Il ragazzo della finestra di fronte di Falling_for_you (/viewuser.php?uid=155858)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Occhi che non vedono ***
Capitolo 2: *** Di stalkeraggio, fango e fisse squinternate ***
Capitolo 3: *** Bugie bianche di sangue ***
Capitolo 4: *** Tac tic: cacofonia di un momento sbagliato ***
Capitolo 5: *** Il paradiso degli orchi ***
Capitolo 1 *** Occhi che non vedono ***
Il
ragazzo della finestra di fronte
OCCHI
CHE NON VEDONO
Lo sguardo alle volte
può farsi carne,
unire due persone più di un
abbraccio.
6
Novembre 1997
La
prima volta che lo vidi avevo sette anni, un orrendo taglio a
caschetto e ridicoli fuseaux rosso vermiglio appiccicati addosso come
una seconda pelle e magnificamente abbinati a un maglione verde mela
fatto ai ferri da mia nonna Ines. Tenevo stretto, tra le dita della
mano destra, il corpicino di una barbie anoressica, accuratamente
agghindata con vestiti alla moda e scarpe con tacco dodici mentre con
l'altra mi aggrappavo alla lunga gonna nera di mia madre. Piccoli
occhiali con le lenti rotonde gravavano in bilico sul mio naso mentre
un'insolita fitta neve scendeva lenta ricoprendo le strade di un
manto bianco da almeno due giorni; dicevano che non nevicava
così
incessantemente da trent'anni.
La
prima volta che lo vidi avevo sette anni ed ero troppo distante per
poterne scrutare le linee, saggiare i sapori e distinguere le
sfumature dei colori.
La
prima volta che lo vidi aveva un buffo cappello grigio con un pon pon
in testa, un paio di jeans strappati sulle cosce e una giacca nera,
forse un po' troppo striminzita per essere della sua taglia, a
coprirlo dal freddo. Teneva strette le mani nelle tasche camminando
a testa bassa sul vialetto sciatto della casa di fronte alla mia, la
casa dell'uomo nero, dei fantasmi e del lupo cattivo.
Era
solo, nessuno a cui aggrapparsi per non scivolare era lì ad
aspettarlo.
Pensai
che era impossibile che quello fosse un bambino perché, mi
dissi, i
bambini sono colorati e non sono mai soli. Ancora, però, non
potevo
sapere che per lui non c'è mai stata l'età
dell'innocenza.
22
Marzo 1997
La
seconda volta che lo vidi il mandorlo in giardino era in fiore, mio
padre era impegnato nell'ardua impresa di montarvi su di un ramo un'
altalena il cui sedile era la ruota della nostra vecchia Fiat
Cinquecento e mio fratello camminava frenetico e ansioso di fronte al
nostro cancelletto di ingresso indossando il completo della
domenica. In casa si respirava odore di lasagne, di pollo arrosto e
di patate al forno e la tavola era stranamente apparecchiata per
cinque.
Il
sole era caldo e avevo un vestito a fiori rossi, che mia madre mi
aveva obbligato ad indossare nonostante non amassi le gonne, e i
capelli erano raccolti in corte trecce alla Pippi Calzelunghe.
Saltavo e correvo, sporcandomi le scarpe bianche di fango, attorno a
mio padre mentre mia madre, invano, gli gridava dalla finestra della
cucina di agguantarmi per spedirmi dritta da lei. Quel giorno
continuai a dimenarmi per il cortile finché lui non
arrivò,
già da allora ero “la preferita” di mio
padre.
L'erba
del suo giardino era poco più bassa di me, non c'erano fiori
né
altalene. La sua casa era inodore, incolore, silenziosa, disabitata,
avrei detto abbandonata se non fosse stato per le urla che talvolta
la notte mi costringevano a tapparmi le orecchie per paura che l'uomo
nero potesse venire anche da me. Ancora non potevo sapere che i
fantasmi, gli orchi e i lupi cattivi possono essere più
vicini di
quanto sembrino.
La
seconda volta che lo vidi era solo mentre attraversava la strada per
raggiungere casa nostra. Aveva una camicia con dei grandi scacchi
neri e bianchi, la testa bassa e le mani nascoste nelle tasche,
rimase titubante di fronte al cancelletto spostando il peso del
proprio corpo da un piede all'altro fin quando mio fratello non lo
tirò dentro afferrandolo per un braccio e tenendolo stretto
a sé.
Quella volta lo capii subito che il loro era già amore.
La
seconda volta che lo vidi scoprii che aveva dodici anni, che non
amava le lasagne e che odiava l'odore di cucina.
Scoprii
quanto fosse bello osservarlo parlare a stento, corrugare le labbra
ad ogni forchettata e arricciare il naso quando mia madre si
apprestava ad aprire il forno.
Quella
fu la prima e l'ultima volta che entrò in casa mia, ancora
però non
sapevo che il mio mondo non lo avrebbe abbandonato con la stessa
facilità.
4
Luglio 2005
La
terza volta che lo vidi avevo quindici anni, il caldo torrido estivo
era soffocante ed era notte fonda. Nonostante ciò, fuori
imperversava un acquazzone, i rami del mandorlo battevano convulsi
sui vetri della finestra ed io stavo comodamente stesa sul mio letto
nella penombra della camera rischiarata dalla fievole luce della
lampada con “Orgoglio e Pregiudizio” stretto tra le
mani. Mi
chiesi se anch'io, come Lizzie, mi sarei lasciata sfuggire da sotto
il naso un Mister Darcy per poi costringermi a rincorrerlo per non
perderlo definitivamente.
Distinsi
chiaramente la disinibita e allegra voce di mio fratello rimbombare
tra le mura dei palazzi del vicinato nel tentativo di cantare con
tutto l'ardore possibile “Il coccodrillo come fa?”,
intervallata
da sporadici singhiozzi di dolore e di risa. Mi affacciai e un
sorriso divertito affiorò sulle mie labbra nel vedere Italo,
fradicio, urlare a perdifiato con le braccia rivolte verso il cielo
mentre lui lo colpiva con dei pugni sui fianchi
per farlo
azzittire.
Mio
fratello Italo era ubriaco e non appena aprii la porta di casa non si
curò per nulla della mia presenza ma si dileguò
svelto al piano di
sopra con ancora un risolino stampato in volto, non prima
però di
aver sferrato una pacca sulla spalla a quello che, capii in quel
momento, era ormai diventato per lui un fratello. Quella volta mi
chiesi perché lui lo avesse scelto,
perché si fosse affidato
a quello stesso Italo campione dei secchioni che fino a quel momento
era riuscito a pararsi il culo solo perché bello e abile con
le
femmine. Forse perché erano simili o più
probabilmente perché
erano talmente diversi da abbisognarsi a vicenda, necessariamente.
Gli opposti si attraggono sempre: è una legge fisica.
La
terza volta che lo vidi avevo quindici anni, ero scalza, indossavo il
pigiama con disegnate sopra le stelle e i cavallucci marini e avevo i
capelli scarmigliati. Rimasi immobile a fissare la sua figura
stagliata di fronte alla mia domandandomi se si ricordasse di me, di
quella bambina con le scarpe bianche sporche di fango, il vestito con
i fiori rossi e le trecce alla Pippi Calzelunghe.
Lui
aveva diciannove anni, era fradicio e indossava una maglia nera e un
paio di jeans. Lente impertinenti gocce di pioggia fluivano lungo il
profilo del suo naso, delle sue labbra e poi giù, lungo il
collo
fino ad avvallarsi nelle cavità delle scapole, lì
dove non c'era
nessun nero inchiostro a contaminare la pelle. Rimasi incantata a
osservare lo scollo di quella maglia troppo larga appiccicataglisi
addosso, dal quale si intravedeva, segnata a fuoco, un'unica lettera,
una “I” in stampatello, semplice, senza ghirigori e
fronzoli da
femminuccia, un marchio indelebile sul suo corpo. Mi chiesi se quel
solitario grafema gliela avesse portata quella speranza che i suoi
occhi spenti faticavano a bramare.
La
terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato.
Una spessa cicatrice solcava il suo volto, sfregava la sua pelle in
una linea che, sfacciata e insolente, rigava lo zigomo destro fino a
scendere alla guancia sinistra deturpando le labbra; era
perfettamente rettilinea e simmetrica nel suo andamento sbieco come
se volesse beffeggiarsi di quella meravigliosa e armoniosa
brutalità
di lineamenti decisi e marcati che mi faceva girare la testa. Non lo
so perché lo feci, non ricordo l' ardore che
azionò il mio braccio
e poi la mia mano, so solo che mi mossi per quanto fosse intenso il
formicolio dei miei muscoli, l'accarezzai per tutta la sua lunghezza,
percorsi quella greve piega imprimendone il tracciato nella mia
mente, ne saggiai le forme, la morbidezza, le increspature
disegnandone una mappa sui miei polpastrelli, sfiorai con il solo
dito indice i luoghi da lei segnati per paura di spezzarla, di
cancellarla.
La
terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato e
pensai che al mondo non sarebbe esistito niente di più bello.
Aveva
i capelli neri incollati alla faccia e in mano teneva una bottiglia
di rum ancora da iniziare. I suoi occhi erano offuscati, smarriti,
cinerei come le nuvole autunnali, nessuna sfumatura a colorarli,
imbambolati a guardare le espressioni del mio viso, mentre la mia
mano scandiva, ipnotizzata, i contorni del suo, ma senza vedere nulla
realmente. In un secondo il suo sguardo si fece madido di livore e le
sue dita furono leste a circondare con forza il mio polso e a
scansare i miei polpastrelli dalla sua pelle, la sua figura si
allontanò poco dopo barcollando per la strada. Mi chiesi se
il
giorno seguente si sarebbe ricordato di me, della ragazzina scalza,
con il pigiama bellamente adornato da stelle e cavallucci marini e
con i capelli scarmigliati, della ragazzina dalle dita impertinenti;
mi domandai se quegli occhi annebbiati un giorno mi avrebbero visto
davvero.
Dopo
quella, miliardi furono le volte in cui lo vidi fino a quella in cui
iniziai a sperare di poter ascoltare ancora la sua voce sussurrare a
stento scarne parole, di poter ammirare i suoi occhi adombrarsi e di
poter godere nuovamente del calore della sua pelle, celato al di
sotto di quell'infima incisione, fino a quella in cui non ebbi la
consapevolezza di essermi innamorata.
Tuttora,
però, sto ancora aspettando che i suoi occhi mi vedano per
la prima
volta.
La
guardò. Ma d’uno sguardo per cui guardare
già è una parola
troppo forte. Sguardo meraviglioso che è vedere senza
chiedersi nulla,
vedere e basta. Qualcosa come due cose che si toccano – gli
occhi e
l’immagine– uno sguardo che non prende ma riceve,
nel silenzio
più assoluto della mente, l’unico sguardo che
davvero ci potrebbe
salvare – vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato
dal
vizio del sapere – sola innocenza che potrebbe prevenire le
ferite
delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro
sentire-vedere-sentire– perché sarebbe nulla di
più che un
meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il
mondo – ricevere – senza domande, perfino senza
meraviglia –
ricevere –solo– ricevere– negli occhi
– il mondo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Di stalkeraggio, fango e fisse squinternate ***
Il
ragazzo della finestra di fronte
DI
STALKERAGGIO, FANGO E FISSE SQUINTERNATE
T’amo
senza sapere come,
né quando, né da
dove...
Martina
dice che sono diventata una stalker, io invece dico che sono soltanto
innamorata.
Le
finestre della sua casa sono chiuse anche oggi. Lo sono sempre alla
mattina e lo rimangono per gran parte del giorno, barricate e murate
da persiane di legno o da pesanti e spesse tende grigie impedendo
alla luce di filtrare all'interno. Si aprono soltanto alla sera,
quando è difficile essere rischiarati dall'illusorio
sfavillio della
luna, troppo debole ed evanescente per sperare di poter vedere
chiaramente e troppo distante e delicato per poter sperare di esserne
riscaldati.
In
fondo credo di averlo sempre saputo che, la sua, fosse una casa senza
luce e calore, un piccolo, soffocante buco nero di cemento armato, di
alcool e urla rabbiose, botte vigliacche e dolore sepolto. Un bunker
di kevlar apparentemente senza via d'uscita, la porta principale
è
stata asserragliata, lì si respira a fatica l'unico ossigeno
a
disposizione, lurido e tossico, che sembra non bastare mai.
Nessuna
aria purificante a disintossicare i suoi luoghi, prima o poi si
rantola a terra, miseri.
Ogni
tanto è la sua di finestra a rimanere
aperta, spalancata
anche nelle notti invernali più fredde, alla ricerca di
respiro, di
luce e di vita, una falla beffarda in quel muro invalicabile, uno
squarcio di calore, traditore della sua stessa sostanza e testimone
di una ricreatrice guerra fredda in cui disumani fiotti di sangue
nemici sgorgano da un'unica fonte assassina. E' quel microscopico,
coraggioso spiraglio indocile a farmi credere che ci sia ancora
speranza, per lui.
Riesco
a vederne solo una parete della sua stanza, la fisso per ore dal
balcone della mia camera o nascosta dietro la tenda di seta rossa
quando lui è dall'altra parte, a pochi metri in linea d'aria
da me,
seduto a cavalcioni sul davanzale, con una sigaretta incastrata tra
quelle labbra il cui sapore, scommetto, è impregnato di
birra e con
lo sguardo perso in chissà quale mondo, privo di qualsiasi
traccia
di paura o timore che quella gamba penzolante nel vuoto possa tirarci
anche lui là sotto, giù, dove comunque sarebbe
meglio di qui, dove
si trova adesso.
La
parete è bianca, spoglia, pulita come se anche quell'angolo
d'inferno fosse stato disabitato, come unici interruttori di quella
monotonia anomala un poster di Jeff Buckley regalatogli da mio
fratello e due foto di cui non sono mai riuscita a distinguere le
immagini ma che, sono sicura, siano uguali a quelle che Italo tiene
in camera, entrambi appesi al muro con una meticolosità e
precisione
sovraumana, perfettamente dritti e allineati. Non c'è mai
stato
altro, non ci sono stati i ritagli di giornale che osannavano
l'Italia campione del mondo, né poster raffiguranti Omer
Simpson e
la sua immancabile Duff o Valentino Rossi in pista con la sua moto;
niente di tutto ciò si è mai impresso su quella
parete, solitaria
macchia bianca in un abisso torbido di menzogne, vigliaccheria e
odio.
Per
un po' ho anche pensato che il ragazzo della finestra di fronte fosse
strano, vuoto, uno che non avesse nulla da dire perché chi
è che a
quindici anni non si diverte a far incazzare sua madre ricoprendo le
pareti della sua camera con immagini di qualsiasi genere attaccandole
con il nastro adesivo di cui rimarrà l'alone
finché non si
imbiancherà di nuovo, pensai che la sua stramberia avesse
contagiato
anche Italo perché la sua stanza era-e lo è
ancora oggi-esattamente
uguale, sempre con Jeff Buckley e quelle due fotografie, soltanto
attaccati più storti e meno allineati. Italo non
è mai stato tanto
scrupoloso.
Poi
ho compreso, finalmente, io che non sono mai stata brava quanto mio
fratello, ho capito che sua madre era già abbastanza
incazzata di
suo e che se ciò che hai da dire è
così insopportabilmente
opprimente e doloroso, le parole,sempre se le trovi, non saranno mai
abbastanza e una superficie bianca non riuscirà mai a
contenerle
tutte, se ciò che devi dire è talmente lurido e
schifoso da
sporcarti l'anima, vuoi solo che quella parete rimanga così
com'è,
cerea, candida, pulita, così come tu non ti sentirai mai.
-Sempre
qui di fronte, eh?!- il braccio di Italo, scoperto nonostante sia
novembre, mi avvolge la vita nel preludio di una stretta silenziosa,
appoggia il mento sulla mia spalla e posso tranquillamente
distinguere la cadenza dei suoi respiri che si scagliano sulla pelle
del mio viso.
-Non
è sceso per cena- dico senza distogliere lo sguardo. Ora lui
è
salito di nuovo sul quel davanzale.
-Sua
madre non sa cucinare- no, infatti. Ma è diverso: sua madre
non sa
fare un cazzo.
-Lo
so, magari potresti invitarlo a cena qualche volta-le mie dita, calde
nelle tasche del maglione di lana, si muovono spontaneamente
incrociandosi speranzose.
-Lo
sai che non accetterebbe mai- afferma convinto Italo tendendomi
più
stretta a sé mentre le sue labbra sfiorano la mia tempia
destra.
-So
anche questo, ma tu non smettere di chiederglielo magari un giorno
accetterà per non sentirti più rompergli le
palle- adesso il suo
sguardo
è rivolto giù, nel
vuoto, mi chiedo che ci veda lì in fondo. Ho paura che vi
anneghi.
-Potrebbe
cadere- ride e sbuffa Italo, elettrizzandomi i capelli.
-Non
ti preoccupare, è così cagasotto che scommetto
che con l'altra mano
si tiene al termosifone sotto la finestra-
Non
immaginavo che ci fosse un termosifone sotto la sua finestra, non ci
ho mai pensato, almeno, ma avrei voluto saperlo. Vorrei poter
guardare più da vicino, vedere se tutte le pareti della sua
stanza
siano ugualmente bianche e immacolate o se ci siano delle venature
nerastre come in quelle di Italo, osservare il suo letto sfatto e
tastare la morbidezza del cuscino e del piumone, sapere dove tiene
quella maglietta verde smeraldo che indossa quasi sempre la domenica
e vorrei odorarla, imprimere nelle mie narici il profumo della sua
pelle.
-Dovresti
smetterla-
-Di
fare cosa?-
-Non
fare la finta tonta, dovresti lasciarlo andare. Non è pronto
per
amare-
Che
gran cazzata, Italo, lui
ama già.
