Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Gabrielle amava osservare
da lontano quello strano medaglione, quello antico, della nonna. Era semplice,
elaborato, insomma, molto antico. E
lei amava le cose antiche. Non di meno, si era laureata in Storia, snobbando archeologia,
ma amando il corso di storia degli antichi greci.
La nonna parlava sempre
di una loro ava, nativa greca, era una conosciuta guerriera. Da piccola si
divertiva ad arrampicarsi sugli alberi e fingersi lei, cacciare un urlo e
saltare. Divertente, finché non ti rompi un braccio. Allora si buttò nella
scherma, nelle arti marziali. Amava il movimento del corpo quando si combatte.
È pura adrenalina.
Ma quando sei carica hai
bisogno di qualcosa, come una presa, per far scorrere via tutto, e quelli erano
i libri. La scrittura, dopo l’azione, divenne ciò che la caratterizzava di più.
I libri furono il suo primo e vero amore. E così decise di farsi un’altra
laurea, in Lettere Antiche.
Aveva provato anche a
scrivere un libro sulla sua dinastia, ma le sue ricerche si scontrarono con la
resistenza della sua famiglia, oltre che alle scarse risorse storiche.
Sua nonna però,
nonostante tutto, tramandava la storia di lei, quella donna dagli occhi chiari
- simili ai suoi, quasi come una goccia d’acqua - e lo spirito guerriero, che trasmetteva
- in un mondo dove si temevano gli dèi - la libertà di formazione del proprio
destino.
Era una donna con le
contro palle, la sua ava.
Quel medaglione però,
nella sua vita, era quasi un pensiero fisso, come una falena attratta dal
fuoco. Aveva quel fascino, ma la nonna, in tutta la sua vita, non gli aveva mai
permesso anche solo di toccarlo. Il papà non voleva. Diceva che non doveva
interessarmi, che doveva solo studiare - o, quando trovò lavoro, di lavorare -
e non pensare a quel vecchio ninnolo. Eppure era impossibile.
Conteneva una polvere
nera, dentro, in blocco, e altrettanta polvere nelle piccole perle che
decoravano il collo. Gli domandò cosa fosse, ma la nonna cambiava sempre
discorso, quando lo faceva. Un giorno si azzardò a dirle “quando l’ho avuto in
dono era già così, e non ho mai fatto questa domanda”. Quindi non lo sapeva
neanche lei. Ma non era nemmeno un poco curiosa?
Lo conservava come se
fosse un tesoro, lo indossava sempre, non lo toglieva mai. Era dorato, logorato
quel tanto che bastava per dare la sua impronta antica. Gli chiese se l’aveva
fatto valutare. Non gli parlò per due giorni, tanto si era arrabbiata per una
domanda del genere. Disse che non l’avrebbe mai venduto, fosse morta.
Aveva la sua ottantina
d’anni, ma era ancora arzilla, per essere solo un’ anziana che viveva di
rendita e pensione.
Gabrielle era nata in un
famiglia facoltosa, il padre era un famoso industriale, e la madre di lui era
una vecchia piena di proprietà. Mamma? Mai vista. Mai conosciuta. Morta, forse,
quando era piccola, o addirittura alla sua nascita. Mai affrontato questo
discorso. O non le interessava. La nonna gli aveva fatto da madre. Non ne
voleva un’altra.
La sua vita era sì,
particolare, ma... felice.
Poi, un giorno, tutto
questo finì.
Era il tramonto della sua
vecchia vita.
...
“Dannazione a me e a
quando ho accettato di salire su quella macchina nera”.
- Al tempo
degli Dei dell'Olimpo -
Gabrielle osservava l’acqua,
sinuosa e morbida nelle sue carezze, che schioccavano sulla carena della nave
formando umide schiume bianche, e ritornare nel grembo del mare.
Sorrise, teneva ancora in
mano l’urna, piccola e nera, di Xena. Le sue ceneri. Avrebbe dovuto portarle ad
Anfipoli, dove erano già sepolti suo fratello e sua
madre. Eppure, di fianco a lei, sentì la sua presenza. Sorrise, non l’avrebbe
lasciata. Sarebbero state accanto sempre, vicine sia nella vita che nella
morte.
Ma un’urna è difficile da
trasportare, ricordò ancora come le stava per cadere sul monte Fuji e rifletté.
Un giorno, aveva visto
una collana capace di incamerare persino l’acqua dei mari. Con delle ceneri
sarebbe stato più facile.
Un sussurro la distrasse,
la costa era vicina, anche se ancora non si intravedeva. Ma sentiva le acque
infrangersi sulla battigia.
Annuì, più a se stessa
che a qualcuno in particolare, e prese una decisione.
Una collana è più facile
da portare che un’urna...
La radio faceva girare il
disco, la musica rimbombava nella macchina, e Gabrielle muoveva la testa a
ritmo. La strada scorreva veloce sotto le ruote, il vento una leggera brezza,
era un bell’autunno, quello, né troppo freddo, né troppo caldo. Si passò una
mano tra i capelli, scuotendoli, una bionda chioma si ridestò. Li aveva
tagliati corti di recente, e ancora non si era abituata a non averli più
legati. Una galleria, e si levò gli occhiali da sole per vedere meglio.
Occhi verdi, di una
densità tale da paragonarsi alle verdi praterie dell’Irlanda.
Sua nonna era così felice
che fosse nata così, e che non avesse preso niente dalla madre, ma dal padre. Anche
lui era biondo, ma gli occhi verdi appartenevano solo alla nonna.
Inforcò gli occhiali
all’uscita della galleria e proseguì il viaggio. Aveva un colloquio di lavoro,
quel giorno. Era stata avvisata una settimana prima da una chiamata alquanto
strana di un uomo dalla voce profonda.
Non ricordava nemmeno di
aver inviato quel curriculum, e nemmeno sapeva in quale azienda stava andando.
Lo avrebbe scoperto poi, andando al centro congressi.
La struttura si presentò
elegante e raffinata, con onde di specchi e colonne alte e bianche, e l’azzurro
tenue dominava sulle pareti.
Raggiunta la sala,
abbastanza piccola, vide già un insieme di giovani, una più diversa dall’altra.
Una dai folti capelli
rossi, un’altra dalla pelle scura, un’altra ancora con gli occhi color
ghiaccio.
“Non ho mica inviato un
curriculum per una sfilata!” pensò la giovane, intuendo forse la natura di quel
colloquio. Nel mentre che varcava la soglia, le porte si chiusero dietro di sé,
e un uomo salì sul palchetto, chiedendo con voce calma e tranquilla di sedersi.
«È di tuo
gradimento tesoro?» un uomo, nascosto nell’ombra, una leggera barba al
mento, scura, parlava a una donna, seduta comoda su una poltrona rossa, in
alto, sul soppalco. Le gambe lunghe e affusolate erano incrociate, lisce e
morbide, che culminavano in un vestito attillato, il seno prorompente e gli
occhi languidi, cerulei, indugiavano sulla sala, soffermandosi su ogni figura.
Girò il volto, sorridendo soddisfatta.
«Bravo il mio cucciolo...» e le loro labbra si
sfiorarono.
Gabrielle accelerò il passo, sedendosi, e aspettò che
l’uomo sul palco parlasse.
«Vi ringraziamo per essere venute qui oggi, signorine.»
Gabrielle tirò fuori un quadernetto, accavallando le gambe per usarle come
appoggio. Studiando con lo sguardo le sue “avversarie”. Erano donne
straordinariamente belle. Ognuna di loro con una caratteristica a sé. Ed erano
tutte slanciate. Troppo.
Gabrielle, di statura minuta, spiccava in mezzo a quei
lampioni di donne, e si sentì piccola, inadeguata.
Si sentiva come ingiusta in quell’ambiente, ma l’uomo
continuò a parlare, e lei si preparò la penna per prendere appunti.
«Vi abbiamo chiamate per un lavoro, per la nostra società. Siete tutte laureate in
Storia, o avete avuto esperienze in questo campo. Ebbene, a noi serve una donna
che si interessi fortemente dell’antica Grecia, nello specifico.» Gabrielle
aguzzò le orecchie, un lieve mormorio si alzò nella stanza.
«Oh, dannazione, ho sempre odiato la Grecia...!».
«Io ho persino evitato di darlo, quell’esame...».
La bionda sorrise. Avrebbe stracciato quelle donne, belle
oppure no. Lei, nella Grecia, aveva le sue radici.
«Chi di voi, con sincerità, se la sentirebbe di spostarsi
in quel paese per la nostra società?».
«Sei crudele, amore mio...» sogghignò la donna, le labbra
colorate di un rosso intenso, gli occhi che schizzavano vivaci sullo sguardo
dell’uomo di fianco a lei.
«Non ti piacciono quelle intraprendenti, a te?» domandò
l’uomo con voce profonda, il volume basso. La mano che giocava con il bordo
molto alto della gonna. La donna sospirò.
«Sì, hai ragione...» ammise, continuando ad osservare la
sala, scesa nel vuoto. La mano dell’uomo non si spostò.
Brividi.
Gabrielle alzò la mano, come anche altre due donne.
Lontane alla sua vista.
«Bene, prego le altre se, gentilmente, possono lasciare
l’aula. Le altre che hanno alzato la mano di spostarsi nei posti più vicini.»
Si alzò, ergendosi nella sua altezza sorridendo alle donne che, in tacco e
tailleur con spacco vertiginoso, scivolavano via dalla sala con lamentele mormorate
e dispiacere disegnato sul volto.
