Chincaglierie di Dragana (/viewuser.php?uid=11964)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Avvertenze ***
Capitolo 2: *** Mogano ***
Capitolo 3: *** Di muffin, botte e gatti ***
Capitolo 4: *** Bigodini ***
Capitolo 5: *** Cambiare testa ***
Capitolo 1 *** Avvertenze ***
AVVERTENZE
E istruzioni per l'uso
Avvertenza
1,
che così comincio subito a scoraggiarvi: prima di leggere
queste storie bisogna leggere questa
qui.
Extra compreso, che è fondamentale, non fate i furbi.
Avvertenza
2.
Ci sono racconti che andrebbero scritti e poi seppelliti in una tomba
senza nome. Massimo massimo andrebbero spacciati a quelle due-tre
amiche che li chiedono, tanto per mettersi a fanghèrlare in
tre, che è più divertente che
fanghèrlare da soli. Questi sono esattamente quel tipo di
racconti, scritti per soddisfare onanismi mentali miei e che, ne sono
perfettamente conscia, dovrebbero rimanere ben chiusi nel pc.
Ma il fatto
è che invece che in tre me li hanno chiesti in cinque, e
diventa un po’faticoso, come spaccio.
Il fatto
è anche che, se penso alla mia concezione di fanfiction,
posso riassumerla in “tu pubblica, poi se a qualcuno
interessa bene, se no amici come prima”. In una parola,
“condivisione”. E’ come se mettessi dei
giocattoli in un grande cesto; chi vuole prenderli e giocarci
è il benvenuto, chi vuole sceglierne altri bene lo stesso. E
allo stesso modo queste storie sono qui, parecchio indecenti, per chi
passa e vuole fanghèrlare un po’.
Avvertenza
3.
Le storie che metterò qui non saranno in ordine cronologico.
Magari aggiungerò qui sotto uno specchietto con il giusto
ordine temporale, quando ne avrò pubblicate abbastanza.
Avvertenza
4.
Se il sintomo persiste, consultare il medico.
Detto questo,
gente… io a scrivere mi sono divertita tantissimo. Se chi
leggerà si divertirà anche solo la
metà di me, sono già contenta.
Buona lettura!
INDICE
(in ordine cronologico)
-
Rosso e champagne
-
Mogano
-
Camelia
-
Di muffin, botte e gatti.
|
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Capitolo 2 *** Mogano ***
MOGANO
Effie
sospirò di gioia nel vedere il tavolo nuovo proprio
lì, al centro della stanza, dove aveva immaginato che fosse
fin dal primo momento in cui l’aveva visto.
Era
così piacevole vedere cose belle, piccoli granelli del mondo
di prima che resistevano, preziosi come perle create dalla pressione
del carbone. Oh, giusto, non perle, diamanti… era
convintissima che fossero perle, chissà come mai.
Ci
passò una mano. Era liscio, meravigliosamente liscio.
Levigato, lucidato, perfetto.
A Effie
mancava terribilmente. Non il tavolo, ma il mondo da cui quel tavolo
proveniva, il mondo di prima. Sapeva che il mondo di prima era
un’illusione. Non aveva voluto vederlo in tanti anni da
accompagnatrice dei Giochi, finché le vicende non
l’avevano costretta a guardare e quello che aveva visto non
le era piaciuto per niente.
Il tavolo
profumava ancora, se lei ci si avvicinava, un odore caldo e avvolgente,
di legno e cera e prodotti per la lucidatura. Odorava di buono, come la
sua città, e le donne e gli uomini di quella
città. Effie aveva imparato anche quanto costava,
l’illusione di quella città. L’aveva
imparato nelle celle d’isolamento della prigione di Capitol,
nella paura del rumore del manganello sulle sbarre, nelle umiliazioni
che non voleva ricordare e cercava di scacciare fino a che quelle
tornavano, senza preavviso, a svegliarla di notte.
No, non era
davvero, davvero il caso di pensarci, il passato è passato e
bisogna guardare al futuro con sguardo radioso. Il tavolo aveva un
colore bruno-rossiccio, uniforme. Effie seguì con le dita
una delle venature del legno. Non importava quante cose fossero
cambiate, le mancava la bellezza del suo mondo e se questo la rendeva
una persona orribile pazienza, non l’avrebbe detto a nessuno,
avrebbe fatto un bel sorriso e si sarebbe procurata perle di bellezza
così, come una gazza ladra. Che però forse
raccoglieva diamanti e non perle, aveva più senso, anche con
la storia del carbone, considerò.
Si accorse che
le sue mani avevano accarezzato le venature del legno come avrebbero
accarezzato la pelle di un amante, e che si era piegata sul tavolo per
annusarlo meglio. Voluttà, si disse, quel tavolo era pura
voluttà. Sospirò.
-Non ti
muovere da lì, dolcezza. Se avessi saputo che spendere tutti
quei soldi per un tavolo avrebbe portato a questo, avrei fatto molte
meno storie, te l’assicuro!
Effie
sussultò. Haymitch non le diede tempo di raddrizzarsi; si
chinò su di lei, le mordicchiò il lobo
dell’orecchio.
Fece scivolare
un bicchiere mezzo pieno sul tavolo, che lasciò una scia di
bagnato sul legno e rischiò di rovesciarsi.
-Insomma,
Haymitch, questo è moga…
Lui le chiuse
la bocca con la mano, baciandole il collo.