Me
lo ricordo l'esatto istante in cui compresi di essermi innamorata di
lui, ero immersa nel fango e credo che da quella pozza non ne sono
più uscita. E' anche questo l'amore, una melma fossilizzante
che ti
imbriglia nelle sue catene appestandoti le viscere dello stomaco con
il suo lezzo, tanto da privarti di quei pochi respiri che sono
comunque intrisi di ossigeno miasmatico, si appiccica sulla tua pelle
disidratandola e soffocando sul nascere ogni tua piccola
libertà di
movimento, ti si incrosta addosso e sai che dovrai sfregare,
graffiare e raschiare con forza e coraggio per togliertelo via, fino
a consumarti le dita.
E'
così, amare, se sei innamorata di uno che forse ti odia e
che
l'unico amore che ha imparato a conoscere è quello per tuo
fratello.
Ricordo
le mie dita ghiacciate tra le foglie inaridite degli alberi, le
muovevo impercettibilmente, leggere e circospette, con il battito del
cuore in gola, per evitare di fare rumore; il terreno era umido sotto
le ginocchia, in corrispondenza delle quali due ampie macchie marroni
si stavano estendendo sempre di più sui miei jeans comprati
esattamente il giorno prima. Mi barcamenai ad inventare una scusa
plausibile per mia madre, per risparmiarmi i soliti improperi su
quanto fosse stanca- o stufa come dice lei ancora adesso- di dover
continuamente sfregare via il fango secco su ogni mio vestito sporco
e di vedermi comportare come un maschiaccio scapestrato e non come
una signorina per bene, ma fu solo un istante, fulmineo e sfuggente,
subito dopo il quale mi concentrai a respirare piano, con la bocca
chiusa nonostante le narici bruciassero.
Ricordo
che quel giorno era freddo, ma di un gelo che si conficcava nelle
ossa, fino in fondo, sembrava assiderarti e raschiarti via la linfa
vitale; si insinuava subdolo tra i tessuti della pelle,
pietrificandoli. Avevo il giacchetto pesante, il cappello, i guanti e
la sciarpa di lana, tremavo e i denti battevano gli uni sugli altri
freneticamente addormentando la mia mandibola che mi sforzavo di
tenere serrata per paura di essere scoperta.
Non
ho mai amato l'inverno, sono sempre stata freddolosa e mi sono sempre
ammalata facilmente, tuttavia rimasi lì, accucciata a terra,
sul
terreno umidiccio di fango, con il cuore martellante nel petto, ad
ascoltarli.
-Che
cazzo ci facciamo qui?-
-Non
fare lo stronzo 'Na...-
-A
quest'ora avremmo potuto spassarcela con due biondine scopabili-
-Ma
se non ti piacciono le bionde...-
-E'
questo il punto, una ripassata in bagno non si nega a nessuno-
-Nel
bagno Leonà? Davvero?-
-A
me non dà fastidio la puzza di piscio-
-Sei
proprio uno stronzo-
-Tale
padre, tale figlio-
-Non
hai mai avuto voglia di avere una ragazza 'Na?-
-Mi
dispiace per te, Italo, ma io di ragazze ne ho quante ne voglio-
-Dai
che hai capito... non una qualsiasi. Non hai voglia di trovarla, Lei,
una speciale, una da amare?-
-L'amore
è roba da femmine, Italo-
-Non
vuoi innamorarti 'Na?-
-Non
c'è e non ci sarà una lei, Italo. Ci sei tu, ci
siamo solo io e te-
Martina
dice che la mia è solo una fissa perché di lui
non conosco nulla,
io invece dico che di lui conosco quanto basta.
Non
t’amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani
che propagano il fuoco:
t’amo come si amano certe cose
oscure,
segretamente, tra l’ombra e l’anima.
So
che non gli piacciono le lasagne e non sopporta l'odore di cucina,
che fuma troppo, un pacchetto da venti di MS al giorno; il tardo
pomeriggio, quando ormai non c'è più nessuno, lo
trovi
costantemente al parco sotto casa, quello dietro al palazzo di
Martina e vicino alla scuola elementare, accomodato sempre sulla
solita panchina, il didietro sul filo dello schienale, i piedi sul
piano della seduta e i gomiti poggiati sulle ginocchia, tra le dita
la sua immancabile dose quotidiana di nicotina. E' strano,
perché
quelle sigarette non le tiene mai incastrate tra l'indice e il medio,
ma le avvolge con le dita, quasi potessero sfuggirgli.
So
che è diffidente e che è un ottimo bugiardo,
potrebbe farti credere
di aver visto Napoleone resuscitato al galoppo del suo cavallo bianco
se solo lo volesse, se solo desiderasse nasconderti ciò che
realmente lui stia pensando; non saluta mai, neanche se ci hai preso
una sbornia appena la sera prima, e parla a stento con tutti al di
fuori di mio fratello, perché, come direbbe, lui
è uno che si fa i
cazzi propri. Tuttavia quando lo fa, quando la sua bocca si muove per
parlare seriamente, ciò che dice è quasi sempre
così reale da
farti male, ti blocca il respiro in gola costringendoti a tapparti le
orecchie per non strozzarti.
Non
gli piacciono i colori, veste sempre di nero, bianco o grigio
concedendosi qualche volta quella maglietta verde smeraldo alla
domenica e, puntualmente ogni anno, il 25 di Luglio, per il
compleanno di Italo, quella rosso fuoco. Per festeggiare se ne vanno
sempre in campagna, in mezzo ai prati e ai boschi, vicino al fiume,
stanno lì fino a sera, non ho mai capito bene cosa facciano
ma
vorrei tanto scoprirlo.
Sono
conscia che sia un grandissimo fottutissimo bastardo, uno stronzo con
i contro fiocchi a cui non importa un cazzo di te e di ciò
che sei;
almeno due volte a settimana torna a casa a notte fonda, ubriaco e
con il viso pieno di lividi, gli altri giorni se li risparmia
perché
c'è già la codardia di suo padre a farlo nero.
Prova gusto a
ferire, picchiare, menare duro, fino a quando non ti vede rantolare a
terra e le braccia di mio fratello non lo afferrano per trascinarlo
via. Gli piace perché è incazzato con te che non
ti fai i cazzi
tuoi e rompi i coglioni, con te che provi compassione e
pietà per
lui soltanto guardandogli il viso, con la vita che è senza
Dio e
senza giustizia, con se stesso, perché fa schifo e si
disprezza.
Lui
è uno che, se ne ha voglia, potrebbe essere generoso e
sbattersi una
femmina a sera; nonostante abbia il volto sfigurato, è bello
da far
male alla vista con i suoi occhi di ghiaccio di cui vorresti tanto
scoprire la profondità, i riccioli neri che sono una
tentazione per
i polpastrelli delle tue dita e con quei lineamenti costantemente
duri e spigolosi che vorresti vedere, almeno per una volta, distesi e
sorridenti.
Non
sorride mai, lui; forse, raramente, con Italo.
Non
sceglie mai la fortunata donzella con cui se la spasserà per
un po',
è lei a desiderarlo, cercarlo e seguirlo. La porta nei
vicoli bui
dietro al bar quando si è stancato di farsi inculare a
biliardo da
mio fratello, o in un bagno qualsiasi di una discoteca, non importa
se puzza di piscio, se la porta non si chiude e la musica house ti
tampina il cervello imbecillendoti. Non si lascia sfiorare, toccare
ma è sempre lui a condurre quel gioco distruttivo
accontentandosi di
una scopata qualunque, per rilassare i nervi, per non pensare.
Odia
la polvere bianca e i deboli che a lei si arrendono, tuttavia capita
che a volte, quando il vuoto fa troppa paura per poterlo guardare e
il cervello sembra voler esplodere nel cranio, è lui il
primo a non
saperle dire di no, a cadere nella perfida e velenosa rete di
leggerezza, finta euforia e trip allucinogeni, perennemente attento,
però, che non sia Italo a fare il cazzone, perché
deve essere lui a
riportarlo a casa, con un braccio a sorreggergli la vita, quando
anche quell'idilliaco benessere non è più in
grado di sotterrare la
merda che lo circonda.
Non
festeggia mai il suo compleanno, so che vorrebbe morire e rinascere
di nuovo, magari sotto le sembianze di un animale, in quel caso
sarebbe sicuramente un felino.
La
sua mente è come un registratore: osserva, appunta,
cataloga.
Incide, marchiando a sangue le cellule del suo cervello, qualsiasi
immagine. Disegni, numeri, grafemi, nomi, le persone e i loro colori.
Non
tralascia nulla visto che probabilmente è in cerca di quelli
giusti
per lui.
So
che non si è dimenticato della ragazzina dalle dita
impertinenti, so
che non mi sopporta, mi odia magari, ma forse il suo è solo
un
fiacco tentativo di rilegare nei meandri della sua testa il fattaccio
di essersi innamorato di me, quella notte, o forse sono solo io che
ci spero ingenuamente.
So
che ciò che ho pensato finora è solo una gran
cazzata, so che lui
ama, che darebbe la vita per Italo, che è un cagasotto e che
potrebbe agonizzare a terra alla sola svolazzata di un moscerino
fastidioso.
So
quanto basta.
Io
ti chiesi perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei
come una
casta stella del cielo
in un oscuro flutto.
Mi hai guardato a
lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi,
con gentilezza:
ti voglio bene, perché sei tanto triste.
C'era
una bambina con le trecce alla Pippi Calzelunghe, si dondolava seduta
su di un'altalena le cui corde erano state legate ben strette attorno
al ramo di un mandorlo in fiore, voleva arrivare sempre più
in alto,
fino all'azzurro del cielo rischiarato, quel giorno, dai tiepidi
raggi di un sole primaverile, desiderava afferrare quella nuvola
birichina, che di lì a poco avrebbe reso tutto meno lucente
e più
buio, per abbracciarla e scoprire l'effetto della sua consistenza tra
le dita delle mani, sui polpastrelli, sulla pelle del viso, non le
importava di rischiare di rimanere delusa dalla sua inconsistenza ed
evanescenza. Allora si faceva forza con il busto, perché con
i piedi
non riusciva a toccare terra, e spingeva, avanti e indietro, su e
giù, di continuo, sempre più veloce per
raggiungere il cielo e
guardarlo da lì quel bambino, che già voleva fare
il grande, seduto
sullo scalino della sua veranda.
I
bordi del vestito a fiori rossi erano incrostati di fango, una patina
marrone lentamente si era estesa verso l'alto e le sue scarpe, quelle
delle feste e della domenica, che prima, forse, erano state
vagamente bianche, erano un misto di colori, dalle sfumature del
verde a quelle del giallo ocra. Poco male se sua madre si sarebbe
arrabbiata e le avrebbe impedito di guardare il nuovo episodio di
Sailor Moon quella sera, non le sarebbe importato neanche se Bunny
fosse finalmente riuscita a capire l'identità del suo amato
Milord,
in quel preciso istante voleva soltanto starsene lì a
fissare quel
bambino dagli occhi tristi.
Le
piaceva. Le piacevano i suoi occhi grigi, che l'avevano osservata per
tutto il pranzo, e i suoi non colori, le piaceva il suono della sua
voce, non era mai prepotente o cacofonico, ma sempre leggero e
sussurrato, adorava i ricci sbarazzini, scapigliati come avrebbe
desiderato portarli sempre lei, ma più di tutto le piaceva
il fatto
che, a differenza degli altri amici di suo fratello, ancora non si
era divertito a tirarle i capelli o a pizzicarle la pelle delle
braccia lasciandole lividi viola, non era stato dispettoso o
fastidioso, ma si era limitato soltanto a fissarla, a guardare
tutt'intorno, quasi volesse rubarle la casa, la vita, e forse gliela
avrebbe anche ceduta se solo lo avesse visto fare un sorriso sincero.
Il
ragazzino aveva disteso le gambe intorpidite sbuffando e
stiracchiandosi, era tanto che aspettava ed era nervoso e ansioso,
pensava al modo in cui avrebbe potuto dire a quel suo nuovo amico dal
nome strano che lui non ci aveva mai giocato a Monopoli, che non
sapeva neanche cosa fosse e che gli unici giochi che aveva mai avuto
erano quattro pezzi di legno regalategli da suo nonno prima che
morisse. Sperava che Italo non si arrabbiasse, che non lo prendesse
in giro e lo volesse ancora come amico, che continuasse a passare a
casa sua ogni mattina per andare a scuola insieme. Di tutti quelli
che aveva conosciuto da quando si era trasferito, Italo era stato il
solo di cui sentisse la certezza di potersi fidare completamente,
l'unico che gli fosse piaciuto davvero; lo trovava buffo, infagottato
nelle sue camicie della domenica, sempre con quella sua aria
sbarazzina, perennemente tra le nuvole ma attenta alle sue parole,
gli piaceva perché con lui non doveva avere paura di non
avere le
parole giuste, non chiedeva e non pretendeva niente di più
di ciò
che lui decideva di dargli, si limitava ad ascoltare, vigile, senza
farsi sfuggire nulla.
Gli
piaceva il modo in cui era continuamente avanti rispetto a tutti,
proiettato con la testa già al mese successivo di cui ormai
aveva
programmato tutto.
Riusciva
in ciò che lui non sarebbe mai stato in grado di fare:
pensare al
futuro, allungare l'occhio e guardare oltre il limite di una notte.
Lo invidiava un po', perché lui si poteva limitare a sperare
solo di
svegliarsi e iniziare un nuovo giorno.
Gli
piacevano tante cose di italo, ma di certo non sua sorella.
L'aveva
osservata per tutto il pranzo, aveva catalogato, registrato, inciso
sulla propria memoria ogni piccolo dettaglio o particolare, il modo
in cui teneva la forchetta, tra l'indice e il pollice, e tagliava la
lasagna, la cadenza ritmata dei suoi piedi che zampettavano sotto il
tavolo, ogni tanto fino a colpirlo sullo stinco con un calcio, le
dita con le unghie mangiucchiate lerce e nere come l'onice,
tamburellavano sopra la tovaglia in attesa di agguantare di soppiatto
una patata al forno direttamente dal vassoio, le piccole labbra
imbrattate di pomodoro, gli occhi verdi, o quasi, vispi, curiosi,
instancabili, le trecce ormai sfatte e scapigliate che oscillavano a
ogni suo movimento; si era divertita a fare palline con le molliche
di pane incurante dei bisbigliati ammonimenti di sua madre, diceva
che raffiguravano una principessa al galoppo di un unicorno ma in
realtà sembravano solo un ammasso informe e schifoso.
Non
si era fermata un istante, si era alzata ad ogni portata, aveva corso
per la cucina e intorno al tavolo per poi rallentare passando accanto
a lui.
Non
le piaceva perché sorrideva troppo, sempre, di continuo, per
ogni
suo sguardo rivoltole, non le piaceva perché non appena
aveva
sollevato gli occhi dal piatto, aveva trovato i suoi ad aspettarlo e
accoglierlo.
Il
ragazzo sbuffò ancora dimenandosi sugli scalini, aveva le
iridi
puntate a terra, sulle proprie mani intente a ridurre in piccoli
pezzi una foglia secca, si costringeva a tenere il volto basso, a non
alzarlo per evitare di incontrare nuovamente il quasi-verde del suo
sguardo, ma c'era lo stridore delle corde su quel ramo ad essere un
richiamo troppo invitante.
-'Cazzo
hai da guardare?- come si aspettava i suoi occhi erano esattamente
dove se li era immaginati, lì, puntati addosso a lui.
-Non
si dicono le parolacce- disse la bambina con tono saputo. Pensava che
così sarebbe parsa più grande anche lei, ma se
solo l'avesse
sentita sua madre avrebbe riso, o si sarebbe arrabbiata,
perché per
l'età che aveva, lei diceva già le parolacce, un
mucchio, le
conosceva quasi tutte, Italo gliele aveva insegnate.
-Che
cazzo di frignona- una smorfia si dipinse sul viso del ragazzo, era
certo che quella marmocchia fosse una gran rompipalle, non sopportava
la sua aria da chi la sa lunga, il modo in cui si guardava intorno,
come se fosse sempre un passo avanti a tutti.
Non
smise un solo momento di osservarla dondolare su quell'altalena: il
vestito svolazzante e le trecce sempre più disordinate.
-L'hai
detta di nuovo- insistette lei, adesso con un sorriso birichino
stampato sulle labbra.
-Smettila
di fissarmi- lo disse serio ed incredibilmente severo, un ordine
perentorio, il suo; tuttavia non riuscì a non rimanere fisso
sulla
sua bocca radiosa: era ancora sporca di sugo e i denti erano da
latte.
-Non
ce la faccio- il sorriso scomparì e un sussurro si diffuse
nell'aria.
Avrebbe
voluto farlo, smettere e correre in bagno, riempire la vasca e
tuffarcisi dentro, almeno così avrebbe tolto via il fango
dai suoi
vestiti e sua madre non l'avrebbe sgridata, ma non ne fu capace,
c'era una calamita a tenerla impossibilitata lì.
-Se
non la finisci, te li chiudo io, quegli occhi- si alzò, il
ragazzo,
lanciò via la foglia secca ridotta in mille pezzi che
tentò di
calciare in aria, voleva andarsene e scappare nel parco dietro
l'angolo ma temeva che il giorno seguente Italo non gli avrebbe
più
parlato.
-Non
sorridi mai, neanche quando sei con Ito. Tu sei triste- la
guardò
terrorizzato, aveva paura di lei, una stupida mocciosa, di quegli
occhi infantili che avevano appena cominciato a vedere il mondo e che
di lui avevano già compreso tutto. Si sedette di nuovo
passandosi
una mano tra i ricci corvini che divennero così ancora
più
indisciplinati e pensò, frugò nei cassetti della
sua memoria, nei
cataloghi registrati della sua mente a un dettaglio che potesse
distrarlo e farlo respirare ancora.
Si
disse che forse Ito era ancora peggio di Italo.
-Chiacchieri
troppo, non mi piaci- lo affermò quasi per ripicca, con
cattiveria,
speranzoso di tapparle la bocca e magari farla anche mettere a
frignare, non credeva, però, che sarebbe stato lui quello a
doversene andare da lì a poco.
-Tu
a me si, ti voglio bene-
Just
one second, please...
Volevo
soltanto salutarvi e farvi qualche precisazione mentre fuori piove e
fa freddo e io faccio la fancazzista sopra il letto con una
cioccolata calda in mano... ogni tanto un bel pomeriggio di relax fa
bene al cervello (nel mio caso no, ma questa è tutt'altra
storia).
