Journal Of Impossible Things

di WibblyWobbly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Epilogo! ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ciao a tutti!!! *cerca di non dare a vedere l’imbarazzo*
Non è la prima cosa che scrivo ma è sicuramente la prima che pubblico, siate clementi XD
E’ da parecchio che penso di scrivere qualcosa su Sherlock e questo è il risultato. A meno che non cambi idea in corso d’opera non credo che questa storia sfocerà nel Johnlock puro, non credo di essere pronta :3
Per il resto credo che saranno una decina di capitoli, non molto insomma.
Ah, e i personaggi non mi appartengono, no.

Il titolo “Journal Of Impossible Things” trae la sua ragion d’essere da un episodio della terza stagione di “DoctorWho” (era Tennant) dove il Dottore, per una serie di cose, si ritrova in forma umana e decide di scrivere un diario contenente le descrizioni di alcuni sogni ricorrenti (che poi altro non erano che ricordi della sua vita da Dottore).
Qui succedono delle “cose impossbili”, all’inzio John non se ne accorge ma alla fine farà 2 + 2.
Prima di partire l’unico consiglio che posso darvi è “le coincidenze non esistono, mai sottovalutare le coincidenze” :D

Bene.
Non mi resta che augurarvi buona lettura! :D

A sore, tu sai chi sei.
Grazie.

 
 
Respirava piano nel silenzio, John Watson.
Seduto in quella che con il tempo era diventata la sua poltrona, il gomito sinistro poggiato sul bracciolo e i piedi scalzi contro il tappeto.
Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era rimasto, scalzo, a fissare il vuoto?
L’estate era ormai alle porte, la luce dorata del pomeriggio filtrava attraverso i vetri delle finestre, illuminando l’appartamento.
Si passò la mano sinistra sul volto e sospirando vi si appoggiò. Nel silenzio irreale che da una settimana ormai aveva inghiottito l’appartamento, poteva distintamente osservare la polvere nei raggi di luce danzare e posarsi pigra sui fogli, sulla scrivania, sul violino.
Il suo violino.
Istantaneamente i ricordi iniziarono a riaffiorare e, come spesso era successo in quei giorni, John non fu in grado di difendersi.

Questa è stata la cosa più ridicola che abbia mai fatto!
E dire che ha invaso l’Afghanistan!

John concentrati, devi concentrarti!
Sherlock, cosa stai facendo?
Devi concentrarti, chiudi gli occhi.
No. Cosa? Perché? Cosa stai facendo?
Devo massimizzare la tua memoria visiva. Cerca di focalizzare ciò che hai visto. Riesci a focalizzarlo?
Sì, certamente.
Riesci a ricordarlo? Riesci a ricordarti lo schema? Quanto bene?
Senti, non preoccuparti.
Perché in media la memoria visiva degli esseri umani è precisa solo al 62%
Beh, non preoccuparti… ricordo tutto!
Davvero?
O almeno ci riuscirei se potessi mettere le mani in tasca… ho fatto una foto!

No, no, no! E’ ovvio che non è il padre del ragazzo! Basta guardare il risvolto dei jeans!

Tirami un pugno in faccia.
Dovrei colpirti?
Sì, colpirmi in faccia, con un pugno non mi hai sentito?
Mi sembra sempre di sentire ‘dammi un pugno’ quando parli, ma di solito è sottinteso.”

“Quello che ho detto prima, John, era sul serio: io non ho amici. Ne ho solo uno.

Stare da solo è tutto quello che ho. Mi protegge.
No. Gli amici ti proteggono.”[1]

Quando tornò alla realtà, John, aveva gli occhi lucidi e il sole aveva lasciato il posto all’oscurità della sera.
Cambiò posizione, i gomiti poggiati alle ginocchia e la testa tra le mani.
Tirò su col naso cercando di rigettare indietro il groppo che gli era salito in gola. C’era solo una cosa da fare.
Con la schiena dritta, per un attimo guardò la poltrona vuota davanti a se. Trasse un profondo respiro e chiuse gli occhi; poi, lentamente, si alzò.
C’era solo una cosa da fare, lo sapeva.
Con passo incerto si diresse verso la porta e scese le scale, preparando mentalmente il discorso con il quale avrebbe detto a Mrs. Hudson che aveva deciso di lasciare l’appartamento.

Quando la mattina dopo ebbe terminato di racimolare la sua roba, John non si stupì più di tanto nel constatare che il tutto era entrato tranquillamente in due valigie.
Le sistemò all’ingresso e si guardò intorno. Accarezzò con lo sguardo le due poltrone, il cuscino con la Union Jack, Billy[2] il teschio e il coltello a serramanico ancora sulla mensola del caminetto, lo smiley in vernice gialla e proiettili sulla parete sopra al divano, il leggio e gli spartiti, il violino.
Prima che il groppo in gola potesse vincerlo ancora, afferrò le valige e si chiuse la porta alle spalle.
Scese i gradini in fretta, senza mai guardarsi indietro.

Dopo un mese l’angusto monolocale che aveva trovato sembrava ancora non volerlo completamente accogliere. O forse era John a non volersi far accogliere; tutto era stato sistemato in modo approssimativo, tanto che ad un occhio esterno poteva sembrare che non vi si fosse ancora trasferito nessuno.
Il lavoro s’era però stabilizzato. Un medico dell’ambulatorio aveva cambiato improvvisamente città e Sarah gli aveva affidato il suo posto. Sembrava una strana coincidenza, ma John preferì non pensarci.
Tutt’a un tratto la sua vita era diventata monotona e costante. Ufficialmente lavorava sei giorni su sette dalle 8.30 alle 18.00 ma cercava sempre di trattenersi almeno sino alle 20.00 e, per tenersi impegnato, spesso s’offriva di sostituire colleghi nei fine settimana.
Tutte le sere tornava a casa e mangiava qualcosa d’asporto che prendeva rientrando dall’ambulatorio; cinese, italiano, tailandese poco gli importava.
I primi tempi si curò di evitare di guardare la televisione e leggere i giornali. Sembravano voler parlare solo ed esclusivamente di una cosa, almeno fin quando qualcosa di più frivolo e interessante non avesse reclamato l’attenzione mediatica.
E così John consumava le sue cene guardando film in dvd, soprattutto quelli di 007 che gli ricordavano una maratona che lui e Sherlock avevano fatto nemmeno un anno prima. [3]
Ma in quel mese si era instaurata anche un’altra consuetudine, un rituale.
Sotto al letto aveva riposto una scatola di legno intarsiato – regalo di alcuni suoi commilitoni quando aveva lasciato l’Afghanistan – e tutte le sere, prima di andare a dormire, si sedeva sul letto e l’apriva.
Non era grandissima ma nemmeno di piccole dimensioni. Conteneva molte cose: dalle vecchie piastrine al pezzo di stoffa stretch dov’era cucito il suo cognome e fotografie di tempi ormai lontani.
Ma c’era anche un'altra cosa, conservata con cura all’interno di una busta di plastica trasparente.
Seduto a gambe incrociate al centro del letto, ogni volta apriva quella busta di plastica con tutta la delicatezza di cui era capace ed estraeva ciò che conteneva.
Una sciarpa di cashmere blu navy. [4]
Anche quella sera, quindi, John carezzò con delicatezza la stoffa morbida e in un gesto tanto automatico quanto necessario, se la portò al volto e inspirò piano chiudendo gli occhi.
Odorava di buono, di ricordi, di adrenalina e forse anche un po’ di formaldeide. Aveva il profumo familiare dei primi tempi passati a rincorrere criminali per Londra, aveva il profumo di casa. L’aveva trovata per caso un giorno, prima di decidere di lasciare l’appartamento, mentre riordinava per tenersi occupato in qualche modo.
Era stata abbandonata dal suo proprietario in un cassetto, quando proprio John gli aveva regalato quella nuova e lì era rimasta, come se avesse sempre saputo che un giorno il dottore ne avrebbe avuto bisogno.
Per un attimo poteva illudersi di essere ancora a casa e dopo aver riposto la scatola s’addormentava sperando di essere svegliato nel cuore della notte dalle note di un violino.
Non succedeva mai, naturalmente.

Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare le fasi del dolore, era un medico. Solo preferiva non pensarci, al momento.
Qualche giorno dopo essersi trasferito aveva accompagnato Mrs. Hudson al cimitero. Era arrabbiato e triste e forse anche un po’ spaesato.
E così, messe da parte la scienza, il distacco, la logica aveva chiesto un miracolo. Per aggrapparsi a qualcosa.

Una settimana dopo, però, qualcosa riempì la sua monotonia.
Il tempo iniziava a stabilizzarsi e quella era davvero una bella giornata, non troppo calda e col cielo terso.
Nonostante fosse leggermente in ritardo, a passo spedito, John entrò nella caffetteria poco lontano dall’ambulatorio dove ogni mattina si recava prima di iniziare a lavorare.
Si fermò però sulla soglia. C’era davvero molta gente e guardando sconsolato l’orologio realizzò che, almeno per quella mattina, avrebbe dovuto accontentarsi del caffè della macchinetta in ambulatorio.
Voltatosi di fretta verso la strada, però, urtò un vecchio deforme che si trovava alle sue spalle, facendo cadere dei libri che questi teneva in mano. Raccogliendoli, John, notò il titolo di uno di essi: “Origine e culto degli alberi” e pensò che quel tizio fosse un povero diavolo di bibliofilo che, per lavoro o per hobby, collezionava oscure opere letterarie.
Il dottore cercò di scusarsi per l’incidente ma era ovvio che quei libri, da John purtroppo così maltrattati, erano estremamente preziosi per il loro proprietario. Questi con un ringhio di disprezzo girò sui tacchi e John vide sparire la sua schiena incurvata e i suoi favoriti bianchi sparire fra la folla
. [5]
Era seduto alla scrivania da non più di cinque minuti, osservando con sguardo perplesso l’orribile caffè della macchinetta ancora quasi tutto nella tazza, quando dopo aver bussato, Sarah entrò nel suo ufficio.
“Scusa John, so che il tuo primo appuntamento è tra circa un quarto d’ora… ma c’è questo signore che insiste per farsi visitare da te… che faccio?”
“Tranquilla, lascialo passare… vedrò quel che si può fare” le rispose sorridendo.
Quando alzò lo sguardo sul suo nuovo paziente, John si bloccò meravigliato. Era lo strano collezionista di libri, col suo viso rugoso e scarno incorniciato dai capelli bianchi e i suoi preziosi volumi, almeno una dozzina, stretti sotto il braccio destro. [5]
Aveva chiuso la porta alle sue spalle e si era accomodato su una delle due sedie davanti alla scrivania del dottore.
“Lei è sorpreso di vedermi, signore…” gracchiò con una strana voce chioccia.
John annuì: “Posso fare qualcosa per lei?”
Beh, sono un uomo di coscienza, signore, e quando per caso l’ho vista entrare in quest’edificio, mentre la seguivo zoppicando, mi sono detto: ‘entrerò un attimo per vedere quel cortese signore e dirgli che, se i miei modi sono stati un po’ bruschi, non intendevo offenderlo, e che gli sono molto grato per aver raccolto i miei libri.’” [5]
Per un attimo John si sentì a disagio sotto lo sguardo condiscendente dell’anziano signore.
Lei si sta preoccupando troppo per una sciocchezza, mi creda…
Il suo nuovo paziente si sistemò sulla sedia e per un attimo cambiò espressione. Strinse a se i suoi libri e rispose: “Sono un suo vicino… il mio negozietto è all’angolo di Church Street. Potrebbe passarci qualche volta, ne sarei contento. Forse anche lei è un collezionista… ecco, vede? “Uccelli della Gran Bretagna” e “Catullo” e “La Guerra Santa”, tutte occasioni d’oro…” [5]
John sorrise divertito dai modi del signore davanti a sé e stava per rispondere che sì, avrebbe pensato a fare un salto qualche volta, quando l’anziano riprese a parlare.
“Sa è da qualche tempo che la mattina la vedo entrare e uscire dalla caffetteria dove ci siamo scontrati prima… e se lo lasci dire: ha proprio una brutta cera, ragazzo…”
Ancora una volta a disagio, John abbassò gli occhi. Sapeva perfettamente di non avere una bella cera, era stanco, stanco come non era mai stato in vita sua.
“E triste…” aggiunse l’anziano come se gli avesse letto nel pensiero “E’ nel fiore degli anni… cosa mai può averle fatto la vita per farla soffrire così?”
A disagio, John guardò l’uomo davanti a se: “Non credo sia il caso, io non-”
“Sciocchezze!” lo interruppe il bibliofilo “Parlare con uno sconosciuto aiuta… sono un povero vecchio a cui piace ascoltare le persone… lo diceva anche la mia amatissima moglie. Suvvia, è il minimo che posso fare per essere stato così scortese prima…”
John si passò una mano tra i capelli, cosa avrebbe dovuto fare? Le parole gli uscirono prima che potesse controllarle.
“Ho perso una persona cara, ultimamente.”
Il bibliofilo si strinse ancora ai suoi libri, tutto quello che disse fu “Ah”.
E sono arrabbiato” continuò John “E stanco… mi sento come se stessi spingendo una roccia su per una montagna…” [6]
L’anziano si carezzò la barba in un gesto pensieroso, poi disse: “Le darò il consiglio che non mi ha chiesto, ragazzo. Anche io ultimamente ho perso una persona cara, carissima. Faccia come me: decida di stare bene entro il fine settimana. Si costringa a sorridere perché lei è vivo, ed è quello che deve fare. E lo faccia di nuovo la settimana successiva. Non è fingere. E’ essere professionali: lo faccia col sorriso o non lo faccia affatto.” [6]
John fissò il suo ospite con curiosità, avrebbe voluto rispondere ma fu interrotto dal suono dell’interfono: era Sarah, il suo appuntamento era arrivato.
I due uomini si alzarono nello stesso momento. John tese la mano al bibliofilo che stringendogliela prontamente, disse: “Caro ragazzo… John, davvero crede che le persone scomparse che abbiamo amato ci lasciano del tutto?” sottolineando l’ultima parola con un sorriso e un occhiolino.
John biascicò perplesso qualche ringraziamento a quello strano signore e lo fermò prima che potesse varcare la soglia dello studio: “Mi perdoni, non le ho chiesto nemmeno come si chiama…”
Il bibliofilo sorrise e per un attimo a John sembrò che gli si fossero inumiditi gli occhi. Piano l’anziano rispose: “Timothy, mi chiamo Timothy Carlton.” [8]
E detto questo scomparve nei corridoi dell’ambulatorio, mentre John accoglieva, ancora un po’ destabilizzato, il primo paziente della sua giornata.

Non dimenticò il discorso dello strano bibliofilo, John.
In effetti, seguì il consiglio. S’impose di sorridere, almeno fin quando non era solo e iniziò ad andare avanti. Riallacciò i rapporti con Mrs. Hudson, con la quale andava a cimitero almeno una volta al mese. Si davano appuntamento fuori al 221 di Baker Street, prendevano un taxi e senza dire una parola si ritrovavano l’una sotto al braccio dell’altro davanti alla lapide nera e lucida di Sherlock.
Al ritorno si fermavano da Speedy’s per una fetta di torta e una chiacchierata. Era diventata ben presto un’abitudine: ordinavano e Mrs. Hudson chiedeva “Allora, John… come stai?” e lui allora, troppo addolorato per mentirle guardandola negli occhi, abbassava lo sguardo sul dolce e rispondeva sempre “Bene, grazie” e si affrettava poi a cambiare discorso.
Non le aveva mai detto che nonostante le loro visite mensili, continuava a recarsi al cimitero una volta a settimana, da solo.
Riallacciò i rapporti anche con Lestrade. Per poter dare la sua deposizione aveva letto rapporti su rapporti e aveva riflettuto molto. Greg non avrebbe potuto comportarsi in maniera differente in quella situazione e non poteva fargliene una colpa.
Si vedevano due tre sere al mese per una birra e per parlare del più e del meno. Era un brav’uomo e dopotutto anche a lui mancava Sherlock più di quanto volesse ammettere a voce alta.
Qualche volta aveva provato anche a chiamare Molly, proprio non ce la faceva a tornare al Bart’s, nemmeno per una breve visita. Si videro un paio di volte per un the ma probabilmente, pensò John, l’uno ricordava all’altra l’unico motivo che giustificava la loro conoscenza e tutto il dolore che quella verità gli provocava e quando questo fu chiaro ad entrambi smisero semplicemente di vedersi.

Il tempo passò, il tempo passa sempre, completamente inconsapevole del nostro dolore.
Mr. Carlton non tornò più a trovare John, ne gli capitò d’incontrarlo sulla strada per l’ambulatorio o fuori la caffetteria. John aveva provato allora a cercare il negozietto a Church Street, di cui l’anziano signore gli aveva parlato, ma non riuscì a trovarlo.
Tuttavia tra le prenotazioni dei suoi pazienti, una volta a settimana trovava sempre una prenotazione a nome di un certo Timothy Carlton che però non si presentava mai.
In breve tempo l’identità di questo paziente divenne un piccolo mistero irrisolto dell’ambulatorio, con tutti gli addetti ai lavori che cercavano di capire chi fosse e come riuscisse, nonostante i loro controlli, a prenotare sempre una visita e sempre tra i pazienti del dottor Watson.
Da parte sua, John non ammise mai effettivamente di conoscere un Timothy Carlton; il perché nemmeno lui lo sapeva. Era stato un comportamento automatico, come se inconsciamente avesse voluto proteggere quell’anziano così strano e originale. Semplicemente aveva lasciato correre.
L’unico con cui non ricostruì un rapporto, se mai l’avevano avuto davvero, fu Mycroft.
Il solo responsabile, secondo John, di tutto quello che era accaduto. Di tutto quel dolore.
Il maggiore degli Holmes aveva tentato i primi tempi di entrare in contatto con il dottore ma da parte di quest’ultimo non c’era stato verso. Una volta addirittura se l’era trovato sotto casa in completo impeccabile e ombrello anche a fine agosto.
“John, dobbiamo parlare. Almeno ascolta!” gli aveva detto; ma John, fedele fino alla fine a se stesso, non collaborò, chiudendosi in casa fin quando non vide l’altro risalire in macchina e andarsene.
Natale arrivò freddo e improvviso, almeno per John. Mrs. Hudson aveva insistito affinché trascorresse i giorni di festa principali con lei, a casa sua.
Ma questo avrebbe significato rimettere piede al 221 di Baker Street e la mente di John – forse in realtà più il cuore – si rifiutò categoricamente di accettare questa possibilità.
Alla fine cedette alle richieste insistenti di sua sorella Harriet. Aveva programmato di andarla a trovare già il Natale precedente ma tutti gli imprevisti causati dalla Donna avevano stravolto i suoi piani.
Dopotutto, pensò, cambiare aria non poteva che fargli bene.
Arrivò a Cardiff di buon ora, il giorno prima della vigilia di Natale. Come da accordo si diresse direttamente a casa della sorella, stanco e leggermente in ansia.
Doveva ammettere che Harry gli era stata molto vicina in quel periodo ma non la vedeva da un anno e questo gli metteva una leggera ansia.
Tuttavia, nulla avrebbe potuto preparare John a quello che vide quando, dopo aver bussato alla porta della sorella, venne aperta la porta.
Era lì, davanti a lui e lo fissava con un aria tra l’imbarazzato e il divertito. Con la stessa espressione di un bambino sorpreso con le mani nel bicchiere di nutella.
Non parlava, si limitava a sorridergli. John poteva leggere l’eccitazione e la gioia nei suoi occhi, come quando facciamo una sorpresa e non resistiamo nell’attesa di guardare la reazione della persona a cui l’abbiamo fatta.
“Clara!” esclamò John con non poco stupore.
Lei ed Harriet avevano divorziato da più di due anni. Era decisamente l’ultima persona che si aspettava di trovare a casa della sorella.
“Oh John, che bello vederti!” rispose la donna abbracciandolo e lui ricambiò con affetto, gli era sempre stata simpatica.
A quanto risultò poi, Harriet aveva preso l’abitudine di andare a correre tutte le mattine e sarebbe tornata di lì a pochi minuti.
Passarono quel tempo nella camera degli ospiti chiacchierando, mentre Clara era seduta sul letto e John sistemava le sue cose.
La ragazza gli spiegò che aveva incontrato Harry a una festa di amici che non sapevano di avere in comune e avevano cercato entrambe di gestire la cosa con tatto e diplomazia. Avevano finito per occupare tutta la sera a parlare tra di loro come mai era successo negli ultimi mesi del loro matrimonio.
Qualche mese prima Harriet era entrata in un altro cammino che sembrava dare i suoi frutti e decisero che sarebbero rimaste in contatto.
E così avevano fatto. Avevano riscoperto prima l’amicizia profonda che le legava e da lì a tornare insieme il passo era stato breve.
“Volevamo dirtelo di persona, questo Natale. Sappiamo cosa hai dovuto affrontare, che quest’anno non è stato facile ma, John… vedrai… passerà e noi ti staremo accanto, se lo vorrai…”
John si andò a sedere accanto alla cognata e le prese una mano tra le sue.
“Grazie, Clara. Sono davvero felice che si siano aggiustate le cose per voi…” le disse poi sorridendo.
“Ovviamente la strada è ancora lunga e in salita per Harry ma… possiamo farcela questa volta, John.”
Il dottore abbracciò la cognata e sospirò sperando con tutto il cuore che avesse ragione.

Harry li raggiunse poco dopo. Era sinceramente contenta di rivedere il fratello dopo tanto tempo. John la trovò bene, in ordine, sorridente, a tratti felice; pensò che il ritorno di Clara le avesse decisamente giovato.
Passarono tutto il resto della mattinata a parlare, o meglio: Harry a fare domande e John a rispondere, mentre Clara li osservava con condiscendenza.
“E dove lavori ora?”, “Quanti pazienti al giorno ricevi?”, “John ti vedo dimagrito, mangi?”, “E quindi ti sei trasferito a Paddington… com’è?” , “Quando ti deciderai a rimodernare il tuo guardaroba, John? Questo maglione è orrendo!”
Fu poi Clara ad interrompere quell’interrogatorio. Propose al cognato una passeggiata al parco poco distante, mentre lei e Harriet avrebbero pensato a preparare il pranzo.
John accettò entusiasta, riservando a Clara uno sguardo pieno di gratitudine. Erano passate solo poche ore dal suo arrivo e già non sopportava più l’esuberanza della sorella.
Ma quello, tuttavia, poteva anche essere un buon segno.
Il parco poco distante non era esteso quanto i quelli di Londra a cui era abituato, ma era ben tenuto e molto frequentato.
Si accomodò su una panchina e respirò profondamente, cercando qualcosa di non ben definito nella sua anima a cui aggrapparsi per poter sopravvivere a quelle feste.
Tutto era in perfetto stile natalizio: i bambini scorazzavano allegramente sperando che nevicasse, gli adulti passeggiavano chiacchierando.
C’erano anche i musicisti di strada e il loro repertorio di canzoni natalizie.
Fu allora, in mezzo a tutti quei suoni che si accavallavano, che lo sentì.
Senza rendersene conto John si alzò. Era come se il suo corpo si muovesse in forza di una volontà tutta sua, ammaliato da quel suono che non aveva più sentito da mesi.
Per uno scherzo del destino il suonatore era un violinista e le note di “We Wish You A Marry Christmas” che stava eseguendo in modo impeccabile, per John risuonavano nell’aria come un richiamo.
Un richiamo dal passato.
Con pochi passi raggiunse il ristretto gruppo di persone che si era formato per assistere a quel piccolo concerto, cercando di combattere l’ondata di ricordi che gli affollavano la testa.
Guardò l’esecutore: era un ragazzo alto e robusto con i capelli rossi e una folta barba del medesimo colore. Gli occhi scuri sembravano guardare una realtà diversa, totalmente rapiti dalla musica.
John si diede dello stupido e si allontanò. Un senso di delusione, non bene identificato, si andò a confondere con la nostalgia che quella melodia gli aveva provocato, evocandogli immagini di un passato recentissimo (solo un anno prima) che sembrava però appartenere a una vita passata: un’altra città, un’altra casa, altre persone, risate, imbarazzi, un teschio con il cappello di Babbo Natale.
Ma sempre quella melodia, quello strumento, quella canzone.
Questi pensieri furono scossi dalla vibrazione del cellulare. In lontananza il violinista continuava a suonare.
Un messaggio.

Buon Natale, John. MH

Si fermò un istante a fissare il messaggio e in quel momento, per chissà quale ragione, il violinista interruppe bruscamente “We Wish You A Marry Christmas” e nell’aria iniziarono a risuonare le note di “God Save The Queen”. [8]
John ebbe un sussulto, c’era qualcosa che non quadrava. La melodia cessò proprio mentre decideva di tornare indietro. Si avviò quanto più velocemente potesse, cercando di ignorare il dolore alla gamba che iniziava subdolo a riaffacciarsi. Una volta arrivato, però, il piccolo gruppo di persone che aveva assistito all’esecuzione si era diradato e del violinista non c’era più traccia.
 
