Il ragazzo della finestra di fronte

di Falling_for_you
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Occhi che non vedono ***
Capitolo 2: *** Di stalkeraggio, fango e fisse squinternate ***
Capitolo 3: *** Bugie bianche di sangue ***
Capitolo 4: *** Tac tic: cacofonia di un momento sbagliato ***
Capitolo 5: *** Il paradiso degli orchi ***



Capitolo 1
*** Occhi che non vedono ***


Il ragazzo della finestra di fronte


OCCHI CHE NON VEDONO

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Lo sguardo alle volte può farsi carne,

unire due persone più di un abbraccio.



6 Novembre 1997


La prima volta che lo vidi avevo sette anni, un orrendo taglio a caschetto e ridicoli fuseaux rosso vermiglio appiccicati addosso come una seconda pelle e magnificamente abbinati a un maglione verde mela fatto ai ferri da mia nonna Ines. Tenevo stretto, tra le dita della mano destra, il corpicino di una barbie anoressica, accuratamente agghindata con vestiti alla moda e scarpe con tacco dodici mentre con l'altra mi aggrappavo alla lunga gonna nera di mia madre. Piccoli occhiali con le lenti rotonde gravavano in bilico sul mio naso mentre un'insolita fitta neve scendeva lenta ricoprendo le strade di un manto bianco da almeno due giorni; dicevano che non nevicava così incessantemente da trent'anni.


La prima volta che lo vidi avevo sette anni ed ero troppo distante per poterne scrutare le linee, saggiare i sapori e distinguere le sfumature dei colori.


La prima volta che lo vidi aveva un buffo cappello grigio con un pon pon in testa, un paio di jeans strappati sulle cosce e una giacca nera, forse un po' troppo striminzita per essere della sua taglia, a coprirlo dal freddo. Teneva strette le mani nelle tasche camminando a testa bassa sul vialetto sciatto della casa di fronte alla mia, la casa dell'uomo nero, dei fantasmi e del lupo cattivo.

Era solo, nessuno a cui aggrapparsi per non scivolare era lì ad aspettarlo.


Pensai che era impossibile che quello fosse un bambino perché, mi dissi, i bambini sono colorati e non sono mai soli. Ancora, però, non potevo sapere che per lui non c'è mai stata l'età dell'innocenza.

22 Marzo 1997


La seconda volta che lo vidi il mandorlo in giardino era in fiore, mio padre era impegnato nell'ardua impresa di montarvi su di un ramo un' altalena il cui sedile era la ruota della nostra vecchia Fiat Cinquecento e mio fratello camminava frenetico e ansioso di fronte al nostro cancelletto di ingresso indossando il completo della domenica. In casa si respirava odore di lasagne, di pollo arrosto e di patate al forno e la tavola era stranamente apparecchiata per cinque.

Il sole era caldo e avevo un vestito a fiori rossi, che mia madre mi aveva obbligato ad indossare nonostante non amassi le gonne, e i capelli erano raccolti in corte trecce alla Pippi Calzelunghe. Saltavo e correvo, sporcandomi le scarpe bianche di fango, attorno a mio padre mentre mia madre, invano, gli gridava dalla finestra della cucina di agguantarmi per spedirmi dritta da lei. Quel giorno continuai a dimenarmi per il cortile finché lui non arrivò, già da allora ero “la preferita” di mio padre.


L'erba del suo giardino era poco più bassa di me, non c'erano fiori né altalene. La sua casa era inodore, incolore, silenziosa, disabitata, avrei detto abbandonata se non fosse stato per le urla che talvolta la notte mi costringevano a tapparmi le orecchie per paura che l'uomo nero potesse venire anche da me. Ancora non potevo sapere che i fantasmi, gli orchi e i lupi cattivi possono essere più vicini di quanto sembrino.


La seconda volta che lo vidi era solo mentre attraversava la strada per raggiungere casa nostra. Aveva una camicia con dei grandi scacchi neri e bianchi, la testa bassa e le mani nascoste nelle tasche, rimase titubante di fronte al cancelletto spostando il peso del proprio corpo da un piede all'altro fin quando mio fratello non lo tirò dentro afferrandolo per un braccio e tenendolo stretto a sé. Quella volta lo capii subito che il loro era già amore.


La seconda volta che lo vidi scoprii che aveva dodici anni, che non amava le lasagne e che odiava l'odore di cucina.

Scoprii quanto fosse bello osservarlo parlare a stento, corrugare le labbra ad ogni forchettata e arricciare il naso quando mia madre si apprestava ad aprire il forno.


Quella fu la prima e l'ultima volta che entrò in casa mia, ancora però non sapevo che il mio mondo non lo avrebbe abbandonato con la stessa facilità.


4 Luglio 2005


La terza volta che lo vidi avevo quindici anni, il caldo torrido estivo era soffocante ed era notte fonda. Nonostante ciò, fuori imperversava un acquazzone, i rami del mandorlo battevano convulsi sui vetri della finestra ed io stavo comodamente stesa sul mio letto nella penombra della camera rischiarata dalla fievole luce della lampada con “Orgoglio e Pregiudizio” stretto tra le mani. Mi chiesi se anch'io, come Lizzie, mi sarei lasciata sfuggire da sotto il naso un Mister Darcy per poi costringermi a rincorrerlo per non perderlo definitivamente.

Distinsi chiaramente la disinibita e allegra voce di mio fratello rimbombare tra le mura dei palazzi del vicinato nel tentativo di cantare con tutto l'ardore possibile “Il coccodrillo come fa?”, intervallata da sporadici singhiozzi di dolore e di risa. Mi affacciai e un sorriso divertito affiorò sulle mie labbra nel vedere Italo, fradicio, urlare a perdifiato con le braccia rivolte verso il cielo mentre lui lo colpiva con dei pugni sui fianchi per farlo azzittire.


Mio fratello Italo era ubriaco e non appena aprii la porta di casa non si curò per nulla della mia presenza ma si dileguò svelto al piano di sopra con ancora un risolino stampato in volto, non prima però di aver sferrato una pacca sulla spalla a quello che, capii in quel momento, era ormai diventato per lui un fratello. Quella volta mi chiesi perché lui lo avesse scelto, perché si fosse affidato a quello stesso Italo campione dei secchioni che fino a quel momento era riuscito a pararsi il culo solo perché bello e abile con le femmine. Forse perché erano simili o più probabilmente perché erano talmente diversi da abbisognarsi a vicenda, necessariamente. Gli opposti si attraggono sempre: è una legge fisica.


La terza volta che lo vidi avevo quindici anni, ero scalza, indossavo il pigiama con disegnate sopra le stelle e i cavallucci marini e avevo i capelli scarmigliati. Rimasi immobile a fissare la sua figura stagliata di fronte alla mia domandandomi se si ricordasse di me, di quella bambina con le scarpe bianche sporche di fango, il vestito con i fiori rossi e le trecce alla Pippi Calzelunghe.


Lui aveva diciannove anni, era fradicio e indossava una maglia nera e un paio di jeans. Lente impertinenti gocce di pioggia fluivano lungo il profilo del suo naso, delle sue labbra e poi giù, lungo il collo fino ad avvallarsi nelle cavità delle scapole, lì dove non c'era nessun nero inchiostro a contaminare la pelle. Rimasi incantata a osservare lo scollo di quella maglia troppo larga appiccicataglisi addosso, dal quale si intravedeva, segnata a fuoco, un'unica lettera, una “I” in stampatello, semplice, senza ghirigori e fronzoli da femminuccia, un marchio indelebile sul suo corpo. Mi chiesi se quel solitario grafema gliela avesse portata quella speranza che i suoi occhi spenti faticavano a bramare.


La terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato. Una spessa cicatrice solcava il suo volto, sfregava la sua pelle in una linea che, sfacciata e insolente, rigava lo zigomo destro fino a scendere alla guancia sinistra deturpando le labbra; era perfettamente rettilinea e simmetrica nel suo andamento sbieco come se volesse beffeggiarsi di quella meravigliosa e armoniosa brutalità di lineamenti decisi e marcati che mi faceva girare la testa. Non lo so perché lo feci, non ricordo l' ardore che azionò il mio braccio e poi la mia mano, so solo che mi mossi per quanto fosse intenso il formicolio dei miei muscoli, l'accarezzai per tutta la sua lunghezza, percorsi quella greve piega imprimendone il tracciato nella mia mente, ne saggiai le forme, la morbidezza, le increspature disegnandone una mappa sui miei polpastrelli, sfiorai con il solo dito indice i luoghi da lei segnati per paura di spezzarla, di cancellarla.


La terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato e pensai che al mondo non sarebbe esistito niente di più bello.


Aveva i capelli neri incollati alla faccia e in mano teneva una bottiglia di rum ancora da iniziare. I suoi occhi erano offuscati, smarriti, cinerei come le nuvole autunnali, nessuna sfumatura a colorarli, imbambolati a guardare le espressioni del mio viso, mentre la mia mano scandiva, ipnotizzata, i contorni del suo, ma senza vedere nulla realmente. In un secondo il suo sguardo si fece madido di livore e le sue dita furono leste a circondare con forza il mio polso e a scansare i miei polpastrelli dalla sua pelle, la sua figura si allontanò poco dopo barcollando per la strada. Mi chiesi se il giorno seguente si sarebbe ricordato di me, della ragazzina scalza, con il pigiama bellamente adornato da stelle e cavallucci marini e con i capelli scarmigliati, della ragazzina dalle dita impertinenti; mi domandai se quegli occhi annebbiati un giorno mi avrebbero visto davvero.


Dopo quella, miliardi furono le volte in cui lo vidi fino a quella in cui iniziai a sperare di poter ascoltare ancora la sua voce sussurrare a stento scarne parole, di poter ammirare i suoi occhi adombrarsi e di poter godere nuovamente del calore della sua pelle, celato al di sotto di quell'infima incisione, fino a quella in cui non ebbi la consapevolezza di essermi innamorata.

Tuttora, però, sto ancora aspettando che i suoi occhi mi vedano per la prima volta.


La guardò. Ma d’uno sguardo per cui guardare già è una parola troppo forte. Sguardo meraviglioso che è vedere senza chiedersi nulla, vedere e basta. Qualcosa come due cose che si toccano – gli occhi e l’immagine– uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più assoluto della mente, l’unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare – vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere – sola innocenza che potrebbe prevenire le ferite delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro sentire-vedere-sentire– perché sarebbe nulla di più che un meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il mondo – ricevere – senza domande, perfino senza meraviglia – ricevere –solo– ricevere– negli occhi – il mondo.

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Capitolo 2
*** Di stalkeraggio, fango e fisse squinternate ***


Il ragazzo della finestra di fronte


DI STALKERAGGIO, FANGO E FISSE SQUINTERNATE

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T’amo senza sapere come,


né quando, né da dove...


Martina dice che sono diventata una stalker, io invece dico che sono soltanto innamorata.


Le finestre della sua casa sono chiuse anche oggi. Lo sono sempre alla mattina e lo rimangono per gran parte del giorno, barricate e murate da persiane di legno o da pesanti e spesse tende grigie impedendo alla luce di filtrare all'interno. Si aprono soltanto alla sera, quando è difficile essere rischiarati dall'illusorio sfavillio della luna, troppo debole ed evanescente per sperare di poter vedere chiaramente e troppo distante e delicato per poter sperare di esserne riscaldati.

In fondo credo di averlo sempre saputo che, la sua, fosse una casa senza luce e calore, un piccolo, soffocante buco nero di cemento armato, di alcool e urla rabbiose, botte vigliacche e dolore sepolto. Un bunker di kevlar apparentemente senza via d'uscita, la porta principale è stata asserragliata, lì si respira a fatica l'unico ossigeno a disposizione, lurido e tossico, che sembra non bastare mai.

Nessuna aria purificante a disintossicare i suoi luoghi, prima o poi si rantola a terra, miseri.


Ogni tanto è la sua di finestra a rimanere aperta, spalancata anche nelle notti invernali più fredde, alla ricerca di respiro, di luce e di vita, una falla beffarda in quel muro invalicabile, uno squarcio di calore, traditore della sua stessa sostanza e testimone di una ricreatrice guerra fredda in cui disumani fiotti di sangue nemici sgorgano da un'unica fonte assassina. E' quel microscopico, coraggioso spiraglio indocile a farmi credere che ci sia ancora speranza, per lui.

Riesco a vederne solo una parete della sua stanza, la fisso per ore dal balcone della mia camera o nascosta dietro la tenda di seta rossa quando lui è dall'altra parte, a pochi metri in linea d'aria da me, seduto a cavalcioni sul davanzale, con una sigaretta incastrata tra quelle labbra il cui sapore, scommetto, è impregnato di birra e con lo sguardo perso in chissà quale mondo, privo di qualsiasi traccia di paura o timore che quella gamba penzolante nel vuoto possa tirarci anche lui là sotto, giù, dove comunque sarebbe meglio di qui, dove si trova adesso.

La parete è bianca, spoglia, pulita come se anche quell'angolo d'inferno fosse stato disabitato, come unici interruttori di quella monotonia anomala un poster di Jeff Buckley regalatogli da mio fratello e due foto di cui non sono mai riuscita a distinguere le immagini ma che, sono sicura, siano uguali a quelle che Italo tiene in camera, entrambi appesi al muro con una meticolosità e precisione sovraumana, perfettamente dritti e allineati. Non c'è mai stato altro, non ci sono stati i ritagli di giornale che osannavano l'Italia campione del mondo, né poster raffiguranti Omer Simpson e la sua immancabile Duff o Valentino Rossi in pista con la sua moto; niente di tutto ciò si è mai impresso su quella parete, solitaria macchia bianca in un abisso torbido di menzogne, vigliaccheria e odio.


Per un po' ho anche pensato che il ragazzo della finestra di fronte fosse strano, vuoto, uno che non avesse nulla da dire perché chi è che a quindici anni non si diverte a far incazzare sua madre ricoprendo le pareti della sua camera con immagini di qualsiasi genere attaccandole con il nastro adesivo di cui rimarrà l'alone finché non si imbiancherà di nuovo, pensai che la sua stramberia avesse contagiato anche Italo perché la sua stanza era-e lo è ancora oggi-esattamente uguale, sempre con Jeff Buckley e quelle due fotografie, soltanto attaccati più storti e meno allineati. Italo non è mai stato tanto scrupoloso.


Poi ho compreso, finalmente, io che non sono mai stata brava quanto mio fratello, ho capito che sua madre era già abbastanza incazzata di suo e che se ciò che hai da dire è così insopportabilmente opprimente e doloroso, le parole,sempre se le trovi, non saranno mai abbastanza e una superficie bianca non riuscirà mai a contenerle tutte, se ciò che devi dire è talmente lurido e schifoso da sporcarti l'anima, vuoi solo che quella parete rimanga così com'è, cerea, candida, pulita, così come tu non ti sentirai mai.


-Sempre qui di fronte, eh?!- il braccio di Italo, scoperto nonostante sia novembre, mi avvolge la vita nel preludio di una stretta silenziosa, appoggia il mento sulla mia spalla e posso tranquillamente distinguere la cadenza dei suoi respiri che si scagliano sulla pelle del mio viso.

-Non è sceso per cena- dico senza distogliere lo sguardo. Ora lui è salito di nuovo sul quel davanzale.

-Sua madre non sa cucinare- no, infatti. Ma è diverso: sua madre non sa fare un cazzo.

-Lo so, magari potresti invitarlo a cena qualche volta-le mie dita, calde nelle tasche del maglione di lana, si muovono spontaneamente incrociandosi speranzose.

-Lo sai che non accetterebbe mai- afferma convinto Italo tendendomi più stretta a sé mentre le sue labbra sfiorano la mia tempia destra.

-So anche questo, ma tu non smettere di chiederglielo magari un giorno accetterà per non sentirti più rompergli le palle- adesso il suo sguardo è rivolto giù, nel vuoto, mi chiedo che ci veda lì in fondo. Ho paura che vi anneghi.

-Potrebbe cadere- ride e sbuffa Italo, elettrizzandomi i capelli.

-Non ti preoccupare, è così cagasotto che scommetto che con l'altra mano si tiene al termosifone sotto la finestra-

Non immaginavo che ci fosse un termosifone sotto la sua finestra, non ci ho mai pensato, almeno, ma avrei voluto saperlo. Vorrei poter guardare più da vicino, vedere se tutte le pareti della sua stanza siano ugualmente bianche e immacolate o se ci siano delle venature nerastre come in quelle di Italo, osservare il suo letto sfatto e tastare la morbidezza del cuscino e del piumone, sapere dove tiene quella maglietta verde smeraldo che indossa quasi sempre la domenica e vorrei odorarla, imprimere nelle mie narici il profumo della sua pelle.

-Dovresti smetterla-

-Di fare cosa?-

-Non fare la finta tonta, dovresti lasciarlo andare. Non è pronto per amare-

Che gran cazzata, Italo, lui ama già.