Comunque, siamo solo all'inizio, deve tutto arrivare e primi due
capitoli solo soltanto un po' introduttivi, già dal prossimo
le cose
cominceranno a smuoversi e per questo vi chiedo di portare pazienza;
ci sono vari salti temporali nel capitolo, li ho messi in corsivo, e
vi chiedo di prestare attenzione sia alle citazioni che alle parti
finali perché se le redini dell'intero capitolo, e dei
capitoli a
venire, le tiene Lei, lì c'è un po' di Lui,
invece.
Mi
scuso se il capitolo precedente era poco leggibile, font sbagliato
tra tutti quelli che potevo scegliere... l'ho ripostato sperando che
ora si veda qualcosa altrimenti... mi arrabbio?!
Credo
sia tutto, ringrazio coloro che hanno recensito, chi mi ha inserita
tra le preferite, seguite e ricordate, chi legge soltanto, fa
dannatamente piacere.
Un
bacio, Falling
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Bugie bianche di sangue ***
BUGIE
BIANCHE DI SANGUE
Si
potrebbe concludere che più un bugiardo ha successo,
più
gente riesce a convincere,
più
è probabile che finirà anche lui per credere alle
proprie bugie.
Open
your eyes now
Open
your eyes now
It's time to see
If you can reach me
Tutt'intorno
c'era un gran casino che sembrava risucchiarti nella sua voragine di
folgoranti luci stroboscopiche, di confuse grida sconclusionate e di
dissennati corpi sudati e ansanti che si muovevano seguendo un ritmo
incalzante, cadenzato, le cui note si ripetevano incessantemente
sempre uguali picchiandoti la testa, infiltrandosi fin nelle viscere
dei tuoi timpani, fracassandoli. Eravamo stipati in un inghiottitoio
di incoscienza, ebrezza e pazzia.
Mi
muovevo a disagio camminando sulle scarpe col tacco di mia madre che
Martina mi aveva costretto ad indossare, una mano era artigliata ai
lembi di quel vestito nero troppo corto, che a mala pena riusciva a
coprirmi il culo, messo addosso soltanto con la stupida speranza che
così, vestita a qual modo, potessi piacergli di
più; con l'altra
cercavo di divincolarmi in mezzo a quell'insieme avviluppato di
braccia e gambe, volevo raggiungere l'uscita, respirare aria fresca
che non sapesse di alcool, fumo e sudore, rilassare i timpani e
camminare scalza per la strada fino a casa, insultandomi nei peggior
modi possibili per aver sperato che lui potesse esserci e potesse
vedermi.
Fu
non appena mi chiusi la porta alle spalle che questa voglia
svanì,
completamente.
I
due stronzi erano strafatti come ogni sabato sera. Italo era sdraiato
a terra, sull'asfalto, il viso rivolto verso l'oblio della notte
fonda, blaterava qualcosa mentre, insaziabile, continuava a portarsi
alla bocca una canna e lui era lì, accanto, seduto con la
schiena
poggiata al muro e una birra tra le gambe. Il suo sguardo perso nel
vuoto, almeno fino al momento in cui si fissò su di me. Fu
come
morire e rinascere in un nanosecondo, soffocare d'aria e smettere di
respirare, smaniare e sentire i muscoli pietrificarsi, piangere e
ridere contemporaneamente. Fu come vivere, finalmente.
Quello
fu l'esatto istante in cui compresi quanto lui si fosse ormai
radicato in me tanto da ridurre a brandelli le particelle invisibili
della mia anima, fu quella la volta in cui realizzai quanto lui fosse
un ottimo bugiardo.
-'Na,
credo che mia sorella si sia innamorata-
-Ah
si? Beh, è una femmina, è inevitabile che succeda-
-Passa
le ore davanti a quella cazzo di finestra a vedere quello che che
cazzo combini-
-Mi
stai dicendo che tua sorella ha un cazzo di nulla di meglio da fare
che spiarmi? Dovrei preoccuparmi per caso?-
-Non
fare il coglione che fa finta di non aver capito. Ti sto dicendo che
credo che si sia innamorata di te-
-Tua
sorella è un cazzo di cliché-
-Sei
proprio uno stronzo Leona'.Ha solo diciassette anni-
-Appunto.
Se anche fosse vero quello che dici, vedrai che quando gli
cresceranno le tette qualcuno le andrà dietro e si
dimenticherà di
me-
-Sei
un porco-
-Che
c'è?! Che ho detto di male?! E' una cosa naturale che le
crescano le
tette-
-Finiscila-
-Scommetto
che saranno due gran belle tette-
-Sei
un figlio di puttana, finiscila. Stiamo parlando di mia sorella! E
poi tu non sei quello che si gira sempre a guardare il culo alle
femmine?-
-Si,
ma perché le loro tette non mi piacciono-
-Sei
un porco-
-Me
lo hai già detto-
-'Na,
ce l'hai mai beccata mia sorella? A guardarti, intendo-
-No,
mai. Comunque sono sicuro che la tua è solo una sega
mentale, non
può essere in fissa per me, neanche mi conosce-
-Dici?
Fossi in te non ne sarei così sicuro-
C'era
una stanza dalle pareti colorate, verde, arancione, giallo e celeste.
Uno per ogni superficie, il soffitto rimaneva bianco ma soltanto
perché voleva deciderlo bene, il colore; lo voleva
originale, né
troppo acceso, né troppo spento, né troppo
intenso, né troppo
blando, era tutta una questione di equilibrio. Le aveva dipinte tutte
lei, tutte da sola, con indosso una vecchia salopette in jeans di sua
madre e i capelli tirati su alla meno peggio per tentare di non
rimanere soffocata dal caldo torrido di quell'estate. Ci aveva
impiegato una settimana e mezzo, aveva sorriso saltando sul suo letto
ricoperto da un telo, si sentiva leggera nonostante la nausea che la
puzza di vernice le provocava e sebbene la signora Marisa Viscardi,
sua madre, si fosse fermata a guardarla dalla porta; le braccia
incrociate sotto il seno e un cipiglio nervoso sul viso, a conferma
del suo disappunto manifestato fin dall'inizio dicendo che una stanza
colorata non era una stanza seria e che avrebbe dovuto iniziare a
crescere, a diciassette anni. La ragazza non le badò, fece
di testa
sua, come al solito.
Era
disordinata quella camera, costantemente. Pile di libri sulla
scrivania, principalmente scolastici ma ogni tanto compariva un
romanzo, di quelli massicci- come diceva lei; fogli stracciati e
scarabocchiati, quaderni, pennarelli e matite colorate, cartacce di
caramelle e confezioni aperte di biscotti al cioccolato fondente
ancora da finire. Le piaceva la cioccolata fondente, da morire:dura
all'apparenza, assuefacente in profondità, come qualcun
altro.
Cumuli di vestiti sulla sedia o incastrati e appesi alla maniglia
della porta e dell'armadio completamente ricoperto di fotografie di
lei con Martina, in vacanza.
C'era
musica nell'aria, aveva scelto lei cosa ascoltare, aveva deciso che
Skin sarebbe stata perfetta per quel giorno; c'erano cd disseminati
con le loro custodie sulle coperte di un letto ancora sfatto, c'era
un ragazzo disteso proprio lì in mezzo: batteva i palmi
delle mani
sulle proprie gambe piegate faticando a seguire quel ritmo. C'era una
finestra aperta, il vento caldo e asfissiante entrava bloccandoti il
respiro, scuoteva una tenda di seta rossa al di là della
quale, con
i gomiti poggiati sulla ringhiera del balcone, c'era una ragazza.
Sorrideva guardando fissa davanti a sé.
-Ce
l'hai un fidanzato Bià?-
-Eh?!
No!-
-Hai
diciassette anni, non dovresti averne uno?-
-Se
mi facessi uscire con te, lo troverei-
-Non
ci allarghiamo troppo, le mocciose alle dieci devono stare a nanna-
-Sei
uno stronzo-
-Grazie.
Martina ce l'ha, il fidanzato-
-Martina
cambia ragazzo ogni tre per due e poi lei ha le tette grosse-
-Vedrai
prima o poi diventerai grande anche tu-
-Ha,
ha... simpatico che sei-
-Non
hai voglia di avere un ragazzo Bià?-
-Non
adesso-
-Neanche
di innamorarti?-
-No,
non ora-
-Ma
ce l'hai almeno uno che ti caga?-
-Si,
ma non mi importa-
-Secondo
me dovresti provare ad uscirci, magari ti piacerebbe-
-Io
dico di no-
-Io
invece dico che provare non ha mai fatto male a nessuno-
Sono
sempre stata una con la testa costantemente troppo avanti con la
fantasia, una folle sognatrice di deliri impossibili da realizzare
che, tuttavia, non può sottrarsi dall'inseguirli
perché crede che
solo con essi la propria esistenza possa essere straordinariamente e
semplicemente viva. Allora, smaniosa e accanita, lo faccio fino allo
sfinimento, correndo a perdifiato incurante di star incespicando sui
miei stessi passi, bensì tentando continuamente di tenere il
ritmo,
un piede dietro all'altro, con il fiato in gola ma sempre
più in
fretta, più veloce, nonostante le gambe molli e i muscoli
acciaccati
facciano dannatamente male, per raggiungere vittoriosa la meta e
urlare al mondo di esserci in qualche modo, di esistere, indifferente
ai marchi indelebili, aspri testimoni di celate ferite incise a fuoco
sul corpo.
Per
questo, fin da quel giorno, ho pensato, ipotizzato e immaginato il
nostro primo incontro, scarabocchiandolo e
scrivendolo nella
mia mente ripetutamente, evitando di preoccuparmi delle sue non-forme
dai contorni ancora indefiniti e imprecisati, dei silenzi assordanti,
delle parole non dette ma impresse come uno schiaffo nella memoria,
perché sono stata convinta fin da allora che, a tempo
debito, quando
forse saremmo stati pronti entrambi, sarebbe giunto il momento in cui
le forme avrebbero conosciuto nomi nuovi, gli occhi avrebbero visto e
le labbra si sarebbero finalmente mosse; ne ero certa, anche se
magari all'inizio sarebbe stato tutto più appannato e
sussurrato.
Ho
pensato che mi sarei potuta avvicinare una sera, in un locale, quando
sarei stata grande abbastanza e mio padre mi avrebbe permesso di
andarci, magari con la scusa di non riuscire a trovare mio fratello e
di aver perso le chiavi di casa, che in realtà tintinnavano
sfacciate nella tasca del mio cappotto a ricordarmi di non illudermi.
Mi sarei fatta aiutare a cercare Italo oppure con qualche subdolo
artificio lo avrei incastrato e costretto ad accompagnarmi a casa
solo per poterlo sentire sbuffare e imprecare, per osservare il suo
profilo mentre avrebbe guidato incazzato la macchina e annusare
l'aria impregnata del suo odore.
Ho
fantasticato credendo che prima o poi ci sarebbe entrato di nuovo in
casa mia, che una domenica di fine maggio si sarebbe presentato di
fronte al cancelletto, avrebbe aspettato lì, come la prima
volta,
che Italo lo tirasse dentro. Avrei scoperto se la carbonara e le
fettine panate gli piacciono, avrei ascoltato di nuovo il suono della
sua voce e, forse, sarei stata con loro, lui e mio
fratello,
davanti casa a sentirli parlare di robe da maschi.
Magari
da quel giorno in poi avrebbe dormito anche da noi nelle tetre notti
in cui le mura della sua casa sarebbero state troppo strette, magari
una di quelle sere ci saremmo ubriacati insieme, avremmo cantato
guardando il cielo dal terrazzo della mia camera, forse ci sarebbe
scappato anche un bacio, a fior di labbra.
Non
avrei mai immaginato, però, che il nostro primo incontro
potesse
essere in realtà una grande bugia, una bugia bianca di
sangue.
Ogni
giorno hai addosso sempre la stessa sensazione, come la prima volta.
Le
dita sono intirizzite, ne percepisci il formicolio frustante dei
muscoli; non riesci a tenerle ferme, immobili, allora le muovi un
po', giusto per rassicurarti, le agiti, avanti e indietro, apri e
stringi, su e giù, ancora, da capo, avanti e indietro; senti
le ossa
scrocchiare sotto la pressione dei tuoi polpastrelli, non te ne curi
ma continui, imperturbabile, finché non si indolenziscono e,
stanche, non smarriscono l'unico senso che le tiene in vita, il
tatto.
All'istante
ti blocchi, avvilita, tuttavia non rimani lì,
così. Non le lasci
all'aria, libere, disubbidienti, pericolose, ma hai paura e le leghi,
intrecciandole tra loro, prima di riporle, al sicuro, nella tasca del
maglione di lana, quella che hai sul davanti e che ti permette di
tenerle unite. E' troppo rischioso separarle.
Pensi
di poter star tranquilla ora, rilassi i muscoli e abbassi la guardia
perché loro sono lì, ferme, docili, ubbidienti,
hai il controllo su
tutto; sei una stupida in realtà. E' un attimo, il cervello
che si
sconnette e il cuore che rimbalza sempre più prepotentemente
nel
petto, avverti il suo rumore arrivare fin dentro i timpani, ti snerva
risucchiandoti la calma.
Il
formicolio ritorna e sembra corroderti la pelle; ecco: già
non sei
più diligente.
La
mano, impaziente, scorre lenta dall'alto verso il basso, è
ormai
persa e ipnotizzata in un movimento che conosce a memoria, riconosce
lo spessore dell'adrenalina, dell'ansia e dell'aspettativa, il
desiderio e la speranza sono sempre gli stessi.
Il
movimento dei polpastrelli è impercettibile, invisibile,
sfregano
esagitati e titubanti gli uni sugli altri, non vorrebbero farlo,
vorrebbero scontrarsi, saggiarsi e tastarsi ma sono impossibilitati
da quel sottile e liscio strato di tessuto che li divide, allora le
dita si attivano ancora stringendolo rabbiose, lo accartocciano
ingabbiandolo tra la loro trama, si contraggono sempre di
più,
sempre più forte perché la conoscono
già quella consistenza
scivolosa e vellutata, quasi innaturale; lo sanno che è solo
il
preludio di ciò che potranno limitarsi a guardare
immaginando come
sarebbe posarsi su di lui, sulla sua pelle, sul suo
corpo.
Gli
occhi forse sono gli unici ad essere vagamente soddisfatti, mai fermi
e perennemente attenti e vigili, pronti a cogliere ogni minuzia, ogni
tonalità con tutte le sue differenti gradazioni, e a
suggellare
quell'immagine nella mente, vorrebbero che fosse meno sfocata e
più
vera, vorrebbero vedere ciò che non vedono da lì.
Non appena un
piccolo spiraglio di possibilità e incertezze si apre di
fronte a
loro, si spostano rapidi, abbandonando la lucentezza fastidiosamente
abbagliante del colore rosso fuoco di quella seta che le mani si
sforzano ancora di raggrinzire, sono alla ricerca di una luce
diversa, più confusa e oscura ma indispensabile. La sua
luce,
quella che ancora non sa di avere.
Delusione
è la prima emozione che ti strippa il petto non appena
prendi
coscienza che davanti a te il nulla è padrone, dall'altra
parte solo
mattoni, legno e vetro; una finestra vuota e inanimata, quella. Lui
non c'è.
Le
gambe dondolano da una parte all'altra, i piedi rimangono incollati
su quelle mattonelle e le mani stringono ancora di più quel
pezzo di
stoffa che hanno tra le dita. Decidi di aspettare, forse a breve
farà
la sua comparsa con una tazza di caffè alla bocca e una
sigaretta
ancora da iniziare, allora farai un sorriso e finalmente lo guarderai
sempre con la solita domanda a balenarti per la mente: non sai se a
lui piaccia con o senza zucchero, il caffè. Tu scommetti
amaro.
Lo
senti di brancolare nel buio, di cadere ogni giorno sempre
più in
fondo, più in basso, lo sai di esserti persa, di aver
smarrito la
bussola e di essere imbrigliata in un limbo tra il passato e il
presente che saresti in grado di attraversare se solo avessi il
coraggio di chiuderla, quella finestra. Tuttavia resti lì
comunque,
paralizzata, con l'unica magra consolazione che almeno le ante siano
spalancate e che lui sia sveglio, in giro per casa o chissà
dove.
Rimani
ferma, in attesa. Ma di cosa? Di cosa.
Un
sospiro esce dalle labbra screpolate, si piegano in una smorfia
rassegnata quando capisci di aver atteso troppo. Sei una sciocca, te
lo ripeti con rabbia digrignando i denti e indurendo la mascella, sei
una sconsiderata perché hai perso il pullman che ti avrebbe
portato
per tempo all'università, la lezione- era importante e ti
sarebbe
piaciuta- è iniziata da un bel pezzo e sarai fortunata se
riuscirai
ad ascoltarne l'ultima parte arrancando nel seguire il filo logico di
cui non conosci né l'inizio, né la fine.
Corri
per la camera incespicando sui tuoi stessi passi, ti vesti afferrando
le prime cose che ti capitano sotto gli occhi fregandotene se i
colori non saranno abbinati, prendi qualche quaderno a caso sperando
di aver scelto quelli giusti, abbandoni la stanza, incurante del
letto sfatto e della baraonda in cui l'hai lasciata, vai in bagno, ti
lavi il viso ma non ti pettini, i capelli li leghi in un'oscena coda
storta mentre scendi le scale, non hai tempo per la colazione, miri
dritta alla porta e la apri.
Il
tonfo sordo dei quaderni è la prima cosa a risvegliarti,
sono
scivolati dalle tue braccia fattesi improvvisamente di creta, i fogli
degli appunti si sono sparsi disordinati a terra ma non è
importante, ora. Indispensabile invece è non tralasciare
nessun
dettaglio, coglierlo, conoscerlo, assaporarlo, rubarlo e, alla fine,
amarlo. Percepisci la forza abbandonarti, i muscoli molli, la testa
girare, lo stomaco contorcersi e il cuore schizzare impazzito nel
petto, credi che questo sia l'ennesimo brutto tiro mancino del
destino, sei sicura di sognare e che la gola riarsa e fervida sia
soltanto una tua strana impressione, perché sei certa che
sia
impossibile che lui sia lì, qui, davanti
a te, a me, ora. Lo
sai, lo conosci, ne sei certa. Lui non sarebbe mai
venuto a
casa tua, non avrebbe oltrepassato quel cancelletto di ferro, ma
avrebbe aspettato proprio lì davanti, come quotidianamente
ha fatto
per tutti questi anni.
