Caffé nero senza zucchero

di La neve di aprile
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo due ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo sei ***
Capitolo 8: *** Capitolo sette ***
Capitolo 9: *** Capitolo otto ***
Capitolo 10: *** Capitolo nove ***
Capitolo 11: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 12: *** Capitolo undici ***
Capitolo 13: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 14: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Orland Bloom non mi appartiene, non scopo né a fini di lucro né per offendere; lo faccio per il mio piacere personale e basta.




 

CAFFE’ NERO SENZA ZUCCHERO
PROLOGO

 


Los Angeles

Il tramonto infuocava la città brulicante di vita, colorando di rosso le pareti delle case e riempiendo il mare di riflessi iridescenti. Il cielo, sgombro di nuvole, abbracciava la baia con le sue tinte calde e sul lungomare frotte di coppiette approfittavano della bella serata per una passeggiata romantica.
 In un grande edificio bianco, costruito in stile coloniale, una folla di giornalisti e fotografi si accalcava dentro una gigantesca casa dal soffitto a volta, spintonandosi per raggiungere la prima di una lunga serie di file di sedie in legno chiaro, ordinatamente disposte davanti ad una pedana rialzata.
In una stanzetta attigua, seduto su una sedia da regista e circondato da frotte di truccatori e stilisti, Orlando Bloom sorseggiava distrattamente un caffé nero, senza zucchero e latte, ascoltando sbalordito quello che un ragazzo biondissimo gli diceva con aria piuttosto annoiata.
- Una nuova che? - esclamò, strozzandosi con il sorso di caffè che aveva in bocca e e sputandolo addosso allo sventurato ragazzo che gli stava davanti. Incredulo, sgranò gli occhi scuri, con grande disappunto della truccatrice che stava sfumando il fondotinta sulla sua fronte, ora coperta da una serie di rughe pensierose.
- Una nuova menager, hai capito benissimo. - proseguì seccato il ragazzo, posando non molto gentilmente il plico di fogli che portava con se sulle gambe dell’attore e frugando nelle tasche dei jeans alla ricerca di un fazzoletto con cui asciugarsi il viso – La cara vecchia Chriss ha rinunciato, non ha più l’età per “correre su e giù per il mondo alle calcagna di un ragazzino viziato e drogato di party!”, per usare parole sue. -
- Ah. - commentò Orlando. – Crisi di nervi. - Rilassò la fronte, per nulla sorpreso.
- Esattamente. – convenne il ragazzo, trovando finalmente un fazzoletto e passandoselo sul volto. Dopo aver gettato via il pezzo di carta, scoccò una penetrante occhiata al ragazzo seduto davanti a lui. – Toglimi una curiosità: come diavolo hai fatto a farne scappare un’altra? Sei arrivato a quota cinque, nell’arco di tre mesi. -
Orlando non rispose, pensieroso. Come diavolo era riuscito a far scappare cinque menager stra-pagate e molto più che qualificate in così poco tempo, era un vero mistero anche per lui.
La prima era stata Mary. Adorabile trentenne nata e cresciuta nel clima competitivo dell’elitè new yorkese, figlia dell’arte e laureata a Yale con tanto di lode. Simpatica, sempre disponibile e con un sorriso che sarebbe stato l’orgoglio del migliore dei dentisti, a Orlando era parsa perfetta, e non aveva perso l’occasione: tempo due giorni ed era assunta.
Peccato però per il fidanzato di lei, un giovane rampollo di buona famiglia impiegato –per modo di dire- nella banca del papi che non tollerava l’idea della sua dolce metà impegnata a girare il mondo con una delle star hollywoodiane più quotate del momento. Tempo due settimane, una cinquatina di “o ti licenzi o ti mollo io”, una serie di interviste piuttosto difficili da organizzare e la dolce Mary era esplosa. Letteralmente.

 “Certo” pensò tra se e se Orlando, sorridendo ai flash dei fotografi mentre prendeva posto al suo tavolo assieme a diverse altre persone di cui ricordava a malapena il nome “avrei potuto renderle la vita più semplice anche io. Magari, evitando di chiamarla in piena notte per domandarle dove diavolo fossero finiti i miei scarponi da snowboard per la settimana bianca di cui era all’oscuro.”
Sospirò, alzandosi in piedi per salutare una nuova stellina della televisione che gli veniva presentata da una strana donna con degli orribili occhiali con gli strass.
 Dopo Mary era arrivata Andy. Donna di mezza età con una ricrescita spaventosa tra i capelli biondo platino, si era rivelata non una dolce mamma di famiglia come era sembrata durante il colloquio, ma una tirannica carceriera che aveva ridotto al minimo i suoi momenti di svago costringendolo a lavorare anche durante quelle due settimane che solitamente si riservava per staccare la spina dal luccicante mondo del cinema e la sua ipocrisia. E come aveva reagito, lui? Scappando per tre giorni alle baleari con un gruppo di amici. Ma Andy si era dimostrata coriacea. Ci erano volute una lunga serie di scappatelle prima che l’esaurimento si presentasse, alle soglie della presentazione de Pirati dei Caraibi.
 “Lasciamo perdere poi Angela, un vero disastro!” ricordò l’attore con un brivido, tra una domanda e l’altra dell’intervista. “Sarebbe stato meglio lasciarmi da solo per un po’, piuttosto che assumerla così di fretta.”
 Chiusa la parentesi Angela, durata grossomodo una settimana scarsa, c’era stata Barbara. E con Barbara sarebbe potuta durare: tra tutte, si era dimostrata la più qualificata nello svolgere tutti gli assurdi compiti che le venivano assegnati. Alta, magra, con un viso grazioso, origini spagnole, era riuscita a catturare l’attenzione di Orlando, in tutti i sensi, al punto che l’attore aveva iniziato a stuzzicarla. Insomma, sembrava tutto perfetto. Senza tener conto, però dell’indole frignona e credulona della ragazza che dopo un po’ aveva iniziato a manifestare i chiari sintomi di una clamorosa cotta nei suoi confronti, arrivando a piangere notti interi per un sorriso dedicato anche ad una barista in un qualsiasi bar. E la cotta si era trasformata pian pianino in un’ossesione. Il colpo di grazia, si era rivelato essere una serie di notti di fuoco con una graziosa bambolina della televisione da poco lanciata su MTV.
Come tutte le altre, era crollata.

“Un vero peccato” osservò Bloom a fine serata, lasciandosi cadere sul letto della sua lussuosa suite d’albergo, senza nemmeno sfilarsi le scarpe. “Perché era davvero carina. Altro che Chriss! Quella era una pazza isterica, non aveva tutte le rotelle a posto.” Scosse il capo, passandosi una mano tra i folti capelli scuri, che si arricciavano morbidamente lungo il suo collo. “Dovrei tagliarli.” sospirò, troppo stanco per fare altro.
 Sbadigliando, allentò il nodo della cravatta, chiedendosi chi gli avrebbero propinato questa volta.
Sogghingò, all’idea di trovarsi davanti qualche pivellino fresco fresco di laurea, qualche nuova leva da massacrare con facilità grazie alla poca esperienza.
- Sarebbe divertente. – mugugnò, la voce impastata dal sonno. Si rigirò su un fianco, sfilandosi le scarpe e rannicchiandosi nelle coperte. Chiuse gli occhi e si addormentò, mentre fuori le stelle iniziavano a sbiadire.

*


New York

- Cosa? Non riesco a sentirti! - strillava una ragazzina di circa diciassette anni intenta in chissà quale conversazione al cellulare. –Non ti sento, parla più forte!- sbuffò seccata, alzando gli occhi al cielo e riprendendo a camminare, all’accendersi del semaforo verde. Facendosi largo nella folla, urtò una giovane donna in bilico su dei sottilissimi tacchi a spillo, tirandole una gomitata nello stomaco.
- Ouch! - esclamò questa, piegandosi in due e lasciando cadere i fascicoli che teneva tra le mani.
La ragazzina si voltò, chiudendo in fretta la conversazione e chinandosi per raccogliere i fogli che si erano sparsi sul marciapiede grigio.
- Accidenti, mi dispiace! - si scusò alzando lo sguardo sulla donna, ritrovandosi a guardare due grandi dagli occhi scuri, neri come la pece, su un viso incorniciato da ciocche di capelli accuratamente lisciati di un insolito color porpora.
Lei sorrise, di un sorriso forzato, scuotendo il capo.
- Tranquilla, sono cose che capitano. - biascicò sfilandole i fogli di mano e infilandoli alla meno peggio in una cartellina a caso.
Si rialzò in piedi rapidamente, sistemandosi la borsa sulla spalla destra e riavviando una ciocca di capelli, prima di sorridere nuovamente alla ragazza e riprendere a camminare, accompagnata dal ticchettare rapido delle scarpe col tacco.
- Stupidi tacchi. - sibilò tra i denti, infilando una mano nella borsa scamosciata e frugandovi all’interno per estrarre un cellullare. Compose un numero, senza fermarsi un attimo, e si infilò in un grazioso bar.
- Un cappuccino alla vaniglia. - disse, nell’esatto istante in cui una voce maschile le rispose al telefono.
- Mi hai preso forse per un barista, Annie Brown? -
La donna rise, posando una banconota da cinque sul bancone e afferrando il suo bicchierone di carta stracolmo di caffé, schiuma e vaniglia.
- Ciao David, come stai? Ho ricevuto il tuo messaggio solo ora, dimmi tutto. - il tono era professionale, sicuro, pur mantenendo qualche nota di divertimento nella voce leggermente roca, graffiata.
- Subito al sodo, eh? Bene. Sei stata richiesta, questa volta si tratta di un grosso cliente. –
- Ah si? Anche l’ultimo per cui ho lavorato si definiva un grosso cliente.. - commentò la ragazza ironicamente, ingurgitando una grossa sorsata di schiuma bollente.
- Ann... dico sul serio. Sono sicuro che non indovinerai mai di chi si tratta. -
- Spara. - continuò lei, distratta dall’incessante via vai di macchina nella strada.
- Eh no cara mia, così mi togli tutto il divertimento! - protestò la voce al telefono.
- Okay, d’accordo. Madonna? Phil Collins? – sparò un paio di nomi a caso.
- Non ti stai proprio impegnando, Annie. -
- Scusami tanto, David, se sono un tantino di fretta e non ho voglia di giocare agli indovinelli.-  sbuffò Annie, allungando un braccio e fermando un taxi al volo. Disse un indirizzo e mentre la macchina si infilava nel traffico mattutino, posò una mano sul finestrino. – Allora? -
- D’accordo, d’accordo. – riprese a parlare la voce, rassegnata. – Fai un salto in agenzia, nel tuo armadietto troverai tutto il materiale che ti serve nonché un biglietto aereo di prima classe per Los Angeles. -
- Wow! Mi mandi in vacanza! - esclamò fingendosi entusiasta la ragazza.
- No, cara mia, ti mando da Orlando Bloom in persona. -

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Capitolo 2
*** Capitolo uno ***


 

 

CAFFE’ NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO I



Los Angeles

Albeggiava.
Tenui raggi di sole si infilavano dispettosi tra le tende mal chiuse della lussuosa suite dove Orlando cercava di dormire, andando a cadere quasi perpendicolarmente sul volto del ragazzo.
- Mhhh.. - mugolò, del tutto deciso ad attaccarsi a quel brandello di sogno che lentamente lo abbandonava. Stava sognando di essere sui monti svizzeri, in compagnia della neve e della tavola da snowboard, senza nessun altro attorno. Lui e la montagna. Una cosa che non succedeva da secoli, ormai.
Un sogno, appunto.
Lo scricchiolio di una porta che si apre nella stanza accanto, i passi inquieti di qualche giovane milionaria in vacanza al piano di sopra, e il sogno gli sfuggì dalle dita.
- Cazzo! - sbuffò irritato, coprendosi il volto con le mani.
Rimase con gli occhi chiusi, con la vaga speranza che il sonno sarebbe tornato allo stesso modo in cui se ne era andato, ma dopo qualche minuto si rese conto che non c’era nulla da fare: era perfettamente sveglio.
Mugolando, scostò le lenzuola bianchissime e si mise seduto, combattendo con il mal di testa causato dal movimento improvviso, per poi allungare la mano verso il comodino alla sua destra e cercare a tentoni il telefono.
- Hilton Hotel, mi dica. - gli rispose una voce femminile.
- Ma non dormite mai...? - brontolò nel ricevitore, strofinandosi gli occhi.
- Come dice, signor Bloom? - continuò la voce, che trasudava gioia e vitalità.
- Nulla. Per favore, mi faccia portare un caffé nero, senza né zucchero né latte e una brioches alla crema, per favore. E la posta di ieri, magari. - biascicò, cercando di farsi capire dalla giovane centralinista.
- Certo, signor Bloom. Provvedo subito. - squittì lei. Orlando si lasciò quasi scappare un gemito: quella voce piena di entusiasmo lo urtava.
Come diavolo è possibile essere così svegli a quest’ora del mattino? Si chiese, assicurando che no, non aveva bisogno di altro.
Una volta riattaccato il telefono, si lasciò cadere sul letto, continuando a chiedersi come diavolo avesse fatto la ragazza ad essere così pimpante alle... alle...? Si sollevò sui gomiti, cercando di vedere che ora fosse.
Le cinque e sette minuti.
Eccole la, le tre cifre rosse sullo sfondo nero della sveglia ditigale, accuratamente programmata per suonare alle sette e mezza.
- Meglio fare una doccia. – decretò, imponendosi di mettersi seduto di nuovo e di posare i piedi nella folta moquette bianca e soffice che copriva tutto il pavimento della stanza. Lentamente, si alzò in piedi, trascinandosi fino al bagno.
Dopo aver aperto l’acqua nella doccia, gettò un’occhiata allo specchio, dove un Orlando pallido, con due occhiaie grandi come una casa sotto gli occhi, ricambiò il suo sguardo. Scosse il capo, togliendosi i vestiti con cui si era addormentato la sera prima e si infilò sotto l’acqua calda, sperando in un piccolo miracolo.
Esattamente venti minuti dopo, allungò il braccio verso il lavandino, alla ricerca dell’asciugamano.
A tentoni, con gli occhi ancora chiusi, cercò il telo di spugna inutilmente, prima di rinunciare e uscire dalla doccia grondante d’acqua, immergendosi nel vapore che avvolgeva l’intera stanza.
- Dove cazzo è l’asciugamano! - sbottò, dopo aver tirato un calcio allo spigolo della Jacuzzi.
- Qua. - gli rispose una giovane voce femminile, da un punto indefinito nel vapore.
- Ah, grazie. - rispose Orlando, senza rendersi bene conto della situazione, e si avvicinò alla fonte della voce afferrando l’asciugamano che lei gli porgeva.
- Però... - fu il commento laconico che sfuggì alla ragazza, mentre lui si avvolgeva nel panno di spugna. – Quanto hai bevuto ieri, per essere così addormentato?-
Fu allora, mentre la ragazza apriva la porta per uscire, che il vapore abbandonò di colpo il bagno e Orlando si svegliò del tutto, alla vista dell’intrusa che lo guardava con le braccia incrociate al petto.
Giacchetta corta color crema, gonna al ginocchio in tinta e stivali neri con tanto di tacco dieci, Annie fissava il ragazza divertita.
- E tu chi diavolo saresti? - riuscì ad esclamare l’attore, dopo aver boccheggiato come un pesce per mezzo minuto buono.
Lei sorrise, scoprendo una chiostra di denti perfetti, e allungò la mano destra.
- Annie Brown, la tua nuova menager. –


- Caffé nero. - sentenziò Annie, quando Orlando uscì dal bagno con addosso un accappatoio immacolato e un’espressione che definire corrucciata era poco. – Ottima scelta, quando hai fatto le ore piccole. -
- Bevo solo caffé nero. - brontolò il ragazzo, superando la giovane e afferrando un maglione a collo alto e un paio di jeans dal borsone che aveva lanciato qualche giorno prima su un divanetto davanti ad un gigantesco schermo al plasma.
- Caffeinomane anche tu, dunque. - proseguì lei, accavallando le gambe e puntando gli occhi sulla schiena del ragazzo. – Ne avrai bisogno, vista la giornatina che ti aspetta. -
Orlando la guardò, mentre prendeva fuori da una borsa scamosciata un’agenda in pelle nera e ne sfogliava le pagine.
La luce dell’alba scivolava sui capelli color porpora, che cadevano morbidi ad incorniciarle il volto pallido nonostante l’ombra di terra sulle guance.
- Annie, vero? - le chiese, fermandosi davanti al carello con la sua colazione.
Ingurgitò un sorso di caffé e addentò la brioches, andando poi a sedersi davanti alla donna, che non alzò il viso.
- Esattamente. -
- E’ una tua abitudine quella di comparire così all’improvviso nel bagno delle persone mentre fanno la doccia? - la aggredì lui, sporgendosi in avanti sulla poltroncina.
Lei non fece una piega, scribacchiando qualche parole su una pagina.
- No, in genere no. -
Orlando inarcò le sopracciglia, distogliendo lo sguardo dalla ragazza, che proseguì, alzando gli occhi e piantandoli in quelli dell’attore.
- Solitamente mi infilo direttamente nella doccia, ma sono arrivata tardi oggi. -
La guardò spiazzato per qualche attimo. Lei ricambiò lo sguardo, prima di scoppiare a ridere di gusto.
Una risata roca, gaffiata, come la sua voce.
- Cielo, come sei ingenuo! - esclamò tra una risata e l’altra –sarà divertente lavorare per te. – Si alzò in piedi, infilando l’agenda nella borsa e strattonando leggermente la giacca. – Avevi già appuntamenti, per la giornata? - chiese perdendo ogni traccia di ilarità.
- Se non lo sai tu.. - bonfichiò lui, con la bocca piena di brioches e crema – Non sono io il menager qui. -
- Non sono certo io che ho fatto venire un esaurimento nervoso alla mia precedente menager che ha fuso il portatile con dentro tutti gli appuntamenti che aveva preso per te. - lo rimbeccò lei, gelida, spiazzandolo.
Prima che potesse dir nulla, alzò la mano destra, portando la sinistra alla fronte. Chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie
- Non importa. Vado a fare qualche telefonata, tu fatti trovare pronto alle sette e trenta nella hall, con tanto di borsa. D’accordo? -
Orlando annuì, inghiottendo l’ultimo boccone di brioches mentre lei raggiungeva la porta e l’apriva.
- Ah, quasi dimenticavo. – aggiunse candida prima di scivolare fuori dalla stanza – Non si parla con la bocca piena, cafone.-
E prima che il ragazzo potesse in alcun modo replicare, lei aveva già chiuso delicatamente la porta dietro di se.


Annie aspettò di arrivare in fondo al corridoio e di svoltare l’angolo, prima di appoggiarsi alla parete e accasciarsi a terra, con il volto nascosto tra le mani.
Era rossa in volto, come dopo una lunga corsa, e il cuore le batteva talmente forte che credeva sarebbe esploso nel giro di pochi secondi.
Orlando Bloom.
Non era niente di quello che si era aspettata, fantasticando nelle ore di volo che aveva trascorso insonne, mentre attraversava il continente.
Armata di portatile e quelli che lei chiamava “giornali-spazzatura”, aveva cercato più informazioni possibili sul suo nuovo protetto.
Wikipedia, fanclub, siti contro l’attore.
Nulla era sfuggito ai suoi occhi stanchi, vogliosi di sonno.
Orlando Bloom.
Aveva immaginato un ragazzino viziato, con ancora qualche brufolo accuratamente nascosto da chili di fondotinta nelle foto ufficiali e non, un fisico magro senza muscoli, e non quel giovane uomo che aveva sorpreso nel bagno pieno di vapore. Che poi, come diavolo le era venuto in mente di infilarsi la dentro e prendere l’asciugamano?
Le sfuggì una risatina, subito soffocata da un pugno morso senza troppa convinzione. D’accordo, si, avrebbe comunque dovuto piombargli in camera e svegliarlo all’alba per quell’intervista radiofonica alle nove e che comunque lo avebbe probabilmente beccato in una qualche situazione imbarazzante – Dio solo sapeva che avrebbe fatto se lo avesse beccato con una qualche ragazza! - ma questa... questa era stata una delle genialate più infami che le fossero ai venute in mente.
Se solo avesse avuto una macchina fotografica. Si riscoprì a rievocare l’immagine di lui appena uscito dalla doccia, con il corpo lucido di vapore, una sagoma appena accennata ai suoi occhi. Le gocce d’acqua sui suoi bicipiti. I capelli sul volto dai lineamenti sottili.
“Basta, BASTA!” si rimproverò severamente, tirandosi qualche leggero schiaffetto sulle guance bollenti e alzandosi in piedi.
Si sistemò la gonna, che era salita scoprendo metà delle cosce sottili, fasciate in un paio di autoreggenti color carne.
- Bene. - si disse, riprendendo a camminare per il corridoio, imboccando le scale di servizio. – Bene. - ripetè con aria più convinta, mentre il sangue defluiva dalle guance.
Su una cosa, però, non poteva proprio tacere: era dannatamente bello. E lei era stata dannatamente stronza.


Alle sette e tranta precise, le porte dell’ascensore si aprirono senza un solo rumore, e un assonnatissimo Orlando Bloom fece capolino nella hall dell’albergo. Annie alzò gli occhi dalla sua eterna agenda e li puntò sul viso dell’attore. Il ragazzo la raggiunse, aggrottando la fronte.
E adesso? si chiese, adesso che le passa per la testa? Mi hanno mandato una pazza isterica, non una menager.
Ricambiò lo sguardo sfrontatamente, notando con piacere che, dopo un po’, fu lei ad abbassare gli occhi, quasi imbarazzata.
- Ma allora sei umana! - commentò con un largo sorriso, lasciando cadere il borsone sportivo a terra, ai suoi piedi.
Lo seguì con gli occhi, senza perdere l’occasione di squadrare da capo a piedi la giovane donna, con il risultato di confermare la sua precedente idea: bella, molto bella.
- Molto più che umana, mio caro. - gli rispose lei, con gli occhi ancora bassi.
Aggiunse qualche nota sull’agenda, qualche parola che l’attore non riuscì a capire nonostante la calligrafia rotonda, quasi infantile. Dopo aver chiuso con uno scatto il diario, si alzò in piedi e recuperò la borsa.
- Bene, sei pronto? - chiese, incamminandosi verso la reception seza aspettare risposta – Ti ho fissato un’intervista radiofonica per le dieci, e già che ci siamo ci fermeremo lungo la strada per inaugurare un centro per ragazzi, una specie di ricreatorio. -
- Un che? - chiese Orlando sorpreso – Non ho mai fatto una cosa del genere! - protestò seccato.
- Lo so, - replicò lei candida – ma una buona azione come questa sarà una buona pubblicità, per te. Fidati. E ora andiamo, il tempo vola! -
Annie si incamminò, davanti al ragazzo, che agguantò al volo la sua borsa e infilò un paio di Ray-Ban classici, con le lenti verdi, prima di seguirla attraverso le porte scorrevoli dell’albergo, dentro un fuoristrada metallizzato con i vetri oscurati. La donna era alla guida.
Alla vista dell’espressione perplessa dell’attore, sogghignò.
- Paura, baby? - chiese infilando un paio di occhiali su cui spiccava il logo della Dolce&Gabbana e afferrando il volante con entrambe le mani.
- Che domande. - sbuffò lui allacciandosi la cintura di sicurezza e guardando fuori dal finestrino, con aria annoiata.
- E tu saresti un attore? Tesoro, non convinci nessuno. - sogghingò di nuovo, sporgendosi verso di lui e posandogli una mano sulla coscia – Ma non ti preoccupare... - lo rassicurò abbassando il tono della voce ad un sussurro – ...non ho mai ucciso nessuno. -
- Ah beh.. - commenò Orlando, continuando a guardare fuori dal finestrino per non mostrare il turbamento che quella mano sottile gli causava – Se lo dici tu. -
- Lo dico io. - ripeté lei, spostando la mano alla chiave e avviando il motore – Lo dico io. -
Premette sull’acceleratore, rilasciò la frizione e la macchina scivolò in avanti, immettendosi in breve nel traffico mattutino della metropoli.

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Capitolo 3
*** Capitolo due ***


 

CAFFE’ NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO II





 

Los Angeles


Annie rigirò tra le mani il bicchiere ricolmo di cappuccino, standosene appoggiata al cofano del fuoristrada, con le gambe incrociate.
Le facevano male i piedi, quei maledetti stivali erano tanto belli quanto scomodi, ma non aveva nessuna intenzione di concedersi un attimo di riposo.
Il dolore la teneva sveglia, molto più del caffé.
“Se la cava bene” pensò, scrutando Orlando che firmava autografi fuori dal nuovo centro per ragazzi, con un sorriso di circostanza stampato sul volto.
La mattinata era stata tutto sommato tranquilla, senza grossi incidenti, l’inaugurazione era andata bene e l’attore si era comportato egregiamente, senza lasciar trapelare nemmeno un briciolo di stanchezza.
Si, si prospettava una buona mattinata: l’indomani buona parte dei giornali di gossip del paese avrebbero scritto qualcosa su di lui.
Gli sorrise, quando la raggiunse.
- Ottimo lavoro! -
Lui la guardò, imbronciato.
- Non ho mai fatto nulla di così noioso in tutta la mia vita. - borbottò infilandosi in macchina e sbattendo la portiera.
Lei lo imitò, esitando ad avviare il motore.
Studiò per qualche attimo le sue dita attorno al volante nero, coperto di pelle, prima di voltarsi verso l’attore, che la fissò a sua volta.
- Ti serve qualcosa? - domandò con aria di sufficenza Orlando, inarcando le sopracciglia.
Lei inspirò a fondo, scuotendo il capo.
- Nulla. - mormorò dopo qualche attimo, premendo il piede sull’acceleratore.
Guidò in silenzio, mentre la radio cantava What goes around comes around sottovoce.
La voce di Justin Timberlake era l’unica ad animare l’abitacolo del fuoristrada che sfrecciava apparentemente senza rumore lungo l’autostrada, apparentemente libera dal traffico del primo mattino che la vedeva piena di macchine bloccate in interminabili code.
Annie roteò gli occhi, mentre rallentava, in vista di quello che sembrava un ingorgo formatosi da poco. Orlando, che si era rinchiuso in un ostinato silenzio con tanto di i-pod a tutto volume nelle orecchie, sembrò non accorgersene: continuava a rimanere immobile, con il viso girato di lato, verso il finestrino.
La ragazza si stiracchiò, senza staccare le mani dal volante, e gettò un’occhiata all’attore, chiedendosi se fosse sveglio o meno. Sentiva un costante brusio provenire dagli auricolare che aveva nelle orecchie, ma a parte quello non dava segni di vita. Che stesse dormendo? Si chiese, aggrottando la fronte prima di voltarsi per recuperare la borsa che aveva lanciato sul sedile posteriore. Erano fermi ormai da qualche minuto, tanto valeva controllare un paio di cose e approfittare del contrattempo.
- Mmh.. - mugolò, allungandosi il più possibile e trattenendo il respirò, con la cintura che le mozzava il fiato in gola e non accennava ad allentarsi nemmeno per sbaglio.
- Stupida macchina.. - ringhiò irritata, senza riuscire ad afferrare la borsa.
Controllò un’altra volta la strada, sperando che le macchine avessero iniziato a muoversi, ma nulla: davanti a lei c’era un gigantesco serpente di metallo che si abbrustoliva sotto il sole, immobile. Slacciò la cintura, che scattò via non appena liberata, e si mise in ginocchio sul sedile, girandosi appena per prendere la borsa che era finita contro la portiera, esattamente dietro di lei.
Si lasciò cadere sul sedile con un sospirò, la borsa sulle gambe, e riavviò una ciocca dietro un’orecchia. E in quello, si accorse che Orlando la stava fissando, con un sorriso sornione stampato sul volto.
- Grazioso spettacolo.. - commentò il ragazzo – Non avevo notato quello spacco, in albergo... -
Annie rimase impassibile, nonostante si sentisse il viso bruciare.
- Sono felice sia stato di tuo gradimento, tesoro. - ribattè piccata, molto più acida di quanto non volesse.
Calò nuovamente il silenzio, mentre lei tornava a fissare la strada e lui il panorama. Erano fermi davanti a un gigantesco cartellone che pubblicizzava un anonimo deodorante per ambienti, dal nome impronunciabile.
- Interessante? - chiese alla fine Annie, stufa di quel silenzio.
Orlando si girò verso di lei, inespressivo.
- Ti pare? -
- Direi proprio di no. - osservò lei, abbassando entrambi i finestrini per far entrare un po’ d’aria. La colonna non accennava a muoversi.
- E allora cosa me lo chiedi a fare? - ribatté lui, seccato – E si può sapere per che diavolo di motivo abbassi i finestrini quando c’è il condizionatore? -
- Perché non ho nessuna intenzione di rimanere con il motore acceso. E poi, è una così bella giornata che è un peccato non poter respirare un po’ d’aria fresca. È passato tanto tempo dall’ultima... - s’interruppe, fissando il ragazzo perplessa. Perché diavolo di motivo stava andando a dire quelle cose a quel ragazzino viziato?
Orlando inarcò le sopracciglia.
- Beh? Ti sei incantata? - le chiese, accennano un sorriso che mozzò il respiro di Annie. Ci mise qualche secondo a rispondere.
- Scusa. Comunque, hai fatto davvero un buon lavoro oggi, sono sicura che domani ci saranno un paio di articoli su di te, su qualche giornale. - cambiò argomento bruscamente, spiazzandolo.
Annuì, tirando via i Ray-ban e massaggiandosi gli occhi. Era stanco quasi quanto lei, di tutta quella tensione gratuita, ma non aveva ancora nessuna intenzione di gettare la spugna per primo.
- Certo, mi chiedo però che tipo di pubblicità potrà mai venirne fuori. - insinuò dopo qualche attimo, senza guardarla – “Orlando Bloom inaugura un centro per ragazzi: beneficenza o disperazione?” -
Annie trattenne l’impulso di saltargli al collo seduta stante.
- Mi credi così tanto idiota, ragazzino? - sbottò irritata – Per cosa penso che ti abbia fissato pure un’intervista radiofonica con una delle maggiori emittenti della costa? Eh? -
Orlando in quel momento la detestò. Ma soprattutto, detestò se stesso per non riuscire a trovare una risposta a tono.


Ci miserò poco più di un’ora a lasciare l’autostrada. Quando arrivarono davanti al grande grattacielo che ospitava la stazione radiofonica, erano parecchio in ritardo ed entrambi di cattivo umore: il resto del viaggio, non era stato dei più piacevoli. Tra una frecciatina e l’altra avevano quasi sfiorato gli insulti, prima che un pesantissimo silenzio calasse tra loro. Nè Annie nè tantomeno Orlando avevano fatto qualcosa per rimediare alla situazione, semplicemente avevano lasciato che le cose degenerassero e basta.
- Annie Brown. - ripeté per l’ennesima volta la ragazza a una centralinista che insisteva nel chiederle il nome.
Seccatissima, la menager sbattè le mani sul riapiano di marmo, facendo sobbalzare sià l’attore che la ragazzina dall’altra parte.
- Senti un po’, tesoro, non ho tutta la giornata da dedicarti per cui fammi il favore di azionare il cervello quel tanto che basta per farti capire cosa sto dicendo: sono Annie Brown, la menager di Orlando Bloom che aveva un appuntamento con voi alle dieci, per un’intervista. Ora, siamo palesemente in ritardo e mi dispiace, ma un emertito deficente sull’autostrada ha avuto la brillante idea di andare a sbattere contro un tir e causare un fantastico tamponamento a catena. Dal momento che siamo arrivati, che la trasmissione non è ancora finita e che la pubblicità che ne ricaverete dall’avere lui – e indicò Orlando con un cenno del capo - in onda, anche solo per cinque minuti, è notevole, vedi di muovere le tue gambine d’oro e andare ad avvisare che siamo qui e che siamo pronti per l’intervista. Sono stata chiara? - ruggì, sporgendosi in avanti e facendo sbiancare la ragazzina, che furfugliò qualche parola e sparì di corsa dietro una porta girevole.
- Però... - commentò Orlando, inarcando le sopracciglia, quando lei le si sedette accanto, accavallando le gambe - ...la gentilezza proprio non è il tuo forte. -
- Vorrei vedere te. - ribatté lei piccata.
- Sarei stato quantomeno più cortese, -
- Stai insinuando che sono una maleducata scortese? - mormorò lei ad occhi chiusi, recliando il capo all’indietro.
- Si, precisamente. - confermò il bell’attore, cogliendo l’occasione per squadrarla da capo a piedi un paio di volte.
- Nelle mie condizioni avresti reagito nella stessa, identica maniera, fidati. -
- Non credo proprio. - ribatté lui, alzandosi in piedi: aveva intravisto la centralinista sbracciarsi per richiamare la sua attenzione e ogni scusa era buona per allontanarsi da quella pazza furiosa che gli avevano affibbiato come menager.
Annie lo guadò allontanarsi, accigliata.
Ma cosa diavolo poteva saperne lui delle sue condizioni e di come avrebbe reagito? In fondo, non era lui che non dormiva da più di ventiquattro ore e si trascinava avanti per inerzia e massicce dosi di caffeina, quindi poteva solo starsene zitto e fare quello che lei gli chiedeva senza battere ciglio.
Si massaggiò le tempie, prima di allungarsi verso un tavolinetto di vetro e agguantare una rivista patinata, piena zeppa di superficialità e foto di modelle taglia trentasei.
Stava ancora sfogliando le pagine, senza nemmeno vedere cosa c’era stampato sopra, quando una voce che ben conosceva uscì all’improvviso dai grandi autoparlanti ai lati della sala. Era una voce calda, densa, sicura, con un tono vagamente divertito.
- ...e così quella pazza si è presentata nella mia camera d’albergo alle cinque del mattino, irrompendo nel mio bagno mentre facevo una doccia... - s’interruppe, mentre gli veniva chiesto che ci facesse sotto la doccia alle cinque del mattino. Sospirò – Eh, lo so, una lunga storia... ma comunque, irrompe nel bagno e mi ordina darmi una mossa che avevamo da fare. - una risata – Inutile dire che mi sono talmente spaventato che ho corso come un razzo e non ho battuto ciglio. -
Annie raddrizzò la schiena, insospettita, e attesa che un’altra voce domandasse chi fosse, quella fantomatica pazza furiosa.
- Ah, non te l’ho detto? È la parte più divertente di tutta la storia, sai? Quando me l’ha detto sono rimasto basito e ho subito pensato a uno scherzo, che non era possibile che mi affidassero nelle mani di una bambolina tutto corpo e niente cervello. È la mia nuova menager, mi pare si chiami Anna, Annabel, qualcosa del genere. -
Era la voce di Orlando.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo tre ***


 

CAFFE’ NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO TRE


 

Los Angeles

Orlando sospirò, fissando il soffitto immacolato della stanza d’albergo dove Annie l’aveva sistemato.
La ragazza non aveva fatto una piega quando aveva lasciato il nido sicuro della radio e l’aveva raggiunta in macchina, trovandola intenta a parlare al cellulare con aria professionale. Gli aveva rivolto un cenno, ma gli occhiali scuri gli avevano impedito di capire se fosse arrabbiata o altro.
E quando aveva interrotto la conversazione, aveva messo in moto e non aveva aggiunto altro, se non qualche commento distratto sulle canzoni che l’autoradio faceva loro ascoltare. Non un tentativo di conversazione, non una frecciatina acida.
 Si rigirò su un fianco, chiudendo gli occhi.
I capelli ancora umidi gli si appiccicarono alla guancia schiacciata contro il cuscino, ma non ci prestò più di tanta attenzione, distratto com’era a seguire il filo dei suoi pensieri che, volente o nolente, portavano tutti alla sua nuova menager.
È chiaro, si disse, che sono rimasto colpito dalla sua reazione.
Ma non si aspettava così tanta indifferenza dopo tutta la tensione accumulatasi tra loro due in mattinata, come minimo aveva previsto un sfuriata con i contro fiocchi.
- Mah. .- borbottò, rivolto a un fantomatico interlocutore invisibile – Tipa strana. - aggiunse, dopo uno sbadiglio che si protrasse per una manciata di secondi.
Era stanco, si.
La notte insonne, la sveglia all’alba, l’uragano Annie e le lunghe ore di autostrada nel traffico di periferia.
Non l’avrebbe mai detto, ma quello squallido albergo poco fuori dall’aereoporto di Los Angeles gli era sembrato un’oasi, un paradiso.
 Stava scivolando dolcemente nel sonno, quando la squillante suoneria del cellulare iniziò a suonare, facendolo sobbalzare vistosamente.

