Chincaglierie

di Dragana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Avvertenze ***
Capitolo 2: *** Mogano ***
Capitolo 3: *** Di muffin, botte e gatti ***
Capitolo 4: *** Bigodini ***
Capitolo 5: *** Cambiare testa ***



Capitolo 1
*** Avvertenze ***


AVVERTENZE
E istruzioni per l'uso


Avvertenza 1, che così comincio subito a scoraggiarvi: prima di leggere queste storie bisogna leggere questa qui. Extra compreso, che è fondamentale, non fate i furbi.

Avvertenza 2. Ci sono racconti che andrebbero scritti e poi seppelliti in una tomba senza nome. Massimo massimo andrebbero spacciati a quelle due-tre amiche che li chiedono, tanto per mettersi a fanghèrlare in tre, che è più divertente che fanghèrlare da soli. Questi sono esattamente quel tipo di racconti, scritti per soddisfare onanismi mentali miei e che, ne sono perfettamente conscia, dovrebbero rimanere ben chiusi nel pc.
Ma il fatto è che invece che in tre me li hanno chiesti in cinque, e diventa un po’faticoso, come spaccio.
Il fatto è anche che, se penso alla mia concezione di fanfiction, posso riassumerla in “tu pubblica, poi se a qualcuno interessa bene, se no amici come prima”. In una parola, “condivisione”. E’ come se mettessi dei giocattoli in un grande cesto; chi vuole prenderli e giocarci è il benvenuto, chi vuole sceglierne altri bene lo stesso. E allo stesso modo queste storie sono qui, parecchio indecenti, per chi passa e vuole fanghèrlare un po’.

Avvertenza 3. Le storie che metterò qui non saranno in ordine cronologico. Magari aggiungerò qui sotto uno specchietto con il giusto ordine temporale, quando ne avrò pubblicate abbastanza.

Avvertenza 4. Se il sintomo persiste, consultare il medico.

Detto questo, gente… io a scrivere mi sono divertita tantissimo. Se chi leggerà si divertirà anche solo la metà di me, sono già contenta.
Buona lettura!




INDICE

(in ordine cronologico)



- Rosso e champagne
- Mogano
- Camelia
- Di muffin, botte e gatti.






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Capitolo 2
*** Mogano ***


MOGANO

Effie sospirò di gioia nel vedere il tavolo nuovo proprio lì, al centro della stanza, dove aveva immaginato che fosse fin dal primo momento in cui l’aveva visto.
Era così piacevole vedere cose belle, piccoli granelli del mondo di prima che resistevano, preziosi come perle create dalla pressione del carbone. Oh, giusto, non perle, diamanti… era convintissima che fossero perle, chissà come mai.
Ci passò una mano. Era liscio, meravigliosamente liscio. Levigato, lucidato, perfetto.
A Effie mancava terribilmente. Non il tavolo, ma il mondo da cui quel tavolo proveniva, il mondo di prima. Sapeva che il mondo di prima era un’illusione. Non aveva voluto vederlo in tanti anni da accompagnatrice dei Giochi, finché le vicende non l’avevano costretta a guardare e quello che aveva visto non le era piaciuto per niente.
Il tavolo profumava ancora, se lei ci si avvicinava, un odore caldo e avvolgente, di legno e cera e prodotti per la lucidatura. Odorava di buono, come la sua città, e le donne e gli uomini di quella città. Effie aveva imparato anche quanto costava, l’illusione di quella città. L’aveva imparato nelle celle d’isolamento della prigione di Capitol, nella paura del rumore del manganello sulle sbarre, nelle umiliazioni che non voleva ricordare e cercava di scacciare fino a che quelle tornavano, senza preavviso, a svegliarla di notte.
No, non era davvero, davvero il caso di pensarci, il passato è passato e bisogna guardare al futuro con sguardo radioso. Il tavolo aveva un colore bruno-rossiccio, uniforme. Effie seguì con le dita una delle venature del legno. Non importava quante cose fossero cambiate, le mancava la bellezza del suo mondo e se questo la rendeva una persona orribile pazienza, non l’avrebbe detto a nessuno, avrebbe fatto un bel sorriso e si sarebbe procurata perle di bellezza così, come una gazza ladra. Che però forse raccoglieva diamanti e non perle, aveva più senso, anche con la storia del carbone, considerò.
Si accorse che le sue mani avevano accarezzato le venature del legno come avrebbero accarezzato la pelle di un amante, e che si era piegata sul tavolo per annusarlo meglio. Voluttà, si disse, quel tavolo era pura voluttà. Sospirò.
-Non ti muovere da lì, dolcezza. Se avessi saputo che spendere tutti quei soldi per un tavolo avrebbe portato a questo, avrei fatto molte meno storie, te l’assicuro!
Effie sussultò. Haymitch non le diede tempo di raddrizzarsi; si chinò su di lei, le mordicchiò il lobo dell’orecchio.
Fece scivolare un bicchiere mezzo pieno sul tavolo, che lasciò una scia di bagnato sul legno e rischiò di rovesciarsi.
-Insomma, Haymitch, questo è moga…
Lui le chiuse la bocca con la mano, baciandole il collo.
L’altra mano era scivolata sotto la sua gonna.
Effie sospirò.












