Facile

di makiskz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Veronica ***
Capitolo 3: *** Decidere ***
Capitolo 4: *** Domande ***
Capitolo 5: *** La fotografia ***
Capitolo 6: *** Scoperte ***
Capitolo 7: *** 3K ***
Capitolo 8: *** Jimmy lo spaccone ***
Capitolo 9: *** La situazione si fa seria ***
Capitolo 10: *** Il gioco ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Facile.
“Facile” non è mai stato un aggettivo  che potesse essere abbinato a Cal Lightman.
La sua infanzia non era stata “facile”, trascorsa nei sobborghi di Londra tra gangs di strada, un padre violento e una madre internata in manicomio.
Non era stato “facile” accettare l’abbandono da parte del padre. Il suicidio della madre, quello no, non l’aveva mai accettato. Ne portava ancora il peso a decenni di distanza. Era il suo assillo, la ragione della sua ossessione nello studiare la prossemica e l’aveva portato a scoprire le microespressioni.
Aveva cercato di allontanare i suoi fantasmi partendo al seguito delle forze armate britanniche durante la guerra nel Balcani. Aveva rischiato la vita più volte e questo lo elettrizzava: la scarica di adrenalina provata a sentirsi sfiorare da un proiettile lo faceva sentire potente, invincibile. Lo faceva sentire bene, almeno per qualche istante. Poi i fantasmi tornavano a tormentarlo, e ogni volta era peggio.
Si sentiva un cane randagio.
Aveva provato a cercare la serenità nel matrimonio con Zoe e si era illuso nell’averla trovata alla nascita di Emily.
No, Emily non era un’illusione. Era il motivo per cui ogni mattina si alzava dal letto e affrontava la giornata, era la sua famiglia, l’unica che avesse mai davvero ritenuto tale. Ogni giorno interpretava cento personaggi ma non quello del padre. Solo con sua figlia si sentiva a sua agio, completo.
Per anni aveva cercato di mantenere in piedi il matrimonio con Zoe ma alla fine si era rivelato un gioco al massacro. La sua ossessione per la verità e la mancanza di fiducia nel prossimo avevano minato il suo rapporto con Zoe fin dall’inizio. Per anni la donna aveva dovuto sopportare lo sguardo indagatore del marito, la sua mancanza di fiducia nel prossimo e l’impossibilità di nascondergli il più banale segreto, fosse stata anche una festa a sorpresa per il suo compleanno. Per anni si erano massacrati a vicenda, litigando per qualsiasi sciocchezza, finché un giorno Zoe aveva fatto le valige e se n’era andata di casa portandosi via Emily, lasciandolo solo, alle prese con il suo nemico più spietato: se stesso.
Era caduto nel baratro della solitudine e forse non ne sarebbe più uscito se non fosse stato per lei, Gillian Foster, la sua socia e amica.
Si erano conosciuti al Pentagono: Gillian era la psicologa incaricata di eseguire una valutazione sul comportamento di Cal. L’uomo stava cercando di far saltare la copertura che i servizi segreti avevano dato all’omicidio della moglie e della figlia di Doyle, il terrorista irlandese segnalato da Cal come pericoloso.
Tra di loro si era subito creata armonia: Gillian aveva cieca fiducia in Cal e si sentiva completamente a suo agio in sua compagnia, malgrado il carattere irrequieto e a volte scostante dell’uomo; Cal apprezzava la lealtà, la sensibilità e la forza d’animo della donna.
Si bilanciavano alla perfezione. 
Poco tempo dopo il loro primo incontro, Cal fondò il Lightman Group e chiese a Gillian di farne parte, non come dipendente ma in qualità di socia alla pari.
Il loro rapporto si era rafforzato, soprattutto dopo il divorzio di Gillian. Si erano avvicinati sempre più e forse qualcosa sarebbe potuto succedere ma poi lei aveva incontrato Burns, si era innamorata e Cal si era nuovamente trovato da solo.
Quando tutti dubitavano di lui, nel caso del pifferaio magico, lei gli era rimasta accanto e gli aveva ribadito che se avesse avuto bisogno di lei, l’avrebbe trovata al suo fianco.
“Sì…lo so, mia cara” le aveva risposto Cal, con un velo di tristezza. Era consapevole che un altro uomo si era interposto tra loro e che gli equilibri del loro rapporto si erano incrinati.
Dopo la fine della storia con Burns, sembrava che si fossero nuovamente riavvicinati ma poi era arrivata Wallosky e aveva messo a dura prova il loro rapporto, in particolar modo durante l’indagine della Disciplinare sulla poliziotta, accusata di corruzione.
Gillian si era rivelata gelosa e protettiva nei confronti di Cal e, se da un lato ciò gli faceva piacere perché sentiva di essere importante per lei, dall’altro lo aveva turbato:  era il momento di saltare oltre quella maledetta linea di confine che si erano posti per separare le loro vite private, coinvolgendo definitivamente Gillian nei suoi casini, o doveva allontanarla di nuovo e preservare la loro amicizia?
E ora si trovava seduto nel suo ufficio, nella sua poltrona vintage di pelle, a fissare le immagini che scorrevano sul monitor del suo laptop. Stava osservando il comportamento di Veronica, la donna che Emily aveva quasi investito e che l’aveva scambiato per suo marito Bart. Il comportamento di sua figlia l’aveva colpito. Sapeva che Emily era una ragazza sensibile ma non si aspettava che prendesse così a cuore quella donna. Era orgoglioso della sua bambina e chiunque avrebbe potuto capire che si era anche un po’ commosso: le sue labbra si curvavano in un lieve sorriso e gli occhi gli brillavano. 
La porta si aprì all’improvviso ed entrò Gillian.
Cal fece un salto sulla poltrona chiudendo immediatamente lo schermo del laptop e, con l’aria di chi fosse stato sorpreso in flagrante, esclamò: “Che c’è?”.
Non sopportava che lo cogliessero senza maschera, quella che indossava ogni giorno per affrontare il mondo, anche se era Gillian.
La donna sorrise e, avvicinandosi, lo apostrofò: ” lo so che non guardavi un porno, non provarci!”
Poi, sedendosi sul bracciolo del divano, continuò: “Non è schizofrenia né è neanche sotto l’effetto di droghe. E’ quello che avevamo pensato: Alzheimer”
Si riferiva a veronica, la donna che Emily aveva quasi investito e che ora si trovava in stato confusionale presso il Lightman Group.
“Quanti anni avrà?”, chiese Cal.
“Tra i 50 e i 60. E’ la forme precoce. Sembra esausta. Sarà in giro da ore, povera donna”
“Fai controllare se un certo Albert, o Bart, abitava all’indirizzo che ha dato ad Emily”
“Non credi che dovremmo chiamare la polizia?”
“Soffre d’Alzheimer, povera donna. Quello da cui stava scappando la spaventa sul serio. O è davvero in pericolo o rischia di ammazzarsi scappando. Non voglio affidarla alla polizia”.
Il tono della voce di Cal esprimeva tutta la sua preoccupazione, e Gillian si trovava un po’ in imbarazzo per la domanda che stava per fargli: “Senti, non prenderla nel modo sbagliato, ma chi sei per deciderlo?”
Con tutta la naturalezza del mondo, Cal rispose: “Sono suo marito, Bart!”
Gillian accennò un sorriso. Non si aspettava un coinvolgimento simile da parte di Cal.
“D’accordo.”, rispose Gillian. “Ma cos’è che stavi guardando? Non dirmi che stai di nuovo spiando Loker? Ti diverti proprio a torturarlo, vero?”
“Ti dirò, avevo pensato a sprecare il mio tempo osservando quel buono a nulla …” rispose Cal, con il suo solito sorriso diabolico.
 “Ma…?” lo anticipò Gillian.
L’espressione di Cal cambiò di colpo e si fece seria. “Stavo osservando Veronica ed Emily” e così dicendo, riaprì il laptop e sul monitor riapparvero le immagini della sala relax del Ligthman Group.
Nella sala, oltre ad Emily e Veronica, c’erano anche Ria e Loker. Quest’ultimo aveva diverse escoriazioni sul volto e Veronica lo stava curando.
Cal si alzò e, spostando il laptop, si avvicinò a Gillian, facendola  accomodare sul divano, alla sua sinistra.
“Volevo osservare il comportamento di Veronica senza la mia presenza, o meglio, senza la presenza di Bart”.
Gillian si avvicinò a Cal per osservare meglio il monitor.
Veronica aveva appena rivelato di essere stata un’infermiera e di aver conosciuto il suo futuro marito proprio durante un turno al pronto soccorso.
L’uomo era stato ricoverato per dei forti dolori addominali ma faceva di tutto per fare il coraggioso, per fare colpo sulla giovane infermiera.
Cal e Gillian seguivano attentamente le parole della donna, per carpire qualsiasi notizia potesse tornare utile a far luce sul suo passato.
Veronica continuava il racconto del suo incontro con Bart: “Io vedevo che stava soffrendo ma voleva apparire forte davanti a me, per qualche ragione. Ma, quando controllai le pulsazioni, mi prese le mani e disse che aveva letto nei miei occhi che quel lavoro mi stava opprimendo e che avrei dovuto trovare qualcuno, o qualcosa, per alleviare quel peso.”
Gillian si voltò verso Cal e lo trovò assorto a guardare il monitor. L’uomo aveva poggiato il mento sul palmo della mano, la testa leggermente inclinata e lo sguardo perso ad osservare il monitor. La sua espressione faceva trapelare una forte emozione e Gillian ne rimase sorpresa: non l’aveva mai visto così, con le difese abbassate.
Veronica continuò: “Diciamo solo che lui era quella persona e che mi diede qualcosa che cambiò la mia vita. E aveva quel modo di guardarmi negli occhi… è buffo ma nella vita nulla accade per caso”.
A quelle parole Cal ebbe un lieve sussultò e, come se si fosse accorto solo in quel momento della presenza di Gillian al suo fianco, fissò lo sguardo negli occhi della donna e per un attimo vi si perse.
Gillian gli aveva cambiato la vita, così come Bart aveva fatto con Veronica, ma lui non poteva né voleva dividere il suo fardello di colpe e dolori con lei. Già l’aveva condotta nel suo mondo, contaminando la sua purezza d’animo, e l’aveva esposta più volte a pericoli.
Cal avrebbe protetto Gillian da sé stesso e dal suo mondo, o almeno ci avrebbe provato con tutte le sue forze, fino allo stremo.
“Cal?”
La voce di Gillian lo scosse dai suoi pensieri.
“Tutto bene?” continuò la donna.
“Sto benissimo, tesoro, non preoccuparti.” rispose Cal, cercando di riprendere il controllo “Fai fare le ricerche che ti ho chiesto, per favore.”
E detto questo, chiuse il laptop, si alzò e si diresse verso il suo studio privato.
Gillian seguì con lo sguardo il suo socio, lo vide chiudersi la porta alle spalle e poi, sospirando, si alzò e uscì dalla stanza.



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E' la mia prima fanfic in assoluto. Critiche e suggerimenti sono bene accetti!

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Capitolo 2
*** Veronica ***


Erano di nuovo lì, nello studio di Cal.
Veronica si era addormentata sul divano e Gillian le stava pulendo la mano dalla scritta “Charlie” che si era scritta per ricordare il nome della persona che la perseguitava nei ricordi offuscati dall’Alzheimer.

Cal era seduto nella sua poltrona vintage e fissava la scena con uno sguardo dolce negli occhi, ma Gillian non se ne accorse. Era colpito dalla tenerezza dei gesti della donna, ennesima prova della sua delicatezza d’animo.
“Vedi, Un poliziotto non avrebbe mai pensato a farlo” le disse.

Gillian si girò a guardarlo e, alzandosi, si diresse verso di lui aggiornandolo sulle notizie ricevute dalla polizia relative al passato di Veronica. Si accosciò vicino la poltrona e iniziarono a parlare sottovoce, per non disturbare il sonno di Veronica.
I loro volti erano vicini e Cal sentiva il calore del corpo di lei, il suo profumo, il suo respiro.

Le notizie non erano buone: quarant’anni prima Veronica era l’unica sospettata per l’omicidio della sorella Rose, trovata morta nel proprio appartamento.
Cal si girò a guardare Veronica che dormiva serena sul divano: “Scommetti che la mia novella sposa ha dimenticato quella parte?”
Si voltò verso Gillian, le si avvicinò e, accarezzandole dolcemente il viso, le sussurrò sottovoce: “Grazie per le informazioni, tesoro”.

Improvvisamente, spalancando gli occhi per una frazione di secondo, ritirò velocemente la mano, quasi si fosse accorto di aver fatto qualcosa di sbagliato.

Gli occhi di Gillian si adombrarono e una strana sensazione le chiuse la bocca dello stomaco. Cal si comportava in modo strano: era abituata al suo contatto fisico, agli abbracci e alle carezze, ma quella sera il suo amico era sfuggente.
Sembrava quasi pentito di averla sfiorata, eppure non c’erano state incomprensioni tra loro nell’ultimo periodo e la discussione che avevano avuto a causa di Wallosky era ormai lontana.

C’era qualcosa che lo stava pungolando nell’anima e Gillian non la riusciva ad individuare.  Continuò a fissarlo per qualche istante, sperando che si voltasse verso di lei, che le dicesse qualcosa.
Avrebbe voluto domandargli spiegazioni ma l’uomo era scattato in piedi entrando nello studio privato, da cui ne riuscì portando una coperta che distese su Veronica.

Cal si girò verso la socia:  “Lasciamola dormire qui. Tu vai pure a casa a riposarti, resto io con lei. Ci vediamo domani mattina.”

Gillian annuì e uscì dalla stanza dirigendosi verso il suo ufficio a prendere il soprabito con la borsa.
Dirigendosi verso l’uscita, passò davanti l’ufficio di Cal e lo vide seduto a terra, la schiena appoggiata al divano, le gambe piegate verso il petto e lo sguardo fisso su una foto che teneva in mano e le labbra contratte in una smorfia di dolore.
La donna avrebbe voluto entrare e domandargli cos’era che lo turbava, scoprire cosa o chi fosse rappresentato in quella foto da farlo stare così male ma, conoscendolo ormai da anni, sapeva che sarebbe stata solo un’invasione del suo spazio e che l’avrebbe solo fatto chiudere ancora di più a riccio nel suo mondo.
Questa consapevolezza non poté però evitarle una stretta al cuore.
Silenziosamente si allontanò dalla porta e si diresse verso l’uscita.
 

