adesso; non ce la farei”. Come stava giocando tranquilla con quei bambini ed anche loro erano così sereni come se fosse stato tutto un brutto sogno. Non c’è posto per il dolore nella mente di un bambino.

Erano su un ponte aperto in direzione della prua e lì, aggrappata alla balaustra, una dei tanti spettri, Carole Hummel-Hudson. Subito le si avvicinò con timore, leggendo in quello sguardo perso il dolore per una perdita.

- Signora Carole? – la chiamò piano.

La donna si voltò con uno scatto; Quinn non si era sbagliata: sul suo volto era disegnato un dolore di quelli che lasciano un segno indelebile.

- Oh, Quinn – disse Carole con voce fievole, cercando inutilmente di sorridere – Sono felice che anche tu ce l’abbia fatta.

- E vostro marito? E Finn? E… Kurt? – si informò Quinn.

- Anche Burt e Finn sono qui. Kurt, invece… - Carole non riuscì a completare la frase perché un’ondata di lacrime le si bloccò in gola costringendola a coprire un singhiozzo con la mano. Quinn si sentì morire ancora una volta. Era bastata una sola notte a farle perdere il compagno e l’amico, a cambiare in maniera così drastica un’intera esistenza.

- Mi dispiace – mormorò la ragazza.

- Come è potuta accadere una cosa simile? – chiese Carole, non sapendo nemmeno a chi e, in fondo, non aveva nemmeno importanza – Perché è successo?

- Non lo so – le rispose Quinn, perché quella era l’unica risposta. Non lo so.

Senza che se lo aspettasse, Quinn sentì Beth afferrarle la mano con entusiasmo e trascinarla via, con un sorriso emozionato in volto, verso un gruppetto di bambini che si era radunato attorno ad una donna che faceva ascoltare loro un’allegra musichetta da un piccolo carillon a forma di maialino pezzato che suonava dopo avergli tirato la coda, invitando i bambini a fare lo stesso*.

Lì intorno si poteva sentire ciò che non ci si aspettava di ascoltare in tutta la nave: la risata di un bambino. La vita continuava, nonostante tutto. Anche e soprattutto quella di Beth che saltellava come una molla, ridacchiando come tutti gli altri bambini ogni volta che la coda del maialino veniva tirata. Quinn non trattenne un sorriso che premeva per uscire.

Così le vide Mercedes che, quando ritornò da Rachel e Sugar, disse loro che almeno una vita era stata risparmiata.

 

* * *

 

Dopo quattro giorni di viaggio, il Carpathia arrivò a New York, di notte, sotto una pioggia scrosciante illuminata solo dai fari piazzati sul porto per aiutare i parenti a ritrovarsi e anche dai flash dei fotografi che non aspettavano altro che immortalare il momento dello sbarco dei sopravvissuti e farsi raccontare dai testimoni l’intera dinamica dei fatti accaduti.

Raccolte sotto un ampio cappotto per ripararsi dalla pioggia, in mezzo a tutti gli altri sopravvissuti di terza classe, c’erano anche Mercedes, Rachel e Sugar.

- Chi l’avrebbe mai immaginato, quando siamo partiti, che saremo arrivati come un corpo privo di un arto – meditò Mercedes, guardando le luci della città farsi sempre più nitide.

- Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una cosa simile – replicò Rachel che, tra le tre, sembrava quella che meglio riusciva a resistere al corso degli eventi – La vita è anche questo, purtroppo.

- Che cosa faremo, adesso? – si chiese Sugar, debolmente, rifugiandosi sotto il braccio di Mercedes.

- Tutto quello che avevamo in mente di fare all’inizio di questo viaggio – le rispose Mercedes, riparandola meglio dalla pioggia – Quello che abbiamo passato non deve fermarci; tutto andrà come doveva andare, con i nostri sogni, le nostre speranze. Ci vorrà ben altro che un naufragio per abbatterci.

- Intanto scendiamo – disse Rachel con un sospiro – Non vedo l’ora di toccare terra.

E quando il Carpathia, finalmente, attraccò, le luci vennero puntate sulle passerelle, dalle quali scesero prima i passeggeri di prima classe sui quali scattarono i primi flash, sui coniugi Duff-Gordon che già avevano stampato sulle loro fronti il marchio dei codardi, su Madeleine Astor, neo sposa e già vedova e su tutto ciò che rimaneva dei nomi del gran mondo; in mezzo a loro, nella maniera più anonima possibile, scesero anche i coniugi Fabray, più dignitosi di quanto non erano mai stati; venne poi data la precedenza ai feriti e agli invalidi e con loro scesero gli Hummel-Hudson, azzoppati senza uno dei loro cari, e Sue Sylvester che sosteneva per le spalle un ragazzo col piede congelato; per finire, accompagnati solo dall’interesse dei parenti in attesa, scesero anche i passeggeri di seconda e di terza classe. Con loro scesero, sotto un enorme cappotto, Rachel e Mercedes e Sugar e, con in braccio Beth insonnolita che si copriva gli occhi per non farsi accecare da quelle luci troppo forti, anche Quinn, in lei la forza e la decisione di chi vuole iniziare e affrontare la vita che prosegue in una nuova direzione.