Me lo ricordo l'esatto istante in cui compresi di essermi innamorata di lui, ero immersa nel fango e credo che da quella pozza non ne sono più uscita. E' anche questo l'amore, una melma fossilizzante che ti imbriglia nelle sue catene appestandoti le viscere dello stomaco con il suo lezzo, tanto da privarti di quei pochi respiri che sono comunque intrisi di ossigeno miasmatico, si appiccica sulla tua pelle disidratandola e soffocando sul nascere ogni tua piccola libertà di movimento, ti si incrosta addosso e sai che dovrai sfregare, graffiare e raschiare con forza e coraggio per togliertelo via, fino a consumarti le dita.

E' così, amare, se sei innamorata di uno che forse ti odia e che l'unico amore che ha imparato a conoscere è quello per tuo fratello.



Ricordo le mie dita ghiacciate tra le foglie inaridite degli alberi, le muovevo impercettibilmente, leggere e circospette, con il battito del cuore in gola, per evitare di fare rumore; il terreno era umido sotto le ginocchia, in corrispondenza delle quali due ampie macchie marroni si stavano estendendo sempre di più sui miei jeans comprati esattamente il giorno prima. Mi barcamenai ad inventare una scusa plausibile per mia madre, per risparmiarmi i soliti improperi su quanto fosse stanca- o stufa come dice lei ancora adesso- di dover continuamente sfregare via il fango secco su ogni mio vestito sporco e di vedermi comportare come un maschiaccio scapestrato e non come una signorina per bene, ma fu solo un istante, fulmineo e sfuggente, subito dopo il quale mi concentrai a respirare piano, con la bocca chiusa nonostante le narici bruciassero.

Ricordo che quel giorno era freddo, ma di un gelo che si conficcava nelle ossa, fino in fondo, sembrava assiderarti e raschiarti via la linfa vitale; si insinuava subdolo tra i tessuti della pelle, pietrificandoli. Avevo il giacchetto pesante, il cappello, i guanti e la sciarpa di lana, tremavo e i denti battevano gli uni sugli altri freneticamente addormentando la mia mandibola che mi sforzavo di tenere serrata per paura di essere scoperta.

Non ho mai amato l'inverno, sono sempre stata freddolosa e mi sono sempre ammalata facilmente, tuttavia rimasi lì, accucciata a terra, sul terreno umidiccio di fango, con il cuore martellante nel petto, ad ascoltarli.


-Che cazzo ci facciamo qui?-

-Non fare lo stronzo 'Na...-

-A quest'ora avremmo potuto spassarcela con due biondine scopabili-

-Ma se non ti piacciono le bionde...-

-E' questo il punto, una ripassata in bagno non si nega a nessuno-

-Nel bagno Leonà? Davvero?-

-A me non dà fastidio la puzza di piscio-

-Sei proprio uno stronzo-

-Tale padre, tale figlio-

-Non hai mai avuto voglia di avere una ragazza 'Na?-

-Mi dispiace per te, Italo, ma io di ragazze ne ho quante ne voglio-

-Dai che hai capito... non una qualsiasi. Non hai voglia di trovarla, Lei, una speciale, una da amare?-

-L'amore è roba da femmine, Italo-

-Non vuoi innamorarti 'Na?-

-Non c'è e non ci sarà una lei, Italo. Ci sei tu, ci siamo solo io e te-



Martina dice che la mia è solo una fissa perché di lui non conosco nulla, io invece dico che di lui conosco quanto basta.

Non t’amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t’amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, tra l’ombra e l’anima.



So che non gli piacciono le lasagne e non sopporta l'odore di cucina, che fuma troppo, un pacchetto da venti di MS al giorno; il tardo pomeriggio, quando ormai non c'è più nessuno, lo trovi costantemente al parco sotto casa, quello dietro al palazzo di Martina e vicino alla scuola elementare, accomodato sempre sulla solita panchina, il didietro sul filo dello schienale, i piedi sul piano della seduta e i gomiti poggiati sulle ginocchia, tra le dita la sua immancabile dose quotidiana di nicotina. E' strano, perché quelle sigarette non le tiene mai incastrate tra l'indice e il medio, ma le avvolge con le dita, quasi potessero sfuggirgli.

So che è diffidente e che è un ottimo bugiardo, potrebbe farti credere di aver visto Napoleone resuscitato al galoppo del suo cavallo bianco se solo lo volesse, se solo desiderasse nasconderti ciò che realmente lui stia pensando; non saluta mai, neanche se ci hai preso una sbornia appena la sera prima, e parla a stento con tutti al di fuori di mio fratello, perché, come direbbe, lui è uno che si fa i cazzi propri. Tuttavia quando lo fa, quando la sua bocca si muove per parlare seriamente, ciò che dice è quasi sempre così reale da farti male, ti blocca il respiro in gola costringendoti a tapparti le orecchie per non strozzarti.

Non gli piacciono i colori, veste sempre di nero, bianco o grigio concedendosi qualche volta quella maglietta verde smeraldo alla domenica e, puntualmente ogni anno, il 25 di Luglio, per il compleanno di Italo, quella rosso fuoco. Per festeggiare se ne vanno sempre in campagna, in mezzo ai prati e ai boschi, vicino al fiume, stanno lì fino a sera, non ho mai capito bene cosa facciano ma vorrei tanto scoprirlo.


Sono conscia che sia un grandissimo fottutissimo bastardo, uno stronzo con i contro fiocchi a cui non importa un cazzo di te e di ciò che sei; almeno due volte a settimana torna a casa a notte fonda, ubriaco e con il viso pieno di lividi, gli altri giorni se li risparmia perché c'è già la codardia di suo padre a farlo nero. Prova gusto a ferire, picchiare, menare duro, fino a quando non ti vede rantolare a terra e le braccia di mio fratello non lo afferrano per trascinarlo via. Gli piace perché è incazzato con te che non ti fai i cazzi tuoi e rompi i coglioni, con te che provi compassione e pietà per lui soltanto guardandogli il viso, con la vita che è senza Dio e senza giustizia, con se stesso, perché fa schifo e si disprezza.

Lui è uno che, se ne ha voglia, potrebbe essere generoso e sbattersi una femmina a sera; nonostante abbia il volto sfigurato, è bello da far male alla vista con i suoi occhi di ghiaccio di cui vorresti tanto scoprire la profondità, i riccioli neri che sono una tentazione per i polpastrelli delle tue dita e con quei lineamenti costantemente duri e spigolosi che vorresti vedere, almeno per una volta, distesi e sorridenti.

Non sorride mai, lui; forse, raramente, con Italo.

Non sceglie mai la fortunata donzella con cui se la spasserà per un po', è lei a desiderarlo, cercarlo e seguirlo. La porta nei vicoli bui dietro al bar quando si è stancato di farsi inculare a biliardo da mio fratello, o in un bagno qualsiasi di una discoteca, non importa se puzza di piscio, se la porta non si chiude e la musica house ti tampina il cervello imbecillendoti. Non si lascia sfiorare, toccare ma è sempre lui a condurre quel gioco distruttivo accontentandosi di una scopata qualunque, per rilassare i nervi, per non pensare.

Odia la polvere bianca e i deboli che a lei si arrendono, tuttavia capita che a volte, quando il vuoto fa troppa paura per poterlo guardare e il cervello sembra voler esplodere nel cranio, è lui il primo a non saperle dire di no, a cadere nella perfida e velenosa rete di leggerezza, finta euforia e trip allucinogeni, perennemente attento, però, che non sia Italo a fare il cazzone, perché deve essere lui a riportarlo a casa, con un braccio a sorreggergli la vita, quando anche quell'idilliaco benessere non è più in grado di sotterrare la merda che lo circonda.

Non festeggia mai il suo compleanno, so che vorrebbe morire e rinascere di nuovo, magari sotto le sembianze di un animale, in quel caso sarebbe sicuramente un felino.

La sua mente è come un registratore: osserva, appunta, cataloga. Incide, marchiando a sangue le cellule del suo cervello, qualsiasi immagine. Disegni, numeri, grafemi, nomi, le persone e i loro colori.

Non tralascia nulla visto che probabilmente è in cerca di quelli giusti per lui.

So che non si è dimenticato della ragazzina dalle dita impertinenti, so che non mi sopporta, mi odia magari, ma forse il suo è solo un fiacco tentativo di rilegare nei meandri della sua testa il fattaccio di essersi innamorato di me, quella notte, o forse sono solo io che ci spero ingenuamente.


So che ciò che ho pensato finora è solo una gran cazzata, so che lui ama, che darebbe la vita per Italo, che è un cagasotto e che potrebbe agonizzare a terra alla sola svolazzata di un moscerino fastidioso.


So quanto basta.



Io ti chiesi perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei
come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.
Mi hai guardato a lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi, con gentilezza:
ti voglio bene, perché sei tanto triste.


C'era una bambina con le trecce alla Pippi Calzelunghe, si dondolava seduta su di un'altalena le cui corde erano state legate ben strette attorno al ramo di un mandorlo in fiore, voleva arrivare sempre più in alto, fino all'azzurro del cielo rischiarato, quel giorno, dai tiepidi raggi di un sole primaverile, desiderava afferrare quella nuvola birichina, che di lì a poco avrebbe reso tutto meno lucente e più buio, per abbracciarla e scoprire l'effetto della sua consistenza tra le dita delle mani, sui polpastrelli, sulla pelle del viso, non le importava di rischiare di rimanere delusa dalla sua inconsistenza ed evanescenza. Allora si faceva forza con il busto, perché con i piedi non riusciva a toccare terra, e spingeva, avanti e indietro, su e giù, di continuo, sempre più veloce per raggiungere il cielo e guardarlo da lì quel bambino, che già voleva fare il grande, seduto sullo scalino della sua veranda.


I bordi del vestito a fiori rossi erano incrostati di fango, una patina marrone lentamente si era estesa verso l'alto e le sue scarpe, quelle delle feste e della domenica, che prima, forse, erano state vagamente bianche, erano un misto di colori, dalle sfumature del verde a quelle del giallo ocra. Poco male se sua madre si sarebbe arrabbiata e le avrebbe impedito di guardare il nuovo episodio di Sailor Moon quella sera, non le sarebbe importato neanche se Bunny fosse finalmente riuscita a capire l'identità del suo amato Milord, in quel preciso istante voleva soltanto starsene lì a fissare quel bambino dagli occhi tristi.


Le piaceva. Le piacevano i suoi occhi grigi, che l'avevano osservata per tutto il pranzo, e i suoi non colori, le piaceva il suono della sua voce, non era mai prepotente o cacofonico, ma sempre leggero e sussurrato, adorava i ricci sbarazzini, scapigliati come avrebbe desiderato portarli sempre lei, ma più di tutto le piaceva il fatto che, a differenza degli altri amici di suo fratello, ancora non si era divertito a tirarle i capelli o a pizzicarle la pelle delle braccia lasciandole lividi viola, non era stato dispettoso o fastidioso, ma si era limitato soltanto a fissarla, a guardare tutt'intorno, quasi volesse rubarle la casa, la vita, e forse gliela avrebbe anche ceduta se solo lo avesse visto fare un sorriso sincero.


Il ragazzino aveva disteso le gambe intorpidite sbuffando e stiracchiandosi, era tanto che aspettava ed era nervoso e ansioso, pensava al modo in cui avrebbe potuto dire a quel suo nuovo amico dal nome strano che lui non ci aveva mai giocato a Monopoli, che non sapeva neanche cosa fosse e che gli unici giochi che aveva mai avuto erano quattro pezzi di legno regalategli da suo nonno prima che morisse. Sperava che Italo non si arrabbiasse, che non lo prendesse in giro e lo volesse ancora come amico, che continuasse a passare a casa sua ogni mattina per andare a scuola insieme. Di tutti quelli che aveva conosciuto da quando si era trasferito, Italo era stato il solo di cui sentisse la certezza di potersi fidare completamente, l'unico che gli fosse piaciuto davvero; lo trovava buffo, infagottato nelle sue camicie della domenica, sempre con quella sua aria sbarazzina, perennemente tra le nuvole ma attenta alle sue parole, gli piaceva perché con lui non doveva avere paura di non avere le parole giuste, non chiedeva e non pretendeva niente di più di ciò che lui decideva di dargli, si limitava ad ascoltare, vigile, senza farsi sfuggire nulla.

Gli piaceva il modo in cui era continuamente avanti rispetto a tutti, proiettato con la testa già al mese successivo di cui ormai aveva programmato tutto.


Riusciva in ciò che lui non sarebbe mai stato in grado di fare: pensare al futuro, allungare l'occhio e guardare oltre il limite di una notte. Lo invidiava un po', perché lui si poteva limitare a sperare solo di svegliarsi e iniziare un nuovo giorno.


Gli piacevano tante cose di italo, ma di certo non sua sorella.

L'aveva osservata per tutto il pranzo, aveva catalogato, registrato, inciso sulla propria memoria ogni piccolo dettaglio o particolare, il modo in cui teneva la forchetta, tra l'indice e il pollice, e tagliava la lasagna, la cadenza ritmata dei suoi piedi che zampettavano sotto il tavolo, ogni tanto fino a colpirlo sullo stinco con un calcio, le dita con le unghie mangiucchiate lerce e nere come l'onice, tamburellavano sopra la tovaglia in attesa di agguantare di soppiatto una patata al forno direttamente dal vassoio, le piccole labbra imbrattate di pomodoro, gli occhi verdi, o quasi, vispi, curiosi, instancabili, le trecce ormai sfatte e scapigliate che oscillavano a ogni suo movimento; si era divertita a fare palline con le molliche di pane incurante dei bisbigliati ammonimenti di sua madre, diceva che raffiguravano una principessa al galoppo di un unicorno ma in realtà sembravano solo un ammasso informe e schifoso.

Non si era fermata un istante, si era alzata ad ogni portata, aveva corso per la cucina e intorno al tavolo per poi rallentare passando accanto a lui.


Non le piaceva perché sorrideva troppo, sempre, di continuo, per ogni suo sguardo rivoltole, non le piaceva perché non appena aveva sollevato gli occhi dal piatto, aveva trovato i suoi ad aspettarlo e accoglierlo.


Il ragazzo sbuffò ancora dimenandosi sugli scalini, aveva le iridi puntate a terra, sulle proprie mani intente a ridurre in piccoli pezzi una foglia secca, si costringeva a tenere il volto basso, a non alzarlo per evitare di incontrare nuovamente il quasi-verde del suo sguardo, ma c'era lo stridore delle corde su quel ramo ad essere un richiamo troppo invitante.


-'Cazzo hai da guardare?- come si aspettava i suoi occhi erano esattamente dove se li era immaginati, lì, puntati addosso a lui.


-Non si dicono le parolacce- disse la bambina con tono saputo. Pensava che così sarebbe parsa più grande anche lei, ma se solo l'avesse sentita sua madre avrebbe riso, o si sarebbe arrabbiata, perché per l'età che aveva, lei diceva già le parolacce, un mucchio, le conosceva quasi tutte, Italo gliele aveva insegnate.


-Che cazzo di frignona- una smorfia si dipinse sul viso del ragazzo, era certo che quella marmocchia fosse una gran rompipalle, non sopportava la sua aria da chi la sa lunga, il modo in cui si guardava intorno, come se fosse sempre un passo avanti a tutti.

Non smise un solo momento di osservarla dondolare su quell'altalena: il vestito svolazzante e le trecce sempre più disordinate.

-L'hai detta di nuovo- insistette lei, adesso con un sorriso birichino stampato sulle labbra.

-Smettila di fissarmi- lo disse serio ed incredibilmente severo, un ordine perentorio, il suo; tuttavia non riuscì a non rimanere fisso sulla sua bocca radiosa: era ancora sporca di sugo e i denti erano da latte.


-Non ce la faccio- il sorriso scomparì e un sussurro si diffuse nell'aria.

Avrebbe voluto farlo, smettere e correre in bagno, riempire la vasca e tuffarcisi dentro, almeno così avrebbe tolto via il fango dai suoi vestiti e sua madre non l'avrebbe sgridata, ma non ne fu capace, c'era una calamita a tenerla impossibilitata lì.


-Se non la finisci, te li chiudo io, quegli occhi- si alzò, il ragazzo, lanciò via la foglia secca ridotta in mille pezzi che tentò di calciare in aria, voleva andarsene e scappare nel parco dietro l'angolo ma temeva che il giorno seguente Italo non gli avrebbe più parlato.


-Non sorridi mai, neanche quando sei con Ito. Tu sei triste- la guardò terrorizzato, aveva paura di lei, una stupida mocciosa, di quegli occhi infantili che avevano appena cominciato a vedere il mondo e che di lui avevano già compreso tutto. Si sedette di nuovo passandosi una mano tra i ricci corvini che divennero così ancora più indisciplinati e pensò, frugò nei cassetti della sua memoria, nei cataloghi registrati della sua mente a un dettaglio che potesse distrarlo e farlo respirare ancora.

Si disse che forse Ito era ancora peggio di Italo.


-Chiacchieri troppo, non mi piaci- lo affermò quasi per ripicca, con cattiveria, speranzoso di tapparle la bocca e magari farla anche mettere a frignare, non credeva, però, che sarebbe stato lui quello a doversene andare da lì a poco.

-Tu a me si, ti voglio bene-



Just one second, please...