L’altra
mano era scivolata sotto la sua gonna.
Effie
sospirò.
Note: poco da dire che non abbia
già detto nelle avvertenze… chi pensava
esagerassi si sarà ricreduto, a questo punto, dopo aver
letto una threesome Effie/mogano/Haymitch!
No, sul serio, gente,
lo so, lo so, è una cosa indecente, mi rendo conto. Facciamo
che la mia superlativa beta vannagio
ha insistito tanto, e alla fine l’ho pubblicata. Sappiate che
se mi insultate vinco una scommessa, quindi avanti Savoia!
Per il
resto… il fatto che Effie confonda la genesi di perle e
diamanti è canon, così come è
canonissima (nella versione filmica) la sua
“passione” per il mogano.
Immagino che dopo la
seconda mietitura (durante la quale, in canon Effie appare turbata) e
la sua incarcerazione, Effie abbia riconsiderato tutto il sistema di
valori su cui si fondava la sua vita e quella degli altri abitanti
della capitale, ma continuino a piacerle le cose belle e insomma, il
mogano è mogano!
Per quanto riguarda
Haymitch… per me quei due stanno insieme. Punto e STOMP.
Gente, se siete
arrivati qui, sappiate che non ci credevo. Grazie di tutto!
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Capitolo 3 *** Di muffin, botte e gatti ***
DI MUFFIN, BOTTE E GATTI
Camelia era
arrabbiata.
Non le piaceva
giocare da sola; cioè, a volte le piaceva, ma non sempre.
Avrebbe voluto deciderlo lei, ecco.
Invece, la
prima elementare aveva cambiato tutto. Camelia detestava la prima
elementare a Capitol City.
In
realtà il problema non erano i suoi compagni di classe: loro
ci giocavano con lei, anche se ogni tanto la chiamavano mangiacarbone o
carboncino e a lei toccava chiamarli sporchi fighetti, il tutto
cercando di non farsi sentire dalla maestra.
Il problema
era quando andava a casa di suo padre, al Dodici.
A Camelia il
Dodici piaceva più di Capitol City: poteva uscire fuori a
giocare senza avere sempre dietro un adulto e c’era il prato,
la zona intorno alle miniere, le rovine del vecchio villaggio e un
sacco di altre cose divertenti, senza contare la panetteria di Peeta.
Solo che i bambini che prima giocavano con lei adesso la evitavano: lei
non andava in classe con loro, li vedeva poco perché sua
mamma non voleva che perdesse troppi giorni di scuola, e loro la
chiamavano sporca fighetta. Senza darle nemmeno il tempo di poterli
chiamare mangiacarbone.
Quindi giocava
da sola, o al massimo con i due gatti che aveva trovato in un
cespuglio; all’inizio non si avvicinavano, ma poi si erano
abituati a lei e soprattutto al fatto che gli portava sempre qualcosa
da mangiare. Le sarebbe piaciuto farli vedere agli altri bambini, ma
loro non la stavano mai a sentire.
Però,
quando tornava a casa e il suo papà le sorrideva e le
chiedeva “allora, principessa, ti sei divertita?”,
lei rispondeva sempre di sì. Non voleva dire ai suoi
genitori che gli altri bambini non volevano giocare con lei,
piagnucolare era una cosa da femminucce e poi sua madre avrebbe fatto
una gran solfa e avrebbe detto che i bambini del Dodici erano tutti dei
selvaggi maleducati, e Camelia non voleva che lo dicesse.
Insomma, non
c’era via d’uscita, rimuginava mentre tornava verso
il villaggio, mordicchiando il suo muffin per merenda. Ogni volta che
passava davanti alla panetteria si fermava a salutare Peeta, e ogni
volta Peeta le regalava un muffin per fare merenda, facendole scegliere
quello con la glassa che le piaceva di più. Peeta era meno
bello del suo papà, anche se era più giovane,
però rideva molto più spesso, e quel giorno il
muffin aveva una glassa tutta rosa con un fiore che Peeta sosteneva
fosse una camelia, ma secondo lei era una rosa. Però era
bellissimo lo stesso, e anche buonissimo.
Girò
la curva e si accorse che c’erano tre bambini che stavano
facendo la stessa strada nella direzione opposta; li conosceva, erano
Brake, Cress e Alex. Avevano la sua età e fino
all’anno scorso giocavano assieme agli esploratori nelle
rovine del villaggio vecchio, ma da quell’anno non
l’avevano più voluta. Camelia pensò che
se magari riusciva a dirgli dei gatti, domani sarebbero potuti andarli
a vedere assieme.
Stava per
dirglielo, quando Cress parlò.
-Guardate,
c’è la sporca fighetta di Capitol!
-Camelia
Abernathy, fighetta!-, gli fece eco Alex.
-Statemi a
sentire, invece di fare i selvaggi maleducati. Ho scoperto
due…
-Cosa stai
mangiando? Un muffin? Perché non lo dai a noi?
-Sì,
devi darcelo! Vieni qui e consegnacelo, e poi vattene via!
Questa poi.
Non solo non volevano giocare con lei, non solo la prendevano in giro,
ma volevano persino il suo muffin. Il suo, quello che sceglieva
personalmente, quello che si sognava per giorni perché nella
Capitale non li facevano, dei muffin così buoni. Camelia
aggrottò le sopracciglia, puntò una mano sul
fianco e diede ostentatamente un morso al muffin.