 
Il giorno seguente Veronica fu riaccompagnata alla casa di cura da Cal ed Emily e lì le furono proiettati dei filmini recuperati a casa di Gus, il fratello di Bart e cognato di Veronica. Fu così che Cal scoprì che Charlie non era un’invenzione della donna, dovuta all’Alzheimer, ma in realtà era stato un suo fidanzato.
Rintracciato l’uomo, Cal lo mise sotto pressione, sospettando fosse lui l’assassino di Rose, ma l’uomo affermò, senza alcuna incertezza, di non aver nulla a che fare con la morte della ragazza.
Era la verità.

Gillian aveva ipotizzato che l’Alzheimer mascherasse il senso di colpa di Veronica e quindi che fosse possibile un coinvolgimento diretto della donna nell’omicidio della sorella. Cal rifiutava questa ipotesi e quindi organizzò un incontro a casa di Gus, per far “resuscitare” Bart e provocare una reazione in Veronica.
Gillian sarebbe andata a prendere Veronica e l’avrebbe portata alla sua vecchia casa, dove avrebbero trovato Cal ad aspettarle.

Il campanello suonò e Cal aprì la porta. Veronica lo guardava con aria confusa, poi lo riconobbe come suo marito Bart e lo abbracciò.
“Voi due intanto sedetevi e fate due chiacchiere. I Manhattan arrivano subito” disse Cal, invitando le donne ad accomodarsi sul divano, poi si diresse in cucina dove tentò di preparare i cocktail.
Le donne, sedute in salotto, si fissavano. Veronica studiava Gillian, seduta proprio di fronte a lei. Si domandava chi fosse quella donna e perché lei e suo marito Bart si conoscessero.
Gillian si sentiva osservata e questo la imbarazzava un po’.
Cal arrivò con i drink, li distribuì e poi si sedette sul bracciolo della poltrona dove sedeva Gillian e lei automaticamente gli fece posto.

A Veronica non sfuggì l’intimità che trapelava negli atteggiamenti dei due. “Chi è questa donna in casa mia, Bart?”

Gillian si voltò leggermente verso Cal, quasi a cercarne protezione. Lui si chinò verso di lei, sfiorandole i capelli con le labbra, le accarezzò il braccio e rispose “Lei è una mia amica”

Al contatto della mano sulla pelle nuda del suo braccio, Gillian rabbrividì. Sembravano due amanti che erano stati appena smascherati.

Veronica era decisamente contrariata: “Qui, in casa mia? Credi che non sappia cosa sta succedendo?”

“Eri gelosa di Rose e Charlie all’epoca…” rispose Cal, mentre Gillian distoglieva lo sguardo da Veronica, imbarazzata “…  come sei gelosa adesso.”

“Cal!” sospirò Gillian. Cal stava ferendo Veronica, facendole credere che tra loro ci fosse una relazione clandestina e, anche se era ai fini dell’indagine, non poteva permettergli di andare oltre.

La voce di Gillian lo turbò. Il tono della sua voce gli fece venire in mente immagini di lenzuola disfatte, vestiti sul pavimento e respiri affannati. Non poteva continuare a pensare a lei in questo modo.

Gillian avvertì l’irrigidirsi dell’uomo alle sue spalle e lo scarto della sua mano, ad allontanarsi dal suo braccio.
Aveva paura di toccarla, di nuovo.
Cosa stava succedendo?

“Charlie li ha uccisi tutti, Bart! Rose, Natalie, Bob Harkart e la vicina, la signora Berill. Rose non voleva avere un bambino da Charlie!”

“No, tu non volevi che lei avesse quel bambino!” incalzò Cal.

Veronica cedette alla pressione emotiva: aveva convinto la sorella ad abortire, pur conoscendo i rischi che recava l’intervento, e lei era morta.

Cal e Gillian lasciarono Veronica in casa del cognato e si diressero verso l’ascensore. Avevano pareri discordanti su come gestire il caso e quindi stavano discutendo animatamente.
Si erano posizionati in moda strano: lei con le spalle appoggiate alla parete, lo sguardo verso la porta dell’ascensore; lui affianco a lei, rivolto verso il fondo della cabina.
“Certe volte mi fai così arrabbiare!” rispose Gillian, fissando la porta dell’ascensore davanti a lei.
“Lo so” replicò Cal a bassa voce “è colpa mia se non sei felice.” continuò tra sé fissando la donna, che non si accorse del cambio di umore dell’amico.

Le ore seguenti furono impegnative, soprattutto per Cal.
Grazie a Gillian aveva scoperto che Veronica confondeva le persone del passato con quelle del presente e che il Charlie che la spaventava era all’interno della casa di cura.

Con l’aiuto di Loker riuscì a smascherare l’omicida: era il dottor Olson, che si era assurto al compito di angelo della morte, ponendo fine alla vita dei pazienti che riteneva non dovessero più soffrire.

Cal aveva salutato Veronica regalandole il pianoforte che Gus aveva venduto per pagare le spese di cura della donna. Un sorriso triste lo accompagnava in quel momento.
Abbracciando Emily, Cal si era avviato verso l’uscita, lasciando Veronica che suonava felice e finalmente libera dall’incubo di Charlie.

Gillian gli fu subito accanto: “Stai bene?”

Smetti di chiedermelo!” rispose brusco Cal, con un lampo di rabbia negli occhi, e si allontanò a grandi passi verso l’uscita, con le mani affondate nelle tasche della giacca, lasciando Emily e Gillian impietrite.

Gillian sapeva che il distacco da Veronica non sarebbe stato indolore per il suo amico. Il modo in cui stringeva le mani alla donna, con cui si prendeva cura di lei vegliandola la notte era molto simile a quelle di un figlio che si prende cura della propria madre.
Probabilmente Cal aveva sostituito la donna all’immagine della madre persa quando era poco più di un ragazzo, e ora la stava perdendo di nuovo ma perché quella reazione piena di odio verso di lei?

Emily corse dietro al padre: “Papà, perché hai trattato così a Gillian? Non ti ha fatto nulla!”
Cal continuò a camminare senza voltarsi.

Emily si voltò verso Gillian e la vide immobile dove l’aveva lasciata, il volto pallido e con lo sguardo fisso sullo spalle dell’uomo che si stava allontanando.
Si stava allontando da lei e da tutto.


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Un po' incasinato e forse scontato, ma qualcosa sta venendo fuori. 

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Capitolo 3
*** Decidere ***


Gillian accompagnò Emily a casa.
Il viaggio era stato silenzioso, nessuna delle due donne aveva voglia di parlare.
Mentre guidava, Gillian non poteva smettere di pensare alla rabbia che aveva visto negli occhi di Cal. Se anche fosse stata causa dalla storia di Veronica, perché esplodere così con lei?
Si rese conto che Cal non l’aveva sfiorata dal giorno in cui avevano riportato Veronica nella sua vecchia casa, da quando le aveva sfiorato il braccio. Da quel momento Cal si era limitato ai semplici rapporti di lavoro, niente più “tesoro”, niente abbracci, niente sorrisi, nessuna complicità.

 
Era persa nei suoi pensieri e non si era resa conto di essere giunta a destinazione. L’auto di Cal era parcheggiata nel vialetto.

Prima di scendere dall’abitacolo, Emily ruppe il silenzio.
“Mi dispiace per come mio padre ti ha trattata.” disse la ragazza, con un lieve imbarazzo e mantenendo lo sguardo basso.
“Non preoccuparti, Emily. Conosco tuo padre da anni e so bene quanto le sue reazioni siano imprevedibili”
“Sì ma… non doveva risponderti con quella rabbia. Non capisco cosa gli sia passato per la testa!”
“La storia di Veronica l’ha scosso molto riportandogli alle mente ricordi poco piacevoli. Diamogli un po’ di tempo e vedrai che gli passerà.” Voleva crederci con tutta se stessa a quanto aveva appena affermato.
“Lo spero, Gillian. Papà è sempre così complicato quando qualcosa lo turba. Come se avesse paura di farsi aiutare. Sarebbe più facile se si confidasse.”
“Sai bene che “facile” non è un termine ci si addice a tuo padre, Emily. E se fosse “facile”, non sarebbe Cal Lightman, no?”
“Sarà ma a volte preferirei un padre più normale.” sentenziò Emily, alzando gli occhi al cielo.
Gillian sorrise poi l’abbraccio affettuosamente “Non preoccuparti, vedrai che passerà presto.”
“Lo spero.” le rispose Emily aprendo lo sportello ed uscendo dall’automobile. Poi, voltandosi e  abbassando la testa all’interno dell’abitacolo, continuò “Stagli vicino, Gillian. Tu riesci sempre a prenderlo per il verso giusto e a calmarlo”
Senza aspettare risposta, la ragazza si diresse verso la porta di casa.

Gillian rimase qualche secondo a fissare la casa di Cal mentre pensava alle parole di Emily.
Non sempre riusciva ad avvicinarsi a lui, soprattutto quando chiudeva qualsiasi accesso al suo mondo.
L’unica cosa possibile era fargli sapere che non l’avrebbe abbandonato, che gli rimaneva accanto.

Avviò il motore e si diresse verso casa.

Quella sera pensò al suo rapporto con Cal.
Da mesi si era resa conto che per lei non era più solo amicizia. La gelosia che aveva provato nei confronti di Wallosky le aveva aperto gli occhi definitivamente ma quello che non riusciva a capire era se Cal provasse gli stessi sentimenti per lei.
Quando l’aveva baciato, sì l’aveva baciato perché era stata lei a prendere l’iniziativa, nello studio del produttore di film porno, lui aveva ricambiato con passione ma poi era rimasto imbarazzato, con uno sguardo quasi colpevole. Lei aveva continuato a fissarlo, quasi a rassicurarlo.

Cal aveva ripreso l’autocontrollo e continuato la messinscena.
Si fingevano una coppia sposata e innamorata.
Sarà anche stata una messinscena ma Gillian si sentiva a suo agio tra le braccia di Cal, si sentiva protetta e amata. Non avrebbe mai pensato di sentirsi così poco tempo dopo la fine della sua storia con Burns.
Era così a suo agio che, senza accorgersene, aveva poggiato una mano sulla coscia dell’amico e ve la mantenne senza provare alcun imbarazzo.

Amava Cal, ne era consapevole da tempo, e negli ultimi mesi aveva pensato che forse anche lui ricambiava i suoi sentimenti, ma ora lo sentiva distante.
Non era insolito per Cal allontanarsi dal resto del mondo, alzare palizzate a proteggere i suoi pensieri e sentimenti, ma stavolta lei non gliel’avrebbe permesso.
L’indomani gli avrebbe parlato e l’avrebbe costretto a confidarsi con lei perché non sopportava più di vederlo soffrire e non poter fare nulla per aiutarlo. 

Avrebbe voluto aiutarlo a sopportare il peso del suo passato, se solo Cal glielo avesse permesso. Un passato che ogni giorno si faceva più opprimente e lo schiacciava all'improvviso, senza preavviso, così come era accaduto con il caso di Veronica.
 
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Emily dormiva da ore ormai e lui era da solo sul divano del salotto, in mano il quarto bicchiere di whisky, la testa reclinata all’indietro e lo sguardo fisso al soffitto. Le ore si rincorrevano sul quadrante dell’orologio sulla parete e una sola parola gli tornava alla mente: Gillian.
Prendere le distanze da lei non sarebbe stato facile. Gillian era tutto per lui: era la sua socia, la sua migliore amica, la sua confidente, il suo appiglio alla vita, la voglia di vivere, era il ritorno ad amare.

Dopo Zoe aveva avuto molte donne ma non aveva amato nessuna, se non lei, Gillian, ma quella maledetta linea, che avevano messo tra le loro vite, gli impediva di manifestarle i suoi veri sentimenti.
Decidere di proteggerla, allontanandola da lui, non sarebbe certo stato facile né indolore e forse neanche la decisione più giusta.
Chissà, forse con lei sarebbe potuto essere davvero felice, lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare una nuova vita.

Cal rifletteva se quella di allontanarla fosse la decisione giusta quando lo squillo del telefono lo fece sobbalzare.
Chi diamine poteva essere alle 2 di notte?

“Dr. Lightman? St. Elizabeths Hospital. Abbiamo trovato il suo numero di telefono tra i contatti di emergenza sul telefono della Dr.ssa Foster”
Gillian!” il cuore gli schizzò in gola e un’ondata di gelo gli invase le vene. “Cosa le è successo? Come sta?”
“Non possiamo darle dettagli a voce, Dr. Lightman. Sarebbe meglio che venga in ospedale”
“Arrivo immediatamente ma almeno mi dica… è viva” la voce gli tremava e aveva paura di ascoltare la risposta.
Un attimo di silenzio dall’altra parte della cornetta poi “Sì, è viva. L’aspettiamo.”

Non si ricordava come ma era arrivato alla sala accettazione dell’ospedale.
“Sono il dottor Lightman. La mia collega, Gillian Foster è stata ricoverata presso il vostro ospedale. Dove si trova?” Domandò ansioso all’infermiera dietro il bancone.
La donna controllò sul monitor del computer. “Terapia intensiva, quarto piano”.

Cal si precipitò agli ascensori e appena le porte si aprirono al quarto piano, schizzò fuori alla ricerca di un’infermiera o un medico che gli potesse dare notizie su Gillian.
Dalla porta del reparto uscì un medico con la divisa blu, un chirurgo probabilmente.
Cal gli fu subito vicino. “Sto cercando Gillian Foster. E’ ricoverata in questo reparto”.
“Lei è il Dottor Lightman?” domandò il medico.
Cal annuì.
“Sono il Dottor McCarthy. La dottoressa Foster è stata appena riportata in stanza dalla sala operatoria.”
“Cosa le è successo? Perché si trova qui? Come sta?” Cal mitragliava di domande il dottore e si preparava al peggio.
“Mi segua Dottor Lightman”.

