Il guardiano

di Vandel
(/viewuser.php?uid=206405)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0.1 prologo ***
Capitolo 2: *** 0.2 la guerra mi portò lì ***
Capitolo 3: *** 0.3 il villaggio ***
Capitolo 4: *** 0.4 dietro la porta ***
Capitolo 5: *** 0.5 epilogo ***



Capitolo 1
*** 0.1 prologo ***


Il sole era alto nel cielo e la campagna risplendeva sotto i suoi raggi, che inondavano i campi agresti e ben lavorati. I contadini erano intenti nel loro lavoro, nonostante il caldo battente facesse di tutto per farli desistere. Altra razza, i contadini. Tosti, robusti, ben allenati e abituati. Tutto scorreva com’era solito scorrere, per la vita di quelle parti. In una di quelle case immerse nei verdi campi, stava per compiersi, però, un’autentica strage. Un uomo, con il volto coperto da un elmo che nascondeva gran parte dei lineamenti, era giunto in quella casa.
“Serve qualcosa?” lo aveva accolto con queste parole la padrona di casa, una donna sulla trentina, dai lunghi capelli castani, seduta ad un tavolo, posto sotto l’ombra di uno degli alberi che popolavano il giardino. Accanto a lei, che giocava con le sue bambole, vi era, probabilmente, sua figlia. Una bambina di circa sette anni non più alta del tavolino, con dei boccoli castani che sembravano fare da cornice al suo visetto tondo. L’uomo, per tutta risposta, le andò vicino e quando le fu accanto, estrasse da una fondina allacciata in vita un coltello. Sotto lo sguardo spaventato della donna, le affondò l’arma nel petto. Poi lo ritrasse, e poi di nuovo un affondo. E fu così per diverse volte. La donna non ebbe neanche il fiato di urlare, cadde faccia avanti sul tavolino, mentre rivoli di sangue si allargavano attorno a lei. Lo sguardo lucido della bambina che ora provava a chiamare “Mamma…?!” debolmente, non scaldò il freddo cuore dell’omicida. Si piegò sulle ginocchia, per arrivare all’altezza della ragazzina, che lo guardava con un espressione vuota, mentre lacrime fin troppo calde, scendevano sul suo viso. Non riusciva ad urlare, non riusciva a scappare. Il terrore l’aveva annichilita. Quel brutto elmo grigio, sembrò sorridere mentre portava il coltello vicino al collo della creatura. Poi un taglio netto.

“…Non isperate mai veder lo cielo, I’ vegno per menarvi all’altra riva, nel caldo el freddo, nell’etterno dolore.”. Chiusi il libro che stavo leggendo. Non era di certo una lettura leggera, ma era ciò che mi piaceva. Riposi accuratamente il libro sul comodino, poi mi alzai dal letto. Mi stiracchiai. Quanto amavo distendermi e leggere. Guardai fuori dalla finestra. Il sole era alto, forse era il caso di scendere ai campi. Prima però, avevo un urgenza che mi portava al bagno. Così aprì la porta, su una parete della stanza, e vi entrai.

La mano dell’omicida era rossa, sporca di sangue. Rosso come il colore dell’avarizia. Strinse il pugno, rabbioso. Poi sollevò lo guardo sul secondo piano della casa. Non era tempo di lasciarsi andare, in casa c’era ancora qualcuno. Sgrullò il coltello e alcune stille di sangue caddero sul corpo senza vita della povera bambina, che aveva i suoi begli occhi verdi aperti sul nulla, braccia larghe ad abbracciare la madre terra. L’assassino calciò il misero cancelletto d’ingresso che portava al secondo piano e si apprestò a salire le scale. La porta era aperta, nella più totale sufficienza. Quando entrò, puntò il coltello. La sala principale era vuota, così come la cucina. Andò dunque alla sua destra, dove c’era la porta per un corridoio e vi entrò.

Tirai lo sciacquone. Poi mi diressi al lavandino. Aprì l’acqua fredda e me ne gettai un po’ sul volto, per rinfrescarmi un po’. Poi mi guardai allo specchio. I miei occhi marroni avevano uno sguardo penetrante e i miei neri capelli erano tutti scomposti. Tanto, per lavorare nei campi andavano bene così. Me li sistemai alla ben e meglio, non potendo far altrimenti. Ora ero pronto davvero. Afferrai la maniglia della porta e lentamente la ruotai. Uscì dal bagno, ritrovandomi in corridoio. Chiusi la porta dietro di me e mi apprestai a camminare quando sobbalzai alla vista di un uomo di fronte a me. Aveva un elmo assurdo, non era nessuno che conoscevo. I miei occhi indagatori si scontrarono con quelli scuri dell’uomo, che ora era fermo davanti a me. Vidi che stringeva un coltello insanguinato tra le mani. “Sei rimasto solo tu!” esordì l’uomo, con una voce oltretombale. Poi si tolse l’elmo, mostrando un volto spento con pochi capelli neri e schiacciati dal pesante casco. Era un ragazzo sulla trentina. Io lo guardai serio, senza dire niente.
 “Ho ucciso tua moglie e tua figlia…” ricominciò lui, sorridente “…proprio come mi avevi ordinato di fare!”. Sorrisi. Ottimo!
“Questo che ti porto è la prova della mia lealtà, ora mostrami la tua!” aggiunse l’assassino, porgendomi il coltello sporco. Rigirai l’arma nel mio palmo. Ciò che diceva era la verità. Riconobbi il dolce sangue di Eveline, la mia bambina.
“Ecco la tua ricompensa” dissi estraendo dalla tasca un sacchetto chiuso in alto da un fiocco. Lo lanciai all’uomo che lo afferrò con entrambe le mani. Poi, sorridendo, dissi: “500 monete d’oro…”.
Lui fece per aprire il sacco. “Hei, ma qui non c’è niente!” ebbe il tempo di esclamare risentito, mentre il coltello gli trapassò il ventre. Quello urlò, lasciando cadere il sacchetto vuoto. Girai più volte il coltello nella ferita e ad ogni giro, un urlo disumano. Continuai fino a che l’uomo non cadde a terra di faccia, soffocando un ultimo lamento, portandosi con se il coltello, ancora conficcato nella carne. Mi asciugai la stilla di sangue che era schizzata sulla mia guancia, per poi esclamare: “Ora potrò proteggere questo luogo e ciò che nasconde, da solo…solo io: Alberigo Modenesi!”. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 0.2 la guerra mi portò lì ***