Volevo soltanto salutarvi e farvi qualche precisazione mentre fuori piove e fa freddo e io faccio la fancazzista sopra il letto con una cioccolata calda in mano... ogni tanto un bel pomeriggio di relax fa bene al cervello (nel mio caso no, ma questa è tutt'altra storia). Comunque, siamo solo all'inizio, deve tutto arrivare e primi due capitoli solo soltanto un po' introduttivi, già dal prossimo le cose cominceranno a smuoversi e per questo vi chiedo di portare pazienza; ci sono vari salti temporali nel capitolo, li ho messi in corsivo, e vi chiedo di prestare attenzione sia alle citazioni che alle parti finali perché se le redini dell'intero capitolo, e dei capitoli a venire, le tiene Lei, lì c'è un po' di Lui, invece.

Mi scuso se il capitolo precedente era poco leggibile, font sbagliato tra tutti quelli che potevo scegliere... l'ho ripostato sperando che ora si veda qualcosa altrimenti... mi arrabbio?!

Credo sia tutto, ringrazio coloro che hanno recensito, chi mi ha inserita tra le preferite, seguite e ricordate, chi legge soltanto, fa dannatamente piacere.

Un bacio, Falling

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Capitolo 3
*** Bugie bianche di sangue ***


BUGIE BIANCHE DI SANGUE


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Si potrebbe concludere che più un bugiardo ha successo,

più gente riesce a convincere,

più è probabile che finirà anche lui per credere alle proprie bugie.



Open your eyes now

Open your eyes now
It's time to see
If you can reach me


Tutt'intorno c'era un gran casino che sembrava risucchiarti nella sua voragine di folgoranti luci stroboscopiche, di confuse grida sconclusionate e di dissennati corpi sudati e ansanti che si muovevano seguendo un ritmo incalzante, cadenzato, le cui note si ripetevano incessantemente sempre uguali picchiandoti la testa, infiltrandosi fin nelle viscere dei tuoi timpani, fracassandoli. Eravamo stipati in un inghiottitoio di incoscienza, ebrezza e pazzia.

Mi muovevo a disagio camminando sulle scarpe col tacco di mia madre che Martina mi aveva costretto ad indossare, una mano era artigliata ai lembi di quel vestito nero troppo corto, che a mala pena riusciva a coprirmi il culo, messo addosso soltanto con la stupida speranza che così, vestita a qual modo, potessi piacergli di più; con l'altra cercavo di divincolarmi in mezzo a quell'insieme avviluppato di braccia e gambe, volevo raggiungere l'uscita, respirare aria fresca che non sapesse di alcool, fumo e sudore, rilassare i timpani e camminare scalza per la strada fino a casa, insultandomi nei peggior modi possibili per aver sperato che lui potesse esserci e potesse vedermi.

Fu non appena mi chiusi la porta alle spalle che questa voglia svanì, completamente.


I due stronzi erano strafatti come ogni sabato sera. Italo era sdraiato a terra, sull'asfalto, il viso rivolto verso l'oblio della notte fonda, blaterava qualcosa mentre, insaziabile, continuava a portarsi alla bocca una canna e lui era lì, accanto, seduto con la schiena poggiata al muro e una birra tra le gambe. Il suo sguardo perso nel vuoto, almeno fino al momento in cui si fissò su di me. Fu come morire e rinascere in un nanosecondo, soffocare d'aria e smettere di respirare, smaniare e sentire i muscoli pietrificarsi, piangere e ridere contemporaneamente. Fu come vivere, finalmente.


Quello fu l'esatto istante in cui compresi quanto lui si fosse ormai radicato in me tanto da ridurre a brandelli le particelle invisibili della mia anima, fu quella la volta in cui realizzai quanto lui fosse un ottimo bugiardo.


-'Na, credo che mia sorella si sia innamorata-

-Ah si? Beh, è una femmina, è inevitabile che succeda-

-Passa le ore davanti a quella cazzo di finestra a vedere quello che che cazzo combini-

-Mi stai dicendo che tua sorella ha un cazzo di nulla di meglio da fare che spiarmi? Dovrei preoccuparmi per caso?-

-Non fare il coglione che fa finta di non aver capito. Ti sto dicendo che credo che si sia innamorata di te-

-Tua sorella è un cazzo di cliché-

-Sei proprio uno stronzo Leona'.Ha solo diciassette anni-

-Appunto. Se anche fosse vero quello che dici, vedrai che quando gli cresceranno le tette qualcuno le andrà dietro e si dimenticherà di me-

-Sei un porco-

-Che c'è?! Che ho detto di male?! E' una cosa naturale che le crescano le tette-

-Finiscila-

-Scommetto che saranno due gran belle tette-

-Sei un figlio di puttana, finiscila. Stiamo parlando di mia sorella! E poi tu non sei quello che si gira sempre a guardare il culo alle femmine?-

-Si, ma perché le loro tette non mi piacciono-

-Sei un porco-

-Me lo hai già detto-

-'Na, ce l'hai mai beccata mia sorella? A guardarti, intendo-

-No, mai. Comunque sono sicuro che la tua è solo una sega mentale, non può essere in fissa per me, neanche mi conosce-

-Dici? Fossi in te non ne sarei così sicuro-



C'era una stanza dalle pareti colorate, verde, arancione, giallo e celeste. Uno per ogni superficie, il soffitto rimaneva bianco ma soltanto perché voleva deciderlo bene, il colore; lo voleva originale, né troppo acceso, né troppo spento, né troppo intenso, né troppo blando, era tutta una questione di equilibrio. Le aveva dipinte tutte lei, tutte da sola, con indosso una vecchia salopette in jeans di sua madre e i capelli tirati su alla meno peggio per tentare di non rimanere soffocata dal caldo torrido di quell'estate. Ci aveva impiegato una settimana e mezzo, aveva sorriso saltando sul suo letto ricoperto da un telo, si sentiva leggera nonostante la nausea che la puzza di vernice le provocava e sebbene la signora Marisa Viscardi, sua madre, si fosse fermata a guardarla dalla porta; le braccia incrociate sotto il seno e un cipiglio nervoso sul viso, a conferma del suo disappunto manifestato fin dall'inizio dicendo che una stanza colorata non era una stanza seria e che avrebbe dovuto iniziare a crescere, a diciassette anni. La ragazza non le badò, fece di testa sua, come al solito.

Era disordinata quella camera, costantemente. Pile di libri sulla scrivania, principalmente scolastici ma ogni tanto compariva un romanzo, di quelli massicci- come diceva lei; fogli stracciati e scarabocchiati, quaderni, pennarelli e matite colorate, cartacce di caramelle e confezioni aperte di biscotti al cioccolato fondente ancora da finire. Le piaceva la cioccolata fondente, da morire:dura all'apparenza, assuefacente in profondità, come qualcun altro. Cumuli di vestiti sulla sedia o incastrati e appesi alla maniglia della porta e dell'armadio completamente ricoperto di fotografie di lei con Martina, in vacanza.


C'era musica nell'aria, aveva scelto lei cosa ascoltare, aveva deciso che Skin sarebbe stata perfetta per quel giorno; c'erano cd disseminati con le loro custodie sulle coperte di un letto ancora sfatto, c'era un ragazzo disteso proprio lì in mezzo: batteva i palmi delle mani sulle proprie gambe piegate faticando a seguire quel ritmo. C'era una finestra aperta, il vento caldo e asfissiante entrava bloccandoti il respiro, scuoteva una tenda di seta rossa al di là della quale, con i gomiti poggiati sulla ringhiera del balcone, c'era una ragazza. Sorrideva guardando fissa davanti a sé.


-Ce l'hai un fidanzato Bià?-

-Eh?! No!-

-Hai diciassette anni, non dovresti averne uno?-

-Se mi facessi uscire con te, lo troverei-

-Non ci allarghiamo troppo, le mocciose alle dieci devono stare a nanna-

-Sei uno stronzo-

-Grazie. Martina ce l'ha, il fidanzato-

-Martina cambia ragazzo ogni tre per due e poi lei ha le tette grosse-

-Vedrai prima o poi diventerai grande anche tu-

-Ha, ha... simpatico che sei-

-Non hai voglia di avere un ragazzo Bià?-

-Non adesso-

-Neanche di innamorarti?-

-No, non ora-

-Ma ce l'hai almeno uno che ti caga?-

-Si, ma non mi importa-

-Secondo me dovresti provare ad uscirci, magari ti piacerebbe-

-Io dico di no-

-Io invece dico che provare non ha mai fatto male a nessuno-




Sono sempre stata una con la testa costantemente troppo avanti con la fantasia, una folle sognatrice di deliri impossibili da realizzare che, tuttavia, non può sottrarsi dall'inseguirli perché crede che solo con essi la propria esistenza possa essere straordinariamente e semplicemente viva. Allora, smaniosa e accanita, lo faccio fino allo sfinimento, correndo a perdifiato incurante di star incespicando sui miei stessi passi, bensì tentando continuamente di tenere il ritmo, un piede dietro all'altro, con il fiato in gola ma sempre più in fretta, più veloce, nonostante le gambe molli e i muscoli acciaccati facciano dannatamente male, per raggiungere vittoriosa la meta e urlare al mondo di esserci in qualche modo, di esistere, indifferente ai marchi indelebili, aspri testimoni di celate ferite incise a fuoco sul corpo.


Per questo, fin da quel giorno, ho pensato, ipotizzato e immaginato il nostro primo incontro, scarabocchiandolo e scrivendolo nella mia mente ripetutamente, evitando di preoccuparmi delle sue non-forme dai contorni ancora indefiniti e imprecisati, dei silenzi assordanti, delle parole non dette ma impresse come uno schiaffo nella memoria, perché sono stata convinta fin da allora che, a tempo debito, quando forse saremmo stati pronti entrambi, sarebbe giunto il momento in cui le forme avrebbero conosciuto nomi nuovi, gli occhi avrebbero visto e le labbra si sarebbero finalmente mosse; ne ero certa, anche se magari all'inizio sarebbe stato tutto più appannato e sussurrato.


Ho pensato che mi sarei potuta avvicinare una sera, in un locale, quando sarei stata grande abbastanza e mio padre mi avrebbe permesso di andarci, magari con la scusa di non riuscire a trovare mio fratello e di aver perso le chiavi di casa, che in realtà tintinnavano sfacciate nella tasca del mio cappotto a ricordarmi di non illudermi. Mi sarei fatta aiutare a cercare Italo oppure con qualche subdolo artificio lo avrei incastrato e costretto ad accompagnarmi a casa solo per poterlo sentire sbuffare e imprecare, per osservare il suo profilo mentre avrebbe guidato incazzato la macchina e annusare l'aria impregnata del suo odore.


Ho fantasticato credendo che prima o poi ci sarebbe entrato di nuovo in casa mia, che una domenica di fine maggio si sarebbe presentato di fronte al cancelletto, avrebbe aspettato lì, come la prima volta, che Italo lo tirasse dentro. Avrei scoperto se la carbonara e le fettine panate gli piacciono, avrei ascoltato di nuovo il suono della sua voce e, forse, sarei stata con loro, lui e mio fratello, davanti casa a sentirli parlare di robe da maschi.

Magari da quel giorno in poi avrebbe dormito anche da noi nelle tetre notti in cui le mura della sua casa sarebbero state troppo strette, magari una di quelle sere ci saremmo ubriacati insieme, avremmo cantato guardando il cielo dal terrazzo della mia camera, forse ci sarebbe scappato anche un bacio, a fior di labbra.


Non avrei mai immaginato, però, che il nostro primo incontro potesse essere in realtà una grande bugia, una bugia bianca di sangue.



Ogni giorno hai addosso sempre la stessa sensazione, come la prima volta.

Le dita sono intirizzite, ne percepisci il formicolio frustante dei muscoli; non riesci a tenerle ferme, immobili, allora le muovi un po', giusto per rassicurarti, le agiti, avanti e indietro, apri e stringi, su e giù, ancora, da capo, avanti e indietro; senti le ossa scrocchiare sotto la pressione dei tuoi polpastrelli, non te ne curi ma continui, imperturbabile, finché non si indolenziscono e, stanche, non smarriscono l'unico senso che le tiene in vita, il tatto.

All'istante ti blocchi, avvilita, tuttavia non rimani lì, così. Non le lasci all'aria, libere, disubbidienti, pericolose, ma hai paura e le leghi, intrecciandole tra loro, prima di riporle, al sicuro, nella tasca del maglione di lana, quella che hai sul davanti e che ti permette di tenerle unite. E' troppo rischioso separarle.


Pensi di poter star tranquilla ora, rilassi i muscoli e abbassi la guardia perché loro sono lì, ferme, docili, ubbidienti, hai il controllo su tutto; sei una stupida in realtà. E' un attimo, il cervello che si sconnette e il cuore che rimbalza sempre più prepotentemente nel petto, avverti il suo rumore arrivare fin dentro i timpani, ti snerva risucchiandoti la calma.

Il formicolio ritorna e sembra corroderti la pelle; ecco: già non sei più diligente.

La mano, impaziente, scorre lenta dall'alto verso il basso, è ormai persa e ipnotizzata in un movimento che conosce a memoria, riconosce lo spessore dell'adrenalina, dell'ansia e dell'aspettativa, il desiderio e la speranza sono sempre gli stessi.

Il movimento dei polpastrelli è impercettibile, invisibile, sfregano esagitati e titubanti gli uni sugli altri, non vorrebbero farlo, vorrebbero scontrarsi, saggiarsi e tastarsi ma sono impossibilitati da quel sottile e liscio strato di tessuto che li divide, allora le dita si attivano ancora stringendolo rabbiose, lo accartocciano ingabbiandolo tra la loro trama, si contraggono sempre di più, sempre più forte perché la conoscono già quella consistenza scivolosa e vellutata, quasi innaturale; lo sanno che è solo il preludio di ciò che potranno limitarsi a guardare immaginando come sarebbe posarsi su di lui, sulla sua pelle, sul suo corpo.

Gli occhi forse sono gli unici ad essere vagamente soddisfatti, mai fermi e perennemente attenti e vigili, pronti a cogliere ogni minuzia, ogni tonalità con tutte le sue differenti gradazioni, e a suggellare quell'immagine nella mente, vorrebbero che fosse meno sfocata e più vera, vorrebbero vedere ciò che non vedono da lì. Non appena un piccolo spiraglio di possibilità e incertezze si apre di fronte a loro, si spostano rapidi, abbandonando la lucentezza fastidiosamente abbagliante del colore rosso fuoco di quella seta che le mani si sforzano ancora di raggrinzire, sono alla ricerca di una luce diversa, più confusa e oscura ma indispensabile. La sua luce, quella che ancora non sa di avere.


Delusione è la prima emozione che ti strippa il petto non appena prendi coscienza che davanti a te il nulla è padrone, dall'altra parte solo mattoni, legno e vetro; una finestra vuota e inanimata, quella. Lui non c'è.


Le gambe dondolano da una parte all'altra, i piedi rimangono incollati su quelle mattonelle e le mani stringono ancora di più quel pezzo di stoffa che hanno tra le dita. Decidi di aspettare, forse a breve farà la sua comparsa con una tazza di caffè alla bocca e una sigaretta ancora da iniziare, allora farai un sorriso e finalmente lo guarderai sempre con la solita domanda a balenarti per la mente: non sai se a lui piaccia con o senza zucchero, il caffè. Tu scommetti amaro.

Lo senti di brancolare nel buio, di cadere ogni giorno sempre più in fondo, più in basso, lo sai di esserti persa, di aver smarrito la bussola e di essere imbrigliata in un limbo tra il passato e il presente che saresti in grado di attraversare se solo avessi il coraggio di chiuderla, quella finestra. Tuttavia resti lì comunque, paralizzata, con l'unica magra consolazione che almeno le ante siano spalancate e che lui sia sveglio, in giro per casa o chissà dove.


Rimani ferma, in attesa. Ma di cosa? Di cosa.


Un sospiro esce dalle labbra screpolate, si piegano in una smorfia rassegnata quando capisci di aver atteso troppo. Sei una sciocca, te lo ripeti con rabbia digrignando i denti e indurendo la mascella, sei una sconsiderata perché hai perso il pullman che ti avrebbe portato per tempo all'università, la lezione- era importante e ti sarebbe piaciuta- è iniziata da un bel pezzo e sarai fortunata se riuscirai ad ascoltarne l'ultima parte arrancando nel seguire il filo logico di cui non conosci né l'inizio, né la fine.

Corri per la camera incespicando sui tuoi stessi passi, ti vesti afferrando le prime cose che ti capitano sotto gli occhi fregandotene se i colori non saranno abbinati, prendi qualche quaderno a caso sperando di aver scelto quelli giusti, abbandoni la stanza, incurante del letto sfatto e della baraonda in cui l'hai lasciata, vai in bagno, ti lavi il viso ma non ti pettini, i capelli li leghi in un'oscena coda storta mentre scendi le scale, non hai tempo per la colazione, miri dritta alla porta e la apri.