McCarthy lo fece accomodare nel suo studio e si sedette dietro la scrivania.
Cal rimase in piedi ad osservarlo: il medico si stringeva le mani nervosamente cercando come comunicare le condizioni cliniche di Gillian. Non era certo un buon segno.
“Le condizioni della dottoressa Foster al momento sono stabili ma non possiamo sciogliere la prognosi prima di 48 ore.”
Cal rimase in silenzio continuando a fissare il medico.
“Dottor Lightman, vede… la dottoressa Foster ha subito un’aggressione molto violenta e…”
Cal deglutì “E' stata ...?” non riuscì a terminare la frase. 
“Sì, e con la peggiore ferocia, purtroppo”.

Cal si sentiva male.
Un senso di nausea lo fece barcollare e fu costretto a reggersi allo schienale della sedia che aveva di fronte.
Il dottor McCarthy gli fu accanto in un attimo e lo fece sedere.

“L’aggressione le ha procurato lesioni interne ma siamo riusciti a fermare l’emorragia. Purtroppo ha perso molto sangue e quindi dobbiamo aspettare 48 ore per dichiararla fuori pericolo”.
La voce del dottore arrivava ovattata nella mente di Cal.
Gillian, la sua Gillian. Che le avevano fatto? Chi era stato?

Con uno sforzo enorme domandò al dottore: “Chi l'ha trovata?”
“La polizia ha ricevuto una telefonata anonima. Non so dirle altro. Dottor Lightman, prima che veda la dottoressa Foster, devo avvisarla che …. Purtroppo l’aggressore ha infierito sulla sua collega e … l’ha sfigurata con l'acido. “
Il senso di nausea aumentò e Cal si sentiva mancare completamente le forze, si sentiva cadere in un abisso buio e senza fondo.

“Ha perso completamente la vista e il lato sinistro del volto è completamente rovinato. “ il dottor McCarthy cercava il modo migliore per comunicare queste notizie…se mai ce ne fosse stato uno per comunicare ad un uomo che la donna della sua vita, la donna che amava con tutto se stesso e che avrebbe voluto proteggere da ogni dolore, giaceva in un letto d’ospedale in quelle condizioni.

Gillian. I suoi occhi azzurri, il suo sorriso, la sua allegria…tutto finito, tutto cambiato. E lui era completamente impotente.

Qualcuno entrò nello studio ma Cal se ne accorse a stento.
Sentì una mano posarsi sulla sua spalla e una voce conosciuta sogghignare: “Lo sapevo che ti scopavi quella tutta griffata. Li conosco quelli come te!”
Era la voce di Matheson, l’uomo che l’aveva tenuto in ostaggio l’anno prima. Cosa ci faceva lì?

Cal si girò di scatto, cercando di focalizzare lo sguardo sull’uomo.
Non era Matheson ma Jenkins, lo stupratore seriale!
Era stato lui, era il suo stile, e ora era lì che ghignava, compiaciuto di quanto aveva fatto a Gillian e del dolore che aveva provocato a Cal.
In un attimo Lightman scattò dalla sedia e si scagliò addosso a Jenkins con istinto omicida.

“Bastardo!”

Cal si trovò seduto sul divano che stava ancora urlando.
Si guardò stordito attorno: era nel suo salotto e quello che aveva vissuto era stato il peggior incubo della sua vita. Stava sudando freddo, il cuore impazzito e le mani che gli tremavano.
Impiegò qualche minuto per riprendersi dalla tremenda sensazione che quell’incubo gli aveva lasciato.
Il pensiero di Gillian in quel letto d’ospedale, anche se era stato solo nel sogno, gli procurava la nausea e un senso di impotenza che non aveva mai provato, neanche quando la madre si era suicidata.

L’incubo era stato tremendo ma chiarificatore.
Fino a quando Gillian gli fosse rimasta accanto, avrebbe corso il pericolo di essere il bersaglio dei suoi nemici, e di quelli Cal ne aveva a decine.
Fino a quando Gillian gli fosse rimasta accanto lui non avrebbe fatto altro che farla affondare nel suo mondo oscuro.
E non solo Gillian era esposta a questo rischio ma anche sua figlia Emily.

Aveva deciso: si sarebbe allontanato per qualche tempo da loro, magari effettuando quella spedizione di ricerca in Nuova Guinea che rimandava da anni, si sarebbe portato dietro il suo fardello di ricordi e dolori, avrebbe allontanato da loro il rischio di vendetta da parte dei suoi nemici e non le avrebbe fatte soffrire a causa della sua tendenza all’autodistruzione.

Nuvole cariche di pioggia oscuravano i primi raggi di sole preannunciando una giornata uggiosa.

Cal afferrò il telefono, compose il numero sulla tastiera e restò in attesa della risposta.

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Capitolo 4
*** Domande ***


Gillian non sopportava le giornate grigie, le mettevano tristezza e malinconia e quella era proprio una di mattina così.
Era già nervosa per l’incontro che l’aspetta con Cal e quelle nubi cariche di pioggia peggioravano la situazione.

Era appena entrata nel Lightman Group e si stava dirigendo verso il suo ufficio quando vide aprirsi la porta dell’ufficio di Cal. Sulla soglia apparvero Cal e Zoe.
La donna stava per uscire ma si volse indietro verso Cal, si abbracciarono intensamente poi lei si allontanò, gli accarezzo la guancia ed uscì.
Gillian incrociò per un attimo il suo sguardo: aveva gli occhi rossi, probabilmente aveva pianto.

“Tutto bene, Zoe?” le chiese preoccupata.

“Dovresti chiederlo a Cal!” rispose la donna, in modo nervoso e tentando un sorriso. Poi affrettò il passo e si allontanò.

Gillian si fece coraggio e bussò alla porta di Cal, rimasta aperta.
L’uomo era in piedi dietro la scrivania e guardava fuori la finestra, le mani affondate nelle tasche.

“Cal? Tutto bene?” domandò Gillian.

“Magnificamente” rispose lui, ma la donna non poté fare a meno di notare la stanchezza nel tono della sua voce.

“Sei sicuro che sia tutto a posto? Ho appena visto Zoe e aveva l’aria sconvolta” continuò preoccupata.

Le spalle di Cal si irrigidirono. Si voltò verso di lei e appena la vide gli ritornò in mente l’incubo di quella notte. Impallidì un attimo, assalito dal senso di nausea. Gillian notò il cambio di espressione nell’uomo.

“Cal, cosa c’è che non va?”

L’uomo riprese il controllo e si sedette dietro la scrivania, fingendosi indaffarato con delle scartoffie che aveva sulla scrivania. “Ti ho detto che sto benissimo, Foster!”

“Cal!” lo pressò Gillian, preoccupata.

“Vai a fare da madre a qualcun altro!” e stavolta il tono della voce e lo sguardo di Cal non ammettevano repliche.

Gillian lo fissò  qualche secondo e poi si allontanò lentamente, dirigendosi verso la porta. Stava per uscire dalla stanza ma si voltò un istante e lo vide con i gomiti poggiati sul tavolo e la testa tra le mani.

Non c’erano dubbi: qualcosa lo stava logorando e aveva deciso di tenerla fuori dai suoi problemi. Stava per rientrare nella stanza, decisa a non uscire di lì finché Cal non le avesse detto cosa lo tormentava, ma una voce la fermò: “Foster! Finalmente sei arrivata! Abbiamo bisogno di te in laboratorio.”
Loker e Ria erano al centro del corridoio e la stavano aspettando.
La loro voce aveva scosso Cal dai suoi pensieri e ora stava osservando Gillian, ancora ferma sulla soglia della porta. Comunicarono senza proferire suono, lasciando che fossero i loro sguardi a parlare.

Lasciami solo, ti prego”, chiese Cal.

Dobbiamo parlare.” rispose con decisione Gillian.

La donna uscì e immediatamente Cal si alzò, prese il soprabito ed uscì.
 

Sei ore più tardi Gillian riuscì a terminare la perizia relativa all’analisi vocale del materiale consegnato loro dalla polizia.
Ora doveva affrontare Cal. Si fermò un istante davanti la porta del suo ufficio, respirò profondamente per calmare il battito del suo cuore, bussò ed entrò senza aspettare risposta, come era abituata a fare da sempre.
Nell’ufficio l’unica luce accesa era la lampada sulla scrivania ma non c’era alcuna traccia di Cal. Si guardò intorno e notò la luce filtrare dalla porta chiusa del suo studio privato.
Aprì lentamente la porta scorrevole e lo vide seduto sul divano con un bicchiere di scotch in mano e la bottiglia poggiata sul tavolino accanto.
Cal dava le spalle alla porta e non si era accorto dell’arrivo di Gillian.

“Cal!” sospirò dolcemente Gillian.

Le spalle dell’uomo si scossero per la sorpresa ma lui non si voltò.

“Cal, cosa sta succedendo?”

Ancora nessuna risposta.

Gillian avanzò di un paio di passi. “Sono giorni che mi eviti e che ti comporti in modo strano. Vorrei aiutarti, se tu me lo permettessi”.

“Non è accaduto nulla che ti debba interessare” rispose Cal, con tono freddo ed irritato.

“Non ne sono sicura. Ieri alla casa di cura, oggi Zoe in lacrime, non mi vuoi parlare… Te lo chiedo un’altra volta, Cal: cosa è successo?”. L’ansia trapelava dalle parole di Gillian.

Cal scattò in piedi e scagliò il bicchiere contro il muro. “Maledizione Foster! T’ho detto di non impicciarti!

Gillian si spaventò. Non aveva mai visto una reazione così violenta da parte di Cal nei suoi confronti.

Deglutì per riprendersi dallo spavento, poi si fece coraggio e continuò:  “No Cal, rispondi! Perché stai cercando in tutti i modi di allontanarmi? Cosa ho fatto per provocare questa tua reazione?” la voce di Gillian tremava per la paura: Cal si stava allontanando da lei e non sapeva il motivo né come fare per evitarlo.

Cal era un leone in gabbia. Avrebbe voluto evitare la conversazione, precipitarsi alla porta e lasciare la stanza ma Gillian gli bloccava l’unica via di uscita.
Camminava nervosamente davanti al divano mentre Gillian si stringeva le mani, fino a farsi diventare le nocche delle dita bianche, per farsi coraggio ed affrontare una volta per tutte la situazione.

“Allora, Cal?”

Ti sto allontanando perché ti amo, perché non potrei mai perdonarmi se dovesse accaderti qualcosa per causa mia. Tu per me sei indispensabile come l'aria che respiro. Preferisco vivere lontano da te ma sapere che sei al sicuro piuttosto che esporti a continui pericoli. Ti amo, Gillian. Ti amo in un una maniera che non credevo possibile.”

Questo avrebbe voluto dirle.

“Lascia stare, Foster. Finisce qui.”. La voce di Cal era fredda, tagliente. “ Non è colpa tua, credimi, ma è meglio così, per tutti. Domani riceverai la delega a tempo indeterminato per la completa gestione del Lightman Group. E’ meglio che ognuno vada per la sua strada.”

Se qualcuno le avesse strappato il cuore dal petto forse avrebbe sentito meno dolore. Gillian impallidì e per un attimo vacillò mentre il mondo le ruotava vorticosamente attorno.

“C..cosa vuol dire delega a tempo indeterminato? Cosa vuol dire che ognuno vada per la sua strada?” la voce era incrinata e gli occhi erano lucidi per le lacrime che stavano per solcarle il volto. “Ti prego… non dirmi che vuoi lasciare la società!”

Cal si muoveva nervosamente davanti al divano tenendo lo sguardo basso. Non sopportava l’idea di veder piangere Gillian ma l’unico modo che aveva per allontanarla ancora di più da lui era quella di comportarsi da bastardo e trattarla rudemente. Se lei l’avesse odiato l’avrebbe cancellato prima dalla sua vita. Ma lui sarebbe riuscito a dimenticarla?

“Cal ti prego, rispondimi!”

Gillian era disperata. Se ne andava. Cal sarebbe sparito dalla sua vita senza motivo. Come poteva cancellare 8 anni insieme, come amici, colleghi, soci e confidenti da un momento all’altro, come se nulla fosse accaduto?

“Hai davvero intenzione di lasciare il lavoro?”

Nessuna risposta.

“Perché vuoi lasciarmi?” le lacrime le solcavano il volto e iniziò ad avvicinarsi timidamente a Cal, quasi avesse avuto paura di spaventarlo e farlo scappare via.

Cal non riusciva a rispondere.
Ad ogni passo di Gillian verso di lui corrispondeva un suo passo indietro.
Scappava, voleva evitare il confronto perché non sapeva fino a che punto sarebbe riuscito a nasconderle i suoi veri sentimenti.
Le sue spalle si fermarono addosso al muro.
Era in trappola e Gillian continuava ad avanzare incerta, tenendo lo sguardo fisso su di lui. Cal si sentiva trafitto da quegli occhi azzurri, quasi che la donna riuscisse a leggere il suo tormento interno.

“Perché non rispondi, Cal? Non significano niente questi otto anni, per te?”. Gillian era arrivata ad un metro da lui quando si fermò.

L’uomo aveva lo sguardo incollato al pavimento, non voleva guardarla negli occhi perché sapeva ormai che non sarebbe riuscito a trattenersi dall’abbracciarla e baciarla.

“Guardami Cal! Guardami negli occhi e dimmi che per te questi otto anni non hanno avuto alcun significato! Dimmi che quello che c’è tra di noi per te non conta nulla! Dimmi che questi otto anni sono stati tutto un errore!”.

Gillian lo incalzava, lo provocava apposta per farlo esplodere sperando che finalmente l’uomo riuscisse a liberarsi del peso che lo stava opprimendo e che stava distruggendo le loro vite. Sì, le loro vite, perché da tempo Gillian non riusciva più ad immaginare la sua vita senza Cal.
L’uomo alzò la testa, continuando ad evitare lo sguardo della donna e restando ancora in silenzio. Un silenzio che Gillian non riusciva più a sostenere.