Lo
senti, allora, logorare violento le tue viscere, lo intuisci, di non
aver capito proprio niente.
Ti
fissa preso in contropiede schiudendo il pugno con cui avrebbe
bussato alla porta e abbassando il braccio, non si aspettava di
trovarti lì, eppure sa che ci abiti; si sente ingabbiato, in
trappola, e non sai perché ma lo vedi, è sotto ai
tuoi occhi: i
muscoli si contraggono, il viso si indurisce, gli occhi si congelano,
il respiro si fa più irregolare, la cicatrice si torce.
Ciononostante
lo trovi bello, così, da vicino, come lo ricordavi.
-Chi
cazzo sei?- la sua voce è calda, cavernosa , ora puoi
ascoltarlo
meglio il suo ritmo.
Ti
riscuoti dalla tua bolla immaginaria, accarezzi con lo sguardo
quell'incisione perpetua ripercorrendo le sue strade, cerchi di
ricordarne i sentieri, ti soffermi sulle sue labbra pensando che
vorresti sfiorarle, di nuovo; solo dopo metabolizzi il significato
delle sue parole.
Sei
certa di aver capito male.
-Come
scusa?- la tua voce, invece, non è stata mai così
gracchiante e
stridula come lo è adesso.
-Dio...
pure rincoglionita se l'è portata a casa, 'sto stronzo-
sospira e
sbuffa spazientito prima di volgere il suo sguardo di nuovo su di te
-Ti ho chiesto chi cazzo sei- ribadisce convinto mentre la paura
scorre nelle tue vene comprendendo i significati nascosti di quelle
parole, intuendo il gioco sporco che ha avuto la forza e il coraggio
di iniziare.
-Direi
chi cazzo mi pare- lo dici abbassandoti a raccogliere i quaderni,
sfuggi al suo viso, metti in ordine i fogli sparsi, scappi dai suoi
occhi, non li ricordavi così freddi, passi una tua mano
tremolante
tra i capelli scompigliandoli ancora di più, prendi un
respiro
profondo e ti rialzi. Le tue iridi in quelle di lui, impassibili e
coraggiose perché tu hai deciso di non giocare, di fare sul
serio.
Tu non sei una bugiarda, lo sai tu e lo sa lui, che
finge di
non sapere chi tu sia. Finge.
-Che
c'è, hai mangiato troppo yogurt a colazione?- nessun
risolino o
ghigno impertinente sul suo volto, solo l'impassibilità di
un grande
attore.
-No,
l'acidità è una dote naturale-
-Allora
scommetto che stanotte ti sei sfogata troppo poco, ma non ti
preoccupare, la prossima volta gli dirò di andarci
giù più
pesante. Sempre se ci sarà una prossima volta, ovviamente-
non ti
guarda quando lo dice, non ne ha il coraggio, preferisce di gran
lunga spostare irrefrenabile quelle pozze ghiacciate da una parte
all'altra, limitandosi soltanto a far stridere le sue unghie su
specchi rotti.
Il
loro sfrigolio graffia i tuoi timpani e ferisce le sue mani.
Veramente
non pensavi che sarebbe andata in questo modo il vostro, nostro,
primo incontro. Probabilmente ti sei rincoglionita così
tanto a
tentare di definirne le forme e i contorni da illuderti di poter
contare qualcosa, di esserci, per lui, che speravi
solo
potesse essere meno cagasotto con te, con me.
-
Si certo, ovviamente. Sono solo le cagasotto teste di cazzo come te
che mi irritano di prima mattina- non sfuggi alle sue pupille, tu.
-Levati
dalle palle, parli troppo- svia il discorso tentando di entrare ma
non ti sposti.
-Non
mi freghi, Leonardo-
E'
la prima volta che lo chiami per nome e avresti voluto farlo in
maniera differente, magari sussurrandoglielo all'orecchio con un
sorriso stampato sulle labbra o con le dita tese a rimarginare i
graffi della sua pelle. Non avresti voluto dirlo così, con
rabbia,
orgoglio e la mente stracciata dalla paura che lui
potesse
realmente essersi dimenticato, di te, che sei sempre te, me, con il
cuore seviziato dal dolore della sua indifferenza, della certezza che
la sua ferrea volontà fosse veramente quella di dimenticare
ciò che
ancora non c'è stato.
-Italo
è in cucina, scommetto che la strada te la ricordi- sibili
spaventosamente fredda prima di fuggire, come un' anima che non
riconosce più il limbo in cui si è schiacciata e
l'unica cosa che
le rimane sono salate gocce di sangue di una bugia bianca.
Open
your life now
Open your life now
I'll try to be
All that you
need me
To be
-Sai
'Na, avevi ragione su mia sorella-
-Di
che parli?-
-Si
è fidanzata-
-Ah
si? Non pensavo che le tette crescessero così in fretta-
-Non
è innamorata di te-
-No-
-Un
po' sono sollevato-
-Perché?-
-Avrei
dovuto farti il culo a strisce-
-Ito...-
-Lo
so-
She'll
be a star now
She'll be a scar now
Just
one second, please...
Jingle
bells, jingle bells,
Jingle
all the way!
O
what fun it is to ride,
In
a one-horse open sleigh... yeah!!!
Ok...
il clima natalizio mi ha dato sicuramente alla testa o molto
più
probabilmente è stato lo spumante! Non dovrei essere qui a
pubblicare, non secondo i miei programmi, ma ci sono. Volevo farvi un
piccolo regalino di Natale visto che si dice che dovremmo essere
tutti più buoni, ma in realtà è solo
perché sono un pochino
troppo euforica( e direi che l'avevate capito vista
l'introduzione...) dato che tra poche ore volerò dritta
dritta a
Praga....Au revoir Italie!!!!!!!!!!!!
Non
so che cacchio ci azzecchi il francese visto che lì
dovrebbero
parlare ceco o qualcosa del genere, ma si sa: la pazzia è
pazzia!
Comunque passiamo alle cose serie. E' un capitolo importante questo,
c'è il loro primo incontro e non è sicuramente
rose e fiori,
inoltre nei flashback emerge un po' di più la
personalità di Italo.
Vi prego di non giudicarlo subito male, perché se da un lato
è
amico di lui, dall'altro è il fratello di lei,
ciò che fa lo fa
perché ama entrambi, tanto.
Non
so, man mano che scrivo mi sto accorgendo che i capitoli sono molto
introspettivi e, per parlare di loro due, non ne posso fare a meno;
c'è tanto da dire e purtroppo è anche complicato,
è difficile da
comprendere perché non si può rimanere in
superficie ma magari ci
si deve soffermare sul significato di una singola parola. Non lo so,
magari sono tutte inutili seghe mentali che, come al solito, mi
faccio, ma spero di non tediarvi troppo e di non risultare noiosa e
pesante con il mio modo di scrivere.
Ringrazio
nuovamente chi ha recensito, chi ha inserito la mia storia tra le
preferite, seguite e ricordate e chi ha la voglia anche solo di
passare per di qua e arrivare alla fine del capitolo.
Tanti,
tanti, tanti auguri! Di buon anno, visto che Natale è ormai
passato!
Dasvidania,
Fal
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Tac tic: cacofonia di un momento sbagliato ***
TAC
TIC: CACOFONIA DI UN MOMENTO SBAGLIATO
Essere
pronto è molto,
saper
attendere è meglio,
ma
sfruttare il momento è tutto.
Era
il 25 dicembre 2007 e sentiva diffondersi nell'aria le note di un
motivo natalizio di cui non ricordava bene il titolo: qualcuno
cantava in una chiesa. Pensò che a lei
sarebbe piaciuto se solo lo avesse potuto sentire e che lo avrebbe
costretto ad andarci trascinandolo per il bavero della maglietta,
avrebbero corso a perdifiato tenendosi stretti per mano, l'avrebbe
trascinata dietro di sé con tutta la sua forza facendola
stare al
proprio passo, solo per poterle fare ascoltare gli ultimi melodiosi
accordi accompagnati dai battiti cadenzati delle mani. Forse, una
volta arrivati, avrebbero trovato una chiesa deserta, priva del
calore di una voce a riscaldarla, avrebbero avuto il fiatone e
avrebbero distinto i soffi affaticati del loro respiro
nell'oscurità
dell'aria, avrebbero avuto le labbra viola e il volto intorpidito per
il freddo sferzante, i muscoli, esausti, avrebbero fatto male
contraendosi, ma non gli sarebbe importato; sarebbe stato vitale,
invece, osservare i suoi occhi illuminarsi e le sue labbra tendersi
all'insù.
Una
raccapricciante smorfia di dolore si delineò sul suo viso,
la
cicatrice si strizzò infiammandosi sottopelle e le labbra si
arricciarono attorno a una sigaretta, una MS, per poi liberare un
setoso alito grigio di fumo; nella testa, il ricordo evanescente di
un sorriso.
Erano
le sette quella sera, era buio e le strade del quartiere, lumeggiate
dall'algido chiarore delle sgargianti illuminazioni natalizie, erano
aride e desolate così immerse in un insolito silenzio, tutti
erano
nelle loro case, rassicurati e riscaldati dal tepore e dall'incantata
e precaria serenità di un giorno di festa; si potevano
distinguere
le decorazioni e le luci accese, ma non quelle di una cucina o di un
soggiorno, erano le camere da letto e i bagni ad essere illuminati:
tutti erano indaffarati a prepararsi al meglio, una festa li stava
aspettando.
Lui,
invece, era solo, al parco, seduto sul filo dello schienale della
solita panchina e con indosso una maglietta rossa, a maniche corte,
come se fosse già talmente assiderato da non percepire
minimamente
la pelle rinsecchirsi, raschiata dal freddo pungente dicembrino;
aveva i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani strette le une alle
altre, si davano forza ferendosi in una morsa che sapeva quasi di
disperata preghiera.
Ne
accese un' altra, di sigaretta, mentre immagini che avrebbe preferito
dimenticare gli scorrevano davanti, guidate da un animo che non era
il suo, aspirò profondamente rilasciando nell'aria un altro
sbuffo
grigiastro, dietro al quale, celò i suoi occhi, tristi,
annebbiati,
ghiacciati, come se lì, in mezzo al buio, ci fosse qualcun
altro che
potesse vederlo e , forse, era proprio questo che sperava; ad un
occhio estraneo, quelle iridi, sarebbero parse quasi lucide, lui, al
contrario, si disse che ancora, dopo anni, doveva abituarsi alle
violente pennellate, aspre e ardenti, del fumo pungente le sue
pupille. Abbassò le palpebre sconfitto, consapevole che
quando si è
come lui, un ottimo bugiardo, le menzogne con cui abbindoli te stesso
sono difficili, se non impossibili, da digerire.
Pensava,
Leonardo. Con le dita di una mano, affannate e inquiete, serrava la
stoffa leggera di quella maglietta rossa, lì, vicino al
petto, dove
il cuore sembrava aver smesso di battere, esaurito e avvelenato da
quell'inchiostro spietato e corrosivo di un marchio indelebile che
gli parlava di un ricordo sfumato nel tempo, di una vita che avrebbe
preferito dimenticare.
Pensava
a come sarebbe potuto essere se lì ci fosse stata lei,
a come sarebbe potuto diventare, pensava a un passato remoto, alle
botte che si sarebbe risparmiato e che avrebbe risparmiato agli
altri, pensava a quando, magari, un sorriso sulla sua bocca ci
sarebbe scappato, a quando, a Natale, c'erano ancora il panettone e
il pandoro sul tavolo della cucina, a casa sua.
Pensava
a quanto sarebbe stato diverso, chiedendosi se ci sarebbe stato lo
stesso su quella panchina, se si sarebbe sentito meno solo ma in
realtà era conscio che, qualsiasi spazio varcasse e in
qualsiasi
tempo vivesse, nessun luogo gli sarebbe appartenuto, nessun momento
sarebbe stato quello giusto.
Pensava,
Leonardo, almeno finché non vide lei, che non era lei,
stretta in un cappotto nero, camminare verso la chiesa, seguendo il
richiamo di un canto. La osservò allentando la stretta sul
petto
mentre un brivido di freddo risaliva tutta la lunghezza della sua
spina dorsale; guardò lei che poco sopportava e odiava, lei
che lo
voleva e amava, lei che lo logorava e distruggeva, lei che lo
inseguiva e spiava, lei che lo vedeva, lei che sorrideva e arricciava
il naso,lei, che non era lei.
Si
disse che i suoi capelli erano troppo scuri ed eccessivamente ricci,
che le sue labbra erano troppo poco carnose, che i suoi occhi
avrebbero dovuto essere marroni, che il suo corpo avrebbe dovuto
essere più esile e minuto.
La
immaginò arricciare il naso e nella sua testa ne comparve un
altro,
di naso; si rassicurò dicendosi che fosse impossibile.
La
immaginò sorridere e nella sua testa balenò il
pensiero che quel
suo sorriso fosse perfetto; tremò, certo che stesse
sognando.
La
immaginò guardarlo e allora ebbe paura.
Si
alzò in piedi, probabilmente per vedere meglio,
fissò le iridi su
di lei, che non era lei,
ne registrò i particolari e spontaneamente sorse la nociva e
fastidiosa consapevolezza di trovarla irrimediabilmente bellissima,
il respirò si bloccò in gola lacerando la pelle
incendiata delle
sue braccia nude e martoriando il suo cervello; si accorse di quella
mano, sul suo fianco, di quelle dita che lo impugnavano,
bastò un
secondo per aggrottare le sopracciglia, indurire la mascella e
desiderare di stare lui lì, in quel posto, il suo posto, per
poi
odiarsi e odiare lei, che non era lei.
La
osservò allontanarsi e la vide.
Era
una specie di lancinante, dolorosa meraviglia. Ti senti una specie di
consolazione, dentro, quasi una rivelazione, che ti spalanca l'anima,
per così dire, ma contemporaneamente senti una specie di
fitta, come
la sensazione di una perdita irrimediabile, e definitiva. Una dolce
catastrofe. Credo che c'entri il fatto di essere sempre fuori, in
quei momenti lì, sei sempre lì che li guardi da
fuori. Non ci puoi
entrare, è qualcosa che rimane lì, e tu sei
irrimediabilmente
davanti, la guardi ed è tutto quello che puoi fare.
È una cosa
strana. Quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei
sempre lì che lo guardi da fuori. Non ci sei mai dentro.
È il tuo
posto, ma tu non ci sei mai.
Nella
vita comunque paghi per le scelte sbagliate
per quelle occasioni
mancate
che non ti fanno dormire
ma ti sanno ferire
con
ostinazione
attraverso i ricordi
di fatti e persone.
Tic
tac, tic tac, tic tac.
E'
sempre il tempo a fregarci, a me e a lui; crudele e
impudente,
ci canzona e si delizia, con disgustosa disumanità,
guardandoci
sfuggente rincorrerlo annaspando penosamente, consapevole delle
nostre gambe troppo corte e stanche. Non ci aspetta, lui, procede
indisturbato la sua corsa, va semplicemente, e non si sa dove, non si
sa quando. Ci lambicchiamo, speranzosi e illusi, stanchi e
amareggiati, a tentare di cogliere la sua complicata cadenza, a stare
al passo senza perdere le battute, a districare l'armonioso groviglio
delle sue note, costantemente uguali ma sempre così
dannatamente
diverse, a scorgere gli infinitesimali attimi che scandiscono lo
spazio tra un secondo e l'altro, per registrali nella mente,
conoscerli e farli nostri in modo da non perderci la prossima volta,
quando rimarremo di nuovo tanto indietro.
Certo
che lo sappiamo che è troppo veloce, che il suo incessante
ritmo non
riusciremo mai a tenerlo e che, una volta o l'altra, boccheggeremo a
terra per la fatica, per le vene che urlano sottopelle, per il
clangore di tendini che si frantumano e per il sapore rugginoso che
ci saturerà la bocca, tuttavia ci accodiamo e ci sforziamo
di
seguirlo perché dobbiamo farlo: è la vita che ce
lo impone.
Tic
tac, tic tac, tic tac.
Il
segreto è essere pronti, non voltarsi indietro e fermarsi
troppo a
lungo, si deve mantenere il passo di marcia, tallonare i secondi e
prendere fiato ad ogni pausa, ascoltare bene ciascun tic e ciascun
tac, rimembrarne la sequenza e riconoscerne tra molti la melodia
migliore, quella più giusta, quella meno disarmonica e
assordante
per cogliere l'attimo.
Carpe
diem, diceva Orazio, ed è proprio questo il punto,
perché è
esattamente quando ci perdiamo un solo tic e trascuriamo un solo
giusto tac che la vita ci fotte, amaramente.
Tic
tac, ti-c tac, tac.
Credo
che noi, io e lui,
non ci siamo
mai riusciti, non
l'abbiamo mai compreso il ritmo del tempo, ne abbiamo aggrovigliato i
cicli, distorto la scansione, confuso i periodi e scompaginato
l'ordine, finendo irrimediabilmente per essere braccati dalla
cacofonia di un momento sbagliato.
Tac
tic, tac tic, tac tic: questa è la sola ballata che
appartiene al
nostro tempo.
Entrò
a far parte delle nostre vite fin da subito, lui. La sua figura fu
una calamita, anche quando aveva ancora soltanto dodici anni, i suoi
occhi erano meno spenti e sul suo corpo non gravava il peso di piaghe
laide e velenose; è sempre stato come un magnete, era
talmente
sfuggente e inafferrabile, talmente scivoloso e inavvicinabile fin da
allora, così nascosto e rifugiato al di là di
quella corazza
impenetrabile e granitica, che tutti si accalorarono nell'ipocrita e
vano tentativo di afferrarlo, di bloccare quel suo fluire lesto per
loro così troppo tempestoso e burrascoso.
