I Sentieri si reincrociano

di Registe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - I masnadieri ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Metà della vita ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Tre giorni ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - La sinfonia della morte ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Requiem ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Liberazione ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Profumi del passato ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - L'eccezione e la regola ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Allarme Kaspar ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Riunione di anime ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Si alzi il sipario! ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Le fiamme della fenice ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - La spada e l'amore ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - Ryumajin ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Gli occhi della Resistenza ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 - L'alba della Guerra dei Mondi ***
Capitolo 17: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - I masnadieri ***


Il Ramingo e lo Stregone:
I Sentieri si reincrociano



NARRATORE: "amatissimo pubblico! Prima di iniziare a narrare questa nuova, mirabolante serie, le Registe mi segnalano di fare un avviso importante, fondamentale per non impiccarsi con la cronologia della storia (cosa in cui le Registe stesse sono maestre):

Sono passati tre anni tra gli avvenimenti de "Il Castello dell'Oblio" e l’inizio di questa storia!

…(contente Registe? Era abbastanza grande e comprensibile?). Ehm, orbene….miei amatissimi lettori, il vostro fedele Narratore vi augura buon divertimento con le avventure di questa nuova serie!!"




Capitolo 1 - I masnadieri


Occhio di Zaboera

Un Occhio di Zaboera




Nella top ten delle cose che Axel detestava la pioggia occupava sicuramente un posto di riguardo. Nemica giurata degli elementali del fuoco, diventava ancora più irritante quando non c’erano posti dove ripararsi e gli abiti che indossavi cadevano a pezzi, sottili e sformati come ammassi di ragnatele. In effetti Axel faticava a ricordare l’ultima volta che non era stato così. Da tre anni a quella parte vivevano in quel modo, sulla strada, di furti ed espedienti.
“Non mi importa che non abbiamo soldi, io dico che stanotte si dorme al coperto!” Marluxia doveva gridare per farsi sentire oltre il frastuono del temporale. Era lui a guidare l’infreddolito e derelitto trio lungo il sentiero nel bosco, nella speranza che dopo il prossimo albero si scorgesse, finalmente, un villaggio o una fattoria. Larxen come al solito sembrava l’unica a non darsi peso di ciò che le accadeva intorno: saltellava in mezzo alla pioggia ridacchiando e mescolando i suoi fulmini a quelli del temporale, estasiata dalle esplosioni luminose che squarciavano il cielo notturno.
“Idiota, così finirai per arrostirci tutti!” la rimproverò Marluxia, ma lei per tutta risposta gli fece una linguaccia e continuò nel suo pericoloso gioco. Iniziarono a litigare, e Axel ringraziò che il fragore dei tuoni coprisse almeno in parte le loro voci.
Dopo anni di lussi e comodità al Castello dell’Oblio non era stato facile tornare alla vecchia vita di stenti. Non era stato facile per lui che il destino del ladro e del vagabondo ce l’aveva nel sangue, figuriamoci per un principe come Marluxia. L’ex numero XI dell’Organizzazione non si era ancora rassegnato: non faceva che parlare di grandiosi colpi che avrebbero cambiato la loro vita riportandoli a cavalcare l’onda del successo, ma di tutti questi sogni di gloria finora si era visto poco e niente. La verità era che certe cose non possono cambiare, e Axel lo sapeva bene: i grandi colpi di fortuna non capitano due volte nella vita. Avevano già avuto la loro occasione, e avevano fallito: ora il massimo a cui potevano aspirare era sopravvivere per un numero di anni più alto possibile, e infine, quando le ultime forze li avrebbero abbandonati o qualcuno più rapido e furbo di loro li avrebbe pugnalati alle spalle, le loro ossa sarebbero sbiancate sul ciglio di una strada e il loro corpo sarebbe diventato cibo per cani e avvoltoi. Non c’era assolutamente nulla di grandioso nel loro futuro. Axel se n’era fatta una ragione da molto tempo: in fondo era sempre stato quello il suo destino, sin dal giorno in cui era nato.
“Guardate!” lo strillo acuto di Larxen lo riportò alla realtà. “Un villaggio!”
La vegetazione del bosco si andava via via sfoltendo, lasciando intravedere in fondo al sentiero un’ampia radura costellata di case dalle finestre illuminate. Ogni villaggio che si rispetti, anche il più piccolo, ha la sua locanda, e fu proprio davanti alla porta di quest’ultima che si fermarono i nostri affamati eroi. Dall’interno provenivano canti e risa, e attraverso i vetri della finestra si godeva la splendida visuale di un girarrosto che rosolava sopra un falò scoppiettante. Un brontolio dello stomaco ricordò ad Axel che era da due giorni che non metteva in bocca nemmeno una crosta rinsecchita di pane.
“Per una volta sono d’accordo con Marly” disse “Entriamo e mangiamo…poi si vedrà. Se abbiamo fortuna finiamo in prigione e abbiamo vitto e alloggio gratis per un paio di giorni”.
Persino con l’oscurità e la pioggia Axel riuscì a cogliere il lampo di disapprovazione che passò negli occhi di Marluxia all’udire la parola “prigione”. Evidentemente in lui si stavano combattendo l’onore nobiliare e la fame di due giorni, ma quest’ultima dovette vincere in modo schiacciante, perché dopo pochi secondi il numero XI spinse la porta ed entrò nella locanda con passo deciso.
Il tepore nella sala comune era una sensazione paradisiaca, e Axel già sentì che le energie gli stavano tornando. L’oste li accolse con grande cordialità, invitandoli a sedersi accanto al fuoco e a fare le loro ordinazioni.
“Un momento, signore, avrei una domanda da farle!”. L’oste, che già stava tornando verso le cucine per preparare il cibo richiesto, si voltò di nuovo al richiamo di Larxen. Axel alzò gli occhi al cielo: non ci voleva un indovino per capire di che domanda si trattasse. Era sempre la stessa da tre anni.
“Mi dica pure, bella fanciulla. Sarò ben felice di aiutarla, se posso”.
“Ecco, io sto cercando una persona. Un uomo molto alto, non più giovane, capelli lunghi e biondi. Ha due ciuffetti inconfondibili, e porta un abito come questo” Larxen indicò la propria tunica dell’Organizzazione. “E’ un medico girovago, per caso è passato qui di recente?”
La Ninfa Selvaggia non aveva mai perso di vista il proprio obiettivo numero uno. Per i primi tempi anche lui e Marluxia avevano partecipato con entusiasmo alla caccia all’uomo, più che mai desiderosi di vendicarsi di quell’infame di Vexen che li aveva abbandonati al Castello dell’Oblio con quattro nuclei neri pronti a esplodere. Poi i mesi erano trascorsi, Vexen sembrava svanito nel nulla, e altri pensieri più importanti avevano occupato le loro menti. Per Axel la priorità assoluta era sopravvivere. Marluxia…beh, lui aveva i suoi sogni di gloria. Larxen invece era determinata come il primo giorno, e un sorriso inquietante e carico di aspettative le si dipingeva sul viso ogni volta che nominava lo scienziato traditore. Finora però non aveva avuto molta fortuna: ogni volta che trovava una traccia quella si interrompeva poco dopo, come se Vexen sapesse che lo stavano seguendo e si divertisse a cambiare il suo percorso in modo imprevedibile, per confonderli. Negli ultimi dieci villaggi in cui la Ninfa aveva chiesto nessuno lo aveva visto, perciò Axel dubitava fortemente che stavolta la risposta sarebbe stata diversa.
Si sbagliava.
“Certo che l’ho visto!” fece l’oste aprendosi in un gran sorriso. “Qui al momento non si parla d’altro! Se non fosse stato per lui e per il suo assistente dai capelli azzurri i figli del nostro fabbro sarebbero morti di scarlattina! Se ne sarà andato non più di dieci giorni fa!”
“Dieci giorni?!” Larxen era scattata in piedi, dimentica della fame e della stanchezza. “E ora dov’è andato?!”
“Beh…io non ne ho proprio idea…” l’oste si grattò la testa con aria pensierosa. “Ma lei perché lo cerca, signorina? Siete parenti?” chiese, facendo passare gli occhi su tutto il gruppo.
“Anche noi in passato abbiamo beneficiato delle cure del signor Vexen” intervenne Marluxia. “E vorremmo tanto ringraziarlo per lo splendido servizio che ci ha reso”. Il sorriso del numero XI era diabolico quanto il vero significato delle sue parole; al sapere la preda così vicina il suo desiderio di vendetta si era prepotentemente risvegliato. E Axel non gli dava tutti i torti. Se davvero lo scienziato era vicino….
“Capisco” fece l’oste abboccando in pieno alla balla. “In effetti non siete i primi a dirmi una cosa del genere, sapete? Mi ricordo di un mercante di Donau… sarà stato circa un annetto fa, non di più… beh, insomma, questo mercante era qui per certi affari e ha raccontato, proprio in questa stessa stanza, me lo ricordo come se fosse ieri… ha raccontato che il signor Vexen e il suo assistente hanno liberato il suo villaggio da un’epidemia di peste! Peste, ma ci credete? Beh, io fino a dieci giorni fa non ci credevo proprio per niente, perché si sa che quando arriva la peste è finita, non resta che pregare il Grande Satana e sperare che passi presto… ma poi li ho visti con i miei occhi, proprio come li aveva descritti il mercante, e ho visto di cosa sono stati capaci…vi dico solo che a casa del fabbro c’erano già i sacerdoti per l’estrema unzione e tutto quanto. Lui li ha buttati fuori, vi giuro una scenata da non credere, io ho pensato subito ‘ecco qua che un fulmine del Grande Satana lo fa secco’…e invece poi….”
“Sì, vabbè!” Larxen stava perdendo la pazienza davanti a quell’oste logorroico. “Ma a noi serve sapere dov’è ORA!”.
L’oste rimase un attimo interdetto, chiaramente deluso di venire interrotto nel punto culminante di un racconto che doveva considerare emozionantissimo. “Beh, signorina, come ho detto non lo so…” riprese poi. “E’ un medico girovago dopotutto…. anche se….”
“ANCHE SE…??” gli occhi di Larxen ardevano d’impazienza; aveva poggiato entrambe le mani sul tavolo ed era tesa in avanti, verso l’oste, lo divorava con la sola intensità del suo sguardo. Axel si ritrovò a compiangere quel povero ingenuo: non aveva la benché minima idea della vera natura della “bella fanciulla” che si trovava davanti, e rischiava davvero brutto mettendo alla prova a quel modo la sua già scarsa pazienza.
“Beh, sono solo voci… è ovvio che su questo tipo di personaggi nascono un’infinità di dicerie e leggende… comunque, ho sentito dire che il signor Vexen vivrebbe in un antro nel cuore della Foresta Nera… quando non se ne va in giro per il mondo, s’intende. Ma suona un po’ come una favola per bambini, non vi sembra?”
Favola o no, Larxen era pronta a partire in quello stesso istante, a stomaco vuoto e sotto la pioggia, e ci volle del brutto e del cattivo tempo per convincerla a stemperare i suoi bollenti spiriti e a trascorrere almeno quella notte all’asciutto e al coperto. Dopo una lunga e animata discussione che attirò non pochi sguardi curiosi dalla loro parte, riuscirono finalmente a raggiungere un accordo: sarebbero partiti il mattino successivo, dopo aver fatto larga provvista di cibo (rubandolo, naturalmente). La consunta e sbrindellata mappa in loro possesso indicava che la Foresta Nera si trovava a circa dieci giorni di cammino da lì… anche la metà, se riuscivano a rubare dei buoni cavalli. Sì, per la loro tanto agognata vendetta valeva persino la pena di tentare un colpo più pericoloso del solito. In fondo era tutta colpa di Vexen se erano caduti così in basso.



Larxen passò il resto della serata a rigirarsi tra le dita la ciocca di capelli di Vexen che aveva rubato tre anni prima, canticchiando a mezza voce quelle che avevano tutta l’aria di essere ballate piratesche. Malgrado tutte le loro avventure e le durezze che avevano dovuto sopportare Larxen non si era mai separata dal suo trofeo più prezioso: aveva legato quei capelli biondi con un nastro resistente e li aveva conservati gelosamente, come fossero una reliquia di inestimabile valore. Non era la prima volta che Axel la sorprendeva a contemplarli con sguardo sognante e carico di sadica anticipazione.
Dal canto suo l’ex numero VIII si ingozzò e bevve fino a scoppiare, da vero gatto randagio che non sa quando mangerà la prossima volta. Era già brillo da tempo e ben avviato sulla strada della sbronza totale quando l’oste venne ad avvisarli che la cucina chiudeva ed era ora di saldare il conto.
Naturalmente, persi nei loro sanguinari piani di vendetta, non avevano affatto pensato a come bypassare quell’inconveniente. Marluxia probabilmente avrebbe sfoderato un sorriso charmant (o presunto tale) e tentato la carta della diplomazia, ma fu anticipato da Larxen, resa ancora più elettrica del solito dal vino e dal pensiero di Vexen. Prima che gli altri due potessero fare qualsiasi cosa per fermarla i kunai lampeggiarono nelle sue mani, e la ragazza spiccò un salto atterrando dritta sul bancone della locanda e rovesciando piatti e boccali di birra per tutto il pavimento.
Come accade spesso in questi casi, la rissa si scatenò in un istante. Un ubriaco decise che era giunto il momento di farsi valere, e tirò uno sgabello sulla testa del suo altrettanto ubriaco vicino. Due secondi dopo non c’era più avventore seduto al proprio posto: urla, calci, strilli, strepiti, sedie tirate, bicchieri infranti, risa isteriche, e su tutto la Ninfa Selvaggia, regina del caos, che saltellava qua e là ridendo spensierata e menando colpi a caso con i kunai. Malgrado il cervello annebbiato dai fumi dell’alcool, Axel capì che le cose si mettevano male: le risse in taverna sono ordinaria amministrazione, ma quando si inizia a spargere del sangue…
“Dèi ladri, dobbiamo andarcene o sono cazzi nostri!”
Marluxia gli gridò qualcosa che si perse nel frastuono della rissa, poi sguainò la falce per proteggersi da un lampadario che precipitava nella sua direzione. Spaccò in due un tavolo che lo ostacolava, allontanò un ubriaco con un calcio e riuscì a portarsi accanto ad Axel.
Ai due bastò un solo sguardo per intendersi, e insieme cominciarono a correre verso l’uscita, le armi in pugno per difendersi dalla follia che li circondava. Ora le urla erano soprattutto di terrore e dolore: gli abitanti del posto erano perlopiù contadini o artigiani, gente che normalmente non portava armi e che mai e poi mai si sarebbe aspettata di imbattersi in una pazza dal coltello facile durante la quotidiana bevuta della sera. La rissa si trasformò rapidamente in un’ecatombe, e la Ninfa Selvaggia ne era l’unico e assoluto carnefice.
Ciò che Axel temeva più di ogni altra cosa erano le guardie. Non le due o tre spaurite e spaventate guardie umane che già erano intervenute e tentavano senza alcun successo di scongiurare la catastrofe; no, quei poveracci, con le loro armi arrugginite e le divise rattoppate, li avrebbe messi ko persino lui. I demoni invece… quelli erano tutta un’altra storia.
Ai tempi del Castello dell’Oblio, la notizia che il Grande Satana aveva conquistato tutte le terre conosciute in un lampo e quasi senza colpo ferire aveva sconvolto persino la vita regolare e monotona dell’Organizzazione: era per quel motivo che avevano usato i poteri del Castello per rifugiarsi nel limbo interdimensionale, lasciandosi alle spalle il loro mondo e tutti i suoi abitanti. Ma non si erano resi conto di come le cose fossero davvero cambiate finché non avevano fatto ritorno di persona, tre anni prima, dopo l'esplosione del Castello.
In realtà a prima vista nulla sembrava mutato: Axel si sarebbe aspettato fiumi di lava, distese di crateri e demoni alati che imperversavano nei cieli, e invece il paesaggio del suo mondo era sempre lo stesso: foreste e villaggi, campi coltivati e villaggi, fiumi e villaggi, e ancora foreste e ancora villaggi. La gente viveva esattamente come prima, e cioè si ammazzava di lavoro e pativa la fame. I demoni e le altre creature venute dal sottosuolo non si facevano quasi mai vedere in giro, sembrava quasi che non esistessero… tranne quando si dava loro un qualsiasi motivo per intervenire. E non erano mai visite di cortesia.
Le novità si scorgevano solo a un esame più attento, ed erano dettagli apparentemente insignificanti: occhi fluttuanti che ogni tanto facevano capolino da un vicolo buio e subito sparivano; le immagini sacre nei templi non rappresentavano più gli dèi ma il Grande Satana e i suoi generali, e le preghiere e i riti tradizionali, sebbene inalterati nella forma, erano ora dedicati ai nuovi dominatori. Le tasse erano dure come sempre, ma in fondo che cambiava se ora erano i demoni a riscuoterle invece dei vecchi signorotti?
Cambiava, cambiava eccome. Axel non ci mise molto ad accorgersi che se una persona diceva o faceva qualcosa di sospetto nelle vicinanze di un occhio fluttuante, il giorno dopo o addirittura a poche ore di distanza riceveva una “visita” dei demoni. Molte di quelle persone sparivano da un giorno all’altro e di loro non si sapeva più nulla, altre venivano viste qualche tempo dopo su un patibolo, e allora riapparivano anche i demoni per obbligarti ad andare in piazza a vedere cosa succedeva se sfidavi troppo la loro ira. I sacerdoti della vecchia religione erano perseguitati, maghi e alchimisti dovevano munirsi di costose licenze ed erano sottoposti a controlli rigorosi; si mormorava che da qualche parte una principessa avesse dato il via a un movimento di resistenza, ma era pericoloso anche solo parlarne. La gente viveva nella paura. La miseria, la fatica, la disperazione, le carestie, erano tutte cose a cui erano abituati da secoli, e che probabilmente non sarebbero cambiate mai; ma prima almeno la paura non si respirava nell’aria, e la gente non restava sveglia la notte a domandarsi se il giorno successivo sarebbe stato tranquillo oppure se i demoni sarebbero calati dal cielo a esigere un tributo di sangue. Perché per la famiglia demoniaca gli umani non erano altro che insetti, e gli insetti si possono schiacciare tranquillamente e senza rimorsi: non esisteva nessuna legge che tutelasse un essere umano dalle offese recate da un demone. I demoni li odiavano, questo era un dato di fatto: li odiavano ferocemente, e loro non ne conoscevano neppure il motivo. Forse nemmeno ce n’era uno.
Axel e compagni erano fortunati ad essere semplici ladruncoli di mezza tacca, così insignificanti che la grande e potente famiglia demoniaca non si sarebbe certo scomodata per loro. Ma ora quella pazza di Larxen rischiava di comprometterli tutti…
Fuori pioveva ancora, ma Axel aveva dimenticato ogni avversione per l’elemento opposto al suo: corse a perdifiato, immergendosi nel fango fino quasi al ginocchio e inzaccherandosi persino le punte dei capelli; se raggiungeva la foresta forse aveva ancora qualche speranza…
Un esile soldatino umano che non doveva avere più di sedici anni gli si parò davanti, stringendo una lancia corta tra le mani fradice e tremanti.
“Voi state con quella pazza, vi ho visto!” gridò con la sua vocetta ancora da ragazzino, facendosi tuttavia udire oltre lo scroscio della pioggia.
“E hai visto troppo!”. Marluxia sbucò da dietro le spalle di Axel e lo superò di scatto; un lampo fucsia balenò per un attimo nella notte, e un istante dopo il ragazzino si afflosciò al suolo senza un lamento, a faccia in giù nel fango. In quello stesso momento un fulmine si infranse proprio alle loro spalle, illuminando a giorno le stradine del villaggio, e Axel vide qualcosa che lo fece inorridire. Non si trattava né del sangue che colava dalla falce di Marluxia né dei corpi agonizzanti che si contorcevano nel fango, segno che la furia di Larxen si era spostata dalla locanda alla strada. No, era qualcosa di molto peggio.
A pochi metri da loro, sospeso placidamente a mezz’aria e del tutto ignaro della pioggia, c’era un grosso occhio fluttuante.


“Pipu, pipu, pipu!”
Questo simpatico suono, molto simile a quello di una paperella di gomma, era il verso caratteristico degli occhi fluttuanti; serviva ad avvisare il loro padrone che da qualche parte nel mondo stava succedendo qualcosa degno di essere guardato. E doveva trattarsi di una cosa davvero importante stavolta, perché l’occhio in questione, grosso più o meno quanto la testa di un bambino, sottolineò il concetto picchiettando leggermente sulla spalla del suo signore con i piccoli tentacoli che circondavano il suo nucleo.
“Cosa c’è?”
“Pipu, pipu!”
“D’accordo, fammi vedere”. Il padrone afferrò l’occhio per i tentacoli, accingendosi a guardare le immagini proiettate al suo interno. Per essere un demone era di taglia molto piccola, non superava le dimensioni di uno gnomo, ma era evidente che doveva essere vecchissimo: il suo viso raggrinzito era solcato da un fitto intreccio di rughe, e sul suo capo rimanevano appena pochi fili di capelli grigi. Dal mento gli pendeva una barbetta sottile ma lunga quasi quanto il resto del corpo, e i suoi piccoli occhi erano infossati e circondati da profonde occhiaie e rughe. Era vestito in modo sontuoso, con un diadema di gemme che gli ornava il cranio quasi calvo. Il suo nome era Zaboera, l'Arcivescovo Stregone, generale al servizio del Grande Satana. Gli occhi fluttuanti si chiamavano Occhi di Zaboera proprio in suo onore, perché era stato lui il primo a modificare con la magia queste creature viventi affinché potessero trasmettere suoni e immagini l’una attraverso l’altra, anche a migliaia di chilometri di distanza. In pratica aveva inventato la versione demoniaca degli ologrammi.
“Ordinaria amministrazione” commentò Zaboera dopo aver visto tutta la scena. “Gli umani non fanno altro che scannarsi a vicenda… neanche le bestie feroci sono così sanguinarie” la smorfia di disprezzo sul suo viso rugoso era più che evidente.
“Pipu…”
“Però, in effetti…” il piccolo demone avvicinò ancora di più l’Occhio alla sua faccia, scrutandovi dentro con la massima attenzione mentre la scena ripartiva da capo. “C’è qualcosa che…. ferma!”
Obbediente, l’Occhio bloccò la ripresa sull’immagine di tre umani vestiti di nero, a prima vista identici a tutti gli altri parassiti umani che infestavano quella terra. Erano i responsabili della strage alla locanda, ma non era questo che aveva turbato l’Arcivescovo Stregone. I suoi occhietti indagatori si concentrarono sugli abiti dei tre, sulle strane armi che portavano….
E queste gli fecero tornare alla mente qualcosa, altre immagini riprese non molti anni prima da un altro Occhio di Zaboera.
“Ih ih ih ih!” l’Occhio si divincolò di scatto dalla presa del suo padrone, spaventato dal suo improvviso scoppio di risa. “Ih ih, torna qui mio piccolo servitore, hai fatto un ottimo lavoro e ho ancora bisogno di te” La piccola creatura tornò indietro fluttuando, rassicurata dal tono compiaciuto del suo signore. Colto da un’insolita vena di tenerezza, Zaboera le accarezzò i tentacoli sulla sommità, scatenando un’ondata di gioiosi “pipu pipu”.
“Ti faccio i miei complimenti. Il Grande Satana sarà molto felice di vedere queste immagini”.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Metà della vita ***


Capitolo 2 - Metà della vita


Old Vearn

Il Grande Satana Baan




Il sole era già sparito dietro le cime degli alberi, e i laghi della Foresta Nera si animavano dei suoi bagliori rossastri per l’ultima volta prima di inabissarsi nell’oscurità della notte. C’era un’insolita pace nell’aria estiva, come se tutte le creature della foresta avessero deciso di comune accordo di fermarsi e riposare. Una falce di luna si affacciava timidamente da dietro le montagne, seguita poco a poco dal suo manto di notte e di stelle.
Tante leggende si narravano su quel su quel luogo magico e antico: si diceva che fosse il rifugio di un misterioso principe immortale, che aveva versato così tante lacrime per la perdita del suo unico amore da dare vita con esse al grande fiume padre di quelle terre. Si diceva che gli alberi avessero vita propria e parlassero tra di loro, e c’era chi giurava di essersi perso nella foresta e di aver udito, portata dal vento, la voce del principe sussurrare “io sono in ogni foglia”. Si diceva che gli alberi fossero protetti da fatine minuscole ma potentissime, e che chiunque provasse ad abbatterli o anche solo a danneggiarli faceva una brutta fine.
In tempi più recenti si narrava poi anche un’altra storia, quella di un medico girovago dal carattere insopportabile che aveva eletto quel luogo solitario a sua perenne dimora. Era una storia sicuramente più prosaica delle altre e molto meno favolosa, ma anche l’unica vera. Il medico girovago in questione aveva utilizzato tante volte il legname della Foresta Nera per accendersi il fuoco, ma nessun Ent, driade o Oddish di sorta era mai venuto alla sua grotta a protestare.
“Però trovo che queste leggende abbiano il loro fascino, non è vero padron Vexen?”.
Camus sedeva a gambe incrociate sul suo giaciglio, sfogliando un antico librone di fiabe che aveva recuperato in uno dei mercatini dell’usato tipici di quella regione. Appoggiato contro le rocce all’ingresso della grotta, Vexen gli dava le spalle, così che Camus ne vedeva solamente la schiena illuminata dalle fiamme scoppiettanti del loro falò. Lo scienziato non si voltò nemmeno quando il suo assistente lo interpellò di persona, limitandosi a borbottare qualcosa di inintelligibile in risposta.
Il suo sguardo vagava tra le ombre della foresta senza fissarsi su nessun punto in particolare, e i suoi pensieri erano persi per vie ancora più tortuose e lontane. Camus dovette accorgersene, perché dopo qualche minuto di silenzio si azzardò a domandargli: “Qualcosa non va, padron Vexen? E’ così silenzioso stasera…”
“Sono stanco per il viaggio, tutto qui.”
Dal silenzio che seguì Vexen dedusse che Camus non era del tutto convinto dalla spiegazione. E aveva ragione: ma come spiegargli il turbinio di sensazioni dolorose che si agitava in quel momento dentro di lui? Non poteva capire: era giovane, ingenuo e condizionato. Soprattutto era giovane, beato lui. Chissà, forse un giorno la sua vita poteva ancora cambiare, gli si sarebbero spalancati davanti nuovi orizzonti, nuove possibilità. Vexen ricordava bene il giorno in cui lui aveva lasciato la casa natale, tanti, troppi anni prima: pieno di fiducia nel futuro, credeva di avere il mondo nelle proprie mani. All’epoca non aveva alcun dubbio: sarebbe diventato un grandissimo scienziato, avrebbe scolpito il suo nome per sempre a grandi lettere nella storia.
E in effetti era arrivato vicino, vicinissimo a quell’ambito traguardo. Ma un attimo di paura, di panico cieco e assoluto era bastato a rovinare tutto: aveva premuto il fatidico pulsante, il Castello dell’Oblio era esploso, e con lui tutti i suoi sogni e le sue speranze.
Che idiota…
“Per quanto andrà ancora avanti così?” gli sfuggì detto all’improvviso, con rabbia.
“Che cosa, padron Vexen?”
“Tutto questo” disse con disprezzo, allargando le braccia per indicare la grotta e tutto ciò che lo circondava. Continuava a dare le spalle a Camus. “A che serve, mi chiedo… se tanto devo morire in questo posto dimenticato dal mondo, senza aver….”
“Morire?!” lo interruppe Camus scandalizzato. “Padron Vexen, così mi fa paura! Perché pensa a una cosa del genere?”. Il giovane assistente era chiaramente spaventato, e anche Vexen si chiese cosa gli fosse preso, così all’improvviso, di mettersi a esprimere i suoi pensieri ad alta voce. O forse ciò che voleva era proprio spaventarlo. Infliggere anche a lui almeno una parte della propria sofferenza. Sì, doveva essere così.
“E a cos’altro dovrei pensare?” fece con rabbia. “Non c’è nient’altro davanti a me… niente di significativo, almeno”.
“Ma padron Vexen, come può dirlo, è ancora giovane e…”
“Non per i canoni di questo mondo.”
Già, il suo mondo. Un mondo primitivo, superstizioso, dove la gente temeva le innovazioni e i cambiamenti quasi più della peste e della carestia. Un mondo dominato dallo strapotere dei sacerdoti fino a quando non era arrivato il GSB, che forse era l'unica cosa ancora peggiore della loro religione ridicola e bigotta. Un mondo che aveva sempre odiato, perché era una maledetta prigione, per il corpo e per la mente. Eppure nel momento del bisogno era tornato a rinchiudervisi lui stesso, gettando via per sempre la chiave. Si sentiva un tale stupido.
Per i canoni del suo mondo una persona della sua età era oltre la metà della vita. E Vexen vedeva chiaramente il solco tra le due parti: alle sue spalle una primavera rigogliosa, alberi talmente carichi di frutti dorati da piegarsi quasi del tutto sotto il loro dolce peso; di fronte invece….
’Ma dove troverò fiori in inverno, dove i raggi del sole, e l’ombra della terra?’”. Vexen sussultò. Non si era accorto che Camus era venuto a sedersi accanto a lui.
“Che cosa…?”
“E’ il verso di un salmo.” disse il sacerdote con semplicità. “E’ di questo che ha paura?” chiese poi, con la solita dolcezza che accompagnava ogni suo gesto e parola. “Di invecchiare?”
“No.” rispose lo scienziato dopo un po’. “Ho paura di come invecchierò. Di questi giorni sempre uguali. In questo mondo non c’è nulla per uno scienziato come me… non sarò mai niente di più di un ridicolo medico girovago, e ormai è troppo tardi per cambiare le cose”.
“Si sbaglia. Perché sminuisce così quello che fa? Ha salvato un intero villaggio dalla peste, ogni giorno ridona speranza a qualcuno con le sue azioni… le pare poco? Dovrebbe essere fiero di se stesso”.
Probabilmente Vexen gli avrebbe riso in faccia, ma all’improvviso un rumore fortissimo di rami spezzati squarciò il buio della notte e li fece sobbalzare entrambi. Dal folto della foresta proveniva una cacofonia di voci rauche e profonde, quasi più simili a versi di bestie feroci che a vere e proprie voci umane.
“Una grotta nella Foresta Nera… capirai! E’ come dire un verme in una città umana!”
“Silenzio! Continuate a cercare! Abbiamo guardato quasi dappertutto, quei due non possono essere lontani”.
Le voci diventavano sempre più forti, e cominciava a sentirsi lo scalpiccio di molti passi pesanti in avvicinamento, impegnati a districarsi in maniera piuttosto violenta tra la folta vegetazione del sottobosco.
“Padron Vexen…” Camus era cereo.
“Spegni il fuoco.” gli ordinò Vexen in un sussurro, alzandosi in piedi. Tremando, Camus si affrettò a obbedirgli, ma era troppo tardi..
“Guardate laggiù! Eccoli, i vermi umani!”
Prima che la fiamma si estinguesse Vexen fece in tempo a vedere, in mezzo agli alberi, un braccio… no, una specie di zampa puntata inequivocabilmente contro di loro. Poi la foresta fu immersa nel buio, e i passi si fecero sempre più vicini, rapidi, concitati, pesanti: un esercito di ombre gigantesche si abbatteva su di loro.
Non c’era possibilità di fuggire, e Vexen reagì d’istinto, il corpo guidato dall’adrenalina e dal panico: poggiò una mano a terra, richiamando l’essenza del suo elemento, e in un lampo il ghiaccio si espanse sul terreno, verso i nemici misteriosi.
“Che diamin… ahi!”
Dalle ombre giunsero dei tonfi pesanti, seguiti da grugniti di dolore e imprecazioni. Vexen corrugò la fronte per lo sforzo di mantenere l’incantesimo su una superficie così vasta (il clima estivo non lo aiutava), facendo disperatamente appello ad ogni riserva di magia presente nel suo corpo. Rischiava grosso ad avvicinarsi così tanto al suo limite, ma se non l’avesse fatto… poi, improvvisamente, fu come se un peso sulle sue spalle si alleggerisse. La magia prese a scorrere con più forza, libera come un fiume in piena. Vexen guardò accanto a sé: anche Camus era in ginocchio, e aveva poggiato la mano a terra. Lo stava aiutando.
“Camus…” sussurrò lo scienziato. “… adesso!”
Con un urlo Vexen liberò in un istante tutta la magia che gli era rimasta, e grosse punte di ghiaccio emersero prepotentemente dal terreno, costellando di temibili trappole la radura di fronte alla caverna.
Gli urli e i grugniti aumentarono a dismisura, più disumani, più strazianti di prima; ombre di corpi grossi e deformi incespicavano sul ghiaccio, tentando invano di rialzarsi e precipitando rovinosamente al suolo. Iniziarono a sentirsi i primi gemiti di agonia.
“Basta così!”
Era stata una voce più profonda e autoritaria delle altre a parlare. Vexen colse lo scintillio di un’arma alla debole luce della luna, poi si udì il rumore di qualcosa che va in frantumi, e piccole schegge di ghiaccio volarono da tutte le parti, atterrando anche sul viso dei due scienziati.
Vexen chiamò di nuovo la magia per evocare le colonne che erano state distrutte, ma neanche l’aiuto di Camus bastò stavolta: ormai era esausto. Il suo respiro si fece pesante, la testa cominciava a girargli.
In quel momento la creatura misteriosa, a dispetto della sua mole immensa, saltò. Atterrò a pochi passi da loro, e a Vexen sembrò che la mano di un gigante avesse scosso la terra.
Era terribile a vedersi. Sembrava un coccodrillo su due gambe… ma era molto, molto più grande, imponente e massiccio. Brandiva un’ascia gigantesca e le sue fauci scintillavano alla luce della luna. Vexen sentì che anche le sue ultime forze venivano meno.
Poi il coccodrillo sollevò l’ascia, e tutto il mondo sprofondò nel buio.


Si risvegliò faccia a faccia con una superficie liscia, fredda e bianca. Un pavimento di marmo… il Castello dell’Oblio?! Evidentemente stava ancora sognando….
No, il dolore alla testa era troppo reale. Le tempie gli pulsavano dolorosamente, tanti colpi di martello che si abbattevano senza pietà sui suoi neuroni straziati. Cercò di alzarsi in piedi, ma tutto ciò che gli riuscì fu di mettersi in ginocchio, le mani poggiate a terra per non cadere di nuovo.
La scena che si presentò allora ai suoi occhi era più incredibile e assurda di tutte le leggende sulla Foresta Nera messe insieme.
Si trovava in quella che sembrava la sala del trono di un palazzo, ma il trono, posto proprio di fronte a lui su una piattaforma rialzata, era vuoto. La sala era arredata e decorata con grande semplicità; la si sarebbe definire persino spartana, ma ogni cosa, dalle colonne massicce che sostenevano la volta al trono stesso, di semplice mogano nero, emanava un’inquietante aura di autorità e potenza. Dalla lunga fila di finestre sulla parete di destra si scorgeva solo una distesa infinita di cielo e nuvole, così che era impossibile capire dove si trovassero.
Più che l’ambiente però, a mozzare il fiato a Vexen fu la vista delle persone che vi si trovavano. Camus era accanto a lui, seduto sul pavimento, e si guardava intorno confuso e spaventato. Quello in piedi dietro il trono, con in mano l’ascia gigante, non poteva che essere il coccodrillone che li aveva catturati; c’era da dire però che alla luce del giorno sembrava molto meno inquietante, soprattutto perché le sue scaglie si rivelarono essere di un insolito e quanto mai buffo colore rosa. Il suo corpo era protetto da un’armatura a piastre che gli conferiva l’aspetto di un grosso carro armato.
Alla sua sinistra, invece, c’erano diverse…. creature. Alcune di esse erano umanoidi, e avevano lunghe orecchie a punta e i volti di un pallore mortale. Li riconobbe all’istante, e un brivido gelido gli passò lungo la schiena: demoni. Altre creature avevano tratti animaleschi o mostruosi; tre di esse, dotate di lunghi e squamosi tentacoli, tenevano immobilizzati con essi tre malridotti prigionieri umani.
“Ciao, Vexy!”
“V-voi!” lo scienziato rischiò di cadere all’indietro per lo spavento.
Larxen si agitava nel chiaro tentativo di avvicinarsi a lui, ma la creatura tentacolosa la teneva ben stretta, bloccandole sia le braccia che le gambe. Era l’unica nota positiva di quella giornata iniziata male e che prometteva di finire ancora peggio.
Vexen non credeva ai suoi occhi. “Che c’è, pensavi di averci fatto fuori?” A dispetto della situazione il consueto buon umore di Larxen non era intaccato di una virgola. Accanto a lei Axel e Marluxia non sembravano però condividere il suo ottimismo, e si scambiavano di tanto in tanto sguardi preoccupati. Tutti e tre erano sporchi e avevano i vestiti strappati in più punti, e Axel sfoggiava un superbo livido violaceo sotto l’occhio sinistro.
“Credevi davvero di liberarti di me così facilmente?” il sorriso di Larxen era quasi tenero, e questo significava pericolo imminente. Siano lodate le creature tentacolose, pensò Vexen, ma era così sorpreso e sconvolto da non poter ancora spiccicare parola. Non sapeva di cosa dovesse avere più paura, se di quel luogo misterioso e dei suoi demoniaci abitanti oppure della Ninfa Selvaggia che da un momento all’altro poteva liberarsi e….
Solo dopo vari confusi balbettii riuscì finalmente a formulare una frase di senso compiuto. Una domanda, per l’esattezza.
“E Zexion?”
Larxen scoppiò a ridere. Una risata acuta e penetrante che si innalzò cristallina tra le volte della grande sala e fece voltare tutti nella sua direzione, mentre sui pallidi volti dei demoni si disegnavano smorfie di disapprovazione e disgusto. La creatura tentacolosa strinse ancora di più i polsi e le caviglie di Larxen, ma la risata della ragazza era incontenibile, un fiume in piena che non si arrestava mai. Alla fine aveva il fiatone, fu costretta a fermarsi per respirare; boccheggiava, con le lacrime agli occhi.
Trafisse Vexen con uno sguardo crudele e finalmente rispose, lapidaria:
“E’ morto. Esploso con il Castello!”.
Vexen chinò il capo, e non disse nulla. Larxen riprese a ridere.
“SILENZIO!”
Il grido del coccodrillone fece sobbalzare tutti i prigionieri umani, stroncando persino la risata della Ninfa Selvaggia.
Ora da dietro il trono proveniva un brusio di voci e di passi, attutito dai pesanti tendaggi che separavano la grande sala da un altro ambiente che si trovava evidentemente al di là.
“In ginocchio, umani!” tuonò di nuovo il coccodrillo. “State per ricevere l’immeritato onore di trovarvi alla presenza del signore della famiglia demoniaca e di questo intero mondo, il Grande Satana Baan!”
Camus era riuscito a rimettersi in piedi, ma fu subito circondato da demoni armati di lance che lo obbligarono a inginocchiarsi; anche Axel, Larxen e Marluxia non ebbero scelta, forzati dai tentacoli che li imprigionavano. Vexen non si era mosso.
Come un sol uomo anche tutti i membri della famiglia demoniaca piegarono il ginocchio, rivolti verso il trono in rispettosa attesa.
“Siamo nella merda.” bisbigliò Axel, ma non abbastanza piano da non farsi udire dal suo carceriere e da non beccarsi un violento colpo di tentacolo in piena faccia. Il suo urlo di dolore venne soffocato da quello stesso tentacolo, che si avvolse attorno alla sua bocca stringendo senza pietà.
Ora solo i suoi gemiti soffocati disturbavano l’assoluto silenzio della grande sala; persino i brusii dietro il trono erano cessati.
E infine la tenda si sollevò.
Vexen aveva gli occhi fissi sul pavimento, e dapprima sentì soltanto un confuso rumore di passi, passi di parecchie persone. Voci di demoni che salutavano con rispetto, fruscii di vesti o mantelli – tutti suoni che gli parevano distorti e lontani, come se lui si trovasse all’interno di una bolla d’acqua. Non era sicuro di voler alzare la testa, oltrepassare la bolla e vedere cosa stava succedendo… non credeva di averne la forza.
“E così voi siete quelli che hanno condizionato Mistobaan.”
Una voce autoritaria, vibrante di sdegno. Una voce… no, non anziana… antica era la definizione più corretta. Antica, ma carica di una tale forza che Vexen fu strappato via dai suoi cupi pensieri, mentre i suoi occhi, come catturati da una calamita, si sollevarono per vedere chi aveva parlato.
Il volto che si ritrovò di fronte era lo specchio perfetto di quella voce. Antico e impassibile, come scolpito nel marmo bianco, con due intensi occhi scuri che lo trafissero da parte a parte colmi di tutto il disprezzo del mondo. Un disprezzo che, Vexen in qualche modo lo percepiva, andava ben oltre i limiti dell’umano; un sentimento che loro piccoli mortali non potevano neanche azzardarsi a capire, perché esisteva da molto prima di loro. Doveva essere quella l’“ira degli dèi” di cui a volte parlava Camus…
L’anziano demone lo scrutava dall’alto in basso, seduto sul trono; era furente, ma non sembrava aver fretta di incalzare la sua preda umana, limitandosi per il momento a studiarla con attenzione, come se avesse avuto tutto il tempo del mondo; e probabilmente lo aveva davvero. Indossava un’ampia veste sontuosa e il suo volto era incorniciato da lunghi capelli grigi e da una corta barba. Ogni cosa in lui, dal portamento fiero allo sguardo implacabile, emanava un’incredibile aura di regalità.
“Tre anni fa il generale Mistobaan si è infiltrato per mio ordine nel vostro Castello dell’Oblio, e non è più ritornato.” disse infine il Grande Satana Baan, rivolto a Vexen e Camus. Lo scienziato ebbe la sgradevolissima sensazione che tutti gli occhi nella grande sala fossero puntati su di lui.
“Ora i vostri complici” e il GSB accennò col capo in direzione di Axel e gli altri “mi hanno detto che voi membri dell’Organizzazione avete… modificato la memoria di Mistobaan. In uno scatto di ammirevole lealtà e spirito di sacrificio verso i loro compagni, questi tre hanno indicato te come unico responsabile.” lo sguardo del Grande Satana Baan, ora carico di sprezzante ironia, si spostò di nuovo su Vexen. “Hanno detto che sei l’unico che sa fare una cosa del genere, e sono stati così gentili da indicarmi dove trovarti. Cos’hai da dire a riguardo? Cosa avete fatto a Mistobaan?”
Si vedeva lontano un miglio che la collera del signore dei demoni stava per esplodere. E che cosa avrebbe dovuto rispondere lui? Che era stata la famiglia demoniaca a iniziare, mandando Mistobaan a ficcare il naso nel loro Castello? Che cosa avrebbero dovuto fare, farsi ammazzare da quell’essere abominevole invece che cercare di combatterlo con le armi a loro disposizione? Chiaramente non era la risposta giusta… ma esiste una risposta giusta quando l’ira di un demone millenario incavolato col genere umano incombe su di te?!
“Noi…noi ci siamo solo difesi…” tentò infine Camus, con una vocina ancora più flebile del solito. Al demone bastò sollevare mezzo sopracciglio per ridurlo al silenzio. Continuava a guardare Vexen come un predatore in attesa.
Chissà perché ma mentire gli sembrava una soluzione tremendamente sbagliata.
Era con le spalle al muro…e quindi disse la verità. Tremando e balbettando, schiacciato dallo sguardo inquisitore del demone, Vexen disse la verità.
Cos’altro avrebbe potuto fare? Anche se avesse tralasciato delle parti, quei bastardi di Marluxia e gli altri volevano vederlo morto, e avrebbero testimoniato contro di lui.
“Così mi stai dicendo…” la calma velata di minaccia nella voce del GSB era terribilmente inquietante. Per tutta la durata del racconto di Vexen non aveva battuto ciglio, ma nei suoi occhi ardeva uno sdegno senza confini. “…mi stai dicendo che Mistobaan ora o è saltato in aria a causa di un non so che strano esplosivo impiantato nel suo corpo, oppure è vivo al servizio del sovrano di un altro mondo a cui è fermamente convinto di aver giurato fedeltà?”
“S-sì…”
“Il tuo racconto coincide con quello dei tuoi compagni. Ma vedi, scienziato, c’è una cosa che non mi convince affatto in tutto questo. Posso arrivare a comprendere la storia degli esplosivi, un simpatico trucchetto degno di voi umani. Ma il condizionamento… perché non obbligare Mistobaan a servire voi? Questo è molto strano, e nessuno dei tuoi amici mi ha saputo dare una risposta soddisfacente.”
La risposta di Vexen fu poco più che un sussurro, ma nel silenzio che avvolgeva la sala tutti la udirono come se fosse stata gridata attraverso un megafono.
“Era… era un esperimento…”
Una nube troppo nera e minacciosa non può resistere in eterno: prima o poi esplode, riversa sul mondo tutta la terribile furia del suo temporale. Il GSB si alzò dal trono. Divorò in due falcate lo spazio che lo separava da Vexen, e lo scienziato si ritrovò a strisciare sul pavimento in preda al terrore nel tentativo di sottrarsi alla sua furia. L’aura magica del GSB era così spaventosamente potente che persino un mago da tre soldi come lui poteva percepirla: era come una mano artigliata che gli serrava la gola, lo schiacciava a terra lasciandolo senza fiato.
“UN ESPERIMENTO?! Voi avete costretto Mistobaan a rinnegare tutti i suoi principi più sacri…PER UN ESPERIMENTO?! Non vi siete limitati a difendervi… lo avete USATO! Per voi non era altro che un gioco, un passatempo! Oh, chissà quanto ve ne sarete compiaciuti! Miserabili, sudici, sporchi vermi UMANI!!”
Vexen era arrivato a rannicchiarsi contro il muro, assolutamente impietrito dal terrore. Il Grande Satana torreggiava su di lui, la personificazione vivente dell’ira divina.
“Dimmi, scienziato, sei soddisfatto della tua opera? Ne vai fiero? Immagino per te sia motivo d’orgoglio. Voi umani siete sempre felici quando riuscite a distruggere qualcosa.”
Vexen non lo ascoltava nemmeno. Sperava solo che tutto finisse presto, e che il GSB non fosse un maniaco delle torture come Larxen. Un colpo secco, e non si sarebbe nemmeno più dovuto preoccupare di invecchiare….
Ma il colpo non arrivò mai. Senza neanche aspettarsi una risposta il demone anziano gli voltò bruscamente le spalle e tornò al centro della sala. Forse lo considerava così infimo da non valere nemmeno lo sforzo di eliminarlo di persona… purché facessero in fretta, dannazione!
I demoni però sembravano avere una concezione del tempo tutta loro. Vexen notò che dall’inizio dell’interrogatorio erano rimasti tutti immobili, una selva di statue identiche, con il ginocchio piegato e il capo chino di fronte al loro sovrano. Nessuno aveva parlato o anche solo causato il minimo rumore. Ed era passato… quanto? Non poco, sicuramente…. Notò anche che nel frattempo Camus era stato catturato da una creatura tentacolosa, da cui cercava invano di liberarsi.
Fu proprio a lui che ora si rivolse il Grande Satana. “Tu sei un sacerdote delle Dodici Case.”
“Prima di ogni altra cosa sono il leale servitore di padron Vexen.”
“Lealtà.” la voce del sovrano vibrava di disprezzo. “In bocca a voi umani questa parola è un insulto. L’armatura che indossi parla per te, sacerdote. E questo significa una sola cosa: avete infranto il patto.”
“Patto?! Quale patto?”
“Vedo che la vostra memoria è ancora più corta della vostra misera vita. Avevate giurato di cessare per sempre la vostra predicazione. Di non uscire più dai confini del Tempio. Ed eccola, eccola qui la vostra ‘lealtà’!”
“Ma… ma non è vero! Noi non….”
“Non è vero?! NON E’ VERO?!?”. Camus tacque immediatamente, terrorizzato. “Che ingenuo sono stato a credere di poter trattare con creature per cui i patti non sono altro che pezzi di carta! Ecco cosa succede quando uno prova a esser generoso con voi: siete cani rognosi che mordono la mano che li nutre, salvo poi venire a uggiolare con la coda le zampe e le orecchie basse non appena vedete l’ombra del bastone! Ebbene, ora il bastone calerà: farò radere al suolo il vostro Tempio fino all’ultima pietra, così imparerete cosa significa sfidare la famiglia demoniaca!”
“NO! Grande Satana, non può farlo! La prego, non…”
“SILENZIO!”. Camus fece la stessa fine di Axel, le sue urla soffocate dall’ennesimo spietato tentacolo. Vexen vide il suo assistente dibattersi disperatamente, piangendo e contorcendosi fino a farsi male, ma non poteva nulla contro la forza sovrumana di quella creatura nata dalla magia.
“Generale Hyunkel!”
Da dietro il trono si udì un rumore di passi metallici, e un giovane in armatura completa si presentò sull’attenti al cospetto del Grande Satana.
“Levami dalla vista questi parassiti. Portali in prigione e organizza delle esecuzioni pubbliche: serviranno d’esempio per i traditori come loro”
“Ma… Grande Satana!” protestò Marluxia, che fino ad allora era rimasto in silenzio “Le abbiamo detto tutto, le abbiamo rivelato il nascondiglio di Vexen!”
“Mmmm, mmm! MMM!” dalla sua scomoda posizione anche Axel cercava di sostenere le argomentazioni del compagno come meglio poteva.
“Abbiamo collaborato! Abbiamo fatto tutto quello che…”
“Non ho alcun rispetto per chi vende i propri compagni per salvarsi la pelle.” disse il GSB con durezza. Intanto nella sala avevano fatto il loro ingresso dei guerrieri non-morti: veri e propri scheletri animati che indossavano pezzi di armatura e portavano spade, elmi e lance. Ad un cenno del generale Hyunkel le creature tentacolose lasciarono andare i prigionieri e gli scheletri li presero in consegna, spingendoli senza troppe cerimonie verso l’uscita. Due di loro sollevarono Vexen per le braccia, e lui si lasciò trascinare senza opporre resistenza.
“Generale Hyunkel, un’ultima cosa. Lo scienziato per il momento potrebbe servirci vivo: fino a nuovo ordine voglio che sia tenuto in prigione e trattato in modo dignitoso. Gli altri invece….”
“Grande Satana, la prego, aspetti un momento!”.
In un primo momento Vexen non riuscì a capire da dove arrivava quella vocetta stridula; anche gli scheletri che lo portavano si fermarono un momento, passando in rassegna l’ambiente con le loro orbite vuote e scure dentro cui brillava il fuoco azzurro della magia.
“Avrei una richiesta da sottoporle”. La voce proveniva dal pavimento. Vexen guardò in basso, e vide la creatura più piccola e strana su cui gli fosse mai capitato di posare gli occhi. Sembrava un improbabile incrocio tra un demone e uno gnomo….
“Cosa c’è Zaboera?”
“Grande Satana, questi umani potrebbero essere delle ottime cavie per i miei progetti sui corpi biologici stregoneschi. Se potessi usarne anche solo uno….”
“Ti servono veramente? Tanto varrebbe usare delle zecche o dei parassiti a questo punto..”
“Mio signore, i maghi elementali sono rarissimi… forse questa è un’occasione unica. La supplico, Grande Satana. E’ molto importante per la mia ricerca”.
“E va bene.” disse il GSB dopo una breve pausa. “Ti concedo di sceglierne due che non siano lo scienziato.”
Il piccolo demone si profuse in mille inchini e ringraziamenti, poi passò a domandare ai membri dell’Organizzazione quale fosse il loro elemento. Alla parola “fiori” rischiò quasi di cappottarsi su se stesso per un attacco improvviso di risate (contagiando anche il coccodrillo rosa e il generale Hyunkel; il GSB alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla), e alla fine, tra un singhiozzo e l’altro, dichiarò che avrebbe preso Axel e Larxen. Gli scheletri condussero le due cavie al laboratorio dell’Arcivescovo Stregone, mentre Camus, Vexen e Marluxia venivano scortati verso le prigioni da Hyunkel in persona. Vexen si ritrovò a passare accanto al giovane generale, e guardandolo di sfuggita notò un particolare che lo fece restare a bocca aperta: le sue orecchie non erano lunghe e appuntite come quelle dei demoni. Erano normali, comunissime orecchie umane.
Hyunkel dovette accorgersi che lo scienziato lo stava fissando, perché gli diede una spinta che per poco non lo fece cadere a faccia in avanti.
“Cammina!”
“Perché?” anche Camus se n’era accorto, e i suoi grandi occhi azzurri erano sgranati per lo stupore. “Perché fai questo?”
Hyunkel si limitò a fissarli con uno sguardo severo e assolutamente privo di qualsiasi pietà:
“Perché io non sono come voi”.
Cosa questo significasse i tre prigionieri non lo seppero mai, perché proprio in quel momento la porta della cella si chiuse alle loro spalle con un pesante clangore metallico.


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Nota: i versi citati da Camus appartengono a una poesia di Friedrich Hölderlin che da' anche il titolo a questo capitolo :)

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Tre giorni ***


Capitolo 3 - Tre giorni


Dohko

Dohko




“Quanto manca?”
“Sarà la milionesima volta che me lo chiedi, Auron. Il Tempio è oltre quelle colline laggiù, ci vorrà ancora un giorno e mezzo circa di cammino.”
Auron sbuffò d’impazienza, allungando il passo per tenere dietro all’esuberanza di Mu. Andare al Tempio delle Dodici Case era stata un’idea dell’amico, naturalmente. Erano anni che il sacerdote non aveva notizie dei suoi ex compagni, e anche se all’epoca non si erano separati nel migliore dei modi era impaziente di rivederli. Gli mancavano molto, aveva confessato ad Auron, che alla fine si era offerto di accompagnarlo. Non amava i preti, ma sempre meglio che lasciare il piccolo e indifeso Mu a girovagare da solo per strade infestate da Occhi di Zaboera e altre creature della famiglia demoniaca.
“Pensi che ti accoglieranno bene?” domandò il mercenario, sferrando un calcio all’ennesimo ciottolo sul sentiero polveroso. Erano appena usciti da un boschetto e adesso di fronte ai loro occhi si estendeva una morbida distesa verde, interrotta soltanto qualche chilometro più a nord da un gruppo di colline dai fianchi ricoperti di alberi. La strada che stavano seguendo portava proprio in quella direzione.
“Ne sono sicuro. Dopotutto non abbiamo litigato… beh, non proprio, almeno. Ma penso che anche a Shaka farà piacere rivedermi”.
“Basta che stai attento a non farti sfuggire troppe cose con lui…”
“Lo so, Auron, lo so. Non c’è bisogno che tu me lo dica”.
“Non si sa mai. Le nostre spie dicono che hanno patteggiato con il GSB”.
“Lo hanno fatto per poter restare in pace. Non ci tradirebbero mai, lo so.”
“Beh, sempre meglio tenere la bocca chiusa e basta! Inventa la scusa che vuoi, ma evita di dire che abbiamo passato tre anni con la resistenza, grazie!”
La resistenza. La loro nuova famiglia, la nuova, pericolosa missione in cui avevano scelto di imbarcarsi. A dire la verità Mu ne faceva parte da molto più tempo di lui: da prima di venire rapito dai membri dell’Organizzazione e portato al Castello dell’Oblio. Era stato proprio il sacerdote a presentare Auron alla principessa Leona e agli altri, garantendo che sarebbe stato un ottimo alleato nella lotta contro i demoni. Auron non avrebbe mai e poi mai immaginato che un mercenario come lui sarebbe finito a impiegare la sua spada in nome della nobile causa della libertà, ma era davvero grato alla resistenza: gli aveva dato uno scopo, qualcosa in cui credere. Aveva dato alla sua vita una nuova direzione dopo che le sue speranze di costruirsi un futuro con la donna che amava erano saltate in aria insieme al Castello dell’Oblio.
Zachar.
Non l’aveva mai dimenticata. Si diceva che il tempo guarisse le ferite d’amore e sbiadisse i ricordi, ma… beh, per quel che lo riguardava erano tutte cazzate. Chi lo pensava probabilmente non era mai stato innamorato in vita sua; non sul serio, almeno. Ogni volta che chiudeva gli occhi prima di dormire vedeva il volto di lei vivido come se fosse stato impresso a fuoco dietro le sue palpebre. Vedeva il suo sorriso, dolce e malinconico come allora. Aveva provato ad annegare quei ricordi nell’abbraccio di altre donne, a stordirsi tra i loro baci e le loro carezze. Era servito solo a farlo stare ancora peggio, e a far piangere un paio di ragazze della resistenza che credevano di aver trovato nel misterioso guerriero vestito di rosso l’uomo della loro vita.
Fortuna che c’erano i combattimenti contro i demoni a tenere la sua mente occupata. E gli amici. Ne aveva trovati di ottimi nella resistenza, ma sopra ogni altro c’era l’insostituibile Mu. Anche lui aveva i suoi rimpianti: non era mai riuscito a perdonarsi di aver abbandonato Camus nelle mani di Vexen, anche se non era stata colpa sua.
“Secondo te come sta ora?” Mu gli aveva letto nel pensiero. Gli aveva fatto quella domanda centinaia di volte. Non aveva mai abbandonato la speranza di ritrovare Camus un giorno, e liberarlo finalmente dal condizionamento.
Auron scosse la testa, incapace di rassicurare l'amico, e rispose con una nuova domanda: “Ti sei mai chiesto perché i membri dell'Organizzazione hanno scelto proprio noi, tre anni fa? Perché proprio io, te e Camus? Cosa avevamo di speciale?”
“Io credo nulla, Auron.” la voce di Mu si era fatta improvvisamente più dura e tagliente. “Ci hanno presi a caso. Volevano solo degli schiavi e delle cavie per i loro esperimenti, tutto qui. E adesso Camus è ancora nelle loro mani. E noi non siamo riusciti a fare niente.”
Era un discorso che avevano già affrontato. “Mu, sai anche tu che...”
“Sì Auron, lo so, lo so.” sospirò. “Shaka e gli altri saranno preoccupatissimi per lui. Non credo che sappiano del mio rapimento, perché all'epoca ero già con la resistenza, ma Camus è stato preso dall'Organizzazione mentre era al Tempio. Il minimo che posso fare è spiegare loro cosa gli è successo.”
“Chissà, forse potrebbero aiutarci a cercarlo.” disse Auron, più per consolare l'amico che perché lo pensasse veramente. Se davvero i sacerdoti delle Dodici Case erano scesi a patti con i dominatori demoni allora non dovevano avere troppa libertà di azione.
Guardò verso le colline che si avvicinavano sempre di più, colto all'improvviso da un presentimento oscuro e inquietante. Scosse la testa, ansioso di scacciare quel pensiero.
Sarebbe andato tutto bene, e con un po' di fortuna i preti non lo avrebbero neanche ammorbato troppo con i loro sermoni.


