Flaming Trace

di Teodosia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Part I ***
Capitolo 2: *** Part II ***
Capitolo 3: *** Part III ***
Capitolo 4: *** Part IV ***
Capitolo 5: *** Part V ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Part I ***




1



So why do you fill my sorrow
With the words you've borrowed
From the only place (that) you've known
And why do you sing Hallelujah
If it means nothing to you
Why do you sing with me at all?

We might live like never before
When there's nothing to give
Well how can we ask for more
We might make love in some sacred place
The look on your face is delicate

Delicate-Damien Rice



Ci sono pochi mortali che riescono davvero a capire il vero valore delle cose. Potremmo anche dire nessuno. Quanti mortali possono capire il valore che può avere bere un caffé in un bar su una grande, affollata via pedonale?
Era seduta al tavolo più vicino alla strada e faceva finta di leggere il giornale per darsi un tono, mentre osservava i passanti attraverso il vetro scuro di occhiali da sole. Non teneva nascosto il suo aspetto. Talvolta poteva anche accadere che assumesse l’aspetto di qualche donna comune, ma era decisamente raro. La cosa che preferiva era essere notata, per quanto riconoscesse che i mortali erano creature inutili e sciocche. Indossava una gonna corta. Neanche troppo corta. Accavallò le gambe, e sorrise, notando l’interesse degli uomini là intorno.
Insomma se ne stava lì e beveva caffé ristretto decaffeinato e guardava la gente, quando arrivò Atena. Era di per sé raro che una creatura immortale si mischiasse ai mortali e si rendesse visibile a loro, quanto vederne due? Per di più si disse che Atena non era proprio il tipo. Glielo si leggeva in faccia. Era il tipo di persona che si sente superiore. Si avvicinò attraverso i tavolini al suo,sulla strada. Era splendidamente normale, vestita con una giacca e un paio di jeans. Aveva i capelli corti e i suoi occhi glaciali di sempre.
“Pare che ti abbia trovata alla fine, Afrodite” disse. Era infuriata. Ma manteneva sempre il suo tono.
Afrodite sorrise per il suo acume superficiale. Atena si prendeva troppo sul serio. D’altra parte amministrare la Giustizia doveva essere un peso decisamente più gravoso che farlo con l’Amore. No?
“A cosa devo…?” Atena non sapeva se Afrodite stesse mentendo o meno. Non si ricordava a lungo fatti del genere. Ma era più insidiosa di quanto sembrasse. Ma Atena era infuriata.
“Mi stai prendendo in giro? Meglio di no. Non è il caso. No.” Afrodite sorrise. Non aveva dimenticato la cosa. Solo qualche secondo in ritardo pensò che con quel sorriso si era giocata la sua buona fede. Atena sapeva che lei sapeva. Ottimo.
Atena sospirò. Da un certo punto di vista, preferiva avere a che fare con qualcuno di consapevole.
Afrodite pensò per qualche secondo. Atena s’era innamorata di un paggio. Un bellissimo adolescente, mortale per metà. Per intendersi, Atena innamorata non è proprio un fatto da tutti i giorni. In pratica era accaduto che quel paggetto per errore avesse rivelato al marito di Afrodite di una sua certa scappatella con un certo dio della guerra. Afrodite irata aveva messo nel petto del paggetto un cuore di pietra, impedendogli così di amare. Per questo Atena l’aveva presa tanto a male.
“Andiamo, non mi sembra una catastrofe”
“Non lo è, sorella. Il problema sei tu.” Era la tipica teatrale predica della vecchia Atena. Il passo successivo sarebbe stato probabilmente un qualche insulto al lavoro di Afrodite.
“Ah-ah. Il problema,io?”
“Ti conosco da sempre, e non ti ho mai visto innamorata di qualcuno. Tu non sai niente dell’amore. Per questo i mortali sono tristi e tutto il resto. Sei pessima” Per quanto fosse fuori di sé, Atena non alzava mai la voce. Aveva occhi fiammeggianti, ma non alzava mai la voce. “Sai, ero davvero pazza di rabbia. Dico sul serio. Volevo fartela pagare, con l’aiuto del vecchio” il vecchio era Zeus. Questo era il problema di far arrabbiare Atena: Atena era la preferita del vecchio. “Però poi mi sono detta che dannazione, da bravo simbolo di giustizia dovrò darti una seconda possibilità, non credi?” una seconda possibilità. Un’alternativa a pulire stalle di re o costruire palazzi o a un mese in forma mortale.
“Il vecchio vuol bene anche a me. Non lascerà che tu mi faccia pascolare vacche o cose simili” Alla sola idea Afrodite si agitò.
“Tu porti sempre un sacco di guai. Non si farà problemi a metterti fuori uso per qualche tempo” Atena rise. Il cameriere portò il tè ad Afrodite che lo sorseggiò. Parve che in un solo momento di silenzio le due dee si riappacificassero. D’altra parte la scommessa era ancora più che valida.
“Spara, Atena. Cosa dovrei fare?”
“Trova due mortali perfetti, falli innamorare di un amore profondo e portaceli ad esempio. Voglio che tu mi dimostri cos’è l’amore e che esiste. Se non ce la farai, troverai molti re e molte stalle ad aspettarti”
“…Che è praticamente la cosa che faccio sempre,no? Trovare due mortali perfetti l‘uno per l‘altro…”.
Atena la scrutò,sopracciglio inarcato ed espressione dubbiosa in viso.
“Cazzo Af, ormai sono più i matrimoni che vanno in fumo che quelli che durano. Non dirmi che tu ti impegni davvero,in quel che fai”
“Non guardare me,tutti si affidano alla benedizione di un tipo che è morto in perizoma…”
Atena mantenne la sua espressione dubbiosa,ma preferì soprassedere.
“Insomma,lo farai?”
Afrodite mise il broncio e con gesti misurati portò la tazza alle labbra. Soffiò per qualche secondo,dopodichè bevve a piccoli sorsi. Atena la osservò,sempre più impaziente. Sapeva che era intenzione di Afrodite farla infuriare,ma proprio per questo non voleva dargliela vinta. Poteva anche compiere tutti i gesti vezzosi di questo mondo,per quel che le riguardava.
Finalmente Afrodite spostò gli occhi,nascosti dalle lenti scure,in quelli di Atena.
“Ok,perché no?” Sorrise.


Era da tempo,ancor prima della scommessa con Atena, che Afrodite aveva individuato due soggetti assolutamente compatibili. Esteticamente perfetti,interiormente sublimi: insieme avrebbero fatto scintille.
In realtà,qualche anno prima aveva compiuto un piccolissimo errore di calcolo e aveva fatto sposare lei con l’uomo decisamente sbagliato. Un salto dal vecchio Ade,e aveva sistemato tutto. E poi c’era chi diceva che non prendeva il suo lavoro sul serio.
Didone Stevens. Quella donna era veramente una perla rara. Coraggiosa,orgogliosa ma anche squisitamente dolce. Bella da impazzire,con un sorriso meraviglioso e almeno una quarta di reggiseno. Era una delle sue preferite.
Enea Bloom,un suo errore di gioventù. Ammesso che di gioventù si possa parlare,di un’immortale che trent’anni prima aveva semplicemente infiniti anni,anziché infinitissimi. Occhi azzurri,fascino da vendere,voce suadente,sorriso contagioso,personalità accattivante. Merda, non avrebbe mai capito perché diamine era diventato prete. Fato del cazzo. Sempre lì,pronto a distruggere i suoi piani.
Se non fosse sorto quell’ostacolo,probabilmente avrebbe spedito Eros e la sua pistola in missione molto prima. Aveva preferito accantonare il progetto,ma adesso la situazione richiedeva un piano d’urgenza. Non sarebbe mai finita ad ammassare mattoni come era successo a Pos e Apollo.
Chiuse la cartella “Archivio” in cui teneva i vari file,ordinati per affinità e ordine alfabetico (e poi c’era chi diceva che non prendeva il suo lavoro sul serio…) ,spense il MAC da lavoro e alzò la cornetta del telefono che teneva sulla scrivania. Compose un numero. Uno dei pochi che ricordava a memoria,senza il bisogno di consultare la sua agenda.
“Eros,tesoro,ho un lavoretto per te.”

Didone quel giorno era in ritardo. Da quando sua sorella Anna era partita per quel maledetto viaggio di lavoro con il suo capo,non c’era più nessuno che la svegliasse la mattina. E a poco erano servite le decine di sveglie che aveva comprato. Insomma,come poteva quel suono ridicolo riuscire seriamente a svegliare qualcuno?
E poi Anna non gliela raccontava giusta. Faceva la cameriera, perdio! Perché mai una cameriera dovrebbe andare una settimana ai Caraibi con il proprietario del ristorante in cui lavora? Un ristorante a cinque stelle,peraltro.
Certo,sua sorella si era sistemata decisamente meglio di lei,che ancora era in cerca di un editore intenzionato a pubblicare i suoi libri.
Il primo romanzo aveva riscosso un discreto successo,ma nonostante ciò la casa editrice non aveva accettato la pubblicazione dei suoi lavori successivi. Non erano all’altezza del primo,sostenevano. In verità lo sosteneva anche lei,ma si chiedeva anche se un bambino di quattro anni fosse capace seriamente di notare il calo di qualità. Cristo,doveva stare attenta anche ai critici letterari in fasce,ora.
Addentò il croissant scongelato a metà e,ancora semi-svestita, si precipitò giù dalle scale che conducevano dal suo appartamento al cortile comune. Dopotutto a quell’ora l’edificio era praticamente deserto. Erano tutti a lavoro.
Sperava seriamente che quella fosse l’ultima volta che usciva da casa a quell’ora. Voleva lavorare anche lei,cazzo.
Se anche quell’editore avesse rifiutato la pubblicazione,avrebbe accettato un qualsiasi impiego. Magari anche lei sarebbe potuta diventare cameriera. In un ristorante cinque stelle,possibilmente.


