Can I ask the meaning of love?

di NothingNeko
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Assenza di significato. ***
Capitolo 2: *** Come se una volta sola non potesse bastare. ***



Capitolo 1
*** Assenza di significato. ***


Can I ask the meaning of love?
- prologo -


Chiedersi il perché della propria esistenza potrebbe rivelarsi una cosa piuttosto banale, chiederselo in un preciso momento della propria vita oppure senza un motivo vero e proprio, anche per noia o curiosità.
Una cosa normale che ogni essere umano è capace di fare.
Dalla signora anziana che spazza il viale di casa la mattina al vigile urbano che pigramente sbadiglia prima di iniziare a svolgere il suo lavoro. Tutti, chi dalla vita più movimentata a chi invece vive di semplicità e noie è capace di farsi tale domanda.
Forse addirittura gli animali lo fanno. Il cane si chiederà mai perché ama così tanto masticare giocattoli di gomma? Che senso ha per lui stare accanto al suo padrone, gentile o incurante che sia?
Che sia una cosa altrettanto normale domandarsi il perché di tutto? Sin dalla più tenera età?

Pure questo si domanda Andrew da mesi, anni. Tutto era iniziato con un semplice oggetto, una forchetta per la precisione, quando aveva sei anni: “Ma da dove viene? Quando è stata creata? E perché? Solo per mangiare o anche per grattarsi?” Erano state queste le domande che diedero vita ad una lunga serie di ricerche. Il tutto proseguì con oggetti banali e dall'utilizzo giornaliero o domestico fino a toccare le modalità di accensione di un motore oppure da cosa sia composto un computer portatile.
Tante, troppe domande.

Ma il senso della sua vita, era forse il perché più ricercato. E anche quello a cui non vi era data ancora una risposta; la sua vita non si era mai stata interessante, lui stesso non era interessante.
Nato in un famiglia normale di quattro individui, lui era l'unica pecora nera.
Madre casalinga, media altezza, capelli biondo cenere e occhi verdi.
Padre imprenditore, alto e biondo, occhi azzurri.
Fratello maggiore, alto quasi quanto il padre e dagli occhi altrettanto azzurri.
Mentre invece lui, più piccolo del maggiore di quattro anni, neanche in grado di toccare i 165 centimetri di altezza, capelli neri e in disordine a ricadergli, a ciuffi, sugli occhi grigi e spenti. Una macchia d'inchiostro in ogni singola foto di famiglia, lui che stonava anche solo con la sua presenza.
Si era pure chiesto più volte se per caso fosse stato adottato. Ma la risposta di suo padre lo aveva deluso a dovere: E dire che ci sperava. Sarebbe stata una consolazione sapere che quella sua diversità fosse dovuta ad un dna differente da quello dei suoi presunti genitori.
Purtroppo per lui, mamma e papà erano quei tizi inglesi e dai capelli chiari che al momento chiacchieravano in modo vivace con il receptionist dell'albergo nella quale avevano fatto una
prenotazione nel periodo invernale. Tutta la famiglia era volata a Engelberg, Svizzera, durante le vacanze come meritata pausa da lavoro e studi su decisione di madre, padre e fratello armato di Snowboard e voglia di neve.
Lui invece seduto su uno dei divanetti della hall dell'albergo, sbuffando e affidandosi alla riproduzione causale del suo mp3 nella speranza che questi gli desse una canzone abbastanza motivante per uscire ed andare a sciare. O almeno, imparare a farlo.
Purtroppo non era mai stato una persona attratta dall'attività fisica. Come unico hobby amava osservare, incapace di entrare in azione con il mondo attorno a se e interagirci in modo appropriato. Stessa cosa valeva con le persone. In passato era riuscito a farsi degli “amici” tra i compagni di scuola ma alla fine la cosa non andava mai in porto; forse era la sua aria cupa e tenebrosa a spaventare gli altri. Non che lui fosse costantemente arrabbiato, anzi, era solamente apatico. Era capace di ridere, ma non lo faceva da un sacco di tempo, non ne aveva semplicemente la possibilità. Non con tutti quanti che si allontanavano lentamente da lui.
Non che la cosa alla fine gli interessasse pienamente.
Che motivi avevano per tenersi un amico del genere? Alla fine non poteva che giustificarli dando la colpa a se stesso e alla sua, come lui amava chiamarla, “assenza di significato”.
Per Andrew, la sua esistenza era diventata un caso senza risposta. Un involucro vuoto che cercava il senso delle cose non potendo trovare il senso della sua vita.
Quello che era in grado di fare era vivere la giornata osservandosi attorno. Cose, animali, persone.
Sopratutto le ultime.
Nonostante avesse diciassette anni, il suo interesse era quello di prevedere, immaginare, o meglio studiare ogni singola persone con cui aveva a che fare ogni giorno della sua vita. E se i conoscenti venivano esaminati da capo a piedi, era il turno dei perfetti sconosciuti.
E lui odiava ritrovarsi in mezzo alle folle, figuriamoci in un impianto sciistico.
Costretto a schiodarsi dalla sua calda poltroncina, indossando la tuta e gli scarponi da neve, seguì la parlantina allegra di suo padre che guidava il gruppetto familiare di quattro persone verso le piste da scii.
Aveva immaginato suo fratello, Alex, iniziare a sbraitare sul fatto di voler essere lasciato libero per le piste con la sua tavola da snowboard e così era stato. Aveva pure previsto il padre insistere nell'obbligarlo a stare insieme a genitori e fratello, e infine previsto pure la madre premurosa persuadere il marito permettendo così a entrambi i figli maschi di girovagare liberi e indisturbati in una fredda, e dannatamente piena di neve, località della Svizzera.
Dove andare, cosa fare.
Di certo andare al corso di scii sarebbe stata una pessima idea: In mezzo a bambini dai 6 anni in su e senza nemmeno la voglia di fare, o almeno di esserci. Un disastro. Semplicemente un disastro.
Ecco perché, nascondendo la sua capigliatura spettinata sotto ad un cappello di lana scuro, con entrambe le cuffie nelle orecchie, trascina i suoi scii il più lontano possibile dalla sua famiglia, in quella che crede una zona tranquilla e poco affollata ma che, non appena svoltato l'angolo di alberi, si dimostra l'uscita di una discesa piuttosto ripida e pericolosa.
Per una volta in cui non era stato attento ai cartelli attorno a se, il caso aveva deciso di rendere la vacanza alquanto vivace; iniziando con l'essere travolto in pieno da un turista qualsiasi finendo così a muso a terra e gambe all'aria. 