- Cazzo! - sbottò sollevandosi a sedere e afferrando il piccolo telefono argentato che si era messo a saltellare sul comodino a ritmo con quella versiono polifonica di Iris, dei Goo Goo Dolls.
Sul dispaly, sotto alla foto di una biondina con evidenti problemi di alimentazione lampeggiava un nome.
Kate.
Sospirò, prima di rispondere con un’allegria quasi forzata.
- Pronto? -
La voce della ragazza gli contrasse il viso in una smorfia, tanto era acuta.
“Orli, amore!” c’era una nota di disappunto nel tono o era una sua impressione? “Che fine hai fatto?”
- Kate, ciao. Scusa se non ti ho chiamato, ma ho lavorato tutto il giorno. - si giustificò con una mezza bugia: in realtà si era completamente dimenticato dell’esistenza della ragazza fino a quando lei non si era fatta viva.
“Questo comunque non ti giustifica, ti sei dimenticato del nostro mesiversario”
Orlando rimase a occhi chiusi, mentre nella sua mente prendeva forma il viso corrucciato della bionda.
Ci mise un po’ a capire a quale mesiversario si riferisse.
Ne avevano festeggiati talmente tanti, nel corso degli anni, che iniziava a fare fatica nel ricordare le date che variavano con intervalli che spaziavano dalle due settimane ai sette mesi.
- Amore, scusami, mi dispiace tantissimo. - non cercò nemmeno si giustificarsi, massaggiandosi stancamente gli occhi – Ma davvero, ho avuto una giornata talmente piena che... -
“Oh lo so, lo so” lo interruppe lei, petulante “Ho sentito l’intervista” la sentì schioccare la lingua contro il palato “Quando pensavi di dirmi della tua nuova menager e del suo strano vizio di entrare nelle docce altrui quando sono occupate?”
- Kate, - trattenne a stento l’ira che gli era montata dentro, improvvisamente – Prima cosa non ne sapevo niente neanche io, fino a questa mattina, e seconda cosa non è un vizio. È stato un caso. - stanco com’era, non si rese nemmeno conto che stava difendendo quell’incubo con i capelli rossi.
Se ne accorse perfettamente Kate, invece.
“Ah, deduco che la cosa non ti sia dispiaciuta più di tanto..” insinuò velenosa.
- Tesoro, cosa vai farneticando? - 
“No, niente...” la sentì sospirare, come se fosse un caso disperato. Come se fosse uno sforzo, per lei, restare assieme a lui, e non il contrario. “Vabbeh, non importa. Ora devo andare dal parrucchiere e il taxi sarà qui a momenti. Ciao-ciao-amore-a-presto-ti-amo!” cinguettò allegramente, chiudendo la conversazione prima che l’attore potesse dire qualsiasi cosa.
Orlando rimase per cinque minuti buoni con il cellullare ancora attaccato all’orecchio, ascoltando il metallico e ipnotico tuu tuu che segnalava la linea libera. Quando Annie bussò delicatamente alla sua porta, era ancora lì, imbambolato a fissare il nulla e con la testa assolutamente vuota.
Meccanicamente, disse che la porta era aperta e questa si schiuse, lasciando intravedere una cascata di lava scura e due occhi neri.
La ragazza non sorrise, infilandosi nella stanza con la sua immancabile agenda sotto braccio e un bicchiere per mano.
Il debole flip-flap delle ciabattine infradito che portava l’accompagnarono attraverso la stanza.
- Disturbo? - chiese sotto voce lei, indicando con un cenno del capo il telefono che aveva ancora contro l’orecchio.
Preso in contropiede, Orlando rimase muto per qualche istante senza capire.
Al telefono? Aggrottò la fronte, che subito si distese in risposta allo scintillio divertito che attraversò il viso di Annie come un fulmine.
- Si, ci sentiamo più tardi, ciao. - disse automaticamente, più in fretta di quanto avrebbe voluto, mimando un’inesistente conversazione.
Chiuse il cellulare con uno scatto e si schiarì la voce, nascondendo l’imbarazzo.
- E’ caffè quello? - chiese, alludendo ai due bicchieri che aveva posato sul comodino.
Lei scosse il capo, sedendosi sul letto accanto a lui e accoccolandosi nella posizione del loto, fissandolo dritto negli occhi.
- No, cianuro. - rispose serissima, aprendo poi la sua agenda e sfogliando le pagine alla ricerca di qualcosa, sfuggendo inconsapevolmente allo sguardo omicida del ragazzo.
Una collana di perle di legno chiaro le scendeva lungo il petto, perdendosi nel verde scuro della maglia.
- Non mi pare rientri nella gamma dei tuoi interessi uccidermi. - obbiettò gelido, senza scalfire minimamente quella facciata tranquilla dietro cui si era trincerata.
Ancora non riusciva a capire cosa diavolo avesse fatto di male per meritare un trattamento del genere: d’accordo che erano partiti con il piede sbagliato, d’accordo che sembravano essere completamente incompatibili caratterialmente, d’accordo tutto, ma era un po’ troppo.
- Non mi pare che bevande a base di cianuro le vendano in un bar nel terminal di un aereoporto. -
La fissò in silenzio, senza più replicare. Anche volendo, non avrebbe saputo cosa dirle a quel punto, la sua vena di cattiveria non attingeva a fonti profonde e si esauriva in fretta, per lo più concentrandosi in grandi esplosioni di perfidia, come quella mattina alla radio. La menager, al contrario, sembrava aver a sua disposizione una miniera piuttosto ricca.
- Stronzate a parte. - riprese con un mezzo sorriso lei, riavviandosi una ciocca dietro un’orecchia, la voce e il volto decisamente ammorbiditi – Dobbiamo parlare dei tuoi impegni. Mentre inauguravi il centro sociale, mi sono messa in contatto con l’agenzia della tua precedente menager, per cercare eventuali appunti circa quello che poteva aver organizzato per te e... -
S’interruppe, quando il cellulare dell’attore prese a vibrare impazzito, agitandosi come se fosse in presa a chissà che terribili e dolorose convulsioni sul letto, tra loro due. Quando Orlando lo afferrò, emise un flebile pin-pin pin-pin ad indicare che era arrivato un messaggio: il ragazzo si scusò con un cenno e fece affondare gli occhi color nocciola nel display azzurrino, dove stava scritto tutto il disappunto di Kate per la mezz’ora che aveva perso a causa dell’incompetenza del salone che era terribilmente in ritardo con gli appuntamenti della giornata.
- Dicevi? - non si prese la briga di rispondere e posò di nuovo il telefono sul letto, tornando a guardare la ragazza, che riprese a parlare.
- Si, insomma, non ne ho cavato un ragno dal buco. L’unica cosa che hanno saputo dirmi è che il venticinque marzo devi essere a Londra, nulla più. - si allungò, afferrando uno dei due bicchieri e buttò giù una lunga sorsata. Si leccò le labbra, gli occhi socchiusi, e gli chiese – Ti dice niente questa data? -
- Il venticinque marzo? - lei annuì di nuovo, sorseggiando la bevanda racchiusa nel bicchiere bianco.
Orlando scosse il capo – No, non mi pare che... no, non mi viene in mente niente. -
- Lo sospettavo. - l’affonde fu veloce, una stoccata che lo colpì senza però ferire troppo – Per questo ho continuato a cercare, anche mentre mi sputtanavi allegramente alla radio. - un secondo colpo, secco e preciso: vacillò – A proposito, ti ricordo che non è me che devi pubblicizzare, caro. - il colpo di grazia.
Orlando chinò il capo.
- Ma non importa, adesso. - riprese lei, con un sorriso pacato sulle labbra – Quello che conta è capire cosa... -
Di nuovo, il cellulare riprese il suo esagerato spettacolino per annunciare l’arrivo di un sms.
Piuttosto imbarazzato, Orlando lo prese e, senza nemmeno leggere quello che il messaggio diceva lo cestinò. In fondo, si disse, non poteva essere più che tanto importante. Era un messaggio, un ennesimo messaggio di Kate.
Annie riprese a parlare, senza tradire il fastidio che le si era annidiato negli occhi scuri.
- ...cosa diavolo devi fare a Londra il venticinque marzo. Stando a quello che i miei hanno saputo dirmi, non c’è nulla di chissà che importante, a parte un concerto dei “Where’s Fluffly?” che dubito fortemente abbia a che fare con te. Dubito persino che tu li abbia mai sentiti nominare. Quindi... -
Questa volta, non era un sms.
Il cellulare di agitava come se fosse dotato di vita propria e segnalava una chiamata. Annie sospirò, rassegnata.
- Avanti, avanti, rispondi! - lo incitò seccata, agitando una mano e rifugiandosi nel suo cappuccino alla vaniglia.
Aveva fatto i salti mortali per trovare quel minuscolo chiosco, l’unico di tutto il terminal che sembrava quantomeno sapere cosa fosse un cappuccino alla vaniglia.
Il fatto che fosse assolutamente disgustoso, era un’altra storia.
Orlando si scusò con un mezzo sorriso mesto e agguantò il telefonino, quasi temendo che le fosse finito troppo vicino alla menager questa lo avrebbe distrutto con lo sguardo. Sul display, ancora il viso troppo magro di Kate e il suo nome.
- Pronto? - chiuse gli occhi, mentre la voce acuta e fastidiosa della ragazza gli perforava le orecchie con uno strillo arrabbiato.
“Orlando, ma ti pare il modo? Da quando in qua non rispondi ai messaggi, eh?”
- Kate, amore, scusami ma non... - non ebbe il tempo di finire la frase che la ragazza riprese ad urlare.
E a giudicare dall’espressione fortemente sarcastica della menager seduta davanti a lui, gli strilli della Bosworth li sentiva chiari pure lei. Si scoprì a desiderare che la terra si aprisse sotto di lui, inghiottendolo.
“Niente ma, niente ma!” lo aggredì la voce vagamente metallica “Sempre a cercare scuse tu! Mai la verità, sempre bugie! Dillo che ti sei stufato, dillo che vuoi piantarmi e mi provochi in modo tale che sia io a lasciare te, dillo su!”
- Kate, magari se mi lasci parlare ti spiego... -
“E no che non ti lascio parlare, non ho nessuna intenzione di darti l’occasione di mollarmi, troppo facile adesso caro mio!”
Continuò a blaterare per qualche altro minuto, mentre un Orlando sempre più imbarazzato si sentiva la faccia bruciare come mai in vita sua davanti al largo sorriso di Annie, sorriso che andava trasformandosi sempre più in una crisi di riso.
“AHHHHHH!” urlò Kate all’improvviso, mentre la risata della menager esplodeva nella stanza “E sei pure con una donna, razza di screanzato! Basta, sono stanca. Adesso basta! Addio.”
Di nuovo, Orlando si ritrovò ad ascoltare il flebile tuu tuu del telefono.
- Ha riattaccato. - disse quasi incredulo, fissando gli occhi nerissimi della menager, ora tranquilla, che brillavano sfacciatamente.
- Immaginavo. - commentò tranquilla – Guarda il lato positivo, però, per lo meno per stasera ha smesso di rompere e forse, ma non ne sarei chissà quanto sicura, forse riusciremo a finire il discorso. -
- Si, forse hai ragione. - sospirò l’attore, agguantando il bicchiere di caffè ancora fumante posato sul comodino e ne scolò una metà abbondante – Dicevamo? - più che imbarazzato si sentiva esausto. Come se avesse lottato contro qualcosa di enorme.
- Del venticinque marzo. - rispose lei pronta, sfilando da una tasca dei jeans chiari che indossava un palmare.
Lo consultò rapidamente, mordicchiandosi le labbra, e poi sollevò di nuovo lo sguardo su di lui – Non ti ho fissato altri impegni per la settimana, per cui per quanto mi riguarda, sei potenzialmente libero fino al venticinque. Oggi siamo il... -
- Il sette. - le venne in soccorso Orlando, con un tono assurdamente cupo.
La conversazione con Kate lo aveva gettato nella pozza del malumore più nero e fondo in cui cadeva da qualche mese a questa parte. Nemmeno gli scambi di perfidie con la menager lo avevano demoralizzato così tanto.
- Il sette, si. Con un po’ di fortuna dobbiamo possiamo imbarcarci su un volo per Londra e arrivarci in giornata, in modo da poter vedere cosa succede il venticinque direttamente da lì. O almeno, questo è quello che farò io. Per te ho prenotato un volo per il quindici, prima mi saresti d’impaccio. -
Gli occhi scuri dell’attore si illuminarono.
- Questo vuol dire che ho un’intera settimana libera! - esclamò quasi incredulo.
Lei rise, sommessamente.
- Si, diciamo di si. Ma a una condizione. - aspettò che tornasse serio, per riprendere a parlare – Non devi mai, MAI più fare una cazzata come quella di oggi alla radio, nè tantomeno criticare gratuitamente il mio lavoro. Mi sono fatta il culo per procurarti quell’intervista, ho passato tutto il volo da New York a qui senza chiudere occhi, attaccata al telefono per te. - s’interruppe, per bere un sorso di cappuccino – La tua ex menager ha fatto un lavoro piuttosto da schifo, la tua situazione non era delle più rosee stando a quello che mi è stato riferito, le critiche te le potevi tranquillamente risparmiare. -
Fece una pausa, la fronte aggrottata e lo sguardo perso in un qualche pensiero lontano.
L’attore colse l’occasione per guardarla con attenzione: aveva il naso spruzzato di lentiggini e un piccolo nero sotto l’occhio sinistro. Un neo sulla via delle lacrime.
I capelli ricadevano morbidi davanti alle spalle, appena appena girati verso dentro da una spazzola sapiente, catturando la luce dell’abat-jour.
C’è qualcosa di assurdamente infantile in lei, qualcosa che veniva negato dagli occhi neri, seri e impenetrabili.
- Ma questo non importa. - riprese all’improvviso, riscuotendosi, e l’attore sobbalzò appena – Quello che devi ficcarti nella tua testolina di attore strapagato e abituato a fare tutto quello che gli pare e piace quando gli piace, è che io lavoro per te. Non contro di te. E che metterti a parlare di me, fare pubblicità a me, pubblicità negativa tra l’altro! Non ti aiuta minimamente. Anzi, è controproducente. - finì il suo cappuccino e si alzò in piedi, raggiungendo la porta e fermandosi lì davanti, una mano sulla maniglia – Io non ho niente in contrario a lasciarti i tuoi spazi, se si presenta l’occasione. Ma se ti metti contro di me, allora non andremo da nessuna parte. Sono stata chiara? -
E così alla fine è arrivata, si disse Orlando annuendo impercettibilmente.
La strigliata, la ramanzina che aveva temuto esplodesse quando era uscito dalla stazione radiofonica, era arrivata.
Fredda, implacabile, inattaccabile.
Esattamente un istante dopo aver annuito si odiò e la odiò perché aveva ragione.
Ma non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura, era una questione di principio: non riusciva proprio a sopportare le persone che, come Annie, avevano sempre ragione e ne erano consapevoli.
Erano una ristretta elité di esseri umani che, ai suoi occhi annebbiati dal fastidio, avevano avuto il dono di saper distinguere ad occhi chiusi ciò che era giusto e sbagliato e, assieme a questo, il permesso di farlo pesare al resto del mondo, a quel branco abbandonato a se stesso e destinato a vagare nel grigio, tra bianco e nero, bene e male, giusto e sbagliato nella speranza di scorgere una luce che possa indicare una strada, un sentiero, anche solo una pista da seguire.
Fissò il punto dove prima la ragazza era seduta, sul letto, come se potesse darci fuoco e cancellare quel lieve aroma di cannella che si era lasciata dietro, mentre la porta si chiudeva delicatamente.
La odiava. Dio, se la odiava!
Ma, si disse con un mezzo sorriso, tornando a distendersi sul letto, aveva una settimana piena per renderle la vita un inferno.
Ne aveva fatte scappare cinque, ci avrebbe messo veramente poco a farne scappare anche la sesta.
In fondo, ormai era un vero esperto.
E quella ragazza doveva avere un punto debole, fino a prova contraria era umana anche lei!
 Che le donne fossero creature estremamente orgogliose, lo aveva sempre saputo.
E quel tanto che la sua esperienza gli aveva mostrato, era che a lungo andare quello stesso orgoglio si rivolta contro di loro.
O rinchiudendole in un carcere di rancore e rabbia o uccidendole lentamente, con la stessa implacabilità di un veleno letale, che non lascia scampo nemmeno se viene somministrato un antidoto.
Annie sarebbe crollata. Alla fine, avrebbe vinto lui.
Chiuse gli occhi e, cullato dall’idea di una vendetta terribile, si addormentò con un sorrisetto disegnato sulle labbra. Il pensiero che fosse un comportamento infantile non lo sfiorò nemmeno per sbaglio.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro ***


CAFFE’ NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO QUATTRO



 

Los Angeles

Annie si rannicchiò contro lo schienale del sedile, mentre attorno a lei facce sconosciute si affollavano tra le poltroncine imbottite della prima classe, alla ricerca del loro posto. La testa le pulsava violentemente, le poche ore di sonno che si era concessa iniziavano a diventare pesanti da sopportare e aveva mille pensieri per la testa, al punto che riuscire a seguirne uno fino alla fine era un’impresa non indifferente anche per lei, che era riuscita a rimanere sveglia per quattro giorni di fila in un tour de force di riunioni.
Sbadigliò vistosamente, prendendo seriamente in considerazione l’idea di chiedere alla biondissima hostess che sorrideva cortese a un giovane uomo d’affari una camomilla, invece del suo solito caffé.
Evitando di stroppicciarsi gli occhi, sfilò i piedi dalle scarpe e li posò sulla moquette azzurrina, sospirando per il sollievo.
Se non fosse stato per il fatto che adorava profondamente i tacchi, li avrebbe dichiarati fuorilegge.
Erano le sei del mattino e il sole stava lentamente facendo capolino all’orizzonte, rendendo la pista d’atterraggio simile a un miraggio tremulo, tante striscioline sul confine tra cielo e terra che danzavano leggere nell’aria del primo mattino.
Posò la mano sul finestrino, sentendolo freddo contro la pelle, e si mordicchiò le labbra pensierosa, mentre le tornava alla mente il dialogo avuto la sera prima con Orlando.
Sospirò, tornando a guardare davanti a se, la borsa abbandonata sulle gambe.
Non avrebbe voluto essere così acida, non dopo aver passato tutto il pomeriggio e buona parte della serata a convincersi che una reazione del genere era perfettamente normale, che era stata lei scortese, che le cose non erano iniziate nel migliore del modi e non aveva sicuramente contribuito a migliorarle.
Però quello stupido cellulare. Dio, quanto l’aveva innervosita!
Quella vocina stridula, poi.
Kate Bosworth.
Non c’era essere umano interessato ad Orlando Bloom che non conoscesse il suo nome e lo pronunciasse con un disprezzo tale da far paura.
Le era sempre stata assolutamente indifferente, sia dal punto di vista umano che professionale.
La trovava scialba come attrice e insignificante come persona, l’unica cosa notevole che vedeva in lei erano gli occhi, uno marrone e uno azzurro.
Per il resto, nulla.
Il semplice fatto che fosse la ragazza di Orlando Bloom serviva solo a confermare che i belli si mettono con i belli, in barba al carattere, alla bellezza interiore e stupidaggini simili.
- Desidera qualcosa? - la voce gentile dell’hostess la fece sobbalzare leggermente, cogliendola di sorpresa.
- Come? -
- Qualcosa da bere? Caffé? Thé? - la giovane non fece una piega, continuando a sorridere cordialmente.
- Caffé. - rispose automaticamente Annie, aggrottando la fronte. E che fine aveva fatto il suo buon proposito di dormire un po’? – Anzi, no. Un latte macchiato è possibile? - domandò, abbozzando un sorriso quasi di supplica.
L’hostess scosse il capo.
- Cappuccino, al massimo. -
- Cappuccino sia, grazie. - sorrise di nuovo, mentre il cellulare pigolava discretamente nella sua borsa.
Altro che quel numero da circo di ieri sera, pensò tra se e se, prendendolo il mano e pigiando qualche tasto per trasformare quella piccola busta chiusa in un messaggio di pixel.

Ehi Charlie Brown! Comparve sullo schermo azzurrino; sapevi che su internet c’è un sito dove si raccolgono scommesse circa quanto durerai accanto al tuo nuovo protetto? C’è il rischio che diventi una leggenda. Chiama quando puoi-baci-Janis.

Le labbra di Annie si curvarono in un ghigno sarcastico, mentre digitava rapidamente la risposta.

Sono già una leggenda, mia cara. Sto partendo per Londra, ci sentiamo quando atterro. Baci baci, your Charlie Brown.

Si abbandonò contro lo schienale della poltroncina, ringraziando quella buona stella che le aveva permesso di trovare un lavoro dove viaggiare in prima classe era routine –quando era possibile, ovviamente - e, una volta allacciata la cintura e sistemata la borsa tra il suo fianco e il bracciolo rivestito di stoffa rossa, chiuse gli occhi mentre l’aereo rollava dolcemente lungo la pista e si sollevava, in un cielo incredibilmente limpido e privo di nuvole.

*


Los Angeles

Orlando riaprì gli occhi che era mezzogiorno ormai passato.
Le tende erano tirate e la luce che avvolgeva la stanza non era riuscita a scalfire il bel sogno che aveva fatto, lasciandolo dormire forse più di quanto avrebbe voluto e dovuto. Poco importa, si disse stiracchiandosi pigramente con un mezzo sorriso dipinto sul bel volto, c’è tempo.
La vendetta, in fondo, è un piatto che va consumato freddo.
Accantò quella vaga sensazione di non avere tutte le rotelle a posto con una stretta di spalle e posò i piedi a terra, del tutto deciso a non lasciare che il resto della giornata andasse sprecato. Rabbrividì non appena sfiorò il pavimento freddo e si alzò con un movimento brusco, tirandosi dietro la lenzuola che caddero a terra, aggrovigliate.
Le lasciò lì, afferrando un maglione e il borsone che aveva abbandonato ai piedi del letto.
- Addio, topaia del cazzo! - esclamò tutto allegro, sbattendo alle sue spalle la porta della stanza che aveva cullato i suoi progetti bellicosi – Non mi mancherai. -
Non sapeva perché, ma sentiva che era uno di quei momenti che andavano sottolineati con un enfasi da fanatici, per rendere l’istante denso di tensione.
Il rombo di un aereo che decollava fu la prima traccia della colonna sonora della sua vendetta, mentre fermava un taxi con un fischio.
Non molto ad effetto, ma meglio di niente.
- Dove la porto? - chiese sgarbatamente il tassista, un uomo sulla quarantina dai grandi occhi scuri infossati dentro delle guance troppo grasse.
Orlando sorrise, sentendosi estraneo a tutto ciò che non riguardava la lotta che aveva ingaggiato con la sua menager.
- Allora? - insistette l’uomo, masticando rumorosamente una gomma.
- Se mi lascia parlare, magari... - obbiettò l’attore, senza perdere la calma.
- Il punto è che tu non parli, cocco bello, e che non ho tutta la giornata da dedicarti. -
Il ragazzo roteò gli occhi, resistendo all’impulso di sputare su quel viso grassoccio e ottuso una lunga serie di insulti e poi cambiare taxi.
- Beverly Hills, - sibilò con un sorriso di cortesia stampato sulla faccia – Rodeo Drive. -
L’uomo brontolò qualcosa in una lingua che non comprese, lanciandogli una lunga serie di occhiatacce guardandolo nello specchietto retrovisore, prima di mettere in moto e infilarsi nell’autostrada che lo avrebbe portato nel piccolo regno incantato dei divi di Hollywood.
Orlando lo ignorò, recuperando un i-pod dall’aspetto vissuto dal borsone e immergendosi in una vecchia canzone di Alice Cooper.
I want to hurt you just to hear you screaming my name.
Mai un verso gli era sembrato così dannatamente appropriato.

*


Somewhere on the U.S.A.

Quando Annie si svegliò, era passata qualche ora dal decollo dell’aereo.
Sotto l’aereo, in una distesa di verde, giallo e marrone gli Stati Uniti sfilavano veloci verso l’enorme distesa blu scuro dell’Oceano Atlantico, ancora lontano.
Si stropicciò gli occhi, facendo attenzione a non sbavare l’impeccabile trucco che, come ogni mattina, le aveva portato via un quarto d’ora di tempo.
Dopo un sonoro sbadiglio, recuperò uno specchietto dalla borsa e guardò il suo riflesso con aria critica.
Occhiaie a parte, non era tanto terribile.
- E’ perfetta così. -
La giovane alzò gli occhi, le sopracciglia inarcate e un commento acido pronto a essere sparato contro il malcapitato proprietario della voce che aveva apprezzato la sua faccia, ritrovandosi a fissare i più incredibili occhi blu che avesse mai visto sul viso di un uomo. Rilassò la fronte e sorrise, automaticamente.
- Potrei dire lo stesso. - replicò, chiudendo lo specchietto con uno scatto e infilandolo nella borsa con nonchalance.
Si godette il sorriso dell’uomo, probabilmente l’orgoglio di qualche costosissimo dentista, prima di proseguire – Posso fare qualcosa per lei? -
- Potrebbe dirmi il suo nome, tanto per cominciare. - esordì l’uomo, strappandole una risatina sciocca e frivola.
- In cambio di cosa? - si sporse appena, accavallando le gambe con fare accattivante.
Aveva solo una manciata di ore per riprendere fiato, prima di precipitare nel caos frenetico e umido di Londra, perché non passarle nel più dolce dei modi?
L’uomo rise.
- Le direi in cambio del mio numero di telefono, ma al momento posso darle solo il suo cappuccino temo. - sospirò lui, porgendole una tazza fumante, recuperata da un carrellino che la sua collega spingeva con insistenza contro le sue gambe per farlo andare avanti.
Annie sorrise a sua volta, facendo attenzione a sfiorare le mani dell’uomo per prendere la sua tazza.
- Mi acconterò di questo, - sospirò a sua volta, per poi aggiungere, volutamente maliziosa – per ora. -
La risata dello stewart accompagnò il primo sorso. Delizioso. Era uno dei migliori cappuccini che avesse mai bevuto a bordo di un aereo.
Socchiuse gli occhi, leccandosi le labbra per pulirle dalla schiuma e si rilassò contro lo schienale della poltrona, i piedi saldamente affondati nella soffice moquette beige.
Si, decisamente si prospettava un volo favoloso.

*


Los Angeles

L’odore di soldi che si respirava a Rodeo Drive finiva sempre col lasciarlo senza fiato.
Ovunque si voltasse, non vedeva altro che luccicanti vetrine, nomi di firme italiane, cartellini con prezzi esorbitanti e visi troppo perfetti per essere completamente naturali.
Seguì con gli occhi una biondina che gli saltellò accanto, trascinandosi dietro una lunga serie di sacchetti bianchissimi di Dior, ritrovandosi a scansare all’ultimo minuto una donna di mezza età in bilico su un paio di tacchi firmati Jimmy Choo.
Scosse il capo, quando questa lo fulminò con lo sguardo in un turbinare di ciocche biondo platino accuratamente ritoccate da un sapiente parrucchiere.
Affondò le mani nelle tasche dei jeans, offrendo il viso al sole e concedendosi un pigro sorriso: era una giornata bellissima.
Sole, non una nuvola in cielo, la prospettiva di un’intera settimana per far dannare la sua menager.. si, stava andando tutto una meraviglia constatò entrando in una caffetteria.
- Bloom! -
Si voltò, sorridendo.
Ad un tavolino ammassato contro una parete, una ragazza lo fissava con un ghigno sfrontato, tenendo le braccia conserte davanti ad un bicchierone di the freddo.
Capelli castani, occhi color cioccolata, aveva un qualcosa di vagamente irriverente, qualcosa che non lasciava che il suo aspetto ordinario la facesse sembrare banale.
- Ames! - la salutò, lasciandosi cadere su una sedia in fronte a lei – Come te la passi, ragazzina? -
- Alla grande, bamboccio, non potrebbe andare meglio! - la ragazza fece una smorfia, prendendo il bicchiere tra le mani e giocherellando distrattamente con la cannuccia nera. Non si disturbò di ricambiare la cortesia, limitandosi a fissare l’attore in silenzio, fino a farlo sentire vagamente a disagio.
- Beh? - chiese Orlando – C’è qualcosa che non va? -
- Oh. Oh no !- lo rassicurò lei sorridendo – Stavo solo pensando... non mi hai ancora detto perché mi hai voluta vedere. Lo sai, vero, che sono felicemente fidanzata e che non ti posso soffrire in mutande, vero? -
- Ne sono consapevole. - sospirò lui, rilassandosi ai ritmi di quel rituale che conosceva ormai da anni.
Si erano conosciuti per caso, alla festa dopo la premieré della Compagnia dell’Anello, quando lei era entrata nel bagno delle donne e lo aveva trovato in mutande, palesemente ubriaco, intento a cercare di pulire una macchia di quello che si era poi rivelato Bloody Mary sui pantaloni.
Per un’aspirante cacciatrice di scoop hollywoodiani era un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire: aveva chiuso la porta a chiave e torchiato Orlando fino a strappargli un’intervista che sarebbe diventata il suo pass-par-tout per ogni rivista desiderasse.
Insolitamente, oltre all’intervista era nata anche una bizzarra amicizia.
Ogni qualvolta Orlando aveva bisogno di un po’ di pubblicità, la chiamava.
E ogni qualvolta lei aveva bisogno di lavoro – cosa piuttosto rara, negli ultimi tempi -, lo chiamava.
- Allora, cosa posso fare per te? - riprese la giornalista – Non mi pare sia tempo di magra.. - osservò inarcando le sopracciglia.
- Infatti, - confermò il ragazzo con un sorriso – ho bisogno di un favore, Alix. -
- Un favore? - si sporse sul tavolino, interessata.
- Si. Immagino che tu sappia della mia nuova menager, no? - aspettò che lei annuisse, per proseguire – Beh, ho bisogno di sapere tutto su di lei. Tutto. Vite, miracoli, drammi, cazzate, ogni cosa. -
- E perché, di grazia? -
- Perché me lo devi, tesoro. - provò ad abbagliarla con un sorriso che avrebbe fatto tremare mezzo mondo, ma che riuscì solo a scalfire la tranquillità della ragazza.
- Ancora quella vecchia storia.. - brontolò, posandosi contro lo schienale.
- Zuccherino, che ti aspettavi? Ti sei pagata cinque mesi di bollette con quello che ti hanno dato per la storia di Barbara. - commentò sarcastico, pensando a quando una mattina si era svegliato e aveva trovato su tutte le prime pagine dei tabloid californiani la sua faccia vicino a quella disperata della sua ex menager.
- Non tutti vengono pagati fiori di milioni per indossare orecchie a punta e lenti a contatto colorate. - ribatté lei piccata.
Orlando non mollò la presa.
- Alix Ames, non azzardarti a fare quello che pensi di fare! - l’ammonì ridendo. Alix aggrottò la fronte, imbronciata, prendendo tempo e sorseggiando il suo tè.
Poi, alla fine, sospirò.
E Orlando seppe di averla in pugno.
- D’accordo biondino, d’accordo. - capitolò con un sorriso – Ma ad una condizione! Voglio un’esclusiva. Se trovo qualcosa di anche solo vagamente interessante, sarà mio. Ogni cosa, qualsiasi cosa, sarò libera di farne quello che voglio. - tese la mano destra, inarcando le sopracciglia – Allora? Ci stai? -
Senza neanche pensarci, ricambiò la stretta della giornalista energicamente.
- Ci sto. -
- Bene, biondino. Allora siamo in affari. - ghignò e per un attimo, un attimo solo, prima che lei gli domandasse qualcosa sui suoi progetti, ne ebbe paura.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo cinque ***


CAFFE’ NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO CINQUE

 


Annie sbuffò, posando l’ennesimo quotidiano sul tavolo davanti a lei e afferrando la tazza con il caffé, ancora bollente.
Tra le pagine di gossip spiccavano, per l’ennesima volta in prima fila, il nome e una foto di Orlando Bloom: l’attore, diceva l’articolo, era stato di nuovo avvistato in uno dei più esclusivi club di Los Angeles, in compagnia degli irriducibili festaioli più in voga al momento.
Paris, Lindsay, Nicole.. i nomi si sprecavano.