 
 
Cioè, stai davvero leggendo le ♪ ♫ n o t e ♫ ♪ ?! Pazzesco!!!
[1] Sono tutte scene famose della serie, una per ogni episodio.
[2] Ebbene sì, il teschio ha un nome ufficiale. E’ scritto nel CaseBook, un libro autorizzato della serie. Le 8 sterline meglio spese X3
[3] Anche questa è una notizia “autorizzata”. E’ scritto chiaro tra i commenti al blog ufficiale di John (www.johnwatsonblog.co.uk/) e se cercate bene qualche riferimento alla serata 007 può essere trovato anche tra i post del sito di Sherlock (www.thescienceofdeduction.co.uk)
[4] Mi riferisco alla sciarpa blu indossata da Sherlock nella prima stagione. Essendoci solo una versione (tanto da far terrorizzare gli addetti ai lavori nel caso si fosse rovinata durante le riprese) è stata sostiuita con un’altra per la seconda serie. Nella mia testa è stato John a regalare a Sherlock la nuova sciarpa. XD
[5] Le parti in corsivo vengono tutte (modificate solo dalla prima persona singolare alla terza) dal racconto “L’avventura della casa vuota” prima storia della raccolta “Il Ritorno Di Sherlock Holmes” di Sir. Arthur Conan Doyle. Racconto in cui Sherlock torna dopo tre anni dagli accadimenti alle cascate di Reichenbach.
[6] Citazione presa da un episodio di Supernatural. Esattamente l’ 11x07.
[7] Benedict Timothy Carlton Cumberbatch. Devo aggiungere altro? Penso abbiate capito XD
[8] In “A Scandal In Belgravia” Sherlock suona il violino varie volte. Per suonare il bellissimo “Irene Theme”, “We Wish You A Marry Christmas” la sera di Natale e “God Save The Queen” per infastidire Mycroft.
BeneBeneBene *tira un sospiro di sollievo* questo primo capitolo è andato. E se siete arrivati fin qui, avete tutti la mia stima! :D

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Eccoci con un secondo capitolo. Accadono ennemila cose, quindi basta blaterare.
Prima, però, a chi ha commentato, a chi ha inserito la storia tra le preferite ed a chi ha letto: GRAZIE. Davvero.
 
 
Le notti a casa di Harriet e Clara non furono esattamente tranquille. John continuava ad essere tormentato da un sogno ricorrente e anche quella sera, quando si ritrovò all’improvviso in quella che sembrava essere una vecchia biblioteca scura e polverosa, seppe di non essere riuscito a stancarsi abbastanza da poter scivolare in un sonno senza sogni.
L’incubo era sempre uguale a se stesso, non cambiava mai. Si ritrovava a correre a perdifiato nei corridoi bui di una biblioteca e all’improvviso era costretto a fermarsi a causa di una porta che si apriva e una luce che l’accecava. Tutto nel suo essere a quel punto gli gridava “Corri, John. Se ci tieni alla vita, corri”[1] ma il dottore - o meglio, il suo inconscio - non riusciva a resistere al richiamo della curiosità e ogni volta, attirato come un marinaio dal canto di una sirena, decideva di entrare in quella stanza piena di luce, dove sapeva che un’ombra alta e slanciata lo stava aspettando. Era come se sapesse che in quella stanza avrebbe trovato le risposte a tutte quelle domande che non avrebbe mai posto.
Al suo interno la camera era totalmente bianca e vuota, con solo una vetrata che dava su una spiaggia grigia al limitare di una tempesta. A quel punto il sogno diventava, se possibile, ancora più strano. Un bambino spuntava dal nulla, vestito di bianco e con i capelli biondo cenere e gli occhi blu scuro.
Diceva di chiamarsi John e piangendo gli chiedeva aiuto per poi trascinarlo verso la grande vetrata, dove si materializzava sempre una scatola di legno intarsiato, come quella che il dottore custodiva sotto il letto. Con uno scatto quella si apriva, rivelando al suo interno migliaia e migliaia di pezzi di puzzle tutti uguali tra loro. “Devi aiutarmi, devi aiutarmi. Devi trovare il pezzo che manca, devi aiutarmi!” continuava a dire il piccolo, ripetendo sempre le stesse parole come fossero un mantra a cui aggrapparsi.
L’incubo poi iniziava a diventare confuso: prima che il dottore potesse fare o dire qualcosa la tempesta al di fuori diventava sempre più furiosa e dopo l’ennesimo tuono il piccolo John diventava pallido e crollava a terra. In un attimo la stanza veniva inondata dal sangue mentre il bambino si dissolveva poco a poco sotto lo sguardo atterrito del dottore.

Anche quella sera, quindi, John si mise a sedere di scatto.
Come al solito, ogni cosa attorno a lui era confusa. Era al buio e l’unico rumore che sentiva era il suo respiro affannato. Si portò le mani al viso cercando di reprimere la paura e l’angoscia che ancora lo pervadevano.
Sospirò e una luce si accese, illuminando la stanza. John guardò in direzione della porta: Clara, in pigiama e con gli occhi sgranati, lo guardava.
“John va tutto bene? Abbiamo sentito un rumore, delle urla…”
John si guardò intorno e notò una tazza rotta ai suoi piedi. Si era addormentato in poltrona, nel piccolo salotto di Harriet e Clara; l’incubo doveva averlo preso particolarmente se anche loro, al piano superiore, avevano sentito le sue urla.
“Sto bene, perdonami… è stato solo un brutto, brutto sogno.”
Clara gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla, sorridendo comprensiva. Poi aggiunse: “Beh dai, sono quasi le 6… cerca di rilassarti mentre io tolgo questi cocci da ter-”
La donna non poté concludere perché in quel momento fece il suo ingresso Harry.
Di corsa, trafelata, in pigiama come Clara e i con capelli scomposti. Brandiva una spada laser verde.
“CHESSUCCEDE?CHESSUCCEDE?CHESSUCCEDE? LASCIATE STARE MIO FRATELLO!”
John guardò la sorella perplesso e poi alzò gli occhi al cielo, Harriet non cambiava mai.
“Sta’ tranquilla, terminator. Ho solo avuto un incubo…” le disse stanco.
Harriet sospirò sollevata e spense la sua spada laser, guardò attentamente il fratello e la compagna poi disse: “Beh sapete che vi dico? E’ praticamente il giorno di Natale, che senso ha tornare a dormire? Ormai siamo svegli… dai John… so benissimo che non chiuderai più occhio per un bel po’ di tempo… andiamo in cucina. Preparo latte e cioccolato a tutti e tre, come faceva mamma a Natale… dai su su, muoversi!”

Dieci minuti di lamentele - da parte di John - più tardi si ritrovarono tutti e tre in cucina.
John fu costretto a sedersi mentre Harriet prendeva il cioccolato in polvere dalla credenza di destra e Clara il latte dal frigorifero.
“Harry! Non abbiamo più latte! C’è solo la bottiglia vuota, possibile sia finito già? Dopo tutta la fatica che ho fatto ieri sera per comprarlo!”
Clara era perplessa, sbuffò e con aria scocciata si appoggiò alla porta del frigo.
Harriet appoggiò la scatola del cioccolato sulla tavola: “Cosa? Ma dai, fa vedere… non ne so niente, davvero!” disse scoccando al fratello un’occhiata innocente. Clara si spostò per far spazio alla compagna che, una volta esaminata la bottiglia di latte ormai vuota, reprimendo una risata continuò: “Beh, dai… non abbiamo latte il giorno di Natale e che importa? Meglio una bottiglia vuota di latte che di Scotch, no?”
Le due donne iniziarono allora a punzecchiarsi tra loro per un tempo che a John sembrò infinito. Il cioccolato fu sostituito da un Earl Grey e per un breve momento, guardando il suo the fumante, John ricordò tutte quelle volte che a casa, a Baker Street, si era litigato in quel modo migliaia di volte per lo stesso motivo.
Da quando era tornato dall’ Afghanistan non si era mai sentito così solo.

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Non era mai stato particolarmente amante del caldo, John.
Aveva affrontato le cocenti ed estenuanti giornate afgane sempre con il pensiero rivolto al caratteristico sbalzo termico del luogo. Dopo una lunga giornata calda c’era sempre una notte fredda, altrettanto lunga e incredibilmente stellata; e in qualche modo contorto e privo di logica, quelle basse temperature notturne lo facevano sentire più vicino a casa.
Per questo era davvero infastidito dal caldo che provava quella notte. Ed era anche stanco.
A causa dell’incubo che in quei giorni aveva deciso di tormentarlo aveva dormito pochissimo.
Era andato avanti rubando momenti di incoscienza alle ore diurne, sotto lo sguardo preoccupato della sorella e della cognata.
Cambiò ancora una volta posizione, tornando a mettersi supino sopra le coperte.
Anche il silenzio gli ostacolava il sonno. Per quanto cercasse di concentrarsi sul suo respiro, non riusciva a impedire a quell’assordante quiete di insinuarsi nella sua testa, che lo portava a pensare, pensare, pensare.
Ancora, dopo mesi, si sentiva lasciato indietro, solo. Nessun caos a completare il suo ordine[2], solo silenzio.
E la cosa più disarmante di tutta quella situazione era la consapevolezza che, nonostante fosse bloccato in quella che sembrava essere un’eterna impasse,  alla fine sarebbe andato avanti in qualche modo.
Si sarebbe adattato.
Il cambiamento è fisiologico, lo sapeva bene. Ma c’era quella parte non razionale e poco logica del suo cervello, della sua anima, che rifiutava questa possibilità e che la combatteva con tutte le forze. Perché accettare quel cambiamento avrebbe significato accettare il fatto di non essere più l’uomo che era stato in quei diciotto mesi più vivi della sua vita. Era come se una forza misteriosa l’avesse preso per i capelli e trascinato al tempo in cui, ferito, era tornato dall’Afghanistan.
Solo che questa volta era peggio. Questa volta il guscio vuoto che sentiva di essere diventato non poteva essere colmato. Aveva perso l’unico pezzo che combaciasse alla perfezione con il suo animo. Certo, avrebbe potuto trovarne altri simili e adattarvisi. Sapeva che l’avrebbe fatto. Ma non sarebbe mai stata la stessa cosa. Il dolore nel suo cuore poteva essere sedato, addirittura ignorato, ma non sarebbe mai andato via. Se quei mesi gli avevano insegnato qualcosa, quel qualcosa era che per quanto lo si voglia, non si può tornare indietro e che ci sono ferite che il tempo non può accomodare, talmente profonde da lasciare il segno. [3].
Con un sospiro si mise a sedere sul bordo del letto: meglio occupare il tempo con qualcosa di costruttivo, pensò, piuttosto che girarsi e rigirarsi in attesa di quell’oblio che proprio non voleva coglierlo.
I gomiti appoggiati alle ginocchia, lo sguardo alla finestra davanti a sé. Ancora nessun rumore, ancora silenzio. Il mondo fuori era placidamente addormentato, fatta salva qualche sporadica auto che passava per quella via, diretta chissà dove.
Guardò l’orologio, il sole sarebbe sorto di lì a poco. Il buio profondo sarebbe stato vinto dalla luce del sole,  tutte le cose avrebbero assunto diverso significato e i brutti pensieri sarebbero stati accantonati ancora per un po’ in un angolo remoto della mente.
Restò per qualche tempo a fissare il buio che lentamente iniziava a schiarirsi.
Una vocina nella sua testa gli ricordò che l’ora più buia è sempre quella che precede l’alba.
A quel pensiero, alzandosi, John sospirò per l’ennesima volta - ultimamente non faceva altro che sospirare - e con aria stanca si passò una mano tra i capelli.
L’ora più buia stava passando.
Sistemò tutte le sue cose sul letto, per essere sicuro di non dimenticare nulla e iniziò a prepararsi la borsa. I suoi giorni con Harriet e Clara erano finalmente giunti al termine. Aveva rifiutato anche l’invito a rimanere per la fine dell’anno: una festa in compagnia della sorella era più che sufficiente e poi non voleva mancare la visita settimanale al cimitero.
Il filo dei suoi pensieri confusi fu interrotto da uno strano rumore proveniente dall’esterno. Era come se qualcuno stesse cercando di attirare l’attenzione di un’altra persona senza dare nell’occhio.
John si avvicinò alla finestra, nella penombra scorse distintamente una persona trafficare davanti al muretto di cinta delle palazzine di fronte a casa di Harriet e Clara.
A quel punto subito poté classificare quella specie di “psst psst”: uno spray.
Che fare? Il suo innato senso di responsabilità scacciò subito via la possibilità di fare nulla suggerita a primo acchito dalla sua mente. Valutò le opzioni per un momento: di certo non poteva mettersi ad urlare e svegliare l’intero vicinato. L’unica cosa da fare era scendere in strada sperando di spaventare abbastanza quel ragazzo, perché solo un ragazzo poteva andarsene in giro a fare graffiti improbabili alle 6 del mattino a fine dicembre.
Gli sfuggì un sorriso: “Sherlock avrebbe già capito età, sesso, comportamento, estrazione sociale e tipo di graffito da questa distanza e con questa luce”, mormorò tra sé.
Il suono della voce annoiata e infastidita dell’amico gli risuonò nella testa, era come se potesse vederlo: avvolto nel lungo cappotto con il colletto alzato a dargli un’aria misteriosa, mentre sbuffava seccato roteando gli occhi. “John, come sempre guardi ma non osservi!” gli avrebbe detto.
Scosse forte la testa per scacciare quel pensiero doloroso e la stretta al cuore che gli aveva provocato, afferrò un maglione a caso e scese veloce le scale.
Spalancò la porta e si precipitò lungo il vialetto, con pochi passi raggiunse la strada. L’oscurità andava diradandosi sempre più, e nonostante John avesse una chiara visuale della strada non c’era più alcuna traccia del ragazzo. Cercò di ipotizzare dove potesse essere andato, forse si era accorto di essere stato visto. Ma i suoi pensieri, furono distratti da altro.
Il graffito, se così lo si poteva chiamare, catturò all’istante tutta l’attenzione del dottore.
Raggelò e non solo per la bassa temperatura di quella mattina dicembrina. Per quanto volesse, John proprio non riusciva a staccare gli occhi da quella vernice gialla.
Aveva già visto quel disegno e questa consapevolezza gli provocò un forte senso di nausea.
A prima vista era un comunissimo smile giallo, avrebbe potuto significare assolutamente nulla.
John deglutì e si avvicinò ad esaminare i dettagli, erano quelli a lasciarlo senza fiato.
Il cielo era diventato azzurro e timidi raggi di sole iniziavano a spuntare da sopra la fila di palazzine ad est; John era sicuro, non era un disegno qualunque.
C’erano delle ombre, come se alcuni punti fossero stati aggiunti con uno spray nero. Sei punti in totale: uno per ciascun’occhio, uno per il naso e tre - posizionati all’inizio, al centro e alla fine - per la linea del sorriso della faccina.
Sapeva perfettamente qual era, e dov’era, l’originale di quella copia.
Era uno dei particolari del 221b che amava di più, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Era stato disegnato dal suo coinquilino in un momento di noia, prima dell’inizio della fine. [4]
John guardò ancora per un momento quelle ombre di spray nero sullo smile, ricordando con nitidezza assoluta allo stesso posto, i fori di proiettile. Sei in tutto: uno per ciascun’occhio, uno per il naso e tre per la linea del sorriso.
Quando il tempo riprese a scorrere a un ritmo normale, John fu assalito da un forte senso di panico. Diede le spalle allo smile e a passo spedito rientrò in casa chiudendosi la porta alle spalle.
Non riusciva a respirare. Non riusciva a pensare. Era uno scherzo di pessimo gusto? Chi era quel ragazzino? Come poteva conoscere un dettaglio così intimo della sua vita precedente? Cosa stava succedendo? La sua mente proprio non voleva accettare l’idea che tutto ciò potesse essere frutto del caso.
Qualcosa non quadrava.

Harriet si bloccò nello stesso istante in cui sentì il fratello scendere le scale e arrivare al piano inferiore. Dalla cucina dove stava facendo colazione con Clara, poté vedere John appoggiare stancamente la propria borsa da viaggio in un angolo dell’ingresso.
Addentò una fetta di pane tostato osservando John avvicinarsi a una finestra per fissare il suo sguardo su qualcosa all’esterno.
Scambiata una veloce occhiata con la compagna, spaesata quanto lei, Harriet richiamò l’attenzione del fratello: “John, ti prego… hai il treno solo questo pomeriggio!”
John sembrò riscuotersi ma aveva prestato poca attenzione alla voce della sorella e rivolgendole un distratto “Come? Cosa?” si diresse in cucina.
Harriet, cercando di non essere acida, proseguì: “Hai il treno questo pomeriggio e hai già pronta la borsa… non hai nemmeno fatto colazione, che ansia!”
John si accomodò, ringraziando la cognata che gli porgeva una tazza di caffè, poi disse “Se facessi tutto all’ultimo momento come fai tu, Harry, il treno lo perderei direttamente! Non riuscivo a dormire e mi sono portato un po’ avanti, tutto qui. In più, un paio di ore fa, c’è stato un po’ di movimento qui fuori…” e indicò distrattamente la finestra con un gesto del capo.
“Sì, è vero! Prima quando mi sono alzata ho notato i vicini che parlavano con un uomo, un operaio o un imbianchino, credo… a quanto pare stanotte qualcuno ha scarabocchiato qualcosa sul loro muretto accanto al cancello…” disse Clara, mentre Harriet afferrava un’altra fetta di pane tostato e si avvicinava alla finestra della cucina.
John si schiarì la voce: “Non è successo stanotte, ma stamattina presto, verso le sei… ho sentito il rumore, stavo facendo la borsa… ho controllato che non ci fossero problemi e sono andato a farmi una doccia… quando sono tornato l’imbianchino era già a lavoro. Sono stati… rapidi.” disse le ultime parole con un tono pensieroso, mentre abbassava gli occhi a scrutare il caffè nella tazza; aveva omesso di essere uscito in strada e nemmeno aveva detto di aver riconosciuto “lo scarabocchio”, come l’aveva definito Clara.
Meglio tacere, pensò.
Un’oretta più tardi le due donne trascinarono John con loro in centro: Clara doveva sbrigare alcune cose e Harriet pensò che fosse l’occasione giusta per restare da sola con il fratello e parlare un po’.
Fu una sorprendente giornata di fine dicembre, quella.
Nonostante un venticello freddo, messo lì a ricordare a tutti quale periodo dell’anno effettivamente fosse, i fratelli Watson camminavano lungo la Roald Dahl Plass [5] sottobraccio, godendosi il bellissimo cielo terso e l’insolito sole pallido e temperato, che quella giornata aveva deciso di regalare.
“Dai fratellino, non fare lo scontroso!” disse Harry canzonando il fratello “Devi almeno ammettere che è un bel posto…”
John non era mai stato a Cardiff, avrebbe voluto essere più partecipe e attento a tutte le cose del posto che la sorella gli stava raccontando, ma non poteva evitarsi di ritornare con il pensiero a quella mattina e a quello smile giallo fatto sparire nemmeno mezz’ora più tardi. Altri si erano forse accorti del ragazzo? No, la casa e la strada erano ancora profondamente addormentate, nessuno a parte lui aveva notato quanto era successo.
Nel frattempo avevano raggiunto una panchina e si erano seduti. John scrutò pensieroso l’orizzonte. Se davvero nessuno si era accorto di quanto successo, come poteva essere giustificata la presenza dell’operaio nemmeno mezz’ora dopo? John proprio non riusciva a non pensarci, ma due erano le possibilità: o effettivamente stava succedendo qualcosa o stava diventando eccessivamente paranoico.
Protese per la seconda opzione.
Harriet, con aria allegra continuava a parlare “Questo che vedi, invece, è il Millennium Center [6], qui lo chiamano “l’Armadillo”… “ e gli indicò la grande facciata moderna del teatro che dominava la piazza.
John, distratto, si limitò ad assecondarla con leggeri cenni del capo. La donna lo guardò intensamente e con un tono ironico continuò: “Quella invece è la Water Tower [6], è alta circa ventun’metri e lo scorrere dell’acqua è continuo; è anche uno degli ingressi di una base supersegreta. E’ sotto tutta la piazza e anche oltre, si dice. E’ un team che lavora nel segreto e che si occupa di combattere gli alieni che minacciano la terra…  Oh, gli alieni a Cardiff sono proprio una piaga, non puoi immaginare… abbiamo almeno un’invasione al giorno!” [7]
John si voltò a guardare la sorella, non aveva capito bene cosa stesse dicendo ma aveva il forte sospetto che si fosse accorta che si era perso nelle sue riflessioni: “Alieni? A Cardiff?” [7]
Harriet sospirò, poi disse: “John, sono passati mesi. Lo so, è difficile ma devi iniziare a reagire… almeno provaci… non mangi molto, né dormi di più, hai anche smesso di andare dalla psicanalista…”
Lui sospirò, sapeva che quel confronto sarebbe arrivato.
“Harry, lo so che sei preoccupata per me, davvero… ma… non è così semplice! Voi tutti non fate altro che aspettarvi che faccia qualcosa. Come se accendere una candela o dire una preghiera possa sistemare tutto. Queste cose dovrebbero farmi stare meglio… e per quanto? Un minuto? Un giorno? Che differenza fa? “ [8]
A quelle parole lo sguardo della sorella s’incupì ma ormai il dado era tratto e John, arrabbiato, continuò prima che potesse realmente pensare al tono duro che stava usando.
Alla fine quando perdi qualcuno, Harriet, nessuna candela, nessuna preghiera cambierà il fatto che tutto ciò che ti rimane è un buco nella tua vita, dove prima c’era quella persona cara… e una pietra con il suo nome inciso.” [8] concluse John, fissando lo sguardo sulla Water Tower. Sapeva di essere stato ingiusto nei confronti della sorella, sapeva di essere stato duro e sapeva di doverle chiedere scusa, ma prima che potesse dire qualcosa, Harriet lo interruppe posandogli una mano sul braccio.
“E allora parla con me! Parlami di com’era la tua vita prima… parlami di lui…” Harry conosceva abbastanza bene il fratello da sapere che aveva bisogno di sfogarsi, di aprirsi, di buttare tutto fuori. Di non essere, almeno per una volta, la roccia che tutti pensavano fosse.
John tornò a guardare la sorella e per un attimo ricordò Harriet bambina, sempre iperprotettiva con lui, il fratellino piccolo; rise forzatamente per combattere le lacrime che minacciavano di cadergli.
“Beh, se è per questo… non mi annoiavo mai, era un inferno!” rise ancora, questa volta sinceramente e con affetto a quel ricordo, poi proseguì “Era un genio, Harriet, lo sai.. vedeva cose che nessun’altro vedeva, leggeva la realtà, anche se qualche volta ho il sospetto che tirasse semplicemente a indovinare…”
Si fermò. Pensò di non riuscire a continuare, di non riuscire a combattere le lacrime che si affollavano sempre di più nei suoi occhi.
Trasse un respiro profondo guardando ancora una volta l’alta fontana della piazza: “Allo stesso tempo era un idiota colossale, privo di tatto. Amava mettersi in mostra, tutto quello che deduceva lo sputava fuori senza il minimo riguardo per i sentimenti altrui; non mangiava quasi mai, suonava il violino a tutte le ore, specialmente di notte…” John stava davvero sfogandosi, tutti i pensieri e i ricordi uscivano sempre più veloci, la voce sempre più incrinata.
“Sparava al muro solo per noia, aveva trasformato la cucina nel suo laboratorio, dove conduceva sempre esperimenti improbabili. Riempiva il frigorifero di parti umane, davvero! Non andava mai a fare la spesa e ci ritrovavamo sempre senza latte… ed è per questo che… è per questo che…” la voce rotta dal pianto: “Io ancora mi arrabbio se penso a lui…”
A quel punto Harriet strinse il fratello forte a sé, proprio come da bambini, quando il piccolo John correva da lei se c’era qualcosa che lo faceva stare male.
Piangeva in silenzio John Watson, stringendo forte la sorella: “Era il mio migliore amico, Harriet… il mio migliore amico. L’ultima volta che abbiamo parlato di persona gli ho detto cose che vorrei non avergli detto.” Si prese un momento, poi continuò “ “Gli amici ti proteggono”. E non sono stato in grado di fermarlo, di aiutarlo. Avevo bisogno di lui, Harriet. Ho ancora bisogno di lui… ma non c’è più…”[9]
“Oh John!”
Harriet, sopraffatta, strinse a sé il fratello ancora più forte. Sospirò; tutto quello che avrebbe potuto dirgli sembrava inutile, scontato, finto.
Con gli occhi che minacciavano di tradirla, prese tra le mani il volto del fratello e con voce ferma, alla fine, disse: “Va’ tutto bene, John. Si sistemerà tutto, vedrai…”
Tornò a stringerlo, mentre pian piano lo sentiva calmarsi. A volte non servono tante parole, a volte abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci ascolti, ci stringa forte e ci dica “andrà tutto bene, vedrai” anche se è una bugia.
Rimasero così, su quella panchina a scrutare l’orizzonte in silenzio per quella che parve essere un’eternità.

Una volta a casa, Harry e Clara iniziarono ad organizzare il pranzo costringendo John a sistemarsi in salotto; aveva il treno nel primo pomeriggio e la cognata aveva insistito affinché pranzasse con loro prima di far ritorno a Londra.
Per occuparsi in qualche modo, accese il televisore su un canale a caso senza però guardare davvero.
La mente tornava al suo sfogo con Harriet, alla Roald Dahl Plass. Se non altro, tutta quella storia l’aveva fatto avvicinare di più alla sorella.
Con uno sbuffo spense il televisore e si alzò  dalla poltrona, ancora una volta si avvicinò alla finestra dell’ingresso a osservare il muretto di cinta della villetta di fronte.
Il bianco regnava immacolato e John quasi iniziava a dubitare della presenza dello smile giallo di quella mattina. Una vocina dentro di sé continuava a ripetergli che qualcosa in tutta quella storia non quadrava; come quando ci sfugge qualcosa e non riusciamo a capire esattamente cosa, tutto sembra uguale e contemporaneamente diverso.
Un pensiero attraversò fulmineo la sua mente: solo una persona avrebbe potuto fugargli ogni dubbio, solo una persona poteva sapere cosa effettivamente stava succedendo.
John cercò di reprimere il senso di nausea che quell’idea gli aveva procurato: Mycroft Holmes era l’ultima persona alla quale avrebbe chiesto aiuto.
“Forse potrei chiedere a Greg” pensò poco prima di essere chiamato per il pranzo.