Non erano passi felici quelli che guidavano il Gran Sacerdote verso la Sesta Casa. In verità non lo erano ormai da diversi anni, perché ad ogni gradino le sue ossa gli ricordavano i decenni che dovevano sostenere ed il bastone scricchiolava al vento. Ma quello che più gli doleva era la lettera appena giunta per bocca di una viverna, che lo aveva costretto a scendere di corsa la scala tortuosa del Tempio delle Dodici Case sotto lo sguardo preoccupato di Aphrodite e Shura.
La pace che regnava nella Casa della Vergine era innegabile. Il suo custode accendeva grani di incenso ogni giorno, ed i petali di loto degli albero gemelli del suo giardino vorticavano nell’aria; il vecchio maestro si era attardato più volte in quel luogo sacro per trovare un po’ di requie dalle tante preoccupazioni, ma non era lì per quello.
L’uomo (o il ragazzo, non era mai riuscito a definirlo) era nel giardino. Interruppe subito la meditazione, ed abbandonò la posa del fiore di loto per prostrarsi davanti a lui “Maestro Dohko, immagino che non sia una visita di cortesia quella che concede alla mia umile Casa”.
“Lascerei le cortesie ad un giorno più lieto, Shaka”.
“Ogni giorno è lieto, perché gli dèi ci consentono di viverlo”.
“Hai ragione, ed è bene che anche io me ne ricordi sempre”.
Non mi ero sbagliato. Il mio confratello è molto saggio nonostante la sua giovane età.
Shaka fece scivolare una mano nell’erba bagnata e strinse con forza il suo rosario “Ho percepito delle ombre addensarsi verso il nostro Santuario, maestro”.
“Come al solito i tuoi sensi sono migliori dei nostri, Shaka. Il Grande Satana Baan ci ha inviato un messaggio. E’ convinto che abbiamo infranto il patto, sostiene di aver trovato in libertà uno dei nostri sacerdoti e di averlo preso prigioniero”.
“Camus?”
“Non saprei. Non ho mai smesso di farlo cercare, sai? Sono più di tre anni che manca dal Santuario e non siamo venuti a capo di nulla. Stava preparando per me uno dei suoi infusi e poi …” chiuse gli occhi, cercando di fermare nella mente l’immagine del sacerdote svanito prima che gli anni sbiadissero i suoi capelli azzurri ed il sorriso paziente. Era svanito nel nulla proprio tra le loro mura benedette, e per quanto avessero cercato in lungo ed il largo né lui né l’armatura erano stati ritrovati
“ … Non ho ancora il coraggio di recitare per lui l’ultimo saluto, ma più di un nostro confratello ha chiesto di assegnare a qualcuno di nuovo la sacralità dell’Undicesima Casa”.
E se non era il sacerdote dell’Acquario ad essere stato catturato …
“Mu, allora?”
“E’ più probabile. Si è unito alla resistenza anni fa e non abbiamo più avuto sue notizie”.
Più di un segno di preoccupazione attraversò il suo giovane viso anche se le sue palpebre rimasero abbassate, lasciando trasparire solo un fremito nelle sopracciglia bionde. Il suo confratello non apriva gli occhi da tantissimi anni, votando ogni sua concentrazione ed ogni pensiero al raggiungimento dell’ascesi. Non lo fece nemmeno in quel momento, ma l’anziano Dohko sapeva cosa stava attraversando la sua mente; Mu era stato l’unico amico sincero di Shaka sin dalla primissima infanzia, uno dei pochi a rimanere al suo fianco nelle meditazioni infinite e nella stesura di nuovi salmi. Il pensiero che potesse essere in pericolo turbava la sua meditazione.
Per quanto Mu fosse ancora il Custode della prima Casa erano anni che non giungeva al tempio nemmeno nelle solennità, e più di un cavaliere aveva contestato la scelta del Gran Sacerdote di non confiscare la sua armatura. Mu aveva deciso di servire la causa degli dèi a modo suo, al fianco dei ribelli contro la tirannia del Grande Satana, mentre loro … beh, avevano promesso al signore dei demoni che non avrebbero esteso le loro predicazioni al di fuori del Tempio o sarebbero stati schiacciati. Saga dei Gemelli aveva più volte protestato, perché appariva come un inevitabile atto di codardia da parte loro.
“Maestro … io credo che Mu in parte fosse nel giusto”.
Il giovane sacerdote interruppe i suoi pensieri, come se avesse indovinato i dubbi che gli rodevano l’anima “Sono mesi che vi rifletto, e l’idea scuote la parte di me che anela alla trascendenza. Gli dèi ci hanno offerto una mente per ragionare e per vagare al di là delle mere forme materiali, come un battito di ali di gabbiano che sale dal mare e giunge a contemplare il cielo”. Dohko si sedette, ascoltandolo. Shaka era sempre stato illuminato da visioni divine, la sua anima era sempre un filo diretto con gli dèi; era sempre stato così, sin da quando avevano trovato quel bambino di tre anni che poteva discutere di teologia con lui e Sion “Ma se avessero voluto dotarci di solo pensiero, ci avrebbero dato ben altra forma. Ci hanno offerto una bocca per parlare …”
Narratore: Sì, Shaka, ma tu stai abusando ampiamente di questo regalo! Registe, che scatole, è comparso ora e già non si regge, vi prego, sbrigatevi a cambiare scena!
“… per cantare salmi e ringraziarLi. Ma la bocca esiste anche per diffondere il Loro volere, così come le mani e le braccia ci consentono di portare a compimento le Loro volontà. Maestro, per arrivare al Nirvana le parole sono importanti quanto le preghiere”.
“Vi hai pensato molto, fratello mio”.
L’altro si lasciò scivolare un sospiro. Dohko si sentiva stanco e perso, proprio come un Gran Sacerdote non poteva permettersi di essere in un momento simile. Aveva sbagliato ad accettare quel patto ed a piegare la testa, adesso la consapevolezza gli bruciava ancora di più nel petto; aveva preferito fuggire e portare in salvo i valori del loro credo, aiutando coloro che venivano a supplicare in cerca di aiuto. Prima dell’avvento del Grande Satana la loro parola era stata legge, e da quando avevano chinato il capo il loro intero mondo aveva fatto lo stesso. Sapeva di alcuni popolani che erano giunti persino ad eleggere il capo dei demoni come l’unico dio … “Ho sbagliato tutto, Shaka”.
“Maestro, è stata una decisione soltanto …”
“No. Sono stato cieco, e solo adesso che ho in mano questa lettera mi rendo conto del mio errore. Ho permesso al Grande Satana di rinchiudere non solo noi, ma ciò in cui crediamo in queste quattro mura e gli ho lasciato le vite e le anime dei nostri fedeli”.
“Siamo solo un pugno di sacerdoti, maestro. Lei ha fatto di tutto per preservare la nostra incolumità”.
Incolumità … questa parola perdeva ogni significato davanti alla minaccia del Grande Satana. Nessuno sarebbe rimasto incolume nell’arco dei prossimi giorni “Shaka, ancora una volta le tue parole mi hanno riportato sulla retta via. A cosa serve la nostra vita se non operiamo secondo la volontà degli dèi?”. Quello sfacelo era una sua responsabilità. Era il Gran Sacerdote, l’uomo che un tempo aveva in mano il destino degli abitanti di tutte le città libere, la sua parola era stata legge e si era lasciato imbavagliare come uno stolto.
“Dobbiamo rimediare a questo madornale errore, io per primo. E mi scuso sin da ora con te per aver trascinato tutti quanti voi. Il Grande Satana ci ha dato un preavviso di tre giorni”.
“Troppo pochi per organizzare una qualsiasi difesa”.
“Ma non per mettere in salvo gli accoliti più giovani, i testi sacri e ciò che deve essere preservato. Noi andremo incontro al nostro destino ed il Nirvana sarà la nostra ricompensa”.
Un ultimo, grande gesto per la gente che aveva creduto in loro.
Per coloro che avevano tradito.
L’altro si alzò, e con un gesto stanco mise nuovi grani d’incenso nel braciere. Il loro profumo si sparse per quel luogo sacro, ed il vecchio sacerdote sentì il cuore in pace, come liberato da una catena che lo aveva strangolato giorno dopo giorno, accompagnandolo nella sua vecchiaia senza pace. Il bagliore delle braci si riflesse sull’armatura d’oro del suo compagno, e da lì si dispersero sull’erba e lungo le pareti della Sesta Casa; il crepitare del carbone sembrava un inno di pace.
Gli dèi approvavano la sua decisione, ora ne era certo.


Non è facile impressionare un demone che ha vissuto più di tremila anni e assistito a tutti gli sconvolgimenti e i cataclismi del suo mondo. Ci vuole qualcosa di grande, di inaudito, di irripetibile. Eppure quel giorno a impressionare il Grande Satana bastò un piccolo oggetto dall’aria nemmeno particolarmente minacciosa. Zaboera aveva passato una giornata intera nel suo piccolo laboratorio, sommergendo gli oggetti che avevano trovato addosso ai Membri dell’Organizzazione dei più potenti incantesimi di divinazione che conosceva. E quando la risposta era giunta non aveva tardato a riferirlo al suo sovrano, che nell’ultima luce del pomeriggio stringeva tra le mani, immobile e pensoso sul trono, la fonte di tanta agitazione.
Un semplice scettro di legno nero, così rozzo che qualsiasi re umano si sarebbe sentito offeso ad impugnarlo come simbolo di potere. Ma gli umani, nella loro avidità senza confini, non sapevano guardare al di là della superficie delle cose, e trascuravano ciò che era veramente prezioso in favore di cose più appariscenti, di ciò che “brilla”. Erano come insetti attirati dalla luce, Zaboera ne era convinto pur rispettando il loro ingegno e la scienza che li animava.
I tre uomini che avevano catturato non avevano compreso il potere di quegli oggetti magici, non si erano nemmeno sforzati di mettere a frutto il loro minuscolo cervello per districare l’arcano.
Quegli oggetti ora erano nelle mani del Grande Satana. Lo scettro nero, le due pietre, il puzzle, la chiave e l’occhio d’oro. Ma erano stati i primi a colpirlo.
“Incredibile. Assolutamente incredibile” aveva mormorato il demone anziano “Di certo questo oggetto non è di produzione umana”.
Zaboera conosceva molto bene i mille tentativi del Grande Satana di prolungare la sua esistenza; la famiglia demoniaca godeva di una vita pari a centinaia di quelle degli uomini, ma il sovrano aveva compiuto un enorme sacrificio per garantire la sua sopravvivenza contro ogni limite imposto dalla natura. Il piccolo demone scienziato conosceva quel fardello, e poteva comprendere l’espressione di stupore che comparve sulla fronte del suo signore; quello scettro aveva il potere di donare una vita eterna a chiunque lo toccasse, un piccolo oggetto di legno in grado di vanificare sforzi durati migliaia di anni. “Concordo con lei, Grande Satana. E la ringrazio di aver condiviso con noi generali questo enorme potere”.
“Siete coloro in cui ho riposto la mia fiducia, Zaboera. La vostra vita mi è cara e preziosa”.
“Nessun sovrano umano farebbe un gesto simile, mio signore”.
“E’ questo che ci distingue da loro. Non scordarlo mai”.
“Piro piro Piroro, questo non lo scorderemo Killvearn! Mai, mai e poi mai!”.
A Zaboera non servì sollevare la testa per capire chi fossero i nuovi arrivati; il passo di Killvearn era lento, misurato, aveva imparato a riconoscerlo fin troppo bene nel corso degli ultimi anni. E se non erano gli stivali neri, era la piccola creatura sulla sua spalla ad avvisare l’arrivo del suo signore con una vocina chioccia ed insopportabile. Avrebbe dato uno dei suoi cuori per immobilizzarlo su un tavolino operatorio adeguato. “Ovviamente, Piroro” fece l’essere vestito di nero, inchinandosi davanti al trono del Grande Satana “Mi ha chiamato, mio signore?”.
Sulla sua maschera nera era dipinto un sorriso inquietante che male si intonava con la freddezza della sua voce; Killvearn era in mezzo a loro da centinaia di anni, e per tutto quel periodo cosa passasse per la sua mente era stato un enigma. Il suo modo di roteare la falce persino da inginocchiato gli faceva venire il voltastomaco ed anche una sincera paura.
Narratore: Registe, guardate che lo avevamo descritto la scorsa serie e …
Registe: Tu narra e basta, perché di certo nessuno si ricorda di lui e non fa male rinfrescare la memoria!

Il Grande Satana si prese del tempo; dietro il suo gesto calcolato di svuotare il calice colmo limonata demoniaca vi erano decine di pensieri e riflessioni. Che Killvearn attendesse pure. Non gli sfuggì lo sguardo che lanciava in continuazione verso la finestra.
“Credo che Zaboera abbia scoperto qualcosa che possa interessare anche te”
“Il demone-nano, Killvearn? Oh, Killvearn non si fida di quello che dice un generale fallito, vero Killvearn? Piro Piroro!”
“Piroro, non sta bene parlare così al cospetto di sua maestà!”
“Ma lo dici sempre anche tu, Killvearn! E Killvearn ha sempre ragione!”
Zaboera non aveva mai avuto l’opportunità di fulminare i nemici con il suo sguardo, men che mai di spaventarli con i suoi incantesimi o con la semplice potenza fisica; ma in quel momento il suo unico desiderio sarebbe stato scaricare una tempesta di fulmini sull’individuo armato di falce ed il suo stupido gnomo da compagnia. Si trattenne solo perché le conseguenze non sarebbero state di suo gradimento, specie la parte in cui i suoi arti si sarebbero trovati in punti separati della stanza. Ma il tintinnio del calice sul bracciolo pose fine a qualsiasi insulto di Piroro “Non voglio sentire altro”.
Nessuno poteva contraddire il suo signore.
Killvearn lanciò un altro sguardo verso la finestra e l’ombra che si stagliava dalla colonna.
“Dai nostri prigionieri abbiamo ottenuto delle informazioni molto interessanti riguardo all’attuale posizione di Mistobaan, e non ho alcuna intenzione di sapere il mio Braccio Destro prigioniero presso un insulso imperatore umano. Gli umani erano del tutto ignari di possedere queste …”
Il sacchetto che avevano prelevato dall’umano dai capelli rossi attraversò la stanza e si poggiò sul palmo del nuovo arrivato; quando scivolarono fuori, le due pietre emanarono una flebile luce che andava tra l’azzurro ed il verde. Quando i suoi incantesimi di divinazione avevano delineato il loro potenziale aveva generato una scossa magica che aveva fatto tremare l’intero Baan Palace.
“… Sono delle pietre in grado di teletrasportare il loro proprietario. Abbiamo effettuato una prova all’interno del nostro mondo e ti assicuro che sono funzionanti, per quanto mi meraviglio che simili oggetti siano opera degli umani. Ma abbiamo scoperto un limite: non possono trasportarci in luoghi che non conosciamo o non abbiamo visitato, quindi per tutti quanti noi è impossibile raggiungere la dimensione in cui adesso è prigioniero Mistobaan”.
“Oh, adesso comprendo il motivo della sua chiamata, Grande Satana”.
“Tu sei l’unico ad aver viaggiato oltre la nostra dimensione, e ne ho parlato anche con il tuo padrone. Senza il suo aiuto non sarei riuscito a teletrasportare Mistobaan nel Castello dell’Oblio”.
Già …soppesò Zaboera …non è nemmeno uno dei nostri. Ecco perché si comporta in modo così insolente …
Killvearn (e l’odiosa aggiunta di Piroro) era frutto di un’antica alleanza del Grande Satana. Con chi, i suoi generali non erano tenuti a saperlo. Il signore dei demoni passava spesso ore davanti ad uno specchio, intento ad un complesso gioco di scacchi con questo particolare e non distinto alleato. L’unica cosa che ai generali era stato concesso di sapere era che Killvearn si sarebbe unito a loro con parità di grado, anche se la notizia non aveva allettato nessuno. L’essere con la falce era riuscito a snervare persino Hyunkel, e sapeva che Crocodyne aveva un’idea o due su come avrebbe ridotto Piroro il giorno che quell’alleanza fosse saltata.
La creatura fece scivolare il sacchetto tra le pieghe del suo abito nero “Lo consideri fatto. Ho bisogno solo di qualche Occhio di Zaboera per monitorare i numerosi pianeti di quella dimensione”
Già, adesso le mie invenzioni ti fanno comodo …
“Fai quello che credi, ma riportami Mistobaan o almeno sue notizie”.
“Lo riporterò da lei, mio signore! A qualunque costo!”
“Non fargli del male” c’era una nota minacciosa nella voce del Grande Satana. “Potrebbe essere necessario usare la forza, ma voglio che arrivi qui in buone condizioni. Tienilo bene a mente”.
“Come desidera, mio signore”.
Il loro signore lo congedò con un’occhiata, e l’emissario nero svanì in una cortina di fumo, lasciando il piccolo demone scienziato perso nei suoi pensieri. L’espressione sul volto del suo sovrano era molto più viva quel giorno, perché il fuoco che ardeva in lui migliaia di anni prima non si era mai spento, e tornava ogni volta che aveva delle missioni da assegnare. Si passò la mano nella folta barba bianca, poi si voltò verso una figura che per tutta la durata della conversazione era rimasta immobile in piedi appoggiata ad una colonna, lo sguardo perso oltre la finestra.
“Generale Baran. Conosci già la tua missione”.
“Il Choryugundan è pronto a partire al suo comando, Grande Satana”.
“Molto bene. Vai, Generale, e mostra a quegli umani traditori quanto può essere terribile l’ira della famiglia demoniaca”.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - La sinfonia della morte ***


Capitolo 4 - La sinfonia della morte


Killvearn e Piroro

Killvearn e Piroro




Non pioveva spesso a Coruscant.
Zexion appoggiò la fronte al transparacciaio del suo alloggio e fissò le gocce d’acqua che scrosciavano davanti a lui e nascondevano, seppur per pochi minuti, la vista delle migliaia di grattacieli che costellavano la Città-che-non-dormiva. Le mille luci si trasformarono in un alone confuso, avvolte dal vapore, nascondendo la frenesia e la fretta di quel mondo che non conosceva limiti ed orari, placando le migliaia di velivoli che attraversavano l’aria come tanti insetti obbedienti.
Ma nemmeno la pioggia riusciva a cancellare gli odori. Poteva chiudere gli occhi, accendere l’oloradio al massimo del volume, ma non riusciva ad allontanarli dalla sua testa. I suoi vicini stavano ancora litigando, poteva sentire le loro sensazioni anche quando avevano installato degli isolanti acustici di platino-iridio. La signora al piano di sopra era preoccupata perché suo figlio non era rientrato dal collegio ed i due nuovi sposi … beh, non ci voleva il suo olfatto per quello.
Basta.
Al secondo rombo di tuono si allontanò dalla finestra e si preparò un infuso bollente, facendo scivolare quegli insipidi grani vitaminici che spacciavano per bevanda ricostituente su tutte le olovisioni della Galassia. La missione di quella mattina era stata un fiasco.
Affondò il naso nel vapore, cercando un po’ di requie da quel vortice incessante di odori nell’infuso, che aveva tanti difetti ma aveva un profumo agre ed intenso, quello che ci voleva per snebbiare almeno in parte la sua mente dai continui assalti di quella città.
La soffiata che avevano ricevuto dai colleghi in incognito sulla Terra II si era rivelata un imbroglio; avevano cercato il re Aragorn e lo stregone Gandalf per tutto il sedicesimo distretto, ed il governatore Tarkin aveva urlato nei comlink degli addetti dei servizi segreti per tutta la durata dell’operazione. Lo avevano obbligato a cercare le loro tracce come un animale da fiuto, e nonostante gli speciali isolanti che avevano realizzato per lui non era riuscito a distinguere il loro odore tra le migliaia di abitanti del quartiere pattugliato.
Quando l’ologiornale aveva inquadrato il ramingo e lo stregone in piedi sull’ex Senato di Coruscant, dall’altra parte della città, l’urlo del capo dei servizi segreti lo avevano sentito probabilmente fin su Tatooine.
Un discorso davvero convincente …per di più in universovisione! Se gli abitanti di questo pianeta non fossero così impregnati di propaganda imperiale avrebbero avuto un successo incredibile.
Si lasciò sfuggire un sorriso, il primo dall’inizio di quella giornata, al pensiero dei due leader dell’Alleanza. Avevano inneggiato alla libertà dei cittadini ed avevano denunciato persino le pratiche barbare di schiavitù che avvenivano nella periferia della galassia lontano dai cittadini perbene, e quando i velivoli di pattuglia della polizia imperiale li avevano circondati … beh, si erano lanciati dall’edificio gridando “Per l’Alleanza!”.
In realtà con il suo potere aveva percepito già da qualche minuto l’odore della Sith Mara Jade in arrivo su uno speeder ma … per fortuna il governatore Tarkin aveva tanti mezzi di persuasione, non la capacità di leggergli nella mente. Perché altrimenti vi avrebbe letto tutto il disgusto che Zexion provava per quel mondo, quelle leggi, quella gente tutta uguale che il suo olfatto era costretto a registrare giorno dopo giorno. Odiava soprattutto loro, i Signori Oscuri ed i loro infiniti battibecchi; detestava Mistobaan, da tempo nominato Braccio Destro dell’Imperatore, e l’Imperatore stesso.
Erano passati tre anni, ma non ci si era ancora abituato. Tutta la sua vita era avvenuta tra le mura del Castello dell’Oblio, con al massimo altri dodici odori di cui tenere conto e la costante presenza di magia nell’edificio; il primo giorno che aveva messo piede nella città eterna era stato investito con forza da quella tempesta di odori, e per circa due mesi non era stato operativo con grande scorno dei suoi nuovi colleghi. Nei servizi segreti esistevano molte cose, ma non la pazienza.
Sapeva che i suoi spostamenti erano controllati, ma con il tempo si era abituato anche a quello e l’Imperatore aveva perso interesse in lui, convocandolo in missione quando vi era bisogno delle sue capacità. Fiutava e trovava, trovava e fiutava.
Quelle erano le regole per sopravvivere.
Il droide delle pulizie si attivò non appena finì anche l’ultima goccia del suo infuso, e con la sua solerzia meccanica iniziò il ciclo di sterilizzazione della tazza e del cucchiaio. Accompagnato dal tamburellare della pioggia, il ragazzo fece scivolare la mano sullo sportello alla ricerca dei sonniferi, l’unica cosa che poteva isolare i suoi sensi abbastanza da permettergli di dormire. O forse di accasciarsi, quello era il verbo migliore.
Dietro la confezione bianca vide l’ampolla che non aveva mai gettato, anche se in alcuni momenti aveva resistito alla tentazione di infrangerla contro la parete e di gridare come un forsennato; la portò sotto la flebile luce al neon proprio come faceva ogni sera, lasciando che scivolasse lungo il suo guanto nero. Quelle gocce di veleno risvegliavano in lui una rabbia che non si era affievolita nel corso degli anni, che aveva solo coperto con missioni ed incarichi. La persona che gliela aveva consegnata era il primo artefice della sua rovina, era colui che non si era fatto scrupoli ad abbandonarlo, ferito, nel Castello dell’Oblio poco prima di farlo esplodere.
Non sapeva che fine avesse fatto il n. IV, ma qualcosa dentro di lui gli diceva che l’uomo era ancora vivo da qualche parte. Andare avanti calpestando i sentimenti del prossimo era la sua specialità, dopotutto.
Gli avrebbe restituito il contenuto di quell’ampolla, prima o poi.
La ripose con cura nello sportello, e dopo aver ingerito la doppia razione di sonniferi si accasciò sul letto, facendo svanire tutti quegli odori in un unico vortice nero.


“La cosa è assolutamente in-tol-le-ra-bi-le! Il sacro nome del Grande Imperatore Palpatine ne è uscito infangato e per colpa di chi? DI CHI? Di un branco di misere creature che osano fregiarsi del titolo di agenti segreti dell’Impero Galattico e che all’atto pratico si rivelano una massa di incompetenti pusillanimi?”.
“Sì, generale Mistobaan”.
“Mi sdegno di tutto ciò! Come hanno osato quei due insulsi ribelli diffondere in mezzo ai sudditi del radioso imperatore Palpatine delle parole inneggianti alla democrazia? Come se un branco di scimmie ammaestrate potesse governare la Galassia meglio di Lui! Ciò non è tollerabile, se io fossi a capo dei servizi segreti le cose andrebbero molto meglio, parola mia!”.
“Non ne dubito, generale Mistobaan”.
“Il problema è alla radice! Il governatore Tarkin non ha polso! Se lui fosse…”
L’attenzione di Zachar durante i discorsi del nuovo Braccio Destro era di per sé molto scarsa, ma quando il discorso verteva sugli altri Signori Oscuri lasciava vagare la mente, trasportata dalle parole di Mistobaan come un guscio di noce in un mare in tempesta. Negli ultimi tempi l’essere incappucciato aveva preso alla lettera la nuova fede nell’Imperatore ed era diventato ancora più insopportabile: certo, con tutti i suoi ricordi modificati le faceva anche un po’ pena, ma non era lui al centro dei pensieri della giovane maga. Erano passati oltre dieci mesi da quando le era stato concesso di partecipare ad una missione in compagnia di Kaspar.
Il lavaggio del cervello che praticavano all’Impero ero quasi simile ad una lobotomia, e l’uomo che amava non faceva altro che lanciare incantesimi ed obbedire agli ordini: se Mistobaan pensava e parlava (anche troppo) liberamente, a Kaspar ciò non era stato concesso. Lo trattavano come una bambola e veniva spedito a falciare orde di Ribelli una dietro l’altra, e la sua autonomia terminava con l’espletamento delle funzioni vitali.
Aveva provato ad implorare la grazia per lui, ma l’unico risultato era stata una scarica di fulmini del Lato Oscuro e la minaccia di finire come lui. E non poteva permetterselo, perché doveva liberarlo da quella condizione. Non sopportava vederlo in quello stato. Nonostante quello che le aveva detto al Castello dell’Oblio era più che convinta che si era trattato di un inganno dei loro nemici, un’illusione per farle perdere la fede e l’amore sconfinato che provava per lui.
E poi c’era stato Auron …
No. Non devo distrarmi. E’ Kaspar la persona che amo.
Quel bacio è stato un’illusione, niente altro.

Forse.
Anche se la cosa antipatica era che non riusciva a dimenticarlo come avrebbe dovuto.
“E comunque!” Mistobaan parlò con un tono di voce ancora più alto, svegliandola da quel torpore “Una semplice sconfitta non deve farci abbassare la guardia o ci mostreremo deboli davanti a quella marmaglia. Darò ordine di quadruplicare la vigilanza su Coruscant, anzi, no, su TUTTI i pianeti dell’Impero, e farò organizzare delle ronde notturne in ogni sito di grande interesse pubblico. Nessun essere che parli o respiri può dubitare della divina luce sprigionata dalla sua natura radiosa davanti alla quale tutti noi dovremmo prostrarci in eterna adorazione!”.
Prima che la ragazza potesse commentare, una serie di rumori secchi li fece voltare. Un battito di mani forte, deciso, seguito da un piccolo scrocchio.
“Complimenti, Mistobaan! Ti è sparita la memoria ma non certo la favella. E’ un vero peccato vederti sprecare la tua leggendaria arte oratoria per un nugolo di esseri umani”.
Qualcuno aveva aperto la grande finestra dell’ufficio di Mistobaan; il rumore della pioggia aveva coperto per qualche istante quel battito di mani, ma nonostante le gocce ed i vapori vide la figura vestita di nero scendere dal parapetto su cui era rimasta in osservazione. Un brivido le corse lungo la schiena.
La prima cosa che la colpì fu la maschera. Era enorme, nera, e tutto intorno al capo disegnava una raggiera ai cui lati pendevano degli strani ciondoli che ricordavano la forma di una stella e di una luna. La bocca e gli occhi erano delimitati da fessure bordate di rosso, e disegnavano sul nuovo arrivato un’espressione sorridente senza che lei riuscisse a vedere il reale colore delle sue pupille. Il mantello scuro scendeva in diversi punti, lasciando in evidenza l’abito dello stesso colore, che si piegò insieme al corpo in quello che le parve la parodia di un inchino “Ciao, Misto! E’ proprio vero che chi non muore si rivede”.
“COSA SEI, IMMONDO ESSERE? COSA CREDI DI …”
“Ohi ohi, Killvearn! É proprio vero! Si è proprio bruciato il cervello, Piro Piroro! E adesso cosa facciamo, Killvearn?”.
La voce insistente veniva da uno strano esserino che si agitava sulla spalla del nuovo venuto. Zachar lo esaminò con attenzione, perché persino nel Regno delle Tenebre non vi erano creature così strane; poteva sembrare una bambola di pezza con addosso un buffo capello ed una tunica tagliata male, ma la cosa inquietante era il suo unico occhio. Occupava quasi tutta la testa, e la pupilla passava con sguardo divertito tra lei e Mistobaan, e nella mano agitava un buffo scettro “Killvearn, non ci seguirà mai senza opporre resistenza!”.
“TI HO ORDINATO DI RISPONDERMI!”.
“Ohibò, Misto! Sei ancora più insopportabile di prima, il che è tutto dire. Al Grande Satana questa storia non piacerà nemmeno un po’!”.
Il Grande Satana … ma cosa …?
Già. Sapeva benissimo che Mistobaan era stato un fedele servitore di questo Grande Satana Baan prima che i Membri dell’Organizzazione giocassero con i suoi ricordi; a ben vedere lo sapevano tutti, tranne l’unico diretto interessato. E adesso il vecchio padrone aveva mandato qualcuno per riprendersi il suo luogotenente. Con un salto lo gnomo scese dalle spalle del suo signore ed iniziò a saltellare per tutta la stanza cinguettando una canzone, ma l’attenzione della ragazza rimase sull’essere vestito di nero e sulla sua enorme falce. Percepì l’aura magica del suo compagno esplodere e si lanciò a terra “In nome del Grande Imperatore Palpatine! Sparisci dalla mia vista, emissario del demonio!”.
“Occielo, Killvearn, fai qualcosa!”
“Rilassati, Piroro!”.
Mistobaan tese il braccio verso quel Killvearn ed una scarica di saette lo avvolse, facendolo tornare sul parapetto “NESSUNO INSULTA IL BRACCIO DESTRO DEL MIO SIGNORE E SOPRAVVIVE!”. Dalla mano partirono due artigli che si diressero verso l’avversario, e da sotto la lunga manica partì una scintilla; il metallo si infiammò, e divenne rovente mentre la lingua di fiamma corse per tutta la sua lunghezza, mirando al nemico vestito di nero. Quello saltò verso l’alto un secondo prima dell’impatto, aggrappandosi ad un terrazzo del piano superiore e lasciando nell’aria una risata agghiacciante. Gli artigli si abbatterono sul parapetto facendolo esplodere in migliaia di frammenti, e la creatura incappucciata corse fuori sotto la pioggia sollevando il braccio libero verso l’alto “FERMATI E COMBATTI!”.
L’incantesimo fece scattare tutti gli allarmi. La stanza ormai devastata si riempì di decine di luci rosse e viola e dal quarto livello sentì il familiare rumore di droidi distruttori che attraversavano gli ascensori e si dirigevano sul loro piano. Si spiegarono nel bel mezzo del loro clangore metallico e mostrarono i turbolaser in direzione della veranda, dove Mistobaan si voltava alla ricerca dell’avversario. Zachar gli andò vicino, ed espanse i suoi incantesimi di divinazione per trovare traccia dell’aggressore; da come il suo compagno muoveva scocciato le dita anche lui non riusciva ad individuarlo. Niente potenziale magico, dunque …
Quando notarono la sagoma nera scivolare tra due grattacieli alla loro destra, Mistobaan levitò e si mosse come una zanzara infastidita tra i palazzi del quartiere; niente riusciva a rallentarlo, né la pioggia né i vapori che si formavano dalla condensa lungo le cupole in duracciaio degli edifici amministrativi. La ragazza continuò a cercare, ma in mezzo a quella valanga d’acqua tutti i suoi sensi sembravano ciechi. Fece un cenno al capo droide di pattuglia, e quelli iniziarono a scandagliare l’area in base alle radioemissioni di calore, e quando si girò per cercare lo gnomo sembrava sparito anche quello.
Avrebbe dovuto fare rapporto all’Imperatore Palpatine, e sapeva che al signore della Galassia la notizia non sarebbe piaciuta; da quando glielo avevano consegnato in una bara di cristallo aveva tratto solo vantaggi dallo sfruttare l’essere incappucciato, e non lo avrebbe riconsegnato volentieri al suo originale signore. Zachar non conosceva bene tutti i dettagli, ma aveva visto più volte Mistobaan in compagnia dei migliori scienziati dell’Impero Galattico, e dal modo in cui discuteva si era resa conto che era stato costretto a partecipare ad un esperimento su grande scala; aveva persino provato a saperne qualcosa in più, ma si era trovata davanti al silenzio degli scienziati o al blaster della sgualdrina mutaforma. Le difese sul nuovo Braccio Destro sarebbero aumentate.
Si era fatta notte quando Mistobaan ritornò dal suo volo di perlustrazione, e quando abbatté la scrivania con un pugno non ebbe dubbi sul risultato “NON HO SERVITO A SUFFICIENZA IL MIO SIGNORE! HO DISGUSTO DI ME STESSO”.
Zachar sapeva bene che la migliore cosa da fare era rimanersene in silenzio e lasciarlo sfogare contro il primo mobile sotto mano “HO LANCIATO FANGO SUL SUO AUGUSTO NOME! MI TRAFIGGEREI CON I MIEI ARTIGLI SE NON DOVESSI PROTEGGERE IL SUO UNICO DONO!”
Lei digitò un comando ed i droidi se ne andarono. Il generale iniziò a camminare a passo svelto su e giù per la stanza, e non sarebbero bastate cinque ore per farlo di nuovo ragionare con lucidità. Poiché il suo attuale compito era quello di supportarlo durante ogni missione operativa, la maga decise di sedersi su uno dei pochi divani intatti ed aspettare che la foga oratoria del suo superiore si placasse. Chiuse gli occhi e si ritrovò a pensare alla maschera oscura del nemico misterioso.
Era fuggito al primo assalto di Mistobaan, quindi in fondo non doveva essere troppo pericoloso; certo, come lui avrebbero potuto venirne molti altri, e l’Imperatore avrebbe dovuto organizzare meglio le sue difese. Ci sarebbe stato del lavoro in più da fare, poco ma sicuro.
Nel vortice dei suoi pensieri sentì una lieve musica venire da un’oloradio, e nonostante il brontolare di Mistobaan appoggiò la schiena tra i morbidi cuscini del divano e si lasciò cullare dalla melodia. Era sciocco da parte sua, ma in quel momento il suo unico desiderio era danzare con Kaspar proprio lì, in quella stanza, alla faccia del Braccio Destro e dell’Imperatore Palpatine. Non era mai stata una grande ballerina, ma in tutti gli olomovies d’amore i due protagonisti volteggiavano nei grandi saloni da ballo di Naboo, e lei aveva sempre sognato di indossare un abito come quello della regina e di ballare con l’uomo della sua vita, avvolta nel suo fluttuante mantello bianco.
Notò con piacere che la musica aveva quasi sommerso il discorso di Mistobaan.
Era una tonalità dolce, priva di cantanti o cori, solo un lunghissimo valzer di note. Chiunque l’avesse composta doveva avere un animo dolce e gentile.
La melodia riprese, e tornò a danzare. Stavolta c’era un debole vento intorno a lei, e poteva sentire le ciocche di Kaspar avvolgerle il viso mentre i loro passi si incontravano su una stupenda veranda con il mare sullo sfondo. Saliva, scendeva, la musica dettava il battito del suo cuore. Tra le note si appuntò di farla sentire a Kaspar il giorno che lo avrebbe incontrato di nuovo.
Il discorso di Mistobaan era ormai lontano, e da sotto le ciglia vide che l’essere incappucciato era rimasto vinto alla fatica della battaglia, seduto su una poltrona e con la testa tra le mani.
Tsk … allora anche il Braccio Destro dell’Imperatore crolla dal sonno …
Stavolta fu la voce di Auron a parlarle.
La musica era ancora lì, persino più gentile, con la sua cascata di note che adesso si era fatta più lenta e sensuale.
La fantasia la portò in un luogo strano, con un verde rigoglioso spruzzato di fiori di tutti i colori che abbelliva un prato collinare; oltre i suoi confini, sfavillanti cascate si rivelavano in un lago, e da lì, al fianco del soldato, poteva vedere molti altri laghi intorno alle alture lontane, fino all’orizzonte. I soffioni fluttuavano nella brezza tiepida, con delle gonfie nuvole bianche che scorrevano nell’intenso cielo azzurro. Era un posto pieno di vita e amore, di calore e tenerezza. Era un luogo che rifletteva esattamente quello di cui aveva bisogno in quel momento.
Al suono della melodia degli insetti dorati si sollevarono in aria e ronzarono, troppo presi dai fiori per disturbare lei o Auron; si sedette sul prato, intenta a raccogliere con aria distratta i fiori per portarseli al naso ed ispirare la loro fragranza. Ora che le note si erano fatte vivaci non aveva più voglia di ballare, ma solo di rimanere ad osservare quel panorama in eterno e lanciare un’occhiata ad Auron prima che svanisse tra i meandri di quel bellissimo sogno.
Si chiese se anche Mistobaan stesse sognando qualcosa di bello, o se i sogni di una mente condizionata fossero condizionati anche essi.
Mistobaan che sogna …
Fu un attimo. Il pensiero le si parò davanti agli occhi come un fulmine.
Lui non può …non può …
Come aveva fatto a non pensarci?
Mistobaan non può dormire! Non lo ha mai fatto!
Scosse con violenza la testa. Nel sogno e nella realtà il mondo intorno a lei andò in frantumi, ed il prato incantato ed il suo alloggio si mescolarono l’uno nell’altro finché il grigio appartamento di Coruscant prese il sopravvento. Si sollevò dal divano, e tra la scrivania in frantumi ed il parapetto distrutto ciò che attirò la sua attenzione fu proprio l’essere incappucciato; poteva sentire il suo respiro profondo anche da un metro di distanza, e mosse un passo nella sua direzione.
Fu in quel momento che si accorse della musica. Guardò l’oloradio.
Era spenta.
Le note aumentarono di volume, con un ritmo quasi martellante che la portò a piegarsi sulle ginocchia ed a raggiungere il divano, incapace di coprirsi le orecchie con le mani; fissò oltre la scrivania, e vide che il pavimento era increspato.
L’aria tremò, e delle linee rosse illuminarono l’area in quello che si rivelò un Pentacolo di Alterazione; la stella era attraversata da linee color del sangue, ed al centro del disegno, quando la luce si diradò, comparve l’uomo con la maschera ed il suo sinistro burattino. Aveva la falce sollevata a livello della bocca e la faceva scorrere avanti e indietro, soffiando in dei piccoli buchi che la maga era certa di non aver notato prima. Non riusciva vederne l’espressione, ma la melodia era allegra, proprio come quella di un predatore che aveva afferrato la sua vittima; la ragazza puntò le mani contro il pavimento, lottando contro il sonno innaturale che tornò alla carica dentro di lei.
Non se ne erano mai andati da lì.
“Oh, che disgrazia, Killvearn! La ragazza umana non si è addormentata, no no!”
“Eh, che ci vuoi fare, Piroro? Di questi tempi non tutti apprezzano la buona musica” rispose l’altro, senza smettere il lugubre ritmo “Ma rimedio subito”.
Zachar cercò il telecomando, presa dal bisogno di chiamare di nuovo i droidi distruttori. Ma quando allungò il braccio per chiedere aiuto nella sua testa sentì un trillo. Poi un altro. Tutta la melodia si dissolse in quella semplice manciata di note, e la giovane maga sentì tutto intorno a lei farsi buio, e cadde in un nuovo sogno senza Auron o Kaspar, senza palazzi scintillanti o stupendi prati fioriti. Solo un lungo velo nero.
“Si gradiscono applausi”.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Requiem ***


Capitolo 5 - Requiem


Gold saints

I sacerdoti delle Dodici Case. Dall'alto verso il basso e da sinistra verso destra:
Aldebaraan, Mu, Saga, Shaka, Death Mask, Aiolos, Aphrodite, Milo, Dohko, Camus, Aiolia, Shura




Nato da fauci di drago,
a vette celesti si innalza
in luce e in tenebre immerso.
Su rive di sogno è nuova promessa.
Bagliore di luna infinito: suo dono
alla terra è sconfinato amore.
Ma fugace è la quiete…


Era curioso come poesie, abbandonate per decine di anni in un angolo polveroso della memoria, potessero tornare a galla con un semplice gesto o una parola. Non riusciva nemmeno a ricordare dove l’avesse letta, o se qualche anziano sacerdote come lui gliela avesse raccontata durante una delle loro infinite veglie. Ma era tornata nel momento in cui il Cavaliere del Drago si era stagliato in volo davanti alla luna piena, lanciando la sua ombra su tutto il Tempio delle Dodici Case.
La Madre Drago non era tra gli dèi che Dohko venerava, ma non per questo non credeva al suo potere; perché tutti, anche i bambini, sapevano che quando la dea metteva al mondo un Cavaliere del Drago la fine di tutti gli esseri viventi era vicina. Nessun essere umano poteva avvicinarsi abbastanza da vedere le sue sembianze e sopravvivere.
E adesso il vecchio sacerdote poteva vedere i suoi capelli neri ed i baffi, mentre un grande diadema d’oro nascondeva la furia dell’occhio sinistro; il limite che gli dèi avevano imposto ai mortali.
“Hanno … hanno mandato proprio lui, maestro?”
“Sì, Aiola”.
“Lei … lo sapeva?”
“No. Ma forse è la giusta punizione per il nostro silenzio durato troppo a lungo”.
Lo sguardo di tutti i suoi confratelli era rivolto verso la divinità, e d certo lo era anche quello di tutti coloro che era riuscito ad allontanare dal tempio prima della tragedia. Aldebaraan si sistemò l’elmo e lanciò un’occhiata alle loro Case in basso, ormai prive di vita “Immagino che con questo qualsiasi nostra pallida possibilità di sopravvivenza sia ridotta a zero”.
“Sopravvivere non è la nostra priorità”.
Non era sempre stato così. Quella strana poesia glielo ricordò, suonando come un lieve campanello d’argento nei suoi ricordi. Si tramandava che, nell’epoca del mito, un altro Cavaliere del Drago avesse combattuto fianco a fianco con gli uomini, e fosse giunto ad offrire la sua preziosa vita per difenderne uno solo e spalancare così la Porta dei Cieli, facendo tornare il fuoco dei draghi sul mondo. Una leggenda che tutti loro conoscevano bene, perché le prime pietre del Santuario delle Dodici Case erano state costruite proprio in quel luogo, ad onorare un sacrificio che forse, come Dohko aveva sempre creduto, era solo opera di qualche bardo fantasioso e di ballate raccontate intorno ad un fuoco. Secondo il mito, dal sangue miracoloso del Cavaliere del Drago era nato poi il castello splendente di cui si narrava nella poesia, creato per arginare le forze del male.
Ma l’essere davanti a loro non aveva nulla di poetico, e l’anziano sacerdote cercò forza negli dèi per sostenere il suo sguardo. Aveva concesso loro tre ore per pregare, e l’ultimo fuoco della loro meridiana stava per spegnersi; era rimasto in alto per tutto il tempo, fissandoli come un drago che cerca di comprendere cosa siano quei minuscoli esseri che si muovono tra le sue zampe.
I suoi confratelli stavano indossando per l’ultima volta le sacre armature d’oro “Maestro …” fece una voce dietro di lui “… ecco … considerato che non ci saranno altre occasioni per … beh, insomma … dovrei confessarle che sono stato io quella volta a … quel disegno sulla sua armatura era solo per…”
“Sì, Death Mask, non ne avevo dubbi. Comunque ti sono rimessi i peccati, perché l’atto che stiamo per compiere ci condurrà direttamente nel Nirvana”.
“Avremo questo onore, maestro? Pensavo di potermi reincarnare in una bella farfalla”.
“La tua umiltà è grande, Aphrodite, se il tuo sogno è quello di vivere in una creatura così piccola e fugace. Ma quando saremo al fianco degli dèi potremo fonderci nella loro incommensurabile bellezza”.
Nessuno degli altri parlò. Perché c’era un’ultima cosa che doveva fare prima che il fuoco azzurro della meridiana celeste si spegnesse e calasse su di loro l’ira dell’emissario del Grande Satana. Si alzò debolmente in piedi, appoggiandosi al bastone ed ispirando a fondo l’aria della notte “Shaka, vieni. E anche tu, Saga”.
L’interno del Tempio era gelido, e tutti i bracieri erano spenti. Poteva riconoscere il passo dei suoi confratelli pur dando loro le spalle, uno timido e dubbioso, l’altro fermo, di chi conosceva già la parte che gli era stata assegnata. Aveva preso quella decisione non appena aveva lasciato la casa della Vergine, appagato dei consigli del suo giovane confratello: i sacerdoti d’oro erano tutti preziosi ai suoi occhi per dote, dedizione, fede e coraggio, ma Shaka aveva qualcosa che mancava a tutti loro, persino ad un uomo come lui che aveva visto passare decine di inverni. Il cavaliere biondo era l’uomo più vicino agli dèi. Era stato toccato dal loro amore ed era la prova vivente della loro santità. Per questo la decisione era stata più facile del previsto, forse ispirata dalle Loro sacre volontà “Shaka, levati l’armatura”.
“Maestro …?”
“Levatela senza fare storie” non avevano molto tempo “Il Grande Satana le vorrà come trofeo, e credo che il Cavaliere del Drago sappia contare fin troppo bene”.
Il giovane aveva gli occhi ancora chiusi, ma Dohko era certo che vi fosse sgomento dietro quelle palpebre; il cavaliere dei Gemelli porse al compagno un mantello nero “Noi siamo tutti sull’osservatorio, non farà caso a te se scenderai al fianco della scala principale. Aphrodite ha fatto sbocciare tutto il suo roseto stanotte, quindi se lo attraversi di corsa il Drago non dovrebbe notarti!”.
“Non capisco, maestro …”
“Tu e Mu avevate ragione, Shaka. Siamo rimasti in silenzio per troppo tempo ed abbiamo chinato il capo senza far nulla per la nostra gente. Stanotte nessuno di noi piegherà la testa e daremo prova al Cavaliere del Drago che la nostra fede è tutt’altro che spenta. Ma qualcuno …” si fermò, cercando le parole giuste “… qualcuno deve parlare di nuovo. Deve tenere viva la nostra fede e diffonderla verso coloro che dovevamo proteggere. Qualcuno che sia degno di diventare, un giorno, il nuovo Grande Sacerdote”.
“Ma io …”
“Siamo tutti d’accordo su questo” beh, non proprio tutti sospirò, ricordandosi l’espressione un po’ speranzosa di Aphrodite e Death Mask “E guai a te se apri gli occhi adesso. Non renderebbe onore a tutti gli anni di meditazione che hai trascorso. Vai, cerca di scoprire cosa sia successo a Mu e Camus. E, quando sarà il momento, prega per noi”.
“Non posso …”
“Oh, sì che puoi!”
Saga prese il suo compagno per un braccio, gli mise indosso il mantello scuro e lo strattonò verso l’uscita “Shaka, è un ordine del Grande Sacerdote. E, in caso non te ne fossi accorto, non abbiamo tempo”.
Dohko sapeva che non sarebbe stato semplice per nessuno di loro, e che Shaka non si sarebbe fatto convincere con facilità ad abbandonarli. Tirò nel suo cuore un grande sospiro di sollievo quando il giovane si liberò dalla stretta del compagno e si inginocchiò davanti a lui “Se questo è il suo volere, maestro … per quanto io sia indegno del compito che lei mi ha assegnato lo farò. Ma non nego che vorrei essere al vostro fianco nei prossimi minuti per offrire la mia effimera esistenza agli dèi”.
“Ci sarà tempo e luogo, Shaka. Ma un giorno ci rivedremo al fianco degli dèi. Ora vai”.
Rimase ad osservare il profilo biondo del giovane sacerdote svanire lungo la scala, al riparo della luce della luna e dallo sguardo della loro nemesi. Gli dèi avrebbero guidato i suoi passi, ne era sicuro. Non si era mai sentito così sollevato per una propria scelta. Il brusio degli altri compagni in preghiera sull’osservatorio lo riportò alla brusca realtà, perché mancavano pochi minuti alla fine.
Accanto a lui, i pezzi dell’armatura della Vergine si sollevarono nell’aria, guidati dal tocco dei Gemelli; i frammenti d’oro si avvicinavano e si distaccavano, formando un reticolo complesso che lasciò l’anziano sacerdote stupito mentre fissava la sagoma oscura, solo vagamente umana, che andava ad offrire per l’ultima volta un corpo a quelle sacre vesti.
Quando Saga terminò, un corpo illusorio indossava l’armatura della Sesta Casa, e si mosse con fluidità al comando del suo creatore; non aveva capelli o occhi visibili, ma forse creature onnipotenti come il Cavaliere del Drago non avrebbero notato un piccolo inganno degli uomini “Maestro, mi dispiace … se ne potessi controllare più di uno avremmo potuto salvare qualcun altro”.
“Uno è sufficiente, fratello. E ricorda, oggi gli dèi sono dalla nostra parte”.
“Uh, non voglio sapere come sarebbe averli contro di noi, allora!”.
Dohko non rispose. La meridiana si spense, ed i due sacerdoti si unirono ai loro fratelli.
Aldebaraan del Toro.
Saga dei Gemelli.
Death Mask del Cancro.
Aiola del Leone.
Milo dello Scorpione.
Aiolos del Sagittario.
Shura del Capricorno.
Aphrodite dei Pesci.
Gli dèi ricorderanno in eterno il vostro sacrificio.