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Capitolo 2
*** Come se una volta sola non potesse bastare. ***


--- Note dell'autrice: Avevo già scritto e pubblicato il primo vero capitolo di questa storia ma dopo un attenta riflessione e revisione, ho deciso di riscriverlo da capo a coda cambiando tempi verbali e descrizioni in generale. Detta in tutta sincerità, quello pubblicato in precedenza era più una brutta copia, che il capitolo vero e proprio. Mi scuso quindi con chi abbia già letto quello pubblicato in precedenza. Mi scuso ancora, buona lettura! ---

 

 



Come se una volta sola non potesse bastare.
-Capitolo 1-



 

Settembre, ovunque, è sempre stata una stagione colma di leggere piogge autunnali e di folate di vento che poco alla volta, spogliano gli alberi dalle loro chiome fruscianti ormai ingiallite dal verde brillante della Primavera e dell'Estate. Il tutto accadeva anche nell'Est della Gran Bretagna, più precisamente a Brighton, una grossa città balneare affacciata sulla costa meridionale d'Inghilterra.
Una cosa particolare di Brighton, e più che prevedibile, era il vento capace di correre lungo la le spiagge e le colline senza riuscire a toccare l'affollata capitale inglese. Questo elemento della natura aveva fatto sì che in passato si usassero mulini a vento per la macinazione del grano in quello che inizialmente era solo un villaggio di pescatori.
Era proprio il vento ciò che Andrew preferiva di più della sua città natale.
Non era un tipo da sala giochi, non si muoveva in branco con un gruppo di amici nei dintorni del centro commerciale attorno alle viuzze labirintiche della Brighton Laines, non si incontrava nei pub con qualcuno, non partecipava ai party della notte di quella città gonfia di turisti. Niente di tutto ciò faceva parte della sua routine, del suo divertimento: Cos'era invece la cosa che lo attirava maggiormente era la sua solitudine, le camminate fatte in silenzio ascoltando le sagge scelte della riproduzione causale del lettore mp3 che teneva costantemente nella tasca della felpa accompagnato dalle note di chissà quale canzone, i suoi pensieri.