Penso
che ancora oggi non abbiano capito che lui è sempre stato
immobile
in realtà, oppresso tra le pareti di un oblio dai battiti
fragorosi
di un tac tic, in attesa di un nuovo tempo, quello adatto per lui. E'
ancora lì, non si è mosso, non un solo passo in
avanti, basta
fermarsi per guardarlo e prenderlo, come vorrebbe, per rapirlo. E'
solo in attesa che qualcuno lo faccia, una volta, per lui.
Quelli
del mio quartiere indossarono da subito la faccia del buon samaritano
e con quella ridicola maschera addosso organizzarono una festa di
Natale, per farla conoscere a lui, che sembrava non ricordare neanche
che sapore avessero il panettone e il torrone.
Da
allora ogni anno si ripete sempre la stessa storia: dal primo di
dicembre ecco che tutti diventano più buoni, ritornano i
grotteschi
e aberranti travestimenti da buonisti del cazzo e una luce fulgida si
riaccende nel cervello rimembrando, improvvisamente, loro che qualcun
altro esiste.
Ancora
mi chiedo perché lui ci sia sempre andato a quella festa.
Ricordo
che quell'anno si erano dati da fare parecchio, avevano affittato la
vecchia area dell'oratorio, quello che mi trovavo di fronte non
appena scendevo dal pullman che mi portava a scuola, vicino a quella
chiesa in cui mia madre mi costringeva ad andare da piccola ogni
domenica mattina, indossavo la veste da chierichetta insieme a
Martina o sedevo alla destra dell'altare, facevo parte del coro.
L'oratorio
aveva ancora i soffitti a volta con la pietra a vista e le pareti
affrescate ravvivavano le stanze costantemente in penombra,
illuminate soltanto dalla fievole luce che riusciva a oltrepassare le
grate in ferro delle piccole finestre quadrate, avevano i colori
sbiaditi e consumati dall'età, i contorni avevano smarrito
la loro
nitidezza e in qualche tratto mancavano di alcune parti, tuttavia le
storie che essi narravano sembravano essere imperturbate dal logorio
degli anni, i loro significati erano stampati con limpidezza e
precisione su quelle superfici.
Ricordo
le luci ad intermittenza, rosse, gialle e bianche, imbacuccavano gli
alberi, perfino le siepi, antistanti l'entrata, vicino alla quale era
stato posizionato un Babbo Natale di plastica a grandezza reale nella
nuova versione di chaperon intabarrato in uno sgargiante smoking
nero; a fargli compagnia ci sarebbe dovuto essere una pupazzo di
neve, di cui si distinguevano ormai solo i resti di una carota,
mangiucchiata, scommetto, da Ernesto, il bassotto della vicina di
casa, un cappello di lana verde pisello, bucato, e tre bottoni di un
blu scolorito sparsi a terra. Di quel pupazzo non ne rimaneva nulla
se non un cumulo indefinito di neve, si era sciolto ed era troppo
poco freddo affinché nevicasse di nuovo.
Fu
uno dei pochi giorni di Natale in cui non nevicò, quello.
Sorrisi
amaramente: il marasma di emozioni che avevo incollato addosso non mi
faceva sentire poi tanto differente da un pupazzo di neve liquefatto
il 25 di dicembre.
Ripensandoci,
fu tutto sbagliato fin dal principio, fin dal momento in cui misi il
naso fuori dalla porta e le mie pupille si posarono concitate sui
vetri di una finestra che mi sembrava di non riconoscere più
e un
groppo mi occluse la gola, mentre le dita si aggrappavano
disperatamente a lembi di pelle troppo lisci e perfetti per essere i
suoi.
Come
fu inopportuno e strano il senso di disagio che mi pervase non appena
varcai la soglia dell'oratorio e incontrai gli occhi sorridenti di
Italo, non ebbi neanche la forza di spostare lo sguardo per vedere se
lui fosse lì accanto, magari con un pezzo di torrone in
bocca e un
flute di spumante in mano. Mi sentii assurdamente sporca, inquieta e
mi vergognavo mentre delle mani non sue,
leggere e delicate, facevano scorrere il cappotto nero sulle mie
spalle scoperte, un sussurro appena udibile fuoriuscì da
labbra
troppo carnose per essere le sue,
mi sfiorarono l'orecchio facendomi rabbrividire.
-Sei
bellissima- dicevano.
Quell'anno
avevo diciassette anni e avevo il ragazzo; si chiamava Luca.
Sei
mesi erano trascorsi dalla prima volta che eravamo usciti, era
più
grande di me di un anno e mi veniva dietro da un po', mi comprava le
rose, rosse. Mi costrinse Italo ad accettare il suo invito per un
appuntamento, non volevo andarci, non mi agghindai come di solito
faceva Martina, indossai dei jeans e un felpa comoda, non mi truccai
ma riuscii comunque ad arrivare in ritardo. Mangiammo una pizza e mi
offrì un gelato. Per la prima volta non pensai a lui, mi
sentii
libera, libera di muovermi, di respirare, di essere per un solo
istante disattenta lasciandomi sfuggire i dettagli che solo il tempo
avrebbe potuto farmi conoscere, libera di guardare oltre il vetro di
una finestra e non avere paura di non trovarlo, il cuore non
strippava nel petto, i muscoli non erano intirizziti e il cervello
non pulsava nel cranio. Potevo avere tempo, per me, per vivere.
Non
smisi di vedere Luca, anche se non era lui.
Credo
di averlo sempre saputo, tuttavia soltanto quella sera ne presi
realmente coscienza. Mi accorsi che la mia bocca, la mia lingua,
faticavano a muoversi nel pronunciare un nome troppo corto, le mie
orecchie non riconoscevano il suono della sua voce, sembrava essere
così stridente e gracchiante, così stonata tanto
da non capire il
significato delle parole di cui era portavoce, mi resi conto del
fervore con il quale ricercavo nei suoi occhi troppo marroni e troppo
vivaci una nota triste, annebbiata e ghiacciata, le sue labbra, il
suo viso, erano così perfettamente simmetrici,
così intatti e
armoniosi, i suoi lineamenti erano talmente angelici e rilassati da
non sapere più chi avessi realmente davanti.
Sorrideva
tanto, troppo, Luca mentre mi stringeva a sé e ballavamo con
il
sottofondo di una canzone natalizia. Distolsi lo sguardo dal suo
volto incontrando in un battito di ciglia due iridi tristi,
annebbiate, ghiacciate; pensai che avrei voluto le sue braccia
intorno alla mia vita, che avrei voluto sentire la sua, di bocca,
baciarmi la tempia, pensai che quel micidiale miscuglio di emozioni
che lo inseguiva, fedele come solo un cane sa essere, fosse la
seconda cosa più bella mai vista al mondo, la prima era la
sua
cicatrice, era lui, tanto da divenire impossibile da sopportare la
sua vista.
Ricordo
di aver sentito il tempo fermarsi, per una volta, quella sera. La
nenia delle lancette non c'era più a rimembrarmi che fosse
tutto
sbagliato, che il momento per noi non era ancora arrivato e che,
probabilmente, non ci sarebbe mai stato; non c'era più il
tormentoso
frastuono della consapevolezza di quanto tutto potesse essere
ingiusto e di come, in realtà, noi, io e lui, fossimo
impreparati e
sprovveduti, ma soltanto quel silenzio tranquillizzante e ovattato di
chi non aspettava altro da tempo, di chi era fermamente convinto che
invece tutto era al suo posto e che non ci sarebbe stato istante
migliore.
A
volte, quando mi sembra che sia un po' più vicino, quando
non rimane
paralizzato lì, in un mondo che solo lui conosce, ma trova
l'energia
necessaria per tentare di allungare una gamba e camminare verso me
chiedendomi di aspettarlo, percepisco ancora la sensazione
serpeggiante dell'adrenalina scorrermi nelle vene, come quella sera,
fluire, leggera e pungente, fino a che non avrà appestato
ogni
globulo rosso, finché non li avrà risucchiati
tutti, una alla
volta, corrodendomi per abbandonandomi, poi, con addosso un viluppo
di eccitazione e terrore.
Ne
distinsi la presenza ancor prima che si avvicinasse; nonostante
avessi la bocca impiastrata da quel sapore dolciastro di uvetta e
canditi che mi imbottiva le narici di un odore stucchevole e mieloso,
riconobbi ugualmente l'inconfondibile olezzo di sigaretta, di quella
sua.
Ricordo
di aver avvertito la forza, necessaria a sostenermi, inghiottirsi in
un vortice nero, obbligandomi ad appoggiarmi a quel tavolo adornato
da mille decorazioni che faceva bella mostra di un buffet dalle
più
variegate prelibatezze, avevo stretto le dita tremule, come le foglie
in autunno sugli alberi, attorno alla consistenza morbida e
appiccicosa di una fetta di panettone che, lentamente, si sgretolava
in mille briciole sopra la tovaglia, in bocca un intoppo nauseante,
schifoso e zuccheroso che non voleva saperne di smuoversi mentre la
vista appannata mi impediva di distinguere i colori appariscenti
delle palle appese a quell'albero di Natale che avevo di fronte.
Ricordo
di aver sentito l'impercettibile tremolio del tavolo sotto il peso
del suo corpo, nella testa ho ancora ben impressa la straziante
flemma con cui mi voltai a guardarlo, atterrita dall'agghiacciante
possibilità che a un mio movimento più aspro e
brusco potesse
svanire; ricordo la sorpresa di averlo trovato più vicino di
quanto
mi fossi aspettata e la sensazione di essere sospesa tra
realtà e
sogno, in bilico, sul filo del rasoio in attesa che lui mi afferrasse
le mani per poi buttarsi giù, con me, per vedere se
lì sotto è
bello così come dicono; ricordo la sua maglietta rossa e il
mio
vestito rosso unirci in un'unica macchia di vita, rimembro le sue
braccia nude e conserte, la sagoma delle scapole e delle spalle, il
movimento del pomo d'Adamo, la mascella spigolosa e indurita, le
labbra in una riga dritta, lo scompiglio dei suoi capelli e
l'impenetrabilità del suo sguardo; ricordo la linea e le
tracce
della sua cicatrice, il formicolio diffuso delle mie mani e il
bruciore agli occhi le cui palpebre mi ostinavo a non abbassare.
Quella
volta ci provai davvero a fare ciò che tanto Orazio andava
dicendo
in giro, tentai di cogliere quel silente momento sospeso in un tempo
che non esisteva e che sarebbe stato solo nostro, giusto per noi che
non sapevamo come stargli dietro, per noi, che lo aspettavamo e che
non capivamo che ce ne sarebbe voluta un'altra, di vita, per averlo
di nuovo.
Tuttavia
ci misi tanto, troppo tempo. Sorrisi troppo tardi addolcendo lo
sguardo e mossi le labbra per parlare quando ormai tutto aveva
ripreso a scorrere veloce e il rumore di un tac-tic rimbombava
già
nel cranio rintronandolo.
Tac-tic,
tac-tic, tac-tic: questa è stata fin da allora la sola
ballata del
nostro tempo, una cacofonia di un momento sbagliato.
Ricordo
lo sbigottimento, il fallimento, il fastidio, l'irritazione e la
preoccupazione, ricordo lo sguardo fisso su di lui, le mie iridi
lucide e il contorcersi della sua cicatrice, ricordo l'odore di
sigaretta, di quella sua, svanire, sostituito da una banale fragranza
alla menta, ricordo due braccia troppo coperte e leggere avvolgermi,
due mani troppo delicate e troppo poco ruvide e imperfette
stringermi, ricordo i capelli solleticarmi il viso spinti dal respiro
di un sussurro dai contorni indefiniti, ricordo il mio fiato e le mie
parole sospesi, a mezz'aria, su per la gola, incastrati lì,
tra le
corde vocali, dove ancora indugiano nella speranza di prendere voce e
forma, seppure stridente e scontata.
-Ciao
Leonardo. Sono Bianca, la sorella di Italo-
E'
l'eterna ripresa di una scena sospesa.
Mi
sembra di essere di nuovo lì, davanti a quell'albero di
Natale di
cui non riesco a rimembrare il colore delle decorazioni, appoggiata a
quel tavolo su cui ormai ristagnano i granelli putrefatti di uvetta e
canditi, le mani sono ancora stomachevolmente appiccicose e la bocca
è ancora imbevuta dello stesso sapore stucchevole. Da quella
sera,
non sono più stata in grado neanche di sentirne l'odore, del
panettone, senza che mi nauseasse.
Mi
pare di aver camminato all'indietro fino ad arrivare a cinque anni fa
o, ancor peggio, di non essermi mai mossa, di aver indugiato accanto
a lui in una straziante e innaturale condizione di tacita
immobilità,
non un movimento e non una parola; nessun lieve tocco di mani che si
cercano e polpastrelli che si saggiano mentre le bocche sono
impegnate ad articolare quelle frasi bloccate, mai dette,
imprigionate, le cui grida, oramai, spremono furenti le corde vocali
per risalire rapide la gola e librarsi nell'aria, oppure, magari,
mentre sono semplicemente impegnate a fare altro, irrazionalmente e
piacevolmente giusto, consce che, nella maggior parte dei casi, sono
i gesti a saper parlare più di mille parole. Niente di
niente, solo
io e lui fermi, in
attesa che la cantilena delle lancette se la fili di nuovo per
lasciare spazio a un nuovo tempo, quello giusto per noi.
Mi
appare tutto esattamente come ad allora: il luogo è lo
stesso, la
gente è sempre quella, come pure l'occasione. Ci sono ancora
gli
alberi e le siepi del cortile di ingresso infagottati di luci, Babbo
Natale è lì, elegante nel suo smoking nero ti
invita gentilmente ad
entrare, c'è Ernesto, il cane della vicina, che zampetta per
la sala
alla ricerca di un'anima pia che dispensi un po' di coccole o magari
qualcosa di più sostanzioso come un avanzo di carne,
nell'aria il
chiacchiericcio generale si confonde con le note delle solite
canzoni natalizie ordinate in un sequenza che è sempre la
stessa;
c'è ancora mio padre che gira e rigira attorno al tavolo del
buffet,
in mano due piattini di plastica trasbordanti di dolci leccornie e
sul volto un sorriso sornione e soddisfatto, mentre, dall'altra parte
della sala, mia madre lo fulmina con lo sguardo pensando a quando gli
farà consumare tutte quelle calorie costringendolo a
sgobbare per
casa; c'è ancora Italo che, giocoso e divertito, rincorre
quel
monello di Nico, il fratello di Martina, mentre quest'ultima
è dispersa chissà dove con un damerino qualsiasi
nella speranza che
prima o poi Ito possa accorgersi della donna che è
diventata, c'è
ancora lui, ci sono
ancora io, ci siamo ancora noi.
E
me la sento addosso, di nuovo, sul collo, proprio appena sotto
l'attaccatura dei capelli, l'etichetta di quel vestito rosso, sfrega
e graffia la pelle irritandola, come pure quello stesso cerchietto
nero, con una rosa rossa di lato, punge, indisponente e molesto, la
cute e come quelle scarpe, rubate dall'armadio di mia madre,
feriscono ancora ad ogni mio passo in avanti e ho il terrore di
svegliarmi, domani, e di trovare, esattamente come ad allora, i
medesimi segni imporporati e infiammati dietro al collo, di percepire
la testa bruciare e scoppiare, di vedere il formarsi di due vesciche,
gonfie e arrossate, ho il timore che possano fare più male,
che
possano ledere con più caparbietà e sicurezza
marchiando senza
pietà sulla mia pelle la cacofonia di un momento sbagliato;
ho
paura, almeno finché non è il tac-tic del nostro
tempo a
concederci un'altra chance: l'ossigeno intriso dell'aroma di
sigaretta, di quella sua, scende voglioso nei
polmoni,
l'adrenalina scorre nelle vene impadronendosi del mio stesso sangue e
in me, si infonde la delizia di una speranza nota, quella che non
esista istante migliore di questo.
Credo
che ogni singola, microscopica particella delle mie membra, ogni mio
organo scalpitante, ogni mia fibra muscolare indolenzita, credo che
la mia pelle, con loro, lo abbia cercato e mai trovato, che non ce lo
abbia mai avuto addosso e penso che in realtà l'aspettasse
esitante
da sempre, il sapore di un calore così.
Di
quello suo.
E'
come sentire di essere a casa, qualunque essa sia, sentire di essere
al tuo posto, quello giusto solo per te, lo vedrai accoglierti e
afferrarti dopo un lungo viaggio, riscaldarti con un abbraccio quando
ne avrai bisogno, guarirti e curarti con movimenti precisi e attenti
delle mani, alleggerirti dai pesi di quei souvenir amari e
sanguinolenti che ti porterai appresso, inevitabili doni del cammino
disgraziato di una vita, amarti con le labbra e con il corpo quando
sarà dalla solitudine che vorrai fuggire; è
percepire lo
scoppiettio rassicurante di un fuoco acceso intiepidirti mentre fuori
nevica, è aver finalmente tra le dita ciò di cui
hai avuto soltanto
un piccolo e misero assaggio, tanto tempo fa, troppo tempo fa, in una
piovosa sera d'estate in cui tuo fratello era un po' troppo alticcio
e sul comodino avevi lasciato abbandonati Lizzy e il suo Mister Darcy
mentre tu eri alla ricerca del tuo.
E'
sentire la tua pelle formicolare e rabbrividire sotto il peso della
sua, è avvertire l'aggrovigliarsi,
l'avvilupparsi, il
confondersi delle tue cellule con le sue in un
miscuglio
perfetto nella sua imperfezione, è la cadenza ritmata di due
cuori
che battono all'unisono.
Sono
semplicemente le sue dita fredde strette attorno al mio polso. E'
solo lui, sono solo io, siamo solo noi.