“La vostra ora è venuta, esseri umani. Infrangere la parola data al Grande Satana è espiabile soltanto con la morte”.
Il Cavaliere del Drago aveva sembianze umane. Ma non c’era nulla di terreno nella voce; dall’alto della sua posizione le parole giungevano trascinate dal vento con la forza di cento campane di bronzo che cozzavano insieme. Scandiva ogni suono lentamente, signore e padrone di tutto il tempo del mondo. A dire il vero, Dohko non riusciva a leggere né odio né rabbia in quella voce, soltanto la superbia che quell’essere di natura divina provava verso di loro, esseri umani devoti a degli dèi che nemmeno riconosceva. Il mantello corpo gli ricadeva dietro le spalle, ma non riusciva a nascondere la sagoma di un’enorme spada legata alla schiena, che oltre la spalla destra faceva mostra di un’elsa dorata a forma di testa di Drago. Si diceva che un suo solo fendente potesse distruggere la terra ed il cielo, perché il Cavaliere del Drago nasceva per riportare l’equilibrio nelle loro terre con nient’altro che la sua sforza sproporzionata. Non deve accorgersi della fuga di Shaka.
“Si dice che il figlio della Madre Drago impersoni l’equità e la pace in questo mondo, generale. E che sia stato creato per giudicare al di sopra delle parti, senza schierarsi né con i demoni né con gli umani”.
“Ma gli umani hanno peccato” la figura scese lentamente del cielo, levitando a pochi metri da lui e dai suoi confratelli. Il diadema d’oro riflesse la luce della luna, mandando un bagliore sinistro. Nessuno degli altri sacerdoti parlò, ma nel silenzio che seguì era sicuro di poter sentire i loro cuori tremare alla discesa dell’araldo dei demoni. Si sollevò in piedi, ed appoggiandosi al bastone avanzò tre leggeri passi verso di lui “Tutti gli esseri umani peccano. La strada verso il Nirvana è piena di ostacoli, e la natura di ogni creatura è fragile. Noi non abbiamo mancato di proposito al patto stretto con il Grande Satana, ma non siamo qui a chiedere pietà per le nostre vite diafane”.
Lasciò che l’avversario lo scrutasse con i suoi occhi scuri.
Per quanto essere superiore, si diceva che il Cavaliere avesse in sé la potente unione del sangue umano, di quello demoniaco e quello dei draghi: rimase davanti a lui di proposito, cercando lo spiraglio che conducesse alla parte umana del generale. “Non ci sottrarremo al giudizio. Ma chiedo soltanto che lei guardi con un altro occhio la nostra razza. C’è peccato in noi quanto nei demoni. Però gli dèi ci amano e ci perdonano anche per questo”.
“DEI?”
L’essere fece esplodere parte della sua aura magica con un solo corrugare di sopracciglia. Le loro armature d’oro emisero un rumore terribile, risuonarono come colpite da decine di martelli, e la meridiana dell’osservatorio fu attraversata da una gigantesca crepa. Cadde a pochi metri da loro, e coprì in parte il fragore delle colonne del sagrato che andarono in frantumi di fronte alla potenza del generale dei draghi. Aphrodite non trattenne un urlo di paura, ma Dohko non si voltò.
L’espressione dell’inviato del Grande Satana si era trasformata in una maschera d’odio “I VOSTRI DEI NON SONO ALTRO CHE PATETICHE INVENZIONI!”
Cosa lo può far infuriare così tanto?
“QUANDO GLI UMANI SI SONO MACCHIATI DEL PIU' GRAVE DELITTO DEL MONDO DOVE ERANO I VOSTRI DEI?”
Quale delit …
Il Cavaliere del Drago sguainò la spada.
La sollevò verso l’altro, e la furia nei suoi occhi non aveva davvero niente di umano. A quel gesto il cielo mandò un rombo infernale.
Come nelle antiche leggende le nuvole si mossero, ed in un solo istante oscurarono la luna, lasciando che l’unica luce della notte fossero i lampi che attraversavano il cielo ed il loro riflesso sulle loro armature. Forse quella notte non si sarebbe spalancata di nuovo la Porta dei Cieli, ma di certo gli dèi li stavano aspettando oltre i cancelli del Nirvana, Dohko era certo di percepirne la mano invisibile quando il primo fulmine abbandonò le nuvole nere per cadere sull’enorme spada dall’elsa d’oro. La lama fu attraversata dal lampo, ma quando toccò le mani del padrone il fulmine si avvolse lungo il suo braccio e si spense.
Il vecchio maestro stava osservando il secondo ed il terzo fulmine cadere lungo la Spada del Drago Diabolico quando una cascata di raggi di luce e fiamma si abbatté sull’arma “Non così in fretta, Cavaliere! Lightning Bolt!”
Il colpo del giovane Aiola fu la luce di una flebile lucciola. La piccola rete si avvolse intorno all’arma del nemico, assorbendo tra le sue spire l’energia dei fulmini celesti ed allontanandola dalla lama mortale. I filamenti di energia si frapposero tra l’anziano sacerdote ed il nemico, mentre il più giovane tra gli apprendisti usò i pochi incantesimi che conosceva per fermare la discesa della spada; la barriera di luce si estese fino alle nuvole, le attraversarono e rischiararono di nuovo il cielo. Per un attimo.
“E’ tutto tuo, Aphrodite!”.
“Piranha … Piranha Rose!”
Nonostante il braccio teso tremasse per la paura, le rose del cavaliere dal capelli azzurri apparvero nell’aria, trasportate dalla brezza direttamente dal suo giardino. Ad un cenno del Sacerdote del Leone le maglie della sua rete si aprirono, ed i fiori la attraversarono in una cascata debole ma ordinata. Decine di essi si infransero contro la luce rossastra ed i fulmini che ancora persistevano lungo spada, ma gli altri raggiunsero le gambe ed il petto, e dagli altri confratelli partirono persino grida di incoraggiamento.
Shaka, corri. Che gli dèi diano forza alle tue gambe.
Le rose svanirono. Un crepitare di energia lungo l’osservatorio, l’aura magica del loro avversario si abbatté su di loro come una vampata di fiamme. L’aria intorno ai suoi vestiti ed alla spalla divenne dello stesso colore dei fulmini, e spazzò via le Piranha Rose trasformandole in cenere, senza che rimanesse sulla stoffa del vestito nemmeno il graffio più piccolo. Il Cavaliere dei Pesci mandò un secondo e più acuto grido quando il Cavaliere del Drago scrollò via la trappola energetica del Lightning Bolt con un movimento lineare, abbattendo la sua spada contro la protezione ed aprendo la via ai fulmini. Quelli scesero tutti insieme, liberati dalla catena che li costringeva ad essere meri abitanti del cielo. In un attimo la lama accolse tutti i fulmini, ed il suo padrone fu avvolto nella massa di scariche azzurrine. Caricò indietro la Spada del Drago Diabolico e poi la liberò verso di loro.
Dohko percepì l’impatto dell’incantesimo contro le colonne del santuario, e vide che le folgori nascevano dalla spada e ad essa ritornavano in un circolo infinito; l’ondata di magia lo lasciò senz’aria, perse la presa del bastone, sentì prima un urlo, poi un secondo ed il clangore di armature d’oro che finivano in pezzi.
Le Piranha Rose si estinsero con il loro padrone. Quando Aphrodite, Aiola e Death Mask caddero al suolo le rose scesero a terra, ed in pochi secondi il loro colore scuro, simile a sangue, divenne di un crudele giallo appassito mentre creavano un sottile tappeto di disperazione. L’elmo del cavaliere del Cancro rovinò a pochi passi da lui. I loro corpi furono avvolti ancora per qualche secondo dai fulmini, poi l’incantesimo abbandonò le loro armature e tornò lungo la Spada del Drago Diabolico, impugnata da una mano che non conosceva né stanchezza né pietà. Fratelli, non vi farò attendere a lung …
“Maestro Dohko, stia indietro!”.
Quando la seconda ondata di fulmini si abbatté nella sua direzione, il vecchio sacerdote non riuscì a reagire. Vide soltanto una massa enorme, dorata, e l’attimo successivo fu sbalzato lontano, sollevato con poca grazia da un braccio solo che lo fece atterrare contro i mattoni bianchi dell’osservatorio. Il Drago aveva l’arma puntata proprio nella direzione dove lui era stato fino a qualche secondo prima, ed i fulmini trovarono soltanto l’imponente figura di Aldebaraan. Il Cavaliere del Toro incrociò le braccia durante l’impatto ed urlò contro la crudeltà della famiglia demoniaca, ma nonostante la sua buona conoscenza di incantesimi difensivi il piccolo muro attorno a lui fu spezzato e la magia dell’avversario attraversò tutto il suo corpo finché non cadde riverso in ginocchio.
Il sangue schizzò tra le giunture dell’armatura, e Dohko tra le mani vide il suo improvvisato salvatore scivolare a terra in tutta la maestà della sua persona che aveva imparato a conoscere.
Poi lo vide.
Nella mischia il fantasma illusorio con indosso le vesti della Vergine si mosse, e con un salto ed il rumore di campana del metallo si portò accanto ad Aldebaraan. Lo stesso sacerdote rimase ad occhi sgranati per la fluidità dei suoi movimenti, lasciando che Saga, al riparo dietro l’altare principale dell’osservatorio, lo guidasse verso l’unica fine plausibile. Basterà ad ingannare il Drago?
Evidentemente sì.
Dohko faticò a rimettersi in piedi, e con gli occhi lattiginosi cercò il suo bastone mentre il sedicente cavaliere della Sesta Casa improvvisò un attacco contro il generale; Saga mosse le sue gambe sempre in avanti e simulò il movimento di una corsa disperata, unendo i suoi incantesimi illusori per conferire una certa maestosità ed aura magica al fantoccio in armatura.
Il Cavaliere del Drago non vi prestò alcuna attenzione. Quando l’armatura animata si scagliò contro di lui, l’uomo con i baffi calò la spada con un unico, rapido fendente, senza nemmeno poggiare lo sguardo sul nemico abbattuto. Alla vista di sacerdoti sopravvissuti al suo incantesimo aveva lo sguardo puntato solo su di loro, ed abbatté il falso Shaka con un solo colpo di spada, senza nemmeno accorgersi che la lama non tagliava né carne né sangue, solo frammenti metallici. La tua superbia ti ha giocato un brutto tiro, Drago, sospirò Dohko alla vista dell’elmo e dei gambali dell’armatura della Vergine volare lontano dal fantasma.
Coraggio, Shaka! Non ti voltare indietro.
Non ora.

“Scarlet Needle!”
Milo era stato investito in pieno dalla pioggia di fulmini del generale Baran, ma dietro i capelli distrutti lungo le punte e parte dell’armatura piena di crepe era ancora intero; si rialzò sulle ginocchia e chiamò a sé l’incantesimo che dominava, ed il vecchio sacerdote seguì le luci che scaturivano dalla punta del dito indice del giovane sacerdote brillare, agitarsi e tingersi color rosso sangue. Il suo potenziale magico era stato uno dei migliori tra i vari sacerdoti.
I colpi dell’ottava costellazione si fecero strada nell’aura dragonica, poi si infransero contro la sua tunica color arancio e l’armatura di cuoio, cercando con tutta la benedizione delle stelle un varco nella carne dell’avversario “Ricordiamo alla Madre Drago quali sono gli dèi che noi veneriamo!”.
Saga si sollevò in piedi sui resti dell’altare, liberando la sua aura magica che aveva trattenuto per manovrare il fantoccio di Shaka. Quello che rimaneva della sua armatura aveva perso ogni lucentezza, ma l’anziano Grande Sacerdote vide negli occhi del Cavaliere dei Gemelli e degli altri una determinazione che non aveva mai notato in tutti quegli anni.
Il desiderio di sollevare il capo.
Di avere una morte gloriosa, che li conducesse al Nirvana e li liberasse dal dolore.
Di coloro che erano rimasti in vita Dohko sentì lo spirito guerriero che non si era mai addormentato anche dopo anni di preghiere e meditazione, e si chiese come potesse essere stato così cieco da non vedere l’atroce realtà che si era consumata anche dentro di loro negli ultimi anni. Saga fece un gesto con una mano, ed uno dei pochi confratelli rimasti scivolò tra le ombre ed obbedì al suo comando “I NOSTRI DEI SONO GLI UNICI GIUDICI DELLA NOSTRA CONDOTTA. UN CAVALIERE DEL DRAGO CHE SI ASSURGE A DIVINITA E’ QUALCOSA CHE NON POSSIAMO TOLLERARE! GALAXIAN EXPLOSION!”
“Scarlet Needle!”
L’impatto dei due incantesimi oscurò la visuale, distruggendo quel poco dell’osservatorio che era rimasto in piedi; gli strali di magia dei Gemelli ricordavano una nebulosa che mirava al cuore dell’avversario. Il Cavaliere del Drago indietreggiò di un passo, strappando ai due un piccolo sorriso di esuberanza, poi si portò di nuovo verso di loro con la spada sguainata, che calò ed incontrò un ostacolo.
“Non così in fretta, Generale”.
Il braccio del sacerdote del Capricorno, che si diceva più resistente di qualsiasi spada o scudo, si parò tra la testa di Milo e la furia dell’avversario; il vecchio maestro percepì l’intreccio dei loro sguardi ed il velato sorriso nella loro ultima battaglia. Il Drago disimpegnò la lama, ma Shura seguì il suo movimento e gli tenne occupata la mano destra, aprendo la guardia del nemico agli incantesimi dei suoi confratelli “Vai Aiolos! Forse gli dèi ci concederanno un ultimo miracolo!”.
Dohko vide l’ombra appollaiata in cima alla colonna tendere l’arco, ed il suo anziano cuore palpitò per l’improvvisa possibilità che si era aperta. La freccia d’oro del Sagittario sibilò nell’aria, e si fece strada attraverso la fitta rete di incantesimi ed illusioni dei Gemelli e raggiunse l’obiettivo, colpendo la fronte del generale demoniaco.
La punta attraversò la pelle, ed il sangue del figlio della Madre Drago era rosso come quello degli umani.
Dèi, confidiamo in voi …
Il Cavaliere del Drago chinò un ginocchio, poi disimpegnò la mano destra dagli strali della Galaxian Explosion ed estrasse la freccia dalla pelle, e la punta dorata lasciò sulla sua pelle niente altro che un piccolo taglio. Poi strinse la sottile asta nel palmo e la spezzò, lanciando i frammenti della freccia in un angolo “Voi umani non sapete mai quando è il momento di piegare il capo”.
L’aura dragonica esplose di nuovo, con una potenza senza pari.
Sul palmo della mano che aveva appena distrutto l’arma del Sagittario si caricò un globo di luce e fulmini, e con un movimento fin troppo rapido per un uomo della sua stazza si volò verso Shura; l’energia spinse il sacerdote lontano e quello perse la presa sulla spada dell’avversario, e mentre uno strano simbolo comparve sulla sua fronte colpì il giovane in pieno viso. A Dohko mancò la presa sul bastone quando il corpo del sacerdote del Capricorno cadde riverso all’indietro privo della testa, mentre un secondo fendente attraversò Milo tra il mento ed il collo.
Al rumore delle due armature d’oro in terra seguì un terzo grido. Il Drago avvolse di nuovo la sua spada tra i fulmini, e prima che lo stesso Gran Sacerdote potesse fare un gesto per fermarlo una tempesta di elettricità scese sulla colonna alla sua destra, mandandola in frantumi di marmo mentre il corpo carbonizzato del Cavaliere del Sagittario cadde sommerso dai residui.
“Aiolos! No, perché …?”
Saga espanse il suo potenziale magico fino al limite, ma l’energia sprigionata dal Cavaliere del Drago era quella di una belva assetata di distruzione, ed il potere che il sacerdote otteneva dalla sua costellazione protettrice fu attraversato dalla luce dorata del nemico. Con un urlo fu sbalzato proprio accanto a lui; Dohko non volle, o cercò di non sentire il rumore delle vertebre spezzate, attutito dal fragore dell’armatura a pezzi ma che risuonò nelle sue orecchie più forte della voce del loro nemico “Gran Sacerdote Dohko della Bilancia, il vostro tentativo di ribellione termina qui”.
Shaka, saremo sempre al tuo fianco “La nostra non è stata una ribellione. Abbiamo solo fatto che qualcosa che avevamo rimandato da troppo tempo”.
L’essere davanti a lui aveva soltanto l’apparenza di un essere umano. Ma lì, avvolto nel sangue dei suoi confratelli, si muoveva con una naturalezza tale che nemmeno il demone più vitale possedeva, senza mostrare il benché minimo sforzo lungo i suoi lineamenti.
“Vi concedo che avete combattuto con onore. Forse contro qualche altro generale della famiglia demoniaca avreste avuto qualche possibilità”.
“Non volevamo sopravvivere. Gli esseri umani adesso sapranno …”
“Gli altri umani resteranno a guardare come hanno sempre fatto!”.
“Lei odia proprio gli umani, generale Baran …”
Non credeva che avrebbe potuto trovare serenità nell’attimo prima di morire. Eppure il giudice divino che stava davanti a lui sollevò la spada e lo fissò dall’alto verso il basso da dietro il suo strano diadema. In quel momento sentì persino il profumo degli alberi in fiore della Casa della Vergine.
“Sì. E adesso, Gran Sacerdote …”

Ma fugace è la quiete …

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Nota:
la poesia iniziale e' tratta da Final Fantasy IV.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Liberazione ***


Capitolo 6 - Liberazione


Dungeon fantasy prison

Le prigioni del Baan Palace




Fu un sollievo quando il loro carceriere aprì la porta e reclamò proprio lui. Vexen si sollevò sulle ginocchia doloranti e si fece trascinare più che volentieri per il braccio fuori dalla cella, e nonostante le orribili prospettive che lo attendevano tirò un sospiro di sollievo.
Camus picchiò contro la porta della cella e lo chiamò, ma il soldato lo aveva già condotto verso la fine del corridoio.
I giorni trascorsi in cella gli erano sembrati ere geologiche, perché oltre lui e Camus c’era qualcuno che era irritato, forse anche impaurito, ma soprattutto pericoloso ed infuriato con lui come poche persone al mondo. Non aveva sentito la mancanza del sorrisetto gelido di Marluxia per tre anni, ed avrebbe dato qualsiasi cosa per poter essere chiuso a chiave in una cella contigua. L’unica nota positiva era che quella pazza furiosa di Larxen era altrove, in chissà quale laboratorio demoniaco. Comunque lontano da lui.
Il principe dai capelli rosa non ci era andato per il sottile, e dopo la prima decina di sibili era passato ai fatti; il campo di incantesimi che i servitori del Grande Satana aveva eretto tutto intorno al blocco di detenzione aveva impedito al n. XI di strangolarlo con le sue liane o trafiggergli la gola con le spine durante il sonno, ma evidentemente in quegli anni trascorsi con Axel e Larxen aveva preso l’abitudine a colpire i nemici in maniera ben poco principesca. Lo avrebbe di certo ucciso se Camus non si fosse interposto. Il bravo assistente condizionato aveva vegliato su di lui per tutti quei giorni senza mai dormire, e si era guadagnato una discreta collezione di lividi ed una valanga di insulti.
In fondo ha avuto la sua utilità …
Aveva dormito ben poco in quella cella, ed avanzò barcollando lungo la prima rampa di scale. La persona che lo trascinava era il ragazzo umano dai capelli che andavano dall’azzurro all’argento, lo stesso che li aveva scortati al blocco di detenzione al loro arrivo dal Baan Palace.
“Il Grande Satana ha chiesto espressamente di te, scienziato” sentenziò, guardando sempre fisso davanti a lui “È per Mistobaan”.
“Mistobaan? Vi abbiamo già detto dov’è e …”
L’altro accelerò il passo e lo condusse verso un corridoio ampio, dove decine di mostri pattugliavano l’ingresso “Non è questo ciò che vuole”.
Vexen non aveva mai visto nessun demone provare verso un essere umano un sentimento diverso dall’odio e dal disprezzo, eppure alcuni demoni minori che si adoperavano come inservienti rivolsero al ragazzo dei profondi inchini e qualcuno abbozzò ad un saluto militare. Passarono davanti ad alcune creature bizzarre, che il n. IV aveva visto soltanto in dei bestiari primitivi: esseri con tentacoli, altri dotati di scaglie, altri dotati di forme che non sapeva delineare. Furono sorpassati da alcune armature senzienti, e Vexen notò che gli sguardi di tutti erano puntati soprattutto su di lui.
Avrebbe voluto saperne di più sul suo carceriere un po’ fuori posto, ma l’amara verità era che in quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per non ricomparire al cospetto del signore della famiglia demoniaca. Aveva sperimentato una volta il suo disappunto.
Non aveva alcuna intenzione di conoscerne la furia.
Quando arrivarono davanti al portone che conduceva alla stanza del trono trovò qualcuno ad attenderli. Non lo aveva notato al momento della cattura, ma le sue forme non promettevano nulla di positivo. Continuava a roteare una lunga falce nella mano destra, e dietro la sua maschera nera fischiettava un motivetto che, nella sua vivacità, suonava alquanto inquietante perché mescolato al sibilo dell’ arma.
Il carceriere fermò il passo, ed il suo sguardo era gelido “Stai aspettando qualcuno, Killvearn?”
“Oh, no, generale Hyunkel” rispose l’altro, senza interrompere il lugubre movimento “O almeno, non al momento”.
Eppure lo scienziato ebbe l’orribile sensazione che stesse aspettando proprio loro due. Sulla spalla della creatura comparve un buffo gnomo che iniziò a saltellare ed a spargere strane polverine colorate nell’aria “Volevo solo appurare che il prigioniero giungesse a destinazione”.
“Questo è un compito mio, Killvearn”.
“Non lo nego, ma sai come vanno le cose … ero solo preoccupato che il tuo sangue umano non provasse una qualche forma di simpatia per i prigionieri e quindi …”
“TACI!” Vexen sperò con forza che i due non iniziassero un duello quando lui era potenzialmente a tiro delle loro armi “La mia fedeltà al Grande Satana è assoluta, e non accetto prediche da persone senza onore come te, Killvearn. Il modo con cui hai riportato qui Mistobaan e quella ragazza non è stato per niente leale”.
“Lealtà? Pfff … Sai bene come la penso, generale Hyunkel. Ammetto che non avrei possibilità in uno scontro diretto con il nostro vecchio e beneamato Braccio Destro, quindi perché correre rischi?”
Lo scienziato rabbrividì.
Mistobaan è qui. Quindi il Grande Satana sarà davvero …
Il ragazzo dai capelli azzurrini non rispose, ma lo trascinò senza tanti riguardi ed aprì il portone, dando le spalle allo strano essere con la falce che li seguì riprendendo a fischiettare. Stavolta la sala non era affollata, ed oltre a qualche demone guardiano con le lance o le spade in bella mostra non c’erano mostri o figure curiose a lanciargli sguardi indiscreti da dietro le colonne. Vexen si sarebbe aspettato un’accoglienza con tanto di palla di fuoco, con il Grande Satana fluttuante su di lui nel pieno del suo sdegno. Si stupì di trovarlo seduto sul trono nero, intento a spostare quelli che sembravano minuscole pedine su una scacchiera impreziosita: l’uomo posò lo sguardo su di lui solo per qualche attimo, alla ricerca di qualche segnale che gli indicasse l’umore del demone antico seduto davanti a lui. Ma sul suo viso, più che su quello dei suoi servitori, era disegnata soltanto un freddo distacco, una valanga di pensieri che gli esseri umani non potevano condividere o comprendere.
Il generale Hyunkel si inginocchiò al suo cospetto e lo costrinse a fare altrettanto. Nella mente di Vexen gli attimi passarono come ore, finché la creatura spostò la fatidica scacchiera e concentrò la sua attenzione su di loro. Nel momento in cui sentì di nuovo la sua voce lo scienziato tremò.
“Ho visto come hai ridotto Mistobaan, essere umano. Ho visto il frutto del suo ignobile esperimento”.
Una Sfera Infuocata sarebbe stata preferibile “Io …”
“Quindi immagino che tu sappia tutto su di lui e sulla sua natura”.
“Io ho soltanto …”
“Basta così”.
Vexen tacque. Negli attimi successivi sentì il suo respiro andare avanti ed indietro come un tamburo strozzato.
“Avete usato Mistobaan come un esperimento, un trastullo per la vostra razza ed il vostro egoismi e tu, vile parassita umano, hai osato posare il tuo sguardo sul suo segreto e sollevare il velo del Dono. Non posso tollerare affronto del genere al mio Braccio Destro”. Il . IV non sollevò lo sguardo, e fissò il pavimento di marmo nella speranza che si aprisse una crepa in cui nascondersi “Tu hai condizionato Mistobaan e tu lo farai tornare come prima”.
Ha bisogno di me …
Il pensiero non lo consolava troppo. Il Grande Satana non sembrava intenzionato a dirgli cosa sarebbe successo dopo. Ma questo fatto volevano dire giorni, settimane, attimi di vita in più da poter sfruttare, perché pur avendo superato la metà della vita non aveva alcuna intenzione di finire ucciso in qualche cella di quel palazzo volante, doveva … se fosse riuscito a recuperare Camus …
“Come lei desidera, Grande Satana. Mi faccia disporre di una sala operatoria decente e …”
Volò.
L’impatto lo portò contro una delle colonne nere, mozzandogli il fiato. Ed il dolore alla spalla non presagiva nulla di buono, ma non era nulla in confronto all’espressione del demone sul trono.
L’incantesimo si spense tra le sue dita “OPERARE? UMANO, SE OSERAI DI NUOVO METTERE LE TUE LURIDE MANI NEL CERVELLO DI MISTOBAAN TI DARO’ IN PASTO AI DRAGHI DEL GENERALE BARAN!”
“Ma non posso riuscire senza operarlo!”
Quando aveva condizionato l’essere incappucciato aveva usato tutti i poteri del castello dell’Oblio per raggiungere il suo intento, ed aveva approfittato delle potenzialità delle stanze della memoria per alterare i ricordi del prigioniero. L’operazione era stata minima, ma Vexen sapeva che il merito era stato soprattutto del grande potenziale del Castello e dello Spirito addormentato. Ma alterare i ricordi senza di esso … avrebbe dovuto lavorare manualmente. Aveva fatto delle pratiche sui suoi sacerdoti, intervenendo su Camus in più occasioni, ma per il ripristino delle funzioni cognitive doveva approcciarsi in modo diretto alle sinapsi, regolare gli intervalli di trasmissione ad occhio e scegliere le nuove memorie da inserire in base alla configurazione neurologica. Doveva operare manualmente nell’encefalo, e in tutti i suoi interventi non aveva impiegato meno di cinque ore.
Come poteva il Grande Satana pretendere di …
“Sono convinto che ci riuscirai” fece l’altro, con la voce insolitamente tornata calma “Voi umani non dite sempre che quando siete in pericolo il vostro ingegno si aguzza? Datemi una dimostrazione”.
Ma io non …
“Ti lascerò a disposizione il laboratorio di Zaboera e l’accesso alla biblioteca. Hai dieci giorni per trovare una soluzione. Altrimenti …”
Non terminò la minaccia, o forse era lui a non averla sentita.
Non posso farlo senza operare, non senza il Castello …
Dieci giorni …

Si lasciò portare via dal generale Hyunkel senza protestare, ma nella sua mente ormai c’era solo un calderone di formule e paura e senza più alcun senso.


“MU, RALLENTA, DANNAZIONE!”
Solo una parte lontana della sua mente fu cosciente dell’urlo di avviso del suo compagno. Il giovane sacerdote corse lungo la scala divorando i gradini, fissando con il cuore in gola la devastazione che lo circondava. Le loro Case non esistevano più.
Due notti prima lui ed Auron stavano organizzando un piccolo fuoco da campo nel cuore del bosco quando avevano sentito l’esplosione accompagnata da un lampo di luce accecante quanto il sole che sorgeva dal Tempio delle Dodici Case che fino a qualche minuto prima si era stagliato nel pacifico panorama della regione di Papunika. Aveva sperato, aveva pregato, aveva implorato fino all’ultimo che non si trattasse di loro, ma quelle rovine non lasciavano altra spiegazione possibile.
Chi può … chi può aver fatto una cosa del genere …?
E perché loro? Avevano stretto un patto!

Le rovine delle Case erano vuote, non c’era nessun corpo lungo la scalinata e nulla persino nei resti del roseto di Aphrodite, dove soltanto qualche ramo secco rimaneva a testimoniare che in quel luogo sorgeva uno dei giardini più belli del loro mondo. Ma non era preparato alla scena davanti ai suoi occhi.
“MAESTRO DOHKO!”
La grande roccia dell’osservatorio era ridotta in pezzi. Il pavimento, le colonne, l’altare maggiore, tutto ciò che aveva custodito nella sua memoria nel corso di quegli anni era ridotto in frammenti, e tra quelle macerie vi erano i corpi delle persone che aveva amato e rispettato per un’intera vita, scaraventati in modo scomposto in mezzo a sangue non ancora rappreso “MAESTRO DOHKO!”
La testa del vecchio sacerdote era alla base dell’osservatorio, distante dal piccolo ammasso di abiti che doveva essere il suo corpo. Mu corse verso di lui, poi verso gli altri resti, chi accasciato, chi mutilato, l’espressione di stupore ancora dipinta sul viso di Milo e Aiola.
Lo colpì un freddo improvviso ed il dolore arrivò fin nello stomaco.
“Mu” la mano di Auron lo prese per la spalla. Sentì la forza delle sue dita che cercavano di mantenerlo in piedi “Mu … lo sai che le parole non sono il mio forte ma … mi dispiace”.
“Auron, loro … erano i miei confratelli, i miei amici! Erano persone buone, rispettavano gli dèi, chi ha osato fare una cosa del genere?”.
“I demoni”.
Già.
C’era la loro furia dietro quella devastazione. C’era la loro mano, la loro arroganza, la loro superbia senza pari in quel gesto. Si erano portati via le loro armature dorate come trofei ed avevano lasciato i loro corpi lì senza degnarsi di portare loro il rispetto dovuto. Si inginocchiò verso Milo, gli chiuse gli occhi e pianse. Cercò il rosario che Shaka gli aveva regalato e strinse le perle fino a far sanguinare le dita, cercando le parole giuste della preghiera del Riposo Eterno, ma nella sua mente c’era soltanto un velo umido di lacrime.
Vennero solo poche parole, strozzate dai singhiozzi.
Si sforzò, continuò, ma l’unico pensiero era che quella che era stata per una vita la cosa più vicina ad una famiglia era stata spazzata via insieme al Tempio in cui aveva imparato al essere un sacerdote. Dèi, perché avete permesso una cosa del genere?
Perché …?

“Mu, vieni subito!” dovette richiamarlo Auron “Qui ce n’è uno ancora vivo!”
Il sacerdote si alzò, e barcollò verso il suo amico, che si era levato dalla cintura la borraccia e stava versando il suo contenuto sulle labbra di Saga dopo avergli sollevato la testa dalla posa scomposta in cui lo aveva ritrovato. Anche senza armatura ed il corpo pieno di ferite, il sacerdote dei Gemelli manteneva ancora lo spettro della sua forza e del carisma che Mu aveva sempre apprezzato.
Gli appoggiò il rosario tra le mani, e tremò per il gelo che trasmettevano “Saga, gli dèi siano lodati! Non temere, adesso andremo a trovare un guaritore e ti riprenderai, stanne …”
“Mu …” non era abituato a sentire la sua voce tremare ed arrancare, la semplice sillaba sembrò troncargli il fiato. Auron fece per scostargli la testa, ma appena appoggiò la mano alla base del collo si incupì, ed al sacerdote dai capelli rosa non sfuggì lo sguardo tetro al di sotto degli occhiali.
In quei tre anni di guerra e campi di battaglia era successo molte volte.
“Mu … dunque non sei stato tu … il patto … il Grande Satana …”
Dèi, vi imploro, fatelo vivere, non basta il sacrificio di tutti gli altri? Lui merita molto più di me!
“Allora … se non sei tu … allora Camus …” sputò un primo fiotto di sangue tra i rantolii, mentre le braccia e le gambe rimanevano inserti nonostante l’agitarsi del petto “Camus … lo ha preso il Grande Satana … e poi il patto …”
Camus? Le parole gli arrivarono come una doccia d’acqua gelida. Fino a poco tempo prima si stava quasi rassegnarlo all’idea di liberarlo, impossibilitato dal trovare lui e padron Vexen nel loro vasto mondo, e quel nome gli scivolò tra le mani come un piccolo filo azzurro da seguire che Saga e gli dèi gli stavano lasciando tra le mani.
Gli ultimi respiri furono i più difficili, ma Mu si sforzò di stringergli le dita e di non voltarsi per rispetto verso l’antico orgoglio del cavaliere. Poi dietro lo sguardo vitreo vide un piccolo scintillio dietro gli occhi azzurri “Mu, devi anche trovare S …”
Il gorgoglio di sangue spense le parole, e scivolò lungo i vestiti suoi e di Auron.
Il giovane strinse al petto la sua testa ed esplose in singhiozzi, riprendendo il rosario che le dita del suo confratello non erano riuscite a stringere. Tutto sembrava incredibilmente sbagliato, lui era l’unico ancora vivo in quello che era diventato un cimitero, lui che era stato così debole da lasciarsi condizionare dall’Organizzazione e da dimenticare i suoi compiti, lui che aveva deciso di partire dal tempio seguendo solo i suoi personali sogni di giustizia. Death Mask, Aiolos, Saga, nessuno di loro aveva mai sollevato la testa contro il dominio del Grande Satana, eppure a causa di quel patto l’odio della famiglia demoniaca si era abbattuto su degli innocenti. Se quello era il volere degli dèi … non riusciva a capirlo in quel momento. Non fino in fondo.
Auron gli venne accanto e allontanò le sue braccia da Saga, sollevandolo “Ai loro corpi ci penso io, Mu. Tu resta quassù e prega ancora per loro, guardare il loro strazio non ti servirà a nulla” gli strinse ancora una volta la mano sulla spalla “È meglio che tu li ricordi per come erano”.


Nella cella non filtrava alcuna luce, perciò era difficile comprendere quante ore fossero trascorse. Aveva chiamato più volte, ma il carceriere dai capelli azzurri non si era presentato, e nessuno degli strani scheletri animati al suo servizio aveva aperto la porta per portare loro qualcosa da mangiare.
Si sedette in un angolo, cercando di evitare il penetrante sguardo blu del suo compagno di cella, che si era portato in piedi al centro della stanza e lo fissava come un rapace. Padron Marluxia aveva smesso di attaccarlo da quando padron Vexen era stato trascinato via e di certo stava pensando a qualche piano per fuggire da lì.
“Cosa c’è, Camus? Da quando non c’è più il tuo padroncino hai smesso di abbaiare?”
Il sacerdote cercò di non dargli peso. Padron Vexen aveva sempre detto che padron Marluxia era il più pericoloso ed infido tra tutti i Membri dell’Organizzazione, e non ne aveva dubbi visto che padron Vexen era il più saggio ed il più potente di tutti. Doveva pregare gli dèi ed avere fiducia in lui.
Chiuse gli occhi, cercando di nascondere all’altro la sua preoccupazione. Non era solo per padron Vexen, ma anche per i suoi confratelli e l’ordine che il Grande Satana aveva proferito nella sua sala delle udienze e di cui non riusciva ad avere notizie. Il loro ordine era composto da abili maghi e sacerdoti, ma nessuno in grado di competere contro la furia anche di uno solo dei leggendari corpi d’armata della famiglia demoniaca. Sono stato io.
Non sapeva nulla di quel patto di cui aveva parlato il sovrano, ma la sua furia si sarebbe abbattuta su di loro che erano innocenti ed estranei di tutto. Aveva chiesto al carceriere una seconda occasione per poter parlare col Grande Satana e spiegargli il malinteso, ma quello aveva solo biascicato qualcosa sulla viltà della razza umana mentre padron Vexen gli aveva intimato anche solo di pensare a simili idiozie. E di certo lui aveva ragione perché era saggio e potente, però … era stata colpa sua. Sua e soltanto sua.
Ogni secondo che passava sentiva il bisogno di avere loro notizie, forse gli dèi dall’alto della loro bontà erano riusciti ad impedire la catastrofe.
Devo confidare in loro. E in padron Vexen.
Non si era accorto che padron Marluxia si era avvicinato a lui con tutta la sua grazia, e quando riaprì gli occhi si trovò davanti il suo profilo e si alzò in piedi, ma quello non accennò ad andarsene. “Ti metto tanta paura, piccolo Camus?”
“Non mi fido di lei”.
“Immagino perché il tuo adorabile padron Vexen ti avrà detto tante cose orribili sul mio conto”.
“Padron Vexen è saggio e potente, e non si fida di lei a buona ragione”.
“Lo avrei immaginato”.
Il sacerdote scoprì di trovarsi lontano dall’angolo buio in cui si era rifugiato, molto più al centro della cella e vulnerabile all’uomo dai capelli rosa che con i suoi movimenti sembrava girargli intorno. Aveva sempre avuto quel passo fermo ed autoritario, anche più di quello del suo padrone.
Poi quello si fece sfuggire una lieve risata, trattenuta da un sorriso spaventoso “Povero Camus, contento di essere uno schiavo!”.
“Io non sono uno schiavo. Servo padron Vexen di mia spontanea volontà. E sono felice di essere al fianco della persona più saggia e potente del mondo”.
“Comprendo. Eppure sai che è in grado di condizionare la gente per costringerla ad obbedirgli”.
“Io non sono condizionato”.
Non era un uomo, quello. Era una sua impressione oppure i suoi movimenti si erano fatti più rapidi? Il sacerdote era costretto a ruotare la testa di continuo, seguendo le lunghe falcate del n. XI mentre scivolava intorno a lui senza mai perdere la presa con i suoi profondi occhi blu. Il suo sorriso di sfida … lo spaventava. Si sentì come una mosca circondata da un ragno predatore che attende il momento propizio per saltargli addosso con le parole cariche di veleno. “Oh, non lo metto in dubbio … mi chiedevo solo se per caso tu non avessi da qualche parte una cicatrice strana … di quelle che segnano il passaggio del bisturi di Vexen”.
“Non ho nessuna cicatrice strana e non sono condizionato!”.
Qualcuno entri! Persino il Grande Satana, ma qualcuno entri!
Il predatore passò all’attacco. Abbatté ogni distanza di sicurezza e gli venne incontro scivolando come un petalo, e l’unica difesa di Camus fu allontanarsi di un passo per scoprire di essere di nuovo con le spalle al muro; ma stavolta l’uomo dai capelli rosa era contro di lui ed il suo braccio destro era appoggiato per impedirgli di muoversi, leggero ma impassibile. Le sue dita, avvolte nel guanto, scivolarono sulla sua fronte e gli sollevarono i capelli, fermandosi nel punto in cui questi si univano alla testa e vi scivolò sopra un paio di volte, quasi con noncuranza “E questa da dove viene? Perché ricordo che il caro Vexen usava sempre la fronte come accesso per condizionare i suoi servetti”.
Il sacerdote tremò al solo contatto.
Certo, aveva una cicatrice proprio in quel punto, ma ricordava perfettamente come se l’era procurata.
“Mi lasci, padron Marluxia” cercò di suonare intimidatorio, ma la verità era che la sua voce tremava più che mai “… quella cicatrice me la sono fatta quando ero ancora al Grande Tempio, Aphrodite ha solo sbagliato mira e mi ha ferito con le spine di una sua rosa, tutto qui!”.
Eppure l’altro non se ne andò, continuando il suo movimento delicato e riempiendo il suo sguardo con uno strano ghigno “Davvero? Perché non me lo ripeti di nuovo?”
“Le ho detto che Aphrodite ha sbagliato mira e …”
“Ripetilo!”
“Aph …”
“Ricordati meglio la scena …”
Scosse la testa, preso da un brivido di cui non conosceva l’origine “Quella cicatrice me la sono fatta quando ero ancora al Grande Tempio, Aphrodite ha solo sbagliato mira e mi ha ferito con le spine di una sua rosa!” gridò, cercando rifugio nell’immagine della sua mente, che apparve vivida alla sua chiamata, forse l’unica scena forte e salda tra tutti i ricordi che lo collegavano al passato.
“Ma che bravo pappagallino. Ripeti”
“QUELLA CICATRICE ME LA SONO FATTA QUANDO ERO ANCORA AL GRANDE TEMPIO, APHRODITE HA SOLO SBAGLIATO MIRA E ….
“Pensaci meglio, Camus. Soffermati solo su quello”
“QUELLA CICATRICE …”
Fu in quel momento che l’immagine si incrinò. La scena dell’allenamento, qualche secondo prima così vivida, sembrò attraversata da una gigantesca crepa ed andò in frantumi insieme alla rosa che saettava verso la sua fronte. Fu attraversato da un’improvvisa sensazione di freddo che partì dalla sua testa e si propagò verso il cuore, ed insieme ad essa i ricordi della sua vita al Grande Tempio ripresero a muoversi ed a mescolarsi, liberati da quella gelida stasi in cui gli erano apparsi incarcerati. Ma cosa …?
Strinse la testa tra mani, ed il predatore si allontanò da lui, scivolando di nuovo nell’ombra.
Il mal di testa aumentò, ed ogni volta che cercava di soffermarsi su un ricordo le pulsazioni ed il freddo aumentavano; scuotere la testa non servì a nulla. Cosa vuol dire?
Cosa ha fatto padron Marluxia?

“Sei stato un bravo schiavo, Camus. Obbediente al punto giusto” la voce dell’altro aveva un tono ancora più minaccioso “E quando te ne renderai conto saprai cosa fare. Perché sono sicuro che il tuo adorato padrone ti farà chiamare, e allora chissà se gli ripeterai la stessa cantilena”.
Doveva chiedere aiuto a padron Vexen, la testa gli stava andando in frantumi.
“Se devo proprio venire giustiziato dai demoni non permetterò a chi ci ha trascinati in rovina di passarla liscia”.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Profumi del passato ***


Capitolo 7 - Profumi del passato


Marluxia

Marluxia




La spiaggia era esattamente come Zexion la ricordava.
La sabbia bianca, finissima, di quel tipo che ti penetra fin nei pori della pelle ci vogliono almeno due lavaggi per mandarla via. La riva costellata di alghe, conchiglie e gusci di granchi, qualche medusa morta trasportata pigramente dalla corrente e lasciata al sole a essiccare. Il blu-grigio delle onde che si stendeva ininterrotto fino all'orizzonte, l'odore penetrante del sale, le strida dei gabbiani.
Era in quel luogo senza nome che Zexion aveva visto il mare per la prima volta, tanti anni prima.
“Siamo nel posto giusto?”
Zam Wesell scrutava i dintorni con aria guardinga, ma Zexion sapeva grazie all'olfatto che lì in giro non c'era nessuno. Quel posto era lontano dai centri abitati; quando era bambino vi aveva trascorso innumerevoli pomeriggi a giocare con la sabbia e sguazzare tra le onde, mentre lui leggeva un libro all'ombra dei pini che facevano da contorno alla piccola spiaggia.
Ma non era quello il momento di lasciarsi trascinare dai ricordi.
“Siamo nel mio mondo. Mi dia un po' di tempo per concentrarmi e cercare il palazzo del Grande Satana. E' una reggia volante che si sposta di continuo, forse dovremo fare anche noi un po' di salti a caso prima di trovarlo.”
“Fa' quello che devi. Siamo qui per questo.”
Accertatasi che non c'erano pericoli Zam si appoggiò al tronco di un pino e attese in silenzio. Accanto a lei, Kaspar stava imbambolato con il suo solito sguardo vacuo e assente. Non si sarebbe mosso di lì finché qualcuno non glielo avesse ordinato.
Il fatto che l'Imperatore avesse mandato Zam e Kaspar, i più potenti di tutto l'Impero in campo magico, la diceva lunga su quanto tenesse a quella missione. Zexion li accompagnava per due semplici motivi: perché era l'unico in grado di teletrasportarsi in quel mondo (le Pietre della Sapienza permettevano di raggiungere solamente luoghi già conosciuti), e perché con il suo potere avrebbe individuato facilmente il palazzo del signore dei demoni. Tutto il resto (sfondare, liberare Mistobaan ed eventualmente e se avanzava tempo anche Zachar, fuggire ed annientare eventuali ostacoli sul percorso) era di competenza dei due grossi calibri. Un notevole sollievo per Zexion, che da quando era schiavo dell'Impero aveva sempre detestato con tutto il cuore le missioni sul campo.
Eppure non riusciva a sentirsi tranquillo. Zam poteva anche essere capace di trasformarsi in un drago, ma il Grande Satana di draghi nel suo esercito ne aveva almeno un migliaio. Draghi veri, al comando della creatura più potente e terribile che il suo mondo avesse mai conosciuto: il generale Baran, il Cavaliere del Drago.
Non che all'Imperatore tutto ciò interessasse. “Tornate indietro senza Mistobaan” li aveva avvertiti dall'alto del trono sulla Morte Nera “e giuro che rimpiangerete di non essere stati abbrustoliti dal soffio di un drago.”
Zexion rimase concentrato per diversi minuti nel tentativo di dipanare la massa di odori che permeavano l'aria intorno a lui, ma ben presto fu chiaro che ciò che cercava non si trovava nelle vicinanze. Un concentrato di magia pura come il Baan Palace avrebbe spiccato su qualsiasi altro odore, intenso e asfissiante quasi come la frenesia di Coruscant.
“Come temevo, dobbiamo spostarci” disse infine.
Zam si limitò ad annuire e trasse dalla tasca le Pietre della Sapienza, mentre con l'altra mano tirava Kaspar a sé afferrandolo per un braccio.
“A te.”
Zexion toccò le pietre sul palmo della donna e si concentrò sulla destinazione successiva, un altro luogo di quel pianeta che aveva conosciuto quando era bambino.
Un istante dopo sulla spiaggia non c'era più nessuno.


La piazza era silenziosa malgrado la folla assiepata sotto il patibolo. La gente teneva la testa bassa, evitando soprattutto di incrociare lo sguardo dei demoni o di attirare la loro attenzione. I loro volti erano scuri, le bocche serrate in linee di disapprovazione, gli occhi pieni di paura e rassegnazione. Il silenzio era così assoluto che Marluxia riusciva a sentire ogni minimo scricchiolio della piattaforma di legno sotto i suoi piedi.
Era uno spettacolo quasi surreale, inaudito. Marluxia ricordava bene le esecuzioni dei criminali prima dell'avvento della famiglia demoniaca: c'era poca differenza tra quelle e le sagre di paese. La gente si accalcava sotto al patibolo per accaparrarsi un posto in prima fila, c'era chi si arrampicava sui tetti e sui balconi circostanti per avere una visuale migliore, e in mezzo alla folla spettegolante e colorata venditori ambulanti offrivano caldarroste, mele candite e spiedini alla brace. Le occasioni più attese erano i roghi dei miscredenti (che in teoria erano vietati dal Tempio delle Dodici Case, ma nei luoghi più lontani c'era sempre qualche sacerdote minore che si faceva prendere dalla smania di purificare il mondo dal peccato con mezzi non ortodossi, e il popolino lo seguiva volentieri), perché si poteva scommettere su quanto tempo il condannato avrebbe resistito prima di urlare e quanti minuti ci avrebbe messo a morire. Poi generalmente i vincitori delle scommesse offrivano un giro a tutti in taverna e tutto finiva in una colossale ubriacata di gruppo.
Quel giorno non era un rogo ad attendere Marluxia, ma un banale cappio, la morte dei ladri e dei criminali da due soldi. Un tempo, in onore al suo rango, gli avrebbero concesso la decapitazione, ma le sue terre e i suoi castelli erano perduti ormai da molto tempo, e dopo l'avvento dei dominatori demoni nessuno ricordava più il nome del nobile casato dei Dayel. Meno che mai i demoni, per cui tutti gli umani senza distinzione erano criminali da due soldi, feccia del mondo.
Un araldo dalle orecchie a punta si fece avanti sulla piattaforma, sovrastando la folla.“Sudditi del Grande Satana! Siete stati radunati qui per assistere all'esecuzione di un traditore, colpevole di aver complottato contro la famiglia demoniaca e Sua Eccellenza il Grande Satana in persona. Un progetto folle, presuntuoso e irrealizzabile, per cui ora questo umano sconterà davanti a tutti la giusta punizione. Che la sua misera fine serva a tutti voi come monito e lezione per il futuro...”
Mentre la tiritera andava avanti Marluxia provò per l'ennesima volta a disfarsi dei legacci che gli bloccavano i polsi. All'apparenza erano semplici corde di canapa, ma i suoi carcerieri dovevano aver imposto su di esse qualche incantesimo protettivo, perché erano pesanti e inamovibili come catene. Se non fosse riuscito a liberare le mani non avrebbe potuto usare la magia.
Non aveva speranza comunque, di questo si rendeva conto. Forse con i poteri del Castello dell'Oblio sarebbe riuscito a sopraffare i dieci demoni a guardia del patibolo e della piazza, ma così... Ma non voleva morire col cappio al collo come un pezzente qualsiasi. Meglio andarsene combattendo, mostrare a quei luridi demoni che fino alla fine il principe Marluxia si era rifiutato di inchinarsi a loro. Negli ultimi tre anni aveva calpestato la sua dignità in modi che non avrebbe mai ritenuto possibili: insieme ad Axel e Larxen aveva rubato per sopravvivere, dormito sotto i ponti e all'addiaccio, patito le ingiurie del freddo, della fame, della miseria. Non avrebbe sopportato anche quest'ultimo affronto.
Terminato il discorsetto l'araldo fece un cenno a due dei suoi compagni, che presero Marluxia per le braccia e lo trascinarono lentamente ma inesorabilmente verso il cappio sospeso al centro della piattaforma.
Il numero XI deglutì. Il momento era giunto. Fece appello a ogni goccia di magia nel suo sangue per contrastare quella delle corde che lo imprigionavano, disperatamente, mentre il cuore gli martellava all'impazzata nel petto e il cappio si faceva sempre più vicino. Uno dei due demoni lo immobilizzò mentre l'altro gli assicurava la corda al collo; un terzo, poco distante, era pronto a tirare la fune che lo avrebbe issato da terra per lasciarlo soffocare. Era un tipo di impiccagione più crudele di quella in cui ti lasciavano cadere dall'alto o ti levavano di colpo lo sgabello da sotto i piedi: invece di romperti subito l'osso del collo rimanevi a dimenarti per lunghi e orribili minuti fino a che la tua faccia non diventava viola e i tuoi polmoni agonizzavano per la mancanza d'aria. Una morte lenta e dolorosa, indegna di un principe.
L'araldo si fece nuovamente avanti e incitò la folla a inneggiare alla gloria del Grande Satana. Con la corda al collo, Marluxia li fissò con disprezzo: una mandria di pecore che non avevano la forza né il coraggio per ribellarsi a chi li opprimeva.
Io non sono come loro, pensò con rabbia, io non merito di morire come loro. Strinse i denti e attinse alla rabbia dentro di lui, lasciando che lo travolgesse. Ripensò alla sconfitta e alla fuga ingloriosa dal Castello dell'Oblio, alle umiliazioni di quei tre anni di vagabondaggi privi di scopo, alla gioia furente con cui aveva colpito Vexen e Camus nella cella, e lasciò che tutto il suo odio rinvigorisse e accrescesse la sua magia. Le parole dell'araldo e i belati della folla si persero nel rombo sordo che gli faceva pulsare la testa e le orecchie; intorno a lui si materializzò pian piano una cascata di petali, sempre più folti e numerosi, e finalmente percepì il vincolo magico che gli imprigionava i polsi incrinarsi lentamente.
La sua esultanza interiore durò appena un istante: l'araldo aveva finito di arringare la folla. Marluxia sentì il cuore ghiacciarglisi nel petto quando lo vide fare un segnale al demone addetto alla fune.
NO! Mi serve solo un attimo, solo un...
Aprì la bocca per gridare, ma la corda strozzò le sue parole. Sentì i piedi sollevarsi dal terreno e i polmoni contrarsi disperatamente alla ricerca di aria, mentre il cappio gli segava la pelle del collo e gli serrava la gola come una morsa d'acciaio. Oltre il velo di lacrime che gli appannava gli occhi vide l'araldo sorridergli con crudeltà, e capì che aveva percepito subito il suo patetico tentativo di fuga. Annaspò, si contorse e dimenò le gambe mentre sentiva la testa esplodere per il dolore e i pensieri confondersi in un vortice caotico di paura e dolore...
I petali sulla piattaforma appassirono e si ridussero in cenere.
Era finita.
Poi un grido, una luce accecante. Sentì l'araldo abbaiare degli ordini, il tono sorpreso e furente. Per un attimo il suo corpo fu avvolto da una sensazione di calore; sentì la corda sopra la sua testa assottigliarsi e incenerirsi e subito dopo cadde giù, atterrando in ginocchio sulla piattaforma. L'aria tornò di colpo a inondargli i polmoni straziati, pura e meravigliosa come acqua fresca per un viandante del deserto. Tossì e si portò le mani al collo, massaggiandosi la pelle lacerata. Non sapeva come, ma le corde ai polsi erano sparite.
Intorno a lui regnava il caos. La piazza si stava svuotando, la gente correva urlando in tutte le direzioni, calpestandosi a vicenda e rovesciando i banchetti dei venditori, disperdendosi nelle vie circostanti. Incantesimi volavano da una parte e dall'altra, e Marluxia vide uno dei dieci demoni atterrare a pochi passi da lui, stordito e con le vesti semi carbonizzate.
Un solo avversario stava tenendo testa a tutti loro. Il numero XI lo fissò a bocca aperta. Il suo misterioso soccorritore aveva il volto celato dal cappuccio di un lungo mantello marrone che doveva aver visto giorni migliori, ma le sue mani brillavano di una luce calda e accecante, il bagliore intenso della magia. La sua aura sembrava piuttosto potente.
“Mostra il tuo volto, vigliacco!” gridò un demone facendo partire una Palla di Fuoco che si infranse senza successo contro lo scudo luminoso attorno al corpo dell'incappucciato. “Sei della Resistenza?! Chi ti ha mandato?!”
L'uomo misterioso non rispose. I demoni avevano il vantaggio del numero, ma Marluxia notò che nessuno di loro cercava di girare attorno all'avversario per colpirlo alle spalle.
Il loro senso dell'onore li porterà alla tomba, pensò con disprezzo. Con estrema lentezza, cercando quanto più possibile di ignorare il dolore lancinante al collo, posò i palmi delle mani a terra e chiamò la sua magia.
Sotto le assi di legno della piattaforma e il lastricato sconnesso della piazza c'era il suolo, la terra ricca e grassa da cui radici, piane e fiori traevano il loro sostentamento. I suoi poteri erano più forti se usati in un ambiente ad essi favorevole, e Marluxia li usò per generare semi di magia che si infiltrarono tra le zolle di terreno e iniziarono a germogliare silenziosamente ma con rapidità devastante.
Nel frattempo i demoni avevano stretto l'incappucciato contro il muro di una casa, e lo circondavano come falchi predatori.
“E' finita, umano. Ti riconosciamo che sei coraggioso per la media della tua razza, ma non hai mai avuto speranza contro di noi. Arrenditi.”
Neanche allora l'incappucciato parlò. Invece fece una cosa che stupì Marluxia a tal punto da fargli perdere per un attimo la concentrazione sull'incantesimo: si sedette a terra a gambe incrociate, le mani giunte come in segno di preghiera.
Questo è fuori di testa...
I demoni lo presero come un segno di resa. “Molto bene” fece quello che sembrava il capo. “Prendetelo.”
A quel punto l'uomo si sollevò in aria.
“Cosa diavolo...?”
Un turbine di luce e di vento circondò la sua figura e il cappuccio gli scivolò all'indietro, rivelando una gran massa di capelli biondi che gli circondò il volto come un'aureola sfolgorante.
Marluxia avvertì qualcosa cambiare nell'aria, una pesantezza strana che lo faceva respirare con difficoltà, come se avesse ancora il cappio legato al collo. Anche i demoni dovettero percepirlo, perché istintivamente fecero qualche passo indietro, schermandosi gli occhi dalla luce intensissima emanata dall'essere misterioso. Chiunque fosse emanava potere e autorità malgrado il mantello stracciato, e aveva in sé una calma quasi soprannaturale, mistica. Marluxia era a bocca aperta.
Assiso su un trono di luce e vento, l'uomo dai capelli biondi mosse impercettibilmente le mani e pronunciò due semplici parole:
“Tenbu Horin!”
Marluxia sentì la testa pulsargli ferocemente, attraversata da scariche di un'energia aliena, vibrazioni profonde che gli scuotevano la mente, mentre la realtà davanti ai suoi occhi fluttuava e si increspava come vista attraverso una barriera d'acqua. Era doloroso, ma nulla in confronto a quello che dovevano provare i demoni: erano caduti in ginocchio portandosi le mani alle tempie e urlavano mentre un'onda di luce li travolgeva inghiottendo la piazza, il patibolo, le strade e le case in un tripudio di bianco accecante.
Quando la luce svanì erano tutti a terra, privi di sensi, forse morti. L'uomo misterioso era di nuovo con i piedi per terra, e si rivolse nella sua direzione. Ora Marluxia riusciva a vederlo bene in volto: era giovane, doveva avere la sua età e forse anche meno, ma il suo volto era serio e austero come quello di un anziano saggio. Teneva gli occhi chiusi.
“Stai bene?” gli chiese, venendogli incontro.
Marluxia fece cenno di sì e si rimise faticosamente in piedi.
“Chi...” le parole gli morirono sulle labbra. Lo vide appena in tempo: uno dei demoni a terra, ancora cosciente, la mano tremante sollevata nell'atto di sprigionare un incantesimo.
“ATTENTO!”
Marluxia reagì d'istinto: i semi di magia che aveva piantato nel terreno finirono di sbocciare e il lastricato della piazza saltò in aria in mille schegge quando un' immensa radice spuntò dal terreno, avvolgendosi intorno al collo e alle braccia del demone. Quello urlò, ma in un modo o nell'altro riuscì ugualmente a lanciare il suo incantesimo, una nuvola verde scintillante che lo circondò da capo a piedi. Una banale magia di guarigione.
Già, loro non colpiscono alle spalle.
Marluxia non aveva intenzione di essere altrettanto cavalleresco. Strinse le mani a pugno e la radice iniziò a serrarsi attorno al collo del malcapitato.
Inaspettatamente l'uomo biondo lo prese per un braccio, interrompendo la sua concentrazione: “No, non ucciderlo!”
Troppo tardi, pensò Marluxia, ma il demone approfittò dell'attimo di distrazione. Con un urlo sprigionò dal corpo un'aura di fuoco che ridusse la radice gigante in cenere, poi evocò un altro incantesimo di guarigione sui suoi compagni. Tre di loro si rialzarono.
“Maledizione!”
Il biondo avanzò verso di loro: “Fermatevi! Non potete vincere, lo avete visto! Non spargiamo inutilmente altro sangue!”
Quelli non lo ascoltarono e caricarono i loro incantesimi, e Marluxia fece lo stesso. Li investì con una raffica di petali taglienti come rasoi, distraendoli mentre le radici spuntavano nuovamente dal suolo e li afferravano. Schivò con un salto la saetta di fulmini di uno degli avversari, e con la coda dell'occhio vide il primo demone, quello che aveva curato gli altri, che mormorava sottovoce qualche parola mentre le sue mani si illuminavano di blu. Un incantesimo di livello superiore.
La radice scattò e gli si avvinghiò intorno a un braccio. Marluxia strinse i denti e torse il polso, e il demone si mosse come una marionetta legata ai fili: la radice gli spezzò il braccio, rivoltando la mano e il suo stesso incantesimo contro il suo viso. Quando lo lasciò cadere a terra non respirava più, il volto ustionato e irriconoscibile.
Erano tre anni che Marluxia non provava una tale efferata soddisfazione.
Il biondo intanto aveva respinto con l'ennesima ondata di luce gli altri tre avversari. Il numero XI sorrise con crudeltà e fece calare le radici saettanti come altrettante fruste, infierendo senza pietà sui loro corpi straziati.
Questo è per il cappio che mi avete messo intorno al collo, bastardi!
“NO, BASTA!”
Un'onda di luce dissolse le sue radici riducendole in cenere. Il biondo ora era di fronte a lui ora, e anche se continuava a tenere gli occhi chiusi Marluxia aveva l'impressione che potesse vederlo distintamente.
Chi diavolo è questo tizio?!
“Presto ne verranno altri. Andiamocene, forza!”
Non aveva tutti i torti. Marluxia lo seguì correndo attraverso un intrico di vie e viuzze fino ai margini della piccola cittadina di cui la piazza dell'esecuzione era il centro. Non conosceva quel luogo, perciò era totalmente nelle mani del suo salvatore.
Nessuno tentò di fermarli. Pareva che tutti gli abitanti si fossero rifugiati in casa non appena era iniziato il combattimento, e vi sarebbero rimasti tremanti e spaventati fino a che i demoni non li avrebbero stanati per interrogarli sull'accaduto.
L'uomo biondo lo condusse nel folto di un bosco. Trovarono un fiumiciattolo e vi camminarono dentro per diverse miglia, in completo silenzio, l'acqua fangosa che lambiva loro le ginocchia impregnando irrimediabilmente la parte inferiore della tunica di Marluxia. I demoni avevano i loro metodi magici per rintracciare i fuggitivi, ma sempre meglio non trascurare le buone vecchie norme basilari di occultamento delle tracce.
Osarono fermarsi solo dopo alcune ore. Esausto, Marluxia si lasciò scivolare sull'erba appoggiando la schiena al tronco di un albero caduto, mentre il suo compagno si sedeva su una pietra coperta di muschio. Per qualche minuto in quell'angolo di foresta non si udì altro che il suono strascicato dei loro respiri affaticati.
La prima domanda che Marluxia fece non appena ebbe ripreso fiato fu: “Chi sei?”
“Mi chiamo Shaka” rispose l'altro, e il n. XI notò che continuava a tenere gli occhi chiusi. “Sono un sacerdote, e sto cercando la Resistenza. Puoi portarmi da loro?”
Crede che io ne faccia parte... logico, dopotutto stavo per essere giustiziato per complotti contro la famiglia demoniaca...
“E' per questo che mi hai salvato?”
Il biondo scosse la testa: “Ti ho salvato perché eri in pericolo. Troppo a lungo noi religiosi abbiamo chiuso gli occhi di fronte ai soprusi dei demoni, e abbiamo pagato a caro prezzo la nostra debolezza. Ora per quel che mi rimane da vivere desidero agire, fare la differenza.”
“Beh, per quanto riguarda me personalmente la differenza l'hai fatta eccome. Ti ringrazio.”
Stava per aggiungere che lui della Resistenza non aveva mai saputo nulla quando udirono un rumore di rami spezzati e fronde in movimento vicinissimo a loro. Marluxia scattò in piedi in un unico, elegante movimento, tutti i sensi all'erta. In mezzo alla vegetazione aveva poco da temere, e già le forze gli erano in parte tornate: con l'aiuto del misterioso Shaka poteva farcela ad affrontare un altro combattimento. Non lo avrebbero trascinato di nuovo sul patibolo.
Era pronto a fronteggiare drappelli di demoni e un manipolo di creature mostruose, ma dopo tutti quegli anni non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi di nuovo faccia a faccia con i due uomini che sbucarono pochi secondi dopo dal sottobosco.