In prima fila spiccava la rossa che aveva intravisto
prima, e una di colore, forse un incrocio, tra un indiano e un americano. Aveva
un bel profilo. Fu l’unica che le sorrise. Gabrielle ricambiò.
«Sono soddisfatta, amore mio...» aggiunse la donna, e si
alzò, facendo un gesto all’uomo, dall’alto del soppalco, parlando alzando la
voce. Le donne si voltarono, sorprese.
«Bene, signorine verrete richiamate per un ulteriore
colloquio, stavolta individuale. Vi ringrazio per la vostra disponibilità.» la
donna elegante mostrò interamente la sua figura, sporgendosi, e Gabrielle, dal
basso della sua posizione, rimase come sorpresa. Quella donna, dai lunghi
capelli scuri e l’eleganza di un felino, le ricordava qualcuno. Come una
reminescenza dal passato, qualcosa che le stava tra lo stomaco e il cuore,
qualcosa che premeva nel suo essere e pulsava. Cercò di inquadrare meglio il
volto della donna, ma quella sparì nel buio, e l’uomo sul palco le congedò.
Gabrielle uscì dal centro ancora più confusa di prima.
Chi era quella donna?
Da chi stava per essere assunta?
Che società
era?
- Al tempo
degli Dei dell'Olimpo -
Gabrielle fu soddisfatta
dal lavoro del fabbro migliore di tutta la Grecia. La polvere, dentro quelle
bolle di metallo e vetro, si intravedeva, compatta nelle sfere che decoravano
la collana.
La mise al collo, si
avvolse in uno scialle, e incominciò il suo cammino. Doveva andare in India.
Doveva avvisare Eve che sua madre, purtroppo, non era più al mondo.
Sentì una presenza dietro
di sé, e parlò.
«Qual buon
vento, Ares.» parlò la bionda, voltandosi. Gli occhi verdi, sotto il
cielo coperto da nuvole, li rendeva quasi opachi. Sorrise, ma non raggiunse gli
occhi. Da tempo ormai, il suo sorriso non raggiungeva la sua anima. Gli occhi
spenti, non erano più verdi come le distese di una lontana terra dell’ovest.
Erano morti, erano palude. E lì, in quel groviglio di piante e acqua malsana,
c’era la sua anima purulenta che invocava la morte.
«Dov’è?» la donna intuì di chi stava parlando. Si strinse
istintivamente la sciarpa al collo, la collana si mosse sulla sua pelle. Lo
guardò, con occhi spenti.
«Ad Anfipoli, di fianco a suo fratello e a sua madre,
come lei voleva.» l’uomo si girò, urlando dolore. Lanciò una palla di fuoco
contro una pietra. Apparve un’elegante donna al suo fianco, vestita in modo
provocante e spinto, i biondi capelli perfetti nella loro acconciatura.
«Fratello, calmati... è stata una sua scelta...» Venere
tentò di fermare il fratello, che dopo averla fulminata con lo sguardo sparì.
La donna sbuffò, scoraggiata, e passò il suo sguardo, gli occhi dispiaciuti,
verso la sua amica, aveva il sale del mare che pungeva al bordo degli occhi.
«Mi dispiace, Gabrielle... sono sincera.» Gabrielle
annuì, e con un mesto sorriso si asciugò le lacrime che erano pronte a
scendere. L’amica si avvicinò, impacciata per la prima volta, e l’abbracciò.
«Voi due eravate il mio capolavoro... farò fatica a
creare un amore come il vostro ancora una volta.» ammise la dea, carezzando i
corti capelli della piccola bionda. Il tepore della dea era confortante, a
differenza delle sue parole. Si staccò, e sorrise ancora. La gola secca, non
riusciva a mandare giù quel nodo che era cresciuto in quel momento.
«Ma posso fare una cosa, in memoria di voi.» aggiunse la
dea, e i loro occhi si incontrarono. Lo sguardo di Gabrielle si dipinsero per
una volta di speranza e non di cupo dolore. Venere scostò lo scialle, e con
tocco delicato sfiorò la collana, mormorando un incantesimo in rima che
Gabrielle non capì.
La collana si illuminò, come di vita propria.
«Il vostro ricordo durerà in eterno, fin quando
indosserai questa collana. Tutti i tuoi ricordi saranno custoditi qui. E varrà
per tutte le persone in cui scorrerà il tuo sangue. Non toglierlo mai,
Gabrielle, o la tua mente ti scivolerà tra le dita come sabbia. E tua figlia
vedrà la tua vita, e sua figlia vedrà la tua e la sua, aggiungendo ricordi a
questo contenitore.» la dea tolse la mano e la collana non brillò più.
Gabrielle vi pose una mano sopra, e con un sorriso, stranamente sincero, lasciò
sparire la sua amica dai poteri sovraumani con un “grazie” regalato al vento.
Gabrielle si fermò nel
bar affianco alla palazzina in vetro e colonne bianche, sorseggiando un caffè meditabonda.
Sobbalzò quando una voce femminile le chiese se poteva sedersi. La donna scura
di pelle conosciuta prima al colloquio la guardava. Gli occhi scuri come l’inchiostro.
«Ciao.» disse,
sorridendo. Aveva un sorriso bianco, in contrasto con la pelle scura.
«Ciao...» mormorò Gabrielle, ricambiando e rispondendo alla
domanda.
«È stato un
colloquio alquanto strano, quello di prima, non pensi?» domandò la donna, ordinando un cappuccino. La
bionda la studiò, sorseggiando il suo caffè freddo. Gli occhi erano neri come
la pece, la pelle morbida, scura proprio come il cappuccino appena arrivato. I capelli
scuri anch’essi, avvolti in una elegante acconciatura. Il suo sguardo, però,
aveva un che di finto... il suo sorriso non sembrava raggiungerlo.
«Sì, infatti,
non mi ricordavo nemmeno di averlo inviato, il curriculum...» rispose «A proposito, che società è?» domandò,
guardandola di sottecchi. I suoi occhi scattarono in varie direzioni. Si avvicinò,
parlando piano per non farsi sentire.
«Non lo sai?» Gabrielle alzò un ciglio, come se questo fosse la
cosa più impossibile del mondo.
«Ovviamente no,
se te lo chiedo.» ammise,
leggermente scocciata. La donna la fissava, stavolta come concentrata nel
leggerle dentro.
«Tu non sei una
di noi, vero?» la bionda,
stavolta, rimase come shockata. Cosa stava dicendo?
«Come?» domandò, non comprendendo le parole misteriose
della donna.
La donna frugò dentro la
borsa, e da un blocco nero mostrò un distintivo. FBI.
«Ti consiglio
vivamente di non rispondere a quella chiamata. Lascia perdere.» Gabrielle non capiva tutta quella atmosfera da
film giallo.
«Scusa, cosa c’entra
l’FBI? Chi sono quelle persone?» e nella testa
l’immagine di quella donna dai lunghi capelli scuri balenò in un secondo, come
un brivido di freddo.
«Sei sorda o
cosa? Stacci lontana. Non posso rivelarti di più.» Si alzò, pagò velocemente il cappuccino e se ne andò, riprendendo quel
sorriso che aveva ben costruito. Con lei, però, si era incrinato. Un telefono
le arrivò all’orecchio, e sbiancò.
Gabrielle decise di non
darci peso. Sentì un brivido sulla schiena, quel brivido che di solito provava
quando stendeva il suo avversario in palestra. Ordinò un altro caffè. Aveva tempo
da perdere.
Scostò lo sguardo,
riprendendo le briglia dei suoi pensieri prima di quella interruzione, e non
diede peso alla scena che si stava consumando prima. Un’auto nera scivolò
silenziosa, qualche via più in là, riversata in un lago di sangue, la donna
scura di pelle.
- Al tempo
degli Dei dell'Olimpo -
Gabrielle stese l’ennesimo
bandito, e lanciando il Chakram ne stese il triplo e
riafferrandolo al volo, lo usò come scudo per il nuovo avversario. Colpiva con
furia, Gabrielle, la collana che tintinnava al collo, avvolta dallo scialle, il
sangue scorreva copioso dalla sua ferita alla gamba. Ma riuscì a metterli in
fuga.
Stringendo i denti,
rinfoderò le armi e iniziò a medicare la ferita. Era profonda, sarebbe rimasta
la cicatrice.
Riprese il cammino usando
un bastone come sostegno. Il dolore era ancora troppo forte, e la ferita ancora
troppo fresca.
Finalmente raggiunse il
villaggio, il furore del mercato, i suoi odori, le voci alte e ripiene di quell’accento
che quasi aveva dimenticato. Ma era felice di essere tornata in India.
Una voce, di donna, più
alta di quelle del mercato, parlava alla folla. Era Eve.
Si accostò alla gente che
si era affollata intorno a lei.
«Ricordatevi,
Ben Hur è sempre con noi, e l’amore ci pervade.
Sempre.» e con quelle parole scese dal
suo palco improvvisato, aiutato da delle persone, suoi seguaci.
Si avvicinò, cercando di
farsi spazio tra la gente. Quando gli occhi della giovane incontrarono i suoi
Gabrielle ebbe un fremito. Si era dimenticata quanto i suoi occhi
assomigliavano a quelli di Xena. Per un secondo poté rivedere i suoi occhi. Il cuore, stranamente, ebbe
un lieve palpito. La sua anima si era dimenticata il sapore delle emozioni.
«Gabrielle!» la chiamò, e il suo tono di voce distrusse il suo
piccolo viaggio personale. Non era il tono caldo e dolce di Xena. Lei non c’era
più.
