Voci dall'oceano di Lusio (/viewuser.php?uid=123627)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vita passata ***
Capitolo 2: *** Verso una nuova vita ***
Capitolo 3: *** Il passato segue il presente ***
Capitolo 4: *** Hai perso la tua occasione ***
Capitolo 5: *** Tutto precipita ***
Capitolo 6: *** Le voci dall'oceano ***
Capitolo 7: *** La chiave del futuro è andare avanti ***
Capitolo 1 *** Vita passata ***
Vita passata
Una ciocca bionda che cadeva sulla
sua guancia; un movimento
semplice e molto quotidiano per Quinn Lucy Fabray ma che era capace di
riportarla indietro di quattro anni, quando credeva che tutto le fosse
concesso
per la sua estrazione sociale.
Sì, Quinn Lucy Fabray a
quindici anni credeva che tutto le
fosse concesso senza conseguenze.
Ma le cose sono fatte per cambiare;
ne aveva la prova ogni
volta che si immergeva nella fredda vasca da bagno e la fine sottoveste
bianca
le aderiva sul corpo mostrando i suoi fianchi precocemente sformati. Il
motivo
per il quale chiedeva alla sua cameriera personale di lasciarla da sola
in quei
momenti.
Togliendo la forcina liberava, una ad
una, le altre ciocche
di capelli che le accarezzavano morbidamente l’altra guancia,
le spalle, la
schiena; quella prima volta era stato Noah (ma preferiva essere
chiamato Puck)
a scioglierle i capelli.
Era stato un errore,
dall’inizio alla fine. Aveva perduto la
sua virtù, il rispetto di suo padre e di sua madre, era
stata ad un passo dal
perdere la sua reputazione davanti al mondo. E aveva perso…
non poteva dirlo
con certezza visto che non era mai stata sua; no, lo era stata. Per
nove mesi
nel suo grembo; sua figlia. Aveva perduto anche sua figlia.
Solo il tempo di partorirla, di
prenderla in braccio un solo
istante e le era stata portata via. Il signor Fabray l’aveva
data al padre, con
una piccola somma di soldi affinché tenesse la bocca chiusa
e non si facesse
mai più vedere. Puck prese con sé la bambina e
rifiutò i soldi. E fu di parola.
Non si fece mai più vedere
ma ciò non gli impedì di
ricordare la sua esistenza e quella della bambina grazie alle lettere
che
arrivavano clandestinamente a Quinn.
Mediante queste missive lei sapeva
che lì, da qualche parte,
aveva una figlia, identica a lei fino al più piccolo neo e
che si chiamava
Beth.
Ma, alla fine, anche questo contatto
fu troncato; il suo
padre-padrone scoprì le lettere scritte da una mano
più abituata al lavoro
manuale che alla scrittura e, dopo aver cancellato ogni possibile
contatto tra
loro, costrinse la figlia a bruciarle tutte, una dopo
l’altra, lasciandole solo
il ricordo di qualche frase e il pensiero di quella creatura che
cresceva senza
di lei, con un padre e con una donna che la stava tirando su come una
propria figlia.
Comunque, Quinn era troppo
intelligente per credere che la
vita finisse a quel modo e che lei avrebbe dovuto viverla come la
protagonista
di uno di quei melensi e stucchevoli romanzetti moralistici.
Adesso, a diciannove anni, Quinn Lucy
Fabray continuava a
credere che tutto le fosse concesso, ma con le dovute conseguenze.
In questo aveva preso da quel padre
che non riusciva ad
amare, quell’uomo che aveva come unico scopo quello di farsi
largo tra la buona
società; ma non ne aveva possibilità in quel
paesino di provincia dove il
massimo a cui si poteva aspirare era un invito ad un ricevimento del
sindaco.
Il luogo dove poter trovare la propria occasione si trovava al di
là
dell’oceano: l’America. La patria dei ricchi, dei
magnati delle ferrovie, degli
Astor, dei Rockefeller.
Sarebbero partiti
l’indomani; suo padre aveva speso molti
soldi per poter acquistare tre biglietti di prima classe di un nuovo
transatlantico che partiva per il suo viaggio inaugurale, diretto in
America;
l’aveva scelto apposta perché aveva saputo che un
sacco di persone importanti
si sarebbero imbarcate su quella stessa nave. Quinn non ne ricordava il
nome e,
francamente, non le interessava granché; riusciva solo a
pensare che quel
viaggio avrebbe segnato il definitivo distacco da quella vita passata
che le
pesava sul cuore come un macigno. Finché viveva
lì, nel Vecchio Continente, era
sicura di toccare la stessa terra, di guardare lo stesso cielo di
quella
bambina. Anche quel poco stava per esserle tolto.
Sarebbe stata pronta a giurare che
anche questo rientrava
negli intenti di suo padre.
Una nuova vita oltreoceano. Ma forse,
in fondo, sarebbe
stata una buona cosa, al di là della “scalata
sociale” della sua famiglia;
poteva lasciarsi alle spalle gli errori passati e… che
assurdità. Come se
avesse potuto cancellare quelle “azioni” (non si
sarebbe mai abbassata a
chiamarle “errori”) con la stessa
facilità con la quale districava i nodi nei
suoi capelli con la spazzola. Almeno avrebbe voluto districare
l’intrico di
pensieri che le turbinavano in testa.
- Quinn, tesoro, va’ a
dormire. Domani dobbiamo alzarci
presto per non perdere l’imbarco.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma la
voce di sua madre, che
fece capolino sull’uscio della sua stanza, le giunse come un
salvagente in
mezzo ad una tempesta.
- Sì, mamma. Appena
avrò finito di sistemarmi – disse Quinn
con il suo caratteristico tono distaccato.
- Oh, tesoro, sorridi un poco!
– la pregò sua madre
dolcemente – Tuo padre ci da la possibilità di
andare in America sul Titanic,
la “nave inaffondabile”, gomito a gomito con la
buona società. Cosa possiamo
chiedere di più?
“Tante cose”
pensò la ragazza continuando a spazzolare i
capelli. L’unica cosa che ci aveva guadagnato da quel
brevissimo scambio di
parole era stato l’aver ricordato il nome di quella nave.
“Titanic”. Che
pacchianeria!
* * *
A casa Hummel-Hudson si respirava
un’aria di festa; certe
risate che si sentivano solo a Natale. E c’era un buon motivo
per festeggiare:
quante volte la famiglia di un carrozziere riusciva ad acquistare
biglietti per
il viaggio inaugurale di un transatlantico diretto in America? E di
prima
classe per giunta! Certe cose era raro che accadessero in Inghilterra,
dove la
staticità classista era una tradizione.
Nessuno dei quattro membri della
famiglia Hummel-Hudson
aveva idea di quello che avrebbero fatto in quel nuovo continente;
certamente
non rientrava nei loro piani quello di trasferirsi lì in
pianta stabile.
Burt, il capofamiglia, aveva la sua
azienda di riparazione
di automobili da dirigere mentre Carole, la sua seconda moglie, aveva
il suo
impegno nell’Esercito della Salvezza che la teneva occupata
per molti mesi
all’anno.
Forse i due figli; per loro il
discorso poteva essere
diverso. In genere, nei giovani è meno forte
quell’attaccamento alla casa
natale che contraddistingue i più anziani. A conferma di
ciò, Finn, il figlio
di Carole, già fantasticava su quello che avrebbe potuto
fare nel Nuovo
Continente, la fortuna che lo aspettava in quel reticolo di strade e in
quella
foresta di palazzi, dove i poveri diventavano ricchi in pochi anni.
Già si
vedeva spaparanzato dietro una scrivania a dirigere uno dei tanti
imperi di un
qualche metallo importante, o anche solo di qualche prodotto
alimentare, con
una bellissima moglie ed una schiera di figli, ai quali avrebbe
lasciato una
ricchissima eredità.
Anche Kurt, il figlio di Burt,
sognava in grande anche se in
modo diverso dal fratellastro; tra le sue aspirazioni c’erano
il teatro, il
cinematografo, la recitazione. Basti sapere che era sbiancato di colpo
quando aveva
saputo che anche l’attrice Dorothy Gibson* avrebbe viaggiato
sulla loro stessa
nave. Ma il ragazzo, a differenza di Finn, viveva il tutto in maniera
più
riservata essendo chiuso per natura. In altre circostanze, magari in
un'altra
vita, sarebbe potuto essere un ragazzo esuberante che non si faceva
problemi
nel farsi notare dagli altri ma il mondo in cui viveva lo bloccava in
una morsa
di paura del giudizio altrui; anche per questo sognava di recitare. La
recitazione era un modo di esprimersi al di fuori della
realtà.
E questo era il mosaico della
famiglia Hummel-Hudson il 9
Aprile 1912, la sera prima di imbarcarsi sul Titanic.
- Kurt, ma riesci a crederci?
– chiese Finn, entusiasta,
lasciandosi cadere su letto dove il suo fratellastro stava sistemando
le
camicie e i gilet che si sarebbe portati per il viaggio –
Andremo in America,
in mezzo alle persone che contano.
- Finn, diamine, le mie camicie!
– esclamò Kurt,
raccogliendo in fretta ma con cura i suoi capi
d’abbigliamento – E poi, scusa,
che significa “le persone che contano”? Forse noi
non siamo come loro in tutto,
a parte il conto in banca?
- Dai, sai benissimo cosa intendo
– si difese, goffamente,
Finn – Ma l’America! Immagina quante cose si
possono fare lì.
- Non andiamo a viverci –
replicò Kurt, con una nota di
rimpianto, ritornando a sistemare i vestiti in valigia.
- Sarebbe bello, però.
Kurt affondò di
più il viso nella montagna di panni che
straripava dalla sua valigia; non avrebbe dato al suo fratellastro la
soddisfazione di vederlo sorridere malinconicamente mentre le guance si
tingevano di un tenue rossore.
- Pensi mai a come sarebbe la tua
vita lontano da qui? –
continuò Finn con più serietà.
- Non so. Vorrei solo che fosse
diversa.
Le parole si nutrivano di pensieri; i
pensieri avevano bisogno
di speranza. E col cuore colmo di speranza, Kurt terminò di
preparare la sua
valigia.
* * *
Sarebbe venuto, prima o poi, il
giorno in cui il mondo
avrebbe conosciuto la tenacia e la tempra di ferro di Sue Sylvester;
una cosa
che sapevano con certezza sia i suoi conoscenti che lei stessa. Ma,
intanto,
solo la sua casa di Londra conosceva queste sue doti.
Alcuni soprammobili e due finestre
non erano sopravvissuti a
ciò quando Sue aveva saputo che non c’erano altri
posti d’imbarco disponibili
per l’America; l’unico era per il Titanic della
White Star Line e lo
stravolgimento dei suoi piani non era stato preso per niente bene.
- “La nave
inaffondabile” – lesse, disgustata, sul
quotidiano che si era fatto portare dal suo maggiordomo quella mattina
per
informarsi su quella nave “così
straordinaria” – Ma per favore! Nessuna donna
ha partecipato alla sua costruzione.
Sì, è il caso
di aggiungere che Sue era un’accesa
femminista; aveva militato tra le suffragette di Emmeline Pankhurst**.
Si può
quindi capire quanto mal sopportasse certi uomini e la loro arroganza;
in
questa categoria includeva, naturalmente, i ricchi e i potenti. I
proprietari
della White Star Line come gli Ismay*** non facevano eccezione.
- Aspettate solo che io riesca ad
arrivare in America, poi vedremo
chi è veramente in grado si dirigere un’azienda di
qualunque tipo – disse
gettando via il giornale – “Nave
inaffondabile” dei miei stivali! Riuscirei ad
affondarla io stessa con un colpo di fionda.
* * *
- Dave, figliolo, questa non
è vita.
In quella stanza singola, di uno dei
quartieri poveri dove
si rifugiavano gli stranieri e gli ebrei e i cattolici, a parte
l’umidità, si
sentiva solo quella frase ripetuta in continuazione.
- Dormi papà.
Dave Karofsky non poteva fare altro
che rispondere allo stesso
modo, con lo stesso tono di voce paziente e monocorde, raggomitolato su
se
stesso sul suo scomodo materasso di paglia, con uno spillone
d’umidità gelida
piantato nella nuca, con gli occhi spalancati, fissi contro il muro per
non
incontrare lo sguardo compassionevole
di
suo padre, bloccato nel “letto migliore” della loro
stanza, fino ai suoi ultimi
giorni, sicuramente.
Da quando andava avanti quella
storia? Non da quando erano
emigrati dalla loro terra d’origine alla ricerca di una vita
migliore, portandosi
dietro qualche pezza rattoppata, due scodelle e la pelle temprata dal
gelo
degli inverni della Russia. Né da quando si erano ritrovati
in un’uguale
miseria. Da quando sua madre era morta, stroncata dalla polmonite,
sì e da
quando suo padre si era arreso. Dovevano essere passati quasi otto
mesi; Dave
li aveva segnati sul muro come un prigioniero che conta i suoi giorni
in cella.
“Mondo schifoso”.
Inglesizzare il proprio nome non
serviva a nulla se tutti ti
allontanavano in quanto straniero e quindi
“inferiore” agli altri. Odiava tutto
questo; più volte si era ritrovato ad odiare anche quelle
persone che si
ergevano a padroni del mondo, al punto da scoppiare a ridere quando
veniva resa
pubblica la notizia di un attentato alla loro persona. E odiava ancora
di più
se stesso per questi pensieri. I suoi genitori lo avevano educato nel
rispetto
degli individui a prescindere dalla loro condizione, razza e religione;
ma come
poteva continuare a seguire quei dettami se il mondo non lo ripagava
con la
stessa moneta? Anche per questo evitava lo sguardo di suo padre e aveva
smesso
di andare al cimitero dei poveri dove era sua madre, anche se non
c’era né una
foto né un nome a ricordarla.
Non nutriva molte speranze nemmeno
nell’America. Quelle
poche persone che erano ritornate da lì avevano raccontato
dell’orribile
trattamento che veniva riservato agli stranieri che giungevano
lì: venivano
ammassati come bestie e trattati molto peggio e, il più
delle volte finivano
imbrogliati dai loro stessi compatrioti che già si erano
inseriti. Venivano
visitati da dei medici poco meticolosi; se risultavano
“portatori di malattie”
venivano reimbarcati e rispediti da dove erano venuti senza nemmeno un
rimborso
per il viaggio; se riuscivano ad essere ammessi venivano buttati in una
città
enorme, dove solo i più forti e i più svegli
avevano qualche possibilità di
fare fortuna.
A che serviva? Forse solo a
scrollarsi di dosso quella
triste esistenza per trovarne un’altra. Ma almeno
lì Dave sarebbe stato da
solo, avrebbe potuto pensare a se stesso. Di suo padre non doveva
preoccuparsi:
una signora, vedova, che prestava servizio come infermiera al sanatorio
era
disposta ad occuparsi di lui.
Dave poteva cercare la sua vita e
voleva farlo. Per questo
aveva deciso di farsi umiliare ancora per il suo essere “un
povero straniero”;
tanto sarebbe stato marinaio solo per una settimana circa, giusto il
tempo che
il Titanic avrebbe impiegato per raggiungere l’America da
Southampton. Poi,
tutto il resto avrebbe avuto poca importanza. Avrebbe avuto una vita
difficile
e dura… ma sarebbe stata sua.
- Dave, figliolo, questa non
è vita.
- Dormi papà.
* * *
- Questa è
l’ultima, Puck – disse Blaine, mettendo sul
calesse scoperto l’ultima valigia.
- Bene – gli rispose Puck,
seduto a cassetta già con le
redini in mano – Di’ alle donne di muoversi.
Il loro non era l’unico
gruppo di persone povere pronte ad
imbarcarsi per l’America proprio quel giorno sul Titanic ma,
di sicuro, era
quello più curioso e lo si poté capire quando gli
altri membri del gruppo si
apprestarono a salire sul calesse. I primi a saltare
all’occhio erano, senza
dubbio, gli “stranieri”: una coppia di asiatici ed
una prosperosa ragazza nera;
gli altri, a prima vista, potevano risultare dei
“perfetti” inglesi dei
quartieri bassi ma conoscendo i loro nomi o ascoltando i loro accenti
si poteva
capire quanto fossero anche loro “cittadini del mondo
frammentario”. Ma al di
là di tutto questo, erano tutte persone animate da un uguale
desiderio di
lasciarsi alle spalle una vecchia vita per trovarne una nuova e
più ricca.
Quella che sognava più in
grande era Rachel Berry, con il
suo desiderio di diventare un’artista, di arrivare a calcare
le assi di un
palcoscenico e a stare davanti ad una cinepresa affinché il
mondo intero la
conoscesse, senza badare alle sue origini povere o al suo essere ebrea;
in
America queste cose non avevano importanza. A suo favore, lei aveva
ostinazione
e testardaggine; per molti questi erano i dettagli più
fastidiosi del suo
carattere, ed era sicuramente vero, ma erano anche le sue armi
più potenti.
Mercedes Jones, la ragazza di colore,
invece pur essendo
dotata di caratteristiche uguali a quelle di Rachel, nutriva
aspirazioni più
semplici, dovute al fatto che, per il colore della sua pelle, sapeva
che non
poteva ambire a tanto ma ciò non le avrebbe impedito di
cercare ugualmente una
vita migliore, come gli altri compagni di viaggio.
Tra loro, un’altra che
nutriva sogni di gloria, ma senza
essere munita di grandi doti, era Sugar Motta; italiana da parte di
padre,
inglese da parte di madre, di povera estrazione ma cresciuta come se
fosse
stata una piccola principessa, l’unico errore dei suoi
genitori. La ragazza era
dotata di una spiccata esuberanza e di un cuore sensibile ma anche di
una
grande arroganza che, però, più che renderla
odiosa, la faceva sembrare una
divertente macchietta uscita da un libro per bambini.
- Ho più talento di Sarah
Bernardt e di Eleonora Duse messe
insieme, quindi diventerò più famosa di loro e
poi verrò chiesta in sposa da
qualche sovrano europeo e cambierò i nomi delle capitali del
mondo col mio.
Ecco, questo era una tipica frase di
Sugar Motta.
I due ragazzi asiatici, Tina Cohen
Chang e Mike Chang (anche
loro, come molti, avevano preferito inglesizzare i loro nomi sebbene i
loro
connotati li smascherassero subito), dovevano sposarsi e preferivano
farlo
nella terra delle grandi opportunità, dove gli auspici per
una vita migliore
sarebbero stati più solidi. Per quanto fosse semplice,
l’amore che li univa era
solido e forte e se ne avvertiva la presenza anche in un solo sguardo
che si
lanciavano, nel semplice sfiorarsi delle loro mani.
Per ritornare ai due ragazzi
introdotti all’inizio, Blaine
Anderson si apprestava a seguire le orme di suo fratello maggiore
Cooper che
era partito per l’America già alcuni anni fa e che
già aveva trovato un posto
di lavoro nella fabbrica di una nota marca di sigari. Più
volte, Blaine, era
stato invitato dal fratello a raggiungerlo e alla fine, dopo un
ennesimo
diverbio con i suoi genitori, aveva deciso di accettare il suo invito.
Fuori da
quella casa austera, nella quale aveva trascorso i suoi primi anni di
vita, lo
spirito che già correva attraverso la brezza marina, il
ragazzo afferrava la
sua esistenza futura a piene mani, urlando: “La mia nuova
vita mi aspetta”.
Noah Puckerman, o Puck, come
preferiva farsi chiamare, aveva
nei suoi piani le medesime intenzioni dei suoi compagni di viaggio, con
la sola
differenza che i suoi scopi non erano personali, no. Aveva una piccola
vita da
allevare. Una bambina bionda, dai lucidi occhi scuri che, sotto un
leggero
strato di polvere, nascondeva un viso bianco come quello di sua madre.
Sua
figlia. Beth.
Ufficialmente, la piccola aveva, non
solo un padre, ma anche
una madre, solo che nessuno ci credeva; come era possibile che quello
scricciolo, simile ad un fiocco di neve, fosse figlia di una donna
dalla pelle
olivastra e ormai sulla quarantina, e di un ragazzo dai tratti rudi,
entrambi
ebrei ma non sposati né tanto meno legati da alcun vincolo?
Potevano credere
che potesse essere figlia di Puck ma erano certi che Shelby Corcoran
era solo
sua madre adottiva.
Puck se ne fregava di quello che gli
altri pensavano; per
lui era importante solo Beth. Se il destino fosse stato più
benevolo, le
avrebbe senz’altro concesso una vita migliore e
più agiata, crescendo con la
sua vera madre, ma così non era stato. Allora, lui le
avrebbe dato la vita
migliore che potesse offrirle e lo avrebbe fatto ad ogni costo. Con
lui, poi,
ci sarebbe stata Shelby, che amava Beth come se fosse stata veramente
sua
figlia, e i suoi amici, che conoscevano la sua storia ed erano pronti
ad
aiutarlo ogni momento.
E questa era la comitiva (una delle
tante) che si preparava
a lasciare i bassifondi della città per raggiungere il porto
di Southampton per
imbarcarsi sul Titanic.
Chiamati da Blaine, gli altri membri
della compagnia
uscirono dal palazzo nel quale abitavano Puck, Shelby e Beth, dove si
erano
dati appuntamento, e si sistemarono sul calesse, accomodandosi sulle
panche o
usando i bagagli come sedili. Blaine fece per mettersi a cassetta a
fianco di
Puck quando due manine piccole ma forti lo afferrarono da dietro per
due lembi
della camicia.
- Sto io vicino a papà
– fece la piccola Beth, saltellando
sul suo posto.
- Va bene, piccola – le
rispose Blaine con un sorriso
prendendola in braccio – Siediti in braccio a me, altrimenti
cadi.
- No, no, in braccio a mamma Shelby!
– si dibatté la bambina
ridendo divertita, vedendosi sospesa sul carro tra le braccia di Blaine.
Alzando gli occhi al cielo e
leggermente urtato dal rifiuto
della bambina, Blaine passò il suo fardello alla madre che
abbandonò il suo
posto sulla panca facendo a cambio col ragazzo e accomodandosi a
cassetta con
Beth in grembo che saltellava, emozionata, sulle sue ginocchia.
Avvertendo accanto a sé la
sua ragione di vita, Puck fece
partire i cavalli con un secco colpo delle redini, lasciando il loro
vecchio
paese, portandosi dietro una brillante scia di chiacchiere e risate.
- Quando arriviamo sulla grande
barca? – domandò Beth,
alzando il viso per poter vedere quello di Shelby.
- Tra un po’, tesoro
– le rispose la donna.
- E poi, dove ci porta?
- In America, oltre il mare.
- E come è fatta
l’America?
- Be’, è molto
grande, con tante persone e palazzi
altissimi.
- E nei palazzi ci sono le
principesse?
- Non lo so, può darsi
– rise Shelby stringendo al seno la
bimba.
Con le genuine ed innocenti domande
della bambina davanti e
il chiassoso ed allegro chiacchiericcio della comitiva nel calesse,
quel
viaggio durò meno di quanto sarebbe dovuto durare e quando
il sole aveva raggiunto
il suo punto più alto nel cielo, raggiunsero il porto di
Southampton. In mezzo
all’enorme massa di gente si stagliava, maestoso ed
imponente, il profilo del
Titanic, con i suoi quattro fumaioli che sembravano voler sfiorare le
bianche
nuvole che coprivano quel cielo d’Aprile.
- La barca grande! La barca grande!
– esultò Beth, puntando
il ditino sottile contro il profilo nero e bianco della nave.
* * *
Quel giorno, 10 Aprile 1912, una gran
folla aspettava sul
ponte di Southampton di salire sul Titanic, la “nave
inaffondabile”; tra loro
c’erano Noah Puckerman con sua figlia e il resto della sua
“famiglia”, tra i
poveri che dovevano passare attraverso le mano dei medici prima di
imbarcarsi;
Dave Karofsky, che aveva iniziato il suo lavoro come marinaio
già all’alba, tra
altri membri della ciurma; e tra gli agiati provvisti di biglietti di
prima
classe, gli Hummel-Hudson, la signorina Sue Sylvester, che fendeva la folla come un generale
fa con il suo esercito,
e i coniugi Fabray con la loro figlia, Quinn desiderosa di lasciarsi
alle
spalle un passato che le si era appena affiancato senza che lei nemmeno
lo
sospettasse.
Nota
dell’autore:
* Nota attrice del muto. Salvatasi
dal naufragio, girò in
quello stesso anno “Saved from the Titanic”, primo
film su quel tragico evento,
oggi perduto salvo alcuni fotogrammi.
** Attivista inglese a capo del
movimento delle suffragette.
*** Padre e figlio, fondatori della
White Star Line. Durante
il viaggio inaugurale, il figlio, Bruce, succeduto al padre
nell’amministrazione
della compagnia navale, si salvò salendo su una scialuppa
nonostante la
precedenza da dare a donne a bambini; questo gesto lo rovinò
e lo segnò a vita.
E, finalmente, ecco postato il primo
capitolo della mia
mini-long. Come avrete capito da questo prologo, la storia ha come
sfondo il
Titanic e la cosa che rimpiango e di non aver iniziato a scrivere prima
questa
fanfiction per postarla proprio a ridosso del centenario del naufragio.
Comunque, l’ho iniziata e la sto continuando ma penso che
stavolta non sarò
molto regolare con gli aggiornamenti.
Stavolta non mi
concentrerò su una coppia in particolare ma
su una porzione di personaggi presi nelle loro singole storie che
confluiranno,
alla fine, in un unico comune destino.
Per il resto, per il succo della
storia, ho fatto
riferimento a ciò che sto provando in questo periodo.
Per le fonti che mi sono state utile
per la documentazione,
non solo sulla vicenda del Titanic, ma anche per la vita dei ricchi,
dei poveri
e degli emigranti dell’epoca:
“Lo spettro del ghiaccio.
Vite perdute sul Titanic” di
Richard Davenport-Hines
“Le luci del
Titanic” di Hugh Brewster
“Titanic. La vera
storia” di Walter Lord
Il sito sul Titanic di Claudio Bossi,
il migliore in lingua
italiana
Spero sia chiaro che James Cameron
non centra niente.
Per eventuali curiosità o
altro e per tenere d’occhio gli
aggiornamenti, potete contattarmi a sulla mia pagina ufficiale: http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
Ciao a tutti.
Lusio
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Verso una nuova vita ***
Verso una nuova vita
Quel mattino, quando del sole
c’era solo una tenue e bianca
luce e si poteva ancora scorgere in lontananza la velata immagine della
luna,
Dave si era alzato già senza più traccia di
sonno, come era ormai sua
abitudine; si alzò e si preparò velocemente e
senza far rumore.
Fece per uscire subito dalla stanza
ma non poté impedire ai
suoi occhi di posarsi su suo padre ancora addormentato; erano anni che
non
aveva un’espressione serena mentre dormiva e anche questa era
una delle tante
cose che il ragazzo non riusciva a sopportare. Ma, almeno, appena
varcata
quella soglia avrebbe potuto lasciarsi tutto, anche
quell’espressione alle
spalle.
Questo non gli impedì di
provare una dolorosa fitta allo
stomaco quando distolse lo sguardo ed uscì; solo quando la
porta era ormai
chiusa si pentì di non avergli nemmeno sfiorato la mano come
ultimo saluto. No,
non doveva più essere il tempo dei rimpianti; non era
più un bambino. Era un
uomo.