                                                                                                                                             …CIRCA 20 ANNI DOPO…
 In quel periodo la guerra imperversava un po’ ovunque. Io e i miei compagni, soldati ben addestrati, ci stavamo muovendo verso un campo base, per dar man forte. Il camioncino su cui eravamo, seduti sulla parte posteriore aperta, si stava muovendo per delle colline che s’andavano alzando sempre più ripidamente. Chi guidava però, era esperto e sapeva come prenderle. 
“Un altro giorno in vita! Che bel traguardo!” disse il militare seduto alla mia destra.                                                    
“Ahò, che pessimismo! Non voglio più sentirti” scherzò quello seduto davanti a lui, mollandogli un pugno per gioco.   
 “Dai ragazzi, pensate che al campo ci saranno anche le donne! Finalmente potremmo divertirci un po’” aveva aggiunto poi il militare seduto davanti a me. Io sorrisi, sotto i baffi.
“Ma sentilo, e dire che sei l’unico sposato!” dissi poi, provocando le risate degli altri due, che a differenza di quello davanti, non conoscevo. 
 “Zitto tu, mai?!” sorrise Eric mollandomi un debole calcio. Erik era stato il primo amico che avevo avuto da quando iniziai il militare. Eravamo coetanei, entrambi sulla trentina e avevamo persino capelli biondi quasi della stessa lunghezza. Molti ci scambiavano per fratelli.
I nostri commenti furono interrotti da un sibilo alquanto insolito.                                                                                                                                                                     
“Hei, che cazzo succede?!” disse uno, riconoscendo il suono.
“E’ una bomba, porca puttana!” esclamò Eric alzandosi e cercando la provenienza del suono.                                         
“Non c’è tempo! Abbandoniamo il furgone!” Non feci in tempo a pronunciare la frase al completo che mi lanciai in strada. Probabilmente mi sbucciai in più punti, ma non me ne curai. Non ne avevo il tempo. “Coraggio! Lanciatevi!” urlai rivolto ai miei compagni, ancora sul mezzo di trasporto. Eric stava per fare lo stesso quando l’esplosione avvenne. Il fuoco si propagò in un istante inghiottendo tutti i passeggeri e il camion intero. Un boato tremendo rivestì le pianure mentre una grande forza mi spinse all’indietro. “ERIC!!!” ebbi solo il tempo di urlare. Poi caddi violentemente a terra e persi i sensi.
A ricordare quella scena mi venivano ancora i brividi. I miei compagni morti in un attimo, sopraffatti dalle fiamme e la stessa sorte sarebbe toccata a me di lì a poco. Non avevo la minima idea di dove mi trovavo, ne tanto meno di dove dovevo andare. Probabilmente sarei morto di stenti, lì tra le campagne sconfinate, camminando.                                   
Mi ero medicato alla ben è meglio, sfruttando le conoscenze impartiteci in caserma. Per fortuna dall’esplosione ne ero uscito abbastanza bene. Ero un po’ intontito e avevo bruciature sulle braccia, però ero vivo. Non come i miei compagni, non come Eric. Sfumati in un attimo, ridotti in cenere. Facevo fatica persino a riconoscere i loro corpi dopo l’esplosione, per non parlare del furgone. Spazzato via! Qualcuno ci aveva tradito! Qualcuno che sapeva dei rinforzi. Maledetti! Me l’avrebbero pagata!                             
Caddi in ginocchio, in un campo di grano. Strinsi i denti rabbioso: Inutile illudersi. Mi lasciai cadere a terra, senza più forze. Avevo fame, sete ed ero psicologicamente distrutto. Sorrisi debolmente. Poetico morire in un campo di grano, con le spighe che graffiano il tuo viso.                                                                                              
Alzando lo sguardo però, la mia speranza si riaccese. Una casa! C’era una casa! Lì, immersa nel nulla della campagna. Le mie gambe ripresero vigore e costringendomi a riprendere la postura eretta, ripresi il mio cammino, con passi incerti e tremolanti. Dovevo solo finire quel campo, sperando che il contadino abitante della casa fosse lì, per chiedere ospitalità. 
Arrivai alla porta che davvero pensavo di svenire da un momento all’altro. La casa era composta di due piani a giudicare dalle due porte, una davanti a me e l’altra più su, dopo una rampa di scale. Suonai al vecchio campanaccio che si teneva attaccato alla parete forse per miracolo e un suono sordo ne uscì fuori. Non dovetti aspettare molto che un uomo fece capolino dalla porta in cima alle scale del piano di sopra. Era anziano, con pochi capelli bianchi sui lati, non troppo alto e decisamente provato dal lavoro solitario dei campi, che lo aveva reso un po’ curvo nella postura.
 “Buongiorno…” avevo iniziato sorridente, quando mi accorsi che il vecchio mi puntava un fucile contro.        
“Chi sei? Cosa sei venuto a cercare?” mi urlò quello. Io alzai prontamente le braccia al cielo, maledicendomi per aver dimenticato il mio fucile sul furgone. 
“Il mio nome è Federico Lafratta e sono un militare stazionato nella divisione di questo confine” mi affrettai ad identificarmi, se la tuta mimetica non bastava “le chiedo ospitalità finché non avrò ripreso le forze, poi me ne andrò in paese per svolgere il mio lavoro”.
Il vecchio parve credere a quella che era la verità (e forse in quest’occasione la tuta mimetica mi era stata d’aiuto) e abbassò il fucile. Poi fece un segno con la testa, indicandomi il permesso di salire.
Io sospirai, poi, abbassando le braccia, salii le scale. Dentro, la casa era accogliente. Scaffali pieni di libri costeggiavano un’intera parete, poi un lungo tavolo, un divano e persino un camino contribuivano a rendere quel posto una casa perfetta, in pieno contrasto con la natura scortese del vecchio che l’abitava, che tra l’altro, ancora non si era presentato. Ero seduto al tavolo quando l’uomo tornò dalla cucina con un bicchiere in una mano e un panino nell’altra, che si vedeva era fatto per dovere. Me li porse entrambi esordendo con tono brusco e seccato: “Rifocillati e poi fammi il favore di andartene per la tua strada”.                                                                                                                                                                        
Che stronzo! Pensai addentando il panino con voga. Per tutto il tempo del mio pseudo-pranzo, il vecchio mi fissò, senza dire niente, con l’unico scopo, forse, di mettermi in soggezione. Peccato che non ci riuscì. Ero un militare, io!                                                                                                                                                                              
“Come si chiama, signore?” chiesi sorseggiando l’acqua dal bicchiere, sforzando di mostrarmi il più cordiale possibile anche se avrei voluto spaccargli la faccia.
Quello grugnì un po’, poi rispose: “Un identità l’ho persa molto tempo fa, ma se proprio ci tieni a ringraziare qualcuno, ringrazia Alberigo Modenesi”. Concluse risprofondando nel suo silenzio scrutatore. Riposi il bicchiere vuoto sul tavolo, poi mi alzai. “Mi dispiace chiederle un ultimo favore, se possibile” iniziai, attirandomi lo sguardo fulminante dell’ospitante “ho il permesso di riposarmi una mezz’ora sul suo letto, signore?”.                                                                                                                                                                                             
Il vecchio aggrottò la fronte, sbuffando. Poi indicò il corridoio sulla destra. Io feci un segno di ringraziamento con il capo, per poi dirigermi verso di quello.
“Poi te ne andrai immediatamente!” sentii ringhiare il vecchio, mentre arrivai alla stanza da letto. Attorno al corridoio vi erano tre porte, di cui due erano stanze da letto e uno era il bagno.
Quella casa era enorme! Improvvisamente mi sembrò sprecato tutto quello spazio per una sola persona. Richiusi la porta dietro di me, poi iniziai a slacciarmi la tuta, fino a togliermela del tutto. Rimasi a petto nudo di fronte allo specchio e potei notare con sollievo che le ustioni erano davvero poche e non facevano neanche più male. Gettai la giacca sulla parte destra del letto matrimoniale e mi distesi sulla sinistra. Addirittura un letto matrimoniale! Si trattava bene il vecchio! Dedussi che non aveva vissuto sempre da solo. Per un po’ rimasi con lo sguardo sulle travi trasversali del soffitto, a fantasticare su una possibile famiglia del vecchio. Me li immaginai tutti scorbutici e con il suo stesso grugno incazzato con il mondo. Sorrisi all’idea. Chissà che fine aveva fatto la sua famiglia. Con questi e altri pensieri, scivolai nel sonno senza neanche accorgermene.
Quando mi risvegliai, notai che i raggi del sole entravano dalle finestre aperte. Lentamente mi alzai, riprendendo la giacca, accanto a me. Iniziai a mettermela. Avevo dormito molto più di una mezz’oretta. Sembrava tardo pomeriggio, dalla mattina che ero arrivato. Mi avvicinai alla finestra per prendere una boccata d’aria e vidi il vecchio alle prese con la zappa, in un campo adiacente alla casa. Sorrisi. Visto da lì sembrava quasi un comune contadino.                                                                                                                                
Radunai le mie cose, per quanto poche esse erano e percorsi il corridoio arrivando alla porta d’ingresso. Era ora di partire, non volevo restare lì neanche un secondo di più. Già immaginavo una strigliata perché avevo dormito più del previsto, passare altro tempo accanto a quel burbero contadino mi avrebbe nuociuto alla salute! Scesi in giardino e guardai l’orologio. Le sei e mezza. Sarei arrivato in paese prima di notte e avrei trovato una stanza in albergo.                                                                                                                                               
Decisi che era giusto avvisare e ringraziare il vecchio, così feci per avviarmi al campo, quando mi fermai di colpo. Qualcosa aveva attirato la mia attenzione. La porta del piano di sotto era aperta. O meglio, accostata. Mi ero completamente dimenticato del piano inferiore!                                                                                       
Mi guardai scrupolosamente attorno, poi aprii lentamente. Non per altro, piuttosto per curiosità. Cosa diavolaccio ci teneva lì, un uomo solo? Quanto altro spazio gli occorreva?
Scesi i due gradini che portavano al piano vero e proprio. Dentro era buio ma la luce pomeridiana bastava per darmi un quadro generale. C’era una piccola cucina, con la porta aperta e scaffali pieni di libri. Un tavolo e un divano, oltre che una miriade di attrezzi da lavoro quali pale, picconi, rastrelli, zappe e vanghe. Tutti strumenti propri ad un contadino. Niente di strano. Tranne un’ ultima porta, posta nel lato più infondo e più buio del piano. L’oscurità però, non celava il simbolo impresso su di essa, vale a dire un fiore a tre petali rovesciato all’interno di un cerchio. La curiosità fu più forte del senso di pericolo che avevo sviluppato in battaglia, e mi avvicinai. Guardai la maniglia. Non sembrava chiusa da nessuna sicura ne lucchetto, così appoggiai una mano su di essa, intenzionato ad aprirla. Un brivido mi percorse la schiena mentre la torcevo.                                        
“Mi sembra di averti detto di andartene!”. Sbiancai, voltandomi di scatto e nascondendo le mani dietro la schiena, istintivamente. 
 “Mi scusi, signore” mi affrettai a rispondere, pronto al cazziatone. Il vecchio afferrò una pala lì vicino e si parò davanti con quella.   
 “Devi andartene da qui! Lasciami in pace!” urlò quello. Sembrava furioso, ma allo stesso tempo era preoccupato da qualcosa.     
“D’accordo signore” dissi avviandomi lentamente verso di lui. Stavo sudando.                                                               
Passai accanto all’uomo, arrivando all’uscita. Mi sarei aspettato che mi colpisse con la pala, invece si schierò a difesa della porta, pala davanti. Misi un piede fuori, poi mi voltai e pronunciai: “Grazie di tutto”.                                     
Il resto mi morì in gola. Il vecchio continuò a fissarmi nervoso mentre mi allontanavo.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 0.3 il villaggio ***