«Eve, saluti.» mormorò, avvicinandosi. I suoi occhi erano distrutti.
Con che coraggio ora poteva affrontare quel discorso? Come dire alla figlia che
la madre era morta.
«Ti pensavo
morta!» affermò, avvicinandosi e
stringendola forte. Quella piccola donna, dai capelli castani, la guardò fissa
negli occhi.
Ti prego, non mi guardare così... non mi guardare
come lei.
«E invece a
quanto pare sono ancora viva...» rispose «Potremmo parlare in privato? Ti devo dire una cosa
importante...» e le due
donne si allontanarono dal frastuono del mercato, intrapresero una passeggiata
tra le vie più interne del paese.
«Dimmi,
Gabrielle, dov’è mia madre?» chiese la
mora, camminando tra la sabbia della via. Gabrielle aveva un nodo alla gola.
«Io ti
amo, Xena. Come farò ad andare avanti senza di te?» la bionda guardò il tramonto, poi i suoi occhi. I
suoi bellissimi occhi chiari. Erano come il cielo appena sorto il sole. E ora
stava tramontando su di loro. Ma al tramonto lei non ci sarebbe più stata. Non avrebbe
più visto i suoi occhi, non avrebbe più baciato le sue labbra, non avrebbe più
stretto a sé quel corpo ora scattante ora morbido. Non avrebbe più assaporato
il gusto della sua risata. Troppe, troppe cose stava perdendo ora, a quel tramonto.
E ne avevano visti tanti, di tramonti, loro due.
«Starò
sempre con te, Olimpia.» le
disse, con quella sua voce melodiosa. Il sole correva lento, là dove Gabrielle
avrebbe trovato solo dolore.
«Sempre.» disse. Ma Gabrielle seppe, dentro il suo cuore,
che il sempre dura solo nelle fiabe. Lì, in quel mondo voluto dagli dèi, il “sempre”
non esisteva. Non avevano permesso che esistesse. E odiò il mondo. E la sua
vacuità.
Si appoggiò alla sua spalla, sempre lì per lei, e
il suo braccio l’avvolse dolcemente. In quell’abbraccio Gabrielle dimenticò il
dolore. Dimenticò l’odio.
E quando il sole arrivò all’ultimo raggio sul suo
viso, il suo ultimo respiro le soffiò affianco all’orecchio. Quell’ultimo
respiro, che ascoltò solo lei. Percepì soltanto lei quell’ultimo sospiro di
dispiacere. Di dolore. Di mancanza.
Svanì, proprio come il calore del sole stesso.
«Xena...»
Gabrielle seppe che, nel suo cuore, Xena aveva
fatto la cosa giusta. Ma per lei quel respiro di dispiacere, quell’ultimo vago
odore e calore di lei, le era stato strappato via ingiustamente.
Dimenticò tutti i sentimenti che provò in quel
momento, assaporando sulla lingua il vago sapore dell’ingiustizia e seppellì il
suo cuore in se stessa.
Intanto il
sole era tramontato.
Le lacrime
le avevano affollato gli occhi. Si asciugò il volto.
E vide le
stelle.
E vide il
suo volto.
Lo avrebbe
visto dovunque e sempre.
Sì... forse
un “sempre” esiste.
Nel suo cuore.
Eve la guardò, e conobbe la risposta. I suoi occhi si colorarono
di pianto. Di dolore. Pianse, disperata, aggrappandosi alla spalla di quella
donna che era stata la compagna di sua madre per tanto tempo.
Pianse, ma si riprese.
«Scusami, Gabrielle, se vengo a cercare conforto da te...»
mormorò, cercando di cancellare quel nodo alla gola «So che il mio dolore è
nulla in confronto al tuo.» ma Gabrielle negò, e le sorrise. E piansero
assieme, inginocchiate in quella fredda sabbia. Mentre il sole tramontava.
- giorni nostri -
Gabrielle attendeva, sotto quella pioggia di stagione,
mentre il freddo si incuneava sotto il suo montgomery. Aspettava. Gli avevano
dato appuntamento lì per il colloquio. Puntuale lei ovviamente, come sempre.
Eppure erano in ritardo. Sinceramente non sapeva nemmeno cosa aspettarsi.
L’uomo della scorsa volta?
Quella donna misteriosa dai lunghi capelli neri...?
Quando si sentì chiamare per nome, il suo cuore sperò
nell’ultima opzione.
«Signorina Gabrielle?» domandò l’uomo, senza ombrello
sotto la pioggia. Era appena sceso da una macchina nera.
«Sì.» rispose, indugiando leggermente. Tremava dal
freddo. Oppure dall’emozione?
Venne condotta alla porta della macchina e, chiudendo l’ombrello,
entrò. L’interno della limousine era caldo, asciutto e accogliente. Gli interni
in pelle. Non c’era nessuno che l’attendeva al suo interno. La voce dell’autista
si riversò nell’abitacolo grazie ad un autoparlante.
«La signora mi ha chiesto di venire a prenderla. La sto
conducendo al luogo d’incontro predestinato.» e con un suono metallico la voce
non parlò più. Gabrielle distese i nervi. Doveva calmarsi, essere fredda.
Agitarsi non serviva a niente.
Prese il cellulare. Chiamò la nonna.
«Arriverò tardi forse stasera.» avvisò, e mandò un
messaggio al padre, sicuramente in riunione. Finito il suo dovere di figlia, osservò
con curiosità l’interno della limousine. Non era mai entrata in una macchina
così di lusso. C’era persino un minibar! Ma non osò toccare nulla.
Per quanto fosse facoltosa, la sua famiglia non era di
certo dispendiosa in certi lussi. Gabrielle preferiva di gran lunga la sua
piccola Punto.
La macchina viaggiò per una buona mezz’ora, e la giovane,
appoggiata al divanetto, assaporò la tranquillità della musica soft nelle
orecchie. Quando l’auto si fermò, si accorse del fatto che si era addormentata.
Era già buio.
«Dove siamo?» domandò all’autista, scendendo. L’uomo le
indicò la porta di una casa avvolta nel verde. Intorno a loro solo alberi.
Dovevano essere usciti dalla città ed inoltratisi molto a fondo nella foresta,
perché non udiva i rumori della metropoli. La casa, bianca, andava in contrasto
con l’ambiente intorno. I vetri trasparenti, le forme molto ruvide e quadrate
separavano nettamente quella casa da tutto. Bussò alla porta scura e quando si
aprì, Gabrielle trattene il respiro.
Il cuore perse un battito.
«Benvenuta.» le disse con voce morbida e sensuale la
donna dai lunghi capelli neri.
Gabrielle entrò,
nascondendo la timidezza dietro un velo di cortesia. Ma nel petto, il cuore
correva e arrossiva.
«Mi dia pure il
suo cappotto...» disse la
donna, avvolta in un fine vestito di raso rosso. Era elegante. Troppo, per un
colloquio «Le chiedo
scusa, se le ho fatto fare un viaggio così lungo, ma mi sono ritirata qui
perché odio il traffico...sopratutto quello di New York...» Gabrielle annuì, e sorrise timidamente
all’affermazione della donna. Era sensuale, camminava con una dolcezza unica.
Un rimbombo nella sua mente, di un ricordo più antico della pelle stessa.
«Si figuri...» disse, guardandosi intorno. Tutta la casa era
ammodernata con mobili e utensili di lusso. Quadri colorati, tavoli rettilinei
e librerie stravaganti addobbavano le pareti di quella casa così spigolosa e
quadrata che fece sentire Gabrielle ancora più piccola. E quella mora non la
faceva sentire meglio. L’aveva appena intravista al primo colloquio, ma ora
poteva osservarla in tutta la sua figura. Alta, straordinariamente alta. Anche
se indossava scarpe con tacco basso lei gli arrivava appena alle spalle. I
capelli, lisci e liberi, scivolavano come fiume sulla sua pelle, e gli occhi
erano di un azzurro mai visto nei cieli di New York, la grande mela. Le entrava
dentro e la esplorava, e si sentì vuota, davanti a quella pienezza di spirito.
«Accomodati
pure, odio essere formale con le persone.» disse, sedendosi comodamente in un divano nero in pelle, vicino a un
camino acceso. Il fuoco era rosso come il sangue. E la sua pelle era bianca,
candida, sicuramente di origini europee. Ma il suo accento era tipicamente
americano.
«Questo
dev’essere il suo curriculum...» disse,
estraendo un foglio dal nulla. Lo aveva preso dal giubbotto.
«Oh, sì, mi
sono dimenticata... scusi...» Gabrielle si
sentì impacciata, come al suo primo colloquio, ma aveva molta esperienza alle
spalle, perché quella donna riusciva a metterla così in difficoltà?
«Non
preoccuparti...» iniziò a
leggerlo, in velocità «Mmm, voto con
lode, diversi master, specializzazione...» poche parole sparute del foglio che Gabrielle conosceva ormai a memoria.
La sua vita, su un pezzo di carta «Sì, interessante, ma questo è solo quello che conosci. Io voglio sapere se
hai anche la manualità dalla tua.» disse,
guardandola con un sorriso sbarazzino. Gabrielle sentì un brivido strano
pervaderle le membra.
«Ecco, ho fatto
un piccolo stage a uno scavo, e poi un lavoro più duraturo, di un anno, alla
manutenzione dei reperti ritrovati in questo scavo.» spiegò,la
donna l’ascoltava con interesse. I suoi occhi non si muovevano dai suoi. La
rendevano inquieta. Ancora brividi.