Mentre scendeva dalle scale
incrociò la vedova Bertha, che
andava da suo padre ogni giorno, e la salutò con un breve
cenno del capo. Si
era ripromesso di non lasciarsi più andare ai
sentimentalismi ma avvertì
ugualmente il sollievo che gli sciolse quel nodo allo stomaco. Suo
padre non
sarebbe rimasto da solo. Con quella certezza e mille altre aspettative,
Dave
Karofsky si gettò nel mezzo della strada semideserta,
arrivando di gran
carriera al porto.
Nonostante la sua mole, non
degnò di uno sguardo attento la
nave, ma si concentrò solo sulla passerella che conduceva ad
uno degli ingressi
inferiori; lì c’era un ufficiale tutto impettito
nella sua divisa nera con un
registro in mano. Gli si avvicinò, raddrizzando la schiena e
puntando il petto
in fuori.
- Sono qui per il posto di marinaio
– disse, mordendosi la
lingua subito dopo, per aver lasciato trasparire il suo accento
straniero.
- Il suo nome? – si
informò l’ufficiale scorgendo il
registro, inarcando un sopracciglio.
- Karofsky.
- Ah, sì – fece
l’uomo con voce priva d’espressione –
Polacco?
- Russo –
replicò Dave con un moto d’orgoglio e
guadagnandosi un’occhiataccia da parte
dell’ufficiale.
- Bene, buono a sapersi –
fece quest’ultimo dandogli un
tesserino – Andate nella cabina contrassegnata da questo
numero, troverete una
divisa nell’armadietto, indossatela e presentatevi al ponte
di comando. Lì vi
diranno cosa fare.
Cercando di ignorare il tono
fastidioso del suo superiore,
visto che ormai lo era, prese il tesserino e, dandogli
un’occhiata per
memorizzarne il numero, trovò la cabina nella zona riservata
ai membra dell’equipaggio;
dentro vi erano già altri tre uomini con indosso delle
divise da marinai nere
bordate di bianco e con la sigla “White Satr Line”
sul retro degli ampi
colletti.
Qualcuno faceva roteare il berretto
sulla punta dell’indice
con fare annoiato; quello doveva essere l’unico inglese
mentre gli altri due
sembravano irlandesi.
Rispose ai loro saluti con un filo di
voce, l’eterno timore
di essere giudicato perché straniero nuovamente vivo. La
risatina strozzata
dell’inglese gli rimbombò crudelmente in testa
facendolo sentire ancora più
vulnerabile di quanto già non si sentisse mentre si cambiava
davanti a loro. La
divisa non era fatta su misura ma veniva fornita una taglia unica per
tutti e
quella gli stava stretta, mettendo maggiormente in risalto il suo
fisico
robusto ma scoprendogli le braccia; per fortuna, i pantaloni erano
della misura
giusta.
Aveva appena finito di sistemarsi che
qualcuno diede due
colpi secchi alla porta ed una voce ordinava in modo monocorde:
“Tutti sul
ponte di comando”.
I tre marinai saltarono
giù dalle loro cuccette ed uscirono
fuori dalla cabina infilandosi i berretti; Dave li seguì e raggiunsero il ponte,
dove si stavano
radunando altri membri dell’equipaggio. Da quanto vide il
ragazzo, non era
l’unico a trovarsi in difficoltà: c’era
un buon gruppo di stranieri a giudicare
dalla fisionomia e l’occhio gli cadde anche su un ragazzetto
biondo che aveva
il problema inverso al suo riguardo la divisa visto che portava le
maniche e
gli orli dei calzoni rivoltati più e più volte
affinché gli lasciassero
scoperti le mani e i piedi. Non doveva avere più di
quattordici anni.
C’era chi se la passava
peggio di lui.
Dovette rimandare la sua
“ispezione” per ascoltare gli
ordini e le direttive di un altro ufficiale, sicuramente di grado
superiore a
quell’altro. Si impresse nella mente ogni cosa, sperando di
ricordarseli tutti
e sperando solo che quella nave partisse subito. Iniziava
già a sentire la
testa che gli girava.
Cosa aveva detto? Ah, sì.
Dovevano occuparsi dei passeggeri
all’imbarco.
Dave venne assegnato
all’ingresso di terza classe assieme
agli altri marinai “non inglesi”.
“Ma guarda un
po’” pensò sarcasticamente.
* * *
L’aria che si respirava nel
porto poteva dare fastidio a chi
non era abituato ma i più esposti, ovvero quelli che
dovevano imbarcarsi in
terza classe erano quelli che meno ne risentivano, salvo alcune
eccezioni.
Almeno i passeggeri di prima e seconda classe potevano salire
tranquillamente
sulla nave, mentre quelli di terza dovevano prima essere
“esaminati” da medici
e marinai per evitare che sul transatlantico si imbarcassero persone
che
avrebbero potuto diffondere malattie e pidocchi. Più che
fastidioso, quel
passaggio era umiliante per chi sbirciava un po’
più in alto a vedere i
“privilegiati” che non abbassavano nemmeno lo
sguardo per ricambiare il gesto.
Quelli che notavano questa disparità erano per la maggior
parte socialisti e
simpatizzanti che viaggiavano con volantini e opuscoli che li avrebbero
sicuramente condannati a mesi di carcere per possesso di materiale
dissidente e
per tentato disordine; per paura che rovistassero nelle valige, li
portavano
legati al petto con lo spago.
Ma la maggior parte di loro erano
semplicemente famiglie
umili, non per forza poveri, ma bloccati in una situazione economica o
famigliare che li spingeva a fuggire dal loro paese d’origine
per trovare un
completo benessere. Erano operai, disoccupati, stranieri, anche qualche
fuorilegge e qualche ladro o imbroglione. Gomito contro gomito, schiena
contro
petto, tutti accomunati da un solo biglietto per uno dei transatlantici
più
grandi e più lussuosi del mondo.
- Spero che le cabine di terza classe
siano belle come
quelle di prima – disse Tina mentre camminavano su una delle
passerelle di
terza, aggrappata al braccio di Mike, emozionata sia al pensiero di
mettere
piede sul Titanic sia per il fatto di star camminando ad una bella
altezza sul
mare.
- Di certo avranno più
topi – rispose Puck, tenendo a bada
Beth per evitare che si sporgesse.
- Ho sentito dire che, in confronto
alle cabine di terza classe
di altre navi, queste del Titanic sono molto più pulite e
ben attrezzate –
disse Blaine per placare i lamenti delle donne, sconvolte dalla parola
“topi”.
Appoggiare il piede sulla nave fu una
sensazione strana;
pensavano che un solo, singolo passo avrebbe smosso
l’imbarcazione facendola
ondeggiare come un amo da pesca, invece era tutto troppo statico ed
immobile
come se non avessero nemmeno lasciato la terra ferma. Quella sensazione
di
vuoto che avvertirono poteva forse annunciare un futuro mal di mare?
Chi lo sa.
I passeggeri di prima classe lo
notarono un po’ di meno
visto che ad attirare la loro attenzione erano gli interni sofisticati
con
mobili che andavano da uno stile più sorpassato a quello
più moderno, sui quali
passavano le mani coperte di guanti con l’aria di voler
cercare uno strato di
polvere inesistente, desiderosi invece di saggiare la
qualità di quegli arredi
nuovi di zecca e mai toccati da nessuno, esclusi operai e marinai
ovviamente.
Si può dire che il Titanic
fosse come un Grand Hotel posto
sopra un hotel a quattro stelle, a sua volta posto su un albergo di
provincia.
Per i passeggeri, anche i più esigenti, non poteva esserci
di meglio; forse
solo ritrovarsi subito in America, magari con qualche giornalista
pronto ad
intervistarli per conoscere nei dettagli le sensazioni provate
nell’aver
partecipato al viaggio inaugurale del transatlantico più
bello del mondo.
Tralasciando quei pensieri, i
passeggeri delle varie classi,
alcuni portandosi dietro i bagagli che non avevano avuto il tempo di
posare
nelle loro cabine, si affacciarono ai ponti delle loro classi per
salutare
quella terra del Vecchio Continente e i suoi abitanti che, a loro
volta, li
salutavano dal porto.
Era mezzogiorno in punto quando la
nave si staccò dal porto,
riempiendo l’aria col fumo di tre dei quattro fumaioli e col
potente suono
della sirena. Le urla di entusiasmo dei protagonisti di
quell’evento storico
per la nautica non riuscirono a superare quel fracasso, unito
all’enorme massa
di ferro che smuoveva l’acqua. Ma si poteva ugualmente vedere
l’entusiasmo sui
loro visi, più composto e formale in una buona parti di
quelli di prima classe
e in una piccola porzione di quelli di seconda, e più acceso
e infuocato nella
gioventù di tutti gli strati sociali e della terza classe al
completo.
Rimasero a godersi quella lieve
anticipazione di brezza
marina fino a quando il porto e chi vi era rimasto non si ridusse ad
un’immagine che fluì verso la sinistra dello
sguardo dei passeggeri lasciando
sempre più spazio all’impressionante scenario del
mare aperto; e avrebbero
raggiunto l’oceano solo l’indomani. Gli spiriti
più liberi e sognatori
avrebbero preferito rimanere sul ponte a godersi quello scenario
così nuovo e
affascinante ma la sistemazione dei loro effetti personali in cabina
richiedeva
la loro attenzione e questo a molti non dispiaceva, come al signor
Fabray e
consorte.
- Santo Dio! Che rumore fastidioso
fanno quegli stupidi…
cosi – borbottò riferendosi ai fumaioli,
trascinandosi dietro la moglie e la
figlia mentre un facchino li seguiva con i bagagli – Sei
riuscita a notare
qualcuno di importante? – domandò alla moglie.
- Credo di aver intravisto la
contessa di Rothes ma non ne
sono sicura. Ah! E sono sicura di aver visto i coniugi Straus che
entravano nel
salone; credo che la signora Straus abbia avuto un mancamento per la
folla…
- Lasciamo perdere quei due vecchi
montoni. Sono ebrei;
meglio non farsi vedere con loro – replicò il
signor Fabray – Hai visto qualcun
altro?
- Non so; c’è
troppa gente. Però sono riuscita a procurarmi
una lista dei passeggeri – rispose sua moglie tirando fuori
dalla borsa un
volantino della White Star Line ed esaminando i nomi che vi erano
riportati –
Sembra che sia salito a bordo anche il tenente Archibald Butt, il
braccio
destro del presidente Roosevelt! – esclamò
emozionata.
- Che sicuramente si sarà
portato dietro quell’invertito del
suo amico pittore – Fabray smorzò sul nascere
l’entusiasmo della moglie –
C’è
qualcun altro?
- Sembra che altri saliranno durante
lo scalo a Cherbourg.
J.J. Astor con sua
moglie, i Widener.
- Ecco! Dobbiamo cercare di
intrattenerci con loro,
specialmente con Astor. Sarà di sicuro l’uomo
più ricco presente su questa
nave.
- Ci sarà, poi, anche
Benjamin Guggenheim ma sarà meglio
evitarlo; viaggia con la sua nuova amante e non credo sia il caso
che…
- Che assurdità! Non lo
eviteremo per questa stupidaggine.
- Papà, lo sai che anche
lui è ebreo? – si intromise Quinn
con una punta di malignità.
- Sì, ma lui è
“uno che conta” – le rispose
tranquillamente
il padre – Impara, figliola.
Erano intanto arrivati alla loro
cabina, dove il facchino
posò i loro bagagli; era una doppia con un letto
matrimoniale in una stanza e
un letto singolo in un’altra, una toilette completa di ogni
confort ed un
salottino di ricevimento.
- Quindi, piuttosto che socializzare
con una rispettabile
coppia di coniugi ebrei, dovremmo sederci allo stesso tavolo con un
ricco
fedifrago con la sua puttana?
- Modera il linguaggio! –
saltò su Fabray, liquidando il
facchino con una misera mancia – Cerca di non mostrare agli
altri quali sono
state le tue ultime “amicizie”.
A quelle parole, Quinn
lanciò uno sguardo di pura rabbia e
frustrazione in direzione del padre e lanciò il suo
cappellino su un divano lì
vicino. Sapevano benissimo in quali punti ferirla, ma avrebbe preferito
mille
volte morire piuttosto che mostrare al padre le sue lacrime.
- Stai tranquillo, non
mostrerò proprio niente – disse,
alzando il tono di voce – Non ho intenzione di prestarmi a
questi tuoi patetici
giochetti da arrivista, quindi non contare su di me.
- Non azzardarti a parlarmi in questo
modo! – replicò il
padre, avanzando contro la ragazza con aria minacciosa – Tu
farai quello che
voglio io, è chiaro? Finché vivrai sotto il mio
stesso tetto mi obbedirai senza
fare storie. Quindi levati quell’aria ribelle dalla faccia e
cerca almeno di
sembrare una ragazza perbene.
- Sono stufa! Stufa di sentirmi dire
cosa devo fare! – si
lasciò andare Quinn, mentre una lacrima fuggiasca le
scivolò, suo malgrado,
lungo il naso per perdersi poi tra le sue labbra semiaperte –
Voglio essere
lasciata in pace, per una volta!
Sentendo che altre lacrime stavano
facendo forza per uscire,
la ragazza si voltò ed uscì a passo veloce dalla
cabina; lì fuori si ritrovò a
scansare le molte persone, passeggeri ed inservienti, che camminavano
per il
corridoio, premendo l’indice e il pollice sulle palpebre per
frenare il pianto.
Non sentì, dietro sé, la voce imperiosa del padre
che la richiamava né si
sarebbe aspettata di sentirla; suo padre non era tipo da dare
spettacolo in
pubblico. Tanto meglio per lei! Sentiva il bisogno di uscire, di
prendere aria;
il pensiero di essere su una nave in mezzo al mare la faceva sentire
ancora più
prigioniera di quanto non si fosse mai sentita a casa sua, senza una
via
d’uscita.
Fu proprio all’uscita su
uno dei ponti, non avrebbe saputo
dire quale, che si scontrò inevitabilmente con una persona
che invece stava
rientrando; fu uno scontro abbastanza violento da spezzarle il fiato in
gola e
farla arretrare di qualche passo, era certa di cadere e, in quel
momento, la
vergogna di ritrovarsi sul pavimento sotto gli occhi di tutti avrebbe
voluto
evitarla ma, subito, due mani decise la afferrarono per le spalle
salvandola.
- Scusatemi, signorina –
disse la persona; dal tono di voce,
in un primo momento, Quinn pensò di essersi scontrata con
una sua coetanea ma
le mani, il gilet a fiori rossi arabescati, sebbene vistoso, erano
senza dubbio
maschili. Alzando gli occhi non più appannati dalle lacrime
e dalla pressione
delle dita, vide un ragazzo dall’aria sofisticata priva
però di quella
freddezza che le si accompagnava nei giovani dell’alta
società; quel piccolo
dettaglio le avrebbe fatto credere che lui appartenesse alla schiera
dei “nuovi
ricchi” eppure il portamento sembrava dire il contrario.
- No, scusatemi voi, non dovevo
correre così – rispose lei,
risistemandosi compostamente.
- State male? Avete bisogno
d’aiuto? – si informò il
ragazzo.
- No, vi ringrazio; ho solo bisogno
di un po’ d’aria. Con
permesso – e così dicendo superò il
ragazzo, che la tenne d’occhio per scrupolo
fino a quando non la perse di vista, ed uscì finalmente sul
ponte.
Avrebbe tanto voluto vederlo libero
ma ad occuparlo c’erano
molti passeggeri, desiderosi di godersi quella fresca brezza marittima,
che si
erano impossessati di sedie a sdraio e di spazi sulla ringhiera;
c’era aria
anche per lei ma quel muro di spalle e cappelli lungo la balaustra non
le
permetteva un’ampia vista sul mare. A quanto sembrava, anche
fuori dalla
cabina, lontana da suo padre non c’era modo di ritagliarsi
uno spazio aperto.
“Meglio di
niente” pensò, rassegnata, incamminandosi lungo
il ponte.
* * *
In terza classe, a meno che non si
trattasse di famiglie, e
anche in quel caso era difficile restare uniti, gli uomini e le donne
erano
messi in cabine separate. Con i soldi che avevano messi insieme, Puck
ed il suo
gruppo avevano acquistato biglietti per due cabine: in una si
sistemarono lui
con Blaine e Mike, mentre le donne nella seconda; visto che i letti per
dormire
erano solo quattro, si decise che Rachel e Sugar ne avrebbero condiviso
uno
mentre Beth avrebbe dormito con Shelby; poi, per il resto,
c’erano la sala
comune e la sala di ritrovo e il ponte di terza dove stare tutti
insieme a
godersi il viaggio prima di arrivare in America anzi, Mike stava
già cercando
di corrompere i suoi due compagni di stanza affinché gli
lasciassero la cabina
libera per una notte e, al tempo stesso, Tina stava pensando di cedere
a Rachel
il suo letto.
- Voglio andare sopra a vedere il
mare – fece Beth
dibattendosi sul letto dove Shelby la teneva distesa
nell’arduo tentativo di
infilarle una sottanina pulita.
- Non prima di esserti coperta bene;
sopra fa freschetto e
non devi ammalarti – disse Shelby, pazientemente –
Cosa pensi che direbbe
“Mamma Stella” se ti prendessi un raffreddore?
- “Mamma Stella Mamma
Stella Mamma Stella” – si mise a
cantare la bimba, mangiandosi le parole o pronunciandole in modo buffo
a causa
dei denti storti.
- Ho capito – riprese
Shelby – Se ti racconto di nuovo la
storia di “mamma Stella” mi prometti di stare buona
fino a quando non avrò
finito di cambiarti?
Beth rispose con un cenno del capo,
nascondendo un sorriso
emozionato tra le manine.
- Allora –
incominciò la donna – “Una volta, alcuni
anni fa,
dal cielo cadde una piccola stellina luminosa; man mano che la stellina
si
avvicinava alla terra, diventava sempre più grande fino a
diventare una
bellissima fanciulla, una principessa del cielo. E sai chi era quella
principessa?
- Mamma Stella.
- Un contadino, passando di
lì, la vide e subito se ne innamorò.
Anche lui era giovane e bello e anche Mamma Stella si
innamorò di lui. E sai
chi era quel contadino?
- Papà Puck.
- Quella stessa notte Mamma Stella e
Papà Puck si giurarono
eterno amore e da quell’amore nacque una bellissima bambina.
E sai chi era
quella bambina?
- Io – rispose entusiasta
Beth.
- Ma il cattivissimo Re delle Nubi
Temporalesche, invidioso
della loro felicità, sollevò un vento fortissimo
che spazzò via ogni cosa che
incontrava e che portò via Mamma Stella, trascinandola via
in cielo. Disperata
per essere stata separata dalla sua bambina, la principessa da
lassù pregò una
donna senza figli di prendersi cura di sua figlia. E sai chi era quella
donna?
- Mamma Shelby – rispose
ancora Beth, indicando la donna
davanti a sé.
- Rassicurata di sapere sua figlia in
buone mani, Mamma
Stella accettò la sua reclusione nel cielo, assieme alle
altre sue sorelle
stelle, dove avrebbe potuto vegliare sui sogni della sua bambina fino
al giorno
in cui avrebbe potuto incontrarla di nuovo.
Nel mentre che aveva raccontato
quella fiaba, Shelby riuscì
a sistemare la sottanina addosso a Beth, che l’aveva
ascoltata rapita come ogni
volta; adesso, tranquilla e soddisfatta, era la perfetta riproduzione
di una di
quelle bambole di porcellana che i giocattolai esibivano nelle vetrine
dei loro
negozi, con giusto una macchiolina di grasso sull’orlo della
vesticciola che
non erano riusciti a togliere ad indicare la loro realtà.
- Adesso, sei veramente la bella e
brava bambina che sei –
disse Shelby mettendola in piedi sul letto e baciandole le guance
– Su, usciamo
e facciamoci vedere da tutti.
- Anche da Mamma Stella? –
chiese la bambina.
- A quest’ora Mamma Stella
sta dormendo assieme a tutte le
sue sorelle stelline; ma stanotte verrà lei a vederti,
mentre dormi.
- Allora la vedrò in sogno?
- Sì, tesoro mio
– le rispose teneramente la donna
prendendole la mano e accompagnandola fuori dalla cabina.
* * *
Alle sei e mezzo di sera di quello
stesso giorno, il Titanic
attraccò nei pressi di Cherbourg, in Francia, dove salirono
altri 274
passeggeri, e riprese il viaggio alle otto. Il giorno successivo, alle
undici e
mezzo di mattina sostò a Queenstown, sulla costa irlandese,
dove si imbarcarono
altre 120 persone. All’una e mezzo ripartì,
stavolta puntando verso l’oceano. A
bordo c’erano 2.223 passeggeri.
Nota
dell’autore:
Qui ho citato un bel po’ di
personaggi realmente esistiti. I
più noti sono sicuramente J.J Astor, l’uomo
più ricco a bordo del Titanic,
assieme a sua moglie Madeleine, Benjamin Guggenheim altro noto
industriale
dell’epoca, i coniugi Straus, proprietari dei grandi
magazzini Macy’s; altri
meno noti sono la contessa di Rothes che dopo il naufragio si
occupò delle
vedove e degli orfani della tragedia assieme ad altre donne, Archibald
Butt,
persona molto in vista alla Casa Bianca, che viaggiava assieme al suo
migliore
amico (e forse amante) il pittore Francis Millet.
Loro furono tra le persone che
più si distinsero durante il
naufragio, nel bene e nel male, tra i sopravvissuti come la contessa di
Rothes
e la giovane moglie di Astor e tra i morti come tutti gli altri.
Purtroppo, non tutti mostrarono il
loro coraggio e il loro
senso del sacrificio.
Una cosa su cui ho puntato
l’attenzione, e che ritornerà più
volte perché è parte integrante della tragedia
del Titanic, è la xenofobia e la
relegazione dei poveri sul gradino più basso della scala
sociale. Per quanto
ingiusto, all’epoca tutto ciò era nella norma e
nemmeno dopo i fatti del 1912
le cose sembrarono cambiare; infatti, nelle inchieste che seguirono non
venne mai
ascoltato nessuno dei sopravvissuti della terza classe e solo in tempi
più
recenti si è portata l’attenzione su questo
aspetto dell’epoca. Se ci sono
delle vere vittime, sono loro. I ricchi hanno avuto la loro
possibilità di
salvarsi, che poi l’abbiano colta o meno è stata
una loro decisione; i poveri,
invece, non hanno avuto nemmeno questa possibilità
perché considerati senza
importanza e chiusi nella loro “zona” come topi e
liberati solo quando era
ormai troppo tardi.
Finita la parentesi storico-sociale,
passiamo al capitolo.
Ammetto che non mi convince
assolutamente il litigio tra
Quinn e suo padre ma non ho saputo fare di meglio. Questo capitolo
è di
passaggio; la storia vera e propria inizierà col prossimo
quindi se, come
penso, questo capitolo vi ha annoiati, vi chiedo di resistere ancora un
po’. E,
come ho già segnato nella mia pagina su fb (che potete
trovare qui http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483)
aggiornerò questa mini-long ogni mercoledì, salvo
imprevisti o ritardi.
Ringrazio tutte le persone che mi
hanno recensito, che
seguono la mia storia e che leggono solo. A tutti quanti, un bacio.
Lusio
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Il passato segue il presente ***
Il passato segue il presente
Quinn non si aspettava che a bordo
del Titanic ci fossero
tanti altri parassiti in cerca di vantaggi economici e finanziari come
suo
padre; non che la cosa le risollevasse l’animo,
tutt’altro: le faceva provare
ancora più vergogna. Più che fingere un forte mal
di testa per rimanere in
cabina o fare avanti e indietro sul ponte di passeggiata nelle ore in
cui era
meno affollato, non poteva fare altro. Ma questo andazzo non si
prolungò oltre
il secondo giorno di viaggio; forse era l’aria fresca del
mare aperto che
apriva non solo il naso ma anche gli occhi e le orecchie, fatto sta che
i
ricchi magnati di prima classe sembravano avvertire l’odore
di lecchino e
sanguisuga che suo padre emanava da due piani più
giù del salone.
Fabray non era l’unico; ce
ne erano altri e meno riservati e
più patetici di lui. Almeno questo gli era stato concesso.
Comunque, ciò non
cambiò il fatto che si ritrovarono, lui e sua moglie,
liquidati dai personaggi
più importanti lì presenti con qualche mezza
frase di cortesia e nient’altro;
persino i coniugi Duff-Gordon* girarono alla larga da loro.
Uno sfregio altrettanto bruciante era
quello di dover
consumare i pasti da soli mentre altri si facevano compagnia in
tavolate che
ospitavano due o più gruppi di famiglie altolocate; almeno
in quelle occasioni
il sorriso che Quinn aveva sfoggiato non era simulato. Forse quel
risultato
avrebbe reso quasi “piacevole” il viaggio. E,
forse, a togliere quel “quasi”
avrebbe potuto riuscirci un incontro, anzi un rincontro, il terzo
giorno di
viaggio.
- Sono lieto di rivederla meno
agitata, signorina.
Quinn riconobbe subito quella voce
inconfondibile pur
avendola ascoltata una sola volta e per nemmeno un minuto. Era il
ragazzo col
quale si era scontrata il giorno della partenza, elegante come quel
giorno,
stavolta però il suo gilet era blu notte.
- E io sono lieta di non averla
nuovamente travolto,
signorino – rispose la ragazza.
- Prego, Kurt Hummel; niente
“signore”, mi fa sentire
vecchio, e soprattutto niente “signorino”, mi fa
sentire un bambolotto di bassa
lega.
- Se la mettete così,
allora, togliete quel “signorina” e sostituitelo
col mio nome: Quinn Fabray.
- Viaggiate con i vostri genitori?
– cercò di conversare
Kurt, vedendo che il ghiaccio era rotto – Credo di avervi
visti nella sala
ristorante per i fatti vostri.
Per Quinn fu un sollievo non sentire
nominati gli
imbarazzanti approcci di suo padre che non dovevano certamente essere
passati
inosservati a quel ragazzo che sembrava dotato di un buon occhio sia
per le
persone che per la moda. Questa cortesia glielo fece piacere ancora di
più.
- Mi dispiace di non poter ricambiare
dicendovi di aver
visto voi e chi vi accompagna – rispose Quinn, cortesemente.
- E’ un buon segno, allora
– replicò Kurt, ridacchiando –
Significa che il mio fratellastro non ha fatto nulla di così
imbarazzante da
essere notato.
- O Dio –
esclamò la ragazza, lasciando comparire sul viso
un sorriso divertito – Allora voi, Kurt, viaggiate con il
vostro fratellastro?
- E con mio padre e la mia matrigna.
Continuarono la conversazione sul
versante tradizionale,
parlando del più e del meno fino a quando Kurt non si
azzardò ad invitare Quinn
e i suoi genitori al tavolo della sua famiglia per il pranzo e lei fu
lieta di
accettare.
Quando lo disse a sua madre e a suo
padre, la prima dimostrò
tutta la sua approvazione e la sua contentezza al pensiero di non dover
ripetere l’umiliazione dei primi giorni appena passati,
mentre il secondo si
preoccupò solo di informarsi sugli Hummel-Hudson salvo poi
storcere naso e
bocca dopo aver saputo che non si trattava di una famiglia nota o
facoltosa;
comunque, pur brontolando, non fece alcuna obiezione. In cuor suo
sperava,
magari, di attirare l’attenzione di qualcuno facendosi vedere
a tavola in
compagnia.
