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di CYBERpunk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 ***
Capitolo 2: *** 02 ***
Capitolo 3: *** 03 ***
Capitolo 4: *** 04 ***
Capitolo 5: *** 05 ***



Capitolo 1
*** 01 ***


Chapter 1

Photobucket

“I giuramenti sono soltanto parole, e le parole soltanto vento.”
─ Samuel Butler, Hudibras, 1663/78

PhotobucketREW (6 years ago)
«Aspetta!» urlò Abel, uscendo dal cancello del giardino e cominciando a correre in direzione dell'automobile rossa parcheggiata vicino al marciapiede. Sentì il respiro diventare sempre più corto e affannoso e le gambe dolergli un pochino, ma non gli importava. Tutto ciò che voleva era raggiungere la macchina prima che quella si accendesse e portasse via il suo migliore amico per sempre.
«Abel?» disse un bambino dai capelli scuri, affacciandosi con fare incuriosito dal finestrino.
«Dunstan!» esclamò Abel, con voce rotta dalla fatica, felice di aver raggiunto l'automobile in tempo «Non andare via!» lo pregò «Non andare via oggi!»
Dunstan abbassò lo sguardo con aria quasi colpevole, poi però i suoi occhi scuri tornarono a fissare con decisione quelli più chiari dell'amico.
«Non posso. La mamma ha preparato tutte le valigie e in casa non c'è più niente.» rispose, sporgendosi dal finestrino «Ma tanto ci rivedremo, no? La nuova casa non è tanto lontana.»
Abel scosse la testa così tante volte che i suoi capelli biondi divennero una massa arruffata e informe.
«Invece è lontanissima!» protestò, sentendo le lacrime salirgli nuovamente agli occhi, sforzandosi di non farle cadere giù «Non ci si arriva né a piedi né in bicicletta e anche in macchina ci vuole un sacco!»
Dunstan sospirò, cercando di nascondere la tristezza ma non riuscendoci molto bene.
«Se non ci ci vediamo, possiamo sempre scriverci delle lettere.» disse, con una traccia di speranza nella voce «Ce le scambiamo ogni tanto e ci teniamo in contatto finché non possiamo rivederci.»
Era una cosa che aveva già detto ad Abel, ma comunque la ripeté ancora una volta come se fosse la prima, come se potessero restare amici davvero scrivendosi delle lettere. Dunstan ci credeva. Sapeva che tutto sarebbe cambiato, ma quella era una cosa ormai necessaria ed inevitabile. L'importante era che niente svanisse del tutto.
«M-ma...» singhiozzò Abel, che intanto non era riuscito a trattenere il pianto «...io scrivo male!»
Dunstan ridacchiò, ben conscio che la scrittura dell'amico sembrava più un ghirigoro continuo che un insieme di lettere. Poi sfoderò il suo miglior sorriso e cercò di convincere Abel che sarebbe andato tutto bene, più o meno.
«Non ti preoccupare, sono abituato a decifrare la tua scrittura strana. Non sarà un problema.»
Abel tirò su col naso e si strusciò il volto coperto di lacrime con una manica della maglia.
«Va bene...» sussurrò, calmatosi appena.
«Mia mamma sta tornando da casa con le ultime valigie.» disse Dunstan, con voce piatta, prima di osservare Abel «Ti prometto che ci sentiremo! Aspetta la mie lettere, perché te ne scriverò molte!»
Abel fece segno di sì, mordendosi le labbra per non scoppiare nuovamente a piangere e tremando un po'.
«E tu aspetta le mie.» disse, rosso in viso «Te ne scriverò tante tante. Tantissime! E le tue lettere saranno un tesoro, finché non ci rivedremo. Te lo prometto.»
La madre di Dunstan troncò quel dialogo entrando in fretta in macchina ed accendendo il motore, salutando appena Abel con un leggero movimento della mano.
«Me lo prometti?!» urlò Dunstan, affacciandosi fuori dal finestrino mentre la macchina faceva retromarcia per uscire dal parcheggio ed entrare in strada. Abel scese dal marciapiede.
«Sì!» urlò, mentre la macchina partiva «Te lo prometto!»

PhotobucketPLAY (today)
Dunstan socchiuse gli occhi, lasciando filtrare un po' di luce mattutina dalle palpebre. Nella sua mente vedeva ancora e ancora quella scena come se fosse stata un film. Si ricordava il volto rosso e accaldato di Abel, i suoi capelli spettinati che si scompigliavano al vento fresco dell'estate e la sua voce alta che parlava un po' indecisa. Si ricordava il motore della macchina che si accendeva ed il proprio cuore che perdeva un battito, conscio che non avrebbe rivisto per molto tempo la sua casa ed il suo migliore amico. Dunstan si ricordava questa parte della sua vita come poche altre. Era stata la più dolorosa e straziante, la più ingiusta e quella che sempre gli tornava in mente. A scuola, a casa, a letto, in macchina. Dunstan aprì completamente gli occhi, sprofondando nel sedile e sospirando d'insoddisfazione e di stanchezza mentre sentiva la cintura di sicurezza irritargli il collo. Aveva molte foto di Abel, ma non servivano a niente, perché Dunstan se lo sarebbe ricordato comunque. Aveva passato i primi undici anni della sua vita appiccicato a quel ragazzino timido e impacciato. Aveva condiviso con lui ogni cosa, tanto che quel bambino biondo e magrolino non era stato né un fratello né un amico per lui, ma entrambi. Giusto: era stato.
«Dunstan?» domandò Anika, la madre del ragazzo, gettando un'occhiata nello specchietto retrovisore per controllare cosa stesse facendo il figlio.
«Mamma.» rispose Dunstan, semplicemente «Tutto okay. Non hai bisogno di preoccuparti.» le disse, conoscendo fin troppo bene la natura ansiosa e iperprotettiva della madre. Quest'ultima sospirò, intimandosi mentalmente di stare calma, cercando di fare una scaletta delle cose più importanti. Non riuscendosi a controllare, lasciò perdere la scaletta e chiese al figlio: «Cosa pensi di fare con Abel?»
Dunstan le lanciò un'occhiata glaciale dal finestrino, così nera e fosca che la madre si zittì di colpo e non pretese alcuna risposta. Tuttavia, insperatamente, la risposta arrivò comunque:
«Per prima cosa mi accerterò che abiti ancora nella vecchia casa.» disse Dunstan, con voce strana, quasi disinteressata «Se così non fosse, non avrei più alcun problema.» concluse. Ma il suo fare distaccato e disinteressato era soltanto una stupida maschera creata dal suo orgoglio. In realtà Dunstan sperava ardentemente di incontrare ancora una volta Abel. Voleva vederlo, voleva disperatamente vederlo. Così avrebbe potuto dirgli in faccia che lo odiava.

Dunstan prese il suo zaino e se lo mise in spalla, sentendo il peso dei libri di scuola, dei vari CD di musica classica e di qualche altro vecchio e inutile oggetto che aveva voluto tenere con sé durante il viaggio. Sceso dalla macchina, riconobbe in un solo istante l'edificio davanti a sé. Era la sua vecchia casa e, nonostante l'avesse lasciata ad appena undici anni, se la ricordava molto bene. Il giardino con un alberello dai fiori celesti, le pietre tonde e lisce che dal giardino erboso portavano all'ingresso della casa, le pareti giallognole con diversi graffi, ma non troppi... tutto era così bello e familiare. Aveva soltanto ricordi belli di quella casa. Forse era proprio per questo che tornarci dopo così tanto tempo gli faceva quello strano effetto. In quei sei anni passati erano cambiate così tante cose – e per primo era cambiato lui stesso – che non riusciva più a guardare quella casa con gli occhi di quando l'aveva lasciata.
«Dentro dovrebbero già esserci almeno i mobili essenziali, perciò io intanto entro!» urlò la madre, trascinando due o tre valigie che aveva voluto portare tutte in una volta. Dunstan fece scorrere gli occhi sulla propria casa, ma non riuscì a vincere l'istinto di voltarsi per osservare ancora più attentamente l'abitazione vicina. Quella che, almeno sei anni prima, era stata di Abel e della sua famiglia. Con un enorme sollievo che lui stesso odiò provare, vide che la casa non era né stata demolita né abbandonata in tempi recenti. Tutto sembrava essere al proprio posto e anche il giardino, discretamente curato, indicava che qualcuno abitava lì. Il problema era chi fosse questo “qualcuno”. Dunstan rimase per un attimo fermo, impalato in piedi sul vialetto della sua vecchia-nuova casa. Poi decise di colpo che voleva togliersi la soddisfazione di vedere se quel bastardo di Abel viveva ancora lì oppure no. Appoggiò lo zaino sul vialetto di casa, uscendo dal cancello e sbirciando il campanello della villetta vicina. Con suo grande fastidio notò che il nome era praticamente cancellato del tutto, tanto da diventare illeggibile. Nonostante ciò, Dunstan rimase a guardare quel quadratino di plastica incomprensibile chiedendosi cosa avrebbe fatto se Abel fosse stato ancora lì. Lo avrebbe trattato male? Lo avrebbe salutato come un amico? Sarebbe stato curioso di rivederlo? O forse, molto più semplicemente, gli avrebbe chiesto il perché del suo lungo silenzio? Gli avrebbe chiesto: “Ehi, come mai non ti sei fatto sentire per sei anni nonostante ti abbia mandato un sacco di lettere? Perché hai rotto la promessa?”. Ma sapeva che farlo sarebbe stato un gesto piuttosto infantile e sciocco. Probabilmente se Abel non gli aveva scritto significava che non gli voleva abbastanza bene o che la questione non gli importava a sufficienza. Ma a Dunstan di Abel importava. Era rimasto come uno sciocco ad aspettare per un intero anno anche una sola lettera dell'amico. E invece... niente. Nulla. Vuoto totale. Abel gli doveva almeno una spiegazione logica. Era passato tanto tempo, ma ciò non importava. Le promesse non hanno una scadenza.

