The hardest part about a Zombie Apocalypse will be pretending I'm not excited.

di Ale666ia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***



Capitolo 1
*** I ***


 

I
 
Paesaggio sterile, arido, morto.
Baracche fatiscenti si affacciano sul ciglio della strada, assi di legno spezzate, insegne penzolanti nel vuoto non si sfracellano al suolo per qualche fortuito caso.
Vetri rotti, bottiglie di birra lasciate a terra, il liquido contenuto al loro interno evaporato da giorni, forse mesi. Cigolii di porte lasciate aperte, cardini che non verranno mai più oliati.
Strade in terra battuta reclamate da sterpaglie rinsecchite, la natura si riprende lentamente ciò di cui l'uomo l'aveva privata.
Desolazione.
Desolazione ovunque.
In questa desolazione Jared c'era cresciuto. Aveva imparato a cavarsela da solo, anzi... aveva dovuto imparare a cavarsela da solo. Era stato un obbligo, una necessità, un dovere.
Se voleva sopravvivere, accettare il fatto che le persone potessero andarsene dalla sua vita da un momento all'altro era l'unico modo per andare avanti, giorno dopo giorno.
Perché mentre lui cresceva, gli altri se ne andavano per sempre, lasciandolo al suo destino. Era sempre stato così, da quando tutto era cominciato.
A tredici anni aveva perso il padre, a sedici la madre, a ventidue il fratello.
E adesso se ne stava lì, in completa solitudine, appollaiato su una roccia sotto il sole cocente. Un fucile in mano, una spiga di grano al lato sinistro tra le labbra vagamente screpolate. Il vento che gli scompigliava i capelli lunghi fino alle spalle, un po' annodati.
Non aveva più fatto caso al suo aspetto esteriore, da quando era rimasto solo. Anche perché non aveva più specchi su cui controllare la propria immagine: avventurarsi in città per procurarsene uno era pericoloso e quelli rimasti in paese erano stati distrutti. Forse ce n'era rimasto qualcuno nella cantina di tutte quelle case, ma le cantine non gli erano mai piaciute. Il buio, gli spazi chiusi, la muffa... elementi che contribuiscono a farti desistere dall'avventurarti alla ricerca di oggetti futili.
L'unica superficie su cui si poteva riflettere era lo schermo del suo telefonino, solo che era di dimensioni ridotte. Decisamente scomodo. Avrebbe dovuto procurarsi uno di quegli iPhone, invece. I display immensi sono utili per radersi la barba.
Serrò gli occhi, scrutando l'orizzonte. Il calore del sole faceva tremolare il paesaggio in lontananza, rendendogli difficoltosa la perlustrazione del territorio. Ogni volta che si occupava di quell'operazione -fare la vedetta, si ritrovava sempre a riflettere sulla stessa cosa: il suo era un futuro mancato.
Da piccolo diceva sempre di voler fare il pompiere. O il veterinario. O qualsiasi altro lavoro che consistesse nel fare del bene agli altri -tranne una volta in cui aveva affermato di voler fare il paleontologo, ma questi sono dettagli.
Diceva che avrebbe girato il mondo. La sua fissazione era il Paraguay, fissazione che era nata solo perché lo Stato aveva un nome simpatico. Oppure, diceva, sarebbe andato a visitare la Terra del Fuoco. Suo fratello maggiore gli spiegava che la Terra del Fuoco era un posto freddissimo, al contrario di quello che si aspettava lui. Ma Jared no, Jared continuava a dire che sarebbe tornato da quel viaggio abbronzato e pieno di sale tra i capelli. Avrebbe portato conchiglie e collane di fiori a tutti, a detta sua. Shannon lo correggeva, dicendogli che le collane di fiori erano Hawaiane e i genitori sorridevano felici ad entrambi, promettendo che un giorno avrebbero fatto una gita in tutti i posti che avrebbero voluto visitare.
Invece no.
Non era mai accaduto nulla di tutto questo.
Niente Terra del Fuoco, niente Hawaii.
Tutto quello che rimaneva della vita precedente era il paese in cui era cresciuto e che avrebbe continuato a crescerlo fino a quando quella routine infernale non se lo sarebbe portato via.
 
Jared aveva venticinque anni. Quando ogni giorno si svegliava, la prima cosa che faceva era rimanere in silenzio totale nel letto. Non si stiracchiava come avrebbe fatto una persona normale.
Niente era più normale. Di conseguenza lui si era adattato, con riluttanza.
Rimaneva in ascolto di eventuali rumori che non avrebbero dovuto esserci.
Poi, sempre con lentezza dettata dal perenne stato di allerta in cui si ritrovava, poggiava i piedi sul legno del pavimento, attento a non produrre scricchiolii. Se il giorno precedente si era addormentato senza brutti presentimenti, si rivestiva. Altrimenti, gli bastava allungare la mano sulla scrivania per afferrare la pistola, tralasciando l'atto del mettersi qualcosa addosso perché aveva dormito con i indumenti del giorno precedente. La sua igiene personale era andata abbastanza peggiorando negli ultimi anni e se ne rendeva conto, ma era una cosa di secondaria importanza, visto come stavano le cose.
Dopo essersi alzato, toglieva i vari listelli alla porta (ne aveva personalmente applicati altri), sbloccava tutte le serrature, e con circospezione apriva uno spiraglio. Quando era sicuro del via libera, si dirigeva con più tranquillità al piano inferiore, pur sempre tenendo la pistola carica a portata di mano. Faceva colazione con qualche lattina di roba trovata nel mercato locale o nella dispensa -la maggior parte delle volte si trattava di fagioli. Oppure carciofi sottolio, ceci, pomodori secchi, cipolline. Se andava bene, erano pesche sciroppate. Rondelle di ananas. Macedonia.
Se andava ancora meglio, raccoglieva dal piccolo orto di casa le fragole, le patate, l'insalata, i pomodori. Nella libreria casalinga aveva scoperto dei libri sulla coltivazione e li aveva divorati nei rari momenti di tranquillità. Quel minuscolo appezzamento di terreno recintato era l'unico sprazzo di normalità della sua folle e triste vita. Proteggeva i frutti e le verdure dagli attacchi di storni e altri uccelli con delle cassettine di plastica. Gli dispiaceva vedere come quegli uccelli volessero a tutti i costi le sue fragole. Qualche volta si inteneriva e le divideva con loro. Altre volte, li osservava dalle finestre di casa con uno sguardo accusatore, pensando che fossero degli irriducibili ingordi.
Dopo la colazione Jared tirava fuori da sotto il tavolo posizionato in mezzo alla sala da pranzo un baule argentato. Lo apriva e ne tirava fuori un fucile. Lo imbracciava, prendeva dei caricatori sia per esso che per la pistola, ed infine apriva il portone di casa (sempre dopo svariati minuti di armeggiamenti con chiavi e listelli).
Ed il suo viso veniva investito dalla polvere rossa del paese che se un tempo era stata la sua casa, ora era solo uno sterile mucchio di legna abbandonata. Si guardava attorno con circospezione, i sensi tesi al massimo, le orecchie che captavano qualsiasi rumore molesto. Una volta stabilito che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi, se ne andava a zonzo, senza una meta. Oppure saliva sul tetto di un edificio e rimaneva lì a scrutare il mondo circostante. Oppure disegnava, ma era un'attività che non riteneva sicura: gli impediva di concentrarsi sulle attività attorno a lui.
Questa era la sua vita.
Da tre anni a questa parte.
Da quando si erano portati via Shannon.
 
C'erano anche delle giornate vagamente più movimentate.
Ad esempio, quando vedeva qualcosa muoversi all'orizzonte.
Allora il suo cuore gelava. Si appiattiva a terra, spalmava letteralmente il corpo contro qualsiasi oggetto che potesse fungere da scudo. E poi si arrischiava a sbirciare nuovamente.
Ci metteva sempre del tempo, prima di sparare. Innanzitutto perché non voleva uccidere qualche animale innocente. In secondo luogo perché uccidere non è mai una bella cosa.
A volte i movimenti colti dai suoi occhi si rivelavano dei miraggi, quindi riponeva il fucile, prendeva un paio di respiri profondi e tornava alle sue occupazioni.
A volte no.
A volte vedeva chiaramente una figura che avanzava in modo discontinuo verso la sua direzione. Un punto nero che si faceva mano a mano più grande e definito. E il suo cuore cominciava a pompare adrenalina in ogni parte del corpo, le mani tremavano ed il petto sembrava liquefarsi per quel calore terribile che si espandeva sotto la pelle. La sudorazione aumentava. Pregava il nulla (non aveva mai avuto fede in niente, se non in se stesso) perché quell'apparizione fosse solo -appunto- un'apparizione. Ma non lo era.
Quindi si decideva ad imbracciare il fucile. Trovava una posizione comoda. Portava agli occhi il mirino telescopico e tentava di bloccare il tremore che accompagnava ogni suo gesto.
Premeva il grilletto.
Il proiettile usciva dalla canna. Ci si trasformava, in quel proiettile. Fendeva l'aria, la penetrava a velocità terribile, seguiva una traiettoria che sperava non venisse intaccata da niente e nessuno.
Si schiantava contro il bersaglio.
Gli trapassava da parte a parte il cranio, facendo volare brandelli di cervello e pezzi di cranio ovunque. Compiva la sua missione sanguinaria, terminando la sua corsa nel mezzo di quella landa desolata, adagiandosi sul terreno incolto e selvaggio.
E solo quando vedeva il nemico stramazzare a terra, Jared tornava in se.
Tirava un sospiro di sollievo, lentamente l'adrenalina diminuiva e lui tornava alle sue abitudini immutate e quotidiane.
 
Si barcamenava in quel mondo alla deriva, cercando di non affogare nella pazzia.

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Capitolo 2
*** II ***


 

Quella mattina se ne stava andando in giro -come al solito senza una meta precisa- per il paese.
Conosceva a memoria il posto: non si era mai spostato da lì, da quando era nato. Vedere la propria culla conciata in quel modo fa un certo effetto.
Il tempo minacciava pioggia, c'erano delle nuvole immense e grigie che si estendevano fino a perdersi nell'orizzonte. Non riusciva a vedere la fine di quel temporale che tuoni e fulmini in lontananza andavano preannunciando.
Decise di entrare nel mercato locale. Magari avrebbe trovato qualcosa di sfizioso da mettere sotto i denti. Ne dubitava, visto che dalla morte del proprietario quel posto non aveva ricevuto più alcun rifornimento di cibo, ma tanto valeva la pena tentare: almeno avrebbe occupato un po' del suo inesauribile tempo libero.
Entrò, la mano sul calcio della pistola perché la prudenza non è mai troppa. Non che avesse paura, in quel momento, ma era un riflesso istintivo. Sapeva di non avere nulla da temere all'interno di quel piccolo edificio perché nessuno era entrato lì dentro da un sacco di tempo.
Cominciò a camminare tra gli scaffali, passando le dita sui supporti in plastica, facendo sì che la polvere si andasse a sistemare tra le invisibili scanalature dei suoi polpastrelli. Si fece strada tra scatole di cracker scaduti e verdura ammuffita (i cracker se li mise sotto braccio, tanto per scrupolo).
Quanti ricordi!
Gli venne in mente quella volta in cui lui e il fratello se ne stavano seduti dentro al carrello della spesa, circondati da sacchi colmi di cibo più alti di loro. Stavano aspettando che la madre tornasse, era andata a prendere qualcosa che si era dimenticata di prendere. Ad un certo punto Shannon si era alzato in piedi, e siccome il carrello era stato lasciato accanto al banco dei surgelati, si era sporto per controllare quali prelibatezze conteneva il box. Jared seguì il suo esempio: stavano cercando di capire se quello era un gelato al latte di riso o al latte di soia, quando il mondo si capovolse all'improvviso, ed entrambi rovinarono a terra, battendo forte le ginocchia sul pavimento.
Avevano rovesciato il carrello. Un po' per la paura, un po' per i sensi di colpa, erano scoppiati a piangere all'unisono talmente tanto forte che la madre era sbucata di corsa da uno degli scaffali più lontani... Poi il ricordo sfumava nel nulla.
Ora il banco dei surgelati era vuoto. Non c'era nulla, se non uno strato di polvere, insetti morti, ragni vivi e ragnatele. Così come tutto il resto del locale, dopo tutto.
Riuscì a trovare delle scatolette di fagioli messicani non ancora scadute, e se le mise intasca.
All'improvviso, la luce bianca di un fulmine illuminò tutto.
Tra poco avrebbe cominciato a piovere a dirotto.
Decise di sbrigarsi, non poteva continuare a perdersi nei ricordi, cosa che gli accadeva sempre più spesso, ultimamente. Diede un ultimo sguardo in giro, in caso ci fosse qualcos'altro da raccattare, ma ormai le provviste scarseggiavano... Scarseggiavano per davvero. Preferiva non pensarci, ma sapeva, nel profondo, che sarebbe arrivato il fatidico giorno in cui avrebbe dovuto contare solamente sull'orto di casa. E allora le sue scorte di cibo si sarebbero drasticamente ridotte.
Non c'erano più neanche le sementi, nell'emporio locale. Erano state utilizzate tutte. Certo, avrebbe potuto piantare qualche melo, qualche pesco, qualche pero. Ma poi? Sarebbe vissuto di frutta dolciastra, ci sarebbe riuscito? Si sarebbe rassegnato a sentire sempre lo stesso sapore sulle papille gustative?
Sicuramente lo avrebbe fatto, ma la sua vita sarebbe sprofondata sempre più nel pozzo nero dell'oblio. La sua alimentazione si sarebbe ristretta ancora di più, facendogli desiderare che la sua vita finisse presto, sempre più presto.
Un rumore di pioggia giunse alle sue orecchie, e si voltò di scatto, maledicendosi mentalmente: si sarebbe bagnato completamente, lungo la strada per tornare a casa. Viveva a circa cinquanta metri dal posto, ma l'acqua cadeva in modo torrenziale. Il suolo la assorbiva avidamente.
Uscendo dal locale, si soffermò un attimo sotto il piccolo porticato, stringendosi nella logora giacca di jeans che indossava, poi cominciò a correre.
Le gocce erano grandi, enormi, e si insinuavano lungo la sua spina dorsale facendo appiccicare tra loro stoffa e pelle nuda, creando un fastidioso senso di oppressione. Da terra si sollevava un leggero strato di polvere, destinato ad abbassarsi di nuovo entro poco tempo. Finalmente raggiunse la porta della propria casa e si rintanò nell'unico posto che considerava abbastanza sicuro da poter lasciare la pistola lontana da lui per qualche metro.
 
Si tolse in fretta i vestiti, eliminando quella sensazione di appiccicume dal suo corpo, e li mise a stendere su di un termosifone che non funzionava da molto tempo. Il cibo che aveva trovato lo mise all'interno della dispensa fissata sopra i fornelli, in compagnia di altre innumerevoli lattine e si sedette su una delle quattro sedie di legno che contornavano il tavolo.
La sedia su cui lui, quando tutto era normale, si sedeva per mangiare, per fare i compiti aiutato qualche volta dai genitori, qualche volta da Shannon. La sedia che lo aiutava a prendere i biscotti nascosti in un barattolo di vetro sopra al frigorifero, la sedia su cui si dondolava e da cui spesso cadeva, tra le risate generali e il suo imbarazzo sfociava in una furiosa richiesta di smetterla di ridere, smettetela, smettetela.
Fissava il vuoto. Non aveva di nuovo nulla da fare, ancora più di prima. Magari avrebbe potuto disegnare, sempre che non avesse perso il temperino, sempre che la matita non si fosse del tutto consumata. Questo pensiero lo rinfrancò un po', e così si diresse al piano superiore. All'interno di una scrivania nella sua camera conservava i fogli bianchi e tutto l'occorrente.
Più di una volta aveva lasciato perdere i supporti cartacei per dedicarsi alle pareti di casa, così spoglie. Quei muri bianchi lo facevano sentire ancora più solo, ed aveva cominciato ad abbellirli. Tracciava ghirigori senza senso, curve che si avviluppavano su loro stesse, onde del mare, carpe koi, come quelle che i filogiapponesi si facevano tatuare sulla pelle nuda.
Nello sgabuzzino aveva trovato alcune taniche di vernice non del tutto secca, qualche pennello, e si esercitava nella stesura del colore. C'erano arcobaleni che si estendevano lungo tutto il perimetro della cucina. Alberi stilizzati, alci, cani e gatti, volti umani lasciati a metà, strofe di qualche canzone che ormai non sarebbe più stata suonata da nessuno.
Evitava con minuziosa attenzione di imprimere sulle superfici che facevano sfogare la sua mente qualsiasi riferimento alla morte, alla depressione, alla solitudine.
Quegli animali gli tenevano compagnia, l'arcobaleno rischiarava le sue giornate. L'albero gli ricordava che da qualche parte in quel mondo, magari in una regione in cui il clima non era malvagio come lì, c'era un bosco popolato da volpi e farfalle, pini e larici che continuavano la loro vita come se niente fosse successo.
Comunque, fu proprio mentre saliva le scale di casa che notò qualcosa di strano. Più precisamente, quando i suoi occhi si posarono -per caso- sul vetro della finestra. Inizialmente non se ne accorse, ma c'era qualcosa, fuori.
 