Buona parte del pasto trascorse in serenità tra chiacchiere leggere e programmi per il capodanno: le due donne l’avrebbero trascorso con dei parenti di Clara e si fecero promettere da John di andare da loro qualora non avesse accettato tra gli inviti di Mrs Hudson, di Sarah e di Lestrade.
“Oh, John quasi dimenticavo! Ti ho preparato dei muffin con mirtilli e cioccolato così avrai qualcosa da mangiare in treno…” disse Clara sorridendo.
John sorrise a sua volta e ringraziò Clara, sua sorella era davvero fortunata.
Harriet li interruppe: “Li ha nascosti nel microonde sperando che non me ne accorgessi e non li mangiassi tutti prima di te, fratellino.”
Clara, con una smorfia di disappunto, guardò la compagna che con aria teatrale continuò: “Sì, ti ho visto quando li mettevi lì… ma non ne ho preso nemmeno uno…”
E rivolgendosi anche al fratello, Harry aggiunse: “John caro, tu sei uno che condivide… perché non li prendi e me ne fai assaggiare uno? Solo uno, solo uno!”
John alzò gli occhi al cielo, sua sorella proprio non cambiava mai. Non l’avrebbe mai ammesso ma gli piaceva questo suo lato spensierato e a quanto traspariva dal suo volto falsamente imbronciato, piaceva anche a Clara.
Con aria divertita tranquillizzò la cognata che si stava opponendo con fermezza alla richiesta della moglie e si alzò dirigendosi al microonde.
Aprì lo sportelletto e il suo cuore saltò un battito, due, tre.
Spaventato John lo richiuse immediatamente e con forza. Poteva sentire chiaramente il sangue defluirgli dal volto e il respiro farsi sempre più affannato. Si appoggiò al mobile dove si trovava l’elettrodomestico per cercare di ricomporsi e per dare man forte alle gambe che minacciavano di cedere da un momento all’altro.
Le voci preoccupate di Harry e Clara si mischiavano in un suono ovattato, John era completamente focalizzato sul panico che gli attanagliava le membra.
Alzò un braccio in direzione delle due donne per tranquillizzarle e sentendo di aver recuperato un minimo di lucidità trasse un profondo respiro, preparandosi mentalmente ad aprire di nuovo il microonde.
Quello che aveva visto lo aveva sconcertato.
Quello che aveva visto non poteva essere.
Quello che aveva visto era TROPPO.
Deglutì e con cautela ripeté i movimenti di qualche minuto prima.
Come se si fosse scottato lasciò immediatamente lo sportelletto dell’elettrodomestico senza smettere di guardare al suo interno.
Pian piano il panico lasciò il posto allo stupore e all’incredulità, John riusciva anche a sentire in modo chiaro Harry che gli chiedeva con insistenza cosa stesse succedendo.
Con una mano leggermente tremante estrasse dal microonde un barattolo di vetro, uno di quei grandi barattoli di vetro usate per marmellate o conserve.
Da sopra le spalle di John, Clara ed Harry si sporsero per cercare di capire. Fu quest’ultima a rompere il silenzio innaturale che si era creato: “Ecco dov’erano i finiti i miei occhi-caramella di Halloween, li ho cercati ovunque pensavo di averli mangiati! John, mi hai fatto spaventare, eri diventato bianco come un cencio… pensavo avessi visto un fantasma!” [10]
John guardò la sorella con un’espressione indescrivibile – rabbia, paura, ansia, dubbio, incredulità – non riuscendo a dire nulla.
Harriet gli prese il barattolo dalle mani e continuò con enfasi: “Dai John, davvero pensavi fossero veri? Sei un medico, suvvia! E poi non crederai davvero che siamo psicopatiche che si divertono a tenere parti umane in giro per cas-”
La frase le morì in gola.
E anche lei, come se fosse diventato bollente, con uno scatto appoggiò il barattolo sul tavolo con aria spaventata.
“Harry, John che succede?” Clara iniziava a preoccuparsi, saltando con lo sguardo dalla moglie al cognato.
Per qualche interminabile istante nessuno dei due rispose. John però si rese conto di aver ripreso a pensare lucidamente, tutti i sensi in allerta; quello non poteva essere uno scherzo della sua immaginazione, non era un caso. Un dubbio gli attraversò la mente: che un pazzo stesse tentando di far ricominciare il gioco?
Con voce ferma, tanto da stupire anche se stesso, John allora rispose:
“Non lo so, Clara. Proprio non lo so”




♫ n o t e
[1] “Run, run for your life” è una delle prime cose che il Nono Dottore ( <3 ) dice a Rose nel primo episodio della nuova era di Doctor Who. Ok, è vero… in pratica lo dice sempre XD
[2] Quest’idea viene da quest’estratto: “Una rivelazione: lui è il mio ordine, io sono il suo caos. Yin e Yang. Ha bisogno di me (ho bisogno di lui). Una corrispondenza perfetta, una coppia perfetta. Ovvio.”  
Viene dal capitolo 2 della splendida fic “The Progress Of Sherlock Holmes” di Ivy Blossom, tradotta qui – in modo eccellente, direi – da luciamondella. http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=975844&i=1
Se ancora non l’avete letta, davvero ve la consiglio. Una delle mie preferite.
[3] Dal terzo film della trilogia de Il Signore Degli Anelli. Il Ritorno Del Re.
[4] Sì, è proprio lo smile disegnato sulla parete a cui Sherlock spara all’inizio della 1x03, “The Great Game”.
[5] La Roald Dahl Plass è la meravigliosa piazza di Cardiff. http://it.wikipedia.org/wiki/Roald_Dahl_Plass
[6] Il Millennium Center è il teatro principale di Cardiff e insieme alla Water Tower sono un po’ il simbolo della Roald Dahl Plass e di Cardiff in generale. http://it.wikipedia.org/wiki/Wales_Millennium_Centre
[7] Sì, sto parlando proprio di Torchwood, spin-off di Doctor Who. Non potevo resistere XD
“Aliens? In Cardiff?!” è praticamente quello che dicono tutti quando vengono a sapere di questa base segreta sotto la piazza, Torchwood 3, dove una squadra apposita - capitanata da Jack Harkness - si occupa di monitorare l’attività aliena. Vabbè, sono sicura che la conosciate un po’ tutti.
[8] A quanto pare, quest’anno, vanno di moda i monologhi davanti alle tombe dei propri migliori amici scomparsi (e non poi tanto scomparsi). La parte in corsivo viene dal bellissimo monologo di Damon davanti alla lapide di Alaric nella 4x02 di The Vampire Diaries.
[9] Le parti in corsivo vengono direttamente dal CaseBook di Sherlock. Una bibbia, praticamente. E’ la parte in cui John racconta del caso di Reichenbach e scrive “I agrued with Sherlock when he refused to come with me (da Mrs. Hudson a cui avevano appena apparentemente sparato, ndr). I said things to him that I wish I hadn’t said.” (…) “I owe him so much. I needed him. I still do. But he’s gone.”
Lacrime, praticamente.
[10] Vi ricorderete sicuramente della finta retata anti-droga di Lestrade al 221b nella 1x01 “A Study In Pink” e in particolare di Donovan che si lamenta di aver trovato degli occhi umani nel microonde. Ecco.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Ciao a tutti! Come va?
Spero la storia vi stia piacendo almeno quanto a me è piaciuto scriverla.
Questo capitolo è più breve degli altri perché ho dovuto interromperlo per forza :3
Quante cose succedono! Finalmente entra – anche se brevemente – un altro personaggio della storia che ben conosciamo (e che io personalmente adoro/venero/amo). Come s’inserisce in questa fic? E Sherlock dov’è? E’ fuori o non se n’è mai andato? Magari non è poi così lontano da “Jawn” come potremmo pensare.
E soprattutto chi c’è dietro ai segni indirizzati a John?

Come sempre buona lettura e grazie per le recensioni (fatemi sapere se qualcosa non quadra o non vi sembra adeguata :3 ) e le visualizzazioni! Belli siete!



 
Quando finalmente sentì il treno partire e vide la banchina allontanarsi, John si fece cadere stancamente sulla poltroncina accanto al finestrino.
Sospirando si passò le mani sul viso. Nella testa ancora la voce assordante e leggermente preoccupata di sua sorella Harriet.
Prese la busta che aveva sistemato accanto a sé una volta salito sul treno e guardò in direzione dell’unico altro passeggero dello scompartimento: si trovava nella parte opposta, nei pressi della porta, e sonnecchiava tranquillo, rannicchiato sotto un lungo cappotto grigio scuro, con il viso seminascosto da un borsalino[1] del medesimo colore.
Grato di quell’inaspettato momento di privacy, estrasse dalla busta il barattolo pieno di caramelle a forma di occhi. Per qualche minuto, pensoso, se lo rigirò tra le mani come se da un momento all’altro esso avesse potuto rispondere ad ogni sua domanda.
“John non mi piace questa storia”, la voce di Harry si fece strada nei suoi pensieri.
Anche al dottore tutta quella storia non piaceva, ma gli era stato chiaro fin da subito - almeno sin da quando aveva posato gli occhi su quel dannato barattolo - che se effettivamente stava succedendo qualcosa, quel qualcosa era sicuramente indirizzato a lui: Harriet e Clara dovevano starne fuori e convincere la sorella a non preoccuparsi era stata un’impresa.
Alla fine era capitolata, dando per buona la teoria più banale che John avesse pensato.
Poco prima di arrivare in stazione, con finta noncuranza, John aveva detto: “Dai, in fondo può capitare a tutti di distrarsi in una casa nel pieno delle feste natalizie e con il continuo viavai di amici e parenti! Mentre riordinavate, senza pensarci, avete riposto lì anche il barattolo”. Probabilmente qualcosa nel tono che aveva usato o chissà cos’altro, aveva spinto Harriet a cedere e questa per John era la cosa più importante.

Si volse verso il finestrino senza guardare veramente; il cielo plumbeo non lasciava presagire nulla di buono mentre l’oscurità del tardo pomeriggio avvolgeva lentamente il paesaggio che fuggiva veloce.
In un certo senso anche John stava fuggendo: da una fin troppo nota paura e da una piccola luce che iniziava a farsi spazio nell’oscurità dei suoi pensieri.
Sobbalzò leggermente quando la porta dello scompartimento si aprì cigolando all’improvviso per lasciar entrare una paffuta signora sulla sessantina, avvolta in un lungo cappotto blu.
Un po’ goffamente questa chiuse la porta dietro di sé e non smettendo mai di sorridere, controllò che il numero del suo biglietto corrispondesse, indugiando poi con lo sguardo prima su John e poi sull’altro passeggero che, continuando a dormicchiare beato, non si era minimamente scomposto all’entrata improvvisa della donna.
Alla fine, con un po’ di difficoltà, la signora scelse di sedersi poco lontano dal tizio con il borsalino, piazzandosi di fronte a John, il quale l’aiutò a sistemare il bagaglio nello spazio apposito.
“Com’è gentile, grazie!” disse squillante la signora rivolgendosi a John, poi indicando l’altro passeggero con un cenno della testa, sottovoce, aggiunse: “ Oh, farò meglio ad abbassare il tono della mia voce… non vorrei svegliare il signore…”
Non molto propenso alla conversazione, John si imitò a sorriderle comprensivo per poi tornare a perdersi nelle sue riflessioni.
La mente del dottore era un groviglio di pensieri. Lo smile, gli occhi di caramella che lo fissavano imperterriti dal barattolo che aveva poggiato accanto a sé e sospettava (a quel punto non poteva non inserirlo nella lista delle “cose impossibili” di quei giorni) il violinista del parco; perché quei segni? Perché in quel momento, dopo mesi? Oltre quelli, c’eran stati altri segni che non aveva notato?
Rifletté brevemente anche sul da farsi: avrebbe potuto chiamare Lestrade, ma probabilmente il detective  avrebbe pensato solo a una serie di sfortunate casualità e al vaneggiamento di una mente fin troppo influenzabile.
No, c’era solo una persona che aveva i mezzi per chiarire tutta quella storia; il problema era che quell’unica persona in grado di aiutarlo era anche l’ultima persona sulla terra con cui voleva avere a che fare.

Intanto era iniziato a piovere, i finestrini graffiati da rivoli di pioggia. Forse doveva lasciar passare ancora un po’ di tempo, per vedere se i segni continuavano, per capire esattamente se tutto ciò fosse opera di un pazzo o frutto assurdo del caso.
Nel frattempo la signora si era sistemata e dopo aver preso un libro dalla sua borsa s’era immersa nella lettura. O almeno questa era l’immagine che voleva dare.
Nascosta dietro “La scatola rossa” di Rex Stout[2], a intervalli regolari osservava John con attenzione e curiosità, sperando - con scarsi risultati - che lui non se ne accorgesse.
Dopo qualche minuto passato così, la signora, visibilmente ansiosa, con uno scatto chiuse il libro e, sempre a voce bassa per non disturbare l’altro passeggero, richiamò l’attenzione di John.
“Mi scusi… so che potrà sembrarle strano e inappropriato… e non vorrei essere indelicata, ma scommetto che è una cosa che le dicono spesso: lei ha un viso molto familiare… somiglia molto al Dottor Watson… sa… quel dottore amico dell’investigatore famoso, Sherlock Holmes, che qualche mese fa è stato al centro delle notizie di cronaca…”
Con un sorriso triste, John confermò la sua identità ma aggiunse di non essere dello spirito adatto per parlarne.
Gli occhi della signora s’illuminarono mentre cercava di dissimulare la forte emozione che l’invadeva. Disse: “Naturalmente, Dottor Watson, naturalmente…” distolse per un attimo lo sguardo dal dottore, come se stesse valutando mentalmente cosa fare. Decisa, poi continuò: “Mi chiamo Martha Jones[3]… non intendo essere invadente, dottore… ecco io vorrei solo raccontarle che faccio parte di un gruppo molto attivo del “BelieveInSherlockMovement”[4] non so se ne è a conoscenza…”
In quel momento l’altro “ospite” dello scompartimento grugnì cercando di sistemarsi meglio nella sua scomoda posizione, John non vi prestò attenzione: la signora era riuscita a incuriosirlo: “Molto piacere, Martha… chiamami John. Continua, non so nulla.”
Con le guance leggermente più rosse, Martha si strinse nel suo completo blu, emozionata e imbarazzata allo stesso tempo.
“Beh molte persone seguivano le vostre avventure. Come sai il tuo blog è molto amato. Mio nipote dice che si chiama “fandom”, siamo un vero  e proprio piccolo universo. Molti di noi si riuniscono, sono nati  gruppi di discussione… io stessa ho conosciuto persone meravigliose… e tutto questo grazie a voi. Grazie al detective e al suo blogger. Amavamo il caratteraccio di Sherlock e la tua pazienza, tutti gli aneddoti che raccontavi nei tuoi post… e quando quell’incompetente di Kitty Riley se n’è uscita con quell’articolo su quel giornale di bassa lega, non potevamo crederci… proprio nel giorno in cui… beh, lo sai…”
John continuava a non credere a quello che stava sentendo, Martha continuò: “Così, fin da subito ci siamo mobilitati tutti contro chi preferisce credere a quelle menzogne. Noi crediamo in Sherlock e continueremo a dirlo fin quando la gente non aprirà gli occhi. Scriviamo sui muri, stampiamo volantini, creiamo magliette… non ci arrendiamo… proprio come te, crederemo sempre in Sherlock Holmes…”
John non sapeva che dire, profondamente commosso da quella dimostrazione di affetto. Sapeva che il suo blog aveva un nutrito seguito, ne aveva discusso con Sherlock molte volte ma sapere che queste persone, come lui, continuavano a credere nel suo migliore amico lo lasciava davvero senza fiato.
“Wow, Martha… non so che dire! Non ne sapevo nulla… diciamo che sono stato un po’ distratto ultimamente… “
La signora sorrise comprensiva: “Ovviamente non conosco i dettagli ma… beh non mi sarei mai aspettata che lui potesse arrivare a tanto…”
Guardò fuori per un attimo, pensierosa; poi si sporse quel tanto che bastava per poggiare una mano sul ginocchio sinistro di John e disse: “ Voci sempre più insistenti dicono che è in atto un processo che porterà alla riabilitazione della figura di Sherlock… non so quanto ciò possa essere vero… voglio solo che tu sappia, e credo di poter parlare a nome di tutti, che non sei solo…”
Il viaggio continuò tranquillo su quei toni, con John che ascoltava interessato ed emotivamente coinvolto ciò che Martha gli raccontava.
Incontri, esperienze, opinioni, iniziative. Il gruppo di Martha era uno dei più numerosi di Londra e vi facevano parte anche molte persone che avevano ricevuto direttamente aiuto da parte del detective in svariate occasioni.
Tutto quell’affetto, quella vicinanza, quella convinzione impregnarono il cuore di John; era demoralizzato e quell’incontro con quella donna paffuta e sorridente l’aveva in qualche modo risollevato.
In prossimità di Londra, tra una chiacchiera e l’altra, John e Martha si chiesero se era il caso di svegliare l’altro passeggero ma quando guardarono nella sua direzione, lui non c’era più. Magari, infastidito da tutte quelle chiacchiere se n’era andato e i due troppo presi dalla loro conversazione non se n’erano accorti.

Tornare al suo alloggio fu un po’ come riprendere a respirare; lanciò la borsa da qualche parte e si appoggiò con la schiena alla porta che aveva richiuso dietro di sé e rimase così alcuni minuti, al buio.
Gocce di pioggia sfuggivano alla presa dei suoi capelli, scivolando lentamente lungo il suo viso. Aveva bisogno di una doccia calda e aveva anche un gran bisogno di dormire. La mattina dopo, come tutti i giovedì, sarebbe andato a trovare Sherlock e nel pomeriggio sarebbe andato in ambulatorio per scoprire se quella volta Timothy Carlton si sarebbe presentato.
Decisamente John aveva il bisogno di rientrare nella routine ordinaria che si era costruito in quei mesi. Non poteva concedersi il lusso di prestare attenzione a una serie di quelle che credeva essere infelici coincidenze di nessun valore, nonostante la scarica di adrenalina che sapeva di malinconia e ricordi che ne conseguiva.
A tentoni raggiunse l’interruttore accanto alla porta, accendendo la luce nell’appartamento.
Fu allora che lo vide e a quella vista gli si gelò il sangue.
L’appartamento era piccolo e spartano, un po’ come quello che aveva prima di trasferirsi a Baker Street, forse leggermente più spazioso.
L’entrata dava in un piccolo spazio con un divano, un piccolo televisore e un tavolo che erano poi vicini a un piccolo angolo cottura posizionato sulla destra.
Con cautela, John mosse qualche passo in avanti; chiunque avesse avuto quell’idea sapeva benissimo che sarebbe stata la prima cosa che una persona avrebbe visto entrando dal pianerottolo.
Era la cosa più vistosa e colorata che quell’appartamento avesse mai visto, ed era lì, in bella mostra, attaccata alla parete dietro al divano.
O meglio: pugnalata alla parete. Con un coltello a serramanico nero.
Rimase per alcuni minuti ad osservare con attenzione quello che era il tabellone del gioco Cluedo[5] attaccato con malagrazia alla parete del suo appartamento.
Il ricordo dell’ultima partita che aveva fatto a quel gioco l’assalì. Sherlock si era adirato perché secondo lui, l’unica soluzione possibile voleva che l’assassino fosse allo stesso tempo la vittima. Ovviamente tutti l’avevano contrastato spiegando che la cosa non era contemplata dalle regole del gioco e la serata si era conclusa con il suo migliore amico che, con un gesto di stizza, pugnalava il tabellone sulla parete accanto al caminetto.
Per osservarlo meglio, con freddezza staccò il cartoncino dalla parete: non era quello che avevano a Baker Street; nessuna traccia della macchia di formaldeide su cui per sbaglio, una volta l’avevano appoggiato. Era nuovo, mai usato, probabilmente acquistato proprio per finire pugnalato ad una delle sue pareti.
Con il tabellone poggiato sul tavolo, rimase seduto qualche minuto ad osservare il coltello a serramanico usato. Poi decise: si alzò, afferrò le chiavi e uscì sbattendo la porta.

Il Diogenes Club lo accolse come sempre: in assoluto e religioso silenzio.
Da quella che doveva essere la segretaria della segretaria di Mycroft, fu invitato ad aspettare nell’ufficio di quest’ultimo.
Aspettava, John, con il cuore che gli martellava veloce per l’ansia e la preoccupazione; ma anche per l’idea di rivedere la persona che riteneva responsabile della morte del suo migliore amico. La rabbia, l’odio, il disprezzo e la moltitudine di ricordi che si portava dietro iniziavano lentamente a farsi spazio dentro il suo animo.
Aspettava, mentre cercava di regolare il proprio respiro per calmarsi.
Dopo circa tre quarti d’ora di attesa fu raggiunto dalla segretaria della segretaria che con aria condiscendente gli disse: “ Mi dispiace, Dottor Watson… il Signor Holmes al momento non si trova entro il confine britannico. Se vuole lasciare un messaggio, farò in modo che lo riceva. All’uscita troverà un’auto che l’accompagnerà ovunque desidera.”
John non aveva considerato questa possibilità, ringraziò la segretaria della segretaria e uscì dall’ufficio senza lasciare messaggi di sorta.




 
In una stanza privata al secondo piano del Diogenes, Mycroft Holmes stava versandosi da bere.
Avvicinatosi alla finestra che dava sul cortile d’ingresso del club, bevve un sorso di brandy, mentre con la mano libera scostava leggermente un lato della tenda per poter guardare fuori.
Senza bussare, la ragazza che aveva parlato con John fece il suo ingresso.
“Non ha detto nulla, signore. Se ne sta andando…”
Il maggiore degli Holmes ringraziò la ragazza e la congedò con un gesto. Quando vide John salire sull’auto che gli aveva messo a disposizione, sospirò.
“Non è ancora il momento, John.”

 
 
♪♫n o t e
[1] Non so se lo sapete, nel dubbio evito di farvi cercare :D Il borsalino è un tipo di cappello ed è chiamato così perchè prodotto di punta dell'azienda italiana "Borsalino". Fate un salto su Wikipedia, ci sono anche le foto, ma sicuramente avrete presente il modello. http://it.wikipedia.org/wiki/Borsalino_%28cappello%29
[2] "La Scatola Rossa" di Rex Stout è uno dei romanzi con protagonisti Nero Wolfe e Archie Goodwin. Piccolo omaggio a un altro famoso detective.
[3] Omaggio a una delle companion del Dottore
[4] Penso che conosciate tutti il movimento "I believe in Sherlock Holmes", no? Insomma, chi non ha mai nascosto un "Moriarty was a fake" per strada, nei libri di Conan Doyle o tra i dvd dei film di Downey jr? :3
Per info http://www.tor.com/blogs/2012/01/what-is-the-believeinsherlock-movement-and-how-did-it-get-so-widespread-so-quickly
[5] Ricordiamo tutti il cluedo pugnalato poco sopra il caminetto del 221b in "A Scandal In Belgravia".
G e n i a l e.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Ciao a tutti!!! Questa settimana mi anticipo di poco. In questi giorni, poi, tra l’attesa per Lo Hobbit (Maaaartin! <3), il trailer e le foto di StarTrek IntoDarkness (Beeeeeeen! <3) e il fatto che sto ultimando l’ultimo capitolo di questa fic… diciamo che non riesco a stare ferma XD
Allora… si è capito chi c’è dietro a questi segni??? Forza!!! Buttatevi, teorizzate, fate uscire lo Sherlock che è in voi!!! Anche perché per me che scrivo è difficile sapere se lascio troppi indizi in giro ed è facile da capire o la cosa è difficoltosa… sicuramente avrete qualche ipotesi, no???
Beh, vi lascio alla lettura… a quanto pare le cose si complicano……. Giusto un po’!
 
 


Quel giovedì mattina di fine dicembre, John guardava Londra scorrere via malinconicamente sotto una pioggerella insistente e capricciosa.
Si passò stanco una mano sugli occhi tormentati da profonde occhiaie scure. La sera precedente, una volta tornato a casa, non era riuscito a riposare molto.
Aveva preso carta e penna e si era messo a scrivere alla vecchia maniera, come non faceva da tempo: vergare la penna sul foglio, rileggere la propria calligrafia con la consapevolezza che errori, ripensamenti e sviste sarebbero rimasti nero su bianco, in un certo senso lo rassicurava.
Scrivere era l’unico modo che conosceva per poter liberare la mente da tutte le parole che l’attanagliavano, almeno per qualche momento.
Il violinista, lo smile, gli occhi nel barattolo, il tabellone del Cluedo. Tutte le cose impossibili accadute erano state elencate, raccontate, esaminate e commentate. A quel punto, anche l’episodio del latte svanito la mattina di Natale assumeva una diversa sfumatura: gli aveva ricordato quando, spesso, al 221b si ritrovavano senza e probabilmente proprio a questo mirava chiunque fosse dietro a quelle stranezze.

Scese dal taxi con aria pensosa, percorrendo poi l'ormai familiare tragitto, grato che almeno per un momento avesse smesso di piovere.
Prese un lungo respiro - l’aria sapeva di terreno bagnato e malinconia - mentre un venticello freddo gli andava incontro, portando con sé la calma che precedeva la tempesta.
“Ciao, Sherlock…” disse in un sussurro, mentre si accovacciava quel tanto che bastava per sfiorare con due dita la parte alta della lapide in lucido marmo nero.
“Sai, sono andato a trovare Harriet a Natale… è tornata insieme a Clara… credo stia meglio, ma tu avresti saputo dirlo con certezza…”
S’interruppe qualche minuto per rialzarsi e fare qualche passo indietro. Poi, prima di dire altro, sospirò guardandosi attorno: oltre a lui, un piccolo gruppetto di persone dall’aria triste si stringeva attorno a un prete per quello che doveva essere un funerale.
Poco distante, un triste angelo di pietra lo osservava. Quando se ne accorse, John represse un brivido e inquieto riportò lo sguardo alla lapide dall’aspetto familiare davanti a sé. C’era stato sempre qualcosa d’indefinito, in quegli angeli di pietra, che lo faceva rabbrividire ogni volta[1].
“Accadono cose strane, Sherlock. Seguono un preciso schema… non è la mia immaginazione. Sono tutte cose collegate, tutte cose che mi ricordano te. L’opera di un pazzo, non so cosa stia cercando di dimostrare o cosa voglia da me…“
Sosopirò e nervoso fece un passo in avanti.
“ E, Dio! Sono arrabbiato… perché non riesco a capire, perché… perchè io… io non sono te. Risolverò questa cosa, vedrai… e finalmente potrai riposare in pace… te lo prometto.”
Estrasse il cellulare dalla tasca e scorse la rubrica sino al numero di Mycroft, ma tutto quello che sentì fu una voce computerizzata dirgli atona: “Attenzione: il numero da lei selezionato è inesistente”
Sbuffò, in fondo doveva aspettarsi una cosa del genere. Decise allora di provare a chiamare Lestrade: era mattina inoltrata, avrebbero potuto pranzare insieme.