Con la forza della disperazione, Gillian afferrò le braccia di Cal e, tra le lacrime, lo strattonò come per scuoterlo dal torpore in cui era caduto. “Sei un vigliacco! Te ne vai senza avere il coraggio di darmi una spiegazione. Hai scelto la soluzione più facile. Preferisci scappare invece che parlare con me. Sei un vigliacco, Cal!”

Sopraffatta dal dolore, Gillian crollò con la fronte sul petto di Cal e, tra i singhiozzi, ripeteva: “Ti prego, non andartene, Cal! Non lasciarmi! Resta con me…  Resta con me, Cal…ti prego ”

Cal la lasciò sfogare ma non l’abbracciò, come invece aveva sempre fatto quando la sua amica aveva bisogno di conforto.
Poi, scostandola delicatamente, le asciugò le lacrime con la punta delle dita e, fissandola negli occhi, le disse dolcemente: “Se mi reputi un vigliacco, fai pure, ma non posso tornare sulla mia decisione.”

Per quanto si sforzasse, la voce gli tremava facendo trapelare le forti emozioni con cui stava lottando. Ciò non sfuggì a Gillian.

“Ti auguro di avere dalla vita tutta la felicità che meriti. Spero che un giorno tu possa perdonarmi.”

Detto ciò, le accarezzò il volto fissandola intensamente,  cercando di memorizzare ogni dettaglio del suo volto. Fece scivolare le mani lungo le braccia della donna, le prese le mani, le strinse e le baciò.
Gillian sentì il dorso delle mani inumidirsi.
Erano lacrime.
Cal stava piangendo.

L’uomo le lasciò le mani e, mantenendo la testa bassa, superò Gillian e si avviò verso la porta.

Era finita. La loro storia finiva così, senza motivo.

Gillian era rimasta immobile a fissare il muro davanti a lei mentre le lacrime continuavano a rigarle il volto.
Non aveva avuto la forza di girarsi a guardare Cal chiudere la porta alle sue spalle e andarsene via.

Gillian appoggiò le spalle al muro e, tra le lacrime, si lasciò scivolare al suolo.
Si rannicchiò su se stessa e diede libero sfogo alle sue lacrime, al suo dolore. Un dolore così intenso l’aveva provato solo quando le avevano portato via Sophie, la sua figlia adottiva. Né Alec né Dave le avevano straziato il cuore in questo modo.

Restò lì, sul pavimento dello studio privato di Cal per un tempo che sembrò eterno.

Il turno di lavoro era terminato e nel Lightman Group regnava il silenzio assoluto.

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Mi sa che ho esagerato con la malinconia =_=

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Capitolo 5
*** La fotografia ***


Gillian si sollevò a fatica dal pavimento, esausta dal pianto e dal dolore per quella separazione.
Si fece coraggio e iniziò ad avanzare verso l’uscita quando il suo sguardo cadde sul tavolino a lato del divano. Accanto alla bottiglia di scotch c’era una fotografia.
Appena la vide trasalì.
Gillian si ricordava bene quella foto perché era anche una delle sue preferite: raffigurava loro due abbracciati, durante il party natalizio al ritorno di Cal dall’Afghanistan, ed erano entrambi raggianti.
Lei aveva temuto di averlo perso per sempre, quando la comunicazione con la base militare era stata interrotta dal bombardamento.
Lui aveva temuto di non riuscire a tornare vivo da lì o, se anche fosse riuscito a sopravvivere, di ritrovarsi di nuovamente faccia a faccia con i fantasmi della sua guerra.
Quando si riunirono, la sera del party, il loro abbraccio fu intenso.

“Stai bene?” gli aveva chiesto mentre lo stringeva forte.

“Non lo so” fu la sua risposta

“Bene, è meglio così”.

Gillian gli aveva posato un bacio all’angolo delle labbra e poi gli aveva accarezzato il volto.
Era meglio così, davvero: se si fosse sentito bene voleva dire che il passato l’aveva sopraffatto di nuovo e che era di nuovo finito nel vortice dell’autolesionismo, che avrebbe cercato di infilarsi dentro ogni situazione a rischio di vita, che si sarebbe chiuso nuovamente nel suo guscio.

Al ricordo di quell’abbraccio, una lacrima le scese lungo il volto senza che se ne accorgesse. Fino a quel momento non si era resa conto di quanto le fosse mancato in quei giorni, il contatto fisico con Cal.
Avrebbe voluto che fosse accanto a lei ad abbracciarla, a rassicurarla che tutto sarebbe andato per il verso migliore,  ma non era possibile perché era lui la causa del suo dolore.

Si rese conto che quella era la foto che Cal stava guardando la sera in cui lo vide seduto a terra, davanti al divano dove Veronica dormiva.
Perché quella foto era così dolorosa per lui? Qualcosa era accaduto in Afghanistan, e ora tornava a chiedere il conto, o era lei la causa di tutto?

Un lampo illuminò la stanza per un attimo e la pioggia ricominciò ad abbattersi sui vetri.

Gillian prese la foto e si diresse di corsa verso l’ascensore.
 



Cal stava sistemando la valigia vicino la porta, pronto per partire.

Zoe ed Emily erano sedute sul divano in salotto, abbracciate.
La madre abbracciava la figlia accarezzandole i capelli, come quando aveva gli incubi da piccola.

Emily non riusciva a capire la decisione improvvisa del padre di partire.
Tra pochi mesi ci sarebbe stata la cerimonia del diploma e poi sarebbe partita per il college. Aveva immaginato di passare quell’ultima estate insieme al padre e invece lui partiva per la Nuova Guinea e chissà quando sarebbe tornato.

Il padre aveva pensato a tutto e questo la sconcertava: da quanto tempo stava pianificando di partire? perché non le aveva detto nulla?

Lei sarebbe andata a vivere con la madre, lo studio al Lightman Group sarebbe stato sgombrato entro un paio di giorni e tutti gli scatoloni con i suoi libri e ricordi che aveva nell’ufficio sarebbe stati stipati nel garage, la casa sarebbe rimasta vuota fino al suo ritorno.

Tutto questo la rattristava perché era come la fine di un’epoca.
Dopo la fine del matrimonio dei genitori, i punti certi di Emily erano suo padre, quella casa, il suo ufficio. Era cresciuta tra le mura del Lightman Group e lì aveva superato il disagio provocato dalla separazione  dei suoi genitori, grazie all’aiuto di Gillian.
Emily considerava la donna come una seconda madre e, doveva ammetterlo, era l’unica donna che concepiva al fianco del padre.
Più volte aveva sondato il terreno tra i due, per capire quali fossero i sentimenti che li legassero, e più volte aveva tentato di avvicinarli un po’ di più, di farli diventare un po’ più che amici.
Ora invece il padre se ne andava e metteva migliaia di chilometri di distanza tra lui e tutto ciò che per lei era “casa”.

“Io vado” disse Cal mestamente, entrando nel salotto.

Emily scattò in piedi e si buttò tra le braccia del padre.

“Papà non andare!”

Cal l’abbracciò con forza, accarezzando i suoi ricci ribelli, poi le baciò la fronte.

“Tesoro, ne abbiamo già parlato. Tornerò prima di quanto tu pensi.”

“Sì ma…perché devi sgombrare il tuo ufficio? Tornerai presto e riprenderai a lavorare con Gillian, vero?” voleva che l’assicurasse che tutto sarebbe tornato come prima.

Cal non rispose ma si limitò a stringerla più forte. Un velo di tristezza scese sui suoi occhi  ma Emily non se ne accorse, persa nell’abbraccio del padre.
 Lo vide Zoe e quella fu solo la conferma di quanto sospettasse: era Gillian il motivo per cui lui stava partendo.

“Devo andare.” Cal diede un altro bacio sulla fronte di Emily e poi sciolse l’abbraccio.

Si diresse verso Zoe e l’abbracciò.

“Prenditi cura di Emily e tienila alla larga dai ragazzi!”

“Papà” rispose indispettita Emily ma poi sorrise. Suo padre non si smentiva mai.

Zoe ricambiò l’abbraccio poi lo seguì fin sulla porta.

“Alla fine hai deciso di scappare, Cal?”, gli chiese sottovoce Zoe, per non farsi sentire da Emily.

Un brivido gli percorse la schiena.

“Non so di cosa stai parlando e comunque sto partendo per un viaggio di ricerca in…”

“Lascia perdere questa storia del viaggio di ricerca che non ci credo!” gli rispose con rabbia. “Tu stai scappando da non so cosa ma di sicuro c’entra Gillian, vero? Scommetto che è di nuovo lei la causa dei nostri problemi, come 8 anni fa! Lei è entrata nella tua vita e il nostro matrimonio è finito. Ora parti lasciando tutto e tutti, compresa tua figlia e sono certa che è sempre lei la causa!”

Cal trattenne a stento la rabbia. Non sopportava che Zoe parlasse di Gillian in questi termini.

“Gillian non c’entra nulla né nella fine del nostro matrimonio né in questa mia partenza! Se hai qualcosa da ridire su come è andata a finire la nostra relazione prenditela con me ma lei lasciala fuori!” la risposta di Cal arrivò dura, piena di rabbia contenuta. Il suo sguardo la fulminò.

“Giusto per fare chiarezza, Gillian ha salvato la nostra famiglia prima ancora di conoscerci. Si è esposta in prima persona e ha mentito per proteggere noi e nostra figlia da “effetti collaterali” derivanti dal mio lavoro presso il Pentagono. Ci ha protetto per anni e ha fatto in modo che non me ne accorgessi mai.”

Le sue parole colpivano Zoe come schiaffi. La donna non sapeva nulla del rischio che avevano corso ai tempi del caso Doyle e a stento conosceva i dettagli del lavoro di Cal presso il Pentagono.

“Se c’è una persona che mette a rischio te ed Emily di certo non è Gillian ma sono io!”

Zoe lo guardò con aria sconcertata.

“Non guardarmi così, Zoe! E’ la verità: finché starò qui, Emily sarà esposta a continui rischi, come è già accaduto.”

La donna continuava a guardarlo smarrita: “Cosa vuol dire questo, Cal? Starai via per il resto della tua vita per proteggerci? Hai deciso di non vedere più tua figlia e di lasciare il Lightman Group, frutto del tuo lavoro, per proteggerci? Che animo nobile!”

Una punta di sarcasmo accompagnò l’ultima affermazione di Zoe.

Cal stava per esplodere e le sue parole uscirono come un sibilo tra i denti. “Pensa anche quello che ti pare ma se fosse l’unico modo per tenere al sicuro Emily, lo farei senza esitazione.”

Poi respirò profondamente per calmarsi e continuò: “Devo allontanarmi per un po’, Zoe. Ti prego di non fare altre domande e di non cercarmi. Sarò io a farmi vivo.”

Prese il bagaglio, se lo mise in spalla poi si voltò di nuovo verso Zoe.

“Prenditi cura di nostra figlia”

Uscì chiudendosi la porta alle spalle.
 


Pioveva a dirotto e lui stava per scendere le scale del portico ma si fermò.
Era lì, sentiva il suo profumo nell’aria.
Si voltò e la vide lì accanto a lui, nascosta nell’ombra.

Gillian!

 “Foster! Che ci fai qui?”

Silenzio. Ora era lei a non rispondere.

“Vai a casa, Foster!” disse Cal mentre si voltava per andarsene, con il bagaglio in spalla.

 “Cosa vuol dire questo?”

La voce di Gillian lo fermò al primo gradino.
Si voltò di tre quarti e la vide avanzare verso di lui, mentre gli porgeva la foto che aveva lasciato sul tavolo dell’ufficio.

“Perché ti spaventa così tanto da farti scappare?”, continuò lei.

“E’ una foto! Perché dovrei averne paura?” rispose Cal, cercando di evitare il discorso.

“Classica divagazione. Non funzionano questi giochetti con me, Cal, e lo sai. Ti ho visto l’altra sera, accanto al divano mentre Veronica dormiva. Guardavi questa foto e provavi dolore. Da quella sera sei cambiato. Cosa è successo, Cal? Cosa c’è in questa foto che ti spaventa? E’ accaduto qualcosa in Afghanistan che non mi hai detto?”

Cal era rimasto in bilico sugli scalini e l’ascoltava nervosamente.

“Sono io la causa di questa tua partenza?” chiese Gillian, esitante.

Cal sussultò.

La donna respirò profondamente, chiuse gli occhi e poi, con un nodo alla gola, continuò: “Siamo … noi?”

Quel noi racchiudeva un mondo di sentimenti non dichiarati e che era il momento di tirare fuori, perché non sapeva se ci sarebbe stata un’altra occasione.
Era l'ultima possibilità che aveva di fermarlol.

Cal la fissò in silenzio poi si girò per risalire verso di lei: “Gillian, io… “

Un’automobile si fermò davanti al vialetto di entrata e suonò il clacson.

Cal si voltò verso l’auto “..devo andare” e scese i gradini del portico, avviandosi verso l’automobile.

Gillian lo seguì di corsa, sotto la pioggia battente. Le sue lacrime si confondevano con le gocce di pioggia che le scendevano sul viso.

“Non puoi andartene così! Rispondimi, maledizione!”

L’afferrò per la manica del soprabito strattonandolo e costringendolo a voltarsi verso di lei.

Fu un attimo: Cal si voltò e la baciò con passione, affondando le dita tra i suoi capelli.
Era un bacio pieno di rabbia, desiderio e amore.

Aveva provato a resistere ma la consapevolezza di non sapere quando e se avrebbe rivisto Gillian l’aveva sopraffatto.
Avrebbe voluto continuare a baciarla e portarla fino in camera da letto e fare l'amore con lei tutta la notte, e il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, per tutta la vita.
Avrebbe voluto svegliarsi ogni mattina accanto a lei, perdersi nei suoi occhi blu e fondersi con lei, anima e corpo.
Ma questo non era possibile: una loro storia avrebbe esposto di più Gillian alle vendette dei suoi nemici e questo non poteva permetterlo.
Lei aveva mentito per proteggere lui e la sua famiglia, ora toccava a lui salvaguardare la sua incolumità e l'unico modo che aveva era quello di allontanarsi.


