You're the music in me ♥

di RadioHysteriaBK
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The first beautiful thing ***
Capitolo 2: *** Everything's gonna be alright... ***
Capitolo 3: *** Keep calm! ***



Capitolo 1
*** The first beautiful thing ***


Salve a tutte, questa è la prima FF che pubblico. Per chi leggerà e seguirà la mia storia, dico subito che sono abbastanza lenta e quindi non so quanto ci metterò fra un capitolo e l'altro..ma pazienza. Cecherò di impegnarmi e fare del mio meglio! Detto questo, posto il mio primo capitoletto e spero che vi piaccia! 

Grazie dell'attenzione & Enjoy it! ;-
)








1° Capitolo: The first beautiful thing

    [***]         






                                         

Nel buio, la casa al numero 483 si intravedeva appena. Sembrava cadente, e le finestre chiuse da ante ormai deteriorate e assi inchiodate la facevano somigliare a un teschio dalle orbite vuote.

Controllai per la decima volta l’indirizzo.

Non mi aspettavo che la situazione fosse così disastrosa.

Forzai il cancello che mi aprii la strada fino alla porta sul retro, fra la sterpaglia cresciuta sul vialetto. In giardino c’era una betoniera con una carriola appoggiata sopra, uniche tracce di una visita degli operai. La grossa chiave di ferro girò nella toppa, e venni accolta dall’odore della casa. Caspita. Ogni casa ha il suo odore, ma questo aveva carattere sul serio. Sembrava parlare di secoli di legno marcio, di strati di polvere che giaceva indisturbata dai tempi della Magna Charta, di tubature abbandonate. Ora capivo cosa intendesse dire mio padre. Era impossibile che lui e la mamma venissero ad abitare qui prima che la casa fosse completamente ristrutturata. Dio solo sa quanto tempo ci sarebbe voluto!.

Quando mamma mi aveva detto che ci saremmo trasferiti a Berlino ero talmente stupita da rimanere senza parole. Lei aveva interpretato il mio silenzio in modo completamente sbagliato, e si era affrettata a dire che avrei presto trovato dei nuovi amici, e una scuola decente, anche migliore di quella dove andavo, e…e a quel punto l’avevo interrotta. – Senti, mamma. Fermati un attimo.

Ne avevo abbastanza della scuola. Quella che frequentavo, a Londra, era un liceo classico femminile, probabilmente uno degli ultimi del paese e mia madre era sempre stata fissata nel farmi frequentare questo tipo di scuola perbenista, di sole donne! Come se il tempo fosse tornato indietro e ci fossimo catapultati all’età del Medioevo!. Si trattava di una scuola tradizionale in tutto: avevamo perfino una divisa. Era un posto in cui per essere stravaganti bastava farsi un nodo diverso alla cravatta. Ne avevo fin sopra i capelli. Era il momento giusto per annunciarle che avevo intenzione di mollare gli studi, per potermi dedicare, finalmente, alla mia più grande passione: La moda.

-       Allora, quando si trasloca? – avevo detto.  – E puoi scordarti della scuola.

Dire che la mamma reagì male sarebbe minimizzare quello che è successo. Per poco io e mio padre non avevamo chiamato un’ambulanza. Dopo aver litigato per un intero week-end, avevamo raggiunto un compromesso. Mia madre mia aveva trovato una scuola, la West High College, creata apposta per chi vuole studiare cose insolite, che non si insegnano negli altri istituti superiori, come Scienza dell’Alimentazione, Farmacia, Imbalsamazione,… e il mio adoratissimo corso di Moda!. Insomma qualsiasi cosa. Naturalmente mia madre aveva anche controllato che dopo averla frequentata si potessero dare gli esami di maturità.

Cosa potevo farci, lei era così e nulla al mondo avrebbe potuto cambiarla.

Oltretutto era una scuola mista, e non si portava la divisa. Me la immaginavo un po’ come quelle scuole che si vedono nei telefilm americani, con le ragazze che passano le giornate su un bel praticello verde a guardare i ragazzi o viceversa, e avevo detto di sì. Ed ecco perché ero qui da sola, a esplorare una vecchia casa cadente  buia come se fossi una ladra.

I miei mi avevano avvertito che la casa era in condizioni pessime. Quando avevano capito in che stato era, mamma e papà avevano deciso di rimanere ancora per qualche mese a Londra. Mia madre aveva perfino tentato di farmi fare un altro trimestre nella mia vecchia scuola. Ma le avevo fatto notare che i programmi e i libri di testo della West High Collage dovevano essere completamente diversi. Rimanere un altro trimestre a Londra mi avrebbe solo reso le cose più difficili.

-       Non c’è il telefono, lo sai, vero?- aveva detto mio padre.
-       Senti, quest’estate ho viaggiato con delle mie vecchie amiche dormendo in tenda o negli ostelli della gioventù, quindi penso di riuscire a sopravvivere in un sobborgo di Berlino. E poi ricordati che ho sempre il cellulare!
-       Ma come farai per mangiare? E per lavarti i vestiti? – mamma è convinta che io sia un po’ troppo magra e che, chi non può cambiarsi tutti i giorni rischia una malattia mortale.
-       Comunque – avevo ribattuto – potrei tenere d’occhio gli operai. Con uno di noi sul posto, perderanno meno tempo.

E così, sia pur con una certa riluttanza, mi avevano lasciato partire sola per Berlino. Berlino!!

Naturalmente c’ero già stata un paio di volte da bambina, per andare allo zoo o a teatro o in qualche museo, e più di recente avevo cominciato a frequentare certi negozietti dei quartieri di Friedrichstrasse e Kurfurstendamm, e a captare l’atmosfera della città. Una città come Berlino ti provoca continue scariche di adrenalina, e quando i lampioni si accendono, la sera… è una città magica.

C’è un detto, dalle nostre parti che dice: “   Quando un uomo è stanco di Londra, è stanco della vita”. Bè, francamente penso che la cosa valga più per Berlino.

Mi tolsi la borsetta dalle spalle ed entrai. Nell’ingresso c’erano mucchi di detriti, provenienti da un bagno. Trovai l’interruttore della luce, ma non successe niente: evidentemente non c’era elettricità, anche se John, il capocantiere, aveva affermato il contrario. Bè, tanto valeva fare un giro di ispezione.

Pianto terra. In origine c’erano due grandi stanze, ma il muro che le divideva era stato abbattuto e lasciato lì come l’opera di uno scultore pazzo. Nell’ingresso, odore di muffa e puzza di cane. Scale: sconnesse e senza moquette. Ops: qui manca un gradino. Porta sul primo piano: un vecchio bagno con una grande vasca macchiata e una doccia anteguerra incrostata di muschi e licheni! – che schifo!- pensai.