Note: poco da dire che non abbia già detto nelle avvertenze… chi pensava esagerassi si sarà ricreduto, a questo punto, dopo aver letto una threesome Effie/mogano/Haymitch!
No, sul serio, gente, lo so, lo so, è una cosa indecente, mi rendo conto. Facciamo che la mia superlativa beta vannagio ha insistito tanto, e alla fine l’ho pubblicata. Sappiate che se mi insultate vinco una scommessa, quindi avanti Savoia!
Per il resto… il fatto che Effie confonda la genesi di perle e diamanti è canon, così come è canonissima (nella versione filmica) la sua “passione” per il mogano.
Immagino che dopo la seconda mietitura (durante la quale, in canon Effie appare turbata) e la sua incarcerazione, Effie abbia riconsiderato tutto il sistema di valori su cui si fondava la sua vita e quella degli altri abitanti della capitale, ma continuino a piacerle le cose belle e insomma, il mogano è mogano!
Per quanto riguarda Haymitch… per me quei due stanno insieme. Punto e STOMP.
Gente, se siete arrivati qui, sappiate che non ci credevo. Grazie di tutto!

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Capitolo 3
*** Di muffin, botte e gatti ***


DI MUFFIN, BOTTE E GATTI

Camelia era arrabbiata.
Non le piaceva giocare da sola; cioè, a volte le piaceva, ma non sempre. Avrebbe voluto deciderlo lei, ecco.
Invece, la prima elementare aveva cambiato tutto. Camelia detestava la prima elementare a Capitol City.
In realtà il problema non erano i suoi compagni di classe: loro ci giocavano con lei, anche se ogni tanto la chiamavano mangiacarbone o carboncino e a lei toccava chiamarli sporchi fighetti, il tutto cercando di non farsi sentire dalla maestra.
Il problema era quando andava a casa di suo padre, al Dodici.
A Camelia il Dodici piaceva più di Capitol City: poteva uscire fuori a giocare senza avere sempre dietro un adulto e c’era il prato, la zona intorno alle miniere, le rovine del vecchio villaggio e un sacco di altre cose divertenti, senza contare la panetteria di Peeta. Solo che i bambini che prima giocavano con lei adesso la evitavano: lei non andava in classe con loro, li vedeva poco perché sua mamma non voleva che perdesse troppi giorni di scuola, e loro la chiamavano sporca fighetta. Senza darle nemmeno il tempo di poterli chiamare mangiacarbone.
Quindi giocava da sola, o al massimo con i due gatti che aveva trovato in un cespuglio; all’inizio non si avvicinavano, ma poi si erano abituati a lei e soprattutto al fatto che gli portava sempre qualcosa da mangiare. Le sarebbe piaciuto farli vedere agli altri bambini, ma loro non la stavano mai a sentire.
Però, quando tornava a casa e il suo papà le sorrideva e le chiedeva “allora, principessa, ti sei divertita?”, lei rispondeva sempre di sì. Non voleva dire ai suoi genitori che gli altri bambini non volevano giocare con lei, piagnucolare era una cosa da femminucce e poi sua madre avrebbe fatto una gran solfa e avrebbe detto che i bambini del Dodici erano tutti dei selvaggi maleducati, e Camelia non voleva che lo dicesse.
Insomma, non c’era via d’uscita, rimuginava mentre tornava verso il villaggio, mordicchiando il suo muffin per merenda. Ogni volta che passava davanti alla panetteria si fermava a salutare Peeta, e ogni volta Peeta le regalava un muffin per fare merenda, facendole scegliere quello con la glassa che le piaceva di più. Peeta era meno bello del suo papà, anche se era più giovane, però rideva molto più spesso, e quel giorno il muffin aveva una glassa tutta rosa con un fiore che Peeta sosteneva fosse una camelia, ma secondo lei era una rosa. Però era bellissimo lo stesso, e anche buonissimo.
Girò la curva e si accorse che c’erano tre bambini che stavano facendo la stessa strada nella direzione opposta; li conosceva, erano Brake, Cress e Alex. Avevano la sua età e fino all’anno scorso giocavano assieme agli esploratori nelle rovine del villaggio vecchio, ma da quell’anno non l’avevano più voluta. Camelia pensò che se magari riusciva a dirgli dei gatti, domani sarebbero potuti andarli a vedere assieme.
Stava per dirglielo, quando Cress parlò.
-Guardate, c’è la sporca fighetta di Capitol!
-Camelia Abernathy, fighetta!-, gli fece eco Alex.
-Statemi a sentire, invece di fare i selvaggi maleducati. Ho scoperto due…
-Cosa stai mangiando? Un muffin? Perché non lo dai a noi?
-Sì, devi darcelo! Vieni qui e consegnacelo, e poi vattene via!
Questa poi. Non solo non volevano giocare con lei, non solo la prendevano in giro, ma volevano persino il suo muffin. Il suo, quello che sceglieva personalmente, quello che si sognava per giorni perché nella Capitale non li facevano, dei muffin così buoni. Camelia aggrottò le sopracciglia, puntò una mano sul fianco e diede ostentatamente un morso al muffin.
-Se volete il mio muffin, venite a prenderlo!
I tre si guardarono in faccia, spiazzati. Di solito le femmine obbedivano, o almeno si mettevano a piangere, non li sfidavano apertamente. Vedendoli incerti, Camelia sorrise e li fissò uno per uno con’espressione strafottente.
-Cosa c’è, mangiacarbone? Vi state cacando sotto?
Brake, Cress e Alex la guardarono sbalorditi. Un insulto e una parolaccia in una sola frase era davvero qualcosa che non potevano far passare liscia.
-Adesso oltre al muffin dovrai chiederci scusa, sporca fighetta!
-Ve l’ho già detto, e non fatemelo ripetere: se lo volete, dovete venire a prenderlo… oppure tornate a casa vostra, a mangiare del carbone!
Quello fu troppo. I tre si guardarono e in barba alla regola “le femmine non si toccano nemmeno con un fiore” corsero verso di lei con l’intenzione di prendersi quel muffin, con le buone o con le cattive.
Camelia era pronta.
Era abituata a fare la lotta con papà, e papà non le risparmiava colpi bassi di nessun tipo; perdeva sempre, perché Camelia detestava che la facesse vincere per finta, ma lui era papà e quelli erano tre mocciosi. Appena Brake, completamente scoperto, le arrivò sotto, Camelia gli allungò un destro in piena faccia che gli fece sanguinare il naso.