Adesso Didone stava tornandosene a casa. Odiava gli editori. Li odiava.
Aveva una macchinina piccola e scassata. Originariamente doveva essere di color panna, o forse gialla. Ad ogni modo non ce n’era più traccia. Didone era il tipo di persona che si affezionava alle cose. La situazione economica sua e di Anna non era poi disastrosa. Anna aveva quella sua bella monovolume francese. Ma lei adorava la sua macchinina bianca. Si trattava forse della creatura più sensibile mai nata. Inoltre usciva dalla più orribile orrenda esperienza della sua vita. Si era sposata con un certo uomo. Un uomo più vecchio. Certezza economica, affetto,eccetera eccetera. Inoltre Didone era una donna capace di amare chiunque e qualsiasi cosa. Non saranno stati Romeo e Giulietta, ma lei e S funzionavano. Questo per lo meno per quanto la riguardava. Didone non sapeva o aveva fatto finta di non sapere delle scappatelle del marito con questa e quell’altra segretaria. Le scappatelle di S, il bancario. Per quanto fosse una macchina scassata, Didone era stata convinta di amarlo. Erano passati sei mesi tredici giorni e un paio d’ore, siccome era accaduto verso le nove del mattino. Sei mesi, tredici ore e un paio d’ore prima Sicheo era morto. Non aveva mai conosciuto con certezza le circostanze della sua morte. Sicheo faceva il suo lavoro quando…sbem. Si era ritrovato morto. E Didone si era ritrovata vedova. Poi era tornata a vivere con Anna, e aveva ripreso a scrivere quegli sciocchi libri. Era strano essere vedove a 25 anni, ma Didone l’aveva sopportato, perché la gente era convinta che fosse forte. La verità era che non stava bene, ma tirava avanti, coi suoi libri, con Anna eccetera. Didone non lo sapeva, ma non avrebbe potuto sopportare un solo altro insuccesso.
La più banale delle suonerie Nokia squillò dalla borsetta. Odiava rispondere in macchina, ma aveva anche voglia di tornarsene presto a casa e di sentire Anna. Perché era certa si trattasse di Anna. Quindi afferrò il telefonino con la mano destra mentre continuava a guidare.
Ecco che per un momento Didone perde il controllo della macchina, sul suo viso è disegnata un’onesta espressione di stupore, data dalla certezza di quel che aveva visto. Pareva che non fosse Anna a chiamarla. Pareva che fosse Sicheo.
La macchina sbandò per una decina di metri. Fortunatamente la strada era semivuota. Nell’esatto istante in cui fu certa di aver ripreso il controllo della vettura, ecco uno strano gridolino stridulo, e un orribile rumore. Didone, aveva dei buoni riflessi. Accostò dopo pochi metri. Che spettacolo orrendo. Quella creaturina. L’aveva uccisa. Era filosoficamente sconvolta dall’idea di aver ucciso con le sue mani, con la sua macchina, un essere vivente, ed emotivamente per il terrore che il gatto potesse appartenere a qualcuno. Una parte di Didone si sentì incredibilmente sciocca, quando si scoprì a piangere disperatamente. Sembrava non riuscire a trovare una sola fottuta soluzione. Sembrava una catastrofe. Che razza di giornata, pensò. Che razza di giornata orribile. E la cosa successiva che le venne in mente fu. La chiesa.
Afrodite sorrise osservando la scena. Restituì il telefonino cellulare ad Eros che aspettava annoiato dietro di lei. “Questi esser umani” disse “sono proprio volubili. Potremmo far credere loro qualsiasi cosa. Sono noiosi. Vorrei fare qualcosa di nuovo, sai ma’” disse il ragazzino. Come ogni bambino, era interessato a fare il suo e tornarsene ai suoi balocchi.
“Eros, tesoro. Se c’è una sola cosa imperfetta in tutti noi è che non possiamo decidere quello che siamo. Quindi adesso piantala” Eros sbuffò, trasse dalla fondina la pistola e ne tolse ognuno dei proiettili d’oro. Poi li allineò per terra. Preso il sesto proiettile e lo rimise nel tamburo. Con una mano davanti agli occhi sparò dal palazzo.
In quell’esatto momento John il parrucchiere, che tutti avevano sempre creduto gay, scoprì d’essere innamorato follemente della fioraia Mimì, a due isolati di distanza. Inutile dire che Afrodite s’arrabbiò non poco.


I preti sono uomini la cui caratteristica più importante è quella di poter essere riconosciuti pure a notevole distanza.
L'aria distinta, l'espressione da pace interiore, la calma della loro voce, la sensazione di averli già incontrati, tutto questo li contraddistingue. Come l'odore di incenso che solitamente volteggia loro intorno.
Non appena Didone entrò nella chiesa (passo stabile, mano leggermente tremante) si diresse senza esitazione verso l'uomo che incarnava tutte quelle caratteristiche.
Si sentì un po' consolata. Quell'uomo sembrava davvero stato baciato da una qualche forza divina.
La Grazia con cui teneva la mano a quelle fedele non aveva nulla da invidiare a quella di una colomba che si posa su un ramo.
La Protettività con la quale la guardava poteva competere con quella della più dolce madre.
La Passione con la quale baciava quella fedel-
E fu qui che, stranata, Didone si accorse che qualcosa non andava.
Con la scusa di guardare meglio il pulpito della Chiesa si avvicinò meglio alle due figure, e capì che quel giorno qualcosa avrebbe dovuto succedere quando realizzò che l'uomo che aveva scambiato per prete in realtà era John. E cosa ancora più spaventosa, stava baciando una donna.
Riuscì ad alzare gli occhi dall'Amorosa Visione non appena sentì la mano sulla spalla.
"Non è bello assistere al trionfo del Signore?"
Fu così che lei si voltò e lo vide. Se avesse saputo a cosa avrebbe portato quel semplice gesto, probabilmente avrebbe sfoggiato una mossetta alla Marylin Monroe o un sorriso alla Sofia Loren. E invece niente. Era lì struccata e con la faccia ebete di chi ha visto un prete un po’ ambiguo baciarsi con una ragazza in chiesa.
“Salve.” Disse lui. Aveva occhi vitrei. Aveva l’aria serena e trasognata. “Come posso esserle utile?”. Didone non ebbe il tempo di sentirsi fuori posto. L’espressione da pace interiore di lui l’aveva colpita e affondata. Colpita e affondata. Doveva avere sui trent’anni, ma aveva il viso di un bambino. Probabilmente per questo motivo teneva un po’ di barba, cosa inconsueta tra i preti. Ecco, dannazione, si disse. Mi sono presa una cotta per il prete. Pochi secondi dopo si ricordò di essere disperata. Spostò lo sguardo fino a fissarsi i piedi.
“Io-io credo di dovermi confessare. Non mi sento apposto, capisce? Credo di dovermi confessare”
Il prete sorrise. Era molto dolce.
Lui la guardò. Si era trovato davanti una splendida e disperata donna bionda. Aveva occhi neri piccoli e profondi, e labbra perfette. Era talmente disperata da non poter escludere che avesse compiuto qualche atto orribile. Ma non era possibile che una donna con occhi come quelli potesse…
“Preferisce che andiamo in confessionale? O se vuole possiamo starcene anche qui” sfoggiò un sorriso ammaliante. Didone gli disse che una stanzina stretta l’avrebbe soffocata. Allora i due si sedettero sull’ultima panca della chiesa e parlarono un po’.
“Vogliamo cominciare con un atto di dolore?”
Didone alzò gli occhi. Si era confessata per l’ultima volta a 12 anni. Sua madre era un tipo determinatamente religioso. Quando il prete le aveva chiesto quali fossero i suoi peccati, Didone era scoppiata a piangere. Probabilmente per questo motivo Didone non si era confessata più. Ad ogni modo riusciva a ricordare che ci fosse una preghiera da recitare prima della cara confessione. Ma non aveva idea di quali fossero le parole.
“E’ molto che non entra in una chiesa, vero?” Didone sorrise, imbarazzata. Enea si rese conto di non poter sopportare il suo sguardo infelice.
Quanto dura una confessione?
Didone doveva recuperare quattordici anni di confessioni mancate. Così si ritrovarono alla fine della loro conversazione all’incirca due ore dopo. E il tempo era passato così in fretta da non accorgersene. Didone non aveva più il viso arrossato né gli occhi rossi quando guardò l’orologio. La verità era che aveva passato le due ore più piacevoli della sua intera vita. Enea era acuto e si comportava come un taciturno in una buona giornata. Sembrava che avesse sempre qualcosa da dire. Amava il cibo italiano ed era d’origine nordica. Le aveva detto che sembrava troppo giovane per essere già vedova. Aveva fatto anche qualche battuta sui cattolici. Didone era totalmente presa, da questo nuovo personaggio.
“La morte di mio marito e tutto il resto… mi è venuto spontaneo… secondo lei avvicinarmi alla chiesa potrebbe aiutarmi?”
“E’ un po’ come chiedere a un venditore porta a porta se crede si abbia bisogno di un aspirapolvere” Didone rise. Non rise forte. Era una cosa a metà tra un sorriso e una risata. Dimostrava tanto rispetto per il posto in cui si trovava, per quanto palesemente non le importasse niente della religione. Aveva bisogno di un’analista gratis, come la maggior parte dei cosiddetti cattolici. Ma Enea si disse che non ci sarebbe stato nulla di male nel rivederla. “Se ci vedessimo per un caffé e ne parlassimo?”
Didone annuì. Ebbe una fantasia di lei che scriveva il suo numero si telefono sulla copia del vangelo di fratello Enea. Decisero il posto e l’ora e Didone, di ottimo umore, andò a fare la spesa.