Buttò giù una sorsata, storcendo la bocca.
Troppo forte.

Fissò il giornale per un altro po’, senza pensare a niente, limitandosi a guardare il bel viso sorridente dell’attore.
Questa volta la foto era bella, osservò con un sorriso amaro quanto la bevanda che si costringeva a inghiottire per svegliarsi del tutto -dopo un’ennesima notte passata a lavorare -; non come quella del giorno prima, dove era stato immortalato con un’espressione che più ebete di così non si poteva.

Da quando lo aveva lasciato dall’altra parte dell’oceano, apparentemente a briglia sciolta, il ragazzo si era dato da fare per godere al meglio della vita mondana della città. Party, concerti, eventi, red carpet, premiere, inaugurazioni, feste di compleanno. Non si era risparmiato: ovunque soffiasse il vento dei giornalisti, lui c’era.
Si muoveva sulla scia dei tabloid, delle macchine fotografiche e degli articoli che, in genere, chiunque non si chiamasse Hilton di cognome e non avesse lunghi capelli biondi evitava come la peste.
Rilasciava brevi interviste, lanciava battutine volutamente ambigue, si prodigava in sorrisi che sapevano di falso a un miglio di distanza ma facevano impazzire i cacciatori di scoop.

Annie posò la tazza sul tavolo, alzandosi in piedi di scatto.
Quel dannato ragazzino, pensò con rabbia, finirà con il mandare tutto a puttane.
Si fermò davanti al lavello, dove l’aspettavano pazientemente tutte le tazze che aveva utilizzato nei giorni precedenti.
Lavaci!, sembravano strillare tutte in coro, facendo bella mostra di zucchero saldamente incrostato sul fondo.
E accanto a loro, una piccola montagna di contenitori di cibo cinese take-away sorrideva orgogliosa.

La ragazza gemette, passandosi una mano sul viso.
Non poteva andare avanti a cibo cinese e caffè a vita, aveva bisogno di un pasto decente.
Aprì il rubinetto dell’acqua calda, agguantando una nuovissima spugnetta gialla che stazionava accanto al lavello ormai da due settimane, ma l’occhio le cadde sull’orologio appeso alla parete.

- Merda! - imprecò, accorgendosi che le lancette segnavano, impietose, le otto e ventitre.
Aveva un appuntamento alle otto e tre quarti: il grande capo in persona voleva vederla.
Ed era ancora in pigiama.

- Merda, merda, merdissima! - strillò di nuovo, lanciando la spugnetta tra le tazze sporche, irrimediabilmente destinate a rimanere tali, e precipitandosi al piano di sopra, indossando i primi vestiti trovati nell’armadio – uno sfortunatissimo abitino vintage brutalmente strappato al suo appendino - e afferrando alla svelta la borsa, assieme ad un paio di scarpe.
Si precipitò fuori casa, saltellando su un piede e costringendo l’altro ad infilarsi nell’adorabile Jimmy Choo tacco dodici che aveva ricevuto in regalo qualche tempo prima. Fermò un taxi al volo, ringraziando ancora una volta la sua buona stella che, oltre ad averle trovato un lavoro che le permetteva tanti piccoli lussi, le aveva fatto trovare pure casa relativamente vicino al centro, in una zona dove bene o male c’era sempre un taxi libero.
Mezz’ora dopo, miracolosamente benedetta da un’inspiegabile assenza di traffico, entrava nell’atrio esageratamente lussuoso del Four Season, dirigendosi con passo deciso al bar, dove l’aspettava il suo capo, con un doppio scotch tra le mani.
- David, - la ragazza aggrottò la fronte, studiando il bicchiere tra le mani del suo capo – non è un po’ presto per i super alcolici?-
- Non è mai troppo presto per un doppio scotch. Ne vuoi uno anche tu, piuttosto? - fermò un impeccabile cameriere con un gesto.
- No, grazie. Per me una spremuta d’arancia, grazie. - sorrise al ragazzo, congratulandosi con se stessa per aver messo subito in pratica il suo buon proposito di seguire una dieta che variasse da bevande con un alto tasso di caffeina e cibi precotti.
Tornò a rivolgersi a David, riavviandosi i capelli con un gesto disinvolto – Allora, di che dovevi parlarmi? -

- Del venticinque marzo! - annunciò trionfante, rigirandosi il bicchiere tra le mani.
Gli occhi neri di Annie si illuminarono, mentre un bicchiere colmo di un liquido arancione le veniva messo davanti.
Automaticamente, ne bevve un sorso: rimpianse subito la sua buona volontà, mentre il sapore dolce-amaro della spremuta le riempiva la gola.
Perché, si chiese con una smorfia, non ho preso un caffé come sempre?

- A quanto pare, si celebrano i cinquantanni dalla scomparsa di Max Ophüls. Sai chi è? -
- Il regista di “Yoshiwara, il quartiere delle geishe”. - rispose pronta la ragazza, posando il bicchiere sul bancone.
- Penso che se dici “Lettere da una sconosciuta” sono sicura che molte più persone capiranno chi è. Ma in ogni caso, pare che vogliano commemorare la sua scomparsa con una serata. Sai, le solite cose.. -
- Immagino. Il discorso di un qualche “esperto” che non sa nemmeno pronunciare il suo nome, la proiezione di una delle sue pellicole più famose, un buffet esagerato e la solita pioggia di flash. - Annie recuperò dalla borsa la sua agenda, prendendo qualche appunto in fretta.
- Ma non so dirti se è questo l’impegno del tuo pupillo. - l’uomo bevve un altro sorso, facendo tintinnare il ghiaccio contro il vetro del bicchiere, ormai vuoto.
- Mah, non saprei. Senza dubbio ha più senso questo che non il concerto dei “Where’s Fluffy?” -
- Direi proprio di si. - fu la replica, accompagnata da un vago sorriso – Ma com’è che ascolti ancora quella robaccia, eh? La vita londinese non è ancora riuscita ad intaccare i tuoi discutibili gusti musicali? -
- Temo proprio che è qualcosa che non accadrà mai. - rise, accavallando le gambe e lisciando le pieghe formatesi sulla gonna dell’abito.
- Annie Brown, se non fosse che sei la migliore sulla piazza ti licenzierei seduta stante solo per la musica ti piace. - David le sorrise, posandole una mano sulla spalla – Ti da un bel da fare, eh? - le chiese poi, di nuovo serio.
Annie non ci mise molto a capire che si stava riferendo ad Orlando.

- Non mi ha presa in simpatia, - scrollò le spalle – e non si può dire che io sia stata particolarmente gentile, ma ha la capacità di irritarmi come mai nessuno prima. - fece per prendere la spremuta e berne un sorso, ma rinunciò – E’ questione di tempo. Si stancherà di fare le sei del mattino, prima o poi. È pur sempre un attore, no? Dovrà pur tornare sul set! -
- Tienilo d’occhio, comunque. - l’ammonì David, con una lunga occhiata che non aveva bisogno di parole per essere spiegata.
- Oh, non ti preoccupare. - la menager sorrise, pimpante – Domani arriva qui a Londra, dove la vita sociale non è esagerata come a L.A. - si guardò le unghie della mano destra, con noncuranza – E credimi, non ho nessuna intenzione di lasciargli il tempo di mettere il naso fuori casa. -
David rise, burbero.
- Ecco la mia ragazza! Sapevo che era solo questione di tempo prima che la stacanovista che c’è in te tornasse alla luce! Ora posso tornare a New York tranquillo, non è stato un viaggio a vuoto. -
Annie rimase in silenzio, per qualche attimo, prima di realizzare quanto il suo capo aveva appena detto e sgranare gli occhi.
-Che ci fai tu qui?- gli chiese alla fine – Che ci fai a Londra? Potevi tranquillamente telefonarmi e dirmi tutto al telefono! -
- Vero. - l’uomo sorrise, alzandosi in piedi e sistemandosi l’impeccabile completo gessato firmato Versace che indossava – Ma adoro troppo il doppio scotch che fanno qui, non ho saputo resistere. -
- Scemo! - rise lei, colpendolo con uno schiaffetto al petto, mentre lui lasciava cadere una banconota sul bancone.
S’incamminarono verso l’uscita.

- Scherzi a parte, Annie, volevo vedere come stavi. Non è da te lasciare così tanto tempo libero ad un tuo protetto, sei tornata da poco al lavoro e l’ultima cosa che volevo era che succedesse come... -
-Va tutto bene, David. - lo interruppe lei, bruscamente – Non succederà come l’ultima volta, te l’ho promesso quando sono tornata e non ho intenzione di rimangiarmi la parola data. Fidati di me. -
Sostenne lo sguardo dell’uomo senza timore, fino a quando non lo vide ammorbidirsi in un sorriso.
- Lo so, Annie, lo so. Mi fido di te, ma ci hai fatto prendere un brutto spavento.-
- Argomento chiuso David, argomento chiuso. Ne è passata di acqua sotto i ponti, da allora. -
- Verissimo. - le sorrise di nuovo, fermando un taxi al volo – Volevo solo accertarmene di persona. E dopo aver constatato che le tue occhiaie sono più scure che mai e continui ad essere pimpante come se ti fosse appena svegliata da dieci ore di sonno ininterrotte, posso tornarmene a casa tranquillo. -
- Fa buon viaggio, David. - Annie sorrise, senza sbilanciarsi più di troppo.
In fin dei conti, era pur sempre con il suo capo che stava parlando, indipendentemente dal fatto che fossero ormai amici di vecchia data.

- E tu riguardati, Annie! -
Lo guardò salire nel taxi e sparire nel traffico della mattina, sotto un sole insolitamente gentile pel la stagione.
Incrociò le braccia al petto, riempiendosi i polmoni della fresca, frizzante, aria satura di smog della City e incamminandosi lungo il marciapiede, affollato di agenti di borsa, broker e uomini e donne d’affari di tutte le età e nazionalità.

C’era una sola cosa che doveva ancora fare, prima di tornare a casa e fare il solito giro di telefonate per prenotare il volo ad Orlando e informarlo sull’orario di partenza.
Aveva un disperato, urgente, insostenibile bisogno di caffè.

Adocchiò uno Starbucks, all’angolo con una delle tante strade trafficate della città, e, senza aspettare un secondo di più, vi si fiondò dentro.
Solo nel sentire il famigliare aroma di caffé, vaniglia, caramello e cannella, si sentì già meglio.
Decisamente non era ancora pronta a rinunciare alla caffeina. Non ora che le cose iniziavano a farsi più interessanti.

 

Il cellulare di Orlando iniziò a suonare attorno alle due del pomeriggio.
L’attore si era addormentato da una manciata scarsa di ore, con ancora addosso gli stessi vestiti della sera prima, scarpe comprese: appena rientrato in albergo era crollato –letteralmente- sul letto e non si era più mosso di lì.
Aveva dormito senza mai svegliarsi per ore, ma quando il trillo acuto del telefono lo svegliò, ebbe l’impressione di aver appena chiuso gli occhi.

- Pr..pronto? - biascicò, la voce impastata dal sonno e dal troppo alcol, non del tutto smaltito.
"Orlando, ciao, sono io."
Il primo istinto fu quello di coprirsi: non appena realizzò che l’io all’altro capo del telefono era Annie, agguantò il lenzuolo e lo tirò fino al mento, raggomitolandosi come se la donna fosse entrata nella stanza e l’avesse sorpreso nudo a letto.
Il secondo, fu di riattaccare.
Il terzo, di schiarirsi la voce e cercare di comportarsi come il trentenne di successo che era.

Dopo una dura lotta interiore, prevalse il terzo istinto.
- Annie. - le disse, raddrizzando la schiena e cercando di darsi un minimo contegno professionale – Dimmi. -
"Spero tu abbia carta e penna sotto mano" tagliò corto lei "perché sono un tantino di fretta e non posso stare molto al telefono" la sentì urlare qualcosa di molto poco carino ad un automobilista che doveva averla quasi investita.
Sorrise, prima di rendersi conto di quello che stava facendo.
Poteva pensare quello che voleva, ma la ragazza sapeva il fatto suo.
E la cosa gli piaceva.

- Tutto bene? - s’informò, chiudendo gli occhi e immaginando la ragazza per terra, in un bagno di sangue, appena investita da un folle pirata.
Si vergognò di se stesso all’istante e scosse il capo, allontanando il pensiero.
Quando mai era diventato così sanguinario?
Okay volerla umiliare, ma immaginarla morta era un tantino troppo.

"Si, scusa. Prendi nota: il tuo volo parte domattina dal LAX alle dieci e trenta, diretto per Heatrow. Vedi di non perderlo, perché poi è un casino tra coincidenze e ritardi. Purtroppo non posso venire a recuperarti di persona, ma ti ho preso una stanza al Cadogan, nel caso tu non abbia voglia di riordinare casa. Ho prenotato a nome tuo per due settimane, durante le quali sarà a tua completa disposizione. Per la sera tienti libero, che dobbiamo parlare di una cosa importante prima di un’intervista al Ritz. Ci vediamo alle otto e mezza al tuo albergo, che devo dirti un paio di cose, poi andiamo assieme. Tutto chiaro?"
- Rallenta scheggia, rallenta. Sono rimasto a LAX. - rispose laconico l’attore, che non aveva capito, o meglio seguito, una sola parola di quanto la ragazza aveva detto.
La sentì sbuffare.
Probabilmente aveva pure scosso il capo.

"Allora. Il tuo volo parte alle dieci e mezza. E’ un diretto, arrivi dritto sparato ad Heatrow. Ci sei, fino a qui?"
- Dieci e mezza aereo, arrivo ad Heatrow. - ripeté diligentemente il ragazzo, come se stesse prendendo appunti.
Dieci e mezza? Ma cosa aveva in testa quella donna? Troppo, troppo, troppo presto.

"Bene" un clacson suonò, coprendo la voce della menager per qualche attimo "...una stanza al Cadogan. Hyde Park. Per due settimane" la sirena di un’ambulanza "...disposizione".
- Ah ah. - l’attore scese dal letto, stiracchiando pigramente.
Non aveva capito una sola parola, ma non gli importava.

"Hai un’intervista al Ritz, ma devo dirti un paio di cose prima, per cui ci vediamo alle otto e mezza nella hall del Cadogan e andiamo assieme. Va bene?"
- Mh mh. Anche se avrei voluto vedere Kate, domani sera... - mentì spudoratamente.
Non aveva nessuna voglia di rivedere la sua ragazza, ma nemmeno di passare la sua prima serata a Londra a lavorare.
E per di più, assieme ad Annie.

"Ah davvero?" il tono mieloso della menager lo mise in allerta "Tesoro, scusa tanto se è il tuo lavoro rilasciare noiose interviste al Ritz, pagato di tutto e venerato come un dio. Potrei capire se ti avessi detto che devi andare a spalar letame in mezzo ai campi, ma santo dio! Un’intervista a Rolling Stone non si rifiuta mai!" pur avendo alzato leggermente il tono della voce, la ragazza non lasciava trapelare nulla se non la professionalità "Specie se messa in confronto allo squallore si cui ti cospargi con giornaletti da quattro soldi" Commentò acida, dopo qualche attimo. "No, niente serata libera, mi dispiace. Sei stato libero abbastanza, fino a prova contraria. E adesso scusami, ma devo tornare a girare come una trottola impazzita per te. Ci vediamo domani. Otto e mezza, sii puntuale".
Non ebbe nemmeno il tempo di replicare che Annie aveva già chiuso la conversazione. Boccheggiò come un pesce fuor d’acqua per qualche minuto, prima di riprendersi e scagliare il malcapitato cellulare sul letto.
- La odio, Dio come la odio! - ringhiò balzando a terra e percorrendo la stanza su e giù una decina di volte.
Non la sopportava.
Era più forte di lui, non riusciva a tollerare la sua voce, il suo modo di fare così dannatamente pratico, non reggeva la sua parlantina sciolta per più di cinque minuti, non si capacitava per come un corpo così innegabilmente attraente potesse essere associato a un carattere così terribile e...

Si bloccò, a metà di un passo.
Cosa aveva appena pensato?
Aveva davvero associato la parola attraente ad Annie, il suo incubo fatto a persona, la sua nemica numero uno?
Sgranò gli occhi, incredulo.
Non era possibile.
Non era assolutamente possibile.
Una cosa del genere non era nemmeno lontamente concepibile.
Lui la odiava, che diamine!
Non poteva trovarla bella!

Spalancò una finestra, inspirando a fondo l’aria calda del pomeriggio.
- Deve essere il sonno. - decretò dopo qualche attimo – Anzi! - si corresse, tirando le tende e tornando a percorrere la stanza in lungo e in largo – E’ il sonno. Non c’è altra spiegazione, si. -
Si sedette sul letto, abbracciando il cuscino e lasciandosi cadere di schiena sul materasso.
Chiuse gli occhi, sperando di scivolare nuovamente nel sonno, ma i rimproveri della menager continuavano a ronzargli in testa, senza sosta. In un modo o nell’altro, quello che lei pensava di lui gli importava. Parecchio.

Che avesse esagerato?
Che le uscite, le feste, le dichiarazioni e le sbronze fossero state un po’ troppo? Si rigirò su un fianco, inquieto. Non era un animale da party, non lo era mai stato. E allora perché si era dato alla pazza gioia così, senza inibizioni? Aveva sempre criticato tutte quelle bamboline che i giornalisti osannavano e cercavano ogni notte, senza sosta, nei locali più in della città. Locali che, tra parentesi, non aveva mai avuto intenzione di frequentare.

 

Preferiva i posti piccoli, riservati. Possibilmente con quel lieve tocco casalingo che faceva sentire protetto e ben accolto chiunque vi mettesse piede dentro. Alle luci accecanti delle discoteche preferiva le lampade soffuse di minuscoli localini anonimi dove non era necessario urlare per parlare. Kate spesso e volentieri gli dava del nonnetto, per questo.
E quindi perché lo aveva fatto?
Per irritare Annie.
Ogni cosa che faceva, anche la più stupida, la faceva nella speranza di irritare la sua nuova menager e farle così gettare la spugna, lasciandolo in pace.
Si rimise seduto, negando l’idea con decisione.
No, non stava facendo le ore piccole ogni mattina per ripicca, lo faceva perché era divertente farlo, perché si è giovani una volta sola, perché poteva permetterselo. Perché non sono un nonnetto, che diamine!

- Caffé. - decretò alla fine, recuperando il portafoglio e le chiavi della stanza.
Non aveva bisogno di altro, il resto del mondo poteva aspettare che lui ingurgitasse la sua quotidiana prima dose di caffeina e si schiarisse un po’ le idee. Si stava facendo troppi problemi, buona parte dei quali assolutamente inutile.

Uscì dalla stanza, fischiettando allegramente. Del resto, si disse percorrendo il corridoio vuoto, a me le rosse nemmeno piacciono.

                                                                                                    

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Capitolo 7
*** Capitolo sei ***


 

CAFFE’ NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO SEI

 

Era una splendida serata di metà marzo: l’aria frizzante, nonostante lo smog cittadino, riempiva i polmoni di Annie facendola sentire insolitamente di buon umore, a discapito della giornata che era stata lunga e pesante.
Davanti a lei si ergeva, maestoso, il Cadogan, con le sue facciate immacolate e le finestre illuminate.
Poteva sentire già da lì l’odore del lusso e dei soldi, a venti metri di distanza: l’intero edificio sembrava emanare un’aura di ricchezza tale da stordire chiunque vi passasse davanti, inducendolo a rallentare il passo.

Inspirò a fondo, prima di sorridere al ragazzo che aprì le grandi porte di vetro per lei ed entrare nell’immenso atrio dell’albergo.
Tutto, attorno a lei, era una discreta esibizione di lusso ed eleganza, a partire dal pavimento di marmo, tanto lustro da sembrare uno specchio, fino a finire con la tenue luce dorata delle lampade alle pareti, dipinte di un delicato rosa antico.
In un angolo, da un gruppetto di poltroncine ricoperte di seta color crema, un paio di anziane signore si voltarono a guardarla, squadrandola da capo a piedi, prima di tornare a chiacchierare tra loro come se niente fosse: con un sospiro stanco, Annie le ignorò e tirò avanti fino al bancone del bar, poco distante.

- Un’Evian, grazie. - disse al barista, che annuì brevemente prima di far comparire davanti a lei un enorme bicchiere di vetro e una bottiglietta.
La ragazza non ebbe nemmeno il tempo di sbattere le palpebre che il ragazzo le aveva già versato l’acqua e si era volatilizzato dall’altra parte del bancone, senza dire una parola.

- Servizievole. - commentò Orlando, sbucando alle sue spalle con un sorriso sornione stampato sul viso.
Era arrivato silenzioso come un gatto alle spalle della sua menager, studiandola per bene prima di rivolgerle la parola.
Lei sorrise a sua volta, stringendo l’enorme bicchiere con entrambe le mani.

- E’ pagato per esserlo. - replicò con una stretta di spalle Annie, facendogli cenno di accomodarsi – Come è andato il viaggio? - si informò gentilmente, dopo aver bevuto un sorso d’acqua.
L’attore si tolse il vecchio chiodo di pelle consumata, prima di rispondere, sfoggiando una maglia a maniche lunghe bianca, sopra la quale portava con disinvoltura un panciotto nero.
Si appoggiò al bancone, studiando la ragazza.
Teneva i capelli legati in una coda bassa e ne aveva arricciato le punte.
Indossava un tubino marrone, stretto in vita da una grossa cintura color crema, e, al solito, era in bilico su dei vertiginosi tacchi a spillo.

- Sei elegante. - commentò il ragazzo, curvando le labbra in un ghigno.
- Grazie. - Annie lo guardò sorpresa, aggrottando la fronte – Ma non vedo cosa centri questo con il tuo volo. -
- Assolutamente nulla, era tanto per parlare di qualcosa di più interessanti di un banalissimo volo L.A. - Londra. -
La menager sbatté le palpebre sapientemente truccate, prima di rispondere.
E cos’era tutta questa cordialità, tutto d’un tratto? Non era disposta a credere che dopo una settimana di baldoria avesse messo la testa a posto, non era qualcosa che Orlando Bloom avrebbe fatto. Un campanello si mise a suonare nella sua testa, mettendola in allarme.

- E’ andato bene, quindi. - replicò secca, più di quanto non avesse voluto.
L’attore inarcò le sopracciglia, appollaiandosi su uno sgabello dal cuscino rivestito di velluto color porpora, facendola sentire vagamente in colpa.
Bevve un’altro sorso d’acqua, cercando di inghiottire assieme a quello anche la sua diffidenza.

- Allora. - disse l’attore, studiandola in silenzio.
Era divertente farla sentire in colpa, non si era aspettato fosse così semplice, molto più che non farla arrabbiare.

- Allora, - ripetè la ragazza, con un’allegria un po’ forzata e un sorriso smagliante – parliamo di cose più serie. Ho provato a contattare la tua ultima menager, questa mattina. -
Gli occhi nocciola di Orlando scintillarono, divertiti, ma il ragazzo finse indifferenza.
- Ah si? - domandò, rimanendo il più neutro possibile – Scoperto qualcosa? - si morse la lingua, pur di non chiedere come era andata.
La sua menager sospirò, guardandolo torva.

- Non ho idea di cosa tu abbia fatto a quella donna e non sono così tanto sicura di volerlo sapere, ma prego che tu non debba mai incontrarla per strada, un giorno di questi: sarebbe la fine. - commentò cupa la rossa, scostandosi bruscamente quando Orlando si sporse in avanti per scostarle dal volto una ciocca che era scivolata ad incorniciarle il volto. Si guardarono, entrambi sorpresi.
Tra i due, era però l’attore quello più stupito: cosa diavolo voleva fare, la sua mano, riavviandole i capelli?
Stava impazzendo, la vita mondana californiana lo aveva rovinato del tutto, togliendogli il controllo sui suoi istinti: non si era reso conto di quello che stava facendo fino a quando non l’aveva vista ritrarsi. Aveva gli occhi appena appena sgranati e lo guardava come se fosse completamente uscito di senno.

Si sentì arrossire, come un bambino colto in flagrante con una mano dentro il barattolo dei biscotti e la bocca sporca di cioccolata.
Il viso gli bruciò ancora di più, quando realizzato che aveva provato  flirtare con Annie.
Flirtare.
Con Annie.
Si rese conto che la cosa che più desiderava al mondo, oltre a tornare indietro nel tempo e tagliarsi la mano prima di poterla allungare verso la ragazza, era di poter sprofondare al centro della terra, seduta stante.

La menager tossicchiò, abbassando lo sguardo per qualche attimo e afferrando la sua borsa, dalla quale estrasse la sua eterna agenda di pelle.
Ne sfogliò le pagine con una calcolata lentezza, per dare il tempo al ragazzo di assumere nuovamente il suo colorito naturale, inspirando a fondo.

- In ogni caso, non è stata più che tanto collaborativa. Ha smesso di riattaccarmi il telefono in faccia solo al quarto tentativo. E l’ha fatto solo per dirmi di andare a farmi fottere. - roteò gli occhi, posandoli sul volto di Orlando con una freddezza tale da stroncare ogni tentativo di risata.
- Mh. - mugolò l’attore, ancora a disagio.
- E’ tutto quello che sai dire? - lo freddò la ragazza, inarcando le sopracciglia. Buttò giù un altro sorso d’acqua, prima di agitare una mano in aria con noncuranza e scuotere il capo – Scusa, non è solo colpa tua se quella dannata donna è stata così scortese. -
- Non fa niente. - il ragazzo scrollò le spalle.
- Cambiando discorso, volevo metterti in guardia circa l’intervista di stasera. -
- Non è certo la prima che affronto! - protestò lui, guardandola male.
Ma con chi credeva di avere a che fare? Con un poppante alle prime armi?
Annie rise, vivacemente.

- Oh, fidati, c’è un motivo se ti dico che devi stare attento a quello che dici. - gli occhi nerissimi le brillavano, maliziosi – La giornalista, Janis, è la mia migliore amica. -
- Fantastico.. - Orlando sbuffò.
- Oh, non fare così, è estremamente professionale. - lo rassicurò la menager – Ma voglio che tu sappia che sarà tosta. Molto, molto, molto tosta. -
- Me la caverò. -
- Devi. - lo fulminò, di nuovo seria - Le ho chiesto di intervistarti come favore personale, non puoi assolutamente mandare tutto a rotoli. -
- E perché l’avresti fatto, di grazia? - s’informò l’attore, aggrottando la fronte.
Annie finì la sua acqua e lasciò sul bancone una banconota da dieci sterline, alzandosi in piedi e facendogli segno di seguirlo.
I due si incamminarono verso l’uscita, affiancati.

- Per evitare di trasformarti in un individuo alla stregua di quelle reginette da party che hai frequentato ultimamente. - spiegò, sorridendo al portiere che le teneva la porta aperta – Un’intervista su Rolling Stone è sufficentemente importante per ridare un po’ di lustro al tuo nome, ecco. -
- Ah. - spiazzato, l’attore vide la sua menager sotto una nuova luce.
Forse, in fondo (molto in fondo), non era poi tanto malaccio.

- E cos’è qulla faccia stranita? - rise la rossa – E’ il mio lavoro! -
- Si, hai ragione. - annuì Orlando, inspirando l’aria fresca della sera.
Una serie infinita di macchine sfrecciava nella strada accanto a loro, ma si rendeva a malapena conto della loro presenza.

- Quasi dimenticavo. - aggiunse dopo qualche attimo Annie, con un sorriso che non seppe interpretare – Sei molto elegante anche tu, stasera. -
 

- Charlie Brown! -
Orlando vide sorriso di Annie allargarsi, mentre affrettava il basso e allargava le braccia, abbracciando una ragazza che le era corsa incontro.
La menager rise, schioccando due baci sulle guance dell’amica, dopo averle preso le mani.

- Janis, tesoro! - la rossa rise, mentre una biondina dagli incredibili occhi blu e un naso un po’ troppo grande la faceva piroettare, squadrandola da capo a piedi.
- Molto, molto, molto elegante. - commentò con un largo sorriso – Sei un’incanto, mia cara. -
- Ho avuto una buona maestra. - rise Annie, prima di cogliere l’occhiata perplessa di Orlando.
Si scostò da Janis, prendendo l’attore sotto braccio – Ed ecco qua la tua vittima. -

- Ciao, piacere di conoscerti. - si presentò lui, stringendo la mano della giornalista.
- Janis McGee. - esordì quella professionale – Piacere mio. - fece una pausa, posando lo sguardo sulla mano di Annie ancora posata sul braccio dell’attore con fare quasi possessivo. Come se ne accorse, la rossa la ritrasse di scatto, tossicchiando. Orlando fece finta di niente.
- Allora.. - riprese la menager cercando di sciogliere l’imbarazzo – Iniziamo? -
Janis annuì, prendendo nuovamente sottobraccio l’amica e scortandola verso una sontuosa sala da pranzo arredata in perfetto stile imperiale: se il Cadogan era l’esempio della perfetta, discreta eleganza inglese, il Ritz era un’esagerata ostentazione di lusso perfettamente calcolata e studiata al dettaglio.
Orlando si sentì minuscolo e insignificante, mentre sedeva ad un piccolo tavolo rotondo in un angolo del salone mezzo pieno. 

- Dunque dunque dunque... - la giornalista sfoderò un sorriso affilato, guardandolo con un’espressione che avrebbe saputo definire solo con l’aggettivo famelica – Orlando Bloom. Si sente molto parlare di te, ultimamente. - si sporse in avanti sul tavolo, gli occhi scintillarono.
Istintivamente l’attore si ritrasse, lanciando un’occhiata vagamente preoccupata ad Annie che scrollò le spalle, angelica, come a dire che non erano affari suoi.
Ed effettivamente, a pensarci bene, l’intervisa era un problema solo che sua.
Annie non avrebbe potuto né tantomeno dovuto aiutarlo.
Doveva venire fuori da solo.
Si, ma dicendo cosa? Si chiese fissando il sorriso smagliante di Janis, in attesa. Si schiarì la voce, grattando la nuca.
Se voleva sembrare a disagio, ci era riuscito perfettamente.

- In effetti, sono stati un po’ sulla bocca di tutti in quest’ultimo periodo... - ammise tentennate, mentre la bionda annuiva distrattamente, facendo magicamente comparire dal nulla un piccolo registratore. Spronò l’attore a proseguire, quando lo vide bloccarsi, perplesso – Diciamo che ho voluto fare una pausa e staccare un po’ la spina dalle solite cose, ecco. -
- Una pausa un po’ movimentata, non ti pare? - ridacchiò Janis, deliziata – Hai causato non poco scompiglio tra le tue fan, facendoti immortalare assieme a tutte quelle piccanti biondine californiane. -
Annie trattenne a stento una risata, soffocandola con qualche discreto colpo di tosse.
Ignorò allegramente, l’occhiata di odio pure che il ragazzo le scoccò.

- Oh, ma non hanno nulla di cui preoccuparsi! - sorrise – L’unica che devono temere è Kate. Tra me e lei le cose vanno a gonfie vele, è un rapporto adulto e credo di poter dire che siamo finalmente sulla buona strada. -
Una volta ancora la manager tossicchiò, incrociando le dita delle mani tra loro sul tavolo e distogliendo lo sguardo.
- Charlie Brown, tesoro, non sembri particolarmente convinta. - commentò Janis divertita – Devo forse presumere che tutto il polverone sollevato dal presunto odio reciproco tra voi due sia solo una copertura per qualcosa di diametralmente opposto? -
La rossa sorrise, guardandosi le mani.
- Non sono io che devo essere intervistata, cara.. - replicò diplomaticamente, senza guardare in faccia nessuno dei due – La star è lui, non sta a me rispondere. -
- ...Orlando? - riprese la giornalista, tornando sull’attore dopo un attimo di silenzio.
- Non c’è nulla tra me e Annie. Io amo Kate, Annie è semplicemente una persona che lavora per me. Niente di più .- nel parlare, evitò accuratamente di guardare nessuna delle due giovani donne in faccia, fissando un punto non ben definito del tavolo.
Non era sicuro di riuscire a dire una cosa del genere sostenendo gli indecifrabili occhi neri di Annie né tantomeno quelli fin troppo acuti di Janis.
Non potè fare a meno di essere sorpreso quando però sentì la sua manager scusarsi e sparire in un delicato ticchettio.

E adesso, si chiese seguendo con lo sguardo la minuta figura andarsene, che cavolo le è preso?
La giornalista tossicchiò discretamente, riportando Orlando con i piedi per terra.
Come se nulla fosse, riprese ad intervistarlo, togliendogli ogni possibilità di pensare a cosa diavolo fosse preso alla sua manager e trasportandolo in una dimensione di lavoro, fan e diplomazia improvvisata, dove sicuramente si trovava molto più a suo agio.
 

Annie inspirò a fondo, guardando la sua faccia riflettersi sullo specchio di fronte a lei.
Doveva uscire di li. Subito. Immediatamente.
Erano almeno dieci minuti che se ne stava lì, impalata, a far finta di ritoccare un trucco praticamente perfetto.
Aveva aperto la borsa, preso il mascara e dato qualche ritocco alle ciglia.
Si era impolverata il naso con un po’ di cipria e si era data una passata di gloss sulle labbra.

Ed era rimasta lì, a fissare la sua espressione.
Se qualcuno le avesse chiesto di descriversi, in quel momento, si sarebbe trovata in grosse, grossissime difficoltà nel trovare l’aggettivo adatto.
Apatica? Indifferente? Assolutamente no.
Triste? Nemmeno. Arrabbiata? No. Delusa? Forse.