3 IL VILLAGGIO
Me l’ero vista brutta! Quel vecchio oltre che burbero era pure un pazzoide! Per tutto il viaggio mi tornò in mente l’ultimo sguardo agghiacciante che mi aveva lanciato, me lo sentivo ancora addosso.                       
Finalmente la vista del paese scacciò quei pensieri. Non era molto grande, ma aveva il suo fascino. Era contornato da mura antiche, a tratti franate che ricordavano molto un castello medievale. Varcai la grande porta ad arco che sanciva l’ingresso al paese vero e proprio. Dentro, casette a schiera erano poste tutte intorno ad una piazza centrale nel cui centro si ergeva fiera una statua di un cavaliere, simbolo del luogo. Oltre alle case erano presenti negozi, mercati e officine.                                                                                                            
Ora che ero arrivato, in realtà, non sapevo dove dirigermi. Girai un po’ il villaggio in cerca di un albergo ma la mia ricerca fu vana. Niente che ricordasse un hotel decente, e il buio incombeva minaccioso. Già sfioravo il pensiero di dormire all’addiaccio, quando vidi una ragazza bionda e slanciata venirmi incontro con una certa titubanza. Sembrava vergognarsi di quello che stava per fare.                                                                                  
“Tu sei un militare?” chiese quella abbassando lo sguardo timidamente.                                                                         
Quella domanda era più per rompere il ghiaccio, visto che la risposta era nella mia divisa. Comunque annuii. “Abbiamo sentito che il furgone dei rinforzi è stato vittima di un attentato” continuò la ragazza “un duro colpo per la sezione stazionata qui, ormai sono una decina e hanno perso morale. Non mi sorprenderei se cadessero sotto la pressione del nemico…”.                                                                                                                                
Non volevo sentire altro da quella ragazzina che si sforzava di parlare come se capisse qualcosa della guerra. “Ora dovrei andare” dissi, rivolgendole un debole sorriso e riprendendo il mio cammino.                               
“Aspetta!” mi fermò lei, guardandomi diversamente “Volevo invitarti a stare da me, almeno per stanotte, se non hai altro posto dove andare, s’intende”.                                                                                                                             
Io la guardai e un sorrisetto mi sfuggì. Lei divenne rossa come un pomodoro e si affrettò a dire: “E’ solo perché mio padre era un militare una volta, mi ha detto lui di chiedertelo…”.                                                             
“Federico” esordii avanzando una mano verso di lei. Con quella presentazione avevo accettato l’invito.                  
Lei, prima titubante, mi strinse la mano, presentandosi a sua volta: “io sono Laura..”.