Mansarda. Il mio piano… caspita. Due grandi camere col tetto spiovente. Bastava fare attenzione a non battere la testa, e per il resto era fantastico! In confronto al nostro appartamento, questa era una vera e propria reggia. Continuavo ad andare avanti e indietro tra le due stanze. Quella sul retro era leggermente più piccola: ci avrei messo delle mensole per sistemarci la mia collezione di riviste di moda e cd della mia band preferita, che oltretutto è anch’essa tedesca!; poi un piano di lavoro per poter realizzare i miei primi campioni di abiti. Fantastico!.

La camera sul davanti, con una grande finestra ad abbaino, era incredibile. Aprii la finestra e tolsi un’asse un po’ lenta. Se mi sporgevo potevo vedere fuori. E che vista! La Fernsehturm era lì, proprio davanti ai miei occhi.

Non avevo notato che Frensham Avenue fosse in discesa. Dalla finestra, oltre la torre della televisione, vedevo le cime degli alberi, le macchine parcheggiate, insomma il tipico paesaggio di un sobborgo suburbano. Ma oltre le case, dai tetti a punta e spioventi, tipici del luogo, di fronte si intravedeva la sagoma della città, e aguzzando le orecchie si sentiva il debole ronzio della gente in movimento. Un suono che non si affievolisce mai, un suono di migliaia di vite.  Immaginai di amplificarlo per separarne i tracciati, isolare ogni singolo suono e sentire di cosa era fatto: litigi, bambini che piangono, telefoni che squillano, martelli pneumatici, sirene della polizia, rubinetti che perdono…ogni cosa con un ritmo diverso. Era musica; musica mixata dal caso. Vedete, oltre alla moda, la musica è il mio hobby, è un’ossessione.

Guardai giù, in strada. Ehi! Mica male! Un corpo da dieci e lode. Il tipo di ragazzo che dovrebbe andare in giro in pantaloncini corti e a torso nudo, per legge. Bei capelli, di un biondo platino che tendevano quasi al bianco, si intravedevano appena sotto un capellino da baseball grigio e nero. Bella camminata tranquilla, da sexy-star. Si fermò, girandosi appena. Sì anche il viso era carino, almeno visto da qui. Attraversò la strada e sparì dalla mia vista. Sperai che non fosse solo venuto a trovare qualcuno…

Rientrai e feci un altro giro per il mio dominio. Non sarebbe stato difficile montare le mensole. C’erano un paio di nicchie che sembravano fatte apposta. Bastava procurarsi del legno, ma non avevo gli attrezzi.. li aveva John, però, e me li avrebbe sicuramente prestati, specialmente se gli facevo notare tutto il lavoro che ancora non avevo fatto.

Presi un paio di misure, a occhio. Ci volevano delle assi da un metro e mezzo. Adesso non avevo niente da fare, quindi tanto valeva andare subito a comperarle, in modo da averle già pronte quando John si sarebbe fatto vivo con gli attrezzi. Non vedevo l’ora di avere le mie mensole.

Non avete idea di quanto sia difficile, per un individuo il cui mezzo di trasporto sono due gambe, comprare e portare a casa quattro assi. Perlomeno a Berlino. A Londra avrei trovato la mia bella macchina in garage, pronta a mettersi in moto, ma visto l’improvviso traslocamento, essa non era ancora con me. Camminai per chilometri, finché non trovai un negozio “fai da te”. Il vialetto che lo congiungeva alla strada era lungo almeno mezzo chilometro. Forse non c’erano mai stati pedoni, fra i clienti. Il tizio che mi servì mi chiese se avevo bisogno d’aiuto per portare la roba, e quando provai  a sollevare le assi capii perché. Dovetti fare marcia indietro e accontentarmi di quello che ero in grado di trasportare.

Quando tornai a casa era quasi buio. Frugai nella borsetta, trovai la torcia e la puntai sulle scale. Un debole cerchio di luce arancione illuminò per un istante la vecchia carta da parati strappata, tremolò e si spense. Armeggiai con l’interruttore, ma non ci fu niente da fare. La mia solita fortuna: si erano scaricate le pile, e non avevo pensato a ricomprarle. Cavoli, che guaio.

Era la prima volta che dormivo a Berlino, e la serata prometteva di essere indimenticabile, trovai dei fiammiferi in cucina, e lì accanto (meno male!) un’intera scatola di candele. La scorta di John, pensai. Ne accesi una, proteggendo la fiamma con la mano. Portai le assi di sopra, facendo attenzione al gradino mancante, e le ammucchiai nella stanza sul retro. Se avessi avuto gli attrezzi avrei potuto cominciare subito, e ne avrei montate almeno un paio. Presi la candela e feci un giro della casa. Non si sa mai, magari gli operai ne avevano dimenticato qualcuno in giro. Ma niente. Immagino che fosse troppo rischioso lasciare qualcosa in una casa abbandonata.

Tornai nella stanza che dava sulla strada. Ormai la candela si era quasi consumata e avevo le dita piene di cera, così la piazzai su una sporgenza e ne accesi atre due. Alla loro luce tremolante la stanza era quasi carina. Era ora di sistemarmi, e cominciai a disfare il mio trolley.

Srotolai il sacco a pelo e tirai fuori il fornello da campeggio, l’apriscatole e altre due o tre cose indispensabili pe nutrirsi e lavarsi. So che nessun’altra persona che non mi conoscesse, avrebbe mai pensato a me come una ragazza che si adatta facilmente a queste tipo di circostanze, in quanto sia mia madre che alcune compagne mi avevano sempre fatto notare che sarei potuta andare a far la modella e molti mi vedevano come la solita fighetta per il mio modo di vestire alla moda… ma si sbagliavano perché una cosa che avevo imparato da piccola, quando frequentai un corso di ‘piccole marmotte’, era prima di tutto: un corso di sopravvivenza!.

Comunque, a proposito di lavarsi, dopo il viaggio alla ricerca del legname ero pronta per una bella doccia. L’acqua! Mi ero scordata di controllare se c’era. Scesi in bagno, dove il rubinetto della vasca tossì e sputacchiò, prima di regalarmi un bel getto d’acqua gelida. Girando la manovella, misi in funzione la doccia e ottenni un lieve spruzzo. Sempre meglio che niente. Mi spogliai, mi feci la doccia più fredda di tutta la mia vita e poi… oh no! Avevo dimenticato di portarmi giù l’accappatoio.

Fu proprio in quel momento che un pazzo cominciò a bussare alla porta. Sembrava che volesse abbatterla da un momento all’altro. Chissà da quanto stava bussando: io non l’avevo affatto sentito, con il rumore della doccia e l’acqua che gorgogliava nelle tubature.

-       Ok, ok, calma! Adesso scendo!

Acchiappai la candela sgocciolante, uscii dal bagno e mi avviai verso il piano di sotto, decisa a fermare quel pazzo scatenato. Aargh!.... avevo dimenticato il gradino mancante. Ok, ero decisamente un po’ sbadata.