Katniss quel giorno non era andata a caccia; aveva fatto una lunga passeggiata nel bosco, era arrivata fino al lago, aveva fatto il bagno ed era persino riuscita a versare due lacrime su qualche ricordo. Aveva ancora i capelli umidi, forse Peeta l’avrebbe sgridata perché poi le veniva male al collo… sorrise al pensiero.
Camminava, serena come non si sentiva da un pezzo, sulla strada di casa, quando sentì degli schiamazzi dietro la curva. Appena svoltò, sgranò gli occhi per lo stupore: c’erano quattro bambini che facevano a botte e quella che ne stava dando più di tutti era Camelia Abernathy.
Appena si riprese, Katniss piombò come una furia in mezzo ai quattro, acchiappando Camelia che stava cercando di svignarsela. Brake, Cress e Alex ne approfittarono per svignarsela loro.
-Camelia! Ma si può sapere cosa stavate combinando? Eh?
La bambina era in uno stato pietoso: tutta sporca di terra e di sangue, la camicetta mezza strappata in un punto, un ginocchio sbucciato e le mani impiastricciate di quelli che sembravano i poveri resti di un muffin. La fissò (era quasi impressionante, Katniss l’aveva sempre ritenuta la copia sputata di Effie) con la stessa espressione di Haymitch quando lo svegliava dalle sbornie a secchiate d’acqua gelida.
-Gliele stavo dando di santa ragione, e tu mi hai interrotto!
Katniss si trovò spiazzata. Non sapeva bene come agire, Prim non aveva mai fatto a botte con nessuno… si accorse che stava automaticamente sistemando la camicetta di Camelia dentro la gonnellina rosa.
-Camelia, ma… ma non si fa, non va bene picchiarsi, non è così che si risolvono le cose… cos’è successo?
Lei incrociò le braccia. –Mi volevano prendere il muffin. Quello che mi ha dato Peeta.
-Cioè… hai fatto a botte per un muffin? Ma Peeta te ne da quanti ne vuoi, di muffin! E poi scusa, eri da sola contro tre bambini? Cosa pensavi di fare, da sola contro tre?
-Erano solo tre stupidi, Katniss, quindi avrei vinto io!
Kat rimase a bocca aperta. –Non dirò mai più che non hai preso nulla da tuo padre…-, borbottò. Poi si riscosse. –Adesso ti accompagno a casa, e non ti sgrido solo perché ci penserà abbondantemente tua madre… e quando tuo padre ti dirà che hai fatto bene, non ascoltarlo: le cose non si risolvono mai con la violenza, ci siamo capiti?
invece di rispondere, Camelia sbuffò. Katniss la fissò dritto negli occhi.
-Ci siamo capiti o no?
-Va bene-, cedette Camelia. Prima di riportarla a casa, Katniss passò dalla panetteria e le regalò un altro dolcetto.

Il giorno dopo, Camelia camminava scalciando sassi verso il posto dove c’erano i gatti. Come aveva previsto Katniss, suo padre si era fatto una gran risata e si era congratulato con lei, mentre sua madre aveva continuato a sgridarla tutta la sera e tutta la mattina dopo, alternando il suo grande, grande, grande disappunto tra lei e suo padre.
Ma siccome anche Peeta si era messo a ridere, e le aveva bisbigliato “ma le hai date o le hai prese?” mentre le incartava il muffin (glassa arancione con le palline colorate), Camelia era giunta alla conclusione che non aveva poi fatto niente di male, erano Katniss e sua madre che esageravano troppo.
Quindi, quando vide Brake, Cress e Alex che la aspettavano, Camelia pensò che sarebbe arrivata la seconda parte. Incrociò le braccia.
-Beh? Che volete?
I tre si guardarono in faccia. Poi Alex parlò.
-Che cos’è che hai scoperto?
Camelia rimase a bocca aperta. I tre scambiarono il suo stupore per mutismo.
-Sì, ieri dicevi che avevi scoperto qualcosa… cos’era?
-Ho scoperto due gatti, ma sono in un posto segreto. Se volete vederli vi ci devo portare io.
-Va bene. Sono maschi o femmine?
-Non lo so, non riesco a capirlo. Sono cuccioli.
I tre si guardarono. –Non lo capisci perché sei della capitale-, spiegò Cress, con il tono di chi ribadisce l’ovvio. –Però se ce li fai vedere te lo dico io, cosa sono.
Camelia sorrise. –Andiamo-, disse. Poi sembrò ripensarci. –Però prima passiamo da Peeta: sono certa che, se glielo chiediamo in modo educato, darà un muffin anche a voi!