Così, all’ora di
pranzo, i Fabray entrarono nella sala
ristorante nei loro abiti migliori e con l’aria
più aristocratica possibile che
facevano il loro bel effetto con la musica dell’orchestra in
sottofondo. Nella
marea di abiti eleganti, capelli impomatati e gioielli luminosi, Quinn
trovò
subito la sua nuova conoscenza; seduti con lui c’erano anche
un distinto
signore calvo comodamente seduto sulla sua sedia, con accanto una
signora di
mezza età vestita semplicemente e con un dolce sorriso
materno sul volto e un
ragazzone alto e, a quanto pareva, un po’ in
difficoltà con l’uso delle posate**.
I Fabray non dovevano essere gli
unici ospiti di quel tavolo
perché, lì seduta, c’era anche una
signora dall’aria arcigna, impettita nel suo
vestito alla garçon che le dava l’aria di una
giornalista e non sembrava avere
alcun grado di parentela con nessuno degli altri commensali.
Kurt vide Quinn a sua volta e la
invitò con un cenno a
raggiungerli; all’arrivo dei Fabray, il ragazzo, suo padre e
il suo
fratellastro si alzarono educatamente per dare loro il benvenuto mentre
le
donne rimasero ai loro posti, l’una salutando educatamente i
nuovi arrivati,
l’altra degnandoli appena di uno sguardo troppo impegnata a
“torturare” il suo
agnello in salsa alla menta.
- Signor Fabray, siamo lieti di avere
voi e la vostra
famiglia come ospiti al nostro tavolo – fece Burt Hummel,
calorosamente – Non
vorrei sbagliarmi ma credo che ci siamo già visti.
- Davvero? Non credo di ricordare
– rispose Fabray
accomodandosi, cercando di apparire educatamente interessato.
- Sì! –
continuò Burt, ancora più convinto –
Voi avete, per
caso, una Daimler del 1909?
- Sì, ne ho una
– confermò Fabray, orgoglioso di esibire
verbalmente uno dei suoi beni.
- Allora già ci siamo
incontrati: mi sono occupato io stesso
del motore del vostro gioiellino. Sono a capo di un’azienda
di riparazioni di
automobili.
A sentire quella più
precisa presentazione, Fabray non
riuscì a nascondere un’espressione costernata che
rischiava di tramutarsi in
autentico disgusto. Aveva nutrito la sempre viva speranza di aver
trovato una
possibile “chiave d’accesso” al mondo
dell’alta élite e invece si ritrovava
seduto allo stesso tavolo di un carrozziere dalle mani sudice.
Automaticamente,
gli occhi gli caddero sui due artefici di quell’incontro: sua
figlia Quinn e il
figlio di quell’Hummel. Forse quello era tutto un piano di
quel ragazzino per
circuire sua figlia sperando di contrarre un matrimonio vantaggioso?
Un vistoso colpo di tosse interruppe
le sue elucubrazioni.
La donna con l’aria da
zitella inacidita stava iniziando a
battere rabbiosamente il coltello contro il bordo del suo piatto e il
mento
puntato in alto.
- Oh, scusateci Sue – le
disse Carole, battendole
gentilmente il dorso della mano – Signori, lasciate che vi
presenti la signora
Susan Sylvester.
- Prego,
“signorina” – la corresse Sue –
Il matrimonio non
rientra nella lista delle cose che ho intenzione di fare.
Fabray fu costretto a mordersi la
lingua per frenare la
battuta poco educata che le parole della donna gli avevano stuzzicato;
solo Quinn
si accorse del suo pensiero, vista l’occhiataccia che gli
lanciò.
- Anche la signorina Sylvester
è una donna in carriera –
disse Burt – Scrive sui giornali ed è impegnata
nel movimento femminista.
- Davvero? – fece la
signora Fabray, molto interessata – E
di cosa vi occupate in quel campo?
- Cerco di fare quello che i nostri
antenati avrebbero
dovuto fare secoli fa: impedire che il mondo vada in malora –
rispose Sue – E
la cosa migliore da fare al momento per realizzare ciò
è riequilibrare la
distribuzione dei poteri.
- Cioè? – chiese
la signora Fabray sempre più interessata,
sostenuta moralmente dalla figlia e dalla signora Hummel-Hudson.
- Togliere gli uomini da quelle
postazioni in cui fanno più
danni e sostituirli con noi donne; anche se in questo modo, credo, non
avremo
più nemmeno un paio di favoriti al governo, a meno che anche
tra noi donne non
diventi una moda farsi crescere una disgustosa mezza barba attaccata ai
lati
della faccia.
Quella veloce risposta
strappò una risata a tutti, ognuno
con la propria gradazione di suono: da quella più alta di
Burt e Finn a quella
più bassa di Carole e della signora Fabray, passando per
quella più raccolta di
Quinn e Kurt e finendo per quella silenziosa e inesistente di Fabray.
- Quindi, secondo voi, un governo
gestito da donne sarebbe
migliore di quello attuale gestito da uomini? – chiese
quest’ultimo cercando di
nascondere lo scherno nella sua voce.
- Finora sono stati gli uomini a
salassarci con spese
inutili per guerre altrettanto inutili – rispose Sue senza
perdere la sua
pungente compostezza.
- Se vi interessa la mia opinione
– continuò Fabray – non
credo proprio che dare il potere alle donne possa risolvere i problemi
del
mondo anzi sono sicuro che li aggraverebbe ulteriormente.
- Per rispondere al vostro
“se”: no, la vostra opinione mi
interessa meno della musica che stanno pizzicando quegli
pseudo-musicisti – e
Sue indicò l’orchestra in sala che stava suonando
un “Allegro”, forse di Mozart
– E, per rispondere alla vostra opinione: le vostre parole
non fanno che
confermare quanto ho detto.
- E’ risaputo che, per
natura, le donne sono deboli e facili
a lasciarsi andare alle emozioni e, di conseguenza, inadatte al ruolo
di
governanti.
- Ma, a quanto mi risulta, a fare
grande l’Inghilterra è
stata Elisabetta I e Caterina II ha fatto lo stesso con la Russia,
per non parlare di
Caterina di Svevia e di Caterina de Medici.
- Temo che questi esempi non valgano
visto che le donne che
avete citato conservano una cattiva nomea***.
- Visto che sembrate così
colto, sapreste spiegarmi perché
solo alle donne viene concesso il “privilegio” di
una memoria così oscura e
torbida? Se non sbaglio, anche la Storia è una
cosa che gli uomini si divertono a scrivere.
Vedendo la piega che stava prendendo
quella “non tanto
tranquilla conversazione”, Burt si lasciò andare
ad un sonoro colpo di tosse e,
nello stesso momento, sua moglie Carole batté elegantemente
il coltello da
dessert contro il bicchiere dicendo:
- Vi prego, bandiamo per sempre da
questa tavola i discorsi
politici e polemici.
- Infatti – disse Quinn
– Siamo sulla nave più bella del
mondo, dovremmo goderci questi giorni.
E proprio in quel momento, Quinn
pensò sinceramente quello
che disse. Solo qualche giorno fa quest’idea non la sfiorava
nemmeno e quello
su cui viaggiava era solo una nave passeggeri come tante e la sua
destinazione
una patetica scusa per giustificare il desiderio di avanzamento di suo
padre,
eppure, dopo tanto tempo, sentiva il cuore pieno di una
serenità che credeva di
non poter più provare. Forse era la presenza di quelle
persone sincere e vere
che la faceva sentire così bene.
- Ha ragione –
concordò con lei Kurt – Chissà se
avremo
ancora dei giorni così.
- Dio! Kurt, detto così
sembra che dovremo morire tutti alla
fine di questa traversata! – esclamò il suo
fratellastro Finn.
- Voglio dire che non ci
capiterà mai più di partecipare al
viaggio inaugurale di uno dei più bei transatlantici che
esistono – si corresse
Kurt, mentre le guance gli si coloravano di rosso.
- Bene – si
lasciò convincere Sue – Dopo aver sentito la
“voce dell’innocenza” possiamo, allora,
cambiare argomento.
- Veramente, io avrei diciannove anni
– reagì Kurt.
- Non sperare di ingannarmi con quei
dentini da latte.
Il pranzo continuò tra
vari argomenti di conversazione
arricchiti dalle sarcastiche battute di Sue; così si
passò dai lavori e dagli
impegni mondani di ognuno, ciò che li spingeva a fare quella
traversata
oceanica (e, su questo, Fabray fu molto bravo a omettere la
verità), fino a che
si arrivò a parlare dei giovani.
- Naturalmente –
esordì Fabray, orgogliosamente, parlando
anche a nome delle moglie – nostra figlia sa benissimo che,
al nostro arrivo in
America, la aspetta il suo debutto in società e, a Dio
piacendo, un buon
matrimonio.
Quinn posò in maniera
brusca il suo calice di vino rosso,
forse in maniera troppo brusca e, per evitare che la sua irritazione si
notasse
ulteriormente, appoggiò le mani in grembo e
scaricò la tensione stritolando il
tovagliolo, mentre le guance le si tingevano di rosso vivo.
- Credo di poter esprimere la mia
opinione in merito –
rispose al padre senza preoccuparsi di nascondere la ribellione insita
nelle
sue parole.
- Brava la ragazza! –
esclamò Sue, entusiasta – Vai così!
Fatti valere!
- Quinn, ne abbiamo già
parlato mille volte – sibilò Fabray
– E, per favore, controllati.
Per tutta risposta, Quinn
alzò seccamente il mento lasciando
che il suo sguardo si perdesse in un punto indefinito della sala, in
direzione
dell’orchestra.
- Perdonatemi Carole –
chiese la signora Fabray timidamente,
spostando l’attenzione dal marito e dalla figlia –
Non vorrei che mi
consideraste indelicata, ma non credo di aver capito chi sia vostro
figlio tra
i vostri due ragazzi.
- Non preoccupatevi nemmeno
– la tranquillizzò Carole – Dal
punto di vista tecnico è Finn mio figlio ma, se teniamo in
considerazione
l’affetto, Kurt è mio figlio tanto quanto Finn.
- E per me è lo stesso
– le fece eco Burt, prendendole la
mano – Questo è il bello della nostra famiglia.
Come disse Carole il giorno del
nostro matrimonio: “Siamo quattro persone trasformate in
famiglia”****.
A quello scambio di affetto
famigliare si unirono, in
maniera diversa e meno espansiva, anche Finn e Kurt, mentre Quinn e sua
madre
avvertirono una tenue invidia pervaderle, e Fabray si passò
con nonchalance una
mano sulla bocca per nascondere uno sbadiglio.
- Oddio! Che eccesso di zucchero!
– commentò sarcasticamente
Sue, con aria disgustata – Credo proprio che oggi
salterò il dolce.
- E cosa avete pensato per il futuro
dei vostri ragazzi? –
cambiò argomento Fabray.
- Abbiamo abbastanza fiducia in loro
da lasciare che
gestiscano da soli la loro vita – rispose Burt, suscitando lo
sconcerto del suo
interlocutore – Il nostro Kurt aspira ad intraprendere la
carriera teatrale.
- Ah! Interessante – disse
Fabray, malcelando una risatina
di scherno che non venne ignorata da Quinn che vide, con
mortificazione, il
viso di Kurt velato di una malinconia subito spazzata via da un sorriso
divertito. Se aveva aspirazioni da attore, ne aveva anche le
capacità.
Se in un primo momento aveva provato
semplice simpatia per
quel ragazzo, adesso non poté fare a meno di ammirarlo. In
lui vedeva la forza
interiore che lei pensava di non avere.
* * *
- Mi dispiace molto per come si
è comportato mio padre. Da
quanto avrai notato non è una persona con la quale si
può sperare di avere una
conversazione civile.
Quinn e Kurt camminavano
tranquillamente sul ponte di
passeggiata, approfittando del fatto che fosse poco affollato, visto
che dopo
pranzo gli uomini si ritiravano in sala fumatori mentre le donne si
intrattenevano in sala lettura per gli ultimi pettegolezzi, per godersi
tranquillamente l’aria pomeridiana che spirava dal mare
d’Aprile e il tenue
sole che dava un po’ di conforto contro il vento fresco.
Il pranzo era proseguito
tranquillamente, nonostante il
crudele e velato sarcasmo di Fabray, in contrasto con quello
più aperto e, in
un certo senso, simpatico di Sue Sylvester. Tutti gli altri commensali
avevano
dimostrato più educazione e (Quinn lo pensò con
un senso di trionfo) e classe
non dandogli retta e continuando a parlare tranquillamente; dopo che
gli
stewart ebbero portato via l’ultima portata, mentre le
signore, esclusa Sue,
preferirono ritirarsi nelle rispettive cabine e gli uomini si
salutarono
educatamente per andare; Fabray ad elemosinare le solite attenzioni in
sala
fumatori, Burt e Finn a parlare con alcuni amici di famiglia che
avevano visto,
i due più giovani si erano defilati fuori per smaltire tutte
quelle portate e
parlare più liberamente; tra le altre cose avevano scoperto
di avere in comune
una fissazione per la cura del corpo quindi tennero senza problemi un
buon
passo di marcia lungo il ponte.
- Anzi, sembra che si diverta a far
perdere la calma a chi
ha a che fare con lui – continuò la ragazza.
- Non preoccuparti –
replicò Kurt, rassegnato – Sono
abituato alle critiche degli altri.
- Trovo difficile crederlo. Tu e la
tua famiglia siete… così
diversi. Voi siete buoni.
- E perché non dovremmo
esserlo?
- Voglio dire… non siete
come la maggior parte delle persone
che ho conosciuto, persone come mio padre.
- Fidati. Lo status o la
bontà non ti assicurano una difesa
contro il pregiudizio.
- Questo lo so anch’io
– replicò Quinn, lasciando scorrere
una mano sul ventre ricordando quei mesi scanditi solo dalla condanna
di chi la
circondava senza un briciolo di comprensione – Che brutta
razza l’uomo.
- Siamo tutte delle brutte razze:
c’è quella dominante che
crede di avere potere universale su tutto ciò che tocca e
domina; ci sono
quelle predatrici e già dal nome si capisce la loro funzione
e il loro modo di
vivere; poi ci sono quelle tranquille, gli invisibili, quelli che
rimangono in
silenzio accontentandosi di quello che hanno; infine, ci sono i
derelitti,
quelle razze che sono poste al gradino più basso, rifiutati
da tutti perché
diversi dagli altri, per la religione, il paese
d’origine… o altro. Per ironia
della sorte, quest’ultima razza è la
più numerosa. E’ una struttura che, credo,
potrebbe applicarsi tranquillamente a chi viaggia su questa nave.
- Tu a quale
“razza” appartieni?
- All’ultima –
rispose Kurt, semplicemente.
In quel momento, guardandolo negli
occhi, Quinn credé di
trovarvi una risposta sottintesa, come se Kurt avesse cercato di
confessarle il
suo più profondo segreto con quella semplice risposta. Una
parola non detta con
la quale Kurt si metteva completamente a nudo, sapendo di rischiare
tanto. Il
minimo che Quinn avrebbe potuto dargli era un segno di accettazione o
rifiuto
che fosse e, se avesse potuto, lo avrebbe stretto in un abbraccio, ma
c’erano
troppi occhi che potevano vederli ( anche due paia d’occhi
sarebbero stati
troppi).
Si erano fermati lungo la balaustra
che delimitava il ponte
di prima e che si affacciava su quello di Kurt dandogli una lieve
stretta
affettuosa.
- Anche io – rispose Quinn.
Kurt sorrise sollevato, abbassando lo
sguardo sul
sottostante ponte di terza classe dove alcuni passeggeri, emigranti a
giudicare
dall’aspetto, passavano il tempo chiacchierando e giocando;
si notavano, in
particolare, un ragazzo che camminava a gattoni portando in groppa una
bambina
che rideva divertita , tenendosi ai riccioli neri del ragazzo, mentre
un altro
li seguiva muovendosi in maniera buffa.
- E pensare che molti di loro
preferirebbero essere al
nostro posto, quando io non so che darei per essere spensierato come
quel
gruppetto lì – commentò Kurt,
permettendosi di indugiare sul ragazzo che
portava quel piccolo fardello biondo – Noi invidiamo loro e
loro invidiano noi;
forse è per questo che Mark Twain ha scritto “Il
Principe e il Povero”.
Ma Quinn non lo aveva ascoltato,
stava guardando sconvolta
quella scena, proprio mentre il secondo ragazzo prendeva la bambina e
la
sollevava in aria… quando anche lui vide Quinn.
* * *
- Noah, cos’è
successo? – si informò Shelby allarmata dopo
aver visto il ragazzo rientrare come una furia con Beth in braccio.
- L’ho vista –
rispose Puck, stringendo più forte la
bambina, come se avesse potuto paura che sentisse – Anche lei
è qui.
- Chi? – chiese Shelby,
senza capire.
- Lei! – esclamò
Puck, soffiando la risposta e allora la
donna, finalmente, capì.
- Quinn.
Nota
dell’autore:
* Cosmo e Lucile Duff-Gordon, coppia
dell’alta società, poco
ben vista perché lei era una divorziata. Lui era uno
schermidore, lei una
stilista. Si salvarono entrambi su una scialuppa che conteneva solo
dodici
persone e, in seguito, furono accusati di aver corrotto i marinai
affinché non
ritornassero indietro a salvare le persone che erano in acqua.
** In certe occasioni e in certi
ambienti non sono avari con
le posate.
*** A suo tempo, Elisabetta I fu
definita “l’eretica”;
Caterina di Russia fu accusata di essere una messalina, Caterina di
Svevia
un’ermafrodita, Caterina de Medici un’avvelenatrice.
**** Vediamo se indovinate questa
citazione ; D
E con questo capitolo inizia la
storia vera e propria… non
che duri molto, a dire il vero.
Dite la verità: ve
l’aspettavate la Kuinn friedship? Il
fatto è
che, ormai, in questo fandom si trovano solo Hummelberry e Kurtana e mi
è
venuta voglia di portare una ventata di novità. Anzi,
prossimamente riporterò
un altro po’ di Kurtcedes che mi piace tanto.
Scrivere le parti di Sue è
forse la cosa più divertente che
mi sia mai capitato di fare; mi chiedo perché non ho mai
utilizzato il suo
personaggio finora.
Cosa pensate che accadrà
adesso che Quinn e Puck si sono rivisti?
Spero di avervi incuriositi abbastanza da continuare a seguire questa
storia.
Per altre cose, vi lascio sempre il
link della mia pagina http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
Ringrazio tutte le care persone che
hanno inserito questa
mia mini-long tra le preferite e le seguite e che lascia una recensione
e chi
legge solo.
Grazie.
Lusio
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Hai perso la tua occasione ***
Hai perso la tua occasione
Per tutto il resto della giornata,
Quinn cercò di
convincersi che non era vero ciò che aveva visto, che era
stato uno scherzo
della sua mente, unita al freddo sole d’Aprile e
all’aria di mare; il dialogo
con Kurt l’aveva fatta sentire vulnerabile come non si era
più sentita da tanto
e le aveva fatto affiorare tutti i ricordi del suo passato e buona
parte di
essi erano pieni del volto di Puck, dei suoi baci dolci ma anche rudi
come
l’ambiente nel quale era cresciuto, delle sue braccia che la
stringevano così
forte da spegnerle il respiro in petto, di quel ventre che non era
più suo e
che diventava più grosso ogni mese che passava.
Sì, doveva essere così: quello
non era Puck, erano i suoi pensieri che avevano preso corpo
lì sul ponte di
terza classe.
Eppure, quella sera stessa
ritornò di nuovo alla balaustra e
alla tenue luce delle stelle e delle luci sul ponte le parve di vedere
nuovamente la sua ombra spiarla di nascosto come se anche essa volesse
accertarsi della sua reale esistenza. Anche allora poteva esserci una
spiegazione: il buio, l’impressione, i suoi pensieri, mille
altre cose.
Solo quando andò a
coricarsi le passò sugli occhi, come un
velo che scivola via da uno specchio, l’immagine viva e
guizzante come una
fiammella dorata della bambina in braccio all’immagine di
Puck. Poteva essere…
“Perché non
l’ho vista meglio?” pensò per tutta le
ore che
seguirono, torturandosi i palmi delle mani con le unghie ben curate.
Il giorno dopo ritornò
ancora a quella balaustra e, come se
si fossero dati un appuntamento, vide ancora quella figura adesso
troppo solida
e reale per essere definita un’ombra o un ricordo . Ogni
dubbio svanì quando i
loro occhi si incrociarono nuovamente. Era Noah Puckerman sul ponte di
terza ed
era Quinn Lucy Fabray sul ponte di prima.
Accompagnata da Kurt, Quinn trascorse
l’intera giornata sul
ponte, incurante del freddo ma più terrorizzata dalla
solitudine e desiderosa
di avere un sostegno; non se la sentì di raccontargli la
verità in modo che
capisse la causa della sua ansia e, comunque, lui non le chiese nulla,
forse
capendo cosa la tormentava come lei aveva compreso il vero essere del
ragazzo.
E, come Quinn aveva fatto con lui, Kurt non le voltò le
spalle e le rimase
accanto fino a quando ella non capì che, se qualcosa,
qualsiasi cosa, andava
fatta avrebbe dovuto prendere lei l’iniziativa.
Quasi a volerle dare una spinta, il
destino o il caso o
qualunque cosa fosse, le venne in aiuto.
Il quinto giorno di viaggio, il 14
Aprile, era domenica. Si
sarebbe tenuta una funzione religiosa presenziata dal capitano Smith in
persona
alla quale era stato concesso di partecipare anche ai passeggeri di
seconda e
di terza classe protestanti anche se si sarebbe tenuta in prima classe;
così,
solo per quel giorno si videro, nella stessa stanza, passeggeri di
prima classe
nei loro abiti migliori seduti nelle prime file, alcuni passeggeri di
seconda
e, ai margini estremi, su sedie più lontane se non in piedi,
pochi passeggeri
di terza. Non c’era poi così tanta gente; la
maggior parte delle persone a
bordo era troppo impegnata a godersi la traversata e tutte le
comodità che la
nave concedeva, altri erano cattolici (in terza classe
c’erano anche ebrei,
musulmani e altri) e visti i problemi che c’erano con i
protestanti si
preferiva evitare eventuali contatti religiosi.
Tra la schiera dei cattolici
c’erano anche i Fabray, ma il
capofamiglia non era uomo da farsi degli scrupoli, non quando gli si
presentava
l’ennesima occasione di farsi notare
dall’élite, anche se quell’
“occasione”
era identica a tutte le altre e, sicuramente, avrebbe portato ai
medesimi
risultati. Quindi si presentarono anche loro alla funzione; quella
volta Quinn
non si ribellò.
Mentre entravano, lo sguardo le cadde
su una piccola scena
all’apparenza di poca importanza: due giovani donne di terza
classe che
discutevano animatamente con uno degli steward che stava cercando di
impedire
l’accesso ad una di loro perché di colore.
Non era una cosa che a Quinn interessasse al momento ma un
piccolo
dettaglio attirò la sua attenzione: quando passò
di fianco a loro, la giovane
donna di colore diede una gomitata alla sua compagna, dal viso
allungato e i
capelli ramati, indicando nella direzione di Quinn e mormorandole
qualcosa che
non riuscì a cogliere nella marea di persone che parlavano
nella sala.
Pensò di aver preso un
abbaglio e che ad attirare
l’attenzione delle due passeggere fosse stato qualcun altro
sulla sua stessa
scia; ma non era così. Un istante prima che potesse prendere
posto, la giovane
dal viso affilato le si accostò e, con una voce bassa ma
squillante, le chiese:
- Siete voi la signorina Fabray?
- Sì. Perché?
– replicò Quinn ponendosi sulla difensiva.
- Questa è per voi
– concluse rapidamente la giovane
consegnandole un pezzo di carta piegato in due e uscendo rapidamente
dalla
sala.
Ancora frastornata, Quinn
accartocciò subito quel messaggio
nel pugno col timore che i suoi genitori se ne accorgessero ma, per sua
fortuna, ciò non accadde.
Per tutto il tempo che
durò la funzione quel biglietto
bruciò nella sua mano e la sua mente non poté
fare a meno di correre alle
parole ancora sconosciute che vi erano impresse ed ebbe il solo
desiderio che
quella messa protestante finisse subito. E quando, alla fine, il
pastore
congedò i fedeli, approfittando della folla che usciva
rumorosamente, si
allontanò accusando un capogiro ed uscì sul ponte
e sedendosi sulla prima sdraio
libera.
Senza curarsi della gente che avrebbe
potuto vederla,
dispiegò la lettera e ne lesse le parole scritte in quella
grafia poco esperta
che ben conosceva.
Vieni stasera alle dieci alla balaustra del ponte
di prima, verso il
cancelletto che lo separa dal ponte di terza. Io sarò
lì.
Puck
“E’
così. Non ci si può liberare del
passato” pensò.
Rialzandosi fieramente, Quinn si
accostò alla balaustra
strappando un brandello di quel biglietto ad ogni passo che faceva; suo
padre
l’aveva costretta a bruciare tutte le lettere che aveva
ricevuto da Puck in
passato e non c’era motivo di risparmiare
quell’ultima, scritta in fretta e
furia e senza un briciolo di sentimento.
Quando i suoi gomiti toccarono il
legno della balaustra,
aprì le mani e liberò i frammenti di carta che,
nel vento che li trascinò,
persero il significato concreto che avevano nella loro interezza e
salirono su,
su dove, se avessero avuto gli occhi, avrebbero potuto vedere
ciò che i
passeggeri del Titanic nemmeno potevano immaginare; ma se anche
avessero
potuto, non vi avrebbero dato importanza. In fondo, viaggiavano su una
nave
inaffondabile.
* * *
Avrebbe potuto vivere quelle ore col
cuore in gola adesso
che aveva una motivazione concreta ma… perché
mai? A cosa sarebbe servito?
Ormai sapeva che non era stato tutto un gioco della sua mente e darsi
un’ulteriore pena l’avrebbe solo fatta stare
peggio. A pensarci meglio non
capiva nemmeno perché si fosse spaventata così.
Forse perché il suo passato
ritornava a presentarle il conto.
Finita la cena disse ai suoi genitori
che usciva per andare
a prendere un po’ d’aria.
- Copriti bene, tesoro, e non
prendere freddo – si
raccomandò sua madre – E non fare tardi.
Quinn si limitò a
rispondergli con un “sì” e rivolse un
breve cenno del capo a Kurt, alzatosi per accompagnarla, facendogli
capire che
“doveva” andare da sola; il ragazzo la
capì al volo e si rimise seduto.
Uscita sul ponte fu investita
dall’aria gelida della notte e
si strinse nel suo scialle foderato di pelliccia. Quella era una notte
bellissima: limpida e punteggiata di stelle, con solo una leggera
foschia a
velarla; persino il mare era calmo, senza onde ad incresparlo, escluso
il
movimento della nave.
Più si avvicinava alla
balaustra più i suoi passi si
facevano pesanti e quando la raggiunse si lasciò scivolare
lungo la barra di
legno fino al cancelletto; si vede che le sue mani, rese insensibili
dal
freddo, erano più veloci o forse erano talmente irrigidite
che il cervello non
riusciva più a controllarle.