-Che
sei venuta a fare qui?-
-Oh,
ti sei improvvisamente ricordato chi sono-
-No,
improvvisamente mi sono ricordato perché mi stai sul cazzo-
E'
maledettamente difficile lasciarlo da parte quel calore, dimenticarlo
e rilegarlo in un anfratto sicuro della tua memoria per rimuoverlo da
lì e riprendertelo quando la vita ti ricorderà
che sei sola e che
non hai un corpo a cui stringerti, è faticoso riconquistare
il
respiro, permettere ai muscoli di contrarsi nuovamente, tentare di
mantenere la calma mentre il cuore palpita scalmanato nel petto,
alzare gli occhi da lì, da quella mano che si allaccia alla
tua, e
tornare alla realtà crivellando quella bolla d'illusoria
speranza in
cui ti eri inutilmente rifugiata.
E'
doloroso avvertire l'adrenalina mollarti, interrompere la sua corsa
nelle tue vene e svanire velocemente così com'era arrivata
rimembrandoti che sciocca sognatrice sei stata soltanto per aver
avuto fiducia fin dal momento in cui hai distinto il primo suo
polpastrello sulla tua carne, per aver aspettato qualcosa di diverso
da una scena già vista, da un deja-vu squallido e aspro, per
aver
sperato che, ora che era stato lui a cercarti, a
volerti, a
toccarti per primo, potesse donarti altre parole oltre agli insulti,
magari un saluto o forse un sorriso, anche se fosse stato incerto,
tirato e impacciato, sarebbe bastato ugualmente.
Che
sciocca che sei: lui non sorride.
-Ah
già, dimenticavo che non ti vado molto a genio- sospiri
sarcastica
voltandoti nella sua direzione e lo guardi, fissi quelle iridi
tristi, annebbiate, ghiacciate, finché non è lui
a volgersi
altrove, i suoi occhi mirano e si alternano tra punti indefiniti
della sala e ti sembra, di nuovo, che ti sfugga, che tutto appaia
più
triste, annebbiato e ghiacciato del solito.
-Che
sei venuta a fare qui?- ribadisce con arroganza, come se non
ricordasse che giorno sia oggi, come se non sapesse che la signora
Marisa Viscardi, tua madre, trascina a forza sia te che Italo a
questa stupida festa. Finge. Ancora. Ma non ti
guarda.
-Mi
piace il panettone- menti anche tu ora, come la più stupida
delle
bambinette che si diverte soddisfatta in un gioco di ripicche,
tuttavia vuoi che, in qualche maligno e assurdo modo, lui sia
con te, che le senta quelle briciole tra le sue dita,
che si disgusti, che la sua
pelle sia attaccaticcia come la tua, che si nausei come fai tu, che
ricordi.
-Non
ti è mai piaciuta questa festa- lo dice di botto, quasi
senza farti
finire di parlare, torna a osservarti un istante per poi filarsela
nuovamente.
Non
puoi impedire il magone che sale allo stomaco e la stretta che ti
afferra la gola, perché mille sono i significati che
sottintendono
questa frase e, forse, alcuni sono quelli che vorresti sentirti dire,
che stavi aspettando da una vita, che sono giusti per te, magari
anche lui ti guarda, ti osserva e ti vede con i
tuoi stessi
occhi, magari conosce di te più di quanto tu possa
immaginare o più
probabilmente è la tua faccia ad essere così
espressiva da rendere
palese il tuo stato d'animo. Forse si o forse no. Forse.
Nell'incertezza rilassi il viso e addolcisci i lineamenti.
-Ma
il panettone si-
-Perché
sei qui?-
-Non
lo immagini? Sono qui per te- non sei titubante quando lo dici, le
tue parole si articolano con facilità, scivolano con
naturalezza
sulla tua lingua, sulle tue labbra, decise e concitate, ebbre di
un'impazienza violenta e di una determinazione sconcertante, come
una fiumana impetuosa, precipitosa e avvolgente; non sei trepidante e
nervosa, non hai paura di questo, di ciò che lui sa
già e che
fatica ad ammettere, non ti vergogni, non ti imbarazzi
perché è
inutile e così tanto stancante nascondersi che sei esausta,
non
eludi il suo sguardo, non ti allontani perché questa
è la tua
occasione, la nostra occasione, e non vuoi
mancarla,
nonostante tu sia ben consapevole che lui, alla
fine, si
tirerà indietro, che non lo scavalcherà, quel
muro, che rimarrà lì
a fissarti credendoti pazza, che non si sbloccherà e che,
probabilmente, innalzerà un'altra fila di mattoni attorno a
sé. Non
hai paura, perché avresti dovuto parlargli prima,
perché lo
desideri e speri che, prima o poi, un'apertura per entrare, anche
solo per stare al di là con lui, tu riesca a farla su quella
parete
che sembra così ardua da scalare, non hai paura
perché la vedi e la
senti, la sua mano che è scesa inconsciamente a stringere la
tua.
Non si muove da lì.
-Devi
smetterla-
-Di
fare cosa esattamente?-
-Lo
sai-
-Lo
farò quando avrai il coraggio di dirmelo guardandomi in
faccia-
-Smettila-
ti guarda, finalmente. Ma non ti vede.
Lo
vedi tu, però. Forse ha ragione e dovresti finirla, forse
sei solo
la più infantile e scipita delle bambinette che si rifiuta
di
mollare il ciuccio, magari dovresti crescere un po' e trovarlo
altrove, l'amore, forse sei solo una pazza, una squinternata, una
squilibrata, una che per campare si deve nutrire di insensate fisse
da babbea, magari non è come pensi, forse non lo conosci
affatto,
forse non hai capito un cazzo. Forse.
Tuttavia, tu comunque lo vedi
e lo senti.
Le
sue dita ora ti stringono con più forza.
-Vorrei
proprio capire quale sia il tuo problema-
-Sei
tu, il mio problema. Voglio che te ne vada-
-Potrebbe
succedere davvero, potresti pentirtene-
-Sono
sicuro che non mi pentirò-
-Si
certo, vorrei solo sapere il perché tu abbia così
tanta paura di
essere guardato da me-
-Non
ne ho-
-Il
perché tu abbia paura delle mie parole, di quello che potrei
dirti-
-Ti
ho detto che non ho paura-
-Sei
bello, Leonardo- affermi con disinvoltura, senza desistere dal
guardarlo -Lo saresti, anche se fossi la persona peggiore al mondo.
Sei bello, per me-
Soltanto
quando avverti le tue iridi offuscate bruciare per esserti sforzata a
mantenere le palpebre aperte con l'intento di evitare di perderti
ogni minima reazione del suo corpo, ogni più sottile tendine
teso e
irrigidito, ogni più piccolo movimento della sua mandibola,
delle
sue labbra, della sua cicatrice, solo quando ne hai contati a
sufficienza, di battiti delle sue ciglia, soltanto ora che lui
ti guarda, e forse ti vede, ti
concedi di abbassare lo
sguardo, di torturare un labbro con i denti, di far rimbombare i
battiti del tuo cuore nel cervello, di percepire lo stomaco
contrarsi, l'esofago incendiarsi e la pelle sudare, solo ora permetti
al tuo corpo di accorgersi di quanto sia ridotta la distanza che vi
separa, soltanto ora lasci che il tuo respiro acceleri e che le tue
narici si ubriachino, si inebrino dell'olezzo di sigaretta, di quella
sua,
fuso all'aroma di
canditi e uvetta in un'unione assuefacente.
Solo
ora concedi ai tuoi occhi di spostarsi sulle vostre mani,
sull'incastro assurdamente perfetto di quelle due dita, le vostre, le
nostre, dita. L'indice e il medio.
Vorresti
trovare il coraggio di muoverti, di sbloccarti, di piantare ancora le
pupille su di lui, di farti più vicina, di stringere con
più forza
quel dito con il tuo, di accoglierlo, di avvolgerlo, di custodirlo,
di amarlo, di fargli assaporare il tuo calore, vorresti vederlo
perché non sei certa che abbia compreso, non sei sicura che
possa
aver afferrato il significato che hai celato dietro alla
banalità e
alla mediocrità di un'insipida parola.
Vorresti,
vuoi e lo fai, ti smuovi, ti animi ma quando è troppo tardi,
quando,
come quella sera, il tac-tic del vostro, nostro
tempo, era già
in agguato per colpirti alle spalle con i suoi rintocchi cacofonici,
lo fai quando ormai ci sono due braccia sconosciute e anonime a
circondare il suo corpo, quando è la
voce stridula di una
qualsiasi a riempire l'aria, quando lui
già non ti vede
più, quando oramai lui ha deciso di rompere il vostro, nostro,
intreccio, il sottile filamento di due vite cacofoniche.
L'essenziale
è provare a fare in modo di avere sempre qualcosa in cui
credi
da
inseguire
per non restare a piedi.
L'essenziale è riuscire a
dare forma anche a quello che ti sembra assurdo
e se pensi al
futuro
non tutto è perduto.
Non
è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada.
E tu la
tua. Io non è che volevo essere felice, questo no. Volevo...
salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava
andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose
a salvare la gente: il dovere, l'onestà, essere buoni,
essere
giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l'unica cosa vera. Tu
stai con loro, e ti salverai. Però troppo tardi l'ho capito.
Se le
dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e
tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza
farti del male. È lì che salta tutto, non
c'è verso di scappare,
più ti agiti più si ingarbuglia la rete,
più ti ribelli più ti
ferisci. Non se ne esce. Quando era troppo tardi, io ho iniziato a
desiderare. Con tutta la forza che avevo.
Just
one second, please...
Salve,
salvino belle donne! Rieccomi con un capitolo che mi sembra
più
delirante del solito, ma capitemi, è tra lo studio, lo
studio e
ancora lo studio (chi già fa l'università ed
sotto il periodo degli
esami può capirmi) mi sono rimbecillita del tutto. Non
è che prima
fossi sana, e forse l'avrete anche dedotto dai commenti che lascio
ogni volta, ma tant'è! Che vuoi farci, mia madre e mio padre
ci
hanno messo tutto il loro impegno per tirarmi su come si deve, ma non
è servito a nulla. Sono stata forse adottata?
Ma
soprattutto, perché mi perdo in queste fesserie ogni volta?
Bando
alle ciance e ciance alle bande, da questo capitolo diciamo che si
inizia a delineare un po' di più il personaggio di Leo e
forse
potrete iniziare ad immaginare i motivi che lo spingono ad essere
così com'è, a non sopportare Bianca poi
così tanto. Ci sono anche
i primi passi tra i due e da qui in avanti ovviamente sarà
un
crescendo, hanno bisogno di imparare a conoscersi per davvero.
Probabilmente
il prossimo capitolo si farà attendere un pochino
più del solito
perché ho poco tempo per scrivere, perché
è importante e quindi lo
voglio fare bene.
Non
smetterò di ringraziare coloro che recensiscono (
soprattutto quella
bricconcella di Lis, che mi fa le sorprese e che mi fa ridere come
una scema per tutto il giorno... Lis, vero, che questo delirio di
commento è anche colpa tua?!) , che hanno inserita la storia
tra le
preferite, seguite e ricordate e quelle che mi dedicano tempo anche
solo leggendo.
Un
bacio donzelle,
Fal
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Il paradiso degli orchi ***
Ai
Leonardo
che
sognano una vita in cui la loro
sia
soltanto la frivola invenzione di una che non sa.
IL
PARADISO DEGLI ORCHI
Ninna
nanna dice l’orco
col coltello nella mano
mentre guarda tetro
e sporco
questo bimbo sul divano.
Dormi dormi fa lo
gnomo,
mentre vomita verdastro.
Il suo sangue di non
uomo
graffia il petto del figliastro.
Sogni d’oro fa la
strega
che il tuo incubo prepara
e non sente chi la prega
che
la notte non sia amara.
Dormi, adesso, figlioletto,
che
Cthulhu è lì nell’ombra
e verrà in questo letto,
se la
mente non è sgombra.
C'era
una volta una bambina e, probabilmente, da qualche parte
c'è
ancora; era una vispa e irrequieta monellaccia che si divertiva a
scorrazzare sorridente per tutto il tempo, era una bella bricconcella
a briglia completamente sciolta a dire la verità, e non
trascorreva
giorno in cui le maestre, seppur pazienti e amorevoli, non fossero
costrette a relegarla per ben cinque minuti dietro la lavagna a causa
delle sue continue marachelle che tanto la divertivano; proprio si
ostinava a voler colorare con le tempere tutto ciò che le
balenava
sotto gli occhi ma, sicuramente, l'oggetto indiscusso dei suoi
più
reconditi desideri erano i capelli di un'altra sua compare. Martina
mi pare si chiamasse, una marmocchia della sua stessa pasta, forse un
po' più docile, che, già all'età di
sei anni, se la godeva a
rigirarsi e rigirarsi tra le dita i suoi lunghi capelli biondo cenere
nel vano tentativo di acconciarli in una treccia.
Lei,
la mocciosa numero uno, se ogni volta riusciva ad ingraziarsi il
padre approfittando della sua bontà, sorridendogli con una
bocca
mezza sdentata e trascinandolo, alla sera, in mezzo alle sue
cianfrusaglie di improvvisata pittrice, certamente non riusciva ad
abbindolare quel sergente di sua madre, Marisa Viscardi, segretamente
innamorata dell'unico figlio maschio che il cielo le avesse donato e
per cui avrebbe potuto scegliere un nome meno strano, la quale, per
ogni volta che, come diceva lei, quella peste gironzolava per le vie
del paese come una “zingara”, per ogni vestito
sporco e strappato
e per qualsiasi guaio combinato, come quando aveva preso in ostaggio
Ernesto, il cane, allora cucciolo, della vicina di casa, allora
disperata, credendolo suo indispensabile collaboratore nell'ardua
impresa di proteggere l'intero vicinato dall'uomo nero, dai fantasmi,
dalle streghe e dagli orchi, la esiliava in punizione nella sua
camera senza cena né cartoni animati, almeno
finché non riusciva a
combinare qualche danno anche lì dentro.
Sarebbe
stata infinitamente lunga la lista di aggettivi di disapprovazione
che sarebbero stati opportuni per lei, ma l'unico che, probabilmente,
le era stato affibbiato un'unica volta era quello di essere una
frignona.
Da
quando si era lasciata alle spalle la onnipresente compagnia di
Camillo, meglio conosciuto come 'Millo, il suo ciuccio, aveva pianto
soltanto in un'occasione, quando quell'incosciente di suo fratello
Italo era tornato a casa con un occhio nero e un labbro spaccato; non
aveva piagnucolato neanche quella volta in cui sua madre, donna di
ghiaccio, aveva obbligato suo padre, sant'uomo dalle mille risorse, a
non rivolgerle la parola e alcuna attenzione per due interi giorni,
non era di certo colpa sua se aveva dovuto tagliare una ciocca bella
consistente di capelli a Martina, la mocciosa numero due. Lei non
voleva farseli dipingere!
Tuttavia
quella sera Bianca piangeva, convulsamente, incontrollatamente, e
tremava sotto il davanzale della finestra della sua cameretta,
così,
con le braccia strette strette attorno alle corte gambe rannicchiate,
la fronte appoggiata alle ginocchia e gli occhi bagnati ridotti a due
fessure per non guardare, per non sentire. Si dondolava istericamente
singhiozzando avanti e indietro, su e giù, a destra e a
sinistra, e
pregava tentando, fabbrile, di trovare quella pace che le grida
sibilanti alle orecchie le impedivano di raggiungere; veramente non
credeva che prima o poi lui sarebbe arrivato anche lì, ad un
passo
da lei, al ragazzo della finestra di fronte, quello triste, quello
già troppo grande, non lo pensava realmente
perché sua madre glielo
aveva assicurato: l'orco se ne era andato da quella casa. Piangeva
Bianca facendosi piccola piccola, tappandosi le orecchie, mordendo le
labbra con tutta la forza che aveva in corpo, piangeva e pregava,
pregava di poterlo rivedere domani, di saperlo al sicuro. Non
bastarono le braccia di Italo a calmarla, né quelle di suo
padre a
rassicurarla, continuò a singhiozzare finché le
urla non cessarono
e l'orco non scomparve. Finalmente.
I
mostri non esistono.
I
fantasmi, i lupi mannari, le streghe
sono
fesserie inventate per mettere paura
ai
creduloni come te.
Devi
avere paura degli uomini,
non
dei mostri.
Uno.
Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto,
che si
sfalda in tante parti, migliaia, milioni, miliardi di frammenti,
schegge, briciole e brandelli, piccoli, medi, grandi, appuntiti e
squadrati, tutti taglienti, tutti affilati, tutti neri come quelli in
cui viene ridotta la tua carne, quella della pianta del piede quando
vi passa sopra, vi si innestano, ingannevoli e furbi, vi si
conficcano, lì, dove le mani non arrivano per proteggere,
lì, dove
penetrano sempre più in profondità lacerando e
infettando le tue
membra.
Si
disgrega, si smembra, si sfascia, si squama, il vetro, si rompe,
semplicemente, come una bottiglia piena scagliata sulla superficie
spigolosa di un mobile, come una verga di legno, come le ossa delle
mani e delle gambe, come le costole, si rompe come solo qualcosa che
non è mai iniziato sa fare, come tutto ciò che
non è mai esistito,
come l'amore di un padre per un figlio, ed è martire
inanimato di
un'innaturale faida familiare, eroico incipit di una sequela infinita
di cui è impossibile riconoscere il disegno, l'intendimento
e la
meta, punto di non ritorno di una successione eterna di atterriti e
rabbiosi respiri strozzati, i tuoi, i suoi, i vostri,
unico
usurpatore di un mostruoso silenzio. Non si avvertono sudice voci,
oscene grida o lamenti bestiali, perché non ce
n'è bisogno, perché
non servono, perché sono più che sufficienti le
mani, i pugni, le
braccia, i piedi, le gambe, gli occhi e la bocca a far male,
perché
la ferocia delle botte ha già fatto la sua parte
inghiottendo gli
aliti dei gemiti più violenti e dolorosi. Non ce
n'è bisogno, non
servono.
Due.