Il tonfo sordo dei quaderni è la prima cosa a risvegliarti, sono scivolati dalle tue braccia fattesi improvvisamente di creta, i fogli degli appunti si sono sparsi disordinati a terra ma non è importante, ora. Indispensabile invece è non tralasciare nessun dettaglio, coglierlo, conoscerlo, assaporarlo, rubarlo e, alla fine, amarlo. Percepisci la forza abbandonarti, i muscoli molli, la testa girare, lo stomaco contorcersi e il cuore schizzare impazzito nel petto, credi che questo sia l'ennesimo brutto tiro mancino del destino, sei sicura di sognare e che la gola riarsa e fervida sia soltanto una tua strana impressione, perché sei certa che sia impossibile che lui sia lì, qui, davanti a te, a me, ora. Lo sai, lo conosci, ne sei certa. Lui non sarebbe mai venuto a casa tua, non avrebbe oltrepassato quel cancelletto di ferro, ma avrebbe aspettato proprio lì davanti, come quotidianamente ha fatto per tutti questi anni.

Lo senti, allora, logorare violento le tue viscere, lo intuisci, di non aver capito proprio niente.

Ti fissa preso in contropiede schiudendo il pugno con cui avrebbe bussato alla porta e abbassando il braccio, non si aspettava di trovarti lì, eppure sa che ci abiti; si sente ingabbiato, in trappola, e non sai perché ma lo vedi, è sotto ai tuoi occhi: i muscoli si contraggono, il viso si indurisce, gli occhi si congelano, il respiro si fa più irregolare, la cicatrice si torce.

Ciononostante lo trovi bello, così, da vicino, come lo ricordavi.


-Chi cazzo sei?- la sua voce è calda, cavernosa , ora puoi ascoltarlo meglio il suo ritmo.

Ti riscuoti dalla tua bolla immaginaria, accarezzi con lo sguardo quell'incisione perpetua ripercorrendo le sue strade, cerchi di ricordarne i sentieri, ti soffermi sulle sue labbra pensando che vorresti sfiorarle, di nuovo; solo dopo metabolizzi il significato delle sue parole.

Sei certa di aver capito male.

-Come scusa?- la tua voce, invece, non è stata mai così gracchiante e stridula come lo è adesso.

-Dio... pure rincoglionita se l'è portata a casa, 'sto stronzo- sospira e sbuffa spazientito prima di volgere il suo sguardo di nuovo su di te -Ti ho chiesto chi cazzo sei- ribadisce convinto mentre la paura scorre nelle tue vene comprendendo i significati nascosti di quelle parole, intuendo il gioco sporco che ha avuto la forza e il coraggio di iniziare.

-Direi chi cazzo mi pare- lo dici abbassandoti a raccogliere i quaderni, sfuggi al suo viso, metti in ordine i fogli sparsi, scappi dai suoi occhi, non li ricordavi così freddi, passi una tua mano tremolante tra i capelli scompigliandoli ancora di più, prendi un respiro profondo e ti rialzi. Le tue iridi in quelle di lui, impassibili e coraggiose perché tu hai deciso di non giocare, di fare sul serio. Tu non sei una bugiarda, lo sai tu e lo sa lui, che finge di non sapere chi tu sia. Finge.

-Che c'è, hai mangiato troppo yogurt a colazione?- nessun risolino o ghigno impertinente sul suo volto, solo l'impassibilità di un grande attore.

-No, l'acidità è una dote naturale-

-Allora scommetto che stanotte ti sei sfogata troppo poco, ma non ti preoccupare, la prossima volta gli dirò di andarci giù più pesante. Sempre se ci sarà una prossima volta, ovviamente- non ti guarda quando lo dice, non ne ha il coraggio, preferisce di gran lunga spostare irrefrenabile quelle pozze ghiacciate da una parte all'altra, limitandosi soltanto a far stridere le sue unghie su specchi rotti.

Il loro sfrigolio graffia i tuoi timpani e ferisce le sue mani.

Veramente non pensavi che sarebbe andata in questo modo il vostro, nostro, primo incontro. Probabilmente ti sei rincoglionita così tanto a tentare di definirne le forme e i contorni da illuderti di poter contare qualcosa, di esserci, per lui, che speravi solo potesse essere meno cagasotto con te, con me.

- Si certo, ovviamente. Sono solo le cagasotto teste di cazzo come te che mi irritano di prima mattina- non sfuggi alle sue pupille, tu.

-Levati dalle palle, parli troppo- svia il discorso tentando di entrare ma non ti sposti.

-Non mi freghi, Leonardo-

E' la prima volta che lo chiami per nome e avresti voluto farlo in maniera differente, magari sussurrandoglielo all'orecchio con un sorriso stampato sulle labbra o con le dita tese a rimarginare i graffi della sua pelle. Non avresti voluto dirlo così, con rabbia, orgoglio e la mente stracciata dalla paura che lui potesse realmente essersi dimenticato, di te, che sei sempre te, me, con il cuore seviziato dal dolore della sua indifferenza, della certezza che la sua ferrea volontà fosse veramente quella di dimenticare ciò che ancora non c'è stato.

-Italo è in cucina, scommetto che la strada te la ricordi- sibili spaventosamente fredda prima di fuggire, come un' anima che non riconosce più il limbo in cui si è schiacciata e l'unica cosa che le rimane sono salate gocce di sangue di una bugia bianca.

Open your life now
Open your life now
I'll try to be
All that you need me
To be




-Sai 'Na, avevi ragione su mia sorella-

-Di che parli?-

-Si è fidanzata-

-Ah si? Non pensavo che le tette crescessero così in fretta-

-Non è innamorata di te-

-No-

-Un po' sono sollevato-

-Perché?-

-Avrei dovuto farti il culo a strisce-

-Ito...-

-Lo so-


She'll be a star now
She'll be a scar now



Just one second, please...

Jingle bells, jingle bells,

Jingle all the way!

O what fun it is to ride,

In a one-horse open sleigh... yeah!!!

Ok... il clima natalizio mi ha dato sicuramente alla testa o molto più probabilmente è stato lo spumante! Non dovrei essere qui a pubblicare, non secondo i miei programmi, ma ci sono. Volevo farvi un piccolo regalino di Natale visto che si dice che dovremmo essere tutti più buoni, ma in realtà è solo perché sono un pochino troppo euforica( e direi che l'avevate capito vista l'introduzione...) dato che tra poche ore volerò dritta dritta a Praga....Au revoir Italie!!!!!!!!!!!!

Non so che cacchio ci azzecchi il francese visto che lì dovrebbero parlare ceco o qualcosa del genere, ma si sa: la pazzia è pazzia! Comunque passiamo alle cose serie. E' un capitolo importante questo, c'è il loro primo incontro e non è sicuramente rose e fiori, inoltre nei flashback emerge un po' di più la personalità di Italo. Vi prego di non giudicarlo subito male, perché se da un lato è amico di lui, dall'altro è il fratello di lei, ciò che fa lo fa perché ama entrambi, tanto.

Non so, man mano che scrivo mi sto accorgendo che i capitoli sono molto introspettivi e, per parlare di loro due, non ne posso fare a meno; c'è tanto da dire e purtroppo è anche complicato, è difficile da comprendere perché non si può rimanere in superficie ma magari ci si deve soffermare sul significato di una singola parola. Non lo so, magari sono tutte inutili seghe mentali che, come al solito, mi faccio, ma spero di non tediarvi troppo e di non risultare noiosa e pesante con il mio modo di scrivere.

Ringrazio nuovamente chi ha recensito, chi ha inserito la mia storia tra le preferite, seguite e ricordate e chi ha la voglia anche solo di passare per di qua e arrivare alla fine del capitolo.

Tanti, tanti, tanti auguri! Di buon anno, visto che Natale è ormai passato!

Dasvidania,

Fal

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Capitolo 4
*** Tac tic: cacofonia di un momento sbagliato ***



TAC TIC: CACOFONIA DI UN MOMENTO SBAGLIATO



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Essere pronto è molto,

saper attendere è meglio,

ma sfruttare il momento è tutto.



Era il 25 dicembre 2007 e sentiva diffondersi nell'aria le note di un motivo natalizio di cui non ricordava bene il titolo: qualcuno cantava in una chiesa. Pensò che a lei sarebbe piaciuto se solo lo avesse potuto sentire e che lo avrebbe costretto ad andarci trascinandolo per il bavero della maglietta, avrebbero corso a perdifiato tenendosi stretti per mano, l'avrebbe trascinata dietro di sé con tutta la sua forza facendola stare al proprio passo, solo per poterle fare ascoltare gli ultimi melodiosi accordi accompagnati dai battiti cadenzati delle mani. Forse, una volta arrivati, avrebbero trovato una chiesa deserta, priva del calore di una voce a riscaldarla, avrebbero avuto il fiatone e avrebbero distinto i soffi affaticati del loro respiro nell'oscurità dell'aria, avrebbero avuto le labbra viola e il volto intorpidito per il freddo sferzante, i muscoli, esausti, avrebbero fatto male contraendosi, ma non gli sarebbe importato; sarebbe stato vitale, invece, osservare i suoi occhi illuminarsi e le sue labbra tendersi all'insù.


Una raccapricciante smorfia di dolore si delineò sul suo viso, la cicatrice si strizzò infiammandosi sottopelle e le labbra si arricciarono attorno a una sigaretta, una MS, per poi liberare un setoso alito grigio di fumo; nella testa, il ricordo evanescente di un sorriso.


Erano le sette quella sera, era buio e le strade del quartiere, lumeggiate dall'algido chiarore delle sgargianti illuminazioni natalizie, erano aride e desolate così immerse in un insolito silenzio, tutti erano nelle loro case, rassicurati e riscaldati dal tepore e dall'incantata e precaria serenità di un giorno di festa; si potevano distinguere le decorazioni e le luci accese, ma non quelle di una cucina o di un soggiorno, erano le camere da letto e i bagni ad essere illuminati: tutti erano indaffarati a prepararsi al meglio, una festa li stava aspettando.


Lui, invece, era solo, al parco, seduto sul filo dello schienale della solita panchina e con indosso una maglietta rossa, a maniche corte, come se fosse già talmente assiderato da non percepire minimamente la pelle rinsecchirsi, raschiata dal freddo pungente dicembrino; aveva i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani strette le une alle altre, si davano forza ferendosi in una morsa che sapeva quasi di disperata preghiera.

Ne accese un' altra, di sigaretta, mentre immagini che avrebbe preferito dimenticare gli scorrevano davanti, guidate da un animo che non era il suo, aspirò profondamente rilasciando nell'aria un altro sbuffo grigiastro, dietro al quale, celò i suoi occhi, tristi, annebbiati, ghiacciati, come se lì, in mezzo al buio, ci fosse qualcun altro che potesse vederlo e , forse, era proprio questo che sperava; ad un occhio estraneo, quelle iridi, sarebbero parse quasi lucide, lui, al contrario, si disse che ancora, dopo anni, doveva abituarsi alle violente pennellate, aspre e ardenti, del fumo pungente le sue pupille. Abbassò le palpebre sconfitto, consapevole che quando si è come lui, un ottimo bugiardo, le menzogne con cui abbindoli te stesso sono difficili, se non impossibili, da digerire.


Pensava, Leonardo. Con le dita di una mano, affannate e inquiete, serrava la stoffa leggera di quella maglietta rossa, lì, vicino al petto, dove il cuore sembrava aver smesso di battere, esaurito e avvelenato da quell'inchiostro spietato e corrosivo di un marchio indelebile che gli parlava di un ricordo sfumato nel tempo, di una vita che avrebbe preferito dimenticare.

Pensava a come sarebbe potuto essere se lì ci fosse stata lei, a come sarebbe potuto diventare, pensava a un passato remoto, alle botte che si sarebbe risparmiato e che avrebbe risparmiato agli altri, pensava a quando, magari, un sorriso sulla sua bocca ci sarebbe scappato, a quando, a Natale, c'erano ancora il panettone e il pandoro sul tavolo della cucina, a casa sua.

Pensava a quanto sarebbe stato diverso, chiedendosi se ci sarebbe stato lo stesso su quella panchina, se si sarebbe sentito meno solo ma in realtà era conscio che, qualsiasi spazio varcasse e in qualsiasi tempo vivesse, nessun luogo gli sarebbe appartenuto, nessun momento sarebbe stato quello giusto.


Pensava, Leonardo, almeno finché non vide lei, che non era lei, stretta in un cappotto nero, camminare verso la chiesa, seguendo il richiamo di un canto. La osservò allentando la stretta sul petto mentre un brivido di freddo risaliva tutta la lunghezza della sua spina dorsale; guardò lei che poco sopportava e odiava, lei che lo voleva e amava, lei che lo logorava e distruggeva, lei che lo inseguiva e spiava, lei che lo vedeva, lei che sorrideva e arricciava il naso,lei, che non era lei.

Si disse che i suoi capelli erano troppo scuri ed eccessivamente ricci, che le sue labbra erano troppo poco carnose, che i suoi occhi avrebbero dovuto essere marroni, che il suo corpo avrebbe dovuto essere più esile e minuto.


La immaginò arricciare il naso e nella sua testa ne comparve un altro, di naso; si rassicurò dicendosi che fosse impossibile.

La immaginò sorridere e nella sua testa balenò il pensiero che quel suo sorriso fosse perfetto; tremò, certo che stesse sognando.

La immaginò guardarlo e allora ebbe paura.


Si alzò in piedi, probabilmente per vedere meglio, fissò le iridi su di lei, che non era lei, ne registrò i particolari e spontaneamente sorse la nociva e fastidiosa consapevolezza di trovarla irrimediabilmente bellissima, il respirò si bloccò in gola lacerando la pelle incendiata delle sue braccia nude e martoriando il suo cervello; si accorse di quella mano, sul suo fianco, di quelle dita che lo impugnavano, bastò un secondo per aggrottare le sopracciglia, indurire la mascella e desiderare di stare lui lì, in quel posto, il suo posto, per poi odiarsi e odiare lei, che non era lei.


La osservò allontanarsi e la vide.


Era una specie di lancinante, dolorosa meraviglia. Ti senti una specie di consolazione, dentro, quasi una rivelazione, che ti spalanca l'anima, per così dire, ma contemporaneamente senti una specie di fitta, come la sensazione di una perdita irrimediabile, e definitiva. Una dolce catastrofe. Credo che c'entri il fatto di essere sempre fuori, in quei momenti lì, sei sempre lì che li guardi da fuori. Non ci puoi entrare, è qualcosa che rimane lì, e tu sei irrimediabilmente davanti, la guardi ed è tutto quello che puoi fare. È una cosa strana. Quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da fuori. Non ci sei mai dentro. È il tuo posto, ma tu non ci sei mai.



Nella vita comunque paghi per le scelte sbagliate
per quelle occasioni mancate
che non ti fanno dormire
ma ti sanno ferire

con ostinazione
attraverso i ricordi
di fatti e persone.


Tic tac, tic tac, tic tac.


E' sempre il tempo a fregarci, a me e a lui; crudele e impudente, ci canzona e si delizia, con disgustosa disumanità, guardandoci sfuggente rincorrerlo annaspando penosamente, consapevole delle nostre gambe troppo corte e stanche. Non ci aspetta, lui, procede indisturbato la sua corsa, va semplicemente, e non si sa dove, non si sa quando. Ci lambicchiamo, speranzosi e illusi, stanchi e amareggiati, a tentare di cogliere la sua complicata cadenza, a stare al passo senza perdere le battute, a districare l'armonioso groviglio delle sue note, costantemente uguali ma sempre così dannatamente diverse, a scorgere gli infinitesimali attimi che scandiscono lo spazio tra un secondo e l'altro, per registrali nella mente, conoscerli e farli nostri in modo da non perderci la prossima volta, quando rimarremo di nuovo tanto indietro.

Certo che lo sappiamo che è troppo veloce, che il suo incessante ritmo non riusciremo mai a tenerlo e che, una volta o l'altra, boccheggeremo a terra per la fatica, per le vene che urlano sottopelle, per il clangore di tendini che si frantumano e per il sapore rugginoso che ci saturerà la bocca, tuttavia ci accodiamo e ci sforziamo di seguirlo perché dobbiamo farlo: è la vita che ce lo impone.


Tic tac, tic tac, tic tac.


Il segreto è essere pronti, non voltarsi indietro e fermarsi troppo a lungo, si deve mantenere il passo di marcia, tallonare i secondi e prendere fiato ad ogni pausa, ascoltare bene ciascun tic e ciascun tac, rimembrarne la sequenza e riconoscerne tra molti la melodia migliore, quella più giusta, quella meno disarmonica e assordante per cogliere l'attimo.

Carpe diem, diceva Orazio, ed è proprio questo il punto, perché è esattamente quando ci perdiamo un solo tic e trascuriamo un solo giusto tac che la vita ci fotte, amaramente.


Tic tac, ti-c tac, tac.


Credo che noi, io e lui, non ci siamo mai riusciti, non l'abbiamo mai compreso il ritmo del tempo, ne abbiamo aggrovigliato i cicli, distorto la scansione, confuso i periodi e scompaginato l'ordine, finendo irrimediabilmente per essere braccati dalla cacofonia di un momento sbagliato.


Tac tic, tac tic, tac tic: questa è la sola ballata che appartiene al nostro tempo.


Entrò a far parte delle nostre vite fin da subito, lui. La sua figura fu una calamita, anche quando aveva ancora soltanto dodici anni, i suoi occhi erano meno spenti e sul suo corpo non gravava il peso di piaghe laide e velenose; è sempre stato come un magnete, era talmente sfuggente e inafferrabile, talmente scivoloso e inavvicinabile fin da allora, così nascosto e rifugiato al di là di quella corazza impenetrabile e granitica, che tutti si accalorarono nell'ipocrita e vano tentativo di afferrarlo, di bloccare quel suo fluire lesto per loro così troppo tempestoso e burrascoso.