Chiuse gli occhi, posando le mani sul lavandino e inarcando la schiena.
Si sentiva straordinariamente vecchia e stanca, consumata, presa da un vortice di pensieri tale da non permetterle nemmeno di sentire che la porta si apriva e Janis faceva capolino al suo fianco: sobbalzò, quando le bionda le posò le mani sulle spalle.
- Tutto bene? - le chiese, posandosi contro il lavandino e incrociando le braccia al petto.
Annie prese tra le dita una ciocca di capelli, scrutandone le punte con aria pensosa.
- Si, credo di si. - disse dopo un po’, posando lo sguardo sull’amica, che aggrottò la fronte.
- Io non credo. Sei qui dentro da due ore, Ann.. -
- Due ore? - trasalì la rossa, guardando l’orologio che portava al polso e constatando che si, in effetti era lì dentro proprio da due ore – Santo cielo! L’intervista? -
- Fatta e fnita. -
- Gesù, non capisco cosa mi sia preso.. come è andata? Ha detto tante stronzate? -
- No, Annie, tranquilla.. - sorrise la giornalista – E’ stato relativamente bravo e comunque sai che non scriverei mai qualcosa di negativo su un tuo pupillo, non scrivo mai nulla di negativo su nessuno in fondo. Non ti preoccupare troppo, dai.. -
La rossa si mise una mano sulla fronte, camminando nella piccola stanza dai colori e le luci soffuse.
Il ticchettare nervoso dei suoi tacchi, sulle piastrelle, rimbalzava da una parete all’altra aumentando di intensità passo dopo passo, al punto che Janis costrinse l’amica a fermarsi e a guardarla negli occhi.

- Annie. Annie, guardarmi. Cosa ti prende? -
- ...io non lo so. Janis, ti giuro che non lo so. Mi sono incantata e sono rimasta qui due ore, senza pensare a niente, fissando il nulla. Non ho fatto il mio lavoro e per cosa? -
- Per cosa? -
- NON LO SO! - sbottò – Non ne ho la più pallida idea. -
- Secondo me ti stai lasciando coinvolgere. -
- No, assolutamente no. E’ la prima regola, mai lasciarsi coinvolgere. Io non mi faccio mai coinvolgere. - replicò decisa la rossa.
- Una volta l’hai fatto. - osservò la bionda, incrociando nuovamente le braccia al petto.
Un lampo di dolore sfrecciò negli occhi scuri della manager, che abbassò lo sguardo e si ritrasse.

- E sappiamo tutte e due cosa è successo. - commentò cupa, fissando il pavimento – Non ho intenzione di commettere nuovamente lo stesso sbaglio, non me lo posso permettere. - concluse secca.
- Lo so, tesoro, lo so. - sorrise Janis, accarezzandole una guancia – Ma prova a vedere la situazione dal nostro punto di vista: te ne sei andata quando lui ha detto che non sei niente per lui e non sei più tornata. Questo vuol dire solamente due cose: o ti sei sentita talmente tanto male, all’improvviso, da sparire così, e sappiamo tutte e due che godi di una salute di ferro. L’altra opzione, è che lui ti abbia ferita. -
- Mh. - mugolò Annie, senza ancora alzare lo sguardo.
- Ho ragione, Charlie Brown? - sorrise la giornalista, pizzicandole scherzosamente una guancia fino a quando anche la manager non scoppiò a ridere.
- Okay, okay, hai ragione, ci sono rimasta male. - ammise – Ma non per quello che pensi tu. Lui ha detto che sono solo una persona che lavora per lui. Cosa effettivamente vera, ma è...umiliante. Pensavo ci fosse un minimo di rapporto, tra noi due: non speravo nell’amicizia, cosa assolutamente improponibile, ma almeno in un qualcosa di professionale. - sospirò – Non lo so, Janis, non lo so. -
- Sei solo stanca, Annie, dovevi prenderti un po’ di più tempo. Vai a casa, fatti una bella dormita.Vedrai che domani andrà tutto meglio. -
- Si, hai ragione... Orlando? E’ tornato in albergo? - domandò massaggiandosi stancamente gli occhi.
- No, mi ha detto che doveva vedersi con Kate ed è scappato via. -
Annie gemette, roteando gli occhi.
- Prevedo guai, Janis, grossi guai... - sospirò, mentre ridendo, l’amica la prendeva a braccetto e la portava fuori.
Annie continuò a chiacchierare come se niente fosse, indossando una maschera di imperturbabile allegria, sotto la quale nascondeva un dubbio che continuava a tormentarla e a cui non voleva dar ascolto.
Solo quando, una volta a casa, il silenzio della sua camera da letto l’avvolse nel suo confortante abbraccio e lei si lasciò cadere sul letto, si arrese e accantonò la maschera.
E subito, la domanda sorse spontanea, senza che nulla riuscisse in un qualche modo a fermarla: era vero quello che aveva detto a Janis, in bagno?
Non ne era affatto sicura.

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Capitolo 8
*** Capitolo sette ***


 

CAFFE NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO SETTE




 

A vederla, era la personificazione della professionalità.
Camminata decisa, scandita dal freddo e secco rintocco dei tacchi sull'asfalto, pantaloni attilati e maglia con maniche a tre quarti, enorme borsa sotto braccio. Il tutto rigorosamente nero.
L'unica macchia di colore era costituita dalla lunga chioma fulva, sciolta delle spalle, che sembrava catturare tutta la luce del sole, trasformandosi in una cascata rossa sulla schiena della ragazza.
Annie Brown sapeva essere affascinante, se voleva.
Ed era chiaro come il sole che illuminava il cielo di smalto che, in quel momento, voleva esserlo.
 Con piglio sicuro varcò la soglia dell'enorme palazzo che ospitava la sede londinese della L'Oreal, regalando un breve sorriso al portiere che tenne aperta una pesante porta di vetro per lei, e si infilò nel primo ascensore libero.
Quando le porte si chiusero, si rilassò impercettibilmente, posandosi contro una poggiamano dorato e chiudendo gli occhi per qualche attimo.
A discapito dell'apparenza, era a pezzi: aveva passato le ultime cinquantasei ore a contrattare, rilanciare, protestare e definire gli accordi per quello che avrebbe potuto essere il contratto più profiquo e redditizio dell'intera vita di Orlando Bloom.
Diventare il testimonial per la linea maschile della L'Oreal.
La bocca le si aprì in un sorriso spontaneo, mentre si obbligava a raddrizzare la schiena e calarsi nei panni della manager, richiudendo la stanchezza in un cassettino e buttando la chiave. Dormirò quando sarò vecchia, si ricordò severa, passandosi una mano tra i capelli.
Il suo riflesso ricambiò la sua occhiata con un sorriso sghembo, mentre una musichetta di sottofondo faceva da colonna sonora a quei momenti che precedevano il suo momento di gloria: si concesse un profondo respiro, prima che le porte si aprissero, e poi scivolò fuori, dritta in faccia a quella che sembrava una nuova, entusiasta tirocinante.
- Annie Brown, non è vero? - l'accolse la ragazza con un largo sorriso abbagliante.
La rossa annuì, cordiale, porgendole una mano.
- Piacere di conoscerla. - esordì cortese, stringendo brevemente la mano della ragazza, che mostrava vent'anni al massimo.
Biondissima, dagli enormi occhi azzurri, alta e magra, sembrava appena uscita dalle pagine di Vogue piuttosto che da un ufficio.
Persino il rigoroso completo pantalone che indossava non riusciva a farla sembrare la dipendente di una grande ditta.
- Oh, dammi pure del tu. - miagolò la biondina, conducendola attraverso un dedalo di corridoi - Sono Lucy, tra parentesi, l'assistente di Emily. - riprende a parlare, sparando fuori parole su parole allo stesso modo in cui una mitragliatrice sputa fuori proiettili.
La manager le scoccò un'occhiata vagamente scettica, che si perse in una svolta improvvisa a sinistra.
- Sai, qui alla L'Oreal siamo tutti entusiasti per questo contratto. - aveva ripreso a blaterare Lucy-tra-parentesi, con un'allegria che sapeva di falso a tre chilometri di distanza. Annie si chiese per quale dannato motivo avesse bisogno di strillare così tanto. Chissà, ipotizzò caustica, forse nessuno le ha mai spiegato che le persone normali comunicano con un normale tono di voce.
Si obbligò a tenere stampato un sorriso di cortesia sulla faccia che fosse anche solo vagamente convincente, ma soprattutto che non lasciasse trapelare gli istinti omicidi suscitati dall'esuberante biondina, e a rispondere ogni qualvolta venisse interpellata, inserendosi nella conversazione con commenti quanto mai banali ma sempre efficaci.
Orlando di qui, Orlando di lì.
Il discorso non si allontanava mai troppo dalle lodi più sperticate all'attore, arrivando di tanto in tanto a sfiorare pettegolezzi riguardanti il rapporto con la rossa o la storia con Kate, ma la ragazza non pareva in grado di dire altro. Proprio quando Annie comprese che la pazienza umana non è infinita, la tortura ebbe fine: mentre le veniva aperta una pesante porta di legno chiaro, le fu annuncianto che Emily ti aspetta, è stato un vero piacere conoscerti.
La rossa scosse appena il capo, entrando in una luminosa stanza rettangolare, occupata per la maggior parte da un grande tavolo ovale posto al centro, circondato da un considerevole numero di sedie dall'aspetto particolarmente scomodo.
Seduta a capotavola, una donna di quarant'anni sfogliava le pagine di un fascivolo con aria concentrata, un paio di occhiali in equilibrio sulla punta del naso piuttosto sporgente. Come Annie vestiva di nero e, non appena sentì la voce della sua assistente, alzò lo sguardo dai fogli sottili, sfoderando un sorriso da barracuda, reso ancora più inquietante dai lineamenti quadrati della donna, circondati da cortissime ciocche nere.
- Oh, Annie! - esordì senza alzarsi in piedi, incolore - Lieta di conoscerla. -
- Il piacere è tutto mio, Emily. - replicò la rossa - Le spiace se... - indicò una sedia con un cenno del capo.
- Oh, ma certo! Sieda pure. - si affrettò a dire Emily, tornando a esaminare i suoi fogli mentre la manager si accomodava e accavallava le gambe, mettendosi sulla difensiva. Aveva un po' l'impressione di essere in procinto di affrontare una battaglia particolarmente ardua e l'atteggiamento fin troppo professionale della donna lì vicino non prometteva nulla di buono: si comportava come un robot, programmato per pensare, agire e parlare solo in funzione dell'interesse dell'azienda.
Già il sorriso parlava chiaro.
Il silenziò piombò tra le due donne, interrotto solamente dal delicato frusciare delle pagine e dal leggero tonfo della borsa della menager, quando venne appoggiata sul tavolo.
Per il resto, l'intera stanza taceva; nemmeno il traffico della capitale sembrava scalfire il guscio insonorizzato di quelle quattro pareti.
- Bene. - Annie sussultò appena, quando Emily riprese a parlare dopo qualche minuto - Bene, bene, bene. E così, eccoci qui. Ho controllato nuovamente il contratto e sembrerebbe tutto a posto, come stabilito. Manca solo la firma e poi posso affermare con gioia che Orlando Bloom sarà il nuovo volto della L'Oreal. -
Nulla nel tono e nell'espressione della donna fece pensare ad Annie che lo fosse realmente.
La giovane si preparò ad iniziare un discorsetto di ringraziamento dove esprimere tutta la sua gratitudine e gioia per la stipulazione del contratto, ma il sorriso di Emily la fece raggelare.
- Dov'è? -
Spiazzata, la rossa sbatté le palpebre un paio di volte.
- Come, scusi? - pigolò, imbarazzata.
Si sentiva vagamente sotto esame e la cosa non le piaceva poi molto.
- Il signor Bloom, - ripeté l'altra - dov'è? -
- Oh, sono sicura che arriverà a momenti. - rispose prontamente, sbirciando l'orologio di nascosto: era in ritardo. Terribilmente in ritardo.
Avrebbe dovuto essere già lì da un pezzo. Inspirò a fondo, rivolgendo una silenziosa preghiera alla sua stella buona, supplicandola di far arrivare l'attore il prima possibile. Non lo avrebbe mai creduto possibile, ma avrebbe pagato per poter avere al suo fianco l'arrogante ragazzo: aveva quasi paura a stare chiusa in una stanza con quella donna inquietante.
- A momenti. - ripeté dopo qualche attimo, chiedendosi se non fosse troppo sconveniente alzarsi e scappare a gambe levate.

 

Il telefono riprese a suonare, intonando per l'ennesima volta Iris, dei Goo Goo Dolls.
Orlando mugolò, rigirandosi dall'altra parte e chiudendo gli occhi con forza, concentrandosi per isolare la suoneria del cellulare e cancellarla dal suo mondo.
Stava letteralmente morendo di sonno, non ricordava nemmeno più l'ultima volta che era stato così stanco: nemmeno l'ultima settimana a Los Angeles lo aveva lasciato così spossato e senza forze.
Al suo fianco, Kate gli si rannicchiò contro, continuando a dormire della grossa.
Il suo respiro gli solleticò la spalla quel tanto che bastava per costringerlo ad allungare un braccio verso il comodino e zittire l'odioso telefono senza nemmeno curarsi di guardare chi si sognasse di chiamarlo nel cuore della notte.
Quando finalmente il silenzio tornò a calare sulla stanza, circondò con un braccio la vita della ragazza, pregando per poter finalmente riuscire a dormire.
Erano rincasati all'alba, dopo aver passato l'intera notte in un minuscolo localino pieno al punto che persino respirare era un'impresa titatica.
Figurarsi ballare.
Ma il volume della musica era talmente alto che non lasciava dubbi su cosa si dovesse fare lì dentro e, come ben presto aveva scoperto, non si poteva fare altro che differisse dal ballare.
Kate lo aveva abbandonato dopo mezz'ora dal loro arrivo, sparendo nella folla per farsi ritrovare poi verso le undici, completamente ubriaca, in compagnia di tre ragazze.
Una più magra dell'altra, si erano strette attorno ad Orlando e non lo avevano più lasciato andare.
Per pura disperazione, si era messo a scolare un drink dopo l'altro, sperando che l'incoscienza facesse scorrere il tempo più velocemente.
Non ricordava come fosse arrivato a casa.
Non ricorda quando ci fosse effettivamente arrivato, l'unica cosa che gli tornava alla mente era il cielo, simile a una distesa di inchiostro nero.
Senza stelle, senza luna. Come gli occhi di Annie, capaci di trafiggerlo con una sola occhiata.
Aveva scacciato il pensiero buttandosi su Kate per affogare l'immagine della rossa nel calore della bionda: complice l'alcool nel sangue, complici le mani sottili della ragazza, complice la ferrea volontà di non pensare a nulla, era crollato in un sonno senza sogni.
Fino a quando il cellulare non aveva iniziato a suonare, riportandolo nel mondo reale assieme ad un fastidiosissimo mal di testa.


Annie si morse la lingua per non lasciar uscire dalla bocca una lunga serie di insulti molto poco adatti al posto e alla situazione, mentre dall'altro capo del filo Orlando le chiuse il telefono in faccia.
Era il quinto tentativo che faceva, camminando come una tigre chiusa in gabbia negli elegantissimi bagni del palazzo, talmente lussuosi da far concorrenza a quelli della suite dove aveva sorpreso l'attore la prima volta che l'aveva visto.
Un enorme specchio occupava metà parete, sopra i lavandini argentati incastonati in un ripiano di marmo nero, il pavimento era coperto da una soffice moquette immacolata, talmente fitta e morbida da semprare lana.
La luce soffusa, l'aria pregna di una delicata fragranza floreale: se non fosse stata fuori da ogni possibile grazia divina, Annie avrebbe avuto paura a toccare qualcosa, temendo di causare danni per un ammontare decisamente superiore alle sue capacità economiche.
Ma si trovava in una situazione di emergenza e tutto era concesso.
Persino sfilarsi le scarpe e sedersi a gambe incrociate sul pavimento, dopo essersi chiusa a chiave nell'enorme stanza impedendo a tutte le donne presenti nel piano di poter usufruire di cotanto lusso.
Poco male, si disse con una stretta di spalle, faranno un piano di scale e smaltiranno le briciole di brioches che hanno mangiato a colazione.
Chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie.
- Concentrati, Brown, concentrati.. - mormorò - Pensa e trova una soluzione a questo gran casino. -
Emily era stata a dir poco cristallina nello spiegarle che se Orlando Bloom in persona non avesse firmato il contratto, non se ne faceva nulla.
Esigevano professionalità e interesse dai loro testimonial, e mancare in un momento cruciale come quello era la prima cosa da non fare.
Ora.
Era chiaro come il sole che l'attore non si sarebbe presentato.
La motivazione preferiva ignorarla (non poteva essere così stupido da non farsi vivo solo per farle un dispetto, in fondo), ma doveva essere sicuramente qualcosa di molto grave. La morte del cane, ad esempio. La casa che ha preso fuoco. La madre che ha avuto un malore improvviso. Una malattia improvvisa che lo ha ridotto in fin di vita. Altrimenti non c'erano scusanti, non era disposta ad accettarne altre, men che meno la morte della Bosworth.
Ma a lui avrebbe pensato dopo (e se davvero una malattia l'aveva ridotto in fin di vita, sarebbe stata lei a dargli il colpo di grazia), la questione ora era trovare una scappatoia che le permettesse di salvare il risultato di giorni e giorni di lavoro e la faccia.
Represse un moto di rabbia al pensare che sarebbe stata lei a farci la figura della cretina incompetente, incapace di portare a termine un lavoro perché incapace di tenere a bada un aitante figlio di Hollywood, e non Orlando, che chissà cosa stava facendo in quel preciso momento.
Si piegò in avanti, posando la fronte sulle gambe, e lasciò che i capelli le cadessero ai lati del volto, chiudendosi come un sipario sul mondo.
Inspirò a fondo, ripetendosi che sarebbe andato tutto bene, che avrebbe trovato una soluzione, che alla fine sarebbe riuscita a salvare in un qualche modo la sua dignità. La rabbia l'avrebbe sfogata dopo, un altro luogo e in un altro momento.
Ma soprattutto, con un'altra persona.
- Posso farcela. - decretò, raddrizzando la schiena e alzandosi in piedi.
- Posso farcela. - scandì con maggior decisione, infilando ai piedi le decolleté nere e riavviando i capelli.
- Posso farcela. - ringhiò al suo riflesso, dando una controllatina veloce al trucco.
- Posso farcela. - sussurrò un'ultima volta, mentre faceva scattare la serratura della porta e tornava nel corridoio, ignorando gli insulti velati che un paio di bamboline sottopeso bisbigliarono al suo passaggio.
Eppure, man mano che ogni passo la portava sempre più vicina alla sala dove Emily aspettava, sentiva le sue certezze sgretolarsi come creta e accartocciarsi su se stesse, lasciandola priva di difese e appigli a cui aggrapparsi durante la caduta che, lo sentiva, stava per arrivare da un momento all'altro.
Era solo questione di tempo.

 

Il cielo imbruniva all'orizzonte, facendo sembrare i profili delle case londinesi degli enormi blocchi neri contro il cielo rosso porpora.
 Un fiato di vento agitava le foglie più precoci, spuntate prima dell'arrivo della primavera, a accarezzava le guancie arrossate di una bambina che si fermava, dopo aver rincorso un piccolo gattino nero lungo il cortile della casa vicina alla sua. Orlando sorrise, incrociando lo sguardo della piccola atleta, che ricambiò il gesto con una piccola manina paffuta, prima di sparire all'interno della casa.
Si sitemò meglio sul ripiano in legno sotto la finestra, scartando un chupa-chups alla fragola.
Kate se ne era andata da qualche ora, dopo che una telefonata particolarmente breve che lo aveva lasciato un po' spiazzato.
Ti devo parlare, aveva detto, posso venire da te?
Era stata l'assenza di colore nella voce, quella completa e totale neutralità, a lasciarlo poco convinto: da quando conosceva Annie, non l'aveva mai sentita parlare con tanta calma senza che o lo scherno o l'ironia saltassero fuori ad un certo punto. Si rigirò la caramella in bocca, fissando la strada assorto.
La vide svoltare l'angolo e avanzare senza fretta, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni (anche se effettivamente erano così stretti che non capiva come le mani potessero starci dentro) e lo sguardo basso, nascosto dai capelli che ricadevano morbidi, una volta tanto scomposti, sulle spalle sottili.
La seguì mentre imboccava il vialetto e si fermava davanti alla porta verniciata di verde scuro, contro cui batté tre colpi secchi.
Con un colpo di reni balzò a terra, nell'esatto istante in cui il suo cane iniziava ad abbaiare dal salotto.
- Buono cucciolo, buono! - esclmò ridendo, ritrovandoselo a zampettare allegramente tra le gambe mentre apriva la porta.
Si chinò, afferrandolo per il collare e, quando rialzò lo sguardo, gli occhi nerissimi di Annie erano puntati su di lui e non accennavano a schiodarsi.
Abbozzò un sorriso, cercando di sciogliere almeno parte del gelo che lei emanava come fosse profumo, ma non servì a nulla. Lasciò andare il cane, risollevandosi.
- Ciao. - biascicò, dimentico del chupa-chups in bocca.
Lei inarcò le sopracciglio e subito Orlando arrossì, prendendo il dolce e lanciandolo in un angolo.
Avrebbe pulito dopo.
- Accomodati. - riprese, sempre più a disagio.
Annie strinse le labbra in una linea dura, varcando la soglia e precedendolo di qualche passo nel corridoio.
Quando l'attore si voltò per seguirla e la vide, rimase per un attimo senza fiato: avvolta nella calda luce del tramondo, la ragazza se ne stava immobile a guardarlo, il volto pallido riscaldato dai capelli rossi, resi ancora più brillanti dalle tinte calde del sole.
Piccola e minuta come non mai, aspettava.
Di esplodere.
Annie non aspettava altro che riversare tutta la sua rabbia sul bel ragazzo che le sorrideva, visibilmente a disagio, e subito dopo la invitava a seguirlo in cucina, per un caffé. Mise a tacere quella vocina che aveva ululato di gioia all'idea di bere una tazza della sua bevanda preferita, tenendo bene a mente quello che si era sentita dire quando era uscita dal bagno.
Si sentì bruciare le guance per l'indignazione e si affrettò a sedere su uno sgabello, mentre il ragazzo preparava una moka, blaterando del più o del meno.
- Sai, me l'ha regalata una fan italiana. - una risata, leggera e bassa - Dice che non c'è confronto tra il caffé italiano e quello inglese: il secondo è acqua sporca imbevibile. E in effetti, dopo aver provato questo, c'è da dire che aveva ragione, non c'è parago.. -
- Dov'eri, questa mattina? - lo interruppe lei, alzando lo sguardo e inchiodandolo davanti ai fornelli.
Un brivido scivolò lungo la schiena di Orlando.
- Questa mattina? - ripeté automaticamente, senza riuscire a ricordare.
Gli occhi di lei catturavano ogni suo pensiero, quasi fossero due buchi neri.
Il tempo stesso, sembrava rallentare.
- Si, Orlando. Dov'eri questa mattina? -
Mentre io venivo massacrata da una stronza alle porte della menopausa, aggiunse tra se e se, incrociando le braccia sul tavolo.
- A casa. - fu la replica, piuttosto stupita, del ragazzo.
- A casa. - Annie chiuse gli occhi, cercando di trattenersi - E cosa ci facevi, di grazia? -
- Non lo so, ma cosa centra? -
- Fammi il piacere di rispondere e basta, senza fare domande. Non questa volta. - sibilò la rossa, sporgendosi appena in avanti.
Il trentenne si ritrasse, istintivamente, realizzando che il nulla che aveva avvertito durante la telefonata era in realtà rabbia gelida in attesa di esplodere.
Inghiottì l'orgoglio, cercando di capire cosa diavolo avesse combinato questa volta, e chinò appena il capo.
- Dormivo. - rispose, incrociando le braccia al petto.
Un tenue profumo di caffé invase l'aria, mentre la moka iniziava a borbottare alle sue spalle.
Spense il fuoco senza voltarsi, cercando la manopola a tentoni.
- Vediamo se indovino il perché. - riprese la giovane donna, accavallando le gambe e dondolando un piede - Ieri sera sei uscito a festeggiare, hai fatto tardi e hai dormito fino a pomeriggio inoltrato. Sbaglio? - lui scosse il capo, senza azzardarsi a proferir parola: man mano che andava con il discorso, sentiva le parole trasformarsi in lame affilate pronte a conficcarsi nel suo corpo. Lei riprese, regalandogli un sorriso al vetriolo - E quindi se non ti sei presentato a una delle più grandi occasioni della tua vita è perché te ne sei dimenticato? -
Sgranò gli occhi, ricordando improvvisamente.
Il contratto.
La L'Oreal.
Testimonial.
Kate appesa al suo braccio mentre la rossa gli spiegava che assolutamente doveva presentarsi e doveva farlo in forma smagliante.
Le insistenze della biondina e i vaghi sensi di colpa per averla trascurata così a lungo quando era oltreoceano, il fastidio per l'estrema competenza della manager.
- Cazzo. -
- L'hai detto, bimbo. - saltò agilmente a terra, andando a pararglisi davanti.
Nonostante lo guardasse dal basso verso l'alto, il ragazzo non potè fare a meno di sentirsi intimorito: tutto in lei gridava rabbia e furia.
Eppure, quando riprese a parlare, poté avvertire una nota di stanchezza risuonare in profondità.
Si sentì in colpa.
- Voglio sperare che tu non sia stupido al punto da rinunciare a un'occasione del genere solo per far ripicca a me o per far felice la tua bella, ma sappi mai in vita mia sono stata umiliata tanto quanto oggi e se non fosse che il lavoro a me serve per vivere ti mollerei qui, su due piedi. Un comportamento del genere da parte tua non me lo sarei mai aspettato, sei tanto estremamente poco professionale e per questo è giusto che tu perda il lavoro. Cristo santo! Tu non hai idea di come mi sia sentita quando ho dovuto mentire a quella stronza dicendo che stavi poco bene! Tu...tu... - inspirò a fondo, distogliendo lo sguardo.
Sapeva che stava tremando, ma non riusciva a controllarsi.
Quando tornò a guardarlo, fu accolta dallo spiazzante silenzio di due occhi color nocciola.
- Io.. - iniziò a dire Orlando, ma lei non lo lasciò parlare.
Non aveva ancora finito.
- Tu devi solamente vergognarti, Orlando. - mormorò sottovoce.
Non aveva bisogno di alzare il tono, sapeva di aver catturato la sua attenzione ad un livello tale che non si sarebbe accorto nemmeno di un'esplosione. 
- Perché non solo hai probabilmente compromesso la possibilità di lavorare in futuro con la L'Oreal, ma hai anche messo me nella condizione di una che non è in grado di svolgere il suo lavoro e di farsi rispettare da un cliente. Sono la prima a dire che tra di noi le cose non funzionano chissà che bene, ma ho sempre creduto che fossiamo entrambi persone adulte, capaci di andare oltre l'antipatia personale quando si tratta di lavoro. Ma sbagliavo, evidentemente. -
- Mi spiace.. - si sentì dire Orlando, senza riuscire a toglierle gli occhi di dosso.
Aveva curvato appena le spalle, le braccia cadevano inermi lungo i fianchi e la rabbia andava via via scomparendo, inghiottita dalla ben più amara delusione.
- Non ho bisogno delle tue scuse. - scrollò le spalle, riavviandosi i capelli.
Un raggio di sole le baciò lo zigomo destro, colorando quel bianco spento con tenui riflessi dorati e facendo sembrare, per contrasto, gli occhi ancora più neri.
Era bella.
Odiosa, saccente, arrogante, presuntuosa, ma bella.
Si sentì disarmato, nudo, di fronte a quella verità e, rifiutandola, fece esplodere una rabbia profonda dietro cui nascondersi.
- Potresti quantomeno accettarle e dimostrare tu per prima un po' di maturità. - l'aggredì, fraintendendo volutamente quello che aveva detto.
Annie si paralizzò, sgranando appena gli occhi e guarandolo come se fosse impazzito del tutto. Proseguì - Tutti fanno errori, chi sei tu per giudicare? Tu che piombi nella mia vita e la stravolgi completamente, tu che... tu non hai nessun diritto di rifiutare le mie scuse, tanto più se sincere! -
- Tu non hai capito, cosa me ne faccio? Cambia forse qualcosa? NO! -
- E' una questione di principio, di educazione. -
Fu troppo.
La rossa sbalancò la bocca, quasi l'avesse schiaffeggiata, e boccheggiò, senza riuscire ad esprimere l'indignazione. Mai, mai in vita sua, si era trovata davanti a tanta ipocrisia.
- TU VIENI A PARLARE A ME DI EDUCAZIONE? - urlò furibonda, serrando le mani con tanta forza da far sbiancare le nocche.
Le unghie le si conficcarono nella carne, ma il dolore non la sfiorò nemmeno - Questo è veramente troppo. E io che pensavo che tu fossi diverso, che non fossi il solito attore strapagato e straviziato di Hollywood.. - scosse il capo, dirignando i denti - Più che un cliente, sei una delusione, Orlando. -
- Ma lo vedi? Sempre gli altri! Non è mai colpa tua, MAI! Sono sempre gli altri a sbagliare, con te non si può mai dire nulla! Dai a me del bambino, ma ti ascolti quando parli? Se c'è qualcuno che deve crescere, quella sei tu. -
Annie incassò il colpo senza batter ciglio.
Fece dietro-front, senza spiccicar parola, recuperò la sua borsa e uscì dalla stanza; la porta d'ingresso si chiuse delicatamente e la ragazza passò davanti alla finestra della cucina dopo qualche attimo.
Orlando rimase solo, senza fiato.
Incapace di pensare a nulla si voltò e, automaticamente, agguantò la prima tazza che gli capitò davanti, versandovi dentro il caffé; lo bevve tutto d'un fiato anche se ormai freddo e disgustoso, senza aggiungervi nemmeno un goccio di latte.
Se avesse bevuto olio per automobili, sarebbe stato lo stesso.
Con un gesto automatico tornò in soggiorno, sollevo la cornetta e compose un numero.
Dopo tre squilli, una voce femminile rispose.
"Pronto?"
- Kate, sono io. Preparati, passo a prenderti tra un'ora. Stasera usciamo. -

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Capitolo 9
*** Capitolo otto ***


 

CAFFE' NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO OTTO

 

La biondina gli allacciò le braccia attorno al collo, strusciandosi addosso al suo corpo come se non avesse abbastanza forza nelle gambe per reggersi in piedi da sola, e un'ondata di profumo esageratamente dolciastro gli riempi naso e polmoni, rubando tutto lo spazio che sarebbe dovuto andare all'aria al punto che le franò addosso a causa dell'improvvisa mancanza di ossigeno, aumentando di poco la stretta sulla vita sottile della ragazza, la quale fraintese ampiamente il gesto e gli si arrampicò (letteralmente) addosso, lanciando un gridolino estasiato.
Orlando continuò a muoversi seguendo il ritmo della canzone che delle enormi casse sparavano fuori con un numero di decibel decisamente superiore rispetto a quello stabilito dalla legge, boccheggiando per respirare.

L'aria era liquida, un concentrato di vapore acqueo, sudore e profumi sintetici; una brodaglia calda che gli si fermava in gola costringendolo a respirare con più rapidità del solito.
Se non fosse stato per la rabbia che gli bruciava dentro senza sosta ormai da ore, si sarebbe accasciato sul primo divanetto libero e sarebbe rimasto lì, a caccia di aria, troppo debole per fare qualsiasi altra cosa che differisse dal fissare la folla agitarsi sulle note di questa o quella canzone.

Aveva sempre odiato i club: troppa gente, troppa confusione, troppe luci puntate negli occhi, troppo tutto.
Eppure era stato proprio lui ad insistere, a stringersi assieme a Kate e ad una sua amica con rispettivo ragazzo-bambolotto in un taxi che li aveva lasciati alle porte di un anonimo casermone in cemento in una zona poco via che disabitata di periferia.
Era stato lui a bussare ad un altrettanto anonimo portone e a scendere le scale che li avevano portati in un altro mondo, fatto di luci psichedeliche e rumore.
Aveva ballato, aveva chiacchierato con chiunque gli capitasse a tiro, aveva persino concesso un paio di foto a due modelle norvegesi troppo magre per poter essere davvero vive.

Ma non si divertiva.
Ogni cosa gli rimbalzava addosso, quasi fosse fatto di gomma, e non niente sembrava in grado di scalfire quella rabbia gelida che si portava dietro dal tardo pomeriggio, da quando Annie era uscita da casa sua.
Si era reso conto, mentre apriva con rabbia le ante dell'armadio e iniziava a frugare frenetico tra giacche, jeans e pantaloni, che tutta la casa sembrava essere pervasa dal profumo morbido della manager.
Impossibile, si era detto, è stata qui per venti minuti al massimo.
Ma nonostante questo, in qualunque stanza avesse messo piede prima di uscire, un ombra di albicocca e mandorla lo aveva inseguito, lo aveva stuzzicato, lo aveva torturato senza lasciargli un attimo di tregue.

Il problema, si disse mentre le mani della biondina scendevano neanche tanto leggere e discrete al di sotto della sua cintura, era che non riusciva a schiodarsela dalla mente. Tutto, anche la più piccola e insignificante delle cose, gli faceva pensare a lei.
Una ciocca rossa gli mozzava il cuore in gola, due occhi neri lo paralizzavano al punto che persino al biondina gli lanciava occhiate stupite di tanto in tanto, occhiate che si ostinava ad ignorare facendo finta di niente.
Stava impazzendo, ecco tutto.
Non gli era mai successo prima, non aveva mai incontrato una persona capace di farlo arrabbiare al punto da bloccargli persino il pensiero.
Perché per quanto ci provasse, non riusciva a levarsela di testa. Sbuffò, guadagnando un'occhiata seccata dalla ragazzina che gli stava avvinghiata addosso.