“Shaka …? Sei … sei proprio tu?”
Mu aveva paura persino di respirare, nel timore che la persona davanti a lui fosse solo un’illusione della sua mente stanca e svanisse nella luce al primo respiro. Ma il biondo non sparì. Rimase lì, in piedi davanti a lui, con i suoi occhi che sin da quando erano bambini erano rimasti chiusi e con i capelli ancora scompigliati dalla fuga e dalla battaglia. Quanti anni erano passati dall’ultima volta che si erano visti? Tre, forse qualcosa in più.
Ma non poteva essere altri che lui perché l’attimo di dopo si strinsero tra le braccia con forza, con il sapore di un abbraccio che aveva quasi dimenticato con lo scorrere del tempo.
“Sì, Mu, sono io. Ma cosa ci fai qui?”
“Gli dèi hanno guidato i miei passi. Ed anche i tuoi”
“Più che di dèi io preferirei parlare di demoni” fece Auron, sbucando da dietro un gigantesco pino. Appoggiò lo spadone sulle spalle e si sistemò gli occhiali, fissando incredulo lui e Shaka ancora abbracciati; poi i suoi occhi scuri si posarono su qualcuno di cui Mu a stento si era accorto dell’esistenza “Padron Marluxia! Che sorpresa vederla … ancora vivo
Di sicuro il n. XI doveva aver visto giorni migliori. Era stanco, spettinato, ed alla vista del mercenario si era alzato in piedi a fatica; il collo aveva un colore tra il rosso ed il viola, segno che la persona che era scampata alla condanna a morte dei demoni era proprio lui. Mu ed Auron avevano raggiunto il villaggio e lo avevano trovato nel più totale scompiglio, e tra le urla delle donne in fuga avevano compreso che vi era stata una mancata impiccagione ed un mago era intervenuto. Un incantatore potente, perché stando alle loro parole aveva sconfitto da solo un drappello di demoni. Non avrebbe mai pensato di trovarsi uno dei loro vecchi aguzzini ed il suo confratello più caro faccia a faccia “Sa una cosa, padron Marluxia? Sono davvero felice che i demoni non l’abbiano appesa per il collo … PERCHE QUELLA E’ UNA SODDISFAZIONE CHE NON LASCEREI A NESSUNO!”
“Non vorrai colpire un fiore!”
“Oh, io di solito i fiori li calpesto con i miei stivali! E sappia che una volta finito con lei penserò anche ai suoi degni compari!”
Prima che Auron potesse avanzare fu Shaka a pararsi davanti a lui “Fermati! Agli dèi non è caro vedere gli umani versare il loro sangue fra loro”
“Ma io non voglio versare il suo sangue … POSSO STRANGOLARLO SENZA FAR USCIRE NEMMENO UNA GOCCIA! Fatemi solo mettergli le mani addosso e …”
Mu intervenne, non sapendo nemmeno lui perché. Anni prima il suo amico stava per uccidere un Membro dell’Organizzazione, e venendo meno a qualsiasi suo voto lo aveva lasciato fare, spinto dalla furia, dal dolore e dal desiderio di rivalsa su coloro che si erano presi gioco della sua mente. Aveva ripensato a quel gesto diverse volte, e vi aveva trovato del torto “Auron, fermati. Basta così!”
“COOOOSA? Mu, quello è il pezzo di merda che ci ha condizionati!”
“Appunto” Respirò, ma il semplice fatto che il suo confratello fosse lì accanto diede nuova forza alla sua fede “Gli dèi vogliono che noi perdoniamo coloro che ci fanno del male”
“Per me gli dèi possono volere anche che il Grande Satana si metta a ballare nella piazza centrale di Papunika, ma IO non ho intenzione di perdonarlo. E sai come la penso!”
“Noi dobbiamo porgere l’altra guancia, Auron”
“Io al massimo porgo l’altro pugno”
Guardò prima il suo amico, poi Shaka. Quello sorrise ed annuì. Il giovane sacerdote si rese conto solo in quel momento di quanto fosse stato lontano da casa; la Resistenza ed Auron erano stati come una famiglia, ma quel sorriso di approvazione sincero, forse un po’ complice, era lo stesso con cui era sempre cresciuto. Era quel sorriso che aveva cercato nei suoi confratelli nei momenti di sconforto o di debolezza, quello stesso che la famiglia demoniaca aveva barbaramente spento al Tempio delle Dodici Case pochi giorni prima. Appoggiò la mano sul pugno stretto di Auron, pronto anche ad essere sbalzato via dalla furia del suo amico.
Ma fu l’altro ad abbassare il braccio.
Sbuffò, sibilò qualcosa tra i denti, e pur mantenendo l’occhio fisso sul Membro dell’Organizzazione fece ricadere il braccio sul fianco, ed il sacerdote dai capelli viola tirò un sospiro di sollievo.
“Solo per questa volta, Mu …”
“Sapevo che avresti capito”.
“No, non lo capisco affatto. Non perdonerò mai quel bastardo laggiù ma … so quanto sia importante questo tuo confratello per te”.
Era proprio vero, la sola presenza di Shaka riusciva a compiere dei miracoli. Anche senza l’armatura della Vergine riusciva a mantenere un aspetto sacro ed inviolabile, si trovasse nel tempio più splendente o in una semplice foresta. Anche Mu era stato costretto ad abbandonare la sua armatura dorata, ed osservando l’altro sacerdote si portò la mano al suo vestito semplice, dimesso, così fuori posto su un corpo abituato a portare per intere giornate decine di libbre di metallo: dopo quello che avevano trovato alle Dodici Case Auron non aveva voluto sentir ragioni, e l’aveva costretto a seppellire l’armatura sacra in un luogo sicuro per un po’. I Cavalieri d’Oro non erano più i benvenuti nel loro mondo. Ed a giudicare dalla tunica di Shaka, il suo confratello doveva aver fatto la stessa scelta. Ma scivolando la mano lungo l’abito, trovò i familiari grani dai quali aveva rifiutato di separarsi; fece per prenderli, ma la voce del n. XI attirò l’attenzione di tutti e tre.
“Bene, visto che avete deciso di non uccidermi … cosa di cui sono grato, ve ne assicuro … per quel che mi riguarda leverei il disturbo”
“Non così in fretta!”
“Cosa c’è, mercenario? Mi sembrava di aver capito che non desideri la mia compagnia!”
Prima padron Marluxia se ne andrà e meglio sarà per tutti noi!
Fece di nuovo scivolare il rosario sotto i vestiti e tornò a frapporsi tra i due uomini. Il suo amico gli lanciò l’ennesimo sguardo di disapprovazione della giornata, ma si costrinse ad ignorarlo “Lasciamolo andare, Auron. Non è in condizione di nuocere più a nessuno, ormai”.
Non era così sicuro delle sue parole, ma si costrinse a dirle a voce alta, più per rassicurare se stesso che per convincere gli altri due; gli occhi blu del loro antico carceriere continuavano a brillare della loro luce assassina anche dopo la mancata impiccagione, e considerarlo innocuo sarebbe potuto essere un grande sbaglio. Ma qualcuno doveva pur abbassare le armi per primo “Gli dèi lo hanno punito abbastanza. E sono sicuro che la loro giustizia avrà toccato anche gli altri padroni”.
Padron Marluxia sorrise.
“Oh, su questo hai davvero ragione, patetico dolce Mu. Axel e Larxen sono diventati le nuove cavie da laboratorio dei demoni, e per quel che riguarda il vostro tanto amato padron Vexen …” aveva dimenticato quanto fosse inquietante il n. XI “ … sì, credo qualcuno si sia deciso a dargli la punizione che gli spetta. Qualcuno che finalmente si è reso conto di essere stato uno schiavo per troppo tempo e che …”
“CAMUS?”
“Questo sta a voi scoprirlo. Ma credo vi convenga iniziare a correre, perché non penso che sopravvivrà a lungo nel covo del Grande Satana. Sempre che voi siate intenzionati a salvarlo, s’intende!”
Auron sollevò di nuovo la spada e superò Mu con un unico, grande passo “Si spieghi meglio!”
“Non voglio rovinarvi il divertimento”
Il sottobosco si sollevo; le piante ed i rovi vicino a cui il n. XI si era seduto presero vita di colpo, ed i fusti diventarono grandi quanto un loro braccio mentre le foglie nascosero l’uomo dall’abito nero, e il giovane sacerdote era sicuro che una radice della quercia si fosse levata da sola dal terreno per intralciare il soldato vestito di rosso. Auron incespicò ma non cadde, e la lama della Masamune fendette in un solo colpo la vegetazione semovente, distruggendo in un attimo la magia che l’aveva attraversata e trovandosi davanti solo piccole piante martoriate. Ma padron Marluxia era sparito.
Il suo amico si lanciò tra gli alberi, e Mu stava per inseguirlo quando la mano di Shaka trovò la sua “Non lo prenderà. Non qui dentro, almeno”.
Rimasero soli nella radura, ed il sacerdote dai capelli viola respirò a fondo. Mentre le grida di Auron si facevano sempre più lontane ritornò con la memoria alla tragedia di qualche giorno prima, con il Tempio ormai ridotto a delle rovine impotenti. Gli umani del loro mondo non avevano fatto nulla, e da quello che aveva sentito nel corso del viaggio avevano troppa paura dei demoni del Grande Satana anche solo per commentare l’avvenimento. Non vi era stato nessun bando, ma gli occhi infuriati delle creature magiche avevano sancito la legge non scritta che vietava di compiangere i Cavalieri d’Oro, e la gente comune aveva chinato il capo.
Avrebbe dovuto essere felice di rivedere Shaka dopo tanti anni eppure, una volta soli, fu colto da un nodo alla gola e pianse.
C’erano tante cose che doveva chiedergli. Un centinaio, un milione di domande, tutte quelle che si erano accumulate nel corso degli anni in cui si era allontanato dal Tempio per seguire la Resistenza; eppure al posto delle parole uscirono soltanto dei lamenti confusi. Sentì Shaka abbracciarlo una seconda volta e prendere al posto suo il rosario “Gli dèi ci hanno concesso un tempo per tutto, Mu. Dobbiamo trovare Camus, se quello che ha detto quell’uomo è vero”.
Era incredibile come riuscisse a profumare di erbe sacre e d’incenso anche lontano dalla sua Casa “E quando saremo di nuovo tutti e tre insieme, gli dèi ci daranno il giusto tempo per piangere coloro che abbiamo perso. Ma dobbiamo avere fede”.


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Fonte della fanart a inizio capitolo: http://browse.deviantart.com/?qh=§ion=&global=1&q=marluxia+arkoniel#/d1a0lmn

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - L'eccezione e la regola ***


Capitolo 8 - L'eccezione e la regola


Camus

Camus




Narratore: "Registe, per quanto ancora intendete cincischiare?"
REGISTE: "Noi? Cincischiare? Narratore, che dici?"
Narratore: "Dico che il fatidico capitolo 8 è arrivato … "
REGISTE: "Naaaa, ti sbagli, guarda che siamo ancora al capitolo 7... "
Narratore - passa il copione- : "No, no, il capitolo 8 attende solo di essere narrato, e per quel che mi riguarda io racconterei solo la scena di Camus saltando quell’inutile sega mentale di … "
REGISTE: "Non è una “sega mentale”, ma un “approfondimento psicologico”"
Narratore: "Sarà …ma non mi convince … vabbè, direi di iniziare o qui non la finiamo più, via il dente, via il dolore!"
REGISTA: "Dobbiamo proprio?"
REGISTA: "E se passassimo direttamente al capitolo 9?"
REGISTA: "No, quei pochi lettori che abbiamo fiuterebbero l’inganno!"
REGISTA: "D’accordo, allora si dia inizio alla fatidica narrazione. Adoro questo pezzo, però scriverlo non sarà una passeggiata, già me lo sento."
REGISTA: "Abbiamo un Narratore proprio per raccontare al posto nostro …-sorriso sadico- "




Padron Vexen era in piedi, rigido, con le mani che sfogliavano con rabbia un libro enorme, chino su un tavolo da studio troppo piccolo per qualsiasi essere umano; i demoni di guardia alla stanza erano circondati da cerchi di fuoco incantato per proteggersi dal gelo che il n. IV dell’Organizzazione emanava. Il sacerdote, dopo tutti quegli anni di viaggio insieme, aveva imparato a sopportare senza alcuna protesta il manto di freddo che accompagnava padron Vexen, ma questo rendeva i carcerieri inquieti. Era innegabile lo sguardo di disgusto che lanciavano anche verso di lui.
Non si accorse subito della sua presenza, impegnato com’era a sfogliare il grande tomo rilegato in pelle che doveva essere soltanto l’ultimo di una grande serie di volumi accatastati senza troppi riguardi sul pavimento. Una tazza dal contenuto color bruno chiaro era appoggiata accanto a lui, apparentemente mai toccata.
Aveva tante domande nella sua testa.
“Alla buon’ora!” esclamò lo scienziato quando Camus trovò il coraggio di avanzare di un paio di passi nella sua direzione “Mi serve una mano a leggere tutti questi libri, ho chiesto al Grande Satana di farti uscire da quel buco di prigione per darmi una mano … prendi uno di quei volumi sul secondo scaffale vicino alla finestra e cerca qualcosa di utile”.
“No”.
Gli occhi verdi lo trafissero, più furenti di quella volta che aveva rovesciato per errore la pozione frutto di due notti insonni. Anzi, furenti non era la parola esatta. Increduli, così li avrebbe definiti.
“Ripetilo …”
“No. O almeno non subito”.
“Camus, che diavolo ti salta in testa?”
Si morse il labbro, cercando le parole giuste da scegliere. Nella testa gli vorticava ancora il sorriso divertito di padron Marluxia ed i suoi occhi color del mare che scintillavano durante la sua sofferenza; da quando aveva distrutto il ricordo degli avvenimenti nel Grande Tempio tutto aveva iniziato a muoversi davanti ai suoi occhi. Ricordi, sensazioni, un fiume in piena di scene che ormai non era più sicuro di aver realmente vissuto. Persino in quel momento, fissando le occhiaie dello scienziato e le sue mani congestionate, ricordava l’immagine di padron Vexen avvolto in una tormenta di neve al massimo della gloria. La sensazione sgomento e sottomissione era ancora lì, nel suo petto, come una forza che gli ordinava di piegare il ginocchio e correre ad obbedire ai suoi ordini. Dovette pronunciare le parole con più forza del previsto, perché il pensiero schiacciante dell’onnipotenza e della furia del suo signore sembrava serrargli la gola: “Padron Vexen … lei mi ha condizionato, vero?”.
“Cosa?”
“Le ho chiesto se mi ha condizionato. Come ha fatto con Auron e con Mu”.
Lo scienziato smise di sfogliare il volume e la sua attenzione fu tutta su di lui; si sentì squadrato, come se quegli occhi volessero sollevare la sua pelle con una lama affilata e scoprire perché si fosse rifiutato di obbedire. Passarono pochi secondi, poi l’uomo cambiò espressione “Ma ovviamente no, Camus! Che idiozie vai blaterando?”.
Mente.
I suoi occhi mentono.

“Chi ti ha messo in testa una simile idea?”.
Non vi era motivo di tacere la verità; quando il sacerdote fece il nome del n. XI l’altro fece un rapido movimento di furia tra le dita, e più continuava a squadrarlo più la sensazione di disagio aumentava. Le uniche volte che aveva visto padron Vexen osservare qualcosa in quel modo erano i resti dei suoi esperimenti andati in fumo. “Ti ho detto mille volte di non ascoltare Marluxia, Camus! La sua unica funzione è seminare scompiglio, ricordatelo”.
“E la mia cicatrice sulla fronte?”
“Te la sei procurata al tuo caro Santuario in uno dei vostri pazzi allenamenti! E se pensi che io abbia mai avuto il benché minimo interesse su come ti sei rotto le unghie o sbucciato le ginocchia nel corso della tua vita sappi che sei in errore!” tornò con passo fermo verso il tavolo e riprese il tomo che aveva lasciato a metà “E ora che hai chiarito i tuoi dubbi esistenziali vieni a darmi una mano. Abbiamo nove giorni per scondizionare Mistobaan senza operarlo, altrimenti il Grande Satana …”
“Padron Vexen, io devo sapere!”
I ricordi continuavano a vorticare. Ad ogni sua frase sembrava che la figura di padron Vexen diventasse più labile, evanescente. Un condizionato deve sentirsi così …perché me?
Sta mentendo lui …o padron Marluxia mi ha fatto qualcosa?

L’uomo davanti a lui non aveva alcuna intenzione di continuare quel dialogo, Camus non aveva bisogno di leggere nella mente per saperlo; una forza dentro di lui sembrava sospingerlo verso lo scienziato per aiutarlo subito, ad uno schiocco di dita, senza porsi altre domande se non come aiutarlo al massimo. Puntò i piedi per terra e deglutì a fondo, cercando forza nella sua sete di risposte. Come sempre quando padron Vexen era nervoso, la temperatura della stanza si abbassò “Camus, per l’ultima volta, non farmelo ripetere, ti sei fatto quella cicatrice al Tempio!”
Mi sono fatto quella cicatrice al Tempio.
Mi sono fatto quella cicatrice al Tempio.
Mi sono fatto quella cicatri …
Un attimo …

“Padron Vexen … e lei come lo sa?”
Fu come se avesse calpestato un sottile strato di ghiaccio. Una crepa sembrò formarsi nella sua mente e dietro di essa un rumore sordo dietro le sue orecchie.
“Lo so, perché io …”
“Lei mi ha sempre ordinato di non parlare mai del mio passato di sacerdote. Lei odia i sacerdoti. E ricordo benissimo che lei non ha mai voluto sentire né salmi, né preghiere né riti, e di certo non è da lei informarsi del mio passato con i miei confratelli”. Fissò negli occhi lo scienziato e non li portò a terra “Sono un condizionato. Ma non uno stupido”.
Erano poche, semplici parole, nessun poema, nessun salmo, nessun canto degli antichi chierici; eppure furono una grande liberazione. Le lasciò andare nell’aria, dirette più a se stesso che allo scienziato: fu come se un peso, accumulatosi per anni dentro al suo cuore, si sciogliesse come neve al sole. E dopo di esse vennero gli occhi verdi dello scienziato. Era certo che per un secondo, uno soltanto, avessero cercato il pavimento come mai gli aveva visto fare; e subito dopo si chiusero per un istante e si riaprirono “Uff … certo che sei insistente! Sì …” rispose, e su di lui comparve uno strano sogghigno “Sì, la vuoi sapere una cosa? TI HO CONDIZIONATO! E vuoi sapere un’altra cosa? Se fosse dipeso da me non avrei mai scelto un sacerdote ottuso ed incompetente come te, ma quando ho chiesto un aiutante il Castello dell’Oblio ti ha indicato per ben quattro volte! Qualcos’altro? Ah, giusto, in tutti questi anni me la sono risa di gusto a vederti condizionato come un idiota!”
Il sacerdote arretrò di un passo, con il cuore in gola.
Padron Vexen era curvo in avanti, con le dita della mano destra salde sul libro “Ma la vuoi sapere la cosa più importante, Camus? Che tra nove giorni al Grande Satana non gliene importerà nulla del tuo stupido condizionamento e se non troverò il modo di scondizionare Mistobaan diventeremo il nuovo antipasto dei draghi del Choryugundan!” disse, e per il gelo la tazza sul tavolo esplose in una decina di piccoli cocci trasparenti.
“Adesso, se vuoi scusarmi … mentre tu piagnucoli sul tuo condizionamento io ho del lavoro da fare! Perché non usi questa nuova, bella, fulgida verità che hai ottenuto per essere di nuovo un uomo libero e andare a riempire la pancia ai draghi? Magari dopo aver inghiottito te non avranno più tanta voglia di assaggiarmi!”
Prima il massacro dei suoi confratelli, poi questo …
Se qualche traccia dell’illusione di potere che attorniava padron Vexen era ancora rimasta nella sua mente, essa svanì al tono secco e furioso di quelle parole. In un attimo gli passarono davanti agli occhi le centinaia di giorni trascorsi insieme tra una locanda e l’altra, curando feriti, e cercò tra quelle immagini il ricordo degli occhi dello scienziato; la sua insoddisfazione e l’odio, che fino a qualche giorno prima aveva confuso con stanchezza e preoccupazione, lo colpirono al petto.
Gli dèi non volevano che un mortale usasse la mente, l’organo per eccellenza a loro caro, per umiliare e ridurre in schiavitù il prossimo, ma lo scienziato si era sempre fatto beffe di ogni divinità.
“Lei … non si rende conto di quello che ha fatto?”
“Oh, sì, molto bene … Avevo uno schiavo stupido ed obbediente e l’ho usato, niente di più!”
“Nessun uomo può ardire di tenere altri suoi fratelli in schiavitù!”
“E questo dove sta scritto? Ah, giusto, nei tuoi adorati salmi … Bene, ora che hai riavuto i tuoi preziosi ricordi tieniteli! Magari una delle tue orazioni placherà la furia di Mistobaan, nella remota possibilità che io riesca a scondizionarlo!”
Era davvero così?
Era davvero quello il volto dell’uomo che aveva adorato per anni?
Miei dèi, troppo a lungo ho trascurato le mie preghiere. Vi chiedo di sorreggermi ancora un po’ …e di indicarmi una via d’uscita.
“Ho sempre avuto fiducia in lei” sospirò, ascoltando il gelo che correva sulla sua pelle “L’ammirazione che ho provato verso di lei in alcune sue ricerche era genuina, non tutta causata dal condizionamento. Ma non amo i Nuclei Neri o il condizionamento, e sappia che ogni mia parola di apprezzamento verso queste invenzioni aberranti è stata solo frutto del suo controllo mentale per sentirsi ammirato e rispettato. Non le è importato nulla che i miei sentimenti non fossero sinceri, e da quel che vedo lei non si è fatto scrupoli a calpestare i desideri degli altri per la sua voglia di glorificarsi e mostrare al mondo la sua intelligenza superiore. Adesso quello che è successo tra lei e suo nipote non mi meraviglia più, nonostante prima io …”
Il libro borchiato sbatté con violenza sul tavolo. Quello, pensato per qualche creatura demoniaca di piccola taglia, si incrinò sul un lato e una gamba si ruppe. L’ondata di gelo stavolta creò un sottile strato di ghiaccio sulla finestra, e solo la magia di cui tutto il Baan Palace era imbevuto impedì che il vetro andasse in frantumi come la tazza. Camus si era allenato per anni per diventare un elementale del ghiaccio con le sue sole forze, ma il freddo superò qualsiasi sua difesa ed arrivò dentro le ossa. Anche privo dei poteri del Castello dell’Oblio padron Vexen era ancora il miglior mago elementale che avesse mai incontrato.
“Basta così”.
Il ghigno era sparito, ma la fronte era corrugata e gli occhi traboccavano tutti i sentimenti negativi possibili “Ora che mi hai fatto il tuo bel sermone ed hai avuto la verità fai quello che ti pare! Vattene, resta, buttati di testa dal Baan Palace se ti fa piacere o raggiungi i tuoi cari confratelli nel Nirvana! Ma io ho del lavoro da fare. Non ho alcuna intenzione di rivedere gli incantesimi del Grande Satana di nuovo!”
Gli diede le spalle e tornò verso la pila dei libri; Camus lo osservò prenderne prima uno, poi un altro, sedersi su una sedia minuscola per qualsiasi essere umano e sfogliarli uno dopo l’altro. Quasi senza leggere, voltando le pagine con gesti furiosi e meccanici.
Camus si voltò verso la porta della stanza, ascoltando i demoni guardiani che bisbigliavano nella loro lingua dura, secca, quasi incomprensibile per loro umani; dove posso andare?
Il Grande Satana ha massacrato i miei confratelli, e se anche fossero vivi come potrei …

Padron Vexen aveva ragione, la libertà che aveva ricevuto non migliorava di molto le cose; di sicuro padron Marluxia lo aveva liberato dal condizionamento nella speranza di metterlo contro il n. IV, ma … la verità era che non sapeva come comportarsi. La testa gli doleva, soprattutto alcuni ricordi che continuavano a muoversi, e scoprì cose che aveva dimenticato ritornare alla luce con il semplice trascorrere dei minuti. L’uomo che l’aveva ridotto ad uno schiavo e che aveva usato la sua mente come una cavia continuava a dargli le spalle, immerso nelle sue letture, senza il benché minimo segno di pentimento per il suo peccato. Dovresti odiarlo, sembrava dirgli qualcosa dentro di lui. Qualcosa che era offesa e sdegnata per uno scienziato empio, che aveva offeso gli dèi con le sue opere e che si era preso gioco di lui per tutti quegli anni, tenendolo prigioniero con le invisibili catene dei ricordi. Dovresti odiarlo, prendere quel bel libro sulla tua destra e abbatterlo su quella testa tanto intelligente e superba.
Ma sembrava quasi la voce di padron Marluxia a guidare quelle parole.
Parole che lo spaventavano quasi più del loro sinistro padrone dagli occhi blu.
Poi guardò di nuovo il suo condizionatore, e si accorse di provare solo pietà.



Il libro rilegato in pelle borchiata attraversò la stanza come un proiettile. Si schiantò contro uno scaffale, rovesciando altri tomi della stessa portata in un tripudio di pagine svolazzanti.
Vexen appoggiò i gomiti sul tavolo, massaggiandosi le tempie. Era esausto.
Stupide rune.
Nella sua ricerca frenetica era incappato in una sezione della biblioteca dall'aria promettente... se solo tutti i libri non fossero stati scritti in caratteri runici. Gli umani avevano abbandonato quella grafia primitiva e antieconomica da secoli, ma era più facile che il sole cominciasse a sorgere a ovest piuttosto che la famiglia demoniaca modificasse le proprie tradizioni.
In vita sua Vexen non si era mai curato di imparare le rune, il linguaggio dei salmi antichi, dell'ignoranza e della superstizione.
Ma fosse questo il problema.
Anche dei libri scritti in lingua comune aveva capito poco o nulla, malgrado fosse rimasto chino su di essi per ore. Le parole gli sembravano solo un insieme di segni senza senso tracciati sulla carta, e i suoi occhi percorrevano avanti e indietro la stessa riga per decine di volte, senza essere capace di decifrarne il segreto. Non riusciva a concentrarsi. I suoi pensieri volavano in altre direzioni come uccelli in fuga, e finivano intrappolati in reti e tagliole da cui Vexen non poteva liberarli.
Se solo avesse potuto fare a modo suo! Ripristinare i ricordi di Mistobaan sarebbe stato un gioco da ragazzi con un anestetico e un bisturi a disposizione, ma il GSB non gli avrebbe mai permesso di toccare il suo prezioso Braccio Destro con i suoi strumenti.
Miseri contadini umani o potenti sovrani demoniaci, non faceva differenza. Tutti in quel mondo barbaro avevano un'insensata paura della scienza.
“Chiunque dovrebbe averne paura, se viene usata per fare cose così terribili. Scienza non significa necessariamente civiltà.”
Vexen sussultò; doveva aver pensato ad alta voce. Sollevò la testa e si ritrovò faccia a faccia con Camus, che stringeva in mano il pesante libro che lo scienziato aveva lanciato poco prima in un impeto di rabbia. La luce delle fiaccole magiche illuminava le borchie della copertina di bagliori sinistri.
Senza pensare Vexen eresse intorno a sé una barriera di freddo. Si era totalmente dimenticato del suo stupido assistente! Per tutte quelle ore era rimasto seduto in un angolo a pregare in silenzio; di tanto in tanto Vexen lo aveva spiato con la coda dell'occhio, per essere sicuro che non tentasse strani colpi contro di lui, ma alla fine non aveva più fatto caso alla sua presenza.
Doveva essere il suo piano fin dall'inizio!
Una morsa di ghiaccio circondò i piedi di Camus, che fece una smorfia di dolore. Lo strato di gelo iniziò a diffondersi anche lungo le braccia, ma non abbastanza in fretta: il sacerdote riuscì comunque a sollevare il libro, impugnandolo con entrambe le mani, e Vexen si preparò a schivare il colpo e vendere cara la pelle.
Il colpo non arrivò mai. Camus si limitò a poggiare il libro sullo scaffale, vicino agli altri.
Per un attimo lo stupore di Vexen fu così grande che perse il controllo del proprio potere, e il ghiaccio si sciolse all'istante.
Camus lo fissò con lo sguardo di un bambino a cui hanno ammazzato il pesce rosso: “Ora vuole addirittura uccidermi, padron Vexen?”
“TU stai cercando di ammazzare me! E IO non ho intenzione di lasciarti fare!”
“Si sbaglia.” Camus sollevò le mani, con i palmi rivolti verso di lui; un gesto di resa, forse, o un puerile trucco per fargli abbassare la guardia. “Sono venuto per aiutarla.”
A Vexen scappò quasi da ridere: “Certo. Per poi ficcarmi un coltello nella schiena non appena mi volto. Ti prego, non prendermi per uno stupido.”
Camus scosse la testa con energia; bisognava ammettere che era davvero bravo a recitare. Era facile farsi trarre in inganno da quegli occhioni azzurri grandi e puri, ma Vexen non era nato ieri.
“Padron Vexen, io sono un sacerdote. Ho pregato a lungo gli dei, per la prima volta dopo tanto tempo, e ora ho ben chiaro in mente cosa devo fare. Ama il tuo nemico, è il Loro insegnamento. Da me non ha nulla da temere, padron Vexen.”
“Oh, me li ricordo i vostri insegnamenti. Mu li ha messi in pratica in modo egregio, l'ultima volta che ci siamo visti.”
Camus sembrò esitare per un istante, ma poi riprese con più foga di prima: “Insieme possiamo farcela, padron Vexen. Possiamo risolvere questo enigma e ridare a Mistobaan i suoi ricordi. Non era quello che lei voleva?”
Stavolta Vexen rise davvero, ma era una risata isterica e stridula. Non ne poteva più. Non ne poteva più dei pigolii falsi e moralisti di Camus, di quella ricerca vuota e senza scopo, del GSB e del suo palazzo volante, di Mistobaan, dei libri demoniaci, delle rune...
Evocò di nuovo il freddo, il suo elemento, con tutta la forza che aveva. Forse la sua rabbia era impotente contro il GSB, Mistobaan, le rune e i libri, ma poteva far tacere Camus, poteva cancellare i suoi insopportabili occhioni azzurri dalla faccia della terra, almeno quello poteva farlo, poteva distruggere quell'esperimento fallito e insulso, finire il lavoro del GSB ed estinguere per sempre l'ipocrita razza dei sacerdoti.
Camus indietreggiò di qualche passo mentre il freddo si faceva più intenso, ma non accennò a difendersi in alcun modo. Continuava a parlare, ma Vexen non gli dava più ascolto. Fiocchi di neve iniziarono a vorticare nell'aria, prima lentamente e man mano sempre più veloci. I demoni guardiani gettarono loro un'occhiata disgustata, ma tornarono subito alle loro attività, limitandosi a rafforzare le difese magiche; evidentemente si consideravano superiori a quelle banali scaramucce tra umani.
Il ghiaccio invase ben presto tutta la parte di pavimento intorno ai loro piedi, facendosi strada lungo le gambe e la pelle di Camus.
“Tra poco la smetterai di blaterare! E forse mi ringrazierai, perché non c'è proprio nulla che possiamo fare per salvarci! Mi senti Camus?! NULLA! Siamo condannati, tutti e due! Ma se non altro avrò la soddisfazione di farti fuori di persona, prima che il GSB faccia fuori me!”
Ma ghiaccio, neve e freddo ancora non riuscivano a tappare la bocca a Camus.
“Questo non è da lei.”
“Cosa...?”
Il sacerdote si stava congelando sul posto, ma anche con le labbra blu e i denti che battevano non si fermava: “Non è quello che lei mi ha insegnato. Non esistono problemi senza soluzione, lo dice sempre. Siamo noi che magari ancora non sappiamo come trovarla. Non posso credere che si sia arreso così, senza neanche provarci. E sono sicuro che in fondo al cuore non ci crede nemmeno lei.”
“Cosa pensi di saperne TU di quello che io...”
“Io la conosco, padron Vexen. Lei forse per tutti questi anni ha ignorato me, mi ha considerato solo uno dei suoi tanti strumenti, ma io ho imparato a conoscerla bene. Lei è stato il mio maestro. Mi ha insegnato la medicina e la chimica, persino un po' di fisica, e non solo: mi ha insegnato a osservare, a ragionare, mi ha dato un metodo. E lo ha sempre fatto con entusiasmo e passione, malgrado io fossi solo un esperimento. So che quello non era una finzione. E so anche che lei è stato un buon compagno di viaggio per tutti questi anni. Mi ricordo di quando abbiamo fatto l'alba a discutere se fosse possibile a livello teorico ricreare artificialmente i corridoi oscuri del Castello dell'Oblio; lei si è infervorato parecchio, poi non so come siamo arrivati a tirare in ballo i nuclei collassati delle giganti rosse e tutto è finito in una grossa risata. Era la prima volta che la vedevo ridere davvero. Mi ricordo anche di quella volta che mentì ai soldati demoni che cercavano il mago senza licenza che avevamo visto un'ora prima alla locanda, e indicò loro una direzione sbagliata. O di quando mi arrestarono perché somigliavo a un famoso ladro di bestiame della regione, e lei mi tirò fuori dalla cella tracciando con un gesso un cerchio intorno alle sbarre e trasformandole in burro. Aveva promesso che un giorno, quando sarei stato pronto, mi avrebbe insegnato a fare anche quello, e io so che diceva la verità. Così come so che non ha mai negato le sue cure a nessuno, nemmeno a chi non poteva ricompensarci in alcun modo. E so che voleva vendere la mia armatura per comprare delle lenti e costruirsi un microscopio, ma poi ha cambiato idea quando ha visto quanto ci tenevo. Mentre pregavo ho ripensato a tutte queste cose, ed è anche per questo che sono qui ora, padron Vexen.”
Sotto i piedi di Vexen non rimaneva che una sottile pellicola d'acqua che andava rapidamente evaporando, là dove pochi minuti prima il ghiaccio aveva stretto il pavimento nella sua morsa. Non avrebbe saputo dire quando e perché aveva smesso di evocare il suo potere. Le braccia gli pendevano inerti lungo i fianchi, fissava il suo assistente come stordito, cercando di trovare un senso a quel diluvio di parole.
Chi era davvero la persona che aveva di fronte? Perché gli stava dicendo tutte quelle cose?
Per la prima volta si rese conto di non sapere nulla di Camus. Se lo era tenuto accanto per quattro anni, ma non sapeva altro che il suo nome e che prima di servirlo era stato un sacerdote al Tempio delle Dodici Case. Punto e fine.
Invece lui sa tutto di me. La storia dell'armatura neanche me la ricordavo...
“Sono qui perché penso che ci sia ancora luce nel fondo della sua anima, padron Vexen.” ora che il freddo non lo ostacolava più Camus aveva ripreso il colorito normale, e le sue parole erano cariche di energia ed entusiasmo. Sorrideva. “Non ho intenzione di permettere che quella luce si spenga. Mi ha fatto chiamare qui per darle una mano, ebbene, io ci sono. In due abbiamo più possibilità. Io so leggere le rune, posso tradurre i testi. Se lei adesso si riposa un attimo e ci ragiona a mente lucida troverà sicuramente una soluzione. Se non ci riesce lei, nessuno può farlo.”
“Non credo sia così.” era sicuro di aver aperto la bocca per insultare Camus, ma tutto ciò che uscì furono quelle poche parole, pronunciate in tono stanco. Forse aveva davvero bisogno di riposare.
“Per modificare i ricordi di Mistobaan senza toccarlo servirebbe un grande potere magico, come quello del Castello dell'Oblio. Ma il Castello è perso, e non esistono incantesimi, di nessun livello, in grado di influenzare la mente a una tale profondità. Probabilmente nemmeno una creatura potente come il GSB può riuscirci.”
Ecco, ora glielo aveva spiegato, così finalmente lo avrebbe lasciato in pace, lui e i suoi insulsi discorsi sulle anime luminose.
Ma a quanto pareva Camus aveva la testa più dura del marmo: “Però i demoni hanno un potere immenso. Se raccogliamo abbastanza energia magica si potrebbe, non so, ricreare su scala più piccola un ambiente simile a quello delle Stanze della Memoria. Oppure si potrebbe convogliare tutto il potere in un artefatto magico... o forse... forse si potrebbe sfruttare in qualche modo la vera natura di Mistobaan! In fondo lui non è...”
“Basta così. Non lo so, non lo voglio sapere, non mi interessa. Vuoi solo darmi false speranze. Lasciami in pace.” quell'ultima frase suonò molto più simile a una supplica di quanto Vexen non intendesse.
“False speranze? Padron Vexen, come posso farle capire che non ho intenzione di farle del male? Non sono spinto dalla vendetta, né dal condizionamento. E' una mia decisione libera e spontanea, in quanto sacerdote e servitore degli dei. E in quanto suo assistente.”
Sembrava davvero sincero. Gli stava offrendo ciò che voleva, ma...
Lentamente, Vexen tornò a sedersi. Le parole dell'assurdo discorso di Camus continuavano a rimbalzargli nella testa. Era sciocco dare loro peso, eppure...
“Padron Vexen” la voce dell'assistente si era addolcita ora, aveva quel tono premuroso di quando cercava di convincerlo a riposarsi dopo una nottata in bianco a fare esperimenti. “Non è facile, lo so. E credo di capire cosa prova. La sua mente è presa da altro, e ne ha tutte le ragioni. Penso di sapere il vero motivo per cui si è perso d'animo. Non è solo perché non si fida di me.”
Era da tempo che Vexen non provava più quella sensazione, come se la sua mente fosse un libro aperto e qualcuno la stesse leggendo. L'ultima volta era stata quando... no, erano ricordi su cui non amava soffermarsi.
Fino a questo punto mi conosce...
Trafisse Camus con un'occhiata minacciosa, ma il sacerdote si limitò a scuotere la testa con un sorriso di comprensione: “So che preferisce non parlarne, e non lo farò. Ma le voglio dire solo una cosa: non può essere certo che quei tre le abbiano detto la verità. Se esce di qui sano e salvo avrà la possibilità di indagare e scoprire come sono andate realmente le cose. Per questo vale la pena lottare fino alla fine. Non c'è errore a cui non si possa rimediare. Non c'è colpa che non possa essere cancellata dal perdono.”
“Penso che andrò a riposarmi!” disse Vexen a voce più alta del dovuto, alzandosi così bruscamente che la piccola sedia si rovesciò a terra. Pochi passi e fu alla porta, ansioso di mettere più distanza possibile tra sé e le parole di Camus. Ma quelle erano con lui, ormai. Nemmeno voltarsi e congelare il sacerdote sarebbe servito a cancellarle. Una parte di lui voleva ancora farlo, ma era come se il potere magico nelle sue vene fosse stato prosciugato.
Tirò la maniglia e fu dall'altra parte, nella stanza, o più precisamente lo sgabuzzino, che i demoni gli avevano messo a disposizione per dormire.
Ma non richiuse la porta dietro di sé.
“Camus” disse voltandosi leggermente, quel tanto che bastava per incontrare lo sguardo dell'assistente. “Perché nel frattempo non inizi a dare un'occhiata a quelle rune?” non gli sfuggì il sorriso che affiorò sul viso del sacerdote. “Se ti va” aggiunse, del tutto senza ragione.
Fece in tempo a cogliere il cenno di assenso di Camus prima che la porta, finalmente, si chiudesse.
Vexen vi si appoggiò per un attimo con le spalle, tirando un lungo sospiro.
Era assurdo.
Il modo in cui Camus riusciva a leggergli nel pensiero gli faceva quasi paura. Ma soprattutto... come poteva davvero volerlo aiutare?
Auron e Mu erano la prova vivente della regola universale secondo cui chi subisce un torto vuole restituirlo raddoppiato. Molto seccante per lui, certo, ma perfettamente normale. No? Comprensibile. Camus, invece... ma si era mai visto qualcuno tendere la mano al proprio aguzzino?! Era fuori da ogni logica.
Forse Camus è l'eccezione che conferma la regola.
Eppure, in qualche modo, sentiva di potersi fidare di lui.

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Fonte della fanart a inizio capitolo: http://browse.deviantart.com/?q=aquarius+camus&offset=96#/d2xf6kd

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Allarme Kaspar ***


Capitolo 9 - Allarme Kaspar


Baan Balace

Il Baan Palace




Visto dal basso, il Baan Palace sembrava ancora più immenso di quanto ricordasse. Lo aveva osservato da lontano durante alcune campagne, ed una delle regole non scritte di ogni compagnia di ventura era quella di non avvicinarsi mai al palazzo volante. I demoni vedevano di cattivo occhio qualsiasi umano armato, ed in un momento di stizza il Grande Satana avrebbe potuto mandare qualcuno dei suoi diavoli scalmanati a distruggerli.
La sola ombra copriva il lago Belaren, il più grande di tutto il regno di Telan; in quel momento era immobile a centinaia di metri sopra le loro teste, ma Auron sapeva che il palazzo volante poteva spostarsi senza emettere alcun rumore. In compenso la valle risuonava delle urla di una ventina di creature volanti, che gracchiavano e stridevano intorno alle ampie decorazioni del Baan Palace che fungevano loro da nido ed atterraggio.
Un paio di loro scesero in picchiata, ed il mercenario spinse con forza la testa di Mu dietro un cespuglio, sperando che i colori sgargianti dei capelli dei due sacerdoti non avessero attirato l’attenzione di quelle bestie. L’ultima volta che si era trovato davanti una viverna affamata aveva rischiato di perdere anche l’occhio buono.
Per loro fortuna le creature avevano puntato un cinghiale nero che si era avvicinato al lago per abbeverarsi, e vide Mu coprirsi gli occhi quando il sangue e le viscere della bestia si sparsero per tutta la riva, mentre un altro mostro volante scese dal Baan Palace e si unì al banchetto. Shaka, il sacerdote che avevano recuperato nel bosco, sembrava assente, inginocchiato su un tappeto di muschio ed immerso nella sua meditazione.
“E va bene, adesso come entriamo?”
Mu scosse la testa e si allontanò dal suo punto di osservazione “Il Baan Palace non scende mai a terra?”
“Non che io sappia. Se fosse accaduto credi che la principessa Leona non avrebbe tentato una sortita? Uno dei grandi problemi della Resistenza è proprio raggiungere la roccaforte del Grande Satana” sputò, osservando la fortezza “O ci facciamo crescere le ali o iniziamo a prenderlo a sassate finché qualche suo meccanismo magico si inceppa …”
“Non c’è bisogno di sovvertire la natura. Se gli dèi avessero voluto che gli uomini volassero avrebbero donato loro le ali” Shaka si sollevò, venendo verso di loro. Erano due giorni che viaggiava in sua compagnia, ma ancora non si era abituato del tutto a quello strano sacerdote; il fatto che avesse sempre gli occhi chiusi … lo inquietava. Molto. E a differenza di Mu o Camus si teneva sempre in disparte, pregando per la maggior parte del tempo e rivolgendo solo qualche parola di sfuggita al suo confratello. Una volta gli si era avvicinato per chiedergli di confessare i suoi peccati, ed Auron aveva fatto appello il tutto il suo autocontrollo per non rispondergli che uno dei suoi passatempi preferiti era bestemmiare, e si riteneva un grande esperto in materia. “Gli dèi hanno già disegnato il percorso davanti ai nostri occhi; seguirne il tracciato, quello è difficile per molti”.
E gli dèi hanno disegnato per me tre viverne furiose ed il Baan Palace fluttuante? Dèi ladri, porci ed infami! Scendete dal Nirvana, che ho voglia di dirvene quattro …
“Shaka, dove stai andando?” chiese Mu. Il suo confratello diede loro le spalle, alzandosi in piedi e superando il sottobosco, rendendosi visibile. Auron corse verso di lui, brutto deficiente, ma quello scansò la sua presa e si ritrovò a piedi scalzi sul greto che costeggiava il lago, con la tunica da viaggio che lambiva l’acqua.
“Mu, non mi avevi detto che il vostro Santuario era un raduno di pazzi! Io lo dico sempre che la religione fa male!”
“Auron, smettila con queste cattiverie” dopo lo spavento iniziale, il suo amico fissò il biondo sulle rive del lago e si fece uno strano segno sul petto, poi un altro sulla fronte. Non aveva mai visto una simile ammirazione nei suoi occhi, e dal nulla estrasse il suo rosario “Forse oggi crederai anche tu, Auron. Shaka è l’uomo più vicino agli dèi, non hai idea dei miracoli che può compiere?”
“Credere? Io? Mu, se tu non mi hai convertito in tutti questi anni, allora …”
“Guarda e prega, amico mio. Shaka è ad un livello ben più grande del mio”
“Di stupidità? Non ne dubito …”
Una prima viverna, la più grande del gruppo, si accorse subito della presenza del sacerdote; gli occhi rossi erano puntati su di lui, e mandò un verso lungo e gracchiante dal fondo della gola. Le sue compagne abbandonarono il pasto e spiegarono le ali, incuriosite. Auron sfoderò per riflesso la Masamune, deciso ad intervenire se le cose si fossero messe male.
Shaka mormorò qualcosa di incomprensibile, almeno da quella distanza, ed avanzò con fare deciso verso di loro, tendendo un braccio ed immergendosi nell’acqua del lago fino alle caviglie. Il suo tono di voce era lento, calmo, anche se il soldato ebbe l’impressione che un ronzio debole si annidasse nella sua testa. La creatura maggiore mosse i primi passi verso il sacerdote, alternando i suoni lunghi con fischi deboli, lasciando le ali lievemente socchiuse ma non in posa aggressiva; Shaka aumentò il tono della voce, e per la prima volta Auron ebbe l’impressione che la viverna stesse … conversando … con lui.
Mu aveva un’espressione tutta beata dipinta nei grandi occhi verdi.
L’animale si avvicinò ancora di più e lui scivolò dietro gli alberi, cercando di arrivare lungo il suo fianco senza farsi percepire, sapendo che se la bestia avesse allungato il collo con un scatto improvviso il braccio destro di Shaka sarebbe stato portato via di netto. Ora che era più vicino alla scena il ronzio aumentò, ma l’animale non aveva alcun interesse nel puntare l’avversario, aspettando gli attimi di silenzio del biondo per poi rispondergli con una valanga di versi incomprensibili. Il suo occhio rosso sembrava capire.
Non avrebbe mai detto che dei mostri demoniaci potessero coesistere con un essere umano senza sbranarlo; ma del resto aveva visto molti maghi e sacerdoti nella sua vita, ma nessuno era mai riuscito a comunicare con un animale semplice o evoluto, o almeno così sapeva. Davanti ai suoi occhi increduli la viverna si accucciò sulle zampe posteriori, spiegò per bene le ali e lasciò che Shaka gli accarezzasse il muso.
Narratore: Avete presente San Francesco? Ecco, stiamo a quei livelli, le Registe non sapevano più che cosa copiare!
Le altre due creature sembravano aver perso ogni interesse, e tornarono a quello che restava del cinghiale.
“Visto?” Mu sbucò a sorpresa alle sue spalle, facendogli rischiare un colpo al cuore “Te l’avevo detto, Shaka è l’uomo più vicino agli dèi. Adesso credi?”
“Mm, gli darò una possibilità quando moltiplicherà il pane e le salsicce. Anche se devo dire che questo potere non è male. Se funzionasse con i demoni avremmo risolto i nostri problemi!” ma, chissà perché, aveva il sospetto che niente potesse permettere loro di ragionare con i demoni; erano testardi, arroganti, superbi, il carattere animalesco di una viverna non era nulla davanti alla natura irremovibile di quelle creature millenarie. Shaka si rivolse verso di loro “Gli dèi non ci hanno creati come esseri singoli; la natura del nostro mondo è il delicato equilibrio che esiste tra noi, ed il raggiungimento di questa conoscenza ci permette di rivolgerci agli altri esseri di questo mondo con umiltà. E loro ci risponderanno. L’armonia in noi è l’armonia oltre noi; non possiamo …”
“Ok, ok, lasciamo da parte le lezioni di teologia. Piuttosto … ci darà un passaggio fino al Baan Palace?”.
“Certo, a patto che non disturbiamo la sua nidiata”.
“Il piano andiamo-sfondiamo-spacchiamo-e-ci-riprendiamo-Camus non era comunque sulla mia lista, o almeno non con soli due sacerdoti al mio fianco. Una volta lassù dovremo muoverci silenziosamente, non reggeremo un istante contro un drappello di demoni o anche contro uno solo dei suoi generali”. Si chiese se non fosse stato più saggio aspettare qualche giorno e chiedere aiuto alla Resistenza: un commando del genere era comunque un suicidio, ma forse con l’aiuto di qualche mago professionista e con i poteri del giovane Dai avrebbero raggiunto qualche risultato. Ma avevano optato per una missione silenziosa, ed il passaggio di una viverna non si otteneva tutti i giorni. Shaka si avvicinò al dorso ricoperto di squame e vi salì.
“Auron …?” fece Mu, stavolta dubbioso “… tu sai che io odio volare … tanto …”
“Se proprio devi vomitare, fallo lontano dalla mia tunica. Stringiti sempre a me, amico mio. E ovviamente non guardare giù …”
La creatura si sollevò con grazia, come se portare tre esseri umani ed uno spadone non le pesasse nulla; un primo giro lungo la superficie del lago, poi un secondo, ed al terzo prese quota. Sentì Mu serrargli le braccia intorno al torace, mentre Shaka rimaneva imperturbabile a gambe incrociate, sfiorando la base del collo della creatura ed intonando una nuova cantilena.
Auron trattenne il respiro, poi guardò giù, rendendosi conto che era la prima volta che volava. In una manciata di secondi il lago diventò piccolo come il palmo della sua mano, e dalle foreste color smeraldo poteva vedere decine di villaggi; a dorso di cavallo erano distanti vari giorni, ma in groppa alla viverna sembravano vicinissimi. Entrarono nell’ombra del Baan Palace, passando in mezzo ad altri mostri volanti che Auron aveva visto solo in alcune missioni, alcune in ricognizione ed altre intente a costruire delle strane celle che avevano tutta l’impressione di essere dei nidi. Ma anche vicino al covo del nemico il mondo assumeva una prospettiva più dolce, piccola, bella.
A Zachar piacerebbe una simile visione.
E poi il boato proprio sopra le loro teste.