Il campanello suonò con un trillo acuto. Dunstan sobbalzò, sorpreso nel sentire quel suono fastidioso nonostante fosse abbastanza lontano dalla casa. Si sentiva nervoso e non era sicuro di voler fronteggiare Abel proprio in quel momento, ma il desiderio e la curiosità di rivedere il suo vecchio migliore amico erano troppo forti. Per questo aveva suonato. Inoltre voleva togliersi da subito la tortura del non sapere se Abel viveva ancora lì oppure no. In ogni caso era convinto che, qualunque fosse stata la risposta, sarebbe stata una delusione.
Il cancello di ferro si aprì con un “clank” arrugginito e Dunstan, dopo sei anni di assenza da quel luogo a lui caro, tornò in quel giardino. Si diede un'occhiata intorno, notando che ben poco era cambiato, per poi dirigersi in fretta verso la porta principale. Quest'ultima si aprì qualche attimo dopo, mostrando un giovane dark con degli enormi occhiali da sole scuri intento a masticare rumorosamente un chewing gum rosa. Dunstan strinse i pugni, deluso al pensiero che, ovviamente, Abel non abitava più lì. Ma ormai tanto valeva chiedere.
«Mi scusi il disturbo,» cominciò Dunstan, elegante e preciso come era nel suo stile «vorrei soltanto chiederle un'informazione. Anni fa in questa casa abitavano gli Harp, per caso sono ancora qui o nelle vicinanze?»
Il ragazzo dark fece una bolla rosa con la gomma da masticare e poi la fece scoppiare con un rumore secco, cosa che diede oltremodo fastidio ai nervi di Dunstan.
«Sì, sì, abitano qui. Che vuoi?» rispose il ragazzo, il volto mezzo nascosto dagli occhiali enormi. Dunstan sollevò le sopracciglia, sorpreso e contento da quella risposta inaspettata. Nonostante tutto, rivedere ancora Abel gli avrebbe fatto molto piacere. Anche se ovviamente non l'avrebbe mai ammesso.
«Cercavo Abel. Sa se è in casa? Sono un amico.» disse, cercando di mantenersi calmo e riuscendoci, almeno apparentemente parlando, perché in realtà la sua mente stava diventando sempre più scura e vuota.
Il tipo vestito di nero esitò un attimo, poi si mostrò alquanto interdetto. Beh, probabilmente. Dunstan non poteva dirlo con certezza perché non riusciva a vederlo molto bene, a causa degli occhiali che gli coprivano quasi metà volto.
«Sono io.» disse lo sconosciuto, prima di far scoppiare un'altra bolla di chewing gum «E tu chi sei, scusa?»
Dunstan rimase per un attimo fermo, senza rispondere. Squadrò ripetute volte la figura del dark senza riuscire a riconoscervi Abel. Sì, quel tipo aveva i capelli biondi e la pelle chiara, ma... non assomigliava al suo vecchio amico. Non poteva essere lui.
«Sei Abel? Abel Harp?» chiese nuovamente Dunstan, nonostante lui stesso avesse affermato diverse volte di odiare le persone che si ripetevano in continuazione. Il ragazzo si appoggiò con noia allo stipite della porta e sembrò abbastanza scocciato.
«Sì, ma si può sapere chi sei? E poi, non ti hanno aggiornato? Adesso mi chiamo Ai.» disse, mettendo le mani nelle tasche dei pantaloni scuri di jeans. Dunstan spalancò gli occhi. Come aveva fatto il suo amico Abel, timido e strano, sempre in cerca di attenzioni, dolce e gentile, a diventare una persona del genere? Dunstan non riusciva a capire. Si era immaginato diverse volte il loro incontro, dopo tutti quegli anni, ma per quanto spesso la sua fantasia gli avesse suggerito scene strane o irreali, lui non si sarebbe mai aspettato qualcosa del genere.
«Sono... sono Dunstan. Abel... sono Dunstan.» disse, semplicemente. I suoi propositi di mostrarsi arrabbiato erano svaniti in parte per la sorpresa, in parte per la felicità di rivederlo. Sì, era felice di poterlo incontrare di nuovo. Dopo quel terribile anno durante il quale non era arrivata nessuna lettera, Dunstan si era convinto che non avrebbe potuto vedere mai più Abel. Eppure, non era così. Anche se adesso tutto era cambiato... poterlo rivedere di nuovo era una buona cosa.
Il ragazzo dark rimase fermo, immobile. Soltanto dopo diversi secondi portò lentamente la mano agli occhiali e se li tirò su, scrutando con gli occhi azzurri Dunstan e spalancando appena la bocca. Quando Dunstan vide gli occhi belli e fini del ragazzo poté finalmente riconoscere in lui Abel. In un secondo, entrambi si riconobbero a vicenda e fecero un passo indietro.
«Dunstan!» esclamò Abel, sorpreso e contento, spalancando gli occhi chiari.
Dunstan non riuscì a non sorridere, e stava già pensando di abbracciare Abel come se niente fosse, perdonandogli qualsiasi cosa avesse fatto in passato, quando lo sguardo di quest'ultimo divenne arrabbiato ed il biondino si riabbassò di scatto gli occhiali.
«Dunstan, non avrei pensato di dirlo.» sussurrò Abel, incrociando le braccia «Ma visto che ne ho l'opportunità... VAI AL DIAVOLO!» urlò, e gli sbatté la porta in faccia.

Chapter 1 --- Fine


\\inizio trasmissione in corso...
salve, sono CYBERpunk. se avete letto tutto il primo capitolo, spero vi sia piaciuto. nel caso voleste recensire, sia positivamente che negativamente, oppure farmi domande o altro, sarò contentissima di leggere i vostri commenti. un saluto ;-)
\\fine trasmissione



Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è da considerarsi puramente casuale.
Per l'immagine di inizio capitolo ringrazio fennyy (http://fennyy.deviantart.com/).
Il testo qui presente appartiene a CYBERpunk (http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=208397),
è perciò vietata la sua riproduzione in qualsiasi forma. Ringrazio per l'attenzione.

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Capitolo 2
*** 02 ***


Chapter 2

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“Non ho mai lasciato che la scuola interferisse con la mia educazione.”
─ Mark Twain

PhotobucketPLAY (today)
Dunstan guardò l'alto edificio grigio e monotono davanti a sé, sospirando e cercando di fare mente locale sugli obiettivi che si era prefissato per quella giornata. Era il primo giorno di scuola, o per meglio dire, era il suo primo giorno di scuola. Invece di sentirsi così scocciato e poco motivato, avrebbe dovuto essere riconoscente alla preside che lo aveva ammesso nella scuola nonostante l'anno scolastico fosse quasi a fine. Tuttavia Dunstan non riusciva ad essere contento di quella situazione a causa di diversi motivi. Primo: nella vecchia scuola era il migliore della classe e aveva la fama di essere un ragazzo intelligente e studioso. Adesso che era in una classe dove nessuno lo conosceva, avrebbe dovuto ricostruire questa fama daccapo, il che era una bella scocciatura. Secondo: la classe di Dunstan era anche quella di Abel. Dunstan se n'era accorto pochi giorni prima, dopo aver guardato l'elenco dei compagni di classe appeso alla bacheca della scuola. Ciò non avrebbe dovuto sorprenderlo così tanto, perché le classi terze erano solo due. Questo significava che Dunstan aveva ben il cinquanta percento di probabilità di ritrovarsi in classe con Abel. Ma chissà perché, fino all'ultimo momento Dunstan aveva sperato che non andasse così.
«Buongiorno!»
Dunstan si voltò, sorpreso di sentirsi salutare da una voce sconosciuta. Si trovò davanti un ragazzino basso, magro, occhialuto e con l'aria da nerd secchione. L'apparecchio ai denti non aiutava.
«Buongiorno.» ricambiò Dunstan, sorridendo e cercando di apparire gentile, nonostante in realtà fosse un po' distante. Ma d'altra parte, faceva parte della sua personalità essere un po' freddo.
«Piacere di conoscerti, sono Martin, il rappresentante di classe.» disse il ragazzino, porgendogli la mano «La preside mi ha detto che ti sei appena trasferito, benvenuto nella scuola.»
Dunstan questa volta sorrise un po' più spontaneamente, stringendo la mano a Martin ed essendogli grato per la gentilezza.
«Grazie, sei molto cortese.»
Martin ridacchiò, imbarazzato, prima di dare una veloce occhiata all'orologio.
«La prima campanella è suonata da poco, abbiamo circa sette minuti per fare un veloce giro della scuola. Ti va? Come rappresentante è un piacere e un dovere.» disse, aggiustandosi gli occhiali che gli stavano scivolando sul naso. Dunstan fece segno di sì e così cominciò il giro della scuola. In realtà Dunstan l'aveva già vista quando era venuto, mesi prima, per iscriversi. Tuttavia il veloce giro con Martin fu assolutamente illuminante. La scuola era grandissima, ma mezza vuota. Perdersi era facilissimo. Inoltre tutti i corridoi erano praticamente uguali. Martin gli mostrò la stanza della preside, quella dei professori, i bagni e la mensa. Infine entrambi corsero verso l'aula della III A, la loro classe, riuscendo ad entrare appena prima del suono della seconda ed ultima campanella. Dunstan si trovò in un'ampia aula rettangolare riempita di banchi soltanto per metà. Subito a destra della porta c'era la cattedra con la lavagna, poi, lontanissime, cominciavano le file di banchi, che erano in totale tre. Martin, vedendo che Dunstan era rimasto sorpreso dalla sistemazione dei banchi, si affrettò a spiegare:
«La mattina i banchi sono sempre ordinati, ma appena prima dell'arrivo dei professori li spostiamo tutti più indietro sfruttando lo spazio dell'aula vuota per non essere troppo vicini alla cattedra.»
Dunstan ridacchiò, convenendo che in effetti c'erano quasi tre metri tra la cattedra e la prima fila di banchi. Sperò che i professori non fossero così terribili da dovergli stare lontano tre metri ogni volta.
«Posso mettermi a sedere in un banco a caso?» domandò, cominciando a guardarsi in giro e vedendo che gli altri studenti lo fissavano incuriositi. Martin sventolò le mani in segno di diniego.
«Assolutamente no!» esclamò, preoccupato «Ognuno ha il suo banco, e se per caso prendi il banco a qualcuno, succederà un casino. Puoi prendere solo i banchi vuoti. Li riconosci perché non c'è mai scritto niente sopra.» aggiunse, indicando dei banchi completamente vuoti «Mentre quelli occupati di solito hanno un nome o un nickname scarabocchiato in un angolo.»
Dunstan diede un'occhiata ai banchi più vicini e vide che, in effetti, a matita o a penna c'era scritto qualcosa negli angoli in alto a sinistra.
«Se vuoi, per oggi puoi stare seduto nel banco accanto al mio. E' occupato, ma credo che Lucy te lo possa lasciare. Sai, di solito sono io che aiuto gli studenti nuovi il primo giorno.» disse Martin, dirigendosi verso un banco della seconda fila e appoggiandovi la cartella. Dunstan stava per ribattere che non aveva “bisogno di aiuto”, ma poi si rese conto che Martin non lo aveva detto con cattiveria o altezzosità, perciò lasciò perdere e si sedette accanto a lui. Poco dopo arrivò una ragazza, probabilmente Lucy. Per un attimo rivendicò il banco, ma poi rimase a sentire quello che le diceva Martin e se ne andò con un'alzata di spalle. Dunstan si chiese se Martin fosse soltanto un rappresentante secchione o se in realtà fosse una specie di capoclasse riverito e rispettato. Anche se con quell'aspetto da sfigato era difficile credere alla seconda ipotesi. Poco dopo il suono della seconda campanella entrò in classe una professoressa che salutò molto gentilmente Dunstan e gli offrì il suo aiuto. Dunstan rispose che non ne aveva bisogno e la lezione cominciò.
«Quella è la prof. di lettere, Vanila. Di solito è carina, ma a volte ha degli scatti di ira.» lo informò Martin mentre la professoressa Vanila cominciava a fare l'appello.
«Già, ricordati che appena comincia ad avere un tic all'occhio sinistro vuol dire che si sta incazzando.» aggiunse un ragazzo alto e dai capelli scuri, seduto a destra di Dunstan. Dunstan gli sorrise e poi disse, sottovoce:
«Ehi, piacere. Sono Dunstan.»
L'altro gli fece l'occhiolino.
«Manuel.» rispose, semplicemente.
Proprio in quel momento Dunstan si rese conto che in classe non c'era Abel. Si guardò intorno ancora una volta, ma non lo vide. Che avessero sbagliato a scrivere nel foglio in bacheca? Magari il nome di Abel era finito per sbaglio fra quelli dei ragazzi della III A. “Se avessi sentito l'appello, invece di distarmi, adesso lo saprei” si disse Dunstan, un po' infastidito. Per un attimo pensò quasi di chiederlo a Martin, ma poi preferì evitare, perché non gli andava di raccontare dettagli privati della sua vita a qualcuno che conosceva appena da un'ora. E, beh, sì: Abel era un dettaglio privato.
«È vero che ti sei trasferito da poco?» domandò Martin, che evidentemente non aveva voglia di stare a sentire la lezione sul decadentismo dell'Ottocento. Meno un punto al suo status di secchione. Dunstan lasciò perdere il tentativo – poco riuscito – di stare attento e si voltò per rispondergli.
«Sì, una settimana e mezzo fa.»
Martin rimase un attimo in silenzio, poi aggiunse:
«Perché?»
Dunstan non aveva voglia di rispondere a quella domanda, ma era obbligato dalla gentilezza e da tante altre qualità che lui stesso si era imposto di avere. Per fortuna, però, non ebbe il tempo di parlare, perché la porta si aprì di scatto e Abel entrò.