Quando giunse, lui era lì,
aggrappato al cancelletto sulle
scale che portavano sul ponte di prima e che venivano usate dai marinai
e dagli
altri membri dello staff. Era imbacuccato in un cappotto nero sbiadito
che lo
copriva fino alle orecchie ma era lui, Quinn lo riconobbe subito;
poteva ancora
sentire il suo odore misto al profumo pungente del freddo.
Probabilmente anche lui
avvertì l’odore di Quinn visto che
si voltò verso di lei prima ancora di sentire i suoi passi
silenziosi. Come
all’epoca dei loro incontri.
- Arrivi sempre silenziosa
– furono le prima parole che Puck
le disse dopo anni di silenzio.
- Le vecchie abitudini sono dure a
morire – gli rispose
Quinn; la sua voce aveva subito più cambiamenti in confronto
a quella di Puck.
- Avrei preferito che tu mi venissi
dietro le spalle e mi
baciassi la nuca, come hai sempre fatto – disse Puck, senza
però alcuna traccia
di rimpianto nelle sue parole.
- Quello è il passato; ed
è quello che non ritorna.
Puck si sistemò
meglio sul bordo del cancelletto appoggiandosi con i
gomiti visto che le
mani non le sentiva più, assumendo una posa molto
più confidenziale, cosa che
spinse Quinn ad irrigidirsi e ad arretrare di un passo. Puck fece finta
di non
accorgersene per non complicare ulteriormente quella situazione
già difficile
di per sé.
- Ti trovo bene – le disse
con sincero apprezzamento.
- Grazie – rispose Quinn,
educata ma fredda – Ti direi la
stessa cosa anch’io ma non mi crederesti.
- Infatti. Lo sappiamo che non
possiamo essere messi sullo
stesso piano.
- Cosa ci fai tu qui?
- In questo momento mi sto godendo
questa splendida serata –
le rispose Puck, sarcasticamente – Sai
com’è, non avevo niente di meglio da
fare allora ho deciso di spendere quei pochi soldi che avevo per
acquistare un
biglietto di terza classe ed imbarcarmi su questa splendida nave.
- Se mi hai fatta venire qui, ad
incontrarti, per prenderti
gioco di me, hai fatto male i conti – replicò
Quinn, piccata, già pronta a
girarsi per andarsene.
- Cosa pensi che ci faccia qui?
– riprese Puck, seriamente –
Quello che fanno tante altre persone che viaggiano con me in terza
classe:
vogliamo raggiungere l’America.
- Se Dio vuole, ci arriveremo tutti
in America, tra qualche
giorno.
- Non vogliamo andarci per motivi
frivoli come i vostri,
tipo una vacanza o un viaggio di piacere. Noi stiamo attraversando
l’oceano per
costruirci una vita migliore di quella che avevamo prima.
- Vi auguro, allora, di riuscirci se
è questo che volete –
disse Quinn mantenendo un tono distaccato.
- Non hai altro da dirmi a parte
queste cortesie da salotto?
- Sei tu che mi hai mandata a
chiamare.
- Sei tu che mi hai visto per
prima… tutte e due le volte.
- Dimmi subito cosa vuoi senza
girarci attorno – scattò
Quinn.
Puck rimase in silenzio per qualche
istante, urtato dalla
rabbia che palpitava nelle parole della ragazza ma tenne lo sguardo
fisso su di
lei, sperando magari di ferirla in qualche modo, dare anche a lei un
assaggio
di quello che lui aveva dovuto sopportare da solo in quegli ultimi
anni; prima
lui era quello povero e bistrattato e lei era quella ricca e
avvantaggiata e in
quel momento i ruoli si erano invertiti, pur continuando ad essere
l’uno il
povero e l’altra la ricca.
- Non mi chiedi di nostra figlia?
– scandì lentamente, ogni
parola simile alla mannaia che usavano i macellai per affettare la
carne.
Ottenne ciò che voleva:
Quinn impallidì come un cencio e si
strinse ancora di più nello scialle; negli occhi lucidi un
misto di sentimenti
contrastanti.
- L’ho vista, quasi
– mormorò con una voce carica d’emozione
che tolse a Puck il desiderio di infierire ulteriormente.
- Sta crescendo bene – si
limitò a raccontare – E’ ogni
giorno più identica a te in ogni dettaglio: gli occhi, i
capelli, le mani… il
carattere – aggiunse concedendosi un sorriso –
persino il neo che tu hai vicino
all’ombelico, anche lei lo ha.
Ecco una cosa che non avrebbe dovuto
dire, quella frase che
riportava i ricordi a quegli anni in cui avevano imparato a scoprirsi
l’un
l’altra, a vedere che sotto i vestiti erano uguali, una carne
di una stessa
materia, con le loro imperfezioni e i segni che li
contraddistinguevano. Forse
presero entrambi coscienza solo in quel momento del fatto che il
passato era
ritornato di nuovo; si era riaffacciato quando i loro sguardi si erano
nuovamente incrociati e in quel momento era fra loro, a legarli con i
suoi fili
invisibili.
- Vorrei poterla vedere –
sussurrò Quinn, come in preghiera.
- Forse arriva un po’ in
ritardo questo tuo interesse –
replicò Puck, riprendendo il suo tono severo.
- Io mi sono sempre interessata di
lei! – ruggì Quinn,
inalberandosi – Non osare dire il contrario!
- E come lo hai dimostrato? Leggendo
le lettere che ti
inviavo e rispondendo quando potevi prima che tuo padre ci tagliasse
anche
questa via di comunicazione? Potevi dimostrarlo in un modo diverso,
migliore:
potevi venire da noi.
- E come avrei potuto, con mio padre
che mi sorvegliava a
vista e che non mi permetteva mai di uscire se non accompagnata?
- Una volta mi dicesti che
l’unica cosa che volevi era
ribellarti a lui. Non credo che tu sia cambiata al punto da esserti
arresa.
- Io non mi sono arresa! –
Quinn si sentì punta nel vivo –
Pensi che per te siano stati difficili questi anni, ma tu almeno avevi
degli
amici, delle persone pronte a sostenerti, avevi… nostra
figlia – da quanto
ricordava, quella era la prima volta che lo affermava ad alta voce,
rendendola
una cosa concreta e non più solo una marea di sensazioni e
ricordi;
quell’affermazione la fece sentire, per la prima volta,
libera da un peso ma
piena di una voglia e di una smania intensi – Io, invece,
sono rimasta da sola,
a lottare ogni giorno contro mio padre e il suo egoismo, senza nessuno
al mio
fianco, senza nemmeno il sostegno di mia madre che è sempre
stata sottomessa e
arrendevole nei confronti di mio padre. In tutti questi anni,
l’unica cosa che
avrei voluto è essere libera.
- E allora cosa ti costava mollare
tutto e andartene. Tuo
padre non ti ha mica tenuta incatenata nella cantina di casa vostra.
- Hai almeno una minima idea di
quello che ho passato da
sola?
- Ti stai arrampicando sugli specchi.
Cos’è che, veramente,
ti fa così tanta paura da impedirti di reagire?
- Ma cosa vuoi? –
esclamò Quinn, esausta, con le lacrime che
avrebbero voluto uscire ma erano frenate dall’orgoglio
– Pensi forse che io
possa facilmente buttare all’aria un’intera
esistenza sperando che gli altri lo
accettino? Pensi che io sia libera, come te, di fare ciò che
voglio
liberamente? Quando avevo quindici anni lo pensavo ma ho dovuto
rivalutare
tutto quello che è successo nella mia vita. E se anche
decidessi che non mi
importa e che voglio lo stesso lasciar perdere tutto e andarmene per
crearmi
una vita mia, che cosa otterrei? Rimarrei sola. Perché,
sicuramente, non posso
pretendere che tu mi accolga nella tua vita, vero? – concluse
lei, constatando
una verità certa, priva di ogni speranza alla quale, in un
primo momento, Puck
non riuscì a rispondere.
- E’ vero. Hai avuto
un’occasione quattro anni fa, ma l’hai
persa – le rispose, alla fine, con una sincerità
dettata più dal rispetto che
dal rancore – Hai avuto la possibilità di
scegliere; se avessi scelto me e la
bambina ti sarei stato accanto ogni giorno della mia vita
perché avresti
dimostrato di essere la donna che mi ha conquistato; ma hai preferito
prendere
la strada più semplice. Nel tuo sguardo
vedo ancora quel fuoco che hai sempre avuto, eppure
continui a lasciarti
bloccare dalla paura; non posso che sperare che tu, un giorno, decida
di
passare dalle parole ai fatti e decida di crearti quella vita che
meriti. Sappi
che per me eri, anzi sei ancora importante, più di quanto
credi perché il legame
che ci unisce è di quelli che non si rompono, per quanto si
cerchi di farlo.
Cerca di essere importante anche per te stessa – la sua mano,
che era corsa a
cercare quella di lei, ritornò ad aggrapparsi alla barra di
legno.
Mai come in quel momento Quinn
provò il forte desiderio di andarsene
via, per nascondere quel maledetto pianto che l’avrebbe solo
fatta sentire
debole e patetica. In qualche modo (forse il legame che li univa, forse
il
fatto che Puck riconoscesse ogni suo atteggiamento) il ragazzo decise
di
liberarla.
- Prima che tu te ne vada,
c’è una cosa che voglio darti –
disse, tirando fuori un foglio dalla tasca del cappotto – E
anche per questo
che ti ho fatta venire qui. Anzi, ora che ci penso, era solo per darti
questa.
Quinn lo prese con titubanza e quando
l’ebbe in mano la
vide: una fotografia, una bambina piccolissima, nel suo semplice
vestitino
senza merletti o nastri, lo sguardo serio e imbronciato di chi
è annoiato e
stanco di stare fermo, i capelli che si perdevano nel colore
giallognolo del
ritratto fotografico. Due istanti l’aveva vista viva: quando
l’aveva partorita
e su quel ponte e quell’immagine immobile sarebbe stata
l’unica cosa che
avrebbe mai avuto di sua figlia. Questo fu uno dei mille motivi che la
obbligarono a sciogliere violentemente il nodo che aveva in gola.
Non volendo infierire oltre, Puck si
voltò per non rubarle
quel momento – Buonanotte – le sussurrò,
scendendo le scale, ricordando una
Quinn più giovane e meno timorosa stesa al suo fianco in una
stanza buia e
anonima, ritornando nella sua cabina. Quando Quinn alzò gli
occhi dalla
fotografia per parlargli, lui era già sparito.
Il freddo ritornò in quel
momento, più forte di prima.
Quando ritorno anche lei nella sua
cabina, si lasciò cadere
sul letto ancora vestita con il ritratto della bambina stretto al seno
come se
fosse stata vera e viva lì con lei, mentre le lacrime
bollenti solcavano le
guance intirizzite.
Nell’aria c’era
ancora quel filo invisibile che continuava a
tenere legati quella passeggera di prima classe e quel passeggero di
terza,
gettandoli in una spirale di immagini di un passato che non moriva e di
possibilità di una vita che non ci sarebbe mai stata, se non
nei loro sogni;
quei sogni che mostravano una piccola casetta in campagna, un uomo che
ritornava a casa dopo una giornata di lavoro nei campi, una donna che
lo
accoglieva con un bacio e che usciva fuori per chiamare una bambina che
giocava
col suo cagnolone a dirle che era ora di cena… la bambina
che rispondeva:
“Vengo mamma”.
Ed era solo un sogno.
* * *
Era passato un altro giorno, il
quinto da quando il Titanic
era salpato da Southampton. Ormai mancava poco; solo qualche giorno e
sarebbero
arrivati in America. Forse sarebbero arrivati anche in anticipo, aveva
sentito
dire in giro che era stato dato l’ordine di caricare i motori
al massimo per
arrivare prima in porto. Quel viaggio stava finalmente per finire.
Stranamente, quella sera, a Dave
ritornò in mente suo padre.
Da quando aveva messo piede su quella nave aveva cercato di non
pensarci; aveva
deciso di lasciarsi tutto alle spalle e, per sua fortuna, tutto il
lavoro lo
aveva aiutato a tenere la mente occupata. Quella sera spettava a lui il
compito
di controllare che tutte le porte di comunicazione tra le varie classi
fossero
chiuse a chiave; quella mattina, durante la funzione, c’era
stato un gran via
vai e Dave aveva dovuto sopportare in silenzio i commenti dispregiativi
dei
“marinai inglesi” sulla presenza di tutti quegli
“stranieri”, chiusi sotto
chiave la notte come topi in gabbia. Forse era stato questo a fargli
ritornare in
mente suo padre.
Se lo vedeva, come sempre, steso su
quel letto freddo e
sporco a mormorare sottovoce, con la vedova Bertha che gli passava
delle pezze
bagnate sulla fronte per evitare che gli salisse la febbre.
Papà.
La nostalgia iniziò a
farsi sentire, forse troppo in
anticipo. Chissà come sarebbe stato ritornare indietro, in
quel vecchio
quartiere, in quella umida stanza e dire “Papà,
sono ritornato”. Di sicuro suo
padre avrebbe ripreso con la solita litania: “Dave, figliolo,
questa non è
vita”.
Eppure nemmeno una vita da solo, con
suo padre al di là
dell’oceano, sarebbe stata tale.
Magari, se fosse riuscito a mettere
da parte un bel po’ di
soldi, sarebbe potuto ritornare a prenderlo e portarlo con
sé; avrebbero potuto
portare anche la vedova Bertha. Sarebbe stato difficile ma non
impossibile.
“Sì,
farò così: arriverò in America,
lavorerò sodo,
guadagnerò quanto è possibile per comprare una
casa e quando avrò abbastanza
soldi ritornerò in Inghilterra, prenderò mio
padre e lo porterò con me in
America”.
Questa decisione lo
rasserenò più dell’idea di evadere da
quella dura esistenza che lo aveva animato i giorni prima della
partenza. Se
aveva sentito che qualcosa gli mancava, adesso era sicuro di avere
tutto.
Senza accorgersene era arrivato alla
fine del ponte di
passeggiata; aveva saltato l’ultima porta di comunicazione;
infilandosi le mani
in tasca e battendo i piedi intorpiditi, fece per ritornare indietro
quando lo
scampanio della campana delle vedette attirò la sua
attenzione; dovevano aver
visto qualcosa e a giudicare dalla violenza dei colpi di campana doveva
trattarsi di qualcosa di grave.
Incuriosito, Dave si
avvicinò e si sporse attraverso il
parapetto per vedere cosa stesse accadendo, ma in quella notte buia non
riusciva a vedere nulla; si chiese se non fosse stato un sogno ad occhi
aperti
delle vedette visto che avevano smesso di suonare la campana. In
compenso gli
parve di sentire un lontano grido stridulo, venato di paura;
riuscì a
distinguere solo “Dritto di prua”. Avevano qualcosa
davanti, sulla loro
traiettoria.
Per dei minuti buoni, Dave rimase in
quella posizione
sperando di riuscire a scorgere qualcosa, ma niente. Quando la vide.
Bluastra nella notte, con dei
riflessi bianchi causati dalla
luna, enorme, con due cime che si levavano in alto come due montagne
gemelle,
una massa di ghiaccio galleggiante sull’acqua*. Era quella la
cosa che le
vedette avevano visto? Adesso era di lato alla nave, probabilmente il
timoniere
aveva virato per evitarla.
Dave sentì il sangue
gelarglisi nelle vene a quella vista. E
il cuore gli mancò un battito quando le assi di legno sotto
i suoi piedi
sussultarono come se la nave stesse scivolando su un mare di biglie e
un pezzo
di quella massa di ghiaccio precipitò sul ponte di terza
frantumandosi in tanti
frammenti.
- O mio Dio! Ma cosa è
successo? – esclamò con sgomento.
* * *
Quello che sul ponte era sembrato un
tremito, nelle cabine
di prua sembrò una scossa simile ad un terremoto; questo
è quello che pensò
Rachel, svegliandosi di soprassalto e scostando il braccio di Sugar che
le
gravava sul petto. Non era stato un incubo; quel tremore era continuato
anche
mentre si sollevava sul gomito, perfettamente sveglia e non fu
l’unica a
sentirlo: nello stesso istante anche Tina si riscosse dal suo sonno e
dal letto
di Shelby si sentì il pianto leggero della piccola Beth,
spaventata dal rumore
che aveva accompagnato quel brusco ondeggiare. Richiamate dal pianto
della
bambina, anche le altre donne si svegliarono.
- Ma cosa succede? – chiese
Mercedes ancora assonnata.
- Avete sentito quel fracasso e come
si è smossa la cabina?
– si informò Rachel allarmata.
- Sarà una tempesta
– suggerì Tina, alzandosi per vedere
fuori dall’oblò ma solo per essere smentita dal
mare calmo che le si parò
davanti; scorse solo una leggera ombra bianca scomparire da destra ma
forse era
solo uno scherzo del sonno.
- Vado a svegliare gli altri
– fece Rachel, scavalcando
Sugar che si era ributtata sul letto senza dire nulla, abbracciando il
cuscino
e rimettendosi a dormire, e alzandosi per andare nella cabina degli
uomini –
Cerchiamo di capire se è successo qualcosa.
Quando uscì vide che altre
persone avevano avuto la sua
stessa idea.
Nella cabina risuonarono ancora i
gemiti di paura di Beth
che Shelby cercava di tranquillizzare.
* * *
Kurt aveva sempre avuto
difficoltà ad addormentarsi; non ci
riusciva se prima non leggeva almeno un capitolo di uno dei suoi amati
libri,
ma anche mentre leggeva non perdeva il suo contatto col mondo esterno.
Quindi
avvertì subito quel rombo lontano che gli ricordò
l’apertura di un pesante
cancello arrugginito seguito da un lieve tremito della lampada da notte
accanto
al suo letto.
- Finn – chiamò
piano il suo fratellastro addormentato in
una massa informe di coperte e cuscini – Hai sentito?
– ma ottenne come
risposta solo un grugnito e Finn si girò nel letto senza
nemmeno svegliarsi.
Leggermente inquieto, Kurt
posò la sua copia di “Agnes Grey”**
sul comodino e scese dal letto per andare a bussare alla porta della
stanza di
suo padre e di Carole e accertarsi che non fosse successo qualcosa;
male che
andasse avrebbero perso solo un’oretta di sonno. Ma quando i
suoi piedi nudi
toccarono il pavimento si accorse di una cosa che aumentò il
suo timore: non si
avvertiva più il tenue e ormai familiare rumore dei motori
della nave.
* * *
Erano le 23:40 circa del 14 Aprile 1912. A
1.518 delle 2.223
persone a bordo del Titanic restavano poche ore di vita.
Nota
dell’autore:
* Ancora oggi si hanno dei dubbi su
quale sia stato
l’iceberg contro il quale si scontrò il Titanic. Nei giorni
che precedettero e
che seguirono il naufragio ne furono fotografati vari in quella zona;
per
seguire le testimonianze e i disegni di alcuni dei sopravissuti,
compreso uno
delle vedette) io sono più propenso a credere che il
famigerato iceberg sia
questo (la qualità purtroppo è bassa ma non si
trova altro) http://it.wikipedia.org/wiki/File:Titanic_iceberg.jpg
** Primo romanzo della più
giovane e, a torto, la più
ignorata, delle sorelle Bronte, Anne. Vi si narra la semplice vicenda
di
un’istitutrice, ma è anche una denuncia alla
cattiveria e alla falsità delle
classi agiate. Il secondo e ultimo romanzo di Anne Bronte,
“The Tenant of
Wildfell Hall”, narra invece una storia molto più
scandalosa per l’epoca: una
donna che abbandona il marito violento e decide di crescere il figlio
da sola.
Non ho molto da dire su questo
capitolo, se non che è quello
che più ho amato scrivere.
E metto anche le mani avanti e vi
dico che, a causa dei miei
impegni, non potrò essere più preciso e costante
con gli aggiornamenti. Mi
spiace. Ho già il prossimo capitolo completato che deve solo
essere revisionato
e trascritto a computer ma mi restano ancora due capitoli per
completare la
fanfiction e preferirei prima portarmi avanti e poi continuare.
Per essere sempre aggiornati potete
controllare la mia
pagina: http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
Grazie a tutte le persone che
continuano a seguirmi : )
Ciaoooo!!!!!
Lusio
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Tutto precipita ***
Tutto precipita
Avevano detto che non era successo
nulla. Che era tutto a
posto. Che, forse, avevano solo perso un’elica. Quello era il
Titanic, la “nave
inaffondabile”.
Continuavano a dire di non
preoccuparsi ma tra i marinai si
iniziava a parlare di una collisione con un iceberg, di un danno sulla
fiancata
di prua, di vari compartimenti allagati; la maggior parte ci credeva
poco:
pensavano che i marinai con più anni di esperienza alle
spalle volessero solo
prendersi gioco dell’inesperienza di quelli alle prime armi.
Eppure molti
avevano visto il primo ufficiale Murdoch e il secondo ufficiale
Lightoller
andare nella cabina del capitano Smith, assieme al signor Bruce Ismay e
al
signor Thomas Andrews, il progettista del Titanic, armato di mappe e
carte varie
e, dopo alcuni minuti, uscirono tutti pallidi e abbattuti.
Dave, che non era avvezzo alla vita
in mare e a tutto quello
che poteva derivarne, non riusciva a capire nemmeno una parola di
quello che
dicevano gli altri, non capiva neanche se si poteva stare tranquilli o
se c’era
pericolo. Quell’andirivieni agitato stava iniziando a fargli
venire la nausea.
I loro superiori avevano
sguinzagliato camerieri ed altri
membri dello staff per i corridoi delle varie classi a rassicurare i
passeggeri
che chiedevano informazioni su quanto stava succedendo, sul
perché la nave si
fosse fermata, dicendo che era tutto a posto e che potevano anche
ritornare a
dormire.
Alla fine, dopo… quanto
tempo? Non aveva tenuto il conto ma
Dave era sicurissimo che fosse passato un bel po’ di tempo,
più del dovuto
sicuramente. Alla fine diedero loro un ordine preciso:
- Dite a tutti i passeggeri di
indossare subito i salvagente
e di radunarsi sui ponti lance e fateli imbarcare sulle scialuppe.
Precedenza a
donne e bambini.
C’era bisogno di aggiungere
altro? No; avevano capito tutti
cosa volevano dire quelle parole.
“Stiamo
affondando”.
“Ma, allora,
perché ci hanno chiesto di chiudere le porte di
comunicazione della seconda e della terza classe?”
Queste e mille altre erano le domande
che Dave Karofsky e
molti altri marinai si posero mentre iniziavano a radunare tutti i
passeggeri
di prima classe.
* * *
Fu una cosa a dir poco fastidiosa per
i passeggeri di prima
classe doversi alzare dal letto, a mezzanotte passata, “per
una semplice precauzione”,
come avevano spiegato loro i camerieri, con tutto il carico di sonno
che si
portavano addosso; e in più era stato chiesto loro di
indossare i salvagente:
degli “oggetti” che per la loro rigidità
ricordavano, alla lontana, le panciere
che indossavano gli uomini ben pasciuti che non ci tenevano a mostrare
il loro
grasso alle gentildonne dell’alta società.
- Ma siamo certi che
questi… “cosi” siano sicuri? –
si
domandò Kurt, guardando dubbioso il suo salvagente, mentre
suo padre, Carole e
Finn indossavano tranquillamente i loro – Sono
così rigidi ed ingombranti che,
sono sicurissimo, in acqua impedirebbero i movimenti. E poi li trovo
esageratamente antiestetici.
- Kurt non è il momento
dei tuoi scrupoli da modaiolo – lo
riprese suo padre – Ci hanno chiesto di indossarli e lo
faremo, fino a quando
non si sarà risolto questo problema, qualunque esso sia. Tra
un po’ potrai
togliertelo.
- Burt, non pensi che sia il caso di
portarci dietro i
bagagli, o almeno lo stretto necessario? – si
informò Carole buttando un occhio
sui vestiti nell’armadio.
- Non penso che sia il caso
– le rispose suo marito –
Prendiamo giusto i cappotti o geleremo fuori. Su andiamo.
E gli Hummel-Hudson uscirono dalla
loro cabina, muovendosi
in mezzo ad una folla di altri passeggeri, chi ancora assonnato, chi
irritato,
chi spaventato per quell’avvenimento a cui non sapevano
ancora dare un nome;
alcuni, invece di indossare i salvagente, preferivano portarli in mano
come
stava facendo Kurt. Tra il mormorio generale si levò alta
una voce inconfondibile
sia per il tono che per la portata: Sue Sylvester si fece largo tra la
folla,
agitando il suo salvagente come un bastone per togliere di mezzo chi si
trovava
sul suo tragitto.
- Lo sapevo! – declamava in
modo trionfante – Lo sapevo che
era tutto troppo perfetto. Ero sicura che ci sarebbe stato qualcosa di
storto
in questo viaggio. Ah, signori Hummel-Hudson – fece lei
affiancandosi a Burt e
Carole – Statemi vicini. Ho intenzione di scrivere un
articolo infuocato per il
mio giornale su quanto questi viaggi tanto declamati siano, in
realtà, delle
fregature e avrò bisogno di più testimonianze
possibili e conto sulla vostra
indignazione.
- Susan, credo che sia un
po’ presto per pensare già a
queste cose – disse Carole.
- Non è mai troppo presto
per dare un bel calcio negli
zebedei alla società.
Con Sue che si era unita a loro,
riuscirono ad uscire sul
ponte lance a tempo record, superando i vari assembramenti che si
andavano a
formare nei corridoi e nella sala ristorante dove la maggior parte dei
passeggeri
di prima si era raccolta per evitare l’aria gelida della
notte, facendo passare
quel tempo chiacchierando o giocando a carte. Al loro solito posto, i
sette
componenti dell’orchestra suonavano un allegro motivetto,
come se fosse stata
l’ora di cena senza la cena.
Fuori sul ponte, invece, i marinai
erano occupati
freneticamente con la preparazione delle prime scialuppe e non era
certo un
lavoro facile per loro che non avevano mai fatto alcuna esercitazione
al
riguardo, che non sapevano quanto peso quelle scialuppe avrebbero
potuto
sopportare, che non sapevano se qualche altra nave nei paraggi sarebbe
arrivata
in loro soccorso, che non sapevano se avrebbero potuto vedere il sole
sorgere
ancora. Il responsabile del ponte lance di destra, Lightoller, rendeva
le cose
ancora più snervanti con i suoi ordini urlati a
squarciagola, più per
sovrastare il rumore che per vera agitazione e proprio per il fatto che
lui non
stesse perdendo il suo sangue freddo lo rendeva quasi odioso.
Non c’era tempo da perdere;
portata all’esterno della nave
con delle gru una scialuppa, si passava subito a quella successiva e
così via
su entrambi i lati della nave (il responsabile del ponte di sinistra
era
Murdoch). Mentre un gruppo continuava queste manovre, Lightoller e
altri
marinai chiamarono fuori un gruppo di passeggeri di prima classe.
- Per favore, fate silenzio!
– urlò Lightoller per farsi
sentire – Adesso le donne e i bambini dovranno salire sulle
scialuppe. Solo le
donne e i bambini. Vi preghiamo di mantenere la calma. Presto
risolveremo il
problema. Su, avanti.
Non tutte le donne erano propense a
eseguire quell’ordine,
prima di tutto perché ciò avrebbe comportato il
doversi separare da mariti,
padri, fratelli e figli grandi e poi anche perché quelle
scialuppe erano così
piccole e fragili mentre il Titanic era grande e sicuro…
Dio, quella nave era
inaffondabile! Cosa c’era da preoccuparsi? E gli uomini erano
dello stesso
avviso.