Si bloccò improvvisamente. Avvicinò il viso al vetro sporco e impolverato.
Cos'è?
Strizzò gli occhi, le gocce di pioggia che cadevano lungo la superficie rendevano la visione ancora più difficoltosa. Sembrava un fagotto. Piccolo, grigio. Si muoveva. Subiva i colpi incessanti dell'acqua, e si muoveva.
Tese le orecchie, magari... ecco, l'aveva sentito.
Era un lamento.
Di nuovo il silenzio, e di nuovo il lamento. Un pianto di bambino, tipo, o comunque di qualcuno in tenera età. Eccolo, di nuovo.
No, il suo spirito altruista gli imponeva di andare a controllare di cosa si trattasse. Si immobilizzò nuovamente, mentre scendeva le scale di corsa.
E se...?
Scacciò subito quel pensiero, sbuffando. Come poteva aver pensato una cosa del genere? Loro di certo non avevano quelle capacità intellettive. Non avevano un minimo di intelligenza, non potevano tendere un agguato. A dire il vero, dubitava del fatto che loro avessero qualsiasi tipo di capacità intellettiva. Dopo essersi diretto verso la porta ed aver armeggiato con i vari lucchetti, uscì. Era a torso nudo, i vestiti li aveva lasciati sul termosifone. Chiuse la porta e si strinse nelle spalle. L'aria si era raffreddata parecchio, ma non importava. Magari era la volta buona che qualche malattia se lo portava via dalla faccia di questo triste mondo.
Il pianto, di nuovo!
Si diresse con circospezione verso la fonte del rumore, schiacciandosi alla parete. La pistola, comunque, ce l'aveva nelle tasche dei pantaloni. Per sicurezza.
Percorse il lato frontale della casa, svoltò l'angolo destro ed individuò il fagotto. Si avvicinò lentamente, mentre questo continuava a lamentarsi. No, non era un lamento umano.
Quando capì di cosa si trattasse, sgranò gli occhi.
Era un gatto, un gattino, un micio.
Non aveva contatti con qualcuno da più di due anni, e la consapevolezza di avere di fronte a sé un individuo, qualcuno in grado di interagire con lui, lo riempì di gioia. Il cuore pompò un enorme afflusso di gioia ad ogni parte del suo corpo, e lasciò perdere qualsiasi proposito di discrezione, anche quello più minimo. Corse verso il cucciolo, che continuava a lamentarsi, si inginocchiò di fronte a lui e si guardarono. Aveva gli occhi azzurri e splendenti, proprio come i suoi. Solo che Jared non li aveva più splendenti: i suoi erano gli occhi di chi ha già visto troppo, nel corso della vita.
Gli sorrise, un gesto che non faceva da molto tempo. Raccolse il micio da terra, era proprio leggero. Chissà dov'era finita la madre, chissà dov'erano i suoi fratelli e se ne aveva, chissà com'era finito lì. Se lo strinse al petto, cercando di ripararlo dalla pioggia. Il piccolo affondava piano gli artigli nella sua carne, era un po' spaventato. Jared lo rassicurò per quel che poteva.
Già provava per quel gatto un affetto immenso, già lo amava. Si rimise in piedi e fece per dirigersi verso la porta di casa. Ma raggelò. Perché c'era uno di quelli.
E lo fissava. Con la bocca semiaperta, i vestiti strappati cosparsi di sangue rappreso. Sangue nelle mani, tra le dita, sulle ginocchia, nei capelli incrostati di schifo e fango.
E quelle iridi. Dio, quelle iridi sanguigne lo fecero trasalire ancora di più, perché erano rosse, rosse come le budella che fuoriuscivano da quell'addome strappato.
Quello sguardo malvagio, quella posa da belva infernale.
Si guardarono. Il predatore era affamato. La preda non sapeva dove andare per mettere in salvo la propria vita, la sua e quella del gatto.
E fu proprio quest'ultimo a far riemergere entrambi dalla stasi temporale in cui stavano versando le cose: miagolò, il suono acuto di chi non capisce che una situazione è pericolosa.
Quel suono fu la goccia che fece traboccare il vaso, e la bestia di fronte a lui gettò un urlo sovrumano, e urlò così forte che entrambi i viventi si bloccarono con il terrore penetrato gelido fin nelle ossa.
Jared si riscosse proprio quando quel rumore infernale stava per finire, estrasse la pistola dalla tasca dei jeans, tolse la sicura, mirò e sparò un colpo. Ma il proiettile colpì il mostro al collo, e nonostante qualche goccia di sangue spillò dalla ferita, questo lo fissò con i suoi occhi morti, e ringhiò. Lo aveva fatto arrabbiare, e non poco. Sparò di nuovo, ma il colpo non partì, la pistola si era inceppata.
E Jared gelò, il gatto miagolò piano, e la bestia scattò verso di loro, trascinando sul terreno quei metri di intestino sporchi di terra.
In uno sprazzo di razionalità, Jared scattò dalla parte opposta. L'adrenalina gli facilitava la fuga, sentiva il mostro dietro di sé, troppo lontano per prenderlo ma troppo vicino per poter dire di essere in salvo. Si parò di fronte a lui la porta di casa prima di quanto immaginasse. La aprì di scatto, fece scivolare sgraziatamente il gatto sul pavimento e, balbettando parole senza senso, si affrettò a chiudere tutta quella terribile realtà che lo circondava fuori della porta di casa. Mentre chiudeva gli ultimi due lucchetti, sentì un colpo sordo che lo fece indietreggiare. Il mostro era lì, a pochi passi da lui, solo una porta di legno li divideva, ed ora ruggiva di frustrazione perché l'antipasto e la portata principale erano riusciti a mettere in salvo la propria vita.
Jared tremava.
Stavolta c'era andato molto, molto vicino.
Quando si girò e vide il gattino che lo osservava con i suoi splendidi occhi luminosi, dimenticò la paura appena provata, e un lume di speranza gli riscaldò il cuore.
Forse c'era ancora qualcosa per cui valeva la pena vivere, a questo mondo.
Ma il diabolico grattare di unghie sulla porta gli fece piombare nuovamente il cuore nell'abisso.
 
Cenarono assieme, seduti a terra. Al gatto diede dei cracker impastati nel liquido saporito dei fagioli in lattina. Non si era mostrato molto entusiasta, ma dopo aver capito che non ci sarebbe stato nient'altro, si rassegnò e divorò tutto in poco tempo.
Poi si addormentarono. Jared prese il gattino e lo sistemò sotto le coperte con lui. Gli fece appoggiare il muso sul suo avambraccio destro, e si scaldarono a vicenda.
Al mattino, Jared fu l'unico a svegliarsi, perché il gatto era morto durante la notte.

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Capitolo 3
*** III ***


Pianse a lungo, fino a rimanere senza lacrime.

Si chiedeva perché la morte avesse colto soltanto il micio e non anche lui.
Mentre piangeva, aveva preso il fucile, lo aveva posizionato sulla finestra, aspettando immobile per ore che passasse il mostro. Piangeva quando questo entrò nel campo d'azione del mirino, piangeva quando il proiettile gli trapassò il cranio.
Piangeva quando sotterrava il gatto nell'orto.
Rimase chiuso in casa per giorni e giorni, le sua uniche compagne erano il vuoto che la morte del gatto gli aveva lasciato e la paura di ritrovarsi a faccia a faccia col cadavere urlante e bramoso della sua carne. Rimaneva rannicchiato in un angolo della cucina per ore intere, fissando il vuoto, perso in un mare di terribile apatia. Il minimo scricchiolio lo faceva sobbalzare, credeva che prima o poi il cuore si sarebbe fermato per sempre, sotto queste continue scariche di adrenalina che era costretto a sopportare.
Ma ad un certo punto qualcosa scattò in lui.
Non poteva più convivere con questo perenne terrore.
Decise che avrebbe affrontato la realtà.
Si alzò dal suo giaciglio, lasciando che la paura scivolasse via dal corpo.
Fece una doccia -la sua era una delle poche case in cui ancora funzionava l'acqua corrente. Mentre si strofinava la pelle nuda, notò che l'acqua era nera. Non si lavava da più di due settimane, ormai... Ma nessuno era lì con lui per dirgli che emanava un odore sgradevole, e così si era abituato a quel suo puzzo pungente. Ora, invece, mentre affondava le mani tra i capelli, utilizzando per l'ultima volta lo shampoo, il suo corpo si ripuliva di tutto quello strato di pelle morta e nera. Uscito dalla doccia, tentò di specchiarsi nello schermo del telefonino, per radersi la barba che fino a quel momento era cresciuta incolta. Cadde tutta sul pavimento, rivelando un volto incavato dal poco cibo, gli zigomi bene in vista, occhi azzurri contornati da occhiaie violacee. Districò i capelli, che erano diventati una matassa unta e maleodorante.
Fece tutto questo perché quando la morte lo avrebbe colto, si sarebbe presentato con un aspetto impeccabile.
Finalmente, quando uscì dal bagno e e si sedette al tavolo della sala da pranzo, era di nuovo in sé.
Forse era anche un po' cresciuto interiormente.
La paura di uscire di casa e trovarsi di fronte quel cadavere urlante non ce l'aveva più. Imbracciò il fucile, prese due buste di plastica logore e le riempì di tutte le armi che aveva racimolato nel corso degli anni, con annesse ricariche e proiettili.
Si guardò attorno, portando con sé quella borsa piena di esplosivi e i ricordi più belli che quel luogo gli aveva regalato.
Ed infine, uscì.
 
La prima cosa che fece fu quella di andare a controllare il morto che solo ora era realmente morto.
Lo osservò brevemente, girando con la scarpa il viso ridotto ad una pozza di sangue. Gli dispiacque per il destino che era capitato a quel tizio. Chissà come si era trasformato.
Poi passò a dare un ultimo saluto al gattino che gli aveva tenuto compagnia, che aveva alleviato la sua solitudine per una notte. Lanciò un bacio alla sua tomba, malinconicamente.
Andò a togliere le cassette di plastica dalle verdure che coltivava nell'orto, così che gli uccelli beneficiassero dei frutti che lui non avrebbe mai più mangiato.
Infine, salì sul tetto dell'edificio più basso del villaggio, il fucile in spalla, aiutandosi con un camion posizionato lì sotto privo di benzina nel serbatoio. Trovò una posizione comoda ed aspettò che la vita facesse il suo corso.
Erano circa le nove del mattino, c'era una bella luce, il cielo era terso e limpido. Guardò due mosche fare sesso. Masticò qualche spiga di grano. Si stese e lasciò che il sole colorasse il suo corpo già abbastanza abbronzato. Ascoltava gli uccelli cinguettare, il falco gridare solitario nel cielo. Vespe ed api costruivano le proprie case, approfittando del calore che ieri era stato loro negato. Si beava della morbidezza dei suoi capelli, il profumo che emanava la sua pelle pulita.
Ma c'era una cosa che stonava terribilmente con quel quadretto idilliaco, a parte l'apocalisse mondiale: uno di quei cadaveri ambulanti se ne andava in giro febbrilmente per la strada principale del paese. Respirava affannosamente, sbuffava. Correva qua e là, annusando l'aria e muovendosi a scatti, in un'affannosa ricerca.
Jared aveva sentito dei movimenti strani, ma non se ne curò più di tanto. Solo quando sentì un bidone della spazzatura rovesciarsi, si mise pigramente a sedere, sbadigliando e stiracchiandosi. Rimase in silenzio, osservando dall'alto quell'essere che non avrebbe dovuto camminare in giro per le vie di una città, bensì ritrovarsi sottoterra all'interno di una bara, oppure polverizzato in un'urna cineraria.
Questo era una femmina, era un cadavere femmina. Senza maglietta, i seni prosperosi le pendevano verso terra come otri vuotati del loro contenuto. I capelli erano corti, a chiazze, completamente ricoperti di polvere. La pelle tirata sulle ossa accentuava la sua già evidente magrezza, c'erano delle mosche e le loro larve che si muovevano dentro le ferite aperte sul suo corpo.
Ad un tratto, smise di muoversi, e dopo aver annusato l'aria, si volse di scatto verso Jared, che insisteva ad osservarla, impassibile. Si fissarono e dopo pochi secondi lei soffiò fuori l'aria, digrignando i denti. Si formarono tante piccole rughe lungo il naso semiaperto, la pelle accartocciata dal sole.
Jared la salutò con la mano, e quella cominciò a correre sotto l'edificio dove lui si era posizionato, correva all'impazzata, cercando disperatamente un appiglio su cui arrampicarsi che non trovava. Ad un certo punto interruppe la sua folle corsa e si fermò al centro della strada, indecisa sul da farsi. Guardò Jared con puro odio e ruggì. Filamenti di saliva uscirono dalla sua bocca e si schiantarono sul pavimento, Jared li vide lo stesso nonostante fosse abbastanza lontano da lei, era disgustato da tanto schifo.
Poi lei cominciò ad uggiolare, come se il suo comportamento potesse invogliarlo a scendere dal tetto e gettarsi tra le fauci del nemico. Jared la guardò, scettico e sorpreso. Non credeva riuscissero ad elaborare delle strategie, delle trappole.
Quando lei capì che non sarebbe sceso, si infuriò. Urlò, urlò prendendo a pugni il terreno e a calci le assi di legno delle case circostanti. Era una furia, chissà da quanto tempo non mangiava.
Poi, come tutto era cominciato, finì.
Aveva fiutato qualcosa.
Il mostro emise un verso di gioia, se così si può definire un gorgoglio maligno ed eccitato, e trotterellò verso il retro della casa di Jared. Lui sapeva cosa aveva fiutato il morto ambulante. E con fredda irritazione, imbracciò il fucile e mirò dritto alla sua testa.
Non avrebbe profanato la tomba del gatto. Oh, no.
«Crepa, stronza.» ringhiò, mentre faceva esplodere il suo cervello contro la casa dove era cresciuto, lasciando strisce rosse e grumi di carne rosa ovunque. Gli fece strano parlare: non apriva bocca per dire qualcosa di sensato da tanto tempo.
Sentire di nuovo la propria voce era alquanto bizzarro.
Cominciò a cantare, tornando a sdraiarsi, come se nulla fosse successo.
 
Girovagavano senza una meta per le vie del villaggio abbandonato, lamentandosi a gran voce per la mancanza di cibo nei loro stomaci. Forse erano stati attirati dall'odore di essere vivente che il corpo di Jared lasciava nell'aria, quel profumo di carne mossa da impulsi elettrici, pregna di emozioni, sensazioni, desideri. Forse li aveva attirati lì la voce cristallina del ragazzo che, appollaiato sul cornicione di quella casa, prendeva metodicamente la mira -senza interrompere le canzoni che cantava- e dava fuoco ai proiettili, che eliminavano uno ad uno tutti i cadaveri deambulanti. Se ne erano già presentati sette, nel giro di due ore. Quattro maschi, due femmine, e uno dalla dubbia sessualità, perché visto da lontano era abbastanza androgino. Ognuno di loro era rovinato a terra col cranio aperto a metà, le cervella dove si stavano accasando le larve delle mosche esposte alla luce del sole. Jared fischiettava allegramente, o almeno era quello che voleva far vedere a sé stesso, perché in verità credeva di essere impazzito.
Non aveva più nulla da perdere.
Fu per questo che ad un certo punto decise di scendere dal tetto, nonostante a terra ci fosse un ragazzino morto abbastanza pedante. Il mostriciattolo saltava come impazzito in una maniera abbastanza patetica, eccitato alla vista della preda che si offriva spudoratamente alle sue piccole fauci. Si avvicinò a Jared, la voce gli tremava dall'emozione mentre emetteva urletti acuti.
Per scendere dal tetto si stava servendo del camion che lo aveva aiutato a salirvi. Decise di sedersi di nuovo, questa volta sul tettuccio del veicolo, le gambe incrociate altrimenti il mostriciattolo gliele avrebbe toccate con le sue mani infette. Allungò il braccio che impugnava la pistola verso di lui, gliela posizionò sulla fronte mentre questo posava le sue dita sulla sua giacca di jeans, e prima che potesse tirarlo giù, fece pressione sul grilletto e l'ennesimo cervello volò fuori dalla scatola cranica che lo conteneva con un suono umido.
Le scarpe di Jared toccarono terra e si diresse verso l'uscita della città, scavalcando il corpo finalmente esanime cantando a gran voce. Sentiva dei movimenti nell'erba incolta poco distante. Non gliene importava nulla. Certo, un po' di paura ce l'aveva, ma ormai si era rassegnato, aveva accettato l'idea della morte. Sperava solo che se ne sarebbe andato in fretta e poco dolorosamente. Troppo codardo per spararsi un colpo in bocca, troppo codardo per farsi squarciare lo stomaco da qualcuno.
Cantava, cantava forte il motivetto di quel cartone che lui e Shannon guardavano sempre da bambini. Appena svegli, il sabato mattina, accendevano la televisione e la sintonizzavano sul canale che trasmetteva un cartone animato che parlava di squali mezzi uomini.
Oh, com'erano appassionati a quella serie televisiva!, pensò Jared, frantumando le rotule ad un uomo con un colpo di proiettile. A lui piaceva lo squalo martello, a Shannon invece quello squalo blu. Chissà a che razza apparteneva. Tentò di ricordarlo nel momento stesso in cui calava con forza il piede sulla faccia del tizio urlante, e si sporcò di sangue fino all'orlo dei pantaloni. Erano morti, non c'era rimasto molto sangue all'interno dei loro corpi: per questo si sporcava poco.
Continuava a camminare, e ad ogni passo incontrava quegli incubi divenuti realtà sempre più numerosi. Li liquidava con colpi di pistola se erano vicini, di fucile se erano lontani, alternando velocemente le due armi. Camminava e lasciava una scia di morte lungo il suo percorso, e più sparava, più questi aumentavano. Più rovinavano a terra, più ne uscivano altri dai luoghi più impensabili. Ad un certo punto ne vide uno trascinarsi pesantemente fuori dal bar dove lo portavano i genitori quando lui e Shannon erano più piccoli, e pensò che aveva avuto fortuna ad averlo incontrato solo ora che era armato per bene e non durante uno dei suoi vagabondaggi disperati. Ad un tratto i proiettili della pistola finirono, e perse un attimo di tempo per ricaricarla, forse un attimo vitale, perché i cadaveri avevano preso sempre più campo. Sebbene il metallo ponesse fine alle loro urla disumane, quelli erano in netta superiorità numerica. Sembravano chiamare rinforzi con quelle grida stridule, con quei ruggiti profondi. Una società di cadaveri, pensò Jared, e questo pensiero gli fece increspare le labbra in un sorriso che non aveva nulla di allegro, perché era imbevuto di perdita della speranza e morte del futuro, non vedeva niente di fronte a lui: tutte quelle mani bianche, quelle pupille dilatate, quei denti incrostati di carne gli avevano risucchiato tutto. Il sole non c'era più nel suo mondo. Ogni cosa era fredda, buia, e dal nulla fuoriuscivano questi morti che non volevano altro che trascinarlo nella loro dannazione, uno a destra, uno a sinistra, eccone altri tre, adesso invece ce ne sono due... Jared si girava in continuazione, mirando e sparando, in un continuo vorticare, una corsa folle per vedere chi sarebbe sopravvissuto al termine di questo gioco diabolico.
 