Quel giorno Abel era conciato ancora peggio di quando Dunstan l'aveva visto a casa sua. Era vestito completamente di nero ed i pantaloni attillati di jeans scuro erano mezzi strappati sulle ginocchia. Delle lunghe catene di metallo pendevano dalla cintura borchiata, per poi riallacciarsi ai jeans. Gli stivali erano neri – come tutto il resto – e dalla suola terribilmente alta. Probabilmente Abel acquistava circa una decina di centimetri grazie a quelle specie di zeppe metallare. L'unica nota chiara in quella sorta di Dracula teenager erano i capelli, biondi e un po' mossi. Nonostante tutto, comunque, Abel non era brutto, al contrario la sua apparenza era bella e inquietante, quasi come se il ragazzo fosse stato un angelo della Morte. Dunstan era così perso ad osservare Abel che si rese conto soltanto dopo un po' di Martin, che gli stava tirando la manica della maglietta per attirare la sua attenzione.
«Quello è Ai, ma ti consiglio di non parlargli, è un tipaccio.» gli sussurrò.
«Ai?» chiese Dunstan, sorpreso di sentire quel nome.
«Sì.» annuì Martin «Il suo vero nome è Abel, ma non risponde se lo chiami in quel modo.»
Intanto Vanila si era alzata, scandalizzata, mentre tutti gli occhi degli studenti erano puntati su Abel.
«È forse questo il modo di entrare? In ritardo, per di più!» si arrabbiò la professoressa.
Abel non la degnò di uno sguardo e senza dire niente andò a sedersi al proprio posto, quasi lasciando cadere la borsa a tracolla nera sul pavimento e facendo un po' di confusione. Probabilmente la professoressa ci era abituata, perché non aggiunse niente e si limitò a segnare il ritardo sul registro con una smorfia arrabbiata.
«Perché si fa chiamare Ai?» domandò Dunstan, continuando a tenere gli occhi fissi su Abel. I due banchi accanto a lui era vuoti.
«Non ne ho idea.» gli disse Martin.
«E perché dici che è un tipaccio?» continuò Dunstan, non facendo niente per nascondere il suo interesse. Martin sembrò un po' a disagio a parlare dell'argomento, ma Dunstan gli fece segno di darsi una mossa a rispondere e l'altro non ebbe scelta.
«Beh... non studia mai, è scortese con tutti e viene da una famiglia poco raccomandabile.»
Dunstan spalancò gli occhi, chiedendosi come avesse potuto Abel diventare così malfamato.
«”Famiglia poco raccomandabile”? Cos'ha che non va?»
Martin si morse le labbra, probabilmente maledicendosi per aver introdotto l'argomento “Abel” invece di essere rimasto zitto.
«Il padre non vive più nella loro casa e la madre ha un uomo diverso ogni mese.» rispose, per poi aggiungere in fretta «Ma non chiedermi altro.»
Dunstan si rese conto che ormai aveva sfruttato Martin al massimo, perciò lo ringraziò e rimase fermo a guardare Abel, che ancora non si era accorto di lui. Quando Dunstan aveva traslocato, sei anni prima, la famiglia di Abel era a posto. Non la più perfetta del mondo, certo, ma comunque a posto. Come aveva fatto a cambiare tutto in così poco tempo? Ma alla fine sei anni erano tanti o pochi? Dunstan non sapeva neppure questo. Un po' turbato da quella situazione, rimase a fissare Abel per l'intera durata delle prime tre ore. Nessuno gli diede noia, dal momento che Martin sembrava finalmente essersi interessato alla lezione e Manuel... beh, Manuel dormiva. Con una certa nonchalance, ma dormiva. Abel invece era, in qualche modo, isolato dalla classe. Mentre alcuni studenti chiacchieravano fra di loro o comunque si lanciavano segni e occhiate, Abel era del tutto tagliato fuori. Anche la professoressa non lo considerava e, durante la spiegazione, i suoi occhi incrociavano ogni singolo studente, escluso Abel. Dunstan si chiese il perché di quel comportamento. Certo, sapeva che in ogni classe c'era sempre l'elemento ribelle e anticonformista che i ragazzi studiosi tenevano un po' alla larga, ma nessuno, in una classe, veniva mai escluso completamente. Non in quel modo. Eppure nella III A tutti davano per scontato che Abel fosse una presenza invisibile nell'aula, sia i compagni che i professori, e perfino Abel stesso. Dunstan lo vide guardare fuori dalla finestra per una mezz'ora buona, pensando a chissà cosa, prima di mettersi a disegnare su un quaderno con delle matite colorate. Faceva piramidi con i pennarelli, costruiva origami con i fogli a protocollo e ogni tanto controllava l'ora sul cellulare. Insomma, il fatto che non seguisse in alcun modo la lezione non sarebbe potuto essere più palese. Ma allora perché nessuno gli diceva nulla? Dunstan se lo stava appunto chiedendo, osservando incuriosito il volto di Abel chinato sul quaderno, quando quest'ultimo si voltò ed incrociò proprio il suo sguardo. Per un attimo Dunstan pensò di distogliere gli occhi da Abel di scatto, ma poi si rese conto che farlo avrebbe significato ammettere che lo stava fissando da un bel pezzo. Perciò spalancò appena gli occhi e fece finta di essere sorpreso, cosa che date le circostanze gli riuscì fin troppo bene. Abel, al contrario, rimase veramente sbalordito. O forse sarebbe meglio dire scioccato. Si alzò di scatto dalla sedia facendola stridere sulle mattonelle e sbatté le mani sul banco, appoggiandovisi sopra. La professoressa Arina, di scienze, che aveva cercato di non far caso al rumore della sedia, questa volta non poté far finta di nulla e si rivolse ad Abel.
«Cosa c'è adesso, Harp?»
Abel la guardò aggrottando le sopracciglia.
«Chi è quello?!» sbraitò, indicando Dunstan senza nemmeno voltarsi a guardarlo «Non è della nostra classe! Perché è qui?!»
La professoressa alzò gli occhi al cielo, mentre gli studenti ridacchiavano fra loro (e Manuel si svegliava). Dunstan rimase in silenzio, non sapendo bene cosa dire.
«Dunstan è un nuovo studente, trasferitosi in città da poco.» disse Arina «Perciò, se adesso potesse rimettersi in silenzio a sedere e continuare a... ehm... seguire la lezione, farebbe un piacere a tutti.»
Ma Abel non sembrò per niente d'accordo con la professoressa. La guardò arrabbiato e poi si voltò a guardare Dunstan. Quest'ultimo, percependo su di sé quegli occhi così gelidi e carichi di odio, sentì dei brividi freddi salirgli su per la schiena.
«Lo so che mi odia, professoressa Arina!» urlò Abel, cominciando a buttare con rabbia tutto ciò che era sul proprio banco nella cartella «So che mi odiate tutti! Spero proprio che alla fine deciderete di bocciarmi, così non dovrò stare in classe con questo idiota!» continuò, guardando Dunstan prima di prendere lo zaino, issarselo in spalla e marciare veloce verso la porta.
«Oh, la sua bocciatura è cosa molto probabile, Harp, se continua con questo comportamento!» gli urlò la professoressa, diventando rossa in volto, ma le sue parole vennero tranciate a metà dalla porta che, sbattendo nel venir richiusa, stridette con un rumore di cardini vecchi e arrugginiti.

Chapter 2 --- Fine


\\inizio trasmissione in corso...
bonjour, sono appena tornata dalle vacanze! da adesso in poi la pubblicazione dei capitoli sarà più regolare: se tutto va bene aggiornerò ogni settimana. spero che vogliate continuare a seguirmi. mi raccomando... commentate! anche soltanto con una frase, tanto per farmi sapere che ne pensate.

aaah, non so mai di cosa parlare in questo spazietto! sul capitolo non c'è da dire molto, purtroppo è corto ed accadono poche cose. ma vedrete che i prossimi capitoli arriveranno più in fretta e ci saranno diverse novità ;3 una cosa molto importante che ci tengo a specificare! questa storia è ambientata in un luogo di periferia di un paese non specificato. non siamo in italia, ma neppure necessariamente in america (come avrete notato, il sistema scolastico è differente da quello americano). nelle mie storie di solito preferisco non descrivere luoghi troppo specifici per essere più libera ed evitare di incappare in eventuali errori o imprecisioni.

ultima cosa, ma non meno importante! ci tengo a ringraziare emerald_01, Gothic_Angel, Mizumi e Lilith in Capricorn per aver trovato il tempo di recensire il primo capitolo! stragrazie!
\\fine trasmissione



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Capitolo 3
*** 03 ***


Chapter 3

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“Ogni falsità è una maschera, e per quanto la maschera sia ben fatta, si arriva sempre, con un po' di attenzione, a distinguerla dal volto.”
─ Alexandre Dumas