-       Cosa accidenti vuole? – gridai, senza aprire la porta.
-       Ho visto la luce. Senta, non può piazzarsi così…
-       Come?
-       Non può semplicemente entrare così in una casa…
-       Senti, amico, ho tutto il diritto di stare qui. – Uno spiffero gelido filtrava da sotto la porta, congelandomi nel punto peggiore: i piedi!.
-       Non vorrei dover chiamare la polizia…

Di colpo capii. Quel vecchio ficcanaso era convinto che io fossi una barbona o un chissà chi, arrivata a rovinare la vita del loro tranquillo quartiere. C’era perfino il rischio che le loro proprietà si svalutassero. Avevo già capito che tipo era. Il tipo che venderebbe tutte le case popolari solo a gente benestante e rispettabile, per poi affermare scandalizzato che le strade sono piene di barboni senzatetto. E in quel momento misi il piede su un chiodo o qualcosa del genere. Che dolore! Ero furibonda. Ero lì, nuda come un verme e congelata, e saltavo su e giù come una cretina per riscaldarmi, correndo il rischio di pestare di nuovo quella dannata cosa. Ne avevo abbastanza.

-       Senti, vecchio ficcanaso, perché non te ne vai a quel paese?

Dall’altra parte della porta venne un suono soffocato. Poi lo sconosciuto si schiarì la voce.

-       Bè, se è così che la pensi, non venire a dirmi che non ti avevo avvertito….

Stavo tremando dal freddo, e avrei dato qualunque cosa perché se ne andasse.

-       Sì, ho capito. Ora togliti dai piedi.

Feci i gradini quattro a quattro, ritrovai la stanza a tentoni, mi asciugai ed esaminai il piede. Non era grave e con un disinfettante e un cerotto sarebbe passato presto. In caso contrario, se fossi morta di setticemia e di polmonite doppia sarebbe stata tutta colpa di quel rompiscatole. Non avevo la minima voglia di accendere il fornello a gas, poiché conoscendo la mia fortuna avrebbe potuto esplodere la casa, così mangiai un panino che mia madre mi aveva preparato prima della partenza, e una mela. Lizzy, mia madre, mi aveva dato anche un paio di lattine di coca-cola e redbull (grazie tante), così ne aprii una e mi misi alla finestra, in un punto in cui riuscivo a vedere qualcosa fra le assi. Domani le avrei tolte tutte per far entrare un po’ di luce e ripulire la stanza.

Strinsi gli occhi per vedere la sagoma della città contro il cielo arancione e violaceo. Pe un attimo ebbi la tentazione di infilarmi la giacca e uscire, per sperimentare la vita notturna della metropoli. Un giretto nel centro, un’occhiata a qualche discoteca. Dovevo pur cominciare a guardarmi intorno.

Dall’altra parte, l’indomani dovevo andare a scuola. Il primo giorno di scuola. Sarei stata “quella nuova”, e volevo fare una buona impressione. O, almeno, un’impressione non troppo cattiva. Mi sistemai comodamente sul pavimento, con una spalla contro la finestra. Stare da sola in un posto come questo mi dava un senso di incredibile paura ma anche di libertà. Quando era piccola mi divertivo ad immaginare che tutti gli adulti del mondo di colpo non ci fossero più. Non per via di una tragedia o roba del genere; semplicemente, non c’erano. Magari perché qualche alieno simpatico li aveva portati a fare un giro della galassia. Comunque, in questo mondo senza adulti potevo fare tutto quello che mi pareva: guidare le macchine, stare tutto il giorno al luna park, liberare gli animali dallo zoo, prendere tutto quello che volevo dai negozi di giocattoli… era bellissimo.

E lì, seduta nella casa vuota, provavo qualcosa di simile a quella remota sensazione. Chissà com’era vivere da soli. I miei genitori sono tipi a posto; limitati  e fuori moda in modo patetico, certo, ad eccezione di me, ma il fatto di non averli qui a fare da barriera antiproiettile fra me e il mondo… bè, era liberatorio. Avevo quasi finito laredbull ed ero sul punto di andare a dormire, quando le tende alla finestra della mansarda di fronte si mossero. Era il ragazzo che avevo visto quel pomeriggio. Stava aprendo la finestra. Un fan dall’aria pura? Oh, no, aveva già richiuso le tende. Ti prego, fammi dare un’altra occhiata.

 Ma le tende rimasero chiuse.

 

♦ And when I loose my self I think of you...

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Capitolo 2
*** Everything's gonna be alright... ***


Ciao a tutte! rieccomi tornata con il secondo capitoletto, che poi sarebbe il primo pechè raccontato dal nostro 'misterioso' ragazzo! :-) Senza tante parole vi lascio subito alla lettura! spero vi piaccia! a prestoooo!

xoxo, RadioHysteriaBK




Dalla parte di Lui,…
 

[***]

 
Di nuovo quella strana sensazione. La pelle d’oca e un piccolo brivido freddo in fondo alla schiena. Mi voltai a guardarmi indietro. Sentivo che qualcuno mi stava spiando. Ma da dove? La strada era deserta: nemmeno una macchina. Osservai le finestre per vedere se qualche tendina si muoveva, e il mio sguardo si fermò sul numero 483.

Il numero 483 era sprangato da secoli, cioè da quando era morto il vecchio signor Liham, che ci abitava. C’era stata una specie di battaglia legale tra gli eredi, e non si poteva vendere la casa finché la faccenda non fosse risolta.

Tom, Georg e Jamie, il nostro piccolo ‘fratellino’ che nostra madre aveva avuto con il nostro patrigno, Klaus, la chiamavano “la casa delle tenebre”, e devo ammettere che ogni tanto, quando erano particolarmente insopportabili, mi ero inventato qualche storia di fantasmi con l’aiuto di Gustav, giusto per tenerli buoni, proprio come si fa con i bambini. Poi, una notte, Jamie aveva avuto un incubo e si era svegliato urlando, così nostra madre Simone, che era rimasta con noi per qualche giorno, si era arrabbiata molto e ovviamente, aveva ordinato a me, che sono il più grande di 10 minuti, di smetterla. Devo ammettere che questa cosa, a volte mi dava seriamente sui nervi.

In effetti il numero 483 aveva l’aria piuttosto inquietante, specialmente in un pomeriggio nuvoloso come quello. Era un casa a due piani uguale a tutte le altre, ma le finestre sbarrate da assi le davano un’aria cieca e desolata. La vernice degli infissi era tutta scrostata, il vialetto pieno di erbacce, e sotto il cornicione c’era una fila di nidi di rondine. La natura ne stava lentamente prendendo possesso.

Alla fine decisi di lasciar perdere e di proseguire; dopotutto, quella strana impressione poteva essere frutto della mia immaginazione, forse un po’ troppo fervida.