Stop.
 
Si fermarono tutti all'unisono, morti e vivi. Avevano captato un rumore sconosciuto.
Era un rombo basso, che aumentava d'intensità col passare dei secondi. Jared fu il primo a riscuotersi da quello stato catatonico in cui versava. Sfracellò il cranio ad uno dei quattro mostri che lo circondavano, e gli altri si resero conto che stavano perdendo l'occasione di rimediarsi un pasto caldo. Fu costretto a continuare a sparare nonostante quel rombo gli perforasse il cervello e lo facesse impazzire, oh, com'era fastidioso... Cadde in ginocchio, ma non voleva darsi per vinto, ormai era una lotta all'ultimo sangue, e più i mostri si avventavano su di lui, più li ammazzava: “non ce la farò, non ce la farò” si ripeteva mentalmente, “non ce la farò. Morirò qui, di una morte patetica e orribile. Non ce la farò.”
La pistola aveva nuovamente terminato i colpi a disposizione e lui si rannicchiò in posizione fetale sul suolo, mentre sentiva le presenze di quei cadaveri farsi pericolosamente più vicine, più veloci, sempre più veloci, i loro respiri sul suo collo, terribile, l'adrenalina entrata inutilmente in circolo nel suo corpo, ma lui non poteva far nulla se non aspettare che quei viscidi palmi mollicci gli artigliassero la schiena...
 
Ma nessuno lo toccò mai, anzi, sentì un tonfo, poi un altro ed un altro ancora, e quando si arrischiò a guardare il mondo esterno, i corpi degli aggressori erano sparsi ovunque, carne putrida abbandonata a terra. Il rombo era cessato.
Il sangue che sporcava il suolo non gli apparteneva: non sapeva se esserne felice o meno.
 
 
 
 
 
ANGOLO MIO
Allora, innanzitutto volevo ringraziare pubblicamente Kalina, Pinkymohawk e Rapace che seguono questa storia, e FeffEchelon che l'ha addirittura messa tra i preferiti! Io... Wow. Grazie, gente <3.
In più mi sono accorta di non aver inserito il disclaimer, per cui ci tengo a dirvi che con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, nè offenderle in alcun modo. Ordunque, dopo di ciò, io ho pubblicato questo capitolo e mi accingo a scrivere il sesto. Spero che vi sia piaciuto, lettori e lettrici, perché a me questo capitolo ha fatto proprio schifo. Mah.
Ci risentiamo presto, con le nuove esilaranti avventure di Jared il barbone :)

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Capitolo 4
*** IV ***


 

«Carne fresca!» esclamò allegramente una voce. Poi assunse un tono più serio. «Ti hanno morso?»
Jared si alzò in piedi. Ripulì metodicamente i suoi pantaloni sporchi di terriccio e polvere, ed infine volse il viso alla persona che stava parlando.
Appollaiato su una Harley Davidson con le braccia incrociate sul manubrio, in mano una pistola, c'era un ragazzo dalla barba incolta. La prima cosa che saltò ai sui occhi furono le sopracciglia: erano folte, nere ed immense. Sotto di loro vi erano delle iridi color cioccolata che lo scrutavano, sospettose. Il collo era fasciato da una bandana rossa, i vestiti che indossava erano logori e strappati.
Se ne stava lì, immobile, con quei capelli un po' corti e un po' lunghi mossi dal vento, aspettando una risposta alla domanda che aveva posto.
Jared non voleva fidarsi più di tanto. Lui e Shannon anni fa avevano sentito parlare di fantomatici sopravvissuti che, invece di unire le proprie forze e cercare di ricostruire la civiltà umana, catturavano i superstiti che incontravano nelle loro strade per utilizzarli come esche per i morti. Avevano perfino sentito parlare di gente che, spinta unicamente dal sadismo, ammazzava per sport.
Che diavolo avevano nel cervello, quei tizi? Jared e suo fratello non avevano mai dato confidenza a nessuno proprio per evitare di incappare in situazioni del genere.
«Allora? Ti hanno mangiato la lingua?» chiese l'altro, strofinando il naso con la mano sinistra.
«No... no, io... sto bene.» rispose lui esitante.
«È la verità o mi prendi in giro?»
«Perché dovrei?»
«E che ne so.» si guardò attorno «Questo posto è un mortorio! Che ci fai qui?»
«Niente.»
Il tizio sconosciuto lo guardò perplesso. «Armi? Ce ne hai?»
Rimase in silenzio: certo che le aveva, ma non gliele voleva dare. Non avrebbe di certo regalato il suo armamentario a un ragazzetto in moto, non era così disposto a lasciarsi strappare gli intestini senza prima combattere un po'! Probabilmente il tizio colse i suoi timori, perché si affrettò a rassicurarlo.
«Ehi,» esclamò, alzando le braccia in aria. Nel frattempo, Jared ricaricava la pistola. «non sono un bandito, non sono un assassino e non venderò i tuoi organi al mercato nero! Mi hanno solo mandato in giro a cercare qualcosa di utile per l'accampamento. So che probabilmente non lo farai, ma ti prego di fidarti di me, perché non ho alcuna cattiva intenzione ed- ehi, ma che fai?» chiese il ragazzo alzando la voce, allarmato alla vista di Jared che sollevava lentamente il fucile e lo puntava contro la sua testa. «Ti ho appena detto di non avere cattive intenzioni!» allargò le braccia, lasciando cadere a terra la pistola. «Guarda, mi sono appena separato dalla pistola pur di farti capire che non voglio farti del male!»
«Non ti muovere.» ringhiò Jared, chiudendo un occhio per prendere meglio la mira.
«Senti, parliamone...»
«No. Zitto.»
Il ragazzo se ne infischiò alla grande della richiesta di Jared, e cominciò a lamentarsi ad alta voce, isterico, con la paura negli occhi. «Ommioddio, che imbecilli, perché hanno mandato me, perché? Era meglio se mi lasciavano fare la vedetta come era stato deciso fin dall'inizio e invece no, quel rincoglionito di- CRISTO!» il suo urlo fu sovrastato dal botto sordo che il proiettile aveva fatto mentre usciva dalla canna che adesso fumava lievemente. Jared soffiò, facendolo dissolvere.
«MA CHE TI DICE IL CERVELLO? Oddio, ma perché...» urlò il tizio sconosciuto, accasciandosi sul sedile della moto portando i palmi delle mani sul viso.
«C'era uno di quelli dietro di te.» rispose semplicemente Jared.
«E allora? Potevi avvertirmi!» continuò ad urlare, voltandosi di scatto e confermando le parole di Jared: a diversi metri da lui c'era uno di quei morti ambulanti con un proiettile conficcato esattamente tra gli occhi.
«Non avresti fatto in tempo a raccogliere la pistola da terra che già saresti diventato uno di loro.»
«Ok...» sospirò, calmando il respiro «Ti devo la vita. E comunque... bella mira.» gli sorrise, ancora un po' nervoso.
«Grazie.» rispose Jared incerto.
«Senti, c'è del cibo da qualche parte?»
«Solo lattine di fagioli.»
«Ugh...» emise un verso disgustato «...che ricognizione penosa. Però meglio di niente. Sai dove posso trovarle?»
Jared annuì, incamminandosi verso la propria casa con le buste piene di caricatori in mano. «Seguimi.»
Il ragazzo smontò dal veicolo a due ruote, raccolse la pistola che infilò nel retro dei jeans e si affrettò a raggiungere lo sconosciuto. Si avvicinarono ad una casa che sembrava meno abbandonata rispetto alle altre. In un certo senso, era più rattoppata: c'erano delle assi di legno inchiodate in più punti... probabilmente andavano a coprire dei buchi che si erano formati per via delle condizioni meteorologiche, delle sparatorie o dei tarli.
Entrarono dentro, chiudendosi la porta alle spalle e si ritrovarono in un soggiorno dalle pareti multicolori.
Il ragazzo fischiò. «Forte! È casa tua?»
Jared appoggiò la pistola sul tavolo, senza guardarlo in volto. «Lo era.»
«Ah...» rispose quello con voce incerta «Quindi... quindi non lo è più.»
«Già.» cominciò a rovistare in uno dei cassetti della credenza appoggiata al muro.
«E dove abiti adesso?»
«Da nessuna parte.» tirò fuori dalle ante di legno uno scatolone abbastanza grande.
Seguì un lungo silenzio che terminò con un «Ah.» confuso. Poi Jared gli mise lo scatolone tra le mani, riempiendolo di tutte le cibarie che possedeva. Sistemò con cura le lattine, accatastandole le une sulle altre ottimizzando lo spazio.
«Mangeremo per un anno, con tutta questa roba!» esclamò allegramente il tizio «Ce le hai delle corde? Così lego lo scatolone alla moto.»
Jared annuì, e gli disse di attendere un attimo mentre lui andava a controllare il piano superiore. Ricordava di avere qualche corda elastica completa di moschettoni in uno dei cassetti della scrivania. E infatti, eccole lì. Le afferrò senza tante cerimonie e tornò dal ragazzetto.
«Ecco, tieni.» gliele posò sopra al carico di lattine che teneva tra le braccia.
«Perfetto! Adesso torniamo alla moto. Dovresti coprirmi le spalle durante il tragitto perché io avrò le mani occupate e potrebbe scappare fuori uno di quegli zombie e-»
«Li chiami così?» lo interruppe Jared «Zombie?»
«Sì... Perché, tu come li chiami?» lui appoggiò la scatola su un angolo del tavolo.
«Quelli, oppure loro
«Ma non è più semplice chiamarli zombie?» chiese perplesso.
«Io ho sempre visto gli zombie come degli esseri lenti e stupidi.» rispose Jared, con un sorriso sghembo «Questi invece sono veloci. E creano delle specie di trappole.»
«Mah...» si grattò il mento, fissando il soffitto con aria pensosa «Sono sempre dei morti che ti vogliono mangiare.»
«Anche i vampiri sono dei morti che ti mangiano. Quindi secondo te potrei chiamarli vampiri.»
«Loro si limitano a succhiare il sangue, però!»
«Sono pur sempre morti.»
«Ho capito ma- Ehi, che razza di conversazione è questa?» ridacchiò il ragazzo «Torniamo alla moto. Se vuoi, puoi mettere le buste con i caricatori qui sopra, almeno avrai entrambe le mani libere.»
«Ok.»
Si diressero verso la porta, con Jared in avanscoperta. Una volta usciti, con enorme circospezione raggiunsero la moto che era rimasta parcheggiata dove l'aveva lasciata il tipo. Non ci fu bisogno di sparare proiettili: i mostri, gli... zombie, come li chiamava lo sconosciuto, parevano essersi dileguati nel nulla. Jared aiutò il ragazzo a fissare la scatola al retro della moto tramite le corde.
«Fatto.» disse, rialzandosi da terra con i pantaloni di nuovo sporchi di polvere.
«Grazie amico! Se non ci fossi stato tu, Michael mi avrebbe linciato.»
«Lieto di esserti stato d'aiuto.» sorrise Jared.
Il ragazzo montò in sella, e trafficò svariati secondi con la pistola che, siccome andava a puntarsi contro la coscia, gli dava fastidio. Poi lo guardò dritto negli occhi.
«Beh, che fai? Non monti?» gli chiese.
«Eh?» Jared lo fissò, incredulo.
«Sì, dico a te!» continuò lui, grattandosi un braccio «Non avrai mica intenzione di rimanere qui, vero? Cioè, io pensavo fosse scontato che tu venissi con me.»
Fidarsi di uno sconosciuto ed avere di fronte a sé stessi infinite possibilità di continuare a vivere la propria vita... oppure rimanere lì per morire di fame o con delle dita che ti afferrano le interiora? La risposta era decisamente scontata.
«Beh... Io... Ok, verrò con te.»
«Bene!» esclamò allegro, e batté il palmo della mano sul poco spazio che offriva il sellino della moto. « È un po' stretto, ma se ci stringiamo riusciamo a starci entrambi, su questo trabiccolo.» rise «Ci pensi? Anni fa, la gente avrebbe ucciso pur di guidare una di queste... io invece le considero dei catorci! A proposito,» continuò, mentre Jared fissava la borsa delle munizioni ad una delle corde «Io sono Colin. Tu?»
Si girò, togliendosi dal viso una ciocca di capelli che gli era scivolata davanti agli occhi.
«Io? Mi chiamo Jared.»
«Okay, Jared... Tieniti forte, e preparati ad un lungo e scomodissimo viaggio, perché abbiamo parecchia strada da fare. A proposito, tieni sempre la pistola tra le mani, che non si sa mai.» ridacchiò «Ho una paura fottuta di vivere a questo mondo!»
Pronunciate queste parole, fece ruggire il motore della Harley, le ruote slittarono sul terreno facendo volare minuscole zolle di terra un po' ovunque.
E Jared, per la prima volta nella sua breve e triste vita, stava lasciando il nido in cui era cresciuto per spiccare il volo su di un mondo arido e sterile. Non fu una cosa facile, per il suo cuore: era molto legato al luogo natio. Ma capiva che era arrivato il momento di lasciarsi tutto alle spalle e cominciare a vivere.
Forse.
 