Due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo,
così,
senza che tu ne abbia coscienza, dalla bocca, velocemente si
innalzano nell'aria senza che tu possa impedirlo perché
è troppo
opprimente la morsa che stringe lo stomaco; si disperdono con la
stessa facilità con cui sono saliti su per la gola, si
dissolvono,
ciascuno per ogni movimento esterno un po' più incoraggiante
e più
assurdamente rassicurante, per una porta, la sua
porta, il cui
rumore della serratura riconosceresti tra mille come un animale
fedele al proprio padrone, che viene sbattuta violentemente, segno
indelebile di una resa, della fine di una guerra senza vincitori
né
vinti, per lo scalpiccio dei piedi di tuo fratello che corrono
frettolosi, ritraendo l'ansia, l'angoscia, l'agitazione, il tormento,
la preoccupazione, il patimento che li anima, giù per le
scale,
sempre più impazienti, sempre più smaniosi,
sempre più in fretta,
giù, fino alla porta, percorrendo una discesa che sembra
essere
troppo lunga e ripida; rischia di cadere ma corre, corre come solo un
fratello sa fare.
Uno.
Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto,
due sono
i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre.
Tre.
Tre sono le emozioni che attraversano il tuo corpo in un tic-tac:
paura, sollievo e alterigia.
La
paura è la prima ad arrivare perché vuoi
scenderle tutte, quelle
scale, e finalmente ne hai trovato il coraggio; non ti immobilizzi al
terzo gradino, non ti nascondi tra le ombre della notte in mezzo al
corridoio, non trattieni il fiato e i singhiozzi che si arrampicano
sulle pareti della gola, non li spii, come la peggiore delle
ficcanaso da lì, ma corri anche tu, veloce come tuo
fratello, forse
pure di più, vai fino in fondo e hai paura perché
non lo sai cosa
ti aspetterà, non lo sai quanto sangue raggrumato ci
sarà sui suoi
vestiti, quanto ne scorrerà addosso a lui, sulla sua pelle,
sulla
sua faccia, sulle sue mani, non lo sai, non lo hai mai visto l'orrore
di una cicatrice che viene riaperta.
Il
sollievo arriva dopo, quando attraversi la porta spalancata ed esci
in giardino, sei scalza e sei in pigiama ma non ti importa; arriva
quando li vedi abbracciarsi, stringersi, volersi, cercarsi e
trovarsi, lì, in mezzo alla strada, buia, illuminata dal
pallido
chiarore intermittente di qualche lampione mezzo fulminato, al
freddo, sotto la pioggia. Si avvinghiano, due uomini, disperati, e
vorresti farti piccola piccola perché la tua è
una sporca
intrusione, una delle tante, l'ennesima, vorresti essere un
pipistrello, si, proprio quello, un pipistrello, che gira di notte,
che svolazza sopra le loro teste inconsapevoli, che ha gli ultrasuoni
e che può sentire quello che si sussurrano, le parole
sconclusionate
che scorrono, in un fiume di incoscienza, da una bocca all'altra.
Vorresti e sei invidiosa perché a te non è
concesso legarti a lui
in quel modo, allora rientri e li aspetti.
L'alterigia
colpisce per ultima, non appena lui varca la soglia di casa tua e
incontri il suo sguardo; è sempre lo stesso, non si
smentisce mai, è
il solo che sa rivolgerti e lo capisci subito che ancora si ostina a
non volerti lì, accanto a lui, la buona creanza di
nasconderlo non
ce l'ha, al contrario, disprezza apertamente, con le parole, come
solo lui è in grado di fare con te, come solo lui
è i grado di
ferirti.
-Che
cazzo Italo, ma possibile che questa debba stare sempre in mezzo ai
coglioni?!
-Si,
se solo sono i tuoi.
Allora
è l'alterigia, proprio quella, l'orgoglio, la
dignità, la boria,
l'arroganza, a risalire come un conato di vomito fin dalla
profondità
delle viscere scaraventandosi sopra di lui, appiccicandoglisi
addosso, come una medusa velenosa, come il vinavil infiammabile, come
una colata di miele e, come una pianta grassa che punge, lo fa in
modo incontrollato, con prepotenza, insolenza e volgarità
dando
sfoggio alla tua peggior te, quella che soltanto
lui riesce a
tirar fuori.
Quattro.
Quattro sono le gocce salate che, irrefrenabilmente, scorrono sulla
pelle del tuo viso, lo marchiano, lo graffiano, lo solcano, cadono
giù dal precipizio delle tue palpebre e fluiscono,
giù, sulle
guance, giù, fino alla linea della mandibola, giù
finché non sono
assorbite dal tessuto del pigiama; tuttavia la senti, ormai, la
traccia che hanno lasciato sulla carne, brucia e tira ad ogni smorfia
della faccia, la senti e allora ti pulisci, ti strofini con forza per
cancellarla perché non sei stata capace di controllarti,
perché la
tensione era tanta, troppa da sopportare, perché hai paura,
perché
è fradicio, ha il sangue incollato sui capelli e i vestiti
strappati, lui, un uomo, il volto irriconoscibile e
il corpo
che a stento si sorregge e ti nascondi, vai in cucina mentre
percepisci i suoi passi rallentati seguirti e tuo fratello è
sparito
chissà dove, non lo hai ascoltato, non lo hai capito quello
che ti
ha detto, non ti interessa. Solo ti nascondi, perché non
vuoi che
lui ti veda, perché non lo deve vedere
che è il solo
che riesce a farti piangere.
Uno.
Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto,
due sono
i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre sono le
emozioni che attraversano il tuo corpo in tic-tac, quattro sono le
gocce salate che scorrono sulla pelle del tuo viso, cinque.
Cinque.
Cinque sono le dita con le quali ti azzardi a toccarlo, il medio,
l'indice e il mignolo e poi l'indice e il mignolo di nuovo, le altre
sono impegnate a fare altro, a togliergli la maglietta zuppa, per
esempio. Tutte tremanti, assetate, esitanti, troppo fredde e leggere,
insicure, avide, delicate, lente, piccole e timorose; lo tocchi, non
casualmente ma premeditatamente, lo accarezzi, lo sfiori, aduli e
vezzeggi la sua epidermide, quella dei fianchi e delle braccia, li
vuoi rimembrare tutti i nei che vi sono impressi, lasci che i
polpastrelli la saggino avventatamente e senza alcuna ritrosia
sollevando contemporaneamente la stoffa della maglia, lasci che le
iridi si dissetino corteggiandolo e ammirandolo senza pudore
perché
è un'occasione troppo ghiotta che non ricapiterà
presto, perché
sei egoista, perché lui è lì, vicino,
tanto, troppo vicino,
seduto, attaccato a te, vicino, anzi no, vicinissimo, e tu sei
lì,
in piedi, tra le sue gambe divaricate, che lo tocchi, e sei vicina,
tanto, troppo vicina, attaccata a lui, che ora è nudo, in
parte,
nudo e non lo avevi mai avuto così vicino, svestito,
spogliato,
scoperto, nudo e vicino, nudo davanti ai tuoi occhi, nudo tra le tue
mani, nudo e vicino, nudo e disarmato. Nudo.
Sei.
Sei sono gli ematomi sparsi che conti sul suo corpo, sull'occhio
sinistro, sul labbro, due sulle costole e due sulle braccia, uno di
fianco al gomito e uno poco più su del polso. Sono grandi,
rossi e
vivi, come i fiotti di sangue che ogni tanto zampillano dal labbro e
dal sopracciglio spaccato, vi passi sopra un fazzoletto bagnato, lo
pulisci e vi premi il ghiaccio; non sai che fare, non sai dove
guardare, tutto di disgusta, non sai da dove cominciare, come muovere
le mani, dove le puoi poggiare e dove invece fa più male,
sei nel
panico, non sai se c'è qualcosa di rotto, non sei in grado
di
decidere cosa è meglio fare, se devi trascinarlo
all'ospedale o se
devi aspettare che torni tuo fratello, dove cazzo è andato
non te lo
ricordi, forse dovresti svegliare tuo padre, anzi no, non puoi salire
e lasciarlo da solo, devi controllarlo e pulirlo, ma non ci sono gli
asciugamani e lui è molle di acqua e di sangue e tu devi
asciugarlo,
e gli ematomi sembrano accrescersi, espandersi ad ogni battito di
ciglia, sempre di più,sempre di più, sempre di
più. Ora ti pare
rosso e vivo lui stesso. Disinfetti o asciughi? Gli prepari qualcosa
di caldo? Il tè, il tè andrebbe bene, ma dove
sono le bustine? E il
bricco per l'acqua calda? Dio... non lo ricordi. Forse dovresti
chiamare, chiami o non chiami? Usi le garze o i cerotti? E dove sono?
In bagno? Perché cazzo hai una casa così grande?
Perché cazzo tua
madre ha la fissa di nascondere le cose? Dio... dove cazzo sei Italo?
Uno.
Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto,
due sono
i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre sono le
emozioni che attraversano il tuo corpo in tic-tac, quattro sono le
gocce salate che scorrono sulla pelle del tuo viso, cinque sono le
dita con cui ti azzardi a toccarlo, sei sono gli ematomi sparsi che
conti sul suo corpo, sette.
Sette.
Sette sono le volte in cui lui ti parla, ripete sempre la stessa
frase che echeggia come una nenia nel tuo cervello:
-Sta'
calma, sto bene
-Sta'
calma, sto bene
-Sta'
calma, sto bene
-Sta'
calma, sto bene
-Sta'
calma, sto bene
-Sta'
calma, sto bene
-Sta'
calma, sto bene
La
dice e la ridice, la ripete di continuo, lo ribadisce e lo
riconferma, ti rimbecillisce, ti rintrona e rimbambisce, ti soffoca
mentre le mani tremano e i timpani sibilano, la dice e la ridice,
mentre ti guarda, mentre ti ferma e blocca i tuoi movimenti, mentre
ti scrolla per una spalla, mentre ti pizzica su un fianco, mentre ti
afferra un polso, mentre ti stringe le dita tra le sue, mentre se le
porta al volto e si lascia toccare da te. Allora, forse, ti svegli.
Otto.
Otto sono le volte in cui i vostri sguardi si incontrano, si
incastrano e si assemblano in un legame che, per ciascuna delle otto
volte, ti fa battere il cuore più velocemente, ti fa
arrossire ed
imbarazzare. Ah! Tu che ti imbarazzi, tu, di lui, tu che ti vergogni,
di lui, tu che lo hai spiato e lo spii con audacia, tu che lo ami, tu
che lo guardi, sempre, tu che lo hai toccato prima, che lo hai
vezzeggiato e adorato, tu che lo tocchi ora, che lo pulisci, lo
asciughi e lo curi. Tu, ah!, tu che esiti e sei impacciata dopo tutto
ciò che gli hai detto, dopo che hai pianto, tu che ti
imbarazzi di
lui che ti guarda, lì, così, nudo e vicino,
tanto, troppo nudo e
vicino, vicinissimo e nudo, e lo tocchi, lo saggi, lo assapori come
mai potrai più fare, perché lo desideri,
perché sei avara e
prepotente, perché sei assetata di lui, perché lo
vuoi, tutto, lo
ami e vuoi fare l'amore con lui, anche lì, sul tavolo della
cucina,
addosso al frigorifero o per terra, sul pavimento. Lo vuoi, tutto, e
basta, ovunque e comunque. E sei egoista.
Nove.
Nove sono i baci che desideri dargli, dove vuole lui, sugli occhi,
sulla cicatrice, tra i capelli, sulle guance, sulle orecchie, sulle
narici, sulle mani, sul collo e sulle labbra. Non sono dieci
perché
il decimo deve meritarselo, deve guadagnarselo, è il premio
che gli
vorresti concedergli domani mattina se deciderà di rimanere
ed è il
buongiorno che vorresti regalargli ad ogni nuovo inizio di giornata,
quando ancora siete abbracciati dentro al letto, sotto le coperte;
non sono neanche quindici o di più ma solo nove,
perché, pensi,
che, gli altri, deve essere lui a volerli, a cercarli, a rubarteli.
Ah! Non ne trovi il coraggio, però, di baciarlo,
così, tu
vergognosa, lui che ti guarda, così, nudo e vicino,
vicinissimo, e
allora nove sono i baci che si tramutano in parole, nelle battute che
tu scambi con lui. Sono solo sussurri.
-Come
stai?
-Sono
stato peggio e sono stato meglio. Vedi di darti una mossa, non voglio
fare giorno qui dentro
-Hai
intenzione di tornare di là?
-Non
sono cazzi che ti devono interessare
-Magari
potresti rimanere qui, potrest...
-Non
ci penso nemmeno
-Non
puoi tornare da lui e fuori si gela
-Perché
cazzo non la finisci di interessarti della mia vita?! Mi hai rotto i
coglioni
-Rimani
qui. Dormi con Italo, te ne vai quando vuoi e non sei costretto a
vedermi domani mattina. Solo, rimani qui.
Uno.
Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto,
due sono
i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre sono le
emozioni che attraversano il tuo corpo in un tic-tac, quattro sono le
gocce salate che scorrono sulla pelle del tuo viso, cinque sono le
dita con cui ti azzardi a toccarlo, sei sono gli ematomi sparsi che
conti sul suo corpo, sette sono le volte in cui lui ti parla, otto
sono le volte in cui i vostri sguardi si incontrano, nove sono i baci
che desideri dargli, dieci.
Dieci
sono le pulsazioni smarrite dal cuore nel vederlo salire le scale
seguendo, in silenzio, i passi di tuo fratello.
E'
salato e acerbo il sapore che gli inasprisce e inumidisce le labbra
lessandole, vi passa la lingua lentamente asciugando le gocce che vi
affiorano ad ogni suo impercettibile e misurato movimento, stando,
però, ben attento a non lambirne la parte superiore, quella
imperfetta, lacerata e incisa, quella sfregiata, perché
è ancora
ustionata la pelle lì e perché sa che sicuramente
troverebbe una
consistenza meno scivolosa, più densa e rugginosa, meno
pulita e
cristallina ad aspettarlo, è consapevole che se vi
trascinasse la
lingua sopra, si impregnerebbe sicuramente di rosso e che quel
sapore, poi, rimarrebbe incastrato proprio lì, tra l'esofago
e lo
stomaco, soggiogato a un andirivieni perpetuo e vischioso; su e
giù,
su e giù, su e giù, ma comunque non riuscirebbe a
smuoverlo da quel
preciso punto.
E'
una superficie piana e infinitamente estesa quella a cui rivolge lo
sguardo, così illimitatamente vasta e dilatata da farlo
sentire un
moscerino inerme di fronte ad essa, ingabbiato tra i fili di una
ragnatela insidiosa; gli sembra di star rimirando le sfumature dei
pigmenti delle sue iridi, non c'è la limpidezza o la quiete
di un
cielo azzurro e terso, né il tepore diffuso di un sole
sfolgorante
nel pieno del giorno, al contrario, sono cinerine nuvole di pioggia e
burrasca, cariche di una turbinosa promessa, quelle che si plasmano e
si dimenano davanti alla sua impassibile e impotente figura in
un'accozzaglia sgraziata e sconquassata di colori tristi, annebbiati
e ghiacciati.
La
sente accarezzargli e avvolgergli il corpo, fluire sulla pelle
rabbrividendola e ammorbidendola, percepisce la carne dissetarsi e
modellarsi seguendo ligia una movenza ritmata e ondulatoria,
l'avverte, l'acqua, viscida e mendace, accoglierlo e disegnare la sua
sagoma come un'impronta su di essa, le stille salate scorrono su di
lui ferendolo senza alcuna accortezza, lì, dove ci sono
escoriazioni
e lividi che bruciano, lì dove le botte hanno fatto
più male e i
segni sono entrati sottopelle, fin nelle viscere.
E'
al mare, Leonardo, galleggia lasciandosi trasportare e guidare verso
rotte che qualcun altro ha deciso per lui, si abbandona, sfinito, a
chi pare avercele le redini della vita, non gli interessa dove
attraccherà, su quale spiaggia, su quale isola
arriverà, si concede
di rimanere così, le braccia e le gambe divaricate a quattro
di
spada, le membra fresche e leggere fluttuano trascinate dalla forza
della natura, gli occhi rivolti verso lo smisuratamente infinito e la
mente impegnata a rimuginare che sarebbe potuto essere proprio
quello, il cielo, il suo limite se solo non fosse stato lui,
Leonardo.
Attende,
Leonardo, aspetta che arrivi il momento in cui il tutto,
così
dolorosamente ingiusto, si ripeterà senza pietà
come in un disco
incantato, l'attimo in cui i suoi muscoli si tenderanno smarrendo il
placido lassismo che li aveva cullati fino ad allora, l'istante in
cui sentirà il fragore di un avanzare intercalato, gli
schizzi
d'acqua graffiare il suo petto e il suo volto, il calore di un altro
corpo, di quello suo,
avvinghiarlo in un addio disperato.
Non
deve farlo per molto, però, basta l'infinitesimale spazio
che si
inframezza tra un secondo e l'altro, tra un battito di ciglia e la
successiva corsa veloce sulle sue guance di quelle gocce marine
piantate proprio lì, in bilico sulle sue palpebre; la
percepisce già
smuovere l'acqua attraverso movimenti calcolati e attenti, nel suo
cranio rimbomba lo scroscio delle sue
bracciate cadenzate al passo delle sue
gambe zampettanti, gli è sufficiente il solo istante
necessario a
inspirare quanta più aria possibile e a controllare che il
numero,
registrato fino ad allora, di gabbiani sorvolati sopra la sua testa
sia sempre il medesimo per avvertire le sue
esili braccia aggrapparsi al suo collo.
Anche
questa volta sono sedici, non uno di più non uno di meno.
A
dire la verità l'unico che sembra cambiare e trasformarsi,
l'unico
che pare subire e soffrire il corso del tempo e sfuggire a quella
ingannevole ed immaginaria condizione di perenne staticità
è lui,
Leonardo. Non è più un dodicenne con un cappello
grigio con un
ridicolo pon pon sopra e una camicia a scacchi neri e bianchi o un
diciannovenne barcollante per la strada con un bottiglia di rum
pronta per essere iniziata tra le mani, è un uomo ormai, i
lineamenti non sono più infantili e acerbi ma decisi e
marcati, un
filo di barba ricopre il suo volto, è più alto
adesso, una rada
virile peluria gli cosparge il petto e i muscoli, energici e vitali,
definiscono ogni avvallamento della sua intera figura; tuttavia i
suoi occhi sono ancora sempre offuscati, smarriti e cinerei, quella
“I” senza ghirigori e fronzoli da femminuccia
marchia la sua
pelle imperturbabilmente e la brutalità di una cicatrice
deturpa la
bellezza del suo volto.