Fu proprio quella sera che, dopo essersi nascosto dietro le tende di camera mia per sfuggire alla mamma, ben decisa a metterlo a letto, Jamie, si lasciò sfuggire un gemito di paura e corse verso di me.

-       Bill!
-       Ehi… che c’è?
-       Ci sono…ci sono davvero….
-       Chi, edove?
-       Al numero 483… i fantasmi!
-       Non fare lo scemo. I fantasmi non esistono, lo sai, no?
-       E invece esistono. Sono lì dentro… - Mi tirò per la manica. – Vieni a vedere. Dentro la casa c’è una luce che si muove.
-       Che stupidaggini – dissi. Adesso tutti e cinque eravamo accanto alla finestra. Mi sembrava di avere a che fare con dei bambini, ma più di tutto, di far parte di una delle avventure dei ‘Piccoli brividi’. Ma in realtà avevo un po’ di pelle d’oca anch’io. – Te lo sarai sognato.
-       No, Bill…. Ci sono davvero. Guarda.

Mi lasciai trascinare ancora più vicino alla finestra e ci accalcammo tutti nella zona buia tra le tende e il vetro, per guardare fuori.

-       Allora? – chiesi. Era tipico di Jamie drammatizzare ogni cosa. Bè, un po’ come me , del resto.
-       Aspetta… - sussurrò. Mi stringeva il braccio talmente forte da farmi male.

Studiai la squallida facciata del numero 483, e mi sentii gelare. Era vero. C’era una luce. Era debolissima, ma si muoveva di stanza in stanza: la si vedeva attraverso le fessure delle assi. Ogni tanto si fermava e diventava un po’ meno fioca; poi proseguiva. Ora stava salendo di sopra. Sembrava che galleggiasse…

-       Cosa state combinando, voi cinque? – Simone tirò le tende all’improvviso.
-       Abbiamo scoperto un fantasma – disse Jamie, ritrovando un po’ di coraggio.
-       Bill… - disse mia madre con un sguardo di avvertimento
-       No… stavolta non c’entro. C’è davvero qualcosa, o qualcuno, al numero 483. Vieni a vedere anche tu.

Ci accoccolammo tutti e sei dietro la tenda, e dopo un po’ mamma sentenziò: - Squatter.

-       Cos’è uno squatter? – chiese Jamie in tono preoccupato.
-       Me lo aspettavo – disse Simone.
-       Sapevo che prima o poi sarebbe successo, con la casa vuota per tutto questo tempo. – e andò giù a cercare Klaus.
-       Bill… cos’è uno squatter? – mi chiese di nuovo Jamie, dopotutto aveva solo nove anni.

Gli misi un braccio intorno alle spalle. – Gli squatter sono persone che non hanno una casa, e allora ne cercano una vuota, ci entrano e ci “squattano” dentro.

-       Cosa vuol dire “squattano”? – non era ancora del tutto sazio di risposte.
-       Non vuol dire niente, scemo. Vuol dire entrare in una casa e restarci senza pagare l’affitto.  Ribatté Tom al posto mio.

Fu in quel momento che arrivò papà. Entrò in camera, mise la testa fra le tende e guardò fuori.

-       Non si vede niente. Ve lo sarete immaginato.
-       Non sono fantasmi, sono squatter -  annunciò Jamie tutto fiero.  – Non hanno una casa e allora vanno a vivere in quella di qualcun altro che non c’è…
-       Lo so cosa sono gli squatter, Jamie… sshhh! – Papà agitò una mano per imporre il silenzio. Mi infilai dietro la tenda e per un po’ continuammo a fissare la “casa delle tenebre”.
-        Guarda… eccola lì, al piano di sopra – traballa… dev’essere una candela.
-       Perfetto. Vado a chiamare la polizia – disse mia madre.
-       No, aspetta un attimo – Klaus riemerse dai tendaggi. – Pensiamoci un momento.
-       Cosa c’è da pensare?
-       Bè … da quant’è che quella casa è vuota?
-       Da almeno due anni. Forse tre.
-       Due o tre anni in cui avrebbe potuto fornire un tetto a qualche poveraccio che dorme sotto un ponte, o sui bocchettoni della metropolitana.

Mi piace sentirlo parlare così. Rimango sempre sorpreso dalla sua capacità di vedere le cose da altri punti di vista.

-       Papà ha ragione. Magari è un poveraccio che non sa dove andare.
-       Un poveraccio che non sa dove andare! Riempirà la strada di sporcizia, topi, siringhe e chissà cos’altro…
-       Quello dei senzatetto è un problema sociale che ci riguarda tutti – ribatté lui.
-       Questa è una zona tranquilla e rispettabile. Ci sono un sacco di bambini. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono gli squatter.

In quel preciso istante Jamie fece cadere tutta la collezione dei nostri CD che regaliamo a Simone quando escono in commercio, attirando l’attenzione e ricordando a nostra madre il motivo per cui era salita in camera.

-       A letto, Jamie. Accidenti, guarda che ora sono!

Se ne andò con lui, borbottando a papà: - Tu e le tue idee così “aperte”.


 
-       Forse te ne sei dimenticato… anch’io ho vissuto in una casa occupata, una volta – le gridò lui.
-       Tu? Tu sei stato uno squatter? – Questa poi!
-       Non per molto. È successo quando ero all’università. Eravamo così al verde che non c’era altra scelta. Ma abbiamo rimesso a nuovo il posto: i proprietari avrebbero dovuto ringraziarci. Era una vecchia casa umida e in pessimo stato, prima che ci mettessimo le mani.
-       Allora, cosa pensi di fare?
-       Innanzitutto penso che andrò a far visita al nostro nuovo vicino, per controllare che non abbia le zanne o gli zoccoli…
-       E se ce li avesse?
-       Ti va di coprirmi le spalle?
-       Certo…
-       Prendi il cordless, e se vedi qualcun che mi aggredisce con una mannaia chiama il 112…ah, e…ehm...non dirlo alla mamma!

Mentre Tom, Georg, Gustav, Jamie e la mamma se ne erano ritornati nelle rispettive stanze, io rimasi incollato alla finestra, con il telefono in mano e il cuore in gola. E se l’occupante della casa fosse stato violento? O un criminale? O magari un serial killer?

Vidi papà che attraversava la strada, entrava nel vialetto coperto da erbacce e bussava alla porta. Per un po’ non accadde nulla, poi Klaus, mio padre, bussò di nuovo, stavolta più forte. Niente. Dal numero 483 veniva solo silenzio. La casa sembrava assolutamente disabitata…. E poi il barlume di luce apparve di nuovo tra le assi. Galleggiava  e tremolava, e stava scendendo al piano di sotto.

Ero terribilmente teso: mi aspettavo che da un momento all’altro la porta si aprisse e l’equivalente dell’incredibile Hulk sbucasse fuori urlando. Ma non successe niente. Klaus rimase lì impalato, parlando con un interlocutore invisibile e agitando le braccia.