Una cosa lo colpì in particolare: Colin parlava un sacco. Veramente... parlava TANTO. Non chiuse un attimo la bocca. Chissà se era proprio il suo carattere o se era eccitato per il fatto di avere a che fare con un volto nuovo. Mentre Jared era costretto a stargli appiccicato, aggrappandosi alla sua vita per evitare di essere sbalzato via dal sellino per effetto di tutti quegli scossoni che gli arrivavano, Colin parlava del posto in cui erano diretti, gli raccontava del suo accampamento itinerante e delle altre persone che lo abitavano. Gli disse i loro nomi, ma Jared se li dimenticò subito. Anzi, a dire la verità, non lo stava ascoltando neanche più di tanto. Le parole entravano ed uscivano dalle sue orecchie: era troppo intento ad osservare il paesaggio cambiare gradualmente. Percorsero strade battute, strade di periferia asfaltate e ad un certo punto entrarono in una superstrada costellata di auto abbandonate, che però abbandonarono subito: troppo pericoloso. Gli alberi rinsecchiti attorno a loro cominciavano a diminuire. Il terreno era sempre più arido, brullo e piatto, fino a quando non si trasformò in un'immensa pianura le cui uniche sporgenze erano dei cespugli morti. In più, le loro narici si impregnarono di un odore di sale. Le orecchie, ormai abituate al rombo costante della moto, captavano in sottofondo un leggero sciabordare: il suono della risacca marina.
Colin rallentò.
«Scegliamo sempre dei posti come questo, per accamparci» spiegò «In modo che quei bastardi non si possano nascondere da qualche parte. Prima di poter arrivare a noi... li freddiamo con un proiettile in faccia!» Jared annuì, nonostante lui non lo potesse vedere. In lontananza, cominciava a delinearsi la piatta linea del mare. Era grigio. Su di esso aleggiava una leggera foschia.
«Ecco, quella è la nostra postazione attuale» Colin indicò una cosa che somigliava ad una palafitta poco lontano dalla riva. Accanto ad essa c'era un albero molto grande, completamente spoglio «Stiamo lì da un sacco di tempo, perché è sicuro. I morti non si azzardano a mettere piede nell'acqua.» rise, mentre si avvicinava, ormai a passo d'uomo. Arrivati in prossimità della casa, smontarono entrambi.
«Okay, allora.» Colin prese una bella boccata d'aria «SONO IO!» urlò.
«Lo vedo.» disse una voce sconosciuta. Si voltarono entrambi, di scatto, per scoprire che appollaiata su uno dei rami dell'albero dietro di loro c'era una ragazza dai lunghi capelli biondi e crespi. Probabilmente erano stati ridotti così da qualche tinta che si era fatta anni fa. Il viso aveva dei lineamenti morbidi, sebbene la magrezza fosse ormai una caratteristica imperante a quel mondo, e aveva tra le mani un fucile.
«Oh, ciao, Alissa.» la salutò brusco Colin senza degnarla di uno sguardo mentre armeggiava con la scatola di cibarie. Probabilmente tra i due non correva buon sangue.
«E chi abbiamo qui?» chiese lei puntando il fucile contro Jared, scendendo con un abile salto dai rami dell'albero. Jared non si stupì del suo gesto, anzi, rimase tranquillo dove si trovava. Era normale essere diffidenti, in tempi del genere.
«Un nuovo arriv- Ehi! Ma che cazzo fai?» Colin alzò la voce. Si diresse verso di lei, afferrando la canna del fucile. «È uno dei nostri, ora!»
«Mi preoccupo per la nostra incolumità, Cole.» sorrise lei senza un'ombra di gentilezza nel viso. «È sano?» riprese, brusca.
«Certo!» esclamò incredulo «Credi che porterei un infetto nella nostra base?»
«Conoscendoti, direi di sì.» rise lei malignamente.
«Stronza come sempre. Bell'affare che ha fatto Michael, a portarti qui, davvero.» imbracciò scocciato lo scatolone e fece per dirigersi verso la palafitta.
«Farrellmerda.»
«Eddai Alissa, non ho proprio voglia di parlare con te. Mi basta sapere che dovremo passare assieme tutta la vita per farmi cadere nella depressione nera, non ci mettere del tuo, per favore.» sbuffò Colin, provocando una risata nella ragazza.
«Aspetta, chiamo Michael.» lei tirò fuori dalle tasche un walkie-talkie. Se lo portò alla bocca, tenendo premuto un pulsante. «Michael, mi senti? È tornato Colin. Sì, è tornato. E... non è solo, c'è anche un altro sopravvissuto che... sì, sì, dice che è sano. Mah. Io non mi fiderei.» rise forte quando notò Colin scoccargli un'occhiataccia.
Lui si girò verso Jared. «Questa è Alissa. Una stronza totale.» gli spiegò.
«È proprio così malvagia?» chiese Jared in un mezzo sorriso.
Lui gli rivolse uno sguardo shockato. «Scherzi?? È l'anticristo!»
Jared colse un movimento con la cosa dell'occhio.
«E quello è Michael.» Colin puntò il dito verso la palafitta. «È stato lui a trovarci.»
Dalla casa sull'acqua era uscito un uomo: alto, immenso e nero. Li salutò da lontano sventolando una mano in aria. Colin rispose con un cenno del mento, mentre quello scendeva dalla palafitta tramite una scaletta per andare a sistemarsi su di una zattera sulla quale vi era una gabbia di metallo. Lo vide sollevare da quella catasta di legni galleggianti un ramo appiattito e levigato ed usarlo a mo' di remo.
Mano a mano che si avvicinava, Jared riusciva a distinguere meglio i tratti somatici del suo viso.
Aveva delle labbra carnose e grandi, il naso schiacciato, occhi piccoli ma che risaltavano a causa del colore scuro della pelle, così come i denti, bianchissimi. E soprattutto, era imponente. Ad occhio e croce, sarà stato alto due metri.
Approdò a riva, scese dalla zattera provvisoria e la trascinò di poco sulla spiaggia afferrandola per la gabbia metallica come se ciò non gli costasse il benché minimo sforzo, poi si voltò verso di loro.
«Ehi, Colin.» aveva una voce profonda «Hai fatto una buona ricognizione?»
Il ragazzo annuì. «Ho trovato un sacco di cose.» rispose, accennando allo scatolone che teneva tra le mani... e a Jared.
«Lo vedo.» l'uomo si avvicinò a Colin, prendendogli dalle mani il carico che trasportava, poi si rivolse a Jared, sorridendogli. «Tu saresti...?»
«Mi chiamo Jared.» rispose lui, guardandolo intensamente con i suoi occhi azzurri.
«Benvenuto tra noi, Jared. Io sono Michael.» sorrise lui, stringendogli la mano. Quella scheletrica di Jared quasi scomparve, inglobata dall'enorme cinquina di Michael.
«L'ho trovato io!» fece Colin tutto allegro, mentre spingeva la moto dentro a quella gabbia ferrea.
Alissa sbuffò qualcosa a proposito del suo comportamento infantile prima di arrampicarsi nuovamente sull'albero.
Il gigante scosse la testa, continuando a sorridere serafico. «A volte mi sembra di avere a che fare con dei bambini piccoli. Non ho radunato un gruppo di superstiti, ho creato un asilo nido!» ridacchiò, mentre invitava gli altri due ragazzi a prendere posto assieme a lui sui legni galleggianti. «Quella è una strega!» si lamentò Colin, aggrappandosi alle sbarre mentre il gigante cominciava a remare verso la palafitta. «La dovevi lasciare dov'era!»
«TI HO SENTITO, FARRELL!»
Colin prese una gran boccata d'aria per urlare qualcosa in rimando, ma il gigante lo bloccò, posandogli due dita enormi sulle labbra. «Lascia stare, Colin. Lo sai che è una battaglia persa discutere con quella ragazza. Jared, a te l'onore.» disse, dato che erano arrivati davanti ad una scala di corda.
Jared si arrampicò in silenzio, fino ad arrivare finalmente sulla piattaforma dove si ergeva la casa.

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Capitolo 5
*** V ***


 

Aveva sempre odiato svegliarsi al mattino presto con la luce del sole che arrivava direttamente negli occhi, eppure era così: la luce del sole gli arrivava dritta negli occhi, e questo lo costrinse a strizzarli, mugugnando qualcosa di insensato. Si stiracchiò, ancora ad occhi chiusi, e fece rilassare i muscoli.
Poi gli si gelò il sangue nelle vene: ma che stava facendo? Stiracchiarsi? Era impazzito, per caso?? Doveva starsene zitto, la mattina, captare rumori molesti, evitare di ritrovarsi uno di quelli davanti alla faccia, con le loro mascelle spezzate secernenti sangue. Si agitò, cercando di scrollarsi di dosso tutte le coperte che lo avvolgevano, quando all'improvviso si bloccò.
Non era nella sua solita casa. Non aveva di fronte a sé la scrivania, non c'era la porta costellata di lucchetti ad accoglierlo. In verità, ora di fronte a lui c'era un ammasso di pelo bianco che si alzava e si abbassava ritmicamente, facendo seguire al gesto dei rumori profondi. Dei respiri.
Jared realizzò che si trattava di un cane. Lo aveva visto il giorno prima, era una specie di lupoide dal muso allungato, le orecchie a punta e penetranti occhi color dell'ambra. Come avevano detto che si chiamava...? Sandy, Sammie... Qualcosa del genere. Appoggiò la mano sulla schiena del cane acciambellato a terra. Questo ebbe un leggero sussulto e tirò su la testa di scatto, per fissarlo con quel suo sguardo indagatore.
«Ehi.» sussurrò Jared con voce ancora assonnata.
Il cane lo guardò ancora un po', per poi decidere che il ragazzo steso a terra non rappresentava un pericolo da cui guardarsi. Con uno sbuffo, tornò alla posizione originaria per riprendere il riposo interrotto.
Jared si mise a sedere, guardandosi attorno. Gli faceva male la schiena, aveva dormito sul pavimento.
La palafitta comprendeva un'unica stanza. In un angolo c'erano tutti gli averi del piccolo gruppo di sopravvissuti: armi da fuoco, accette, balestre, frecce e faretre, lattine, zaini, lampade ad olio. In un altro angolo c'era un materasso contuso e senza lenzuola su cui dormivano rannicchiate strette due persone. Una era... come si chiamava? Alissa. E poi c'era una ragazzina che avrà avuto sì e no tredici, forse quattordici anni. L'aveva conosciuta ieri, subito dopo essere entrato nella casa sull'acqua. La ragazzina stava armeggiando con una scatola ricoperta di vetro in compagnia di due cani (la lupa e un microbo spelacchiato bianco e nero): non appena aveva visto entrare lo sconosciuto, era rimasta a fissarlo con gli occhi spalancati. Aveva lunghi capelli color del miele ed era veramente magra. Le sue braccia erano così sottili che Jared credette di poterle spezzare col minimo movimento quando lei gli si gettò addosso, contenta di vedere un volto nuovo. Non credeva ci fossero altri sopravvissuti, gli raccontò lei quando stavano cenando.
Non cenavano mai tutti assieme, rimaneva sempre qualcuno sull'albero a fare da vedetta, anche quando pioveva, anche con la grandine e i fulmini. In quei casi, continuava a parlare Dakota (così si chiamava la ragazzina) si attrezzavano con un ombrello ed un telo di plastica, sperando di non essere portati via dal vento o colpiti da una scarica elettrica fatale. Ma a lei non era permesso fare cose del genere, era troppo piccola, dicevano. Michael però le aveva promesso di impararle a guidare nei prossimi giorni. Alissa invece le aveva insegnato ad impugnare le pistole.
Avevano una sorta di legame madre/figlia, quelle due.
Quando uno zombie si avvicinava all'accampamento, prima Alissa gli spezzava le gambe in modo da non fargli rappresentare una minaccia, poi chiamava Dakota accanto a sé e, con tutta calma, le faceva puntare la pistola contro la faccia del mostro, le insegnava a togliere la sicura mentre questo strisciava con fatica sul terreno emettendo dei rantoli frustrati, e quando premeva il grilletto cercava di far sì che il rinculo non la sbilanciasse facendola cadere a terra.
Così piccola ma già così grande, pensava Jared mentre lei gli raccontava tutte quelle cose.
Le aveva chiesto se non le pesasse vivere in quel modo, ma lei rispose che quello era il suo mondo. Ci era nata, tra gli zombie, e non sapeva come fosse la vita prima che cominciasse l'apocalisse, quindi non le importava più di tanto. Ed ora se ne stava lì, respirando dolcemente, stretta tra le braccia di Alissa.
Dal lato opposto della stanza c'era Colin che, come lui, era sul pavimento. Se ne stava sotto la finestra, supino e con le braccia incrociate dietro la nuca. Era stato lui a fare la vedetta, stanotte. Probabilmente aveva appena dato il cambio a Michael, dato che il gigante nero non era presente nella stanza.
Jared decise di alzarsi. Le assi di legno scricchiolarono e lui tentò di fare il più piano possibile. Aprì la porta ed una soffiata di aria fresca gli lambì la pelle, poi sentì qualcosa di morbido sfiorargli le gambe: la lupa l'aveva silenziosamente seguito. Quella si stiracchiò con uno sbadiglio di fronte a lui, che l'accarezzò. Dopo aver chiuso la porta, si incamminò verso il lato della palafitta che dava sull'albero immenso e, come prevedeva, vide una figura seduta su uno dei rami di media altezza.
Sentì un rumore e si voltò di scatto per scoprire che il cane si era gettato tra le onde del mare.
«Ma che...» si disse perplesso, mentre osservava il cane raggiungere velocemente la spiaggia.
«Jared! Buongiorno!»
Sollevò gli occhi quando si sentì chiamare dalla voce profonda di Michael: lo stava salutando dal ramo su cui era seduto. Gli rispose con un cenno della mano.
«Ti va di venire a farmi compagnia?»
«Arrivo.» rispose Jared, alzando non troppo la voce per farsi sentire: voleva evitare di svegliare gli altri.
«Hai fatto colazione?»
Scosse la testa. «No.»
«Neanche io! Ti andrebbe, per favore, di prendere un paio di scatolette di frutta?»
«Certo.»
«Grazie!»
Una volta prese le prime scatole di cibo che riuscì ad afferrare (pesche sciroppate) tornò velocemente nella postazione in cui si trovava prima. E decise che un bagno se lo poteva anche concedere, dato che era caldo. Per cui si spogliò, rimase solo con i boxer, fletté il corpo magro e si gettò nell'acqua grigia. Era un po' fredda, ma il contatto col liquido era piacevole. D'altra parte, era da anni che non faceva un bagno nel mare. Anzi, più precisamente, era da anni che non faceva un bagno: il suo unico lusso era stata la doccia. Rimase qualche secondo sott'acqua, poi fu costretto a riemergere. I polmoni non erano allenati a sforzi del genere, ed una delle cose da fare nei prossimi giorni sarebbe stato irrobustire il proprio corpo. Nuotò fino alla riva con le lattine strette tra le mani, e si rimise in piedi scuotendo i capelli, ad occhi chiusi.
Poi sentì un rumore di corsa frenetica, e riaperti gli occhi, vide un piccolo missile bianco e nero balzargli addosso che latrava eccitato. Era l'altro cane. Ricambiò con gioia le sue effusioni, grattandogli la testa ed accarezzandolo per tutta la sua lunghezza. Notò che aveva gli occhi opachi e la mascella storta: era un cane anziano, ma nonostante ciò, in corpo gli scorreva talmente tanta energia che se ne stupì. C'era anche la lupa, poco più in là, intenta ad annusare in giro, alcune gocce d'acqua che le cadevano dal pelo nonostante si fosse scrollata poco fa. Quando il cagnetto si fu calmato, cominciò la scalata dell'albero a piedi nudi. Mentre faceva forza su gambe, braccia e mani per raggiungere Michael, si punse un paio di volte con qualche pezzo di corteccia sporgente, ma non se ne curò più di tanto. Preferiva -seppur inconsciamente- stare al sicuro in un posto alto piuttosto che fermarsi in prossimità del terreno per far passare il dolore che aveva alle piante dei piedi e ai palmi delle mani.
Finalmente, raggiunse il gigante. Si issò sul ramo accanto a lui, sporcando i boxer con polvere e terra incastonata tra la corteccia, e gli passò la lattina. Erano veramente in alto.
«Eccoti qua.» gli sorrise lui, prendendo la scatoletta che Jared gli stava porgendo. La appoggiò sulla pancia per poi armeggiare con due rametti che sporgevano dal ramo superiore. Li staccò, li ripulì dalla sporcizia e ne passò uno a Jared. «Spero che non ti faccia schifo, ma non abbiamo neanche una forchetta.» gli disse.
«Non ti preoccupare.» rispose Jared, sollevando il coperchio della lattina tramite l'apposita linguetta. L'odore dolce delle pesche gli solleticò il naso, e ne infilzò una con il rametto, portandosela alla bocca. Mangiarono in silenzio.
«La mattina è il periodo più bello di tutta la giornata.» disse Michael dopo un po'. «Soprattutto quando c'è questa luce. Sembra quasi che non sia successo nulla.»
Jared ingoiò una pesca. «Pensavo anche io la stessa cosa, ieri.»
«A proposito di ieri. Colin mi ha detto che ti ha trovato in mezzo ad un villaggio abbandonato.»
«Sì.»
«E cosa ci facevi, se posso chiedertelo?»
«Era la mia casa.»
«Intendo dire, perché eri circondato da zombie.»
«Io...» fissò il liquido denso delle pesche. «Io avevo deciso di farla finita, ecco.»
«Ma avevi delle armi, mi ha raccontato Cole.»
«Sì. Infatti, non credo che fossi ancora ponto a lasciare questo mondo, nonostante tutto.» gli sorrise mestamente. «Se non fosse stato per l'arrivo di Colin, a quest'ora sarei morto. Anzi... sarei uno di loro
Michael ricambiò il sorriso. «Beh, allora brindiamo a Colin che ha sventato il tuo suicidio.» sollevò la lattina ormai priva di pesche e la fece cozzare lievemente contro la sua. «Il brindisi più economico del mondo!» risero assieme, di cuore. Jared si stava di nuovo abituando, seppur lentamente, ad avere contatti con altri umani. Una cosa di cui anche se non se ne era mai reso conto più di tanto negli ultimi tempi, aveva veramente bisogno.
«Colin mi ha detto che il vostro è un accampamento itinerante.» disse. «Come mai?»
«Oh, quel ragazzo! Non trovi che parli fin troppo?» ridacchiò Michael «Non se ne sta un attimo zitto! Se non altro ha portato un po' di allegria tra noi. Comunque, per rispondere alla tua domanda, è un accampamento itinerante perché dopo un po' i morti si accorgono di dove viviamo. Forse è per l'odore, forse per i rumori. Ma, dopo un po', cominciano a... venirci a trovare, ecco. Un bel giorno ne vedi uno gironzolare nei dintorni, poi due, poi tre, cinque, dieci...» i suoi occhi si oscurarono «E alla fine, riesci a salvarti per miracolo.»
«...Ah.»
«Ma fortunatamente qui non se ne è visto nemmeno uno, e dire che è da più di un mese che viviamo nella palafitta... Non sapevi di questo loro comportamento?» il tono di voce di Michael era tornato quello cordiale di sempre.
Jared scosse la testa. «No. Sono sempre vissuto tra le mura di casa da quando è cominciato tutto.»
Lui lo fissò sbalordito. «E come hai fatto? Voglio dire, si tratta di un periodo lunghissimo! Non sei mai uscito di casa... per anni interi?»
«Beh, certo che sì, ma non mi sono mai allontanato dal villaggio. Uscivo per andare a prendere il cibo al mercato, le pile all'emporio, le coperte nelle case disabitate. E poi non è stato così terribile finché c'è stato...» la voce gli morì in gola, e sussurrò il nome di Shannon con lo sguardo perso nel vuoto.
Michael capì che era meglio cambiare discorso e si affrettò a trovare qualcosa da dire, turbato per l'aver messo Jared in quella situazione. «Li vedi quei cani laggiù?» gli chiese.
Jared annuì, cercando di non pensare a quello spiacevole ricordo.
«Quella bianca si chiama Sally. Quello a macchie, invece, Jack. Il più piccolo è il cane di Dakota -sai, la ragazzina, quella che hai conosciuto ieri. Ha i suoi stessi anni, a quanto pare lo ha adottato al canile quando era un cucciolo. Mentre la lupa l'abbiamo trovata quando cercavamo un posto sicuro per accamparci. Non è proprio una lupa, ma somiglia molto alla razza. Stavamo in mezzo ad un bosco, morendo di paura perché poteva sbucare uno zombie da qualsiasi parte, quando ad un certo punto ci si è avvicinata lei, tutta impettita, e ha deciso di rimanere con noi. Alissa l'ha voluta chiamare Sally, perché, stando a quello che dice lei, Jack e Sally sono due personaggi di un certo regista dark o roba del genere.»
«Tim Burton.» disse Jared, sorridendogli.
«Bravo, proprio quello!»
Rimasero in silenzio, osservando i cani giocare tra loro.
«Come funzionano i turni da vedetta, Michael? Voglio rendermi utile.»
«Che ragazzo volenteroso!» gli diede una leggera pacca sulla schiena nuda. «Allora, lo facciamo a rotazione: dalla mattina all'ora di pranzo, dall'ora di pranzo all'ora di cena e poi per tutta la notte... Ma adesso che ci sei anche tu potremo spezzare il turno notturno in due parti per renderlo meno faticoso. Nei prossimi giorni vorrò insegnare a Dakota a guidare la macchina: ne ho trovata una abbandonata qui vicino, qualche giorno fa. Ha ancora un po' di carburante nel serbatoio, potrei andare a fare una ricognizione per trovarne dell'altro e farle provare il brivido di tenere le mani sul volante. Tanto non c'è più bisogno della patente, e prima impara a guidare, meglio è.» ridacchiò «Ho intenzione di portare con me anche Alissa, almeno evitiamo di far scoppiare una sparatoria tra lei e Colin. Per la miseria, una donna praticamente adulta che si mette a litigare con un ragazzetto! Quei due sono impossibili. Tra tutti i superstiti, sono rimasti in vita proprio le due persone che si sopportano meno al mondo!»
«Come mai c'è tutto questo astio, tra loro?» sorrise Jared, facendo dondolare i piedi nel vuoto.
«Non saprei. Di solito dicono che gli opposti si attraggono, ma loro sembrano continuare a respingersi sempre più. A dir la verità, è stata Alissa a far partire il tutto. Appena sono tornato al campo con Colin, che avevo trovato durante una delle mie perlustrazioni, lei ha subito lanciato una frecciatina che ora non ricordo affatto. Da allora tra i due è guerra... guerra aperta.»
 