«Questo mi
serviva.» informò, uno stralcio di
sogghigno sul suo volto «Ebbene, ti
voglio mettere alla prova.» Gabrielle
strabuzzò gli occhi.
«Come?» domandò, non comprendendo cosa volesse insinuare.
La donna piegò il foglio, accavallò le gambe. Gabrielle seguì il movimento come
se fosse stato a rallentatore, e accorgendosi di essere osservata distolse lo
sguardo. La mora sorrise maliziosa.
«Beh, avrei un
reperto qui, che ha bisogno di urgente restauro. Ti andrebbe di dargli
un’occhiata?» Gabrielle si
alzò di scatto, gli occhi che brillavano.
«Andiamo!» affermò, piena di energie. Di fronte alla
reazione immediata della bionda, la donna rise di gusto.
«Oh, io... mi
scusi...» era imbarazzata da morire.
Aveva fatto la figura della fanatica.
«Figurati, mi
piaci, lo sai?» quella frase
volò nel silenzio e colpì in pieno Gabrielle lasciandola senza parole. Il suo
sorriso...era così dolce. Affascinante. E sentì un moto strano nello stomaco. O
era forse il cuore?
«Ecco...io...» non sapeva come risponderle. La mora la distolse
dall’imbarazzo.
«Il referto è
in quella teca, aprila pure.» disse,
indicando una scatola di legno su un comodino trasparente. La bionda, felice di
poter cambiare argomento, si avvicinò. Nella scatola, avvolto da tessuto, stava
un anello. Un monile molto antico. La pietra incastonata era ricoperta di fango
e muffa, eppure si poteva intuire il metallo che lo componeva. Era oro.
«Desidero tanto
che quel monile torni al suo splendore originario... Quanto tempo ci vorrà?» Gabrielle lo osservò con occhio acuto, stando
attenta a non toccarlo. Gli acidi delle mani sono i peggiori per un gioiello
ancora non restaurato.
«Mmm...ritrovato in acqua giusto? O nelle vicinanze di
bacini acquiferi? L’attacco dell’acqua è classico, ma è facile toglierlo.» ora
parlava Gabrielle l’esperta, l’occhio attento, non si era nemmeno accorta che
la donna si era alzata e osservava il monile da dietro le sue spalle.
“Questa donna non si è nemmeno accorta della mia
presenza, è persa dietro questo oggetto come se ne andasse della sua vita... Mi
serve proprio una fanatica esperta come lei.” Pensò la mora, dietro la bionda,
osservandone i movimenti, gli accorgimenti. Sentì come un sentore strano, nella
mente. Il suo profumo...era come familiare.
Gabrielle spostò l’oggetto con un fazzoletto.
«Il metallo che lo compone è stato forgiato bene, non è
spezzato, né deteriorato dall’interno.» continuò a parlare, ignara dei pensieri
della sua datrice di lavoro.
“E poi... è anche bella.”.
Gabrielle poggiò la scatola, ponendo fine ai pensieri
poco consoni della mora.
«Con gli adeguati strumenti e una buona luce io ci
metterei meno di una settimana, sicuro.» affermò, voltandosi, non aspettandosi
la forte vicinanza della mora. Sobbalzò, non essendosi accorta del movimento a
dir poco felino della donna. Non aveva udito nessun rumore nella stanza.
Avrebbe potuto ucciderla, tanto era immersa nei suoi pensieri.
«Bene, inizierai domani, Gabrielle.» affermò la donna, e
vide gli occhi verdi di Gabrielle illuminarsi. Aveva un bel nome, la storica,
oltre che al bel fisico.
«Sono onorata di poter lavorare con lei.» rispose
Gabrielle, contenta fino al paradiso, stringendo la mano della donna. Aveva una
presa ferrea.
«Non darmi del lei, dopotutto abbiamo più o meno la
stessa età, sai?» informò la mora, camminando verso le scale, la bionda si
fermò al primo scalino.
«Io... dovrei tornare a casa...» informò la giovine,
preoccupata. Si accorse con sorpresa che era notte inoltrata. Quella donna le
faceva perdere oltre che la testa anche il tempo.
«Non si preoccupi, avevo previsto questo inconveniente.
Ma non posso pretendere che possa andare e venire da casa fin qui. Dopotutto ha
potuto notare che ci vogliono almeno 3 ore per arrivare.» Gabrielle impallidì.
Aveva dormito durante il viaggio, e non si era accorta del tempo che era
passato.
«Lei dormirà qui fin quando non finirà il lavoro di
restaurazione. Nello scantinato troverà tutto l’armamentario necessario per
affrontare la restaurazione con cura.» Gabrielle balbettò, come sorpresa e allo
stesso tempo spaventata. Non era mai stata fuori casa così tanto tempo. E poi
quella non era casa sua, ma quella della sua datrice di lavoro, del suo futuro
capo. La mora la vide indecisa e in difficoltà, e sorrise.
«Non si preoccupi, prima finirà il suo lavoro, prima
potrà tornare a casa. Se verrà assunta a pieno titolo il suo prossimo luogo di
lavoro sarà la Grecia.» la informò, la tentazione della futura meta fece gola
alla bionda «E poi, in questa casa ci sono solo io, mio marito è via per motivi
di lavoro e non tornerà fin quando non troverò un degno storico per la nostra
organizzazione. In aggiunta, è stato lui stesso a disporre questo per lei, usi
la camera degli ospiti come se fosse la sua, compresa la cabina armadio. Lei
ora è mia ospite.» Gabrielle pensò che avrebbe dato una bruttissima impressione
rifiutare una così cordiale e gentile offerta, così accettò, anche se a
malincuore. Stare da sola, in quella casa, con quella donna che la metteva in
soggezione e in difficoltà con se stessa non la faceva stare calma.
«E va bene... accetto.» affermò, e salì le scale.
La mora, dall’alto della rampa, sorrise, sicura di aver
aggiunto un altro schiavo alla sua causa.
Quella donna sarebbe stata sua, intrappolata nella sua
trama finemente ordita.
“La circuirò come si deve, questa novellina di città...”
pensò, salendo gli ultimi gradini con affianco la giovane “E lui sarà contento
del mio operato”.
- Al tempo degli Dei
dell'Olimpo -
Gabrielle, ormai
anziana, ricevette suo figlio nella stanza, pregna dell’odore di malato e della
futura morte, ormai prossima.
«Hai fatto quello che
ti ho chiesto?» domandò, e il giovane annuì, porgendole l’anello appena
forgiato dal più fidato orafo della Grecia. Gabrielle sorrise, spostando tutte
le rughe che solcavano il suo volto. Gli occhi, una volta verde intenso, ora
erano velati di un bianco, come una gemma nascosta da un lenzuolo di raso.
«Venere...» chiamò
l’anziana, e dal nulla apparve la dea dell’amore, bellissima e affascinante
come sempre, ma vestita a lutto, in nero, conoscendo la sorte ormai prossima
della sua mortale amica, ma pur sempre stravolgente di fascino come poteva
esserlo solo lei in quei vestiti poco consoni e provocatori.
«Ciao Gabrielle, ti
stanno proprio male quelle rughe, sai?» la donna anziana sorrise, e gli occhi
le brillarono, quando parlò. La voce carica di stanchezza e di una tosse che la
stava uccidendo dal di dentro uscì dalla bocca riarsa di Gabrielle.
«Ti ricordi quello che
ti chiesi?» la dea annuì, si avvicinò al giovine e prese il monile.
«Sei sicura di quello
che stai facendo, Gabrielle?» domandò, ancora incerta se esaudire veramente
quel desiderio senza senso.
«Le parche mi hanno
detto che c’è una minima speranza... e voglio che quella speranza diventi
realtà. Ti prego, Venere, fallo per me... per la nostra amicizia...» l’anziana
tossì fortemente, scuotendo quel corpo così rovinato dalla vita. La dea annuì.
«Addio Gabrielle...»
sussurrò a fior di labbra, e sparì così com’era venuta. La vecchia sorrise,
grinzosamente. Sugli occhi di quella divinità aveva visto la parvenza di una
lacrima.
«Amelia...» la figlia,
bionda come la madre ma con gli occhi bruni del padre, si avvicinò, ed era già
in lacrime. Aveva ereditato lo stesso fascino greco di lei, e Gabrielle ne era
più che fiera. Il suo devoto sposo era perdutamente innamorato e paziente con
quella donna che oltre alla bellezza aveva preso anche l’irrequietudine di lei.
«Lasciaci soli,
Franco...» chiese ponendo la mano sul giovine, e il figlio si allontanò,
chiudendo la porta dietro di loro. Aveva preso la pazienza e il silenzio del
padre, morto in battaglia. Aveva gli occhi verdi di lei. E un animo buono e
gentile, come i suoi genitori.
La donna si sganciò il
monile dal collo, con solennità. Gabrielle poté sentire il peso del gioiello
sparire ma anche un peso interno, più grande, che era quello della conoscenza,
alzarsi e dissiparsi lentamente dentro sé. La figlia pianse ancora di più. Sapeva
quanto costava alla madre separarsi da quella collana. Era la sua vita. E la
stava dando a lei.
«Quando lo indosserai
capirai. E saprai cosa fare...» borbottò la donna tra la tosse, i singulti che
diventavano sempre più forti. La figlia, agganciato il gioiello vide nella sua
mente una vita in un attimo, e la donna che prima piangeva al capezzale della
madre non era più quella che ora era seduta per terra, con gli occhi sbarrati e
increduli per la magia appena avvenuta.