Così la notte la passai nell’umile ma accogliente dimora di Laura e suo padre, un uomo dall’aspetto grave ma in realtà molto simpatico. Sembrava non aver perso la vivacità di quando era ragazzo nonostante alcune rughe sul suo volto e i pochi capelli rimasti sembravano far intendere il contrario.                                                  
Durante la cena non fece altro che chiedermi delle azioni militari. Io raccontavo cosa accadeva nei campi e lui ascoltava attento, ogni tanto intervallando con qualche domanda. Poi fu il suo turno, raccontando di quando militava, da giovane, nella divisione di quel paese.                                                                                                   
Era evidente che se ne intendeva, era stato veramente un soldato una volta.                                                                                                     
La cosa mi lasciò un po’ deluso, per un attimo avevo creduto davvero che fosse stata Laura ad invitarmi. Invece per tutta la durata della cena, non aveva parlato, esclusa dal discorso.                                                              
Quando finimmo mi offrii di aiutare la ragazza a lavare i piatti, mentre il signore si stravaccava sul divano, di fronte alla tv. Lei aveva protestato, dicendo che dovevo riposarmi, ma mi imposi, dicendo che mi ero riposato abbastanza nella casa del vecchio.                                                                                                                        
Parlammo del più e del meno e per la prima volta, mi sembrò quasi bello parlare di qualcosa che non era l’ambito militare. La compagnia di quella ragazza cominciava a piacermi, era simpatica e gioviale.                       
Quando finimmo, il padre mi rapì per se, estraendo un mazzo di carte da gioco. Diceva che era una pratica che si usava al suo tempo, fra i militari, una partita di briscola la sera prima di addormentarsi.                             
Accettai non troppo volentieri. Volevo restare ancora un po’ con Laura, ma lei si ritirò in camera sua comunque felice, dandoci la buonanotte. Suo padre sembrava aver finalmente ritrovato un figlio perduto e non smetteva mai di sorridere in mia presenza. Giocammo a carte finché non arrivò l’ora di dormire.
 