Parlarono ancora un po' del più e del meno. Più tardi Jared sperimentò l'attività di “vedetta pomeridiana”. Michael gli passò il fucile che aveva tenuto a portata di mano per tutta la mattinata che avevano trascorso sull'albero, raccomandandogli di sparare a qualsiasi accenno di morto vivente si fosse presentato nel loro territorio. Fortunatamente nessuno di quegli abomini venne a far loro visita. Non scese dall'albero fino all'ora di sera, cioè quando Colin, con un gran sorriso, venne a dargli il cambio.
 
 
Angolo mio
Perdonate l'attesa, ma un improvviso calo di ispirazione unito alla raccolta delle olive che mi tiene impegnata nell'uliveto letteralmente dalla mattina alla sera, manifestazioni e altre faccende hanno fatto sì che la pubblicazione di questo capitolo slittasse. Chiedo venia :(
Per la peppa e la peppina, Catnip95 e pinkymohawk hanno messo questa fan fiction tra i loro preferiti. Ripeto: per la peppa e la peppina! E ci metto di mezzo anche donapi, ecco, che ha recensito l'ultima volta. Comunque, gente, Michael è Michael Clarke Duncan (l'attore del Miglio Verde); Dakota è Dakota Fanning (la tipetta di La Guerra Dei Mondi, La Tela di Carlotta, Push e altra roba); mentre Alissa è Alissa White-Gluz dei The Agonist: l'ho già utilizzata nell'altra mia fanfiction, ma leggendo in giro ho notato che chiunque la addita come una stronza, quindi ho voluto farle questo carattere duro.
In più, gente... io ho avuto Serj Tankian a 30 centimetri di distanza. È accaduto il giorno prima della pubblicazione del capitolo precedente. Cioè. Oddio. Cioè, SERGIO! Cioè... :D

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Capitolo 6
*** VI ***


 

Angolo mio
Sì, questa volta mi sono spostata all'inizio della pagina.
Innanzitutto: è la notte di Halloween! E quando si scrive una fan fiction di questo genere, perché non aggiornare proprio oggi? Forse questo capitolo aiuterà qualcuno a passare una serata paurosa davanti al computer :D
Invece, se siete finit* qui dopo il 31 ottobre, sappiate che prima di questo capitolo ne ho pubblicato un altro proprio pochi giorni fa. Onde evitare buchi nella trama, andate a leggerlo.
In secondo luogo: è il compleanno di Frank Iero. Auguri, uomo che non conosco ma che ho idealizzato a dovere nel mio cervelletto. Ecco, tenete un disegno di Jared triste e depresso: qui. E la splendida vista che offre la palafitta qui.
Infine, un enorme grazie a luiero che si è aggiunt* alla schiera di persone che seguono questa fan fiction.
Buona lettura a tutt* :)
 
 
 
 
I mesi scorrevano, piacevolmente lenti.
Sembrava quasi di essere tornati alla normalità.
Certo, Jared passava almeno un quarto della giornata su un albero a scrutare l'orizzonte con un fucile in mano, ma poteva ritenersi soddisfatto: dopo tre anni di totale silenzio, finalmente aveva di nuovo una vita sociale. Era sempre in compagnia di qualcuno, e la cosa non gli dispiaceva affatto. Dakota gli pettinava i lunghi capelli, elogiandoli in continuazione. Si divertiva a riempirlo di trecce dopo che lui si era gettato in mare, per poi slegarle una volta asciutte, rivelando una chioma completamente ondulata. Alissa si limitava a stargli accanto in silenzio, schiva come era sempre stata da quando l'aveva conosciuta, ma non gliene faceva una colpa... Probabilmente aveva le sue ragioni per comportarsi in quel modo. A volte fantasticava sul perché di quel comportamento solitario. Forse aveva subito una perdita traumatica. O forse doveva le cause erano a monte: magari aveva avuto un'infanzia difficile.
C'era Michael, col suo sorriso rassicurante e intramontabile. Quell'uomo emanava un'aura di sicurezza. Bastava stargli vicino per essere investiti da una sensazione di calma totale. Con lui, ogni problema sembrava risolvibile, che fosse l'esaurimento delle scorte di benzina o che il piccolo cane, Jack, avesse distrutto l'unico cuscino comodo in un attacco di vitalità, azzannandolo fino a ridurlo a brandelli.
E poi c'era Colin.
Quel ragazzo era una bomba di vitalità. Jared si chiedeva come riuscisse ad avere tutta quell'allegria in corpo quando vivevano ogni giorno con l'inquietante dubbio del “mi sveglierò o no, domani mattina?” (cosa che Colin non mancava di far notare: non appena si svegliava, la prima cosa che faceva era sbadigliare, stiracchiarsi ed esclamare con voce squillante “e anche oggi ci siamo svegliati!”. Alissa gli ringhiava contro qualche insulto, e lui sogghignava malignamente). Colin gli veniva spesso a tenere compagnia mentre faceva la vedetta. Si arrampicava sull'albero, si sedeva pesantemente accanto a lui e cominciava a dar fiato alla bocca.
Aveva ventidue anni, tre in meno rispetto a Jared. E i suoi familiari, da quel che diceva, erano vivi e vegeti in qualche base militare nonostante non avesse loro notizie da più di un anno. Fino a quando le comunicazioni non si erano interrotte era riuscito a sentirli tramite dei messaggi trasmessi via radio: ad una data ora del giorno si intrufolava in una macchina abbandonata ed armeggiava con le manopole fino a captare la stazione. Ma le notizie si facevano sempre più disturbate ogni giorno che passava, e così i contatti erano gradualmente cessati. Jared gli aveva chiesto dove si trovasse questa famigerata zona sicura, ma lui aveva risposto di non conoscere il luogo. I militari avevano mantenuto la postazione top-secret.
 
In quel momento si trovavano nella macchina dove Michael aveva dato lezioni di guida a Dakota. Il nero li aveva spediti a fare l'ennesimo giro di ricognizione, in cerca di qualsiasi cosa potesse rivelarsi utile.
«Praticamente» stava raccontando Colin, gesticolando molto e prestando poca attenzione alla strada nonostante fosse lui alla guida. «Io e la mia famiglia ci trovavamo nel porto più vicino alla città in cui abitavamo. I militari avevano detto che muoversi per via acquatica era più sicuro, ecco perché ci trovavamo lì. Stavamo aspettando il nostro turno per montare sul traghetto, e tra me e loro si era infiltrata una donna con al seguito tipo quattro o cinque bambini... io li avevo lasciati stare perché ero un galantuomo e credevo nel cavalleresco detto “prima le donne e i bambini”. Ad un certo punto hanno cominciato a suonare le sirene, e un tizio ha strillato che c'era “un infetto, aiuto, mettetevi in salvo!”. Hanno fatto passare la famiglia Farrell al completo tranne il figlio minore, cioè me. E naturalmente è passata anche la donna con i bambini urlanti. Il traghetto è partito sotto i miei occhi.»
«Ma che sfiga.» commentò Jared, sincero.
«Già. Ehi, c'è una stazione di servizio!» esclamò, accostando la macchina ad una solitaria stazione di rifornimento abbandonata. «Guarda, c'è anche un'altra macchina, magari troviamo della benzina.» parcheggiò in mezzo alla strada. Prima di scendere si guardarono bene attorno, presero pistole, balestre e coltelli (Michael si premurava sempre che avessero almeno un arma da fuoco, una silenziosa e una per il contatto ravvicinato) e scesero, chiudendo le portiere dietro di loro.
Si diressero verso la macchina abbandonata, rovistarono al suo interno da cima a fondo solo per scoprire che non conteneva nulla di utile se non una cartina degli Stati Uniti completamente contusa ed illeggibile, un Arbre Magique quasi totalmente inodore ed una confezione di gomme da masticare scadute della marca Orbit che intascarono comunque perché si trattava pur sempre di cibo. Cibo spazzatura, ovvio, ma pur sempre cibo. Controllarono il serbatoio e scoprirono delusi che era completamente vuoto. Il caldo, probabilmente, aveva fatto evaporare il carburante.
«Beh, non ci rimane che guardare qua dentro.» sospirò Colin, indicando la tabaccheria. «Pronto?»
Jared tolse la sicura alla pistola. «Pronto.»
Non gli piaceva quel genere di cose, ma voleva comunque rendersi utile per i suoi nuovi compagni di viaggio. Si incamminò inquieto verso l'entrata, seguito da Colin.
La porta, quando ancora funzionava, era stata una di quelle scorrevoli che si aprivano tramite una fotocellula sensibile ai movimenti. Adesso il meccanismo era inutilizzabile per via della mancanza di corrente, e qualcuno prima di loro aveva rotto il vetro per intrufolarsi all'interno del locale.
Per entrare si dovettero abbassare sulle ginocchia, facendo attenzione a non tagliarsi con i vetri che sporgevano dal telaio metallico. Non sarebbe stata una via di fuga comoda quella, no. Jared era sempre più nervoso.
Il locale era piccolo e angusto, costellato da basse scaffalature che potevano benissimo nascondere uno di quei mostri affamati di carne. Fece cenno a Colin di salire sul bancone posizionato all'entrata per controllare la situazione dall'alto. In completo silenzio, si issarono sul tavolo di ceramica su cui tanti anni fa le persone venivano a pagare il conto del pasto appena consumato, oppure a scambiare quattro chiacchiere col cassiere.
Jared si guardò bene attorno, terribilmente inquieto.
No, pareva non esserci nessuno.
«Via libera.» confermò Colin, pur sempre parlando a bassa voce. Evidentemente anche lui non vedeva l'ora di andarsene. Fecero un giro veloce tra gli scaffali semivuoti. Trovarono un pacchetto di patatine ammuffite, qualche rivista mangiucchiata dai topi ed un peluche a forma di struzzo. Decisero di portare tutto con loro. Videro perfino dei preservativi, ma quelli decisero di lasciarli lì perché non avrebbero saputo come utilizzarli. Sghignazzarono qualcosa di cattivo gusto a proposito di Alissa che probabilmente aveva una vagina dentata come la protagonista del film Denti (che entrambi avevano visto), momentaneamente dimentichi dell'inquietudine, poi si ricomposero. Tornati all'entrata, si accorsero che dietro al bancone c'era una teca di plastica piena di sigarette.
«Ehi.» fece Colin. «Non te l'ho mai chiesto prima: tu fumi?»
Jared sogghignò. «Diciamo che le sigarette mi hanno tenuto compagnia in questi lunghi anni di solitudine.»
«Allora ne prenderò qualcuna.» detto questo, Colin diede un colpo alla teca con il calcio della pistola, e creò un buco in cui infilò una mano per prendere svariati pacchetti di sigarette. Arraffò poi diversi accendini prediligendo quelli che avevano stampato addosso un disegno che a detta sua era proprio fico, e si diressero verso la macchina, uscendo dal locale.
Jared si riparò gli occhi che ormai si erano abituati alla penombra cupa del tabacchino.
Si sedettero nuovamente all'interno dell'auto, appoggiando le riviste ed il peluche che avevano preso sui sedili posteriori.
«Mi passi un pacchetto?» chiese Jared.
«Agli ordini!» e Colin glielo lanciò tra le mani. Jared lo studiò per un po', cercando la linguetta di plastica per aprirlo più facilmente, un piede ancora appoggiata sull'asfalto. Anche Colin era impegnato nella sua stessa operazione.
«Questi così invece di aiutarti sono solo delle gran perdite di- oh, finalmente.» Jared prese una sigaretta tra le labbra, e si fece passare uno degli accendini appena rimediati. Ci volle un po' prima di far partire la fiammella. Se la avvicinò alla punta della sigaretta, dove qualche filo di tabacco fuoriusciva.
Sentì qualcosa toccargli la gamba.
Sollevò lo sguardo e si ritrovò davanti agli occhi la faccia di uno di quei mostri, deformata in un sorriso orrido e con gli occhi fuori dalle orbite che sporgevano terribilmente in avanti. Jared era pietrificato, non riusciva a chiamare Colin per avvertirlo di prendere la pistola e sparare in faccia a quell'abominio e rimase lì, ad indietreggiare lentamente, con quello che infilava la sua testa scorticata all'interno della macchina, le labbra spaccate sollevate sulle gengive purulente.
Indietreggiò fino a far andare la schiena contro la spalla di Colin, che finalmente smise di concentrarsi sull'accendino tarocco che aveva preso e si voltò verso di lui, sorpreso, per poi lasciare che la sigaretta gli cadesse dalle labbra.
Si schiacciarono contro il finestrino, Jared che allungava il collo verso di lui per allontanarsi il più possibile dal cadavere. Colin armeggiò velocemente, cercando di non farsi notare, sulla cintura, dove teneva il coltello che gli aveva affidato Michael, gli occhi puntati su quella bestia che stranamente ancora non aveva attaccato... in verità, stava cercando in tutti i modi di entrare completamente all'interno della macchina. Il mostro voltò la faccia verso le proprie gambe fasciate da pantaloni luridi, controllando che tutto il corpo fosse entrato nell'abitacolo, e Colin scattò: prima che quello avesse il tempo di capire cosa stesse succedendo, gli piantò il coltello nel cranio con una forza e una velocità che solo la paura potevano far venire fuori. Ma non fu sufficiente, perché il mostro strillò, e Colin urlò a Jared di chiudere gli occhi e di serrare le labbra quando dei pezzi di saliva si schiantarono sulla maglia del ragazzo. Con uno scatto fulmineo spezzò l'osso del collo al mostro, ci fu uno schiocco e quello si accasciò sul petto di Jared.
Jared si agitò, cercando buttare fuori il morto dalla macchina. Quando finalmente con un tonfo sordo quello cadde sull'asfalto, si affrettò a chiudere la portiera in fretta e furia. Poi si accasciò sul proprio sedile e tirò un tremante sospiro di sollievo.
«Dio. Mio.» sussurrò con lo sguardo perso nel vuoto. «Potevamo morire. Potevamo morire.»
Colin stette in silenzio per un po'. «Sì.» lo sentì dire poco più tardi. «Per fortuna che era rincoglionito.»
«In che senso?»
«Dai, ma l'hai visto? Voglio dire, che cazzo entri a fare dentro la macchina? Mordi e fuggi! E invece quel coglione è voluto entrare. Ma io gli ho dato il benservito. Ah!» si mise a cercare la sigaretta caduta sul tappetino dell'auto. Quando la trovò ne passò una anche a Jared. Fumarono in silenzio, calmando i nervi.
«Senti.» disse Colin gettando il mozzicone dalla fessura del finestrino. «Devo riprendere il coltello. L'ho lasciato nella testa dello zombie.»
«Ah.»
«Lo prendi tu o lo prendo io?»
«No, no... lo prendo io.» Jared aprì nuovamente la portiera, sfilò il coltello che ora odorava di putridume dalla testa del mostro e lo passò a Colin.
«Bleah...» fu il suo commento. «Per carità, torniamo subito alla palafitta. Ma prima...» Jared sentì la macchina sussultare: era appena passata sul corpo morto. «Assicuriamoci che quell'imbecille sia crepato.» accelerò, e sentirono entrambi il rumore del cranio che si spaccava spremendo sul terreno asfaltato il cervello decomposto.
 
La prima cosa che Michael fece, una volta visti i due ragazzi tornare all'accampamento, fu controllare che nessuno dei due fosse stato infettato.
«Ma Michael, ti ho già detto che-»
«Colin, fa silenzio, per favore.»
Era la prima volta che Jared vedeva il gigante senza quella sua permanente aura serafica e tranquilla. Stava passando in rassegna ogni centimetro della loro pelle. Alissa e Dakota osservavano in silenzio. Anche i cani, seduti sul pavimento accanto a loro, sembravano capire la gravità della cosa.
«Quante volte ti ho detto di fare attenzione. Quante, Colin. Voglio che tu me lo dica.»
«Tante Michael, ma-»
«E allora cosa diamine ti è saltato in mente!»
Jared si sentiva in colpa. «Veramente è stata colpa mia, io-»
«No, Jared, tu sei stato chiuso in casa per anni interi.» lo liquidò il nero. «Colin invece lo sa come funziona il mondo esterno, lo sa bene. Eppure, oggi hai messo in pericolo non una, ma ben due vite!»
Colin se ne stava in silenzio, ricambiando il suo sguardo greve, poi si decise a parlare. Sembrava un'altra persona in quel momento, senza il sorriso sulle labbra ed il tono di voce spensierato.
«Ho sbagliato. Mi dispiace.» non ricevette risposta e decise di continuare. «Comunque, volevo dirti che abbiamo trovato delle riviste, potrebbero essere utili per accendere un fuoco durante l'inverno.»
Michael annuì. «Bene.»
«In più abbiamo preso accendini e sigarette -queste ultime possono servire come combustibile o antistress.»
«Mh-mh.»
«Ed abbiamo preso un peluche a forma di struzzo.»
«Un- Ommioddio. E perché, di grazia?»
«Ho pensato di darlo a Dakota, oppure a Jack e Sally. Oppure, beh... è pur sempre combustibile.» accennò un sorriso. «No?»
 