Gillian rimase sorpresa da quel bacio ma poi iniziò a ricambiare, trattenendo saldamente Cal per il bavero della giacca.
Era un bacio ben diverso da quello che si erano scambiati nello studio del regista di film porno.
Quello che gli stava dando era un bacio che diceva “resta con me stanotte e non lasciarmi più”.

“Dottor Lightman, dobbiamo andare!”.

La voce dell’uomo al volante li colse di sorpresa. Si erano completamente dimenticati della sua presenza, persi come erano in quel bacio da entrambi desiderato da tempo.

Cal si allontanò da Gillian, le accarezzò il viso e seguì con le dita il profilo delle sue labbra.

“Ecco perché non posso restare. Ti prego, non cercarmi.”

Poi si voltò e si allontanò verso l’auto.

Gillian rimase sotto la pioggia a guardare scomparire nel buio i fari dell’auto che portava via Cal da lei.

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Poco alla volta si procede!

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Capitolo 6
*** Scoperte ***


Un raggio di sole le colpì il volto, ne sentiva il calore.
Gillian si stiracchiò nel letto, indugiando un po’ prima di alzarsi.
Il cielo ero azzurro e la giornata si presentava splendida ma lei era di pessimo umore.
Aveva avuto un terribile incubo.
Aveva sognato che Cal abbandonava la società e lei, senza motivo. L’aveva visto salire su un’auto e sparire nel buio.
Poi si girò sul fianco e vide i suoi vestiti bagnati sulla poltroncina vicino al letto e la foto sul suo comodino.
Una fitta di dolore le lacerò nuovamente il cuore e iniziò a piangere silenziosamente, lasciando che le lacrime bagnassero il cuscino.

Non era stato un sogno, purtroppo.
Avrebbe dovuto abituarsi all’idea di non vederlo per chissà quanto tempo. Non voleva pensare alla parola “per sempre”: Cal aveva parlato di “delega” e lei si aggrappava a quel termine.

Lui l’amava e quel bacio che si erano scambiati ne era la prova, ma aveva deciso di lasciarla. Perché?

Questa domanda continuava a tormentarla.

Non voleva andare a lavoro.

Non voleva passare davanti al suo ufficio e sapere che lui non sarebbe stato lì ad aspettarla, con quel suo sorriso delinquente sul viso.

Non voleva sopportare gli sguardi pietosi dei suoi dipendenti, soprattutto gli occhi indagatori di Torres. Sapeva che con gli altri forse sarebbe riuscita a non far trapelare nulla dei suoi sentimenti ma con Ria sarebbe stato tutto inutile.

Se non fosse andata, però, avrebbe dato adito alle chiacchiere e questo non l’avrebbe sopportato. Si fece coraggio e si alzò per affrontare il suo primo giorno senza Cal.

Arrivata in ufficio, si diresse immediatamente verso il suo ufficio, senza scambiare troppi convenevoli con i dipendenti.
Si fermò davanti alla porta dell’ufficio di Cal e la trovò chiusa.
Respirò profondamente appoggiando la mano sulla maniglia, indecisa se aprirla o meno.
Non era pronta ad affrontare il vuoto dietro quella porta.
Lasciò la maniglia e si diresse verso il suo ufficio.

La giornata fu più faticosa di quanto avesse immaginato: comunicare ai dipendenti dell’assenza di Cal, iniziare a gestire i vari casi che lui stava seguendo ed evitare le domande di Torres e Locker fu stremante.

Alla fine della giornata di lavoro si ritrovò da sola nel suo ufficio, seduta nella sua poltrona dietro la scrivania, a guardare il tramonto fuori dalla finestra.
Hanna le aveva consegnato il plico contenente i documenti inerenti alla delega di Cal per la gestione della società ma lei non l’aveva neanche aperto.
Ancora non se la sentiva di mettere nero su bianco la separazione da Cal.
Lei era una donna forte, aveva superato il divorzio  da un marito cocainomane, la separazione dalla figlia adottiva e anche la fine della sua relazione con Burns non era stata indolore ma ora era esausta e non sapeva se ce l’avrebbe fatta a superare questa situazione.

Le luci della città si stavano accendendo e la malinconia per Cal si fece più forte.
Prese in mano il cellulare ed ebbe la tentazione di chiamarlo o mandargli un messaggio ma lui era stato chiaro: “Ti prego, non cercarmi”.

Si alzò dalla scrivania e si diresse verso l’uscita.

Passando davanti la porta di Cal, si decise ad entrare.
L’accolse il silenzio.
Si diresse verso lo studio privato e poggiò una mano sullo stipite della porta. Tutto era rimasto come la sera precedente: la bottiglia di scotch sul tavolino, il bicchiere in frantumi sul pavimento e sui cuscini del divano in parte era ancora visibile l’impronta del corpo di Cal.
La stanza era permeata dal suo profumo, che lei adorava, fresco e muschiato.
Aprì l’armadio in cui Cal teneva alcuni abiti per potersi cambiare all’occorrenza. Fece scorrere la mano sulle sue camice e i suoi maglioni.
Vide la sciarpa a righe che gli aveva regalato un paio di anni fa per Natale. Piegò le labbra in un triste sorriso al pensiero dell’aria scanzonata che aveva quando indossava quella sciarpa, quasi che fosse uscito da un film di Harry Potter.
La prese e la indossò, per sentire il suo profumo addosso e illudersi che la stesse abbracciando.
Una silenziosa lacrima le rigò il volto e lei l’asciugò prontamente con la punta delle dita.

“Non sapevo che fossi così piagnucolosa!”

La voce di Cal la fece sobbalzare.
Si girò di scatto ma non c’era nessuno.
Desiderava così tanto averlo accanto che sentiva anche la sua voce.
Gillian si strinse nella sciarpa ed uscì dall’ufficio.
 
L’indomani arrivò in ufficio di buonora e si mise subito al lavoro.
Pensava che, tenendosi impegnata con il lavoro, avrebbe sofferto di meno all’assenza di Cal, ma si sbagliava.
Come aveva previsto, i dipendenti la guardavano in modo diverso, o almeno era quella la sensazione che aveva.
Loker evitava di incrociare il suo sguardo.
Ria l’aveva fermata davanti la porta del suo ufficio.
“Stai bene, Foster?” le chiese preoccupata.
“Magnificamente!” le rispose Gillian e subito tornò con la mente a 48 ore prima, quando aveva ricevuto la stessa risposta da Cal.
Ria la studiò con quei suoi profondi occhi neri e, abbracciandola, le disse: “Tornerà presto, vedrai.”
Gillian rimase sorpresa ma accettò con piacere il gesto.
Aveva un disperato bisogno di qualcuno con cui sfogarsi, che la consolasse, che le dicesse che tutto sarebbe andato per il meglio.
Ria sciolse l’abbraccio e guardò Gillian che, con gli occhi lucidi, evitava imbarazzata il suo sguardo. La ragazza  le poggiò una mano sulla spalla e si allontanò.

Nella tarda mattinata, mentre stava uscendo dal suo ufficio per dirigersi al laboratorio, incontrò Zoe sulla porta. Era l'ultima persona che si sarebbe aspettata di incontrare in quel momento.

“Zoe!” la salutò sorpresa.

“Gillian” ricambiò la donna.

Il disagio era reciproco.

“Cosa ti porta da queste parti? Come sta Emily?” chiese Gillian, per spezzare il ghiaccio, e facendo accomodare Zoe nel suo ufficio.

“Emily sta come una sedicenne il cui padre ha deciso di partire all’improvviso per un posto lontano, senza sapere quando lo rivedrà” rispose la donna, con aria di sufficienza.

“Già, immagino. Salutala da parte mia.” Gillian prese posto dietro la scrivania e Zoe si sedette di fronte a lei.

“Cosa posso fare per te, Zoe?”

“Ecco … io vorrei ringraziarti per quanto hai fatto per la nostra famiglia”

Gillian la guardava con aria interrogativa.

“L’altra sera, prima di partire, Cal mi ha detto che ci hai protetto per anni dalla ripercussioni del suo lavoro al Pentagono. Grazie. Davvero.”

Ringraziare Gillian le pesava ma glielo doveva.

La donna arrossì.  Zoe Landau che la ringraziava! Non l’avrebbe mai creduto possibile. In tutti quegli anni tra loro non era mai corso buon sangue, entrambe ne erano consapevoli.

“Era la cosa giusta da fare.” rispose Gillian imbarazzata.

Zoe annuì poi, cercando le parole giuste, le domandò: “Ascolta, Gillian, cosa sai del viaggio di Cal?”

La domanda la spiazzò.

“Beh…ecco … ultimamente io e Cal non abbiamo parlato molto.”
Gillian abbassò lo sguardò al ricordo degli ultimi giorni passati con lui.
“Mi ha detto che sarebbe partito per un viaggio di ricerca e che mi avrebbe passato la delega per la direzione del gruppo. Non so altro”.

Zoe corrugò la fronte.

“Perché me lo domandi? C’è qualcosa che non va?” le domandò immediatamente Gillian, notando la preoccupazione nel volto di Zoe.

“Non so come dire ma … non credo che Cal sia partito per un viaggio di ricerca.”

“Cosa te lo fa credere?” incalzò Gillian allarmata.

“Prima di partire ha fatto un discorso strano. Ha detto che la sua presenza qui metteva a rischio la sicurezza di Emily e che se un suo allontanamento potesse servire per tenere al sicuro nostra figlia, l’avrebbe fatto senza esitazione” Zoe si interruppe, come per cercare di riorganizzare le idee.
 
“Dimmi, non ti sembra strano che abbia organizzato la sua partenza in un solo giorno? Nessuno sa con quale spedizione sia partito, dove si sia diretto, qual è lo scopo della ricerca.” continuò Zoe

Gillian sentì la stanza ruotarle intorno.
Zoe aveva ragione: anche lei non sapeva nulla sul viaggio ma non aveva avuto il tempo per parlare con Cal e poi lui si era rifiutato in ogni modo di darle informazioni a riguardo. 
Il bacio che si erano scambiati sotto la pioggia e le parole che le aveva detto subito dopo le avevano fatto capire che se ne andava a causa sua ma, se non era partito per il viaggio di ricerca, dove era andato?

Mentre ascoltava le parole di Zoe, nella sua mente ripercorreva gli ultimi giorni con Cal, dalla sera dell’arrivo di Veronica fino alla sua partenza.

Veronica aveva raccontato del primo incontro con il marito e di come si fosse proposto ad aiutarla a portare il peso che la opprimeva.
Da allora Cal era cambiato.
Più volte lei aveva cercato di far breccia nelle sue resistenze ma senza risultato.
Conosceva molto del suo passato ma, malgrado questo, Cal continuava ad essere un lupo solitario e a cacciare chiunque gli si avvicinasse troppo.
L’aveva allontanata perché non voleva dividere il suo fardello di dolore. E anche il suo allontanamento dal Lightman Group ora aveva un significato.
Aveva raccontato a Zoe del suo ruolo nel caso Doyle e le aveva detto che lui era una minaccia per tutti.
Si era allontanato per mettere loro al sicuro da eventuali vendette dei suoi nemici.

“Cosa ti è saltato in mente, Cal? Sparire dalle nostre vite per proteggerci? Preferirei attraversare  l’inferno al tuo fianco  piuttosto che vivere senza te!”

La sera a casa sua, prima che sparisse nel nulla, forse le stava per dire la verità su tutto ma poi erano stati interrotti dal tassista.
Poi un lampo le attraverso la mente: quello non era un taxi ma un’auto scura e l’uomo aveva chiamato Cal per nome, come se lo conoscesse.

Gillian cercò di riprendere il controllo.
Afferrò il telefono e, al diavolo il suo “non cercarmi”, compose il numero del cellulare di Cal. Doveva sapere dove fosse.
Dall’ufficio di Cal giunse lo squillo della suoneria del telefono.
Gillian corse in direzione dello squillo seguita da Zoe.
Il suono giungeva dalla scrivania. Aveva lasciato il cellulare in ufficio.

Gillian iniziò a rovistare tra le carte sul tavolo e nei cassetti, alla ricerca di qualche indizio relativo alla partenza dell’uomo.
Alla fine decise di aprire la cassaforte.

Zoe la guardava muoversi con sicurezza nello studio di Cal, inginocchiarsi e aprire senza esitazione la cassaforte.
Cal si fidava così tanto di quella donna che le aveva dato anche la combinazione per aprirla. In tanti anni di matrimonio, lei non era mai riuscita ad avere una complicità simile con lui e questo la feriva. Quella donna era davvero l’unica che fosse riuscita a scavalcare il muro.

Gillian tirò fuori vari documenti e poi si bloccò. Nella cassaforte c’erano i documenti di riconoscimento e il passaporto di Cal.
Le donne si scambiarono uno sguardo angosciato.
Ovunque fosse andato, non voleva essere riconosciuto e non voleva fornire alcun collegamento con loro.

Zoe guardò Gillian con aria smarrita: “Dove è andato?”

Gillian serrò la mascella mentre sentiva il sangue scorrerle via dal viso per la paura. Non aveva alcuna risposta da darle e ora la paura di averlo perso per sempre si stava facendo sempre più concreta.

“Non lo so, Zoe. Ieri mi ha detto che avrebbe lasciato il gruppo e sarebbe partito per un viaggio di ricerca ma, a quanto pare, ha mentito ad entrambe”

Hanna entrò nello studio.

“Dottoressa Foster, è arrivata la ditta incaricata per il trasloco degli oggetti del Dottor Lightman.”

Gillian ebbe un attimo di smarrimento poi si ricompose, schiarì la voce e rispose: “Scusati con loro ma il trasloco è stato annullato.”

Hanna annuì ed uscì dalla stanza.

Gillian si trovò addosso gli occhi di Zoe che le domandavano spiegazione di questa decisione.