Dopo un po’ si arrese, scosse la testa e riattraversò la strada.

Sentii la porta sbattere e mi fiondai giù per le scale.

-       Cos’è successo? Cosa ti hanno detto?
 
Papà si schiarì la voce. – E’ una strafottente, chiunque sia. Ha detto che ha tutto il diritto di stare in quella casa. Poi ha aggiunto che ero un vecchio ficcanaso, e mi ha suggerito di togliermi dai piedi.
Sembrava che Klaus fosse ferito nel suo orgoglio di maschio: era andato lì pieno di buone intenzioni, con spirito di solidarietà, e si era sentito dire  di levarsi di torno. Mi trattenni a stento dal ridere. Lui prese una birra dal frigo e si sedette, con aria meditabonda.
 
-       Come ti è sembrato, questo tipo? Un attaccabrighe?
-       No, per niente. E’ una donna, almeno dalla voce… ed è piuttosto giovane…
-       Quanto giovane?
-       Non deve avere più di diciotto, diciannove anni.
-       Chi? – Jamie si era svegliato per venire in cucina a fare il pieno di succo di frutta.
-       Qualcuno che si è stabilito al  numero 483, a quanto pare.
-       Cosa? Nella casa dei fantasmi?
-       Non è la casa dei fantasmi, Jamie. I fantasmi non esistono – disse Klaus, togliendogli di mano la bottiglia del succo di frutta, prima che se la scolasse fino all’ultima goccia.
-       Diciotto o diciannove anni, hai detto. E com’è carina? – chiese Jamie. Sapevo che  questa ‘piccola’ chicca l’aveva sicuramente imparata da Tom!
-       In realtà non l’ho vista. Abbiamo parlato attraverso la porta.
-       Oh… ma si può capire anche dalla voce. Me lo ha detto Tom. – Ecco, appunto. Proprio come pensavo.
-       Senti, Jamie – intervenni. – questa qui dev’essere una specie di barbona pelosa, strabica e panciuta. Probabilmente puzza da morire. Una tipa tremenda.
-       Non sembrava tremenda, solo scocciata
-       Osservò papà. – Che strana storia.

Sentimmo i passi di mamma che scendeva le scale, e naturalmente papà decise di concludere la conversazione.

-       Ehi, Jam, è ora di andare a dormire.
-       Devo proprio?

Simone apparve sulla soglia della cucina.

-       Sì che devi. Sbaglio, o domani comincia la scuola?

Prima di andare a dormire, un po’ più tardi, aprii la finestra come al solito. Klaus è fissato con l’aria fresca e, a meno che fuori non ci siano dieci gradi sotto zero, vuole che dormiamo tutti con le finestre aperte. Dice che i polmoni giovani hanno bisogno di ossigeno, e che di notte si respira meglio perché circolano meno auto (in effetti, Klaus è notevolmente fissato anche con il traffico). Guardai fuori dalla finestra. La luce tremolava ancora, dietro le assi che sbarravano le finestre del primo piano. Dopo essermi chiuso le tende alle spalle, mi piazzai in attenta osservazione. Sapevo che domani sarebbe stata una giornata piuttosto pesante, in quanto saremmo dovuti andare a trovare David e a provare in sala registrazioni per il nuovo album, ma ormai il sonno era passato.

Non succedeva praticamente niente: ogni tanto la luce si spostava un po’. E faceva piuttosto freddo.

-       Che succede? – Tom mi scivolò accanto.
-       Shhh! – dissi, anche se era perfettamente inutile. Come se dall’altra parte della strada potessero sentirci! – Niente.
-       Vi ho sentiti prima, da basso! Sicuramente somiglia a Blake Lively. Sai, con i capelli un po’ scompigliati e l’aria affamata. Sexy da matti.
-       E tu che ne sai? – Dopotutto, Tom era sempre il solito.
-       E tu ,allora? – ribatté. – Non hai mai avuto una ragazza, nemmeno per un minuto!

Aveva ragione. A ventitré anni , il mio punteggio in fatto di ragazze era uguale a zero. A meno di contare il bacio con la stessa ragazza di Tom, che mi aveva dato Luz a Natale. I miei compagni di scuola, hanno cominciato a uscire con le femmine più o meno a dodici anni, e all’epoca mi prendevano in giro perché io non lo facevo. Purtroppo non avevo nemmeno grandi occasioni di fare conquiste, sempre in giro per registrare canzoni…,  a meno che mi capitasse di andare a sbattere contro la ragazza dei miei sogni nel bel mezzo del centro commerciale. Mamma e papà (il nostro vero padre) erano sempre stati contrari ai pub e alle discoteche, e io e Tom dovevamo negoziare duramente perfino per andare alle feste. Non era giusto.

-       Guarda, si è spenta – disse a un tratto Tom, distraendomi dai miei pensieri.

Restammo lì in silenzio per un altro paio di minuti. Guadare una candela tremolante era già abbastanza noioso, ma guardare una casa completamente buia era addirittura ridicolo.

Una volta a letto rimasi sveglio per ore, inventando sempre nuove identikit per il nostro misterioso vicino.

Con l’immaginazione di Tom, ero appena arrivato all’Identikit Numero Nove: una donnona abbronzata stile “Baywatch” fuggito dagli Stati Uniti e venuta in Germania allo scopo di dimostrare la propria innocenza, perché l’Interpol la ricercava per un omicidio che non aveva commesso. Nella storia c’eravamo naturalmente anche io e Tom. Io ero un’agente segreto che collezionava atti erotici, no.. aspettate.. forse quello era mio fratello… ed io ero talmente stupito e ammirato che stavo proprio sul punto di…


E a quel punto mi addormentai.

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Capitolo 3
*** Keep calm! ***


Hallo, Leute! rieccomi tornata con un nuovo capitoletto! Lo so, avevo detto che sarei stata lenta ma essendo che non ho un gran chè da fare durante il giorno, o leggo o scrivo, quindi... (i miei come avrete poi notato sono capitoli brevi, più che scorrevoli..ovviamente se la storia vi stà prendendo ;-) ) ahaha vediamo cosa succederà questa volta! In attesa di un vostro commento, vi lascio alla lettura, e come sempre, spero che sia di vostro gradimento! :-)

to be continued....


xoxo, RadioHysteriaBK,


3°capitolo: Keep Calm!

dalla parte di Lei…


 

[***]

 


Il giorno dopo mi svegliai al buio e per un attimo non capii dov’ero. Poi vidi un raggio di luce filtrare attraverso una fessura fra le assi. Che ora era? Probabilmente tardi. Era il mio primo giorno di scuola. E oltretutto ero in ritardo di più di una settimana, perché la West High College aveva cominciato il trimestre dieci giorni prima. Avevo solo… accidenti! Un quarto d’ora per arrivarci! Sapevo che la scuola era vicina, ma non  avevo ben chiaro dove si trovava.