«Non toglierlo, mai, o
perderai la memoria...» le ultime parole prudenti dell’ anziana erano flebili.
«Sì madre...» disse la
donna al capezzale, gli occhi ricolmi di lacrime. Il cuore le si stava
spezzando in mano. E sapeva che quel momento sarebbe stato il primo ricordo che
avrebbe dato a sua figlia, e a sua nipote, e così via, fino alla fine della
propria generazione.
«Ti prego... fa che
quella speranza cresciuta in me e datami dalle parche non sparisca invano come
i miei ricordi...» gli occhi iniziavano a non vedere più i contorni delle cose.
La figlia capì, nella mente il ricordo della madre riaffiorò come se fosse
proprio.
«Madre...» l’ultimo
richiamo della figlia non arrivò alle orecchie della donna anziana. Gabrielle, nell’ultimo
barlume di lucidità e vita, nei suoi occhi ormai appannati dall’età e dalla
malattia vide un volto, chiaro come il giorno, come quel giorno.
“Xena...”.
E muore.
- giorni nostri -
«Mamma, stai
tranquilla, adesso vedrai, i medici ti cureranno...» un giovane, capelli sul
biondo spento, occhi neri come la pece, guardava l’anziana signora riversa su
un letto d’ospedale, mentre correvano per l’emergenza appena accaduta. Il cuore
di quella donna così forte aveva avuto un acciacco, facendola cadere dalle
scale. Un grosso livido sulla fronte lo testimoniava, e il respiro rauco della
donna si sentiva appena al di là della mascherina di plastica.
Prima che varcasse
l’ultima porta del reparto di pronto soccorso l’uomo, sulla cinquantina, sentì
un ultima parola provenire dalla bocca della madre. E lui capì, sentendo la
responsabilità di una stirpe sulle spalle, che la propria ed unica figlia
doveva andare dalla nonna prima che ella spirasse. Glielo doveva, perché sapeva
che lui non avrebbe potuto portare quel fardello che invece quella donna
portava sul collo da tutta una vita.
Afferrò il telefono,
componendo il numero a memoria.
«Pronto?» la voce
chiara della figlia provenne dall’altro capo del telefono leggermente
disturbata.
«So che sei a lavoro
ma vieni subito all’ospedale, la nonna ha avuto un infarto... ha bisogno di
parlarti...» sentì un sussulto dall’altra parte della cornetta, e conoscendo
bene sua figlia ora sarà sbiancata e avrà gli occhi prossimi alle lacrime. Ma
non avrebbe pianto, a meno che non fosse da sola. Odiava piangere di fronte
agli altri. Lui stesso non l’aveva mai vista piangere.
La mora vide la
reazione della bionda preoccupata. Era sbiancata e non riusciva a parlare.
Aveva ancora in mano quel biscotto bagnato di caffè che colava. Lo fece
affondare dentro il bicchiere.
«Ok... farò il prima
possibile.» disse, chiudendo il cellulare a chiocciola.
«C’è qualcosa che non
va?» domandò la mora, finendo di bere il caffè. I suoi occhi erano diventati
bui. Quella luce che aveva negli occhi pochi istanti prima, trepidanti per il
lavoro che l’aspettava, ora non c’era più. E a quella vista era come se dentro
di sé si fosse spezzato un filo. Come se gli fosse venuto a mancare qualcosa.
Un vecchio lontano ricordo riemerso da
un passato doloroso.
«Mia nonna... la donna
che mi ha cresciuto al posto di mia madre... è in ospedale...» la mora la
guardò, intuendo i suoi pensieri «ha avuto un infarto...» aveva gli occhi
umidi, e sentì le sue lacrime bagnarle l’anima prima dei suoi occhi. La mora si
alzò, e indossò il cappotto nero appeso all’attaccapanni.
«Andiamo.» disse, con
tono autoritario. Gabrielle non comprese perché si preoccupava così per lei «Ti
accompagno io in macchina. Cercherò di fare il prima possibile.» disse,
prendendo delle chiavi da un piattino. Gabrielle indossò il montgomery e uscì
insieme alla donna, salendo su una macchina parcheggiata nel retro. Era come
comandata da qualcosa, qualcosa muoveva i suoi piedi, qualcosa la trascinava
avanti. Se fosse stato per lei, sarebbe ancora su quel tavolo davanti a quel
biscotto mezzo mangiato.
La macchina era una
Audi nera, elegante e raffinata. Profumava ancora di nuovo. Di plastica.
«Ma... il lavoro?»
domandò la bionda, cercando di contenere il dolore nel proprio petto che solo
ora stava sorgendo. La freccia era stata scoccata, ma l’aveva colpita solo ora.
E faceva un male impossibile al cuore. La gola si era annodata, e in mezzo ad
esso vi era un buco nero di singhiozzi bloccati a metà.
«Aspetterà. Se non
sbaglio, invece, tua nonna non ha tanto tempo a disposizione.» disse la mora,
accendendo il motore, che rombò sotto il cofano, come una tigre appena
svegliata dal sonno. Gabrielle sorrise sotto le lacrime.
«Grazie...» mormorò,
stringendosi nel giubbotto grigio, scorrendo veloce su quella stradina battuta
alle prime luci del giorno.
Gabrielle non poté non
notare l’eleganza della gamba che si tendeva, la mano che scivolava sulle
marce, le dita affusolate e lunghe, ben curate. L’anello di matrimonio, unico
filo d’oro.
La bionda, persa nei
mille e nessun pensiero per la testa non si accorse che la macchina si era
fermata nel parcheggio dell’ospedale. Scese, comandata da qualcosa dentro sé. Ecco,
ora capiva.
Frenesia.
«Va’ pure, io
ti aspetto qui.» la bionda
fece pochi passi, poi si voltò.
«Lo so che ti
sembrerà strano ma...potresti venire con me?» il suo volto era rosso, dalla richiesta. La mora rimase come basita, e
sorrise mestamente. Il suo sorriso, così carico di dolcezza, colpì ancora
Gabrielle. Il suo tepore, aveva attraversato i pochi metri e affondò lì, a
pochi centimetri dal cuore.
«Va bene.» e si affrettarono ad attraversare l’ospedale.
L’uomo dai capelli
dorati, ormai spenti, vide in lontananza la figlia arrivare di corsa.
«Sei
arrivata...» mormorò lui,
e guardò con diffidenza la donna dagli occhi ghiacciati. Gli ricordava
qualcuno...
«Dov’è? Come
sta?» domandò, ansiosa, Gabrielle. I suoi
occhi erano frenetici, il cuore impazziva.
L’uomo abbassò lo sguardo.
«È molto debole, hanno detto... forse non arriverà a
domani...» e si abbandonò sulla sedia dove prima era seduto. La figlia corse
alla porta indicatole, e ignorò il padre che singhiozzava silente, su quella
poltrona. Quante lacrime aveva visto, quell’arredamento? Quante urla, quanto
sconforto? Vide la schiena della figlia sprofondare nella camera illuminata
dalla mattina ormai inoltrata. E il suo telefono, in silenzioso, continuava a
squillare. Ma non avrebbe risposto.
La donna dai capelli scuri rimase in piedi ad aspettare,
appoggiandosi, braccia incrociate, al muro con spossatezza.
«Nonna?» mormorò la bionda, chiusasi la porta dietro di
sé, pigolando come un uccellino timido dentro una gabbia di sparvieri.
«Gab...» la voce dell’anziana
era flebile, su quel letto vicino alla finestra. La donna si tuffò alla mano
leggermente protesa verso lei, stringendola forte. La sua mano era così debole,
il colore così pallido sul suo viso. Sotto il camice si poteva intravedere la
collana brillare.
«Come stai?» domanda stupida.
“Gabrielle, ma sei stupida?! È in ospedale, ha avuto un
infarto, è caduta dalle scale! Forse morirà e tu le chiedi come stai?!”.
«Non preoccuparti per me, figliola...» mormorò l’anziana,
nello spiraglio apertosi aveva visto una cosa, una persona che conosceva solo grazie alla collana. Grazie alla magia.
«Chi è la donna che è venuta con te?» domandò, con voce debole.
«È la mia datrice di lavoro, nonna, non preoccuparti... vuoi
un po’ d’acqua?» e senza avere la risposta le porse un bicchiere di acqua
appena versata. Eppure era lei ad avere la gola secca. E quel nodo non si
scioglieva...
L’anziana bevve grazie alla cannuccia.
«So che non arriverò alla fine di questo giorno...»
disse, con voce più chiara e nuova forza. Fermò la nipote che tentava di
protestare «Ti prego, ho una cosa da darti, e posso darla solo a te.» e con
difficoltà si porse le mani a sganciarsi il monile al collo. Sentì un sollievo
dell’anima e della mente, allo sparire di quel contatto così familiare.
«Indossalo, ora, e capirai tutto.» e così Gabrielle fece,
con le lacrime agli occhi.
«Nonna!
Quando potrò avere questa collana? Me la fai provare?» la bambina allungò le
mani, giocherellando con le piccole palline nere. La donna, sulla cinquantina,
pose le mani grandi e grinzose su quelle giovani e paffute della nipote.
«L’avrai
quando io non ci sarò più.» e si guardarono negli occhi con intensità tale che
Gabrielle ricordò per sempre quel momento. Nel silenzio la bambina parlò.
«Allora
sarà quando sarò vecchia anch’io...» e mise il broncio, rubando un bel sorriso
alla donna, mandandola a giocare.