La luce che filtrava attraverso la serranda baciò il mio viso, dandomi il buongiorno. Mi alzai dal letto ancora assonnato e mi stiracchiai. Ero su un letto a due piazze perché il padre di Laura aveva insistito affinché dormissi in camera sua, lasciando per se il divano. Mi strascinai fino al bagno dove mi lavai, svegliandomi completamente. Poi indossai la divisa. Sarei ripartito subito dopo colazione, non avrei dato fastidio un minuto di più a quelle due persone, così cordiali e gentili.                                                                                                             
Quando entrai in camera da pranzo, vidi che la colazione era già pronta in tavola e sembrava chiamarmi con voce soave e ammaliante. Laura era ai fornelli e suo padre seduto al tavolo intento a leggere il giornale. “Ben svegliato, militare!” la ragazza mi sorrise e il vecchio levò su di me uno sguardo sincero. Era stanco, si vedeva.   
“Non ha dormito bene per colpa mia” dissi in tono colpevole, sedendomi al tavolo “Mi dispiace…”.                                             
“Non pensarci nemmeno, figliuolo!” rispose quello mollandomi una vigorosa pacca sulla spalla, poi si rimmerse nella lettura.
Io afferrai un cornetto e nell’addentarlo, fui felice di scoprire il suo cuore di crema. Erano i miei preferiti!
Il mio sguardo passò prima da Laura, che ancora stava trafficando con le stoviglie in cucina, per poi finire sul giornale dell’uomo. Era un giornale locale, proprio di quel piccolo paesino. Il suo nome era scritto a caratteri cubitali sulla prima pagina: Il Nunzio!
Distrattamente, lessi l’articolo sotto di esso che sembrava essere un appunto di cronaca. Due uomini (sotto indicati i loro nomi e cognomi) erano spariti da circa una settimana, e ancora nessuna notizia di loro. I due erano usciti insieme per passare il raccolto di una casa di campagna, che si trovava poco fuori città, esattamente nel…
Quando riconobbi dalla foto di quale villa si trattava, quasi non mi strozzai con il pezzo di cornetto che avevo in bocca. Era la casa del vecchio burbero!
“Tutto a posto?!” esclamò Laura, attirata in sala dai miei colpi di tosse. Anche l’uomo abbassò il giornale, lanciandomi un’occhiata interrogativa. Quando riuscì ad inghiottire il pezzo di cornetto, balzai in piedi.
“Scusate il disturbo ma ora devo proprio andare!” dissi, posando il resto della mia colazione nel piatto al mio posto.
Gli sguardi di Laura e suo padre si fecero dubbiosi a quella mia uscita. Mi guardavano confusi e io mi sentii di spiegare la situazione. Così indicai il giornale che l’uomo appoggiò sul tavolo, in particolare misi l’indice sulla foto e indicai la casa sullo sfondo.
“E’ lì che sono quei due uomini scomparsi!” esordì mentre le espressioni degli altri due si facevano sempre più incredule “Sono stato ospite in quella casa e il proprietario non voleva assolutamente che aprissi una porta nella sua cantina!” spiegai brevemente “Probabilmente…i corpi dei due sono rinchiusi lì!”.
Il mio racconto venne creduto, perché Laura si portò una mano a coprirsi la bocca, celando l’orrore e suo padre si tolse gli occhiali con un espressione scurissima.
“Mi hanno detto che l’uomo che vi abita è un criminale” sussurrò il vecchio, trovando la mia approvazione.
“Altroché!” esclamai infilandomi la giacca mimetica “Devo tornare lì, devo controllare la situazione”.
Il padre di Laura si alzò dalla sedia goffamente, poi sparì nella sua stanza.
Guardai l’orologio. “Accidenti, arriverò per il tramonto!” dissi in uno sbuffo agitato.
“Posso accompagnarti io con la macchina. Non ci metteremo neanche dieci minuti!” disse Laura, prendendo da un posacenere un mazzo di chiavi ed agitandolo davanti a se, per mostrarmelo.
Io mi stupì che potesse già guidare. “Ma scusa, quanti anni hai?!” le domandai, forse cadendo nella maleducazione.
Lei mi ricambiò un sorrisetto fiero, prima di dire: “Diciotto appena fatti, ma nessuno qui dice niente se si prende prima la patente”.
In casi normali gli avrei ricordato cosa diceva la legge, ma questa volta mi faceva comodo una macchina. Forse, a ventun anni compiuti, dovrei iniziare a prendere la patente anche io, solo che mi serve a poco nell’ambito militare. “Ok, allora andiamo!” dissi volgendo alla porta.
Proprio in quel momento, il padre di Laura risbucò dalla sua stanza con in mano un oggetto luccicante. Era un pistola, di quelle che avevo visto un sacco di volte, in caserma. Nonostante fosse vecchiotta sembrava ben curata e lucente. La ragazza sorrise nel vedere che il padre la porgeva a me.
“Sei disarmato! Prendi questa mia arma!” disse quello con un tono di fierezza nella voce “In vent’anni di servizio non ha mai fallito un colpo. Puoi contare su di lei!”.
Io me la rigirai tra le mani, fingendo stupore per il suo calibro. In realtà, le armi a cui ero abituato io erano molto più potenti e maneggevoli. Ma se il vecchio aveva deciso di donarmi il suo unico ricordo, voleva dire che si era affidato a me nella totale fiducia, e tanto mi bastava.
“Non la ringrazierò mai abbastanza, signore!” dissi inclinando il capo in un cenno d’approvazione.
L’altro mi rivolse lo stesso sguardo e sembrava trattenere a stento la commozione.
“Bè, vogliamo andare o no?” interruppe Laura, tirandomi per il braccio e interrompendo quella situazione che presto sarebbe sfociata nell’imbarazzo generale.
“Si!” affermai, prima di dirigermi con lei alla porta.