L’ispettore accettò di buon grado la proposta di John, leggermente preoccupato per il tono che quest’ultimo aveva usato quando gli aveva detto “Ho bisogno di parlarti…” che non preannunciava nulla di buono.
John lanciò un’ultima occhiata carica d’affetto a quelle lettere incise nel marmo lucido e, senza rendersi conto della sfumatura alquanto profetica di quelle parole, disse:
“ Ci vediamo, Sherlock…”
Attraversò velocemente il piccolo cortile della chiesa che conduceva all’uscita del cimitero e, cercando di placare quel po’ di ansia che sentiva all’idea di parlare con qualcuno di quello che stava accadendo, John ringraziò la buona stella che gli aveva concesso abbastanza fortuna per poter cogliere al volo un taxi che passava di lì, senza dover aspettare e cercare per minuti interi.
“Scotland Yard, per favore.” disse serio mentre si sistemava.
A sentire quella richiesta il cabbie[2] alzò uno sguardo incuriosito e allo stesso tempo perplesso sullo specchietto retrovisore, per poter guardare il passeggero.
“Come ha detto, prego?”
Anche John alzò lo sguardo a incontrare gli occhi bronzei del cabbie che lo fissavano dallo specchietto; non riusciva a vederne completamente il volto ma avvertì, ancora una volta, una strana sensazione di incompleto o, meglio, di impreciso.
Imprecisione, sì. Come se degli elementi di una composizione fossero stati messi in un ordine sbagliato. Non riusciva a reprimere una folle sensazione che portava la sua mente a rifiutare l’idea che quel colore bronzeo appartenesse a quel taglio d’occhi.
Sostenendo quello sguardo così particolare, John calmo, disse
“Dovrei andare a Scotland Yard, problemi?”
Un lampo di consapevolezza attraversò lo sguardo del cabbie che subito si affrettò a scusarsi e a mettere in moto.
Durante il tragitto John chiamò Sarah in ambulatorio per sapere se il suo paziente misterioso aveva prenotato la sua solita visita e per informarsi anche su i vari altri appuntamenti previsti per quel giorno.
Ogni tanto sentiva su di sé lo sguardo malinconico del cabbie e non poté fare a meno di chiedersi cosa avesse provocato quel mutamento. Aveva l’impressione di conoscere quel tipo di sguardo: era un po’ come quello che sentiva di assumere lui stesso quando ripensava a Sherlock.
John avrebbe voluto osservare il viso del tassista per farsi un’idea, ma una serie di cose (la fretta, la timidezza del cabbie e l’aria dicembrina che aveva costretto quest’ultimo a coprirsi) aveva reso la cosa impossibile.

Un abbraccio impacciato e varie chiacchiere di circostanza più tardi, John e Greg si ritrovarono seduti a quello che tempo addietro, quasi un’altra vita, era diventato il loro solito tavolo di un piccolo locale nei pressi degli uffici di Scotland Yard.
“Avanti John, ti ho sentito teso prima… dimmi, che è successo?”
Il dottore si prese un attimo per trarre un profondo respiro poi, versandosi un po’ d’acqua iniziò a raccontare tutte le cose strane che gli erano accadute nei giorni precedenti.
Anche allo yarder fu subito chiaro che qualcosa in tutta quella faccenda non quadrava. Parlarono a lungo: i segni si erano fatti via via più evidenti ed entrambi non si sentirono di escludere la possibilità che potessero continuare.
Provarono a farsi un’idea di chi, oltre loro, potesse conoscere quei determinati particolari che facevano parte della quotidianità del 221b ma non arrivarono a nulla di concreto: sebbene l’episodio del violinista poteva ricollegarsi a una serie di battute di cui erano a conoscenza solo John e Sherlock (ed eventualmente Mycroft) per gli altri la cosa non era così facile. Varie ispezioni antidroga e gli svariati clienti del detective aprivano la strada a troppe incognite.
“In più, la cosa del violinista potrebbe davvero essere una casualità, non dimentichiamolo” disse John pensieroso, non voleva tralasciare nulla ma doveva anche essere oggettivo.
Continuarono a discutere ancora per molto tempo e alla fine Greg decise che avrebbe fatto qualche ricerca per vedere se qualche CCTV[3] avesse filmato qualcosa di anomalo.
Usciti dal locale camminarono lentamente sino all’entrata degli uffici di Scotland Yard.
“Sai John…” Lestrade tentennava “una nostra fonte del Daily Mail[4] ci ha soffiato che è giunto in redazione, in via anonima, del materiale che, se pubblicato, ribalterebbe l’immagine di Sherlock. La prova che aveva ragione, la prova che era Moriarty la mente criminale dietro tutto…”
John si schiarì la voce: “Sì, ho sentito anche io questa cosa. Opera di Mycroft?”
Lestrade sorrise e abbassò gli occhi “Penso anch’io…”
Il dottore guardò l’orologio, il suo turno in ambulatorio stava per iniziare. Salutò Greg con la consapevolezza di non essere solo, ma prima che potesse allontanarsi davvero fu richiamato dalla voce dell’ispettore:
“Ho sbagliato quel giorno… avrei dovuto fidarmi del mio istinto, essere più fermo con Anderson e Donovan.. io.. io ti aiuterò a trovare questo pazzo.”
John lo guardò malinconico: se c’era qualcuno che doveva avere i sensi di colpa, questi non era certo Lestrade.

Seduto alla scrivania dello studio che gli avevano assegnato qualche mese prima, John osservava cauto e guardingo gli oggetti attorno a sé, con il timore - e anche un po’ di speranza, nascosta in un angolino del suo cuore - di trovare qualche altro “segno”, un’altra cosa impossibile.
Quel giorno le visite erano state poche: faceva freddo, l’anno volgeva al termine e sempre più difficilmente i suoi pazienti abituali, perlopiù vecchiette, uscivano nel tardo pomeriggio.
Bevve un sorso del suo earl grey chiedendosi se quella volta Timothy Carlton si sarebbe presentato e guardò l’orologio: mancava circa mezz’ora al suo appuntamento.
Il filo dei suoi pensieri fu interrotto dall’entrata di Sarah, incuriosita e leggermente impaziente; ormai il mistero di Mr. Carlton affascinava molta gente. Per quanto tutti in ambulatorio si fossero attivati, nessuno era mai stato in grado di prendere la prenotazione del paziente, che però compariva puntualmente tra gli appuntamenti ogni settimana, e sempre tra gli appuntamenti di John.
“Secondo me è Tiffany… dice che non è vero ma prende lei l’appuntamento…”
Disse la dottoressa accostando la porta e andandosi a sedere sul lettino dello studio: avevano fondati sospetti che qualcuno tra i segretari facesse il gioco di quel paziente.
“Mmh, non so… non mi sembra il tipo. Mickey m’insospettisce di più, anche perch-”
Il dottore fu interrotto dallo squillo del suo cellulare, guardò il display: Mrs Hudson.
“Oh John, caro. Per fortuna hai risposto… ti devo chiedere un grandissimo favore, non lo chiederei se non fossi disperata, devi aiutarmi… posso chiedere solo a te…”
Il dottore iniziò a preoccuparsi a causa del tono ansioso e teso dell’anziana signora. Cercò di calmarla e le chiese di spiegargli cosa stava succedendo. Il pazzo che lo tormentava perseguitava anche lei?
“Sono a casa di mia sorella, nel Derbyshire. Mi hanno chiamato per avvertirmi di una perdita proveniente dal mio appartamento… John, devi andare a vedere! Mrs Turner non c’è e dopo quello che è successo con Mr Chatterje[5], non permetterei mai ai ragazzi dello Speedy’s di entrare in casa mia. Ti prego John, potrebbe essere successo qualcosa di brutto, magari la casa è allagata… sei l’unico che ha le chiavi. So che è difficile, non te lo chiederei se potessi rivolgermi a qualcun altro…”
Il cuore di John si strinse, come poteva dirle di no? Come poteva restare indifferente dopo tutto quello che quella signora dal cuore gentile aveva fatto per lui e, ancor prima, anche per Sherlock?
Cercando di tranquillizzarla le assicurò che appena poteva liberarsi sarebbe andato a controllare che tutto fosse in ordine.
Chiuse la conversazione con aria preoccupata. Sentì Sarah avvicinarsi e poggiargli una mano sulla spalla sinistra.
 “John, vai. Carlton era il tuo ultimo paziente oggi e sai benissimo che non si presenterà… se dovesse ti chiamo… dopo avergli fatto una foto e preso tutti i dati necessari!”
John rise con lei e la ringraziò. In un’altra vita sarebbe stata davvero la donna ideale.


Con un sospiro, Mrs. Hudson poggiò delicatamente il cellulare sul tavolo. L’uomo seduto sul divano davanti a lei applaudì un paio di volte in modo teatrale. “Davvero molto convincente. Brava!” le disse in tono ambiguo. La signora non replicò, né alzò lo sguardo verso il suo interlocutore. Pensierosa bevve un sorso di the; qualunque cosa John avrebbe dovuto affrontare da lì in poi, non sarebbe stato facile.


Quando il taxi lo lasciò davanti al 221 di Baker Street, il cuore di John iniziò a correre all’impazzata. Da quanto tempo non varcava quella soglia? Mesi, ma sembravano anni.
Inserì le chiavi nella toppa. Non le aveva mai restituite, le teneva attaccate al suo solito portachiavi: aveva bisogno di sentirle vicine, di sperare che un giorno tutto sarebbe potuto tornare come prima.
Sapeva che era una speranza vana, ma quelle piccole chiavi tintinnanti rappresentavano in qualche modo tangibile la sua vecchia vita; qualcosa che era accaduto davvero e che non era stato solo un sogno.
Si richiuse lentamente la porta alle spalle e osservò l’entrata delle stanze di Mrs Hudson. Cercò con tutte le sue forze di ignorare la rampa di scale che portava al suo vecchio appartamento e si diresse in cucina: tutto in ordine, tutto in perfetto stato. Non c’era bisogno di allarmarsi così tanto, in fin dei conti.
Si voltò deciso a non restare un minuto di più, ma quando si ritrovò vicino quella rampa di scale, il cuore, l’anima, il cervello iniziarono tutti insieme a gridargli di salire, per poter respirare ancora una volta l’odore di ricordi e sostanze chimiche del suo vecchio appartamento.
E allora, tremante, John salì il primo gradino.

Dicono che la casa è dove si ha il cuore.
John Watson sapeva che il suo cuore apparteneva, e sarebbe sempre appartenuto, al 221b di Baker Street, chiuso molto probabilmente nel frigorifero tra una testa e un fegato.
Quell’idea fu troppo e John si bloccò non riuscendo a salire nemmeno un altro scalino.
Con un peso enorme sul cuore si sedette su i primi gradini della rampa, non molto distante dalla porta di entrata e dalla parete alla quale era appoggiato nel momento esatto in cui aveva capito che Sherlock Holmes gli avrebbe cambiato la vita per sempre[6].
Per distrarsi prese il cellulare e scorse la rubrica per chiamare Mrs. Hudson e rassicurarla. Tuttavia non aveva fatto i conti con le sue dita che continuarono a scorrere la rubrica per molti istanti, fin quando non si fermarono su un nome: “Sherlock”
Preso da chissà quale smania, John diede l’ok alla chiamata e con una lacrima che gli fuggiva dagli occhi, accostò il telefono all’orecchio nell’attesa di sentire qualcosa, qualunque cosa, anche lo stacco di un numero non più esistente.
“Sherlock Holmes, unico consulting detective del mondo. Lasciate un messaggio se avete qualche problema che volete risolvere. Niente casi noiosi!”
John non poteva credere a ciò che aveva sentito. Aveva dato per scontato che Mycroft avesse disattivato la scheda del fratello e invece eccolo lì, schiaffeggiato proprio dalla voce del suo migliore amico. Familiare e irritante allo stesso tempo, non avrebbe mai potuto dimenticarla.
Le lacrime scendevano ribelli e silenziose. Guardò il telefono indeciso se rivivere quel piccolo shock quando un rumore metallico attirò la sua attenzione: qualcuno aveva fatto cadere attraverso la buca delle lettere una grande busta da lettere gialla piegata in due.
Corse verso la porta e l’aprì ma fuori era tutto tranquillo, non avrebbe mai potuto individuare chi aveva portato quella lettera.

La dispiegò, nessun mittente. Un solo destinatario: John H. Watson, Md.
Si schiarì la voce cercando di recuperare un minimo di lucidità. Lentamente aprì la busta che, sebbene più pesante di una comune di quella grandezza, sembrava innocua.
Conteneva una serie di fogli plastificati, un post-it e un cd.
Si sistemò meglio sotto la luce dell’ingresso e prese i fogli plastificati su cui c’era il post-it.
Diceva:

Presta attenzione, John.
Un amico

I fogli si rivelarono essere delle foto: alcune in alta definizione, altre sgranate e prese da lontano.
Unico comune denominatore: John.
John che entra alla Tesco[6], John che esce dalla Tesco, John davanti alla lapide di Sherlock, John in taxi, John alla finestra del suo studio in ambulatorio, John che pranza con Sarah, John che passeggia con Mrs. Hudson, John che compra il giornale. John, John, John.
Riguardò quelle fotografie più e più volte, cercando di non prestare attenzione al brivido di adrenalina che familiare gli attraversava la schiena.
Si firmava “un amico”, lo metteva in guardia. Ma in guardia da cosa? Era la stessa persona che cercava di attirare la sua attenzione facendo materializzare cose impossibili dal suo passato o qualcuno che, semplicemente, sapeva e voleva aiutarlo?
Afferrò le foto, il post-it e la busta per poi uscire di fretta.
C’era solo un’altra cosa da fare: esaminare il contenuto del cd.
 


Come sempre le ♫ n o t e
[1]Avete mai notato che dietro John, poco distante dalla tomba di Sherlock, nel discorso "One more miracle, Sherlock... for me...", c'è un molto super creepy angelo piangente?
[2]"Cabbie" è come vengono chiamati comunemente i tassisti londinesi. Sì, anche i pazzi omicidi come quello di A Study In Pink.
[3]Le CCTV sono le telecamere di sorveglianza. Sì, quelle cosine che Mycroft comanda manco stesse giocando con la PS3.
[4]Il Daily Mail è un noto quotidiano inglese, un tabloid D:
[5]Nella 2x02, Hounds of Baskerville, Sherlock deduce che Mrs. Hudson hem... cerca le attenzioni di tale Mr.Chatterje, col quale avrebbe dovuto andare in crociera. Lui però ha una moglie a Doncaster, cosa che solo Sherlock - naturalmente XD - sa.
[6]Mi riferisco al momento in cui, nella 1x01, Sherlock dice a John di andare a vedere cosa vuole l'uomo che subito dopo bussa alla porta del 221b: Angelo col suo bastone dimenticato. Ammmoreh
[7]La Tesco è una famosa catena di supermercato inglese.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Ciao a tutti, come va?
Aaaaallora, nello scorso capitolo Sherlock s’è fatto vedere un po’ di più (sì, lui è sempre tra le righe… in effetti) travestito da cabbie. Era chiaro? D:
Capitolo di svolta, questo. Le cose cominciano a prendere una determinata direzione e decisioni importanti (e impulsive) verranno prese. Occhio alle conseguenze.
Grazie a chi ha letto e chi ha commentato fin ora!!! E vi dirò, pazientate ancora: nel prossimo capitolo, qualcuno potrebbe fare ritorno… e John?? XD
Ok, basta! Mi fermo qui, come direbbe River Song “Spoiler!!!”


Ps. Grazie a Marty che mi ha ospitato per pubblicare. Sore par a SOR!!!



 
La verità è una battaglia di percezioni. Le persone vedono soltanto ciò che sono in grado di affrontare.
Non conta quello che guardi, ma quello che vedi.
E quando percezioni diverse combattono le une contro le altre, la verità tende ad essere smarrita e i mostri trovano il modo di uscire allo scoperto.

Revenge



Fissava i tasti numerati accendersi progressivamente John, pur di sfuggire alla sua immagine riflessa nello specchio e al salire pigro dell’ascensore del suo stabile. Ma quanto tempo ci metteva?! Odiava gli ascensori.
Una volta arrivato al piano, percorse a passo sostenuto il ballatoio: ovviamente, pensò, il suo appartamento doveva essere quello più lontano.
Che cosa curiosa la fretta, col suo tipico potere di allungare distanze che in altre circostanze affronteremmo in pochi secondi senza curarcene minimamente.
Più John smaniava di tornare a casa e accendere il computer, più qualcosa si metteva di mezzo a impedirglielo: il freddo, la pioggia, il traffico, quel maledetto ascensore che aveva impiegato secoli a salire sette banalissimi piani.
Ma proprio quando pensava d’avercela fatta, John si bloccò a poca distanza dalla porta del suo appartamento, domandandosi dove fosse finita la buona stella che tanto l’aveva aiutato: davanti all’entrata, seduta sul suo borsone, Harriet cinguettava allegramente con Pryia, la figlia appena maggiorenne della famiglia indiana che viveva nell’appartamento accanto al suo.
John avanzò di qualche passo, stringendo a sé la busta gialla in un gesto automatico e inconsapevole; non appena la sorella si accorse della sua presenza, scattò in piedi allegra e sorridente.
“Sorpresa!”
Perplesso, cercò di stare dietro all’euforia della sorella - in modo non molto convincente tra l’altro - e dopo aver salutato con fare sbrigativo anche la ragazza indiana, fu ben felice di dare le spalle a quella strana coppia per aprire la porta dell’appartamento.
Accese per prima cosa le luci e si guardò intorno sommariamente: tutto in ordine.
Poggiò la busta gialla sul tavolo per poi tornare alla porta: una volta afferrata la borsa della sorella, le intimò con tono serio di entrare nell’appartamento.
“Harriet, cosa diavolo ci fai qui?” le disse mentre poggiava distrattamente il bagaglio sulla prima sedia libera che gli capitò a tiro.
La ragazza sbuffò e roteò gli occhi platealmente sistemando il cappotto sull’appendiabiti.
“Fratello, non fare l’antipatico! Sapevo che alla fine ti saresti trovato solo l’ultimo dell’anno… Clara va da i suoi e ho pensato di venire a farti una sorpresa…”
Il dottore afferrò una sedia, lanciando un veloce sguardo alla busta gialla che lo fissava dal tavolo, e si sistemò in modo da trovarsi davanti alla sorella che nel frattempo si era accomodata sul piccolo divano dell’appartamento.
“Con un giorno d’anticipo… e immagino non c’entri nulla il fatto che mal sopporti Rose…”
Il tono del fratello era ironico ed Harry sospirò arrendendosi: “Sì, dai un po’ è vero… ma quella donna mi odia! Come se il solo fatto di essere mia suocera possa giustificarla a trattarmi male…”
John si sporse un po’ di più dalla sedia per poter incontrare nuovamente lo sguardo di Harry:  “Non importa. Domattina ti accompagno alla stazione e torni a casa da Clara, non puoi restare qui.”
“John ma… ma io sono venuta soprattutto per stare con te!”
“Lo so, lo so.  Ma… non puoi restare. E’… è pericoloso qui, Harriet”
Lo sguardo di John era fermo e allo stesso tempo preoccupato; era il suo modo di comunicare con la sorella, il suo modo di dirle “adesso basta con i giochi, sono serio”.
Il loro rapporto non era mai stato uniforme, c’era sempre stato quel delineato confine tra amore/odio e tra complicità/indifferenza, tipici delle dinamiche tra fratelli, in cui entrambi cercavano di rientrare quando si accorgevano di averlo superato.
John era stato il piccolo di casa, il figlio perfetto, Harriet la pecora nera. Dietro il carattere apparentemente spensierato si nascondeva una ragazza fragile, alla disperata ricerca dell’approvazione della famiglia.
E John lo sapeva. Anche per questo cercava sempre di tornare sui suoi passi, di riparare gli inevitabili strappi che venivano a crearsi con la sorella; troppo presto John s’era assunto un ruolo che non gi spettava, di fratello maggiore, di figlio responsabile, di quello che stava sempre lì a riparare ai guai in cui Harry inevitabilmente finiva.
Durante tutta la sua vita, Harriet aveva visto poche volte quello sguardo deciso e preoccupato negli occhi del fratello: quando era morta la nonna materna che li aveva cresciuti, quando gli aveva comunicato la sua intenzione di divorziare da Clara, la prima volta che aveva provato a scappare di casa e lui l’aveva convinta a tornare, quando le aveva detto di essere in partenza per l’Afganistan, la prima volta che era andato a prenderla all’uscita di una discoteca perché troppo sbronza per poter tornare da sola e quando le aveva detto di aver scelto lei alla famiglia che l’aveva allontanata quando era diventato chiaro a tutti quali fossero le sue inclinazioni sentimentali.
“Che succede, John? C’entrano anche le caramelle che abbiamo trovato l’altro giorno, vero? Voglio sapere, devi dirmelo…”
Il dottore sospirò rassegnato, sapeva bene che non c’era modo di convincere la sorella a stare fuori da quel casino.
“Va bene, ti racconterò tutto… ma domani mattina torni a casa. Promettimelo, Harriet!”
“Sìsì, come dici tu” acconsentì Harry  con un gesto sbrigativo.
E John ancora una volta, quel giorno, raccontò tutte le cose impossibili che gli erano capitate, concludendo con la busta gialla che prese dal tavolo e porse alla sorella.
“Oh mio Dio…” sussurrò Harriet a se stessa, mentre guardava stupita le foto che ritraevano la quotidianità del fratello.
“ ”Presta attenzione, John. Un amico” e se non fosse un avvertimento? E se fosse una minaccia? Insomma, guarda queste foto!”
Il tono della ragazza aveva assunto una sfumatura preoccupata.
“Non credo… non avrebbe senso scrivere “presta attenzione”, no? Avrebbe scritto “Ti tengo d’occhio” o “stai attento”,“sei avvisato”“
Harriet si alzò di scatto.
“Ti sei messo a fare il linguista, adesso? John non sottovalutare questo… questo folle!” disse gesticolando nervosamente con le mani “Piuttosto, accendi il computer… vediamo cosa c’è in questo cd!”
Seduti l’uno accanto all’altra, osservavano il laptop accendersi pigramente; John, con fare nervoso, picchiettava le dita della mano sinistra sul tavolo, mentre Harry osservava attentamente l’elegante calligrafia che vergava il posti-it, come se avesse potuto rivelarle da un momento all’altro chi mai fosse dietro a tutta quell’assurda storia.
Deciso, John inserì il cd e Harriet, inconsciamente, trattenne il respiro: conteneva un file audio.

Pronto? 
La voce di John riecheggiò chiara nell’appartamento. Era la registrazione di una telefonata.

John.

John raggelò. Era QUELLA telefonata. [1]

Hey, Sherlock. Tutto bene?
La voce è tesa, il dottore va di fretta. In sottofondo una macchina si allontana.

Voltati e torna indietro.
Anche la voce del detective è tesa.

Io entro.
John sa che deve trovarlo.

Fa’ come ti chiedo e basta!
Per favore.

Sherlock ora è ansioso 

Dove?
Il dottore inizia ad essere spaesato, non capisce. In sottofondo il rumore dei suoi passi: sta tornando indietro come gli è stato chiesto.

Fermati lì.

Sherlock?
Continua a non capire, John.

Ok, guarda in alto. Sono sul tetto.
Ora il detective sembra più calmo, la sua voce ha una strana sfumatura.

Oddio.
Eccolo, John l’ha trovato. E’ sul cornicione del tetto dell’ospedale, che cos’ha in mente?

Io non… non… non posso scendere, quindi dovremo fare così.