Chiuso il gancio sentì un tramestio nella mente, come un
palloncino gonfiato a fiato, allargandosi e riempiendosi di tutto e niente.
Erano ricordi. Una marea di ricordi.
«Mamma!» l’urlo
della bambina, immersa nelle macerie stringeva la mano della madre che spirò. Allungò
la mano sulla collana, la indossò, e maturò.
«Mi mancherai...»
disse la madre, porgendo la collana alla figlia, prima di salire sui carri per
i campi di concentramento. Piangeva, e la vide trascinata via. I suoi occhi
riempirsi dei suoi.
«Nonna!»
irruppe la nipote, stringendo il corpo esamine della donna morta sotto la lama
dei barbari.
Gli uomini
scapparono, e l’anziana inforcò la giovane del suo peso, e gli occhi
brillarono.
«Madre...»
la donna, vestita di stracci, piangeva su un corpo di anziana, in una capanna
malconcia.
E vite, intere vite scorrerle davanti, in una miriade di
emozioni e sentimenti.
«Fiona, non
correre, che ti fai male!» ma lei correva, le piaceva il vento nei capelli.
«Mi vuoi
abbandonare?!» la donna piangeva, stringendo la pancia in cui nasceva una nuova
vita. La mano dell’uomo scivolò dalla sua, correndo giù dalle scale.
«Giovanni!»
urlò la donna, vedendo il fratello morire davanti ai suoi occhi. «NO!».
«Muori,
bastardo.» il coltello scivolò veloce nelle carni dell’uomo, spirando guardando
gli occhi della donna che aveva amato - o stuprato - in quel vicolo.
«Ti amo.»
sussurrò alla donna affianco a sé, stringendola dolcemente, in quella città che
non sapeva e che non voleva, indossando di nuovo il burqa, ricordando i doveri
di una moglie.
«Non mi
lasciare...» piangeva la donna, ora adulta, su quel corpo esamine. Sua madre.
E, in fondo a quella miriade di vite e spruzzi di vita e
dolori, vide l’autrice di tutto. La sua antenata.
E si chiamava come lei: Gabrielle.
«Gab, sbrigati! La cena è pronta!» la voce - famigliare -
della sorella la richiamava a tavola, si pulì il volto, e sbuffò, scocciata.
E vide se stessa, in quello specchio, tante ere fa.
«Portami
con te, Xena!» supplicò la bionda, guardando una figura seduta ad armarsi. La determinazione
bruciava nelle sue viscere.
Quella donna... no, non può essere!
«Xena,
aiuto!» urlò, dal carro in corsa, guardando in volto la donna corsa in suo
aiuto.
Lunghi
capelli corvini, lisci come vento, gli occhi ghiacciati come l’acqua di un
ruscello.
Xena.
Lei, non può essere... il mio capo?! Lei?! Ma... è
vissuta troppi anni fa!
«Xena...».
«Xena!».
«Xena...?».
No, no, no, no! Non può essere!
Aspetta... ma non sapeva nemmeno come si chiama, il suo
capo...
«Io ti amo,
Xena.».
Io... amavo una donna?
«Io ti amo,
Xena.».
No, non è possibile. In quante persone, ere e tempo sono
finita? Non può essere. Questo deve essere una allucinazione.
«Ma posso
fare una cosa, in memoria di voi.» aggiunse la dea, e i loro occhi si
incontrarono.
Una dea?
«Il vostro
ricordo durerà in eterno, fin quando indosserai questa collana. Tutti i tuoi
ricordi saranno custoditi qui. E varrà per tutte le persone in cui scorrerà il
tuo sangue. Non toglierlo mai, Gabrielle, o la tua mente ti scivolerà tra le
dita come sabbia. E tua figlia vedrà la tua vita, e sua figlia vedrà la tua e
la sua, aggiungendo ricordi a questo contenitore.».
Quindi... una magia? Esiste ancora? Venere... le Parche...
non ci capisco niente!
«Parche,
ditemi, c’è una speranza di lieto fine per il nostro amore?» Gabrielle parlava,
con voce mesta, alle parche, quelle tre divinità, i tre stadi della vita umana:
infanzia, età adulta, vecchiaia.
«Forse una
possibilità c’è...» parlò la prima, giovane e le guance colorate di rosso.
«... Ma
bisogna aspettare che le ere passino...» continuò la seconda, con voce più
morbida.
«... Prima
che l’anima di Xena si reincarni in un nuovo corpo.» concluse la terza, con le
mani tremanti.
Un sospiro
di Gabrielle si poté udire nell’aria.
«Quindi...
potremo ancora incontrarci, in un nuovo futuro? E vivere felici... insieme?» la
speranza trasbordava in ogni sua parola.
«Sì.»
risposero in coro.
«Ma dovrete
ancora affrontare...» iniziò la giovane.
«... le
avversità di tante ere, sia tu che lei, prima di rincontrarvi...» proseguì la
donna.
«... e
compiere il vostro destino.» terminò l’anziana.
«Non importa.
Sarò capace di tutto, con lei.» sorrise «Tutto, per lei.» e uscì, con una nuova
speranza nel petto e un dovere da fare.
«Cosa significa tutto questo nonna?» domandò all’anziana,
che la guardava. Tutte quelle vite, tutti quei ricordi, erano entrati nella sua
mente in un secondo. Eppure erano ere che pesavano sulla sua schiena. E facevano
male.
Ma l’anziana, a quella domanda, non rispose.
«Nonna?» gli occhi erano bianchi, e un sorrise dolce era
disegnato sul suo volto.
Il cuore non batteva più. Il respiro non si poteva più
udire.
«Nonna!» urlò, stringendo quel corpo ormai senza vita a
sé. Piangendo con forza, singhiozzando per giorni e giorni, anni e vite intere.
Il dolore non le concesse nemmeno la morte. E poi, dolcemente, una mano si
appoggiò alla sua spalla, facendola sussultare. Era la mano grande e sottile
del padre. E il tempo si assorbì in pochi minuti.
E affogò nel suo petto, e pianse stringendo qualcosa di
caldo. Il suo profumo, che sapeva di pino, la inebriò, e sprofondò, e si fece
trascinare. Non si preoccupò di chi raccogliesse le sue lacrime. Voleva soltanto
che quel dolore, quel vuoto e allo stesso tempo quella pienezza, sfuggisse dal
suo corpo, e andasse via.
E vomitò, svuotò e sputò tutto quello che teneva dentro.
Crollò in corridoio, ritrovandosi a terra.
E poi la sua voce, sentita nei suoi - della sé greca -
ricordi.
«Gabrielle... calmati.».
E i suoi occhi. E i suoi capelli.
Sentì un conforto mai sentito, in quell’abbraccio che
strappò, in quel corridoio, seduta in quel bianco che ricordava il colore della
sua anima insipida.
«Xena...» sussurrò tra le lacrime. E la donna strabuzzò
gli occhi, e si disse fra se stessa che forse se lo era immaginato. “Non può...
sapere il mio vero nome...”.
“Xena...” Gabrielle affogò in quel profumo. “Sa... di lei.”.
E nella mente ricordò il profumo di lei, e non conobbe
nessun paragone.
Nessuno.
«Xena...».
Nell’anima della giovane, si risvegliò un ricordo. La
Gabrielle, quell’anima dalle più e più sfaccettature, si risvegliò. E ora, la
compagna di Xena, era rinata, a nuova vita. E sapeva.
Le due entità di uguale nome si unirono, la collana
vibrò.
Ora di Gabrielle ne esisteva solo una.
- Olimpo, giorni nostri -
«Gabrielle si è risvegliata.» mormorò la donna, seduta su
un divanetto, contornata da uomini prestanti e da orge ansimanti.
«Lo so, sorellina.» rispose un uomo, nascosto nell’oscurità
«Ci penso io... ho tutto sotto controllo.» e sparì in uno sbuffo di polvere.
«Amica mia...è da tanto che non ci vediamo...» parlò fra
sé la donna, dai lunghi capelli biondi e dai vestiti succinti.
Gabrielle era in una
landa desolata, bianca, sterminata. Alberi neri come l’inchiostro dei rotoli
sbiaditi sorgevano alti e spogli di foglie e linfa, e la osservavano correre,
in quel freddo gelato. Le pelli che ricoprivano il suo corpo, strette da lacci
e corde in un miscuglio di colori terra e neri, sbattevano e raccoglievano
freddo. Gli stivali affondavano, e lei si sentiva una penna intrisa di vita, di
bianco e ghiaccio. Un cappuccio nascondeva il suo volto, e il respiro si
raggruppava in una nuvoletta dopo aver oltrepassato una lana pesante sul viso. Faceva
freddo, in quelle montagne sperdute del continente. La lancia, arma già intrisa
di sangue, era stretta in mano, e lei cercava di raggiungere il fiume poco più
avanti, quando un ululato spezzò il suo respiro.
I lupi. Stavano arrivando.
Ed erano troppi. Dannatamente
troppi.
Fu circondata, i lupi,
magri nella loro pelle scarna, e giovani. Affamati. E la guardavano come un
buon pasto.
Urlò, per cercare di
mettergli paura, ma era troppo tardi. Un lupo le azzannò una gamba a
tradimento, e fu trafitto dalla punta della lancia. Morto per aver osato
troppo.
La donna lanciò qualcosa
nell’aria, e un suono sibilante si propagò nella radura gelata, due lupi furono sgozzati,
mentre gli altri si avventavano su di lei, ingordi. Li sbaragliò, urlando,
squartando, ferendo, arrivando a mordere, mentre lasciava la lancia spezzata e
usava i suoi pugnali.