Note: non so, ho un blocco dello scrittore pazzesco e mi escono solo queste robe qui. Diciamo che assecondo la voglia di scrivere, in qualunque forma essa si presenti!
Ad ogni modo, per chi voleva conoscere Camelia… eccola qui! Effie dice che se vi piacerà è merito della sua ottima educazione, altrimenti è colpa del pessimo, pessimo, pessimo esempio che le da Haymitch.
Ai tempi di questa storia immagino che siano passati circa una decina d’anni dalla fine dei libri; siccome Peeta vorrebbe tanto dei figli, ma da canon dovrà aspettare ancora cinque anni per averne di suoi, nel frattempo si coccola quelli degli amici.
Brake, Cress e Alex sono mie invenzioni. Da grandi saranno famosi tra le ragazze come “l’ABC del distretto Dodici”, per ora sono solo dei mocciosetti.
Suppongo che Camelia frequenti le elementari a Capitol perché Effie inorridirebbe all’idea di farle fare le scuole al Dodici in mezzo ai minatori.
Il ddddramma di Camelia lo rivivevo ogni volta che tornavo al mio paese dopo tre mesi in cui trascorrevo l’estate nel paese in cui aveva l’attività mio padre; non so cosa scatti nella mente dei bimbi, ma non vedere una persona per molto tempo pare cambi tutte le carte in tavola. Per fortuna non ho mai fatto a botte, tempo qualche giorno e si tornava alla normalità.
Ringrazio le mie sexy beta vannagio e OttoNoveTre per avermi incoraggiato a scrivere, sia pure queste scemenze, e per avermi suggerito rispettivamente i soprannomi offensivi dati ai bimbi del Dodici, e avermi prosiuttato qualche frase. Le ringrazio anche per essere due meravigliosi tesori! <3
Alla prossima, e un muffin di Peeta a tutti voi che siete arrivati fin qui!

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Capitolo 4
*** Bigodini ***


Note iniziali: le vicende di questa storia fanno riferimento a quanto raccontato qui. Enjoy!