Ma i più previdenti non si
fecero pregare. Tra loro c’erano
gli Hummel-Hudson.
- Carole, hai sentito
l’ufficiale. Dai, sali sulla scialuppa
– disse Burt, accompagnando la moglie verso la piccola
imbarcazione, seguiti
dai loro due figli.
- Non potrei aspettare un
po’? – si schernì la donna, restia
a lasciarli tutti e tre lì.
- Mamma, non preoccuparti –
Finn diede man forte a Burt –
Hanno già detto che non è nulla di grave.
E’ solo una precauzione. Adesso vai.
- Ma… no…
io… - Carole si aggrappò al braccio del figlio,
stritolandoglielo e lanciando uno sguardo spaventato in direzione del
marito e
del figliastro in una muta preghiera, chiedendo solo qualche minuto in
più.
- Potreste aiutare mia moglie a
salire? – chiese
educatamente Burt ad uno dei marinai che subito prese delicatamente
Carole per
un braccio, le fece superare il piccolo vuoto tra la nave e la
scialuppa e la
fece accomodare su quest’ultima. Istintivamente, la donna
tese una mano verso i
suoi cari come se avesse voluto dare loro una carezza; non erano
bambini che si
spaventavano e poteva permettersi qualche gesto apprensivo. Un sorriso
buffo di
Finn riuscì a farla sorridere – Potrebbe salire
anche mio figlio Kurt? Ha solo
quattordici anni – chiese nuovamente Burt al marinaio.
- Papà, ma cosa stai
dicendo? – esclamò Kurt, sgranando gli
occhi per lo stupore e ricevendo una gomitata nel fianco da parte del
padre.
- Mi dispiace, signore, ma ci
è stato ordinato di imbarcare
solo donne e bambini per adesso – rispose il marinaio che
sembrava aver capito
quel piccolo sotterfugio.
- Ma c’è ancora
molto posto… - replicò Burt, indicando i
molti posti vuoti della scialuppa.
- Abbiamo ricevuto ordini precisi, mi
spiace – concluse
secco il marinaio.
Proprio in quel momento un urlo
isterico si levò da lì
vicino: Sue, che si era spinta in prima fila per prendere nota delle
modalità
di imbarco e di rilascio in mare delle scialuppe per poterne dare
un’attenta
descrizione sul suo giornale, era stata afferrata, di punto in bianco,
da un
marinaio fin troppo agitato che stava facendo salire più
donne possibile sulla
scialuppa. Aveva afferrato la donna per la vita magra e stava cercando
di far
salire anche lei.
- Ma come si permette! Mi tolga le
mani di dosso! – strillò
Sue, dibattendosi e agitando il suo salvagente che teneva sempre in mano
- Per favore, signora, salga sulla
scialuppa – fece il
marinaio cercando di non perdere l’equilibrio.
- Non ho intenzione di salire su
nessuna scialuppa fino a
quando non lo avrò deciso io! E poi, sono una signorina!
- Come vuole ma adesso salga!
E senza troppe cerimonie, Sue
Sylvester venne scaraventata
malamente nella scialuppa; atterrando sul legno perse una delle sue
scarpe, la
afferrò e la agitò contro il marinaio come se
avesse voluto colpirlo.
- Questa me la pagate! Giuro che vi
massacrerò nel mio
articolo! – strillò, mentre la sua voce veniva
smorzata dal rumore delle corde
che calavano in mare la scialuppa.
Carole tenne gli occhi fissi sulla
sua famiglia fino a
quando la vista glielo consentì.
Erano le 00:40 quando venne calata la
prima scialuppa. A
bordo c’erano solo 28 persone; c’era spazio per
altri 37 passeggeri. Su ordine
di Lightoller, la scialuppa avrebbe dovuto fermarsi ad altezza del
ponte di
seconda classe per far salire altre donne e bambini ma la paura del
peso
eccessivo spinse i marinai a passare oltre. Solo allora i marinai
aprirono le
porte di comunicazione di
seconda e
altri iniziarono a guidare piccoli gruppi di terza classe sui ponti
lance.
Cinque minuti dopo che la prima
scialuppa era stata calata
in mare, venne sparato il primo razzo di segnalazione.
L’orchestra del Titanic si
spostò sul ponte e iniziò a
suonare per tranquillizzare gli animi.
* * *
Dopo che le prime scialuppe si erano
allontanate, gli animi
iniziarono a smuoversi. Forse fu la folla che dietro si ingrossava di
minuto in
minuto, la tensione che si faceva sempre più densa, la
leggera inclinazione della
nave che molti riuscivano a notare nell’acqua che sembrava
più alta in
direzione degli oblò di prua. Sebbene alcuni pensassero
ancora che fosse più
sicuro rimanere a bordo, altri iniziavano a valutare seriamente
l’ipotesi di
abbandonare la nave, almeno fino a quando “il problema non
fosse stato risolto”
come continuavano a dire i marinai. Ma c’erano sempre le
donne che si
rifiutavano di lasciare i loro uomini; e se c’erano uomini
che convincevano le
loro donne a salire sulle scialuppe, ce ne erano altri che premevano
per salire
con loro.
Fabray, dopo essersi messo addosso
tutti gli oggetti di
valore che possedeva e aver detto alla moglie di fare lo stesso, si
diresse sul
ponte lance con la sua famiglia; lì, la moglie e la figlia
furono subito
invitate a salire su una scialuppa che proprio in quel momento stava
per essere
calata in mare. Ma quando anche Fabray fece per seguirle venne subito
fermato.
- Mi dispiace signore ma al momento
imbarchiamo solo donne e
bambini – gli disse il marinaio, parandoglisi davanti.
- Ma che assurdità!
– esclamò Fabray, indignato – Dovrei
lasciare da sole mia moglie e mia figlia?!
- Non dovete preoccuparvi –
cercò di calmarlo il marinaio –
I marinai responsabili di questa scialuppa…
- Judy! Quinn! Scendete subito!
– Fabray ignorò le parole
del marinaio e, scavalcando, tese la mano verso le due donne per
riportarle a
bordo.
Con un gemito di insofferenza, Judy
Fabray si alzò e fece
per afferrare la mano del marito ma Quinn, sconvolta e disgustata da
quella
arrendevolezza, la fermò tirandole un lembo della gonna.
- Mamma, sei impazzita! –
le urlò contro – Resta qui. E’
pericoloso.
- Oh, tesoro – la donna si
rivolse alla figlia con aria
combattuta e supplichevole; forse, per la prima volta nella sua vita da
moglie
e madre di famiglia, sentì lo scombussolamento nel petto che
è pegno
dell’indecisione, tra l’amore per il coniuge e
l’amore per la prole e per la
propria vita.
Ma anche quella volta fu suo marito a
decidere per lei,
strattonandola violentemente di nuovo a bordo del Titanic e,
prontamente, il
suo posto fu preso da una donna con un bambino in braccio.
- Quinn, vieni subito qui!
– riprese Fabray con la stessa
veemenza di prima tenendo la moglie al suo fianco.
- Mamma, ti prego, ritorna sulla
scialuppa; c’è ancora posto
– Quinn lo ignorò e continuò a
rivolgersi alla madre, che la fissava con una
muta preghiera, chiedendole di fare come le ordinava suo padre.
- Quinn! – urlò
Fabray, senza più un briciolo di pazienza –
Ti ho detto di venire qui!
“Al diavolo”
pensò Quinn in quel momento. Non sapeva cosa
stava succedendo ma non c’erano dubbi che la situazione fosse
critica,
altrimenti non sarebbero state calate in mare le scialuppe, questo
poteva
capirlo persino lei. La cosa più intelligente che potesse
fare era rimanere lì
dov’era ma vedere sua madre, sull’orlo delle
lacrime, su quella nave che hai
suoi occhi stava assumendo sempre più le sembianze di una
trappola per topi,
con suo padre e il suo egoismo che lo seguiva come un’ombra
su tutto quel
prossimo disastro; farci finire dentro anche loro se lui non aveva la
certezza
di salvarsi.
Si alzò solo per sua
madre, per non lasciarla da sola,
stringendo i denti per non lanciare quell’urlo che le stava
scoppiando in
petto, rifiutando di afferrare la mano di suo padre e, mentre si
allontanavano
per trovare un marinaio capace di chiudere tutti e due gli occhi sulla
presenza
di un uomo su una scialuppa, si permise di guardare indietro, verso
quella che
avevano appena abbandonato; almeno il suo posto era stato preso da una
donna in
un avanzato stato di gravidanza.
“Chissà se
sarà una bambina?” pensò quasi
inconsciamente.
Per tutta la fila destra non
riuscirono ad assicurarsi alcun
posto sulle scialuppe, molte delle quali dovevano ancora essere
preparate;
passarono quindi al ponte di sinistra dove le manovre erano molto
più veloci e
Fabray notò con piacere che sulla scialuppa che stavano
calando proprio in quel
momento si trovavano anche degli uomini; stringendo più
forte il braccio della
moglie, la trascinò verso la scialuppa che stavano
riempiendo e, senza
aspettare un qualsiasi permesso, salì a bordo della piccola
imbarcazione e si
sistemò comodamente tirando un sospiro di sollievo mentre
sua moglie ancora
ansimava per la tensione. Ma si accorsero quasi subito che Quinn era
rimasta
sul Titanic.
- Quinn! – la
richiamò di nuovo suo padre – Che stai
aspettando? Sali!
Ma lei rimase immobile, gli occhi che
brillavano di un fuoco
che era sempre stato assente in tutte le loro precedenti discussioni;
una luce
che sembrava aver aspettato solo quel momento per brillare.
- Quinn, che stai facendo?
– fece nuovamente Fabray.
- Quello che tu non hai avuto il
fegato di fare – rispose
Quinn; così dicendo prese per un braccio una donna di
seconda classe che stava
guardando quella scialuppa come un animale affamato e la
aiutò a salire.
I coniugi Fabray fissarono sbalorditi
quel gesto senza
riuscire a dire una parola, ma in fondo nemmeno Quinn se la
sentì di dire
qualcosa. Aveva sempre aspettato quel momento e alla fine era giunto,
forse
sulla spinta delle parole di Puck che ancora le rimbombavano nelle
orecchie;
pensava che, allora, avrebbe avuto tante cose da dire, tanti rospi da
vomitare,
tanti pesi che nel corso degli anni aveva semplicemente alleggerito, ma
ora
sentiva che non aveva importanza. Un silenzio dai mille significati che
era
anche la più fredda delle vendette. Eppure, mai come in quei
secondi in cui
vide i suoi genitori sparire assieme alla scialuppa che veniva calata
in mare,
provò un così palpabile sentimento di tenerezza,
in suo padre che continuava a
guardarla come un cavaliere che vede il suo cavallo fuggire via al
galoppo, in
sua madre che, rendendosi conto di quanto stava accadendo, tentava di
rialzarsi
e urlava disperata il suo nome.
Rimase lì ferma fino a
quando non fu certa che la scialuppa
fosse stata libera di prendere il largo; allora si riscosse e
andò. Si sarebbe
salvata; per conto suo ma si sarebbe salvata.
Ma prima c’erano Puck e a
Beth.
* * *
In terza classe si erano mosse poche
persone. All’inizio,
quando tutto era iniziato, i marinai e gli steward li avevano
rassicurati e
avevano detto loro di ritornare a letto; in seguito, solo alcuni
ritornarono
per condurre piccoli gruppi sul ponte lance ma quasi nessuno si
preoccupò da
far sapere cosa stava succedendo, almeno a quelli che capivano
l’inglese.
Infine, venne chiesto a tutti di radunarsi in sala comune e aspettare
nuove
direttive; intanto i cancelli vennero chiusi e due steward rimasero a
sorvegliare quello principale per evitare eventuali agitazioni.
Agitazioni che
non tardarono a prendere piede.
In sala comune c’era un
interminabile chiacchiericcio;
alcuni gruppi di passeggeri si erano riuniti per capire meglio cosa
fare,
mentre religiosi cattolici, protestanti ed ebrei giravano per la sala
assistendo gli anziani, le donne con i loro figli e chi aveva bisogno
di
conforto spirituale.
Il gruppo di Puck si era sistemato su
alcune sedie prese
dalla tavolata comune e spostate il più vicino possibile
alla scala principale,
in attesa di Blaine che, assieme ad altri uomini, era andato a
controllare i
danni che i marinai si ostinavano a tenere segreti, nonostante il
pavimento su
cui camminavano si stesse visibilmente inclinando tanto da far
scivolare i
bicchieri sulla lunga tavolata. Intanto si erano messi addosso quanta
più roba
possibile e le ragazze si erano messe in seno i loro pochi oggetti di
valore e
i soldi nelle tasche interne delle sottane. Seguendo gli ordini dei
marinai
avevano indossato tutti il salvagente; Beth aveva un aspetto buffissimo
con
quell’enorme “indumento” che le lasciava
scoperte a malapena le gambette che si
agitavano frenetiche mentre Shelby cercava di tenerla tranquilla sulle
sue
ginocchia.
Dopo un po’, accompagnati
da un forte chiasso dalle voci
multietniche, ritornarono Blaine e gli altri uomini, tutti con le
scarpe e gli
orli dei calzoni bagnati, rossi in volto e con gli occhi sgranati.
Mentre gli
altri uomini si avvicinavano ai loro nuclei familiari, Blaine si
diresse verso
il suo gruppo.
- Ragazzi, qui stiamo imbarcando
acqua! – esclamò con tono
agitatissimo – Stiamo affondando rapidamente! Dobbiamo uscire!
- Blaine calmati! – gli
soffiò rabbiosamente nell’orecchio
Puck stritolandogli un braccio; la paura e l’agitazione del
ragazzo stavano
contagiando anche gli altri: le ragazze erano sbiancate e Sugar
sembrò sul
punto di svenire mentre Tina si gettò tra le braccia di Mike
e Shelby strinse
di più a sé Beth.
- Calmarmi?! –
replicò Blaine liberandosi dalla stretta di
Puck – Come posso calmarmi? Tu hai visto l’acqua
che saliva? Hai sentito quanto
era gelida? No; io sì, invece. Pensi che dovremo stare qui,
tranquilli,
aspettando di annegare, solo per non spaventare donne e bambini?
Dobbiamo
uscire da qui, subito!
- Dei marinai hanno accompagnato sul
ponte alcuni gruppi di
passeggeri – disse Rachel, cercando di calmare gli animi
– Magari, se
aspettiamo un po’, verranno a prendere anche noi; o forse, a
momenti, apriranno
i cancelli e ci faranno uscire.
- Rachel, hai idea di quanti siamo in
terza classe? –
riprese Blaine, cercando di controllarsi – Se anche ci
facessero uscire a
gruppi non faranno mai in tempo e chissà se ci
sarà ancora spazio per noi sulle
scialuppe. Torno a ripeterlo: se vogliamo salvarci dobbiamo uscire di
qui.
Ormai, il tempo delle riflessioni,
della calma, della
pazienza erano finiti e questo lo capirono anche gli altri, come anche
tutti
gli altri passeggeri di terza messi in guardia dal racconto degli altri
uomini
che avevano visto lo spaventoso scenario dell’acqua che
scivolava, gelida, sui
pavimenti sempre più inclinati dei corridoi della nave.
Sì, dovevano andarsene
subito da quella trappola.
Alcuni dei più giovani si
erano già spinti sulle scale e si
erano aggrappati alle grate del cancello, agitandole con forza e
dicendo ai due
steward di guardia di aprire e di farli uscire. Con tono conciliante, i
due
uomini cercarono di calmarli e, soprattutto, di allontanarsi dalla
cancellata
per evitare incidenti, che presto avrebbero aperto i cancelli ma, fino
ad
allora, dovevano stare calmi.
Fiato sprecato.
Raccogliendosi in modo compatto,
anche Puck e gli altri si
diressero sulle scale che si stavano facendo pericolosamente affollate,
avanzando lentamente col timore di precipitare. Alcuni passeggeri,
esasperati,
si tolsero gli ingombranti salvagente che li facevano sentire troppo
impacciati
e li facevano soffocare in mezzo a quella calca. Proprio a causa dei
salvagente, Shelby fu costretta a mettere a terra Beth, che non la
smetteva di
agitarsi, tenendole forte la mano per paura di perderla.
- Stammi vicina, tesoro –
le disse – Non lasciare la mia
mano.
La situazione iniziò a
degenerare; si arrivò ad un punto
tale che gli steward furono costretti a prendere una decisione
importante,
senza aspettare degli ordini superiori che, sapevano, non sarebbero ai
arrivati.
- Fate silenzio, per favore.
Calmatevi! – disse uno di loro,
alzando il tono di voce – Adesso apriremo i cancelli ma
daremo la precedenza a
donne e bambini. Vi preghiamo di far passare davanti le donne e i
bambini.
Visto che erano tra i primi, Puck,
Blaine e Mike spinsero
delicatamente le donne in avanti per permettere loro di accostarsi al
cancello
principale; l’unica ad opporre una certa resistenza fu Tina
che rimase
aggrappata al braccio del suo compagno. Davanti a loro
c’erano altre donne,
molte con i loro bambini; quando i cancelli furono aperti cautamente
furono
loro le prime ad uscire. Poi, non si sa cosa accadde.
Un uomo, forse uno di quelli che
aveva visto cosa stava
accadendo a prua, terrorizzato dal pensiero di dover restare
lì ad aspettare
che l’acqua salisse ancora, si gettò violentemente
in mezzo a quel gruppo di
donne e uscì mettendosi a correre come un folle per il
corridoio. Da quel gesto
dettato da paura nacque un caos che nessuno si sarebbe immaginato.
L’instabile equilibrio sul
quale cercarono tutti di
mantenersi crollò; alcune persone caddero rovinosamente
dalle scale, altre si
gettarono con forza contro i cancelli con l’intento di
uscire. Vista la piega
che aveva preso la situazione, gli steward non poterono fare altro, per
evitare
una crisi di panico anche sul ponte, che chiudere nuovamente i
cancelli; questo
non fece che acutizzare ancor di più
l’esasperazione generale.
In quel parapiglia, in mezzo a
strilli e urla, si levò il
grido disperato di Shelby, che era stata spinta contro la parete da una
fiumana
di persone che era riuscita ad uscire; ma non aveva gridato per il
colpo
ricevuto. Spaventata da quanto stava accadendo intorno a loro aveva
cercato di
riprendere Beth in braccio; il tempo di lasciarle la manina per
prenderla per i
piccoli fianchi coperti dall’enorme salvagente ed erano state
entrambe travolte
da quell’ondata di uomini e donne impazziti dalla paura.
Istintivamente Shelby
aveva cercato di afferrare la bambina ma le sue mani incontrarono solo
il vuoto
e l’urto contro il muro la fece quasi vacillare; ma il suo
istinto di madre fu
più forte del dolore e subito si gettò anche lei
contro il cancello che venne
chiuso proprio in quel momento.
- Beth! Beth! –
urlò disperata, vedendo sparire lungo il
corridoio quel gruppo che le avevano investite. Beth era lì
in mezzo,
trascinata via senza una possibilità di liberarsi.
- Cos’è
successo? – esclamò Puck, prendendola per le
spalle
ma già temendo di sapere cos’era accaduto.
- Beth! Beth! –
continuò a ripetere la donna, le lacrime che
le scorrevano sulle guance – Beth è lì
fuori! Da sola!
- O mio Dio! –
urlò a sua volta Puck aggrappandosi alle
grate del cancello e scuotendole rudemente come facevano molti altri
– Aprite!
Maledizione, aprite brutti figli di puttana! Aprite!
Ma gli steward non avrebbero aperto.
Ora sapevano tutti che
non l’avrebbero fatto. Se volevano salvarsi sarebbero dovuti
uscire da soli.
* * *
L’orchestra continuava a
suonare come se nulla fosse ma
aveva lasciato perdere le allegre musiche da salotto ed era passata ad
inni
spirituali; come se stessero preparando il Requiem per il Titanic e
tutte le
persone che ancora portava a bordo, mentre l’acqua iniziava
lentamente a
lambire la prua.
Quinn si muoveva in mezzo ad una
folla agitata di uomini e
donne che si assiepava intorno alle scialuppe che ora venivano caricate
al massimo,
dopo che le prime, piene solo a metà, si erano
già allontanate. Ma il primo
pensiero della ragazza non era quello di imbarcarsi. Era ritornata al
ponte di
destra perché era lì che c’era quel
piccolo cancelletto presso il quale si era
incontrata con Puck; se solo avesse potuto attraversarlo o magari anche
scavalcarlo e raggiungerli; che fosse pericoloso o meno, non aveva
importanza.
Il suo posto era con sua figlia; non aveva più dubbi o
timori.
Avrebbe messo le ali ai piedi pur di
fare in fretta; il
tempo in quella situazione era l’unica cosa difficile da
trattenere. Ma il
destino traccia sempre un percorso sconosciuto per noi ed esso ci si
spiana
davanti senza che nemmeno ce ne accorgiamo; su quello di Quinn
c’era Kurt, con
suo padre e il suo fratellastro, che si erano riparati accanto
all’ingresso
esterno del salone. Stavano discutendo sul da farsi visto che
sembravano non
esserci possibilità di salvezza per loro.
Quando la vide, Kurt rimase a
fissarla sbalordito per
qualche istante, sperando di aver preso un abbaglio, prima di gettarsi
davanti
a lei con un salto, evitando una famiglia che stava correndo verso una
scialuppa lì vicino.
- Quinn, misericordia! Cosa fai
ancora qui? – le chiese con
agitazione – Dove sono i tuoi genitori?
- Si sono già imbarcati su
una scialuppa. Io non potevo –
rispose lei, tranquillamente.
- Cosa dici? Perché non
potevi?
- Ci sono delle persone che hanno
bisogno di me in questo
momento.
Non c’era bisogno di
aggiungere altro, o almeno così
credeva; non aveva mai avuto bisogno di spiegarsi in maniera
più dettagliata,
fino a quel momento, ma non era il tempo di comprendere per quanto lo
si potesse
fare come Kurt aveva fatto ugualmente.
- Cerca di capirmi – lo
pregò lei, comunque.
- Ti capisco, ma non chiedermi di
condividere il tuo
pensiero – così dicendo, Kurt le
afferrò il polso e si gettò con lei in quella
folla di persone che si era radunata attorno alla scialuppa; avendo
entrambi un
fisico magro e slanciato riuscirono a muoversi facilmente, senza
incontrare
troppi ostacoli.
- No, Kurt, ti prego – fece
Quinn cercando di liberarsi
dalla sua presa – Lasciami! Devo andare in terza classe. Devo
trovarli.
- Quinn – cercò
di calmarla Kurt – stanno facendo uscire
anche le donne e i bambini di terza classe. Sono sicuro che, chiunque
tu stia
cercando, lo troverai. Fidati – continuò sperando
inutilmente di risultare
sincero ma ci sarebbe riuscito se, invece di calmarla, le avesse urlato
contro
“Sali subito su una scialuppa e salvati”, ma fece
il massimo che poté.
Quinn poteva ancora ribellarsi ma era
passata quasi un’ora
da quando tutto aveva iniziato a precipitare e dove prima
c’era il timore per
le piccole e fragili scialuppe, adesso c’era una vera paura
di rimanere su
quell’immensa nave sempre più inclinata; Kurt la
spinse con tutta la premura e
la violenza possibile tra
le braccia di
un robusto marinaio che la mise, senza tanti complimenti nella piccola
imbarcazione.
La ragazza non poté
nemmeno rialzarsi perché altre donne le
vennero addosso. Lanciò un suo sguardo di rimprovero velato
di lacrime in
direzione di Kurt che la guardava, di rimando, con occhio aggrottato ma
sollevato; era riuscito a mettere in salvo una vita, lui. Ma anche
Quinn poteva
ancora farlo.
- Kurt! – gli
gridò – Andate al ponte di sinistra: lì
permettono di salire anche agli uomini.
La gratitudine che lesse sul volto di
Kurt, mentre questi
spariva tra la folla, però non diede sollievo al suo cuore
anzi, sentiva che le
rimaneva quell’intento mancato dalla quale si stava
allontanando sempre più.
Ma non poteva accadere! Non adesso
che sembravano non
esserci più possibilità.
“Solo una”
pregò Quinn, quando un fremito le fece capire che
la scialuppa stava per essere calata “Ti prego, dammi sono
un’ultima
possibilità o, almeno, salvali in qualunque modo. Ti
prego”.
* * *
Le scialuppe non erano sufficienti
per tutti e Dave, pur di
non pensare a quante persone sarebbero morte in quel disastro, al fatto
che
sicuramente anche lui non sarebbe sopravvissuto, raccoglieva come un
forsennato
donne e bambini e facendoli salire, a volte anche con la forza, sulle
imbarcazioni.
Era stato anche ripreso da quel cuore di pietra di Lightoller per aver
fatto
salire anche un ragazzino di tredici anni senza il suo permesso; lo
vide
arrivare a puntare la pistola, che si era procurato per mantenere
l’ordine,
contro un altro ragazzo, anch’egli di tredici anni, per
impedirgli di salire su
una scialuppa e salvarsi; lo avevano lasciato, piegato in due, sul
ponte a
piangere disperato.
Stavano diventando tutti pazzi. Le
loro teste stavano, piano
piano, smettendo di funzionare correttamente.
Li stavano facendo impazzire tutti
quei disperati che
smaniavano per salvarsi, quegli stoici che preferivano andare incontro
alla
morte con noncuranza, quegli esaltati del progresso che continuavano a
ripetere
che non sarebbe accaduto nulla, quella dannata orchestra con i suoi
stramaledettissimo inni sacri, quel ponte sempre più
inclinato, quell’acqua che
già stava sommergendo la prua.
“Si gioca a ‘tira
e molla’ con la fine” era stato il
commento sarcastico di un marinaio accanto a lui che, durante le
manovre, era
riuscito ad infilarsi in una delle scialuppe.
Erano arrivati alle ultime
imbarcazioni di salvataggio… e
c’erano ancora centinaia e centinaia di persone a bordo del
Titanic. Le prime
scialuppe erano state riempite per metà o meno
perché non erano sicuri della
resistenza e della portata che avrebbero potuto sopportare ma era stato
deciso
che sarebbero ritornate indietro a prendere altri passeggeri, invece,
non era
andata così. Li avevano lasciati lì, in agonia.
Mentre anche quella scialuppa stava
per essere calata in
mare, Dave si tirò indietro sentendo la nausea stringergli
lo stomaco quando,
inavvertitamente, sul ponte lasciato libero dai passeggeri che erano
corsi verso
quella successiva, vide una bambina che piangeva disperata, guardandosi
attorno
con aria spaesata.
Quando non si pensa, si agisce.
Dave corse subito verso la bambina e
la prese in braccio
strappandole un piccolo grido di terrore subito soffocato dalle
lacrime. Diede
un rapido sguardo intorno a sé, aspettandosi di vedere una
donna o un uomo
andargli incontro a reclamare quella povera creatura ma nessuno si fece
avanti.
Poco importava se avrebbe avuto il
dolore di un genitore
sulla coscienza; quella bambina andava messa in salvo.
La scialuppa… la stavano
calando.
“Dio, ti prego, dammi solo
un istante” pregò Dave, con più
fervore di quanto non avesse mai fatto correndo a rotta di collo nel
punto dove
la scialuppa veniva calata in mare.
Quando arrivò, grazie a
Dio, non aveva ancora raggiunto il
ponte di seconda.