PhotobucketPLAY (today)
Nonostante il primo traumatico giorno nella nuova scuola, Dunstan si trovò bene. Le persone erano socievoli e simpatiche, i professori spiegavano piuttosto bene e le ore passavano più velocemente di quanto si sarebbe aspettato. L'unico problema per Dunstan sarebbe potuto essere Abel, ma il biondino aveva deciso di non venire più a scuola, tanto che rimase assente per un'intera settimana. Per fortuna né Manuel né Martin né nessun altro ipotizzò che Dunstan e Abel potessero effettivamente conoscersi. Nonostante la sfuriata di Abel suggerisse il contrario, tutti attribuirono ciò ad una nuova pazzia di Abel piuttosto che a una vecchia amicizia fra lui e Dunstan. Perciò Dunstan non dovette spiegare niente a nessuno; al contrario si sentì dire da diverse persone che non doveva prendersela, che Abel era fatto così e che “non ci stava tanto con la testa”. Tutto ciò lo tranquillizzò abbastanza, almeno finché il martedì successivo Abel non tornò a scuola. Appena Dunstan lo vide, seduto al proprio posto mentre gli altri facevano confusione aspettando l'arrivo del professore, si sentì un groppo in gola. Abel, forse sentendosi osservato o per chissà quale altro motivo, alzò gli occhi e incrociò quelli di Dunstan, ma non sembrò neppure accorgersene. Un attimo dopo stava sfogliando di nuovo un libro, come se niente fosse.
«Oh, è tornato Harp.» notò Martin, appoggiando lo zaino sul banco. Dunstan alzò appena le spalle.
«Già.»
«Menomale che non fa più il pazzo isterico, eh Dunstan?» ridacchiò Manuel, ammiccando.
«Aspetta, non può durare a lungo.» disse Martin, pensoso «E quando ne farà un'altra delle sue, come al solito toccherà al rappresentante di classe – cioè a me – risistemare tutto. Buon Dio!» aggiunse, alzando gli occhi al cielo.
«Ma non ha nessun amico?» chiese Dunstan, anche se la risposta a quella domanda era piuttosto scontata.
«Chi vorrebbe essere suo amico?» gli rispose Manuel, guardandolo con ovvietà «Quel tipo ha seriamente delle rotelle mancanti.»
«Speriamo che non faccia confusione anche oggi.» sospirò Martin. Manuel sembrò ricordarsi qualcosa.
«Giusto! Oggi è martedì, perciò possiamo stare tranquilli.»
Martin si voltò di scatto con l'espressione di uno che è appena stato graziato da Dio.
«Hai ragione!»
Dunstan aggrottò le sopracciglia, non cogliendo il senso del discorso.
«Perché? Che c'è di martedì?» chiese, mettendosi a sedere. Ma proprio in quel momento il professore entrò e lui non riuscì ad ottenere alcuna risposta. La prima ora di quel giorno era del professor Nickel, un uomo sulla trentina (il più giovane fra tutti i professori) che insegnava diritto. Dunstan aveva già assistito ad una sua lezione e l'aveva trovata interessante e stimolante, sicuramente la migliore fra tutte le altre lezioni. Il professor Nickel cominciò a fare l'appello e, arrivato ad Abel, si fermò un attimo.
«Abel Harp?» domandò «Ha fatto un sacco di assenze. Tutto okay?»
Dunstan per un attimo storse la bocca, irritato. Anche se Nickel era piuttosto simpatico, gli sembrava che quella domanda fosse poco professionale e decisamente troppo personale. Inoltre, aveva paura che Abel cominciasse a far confusione un'altra volta, creando di nuovo scompiglio nella classe. Ma Abel si alzò dalla sua sedia con grazia, quasi senza far rumore, e rivolse un sorriso gentile al professore.
«Presente. Sto bene, la ringrazio per l'interessamento, professore.» disse, prima di rimettersi a sedere, con la schiena dritta ed il libro di diritto ordinatamente posato sul tavolo. Dunstan si voltò allibito verso Manuel.
«Perché... perché è così?» domandò, gli occhi spalancati per la sorpresa.
«Ti riferisci ad Ai?» domandò Manuel, prima di dare per scontata la risposta e continuare: «Prima parlavo proprio di questo. Ossia dell'ammirazione spropositata di Ai per il professor Nickel.»
«”Ammirazione”?» ripeté Dunstan, non molto convinto. Martin intervenne, sussurrando per non farsi sentire dal professore, che aveva appena cominciato a spiegare la lezione del giorno:
«In realtà nessuno sa il perché della gentilezza di Ai verso Nickel.» spiegò «Anche se Nickel piace un po' a tutti, Ai è veramente esagerato. Perciò sono nate diverse leggende, fra cui anche quella appena citata da Manuel.»
Manuel alzò gli occhi al cielo, e stava per ribattere quando il professor Nickel lo richiamò al silenzio. Così anche Dunstan tacque e, tanto per passare il tempo (dal momento che nella vecchia scuola aveva già studiato l'argomento che Nickel stava spiegando) si voltò ad osservare Abel. Per la prima volta da quando lo aveva rivisto trovò una somiglianza con il passato. Anche se Abel era vestito in un modo assurdo, il suo atteggiamento durante quell'ora gli ricordava il bambino che era stato tanti anni prima. Gli occhi un po' sognanti e timidi, il sorriso appena accennato e lo sguardo luminoso non erano cambiati. Anche se Abel di solito aveva un atteggiamento completamente diverso, che Dunstan aveva classificato con “strafottente & menefreghista”, in quel momento sembrava tornato normale, al suo vero carattere. Proprio mentre stava pensando questo, Dunstan si accorse di un particolare che lo sconcertò. Abel si stava strofinando leggermente il polso sinistro con la mano destra, proprio là dove – Dunstan ne era sicuro – aveva una una voglia chiara. Lo faceva sempre anche da bambino quando era nervoso o distratto. Quel gesto così naturale fece crescere in Dunstan la consapevolezza che Abel era sempre lo stesso, nonostante fosse cresciuto. Come mai allora sembrava essere cambiato così tanto? Come mai se ne stava da solo e rispondeva con cattiveria a chiunque tentasse di avvicinarglisi, Dunstan compreso? Doveva saperlo assolutamente. In fondo Abel era sempre il suo migliore amico di vecchia data. Era per questo che Dunstan avrebbe parlato con lui, il più presto possibile.

«Ehi, Abel.» disse Dunstan, durante la pausa, dopo essersi avvicinato al banco di Abel. Il biondino rimase immobile, con gli occhi fissi sul diario intenti a leggere i compiti per il giorno dopo.
«Abel?» ripeté Dunstan, ottenendo un risultato identico al precedente. “Sempre meglio di un Abel arrabbiato o impazzito” si disse. Poi ci riprovò, pensando di aver capito il motivo del silenzio di Abel.
«...Ai?»
Questa volta Abel alzò leggermente il volto, dando segno di aver notato la presenza di Dunstan.
«Che c'è?» domandò, leggermente irritato «Pensavo di averti già detto che adesso mi chiamo Ai.»
Dunstan storse un po' la bocca, trovando quel soprannome del tutto insensato. Tuttavia si ricordò del suo obiettivo di far pace con Abel o, quanto meno, di capire cosa fosse successo al suo vecchio amico. Perciò evitò di fargli presente quanto pensasse fosse stupido farsi chiamare in quel modo e gli chiese:
«Perché mi odi così tanto? Non dovrei essere io quello arrabbiato?»
Appena ebbe pronunciato quelle parole, il volto di Abel si contrasse in una smorfia strana, a metà tra il dolore e l'indignazione.
«Come mai mi fai questa domanda?» chiese, chiudendo di scatto il diario.
Dunstan rimase per un attimo indeciso sulla risposta, chiedendosi cosa Abel si aspettasse. Poi disse, semplicemente, la verità:
«Magari perché voglio sapere la risposta?»
Abel abbassò lo sguardo di scatto, irritato.
«E quindi ti importa? È una cosa piuttosto strana. Sicuro di stare bene?»
Dunstan spalancò la bocca, sbalordito. Non riusciva a capire assolutamente nulla. Sembrava che Abel desse per scontate cose che di cui Dunstan non era a conoscenza. Perché Abel sarebbe dovuto essere così arrabbiato con lui? Non era stato certo Dunstan quello a rompere la promessa fatta tanti anni prima! Era colpa di Abel se non si erano più sentiti, Dunstan gli stava soltanto facendo il favore di concedergli il suo perdono. Ma mai e poi mai si sarebbe scusato. E poi, per cosa? Dunstan non aveva fatto niente di male, quello nel torto era Abel.
«A me sembra che tu non stia bene!» rispose Dunstan, mandando al diavolo la sua idea iniziale di rimanere calmo ed alzando un po' il tono di voce «Ti sembra così strano che voglia sapere perché il mio migliore amico si è completamente disinteressato a me e mi ha abbandonato per tutti questi anni?!»
Dunstan si sentiva caldo e sapeva che probabilmente era diventato un po' rosso in volto. Gli capitava sempre quando si arrabbiava o quando era sotto pressione. E quella situazione faceva combaciare entrambi gli aspetti in modo quasi perfetto. Abel si voltò di scatto con un moto di nervosismo. Scansò con facilità lo sguardo di Dunstan, come se avesse voluto evitarlo.
«Tu... tu non sai quel che dici.» sussurrò, alzandosi dalla sedia per poi avvicinarsi a Dunstan «Io non ti ho mai abbandonato, sei tu che mi hai lasciato da solo.» disse, a bassa voce, vicino a Dunstan in modo che nessun altro potesse sentirlo. «E pensare che oggi ero di buon umore!» esclamò poi ad alta voce Abel, passandosi una mano fra i capelli «Grazie per la tortura.» disse, prima di voltarsi ed andarsene, lasciando Dunstan ancora più confuso di prima. Appena se ne fu andato, Joshua si avvicinò a Dunstan incuriosito. Joshua era un ragazzo alto e robusto, dai capelli biondicci un po' spagosi e dal volto bello ma particolare, un po' spigoloso. Dunstan lo aveva conosciuto pochi giorni prima e lo aveva trovato piacevole, soprattutto perché possedeva una profondità di pensiero che molti altri suoi amici non avevano. Anche se Dunstan ancora non lo sapeva, sarebbe dovuto stare più attento all'intelligenza di Joshua, invece che considerarla con sufficienza, perché il genio del ragazzo era pericolosamente perspicace. Dunstan lo aveva visto guardarlo con interesse per tutta la durata della conversazione con Abel e per un attimo si sentì in trappola, perché non aveva la più pallida idea di cosa raccontare nel caso in cui Joshua gli avesse fatto delle domande. Cosa che, puntualmente, accadde.
«Che gli hai detto?» chiese il ragazzo, curioso «Sembrava piuttosto agitato.» notò.
Dunstan gli lanciò un'occhiata interrogativa.
«In che senso?» chiese, sperando così di sviare la domanda. Joshua fece spallucce.
«Di solito Abel non guarda mai per terra. Quando parla con le persone, le fissa sempre negli occhi. È una delle sue caratteristiche.» spiegò Joshua «Ma adesso non faceva altro che fissare le mattonelle.»
Dunstan deglutì, pentendosi di avergli fatto quella domanda. All'inizio aveva pensato che nessuno facesse caso ad Abel, ma sembrava che Joshua lo considerasse in un modo un po' differente dagli altri. Era anche l'unica persona nella classe che, come Dunstan, lo chiamava “Abel” invece di “Ai”. «Non ci avevo fatto caso.» disse Dunstan, prima di pensare ad un'altra domanda che distogliesse l'attenzione di Joshua «Come fai ad accorgerti di dettagli così piccoli?»
Per fortuna Joshua sembrò incline a lasciar perdere la sua prima domanda, perché rispose:
«Basta osservare. Ed io osservo Abel da... parecchio tempo. È una persona interessante, checché ne dicano gli altri.»
«Allora, magari potresti darmi il tuo parere riguardo ad una cosa.» disse Dunstan, rendendosi conto che avrebbe potuto sfruttare bene il talento naturale di Joshua «Come mai secondo te Abel è così gentile con il professor Nickel? C'è un motivo particolare?»
Joshua ridacchiò un attimo, piacevolmente sorpreso da quella domanda.
«Non avresti potuto chiedermi cosa più facile.» disse, con un sorriso «Ma se ti rispondo, non andare a dirlo troppo in giro, okay?»
Dunstan si avvicinò un po' a Joshua per sentirlo meglio ed annuì.
«Anche se in realtà è solo una supposizione, sia chiaro. Nessuno mi ha detto niente, tanto meno Abel.» precisò Joshua «Ma mi fido abbastanza delle mie supposizioni. Comunque, per me Abel è innamorato del professore.»
Dunstan spalancò gli occhi. Poi cominciò a ridacchiare, divertito da quell'idea e rassicurato dal fatto che Joshua avesse sbagliato. Per un attimo aveva pensato che quel ragazzo fosse una specie di genio-mistico, ma dopo quello che aveva sentito doveva ricredersi. Abel innamorato di un uomo? Di un professore, per di più! Dunstan lo riteneva assolutamente impossibile.
«No, non ci credo!» disse, sperando che Joshua non se ne prendesse a male «Sono convinto che tu ti stia sbagliando.»
Joshua alzò le spalle.
«Potrebbe essere così. Come ti ho detto ne sono quasi sicuro, non completamente sicuro.» rispose, con umiltà «Però ti ho detto che spesso, anche se non sempre, le mie supposizioni sono giuste. Ricordalo.»
Dunstan gli fece segno d'aver capito, contento che Joshua non si fosse arrabbiato per la sua reazione. Proprio in quel momento la campanella di fine pausa suonò, facendo rientrare una marea di studenti in classe.
«Ci vediamo all'uscita?» propose, perché nonostante il suo lato strano Joshua era una buona compagnia. Il ragazzo annuì.
«Ah, un'ultima cosa!» esclamò Joshua «Non importa se non ti va di dirmi di cosa avete parlato. E non preoccuparti, non dirò a nessuno che lo conosci.» gli disse, parlando a voce un così bassa che Dunstan indovinò alcune parole dal labiale «Vado a copiare biologia, scusami.» concluse Joshua, e si dileguò. Dunstan rimase immobile, chiedendosi se dopotutto Joshua non fosse veramente un genio-mistico. In ogni caso, era evidente che le sue supposizioni meritavano più credito di quanto Dunstan gliene avesse dato.