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Capitolo 2
*** Part II ***



2


And so it is
Just like you said it should be
We'll both forget the breeze
Most of the time
And so it is
The colder water
The blower's daughter
The pupil in denial

I can't take my eyes off of you


The Blower's Daughter-Damien Rice


Un appuntamento con un prete. Non riusciva a capire se avrebbe dovuto riderci su o cosa. Aveva passato più di un’ora a frugare nel suo armadio,come non faceva ormai da…No,nemmeno per Sicheo era mai arrivata a tanto. Quella situazione le ricordava tanto il suo ballo di fine liceo,in realtà.
Aveva subito scartato i vestiti troppo scollati o troppo eleganti. Avrebbero potuto metterlo in imbarazzo.
Ma non era nemmeno il caso di vestirsi in modo troppo castigato: sarebbe sembrata un po’ una presa in giro. Optò per un look classicamente casual, adatto per un appuntamento con un prete.
Basta, avrebbe dovuto smetterla di ripetere quella frase nella sua testa. Non era nemmeno un appuntamento,poi. Solo un caffé. Una cotta del genere era anche comprensibile e quasi pateticamente scontata. Una vedova e un prete che le offre conforto. Lei si invaghisce di lui,pensando chissà cosa,ma il tutto si risolve in un buco nell’acqua. Insomma,tutti i preti offrono conforto al prossimo. E’ una sorta di must.
L’importante era non approfondire troppo la faccenda.
Una rapida occhiata all’orologio,e Didone si rese conto che se avesse tergiversato ancora non avrebbe fatto in tempo a prendere la corriera giusta. Per la seconda volta in una giornata si precipitò giù per le scale,scarmigliata,ignorando gli sguardi in tralice dei suoi condomini.
Davanti il bar,immediatamente si pentì della sua scelta di non truccarsi. Qualche ora prima,per lei,i preti erano ometti paciosi dalle guance rosee e la pancia prominente. Si era ricreduta,quando aveva conosciuto Frate Enea. Ora doveva ricredersi nuovamente dalla convinzione che non lo avrebbe mai visto senza la tonaca sacrale. Da quel poco che sapeva di Chiesa e frati, era convinta che un prete non potesse vestire abiti civili. Ebbene,gli abiti che indossava Enea erano molto più che civili.
Giacca nera su pullover bianco. Un paio di jeans sdruciti e scoloriti. Un estraneo avrebbe potuto tranquillamente scambiarlo per un semplice uomo in attesa di qualcuno,se solo una piccola spilla dorata a forma di croce non fosse lì,in bella mostra,pronta a rivelare tutta la verità,nient’altro che la verità,amen.
Aveva già preso posto in un tavolino all’aperto del bar che avevano scelto,e con lo sguardo assorto e le gambe accavallate scrutava i passanti. Quando la individuò,la accolse con sorriso smagliante. Didone si ritrovò a pensare che,cazzo,avrebbero dovuto fare una cernita e vietare agli uomini capaci di sorridere in questo modo di esercitare la professione di prete. Ricambiò il sorriso,e si accomodò. Con suo sommo stupore,notò che Enea era perfettamente a suo agio,anche in quel frangente. Probabilmente lui,a differenza di lei,non aveva passato le ultime due ore a interrogarsi su quanto fosse giusto incontrarsi. Era solo un dannato caffé,diamine. Sarebbe stato meglio ficcarselo in testa. La discussione si sarebbe risolta in un “Che cosa prende lei?” o “So che qui il sorbetto è divino.” In fondo avevano parlato due ore e più,cos’altro avrebbero potuto dirsi? Certo che lui era un uomo così interessante. Per quanto le riguardava,avrebbe potuto benissimo sentirlo parlare per giorni.
“…e così mio padre,quando ha saputo che volevo entrare in seminario,ha fatto una scenata assurda. Ti giuro,il vecchio Anchise ha dato di matto…”
E anche qualcos’altro,se possibile. Didone osservava rapita le labbra di lui aprirsi e chiudersi e le mani gesticolare in modo concitato ma composto. Sottolineava ogni concetto con un piccolo pugno della mano destra sul palmo della sinistra. Con un carisma del genere,se non fosse stato prete sarebbe stato di certo un politico,un condottiero o qualcosa del genere. Didone si ripromise di andare ad ascoltare una sua omelia,la domenica successiva.
"E... dimmi un po' di te. E' per questo che siamo qua, no?"
Didone fu colta di sorpresa da queste parole. "E' per questo che siamo qua". Lui forse. Ma lei perchè era là esattamente?
Cercò di scacciare gli infausti pensieri con un sorriso, che Enea accolse molto volentieri, anche se questo lei non lo notò. O forse sì, ma fece di tutto per fare a finta di non averlo notato. Didone Stevens, in quel momento, era divisa in due.
"Vorrei sapere qualcosa in più su di te, se non ti dispiace"
Persino lei si meravigliò della sincerità con cui le uscirono quelle parole. Forse quelle erano davvero le prime parole totalmente sincere che diceva da mesi. Dalla morte di Sicheo, per essere precisi.
Enea sorrideva,trovava assolutamente adorabile e deliziosa quella donna. Se avesse potuto, l'avrebbe presa con sé per conservarla nella sua credenza, insieme al servizio da tè Ginori e alle porcellane più belle.
Se mai avesse dovuto dare un volto alla dolce rubacuori Lili Marleen, beh, avrebbe scelto quello di Didone Stevens.
Enea adorava il congiuntivo, il tempo dell'Irrealtà.
E fu per scongiurare questa Irrealtà che prima o poi l'avrebbe divorato, che rispose.
"Beh, sono qui da poco. Prima ero in Africa. E prima ancora in Bangladesh. Ho viaggiato molto"
"Ma è assolutamente meraviglioso! Come missionario?"
"Già. Io lo trovo assolutamente meraviglioso. Aiutare la gente è ciò che amo fare, e se Dio mi ha dato la possibilità di viaggiare voglio sfruttarla al meglio per fare del bene ovunque, ovunque io possa arrivare. Credo che ogni uomo dovrebbe pensarla così, e…"
Enea arrossì un po'. Si era spinto troppo in là, forse.
Didone se ne accorse e lanciò la fune.
"Sai... Lo credo anch'io."
Sorriso.
E lo sventurato la raccolse.

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Capitolo 3
*** Part III ***


3

Something unusual, something strange
Comes from nothing at all
But I'm not a miracle
And you're not a saint
Just another soldier
On the road to nowhere
Amie - Damien Rice





Tornato in Chiesa tutto, dal turibolo ai mazzi di gelsomini che abbellivano la Chiesa, gli sembrava insopportabile.
Aveva voglia di muoversi, di correre, di far perdere l'occhio su sterminate distese di nulla.
A destra. Un Cristo crocifisso perdonava gli uomini.
A Sinistra. San Sebastiano lentamente moriva, la freccia nel petto.
Davanti. Una Madonna col Bambino lo guardava serena.
Ecco, aveva bisogno di quello. Un po' di serenità.
Perchè Enea era turbato, agitato, come i bambini che la sera si rendono conto di non avere ancora fatto i compiti. E lui i suoi compiti li aveva fatti. Tutti e bene, da uomo ligio al dovere e diligente qual era. Eppure era turbato.
Se lo avesse raccontato alla Perpetua,sicuramente lei avrebbe dato la colpa al caffé. Il caffé, un intruglio distillato direttamente dalla bocca del Diavolo. Questo avrebbe detto lei, e lui avrebbe potuto congedarla con una sonora risata, dirle “Forse hai ragione tu“, e ritirarsi nel suo studio.
Se solo fosse stata lì, le cose sarebbero andate così, ma fatto sta che non c'era.
E non riusciva ad autoconvincersi che la colpa fosse del caffé.
Da quanto tempo non guardava una donna in quel modo?
Da quanto tempo non pensava a certe cose?
Preparare la messa per il giorno successivo,recitare le preghiere serali,organizzare partitelle di calcio per i ragazzi dell’oratorio,fare volontariato. Da anni,la sua vita era ridotta a questo. Non che gli fosse mai dispiaciuto. Amava la vita che conduceva. La vita che aveva scelto.
Ed ora un paio di occhi neri e una chioma di capelli biondi spettinati lo stavano…distraendo. A causa loro stava distogliendo la sua attenzione dalle cose veramente importanti. Osservò con gli occhi sgranati ed impauriti l’altare. Tutte le cose che conosceva e amava erano lì: il corpo di Gesù,conservato nell’abside. Il calice dentro cui il Salvatore aveva versato il suo sangue,per il bene di tutta l’umanità.
Sospirò. Era ora di andare a letto,l’indomani si sarebbe dovuto svegliare presto.
Fece il segno della croce e si voltò verso l’uscita. Aveva mentalmente fatto voto di non toccare il telefono,per le prossime due giornate. E anche di bruciare il foglietto nella sua tasca che ancora odorava del profumo di lei. Lo afferrò e se lo rigirò tra le mani. Aveva una scrittura aggraziata e tendeva a scrivere gli otto e i tre in modo molto simile. Lui,ridendo,aveva dovuto chiedere ulteriori chiarimenti. In quel modo avrebbe rischiato di chiamare,chissà,un ospizio o qualcosa del genere. Ed era sua precisa intenzione sentire lei,aveva specificato. E aveva visto le sue guance arrossarsi,e si era bloccato. Era abbastanza. Osservò il nome,tratteggiato con grafia concitata: Didone. Rivolse nuovamente lo sguardo all’altare,e al Cristo crocifisso. Ancora un sospiro,ancora un segno della croce e una richiesta a Dio. Perdono e comprensione,grazie.
Piegò con cautela il foglietto e lo ripose nella tasca interna della sua giacca.
Quel voto,doveva ammetterlo,era proprio impossibile rispettarlo.