Lei
rimane sempre la stessa, invece, così minuta e piccola,
così
leggera e delicata tanto da rendere il suo tocco, il suo corpo
inavvertibile e invisibile, come sono i suoi denti, irriverenti e
giocosi, che si incastrano sulla sua pelle per stampargli un morso
proprio sotto la nuca, vicino all'orecchio, come è la sua
bocca che,
dolce e affettuosa, con il timore di aver fatto troppo male, vi
lascia poi un tenero bacio.
Non
sa che lui è abituato a ben peggio, non può
saperlo, lei.
Inspira
Leonardo,di nuovo, lascia che l'aria, salmastra ed arsa, gli inebri
le narici, che si cali lungo le pareti di ciascuna delle sue cellule,
giù per la trachea, fino infondo, che alleggerisca le fibre
muscolari acquietandole e penetri nei polmoni resuscitandoli, inspira
prima di tentare di ricordare in quale sporco buco lo tiene nascosto
il coraggio, come si riesca a farlo risalire e quale sia il modo
corretto per usarlo e voltarsi, stringerla, ogni volta sempre con un
po' più di forza e smania, con addosso, incollato, subdolo e
appiccicoso, il timore di veder scomparire troppo presto il sorriso
dal suo viso, e iniziare quell'allegro gioco, precario bagliore in un
incubo ingannevole e crudele, fatto di inseguimenti sollazzati, grida
svagate, risa gaie e di faceti e malandrini schizzi d'acqua salati
rimbalzanti da corpo a corpo, da pelle a pelle, da bocca a bocca.
Non
deve attendere molto neanche per osservarla, impotente e paralizzato,
bloccato in una triste realtà psichedelica, svanire, con la
medesima
rapidità con cui se l'era ritrovata alle spalle;
è sufficiente uno
spruzzo più violento lì dove ancora brucia e la
smorfia di dolore
che gli sfigura il volto, basta strizzare gli occhi fino a
immaginare solo il buio e mordere le labbra fino a reprimere rossi
conati rugginosi conficcandoli sulla lingua, per vederla annaspare,
agognare ossigeno con disperazione, brancolare nel vuoto, aggrapparsi
alla sua pelle viscida e scivolosa e slittare giù,
risucchiata e
inghiottita in un lugubre vertiginoso abisso salato.
Tutto
ciò che gli è concesso è l'eco
straziato della voce di una bambina
che tuona impassibile nel cranio e il disegno di un perfido ghigno su
una bocca, sulla sua bocca.
Spalanca
gli occhi esagitato, Leonardo, ridestandosi, improvvisamente libero
dalla prigionia corrosiva del suo inconscio; il respiro si spezza in
gola rimanendovi impossibilitato, si perde senza riuscire a
rimembrare le giuste traiettorie che potrebbero condurlo giù
per la
trachea salvandolo, e i timpani, insorditi da feroci urla spasmodiche
sbrananti una bocca d'agnello, gli restituiscono il sibilo efferato
di un fischio malato.
Ansima
in cerca d'ossigeno sufficiente per non soffocare, per non affogare
insieme a lei,
inspira
ed espira concentrandosi sul lieve movimento delle proprie narici e
si limita ad ascoltare il fievole sussurro dei suoi sospiri tentando
di sopravvivere almeno lui, di rimanere a galla, cercando di
ricordare come, ogni volta, sia capace di alleggerirsi dal peso delle
immagini brutali e mostruose di un infido incubo.
Non
grida allucinato, non balza dal letto angosciato e spaventato,
né si
dimena con tutta la forza che possiede, si controlla, invece,
mantiene lo sguardo incollato al soffitto pietrificando ogni arto,
serrando la mascella e cercando di sgrassare i tessuti della sua
lingua dalla dolorosa impudenza dal sapore riarso e aspro del sangue
di una vita esanime; non si muove perché non può
farlo, perché,
non appena varcata la soglia di quella stanza, si era premurato di
prestare attenzione, di registrare e incidere nelle interiora delle
sue pupille ogni singola inezia che lo avrebbe rinsavito
rammentandogli di non potere.
Ce
le ha conficcate nelle iridi senza nemmeno aver necessità di
volgersi a rimirarle, le percepisce gravargli addosso sommergendolo,
l'approssimazione e l'imprecisione con cui quelle solitarie due
immagini e quel poster, identici ai suoi ma più sgualciti e
consunti
dal tempo, sono stati appesi alla parete di fronte al letto, sono
troppi i centimetri di differenza che pesano su di un lato rispetto
all'altro, sono troppo storti e troppo poco ordinati; come non gli
è
sfuggita neppure la consistenza piallata e calda del pavimento in
parquet, scivola ancora sotto ai suoi piedi nudi, né quella
fredda e
dura della superficie lucida, intarsiata e pregiata di quell'armadio
di un marrone eccessivamente scuro, ce l'ha impressa sui palmi delle
mani.
Non
li ha ignorati i baffi neri e obliqui che sporcano e rigano il
candore dell'intonaco bianco in basso, vicino al comodino di destra,
né ha dimenticato di indossare una maglietta giallo canarino
e un
paio di pantaloni di una tuta non suoi, non gli è concesso
fingere
di non vedere, perché non vi è neanche il
più impalpabile sentore
della puzza di alcool ma, al contrario, l'aria è intrisa
dell'aroma
di pulito, di lavanda e vaniglia, gli basta abbassare la faccia e
annusarsi, odorare quelle lenzuola verde smeraldo per percepirlo.
Non
si muove, Leonardo, perché non può,
perché non è solo, quella non
è la sua stanza e non è a casa sua, non
è nel suo letto, lì con
lui c'è quel ragazzetto dal nome strano che dorme prono, il
volto
affondato nel cuscino e una mano sotto di esso, non si muove
perché
oramai è avvezzo a inghiottirle, le grida, che risalgono
dalle
viscere delle sue membra, e a contrarre le fibre muscolari
finché
gli spasmi non lo lasceranno libero: l'abitudine e il tempo lo hanno
modellato a loro piacimento.
Rilascia
il labbro che tratteneva convulsamente tra i denti prima di decidere
di aver bisogno di acqua, fresca, per togliersi dalla bocca i lasciti
tossici e nauseanti del sapore del sangue, di quello suo,
e allora si anima e decide di alzarsi. Lo fa con circospezione,
però,
scosta di poco e lentamente il piumone azzurro in piuma d'oca, lascia
che un solo piede scivoli giù da quel materasso troppo
stretto per
due persone prima di strisciare sulla sua ruvida superficie e
sollevare il busto senza fretta, è attento e guardingo
perché vuole
evitare che Italo si svegli e perché è
consapevole che, se solo
fosse un po' più brusco e brutale nei gesti, le vertigini e
gli
spasimi di dolore gli guasterebbero il cranio e allora, si,
rischierebbe di urlare.
A
fatica è in piedi, si accascia un solo istante addosso alla
parete a
lato del letto, sente le costole frantumarsi gracchiando ad ogni
esalazione di ossigeno, le gambe intirizzirsi passo dopo passo e la
faccia esplodere a ciascuna delle pulsazioni che gli squassano le
labbra e l'occhio sinistro. Tuttavia, appena attraversata la soglia
di quella stanza, accelera camminando veloce dritto davanti a
sé, al
buio, punta le iridi su quella porta infondo al corridoio ignorando
le fitte che gli attraversano il corpo, non si guarda intorno
né
decelera perché, se solo provasse a farlo, se soltanto
esitasse, non
la troverebbe più la forza per andare avanti, ma si
fermerebbe,
pietrificato dalla morsa di un malsano
e nocivo
desiderio, si
disorienterebbe, confonderebbe le direzioni e alla fine sbaglierebbe
scegliendo quella più ovvia e sicura, quella che, forse,
anela tra
tutte, quella dell'unica porta aperta in un corridoio dalle pareti
chiuse, un chiaro invito ad entrare per chiunque lo attraversi e
più
probabilmente elargito solo per lui.
Torna
a respirare solo dopo aver appoggiato la mano sul pomello della
porta, di quella giusta,
illudendosi di avercela fatta, di aver raggiunto la meta desiderata e
di essere scampato al peggio,
ma è sufficiente avvertire il fruscio ammaliante
e destabilizzante
delle coperte che sfregano le une sulle altre a distrarlo e
costringerlo a voltarsi per metà con il busto, basta lo
scalpiccio
delle sue
gambe al di
sotto delle lenzuola per fargli abbandonare totalmente il contatto
con la maniglia di quella porta e incantarlo
obbligandolo a tornare indietro e a chiedersi se lei
stia dormendo, se il suo sia un sogno o un incubo o se, invece, abbia
percepito il suo tormento e sia sveglia, se lo abbia visto passare e
se lo stia aspettando perché, infondo, lei
lo sapeva fin dall'inzio che lui sarebbe arrivato. Presto o tardi.
Allora
è un attimo ritrovarlo, lui, Leonardo, impalato sulla soglia
di
quella porta lasciata spalancata appositamente. Non entra,
però,
consapevole di pretendere troppo da se stesso, di star camminando sul
filo del rasoio e di non essere mai stato bravo nei giochi di
equilibrio, non entra perché entrare vorrebbe dire non
uscirne più,
vorrebbe dire dannarsi e perdersi mentre lui, invece, vorrebbe solo
trovare la chiave buona, quella modellata così sapientemente
da
chiuderla definitivamente, quella porta, e lasciarlo
vivere.
Neppure
la guarda, non ce lo ha il coraggio di osservare e marchiare a fuoco
sulla sue pupille la sua
immagine distesa sul letto, il modo in cui il suo
corpo è rannicchiato e avvolto dalle coperte, il modo in cui
i suoi
capelli, così troppo mossi, si spargono sulle federe del
cuscino. Si
abbandona contro lo stipite concedendosi di rimirare la stanza,
quella che si è costantemente rifiutato di guardare per anni
dalla
sua, di finestra; vede la tenda di seta rossa che sembra nascondere
il candore dei bagliori notturni ma che, di giorno, pare incapace di
nascondergli la sua
figura, un'ombra invadente che tenta inutilmente di celarsi dietro a
un pezzo di stoffa, si fissa su quelle quattro pareti colorate
domandandosi quale assurda pazzia
l'abbia animata a dipingerle, da sola, di quelle aberranti
tonalità,
porge attenzione alle foto che, disposte completamente a caso e senza
alcun ordine, le riempiono, di lei
e di quell'altra ragazzina così diversa da lei
e così troppo disponibile tanto da stupirlo che trovino il
modo per
rimanere insieme in uno stesso posto per più di un minuto;
stringe i
denti, stizzito, chiedendosi il perché non abbia mai tentato
di
sbattersela, quell'altra, convincendosi che i suoi giochetti di
sicuro non li avrebbe rifiutati, che sarebbe stato divertente e che
è
ancora in tempo, prima che un'imprecazione affiori spontanea tra i
suoi denti e la sua mascella si serri automaticamente mentre nella
testa balena l'unica risposta sincera che, per una volta, ha il
coraggio di darsi.
Osserva,
Leonardo, i fogli sparsi sulla scrivania, i cumuli di libri e
cartacce, i vestiti sgualciti sulla sedia, le pile di cd erette ai
piedi del letto, finché non è il sussurro del suo
nome -Leonardo-
esalato, così, dalle sue
labbra, scivolato sulla sua
lingua, diffuso nell'aria dalla sua
voce, a costringerlo ad affogare nelle sue
iridi, a guardarla, finalmente, sveglia, distesa nel suo letto, le
gambe strette vicino al petto e i capelli, troppo poco lisci, sparsi
sul cuscino.
Crolla
a terra, Leonardo, sfinito e spossato, e si odia per essere un debole
e odia lei,
che lo ha
costretto
a rimanere.
Resta paralizzato con la schiena e il capo contro la porta,
finché
non è lei
a scendere
dal letto e raggiungerlo, finché non è lei
a sedersi accanto a lui e sfiorare la sua spalla con la testa,
finché
non è lei
a
intrecciare le loro mani.
Allora
si odia perché desidera sentirla tutta, perché
non gli basta e
vorrebbe stringerla con più forza, e odia lei, che si ostina
a non
lasciarlo andare e a stringerlo ancora.
Non
riesce a quantificarlo il tempo trascorso lì, stravaccato a
terra,
accanto a lei,
addosso
a lei, sente soltanto la luce, seppur fioca e
debole, che
gli solletica il volto, ha i muscoli intorpiditi, la schiena
indolenzita e la spalla destra, quella dove c'era lei,
ancora addormentata; le costole fanno più male di prima e la
faccia
ha ripreso a bruciare. Tuttavia non si alza né si muove o
solleva le
palpebre, perché, di nuovo, è un vigliacco che
fatica a trovare il
coraggio di guardarla, di essere lì con lei
in tutto e per tutto, perché ora lei
è lì, sveglia, inginocchiata davanti a lui, e
percepisce i suoi
occhi su di sé, il suo
calore, la sua
pelle,
le sue
mani, i suoi
polpastrelli e le sue
dita scorrere e fluire sul viso, fra i capelli in cui si incastrano,
talvolta, tirando un po' troppo, sulla fronte e sopra gli occhi di
cui tracciano, delicate e timorose, forse, di premere con troppa
pressione, i contorni quasi volessero disegnarli sulla propria
epidermide, l'avverte accarezzargli il naso, gli zigomi, la mascella,
le labbra, il collo, finché non sono le sue,
di labbra, a sostituire le mani, finché non sono i suoi
baci a ripercorre i segni lasciati dai suoi
stessi polpastrelli e a plasmare i tracciati della sua cicatrice,
fino a raggiungere la sua bocca, finché non sono le sue
labbra, esitanti e tremanti, ad avvolgerne dolcemente uno suo, e si
odia, Leonardo, per desiderare, bramare, anelare di più, per
essere
bloccato e immobile, per non essere in grado di togliersela di dosso,
per non volerlo, si odia e odia lei
che non si smuove da lì, che lo ha ingabbiato,
che in un attimo lo assapora timorosa con la lingua, la odia
perché
non c'è più il sapore rugginoso del sangue, di
quello suo,
a martoriargli le papille gustative,la odia, ancora, perché
lei lo
sa che non lo dimenticherà, che è riuscita a
marchiare anche quella
parte di lui, che si è infiltrata anche lì
dentro, che lo ha
penetrato, la odia e allora la scansa. Finalmente.
And
now that you've found it- its gone
and now that you feel it- you
don't
You've gone off the rails
So don't get any big ideas,
They're not going to happen
You'll go to hell for what your
dirty mind is thinking.
Uno.
Uno è l'unico passo che mi basta fare oltre la soglia della
porta
per avvertire la puzza di alcool nausearmi e stomacarmi.
Due.
Due sono i suoi occhi, che mi scrutano, mi guardano da lontano e non
c'è niente dentro quello sguardo, né rabbia,
né rancore, né odio:
il nulla li domina.
Tre.
Tre sono le bottiglie rotte, una addosso al camino, una sullo spigolo
del tavolo, una sullo stipite della porta, quella vicino alla quale
ci sono io.
Quattro.
Quattro sono le mie mani e le mie gambe, insieme, quelle che uso
accovacciato a terra, io, un uomo, accasciato, che si fa picchiare
come un ragazzino indifeso, io, un uomo, che si fa picchiare.
Cinque.
Cinque sono le sue mani, le sue braccia, le sue gambe e i suoi piedi,
cinque sono le verghe di legno, quelle che sento sulle costole, sul
viso e sulle gambe.
Sei.
Sei sono le grida di dolore che inghiotto, che ingoio e rimando
giù.
Sette.
Sette sono le falcate che mi ci vogliono per uscire di casa se non mi
voglio far ammazzare.
Otto.
Otto sono i secondi che devo attendere prima che la porta di fronte
si spalanchi e la figura di Italo corra a stringermi.
Nove.
Nove sono i singhiozzi di parole e pensieri che reprimo ad ogni lembo
della sua pelle che sfiora e avvinghia la mia.
Vorrei
chiederti se questo è l'amore, Italo, ma non ne trovo il
coraggio.
Dieci.
Dieci sono i respiri che mi mancano nel vedere quattro lacrime rigare
il suo volto.
Shrek:
per tua informazione, gli orchi hanno dentro più cose di
quanto tu
creda
Ciuchino: per esempio?
Shrek:
per esempio? va bene, ehm...gli orchi sono come le cipolle
Ciuchino:
Puzzano?
Shrek: Si...no!
Ciuchino: ah, ti fanno
piangere
Shrek: nooo
Ciuchino: le lasci al sole, diventano
marroni e poi spuntano i peletti bianchi!
Shrek: nooo! strati! Le
cipolle. Hanno gli strati. Gli orchi hanno gli strati. Capito? Tutti
e due abbiamo gli strati!
Just
one second, please...
Salve,
salvino belle
donne!
Sono
tornata ( e voi
direte: ce l'hai fatta!) e credo di averlo fatto con il botto con
questo capitolo. Non lo so, questa storia è già
complicata di per
sé, non è facile da leggere e complicare di
più le cose con
argomenti come quelli che ho trattato nel capitolo non è
certo mia
intenzione, anche perché non sono proprio il mio forte.
Tuttavia, ai
fini della storia, della vita di Leonardo, mi sembrava doveroso. E'
stato difficile da scrivere, ho avuto davvero poco tempo e quando ce
l'avevo le parole non sembravano mai quelle giuste, non so se sono
riuscita a comunicare qualcosa, ad affrontare l'argomento nella
giusta maniera e con la sensibilità che richiede,
probabilmente s
fossi stata davvero una brava scrittrice, una con i cosi detti, avrei
scritto l'intero capitolo secondo il pov di Leonardo, per questo sono
pronta a qualsiasi critica e suggerimento.
Come
al solito
ringrazio chi legge, chi recensisce, chi ha messo questa storia tra
le preferite, seguite e ricordate.
Adios
Amigos ( scusate,
ma era doveroso: credo che questo sia il primo commento serio che
lascio!)!!
Fal
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1396472
|