“No, BASTA!”
Stizzito, John abbassò con uno scatto lo schermo del computer portatile. Non voleva andare oltre, non voleva ascoltare, non voleva sentire il dolore che diventava sempre più feroce ad ogni parola.
Cercando di combattere le lacrime che pungevano impazienti di scappargli dagli occhi, si passò una mano sul volto, sospirando profondamente. Harriet gli posò, leggera, una mano sulla spalla sinistra.
Il suono si era interrotto e il piccolo appartamento piombò nell’assoluto silenzio, infranto solo dal respiro affrettato di John.
“Avanti John… dobbiamo finire di ascoltar!” sussurrò Harriet stringendosi un po’ più al fratello. Questi alzò lo sguardo verso la sorella: il blu dei suoi occhi s’era fatto più intenso dietro al velo delle lacrime.
“No, Harry. Non voglio rivivere questa cosa…”
“Ma se questo cd era nella busta insieme alle foto… magari è importante che tu l’ascolti!”
John si alzò lentamente; guardò la sorella, iniziava a sentire la rabbia farsi spazio da qualche parte nel suo cuore.
“Non capisci? Ricordo tutto di questa telefonata, come potrei dimenticare?” prese un lungo respiro e indicando il laptop continuò: “Questa conversazione è nei miei incubi, ogni volta che chiudo gli occhi sento, vedo, il mio migliore amico dirmi addio… ti dico io come continua… dirà che mi deve delle scuse, che è ed è sempre stato un impostore, che devo dirlo a tutti… che i giornalisti avevano ragione e anche la sua deduzione sulla mia vita, su di te, quando ci siamo conosciuti era stata frutto di una ricerca…”
Per tutta risposta Harriet si alzò e disse “Adesso preparo un the e ti calmi, poi ne riparliamo…”

La tazza fumava oramai da cinque minuti buoni, l’unico rumore nella stanza era il cucchiaino che John continuava a girare, forse senza nemmeno rendersene conto.
Harry aveva bevuto due o tre sorsi, altalenando il suo sguardo tra il fratello e il computer ancora in standby.
“Questa persona sta cercando di comunicarti qualcosa, hai detto che anche quel tuo amico ispettore stamattina era convinto di questa cosa… John dobbiamo finire di ascoltare il file… anzi, se vuoi lo ascolto io…”
Harriet sperava dentro di sé che il fratello cambiasse idea, che potessero affrontare tutto quello insieme.
Lui bevve un sorso del suo the e poi lentamente si sporse a riaprire il computer.
“No, hai ragione, devo essere lucido. Finiamo di ascoltare… è arrivato il momento di affrontare questa cosa…”
Non poteva più scappare, John, ne era consapevole. I suoi demoni avevano comunque trovato il modo di andare a tormentarlo; rifiutare di affrontare il problema avrebbe solo posticipato l’inevitabile epilogo di quella storia che si stava profilando davanti ai suoi occhi.
Ancora una volta l’assoluto silenzio fu il testimone di quel salto nel tempo. Nessuno dei due fratelli osava profferire parola: occhi chiusi e pugni stretti, John, cercando di non soccombere alle fitte al cuore che la voce in lacrime del suo migliore amico gli provocava; a braccia incrociate, stretta a se stessa, Harriet, che cercava di mantenersi lucida mentre il suo cuore piangeva assistendo a tutto quell’amore e a tutto quel conseguente dolore, che il fratello era stato condannato a provare nella sua vita.
Si accorse di star piangendo solo alla fine della traccia, alla fine della telefonata, quando aveva avvertito distintamente una lacrima poggiarsi lenta sul suo zigomo destro; la carezzò via in un gesto veloce, carico di significato, come a volersi riprendere il ruolo di sorella maggiore da tempo dismesso.

Aveva gridato, John, quel maledetto giorno; aveva chiamato l’amico con tutta l’aria che aveva nei polmoni nel disperato, quanto inutile, tentativo di impedirgli di lanciarsi nel vuoto. E quel grido, in modi così diversi, aveva spezzato il cuore di entrambi i fratelli Watson.
“Poi che è successo? Che cosa hai fatto?” disse Harriet guardando finalmente il fratello e infrangendo la calma apparente in cui l’appartamento era sprofondato.
Che razza di domanda era? John era confuso ma rispose ugualmente.
“L’ho visto cadere… ho provato ad avvicinarmi ma… mi è finito addosso un ciclista, sono caduto e ho battuto la testa… comunque quando sono arrivato e l’ho visto lì… in un mare di sangue… Harry, era troppo tardi… gli ho sentito il polso e…”
Il dottore si bloccò. Era la prima volta che raccontava alla sorella quella storia.
“Riascoltiamo…” Harriet sembrava decisa, John la guardò con aria spaesata.
“Dev’esserci qualcosa che non abbiamo colto… deve esserci. Chiamalo sesto senso femminile.” e senza lasciare al fratello possibilità di risposta, riavviò il file audio.
Riascoltarono quella conversazione telefonica almeno altre due volte, fin quando la ragazza si alzò a passeggiare per l’angusto soggiorno, seguita dallo sguardo pensieroso di John: Harry aveva ragione, anche lui aveva sempre pensato ci fosse qualcosa di strano in quell’assurda ultima conversazione con Sherlock, ma non aveva mai osato approfondire quella sensazione per senso di colpa, per paura e per Dio solo sa cos’altro.
“Continua a non convincermi… perché insisteva tanto? “Vai avanti, torna indietro, guarda me”… cavolo! Ti ricordi Mr Davies [2] che fu costretto a fare da regista per la recita quando ero in terza elementare? Uguale!”
John alzò gli occhi al cielo; per quanto conservasse un ricordo altrettanto spiacevole della recita, seppur più vago, in quel frangente pensò fosse meglio non darle corda o non avrebbe più smesso di parlare di costumi andati a fuoco, il ruolo della nonna che non voleva interpretare e genitori sconvolti dalla visione postmoderna della piccola cappuccetto rosso.
La ragazza però lo sorprese, continuando la sua piccola personale analisi.
“E poi che vuol dire “Non posso scendere, quindi dovremo fare così”?” disse virgolettando con le mani con veemenza, in direzione del fratello, le parole di Sherlock.
Un’ombra passò veloce sul volto di John, ma la ragazza parlò prima che potesse anche solo formulare una qualche risposta: “Se ti stessi per togliere la vita, perché dire “non posso”? Io direi “non voglio”“
John soffocò un ghigno nervoso, Harriet stava davvero cercando di capire i meccanismi della mente di Sherlock?
“Ti metti a fare la linguista, adesso?” disse in un tono più acido di quanto s’era prefissato.
Ignorò l’occhiata in tralice che la sorella gli riservò e alzandosi a sua volta per andare a riporre la tazza, ormai fredda e vuota, continuò: “Non lo so… potrebbe essere tut-”
Si bloccò, John; guardò la sorella con una strana luce negli occhi.
“Ma certo! Pensaci un attimo… quest’ “amico” mi ha inviato la registrazione affinché l’ascoltassi… ma chiunque potrebbe averla oltre a lui, no?”
Harry sorrise spesata, era il suo modo per dire al fratello “non riesco a seguirti”. Lui si passò una mano tra i capelli sorridendo nervoso: non ci aveva mai pensato realmente sino a quel momento, tutta la stanchezza che si portava dietro era svanita all’ombra di un pensiero tanto sensato quanto folle.
“Chiunque potrebbe aver ascoltato la nostra ultima conversazione, è questo il punto. Ci spiavano anche a casa, i telefoni dovevano essere controllati! Lui sapeva, ma certo che lo sapeva… era sempre tre passi avanti a tutti!”
Afferrò la sorella per le spalle, ancora visibilmente perplessa.
“Harry magari è un’idiozia ma se… se Sherlock avesse voluto dirmi qualcosa prima di morire? L’hai detto anche tu che c’è qualcosa di strano…”
“Sì, hai ragione… l’ho detto… però ci sono anche altre cose che non tornano, John.” rispose Harriet mentre si andava a sedere sul piccolo divano, i gomiti appoggiati alle ginocchia. John si accomodò accanto al tavolo e con uno sguardo invitò la sorella a proseguire.
“Il ciclista… ti è andato addosso, capisco che tu possa non averlo visto in quel determinato frangente ma lui DEVE aver visto te, avrebbe potuto evitarti…”
John strinse gli occhi come a voler mettere a fuoco un ricordo lontanissimo.
“E’ arrivato all’improvviso, ero di spalle e mi ha preso completamente il lato destro” John si torse sulla sedia a mo’ di esempio per Harry e continuò, la voce che andava ad affievolirsi diventando un sussuro: “Non so dire quanto andasse veloce ma ho perso l’equilibrio e lui s’è dileguato… tutto questo mentre il mio migliore amico moriva in un lago di sangue”
Lo sguardo di John, perso per un momento nei suoi pensieri, fissava ancora il pavimento quando Greg Lestrade chiamò.
“John è iniziato, accendi il televisore… anche la Beeb [3] ne sta parlando!” 

… a parlare di quest’incredibile svolta, dopo quasi un anno di indagini, nel caso che tanto ha diviso l’opinione pubblica. La figura del detective privato Sherlock Holmes, accusato di aver pagato un attore, Richard Brook, per impersonare James Moriarty, la mente a capo di una grande organizzazione criminale, è stata riabilitata da nuove interessanti scoperte. Poco fa abbiamo seguito in diretta la conferenza stampa durante la quale il detective Scot [4], a capo delle indagini, ha infatti rivelato l’inesistenza dell’attore Richard Brook e di tutta la campagna diffamatoria nei confronti di Holmes. La polizia, ha affermato Scott, ha  prove inconfutabili che proverebbero l’innocenza del detective privato e l’esistenza della vera e propria mente criminale dietro tutta questa incredibile storia, Moriarty, tutt’ora irreperibile alle forze di polizia che, ha confermato il detective Scott, proseguiranno con le indagini per assicurare quest’uomo alla giustizia. Ma colleghiamoci ora con la nostra corrispondente da Baker Street, impegnata a rintracciare l’altro grande irreperibile di tutta questa storia: il collega e compagno del fu Sherlock Holmes, il Dottor John Watson, l’unico che con ostinazione aveva continuato a professare l’innocenza del suo, diciamo, amico… allora Quinn, che novità?

“Compagno? Ancora con questa storia?!” disse John per poi avvicinarsi alla finestra. Aveva cambiato così tante volte appartamento che dubitava i giornalisti l’avessero già trovato; su tutta quella storia della riabilitazione c’era la firma di Mycroft e John sapeva che anche questo gli avrebbe concesso ancora qualche tempo di anonimato.
“John devi spostare la sedia, non vedo da qui!”
John si voltò a guardare prima la sorella e poi il televisore: dalla sua posizione Harriet aveva la sedia su cui aveva appoggiato la borsa che le ostacolava la visuale.
“Cosa c’è da vedere? Sono immagini di repertorio, non hanno niente di nuovo… e poi guarda che se ti sposti più a destra riesci tranquillamente a vedere!”
Harry assunse un’aria imbronciata, possibile che alla loro età dovessero fare ancora quelle scenette? Si mosse di qualche centimetro riservando al fratello un’occhiataccia che diceva molto “Ecco, contento?”e infatti a voce, poi, aggiunse: “Continuo a non vedere, John! Dai sei già in piedi, che ti costa? Non è Buckingham Palace, devi fare tre passi! Daaaai, mi sto perdendo tutto il servizio sulla tua presunta storia d’amore!”
Lui sbuffò e incrociò le braccia al petto, gli sembrava di parlare con Sherlock quando era troppo pigro per prendersi cose anche a due centimetri da lui.
“Se non occupassi tutto il divanetto con le gambe ti accorgeresti che spostandoti più a destra, vedresti… senza dover scomodare me!”
La sorella si produsse in un verso di disappunto spostandosi, finalmente, sulla parte destra del divano, puntellandosi sulle braccia, nel tentativo di guardare il televisore che nel frattempo aveva mandato un video di interviste  a persone - che John non aveva mai visto -  che sembravano tutte concordare sul fatto che Sherlock fosse stato “davvero una brava persona che salutava sempre”.
Soddisfatto, John cercò di dissimulare una risatina con un colpo di tosse, andandosi poi a sedere nella parte del divano lasciata libera dalla sorella.
“E comunque guarda che da qui un po’ si vede, dai…”
Harry si voltò a guardare il fratello con aria di sufficienza, gli rispose: “Sì, ma non vedevo la parte inferiore, dove scorrono gli aggiornamenti... è quella la parte importante!”
A quella risposta, John si voltò a guardare il televisore che continuava a ciarlare delle cose più insensate e trattenne inconsciamente il fiato per qualche secondo mentre un’idea folle attraversava fulminea e implacabile la sua mente.
“Bastardo…” la voce del dottore era un sussurro “Che bastardo!”
La sorella, continuando a guardare davanti a sé, gli rivolse un distratto “che?”
John scattò in piedi ridendo nervosamente, si avvicinò al televisore e lo spense. Harriet lo guardò perplessa ma lui, massaggiandosi la nuca, continuava a sorridere e a imprecare.
Alla fine s’inginocchiò davanti alla sorella e disse: “Harry… prima… prima hai detto che non riuscivi a vedere a causa della borsa sulla sedia…”
La sorella annuì preoccupata dalla nuova luce nello sguardo del fratello, lui continuò: “Io ti ho detto di spostarti… capisci? La cosa che non tornava nella telefonata, lui che insiste tanto a posizionarmi come faceva Mr Davies con te alla recita…”
“John, io non…” Harriet continuava a non seguirlo.
“Nel punto in cui ero, in cui lui ha insistito tanto che fossi, io... avevo davanti il palazzetto delle ambulanze… l’ho visto lanciarsi, mi sono avvicinato e il ciclista mi ha urtato e poi l’ho visto a terra in un lago di sangue…”
“Dici che il ciclista ha fatto in modo di distrarti?” la sorella lo incoraggiò.
“Harry io non ho visto l’impatto!” rimasero in silenzio qualche istante, elaborando entrambi quell’incredibile possibilità.
“E lo so che è un’idea assurda e folle e fuori dal mondo… ma diamine! Lui era assurdo, folle e fuori dal mondo!”
“John non starai davvero pesando che…” Harriet guardò il fratello e la frase le morì in gola.
“Sì, lo sto pensando. Sherlock potrebbe essere vivo!”
I fratelli Watson passarono l’ora successiva a discutere, analizzare e fare ipotesi. Ben presto fu chiaro ad entrambi che la sopravvivenza di Sherlock, per quanto a quel punto possibile, fosse altamente improbabile.
Che motivo avrebbe avuto di farlo? Perché, poi, far passare tutto quel tempo facendo credere a tutti di essere morto? Perché condannare John, ma anche Mrs. Hudson e Lestrade, a un dolore inutile?
Il cuore di John, la fiducia che aveva sempre riposto nel migliore amico, chiedevano a gran voce di lasciarsi andare completamente alla speranza: quante cose impossibili e straordinarie gli aveva visto fare?
Il suo cervello e il suo animo da medico, però, dissentivano: l’aveva visto cadere e soccombere alla forza di gravità, aveva visto il sangue, tanto sangue, e aveva sentito il polso assente.
Era in una specie di limbo, John. Elettrizzato all’idea che la vita potesse tornare indietro a com’era prima e al contempo pietrificato dalla paura che quella che stava vivendo fosse solo l’ultima illusione di un dolore che probabilmente avrebbe portato sempre con sè.
Harriet cercò di essere oggettiva e collaborativa, ma non poté fare a meno di esprimere a parole ciò che entrambi avevano pensato nel momento in cui avevano accettato la, pur remota, possibilità che Sherlock fosse ancora in vita.
“John, cosa hai intenzione di fare adesso? E se… e se Sherlock fosse davvero morto?”
Il dottore osservò il volto teso e preoccupato della sorella, la sua domanda era legittima: non è mai una buona cosa dare speranza a un uomo per poi togliergliela.
“Per quanto riguarda la prima domanda, credo che domattina, dopo aver accompagnato te alla stazione…” il tono eloquente con cui John sottolineò la cosa indusse Harriet a lasciarlo continuare “Andrò al Diogenes e non mi muoverò di la fin quando non parlerò con Mycroft… anche se mi da fastidio è l’unico che può scoprire chi è che mi manda queste cose, poi vedrò…”
John abbassò gli occhi sospirando.
“Per la seconda domanda, che vuoi che dica? Soffrirò come ho sofferto sin ora, ma è una cosa che ho messo in conto, Harry. Se è vivo lo prenderò a pugni e probabilmente lo ucciderò io stesso “ sorrise all’idea “Se è davvero morto… beh una volta scoperta l’identità del pazzo e ricostituita una volta per tutte la sua memoria, lui potrà riposare in pace e io andare avanti con la mia vita…”
Non credeva tanto a quelle parole, John, ma sperava che la sorella potesse credergli ugualmente. Dentro di sé avvertiva una sorta di presentimento, più forte della paura della speranza disattesa e che lui stesso bollava come stupida, che però lo faceva sentire incredibilmente in pace con se stesso.
A Harriet sembrò opportuno non continuare quel discorso e cercare invece una qualche distrazione, una notte di riposo avrebbe permesso al fratello di mettere a fuoco i suoi pensieri.
“Beh è ora di cena! Vado a prendere qualcosa all’indiano qui sotto…” John avvertì un leggero tono di malizia in quelle parole e la guardò con aria interrogativa.
“Beh qualcuno potrebbe riconoscerti e sarebbe la fine con i giornalisti… chiamare non ha senso visto che è qui sotto e poi…” aggiunse in tono eloquente e squillante “Potrei chiedere a Pryia di accompagnarmi, visto che è il negozio di suo padre… com’è che si chiama? Ah Ranjit, che uomo simpatico!”
Il fratello si passò una mano sugli occhi, Harriet non cambiava mai.

Liberò ed apparecchiò il tavolo alla bell’e meglio, andandosi poi a sedere sul piccolo divanetto.
La televisione, ancora spenta, lo fissava impassibile; provò a chiamare Mycroft ma il risultato fu lo stesso di quella mattina: numero inesistente.
Abbandonò il cellulare gettandolo sul divano accanto a sé, prese un lungo respiro chiudendo gli occhi. Gli tornarono in mente le parole di quello che era stato il suo mentore alla facoltà di medicina, tanti anni addietro. Il buon dottor Smith in uno dei tanti incontri per definire la tesi, aggiustandosi il caratteristico farfallino rosso che indossava sempre, gli aveva detto: “Ragazzo mio, l’universo è grande, vasto e complicato e qualche volta, molto raramente, le cose impossibili, soprattutto a noi che abbiamo scelto questo mestiere, questa vocazione, capitano. E noi le chiamiamo miracoli”. [5]
Nel corso della sua vita, John, aveva assistito a molti miracoli ma nessuno sembrava aver ascoltato quando ne aveva chiesto espressamente uno.
Ora, dopo svariati mesi di distanza, la vita sembrava avergli risposto e sperò con tutto il cuore che la risposta fosse quella giusta.

Iniziò a preoccuparsi quando, mezz’ora dopo, Harriet non era ancora rientrata. Possibile mai che dovesse perdere il tempo a fare la scema con la figlia di Ranjit?
In quel momento il cellulare iniziò a vibrare e John rispose senza guardare il display.
“Pronto?”
“John!” La voce di Harriet era acuta, respirava velocemente e sembrava quasi tremasse.
“John… voglio che stai calmo… ma… u-un uomo mi ha rapito e vuole…” John sbiancò e si paralizzò, Harriet aveva smesso di parlare, poteva sentirne solo i singhiozzi.
“Harry! Harry dove sei?”
In sottofondo sentì un rumore sordo e una voce maschile severa dire “Finisci, muoviti!”
Harriet, ora completamente in lacrime, continuò: “Vuole che ti dica che non d-devi avvertire nessuno dei tuoi amici yarder e che devi venire a prendermi… così… così tutto sarà più chiaro…”
“Harriet, andrà tutto bene, ti troverò, sta’ tranquilla!”
La sorella, sempre più spaventata e in lacrime, continuò: “Sono nell’undicesima aula studio del St. Barts, a quest’ora è chiuso… Oh, John.. hai 20 minuti, non venire John, JOOOOHNN!”
John riuscì a sentire un altro rumore sordo e il gridare della sorella. Il suo stalker aveva deciso di passare ai fatti a quanto sembrava. Iniziò a respirare velocemente, doveva andare all’appuntamento.
Senza andare nel panico si diresse in cucina, aprì un cassetto e prese la pistola che non usava da tempo. Afferrò il cappotto e uscì sperando di arrivare in tempo.
 
 
Note.
La citazione all'inizio è tratta da Revenge. Serie bellissima, ve la consiglio!
[1] Devo per forza specificare, anche se so che non c’è bisogno. E’ la telefonata tra Sherlock e John in Reichenbach.
[2] Piccolo omaggio all’uomo che c’ha riportato il Dottore: Russel T. Davies.
[3] La Beeb è uno dei tanti soprannomi affettuosi dati alla cara, vecchia BBC.
[4] Piccolo omaggio al nostro shtupenderrimo Moriarty, Andrew Scott.
[5] Piccoli omaggi a Doctor Who. Il Dottor Smith non può non richiamare il bravissimo Matt Smith e le parti in corsivo vengono direttamente dalla 5x12

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Salve gente!!!
Ho deciso di anticiparmi ancora una volta, così non dovrò postare proprio nel vivo del Natale. A tal proposito: auguri a tutti! Tra il series finale di Merlin e il Christmas Special del Dottore si prospetta una festa intensa :B
Come sempre un grazie particolare a chi legge e segue questa storia.
Capitolo importante e non aggiungo altro: ci siamo.

 
 
 
Si agitava irrequieto, John, mentre cercava di sistemarsi meglio, di trovare una posizione comoda.
Per un momento la presenza silenziosa e familiare della pistola dietro la schiena ebbe il potere di fargli distendere i nervi; era necessario mantenere il sangue freddo, lo sapeva.
Eppure continuava a tormentarsi inconsciamente il ginocchio sinistro con la mano, imprecando poi tra sè e sè all’ennesimo semaforo che aveva deciso di diventare rosso.
Guardò l’orologio che implacabile segnava lo scorrere del tempo, in lontananza un fulmine squarciò il cielo scuro della notte illuminando per un momento l’abitacolo del taxi.
Il tuono che seguì fece rabbrividire il dottore e segnò l’inizio di un brutto temporale.
Appoggiò il capo al finestrino, cercando di combattere la brutta sensazione di déjà-vu che l’aveva assalito nel momento stesso in cui aveva detto al tassista dov’era diretto.
Si sentiva come quella mattina, John.
Ancora una volta era bloccato dentro un taxi in una corsa contro il tempo, a reprimere un brutto presentimento che si faceva sempre più spazio nella sua mente.
Chiuse gli occhi per un momento, sperando con tutto se stesso che quella volta le cose potessero andare diversamente.

La pioggia era fredda sulla pelle e gli bagnava i capelli, il viso, il cuore. Il respiro affrettato si trasformava in piccole nuvolette di vapore e ricordò quando da piccoli, nelle sere invernali, lui e Harriet giocavano a far finta di fumare.
Harriet, già.
Rimase fermo qualche istante a fissare il grande edificio che aveva davanti, incurante della pioggia. Eccolo il St. Barts: il luogo dove tutto era iniziato tardi ed era finito troppo presto. Faceva male.
Ancora una volta, John si sentì responsabile: se non avesse sottovalutato i segni che quel pazzo gli aveva mandato, magari Harry in quel momento sarebbe stata al sicuro a Cardiff, a farsi insultare da sua suocera Rose.
Guardò l’orologio: sette minuti allo scadere dell’ultimatum.
Entrare non fu difficile: prese una delle entrate secondarie, sconosciuta ai più, che usava con Sherlock quando sgattaiolavano dentro i laboratori nelle ore più impensabili.
Sapeva dov’era il luogo dell’appuntamento e in meno di due minuti si ritrovò all’inizio del corridoio in fondo al quale c’era l’aula studio 11D.
I corridoi, sapeva, per questioni di sicurezza, erano illuminati quasi a giorno mentre le poche stanze aperte restavano nella più completa oscurità, eccezion fatta per la luce proveniente dalla strada.
Afferrò la pistola accostandosi al muro alla sua sinistra e non ebbe bisogno di leggere la targhetta per sapere che l’ultima porta del corridoio, convenientemente socchiusa, era il posto in cui era diretto.
Assunta la posizione Weaver [1] aprì cautamente la porta con il piede sinistro.
L’aula studio 11D non era immersa nell’oscurità come aveva pensato John: una luce bianca soffusa posta sotto i banchi immergeva la stanza nella penombra, conferendole l’aspetto di una cattedrale o di un museo.
Il dottore si guardò sommariamente intorno: a sinistra dell’entrata c’era la parete che ospitava una grande lavagna, davanti a sé numerose file di banchi e delle grandi vetrate su cui infuriava violentemente la pioggia del temporale.
Guardò a destra: in fondo alla stanza, la seconda porta d’entrata dell’aula era chiusa e non troppo distante da essa, c’era Harriet distesa su uno dei banchi. Nessun altro.
Sensi in allerta, sistemò la pistola dietro la schiena e scattò in avanti, avvertendo solo in quel momento un forte odore di cloroformio.
Poggiò una mano sulla fronte della sorella, effettuando una prima analisi superficiale: era svenuta ma apparentemente illesa.
Un improvviso lampo illuminò la stanza e fu allora che il dottore notò la scritta sul vetro della prima grande finestra dell’aula; come aveva fatto a non notarla quando era entrato?
Senza mai staccare gli occhi dalla scritta,  arrivò fin sotto la finestra dove fece qualche passo indietro per sfruttare la luce proveniente dal corridoio e per cercare una diversa prospettiva.