Aveva le farfalle nello stomaco,maledizione. E le farfalle,per quel che le riguardava,dovevano stare sui fiori. Non nel suo stomaco. Non era proprio il caso,ecco. Era una giovane vedova disperata. Ma da quando le giovani vedove disperate sono così felici? Non riusciva a disfarsi del sorriso che,impertinente,insisteva nel rimanere stampato sul suo viso. Il profumo di dopobarba,che aveva sentito quando lui le si era avvicinato per farle assaggiare il gelato al limone che aveva ordinato,ancora la inebriava. Davvero squisito,aveva detto. Vuoi provarlo? Aveva chiesto. Peccato si fosse concentrata più sul sapore del cucchiaino in sé che su quello del gelato. Confermo,è squisito,aveva risposto lei. (Aveva davvero formulato il pensiero “bacio indiretto”? Dio Cristo,sperava seriamente di no).
Girò due volte la chiave nella toppa ,e spinse il portone che non si mosse di un centimetro. Eppure era sicura di aver chiusa la porta con due giri di chiave. Non poteva crederci. Girò nuovamente la chiave,e questa volta l’uscio si aprì docilmente.
Le luci erano tutte spente,ma notò un bagliore provenire dal soggiorno: la televisione.
“Anna!”
Sua sorella era seduta sul divano,e osservava una televendita in televisione. Aveva tolto l’audio.
“Anna?”
“Dee…” si voltò verso di lei,e la poca luce generata dalla tv rivelò un volto inondato dalle lacrime. “Jack mi ha mollata!”
Se non altro,tutti i suoi dubbi erano stati dissipati. Suvvia,come poteva Anna credere davvero che sua sorella si sarebbe bevuta una storia come quella che le aveva propinato? Non riusciva a capire il perché le avesse mentito,in realtà. Probabilmente non voleva sbatterle in faccia la sua felicità,dopo quello che era successo a Sicheo. Bè,adesso Didone avrebbe dovuto usare la stessa premura nei suoi confronti. Le avrebbe parlato di Enea in un altro momento.
Anna si era tranquillizzata solo dopo una doppia razione di gelato al cioccolato. Con il vasetto tra le ginocchia,avevano passato un’ora a parlare di quel che era successo. Prima,durante e dopo l’abbandono,naturalmente. A quanto pare era un uomo sposato,Jack. Doveva essere una caratteristica di famiglia,il prendersi cotte per gli uomini decisamente sbagliati.
“Hai sentito Pigmalione mentre ero via?” Loro fratello Pigmalione. Altra bella spina nel fianco,si era rivelato. Aveva sempre avuto un rapporto a dir poco pessimo,con suo marito Sicheo. E da quando questi era morto,sembrava sparito dalla circolazione. Aveva spedito un telegramma di condoglianze e poi adios. E Didone non era poi tanto sicura si trattasse di una coincidenza. Conoscendo quel paranoico di suo fratello,probabilmente era emigrato chissà dove temendo di finire nella lista dei sospettati per la morte di Sicheo. Lista inesistente,peraltro.
“Macchè. Si è dato alla macchia. Ma Robert mi ha detto che la scorsa settimana lo ha sentito via sms. Stava bene.”
“Carino da parte sua ignorarci. Deve aver perso i nostri numeri.” ironizzò Anna.
“Già” convenne Didone. Ma alle parole numero e perso,un nuovo timore si impossessò di lei. No,dai,aveva visto lei stessa infilarsi il foglietto con il suo numero di cellulare in tasca. L’avrebbe telefonata,aveva detto.
“Allora?Chi è lui?” Anna interruppe il corso dei suoi pensieri.
Cavolo,odiava essere un libro aperto per sua sorella.
“Lui chi?”
Anna non le somigliava per niente.
In primo luogo ave a una cura maniacale per i suoi capelli. Splendidi capelli mossi, castano chiaro. In secondo luogo non ci aveva neanche mai pensato, a sposarsi, per quanto sostenesse d’esser stata innamorata ogni giorno della sua vita. Amava i Genesis. Aveva studiato poco, e se n’era andata via di casa presto. Era un tipo impulsivo. Didone immaginò che Jack le avesse fatto qualche sciocco torto, e si fosse infuriata. La gente non capiva che Anna infuriata non voleva dire niente. D’altra parte Anna faceva spesso paura. Per questo Didone ora stringeva forte al petto la sua borsa color panna. Non era mai stata capace di mentirle.
“Ora, Dee. Da quanti anni mi nascondi gli appuntamenti?” Didone esitò “All’incirca da una decina d’anni. Oddio un po’ meno. Hai aspettato un bel po’ per avere il primo appuntamento, no? Ricordo bene? Ora,mi stai dicendo che in dieci anni non hai capito che stringere la borsa a te è un segnale evidente che a) stai uscendo con qualcuno; b) stai uscendo con qualcuno di cui non vuoi che io sappia? Insomma, mi pare abbastanza evidente”
Anna si alzò. Era in vestaglia, con del liquore in un grosso bicchiere in mano. Aveva sempre bevuto un po’. Didone appariva turbata.
“E tu? Vuoi parlarmi un altro po’ di Jack?”
“Non cercare di prendere tempo, sorella. Posso restare sveglia due giorni di fila se voglio e tu… tu non resisterai.” Didone rise. Sua sorella la faceva ridere, anche se non era certa si trattasse di uno scherzo.
“Ascolta Anna.” Le disse “io adesso andrò a farmi una doccia. Sono di pessimo umore. Fai quel che vuoi con la mia borsa e il suo contenuto. Trai le tue contorte conclusioni. Ma non dirmele, ok? Voglio che tu non mi dica niente”
Anna sorrise e annuì. Era una promessa che non avrebbe mantenuto. Anche Didone lo sapeva.
Due minuti dopo l’acqua scrosciava nella piccola doccia mattonella in blu. Anna non sapeva se gridare o mettersi a ridere.
“Stai uscendo con un prete?” sentì strillare Didone.

Afrodite era un po’ stanca. Aveva scelto l’unica tipologia d’esseri umani capace di provare il vero amore, ma anche la più lenta categoria d’amanti. Annoiata dalla situazione stagnante, e senza curarsi dell’evidente limite che impediva ai due una veloce intensa infatuazione, aveva lasciato il pargoletto Eros nel loro rifugio (la stanza 101 dell’hotel più carino che aveva trovato) e si era travestita da mortale, prendendo le sembianze di una seducente, voluttuosa rossa. Continuò a passeggiare tranquillamente, finché Lei non le comparve di fronte. La chiesa. A volte guardandola si chiedeva come potessero i mortali essere tanto stupidi. Oppure non lo erano. Ma non aveva voglia di pensare. E così stava per entrare dentro di Lei, quando avvertì una voce. La sua sembianza umana le impediva di capire chiaramente il significato di quelle parole. Ma era fin troppo evidente di chi si trattasse.
Sorrise. Sbuffò.
Tornò a prendere il suo aspetto,quando quel bel forte braccio la cinse. Lui la baciò. A volte le sembrava che lui fosse troppo violento. A volte le sembrava di starsi svendendo. Ma Ares era perfetto. Che poteva farci?
“Pare che sei ancora qui” disse lui. Aveva la voce roca e un tono ironico.
“Pare che sia ancora qui. E tu che ci fai?”
“Mi mancavi” Afrodite sorrise. Pensare che quello non era neanche suo marito. Per la prima volta pensò a lui, e alla sua squallida fucina con quelle armi e il fuoco e il resto. Provò pietà per lui. Ares la baciò ancora con rinnovato impeto.
“Potresti smetterla con questa buffonata” disse.
“E’ una scommessa. Vuoi vedermi spalare letame? Spalare merda? Vuoi spalare merda con me, tesoro?”
“Oh si. Starò lì e ti fisserò mentre lo fai e mi sganascerò dalle risate. Sarà piacevolissimo, piccola”
Stava ancora tra le sue braccia e capì tutto dal modo in cui rideva.
“Sei serio?” si allontanò. Lui la fissò. “Sei serio. Non credi che vincerò la scommessa. Per questo vuoi che lasci. Non perché pensi che tua sorella mi lascerà stare. Perché pensi che non ce la farò comunque”
Ares rise
“Dai piccola, non prendertela. Non è certo colpa mia se i mortali non sanno che significa amare”
“Perché tu lo sai? Tu lo sai da non mortale cosa significa?”
“Oh piccola, almeno io so che l’amore non esiste. Questa gente ci crede ancora.” Ares non era abbastanza sveglio da capire di star offendendo, in primo luogo la loro stessa relazione, e in secondo il valore e l’utilità del lavoro di Afrodite.
“Tornatene a casa.”
“Cosa?”
“A casa” scandì “Non voglio vederti. Vattene”
“Ah-ah. Che hai intenzione di fare ora? Entrare in una fottuta chiesa? Convincere un fottuto prete a scoparsi una biondina?” Ares stava gridando. Afrodite ringraziò che le altre persone non potessero sentirlo.
“Esattamente. Vattene, violento bastardo” Ares era paonazzo. Afrodite aveva ripreso forma mortale ed era entrata nella chiesa. Ares non ebbe voglia di seguirla e così se ne tornò da dov’era venuto.