Inarcò appena le sopracciglia, come per ricordarle con chi stesse ballando (e che per questo non aveva il diritto di lamentarsi), senza aver bisogno di dire nulla, troppo intento a cercare di sbrogliare i nodi del suo animo in tumulto.
Aveva fatto, di nuovo, l'errore di credere che una sufficente dose di alcol in corpo potesse in un qualche modo attutire la realtà, ma nemmeno dopo un considerevole numero di drink era riuscito a soffocare la rabbia o ad allontanare il pensiero della manager dalla mente, anzi.
Barcollante, con la mente annebbiata e totalmente incapace di pensare razionalmente, se possibile si era focalizzato ancora di più sul problema e ora lo spettro di Annie gli danzava nella mente come se fosse lì, accanto a lui.

Continuò ad ignorare le mani della biondina, sempre meno discrete e timide, sentendosi stanco come non mai.
Non era da lui comportarsi così, non l'aveva mai fatto prima d'allora e non aveva mai creduto di poter arrivare a tanto.
Aveva un problema, ecco tutto.
Gli avevano sempre insegnato che il primo passo da fare per risolvere un problema è ammettere di averne uno, per cui tanto valeva tentare.
Con un po' di fortuna l'indomani non se ne sarebbe minimamente ricordare. Ma come aveva scoperto ben presto, era una colossale stronzata: anche se aveva ammesso di avere un problema, la soluzione non era comparsa all'orizzonte e qualcosa gli suggeriva che non sarebbe successo molto presto, ma che piuttosto avrebbe dovuto penare non poco per trovarla.

- Sei qui con me o stai su un altro pianeta? - sbottò all'improvviso la biondina, evidentemente stanca di non ricevere alcuna attenzione che differisse dalle mani dell'attore saldamente ferme attorno alla sua vita.
Lui non rispose nemmeno, allontanandosi appena, e lei spalancò la bocca, indignata, prima di soffiare come un gatto inferocito e girare sui tacchi, andandosene accompagnata da un ridicolo ticchettio.
Orlando sbattè le palpebre, più intontito che mai, per poi scrollare le spalle e avventurarsi nella folla, alla ricerca di Kate.
Ne aveva abbastanza di starsene lì, voleva tornare a casa e chiudere gli occhi, regalandosi qualche sacrosanta ora di pace.
Si fece largo tra ragazze coperte da ridicolissimi pezzi di stoffa buttati a casaccio sul corpo che qualcuno aveva il coraggio di definire vestiti e di vendere come tali, per cifre astronomiche, fino a raggiungere un minuscolo separé dove ricordava vagamente aver abbandonato il cappotto, appena arrivato.
Con un po' di fortuna, avrebbe trovato la sua ragazza lì.

E infatti la bionda attrice era lì, seduta assieme ai suoi tre amici, in preda a una crisi di risatine.
Cosa avesse tanto da ridere, non riusciva proprio ad immaginarlo, ma con Kate non si poteva mai dire.
E per quanto dubitasse che uno dei suoi due accompagnatori avesse detto qualcosa di estremamente brillante, era possibilissimo che lei l'avesse trovato esilarante al punto da ridursi in quello stato.

- Amore, - la chiamò, sedendosi sul divanetto accanto a lei e circondandole la vita con un braccio - ciao. -
Le diede un rapido bacio, al quale lei rispose con impeto.
- Tesoro! - strillò euforica, buttandogli le braccia al collo - Ma ciao! -
Orlando si ritrasse, stupito e stordito al tempo stesso da tanta vitalità.
- Sono quasi le quattro del mattino, come fai a essere così vivace? - indagò sospettoso, scrutandola con attenzione.
A prima vista, non c'era niente fuori posto.
Eppure, qualcosa continuava a non tornargli e ad aumentare i suoi sospetti c'era quell'enorme macchia scura sullo splendido abito di raso blu pavone che la giovane donna indossava: non era da Kate rovinare così un vestito.
Non era da Kate rovinare un vestito e basta.
La squadrò da capo a piedi, soffermandosi sul volto.
Occhi lucidi, sorriso esageratamente teso, naso arrossato.
Il tutto adorabilmente incorniciato da una chioma bionda perfettamente in piega.

-Hai pianto?- chiese, lottando per far fluire in lui un po' di lucidità. 
Aveva il vago presentimento che stesse per succedere qualcosa, qualcosa di estremamente brutto e spiacevole. 
La Bosworth rise di gusto, scuotendo il capo e agitando entrambe le mani in aria; nella destra stringeva una banconota da dieci sterline arrotolata. 
D'istinto, gliela strappò via dalle dita, avvertendo sempre più nitida una sensazione di pericolo imminente.
- Ne vuoi un po' anche tu? - indagò sorpreso l'altro ragazzo, ridacchiando.
Accadde tutto in un attimo.
Fu una cosa così veloce che quasi non se ne rese conto. 
Nello stesso istante in cui abbassò gli occhi sul tavolino e vide che sopra la superficia nera e lucida rimaneva, inconfondibili, i segni di quelle che dovevano esser state per forza di cose delle strisce di cocaina, Kate esplose in una risata di gola, simile a quella dei bambini, e indicò qualcosa davanti a lei; non fece nemmeno in tempo ad alzare lo sguardo che il primo flash lo colse di sorpresa, subito seguito da una vera e propria raffica di lampi di luce accompagnata da altrettanto urla. 
Deglutì, mentre un'ondata di lucidità fredda lo investiva, strappandogli da corpo ogni traccia di ubriachezza. 
Non aveva dubbi, a riguardo.
Questa volta era veramente nei guai.


Annie si allungò pigramente nella vasca piena di acqua calda, chiudendo gli occhi e godendosi l'unico momento di relax che si concedeva in tutta la giornata.
Una timida pioggerellina bussava alla grande finestra del bagno, proiettando ombre evanescenti sulla parete alle sue spalle e regalando alla stanza piastrellata d'azzurro tinte quasi argentate.
Il sole che i meteorologhi avevano previsto si erano nascosto alle prime luci dell'alba dietro un fitto strato di nuvoloni grigi, forieri di tempesta, e non accennava minimamente a farsi vedere, regalando a Londra la più tipica delle giornate uggiose, di quelle che i turisti quasi si aspettavano di vedere non appena mettevano piede fuori Heatrow.

Nonostante l'acqua fosse ancora fumante, la schiuma era quasi completamente finita e Annie, con un sospiro, si mise a sedere strizzandosi i capelli con una mano e allungando l'altra verso un soffice asciugamano di spugna posato su uno sgabello lì accanto.
Si alzò in piedi, accompagnando il ticchettio della pioggia con un più vivace gocciale che venne presto soffocato dal morbido telo bianco; infilò le ciabatte, dopo esser asciugata brevemente e aver cambiato l'asciugamano con un po' pesante accappatoio, e uscì dal bagno per entrare in camera, rabbrividendo appena per il brusco sbalzo di temperatura.

Si lasciò cadere sul letto, inspirando a fondo.
L'umiliazione era riuscita a smaltirla, almeno in parte, a suon di insulti rivulti al muro e due ore di sana kick-boxing; la rabbia no.
Questa volta ha veramente esagerato, si disse fissando il soffitto immacolato sopra di lei, una cosa del genere proprio non doveva farla.
Non solo aveva deliberatamente agito in modo tale che lei ne uscisse etichettata come poco presente nella vita del suo cliente, ma aveva danneggiato in primis proprio se stesso. E per cosa, poi?
Per uscire con uno stecchino ambulante munito di parrucca bionda?

Represse un ringhio, rotolando su un fianco.
Non c'era ragazza al mondo che giustificasse un comportamento del genere, neanche nell'eventuale ipotesi che tale ragazze si rivelasse poi l'amore della sua vita, quello con la A maiuscola.
E pur non sapendone abbastanza sul loro rapporto (grazie al cielo!), dubitava fortemente di trovarsi davanti ad una situazione del genere: non erano fatti per stare assieme, punto.
Primo, perché lei presto o tardi si sarebbe stufata di lui. Secondo, perché lui presto o tardi si sarebbe stufato di essere il giocattolino di una ragazzina troppo magra e troppo bionda.
Che poi, li trovava dissonanti.
Due note messe vicine che non creano armonia ma qualcosa di estremamente gradevole. No, non poteva perdonarlo. Non così facilmente.

Si mise a sedere di scatto, sospirando.
- Meglio darsi una mossa, cara mia! - si disse, frizionandosi i capelli con un asciugamano prima di applicarvi sopra una noce di crema lisciante, insistendo con particolare attenzione sulle punte.
Accese la televisione, sintonazzandosi con un telegiornale mattutino e, dopo aver recuperato il suo i-pod e essersi infilata gli auricolari nelle orecchie, accese il phon.
Le piaceva asciugarsi i capelli ascoltando musica.
Era una cosa stupida, se ne rendeva conto, ma rendeva il tutto più piacevole.
La musica in generale, rendeva ogni cosa più piacevole, fosse stato per lei avrebbe dato ad ogni momento della sua vita una colonna sonora.

Si era appena persa tra le note dei Massive Attack, quando scorse riflessa nello specchio una serie di immagini che scorrevano sul televisore.
Anche se non poteva sentire l'audio, riconobbe all'istante il volto che si animava nella sequenza di fotogrammi: sorpresa, spense il phon e lo posò le lavandino, tornando in camera. Aveva quasi paura a togliersi gli auricolari e scoprire cosa il servizio stesse dicendo, ma non aveva scelta.
Libera, la musica esplose debolmente tra le sue dita, mentre la voce della commentatrice le riempiva le orecchie.

"...il noto attore Orlando Bloom, sorpreso in un club londinese assieme alla sua ragazza, l'attrice Kate Bosworth, intento a sniffare cocaina, la notizia è confermata da..."
Annie si appoggiò allo stipite della porta, per non cadere a terra.
Il binomio Bloom-cocaina l'aveva privata di ogni forza, lasciandola senza fiato e senza parole mentre sullo schermo uno sconcertatissimo Orlando faceva possibile e impossibile per sfuggire ad una ressa impressionante di giornalisti armati di cellulare, registratori, microfoni e quant'altro la tecnologia consentisse loro di disporre.
Si coprì la bocca con la mano, senza nemmeno più sentire cosa il servizio dicesse; ogni suo pensiero fuggiva verso il giovane attore che vedeva intento a dileguarsi nella notte con l'espressione più sperduta che gli avesse mai visto addosso.

Si riscosse solo quando le immagini finirono, sostituite dall'impeccabile volto della presentatrice, intenta a portare avanti il telegiornare con altri fatti di cronaca mondana meno importanti.
Per quello che le importava poteva parlare tanto della morte del pesce rosso delle gemelle Olsen quanto del divorzio tra Carlo e Camilla, l'effetto sarebbe stato lo stesso: la sua mente si era attivata e lei pure.
Senza nemmeno finire di asciugarsi i capelli si liberò dell'accappatoio, lanciandolo sul letto, e spalancò l'armadio, afferrando le prime cose che gli capitarono a tiro.

Agguantò un paio di calzini e scese di corsa al piano di sotto, saltellando lungo le scale per metterseli.
Miracolosamente incolume, dopo aver rischiato un paio di volte di rompersi l'osso del collo perdendo l'equilibrio, infilò un vecchio paio di scarpe da ginnastica di tela e recuperò la borsa senza fermarsi un attimo; uscì di casa sbattendosi la porta alle spalle e si precipitò in macchina.
C'era una sola cosa che doveva fare, e doveva pure farla in fretta.

Doveva portarlo via. Subito.
 

Orlando affondò il viso tra le mani, cercando di ignorare le urla che provenivano dall'esterno.
Erano ore, ormai, che se ne stava barricato in casa senza nemmeno azzardarsi a sbirciare oltre le tende rigorosamente chiuse; relegato tra quattro mura vuote e troppo grandi per lui e la sua improvvisa incapacità di pensare.
Vagava di camera in camera, spostava oggetti, si sedeva sul bordo del letto e poi si rialzava; si era preparato qualcosa come cinque caffé nel giro di un'ora e non ne aveva bevuto nemmeno uno, limitandosi a svuotare la moka in bicchieri che poi abbandonava sul tavolo, senza più guardarli.

Di Kate non aveva più saputo nulla.
Quando aveva realizzato che non si sarebbe schiodata da quel divanetto perché troppo fatta per muovere un muscolo l'aveva lasciata lì, troppo arrabbiato per poter pensare di portarsela dietro, e se ne era andato, era scappato nella notte londinese senza preoccuparsi di niente.
Era stato egoista, lo sapeva.
L'avrebbe chiamata e si sarebbe scusato, lo sapeva.
Sapeva pure che lei non meritava alcun tipo di scuse quanto una lavata di capo, ma si conosceva troppo bene ed era perfettamente consapevole di non riuscire a tenere il muso a qualcuno che non fosse Annie.

Annie.
Il pensiero lo folgorò, facendolo rabbrividire.
Se riusciva a scampare ai giornalisti ci avrebbe pensato lei ad ucciderlo, non c'erano dubbi a riguardo.
Non avrebbe neppure potuto darle torto, non questa volta, si era cacciato in una situazione che definire pericolosa era poco. Inorridendo ricordò la crocifissione mediatica che era toccata a Kate Moss, capitata in una situazione in un certo senso analoga, e tutto il tempo che la modella ci aveva messo a risollevarsi, tra i fischi e le urla dei fan, dei critici e di chiunque si sentisse in dovere di esprimersi a riguardo (alias, il mondo intero).
No, non avrebbe proprio potuto biasimare la sua manager se avesse deciso di ucciderlo con le sue stesse mani.

Sobbalzò, sentendo Sidi abbaiare furiosamente dal soggiorno, e scese di corsa le scale, allarmato.
Ma invece di qualche giornalista particolarmente audace, si ritrovò davanti proprio Annie, più trafelata che mai. Schiuse le labbra, senza riuscire ad articolare la sorpresa e fissandola come se non l'avesse mai vista prima d'allora: ansimava leggermente, i capelli le ricadevano scomposti sul viso e le ciocche somigliavano tantissimo a tagli trasversali sull'incarnato pallido, mentre gli occhi.. non avrebbe saputo come descriverli.
Lucidi, preoccupati, furiosi. Ma fondamentalmente buoni.

- Stai bene? - chiese lei, senza tergiversare troppo, stringendo con forza un portachiavi di peluche tra le dita.
- Si. Cioè, credo. - replicò lui, irrazionalmente timoroso.
Nulla, ma proprio nulla in lei faceva pensare che fosse arrabbiata, eppure non poteva fare a meno di esserne spaventato.

- Okay. - Annie chiuse gli occhi, concedendosi un lungo respiro che suonò tanto come un sospiro di sollievo - Okay. Ora .- li riaprì, colmi di determinazione - Ora devo portarti via da qui. Sei pronto? -
- Devo prendere qualcosa? - domandò alla fine, riprendendo possesso della facoltà di parlare.
- Solo lo stretto indispensabile. - fu la lapidaria risposta, mentre si voltava assicurandosi di aver chiuso la porta alle spalle.
Sidi abbaiò due volte mentre l'attore faceva dietro front e schizzava in cima alle scale, senza nemmeno chiedersi come diavolo avesse fatto una creaturina minuta come lei a superare lo sbarramento di giornalisti appostato davanti alla casa.

 

- ...e questa è la tua stanza. - concluse Annie, aprendo una porticina in legno ed entrando in una minuscola stanzina occupata quasi interamente da un letto matrimoniale sistemato davanti a un piccolo armadio in legno chiaro.
Orlando la seguì, gli occhi sempre più sgranati, catturando ogni più piccolo dettaglio della cameretta: le pile di libri ammucchiate in un angolo, il copriletto immacolato, i piccoli cuscini quadrati, una vecchia foto in bianco e nero appesa alla parete.

- E' un po' piccola. - si scusò la ragazza, sedendosi su un bordo del letto - Ma come hai potuto vedere non c'é molto spazio che avanza. -
Orlando scosse il capo, posando il borsone semi vuoto a terra.
Come gli era stato raccomandato, non aveva preso che pochissime cose con sé e ora ne intuiva la ragione: nemmeno volendo sarebbe riuscito a stipare qualcosa di più in quella minuscola stanzina.
Accarezzò affettuosamente Sidi, che li aveva seguiti come un'ombra e si era accucciato ai piedi del padrone stranamente silenzioso, come in attesa di qualcosa, alternando i suoi ernomi occhioni liquidi tra i due ragazzi.
Avvertiva anche lui la tensione che si celava sotto quella forzata cortesia, l'attore non aveva dubbi a riguardo.
Tornò a guardare la rossa, intenta a tormentare una ciocca di capelli, e sospirò, andando a sedersi accanto a lei.

- Avanti, dai. - la incitò, passandosi una mano sulla faccia.
Era pronto, qualsiasi cosa stesse per succedere.

- Avanti dai cosa? - chiese Annie, senza nascondere la sorpresa.
- Quando attacchi con la tua ramanzina? - si sentì dire, incapace di trattenersi e di sfogare diversamente il nervosismo accumolato nel corso delle ore più lunghe di tutta la sua vita.
Si rendeva conto di farlo nel modo sbagliato e con l'unica persona che era accorsa in suo aiuto senza che avesse bisogno di chiedere nulla, ma si giustificò dicendo che, in fondo, era pagata per farla.
Saltò a piedi pari il fatto che lei lo avesse portato in quello che ridendo aveva definito la sua tana, costringendosi a due ore e mezza di macchina per arrivare in un minuscolo paesino abbandonato nella campagna inglese, andando ben oltre il semplice ruolo di manager.
Avrebbe potuto sbatterlo in un albergo qualunque.
Ma non l'aveva fatto, si era comportata da amica.
E lui la ripagava così.
Sapeva di sbagliare, ma quello che gli era capitato nel giro di nemmeno ventiquattro ore era più di quanto potesse sopportare.

- Ah, capisco. - sorrise gelida, inchiodandolo con un'occhiata.
- No, avanti, comincia. Per lo meno ti levi.. - il peso - ...la soddisfazione. -
- Fatti il favore di stare zitto e salvare quel poco di dignita che ti rimane. - lo freddò, incapace di rimanere buona.
Poteva capire il nervosismo, poteva capire lo shock, poteva capire tutto.
Ma non tollerava le offese gratuite, non in una situazione del genere.
- Mi fa piacere, comunque, vedere che come sempre non sei in grado di ringraziare e basta, senza calarti nei panni della vittima. - aggiunse, mordendosi la lingua un attimo dopo aver pronunciato le parole.
L'attore colse la palla al balzo, in un gioco che ormai avrebbe dovuto conoscere bene perché era l'unico che sapevano giocare assieme.
A provocazione risponde provocazione, una gara a chi si ferisce di più e da cui entrambi uscivano fuori vinti.

- Scusa tanto se non c'è stata occasione che non hai colto per ribadire la mia poca professionalità. Adesso puoi sottolineare ampiante pure la mia stupidità, quindi perché non ne approfitti? Avanti, su. - la spronò lui, accogliendo le ondate di adrenalina e rabbia come una benedizione per non pensare al guaio in cui si era cacciato.
- Orlando, vedi di crescere una buona volta. Davvero credi che io mi diverta a dirti cose del genere? -
Si guardarono dritti negli occhi, nero e nocciola legati da un filo invisibile carico di tensione, di elettricità, di attesa.
Sarebbe bastato poco, realizzarono, per stroncare la discussione sul nascere.
Un semplice no sarebbe stato sufficiente a rabbonire tanto lei quanto lui, a distendere almeno un po' i rapporti tra loro due e consentire un dialogo più sereno.
Sarebbe bastato veramente poco.

- ...Si. - sbottò alla fine l'attore, troppo orgoglioso per ammettere il contrario.
- Cristo. - Annie scosse il capo, senza sapere se ridere o piangere - Mi chiedo che idea ti sia fatto tu di me.- commentò amaramente, abbassando lo sguardo sulle mani che aveva intrecciato in grembo.
- Forse è meglio che tu non lo sappia. - ringhiò il ragazzo, senza pensare a quello che diceva.
- Oh no, avanti, ti prego. Illuminami a riguardo, così poi posso confermare che sei esattamente quello che penso. - lo incitò, più velenosa che mai.
- Ovvero un bambino viziato, pieno di soldi e troppo idiota per una persona del tuo calibro? - ribattè pieno di rabbia Orlando, sentendosi punto sul vivo da un pensiero che, per quel che ne sapeva, era solamente suo.
- Oh no Orlando, io non penso questo. Io vedo un ragazzo che ha paura di crescere, di aprire gli occhi e di assumersi le sue responsabilità perché implicherebbero l'ammissione di una colpa, vedo un uomo troppo orgoglioso e disposto a uscire gobbo dai guai pur di non abbassa un po' la cresta, vedo una persona che spreca il suo dono facendo il balordo con le sue amichette vip invece di mettersi seriamente al lavoro e regalare al mondo qualcosa di meraviglioso. - urlò Annie, alzandosi in piedi.
Si sentiva esplodere, come se il suo corpo fosse troppo piccolo per contenere quel mare di pensieri e emozioni che le si agitavano dentro.
- Quel che vedo è una promessa sprecata, Orlando, un'accozzaglia di occasioni sprecate per delle ragioni stupidissime! -

- Ma tu che ne sai? - ruggì lui, alzandosi in piedi a sua volta - Tu che ne sai, cosa sai di me? -
- Solo quello che tu mostri. - ribatté pronta la rossa, mentre Sidi si univa al coro di urla abbaiando di tanto in tanto.
- Perché tu, invece, fai sempre sfoggio delle più alte virtù umane. - la canzonò Orlando, abbassando pericolosamente il tono di voce.
- Cosa vorresti dire? -
- Che io non sarò un perfetto gentiluomo, ma tu non sei mai stata da meno. - sibilò, sporgendosi appena verso di lei.
Annie non si ritrasse, continuando a guardarlo dritto negli occhi.
- Sin dal primo giorno ti sei sempre comportata in modo tale da mostrarti superiore, da lasciar capire chi tra noi due fosse migliore senza che ci fossero dubbi a riguardo. Non me ne hai perdonata una, nemmeno la più stupida delle cose, mi hai sempre fatto pesare ogni più piccolo sbaglio, senza mai venirmi incontro. Sai cosa penso? Che tu abbia qualche problema. Ma non con me, con le persone in generale. Basti pensare alla tua migliore amica, sembrate fatte con lo stampino. Lavoro, lavoro e solo lavoro! Preferisco essere di gran lunga la persona che sono, piuttosto che diventare una macchina senza cuore e sentimenti come te! - concluse, riversandole addosso tutto l'astio e il risentimento che aveva covato per settimane in silenzio, senza mai avere l'occasione di sfogare.

Annie non batté ciglio.
O meglio, sbatté le palpebre, imponendosi di non piangere, e continuò a guardarlo con tutta l'arroganza e la fermezza di cui era capace.
Il punto di non ritorno lo avevano passato ormai un bel pezzo, da quando si erano avventurati nel delicato campo del personale abbandonando quello più sicuro dei rapporti professionali, però lo stesso non aveva nessuna intenzione di mollare la spugna così.
Riconosceva del vero nelle ultime parole di Orlando (alcune cose se le era sempre dette da sola), ma sentirle uscire dalle labbra di qualcun altro era qualcosa che non avrebbe mai potuto immaginare.
D'un tratto si sentì nuda, scoperta, davanti quello sguardo denso, color cioccolata, che non la lasciava un attimo, al punto che incrociò le braccia al petto e arretrò di qualche passo.
Orlando non la perse di vista un attimo, senza fiato: la guardò indietreggiare e curvare leggermente le spalle, sulla difensiva.

Ma quando si accorse che stava per ribattere, che schiudeva le labbra e inspirava per riprendere la discussione, qualcosa in lui scattò e agì seguendo il più irrazionale degli impulsi: annullò ogni ogni distanza tra loro due, mettendole una mano dietro la nuca mentre la spingeva contro l'armadio con forza, tanto che la sentì protestare quando andò a sbattere con la schiena contro il legno, ma non le diede il tempo di protestare.
Guardandola negli occhi, si chinò su di lei, tappandole la bocca con un bacio che rasentava la violenza fisica.

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Capitolo 10
*** Capitolo nove ***


CAFFE' NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO NOVE


 

Quando Orlando riaprì gli occhi, ci mise un po' a riconoscere il soffitto di pietra grezza sopra di sé, attraversato da sporadiche travi di legno.
Si rigirò su un fianco, richiudendo gli occhi.
Non aveva voglia di svegliarsi, non ancora, stava troppo bene sotto le coperte, ancora abbracciato dal soffice tepore del dormiveglia e succube della beata incoscienza delle prime fasi del risveglio, quando ancora non è ben chiaro se si è in un sogno o nel mondo vero.
Abbozzò un sorriso, riconoscendo nell'aria l'intenso profumo del caffé appena preparato, quello che si sprigiona dalla moka nell'esatto istante in cui inizia a salire e che invade tutta la cucina trasformandola in un oasi strappata all'Oriente delle Mille e Una Notte.

Caffé.
Il solo odore gli fece venire l'acquolina in bocca, al punto da rinunciare alla semi-incoscienza che svegliarsi del tutto e, nel farlo, la realtà gli piombò addosso con la delicatezza di un macigno di trenta tonnellate buone.
Aveva-baciato-Annie.
E non solo! ricordò balzando a sedere.
Quando si erano staccati, si erano scambiati uno di quegli sguardi capaci di rivoltarti come un guanto, di scavarti nell'anima e portare alla luce il più piccolo dei segreti.
Nel giro di tre secondi, i più lunghi della vita di Orlando, erano entrambi arrivati alla stessa identica conclusione e, senza un attimo di esitazione, lei lo aveva spinto sul letto.
Il resto...

Beh, il resto non aveva bisogno di esser commentato.
Il modo in cui i loro corpi si erano cercati, si erano trovati e si erano fusi assieme, in un'armonia che avrebbe creduto impossibile tra due persone incapaci di parlare per cinque minuti senza finire con l'insultarsi a vicenda, lo aveva lasciato senza fiato.
La bocca di lei, sempre pronta a sputare veleno, era quanto di più dolce avesse mai assaggiato in tutta la sua vita; le sue dita fredde e delicate.
Si scoprì ad arrossire, man mano che ripercorreva quanto era accaduto in quella stanza. Come un ragazzo dopo la sua prima volta.

Inspirò a fondo, cercando di darsi un minimo di contegno.
Non era un ragazzo, non più: era un giovane uomo e come tale doveva comportarsi.
Avvolgendosi nel piumino zompettò giù dal letto, fino al suo borsone, e ne tirò fuori una manciata di vestiti, che sparse sul materasso prima di pescarne qualcuno a caso e indossarlo, tanto per avere addosso qualcosa di comodo.
Visto e considerato che andava incontro all'ignoto, tanto valeva farlo nel più confortevole dei modi.
Si liberò della coperta, lanciandola sul letto dopo esseri ripromesso di sistemare la camera, e scivolò fuori, nella fioca luce arancione che illuminava il brevissimo tratto di corridoio antistante le scale.
Scese i dieci gradini in punta di piedi, quasi timoroso di farsi vedere, ed entrò nel minuscolo soggiorno.

Sidi, accoccolato su un divanetto rosso, dormiva della grossa tenendo il muso posato su un cuscino color zafferano.
Sorrise.
Povero cucciolone, costretto ad una vita scapestrata per colpa dei capricci di un padrone con la testa tra le nuvole.
Con un sospiro gli passò davanti, aggrappandosi a tutto il suo coraggio, ed entrò nella piccola cucina.

Annie era appollaiata su un ripiano sotto la finestra e, con il mento posato sulle ginocchia e una tazza di caffé tra le mani, guardava con attenzione lo schermo di un piccolo computer portatile, facendo scorrere di tanto in tanto la pagina.
Si concesse qualche secondo per riempirsi gli occhi di lei. Lei che anche con addosso una vecchia felpa di Yale, i pantaloni di una tuta e dei grossi calzettoni di lana riusciva ad essere bella. Si sorprese, chiedendosi del perché non l'avesse mai notato prima.
Ma forse, si disse, era solo perché ci aveva fatto del sesso assieme.
Dell'ottimo sesso, tra le altre cose.

- Pensi di restare lì a guardarmi ancora per molto? -
Sobbalzò appena, incrociando gli occhi neri della ragazza che lo scrutavano divertiti.
- E' un'opzione allettante. - replicò con una scrollata di spalle, andando a sedersi su una sedia.
Lei sorrise, tornando a guardare lo schermo che le inondava il viso di luce azzurrognola e le faceva sembrare i capelli quasi viola.

- Se vuoi del caffé, ne è avanzato abbastanza per una tazza credo. - gli disse, cercando di essere il più naturale possibile.
Fingere che non fosse accaduto nulla le sembrava il compromesso migliore, in attesa di capire come comportarsi.
Orlando annuì, ma non si mosse. Anzi, incrociò le braccia sul tavolo e vi affondò la faccia, chiudendo gli occhi e inspirando a fondo.

Annie lo guardò, con la coda dell'occhio.
Quanto era accaduto tra loro due andava ben oltre quello che si era aspettata, non aveva dubbi a riguardo.
Aveva infranto un considerevole numero di regole e convinzioni che rispettava sempre nei suoi lavoro professionale, cosa mai successa prima, e lo aveva fatto per cosa? Per qualche ora di piacere? Non era da lei, un comportamento del genere.
Si strinse con forza le caviglie, mordendosi le labbra; non era mai stata chissà quanto brava in queste cose, in genere le sue avventure di una notte non coinvolgevano mai uno degli attori più amati d'Inghilterra (se non del mondo intero) coinvolto nel ciclone di uno scandalo che poteva distruggerlo completamente.
Non seppe trattenersi dallo sbuffare.

- Che c'è? - indagò lui, alzando il capo e lanciandole una lunga occhiata.
La manager si incantò appena, trattenendo l'impulso di saltar giù e andare a scostargli quei riccioli che gli cadevano davanti agli occhi, impedendole di vedere quel color nocciola che, neanche dieci ore prima, le aveva fatto dimenticare chi fosse, dove fosse e con chi fosse.
Ebbe la prontezza di spirito di non arrossire.

- Nulla. - abbozzò un sorriso, ringraziando il cielo di averla fornita di sufficiente faccia tosta per poter mentire senza troppo problemi - Dormito bene? -
- Non saprei. - fece una smorfia, alzandosi e raggiungendola - In teoria si, ma ho come l'impressione che sia durato tutto troppo poco. -
- Vorrei ben vedere! - rise lei, posando il volto contro il vetro freddo, sentendosi bruciare per contrasto - Sai che ore sono? - l'attore scosse il capo e lei proseguì, divertita - Sono le due. Del mattino. Il che vuol dire che hai dormito cinque ore scarse, nella migliore delle ipotesi. -

- Tu invece non dormi mai. - obbiettò, aggrottando la fronte.
Non era una critica, ma un commento velato di preoccupazione.
Si chiese cosa gli stesse prendendo, tutto d'un tratto: non si era mai preoccupato per lei, non si era mai chiesto quanto frenetica potesse essere la sua vita, mai.
Non si era neppure mai posto il problema se lei ce l'avesse o meno, una vita.
Da quando era così meschino nei confronti delle persone che lo circondavano?

- Mai quanto vorrei. - mormorò Annie in risposta, concedendosi una lunga sorsata di caffé - Specie in situazioni d'emergenza. - gli ricordò, massaggiandosi gli occhi con aria stanca. 
- Cosa controlli? - indagò ancora l'attore, senza sapersi trattenere e posando il mento sulla spalla di lei, per sbirciare quello che stava leggendo con tanto interesse.
- Forum. - spiegò lei, avvertendo con un fremito il respiro di Orlando sfiorarle il volto - Mailing list, blog. Tutto quello che può in un qualche modo darmi un'idea di quello che frulla per la testa delle tue fan riguardo quello che è accaduto, prima di esporti al pubblico martirio per una conferenza stampa. -
- Mh. - mugugnò, per nulla estasiato all'idea di dover rivere una delle serate più orribili della sua vita davanti al mondo intero - E cosa dicono? -
- Oh, sapessi... - la rossa rise, sommessamente - C'è un gruppo di ragazze che si dichiarano disposte ad attraversare a nuoto la Manica per andare a "impalare quel manico di scopa munito di parrucca bionda" che ti accompagnava. -
L'attore non potè fare a meno di ridere a sua volta.
- Impalare Kate? - ripeté, trovando assurdamente esilarante la scena.
- Parole loro, giuro! - Annie alzò le mani, come a dire che non era colpa sua e non era responsabile, quando in realtà era disposta a pagare viaggio, vitto e alloggio a quel gruppo di ragazze purché le permettessero di partecipare all'impresa.
- E di me cosa dicono? - chiese dopo qualche attimo di silenzio, cercando di nascondere la preoccupazione.
- Beh, sono piuttosto incredule. - esordì cautamente la rossa, evitando di guardarlo - E fanno fatica a credere che tu possa aver effettivamente iniziato a far uso di droghe pesanti. Anche se una fanciulla particolarmente pungente ha ipotizzato che è per questo che lavori così poco. - inspirò a fondo, stordita dalla vicinanza dell'attore e dal profumo intenso che l'aveva avvolta in un caldo abbraccio - Per il resto, la situazione è meno grave di quel pensassi. Non so cosa tu abbia fatto per meritare delle fan del genere, lo ammetto: al posto loro ti avrei condannato senza ripensamenti. -
- Oh, non ho dubbi a riguardo. - Ghignò, senza prendere il commento come un insulto o un'offesa. Non era nelle condizioni di poterlo fare - Sei alquanto rigorosa e inflessibile. -
- Se non lo fossi non potrei fare questo lavoro, Orlando. - fu la replica stanca, appena udibile, della ragazza - Mi fai scendere, per favore? Se rimangono così un altro po' rischio la paralisi. - si lamentò, congratulandosi con se stessa per la naturalezza con cui aveva recitato.
In realtà stava benissimo, non rischiava proprio niente.
Aveva solo bisogno di aria fresca, di staccarsi da lui per riuscire a pensare lucidamente e analizzare la situazione a mente fredda.