BIGODINI

Haymitch avrebbe voluto tanto che Effie gli facesse avere un calendario dettagliato dei giorni e degli orari in cui si metteva i bigodini; peraltro era del tutto probabile che lei ce l’avesse davvero, un calendario del genere, quindi non si capiva perché cazzo non potesse farne una copia a lui. Per esempio, se l’avesse avuto, invece di andare diretto da lei appena arrivato in stazione, avrebbe potuto fare un salto da Plutarch e convincerlo ad andarsi a prendere un bianchetto, o andarci da solo nel caso Plutarch fosse stato troppo impegnato col suo ultimo programma spazzatura.
Invece Effie gli concesse un rapido bacetto a fior di labbra, la promessa che sarebbe stata subito subito pronta (- È una sporca menzogna, dolcezza, lo sappiamo entrambi-), e prese la posta che lui le aveva portato su come se scottasse (anche lo smalto appena messo era una piaga da sopportare). Haymitch si diresse verso l’armadietto dei liquori, che trovò vuoto in modo desolante.
-Bolletta, bolletta, la tassa sulla casa… questo governo non starà un tantino tantino esagerando? Oh, l’invito per il compleanno di Odette, non che impazzisca dalla voglia di andarci, ma quella ragazza ha tanto, tanto, tanto bisogno di compagnia… consegna di pranzo a domicilio, questo mi potrebbe servire, e questo… oh, hanno riaperto il Black Orange! È una splendida, splendida notizia, significa che questa città sta davvero iniziando a rinascere! E guarda qui, Haymitch, ti ricordi Alcide? È lui!
Haymitch smise di frugare nei mobiletti attigui al mobile bar, e si girò a guardarla.
-Chi?
-Ma insomma, Alcide, quello che faceva il parrucchiere! Te ne avevo parlato!
Lui le andò vicino e gettò un’occhiata distratta al volantino. Poi lo guardò meglio.
Sotto a una lista che Haymitch trovava agghiacciante (“King of latex”? Terry Badass, Black Stallion, Hot Shot, Surprise Love? DJ Fernanduzzo?), c’era la foto di un tizio mezzo nudo e pieno di tatuaggi con uno sguardo che sembrava dire “sì, posso avere tutte le donne che voglio. Sì, anche la tua”. Ora, Haymitch non era molto bravo a riconoscere la bellezza maschile se non quando questa era sfacciata, e il tipo nella locandina era di una bellezza sfacciata. Lui stesso, che da giovane era considerato uno dei figoni del distretto, non era mai stato così nemmeno al massimo del suo splendore. Quello aveva muscoli in posti in cui Haymitch non sapeva nemmeno che esistessero, dei muscoli.
-Quello è il parrucchiere?
-Beh, no, adesso è uno spogliarellista!
Lui guardò alternativamente Effie e il volantino.
-Ma quando faceva il parrucchiere non era così… vero?
-Ma certo che lo era, come avrebbe dovuto essere, scusa?
Haymitch rimase in silenzio per un attimo. Ripassò i luoghi in cui di solito lei nascondeva la roba da bere.
-E ti ha invitata al suo spettacolo. E poi portata fuori a bere.
-Oh, vedi che ti ricordi? Comunque, tecnicamente no. Mi ha offerto da bere al Black Orange, dopo lo spettacolo.
Haymitch tentò di richiamare alla mente tutta la storia, ed era certo che lei non gli avesse detto com’era finita. Gli venne in mente che se l’era vagamente domandato, anche se con blando interesse. Non aveva mica visto la foto, quella volta.
-E poi ti ha accompagnata a casa?
-Naturalmente! È un ragazzo tanto, tanto, tanto carino!
No, Haymitch decise che era saggio non saperlo, cos’era successo dopo. Non voleva sapere se davvero Effie si era fatta sbattere da quel tizio tatuato tutto pieno di bicipiti. Quindi non si spiegò perché le stava domandando –E tu l’hai invitato a entrare?-. Doveva distrarsi, bere qualcosa, non pensarci.
-Ma naturalmente! Sarebbe stato davvero maleducato non farlo, dopo che mi aveva accompagnata!
Haymitch, in tanti anni che conosceva Effie, non aveva mai capito se ci era o ci faceva. Nel caso contingente, non capiva se lei girava intorno all’unica informazione che lo interessasse apposta, per tenerlo sulla corda, o se davvero si limitava a rispondere alle domande che le venivano fatte, senza nessuna malizia.
La guardò appoggiare il volantino sul mobiletto e affaccendarsi per il salotto, soffiando piano sulle unghie. Aveva un vago sorriso; chissà se si stava ricordando qualcosa di piacevole. Tipo lui che la rovesciava sulle lenzuola e la legava con le manette ai pioli del letto. O lui con quel pantaloni di pelle attillatissimi e una benda sugli occhi che la chiamava padrona. O chissà cos’altro che lui nemmeno riusciva a immaginare, si sa che quelli di Capitol sono tutti dei pervertiti. Si rimise a frugare nei mobiletti con una foga da condannato a morte.
-Ma li ha davvero, quello là, tutti quei tatuaggi?
-Ma certo, cosa pensavi, che fossero aggiunti con Photoshop? Ce li ha e ne ha anche tanti, tanti, tanti altri, solo che lì non si vedono. Adoro i tatuaggi, sono tanto tanto sexy! E smettila di cercare dell’alcool. Non ce n’è. Dovrai aspettare che sia pronta, e allora andremo fuori a pranzo e potrai ordinare un bicchiere di vino, se proprio vorrai.
Haymitch imprecò e si lasciò cadere pesantemente sul divano. Chissà dov’erano i tatuaggi che “lì non si vedono”. Chissà lei come aveva fatto a vederli, più che altro; vabbè che quel tizio era uno spogliarellista, ma magari invece… Però insomma, non era detto. Magari lei lo aveva invitato a entrare, gli aveva offerto qualcosa da bere per ringraziarlo, e poi si erano salutati. Certo, vecchio idiota, uno spogliarellista e un’accompagnatrice a Capitol City, si disse. Era credibile più o meno tanto quanto un suo “no, grazie” alla domanda “bevi qualcosa?”.
Effie gli si sedette vicino, allungandogli un bicchiere pieno a metà di ghiaccio e liquido ambrato.
-Tieni, non ti posso proprio proprio vedere con quel muso, ma non chiedermene ancora, deve durarti fino a ora di pranzo, intesi?
Lui afferrò il bicchiere come un’ancora di salvezza. –Sei un tesoro, dolcezza-, borbottò. Ne bevve un sorso.
Meglio, molto meglio. Lei gli sorrise e si alzò, poi si mise a passare un piumino sui soprammobili già puliti.
Chissà se anche allo spogliarellista aveva offerto una cosa così. Magari il tizio l’aveva guardata con quello sguardo là e si era messo a masticare il ghiaccio, o a passarselo sui capezzoli, o qualcun’altra di quelle puttanate che piacciono alle donne. Magari aveva un tatuaggio pure sull’uccello, quelle cretine di Capitol ci sarebbero diventate matte.
Il ghiaccio si scioglieva piano piano. Bevve ancora.
-Ma insomma, Haymitch!
Lui sussultò. Effie era lì, bigodini in testa, mani sui fianchi e piumino ancora in mano, che in quella posizione sembrava la coda di una coniglietta.
-Io proprio, proprio non ti capisco! Va tutto bene, cosa c’è da essere sempre così ombrosi, così arrabbiati? Ne abbiamo passate davvero, davvero troppe, e adesso che tutto sta tornando normale tu devi sempre fare così!
-Dolcezza…
-Mai contento, mai un sorriso, sempre con il muso, sempre lì a pensare e a rimuginare su chissà che… se tu ti sforzassi un po’ a sorridere, come faccio io, alla fine ti verrebbe anche spontaneo, invece no, tu niente, te ne stai lì livido e silenzioso e non mi racconti niente, non mi ascolti nemmeno, io non ti sopporto più!
E detto questo continuò a girare per la stanza spolverando cose a caso, con una furia che Haymitch pensò che avrebbe seriamente distrutto qualche mobile. Quando gli spolverò le spalle, Haymitch finì il bicchiere e la fermò, afferrandola per il polso.
-Secondo me, dolcezza, puoi toglierti i bigodini.
C’era una sola cosa che poteva fargli smettere di pensare alla faccenda dello spogliarellista pieno di muscoli dall’uccello tatuato, almeno temporaneamente, e come da tradizione ormai consolidata questa cosa avveniva tutte le volte che lei finalmente si toglieva quei maledetti bigodini.
Lei guardò l’orologio con un po’ di apprensione.
-Penso sia un po’ presto, Haymitch, non vorrei che poi i ricci venissero…
-È ora. Dolcezza, per favore. Non vedo l’ora di vedere di nuovo i tuoi riccioli biondi. Risulto credibile?
Lei sorrise. –Decisamente no. Però forse hai ragione, è ora.
Haymitch la seguì come un cane che punta la preda. La fissò mentre srotolava i capelli ciocca per ciocca, biondi, morbidi, profumati. Una donna profumata, una donna sorridente. Ottimista. Parecchio rompicoglioni, quello sì, ma tutto sommato… ultimo bigodino.
Effie non aveva nemmeno finito di toglierlo, che lui le stava già baciando il collo.
Si fotta lo spogliarellista, pensò Haymitch. Effie era solo sua.