Quando anche l’ultimo passeggero toccò il suolo americano e le passerelle furono ritirate, i fari si spensero come le luci di un palcoscenico alla fine di uno spettacolo. Se la fu, fu solo la fine di un primo atto.

 

Quando ripenso a tutte le persone che conoscevo e che si trovavano lì con me, su quella nave e che sono affondate assieme ad essa, mi domando sempre: perché io sono sopravvissuto e loro no? Sono finito su quella scialuppa solo per sentire il pianto di mia madre? E la disperazione di Burt? Per leggere le mie stesse domande sul volto di tutte quelle altre persone che si sono salvate?

 

Quando sono partita da Southampton ero ancora una ragazza della buona società che credeva che tutto le fosse concesso perché apparteneva ad una classe più elevata; solo ora, dopo aver visto quanto può costare la separazione in classi, quanto può essere straziante l’urlo di centinaia di persone che muoiono nell’acqua gelata, mi sento veramente una donna in dovere di farsi carico del suo ruolo nel mondo e il mio ruolo non sarà facile ma ce la farò a sostenerlo. Perché ho la vita dalla mia parte. Mi chiamo Quinn Lucy Fabray e questa è Beth, mia figlia.

 

Kurt Hummel, Shelby Corcoran, Noah Puckerman, Dave Karofsky, Blaine Anderson, Tina Cohen Chang, Mike Chang… Persone che conoscevamo e altre che invece abbiamo, forse, solo intravisto in uno di quei corridoi adesso sommersi dalle acque e dove si aggirano solo le creature delle profondità dell’oceano.

Ci hanno ossessionati con i loro richiami e le loro richieste di aiuto quando noi non li ascoltavamo; adesso che noi li chiamiamo sono loro che non ci ascoltano.

 

* * *

 

Il naufragio del Titanic segnò la fine della Belle Epoque, l’epoca del “progresso” e dell’illusione di aver raggiunto una nuova età dell’oro con il suo mondo ricco e pieno di sorrisi soddisfatti e vanagloriosi.

Due anni dopo, a Sarajevo, un altro tragico avvenimento scatenò l’irreparabile e quel secolo che era stato salutato come l’epoca della prosperità sarebbe stato soffocato dal fumo della Prima Guerra Mondiale.

 

 

 

FINE

 

 

 

Nota dell’autore:

* La donna in questione era Edith Russel (1879-1975), passeggera di prima classe che, prima di salire su una scialuppa, ritornò in cabina solo per recuperare il suo portafortuna: un carillon a forma di maialino pezzato. Ed ecco il maialino (del quale oggi non rimangono che pochi frammenti battuti all’asta): http://i.telegraph.co.uk/multimedia/archive/02649/titanic-musical-pi_2649693k.jpg

 

Ed eccoci, finalmente, giunti alla conclusione di questa storia. Vi ho fatto penare e vi chiedo scusa; se può consolarvi, ho sofferto di più io ad arrivare alla conclusione.

Avrei voluto che mi riuscisse meglio come finale visto che mi è venuto un po’ troppo stiracchiato, specialmente verso la fine ma con la testa sono già ad una OS che mi è venuta in mente qualche settimana fa. Sì perché, tranne una rara eccezione (coff*smut*coff) passerò alle OS per il momento.

Mi permetto di concludere qui, ringraziando di cuore tutte le carissime persone che mi hanno seguito in questo “viaggio” (scusate il triste esempio), che hanno inserito questa fanfiction tra le preferite, le ricordate e le seguite, chi mi ha fatto sapere la sua opinione e chi ha semplicemente letto; mi avete dato voi la forza di arrivare fino al capitolo finale J

Se volete continuare a seguirmi e per sapere quando posterò la mia OS e un’altra possibile mini-long (coff*smut*coff*smut*coff*smut*coff) questo è l’indirizzo della mia pagina facebook: http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483

Mando un “Ciaoooooo” a tutti e auguro una buona visione a chi vedrà la diretta stanotte (io no perché ho sempre la sveglia alle sette - -‘)

 

Lusio

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