Come aveva previsto la ragazza arrivammo alla casa in meno di dieci minuti. Lasciammo la macchina ben distante dal giardino immenso della casa e andammo a piedi da lì. Nonostante le mie obiezioni, Laura insistette per seguirmi, e alla fine dovetti capitolare io. Insieme, ci avviammo verso la casa, stando ben attenti a restare nascosti per non cadere nel campo visivo del contadino, che, comunque, non sembrava essere in casa. Forse era nei campi a lavorare. Meglio così.
Veloci e allo stesso tempo quatti come gatti, scivolammo fino a sotto l’imponente costruzione che era la casa del vecchio Modenesi e mi sorpresi che Laura era in grado di starmi dietro.
Misi una mano sulla maniglia della porta di sotto e la torsi, non ottenendo però, nessun risultato. “Maledizione è chiusa!” esclamai dandole poi un calcio, e preoccupandomi subito dopo che nessuno mi avesse sentito di sopra.
Laura osservò per un po’ il vecchio legno, poi mi scansò e si inginocchiò alla serratura.
“E’ vecchia e logorata” analizzò con un occhio chiuso “Penso di sapere come si fa”.
Io la guardai incredulo mentre si sfilava il fermaglio dai capelli. La coda che aveva avuto fino ad allora si disperse in due cascate bionde che si riversarono sulle spalle.
Rimasi incantato da quella visione. Accidenti quanto era bella!
La ragazza infilò il lungo fermaglio nella serratura e ruotò quel tanto che bastava per sentire il soddisfacente Click con cui la prima sicura era saltata. Poi ancora due volte e la porta si socchiuse, scricchiolando.
Laura tornò in piedi e mi rivolse un sorriso soddisfatto. “Dopo di te!” disse facendo cenno di entrare con la mano. Io le sorrisi prima di esclamare: “Come avrei fatto senza i tuoi trucchi da spia!?”. Poi misi un piede dentro, seguito a ruota dalla ragazza, ma sul secondo gradino mi fermai.
“Il fermaglio…non rimetterlo…” sussurrai, accorgendomi di essere diventato rosso. Laura mi sorrise, prima di rispondere a sua volta: “Sbrighiamoci ad entrare piuttosto!”.
Io annuì e avanzai nel buio gelido di quel piano. Prima di proseguire ancora però, tastai con i palmi il muro adiacente in cerca di un interruttore, che trovai poco dopo. Quando premetti il pulsante, la luce invase il piano, mostrandoci cose che a prima vista sembravano perfettamente nella norma. C’erano gli attrezzi per il lavoro nei campi appoggiati al muro, come mi ricordavo, e il piccolo tavolino nel centro era pieno di carte. Sembrava un ripostiglio sotto ogni punto di vista, ma sfortunatamente, non poteva ingannare la consapevolezza!
La porta di acciaio era sempre lì, imponente e glaciale come la ricordavo. Il fiore a tre petali rovesciati racchiuso in un cerchio troneggiava sempre al suo centro.
Lentamente, mi avvicinai ad essa, come se avessi paura di lei. O di quello che avrei trovato al suo interno. La maniglia era bloccata da un lucchetto. Me l’aspettavo.
“Ehm…Federico…” sentii la voce di Laura che mi chiamava. Sembrava sommessa, quasi volesse trattenersi a stento da un urlo spaventato.
Mi voltai e la vidi in piedi di fronte ad un angolo della stanza.
“Che c’è!?” sussurrai avvicinandomi a lei, che mi indicò qualcosa appoggiato al muro.
Sobbalzai all’indietro alla vista di due corpi esanimi con le schiene appoggiate alla parete e le teste penzolanti dove due occhi inespressivi fissavano il pavimento con uno sguardo vuoto e ormai privo di vita.
Sul loro petto c’era un buco, aperto probabilmente, da un proiettile di fucile.
“Credo d’aver trovato quei due uomini!” singhiozzò Laura con gli occhi sbarrati.
Se quei due erano lì, allora…
“Avvisiamo la polizia!” suggerì a bassa voce la ragazza mentre si avvicinava a me, con lo sguardo inorridito e basso.
“Aspetta!” dissi io, scostandomi da lei e andando verso la porta in acciaio.
…qui cosa c’è?!
A quel punto la curiosità divenne troppo forte! E nonostante Laura continuasse a dire: “Che fai? Dobbiamo avvisare la polizia!”, io continuavo a rispondere: “Certo, aspetta solo un attimo”.
Poi puntai la pistola che mi aveva dato il padre della ragazza sulla catena che teneva chiusa la maniglia e sparai  un colpo. Il boato del colpo coprì un probabile rumore metallico che la catena emise mentre si ruppe. Cadde a terra con un tonfo e io afferrai la maniglia.
“Che vuoi fare?!” Laura mi aveva raggiunto ed ora osservava incuriosita quella lastra bianchissima.
“E’ una cosa che mi tormenta da quando l’ho vista la prima volta” dissi, quasi volendomi giustificare “Devo vedere cosa il vecchio custodisce così scrupolosamente!”.
Detto questo, torsi la maniglia e con un cigolare lento, la porta si aprì.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 0.4 dietro la porta ***


4 DIETRO LA PORTA
 
Torsi la maniglia e con un cigolare lento, la porta si aprì. Sgranai gli occhi, pronto a vedere chissà quale meraviglia fosse celata dietro l’enorme battente di ferro.
Ciò che vidi, però, mi lasciò molto deluso.
Davanti a  me si ergeva, da terra fino a superare di poco la mia testa, un oggetto di pietra scura, una stele. I suoi bordi, di un intagliatura irregolare, andavano restringendosi in alto, chiudendosi a formare una punta circolare.
Sul “corpo” di quella stele era inciso qualcosa, geroglifici forse, oppure sumero, ma comunque in una lingua antichissima che non sapevo tradurre.
“E questa cosa sarebbe?” esclamò Laura, che intanto era giunta la mio fianco senza che me ne accorgessi.
“Te l’ho detto, quel vecchio è pazzo!” dissi con cinismo, perso con lo sguardo su quelle lettere di colore argenteo.
“Pazzo è colui che si ostina a ficcare il naso dove gli è proibito!” una voce squarciò il silenzio del piano terra. Una voce che, purtroppo, sapevo appartenere al vecchio contadino.
Io e Laura ci voltammo spaventati per vederlo in piedi, dietro di noi, con il fucile puntato. Nei suoi occhi c’era la solita sinistra aria inquietante che ormai lo contraddistingueva.
Il mio pensiero corse alla fondina che avevo legata in vita, ma decisi che non era ancora il momento.
“Uccidi affinché nessuno ti rubi la stele?” iniziai a parlare.
Il vecchio Alberigo scoppiò in una fragorosa risata che mi inquietò ancora di più.
“Quando è possibile non mi sporco le mani” rispose tornando al suo tono freddo “basta assodare un killer, cosa facile visto l’enorme numero di ragazzi che non ha niente e che per qualche denaro farebbe di tutto. Poi lo uccidi, legittima difesa, per carità, e così ti ritrovi di nuovo da solo.”
La freddezza con cui parlava faceva capire che non fosse nuovo a quel genere di cose. Chissà quante persone aveva ucciso per quella misera stele.
Potevo sentire Laura tremare al mio fianco, spaventata. Dio solo sa quanto volevo abbracciarla in quel momento, però, mi avevano insegnato, bisognava rimanere presenti alla situazione, per cavarsela.
Così tornai con lo sguardo al vecchio. “Cos’ha d’ importante questa stele?” domandai.
L’altro sembrò infastidito e fu colto da un tic che gli fece storcere la testa, prima di rispondere. una risposta che arrivò fredda, sola e terribilmente irreale.
“Quello è Dio!”
Attimi di gelo caddero nella stanza, intervallati solo dai singhiozzi sommessi di Laura, che aveva sempre più paura. Mi voltai verso la stele di granito per vederla sempre ferma lì, sovrana di quella piccola cella di ferro che gli avevano costruito attorno. Sembrava guardarmi con lo stesso scetticismo con cui la guardavo io.
Poi sorridendo, abbassai lo sguardo a terra, per poi riportarlo su Alberigo Modenesi.
“Si dice che l’anzianità porta ad esser saggi” dissi con tono canzonatorio mentre l’altro mi guardava irritato “Ma si dice anche che c’è sempre un eccezione che conferma la regola!”.
Il vecchio fu colto da un altro tic nervoso. Poi tornò a puntarmi con il fucile. Laura sussultò e io alzai le mani. “Non hai idea di quante persone sono state uccise in questi anni, unicamente per preservare quel segreto…” parlò il vecchio, avvicinandosi a passi lenti verso di me “…e se ora tu non vuoi crederci, sarai solamente un’ altro di quegli eretici chiusi sotto il mio campo!”.
Per la prima volta, da quando ero in presenza del vecchio, un brivido mi corse lungo la schiena al sentire quest’ultima frase.
Quando…quando lo avevo visto lavorare nei campi, la mattina prima, in realtà stava preparando altre fosse dove seppellire le salme dei due uomini. Probabilmente sotto quel campo si nascondevano una miriade di cadaveri. Come mai la polizia locale non se ne era mai accorta? Perché era stato permesso quel massacro per così tanto tempo? Forse avevano tutti paura di quel vecchio.
Tutti, tranne me! Oggi avrei distrutto quel vecchio maniaco una volta per tutte!
La canna del fucile mi raggiunse la gola e vidi l’uomo a pochi centimetri da me, con un espressione da invasato.
“No…si fermi…la prego…” Laura era ormai in lacrime, appiattita alla parete accanto a me.
“Tranquilla Laura!” le dissi io in tono deciso, il che la convinse a desistere dal convincere il vecchio.
Alberigo mi fissava, i suoi  occhi nei miei, dito sul grilletto, pronto a sparare. La mia mano scivolò lenta nella fondina, senza farmi accorgere dall’uomo che comunque era troppo impegnato a fissarmi sadico.
“Prega la stele e farai ancora in tempo ad evitare l’inferno!” mi disse con un ghigno.
Era il momento, con il braccio sinistro spostai il fucile dal quale partì un colpo che mi oltrepassò, mancandomi, poi con il braccio destro estrassi la pistola e la puntai sullo stomaco dell’altro.
“Ti direi la stessa cosa, se non fosse che ormai non puoi evitare l’inferno!” esclamai con un espressione apatica. Poi premei il grilletto e il rumore sordo di uno sparo riecheggiò per la stanza.
Non un urlo, non un gemito ne un fiato.
Sentii il corpo esanime di Alberigo franare su di me e lo accasciai dolcemente a terra.
Laura si era lasciata cadere seduta a terra, evidentemente scossa da quanto successo.
Io mi rialzai guardandomi le mani macchiate di un vermiglio rosso sangue. Era tutto finito…