«Colin, scusa. Mi dispiace, sul serio.»
«Mh? E di che?»
«Per lo... per lo zombie. E il cazziatone che ti ha dato Michael.»
«Non ti preoccupare.»
«Mi sento in colpa.»
«Ma se ti dico di stare tranquillo che problema c'è?»
«C'è che mi sento uno schifo e non riesco a dormire.»
«Ehi. Siamo vivi. È questo l'importante. Ok?»
«Mh.»
«Sai, quel peluche mi faceva pena.»
«Eh??»
«Ma sì... Hai mai visto Toy Story?»
«Certo.»
«Eh. Pensa quanto si sentiva solo fino ad oggi, su quello scaffale, in compagnia degli zombie. Adesso, invece, guardalo: stretto tra le braccia di Dakota.»
«Ommioddio.»
«Scommetto che è molto felice.»
«Questa conversazione ha preso una piega assurda.»
«No, è questo mondo ad essere assurdo. Mi sembra di essere finito dentro a Resident Evil.»

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Capitolo 7
*** VII ***


 

Avevano deciso di approfittare del caldo per farsi un bagno. Michael se ne sarebbe stato a svolgere il suo compito di vedetta sull'albero, proteggendoli da improbabili aggressioni di morti viventi.
Era per questo che, quella mattina, Jared si trovava immerso nel mare fino alla vita.
L'acqua gli lambiva la pancia, provocandogli una fastidiosa sensazione di solletico quando andava a toccare una porzione di pelle non ancora bagnata. Poco lontano da lui c'era Colin e più avanti Alissa e Dakota. Erano completamente nudi, ma la torbidità dell'acqua e la distanza di sicurezza facevano sì che ognuno avesse un po' di intimità.
Stavano anche lavando i propri indumenti. Non era la cosa più piacevole del mondo indossare un paio di boxer resi completamente duri dalla salsedine che si era andata ad infilare nella trama del tessuto, ma d'altra parte nessuno di loro desiderava indossare delle mutande sporche e maleodoranti. Per far sì che i vestiti non andassero persi trasportati dalla corrente marina avevano fissato una corda tra un palo portante della palafitta e l'altro, così da avere un appoggio per essi.
Jared prese a strofinare con la sabbia le ascelle di una t-shirt prima di gettarla in acqua e scrollare il tutto. Stava per passare ad occuparsi di un paio di calzini quando sentì Colin emettere un sospiro malinconico.
«Lavatrice: l'elettrodomestico che desidero di più in questo momento.»
Sorrise lievemente, senza alzare lo sguardo.
«Per non parlare del detersivo...» continuò il ragazzo. «Anzi, mi accontenterei di una semplice saponetta. Poi, naturalmente, avrei anche bisogno di un'asciugatrice.» sospirò ancora, decisamente scoraggiato dalla mole apparentemente immensa di vestiti che doveva ancora lavare. «Ho dei gran ricordi legati alla tecnologia. Voglio dire... se penso ad un semplice forno a microonde quasi mi commuovo. Anzi, no! Sapete qual'è stata la scoperta più bella dell'umanità, quella per cui commuoversi vale veramente la pena? Il computer. Era fantastico. Quando ero piccolo facevo un sacco di presentazioni con Power Point. E poi vogliamo parlare della PlayStation? Chi non ha mai avuto una PlayStation? Il Nintendo DS, il GameBoy Color, la Wii! Quante ore di insano divertimento ho passato in compagnia di quegli aggeggi cancerogeni...» disse con una calzata aria nostalgica nella voce.
«Ti ricordi solo degli oggetti più futili del passato?» chiese d'un tratto Alissa.
Jared riusciva a vedere solo una porzione della sua schiena, parzialmente coperta dai capelli paglierini divisi in ciocche bagnate.
«Perché hai sempre da ridire?» si lamentò Colin. «No, non rispondermi. Era una domanda retorica.»
Lei sbuffò. «Sicuro di conoscere il significato di “domanda retorica”?»
Colin emise un verso di frustrazione. «Alissa, smettila di comportarti come un parassita fastidioso, per favore.»
Dakota e Jared continuavano a lavare gli indumenti senza osare intromettersi nella discussione che si stava facendo sempre più scomoda. L'unico rumore di sottofondo era il continuo sciabordare dell'acqua.
«Un parassita... io?» chiese lei, ridendo stupita. «Chi è che porta solo guai da quando è entrato nel gruppo? Chi, Colin? Dimmelo. Sono curiosa di sapere chi sia questo famigerato parassita di cui parli perché, ehi, ho una mezza idea di chi potrebbe essere... ma certamente non sono io.»
«Adesso stai dando del parassita a me?»
«Come siamo sagaci!» lo schernì lei.
Colin rimase in silenzio.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua?» sghignazzò la ragazza. «Non credevo fossi così suscettibile. Ci andrò più piano con le prese in giro la prossima volta.»
Colin alzò gli occhi su di lei. Parlò con una voce stanca, rassegnata.
«C'è una sola domanda che mi sorge spontanea, sai?» disse. Aveva smesso di lavare i vestiti. «Cosa ti ho fatto?»
Alissa rise ancora, ma non rispose alla sua domanda.
«Ecco, vedi? Lo stai facendo anche adesso. Mi stai trattando in questo modo anche adesso.»
«In quale modo ti sto trattando, Colin?» chiese, girando mezzo busto per guardarlo negli occhi, un braccio portato sul seno per coprirlo alla vista dei ragazzi che si trovavano dietro di lei. «Riservo ad un parassita il trattamento che merita di ricevere.»
Una pugnalata dritta al cuore.
Dakota si irrigidì.
Jared serrò la mascella.
Sollevò lo sguardo sul viso di Alissa e la vide sorridere. La fissò, a bocca aperta.
Non gli piacevano affatto quelle labbra carnose incurvate in una mezzaluna, soddisfatta della frase che aveva appena fatto fuoriuscire dalla bocca.
Poi guardò Colin, ma i suoi occhi si posarono sulla sua schiena nuda, perché stava uscendo da quello specchio salato. Se ne andò così, senza dire una parola. Lo vide dirigersi verso il filo che utilizzavano per stendere i vestiti, raccattare quelli sufficientemente asciutti e farsi strada verso la riva.
 
Erano seduti su un bordo della palafitta, Jared e Dakota.
Da quando era accaduto lo spiacevole evento quella mattina, avevano creato una specie di coalizione: non si erano lasciati per un attimo. Colin se ne stava in cima all'albero. Non aveva più proferito parola con nessuno, non aveva voluto. Si era ritirato in un silenzio indignato, quasi religioso, sul ramo più alto che era riuscito a raggiungere. Alissa, invece, era con Michael da qualche parte a fare una ricognizione o qualcosa di simile. Se ne era infischiata bellamente della reazione che aveva avuto il ragazzo alle sue parole.
E loro stavano aspettando che l'acqua marina appena raccolta in un secchiello evaporasse, per poter poi usufruire del sale. Infatti, le scorte erano terminate. Bisognava arrangiarsi così.
«In che mese siamo?» chiese Jared, raccogliendo i capelli in una coda.
«Non saprei.» rispose Dakota. «Forse siamo a fine agosto, o nei primi di settembre.»
«E da quanto tempo è che stiamo qui?»
«Quattro mesi circa.»
«Ah.»
«Per lo meno io. Tu sarai qui da un paio di mesi. Forse qualche giorno in più.»
«Mh.»
«Guarda, si stanno formando i cristalli.»
Osservarono per un po' le scaglie giallognole che si andavano formando sul pelo dell'acqua.
«Anzi...» continuò Dakota. «...Forse dovremmo preoccuparci.»
«Eh?»
«Scusa, stavo pensando ad alta voce. Voglio dire, io sono abituata a spostarmi in continuazione. Quattro mesi di postazione fissa per me sono una cosa totalmente nuova. Magari gli zombie stanno preparando un attacco a sorpresa.» ridacchiò.
«Ah.»
«Ma le mie sono solo paranoie.»
«Sì, credo di sì.»
«E sono contenta che siano solo paranoie.»
La ragazzina sorrise. Increspò le sue labbra sottili, gli zigomi si sollevarono facendo sì che gli occhi si stringessero, formando tante piccole rughe d'espressione.
«Forza. Dobbiamo sgretolare tutti questi cristalli.»
«Sì.»
Spezzarono ogni singolo frammento salino fino a ridurlo in polvere nel completo silenzio.
«Dakota, posso farti una domanda?» chiese Jared dopo un po', succhiando un polpastrello salato.
«Certo!»
«Perché Alissa ce l'ha tanto con Colin?»
La ragazzina continuò a fare il suo lavoro. Si portò una ciocca di capelli dietro le orecchie sporcandola di polvere bianca, poi si fermò a guardare l'orizzonte.
«Non lo so neanche io.» sospirò. «Sul serio.»
«Oh, ok. Non fa niente. Anzi, forse dovrei chiederlo direttamente ad Alissa...» Jared tornò a ridurre in frammenti i cristalli.
«Non so quanto ti convenga. Potrebbe decapitarti, ormai credo che tu abbia capito com'è fatta.»
Lavorarono per tutto il pomeriggio sotto al sole cocente. Furono ricompensati la sera, quando si sedettero l'uno accanto all'altra a mangiare dei pomodori piccoli e pieni di grinze.
Poi Jared si apprestò a salire sull'albero.
 
Uscì dalla palafitta e montò sulla zattera che custodiva la moto all'interno dell'inferriata. Remò fino alla riva col ramo piatto e camminò sulla sabbia mista a terriccio, poi fece forza sulle mani e sulle gambe e cominciò a salire. Una volta arrivato quasi sulla cima di quell'albero ormai morto da tempo, si sedette su di un ramo abbastanza largo e comodo da poterlo ospitare almeno fino a mezzanotte, minuto più, minuto meno. Ormai gli orologi non c'erano più, e tutto andava alla deriva. Le ore potevano essere scandite solo dalle meridiane e dal sole.
Sistemò meglio il fucile che teneva tra le mani. La luce della luna piena lo aiutava a scrutare lo spazio circostante, anche se qualche volta tutto si oscurava un po' di più a causa di alcune nuvole fastidiose. Non aveva paura: da quando si era trasferito lì, il suo fucile non aveva più sparato un colpo nei dintorni della palafitta.
Rimase immobile, a volte chiudendo gli occhi, la nuca appoggiata alla corteccia, formiche rosse che si insinuavano tra i suoi capelli. Le sentiva camminare sulla pelle nuda del suo collo, le loro minuscole zampe che tracciavano frettolosi sentieri prima di ricongiungersi all'albero che ospitava la loro tana. Le lunghe ciglia di Jared si abbassarono, facendo sì che la palpebra oscurasse le sue iridi di cielo. Si rilassò.
Rimase così per svariati minuti, sino a quando le sue orecchie non captarono un'anomalia.
Era l'acqua del mare ad essere strana. La risacca marina aveva cominciato a sciabordare con più intensità. Staccò la schiena dall'albero, guardando il cielo. Come previsto, vide delle nuvole scure in lontananza, quindi le onde erano provocate dalla tempesta imminente.
Decise di informare gli altri. Estrasse dalla tasca il walkie-talkie che utilizzavano per tenersi in contatto quando qualcuno andava a fare la sentinella e premette un pulsante.
«È in arrivo un temporale.» disse.
«Ok, Jared.» gli rispose la voce distorta e crepitante di Michael. «Ci prepariamo a ballare un po'.»
«Torno dentro per prendere qualcosa con cui coprirmi.»
«Certo.»
Jared scese dall'albero con cautela. Prima di poggiare i piedi a terra controllò bene attorno che il campo fosse libero e nonostante avesse fugato i suoi dubbi tenne il fucile a portata di mano. Una volta raggiunta la palafitta attraverso la zattera, risalì la scala di corda ed entrò nella baracca.
Trovò gli altri seduti a terra, in cerchio, ognuno con un foglio di carta ed una penna tra le mani (tranne Colin che aveva una matita). Dakota aveva Jack accoccolato tra le gambe, mentre Sally se ne stava seduta tra Alissa e Michael, le orecchie dritte e puntate verso di lui.
«Che fate?» chiese Jared mentre si dirigeva verso la catasta di oggetti tra cui si trovava anche il telo di plastica che utilizzavano per coprirsi in caso di pioggia.
«Giochiamo ad un gioco che si chiama “Nomi, Cose e Città”» rispose Dakota, mentre scriveva qualcosa sul suo foglio che era diviso in più parti da linee blu scuro tracciate dalla penna. «Mi dici un animale che inizia con la lettera M?»
«Ehi!» esclamò Colin. «Questo è barare! E comunque io ho finito.»
«Oh, no! Mi manca solo l'animale!» si lamentò la ragazzina. «E va bene! Zero punti. Ho finito anche io.» aggiunse, tracciando uno zero enorme sulla casella riguardante gli animali.
«Una canzone che inizia con la M.» sussurrò Alissa, pensosa.
«Io ce l'ho!» disse Michael, compiaciuto. Le sue mani facevano sembrare quel pezzo di carta e quella penna delle riproduzioni in scala ridotta.
«Stop! Fine del conto alla rovescia. Allora...» cominciò Colin, ma Jared lo interruppe.
«Ragazzi, io torno là fuori. Divertitevi.»
«No dai, rimani qui!» disse Dakota, afferrandogli un lembo dei pantaloni.
Jared le sorrise e proprio mentre stava prendendo fiato per spiegarle che non poteva, Michael gli disse che qualche minuto di pausa se lo poteva concedere. Solo qualche minuto, però. Quindi il ragazzo si fece spazio nel cerchio tra Colin e Alissa, ed attese che gli altri elencassero le parole che avevano scritto. C'era una certa tensione nell'aria prodotta dai due che quella stessa mattina avevano litigato, e la barriera che il suo corpo aveva creato la spezzò. Probabilmente lei non aveva chiesto scusa, e mai l'avrebbe fatto.
Fu Colin a cominciare. Poi sarebbe stato il turno di Alissa, Michael e infine Dakota.
«Nomi: Milena.»
«Martin.»
«Margareth.»
«Mabel.»
«Cose: mattarello.»
«Mantello.»
«Matita.»
«Mattone.»
«Città: Milano.»
«Malibù.»
«Madisonville.»
«Memphis.»
«Animali: manta.»
«Merlo.»
«Maiale.»
«Niente.» disse Dakota, infastidita.
«Canzoni: Memoirs.»
«Memento Mori.»
«Ma...»
Non seppero mai quale era la canzone che Michael aveva scritto sul suo foglio.
Un forte scossone aveva fatto tremare l'intera palafitta.
Il mare ruggiva, potevano sentirlo chiaramente attraverso quei legni che li proteggevano dalla realtà esterna. Il suono delle onde che si ritirano e ancora uno scossone, questa volta anche più potente. I cani si agitarono, cominciando ad uggiolare e ad emettere dei suoni bassi e lamentosi.
Non volevano trovarsi su di una superficie che tremava e si scuoteva.
Michael si alzò velocemente e fu imitato da tutti gli altri. Si precipitarono fuori dalla porta e si accorsero che gli schizzi delle onde stavano arrivando fino a loro, cavalloni immensi percorrevano lo specchio tumultuoso del mare fino ad infrangersi contro i pali di legno che sostenevano la casa sull'acqua.
Si guardarono tra loro, spaventati.
«Finirà?» chiese Dakota nervosamente, arretrando di un passo rispetto a tutti.
Michael la ignorò. «Quanto sarà lontano quel temporale secondo voi?» chiese, scrutando le nuvole all'orizzonte.
«Sarà qui a momenti.» rispose Alissa. I lunghi capelli le schiaffeggiavano il viso per effetto del vento. «Non so se sarà sicuro rimanere qua dentro.»
«Allora prendiamo le cose più importanti e passiamo la nottata sull'albero.» suggerì Colin.
Dakota spalancò gli occhi. «E se poi ci colpisce un fulmine?»
«Non accadrà nulla.» la tranquillizzò il nero. «Innanzitutto torniamo dentro e raccattiamo le cose più utili. Qualche arma, teli di plastica, lattine di cibo. Poi vedremo il da farsi.»
Annuirono e si apprestarono ad eseguire l'ordine che Michael aveva appena impartito. Jared rimase per qualche secondo in più sul bordo della struttura di legno, ammirando il temporale.
Era iniziato.
I fulmini illuminavano la parte superiore delle nubi, rivelando varie sfumature di grigio dispensatrici d'acqua. Fece per tornare dentro, soprattutto perché Dakota lo stava chiamando con voce quasi isterica, quando colse un movimento con la coda dell'occhio. La luce fredda di un fulmine aveva appena inondato di bianco la superficie del mare.
C'era qualcosa laggiù.
Strinse gli occhi per proteggerli dal vento freddo e dagli schizzi gelati. Un altro fulmine illuminò tutto, diramandosi nel cielo in linee spezzate.
Le pupille si restrinsero istantaneamente e il respiro gli morì in gola.
 