Penso che ancora oggi non abbiano capito che lui è sempre stato immobile in realtà, oppresso tra le pareti di un oblio dai battiti fragorosi di un tac tic, in attesa di un nuovo tempo, quello adatto per lui. E' ancora lì, non si è mosso, non un solo passo in avanti, basta fermarsi per guardarlo e prenderlo, come vorrebbe, per rapirlo. E' solo in attesa che qualcuno lo faccia, una volta, per lui.


Quelli del mio quartiere indossarono da subito la faccia del buon samaritano e con quella ridicola maschera addosso organizzarono una festa di Natale, per farla conoscere a lui, che sembrava non ricordare neanche che sapore avessero il panettone e il torrone.

Da allora ogni anno si ripete sempre la stessa storia: dal primo di dicembre ecco che tutti diventano più buoni, ritornano i grotteschi e aberranti travestimenti da buonisti del cazzo e una luce fulgida si riaccende nel cervello rimembrando, improvvisamente, loro che qualcun altro esiste.

Ancora mi chiedo perché lui ci sia sempre andato a quella festa.


Ricordo che quell'anno si erano dati da fare parecchio, avevano affittato la vecchia area dell'oratorio, quello che mi trovavo di fronte non appena scendevo dal pullman che mi portava a scuola, vicino a quella chiesa in cui mia madre mi costringeva ad andare da piccola ogni domenica mattina, indossavo la veste da chierichetta insieme a Martina o sedevo alla destra dell'altare, facevo parte del coro.

L'oratorio aveva ancora i soffitti a volta con la pietra a vista e le pareti affrescate ravvivavano le stanze costantemente in penombra, illuminate soltanto dalla fievole luce che riusciva a oltrepassare le grate in ferro delle piccole finestre quadrate, avevano i colori sbiaditi e consumati dall'età, i contorni avevano smarrito la loro nitidezza e in qualche tratto mancavano di alcune parti, tuttavia le storie che essi narravano sembravano essere imperturbate dal logorio degli anni, i loro significati erano stampati con limpidezza e precisione su quelle superfici.


Ricordo le luci ad intermittenza, rosse, gialle e bianche, imbacuccavano gli alberi, perfino le siepi, antistanti l'entrata, vicino alla quale era stato posizionato un Babbo Natale di plastica a grandezza reale nella nuova versione di chaperon intabarrato in uno sgargiante smoking nero; a fargli compagnia ci sarebbe dovuto essere una pupazzo di neve, di cui si distinguevano ormai solo i resti di una carota, mangiucchiata, scommetto, da Ernesto, il bassotto della vicina di casa, un cappello di lana verde pisello, bucato, e tre bottoni di un blu scolorito sparsi a terra. Di quel pupazzo non ne rimaneva nulla se non un cumulo indefinito di neve, si era sciolto ed era troppo poco freddo affinché nevicasse di nuovo.

Fu uno dei pochi giorni di Natale in cui non nevicò, quello.

Sorrisi amaramente: il marasma di emozioni che avevo incollato addosso non mi faceva sentire poi tanto differente da un pupazzo di neve liquefatto il 25 di dicembre.


Ripensandoci, fu tutto sbagliato fin dal principio, fin dal momento in cui misi il naso fuori dalla porta e le mie pupille si posarono concitate sui vetri di una finestra che mi sembrava di non riconoscere più e un groppo mi occluse la gola, mentre le dita si aggrappavano disperatamente a lembi di pelle troppo lisci e perfetti per essere i suoi.

Come fu inopportuno e strano il senso di disagio che mi pervase non appena varcai la soglia dell'oratorio e incontrai gli occhi sorridenti di Italo, non ebbi neanche la forza di spostare lo sguardo per vedere se lui fosse lì accanto, magari con un pezzo di torrone in bocca e un flute di spumante in mano. Mi sentii assurdamente sporca, inquieta e mi vergognavo mentre delle mani non sue, leggere e delicate, facevano scorrere il cappotto nero sulle mie spalle scoperte, un sussurro appena udibile fuoriuscì da labbra troppo carnose per essere le sue, mi sfiorarono l'orecchio facendomi rabbrividire.

-Sei bellissima- dicevano.


Quell'anno avevo diciassette anni e avevo il ragazzo; si chiamava Luca.

Sei mesi erano trascorsi dalla prima volta che eravamo usciti, era più grande di me di un anno e mi veniva dietro da un po', mi comprava le rose, rosse. Mi costrinse Italo ad accettare il suo invito per un appuntamento, non volevo andarci, non mi agghindai come di solito faceva Martina, indossai dei jeans e un felpa comoda, non mi truccai ma riuscii comunque ad arrivare in ritardo. Mangiammo una pizza e mi offrì un gelato. Per la prima volta non pensai a lui, mi sentii libera, libera di muovermi, di respirare, di essere per un solo istante disattenta lasciandomi sfuggire i dettagli che solo il tempo avrebbe potuto farmi conoscere, libera di guardare oltre il vetro di una finestra e non avere paura di non trovarlo, il cuore non strippava nel petto, i muscoli non erano intirizziti e il cervello non pulsava nel cranio. Potevo avere tempo, per me, per vivere.

Non smisi di vedere Luca, anche se non era lui.

Credo di averlo sempre saputo, tuttavia soltanto quella sera ne presi realmente coscienza. Mi accorsi che la mia bocca, la mia lingua, faticavano a muoversi nel pronunciare un nome troppo corto, le mie orecchie non riconoscevano il suono della sua voce, sembrava essere così stridente e gracchiante, così stonata tanto da non capire il significato delle parole di cui era portavoce, mi resi conto del fervore con il quale ricercavo nei suoi occhi troppo marroni e troppo vivaci una nota triste, annebbiata e ghiacciata, le sue labbra, il suo viso, erano così perfettamente simmetrici, così intatti e armoniosi, i suoi lineamenti erano talmente angelici e rilassati da non sapere più chi avessi realmente davanti.

Sorrideva tanto, troppo, Luca mentre mi stringeva a sé e ballavamo con il sottofondo di una canzone natalizia. Distolsi lo sguardo dal suo volto incontrando in un battito di ciglia due iridi tristi, annebbiate, ghiacciate; pensai che avrei voluto le sue braccia intorno alla mia vita, che avrei voluto sentire la sua, di bocca, baciarmi la tempia, pensai che quel micidiale miscuglio di emozioni che lo inseguiva, fedele come solo un cane sa essere, fosse la seconda cosa più bella mai vista al mondo, la prima era la sua cicatrice, era lui, tanto da divenire impossibile da sopportare la sua vista.



Ricordo di aver sentito il tempo fermarsi, per una volta, quella sera. La nenia delle lancette non c'era più a rimembrarmi che fosse tutto sbagliato, che il momento per noi non era ancora arrivato e che, probabilmente, non ci sarebbe mai stato; non c'era più il tormentoso frastuono della consapevolezza di quanto tutto potesse essere ingiusto e di come, in realtà, noi, io e lui, fossimo impreparati e sprovveduti, ma soltanto quel silenzio tranquillizzante e ovattato di chi non aspettava altro da tempo, di chi era fermamente convinto che invece tutto era al suo posto e che non ci sarebbe stato istante migliore.

A volte, quando mi sembra che sia un po' più vicino, quando non rimane paralizzato lì, in un mondo che solo lui conosce, ma trova l'energia necessaria per tentare di allungare una gamba e camminare verso me chiedendomi di aspettarlo, percepisco ancora la sensazione serpeggiante dell'adrenalina scorrermi nelle vene, come quella sera, fluire, leggera e pungente, fino a che non avrà appestato ogni globulo rosso, finché non li avrà risucchiati tutti, una alla volta, corrodendomi per abbandonandomi, poi, con addosso un viluppo di eccitazione e terrore.

Ne distinsi la presenza ancor prima che si avvicinasse; nonostante avessi la bocca impiastrata da quel sapore dolciastro di uvetta e canditi che mi imbottiva le narici di un odore stucchevole e mieloso, riconobbi ugualmente l'inconfondibile olezzo di sigaretta, di quella sua.


Ricordo di aver avvertito la forza, necessaria a sostenermi, inghiottirsi in un vortice nero, obbligandomi ad appoggiarmi a quel tavolo adornato da mille decorazioni che faceva bella mostra di un buffet dalle più variegate prelibatezze, avevo stretto le dita tremule, come le foglie in autunno sugli alberi, attorno alla consistenza morbida e appiccicosa di una fetta di panettone che, lentamente, si sgretolava in mille briciole sopra la tovaglia, in bocca un intoppo nauseante, schifoso e zuccheroso che non voleva saperne di smuoversi mentre la vista appannata mi impediva di distinguere i colori appariscenti delle palle appese a quell'albero di Natale che avevo di fronte.


Ricordo di aver sentito l'impercettibile tremolio del tavolo sotto il peso del suo corpo, nella testa ho ancora ben impressa la straziante flemma con cui mi voltai a guardarlo, atterrita dall'agghiacciante possibilità che a un mio movimento più aspro e brusco potesse svanire; ricordo la sorpresa di averlo trovato più vicino di quanto mi fossi aspettata e la sensazione di essere sospesa tra realtà e sogno, in bilico, sul filo del rasoio in attesa che lui mi afferrasse le mani per poi buttarsi giù, con me, per vedere se lì sotto è bello così come dicono; ricordo la sua maglietta rossa e il mio vestito rosso unirci in un'unica macchia di vita, rimembro le sue braccia nude e conserte, la sagoma delle scapole e delle spalle, il movimento del pomo d'Adamo, la mascella spigolosa e indurita, le labbra in una riga dritta, lo scompiglio dei suoi capelli e l'impenetrabilità del suo sguardo; ricordo la linea e le tracce della sua cicatrice, il formicolio diffuso delle mie mani e il bruciore agli occhi le cui palpebre mi ostinavo a non abbassare.


Quella volta ci provai davvero a fare ciò che tanto Orazio andava dicendo in giro, tentai di cogliere quel silente momento sospeso in un tempo che non esisteva e che sarebbe stato solo nostro, giusto per noi che non sapevamo come stargli dietro, per noi, che lo aspettavamo e che non capivamo che ce ne sarebbe voluta un'altra, di vita, per averlo di nuovo.

Tuttavia ci misi tanto, troppo tempo. Sorrisi troppo tardi addolcendo lo sguardo e mossi le labbra per parlare quando ormai tutto aveva ripreso a scorrere veloce e il rumore di un tac-tic rimbombava già nel cranio rintronandolo.


Tac-tic, tac-tic, tac-tic: questa è stata fin da allora la sola ballata del nostro tempo, una cacofonia di un momento sbagliato.


Ricordo lo sbigottimento, il fallimento, il fastidio, l'irritazione e la preoccupazione, ricordo lo sguardo fisso su di lui, le mie iridi lucide e il contorcersi della sua cicatrice, ricordo l'odore di sigaretta, di quella sua, svanire, sostituito da una banale fragranza alla menta, ricordo due braccia troppo coperte e leggere avvolgermi, due mani troppo delicate e troppo poco ruvide e imperfette stringermi, ricordo i capelli solleticarmi il viso spinti dal respiro di un sussurro dai contorni indefiniti, ricordo il mio fiato e le mie parole sospesi, a mezz'aria, su per la gola, incastrati lì, tra le corde vocali, dove ancora indugiano nella speranza di prendere voce e forma, seppure stridente e scontata.


-Ciao Leonardo. Sono Bianca, la sorella di Italo-



E' l'eterna ripresa di una scena sospesa.


Mi sembra di essere di nuovo lì, davanti a quell'albero di Natale di cui non riesco a rimembrare il colore delle decorazioni, appoggiata a quel tavolo su cui ormai ristagnano i granelli putrefatti di uvetta e canditi, le mani sono ancora stomachevolmente appiccicose e la bocca è ancora imbevuta dello stesso sapore stucchevole. Da quella sera, non sono più stata in grado neanche di sentirne l'odore, del panettone, senza che mi nauseasse.

Mi pare di aver camminato all'indietro fino ad arrivare a cinque anni fa o, ancor peggio, di non essermi mai mossa, di aver indugiato accanto a lui in una straziante e innaturale condizione di tacita immobilità, non un movimento e non una parola; nessun lieve tocco di mani che si cercano e polpastrelli che si saggiano mentre le bocche sono impegnate ad articolare quelle frasi bloccate, mai dette, imprigionate, le cui grida, oramai, spremono furenti le corde vocali per risalire rapide la gola e librarsi nell'aria, oppure, magari, mentre sono semplicemente impegnate a fare altro, irrazionalmente e piacevolmente giusto, consce che, nella maggior parte dei casi, sono i gesti a saper parlare più di mille parole. Niente di niente, solo io e lui fermi, in attesa che la cantilena delle lancette se la fili di nuovo per lasciare spazio a un nuovo tempo, quello giusto per noi.


Mi appare tutto esattamente come ad allora: il luogo è lo stesso, la gente è sempre quella, come pure l'occasione. Ci sono ancora gli alberi e le siepi del cortile di ingresso infagottati di luci, Babbo Natale è lì, elegante nel suo smoking nero ti invita gentilmente ad entrare, c'è Ernesto, il cane della vicina, che zampetta per la sala alla ricerca di un'anima pia che dispensi un po' di coccole o magari qualcosa di più sostanzioso come un avanzo di carne, nell'aria il chiacchiericcio generale si confonde con le note delle solite canzoni natalizie ordinate in un sequenza che è sempre la stessa; c'è ancora mio padre che gira e rigira attorno al tavolo del buffet, in mano due piattini di plastica trasbordanti di dolci leccornie e sul volto un sorriso sornione e soddisfatto, mentre, dall'altra parte della sala, mia madre lo fulmina con lo sguardo pensando a quando gli farà consumare tutte quelle calorie costringendolo a sgobbare per casa; c'è ancora Italo che, giocoso e divertito, rincorre quel monello di Nico, il fratello di Martina, mentre quest'ultima è dispersa chissà dove con un damerino qualsiasi nella speranza che prima o poi Ito possa accorgersi della donna che è diventata, c'è ancora lui, ci sono ancora io, ci siamo ancora noi.


E me la sento addosso, di nuovo, sul collo, proprio appena sotto l'attaccatura dei capelli, l'etichetta di quel vestito rosso, sfrega e graffia la pelle irritandola, come pure quello stesso cerchietto nero, con una rosa rossa di lato, punge, indisponente e molesto, la cute e come quelle scarpe, rubate dall'armadio di mia madre, feriscono ancora ad ogni mio passo in avanti e ho il terrore di svegliarmi, domani, e di trovare, esattamente come ad allora, i medesimi segni imporporati e infiammati dietro al collo, di percepire la testa bruciare e scoppiare, di vedere il formarsi di due vesciche, gonfie e arrossate, ho il timore che possano fare più male, che possano ledere con più caparbietà e sicurezza marchiando senza pietà sulla mia pelle la cacofonia di un momento sbagliato; ho paura, almeno finché non è il tac-tic del nostro tempo a concederci un'altra chance: l'ossigeno intriso dell'aroma di sigaretta, di quella sua, scende voglioso nei polmoni, l'adrenalina scorre nelle vene impadronendosi del mio stesso sangue e in me, si infonde la delizia di una speranza nota, quella che non esista istante migliore di questo.


Credo che ogni singola, microscopica particella delle mie membra, ogni mio organo scalpitante, ogni mia fibra muscolare indolenzita, credo che la mia pelle, con loro, lo abbia cercato e mai trovato, che non ce lo abbia mai avuto addosso e penso che in realtà l'aspettasse esitante da sempre, il sapore di un calore così.

Di quello suo.

E' come sentire di essere a casa, qualunque essa sia, sentire di essere al tuo posto, quello giusto solo per te, lo vedrai accoglierti e afferrarti dopo un lungo viaggio, riscaldarti con un abbraccio quando ne avrai bisogno, guarirti e curarti con movimenti precisi e attenti delle mani, alleggerirti dai pesi di quei souvenir amari e sanguinolenti che ti porterai appresso, inevitabili doni del cammino disgraziato di una vita, amarti con le labbra e con il corpo quando sarà dalla solitudine che vorrai fuggire; è percepire lo scoppiettio rassicurante di un fuoco acceso intiepidirti mentre fuori nevica, è aver finalmente tra le dita ciò di cui hai avuto soltanto un piccolo e misero assaggio, tanto tempo fa, troppo tempo fa, in una piovosa sera d'estate in cui tuo fratello era un po' troppo alticcio e sul comodino avevi lasciato abbandonati Lizzy e il suo Mister Darcy mentre tu eri alla ricerca del tuo.


E' sentire la tua pelle formicolare e rabbrividire sotto il peso della sua, è avvertire l'aggrovigliarsi, l'avvilupparsi, il confondersi delle tue cellule con le sue in un miscuglio perfetto nella sua imperfezione, è la cadenza ritmata di due cuori che battono all'unisono.


Sono semplicemente le sue dita fredde strette attorno al mio polso. E' solo lui, sono solo io, siamo solo noi.