KABOOOOM.
Zaboera levitò di corsa ed evitò che una delle schegge di vetro della provetta s’infilasse nel suo occhio destro. L’estratto linfatico del nuovo corpo biologico superstregonesco era totalmente, invariabilmente, estremamente instabile; il contatto con la temperatura esterna dava vita ad un rialzo termico così immediato che portava a rottura ogni sua provetta. Il miglioramento nella massa muscolare del suo prodotto era notevole, ma sarebbe bastata la minima ferita per esporre la linfa e generare un’esplosione o la corrosione del corpo. Schioccò le dita e la provetta tornò intera.
“Ih ih ih! Non solo sei un demone da quattro soldi, ma anche uno scienziato penoso!”
Ma non l’avevo addormentata?
La ragazza umana, quella che controllava i fulmini, gli fece una linguaccia dal tavolino dove l’aveva legata. Aveva lanciato su di lei un incantesimo di sonno nemmeno un’ora prima ed eccola ancora lì, con i suoi occhi irriverenti che lo fissavano “Vedi che il mio sangue è troppo forte per il tuo corpo biologico? Sei così stupido che non sai nemmeno usarlo a dovere”.
E’ un’umana pazza. La cosa migliore da fare è ignorarla.
“Ma guarda, il demone alto due mele e poco più! Cosa sei, lo gnomo da giardino del Grande Satana?”
L’unica consolazione era che almeno il suo compagno era sedato. Il Membro dell’Organizzazione dai capelli rossi non aveva emesso nemmeno una parola da quando lo aveva rinchiuso in un cilindro con dell’acqua fino alle spalle. Era pallido e gonfio, con gli occhi cerchiati di viola. Il suo elemento aveva dimostrato una profonda debolezza all’uso di incantesimi di acqua o di gelo, per questo aveva scartato l’ipotesi di usare il suo sangue e parte dei tessuti per la realizzazione di un corpo biologico superstregonesco attivo su ogni campo di battaglia. I maghi della Resistenza avrebbero potuto accidentalmente colpirlo con una magia dell’elemento opposto e si sarebbero rivelati uno svantaggio. Avrebbe potuto innestare alcuni frammenti di quel corpo in alcuni suoi assistenti dello Yomashidan, quelli che si occupavano della gestione del suo laboratorio dentro la camera magmatica del vulcano Pamoa, ma la priorità era realizzare strutture da battaglia. La ragazza si era dimostrata invece un soggetto migliore.
“E quello sarebbe un bisturi? Sei sicuro che non sia la mia limetta per le unghie?” il campo di forze che la teneva incollata al lettino avrebbe resistito ad una magia di Mistobaan, ed impediva alla ragazza di evocare le sue saette. Ma non di parlare, purtroppo. “Ehi, gnometto, perché non mi liberi? Sono sicuro che muori dalla voglia di sapere come si usa una vera lama”.
E’ un’umana incredibilmente pazza. Più della media della loro razza, poco ma sicuro …
“Ma è vero che avete due cuori? Devo assolutamente squartarvi e vederlo, perché non ci credo tanto … anche se nel tuo caso credo che dovrei faticare un bel po’, non so se mi andrà, detesto sforzare la vista per cercare due noccioline!”
La ragazza cercò di liberarsi, ma per fortuna il campo di isolamento funzionò, e le saette che originavano dalle sue dita si dispersero nei legacci; per adesso si era dimostrata un ottimo soggetto, ma la sua collaborazione era davvero minima.
“Perché non mi liberi? Dai, fammi squartare la bella bambolina!”
In questo caso il soggetto degli istinti omicidi dell’elementale del fulmine non era più lui, ma la ragazza umana che Killvearn aveva prelevato quando si era recato a prendere Mistobaan in un mondo umano lontano dal loro. Era una nemica, una di quelli che stavano sfruttando il Braccio Destro, ed il Grande Satana l’avrebbe giustiziata immediatamente se non fosse stato per il suo potenziale magico; Zaboera aveva diverse migliaia di anni, e poche volte aveva incontrato degli umani con un livello di magia degno di nota, men che mai di persone che fossero al livello di un demone minore. Alcuni militavano con la Resistenza, ma quella ragazza aveva un’aura magica che li superava, surclassava quelle dei Membri dell’Organizzazione e arrivava anche oltre il suo livello, quello di un arcivescovo stregone della famiglia demoniaca. L’aveva fatta trascinare nel suo laboratorio ed i risultati dagli estratti del suo sangue erano notevoli, e pur trattandosi di energia grezza aveva deciso di tenerla in osservazione. La maga dai capelli rossi piagnucolava ogni tanto, ma la sua vista aveva fatto scattare l’umana bionda, che minacciava sempre di farla a pezzi.
Ignorò la voce di sottofondo e si mise a sfogliare un libro, poco convinto dei risultati ottenuti.
“Pipu, pipu, pipu!”
L’Occhio sulla sua scrivania si illuminò, e quando il cristallino fu messo a fuoco vide l’immagine del Grande Satana con un’espressione che annunciava solo guai.
“Un commando nemico si è infiltrato sul Baan Palace, Zaboera. Riesco a percepire un’aura magica incredibile per gli esseri umani, anche se non corrisponde ad alcun profilo dei principali stregoni della Resistenza”.
“Ma non dovrebbero essere a Bengana? Insomma, Grande Satana, proprio in questo momento quasi tutte le nostre forze si trovano lì, dove sono state trovate tracce delle Resistenza e della Principessa Leona! Non potevano sapere del nostro attacco, abbiamo sfruttato l’effetto sorpresa, non può essere che avessero …”
Il suo sovrano vuotò con stizza un bicchiere di limonata demoniaca “Non mi interessa questo aspetto del problema. Non ora, almeno. Hadler, Crocodyne e Hyunkel sono ancora a Bengana e continueranno l’attacco alla base come su progetto originale, ma il Generale Baran sta venendo di persona ad occuparsi del problema. Killvearn è in ricognizione nei mondi dell’Impero Galattico, e per questa missione gli ho affidato la Pietra Dimensionale; non ha risposto alla mia chiamata, quindi per il momento voglio il tuo Yomashidan in prima fila per affrontare l’avversario”.
Zaboera non era mai stato un tipo d’azione. Aveva sempre prediletto la magia e la scienza a qualsiasi scontro diretto, e forse era per quel motivo che era sopravvissuto a tante catastrofi che avevano strappato via demoni ben più degni e valorosi di lui. Lo Yomashidan, il suo corpo d’armata, era composto per lo più da creature magiche di poco livello nei duelli fisici, e l’arcivescovo stregone sapeva che se il Grande Satana aveva richiesto il suo intervento era perché non aveva proprio nulla di meglio da mandare loro contro. Non avrebbe rischiato la vita dei suoi sudditi.
“Ma non tu, Zabo” fece il demone anziano, facendo correre le dita attraverso la barba bianca “Manda le tue creature a stanare e tenere occupati gli avversari fino all’arrivo di Baran, poi vieni con me nel salone Kisshu. Se il loro obiettivo fosse il nucleo incantato del Baan Palace dobbiamo essere pronti, e voglio che tu unisca la tua magia alla mia per tenere in piedi la fortezza ed organizzare una cerchia difensiva per tutti i demoni minori. E se invece il loro obiettivo fosse la mia vita … li attenderò lì”.
Grato del compito, il piccolo demone si congedò dal suo signore con un inchino: il Grande Satana non lo avrebbe mai assegnato ad un compito lontano dalle sue capacità a meno che la situazione non fosse davvero disperata. Ma con il Cavaliere del Drago in arrivo non vi era nulla di disperato. Prima di allontanarsi verso i suoi nuovi doveri si assicurò che i suoi tre prigionieri fossero ben immobilizzati ed uscì dal laboratorio.
Evocò su di sé una bolla di distruzione del suono solo per non sentire i continui insulti dell’umana bionda.


Zexion sentì la Palla di Fuoco arrivare. Tra i mille odori di quel luogo, quello degli incantesimi che sorreggevano la fortezza volante e quello grave, sovrumano, aggressivo del Grande Satana riuscì comunque a distinguere l’attacco diretto nella sua direzione. Il demone gridò qualcosa nella sua lingua incomprensibile e la sfera di fiamme partì verso di lui. Zexion sentì il calore sfiorargli la guancia e portarsi via parte del ciuffo mentre rotolava sul lato destro.
Ad uno schiocco di dita della mutaforma, Kaspar evocò una cascata di fulmini che attraversò il globo difensivo del loro aggressore e lo ridusse in un corpo fumante.
“Con il tuo fiuto non avresti potuto evitare del tutto quell’incantesimo?” fece la donna, lanciando uno sguardo soddisfatto a Kaspar che le obbediva a bacchetta, tenuto a bada dal lavaggio del cervello imperiale.
“Poter sapere qualche secondo prima che cosa accadrà non mi permette sempre di evitarlo, mia signora”
Crede davvero che sia così semplice? Che tutti siano come lei?
Aveva passato settimane intere in visita a Carida, il pianeta imperiale con la più prestigiosa accademia militare, per poter apprendere le basi di combattimento “minime”, come definivano molti dei suoi superiori: essere parte dei servizi segreti imperiali aveva un prezzo, ed il ragazzo non si era mai mostrato gioioso di pagarlo. Odiava quelle missioni.
Odiava trovarsi stretto tra la famiglia demoniaca ed i migliori guerrieri dell’Impero Galattico.
“Piuttosto …” fece lei, avvicinandosi al corpo del nemico “… questo demone avrebbe potuto assalirci a sorpresa ed avremmo avuto qualche difficoltà in più. Abbiamo attraversato questo corridoio per quasi cinque minuti senza problemi, e sarebbe potuto sbucare da uno qualsiasi di questi passaggi laterali e prenderci alle spalle. O era il peggior soldato che io abbia mai visto oppure era un’esca e noi ci stiamo dirigendo in una trappola”.
“Nessuna delle due, mia signora. Era un demone. Ed i demoni non colpiscono mai alle spalle. Per loro è una questione d’onore”.
“Un nemico onorevole, eh?” si rialzò, camuffando quello che rimaneva del corpo abbattuto dietro ad un mobile arabescato di cui nessuno dei due avrebbe saputo identificarne l’uso; l’odore di Kaspar, ormai ridotto ad un flebile profumo, giocava un enorme contrasto con quello della donna, sempre irrequieto e pronto a scoppiare. Ma ciò che sentì in un quell’attimo era qualcosa di totalmente diverso “Non è facile trovarne di questi tempi. E credo che dovremmo ricambiare la cortesia …”
Mentre parlavano si allontanarono dal punto in cui la guardia li aveva sorpresi. Una volta fiutato l’odore del Baan Palace avevano usato le Pietre della Sapienza per teleportarsi nel suo raggio d’azione, una regione boscosa con un grande lago che Zexion aveva visitato tempo addietro. Erano rimasti nell’ombra mentre la cacciatrice di taglie si mimetizzava con le creature volanti che circondavano la fortezza, per poi teleportarli a bordo del Baan Palace nel punto che le era sembrato meno difeso e lontano dai turni di ronda delle guardie. L’istinto della donna non si era sbagliato, ed avevano attraversato un gigantesco cortile senza incontrare resistenza, ma appena erano scesi nei tunnel seguendo l’odore di Mistobaan erano incappati in quel soldato. E, se l’esperienza non lo ingannava, i demoni si sarebbero subito accorti di quella magia non autorizzata ed avrebbero mandato rinforzi.
Il corridoio era libero, ma Zexion riusciva a sentire l’odore di creature in avvicinamento. Mostri, animali, esseri di cui non sapeva quasi nulla. Quando fece notare alla donna che si stavano avvicinando e che erano a solo un piano di distanza da loro, lei si fermò, guardandosi intorno come se stesse cercando di dipingere nella sua mente una mappa di quel luogo immenso.
“Dov’è Mistobaan?”
“Quattro o cinque piani più sotto” rispose.
“Bene, abbiamo un cambio di programma. Kaspar?”
Quello si girò, con il suo occhio color ghiaccio totalmente vuoto; l’altra orbita, vuota, era nascosta dietro la chioma chiarissima anche nel folto delle battaglie. Nonostante la presa dell’Impero fosse forte ed avesse distrutto quasi del tutto la sua mente, Zexion continuava ad averne paura, e sapeva che molti soldati condividevano le sue sensazioni. Gli uomini dell’Impero galattico non erano abituati alla magia, e la guardavano con enorme sospetto, specie se la fonte era quel mago pazzo, traditore e avido di potere.
“Ho un compito che ti calza a pennello. Spacca tutto”
Dèi ladri.
“Se è vero quello che dice il nostro agente segreto riescono a percepire ogni forma di magia. Sono sicura che non avranno difficoltà a trovare la tua. Fai tanto rumore, fai esplodere quello che ti pare, ma cerca di limitare i morti. Dobbiamo riprenderci Mistobaan, non combattere una guerra … ed in fondo la ragione è dalla loro parte …”
“Questo all’Imperatore non piacerà, mia signora” borbottò Zexion “A lui farebbe solo piacere vedere morto qualche soldato del Grande Satana in più”.
Lei gli rivolse un sorriso crudele “Ma sono certa che tu non glielo andrai a dire, dico bene?”
“Ovviamente no” … fossi matto …
Percepì il flusso di incantesimi di Kaspar entrare in azione, ed assumere la forma di una gigantesca sfera rocciosa che venne sollevata contro il soffitto. Il boato fu assordante, e frammenti di Baan Palace, roccia ed ornamenti schizzarono come schegge intorno al mago, e prima che potesse ammirare un secondo incantesimo la mano della cacciatrice di taglie gli strinse il polso e lo trascinò contro un piccolo terrazzo che si affacciava nel vuoto, su cui erano installati alcuni globi di cui il ragazzo non conosceva la funzione. Da quell’altezza il vento era tagliente, e la tunica dell’Organizzazione si agitò come le ali di un corvo. E fu lì che li sentì.
Prima venne l’odore inconfondibile di Larxen, il suo profumo simile ad un’albicocca, fresco, vivo ed irruente, come Zexion non lo percepiva da tre anni: sentiva la sua furia, ed in quello stesso istante capì che era prigioniera da qualche parte, più in alto, ma era lì. Intrecciato al suo, più flebile, arrivò anche l’odore di Axel, debole e con una coscienza che era sul punto di spegnersi. Il pensiero che quei due fossero nel Baan Palace, prigionieri ma potenzialmente in grado di incontrarlo, gli mise dei brividi che nulla avevano da spartire con quelli del vento.
E poi l’ultimo, il più familiare.
Il n. IV era ad un livello ancora più elevato, su uno dei pinnacoli, ma l’aria che vorticava intorno alla fortezza gli portò anche il suo profumo simile a quello della vaniglia, e dopo tanti anni d’assenza assaggiò di nuovo l’insoddisfazione, il disprezzo e la paura di quell’uomo che con i suoi Nuclei Neri lo aveva quasi condannato a morte e costretto a chiedere rifugio presso l’Impero.
Improvvisamente si ricordò della fiala di veleno che lo scienziato gli aveva consegnato cinque anni prima, ed il sentirla contro il suo petto, avvolta nelle pieghe della tunica, gli diede una strana sensazione. Piacevole o meno, non avrebbe saputo dirlo.
Poi il suo olfatto lo riporto di nuovo alla realtà , perché adesso l’orda di creature magiche era in arrivo, poteva sentire i loro ronzii mentre si avvicinavano a Kaspar abbattendosi lungo le scale e le porte come una gigantesca ondata furiosa.
“Kaspar li terrà a bada. Hai detto che dobbiamo scendere, giusto?”
“Ehm …” deglutì, accorgendosi che da quel balcone il mondo sembrava davvero piccolo, con il lago Belaren non più grande di un foglio di carta “Non parlavo di scendere in … questo modo”.
“Le scale ormai sono tutte occupate. E poi così faremo molto prima. Certo, se hai paura puoi sempre rimanere qui in attesa dell’esercito del Grande Satana!”
Dèi ladri. Ladrissimi.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Riunione di anime ***


Capitolo 10 - Riunione di anime


Camus biblioteca Baan Palace

Camus nella biblioteca del Baan Palace




“Ed anche questo libro potrà esserci utile!” disse Camus, chiudendo il tomo e porgendoglielo con un sorriso “Visto, padron Vexen? In poche ore abbiamo trovato almeno una ventina di volumi che possono fare al caso nostro! Certo, non si parla di come scondizionare qualcuno, ma un paio di idee interessanti su come simulare i nuclei di energia del Castello dell’Oblio possiamo farcele!”
Potrai fartele” gli rispose, non trattenendo l’ennesimo sbuffo della giornata “Tu hai idea di cosa vogliano dire quelle rune nelle pagine, ma per me non sono altro che stupidi, inutili, vuoti e primitivi disegni!”
Odiava queste situazioni. Si trovava in una delle più grandi biblioteche del mondo demoniaco: per quanto quegli esseri fossero del tutto ignoranti in chimica, fisica e rifuggissero qualsiasi minuscolo congegno tecnologico, erano i più grandi depositari viventi di conoscenza in ambito di magia arcana. Vexen non si era mai considerato un grande mago, limitandosi negli anni a sfruttare i poteri del ghiaccio a suo vantaggio: eppure quei libri lo tentavano, perché sapeva che pochi mondi della galassia potevano rivaleggiare in magia con la famiglia demoniaca. L’unico luogo che potesse mai considerare con un Tempio del Sapere era stato proprio il Castello dell’Oblio, ed al pensiero di averlo distrutto con le proprie mani si morse il labbro. E pur trovandosi in quel favoloso archivio … non poteva leggere nulla! Ed il pensiero che Camus dovesse farlo al posto suo lo indisponeva ancora di più!
La faccia del suo assistente tornò di nuovo davanti ai suoi occhi, con in mano l’ennesimo libro che aveva recuperato a fatica da uno scaffale in alto; i demoni volavano, quindi non avevano scale.
Gli porse un foglio da sotto il vestito “Mi sono permesso di scribacchiare la formula chimica di un nuovo catalizzatore organico da iniettare dentro Mistobaan per facilitare lo scambio dei ricordi. E’ una variante del siero che lei gli somministrò al Castello durante il condizionamento, ma forse questo enantiomero può rivelarsi più utile se dovremo usare una sorgente magica demoniaca. Ma credo che nessuno possa valutarlo meglio di lei”.
Gli lasciò il foglio ed accumulò il nuovo volume su una catasta fin troppo alta di libri, girandosi poi a dare un’occhiata ad alcuni testi posti in basso, su una mensola che arrivava al suo ginocchio. Vexen ancora non riusciva a capirlo.
Io lo ho condizionato, non riusciva a levarsi quel pensiero dalla testa, io lo ho condizionato eppure eccolo lì, volenteroso come ai vecchi tempi. Prima mi mette con le spalle al muro e poi si trasforma nell’assistente più servizievole della galassia ...
La verità era che non sapeva cosa pensare: osservando il sacerdote si rendeva sempre più conto di non sapere nulla di lui. Non che gli interessasse qualcosa sapere come trascorresse le sue giornate al Tempio delle Dodici Case, ma non aveva alcun tassello in mano per poter comprendere quella figura così incomprensibile. Osservare, appuntare, riflettere e poi di nuovo osservare: erano sempre state le sue uniche regole per raggiungere e dominare il mondo intorno a lui, semplici frasi che gli permettevano di catalogare e comprendere non solo gli oggetti, ma anche luoghi e persone. Quando Marluxia aveva fatto il suo primo ingresso nella sala dei troni aveva osservato i suoi occhi blu guizzare da ogni parte durante la presentazione, lo sguardo bramoso di conoscere e dominare; non gli era piaciuto sin dall’inizio ed i poteri di Zexion avevano confermato la sua ipotesi.
Zexion.
Camus era diverso: da quando lo aveva prelevato dal suo Tempio lo aveva visto tutti i giorni, ma si accorse di non averlo mai guardato con attenzione, limitandosi a percepire con la coda dell’occhio una figura dai capelli azzurri che puliva le provette e spazzava nel laboratorio; e così adesso i suoi gesti gli erano così familiari e scontati che non riusciva a leggervi più nulla, e dietro la dolcezza dei suoi occhioni faticava a comprendere se vi fosse nascosto dell’odio o no.
L’idea di non sapere ancora se potesse dargli le spalle lo inquietava.
Si accorse di aver fissato il foglio per un paio di minuti senza nemmeno leggere quello che vi era scritto. Cercò di fissare la mente sui simboli chimici, l’unica cosa che riusciva davvero a rilassarlo. Camus aveva alterato il suo vecchio composto, e solo gli dèi del Nirvana sapevano quando fosse riuscito a scrivere quegli appunti. Eppure quell’isomero era valido.
Dannatamente valido.
La nuova combinazione presentava legami molto più stabili dei vecchi, ed anche se la posizione di un paio di atomi di silicio non lo convinceva del tutto fu costretto ad ammettere che il composti era di prima qualità: “Sì, si vede che hai avuto un insegnante di prima categoria!”
“Non smetterò mai di esserle grato per le sue lezioni, padron Vexen”.
Il sacerdote adesso aveva accumulato i libri in una pila enorme, se l’era stretta tra le braccia e gli stava facendo cenno di uscire “Abbiamo abbastanza materiale per lavorare tutta la notte! E vedrà, sono certo che riusciremo a liberare la mente di Mistobaan! Adesso torniamo nella nostra stanza, ci prendiamo una buona tazza di the e …”
CLANG!
“Allarme! Gli umani sono arrivati fin quassù!”
CLANG!
“Non è possibile, lo Yomashidan dovrebbe aver bloccato ogni via d’uscita, anche se quel mago avesse dei complici non potrebbero mai …”
Alle grida dei demoni all’ingresso della biblioteca Camus fece un salto, perse l’equilibrio e per un attimo le parole furono sommerse dal rumore di almeno venti tomi demoniaci rivestiti di cuoio e borchie che rovinavano sul pavimento. Vexen si riprese dallo spavento, e da oltre le porte della stanza sentì il familiare rumore di un incantesimo di fulmine attivato. Il foglio gli scivolò dalle mani.
Al suono del fulmine non seguì alcun urlo; ci fu piuttosto un crepitare di energia, un ronzare di incantesimi ed il rumore secco del ferro che si abbatteva sul pavimento. I demoni risposero con delle grida da battaglia e passarono all’attacco: dallo spiraglio al di sotto della porta Vexen vide un enorme lampo di luce che si proiettò come un’enorme lama sul pavimento della biblioteca, accompagnato di nuovo dal rumore di una spada che infilzava il proprio bersaglio.
“Sono quelli della Resistenza!” bisbigliò Camus “Stanno assaltando il palazzo del Grande Satana, forse gli dèi vogliono vederci fuori di qui!”
L’ultimo demone rimasto doveva essere a corto di forza, perché il rumore dell’incantesimo giunse ancora più flebile; lo scienziato sentì il richiamo del ghiaccio quando il loro carceriere lo usò per erigere uno scudo, ma per la terza volta ci fu il rumore di una spada abbattuta contro l’incantesimo ed il tonfo di un corpo che cadeva. Il suono di due, se non tre coppie di piedi che si affaccendavano davanti alla porta, giunse alle sue orecchie come una liberazione.
“È qui dentro, ne sono certo” fece una voce giovane che non aveva mai sentito.
“E allora non perdiamo tempo!”
Questa voce invece la conosceva fin troppo bene.
E Camus si voltò verso di lui con uno sguardo di puro panico. La porta scricchiolò sui cardini al primo calcio.
Auron … se mi trova qui …
Poi sentì il suo assistente prenderlo per le spalle e spingerlo dietro l’angolo di una libreria; cercò di protestare, ma l’altro sollevò un dito all’altezza delle labbra, gli strizzò l’occhio e corse verso la porta. Quella si aprì al terzo calcio, e ne emersero prima Auron con il suo stivale chiodato, poi Mu ed infine un tizio biondo che non conosceva. Se Camus gli rivela la mia presenza sono morto.
Ma il suo assistente non aveva occhi che per il nuovo venuto.
“Shaka, fratello mio, ma cosa …?”
L’ennesimo prete. Dalla padella alla brace. Ma il GSB non li aveva massacrati tutti? E meno male che i demoni passano per un popolo efficiente …
Mu fu il primo ad abbracciare Camus, ma il grugnito di Auron attirò la loro attenzione: “Ragazzi, rimandate gli abbracci a dopo. Non so ancora come siamo riusciti ad entrare vivi nel Baan Palace, ed ho intenzione di tornare indietro con tutta la pelle attaccata al corpo” si girò verso la porta sfondata, da qui si poteva vedere il corpo di un demone accasciato “Tagliamo la corda e subito prima di restare intrappolati qui dentro”.
Discorso più che logico.
Se non che lui non era previsto in quella fuga.
Vexen ebbe l’impressione che, in quella combriccola, la testa di Camus si fosse girata per pochi attimi nella sua direzione, e lo scienziato si scoprì con le unghie piantate nel legno del mobile.
Il sacerdote si sciolse dalla stretta dei suoi confratelli e fissò il mercenario “Auron, non ho parole per ringraziarti, non dovevi … non dovevate rischiare la vita per me. Ma visto che sei qui forse possiamo fare del bene a qualcun altro, qualcuno che non può scappare con le sue forze”.
Lo scienziato si guardò intorno, ma le uniche altre vie d’uscita erano le finestre a decine di metri dal terreno.
“Auron, Zachar è prigioniera qui dentro, l’hanno condotta qui durante una missione, l’ho sentito da uno dei generali del Grande Satana. So che tieni a lei e …”
“DOV’E?”
Vexen tirò un sospiro di sollievo e si permise di scostare la testa dal mobile per vedere un po’ meglio; il mercenario aveva cambiato espressione e si era appoggiato la spada sulle spalle. Quando il sacerdote gli rispose che la vecchia Invocatrice si trovava al piano di sopra, nel laboratorio dell’arcivescovo stregone, con un paio di falcate si avvicinò alla porta distrutta “Mu, ho una cosa da fare. E no …” disse non appena il compagno provò ad aprire bocca “… è una questione che voglio risolvere da solo. Tu e Shaka prendete Camus ed andatevene di qui prima che inizino i fuochi d’artificio; ci vediamo alla piattaforma d’atterraggio di prima, stessa viverna”.
Prima che gli altri potessero rispondergli era già svanito. Vexen osservò i tre sacerdoti: senza l’occhio vigile del mercenario avrebbe potuto seguirli di nascosto ed anzi, qualsiasi demone avessero incontrato sul loro cammino si sarebbe confrontato prima con loro e lui avrebbe avuto il tempo di cercare una seconda via di fuga. Se davvero erano entrati con una viverna le cose si complicavano, ma forse con un pizzico di fortuna avrebbe potuto trovare …
“Stia tranquillo, padron Vexen. Adesso può uscire!”
Cosa?


“Axel?”
Riconosceva quella voce trapana-timpani.
“Eddai, stupido roscio, ma è possibile che con due gocce d’acqua svieni come una fanciulla?”
Larxen …da un incubo all’altro …
Aveva cercato di usare il suo potere per riscaldare l’acqua e farla evaporare, ma una volta in quel contenitore demoniaco aveva perso ogni forza, in totale balia dell’ elemento opposto; per quanto la testa ed il collo fossero al di sopra del livello dell’acqua faticava a respirare, come se l’aria stessa fosse impregnata di liquido e lo soffocasse. Accanto a lui, su un lettino, Larxen stava facendo qualche strana contorsione; inutile dire che lo gnomo che li aveva rinchiusi in quel laboratorio non c’era. All’inizio non capì cosa stesse facendo e si limitò ad osservare con scarso interesse il suo tentativo di piegarsi in due ed avvicinare ginocchia e gambe al petto; con la bocca armeggiò con la cerniera della tunica dell’Organizzazione e quando il n. VIII vide comparire un kunai da sotto l’abito nero per poco non lanciò un grido.
Larxen doveva essersi accorta di aver dato spettacolo “I demoni sono stupidi! Non perquisirebbero mai una ragazza fino in fondo”.
Ma dove lo avrà nascosto in quella seconda di reggiseno scarsa che si ritrova?
Lei fece scivolare lentamente la sua arma dalle ginocchia alle caviglie, fino a stringerla con estrema precisione tra le punte dei suoi stivaletti “La Regina delle Evasioni sta per fare il suo ingresso trionfale! Axel, guarda bene e dimmi se riusciresti a fare di meglio!”.


“Che cosa ci fa lui qui?”
Camus respirò a fondo, leggendo l’inquietudine e la diffidenza negli occhi del suo confratello “Mu, è tutto a posto, fidati. Padron Vexen è prigioniero come me, ed è mio desiderio aiutarlo”.
“Non è un tuo desiderio. Tu sei stato condizionato proprio come noi, Camus, non ricordi?”
“Ora non più, fratello mio. Le mie decisioni appartengono solo e soltanto a me”.
Era difficile sostenere la coppia di sguardi che confluiva su di lui. Mu non nascondeva il suo sospetto, e dalle occhiate che lanciava oltre le sue spalle sapeva che stava rimpiangendo l’assenza di Auron. Padron Vexen era ancora dietro di lui, ed aveva compiuto pochi passi lontano dalla protezione della libreria soltanto per maledirlo con tutte le sue forze.
Aveva riflettuto a lungo sul chiamarlo o meno: avrebbe potuto far finta di nulla e seguire Shaka e Mu fino alla prima via d’uscita, confidando che padron Vexen sarebbe stato in grado di seguirli a distanza di sicurezza. Ma poi? Sarebbero comunque fuggiti con Auron e probabilmente con l’Invocatrice, ed il mercenario avrebbe volentieri dato un dito o due della sua mano portante per impedire che lo scienziato fuggisse con loro. Camus non se la sentiva di lasciarlo lì dentro, in balia del Grande Satana e delle sue decisioni.
“Camus, sai bene che non dubito di te. È di quell’uomo che non mi fido”.
“Posso capire le tue ragioni”.
L’ammissione di padron Vexen era giunta come una coltellata. Prevista, anticipata dalle parole di padron Marluxia, ma una coltellata era pur sempre una coltellata, vederla arrivare non aveva lenito le cose. Quando lo scienziato aveva dichiarato la sua colpa nel condizionamento aveva sentito la mente infrangersi: non la sottile crepa, la venatura nel ghiaccio generata dalle parole del n. XI, ma un colpo secco che aveva ridotto i suoi pensieri in centinaia di schegge. Le aveva osservate, quelle schegge: ciascuna sembrava contenere un viso, una persona cara, un luogo, addirittura dei concetti che aveva appreso. Era rimasto in quel piccolo laboratorio cercando di metterli in ordine, come una catena di ricordi fatta di anelli da mettere nel giusto ordine.
E quando li aveva ricomposti, aveva trovato il vero Camus. “Credimi, Mu, nessuno può capirti quanto me. Ma ora sono libero, ed aiuto padron Vexen perché è quello che Camus, Cavaliere d’Oro dell’Acquario, avrebbe fatto. Avrebbe perdonato”.
“Ama il tuo nemico” approvò Shaka, scuotendo la testa in segno affermativo “È questo ciò che ci hanno trasmesso il Maestro Dohko ed i nostri fratelli. E se tu davvero pensi questo, Camus … vuol dire che sei il confratello smarrito da tanti anni, e nessun altro”.
Nemmeno le parole del Cavaliere della Vergine, però, riuscirono a placare lo sguardo di Mu. Il sacerdote dai capelli azzurri sapeva che non era una ferita semplice da rimarginare: aveva atteso a lungo prima di comprendere il suo cuore, perso nella paura e nell’odio dell’uomo che lo aveva condizionato. Ma aveva riflettuto, aveva trovato se stesso, e nel riprendersi la coscienza aveva realizzato che non doveva voltare le spalle all’uomo vestito di nero, la persona che gli aveva insegnato molto. Mu non aveva condiviso nulla con l’uomo, e nel suo cuore c’era solo diffidenza.
“Camus si sta comportando egregiamente, Mu” intervenne Shaka, con la gentilezza e la calma che non erano svanite nel corso degli anni in cui era stato lontano dal Tempio “E forse dovresti prendere esempio da lui. È uno scienziato, un miscredente ed un peccatore …”
“Sì, e ne sono anche molto fiero!”
Shaka sollevò la mano “… ma è comunque un’anima da salvare”.
Narratore: “Shaka, tra molte serie ti pentirai di questa decisione. Sei ancora in tempo per ripensarci …”
Camus ringraziò la prontezza del Cavaliere, ma Mu si limitò a sbuffare, sollevare le spalle e commentare che ad Auron la cosa non sarebbe piaciuta nemmeno un po’, e non sarebbe stata l’intercessione di Shaka o l’abilità oratoria di Camus a convincerlo a dividere un posto sulla viverna con lui. Il perdono era una pianta molto fragile: occorreva nutrirla, coltivarla, proteggerla dalle intemperie e dagli insetti nocivi per raccoglierne i frutti in tempo; forse per il Cavaliere dell’Ariete i frutti erano ancora acerbi, la nevicata troppo forte. Camus sapeva che non poteva chiedergli di più.
Doveva ringraziare la saggezza di Shaka.
Stava per parlare con padron Vexen, quando il sacerdote biondo si chinò, e afferrò il foglio che era caduto qualche attimo prima: Shaka non aveva mai avuto bisogno di aprire gli occhi per leggere, e sfiorando qualsiasi foglio riusciva a comprendere il significato, sostenendo che davanti agli dèi ed al mondo da loro creato tutti i sensi erano equivalenti, se si sapeva armonizzare la propria anima con quella del creato “Camus, sai spiegarmi perché questi segni del demonio sono scritti nella tua grafia?”
“Sono solo formule chimiche, niente di …”
“Di peccaminoso? Sì, lo sono!” fece di scatto, accartocciando il foglio “Cose da scienziati peccaminosi, che vogliono capovolgere la natura delle cose. Mi auguro che tu fossi condizionato quando hai scritto questa robaccia indegna di qualsiasi sacerdote”.
“Io …”
Aveva dimenticato che su alcuni punti Shaka era fin troppo intransigente. Ma prima che sulla lingua gli si formasse una risposta adatta padron Vexen fece un passo in avanti e strappò il foglio al sacerdote, torreggiando di diversi centimetri su di lui “Odio quando gli incompetenti mandano all’aria del buon lavoro …” disse, facendolo scivolare nella tunica lanciando uno sguardo di disprezzo a tutti loro “… e adesso, Camus, visto che hai avuto la geniale idea di rivelare la mia presenza ai tuoi amichetti che ne dici di concentrarsi sul problema fuga? Già è abbastanza seccante girare in compagnia di tre sacerdoti, ma girare in compagnia di tre sacerdoti nel palazzo del Grande Satana Baan furioso mi piace ancora di meno”.
Si avvicinò alla porta e guardò con diffidenza quello che rimaneva del loro carceriere “Da che parte?”
Mu fece per muoversi, ma da sopra la testa dello scienziato si formò da uno sbuffo di fumo un oggetto sottile; Camus strinse gli occhi, cercando di riconoscere cosa fosse. Riconobbe quella che sembrava una carta da gioco, di quelle che ogni tanto esibivano padron Axel e padrona Larxen davanti a dei boccali di birra nei pomeriggi di pioggia al Castello. Ma sulla carta in questione poteva vedere delle venature color rubino. Senza nemmeno pensarci corse verso di lui “Padron Vexen, si levi di lì!”
L’uomo seguì il suo sguardo, ma quando si accorse dell’oggetto questo si era già posato sulla sua spalla; ne uscì un secondo, più violento sbuffo di fumo rosso e rosa che lo avvolse per intero. Camus arrivò a pochi passi da lui, ma quando allungò un braccio dentro la foschia per trascinare via lo scienziato non trovò altro che aria e scivolò in avanti; mentre cadde il fumo si dissolse, e quando atterrò in malo modo sul pavimento nero non c’era alcuna traccia né del n. IV né della sua tunica, ma solo la carta da gioco. Senza pensare alle conseguenze, si rialzò e la guardò meglio. I bagliori rossi che aveva intravisto qualche attimo prima erano spariti, ma sentiva comunque qualcosa di malvagio provenire da lì. Un cinque di picche.
In un attimo Shaka fu accanto a lui e la allontanò dalla sua presa, per poi far comparire un raggio di luce dalle sue dita e ridurla in sottili volute di cenere “Troppi malefici demoniaci qui dentro. Andiamo al cortile prima che possa accadere qualcosa anche a noi”.
“E padron Vexen? Non sappiamo cosa gli sia successo!”
“Se è desiderio degli dèi che viva, lo porteranno di nuovo sul nostro percorso. Abbi fede in loro, Camus”.


Zexion serrò le mani intorno ai piccoli, sottili peli della creatura mentre scendevano lungo la parete rocciosa della regione inferiore del Baan Palace. Sapeva che, se avesse sfortunatamente aperto gli occhi, si sarebbe ritrovato a testa in giù, con centinaia di metri di caduta libera proprio sotto il naso.
Una di quelle situazioni in cui si ritrovavano sempre gli agenti speciali dei film della Terra I, ma lui non era quel tale James Bond e soprattutto in nessuno di quei film il protagonista si trovava aggrappato alla pelliccia di una cacciatrice di taglie irritata e per di più mutata in ragno gigante. Se Zam Wesell si fosse stancata di lui avrebbe potuto scrollarselo di dosso in quel preciso istante, ma l’odore della donna era stabile. Un altro odore disturbava la discesa, ma cercò di allontanarlo in preda al panico.
Faceva scivolare le sue otto zampe in maniera lenta e regolare proprio per non sbalzarlo, e come lei stessa aveva previsto nessuno notò la loro avanzata, mimetizzati con il colore della parete, meno appariscenti di una viverna ma più rapidi di qualsiasi corda, rampino o cavo in acciaio che entrambi portavano addosso per ogni evenienza. Non devo aprire gli occhi.
Il vento costituiva un ostacolo, ed essendo il suo elemento aveva cercato di placarlo, ma la donna glielo aveva proibito: i demoni potevano percepire anche una minima variazione nell’equilibrio magico, lo aveva detto lui stesso, ed anche un piccolo incantesimo avrebbe potuto attirare la loro attenzione. Era per quel motivo che si erano allontanati da Kaspar.
Il ragno gigante in cui la cacciatrice di taglie si era mutata era una razza adatta a quel tipo di percorsi, e trovava il percorso corretto senza scivolare, esitare o rischiare una caduta, e lui riusciva a seguire ogni movimento adattando il suo corpo a quello peloso della creatura, adattandosi ad ogni asperità. Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso, ma ad un certo punto la signora si fermò ed i peli svanirono sotto il suo pugno. Zexion perse la stretta e cadde a testa in giù per un paio di centimetri, sbattendo prima la testa e poi la spalla su un piccolo balcone mentre la cacciatrice di taglie riprendeva la sua normale forma umana.
“Divertente vero? E pensare che in una missione sulla Terra II stavo per diventare la cena di un mostro simile!”
Divertente non era proprio il primo aggettivo che aveva sulla punta della lingua “Non credo che un ragno gigante possa essere un problema per lei, mia signora” disse, rimettendosi in piedi. Gli odori tornarono distinti, ed uno non gli piaceva affatto. Quello che aveva percepito durante la discesa adesso era potente, invasivo, e di colpo qualsiasi ragno enorme o demone furioso gli sembrò insignificante. Lei dovette accorgersi che la sua espressione era cambiata, perché invece di proseguire lo fissò.
“Sta arrivando qualcuno … qualcuno che …”
Era come avvicinarsi ai grandi vulcani di Mustafaar, e sentire i fumi, lo zolfo, i veleni e lo stesso sapore del fuoco per tutti i polmoni: ma erano moltiplicati di centinaia di volte, come se tutta la morte ed il potere della natura si stessero riversando dentro di lui. Gli oscurarono qualsiasi altra percezione, e la cacciatrice di taglie lo sostenne, scuotendolo “Che succede?”
Solo una creatura poteva avere quell’odore in grado di eclissare anche quello del Grande Satana: “Il generale Baran. Sta arrivando”.
“È un problema per noi?”
Non è di questo mondo. Non può sapere “Non è una questione di problema, mia signora. Lui è il Ryumajin, il Cavaliere del Drago, è praticamente un dio, e se sta venendo qui ci troverà!”
Cercò di isolare l’odore violento della creatura in avvicinamento, ma più tentava di ritrovare qualche odore familiare e più l’aroma intenso di Colui che Nasceva per Giudicare il Mondo prendeva possesso della sua testa. E stava cercando qualcosa, era stato richiamato dal Grande Satana, non era lì per mero caso. La missione poteva dirsi fallita, ma quando cercò le parole per spiegarlo alla sua accompagnatrice lesse il suo profumo prima ancora della voce.
“Un dio? Questa è tutta da vedere. Anche Kaspar si credeva un dio e guarda adesso come scodinzola”.
“LUI NON SI CREDE UN DIO! LUI LO E’!”
“Scommettiamo?” lei abbandonò la presa dalle sue spalle ed armeggiò con un sacchetto agganciato alla sua cintura “E comunque ho già avuto a che fare con divinità … più o meno serie … tanto me lo sentivo nelle ossa che questa missione sarebbe stata più difficile del solito”
Davvero? E io che pensavo che con lei e Kaspar in attacco sarei tornato per ora di cena.
Gli lanciò il sacchetto, e Zexion riconobbe le sette Pietre della Sapienza che avevano guidato il loro teletrasporto in quel mondo “A questa pseudodivinità ci penso io. Tu occupati di cercare Mistobaan e liberarlo, poi vieni a riprendere me e quel mago da circo se non abbiamo ancora finito. E, mi raccomando …” ma non c’era nemmeno bisogno di dirlo “… Mistobaan e Kaspar NON devono toccare quelle pietre. Nella maniera più assoluta. Se il loro condizionamento svanisse preferiresti affrontare cento di quei Cavalieri del Drago piuttosto che la furia dell’Imperatore”.
Si avvicinò alla parete, e l’attimo dopo il ragno gigante aveva intrapreso la sua scalata; il ragazzo sentì il calore degli oggetti magici contro il suo palmo.
Narratore: “Ehi, Zexion, mi sa che sei nei guai!”
“Ma io non ho idea di come liberare Mistobaan, ci sono degli allarmi magici, delle guardie, cosa posso fare?”
Narratore: “Beh, sei un Cocco delle Registe!”
“Cosa? Le Registe? E chi le ha mai viste? E cosa vuol dire?”
Narratore: “Vuol dire una sola cosa, piccolo ragazzino emo col ciuffo. Che adesso sono cazzi tuoi!”

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Si alzi il sipario! ***


Capitolo 11 - Si alzi il sipario!


Axel

Axel




“Guarda e ammira!”
Axel fissò il kunai, giallo nella scarsa illuminazione del laboratorio. Larxen lo teneva ben stretto tra le punte dei suoi stivali, piegandole in su ed in giù per dare all’arma la direzione e la forza corretta; il cuore del n. VIII mancò un battito quando gli sembrò che la Ninfa perdesse il controllo del kunai, e quella per tutta risposta gli regalò uno dei suoi peggiori sorrisi. I movimenti di lei erano limitati da un sottile campo di forza che si vedeva a malapena dalla capsula piena di acqua in cui Axel si trovava; il loro carceriere sembrava uno gnomo, ma non era per niente idiota, rifletté, cercando di ignorare la presenza soffocante dell’acqua su tutto il suo corpo. Poi lei lo lanciò verso l’alto: Axel seguì la traiettoria e vide l’arma superare la barriera energetica, attraversandola con un crepitio inquietante tra mille scariche azzurrine.
Poi uscì dal campo, e fece tutto quello che alle armi di Larxen riusciva meglio. Un casino.
Sul soffitto del laboratorio vi erano diverse sfere, che il n. VIII notò solo in quell’istante: fluttuavano in aria, composte da un materiale sottile come il vetro che lasciava trasparire il loro contenuto, per lo più erbe, liquidi, frammenti di osso o altre cose dalla dubbia utilità. Erano di diversi colori e grandezze, e quando si spostavano e si urtavano mandavano un tintinnio sordo che era certo di aver udito anche nelle ore che aveva trascorso in quella prigione d’acqua. Axel si pentì immediatamente di non conoscere a fondo il contenuto della grande, verde e luminosa sfera posta proprio un metro sopra il tavolino di Larxen: il kunai la colpì con precisione, e dopo ci fu solo un accecante lampo verde ed un urlo stridulo di donna che si levò dall’origine dell’esplosione.
L’attimo successivo qualcosa di tagliente si conficcò nel suo addome, qualcos’altro nella gamba destra ed un ultimo frammento per poco non gli portò via l’occhio destro; il sangue non gli coprì la visuale, perché si ritrovò a faccia in giù in una pozza d’acqua, con attorno i resti della capsula che lo aveva tenuto prigionieri. Bestemmiò tra i denti, poi d’istinto cercò la scheggia infissa nel braccio e la lanciò lontano “Larxen, maledetta puttana, ti giuro che …”
“Tappati la bocca, roscio, o ti rimetto a testa in giù in un’altra capsula!”
Si rimise in piedi a fatica, appoggiandosi al minuscolo tavolo pieno di libri borchiati che troneggiava nella stanza, cercando qualcosa con cui fermare il sangue della fronte che ormai gli era arrivato fin sulle labbra, per poi premersi l’addome nel punto in cui il frammento della capsula si era piantato. Le ennesime cicatrici della sua vita. Come se non bastassero quelle che gli avevano regalato Saïx e Roxas.
A dispetto dell’esplosione la Ninfa Selvaggia era tutta intera, e guardava soddisfatta il pandemonio creato dalla sua manovra evasiva: le sfere più vicine a quella esplosa dovevano aver reagito con la stessa, ed una aveva preso fuoco mentre l’altra aveva creato una seconda esplosione, meno intensa ma abbastanza vicina ad un set di provette in miniatura per mandarle in mille pezzi e far cadere uno strano liquido ambra sulle mensole; per un attimo Axel si ricordò dell’incursione della ragazza nel laboratorio di Vexen anni prima, e si chiese se avesse un sadico piacere a distruggere ciò che apparteneva agli scienziati. Con un colpo di tacco Larxen spaccò una capsula posta sulla parete del laboratorio in cui quello Zaboera aveva inserito le loro armi per studiarne le proprietà elementali. Riuscire ad afferrare il primo chackram con la mano sinistra, ma il secondo gli giunse troppo lontano ed incendiò uno dei pochi mobili superstiti.
Guardò dubbioso la grande falce dalla lama rosa di Marluxia: “Non avrai intenzione di portarti dietro quel peso inutile, vero?”
“Niente è inutile se può fare un po’ di danno, Axel. Ed io ho seria intenzione di farne un bel po’ a cominciare da quella lì”.
Impugnò l’asta verde scuro della falce in modo goffo e rivolse la punta verso la figura che giaceva immobilizzata sul lettino accanto al suo e che aveva scosso con violenza la testa e le braccia durante le esplosioni di qualche istante prima. Axel aveva riconosciuto in lei l’Invocatrice tavola-da-surf, ma da quando era stato rinchiuso in quel cilindro d’acqua aveva perso qualsiasi interesse in tutto ciò che non fosse una boccata d’aria; la ragazza era stata uno dei tanti tasselli che avevano causato la rovina del loro piano al Castello dell’Oblio, e pur essendo una valida maga non era un problema finché rimaneva lì ferma, il n. VIII lo aveva sperimentato sulla sua pelle. Ma conoscendo Larxen non stava puntando la falce verso l’Invocatrice perché la considerava un pericolo, piuttosto perché aveva bisogno di un nuovo divertimento.
Provò a spiegarle che con tutto quel baccano non c’era tempo di mettersi a giocare, ma fu liquidato con un “Axel, se continui ad annoiarmi tu sarai il primo e lei la seconda” dopo il quale lasciò perdere e cercò di tamponarsi le ferite con tutto quello che trovava. Si accese una candela grigia che era rotolata in un angolo e la appoggiò sulla ferita dell’addome, confidando sulle proprietà positive che il fuoco aveva sul suo corpo; negli anni da elementale aveva scoperto che non solo ridava molte forze perse, ma stimolava una guarigione più rapida. Se fossero arrivati dei nemici (e sarebbero arrivati in capo a qualche minuto se conosceva l’efficienza dei demoni) era meglio non farsi trovare del tutto indeboliti e vendere cara la pelle; ma soprattutto per trovare abbastanza energie da uscire di lì, Larxen o non Larxen.
La Ninfa Selvaggia iniziò la sua risata sadica e lui si voltò da un’altra parte, fissando fuori dalla finestra per vedere se ci fosse una via di fuga dall’esterno.
Si pentì di averlo fatto quando la porta esplose in centinaia di schegge e riconobbe l’odioso grugnito prima ancora di voltarsi. I demoni sarebbero stati preferibili …
“Levale le mani di dosso, brutta puttana!”
“Giusto, giusto, è proprio come nelle fiabe!” disse la n. XII “La bella principessa è prigioniera dei cattivi, e quando loro la vogliono uccidere arriva l’eroe a salvarla!”
Ecco, Larxen, spero che tu ricordi anche come vanno a finire di solito le fiabe …
Era la seconda volta che Auron veniva a salvare l’Invocatrice, ed entrambe le volte aveva dipinta nell’occhio la voglia di distruggere tutto quello che aveva davanti, con una rabbia che invece la Ninfa non aveva. Non rimase a lungo sulla porta, perché in tre passi aveva sguainato la spada (che anni addietro Vexen aveva avuto la geniale idea di renderla resistente agli incantesimi) e si era messo tra il lettino della maga e la gigantesca falce rosa.
“Non pensavo proprio di ritrovarvi qui … no davvero … bene, vorrà dire che unirò l’utile al dilettevole. Fatevi avanti, se avete il coraggio!”
Per me potremmo anche lasciargli l’Invocatrice ed andarcene di qui, ma ho come il sospetto che Larxen non sia dello stesso parere. Lei infatti appoggiò la falce al muro ed estrasse i kunai, facendoli brillare di tutti i fulmini che poteva; il mercenario non era affatto turbato, sicuro dei poteri della sua arma, e si mise immobile davanti alla sua bella in attesa dell’attacco dell’avversaria, proprio come un possente muro attendeva l’infrangersi dell’onda. In tutto questo, notò Axel, nessuno badava a lui. Nessuno dei tre tagli che si era procurato aveva avuto la gentilezza di chiudersi, e la gamba aveva conosciuto situazioni migliori; la fiamma con cui si era curato aveva avuto un effetto blando e in quel momento non si sarebbe sentito di affrontare nemmeno il piccolo dolce Mu disarmato, figurarsi quel bestione furioso armato di spada che vanificava ogni suo incantesimo. Dall’altra parte non gliene importava nulla di Larxen.
O almeno, non abbastanza da rischiare la vita per una delle sue follie.
Auron era concentrato solo sulla ragazza e adesso dava le spalle alla porta, e conosceva la Ninfa Selvaggia abbastanza bene da sapere che quando sentiva l’odore della battaglia e del sangue avrebbe potuto risorgerle il resto dell’Organizzazione sotto i piedi e non si sarebbe accorta di nulla. Con delicatezza scivolò a destra approfittando delle ultime fiamme che consumavano ciò che restava di una libreria, ricordando le volte che si era intrufolato nelle palazzi dei nobili per fare man bassa di qualche sacco di denaro. Grazie al cielo negli anni non aveva mai perso il suo piede leggero.
Larxen non perse tempo e circondò il mercenario con una catena di fulmini che teneva sospesa nella mano destra, e quello fu costretto a rispondere roteando la spada con un unico, lungo fendente che trasformò le saette in una cascata di scintille tutte intorno alla propria lama che si illuminò.
“Bravo soldatino, proprio quello che volevo!”
Per difendersi Auron aveva disegnato nell’aria una parabola con la Masamune, e quando la punta di questa era rivolta verso il basso Larxen balzò in avanti “Forse non sei condizionato, ma sei sempre un povero ingenuo!”
Prima che l’altro si rimettesse in posizione di guardia lei gli era già addosso; il duello sarebbe durato pochissimo se Auron non si fosse abbassato in tempo, evitando la mano sinistra della donna con i suoi quattro Kunai dritti alla faccia. Poi sollevò il braccio destro e diede una gomitata alla Ninfa Selvaggi proprio a livello dello stomaco: al sibilo furioso di lei Axel capì che nessuno avrebbe più fatto caso a lui. Abbandonò ogni precauzione, strinse con forza i chackrams ed atterrò oltre la porta distrutta, dando fuoco alle schegge di legno per coprirsi il passaggio.
Poi si lanciò nel corridoio con tutte le forze che aveva.
Doveva andarsene di lì e subito: i demoni non gli avrebbero dato una seconda occasione, non era nella loro natura perdonare, men che mai immedesimarsi in un prigioniero che desiderava solo la propria libertà. Non aveva la più pallida idea di dove andare, soprattutto perché il Baan Palace era a centinaia di metri dal suolo, e lui non aveva né i poteri di Xigbar né quelli di un demone né un comodo paio di ali. Ma un modo ci doveva pur essere e l’avrebbe trovato, anche a costo di nascondersi per mesi interi tra i mobili della fortezza volante in attesa di un’occasione.
Ma comunque se Auron era venuto senza inviti doveva pur essere salito in qualche maniera e lui ne avrebbe approfittato; lo gnomo scienziato che li aveva imprigionati aveva parlato di un attacco nemico, e ne avrebbe potuto approfittare cercando di usare il meno possibile la magia visto che i demoni sembravano quasi fiutarla.
I rumori di sottofondo davano l’idea che ci fosse una battaglia ai piani più bassi, e uno stormo di demoni volò fuori dalla finestra che aveva alla sua sinistra, ma nessuno fece caso a lui. Si appoggiò contro un muro per riprendere fiato ed appoggiò le mani ad un braciere che illuminava il percorso. La sensazione del calore ardente sotto le mani gli diede nuove energie, e stava per riprendere il percorso quando qualcosa lo tirò per la tunica.
“Ehi, tu, spilungone!” Axel era stato chiamato in tanti modi, ma mai in quello. Non era mai stato molto alto. Eppure quando si voltò capì: uno strano esserino non più alto del suo ginocchio si era aggrappato al bordo dell’abito e lo scuoteva per attirare la sua attenzione. Non aveva le orecchie a punta dei demoni ma una testa piccola e chiara con un unico occhio che lo fissava da sotto un cappello a punta “Ehi, guarda che stai sbagliando strada!”
Il primo istinto gli avrebbe suggerito di scrollarsi di dosso quella bambolina deforme e continuare a correre, ma quella gli rivolse un sorriso disarmante ed agitò la mano libera in segno di saluto; Axel diede un’occhiata alle proprie spalle e quando fu certo che non ci fosse nessuno in arrivo si piegò verso il nuovo arrivato. Quello lasciò il suo abito ed improvvisò qualche saltello su un piede solo rischiando di scivolare nella sua tunica fin troppo larga “Bravo umano, bravo umano, non di là! Ci sono delle cose brutte davvero, cose mooooolto brutte, sì sì!”
Non sembrava minaccioso: i membri della famiglia demoniaca erano famosi per non saper fingere, e se quel minuscolo essere avesse voluto fargli del male avrebbe già chiamato le guardie; dopo aver finito il suo ballo la creatura fece un goffo inchino e si levò il cappello.
“Cosa vuoi da me?” disse Axel. Piccolo o meno, non abbassare la guardia era una priorità, ma date le dimensioni avrebbe potuto benissimo agguantarlo per il collo e trasformarlo in un mucchietto di cenere se qualcosa fosse andato storto “Hai intenzione di aiutarmi?”
“Ma certo! Non sarebbe bello se i demoni ti trovassero! Ti farebbero tanto male, lo sai?”
“E perché dovrei fidarmi di te?”
Il grande occhio sembrò riempirsi di lacrime “Oh, lo spilungone non si fida di me! E io che volevo invitarti ad uno spettacolo di primo ordine!”
“Uno spettacolo?”. Adesso la cosa iniziava a sfuggirgli di mano. Non aveva alcuna voglia di vedere uno spettacolo di quello gnomo rattrappito, men che mai quando il GSB era a pochi piani da lui: l’unica cosa che gli interessava in quel momento era andarsene “Spiacente, ma devo uscire di qui!”
“Ma l’unico modo per uscire di qui è partecipare al mio spettacolo!”
“Che cosa …?”
“È ovvio!” fece quello, rivolgendogli un sorriso ancora più dolce “È lo spettacolo della tua morte!”
Axel non fu abbastanza rapido. A quelle parole provò ad agguantare la creatura per il collo, ma quella fece un balzo sorprendente sulla sua spalla e la sua risata fu qualcosa di ridicolo e inquietante allo stesso tempo. Dal cappello estrasse una carta, e prima che l’elementale del fuoco riuscisse a scrollarselo di dosso quello gli aveva toccato la fronte con l’oggetto.
Fu avvolto da uno sbuffo di fumo viola e giallo e quando cercò con la mano il piccolo mostro non agguantò altro che aria, e starnutì più volte per la sensazione pungente che quelle volute di fumo davano nelle sue narici e trattenne il respiro. Quando riaprì gli occhi fece appena in tempo a scansarsi che un kunai gli passò vicino all’orecchio.
“Axel, brutto roscio, che sta succedendo?”
“Succede che non sta bene che i prigionieri del Grande Satana fuggano in questo modo”.
A quella voce tutti si voltarono. La stanza era ridotta ancora peggio di quando l’aveva lasciata, e nemmeno una delle sfere colorate fluttuanti era rimasta intatta: Auron aveva la tunica quasi a brandelli ma era ancora immobile davanti all’Invocatrice, che adesso però si era seduta sul lettino e si stava divincolando per distruggere i sottili tentacoli che ancora le avviluppavano le caviglie. Da parte sua, Larxen era ancora più elettrica del solito, in piedi in mezzo a pozze di liquido non ben identificato che mandavano scosse e piccole folgori al passaggio di lei. Ma in quel momento tutti erano immobili, persino la Ninfa, davanti al nuovo arrivato. Era vestito di nero dalla testa ai piedi ed indossava una maschera come quella dei mimi, con un grande arco sopra la testa da cui pendevano dei ciondoli; impugnava una falce e Axel mandò un sibilo quando vide il piccolo gnomo con un occhio solo comparire in una nuvola di fumo sopra la spalla del nuovo venuto. Gli fece addirittura un cenno di saluto con la sua manina accompagnato dallo stesso sorriso affabile di qualche attimo prima.
“Ehi, Killvearn, sono stato bravo, vero? Piro Piro, Piro Piroro!”
“Assolutamente sì, Piroro!” fece quello, con una voce strana, dal tono alto, quasi buffa se veniva da un essere dall’aspetto minaccioso “Ma il merito è anche della Kill-Trap che hai usato!”
“Oh, sì, le tue Kill-Trap sono sempre le migliori, Killvearn! Tu sei il più grande! E io sono molto fiero di essere il tuo assistente!”
L’Invocatrice alla vista di quelle creature lanciò un grido “Sono quelli che hanno rapito me e Mistobaan!”
Quello lì … ha rapito Mistobaan?
La situazione stava sfuggendo di mano alla velocità della luce. Quel Killvearn passò la sguardo su loro quattro, ed anche se non poteva vedere il suo volto era certo che qualcosa in loro lo divertisse “Mistobaan? Quel sempliciotto? Il GSB gli dà troppa importanza secondo me, ma chi sono io per dire al nostro onnipotente signore cosa fare? Ma veniamo al nostro spettacolo …” la creatura sulla sua spalla mise per la seconda volta la mano nel cappello e stavolta ne trasse un mazzo di carte intero e glielo mise nella mano libera “Quattro ospiti eh? Non capita tutti i giorni un pubblico simile!”
Perfino Larxen sembrava interessata alla creatura con la maschera visto che ancora non era partita all’attacco; eppure Axel pregò che qualcuno, fosse anche la Ninfa Selvaggia o Auron, facesse la mossa per primo, perché non era sicuro di voler sperimentare una seconda volta i trucchi di quel tetro prestigiatore e del suo irritante assistente.
“Li ucciderai tutti insieme, Killvearn? Tu potresti farlo, Killvearn! Una quadrupla sparizione sarebbe un numero sensazionale per te che sei la Morte!”
“Ma non è nel mio stile, Piroro! Perché fronteggiare tanti avversari insieme quando si possono distruggere uno ad uno con calma? Questo mi darebbe il tempo di ideare qualche nuovo trucco!”
“NON CI AFFRONTI INSIEME PERCHE SEI UN VIGLIACCO, BRUTTO MASCHERONE DALLA LINGUA LUNGA! E io che credevo che voi demoni foste onorevoli!”
Eccellente, Auron, distrailo!
Voi demoni? Oh oh, ci deve essere un piccolo malinteso! Purtroppo per voi io non sono un demone-onorevole-coraggioso-leale! Per queste idiozie chiamate quella testa granitica che è il Grande Satana” scelse una carta dal mazzo e la passò davanti agli occhi “Io sono Killvearn, la Morte, e non penso che a voi servano altre informazioni. Godetevi il mio cinque di fiori!”
L’attimo dopo Axel perse il terreno sotto i piedi.