Note: ho davvero, davvero, davvero bisogno di pubblicare qualcosa il primo dell’anno, per scaramanzia. Sono preda di un blocco dovuto a una situazione che mi rendeva nervosa e che grazie al cielo è finita, quindi spero di tornare ai vecchi fasti, in questo nuovo anno!
Riguardo alla storia… niente, vi avevo avvertito che avrei pubblicato scene scollegate anche in senso temporale; questa si svolge ovviamente prima della nascita di Camelia. Ringrazio vannagio per il betaggio e OttoNoveTre per il volantino del Black Orange… dite la verità, ci vorreste fare un salto, eh? Il sua in corsivo è per pochi... vi piace Haymitch versione confratellone?
Poco da dire, ma tantissimi auguri a voi: voi che avete letto, che vi siete divertite, che non conosco, che conosco solo virtualmente, che ho visto dal vivo; a Jo Lupo che ho trascinato anche in questa parte del mio mondo, a vannagio insostituibile e preziosissima amica, a OttoNoveTre che tra pochi giorni dovrà sopportarmi a tempo pieno.
Che il nostro 2013 sia un anno davvero, davvero, davvero indimenticabile! Cin cin!

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Capitolo 5
*** Cambiare testa ***


Note iniziali: questa storia viene dopo questa. E questa. Perché complicarsi la vita è il mio credo.




A Rossella, 
che avrà diciotto anni
anche quando ne avremo ottanta
e giocheremo a bridge in veranda.