Come and play

Rilesse la scritta più e più volte, ma l’unico pensiero che gli veniva in mente alla vista di quella vernice bianca aveva il nome di Moriarty.
Ancora una volta la stanza s’illuminò a giorno a causa di un fulmine nel cielo e se John non fosse stato troppo distratto da i pensieri che quella scritta gli aveva evocato, avrebbe sicuramente notato la luce del lampo riflettersi anche in una piccola lente dietro una delle finestre del palazzo di fronte.
Accadde tutto in un attimo e prima che se ne rendesse conto, una figura emerse dalla penombra alla sua destra e John si ritrovò un istante dopo messo a terra da un uomo, mentre uno sparo e il rumore di vetri infranti rompeva il silenzio dell’aula studio.
L’istinto del soldato prese il sopravvento e con poche mosse riuscì a sovrastare l’uomo che gli era caduto addosso e che, a onor del vero, non sembrava voler opporre molta resistenza.
Era vestito di nero e quasi sicuramente, pensò John, doveva essere molto più alto e muscoloso di lui; l’uomo aveva provato a dire qualcosa, ma la sua voce era stata completamente annullata da un tuono che aveva deciso di riecheggiare proprio in quel momento.
La caduta e la breve colluttazione avevano portato in breve i due sull’uscio della porta d’entrata principale, con i corpi a metà tra l’aula e il corridoio.
Sfruttando il momentaneo vantaggio, il dottore afferrò l’altro per il giubbotto e si preparò a sferrare un sinistro.
“John.” questa volta la voce dell’uomo risuonò forte e chiara e il dottore si bloccò col pugno a mezz’aria, per alzare poi lo sguardo sull’altro, illuminato dalla luce bianca dei neon del corridoio.
John iniziò a respirare velocemente e si staccò da lui come se fosse stato affetto da una malattia altamente contagiosa. Imitato dall’uomo, si alzò lentamente in piedi; nessuno dei due osava abbandonare lo sguardo dell’altro.
John si guardò un attimo alle spalle e iniziò, traballante, a fare qualche passo indietro. L’uomo vestito di nero lo seguiva titubante, le mani alzate a cercare di tranquillizzarlo e sul volto un timido sorriso, appena accennato.
“John, va tutto bene…”
Ma il dottore indietreggiò ancora e ancora, fino a scontrare un banco con la schiena.
“John ascolt-”
“No!” il dottore l’aveva fermato, continuando a negare con la testa.
Un lieve mugolio s’interpose tra di loro ed entrambi si voltarono in direzione di Harriet interrompendo il contatto visivo che sino a quel momento avevano mantenuto.
Dopo un momento d’incertezza, John tornò a guardare l’uomo, rabbrividendo quando si scoprì osservato. Gli puntò un dito contro: “Non.Dire.Una.Parola.” e poi si mosse in direzione della sorella.
“Shh, Harriet. Ti ho trovata, sono qui. Sei al sicuro… sta’ tranquilla, va’ tutto bene.” il tono del dottore era dolce e protettivo, lei gli sorrise lievemente.
John si sentiva addosso gli occhi dell’altro che, ne era certo, nonostante avesse deciso di restare in silenzio e appoggiarsi a uno dei banchi, non aveva mai smesso di guardarlo.
Prese un lungo respiro, sperando che la testa che aveva iniziato a girargli si calmasse almeno un po' e poi si voltò, agganciando immediatamente lo sguardo dell’altro uomo.
 “Tu eri morto…” disse piano.
L’altro scattò in piedi, una mano protesa in direzione del dottore.
“John, lasciami spie-”
John lo fulminò con uno sguardo.
“Silenzio!” disse arrabbiato, accompagnandosi con un gesto stizzito, per poi appoggiarsi con entrambe le mani al banco davanti a sé.
Sospirò, il capogiro di qualche momento prima si stava trasformando in mal di testa. Chiuse gli occhi per un istante, cercando di riportare cuore e respiro a un ritmo regolare o quantomeno accettabile.
Di colpo sentì il peso di tutti i mesi passati gravargli sulle spalle; ripensò a tutte le giornate spese a cercare di trovare un senso che potesse aiutarlo a tirare avanti, a sopravvivere.
Era un turbinio di emozioni, John. Avrebbe voluto gridare e sputargli addosso tutto il dolore e la rabbia che sentiva in quel momento. Ma c’era di più, molto di più.
C’era lo stupore, ad esempio. Aveva avuto poco tempo per assimilare l’idea, assolutamente folle, che il suo migliore amico potesse essere ancora vivo, poteva ancora sentire l’esaltazione che aveva provato e la speranza riprendere a scorrere potente.
C’era una sorta di gioia incontrollabile che rendeva vani tutti i tentativi che faceva per calmare il ritmo del suo cuore.
Avrebbe voluto annullare la distanza tra loro, stringerlo in un abbraccio soffocante e prenderlo a pugni, non necessariamente in quest’ordine. Eppure, per quanto provasse, John restava fermo.
Qualcosa di indefinito che sentiva all’altezza del cuore gli impediva di muoversi, di fare qualunque cosa.
Dicono che quando si esprime un desiderio bisogna stare attenti perché potrebbe avverarsi; John non aveva mai compreso cosa questo volesse significare sino a quella sera.
Ora che il miracolo che aveva chiesto s’era avverato, non riusciva a combattere il senso di delusione che lo divorava dall’interno. Perché a quel punto, per John, era palese la mancanza di fiducia che aveva spinto Sherlock a lasciarlo allo scuro di tutto, preferendo fargli credere di essere morto.
Era lì e se ne stava appoggiato a un banco, osservandolo in silenzio, in attesa.
Gambe incrociate e mani strette nelle tasche di un giubbotto scuro da motociclista, era avvolto nella penombra ma John riusciva a notare ogni cambiamento.
Era più alto di quanto ricordasse e la sua pelle aveva una tonalità leggermente più scura. I capelli erano un po’ più corti e disciplinati e nonostante fossero tirati indietro con il gel, una ciocca gli ricadeva ribelle sulla fronte. Sempre spaventosamente magro, doveva aver fatto molta attività fisica perché la sua massa muscolare era notevolmente migliorata.
“Ho dovuto farlo, non c’era altro modo…” la voce di Sherlock interruppe il filo dei suoi pensieri. Non era cambiata, John ne avrebbe potuto distinguere ogni sfumatura e in quel momento, era sicuro, qualcosa simile alla tristezza e all’incertezza opprimeva il suo amico.
“Taci!” sibilò il dottore in un tono molto più acido e arrabbiato di quanto avesse egli stesso preventivato.
“Ti ho visto cadere. Hai voluto che ti guardassi morire…” continuò quasi in un soffio, come se stesse parlando più a se stesso che all’amico.
A quelle parole Sherlock scattò ancora una volta in piedi, sforzandosi di reprimere il panico che sentiva crescere dentro di sé.
Cercò di ignorare tutte le emozioni che stava provando in quel momento – e a cui non sapeva dare un nome – ostentando una calma che in realtà non sentiva.
E infatti a John non sfuggì l’ombra di paura, seppur breve, che aveva attraversato fulminea gli occhi chiari di Sherlock.
L’unico consulente investigativo del mondo aveva paura: paura di perdere il suo migliore amico, paura di non riuscire a spiegarsi, paura di perdere la parte migliore di sé.
Fece qualche passo in avanti, deciso a farsi a ascoltare a qualsiasi costo: l’avrebbe anche imbavagliato e legato a una sedia, se necessario.
 “John, devi ascoltarmi!”
Il dottore lo guardò intensamente, nel cuore ancora la voglia di annullare la distanza e cancellare mesi e mesi di tristezza; ma, ancora una volta, il corpo e la mente lo tradirono.
“E se io non volessi?” il tono di John era provocatorio.
Sherlock tentò di sostenere lo sguardo inviperito dell’amico ma sbuffò e alzò gli occhi al cielo quando dei rumori provenienti dal corridoio gl’impedirono di controbattere: qualcuno correva, chiamando a gran voce John.
“John! Stai bene?” fu la prima cosa che Lestrade disse, entrando trafelato nell’aula.
Al contrario del dottore poco prima, notò subito la scritta bianca capeggiare minacciosa sulla finestra ma vi prestò poca attenzione, ripromettendosi di tornarci non appena si fosse sincerato della salute dell’amico.
“Eh? Io? Sì, sto bene” il tono confuso ma ammorbidito di John ferì Sherlock che continuava a dare le spalle alla porta, pregando che tutta quella storia delle emozioni finisse il più presto possibile. A sentire la voce di Lestrade, infatti, il suo cuore aveva preso a battere ancora più velocemente: non aveva preventivato di rivelarsi a John in quel modo e in quel momento, né tantomeno a Lestrade o a chiunque altro. La situazione gli stava palesemente sfuggendo di mano, Mycroft si sarebbe arrabbiato ma la vita di John era il suo principale obiettivo: l’avrebbe rifatto altre mille e mille volte.
Greg avanzò tra i banchi lentamente chiedendosi se l’uomo che continuava a dargli le spalle, e che sembrava attirare tutta l’attenzione di John, fosse pericoloso; estrasse la pistola e fu allora che notò Harriet poco oltre il dottore.
Era rinvenuta pian piano e sedeva su un banco tenendosi le gambe: ammutolita aveva guardato tutto lo scambio del fratello e l’amico con la paura che anche un respiro avrebbe potuto interrompere ciò che stava succedendo davanti ai suoi occhi; timidamente stese una mano a indicare all’ispettore l’uomo vestito di nero.
Guardingo Lestrade strinse la pistola e superò l’uomo per poterlo guardare: c’era qualcosa di inquietante e incredibilmente familiare in quel volto che Greg proprio non riusciva a comprendere.
Sherlock si voltò a guardarlo e a John sembrò avere l’aria di un bambino che sapendo di aver fatto qualcosa di brutto guarda il genitore aspettandosi di essere sgridato.
“Oh mio Dio…” incredulo l’ispettore guardò John, per poi tornare a guardare l’uomo.
“Sherlock?!” disse ancora, mentre con l’indice destro gli toccava sospettosamente una spalla, come ad assicurarsi che l’altro davanti a lui non fosse un’entità incorporea.
“Sì, Lestrade, non sono un fantasma come puoi notare…” Sherlock cercò di ricreare il tono annoiato che aveva quando era costretto a sottolineare l’ovvio, ma a John non sfuggì la leggera emozione che traspariva dalla sua voce.
“Grandissimo figlio di… “
Greg l’abbracciò forte, spiazzandolo. In un primo momento Sherlock s’irrigidì anche se poi goffamente tentò di rispondere con il massimo del contatto fisico che il suo carattere gli consentiva: un paio di pacche sulla spalla destra.
Anche John s’irrigidì a quella scena per poi voltarsi stizzito in direzione della sorella. Era geloso e arrabbiato perché al contrario di Lestrade, che sembrava non aver problemi, sentiva il peso sul cuore che gl’impediva di comportarsi come avrebbe voluto farsi sempre più pesante.
“John, va’ da lui…” gli disse la sorella gentilmente in un sussurro.
“Harry, lascia stare.” aveva gli occhi lucidi, John, e Harriet in silenzio gli strinse la mano sinistra per confortarlo almeno un po’.
Dopo qualche secondo, Sherlock tentò di sciogliersi delicatamente dall’abbraccio. Imbarazzato si schiarì la voce e poi, fingendo un tono infastidito, aggiunse: “Ok, ispettore… può bastare!”
Lestrade obbedì e asciugandosi furtivamente una lacrima, guardò ancora incredulo in direzione di Sherlock, il quale probabilmente non aveva mai staccato gli occhi da John.
“Sherlock, che cosa è successo? Come hai fa-”
“Lestrade, che ci fai qui? Come ci hai trovato?”
Greg lo guardò perplesso: “Non lo sai? Mi ha avvert-”
L’ispettore, però, fu interrotto da un forte bussare. Si voltarono tutti in direzione del rumore e dallo stipite porta principale fece capolino un giovane uomo dagli occhi chiari e curiosi; indossava un’uniforme nera che John non riuscì ad identificare.
“Signor Holmes, signore…”
La voce era ferma e professionale, Sherlock gli si avvicinò.
“Capitano Williams[2], che novità?”
“Signore, mi dispiace. L’abbiamo perso…” la voce del giovane capitano s’incrinò leggermente nell’ammettere il fallimento.
Sherlock guardò la scritta capeggiare minacciosa sulla finestra e sospirò.
“Non importa, se lo aspettava… questo è solo un avvertimento.”
Il capitano si guardò intorno velocemente e aggiunse: “La squadra ha messo in sicurezza questo edificio e l’altro… un paio di medici attendono all’entrata del corridoio per accertarsi delle condizioni della signorina Watson.”
A quelle parole Sherlock si voltò a guardare Harry per poi soffermarsi ancora brevemente su John, il cuore di entrambi sussultò.
“Va bene, capitano. Può andare.”
Il ragazzo fece per andarsene ma Sherlock richiamò la sua attenzione.
“E capitano Williams… Rory, grazie… ci vediamo alla base.”
Il capitano assentì con la testa e sorrise lievemente per poi scomparire dalla vista.
Quando John incontrò nuovamente gli occhi di Sherlock, strinse la mano della sorella un po’ di più; qualcosa era cambiato nel suo amico, qualcosa in profondità.
“Sherlock, ci vuoi dire che sta succedendo?” Lestrade era sempre più perplesso e confuso.
All’improvviso – e prima che Sherlock potesse rispondere – i neon dell’aula studio 11D si accesero lampeggiando e mentre Sherlock alzava ancora una volta gli occhi al cielo per essere stato interrotto, (davvero, si erano messi tutti d’accordo?) Mycroft Holmes fece il suo ingresso.
“Ispettore…” salutò con voce melliflua “Ci sarà tempo per le spiegazioni… dobbiamo prima occuparci dello stato di salute della signorina Watson…”
Harriet sentì distintamente un brivido percorrerle la schiena e cercando di non darlo a vedere, sorrise flebilmente all’uomo con l’ombrello.


 
 
 
Note.
[1] La posizione Weaver è la classica posa in cui ci si mette utilizzando una pistola con due mani. Il braccio della mano che impugna la pistola è teso mentre quello dell’altra mano, che sostiene, è leggermente flesso. Detta così può sembrare difficile ma si vede proprio in ogni genere di film XD Per info, comunque, basta cercare su google: le immagini che risultano sono chiare più delle parole :D
[2] Piccolo omaggio a Rory Williams di Doctor Who.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Salve gente! Sarò brevissima in questa nota d’apertura. Per prima cosa vorrei scusarmi con tutti voi (e siete proprio tanti tanti! Grazie!) per questo ritardo ritardissimo. Non solo la VitaVera mi ha tenuto occupata, ma anche la stesura dell’epilogo di questa storia ha contribuito. Come vedrete ho impostato il capitolo in una maniera particolare (e per chiarimenti vi rimando, dopo la lettura, alle considerazioni finali) e per molto tempo ho avuto il dubbio su cosa tagliare e spostare e cosa invece lasciare.
Vabbè confusione solo per me, alla fine.
Ps. Il prossimo capitolo sarà l'ultimo (seguito da un breve ma necessario epilogo): molte domande (quasi tutte) troveranno risposta e molte cose "oscure" di questo capitolo saranno chiarite.

Peace out!


 



 
 
La sala d’aspetto dove li avevano condotti era piccola e spartana.
La luce bianca e asettica dei neon si rifletteva annoiata su sedie di plastica blu e sul vetro di una finestra socchiusa. Fuori, la tempesta si era calmata e la proverbiale calma sembrava volersi insinuare a tutti i costi anche in quella piccola stanza, attraverso i battenti della finestra.
Separati solo da una sedia, John Watson e Sherlock Holmes sedevano vicini, l’uno accanto all’altro.

Era stato John a sedersi per primo, mentre una dottoressa di mezza età con i capelli corti e il sorriso gentile, conduceva Harriet in un’altra stanza per poterla visitare.
Trinceratosi nel silenzio - aveva chiesto solo un’aspirina per il mal di testa – John si rigirava nervosamente un bicchiere di plastica ormai vuoto tra le mani, mentre osservava Sherlock e il capitano Williams fuori dalla saletta parlare sommessamente.
Che ruolo aveva avuto il capitano in tutta quella storia e per quanto tempo? “Rory”, l’aveva chiamato poco prima Sherlock: questo indicava un certo livello di conoscenza. Così aveva vissuto per tutto quel tempo? Il capitano Williams era diventato il nuovo John Watson?
Riportò gli occhi sul maltrattato bicchiere di plastica, cercando di reprimere il senso di nausea che quel pensiero gli aveva provocato.
In quel momento Sherlock entrò nella saletta, rivolgendo un’occhiata veloce al dottore; poi a passo spedito raggiunse Mycroft e Lestrade che stavano parlando accanto alla finestra.
“Tu… sei stato tu a chiamare Lestrade!”
Con aria annoiata, il maggiore degli Holmes si voltò verso il fratello.
“Sapevo che guidato dall’impulsività ti saresti rivelato a John… ho solo ritenuto opportuno dare questa possibilità anche all’ispettore…”
Sherlock sbuffò stizzito e mascherò un sussulto quando i suoi occhi incontrarono ancora una volta quelli del dottore. Si mosse quindi lentamente, andandosi a sedere proprio accanto a John, poggiando, con finta non curanza, la mano destra sulla sedia vuota tra di loro.

“Ispettore ora ho bisogno che lei torni a casa, come se nulla fosse…” la voce di Mycroft si era fatta seria e Lestrade lo osservava attento.
“Non deve dire a nessuno cosa è successo e che Sherlock è vivo…” si fermò, continuando una volta ottenuto un gesto di assenso da parte di Greg: “Riposi per un po’ ma mantenga il telefono vicino: poco prima dell’alba le comunicherò ciò che ha bisogno di sapere…”
L’ispettore rivolse uno sguardo deciso a Mycroft e si congedò salutando John e Sherlock. Da quel momento in poi il silenzio regnò incontrastato fino alla fine della visita di Harriet.
Era ancora un po’ scossa, ma stava bene: nulla che una buona tazza di the e tanto riposo non potessero aggiustare.
Mycroft si avvicinò alla ragazza e porgendole un braccio la scortò personalmente sino all’uscita dell’ospedale, dove due macchine con vetri oscurati attendevano.
Con un tono che non ammetteva repliche, il maggiore degli Holmes invitò John e Sherlock a prendere la seconda macchina, mentre lui e Harriet avrebbero preso la prima “Per consentire alla signorina Watson la comodità e lo spazio necessari ad affrontare il breve, ma non per questo meno fastidioso, tragitto.”
Sherlock guardò il fratello con sospetto: cosa sperava di ottenere con quei giochetti?
Chiuso nel suo silenzio, John poteva sentire il cuore corrergli nel petto come un forsennato. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta in cui era stato seduto accanto all’amico in una macchina diretta chissà dove. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, qualsiasi cosa ma il suo corpo rifiutava ancora di collaborare.
Rimase lì, a guadare la città correre veloce, con il braccio sinistro poggiato al finestrino e la mano destra sulla fredda pelle del sediolino.
Anche Sherlock era paralizzato, alla disperata ricerca nel suo palazzo mentale, di qualcosa che potesse aiutarlo in tutta quella storia dei sentimenti che la paura di perdere il suo migliore amico gli provocava.
Lentamente, ancora una volta fingendo indifferenza, poggiò la mano sinistra sulla pelle del sediolino, a pochi centimetri da quella dell’altro: un timido tentativo di contatto.
John avrebbe voluto annullare quella piccola distanza ma l’unica cosa che il suo cuore sofferente gli permise di fare fu ritrarre la mano e poggiarla sul proprio ginocchio.
A quel gesto, Sherlock chiuse gli occhi e sospirò piano. Arrivati a destinazione, non riuscì ad aspettare che la macchina si fermasse completamente: aprì la portiera con rabbia e scese in fretta, cercando di rinchiudere tutti i sentimenti che provava nello stanzino più buio e nascosto del suo palazzo mentale.

La macchina scura ripartì nel momento stesso in cui John, con un gesto stanco, chiuse lo sportello.
Si strinse nel cappotto freddo e ancora bagnato poi, sospirando lentamente, per la seconda volta quella sera, si preparò a varcare la soglia del 221b di Baker Street.
Richiuse la porta dietro di sé e la prima cosa che notò fu la giacca nera da motociclista di Sherlock, poggiata malamente al corrimano delle scale: certe cose non cambiavano mai.
Per un attimo lasciò che il calore della casa lo circondasse e, sistemato il proprio soprabito accanto a quelli di Mycroft e Harriet, iniziò a salire le scale.
“John, permetti una parola?”
Il dottore si bloccò sul secondo scalino e con riluttanza si voltò, seguendo la figura emersa dall’ombra del corridoio nella cucina vuota di Mrs. Hudson.
----------------------------------------------------------------------------------------
 
Qualche ora dopo, la porta del 221b fu spalancata con violenza. John Watson, rosso in viso e furioso, gesticolò in direzione di un taxi poco lontano. Dietro di lui Sherlock Holmes, più pallido del solito e con il viso teso, cercava di far ragionare l’amico.
“John! John! Devi ascoltarmi, devi capire!”
Non appena il taxi si accostò al marciapiede, il dottore aprì la portiera e si voltò in direzione del detective. Cercando di trattenere la rabbia e non urlare, nervoso, disse: “No. Ho smesso di ascoltarti. Non sono più quel John Watson. Ti odio.”
Entrò nell’abitacolo scoccando un’altra occhiata carica d’odio al detective.
“Per me sei morto!” continuò John, enfatizzando quest’ultima frase chiudendo con violenza la portiera.
Il taxi partì immediatamente e Sherlock, l’aria triste e le mani nei capelli, non potè far altro che seguire con  sguardo sconsolato la macchina nera scomparire nel traffico della sera.
In quell’infelice scambio, nessuno dei due aveva notato un altro uomo che li osservava nell’ombra.


Gli ultimi giorni dell’anno passarono in fretta, così come anche la prima settimana del nuovo. Fu allora che Sebastian Moran decise che era arrivato il momento di agire.
In quel periodo di apparente calma aveva progettato nei dettagli il suo piano e aveva osservato.
Com’era prevedibile il dottor Watson e Sherlock Holmes non si erano più visti ne sentiti dalla sera del litigio e in particolare la vita del dottore non era cambiata di una virgola: sempre gli stessi orari e sempre le stesse abitudini, come se fosse accaduto nulla. Determinato più che mai ad andare avanti.
Quella mattina, Moran sedeva tra i vari pazienti nella sala d’aspetto dell’ambulatorio dove lavorava John. Perfettamente integrato aspettava che al momento più opportuno la segretaria,  che aveva pagato profumatamente, procedesse a dargli il segnale che aspettava, mentre chiacchierava amabilmente con un paio di vecchine sull’inquinamento, la cattiva alimentazione e quelle terribili scocciature che erano i reumatismi.
E poi all’improvviso accadde. L’allarme antincendio riecheggiò chiaro nell’edificio e immediatamente tutto lo staff si mobilitò affinchè i pazienti potessero uscire ordinatamente dall’ambulatorio.
Moran si alzò in piedi e dopo aver individuato John accompagnare una sua paziente all’uscita, con un ghigno si diresse - praticamente indisturbato - verso la stanza del dottore.
Una volta entrato si chiuse la porta alle spalle e guardò la scrivania lasciata in tutta fretta da John, che  naturalmente aveva anteposto tutto a favore della sicurezza della propria paziente. La raggiunse in un istante e con aria di superiorità, trattenendo un sogghigno di soddisfazione, mormorò “Dottor Watson, così prevedibile…”.
Afferrò il cellulare del dottore che giaceva sulla scrivania dimenticato e incustodito e in tutta calma scrisse un sms che inviò a Sherlock Holmes.

Dobbiamo parlare. Alle 18, stasera. 187 North Gower st. JW [1]

S’immobilizzò per un momento quando avvertì dei rumori sempre più insistenti provenienti dal corridoio. Si affrettò a cancellare il messaggio dalla cartella degli inviati in modo che il dottore non si sarebbe mai accorto di nulla e ripose il telefono dove l’aveva trovato.
Aperta la porta però si bloccò. John Watson in persona era davanti a lui, probabilmente sarebbe entrato nello studio di lì a poco.
“Hem… controllavo che le finestre fossero chiuse e che non ci fosse nessuno, dottore.” disse allora Moran per tirarsi fuori da quell’impasse.
Era la prima volta che si trovava faccia a faccia con il dottor Watson. Le rughe del viso erano visibili benché non molto pronunciate, i capelli biondi nascondevano qualche increspatura bianca e gli occhi erano del blu più intenso che avesse mai visto.
“Grazie, lei è davvero gentile ma c’è già qualcuno dello staff che se ne occupa. La prego, mi segua. L’accompagno all’uscita.” disse John.
Il dottore era un uomo gentile e per un attimo Moran si chiese se dovesse proseguire con il suo piano o trovare una via alternativa per soddisfare la sua voglia di vendetta.
Una volta in strada sospirò. No, quello che aveva in mente era l’unico modo, solo così Sherlock Holmes avrebbe provato il suo stesso dolore, sarebbe andato fino in fondo.

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Sherlock fissò quel numero, 187, a lungo. Sospirò, aveva passato la giornata ad elaborare ogni scenario possibile. John aveva fatto il primo passo e lui era pronto, doveva essere pronto; ma se qualcosa non fosse andata nel modo previsto, sarebbe stata la fine. Anche una sola parola di troppo avrebbe potuto rompere il precario equilibrio su cui lui e il dottore si trovavano in quel momento.
No, pensò poi. Tutto si sarebbe concluso per il meglio, lo doveva a John. Lo doveva al suo migliore amico.

Bussò.
L’ingresso era immerso in una fitta oscurità e prima che potesse fare qualunque cosa avvertì un forte colpo alla testa e poi più niente.