- Aspettate! –
urlò con tutto il fiato che aveva in gola,
sporgendosi pericolosamente verso il vuoto con la bambina urlante che,
terrorizzata dal buio visto sotto di lei, si aggrappò al
braccio di Dave che la
sosteneva – Prendete la bambina! La bambina!
Dal gruppo di donne nella scialuppa
si alzò una figura
bianca, che nella notte brillava come un faro, con le braccia tese
verso l’alto
pronta a prendere quella piccola vita alla quale spettavano ancora
tanti e
tanti anni da vivere.
Era un bel salto ma le avrebbe fatto
più bene che male,
pensò Dave. Con un trasporto paterno, posò un
rapido e fugace bacio sulla
testolina bionda della bimba e la lasciò scivolare tra le
braccia della bianca
figura sulla scialuppa che la prese al volo per stringerla teneramente
a sé per
calmare il suo pianto.
Per la prima e ultima volta, in
quella maledetta notte, Dave
sentì qualcosa di molto simile alla felicità.
Quella bambina era Beth e la figura
che l’aveva afferrata
nel suo volo era Quinn.
Il destino aveva di nuovo mischiato
le sue carte da gioco.
Nota
dell’autore:
L’iceberg e vari errori di
sottovalutazione furono la causa
della collisione e del conseguente naufragio del Titanic. Per la morte
di tante
persone, a questi fattori vanno aggiunti l’assenza di un
numero sufficiente di
scialuppe e l’incompetenza messa nelle manovre di imbarco.
Sebbene,
all’inchiesta che seguì, il governo inglese
elogiò il comportamento e il sangue
freddo della sua marina, dalle testimonianze dei sopravvissuti possiamo
dedurne
il contrario. I marinai non sapevano come muoversi, non erano state
fatte prove
e simulazioni di ciò che avrebbero dovuto fare in caso di
emergenza. Davano
tutti per scontato che il Titanic fosse realmente
“inaffondabile”.
Sulla salvezza delle persone che
erano riuscite a salire
sulle scialuppe hanno giocato un ruolo decisivo i due ufficiali Murdoch
e
Lightoller addetti all’imbarco, rispettivamente, nei ponti di
sinistra e di
destra. Mentre il primo diede precedenza a donne e bambini e riempiendo
poi
eventuali vuoti con alcuni uomini, il secondo permise di imbarcare
“solo” donne
e bambini e anche con quest’ultimi si dimostrò
severo, a causa dell’età. L’episodio
di lui che punta la rivoltella contro un ragazzino di tredici anni per
non
farlo salire è, purtroppo, vero.
La cosa più ironica
è che Lightoller fu l’unico degli
ufficiali a sopravvivere al disastro.
Per quanto riguarda il trattamento
riservato ai passeggeri
di terza classe, sappiamo dalle testimonianze
che, in un primo momento, alcuni marinai scesero per
accompagnare
piccoli gruppi sul ponte lance (visto che i corridoi erano come un
labirinto)
ma, ad un certo punto, forse per il caos che si stava creando sui ponti
di
imbarco, non ritornarono più a riprenderli. Alcuni dei
passeggeri decisero di
raggiungere i ponti da soli mentre altri rimasero intrappolati.
Eccomi di ritorno. Mi dispiace di
avervi fatto attendere ma
in quest’ultimo periodo mi sono trovato ad affrontare dei
problemi non
indifferenti e dovrò aspettare ancora un mese per vedere se
una parte è
risolta, mentre, per l’altra parte, la cosa sarà
parecchio lunga.
Comunque, voglio rassicurarvi,
dicendo che questa fanfiction
l’ho quasi terminata; mi resta solo l’ultimo
capitolo. Il girono di
aggiornamento resterà comunque il mercoledì. Vi
chiedo ancora scusa per i
ritardi (lo so, non sono da me, visti i miei precedenti di
puntualità ma
concedetemi le attenuanti XD)
Come sempre, per qualsiasi cosa, vi
rimando alla mia pagina:
http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
Ringrazio di cuore tutte le persone
che continuano a
seguirmi <3
Lusio
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Le voci dall'oceano ***
Le voci dall’oceano
Quando, finalmente, anche i
passeggeri di terza classe
riuscirono a raggiungere i ponti superiori era troppo tardi; la maggior
parte
delle scialuppe erano già state messe in mare e si erano
già allontanate
lasciandosi dietro più di mille persone. I più
fortunati erano stati quelli che
avevano raggiunto il ponte lance dalle uscite secondarie, scortati dai
marinai,
ma i tre quarti di loro che erano rimasti si liberarono solo abbattendo
i
cancelli che li tenevano prigionieri in quella trappola
d’acqua e gettandosi a
rotta di collo verso le uscite. Tra questi c’erano Puck,
Shleby e gli altri del
loro gruppo.
L’acqua aveva quasi
sommerso l’intera prua e adesso sembrava
salire di livello più velocemente come anche
l’inclinazione della nave che
stava diventando sempre più precaria. Tra le persone rimaste
a bordo, quelli
che non si soffermavano sulle poche scialuppe rimaste, si spingevano
verso la
poppa sperando di resistere più a lungo in attesa di
eventuali soccorsi mentre
i più disperati si gettavano in mare aggrappandosi a sedie,
sdraio ed altri
oggetti finiti fuori bordo; molti di loro non sopravvivevano
all’impatto
violento con l’acqua gelida.
Usciti finalmente fuori, a causa
delle situazioni e dei
disordini, tutti i componenti del piccolo gruppo si ritrovarono presto
separati
gli uni dagli altri: Shelby, non appena sentì sulla pelle la
fredda aria della
notte, si mise a correre lungo il ponte affollato chiamando a gran voce
“Beth!
Beth!” subito seguita a ruota da Puck.
- Non aspettateci! –
gridò ai suoi amici – Salite subito su
una scialuppa!
Così i due sparirono alla
vista di quelli che rimasero, i
quali si ritrovarono a loro volta divisi: Mike e Tina vennero spinti
dalla
calca verso la poppa, lontano dalle ultime scialuppe rimaste; invece
Rachel,
Mercedes, Sugar e Blaine si ritrovarono proprio tra le persone che
cercavano di
salire sulla penultima scialuppa del ponte di destra. Quando avrebbero
terminato con le imbarcazioni in legno, sarebbero passati ai quattro
canotti
più piccoli, che si trovavano a prua, due dei quali posti
sopra il tetto della
zona degli ufficiali.
Tina e Mike vennero sospinti verso
l’ultima scialuppa.
Sebbene molti uomini cercassero di infilarcisi dentro, i marinai, anche
con
gran fatica, li buttavano fuori per dare spazio a donne e bambini. Con
la buona
occasione che si trovavano a portata di mano, Mike fendé la
folla,
approfittando della sua statura e della sua fluidità di
movimenti, spingendo
Tina davanti a sé. Arrivati davanti alla scialuppa, le diede
un’altra piccola
spinta per farla salire. Ma la ragazza si aggrappò ancora
più saldamente al
braccio del compagno.
- Avanti Tina, sali – la
incentivò lui – Non perdere tempo.
- Vieni anche tu, Mike –
disse la ragazza con decisione; non
era affatto una preghiera o una richiesta.
- Non posso; adesso devono salire le
donne e i bambini –
replicò Mike, spingendola ancora e ottenendo in cambio il
solo effetto di far
puntare i piedi a Tina, che continuava a fissarlo con fermezza
– Non
preoccuparti, io me la caverò. Pensa a te stessa.
- Senza di te non vado – la
sicurezza nella sua voce non
lasciava dubbi sulla decisione che stava prendendo.
- Tina, per favore, non fare la
bambina!
- Non sono una bambina! Sono una
donna, sono libera di
scegliere; e scelgo di rimanere con te.
- Adesso basta! Mi sono stufato!
Mike decise di lasciar perdere la
gentilezza e con tutta la
violenza e la rudezza che quel particolare frangente gli consentiva
fece per
gettare di peso Tina nell’imbarcazione; ma la ragazza lo
prese alla sprovvista
e con una forza che, forse, nemmeno lei pensava di avere, fece forza
sulle
punte dei piedi e si spinse a sua volta contro Mike, artigliandogli le
braccia
con la stessa violenza che lui aveva usato. Colto di sorpresa, Mike
finì quasi
per soccombere e ricevette il colpo di grazia quando Tina si tese
ancora di più
verso di lui catturando le sue labbra circondate da un leggero filo di
barba.
Il ragazzo si lasciò trascinare da quell’impeto
che ricordava i primi giorni
del loro primo ed unico amore giovanile, la loro fuga dal quartiere dei
poveri
della fredda città inglese verso il loro mondo ideale
baciato dal sole
dell’estate. La morbidezza che possono avere le labbra di chi
è povero con al
centro il sapore umido e ferroso della lingua palpitante come una
fiamma.
Se quello non fosse stato un modo per
vivere, Mike avrebbe
tanto voluto morire con quelle sensazioni in petto.
Quando si staccarono erano lontani
dalla scialuppa, dalla
paura che li circondava, da tutto il resto; erano ritornati in quel
loro mondo
ideale per non lasciarlo mai più.
- Rimango con te – disse
Tina aggiustandogli i capelli
scomposti.
- Vinci sempre tu – disse
Mike prendendole dolcemente la
mano.
* * *
Quando Quinn aveva detto a Kurt della
licenza che davano
agli uomini di salire sulle scialuppe sull’altro ponte, il
timore del ragazzo
era che altri avrebbero potuto sentirlo e, di conseguenza, precipitarsi
nella
medesima direzione per precederli in quella possibilità di
salvezza. Certo, era
un pensiero egoista, ma c’era poco da essere solidali con gli
altri in quel
momento.
Senza perdere tempo,
ritornò dal padre e dal fratellastro e
li mise al corrente di quanto Quinn gli aveva detto, con poche spicce
parole
per evitare che altri li sentissero e li portò verso il
ponte di sinistra.
Purtroppo per loro, le manovre di imbarco da quella parte erano
più veloci e
quando arrivarono stavano caricando l’ultima scialuppa.
L’ultima per quel
ponte.
Allarmati da ciò,
aumentarono rapidamente il passo, l’unica
fortuna era che non ci fosse la stessa calca del ponte di destra e
questa è la
cosa più ironica e più triste.
- Potremo salire anche noi?
– domandò subito Burt col cuore
in gola al marinaio addetto all’imbarco.
- Mi spiace, è rimasto
posto solo per un’altra persona.
Quando bisogna decidere, sapendo che
si deve scegliere tra
la vita e la morte di più di una persona, è
questa la cosa più difficile che
possa capitare e quello che un genitore non vorrebbe mai gli si
presentasse.
Burt voltò il viso
sbiancato e quasi invecchiato di colpo
solo per vedere lo smarrimento di Finn e il terrore di Kurt; ma il
primo trovò
la forza di fargli un cenno con gli occhi indicando il più
giovane di loro. Il
padre non poté nascondere un egoistico sollievo a quella
concessione. Afferrò
saldamente Kurt per le spalle e lo sospinse verso la scialuppa.
- Kurt, vai tu – disse.
Ma il ragazzo, come destatosi di
colpo, si divincolò dalla
presa del padre, cercando di ritornare indietro.
- Papà, no! –
esclamò – Fai salire Finn!
- Smettila di voler fare
l’eroe – replicò Burt, esasperato,
sostenuto da Finn.
- Fai salire Finn! –
ripeté Kurt, ostinato – La fuori
c’è
già Carole. E’ meglio se va lui.
- Posso cavarmela anche a nuoto
– reagì Finn, deciso a non
sembrare debole, sebbene la paura lo stesse attanagliando allo stesso
modo di
Burt e Kurt – Sono giovane e robusto, sono sicuro di poter
resistere all’acqua
fredda.
- Anche io sono giovane, cosa credi?
– Kurt afferrò il
braccio di Finn, stringendoglielo fino a fargli male –
E’ meglio se sale papà –
gli sussurrò a pochi centimetri dall’orecchio.
- Che state borbottando? –
fece Burt, recuperando il figlio
– Non perdiamo altro tempo. Kurt sali!
- No, papà! Vai tu! Sei
malato, non resisteresti in acqua.
- Io qui non ti lascio –
gridò Burt, stringendo la sua presa
sulle braccia di Kurt, negli occhi una tempesta di rabbia, paura e
frustrazione.
- Papà, hai sentito Finn:
siamo giovani, abbiamo più
possibilità di farcela se cadiamo in acqua. Tu hai avuto dei
problemi di cuore,
solo lo shock dell’acqua fredda potrebbe esserti fatale
– si svincolò dalla sua
presa per poi afferrargli il colletto della camicia – Ho
perso una madre; non
voglio perdere anche un padre.
- E io ho perso una moglie e non
voglio rischiare di perdere
anche mio figlio – replicò Burt mentre una lacrima
scivolava lungo la guancia
piena.
- Burt – si fece avanti
Finn, sostenendo il fratellastro
adesso – c’è mia madre lì
fuori. Non voglio che rimanga da sola. Io e Kurt vi
raggiungeremo, a nuoto o aggrappati a qualcosa se è
possibile ma ce la
caveremo.
- Signori non possiamo più
aspettare! – esclamò il marinaio
esasperato, dando l’ordine che la scialuppa venisse calata in
mare.
- Benissimo, allora! –
urlò Burt, ormai al limite – Allora
resteremo tutti e tre qui!
Più che dalle parole del
padre, Kurt fu più colpito dalla
vista di quell’ultima scialuppa che, ancora pochi minuti e
sarebbe sparita
dalla loro vista. Fu come un riflesso condizionato. Quasi non
capì come era
accaduto né come ci fosse riuscito. Fatto sta che un momento
prima suo padre
era davanti a loro, il volto arrossato e fremente per la collera, e
quello dopo
era nella scialuppa malamente sostenuto dal marinaio e da uno dei
passeggeri
imbarcati, la collera spazzata via dallo sbigottimento. Kurt sentiva i
palmi
delle mani che gli dolevano e che pulsavano per la troppa forza che
aveva messo
in quella spinta inaspettata tanto per il padre e Finn, rimasto
indietro a
guardare, stupito, quanto per lui stesso.
C’è sempre quel
particolare momento, nel rapporto che c’è
tra un genitore ed un figlio, in cui i loro ruoli si invertono e il
figlio si
fa genitore per prendersi cura di quest’ultimo. Non
è un regolamento di conti
né un ricambiare un favore; è semplicemente amore.
“Comprendimi
papà. Ti voglio bene”.
- Non preoccuparti papà.
Ce la faremo – gli gridò Kurt
vedendolo sparire assieme all’intera scialuppa, mentre li
chiamava disperato,
cercando in tutti i modi di districarsi dalla presa di chi gli impediva
di
risalire a bordo del Titanic.
A riscuotere Kurt, stavolta, ci
pensò Finn che gli strinse
delicatamente una spalla.
- Kurt, dobbiamo cercare di andarcene
da qui.
- E come? – gli chiese Kurt
mentre una triste consapevolezza
copriva i suoi occhi – Non ci sono più scialuppe.
- Dall’altro lato ne
sarà rimasta qualcuna.
- Lì non ci faranno mai
salire. Non quando ci sono ancora
tante donne e tanti bambini.
“Potresti passare anche tu
per un bambino e salvarti, se
solo volessi” pensò Finn mordendosi le labbra per
non lasciarsi prendere
dall’ansia – Intanto ritorniamo al ponte di destra;
poi vedremo cosa fare.
Magari riusciamo ad infilarci in una di quelle in mezzo alla confusione.
O magari, come Kurt aveva fatto con
suo padre, Finn pensava
di fare lo stesso con il fratellastro, ma presto. La nave si stava
inclinando
pericolosamente e questo rendeva sempre più difficile
muoversi; ogni tanto si
vedeva qualcuno scivolare giù, nell’acqua che
saliva sempre più velocemente,
divorando quel gigante di ferro. Fino a quel momento, sotto le urla e
le grida
di tutte le persone ancora sul Titanic, si poteva sentire ancora
l’orchestra
che suonava, inarrestabile e invincibile; ma quando il ponte si
inclinò
ulteriormente, il piccolo pianoforte messo fuori assieme agli altri
strumenti,
perse una nota, ne sbagliò un’altra e ne perse
un’altra ancora, fino a che non
scivolò giù, inghiottito dalle acqua nere ancora
illuminate dalle luci della
nave, con il pianista che cercava disperatamente di afferrarlo. Perso
un
componente, quelli che erano rimasti non ressero a lungo. Cadde il
violoncellista, cadde il secondo violinista, il più giovane,
cadde anche il
primo violinista, caddero tutti uno dopo l’altro, aggrappati
ai loro strumenti
che fungevano come inutili salvagente. Il direttore
d’orchestra ebbe solo il
tempo di legarsi in vita i suoi spartiti prima di raggiungere i suoi
compagni.
Ormai quello che regnava
sull’intera nave non poteva più
chiamarsi “confusione” o “caos”
e “panico totale” non poteva lontanamente esprimere
quello che regnava incontrastato in quel piccolo frammento
d’oceano. Tanta era
la gente che Finn non riusciva a vedere dove si trovassero le ultime
scialuppe
e incominciava a disperare che ce ne fossero ancora; non sapeva che
c’erano
ancora dei canotti, due dei quali erano già stati messi in
mare.
Si voltò, sperando di
trovare un aiuto in Kurt… ma non lo
vide. Dietro di lui, di fianco a lui, davanti a lui c’erano
solo sconosciuti.
Kurt non c’era. Lo aveva perso.
“No! Ti prego,
no!” pensò disperato vedendo da lontano una
donna che scivolava lungo il ponte con un urlo.
Senza arrendersi a quello che
sembrava l’inevitabile, Finn
corse spingendo chiunque gli capitasse sotto mano, chiamò
Kurt a gran voce per
ritrovarlo.
* * *
Lasciati da Puck e Shelby e separati
da Tina e Mike, i
componenti rimasti del gruppo, Blaine, Rachel, Mercedes e Sugar si
erano
ritrovati davanti ad una delle ultime scialuppe rimaste, anche se non
lo sapevano.
Molti ancora speravano che tutti sarebbero usciti vivi da quel
disastro, anche
se era meglio essere tra i primi.
Con i marinai che tenevano lontani
gli uomini, le ragazze si
infilarono in mezzo a quella muraglia di braccia: Rachel e Sugar che
tenevano
Mercedes in mezzo a loro per paura che non la facessero salire
perché di
colore; Sugar trascinò con loro anche Blaine, tenendolo per
il polso. Rachel,
con un saltò, si ritrovò sulla scialuppa,
traboccante di donne e bambini e
qualche signore che cercava di non farsi notare, seguita a ruota da
Mercedes e
mentre faceva lo stesso anche Sugar, quest’ultima si
sentì tirare indietro,
tanto che fu costretta ad aggrapparsi ad una signora seduta
lì vicino per non
cadere fuori bordo. Voltandosi, videro che Blaine veniva spinto
indietro da uno
dei marinai.
- No! Fatelo salire! Fatelo salire!
– gridò Rachel, non
riuscendo però a farsi sentire in
quell’accozzaglia di voci che si sovrastavano
a vicenda.
Blaine rimase fermo lì,
pallido e tremante, lanciando
sguardi disperati in direzione della scialuppa da dove le sue amiche lo
incentivavano a saltare e raggiungerle, non sapendo che fare vinto
dalla paura
e dagli scrupoli nel vedere che altre donne, con i loro bambini
attaccati al
collo, cercavano di salire su quella piccola imbarcazione
già fin troppo piena.
- Avanti, Blaine! –
continuavano ad urlargli – Sali! Fai
presto!
- Non fa niente. Non fa niente
– mormorò Blaine, non
riuscendo a farsi sentire, mascherando il panico dietro un fintissimo e
traballante sorriso tranquillo, indietreggiando piano, lontano dalla
ressa di
gente, il petto che si gonfiava e sgonfiava d’aria in maniera
convulsa, mentre
i richiami di Rachel, Mercedes e Sugar si facevano sempre meno nitidi
fino a
sparire in quel mare di voci e rumori.
Senza aspettare altro, continuando a
contenere le persone
che ancora cercavano di saltare su quell’ultima salvezza, i
marinai calarono la
scialuppa piena di donne terrorizzate e bambini urlanti e uomini
raggomitolati
su se stessi. Le manovre erano molto più difficili stavolta.
Arrivati quasi a poca distanza
dall’acqua una delle funi
delle gru si inceppò; l’altra invece
continuò la sua opera fino a che la
scialuppa non si ritrovò con una parte sospesa a mezza
altezza sul mare in
maniera pericolante. Solo i richiami dei marinai coperti dalle grida di
puro
terrore delle persone a bordo avvertirono quelli che si stavano
occupando delle
manovre. Nonostante le luci ancora accese, il buio e il panico
complicavano di
molto la situazione, ma essere cauti non era per niente possibile: un
solo
sbaglio, un attimo di esitazione e le persone sulla scialuppa avrebbero
rischiato la vita.
- Presto! Smuovete quella fune!
– urlò Lightoller per poi
cambiare subito il suo ordine quando, da sotto, delle grida ancora
più forti
gli portarono alla mente un possibile scenario di gente che si
dibatteva, che
finiva nelle acque gelate, della scialuppa che precipitava su di loro
– No!
Fermi! Fermi ho detto!
I marinai gli rivolsero eloquenti
sguardi di impotenza.
Adesso sì che veniva spazzato via l’ultimo
brandello di coraggio e di
autocontrollo di cui si vantavano gli inglesi.
- Che qualcuno ci aiuti! –
saltò su uno dei più giovani,
rivolgendosi a tutti coloro che correvano su e giù per il
ponte, senza nessuno
reale speranza di soccorso quanto di condivisione di una preoccupazione
e di
una responsabilità che, ormai, era diventata troppo grande
per il solo staff
della nave condannata. Ma nessuno, pur volendo, avrebbe potuto
aiutarli. Erano
troppo impegnati ad aiutare se stessi.
Lo stesso giovane marinaio, quasi
impazzito per la tensione,
afferrò la prima persona che gli capitò sotto
mano, un ragazzone alto e ben
piazzato che chiamava a gran voce “Kurt! Kurt!”.
- Vi prego! Ci serve aiuto!
– disse il marinaio,
trascinandolo verso la gru.
- No! Non posso! –
tentò di liberarsi Finn, perché era di
lui che si trattava – Devo trovare mio fratello.
- Vi prego! –
continuò il marinaio, mostrandogli con un
gesto, per quel poco che si poteva vedere nel buio, la tragedia che si
stava
consumando nella tragedia – Ci sono donne e bambini
lì in mezzo!
- No! Dio Santissimo! –
Finn non sapeva nemmeno a cosa fosse
dovuta quell’esclamazione; in testa aveva solo un carosello
di immagini di sua
madre e di Burt sulle scialuppe, di Kurt che non riusciva nemmeno a
focalizzare,
come se fosse talmente lontano da non riuscire ad afferrarlo nemmeno
col
pensiero.
- L’accetta! Prendete
l’accetta! – fu l’ordine di
Lightoller.
C’era un’accetta,
infatti, lì contro la parete di un
interno, in una di quelle teche d’emergenza.
- Che qualcuno la prenda per tagliare
la fune!
Le braccia del giovane marinaio erano
troppo scarne per
maneggiare quell’arnese, mentre le braccia
dell’ufficiale erano troppo
impegnate ad indicare ai marinai come sostenere la struttura per
evitare che
collassasse con risultati catastrofici. Finn doveva trovare Kurt; ma
adesso
c’erano anche le urla d’aiuto di tute quelle
persone che sicuramente non
sarebbe più riuscito a togliersi dalla testa.
“Un colpo ben assestato. Al
massimo due. Non ci vorrà più di
qualche secondo” pensò Finn, correndo verso la
teca, frantumandola con un
deciso colpo di gomito e afferrando laccetta per poi
dirigersi a passo deciso
contro la fune inceppata – Levatevi di mezzo! –
esclamò levando pericolosamente
quell’arma di salvezza sulla testa, scansando il giovane
marinaio e chi gli
stava accanto, per poi abbatterla con un colpo secco sulla corda tesa
che
vibrò, facendo vacillare la scialuppa sospesa in maniera
sbilenca sull’acqua,
quasi ad imitare la nave che cercava di abbandonare. Un secondo colpo,
poi un
terzo; al quarto la fune si staccò violentemente, lasciando
scivolare in mare
la scialuppa senza gravi danni.
Finn ebbe solo il tempo di lasciar
cadere l’accetta sul
ponte e voltarsi per ritornare subito alla ricerca di suo fratello
quando, con
un rumore stridente, sentì come una violenta sciabolata che
gli sferzava
l’occhio; l’altro capo della fune tranciata che si
era tesa all’indietro in
seguito al taglio.
Un dolore bruciante come una
pugnalata; una nebulosa
confusione; il terreno che gli mancava sotto i piedi; un senso di vuoto
accompagnato da acuti strilli femminili.
Atterrò con uno schianto
nella scialuppa che si allontanava,
afferrato al volo da un gruppo di giovani donne che attutirono il salto
che
poteva essere fatale.
Quando riprese i sensi non riusciva a
muoversi: il più
piccolo movimento gli causava una fitta lancinante alla spalla e alla
parte
superiore della schiena, come una scarica elettrica. E un velo
sanguigno gli
oscurava la vista. Attraverso quel velo intravide con raccapriccio le
luci del
Titanic che si facevano piano piano, più lontane e
più sfocate.
“No. Kurt. Devo trovare
Kurt” pensò prima di cadere di nuovo
nell’incoscienza, mentre il velo si faceva sempre
più rosso fino a diventare
nero.
* * *
I canotti A e B, gli ultimi mezzi di
salvezza rimasti, si
trovavano sul tetto di prua; e lì l’acqua arrivava
alle gambe e il ponte era
più inclinato e scivoloso. Mentre la maggior parte delle
persone rimaste
correva verso la poppa che si stava elevando al cielo stellato, alcuni
disperati
si erano ammassati lì per tentare un ultimo scatto di
salvezza.
Ad un certo punto, Dave Karofsky
aveva lascia la sua
postazione presso le scialuppe per andare lì, dove poteva
essere più utile: la
sua terra natale gli aveva lasciato come retaggio di natura una certa
resistenza al freddo; le sue braccia potevano quindi aiutare chi non lo
era. Ma
non era preparato all’impatto con l’acqua gelida.
Soffocando imprecazioni tra
le labbra serrate, si diresse verso il gruppo di marinai tra i quali
c’era
anche Lightoller che, con grandi difficoltà, cercava di
tirar giù il canotto B;
dall’altro lato il risultato era stato disastroso: il canotto
A si era
capovolto e si cercava inutilmente di rimetterlo nella posizione adatta
mentre
l’acqua saliva sempre più speditamente,
sommergendo ogni cosa e ogni persona.
Riuscì a resistere in un
primo momento, ma ad ogni movimento
l’acqua si sollevava a schizzi colpendolo con tanti gelidi
artigli e sentiva
sempre più il calore che lo abbandonava. Alcuni dei marinai
che gli erano
accanto scivolarono via privi di forze, trascinate verso il fondo dal
debole
gorgo della nave che affondava. Dave, aggrappandosi allo sforzo, alla
fatica
dei suoi muscoli tesi per sostenere, assieme ai pochi rimasti, il peso
del
canotto, resistette con tutte le sue forze.
E l’acqua saliva sempre
più, accogliendo su di sé, cento e
cento persone che scivolavano lungo i ponti inclinati, alcuni persino
da grandi
distanze, trascinando con loro tutti quelli contro cui si scontravano.