-Se volete il
mio muffin, venite a prenderlo!
I tre si
guardarono in faccia, spiazzati. Di solito le femmine obbedivano, o
almeno si mettevano a piangere, non li sfidavano apertamente. Vedendoli
incerti, Camelia sorrise e li fissò uno per uno
con’espressione strafottente.
-Cosa
c’è, mangiacarbone? Vi state cacando sotto?
Brake, Cress e
Alex la guardarono sbalorditi. Un insulto e una parolaccia in una sola
frase era davvero qualcosa che non potevano far passare liscia.
-Adesso oltre
al muffin dovrai chiederci scusa, sporca fighetta!
-Ve
l’ho già detto, e non fatemelo ripetere: se lo
volete, dovete venire a prenderlo… oppure tornate a casa
vostra, a mangiare del carbone!
Quello fu
troppo. I tre si guardarono e in barba alla regola “le
femmine non si toccano nemmeno con un fiore” corsero verso di
lei con l’intenzione di prendersi quel muffin, con le buone o
con le cattive.
Camelia era
pronta.
Era abituata a
fare la lotta con papà, e papà non le risparmiava
colpi bassi di nessun tipo; perdeva sempre, perché Camelia
detestava che la facesse vincere per finta, ma lui era papà
e quelli erano tre mocciosi. Appena Brake, completamente scoperto, le
arrivò sotto, Camelia gli allungò un destro in
piena faccia che gli fece sanguinare il naso.
Katniss quel
giorno non era andata a caccia; aveva fatto una lunga passeggiata nel
bosco, era arrivata fino al lago, aveva fatto il bagno ed era persino
riuscita a versare due lacrime su qualche ricordo. Aveva ancora i
capelli umidi, forse Peeta l’avrebbe sgridata
perché poi le veniva male al collo… sorrise al
pensiero.
Camminava,
serena come non si sentiva da un pezzo, sulla strada di casa, quando
sentì degli schiamazzi dietro la curva. Appena
svoltò, sgranò gli occhi per lo stupore:
c’erano quattro bambini che facevano a botte e quella che ne
stava dando più di tutti era Camelia Abernathy.
Appena si
riprese, Katniss piombò come una furia in mezzo ai quattro,
acchiappando Camelia che stava cercando di svignarsela. Brake, Cress e
Alex ne approfittarono per svignarsela loro.
-Camelia! Ma
si può sapere cosa stavate combinando? Eh?
La bambina era
in uno stato pietoso: tutta sporca di terra e di sangue, la camicetta
mezza strappata in un punto, un ginocchio sbucciato e le mani
impiastricciate di quelli che sembravano i poveri resti di un muffin.
La fissò (era quasi impressionante, Katniss
l’aveva sempre ritenuta la copia sputata di Effie) con la
stessa espressione di Haymitch quando lo svegliava dalle sbornie a
secchiate d’acqua gelida.
-Gliele stavo
dando di santa ragione, e tu mi hai interrotto!
Katniss si
trovò spiazzata. Non sapeva bene come agire, Prim non aveva
mai fatto a botte con nessuno… si accorse che stava
automaticamente sistemando la camicetta di Camelia dentro la gonnellina
rosa.
-Camelia,
ma… ma non si fa, non va bene picchiarsi, non è
così che si risolvono le cose…
cos’è successo?
Lei
incrociò le braccia. –Mi volevano prendere il
muffin. Quello che mi ha dato Peeta.
-Cioè…
hai fatto a botte per un muffin? Ma Peeta te ne da quanti ne vuoi, di
muffin! E poi scusa, eri da sola contro tre bambini? Cosa pensavi di
fare, da sola contro tre?
-Erano solo
tre stupidi, Katniss, quindi avrei vinto io!
Kat rimase a
bocca aperta. –Non dirò mai più che non
hai preso nulla da tuo padre…-, borbottò. Poi si
riscosse. –Adesso ti accompagno a casa, e non ti sgrido solo
perché ci penserà abbondantemente tua
madre… e quando tuo padre ti dirà che hai fatto
bene, non ascoltarlo: le cose non si risolvono mai con la violenza, ci
siamo capiti?
invece di
rispondere, Camelia sbuffò. Katniss la fissò
dritto negli occhi.
-Ci siamo
capiti o no?
-Va bene-,
cedette Camelia. Prima di riportarla a casa, Katniss passò
dalla panetteria e le regalò un altro dolcetto.
Il giorno
dopo, Camelia camminava scalciando sassi verso il posto dove
c’erano i gatti. Come aveva previsto Katniss, suo padre si
era fatto una gran risata e si era congratulato con lei, mentre sua
madre aveva continuato a sgridarla tutta la sera e tutta la mattina
dopo, alternando il suo grande,
grande, grande disappunto tra lei e suo padre.
Ma siccome
anche Peeta si era messo a ridere, e le aveva bisbigliato “ma
le hai date o le hai prese?” mentre le incartava il muffin
(glassa arancione con le palline colorate), Camelia era giunta alla
conclusione che non aveva poi fatto niente di male, erano Katniss e sua
madre che esageravano troppo.
Quindi, quando
vide Brake, Cress e Alex che la aspettavano, Camelia pensò
che sarebbe arrivata la seconda parte. Incrociò le braccia.
-Beh? Che
volete?
I tre si
guardarono in faccia. Poi Alex parlò.