L'attore annuì, nascondendo il disappunto, e tornò a sedersi sulla sedia, dopo aver approfittato del poco caffè rimasto per riempirsi una tazza.
Lei si stiracchiò, allungandosi sulle punte dei piedi, per poi raggiungerlo e posare il computer sul tavolo, davanti a lui.
Si sedette a gambe incrociate sulla sedia, gonfiando le guancie un paio di volte.

- Forse non è il momento adatto per parlarne.. - iniziò, titubante. L'attore per poco non si soffocò con il caffé, ma non osò interromperla - Però ho bisogno che tu mi dica esattamente cosa è successo. Perché per quanto mi sforzi non riesco proprio a capire. -
- Ah. - si lasciò scappare, senza nascondere la sorpresa.
- Beh, che ti aspettavi del resto? - proseguì lei - E' un argomento che va affrontato, tanto vale approfittare della miracolosa occasione in cui non ci insultiamo a vicenda e riusciamo ad avere un dialogo umano. - scrollò le spalle, chiudendo il portatile con un gesto secco - Ti pare? -
- Si, hai ragione. - convenne lui, con un sospiro - E' un evento più unico che raro, in effetti. - cercò di temporeggiare, alla disperata ricerca di una qualsiasi motivazione che potesse andare a giustificare quello che era successo qualche ora prima, al piano di sopra.
L'occhiata penetrante della ragazza lo fece deglutire.

- Orlando Bloom. - scandì - Non ti sto chiedendo di spiegarmi del perché abbiamo fatto sesso, se è questo che stai pensando. Non mi interessa e non lo voglio sapere, mettiamo le cose bene in chiaro prima che la situazione degeneri. Eravamo entrambi sconvolti ed è successo, tutto qui. Probabilmente l'alternativa sarebbe stato un accoltellamente reciproco, tanto eravamo furiosi. Non fartene un cruccio e butta giù un sorso di caffé. Ho bisogno che tu sia sveglio, in grado di raccontarmi cosa è successo in quel locale. -
Le parole lo investirono ululando con lo stesso gelo di una tormenta di neve, ma miracolosamente ebbero la capacità di risvegliarlo completamente e renderlo capace di mettere a fuoco quanto era accaduto nel locale.
- Quanto te ne sei andata da casa mia, - iniziò a dire - ero furioso con te. Mi sentivo umiliato, volevo in qualche modo farti arrabbiare. E' stupido, è infantile, ma hai la straordinaria capacità di tirare fuori il peggio di me quando ti impegni. - confessò.
Sebbene Annie avrebbe potuto zittirlo con una qualsiasi frecciatina circa la sua presunta e dispersa maturità, non lo fece.
E Orlando, per questo, le fu immensamente riconoscente.
La rossa lo ascoltò parlare, senza aprire bocca se non per qualche domanda lapidaria a cui l'attore rispose per lo più a monosillabi.
Si alzò solo una volta, per preparare dell'altro caffé, ma per il resto del tempo non batté ciglio.
Non distolse nemmeno lo sguardo.
Quando Orlando finì di parlare, sospirò.

- Grazie al cielo.. - mormorò, possandosi le mani sul volto - Grazie al cielo. -
- Cosa? -
- Grazie al cielo, ho detto. - scrutò il volto dell'attore sbirciandolo tra le dita - Questa.. questa è veramente una bella notizia. -
Orlando aggrottò appena la fronte, intenerito dall'espressione sollevata che faceva capolino sul bel volto della rossa.
Istintivamente, si allungò oltre il tavolo per stringere delicatamente i polsi della ragazza e scostarle le mani via dal viso, provocando una cascata di ciocche vermiglie; sorrise appena.
In realtà avrebbe voluto alzarsi dalla sedia e andare ad abbracciarla: per la prima volta, la vedeva come un essere umano.
Si sentì stupido nel formulare un pensiero del genere, ma non poté farne a meno. Solo ora si rendeva conto di avere davanti una giovane donna, un involucro fragile di carne e ossa con al suo interno un oceano di emozioni, sentimenti, paure.
Non il mostro con cui aveva sempre pensato di avere a che fare, ma una normalissima, giovane donna da cui era sempre scappato, rifiutandola. Inspirò a fondo, prima di riprendere a parlare, senza lasciar andare le dita sottili della ragazza.

- Non ti odio fino a questo punto e, soprattutto, non sono stupido fino a questo punto. Che senso avrebbe avuto rovinarmi la vita fino a questo punto o renderla a te un inferno? Non sono poi così tanto odioso. So cosa devo fare adesso. Solo che.. solo che non è facile. - la stretta attorno alle mani della manager si fece più dura, mentre le labbra si serravano in una linea asciutta - Devo.. - inspirò a fondo, scuotendo il capo.
Annie schiuse le labbra, ma le richiuse subito: non stava a lei parlare, non stava a lei dirgli che doveva lasciare una persona che, supponeva, amasse, sebbene smaniasse per poterlo fare.
Non era compito suo.
Doveva essere lui ad affrontare i suoi demoni, doveva farlo da solo: l'unica cosa che poteva fare era restare in silenzio, senza abbassare lo sguardo qualsiasi cosa lui decidesse di fare. Stargli accanto, ecco qual'era il suo compito.
I suoi erano i doveri di una moglie, senza mai una gratificazione.
Si mordicchiò le labbra, quando al tepore delle mani di lui subentrò l'aria fredda.

- Non sei obbligato. - sussurrò, richiamando le mani in grembo.
- No? Come posso stare con una persona che non ha rispetto per se stessa e per la persona che sostiene di amare? - non aspettò risposta, scuotendo il capo.
Persino nella fredda luce dell'alba riusciva a sembrare un dio greco.
Annie si sentì meschina nello scoprirsi a desiderare che lasciasse Kate all'istante.
Si alzò in piedi, dandogli le spalle e preparando un'altra moka di caffè: si sentiva esausta, come poche volte in vita sua.

- E' una scelta tua. - replicò a bassa voce, cercando di rimanere il più neutrale possibile - Non devi farlo perché ti senti obbligato. Posso trovare una soluzione, inventarmi qualcosa.. - le parole vennero soffocate dal rumore del fuoco che si accendeva.
Ti prego, non chiedermelo.
Continuò a ripetere queste quattro parole senza sosta, come un mantra, disperatamente.
Non voleva, per nulla al mondo avrebbe voluto inventare una scusa e coprire quella... quella...
Inspirò a fondo, cercando di dominare il tremore che si era impossessato delle sue mani.
Doveva darsi una calmata, ecco cosa doveva fare.
L'irrazionale impulso di fiondarsi a Londra per strangolare Kate era dovuto semplicemente al fatto che la sua brillante scenetta le costava lavoro in più e un calo d'immagine del suo pupillo, null'altro.
Non era gelosa.
No, certo che no.
Fece una smorfia, ripromettendosi di chiamare Janis nel pomeriggio e sfogarsi con lei.
Adesso doveva concentrarsi unicamente su Orlando.
Imprimendosi sul volto la sua espressione più professionale, tornò a voltarsi verso l'attore nell'esatto istante in cui questi riprese a parlare.

- ...devo lasciarla, ecco tutto. - alzò gli occhi dal tavolo, posandoli sulla figura della manager - E devo farlo subito, prima che mi esploda la testa a furia di pensarci. Dov'è il telefono? -
- Di là. - rispose automaticamente, vergognandosi come mai in vita sua per l'ondata di sollievo che la invase da capo a piedi, riempiendola di felicità.
Orlando si alzò in piedi, sorridendole, e lei si avvicinò.

- Grazie, Annie, davvero. - le disse, chinandosi per darle un bacio sulla fronte - Grazie di tutto. -
Annie rimase immobile, riuscendo a trovare la forza solo per abbozzare un sorriso.
Poi nulla. Quando Orlando chiuse la telefonata più faticosa della sua vita, lei era ancora lì.

 

Orlando si fece forza, mentre componeva il numero della sua bionda ragazza e contava il numero degli squilli che rimanevano senza risposta. Uno, due, tre, quattro..
"Pronto?"
Sobbalzò appena, ma quando aprì bocca per parlare, la voce uscì dalle labbra pacata come sempre.
- Kate, sono io. Ti devo parlare. -
"Oh, amore! Ce ne hai messo di tempo! Che faccia tosta chiamarmi solo ora, dopo avermi mollata in quel locale ed essere scomparso!" il tono vagamente isterico della ragazza lasciava trasparire una certa dose di panico.
Probabilmente già immaginava cosa stesse per sentirsi dire e stava semplicemente agendo per difesa, mettendo le mani avanti.

- Oh, amore, che faccia tosta dirmi una cosa del genere. - replicò fulmineo l'attore, piccato.
Non era in vena di ascoltare stronzate, non era in vena di ascoltare le patetiche scuse di un'attrice che lo trattava come un giocattolo.

"Eddai, non te la sarai mica presa per così poco? Cosa vuoi che siano un paio di foto pubblicate su un paio di giornali da quattro soldi!" protestò lei.
- Kate, ti rendi conto di quello che stai dicendo? - sbottò acido - Ti rendi conto dell'effetto che hanno quelle due foto su quei due giornali da quattro soldi? Eppure mi pareva di averti spiegato chiaramente la situazione di merda in cui in questo momento si trova la mia carriera, mi pare.
"Ma Orli..." pigolò ancora lei
- No, Kate, questa volta niente ma. Niente se, niente forse, niente di niente. Ho fatto i salti mortali per stare con te, per amor tuo ho rinunciato a tante cose che adesso invece mi rendo conto non avrei mai dovuto accantonare. Ma ho sempre creduto che bastasse l'amore, che bastasse quello a tenere in piedi una storia. Che in fondo io e te ci siamo sempre divertiti, siamo sempre andati d'accordo, che se alle volte le cose si ingrippavano era perché abbiamo degli impegni che ci portano via tanto tempo, che sarebbe bastato un minuscolo sforzo per tenerci assieme. Però è chiaro che le cose non stanno così, Kate. Mi aspettavo che anche tu sacrificassi qualcosa per amor mio, ma non l'hai mai fatto. La verità è che una storia non funziona se solo una delle due persone si impegna, e qui mi sto impegnando solo io-
Trattenne il respiro, in attesa della risposta.
Non avrebbe potuto essere più diretto di così, non aveva nulla di cui rimproverarsi.

"Mi stai lasciando, Orlando?" sussurrò Kate, dopo una lunga pausa che gli fece credere che fosse caduta la linea.
O che la ragazza fosse caduta dalla sedia.

Era il momento della verità, era giunto ad un bivio e nessuna delle due strade che aveva davanti sarebbe stata facile da percorrere.
Da un lato avrebbe potuto dire di no.
Tornare alla solita vita, rimanere con Kate, fare la figura del debole con Annie e renderle le settimane a venire un inferno ancora più terribile di quello che avrebbe comunque affrontato.
Dall'altro, poteva dire di si.
Abbandonare il suo nido di comode sicurezze per avventurarsi su un terreno nuovo, per affrontare l'opinione pubblica da sola, senza nessuno al suo fianco.
Certo, ci sarebbe stata sempre e comunque Annie.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.

La solitudine.
Sapeva di non essere pronto ad affrontarla.
Sapeva che Kate non sarebbe tornata da lui perché la conosceva: lasciarla andare non implicava un ritorno, era un lasciare e basta.
Senza vie di mezzo, senza ritorni, senza niente.
E esattamente come era consapevole di tutto questo, era consapevole anche del fatto che non era in grado di restare da solo, che suo malgrado aveva ancora bisogno di qualcuno accanto a lui che lo appoggiasse, che lo incoraggiasse.
Che lo amasse.
Cosa che ad Annie non poteva chiedere, se voleva evitare che lei gli sputasse in un occhio e si licenziasse in tronco.
No, sarebbe stato da solo.

Ma doveva farlo.
Per se stesso, per la sua carriera.
Doveva liberarsi dei suoi demoni, dei suoi fantasmi e delle sue paure e non c'era altro modo per farlo. Doveva scendere all'inferno e scavare fino ad uscire dall'altra parte, rinascere. E questa rinascita non prevedeva la presenza di Kate.
Inspirò a fondo.
- Si, Kate, ti sto lasciando. - disse alla fine, sentendo un nodo al petto sciogliersi man mano che le parole scorrevano fuori - Credimi, non è facile. Ma non posso. Non possiamo, è una farsa. Stiamo assieme per cosa? Abitudine? Disperazione? Utilità? L'amore si è spento tanto tempo fa, Kate, poco da fare. Mi dispiace. -
"Io non ho parole." commentò lei.
- Perché non c'è niente da dire. - scrollò le spalle, sbirciando verdo la cucina.
Non vedeva Annie, ma solo una porzione di tavolo e il computer portatile abbandonato li sopra.
Distolse lo sguardo - Stammi bene, eh? Mi raccomando. -

"Anche tu" sospirò lei, rassegnata.
- E smettila con quella roba, ti uccide e basta. -
"Addio, Orlando".
- Addio. -
Lasciò che fosse lei a riattaccare per prima e per qualche istante ascoltò il pigolare muto della linea libera.
Sidi aprì gli occhi, guardandolo con affetto, e gli trotterellò accantò, abbandonando il muso sulle sue gambe.
Orlando sospirò, improvvisamente svuotato, e accarezzò distrattamente il cucciolone.

Era libero.
Finalmente era libero.

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Capitolo 11
*** Capitolo dieci ***


CAFFE' NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO DIECI



Non appena fu di nuovo in grado di camminare, Annie si precipitò in camera sua e chiuse la porta a chiave.
Guardò il letto sfatto solo per qualche attimo, domandandosi se fosse per il sesso che si sentiva così assurdamente fuori dal mondo e incapace di controllarsi, o se la causa non fosse da ricercare nella stanchezza e nello stress.
Distolse lo sguardo dal groviglio di lenzuola e coperte, sentendosi arrossire, e si affrettò a recuperare il cellulare, componendo rapidamente il numero della sua migliore amica.
 Janis rispose al settimo squillo, proprio quando era sul punto di riattaccare.
"Charlie Brown" esordì stupita "Allora le cose non sono così gravi come sembrano, se trovi il tempo di chiamarmi".
- Abbiamo scopato. - confessò tutto d'un fiato, entrando nel minuscolo bagno e lasciandosi cadere nella vasca da bagno vuota.
"Ripeti, non credo di aver capito bene".
 Annie inspirò a fondo, rannicchiandosi in posizione fetale contro la fredda porcellana della vasca, chiedendosi se non fosse del tutto impazzita.
Dirlo ad alta voce non aveva reso più semplici le cose come aveva ingenuamente sperato.
- Janis. - riprese, contraendo e rilassando senza sosta le dita della mano libera - Janis, abbiamo scopato. -
"Tu e Mr. Party?"
- No, io e Babbo Natale! Certo che sto parlando di me e Orlando, ma ti sei rincretinita? -
"Vorrei farti notare che è l'alba e che i comuni mortali dormono, a quest'ora" replicò piccata la giornalista, dall'altra parte della linea.
- Tu non sei un comune mortale, sei una Dea nell'Olimpo del rock. - ribatté la rossa, liquidando le proteste dell'amica con uno scatto di fastidio.
Aveva bisogno di parlare, non di ascoltare ridicole lamentele su orari e stupidaggini simili. Come se Janis non avesse mai fatto le ore piccole, poi.
"Si, questa te la concedo," dal tono di voce lusingato, Annie poté intuire l'ombra di un sorriso "ma non mi interessa, adesso. Vuoi raccontarmi cosa succede? Non è da te lasciarti andare a cose del genere".
- Infatti! - gemette la rossa, sconsolata - Ma quel che è peggio è che non riesco a non pensarci! -
"Non avrei mai detto che Mr. Bloom fosse una bomba del sesso... E' stato così spettacolare?"
- Janis! - strillò la rossa, avvampando.
"Presumo di si" continuò l'altra, noncurante "Non è nemmeno tipo da far cilecca o sbagliare bu.."
- Janis, per l'amor del cielo! - si inalberò Annie, alzandosi in piedi scatto - Ho capito dove vuoi arrivare, non occorre scendere così tanto nei dettagli! Se ti preme così tanto sentirmelo dire si, è stato fenomenale e a letto è molto più che una bomba, trascende il concetto stesso. Contenta? -
"Deliziata" rise la giornalista.
- Ne sono lieta. - brontolò la manager, tornando ad accucciarsi nella vasca.
Seguì un attimo di pausa, nel quale Annie sospirò rumorosamente e Sidi abbaiò, al piano di sotto, un paio di volte, subito zittito dal padrone. Si chiese cosa stesse facendo e se fosse il caso di scendere a controllare, ma accantonò l'idea con una scrollata di spalle.
"Charli Brown del mio cuore." riprese infine Janis, con un tono molto più dolce e preoccupato "Stai bene?"
- La verità? - Annie si mordicchio le labbra, incerta - Non molto.. - confessò alla fine - Cioè, non è che stia male, ma ho avuto momento peggiori. -
"Mh".
- Ha mollato Kate, cinque minuti fa. - affondò il viso nel palmo di una mano e chiuse gli occhi - Ha fatto sesso con me, ha dormito due ore, abbiamo parlato di quello che è successo l'altra notte in quel fottuto night e poi ha mollato Kate. -
"E tu ti stai chiedendo se non sia stato per causa tua".
- E' patetico. - si lamentò - Patetico e ingenuo, da parte mia, nonché molto poco professionale. Janis, devo chiederti una cosa e voglio che tu risponda di no cercando di essere il più convincente possibile, perché io non ne vengo fuori. -
"Spara".
- Mi sto innamorando di lui, per caso? - chiese con un filo di voce, facendosi piccola piccola nella già di per sé minuscola vasca.
No tesoro, sei già bella che innamorata di lui.
"Assolutamente no!" mentì prontamente la bionda "Sei solo stordita dallo straordinario sesso che avete fatto, tutto qui. Dai tempo al tempo e vedrai che tra un paio di ore sarai la solita cinica Annie Brown di sempre."
Pur non essendo affatto convinta, la manager sospirò e ringraziò l'amica.
"Unica cosa, vedi di stargli un po' alla larga.Ti conosco, e so che sei facilmente incline a perderti in maniera definitiva di tutte le divinità del sesso che hai la dannata fortuna di incontrare ad ogni angolo della strada, d'accordo? E adesso scusami, ma ho ancora un'ora di sonno scarso davanti prima che un aereoplano mi catapulti in un qualche remoto angolo del Cile o cosa so io per un'intervista a Matthew Bellamy in vacanza".
- Fammi avere un autografo. -
"E tu promettimi che gli starai alla larga".
La battuta del secolo.
Annie si trattenne dal lasciarsi andare ad una risata totalmente isterica, stringendo forte il bordo della vasca e mordendosi le labbra.
Aveva avuto la brillante idea di portarlo via da Londra, avevano percorso chilometri interi in mezzo al nulla della campagna attorno alla capitale e adesso erano barricati in un minuscolo cottage dove lei da sola stava stretta e figuriamoci in due.
Sul suo letto c'era ancora il suo profumo e, con un po' di attenzione, poteva anche sentirselo addosso, dal momento che non aveva ancora fatto una doccia, e suo malgrado si ritrovava a desiderare che non se ne andasse ma diventasse più forte; era nel bel mezzo di una crisi sentimentale -perché era chiaro che era in crisi- e cosa doveva fare? Stargli alla larga?
A meno che non decidesse di passare almeno due giorni buoni rinchiusa in quel bagno, senza né cibo né altro, sarebbe stato impossibile. E poi non voleva.
- Prometto. - mentì a sua volta, molto più spudoratamente dell'amica.
"Brava bambina," sbadigliò questa "e adesso me ne torno a dormire".
E senza aspettare risposta, riattaccò, lasciando Annie in balia dei suoi pensieri.
E adesso?


Orlando sospirò di sollievo, quando sentì la porta della camera scricchiolare e scorse la chioma fulva della manager.
Era scappata via nell'esatto istante in cui aveva abbassato la cornetta; dandogli solo il tempo di vedere un uragano rosso salire i gradini a due a due e sentire una porta sbattere, subito seguita dall'inconfondibile suono di una serratura che scatta.
Era rimasta lì, barricata in una minuscola stanzina, per un'ora buona.
Cosa avesse fatto, non lo sapeva.
Sapeva soltanto di quella leggera ansia che gli aveva tenuto compagnia, subito cancellata dal suo apparire.
Le sorrise, alzando gli occhi da Sidi che le saltellò incontro, pretendendo una carezza prima di tornare ad accucciarsi in un angolo.
Lei tentennò, prima di rispondere, e gli si sedette di fronte, su un tavolino di legno intagliato. Poi ci ripensò, si alzò in piedi, e atterrò leggera accanto a lui, lo guardò, schiuse le labbra per parlare e immediatamente le richiuse, tornando a fissarsi le mani.
L'attore inarcò le sopracciglia, perplesso, senza capire.
La guardò alzarsi di nuovo, tornare sul tavolino, e poi sul divano.
Alla terza volta che la scena si ripeteva, le prese i polsi e la costrinse a fermarsi, irritato.
- Cosa succede? - le chiese, perentorio.
Lei lo guarò, annichilita, con l'espressione di un cucciolo spaventato.
- Niente. -
- Balle. -
- Vero. - ammise lei, abbassando lo sguardo.
Orlando si fece cogliere dal panico, di fronte a tanta confusione.
- Annie, cosa è successo? Sono così tanto nella merda? Ti giuro che se vuoi licenziarti lo capisco perfettamente e non devi in alcun modo giustificarti... -
- No, no, no. - Annie abbozzò un sorriso - Niente di tutto questo. Ho affrontato tempeste peggiori, che vuoi che sia uno scandalo del genere? - ironizzò, piegando le labbra in una smorfia. Orlando si rilassò, impercettibilmente, e si concesse di posare la schiena contro lo schienale del divano.
- E' la mancanza di sonno a farti scattare come un pupazzo a molla, allora? -
- No. - inspirò a fondo, decisa, e si impose di guardarlo dritto negli occhi, ignorando quella fitta che sembrava incitarla solamente a desistere - No, devo...dobbiamo chiarire un paio di cose. -
- Ah. - l'attorre aggrottò la fronte - Chiarire cosa? -
- Tutto quanto. Decisamente io e te non siamo partiti con il piede giusto e visto il punto a cui siamo arrivati. - alzò gli occhi al cielo, senza sentire il bisogno di entrare troppo in dettagli perfettamente noti ad entrambi - Perché vedi, ieri hai detto cose che non... non sono completamente sbagliate. - ammise, guardandosi le mani.
Il ragazzo schiuse le labbra, come per ribattere, ma lei bloccò ogni sorta di protesta sul nascere, sorridendogli prima di riprendere a parlare.
- Sono intransigente, autoritaria, inflessibile e con una spiccata tendenza al maniacale. - elencò, stringendosi nelle spalle - E si, quando ti ho incontrato avevo in mente un'idea ben precisa di te che poi hai provveduto a rinfonzare e smentire al tempo stesso. Ho fatto la mia buona dose di errori, non posso negarlo, ma questo non vuol dire che sia stata sempre e solo colpa mia. La mia impressione è che tu non mi abbia accettata dal primo momento, che ci fosse qualcosa, in me, tale da spingerti ad odiarmi e, credimi, vorrei tanto capire cosa ho fatto perché siamo in una situazione tale dove non ci è concesso il minimo errore, dobbiamo agire in sintonia e l'affiatamento non si crea se è solo uno a volerlo. -
- Abbiamo sbagliato entrambi. - mormorò Orlando, riavviandosi i capelli con un gesto stanco - Ma questo non vuol dire che non si possa rimediare. -
Annie si rannicchiò sul divano, circondando le ginocchia con le braccia e posandovi sopra la fronte per qualche attimo; il viso nascosto da una cascata di lucida seta rossa.
- Orlando, io... - iniziò a dire, mordicchiandosi le labbra - C'è una cosa che devi sapere. -
- Dimmi. - sorride lui, allungando una mano per scostarle i capelli dal volto.
Lei non si ritrasse, anzi: girò il capo per guardarlo, gli occhi così neri da sembrare finti rimasero fissi nei suoi per un lasso di tempo che gli parve infinito, al punto che si trovò a rabbrividire di fronte a tanta intensità.
- Il mio ultimo lavoro si è concluso con un disastr. o- iniziò lei, dopo un profondo sospiro - Ero la manager di un gruppo musicale emergente che sembrava essere la nuova promessa dell'indie rock. Andava tutto a gonfie vele, i rapporti erano ottimi al punto che spesso capitava di uscire la sera tutti assieme. Eravamo amici, più che colleghi, e forse è stato proprio questo a farmi credere di potermi rilassare, di potermi concedere il lusso di... - chiuse gli occhi, dandogli l'impressione che stesse combattendo con un fantasma troppo forte.
- Non sei obbligata a dirmelo.. - sussurrò piano, stringendole delicatamente un braccio - Se non vuoi, non farlo. -
- Non è questione di volere, Orlando. - replicò lei, stiracchiando un sorriso - Né di giusto o sbagliato. Ci sono cose che non si può fare a meno di raccontare, talmente grandi che sembrano sopraffarti se non le racconti a qualcuno e...oh, ma cosa sto dicendo? - si interruppe, con una risata - Devi fermarmi, quando inizio a blaterare cose senza senso! - protestò, colpendolo con pugno scherzoso sulla guancia.
Più che un pugno, una carezza: la mano si fermò, dolce, a contatto con la pelle, e li rimase per qualche attimo, prima di ricadere sul divano.
- Non sei male, quando blateri. - scrollò le spalle Orlando - Sicuramente mostri un lato di te molto umano. -
- Grazie, davvero. - inspirò a fondo - La tua sincerità è spiazzante. -
- Lo dicono in molti. -
Rimasero in silenzio entrambi, assaporando il clima disteso che, chissà come, si era instaurato tra di loro. 
Erano davvero le stesse due persone che fino a un giorno prima passavano il tempo a mordersi a vicenda, senza sosta?
Nel giro di qualche minuto tutte le tensioni e i dissaporti si erano sciolti come neve al sole, sostituiti da qualcosa di molto simile alla complicità che può esserci solo tra due amici di vecchia data.
Soli, nel silenzio dell'alba che colorava di oro e rosa pallido la stanza attorno a loro, d'un tratto non era più legati da un contratto di lavoro ma dai delicati lacci di qualcosa di più, qualcosa senza nome, impossibile da etichettare.
- Mi innamorai di uno di loro. - mormorò Annie alla fine.
Orlando non rispose, guardando le prime luci del sole accarezzarle il volto segnato dalla mancanza di sonno e dalla preoccupazione; le diede il tempo necessario per trovare le parole giuste senza interrompere il fiume di ricordi che la cullava.
- Ci innamorammo ed era tutto fantastico. Avrei dovuto capirlo che c'era qualcosa che non andava, ma ero troppo presa da me, da quello che provavo, da noi due, che dimenticai quale fosse il mio ruolo all'interno del gruppo. Continuavamo ad uscire, a ridere e scherzare, li seguivo da una parte all'altra degli Stati Uniti, ma piano piano smisi di essere la loro manager. - la tenerezza scomparve dal volto della ragazza, che si indurì e si trasformò in una maschera di cristallo. Gelido e bellissimo - Iniziammo a litigare, tutto l'affiatamente scomparve nel giro di qualche mese e, dopo quello, anche l'amore. Me ne andai prima che potessero cacciarmi loro, ma non fu facile. Potevi dire tutto quello che volevo, ma ero ancora innamorata. Smisi di uscire di casa, di rispondere al telefono, di mangiare. Feci preoccupare tante persone e ci volle un bel po' di tempo prima di riuscire a tornare anche l'ombra di quello che ero. La rottura aveva messo in crisi non solo me come persona, ma anche la manager. Persi ogni fiducia nelle mie capacità e risalire non fu facile. -
- Non è mai facile. - commentò semplicemente Orlando, del tutto incapace di distogliere lo sguardo dalla giovane donna seduta accanto a lui.
- No. - sorrise lei, scrollando le spalle per minimizzare - Specie se non appena rientri in questo mondo ti ritrovi a gestire Orlando Bloom in persona, la sfida massima di ogni manager. -
L'attore arrossì, distogliendo lo sguardo, e lei rise, divertita, prima di proseguire.
- Se sono stata fredda, distante, saccente e tutta quella sfilza di aggettivi con cui, sono sicura, ti sei riferito a me almeno con il pensiero, è stato solo per non commettere lo stesso errore una seconda volta. Forse è stato stupido, da parte mia, ma ho pensato che tenendoti a distanza, evitando di affezionarmi a te anche solo come amico, avrei evitato di ricaderci di nuovo. -
Ma a quanto pare è stato tutto inutile, concluse tra sé e sé, ignorando la fitta che le aveva attanagliato il petto, lasciandola senza fiato.
Lui era così... bello.
Non esistevano altri aggettivi per descriverlo; in quel preciso momento, con la barba di due giorni e l'aria stanca, devastata, di chi ha visto il suo mondo cambiare in due secondi netti e non in meglio, era comunque la creatura più splendida che avesse mai visto in tutta la sua vita.
Si morse le labbra e strinse le mani fino a farsi male, pur di non dire o fare qualcosa di cui poi si sarebbe pentita.
Perché la triste verità, e solo ora lo capiva, era che tutto quel punzecchiarsi, le litigate, le discussioni... erano un modo come un altro per dimostrare affetto.
Che lo volesse o no, era rimasta prigioniera del suo sguardo color nocciola sin dal primo momento in cui lo aveva incrociato, nel bagno di quella suite. Sospirò, chinando il capo in segno di resa.
- Annie. - la chiamò lui, sottovoce, costringendola a guardarlo.
- Si? -
- Innamorarsi non è sempre un male. - le disse, sorridendo.
- No, innamorarsi fa male e basta. - replicò lei, sentendosi uno stormo di farfalle agitarsi impazzito nel suo stomaco.
L'attore si fece più vicino, continuando a guardarla negli occhi fino a farla quasi arrossire; non era pronta a sostenere uno sguardo del genere, non lo sarebbe mai stata. Inspirò a fondo, quando la mano di lui si insinuò tra i suoi capelli e iniziò ad accarezzarle la nuca delicatamente.
- Se non fosse così, non sarebbe amore. - osservò Orlando, sentendosi sopraffare dal desiderio di baciarla.
D'un tratto la vedeva per quel che realmente era e non riusciva a capacitarsi di non averlo fatto prima.
Eppure le occasioni per conoscerla non era mancate, era stato lui stupido a ignorarle per puro principio.
Guardò Annie cercare la sua mano, titubante, e intrecciare le dita alle sue.
- Che mano piccola che hai. - rise, ricambiando la stretta e impedendole di sfilare la mano.
Lei gonfiò le guance, fingendosi offesa.
- E' la tua che è troppo grande. - ribatté.
- No. - sorrise l'attorno, facendole posare la nuca contro la sua spalla e circondandole la vita con un braccio - Una mia cuginetta ha la mano grande quanto la tua. -
Lei alzò il mento, a guardarlo.
E lui realizzò che avrebbe passato volentieri tutta la vita così, solo a guardarla negli occhi, il petto pieno del suo profumo di shampoo all'albicocca e mandorle mescolato a una qualche fragranza decisamente più costosa targata Dior, stringendole la mano.
Le baciò il naso, strappandole un sorriso.
E, dopo qualche attimo, lasciò che il desiderio si sfogasse, chinandosi sulle sue labbra.
E quando lei le schiuse appena, portando la mano libera dietro al suo collo per avvicinarsi ulteriormente, sentì che forse, una volta tanto, non tutti i mali erano venuti per nuocere.
Forse, in uno dei momenti più neri che avesse mai vissuto, aveva trovato qualcosa per cui valesse la pena continuare a lottare.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo undici ***


CAFFE' NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO UNDICI

 

 

Orlando sbadigliò vistosamente, sprofondando nel divano e guadagnandosi un'occhiataccia severa da parte della ragazza seduta davanti a lui.

 - Cancella. - sibilò lei severamente - Non esiste. -

- Cosa? - l'attore sbatté le palpebre un paio di volte, assonnato, chiedendosi come facesse Annie non solo a restare in piedi, ma anche a lavorare come una pazza senza mai mostrare segni di cedimento.

- Non puoi dormire, non ancora. - replicò lei, tornando a guardare lo schermo del portatile e digitando qualche parola prima di sollevare di nuovo il capo, increspando le labbra livide nella luce bluastra dello schermo in un sorriso - Ho bisogno di te. -

Sorrise a sua volta, raddrizzando la schiena prima di alzarsi in piedi e andare a piazzarsi dietro la sua poltrona, iniziando a massaggiarle le spalle.
La rossa mugolò, socchiudendo gli occhi, ma la tensione che Orlando avvertiva sotto le dita non accennò a diminuire.

- Dovresti rilassarti un po', sai? - la prese in giro, chinandosi a baciarle il collo - Preparo un altro caffé, ne vuoi? -

- Si, grazie.. - sbadigliò, digitando un sms in attesa che una pagina internet caricasse il suo contenuto.

La lasciò al suo lavoro, scivolando silenziosamente nel minuscolo cucinino.
Ogni singola cellula del suo corpo gridava, implorava per un po' di riposo e aveva la precisa sensazione che se si fosse seduto anche solo per un attimo e avesse fatto l'errore di chiudere gli occhi, non li avrebbe più riaperti per minimo minimo le dieci ore successive, cosa che avrebbe mandato Annie su tutte le furie.
Giustamente, si ricordò mentre accendeva il fuoco sotto la moka e apriva ante a caso alla ricerca di tazze pulite.

- Secondo mobiletto a destra! -

Il suggerimento lo fece sorridere, mentre allontanava la mano dal pomello del mobiletto sbagliato e la spostava verso quello giusto, tirandone fuori due tazze colorate.
Come tutto, in quella casa: in ogni angolo si ammassavano cumuli di colori che, nel loro insieme, rendevano l'ambiente accogliente e confortevole; di tutti i posti che aveva avuto la fortuna di visitare, quello che sicuramente il più sorprendente.
Si appoggiò al bancone in legno chiaro, incrociando le braccia al petto mentre l'aroma del caffè invadeva la stanzettina e si allungava pigramente verso il soggiorno.
Contò cinque secondi esatti, prima di spegnere il fuoco e versare la bevanda scura nelle tazze, allungando quella di Annie con del latte.
Tre cucchiaini di zucchero per lei, nemmeno uno per lui.
Un cappuccino e un ristretto, avrebbero detto in Italia.