Quando il cerchio rotante
uccise l’ultimo lupo la ragazza era ansimante a terra, ferita e dolorante. Il sangue,
bagnava di rosso la neve candida. Gabrielle non riusciva a tirarsi su, i
muscoli stavano cedendo.
“Morirò qui?” pensò, distesa a terra, guardando il cielo
bianco, ricoperto di nubi.
E sorrise, pensando alla
morte. Una mano si protese verso il cielo. Era ricoperta di geloni, e magra. Un
volto trasparente di donna si disegnò nelle nuvole.
“Xena...sto arrivando...”.
«Ehi, sei
viva?!» una voce, lontana, maschile, la
richiamò sulla terra. Un uomo, sulla mezza età, la svegliò, scostandole la
sciarpa e togliendole il cappuccio. Rimase abbagliato.
«Ma tu sei...» una chioma bionda si sciolse dolcemente, e un
volto ormai non più giovane, con degli occhi verdi opachi contornati da lievi
rughe.
Gli occhi di quell’uomo, in quel momento, la uccisero. Erano
bruni. Bruni come le lande desolate delle foreste dopo una tempesta. E ricordò
i suoi occhi, prima di svenire.
- giorni nostri -
Quando Gabrielle si risvegliò era stata distesa su una
brandina in un corridoio bianco.
«Ma cosa...?» si guardò le mani, come scoprendole nuove,
si stropicciò gli occhi, e si domandò cosa fosse successo. Poi l’onda di
ricordi la dominò.
Ricordò la morte della nonna - nodo nella gola e lacrime
sugli occhi - e che aveva pianto nelle braccia di Xena...no, della sua datrice
di lavoro che di sicuro non era Xena.
“Questa donna, nella mia testa, è come un tutto e niente.
Significa tanto per me? Non lo so...” pensava, stringendosi la collana al
collo. Graffiava.
Si sentiva smarrita, in tanti ricordi e in tante vite,
lei chi era? Cos’era, se non un grammo di polvere nel deserto? Si sentiva
persa, non sapeva cosa fare, cosa capire, cosa imparare da questa collana e da
questo peso.
Aveva solo capito una cosa. Quelle parche avevano previsto
il suo ritorno.
Ma lei ora chi era? La Gabrielle che è sempre stata,
quella cintura nera di karate e fanatica di storia o quella Gabrielle, la barda combattente, la sua ava greca?
“Non so più chi sono io...”.
- Al tempo degli Dei
dell'Olimpo -
«Tu sei Xena?» domandò l’uomo, seduto vicino al suo
giaciglio. Aveva capelli neri, ma alcuni ciuffi erano già bianchi. Il volto era
scuro, di chi lavora nei campi d’estate e fa il tagliaboschi d’inverno. Gli
ricordava un amico di Xena. La donna sospirò, ricordando il suo volto.
«No, non sono Xena... sono la sua compagna, Gabrielle...»
rispose, con voce mesta.
«Il bardo combattente!» tuonò l’uomo, sorridendole con felicità.
Le pieghe del volto si potevano notare nel suo viso, proprio come nel suo.
«Sì, o almeno, lo ero...ma ormai sono invecchiata, non
sono più forte come una volta...» mormorò, stringendosi la spalla lussata. I suoi
capelli, una volta corti e lucenti, ora erano spenti e lunghi, intrecciati e
stretti al capo. Il suo volto non era più giovane e sorridente, la pelle cedeva
al tempo e le prime rughe calcavano già i contorni dei suoi occhi, dandole
quello sguardo saggio da anziana e non più da giovane bella e maliziosa.
“E ora...cosa sono?”.
«Ma comunque sei una poetessa, no?» domandò l’uomo, e la
guardò estasiato. La donna rimase sorpresa.
«Sì...» rispose confusa. I suoi occhi brillavano
stranamente, come se si fosse avverato un suo antico desiderio.
«Allora, ti prego, leggimi una poesia...» chiese gentile.
E la donna sorrise. Era da tanto tempo che non leggeva...
“Già...dopotutto, io rimango sempre io...”.
- giorni nostri -
La mano si strinse a pugno. Il ricordo le era entrato in
mente come una folata di vento, inaspettato e atteso. Le aveva infuso forza.
“Per quanto vite io possa avere in me stessa, io rimango
sempre e solo io...” gli occhi brillavano.
«Figlia
mia, non dimenticare mai, tu sei te stessa.»
“Nonna...” la voce della nonna, nella mente, come
sottoforma di quel ricordo sbiadito, la rituffò nella terra.
“Io sarò
sempre qui, sempre vicino a te, perché questa collana tiene me, mia madre, mia
nonna, e tutte le donne di questa stirpe di donne guerriere che impararono da
lei, la nostra ava, Gabrielle, che il proprio destino lo decidiamo noi.”.
Poi, una voce diversa le entrò nella mente, parlando una
lingua diversa che però comprendeva.
“Le nostre
ave ci insegnarono che possiamo amare chi vogliamo, non per forza il marito che
decidono gli altri per noi.”.
E tante altre voci, sempre femminili, con lingue sempre
diverse e accenti differenti, nella sua testa si concatenarono.
“They have taught me that I can
work, not just my husband.”.
“...che puoi
lottare per i tuoi diritti, perché tu non sei diversa da tuo figlio, solo
perché lui e maschio e tu femmina.”.
“Gabrielle
mi ha insegnato che l’amore ha tante vie, e che un bambino, anche se nato dalla
violenza, può essere amato come tale, e che non ha colpa nessuna.”.
“Mia ava ha
insegnato me che cultura importante.”.
“... la vie estimportante.”.
“…che la Guerra è brutta, e la pace bella.”.
“Gabrielle
mi ha fatto capire la magia delle parole scritte su carta.”.
“...e Xena
mi ha insegnato che combattere per una giusta causa fa bene al cuore e all’anima.”.
“Gabrielle
mi ha fatto capire che due madri sono meglio di nessuna.”.
“Mi ha
insegnato ha rispettare me stessa e gli altri.”.
“Mi hanno
fatto capire che io sono io, e non devo essere come gli altri.”.
“...che la
mia vita è mia e solo mia, e di nessun altro. Che posso decidere per me.”.
“Siamo noi
a decidere del nostro destino, non gli dei.”.
E Gabrielle si sentì meno sola, con tutte queste persone
che credono in se stesse e in lei, per quanto siano morte da tanto tempo.
Sorrise, e poi un ricordo, la fulminò.
«Lei chi è?»
domandò il padre, dopo aver depositato la figlia sulla brandina per farla
riposare. Gabrielle piangeva disperata, ma l’infermiera che l’aveva soccorsa le
aveva dato un calmante che - a sua conferma - l’avrebbe calmata e fatta dormire
per un paio d’ore.
«Io sono il
capo di sua figlia.» rispose la donna, turbata. Ricordò ancora come la bionda,
disperata e in lacrime, avesse sussurrato quella parola.
“Xena...”.
«Come si
chiama?» domandò il padre, specificando la domanda, nervoso per la sfrontatezza
della donna.
«Amelia.»
rispose la donna.
Gabrielle ricordò quell’ultima parola, prima di
sprofondare nel sonno.
Ora si sentiva meglio.
E si vergognò da morire.
Xena era morta tanto tempo fa, e con lei anche Gabrielle.
Eppure quella donna, nel suo profumo, nel suo incedere,
nel suo parlare, nel suo essere lei,
le ricordava in tutto e per tutto quella Xena che era vissuta tanto tempo fa.
Si morse il labbro dalla vergogna che provava, per aver
chiamato il capo per un nome che non era suo.
Ma era proprio Xena, nell’aspetto e nel carattere, ci
avrebbe scommesso tutto. E lei era Gabrielle.
“Alla fine quello che avevano predetto le parche si è
avverato.”.
I suoi occhi traboccavano di fuoco, quando iniziò a
camminare per il corridoio, alla ricerca del padre.
Quell’anello, quel monile che doveva restaurare lo aveva
già visto, nella sua vita precedente. E quel monile aveva tutte le risposte.
Doveva finire quel lavoro, subito.
Ma il difficile non era quello. Anzi, era la parte più
facile.
Quella più difficile sarebbe stata raccontare tutto ad
Amelia.
Marte camminava con passo
incalzante, dirigendosi verso le tre donne, le parche.
«Cosa avete
predetto, riguardo a Xena!? Rispondetemi!» urlò, minaccioso. Le donne, intente a filare i
destini e a tagliarli, risposero meste, scandendo le frasi tra di loro.
«Solo ciò che
è...».
«Quello che
potrebbe essere...».
«O che sarà.».
Il dio, ancora più
arrabbiato, scagliò una palla infuocata contro la più vicina colonna, facendo
sobbalzare le donne, ma che non fermarono il loro operato.
«Cosa vuol
dire!? Spiegatevi meglio sorelle, o vi giuro che non sarò benevolo al prossimo
tiro.» gli occhi brillavano di furia.
Il dio della guerra, vestito di pelle e armato di spada alla cinta, incuteva
terrore nel solo osservarne l’ombra.
Nel silenzio che si
susseguì spuntò, con una folata di luccichio, Venere, la dea dell’amore.
«Marte,
calmati.» le disse la giovane dea, bionda
di capelli e armata di tacchi.
I muscoli, prima tesi di
Marte, si rilassarono lentamente.
«Noi diciamo
solo il vero...» rispose
l’anziana, scrutando con forza lo sguardo dell’uomo che non si era abbassato,
né spento.