Con le sembianze della bella rossa prosperosa, Afrodite ancora fuori di sé e orrendamente irritata, entrò a passo sicuro nel terzo confessionale dall’entrata. Si sedette. Sospirò. Silenzio.
Un uomo entrò dalla porticina. Poteva vedere i suoi occhi blu attraverso la grata.
“Padre. Devo confessarmi”
Enea pensò che fosse strano. Due donne trafelate e con una grande necessità di confessarsi in meno di una settimana.
“Dimmi pure” aveva capito che le preghiere non erano il punto forte di questo tipo di fedeli.
“Lei deve…deve ascoltarmi io…” Povera pecorella, pensò Enea. Cosa diavolo le sarà accaduto?
“Si calmi” disse “Si calmi. Lei mi sembra la donna più pentita del mondo. Pentirsi è alla base di tutto”
“Vede” incalzò la rossa. Ora che ci pensava, Enea non ricordava d’averla mai vista prima. “Vede io sono sposata. Ma mio è marito è… ommioddio. Mio padre ha fatto pressioni perché ci sposassimo. Lui è un brav’uomo ma io…no, capisce? E c’è quest’uomo… io non volevo, capisce? Ma io lo amo, capisce?” Enea era colpito. Solitamente le persone non erano davvero sincere in confessionale. Questa donna, era straordinariamente limpida. Piangeva lacrime vere. E gli aveva detto la verità. Nessuno parlava di peccati seri, nel suo confessionale.
“So che è strano venire qua e parlarle d’amore. Io lo amo. Lo amo.”
“Mi pare che pentendoti tu…”
“Io non sono affatto pentita” Enea rimase sbigottito. Le lacrime dicevano il contrario. “Io so perfettamente, che non sarebbe potuta andare altrimenti. E non vorrei nemmeno che lo fosse.”
Enea si sentì a disagio. Aveva voglia di chiederle quale forza la portasse a dire certe cose, ma il timore di conoscere la risposta lo fermò.
“Che altro avrei potuto fare? La prima volta, lui mi ha portata in un caffé da queste parti. Un posto delizioso con un sorbetto fantastico. E poi la seconda volta, quando ho capito di amarlo veramente, eravamo in un parco. Aveva fatto lui dei tramezzini.” Una parte di Enea voleva chiederle ‘dove?’, l’altra si domanda il perchè rivolgerle una domanda simile.
“Dove?” La donna rossa si stupì. Uno strano sorriso si dipinse sul suo volto.
“A due ore di macchina di qui, inizia la campagna. In direzione ovest, ci sono un gran numero di stradine sterrate. La prima stella a destra e poi dritto fino al mattino.” Abbassò il tono di voce, che si fece sognante “Ci sono dei prati e delle caverne antiche. È il posto perfetto per un pic-nic. È quello che abbiamo fatto, un bellissimo pic-nic.” Ci fu qualche secondo di silenzio. La ragazza sospirò e ringraziò fratello Enea.
“Grazie d’avermi ascoltato.” disse.
“Non mi pare d’aver risolto nulla.” rispose lui sorridendo.
“Almeno adesso ho preso una decisione, le pare?” e se ne andò. Enea si sedette e recitò una qualche preghiera. Dette una sbirciatina al sole al di là delle finestre. Non riusciva a togliersi della mente l’idea di un dannato pic-nic.

Ad Afrodite era tornato il buonumore. Fregare un mortale era più divertente di molte altre cose. Ad esempio, parlare d’amore con Ares. Pensò che aveva generato un figlio sciocco, ma buono e che grazie a lui avrebbe vinto la scommessa. Alla fine del quarto giorno, Afrodite si sentiva ottimista.



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Capitolo 4
*** Part IV ***


4



And I die when you mention his name
And I lied, I should have kissed you
When we were runnin' in the rain
Cheers Darlin’-Damien Rice





“E’ un prete,Didone”.
Anna era appoggiata alla porta,braccia conserte,e osservava la sorella sistemare delle bottiglie di acqua in un cestino. Lei doveva portare solo bibite,avevano deciso. Avrebbe cucinato lui.
“Dee,mi ascolti?”
Attese una qualche reazione ma Didone continuava a sistemare quelle maledette bottiglie con cura maniacale. Lo sguardo di Anna si raddolcì.
“Tesoro,io lo dico per te. Dimmi che tieni dei santini in borsa perché improvvisamente hai avuto una rivelazione o una cosa del genere. Dimmi che ora ti vedrai con quel prete e parlerete di parabole e del mistero della Santissima Trinità o che so io...”
Didone sollevò il viso con l’intenzione di zittirla con uno sguardo gelido,ma l’unica cosa che Anna vide fu lo sguardo di una donna troppo felice,per risultare minacciosa.
“D’accordo,ho afferrato. Cerca almeno di non innamorartene,ti prego.” Didone continuava a non rispondere. “Ehi,Dee?”
Una lacrima fece capolino sulla guancia di Didone che continuò imperterrita a sistemare le bottiglie. Le aveva già tolte dal cestino e rimesse daccapo due volte,da quando era iniziata quella conversazione. Gli occhi inondati dalle lacrime ma il sorriso ancora presente sul viso,Didone si voltò nuovamente nella direzione della sorella.
“Troppo tardi,temo”. Tra i singhiozzi,Anna faticò a comprendere quelle uniche tre parole. Afferrato il senso,si portò teatralmente una mano sulla fronte.
“Piccola,tu sei tutta matta.” e l’abbracciò. E Didone continuò a piangere. E diceva che le dispiaceva per Sicheo,per Anna,per Enea che non avrebbe mai potuto ricambiarla. E piangeva con la testa sulle spalle della sorella,e frasi inarticolate andarono a mischiarsi ad altre di senso compiuto.
Anna cercava di tranquillizzarla,e le diceva che sarebbe andato tutto bene,e che lei era più forte di questo. Ma Didone sapeva che la forza non c’entrava nulla,in quel frangente.
“Cazzo Anna,riconosco i segni dell’antica fiamma.”

Tutto era come la rossa l’aveva descritto.
A due ore di macchina di qui, inizia la campagna. In direzione ovest, ci sono un gran numero di stradine sterrate. La prima stella a destra e poi dritto fino al mattino.
Mentre Didone sistemava la tovaglia e le posate e tutto il resto, Enea si sdraiò sull’erba morbida, accanto a lei e fissò il sole perfetto e si sentì in pace col mondo.
Didone appoggiò un tramezzino sul suo stomaco. Lui sorrise e lo addentò.
Il viaggio era stato piacevole. Didone aveva raccontato ad Enea di lei al College, di tutti quei ragazzi pazzi e del matrimonio.
“Mi stai dicendo che hai lasciato perché dovevi sposarti?” aveva risposto Enea al posto di guida. Didone aveva annuito timidamente. “Accidenti avreste potuto aspettare qualche anno.” Se da una parte l’intimoriva, il fatto che Enea fosse prete gli consentiva di dire sempre la sua cristallina opinione, anche a costo di sembrare moralista. Didone apprezzava questa franchezza leggera e cortese.
Qualche ora dopo, sorseggiando dell’acqua naturale, Enea prese coraggio
“Sono stato sposato anch’io una volta.”
Didone era interdetta.
“Pensavo che i preti si arruolassero da bambini”
“I preti si arruolano sempre. E per passare l’esame basta cavarsela col latino” Enea ammiccò e Didone sorrise.
Didone bevve e la sua espressione tornò seria. Enea la fissò e capì che voleva che andasse avanti.
“Tempo fa avevo una moglie. Abbiamo anche avuto un bambino. Sembra molto tempo fa, a parlarne, ma alla fin fine non è così.”
Quando avevano chiesto a fratello Enea perché volesse farsi monaco, aveva risposto di aver avuto una cosiddetta illuminazione.Quattro o cinque estati prima, fratello Enea non era altri che Enea Bloom, avvocato d’ufficio. Sua moglie era stata una compagna di College, iscritta alla facoltà di Storia dell’Arte. Si erano innamorati e sposati a appena venticinque anni.
Due anni e tre mesi dopo Creusa, la moglie, aveva scoperto di essere incinta.
Due anni e otto mesi dopo il loro matrimonio, durante una gita in montagna, un camionista un po’ brillo aveva travolto la macchina di Enea, mentre i due quasi neogenitori, canticchiavano Behind Blue Eyes, mentre l’ascoltavano alla radio.
Il corpo di Enea fu sputato fuori dall’abitacolo. Creusa finì nel baratro.
Enea si era risvegliato giorni dopo in un letto d’ospedale. Sua moglie non era morta, e neanche il suo bambino. Sua moglie e il suo bambino stavano morendo. In quel momento, Enea si era ricordato di sua madre. Sua madre era una bella donna bionda con un sorriso dolce, per quel che ne sapeva. Una cattolica. Sua madre aveva abbandonato Enea e suo padre, quando aveva undici anni. La cosa non aveva mai gravato troppo sulla sua psiche. Il padre di Enea era un uomo meraviglioso. Il pensiero di sua madre portò inaspettatamente il laicissimo Enea a pregare. Enea promise a Dio che se avesse salvato sua moglie o suo figlio sarebbe diventato prete.
Creusa morì sette ore dopo, ma i medici riuscirono a farle dare alla luce il suo bambino di otto mesi.

Didone fissò ammirata quell’uomo. Era splendido con gli occhi lucidi di pianto.
“Non ne avevo mai parlato a nessuno” ammise teatralmente. Poi la fissò. Un paio di lacrime le avevano attraversato il viso. Enea capì che lei stava capendo. Questo fece spazio a una nuova sensazione di pienezza. Che si mutò in un dolore improvviso. E mentre la sentiva cambiare discorso e parlottare di sua sorella, coi capelli sciolti e i jeans e la camicetta a righe bianche e rosse non poté far altro che ammettere di essere innamorato di lei. E anche di essere terrorizzato.