-Che
cos’è che hai scoperto?
Camelia rimase
a bocca aperta. I tre scambiarono il suo stupore per mutismo.
-Sì,
ieri dicevi che avevi scoperto qualcosa… cos’era?
-Ho scoperto
due gatti, ma sono in un posto segreto. Se volete vederli vi ci devo
portare io.
-Va bene. Sono
maschi o femmine?
-Non lo so,
non riesco a capirlo. Sono cuccioli.
I tre si
guardarono. –Non lo capisci perché sei della
capitale-, spiegò Cress, con il tono di chi ribadisce
l’ovvio. –Però se ce li fai vedere te lo
dico io, cosa sono.
Camelia
sorrise. –Andiamo-, disse. Poi sembrò ripensarci.
–Però prima passiamo da Peeta: sono certa che, se
glielo chiediamo in modo educato, darà un muffin anche a voi!
Note: non so, ho un blocco dello
scrittore pazzesco e mi escono solo queste robe qui. Diciamo che
assecondo la voglia di scrivere, in qualunque forma essa si presenti!
Ad ogni modo, per chi
voleva conoscere Camelia… eccola qui! Effie dice che se vi
piacerà è merito della sua ottima educazione,
altrimenti è colpa del pessimo, pessimo, pessimo esempio che
le da Haymitch.
Ai tempi di questa
storia immagino che siano passati circa una decina d’anni
dalla fine dei libri; siccome Peeta vorrebbe tanto dei figli, ma da
canon dovrà aspettare ancora cinque anni per averne di suoi,
nel frattempo si coccola quelli degli amici.
Brake, Cress e Alex
sono mie invenzioni. Da grandi saranno famosi tra le ragazze come
“l’ABC del distretto Dodici”, per ora
sono solo dei mocciosetti.
Suppongo che Camelia
frequenti le elementari a Capitol perché Effie inorridirebbe
all’idea di farle fare le scuole al Dodici in mezzo ai
minatori.
Il ddddramma di
Camelia lo rivivevo ogni volta che tornavo al mio paese dopo tre mesi
in cui trascorrevo l’estate nel paese in cui aveva
l’attività mio padre; non so cosa scatti nella
mente dei bimbi, ma non vedere una persona per molto tempo pare cambi
tutte le carte in tavola. Per fortuna non ho mai fatto a botte, tempo
qualche giorno e si tornava alla normalità.
Ringrazio le mie sexy
beta vannagio
e OttoNoveTre
per avermi incoraggiato a scrivere, sia pure queste scemenze, e per
avermi suggerito rispettivamente i soprannomi offensivi dati ai bimbi
del Dodici, e avermi prosiuttato qualche frase. Le ringrazio
anche per essere due meravigliosi tesori! <3
Alla prossima, e un
muffin di Peeta a tutti voi che siete arrivati fin qui!
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Capitolo 4 *** Bigodini ***
Note
iniziali:
le vicende di questa storia fanno riferimento a quanto raccontato qui. Enjoy!
BIGODINI
Haymitch avrebbe voluto tanto che Effie gli facesse avere un calendario
dettagliato dei giorni e degli orari in cui si metteva i bigodini;
peraltro era del tutto probabile che lei ce l’avesse davvero,
un calendario del genere, quindi non si capiva perché cazzo
non potesse farne una copia a lui. Per esempio, se l’avesse
avuto, invece di andare diretto da lei appena arrivato in stazione,
avrebbe potuto fare un salto da Plutarch e convincerlo ad andarsi a
prendere un bianchetto, o andarci da solo nel caso Plutarch fosse stato
troppo impegnato col suo ultimo programma spazzatura.
Invece Effie gli concesse un rapido bacetto a fior di labbra, la
promessa che sarebbe stata subito subito pronta (- È una
sporca menzogna, dolcezza, lo sappiamo entrambi-), e prese la posta che
lui le aveva portato su come se scottasse (anche lo smalto appena messo
era una piaga da sopportare). Haymitch si diresse verso
l’armadietto dei liquori, che trovò vuoto in modo
desolante.
-Bolletta, bolletta, la tassa sulla casa… questo governo non
starà un tantino tantino esagerando? Oh, l’invito
per il compleanno di Odette, non che impazzisca dalla voglia di
andarci, ma quella ragazza ha tanto, tanto, tanto bisogno di
compagnia… consegna di pranzo a domicilio, questo mi
potrebbe servire, e questo… oh, hanno riaperto il Black
Orange! È una splendida, splendida notizia, significa che
questa città sta davvero iniziando a rinascere! E guarda
qui, Haymitch, ti ricordi Alcide? È lui!
Haymitch smise di frugare nei mobiletti attigui al mobile bar, e si
girò a guardarla.
-Chi?
-Ma insomma, Alcide, quello che faceva il parrucchiere! Te ne avevo
parlato!
Lui le andò vicino e gettò un’occhiata
distratta al volantino. Poi lo guardò meglio.
Sotto a una lista che Haymitch trovava agghiacciante (“King
of latex”? Terry Badass, Black Stallion, Hot Shot, Surprise
Love? DJ Fernanduzzo?),
c’era la foto di un tizio mezzo nudo e pieno di tatuaggi con
uno sguardo che sembrava dire “sì, posso avere
tutte le donne che voglio. Sì, anche la tua”. Ora,
Haymitch non era molto bravo a riconoscere la bellezza maschile se non
quando questa era sfacciata, e il tipo nella locandina era di una
bellezza sfacciata. Lui stesso, che da giovane era considerato uno dei
figoni del distretto, non era mai stato così nemmeno al
massimo del suo splendore. Quello aveva muscoli in posti in cui
Haymitch non sapeva nemmeno che esistessero, dei muscoli.