Mi infilai i vestiti un po’ a caso, maledicendomi per non aver studiato la piantina la sera prima. Una vecchia bici che avevo trovato nel retro mi sembrava una buona idea! Avrei dimezzato i tempi. Vedi, mamma, che a volte sono intelligente anch’io? Non avevo bisogno di lavarmi, dopo la doccia gelida di ieri sera, e poi non c’era tempo. Una rapida passata ai denti, e poi via. Prima colazione? No.

Mi sedetti sull’ultimo gradino delle scale per allacciarmi le scarpe da ginnastica. Poi mi diedi un’ultima sistematina ai capelli. Ora l’Iphod.: senza non andavo da nessuna parte, e c’era dentro la mia ultima compilation, “Tokio Hotel”, roba che ti sveglia. Ok, mondo! Arrivo.

La nostra tranquilla stradina era deserta. Per fortuna dovevo aver mancato l’ora di punta. Guardai a destra e a sinistra, accesi l’iphod e partii. Sulla pista ciclabile c’erano degli avvallamenti in corrispondenza di ogni cancello, e affrontarli su quella bici un poco male andata era un suicidio vero e proprio. La cosa migliore era prendere la strada.

Ero quasi arrivata all’incrocio alla fine di Karlsplatz, quando un fruttivendolo impazzito svoltò l’angolo con il suo furgoncino. Ragazzi, un maniaco omicida! Mi veniva addosso facendo cenni convulsi, senza nemmeno accennare a fermarsi.

Così frenai di colpo.

E per poco una macchina non mi investì da dietro! Ragazzi, c’erano un bel po’ di matti, da queste parti. L’auto apparsa dal nulla era guidata da una donna. Feci una mezza sterzata e ci mancò poco che le finissi sotto le ruote.

Mi tolsi le cuffiette dalla orecchie, e per qualche secondo ancora non riuscii a sentire quello che mi diceva. Poi vidi il ragazzino seduto sul sedile posteriore. Piegato in due dalle risate. Ovviamente non era l’unico, ma i vetri di quell’auto erano talmente oscurati che a stento riuscì a riconoscervi le persone a bordo… se non uno in particolare per un colore dei capelli piuttosto acceso. Ma niente di più. Solo colore.

Cercai di riprendere il controllo  e dissi la prima cosa che mi venne in mente.

-       Sa dirmi la strada per la West High College?

Ma la donna cominciò a blaterare qualcosa a proposito della strada per il cimitero. Tentai di calmarla con un po’ di ironia. Insomma, dopotutto era lei che mi aveva quasi investita!

Non doveva avere il minimo senso dell’umorismo, perché disse che la prossima volta mi avrebbe messo sotto. Ragazzi, non si poteva di certo dire che tutti i crucchi fossero amichevoli.

Così feci una gran riverenza e mi scostai per lasciarla passare. Qualcuno da dietro fece un cenno con la mano, ma a stento riuscì a intravedere.

-       E buona giornata anche a te! – le gridai dietro. Probabilmente non mi sentì.

Dopo essermi un attimo ripresa, mi venne un flashback. Io avevo già visto quella donna da qualche parte. Forza Ashley, spremi le meningi. Ma certo! No. Non poteva essere, forse ero ancora un po’ sotto shock per lo spavento… no. Quella non poteva essere proprio lei, Simone. Eppure la mia vocina interiore continuava a gridarmi che sì, quella donna era proprio la madre dei gemelli Kaulitz. Che figuraccia – pensai. E se quella donna fosse stata davvero lei, allora quella chioma biondo platino era veramente lui? Ma no. Cosa ci faceva qui a Berlino, proprio adesso; decisamente confusa e un poco turbata decisi di continuare. Non potevo ritardare ancora.

Il fruttivendolo mi indicò la strada per la West High College, e poi mi fece una predica su quanto è pericoloso andare in bici in mezzo alla strada con l’iphod acceso. Così ritornai su quella maledetta pista ciclabile, perlomeno finchè lui non scomparve dietro l’angolo. Ma non rimisi le cuffiette: su questo aveva ragione.

La West High College era un casermone di mattoni rossi. C’erano ragazzi che arrivavano da tutte le direzioni, e capii alla prima occhiata che avevo avuto ragione:  non somigliava per niente a una scuola. La metà dei ragazzi sembravano abbastanza  grandi per essere mio padre o mia madre, e non ce n’erano  molti del mio colore. Un vero shock culturale, dopo  Londra. La seconda occhiata mi rivelò che il posto non sembrava neppure a un college americano. Sembrava piuttosto una prigione: c’erano sbarre dappertutto. Quando provai ad entrare, un tipo mi fermò davanti a una sbarra.

-       Documento?  - mi chiese.
-       Prego?
-       Hai perso il tesserino?
-       Non ne ho mai avuto uno, amico. Sono nuova.

Un paio di ragazze passarono una tessera magnetica in una macchinetta, la sbarra si alzò e, dopo avermi lanciato un’occhiata, entrarono tranquillamente. Una era veramente carina, alta con lunghi capelli biondi ondulati. Aveva un piercing al lobo sinistro, con una catenina che arrivava fino all’orecchino in alto, all’apice dell’orecchio.

-       Quella devi metterla via… - il tipo della macchinetta stava indicando la catena col lucchetto della mia bici. Cosa diavolo pensava che potessi farci?!. -  Mi sedetti sul muretto esterno e la misi nello zaino. Ferme due metri più in là, le due ragazze chiacchieravano e ogni tanto mi lanciavano un’occhiata.
-       Ok, vai in segreteria a farti registrare. Primo piano, e poi segui i cartelli.

Attraversai l’ingresso, sentendomi tutti gli occhi addosso. Il posto rimbombava di rumori: passi, porte che sbattevano, voci. Sembrava di essere in una piscina coperta. C’erano cartelli dappertutto, ma nessuno che indicasse la segreteria. Intorno a me tutti si salutavano con delle grandi pacche e un sacco di “Ehi, bello” e “Ciao, amico”…

Mi sembrava di essere l’unica a non saper dove andare e mi sentivo una stupida. Accidenti, ma dov’erano le scale?

-       Ti sei persa? – era la ragazza con la catenina.
-       Sapete come si va al primo piano…?
-       E’ il tuo giorno fortunato: stiamo proprio andando da quella parte. Vuoi venire? – disse l’altra, sbattendo le ciglia.
-       Grazie.

Le due ragazze si incamminarono davanti a me. L’ascensore era in un angolo dell’atrio: non so come avevo fatto a non vederlo. Ci entrammo, e le due ragazze si appoggiarono alle pareti, squadrandomi dalla testa ai piedi.