l corpo di Alberigo giaceva ancora sul pavimento del piano terra, faccia in giù, come ad assaporare quel luogo, che per moltissimo tempo era stata la sua casa.
Io ero seduto cavalcioni davanti alla stele, e la fissavo. Come si può credere che quell’oggetto potesse essere Dio?! Insomma, era impossibile, soprattutto con quella ceca convinzione.
A quel punto mi incuriosiva sapere cosa gli avesse dato quella certezza, al vecchio.
Comunque la stele era lì, che sembrava ricambiare i miei sguardi spenti e vuoti.
Le lettere, snodate e spigolose incise sopra, sembravano risplendere di un colore argenteo, dovuto ad un gioco di luci e ombre. Magari Modenesi aveva tradotto le incisioni, magari era da lì che derivava la sua conclusione che fosse Dio.
Non pensai a nient’altro perché fui interrotto dalla presenza di Laura, che si sedette accanto a me.
“Sai…” iniziò a parlare con voce suadente e serena “…non ho mai visto il Signore, non so come sia…”.
Io la guardai con un mezzo sorriso, prima di rispondere sarcastico: “Ho ucciso il suo messia, ora sarò condannato alla dannazione?!”.
Lei capì la mia ironia, magari anche fuori luogo, e per un po’ ammutolì. Poi tornò a guardarmi.
“Non credi?” fu la semplice domanda a bruciapelo.
Non risposi subito, mi lasciai due secondi per pensarci. Cosa dire lo sapevo, me volevo riordinare le idee.
“Il mio Dio non l’ho trovato in nessuna delle religioni esistenti. Non so quale sia il vero Dio, ma di sicuro non può essere questo…”. Conclusi.
Mi accorsi che Laura abbassò lo sguardo, come a volermi compatire, e non ne capivo il perché.
“Credere in qualcosa fa nascere delle convinzioni e con esse una ragione di vita per molti” Disse poi, celando l’evidente esempio, in questo caso negativo però, di Alberigo Modenesi “Io per esempio ho speranza che possa esistere un mondo dove non esista la guerra e la sofferenza, ma per realizzarlo, devo appellarmi a qualcuno più in alto. Credere mi dà speranza…”.
Mi accorsi solo quando ebbe finito di parlare, che mi ero letteralmente perso nei suoi limpidi occhi verdi. Quella ragazza, così giovane e già così matura, mi aveva conquistato. Evitai di dire altro che poteva sciogliere le sue convinzioni, anche se dubito, ci sarei riuscito.
“Ora però andiamo, altrimenti tuo padre si preoccupa!” dissi solo, sorridendole.
“Ne avrebbe tutte le ragioni, in effetti!” sorrise anche lei, alzandosi in piedi.
La seguii poco dopo, ma mentre mi alzavo, qualcosa attirò la mia attenzione ai piedi della stele. Era un oggetto minuto e accartocciato su se stesso in modo irregolare. Quando capì cosa fosse lo presi in mano. Era il proiettile del fucile di Alberigo, il colpo che mi aveva mancato e che dunque, si era conficcato nella stele, dietro di me. Sollevai gli occhi ad essa e rimasi di sasso. Com’era possibile?
Nessun segno di impatto e nessuna minuscola crepa. La stele non era stata scalfita!