“Cal tornerà. Deve tornare.” Per quanto si sforzasse, la sua voce era incrinata.

Zoe annuì.
Per quanto detestasse ammetterlo, Gillian amava Cal e lui ricambiava il sentimento.
Non c’era più posto per lei nella vita del suo ex-marito, almeno non come lei avrebbe voluto. Ora però non era il momento di scenate di gelosia, bisognava trovare Cal.

“Ho dei contatti nell’Intelligence, magari riuscirò a scoprire qualcosa” propose Zoe.

“D’accordo” le rispose Gillian.

Zoe le si avvicinò e, posandole una mano sulla spalla, le disse. “Lo troveremo, Gillian.”

Gli occhi di Gillian si riempirono di lacrime ma lei riuscì a trattenersi. Annuì silenziosamente e poi Zoe se ne andò.

Lei tornò nel suo ufficio, afferrò il soprabito e la borsa e corse via.

Quindici minuti più tardi stava entrando nella sede della FBI, diretta verso l’ufficio di Ben Reynolds.

Dalla porta a vetri lo vide indaffarato alla scrivania e le fece una strana sensazione. Era abituata a vederlo come un uomo di azione ma ora era costretto al lavoro d’ufficio.
Bussò alla sua porta e Ben, appena la vide, le sorrise.

“Gillian, che piacere vederti!” le sue labbra sorridevano ma i suo i occhi e la sua voce no. Nascondeva qualcosa. “Sei stupenda, come sempre!”

“E’ tanto che non ci vediamo, Ben. Mi fa piacere vedere che stai bene.”

Ben la fece accomodare sulla sedia davanti la sua scrivania mentre lui si sedette dall’altro lato. Evidente posizione di difesa.

Gillian continuò: “Ho bisogno del tuo aiuto, Ben. Due giorni fa Cal è partito per un viaggio di ricerca ma a quanto pare ha mentito a tutti. Abbiamo trovato il cellulare e tutti i suoi documenti di identità nel cassetto della sua scrivania. Nessuno sa dove si sia diretto.”

Ben si irrigidì.

“Ho il sospetto che stia lavorando per i servizi segreti. Puoi aiutarmi a scoprirlo?”

“Non ho notizie di Cal da mesi e sai bene che non posso rivelare informazioni riguardo le missioni svolte dall’FBI. Mi spiace ma non credo di poterti aiutare.”  le rispose Ben, appoggiandosi allo schienale della poltrona ed incrociando le braccia. Stava mentendo.

“Ben, ricordi qual è il lavoro mio e di Cal? Smascherare le bugie e tu, lo sai bene, non sei bravo a mentire. Quindi, per favore, risparmiami la fatica e dimmi: cosa sai di Cal? Ti prego!” Gillian era determinata, non avrebbe accettato un “no” come risposta

Ben indugiò, stringendosi nervosamente le mani. Poi si alzò e si diresse alla finestra dando le spalle a Gillian.

“Cal mi ha chiamato due giorni fa, all’alba. Mi ha chiesto di metterlo in contatto con il vicedirettore Dillon.” Si voltò verso Gillian.

“Un paio di mesi fa il vicedirettore gli aveva chiesto di partecipare ad una missione sotto copertura.”

“Ma ero stata chiara con Dillon! Non avremmo più lavorato per l’FBI!” lo interruppe Gillian, decisamente alterata.

“Lo so benissimo. Si trattava di una missione molto importante e Lightman era vitale per la buona riuscita. Avevamo scoperto che un gruppo di terroristi stava organizzando un attentato a Washington. Uno dei terroristi diceva di essersi pentito e di voler collaborare con l’FBI ma la fonte non era attendibile. Lightman avrebbe dovuto entrare in contatto con lui e scoprire le sue vere intenzioni. Cal ha detto a Dillon che gli accordi presi con te erano validi e quindi non avrebbe accettato l’incarico”

Gillian si stava muovendo nervosamente sulla sedia.

 “L’altra mattina Cal mi ha chiesto di metterlo in contatto con Dillon. Voleva accettare l’incarico.”

Gillian impallidì. Aveva paura di ascoltare il seguito.

“Gli ho chiesto il motivo di questa sua decisione.“ Ben fissò lo sguardo su Gillian “Ha detto che lo faceva per proteggere te e la sua famiglia”

“Ma come può proteggerci rischiando la vita?” rabbia e paura si fondevano nella voce della donna.

“Cal ha accettato ad una condizione: avrebbe partecipato alla missione solo se gli fosse stata garantita la vostra incolumità. Ha inoltre fatto un patto con Dillon: parteciperà anche ad altre missioni in cambio della vostra protezione costante da parte dell’FBI. I nostri agenti vi stanno già sorvegliando da due giorni.”

Gillian non credeva a quanto Ben le stava dicendo. Possibile che Cal fosse disposto a tanto pur di proteggerle?

Era furiosa per l’assurdità della decisione presa da Cal e allo stesso tempo era commossa per la profondità dei suoi sentimenti: Cal aveva preferito mettere a rischio la propria vita pur proteggere la sua famiglia e lei.

“In cosa consiste la missione? Che ruolo ha Cal e che rischi corre?”

“Non posso darti altre informazioni a riguardo, lo sai bene.“

Gillian si alzò di scattò sbattendo la mano sul tavolo “Maledizione Ben! Ho il diritto di sapere se Cal rischia la vita o meno! Non posso perderlo così, senza poter fare nulla! Devo dirgli che io … ” si interruppe a metà, sorpresa di quanto stava per dire.

“Che tu cosa, Gillian?” le domandò Ben, ma sapeva bene quale sarebbe stata la risposta.

Gillian spalancò gli occhi imbarazzata.

Ben la pressò: “Cos’è che devi dire a Cal? Avanti Gillian, cosa devi dirgli? ” Ben sapeva quali fossero i sentimenti che legavano Gillian e Cal come sapeva benissimo che la donna doveva sfogarsi.

Gillian cedette e, quasi urlando, rispose: “Che io l’amo! Ecco cosa devo dirgli!
Appena pronunciate queste parole si coprì gli occhi con una mano e iniziò a piangere “Non posso perderlo ora … proprio non posso…”

Ben le si avvicinò.

L’abbracciò e la sentì abbandonarsi al pianto sulla sua spalla.

“Ti prego Ben, riportamelo dietro sano e salvo”

“Farò il possibile, Gillian”. Era sincero.



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E dire che avevo iniziato a scrivere questa fanfic pensando di chiuderla in poche pagine! Vabbè, portate pazienza!
Auguro a tutte/i uno splendido 2013 (e chissà che la Fox non si ravveda ed esaudisca i nostri desideri! ^_-)

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Capitolo 7
*** 3K ***


Se ne stava seduto al bancone del bar sorseggiando una di quelle terribili birre americane. 
Era già la terza sera che andava lì, sperando di incontrare Joshua Price, l’uomo che l’FBI gli aveva indicato essere il terrorista intenzionato a collaborare.
Con la barba incolta, i capelli arruffati e le maniche del maglione tirate su che mettevano in evidenza il tatuaggio sull’avambraccio, appariva davvero un tipo poco raccomandabile.
Era ormai alla quarta birra e stava quasi pensando di aver sprecato un’altra serata quando lo vide entrare.
Joshua Price avanzò tra la coltre di fumo che aleggiava perennemente nel locale, si avvicinò al bancone e, sedendosi accanto a Cal, ordinò una birra.
Era un ragazzo sulla trentina,  fisico longilineo, carnagione scura e due occhi neri come il carbone.

Cal lo osservò senza dar troppo nell’occhio.  
Joshua tamburellava con le dita sul bancone del bar mentre osservava con attenzione tutti gli occupanti del locale. Era molto nervoso, quasi avesse paura di chi potesse incontrare.

“Come va?” gli chiese Cal, alzando il boccale di birra nella direzione del ragazzo.

Joshua lo fissò sorpreso. “T… tutto bene”

“Allora, sei riuscito a seminare i tuoi amichetti?” Continuò Cal, girando lo sguardo intorno a sé “ Vi state comportando da bambini cattivi. Fate attenzione che potreste farvi male” finì la birra, lasciò i soldi sul bancone e, passando dietro a Joshua, lo apostrofò “Dammi retta, amico, stai alla larga dai guai che potresti rimanere scottato”.
Concluse con il suo ghigno e si diresse verso la porta con la sua andatura dinoccolata, lasciando Joshua ad osservarlo con aria interrogativa.

Cal uscì nell’aria fredda di quella serata d’autunno a Washington DC e restò in attesa. Sapeva che Joshua l’avrebbe seguito.

La porta s’aprì e Cal, con la coda dell’occhio, ne vide uscire il ragazzo.
Iniziò a camminare lungo il marciapiede, seguito a poca distanza da Joshua.

Cal svoltò l’angolo e, percorsi pochi metri, si voltò di scatto per fronteggiare il ragazzo.

“Ti serve qualcosa, amico?”. Il solito ghigno sol volto.

“Chi sei? cosa vuoi?” domandò Joshua, sfidando lo sguardo di Cal.

“Te l’ho detto, sono un amico che si preoccupa che i bambini non si facciano male giocando con i petardi”.

Un passo avanti, invasione dello spazio personale di Joshua.
Il ragazzo indietreggiò. Inalò aria profondamente dilatando le narici. Paura.
Scattò in avanti afferrando Cal per il bavero della giacca e sbattendolo contro il muro del vicolo. Combatti o fuggi.

“Allora amico, ti consiglio di stare alla larga perché potresti essere tu a farti molto male!”.

Le parole uscirono tra i denti serrati, poi allentò la presa allontanando bruscamente Cal che continuava a ghignare.

“Avete bisogno di me più di quanto immaginiate, tu e i tuoi compari. Allora, quand’è che avete deciso di agire?”

Joshua indietreggiò. “Di cosa parli?”

“Della bomba che volete far saltare, naturalmente!”

Il ragazzo spalancò gli occhi.  Cal aveva fatto centro.

“Sei uno sbirro? Che vuoi da me?”.

“Non sono uno sbirro, tranquillo. Te l’ho detto, sono un amico. Ho un conto in sospeso con un muso nero che mi ha fottuto il posto di lavoro quindi, come capirai bene, ho un leggero prurito alle mani. Posso aiutarvi.”

Joshua inalò profondamente.

“Te lo ripeto, non so di cosa stai parlando quindi ora vedi di lasciarmi in pace e di sparire”.

Detto questo, il ragazzo voltò le spalle a Cal e si allontanò.

Le labbra di Cal si piegarono nel solito ghigno. Aveva fiutato la preda e non l’avrebbe fatta scappare facilmente.
Iniziò a seguire Joshua, lasciando abbastanza distanza da non poter essere notato. Gli anni di lavoro per l’antiterrorismo britannico gli stavano tornando utili.
Il ragazzo camminava ad andatura sostenuta poi tirò fuori dalla tasca il cellulare e avviò una chiamata.
Cal lo vide parlare in maniera concitata e riattaccare nervosamente. Non dovevano essere buone notizie.
Continuò a seguirlo a distanza finché lo vide entrare in un altro bar.
Si fermò fuori del locale, nell’ombra, per osservare il movimento di persone e capire  con chi avrebbe avuto a che fare una volta  varcata quella soglia.
All’improvviso venne afferrato per una spalla e scaraventato contro il muro.

“Eccolo il ficcanaso!”

Erano in quattro. Joshua doveva essersi accorto di essere seguito e aveva avvisato gli altri.

“Cal Lightman, stai invecchiando! Ti sei fatto fregare da un ragazzino e non ti sei accorto che questi quattro energumeni ti stavano pedinando!”

Cal indossò la sua maschera migliore e iniziò lo show: “Ehi ragazzi, che maniere! Si tratta così un amico?”

“Non abbiamo amici e tu dovrai spiegarci molte cose”

Lo afferrarono per le braccia e lo spinsero all’interno del locale.
I pochi avventori del bar uscirono di corsa appena avvertirono l’aria di guai in arrivo.
Erano rimasti i quattro energumeni, Joshua e un uomo sulla cinquantina, seduto ad un tavolo nell’angolo del locale.
Lo spinsero fin davanti al tavolo.
L’uomo seduto aveva un abbigliamento impeccabile, i capelli perfettamente in ordine e il volto ben rasato.
ra seduto compostamente, le braccia poggiate sul tavolo, le mani incrociate. Tutto nella sua postura e nell’espressione del volto indicava sicurezza e determinazione. Era una persona che doveva avere tutto sotto un controllo maniacale.
Era lui il capo.
 
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Gillian aveva avvisato Zoe di quanto aveva scoperto e l’aveva invitata a non dire nulla ad Emily, per non spaventarla.

“Lui e le sue manie di protagonismo!” Aveva sentenziato Zoe al telefono, una volta messa al corrente in cose fosse coinvolto Cal. “Finirà con il farsi ammazzare prima o poi!”

La donna non lo poté vedere ma Gillian chiuse gli occhi per cacciare indietro quel pensiero che la stava ossessionando da quando aveva lasciato l’ufficio di Ben.
Erano passati un paio di giorni da quando aveva incontrato Ben.
In ufficio tutto procedeva come al solito.
Era riuscita a non far trapelare alcuna notizia relativa alla missione di Cal. Meno persone ne erano a conoscenza e meno rischi ci sarebbero stati per lui.

Ben le aveva accennato a grandi linee la missione di Cal.