-       Non ti ho mai vista in giro. – Alla catenina era appesa una pietruzza azzurra, che dondolava quando lei parlava.
-       Ho saltato la prima settimana. Sono appena tornata dall’estero…

L’ascensore si fermò al primo piano.

-       All’estero dove?
-       Dappertutto. Francia, Italia, Grecia…
-       Una giramondo, eh’ devi avere un sacco di soldi – disse con aria provocante.
-       Non esattamente. Un po’ li ho guadagnati, e il resto me li ha dati mio padre…
-       Abiti da queste parti? – mi chiese l’altra ragazza
-       Con il tuo generoso paparino’ – aggiunse, facendo il verso al mio accento londinese. Mi sentii arrossire.
-       No. Vivo da sola – dissi in tono dignitoso.

La cosa le fece una certa impressione. La ragazza tolse il dito dal pulsante e le porte si aprirono.

-       Ci vediamo… - disse, mandandomi un bacio. Poi entrambe si incamminarono lungo il corridoio, con la tipica camminata delle ragazze che sanno di essere osservate.

La segretaria ci mise un secolo, per trovare i miei dati sul computer. Pareva che la combinazione fra “nuovo iscritto” e “ingresso in ritardo” fosse tale da mettere in crisi il sistema. Alla fine le suggerii di scrivere il mio nome e provare con “trova file”. Funzionò.

-       Sei veramente forte col computer! – disse lei. Era grande, grossa e nera, e quando rideva tremolava tutta. – Chiamami Angelika. Sono quella che verrà a prenderti per un orecchio appena combinerai un pasticcio.
-       Di solito “trova file” funziona sempre – dissi. Speravo che non dovesse mai succedermi, di venir presa per le orecchie in un posto del genere. Era l’ultima cosa di cui avevo bisogno mi sentivo già abbastanza al centro dell’attenzione.
-       Scherzavo, tesoro. Ora ti disegno una piantina per trovare la tua classe. Qui la gente si perde sempre, all’inizio. Ecco un dépliant con tutti gli orari, i corsi e le regole: leggilo bene. E poi vorrei che leggessi anche questi…
 Mi diede un po’ di dépliant dai titoli più disparati: Droga, Aids Igiene e Salute. – Ah, e questa è la chiave del tuo armadietto. Mi devi lasciare un deposito. E stammi a sentire: non lasciarci mai niente dentro, a meno di inchiodarcelo , o non lo ritroverai mai più. Per il tesserino magnetico ci vogliono due foto. Devi averlo sempre con te. Serve per entrare e uscire, in modo da tenere alla larga  gli indesiderabili….

A giudicare da quel che avevo visto, di indesiderabili ce n’erano già parecchi dentro la scuola; ma non feci commenti.

-       Allora siamo a posto. Per qualunque problema c’è uno psicologo scolastico. Ma viene solo l’ultimo venerdì del mese, dalle tre alle sei.
-       Credo di potermela cavare senza… comunque, grazie

Affrontai il labirinto di corridoi con l’aiuto della piantina di Angelika e finalmente trovai la stanza 104, dove si tenevano le lezioni di Letteratura Inglese, la mia specialità. Mi aspettavo che gli studenti del corso fossero tipi tranquilli, o magari tutti ragazze.
Mi bastò un’occhiata dal vetro della porta per capire che “tranquilli” non era l’aggettivo adatto per descrivere i ragazzi seduti in quell’aula. Esitai un attimo, non sapendo se bussare o entrare direttamente. Ehi… in prima fila c’era la ragazza bionda con la catenina, che mi indicava alla sua amica. La Prof si girò, mi vide e venne alla porta.

-       Buongiorno. Posso aiutarti?
-       È questo il corso di inglese?
-       Sì.
-       Dovrei far parte della classe.
-       Non sei sul mio registro.
-       Non sono ancora su nessun registro: pare che ci sia stato un intoppo in segreteria….
-       E oltretutto sei in ritardo di una settimana.
-       Lo so. Ero all’estero…

La classe cominciava ad agitarsi. Pareva che apprezzassero  la distrazione. Il mare di facce era in movimento: tutti si scambiavano opinioni, e non ci voleva un genio per capire su che cosa. A giudicare dalle espressioni, non tutti i commenti erano positivi, soprattutto quelli delle ragazze.  – stupida gelosia.. troverò mai un’amica vera qui dentro? – pensai fra me.

-       Va bene. Ci penseremo poi. C’è un posto libero qui in prima fila. Hai una copia del testo?

Indicò l’Amleto.
Scossi la testa.

-       Allora dovrai leggere con qualcuno. Hellen?

Mrs. Catenina, ovvero Hellen, mi si avvicinò e si sedette accanto a me.

-       Ciao – disse, girando il libro verso di me.
-       Puoi presentarti alla classe – disse la prof.
-       Ashley – borbottai, imbarazzata.
-       Ehi, bella, non ti ho sentita – disse qualcuno in fondo alla classe.
-       Mi chiamo Ashley. Ashley Lopkow – dissi, aumentando notevolmente il volume.

E cominciarono a fare mille domande.

-       Di dove sei?
-       Di Londra
-       E dov’è? Chiese uno.  - Stava scherzando, spero!
-       A Nord.
-       Nel Palazzo Reale della regina, yuppiiii!  - C’era qualcuno che faceva lo scemo.
-       Qualcun altro cominciò a fischiettare…
-       Ti piace Berlino, Ashley?
-       Vuoi sapere dove si compra la roba?
-       Vuoi che ti presenti il mio socio?
-       Basta così…  - La signora Brooks diede un colpo sulla cattedra. – torniamo all’Amleto. Allora, Will stava dicendo qualcosa di interessate a proposito di Ofelia. Will?
 Un ragazzo magro con due labbra alla Mick Jagger le rispose con aria seccata.

-       Ofelia è una gallina…. Lei è una gallina e lui è un demente.. sai che bella coppia…
-       Bene. Questo è il tuo punto di vista. Nessuno ha altri commenti da fare?
-       Will si sbaglia. Non è per niente così…

Disse un ragazzo magro e capelli lunghi che sembravano lavati con la candeggina. Aveva un tale accento dei quartieri alti che dovetti guardarlo due volte, per essere sicuro che quella voce fosse proprio la sua.

-       Sì, Josh?
-       Sono due vittime delle circostanze…
-       Cioè, vuoi dire che quello sballato di Amleto, non sballava, se non gli uccidevano il padre? – chiese un altro ragazzo.
-       Già, e se Ofelia non era frigida, allora cosa sarebbe successo?
-       Ma prof, questo non c’entra niente con la storia – intervenne un ragazza.
-       Bene. E’ un’idea interessante. Fino a che punto ci si può spingere con la critica? Qualcuno ha un’opinione?