-Che sei venuta a fare qui?-

-Oh, ti sei improvvisamente ricordato chi sono-

-No, improvvisamente mi sono ricordato perché mi stai sul cazzo-

E' maledettamente difficile lasciarlo da parte quel calore, dimenticarlo e rilegarlo in un anfratto sicuro della tua memoria per rimuoverlo da lì e riprendertelo quando la vita ti ricorderà che sei sola e che non hai un corpo a cui stringerti, è faticoso riconquistare il respiro, permettere ai muscoli di contrarsi nuovamente, tentare di mantenere la calma mentre il cuore palpita scalmanato nel petto, alzare gli occhi da lì, da quella mano che si allaccia alla tua, e tornare alla realtà crivellando quella bolla d'illusoria speranza in cui ti eri inutilmente rifugiata.

E' doloroso avvertire l'adrenalina mollarti, interrompere la sua corsa nelle tue vene e svanire velocemente così com'era arrivata rimembrandoti che sciocca sognatrice sei stata soltanto per aver avuto fiducia fin dal momento in cui hai distinto il primo suo polpastrello sulla tua carne, per aver aspettato qualcosa di diverso da una scena già vista, da un deja-vu squallido e aspro, per aver sperato che, ora che era stato lui a cercarti, a volerti, a toccarti per primo, potesse donarti altre parole oltre agli insulti, magari un saluto o forse un sorriso, anche se fosse stato incerto, tirato e impacciato, sarebbe bastato ugualmente.

Che sciocca che sei: lui non sorride.

-Ah già, dimenticavo che non ti vado molto a genio- sospiri sarcastica voltandoti nella sua direzione e lo guardi, fissi quelle iridi tristi, annebbiate, ghiacciate, finché non è lui a volgersi altrove, i suoi occhi mirano e si alternano tra punti indefiniti della sala e ti sembra, di nuovo, che ti sfugga, che tutto appaia più triste, annebbiato e ghiacciato del solito.


-Che sei venuta a fare qui?- ribadisce con arroganza, come se non ricordasse che giorno sia oggi, come se non sapesse che la signora Marisa Viscardi, tua madre, trascina a forza sia te che Italo a questa stupida festa. Finge. Ancora. Ma non ti guarda.


-Mi piace il panettone- menti anche tu ora, come la più stupida delle bambinette che si diverte soddisfatta in un gioco di ripicche, tuttavia vuoi che, in qualche maligno e assurdo modo, lui sia con te, che le senta quelle briciole tra le sue dita, che si disgusti, che la sua pelle sia attaccaticcia come la tua, che si nausei come fai tu, che ricordi.


-Non ti è mai piaciuta questa festa- lo dice di botto, quasi senza farti finire di parlare, torna a osservarti un istante per poi filarsela nuovamente.

Non puoi impedire il magone che sale allo stomaco e la stretta che ti afferra la gola, perché mille sono i significati che sottintendono questa frase e, forse, alcuni sono quelli che vorresti sentirti dire, che stavi aspettando da una vita, che sono giusti per te, magari anche lui ti guarda, ti osserva e ti vede con i tuoi stessi occhi, magari conosce di te più di quanto tu possa immaginare o più probabilmente è la tua faccia ad essere così espressiva da rendere palese il tuo stato d'animo. Forse si o forse no. Forse. Nell'incertezza rilassi il viso e addolcisci i lineamenti.


-Ma il panettone si-

-Perché sei qui?-

-Non lo immagini? Sono qui per te- non sei titubante quando lo dici, le tue parole si articolano con facilità, scivolano con naturalezza sulla tua lingua, sulle tue labbra, decise e concitate, ebbre di un'impazienza violenta e di una determinazione sconcertante, come una fiumana impetuosa, precipitosa e avvolgente; non sei trepidante e nervosa, non hai paura di questo, di ciò che lui sa già e che fatica ad ammettere, non ti vergogni, non ti imbarazzi perché è inutile e così tanto stancante nascondersi che sei esausta, non eludi il suo sguardo, non ti allontani perché questa è la tua occasione, la nostra occasione, e non vuoi mancarla, nonostante tu sia ben consapevole che lui, alla fine, si tirerà indietro, che non lo scavalcherà, quel muro, che rimarrà lì a fissarti credendoti pazza, che non si sbloccherà e che, probabilmente, innalzerà un'altra fila di mattoni attorno a sé. Non hai paura, perché avresti dovuto parlargli prima, perché lo desideri e speri che, prima o poi, un'apertura per entrare, anche solo per stare al di là con lui, tu riesca a farla su quella parete che sembra così ardua da scalare, non hai paura perché la vedi e la senti, la sua mano che è scesa inconsciamente a stringere la tua. Non si muove da lì.

-Devi smetterla-

-Di fare cosa esattamente?-

-Lo sai-

-Lo farò quando avrai il coraggio di dirmelo guardandomi in faccia-

-Smettila- ti guarda, finalmente. Ma non ti vede.

Lo vedi tu, però. Forse ha ragione e dovresti finirla, forse sei solo la più infantile e scipita delle bambinette che si rifiuta di mollare il ciuccio, magari dovresti crescere un po' e trovarlo altrove, l'amore, forse sei solo una pazza, una squinternata, una squilibrata, una che per campare si deve nutrire di insensate fisse da babbea, magari non è come pensi, forse non lo conosci affatto, forse non hai capito un cazzo. Forse. Tuttavia, tu comunque lo vedi e lo senti.


Le sue dita ora ti stringono con più forza.


-Vorrei proprio capire quale sia il tuo problema-

-Sei tu, il mio problema. Voglio che te ne vada-

-Potrebbe succedere davvero, potresti pentirtene-

-Sono sicuro che non mi pentirò-

-Si certo, vorrei solo sapere il perché tu abbia così tanta paura di essere guardato da me-

-Non ne ho-

-Il perché tu abbia paura delle mie parole, di quello che potrei dirti-

-Ti ho detto che non ho paura-


-Sei bello, Leonardo- affermi con disinvoltura, senza desistere dal guardarlo -Lo saresti, anche se fossi la persona peggiore al mondo. Sei bello, per me-

Soltanto quando avverti le tue iridi offuscate bruciare per esserti sforzata a mantenere le palpebre aperte con l'intento di evitare di perderti ogni minima reazione del suo corpo, ogni più sottile tendine teso e irrigidito, ogni più piccolo movimento della sua mandibola, delle sue labbra, della sua cicatrice, solo quando ne hai contati a sufficienza, di battiti delle sue ciglia, soltanto ora che lui ti guarda, e forse ti vede, ti concedi di abbassare lo sguardo, di torturare un labbro con i denti, di far rimbombare i battiti del tuo cuore nel cervello, di percepire lo stomaco contrarsi, l'esofago incendiarsi e la pelle sudare, solo ora permetti al tuo corpo di accorgersi di quanto sia ridotta la distanza che vi separa, soltanto ora lasci che il tuo respiro acceleri e che le tue narici si ubriachino, si inebrino dell'olezzo di sigaretta, di quella sua, fuso all'aroma di canditi e uvetta in un'unione assuefacente.


Solo ora concedi ai tuoi occhi di spostarsi sulle vostre mani, sull'incastro assurdamente perfetto di quelle due dita, le vostre, le nostre, dita. L'indice e il medio.

Vorresti trovare il coraggio di muoverti, di sbloccarti, di piantare ancora le pupille su di lui, di farti più vicina, di stringere con più forza quel dito con il tuo, di accoglierlo, di avvolgerlo, di custodirlo, di amarlo, di fargli assaporare il tuo calore, vorresti vederlo perché non sei certa che abbia compreso, non sei sicura che possa aver afferrato il significato che hai celato dietro alla banalità e alla mediocrità di un'insipida parola.

Vorresti, vuoi e lo fai, ti smuovi, ti animi ma quando è troppo tardi, quando, come quella sera, il tac-tic del vostro, nostro tempo, era già in agguato per colpirti alle spalle con i suoi rintocchi cacofonici, lo fai quando ormai ci sono due braccia sconosciute e anonime a circondare il suo corpo, quando è la voce stridula di una qualsiasi a riempire l'aria, quando lui già non ti vede più, quando oramai lui ha deciso di rompere il vostro, nostro, intreccio, il sottile filamento di due vite cacofoniche.


L'essenziale è provare a fare in modo di avere sempre qualcosa in cui credi
da inseguire
per non restare a piedi.
L'essenziale è riuscire a dare forma anche a quello che ti sembra assurdo
e se pensi al futuro
non tutto è perduto.




Non è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. Io non è che volevo essere felice, questo no. Volevo... salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l'onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l'unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai. Però troppo tardi l'ho capito. Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti del male. È lì che salta tutto, non c'è verso di scappare, più ti agiti più si ingarbuglia la rete, più ti ribelli più ti ferisci. Non se ne esce. Quando era troppo tardi, io ho iniziato a desiderare. Con tutta la forza che avevo.




Just one second, please...

Salve, salvino belle donne! Rieccomi con un capitolo che mi sembra più delirante del solito, ma capitemi, è tra lo studio, lo studio e ancora lo studio (chi già fa l'università ed sotto il periodo degli esami può capirmi) mi sono rimbecillita del tutto. Non è che prima fossi sana, e forse l'avrete anche dedotto dai commenti che lascio ogni volta, ma tant'è! Che vuoi farci, mia madre e mio padre ci hanno messo tutto il loro impegno per tirarmi su come si deve, ma non è servito a nulla. Sono stata forse adottata?

Ma soprattutto, perché mi perdo in queste fesserie ogni volta?

Bando alle ciance e ciance alle bande, da questo capitolo diciamo che si inizia a delineare un po' di più il personaggio di Leo e forse potrete iniziare ad immaginare i motivi che lo spingono ad essere così com'è, a non sopportare Bianca poi così tanto. Ci sono anche i primi passi tra i due e da qui in avanti ovviamente sarà un crescendo, hanno bisogno di imparare a conoscersi per davvero.

Probabilmente il prossimo capitolo si farà attendere un pochino più del solito perché ho poco tempo per scrivere, perché è importante e quindi lo voglio fare bene.

Non smetterò di ringraziare coloro che recensiscono ( soprattutto quella bricconcella di Lis, che mi fa le sorprese e che mi fa ridere come una scema per tutto il giorno... Lis, vero, che questo delirio di commento è anche colpa tua?!) , che hanno inserita la storia tra le preferite, seguite e ricordate e quelle che mi dedicano tempo anche solo leggendo.

Un bacio donzelle,

Fal

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Capitolo 5
*** Il paradiso degli orchi ***



Ai Leonardo

che sognano una vita in cui la loro

sia soltanto la frivola invenzione di una che non sa.



IL PARADISO DEGLI ORCHI


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Ninna nanna dice l’orco
col coltello nella mano
mentre guarda tetro e sporco
questo bimbo sul divano.

Dormi dormi fa lo gnomo,
mentre vomita verdastro.
Il suo sangue di non uomo
graffia il petto del figliastro.

Sogni d’oro fa la strega
che il tuo incubo prepara
e non sente chi la prega
che la notte non sia amara.

Dormi, adesso, figlioletto,
che Cthulhu è lì nell’ombra
e verrà in questo letto,
se la mente non è sgombra.


C'era una volta una bambina e, probabilmente, da qualche parte c'è ancora; era una vispa e irrequieta monellaccia che si divertiva a scorrazzare sorridente per tutto il tempo, era una bella bricconcella a briglia completamente sciolta a dire la verità, e non trascorreva giorno in cui le maestre, seppur pazienti e amorevoli, non fossero costrette a relegarla per ben cinque minuti dietro la lavagna a causa delle sue continue marachelle che tanto la divertivano; proprio si ostinava a voler colorare con le tempere tutto ciò che le balenava sotto gli occhi ma, sicuramente, l'oggetto indiscusso dei suoi più reconditi desideri erano i capelli di un'altra sua compare. Martina mi pare si chiamasse, una marmocchia della sua stessa pasta, forse un po' più docile, che, già all'età di sei anni, se la godeva a rigirarsi e rigirarsi tra le dita i suoi lunghi capelli biondo cenere nel vano tentativo di acconciarli in una treccia.

Lei, la mocciosa numero uno, se ogni volta riusciva ad ingraziarsi il padre approfittando della sua bontà, sorridendogli con una bocca mezza sdentata e trascinandolo, alla sera, in mezzo alle sue cianfrusaglie di improvvisata pittrice, certamente non riusciva ad abbindolare quel sergente di sua madre, Marisa Viscardi, segretamente innamorata dell'unico figlio maschio che il cielo le avesse donato e per cui avrebbe potuto scegliere un nome meno strano, la quale, per ogni volta che, come diceva lei, quella peste gironzolava per le vie del paese come una “zingara”, per ogni vestito sporco e strappato e per qualsiasi guaio combinato, come quando aveva preso in ostaggio Ernesto, il cane, allora cucciolo, della vicina di casa, allora disperata, credendolo suo indispensabile collaboratore nell'ardua impresa di proteggere l'intero vicinato dall'uomo nero, dai fantasmi, dalle streghe e dagli orchi, la esiliava in punizione nella sua camera senza cena né cartoni animati, almeno finché non riusciva a combinare qualche danno anche lì dentro.

Sarebbe stata infinitamente lunga la lista di aggettivi di disapprovazione che sarebbero stati opportuni per lei, ma l'unico che, probabilmente, le era stato affibbiato un'unica volta era quello di essere una frignona.

Da quando si era lasciata alle spalle la onnipresente compagnia di Camillo, meglio conosciuto come 'Millo, il suo ciuccio, aveva pianto soltanto in un'occasione, quando quell'incosciente di suo fratello Italo era tornato a casa con un occhio nero e un labbro spaccato; non aveva piagnucolato neanche quella volta in cui sua madre, donna di ghiaccio, aveva obbligato suo padre, sant'uomo dalle mille risorse, a non rivolgerle la parola e alcuna attenzione per due interi giorni, non era di certo colpa sua se aveva dovuto tagliare una ciocca bella consistente di capelli a Martina, la mocciosa numero due. Lei non voleva farseli dipingere!


Tuttavia quella sera Bianca piangeva, convulsamente, incontrollatamente, e tremava sotto il davanzale della finestra della sua cameretta, così, con le braccia strette strette attorno alle corte gambe rannicchiate, la fronte appoggiata alle ginocchia e gli occhi bagnati ridotti a due fessure per non guardare, per non sentire. Si dondolava istericamente singhiozzando avanti e indietro, su e giù, a destra e a sinistra, e pregava tentando, fabbrile, di trovare quella pace che le grida sibilanti alle orecchie le impedivano di raggiungere; veramente non credeva che prima o poi lui sarebbe arrivato anche lì, ad un passo da lei, al ragazzo della finestra di fronte, quello triste, quello già troppo grande, non lo pensava realmente perché sua madre glielo aveva assicurato: l'orco se ne era andato da quella casa. Piangeva Bianca facendosi piccola piccola, tappandosi le orecchie, mordendo le labbra con tutta la forza che aveva in corpo, piangeva e pregava, pregava di poterlo rivedere domani, di saperlo al sicuro. Non bastarono le braccia di Italo a calmarla, né quelle di suo padre a rassicurarla, continuò a singhiozzare finché le urla non cessarono e l'orco non scomparve. Finalmente.


I mostri non esistono.

I fantasmi, i lupi mannari, le streghe

sono fesserie inventate per mettere paura

ai creduloni come te.

Devi avere paura degli uomini,

non dei mostri.



Uno. Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto, che si sfalda in tante parti, migliaia, milioni, miliardi di frammenti, schegge, briciole e brandelli, piccoli, medi, grandi, appuntiti e squadrati, tutti taglienti, tutti affilati, tutti neri come quelli in cui viene ridotta la tua carne, quella della pianta del piede quando vi passa sopra, vi si innestano, ingannevoli e furbi, vi si conficcano, lì, dove le mani non arrivano per proteggere, lì, dove penetrano sempre più in profondità lacerando e infettando le tue membra.

Si disgrega, si smembra, si sfascia, si squama, il vetro, si rompe, semplicemente, come una bottiglia piena scagliata sulla superficie spigolosa di un mobile, come una verga di legno, come le ossa delle mani e delle gambe, come le costole, si rompe come solo qualcosa che non è mai iniziato sa fare, come tutto ciò che non è mai esistito, come l'amore di un padre per un figlio, ed è martire inanimato di un'innaturale faida familiare, eroico incipit di una sequela infinita di cui è impossibile riconoscere il disegno, l'intendimento e la meta, punto di non ritorno di una successione eterna di atterriti e rabbiosi respiri strozzati, i tuoi, i suoi, i vostri, unico usurpatore di un mostruoso silenzio. Non si avvertono sudice voci, oscene grida o lamenti bestiali, perché non ce n'è bisogno, perché non servono, perché sono più che sufficienti le mani, i pugni, le braccia, i piedi, le gambe, gli occhi e la bocca a far male, perché la ferocia delle botte ha già fatto la sua parte inghiottendo gli aliti dei gemiti più violenti e dolorosi. Non ce n'è bisogno, non servono.