Mistobaan fluttuava a mezz’aria, avvolto in una piramide azzurra che levitava anch’essa al centro della grande prigione. I suoi occhi, di solito simili a dei fari gialli sotto l’inquietante cappuccio bianco, erano spenti; Zexion però riusciva a sentire in lui la coscienza e tutte le attività vitali e cerebrali in perfetto stato, e se il Braccio Destro aveva chiuso gli occhi lo aveva fatto solo per aumentare la sua concentrazione.
Zexion sapeva che la famiglia demoniaca possedeva diversi sistemi per intrappolare e controllare altre creature magiche, ma non aveva mai immaginato che potesse essere così … delicata. Quando da bambino gli parlavano della famiglia demoniaca quei racconti erano sempre accompagnati da racconti di gente che spariva nel nulla, o di maghi privi delle dovute licenze che venivano giustiziati senza alcuna pietà. Le prigioni dei demoni erano sempre descritte con un misto di paura e disprezzo, e più di una volta Xigbar e Xaldin discutevano delle atrocità che la famiglia demoniaca poteva compiere dentro le mura delle celle. Eppure dopo essere stato all’Impero Galattico ed aver visitato più di un blocco di detenzione i suoi concetti di raccapricciante e orribile avevano preso una diversa piega. Grazie al suo olfatto Zexion conosceva bene la reale natura di Mistobaan e sapeva che il Grande Satana non lo avrebbe mai danneggiato in ogni caso, ma comunque anche gli odori che provenivano dagli umani imprigionati nelle celle vicine non si avvicinavano minimamente a quelli percepiti nei penitenziari di Carida o di Tatooine.
Appoggiato dietro una colonna, protetto dal sempre eccellente abito dell’Organizzazione, il ragazzo si lasciò guidare dagli odori della stanza e dall’energia magica che si intrecciava in quel punto: per contenere l’essere incappucciato l’incantesimo di guardia era stato eretto dal Grande Satana in persona e quella presenza imponente ancora permeava il luogo con i frammenti della sua aura. La piramide era stata pensata innanzitutto per fronteggiare l’essere che vi era imprigionato dentro, ed ai suoi vertici cinque globi quasi evanescenti pulsavano, apparivano, scomparivano ed alternavano la loro posizione.
“Accumulatori …” mormorò tra sé. Sfere magiche che assorbivano magia e la rilasciavano in altra forma, piccoli artefatti che nessun umano del loro mondo aveva mai visto; se Mistobaan non stava ancora lottando disperatamente per uscire voleva dire che quel delicato sistema di difesa aveva sfiancato persino la sua leggendaria ostinazione. Gli odori disegnarono davanti ai suoi occhi la potente rete incantata, e forse l’unico punto debole della prigione del più grande demone maggiore era il fatto che fosse predisposta più per impedire a Mistobaan di uscire piuttosto che bloccare un eventuale gruppo di salvataggio “Come se arrivare fin lì fosse facile …”
Una pattuglia di almeno trenta soldati del Fushikidan, il corpo d’armata al servizio del generale Hyunkel, pattugliava i numerosi metri che separavano la sua colonna da Mistobaan: erano esseri raccapriccianti, cadaveri di esseri umani che invece di decomporsi avevano tratto nuovo spirito vitale dalla magia della famiglia demoniaca. L’odore di marcio che proveniva dalla squadra gli fece tornare in gola quelle poche barrette proteiche che aveva inghiottito prima di partire.
Era difficile distinguerli uno dall’altro: quegli scheletri animati non indossavano altro che delle armi, e solo su un paio rimanevano dei brandelli di carne putrefatta attaccata al cranio insieme a quelli che un tempo erano stati capelli. Le orbite erano vuote e non vi erano orecchie attaccate alla testa, ma Zexion sapeva che i soldati del Fushikidan vedevano, sentivano ed annusavano grazie alla magia e molto meglio di qualsiasi essere umano.
I racconti di paura che circolavano all’Impero Galattico pullulavano di mostri simili a quegli scheletri: zombie, così venivano soprannominati. Erano cadaveri che di notte uscivano dalle loro tombe per razziare villaggi ed uccidere umani, ma erano sempre molto stupidi e il protagonista del racconto (di solito un valoroso soldato con l’emblema dell’Impero stampato sugli abiti) li uccideva in un attimo con qualche grande diavoleria tecnologica.
Zexion detestava quelle storie.
Lì, nel suo mondo, quei mostri erano tutt’altro che stupidi “Altrimenti arrivare a Mistobaan sarebbe un gioco da ragazzi …”
Il blaster assicurato ai suoi abiti non gli dava alcuna sicurezza: con l’aiuto della fortuna avrebbe potuto ucciderne due o tre, ma quelli lo avrebbero disarmato subito dopo. Ai servizi segreti gli mostravano spesso i filmati di quell’eroe della Terra I chiamato James Bond che si trovava sempre in situazioni simili e ne usciva vittorioso. Giusto negli olomovies …
Rampini, miniblaster, occhiati rifrangenti, vibrolame modificate con frequenze subsoniche, decriptacodici nucleari, niente che aveva nelle sue tasche sembrava adatto: l’unico oggetto utile era il detonatore termico P11 sfornato da nemmeno due mesi dai laboratori di Geonosis, e a differenza dei suoi predecessori era pensato per generare cariche dal potenziale distruttivo incredibile ma allo stesso tempo contenuto in un’area di nemmeno due metri di raggio. Non era stato pensato per abbattere tanti nemici, ma era utile contro obiettivi singoli da cui era difficile allontanarsi: sarebbe stato perfetto contro la piramide di magia di Mistobaan, ma prima avrebbe dovuto raggiungerla.
Il suo braccio non sarebbe mai riuscito a lanciarlo così distante.
Lo appoggiò sul fondo della tasca, poi gli balenò un’idea in mente.
Si allontanò di una decina di metri ed accese il comlink auricolare “Kaspar?”
La voce del mago gli arrivò dopo una sinfonia di scrosci, esplosioni e tutti quei suoni che accompagnavano dei duelli di incantesimi insieme alle grida dei suoi avversari “Kaspar, mi senti?”
“Affermativo”
“Usa la tua divinazione e rileva la mia presenza, sono ad un livello più basso del tuo. Continua a distrarre i nemici ma esegui la manovra 77 alfa 5 nel punto dove mi trovo”
“Affermativo”.
Parlare con Kaspar gli metteva sempre un po’ di soggezione: condizionato o meno era pur sempre Kaspar, e meno aveva a che fare con lui, meglio era. Ma stavolta aveva bisogno del suo aiuto.
Ritornò verso la colonna in attesa. La formazione degli scheletri non era cambiata, e marciavano a gruppi alternati di due o tre membri con i passi che avanzavano sul ritmo in contemporanea; quelli armati di lance scandivano il tempo picchiandole sul pavimento.
L’illusione di Kaspar comparve a pochi metri da lui con tanto di capelli al vento, mantello bianco e leggendaria scollatura: un essere umano privo del suo olfatto lo avrebbe scambiato per quello vero. Purtroppo il mago eccelleva in tutti gli incantesimi conosciuti (tranne la magia bianca), e Zexion fu felice di avere quell’illusione fluttuante come partner. Ma non è me che deve ingannare. Non poteva comunicare con essa, dunque tutto era alla portata dei poteri di Kaspar.
Il ragazzo tornò alla colonna e seguì il movimento della proiezione magica che lo superò ed arrivò a qualche metro dalla pattuglia di soldati più vicina con le mani che gli si illuminarono, la prima di un lampo giallo, la seconda di un globo azzurro. Le creature urlarono qualcosa nella loro lingua e le prime si avvicinarono alla figura con le spade protese in avanti mentre gli altri membri assumevano una formazione da battaglia. Zexion sapeva che l’illusione non poteva dar vita ad incantesimi reali, ma non era quello il suo obiettivo. Come concordato dalla manovra, il Kaspar fantasma levitò da terra di una decina di centimetri e fluttuò all’indietro nel corridoio da cui era venuto, mentre gli incantesimi posticci intorno alle sue dita aumentavano d’intensità. Gli scheletri spiegarono la posizione d’attacco e, come il ragazzo aveva sperato, partirono all’inseguimento.
Se lo avessero raggiunto si sarebbero accorti dell’inganno, ma gli sarebbero bastati due minuti per raggiungere indisturbato Mistobaan, innescare la carica e poi lasciare che fosse il Braccio Destro ad eliminare eventuali superstiti.
Il piano non faceva troppe pieghe.
Se non che, con suo sommo disappunto, solo metà dei soldati del Fushikidan abbandonò la stanza.

 

In piedi sulla ringhiera di marmo del balcone, Zam ascoltò la folata d’aria che annunciava l’arrivo del famoso Cavaliere del Drago.
Una volta stordite le creature di guardia e le loro cavalcature volanti in quel luogo regnava una certa pace: era così in alto che il frastuono della magia di Kaspar e dei suoi assalitori si era trasformata in un sottofondo accettabile, e le strida delle viverne erano al massimo dei fischi. Vi erano luoghi più alti di quello per fronteggiare il Cavaliere, ma le altre terrazze erano più esposte agli occhi della famiglia demoniaca e non aveva alcuna intenzione di trascinarsi dietro l’altra metà dell’Esercito del Grande Satana che non era ancora impegnata contro Kaspar.
Il punto era stupendo: era stata su grattacieli di Coruscant anche più alti, ma da quella posizione riusciva a vedere la terra sotto di lei, il disegno del fiume di quel mondo ed anche un bel lago. E’ proprio vero che l’altezza offre una grande sensazione di potere.
Se quei demoni potevano vivere così lontani dagli uomini era comprensibile il loro senso di onnipotenza.
L’attesa non durò che qualche minuto: la figura che si avvicinava muovendosi di spalle al sole, rapida più di qualsiasi drago, doveva essere proprio la persona che aspettava. Dalla sua forma umana non poteva percepire alcun potenziale magico, ma bastava osservare il suo volo per capire che l’avversario era dotato di un potere abbastanza grande da non temere nulla di ciò che era intorno a sé. Capì di aver attirato la sua attenzione quando l’essere mutò la sua traiettoria e si abbassò nella direzione del balcone rallentando il volo. A dire il vero dal modo con cui il piccoletto col ciuffo aveva parlato del Cavaliere del Drago si era aspettata qualcosa di più … grosso? Mostruoso? Che sputava fuoco?
L’essere che si fermò in aria ad una decina di metri da lei aveva l’aspetto di un essere umano di mezza età: non aveva né ali né una lunga coda avvolta a spirale, soltanto un mantello corto e verde che non gli scendeva oltre la vita e non gli conferiva quell’aspetto estetico e misterioso di cui Kaspar aveva spesso abusato. Non aveva zanne o artigli, perché ai piedi indossava comuni stivali scuri che sorreggevano gambe anch’esse umane, e dalla pelle che poteva osservare non spuntavano squame. Ma il viso era la cosa più singolare: l’occhio sinistro era avvolto da un diadema dorato che, da quella distanza, ricordava le fauci di un drago, e le sopracciglia nere erano incurvate in un’espressione che non ammetteva repliche.
Eppure un aspetto così semplice ma solenne era interrotto dal più folto paio di baffi che avesse mai visto: neri, lucidi, attraversavano dritti le guance del proprietario e gli conferivano un aspetto ancora più anomalo. Un bell’uomo, tutto sommato.
Si accorse di star osservando da troppi secondi dei particolari insignificanti del suo avversario e cercò di fissarlo in maniera più distaccata, certa che anche l’altro stesse facendo il medesimo ragionamento. Abbandonò con l’ultimo sguardo la forma di drago dell’elsa della spada ed iniziò i giusti convenevoli “Lei è il Cavaliere del Drago, suppongo”
Gli lasciò del tempo per avvicinarsi ed osservarla: lui le puntò gli occhi scuri contro, come a volerla spaventare con la sua mera presenza. Zam incrociò lo sguardo e non lo staccò, costringendolo a fissarla per vari secondi pur di non abbassare gli occhi e darsi per sconfitto. Si rifiuta di abbassare lo sguardo … bene, ho capito che tipo di avversario è.
La migliore qualità.

“Solo gli esseri umani fanno supposizioni su ciò che è già evidente” fece lui. Il tono di voce era forte e profondo; poteva ricordare lo sfregare d’aria nella gola di un drago quando ruggiva per esalare il fuoco, ma aveva sentito voci assai più minacciose “Questo vi classifica per natura come esseri inferiori”.
In nemmeno due battiti di cuore sulla punta del diadema comparve un baluginare sinistro.
“Sparisci!”
Reazione prevedibile.
L’onda d’urto colpì in pieno balaustra, terrazza e parte della muratura che sosteneva l’intera struttura; quando mutò in Lich per deviare l’energia fu colpita in pieno non solo dalla forza sprigionata da quell’attacco, ma dall’aura emanata da quell’essere nel semplice levitare lì sopra. Nella propria forma umana non era in grado di avvertire le spire ed il potenziale magico dell’avversario, ma i suoi sensi Lich percepirono tutto come un muro di duracciaio spinto con violenza contro il suo petto. Mosse le mani e spinse la propria rete di incantesimi contro l’energia pura e grezza che le veniva incontro, e creò un guscio protettivo intorno a lei che spinse il colpo nemico intorno e poi dietro, come un guscio in un fiume. Ma di certo non aveva modo di rispedire l’attacco al mittente. Il ragazzino dei servizi segreti non aveva esagerato nella descrizione, dopotutto.
Sebbene avesse scelto una creatura con un alto potenziale magico tra quelle a sua disposizione si rese conto che non era sufficiente; ma per quello che aveva in mente aveva bisogno di qualcosa di piccolo e maneggevole, e piuttosto che mutare in un Balrog mantenne quella forma per un’altra manciata di secondi mentre l’energia prodotta dal diadema del drago continuava nella sua violenza. Sibilò le parole necessarie in quella bocca decadente e marcia che non aveva mai considerato come sua, poi lasciò che l’Esplosione Solare attingesse a tutte le energie. Se esco intera da questa situazione non mi lamenterò mai più di quanto schifo mi faccia questa forma…
L’impatto la lasciò senza fiato: senza più il guscio di difesa l’aura del drago la spinse contro la parete alle sue spalle, ma l’effetto finale ne valse la pena. L’Esplosione Solare generò un’energia luminosa che deflesse la maggior parte della forza avversaria in mille raggi di luce violenta: un paio completarono la distruzione della balconata, altri portarono con loro metà di una torre, ma la maggior parte del grande ventaglio luminoso rimase nell’aria per il tempo previsto.
“Fatti servire, Cavaliere del Drago!”
Lasciò svanire la pelle di Lich ed in un attimo si ritrovò a quattro zampe, non troppo lunghe ma agili, e la lunga coda da Suubatar le diede la prima spinta contro la torre alla sua destra; il corpo flessuoso da rettile rispose in un lampo ai suoi ordini, e grazie ad un unico, tortile movimento, della schiena evitò un frammento di muro volante e si appoggiò sulla parete prevista. Poi un secondo salto in alto, poi corsa, corsa e salto negli ultimi istanti di vita dell’Esplosione Solare.
Osservò la figura nemica di sfuggita e prese l’ultima rincorsa, mantenendosi salda soltanto con la pianta simile ad una ventosa delle sue zampe; quando raggiunse l’ultimo piano abbandonò la presa sui mattoni e saltò indietro. L’energia del Cavaliere del Drago e del proprio incantesimo si era quasi dissolta, e l’ultima vibrazione spazzò via anche le poche mattonelle ancora appoggiate alla terrazza; dalla sua posizione più alta osservò il bersaglio e riprese la normale forma umana.
Il volo fu di quasi cinque metri, ma la posizione era perfetta. L’enorme spallaccio del Generale le fornì un punto abbastanza largo per atterrare con i polsi e con un unico movimento scivolò sull’oggetto e vi si mise seduta: il Drago impiegò qualche secondo a rendersi conto di dove lei fosse.
“Adesso ho diritto a qualche minuto della sua attenzione?”




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Fonte della fanart a inizio capitolo: http://browse.deviantart.com/?qh=§ion=&global=1&q=axel+maevachan#/d21lwak

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Le fiamme della fenice ***


Capitolo 12 - Le fiamme della fenice


Baran 2

Baran




Non devo guardare giù.
Non devo guardare giù.
Forse non devo guardare e basta!

Strinse i denti e cercò di controllare l’attacco di panico che lo avvolse dalla testa allo stomaco.
“Axel, emana UNA SOLA fiamma e giuro che prima di sfracellarmi a terra uso la falce di Marly per tagliarti le mani e ficcartele in gola una dopo l’altra”
Come se fosse facile …
I momenti in cui perdeva il controllo del proprio elemento era proprio quando era nervoso, furioso o in preda al panico, un po’ come tutti i maghi elementali; aveva perso il conto delle volte che aveva affumicato senza volerlo i boccoli di Marluxia durante le loro litigate, ma in quel momento era di vitale importanza trattenersi. Da quando quella botola maledetta si era aperta aveva perduto il senso del tempo, e quando si era risvegliato la situazione era, se possibile, peggiorata ulteriormente. Lui e Larxen si trovavano prigionieri in quella che sembrava una versione gigante delle reti da pesca che usavano gli abitanti dei villaggi per catturare i pesci di fiume, con gli stessi fastidiosi nodi e persino lo stesso odore di muffa. E, come tutte le reti del mondo, era composta da fasci di corde intrecciate.
Il che per lui sarebbe stato un vantaggio se la suddetta rete non fosse stata appesa sul versante inferiore del Baan Palace, legata ad esso solo da una corda fin troppo sottile per i suoi gusti e soprattutto con numerose centinaia di metri da un lago, un’enorme massa del suo elemento opposto che sembrava fissarlo con le sue acque.
Una folata di vento li fece dondolare in avanti ed indietro, e gli scricchiolii della corda sovrastante gli sembravano centinaia di gatti che graffiavano su uno specchio.
“Beh, di sicuro quel mascherone vuole tenerci in serbo per dopo che avrà ucciso l’armadio e tavola da surf!”
“Perché la prospettiva non mi entusiasma affatto…?”
“Perché ti caghi sempre sotto, ecco perché!”
“Certo, perché tu ti stai divertendo a penzolare come un salame affumicato in attesa del macellaio, vero?”
“Sì, perché voglio essere IO a squartare il macellaio!”
Ma perché continuo a darle retta?
La n. XII non stava facendo alcuno sforzo per contenere il suo elemento, come se la situazione la divertisse o la rendesse comunque calma; non vi era alcuna elettricità nell’aria. Axel si morse l’interno delle guance e cercò una soluzione, qualunque sarebbe andata bene, ma il calore dentro il suo corpo premeva e chiedeva d’uscire in risposta alla sua paura. Era un meccanismo di difesa fin troppo efficace, e per un attimo si chiese se quell’essere mascherato che li aveva imprigionati lì dentro avesse calcolato la sua reazione, rendendolo più simile ad una mosca in trappola che ad un essere umano. E la presenza di Larxen e di una gigantesca falce tra le maglie della rete contribuiva solo ad aumentare il suo nervosismo. Persino le proprie armi, rimaste invischiate lì dentro, vibravano in attesa del potere del fuoco “Forse potrei uscire dalle maglie ed arrampicarmi su per la corda. Certo, una volta lì non ci sono appigli, però sarebbe divertente …!”
Ignorò Larxen ed i suoi movimenti.
Chiuse gli occhi e cercò di immaginarsi di essere in un luogo, un qualsiasi altro luogo: con il vento che ancora gli frastornava nelle orecchie pensò a se stesso nel suo comodo, accogliente e caldissimo letto al Castello dell’Oblio, sotto uno strato di almeno dieci coperte di lana ed il fuoco acceso che lo salutava come una mano rossa dal camino. I movimenti violenti al suo fianco non era Larxen che armeggiava tra i nodi delle corde, ma Saïx con il suo passo fermo che andava su e giù per la stanza vicina in attesa che calasse il sole per poi attingere dalla luna i suoi poteri.
No. Il semplice pensiero di Saïx distrusse la sensazione di calma che si era creata in pochi minuti e represse in tempo la fiamma che stava per formarsi tra le dita. Axel, calmati. È morto. È morto.
“Roscio di merda, se hai deciso di morire dimmelo che ti impalo subito! Quando il mascherone verrà a prendermi non gli darò la soddisfazione di farmi trovare come un pesce nella rete, nossignore! Nessuno appende la Ninfa Selvaggia come un prosciutto!”
Un prosciutto.
Un bellissimo e grasso prosciutto …

Avrebbe dato qualsiasi cosa per far esplodere il fuoco che aveva dentro in un solo colpo. Respirò a pieni polmoni fingendo che le bestemmie di sottofondo di Larxen fossero solo cinguettii di uccelli selvatici e si immaginò di nuovo di essere nel suo bel letto con tra le mani il più grosso prosciutto e la più strabiliante forma di formaggio che avesse mai assaporato nella sua vita. Tutti e due affumicati, proprio come li preferiva. Se si fosse concentrato ancora un po’ avrebbe potuto sentire persino lo strimpellare del n. IX dal piano di sotto e le parole di qualche sua nuova composizione, ma lasciò che fossero le proprie papille gustative ad essere ingannate, immaginando il lauto pasto tra i suoi denti. E l’attimo dopo nella sua stanza entrò Roxas.
No … non adess …
Il ricordo partì.
La scarica glaciale gli attraversò la testa mentre la scena prendeva vita contro la sua volontà, come la maggior parte delle volte che pensava a lui per più di qualche secondo.
E quando iniziava non si fermava fino a quel momento …
La scena tornò precisa come cinque anni prima, con la stanza del Castello dell’Oblio che aveva perso qualsiasi tocco di bianco ed era diventata grigia e nera, con macchie brune in tutti i punti in cui le proprie sfere infuocate avevano mancato il bersaglio e si erano abbattute sulle pareti. Nel cuore aveva abbastanza rabbia che avrebbe dato fuoco a quel luogo intero, ma doveva conservare le sue forze per il traditore. Il rivolo di sangue scivolò preciso come tutte le altre volte, gli attraversò l’occhio sinistro e gli rimase all’angolo della bocca, ma se avesse sollevato il braccio per asciugarlo avrebbe dato al ragazzino un varco sufficiente da farlo a pezzi. Lui era lì, con quell’espressione beffarda che lo meravigliava e lo disgustava tutte le volte che riviveva quella scena, ma prima che potesse cercare di controllarsi il duello riprese vita.
Era in vantaggio, ma non doveva abbassare la guardia. Conosceva i Keyblade di Roxas troppo bene per non sapere che erano in grado di creare una breccia tra i suoi chackram e la barriera di fuoco se gliene avesse dato l’opportunità. “Ti aspettavi sul serio che aderissi al vostro complotto?” disse Roxas.
“No. Ma non mi aspettavo nemmeno che mi tradissi in questo modo”
Spinse tutto l’odio e lo schifo di quel momento contro il pavimento rendendolo più incandescente della lava, e la mossa distrasse il suo nemico al momento giusto. Trovò lo spazio e lanciò il chackram sopra il braccio abbassato in posizione di difesa e lo colpì al petto; l’attimo dopo il fuoco esplose.
Il battito del cuore aumentò come mai. Spinse tutta la propria fiamma difensiva contro le sue braccia, inebriato dal fumo, dalle scintille rosse e soprattutto dall’odore della carne bruciata che prendeva fuoco proprio sotto la sua morsa. Adesso lo vedeva per quello che era, il bastardo traditore, poteva osservare quella faccia da angelo con i grandi occhi blu decomporsi in un sorriso perfido che distrusse con un pugno ben assestato. Le fiamme avvolsero tutto il suo corpo e risposero al senso di vittoria che provava, la gioia di sopprimere la persona che aveva considerato il suo migliore amico fino a poche ore prima. “Un ultimo desiderio, traditore?”
Quello rispose con uno sputo, e la fine del ricordo si sprigionò senza che Axel potesse fare qualcosa per contenerla. La fiamma uscì da tutto il suo corpo e si propagò in quello dell’altro alimentata dall’odio, dall’amarezza e dalla delusione; lo inchiodò a terra e lo tempestò di fuoco, avvampando loro due e l’intera stanza finché di Roxas non rimase altro che qualcosa di carbonizzato che a malapena sembrava un corpo umano mentre i suoi Keyblade scomparvero in due raggi di luce. Non sapeva descrivere se fosse davvero felice di ciò che era appena successo.
“AXEL, COSA STAI FACENDO, BRUTTO …!”
Troppo tardi.
Avvampò insieme al ricordo come era avvenuto altre volte, e prima che riuscisse a riprendere la concentrazione si era avvolto in una palla di fuoco protettiva che consumò le corde della rete in pochi istanti. L’ultima imprecazione di Larxen fu coperta dal suo stesso urlo, e quando la rete sotto di lui si aprì allungò il braccio e si aggrappò alla prima cosa che trovò.



Finalmente giunsero in vista della terrazza, in cima a un'ultima rampa di scale. Gli dèi avevano guidato i loro passi e protetto il loro cammino, perché non avevano incontrato nessun demone lungo la strada, nessun mostro si era parato sul loro percorso.
Non appena i tre sacerdoti sbucarono sulla terrazza il vento li investì in pieno. Camus si scostò i capelli dalla faccia, cercando di dare un'occhiata in giro. Anche lì nessuna traccia di demoni, ma a pochi metri da loro, aggrappata con gli artigli al parapetto che dava sul vuoto, c'era una viverna. Doveva essere l'animale con cui Auron, Mu e Shaka erano arrivati sul Baan Palace.
“Auron non c'è ancora!”
“Vorrà dire che lo aspette...”
Avvenne tutto in un istante: un sibilo squarciò l'aria, che divenne ardente e iniziò a crepitare, e Camus si sentì trascinare a terra, finendo con la guancia contro il marmo del pavimento. Poi un boato.
“CRYSTAL WALL!!”
La sensazione di calore svanì così com'era venuta. Camus gemette per il dolore e cercò di mettersi a sedere, ma un braccio di Mu lo tratteneva contro il pavimento. Sopra di loro, la cupola eterea e violetta del Muro di Cristallo era l'unica cosa che li separava da una coltre di fiocchi di cenere e frammenti di brace ancora in fiamme che avevano tutta l'aria di essere gli ultimi residui di un potente incantesimo. Sul muro esterno del palazzo, vicino a dove poco prima c'erano le loro teste, si apriva un grosso buco nero. La viverna volteggiava nel cielo a distanza di sicurezza, emettendo strida preoccupate.
“Mu, grazie... ottimi riflessi...”
“Ma da dove è venuto...? “
Rimettendosi pian piano in piedi, Shaka indicò un punto in alto, in lontananza. Camus aguzzò gli occhi oltre il velo del Muro di Cristallo, e su una terrazza ancora più alta della loro, all'estremità sinistra del gigantesco palazzo, finalmente li vide.
O meglio vide la luce incandescente dei loro incantesimi tingere le nuvole di toni sanguigni, udì il fragore lontano e martellante del loro scontro. Le due figure che combattevano sulla terrazza si distinguevano a stento tanto erano distanti.
“Dèi onnipotenti, abbiate pietà di noi...”
Nessuna palla di fuoco, neanche quella di un demone, poteva arrivare a quella distanza ancora al massimo della sua potenza.
“Non può essere... il Cavaliere del Drago...”
Il Cavaliere del Drago. L'essere più potente del loro mondo. Lo sterminatore del Tempio delle Dodici Case.
La leggenda, talmente antica da perdersi nelle tenebre delle origini, narrava che il Cavaliere veniva inviato sulla terra dalla Madre Drago ogni volta che il mondo attraversava una fase di crisi. Suo compito era proteggere la pace, garantire l'equilibrio. In lui scorreva il sangue di umani, demoni e draghi, le tre razze del pianeta. Era una creatura neutrale, superiore agli odi e ai conflitti.
La leggenda sbagliava. Nessun umano aveva mai visto un Cavaliere del Drago prima del Generale Baran, ma questi si era schierato palesemente dalla parte dei demoni. E invece di risolvere i conflitti contribuiva solamente a causarne di nuovi. E ora... e ora proprio lui, il “difensore della pace”, si era macchiato dell'assassinio dei suoi confratelli.
“Sta combattendo contro qualcuno...” sussurrò Shaka, anche lui incredulo. “...o qualcosa.”
“Nessuno nella Resistenza potrebbe farcela contro il Generale Baran per più di pochi secondi” disse Mu con un filo di voce. “Nemmeno Dai. Chiunque sia, non è uno dei nostri.”
Le due figure si distinguevano a stento tanto si muovevano rapide, e una dava addirittura l'impressione di cambiare forma di continuo. La danza che intessevano tra le nuvole e i bagliori degli incantesimi aveva un qualcosa di ipnotico; a Camus sembrava che i suoi occhi fossero pezzi di ferro attratti da una calamita, perché non riusciva a staccare lo sguardo dai duellanti, terrorizzato e affascinato allo stesso tempo.
“Qui siamo troppo esposti.” la voce di Shaka ruppe l'incanto. “Rientriamo!”
Lo seguirono.
Solo quando furono di nuovo all'interno, sulla rampa di scale, Camus fece caso alla grossa chiazza rossastra sull'avambraccio di Mu. Il suo confratello continuava a passarvi la mano sopra, i denti stretti per il dolore.
“Fai attenzione Mu, è un'ustione! Lascia fare a me!” lo fece sedere su uno scalino e rapidamente evocò la magia del ghiaccio, creando un'aura fredda attorno alla sue dita, che fece scorrere su e giù lungo l'area colpita del braccio di Mu, senza sfiorare la pelle.
“Per fortuna non è nulla di grave. Hai avuto davvero degli ottimi riflessi, Mu. Non è nemmeno un secondo grado. Purtroppo non ho né bende né pomate, ma se non altro con il ghiaccio riusciremo ad arginare l'infiammazione. Potrebbero crearsi delle bolle nelle prossime ore o giorni, ma non appena saremo fuori di qui...”
“Te ne intendi...” fece Mu respirando pesantemente, sollevato dal contatto con il freddo.
“Mi hanno insegnato bene.” rispose semplicemente lui, senza dilungarsi. Qualcos'altro aveva attirato la sua attenzione. Shaka era ancora di fronte all'uscita sulla terrazza, gli occhi chiusi rivolti in direzione del combattimento lontano.
Aveva la fronte corrugata, un'ombra cupa oscurava quei lineamenti che Camus ricordava come lo specchio perfetto della serenità.
Lo capiva.
Shaka aveva vissuto di persona la distruzione del Santuario. Aveva visto il figlio della Madre Drago calare dal cielo e seminare la morte tra i suoi fratelli, gli edifici sacri che un tempo si erano eretti bianchi e perfetti a gloria degli dèi crollare in pezzi, aveva sentito le grida di dolore dei compagni caduti. Per Camus era stato un dolore indicibile anche solo immaginare la devastazione e gli orrori, chiuso nel buio della sua cella. Non riusciva nemmeno a concepire quanto avesse sofferto Shaka, costretto ad assistere impotente alla carneficina, senza poter muovere un dito per difendere coloro che amava. Eppure il sacerdote della Vergine portava il dolore con dignità, senza che il suo spirito ne restasse intaccato, nemmeno ora che l'assassino dei loro confratelli era così vicino.
Devo prendere esempio da lui.
Non era facile. C'era quel pensiero che non aveva mai smesso di tormentarlo sin da quando era stato rinchiuso nella cella, nemmeno nei momenti terribili in cui aveva fatto i conti con il proprio condizionamento; un pensiero illogico, infondato, ma che erodeva la sua mente come un tarlo. Un tarlo doloroso.
E' colpa mia.
“Qualcosa ti turba, Camus?
Sussultò. Shaka era rivolto verso di lui ora. Aveva dimenticato l'acutezza con cui il suo confratello riusciva a leggere negli animi della gente; il suo tono era gentile, sinceramente preoccupato. Inaspettatamente sentì un groppo di lacrime salirgli su per la gola. Gli erano mancati. Eccome se gli erano mancati. Mu, Shaka... e tutti gli altri. Tutti gli altri fratelli che avrebbe rivisto solo tra migliaia di cicli della reincarnazione, nella luce del Nirvana. Sarebbe dovuto essere un pensiero confortante... ma era troppo presto. Il dolore era ancora troppo vivo. E lui non aveva ancora neppure pianto per loro.
“Non credo che sia il momento giusto per parlarne...”
“I dubbi e le paure che minacciano la nostra anima sono più importanti dei pericoli che corre il nostro corpo.” lo incoraggiò Shaka.
“Ma non possiamo restare qui...”
“Se ci allontaniamo poi Auron non ci troverà mai” intervenne Mu, che dopo il primo soccorso prestato da Camus stava decisamente meglio. “Se ci mettiamo a girare a caso per il Baan Palace rischieremo solo di farci uccidere. Restiamo qui: se arriva qualcuno corriamo alla viverna e fuggiamo.”
Shaka fece un lieve cenno di assenso con il capo, poi sorrise incoraggiante in direzione di Camus.
“Libera pure il tuo cuore, fratello mio. Sei stato solo per tanto tempo, ma ora noi siamo con te.”
E finalmente le lacrime sgorgarono, liberatorie.
Se le era portate dentro per troppo tempo da quando il GSB aveva pronunciato la sentenza di morte per i suoi confratelli, in quei giorni bui e orribili nella cella, tra le percosse e le insinuazioni maligne di padron Marluxia, tra gli insulti di padron Vexen e il gelo nero della sua disperazione. Aveva resistito a tutto, ma ora... ora crollò. E fu una liberazione.
“E' colpa mia” disse semplicemente, tra un singhiozzo e l'altro. “Se il GSB non avesse catturato me... se fossi stato più attento e avessi nascosto la mia armatura, a quest'ora il Tempio...”
La mano di Shaka si posò gentilmente sulla sua spalla. “Non farti colpe per ciò che non dipende da te. Mu mi ha raccontato che eri sotto l'effetto di un condizionamento mentale. E poi non avevi idea del patto che noi al Tempio avevamo stipulato con il GSB... e so che se lo avessi saputo ti saresti disfatto dell'armatura, condizionamento o meno. Su questo non ho dubbi, fratello mio. Tu non hai nessuna colpa, e gli dèi lo sanno.”
“La colpa è di padron Vexen che ti ha condizionato, tu non c'entri nulla...” disse Mu dandogli una lieve stretta al braccio in segno di incoraggiamento.
Scosse la testa. Padron Vexen... aveva tante colpe, ma del Tempio sapeva poco o nulla. Era una vittima del GSB tanto quanto loro.
Si chiese dove fosse in quel momento, e pregò gli dèi perché lo proteggessero. Sentiva che era ancora vivo, da qualche parte nel Baan Palace: se la trappola del cinque di picche fosse stata designata per uccidere gli avrebbe sparato un incantesimo offensivo o qualcosa del genere, invece lo aveva solo fatto sparire. E poi al GSB non conveniva che morisse. Non subito, almeno.
In fondo, io devo ringraziarlo...
Nel momento di crisi più profonda, quando credeva di aver perso tutto, padron Vexen era l'unica cosa che gli era rimasta. Aveva bisogno di aiuto, e Camus era l'unico a poterglielo dare. E facendolo aveva trovato un nuovo scopo per se stesso. Aveva riscoperto il vero significato di essere sacerdote.
Non posso abbandonarlo... i miei confratelli non lo vorrebbero. Non ho saputo proteggere loro, non posso voltare le spalle anche a lui...
“Fatti coraggio, Camus.” la voce di Shaka era ferma e confortante. “Nessuno dei nostri confratelli ti ha mai considerato la causa della loro disgrazia, sappilo. Non hanno mai smesso di pregare per te, fino alla fine. Poco prima che il Cavaliere del Drago calasse su di noi Milo mi ha detto di essere felice che tu non fossi lì, e che era sicuro che gli dèi avessero un destino speciale in serbo per te. Non disonorare la sua memoria e quella degli altri accusandoti ingiustamente. Hai perdonato la persona che ti ha condizionato, trova la forza di perdonare anche te stesso.”
Al sentir nominare il suo amico più caro dei tempi del Santuario Camus sentì le lacrime affacciarsi di nuovo ai suoi occhi, ancora più impetuose, e si lasciò andare al pianto con la fronte poggiata sulla spalla di Shaka.
“Sfoga pure il tuo dolore, fratello mio. Quando le lacrime si saranno asciugate vedrai chiara di fronte a te la via che gli dèi ti hanno indicato, e i dubbi svaniranno. Io so che hai già iniziato a percorrerla: l'ho visto nei tuoi occhi, e lo leggo nel tuo cuore. Non temere, Camus. Non temere. Gli dèi sono con te.”
Confortato dal caldo abbraccio di Shaka, circondato dall'affetto dei suoi confratelli, per la prima volta dopo anni Camus si sentì di nuovo a casa.


L'aveva ottenuta eccome, l'attenzione del Cavaliere del Drago.
Se non avesse avuto la prontezza di riflessi di trasformarsi in uno Zapdos e spiccare il volo quella palla di fuoco l'avrebbe cancellata dalla faccia della terra.
Il suo avversario non sembrava per niente colpito di fronteggiare qualcuno in grado di alterare la propria forma: il suo sguardo era rimasto sempre impenetrabile, e quando la vide sollevarsi in aria si limitò a fare lo stesso con un balzo aggraziato.
Zam spiegò le ali ed evocò il fulmine. Il grande uccello in cui si era trasformata aveva potere solo sull'elettricità, ma in quell'ambito poche creature magiche potevano reggergli il confronto: lasciò che le saette le avvolgessero il corpo dal becco fino alla punta delle ali e con un grido le scagliò verso il Generale Baran. Lui nemmeno si spostò, limitandosi a sollevare una mano e a intercettare il flusso di energia, che si smorzò contro il suo palmo riducendosi a un flebile guizzo di scintille. Se gli avesse lanciato una palla di gomma gli avrebbe fatto altrettanto male.
Tutto secondo i piani: l'intento non era danneggiarlo, ma distrarlo. Contro un avversario così potente velocità, riflessi ed effetto sorpresa erano i suoi alleati migliori. Non appena ebbe rilasciato la scarica di fulmini si trasformò in un Kriw'air, una specie di insetto volante corazzato tipico dei pianeti boscosi dell'Orlo Esterno, e puntò dritto contro l'avversario. Di certo il Generale non si aspettava una creatura così piccola: sarebbe arrivata senza farsi notare a contatto con il suo corpo, e da lì si sarebbe trasformata in qualcosa di più dannoso per scagliare un attacco potente a distanza ravvicinata.
Solo che il Generale fu ancora più veloce di lei. Non appena si rese conto che l'avversaria era sparita dal suo campo visivo incrementò enormemente la sua aura magica e la fece esplodere tutto intorno a sé in un'onda d'energia fiammeggiante che colse Zam a metà della sua trasformazione in Lich. Non fece in tempo a difendersi né a schivare: l'aura la prese in pieno, scagliandola lontano. Il fiato le si mozzò in petto quando la sua schiena sbatté violentemente contro una parete esterna del Baan Palace; mentre precipitava tentò di afferrarsi a uno spuntone di marmo, e con orrore vide che la sua mano era di nuovo quella di un essere umano. Aveva perso il controllo della trasformazione. Il marmo le scivolò sotto le dita e Zam cadde per qualche metro prima di rimbalzare su una scultura a forma di viverna e rotolare su un'altra terrazza, dove la sua caduta si arrestò in mezzo a un mucchio di detriti probabilmente causati da qualche precedente incantesimo del Cavaliere del Drago.
Dal dolore lancinante che la colpì non appena provò a muoversi capì di avere diverse ossa rotte. In alto nel cielo, il Generale era immobile. Attendeva, imperscrutabile.
Zam strinse i denti e raccolse le ultime forze, preparandosi al dolore. Era pericoloso cambiare forma quando il corpo non era in buone condizioni: si rischiava di trasformarsi in una creatura aberrante e ancora più debilitata della forma di partenza, o addirittura di restare bloccati a metà trasformazione e non sopravvivere. Ma non aveva altra possibilità. Scariche di puro dolore si irradiarono per tutto il suo corpo, che si contorse orribilmente in una serie di spasmi di agonia. Zam urlò, e il verso che le uscì dalla gola era a metà tra un grido umano e lo stridio di un uccello.
Poi il dolore cessò. Il suo petto, ora ricoperto di piume dorate, si alzava e si abbassava a fatica e ogni respiro era una pugnalata, ma era viva. Le ali rosse e d'oro giacevano spalancate e scomposte come un mantello di fiamme di seta intorno al suo flessuoso corpo di volatile; non riusciva a muoverle, ma non importava.
Tutto ciò che le bastava era poter piangere.
Lacrime grosse come perle le sgorgarono dagli occhi e scivolarono lungo il becco affilato, cadendo sulle piume del petto e delle ali. Zam girò la testa in modo da bagnare ogni parte del corpo con le lacrime, ognuna delle quali irradiava ondate di benessere nel suo fisico martoriato. Ben presto si sentì più forte, e riuscì a riguadagnare il controllo di tutti i movimenti.
I libri di Saruman non avevano esagerato sulle proprietà curative delle lacrime delle fenici.
Come molte delle altre creature in cui sapeva trasformarsi, Zam non aveva mai visto una vera fenice. Forse non ne esistevano nemmeno più, almeno nei mondi conosciuti della Galassia. Ma ai mutaforma della sua razza bastava vedere l'immagine di una creatura per poterla riprodurre, e l'Imperatore aveva sfruttato a piene mani questa capacità, obbligandola a studiare giorno e notte tutti i compendi magici e i bestiari di Saruman.
Di nuovo sana, la fenice spiccò il volo e andò a pararsi di fronte al Generale Baran.
“Notevole” commentò lui, senza mutare la propria espressione. “Ma non ti basterà.”
Malgrado il loro straordinario potere, le lacrime della fenice non compivano miracoli: Zam sentiva ancora la fatica dello scontro, e sapeva che se non avesse trovato il modo di concludere al più presto la partita avrebbe avuto la peggio. Tuttavia, la sfida la eccitava. Non si era mai trovata di fronte un rivale così potente.
Questo lo vedremo, Cavaliere del Drago.
Dalle mani del Generale proruppe una salva di sfere di ghiaccio che si sparpagliarono in tutte le direzioni, attaccandola da più lati. Zam volò in alto evitandole, fino a raggiungere la massima altezza che le sue ali le consentivano. Poi si gettò in picchiata, veloce come un proiettile. Un'onda di fuoco eruppe dal suo corpo e si riversò sul Generale. Zam volò più rapida delle sue stesse fiamme e vi passò attraverso, lanciandosi di peso contro l'avversario avvolta nel fulgore del fuoco.
In un lampo di luce il Generale Baran sguainò la spada, e la sua lama tagliò le fiamme come burro, riducendole a pochi, innocui sbuffi di fumo; ma non riuscì a sfiorare il corpo di Zam, che ora aveva la consistenza eterea di un Fuoco Fatuo.
Trascinandosi dietro la sua scia luminosa Zam si portò pochi metri sopra la testa del Generale e mutò di nuovo, allargandosi fino a diventare un grosso globo fluttuante di pelle viscida e tentacoli.
Non amava quella forma disgustosa, ma i Beholder erano dotati di ottimi poteri: puntò lo sguardo del suo grosso occhio centrale e di quelli più piccoli sulle punte dei tentacoli contro il Generale, e lasciò che la magia facesse il resto.
Dall'espressione interrogativa del Cavaliere del Drago capì che non conosceva la creatura che aveva davanti. Si lanciò contro di lei a spada sguainata, ma ormai il potere dello sguardo del Beholder si era attivato.
Il Generale arrestò la propria carica quando si rese conto che il braccio che reggeva la spada si stava lentamente pietrificando. Nulla di cui non potesse disfarsi con facilità semplicemente incrementando la sua aura sovrumana, ma l'attimo di distrazione fu fatale. Zam tornò fenice e mirò al volto dell'avversario con becco e artigli, mentre dalle sue piume rosse e oro il fulgore della fiamma divampava in tutta la sua gloria.
Sentì l'artiglio della zampa destra lacerare la carne dell'avversario mentre le fiamme ne avvolgevano il corpo, e si concesse un secondo per esultare tra sé e sé.
“Illusa!!”
Il globo di fiamme che aveva circondato il Generale si aprì come le cortine di un sipario e per un attimo Zam si ritrovò a fissare i due tunnel di oscurità senza fondo che erano gli occhi del Cavaliere del Drago, a pochi centimetri dal suo volto.
Fece appena in tempo a tornare Fuoco Fatuo prima che il fendente del Generale la facesse a pezzi. Volò a distanza di sicurezza e si trasformò di nuovo in fenice, osservando gli effetti che la sua mossa aveva avuto sull'avversario.
Un fiotto di sangue colava dalla tempia sinistra del Generale. Sangue rosso e caldo, in tutto e per tutto identico a quello di un qualsiasi essere umano.
Non sei poi così diverso da noi, dopotutto...
A parte quella ferita e i vestiti bruciacchiati per le fiamme della fenice non sembrava aver riportato altri danni, ma Zam era nuovamente carica di fiducia. Il nemico non era imbattibile come sembrava. Poteva farcela, a patto di rimanere concentrata e non commettere più errori.
Ti avevo sottovalutato.” anche nel compiere quell'ammissione il tono del Generale Baran rimaneva neutro e inespressivo. “Hai un potere notevole, e soprattutto sai usarlo con intelligenza.”
Un uomo che sa riconoscere il valore dei propri avversari. Un'altra ottima qualità.
Ma vedi” continuò con la sua voce profonda “anch'io ho ancora qualche asso nella manica da svelare.”
Mentre diceva questo portò una mano al diadema a forma di fauci di drago che gli circondava l'occhio sinistro e lo strappò via.
In quel momento la sua figura iniziò a mutare.

 

Il flusso della magia era irrequieto, saturo come nubi gonfie e nere che non riescono a trattenere la forza dirompente del temporale. Onde di magia montavano impetuose lungo le pareti e le colonne del Baan Palace, permeavano ogni salone e ogni rampa di scale, si infilavano in ogni anfratto fino a riversarsi in Zaboera e mettere in vibrazione ogni nervo del suo corpo.
Erano millenni che non percepiva una magia così potente.
Ero convinto che due demoni antichi come te e me potessero ormai dire di aver visto tutto.” lui e il Grande Satana erano nella sala del nucleo centrale del Baan Palace, pronti a proteggerlo contro le incursioni dei nemici, i quali però, almeno per il momento, non avevano fatto alcun tentativo di avvicinarvisi. “Eppure questo ancora ci mancava. Nessuno di noi aveva mai messo gli occhi sul leggendario Ryumajin.”
Il Ryumajin era la forma perfetta del Cavaliere del Drago, il suo vero aspetto, in cui il figlio della Madre Drago raggiungeva l'apice del suo potere.
Stiamo per assistere a qualcosa di inedito” convenne Zaboera, ma i suoi occhi si sollevarono preoccupati a cercare il volto del suo signore: “Ma chi sono questi nemici, Grande Satana? Attaccano proprio nel momento in cui il grosso delle nostre forze è alle prese con una battaglia contro la Resistenza, e ora costringono il Generale Baran a trasformarsi... sono ben diversi dagli umani di qui... mi ricordano quasi...”
Lo so.”
Per qualche minuto tacquero entrambi, ciascuno alle prese con i fantasmi del proprio passato.
Forse dovremmo richiamare altre nostre truppe, mio signore.” azzardò infine Zaboera. “Killvearn è tornato e ci ha ridato le Pietre Dimensionali, con quelle potremmo...”
Se il Generale Baran non riesce a fermarli, anche diecimila soldati non potranno cambiare la situazione.” disse il Grande Satana. “Oltretutto le nostre truppe a Bengana hanno ingaggiato battaglia, e se anche pochi di loro si ritirassero ora metterebbero in pericolo le vite dei compagni. Non posso causare una strage sul campo di battaglia per difendere il mio palazzo e la mia vita. Se sarà necessario scenderò di persona ad affrontare questi fantomatici nemici.”
Ha ragione, mio signore” Zaboera chinò la testa, vergognandosi per il suggerimento che aveva appena dato. Era stata la paura a parlare con la sua voce, alimentata dai ricordi di un passato che il trascorrere dei millenni non contribuiva minimamente a rendere meno terribile.
Il mondo sta cambiando di nuovo” disse il Grande Satana dopo un attimo. “Ancora una volta gli umani non ne vogliono sapere di lasciarci vivere in pace nel nostro isolamento. E se le cose continueranno così...”
Zaboera rabbrividì.

.. se le cose continueranno così il fuoco divamperà ancora, e le fiamme della guerra avvolgeranno nuovamente tutti noi.”