A questo punto si misero a parlare tutti insieme. La maggio parte dei commenti riguardavano le potenzialità sessuali della storia fra Amleto e Ofelia…
Approfittai del caos generale per studiare moda. Ragazzi, erano veramente dei bruti. Che ci facevano in un corso di letteratura? La metà sembravano usciti da Trainspotting.

C’era un tipo con la testa rasata sui lati e i capelli solo in cima, a fungo, e un’espressione fissa che potrei descrivere solo come… spaventosa. Il dente rotto che si vedeva quando apriva la bocca non lo aiutava, per niente. Ero l’unica persona in tutta l’aula a non avere tatuaggi o piercing.
Dovevo ammettere che la signora Brooks se la cavava in modo egregio. Al culmine del caos trovava sempre il modo di agganciarsi a una frase utile e rilanciava la discussione.

Io me ne stavo zitta, cercando di non dare troppo nell’occhio. Ma era chiaro che Will mi aveva notata e mi trovava interessante, potevo dedurlo dalle mosse che faceva nella mia direzione. Continuava a tormentarsi il labbro col piercing e fissarmi. Due file più indietro, qualcuno aveva notato queste manovre. Era quello con la testa rasata, che continuava a lanciare occhiate a Mr. Labbra da Mick Jagger, e girava le pagine del libro come se volesse strapparle. Guai in vista.
Nell’istante in cui suonò la campanella e la signora Brooks uscì, mi si avvicinò.

-       Bella la borsetta… - Mormorò, fissandola.

Poi, con uno scatto rapidissimo, diede uno strattone alla tracolla facendo uscire le mie riviste di moda. Schizzai verso quello più vicino a me, ma l’avevano già lanciata a un ragazzo dell’ultima fila. Era come un gioco, e tutti partecipavano. Più mi sforzavo di intercettare la borsetta, più loro si divertivano. Dai quattro angoli della dell’aula venivano urla di incoraggiamento e fischi. – Ok, o qui i ragazzi fanno tutti così per attirare l’attenzione su una ragazza o mi trovo a che fare con dei veri idioti!- pensai…

Poi, di colpo, mi voltai e non c’era più nessuno, nemmeno la mia borsetta. Non sapevo chi si fosse portato via il trofeo: ero sola in mezzo all’aula vuota, e sentivo le loro urla che si allontanavano lungo il corridoio. Mi accasciai sulla mi sedia e allungai una mano verso l’Iphod. L’phod! Mi avevano rubato anche quello!
Uscii dall’aula. Cosa bisognava fare in una situazione del genere? Denunciare l’incidente alla presidenza? L’istinto mi diceva che non era  una buona idea. Potevo rivolgermi ad Angelika, ma era sempre un canale ufficiale. Quanto a far leva sui loro istinti più bassi, ovvero supplicarli…

Quanto gli sarebbe piaciuto! Insomma, decisi che la migliore linea d’azione era sopportare l’affronto con dignità e far finta di nulla.
Ma dov’erano finiti tutti quanti?

Seguendo il crescendo livello di decibel, arrivai alla mensa. In una metà c’era un fumo così denso che quasi non ci vedevi. L’altra metà era protetta da un lurido cartello di “vietato fumare”, e ospitava qualche sparuto gruppetto di non fumatori. Mi presi un caffè dalla macchinetta e mi piazzai a un tavolo vuoto al confine della zona fumatori. Mi sentivo leggermente osservata. Bevvi il caffè sfogliando i dépliant che Angelika mi aveva dato e cercando di apparire tranquilla.

Alle mie spalle due ragazzi stavano discutendo di musica. Uno trinciava giudizi  e l’altro gli dava spago, come se pensasse di avere davanti un genio. O forse no.. forse lo stava solo prendendo in giro in modo molto sottile… era difficile dirlo.
Ridevo sotto i baffi. Era chiaro che lo sputasentenze non ne capiva un’acca, di musica, anche se voleva passare per un esperto.

-       Quella roba non è House, è Rock, bello. Devi chiarirti le idee.
-       Ehi, grande esperto, spiegami la differenza allora.

Cambiai sedia per vederli in faccia. Ehi il cosiddetto esperto lo conoscevo. Era Will. L’altro tipo aveva una testa fitta di treccine rasta e un’aria… be’, feroce.

-       Dai, spiegami. Davvero: voglio capire – insisteva.

Non avevo ancora ben capito se quello con le treccine stesse prendendo in giro Will, o no.

-       La differenza? – disse Will con quel suo tono volutamente annoiato. – l’House è generico. Invece il Rock… è come un derivato. Ma se non capisci la differenza, bello, è un problema tuo. E poi ormai è roba che non va più. È diventata commerciale… è roba morta, bello.
-       Ok, se è roba morta che ne parliamo a fare?
-       Già. Che ne parliamo a fare?
-       È solo che volevo capire la differenza.
-       È come ti ho detto. L’House è generico…. – Will si stava ripetendo, come fanno quelli che non sono tanto sicuri del fatto loro e non vogliono ammetterlo.
Mi sporsi verso di loro. Non c’è la facevo più. – La differenza è che l’House è suono puro, anche se il Rock ha più vocalità ed è una scena che si muove ancora, amico, dipende solo da come lo vuoi usare…
-       E chi ti ha chiesto niente? – disse Will, seccatissimo perché l’avevo smascherato.

Alzai le spalle. – E’ che non mi va di stare a sentire la gente che dice male della musica, tanto per dire qualcosa. Ok, è vero, la scena cambia, ma questo non vuol dire che tutto quello che c’è stato prima è da buttare.

-       Sono d’accordo – disse il tipo che faceva il finto tonto. Ci guardammo negli occhi per un attimo. Fu solo un attimo, ma capimmo che eravamo sulla stessa lunghezza d’onda.
Will alzò le spalle e si alzò, dicendo: - Bè, me ne vado, prima che voi due attacchiate a parlare di Frank Sinatra – e se ne andò. Che idiota, pensai.
Il ragazzo con le treccine mi guardò in faccia. – Da dove spunti? Non ti ho mai vista in giro… sei forte!.
-       Forse perché non ero in giro.
-       Mi chiamo Matt – disse Treccine, tendendomi una mano. Era uno dei ragazzi più grossi che avessi mai visto. Le mani erano grandi come piatti da portata, e, a un certo punto della loro storia, i capelli intrecciati erano stati schiariti e poi avevano continuato a crescere selvaggiamente, per cui ora apparivano bicolori. Era molto proporzionato, con bicipiti enormi e la faccia feroce, ma bastava che sorridesse perché tutta la sua aria di cattiveria sparisse. Aveva due fossette buffissime.

Parlammo a lungo  e alla fine gli confessai il mio problema più urgente, ovvero il fatto che i miei beni più preziosi, l’Iphod e le mie riviste, fossero spariti.
Matt disse che ci avrebbe pensato lui.
 
 

♦ Quando trovi un amico, trovi un tesoro…

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