-Quello
è il parrucchiere?
-Beh, no, adesso è uno spogliarellista!
Lui guardò alternativamente Effie e il volantino.
-Ma quando faceva il parrucchiere non era così…
vero?
-Ma certo che lo era, come avrebbe dovuto essere, scusa?
Haymitch rimase in silenzio per un attimo. Ripassò i luoghi
in cui di solito lei nascondeva la roba da bere.
-E ti ha invitata al suo spettacolo. E poi portata fuori a bere.
-Oh, vedi che ti ricordi? Comunque, tecnicamente no. Mi ha offerto da
bere al Black Orange, dopo lo spettacolo.
Haymitch tentò di richiamare alla mente tutta la storia, ed
era certo che lei non gli avesse detto com’era finita. Gli
venne in mente che se l’era vagamente domandato, anche se con
blando interesse. Non aveva mica visto la foto, quella volta.
-E poi ti ha accompagnata a casa?
-Naturalmente! È un ragazzo tanto, tanto, tanto carino!
No, Haymitch decise che era saggio non saperlo, cos’era
successo dopo. Non voleva sapere se davvero Effie si era fatta sbattere
da quel tizio tatuato tutto pieno di bicipiti. Quindi non si
spiegò perché le stava domandando –E tu
l’hai invitato a entrare?-. Doveva distrarsi, bere qualcosa,
non pensarci.
-Ma naturalmente! Sarebbe stato davvero maleducato non farlo, dopo che
mi aveva accompagnata!
Haymitch, in tanti anni che conosceva Effie, non aveva mai capito se ci
era o ci faceva. Nel caso contingente, non capiva se lei girava intorno
all’unica informazione che lo interessasse apposta, per
tenerlo sulla corda, o se davvero
si limitava a rispondere alle domande che le venivano fatte, senza
nessuna malizia.
La guardò appoggiare il volantino sul mobiletto e
affaccendarsi per il salotto, soffiando piano sulle unghie. Aveva un
vago sorriso; chissà se si stava ricordando qualcosa di
piacevole. Tipo lui che la rovesciava sulle lenzuola e la legava con le
manette ai pioli del letto. O lui con quel pantaloni di pelle
attillatissimi e una benda sugli occhi che la chiamava padrona. O
chissà cos’altro che lui nemmeno riusciva a
immaginare, si sa che quelli di Capitol sono tutti dei pervertiti. Si
rimise a frugare nei mobiletti con una foga da condannato a morte.
-Ma li ha davvero, quello là, tutti quei tatuaggi?
-Ma certo, cosa pensavi, che fossero aggiunti con Photoshop? Ce li ha e
ne ha anche tanti, tanti, tanti altri, solo che lì non si
vedono. Adoro i tatuaggi, sono tanto tanto sexy! E smettila di cercare
dell’alcool. Non ce n’è. Dovrai
aspettare che sia pronta, e allora andremo fuori a pranzo e potrai
ordinare un bicchiere di vino, se proprio vorrai.
Haymitch imprecò e si lasciò cadere pesantemente
sul divano. Chissà dov’erano i tatuaggi che
“lì non si vedono”. Chissà
lei come aveva fatto a vederli, più che altro;
vabbè che quel tizio era uno spogliarellista, ma magari
invece… Però insomma, non era detto. Magari lei
lo aveva invitato a entrare, gli aveva offerto qualcosa da bere per
ringraziarlo, e poi si erano salutati. Certo, vecchio idiota, uno
spogliarellista e un’accompagnatrice a Capitol City,
si disse. Era credibile più o meno tanto quanto un suo
“no, grazie” alla domanda “bevi
qualcosa?”.
Effie gli si sedette vicino, allungandogli un bicchiere pieno a
metà di ghiaccio e liquido ambrato.
-Tieni, non ti posso proprio proprio vedere con quel muso, ma non
chiedermene ancora, deve durarti fino a ora di pranzo, intesi?
Lui afferrò il bicchiere come un’ancora di
salvezza. –Sei un tesoro, dolcezza-, borbottò. Ne
bevve un sorso.
Meglio, molto meglio. Lei gli sorrise e si alzò, poi si mise
a passare un piumino sui soprammobili già puliti.
Chissà se anche allo spogliarellista aveva offerto una cosa
così. Magari il tizio l’aveva guardata con quello
sguardo là e si era messo a masticare il ghiaccio, o a
passarselo sui capezzoli, o qualcun’altra di quelle puttanate
che piacciono alle donne. Magari aveva un tatuaggio pure
sull’uccello, quelle cretine di Capitol ci sarebbero
diventate matte.
Il ghiaccio si scioglieva piano piano. Bevve ancora.
-Ma insomma, Haymitch!
Lui sussultò. Effie era lì, bigodini in testa,
mani sui fianchi e piumino ancora in mano, che in quella posizione
sembrava la coda di una coniglietta.
-Io proprio, proprio non ti capisco! Va tutto bene, cosa
c’è da essere sempre così ombrosi,
così arrabbiati? Ne abbiamo passate davvero, davvero troppe,
e adesso che tutto sta tornando normale tu devi sempre fare
così!