Due. Due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, così, senza che tu ne abbia coscienza, dalla bocca, velocemente si innalzano nell'aria senza che tu possa impedirlo perché è troppo opprimente la morsa che stringe lo stomaco; si disperdono con la stessa facilità con cui sono saliti su per la gola, si dissolvono, ciascuno per ogni movimento esterno un po' più incoraggiante e più assurdamente rassicurante, per una porta, la sua porta, il cui rumore della serratura riconosceresti tra mille come un animale fedele al proprio padrone, che viene sbattuta violentemente, segno indelebile di una resa, della fine di una guerra senza vincitori né vinti, per lo scalpiccio dei piedi di tuo fratello che corrono frettolosi, ritraendo l'ansia, l'angoscia, l'agitazione, il tormento, la preoccupazione, il patimento che li anima, giù per le scale, sempre più impazienti, sempre più smaniosi, sempre più in fretta, giù, fino alla porta, percorrendo una discesa che sembra essere troppo lunga e ripida; rischia di cadere ma corre, corre come solo un fratello sa fare.


Uno. Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto, due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre.


Tre. Tre sono le emozioni che attraversano il tuo corpo in un tic-tac: paura, sollievo e alterigia.

La paura è la prima ad arrivare perché vuoi scenderle tutte, quelle scale, e finalmente ne hai trovato il coraggio; non ti immobilizzi al terzo gradino, non ti nascondi tra le ombre della notte in mezzo al corridoio, non trattieni il fiato e i singhiozzi che si arrampicano sulle pareti della gola, non li spii, come la peggiore delle ficcanaso da lì, ma corri anche tu, veloce come tuo fratello, forse pure di più, vai fino in fondo e hai paura perché non lo sai cosa ti aspetterà, non lo sai quanto sangue raggrumato ci sarà sui suoi vestiti, quanto ne scorrerà addosso a lui, sulla sua pelle, sulla sua faccia, sulle sue mani, non lo sai, non lo hai mai visto l'orrore di una cicatrice che viene riaperta.

Il sollievo arriva dopo, quando attraversi la porta spalancata ed esci in giardino, sei scalza e sei in pigiama ma non ti importa; arriva quando li vedi abbracciarsi, stringersi, volersi, cercarsi e trovarsi, lì, in mezzo alla strada, buia, illuminata dal pallido chiarore intermittente di qualche lampione mezzo fulminato, al freddo, sotto la pioggia. Si avvinghiano, due uomini, disperati, e vorresti farti piccola piccola perché la tua è una sporca intrusione, una delle tante, l'ennesima, vorresti essere un pipistrello, si, proprio quello, un pipistrello, che gira di notte, che svolazza sopra le loro teste inconsapevoli, che ha gli ultrasuoni e che può sentire quello che si sussurrano, le parole sconclusionate che scorrono, in un fiume di incoscienza, da una bocca all'altra. Vorresti e sei invidiosa perché a te non è concesso legarti a lui in quel modo, allora rientri e li aspetti.

L'alterigia colpisce per ultima, non appena lui varca la soglia di casa tua e incontri il suo sguardo; è sempre lo stesso, non si smentisce mai, è il solo che sa rivolgerti e lo capisci subito che ancora si ostina a non volerti lì, accanto a lui, la buona creanza di nasconderlo non ce l'ha, al contrario, disprezza apertamente, con le parole, come solo lui è in grado di fare con te, come solo lui è i grado di ferirti.

-Che cazzo Italo, ma possibile che questa debba stare sempre in mezzo ai coglioni?!

-Si, se solo sono i tuoi.


Allora è l'alterigia, proprio quella, l'orgoglio, la dignità, la boria, l'arroganza, a risalire come un conato di vomito fin dalla profondità delle viscere scaraventandosi sopra di lui, appiccicandoglisi addosso, come una medusa velenosa, come il vinavil infiammabile, come una colata di miele e, come una pianta grassa che punge, lo fa in modo incontrollato, con prepotenza, insolenza e volgarità dando sfoggio alla tua peggior te, quella che soltanto lui riesce a tirar fuori.


Quattro. Quattro sono le gocce salate che, irrefrenabilmente, scorrono sulla pelle del tuo viso, lo marchiano, lo graffiano, lo solcano, cadono giù dal precipizio delle tue palpebre e fluiscono, giù, sulle guance, giù, fino alla linea della mandibola, giù finché non sono assorbite dal tessuto del pigiama; tuttavia la senti, ormai, la traccia che hanno lasciato sulla carne, brucia e tira ad ogni smorfia della faccia, la senti e allora ti pulisci, ti strofini con forza per cancellarla perché non sei stata capace di controllarti, perché la tensione era tanta, troppa da sopportare, perché hai paura, perché è fradicio, ha il sangue incollato sui capelli e i vestiti strappati, lui, un uomo, il volto irriconoscibile e il corpo che a stento si sorregge e ti nascondi, vai in cucina mentre percepisci i suoi passi rallentati seguirti e tuo fratello è sparito chissà dove, non lo hai ascoltato, non lo hai capito quello che ti ha detto, non ti interessa. Solo ti nascondi, perché non vuoi che lui ti veda, perché non lo deve vedere che è il solo che riesce a farti piangere.



Uno. Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto, due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre sono le emozioni che attraversano il tuo corpo in tic-tac, quattro sono le gocce salate che scorrono sulla pelle del tuo viso, cinque.


Cinque. Cinque sono le dita con le quali ti azzardi a toccarlo, il medio, l'indice e il mignolo e poi l'indice e il mignolo di nuovo, le altre sono impegnate a fare altro, a togliergli la maglietta zuppa, per esempio. Tutte tremanti, assetate, esitanti, troppo fredde e leggere, insicure, avide, delicate, lente, piccole e timorose; lo tocchi, non casualmente ma premeditatamente, lo accarezzi, lo sfiori, aduli e vezzeggi la sua epidermide, quella dei fianchi e delle braccia, li vuoi rimembrare tutti i nei che vi sono impressi, lasci che i polpastrelli la saggino avventatamente e senza alcuna ritrosia sollevando contemporaneamente la stoffa della maglia, lasci che le iridi si dissetino corteggiandolo e ammirandolo senza pudore perché è un'occasione troppo ghiotta che non ricapiterà presto, perché sei egoista, perché lui è lì, vicino, tanto, troppo vicino, seduto, attaccato a te, vicino, anzi no, vicinissimo, e tu sei lì, in piedi, tra le sue gambe divaricate, che lo tocchi, e sei vicina, tanto, troppo vicina, attaccata a lui, che ora è nudo, in parte, nudo e non lo avevi mai avuto così vicino, svestito, spogliato, scoperto, nudo e vicino, nudo davanti ai tuoi occhi, nudo tra le tue mani, nudo e vicino, nudo e disarmato. Nudo.


Sei. Sei sono gli ematomi sparsi che conti sul suo corpo, sull'occhio sinistro, sul labbro, due sulle costole e due sulle braccia, uno di fianco al gomito e uno poco più su del polso. Sono grandi, rossi e vivi, come i fiotti di sangue che ogni tanto zampillano dal labbro e dal sopracciglio spaccato, vi passi sopra un fazzoletto bagnato, lo pulisci e vi premi il ghiaccio; non sai che fare, non sai dove guardare, tutto di disgusta, non sai da dove cominciare, come muovere le mani, dove le puoi poggiare e dove invece fa più male, sei nel panico, non sai se c'è qualcosa di rotto, non sei in grado di decidere cosa è meglio fare, se devi trascinarlo all'ospedale o se devi aspettare che torni tuo fratello, dove cazzo è andato non te lo ricordi, forse dovresti svegliare tuo padre, anzi no, non puoi salire e lasciarlo da solo, devi controllarlo e pulirlo, ma non ci sono gli asciugamani e lui è molle di acqua e di sangue e tu devi asciugarlo, e gli ematomi sembrano accrescersi, espandersi ad ogni battito di ciglia, sempre di più,sempre di più, sempre di più. Ora ti pare rosso e vivo lui stesso. Disinfetti o asciughi? Gli prepari qualcosa di caldo? Il tè, il tè andrebbe bene, ma dove sono le bustine? E il bricco per l'acqua calda? Dio... non lo ricordi. Forse dovresti chiamare, chiami o non chiami? Usi le garze o i cerotti? E dove sono? In bagno? Perché cazzo hai una casa così grande? Perché cazzo tua madre ha la fissa di nascondere le cose? Dio... dove cazzo sei Italo?


Uno. Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto, due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre sono le emozioni che attraversano il tuo corpo in tic-tac, quattro sono le gocce salate che scorrono sulla pelle del tuo viso, cinque sono le dita con cui ti azzardi a toccarlo, sei sono gli ematomi sparsi che conti sul suo corpo, sette.


Sette. Sette sono le volte in cui lui ti parla, ripete sempre la stessa frase che echeggia come una nenia nel tuo cervello:

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

La dice e la ridice, la ripete di continuo, lo ribadisce e lo riconferma, ti rimbecillisce, ti rintrona e rimbambisce, ti soffoca mentre le mani tremano e i timpani sibilano, la dice e la ridice, mentre ti guarda, mentre ti ferma e blocca i tuoi movimenti, mentre ti scrolla per una spalla, mentre ti pizzica su un fianco, mentre ti afferra un polso, mentre ti stringe le dita tra le sue, mentre se le porta al volto e si lascia toccare da te. Allora, forse, ti svegli.


Otto. Otto sono le volte in cui i vostri sguardi si incontrano, si incastrano e si assemblano in un legame che, per ciascuna delle otto volte, ti fa battere il cuore più velocemente, ti fa arrossire ed imbarazzare. Ah! Tu che ti imbarazzi, tu, di lui, tu che ti vergogni, di lui, tu che lo hai spiato e lo spii con audacia, tu che lo ami, tu che lo guardi, sempre, tu che lo hai toccato prima, che lo hai vezzeggiato e adorato, tu che lo tocchi ora, che lo pulisci, lo asciughi e lo curi. Tu, ah!, tu che esiti e sei impacciata dopo tutto ciò che gli hai detto, dopo che hai pianto, tu che ti imbarazzi di lui che ti guarda, lì, così, nudo e vicino, tanto, troppo nudo e vicino, vicinissimo e nudo, e lo tocchi, lo saggi, lo assapori come mai potrai più fare, perché lo desideri, perché sei avara e prepotente, perché sei assetata di lui, perché lo vuoi, tutto, lo ami e vuoi fare l'amore con lui, anche lì, sul tavolo della cucina, addosso al frigorifero o per terra, sul pavimento. Lo vuoi, tutto, e basta, ovunque e comunque. E sei egoista.


Nove. Nove sono i baci che desideri dargli, dove vuole lui, sugli occhi, sulla cicatrice, tra i capelli, sulle guance, sulle orecchie, sulle narici, sulle mani, sul collo e sulle labbra. Non sono dieci perché il decimo deve meritarselo, deve guadagnarselo, è il premio che gli vorresti concedergli domani mattina se deciderà di rimanere ed è il buongiorno che vorresti regalargli ad ogni nuovo inizio di giornata, quando ancora siete abbracciati dentro al letto, sotto le coperte; non sono neanche quindici o di più ma solo nove, perché, pensi, che, gli altri, deve essere lui a volerli, a cercarli, a rubarteli. Ah! Non ne trovi il coraggio, però, di baciarlo, così, tu vergognosa, lui che ti guarda, così, nudo e vicino, vicinissimo, e allora nove sono i baci che si tramutano in parole, nelle battute che tu scambi con lui. Sono solo sussurri.


-Come stai?

-Sono stato peggio e sono stato meglio. Vedi di darti una mossa, non voglio fare giorno qui dentro

-Hai intenzione di tornare di là?

-Non sono cazzi che ti devono interessare

-Magari potresti rimanere qui, potrest...

-Non ci penso nemmeno

-Non puoi tornare da lui e fuori si gela

-Perché cazzo non la finisci di interessarti della mia vita?! Mi hai rotto i coglioni

-Rimani qui. Dormi con Italo, te ne vai quando vuoi e non sei costretto a vedermi domani mattina. Solo, rimani qui.


Uno. Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto, due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre sono le emozioni che attraversano il tuo corpo in un tic-tac, quattro sono le gocce salate che scorrono sulla pelle del tuo viso, cinque sono le dita con cui ti azzardi a toccarlo, sei sono gli ematomi sparsi che conti sul suo corpo, sette sono le volte in cui lui ti parla, otto sono le volte in cui i vostri sguardi si incontrano, nove sono i baci che desideri dargli, dieci.


Dieci sono le pulsazioni smarrite dal cuore nel vederlo salire le scale seguendo, in silenzio, i passi di tuo fratello.



E' salato e acerbo il sapore che gli inasprisce e inumidisce le labbra lessandole, vi passa la lingua lentamente asciugando le gocce che vi affiorano ad ogni suo impercettibile e misurato movimento, stando, però, ben attento a non lambirne la parte superiore, quella imperfetta, lacerata e incisa, quella sfregiata, perché è ancora ustionata la pelle lì e perché sa che sicuramente troverebbe una consistenza meno scivolosa, più densa e rugginosa, meno pulita e cristallina ad aspettarlo, è consapevole che se vi trascinasse la lingua sopra, si impregnerebbe sicuramente di rosso e che quel sapore, poi, rimarrebbe incastrato proprio lì, tra l'esofago e lo stomaco, soggiogato a un andirivieni perpetuo e vischioso; su e giù, su e giù, su e giù, ma comunque non riuscirebbe a smuoverlo da quel preciso punto.


E' una superficie piana e infinitamente estesa quella a cui rivolge lo sguardo, così illimitatamente vasta e dilatata da farlo sentire un moscerino inerme di fronte ad essa, ingabbiato tra i fili di una ragnatela insidiosa; gli sembra di star rimirando le sfumature dei pigmenti delle sue iridi, non c'è la limpidezza o la quiete di un cielo azzurro e terso, né il tepore diffuso di un sole sfolgorante nel pieno del giorno, al contrario, sono cinerine nuvole di pioggia e burrasca, cariche di una turbinosa promessa, quelle che si plasmano e si dimenano davanti alla sua impassibile e impotente figura in un'accozzaglia sgraziata e sconquassata di colori tristi, annebbiati e ghiacciati.


La sente accarezzargli e avvolgergli il corpo, fluire sulla pelle rabbrividendola e ammorbidendola, percepisce la carne dissetarsi e modellarsi seguendo ligia una movenza ritmata e ondulatoria, l'avverte, l'acqua, viscida e mendace, accoglierlo e disegnare la sua sagoma come un'impronta su di essa, le stille salate scorrono su di lui ferendolo senza alcuna accortezza, lì, dove ci sono escoriazioni e lividi che bruciano, lì dove le botte hanno fatto più male e i segni sono entrati sottopelle, fin nelle viscere.

E' al mare, Leonardo, galleggia lasciandosi trasportare e guidare verso rotte che qualcun altro ha deciso per lui, si abbandona, sfinito, a chi pare avercele le redini della vita, non gli interessa dove attraccherà, su quale spiaggia, su quale isola arriverà, si concede di rimanere così, le braccia e le gambe divaricate a quattro di spada, le membra fresche e leggere fluttuano trascinate dalla forza della natura, gli occhi rivolti verso lo smisuratamente infinito e la mente impegnata a rimuginare che sarebbe potuto essere proprio quello, il cielo, il suo limite se solo non fosse stato lui, Leonardo.

Attende, Leonardo, aspetta che arrivi il momento in cui il tutto, così dolorosamente ingiusto, si ripeterà senza pietà come in un disco incantato, l'attimo in cui i suoi muscoli si tenderanno smarrendo il placido lassismo che li aveva cullati fino ad allora, l'istante in cui sentirà il fragore di un avanzare intercalato, gli schizzi d'acqua graffiare il suo petto e il suo volto, il calore di un altro corpo, di quello suo, avvinghiarlo in un addio disperato.


Non deve farlo per molto, però, basta l'infinitesimale spazio che si inframezza tra un secondo e l'altro, tra un battito di ciglia e la successiva corsa veloce sulle sue guance di quelle gocce marine piantate proprio lì, in bilico sulle sue palpebre; la percepisce già smuovere l'acqua attraverso movimenti calcolati e attenti, nel suo cranio rimbomba lo scroscio delle sue bracciate cadenzate al passo delle sue gambe zampettanti, gli è sufficiente il solo istante necessario a inspirare quanta più aria possibile e a controllare che il numero, registrato fino ad allora, di gabbiani sorvolati sopra la sua testa sia sempre il medesimo per avvertire le sue esili braccia aggrapparsi al suo collo.

Anche questa volta sono sedici, non uno di più non uno di meno.

A dire la verità l'unico che sembra cambiare e trasformarsi, l'unico che pare subire e soffrire il corso del tempo e sfuggire a quella ingannevole ed immaginaria condizione di perenne staticità è lui, Leonardo. Non è più un dodicenne con un cappello grigio con un ridicolo pon pon sopra e una camicia a scacchi neri e bianchi o un diciannovenne barcollante per la strada con un bottiglia di rum pronta per essere iniziata tra le mani, è un uomo ormai, i lineamenti non sono più infantili e acerbi ma decisi e marcati, un filo di barba ricopre il suo volto, è più alto adesso, una rada virile peluria gli cosparge il petto e i muscoli, energici e vitali, definiscono ogni avvallamento della sua intera figura; tuttavia i suoi occhi sono ancora sempre offuscati, smarriti e cinerei, quella “I” senza ghirigori e fronzoli da femminuccia marchia la sua pelle imperturbabilmente e la brutalità di una cicatrice deturpa la bellezza del suo volto.