Chapter 3 --- Fine


\\inizio trasmissione in corso...
ho aggiornato in tempo! spero che questo capitolo vi sia piaciuto. come sempre, se notate imprecisioni, errori o altro fatemeli notare! le recensioni, anche quelle corte o negative, sono sempre apprezzate.

ho visto che molti autori pubblicano foto dei loro personaggi... se trovassi dei modelli esattamente uguali ad abel, dunstan & company sicuramente adorerei linkare le loro foto. ma dato che tanto non li troverò, ho pensato di linkare delle immagini di varie cose che mi hanno ispirato nella creazione dei personaggi. non mi piace rovinare l'immaginazione di chi legge, perciò se troverete immagini di modelli, attori o altro, non pensate che i miei personaggi siano così. Semplicemente, sono tipo così, cioè hanno un che di simile, non sono necessariamente uguali. se troverete cose totalmente strane o impensabili, non significa che ho sbagliato link, è semplicemente colpa della mia mente contorta XD OK, basta con lo sproloquio XD partiamo col biondino *lOl*

ABELpantaloni punkbjörn andrésen; ville des folies; la jeunesse d'aristote; stivali demonia;

p.s. adoro i demonia, ne ho un paio anche io >///<
\\fine trasmissione



Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è da considerarsi puramente casuale.
Per l'immagine di inizio capitolo ringrazio sea-of-ice (http://sea-of-ice.deviantart.com/).
Il testo qui presente appartiene a CYBERpunk (http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=208397),
è perciò vietata la sua riproduzione in qualsiasi forma. Ringrazio per l'attenzione.

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Capitolo 4
*** 04 ***


Chapter 4

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“L'amore non bisogna implorarlo e nemmeno esigerlo. L'amore deve avere la forza di attingere la certezza in se stesso. Allora non sarà trascinato, ma trascinerà.”
─ Hermann Hesse, Demian

PhotobucketREW(2 years ago)
Abel si portò una mano alla bocca, mettendosi in ginocchio sull'asfalto con un po' di fatica, e si tastò con incertezza i denti. Sentendo che erano tutti al loro posto, sospirò di sollievo e di nervosismo. Anche se aveva un occhio un po' gonfio (destinato a diventare viola entro poco tempo) e un labbro sanguinante, avrebbe potuto risistemare tutto. Sarebbe andato via da scuola per un po', come ad esempio una settimana o due, e quando sarebbe tornato avrebbe portato gli occhiali da sole. Probabilmente i professori avrebbero insistito per farglieli togliere, ma alla fine avrebbe vinto lui, come sempre. E nessuno si sarebbe più azzardato a toccarlo. Anche se non sembrava, quella rissa l'aveva vinta lui. Erano tre contro uno, e quello che era uscito con meno danni era proprio lui. Da quel momento in poi Abel era sicuro che chiunque ci avrebbe pensato due volte prima di picchiarlo soltanto perché era strano barra asociale barra emo barra qualsiasi altra cosa.
«Che... che è successo?» domandò qualcuno «Ehi, stai bene?!» continuò, avvicinandosi. Abel sentì con chiarezza il rumore delle scarpe dello sconosciuto sull'asfalto. Qualcuno gli afferrò un braccio, tirandolo appena, ma Abel si divincolò con forza.
«Va' via!» urlò, sentendo in bocca il sapore del sangue e lottando per non vomitare quel poco che aveva mangiato.
«Sei... Harp?» domandò l'uomo, facendo voltare Abel «Sei Abel Harp!» esclamò «O mio Dio!»
Abel inorridì alla vista di un certo insegnante di diritto della sua scuola. Non conosceva il suo nome, ma sapeva che l'anno seguente avrebbe dovuto insegnare nella sua sezione. Si alzò in piedi in fretta, barcollando appena, ma solo per un secondo.
«Non è niente!» urlò, passandosi la manica della felpa a righe sulla bocca per asciugarsi e sporcandola di sangue «Se ne vada!» urlò, ad alta voce perché non c'era nessuno vicino «Non la voglio qui, se ne vada subito!» continuò, isterico, pensando alla sfortuna che aveva avuto nell'incontrare un professore. Se quel tipo avesse raccontato alla preside della rissa, probabilmente Abel sarebbe stato espulso o bocciato in blocco. Ormai Abel era così malfamato che nessuno si sarebbe preso la briga di accertare la sua innocenza. Inaspettatamente, il professore aprì la sua borsa a tracolla e si mise in fretta a cercare qualcosa, prendendo anche dei libri e gettandoli in malo modo per terra. Abel, sorpreso dalla scena, rimase in silenzio a guardare quel professore alle prese con il disordine della sua borsa. Infine l'uomo trovò un pacchetto di fazzoletti di carta, ne estrasse uno e lo porse preoccupato ad Abel.
«Pulisci un po' la ferita...» disse, continuando a cercare «...da qualche parte dovrei avere anche il disinfettante. Aspetta...»
Abel prese il fazzoletto con fare stupito e circospetto, ma poi fece come gli era stato detto e si asciugò il labbro, pulendolo dal sangue. In quel momento il professore trovò ciò che stava cercando ed estrasse la boccetta di disinfettante.
«Lo porto sempre dietro...» disse, mentre versava un po' di liquido su un altro fazzoletto di carta «...perché sono sbadato e a volte mi faccio male per sbaglio.» Spiegò, porgendo con un sorriso preoccupato il fazzoletto ad Abel. Quest'ultimo lo guardò, incredulo. Non lo prese né fece altro, rimase semplicemente immobile. Il professore gli si avvicinò ancora un po' e gli fece segno di prendere il fazzoletto, prima di dire:
«Forse sarebbe meglio andare all'ospedale?»
Abel scattò in avanti, strappando dalle mani del professore il fazzoletto.
«No, no! Va bene così!» disse, allarmato da ciò che l'uomo aveva appena detto, tamponandosi immediatamente il labbro. Non appena ebbe posato il fazzoletto sulla ferita, però, lo scostò di scatto.
«Cazzo! Brucia!» imprecò.
Il professore sembrò mortificato.
«Mi... mi dispiace. Avevo solo questo, e-»
«Cosa vuole da me?» chiese Abel, fissandolo negli occhi con aria di sfida «Guardi che anche se vuole andare a dire alla preside che sono un malvivente e che prendo a botte la gente non me ne frega nulla!»
Il professore fece un passo in avanti, mentre Abel fece un passo indietro.
«Perché pensi che farei una cosa del genere?» domandò l'uomo, seriamente dispiaciuto «Non siamo in orario scolastico adesso e, anche se sei vicino alla scuola, io non ho visto niente.»
Abel rimase fermo, interdetto, indeciso sul da farsi. Non conosceva quell'uomo e si fidava malvolentieri – o meglio non si fidava affatto – delle persone che conosceva, figuriamoci degli sconosciuti!
«...chi è lei?» chiese, circospetto. Il professore sobbalzò.
«Oh, sì, scusa, mi sono dimenticato di presentarmi...» disse, con aria distratta «Sono Jack Nickel, professore di diritto nel tuo liceo.» disse, porgendogli la mano destra. Abel per un attimo pensò di ignorare quel gesto, così come avrebbe fatto con chiunque altro, ma poi si rese conto che Jack Nickel lo aveva appena aiutato, mostrandogli una gentilezza che ormai da troppo tempo nessuno gli rivolgeva più. Così si avvicinò appena e strinse la mano dell'uomo, in modo veloce ed esitante.
«Bene, Jack Nickel, la ringrazio per la sua estrema cortesia.» disse con aria di sfida Abel, combattuto tra sentimenti opposti che lo stavano mettendo in agitazione «Nonostante ci siamo appena presentati, mi trovo costretto a dovermi congedare.» aggiunse e fece un breve inchino, con una spavalderia forzata ma ben nascosta, deciso a svignarsela di lì il più presto possibile. Si era già voltato, quando Jack Nickel gli afferrò un polso, facendolo sobbalzare.
«Aspetta!» esclamò il professore, e se soltanto la sua voce non avesse avuto una nota implorante, Abel si sarebbe divincolato da quella stretta con tutte le sue forze. Invece si voltò, pronto ad ascoltare ciò che l'altro aveva da dire.
«L'anno prossimo insegnerò nella tua classe.» cominciò il professore, lasciando il polso di Abel «E vorrei che tu ti impegnassi per passare l'anno, perché voglio averti come studente.»
Abel sgranò gli occhi azzurri a quell'inaspettata confessione e non poté impedirsi di arrossire vistosamente. Rendendosi conto di quel particolare, fissò di scatto il marciapiede, chinando bruscamente il volto in modo che alcune ciocche bionde e viola gli ricadessero sul viso.
«E perché?» domandò, seriamente incuriosito e messo a disagio da quel discorso. Ma ormai voleva sapere la risposta. Jack Nickel spostò il peso da un piede all'altro, cosa che Abel riuscì a vedere bene, dal momento che stava ancora fissando a terra.
«Perché il vostro professore di diritto fa schifo.» disse, infilando le mani nel giubbotto di jeans. Abel alzò il volto e scoppiò a ridere, totalmente spiazzato da quella frase, che sarebbe stata banale se detta da uno studente, ma che adesso usciva dalla bocca di un professore. Rise per qualche secondo, asciugandosi gli occhi senza stare attento al livido, che subito riprese a fargli male.
«Questa è un'uscita strana per un professore.» disse, scostandosi una ciocca dal volto con ritrovata sicurezza.
«Al contrario,» sentenziò Jack Nickel «proprio perché sono un professore di diritto anche io mi rendo conto che Hermann ha diverse lacune.»
Abel si perse un attimo ad osservare il volto del professor Nickel. Era un volto magro, dai tratti decisi, ma allo stesso tempo le labbra fini e gli occhi nocciola pieni di intelligenza addolcivano quell'aspetto austero, rendendolo quasi simpatico. Inoltre, nonostante Jack Nickel fosse un professore, era all'apparenza piuttosto giovane, soprattutto rispetto agli altri docenti scolastici, cosa che lo rendeva più piacevole e, almeno apparentemente, affidabile.
«Inoltre, non mi piace il modo in cui Hermann tratta gli studenti.» aggiunse Jack Nickel, e dicendo questo affilò lo sguardo su Abel, facendolo impallidire. Il ragazzo si chiese il perché di quella frase. Era soltanto una coincidenza, un mero caso? Oppure Jack Nickel sapeva che il professor Hermann umiliava i suoi studenti deridendoli davanti all'intera classe? Forse quella frase non era casuale e l'uomo sapeva di tutte le volte che Hermann aveva strattonato Abel alla lavagna, di tutte le volte in cui Abel si era sentito urlare addosso che era un incompetente, che si vestiva come un disperato, che era un malato di mente. Forse Nickel aveva sentito le risate degli studenti cadere come una pioggia acida sul volto di Abel e fargli male, forse quello strano giovane professore aveva visto piangere Abel alla finestra di camera sua, tremare all'entrata dell'anziano insegnante di diritto, vacillare sotto i suoi occhi miopi e cattivi. La risata di Abel si incrinò come uno specchio rotto, ma fortunatamente Jack Nickel non se ne accorse, o almeno non lo fece notare.
«Posso esser sicuro che l'anno prossimo sarò un professore molto migliore per la tua classe.» sentenziò l'uomo, aggiustandosi la cravatta sotto il giubbotto di jeans – accostamento che Abel trovò molto strano. Poi il professore si chinò per riprendere velocemente i libri di testo che aveva gettato sull'asfalto. Li rimise disordinatamente nella borsa, spiegazzandone la copertina già accartocciata. «Ci vediamo, Abel.» sorrise Nickel, e detto questo se ne andò, lasciando Abel fermo in mezzo al marciapiede, con quel fazzoletto morbido appena sporco di sangue ancora fra le dita.