 
 
 
Angolo mio
Perdonate l'attesa, ma sono tornate le fastidiosissime e pedanti olive: sto sempre nel campo a raccoglierle. E comunque... Non so. La parte iniziale di questo capitolo mi sembra forzata. E dire che l'ho riscritta tremila volte. Poi boh. Sul serio, se dovete farmi delle critiche non esitate. Voi cosa mi dite? C'è qualcosa, a parer vostro, che posso migliorare? Consigli da darmi? Attendo vostre risposte.
A proposito, grazie a illyria93 che ha messo la storia tra i preferiti.
Ci sentiamo nel prossimo capitolo che, vi giuro, non tarderà così tanto ad arrivare!
P.s. Ho scritto una nonsense. Se volete fare un giro nel mio cervello contorto, andate pure.  

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Capitolo 8
*** VIII ***


 

Angolo mio
Visto? Ho aggiornato! Come potevo lasciarvi così, col fiato sospeso? Sono stata di parola!
Buona lettura :)
 
 
 
«No.» sussurrò Jared, incurante delle gocce d'acqua sollevate dalle onde che gli schiaffeggiavano il viso.
«Eh?» Colin si era fermato proprio sulla porta. «Hai detto qualcosa?»
Senza degnarlo di uno sguardo, Jared mosse la mano alla cieca fino a quando non trovò il braccio del più piccolo. Lo strattonò accanto a sé e gli indicò qualcosa all'orizzonte.
«Jared, io non vedo nien-»
«Aspetta, aspetta i fulmini.» sussurrò lui.
Poi accadde di nuovo: un lampo di luce, pupille che si restringono. Respiri che si mozzano.
Colin si girò di scatto. «Dobbiamo avvertire gli altri» balbettò, «dobbiamo muoverci, oppure...»
Non volle finire la frase. Si precipitò all'interno della baracca fatiscente con Jared al seguito.
«Avete fatto?» chiese nervosamente.
«Veramente abbiamo appena cominciato.» rispose Alissa secca. «Se magari non fossi rimasto là fuori a quest'ora saremmo già stati a buon punto.»
Sapevano tutti che non era vero, ma decisero di sorvolare. Jared si affrettò a prendere uno scatolone, lo riempì di tutto ciò che gli capitava sotto gli occhi. Michael se ne accorse.
«Solo le cose importanti ragazzo, dobbiamo fare in fretta.»
Continuò a riempirlo. «Tutto è importante Michael» parlava velocemente «...tutto.»
«Che stai dicendo?»
«Stiamo per perdere tutto, di nuovo... Sto per perdere tutto.» gli rispose, gli occhi azzurri improvvisamente velati da uno spesso strato di lacrime acquose. Oh, che reazione stupida, si disse internamente. Come poteva perdere la vista in un momento come questo? Non era il momento adatto ai sentimentalismi, non poteva lasciare che lo sconforto di perdere la tanto agognata tranquillità che gli aveva regalato questa palafitta oscurasse le sue capacità intellettive. Questo era il momento del sangue freddo, dell'intelligenza calcolatrice. Era il momento di mantenere i nervi saldi, uscire velocemente da quella dolce catapecchia e lasciarsi nuovamente tutto alle spalle, ma le sue guance continuavano ad arrossarsi, così come il naso. Le mani gli tremavano. Sperò che il suo crollo psicologico non si notasse così tanto.
«Jared.» la voce profonda e ferma di Michael lo riportò alla realtà. «Dimmi che cosa sta succedendo. Perché fai così?»
Jared prese un paio di respiri profondi, poi decise di rivelare agli altri cosa avevano visto i suoi occhi.
«Nave.» Gli costò una fatica immane pronunciare quella parola. «C'è una nave.»
Maledetta nave, maledetta, gli avrebbe portato via l'unico piccolo pezzo di normalità della sua triste e sconclusionata vita.
Si poteva dire che era calato un silenzio tombale, se non fosse stato per Colin, intento a ripiegare affannosamente le coperte. Poi Dakota parlò.
«E allora?» chiese, esitante. Era ancora impaurita, ma non riusciva a capire la gravità della situazione.
«E allora...» rispose Jared. Nella sua voce si poteva cogliere chiaramente una punta di alterazione ed impazienza. «...tra poco ci finirà addosso.»
Di nuovo un silenzio infernale. Di nuovo una voce che spezzò il silenzio, questa volta di Michael.
«Sei sicuro? Quante probabilità ci sono che finisca proprio qui?»
Jared colse lo scetticismo nelle sue parole, e questa cosa lo mandò in bestia.
«Sentite,» era chiaramente irritato, ma non diede importanza a ciò che gli altri avrebbero pensato di lui. «se non mi credete basta affacciarsi alla porta. Dicevate di “far presto” e altre cose del genere, eppure state perdendo tempo a chiedermi cosa io abbia visto là fuori. Vogliamo uscire da questa casa o no?»
Probabilmente il concetto che aveva espresso era privo di logica. Probabilmente esprimeva solo la sua sanità mentale che in quel momento se ne era andata. Probabilmente esprimeva solo frustrazione e astio nei confronti di quella vita così ingiusta.
Vide Alissa annuire. «Dobbiamo uscire da qui. Nave o no, dobbiamo farlo il più presto possibile. Quindi non perdiamo altro tempo. Prendiamo un altro paio di cose e andiamocene.»
 
Uscirono tutti, cani e umani. Il vento era aumentato, tremavano. Nuvole nere come pece avevano coperto la luna. L'unica torcia che avevano era quasi scarica e funzionava ad intermittenza. Era una di quelle potenti ma sfortunatamente ingombranti.
«Non riusciremo mai ad arrivare a riva con la zattera.» constatò Michael. Le onde erano alte ed impedivano un viaggio tranquillo a bordo della pseudo-barca: sarebbero caduti in acqua ancora prima di posare i piedi sul legno, anzi, sulla scaletta di corda. In più, la moto era ormai condannata a rimanere per sempre in balia delle onde.
«Come facciamo?» chiese Dakota, stringendosi in un cappotto di svariate taglie più grande di lei.
«Dobbiamo bagnarci.» fu Colin a pronunciare quella incontrovertibile e scomoda verità.
«...Per forza.» confermò Alissa, guardando assorta le onde. «Ce l'abbiamo una corda?»
«Sì. L'ho presa io.» rispose Jared, anche se dentro di sé stava urlando “Muoviamoci, muoviamoci! Non c'è più tempo!” «Hai un'idea?» chiese, invece.
Alissa annuì, e lo guardò, determinata. «Uno di noi si butta in mare e lega la corda ad una delle colonne portanti della palafitta. Arrivato a riva, tiene la corda tesa in modo da creare una specie di ponte a cui gli altri si aggrapperanno per non essere portati via dalle onde. Mi dispiace, ma i bagagli si bagneranno un po'.» fece una pausa per far assimilare a tutti il suo piano, poi disse che sarebbe andata lei per prima.
Michael si oppose.
«No. Andrò io. Sono quello che ha meno probabilità di essere trascinato via da un'onda. Voialtri siete tutti gracilini, invece.» sorrise brevemente e, dopo aver preso un capo della corda dalle mani di Jared, si gettò in acqua senza pensarci due volte. Lo sentirono urlare qualcosa a proposito del freddo. Quando Jared sentì strattonare la corda, segno che Michael aveva ne legato un capo ad un palo di legno, gettò la restante in acqua. Nel frattempo, decisero di impacchettare in un telo di plastica le armi alla meno peggio. Una pistola piena d'acqua non sarebbe stata utile a nessuno. Certo, rimanevano bastoni e accette, ma sempre meglio avere a disposizione anche delle armi da fuoco. Poi legarono il pacco con un paio di corde elastiche: erano tutti scettici riguardo l'utilità di ciò che avevano fatto, ma tant'è.
«Ehi!» sentirono il nero urlare. «Potete venire!»
«Vado io con Dakota. Ok?» chiese Alissa alla ragazzina. «Intanto porto un paio di zaini. Voi occupatevi delle armi.»
«E Jack?» chiese lei allarmata.
«Lo prendo io. Tu aggrappati subito alla corda appena entriamo in acqua.»
Annuirono e dopo che Alissa si fu caricata in spalla più zaini possibili, tra le braccia il cane macchiato che non sembrava affatto entusiasta di fare una traversata a nuoto nel mare gelido, si gettarono.
«Come lo portiamo questo malloppo di roba?» chiese Colin a Jared aspettando che arrivasse il loro turno, riferendosi al pacco d'armi.
«Tu lo tieni davanti, io lo tengo dietro. Cerchiamo di non farlo cadere in acqua. Sì, lo so, sarà difficile, ma è l'unico modo che mi viene in mente.» Jared si strinse nelle spalle, fremente di abbandonare quel luogo. La lupa bianca era rimasta con loro e se ne stava in piedi, a scrutare immobile le onde che si erano fatte mano a mano più alte ed imponenti.
Aspettarono in silenzio la conferma di Alissa, aspettarono di sentire le due ragazze urlare che erano arrivate a terra, che potevano gettarsi. E invece sentirono tutt'altro.
«Che roba è quella?»
Colin e Jared si guardarono negli occhi per un istante che sembrò un'eternità prima di girarsi verso il mare aperto. E la videro, questa volta senza aver bisogno di un fulmine che illuminasse l'ambiente circostante, perché era lì, a qualche centinaio di metri da loro, che si avvicinava ad una velocità abbastanza sostenuta da far temere il peggio. Era la nave. Lunga, alta, enorme, sembrava una di quelle utilizzate per le crociere quando tutto andava bene, quando non c'erano morti bramosi di carne e sangue, ed ora era lì, vedevano chiaramente il muso bianco, le ciminiere sbuffanti nuvole nere di fumo, ed erano pietrificati: cane e umani erano impietriti alla vista di quel mostro che sarebbe dovuto rimanere chiuso in un porto abbandonato piuttosto che andarsene in giro per il mare.
«Tuffatevi! TUFFATEVI!»
Il ruggito di Michael li riportò alla realtà. Si gettarono tutti e tre. La lupa era veloce e sinuosa, raggiunse la riva in poco tempo. Loro invece erano impacciati, impossibilitati alla velocità da quel pacco di armi da fuoco che reggevano tra le braccia, le articolazioni bloccate dal gelo, improvvisamente le estremità del loro copro si erano ghiacciate e muoversi richiese uno sforzo immane.
«Più veloce» boccheggiava Jared «più veloce», ma lui non poteva pretendere cose che il suo corpo non sarebbe riuscito a sostenere: aumentare la velocità significava lasciar cadere le armi in acqua perché lui era debole, non ce la faceva.
Sentì Colin urlare qualcosa a proposito del loro carico, di lasciarlo andare, di procedere da soli senza impicci, ma Jared si rifiutò: senza armi erano persi, non potevano far niente senza di esse, non sarebbero sopravvissuti.
Perché la riva sembrava così lontana quando in realtà era così vicina? Credette di morirci dentro quella pozza gelata, fino a quando non sentì il peso sul suo braccio sinistro andarsene e il calore inondare il lato destro del suo corpo. Sollevò lo sguardo, un po' oscurato dalle ciocche dei lunghi capelli bagnati che gli ricadevano sul viso. Michael era entrato in acqua con loro, era rientrato appositamente per aiutarli, per prendere le armi che non riuscivano a trascinare, ed ora lo vedeva ritornare a riva. Ma quanto mancava? Non si accorse di averlo chiesto ad alta voce, e sentì Colin rispondergli che erano a metà strada. A proposito, dov'era Colin?
Volse lo sguardo verso la fonte di calore per scoprire che ciò che lo stava riscaldando era proprio il corpo del ragazzo. Un suo braccio ce l'aveva attorno alla vita e lo stava trascinando a riva.
«Scusa» sussurrò Jared, ma non credette che lui potesse sentirlo. E invece quello si limitò a scuotere la testa, continuando ad arrancare. Finalmente sentì la terra sotto i propri piedi: erano arrivati. Solo in quel momento si accorse di quanto profondo fosse il punto in cui la palafitta era stata costruita. Cercò di camminare con le proprie gambe ma i piedi erano due cubetti di ghiaccio, erano diventati insensibili e le ginocchia gli cedevano.
«Cazzo.» ringhiò, frustrato.
Sentì Colin sbuffare qualcosa, era una specie di mezza risata.
La risacca si era presa tutta la spiaggia fino alle radici dell'albero, le onde erano ancora più grandi.
Sentì un rumore, un rumore di oggetti che si piegano, ferro che striscia, metallo ferito, lamiere accartocciate, legno che esplode, frammenti che cadono sulla sabbia, tuffi di oggetti nell'acqua, mostri che urlano.
Non volle voltarsi, voleva solo entrare nella macchina che Michael stava guidando, voleva solo stringersi a tutti loro e riscaldarsi ed abbracciarli e condividere quella vita dannata che conducevano. Voleva staccarsi da Colin e smetterla di fare il peso morto, il fisico debole, l'organismo vulnerabile, il pazzo dai periodici crolli psicologici.
Eppure rimase lì, come se il cervello si fosse stancato di tutto, perfino di eseguire le più semplici azioni motorie. Anche quando raggiunsero la macchina, anche quando Colin lo spinse dentro senza tante cerimonie nei sedili posteriori tra lui, Dakota e Jack. Rimase a fissare il mondo circostante che esplodeva, non si curò della nave arenata, dei legni che galleggiavano sull'acqua dove fino a pochi minuti prima si trovava una casa che rappresentava un posto sicuro, delle persone morte che cadevano dalla nave tra le onde, della luna che era spuntata tra le nuvole illuminando tutto di bianco e blu, della macchina che non partiva, della lupa seduta tra le gambe di Alissa nel sedile anteriore.
Non si curò delle imprecazioni di Michael, del morto che si era appena spalmato contro uno dei loro finestrini battendo forte i pugni reclamando il pasto serale.
Rimase in uno stato di shock, a fissare il vuoto, rinchiuso in uno degli angoli più remoti della sua mente. Distrutto. Anche quando Colin coprì tutti e 4 con una coperta dai lembi bagnati.
Anche quando lui gli prese le mani e cominciò a strofinarle con le sue per far riprendere la circolazione del sangue.

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Capitolo 9
*** IX ***


 

Macchie, frammenti. Ricordi acquerellabili. Sfumature che vanno a perdersi nel nulla.
Perché non riusciva a scuotersi da quello stato di torpore?
Così fastidioso, così sonnolento, così dolce.
Una sensazione quasi amabile, ma... No! Svegliati.
 
Dove sta andando la tua mente, Jared? Stai naufragando nei lidi della pazzia? Ti sei spinto al largo nel mare della solitudine?
 
No, non credo. Sono in compagnia, pensò lui.
Socchiuse un occhio. Vide una sagoma, anzi, più di una.
Vedi, sono in compagnia di qualcuno, disse rivolto a se stesso.
 
Dovremmo analizzare questo tuo comportamento, sai. Come mai ti sconvolge così tanto l'aver perso un tetto? Sei stato al chiuso per così tanto tempo... potresti finalmente assaporare l'avventura che ti riserva questa vita. Cosa ti cruccia, cosa ti spaventa?
 
Chiuse di nuovo le palpebre, ogni movimento era difficile. Era tutto pesante più del solito. Decise che si sarebbe crogiolato ancora per un po' in questa sensazione di fluttuante inquietudine a parlare con se stesso, con l'oscurità che aveva rinchiuso da un po' in un angolo del cuore.
 
Del cuore o del cervello? Dell'anima, forse. Non saprei, non sai, non sappiamo. L'unica cosa certa è che questi dialoghi li abbiamo interrotti. Da quanto tempo non accorrevo a tenerti compagnia? Ti lascio solo per un attimo ed esci di casa. Dove sei finito ragazzo mio, come ti sei ridotto... Ti vuoi suicidare ma non ci riesci.
 
Cos'è questo tono acido?, chiese. Per favore. Lasciami solo. Ma non so se posso dire così, d'altra parte solo non sono più. Per fortuna.
Jared sollevò impercettibilmente gli angoli delle labbra, nessuno si sarebbe accorto del suo sorriso.
 
Io me ne accorgo. Ah, e non sorridere, per favore. Non dovresti. È un insulto, stai mancando di rispetto a qualcuno. Ogni volta che sorridi manchi di rispetto a tre quarti della popolazione mondiale. Non sappiamo quanti siano rimasti in vita e quanti siano bloccati a metà strada e quanti siano realmente morti, ma avevamo stabilito così: noi facciamo parte di quel quarto che si è salvato, ricordi? Solo che quando l'avevamo deciso eravate in due. Io non c'ero, mi hai chiamato molto tempo dopo in tuo soccorso.
 
Il sorriso svanì.
 
Bravo. Lascia andare il sorriso, distendi le labbra. Hai un viso così bello. Perché creare delle rughe su quella splendida pelle che i tuoi genitori ti hanno regalato? E la fronte? No, non incresparla. Nessuna emozione deve trasparire dal tuo volto. Ti permetto di utilizzare solo gli occhi. Quelli possono incavarsi, vuotarsi di ogni emozione. I tuoi zigomi si sono consumati, hai il volto incavato dalla fame. Non importa. Ma niente rughe, per favore. Io sono un perfezionista. Tu sei un perfezionista. Noi. Niente solchi sul tuo viso perfetto, solo occhi vuoti e tristi e morti.
 
Jared non si chiese il perché. Non lo fece. Sapeva già la risposta. La temeva.
 
Facciamo un ripassino?
 
No.
 
Sì invece. Sono qui, nel tuo cervello, e sto forzando la porta dello stanzino dove hai rinchiuso determinati ricordi che ti scocciano. Quando riaffiorano ti infastidiscono, ma la serratura è debole e arrugginita, Jared. Avresti dovuto fare più attenzione, oliare i cardini, pagare un addetto alla manutenzione per controllare periodicamente questo vaso di Pandora che ti ritrovi nel cranio. Sono curioso, voglio andare a sollevare il coperchio di questo baule mal chiuso. Chissà cosa ci troverò.
 