Da lontano Afrodite li osservava col suo binocolo, e rideva tra sé. Aveva scelto due esemplari perfetti. Era fiera di sé stessa. D’altra parte il tempo stava per scadere. Decise di chiedere un piccolo favore al suo vecchio preferito.
Il vecchio era occupato. Il vecchio si trovava a Rio de Janeiro e sorseggiava un drink rosso, fissando bellissime donne dalla pelle color cioccolato al latte. Ovviamente non aveva davvero l’aspetto di un vecchio. Al contrario. Sembrava un giovane uomo stabile e rassicurante.
“Ehi, bellezza” disse vedendola “Pensavo che fossi occupata, al momento”
“Certamente” rispose Afrodite “Più di te, caro mio”
“Ci pensa già mia moglie, piccolina. Ti prego và al sodo e chiedimi quel che vuoi chiedermi” Afrodite sorrise. Zeus non era esattamente suo padre. Il loro legame di parentela non era chiaro a nessuno. Ad ogni modo lei apprezzava il suo sarcasmo e il modo rassegnato di approcciarsi ai suoi parenti. Accadeva raramente che qualcuno di loro gli facesse visita senza volere qualcosa. Ed Afrodite voleva qualcosa.
“Voglio che piova.”
“Sii più chiara, piccolina. Come vedi non mi sto occupando dei vostri affari”
“Sai benissimo di cosa parlo” spesso Zeus faceva finta d’ignorare la sua onniscienza. Era un tipo infantile.
“Farò piovere sui tuoi due innamorati” Afrodite lo fissò, era il suo modo per dire grazie. Le venne da ridere.
“Atena aveva detto che è la tua preferita e non mi avresti aiutata”
“Vedi, piccolina, Atena” rispose, con una cadenza lenta “spesso è un po’ troppo onesta”

Le prime gocce atterrarono sulla testa di Didone,che nemmeno le notò. Fu Enea,leggermente accigliato,a farle notare i nuvoloni grigi che si avvicinavano da dietro le montagne. Eppure tutte le previsioni del tempo che avevo visto,ed erano tante,concordavano sul fatto che il sole avrebbe brillato per almeno tutta la settimana seguente e che la temperatura non sarebbe scesa sotto i venti gradi. La pioggerellina che avevano deciso di ignorare,prestò si trasformò in un acquazzone e i due dovettero decidersi a prestarle attenzione. Raccolsero in fretta e in furia le varie vivande e,coperte entrambe le teste con la tovaglia,si interrogarono sul da farsi. Andare a prendere l’auto era fuori discussione: avevano parcheggiato a circa due chilometri di distanza,dove finiva la strada. Enea fece mente locale,ricordando le parole della donna nel confessionale.
“Da qualche parte dovrebbe esserci una qualche caverna…” si guardò attorno,schermandosi gli occhi con una mano “forse da quella parte. Intravedo una parete rocciosa!”
“Una caverna? Sicuro sia una buona idea?” Dovevano urlare,per capirsi. I tuoni diventavano sempre più potenti,e un lampo squarciò il cielo proprio in quel momento. Didone rafforzò la presa della mano che cingeva il braccio di Enea.
“Alternative?” replicò con un sorriso. Lei si limitò a scuotere la testa.

“D’accordo,non sarà un cinque stelle ma…” Didone stava frizionandosi i capelli appiccicati sulla fronte con una mano,e guardava un po’ angosciata l’antro angusto dove si erano cacciati. Enea sorrise nuovamente,cercando di risultare il più rassicurante possibile. Ma Didone pensò che,capelli scompigliati,camicia zuppa e rivoli di acqua che gli scivolavano lungo il viso,risultava tutto fuorché rassicurante. Sexy da morire,magari. Bello da far paura,forse. Ma di rassicurante non aveva proprio un bel nulla. Nonostante ciò,decise di andargli incontro.
“Staremo bene,non pioverà per molto.”
“Temporale estivo,già.” convenne lui. Dio,quanto sperava che entrambi si sbagliassero. Quella era un’occasione perfetta per concludere qualcosa. Scacciò subito il pensiero e congiunse le mani guardando verso il cielo.
“Preghi che smetta?” chiese lei ridacchiando.
“All’incirca”
Didone si accasciò a terra,portandosi le ginocchia sul petto. “Al seminario ti hanno insegnato ad accendere un fuoco campestre o qualcosa del genere?”
“Certamente. E’ tutto riportato nel “Manuale dei giovani Chierichetti”,sai?” rispose ridendo Enea,sedendosi al suo fianco. “Perché,hai freddo?”
“No,ma in tutti i film quando due si perdono o restano intrappolati in una caverna accendono un fuoco”
“Troppi film fanno male” una nuova risata. La osservò per qualche secondo. “Ehi,hai un ciuffo fuori posto…” disse,sistemandoglielo con due dita dietro l’orecchio destro.
Enea non si trovava tanto vicino ad una donna per cui sentiva qualcosa da anni. Si allontanò. L’atmosfera si era fatta fredda.
“Sai che altro è scritto nel Manuale dei giovani Chierichetti?” Didone alzò le sopracciglia “non è conveniente ritrovarsi da soli con un’attraente giovane donna in una caverna. Però a ripensarci è sbagliato. Se restassimo qui per un bel po’ di tempo potrei anche mangiarti”
“E il tuo Dio non ha niente da ridire sul cannibalismo?”
“Il mio Dio capisce l’istinto di sopravvivenza. Lo capisce” Enea si era fatto buffo e grottesco, mimando le sembianze di qualche vecchio fraticello sdentato. Didone scoppiò istintivamente a ridere, lasciandolo spiazzato. Rideva, rideva, rideva, senza un dannato motivo. Anche lui scoppiò a ridere senza un dannato motivo. E poi si baciarono.

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Capitolo 5
*** Part V ***


5



Still a little bit of your taste in my mouth
Still a little bit of you laced with my doubt
Still a little hard to say what's going on

Still a little bit of your ghost your witness
Still a little bit of your face I haven't kissed
You step a little closer beach day
Still I can't SAY what's going on
Canonball-Damien Rice





Fu il cinguettio degli uccelli a risvegliare Didone. Aprì gli occhi ma li richiuse immediatamente,accecata dalla luce del sole mattutino. Quanto aveva dormito? Dovette fare mente locale,per ricordarsi quel che era successo nelle ultime ore. Era nuda,coperta solo da una camicia di taglio maschile,ed era sdraiata sulla tovaglia ancora umida su cui il giorno prima aveva pranzato e che aveva coperto lei ed Enea dalla pioggia. Centouno e più modi per utilizzare una tovaglia. Di certo,quello era senz’altro il più piacevole. Lui ancora dormiva,sentiva accanto il respiro regolare e vedeva il suo petto sollevarsi ed abbassarsi. Didone sorrise e gli si accoccolò più vicina, poggiando la guancia sul torace. Aveva chiuso gli occhi e stava per riaddormentarsi quando sentì una mano sfiorarle delicatamente la guancia.
“Buongiorno!” esclamò lei sorridente,stampandogli un bacio sulla guancia.
“Buongiorno” rispose lui,la voce ancora impastata dal sonno. Non aggiunse altro,ma si limitò a fissare l’apertura della grotta,pensieroso. Per qualsiasi altra cosa al mondo sarebbe stato troppo presto. Ma aveva persino sognato quelle domande. Cosa avrebbe fatto ora,si chiedeva. Come avrebbe affrontato la cosa? Come gli era venuta in mente,una pazzia del genere? Quale cazzo di molla era scattata nella sua testa? Che qualcuno gliela indicasse,avrebbe provveduto lui stesso a distruggerla. Ad eliminarla. Lo sguardo ancora fisso,si portò una mano sulla bocca,stringendo le guance. Sentì Didone chiamare il suo nome con voce preoccupata,e spostato lo sguardo vitreo in quello di lei poté leggervi un’indicibile preoccupazione. Cosa aveva combinato,dannazione? Si sforzò di sorriderle.
“Ehi,come stai?” chiese carezzandole un braccio col dorso della mano.
“Io bene…” la voce era venata da un filo di ansia “Tu?”
Enea scosse lentamente la testa,lo sguardo ancora immobile,come se stesse cercando di focalizzare l’entità del problema. Sembrò averla accertata. Si disse che questo era proprio un bel problema.
Didone spalancò gli occhi e abbassò il viso,osservando un punto imprecisato della tovaglia. "Noi ne verremo a capo, vero?" Disse. Sarebbe stata sciocca a ignorare quanto fosse sbagliato quel che era accaduto. O perlomeno quanto lo fosse per lui.
Enea rimase in silenzio. La guardava evitando di incrociare gli occhi coi suoi. Però poi sorrise.
Didone sorrise,sollevata. Enea riportò lo sguardo verso le ultime nuvole che,ostinate,ancora intervallavano l’azzurro del cielo,altrimenti perfetto. Si chiedeva fino a che punto, lui stesso, ci credesse.
Rimasero in silenzio. Un silenzio piacevole, anche se inquieto.
Enea si ritrovò a pensare ai suoi impegni con la chiesa. Quella mattina avrebbe dovuto tenere una messa,ma ormai era impensabile arrivare in orario. Avrebbe dovuto inventarsi una qualche scusa con i fedeli e il sacrestano. Ma cazzo,dopo quello che aveva fatto avrebbe ancora potuto tenere una messa? In ogni caso,sperava fossero riusciti a rimpiazzarlo in tempo.
"Sai una cosa? Io non l'ho mai visto" disse lui. Didone, assorta, fu presa alla sprovvista. Di che stai parlando? dicevano i suoi occhi.
"Il mio bambino. Non l'ho mai visto" Didone sapeva che avrebbe passato il resto della sua giornata a chiedersi cosa Enea intendesse con questo. Era una semplice dichiarazione mirata a sancire definitivamente quella loro intimità? Forse le stava dicendo che la sua fede non aveva delle basi così solide. Forse le stava dicendo che c'era davvero speranza, per loro. Forse intendeva che non l'avrebbe mai lasciata. O forse che per nulla al mondo, neanche suo figlio, avrebbe lasciato il suo odioso sacerdozio. Probabilmente non voleva dire nulla.
Silenzio.
“Immagino sia ora di andare a casa” fece lui,alzandosi a sedere.
“Già” la voce di lei un po’ triste “quando ci rivediamo?”
Enea fece mente locale. “Domani in Chiesa? Dopo la messa,magari.”
Didone sorrise. “No,verrò prima,così assisto anche. Ma ora come…?”
“Non lo so.” la interruppe subito,risultando più freddo di quanto volesse.