- Ecco qua. - sorrise, nel porgere la tazza che subito lei strinse con entrambe le mani, avvicinandola al volto per inspirare una profonda boccata di profumo.

- Grazie. - mormorò, tenendo gli occhi chiuse.
I capelli ricaddero ai lato del volto, chiudendosi come le tende di un sipario attorno ai suoi lineamente e alla tazza che stringeva tra le dita sottili e, probabilmente infreddolite. Orlando le si sedette accanto, guardando lo schermo del computer portatile che ronzava, sommessamente, da ore.

- A che punto sei? - domandò, sorseggiando la bevanda amara.

- Mh. - Annie sollevò il capo di scatto, sbattendo le palpebre un paio di volte - A un buon punto. Con un po' di fortuna, tra qualche ora sapremo se sono riuscita o meno a farti avere la possibilità di una conferenza stampa dove, si spera, riuscirai a spiccare parola senza essere aggredito da una marea urlante di sanguisughe assatanate. -

- Non hai una buona opinione dei giornalisti... - commentò divertito l'attore, mentre lei affondava il volto nella tazza e inspirava a fondo.
Era così terribilmente pallida e sbattuta che dovette mordersi la lingua per non costringerla con la forza a farsi una sana dormita.

- Ci sono giornalisti e giornalisti. - precisò dopo qualche attimo la rossa, scoccandogli una penetrante occhiata - Ci sono quelli che sanno fare il loro mestiere e quelli che non si preoccupano di niente e nessuno e sono disposti a calpestarti, a ridurti uno straccio, pur di vendere. - sbuffò, passandosi una mano tra i capelli prima di tornare a guardarlo - Che ora è? -

- Le... le cinque e venti. - tornò a guardarla, mentre buttava giù d'un sol fiato l'intera tazza piena di caffè bollente e si pizzicava le guance per rimanere sveglia - Annie. - la chiamò, sedendosi sul bracciolo della poltroncino dove era appollaiata.

- Mh? - sollevò il mento, guardandolo dritto negli occhi: era disarmante.
Davanti a quei due pozzi neri, caldi, imperscrutabili, si sentiva come un bambino piccolo piccolo.
Si impose di parlare.

- Fermati, ti prego. Lo so che c'è tanto da fare perché ho combinato un bel casino, ma finirai col collassare se continui di questo passo e ho bisogno che tu stia bene, Annie. E non solo perché sei una manager eccezionale... -

Annie si prese qualche attimo, soppesando le sue parole, prima di annuire impercettibilmente e chiudere il portatile che stava davanti a lei.
Si stiracchiò pigramente, sentendo le vertebre allungarsi una ad una, e poi gli sorrise, porgendogli una mano che lui strinse prontamente.

- D'accordo. - annuì, facendosi tirare in piedi da lui che, con uno strattone in più, la catturò tra le sue braccia e affondò il viso tra i suoi capelli, fino a sfiorarle il collo con le labbra - A patto che dormiamo per davvero. -

Orlando rise, intracciando le dita con quelle di lei e avviandosi verso le minuscole scale in legno che portavano alla camera da letto.
Alle sue spalle, Annie continuava a chiacchierare, ma tutto quello a cui lui riusciva a pensare era la magia di quel momento.
Di quel preciso istante, a metà tra i secondo e il terzo gradino, con la mano della ragazza al sicuro nella sua e quel vago, vaghissimo sentore di serenità che per troppo tempo gli era mancato.
Da quanto tempo non era felice semplicemente tenendo per mano una persona?
Da quanto tempo non rideva per una frase stupida come "a patto che dormiamo per davvero"?

Annie gli si rannicchiò contro, sotto il pesante piumone bianco, mugolando infastidita.

- Abbiamo i piedi freddi, Mr.Bloom? -

- Aspetta, metto un paio di calzini. -

- No. - lo trattenne, senza aprire gli occhi - Ti scaldo io. -

Orlando trattenne il respiro, mentre la ragazza al suo fianco cercava e trovava l'incastro perfetto nell'incavo della sua spalla, con la stessa naturalezza con cui si era infilata nella sua vita.

 

 

 

Quando riaprì gli occhi, molte ore più tardi, Annie stava ancora dormendo, stringendo tra le dita un lembo della sua maglietta.
Sorrise, sfiorandole il volto con una carezza e liberandosi da quella presa inconscia per scivolare fuori dal bozzolo caldo delle coperte.
Erano secoli che non dormiva così bene, semplicemente abbracciato ad un'altra persona.

In punta di piedi, per non svegliare la ragazza, uscì dalla stanza e scese al piano di sotto, ringraziando il cielo che Sidi stesse dormendo e non decidesse di salutarlo come suo solito: abbaiando come se non lo vedesse da mesi.
Lanciò un'occhiata al cagnolone accucciato ai piedi del divano, sospirando, prima di recuperare il cellulare da un tavolino e chiudersi in cucina.

C'era una cosa che doveva fare, a questo punto.

Una telefonata, per essere più precisi.

Scorse la rubrica con deliberata lentezza, fino a trovare il numero che cercava: Alix Ames.
Inspirando a fondo e invocando tutte le divinità pagane e non che riusciva a ricordare, premette il tasto verde e accostò l'apparecchio all'orecchio: la giornalista rispose dopo cinque squilli.

"Spero, chiunque tu sia, che ci sia un'ottima, fottuta ragione per chiamarmi a quest'ora della notte".

- Ciao anche a te, ragazzina. - replicò, cercando di essere il più pungente possibile.
All'altro capo della linea ci furono sette secondi di pausa, prima che la giornalista realizzasse con chi stesse parlando e reagisse di conseguenza.

"Bloom!" esclamò, con un tono molto più conciliante "Ma che piacere sentirti! A cosa devo l'onore della tua telefonata?"

Orlando rabbrividì, persino a quella distanza poteva sentire il ticchettare gelido dei meccanismi che si attivavano nel cervello della repoter, cercando il modo migliore per trarre uno scoop da una banale telefonata.
Sapeva di dover misurare ogni singola parola, sapeva di dover fare attenzione. Inspirò a fondo, cercando di suonare il più disinteressato e cinico possibile.

- Ames, vai tranquilla che non sento la tua mancanza... - ironizzò, senza però darle nemmeno il tempo di prendere eventualmente in considerazione l'idea di ridere - Dobbiamo parlare. D'affari. -

"Ah!" dall'altro capo del filo ci fu una pausa, che rese la frase seguente ancora più affilata "Devo dedurne che non ne hai mai abbastanza, di scandali".

- Risparmiati il sarcasmo e stammi un po' a sentire, vuoi? - la interruppe l'attore, imperioso - Non ho tempo da perdere, come puoi immaginare. -

"E allora, mi dica, signor Bloom, cosa posso fare per lei?" cantilenò Alix, divertita.

- Immagino ti ricordi di quel favore che ti ho chiesto un po' di tempo fa... -

"Oh, aspetta che ci penso un attimo... mi hai chiesto di sputtanare a livello mondiale la tua manager, vero?"

- Precisamente. -

"Cosa c'è, vuoi che faccia uscire l'articolo in anticipo per distogliere l'attenzione da te?"

Orlando si sentì gelare il sangue nelle vene. Dovette posarsi contro il tavolo, per non cadere a terra.

- Quindi c'è un articolo. - formulò a fatica, cercando di controllare il tremore che si era impossessato delle sue mani e sembrava volersi estendere anche alla sua voce.

"Certo che c'è!" esclamò gioviale la ragazza dall'altra parte, con una mezza risata "Ed è anche estremamente succoso".

Certo che sarebbe stato succoso, pensò mordendosi la lingua, c'erano in balle persone molto più grandi e molto più importanti di Annie Brown, persone che non avevano nulla a che vedere con lui ma che si sarebbe trovate coinvolte.
Per causa sua.
Inspirò a fondo, non tutto era perduto: aveva ancora una misera, minuscola, remota possibilità che l'articolo non fosse mai uscito dal computer della repoter e aveva il disperato bisogno di aggrapparsi a quell'eventualità per non lasciarsi sopraffare dallo sconforto.

- L'hai già presentato? - chiese, trattenendo il respiro e incrociando le dita.

"Ma è ovvio, per chi mi hai preso?"

- Ritiralo. -

"Come, prego?"

- Ti ho detto, - ripeté, massaggiandosi la fronte - di ritirarlo. Non voglio che lo pubblichi, solleverebbe un polverone inutile. -

"Orlando, tesoro." il tono della ragazza trasudava veleno, ogni parola era una stilettata dritta al cuore "Se i polveroni inutili ti disturbano così tanto, avresti potuto tranquillamente evitare di farti beccare assieme a quella cocainomane della tua ragazza. L'articolo verrà pubblicato tra un paio di giorni e non c'è nulla che tu possa fare per evitare alla tua manager di vedere i suoi trascorsi amorosi sbattuti in cima alle pagine di cronaca mondana. Anche perché dubito seriamente che tu effettivamente voglia questo, se mai l'avessi rispettata minimamente non mi avresti chiesto di indagare su di lei così a fondo... Detto ciò, caro il mio vecchio amico, ti saluto: ti auguro tutta la fortuna di questo mondo e bla bla bla, ma l'articolo verrà pubblicato che ti piaccia o meno. Buona notte!" cinguettò il saluto, la voce pregna di una falsa allegria che lasciava trasparire pienamente il fastidio della ragazza.

Come biasimarla, si disse Orlando chiudendo a sua volta la comunicazione.
Era stato lui a chiederle di indagare sulla sua manager sull'onda di una tempesta emotiva che ora si era dissolta, rivelando un meraviglioso arcobaleno che rischiava di far scomparire per colpa del suo stupido orgoglio.

- Maledizione. - ringhiò, trattenendosi dal lanciare il cellulare contro un muro - MALEDIZIONE! -

E ora?

Cosa doveva fare? Parlarne con Annie?

Annie, tesoro, devo dirti una cosa: ho chiesto ad una sanguisuga di indagare su di te e scrivere un articolo scandalistico per distruggerti in tanti pezzettini e farti più male possibile, non sei arrabbiata con me vero?

C'erano ottime probabilità di finire accoltellato e tagliuzzati in tanti pezzettini sotterrati nel bel mezzo del nulla della compagna inglese.
No, decisamente non era un'ottima idea.
Per non parlare poi del fatto che le aveva causato già fin troppe grane, come poteva anche solo pensare che dopo una cosa del genere lei davvero rimanesse al suo fianco?

L'idea di perderla, di perdere quella personcina così forte e così fragile al tempo stesso, quella piccola grande donna appena scoperta, lo terrorizzava molto più che non l'ipotesi della fine della sua carriera di attore.

No, non le avrebbe detto niente.
Non sapeva cosa Alix avesse scritto in quell'articolo, ma c'era la speranza che non fosse in alcun modo riconducibile a lui.
Doveva crederci, ne aveva bisogno.
Con un po' di fortuna non ci sarebbe stata nessuna crisi, ma solo una turbolenza passeggera.
Mise a tacere repentinamente quella vocina che, dal profondo della sua testa, gli dava del vigliacco, convincendosi che non stava facendo nulla di male ma, in un modo un po' contorto, stava proteggendo lei e quel poco che avevano.

Inspirò a fondo, mise sul fuoco una moka e tornò nel piccolo salotto, dove Sidi nel frattempo si era svegliato e lo guardava con i suoi grandi occhi liquidi, scodinzolando.
Il cagnolone abbaiò, un paio di volte, trotterellandogli incontro, e si sollevò, posandogli le zampe anteriori sul petto: l'attore rise, cadendo di peso sul divano, sbilanciato dall'improvviso moto di affetto dell'animale.

- Buono, buono! - rise, accarezzando il muso morbido del cane - Che sennò finisce che svegliamo Annie! -

- Troppo tardi.. - commentò con uno sbadiglio la rossa, comparendo in cima alle scale tutta infagottata in una tuta di tre taglie più grandi della sua.

- Scusami. - scattò l'attore, deglutendo nervosismo misto saliva.

- E di che? - rise la rossa, scompigliandosi i capelli rossi, ridotti ad un groviglio confuso di nodi e ciocche fuori posto - Dai, non essere sciocco! Piuttosto, c'è del caffé? -

- L'ho appena messo su. - annuì Orlando, seguendo con lo sguardo Sidi mentre trotterellava incontro alla ragazza.

- Sto morendo di fame. - si lamentò lei, fermandosi sulla soglia della cucina.
Pensierosa, ritornò sui suoi passi e posò le mani sulle spalle dell'attore, appoggiandosi contro lo schienale del divano per dargli un bacio sulla guancia.
- Ti va di fare colazione? - chiese con un sorriso, sfiorandogli il collo con la punta delle dita.

L'attore le strinse il polso tra le dita, immobilizzandola e alzandosi in piedi.
Aggirò il divano, senza lasciarla andare e senza perdere mai il contatto con i suoi occhi, che si chiusero solamente quando sentì le loro labbra sfiorarsi in un bacio leggero, delicato.

- Buon giorno. - bisbigliò, stringendola in un abbraccio dove lei si abbandonò.
Chiuse gli occhi, pregando tutte le divinità che riusciva ad invocare chiedendo loro che quella piccola, minuscola possibilità fosse effettivamente concentra e che miracolo che stringeva tra le braccia non svanisse, come neve al sole.

Ma quella vocina, la stessa che aveva messo a tacere, non ci credeva nemmeno un po'.

E di biasimarla, non se la sentiva proprio.

 

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo dodici ***


CAFFE' NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO DODICI


 

Esattamente quattro giorni dopo, Orlando si svegliò nella suite dell'albergo londinese dove Annie l'aveva nascosto, con la fastidiosissima sensazione che qualcosa non andasse.
Nell'esatto momento in cui aprì gli occhi la consapevolezza che qualcosa di indefinito si agitava nell'aria era sul punto di precipitargli addosso, con la stessa dolorosa precisione chirurgica di un mal di testa dopo una notte di bagordi.
Rimase sotto il piumone per qualche attimo ancora, ascoltando gli uccellini cinguettare e le macchine correre lungo le strade della città, aspettando che la sensazione lo lasciasse libero di cominciare la giornata.

Ma quando si mise a sedere e posò i piedi a terra, cercando alla cieca le ciabatte sul pavimento freddo, era ancora lì.

E li rimase mentre chiamava il servizio in camera e si faceva portare una caraffa intera di caffè bollente, nero e rigorosamente senza zuccherro assieme a una brioches e a un bicchiere di spremuta d'arancia. Saldamente arpionata sul suo collo, la avvertiva mentre faceva colazione, mentre si lavava di denti e mentre si cambiava, valutando se era il caso o meno di scendere a fare una passeggiata.

Magari poteva andare da sua sorella, dove aveva lasciato Sidi quando era rientrato in città per la famigerata conferenza che la sua manager era riuscita ad organizzare in quattro e quattr'otto, e fare una passeggiata con lei ai Kensington Garden e ridere dell'intera vicenda sotto lo sguardo benevolo del sempre giovane Peter Pan.
Si, si disse, vada per la passeggiata. Chissà che il vento non facesse volare via quel cattivo presagio che aveva scelto si appollaiarsi sulla sua spalla.



Affondò il mento nella sciarpa a righe, nascondendosi dietro le lenti a goccia di un paio di occhiali da sole, mentre con passo deciso lasciava la hall dell'albergo e si immetteva nella solita, rassicurante, frenetica routine londinese.
Camminò tra giovane donne in bilico su sottilissimi tacchi a spillo, con le mani piene di borse più o meno grandi, più o meno lucide, ma circondate dall'inconfondibile alone luminoso delle cose che costano; si fece superare da uomini d'affare preoccupati, assorti in discussione fitte fitte con un auricolare e BlackBerry alla mano; sorrise alla vita di una comitiva di bambini in gita, tutti uguali nelle loro austere uniformi scolastiche, godendosi la bella mattinata di sole.

Amava quella città, molto più di quanto non avesse mai detto.
Le strade ampie, i taxi neri famosi in tutto il mondo, la sua faccia rigorosa colorata qua e là da quartieri pieni di vita e giovani.
Amava costeggiare il Tamigi, con le sue aque dal colore indefinibile, a metà tra il grigio e il verde; amava contare cinque Starbucks, uno accanto all'altro, nella stessa via, e constatare come tutti e cinque fossero pieni di clienti.

Camminava da un'ora abbondante, quando si fermò davanti alla casetta di Samantha Bloom.
Sorrise, riconoscendo il famigliare abbaiara di Sidi, soffocato dalle mura in cemento e mattoni, mentre si avvicinava alla porta: bussò tre volte, discretamente, fischiettando il motivetto di una canzoncina che aveva sentito lungo la strada, qualche minuto prima.

- Si, chi è? - chiese la voce di sua sorella, dall'altra parte della porta.

- Orlando. - rispose, trattenendo un sorriso.
La porta si aprì immediatamente, rivelando il volto rotondo della sua copia al femminile: stessi occhi scuri, stessi capelli indisciplinati, stessa espressione dolce.
Si chinò a baciarle la guancia, levandosi gli occhiali da sole e entrando in casa.

- Ciao! - lo salutò lei - Che ci fai qui? -

- Annie ha detto che ho la mattinata libera, oggi, ho pensato di farti un salutino e proporti una passeggiata con Sidi. Ti va? -

L'espressione perplessa che comparve sulla faccia di lei non corrispondeva esattamente alla reazione che si era aspettato.
In genere Samantha adorava passare del tempo con lui, cosa del tutto reciproca, tra le altre cose.

- Non ti va? - le chiese, perplesso a sua volta.
Lei sbatté le palpebre un paio di volte, prima di riscuotersi e trascinarlo in cucina.

- Si, certo che mi va però... hai sentito Annie, stamattina? - chiese, facendolo sedere su uno sgabello e prendendo posto davanti a lui.
Sidi, felice, si accucciò al suo fianco, scodinzolando. Gli accarezzò il muso, scuotendo il capo.

- No, perché? Eravamo a cena assieme, ieri sera, poi non l'ho più sentita. E' successo qualcosa? -

- Beh... si e no. Non lo so. Speravo l'avessi sentita.. .- vaga, Samantha si rialzò in piedi e si avvicinò ai fornello, spegnendo il fuoco sotto l'unica pentola.
Alzò il coperchio, scrutandone il contenuto, e dopo una pausa che ad Orlando parve infinita, tornò a voltarsi verso di lui - Fammi indovinare, non hai acceso la televisione oggi? -

- No. - l'attore si irrigidì impercettibilmente - Perché? -

- Pare che il mondo sia piuttosto interessato ad Annie, oggi. - spiegò la sorella, passandosi una mano tra i capelli scuri - Ma tu lo sapevi che ha avuto una storia con Dave Monks? -

- E chi è? - domandò, realizzando nell'esatto istante in cui formulava la domanda che già conosceva la risposta.
Perché Annie gliel'aveva confidato, neanche una settimana prima, aprendogli il suo cuore.
Dave Monks non poteva che essere il bassista dei Tokio Police Club, il gruppo di cui era stata manager.

- Un bassista.. - rispondeva nel mentre Samantha - Piuttosto belloccio, tra le altre cose. - commentò con un mezzo sorriso.

- Chi... Cosa... Dove l'hanno detto? -

- Ehi, va tutto bene? - allungò una mano verso il fratello, stringendogli delicatamente una spalla - L'hanno detto questa mattina alla radio, pare che la notizia sia su tutte le copertine delle maggiori riviste scandalistiche del mondo. L'autrice del pezzo è una certa... -

- ...Alix Ames. - sospirò lui, chiudendo gli occhi e massaggiandosi le tempie.
Il cattivo presagio si era trasformato in un incubo dal quale evidentemente non aveva modo di liberarsi.

- Alix Ames? Quella Alix Ames?-  Samantha sgranò gli occhi - Orlando Bloom, non dirmi che c'è il tuo zampino, di mezzo. -

- Sammy, ti prego, non c'è bisogno che mi ricordi quanto sono idiota, infantile e stupido. - la interruppe, piuttosto bruscamente - Perché lo so già da me. E se non fosse che la situazione è molto più che delicata, passerei ore a farmelo presente da solo. Adesso però devo sapere cosa c'è scritto in quell'articolo. - 

- Che stavano assieme e che quando le cose hanno iniziato ad andar male per la band lei si è ritirata. Fine del lavoro, fine dell'iddilio, fine dell'amore. - sintetizzò Samantha, scrollando le spalle - Il tutto si può riassumere così, Alix è stata così brava da far sembrare che lei li abbia mollati quando invece avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro. Conclude chiedendosi se ti abbandonerà al tuo destino, ora che le cose si sono messe male. -

- Merda. - sibilò Orlando, affondando le mani tra i capelli - Merda, merda, merda! -

- Fratellino, c'è per caso qualcosa che mi vuoi dire? -

- Sammy, è un disastro. Lei... Oh, cazzo! Io credo sia innamorata di me. Tutte quelle cose me le ha raccontate e sono quasi sicuro che non l'abbia mai fatto con nessun altro e Alix... MERDA! Sono un povero idiota, ecco cosa sono! Avrebbe tutte le ragioni del mondo per piantarmi in asso. -

- Rallenta, campione. - gli sorrise la sorella - E fai un bel respiro. Hai raccontato tu ad Alix quelle cose? -

- No! - con gli occhi sgranati e l'espressione più affranta e spaventata che la sorella gli avesse mai visto in faccia, Orlando si costrinse a parlare - No, io ho chiesto ad Alix di trovare qualcosa di Annie parecchio tempo fa. Prima della storia con Kate, appena l'avevo conosciuta. Non la sopportavo, non riuscivo ad accettare il fatto che potesse avere ragione e... -

- Ho capito. Appurato il fatto che sei un idiota di proporzioni epiche, se non cosmiche, dovresti parlare con lei. Soprattutto se è vero che è innamorata di te, pensa come potrebbe sentirsi nel vedere che, dopo averti confidato qualcosa che indubbiamente era doloroso, per lei, l'ha visto sbattere sulle copertine delle peggio riviste del pianeta. -

- Gesù. - si afflosciò sul tavolo, completamente svuotato - Ho combinato un casino. -

- Su questo non ci piove, tesoro. Ma non è ancora detta l'ultima parola fino a quando non parli con lei. -

- Si, hai ragione. - annuì Orlando, raddrizzando la schiena.

- Bravo bambino. - sorride la sorella - Spiegami solo una cosa, però. Perché ti sta così tanto a cuore, tutto d'un tratto? -

- Perché... - sorrise, chinando il capo - Perché è una persona incredibile. Non mi ha voltato le spalle quando tutti gli altri l'hanno fatto, mi è stata vicina e... e dovresti vederla, Sammy, è fantastica. Non si lascia mai abbattere, non molla mai. E' tagliente, è divertente, è cinica e fastidiosamente ragionevole. -

- Ahi ahi, fratellino... - Samantha inclinò il capo di lato, allungando una mano a compigliargli i ricci scuri - Sei proprio nei guai, questa volta. -

- Lo so, non vorrà nemmeno ascoltarmi e non posso nemmeno darle... -

- Non mi riferivo a quello, sciocco. Lei potrebbe essere innamorata di te, ma la sai una cosa? Tu lo sei, senza bisogno del condizionale o di un forse. -


- Si, David, sto bene. - ripeté Annie per l'ennesima volta nella mattinata, sentendosi l'orecchio bruciare sotto il telefono - Davvero, tranquillo. Me ne sto a casa, non metto il naso fuori se non in caso di catastrofe naturale e qualsiasi cosa succeda ti chiamo, d'accordo? Adesso ti saluto, a furia di parlare al telefono mi si sta sciogliendo il cervello, ci sentiamo presto, ok? Ciao... si, anche io... d'accordo, te lo prometto, ciao, ciao, CIAO. -

Riattaccò, stizzita, laciando il cellulare sul letto.  
Era da un'ora che non faceva che ripetere le stesse identiche cose, come se rileggesse lo stesso discorso davanti ad un pubblico sempre diverso.
Sua madre, suo padre, Janis, David.
Persino Dave l'aveva chiamata, chiedendole se stesse bene.
Nel bel mezzo di una tourneé, finito sulle pagine scandalistiche per motivi che trascendevano la musica, nonostante tutto quello che era successo tra di loro, aveva alzato la cornetta e l'aveva chiamata.
Dave.

Tutte persone a cui voleva bene ma che, inevitabilmente, non erano l'unica che avrebbe voluto sentire.

Non aveva notizie di Orlando dalla sera prima, quando si erano salutati con un bacio che le era parso assolutamente perfetto, nell'ombra del corridoio dove stava la stanza di lui. Avevano riso, lui le aveva bisbigliato a fior di labbra una buona notte che aveva trasformato le sue gambe in una sottospecie di gelatina informe e mezza sciolta, al punto che non aveva capito come era riuscita a tornare all'ascensore senza mai cadere a terra.

Si era addormentata con il sorriso sulle labbra e la sensazione che tutto si stava mettendosi a posto, che sarebbe andato tutto bene e che le cose non avrebbero potuto che migliorare: la conferenza era andata benissimo, l'opinione pubblica su Orlando stava volgendo nuovamente verso il positivo e lui aveva di nuovo quell'espressione felice che ricordava aver visto solo negli scatti fotografici più vecchie, quando il suo nome lo conoscevano ancora poche persone.
Si era detta che anche lei era felice.

Poi si era svegliata, aveva messo sul fuoco il bollitore ereditato dalla nonna, smaltato di rosso, e mentre aspettava che l'acqua si scaldasse aveva aperto il computer.
Come ogni mattina, del resto.
Si era connessa ad internet, aveva scaricato le email convinta di trovare le solite due da parte di sua madre, una da Janis e una quantità innumerevole di avvisi da forum, maling list e blog che seguiva.
Duecentotre nuovi messaggi, l'aveva informata il computer con un ping: sospirando rassegnata aveva iniziata una lunga e faticosa cernita, dividendole tra privato e lavoro, per poi iniziare a leggerle.

La prima mail di sua madre risaliva al pomeriggio prima ed era una sfilza di lamentele e domanda esistenziali sul perché le peonie che aveva appena piantato stessero già appassendo, suo padre le raccontava del nuovo lavoro di falegnameria che aveva appena finito.
Janis invece le aveva scritto la bellezza di otto volte. Nel corso della mattinata.

 

Charlie Brown, diceva la prima, bufera in arrivo. Tienti forte o ti spazzerà via, si vocifera di un articolo terrificante in uscita tra qualche ora.

 
Tesoro, non è quello che si pensava. Chiamami appena leggi questa mail, per favore.

 

Annie, non starai ancora dormendo vero? Per quale stupidissimo motivo il tuo cellulare è spento?

 

Erano tutte email brevissime, tre frasi al massimo, una più allarmante dell'altra.
Così aveva alzato la cornetta e aveva chiamato l'amica, sperando di capire cosa fosse successo.
E nell'esatto istante in cui glielo chiedeva, aveva aperto la prima notifica di un forum ed era rimasta paralizzata.

 

Il curioso caso di Annie Brown, recitava il titolo.

Sottotitolo: i segreti della rossa più odiata da HollyBloom.

 

Il telefono le era quasi caduto di mano, ma aveva avuto la tempra di dire all'amica che l'avrebbe richiamata al più presto, giusto il tempo di rileggere il topic che riportava fedelmente, parola dopo parola, l'articolo più velenoso e diffamatorio che avesse mai letto nei confronti di qualcuno.
Accusata di essere un'arrampicatrice sociale, l'autrice aveva fatti di cui pochissime persone erano a conoscenza, travisandoli completamente fino a dipingere un'immagine di lei terribile, che le aveva quasi fatto spuntare le lacrime agli occhi.

Si era sentita morire.

E mentre il telefono riprendeva a squillare, il bollitore aveva fischiato.


Tre tazze di camomilla e innumerevoli tranquillizzazioni più tardi, era stufa.
David era stata l'ultima persona con cui aveva parlato e non ne poteva veramente più di raccontare al mondo che stava bene.
Non stava affatto bene.
Aveva voglia di urlare, di spaccare qualcosa, di prendere a calci qualcuno, ma più di tutto aveva voglia di scomparire dalla faccia della terra.

E perché non farlo? Si disse, preparandosi la quarta camomilla della giornata.

Non doveva spiegazioni a nessuno, le persone che realmente le volevano bene si erano fatte sentire.

Si, ma Orlando...? Le fece presente la fastidiosa vocina della sua coscienza.

- Orlando può anche morire, per quel che mi riguardo. - dichiarò al suo riflesso.
Era quasi ridicola, con addosso un accappatoio di spugna giallo, la tazza di camomilla, i capelli spettinati e l'aria stravolta, gli occhi ardenti di rabbia.
Era stata una stupida, ecco la verità.
Si era lasciata coinvolgere come una povera idiota e come tale era stata trattata: si era azzardata a fidarsi, gli aveva raccontato il suo più grande segreto e lui l'aveva tradita.

In fondo, si disse ciondolando fino al soggiorno e mettendo su un vecchio cd di Jeff Buckley, sin da quando si erano incontrati lui aveva possibile e impossibile per screditarla, sminuirla, relegarla al ruolo di semplice sottoposta.
Perché un paio di giorni, del sesso e qualche bacio avrebbero dovuto cambiare le cose?
Era stata lei a sbagliare.
Era andata contro tutti i suoi principi e le sue regole, ripetendo esattamente lo stesso errore della prima volta: si era lasciata coinvolgere senza pensare alle conseguenze.
Come una liceale al suo primo amore, si criticò con amarezza, ascoltando la voce calda del cantante, accompagnata solamente dalla chitarra, sospirare che love is not a victory march.

Si rannicchiò sul divano, senza sapere cosa fare.
Doveva forse cercarlo?
E se le cose erano esattamente come aveva ipotizzato?
Aveva senso rischiare di farsi ancora del male?
Aveva sofferto abbastanza, i suoi errori li aveva pagati dal primo all'ultimo ed era stanca, veramente stanca, di piangersi addosso.
Si era ripromessa di volersi un po' più di bene, di essere meno superficiale nei contronti di se stessa e più superficiale nei confronti del mondo attorno a lei, ma a conti fatti non ne era capace.

Quello che aveva sentito la prima volta che Orlando l'aveva baciata, quella scossa elettrica che l'aveva attraversata da capo a piedi, era reale quasi quanto il dolore sordo che avvertiva in un punto imprecisato del petto. Tirò su con il naso, strofinandosi il dorso della mano destra sugli occhi.

- Stupido sentimentalismo del cazzo. - sbuffò, senza riuscire a frenare quelle due, tre, quattro, cinque, dieci lacrime che presero a scorrerle lungo le guance, senza che nemmeno se ne accorgesse - Piangere per uno stronzo del genere... - si lamentò, soffocando un singhiozzo - Sei proprio caduta in basso, Annie Brown. - bisbigliò, posando la tazza sul tavolino alla sua destra, vicino al bracciolo, per abbracciarsi le ginocchia e affondare il viso tra le braccia.
Come se, nascondendo quelle lacrime che versava silenziosamente, potesse far finta che non fossero mai esistite.

 

 

- Annie, ti prego, aprimi!- supplicò Orlando per la milionesima volta, guardando la porta chiusa davanti a lui.

Non faceva altro da mezz'ora.
D'accordo, ci aveva messo ora a trovare il coraggio necessario per andare da Annie, per un lungo lasso di tempo aveva seriamente preso in considerazione l'idea di nascondersi e basta pregando che il cielo, le stelle, Dio, Buddha, Allah, le divinità Indù, le Parche, il destino o chi per loro risistemassero le cose al posto suo, ma alla fine la paura di affrontare Annie gli era sembrata nulla confronto la paura di perderla.
Quindi si era dato del codardo e aveva chiamato un taxi, facendosi portare a casa di Annie.

E adesso era lì, nell'impietosa e fredda luce del tardi pomeriggio, a bussare ad una porta che ancora non si apriva.

- Annie, ti prego. - gemette, cadendo sulle ginocchia e posando la fronte contro il legno gelido - Per favore, ti prego, apri la porta. Devo parlarti. -

Nulla.

Il silenzio, ecco la risposta alle sue suppliche.
Ma non poteva biasimarla, non poteva criticarla, non poteva dirle niente: se davvero aveva scelto di non rivolgergli più la parola, allora tutto quello che poteva fare era accettare la sua decisione e rassegnarsi all'idea che l'aveva persa.
E che aveva avuto quel che si meritava per quel che aveva scatenato: l'articolo di Alix era quanto di più terribile avesse mai letto in vita sua, un concentrato di perfidia, di insinuazioni e cattiverie che avrebbero stroncato chiunque.

- Per favore... - bisbigliò, sentendosi morire all'idea di non avere nemmeno la possibilità di poterla vedere un'ultima volta - Annie, ho bisogno di vederti. Ti supplico, lasciami spiegare.. non sopporto l'idea che finisca così, per favore. Ti prego... -

La voce alle sue spalle lo colse di sorpresa, al punto che sobbalzo vistosamente e si fece andare di traverso le parole che stava per pronunciare.

- E' partita questa mattina. - lo informò un'anziana signora, di cui riusciva a vedere solamente la testa e il busto spuntare oltre la siepe che separava il suo giardino da quello di Annie.
Ciuffi lanosi di capelli bianchi circondavano il vecchio volto rugoso, dove nonostante l'età spiccavano due occhi azzurri luminosi.
Non aveva un'aria cattiva, anzi: ricordava vagamente le nonne delle favole, quelle che rimboccano le coperte ai nipoti e passano le giornate a impastare crostate e biscotti.

- Come prego? - chiese dopo qualche attimo, rialzandosi in piedi e cercando di mantenere la voce salda.

- Annie. - riprese la donna, con un sorriso benevolo - E' partita questa mattina. E' venuta da me, mi ha detto che sarebbe dovuta partire per lavoro e che non sapeva quando sarebbe tornata, mi ha chiesto se potevo ritirare la posta per lei. -

- Non le ha detto dove andava? - insistette Orlando, divorato dall'angoscia.