L’FBI aveva scoperto che un gruppo di bianchi razzisti, facenti parte ad una setta ispiratasi al Ku Klux Klan, aveva deciso di compiere un attentato verso la comunità di colore di Washington.
Nei due mesi intercorsi  da quando Dillon aveva fatto la proposta di collaborazione a Cal, l’FBI aveva continuato a seguire le loro mosse.
Un agente era riuscito ad infiltrarsi ma era stato scoperto e a stento era riuscito a mettersi in salvo.
Le uniche informazioni che erano riusciti ad ottenere riguardavano la composizione del gruppo. Erano in pochi, guidati da un esaltato, e ben intenzionati a compiere una strage di massa. Si facevano chiamare i 3K… che fantasia!
Erano riusciti ad identificare i componenti del gruppo: tutta gente di bassa estrazione sociale, arrabbiata con il governo e cresciuta a pane e razzismo.
Il capo del gruppo era il soggetto che più li preoccupava: era un ingegnere elettronico che lavorava come ricercatore presso la George Washington University ma era stato licenziato per evidenti disturbi mentali.
Era l’unico, a detta dell’agente che aveva lavorato al caso, a poter preparare un ordigno tanto potente da creare una strage ed era l’unico di cui bisognava davvero preoccuparsi. I membri del gruppo erano completamente soggiogati da lui.
Dopo che la copertura dell’agente era saltata, tutti i membri del gruppo erano spariti. Probabilmente si erano rifugiati in qualche cittadina al di fuori di Washington.
Da un paio di settimane erano stati avvistati di nuovo in città.
Cal era l’unico che poteva infiltrarsi e carpire informazioni senza farsi scoprire, ed era anche l’unico che poteva affrontare la scheggia impazzita del capo.
Avrebbe agito da solo e l’unico contatto che poteva avere con l’FBI era con Ben, tramite un numero telefonico riservato.
Avrebbe dovuto contattare Ben ogni giorno, per aggiornare l’FBI sugli sviluppi della missione e per ricevere tutto il supporto tecnico e logistico necessario.

Gillian scrutava lo skyline della città.
Cal era bravo nel decifrare le espressione del corpo ma trattare con persone con disturbi mentali non era il suo forte. Quello era compito suo, di Gillian.
Si era proposta di partecipare alla missione, come supporto esterno a Cal, anche solo per delineare meglio il profilo psicologico del loro capo. Aveva ricevuto un secco rifiuto da parte di Ben: Cal aveva chiesto esplicitamente di non coinvolgerla in alcun modo nella missione.
Non sopportava il non poter fare niente per aiutare Cal.
Lui era lì fuori a rischiare la propria vita, e l’unica cosa che lei poteva fare era sperare.
Sperare che tutto andasse bene.
Sperare che non facesse una delle sue solite uscite folli, sfidando la sua fortuna fino allo stremo.
Sperare di non ricevere la notizia che qualcosa era andata storta, che lui era ferito o peggio.
Doveva aspettare, non aveva altra scelta.


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Mi scuso per il ritardo ma tra blocco creativo e ripresa del lavoro non ho potuto fare di meglio. 
L'idea c'era ma non riuscivo a metterla nero su bianco. 
Niente emozioni o situazioni Callian ma serviva un capitolo dove spiegare un po' che cavolo sta succedendo fuori le mura del Lightman Group. 
L'idea è banale, me ne scuso, ma credo di aver scoperto che le spy story non sono il mio forte :-P

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Capitolo 8
*** Jimmy lo spaccone ***


Uno dei quattro lo spinse e lo fece sedere sulla sedia danti al tavolino.
Quello che doveva essere il capo iniziò a scrutare Cal a lungo ma il suo volto non faceva trasparire alcuna emozione.
Cal lo scrutò a lungo.
“Tipo tosto, l’amico!”
“Beh, nessuno fa le presentazioni?” domandò Cal, rivolgendosi a Joshua con il suo solito ghigno.
Il ragazzo continuava a muovere lo sguardo tra Cal e il capo, che non accennava a nessun movimento.
“Lui è il tizio del bar. Ha informazioni su di noi. Dice che può aiutarci.”
Il capo inalò profondamente allargando il torace, tipica posizione di sfida e superiorità, ma continuava a tacere.
Cal continuò a fissare il capo poi si guardò attorno osservando gli altri membri del gruppo, uno ad uno. Battè le mani sulle ginocchia e fece per alzarsi: “A quanto pare la mia presenza non è gradita. Tolgo il disturbo.”
Un colpo alla nuca lo stordì e lo fece ricadere pesantemente sulla sedia.
“Tu non vai da nessuna parte!”.
Delle dita robuste come acciaio gli arpionarono le spalle e lo inchiodavano alla sedia. Uno dei quattro l’aveva colpito ma non sapeva chi, non riusciva a muoversi.
Cercando di non perdere conoscenza per il colpo ricevuto, Cal continuò il suo show. “Che maniere! E’ così che trattate gli amici?”
“Noi non abbiamo amici”.
Stavolta era il capo a parlare. Una voce fredda, autoritaria.
“Se trattate tutti in questo modo ci credo che non avete amici!” continuava ad incalzare Cal, spalancando continuamente gli occhi mentre cercava di riprendersi.
Il labbro del capo si piegò in un falso sorriso. 
“Con chi ho il piacere di parlare, signor… ?” continuò l’uomo.
“James Connelly, ma potete chiamarmi Jimmy”. Da quando aveva lasciato l’ufficio di Ben pochi giorni prima, Cal aveva una nuova identità. Jimmy lo spaccone era tornato
“Connelly… irlandese?”
“Di Belfast.” Cal sottolineò il nome della città. Il passato di violenza e odio che aveva invaso la città era ben noto a tutti.
“Cosa vuole da me e dai miei uomini?”
“Un attimo, dobbiamo finire le presentazioni, non vi pare? Allora, con chi ho il piacere IO di parlare?“
Il capo continuò a fissarlo senza batter ciglio, inalò ed espirò un paio di volte e  alla fine piegò  il labbro lateralmente. Disprezzo.
Si voltò verso Joshua e annuì. Aveva dato il permesso di fare le presentazioni.
“Lui è il signor Ken Allen e loro sono Jeff, Bob, Tyler e Luke” disse il ragazzo, indicando il capo e gli altri componenti della banda.
“Allora, cosa vuole da me e dai miei uomini?” continuò il capo, che ora aveva almeno un nome.
“Chiamiamolo uno scambio di favori. Come dicevo al vostro amico, ho un conto in sospeso con un muso nero che mi ha fottuto il posto di lavoro e la donna. Voi avete bisogno di professionisti e, modestamente, ho una certa esperienza in “fuochi d’artificio” quindi… a voi la scelta”.
Scese un lungo silenzio di attesa. I due uomini si scrutavano a vicenda ma Cal, per quanto tentasse, non riusciva a leggere la sua espressione. Non un cenno di ansia, di rabbia, di stupore. Nulla.
L’unico segno di nervosismo era dato da Joshua che spostava nervosamente lo sguardo tra Cal e il pavimento, quasi si vergognasse di stare lì.
“Perché dovremmo fidarci di lei?” domandò con voce atona Allen.
“In Irlanda ero al fianco di Jimmy Doyle, mai sentito nominare? Beh, quando la moglie e la figlia sono state assassinate, Jimmy si è ritirato in Irlanda ed io mi sono trasferito qui negli States.  Mi sono creato una nuova identità e sono riuscito a farmi assumere come custode presso il Lincoln Memorial.” Cal iniziò a gesticolare animatamente “Certo, non è il lavoro più elettrizzante del mondo  ma mi ha offerto la possibilità di entrare in contatto con il servizio di sicurezza del Presidente, non so se intendo.” Terminò la frase con un ghigno, cercando la complicità del suo interlocutore.
Un lampo di interesse balenò negli occhi del capo. Cal sapeva di aver fatto centro.
“Al giuramento del Presidente ho notato tra le guardie del corpo una mia vecchia conoscenza dei tempi dell’Irlanda. Posso avere facilmente informazioni sugli spostamenti del Presidente. Ho voglia di fargliela pagare a questi  musi neri! E’ per colpa di tutte quelle stronzate sulla parità dei diritti delle minoranze etniche che sono stato licenziato per far posto ad uno di loro!” Cal era in un crescendo di rabbia. Era orgoglioso della propria interpretazione.
“Ho perso il lavoro, mi sono ritrovato in mezzo ad una strada perché non avevo più soldi per pagare l’affitto, la mia donna mi ha lasciato e non riesco a trovare uno straccio di lavoro perché ci sono sempre prima loro!” poi si calmò, fissò lo sguardo negli occhi di Allen e  sillabò “Me la devono pagare”.
Un mezzo sorriso si stampò sulle labbra del capo. “Non siamo degni ingenui, signor Connelly. Verificheremo se quanto dici corrisponde a verità. Già una volta i federali hanno provato a farci saltare ma non ci sono riusciti” il sorriso accennato si trasformò in un ghigno di soddisfazione.
Allen prese in mano il suo cellulare, digitò qualcosa, inoltrò la chiamata e mise il vivavoce.
Al terzo squillo una voce femminile rispose:
“National Mall e Memorial Park, buonasera”
Cal deglutì nervosamente.
“Buonasera signorina, avrei bisogno di parlare urgentemente con un vostro dipendente, il signor James Connelly”
Pausa.
“Mi spiace signore ma non è possibile”
“Signorina, devo urgentemente parlargli. Sono il suo… avvocato e ho urgenza di entrare in contatto con il mio cliente”
“Mi spiace signore ma come le ho detto non è possibile. Il signor Connelly non lavora più qui da circa un mese”
Cal sospirò leggermente.
"Bravo Reynolds! Sei riuscito a non far saltare la copertura!"
“Ah! “ finta sorpresa “non ero stato messo al corrente di questo, mi scusi. Può dirmi perché non lavora più lì?”
“Beh…ecco … il signor Connelly ha avuto un violento diverbio con un suo collega e la direzione l’ha licenziato”
“Capisco. La ringrazio, buongiorno”
Allen riattaccò e si voltò lentamente verso Cal.
“A quanto pare, signor Connelly, lei ci ha detto solo mezza verità… “
“Okay okay!” Cal alzò le mani al cielo. “Pensavo fosse irrilevante ma ho avuto una … lieve discussione con un muso nero. Sapete come vanno queste cose, no? Divergenze di opinioni e alla fine gli ho…espresso il  mio punto di vista. Trauma cranico e tre costole rotte. Credo di averlo convinto “ Ghigno di soddisfazione.
Al capo brillavano gli occhi. La faccenda lo stava interessando, bene!
Joshua era impallidito e gli altri 4 sorridevano compiaciuti vedendo il capo soddisfatto. Delle vere scimmie ammaestrate.
“Bene signor Connelly, a quanto pare il suo aiuto può tornarci prezioso.”
Cal fissava il capo con un lieve sorriso di compiacimento stampato sulle labbra.
“Ha parlato anche di “fuochi d’artificio”. Si spieghi meglio.”
“Durante la collaborazione con Doyle ho avuto modo di … come dire? … di fare molta esperienza sul campo. So come procurarvi tutto l’occorrente per uno spettacolo da 4 luglio in piena regola”
Detto cioè, Cal si rilassò contro lo schienale della sedia e restò in attesa. Il capo lo squadrò per qualche istante e infine sentenziò:
“Va bene, ma alla prima mossa falsa lei è un irlandese morto”
Cal ghignò: “Tranquillo, non ci tengo a finire sotto terra prima di averla fatta pagare a quelle scimmie” poi si diede una manata sulle gambe e si alzò di scatto. Vacillò un’istante. Si era dimenticato del colpo alla testa che aveva ricevuto.
“Allora affare fatto, no?”
Il capo annuì e rispose: ”D’accordo. La contatteremo noi per il prossimo incontro. Ah, signor Connelly… niente scherzi”
Cal annuì, si voltò e si fece largo tra i quattro energumeni lasciando Joshua a fissarlo con aria preoccupata. Allen digitò qualcosa sullo schermo del suo cellulare, prima di riporlo nella tasca della giacca.



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Ebbene sì, a volte tornano! Mi dispiace terribilmente per questa prolungata assenza ma la vita mi ha portata lontano dalla fanfic. 
Non faccio promesse di capitoli pubblicati nell'immediato futuro, perchè gli imprevisti sono dietro l'angolo, ma posso solo dirvi che i prossimi due sono quasi finiti. Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento così come spero di essere riuscita a dare una corretta continuità ai capitoli precedenti. 
Ho notato con piacere che avete continuato a scrivere: bravissime!!!! 
A presto!

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Capitolo 9
*** La situazione si fa seria ***


Erano passati tre giorni dall’incontro con Allen e ancora non aveva ricevuto alcun contatto.
Cal passava le sue giornate tra il pub , i sedili di una tavola calda e le panchine del parco. Aveva fatto qualche domanda in giro ma nessuno parlava, nessuno voleva avere guai con quelle teste calde.
Ciò che non lo convinceva era il comportamento di Joshua.  Quel ragazzo disprezzava Allen, era ben chiaro, ma allora perché era entrato a far parte del gruppo? Aveva collaborato con l’FBI ma poi si era tirato indietro, perché? Cosa c’era sotto?
Se ne stava sulla panchina del parco, stretto nel suo cappotto nero. Il vento freddo di quella giornata autunnale trasportava le ultime foglie secche staccate dagli alberi. Si stava avvicinando il giorno del ringraziamento.
E a tradimento la nostalgia lo raggiunse.
Gillian adorava le feste. Il giorno del ringraziamento dava il via ai preparativi per le feste natalizie e all’organizzazione del party in ufficio. 
A Cal non erano mai piaciute, forse perché non aveva mai avuto modo di goderle pienamente durante l’infanzia, tra un padre alcolizzato che lo picchiava quasi ogni sera e una madre depressa. E da adulto la situazione non era migliorata  di certo fino alla nascita di Emily. E lì scoprì la bellezza del Natale nel luccichio di gioia negli occhi di sua figlia, la stessa luce che illuminava il volto di Gillian durante le feste.
Era solo per vederla sorridere, per vederle gli occhi brillare che lui organizzava ogni anno il party natalizio con tutto il personale e rischiava il coma diabetico bevendo litri di zabaione e mangiando biscotti al pan di zenzero che Gillian preparava insieme ad Emily.
E lì, su quella panchina del parco, si domandò cosa stesse facendo, se stesse sorseggiando uno dei suoi slushie o mangiando un budino al cioccolato. Si domandò se fosse riuscita ad asciugare le lacrime di quell’ultima sera insieme, se stesse aspettando il suo ritorno o se si fosse rassegnata alla sua assenza.
Mentre era perso nei suoi pensieri, notò avvicinarsi Joshua.
Passo lungo, nervoso e guardingo. Giunto alla panchina dove era seduto Cal, esitò una frazione di secondo, i loro sguardi si incrociarono e infine si sedette.
Mani nelle tasche della giacca, il piede che batteva nervosamente al suolo, Joshua non voleva stare lì con Cal, e non era necessario essere degli esperti nel decifrare il linguaggio del corpo per capirlo.
Cal distolse lo sguardo dal ragazzo, si appoggiò allo schienale della panchina e, fissando un punto distante, iniziò a parlare: “Allora, pivello, ci si rivede finalmente!”
Joshua inarcò il sopracciglio. Non aveva gradito l’espressione “pivello”.
“Mi manda Allen. E’ per l’incontro.”
Cal annuì e il ragazzo continuò: “E’ per stasera alle 11, magazzino 9 ai docks di Georgetown.” Poi inalò profondamente, come per farsi coraggio “ Vieni da solo e non fare scherzi”
Cal annuì di nuovo.
Joshua si alzò e stava per allontanarsi ma la voce di Cal lo fermò: “Perchè stai con Allen? Si vede lontano un miglio che disprezzi quello che fa.”
Joshua deglutì nervosamente.
Lightman fissò lo sguardo sul ragazzo che ormai si muoveva nervosamente.
“Che cazzo dici? Allen è il mio capo e condivido in pieno i suoi obbiettivi”. Per quanto si sforzasse, Joshua non riusciva a nascondere il disprezzo che aveva per quanto stava facendo.
“Davvero? E, sentiamo, perché li condividi? Tu sai perché voglio far saltare un aria un po’ di musi neri, ma tu perché vuoi farlo?”
“Io…ecco… “
“Non sai che rispondere, vero? E allora te lo dico io il perché: tu non vorresti prendere parte a questa follia ma lo fai per senso di lealtà verso Allen, giusto?”
Joshua impallidi.
“Ho un’altra domanda” incalzò Cal “perché ti senti in obbligo verso di lui? Ti ha forse aiutato in qualche modo?”
Il ragazzo non mosse un muscolo.
“No, non ti ha aiutato, ok. Allora vediamo, ti sta ricattando?”
Joshua deglutì.
Centro!