CAMBIARE TESTA

Vanity radunò gli attrezzi che le erano rimasti, cercando di capire dove fosse finito il maledetto diffusore a ioni attivi, quello che invece di rovinare i capelli li ristrutturava. L’aveva usato non meno di due giorni prima, e la sua casa non era grande… anche  se magari il problema stava proprio in quello. Era come le borse piccole, non ci si trovava mai niente.
Effie Trinket stava per arrivare. Taglio e colore. Capelli assolutamente disastrosi, non puoi capire cara, qui altro che rivoluzioni, ci vogliono i miracoli. Effie Trinket.
Girava voce che Effie Trinket fosse stata una ribelle. Che fosse stata nelle prigioni di Capitol City. Che fosse gravemente depressa. E invece le aveva telefonato, non meno di due giorni prima, per farsi i capelli.
Ora, Vanity non aveva più un negozio. Al posto del suo negozio c’era una specie di cratere, e ancora nemmeno l’ombra di cantieri. Era stata una delle zone più colpite dall’attacco dei ribelli, che adesso avevano vinto e quindi non erano più ribelli ma nuovo governo, e lei si era trovata senza lavoro e senza che nessuno potesse fare nulla per lei. Aveva girato tutti gli uffici, trovandosi davanti a un caos indescrivibile e a risposte che andavano da un cortese “signora, mi spiace ma non possiamo farci nulla, sa, il governo sta varando un progetto di ridistribuzione dei capitali dal quale i cittadini di Capitol sono esclusi” a un “puttana di Capitol, non hai ancora finito di succhiare il sangue alla gente dei distretti?”.
Vanity non aveva mai succhiato il sangue a nessuno. Si diceva che ci fosse gente che lo facesse, soprattutto quando erano andati così di moda i vampiri, ma lei non era tra questi. Lei era solo una parrucchiera.
Dopo la rivoluzione aveva visto come avevano vissuto realmente per decenni gli abitanti dei distretti, come la propaganda del vecchio governo nascondeva situazioni terribili, e le era dispiaciuto, aveva anche pensato che fosse normale ribellarsi, a un certo punto. Ma lei era solo una parrucchiera. È vero, aveva molto più di una qualunque di quelle povere famiglie, escluse magari quelle dei vincitori degli Hunger Games, ma non aveva nulla a che fare con i politici, gli attori, gli industriali milionari di Capitol. Viveva del suo lavoro, che aveva alti e bassi, ogni tanto si permetteva di levarsi qualche sfizio, a volte faceva qualche sacrificio. Era in quella fascia media troppo ricca per fare la rivoluzione e troppo povera per avere ricchezze nascoste da parte. Era tra quel genere di persone che perdono sempre.
Trovò il maledetto diffusore e lo mise nel carrellino degli attrezzi. Aveva ricavato un minuscolo salone da parrucchiera usando il bagno e lo studio, e cercava di andare avanti come poteva. Una volta da lei andavano le star e le soubrette; si ricordò di quella volta che Veronica Martell e Clara Whyte l’avevano pagata pur di scoprire i torbidi segreti della Trinket. Ora Clara Whyte era una dei ribelli, di Veronica Martell non si sapeva bene che ne era stato, e Effie Trinket…
Suonò il campanello. Le fece anche il solito, vecchio, stupido Diln-dlon! quando entrò. Puntuale al minuto, come al solito.
Vanity rimase stupefatta.
Non sapeva bene cosa aspettarsi; una donna magari sfregiata, o con le occhiaie viola, o scheletrica, o chissà. Invece Effie Trinket era semplicemente un po’stropicciata, come quando togli una camicia dalla lavatrice e basta stirarla per farla tornare perfetta. 
Nella fattispecie, risultò che Effie, alla quale nella supposta prigione potevano aver tolto tante cose ma di sicuro non la voce, voleva sistemare i capelli e schiarirli un po’, -Ma niente di eccessivo, sai, gli eccessi a quanto pare sono passati di moda, solo qualche piccolo colpo di sole, per accendere il viso-.  Vanity pensò che non aveva bisogno di accendere il viso. Effie Trinket aveva quell’espressione che hanno le donne quando gli è successo qualcosa di bello e loro ce l’hanno ancora in mente, come una luce che è dentro i pensieri e illumina il viso da dietro.
La fece accomodare nel suo salone improvvisato, scrutandole le ciocche con aria pensierosa. Nutrire, ravvivare, tagliare almeno di cinque centimetri. Capelli che hanno sofferto. Capelli caduti, e capelli nuovi, più corti, che stavano crescendo, qualcuno troppo chiaro per essere biondo.
Le applicò il colore, ciocca per ciocca. A Vanity piaceva il suo lavoro. Non aveva lavorato per far soffrire gli abitanti dei distretti, non guardava nemmeno troppo volentieri gli Hunger Games, avrebbe pettinato tutti senza distinzione di provenienza. Le piaceva il suo lavoro e ci arrivava a fine mese, tutto qui, e ora sembrava che questo fosse un crimine imperdonabile. Mentre il colore stava in posa andò a fare il caffè e ne offrì una tazza ad Effie, che lo bevve continuando a parlare ininterrottamente.
Alla domanda: –E il tuo negozio? Mi è dispiaciuto tanto, tanto, tanto sapere che non l’hai più…-, Vanity fece quello che non avrebbe mai pensato di fare. Iniziò a raccontare, a briglia sciolta, come non aveva fatto con nessuno se non con Costel, quando proprio non ce la faceva più a stare zitta.
-Una cosa terribile… stavo lavorando, pensa che avevo il salone pieno, e gli allarmi hanno cominciato a suonare. Sono uscita di corsa, mi ricordo che ho preso il cappotto di una cliente perché il mio non c’era più… fuori c’era la povera Talia, hai presente, quella che aveva il negozio di sex toys di fronte al mio, che poverina, aveva i tacchi e non riusciva a correre, e sapessi come ho ringraziato che col mio lavoro devo indossare per forza scarpe comode! Lei le sue se le è dovute togliere, era a piedi nudi sulla neve, e dietro hanno cominciato a lanciare bombe. Allora l’ho presa per mano e me la sono tirata dietro, ma ci è caduta una bomba vicino e sai, io sono stata scagliata via e mi sono incrinata una costola, ma lei… Effie, sapessi, lei si è completamente carbonizzata, mi hanno detto che può succedere e che sono stata fortunatissima perché ero al limite dell’esplosione, ma sapessi quante volte me la sogno di notte, la povera Talia che… Effie, tesoro?
Effie si era irrigidita e guardava nello specchio senza vedersi, gli occhi sgranati, come un gatto paralizzato davanti ai fari di un’automobile. Quando si accorse che nessuno parlava, tentò un sorriso.
-Vanity, tesoro, ma perché dobbiamo parlare di queste cose tanto orribili? Penso che sia molto molto meglio dimenticarle e andare avanti, non credi anche tu?
Vanity fece una risata amara. –La fai facile, tu…
Si pentì immediatamente. Se solo la metà delle voci che giravano su Effie Trinket erano vere, doveva avere anche lei la sua buona dose di incubi, la notte.
-Scusami. Siamo tutti un po’nervosi in questo periodo. Il mio negozio non esiste più e onestamente non so bene neanche come andrò avanti, se continua così.
Effie la scrutò dallo specchio mentre Vanity le faceva appoggiare la testa sul lavandino, per lavarle i capelli. Aveva le sopracciglia leggermente aggrottate in un’espressione risoluta.
-Sai cosa ti dico, Vanity? Che farò di tutto per tornare a lavorare, e avrò bisogno di una brava parrucchiera. E tu sei l’unica che conosce bene i miei capelli, e quindi avrò assolutamente bisogno di te. Per quanto mi riguarda, sai, finalmente sono di nuovo tanto tanto piena di positività: riavrò il mio lavoro, anche a costo di accamparmi a casa di Plutarch Heavensbee! 
Vanity rise. –Plutarch Heavensbee? Se è vero quanto si dice su di lui, dovevo farti ancora più bionda di così!
Effie rise anche lei, una risatina che sembrava un trillo, qualcosa di molto sciocco e prerivoluzionario; quel tipo di risatine di cui Vanity non si sarebbe mai aspettata di sentire la mancanza.
-Non essere così frivola, Vanity! Sai, basta sorridere, essere positivi e guardare avanti, e allora sono le cose che vengono a bussarti alla porta! Sai tenere un segreto?
Lei annuì. Era una parrucchiera; aveva sempre pensato che più riservati di lei ci fossero solo i gigolò, fino a quando Finnick Odair non aveva rilasciato quell’intervista shock, e allora si era sentita in diritto di concedersi il podio senza rimorsi. 
-È passato a trovarmi Haymitch, un paio di sere fa… sai, Haymitch Abernathy, quello del distretto dodici?
Vanity annuì. Siccome non sapeva se commentare “quello ubriacone” o “quello che ho sempre pensato che tra voi ci fosse un’imbarazzante tensione sessuale irrisolta”, decise di stare zitta.
-Ecco. È stato tanto, tanto, tanto caro e mi ha fatto capire una cosa: che anche se tutto ci sembra così diverso, e abbiamo passato momenti terribili, possiamo ancora essere felici… Sai, è che bisogna cambiare testa. Noi prima facevamo delle cose tanto tanto brutte, e non ce ne rendevamo conto, ma ora non le faremo più, nei distretti staranno meglio e noi ci riprenderemo. E sarà un mondo meraviglioso!
Vanity riuscì a rivolgerle solo un sorriso forzato, e ringraziò che il phon non favorisse la ripresa della conversazione. Le asciugò i capelli in una piega impeccabile, dei riccioli sbarazzini finto spettinati che la rendevano assolutamente adorabile.
Stupida Effie. Sciocca ragazza nemmeno più tanto ragazza alla quale bastava una scopata (perché lei e il tizio ubriacone del distretto dodici avevano scopato, Vanity ci avrebbe scommesso anche la casa) per vedere il mondo in rosa. Eppure la sciocca Effie era lì, con i capelli più biondi e il sorriso e tanta voglia di ricominciare, mentre lei si piangeva addosso e per paura di come sarebbe potuta andare a finire non iniziava neanche.
Effie la svampita aveva ragione, bisognava cambiare testa, volenti o nolenti. Bisognava fare i conti con un mondo completamente diverso. Vanity pensò che forse in fondo non era male. Che, in fondo, tutti avrebbero cambiato testa, da Capitol ai distretti, in un modo o nell’altro.
E allora Vanity sorrise. Perché una buona parrucchiera lo sa perfettamente: quando si cambia testa, si ha sempre bisogno di una nuova pettinatura.