Puck e Shelby stavano ancora cercando
disperatamente Beth;
l’avrebbero cercata anche sul fondo dell’oceano se
avessero potuto. A loro fu
fatale la corsa frenetica per ritrovare la bambina. Si scontrarono con
la paura
di altre persone come loro: smarrite, alla ricerca di qualcuno o di
qualcosa,
di chi amavano o di una qualsiasi salvezza. Ma la loro piccola Beth,
l’unica
che volessero trovare, non c’era. Setacciarono in lungo e in
largo i ponti
della nave, spesso ritornando in punti già visti, col
pensiero ossessivo che
magari avrebbero potuto ritrovarla proprio lì, dove erano
già passati.
Purtroppo, quando l’equilibrio sulla nave si fece
più disagevole, risalire
divenne un’impresa per loro che si erano pericolosamente
avvicinati alla prua,
completamente sommersa e quasi scomparsa sott’acqua; Shelby
inciampò nella sua
gonna e cadde e Puck, con le gambe salde a terra e le braccia che si
tenevano
al parapetto, si lasciò andare a sua volta per recuperarla.
Si fermarono quando
si ritrovarono tra la massa di persone che si accalcava sul canotto B.
Mentre l’acqua fredda
toglieva loro il fiato e li faceva
saltare come molle, Puck riuscì ad afferrare la donna
urlante per il polso
cercando di ritrascinarla verso il ponte; ma quei maledetti salvagente
impedivano ogni movimento; Puck era sempre stato un bravo nuotatore ma
con quel
coso addosso non riusciva nemmeno a fare una bracciata, poteva solo
fare leva
con le gambe ma questo lo sfiancò e a ciò
contribuì il freddo che gli
intorpidiva i muscoli come se fossero stati tramutati in pietra.
Allora, vedendo
il canotto affianco a loro, vi guidò Shelby.
- Presto, sali! – le
urlò, spingendola in mezzo alle persone
che vi si accalcavano.
- No! No! – si
dibatté lei – Dobbiamo trovare Beth!
- La troverò, giuro che la
troverò – affermò Puck, sicuro
delle sue parole – Ma tu sali. E’ inutile che
rimaniamo tutti e due qui.
- No! Non me ne vado senza Beth!
– strillò Shelby, cercando
di svincolarsi.
Senza farsi problemi, Puck
spintonò da ogni parte chi si
trovava davanti, fino ad arrivare ai bordi del canotto e
sollevò Shelby, che
continuava a dibattersi forsennatamente per quanto le permettesse il
salvagente, e fece per appoggiarvela dentro. Quando accadde.
Un’onda, generata forse da
una qualche fuoriuscita dalla
parte sommersa del Titanic, si abbatté su di loro. Il
canotto B si capovolse
finendo alla deriva con giusto qualcuno ancora aggrappato ad esso; tra
loro
c’era Shelby.
Altri, come Puck e Dave furono
trascinati dalla parte
opposta. Storditi dall’impatto, molti non riuscirono a
muoversi, e in alcuni
stava già per sopraggiungere l’ipotermia. Puck,
invece, scorse Shelby
aggrappata alla scialuppa da lontano; e, sbracciandosi,
cercò di raggiungerla
anche se ad ogni movimento che faceva aveva sempre
l’impressione di
indietreggiare.
All’improvviso un crepitio
sinistro e profondo sovrastò le
urla delle persone in acqua, seguito dai sostegni del primo fumaiolo
che si
rompevano. Dave ebbe l’impressione che il fumaiolo giallo
dalla sommità nera si
allungasse verso l’alto e si facesse sempre più
grande fino a coprire il cielo
stellato sopra le loro teste. Non si accorse nemmeno di cosa realmente
stava
accadendo, come tutti gli altri, come Puck che cercava inutilmente di
nuotare
via. Accadde tutto in una frazione di secondi.
“Papà”
pensò Dave inconsciamente.
Poi, il fumaiolo si
abbatté su di loro generando un’altra onda
che spazzò via tutti quelli che si trovavano nelle
vicinanze, comprese le
persone che si erano aggrappate alla scialuppa capovolta. Anche Shelby
venne
sbalzata via, lontana, nell’oceano buio.
* * *
Kurt sapeva che stava per morire.
Tutti lo sapevano ma, come
è logico, nessuno si rassegnava a questa idea; se non
c’era più possibilità di
salvarsi, si poteva solo cercare di ritardare quel momento: senza
più scialuppe
restava solo la poppa dl Titanic che saliva lentamente verso
l’alto, verso
l’atmosfera meno umida del cielo. E si radunavano tutti
lì, pigiati gli uni su
gli altri, con pochissimo spazio per muoversi e persino per respirare.
Kurt si
sentiva stretto al punto da avere l’impressione di essere
sollevato per essere
espulso da quella massa come un tappo di bottiglia che salta; la
sensazione
peggiore che potesse provare, quella di sentirsi impotente e senza
forze, quasi
soffocato da altri che versavano nelle sue stesse condizioni.
Aveva cercato Finn dovunque ma senza
alcun risultato: come
voler cercare un ago specifico in un pagliaio. Non aveva più
nemmeno il
salvagente che aveva lasciato chissà dove poco prima di
vedere Quinn. Quanto
tempo era passato da quel momento? Poco, eppure sembrava che fosse
passata un’eternità.
E in quel momento provava la dolorosa sensazione che il tempo fosse
passato
troppo in fretta; un minuto prima era ancora a casa sua, con suo padre,
Carole
e Finn, e quello dopo cercava di farsi largo tra una folla impazzita
dalla
paura, su una nave che affondava, per raggiungere il parapetto, per
riuscire di
nuovo a respirare, per cadere in acqua, per poter avere gli occhi
liberi e
riuscire a fuggire alla fine per un solo minuto in più.
Quando era più piccolo gli
dicevano che se si era buoni si andava
in Paradiso, dopo la morte, mentre i cattivi finivano
all’Inferno, ma chi gli
assicurava che esistesse veramente una vita dopo la morte? Era questa
la sua
paura più grande in quegli ultimi istanti; non il Titanic
che trascinava con
sé, nelle profondità dell’oceano
innocenti e non, non il pensiero dell’acqua
fredda che avrebbe fermato il suo cuore in pochi minuti, ma la paura di
chiudere gli occhi per sempre e trovare solo il nulla,
l’assenza di pensiero e
sensazioni. A che serviva morire se non avevi la certezza di poterti
riunire
alle persone che amavi quando sarebbe giunto il momento?
“Mamma”, Kurt la
vide, con i capelli castano chiaro che alla
luce del sole parevano rossi, e gli occhi che erano i suoi stessi occhi
e il
sorriso che portava marchiato nel suo cuore. Sapere che
l’avrebbe vista non
appena avesse chiuso gli occhi avrebbe reso tutto più
sopportabile. E la
mancanza di certezza lo tenne aggrappato alla vita con tutte le sue
forze.
Con un grande sforzo
riuscì a mettere una mano sul legno del
parapetto; ma i suoi muscoli erano talmente stirati e doloranti che
quando si
rilassò un istante per lasciar riprendere fiato al suo
corpo, sentì il peso
delle persone attorno a lui gravargli addosso e spingerlo via.
“Ecco, ci siamo”
pensò, già vedendosi scivolare lungo il
ponte per poi scontrarsi con l’acqua; ma una mano salda gli
afferrò il polso
riportandolo contro il parapetto, al quale Kurt si tenne stretto con
entrambe
la mani.
Alzò lo sguardo per vedere
chi gli aveva concesso quei
minuti in più (ringraziarlo sarebbe stato assurdo ma uno
sguardo non costava
nulla) e vide due occhi dorati, arrossati per il pianto come dovevano
essere
anche i suoi. Le labbra di quel ragazzo tentarono di stendersi in un
sorriso
tremante e vacillante.
- Andrà tutto bene
– parve dirgli – Andrà tutto bene.
“No, non andrà
bene. Ma, almeno, non sono solo. Non siamo
soli” pensò Kurt, ricambiando
l’accennato sorriso melanconico e afferrando la
mano del ragazzo che lo strinse ancora di più a
sé, mentre le persone si
facevano sempre più numerose.
Poi, le luci del Titanic si spensero,
acutizzando le urla
delle persone rimaste a bordo.
Le mani di Kurt e Blaine si strinsero
più forte.
* * *
Quanto puoi sentirti impotente nel
sapere che migliaia di
persone vicino a te stanno morendo e non puoi fare niente per salvarle?
Quanto puoi soffrire pensando che una
persona che ami sta
gridando aiuto ma hai troppa paura per fare alcunché?
Come ti senti quando
l’impotenza, la sofferenza e la paura
sono un tutt’uno?
Chiedilo alle persone che, dalle
scialuppe, assistettero
agli ultimi momenti dell’ “inaffondabile”
Titanic, le mani intirizzite
abbandonate sui remi, le bocche spalancate in un urlo muto, gli occhi
che non
riuscivano a staccarsi dall’immagine della poppa della nave
che puntava verso il
cielo stellato, le sue luci ancora accese per mostrare, crudelmente,
quella
tragedia che si consumava di notte, il brusio e le grida che tradivano
la
presenza di centinaia di persone ancora a bordo.
Il fumaiolo che crollò,
seppellendo sotto la sua fatale
massa di ferro tante persone già finite in acqua non fu
nulla in confronto al
gran finale.
Ad un tratto, le luci vacillarono,
lampeggiarono e si
spensero, lasciando tutto al buio, illuminato solo dal tenue chiarore
della
luna e delle stelle e dei loro riflessi sulla superficie del mare.
Lo scenario si spostò
dagli occhi alle orecchie, con quelle
urla disperate che perforavano i timpani. Che vennero coperte da un
rumore più
forte e più profondo.
- Tutti i mobili stanno precipitando
– dissero alcuni degli
spettatori dalle scialuppe.
- Le caldaie stanno esplodendo
– dissero altri.
Era troppo buio; non poterono vedere
il Titanic, il “gigante
di ferro degli oceani”, spezzarsi in due come uno
stuzzicadenti; intravidero
solo la poppa della nave abbassarsi per poi risollevarsi in alto,
stagliata
contro la luna, simile ad una lapide, spogliata dei suoi fumaioli, con
grappoli
di persone che si lasciavano cadere.
- E’ finita. Sta andando.
Una fila di oblò
sparì sott’acqua, poi toccò a quella
successiva e poi a tutte le altre, mentre l’acqua
gorgogliava. Solo pochi
minuti e non c’era più nulla. Il Titanic non
esisteva più. Al suo posto c’era
solo una macchia d’acqua schiumante. E quelle urla; le urla
di chi ancora si
aggrappava alla vita; quelle urla che non si poteva fingere di non
udire. Urla
che ti ossessionano a vita.
Le persone sulle scialuppe potevano
tapparsi le orecchie,
coprire quelle urla con il pianto, con il battere dei remi sulla
superficie
dell’acqua e per una di loro che sarebbe voluta ritornare
indietro a salvare
qualcuno ce ne erano dieci che avevano troppa paura per farlo. La
maggioranza
vince sempre anche a costo di vivere per sempre con un rimorso che non
darà mai
tregua.
Come quelle urla che sembrarono
durare in eterno, a tratti
come il frinire dei grilli, a tratti come il lamento sul Muro del
Pianto, e poi
sempre più deboli. Prima erano mille, poi cento, ora
cinquanta, ora dieci, ora
due, ora una e, infine, il silenzio. E quelle voci
dall’oceano rimasero solo
nella mente di chi non li aveva ascoltati.
Sono ancora lì, a invocare
aiuto. A chiedere perché li hanno
abbandonati.
* * *
- Si può sapere cosa
stiamo aspettando?! – esclamò Sue
Sylvester, stringendo il remo che aveva tra le mani con tanta forza da
farsi
sbiancare le nocche – Andiamo ad aiutare quelle persone!
Quella decisa affermazione,
pronunciata con tono di comando,
non incontrò certo, salvo alcune eccezioni, un consenso
generale, soprattutto
da parte del marinaio responsabile della loro scialuppa, aggrappato al
timone
come un animale ferito.
- No! – affermò
quest’ultimo, con tono altrettanto deciso –
Se andiamo in mezzo a loro, si aggrapperanno tutti alla scialuppa e ci
faranno
finire tutti in acqua. Così non si salverà
nessuno.
- Questa poi! –
saltò su Sue, piccata.
- Vi prego – si fece avanti
Carole, bianca e con gli occhi
arrossati – Non possiamo lasciarli lì, a morire;
potrebbero esserci donne e
bambini tra loro. Potrebbero anche esserci i nostri cari –
continuò
rivolgendosi alle altre donne a bordo, intontite dagli eventi, incapaci
di reagire.
- No! Finché sono io al
comando di questa scialuppa, si farà
come dico io – quasi urlò il marinaio.
Quelle ultime parole ebbero il solo
effetto di far
imbestialire di più Sue che, lasciando andare il remo, si
alzò e si fece largo
tra le donne, avvicinandosi al marinaio.
- Ma che razza di marinaio ci hanno
dato – disse, disgustata
– Si metta lei ai remi e dia a me il timone, visto che non sa
nemmeno come
usarlo.
Come colto da una crisi di panico,
l’uomo ebbe uno scatto
improvviso e, con una mano, spinse via Sue che cadde addosso alle donne
dietro
di lei, lasciandola sconvolta e infuriata da quell’attacco.
- Non azzardatevi a muovervi!
– urlò lui, la voce stridula
per il panico – Sono io qui che da gli ordini e se oserete
ancora contraddirmi
non mi farò alcuno scrupolo a gettarvi fuori bordo
– concluse, sicuramente non
credendo nemmeno lui alle parole che aveva pronunciato, aggrappato al
timone,
terrorizzato.
Con le unghie che le straziavano i
palmi delle mani, le
lacrime di frustrazione che avrebbero voluto uscire dagli occhi, Sue
riuscì
solo a mormorare un “Vigliacco” ignorato da tutti,
visto che suonò come
un’accusa per quelli che non avevano reagito.
Carole non riuscì a
staccare gli occhi dal punto in cui era
sparito il Titanic e dove le voci si stavano spegnendo, il cuore che le
faceva
male come se ne avesse perso un pezzo.
* * *
Era tutto calmo e silenzioso attorno
a lei, adesso. Non si
sentiva più nulla; erano finiti i pianti, i lamenti, le
urla, non si vedeva più
nessuno muoversi.
C’era una tale pace,
adesso. Ma faceva anche così freddo.
Shelby non sentiva più
né i piedi e le gambe, né le mani e
le braccia e tutto il resto del suo corpo, tutto era diventato di
freddo
ghiaccio. Anche lei non era niente più di una statua di
bianco ghiaccio come
tutte le altre che costellavano quel piccolo pezzo d’oceano.
Forse, riusciva a sentire solo un
lieve dolore alle orecchie
che le dolevano come due spilli che la infilzavano ai lati della testa.
Ma poi
anche il suo volto divenne insensibile; non aveva più
orecchie, né naso, né
bocca, e gli occhi puntati contro il cielo stellato solcato di nebbia,
erano
fissi come due macchie di colore dipinte sul vetro.
Un piccolo suono lontano proveniva
dall’acqua , sotto i
molti strati del suo salvagente. Il cuore che, debolmente, pompava
quelle poche
gocce di sangue rimaste.
Sperava che negli ultimi istanti, la
sua mente corresse ai
momenti più felici della sua esistenza, la sua infanzia, i
suoi genitori, il
suo primo vestito da ragazza grande, il suo primo amore ma la sua testa
era
completamente svuotata, insensibile, senza niente. Doveva aver perso
anche il
senso del tempo perché vide, ad un certo punto, attraverso i
suoi inanimati
occhi, il buio della notte diradarsi per essere sostituito da una tenue
luce,
ma non era del giorno, poteva ancora capirlo. Non era la luce dell’alba.
Eppure, era luce.
Il freddo si fece ancora
più intenso, tanto da diventare
bruciante e perdere il suo stesso significato e non essere
più tale. Una nuova
sensazione attraversò il suo corpo; non più
freddo, né caldo. Semplicemente un
nuovo stato a cui non avrebbe saputo dare un nome.
Delle mani la afferrarono e fecero
per staccarla dal
ghiaccio che teneva bloccato il suo corpo; non vedeva i volti di chi la
sosteneva, eppure sapeva chi erano; avrebbe potuto pronunciare
tranquillamente
i nomi di ognuno se avesse potuto muovere la bocca.
“E’ il
momento” quel breve pensiero la investì come un
fulmine; riusciva di nuovo a pensare e a sentire ma senza usare la sua
testa e
il suo corpo. Sicuramente, tra un po’, sarebbe riuscita di
nuovo a parlare.
Ma qualcosa la teneva ancora legata,
un nodo di dolore che
voleva sciogliere per sentirsi in pace.
Con fatica e lentezza si
voltò in direzione del buio che
stava per lasciarsi alle spalle, facendo più in fretta che
poté, prima che
anche il suo cuore diventasse di ghiaccio. E la vide. Era lontana da
lì, la sua
piccola Beth, in salvo, tra le braccia di chi l’avrebbe
protetta.
- Grazie – poté
dire senza usare le labbra.
E, sollevata, lasciò che
quell’ultimo filo si staccasse e si
lasciò andare.
Il buio alle sue spalle, la luce
davanti a sé.
Nota
dell’autore:
Da studi più recenti
risulta che il Titanic si spezzò in un
punto già sommerso dall’acqua; ciò
spiegherebbe il perché solo due
sopravvissuti parlarono di questo particolare, per poi non venire
creduti da
nessuno, visto che, complice il buio e la paura, nessuno vide la nave
spezzarsi. Solo il ritrovamento del relitto nel 1985,
confermò quelle uniche
due testimonianze.
Non ho molto altro da dire.
Ci tengo particolarmente a questo
capitolo perché è quello
che mi ha dato più emozioni nello scriverlo, in particolare
per le parti di
Kurt, dell’ultima fase dell’affondamento e la parte
finale.
Non mi è venuto bene come
avrei voluto, ma ho fatto del mio
meglio; la mia unica spina nel cuore sarà che per tutta la
fanfiction ho messo
troppe forzature. Non me ne vogliate, già mi sto odiando io.
Per il prossimo (ed ultimo) capitolo
dovrete aspettare un
po’ perché devo ancora terminarlo e voglio che mi
venga bene.
Se volete mandarmi a quel paese mi
trovate a questo
indirizzo:
http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Ciao a tutti ed un grazie a chi
continua a seguirmi.
Lusio
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** La chiave del futuro è andare avanti ***
La chiave del futuro è
andare avanti
Quinn non aveva mai desiderato tanto
di dormire come in quel
momento; quella notte li aveva provati tutti ed ora che sembrava tutto
finito
la fatica mentale e fisica iniziava a farsi sentire. Almeno a lei era
stata risparmiata
la fatica dei remi, visto che portava in braccio quella bambina; non
che con
lei si stesse più tranquilli. Parlare di
“tranquillità” in quel frangente, poi,
era un assurdità. Per quanto l’avesse stretta a
sé, consolata e baciata, alla
fine si era calmata perché stremata dal pianto e si era
assopita.
Quinn avrebbe voluto sfilarsi una
manica della sua giacca
per coprire meglio la bimba ma il salvagente glielo impediva e quindi
dovette
limitarsi a stringerla ancora di più e a soffiarle il suo
alito caldo sulle
manine intirizzite.
Avrebbe dovuto sentirsi orgogliosa
per quella vita strappata
al pericolo, ma quel visino imbronciato ancora scosso dai singhiozzi le
riportò
alla mente la sua missione fallita: a Beth, a Puck. Continuava a
chiedersi “si
saranno salvati?”, “forse sono su
un’altra scialuppa?”, “perché
ho lasciato che
Kurt mi facesse salire su questa scialuppa?”. Le
ritornò in mente anche Kurt,
suo padre e il suo fratellastro. Forse loro erano riusciti a mettersi
in salvo.
Ma Beth e Puck. Quali sicurezze poteva nutrire per loro?
Ma poi, potevano dirsi davvero in
salvo? Separati, su quelle
piccole imbarcazioni in mezzo all’oceano, senza un
po’ di luce a parte la luna
e le stelle? Qualche altra nave, più sicura del Titanic, li
avrebbe soccorsi o
si sarebbero ritrovati a solcare le acque come spettri di una tragedia
appena
conclusasi? Se continuava con questi interrogativi sentiva che sarebbe
impazzita.
“Vorrei solo addormentarmi,
come questa bambina,
addormentarmi e smettere di pensare”.
Quasi sul punto di assopirsi,
sentì un piccolo movimento
seguito da un debole piagnucolio da parte della bambina.
- Cosa c’è
piccola? – le sussurrò teneramente con uno stanco
sospiro. Un calore umido sul suo grembo fu la risposta. Fu tentata, di
scatto,
di allontanarla ma la stanchezza unita alla compassione la frenarono;
iniziò a
cullarla e ad accarezzarle la testolina bionda – No, no, non
piangere. Non è
nulla, piccola, non è nulla. Tranquilla, non è
nulla. Non piangere, su. Va
tutto bene.
Dopo un po’, i lamenti si
placarono e anche Quinn cadde in
dormiveglia, lasciandosi andare a pochi minuti di riposo, prima che le
prime
luci rischiarassero il cielo.
A risvegliarla la seconda volta ci
pensarono le persone
sulla scialuppa, scosse da una forte agitazione. La ragazza fu quasi
tentata di
far finta di nulla e di continuare a tenere gli occhi chiusi;
l’ultima cosa che
voleva era un ennesimo motivo per allarmarsi. Ma quando una donna,
seduta a
fianco a lei, esclamò “Una nave!
Laggiù!” spalancò di scatto gli occhi,
vedendo
in lontananza proprio una nave.
In quel momento non importava quanto
fosse meno maestosa e
meno ricca del Titanic; nessuno era mai stato così sollevato
al pensiero di non
essere più soli e abbandonati nell’oceano.
Per segnalare la loro presenza,
alcuni diedero fuoco a
fazzoletti e a pezzi di carta che si trovavano nelle loro tasche,
sventolandole
a mo’ di lanterne; una signora fece accendere anche il suo
ricco e grande
cappello, alzandolo sulle teste di tutti come la fiaccola della Statua
della
Libertà.
Quando la raggiunsero, lessero sulla
sua fiancata
“Carpathia”.
Dal ponte chiesero “Ci sono
feriti?” Risposta negativa. E di
nuovo “Ci sono bambini?” Risposta affermativa. E
assieme ad una scaletta
calarono anche un sacco di tela legato ad una corda. “Usate
questa per far
salire i bambini. Avanti, chi sale per prima?”
Gli eventi, la stanchezza, il dolore
avevano tolto la forza
di muoversi alle donne sulle scialuppe; ma Quinn, col cuore della
bambina che
sentiva battere contro il suo, si alzò all’istante
e si avvicinò all’enorme
fiancata della nave. Quando fece per mettere nel sacco la piccola,
quest’ultima
le si strinse ancora di più al collo, non volendo essere
lasciata.
- Non avere paura – le
disse subito Quinn – Non ti lascio,
tranquilla. Ti metto in questo sacco così puoi salire sulla
nave, poi ti
riprendo subito appena siamo sopra.
- No, nave no – pianse
debolmente la bambina – Nave brutta.
Nave si rompe e va in acqua.
- No, no, no – la
baciò Quinn, sentendosi stringere il cuore
– Questa nave non si rompe, tranquilla, non si rompe
– e la adagiò nel sacco
facendo una leggera pressione affinché la lasciasse.
E senza lasciare i suoi occhi che la
fissavano facendo
capolino dal sacco, salì la scala di corde, arrivando a
bordo nello stesso
momento in cui i marinai avevano issato la bambina, riprendendola
subito in
braccio per tranquillizzarla.
- Avete bisogno di qualcosa, signora?
– le chiese
educatamente un marinaio.
- Del latte caldo, per la bambina
– rispose subito Quinn –
E, se è possibile, anche un cambio di biancheria e un
vestito pulito.
- Per voi, signora?
- No, sempre per la bambina. A me non
occorre nulla –
rispose nuovamente, dimenticando lo stato pietoso in cui versava lei
stessa.
Furono accompagnate in una cabina
messa a disposizione da
una dei passeggeri del Carpathia; c’erano già
molti altri naufraghi del
Titanic: i più ricchi erano stati ospitati nelle cabine dei
passeggeri della
nave che li aveva raccolti; i più poveri erano stati
spostati nei solai assieme
ai feriti o nelle sale di ritrovo delle varie classi. Quinn venne fatta
accomodare in una piccola cabina di seconda classe.
- La signora che alloggia qui
– disse il marinaio – sta
assistendo alcune delle persone che abbiamo raccolto qualche ora fa.
E’
un’infermiera, sapete? Ma ha lasciato detto che la sua cabina
era a
disposizione di chiunque ne avesse avuto bisogno.
- Grazie. Potrei permettermi, quindi,
di usare la toilette
per pulire la bambina?
- Sì, certo. Vi
farò portare subito del latte e un cambio
per la bimba.
Leggermente in imbarazzo, il marinaio
uscì subito dalla
cabina, lasciandole da sole.
Sicuramente ancora sconvolta da
quello che aveva vissuto, la
bambina non alzò la testa dal seno di Quinn e le manine
tennero strette i bordi
del salvagente di Quinn, decise a non lasciarla. Ma la ragazza non
poteva
lasciarla in quelle condizioni pietose.
- Su, piccola, adesso ci laviamo, ci
mettiamo dei vestiti
puliti e ci prendiamo un po’ di latte così
poi… - si interruppe, dopo averla
fatta sedere sul
piccolo letto della
cabina per toglierle l’ingombrante salvagente (dopo esserselo
tolto a sua volta
per essere più libera nei movimenti), colpita
dall’espressione triste e
imbronciata… che era sicurissima di aver già
visto, come quei capelli biondi, i
contorni stessi del viso – Mi vuoi dire come ti chiami,
tesoro? – le chiese
dolcemente, ridestandosi.
La bambina rimase in silenzio, con lo
sguardo basso.
Proprio in quel momento il marinaio
ritornò portando con sé
un vestito pulito e un cambio di biancheria di una fattura molto
più curata di
quella che la bambina senza nome aveva, per poi uscire di nuovo
promettendo di
portare subito anche il latte.
Visto che la piccola senza nome si
ostinava a tenderle le
braccia, Quinn la riprese in braccio, appoggiandosela sul fianco e,
prendendo
vestiti e biancheria col braccio libero la portò nella
toilette; non era grande
come quella della sua cabina, pensò rabbrividendo ricordando
che quel piccolo
spazio intimo si trovava, in quel momento, sul fondo
dell’oceano, ma quel che
le occorreva c’era: un lavandino e degli asciugamani.
Mise la bambina seduto sul
rivestimento in legno che
circondava il lavandino e le tolse il vestitino e la biancheria sporca
e quando
la lasciò nuda, con i piedini che si strofinavano tra loro
per il freddo, vide
un’altra cosa che le trapassò il petto da parte a
parte: un neo vicino
all’ombelico. Si passò involontariamente la mano
sul ventre, lì dove sapeva
esserci un segno identico a quello che vedeva.