Si risvegliò con la testa che gli scoppiava. Quanto tempo era stato privo di sensi? Dieci minuti o dieci ore non riusciva a dirlo, ma era sicuramente seduto davanti a una finestra. Provò a muoversi ma si accorse di essere legato. Si guardò intorno e fu allora che notò un cavalletto, anch’esso davanti alla finestra ma posizionato leggermente a destra.
“Ma ben svegliato, principino! Finalmente c’incontriamo di persona…” il tono sarcastico del braccio destro di Moriarty gli rimbombò nella testa.
“Sebastian Moran.” rispose il detective, il suo tono neutro.
“Allora, genio… hai già capito dove ci troviamo?”
Sherlock provò a mettere a fuoco la strada che s’intravedeva dalla finestra e i suoi occhi registrarono in estrema destra il rosso dell’insegna di Speedy’s. Era Baker Street.
Alzò gli occhi e questa volta riuscì a vedere chiaramente le finestre illuminate del suo appartamento, disse: “Che c’è, vuoi trasferirti? Mrs. Hudson mi fa un buon prezzo ed effettivamente cercavo un nuovo coinquilino, potevi chiedere…”
Moran scattò irato e afferrò con violenza il detective per i capelli.
“Fa’ poco lo spiritoso… Oh guarda!” gli disse stringendo ancora di più “Arrivano gli invitati!”
“Lestrade.” sussurrò Sherlock e prima che potesse dire altro, Moran, senza allentare la presa, continuò: “Non solo…”
Fu allora che il detective lo vide. Sussultò. “John!”
“Esatto, proprio così!” disse l’altro, lasciando finalmente la presa e avvicinandosi alla finestra.
“Non è una scelta casuale, questa casa vuota… è dove una volta Jim mi fece piazzare una bomba, ricordi?”[2] Moran sospirò al ricordo lontano ma si riscosse subito, negli occhi Sherlock poteva leggergli chiaramente tutta la rabbia che provava.
“Ho fatto in modo che i tuoi amichetti si trovassero nel tuo appartamento… beh all’inizio avevo pensato solo al buon dottore ma la vecchia è partita e in qualche modo dovevo fare. Vuol dire che anche l’ ispettore si presterà allo spettacolo.”
“Cosa? Cosa c’entrano loro? E’ una cosa tra me e te. Se è la vendetta che vuoi, uccidimi e basta!” Ribattè Sherlock con rabbia. Moran si voltò a guardarlo. Possibile che il grande Holmes, l’uomo che aveva attirato l’attenzione – e talvolta l’ammirazione - di James Moriarty in persona, potesse essere così stupido dopo solo una botta in testa?
Seduto sul davanzale della finestra, rivolse completamente la sua attenzione al detective dando le spalle alla via e al 221b per un momento. L’unica luce proveniente dalle insegne in strada gli conferiva un’aria terrificante ed enigmatica allo stesso tempo. Rise.
“E dove sarebbe tutto il divertimento? Davvero ancora non hai capito?” si abbassò poi quel tanto che bastava per prendere qualcosa nascosto nell’oscurità della stanza. Un fucile di precisione.
“No, no. E’ più divertente distruggerti. Perché credi che t’abbia lasciato vivere quella sera al St. Barts? Gli uomini di tuo fratello non sono in grado di affrontare un topo.” sospirò teatralmente e continuò: “Voi altri credete che quello che mi piace sia uccidere… ma quello che Jim mi ha insegnato è che l’omicidio è solo un atto. Ciò che conta è l’attesa… la pianificazione. Sapere che sarai costretto a guardare la morte del tuo migliore amico senza poter far nulla, ecco cosa mi piace…”
“Moriarty era un pazzo, non ho avu-”
Sherlock fu interrotto da un pugno in pieno volto. Moran si era alzato di scatto ed era furioso.
“Non.Osare.Nominarlo. Mi hai capito?” disse recuperando il fucile.
Tornò a sedersi sul davanzale di fronte al detective, trasse due profondi respiri per calmarsi – proprio non poteva permettersi di perdere lucidità in quel momento - e iniziò a posizionare il fucile sul cavalletto.
“Sinceramente non ho mai capito cosa lui ci trovasse in te…” disse poi senza il minimo sforzo per nascondere la nota di disgusto che traspariva dalle sue parole.
“Ma non gli ho mai chiesto niente. Eravamo una squadra… mi completava e io completavo lui… poi sei arrivato tu… e hai rovinato tutto.”
Sherlock rimase in silenzio, cercando probabilmente nella sua testa un modo per uscire da quella situazione, pensò Moran che continuò: “L’hai sfidato e alla fine hai vinto. Il gioco si era concluso e io avevo promesso di rispettare le regole fissate da Jim. Ma poi…”
“E poi mi è scappato Fletcher…” lo interruppe Sherlock. Moran sorrise.
“Mi ha detto tutto quel povero bastardo, prima che tu e tuo fratello lo faceste fuori. Così sono tornato a Londra.”
“Potevi avere la tua vendetta.” concluse Sherlock per lui. L’altro lo ignorò, continuando a fissare il fucile con gesti delicati e leggeri quanto carezze.
“Per settimane non ho voluto crederci ma poi, due giorni fa ti ho visto con i miei occhi in quel taxi. Ti ho riconosciuto subito nonostante il travestimento. Eri vivo, eri tornato davvero. E dovevi essere punito per quello che hai fatto a Jim!”
A quel punto Moran si alzò in piedi e iniziò a sistemare il cavalletto per bene. Sherlock provò a muoversi ma le corde che lo tenevano legato erano troppo strette. L’uomo s’era spostato ed era alla sua destra, scrutava l’interno del 221b attraverso il monocolo del fucile.
Nell’appartamento del detective, Lestrade e John discutevano ignari di tutto. L’ispettore seduto su quella che un tempo era stata la poltrona di John e John stesso, per una volta, seduto sulla poltrona che era sempre stata di Sherlock. Era la prima volta, forse, da quando s’erano conosciuti che il dottore si sedeva su quella poltrona.
Del suo migliore amico, Sherlock poteva vedere chiaramente solo la nuca e i capelli biondi. Quasi a leggergli nel pensiero, Moran disse: “E’ proprio un peccato che non tu non riesca a guardare il suo volto, sarebbe stato più appropriato.” staccò gli occhi dal monocolo e guardando il detective proseguì “Davvero non capisco cosa abbia visto in te. Da quando ti ha conosciuto la sua vita è solo peggiorata. Ha sempre sofferto a causa tua. Insomma, gli hai fatto credere di essere morto e ti aspettavi anche che ti perdonasse? Non meriti amici, tu. Ora devi soffrire la mia stessa sofferenza. E anche quella del dottor Watson. Guarderai il tuo migliore amico morire e subito dopo anche l’ispettore morirà. Così come sarebbe dovuta andare fin dall’inizio.”
Sherlock provò per l’ennesima volta a liberarsi, cercando di nascondere il puro terrore che gli attraversava l’anima e il corpo guardando i suoi amici ignari di tutto nell’appartamento.
Moran si schiarì la voce e mise a fuoco il mirino del monocolo: un piccolo puntino rosso comparve sulla nuca di John. Lestrade non avrebbe mai potuto notarlo e anche se l’avesse fatto sarebbe stato troppo tardi.


“Dì pure addio a John Watson, Sherlock Holmes.”


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Nota dell’autrice.
E per una volta credo proprio di dover fare degli appunti finali, visto che non so se è chiaro il modo in cui ho strutturato il capitolo (anche per questo ho ritardato nella pubblicazione XD)
Il capitolo si apre temporalmente dove eravamo rimasti nello scorso capitolo. I “nostri” arrivano al 221b ma ho volontariamente tagliato tutto quello che succede nell’appartamento. Essì.
Con un po’ di pazienza (mancano ormai un capitolo e l’epilogo) scoprirete cosa è successo e cosa ha portato i nostri al litigio finale in strada. Quindi posso dire che il prossimo capitolo sarà sia un lungo flashback che la continuazione del piccolo finale “in sospeso” di questo capitolo.
Spero davvero che sia tutto chiaro, fatemi sapere nei commenti se ci sono dubbi ^^



Non dimentichiamo le immancabili ♪♫n o t e
[1]North Gower street è la via parallela a Baker St. Il numero 187 di questa strada è importante perchè, come sapete, è il 221b  della nostra serie. *______*
[2]Nella mia testa, quindi, siamo nell'appartamento di fronte casa di John e Sherlock. Proprio lo stesso appartamento dove in The Great Game Moriarty piazza la prima bomba. Ovviamente dovrebbe essere disabitata, da qui il fatto "casa vuota" che a sua volta si richiama a "L'avventura della casa vuota", il racconto di Conan Doyle nel quale Sherlock ritorna.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Ciao a tutti!!! Bene, eccoci arrivati alla quasi-fine! Mi sto emozionando, non credevo davvero che ce l’avrei fatta! E non credevo davvero che sareste stati così in tanti a seguire e leggere (e talvolta commentare!)
Quindi grazie, grazie, grazie (soprattutto a chi ha commentato, ma ci sarà tempo per un commiato adeguato)
Per altre cose vi rimando alle note finali e, soprattutto, all’epilogo che dovrei postare settimana prossima!
Peace out!
 
 
 


Moran si schiarì la voce e si posizionò dietro al fucile, alla destra di Sherlock. Mise a fuoco il mirino del monocolo e un piccolo puntino rosso comparve sulla nuca di John. Lestrade non avrebbe mai potuto notarlo e anche se l’avesse fatto sarebbe stato troppo tardi.
“Dì pure addio a John Watson, Sherlock Holmes.”
 


Sebastian Moran era sempre stato un perfezionista. Anche per questo, pensava, James Moriarty l’aveva notato. Nei suoi giorni migliori non aveva mai lasciato nulla al caso, aveva sempre agito meticolosamente perché ricercava la perfezione. L’angolazione giusta, la brezza giusta, il proiettile giusto.
Sherlock Holmes si era ammutolito o forse la concentrazione di Moran era così alta che era riuscito ad estraniarsi completamente. S’inumidì le labbra e sfiorò delicatamente il grilletto.
Eppure proprio un attimo prima che potesse aumentare la pressione del suo indice destro un sibilo riecheggiò nel silenzio di quella casa vuota.
E il bruciore che colpì improvviso ed istantaneo la sua mano fu qualcosa di dolorosamente terribile. Un grido di dolore gli risalì attraverso la gola, mentre si teneva istintivamente la mano ferita. Pulsava e il sangue scorreva copioso, poteva avvertirne il calore.
Un attimo dopo la stanza si illuminò a giorno restituendo l’immagine di John Watson in persona, una pistola ancora fumante stretta nella mano sinistra e un sorriso compiaciuto a completare il quadro.
“Sei in ritardo!” gli disse Sherlock, senza preoccuparsi di nascondere un tono divertito.
Si guardarono per un istante, all’improvviso fu come se tutto quel tempo lontani non fosse mai passato e scoppiarono a ridere, John si avvicinò all’amico: “Alla fine sono arrivato in tempo, no?” disse allegro mentre toglieva il fucile dal cavalletto.
“Ah, ah, ah! Non lo farei se fossi in te!” disse poi rivolgendosi a Moran nel momento esatto in cui aveva iniziato a muoversi. Afferrò quello che sembrava essere un walkie-talkie e richiamò l’attenzione del capitano Williams: la seconda fase poteva cominciare.
Istantaneamente quattro uomini vestiti interamente di nero e armati entrarono nell’appartamento per prendere in custodia il cecchino.
“John, ti dispiace?!” il tono irritato di Sherlock scavalcò il chiacchiericcio fatto di comandi e indicazioni degli uomini di Mycroft e fin’anche le imprecazioni di Moran.
Il dottore guardò l’amico e solo quando il detective sbuffò indicando con sguardo eloquente la sua condizione andò a liberarlo, congedandosi dal capitano Williams con una frase che il detective fu sicuro essere “Non possiamo tenerlo legato ancora un po’, vero?”
Demonio! Quest’uomo è un furbo, maledetto, demonio!” [1] continuava a ripetere Moran, mentre cercava di divincolarsi.
Sherlock lo guardò massaggiandosi i polsi indolenziti: “Possiamo ritenere conclusa la nostra operazione, Rory!” iniziò, rivolgendosi al capitano Williams. “Eri l’ultimo, Moran. Il mio esilio è finito, sono libero di tornare a dedicarmi a quei piccoli, interessanti problemi che la complessa vita londinese sembra offrire.”[1]
L’ex braccio destro di Moriarty si divincolò ancora “Te la farò pagare!” promise furioso mentre gli uomini di Mycroft lo portavano via.

Mezz’ora dopo, John e Sherlock fecero ritorno al 221b. Il manichino che tanto aveva aiutato il detective a risolvere il presunto suicidio di Henry Fishguard [2] li fissava plastico e immobile dalla poltrona del detective.
Dalla sera del rapimento di Harriet avevano tutti atteso che Moran facesse la sua mossa e quando l’sms dal telefono di John era arrivato, non era stato difficile per i fratelli Holmes venire a capo del “piano altamente elmentare” a detta di Mycroft, del piano “più noioso e stupido che la storia criminale ricordi” a detta di Sherlock.  Quest’ultimo poi non poteva proprio credere che dopo svariati – e noiosissimi – giorni di attesa, in cui era stato costretto lontano da John, il braccio destro di Moriarty avesse pensato a un qualcosa “da 3 e mezzo al massimo” distruggendo in un sol colpo tutte le speranze che il detective aveva riposto aspettandosi “un probabilissimo 8”.
John si lasciò cadere stanco sul divano del soggiorno. Guardava Sherlock camminare avanti e indietro tra la cucina e la libreria ripensando a quando, molte sere prima - la sera del rapimento di Harriet e del ritorno di Sherlock nella sua vita - s’era ritrovato tremante a raccogliere tutta la forza che aveva per salire, dopo così tanto tempo, i diciassette gradini che lo separavano dal suo vecchio appartamento.

[Qualche giorno prima]

L’appartamento - il loro appartamento – non era cambiato, era solo forse più ordinato. La testa del bisonte con le cuffie, Billy il teschio sulla mensola del caminetto, lo smile giallo con i fori di proiettile, la libreria disordinata, gli scatoloni.
Harriet sedeva sul divano mentre Mycroft, a quanto sembrava, si era chiuso in cucina per una telefonata importante.
John rimase fermo sotto la porta a guardare Sherlock. Se solo qualche giorno prima gli avessero detto che avrebbe potuto rivedere il suo migliore amico aggirarsi curioso per il loro appartamento, commentando di tanto in tanto i microscopici cambiamenti che erano stati fatti in sua assenza, sarebbe scoppiato a ridere istericamente e forse non avrebbe dormito a causa degli incubi.
Eppure eccolo lì,  Sherlock che - con un gesto così familiare da fargli tremare il cuore nel petto - fissava dei fogli sulla mensola del caminetto con un pugnale.
Il detective continuò a vagliare con sguardo attento la stanza, fin quando i suoi occhi non si posarono sull’oggetto che più di tutti stava cercando: il suo violino.
Nel frattempo, Harriet osservava curiosa: nè lei nè John avevano il coraggio di muovere anche solo un muscolo, affascinati dall’incredibile riverenza che Sherlock trasmetteva al suo strumento passando delicatamente le dita sul legno e sulle corde.

Un paio di minuti più tardi, le porte a scrigno che separavano la stanza dalla cucina si aprirono lentamente richiamando l’attenzione del detective.
“Sherlock Holmes!” la voce di Mrs. Hudson era rotta dall’emozione. Delicatamente, Mycroft – ecco cosa stava facendo – sciolse la presa che l’anziana signora aveva sul suo braccio, così da permetterle di fare qualche incerto passo in avanti, in direzione di un pietrificato Sherlock.
“Se non fosse stato per tuo fratello… oh…” si portò la mano sinistra al viso mentre stendeva la destra verso il minore degli Holmes.
Senza dire una parola, di scatto, Sherlock si protese verso Mrs. Hudson per stringerla in un abbraccio incerto ma spontaneo e affettuoso alla vista del quale John non potè fare a meno di sorridere con tenerezza.
Dopo qualche secondo l’anziana signora iniziò a sciogliersi delicatamente dall’abbraccio. Guardò Sherlock con occhi pieni di lacrime e dandogli un buffetto delicato aggiunse seria: “Non si fanno queste cose! Oh, John ha sofferto così tanto… tutti abbiamo sofferto così tanto!”
Sentendosi chiamare in causa, il dottore distolse veloce lo sguardo e senza dire una parola si avvicinò lentamente a una delle finestre.
“Mrs. Hudson… mi sono permesso di accennare ad Harriet il gusto squisito e i benefici di quella miscela di the che mi ha fatto provare l’ultima volta che ci siamo visti…” la voce di Mycroft era studiatamente calma, mentre scambiava con l’anziana signora un’occhiata significativa che non sfuggì a Sherlock.
“Oh, Mycroft smettila di adularmi…” rispose subito Mrs. Hudson con un gesto della mano, leggermente compiaciuta “Harriet cara, perdonami… sarai esausta! Andiamo giù, una bella tazza di the è quello che ti ci vuole e finalmente potremo conoscerci meglio!”
La ragazza scambiò un’occhiata con il fratello e si alzò lentamente per raggiungere la signora. Mycroft le seguì con passo pigro: “Cara signora, è odore di mandorle tostate, pan di spagna, crema e… e cioccolato quello che sento?” aggiunse mentre si chiudeva la porta alle spalle.

Nella stanza calò il silenzio. John, con le mani congiunte dietro la schiena, continuava imperterrito a fissare la strada, mentre Sherlock faceva vagare nervosamente lo sguardo da una parte all’altra della stanza, incerto su come potesse rompere il ghiaccio almeno un po’. Avrebbe potuto accennare al fatto che Mycroft, probabilmente, aveva impiegato meno di due minuti a trovare – e a mangiare in buona parte - la torta al cioccolato preparata per lui che la loro padrona di casa aveva accuratamente nascosto, ma il dottore lo spiazzò completamente infrangendo per primo il silenzio.
“Come. Voglio sapere come.” disse John, il tono triste ma deciso, mentre si voltava lentamente a guardarlo.
“Sei sicuro di voler parlare proprio di questo?”
John si appoggiò inconsciamente alla finestra e con un gesto del capo invitò l’altro a continuare.
E Sherlock raccontò tutto: del confronto con Moriarty sul tetto, della sua minaccia e del suo conseguente suicidio, di come l’aiuto di Mycroft e Molly fosse stato fondamentale.
“Sherlock Holmes doveva morire, John… solo così potevo essere sicuro che tu, Mrs. Hudson e Lestrade foste al sicuro.In più, se gli uomini di Moriarty avessero pensato che ero morto, avrebbero allentato i freni, si sarebbero esposti e prima o poi sarei riuscito ad annientarli. [1]Ma per fare questo, il tuo dolore doveva essere reale… se tu non avessi creduto alla mia morte, come poteva farlo il mondo? Era l’unico modo…e ammetterai che pur avendo moltissime qualità, non brilli certo come attore…[3]
John incrociò le braccia al petto, irato. Prima che potesse dire qualcosa, Sherlock continuò: “Non pensarlo… abbiamo organizzato tutto affinché tu fossi sicuro della mia morte, è vero.Ma non pensare nemmeno per un attimo che io non abbia rispetto per le tue doti di medico…[3]
John sussultò; Sherlock non aveva perso l’abitudine di leggergli nel pensiero.
“Il ciclista, gli infermieri e tutte quelle persone che mi tenevano lontano… erano tuoi complici.” disse il dottore, più a se stesso che all’altro.
Sherlock annuì lentamente con il capo e con tono incredibilmente calmo continuò: “Potevo ingannarti solo a una certa distanza… un trucco di magia, ricordi? Il polso assente, il sangue, la caduta fin’anche… non ci avresti creduto nemmeno per un momento se fos-”
“Va bene, adesso basta.” il tono di John era fermo, proprio non riusciva a scacciare quel malessere dentro di sé che gl’impediva di affrontare tutta quella conversazione in modo lucido.
Si sentiva deluso, tradito, lasciato indietro. Non che lanciarsi da quattro piani per salvare la vita di tre amici non avesse un peso per il dottore, ma John non poteva farci nulla. Sherlock aveva fatto tutto da solo, aveva deciso al suo posto e l’aveva abbandonato a un dolore che ancora gli lacerava l’anima.
“Basta, Sherlock. Mi hai salvato la vita e ti ringrazio…” la voce di John era calma ma a Sherlock non sfuggì la leggera incrinatura quando aveva pronunciato il suo nome; non disse nulla, lasciò che l’altro proseguisse.
“Ma vedi, mentre tu scorazzavi in giro per il mondo a braccare gli uomini di Moriarty io ero qui a soffrire, a sentirmi in colpa, a parlare con la tua stramaledettissima tomba vuota.”
“John…” Sherlock provò ad interromperlo, ma il dottore lo zittì con un gesto della mano e continuò: “No, taci. Non voglio entrare in tutta questa storia, non voglio aver a che fare con questo pazzo maniaco e non voglio avere a che fare con te!”
Sherlock fece un passo in avanti verso John, perché non capiva? In un attimo si trovò a lottare internamente con la paura di aver perso per sempre il suo migliore amico che aumentava sempre più.
“No, non ti avvicinare.” sospirò piano John, non riuscendo a staccare gli occhi dal detective: poteva vedere il dolore negli occhi dell’altro, sentirlo come un pugnale nella carne ad ogni battito del cuore. Avrebbe voluto rompere il muro che si era costruito intorno, ma non ci riusciva. Si sentiva preso in giro e sentiva di aver sofferto troppo e inutilmente.
“Non voglio vederti più. Io… io… torna a vivere le tue avventure e a fare qualsiasi altra cosa tu abbia fatto in questi mesi col capitano Williams, non voglio sapere più null-”
“L’ho fatto per salvarti la vita! Perché non capisci?” esplose disperato il detective, a stento padrone dell’emozione che provava.
“Mi avrai anche salvato la vita, ma qui quello morto sono io!” gridò John di rimando.
Le parole del dottore riecheggiarono pesanti nell’aria e nella testa del detective.
“Non è ironico?” aggiunse John dopo qualche momento, con un piccolo sbuffo simile ad una risata soffocata, mentre si asciugava una lacrima con la mano sinistra.
Incerto, Sherlock fece un passo in avanti.
“Il… il sis- il sistema solare è un sistema planetario costituito da una va- da una varietà di corpi celesti…” la voce del detective tremava minacciata dal pianto, John si pietrificò all’istante trattenendo il fiato inconsciamente “…mantenuti in orbita dalla forza di gravità del Sole. E’ costituito da… da otto pianeti… satelliti naturali e cinque pianeti nani…”
Sherlock s’interruppe ancora una volta, delle lacrime gli rigavano silenziose il viso.
 “In ordine di distanza dal sole i pianeti sono Mercurio, Venere… Terra, Ma-rte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno…”
Fu allora che John sentì qualcosa incrinarsi. A un certo punto, durante quel tempo passato lontano a braccare assassini e criminali, Sherlock aveva occupato una piccola parte del suo palazzo mentale con delle informazioni che riteneva banali e inutili, solo perché lui, John Hamish Watson, invece, le aveva ritenute fondamentali. E il buon dottore sapeva anche che quello era il modo in cui l’unico consulente investigativo al mondo, in lacrime, gli stava chiedendo scusa.
“Il tempo im-impiegato da un pianeta per compiere un-un giro attorno al proprio asse è detto giorno, mentre quello che impiega per una rivoluzione completa attorno al S-Sole è detto an-anno…”
John non aveva mai visto Sherlock in quello stato. Fece qualche passo in avanti, incurante delle lacrime che iniziavano a scorrere anche sul suo viso; improvvisamente aveva capito di non aver bisogno di perdonare l’amico: l’aveva già fatto, forse nel momento esatto in cui la sua mente aveva azzardato la possibilità che fosse ancora vivo. Il muro si era sgretolato, forse non c’era mai stato.
Non avrebbe permesso alla delusione e al dolore di portargli via quell’amicizia che gli era mancata come l’aria, no. Certo, non tutto sarebbe tornato presto come prima ma il desiderio di concedersi e concedergli un’altra possibilità era di gran lunga preferibile al perdere per sempre quello che erano stati l’uno per l’altro.
In tre passi, John coprì la distanza tra loro e l’abbracciò forte. Sherlock ricambiò aggrappandosi letteralmente all’amico, continuando a biascicare nozioni di astronomia e qualcosa circa le tre leggi di Keplero.
“Ma sta’ zitto, stupido!” disse John, all’improvviso chiedendosi se potesse essere umanamente possibile piangere e ridere allo stesso tempo.
“Perdonami, John, ti devo mille scuse…” [1]
Per la prima volta dopo tanto tempo, in quell’abbraccio, il dottore sentì di poter riprendere finalmente a respirare e sentì che il lasciarsi andare a quel gesto – così intimo, così profondo, così significativo come solo un abbraccio può essere – era semplicemente giusto.
Si staccarono, entrambi con un po’ d’imbarazzo, quando udirono Mycroft  schiarirsi la voce in un punto imprecisato dietro di loro.
“Oh, vedo che avete chiarito…” sottolineò il maggiore degli Holmes, con la tipica ambiguità che lo caratterizzava “John, non credo che Sherlock ti abbia già aggiornato sulla situazione…”
John guardò Sherlock e poi nuovamente Mycroft, confermò di non essere stato ancora informato di tutti i retroscena ma prima che il maggiore degli Holmes potesse aggiungere qualcosa, il dottore esclamò un “Ah, Sherlock…” richiamando così l’attenzione del consulting detective.
Il pugno sinistro di John colpì forte e dolorosamente lo zigomo destro di Sherlock.
“Te lo meriti!” disse il dottore guardando l’amico mugolare qualcosa e massaggiarsi il viso con aria rassegnata. Poi si accomodò sul divano prendendo il fascicolo che Mycroft, con un sorriso divertito, gli aveva porto.
“Sebastian Moran.” disse il maggiore degli Holmes mentre si accomodava su una delle sedie disponibili; anche Sherlock in silenzio decise di sedersi, optando per il divano, accanto a John. “E’ stato lui a sparare poco fa al St.Barts… e naturalmente è stato lui a prelevare Harriet e a costringerla ad attirarti lì…” continuò Mycroft, mentre il dottore esaminava il contenuto del dossier.
Nella sua spiegazione fu breve e conciso. In vari, incredibili – almeno per John – mesi di collaborazione, i fratelli Holmes erano riusciti a smantellare tutta l’organizzazione criminale di Moriarty. O quasi: l’ultimo tassello, infatti, era proprio Sebastian Moran, braccio destro di Moriarty, uomo dal controverso passato militare e un’ottima reputazione come cecchino.
“Se prima sei sopravvissuto è perché non era sua intenzione ucciderti, John…” disse Mycroft “Suo intento era quello di inviare un messaggio a Sherlock… e quale modo migliore per attirare l’attenzione del mio caro fratellino, se non mettendo in pericolo il suo dottore?” concluse, inclinando le labbra in un sorriso ambiguo appena accennato; Sherlock alzò gli occhi al cielo per poi tornare a rivolgergli uno sguardo di sfida.
“Naturalmente nulla di tutto ciò sarebbe accaduto se Sherlock fosse stato capace di tenere a bada le proprie emozioni.” continuò Mycroft, enfatizzando l’ultima parola con disgusto manifesto.
Ignorò lo sguardo del fratello che si faceva più sottile e proseguì rivolgendosi al dottore, in quel momento abbastanza confuso. Spiegò che Moran era il secondo individuo più pericoloso di Londra e che in quei tre anni avevano lavorato tra mille difficoltà e nell’ombra per poter indebolirlo.
Tuttavia qualcosa era andato storto, “un infelice imprevisto” a detta del maggiore degli Holmes. Si erano fatti sfuggire per breve tempo Fletcher Jones, uno degli ultimi accoliti di Moriarty. Questi, allora, era riuscito a mettersi in contatto con Moran rivelandogli che Sherlock era ancora vivo e che stava lavorando in segreto per smantellare l’organizzazione.
“Naturalmente ci siamo occupati di lui, ma quando l’abbiamo riacciuffato era troppo tardi.” continuò Mycroft “A quel punto Moran doveva solo avere conferma di tutte quelle informazioni e quale modo migliore se non osservare te, John? Sapeva che se Sherlock era vivo tu saresti stato il primo  a saperlo… e questo ha portato Sherlock a fare il secondo errore.”
A quel punto il detective sbuffò alzando ancora una volta gli occhi al cielo. Indispettito, Mycroft proseguì: “Sherlock, la tua bravata ha permesso a Moran di mangiare la foglia!” il suo tono era severo.
Alternando lo sguardo tra i due fratelli, John chiese quale fosse stata la bravata. Mycroft rispose prima che potesse farlo il fratello.
“Ricorderai sicuramente il tassista di ieri mattina… Sinceramente, Sherlock, potevi fare di meglio… riconoscibilissimo anche dal video delle CCTV. Come dicevo pirma, tutto questo non sarebbe successo se fossi stato in grado di controllare le tue emozioni!” disse ancora una volta senza preoccuparsi minimamente di nascondere tutta la repulsione che provava per quel genere di cose.
Il dottore socchiuse gli occhi per un momento. Erano successe tante di quelle cose che fu costretto a fare per un attimo mente locale.
Alla fine ricordò il cabbie dagli occhi bronzei e lo sguardo malinconico.
“Eri tu! Sherlock, eri tu!” disse alla fine, quasi in un sussurro. Il diretto interessato assentì con un cenno del capo e con aria seccata si rivolse al fratello: “E’ stato un caso, Mycroft… lo sai anche tu. Piuttosto esponi la prossima parte del piano…”
Mycroft si schiarì la voce e ottenuta l’attenzione del dottore cambiò posizione accavallando pigramente una gamba.
“Il principale obiettivo di Sebastian Moran è Sherlock. E’ da molto tempo che lo studiamo, conosciamo la sua personalità e il suo modus operandi, per questo riteniamo che attualmente Harriet non corra alcun pericolo, non avendo più alcuna utilità per il nostro uomo. Nondimeno è mia intenzione alzare il livello di sorveglianza. La resa dei conti è vicinissima, faremo prelevare la compagna della signorina Watson e le scorteremo in una località segreta fino alla fine delle festivi-”
“John, dovrai andare anche tu.” la voce di Sherlock era piatta e monocorde, mentre cercava di non guardare in direzione dell’amico.
“Come scusa?” chiese John, oltremodo confuso.
“Accompagnerai Harriet e sua moglie nel posto scelto, mentre noi ci occuperemo di Moran. Non sei al sicuro qui.” il tono di Sherlock non mostrava inflessioni di alcun genere.
“Assolutamente no!” scattò John. Guardò Mycroft e continuò, prima che il minore degli Holmes potesse intromettersi: “Mycroft, ti ringrazio per quello che stai facendo per mia sorella, davvero. Ma io resto…” ritornò con lo sguardo sull’amico “Sono un soldato, non vado da nessuna parte. E’ chiaro?”
I due amici si fissarono nervosi. “Sherlock, è chiaro? Non ti permetterò di lasciarmi indietro un’altra volta!” insistè il dottore.
Sherlock si alzò in piedi nervoso. Guardò l’amico e disse: “John, così facendo fai solo il gioco di Moran. Sei il mio punto debole e lui lo sa… proprio come lo sapeva il suo capo…”
Mycroft intervenne nella discussione prima che John potesse replicare qualcosa.
Lo sguardo perso chissà dove – probabilmente nel suo “regno”[4] mentale, ipotizzò John – e le mani congiunte sotto al mento come anche Sherlock era solito fare quando ragionava, disse: “Forse questo va a nostro vantaggio… Moran sa che io e i miei uomini abbiamo una stretta sorveglianza su di te, Sherlock… altrimenti ti avrebbe ucciso prima, al St. Barts. No, ora lui sta pensando alla sua prossima mossa…”
“E proprio perché proteggi Sherlock, cercherà un’altra volta me per arrivare a lui.” concluse John guardando Mycroft, la cui unica risposta fu un gesto di assenso.
“No.” disse allora Sherlock, il tono serio e glaciale “E’ pericoloso John, non capisci? Sei ancora vivo solo perché prima al Barts Moran non ti riteneva una pedina utile al suo scopo. Non si fermerà davanti a nulla per ottenere la sua vendetta.”
Il dottore guardò l’amico. Non poteva biasimarlo: un errore e mesi di indagini sarebbero finite in tragedia: se fosse morto non solo la missione sarebbe fallita e Moran avrebbe ottenuto la sua vendetta ma a quel punto anche la caduta dal tetto del St. Barts e tutto il dolore che era stato provato da entrambi sarebbe stato vano. Ma John non poteva ignorare il fatto che la vita del suo migliore amico fosse minacciata ancora una volta da un pazzo maniaco, proprio non poteva.
“Ho deciso Sherlock. Questa volta sono io a scegliere e scelgo di rimanere.” disse allora John, guardando l’amico negli occhi. Non c’era nulla al mondo che avrebbe potuto dissuadere il dottore.
Nel corso della sua vita, John Watson si era trovato spesso di fronte a molte scelte: alcune importanti, altre meno ma nelle grandi così come nelle piccole cose, aveva sempre cercato di fare ciò che riteneva giusto. Avrebbe colto l’occasione che mesi addietro gli era stata negata: stare al fianco del suo migliore amico.
Aveva scelto Sherlock come aveva sempre fatto sino a quel momento e come si augurava avrebbe continuato a fare per il resto della sua vita.