Il breve tragitto in macchina ci portò di nuovo al villaggio. Fu veramente una liberazione rivedere la statua equestre di quel cavaliere che occupava la piazza del paese. Era un po’ come tornare a casa.
Quando bussammo alla porta della casa di Laura, suo padre ci aprì e ci saltò al collo in un abbraccio che lo liberò da mille preoccupazioni.
Estrassi dalla fondina la pistola e la porsi al vecchio, dicendo: “Grazie mille, ci ha salvato la pelle questo gioiellino!”.
Lui l’afferrò con un sorriso a trentasei denti e disse: “Ma entrate, raccontatemi tutto!”.
Passai un altro giorno a casa di Laura e suo padre e fu un altro giorno spensierato come da tempo non mi accadeva. Io e la ragazza eravamo sempre più vicini e quello non faceva che rendermi felice sempre di più.  Chissà…forse iniziavo ad innamorarmi.
La sera mi addormentai con un proposito per il giorno seguente. Sarei andato a fare rapporto al campo più vicino, dove ero stato assegnato e poi, insieme a loro sarei tornato alla casa del vecchio, a prelevare la stele per studiarla e a dare degna sepoltura a quei cadaveri nel campo.
E poi, chissà, magari sarei rimasto al campo del villaggio. Così avrei potuto vedere Laura più di frequente.
Con quei piacevoli pensieri arrossii e piano piano scivolai in un sonno ristoratore.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 0.5 epilogo ***


5 EPILOGO

Come temevo! Il sibilo che avevo sentito indicava il foraggio di una gomma! Maledizione ero in mezzo al nulla con un apecar che aveva una ruota a terra.
Chiusi la portiera davanti e mi diressi dietro, dove, nella parte posteriore, un telo nascondeva un enorme oggetto. Tolsi il velo, lasciandolo scivolare, e appurai che la stele era ancora intatta. Figurarsi se qualcosa poteva distruggerla!
Avevo ricevuto l’incarico dal generale del campo di portare la stele in città, per poterla studiare con mezzi più tecnologici, come ricompensa, avrei ottenuto il definitivo trasferimento nel campo vicino al villaggio di Laura. Avevo persino imparato in una notte sola le basi della guida, tanto lì le strade erano tutte dritte e senza pericoli perché poco trafficate. Ora però ero proprio in mezzo al nulla, attorno a me solo colline vuote.
“Siamo rimasti solo io e te, ma a quanto pare non sei molto socievole” sorrisi, rendendomi conto che ero finito a parlare con un blocco di granito.
In un certo senso, qualcosa di magico però, quella cosa l’ aveva. Era come se la stele mi avesse chiamato per liberarla dalle grinfie di quel malvagio vecchietto, di cui, per troppo tempo era stata ospite.
Forse era veramente Dio.
Sorrisi a quell’assurda affermazione ed estrassi il telefono dalla tasca. Meglio chiamare un carroattrezzi alla svelta, visto che ci avrebbe impiegato minimo un ora per arrivare dalla città.
Un sussulto mi scosse da capo a piedi. Strano.
Stavo componendo il numero quando un altro sussulto, stavolta più potente, mi fece cadere di mano il cellulare.
Che mi stava succedendo?
Improvvisamente iniziai a tremare, ma non avevo freddo. L’ennesimo sussulto mi fece portare istintivamente una mano al cuore, come a voler frenare i suoi battiti a mille all’ora.
Il paesaggio intorno a me iniziava ad allontanarsi, fino quasi a perdersi all’orizzonte, diventando una macchia indistinta di colore nero. Era una sensazione assurda.
Persi le forze e rotolai a terra. Gli occhi iniziavano a chiudersi, in un sonno profondo e insensato.
Mentre i contorni delle cose venivano inghiottiti dal nero, riuscì a guardare l’apecar.
L’ultima cosa che ricordo fu la stele. Le lettere grigie sembravano quasi sorridere. Poi più nulla.
                                                                                 
                                                                                                      …

Un furgone nero, con i vetri oscurati, correva veloce per quella strada di campagna isolata, in mezzo alle colline. Due uomini guidavano quel veicolo, vestiti anch’essi di nero.
“Fermati! Guarda, siamo arrivati!” disse uno, bloccando quello alla guida che frenò bruscamente.
I due uscirono dal veicolo, mentre il sole tornava a baciare i loro pantaloni larghi e neri terminanti in due stivali grigi. Le loro casacche, dello stesso colore dei pantaloni e di tutto il resto, recavano sul petto un simbolo. Era un fiore a tre petali rovesciato all’interno di un cerchio.
Uno dei due si avvicinò al corpo di Federico e si tolse un guanto. Poi poggiò due dita sul collo del giovane.
“Cos’ha scelto questa volta?” domandò l’altro, appoggiandosi all’apecar.
“Arresto cardiaco” sentenziò l’altro, constatando la morte del ragazzo.
“Tsk, un classico!” ribatté il primo concludendo con “Vieni, aiutami a portarla dentro”.
I due si avvicinarono alla stele, quando il primo scostò l’altro vigorosamente, urlandogli contro: “Fermo, che fai? Vuoi forse toccarla!?”.
L’altro si riscosse, asciugandosi la fronte come avesse scampato un pericolo. “Hai ragione, grazie!” poi si rinfilò il guanto nella mano libera.
I due presero di forza il blocco di granito e lo trasportarono fino a dietro il furgone.
Uno di loro aprì la serratura che blindava le due ante di ferro, con una mano, e con un poderoso Click, la porta posteriore del furgone si aprì.
“Sbrighiamoci a caricarla, che voglio tornare in base per pranzo!” disse uno dei due ponendola dentro al furgone.
Poi i due uomini in nero ammirarono il contenuto del carico con un espressione soddisfatta.
Affianco a quella appena riposta, vi erano almeno altre venti stele, diverse di poco dalla prima. Anch’esse recanti quegli strani simboli argentati.
“Chissà perché si stanno svegliando tutte adesso!” disse uno dei due con tono riflessivo.
Poi l’altro chiuse le ante del retro del furgone, prima di rispondere: “Forse l’apocalisse è imminente!”.
I due uomini risalirono sul veicolo e ripartirono, lasciando il corpo di Federico a giacere sulla fredda terra. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1358792