Poteva essere… ma forse
no, forse era un caso… ma perché,
allora… era la paura di sbagliarsi o di illudersi o forse
proprio che tutto
quello che pensava fosse vero…
Un breve lamento a labbra serrate da
parte della bambina a
causa del freddo, riportarono alla realtà Quinn che subito,
quasi a voler
tenere la mente occupata, prese uno degli asciugamani, lo
bagnò con dell’acqua
tiepida e iniziò a passarlo sulle gambine, sulle
intimità e sul pancino
infantili ripulendoli dall’urina; ma tutto questo non le
impediva certo di
pensare. Se teneva lo sguardo basso vedeva quel neo e se lo alzava
incontrava
quel volto familiare.
- Voglio papà Puck e mamma
Shelby – mormorò la bambina
mentre due lacrime le fuggivano dagli occhi.
Ogni muro, ogni resistenza
crollò in quel preciso istante.
Quinn rivolse gli occhi, stavolta in
maniera definitiva, a…
poteva chiamarla per nome.
- Beth.
Sentendosi interpellata,
quest’ultima alzò a sua volta lo
sguardo, incuriosita e titubante.
Stava accadendo tutto troppo in
fretta e Quinn sentì ancora
la stanchezza assalirla; ma aveva aspettato quel momento da anni, lo
aveva
desiderato, se ne era resa conto quel giorno sul ponte del Titanic, ma
non se
lo sarebbe mai immaginato, né lo avrebbe mai voluto
così, da sola, senza sapere
che dire pur avendo tante cose da dire. Ma forse, anzi sicuramente, era
troppo
presto per entrambe.
Per le parole ci sarebbe stato
tempo… ma adesso…
Come per darle una risposta, Quinn si
alzò la veste fin
sopra il ventre scoprendo ed indicando quello stesso punto un
po’ più sopra
dell’ombelico, desiderosa di farle capire con un dito quello
che non avrebbe
saputo spiegarle a parole.
Con quel linguaggio per lei
comprensibilissimo, Beth rispose
a Quinn indicando a sua volta il suo stesso neo. Si presentarono in
quel modo
bizzarro.
- Mamma Stella? – chiese
Beth, spostando il ditino da sé
verso Quinn che la fissò un po’ basita.
- Mamma – disse la ragazza
indicandosi, con un groppo alla
gola che le strozzò la parola.
Era una situazione stranissima e
anche imbarazzante ma Quinn
avrebbe solo voluto abbracciarla; sentiva il forte desiderio di
stringere quel
piccolo pezzo di sé che aveva ritrovato
ma non avrebbe mai voluto forzare la bambina a fare una cosa che lei
non
voleva. Eppure, inaspettatamente, Beth si sporse verso di lei con le
piccole
braccia tese per ricevere un abbraccio; non c’era gioia o
emozione alcuna sul
suo viso però, sembrava solo che stesse adempiendo ad un
obbligo, per
educazione e Quinn non avrebbe potuto richiedere di più.
Più in là, magari… Ma
adesso aveva l’obbligo di cercare Puck e la donna che aveva
cresciuto Beth per
rassicurarli sulla salvezza di quest’ultima; sicuramente per
restituirla, ma
adesso l’aveva vista, erano entrate insieme in una nuova vita
e non si
sarebbero mai più perse.
Chissà la confusione che
ci sarebbe stata nel ritrovare i
parenti e gli amici persi di vista… e di certo, il dolore
per chi non ce
l’aveva fatta. Avrebbe cercato di rintracciare anche gli
Hummel-Hudson per
accertarsi della loro sopravvivenza.
Quinn asciugò Beth e la
rivestì con i panni puliti portati
dal marinaio. La riportò, poi, sul letto per farla riposare
un po’; anche quando
fece per distenderla, la bambina si tenne aggrappata a lei e Quinn non
poté
fare altro che stendersi a sua volta sul letto.
Dopo un po’ la porta della
cabina si aprì ed una signora
magra, con addosso una vestaglia di lana, entrò portando su
un vassoio due
tazze di latte fumante.
- No, state, state – fece
la donna vedendo Quinn pronta ad
alzarsi – Mi hanno detto di voi e mi sono permessa di
portarvi personalmente il
latte per la bambina ed ho pensato di portarne anche per voi. Ah, se vi
occorrono dei vestiti puliti potete usare in miei, naturalmente. Sono
l’inquilina della cabina.
- Mi dispiace per il fastidio che vi
stiamo dando – si scusò
Quinn.
- Non ditelo nemmeno –
replicò la donna, sincera – Dopo
quello che avete passato – e non aggiunse altro per paura di
mettere il dito in
una piaga ancora fresca e, di questo, Quinn le fu grata – Che
bella bambina –
cambiò argomento la donna guardando Beth addormentata
– E’ vostra?
- Sì. E’ mia
figlia.
E con quelle parole, Quinn diede la
buonanotte alla vecchia
se stessa per accogliere la nuova.
* * *
Da quando era salita sul Carpathia,
la battagliera Sue
Sylvester non aveva detto nulla, non si era lamentata né
aveva strepitato
contro l’organizzazione dei soccorsi. Aveva rifiutato ogni
aiuto offertole
dallo staff e dai passeggeri della nave, si era rimboccata le maniche
ed aveva
iniziato a girare tra tutti i suoi compagni di sventura; non chiedeva
loro a
quale classe appartenessero, chiedeva solo se avessero bisogno qualcosa
e,
assieme ad altre donne iniziò a prendersi cura dei feriti e
delle madri con i
loro figli che avevano perso i loro compagni.
Quando il grosso dei naufraghi fu
recuperato, gli ufficiali
del Carpathia, con l’aiuto degli ufficiali in seconda del
Titanic,
ricostruirono il corso degli eventi e stilarono una lista
approssimativa dei
passeggeri del transatlantico affondato, chiedendo anche alle persone a
bordo
nomi e informazioni su possibili dispersi in modo da aiutarli a
ritrovare amici
e parenti separati durante gli imbarchi.
Essendo nell’elenco di
quelli di prima classe, Carole riuscì
subito a ritrovare suo marito Burt; ebbero solo il tempo di
abbracciarsi per
poi concentrarsi su ciò che per loro era più
importante: i loro figli. Girarono
disperati per tutta la nave chiedendo loro notizie ad ogni marinaio
munito di
un elenco di nomi o ad ogni persona che conoscevano ma con nessun
risultato.
Col cuore in gola, i due coniugi andarono nella sala adibita a
infermeria e
zona ospedaliera, passando in rassegna tutte le brandine, con la
speranza di
trovare Kurt e Finn, magari anche feriti ma almeno vivi. Arrivarono
anche a
sollevare le coperte per vedere meglio chi vi si nascondeva e nessuno
disse
loro nulla, forse per la stanchezza o più probabilmente
perché potevano capire
il loro stato d’animo.
- Eccolo –
scattò Carole ad un tratto, correndo verso una
determinata branda seguita da un pallido Burt.
C’era Finn su quella
brandina, con un braccio fasciato e un
occhio bendato e la schiena appoggiata interamente su un cuscino
sollevato. Una
ragazza minuta stava cercando di fargli mandar giù qualche
cucchiaio di brodo.
- Finn! Finn sei vivo –
disse Carole gettandosi ai piedi
della branda afferrando le mani del figlio, strappandogli un leggero
gemito –
Cosa gli è successo? – chiese con apprensione alla
ragazza che si era alzata in
piedi.
- E’ caduto nella scialuppa
dove mi trovavo – spiegò lei, la
voce fievole per l’agitazione – A quanto ho capito
ha spezzato una delle funi
che si era inceppata e che ci impediva di scendere in mare e quella
stessa fune
lo ha colpito all’occhio e lo ha fatto cadere. Io e due mie
amiche gli abbiamo
fasciato l’occhio meglio che potevamo, ma si è
ferito anche al braccio e alla
schiena. Dopo passerà il medico per visitarlo.
Ma le parole della ragazza, sebbene
ascoltate con attenzione
da Carole, furono subito coperte da quelle più forti,
allarmate, di Burt che
aveva raggiunto la moglie al capezzale di Finn dopo essere rimasto per
un bel
po’ fermo a guardarsi intorno, sperando di incontrare lo
sguardo di suo figlio.
- Dov’è Kurt?
– quasi urlò l’uomo, chinandosi su Finn
–
Finn, dov’è Kurt?
Finn non ebbe alcuna reazione, come
se avesse avuto due
bende su entrambi gli occhi invece di una.
Comprendendo il momento delicato, la
ragazza, mormorando
qualche parola di scuse che nessuno sentì, posò
la scodella di brodo su una
sedia lì vicino e se ne andò lanciando delle
occhiate colme di rimorso verso
quel doloroso terzetto.
- Finn, dimmi
dov’è Kurt? – strepitò di
nuovo Burt,
trattenendosi per non strattonare il ragazzo.
- Finn, ti prego,
cos’è successo? – ebbe solo la forza di
chiedere Carole , temendo il peggio.
- L’ho cercato dappertutto
– la voce di Finn uscì rauca e
gracchiante dal profondo della sua gola secca –
C’era tanta gente che correva e
urlava. Io lo chiamavo ma nessuno rispondeva. Poi quel ragazzo mi ha
chiesto di
aiutarli ed io ho usato l’accetta per tagliare la corda. Mi
hanno colpito in
faccia. Sono caduto. Ho cercato di ritornare indietro e risalire sulla
nave ma
la gente mi impediva di muovermi. Io dovevo risalire. Nessuno lo voleva
capire.
Non potevo lasciarlo solo. Dovevo trovarlo. Lui è mio
fratello… - quel confuso
ammasso di mezze frasi si ridusse ad un rantolo ripetuto
all’infinito , il
delirio di una mente sconvolta e ferita.
- O mio Dio, no! –
saltò su Burt, correndo come un pazzo
continuando a chiamare – Kurt! Kurt!
Mentre Carole affondava il viso nel
petto di Finn,
soffocando un grido, e suo figlio continuava a borbottare sotto voce in
maniera
lamentosa, senza pensare alla scarica di dolore che la stretta della
madre gli
causava.
* * *
Dopo essersi ristorate e riposate,
Quinn decise di salire
sul ponte con Beth, sia per far prendere un po’
d’aria a quest’ultima, sia per
farsi registrare e farsi dare notizie di Puck o di qualcun altro che
volesse
sapere della bambina. Il sole era sorto su un nuovo giorno e sullo
sfondo del
mare, quasi bianco dopo averlo visto completamente nero la notte prima;
ciò di
cui erano stati testimoni aveva lasciato i suoi segni su tutti, sulle
persone
che si erano autorecluse negli interni, su quelle che guardavano il
mare con
occhi sbarrati e rabbiosi, su chi vagava sul ponte del Carpathia come
uno
spettro, su Beth che, terrorizzata, rimaneva aggrappata a Quinn e il
visino
sepolto nell’incavo del collo della ragazza; e anche Quinn si
sentiva rabbrividire
e non certo per il freddo.
Disse il suo nome e quello della
bambina al primo marinaio
munito di elenco che incontrò e gli diede anche il nome di
Noah Puckerman e di
Shelby Corcoran (sperava di non aver sbagliato nome) cercando loro
notizie.
- Non sono sugli elenchi –
e Quinn si sentì morire a quelle
parole – Ma non dovete preoccuparvi; dobbiamo ancora
registrare altre persone e
chissà quante altre dobbiamo ancora recuperare. Provate a
domandare di nuovo
tra un’ora, o due – Quinn si sentì un
po’ rassicurato ma il senso di dolore non
la lasciò; diede un bacio a Beth fingendo di rassicurarla
quando, in realtà,
era lei ad aver bisogno di rassicurazione.
Si era completamente scordata dei
suoi genitori tanto che
rimase per qualche istante stupita quando sentì la voce di
sua madre chiamarla,
emozionata, seguita da una stretta soffocante. L’odore dei
capelli biondicci
che le solleticarono il naso era senza ombra di dubbio di sua madre.
- Oh, Quinn, Quinn –
piagnucolò la donna senza nemmeno
accorgersi della bambina tenuta in braccio dalla figlia che iniziava a
dimenarsi in mezzo a quelle due masse che quasi la schiacciavano
– Non hai idea
di quanta paura ho avuto. Temevo di non rivederti mai più.
Alle spalle di Judy Fabray, Quinn
vide avanzare anche la
figura di suo padre che, prima, le lanciò
un’occhiata basita che si cambiò,
poi, in truce e severa.
- Cosa ti è saltato in
mente!? – esclamò, spingendo la
moglie a lasciare la sua presa sulla figlia per guardarla in faccia
– Sai cosa
ci hai fatto passare? Tu... – proprio in quel momento Fabray
notò la bambina in
braccio a Quinn – E questa da dove salta fuori?
In quei pochi secondi, Quinn si era
già preparata a non dare
importanza a qualunque cosa il padre le avrebbe detto; ciò
che l’aveva spinta a
separarsi da loro quella fatidica notte era ancora viva dentro di lei
e,
sicuramente, suo padre non si era nemmeno sforzato di capirla. Per lui
era
stata una mossa ribelle dettata da un’indole capricciosa. Un
solo secondo e
aveva capito che non aveva motivi per mentire
sull’identità di Beth e sul
perché fosse con lei.
- Non la riconosci? –
chiese al padre, con una punta di
dispetto nella voce – No, non credo. Non ti sei nemmeno
preoccupato di vederla
quando è nata ma una certa somiglianza dovresti almeno
notarla.
- Quinn, dà questa
mocciosa a qualche marinaio e vieni
subito con noi – saltò su Fabray.
Aveva capito, come anche sua moglie
che guardava Quinn e
Beth come se stesse lottando per non stringerle ancora a sé
ma la figura
autoritaria del marito la frenava.
- No, io non verrò con voi
– rispose Quinn, con una serietà
disarmante.
- Quinn, per favore, smettila con
questo tuo atteggiamento –
replicò suo padre, con aria minacciosa – Fai come
ti ho detto ed evitiamo
scenate.
- Io non sto facendo nessuna scenata.
Sto solo dicendo che
non verrò con voi.
- Cosa diamine stai dicendo? Sei
impazzita!
- No, anzi adesso ragiono meglio di
prima.
- Quinn, ti avverto…
- E’ inutile – lo
interruppe Quinn senza scomporsi – Puoi
minacciarmi e strepitare quanto vuoi, ormai non mi interessa
più quello che
pensi, quello che hai da dire. Ancora non l’hai capito?
Eppure non ho tremato
quando ti ho visto né ho abbassato la testa. Non sono
più la
Quinn che conoscevi; la
vecchia Quinn è rimasta sul Titanic. Adesso so cosa voglio
fare della mia vita,
ho scoperto la forza che pensavo di non avere. Voglio essere libera e
indipendente, ne ho tutto il diritto.
- Quinn, ti avverto,
finché vivrai sotto il mio tetto…
- Qui non siamo sotto il tuo tetto e
non sono più una
bambina. Non ti sto chiedendo alcun permesso, ti sto solo riferendo le
mie
intenzioni; pensavo di essere stata chiara ieri notte ma, se invece non
lo sono
stata, torno a ripeterlo per correttezza: prendo la mia strada ed
è diversa
dalla vostra. Non riguarda più voi e me, ma solo
me… e lei – strinse un po’
più
forte Beth che stava guardando quella scena senza azzardarsi a fiatare,
guardando una volta Quinn e un’altra quei due signori a lei
sconosciuti.
Come Judy Fabray era sbiancata e
guardava la figlia con gli
occhi appannati dalle lacrime, Fabray era arrossito per la collera e
solo la
presenza di altre persone che andavano su e giù, con lo
sguardo smorto, fermò
la sua intenzione di gridare.
- Ah, sono queste le tue intenzioni
– disse lui, con una
calma inquietante – E come speri di sopravvivere nel mondo?
Non hai niente.
- Sono viva, sono sopravvissuta, ho
due bracca e due gambe
che funzionano… ho mia figlia. E questo basta.
Fabray sembrò sul punto di
scoppiare, più per il fatto di
non riuscire a trovare una risposta a quelle parole che per le parole
stesse.
Ma sì, che facesse pure come voleva; dopo solo qualche
giorno sarebbe ritornata
strisciando sotto il tetto paterno, allora avrebbe riso lui.
Sì, sarebbe andata
così, ne era certo… sì, sarebbe andata
così… sarebbe andata…
- Judy, vieni via –
ordinò alla moglie, facendo per
andarsene, ma lei non si mosse: spostò lo sguardo
dall’uno all’altra, come
stava facendo Beth solo che, a differenza di quest’ultima,
aveva più
consapevolezza e più possibilità di prendere
partito. Da una parte, ancora una
volta, c’era suo marito, l’uomo che amava
nonostante tutto, e dall’altra sua
figlia che era tutto ciò che lei non era mai stata, che
aveva vista bambina
fino a quel momento ma che adesso era la donna della quale ogni madre
è
orgogliosa. “Ho fatto così poco eppure come
è cresciuta. Mia figlia”. La donna
fece per dire qualcosa ma Fabray la richiamò nuovamente.
Judy non disse nulla;
lanciò un ultimo sguardo a Quinn e a
Beth e seguì il marito.
* * *
Le due scialuppe guidate
dall’ufficiale Lowe, che erano
ritornate indietro per recuperare qualche sopravvissuto tra le persone
finite
in mare, ritornarono con solo sei persone strappate ancora vive
dall’acqua
gelata; altre due erano morte assiderate dopo essere state ripescate ed
erano
state ributtate fuori bordo.
Tutti gli altri erano morti; 1.518
persone.
Quando anche quei sei sopravvissuti
furono issati a bordo
del Carpathia mediante delle barelle improvvisate, la maggior parte
delle 700
persone che aveva a lungo atteso capì che non avrebbe mai
più rivisto i suoi
parenti, i suoi amici, i suoi cari. Puck, Shelby, Kurt, Blaine, Mike,
Tina,
Dave e altri mille nomi; di loro non era rimasto altro che un freddo
involucro
ricoperto di ghiaccio galleggiante sull’acqua.
“Come potrò
dirle cos’è accaduto?” pensò
Quinn, guardando Beth
che, vedendo alcuni bambini aveva preferito scendere dal suo fianco per
unirsi
a loro. “Dovrò dirle di suo padre, di Shelby, di
questa notte ma non adesso;
non ce la farei”. Come stava giocando tranquilla con quei
bambini ed anche loro
erano così sereni come se fosse stato tutto un brutto sogno.
Non c’è posto per
il dolore nella mente di un bambino.
Erano su un ponte aperto in direzione
della prua e lì,
aggrappata alla balaustra, una dei tanti spettri, Carole Hummel-Hudson.
Subito
le si avvicinò con timore, leggendo in quello sguardo perso
il dolore per una
perdita.
- Signora Carole? – la
chiamò piano.
La donna si voltò con uno
scatto; Quinn non si era
sbagliata: sul suo volto era disegnato un dolore di quelli che lasciano
un
segno indelebile.
- Oh, Quinn – disse Carole
con voce fievole, cercando
inutilmente di sorridere – Sono felice che anche tu ce
l’abbia fatta.
- E vostro marito? E Finn?
E… Kurt? – si informò Quinn.
- Anche Burt e Finn sono qui. Kurt,
invece… - Carole non
riuscì a completare la frase perché
un’ondata di lacrime le si bloccò in gola
costringendola a coprire un singhiozzo con la mano. Quinn si
sentì morire
ancora una volta. Era bastata una sola notte a farle perdere il
compagno e
l’amico, a cambiare in maniera così drastica
un’intera esistenza.
- Mi dispiace –
mormorò la ragazza.
- Come è potuta accadere
una cosa simile? – chiese Carole,
non sapendo nemmeno a chi e, in fondo, non aveva nemmeno importanza
– Perché è
successo?
- Non lo so – le rispose
Quinn, perché quella era l’unica
risposta. Non lo so.
Senza che se lo aspettasse, Quinn
sentì Beth afferrarle la
mano con entusiasmo e trascinarla via, con un sorriso emozionato in
volto,
verso un gruppetto di bambini che si era radunato attorno ad una donna
che
faceva ascoltare loro un’allegra musichetta da un piccolo
carillon a forma di
maialino pezzato che suonava dopo avergli tirato la coda, invitando i
bambini a
fare lo stesso*.
Lì intorno si poteva
sentire ciò che non ci si aspettava di
ascoltare in tutta la nave: la risata di un bambino. La vita
continuava,
nonostante tutto. Anche e soprattutto quella di Beth che saltellava
come una
molla, ridacchiando come tutti gli altri bambini ogni volta che la coda
del
maialino veniva tirata. Quinn non trattenne un sorriso che premeva per
uscire.
Così le vide Mercedes che,
quando ritornò da Rachel e Sugar,
disse loro che almeno una vita era stata risparmiata.
* * *
Dopo quattro giorni di viaggio, il
Carpathia arrivò a New
York, di notte, sotto una pioggia scrosciante illuminata solo dai fari
piazzati
sul porto per aiutare i parenti a ritrovarsi e anche dai flash dei
fotografi
che non aspettavano altro che immortalare il momento dello sbarco dei
sopravvissuti e farsi raccontare dai testimoni l’intera
dinamica dei fatti
accaduti.
Raccolte sotto un ampio cappotto per
ripararsi dalla
pioggia, in mezzo a tutti gli altri sopravvissuti di terza classe,
c’erano
anche Mercedes, Rachel e Sugar.
- Chi l’avrebbe mai
immaginato, quando siamo partiti, che
saremo arrivati come un corpo privo di un arto –
meditò Mercedes, guardando le
luci della città farsi sempre più nitide.
- Nessuno avrebbe mai potuto
immaginare una cosa simile –
replicò Rachel che, tra le tre, sembrava quella che meglio
riusciva a resistere
al corso degli eventi – La vita è anche questo,
purtroppo.
- Che cosa faremo, adesso?
– si chiese Sugar, debolmente,
rifugiandosi sotto il braccio di Mercedes.
- Tutto quello che avevamo in mente
di fare all’inizio di
questo viaggio – le rispose Mercedes, riparandola meglio
dalla pioggia – Quello
che abbiamo passato non deve fermarci; tutto andrà come
doveva andare, con i
nostri sogni, le nostre speranze. Ci vorrà ben altro che un
naufragio per
abbatterci.
- Intanto scendiamo – disse
Rachel con un sospiro – Non vedo
l’ora di toccare terra.
E quando il Carpathia, finalmente,
attraccò, le luci vennero
puntate sulle passerelle, dalle quali scesero prima i passeggeri di
prima
classe sui quali scattarono i primi flash, sui coniugi Duff-Gordon che
già
avevano stampato sulle loro fronti il marchio dei codardi, su Madeleine
Astor,
neo sposa e già vedova e su tutto ciò che
rimaneva dei nomi del gran mondo; in
mezzo a loro, nella maniera più anonima possibile, scesero
anche i coniugi
Fabray, più dignitosi di quanto non erano mai stati; venne
poi data la
precedenza ai feriti e agli invalidi e con loro scesero gli
Hummel-Hudson,
azzoppati senza uno dei loro cari, e Sue Sylvester che sosteneva per le
spalle
un ragazzo col piede congelato; per finire, accompagnati solo
dall’interesse
dei parenti in attesa, scesero anche i passeggeri di seconda e di terza
classe.
Con loro scesero, sotto un enorme cappotto, Rachel e Mercedes e Sugar
e, con in
braccio Beth insonnolita che si copriva gli occhi per non farsi
accecare da
quelle luci troppo forti, anche Quinn, in lei la forza e la decisione
di chi
vuole iniziare e affrontare la vita che prosegue in una nuova
direzione.
Quando anche l’ultimo
passeggero toccò il suolo americano e
le passerelle furono ritirate, i fari si spensero come le luci di un
palcoscenico alla fine di uno spettacolo. Se la fu, fu solo la fine di
un primo
atto.
Quando
ripenso a tutte
le persone che conoscevo e che si trovavano lì con me, su
quella nave e che
sono affondate assieme ad essa, mi domando sempre: perché io
sono sopravvissuto
e loro no? Sono finito su quella scialuppa solo per sentire il pianto
di mia
madre? E la disperazione di Burt? Per leggere le mie stesse domande sul
volto
di tutte quelle altre persone che si sono salvate?
Quando sono
partita da
Southampton ero ancora una ragazza della buona società che
credeva che tutto le
fosse concesso perché apparteneva ad una classe
più elevata; solo ora, dopo
aver visto quanto può costare la separazione in classi,
quanto può essere
straziante l’urlo di centinaia di persone che muoiono
nell’acqua gelata, mi
sento veramente una donna in dovere di farsi carico del suo ruolo nel
mondo e
il mio ruolo non sarà facile ma ce la farò a
sostenerlo. Perché ho la vita
dalla mia parte. Mi chiamo Quinn Lucy Fabray e questa è
Beth, mia figlia.
Kurt Hummel, Shelby Corcoran,
Noah Puckerman,
Dave Karofsky, Blaine Anderson, Tina Cohen Chang, Mike
Chang… Persone
che conoscevamo e altre che invece abbiamo, forse, solo intravisto in
uno di
quei corridoi adesso sommersi dalle acque e dove si aggirano solo le
creature
delle profondità dell’oceano.
Ci hanno
ossessionati
con i loro richiami e le loro richieste di aiuto quando noi non li
ascoltavamo;
adesso che noi li chiamiamo sono loro che non ci ascoltano.
* * *
Il naufragio del Titanic
segnò la fine della Belle Epoque,
l’epoca del “progresso” e
dell’illusione di aver raggiunto una nuova età
dell’oro con il suo mondo ricco e pieno di sorrisi
soddisfatti e vanagloriosi.
Due anni dopo, a Sarajevo, un altro
tragico avvenimento
scatenò l’irreparabile e quel secolo che era stato
salutato come l’epoca della
prosperità sarebbe stato soffocato dal fumo della Prima
Guerra Mondiale.
FINE
Nota
dell’autore:
* La donna in questione era Edith
Russel (1879-1975),
passeggera di prima classe che, prima di salire su una scialuppa,
ritornò in
cabina solo per recuperare il suo portafortuna: un carillon a forma di
maialino
pezzato. Ed ecco il maialino (del quale oggi non rimangono che pochi
frammenti
battuti all’asta):
http://i.telegraph.co.uk/multimedia/archive/02649/titanic-musical-pi_2649693k.jpg
Ed eccoci, finalmente, giunti alla
conclusione di questa
storia. Vi ho fatto penare e vi chiedo scusa; se può
consolarvi, ho sofferto di
più io ad arrivare alla conclusione.
Avrei voluto che mi riuscisse meglio
come finale visto che
mi è venuto un po’ troppo stiracchiato,
specialmente verso la fine ma con la
testa sono già ad una OS che mi è venuta in mente
qualche settimana fa. Sì
perché, tranne una rara eccezione (coff*smut*coff)
passerò alle OS per il
momento.
Mi permetto di concludere qui,
ringraziando di cuore tutte
le carissime persone che mi hanno seguito in questo
“viaggio” (scusate il
triste esempio), che hanno inserito questa fanfiction tra le preferite,
le
ricordate e le seguite, chi mi ha fatto sapere la sua opinione e chi ha
semplicemente letto; mi avete dato voi la forza di arrivare fino al
capitolo
finale J
Se volete continuare a seguirmi e per
sapere quando posterò
la mia OS e un’altra possibile mini-long
(coff*smut*coff*smut*coff*smut*coff) questo
è l’indirizzo della mia pagina facebook: http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
Mando un
“Ciaoooooo” a tutti e auguro una buona visione a
chi vedrà la diretta stanotte (io no perché ho
sempre la sveglia alle sette -
-‘)
Lusio
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1235442
|