 
NdA
Una mia nota finale a questo punto deve esserci.
Prima di tutto credo che molti abbiano “azzeccato” che la lite tra John e Sherlock dello scorso capitolo era stata un piccolo show messo su a beneficio del povero Moran.
Ma permane ancora un ultimo mistero, il principale oserei dire. Non è poi così semplice – almeno spero – stabilire chi sia il vero artefice delle “cose impossibili”: Sherlock stesso? Moran? Mrs. Hudson? La non ancora pervenuta Molly?
Avete ancora un po’ di tempo per provare ad indovinare XD
Ultima cosa. Questa storia ha “visto la luce” principalmente perché un giorno – poco meno di un anno fa – avevo pensato “Jawn non lo perdonerebbe nemmeno se nel frattempo avesse imparato tutte le caratteristiche del sistema solare” e ho amato, davvero tanto, quest’idea bizzarra. E spero proprio che almeno un pochino v’abbia intrattenuto.
A presto con l’epilogo definitivo dove l’ultima domanda riceverà una risposta :3
 


Cioè, stai davvero leggendo le ♪♫n o t e ♫♪?! Pazzesco!!!
[1]Le frasi in corsivo sono tratte da "L'avventura della Casa Vuota" di Sir Conan Doyle.
[2]Henry Fishguard è il manichino "impiccato" al soffitto del 221b che compare nella 2x03. Come ricorderete, all'inizio dell'episodio, grazie a questo Henry fittizio Sherlock riesce a smontare le conclusioni dei BowStreet Runners (una specie di corpo di polizia di altri tempi) che avevano creduto morto suicida il povero Mr. Fishguard.
Aspettate un attimo: BOWstreet runners? BOW? Ma bow di "Rat-Wedding-Bow"? Lo sapremo a dicembre XD
[3] Il corsivo è tratto pari pari da "L'Avventura del Detective Morente" uno dei miei racconti preferiti. In questo Sherlock fa credere a John di aver contratto una strana malattia e di essere a un passo dalla morte. Tutto finto ovviamente, ma pur di non far scoprire la verità a John (il cui panico doveva essere il più veritiero possibile per incastrare il colpevole) lo tratta malissimo per tutto il tempo XD Poooooor Jawn!
[4]Beh, se Sherlock ha un palazzo mentale, Mycroft ("canonicamente" più intelligente e potente) deve avere minimo un regno mentale XD

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Capitolo 9
*** Epilogo! ***


Ultimo aggiornamento, quasi non ci credo.
Prima di tutto: chiedo scusa a tutti per l’enorme ritardo e per il tempo che vi ho fatto aspettare.
Ringraziamenti sono d’obbligo: Sore, per aver sopportato le mie “paturnie” e i dubbi esistenziali; Jessie Loneliness e soprattutto Efy per aver recensito: mi avete regalato tanto!
Grazie anche ai tantissimi che hanno letto e inserito questa storia tra le preferite e le seguite: siete tanti, più di quanto mi sarei aspettata! :D
Ok, ultime note “tecniche” prima di lasciarvi: questo capitoletto è strutturato in modo che ci sono sia flashback (in corsivo) – una sorta di “missing moment”, continuo del capitolo 7 – e il presente – praticamente il proseguimento naturale e temporale dello scorso capitolo, l’8.

Bene, ci siamo.
Buona lettura e ricordate quello che diceva un saggio: “Non ci sono finali, ma solo nuovi inizi…”
Peace out!
 
 
 
 



Per un attimo lasciò che il calore della casa lo circondasse e, sistemato il proprio soprabito accanto a quelli di Mycroft e Harriet, iniziò a salire le scale.
“John, permetti una parola?”
Il dottore si bloccò sul secondo scalino e con riluttanza si voltò, seguendo la figura emersa dall’ombra del corridoio nella cucina vuota di Mrs. Hudson.
(dal capitolo 7)
 
 
Mycroft Holmes sembrava essere perfettamente a suo agio seduto all’angusto tavolino della cucina di Mrs. Hudson. John, dallo stipite della porta, lo osservava attento; c’era qualcosa di misterioso nella persona dell’altro che lo portava sempre a stare all’erta.
Sospirò stizzito quando il maggiore degli Holmes lo invitò ad occupare la sedia vuota davanti a se, con il solito sorriso mellifluo e un chiaro gesto della mano.
“Mycroft, non ho proprio tempo per queste stronzate, arriva al punto.” Si affrettò a dire il dottore. Era stanco, provato, arrabbiato e l’unico pensiero coerente che permetteva alla propria mente di formulare era accertarsi ancora una volta dello stato di Harriet e portarla al più presto il più lontano possibile da quel casino.
“Fin dal nostro primo incontro ho capito perché mio fratello ti trovasse così…” fece una breve pausa cercando il termine adatto “particolare” disse poi Mycroft con un sorriso obliquo. John lo guardò perplesso ma l’altro continuò prima che il dottore potesse protestare o anche solo dire qualcosa.
“L’unica cosa che, confesso, non ho capito subito era l’effetto che la tua presenza avrebbe portato nella vita di mio fratello. Lo conoscevi da un giorno a stento e hai ucciso un uomo per lui…” s’interruppe allo sguardo sorpreso di John per poi, con un ghigno, proseguire “Suvvia, John… potrei offendermi. Pensi davvero che ci sia qualcosa di cui io non sia a conoscenza? Ad ogni modo, quella sera ricordo distintamente di aver pensato che tu e  la tua amicizia avreste potuto tirare fuori il meglio da Sherlock o renderlo peggiore che mai…[1]”
“Mycroft… il punto!” lo interruppe John severo.
Per un attimo, giusto un attimo, il maggiore degli Holmes lo guardò basito. Come se nessuno avesse mai osato interromperlo, meno che mai rivolgersi a lui in quel modo.
“John, devi perdonarlo.”




[PRESENTE]
Sei mesi dopo gli eventi che avevano portato alla cattura di Sebastian Moran, la vita di John Watson era tornata alla normalità – se di normalità in questo caso si può parlare.
L’immagine di Sherlock era stata definitivamente riabilitata, così come la posizione di Lestrade all’interno di Scotland Yard. Dopo l’iniziale imbarazzo le cose si erano stabilizzate anche sulle scene del crimine, con Donovan che non spicciava una parola se non obbligata e Anderson che voltava automaticamente la faccia contro il muro ogni qualvolta il detective aveva bisogno di riflettere.

Il primo caso che vide il ritorno del detective e del suo blogger aveva come protagonista principale la morte misteriosa di una donna, Susan Brown, ritrovata nella sua auto crivellata da colpi da arma da fuoco, in un parcheggio deserto.
“Rapina finita male?! State scherzando, vero?” disse Sherlock mentre s’avvicinava all’autovettura. “Vedo che sei sempre circondato da idioti, Lestrade!”
John, tra l’esasperato e il divertito, si passò una mano sul volto mentre l’amico, tra un insulto e un altro, raccontava fin nel minimo dettaglio la vita della donna, che fino a qualche anno prima era stata - a quanto pare - un uomo.

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Nella penombra della piccola cucina, John osservava incredulo il suo interlocutore, domandandosi se esistesse un limite  alla faccia tosta degli Holmes. Avrebbe dovuto dimenticare in un battito di ciglia tutto quello che aveva passato e sofferto in quei mesi e nemmeno dietro richiesta dell’interessato. Incredibile.
Per tutta risposta il dottore inarcò un sopracciglio, facendo appello a tutta la forza che aveva per non alzarsi e lasciare lì Mr. “governo britannico”.
Mycroft si sistemò e posati entrambi i gomiti sul tavolo, poggiò il mento sulle mani intrecciate. Riflessivo, sospirò piano: “Quando perdi tutto, John, perdi anche la paura di perdere te stesso. Tu lo sai bene, questo.” S’interruppe guardando intensamente il suo interlocutore, che mantenne lo sguardo con  pari intensità, tacitamente consentendogli di proseguire.
“Anche Sherlock ha perso tutto. In questi lunghi mesi se c’è una cosa che avete condiviso – e che probabilmente vi ha unito più di quanto immaginate – è la sofferenza della separazione. Lo conosci, John. Può sembrare freddo e distaccato e privo di emozioni ma non è così, non è mai stato così… ” un’altra pausa, Mycroft abbassò lo sguardo perso in un ricordo lontano, mentre John cercava di scacciare un moto di compassione verso l’uomo geniale che gli sedeva di fronte: “Mio fratello vuole apparire invulnerabile, ma le emozioni sono parte di lui e sono amplificate… e ciò lo rende solo un uomo che cerca di essere come un dio[2]. La tua amicizia ha fatto riaffiorare lati di lui che pensavo di non poter più rivedere e questi mesi che abbiamo passato quasi a stretto contatto me l’hanno dimostrato. Il suo unico pensiero era che tu stessi bene e quando l’osservavo guardare i rapporti e le fotografie della tua vita che procedeva spenta e ordin-”
“Voi mi controllavate?” scattò John all’improvviso, interrompendo il discorso dell’altro.
“Naturalmente” rispose Mycroft, con il tono di chi sta affermando la cosa più ovvia del mondo. John riprese la parola prima che il maggiore degli Holmes potesse aggiungere altro: “Mi controllavate!” il tono ironico rendeva elettrica anche la penombra intorno a loro “Bel lavoro del cazzo, complimenti! Non solo mi avete raggirato in tutti i modi possibili e non solo avete anche lasciato che quel pazzo maniaco rapisse mia sorella, ma gli avete permesso di intrufolarsi nella mia vita, gli avete permesso di portare alla luce ricordi che mi hanno tormentato in questi ultimi giorni!”
Il tono del dottore si era alzato di almeno un’ottava, mentre Mycroft cambiava posizione, lo sguardo improvvisamente attratto dal pavimento dell’angusta stanza.
Nonostante la penombra John potè catturare il fulmineo disagio trasparire dal volto del suo interlocutore.
“Ah…” fu tutto quello che disse il maggiore degli Holmes dopo un interminabile momento, lo sguardo ancora a vagare nella penombra della stanza. Serrò le labbra e riacquistata la solita flemma, tornò a guardare il dottore, continuando con tono conciliante: “Quello…”
John inarcò un sopracciglio. Un’idea assurda quanto impossibile – anche se a pensarci, neanche tanto – gli attraversò la mente. Con un gesto impaziente del capo invitò l’altro a proseguire.
“Sono stato io, John. Ho mandato io tutte quelle cose…”




[PRESENTE]
Secondo Sherlock, Susan Brown era stata in realtà avvelenata dal fratello che poi aveva convinto il marito di lei – e suo amante – ad insabbiare tutto per depistare le indagini della polizia.
Con l’aiuto di Lestrade e della sua squadra erano riusciti a rintracciare il marito della vittima che, stressato e provato psicologicamente, aveva vuotato il sacco, regalando al detective la deduzione fondamentale per il ritrovamento del vero assassino in tutta quella storia.
Come al solito, il tutto si era risolto in una frenetica caccia all’uomo senza rinforzi perché “John, non c’è tempo di avvertire Lestrade! Ce l’hai la pistola? Andiamo!”
Ed eccoli quindi lì, a correre a perdifiato nei lunghi corridoi di una vecchia fabbrica abbandonata. Praticamente sotto il tiro dell’assassino, che continuava a minacciarli, si ripararono dietro un pilastro per recuperare un po’ di fiato.
“Dio, quanto mi mancava tutto questo!” disse John ansimando, mantenendo la posizione Weaver[3] e la schiena contro il muro.
I due amici si scambiarono uno sguardo complice e un sorriso accennato. “Pronto?” gli chiese Sherlock una volta recuperato un po’ di fiato.
Il sorriso di John si allargò imitando quello dell’altro: “Quando vuoi!”

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Le parole di Mycroft riecheggiavano ancora nella piccola cucina. John, tra lo stupito e il confuso, aveva aperto la bocca per dire qualcosa, salvo poi richiuderla e guardare il suo interlocutore con aria severa. Si passò una mano sul volto e come se si fosse arreso al vorticare dei pensieri e delle parole nella sua testa, sospirò aggiungendo stancamente “Perché?”
Dal canto suo, il maggiore degli Holmes aveva guardato con apprensione John reagire a quella rivelazione che, nei piani originari, non avrebbe dovuto mai venire alla luce.
Si aggiustò ancora una volta sulla sedia, rimettendo su l’espressione fredda e impassibile che lo caratterizzava. “Te l’ho detto, John. I worry about him. Constantly…” disse con il tono annoiato di chi è costretto non solo a ripetersi ma anche a sottolineare l’ovvio.
“Temevo…” aggiunse poi e se non avesse conosciuto l’uomo davanti a se, John avrebbe catalogato la flebile inflessione nel tono di Mycroft come incertezza, “Temevo che lui potesse decidere di lasciarti all’oscuro di tutto, una volta portata a termine la nostra missione…”
Sebbene scosso da quelle parole, John cercò di non darlo a vedere mantenendo un’aria severa e restando in silenzio affinchè l’altro si spiegasse fino in fondo.
“Ho visto più del mio piccolo fratellino durante il tempo che avete trascorso insieme che negli ultimi 18 anni. Gli dato uno scopo, l’hai tenuto con i piedi ben fissati a terra, lo hai indirizzato, lo hai sostenuto. In breve gli hai dato quello che nessuno fino ad oggi gli aveva mai dato: un’amicizia vera. E anche se il pensiero di lasciarti alla tua vita ordinaria, di evitarti tutto quello che ora stai provando è un nobile gesto, non potevo permettere che finisse tutto così. Se lui non voleva rientrare nella tua vita, saresti stato tu a rientrare nella sua. Sapevo che prima o poi avresti tratto le tue conclusioni…”
“Quindi fammi capire un attimo” lo interruppe John, il tono arrabbiato e duro: “Mi stai chiedendo di passare sopra a tutto, di dimenticare l’inferno che ho passato, perché il tuo fratellino non ha le palle di venirmelo a chiedere in faccia?”
Mycroft lo fissò tranquillo come se il dottore gli avesse appena detto che il numero atomico dell’ossigeno è 8.
“Io sono il deus ex machina, John.” Disse soppesando le parole “Dovevo intervenire, dovevo fare qualcosa. Potete restare lontani a distruggervi o ricominciare insieme.”
John sospirò nervoso, “Non mene frega un accidente, Mycroft. Forse avresti dovuto seguire il piano originale e lasciarm-”
Mycroft Holmes si alzò lentamente abbottonandosi la camicia di alta sartoria. John rimase immobile. Nonostante la penombra si studiarono con lo sguardo fino a che il primo non si avviò lentamente all’uscita. Il dottore rimase a fissare un punto indefinito nel muro davanti a se, sentendo ancora le parole aleggiare chiare nell’aria.
Una volta raggiunto l’uscio, voltando leggermente il capo, il maggiore degli Holmes aggiunse: “Sei arrabbiato, John, lo capisco. Io stesso non sono un gran sostenitore delle emozioni, ma ciò non vuol dire che non sappia riconoscerne il valore. Sottile è il confine tra affetto e rabbia; è curioso come l’uomo si risolva ad odiare ciò che non può amare. Ho sempre sostenuto che tenere alle persone non è un vantaggio e continuo a pensarlo… tuttavia sono pur pronto ad ammettere che possano esistere delle rare eccezioni alla regola. Spero che tu capisca: mio fratello non sarebbe quello che è senza di te, così come tu non saresti quello che sei senza di lui. E’ come se fosse stato scritto tanto tempo fa: Sherlock e John, John e Sherlock. E’ qualcosa che non tutti hanno… un’amicizia che vi completa e che vi completerà in modi che ora non potete comprendere…” e detto questo si avviò pigramente lungo il piccolo corridoio che l’avrebbe condotto all’ingresso, rassegnato all’idea di dover affrontare la salita dei famosi diciassette gradini e al tempo stesso compiaciuto di aver adocchiato una torta a mandorle tostate e cioccolato nella penombra del cucinino di Mrs. Hudson.
Sì, tutto si sarebbe risolto per il meglio. Questo Mycroft Holmes lo sapeva con certezza.

 
[PRESENTE]

Una volta assicurato l’assassino alla giustizia, John e Sherlock fecero ritorno al 221b.
Stremati, decisero di ordinare cinese e poco dopo si ritrovarono seduti sul divano, circondati da contenitori d’asporto bianchi, una bottiglia di vino e la solita tv spazzatura a fare da atmosfera.
“E’ ovvio che le sta dando un buon giudizio solo perché vanno a letto! Il modo in cui lei si tocca i capelli guardandolo e quel colore di rossetto sono lapalissiani! Questo programma è semplicemente ridicolo, come fa a piacerti? Dovrebbe essere una tortura anche per il tuo cervello dalle capacità sottosviluppate, John!” disse Sherlock prima di afferrare un involtino primavera.
John sorrise e stava per replicare che sì, magari aveva un “cervello dalle capacità sottosviluppate” ma l’udito era ancora buono e il geniale – e schifettoso – detective non gli aveva comunque mai chiesto di cambiare canale, quando Mrs. Hudson li avvertì dell’arrivo di un cliente.
Qualche istante dopo una giovane donna dagli ondulati capelli castani fece capolino dalla porta d’ingresso. Il dottore la invitò ad entrare, ma Sherlock parlò prima che lei potesse dire qualunque cosa.
“Circa trentacinque anni, veterinaria, non benestante: trucco economico e vestiti poco costosi ma abbastanza buoni e curati. Pochi gioielli ma quella al collo è una fede. Troppo grande per essere sua e troppo vecchia per essere appartenuta a un marito defunto. La postura, il modo in cui ora tiene le mani e lo sguardo timoroso sul suo volto – per non parlare delle statistiche e della sfumatura di verde della maglia che ha scelto – dicono che la fede che porta al collo è quella di sua madre. Figlia unica. Non è sposata, ma nemmeno fidanzata o impegnata: è qui per suo padre.”
La ragazza spalancò gli occhi azzurri, incredula. Guardando John, aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse quasi subito.
“Fantastico!” esclamò la giovane qualche istante dopo, tornando a guardare il detective; era davvero positivamente stupita.
I due amici la guardarono perplessi. Chi era questa ragazza?
Come se avesse sentito la domanda aleggiare nella stanza, guardando John, si avvicinò un po’ di più a Sherlock: “La signora Forrester, che ha aiutato molto tempo fa, mi ha parlato di lei. Mi aveva accennato la sua bravura ma… sono comunque senza parole, davvero”.
Il detective la fissò per un lungo momento, come a voler risolvere a tutti i costi quell’enigma, le rispose “Ah, ricordo, un caso estremamente semplice…”
“Beh, non secondo la signora Forrester…” rispose lei sostenendo lo sguardo di Sherlock. “Comunque, Mr. Holmes, non potrà dire la stessa cosa del mio. Non mi riesce di immaginare una situazione più strana, più inspiegabile di quella in cui mi trovo attualmente.”[4]
John si schiarì la voce e invitò la giovane ad accomodarsi, le avrebbero offerto un the e avrebbero ascoltato il suo problema.
Scostandosi una ciocca ribelle dagli occhi, la ragazza lo ringraziò sinceramente e poi gli tese una mano.
“Io comunque sono Mary…” disse “Mary Morstan”.
 
 


♪♫n o t e
[1]Mi riferisco a una delle battute finali di Mycroft in A Study In Pink. Precisamente: “Interessante, quel soldato. Potrebbe tirar fuori il meglio da mio fratello o renderlo peggiore che mai.”
[2]Frase ripresa da un'intervista al Moff circa le similitudini/differenze tra Sherlock e il Dottore: "Sherlock Holmes is a human trying to be a god. The Doctor is a god trying to be human." (Sherlock Holmes è un uomo che cerca di essere un dio. Il Dottore è un dio che cerca di essere umano.”
[3]Nota 1 del capitolo 6:  La posizione Weaver è la classica posa in cui ci si mette utilizzando una pistola con due mani. Il braccio della mano che impugna la pistola è teso mentre quello dell’altra mano, che sostiene, è leggermente flesso. Detta così può sembrare difficile ma si vede proprio in ogni genere di film XD Per info, comunque, basta cercare su google: le immagini che risultano sono chiare più delle parole :D
[4]Il corsivo è preso dal romanzo di Sir Conan Doyle "Il Segno Dei Quattro"

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