-Dolcezza…
-Mai contento, mai un sorriso, sempre con il muso, sempre lì
a pensare e a rimuginare su chissà che… se tu ti
sforzassi un po’ a sorridere, come faccio io, alla fine ti
verrebbe anche spontaneo, invece no, tu niente, te ne stai
lì livido e silenzioso e non mi racconti niente, non mi
ascolti nemmeno, io non ti sopporto più!
E detto questo continuò a girare per la stanza spolverando
cose a caso, con una furia che Haymitch pensò che avrebbe
seriamente distrutto qualche mobile. Quando gli spolverò le
spalle, Haymitch finì il bicchiere e la fermò,
afferrandola per il polso.
-Secondo me, dolcezza, puoi toglierti i bigodini.
C’era una sola cosa che poteva fargli smettere di pensare
alla faccenda dello spogliarellista pieno di muscoli
dall’uccello tatuato, almeno temporaneamente, e come da
tradizione ormai consolidata questa cosa avveniva tutte le volte che
lei finalmente si toglieva quei maledetti bigodini.
Lei guardò l’orologio con un po’ di
apprensione.
-Penso sia un po’ presto, Haymitch, non vorrei che poi i
ricci venissero…
-È ora. Dolcezza, per favore. Non vedo l’ora di
vedere di nuovo i tuoi riccioli biondi. Risulto credibile?
Lei sorrise. –Decisamente no. Però forse hai
ragione, è ora.
Haymitch la seguì come un cane che punta la preda. La
fissò mentre srotolava i capelli ciocca per ciocca, biondi,
morbidi, profumati. Una donna profumata, una donna sorridente.
Ottimista. Parecchio rompicoglioni, quello sì, ma tutto
sommato… ultimo bigodino.
Effie non aveva nemmeno finito di toglierlo, che lui le stava
già baciando il collo.
Si fotta lo spogliarellista, pensò Haymitch. Effie era solo sua.
Note: ho davvero, davvero, davvero
bisogno di pubblicare qualcosa il primo dell’anno, per
scaramanzia. Sono preda di un blocco dovuto a una situazione che mi
rendeva nervosa e che grazie al cielo è finita, quindi spero
di tornare ai vecchi fasti, in questo nuovo anno!
Riguardo alla
storia… niente, vi avevo avvertito che avrei pubblicato
scene scollegate anche in senso temporale; questa si svolge ovviamente
prima della nascita di Camelia. Ringrazio vannagio per il betaggio e OttoNoveTre per il volantino del Black
Orange… dite la verità, ci vorreste fare un
salto, eh? Il sua in corsivo è per
pochi... vi piace Haymitch versione confratellone?
Poco da dire, ma
tantissimi auguri a voi: voi che avete letto, che vi siete divertite,
che non conosco, che conosco solo virtualmente, che ho visto dal vivo;
a Jo
Lupo che ho
trascinato anche in questa parte del mio mondo, a vannagio insostituibile e
preziosissima amica, a OttoNoveTre che tra pochi giorni
dovrà sopportarmi a tempo pieno.
Che il nostro 2013 sia
un anno davvero, davvero, davvero indimenticabile! Cin cin!
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Capitolo 5 *** Cambiare testa ***
Note
iniziali: questa
storia viene dopo questa.
E questa.
Perché complicarsi la vita è il mio credo.
A Rossella,
che avrà
diciotto anni
anche quando ne avremo
ottanta
e giocheremo a bridge in
veranda.
CAMBIARE TESTA
Vanity
radunò gli attrezzi che le erano rimasti, cercando di capire
dove fosse finito il maledetto diffusore a ioni attivi, quello che
invece di rovinare i capelli li ristrutturava. L’aveva usato
non meno di due giorni prima, e la sua casa non era grande…
anche se magari il problema stava proprio in quello. Era come
le borse piccole, non ci si trovava mai niente.
Effie
Trinket stava per arrivare. Taglio e colore. Capelli assolutamente
disastrosi, non puoi capire cara, qui altro che rivoluzioni, ci
vogliono i miracoli. Effie Trinket.
Girava voce
che Effie Trinket fosse stata una ribelle. Che fosse stata nelle
prigioni di Capitol City. Che fosse gravemente depressa. E invece le
aveva telefonato, non meno di due giorni prima, per farsi i capelli.
Ora, Vanity
non aveva più un negozio. Al posto del suo negozio
c’era una specie di cratere, e ancora nemmeno
l’ombra di cantieri. Era stata una delle zone più
colpite dall’attacco dei ribelli, che adesso avevano vinto e
quindi non erano più ribelli ma nuovo
governo,
e lei si era trovata senza lavoro e senza che nessuno potesse fare
nulla per lei. Aveva girato tutti gli uffici, trovandosi davanti a un
caos indescrivibile e a risposte che andavano da un cortese
“signora, mi spiace ma non possiamo farci nulla, sa, il
governo sta varando un progetto di ridistribuzione dei capitali dal
quale i cittadini di Capitol sono esclusi” a un
“puttana di Capitol, non hai ancora finito di succhiare il
sangue alla gente dei distretti?”.
Vanity non
aveva mai succhiato il sangue a nessuno. Si diceva che ci fosse gente
che lo facesse, soprattutto quando erano andati così di moda
i vampiri, ma lei non era tra questi. Lei era solo una parrucchiera.