Lei rimane sempre la stessa, invece, così minuta e piccola, così leggera e delicata tanto da rendere il suo tocco, il suo corpo inavvertibile e invisibile, come sono i suoi denti, irriverenti e giocosi, che si incastrano sulla sua pelle per stampargli un morso proprio sotto la nuca, vicino all'orecchio, come è la sua bocca che, dolce e affettuosa, con il timore di aver fatto troppo male, vi lascia poi un tenero bacio.

Non sa che lui è abituato a ben peggio, non può saperlo, lei.


Inspira Leonardo,di nuovo, lascia che l'aria, salmastra ed arsa, gli inebri le narici, che si cali lungo le pareti di ciascuna delle sue cellule, giù per la trachea, fino infondo, che alleggerisca le fibre muscolari acquietandole e penetri nei polmoni resuscitandoli, inspira prima di tentare di ricordare in quale sporco buco lo tiene nascosto il coraggio, come si riesca a farlo risalire e quale sia il modo corretto per usarlo e voltarsi, stringerla, ogni volta sempre con un po' più di forza e smania, con addosso, incollato, subdolo e appiccicoso, il timore di veder scomparire troppo presto il sorriso dal suo viso, e iniziare quell'allegro gioco, precario bagliore in un incubo ingannevole e crudele, fatto di inseguimenti sollazzati, grida svagate, risa gaie e di faceti e malandrini schizzi d'acqua salati rimbalzanti da corpo a corpo, da pelle a pelle, da bocca a bocca.


Non deve attendere molto neanche per osservarla, impotente e paralizzato, bloccato in una triste realtà psichedelica, svanire, con la medesima rapidità con cui se l'era ritrovata alle spalle; è sufficiente uno spruzzo più violento lì dove ancora brucia e la smorfia di dolore che gli sfigura il volto, basta strizzare gli occhi fino a immaginare solo il buio e mordere le labbra fino a reprimere rossi conati rugginosi conficcandoli sulla lingua, per vederla annaspare, agognare ossigeno con disperazione, brancolare nel vuoto, aggrapparsi alla sua pelle viscida e scivolosa e slittare giù, risucchiata e inghiottita in un lugubre vertiginoso abisso salato.


Tutto ciò che gli è concesso è l'eco straziato della voce di una bambina che tuona impassibile nel cranio e il disegno di un perfido ghigno su una bocca, sulla sua bocca.


Spalanca gli occhi esagitato, Leonardo, ridestandosi, improvvisamente libero dalla prigionia corrosiva del suo inconscio; il respiro si spezza in gola rimanendovi impossibilitato, si perde senza riuscire a rimembrare le giuste traiettorie che potrebbero condurlo giù per la trachea salvandolo, e i timpani, insorditi da feroci urla spasmodiche sbrananti una bocca d'agnello, gli restituiscono il sibilo efferato di un fischio malato.

Ansima in cerca d'ossigeno sufficiente per non soffocare, per non affogare insieme a lei, inspira ed espira concentrandosi sul lieve movimento delle proprie narici e si limita ad ascoltare il fievole sussurro dei suoi sospiri tentando di sopravvivere almeno lui, di rimanere a galla, cercando di ricordare come, ogni volta, sia capace di alleggerirsi dal peso delle immagini brutali e mostruose di un infido incubo.

Non grida allucinato, non balza dal letto angosciato e spaventato, né si dimena con tutta la forza che possiede, si controlla, invece, mantiene lo sguardo incollato al soffitto pietrificando ogni arto, serrando la mascella e cercando di sgrassare i tessuti della sua lingua dalla dolorosa impudenza dal sapore riarso e aspro del sangue di una vita esanime; non si muove perché non può farlo, perché, non appena varcata la soglia di quella stanza, si era premurato di prestare attenzione, di registrare e incidere nelle interiora delle sue pupille ogni singola inezia che lo avrebbe rinsavito rammentandogli di non potere.


Ce le ha conficcate nelle iridi senza nemmeno aver necessità di volgersi a rimirarle, le percepisce gravargli addosso sommergendolo, l'approssimazione e l'imprecisione con cui quelle solitarie due immagini e quel poster, identici ai suoi ma più sgualciti e consunti dal tempo, sono stati appesi alla parete di fronte al letto, sono troppi i centimetri di differenza che pesano su di un lato rispetto all'altro, sono troppo storti e troppo poco ordinati; come non gli è sfuggita neppure la consistenza piallata e calda del pavimento in parquet, scivola ancora sotto ai suoi piedi nudi, né quella fredda e dura della superficie lucida, intarsiata e pregiata di quell'armadio di un marrone eccessivamente scuro, ce l'ha impressa sui palmi delle mani.

Non li ha ignorati i baffi neri e obliqui che sporcano e rigano il candore dell'intonaco bianco in basso, vicino al comodino di destra, né ha dimenticato di indossare una maglietta giallo canarino e un paio di pantaloni di una tuta non suoi, non gli è concesso fingere di non vedere, perché non vi è neanche il più impalpabile sentore della puzza di alcool ma, al contrario, l'aria è intrisa dell'aroma di pulito, di lavanda e vaniglia, gli basta abbassare la faccia e annusarsi, odorare quelle lenzuola verde smeraldo per percepirlo.


Non si muove, Leonardo, perché non può, perché non è solo, quella non è la sua stanza e non è a casa sua, non è nel suo letto, lì con lui c'è quel ragazzetto dal nome strano che dorme prono, il volto affondato nel cuscino e una mano sotto di esso, non si muove perché oramai è avvezzo a inghiottirle, le grida, che risalgono dalle viscere delle sue membra, e a contrarre le fibre muscolari finché gli spasmi non lo lasceranno libero: l'abitudine e il tempo lo hanno modellato a loro piacimento.


Rilascia il labbro che tratteneva convulsamente tra i denti prima di decidere di aver bisogno di acqua, fresca, per togliersi dalla bocca i lasciti tossici e nauseanti del sapore del sangue, di quello suo, e allora si anima e decide di alzarsi. Lo fa con circospezione, però, scosta di poco e lentamente il piumone azzurro in piuma d'oca, lascia che un solo piede scivoli giù da quel materasso troppo stretto per due persone prima di strisciare sulla sua ruvida superficie e sollevare il busto senza fretta, è attento e guardingo perché vuole evitare che Italo si svegli e perché è consapevole che, se solo fosse un po' più brusco e brutale nei gesti, le vertigini e gli spasimi di dolore gli guasterebbero il cranio e allora, si, rischierebbe di urlare.

A fatica è in piedi, si accascia un solo istante addosso alla parete a lato del letto, sente le costole frantumarsi gracchiando ad ogni esalazione di ossigeno, le gambe intirizzirsi passo dopo passo e la faccia esplodere a ciascuna delle pulsazioni che gli squassano le labbra e l'occhio sinistro. Tuttavia, appena attraversata la soglia di quella stanza, accelera camminando veloce dritto davanti a sé, al buio, punta le iridi su quella porta infondo al corridoio ignorando le fitte che gli attraversano il corpo, non si guarda intorno né decelera perché, se solo provasse a farlo, se soltanto esitasse, non la troverebbe più la forza per andare avanti, ma si fermerebbe, pietrificato dalla morsa di un malsano e nocivo desiderio, si disorienterebbe, confonderebbe le direzioni e alla fine sbaglierebbe scegliendo quella più ovvia e sicura, quella che, forse, anela tra tutte, quella dell'unica porta aperta in un corridoio dalle pareti chiuse, un chiaro invito ad entrare per chiunque lo attraversi e più probabilmente elargito solo per lui.


Torna a respirare solo dopo aver appoggiato la mano sul pomello della porta, di quella giusta, illudendosi di avercela fatta, di aver raggiunto la meta desiderata e di essere scampato al peggio, ma è sufficiente avvertire il fruscio ammaliante e destabilizzante delle coperte che sfregano le une sulle altre a distrarlo e costringerlo a voltarsi per metà con il busto, basta lo scalpiccio delle sue gambe al di sotto delle lenzuola per fargli abbandonare totalmente il contatto con la maniglia di quella porta e incantarlo obbligandolo a tornare indietro e a chiedersi se lei stia dormendo, se il suo sia un sogno o un incubo o se, invece, abbia percepito il suo tormento e sia sveglia, se lo abbia visto passare e se lo stia aspettando perché, infondo, lei lo sapeva fin dall'inzio che lui sarebbe arrivato. Presto o tardi.


Allora è un attimo ritrovarlo, lui, Leonardo, impalato sulla soglia di quella porta lasciata spalancata appositamente. Non entra, però, consapevole di pretendere troppo da se stesso, di star camminando sul filo del rasoio e di non essere mai stato bravo nei giochi di equilibrio, non entra perché entrare vorrebbe dire non uscirne più, vorrebbe dire dannarsi e perdersi mentre lui, invece, vorrebbe solo trovare la chiave buona, quella modellata così sapientemente da chiuderla definitivamente, quella porta, e lasciarlo vivere.

Neppure la guarda, non ce lo ha il coraggio di osservare e marchiare a fuoco sulla sue pupille la sua immagine distesa sul letto, il modo in cui il suo corpo è rannicchiato e avvolto dalle coperte, il modo in cui i suoi capelli, così troppo mossi, si spargono sulle federe del cuscino. Si abbandona contro lo stipite concedendosi di rimirare la stanza, quella che si è costantemente rifiutato di guardare per anni dalla sua, di finestra; vede la tenda di seta rossa che sembra nascondere il candore dei bagliori notturni ma che, di giorno, pare incapace di nascondergli la sua figura, un'ombra invadente che tenta inutilmente di celarsi dietro a un pezzo di stoffa, si fissa su quelle quattro pareti colorate domandandosi quale assurda pazzia l'abbia animata a dipingerle, da sola, di quelle aberranti tonalità, porge attenzione alle foto che, disposte completamente a caso e senza alcun ordine, le riempiono, di lei e di quell'altra ragazzina così diversa da lei e così troppo disponibile tanto da stupirlo che trovino il modo per rimanere insieme in uno stesso posto per più di un minuto; stringe i denti, stizzito, chiedendosi il perché non abbia mai tentato di sbattersela, quell'altra, convincendosi che i suoi giochetti di sicuro non li avrebbe rifiutati, che sarebbe stato divertente e che è ancora in tempo, prima che un'imprecazione affiori spontanea tra i suoi denti e la sua mascella si serri automaticamente mentre nella testa balena l'unica risposta sincera che, per una volta, ha il coraggio di darsi.


Osserva, Leonardo, i fogli sparsi sulla scrivania, i cumuli di libri e cartacce, i vestiti sgualciti sulla sedia, le pile di cd erette ai piedi del letto, finché non è il sussurro del suo nome -Leonardo- esalato, così, dalle sue labbra, scivolato sulla sua lingua, diffuso nell'aria dalla sua voce, a costringerlo ad affogare nelle sue iridi, a guardarla, finalmente, sveglia, distesa nel suo letto, le gambe strette vicino al petto e i capelli, troppo poco lisci, sparsi sul cuscino.


Crolla a terra, Leonardo, sfinito e spossato, e si odia per essere un debole e odia lei, che lo ha costretto a rimanere. Resta paralizzato con la schiena e il capo contro la porta, finché non è lei a scendere dal letto e raggiungerlo, finché non è lei a sedersi accanto a lui e sfiorare la sua spalla con la testa, finché non è lei a intrecciare le loro mani.

Allora si odia perché desidera sentirla tutta, perché non gli basta e vorrebbe stringerla con più forza, e odia lei, che si ostina a non lasciarlo andare e a stringerlo ancora.


Non riesce a quantificarlo il tempo trascorso lì, stravaccato a terra, accanto a lei, addosso a lei, sente soltanto la luce, seppur fioca e debole, che gli solletica il volto, ha i muscoli intorpiditi, la schiena indolenzita e la spalla destra, quella dove c'era lei, ancora addormentata; le costole fanno più male di prima e la faccia ha ripreso a bruciare. Tuttavia non si alza né si muove o solleva le palpebre, perché, di nuovo, è un vigliacco che fatica a trovare il coraggio di guardarla, di essere lì con lei in tutto e per tutto, perché ora lei è lì, sveglia, inginocchiata davanti a lui, e percepisce i suoi occhi su di sé, il suo calore, la sua pelle, le sue mani, i suoi polpastrelli e le sue dita scorrere e fluire sul viso, fra i capelli in cui si incastrano, talvolta, tirando un po' troppo, sulla fronte e sopra gli occhi di cui tracciano, delicate e timorose, forse, di premere con troppa pressione, i contorni quasi volessero disegnarli sulla propria epidermide, l'avverte accarezzargli il naso, gli zigomi, la mascella, le labbra, il collo, finché non sono le sue, di labbra, a sostituire le mani, finché non sono i suoi baci a ripercorre i segni lasciati dai suoi stessi polpastrelli e a plasmare i tracciati della sua cicatrice, fino a raggiungere la sua bocca, finché non sono le sue labbra, esitanti e tremanti, ad avvolgerne dolcemente uno suo, e si odia, Leonardo, per desiderare, bramare, anelare di più, per essere bloccato e immobile, per non essere in grado di togliersela di dosso, per non volerlo, si odia e odia lei che non si smuove da lì, che lo ha ingabbiato, che in un attimo lo assapora timorosa con la lingua, la odia perché non c'è più il sapore rugginoso del sangue, di quello suo, a martoriargli le papille gustative,la odia, ancora, perché lei lo sa che non lo dimenticherà, che è riuscita a marchiare anche quella parte di lui, che si è infiltrata anche lì dentro, che lo ha penetrato, la odia e allora la scansa. Finalmente.



And now that you've found it- its gone
and now that you feel it- you don't
You've gone off the rails

So don't get any big ideas,
They're not going to happen
You'll go to hell for what your dirty mind is thinking.



Uno. Uno è l'unico passo che mi basta fare oltre la soglia della porta per avvertire la puzza di alcool nausearmi e stomacarmi.

Due. Due sono i suoi occhi, che mi scrutano, mi guardano da lontano e non c'è niente dentro quello sguardo, né rabbia, né rancore, né odio: il nulla li domina.

Tre. Tre sono le bottiglie rotte, una addosso al camino, una sullo spigolo del tavolo, una sullo stipite della porta, quella vicino alla quale ci sono io.

Quattro. Quattro sono le mie mani e le mie gambe, insieme, quelle che uso accovacciato a terra, io, un uomo, accasciato, che si fa picchiare come un ragazzino indifeso, io, un uomo, che si fa picchiare.

Cinque. Cinque sono le sue mani, le sue braccia, le sue gambe e i suoi piedi, cinque sono le verghe di legno, quelle che sento sulle costole, sul viso e sulle gambe.

Sei. Sei sono le grida di dolore che inghiotto, che ingoio e rimando giù.

Sette. Sette sono le falcate che mi ci vogliono per uscire di casa se non mi voglio far ammazzare.

Otto. Otto sono i secondi che devo attendere prima che la porta di fronte si spalanchi e la figura di Italo corra a stringermi.

Nove. Nove sono i singhiozzi di parole e pensieri che reprimo ad ogni lembo della sua pelle che sfiora e avvinghia la mia.

Vorrei chiederti se questo è l'amore, Italo, ma non ne trovo il coraggio.

Dieci. Dieci sono i respiri che mi mancano nel vedere quattro lacrime rigare il suo volto.



Shrek: per tua informazione, gli orchi hanno dentro più cose di quanto tu creda
Ciuchino: per esempio?

Shrek: per esempio? va bene, ehm...gli orchi sono come le cipolle
Ciuchino: Puzzano?
Shrek: Si...no!
Ciuchino: ah, ti fanno piangere
Shrek: nooo
Ciuchino: le lasci al sole, diventano marroni e poi spuntano i peletti bianchi!
Shrek: nooo! strati! Le cipolle. Hanno gli strati. Gli orchi hanno gli strati. Capito? Tutti e due abbiamo gli strati!

Just one second, please...

Salve, salvino belle donne!

Sono tornata ( e voi direte: ce l'hai fatta!) e credo di averlo fatto con il botto con questo capitolo. Non lo so, questa storia è già complicata di per sé, non è facile da leggere e complicare di più le cose con argomenti come quelli che ho trattato nel capitolo non è certo mia intenzione, anche perché non sono proprio il mio forte. Tuttavia, ai fini della storia, della vita di Leonardo, mi sembrava doveroso. E' stato difficile da scrivere, ho avuto davvero poco tempo e quando ce l'avevo le parole non sembravano mai quelle giuste, non so se sono riuscita a comunicare qualcosa, ad affrontare l'argomento nella giusta maniera e con la sensibilità che richiede, probabilmente s fossi stata davvero una brava scrittrice, una con i cosi detti, avrei scritto l'intero capitolo secondo il pov di Leonardo, per questo sono pronta a qualsiasi critica e suggerimento.

Come al solito ringrazio chi legge, chi recensisce, chi ha messo questa storia tra le preferite, seguite e ricordate.

Adios Amigos ( scusate, ma era doveroso: credo che questo sia il primo commento serio che lascio!)!!

Fal

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