Note: Non so bene cosa pensare di questa storia. È la prima che scrivo dopo tanto tempo e mi sento arrugginita e piena di tetano, ma è il compleanno di Jo Lupo, quindi ho oliato gli ingranaggi e ho cercato di mettermi in moto. Penso di aver fatto parecchio gas di scarico, ma che ci volete fare.
Vanity è sua, di Jo Lupo, e compare qui. L’ho usata senza il suo permesso, e spero che le faccia piacere.
Veronica Martell (hehehe sono pessima) e Clara White compaiono qui.
La storia in cui Effie e Haymitch trombano (Vanity aveva visto giusto, è parrucchiera di Capitol e ha l’occhio allenato) è questa.
Capitol City, c’è poco da fare, eccessi a parte mi ricorda il nostro mondo. Insomma, anche noi sappiamo che in Africa muoiono di fame ma andiamo avanti con la nostra vita e il nostro lavoro; mi piace mettermi nei panni di gente comune come Vanity. Effie invece la adoro punto e basta.
Che a Plutarch piacciano le bionde non è scritto da nessuna parte se non nella mia testa; bionde, alte e giovani.
Detto questo, grazie a chiunque abbia letto, si sia divertito, si sia subito la mia ruggine e in generale sia passato da qui.
E auguri Ros! Augurissimi!

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