Dopo la
rivoluzione aveva visto come avevano vissuto realmente per decenni gli
abitanti dei distretti, come la propaganda del vecchio governo
nascondeva situazioni terribili, e le era dispiaciuto, aveva anche
pensato che fosse normale ribellarsi, a un certo punto. Ma lei era solo
una parrucchiera. È vero, aveva molto più di una
qualunque di quelle povere famiglie, escluse magari quelle dei
vincitori degli Hunger Games, ma non aveva nulla a che fare con i
politici, gli attori, gli industriali milionari di Capitol. Viveva del
suo lavoro, che aveva alti e bassi, ogni tanto si permetteva di levarsi
qualche sfizio, a volte faceva qualche sacrificio. Era in quella fascia
media troppo ricca per fare la rivoluzione e troppo povera per avere
ricchezze nascoste da parte. Era tra quel genere di persone che perdono
sempre.
Trovò
il maledetto diffusore e lo mise nel carrellino degli attrezzi. Aveva
ricavato un minuscolo salone da parrucchiera usando il bagno e lo
studio, e cercava di andare avanti come poteva. Una volta da lei
andavano le star e le soubrette; si ricordò di quella volta
che Veronica Martell e Clara Whyte l’avevano pagata pur di
scoprire i torbidi segreti della Trinket. Ora Clara Whyte era una dei
ribelli, di Veronica Martell non si sapeva bene che ne era stato, e
Effie Trinket…
Suonò
il campanello. Le fece anche il solito, vecchio, stupido Diln-dlon! quando
entrò. Puntuale al minuto, come al solito.
Vanity
rimase stupefatta.
Non sapeva
bene cosa aspettarsi; una donna magari sfregiata, o con le occhiaie
viola, o scheletrica, o chissà. Invece Effie Trinket era
semplicemente un po’stropicciata, come quando togli una
camicia dalla lavatrice e basta stirarla per farla tornare perfetta.
Nella
fattispecie, risultò che Effie, alla quale nella supposta
prigione potevano aver tolto tante cose ma di sicuro non la voce,
voleva sistemare i capelli e schiarirli un po’, -Ma niente di
eccessivo, sai, gli eccessi a quanto pare sono passati di moda, solo
qualche piccolo colpo di sole, per accendere il viso-. Vanity
pensò che non aveva bisogno di accendere il viso. Effie
Trinket aveva quell’espressione che hanno le donne quando gli
è successo qualcosa di bello e loro ce l’hanno
ancora in mente, come una luce che è dentro i pensieri e
illumina il viso da dietro.
La fece
accomodare nel suo salone improvvisato, scrutandole le ciocche con aria
pensierosa. Nutrire, ravvivare, tagliare almeno di cinque centimetri.
Capelli che hanno sofferto. Capelli caduti, e capelli nuovi,
più corti, che stavano crescendo, qualcuno troppo chiaro per
essere biondo.
Le
applicò il colore, ciocca per ciocca. A Vanity piaceva il
suo lavoro. Non aveva lavorato per far soffrire gli abitanti dei
distretti, non guardava nemmeno troppo volentieri gli Hunger Games,
avrebbe pettinato tutti senza distinzione di provenienza. Le piaceva il
suo lavoro e ci arrivava a fine mese, tutto qui, e ora sembrava che
questo fosse un crimine imperdonabile. Mentre il colore stava in posa
andò a fare il caffè e ne offrì una
tazza ad Effie, che lo bevve continuando a parlare ininterrottamente.
Alla
domanda: –E il tuo negozio? Mi è dispiaciuto
tanto, tanto, tanto sapere che non l’hai
più…-, Vanity fece quello che non avrebbe mai
pensato di fare. Iniziò a raccontare, a briglia sciolta,
come non aveva fatto con nessuno se non con Costel, quando proprio non
ce la faceva più a stare zitta.
-Una cosa
terribile… stavo lavorando, pensa che avevo il salone pieno,
e gli allarmi hanno cominciato a suonare. Sono uscita di corsa, mi
ricordo che ho preso il cappotto di una cliente perché il
mio non c’era più… fuori
c’era la povera Talia, hai presente, quella che aveva il
negozio di sex toys di fronte al mio, che poverina, aveva i tacchi e
non riusciva a correre, e sapessi come ho ringraziato che col mio
lavoro devo indossare per forza scarpe comode! Lei le sue se le
è dovute togliere, era a piedi nudi sulla neve, e dietro
hanno cominciato a lanciare bombe. Allora l’ho presa per mano
e me la sono tirata dietro, ma ci è caduta una bomba vicino
e sai, io sono stata scagliata via e mi sono incrinata una costola, ma
lei… Effie, sapessi, lei si è completamente
carbonizzata, mi hanno detto che può succedere e che sono
stata fortunatissima perché ero al limite
dell’esplosione, ma sapessi quante volte me la sogno di
notte, la povera Talia che… Effie, tesoro?
Effie si era
irrigidita e guardava nello specchio senza vedersi, gli occhi sgranati,
come un gatto paralizzato davanti ai fari di un’automobile.
Quando si accorse che nessuno parlava, tentò un sorriso.
-Vanity,
tesoro, ma perché dobbiamo parlare di queste cose tanto
orribili? Penso che sia molto molto meglio dimenticarle e andare
avanti, non credi anche tu?