PhotobucketPLAY (today)
Abel lottò con la tasca dei pantaloni per estrarre il cellulare perché, nonostante lui fosse magro, i pantaloni di pelle erano così attillati che qualsiasi cosa inserita nella tasca si veniva a trovare in una situazione di sottovuoto. Quando finalmente fu riuscito ad estrarre il suo vecchio Nokia dall'aria tremendamente usata, controllò l'ora. Erano le undici e un quarto del martedì. Il professor Weber non era ancora arrivato e la classe era in completo disordine. Abel si alzò facendo stridere la sedia sulle mattonelle e si diresse con passo annoiato verso il banco di Martin, forse l'unico studente ad essere rimasto diligentemente seduto mentre gli altri facevano confusione.
«Ehi.» biascicò, per attirare l'attenzione del capoclasse. Quest'ultimo si irrigidì completamente non appena sentì quella voce.
«Sì?» chiese, voltandosi e sbiancando in volto, sicuramente preoccupato di dover risolvere un qualche guaio combinato da Ai.
«Sono in infermeria. Se arriva Weber digli che al pensiero della sua lezione mi è preso male e sono uscito.» sghignazzò Abel, compiacendosi dell'espressione attonita di Martin.
«No, ehi, a-aspetta!» balbettò il ragazzo, allungandosi sul banco per afferrare il polso di Abel e trattenerlo. Abel si liberò dalla presa con uno strattone, per poi allungare la manica della maglietta sul polso che Martin aveva toccato come se quel contatto gli avesse dato fastidio.
«Che vuoi?» sospirò, esasperato. Non vedeva l'ora di andarsene e non aveva voglia che Martin gli creasse troppi problemi. Quel capoclasse era una spina nel fianco. Ed il fatto che avesse fatto amicizia con Dunstan era un motivo in più per odiarlo.
«Non posso dire una cosa del genere al professore!» ribatté intanto Martin.
«Oh, sì che puoi. Se non ti piace inventatene un'altra.» tagliò corto Abel facendo per andarsene. Ma fu di nuovo interrotto da una voce, questa volta ben più familiare.
«Perché non glielo dici da solo che ti senti male al pensiero di Algebra, eh, Abel?»
Abel si voltò ed i suoi occhi verdi si spalancarono un po' in un modo raccapricciante che non lo fece sembrare per niente sano di mente.
«Che cazzo c'entri te, Dunstan?!» esclamò, facendo trapelare dalla voce un odio profondo ed avvicinandosi al banco del suo vecchio amico, che fino ad allora aveva volutamente ignorato.
«Sbaglio o ti ho detto di chiamarmi Ai?» inveì ancora Abel, sbattendo le mani sul banco di Dunstan e facendo voltare alcuni studenti della classe. Dunstan affilò lo sguardo senza dimostrare alcun turbamento, fissando i suoi occhi castani in quelli più agitati di Abel.
«Il tuo vero nome è Abel, non Ai.» bisbigliò con un sorriso di scherno, facendo sfoggio di un ottimo autocontrollo. Le guance di Abel s'infuocarono mentre il ragazzo rimaneva in silenzio ad osservare con rancore Dunstan, senza trovare una risposta adatta. Se chiunque altro gli avesse detto una cosa del genere, con quel sorriso strafottente sul volto, probabilmente Abel non si sarebbe fatto molti problemi. A seconda dei casi e del suo umore, se non fosse riuscito ad avere una risposta pronta, avrebbe ignorato la faccenda o avrebbe tirato un pugno all'avversario. Ma in quel caso era diverso, perché chi si prendeva gioco di lui non era un imbecille qualsiasi, era Dunstan. Una delle persone che Abel aveva considerato più importanti per una buona metà della sua vita.
La classe era diventata un po' più silenziosa e sempre più studenti si erano voltati a seguire il litigio, probabilmente interessati al caso-umano-Ai, come veniva spesso chiamato Abel dagli altri. Il biondo, pur dimostrandosi spavaldo, era sempre stato timido e non amava avere gli occhi su di sé, anche se dal suo comportamento e dal suo modo di vestire si sarebbe potuto dedurre il contrario. Così Abel guardò il terreno e scappò dalla classe, quasi correndo fuori e sbattendo la porta così forte che l'eco lo seguì fino all'infermeria.

Abel aveva un volto così rosso ed agitato che non fu difficile far credere all'infermiera della scuola che non si sentiva bene, anche se la donna ormai aveva smesso di farsi domande su quello strano ragazzo ed il più delle volte lo lasciava riposare nell'infermeria anche se lui non stava male. L'infermeria era una stanza larga e corta che, poco dopo il misero ingresso, ospitava tre lettini divisi fra loro da tende lacere e un po' impolverate. Abel controllò che l'ultimo letto, quello a destra, fosse libero e quando se ne fu accertato aprì la tenda ed entrò. Dopo aver richiuso la tenda, si sedette sul letto e sbirciò fuori dalla finestra. Come al solito, a quell'ora il professor Nickel era fuori a leggere un libro. Abel aveva scoperto per caso quell'abitudine un anno prima, durante una delle tante visite all'infermeria per saltare Algebra – materia che gli riusciva totalmente incomprensibile. Ogni martedì il professor Nickel aveva un'ora di colloquio con i genitori, dalle undici a mezzogiorno, ma dal momento che raramente dei genitori si recavano a parlare con lui l'uomo passava quel tempo leggendo seduto sul muricciolo della scuola. Da allora anche Abel aveva preso l'abitudine di concedersi un'ora di pausa il martedì, ora che trascorreva osservando il professore. Abel era perdutamente innamorato di Jack Nickel, cosa che non avrebbe mai confidato a nessuno, men che mai al professore stesso, ma che dentro di sé non esitava ad ammettere. Abel aveva sviluppato nei confronti di quello strano professore un'ammirazione e una devozione così totale che c'era voluto poco per passare da quei sentimenti al vero e proprio amore – o a quello che Abel riteneva tale. Ogni volta che il professore entrava in classe Abel sentiva il suo cuore accelerare e le sue guance diventare sempre rosse, mentre quando il professore spiegava Abel doveva raccogliere tutta la propria determinazione per seguire la lezione invece di soffermarsi sui capelli castani un po' arruffati, su quelle ciocche più lunghe che si arricciavano dietro le orecchie, sulle labbra fini e spesso sorridenti e sul corpo alto e bello del professore. Anche mentre era in infermeria Abel studiava ogni singolo particolare di Nickel: sapeva che i suoi libri erano tutti spiegazzati, che l'uomo perdeva di continuo i segnalibri perché ogni volta ne aveva uno diverso e che mentre leggeva aveva il tic di accavallare le gambe e muovere un po' il piede sinistro. Quando raggiungeva un passaggio interessante, il professore si avvicinava di più al libro e restava quasi appiccicato alla pagina finché la scena che gli piaceva non era finita. La sua borsa, una cartella in pelle che portava a tracolla o a mano, era sempre piena zeppa di cose. Quando il professore tirava fuori un libro da leggere che si trovava in fondo, tutto ciò che era sopra si sparpagliava per terra, così com'era successo la volta del primo incontro con Abel. Il ragazzo ripensò a quel momento con un sospiro. Anche se in classe stava sempre attento, non aveva mai avuto un'altra occasione come quella. Il professore non era mai stato solo, tutto per lui. Abel aprì la finestra rabbrividendo al vento fresco che entrò soffiando, ma poi incrociò le braccia sul davanzale ed appoggiò il mento sulla gelida pietra. Così, rilassato alla finestra, osservò con occhi sognanti il professore, che voltato di spalle non poteva vederlo. Quel giorno Nickel stava leggendo un libro dalla copertina blu che non gli piaceva molto. Si vedeva bene perché non era per niente vicino alle pagine ed ogni tanto il suo sguardo vagava nell'aria davanti a sé, come se la lettura lo annoiasse. Abel cominciò a fantasticare di uscire da scuola e far finta di incontrare il professore per caso. Di chiacchierare con lui, da solo, nel silenzio della scuola, mentre tutti gli altri erano dentro. Si immaginò il professore pronunciare il suo nome, Abel. Quasi vide le sue labbra mentre componevano quella parola ed il suo cuore mancò un battito. Abel, quel nome che odiava sentire pronunciato dagli altri. Era come se Abel non sopportasse il peso del suo nome, per questo si faceva chiamare così soltanto dalle persone che amava. Ed ogni volta che il professor Nickel faceva l'appello, in classe, Abel sentiva il suo nome pronunciato da quelle labbra, con un tono di voce così bello e affascinante... Nessun altro in classe poteva pronunciare il suo nome all'infuori del professor Nickel. Questa cosa era sempre piaciuta ad Abel. Era come se in questo modo il professore avesse un parte di Abel che nessun altro aveva. Abel si sentì sopraffatto da quel sentimento che gli arrossava le guance e rendeva i suoi occhi più lucidi e melliflui. Oh, quanto avrebbe voluto uscire e parlare con il professore! Abel avrebbe potuto farlo, ma sapeva che non ci sarebbe mai riuscito. La sua capacità di iniziativa era pari a zero. Abel sapeva di essere senza speranza. Non avrebbe mai provato a far innamorare di lui il professore. Anche se Nickel era single – o così gli era sembrato di capire, visto che era difficile trovare informazioni su di lui – Abel sapeva che il professore non l'avrebbe mai voluto. Per quanto bello e buono fosse, Nickel considerava Abel solo uno studente ed era gentile con lui esclusivamente per questo. Se fossero stati sconosciuti, Nickel non si sarebbe mai avvicinato ad Abel. Abel strizzò gli occhi con quel vecchio tic che credeva aver ormai superato da tempo. Poi una folata di vento più forte gli sferzò le guance e lui starnutì. Il professor Nickel si voltò.
Abel rimase fermo, immobile, impietrito sul davanzale della finestra. Nickel fu per un attimo sorpreso, poi sorrise divertito e lo salutò sventolando una mano.
«Salute!» gridò, con una nota allegra nella voce.
Abel chiuse la finestra di scatto e scappò dall'infermeria.