Afrodite quella mattina era ancora a letto,sola. Efesto era già andato a lavoro. Efesto andava sempre a lavoro presto. E rincasava tardi. E batteva un martello su un’incudine tutta la giornata ed Afrodite si chiedeva come facesse a non impazzire. Era uno dei più buoni,tra gli dei. Di quella bontà che spesso coincide con la semplicità o la dabbenaggine. Si chiedeva,infatti,come potesse non sospettare che la sua donna avesse una storia con un altro. O peggio,magari lo sapeva anche e faceva finta di niente. Cazzo,che persona poco interessante. Fu la telefonata di Eros a svegliarla. La voce squillante del suo pargolo,la rallegrò non poco.
Tutto stava andando come previsto,e non vedeva l’ora di vedere la vecchia Atena rodersi il fegato. Avrebbe mangiato un bel po’ di bombette,per usare un’analogia dysneiana. Per festeggiare,si concesse una telefonata ad Ares.

Il giorno seguente,Didone fu di parola. Enea stava recitando le preghiere iniziali della messa,quando la vide entrare dalla porticina laterale della cappella e salutarlo timidamente con una mano,sorridendo. Era leggermente impacciata,tra tutte quelle vecchie signore assorte dal rito e in preghiera. Cercava di imitare posizioni e atteggiamenti dei fedeli,scrutandoli sottecchi con lo sguardo concentrato. E quando recitavano le preghiere,si limitava a muovere le labbra,pronunciando solo le finali di ogni parola. Enea dovette trattenersi dal sorridere.
Didone,dal canto suo,osservava affascinata Enea muoversi dietro l’altare,e recitare formule e preghiere di cui lei aveva solo un vago,infantile ricordo. Sembrava che tutti gli ascoltatori pendessero dalle sue labbra,e questo non era difficile da imitare o comprendere. Padre Enea doveva essere un prete molto amato,tra i fedeli della zona. Si sentiva quasi in colpa,sapendo che avrebbe potuto lasciarli a casa sua.
Attese diligentemente,anche dopo la fine della messa,che Enea si liberasse da fedeli che lo salutavano o che gli chiedevano perché il giorno precedente non avesse tenuto lui la messa. Non era stata la stessa cosa con Padre Aaron,gli dicevano. E lui, dal canto suo, non negava a nessuno un sorriso o una risata. Didone lo ammirava rapita.
Dopo qualche minuto,lui gli fece segno di seguirlo in sacrestia. Era uno stanzino spoglio,collegato alla Chiesa da uno stretto corridoio di scale. Un letto spartano,un quadro raffigurante la Madonna,un piccolo scrittoio e un comodino con sopra abat-jour,Bibbia e pillole per il mal di testa erano l’unico arredamento.
“Carino,ma quasi rimpiango la grotta!” esordì lei,con una risatina.
Enea, seduto sul letto, rispose con un sorriso tirato. “Siediti,Didone.” E batté con il palmo della mano sul materasso,affianco a lui.
“Ehi,tutto ok?” Per l’ennesima volta in due giorni,era terrorizzata dall’idea di un ripensamento di Enea.
Dopo qualche secondo,lo osservò sollevarsi pesantemente dal letto,aprire uno dei cassetti dello scrittoio ed estrarre una busta bianca. Gliela passò,in silenzio.
“Cos’è? Inizio a preoccuparmi” chiese lei,con un sorriso che iniziava a vacillare. La voce leggermente più acuta del solito.
Enea si limitò ad osservare un altro punto dello stanzino.
Didone aprì la busta,da cui estrasse un unico foglio azzurro rettangolare. Dovette trattenersi dall’iniziare a strillare.
“Te ne vai?” chiese lentamente,la voce incrinata dal pianto.
“Didone,cerca di capirmi. Non è per te che lo faccio…” Enea la sera prima aveva ripassato quel discorso migliaia di volte,nella sua testa. Ma ora che aveva davanti il viso di lei,una maschera di dolore inondata dalle lacrime,la memoria,la sua voce e la sua volontà vacillarono.
“Certo,non è per me. E’ per te,non è vero?” chiese lei. Un sorriso ironico stampato sul viso.
“No,è per…entrambi. So che suonerà scontato,banale,inaccettabile ma…E’ meglio così per tutti,credimi.”
Didone,digrignando i denti per la rabbia,afferrò la Bibbia sul comodino,e gliela lanciò addosso. Al diavolo il rispetto. Al diavolo il buon senso. Al diavolo la religione. Al diavolo tutto quanto!
Senza dire una parola,lo sguardo triste,Enea si inginocchiò per raccogliere la Bibbia che era atterrata aperta ai suoi piedi. La chiuse,e accarezzò docilmente la copertina di cuoio. Si portò una mano sulla fronte,poi sul petto,poi sulla spalla destra. Prima che arrivasse a sfiorarsi anche la spalla sinistra,Didone scattò in piedi e la bloccò.
“Non farlo.” sussurrò.
“Cosa?” chiese lui. Lo sguardo smarrito.
“Non continuare a mettere tra noi la religione. Il tuo essere prete.” si asciugò le lacrime e sorrise. “Questa è una questione di scelte. Tu hai scelto di diventare prete. Probabilmente ti sembrava la cosa più giusta da fare,in quel momento. Scegli anche ora la cosa più giusta da fare,ma non farti condizionare da quel che hai scelto di essere.” Gli prese la testa fra le mani,e lo baciò. “Possibilmente,ora scegli di essere qualcos’altro.”

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo






Didone, lentamente, si portò dalla camera da letto verso la cucina. Gli scuri abbassati a metà lasciavano entrare i raggi cocenti del sole estivo. Fuori, il nulla. Solo le cicale sembrava avessero voglia di vivere.
Al riparo dal sole, nel fresco di casa sua, Didone ringraziava che non ci fosse Anna.
Era una cara ragazza, la amava, ma lei, lei aveva bisogno della sua solitudine, della sua casa vuota, fresca e invasa dalle cicale.
Ma forse questo se lo stava solo immaginando. Le cicale non cantavano, il sole era una palla rossa e fredda appesa nel cielo, e tenuta su da chissà quale forze superiore.
Quindi il suono che sentiva e i colori che vedeva passare attraverso gli scuri della finestra dovevano appartenere ad Atomi vaganti là fuori, un mondo totalmente nuovo.
Senza troppa convinzione, aprì la porta del terrazzo e, abbassandosi per non dover alzare la tapparella, uscì all'aperto.
Subito dovette strizzare gli occhi, troppo abituati alla penombra della casa.
"Il mondo non vuole che lo veda. Dev'essere così brutto qua fuori."
Vedeva alberi, una stradina, alcune rocce, nuvole nel cielo e tutto era distorto e si dimenava verso un unico punto, una specie di Inesprimibile Nulla cercava di divorarsi (e, invero, ce la faceva senza troppi sforzi) tutto ciò che aveva avuto la presunzione di nascere accanto a lui.
Credendo di aver visto abbastanza, Didone rientrò in casa.
Il tavolino del soggiorno erano completamente coperto da fogli interamente battuti al computer, manoscritti, vocabolari e libri vari.
Didone osservò per un po' le parole nere sui fogli bianchi, come tante piccole mosche acchiappante e lasciate lì a morire. Curiosamente non provò nulla. Ne' un pensiero, ne' una parola.
In cucina, risplendevano dei limoni. Risplendevano proprio. Didone penò che non aveva visto niente di più bello di quei limoni gialli, ultimamente.
Spiccavano come gioielli in quella buia e fresca casa che presto sarebbe stava divorata come tutto il resto là fuori. Sapeva che tutto quello che sarebbe rimasto di lei e della casa sarebbero stati quei limoni gialli, che, impudentemente, si ostinavano a voler accecare il mondo con il loro colore.
Chiusa la porta che divideva il soggiorno dalla cucina, che restava sempre aperta. Da uno spiraglio poteva ancora vederli.
Lanciò uno sguardo fugace alla finestra. Era sempre più vicino. Poteva distinguere cosa stava per essere cancellato per sempre.
Sospirando, aprì il cassetto elle credenza dove teneva il "servizio buono": vecchie posate e coltelli d'argento, rovinati dal tempo e che nessuno di loro aveva mai usato, probabilmente impauriti di dargli quel tocco di umanità tipico degli oggetti quotidiani. Provò un po' di compassione per quelle stoviglie.
In fondo, stavano i coltelli da carne, da pane da pesce e da dessert. Ad Anna piaceva mangiare con stile. E pure a Pigmalione. E a Sicheo. Didone al momento non ricordava se anche lei, un tempo, fosse stata amante della buona cucina.
Il tempo passava, ma con saggezza.
Didone, seduta sul divano, per una volta in vita sua non si stava sforzando per niente per non pensare. Il Vuoto totale era padrone della sua mente.
Qualche fugace sguardo alla finestra, il sinistro risplendere dei limoni dalla fessura della porta, e poi nulla.
Poteva vedere il punto morto del mondo sempre più vicino ora.
on poteva dire con precisione che espressione avesse in faccia.
Non aveva pensieri, e non aveva espressione. Una bella bambolina di plastica con una sorpresa fra le mani. Che doveva al più presto far sparire.
Da piccola le erano sempre piaciute le illusioni, i trucchetti da mago da quattro soldi. Con Anna spesso annoiava i genitori per sere e sere indicendo improbabili spettacoli di magia e di illusione. La fisicità, in uel tempo, non era nulla.
E visto che la fine, fuori dalla finestra, era sempre più vicina, decise di nascondere il coltello che teneva fra le mani nel suo cuore.
Non una parola, ma un sola lacrima, quando notò la Bibbia che, impertinente, faceva bella mostra di se' nel primo scaffale della libreria.
Didone pensò che in fondo non avrebbe mai scovato l'ultimo segreto di quel libro e sperò vivamente che perlomeno lui, un giorno, ci riuscisse.
Quando tutto intorno a lei fu risucchiato, distrutto, eliminato dal Nulla che si stava creando, lei non era più per vederlo. Solo i limoni risplendevano ancora. Tutto attorno, la catena spezzata del mondo.
Quando Anna tornò a casa, dapprima non si capacitò della Bibbia fatta a brandelli sul pavimento del soggiorno.
E poi si girò verso il divano.