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - La spada e l'amore ***


Capitolo 13 - La spada e l'amore


Fushikidan

Gli scheletri del Fushikidan con il generale Hyunkel




Auron era venuto a salvarla.
Che importava se erano prigionieri in un palazzo infestato da demoni sospeso a mille miglia dal suolo, se un mostro armato di falce sbarrava loro la strada e sembrava deciso a farli a pezzi?
Auron era venuto a salvarla, e accanto a lui Zachar si sentiva pronta ad affrontare qualsiasi cosa.
Il mostro, Killvearn si chiamava, un nome macabro quanto il sorriso dipinto sulla sua maschera nera, aveva tirato fuori una carta da gioco e puff, un attimo dopo i due membri dell'Organizzazione erano stati inghiottiti da una botola apparsa dal nulla e sparita altrettanto rapidamente. A Zachar non importava nulla di loro, ma l'avversario che lei e Auron dovevano fronteggiare non andava preso alla leggera.
“Non sottovalutarlo, Auron.” il mercenario si era posizionato tra lei e Killvearn, la Masamune sguainata in posizione di guardia. “Con quei suoi trucchetti è riuscito a fregare persino Mistobaan!”
“Piro Piroro, questi umani non riescono a comprendere la tua grandezza, Killvearn! Come osano chiamare trucchetti i tuoi geniali numeri di teatro? Killvearn è un artista, ignoranti che non siete altro! Killvearn è il più...”
“Chiudi quella fogna di bocca!” Zachar fece partire la palla di fuoco in direzione dell'esserino sulla spalla di Killvearn. Con la sua vocina querula e martellante la snervava ancora di più del suo padrone.
Killvearn, Killvearn, aiuto!”
L'essere mascherato scattò lateralmente e la palla di fuoco si schiantò contro la parete, lasciandovi un buco annerito e fumante.
“Però Zachar, ti vedo in forma!” il sorriso di Auron era sincero e complice, e Zachar si ritrovò a sorridergli a sua volta.
“E' grazie a te, credo.”
“Se avete finito con le smancerie.... “ Killvearn iniziò a roteare la falce tra le dita, sempre più veloce. Zachar lanciò un'altra palla di fuoco, ma quella si infranse contro la girandola della falce e si spense in un innocuo sbuffo di fumo. “... che lo show abbia inizio!”
La falce rotante generò un turbine, e Zachar fu rapida a innalzare uno scudo magico prima che lei e Auron ne venissero investiti.
“Oh, quella patetica difesa non vi basterà...”
L'onda di vento magico fu deviata dalla barriera di Zachar e passò loro accanto senza sfiorarli, ma quasi subito la maga notò qualcos'altro in mezzo alle spire vorticose del turbine. Degli oggetti piatti e leggeri che venivano sballottati qua e là nel vento, come dei pezzi di carta...
Strinse gli occhi per distinguerli meglio, ma si muovevano così veloci che era impossibile. Forse erano semplicemente appunti del demone gnomo finiti in mezzo al turbine magico, dopotutto si trovavano nel suo laboratorio. L'importante comunque era mantenere attivo lo scudo magico fino a che l'attacco di Killvearn non...
Uno dei pezzi di carta attraversò lo scudo, volteggiando proprio di fronte ai suoi occhi. Era proprio un pezzo di carta, ora lo vedeva benissimo. Una carta da gioco.
Un sette di quadri.
“AURON, ATTENTO ALLE CAR....”
Troppo tardi: il sette di quadri le aveva sfiorato la punta dello stivale.
BOOOOOOM.
L'esplosione scagliò Zachar in aria, facendole perdere il controllo della barriera magica. Il turbine la afferrò in un istante, violentissimo, strattonandola e mandandola a sbattere contro pareti e scaffali.
In balia del vortice, Zachar non riusciva a muovere un dito, impotente come una foglia trascinata dalla tempesta, il sopra e il sotto che si confondevano in una spirale senza senso, ogni suono cancellato dal fischio lacerante del vento. Non riusciva nemmeno a urlare, la bocca serrata per paura che il vento le invadesse i polmoni, e non aveva idea di dove si trovasse Auron; le uniche sensazioni che riuscivano a farsi strada fino a lei erano le fitte di dolore ogni volta che il suo corpo privo di controllo urtava qualcosa.
E poi finalmente la forza del vento si attutì, e Zachar riuscì ad aprire gli occhi. La prima cosa che vide fu una sconfinata parete azzurra, e nello stesso istante il vortice morì del tutto e una sensazione agghiacciante la afferrò alla bocca dello stomaco. Il suo corpo, privo di appoggio, fu trascinato verso il basso.
Stava precipitando nel vuoto.
Stavolta urlò con tutte le sue forze.
Alla sua destra il muro esterno del Baan Palace scorreva velocissimo verso l'alto in un susseguirsi di macchie bianche e grigie. Il turbine di Killvearn doveva averla scagliata fuori dalla finestra del laboratorio, e ora la attendeva una caduta di centinaia di metri verso le acque del lago sottostante. Disperatamente allungò una mano e cercò un appiglio sul muro, con il solo risultato di lacerarsi il palmo.
Tra i suoi incantesimi non c'era nulla che potesse aiutarla. La magia che lei e Kaspar padroneggiavano era prevalentemente offensiva, in grado di causare gravi danni e perfetta per distruggere, ma non poteva nulla in frangenti come quelli. Lacrime di rabbia le salirono agli occhi, subito portate via dal vento che la accompagnava nella caduta.
No... non può finire così, non ora che ho ritrovato Auron... no!!
Qualche divinità di quel mondo dovette ascoltare la sua preghiera, perché improvvisamente la sua caduta si arrestò, e Zachar si ritrovò faccia a faccia con qualcosa di scuro e morbido.
Lo stridio di una creatura sconosciuta si innalzò nel cielo, e Zachar vide due ali possenti spiegarsi ai lati del corpo di rettile su cui era atterrata. Senza pensare si strinse più forte che poté al collo della creatura, che aveva cominciato a risalire di quota. Era troppo piccola per essere un drago, anche se ci somigliava. Le ricordava degli animali selvatici che aveva visto talvolta nelle regioni montuose dell'Amn... com'è che si chiamavano? Viverne. Doveva essere una viverna.
L'animale la portò fino a una terrazza malmessa e invasa di detriti dove Zachar scorse tre figure che le venivano incontro.
Demoni, pensò, una palla di fuoco già incandescente sul suo palmo, ma poi riconobbe gli inconfondibili capelli viola di una di esse e si sentì invadere dalla commozione.
“Zachar, meno male! Grazie agli dèi Shaka sa comunicare con gli animali! Dov'è Auron?”
Lei e Mu si erano visti solo un paio di volte durante l'avventura al Castello dell'Oblio, e non avevano mai avuto il tempo di scambiarsi più di qualche parola, ma Auron le aveva parlato spesso di lui durante il viaggio nelle Stanze della Memoria. Lo considerava il suo migliore amico.
Zachar non conosceva gli altri due uomini che erano con lui, ma sapeva che di Mu poteva fidarsi.
Ancora a cavallo della viverna, gli gridò: “Mu, Auron sta combattendo con Killvearn! Devo andare da lui!”
Con lo sguardo individuò la finestra del laboratorio da cui era caduta e spronò con le ginocchia i fianchi della viverna, sperando vivamente che le obbedisse.
“Vai bella, ti prego! Vola!”
“Aspetta Zachar, veniamo con te!”
“Non c'è tempo!” queste ultime parole le gridò che già si era allontanata dalla terrazza. Non aveva mai cavalcato una creatura come quella, ma necessità fa virtù: non poteva permettersi esitazioni. La vita di Auron dipendeva da lei.
In meno di un minuto aveva raggiunto la finestra, e lo spettacolo che si ritrovò di fronte le fece saltare il cuore in gola.
Auron era a terra e si divincolava disperatamente nel tentativo di liberarsi da una catena che gli avvolgeva l'intero corpo. La sagoma nera e minacciosa di Killvearn torreggiava su di lui, la falce che roteava lenta e inquietante tra le sue dita.
“Una trappola geniale Killvearn! Un tocco di classe!” l'esserino con un occhio saltellava contento sulla spalla del suo padrone. “E adesso voglio proprio vedere come lo farai fuori. Sarà uno spettacolo degno di te Killvearn, lo so, ne sono certo! Piro Piroro!”
“Io non credo proprio!”
La catena di fulmini eruppe dal palmo della sua mano e colpì Killvearn dritto in mezzo al petto. L'essere mascherato fu sbalzato contro la parete, e Zachar scese in tutta fretta dal dorso della creatura atterrando sul davanzale della finestra.
“Grazie, bella” il tempo di una rapida carezza sul muso della viverna ed era in ginocchio al fianco di Auron, cercando di sciogliere la catena che lo imprigionava.
“Zachar! Stai bene! Io... credevo che...”
“Devo ringraziare i tuoi amici. Ora sta' fermo, ti tiro fuori di qui!”
Afferrò due pezzi della catena tra le mani e concentrò il potere del fuoco sui palmi, cercando di ignorare il dolore delle ferite che si era fatta nel tentativo di aggrapparsi al muro. In pochi secondi gli anelli della catena si surriscaldarono e poi si fusero, e presto Auron fu in grado di rimettersi seduto. Zachar notò con sollievo che non era ferito.
“Zachar... sei sensazionale. Ero venuto per liberarti, ma sei stata tu a salvare me. Grazie.”
Gli sorrise con dolcezza, e stava per rispondergli quando vide un'espressione di allarme dipingersi sul viso di lui.
“Sta' giù!!”
Prima che potesse capire cosa succedeva le braccia di Auron la circondarono e la spinsero verso il basso, mentre appena sopra le loro teste si udì il sibilo di una lama che fendeva velocemente l'aria.
“Spiacente di interrompere il vostro momento, piccioncini, ma lo spettacolo non è ancora finito!”
Un altro sibilo agghiacciante, stavolta interrotto da rumore di metallo che cozza su metallo. Zachar si rimise in ginocchio e vide Auron con la Masamune in pugno, sollevata in orizzontale per bloccare il colpo della falce di Killvearn. L'essere mascherato sembrava piuttosto bruciacchiato e malmesso dopo il colpo subito, ma non potevano permettersi di abbassare la guardia.
Senza neanche rimettersi in piedi Zachar lanciò una sfera di ghiaccio, che Killvearn riuscì per un soffio a evitare spostandosi di lato. L'attimo di distrazione però fu sufficiente ad Auron per aprire una breccia nella sua difesa e menare un fendente micidiale che gli tagliò la falce a metà.
“Oooops. E adesso cosa farai, mascherone?”
Auron non gli diede il tempo di replicare: continuò a incalzarlo con affondi e fendenti violentissimi, che Killvearn ormai poteva solo schivare con la forza della disperazione. Con i suoi trucchetti sleali e imprevedibili era un avversario temibile, ma in corpo a corpo non valeva granché. Si limitava a schivare, senza nemmeno cercare di impadronirsi di una nuova arma o di usare il manico della falce per difendersi in qualche modo.
Ma stavolta non mi inganni. Lo so che stai per tentare un altro dei tuoi giochetti sporchi.
Quando l'esserino con un solo occhio tentò di avvicinarsi al suo padrone con una carta da gioco in mano, Zachar lo bersagliò con una scarica di palle di fuoco. La carta e il cappello della creaturina si ridussero in cenere, e lui stesso finì a rotolarsi sul pavimento tra acuti strilletti mentre cercava di estinguere il fuoco che gli consumava i vestiti.
“Prendi questo, schifoso!”
La sorte del suo amichetto dovette distrarre o preoccupare Killvearn, perché vide il colpo di Auron con un attimo di ritardo. La sua schivata fu troppo lenta.
La Masamune saettò rapidissima e lo prese tra capo e collo, decapitandolo in un unico, preciso fendente.
Il corpo di Killvearn si accasciò a terra con un tonfo secco, mentre dal collo troncato fuoriusciva un liquido biancastro simile a latte inacidito. A quella vista l'esserino con un occhio mandò uno strillo acutissimo e scappò via dal laboratorio volando a zig zag come ubriaco, gli abiti ancora fumanti e a brandelli.
La testa di Killvearn si fermò al centro della stanza, fissandoli con il suo sorriso inquietante. Auron le sferrò un calcio, sputando a terra con disgusto.
Zachar avrebbe voluto inseguire l'esserino, ma la fatica la sopraffece. La testa le girava come se ancora in balia del vortice magico di Killvearn. Ora che l'adrenalina del combattimento era calata, si sentiva a pezzi.
Auron la raggiunse e la prese tra le braccia, stringendola forte a sé. Avrebbe voluto fargli mille domande, dirgli mille cose, tutto ciò che in tre anni si era tenuta dentro credendo che non lo avrebbe mai più rivisto, ma lui non gliene diede il tempo: le prese il viso tra le mani e la baciò, un bacio ardente, appassionato, pieno di un'urgenza e di una disperazione che le fecero capire che lui lo aveva atteso a lungo, sognato contro ogni logica, che lo aveva desiderato con tutto il suo essere più di qualsiasi altra cosa al mondo.
In quel momento capì che anche lei lo aveva sempre desiderato. Le sue labbra si schiusero al contatto con quelle calde e sicure di Auron, e ricambiò il bacio con una gioia e un'energia che non aveva più provato da tre anni.

 

“Narratore?”
Narratore: “Sì?” *voce flautata palesemente infida*
“Perché il mio piano non ha funzionato? Alcuni scheletri sono ancora qui!”
Narratore: “Perché mi sono sadicamente divertito a mandartelo in fumo, è ovvio! Le Registe attualmente sono al bagno, quindi le redini della storia le tengo io! E conoscendo quanto tempo chiacchierano quelle due quando fanno la doccia direi che avrò campo libero per almeno un paio di serie. Quindi ho tutto il tempo per divertirmi ancora un po’ alle tue spalle!”
“E hai anche il coraggio di dirmelo così, in faccia?”
Narratore “Certo!” *sorseggia the al limone* “Tu sei solo un misero personaggio, ed io il Narratore. E adesso, invece di lagnarti come un piccolo emo, perché non torni in scena? Il pubblico attende …”
Zexion sospirò, e lanciò una seconda occhiata oltre la colonna. I mostri dell’armata del Fushikidan stavano dialogando nella loro strana lingua, ma senza dubbio stavano commentando l’apparizione di Kaspar. Le loro orbite vuote erano puntate in direzione del corridoio.
L’unica sua speranza era la leggera massa del detonatore P11 che si ritrovò a stringere in mano con ancora più disperazione del solito; non poteva permettersi il lusso di uscire di lì ed implorare l’aiuto di Zam Wesell, non quando l’odore di lei gli rivelava chiaramente che si stava battendo con qualcosa di molto più serio di qualche scheletro animato. O di presentarsi a lei ed all’Imperatore a mani vuote.
Tra lui e la piramide che imprigionava Mistobaan vi erano un centinaio di passi. Dopo il prendere la mira con un blaster, la corsa era sempre stata una sua nemica. Tutti gli agenti speciali degli olomovies imperiali riuscivano a correre tra le sparatorie, le bombe, i raggi laser o le mine antiuomo e ne uscivano con al massimo qualche capello bruciacchiato ma freschi e riposati come se avessero appena terminato una passeggiata. Quando era stato a Carida per esercitarsi riusciva tutt’al più a trascinarsi sulla pancia dopo quegli allenamenti. In realtà non aveva bisogno di giungere fino alla fine, gli sarebbe bastato portarsi a metà del salone per poi lanciare il piccolo detonatore contro gli accumulatori e sperare che fosse sufficiente per sfondare il campo di energia magica. Se non fosse riuscito nemmeno a raggiungere quel punto o se gli scheletri del Fushikidan lo avessero intercettato prima … preferì non pensarci.
Tirò un profondo respiro e si lanciò oltre la colonna quando gli parve che gli scheletri avessero le orbite vuote rivolte altrove, il detonatore attivato nella mano destra.
Il pavimento era liscio sotto gli stivali.
Circa al quinto o al sesto passo sollevò il braccio con l’esplosivo, il cuore in gola e l’immagine di Mistobaan prigioniero che si avvicinava.
Sentì la presenza del non morto con l’olfatto, ma non fu nulla rispetto al colpo sul basso ventre che ricevette l’attimo successivo: crollò sulla pancia e rotolò sul fianco, osservando il manico della lancia che calò una seconda volta contro di lui e per poco non gli portò via un occhio. Si alzò sulle ginocchia e allontanò a sé il detonatore quando parò l’asta con entrambe le mani.
Si rimise in piedi del tutto e spostò il peso prima su un piede e poi sull’altro, sforzandosi di non rovinare a terra: lo scheletro era più leggero di lui ma più alto, e di certo quelle blande lezioni di autodifesa dei servizi segreti non gli sarebbero di certo bastate contro gli altri nemici in arrivo.
L’olfatto lo avvisò subito, ed abbassò di scatto la testa quando una prima freccia arrivò verso di lui; si piantò nel pavimento, ma lo scheletro alla sua destra riprese la mira mentre quello che lo aveva attaccato continuava a premere contro di lui con la lancia. Cercò il P11 con un piede per calciarlo verso Mistobaan, ma l’avversario lo spinse in tutt’altra direzione.
L’arma brillava di verde, pronta ad esplodere in una manciata di minuti, ma quei mostri sembravano interessati solo a lui. Un terzo scheletro con una vecchia spada arrugginita puntò nella sua direzione, e Zexion mollò la presa sulla lancia di colpo; rotolò per terra mentre l’avversario scivolava in avanti, finendo dritto sulla traiettoria dello spadaccino.
Quell’acrobazia lo lasciò senza fiato, e quando cercò di lanciarsi contro l’esplosivo si ritrovò davanti altri tre mostri. Evitò una seconda freccia, ma gli scheletri che aveva appena affrontato lanciarono le loro ombre su di lui e gli mostrarono le punte della lancia e della spada.
Fu preso dal panico.
Si trascinò indietro sul pavimento, impacciato nella stessa tunica dell’Organizzazione. La creatura armata di lancia piantò la punta dell’arma in una delle pieghe dell’abito, ed il movimento gli si bloccò a metà. Il suo elemento accorse prima ancora che se ne rendesse conto.
Gli scheletri fecero qualche passo indietro, spinti dal vento che arrivò dal corridoio; uno perse l’arco, un altro cercò di opporsi con un grande scudo di cuoio. L’asta della lancia che impigliava il suo vestito si piegò per poi spaccarsi a metà, e ritrasse di corsa le gambe per rimettersi in piedi: con il cuore ancora in gola alimentò l’aria del suo lieve potenziale magico, ed il turbine di vento freddo allontanò da lui i mostri guardiani.
La luce verde del detonatore diventò rossa, e capì che non c’era più tempo.
Tutto il vento comparso nella sala si concentrò sull’esplosivo.
Meno tre.
Guidò l’aria con un unico movimento del braccio, scuotendola fino a generare un mulinello.
Meno due.
Privi della morsa dell’aria, gli scheletri ritornarono subito in formazione d’attacco, persino quelli che avevano perduto le armi nell’attacco. Li guardò oltre il ciuffo, ma riversò tutta la sua attenzione sul vento e sul P11 in movimento.
Meno uno.
Uno dei mostri lo raggiunse con un salto e gli strinse quello che restava delle sue dita sul polso, accompagnato dall’odore di morte e di marcio che sentì fin nel profondo dei polmoni quando lasciò libera la corrente d’aria, che spinse avanti il detonatore.
Il fragore investì tutto. Zexion si ritrovò sul pavimento della stanza per la quarta o quinta volta, colpito dall’energia sprigionata dal piccolo esplosivo: la colonna dietro a cui si era nascosto poco prima fu attraversata da un’enorme crepa accompagnata da centinaia di frammenti di cristalli che attraversarono il posto in maniera disordinata. Il calore delle Pietre della Sapienza, nascoste nell’abito, si fece sentire immediatamente e lasciò un rapido sollievo lungo il torace, alleviando la fitta di dolore giunta dopo l’urto. Con la testa che ancora gli girava portò un braccio agli occhi, e si accorse che la mano funesta che vi era ancora stretta non aveva più un braccio a cui attaccarsi. Quello che rimaneva della creatura del Fushikidan era un mucchietto di ossa carbonizzate, e sopra di esse Mistobaan levitava circondato da un anello di fuoco, con gli occhi gialli che brillavano ancora più luminosi del solito da sotto il cappuccio.
COLORO CHE HANNO OSATO SFIDARE L’IRA DEL MIO SIGNORE LA PAGHERANNO CARA!”

 

Narratore: “Ma come è possibile? Quel ragazzino doveva lasciarci le penne! Perché ha evocato i suoi poteri elementali all’ultimo secondo, perché …”
“Eh ehm…”
Narratore: “Se scopro cosa è andato storto io …”
“Eh ehm …”
Narratore: “Ma cos …? Amatissime e venerabili Registe! Cosa ci fate in accappatoio? Siete tutte bagnate, vi prenderete una broncopolmonite, non posso rischiare che la vostra divina presenza venga sfiorata dai germi, perché non andate ad asciugarvi e …”
Registe: “NARRATORE COSA STAVI FACENDO?”
Narratore: “Stavo solo rimuovevo qualche personaggio inutile e lagnoso che …”
Registe: “L’UNICO ESSERE INUTILE E LAGNOSO QUI DENTRO SEI SOLO TU! E CI SONO UN PAIO DI SOAP OPERAS CHE CERCANO UN NARRATORE DISPERATAMENTE, LO SAI?”
Narratore: “Sì … mi è giunta voce …” *sparisce prima che concretizzino la minaccia *
Registe: “Qui non si può nemmeno fare una doccia in santa pace …”

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 - Ryumajin ***


Capitolo 14 - Ryumajin


Ryumajin colore

Baran trasformato in Ryumajin




“MORTE A COLORO CHE SFIDANO LA DIVINA COLLERA DEL GRANDE IMPERATORE PALPATINE!”
Mistobaan non si era limitato a seguire il corridoio principale della sala. Con ancora i frammenti di cristallo sparsi lì dentro e gli allarmi magici che scattarono uno dopo l’altro, aveva abbattuto una parete con un solo fendente dei suoi artigli retrattili ed era partito a velocità incredibile, uno spettro dal mantello bianco che appariva e svaniva davanti ai suoi occhi.
Zexion si alzò in piedi, ancora frastornato “Ge … Generale Mistobaan … ASPETTI!”
“LAVERO CON LE MIE MANI L’ONTA APPORTATA AL MIO SIGNORE! SEGUIMI!”
La figura svanì nel buio, troppo presa a sentire le proprie urla per accorgersi della sua flebile voce; il ragazzo barcollò ed immerse la mano nel sacchetto delle Pietre della Sapienza. Il loro potere curativo fece svanire le escoriazioni di quell’ultima esplosione, ma non levarono un grammo della stanchezza che sentiva addosso. Doveva teleportarsi via con Mistobaan grazie alle Pietre, ma quel pazzo invasato era partito in quinta senza nemmeno dargli tempo di parlare. Dèi ladri.
Se gli succede qualcosa di male sarò io l’unico responsabile …
Scostò le macerie della breccia nel muro creata dal Braccio Destro dell’Imperatore e si incamminò; cercò di mantenere il passo più svelto che poteva, ma il passaggio di quella creatura furiosa aveva causato piccoli crolli ovunque. Si spostò con cautela tra i detriti, timoroso di farsi aiutare dai poteri del vento: gli allarmi incantati nella sala che si stavano lasciando alle spalle erano attivi, e senza dubbio il Grande Satana avrebbe mandato qualcuno a controllare la situazione, se non addirittura a riprendersi con la forza il suo vecchio generale. Se avesse usato i suoi incantesimi lo avrebbero scovato in un batter d’occhio, dunque avanzò con cautela tra le macerie. Un pilastro cadde proprio davanti a lui, ed imprecando tra i denti lo scavalcò.
Il passaggio creato da Mistobaan lo condusse in una sala buia, di certo non frequentata da diverso tempo, priva persino degli incantesimi di fuoco più elementari. L’unica luce era quella degli incantesimi del Braccio Destro che scintillavano di giallo e verde lungo un altro corridoio che si dipartiva dal lato opposto a quello da cui provenivano, ma scomparvero qualche attimo dopo ed il posto sprofondò nelle tenebre, con l’unico sottofondo di urla inneggianti all’Imperatore Palpatine molto più avanti. L’oscurità non gli dava problemi: si lasciò guidare dal suo olfatto, e scivolò attraverso la sala con naturalezza, evitando quello che rimaneva di tavoli, sedie e mobili vari in quel luogo dimenticato; l’odore della polvere e di volumi antichi non gli dispiaceva, anzi, gli ricordava a tratti il profumo del Castello dell’Oblio, l’unico posto che era mai riuscito a chiamare casa.
Aveva esplorato la biblioteca di quel luogo migliaia di volte, da solo o in sua compagnia, qualche volta addentrandosi fino agli scaffali più lontani nonostante il pericolo, perché la biblioteca del Castello dell’Oblio cambiava in continuazione, spostava volumi e scaffali, creava ogni giorno nuovi percorsi, scale, controsoffitti ed impalcature dove vi erano prima solo pareti lisce. Ed il profumo di antico e misterioso era simile a quello che si respirava in quel luogo; la natura magica del Baan Palace avvolgeva ogni cosa come un leggero mantello, proprio come la forza segreta nascosta nelle viscere del Castello, lo Spirito dell’Invocazione Suprema che non erano riusciti a richiamare tre anni prima.
Il nucleo della fortezza volante era proprio sopra la sua testa, a due o forse tre piani di distanza. Il potere che emanava superava ogni aspettativa dei comuni maghi umani, e sentiva la sua presenza intrecciata con gli incantesimi del Grande Satana pulsare nell’aria; l’odore lo riempì, e gli occorsero diversi secondi per percepire di nuovo il profumo di Mistobaan. Il suo odore si confondeva molto con quello del Grande Satana.
Si accorse del terzo profumo solo quando la figura era ormai ad una ventina di metri da lui.
Il famigliare ma tenue odore di vaniglia lo colse alla sprovvista, e raggiunse i suoi polmoni ed il fondo della gola con una rapidità sconvolgente; scivolò tra quello del sovrano dei demoni e di Mistobaan, quello di Zam Wesell e del Generale Baran, sorpassò quello del nucleo energetico e di tutti gli abitanti della fortezza volante e lo fece sobbalzare. Si voltò in quella direzione e d’istinto sollevò il sacchetto delle Pietre della Sapienza, illuminando la figura che si accorse della sua presenza solo in quel momento.
Lo sguardo spaventato ed interrogativo del n. IV si riflesse nella luce diafana, e Zexion vide in quegli occhi verdi lo stesso stupore che probabilmente era stampato sul proprio viso. Lo fissò senza dire nulla, senza rendersi conto dei secondi che scorrevano.
I capelli biondi erano in un disordine senza pari, ma i due famosi ciuffi ai lati del viso c’erano ancora e facevano da cornice allo sguardo unico dello scienziato. Lo fissava come se avesse visto un fantasma, ma senza emettere alcun grido.
Era stato così intento nella fuga e nella liberazione di Mistobaan che aveva perso le tracce del suo odore, e ritrovarselo così, a meno di un braccio da lui, dopo tutto quello che era accaduto al Castello dell’Oblio, lo scuoteva non poco.
Rimanere fermi in quel modo non avrebbe migliorato la situazione “Tu …”
“ALLORA, RAGAZZINO, SMETTILA DI PERDERE TEMPO! DOBBIAMO ANDARE PRESSO UN MONDO PIENO DI LUCE, QUELLO GOVERNATO DAL GRANDE IMPERATORE PALPATINE!” Mistobaan sbucò alle sue spalle e lo acchiappò per il cappuccio della tunica. Era stato così preso dalla figura del n. IV che aveva isolato tutti gli odori intorno a lui, e la morsa del Braccio Destro dell’Imperatore lo fece sobbalzare così tanto da mandargli il cuore in gola. “ANDIAMO, L’IMPERO GALATTICO CI ATTENDE!”
L’essere incappucciato non prestò nessuna attenzione al n. IV, che invece alla comparsa di quegli occhi gialli sobbalzò e fece una serie di passi confusi all’indietro; mentre Zexion metteva le Pietre della Sapienza al sicuro da Mistobaan, nel sacchetto, vide il luccichio dei suoi capelli chiari illuminare per un attimo le tenebre e poi sparire. Il suo profumo di vaniglia diventò sempre più flebile mentre avanzava lontano da lui per i corridoi, trascinato da Mistobaan come una bambola di pezza.
Portò la mano alla tunica e la fiala di veleno era ancora lì.

 

La creatura la oscurò con l’ombra delle sue ali. Ali forti, robuste e verdi si aprirono, sollevando ancora più in alto il corpo del Generale Baran. L’energia magica irradiata dal diadema che circondava il suo occhio sinistro aveva preso a bruciare a dismisura, e Zam fu costretta a riprendere la sua forma umana per non rimanere colpita dal processo. Ma anche in quel modo si rese conto che qualcosa non andava.
Era una trasformazione diversa dalle sue. E non era nemmeno un patetico incantesimo di alterazione della forma che praticavano i druidi ed i maghi dell’Amn. Era qualcosa di … diverso. Non avrebbe saputo aggiungere un altro aggettivo. Il sesto senso di cacciatrice di taglie che non l’aveva mai abbandonata iniziò a squillare nelle orecchie, intimandole di allontanarsi di lì quanto prima.
La tunica ed il mantello corto si distrussero nel processo, consumati dalle fiamme che si irradiavano dal corpo dell’avversario: le stesse dimensioni del suo corpo aumentarono e delle squame verdi cosparsero i muscoli del petto, delle braccia e del collo, scuotendo i muscoli e le ossa. Le mani che stringevano la spada del Drago Diabolico mantennero le cinque dita, ma si tinsero di verde chiaro e su ciascuna di queste vide spuntare una serie di unghie affilate come quelle di una belva feroce. I capelli neri ed i baffi dell’uomo rimasero, ma il segno triangolare che aveva sulla fronte iniziò a brillare di luce argentata, illuminandogli i lineamenti. Dalla posizione in cui si trovava non riusciva a distinguere tutti i particolari, ma era certa che gli occhi di lui fossero diventati scuri e vuoti.
Su un’altra persona avrebbe trovato il risultato finale della trasformazione un po’ grottesco, una discutibile fusione tra gli attributi dei draghi e le sembianze umane, ma non su quell’uomo. Non vi era nulla di criticabile nel Generale Baran.
Ryumajin. Così lo aveva definito il ragazzino dei servizi segreti. Il dio drago.
Adesso capiva.
L’espressione di panico negli occhi del Membro dell’Organizzazione non gli sembrava poi tanto esagerata, in quel momento.
L’attimo dopo si trovò a precipitare. Un muro d’aria dalla potenza immane la colpì in pieno petto e la spinse giù, con violenza, serrandole la cassa toracica e strappandole il respiro. L’incantesimo sprigionato dal palmo aperto del nemico la trascinò verso il basso, ed il fuoco la avvolse in un attimo quando riprese la forma di fenice e sbatté le ali per portarsi lontano dal raggio di quella magia. Ma l’aria premette contro di lei da un’altra direzione, e pochi metri dopo aver ripreso quota ed essersi disimpegnata venne scaraventata verso il basso con ancora più forza, incapace anche solo di ritrovare una posizione stabile in cielo. L’aria le spense le ali. Il Ryumajin non l’aveva toccata né si era avvicinata a lei, si era limitato ad aprire la mano nella sua direzione ed a restare immobile tra le nubi.
Ormai lontani dal lago, sotto di lei la foresta si avvicinava a velocità spaventosa, e la morsa d’aria continuava a non darle tregua. Se voleva uscirne viva aveva solo una possibilità. Questo farà davvero male …Smise di svolazzare per trovare una via di fuga e si mise in favore d’aria nonostante il dolore al petto; quando fu a meno di dieci metri dalle fronde degli alberi fece appello a tutte le sue forze e chiamò a sé l’enorme forza di un Balrog di Moria. Trasformarsi in creature dalla taglia troppo diversa dalla sua le causava sempre una scarica di sofferenza lungo tutto il corpo, ma strinse i denti e si preparò allo schianto.
La foresta si trasformò in un inferno di fuoco: vide il mondo intorno a lei avvolgersi nelle fiamme al suo passaggio ed a quello della frusta connessa al Balrog, e mentre la sua mole veniva schiacciata a terra creando una fossa gigantesca il Baan Palace sopra di lei fu coperto dal fumo nero del legno che ardeva. Il corpo massiccio che aveva assunto resistette alla pressione, anche se una delle ali finì schiacciata dalla sua stessa mole e divenne inutilizzabile: braccia, gambe e collo erano però ancora tutti interi. L’obiettivo primario lo aveva raggiunto.
Ancora accasciata al suolo, sentì il muro d’aria svanire lentamente. La sua caduta aveva formato una fossa di dimensioni notevoli, e le fiamme che divampavano tra un albero e l’altro erano così alte da confonderle la vista. Del suo avversario riusciva a distinguere solo la luce argentata dell’emblema sulla fronte, lassù, molto in alto, tra le volute di fumo nero come una stella in una notte buia priva di luci umane. Aveva abbandonato l’incantesimo, come se la considerasse ormai sconfitta. Il dio drago rimase fermo in quel punto per diversi secondi, forse per osservarla, poi la luce si fece più fioca come se si stesse allontanando per aver perso ogni altro interesse.
Eh no, non così in fretta!
Si rialzò sulle zampe posteriori ed emise un profondo ruggito dal fondo della gola, assecondando la natura selvaggia e distruttiva della sua stessa forma: la sua coscienza era sempre la stessa, ma la voglia di battersi dei Balrog e le fiamme che correvano piacevolmente dentro e fuori le sue viscere le diedero una nuova forza. La frusta infuocata, connessa a quella forma dalla magia arcana della Terra II, schizzò al suo comando oltre le chiome degli alberi e saettò nel fumo nero. I suoi occhi non videro la preda, ma l’arma si avviluppò a qualche parte del corpo del nemico e lo trascinò verso il basso. Nonostante la fatica e l’opposizione del nemico riuscì a spingerlo nella propria direzione finché non vide di nuovo le ali verdi ed il corpo squamoso emergere dal cielo con la frusta avviluppata intorno ad entrambe le gambe. Muoveva la spada contro l’arma infuocata, e Zam sapeva che questa non avrebbe retto ancora a lungo.
Aumentò l’intensità dei propri incantesimi e scaraventò una gigantesca sfera infuocata contro l’altro approfittando dei suoi movimenti limitati.
Quello non fece nemmeno il gesto di difendersi.
La fiamma cadde intorno a lui e lo avviluppò, nascondendolo ancora una volta alla sua vista. Le lingue di fuoco corsero lungo tutta la superficie della sfera alla ricerca del corpo del nemico, ma lei sobbalzò quando una nuova folata di vento le portò via; il Ryumajin apparve nell’aria rossa ed arancione senza nemmeno una bruciatura, con gli occhi neri colmi di vuoto e diretti solo nella sua direzione. Non aveva mosso nemmeno un dito.
Stanca per l’incantesimo appena sprecato, abbassò il braccio: al nemico bastò quel piccolo istante di debolezza e con un movimento fin troppo fluido per un essere della sua mole si divincolò dalla presa della frusta e volò in alto. Stavolta però la fissava, irritato per quell’interruzione. Te l’ho già detto, Ryumajin. Detesto essere ignorata!
Non le era mai capitato un avversario di quel calibro. Le possibilità di vittoria non erano alte, ma avrebbe dato comunque il meglio di sé. Ignorò il dolore lungo tutto il corpo e cambiò di nuovo forma, adottando la figura lunga, flessuosa e nera del miglior drago che conoscesse.
Non ti cederò la mia testa tanto facilmente …


 

“LARXEN, TI SUPPLICO, NON SCIVOLARE PROPRIO ORA!”
“NON SCIVOLEREI SE NON AVESSI UNA ZAVORRA ROSCIA ATTACCATA AI PIEDI!”
Lei provò a liberarsi di lui scuotendo le gambe, ma come unico risultato una delle maglie della rete a cui era appesa si lacerò. Axel vide il lago sotto di loro scintillare di rosso, come se volesse aprirsi di scatto ed ingurgitarlo. Aggrappato agli stivali della Ninfa Selvaggia imprecò in tutti i modi che conosceva, guardando con terrore le corde della rete che rischiavano di rompersi da un momento all’altro.
“Tieni duro! Ti prego, dimmi che stamattina hai preso le vitamine!”
“Axel, perché non ti butti di testa nel lago? Libereresti me e l’universo dalla tua stupidità! TI AVEVO DETTO DI STARE FERMO CON QUELLE TUE FIAMME DEL CAZZO!”
“LARXEN, NON URLARE TROPPO O QUAGGIU' FACCIAMO TUTTI E DUE UN VOLO DI SOLA ANDATA VERSO IL NIRVANA!”
“Sai che non ho mai trovato le tue caviglie così sexy prima di questo momento?” le disse poi, cercando di sdrammatizzare.
“L’unica cosa sexy che ti concederò quando e se usciremo da qui sarà una corda per impiccarti alla maniera dei veri pirati, roscio di merda!”
Axel strinse le caviglie di lei con tutta la forza che aveva in corpo, sperando che gli stivali dell’Organizzazione non le si staccassero dalle gambe proprio in quel momento cruciale. In quell’istante avrebbe quasi preferito rivedere il ghigno dell’uomo con la falce e la maschera pur di levarsi da quella posizione. Perché a poca distanza da loro e dal Baan Palace c’era un duello mozzafiato che avrebbe potuto coinvolgerli senza chiedere loro il permesso.
Anche Larxen sembrava interessata allo scontro “Ma quella lì non è la tizia che ha fatto fallire il nostro piano al Castello dell’Oblio ed ha gonfiato di botte Marly? Mi auguro solo che il Ryumajin sparga tutte le sue budella per il nostro mondo in un tripudio di sangue!”
“Basta che le budella non siano le mie e per me il Ryumajin può fare quello che vuole …”

 

Zam sbatté le ali in segno di sfida e ringhiò al suo nemico alzandosi sulle zampe posteriori e sbattendo violentemente la coda a terra, distruggendo quel poco di foresta che non era ancora stata toccata dalle fiamme. Soffiò verso di lui il suo respiro, creando una vampata che circondò il Cavaliere del Drago come un ventaglio, poi si sollevò in aria e si diresse verso di lui.
Vediamo se ti sai difendere bene come attacchi …
Quello sollevò la spada, la fece turbinare con un unico fendente e deflesse le sue fiamme, mandandole a schiantarsi lontano dalla vista. L’attimo successivo lei gli fu addosso, cercando con la bocca ancora infuocata le sue ali o le braccia. Sollevò la coda per impedirgli di allentarsi; il primo morso si chiuse nell’aria, ma al secondo trovò il braccio destro e lo strinse con tutte le forze.
Fu un terribile errore.
L’attimo dopo lo scatto delle sue fauci un dolore fortissimo, indescrivibile si propagò per tutta la sua bocca, martellandole persino in cervello. Provò a mantenere la presa, ma fu insopportabile, il sangue stesso sembrava bruciarle e spingere fin sul fondo della gola, perciò abbandonò l’avversario e volò a diversi metri da terra, cercando l’aria fresca tra le sue narici colme di fumo. Vide il braccio del Ryumajin che aveva appena attaccato brillare avvolto nei fulmini, che partivano dalla spalla e si condensavano sulle unghie in cinque sfere color oro che scintillavano quasi più del segno sulla sua fronte. Lo osservò, e sui muscoli non vi era alcun segno dei suoi denti. Prima della trasformazione il Generale Baran sanguinava, lo aveva visto con i suoi stessi occhi, ma sul braccio davanti a lei non vi era il benché minimo graffio. Vi erano poche cose che tagliassero meglio delle zanne di un drago, e sfortunatamente non ne aveva nessuna a sua portata.
Le possibilità di uscire viva da quel duello diminuivano ad ogni secondo.
Scosse il capo, scacciò via il dolore e cercò una soluzione. L’attacco diretto non aveva sortito alcun effetto, e dopo quel colpo non aveva intenzione di farsi sfracellare il cranio, e giocare sulla difesa … non aveva funzionato prima. Gli lanciò contro qualche soffio infuocato, ma quelli non riuscivano nemmeno a sfiorarlo per la velocità con cui li defletteva con la spada o li allontanava semplicemente richiamando il potere dell’aria.
Ridusse di nuovo il proprio corpo, ed abbandonò le ormai chiaramente inutili sembianze di drago. Cercò la trasformazione in Beholder, una delle poche creature dal grande potenziale magico e capace di volare, ma il suo corpo la tradì. La fatica e le ferite riportate presero il sopravvento, e quando cercò di aprire l’unico occhio del mostro incantato si accorse di non riuscirvi.
La sua forma era cieca, sapeva di star volando ma niente più; parte di sé si accorse che la coda del drago era ancora al suo posto, e dove vi doveva essere l’occhio spuntava una zampa. L’incapacità di vedere la spaventò, ma per quanto tentasse di mutare il suo corpo rispondeva troppo debolmente; avrebbe avuto bisogno di energia, ma …
La mano del Ryumajin si serrò su di lei. Sentì gli artigli affondarle dentro, poi venne scaraventata in aria con un potente colpo di palmo. Rotolò, incapace di comprendere da dove sarebbe giunto il prossimo colpo, concentrando tutte le energie solo nel volo. L’attimo dopo il cielo riprese colore.
Il generale Baran era proprio davanti a lei. Poteva vedere i suoi occhi scuri.
Il sangue le risalì in bocca e lo sentì scivolare tra le proprie labbra. Le sue mani, le sue gambe, la sua bocca, il corpo aveva abbandonato ogni tentativo di lottare e le aveva restituito la sua forma umana. Il dolore arrivò solo dopo, quando il Cavaliere del Drago estrasse la spada dal suo petto, disegnandole davanti agli occhi una cascata di sangue scuro.
Prima il ferro, poi il gelo.
Si ritrovò a precipitare senza forze, verso il lago Belaren. Lo specchio d’acqua si ingrandiva a dismisura, eppure il suo unico pensiero fu che sarebbe morta molto prima di infrangersi contro quella meravigliosa superficie azzurra. Una sconfitta onorevole, in fondo …
Neos …

L’immagine degli occhi preoccupati di suo figlio le baluginò davanti. Poi anche quella svanì in un velo di sangue e si preparò all’impatto.
La caduta si interruppe, ma il suo corpo ferito continuava a bruciare dalla sofferenza nel punto in cui il dio drago l’aveva colpita con la spada. Sentì qualcosa di duro e metallico che la tratteneva, poi volò in alto e di lato; qualcuno le stava praticando degli incantesimi curativi.
“MUTAFORMA SCONSIDERATA CHE NON SEI ALTRO!”
Oh, no … inizio a sentire già la mancanza del Generale Baran!
“LA TUA VITA, LA TUA ESSENZA ED IL TUO CORPO APPARTENGONO AL GRANDE IMPERATORE PALPATINE! NON TI E’ PERMESSO MORIRE IN UN MODO COSI IDIOTA! AL NOSTRO CELESTIALE SIGNORE SERVI ANCORA!”
E io che speravo di morire nell’assoluto silenzio …
Il loro volo durò solo qualche secondo, poi Mistobaan atterrò. La magia bianca che aveva usato per stabilizzarla ancora gli brillava di luce verde nel palmo sinistro, ma anche se adesso non era in pericolo di vita sapeva che non avrebbe potuto continuare quel duello come voleva. E la cosa, sotto alcuni aspetti, era quasi più disonorevole della sconfitta.
“Lasciami combattere ancora, Mistobaan!”
“NON SE NE PARLA NEANCHE!” le rispose, con gli occhi luminosi rivolti verso l’alto nel timore che il dio drago piombasse su di loro “Ragazzino, prendi le Pietre della Sapienza e portaci dall’Imperatore immediatamente!”
Il piccoletto dei servizi segreti sbucò da dietro un cespuglio con lo sguardo sbarrato dalla paura “Non si preoccupi, Generale Mistobaan! Quando si tratta di darsela a gambe nessuno è bravo come un Membro dell’Organizzazione!” a Zam venne quasi da ridere a quelle parole “Ma non dovremmo andare a riprendere Kaspar e Zachar?”
“Kaspar ci è utile, portaci da lui e trasciniamolo via! Per quella stupida ameba …” brontolò il Braccio Destro “… il Grande Imperatore Palpatine dice sempre che è inutile! Se è lì, ben venga, ma non sprechiamo nemmeno un secondo del nostro tempo per cercarla!”
Zam avrebbe volentieri obiettato. Ma la morsa del suo compagno era insormontabile, e a malapena sarebbe riuscita a tenersi in piedi da sola; con un certo rammarico si lasciò teletrasportare lontano da lì.
Ma non finisce qui, Generale Baran …

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 - Gli occhi della Resistenza ***


Capitolo 15 - Gli occhi della Resistenza


Shaka

Shaka




“Inutile inseguirlo” sentenziò, osservando il corridoio che lo gnomo con un occhio solo aveva imboccato di corsa “Adesso pensiamo ad andarcene via di qui. Mu sarà in pensiero”.
Per i pochi secondi in cui le loro labbra si erano incontrate, Auron aveva dimenticato tutto: il Grande Satana, la Resistenza, il suo migliore amico, in quegli attimi erano stati solo lui e Zachar, nessun altro. Ma non poteva permettersi altre distrazioni: dovevano uscire di lì prima che arrivassero altri demoni, o peggio, altri generali diabolici.
Lanciò un ultimo sguardo alla testa di quel Killvearn e si mise in cammino, Masamune in mano, felice di sentire i passi della maga dietro di lui. Era certo che Mu, Shaka e Camus lo avrebbero aspettato all’infinito, ma affrettò lo stesso i passi: durante il duello non erano stati i soli a lanciare incantesimi e distruggere le pareti, e dalla finestra erano giunti sprazzi di luce, fulmini in lontananza e soprattutto versi di creature che non avrebbe fronteggiato volentieri nemmeno al massimo delle proprie forze. Il Grande Satana era sotto attacco, e si chiese se Zachar se ne fosse resa conto.
Attaccato da chi, poteva solo fare delle ipotesi.
Di certo non erano stati i tre sacerdoti a fare tutto quel frastuono. Quel Cavaliere della Vergine aveva poteri inaspettati, ma non gli era sembrato il tipo da spaccare tutto con i suoi poteri spirituali.
“Per di qua” le disse, cercando di ricordare la strada che conduceva ai nidi delle viverne.
Che siano i membri della Resistenza?
Difficile
. L’ultima volta che aveva avuto contatti con la principessa Leona, pochi giorni prima di organizzare quel salvataggio, non era stato messo a conoscenza di un potenziale attacco al Baan Palace.
Quando giunse all’ultima svolta del lungo corridoio capì che i suoi dubbi erano confermati. Dove prima vi era una parete scura e spessa, con una sola piccola finestra in alto, adesso vi era il cielo. Il vento soffiava da ogni parte e gli gonfiò l’abito. Sembrava che quel lato del Baan Palace fosse stato colpito dal pugno di un gigante. O forse da qualcosa di peggio, visto che i pochi mattoni ancora in piedi erano anneriti e fumavano; i versi di fuori giungevano ora chiaramente, e fu pronto a giurare di vedere la sagoma di un drago passare lontano alla loro sinistra.
Dai è forte, Matoriv sa scagliare incantesimi potenti ma …questa non è opera loro. Se si trattasse di un commando della Resistenza questo posto adesso brulicherebbe di demoni, mentre invece …
Il Baan Palace tremò proprio in quel momento, e strinse a sé Zachar prima che anche una parte del soffitto cedesse sopra la sua testa; poi guardò fuori.
Non aveva mai visto quella creatura, ma i capelli neri, i baffi e il caratteristico emblema sulla fronte non gli lasciarono dubbi, specie con la Masamune che si era fatta quasi incandescente per l’alto livello di magia di quel punto. Quella figura che volteggiava e con le ali spiegate doveva essere per forza il Cavaliere del Drago … e se il suo avversario aveva spinto il Grande Satana a spiegarlo in prima linea quel duello era ben oltre la loro portata. Prese per mano la ragazza e la trascinò in avanti, rapidi verso il nido delle viverne.
“Aspetta” fece lei.
Rimase lì, immobile, a pochi passi dalla voragine.
“Auron, io so chi sta attaccando questo posto. Quella laggiù è Zam Wesell, il mastino dell’Imperatore Palpatine. Te la ricordi, quella che tu e Mu chiamaste per fermare i piani dell’Organizzazione!”
“Certo che me la ricordo. Vedere padron Marluxia preso a calci nel sedere è stato uno spettacolo memorabile” disse, poi il suo sguardo tornò al duello lì fuori “E comunque il fatto che lei sia qui mi sembra un buon motivo per andarcene subito!”
“Ma non capisci? Lei è venuta qui per riportare me e Mistobaan dall’Imperatore!”
“Allora rettifico: è un ottimo motivo per andarcene subito! Se ci allontaniamo su una viverna con questo trambusto non ci noterà nessuno”.
Una lacrima le scivolò sulla guancia, ed in quell’istante Auron realizzò che piega avrebbe preso il discorso prima ancora che lei pronunciasse il fatidico nome. “E Kaspar? Non posso abbandonarlo!”
Ecco un eccellente motivo per tagliare la corda … “Oh, sì che puoi! Non è quello che lui ha fatto con te?”
“SI', LO SO COSA HA FATTO!” gridò. Altre lacrime si unirono alla prima, poi abbassò gli occhi verdi verso la punta dei suoi stivali e si rifiutò in tutti i modi di incontrare il suo sguardo. Anche la mano, che ancora teneva tra le sue, tremava. “Ma io non posso abbandonarlo laggiù! Lo trattano come un’arma, lo deridono, io DEVO stare al suo fianco!”
“Ed essere un’arma a tua volta? Continuare a dire di sì a questo Imperatore contro la tua volontà? Zachar non negarlo, ricordo tutto quello che mi hai detto al Castello dell’Oblio” la sua voce si addolcì “Tu odi l’Impero Galattico. Odi l’Imperatore, odi i suoi Signori Oscuri, per quanto ancora vuoi andare avanti? Ti posso garantire che se verrai alla Resistenza sarai trattata con tutti i riguardi, e se decidesse che non ti piace … ti aiuterò a trovare un mondo migliore, un posto qualsiasi in cui tu sia felice dove nessuno possa trattarti come uno straccio! Perché ti ostini a torturarti? Perché non dai a Kaspar la punizione che si merita per tutto quello che ti ha fatto?”
“Perché … perché io lo amo. Nonostante tutto”
Rimase immobile.
Una manciata di parole che ferivano molto più della furia del Ryumajin.
“Mi dispiace Auron. Mi dispiace tanto …”
Come poteva amare quel mago? Il bacio sulle loro labbra era ancora caldo. Ed era stato sincero ed appassionato, era certo che lei non stesse fingendo. L’amore di Zachar poteva arrivare davvero a tanto? Kaspar non si meritava una donna come lei.
I pochi progetti di vita insieme a lei esplosero in una nube di fumo.
La ragazza ritirò bruscamente la mano e gli diede le spalle, ma dietro i capelli rossi vide una cascata di lacrime che coprivano un singhiozzo, poi due. “Scusami per prima, non avrei dovuto, ti ho solo illuso …” pianse, muovendo i primi passi lontano da lui, rallentati solo dal cumulo di detriti che era caduto dal soffitto. “Sappi che, nonostante questo, sei molto importante per me. Ma devo tornare da Kaspar; se gli succedesse qualcosa non me lo perdonerei mai!”
Beh, a questo punto non mi resta che una sola cosa da fare …
“Aspetta un attimo, Zachar!” le gridò ad alta voce. Avrebbero potuto sentirlo tutti i demoni, Mistobaan, il Grande Satana e volendo l’intero esercito di draghi del Generale Baran, ma elevò il tono della sua voce per farsi udire da lei anche oltre il rumore di battaglia che si ascoltava dalla loro posizione. Lei si fermò, senza però voltarsi nella sua direzione “Non scappare così. Ho capito …” lasciò andare un sospiro “Ho capito, non temere. Ma sappi che la tua felicità per me viene prima di ogni altra cosa. Se la tua decisione è irremovibile … lascia almeno che ti aiuti.”
A quelle parole lei lo fissò, e riuscì a scorgere i suoi splendidi occhi verdi gonfi e arrossati. Avanzò verso di lei sul pavimento del palazzo che ondeggiava, con l’espressione più arrendevole sul suo viso. Se proprio doveva perderla, avrebbe deciso lui le condizioni.
“Auron … tu vorresti davvero …?”
“Sì” arrivò proprio davanti a lei. Sapeva quanto gli sarebbe costata quella scelta. Ma il prezzo non era un problema, quando si trattava della felicità della donna che amava “Sei troppo importante per me”.
Abbandonò la presa della spada e con un unico, rapido guizzo raggiunse il suo collo candido. Prima che lei potesse allontanarsi strinse tra il pollice e l’indice in modo fermo, seppur con gentilezza, l’arteria e la vena che attraversavano il collo. Non era la prima volta nella sua carriera di mercenario che utilizzava quel trucco. Lesse l’accusa negli occhi di lei, ma prima che riuscisse ad evocare un incantesimo la sua mossa ebbe effetto: Zachar svenne, il suo cervello privo del sangue necessario, e la raccolse con prudenza tra le braccia. Tre anni prima, quando si erano detti addio davanti a ciò che rimaneva del Castello dell’Oblio, lei aveva addormentato con una delle sue magie ed era tornata da Kaspar. Da allora non l’aveva mai dimenticata, si era sempre incolpato di essere rimasto impotente mentre lei si allontanava verso un mondo di sofferenza.
Stavolta non avrebbe commesso lo stesso errore.

 

Mu ispirò con forza, strinse e i denti ed aumentò al massimo la concentrazione. Tenere sollevato il Crystal Wall per tanto tempo richiedeva moltissimo sforzo, soprattutto se la cascata di detriti, mattoni, decorazioni e quanto altro continuava a piovere sopra di loro. Camus aveva proposto di ripararsi per qualche minuto sotto una galleria a nord-est, l’unica che ancora non era franata per il duello del Ryumajin, ma Shaka aveva intimato loro di aspettare lì. Si era chiuso nel suo enigmatico silenzio, sedendosi secondo la posa del fiore di loto, e con la sua placida aura dorata era riuscito a calmare le viverne nel nido che altrimenti sarebbero fuggite lontano.
Poi il frastuono della battaglia finì.
Ebbe timore persino di respirare: in quel silenzio che raccontava di morte, l’unico suono era quello delle ali del Cavaliere del Drago. Un ritmo secco, lento, ma era sicuro che il proprio cuore battesse a quella stessa velocità. Quello era il potere della morte che aveva soggiogato il Tempio ed aveva condotto i suoi confratelli sin nel Nirvana: aveva bisogno del loro coraggio più che mai, perché solo l’idea di quella creatura quasi divina nello spazio intorno a loro lo faceva tremare.
Con lentezza richiamò il Crystal Wall, fissando il cielo ed il suo unico, indiscusso sovrano.
“Eccoli” mandò un grido Camus, riportandolo alla realtà.
“Auron!” corse verso l’amico. Arrancava un po’, e sanguinava in più punti. Ma era vivo. “Gli dèi siano ringraziati!”
“Gli dèi non si sono scomodati affatto per me, Mu. Zachar lo ha fatto” disse, ed il sacerdote riconobbe subito la ragazza dai capelli rossi “Adesso andiamocene”.
A quelle parole Shaka mormorò qualcosa: un paio di viverne, persino più grandi di quella che avevano cavalcato all’andata, si staccarono dal gruppo delle compagne e vennero nella loro direzione, ripiegando le ampie ali nere. Il suo confratello si alzò, e sussurrò qualcosa nelle loro orecchie, passando persino una mano vicino alle loro lunghe zanne. “La furia del Cavaliere del Drago le ha disorientate” disse mentre ne accarezzava una “Ma ci accompagneranno lo stesso fuori di qui”.
Il suo amico aveva una gran fretta di andarsene. Dopo un ultimo sguardo di diffidenza alla creatura alata appoggiò con delicatezza la sua ragazza lungo il dorso pieno di scaglie, poi vi salì sopra con un unico salto. La viverna lasciò che si accomodasse.
Mu sospirò, poco allegro all’idea di un nuovo volo, ma il bisogno di allontanarsi da quel luogo aumentava ad ogni secondo; grazie al suo potenziale magico riusciva ad accorgersi che gli incantesimi che permeavano la fortezza volante si erano rafforzati, e sapeva che nel giro di qualche minuto la magia del padrone avrebbe stimolato la ricostruzione delle torri e delle pareti. E la possibilità di farsi scoprire da quella magia arcana era troppo alta. Si diresse verso l’altra viverna, sicuro che lui ed i suoi confratelli, privi di armatura, non avrebbero rappresentato un eccessivo peso; Shaka si accomodò davanti a lui, continuando a mormorare qualcosa nelle orecchie della cavalcatura.
“Io … non credo di poter venire”.
Camus era ancora lì, immobile nel cortile.
“C’è una persona che ha bisogno di me. Una persona che si è persa nell’oscurità, e che solo la luce degli dèi può riportare sulla retta via”.
Cosa?
“Non posso lasciare padron Vexen qui”.
“COOOOOOOSA?” l’urlo di Auron arrivò l’attimo dopo che realizzò l’importanza di quelle parole “QUEL BASTARDO E’ QUI DENTRO? Mu, tu lo sapevi?”. Lui annuì, osservando la brace nei suoi occhi per poi scivolare nello sguardo blu e profondo di Camus; uno sguardo che però non ammorbidì per nulla il suo amico mercenario. “E CAMUS, TU VUOI SUL SERIO RIMANERE PER QUEL VERME?”
“Sì”.
“Camus, tu stai fuori come un balcone! O peggio, sei ancora condizionato!”
“Non sono condizionato, Auron. Sono perfettamente cosciente di ciò che faccio”
Lui fece per replicare, ma il Cavaliere dell’Acquario sollevò una mano nella loro direzione. Il suo sorriso era placido, indisturbato, rifletteva con la chiarezza del cristallo la sua anima pura; Mu era convinto del fatto che non fosse condizionato, glielo vedeva negli occhi. Ma quella decisione non gli piaceva in ogni caso. Erano giunti fin lì per salvare lui, dopotutto. Fece per supportare Auron, ma la mano di Shaka si pose davanti a lui, poi gli toccò la spalla “Mu, le tue preoccupazioni sono giuste e legittime. Ed anche le tue, Auron” disse, voltandosi verso il soldato.
“Sì, è vero, questo Membro dell’Organizzazione è qui sul Baan Palace, e molto probabilmente è nei guai. So che vi ha causato molto dolore in passato, ma Camus sa qual è la via di un sacerdote: quella di perdonare. Dovresti ammirare la sua decisione, Mu”
“Io …”
“Sono salito sul Baan Palace credendo di dover salvare un mio confratello non solo prigioniero nel corpo, ma anche nella mente. Ero pronto a trascinarlo via con la forza se necessario, per portarlo a casa con noi e pregare i nostri fratelli scomparsi, cercando un modo per restituirgli i ricordi perduti. Ma il Camus che ho trovato è proprio quello di un tempo: una persona mite, gentile, e soprattutto volta al perdono incondizionato. Un sacerdote la cui saggezza era apprezzata persino dal Maestro Dohko, e la cui umiltà superava persino quella del Cavaliere dell’Ariete”
Narratore: “Shaka, dacci un taglio! Se durante questo discorso arriva il Ryumajin nemmeno le Registe riusciranno a farvi uscire tutti vivi!”
“Camus ci sta offrendo una grande prova di coraggio”
“DI STUPIDITA', VORRAI DIRE!” tuonò Auron “SHAKA, TU VUOI LASCIARE QUESTO PAZZO FURIOSO SUL BAAN PALACE, FAMMI CAPIRE!”
“Se questo è il suo volere … sì” disse, continuando ad accarezzare la viverna sotto lo sguardo di tutti “Sta mettendo la sua vita in pericolo per proteggere una povera anima smarrita, un peccatore imbrigliato tra le pastoie del peccato …”
“Padron Vexen una povera anima smarrita? Quello sapeva benissimo cosa stava facendo!”
“Auron, per favore… Io ammiro la decisione del mio confratello. E’ una prova di fede senza limiti, non inferiore a quella che hanno affrontato gli altri nostri compagni; proteggere la vita e l’anima di un’altra persona è un gesto che non andrebbe mai ostacolato”.