Chapter 4 --- Fine


\\inizio trasmissione in corso...
salve, sono un po' in ritardo >.< spero mi perdonerete! come state? spero bene :3 ringrazio tantissimo tutti coloro che hanno speso del tempo per rendermi felice, commentando questa storia. leggere ogni singola recensione mi riempie di gioia. spero che il capitolo vi sia piaciuto. fatemi sapere che ne pensate ;P

ah, prima che me ne dimentichi! ho creato una pagina facebook, la potete trovare qui CLICK!. se volete farmi delle domande, comunicarmi qualcosa o semplicemente chiacchierare con me, lasciatemi pure un messaggio :)
\\fine trasmissione



Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è da considerarsi puramente casuale.
Il testo qui presente appartiene a CYBERpunk (http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=208397),
è perciò vietata la sua riproduzione in qualsiasi forma. Ringrazio per l'attenzione.

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Capitolo 5
*** 05 ***


Chapter 5

Photobucket

“Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”
─ Cesare Pavese

PhotobucketPLAY(today)
Abel prese le chiavi di casa ed aprì così velocemente la porta che chiunque lo avesse visto avrebbe pensato che il ragazzo era rincorso da qualcuno. Ed in effetti la situazione era quella: Abel era rincorso. Non da una sola persona, ma addirittura da due. Prima di tutti, il professor Nickel. Spesso tornava a casa a piedi e passava davanti a casa sua. Abel non voleva assolutamente incontrarlo per strada dopo esser stato sorpreso a spiarlo. In realtà Abel non sapeva se il professore avesse fatto i collegamenti necessari per arrivare a quella soluzione, ma che se ne fosse reso conto o no questo non cambiava il fatto che Abel non voleva assolutamente parlare con lui. Poi c'era Dunstan. Abel era stato messo in ridicolo da lui davanti a tutta la classe e lo odiava per questo. O almeno così gli piaceva pensare. Anche se Abel era timido e non amava attirare l'attenzione, in una situazione normale non gli sarebbe mai importato di essere preso in giro in classe. Quella era una cosa che capitava spesso e se lui si fosse messo ad evitare tutti quelli che lo prendevano in giro avrebbe fatto meglio a rimanere direttamente a casa. Ciò che gli aveva dato fastidio, ciò che sapeva ma che non ammetteva, era che Dunstan lo aveva trattato male. Lo aveva trattato come tutti gli altri. Abel sentì un nodo alla gola a quel pensiero, così scaricò velocemente la cartella nell'ingresso e fece per salire in camera sua, al secondo piano. Tuttavia uno sgradevole odore di sigaretta lo bloccò. C'era qualcun altro in casa. Sua madre non fumava, suo padre se n'era andato. Chi era entrato in casa sua? In quel momento si sentì un rumore di passi venire dalla cucina. Abel entrò nel panico. «Ehi. Tornato da scuola, biondino?» disse un uomo alto e un po' tozzo, dalle spalle larghe e dai denti leggermente storti. Abel si irrigidì, sulla difensiva, anche se conosceva quel tipo. Si chiamava Herny e sua madre ci era uscita una volta o due qualche settimana prima. Con gran fastidio Abel si rese conto di non sapere altro di quell'uomo.
«Come sei entrato?» domandò, senza riuscire ad impedirsi di fare un passo indietro.
Herny ridacchiò e si sfilò dalla tasca anteriore dei jeans un mazzo di chiavi. Lo sventolò nell'aria davanti a sé.
«Liza mi ha dato le chiavi due settimane fa.» disse, ed anche se il tono era allegro la voce era comunque minacciosa, perché bassa e gutturale «Pensavo che a quest'ora fosse già a casa di martedì.»
Abel sentì un'ondata d'odio contro sua madre, Liza. Perché aveva dato le chiavi di casa ad uno sconosciuto? Le sciocchezze di quella donna ricadevano sempre su di lui e tutto finiva per diventare un casino.
«Perché quella faccia?» ridacchiò Herny, avvicinandosi pericolosamente ad Abel, che da parte sua cercò di restare fermo per non far trapelare il suo terrore. Sapeva che la sua reazione era esagerata, ma non poteva far a meno di provare paura. Non sapeva il perché, ma quando Liza portava a casa qualcuno, Abel provava sempre una forte repulsione mista a terrore. Non importava chi fosse l'uomo, Abel ogni volta si sentiva in trappola ed aveva paura. Di cosa, non lo sapeva neppure lui.
«D-devo andare.» balbettò, facendo un altro passo indietro e abbassando la maniglia della porta, senza però voltarsi e dare le spalle all'uomo. Quest'ultimo mosse qualche passo verso di lui con un certo disappunto sul volto, ma a quel punto Abel aprì la porta e si catapultò fuori, cominciando a correre.