Non ci sono aerei che portino dal Cairo a Nairobi che una qualsiasi associazione umanitaria possa permettersi. Inoltre nessun aereo portava neanche vagamente vicino al villaggio dov'era diretto.
Aveva dormito, in aereo. Ma in treno. Come avrebbe potuto in treno? Gli sarebbe piaciuto dire di aver letto la bibbia, ma non era stato così. Non l’aveva più toccata, aperta. L’unica volta che aveva provato a leggere il Salmo del Buon Pastore, la febbre gli era salita tanto, da non permettergli di parlare. Blasfemo a dirsi. Quel libro sembrava circondato da qualche oscuro maleficio.
Cos’è un prete senza il Salmo del Buon Pastore?
La domanda non era questa. La domanda era. Sono un prete? La domanda era, cosa ho fatto?
Quanto dura un viaggio in treno dal Cairo a Nairobi? Decisamente troppo.
Enea lesse il suo romanzo, lesse Joyce. Joyce era troppo intricato per lui in questo stato. Gli occhi avevano perso il loro luminoso candore e la barba era ormai ispida. Portava occhiali per sembrare più vecchio oltre che per correggere il suo infinitesimale difetto di vista. Era magro. Gli abiti neri erano ingombranti e non si notava. Moriva di caldo. Avrebbe voluto strapparsi via quegli abiti. Ma non l’aveva mai fatto. Non aveva mai più vestito in abiti civili.
Leggendo Joyce si disse, che quella era una strana storia. Si disse che era un codardo. E che gli dispiaceva perché lei non aveva capito. Che quello era il suo modo per chiuderla cosicché nessuno si facesse male. Che quel viaggio era una morte. Si disse che si era ammazzato. Che era un codardo. Stava piangendo nel sonno quando arrivò a Nairobi.
Appena sceso dal treno, Padre Donovan e due medici neri lo caricarono in una Jeep e attraversarono le distese sabbiose della misteriosa Africa. Rimase in silenzio per quel tragitto. Non era più capace di parlare di sciocchezze. Aveva a malapena chiamato suo padre, una volta.
Non l’aveva più chiamata.
Aveva scelto.
Sapeva che non l’aveva capito. Questa cosa non lo faceva dormire.

Mi è sembrato di sentire una voce gridare “Non dormirai più!
Macbeth ha ucciso il sonno!” il sonno innocente;
il Sonno che riavvolge la matassa aggrovigliata delle preoccupazioni,
la morte della vita di ogni giorno, bagno ristoratore dell’affanno,
balsamo delle anime ferite,
seconda portata della grande Natura,
primo nutrimento nel banchetto della vita


Ecco a cosa pensava. A Shakespeare, pensava. Al quel dramma sanguinoso. Si chiese perché.
Continuava a non capire. Ma sapeva. Enea era un codardo. Ad accoglierlo un magro bambino coi capelli a spazzola. Sorrideva. Ci provò proprio a sorridere. Ma non ci riuscì. Il bambino, in braccio alla sua mamma vestita d’arancione,vedendolo, scoppiò a piangere.

Era finito il secondo mese. Non aveva ancora mai letto la bibbia. Aveva insegnato grammatica inglese ai bambini Keniani. Per quanto potesse, li adorava. Quei piccoli bambini dagli occhi neri. Con gli occhi fissi e neri. Lo guardavano, piccole avide menti selvatiche. E si sentiva così vuoto. Sentiva che in un altro periodo della sua vita, quella situazione lo avrebbe esaltato. Adesso non parlava e si esprimeva in sorrisi modesti. Tutti lo adoravano. Passava interi pomeriggi sul letto, a dormicchiare. Era diventato talmente magro che nessuno gli chiedeva di portare l’acqua o cose simili. Padre Donovan credeva di trovarsi davanti a una sorta di santo. Credeva che non mangiasse per non togliere cibo agli altri. Padre Donovan era un prete superficiale. Enea aveva rimediato una sgualcita copia delle Tragedie di Shakespeare da un medico francese. La teneva nascosta dalla copertina della Santa Bibbia. Leggeva. Ogni tanto rimaneva sotto il sole pungente delle due del mattino troppo a lungo. Svenire era il suo ultimo lusso. Aveva le labbra spaccate dal caldo e la sua pelle bianca era bruciata sul naso e sul dorso delle mani. Beveva mezzo litro d’acqua al giorno meno del necessario.
In questo modo Enea Bloom puniva sé stesso per non aver preso una scelta. Per non esserne venuto a capo. Per non aver scoperto com’era finita.
Gli era salita la febbre, quel giorno. Aveva sentito la dottoressa Lauren, una cinquantenne asiatica, parlare del morso di un insetto sbagliato.
Gli dispiaceva non poter vedere i fissi occhi neri di tutti quegli scuri bambini. I loro grandi occhi, che erano gli occhi veri della Madre Terra. Peter, il suo bambino preferito, bussò lievemente per quanto già si trovasse nella stanza.
Enea sorrise.
Peter, che aveva un pezzo di carta tra le dita lo avvicinò al mento e lo fissò. Aveva occhi affettuosi. Quell’uomo sfinito pianse una lacrima gelida sul suo viso bollente. Toccò la guancia di Peter e Peter la sua. Peter lasciò il pezzo di carta giusto sul suo sterno. Enea stupito, cercò di sedersi da sdraiato che era. Non ci riuscì. Prese comunque in mano la lettera. Il nome del mittente era ‘Anna’. Con gli occhi appannati, non riusciva a leggere il cognome. Distingueva una S. la lettera datava otto settimane prima. Avevano messo otto settimane a rintracciarlo.
E se morirò? Tra quanto lo saprà mio padre?
Aprì la lettera, con lentezza. L’umidità aveva reso la carta di una consistenza plastica. L’aprì, comunque.
Era un grande foglio ingiallito. Che riportava una sola frase.
‘L’hai uccisa’ diceva.
Enea Pianse.

Afrodite teneva le guance strette. Perché lei aveva perso. E non avrebbe sopportato un tel’avevo detto. E gliene sarebbero arrivati molti. Il vecchio avrebbe sorriso. Poi le avrebbero dato un aspetto umano per nulla decente, e un compito ingrato che le spezzasse la schiena e probabilmente anche qualche unghia. Era di pessimo umore. Era di pessimo umore. Sorrise a sé stessa nello specchietto. Sciocchina, sii, sciocchina.
Ares comparve. Per la prima volta da molto tempo, pareva empatico, e i suoi occhi chiedevano scusa. La baciò, poi si allontanò.
Arrivarono anche gli altri. Non c’era traccia di Artemide. Odiava le loro sciocche scommesse. Non sapeva neanche perché aveva pensato ad Afrodite. Forse perché aveva visto suo fratello.
Poi arrivò il vecchio. Brillava di una luce propria e straordinaria. Rio de Janeiro.
“Non mi sembra il caso di tirarla per le lunghe” disse Era, coi capelli d’oro. “Mi dispiace piccina, ma mi sembra chiaro che ha vinto”
Atena e i suoi occhi di ghiaccio s’avvicinarono. Ma non aveva lo sguardo fiero e tracotante del solito. Guardava in basso. L’ignorò. Afrodite non poteva credere d’esser stata sconfitta. Era vero. Il suo era un compito inutile.
“Piccina, per una volta, darò ragione alla mia arpia preferita. Mi pare che ci sia poco da sentenziare. Atena e Afrodite avevano scommesso che se Afrodite fosse riuscita a costruire un grande, vero amore, Atena avrebbe pagato una penitenza e viceversa. Purtroppo Afrodite ha fatto un errore di valutazione, non considerando le convenzioni che legano gli uomini, e la loro spesso contorta indole.” Aveva un tono ufficiale e impersonale. Afrodite l’odiava in quella veste. “Per questo motivo uno dei due innamorati in questione ha scelto di togliersi la vita e l’altro è disperso e malato. Credo di poter affermare che…”
“Afrodite ha vinto” disse Atena “o perlomeno abbiamo pareggiato” Zeus sorrise. Afrodite rimase solo stupefatta.
“Di che stai parlando? Per te vincere è tutto, ti ricordo. Di che stai parlando?” Ermes e il suo risichino esile si erano intromessi. Atena lo fulminò con uno dei suoi sguardi migliori.
“La scommessa consisteva nel dimostrare la sua capacità o meno di creare amore” il tono di voce di Atena non era lo stesso di sempre. Quella sua voce chiara, aveva un suono contrito. Era turbata.
“Afrodite ne ha creato tanto, da costringere uno dei due amanti a uccidersi. Il fatto che non sia intelligente a sufficienza da capire quanto per un prete sia arduo innamorarsi tranquillamente di una donna, non può influenzare l’esito di questa scommessa.”
“Mi stai concedendo un pareggio?” Afrodite sorrise. Di solito non chiedeva il perché delle sue fortune.
“Un pareggio” Zeus sembrava soddisfatto. Non gli piaceva punire le sue figlie.
Poiché probabilmente Efesto si trovava nel buio umido calore della sua fucina, Afrodite fu libera di strizzare l’occhio ad Ares ed andarsene insieme con lui. Poi tutti gli altri. Atena, rimase da sola.
“Perché?” chiese alle sue spalle una voce bassa.
“Odio quando lo chiedi. Conosci già la risposta non chiedermi mai più perché”
“Andiamo piccola. Sei la mia preferita. Per quale motivo sei così triste da non poter accettare una vittoria?”
“Lei ha… E’ stata pronta a… ha scarificato suo figlio. Ha distrutto la vita di suo figlio per una sciocca scommessa. Ci credeva. Mi sono sentita in colpa per quei due”
Zeus sorrise.
“Vedi, piccolina, Atena, spesso è un po’ troppo onesta”

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