Vanity fece
una risata amara. –La fai facile, tu…
Si
pentì immediatamente. Se solo la metà delle voci
che giravano su Effie Trinket erano vere, doveva avere anche lei la sua
buona dose di incubi, la notte.
-Scusami.
Siamo tutti un po’nervosi in questo periodo. Il mio negozio
non esiste più e onestamente non so bene neanche come
andrò avanti, se continua così.
Effie la
scrutò dallo specchio mentre Vanity le faceva appoggiare la
testa sul lavandino, per lavarle i capelli. Aveva le sopracciglia
leggermente aggrottate in un’espressione risoluta.
-Sai cosa ti
dico, Vanity? Che farò di tutto per tornare a lavorare, e
avrò bisogno di una brava parrucchiera. E tu sei
l’unica che conosce bene i miei capelli, e quindi
avrò assolutamente bisogno di te. Per quanto mi riguarda,
sai, finalmente sono di nuovo tanto tanto piena di
positività: riavrò il mio lavoro, anche a costo
di accamparmi a casa di Plutarch Heavensbee!
Vanity rise.
–Plutarch Heavensbee? Se è vero quanto si dice su
di lui, dovevo farti ancora più bionda di così!
Effie rise
anche lei, una risatina che sembrava un trillo, qualcosa di molto
sciocco e prerivoluzionario; quel tipo di risatine di cui Vanity non si
sarebbe mai aspettata di sentire la mancanza.
-Non essere
così frivola, Vanity! Sai, basta sorridere, essere positivi
e guardare avanti, e allora sono le cose che vengono a bussarti alla
porta! Sai tenere un segreto?
Lei
annuì. Era una parrucchiera; aveva sempre pensato che
più riservati di lei ci fossero solo i gigolò,
fino a quando Finnick Odair non aveva rilasciato
quell’intervista shock, e allora si era sentita in diritto di
concedersi il podio senza rimorsi.
-È
passato a trovarmi Haymitch, un paio di sere fa… sai,
Haymitch Abernathy, quello del distretto dodici?
Vanity
annuì. Siccome non sapeva se commentare “quello
ubriacone” o “quello che ho sempre pensato che tra
voi ci fosse un’imbarazzante tensione sessuale
irrisolta”, decise di stare zitta.
-Ecco.
È stato tanto, tanto, tanto caro e mi ha fatto capire una
cosa: che anche se tutto ci sembra così diverso, e abbiamo
passato momenti terribili, possiamo ancora essere felici…
Sai, è che bisogna cambiare testa. Noi prima facevamo delle
cose tanto tanto brutte, e non ce ne rendevamo conto, ma ora non le
faremo più, nei distretti staranno meglio e noi ci
riprenderemo. E sarà un mondo meraviglioso!
Vanity
riuscì a rivolgerle solo un sorriso forzato, e
ringraziò che il phon non favorisse la ripresa della
conversazione. Le asciugò i capelli in una piega
impeccabile, dei riccioli sbarazzini finto spettinati che la rendevano
assolutamente adorabile.
Stupida
Effie. Sciocca ragazza nemmeno più tanto ragazza alla quale
bastava una scopata (perché lei e il tizio ubriacone del
distretto dodici avevano scopato, Vanity ci avrebbe scommesso anche la
casa) per vedere il mondo in rosa. Eppure la sciocca Effie era
lì, con i capelli più biondi e il sorriso e tanta
voglia di ricominciare, mentre lei si piangeva addosso e per paura di
come sarebbe potuta andare a finire non iniziava neanche.
Effie la
svampita aveva ragione, bisognava cambiare testa, volenti o nolenti.
Bisognava fare i conti con un mondo completamente diverso. Vanity
pensò che forse in fondo non era male. Che, in fondo, tutti
avrebbero cambiato testa, da Capitol ai distretti, in un modo o
nell’altro.
E allora
Vanity sorrise. Perché una buona parrucchiera lo sa
perfettamente: quando si cambia testa, si ha sempre bisogno di una
nuova pettinatura.
Note: Non
so bene cosa pensare di questa storia. È la prima che scrivo
dopo tanto tempo e mi sento arrugginita e piena di tetano, ma
è il compleanno di Jo Lupo, quindi ho oliato gli ingranaggi
e ho cercato di mettermi in moto. Penso di aver fatto parecchio gas di
scarico, ma che ci volete fare.
Vanity
è sua, di Jo
Lupo,
e compare qui.
L’ho usata senza il suo permesso, e spero che le faccia
piacere.
Veronica
Martell (hehehe sono pessima) e Clara White compaiono qui.
La
storia in cui Effie e Haymitch trombano (Vanity aveva visto giusto,
è parrucchiera di Capitol e ha l’occhio allenato)
è questa.
Capitol
City, c’è poco da fare, eccessi a parte mi ricorda
il nostro mondo. Insomma, anche noi sappiamo che in Africa muoiono di
fame ma andiamo avanti con la nostra vita e il nostro lavoro; mi piace
mettermi nei panni di gente comune come Vanity. Effie invece la adoro
punto e basta.
Che
a Plutarch piacciano le bionde non è scritto da nessuna
parte se non nella mia testa; bionde, alte e giovani.
Detto
questo, grazie a chiunque abbia letto, si sia divertito, si sia subito
la mia ruggine e in generale sia passato da qui.
E
auguri Ros! Augurissimi!
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