Il professor Nickel stava camminando lentamente ed era più stanco del solito. Quella giornata era cominciata bene, ma all'una una strana spossatezza si era impadronita di lui. Forse era colpa della II A, quella maledetta classe piena di gente sfaticata e alunni che durante la sua ora lanciavano areoplanini di carta, o forse l'anemia tornava a farsi sentire. Da quant'è che non mangiava della carne rossa? Fece un rapido calcolo mentale, ammassando numeri su numeri e date su date, ma sapeva meglio di chiunque altro che odiava la carne rossa e che non la mangiava da almeno un mese. Proprio mentre stava pensando a questo, qualcuno che correva lo sorpassò così velocemente da fargli vento. Jack Nickel alzò lo sguardo per vedere chi era che aveva tanta fretta di tornare a casa e riconobbe con sorpresa Abel Harp, un suo alunno di diritto. Per un attimo provò lo strano istinto di fermarlo, ma non ebbe il tempo di chiamarlo che quello era già sparito dietro ad un angolo. Il professore rimase immobile per un attimo, concentrato sul pensiero di quell'alunno. Quando aveva saputo che avrebbe insegnato nella sezione A, due anni prima, si era informato sugli alunni facenti parte della classe, così come era solito fare ogni volta che insegnava in una classe che non conosceva. Fra gli alunni della sezione A, uno in particolare era risultato essere un cattivo elemento e uno studente problematico: Abel Harp. I professori con cui aveva parlato gli avevano detto quanto difficile era insegnare in quella classe perché Abel Harp distraeva gli altri, dava il cattivo esempio ed era particolarmente negligente. Sembravano essere tutti d'accordo sul fatto che quello studente era una pena e ben presto Nickel si pentì di aver chiesto informazioni. Tutti i professori, infatti, coglievano al volo l'occasione per riversare sul professor Nickel l'insoddisfazione e la rabbia repressa con la quale erano stati costretti a fare i conti proprio per colpa di questo unico, maledetto studente: Abel Harp. Jack Nickel, che era sempre stato un professore amato dagli studenti, si era trovato per la prima volta a doversi confrontare con una situazione che lo metteva a disagio. Dopo diversi anni di insegnamento passati tranquilli, già vedeva davanti a sé un sentiero impervio che lo avrebbe fatto invecchiare precocemente. In quei giorni lontani Abel Harp era diventato il suo incubo: il professore se lo immaginava alto, robusto e totalmente demoniaco, insomma un essere che avrebbe dannato la sua vita per sempre. Ma un giorno, mentre chiacchierava durante l'intervallo con il simpatico signor Weber, l'eccentrico professore di Algebra gli aveva indicato il tanto temuto Abel Harp. Nickel aveva spalancato gli occhi e la sua bocca aveva formato un cerchio perfetto. Abel Harp, che lui aveva immaginato come un perfetto bullo attaccabrighe, era in realtà un ragazzino magro e dal volto angelico.
«Quello?» aveva chiesto il professore, inarcando le sopracciglia ed azzardandosi ad indicare il ragazzino biondo. Gli occhi del professore di Algebra seguirono l'indice di Nickel.
«Sì, quello.» confermò poi.
Nickel lo guardò ancora un po'. A quel tempo Abel non era ancora tutto borchie e zip, al contrario stava attraversando una fase emo. Senza nessuno attorno, appoggiato ad un termosifone come se avesse freddo, Abel Harp era un magro quindicenne dal volto gentile e dalle gambe snelle. Era così carino che anche Nickel ne rimase turbato, soprattutto perché quel ragazzino solitario non corrispondeva affatto all'idea che in quelle settimane si era formata nella mente del professore. Ad eccezione dei vestiti eccentrici e di qualche mesche viola fra i capelli mossi, Abel Harp sembrava uno studente perfettamente normale. Da quel giorno in poi Nickel aveva dormito sonni tranquilli, anche se il suo interesse per Abel Harp era rimasto sveglio. Nickel era curioso di incontrare Abel perché si era sbagliato sul suo conto e adesso non sapeva più cosa aspettarsi da lui. Il tempo passò ed il professor Nickel cominciò a notare che Abel Harp era una presenza fissa nella scuola: prima lo aveva temuto e lui non si era mai mostrato, ma adesso che lo considerava quasi piacevole Abel Harp appariva dovunque. Nickel cominciò infine a considerare normale la presenza dello studente e non ci prestò più tanta attenzione, nonostante ogni tanto i suoi occhi si soffermassero ancora sul ragazzino. Sembrava quasi che quello strano interesse per Abel Harp fosse destinato a spegnersi tanto velocemente quanto era apparso, quando un giorno Nickel, costretto a rimanere a scuola oltre l'orario di lavoro per interrogare uno studente, uscendo in ritardo incontrò sulla via di casa un ragazzino stropicciato e sporco di sangue. Il professore si ricordava ancora quanto era rimasto sbalordito dallo scoprire che quel ragazzino malconcio era Abel Harp.
«Sei... Harp?» chiese quel giorno il professor Nickel, e in quei pochi attimi tutta quella curiosità nei confronti del ragazzo parve riapparire prepotentemente «Sei Abel Harp! O mio Dio!»
Abel Harp si era dimostrato essere più scontroso di quanto il suo volto dolce lasciasse presagire, ma il professor Nickel si era reso conto che parte di quel cattivo carattere era soltanto una maschera per nascondere altro... forse timidezza? O vergogna. O qualcosa di simile. La cosa più strana di tutte fu che dopo quell'incontro, quando il professore si presentò agli alunni dell'allora II A, Abel era diventato inspiegabilmente uno studente modello, almeno nelle ore di diritto. Seguiva attivamente la lezione, faceva sempre i compiti, non era mai impreparato e rispondeva ai quesiti del professore con una sveltezza ed una perspicacia rare negli studenti. Il professor Nickel si era chiesto più volte il perché di questo cambiamento e più volte aveva pensato che Abel fosse diventato un ottimo scolaro per ringraziarlo di essere stato gentile con lui. Ma quella spiegazione in seguito gli era sembrata anomala e forzata, di sicuro non adatta ad un tipo strano come Abel Harp.
Jack Nickel era ancora perso in questi pensieri, quando un secondo studente, se possibile ancora più trafelato di Abel, gli passò davanti. Questa volta però il ragazzo si fermò e si rivolse al professore, richiamandolo alla realtà.
«Sa... sa per caso da che parte è andato Abel Harp?» ansimò il ragazzo. Jack Nickel lo riconobbe subito come il nuovo studente trasferitosi in città da poco, ma non riuscì a ricordarsi il suo nome. Subito dopo questo pensiero, però, gli sovvenne che Abel Harp stava scappando e si preoccupò che il ragazzo fosse stato preso di mira dal nuovo arrivato.
«Come mai? Non vorrai dargli fastidio, vero?» disse, con voce leggermente accusatoria. Appena ebbe pronunciato quelle parole, si rese conto con sgomento che stava accusando qualcuno senza avere neppure uno straccio di prove, cosa non da lui. Lo studente nuovo sembrò perplesso, altro particolare che confermò la sua innocenza.
«Ma no!» esclamò il ragazzo «Abel... lo conosco da sempre... l'ho visto scappare di casa e quando fa così significa che è successo qualcosa.»
Questa volta fu il professore ad essere perplesso. Fin da quando si era imbattuto con Abel Harp aveva capito che il ragazzo era completamente solo e dopo aver cominciato ad insegnare nella sua classe questa impressione era stata confermata. Abel non aveva amici, cosa un po' triste in effetti, e se ne stava sempre isolato, lontano da tutti.
«A destra.» rispose atono Nickel «È andato a destra.»
Lo studente nuovo si precipitò in quella direzione e dopo un attimo scomparve dietro all'angolo che poco prima aveva svoltato Abel. Nickel rimase da solo sul marciapiede con uno strano senso di vuoto che attribuì alla sua solita anemia.

Quel professore era simpatico, ma un po' matto, pensò Dunstan mentre continuava a correre lungo il marciapiede. Stava tornando a casa e nell'esatto momento in cui aveva infilato le chiavi nella serratura aveva visto Abel schizzare fuori dalla porta e correre via. Anche quando era piccolo a volte faceva così, ma di solito correva via nel giardino di Dunstan, dove si rifugiava. Adesso invece chissà dove era andato. Dunstan corse più velocemente e finalmente raggiunse Abel. Il suo migliore amico era veloce, ma fin da piccolo Dunstan lo aveva sempre battuto nella corsa. Dunstan allungò la mano e afferrò il braccio di Abel, frenando la sua corsa in modo quasi violento. Abel si voltò di scatto e tirò uno schiaffo così forte a Dunstan che poco ci mancava a che il ragazzo vedesse le stelline. Appena Abel si rese conto di cosa aveva fatto, indietreggiò di un passo tremando vistosamente.
«D-Dunstan, io... scusa... io... non─» in quel momento indietreggiando la scarpa di Abel incontrò uno scalino che il ragazzo non aveva notato.
«Ah!» esclamò, scivolando a terra.
Dunstan intanto si era ripreso e, anche se sulla sua guancia stava prendendo forma sempre più marcata una manata rossa, non sembrava arrabbiato.
«Stai bene?» domandò, porgendo una mano ad Abel, che la afferrò e si rialzò aggrappandosi a Dunstan.
«S-sì» balbettò l'altro, ancora un po' scosso. Poi si azzardò a sollevare lo sguardo da terra per fissare esitante i suoi occhi in quelli dell'amico. Durò soltanto un attimo, ma Dunstan riconobbe subito quell'occhiata debole ed insicura che tanto spesso gli era stata rivolta anni addietro. Dunstan non poté fare a meno di accennare un sorriso, troppo contento di aver trovato un'altra rassomiglianza di Ai con Abel. Quella mattina, a scuola, era stato preso dal panico al pensiero che Abel fosse diventato davvero quello che voleva sembrare, quel personaggio innaturale che si faceva chiamare Ai. Tuttavia anche quando Abel si sforzava di sembrare diverso ed assumeva una personalità che gli era estranea – quella di Ai – Dunstan riusciva ancora a vedere dietro quella maschera il suo vero migliore amico.
«Scusa... per lo schiaffo. Non volevo.» si scusò Abel, tornando a respirare più normalmente, nonostante fosse ancora affannato.
«Non importa.» disse Dunstan. Poi rimase in silenzio, scoprendo con orrore che non aveva la più pallida idea di cosa dire. Dopo qualche attimo Abel si riprese e, spostandosi un ciuffo di capelli dagli occhi, riacquistò la sua solita espressione strafottente.
«Beh, meglio. Ci si vede.» disse, infilandosi le mani nelle tasche della maglia e facendo per proseguire.
«Aspetta!» lo fermò Dunstan «Dove vai?»
Abel si voltò, visibilmente scocciato da quella domanda.
«Dove mi pare.» rispose, acido «Non sono fatti tuoi.»
Dunstan aggrottò le sopracciglia, non apprezzando quella risposta.
«Stai scappando. Perché?» domandò «Che è successo a casa?»
La maschera di Abel calò tutto d'un tratto ed il suo sorriso finto s'incrinò.
«Nulla. Non ti impicciare.» sussurrò Abel «Mi fai paura quando fai così.»
Dunstan si avvicinò ad Abel così in fretta che quest'ultimo non ebbe neppure il tempo di scansarsi. Con un movimento veloce, Dunstan afferrò la maglia scura di Abel e lo strattonò in avanti.
«Se non vuoi parlarmene, va bene.» ringhiò Dunstan «Ma non fare finta che non ti conosca.» detto questo, lasciò andare Abel, che si aggiustò la maglietta.
«Tu...» cominciò il ragazzo, tirandosi giù le maniche della maglietta ormai irrimediabilmente sformata «...ti sbagli. È passato troppo tempo, non mi conosci più.»
«Davvero?» disse Dunstan, cercando di non mostrare il suo turbamento e la stretta al petto che le parole di Abel gli avevano provocato. «E tu? Ti conosci? Non sembri più te stesso.»
Quelle parole colpirono Abel come una freccia rovente. Il ragazzo si strinse le braccia al petto, quasi un'improvvisa folata di vento lo avesse fatto rabbrividire.
«E se anche fosse?!» gridò «Vuoi farmi credere che te ne importa qualcosa?! Per sei anni non te n'è importato nulla!»
Dunstan non riuscì a capire. Era l'esatto contrario! Non era Dunstan ad avere abbandonato Abel, ma era stato Abel che non aveva risposto ad una singola lettera. C'era qualcosa che non quadrava. La sua mente si era già messa al lavoro e Dunstan stava quasi per fare ad Abel delle domande, quando lo sfogo di quest'ultimo divenne ancora più triste e disperato.
«Mentre tu eri felice nella tua bella casa con la tua famiglia, qua tutto è diventato un casino!» esplose Abel, avvicinandosi a Dunstan e quasi spingendolo «Lo sai che i miei hanno divorziato? Che da più di tre mesi non sento mio padre? Che mia madre affoga nell'alcol?» gridò, mentre rabbia e disperazione rendevano le sue parole sempre più tremanti «Lo sai quanto sono stato male? Quanto ho desiderato andarmene da questa fottuta città? Quanto ho desiderato che tu... che...» Abel ammutolì e Dunstan lo fissò ad occhi spalancati. Non sapeva niente di tutto ciò. Non sapeva della sua famiglia o dei suoi problemi. Non avrebbe mai creduto che in sei anni sarebbero potute cambiare così tante cose.
«Perciò... lasciami solo.» lo pregò Abel, portandosi una mano sugli occhi «L'hai fatto per sei anni. Lasciami solo.»
Dunstan rimase immobile, non sapendo cosa fare, cosa dire per rimediare a quella situazione. Ma non c'era rimedio, così si voltò e se ne andò.


Chapter 5 --- Fine


\\inizio trasmissione in corso...
Pensavate che la terra si fosse spalancata sotto i miei piedi e che me ne fossi fuggita agli Inferi, ridendomela allegramente con Ades e lasciando la storia incompiuta? Purtroppo per voi non e' cosi' XD So che ho ritardato moltissimo e me ne dispiaccio, ma l'importante e' andare avanti, prima o poi, giusto? Ringrazio tutti coloro che stanno seguendo questa storia, ringrazio in particolar modo chi ha commentato, chi mi ha spronato a pubblicarla e chi ha messo “mi piace” su FB! Grazie, davvero.



Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è da considerarsi puramente casuale.
Per l'immagine di inizio capitolo ringrazio Neil Krug (http://www.neilkrug.com/).
Il testo qui presente appartiene a CYBERpunk (http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=208397),
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