«Se poi le
nostre parole non vuoi ascoltare...» aggiunse la giovane.
«Questo problema non ci riguarda.» ribadì la piccola,
guardandolo con sguardo innocente. Le loro mani però lavoravano, incessanti,
occupate nel mantenere l’equilibrio del mondo e del tempo. Della giustizia e
dell’ingiustizia, della vita e della morte degli esseri umani.
«Ascoltami, fratello, loro mi hanno rivelato che l’anima
di Xena potrà essere rilegata nell’aldilà della vicina Cina fino a quando non
l’avrà depurata. Dopo la fine delle anime da lei uccise, che finalmente
riposeranno in pace, potrà di nuovo compiere il cammino della reincarnazione,
come è deciso dal mondo ultraterreno della cultura cinese. Tu non puoi fare
niente, purtroppo, come non possiamo fare niente per gli angeli del Paradiso.
Sono gli dei di un altro mondo, di altre culture, nate ancora prima di noi. E
tu questo lo sai bene.» la giovane donna parlava con voce mesta, ricordando
l’amica morta.
«Tsk.» scocciato, Marte svanì
in una nuvola che sapeva del vago odore della polvere da sparo.
«Scusatelo sorelle...» mormorò poi la bionda,
rivolgendosi alle parche. Le tre annuirono.
«Noi conosciamo i moti del suo cuore...» proferì
amorevolmente l’anziana, sorridendo con dolcezza.
«...e capiamo il suo dolore...».
«...ma non possiamo fare di più, ci spiace.» la piccola,
con voce squillante, fece trasparire il dolore che provava.
Venere svanì con un sorriso di circostanza, rapita da una
nuvola di profumo orientale.
- ai giorni nostri -
«Padre, dov’è Amelia?» domandò, trovando l’uomo seduto
poco più in là nel corridoio.
«Gabrielle!» si alzò preoccupato, prendendola per le
spalle. «Stai bene?» domandò.
«Sto bene, grazie.» il padre, sinceratosi della salute di
lei, rispose alla domanda.
«È andata via poco fa... mi sembrava turbata...» disse, e
prese la mano della figlia. Gabrielle lo guardò, era così dimagrito, così
sciupato, bianco in volto.
«Andiamo a casa, ti prego... Non sopporto più di stare
qui...» e la figlia annuì. Sentì, come d’un tratto, il peso del padre su di sé,
era così stanco, spossato. E ricordò che, come lei aveva perso la nonna, lui
aveva perso la madre che lo aveva cresciuto e accudito per tutti questi anni.
«Sì, andiamo padre...» l’uomo ringraziò con un sorriso
piccolo piccolo, nascosto agli angoli della bocca.
Arrivando a casa la sentirono vuota, enorme, e colorata
di cupi colori. Con un silenzio tale che spaventò entrambi. Portò il padre a
riposare nel suo letto, e attese fino a che non si assopì. Raccolse qualche sua
solitaria lacrima, prima di vederlo crollare.
La giornata, che sembrava così lunga, non era neppure
volta a mezzogiorno. Quando sentì un disturbo allo stomaco, la figlia scese per
preparare da mangiare. Accarezzò la colonnina della cucina, come raccolta in
mille pensieri, e vide come la colazione di stamattina era stata interrotta.
C’era ancora la ciambella al cioccolato della nonna morsa per metà...
Si ritrovò a piangere senza accorgersi, e si accasciò al
suolo molto lentamente, come in a rallentatore, stringendosi il petto.
Prorompeva il ricordo, il dolore, la mancanza di qualcosa che prima c’era e
oggi non c’è più. Che era partito, senza mai ritornare.
Nell’attimo in cui appoggiò le ginocchia al suolo però,
sentì una carezza delicata sulla spalla, un peso leggero. Una lacrima
asciugata.
«Nonna...» il fantasma evanescente, così come era
arrivato, se ne era andato. La collana tintinnò. La donna vi poggiò sopra una
mano, e fu cosciente che non tutto era perduto. Che lei era ancora lì, in
qualche maniera.
Ripulì il tavolo, e preparò un piatto di pasta. Il
barattolo di ragù fatto in casa era ancora lì, con la scritta veloce di lei
attaccata sopra.
Aprì il barattolo, la ricetta della nonna era sua ora,
nella mente passavano i ricordi dell’anziana e quel piccolo atto gentile,
d’amore, la fece sentire un po’ meno sola in quella cucina. Era lei che seguiva
i suoi passi, come se fosse con lei a cucinare, proprio in quel momento.
«Sei tutta uguale a lei...» la voce del padre da dietro
le spalle la fece sussultare.
«Scusami.» proferì l’uomo.
«Non ti preoccupare, padre...come stai? Hai fame?»
domandò la figlia apprensiva. L’uomo si perse nel guardarla negli occhi.
«Hai fame?»
la donna prorompente, girando il mestolo, lo guardava dall’alto della sua
statura, l’odore di sugo nell’aria che invitata al pasto.
«Da lupi!»
sghignazzò il ragazzino, sorridendo. La donna rispose ridendo, quanto era dolce
il suo bambino senza un dente davanti.
«Da lupi...» rispose l’uomo, il ricordo era passato in un
secondo, di fronte agli occhi di entrambi. Gabrielle sorrise.
«È quasi pronto.» rispose, continuando a girare il
mestolo. Anche suo padre, nel suo cuore, aveva una parte di lei che non se ne
sarebbe mai andata. Lei era sempre lì, con loro...nei loro cuori.
L’uomo si avviò al salotto collegato alla cucina,
preparando velocemente il tavolo.
Gabrielle soffiò sul cucchiaio, per assaggiare il sugo,
mentre la pasta bolliva. Una leggera musica di violino si propagò nell’aria.
“Padre...” l’uomo aveva amato tanto il violino, nella sua
vita. La musica, per la nonna, era un passatempo come un altro, ma più di tutto
amava quando suo figlio suonava. Sembrava la sagra del paese in casa, solo per
lei. E poi ballavano, e ridevano...
Ma la musica che usciva da quel violino era triste,
stridente, come una lancia che penetra l’aria e ferisce, squarcia. Come a
ribadire che non ci saranno più fiere, e banchetti allegri. Che la fiera era
finita. Che non ci sarà mai più, niente, da festeggiare.
La musica terminò in un crescendo di suoni acuti, per poi
concludersi. L’uomo abbassò l’archetto, e respirò fino in fondo.
“Scusami...” una lacrima che cade sulle corde.
E riprese a suonare.
Era una ballata.
Gabrielle, dall’altra parte del muro, soppresse il pianto
con una risata. “Stupido, stupido padre...”.
Amelia attraversò l’atrio di casa sua con passo veloce,
la colazione abbandonata a metà era ancora lì. Quel nome sussurrato l’aveva
resa inquieta.
“Com’è possibile...! Come fa...a sapere...”.
L’immagine di Gabrielle, in lacrime, che la chiama...
“Xena...”.
«No, ora basta.» prese il telefono e fece un paio di
telefonate. Parlò con accento pugliese, e la voce che rispondeva era di un uomo.
«Conto su di te, Salvatore.» e chiuse la comunicazione.
Se quella donna sapeva qualcosa del suo passato lei lo doveva sapere. E Salvatore sa come cercare nelle conoscenze delle
vite altrui senza calcare troppo la mano.
Scese in scantinato, guardando i macchinari per il
restauro lì, ancora nuovi. L’anello, dentro il cofanetto, era lì che aspettava.
Doveva avere quell’anello. Lo voleva indossare.
Aveva un fascino particolare, come se la richiamasse a
sé, come un qualcosa di viscerale e antico.
E il potere che aveva quell’anello su di lei non le
piaceva. Voleva togliersi subito quello sfizio, e indossarlo.
Stava facendo quella cosa addirittura di nascosto da suo
marito, andato in Italia per degli affari.
Doveva trovare la ragazza per lui, e testarla, per poi
inserirla nel piano di ristrutturazione e vendita in nero di beni culturali
precedentemente rubati a uno scavo.
Ma l’uomo non sapeva che lei la voleva soltanto per
quell’anello. Sarebbe stato distrutto se lei non lo avesse sostituito con una
copia. Quando lo aveva visto sembrava come se avesse visto un fantasma. E disse
di distruggerlo, mentre la moglie guardava l’anello con bramosia.
Lei era la moglie di un capo mafioso, quindi valeva poco
o niente, ma lei era speciale. Lo
aveva catturato con la forza, non con la malizia. Perché era riuscita a combattere
per le strade contro di lui, e vincere. Lo aveva conquistato con il sapore del
suo corpo appena sfiorato, e della brama di potere che lei aveva.
Lei voleva il potere, lui anche. Solo che lei era molto
più furba.
Amelia, un nome suadente, che ti entra nella mente e non
esce più.
Era quella la sua forza, distrarre con la malizia e
conquistare con l’astuzia.
Dopo il matrimonio, lei aveva ottenuto anche i contatti
di lui. Se ci fosse stata una guerra tra bande, lui si sarebbe ritrovato solo,
e lei contornata da un esercito. Lui era il suo pupazzetto, il suo toy boy. Solo che lui, questo non lo
sapeva, e a lei andava più che bene.
Era anche discreto a letto, per quanto non sia stato il
migliore di quelli che aveva avuto in precedenza.
Ma in questi anni stava diventando stancante. Quasi insopportabile.
Voleva disfarsene. Ma, non sapendo come mai, si ritrovò
reticente sotto questo punto di vista.
Lei, la femme
fatale, non riusciva ad affondare il coltello su di lui.