Narratore: “Time Out, Shaka! Sei proprio sicuro di questa decisione?”
“Ma certo”
Narratore: “Sicuro sicuro? Hai ancora qualche secondo per rifletterci …”
“Non c’è bisogno di riflettere su un gesto così manifesto di perdono e fede. Lo incoraggio proprio perché è questo lo spirito dei sacerdoti delle Dodici Case”
Narratore: “Non avrai un’altra possibilità …”
“Sono deciso, Narratore”
Narratore: “Nemmeno se ti dicessi che te ne pentirai, in un futuro molto lontano?”
“Come ci si può pentire del fare del bene?”
Narratore: “Contento tu … poi non dire che non ti avevo avvisato, però …”

Camus fece diversi passi in avanti, diretto verso di loro. Si frappose tra le due viverne, regalando prima un sorriso ad Auron, poi uno nella loro direzione. Persino le creature alate si voltarono nella sua direzione, ed una arrivò ad annusargli la tunica consumata e sporca “Shaka, grazie per aver capito le mie intenzioni. Salverò la sua anima, vedrai”
Quello fece un sorriso, ma Mu non riuscì a rispondere. Si vergognava della sua incapacità di comprendere del tutto quel gesto mentre il Cavaliere della Vergine riusciva a vederlo nel pieno della sua purezza: la preoccupazione, la paura, il dolore, tutti quei sentimenti da cui non riusciva a liberarsi erano nel suo cuore e gli impedivano di accettare razionalmente quel gesto.
“Quasi dimenticavo …” disse Camus. Dalle pieghe della tunica estrasse un oggetto rotondo e gelatinoso. Vivo. Lo porse a Shaka con l’abbozzo di una carezza “Prendete questo Occhio di Zaboera. Se sarò ancora vivo, comunicherò con voi”
Se sarà ancora vivo?
“La pace del Grande Satana non è una pace per tutti. Gli uomini hanno dimenticato gli dèi ed hanno chinato la testa ai demoni: dobbiamo aiutarli a ritrovare quello che hanno perso” sorrise, guardando proprio verso di lui “La Resistenza della principessa Leona è l’unica speranza perché la razza umana possa ricordare la propria dignità e la propria forza, l’unica guida verso un mondo che potrebbe appartenere ad entrambi i popoli, non solo all’uno o all’altro. È questo quello in cui hai sempre creduto, giusto, Mu?”
“Tu intendi …?”
“Salvare l’anima di padron Vexen è la mia priorità. Ma se dovessi venire a sapere di qualcosa … qualunque cosa … non tarderò ad informarvi. Se sarà in mio potere vi avviserò in caso di pericolo”.
“Vuoi dunque essere gli occhi della Resistenza?”
“Shaka, tu devi essere l’anima della Resistenza con le tue parole e la tua saggezza” annuì Camus, muovendo il primo passo indietro “Mu, tu devi esserne lo scudo. E tu, Auron, devi per forza esserne la spada. A questa condizione … a questa condizione sì, diventerò gli occhi della Resistenza”.
Camus …
“TU NON SARAI UN BEL NIENTE, PEZZO D’IMBECILLE!” tuonò Auron “TU VIENI CON NOI PUNTO E BASTA! AL DIAVOLO QUESTE CHIACCHIERE AUTOLESIONISTE, TU NON RESTERAI IN QUESTO PALAZZO UN SECONDO DI PIU, INTESI? A COSTO DI LEGARTI SU QUESTA VIVERNA!”
Il mercenario sollevò una gamba e si preparò a scendere dalla cavalcatura, ma in quell’istante Shaka emise un fischio rapido, poi un altro. La viverna si innalzò di colpo sulle zampe posteriori e con un rapido movimento di schiena rimise il soldato vestito di rosso in groppa, lanciando un lungo sibilo ed aprendo le ali. Queste lanciarono una lunga ombra nera quando bloccarono per pochi istanti la luce del sole, poi si mossero e la creatura abbandonò il terrazzo tra le imprecazioni di Auron.
“È ora di andare” sospirò Shaka “Che gli dèi ti proteggano, Camus”
“È proprio necessario?” mormorò Mu. “Davvero non c’è un altro modo?”
“Ci sono miliardi di possibilità davanti a noi, fratello mio. Ma se Camus intende salvare quello scienziato non credo ci siano molte altre scelte. Vedrai …” sorrise, sempre con gli occhi chiusi “… gli dèi non lo abbandoneranno”.
Diede un leggero colpo di gambe, e la creatura sotto di loro fece un ampio giro e si voltò verso l’estremità del cortile; prima che Mu potesse ribattere la viverna si era già librata nel cielo. Nonostante il timore per la grande altezza si guardò indietro: la chioma blu del suo confratello si muoveva al vento che fischiava tutto intorno la fortezza volante, e rimase immobile in quel punto finché non riuscì più a seguirla con lo sguardo e diventò solo un punto indistinto nella massa del Baan Palace che si allontanava sempre di più.
Non confidò a Shaka che il suo unico pensiero, in quel momento, era la sgradevole sensazione che non lo avrebbero mai più rivisto.

 

A meno di un centinaio di metri da loro, il Cavaliere del Drago osservava il punto in cui il suo avversario era scomparso. Alto, minaccioso, con le grandi ali spalancate e la pelle più simile a quella di un drago che a quella di un uomo. Per qualche strano scherzo del destino il Baan Palace mutò la sua posizione proprio in quel momento, e l’ombra del Ryumajin li investì, accompagnata da un vento gelido che lo fece rabbrividire fin nelle ossa.
Se si volta e ci vede sarà la nostra fine …
Non avrebbe mai immaginato che Larxen avesse tanta forza nelle braccia: aveva smesso di scalciare per il solo gusto di buttarlo di sotto, ma continuava imperterrita a restare aggrappata alle corde stringendo con caparbietà la falce di Marluxia tra il mento ed il collo. Il che era molto bello, senza dubbio, ma Axel sapeva che quella scomoda posizione non poteva durare in eterno. Soprattutto quando sotto di lui il gigantesco lago era in attesa, pronto a ghermirlo.
Trattenne persino il respiro quando il dio drago si mosse, richiamò tutte le fiamme che stava creando e cercò disperatamente di mimetizzarsi con qualsiasi decorazione del Baan Palace. Sono un sasso. Sono un sasso.
Il Ryumajin non lo vide.
Con un rumoroso battito d’ali si innalzò verso il cielo, restituendo a quel luogo la luce del sole. Axel non ebbe il coraggio di seguirlo con lo sguardo, felice solo di essere una creatura insignificante di cui evidentemente il Cavaliere del Drago non teneva conto. Persino Larxen era rimasta in silenzio.
“Larxen, sai che non potrà andare avanti a lungo così, vero?”
“Axel, ti lascio due possibilità: o mi liberi della tua esistenza buttandoti di sotto oppure stai zitto e pensa ad un modo per andarcene di qui!”
Le braccia gli facevano male. Strinse ancora di più le dita intorno agli stivali della Ninfa Selvaggia, ma erano diventate insensibili e fredde nonostante cercasse di convogliare tutto il proprio calore in quel punto. Se sotto di loro ci fosse stato un balcone, un tetto, una sporgenza, una qualunque cosa avrebbe persino provato a lanciarsi con il rischio di rompersi un osso o due; purtroppo sotto di loro c’era solo il gigantesco specchio d’acqua, il grande elemento opposto al suo che aspettava solo di seppellirlo sotto i flutti. Poi arrivarono i fischi.
Prima solo un paio, poi una decina. Ed i fischi diventarono ruggiti accompagnati dal rumore ritmico di ali che si aprivano e chiudevano. “Larxen, abbiamo un problema … anzi, più di uno..."
Guardò meglio e sentì il cuore battergli in gola “ABBIAMO UNA DECINA DI PROBLEMI AFFAMATI, LARXEN, FACCIAMO QUALCOSA!”
Le viverne volavano in circolo. Avevano preso il volo da uno spiazzo poco distante di lì, e dopo qualche istante dovevano aver sentito il loro odore perché si stavano avvicinando ad incredibile velocità, puntandoli con i loro occhi arancione. I chackram erano intorno al suo braccio, ma non aveva una mano libera per lanciarli, e di certo la sua compagna non aveva la possibilità di lanciare qualche kunai in quella scomoda posizione. Cercò di evocare il fuoco intorno a sé, ma privo di capacità di movimento venne solo una flebile ondata di calore che il primo mostro superò senza esitazione “LARXEN, DANNAZIONE, VOGLIONO MANGIARCI!”
“SE MANGIASSERO TE MI FAREBBERO SOLO UN FAVORE!” gridò, poi mosse le gambe di scatto “Ma guarda te se devo fare tutto da sola …”
“Cosa vuoi fare?”
“Nessuna lucertola troppo cresciuta si mangerà la Regina della Fuga in Condizioni Estreme per cena, nossignore!”
Il quell’istante mollò la presa.
Axel si ritrovò a lanciare un grido che coprì qualsiasi verso delle creature mentre precipitava nel vuoto ancora aggrappato ai piedi della n. XII, gli occhi fissi al lago che si avvicinava a velocità incredibile.
L’attimo successivo il volo si arrestò di colpo e tutto il suo corpo fu proiettato prima in avanti e poi all’indietro per ritrovarsi sballottato in una scomoda posizione. Si ritrovò a fissare le squame grigie di uno dei mostri volanti ed una delle ali si mosse con tanta rapidità che gli strappò una parte della tunica. Sopra di lui Larxen era distesa lungo il corpo della viverna e si agitava per rimanere ferma, con le braccia strette alla base del collo squamoso e le gambe con lui annesso che ancora pendevano nel vuoto “AXEL, SEI PIU' INUTILE DI UN SACCO DI PATATE!”
Evitò di risponderle e continuò a restarle aggrappato. La creatura cercò di scrollarseli di dosso, deviò dal suo percorso ed iniziò a prendere quota per poi riabbassarsi di scatto, ruotando il collo con furia e lanciando delle grida nei confronti degli altri membri del branco. Il corpo della Ninfa Selvaggia sembrò perdere l’equilibrio, e Axel agitò i propri piedi nel vuoto.
La creatura scese in picchiata diretta contro la foresta, e flesse il collo alle proprie spalle cercando di acchiapparli: il n. VIII evitò un suo morso per un soffio, e sentì lo schiocco dei denti che si chiudevano intorno al mancato bersaglio, ma era troppo debole per evocare anche una sola scintilla.
Poi la sua attenzione fu attirata da qualcosa che stava cadendo in picchiata proprio sopra di loro, qualcosa che emanava uno scintillio rosa alla luce del sole.
Gridò un avvertimento, ma la sua compagna fu più veloce. La vide affidare tutto il loro peso ad una mano sola, che conficcò dentro le squame del mostro, ed estese l’altro braccio per afferrare l’oggetto, che adesso aveva una sagoma molto, molto familiare. Acchiappò al volo la falce di Marluxia e senza esitare fece scivolare l’enorme lama verso il collo della creatura: “Adesso facci scendere, stronza!”
“LARXEN, CREDI DAVVERO CHE TI CAPISCA?”
“Il messaggio mi sembra chiaro e lampante!”
Effettivamente …
Per un attimo ebbe l’impressione che il mostro si sporgesse per morderli, ma la lama rosa non gli lasciava molta possibilità: provò a cambiare rotta, facendogli risalire lo stomaco in gola, ma per quanto agitasse il collo non riusciva ad arrivare alla mano che impugnava la falce, ben protetta dal lungo manico verde. Larxen continuò a tenersi stretta, e dopo un po’ l’animale cedette: l’andatura rallentò, la discesa si fece molto più regolare e Axel pensò che forse, forse, quel giorno gli dèi erano stati davvero di ottimo umore

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 - L'alba della Guerra dei Mondi ***


Capitolo 16 - L'alba della Guerra dei Mondi


Zaboera

Zaboera




Fino a quell’istante Zexion si era considerato la persona più fortunata della galassia. Subito dopo essersi teleportati a bordo della Morte Nera erano stati letteralmente assaliti da un’equipe di droidi medici che avevano circondato Zam Wesell e l’avevano trascinata verso le stanze del Sarcofago; Mistobaan si era allontanato a larghe falcate verso la sala del trono, ed il Membro dell’Organizzazione era rimasto solo. Non aveva mai apprezzato tanto la sensazione di sentirsi vivo.
Negli anni in cui aveva prestato servizio presso i servizi segreti imperiali, aveva assistito spesso a delle scene disgustose ed idiote di agenti che, al ritorno delle missioni, tornavano in ufficio e baciavano il pavimento, i computer e persino il quadretto di James Bond. Li aveva considerati sempre e solo come una massa di idioti ed esagerati esibizionisti …
Ma non in quel momento.
Era tornato da una missione nel palazzo del Grande Satana, aveva affrontato alcune creature del Fushikidan, aveva liberato Mistobaan e per qualche istante aveva respirato la stessa aria del Cavaliere del Drago senza Zam Wesell dietro cui andarsi a nascondere. Ed a parte qualche graffio e un po’ di sano spavento aveva tutti gli occhi e gli arti al loro posto. Un ottimo risultato, per quella che doveva essere una missione di tutto riposo …
Fino a quell’istante.
Quando il governatore Tarkin entrava nell’ufficio scuro in volto, l’unica via di fuga era quella di mettersi sull’attenti e sperare che l’uragano passasse e che si abbattesse su qualche altro collega. Ma quando il capo dei servizi segreti arrivava accompagnato dal governatore Fett e dal Sith Darth Maul, con gli occhi puntati nella sua direzione, l’unica via di fuga era il teletrasporto. Non disponendone, Zexion si morse il labbro e salutò i tre Signori Oscuri con un rispettoso cenno del capo. Dopo il Generale Baran, l’odore di quei tre non sembrava più nemmeno troppo fastidioso.
“È vero quello che si dice, ragazzino?” lo apostrofò il governatore Fett senza troppi riguardi “Che Zam è stata ferita?”
“Sì, signore. È stata condotta nel Sarcofago”
“Chi è stato a farle questo?”
“Il Generale Baran, signore. Il Cavaliere del Drago”
Rimase in attesa di altre domande, ma non vennero. L’uomo sotto al casco mascherò la propria preoccupazione nel silenzio, ed il ragazzo rimase in attesa. I tre Signori Oscuri si scambiarono dei cenni con il capo, poi s’incamminarono verso la sala del trono; quando il governatore Tarkin gli intimò di seguirli, Zexion non rispose e si mosse a pochi passi da loro, ascoltando il suono cupo dei loro stivali sul pavimento metallico ed il bisbiglio degli addetti alla manutenzione della gigantesca stazione orbitaria che discutevano al loro passaggio. Come d’abitudine la voce di Mistobaan lo raggiunse prima del suo stesso odore nel momento in cui le guardie rosse si fecero da parte e li introdussero nella sala del trono.
“MIO SIGNORE, IMPLORO LA SUA PIETA! MI SONO FATTO RAPIRE COME IL PIU INUTILE DEI SOLDATI E COME IL PIU INCAPACE DEI SIGNORI OSCURI! HO DISONORATO IL SUO NOME CON LA MIA STESSA DEBOLEZZA!”
“Mistobaan, per favore …”
Zexion non riusciva a vedere gli occhi del sovrano della galassia, nascosti sotto il lugubre cappuccio nero. Ma dal tono della voce e dal modo in cui tamburellava le dita sul bracciolo del trono era evidente che fosse stato costretto a sentire le urla del suo Braccio Destro per troppo tempo.
“MI TRAFIGGEREI I CUORI CON LE MIE STESSE MANI PER RIPAGARLA DEL DISONORE CHE HO LANCIATO SU DI LEI, AUGUSTO SIGNORE, E NON LO FACCIO SOLO PER RISPETTO VERSO IL SUO DONO!”
Alla sua destra vide il governatore Maul estrarre dalla tasca un paio di cuffiette e mettersele con un’aria di rassegnazione.
“QUELLO SCHIFOSO DEMONE VOLEVA COSTRINGERMI A RINNEGARE LA MIA FEDE NEI SUOI CONFRONTI, MA IO HO STRENUAMENTE RESISTITO ALLE SUE PAROLE TENTATRICI” disse, sollevando un dito in alto “ATTACCARE ME E’ STATA SOLO UNA SUBDOLA MOSSA PER INDEBOLIRLA, MIO IMPERATORE, MA IO NON LO PERMETTERO MAI!”
Come si abbassa il volume?
Needa, l’assistente dell’Imperatore, passò accanto a lui: ignorò il Braccio Destro Urlante e digitò un paio di comandi su una pulsantiera che aveva al polso, e dopo qualche secondo alla loro destra comparvero da degli ologrammi di ultima generazione le facce non più giovani dello stregone Saruman e del Sith Dooku, gli unici Signori Oscuri ancora mancanti all’appello. Cosa ci faccio io tra questa gente? I due guardarono preoccupati la figura massiccia di Mistobaan e scambiarono occhiate preoccupate prima verso il governatore Tarkin e poi verso il loro sovrano ormai chiaramente giunto ai limiti della sopportazione.
“NON SONO RIUSCITO NEMMENO A RIPRENDERE QUELLA MAGA! MIO SIGNORE, SCELGA LA PENA CHE PIU' MI MERITO ED IO LA SOPPORTERO SENZA INDUGIARE OLTRE …”
“Mistobaan …”
“SPARGEREI VOLENTIERI I MIEI ARTI PER I BUCHI NERI DEL …”
“MISTOBAAN!”
La voce dell’Imperatore superò quella del Braccio Destro e Zexion imitò l’espressione beata dei Signori Oscuri nella sala, intenti a pregustare quei rari secondi di puro silenzio. L’essere incappucciato piegò il ginocchio e rimase immobile ai piedi della scala che conduceva al trono nero, sotto lo sguardo degli altri uomini. Il sovrano della galassia ritirò le mani al di sotto delle pieghe della lunga tunica nera ed iniziò a parlare, con la sua voce roca ma che non tradiva la sua durezza d’animo “Non ho di che lamentarmi di te, Mistobaan. Ti sei fatto valere, non hai ceduto alle parole del Grande Satana e sei stato vitale per questa missione, proprio come si addice ad un Braccio Destro”. La creatura fece per rispondere qualcosa, ma l’uomo anziano bloccò la sua foga oratoria con un semplice cenno della mano “Zachar non era vitale per la nostra missione, avete fatto bene a non perdere tempo per cercarla. Negli ultimi tempi si era fatta ancora più inutile, piagnucolosa e debole di prima. Una seccatura di cui posso fare benissimo a meno. Abbiamo Kaspar, e finché è in queste condizioni è gestibile”.
Un velato suggerimento a tutti noi. E’ la nostra utilità a tenerci in vita, qui dentro. Niente altro.
“Nondimeno questo Grande Satana si è dimostrato un problema”
Il trono ruotò, ed il signore della galassia diede loro la schiena. Lo spettacolo che si godeva dalla sua posizione doveva essere innegabilmente in grado di riempire chiunque di potere; il suo odore ed i suoi pensieri non permeavano solo quella stanza, ma tutta la gigantesca stazione orbitale. La attraversava, la permeava e pulsava con lei. Entrava fin dentro coloro che vi lavoravano. Un’aria maligna che aveva colpito il ragazzo sin dal loro primo incontro.
Lassù, davanti agli occhi dell’Imperatore, brillavano le stelle della galassia.
La sua contemplazione durò diversi minuti, ma nessuno in quella sala osò allontanarsi senza il suo permesso. Quando riprese parola, lo fece con la dovuta calma: “È stato in grado di rapire uno dei nostri. Di spingerci a scendere in campo ed a spiegare le nostre migliori forze”. Non vi erano tremori nella sua voce, soltanto il flebile profumo della preoccupazione. “Ha quasi distrutto la mutaforma, la nostra migliore arma. Riesce a teleportarsi dalla sua dimensione alla nostra. Sarebbe da sciocchi non tenerlo in considerazione”.
“Cosa ci consiglia di fare, Imperatore?” chiese il governatore Tarkin.
“Aspettare” rispose l’uomo sul trono “Sono convinto che questa faccenda non si conclude qui. Ma il Lato Oscuro mi ha lasciato un presentimento…”
Sotto il cappuccio, un sorriso.
“Lascerò al Grande Satana la prossima mossa”.



Dopo ore di oscurità, un flebile barlume di luce si intravedeva finalmente in fondo al corridoio buio. Vexen si muoveva in quella direzione, camminando lentamente, una mano sempre appoggiata alla parete per non perdere l'orientamento.
Non aveva idea di dove stesse andando. Verso altri mostri, trappole e demoni probabilmente, ma non che restare fermo a nascondersi nel buio gli garantisse chissà quale sicurezza. Con un po' di fortuna poteva imbattersi di nuovo nel gruppo dei preti... sempre che i demoni non li avessero già fatti fuori, s'intende. In tal caso anche il suo destino era segnato.
Dopo che la trappola del cinque di picche lo aveva separato dagli altri si era ritrovato in una cella stretta e completamente buia. Non era la stessa in cui era stato rinchiuso insieme a Camus e Marluxia: aveva una porta fatta di sbarre arrugginite al posto del portone di solido ferro, e a giudicare dal forte odore di chiuso e di muffa era chiaro che tutta l'ala era in disuso da molto tempo. Non c'erano nemmeno scudi magici di contenimento per bloccare gli eventuali prigionieri. Vexen aveva cercato a tentoni la serratura e aveva riempito di ghiaccio la fessura tra il muro e la grata, allargandola il più possibile; poi, a forza di calci e spinte, era riuscito a far cedere la porta.
L'entusiasmo per l'avvenuta liberazione era stato di breve durata. Quell'area del palazzo era completamente immersa nell'oscurità e a dir poco labirintica: orientarsi era praticamente impossibile. Aveva passato quelle che sembravano ore a tastare le pareti in cerca di finestre da aprire, ma non ce n'era la minima traccia.
E allora aveva capito perché la trappola lo aveva fatto finire proprio in quel posto.
Perché io mi agiti invano come una mosca in una ragnatela. E intanto il ragno può badare ai suoi affari, e poi tornare qui con tutta calma...
Il pensiero lo riempì di un'angoscia cieca. Cominciò a girare a caso, in preda al panico, urtando contro spigoli e pareti, incespicando tra la polvere e i detriti di secoli d'abbandono. Il buio sembrava una presenza tangibile, dotata di consistenza propria: lo incalzava da ogni lato, gli penetrava nel naso e nella bocca, soffocandolo. Era sicuro che mille occhi maligni lo scrutassero al riparo nelle tenebre, che mani scheletriche si protendessero per ghermirlo... ma in quel silenzio tombale l'unico suono udibile era il battito accelerato e impaurito del suo cuore.
Almeno fino a che non iniziarono i crolli e le urla.
La voce tuonante e rabbiosa che risuonò per tutti i corridoi era inconfondibile: Mistobaan. Senza pensare Vexen si appiattì alla parete più vicina, pregando disperatamente che la creatura non lo notasse.
Non lo notò. Sfrecciò avanti senza curarsi di nulla, inneggiando all'Imperatore Palpatine e alla grandezza dell'Impero Galattico. Ma proprio nel momento in cui pensava di essere al sicuro una luce verdastra illuminò le tenebre, e Vexen si ritrovò faccia a faccia con lui.
Zexion.
Vivo.
Gli avvenimenti successivi erano confusi nella sua mente: Mistobaan era tornato, Zexion era sparito, e lui si era ritrovato di nuovo solo nell'oscurità. Era accaduto tutto così rapidamente che stentava a credere che fosse reale. Aveva seguitato a camminare a caso, stordito, e infine quel bagliore fioco all'orizzonte era apparso a rischiarare le tenebre e a strapparlo dai suoi pensieri.
Ora che era più vicino, Vexen poteva vederne la fonte: la luce filtrava dalle fessure di una porta socchiusa.
Era un grosso portone di legno a due ante, che si aprì non senza qualche scricchiolio. Vexen dovette socchiudere gli occhi, abbagliato dalla luce improvvisa, e quando li riaprì vide che si trovava in un salone vasto, illuminato da torce di fuoco magico e decorato da statue e quadri dalle cornici sontuose. Non c'era anima viva. Appesa alla parete di fondo giganteggiava una tela più grande delle altre, il ritratto di un demone dalle vesti blu e lunghissimi capelli corvini, e per un attimo lo sguardo di Vexen ne fu catturato. In confronto ai demoni che aveva visto, e anche rispetto agli altri ritratti sulle pareti, il soggetto di quel quadro aveva uno sguardo incredibilmente mite e gentile.
Allora sorridono anche loro, qualche volta...
L'unica uscita, oltre a quella da cui veniva, era una porta ad arco che conduceva verso una rampa di scale. Si diresse da quella parte, ma subito un rumore improvviso lo immobilizzò sul posto: passi. Passi in avvicinamento, lungo le scale.
L'istinto lo portò a tuffarsi dietro il piedistallo della statua più vicina, trattenendo il respiro. Appena in tempo: i passi varcarono la soglia e proseguirono spediti verso il centro del salone.
Una persona sola a giudicare dal rumore, umanoide probabilmente. E andava piuttosto di fretta. Vexen si azzardò a dare una sbirciata oltre il bordo del piedistallo.
Quando vide la familiare massa di capelli blu una potente sensazione di sollievo gli inondò il petto.
“Camus!”
Il sacerdote sobbalzò, colto alla sprovvista, ma subito si schiuse in un sorriso raggiante.
“Padron Vexen! Siano ringraziati gli dèi! Come sta? E' ferito?!”
Vexen scosse la testa, e subito Camus lo prese per un braccio, trascinandolo verso le scale.
“Non c'è un secondo da perdere! Se facciamo in fretta riusciremo a fuggire anche noi! Io so come fare!”
Non era il momento di discutere. “Ti seguo!”
Mentre correvano su per le scale, Camus spiegò: “Dobbiamo raggiungere la terrazza. Non ho lo stesso dono del mio fratello Shaka, ma penso di riuscire a comunicare con una viverna, in fondo serve solo un po' di gentilezza. E' l'unica possibilità di fuga... “
“E gli altri? Anche tu sei stato separato dal gruppo?”
“No, padron Vexen. Loro sono già fuggiti, con una viverna appunto... “
“Come??” non credeva alle proprie orecchie. Tutti quei discorsi infarciti di pace-amore-sacrificio-bontà e poi lasciavano un confratello indietro come se niente fosse? “E non sono tornati a prenderti?!”
“Restare qui è stata una mia scelta, padron Vexen.”
Non aveva senso. “E... e perché scusa?!”
Un millisecondo prima che Camus aprisse la bocca per rispondere, Vexen si rese conto di conoscere già la risposta.
E' pazzo.
Completamente pazzo.

“Ma per cercare lei, padron Vexen.”
Pazzo furioso.
Nessuno sano di mente sarebbe tornato a prendermi. Io non sarei tornato a prendermi.

“Padron Vexen, che c'è?” Vexen si rese conto di essersi fermato a metà della seconda rampa di scale. “Non sta bene?”
“Andiamo” tagliò corto, riprendendo a correre.
Per qualche ragione provava rabbia nei confronti del giovane assistente; non riusciva ad accettare che fosse tornato per lui. Gli prudevano le mani dalla voglia di evocare una stalattite e piantargliela nella schiena.
Sarebbe più facile se mi odiasse, se cercasse di aggredirmi come ha fatto Marluxia nella cella.
Io l'ho condizionato...

Invece Camus continuava a essere gentile con lui, e questo lo mandava ai matti. Lo riempiva di rabbia... e di qualcos'altro, un sentimento che non riusciva a definire. Ma non gli piaceva.
Quando il sacerdote si voltò verso di lui per indicargli la via da seguire, Vexen scoprì di non riuscire a guardarlo negli occhi.
Proseguirono in silenzio per alcuni minuti.
“Padron Vexen!” esclamò Camus all'improvviso. “Arriva qualcuno!”
Si trovavano all'imboccatura di un lungo corridoio, e i rumori arrivavano dal fondo. Stavolta non erano i passi di una sola persona, ma di molte, molte di più.
“Torniamo indietro!”
Non fecero in tempo a fare due passi che una figura si materializzò di fronte a loro. Era il demone gnomo, quello che aveva chiesto al Grande Satana di fare esperimenti su Axel e Larxen. In mano stringeva una pietra sfaccettata che a Vexen parve di già aver visto da qualche parte. Ma era troppo spaventato per ricordare dove.
“Fine della corsa, umani!”
Dietro le loro spalle poteva udire il contingente di demoni avvicinarsi. Erano circondati.
Lo gnomo poteva sembrare inerme, ma persino un mago scarso come lui riusciva a percepirne la straordinaria potenza magica. E quando lo vide sollevare la mano libera ed evocare un globo di fuoco, Vexen non ebbe più dubbi che la resa era l'unica soluzione possibile.
“Mi seguite senza fare storie o devo ridurvi a un mucchietto di cenere?”



Quando i demoni lo scortarono nella sala del trono il Grande Satana era già lì ad attenderlo. Lo fissava accigliato, lo sguardo antico carico di un disprezzo infinito. Più o meno lo stesso sguardo che si riserva di solito a un grumo di sporcizia, solo molto, molto più cattivo.
Vexen si ritrovò a invidiare Camus, che in quel momento veniva depositato sul pavimento senza troppe cerimonie da due demoni attendenti. Il sacerdote aveva detto una parola di troppo nel tentativo di appellarsi alla clemenza dello gnomo, e quello lo aveva stordito con un incantesimo. Ma almeno lui ora non doveva subire l'ira del GSB.
Era la terza volta in pochi giorni che Vexen si trovava al cospetto del signore dei demoni, e stavolta dubitava seriamente di uscire vivo da quella stanza. Quasi avrebbe preferito che lo gnomo lo facesse fuori direttamente, risparmiandogli quell'ultima ordalia.
“Mistobaan è fuggito” esordì il Grande Satana.
E io che c'entro??!! avrebbe voluto urlare, ma si limitò a tenere il capo chino, tremando. Non osava guardare il signore dei demoni negli occhi.
“Gli sgherri di quel sovrano umano che si fa chiamare Imperatore Palpatine lo hanno portato via. Noi faremo di tutto per salvarlo, ovviamente, ma nel frattempo... nel frattempo mi duole ammettere che tu ci servi vivo, umano.”
Vexen trattenne il fiato. Per il momento non era sicuro che quella fosse una buona notizia.
“Ma non ho intenzione di lasciarti con le mani in mano. Oltre a manipolare le menti delle persone c'è un'altra cosa che sai fare, una conoscenza che tu e i tuoi vili compagni avete usato nel più indegno dei modi, ma che potrebbe rivelarsi utile alla nostra causa. Che potrebbe servirci per recuperare Mistobaan.”
Il GSB si interruppe per bere un sorso da un calice che teneva tra le mani. Era una bevanda chiara, sembrava limonata.
“Sto parlando dei congegni che tu hai chiamato Nuclei Neri. Immagino tu sia perfettamente in grado di riprodurne altri.”
“Sì, certo... “
“Ti avviso subito, umano. Prova a tradirci in qualsiasi modo, a tentare di scappare, a svolgere il lavoro in modo negligente... “ il GSB parlava in tono tranquillo, come se stesse semplicemente esponendo i termini di un contratto, ma la sua voce vibrava di furia repressa e disprezzo. “Ho detto che ci servi vivo, ma c'è modo e modo di essere vivo. E arriverà comunque un momento in cui non ci servirai più. Ma se ti dimostrerai utile potrei decidere di lasciarti prolungare la tua misera vita fino al suo termine naturale, una volta che Mistobaan sarà di nuovo con noi. E' ben più di quanto ti meriti, umano.”
Dovrei baciarti i piedi e ringraziarti per la tua generosità, demone?
Oh, lo avrebbe fatto se necessario, ma odiava il GSB per la superiorità con cui trattava lui e gli umani in generale.
Mi disprezzi, fai tanto il superiore, però alla fine hai bisogno di me...
“Voglio che tu produca ingenti quantità di Nuclei Neri. Ti darò un laboratorio e attendenti che ti procureranno tutti i materiali di cui avrai bisogno. E voglio anche che mostri a Zaboera come si costruiscono i Nuclei Neri, in modo che lui possa imparare. Tutto chiaro?”
“Sì, Grande Satana... “
“Bene. Non c'è altro. Mi aspetto che tu inizi a lavorare immediatamente. Ora fuori dalla mia vista.”
Due attendenti lo presero in consegna, facendogli strada fuori dalla sala del trono. Avvicinandosi all'uscita vide con la coda dell'occhio che due scheletri animati stavano sollevando il corpo ancora privo di sensi di Camus.
Non sapeva nemmeno lui dove trovò il coraggio di voltarsi di nuovo e parlare.
“Grande Satana... che ne sarà del mio assistente?”
Per la prima volta Vexen ebbe la sensazione che il signore dei demoni lo scrutasse con un'espressione diversa dal consueto disprezzo. Con curiosità, forse.
“Quante persone servono per fabbricare Nuclei Neri, umano?”
Vexen deglutì, abbassando lo sguardo. “E'... è un'operazione delicata. Ci possono volere anche due ore per costruirne uno solo, è un lavoro di precisione estrema... ma due persone possono farlo in metà del tempo” disse. “E Camus ormai è esperto quasi quanto me” mentì poi, per maggiore sicurezza.
Anche senza sollevare gli occhi sentiva su di sé lo sguardo del Grande Satana, che lo scrutava e lo indagava. Sperò ardentemente che non cogliesse la bugia.
“E sia” disse infine il signore dei demoni. “Ma sappi che se tradirà o farà qualcosa di male la responsabilità sarà anche tua.”
Vexen fece un impercettibile segno di assenso con la testa, trattenendo a stento un sospiro di sollievo.
“E ora te lo ripeto ancora una volta, umano: fuori dalla mia vista.”



“Padron Vexen, come ha potuto?”
“Parla piano, cretino! Ci sorvegliano, cosa credi?!”
Camus sedeva sulla sua brandina, torcendosi le mani con espressione scandalizzata. L'alloggio che i demoni avevano assegnato ai due scienziati comprendeva in poco spazio due letti, un bagno formato bara e un paio di mobili stipati uno sull'altro, ma era pulito e tutto sommato dignitoso. Meglio delle celle, sicuramente.
“Il Grande Satana vuole usare i Nuclei Neri per distruggere la Resistenza, per fare del male agli umani! Pensi alle vittime che... “
“E allora?! Che scelta pensi che avevamo?!”
“C'è sempre una scelta, padron Vexen! E lei non aveva il diritto di decidere per me!”
Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso.
“TI AVREBBERO UCCISO, RAZZA DI IDIOTA!”
“Meglio morire piuttosto che contribuire a un massacro!”
“Basta così!” Vexen fissò l'assistente con espressione dura. Già si stava pentendo di averlo salvato. “Questi discorsi sono pericolosi. Io non ho intenzione di morire, e anche se tu ti facessi ammazzare spontaneamente continuerei comunque a produrre Nuclei Neri. Perciò il tuo sacrificio eroico non cambierebbe un bel niente, mettitelo bene in testa.”
“La salvezza del corpo non è niente rispetto a quella dell'anima... se lei... “
“No, no, NO! Niente sermoni, per favore! Se ci tieni tanto a fare il martire quella è la finestra: buttati di testa e liberami della tua stupidità. Altrimenti renditi utile e preparami un tè.”
Gli voltò le spalle, furioso. E io che ho pure rischiato l'ira del GSB per lui!!
Per qualche momento nella piccola stanza regnò il silenzio, poi Vexen udì Camus sospirare e alzarsi, diretto verso il laboratorio attiguo. Sperò solo che fosse andato in cerca di tazze e non di finestre.
La sua speranza fu accontentata pochi minuti dopo, quando il sacerdote rientrò con due tazze fumanti di tè verde e gliene porse una senza parlare.
Vexen bevve lentamente, assaporando ogni sorso. Pur essendo un elementale del ghiaccio non aveva mai smesso di amare il tè bollente, anche se rischiava di non farlo sentire bene.
“Ho incontrato Zexion” disse infine a voce bassa, rompendo il silenzio.
“Come... ?” Camus lo fissò meravigliato da sopra la sua tazza. “E' sicuro che... ?”
“Mi hai preso per scemo? Se ti dico che l'ho visto vuol dire che l'ho visto!”
E di certo non avrebbe dimenticato tanto in fretta il suo sguardo, apparso dalle tenebre insieme alla luce verde. Pieno di confusione, di stupore, e... di cos'altro?
Ma vivo.
“Allora padrona Larxen aveva mentito, non era morto! E' un'ottima notizia!”
“Credo... credo che ora sia dalla parte di quegli imperiali.”
“Ma almeno è vivo, no? E' questo che conta! Sicuramente il vostro incontro è stato voluto dagli dèi!”
Narratore: “diciamo piuttosto dalle Registe... “
“Sono veramente felice padron Vexen. Ora potrà... “
“Io vado a riposare, Camus.” lo interruppe lo scienziato. “Domani dovremo lavorare tutto il giorno.”
“Padron Vexen... è sicuro di non volerne parlare?”
Vexen si fermò un attimo, la mano già appoggiata sulla maniglia della porta del bagno.
“Non c'è niente di cui parlare.”
Anche mentre si chiudeva la porta alle spalle la voce di Camus continuò a inseguirlo.
“Come preferisce. Ma di qualsiasi cosa abbia bisogno, io sono qui.”



“Mio signore, con tutto il rispetto... è sicuro di potersi fidare di quell'umano?”
Il Grande Satana gli dava le spalle, lo sguardo rivolto fuori dalla finestra. Zaboera si sollevò leggermente con la magia per dare anche lui un'occhiata fuori: stavano sorvolando un villaggio umano. Non aveva idea di come si chiamasse: dall'alto sembravano tutti identici.
“Non ci tradirà. Ho capito subito che tipo è: ama troppo la sua patetica vita per tentare mosse azzardate.”
“E' che... ho un cattivo presentimento. Somiglia tanto a un umano che ho conosciuto millenni fa. Gli somiglia in modo impressionante. E quello non era una brava persona.”
“Quale umano lo è?” disse il Grande Satana, voltandosi leggermente verso di lui. “E alla fine si somigliano un po' tutti, come le formiche. Senza offesa per le formiche.”
“Eppure meriterebbe una punizione severa per quello che ha fatto a Mistobaan... “
“E' vero. Ma è anche l'unico che può riportare Mistobaan com'era prima, e questa al momento è la nostra priorità.”
“Prima di farlo tornare come prima dovremmo riprendercelo, però.”
Non era stato Zaboera a parlare. Lui non avrebbe mai osato rivolgersi al Grande Satana in tono così irrispettoso.
La figura nera era entrata nella sala del trono senza farsi annunciare. Avanzò verso di loro con noncuranza, facendo roteare la falce tra le dita come suo solito. A Zaboera quel gesto dava sempre un fastidio incredibile: era da stupidi e da esibizionisti sguainare le armi quando non ce n'era necessità. Un segno di superficialità e arroganza.
E non poté fare a meno di notare che l'essere mascherato non si era inginocchiato né aveva mostrato in alcun modo al Grande Satana il dovuto rispetto.
Essere un esterno non ti dà il diritto di prenderti certe libertà, straniero.
Si ripromise di parlare al Grande Satana della questione quando sarebbero stati soli.
Ma il suo signore non si mostrò infastidito. “Killvearn. Ti sei rimesso, vedo.” disse in tono neutro.
Il sorriso sulla maschera di Killvearn sembrava più largo e scintillante che mai.
“Nessuno può uccidere la Morte.”
“Killvearn è il migliore, il più forte, il più... “
Ecco, se c'era qualcosa che gli dava ancora più fastidio della falce di Killvearn e del suo sorriso inquietante era l'esserino monocolo perennemente appollaiato sulla sua spalla.
“Ma si è fatto sconfiggere da due umani!” sibilò Zaboera, infuriato.
“Uno gnomo non potrà mai capire la vera grandezza di Killvearn, Piro Piroro!”
“Senti chi parla! Come osi, stupido... “
“Basta così.”
Era un bene che il Grande Satana li avesse fermati. Zaboera aveva la netta sensazione che non sarebbe riuscito a trattenere una Palla di Fuoco per un secondo di più.
Prima o poi il Grande Satana mi darà il permesso di usarti come cavia, esserino schifoso!
“Killvearn ha ragione, dobbiamo riprenderci Mistobaan. Potrei mandare di nuovo qualcuno di voi a rapirlo, ma dubito seriamente che lo stesso metodo funzionerà due volte. Prima avevamo l'effetto sorpresa dalla nostra, ora l'Imperatore Palpatine sa chi siamo. Si aspetta certamente un altro attacco a Mistobaan, e avrà predisposto delle contromisure.”
“Quindi che facciamo, mio signore?”
“Non si tratta solo di Mistobaan. Venire qui e strapparci Mistobaan con la forza, devastare la nostra fortezza e attentare alla vita dei nostri è stato un vero e proprio atto di guerra. Questi imperiali sono in tutto e per tutto identici agli umani che imperversavano nel nostro mondo tre millenni fa. Avidi, violenti, pericolosi. Sanno che Mistobaan è uno dei nostri, ma lo sfruttano biecamente. Conoscono il modo per varcare i confini del loro mondo e arrivare nel nostro, hanno nei loro ranghi creature in grado di tenere testa a un Cavaliere del Drago. Sono una minaccia per noi, e ora che sanno della nostra esistenza state pur certi che non ci lasceranno in pace. Presto o tardi non si accontenteranno più di Mistobaan e brameranno di mettere le loro sudicie mani sui nostri segreti e la nostra magia.”
Il Grande Satana tacque, e il silenzio che seguì era carico di presagi cupi e minacciosi. Zaboera sentì i suoi due cuori accelerare i battiti, afferrati da una paura senza nome.
Tutto questo è già successo... e succederà ancora...
“Io conosco solo una soluzione a un problema simile.” dichiarò il Grande Satana spostando lo sguardo per guardarli uno per uno negli occhi. Nei suoi occhi scuri ardeva un fuoco che tremila anni di relativa pace non erano bastati a sopire.
“I Nuclei Neri... ha ordinato all'umano di fabbricarli per questo, vero mio signore?”
“Proprio così. Avremo bisogno di tutte le armi a nostra disposizione per combattere gli umani.”
Persino Killvearn si lasciò sfuggire un verso di stupore. Lui non c'era tremila anni prima, e non aveva ancora capito. Non poteva ricordare.
“Esatto, amici miei. La famiglia demoniaca scenderà di nuovo in guerra.”

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Capitolo 17
*** Epilogo ***


Epilogo


Dalia Graziosa

Dalia Graziosa, la falce di Marluxia




Silenzioso come un'ombra, Axel balzò fuori dalla finestra. Atterrò senza fare rumore sull'erba umida per la rugiada mattutina, e senza guardarsi indietro attraversò il cortile della fattoria e sfrecciò verso il bosco, il sacco del bottino che gli ballonzolava allegramente dietro le spalle.
Larxen lo aspettava nel punto convenuto, una radura appena visibile tra gli alberi e i cespugli del fitto sottobosco. Per la noia si era messa a incidere la corteccia di un albero con uno dei suoi kunai.
“Ce ne hai messo di tempo!”
“Zitta e ringrazia. Guarda qua.” Axel vuotò il contenuto del sacco sull'erba, rivelando i frutti del suo furto alla fattoria.
“Sono solo stracci puzzolenti” con la punta dello stivale Larxen sollevò una casacca di tela marrone, squadrandola con aria critica. “A che ci servono?”
Axel sospirò. Decisamente quella ragazza non si rendeva per niente conto della gravità della situazione.
“Siamo ricercati dai demoni, se non te lo ricordi. L'altra volta ci hanno presi perché hanno riconosciuto le nostre tuniche dell'Organizzazione. Non possiamo continuare a girare così, soprattutto ora. Siamo scappati da quel palazzo per puro culo, ora dobbiamo stare attenti a...”
“Che palle, Axel!” lo interruppe lei buttandogli l'abito in faccia. “Quando ti metti a fare il serio sei più noioso di Vexen!”
Axel non raccolse la provocazione. Si limitò a raccogliere la casacca del contadino e iniziò a slacciarsi la tunica: non voleva indossarla un secondo di più, non con quei maledetti occhi fluttuanti che potevano sbucare a sorpresa in ogni momento.
“Dèi ladri Axel, avvisa prima di fare certe cose! Il tuo fisico è l'antitesi del sexy!”
In tempi normali le avrebbe risposto con un'altra battuta, magari sulla taglia scarsa delle sue tette, ma stavolta era troppo preoccupato per prestarle ascolto. Sul Baan Palace avevano scampato la morte per un soffio, ma il pericolo non era affatto passato: se i demoni li avessero catturati di nuovo... persino penzolare sospeso su una massa d'acqua a quel punto gli sarebbe parsa un'alternativa piacevole.
Dopo la fuga dal Baan Palace aveva seriamente pensato di abbandonare Larxen al suo destino. Non si era mai fidato di lei e Marluxia e tantomeno li considerava suoi amici, ma viaggiare in tre aumentava di molto le possibilità di sopravvivenza. Ora però, senza il n. XI a tenerla a bada, Larxen rischiava di diventare incontenibile, più una palla al piede che una valida alleata.
“E dovresti liberarti di quella falce rosa del cazzo” disse poi, infilandosi la casacca rubata e facendo sparire la vecchia tunica in uno sbuffo di fiamme. “E' troppo riconoscibile. Tanto con Marluxia morto non ce ne facciamo nulla.”
“Ehi, questo non era molto gentile da dire.”
Axel si gelò sul posto. La voce che aveva parlato proveniva dall'alto, da qualche parte tra le fronde degli alberi. Alzò lo sguardo e riuscì a distinguere una figura nera nascosta tra i rami; anche Larxen l'aveva vista, e stringeva già i kunai tra le dita, pronta ad attaccare.
Poi un petalo rosa cadde volteggiando sulle loro teste, seguito da decine di altri.
“Ma vaffanculo...”
Marluxia atterrò tra di loro con un balzo aggraziato, avvolto in una scia di petali profumati.
“Che cattivi. Una sola settimana senza vederci e già avete dimenticato il suono della mia voce.”
“Chi non muore si rivede... nel senso letterale del termine.” Già, anche Marluxia doveva essere scampato alla morte per un soffio: Axel aveva notato subito i lividi violacei sul suo collo.
“Potrei dire la stessa cosa di voi.” Marluxia passò in mezzo a loro e raccolse la sua falce, che Larxen aveva appoggiato al tronco di un albero. “Pensavo che lo gnomo vi avrebbe fatto fuori una volta finito di giocare con voi.”
“Siamo troppo fighi per morire così, Marly. O almeno io lo sono, Axel ha avuto fortuna.” disse Larxen con un sorrisetto.
“Axel tuttavia ha ragione su alcune cose” disse Marluxia. “La mia falce non si tocca, ma per il resto... dovremo andarci cauti. Tenere un basso profilo e non farci notare. Soprattutto non farci notare. E' chiaro, Larxen?”
Per un attimo persino la Ninfa Selvaggia dovette abbassare lo sguardo di fronte a quello improvvisamente severo del n. XI. Era incredibile come Bocciolo di Rosa riuscisse a tenere tutto e tutti a bada con la sua autorità, e senza mai smettere di sorridere, senza mai perdere i suoi modi aggraziati e impeccabili.
E' come le sue rose: dietro la bellezza si nascondono le spine.
E così per adesso il piano di scappare da solo era rimandato. Restare insieme poteva essere conveniente: di certo i demoni non immaginavano che i ricercati si fossero reincontrati per caso, e magari avrebbero osservato meno i gruppi di tre persone. Marluxia poi non era uno sciocco, il suo aiuto e le sue idee potevano essere utili. Sì, finché poteva trarne vantaggi sarebbe rimasto con loro.
“E ora consiglio di metterci in movimento prima che i contadini si accorgano del furto.”
Larxen seguì subito Marluxia, e un attimo dopo anche Axel si unì a loro.
Ma non erano quei due i compagni che avrebbe voluto al suo fianco, inutile nasconderselo parlando di vantaggi o di sopravvivenza. No, la verità era che l'unica persona che Axel avrebbe voluto con sé, l'unico vero amico che avesse mai avuto in vita sua lo aveva tradito nel modo più crudele quattro anni prima.
E aveva pagato con la vita.



Il cortile del Monastero risuonava dei colpi delle spade e delle grida di incitamento dei compagni.
“Forza Spada della Notte!”
“Para, para! Salta!”
“Attento!”
Il ragazzo respinse l'attacco con facilità e si deterse il sudore dalla fronte, preparandosi a un nuovo assalto. Era chiaro che Spada della Notte, il suo avversario, ancora non aveva iniziato a fare sul serio. Lo studiava, saggiava le sue capacità con dei colpi di prova in cerca della giusta strategia da seguire. E faceva bene, perché contro di lui non si poteva mai essere sicuri di niente.
Come ogni volta che si teneva un duello di allenamento tutti gli allievi si erano disposti in cerchio attorno ai due contendenti, tifando chi per l'uno chi per l'altro e applaudendo con calore i colpi più spettacolari. Il ragazzo però sapeva che in parte era per lui che gli altri ragazzi si erano radunati con tanta fretta, sgomitando e spintonandosi per conquistare un posto in prima fila. Perché lui aveva un'arma diversa, unica nel suo genere, in grado di fare cose che gli altri Ramas non potevano nemmeno sognarsi. Tutti erano entusiasti di vederlo combattere.
Erano molto meno entusiasti di confrontarsi con lui, come testimoniava l'espressione insicura del suo avversario. Finalmente, dopo una serie di finte infruttuose, Spada della Notte si decise ad attaccare con tutta la sua forza, menando un violento fendente con la sua spada a due mani.
Il ragazzo non aspettava che quello. Si spostò indietro all'ultimo momento, facendo sbilanciare in avanti l'avversario e intercettando la sua lama con un colpo dal basso verso l'alto: la spada volò via dalle mani del suo padrone, compiendo un ampio arco nel cielo e finendo sul selciato con un secco clang.
La folla degli allievi Ramas esplose in un boato e il ragazzo congedò la propria arma, che sparì dalle sue mani in uno scintillio di luce. Poi tese la mano a Spada della Notte, che dopo un attimo di esitazione gliela strinse con un sorriso.
“Non c'è niente da fare, il più forte sei sempre tu!”
“Guarda che anche tu sei bravissimo, mi hai messo davvero in difficoltà!”
“Sì, come no. Non hai nemmeno usato tutte e due le tue armi! Mi ci vorranno decenni per arrivare al tuo livello!”
Sentinella della Runa e Scudo Felice, i suoi migliori amici, furono i primi a corrergli incontro per congratularsi. Era ancora stritolato nel loro abbraccio quando una voce familiare interruppe le loro chiacchiere e risate.
“Davvero eccellente!”
I ragazzi si affrettarono a mettersi in riga e salutarono il nuovo arrivato con il rispetto che gli era dovuto. “Buongiorno, Maestro Lupo Solitario!”
“Su, su, rilassatevi!” il maestro sorrise con calore. “Non sono mica quel vecchio borbottone di Lord Rimoah!”
In molti soffocarono una risatina, e anche il ragazzo non riuscì a trattenersi. Era per quello che tutti gli allievi Ramas adoravano il maestro Lupo Solitario: era giovane, non si dava arie di superiorità, e soprattutto era uno di loro. Il ragazzo lo stimava dal profondo del cuore, e più di ogni altra cosa desiderava diventare un Ramas come lui.
Per questo si sentì scoppiare d'orgoglio quando Lupo Solitario si rivolse a lui con un sorriso di sincera approvazione: “Hai combattuto molto bene. Negli ultimi tempi sei migliorato tantissimo, sia nel corpo a corpo che nell'utilizzo delle Arti Ramas. E con il tuo comportamento leale e corretto hai dimostrato di aver fatto tue non solo le tecniche di combattimento, ma anche e soprattutto i principi e gli ideali che guidano gli adepti del nostro Ordine. Come tuo maestro non posso che essere fiero di te. Penso che nel giro di un anno sarai pronto per sostenere la prova per passare dal rango di allievo a quello di Cavaliere.”
Altri applausi, altre grida di gioia, altri abbracci da parte di Sentinella e Scudo. Il ragazzo era stordito dalla felicità: finalmente il suo sogno stava per realizzarsi.
“Maestro Lupo... grazie. Prometto che non la deluderò. Mi impegnerò al massimo!”
“Ne sono più che sicuro” il maestro gli posò una mano sulla spalla, stringendola con affetto.
“Sarai un grandissimo Ramas, Chiave del Destino.”


F I N E ?




Narratore: ...beh, ovviamente no, amici lettori! L'avventura continua nella prossima serie, con guerre intergalattiche e mirabolanti colpi di scena! E se vi state chiedendo cosa c'entrava quest'ultimo pezzo con tutto il resto... sappiate che me lo sto chiedendo anch'io!
REGISTE: Narratore!!!
Narratore: … cioè, volevo dire,lo scoprirete solo leggendo! Ma adesso a me gli occhi e le orecchie: è il momento dell'angolo dedicato alle curiosità e ai retroscena di questa serie, offerte come al solito dal vostro affezionatissimo Narratore!
Orbene, da dove cominciare...

- Il vero motivo per cui tra “Il Castello dell'Oblio” e questa serie sono passati tre anni è perché le Registe volevano far crescere un po' Shandra e May, le figlie di Tarkin, e Neos, il figlio di Boba e Zam, in modo da dare loro un ruolo più attivo in questa storia.

… come dite? In questa serie i tre bambini non si sono visti? Eh già, le Registe volevano inserirli ma poi come al solito la trama è partita per binari propri, sfuggendo totalmente al loro controllo. E così in questa storia i bambini non ci sono ma in compenso i tre anni sono passati lo stesso, con grande scorno dei vari personaggi non immortali che si sono trovati ad invecchiare inutilmente. Così è la vita!

- Nella prima stesura di questa serie il Grande Satana aveva una caratterizzazione un po' diversa, meno onorevole e più crudele, più da “cattivo standard”, ma anche meno marcatamente razzista nei confronti degli esseri umani. Poi però le Registe si sono accorte che un personaggio del genere sarebbe stato semplicemente il clone demoniaco dell'Imperatore Palpatine, e hanno deciso di cambiare. E poi nel loro fangirlismo apprezzano molto di più questa nuova versione tutta onore, intransigenza e carisma, malgrado sia anche estremamente più rompiscatole... ah le donne, chi le capisce è bravo...

- Sempre nella fantomatica prima stesura anche Zaboera era molto diverso: vile, infido e invidioso, cospirava contro gli altri generali del Grande Satana per destabilizzare il loro potere e raggiungere la carica di Braccio Destro. Ovviamente si è reso necessario cambiare questa caratterizzazione quando le Registe hanno deciso che il concetto di onore doveva essere centrale nella mentalità dei demoni...

- Come avrete notato il personaggio di Camus in questa serie ha molta più importanza e approfondimento rispetto alla storia precedente. Anche questo è avvenuto in modo puramente casuale: Camus era stato progettato per essere un semplice comprimario, ma alla fine de “Il Castello dell'Oblio” le Registe non sapevano che fine fargli fare. E così hanno detto: “Vabbé, mandiamolo appresso a Vexen e poi si vedrà!” E... eccome se si è visto! Con la sua dolcezza e la sua testardaggine Camus ha fatto tutto da solo, conquistandosi uno spazio a dispetto dei progetti di quelle due arpie! E in seguito questo personaggio continuerà sempre ad avere un ruolo chiave, per mia grande gioia (vi ho già detto che è il mio preferito, e se continuerete a seguirci prima o poi scoprirete perché! Prendete tutti esempio da lui!).

- Un altro personaggio che purtroppo si è guadagnato uno spazio al di fuori dei piani delle Registe è Shaka. Eh già, secondo la stesura originale il sacerdote della Vergine sarebbe dovuto morire al Tempio delle Dodici Case insieme ai suoi confratelli, ma poi le Registe hanno avuto l'insana idea di graziarlo. “Il Maestro Dohko vorrà pure salvare qualcuno per preservare le dottrine del Tempio”, hanno pensato, senza sapere in quali guai andavano a cacciarsi. Già, perché ora Shaka ci ammorberà tutti con i suoi sermoni per ancora tante, tantissime serie...

Bene amici lettori, per questa serie è tutto, le curiosità si chiudono qui! Vi attendiamo per la prossima avventura, che vi rivelo fin d'ora si intitolerà...
(non so se le Registe vogliono che lo dica, ma chissenefrega io lo dico lo stesso!)...
Si intitolerà....
*rullo di tamburi*

“LA GUERRA DEI MONDI”!!
Arrivederci alla prossima, e ricordate... W Camus e W il Narratore!!

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