Nascosto sotto una felpa scura e pesante, amava camminare spinto dal vento lungo la costa, vedendo passanti, persone anziane, bambini, animali, negozianti, autobus, macchine. Il suo corpo smilzo e gracile non sopportava gli sbalzi di temperatura e tanto meno era in grado di reggere ad un freddo troppo pungente; per lui era sempre talmente facile prendere un raffreddore che bastava anche solo un bagno nella piscina della scuola per ritrovarsi con un febbrone da cavallo. Però guariva in fretta, unica cosa positiva della sua fragilità.
Incurante del freddo, uno sguardo sconsolato è il suo ogni volta che cammina a testa bassa cercando i perché e i quando delle sue domande, implorando silente una risposta dall'alto.
Troppe volte si chiedeva le ragioni della sua esistenza, il perché delle sue stesse domande.
E così, calandosi nella sua stessa ombra, i giorni erano finiti per diventare sempre più vuoti, privi di significato.
Era diventato difficile anche solo smettere di auto-annullarsi così, dando il valore di zero alla sua vita, alla sua personalità. Il difficile era accettare la vita, o provare, per lo meno, a viverla.
Ammaccato, sconsolato, debole e molliccio come un paguro senza conchiglia.
Un sospiro pesante, le cuffie nelle orecchie, un passo sconsolato e vuoto. Non alzò lo sguardo al cielo, non lo fece mettendo le mani in tasca, tanto meno quando alzò il volume della musica.
Si perse tra i suoi pensieri senza badare più al mondo e, come se una volta sola non potesse bastare, la storia si ripeté lontano dalle fredde colline innevate della Svizzera.
«O-Ohi! Tutto bene? »
Una voce già sentita, registrata, memorizzata.
Un brivido lungo la schiena lo colse di sorpresa, improvviso; alzò il naso al cielo, i ciuffi ribelli sugli occhi, una cuffia auricolare scivolò di sua iniziativa via dall'orecchio, cadendo e restando a penzoloni sul petto del ragazzo.
Quello che ebbe di fronte non fu altri che un ventenne alto quasi quanto suo fratello maggiore, di bell'aspetto, capelli castano chiaro, occhi verde-giallo e sorriso smagliante da pubblicità di dentifrici.
Gli diede uno strano effetto rivedere quella faccia senza gli occhialoni da scii, la tuta e tutto il resto. Tempo addietro, infatti, con tutta quella roba addosso gli sembrò solo più grosso e pesante, mentre quello che gli si si parò dinanzi in quel momento fu un giovane alto, magro e dalla massa muscolare non troppo esagerata.
E dire che al momento dell'impatto gli era parso pesasse un quintale.
«...»
Il più alto si grattò la testa, sorrise, si guardò attorno, si scusò, sorrise di nuovo, di nuovo si scusò.
Non poté non riconoscerlo avendo memorizzato quel sorriso nella sua testa, avendolo etichettato come qualcosa di “fastidiosamente molesto”.

«Ti sei fatto male? Ti senti bene?»

Il moro lo fissò in silenzio, uno sguardo vuoto e apatico come quelli delle bambole di porcellana aspettando solo che questo si zittisca e si calmi.
«Ti chiedo sc-»
«Non è niente, colpa mia.»
L'aria fredda da Ovest non si fece avanti brusca e improvvisa, ma bensì calma, quasi triste, dannatamente leggera mentre scompigliò appena le ciocche sul viso del moro, scoprendogli gli occhi grigi, riportandoli nell'ombra poco dopo.
Socchiuse gli occhi scostandosi, allora, con un cenno di capo. Avanzò lateralmente due passi e poi dritto, facendo finta che nulla fosse mai accaduto nella vaga speranza di non essere stato riconosciuto.
«Andrew?»
Una nota incerta fu inizialmente quella dell'altro prima di mostrare nuovamente quel sorriso raggiante.
Fregato.
«...Presente.»
«Ah....AH!! Quanto tempo! Ti ricordi di me? Sono Asher, ci siamo incontrati in Svizzera, hai presente? Ahahah che piacere rivederti! »
Troppo entusiasmo paragonato al silenzio del più basso. Davvero troppo.
Era poi stato difficile anche solo di pensare come quella vacanza in Svizzera fosse stata rovinata così, dal secondo giorno, almeno per lui. Dimenticare quel tipo poi, impossibile: Nome particolare, primo incontro altrettanto particolare, cuffie del lettore mp3 distrutte per via dell'impatto, lividi per due settimane e una fascia al braccio per una.
«Sì, mi ricordo di te. Piacere di averti rivisto, scusa il disturb-»
Tentò di fuggire, un'altra volta, ma nulla da fare.
«No, no, no! Ora lascia che ti offra qualcosa che l'ultima volta non ci siamo potuti salutare come si deve!»
«...»
Sospirò rassegnato quasi brontolando, prima di essere trascinato con entusiasmo dal più alto in chissà quale bar o pub della città.
Non ci voleva.
 

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