”Bene, a quanto pare il nostro Allen è un ricattatore. C’avrei giurato!” Cal ghignò mentre il ragazzo impallidì.
“Ch…chi sei? Cosa vuoi da me?” chiese timoroso.
“Tranquillo amico, non sono una minaccia per nessuno! Te l’ho detto cosa voglio, no? Vendetta!” un luccichio negli occhi di Cal gli conferì quel pizzico di follia che ben si inseriva in quell’assurdo contesto.
“Ti avviso, irlandese, non fare il furbo che altrimenti la tua vita si accorcerà improvvisamente”
Joshua inalò, gonfiò il petto poi, voltandosi, si allontanò da Cal.
L’uomo si alzò dalla panchina e rimase a guardare il ragazzo allontanarsi velocemente. Doveva prepararsi per l’incontro con la banda. La faccenda cominciava a farsi seria.


 
“Mi raccomando, non perdete d’occhio Lightman!” Ben chiuse la conversazione e sprofondò nella poltrona massaggiandosi le tempie..
Questa operazione cominciava ad innervosirlo. Doveva essere una cosa veloce e invece erano già passati tre giorni dal primo contatto con i terroristi e da allora niente più notizie da parte loro. Non gli piaceva questo silenzio.
Toc Toc
Qualcuno bussava alla sua porta.
Alzò lo sguardo verso la porta e vide Gillian.  Il debole sorriso scomparve completamente dal volto della donna al vedere l’espressione preoccupata di Ben.
“Ciao Ben, hai notizie di Cal?”
Pochi convenevoli. Entrambi sapevano che non era una visita di cortesia.
“Purtroppo nulla di nuovo. Stiamo ancora aspettando che venga contattato dai terroristi per il luogo dell’appuntamento”
Gillian annuì poi fissò lo sguardo negli occhi di Ben e domandò: “Cos’è che ti preoccupa? Cos’è che non mi stai dicendo?”
L’uomo si mosse con ansia sulla poltrona, prese un respirò profondo ed evitando quegli occhi azzurri rispose: “Non so Gillian, ma questa storia non mi piace affatto. Sono passati tre giorni dal primo incontro e non abbiamo più loro notizie. Troppo silenzio. Non sappiamo cosa stanno complottando e ho il timore che Cal sia esposto ad un rischio troppo grande”
Gillian sentì un brivido lungo la schiena. Non erano quelle le notizie che voleva sentire, purtroppo.
In quell’istante squillò il cellulare di Ben.
“Lightman! Che succede?”
Il cuore di Gillian saltò un battito. Era Cal al telefono. Voleva sentire la sua voce, sapere se stava bene.
“Ascolta Ben, ho poco tempo. Mi hanno dato appuntamento ai docks di Georgetown, magazzino 9. Devo stare lì per le 11 di questa sera. Il ragazzo, Joshua, nasconde qualcosa. Allen ha un forte ascendente sui componenti del gruppo ma il ragazzo non sembra essere della stessa idea. Potrebbe essere la nostra occasione per far implodere quest’accozzaglia di folli!”
“Lascia stare Lightman! Seguiamo il piano originale. Limitati a quanto stabilito e niente azioni da eroe, mi sono spiegato?”
“Stammi a sentire bene tu! Allen è un folle che ha plagiato la mente di questi 4 imbecilli. Sono pochi ma la follia e la forza bruta sono sempre una pessima accoppiata. Dobbiamo essere cauti ma agire velocemente perché non so quanto durerà la mia copertura. “
“Forse Foster potrebbe…”
Al solo sentire pronunciare il suo cognome, Cal avvertì una stretta allo stomaco: “Maledizione Ben! Ti ho detto di lasciare fuori da questa storia Gillian!”
“Lo so ma…”
“Ti ho detto di no! Lasciala fuori! Voglio che stia lontana dai miei casini, e lo sai bene questo no? Non ne voglio più parlare di questa storia!”
Gillian assisteva alla telefonata senza poter sentire quello che Cal stava dicendo. Alla fine non ce la fece più a trattenersi e strappò il telefonino di mano a Ben.
“Cal!”
All’uomo mancò il fiato. Non se lo aspettava. Era una settimana ormai che non aveva sue notizie, che non ascoltava la sua voce. Se Gillian era da Ben voleva dire che aveva scoperto tutto.
Non riuscì a pronunciare alcuna parola.
Gillian lo sentiva respirare profondamente.
Attese qualche secondo.
“Cal parlami… ti prego.”
“Gillian… “ la voce dell’uomo le avvolse l’anima in un abbraccio. Dio quanto le mancava!
“Perché? Perché l’hai fatto, Cal?” Gillian non riusciva a dire altro, la voce incrinata dall’emozione e gli occhi pieni di lacrime che stentava a trattenere.
Sentì un sospirò dall’altra parte del ricevitore.
“Dovevo farlo.”
Frasi troncate. Risposte secche. Sì o no. Bianco o nero. Verità o felicità. Il suo mondo era sempre stato diviso in due metà nette, non conosceva sfumature.
“Cal, io…”
“Ascolta Gillian” la interruppe lui “ora non posso spiegarti ma ti prego, non immischiarti in questa storia. Ti prego!”
La donna sentiva la preoccupazione nelle parole di Cal.
“Perché non vuoi che ti aiuti? Come pensi possa stare qui senza fare nulla, sapendo che rischi la vita?” La voce le tremava, avrebbe voluto implorarlo di lasciare stare tutto e tornare indietro, da lei, ma sapeva che Cal non l’avrebbe mai fatto.
I secondi passavano lenti e Gillian poteva quasi vedere Cal tormentarsi nel tentativo di darle una risposta.
“Non ora Gillian. Non posso spiegarti alt...”
Gillian sentì un lamento e un tonfo dall’altra parte del ricevitore.
“Cal?....  Cal, rispondi!!!”
Immediatamente Ben le prese il cellulare di mano. Gillian era rimasta senza parole, pallida in volto.
La comunicazione era ancora attiva e poteva sentire dei rumori confusi poi una voce: “Mi spiace ma il dottor Lightman non può risponderle in questo momento”
Seguì una risata strafottente, un rumore assordante e infine la comunicazione cadde.
Ben era rimasto immobile una frazione di secondo poi chiamò immediatamente alla ricetrasmittente gli agenti che sorvegliavano Cal a distanza.
“E’ saltata la copertura, intervenite immediatamente”
Poi prese la pistola, la inserì nella fondina sotto la giacca e scattò fuori dall’ufficio.
Gillian lo seguì ma lui la bloccò.
“No Gillian, non puoi venire, è pericoloso!”
“Io vengo con te!” Non ammetteva repliche.
Stavolta però Ben era risoluto: non poteva andare con lui, non poteva farle correre rischi, l’aveva promesso a Cal.
“Non insistere. Ti chiamerò appena possibile” e corse verso l’uscita.
Gillian rimase lì, nell’ufficio di Ben, impotente. Si sedette sulla poltrona, perché le ginocchia le erano diventate improvvisamente deboli, e si coprì gli occhi con le mani, per ricacciare dietro le lacrime. Respirò profondamente una, due, tre volte, per riacquistare un po’ di lucidità.
Vide sul tavolo di Ben una cartellina con su scritto 3K. Doveva contenere del materiale informativo sulla missione di Cal.
La prese, l’infilò nella borsa ed uscì immediatamente dall’ufficio di Ben, diretta verso il Lightman Group. Forse non poteva partecipare attivamente alle indagini ma nessuno le avrebbe impedito di raccogliere informazioni in via officiosa.
Era questa una delle tante cose che Cal amava in lei: la forza di rialzarsi dopo ogni colpo ricevuto e continuare a lottare per ciò che credeva giusto. Stavolta avrebbe combattuto per salvare l’uomo che amava.

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Capitolo 10
*** Il gioco ***


Una secchiata di acqua gelata lo colpì in pieno volto e Cal si riprese dal torpore.
Intorno a lui poteva distinguere delle sagome di persone ma non riusciva a mettere a fuoco.
Che diamine era successo? I pensieri erano confusi e tutto gli girava intorno vorticosamente.
Dov’era? Perché era legato ad una sedia? Da quanto tempo era lì?
“Allora, “Jimmy”,
Il capo della banda scrutò a lungo Cal senza mostrare alcun segno di agitazione o stupore.
Lightman non riusciva a schiarire la mente. Che diavolo gli avevano fatto? Non era il classico stordimento da colpo alla testa.
Allen continuò: “Credeva di poter fare il furbo, che non avremmo scoperto la tua vera identità?”
Cal tentò di rispondere malgrado sentisse la lingua intorpidita. “L’avevo detto io che la vostra ospitalità lascia molto a desiderare”
Un manrovescio lo colpì in pieno volto spaccandogli il labbro inferiore. Uno degli uomini di Allen l’aveva colpito…come si chiamava? Jeff, Jack, Ed…niente, non riusciva a ricordare.
Il capo inizio a camminare lentamente davanti a Cal sfregandosi lentamente le mani.
“Non sottovaluti la nostra gentilezza, dottor Lightman, perché a quest’ora poteva già essere un uomo morto” Un sorriso agghiacciante piegò le labbra di Allen.
Un brivido percorse la schiena di Cal. La copertura era saltata e lui aveva bisogno di pensare come guadagnare tempo per poter uscire da quella situazione.
Pensa Cal, pensa
“Si starà domandando come abbiamo fatto a scoprire la sua vera identità, giusto? È bastato scattarle una foto e utilizzare un programma di riconoscimento facciale. La sua faccia mi era familiare ma non sapevo il perché. Quello che mi domando è…” Allen prese una sedia e la posizionò proprio davanti a Cal. Si sedette e accavallò le gambe tenendo le mani giunte sulle gambe “perché uno scienziato del suo calibro si è messo a giocare all’agente infiltrato? Cos’è, si annoiava?”
Cal si mordeva e succhiava il labbro ferito cercando di fermare il sangue. Il bruciore della ferita, il caldo liquido e il suo sapore ferroso lo aiutarono ad uscire dall’intorpidimento.
“Semplice curiosità scientifica” rispose, cercando di accennare un sorriso di sfida.
Un altro manrovescio in pieno volto.
Maledizione Jeff o come diamine ti chiami! Ci vai pesante!
“Andiamo male, Lightman. Non le conviene fare il furbo con me perché io e i miei uomini sappiamo come domare le teste calde come lei”
Accidenti ad Allen e alla sua impassibilità! Cal non riusciva a capire cosa passasse per la testa di quel folle.
Con la coda dell’occhio percepì un movimento nell’ombra e vide Joshua. Il ragazzo aveva gli occhi spalancati e si sfregava nervosamente le mani, evidente segno di disagio.
“Allora, le riformulo la domanda: perché si è messo sulle nostre tracce? Per chi lavora?”
“Le ripeto che è semplice ricerca scientifica: dovevo scegliere tra gli aborigeni della Nuova Guinea e un gruppo di razzisti qui a Washinton e ho preferito restare in zona”
Altro manrovescio e stavolta mancò poco che perdesse i sensi.
Cal spalancò gli occhi ripetutamente cercando di riprendere il controllo ma tutta la stanza gli girava attorno.
Allen si alzò dalla sedia, stirò con le mani le pieghe della giacca e dei pantaloni e si piegò verso Cal.
“Le avevo detto di non scherzare.” Poi volse lo sguardo verso un altro dei suoi uomini e annuì. L’energumeno si avvicinò tenendo in mano una siringa.
“Ora saremo noi a giocare con lei e le posso assicurare che ci divertiremo”
Cal sentì la puntura sul collo e immediatamente tutto intorno a lui iniziò a muoversi diventando sfocato, le palpebre pesanti.
Stavolta sono davvero spacciato.
Fu l’ultimo pensiero prima di perdere i sensi.
Gli uomini di Allen lo slegarono dalla sedia e lo trascinarono all’interno di una stanza spoglia lasciandolo al suolo. Gli legarono mani e piedi e si allontanarono chiudendo la porta.

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