- No, caro, mi dispiace. -

- Capisco. - sussurrò, chinando il capo - La ringrazio, signora, è stata molto gentile. Arrivederci. -

Diede un'ultima occhiata alla porta chiusa, ritrovandosi a sperare con ogni fibra del suo essere che si aprisse, nonostante le parole della vicina, e Annie comparisse sulla soglia, con i capelli rossi un po' spettinati e gli occhi neri carichi di rabbia, di vita, di determinazione.
Magari con le braccia incrociate al petto e un'espressione irriverente stampata sul viso.
Ma la porta rimase chiusa e lui le diede le spalle, avviandosi lungo il vialetto in pietra.

- Se posso permettermi una parola, caro.. - lo fermò la donna, con voce affabile - Qualsiasi cosa sia successo tra di voi, non smettere di cercarla. In tanti anni che abito in questo quartiere non ho mai visto una persona aspettare così tanto davanti ad una porta chiusa. Sono sicura che lei capirà e perdonerà. -

- Vorrei tanto poterlo credere anche io. - confessò Orlando, affondando le mani nelle tasche della giaccia - Ma ho paura di averla combinata troppo grossa, questa volta. -

- Non c'è niente di troppo grande, caro, a parte l'amore. -

Orlando sorrise, stringendosi nelle spalle.
Erano bellissime parole, quella della donna, ma parole rimanevano.
Se Annie se ne era andata, era perché non voleva essere trovata, tutto quello che poteva fare era accettare la sua decisione e convincersi che era finita.
Che quei pochi giorni di pace che aveva conosciuto non sarebbero mai tornati.
Che lei, non sarebbe mai tornata.

Trattenne un singhiozzo nel realizzare che questo non l'avrebbe mai potuto accettare.

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo tredici ***


CAFFE' NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO TREDICI

 

 

Annie sbadigliò, stropicciandosi gli occhi e sbirciando tra le dite sottili.
La stanza attorno a lei era di un candore disarmante: le pareti rosa antico, gli antichi mobili scuri e le tende chiare, immacolate, le conferivano un'aria d'altri tempi. Sospirò, lasciandosi cadere di schiena sul materasso, tirandosi addosso il piumone, una sofficie montagna bianca che la nascose al mondo, con la dovuta eccezzione di qualche ciocca rossa, rossissima sulle lenzuola prive di colore.

La luce era fredda, di un pallido rosa, debole come può esserlo negli immediati minuti che precedono il sorgere del sole.
Sbuffò, mugolando tutto il suo fastidio: non aveva nessuna voglia di svegliarsi all'alba, un'altra volta.
Ma più corretto sarebbe stato dire che non aveva affatto voglia di svegliarsi: negli ultimi giorni non aveva dormito più di due ore a notte e quella appena trascorsa non aveva fatto eccezione.
Si allungò, pigramente, stirando i muscoli indolenziti dalla stanchezza, e richiuse gli occhi, pregando per riprendere nuovamente sonno, ma gli uccellini lì fuori, nascosti nelle fronde di un pesco in fiore, sembravano di tutt'altro avviso: iniziarono a cinguettare, tutti assieme, in risposta al suonare di un campanile in lontananza.

- D'accordo, d'accordo! - esclamò Annie, esasperata, sentendosi un po' come Cenerentola, nelle prime scene del film.
Si mise a sedere, chiedendosi se non sarebbe stata aggredita, a breve, da uno stormo di piccioni e un branco di topolini che l'avrebbero lavata e vestita di tutto punto.
Cosa non sarebbe stato poi un male così grande, riflettè alzandosi in piedi e allungandosi, in punta di piedi, verso la vestaglia che la sera prima aveva lanciato sulla sedia, davanti allo scrittoio dove faceva capolino il suo computer portatile.

Sbadigliando, premette il pulsante d'accensione e ascoltò il famigliare ronzio riempire la stanzetta.
Se proprio non riusciva a dormire, tanto valeva lavorare e occupare il tempo con qualche attività utile e produttiva.
Stringendosi addosso la stoffa morbida e scura della vestaglia, lasciò spaziare lo sguardo fuori dalla finestra, sullo spettacolo descritto con tanto amore nei romanzi di Jane Austen, senza però riuscire a vedere altro che un bosco, in lontananza, in mezzo a un mare di nebbiolina rada.

- Sto diventando troppo cinica... - sbadigliò, accoccolandosi sulla sedia davanti allo scrittoio - E continuo pure a parlare da sola. -
Incrociò le braccia sul ripiano, affondandovi il mento, in attesa che il portatile finisse di caricare quell'infinità di programmi che aveva installato ripromettendosi di utilizzarli, un giorno, sopra il volto sorridente di una se stessa bambina, a cinque anni scarsi, tutta impiastricciata di gelato al cioccolato.
Era stanca. Lo era dal giorno in cui il mondo si era rovesciato e non solo perché per scappare sotto il tetto natio aveva guidato per una giornata intera su stradine che solitamente evitava come la peste: era stanca dentro.

Come se, sotto un certo punto di vista, avesse raggiunto un limite emotivo che aveva stupidamente scavalcato e adesso ne pagasse le conseguenze.
Cliccò distrattamente sull'icona di i-tunes, inseguendo il filo aggrovigliato dei suoi pensieri che, inevitabilmente, la portavano ad un unico punto, ogni volta.
Un punto di nome Orlando, un punto che le faceva male come pochi altri. Si sentiva stupida come poche altre volte, si era lasciata coinvolgere come una tredicenne e adesso ne pagava le conseguenze: sola, nascosta in un angolo della campagna inglese senza arte né parte, lontana da tutto ciò che era il suo mondo.

Sbatté le palpebre, scacciando quelle lacrime fastidiose che si accumulavano ogni benedetta volta agli angoli dei suoi occhi, facendo partire una canzone arrabbiata dei Filthy Youth, riflettendo su quanto volentieri avrebbe fumato una sigaretta, in quel momento, se non fosse stato per il piccolo particolare che il tabacco proprio non lo reggeva. Sbuffò, pizzicandosi le guance e fissando l'icona del browser di posta elettronica, che sembrava ricambiare l'occhiata con altrettanto astio.
Erano due giorni che rimandava il fatidico momento, quello che adesso le incombeva addosso ricordandole che non aveva più tempo per cincischiarsi facendo finta di niente. Inspirò a fondo, ripetendosi che sarebbe andato tutto bene.
Che era una persona matura, adulta e vaccinata, niente avrebbe potuto farla stare più male di quanto già non stesse.

Il programma si aprì quasi istantaneamente, pigolando quando finì di scaricare la solita tonnellata di email, e rimase in attesa che la ragazza riaprisse gli occhi e riprendesse a respirare.
Sapeva cosa avrebbe trovato, tra le montagne di notifiche di risposta, spam, messaggi di lavoro e da parte di amici e famigliari: così come aveva dovuto arrendersi e spegnere il cellulare per ignorare tutte le telefonate di Orlando, aveva evitato il più possibile di avvicinarsi al computer onde evitare di trovarlo intasato di email.
E così era, infatti.
Isolò trentasette messaggi, tutti provenienti dall'attore, e li spostò in una cartella a parte sforzandosi di ricordare di come lui avesse abusato della sua fiducia raccontando al mondo intero il suo segreto più grande.
Non avrebbe ceduto di fronte a cento mail di scuse, non voleva più niente da lui.

L'aveva già comunicato a David: con la fine del mese si sarebbe dimessa, fine della storia.
Però il mese non era ancora finito e aveva ancora sette giorni - sette lunghissimi giorni - da passare al servizio di Orlando, che le piacesse o meno, e non aveva nessuna intenzione di prendersi una nota di biasimo perché aveva trascurato i suoi doveri professionali.
- Anche se sarei perfettamente giustificata. - brontolò a bassa voce, cliccando con rabbia sulla prima email, che si aprì quasi istantaneamente.

Annie, ti prego.
Dove sei?

Trattenne un ringhio, rifiutandosi di andare oltre: il messaggio venne eliminato con un click e un altro aprì il secondo.

D'accordo, sei arrabbiata, lo capisco..

- No, tu non capisci proprio niente. Non hai mai capito niente, MAI. - singhiozzò, senza più riuscire a dominare la rabbia che le montava dentro e che la faceva tremare coma una foglia.
Si passò una mano sugli occhi, rapidamente, rifiutandosi categoricamente di versare anche la più piccola lacrima, e con l'altra uscì dalla cartella, senza leggere altro: doveva fare il suo lavoro, poi si sarebbe concessa di urlare, saltare, prendere a pugni un cuscino o fare qualsiasi altra cosa le passasse per la mente per sfogarsi.

Ora-doveva-lavorare.
Non batté ciglio, mentre digitava poche righe, una più fredda e formale dell'altra, ricordando ad Orlando che la sera dopo si sarebbe presentato, senza possibilità di esonero, alla commemorazione di Max Ophüls, si sarebbe comportato da perfetto galantuomo e avrebbe fatto il suo lavoro, dall'inizio alla fine, e lo avrebbe fatto nel migliori dei modi possibili. Punto, aggiunse, Fine della storia.
Sbatté le palpebre, fissando lo schermo piuttosto perplessa.
Le ultime quattro parole decisamente erano molto poco professionali, realizzò, pigiando con eccessiva violenza lo sventurato tasto che le avrebbe cancellate, ripetendo all'infinito il suo nuovo mantra: distaccata e professionale, distaccata e professionale, distaccata e professionale.
Forse, a forza di ripeterlo, se ne sarebbe convinta anche lei.
 

Orlando sbuffò, per l'ennesima volta, facendo scattare, per l'ennesima volta, il sopracciglio sinistro della sorella, che disegnò, per l'ennesima volta, un arco sottile sul volto della donna.
- La pianti, per cortesia? - sibilò lei, incrociando le braccia sulle pagine colorate della rivista che stava tentanto inutilmente di leggere.
- Eh? - l'attore si scosse e la fissò come se solo in quel momento si fosse veramente accorto della sua presenza nella stanza. Samantha scosse il capo, mormorò qualcosa di incomprensibile che sembrava vagamente rimandare ad una possibile visita ad un centro di igiene mentale e tornò alla sua lettura patinata.
Quel ragazzo non stava bene, lo ripeteva grossomodo da quando aveva compiuto cinque anni ed era caduto giù dall'albero dove si era arrampicato per dimostrare di essere un uomo.

- ...manco fosse Keith Richards con la sua palma di cocco... - brontolò ad alta voce, senza rendersene conto.
- Cosa centrano le palme di cocco? - domandò l'attore, piuttosto perplesso.
- Niente, pensavo ad alta voce. - replicò lei, fulminea, adocchiando l'ennesima foto di Paris Hilton in compagnia dell'ennesimo fidanzato.
Ne aveva cambiato tre nel giro di due pagine, forse era il caso di smetterla di comprare certe riviste, si rimproverò, chiudendo il giornale con un sospiro per tornare a rivelgersi al fratello.

Non era abituata a vederlo in quello stato, era straziante: suo fratello era sempre sorridente, sempre pronto a fare qualcosa, sempre pieno di voglia di vivere.
Chi era quello sconosciuto pallido come un cencio, con due occhiaie scure sotto gli occhi che passava la giornata accampato sul suo divano, soprannominato per l'occasione l'Isola della Salvezza? Stentava a riconoscerlo.
Si morse la labbra, mentre lui corrugava la fronte nella pallida imitazione di un'espressione concentrata: era chiaro come il sole che la sua mente era mille miglia lontana da lì, persa da qualche parte in compagnia di grandi occhi neri e capelli rossi.

- OB, tesoro, vedi di non stressare troppo Highlander (*). - sospirò, investendolo con una sferzata di ironia tagliente.
- Chi? - chiese lui, senza capire.
- Appunto. - curvò le labbra in un sorrisetto, nascondendovi dietro il dolore che le stringeva il petto nel vederlo ridotto così - Il tuo povero neurone. -
- Highlander? -
- Si. - secca, si alzò in piedi e aprì un mobiletto alle sue spalle, tirandone fuori due tazze colorate -  L'ultimo rimasto. Highlander. Dio, Orlando, è una battuta! Potresti almeno fare lo sforzo di sorridere, non credi? -
- Scusa, Samy, davvero. - affondò il viso tra le mani, premendone i palmi con forza sugli occhi chiusi, fino a vedere tante piccole macchioline bianche lampeggiare sullo sfondo nero - Ma non ci sto con la testa. -
- Questo lo vedo. - sorrise lei, affacciandosi alla finestra interna che collegava soggiorno e cucina, con un bollitore in mano - Ti va una tazza di thé? -
- Perché no? - sospirò lui, rialzando il capo. Riccioli scuri ricaddero stanchi ai lati del volto, sfiorando gli accenni di barba ruvida che scurivano la mascella dell'attore.
- Fratellino, lasciati dire una cosa. - riprese Samantha, tornando a guardarlo dopo aver acceso il gas e messo l'acqua a scaldare - Perché non la pianti di scrivere mail di scuse e non le dici le cose come stanno? -
Le faceva strana parlare di una persona che non conosceva né aveva mai incontrato prima di allora, ma l'aver ascoltato gli sfoghi del fratello per così tanti giorni aveva trasformato la rossa da perfetta estranea a una di famiglia.

- Che intendi? -
- Apriti con lei, Orlando. - la donna si strinse nelle spalle, semplicemente - Dille quello che senti, non quello che pensi vorrebbe sentirsi dire, non c'è niente che faccia incazzare una donna quanto l'accondiscendenza. E se lei è davvero come dici tu, allora credo che tu l'abbia solo ferita ulteriormente: non è di scuse che ha bisogno. Lei ha bisogno di te. Di sapere che ci sei. -
- Ma è ovvio che ci sono! - protestò l'attore, aggrottando la fronte.
- Ci sono cose che, per quanto ovvie possano sembrare, è necessario dirle ad alta voce perché sembrino reali. - sorrise, prima di dargli le spalle: il bollitore aveva iniziato a fischiare.
 

Orlando si passò una mano sul volto, come se con quel semplice gesto potesse in un qualche modo cancellare la stanchezza dal volto segnato.
La tazza di thé che grossomodo quattro ore prima aveva posato accanto al computer portatile era ormai gelata: non ne aveva bevuto nemmeno un sorso, mentre scriveva la mail più difficile della sua vita.

Quando aveva visto il messaggio di Annie, per un attimo aveva davvero creduto che la sorella si fosse sbagliata e che la donna lo avesse perdonato, ma era chiaro a chiunque che non era così.
Non era arrabbiata, trascendeva il concetto stesso di rabbia, e non se la sentiva proprio di biasimarla, anzi: non riusciva nemmeno ad immaginare come avrebbe reagito lui, al posto suo. In quelle tre righe scarse riusciva a vedere tutto l'odio, il dolore, la sofferenza e la delusione che attanagliavano la manager e ne aveva paura.
Mai, come il quel momento, la sensazione di averla persa era stata così reale.

Posò il mento sulle dita intrecciate, continuando a guardare lo schermo del portatile, il volto pallido innondato dalla luce azzurrognola dello schermo. Si sentiva il fantasma di se stesso, ecco come si sentiva.
Spento, vuoto, solo. Stupido.
Continuava a ripensare a tutti i battibecchi che aveva avuto con Annie, tutte le volte che si era arrabbiato con lei, tutte le volte che l'aveva volutamente messa in difficoltà o in cattiva luce e si sentiva male. Un dolore fisico, un qualcosa che scavava in profondità e minuto dopo minuto si ancorava sempre più saldamente al suo animo, senza dargli la possibilità nemmeno di combatterlo.

Come se fosse in grado di farlo, poi... tutto quello che voleva, tutto ciò che aveva sempre voluto, l'aveva perso.
Non era decisamente in grado di opporsi, poteva solamente sperare.
Pregare e sperare che Annie fosse una persona migliore di lui, che capisse, che riuscisse a perdonarlo e trovasse in sé la forza per rispettarlo di nuovo, se non proprio di stargli accanto.
Tutto, gli sarebbe andata bene qualsiasi cosa, qualsiasi compromesso, qualsiasi rinuncia pur di poterla vedere una volta soltanto e sapere che non lo odiava. Sospirò, sbattendo le palpebre un paio di volte prima di alzarsi in piedi, con la tazza in mano, e trascinare i piedi fino alla cucina, dove ne svuotò il contenuto nel lavello, cercando di non fare troppo rumore.

Samantha era andata a riposare un paio di ore e l'ultima cosa che voleva era causare altri fastidi alla sorella, che già lo sopportava senza battere ciglio e lo aveva accolto in casa sua rinunciando all'uso del divano per chissà quanto tempo.
Posò la tazza, dopo averla sciacquata, e rimane immobile per qualche attimo, lasciando gocciolare le mani sul ripiano in acciaio, chiedendosi per l'ennesima volta che ne sarebbe stato di lui.

Niente l'aveva mai sconvolto tanto quanto Annie.
Mai, in tutta la sua vita, aveva trovato qualcuno che lo prendesse così tanto, che lo coinvolgesse e sconvolgesse al punto da radicarsi in ogni fibra del suo essere.
E adesso, dover convivere con quel senso di perdita era quanto di peggio potesse succedergli.
Non era la prima volta che una storia finiva, forse non sarebbe stata nemmeno l'ultima, ma era senza ombra di dubbio la più dolorosa esperienza che avesse mai vissuto.

Tornò sul divano, controllando di nuovo la posta: niente, nessuna risposta.
 

Annie alzò gli occhi dalle pagine del libro che stava leggendo, quando la madre apì la porta della sua vecchia cameretta e fece capolino sulla soglia, con un sorriso sul volto paffuto e un vassoio tra le mani.
Una tazza fumante e un piattino di biscotti, realizzò in fretta mentre si metteva a sedere e ricambiava il sorriso.

- Cappuccino. - esordì la donna, una versione più rotonda e più bionda della manager, sedendosi sul borso del letto - E i tuoi biscotti preferiti. -
- Mamma, tu mi stai viziando! - rise la rossa, posando il libro accanto a sé - Tornerò a Londra con cinque chili di troppo! -
- Non starebbe affatto male, cara. - la donna arricciò il naso e aggrottò la fronte - Sei così magra che fai paura. E poi è così raro che tu venga a trovarci che l'evento va festeggiato! -
Annie prese un biscotto tra le dita e lo sgranocchiò distrattamente, incrociando le gambe sul piumone bianco.
- Sei riuscita a dormire, stanotte? -
- Mh. - mugolò la più giovane, scuotendo il capo - Mi sono addormentata alle quattro e svegliata alle sei. Un gran traguardo rispetto a ieri, però! - rise debolmente, ripensando alle notti insonni che l'avevano accompagnata da quando era fuggita dalla City per tornare a casa e fare il punto della situazione.
Punto che tutt'ora le sfuggiva, quasi quanto il sonno.

- Tesoro, sei sicura che vada tutto bene? - la madre si sporse verso di lei, sfiorandole il volto con una carezza - Sei così tesa che ha del miracolo che tu riesca a stare ferma a leggere un libro... Non ne vuoi proprio parlare? -
- Mamma, non è che non ne voglio parlare: non c'è niente da dire, tutto qui. Ho sbagliato, di nuovo, e mi sono lasciata trascinare in un questo bel casino. - inspirò a fondo, posando il biscotto mangiucchiato a metà in favore della tazza di cappuccino - Solo non so come uscirne. -
- Hai provato a parlargli? -
- Ma non esiste! - sbottò la rossa, quasi soffocandosi con il cappuccino - Non sono io a doverlo cercare, mamma, è lui che ha fatto tutto quanto! E adesso, invece di fare l'uomo e comportarsi come tale, si limita a mandarmi mail che non hanno nessun valore e... -
- Tesoro... Tesoro, lascia che ti dica una cosa. Avrà anche tutte le colpe del mondo, ma è pur sempre un essere umano. Ha le sue debolezze, le sue paure. Se non se la sente di affrontarti di persona è perché probabilmente ha paura della tua reazione. -
- Finirei col tirarlo sotto con la macchin. a- sibilò cupa Annie, rifiutando in cuor suo l'idea che non ne sarebbe mai stata capace.
Chinò il capo, affondando il naso nelle volute di vapore che lasciavano la tazza, insporandone a fondo l'aroma intenso, di caffé ammorbidito dal latte e dallo zucchero.
Così diverso dal sapore delle labbra di Orlando.
Lui, che il caffé lo beveva solamente nero, senza nemmeno un granello di zucchero che fosse uno.
Lui, che sorrideva quando lei si nascondeva dietro bordi di ceramica colorata come in quel momento.
Lui che se non beveva almeno una tazza di caffè al giorno dava di matto.
Come era possibile che una tazza di cappuccino le facesse quell'effetto, riportasse alla luce tutto ciò che per giorni si era rifiutata di anche solo prendere in considerazione. Persino al loro primo incontro, il caffé era stata l'unica cosa che li avesse effettivamente legati.
Molto più di quanto non si fossero sforzati loro due.

Deglutì, cercando di far scomparire quell'improvviso nodo alla gola che le impediva di parlare, e tornò a guardare la madre, che nel frattempo avevo ripreso a parlare senza nemmeno immaginare che la figlia non avesse sentito una sola parola di quel che aveva detto.
- Mi manca, mamma. - bisbigliò, interrompendola - Mi manca tanto, mi manca tutto e... - quasi annaspò, inciampando nelle sue stesse parole.
Si sentiva stupida, piccola e infantile.
- E non so cosa devo fare -

La donna le sorrise, comprensiva, allungandosi per darle un bacio sulla fronte.
- Cucciola mia, la risposta la sai già: è nel tuo cuore. Devi solo riuscire ad ascoltarla. - concluse semplicemente, alzandosi in piedi - Meglio che vada a preparare la cena, prima che tuo padre inizi a dare di matto. Se hai bisogno, io sono di sotto, d'accordo? -
Annie annuì, curvando le labbra in un debole sorriso prima di tornare a guardare la schiuma del suo cappuccino.
Le veniva da piangere, ma non voleva far preoccupare ulteriormente la madre: già quando era piombata in casa, un paio di giorni prima, senza aver prima avvisato, senza riuscire a spiaccicar parola, pallida come un fantasma, l'aveva quasi fatta morire di infarto.
Non se la sentiva di pesare ulteriormente sulla sua famiglia, era una cosa che riguardava lei e nessun altro.

Inspirò a fondo, senza sapere cosa fare di preciso.
Non si fidava troppo del suo autocontrollo al punto da azzardare una telefonata - anche se avrebbe ucciso per poter sentire di nuovo la sua voce -, ma non voleva neppure che le cose continuassero a ristagnare in quel modo: l'essersi rifiutata di sentire ragioni non aveva fatto altro che altimentare il suo orgoglio e la sua rabbia, impedendole di vedere quanto di buono c'era stato tra di loro.
Tutti hanno diritto ad una spiegazione, si disse tirando rumorosamente su con il naso, alla disperata ricerca di un fazzoletto.
E se dover ascoltare patetiche scuse era l'unico per poter sentire di nuovo la sua voce, si sarebbe adattata.

Si allungò verso il portatile, abbondato da qualche parte sul fondo del letto, e lo aprì, per la seconda volta nella stessa giornata, con un atteggiamento del tutto nuovo.
Aveva come l'impressione che tutta una serie di meccanismi, arrugginiti dalla sua stessa rabbia, avessero ricominciato a mettersi in funzione, sbloccandosi con scatti lenti e rumorosi: in uno stato quasi di trance aprì la posta elettronica, del tutto decisa a non lasciare che quel momento andasse perso. La sola idea di mettersi in contatto con lui la sconvolgeva molto più di quanto non avesse immaginato. Inspirò a fondo. Era vero che l'accettare qualcosa era un già un passo avanti per portarla a termine: il pensiero di scrivergli, indipendentemente da cosa gli avrebbe scritto, era confortante.

Ma prima ancora che potesse fare o scrivere qualsiasi cosa, il computer l'avvisò con un ping che aveva un nuovo messaggio.
Da parte di Orlando.
Dovette imporsi di respirare, mentre fissava quella mail ancora non letta, senza oggetto, che aspettava placida che lei prendesse una decisione.
L'avrebbe cestinata come le altre? O avrebbe trovato la calma per leggerla?
Quel messaggio la coglieva alla sprovvista, nonostante una parte di lei aveva pregato che lui non demordesse così preso.
La mano le tremava leggermente, quando cliccò sul mouse e aprì il messaggio, respirando affannosamente.

Dimenticami, se questo ti farà sentire meglio.
Odiami, se questo ti farà sentire meglio.
Fingi che io non esista, se questo ti farà sentire meglio.
Ma devi sapere e io devo dirtelo.
Ogni giorno apro gli occhi pregando che tu sia qui, vicino a me, e ogni giorno apro gli occhi e tu non ci sei: il dolore alle volte è così forte che non riesco a pensare, non riesco a respirare.
So di averti fatto del male, so di aver sbagliato.
So di essere uno stupido, so di non meritare il tuo perdono, di non meritare altro che il tuo disprezzo, ma da quando sei entrata nella mia vita non riesco a concepire l'idea che tu non ne faccia più parte.
Sei stata l'unica persona che mi sia rimasta accanto quando il mio mondo è crollato, l'unica che mi abbia mai concesso una possibilità e abbia creduto in me e mi rendo conto di non aver nessun diritto di chiedertelo, ma sa il cielo quanto vorrei che un miracolo del genere si ripetesse.
Poche cose hanno veramente senso, nella mia vita: per anni ho creduto di essere felice, di vivere la vita perfetta che migliaia di persone avrebbero voluto, ma la verità è che fingevo.
Fingevo che tutto andasse bene, che tra me e Kate ci fosse un legame, che fosse
normale fare tutto quello che facevo, che tutto mi fosse concesso e dovuto per motivi che nemmeno andavo a cercare.
Vivevo in una bolla di bugie, Annie.
Poi sei arrivata tu, un uragano che ha spazzato via ogni cosa lasciandomi davanti all'ineluttabilità dei fatti, alla mia solitudine, alla falsità di tutto ciò che mi circondava.
Tu, così piccola e così forte, una creatura così fragile da aver paura di sfiorarti.
Eppure mi hai mostrato, nonostante il tuo carico di dolore e paure, che la vita va avanti.
Che una volta chiuso un capitolo, se ne apre uno nuovo.
Mi hai preso per mano e portato via, facendomi conoscere una nuova felicità, un nuovo me che ama ciò che fa, che non conosce noia, che quando si sveglia al mattino ha un motivo per sorridere.
Non ci sono parole per descrivere tutto quello che hai fatto per me e il male che ti ho restituito.
Voglio però che tu sappia che non ho mai finto di essere qualcosa che non fossi, da quando mi hai aperto gli occhi.
Nell'esatto momento in cui le mie labbra si sono posate sulle tue la maschera che indossavo è andata in frantumi e, dopo secoli, ho di nuovo respirato aria fresca, che non fosse viziata dalla patina opaca che mi circondava a L.A.
Tu mi hai liberato, Annie Brown.
E io in cambio ti ho fatto rivere un incubo, qualcosa che mi avevi confidato credendo di poterti fidare di me.
Sono stato orribile, lo so.
Il tuo odio è più che giustificato.
Ma c'è una cosa su cui non sono mai stato in grado di mentire, nemmeno a me stesso, pur non avendo avuto l'occasione di dirtelo.
Io ti amo, Annie Brown.
E domani ti aspetterò, su quel tappeto rosso.
Ti aspetterò e se tu verrai allora terrò stretta la tua mano e non lascerò mai più andare.
Se non verrai... beh, me l'hai insegnato tu.
La vita continua, no?

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Capitolo 15
*** Epilogo ***


CAFFE' NERO SENZA ZUCCHERO
EPILOGO


 

Orlando si sentiva soffocare, infagottato nello smoking Dolce&Gabbana che gli era stato recapitato la mattina in albergo.
Il papillon sembrava strozzarlo e sarebbe stato così semplice, così dannatamente facile, alzare la mano destra e allentarlo, almeno un po', ma aveva come il sospetto che anche così facendo la sensazione rimarrebbe.
Del resto, si sentiva incapace di respirare dall'esatto momento in cui aveva realizzato che Annie non avrebbe mai risposto alla sua mail.
Le ore erano scivolate con una lentezza esasperante, trascinandosi di secondo in secondo come stessero lottando contro qualcosa di troppo grande, troppo enorme, per riuscire a scavalcarlo senza difficoltà: non si era mai sentito tanto male in vita sua.
Un male fisico, un dolore sordo al petto che a tratti lo faceva quasi boccheggiare tanto era intenso.
Ed era un cosa così stupida, in fondo! Non era certamente il primo rifiuto che collezionava, in fondo.
Aveva cominciato alle medie, quando una tale Carrie Bloomwood l'aveva piantato in asso per andare con il suo migliore amico dell'epoca; era indubbiamente qualcosa che conosceva e che, soprattutto, sapeva gestire.
Perché questa volta era diverso?
La risposta giunse da sola, in un flash pieno di capelli infuocati, occhi grandissimi e scuri, mani sottili fatte apposta per intrecciarsi alle due.
Era diverso perché Annie era diversa, punto.
Oh, era tutto così semplice, così lineare un volta ammesso questo!
Mancava come l'aria, come il sole, come il sorriso sul volto di un bambino e non riusciva, proprio non riusciva a sopportare la lontananza.
Affondò le mani nelle tasche dei costosissimi pantaloni che indossava, sentendosi un perfetto idiota: era quasi ora di entrare in sala, mentre lui ancora indugiava al confine tra il parcheggio e l'inizio del tappeto rosso, dove una lunga serie di stelline più o meno costruite in laboratorio sfilavano nei loro esageratamente esagerati abiti da migliaia di dollari al centimetro quadrato.
Le urla dei giornalisti, intenti a strillare questo o quel nome, gli riempivano la testa al punto che non riusciva nemmeno a pensare, riecheggiando da un angolo all'altro di uno spazio di per sé già saturo.
Si sentiva esplodere.
Chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie nel vano tentativo di allontanare quel principio di emicrania che già si faceva sentire, avanzando al ritmo scandito da urla, flash e gridolini vari.
Un tamburo da guerra sarebbe stato più delicato, a confronto. Inspirò a fondo, mentre riapriva gli occhi: niente. Nello spiazzo erano arrivate altre cinque macchine tirate a lusto, ma non riusciva a vedere da nessuna parte l'inconfondibile chioma infuocata di Annie.
Amareggiato come non mai, tirò un calcetto ad uno sventurato sassolino che rotolò via, ticchettando.
Che stupido era stato!
Come aveva potuto anche solo prendere in considerazione l'idea di credere che sarebbe venuta?
Perché d'accordo, non aveva risposto alla mail e già questo bastava, ma no!
Lui aveva voluto credere di aver scalfito la corazza del dolore che avvolgere il cuore di Annie, di essere riuscito ad andare oltre rabbia, irritazione, paura, tradimento per arrivare laddove stavano nascosti sentimenti più profondi.
Sopra ogni altra cosa, aveva davvero creduto che lei, leggendolo, avrebbe realizzato di essere innamorata di lui.
Stupido e ingenuo, in tanti anni non aveva mai veramente imparato niente della vita.
L'amore non si scopre perché qualcuno scrive delle belle parole, no.
L'amore va coltivato, con cura e attenzione, come fosse il più delicato e prezioso dei fiori.
Non si trova per caso, bello pronto e confezionato in attesa di essere ritirato. Come aveva potuto pretendere che lei potesse veramente amarlo, poi?
Dopo tutto quello che le aveva fatto passare, quello che aveva detto di lei, quello che aveva pensato e che, ne era sicuro, lei aveva sopportato per lui.
Una manciata di giorni perfetti non avrebbero mai potuto compensare il dolore che le aveva causato.
- Stupido. Stupido idiota. - si rimproverò, tirando un calcio ad un altro sassolino.
La sua assenza era il giusto scotto la pagare, lo sapeva.
Ma come avrebbe potuto sopportarla?
Come si può riprendere in mano le fila di una vecchia vita e portarla avanti come se niente fosse, dopo esser stati travolti e sconvolti da qualcosa di così meraviglioso?
Se ci fosse stato un muro nei paraggi, lo avrebbe presto a testate.
Ma se avesse fatto un tentativo con una delle macchine parcheggiate lì vicino, probabilmente non avrebbe più rivisto la luce del sole, a giudicare le occhiate che i vari autisti gli scoccavano, probabilmente chiedendosi cosa diavolo stesse ancora facendo lì, invece di andare a pavoneggiarsi davanti ai giornalisti.
Sospirò, rassegnandosi all'evidenza: aspettare non sarebbe servito a niente.
Tanto valeva farsi coraggio e affrontare l'orda famelica e feroce dei giornalisti, che altro sarebbe potuto succedere?
Avrebbe attraversato il red carpet e si sarebbe rintanato in una grande sala piena di gente, dove si sarebbe sentito solo come mai in vita sua e dove avrebbe trascorso una pessima serata sorseggiando un drink dopo l'altro nel tentativo di far correre il tempo più velocemente.
Inspirò a fondo, lanciando un'ultima occhiata al cielo che iniziava a scurirsi, caricandosi dei colori cupi di un tramonto nascosto da uno sky-line troppo vicino, prima di avviarsi verso l'inizio del tappeto rosso.
E fu allora che se ne accorse.
Il bianco del vestito che portava era talmente accecante e puro da fargli bruciare gli occhi, ma non era niente confronto al candore che illuminava il volto di Annie, incorniciato da due ciocche di fiamma arricciate.
Con le braccia abbandonate lungo i fianchi e le labbra curvate in un mezzo sorriso, la ragazza era bella come un'apparizione, tanto che Orlando sbattè le palpebre più volte, cercando di convincersi di non trovarsi in un sogno. Un bellissimo e altrettanto crudele sogno.
Fino a quando lei non sorrise e lui non seppe che tutto, in un modo o nell'altro, si sarebbe sistemato.
Quasi non si accorse quando gli angoli delle sue labbra si sollevarono, perché già le correva incontro.
Felice, come non lo era mai stato in vita sua.

 

FINE




 

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