No.
Jared scosse debolmente la testa.
 
Fermo! Niente movimenti. Niente rughe, cosa ti avevo detto prima? Non disobbedire a te stesso. Potresti ricordarti cose spiacevoli. Terra. Polvere. Paura. Occhi spalancati, occhi di cielo oscurati dai peggiori presentimenti.
 
Basta.
 
Jared corre, corre attorno ad una casa. La casa che lo ha ospitato per tutta la sua infanzia.
 
Per favore.
 
Corre perché ha sentito un rumore. Dov'è finito Shannon? Dov'è finito mio fratello?, si chiede Jared. Aveva detto che sarebbe andato a prendere un po' di acqua frizzante al mercato, dal signor Tibbs. Il signor Tibbs, il proprietario del locale, lo avevano visto proprio il giorno precedente, aveva dato loro la buonanotte con quella sua faccia rotonda e sempre allegra. Per questo Shannon si era recato al mercato da solo, ma ora, cosa succede Jared?
 
Non succede nulla. Vattene.
 
Cosa sono quei rumori che senti, quei rantoli, quegli sbuffi, quei sospiri maligni? Cosa vedrai non appena svolterai l'angolo della tua casa, Jared?
 
Vattene.
 
Speri di incontrare tuo fratello con un palo di ferro in mano, tuo fratello vivo e vegeto che estrae il freddo metallo dal cranio di un morto, tuo fratello che ti sorride e che fa qualche battuta divertente. Vuoi sperare che tornerete a casa assieme, a compilare vecchi giornali di parole crociate. Ma queste sono solo speranze, vaghe e fumose...
 
Colin sentiva dei movimenti accanto a sé. Era ancora mezzo addormentato quando mugugnò un assonnato «Che succede?».
 
Ma svolti l'angolo e trovi Shannon accasciato a terra.
 
Basta...
 
Sul suo corpo c'è un mostro che tenta di lacerare gli avambracci un tempo possenti di tuo fratello con i suoi stupidi dentini inadatti a squartare pelle, muscoli e tendini.
Impallidisci, incespichi ponendo un freno alla tua corsa.
 
Ti prego.
 
Rimani immobile a fissare il mostro che tenta di consumare il pasto. Shannon. Tuo fratello.
 
Per favore.
Colin appoggiò una mano su un braccio di Jared.
«Ehi.»
 
Shannon è a terra, Shannon non respira, anzi sì, mi correggo, Shannon respira ancora, ma il mostro lo ha ferito e ormai la contaminazione è avvenuta e infatti Shannon comincia a dibattersi.
 
«No» sussurrò Jared.
«”No” cosa?» chiese Colin, alzando un po' la voce. Cominciò a scrollargli il braccio. «Su, svegliati.»
 
È preso dalle convulsioni, si muove selvaggiamente e il mostro è infastidito da questo suo comportamento, lo vuole fermo e immobile cosicché egli possa nutrirsi delle sue interiora. Allora cosa fa? Te lo ricordi cosa fa, Jared?
 
Movimenti. Un'altra voce. «Chi è?» Alissa.
«Jared, non si sveglia.» Colin.
 
Certo che te lo ricordi, occhi di cielo.
 
«Gettiamogli dell'acqua in faccia.»
 
Il mostro posa le sue sudice appendici che usavano essere mani sul volto di Shannon, sul viso del tuo amato Shannon.
 
«Non ce l'abbiamo.»
«Cos'è tutto questo rumore?» Michael.
 
“Crack”.
 
«No...» si lamentò Jared, con voce più alta.
 
Lo schiocco dell'osso del collo che si spezza ti ha perseguitato per i giorni a venire. Non ci dormivi la notte. Stavi morendo. Volevi morire, eppure hai tirato avanti per ben tre anni nella totale solitudine, se vogliamo escludere io, te stesso.
 
«”No” cosa? Jared, svegliati, stai sognando, è un incubo, è solo un incubo!» Colin gli scosse le spalle con decisione.
 
Quindi, come puoi ancora sorridere se le tue labbra hanno pronunciato l'addio finale che vi siete dati? Perché lo sai... Sei stato tu.
 
Spalancò gli occhi all'improvviso.
Si guardò attorno.
 
Sei stato tu!
 
Cos'era quello spazio ristretto? Dov'era? Perché tutto era vitreo e opaco? Chi erano quelle persone che lo circondavano?
 
Tu hai permesso che quel mostro lo attaccasse.
 
«Mi vedi?» gli chiese un tizio vicino a lui.
Non rispose.
 
Se fossi andato con lui a prendere l'acqua non sarebbe mai successo nulla e voi sareste ancora nella vostra casetta a condurre un'esistenza quasi divertente assieme.
 
Aria, aveva bisogno di aria. Respirava a fatica. Capì di trovarsi all'interno di una macchina, nei sedili posteriori, stretto tra due persone. Gli vennero in mente sprazzi di ricordi totalmente inutili.
 
Tu gli hai puntato la pistola al cervello.
 
La tempesta, la nave, la palafitta, la fuga.
 
Tu hai premuto il grilletto.
 
Da quanto tempo erano lì dentro?
 
Tu lo hai guardato accasciarsi a terra.
 
Aria consumata.
 
È stata colpa tua.
 
«No... Devo...» boccheggiò, portando una mano al petto che si alzava e si abbassava ad un ritmo sempre più veloce.
«Sì?» lo incoraggiò Colin. «Cosa?»
 
Sei stato tu, sei stato tu, SEI STATO TU
 
Saliva liquida sommerse all'improvviso buona parte della bocca. Ebbe uno sforzo di stomaco.
Si fiondò col busto sulle gambe di Colin, cercando a tentoni la maniglia dello sportello. Tirò ed aprì. Nel momento stesso in cui vide il terreno sottostante, un fiotto di liquidi intestinali gli fuoriuscì dalle labbra. Il suo corpo fu scosso da tremori e contrazioni che gli fecero vomitare tutto il poco cibo che non aveva ancora digerito.
Tossì violentemente: la bile gli era andata di traverso. Sentì dei movimenti attorno a lui ma non tentò neanche di alzare lo sguardo per osservare cosa stessero facendo gli altri. Si sentiva debole e spossato.
Si perse nella contemplazione di un filo di bava che dalle sue labbra scendeva fino a collegarsi alla pozza verdastra che lui stesso aveva appena creato. L'odore di acido gli impregnava le narici.
Realizzò lentamente che Colin gli stava tirando i capelli all'indietro.
«Scusa.» disse in un sussurro strozzato.
«Non ti preoccupare.»

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Capitolo 10
*** X ***


Aveva ancora il sapore dell'acido in bocca ma non poteva far nulla per eliminarlo.

«Perché ci siamo fermati?» chiese, la testa reclinata all'indietro. In quella posizione aveva il gozzo ben esposto al resto del mondo. Strappargli la trachea sarebbe stata un'operazione da niente per uno di quei cadaveri. Fortunatamente era al sicuro all'interno della macchina.
«Abbiamo finito la benzina, ma non preoccupiamocene ora.» rispose Michael, compresso sul piccolo sedile destinato al guidatore. «Tu piuttosto come stai?»
Jared sollevò lievemente la testa, schiudendo gli occhi per guardarlo. «Mi sento ancora un po' debole, però sì... sto meglio.»
L'uomo annuì. «Bene. Se hai bisogno di aria, apriamo i finestrini. Basta che tu ce lo dica.»
Fuori stava piovendo forte. Quando aveva vomitato non se ne era reso conto. Alissa era precipitosamente uscita dal veicolo con due pistole alle mani per controllare il perimetro circostante, bagnandosi nuovamente i vestiti che si erano asciugati solo in modo parziale per la precipitosa nuotata della sera prima.
Scosse la testa. «No, sto bene. Grazie.»
«Okay.» Michael fece scorrere gli occhi su ognuno dei presenti. «Ragazzi... Come ho detto prima, la benzina è finita. Ho guidato per tutta la notte.»
Il silenzio che seguì fu gravido di pensieri funesti.
«Quindi io avrei alcune proposte.» continuò «Potremmo avventurarci alla ricerca di una nuova casa a piedi, come abbiamo sempre fatto. Zaini in spalla, camminiamo dalla mattina alla sera con brevi soste fino a quando non troviamo un posto adatto a piantare le tende. Oppure, se avete paura di essere attaccati dagli zombie, ci portiamo dietro la macchina. Potremmo organizzarci ed andare a cercare una stazione di rifornimento pregando che questa abbia della benzina da qualche parte. Oppure... spingiamo.»
Ancora silenzio.
«In tal caso avremmo un tetto sotto la testa, una protezione contro i morti.» batté le mani, i cani sollevarono le orecchie al rumore. «Cosa facciamo?»
Colin sollevò una mano in aria. «Io voto per la benzina.»
Concordarono tutti.
«E se non la troviamo?» chiese Dakota.
«Vedremo cosa fare quando arriverà il momento.» rispose Michael. «Intanto aspettiamo che smetta di piovere... O che per lo meno l'intensità diminuisca.»
Ognuno di loro si ritirò nei propri pensieri. Jared scrutò di sottecchi il paesaggio circostante. Vedeva poco o niente con tutta quell'acqua che scorreva incessantemente lungo i finestrini. Probabilmente non c'era nulla da vedere. Il paesaggio sembrava estendersi senza interruzioni in un pianura dall'aspetto decisamente noioso e poco interessante.
«Che noia.» Dakota spezzò il silenzio con un sospiro.
«Già.» confermò Colin, stiracchiandosi con difficoltà. Era tutto piuttosto stretto, lì dentro. «Parliamo di qualcosa. Tipo... Secondo voi cos'era quella nave?»
«...Una nave.» rispose Alissa, acida.
«Dicevo,» Colin alzò un po' il tono di voce, ignorandola. «perché era lì? Perché così grossa? Ve lo siete chiesto?»
«Secondo me era una nave che trasportava dei sopravvissuti.» rispose Dakota. «Poi un infetto a bordo ha cominciato a contagiare tutti e sono finiti fuori rotta.»
«Ci ho pensato anche io, ma se fosse andata così mi viene da chiedermi un'altra cosa: come riuscivano a navigare per bene?»
«Forse il capitano è riuscito a barricarsi nella cabina di comando ed è stato preso da un colpo di sonno... Oppure gli infetti sono riusciti ad entrare. E così si è arenato.»
«Quindi ci sarebbe la possibilità di aver lasciato indietro un altro sopravvissuto?» chiese Colin con un brivido.
«È possibile.» rispose Michael mestamente.
«No, non voglio pensarci.»
«Anche se fosse, non potremmo più fare niente ormai.» disse Alissa «Siamo troppo lontani. È passato troppo tempo perché possa aver trovato scampo... A meno che non è riuscito ad arrampicarsi sull'albero. Ma, ehi!» si voltò verso Colin. «Può darsi che fossero tutti infetti su quella nave. In ogni caso, ripeto... pensarci adesso è inutile.»
«Ok...» disse lui, pensoso. «Escludendo la possibilità di un uomo ancora vivo, il solo fatto che la nave navigasse vuol dire che nei serbatoi aveva ancora del carburante.»
Michael annuì. «Può darsi che fossero in viaggio da poco.»
«Quindi questo potrebbe voler dire che da qualche parte, a terra...!»
«...Ci sono ancora dei sopravvissuti.» Jared sussurrò in un sorriso, a occhi chiusi.
A Colin brillarono gli occhi. «Chissà dov'era diretta quella nave! Potremmo tornare indietro, mandare tutti quei mostri al creatore e frugare nelle mappe della sala di comando! Sicuramente lì dentro ci sono delle cartine, qualche foglio con delle indicazioni per le basi dei sopravvissuti, potremmo incontrare una nuova comunità che riparte da zero, che-»
«Ehi, frena.» Alissa gli lanciò uno sguardo divertito dallo specchietto retrovisore. «Può darsi che quella nave girasse senza meta in mare aperto da anni.»
«Ma se abbiamo appena detto che c'era del carburante e quindi era per forza partita da poco, altrimenti non si sarebbe schiantata a tutta velocità sulla spiaggia! E poi lasciami ai miei sogni ad occhi aperti!»
«Ha ragione lui, Alissa. Non riuscirai a distruggere i suoi sogni di gloria così facilmente.» ridacchiò Michael.
«Maledizione!» lei schioccò le dita con un'espressione di disappunto.
«Avanti, non vorrai farmi credere che quella nave fosse in viaggio da dodici anni!»
«Dodici anni?» chiese lei. «È già passato così tanto tempo?»
«Se teniamo conto delle prime contaminazioni, sì. Parlo di quando nei telegiornali cominciavano a raccontare di questa malattia sconosciuta. I casi isolati, insomma.» si strinse nelle spalle.
«Ce la siamo cavata bene, per essere sopravvissuti tutto questo tempo. Dovremmo ricevere un premio.»
«Premio Nobel, premio Pulitzer, premio per la Pace... ormai è tutto andato.» mormorò Jared.
«Se non altro abbiamo smesso di distruggere il pianeta.» sorrise Alissa.
«Secondo me nessuno ha mai desiderato veramente che accadesse una cosa del genere.»
«Io ero tra quelli che dicevano “Wow, un'apocalisse di zombie? Sarà una figata!”» rise Colin. «Adesso mi prenderei a schiaffi solo per aver pensato ad una cosa del genere.»
«Se vuoi ti prendo a schiaffi io.» rispose Alissa con noncuranza.
Colin roteò gli occhi ma non rispose. Tornò il silenzio, pesante, che fu spezzato nuovamente da Colin.
«Tornando alla faccenda della spedizione verso la nave...»
«No. Non se ne parla.» Michael bloccò il suo discorso sul nascere. Fu categorico.
«Potrebbe essere la nostra possibilità di salvezza.» rispose lui infastidito.
«Andare incontro alla morte certa per dover mettersi a cercare all'interno di una nave delle mappe di cui non conosciamo neanche l'effettiva esistenza? E anche se riuscissimo ad eliminare tutti gli zombie, scalare la nave (perché, fidati Colin, la nave la dovremo scalare con corde e rampini dato che si è arenata su di un fianco), trovare le mappe... dovremmo anche metterci a cercare una base di sopravvissuti che forse è stata fatta fuori dagli infetti?»
«Sì!» Colin annuì, deciso.
«No, no e ancora no.»
«Ma perché?» alzò la voce. «Cosa progetti di fare, adesso?»
«Non transigo, io...»
Colin sovrastò le sue parole. «Tu cosa? Siamo scappati, di nuovo! E questa è la... sesta volta, credo, da quando mi hai trovato! Vivremo per sempre così? Sempre in viaggio, sempre col terrore di un attacco incombente? Grandioso! Una vera meraviglia, svegliarsi la mattina e pensare a quante lattine di cibo ci restano prima di rimanere a morire di fame! Potremmo avere una possibilità, Michael, se solo ci decidessimo a prendere il coraggio a due mani!»
Ma l'uomo non si girò neanche a guardarlo negli occhi. Si limitò a starsene appoggiato con un braccio al finestrino, una mano a sorreggergli la fronte. «Nessuno di noi tornerà indietro.»
Colin rimase a fissarlo a bocca aperta per qualche secondo, poi fece bruscamente aderire la schiena al sedile. Braccia incrociate, sopracciglia talmente tanto corrucciate che quasi andavano ad un unirsi nel mezzo. Sapeva che era una battaglia persa mettersi contro di Michael: era lui il capo. A malincuore e con una grande rabbia nel petto, desistette dal rispondergli ulteriormente.
 
Attendere la fine della pioggia era stata un'operazione decisamente snervante, specie con la tensione che si era andata a creare tra l'uomo e il ragazzo. Era palpabile, come se Colin riuscisse ad emanare ondate di rabbia nera ed invisibile che colpivano tutti i presenti, senza sosta. Vedere un flebile raggio di sole colpire il terreno circostante era stato quasi un miracolo: finalmente potevano uscire da quella scatola piena di emozioni negative che era diventata la macchina.
Il terreno era fangoso. Si scivolava facilmente. I cani, appena toccarono terra, cominciarono ad annusare all'impazzata qualsiasi cosa.
«Che ore sono, secondo voi?» chiese Dakota.
«Le nove del mattino, credo... Forse le dieci.» rispose Alissa. Le nuvole non si erano dissipate del tutto, ma si intravedeva a sprazzi un bel cielo azzurro dall'aspetto tipicamente mattutino.
«Bene. Ora, dato che è mattina, direi di cominciare a cercare qualcosa che possa considerarsi carburante.» Michael si avvicinò a loro, sfregandosi le mani. Faceva un po' freddo. «Dividiamoci. Chi rimane qui a sorvegliare macchina e bagagli?»
«Io voglio andare a sgranchirmi le gambe.» annunciò Alissa, torcendo il busto per far sciogliere i muscoli rattrappiti dalle troppe ore di forzato riposo.
«Beh, facciamo così. Dato che Colin...» e qui Michael scoccò un'occhiata sorniona al ragazzo, che ricambiò lo sguardo in una maniera decisamente infastidita. «...non mi sembra dell'umore giusto per affrontare una ricerca e visto che Dakota è da un bel po' di tempo che non viene a fare un giretto, lui e Jared rimarranno qui. Saremo di ritorno tra un paio d'ore, forse tre.»
«Ok.» rispose Dakota. Jared si limitò ad annuire, Colin continuò a mantenere le labbra serrate. Anche quando aveva litigato con Alissa, due giorni fa, si era comportato allo stesso modo: sopracciglia corrucciate, bocca sigillata.
Tirarono fuori dalla macchina il pacco mal chiuso contenente le armi, ne scelsero alcune e, dopo che si furono coperti un po' di più con alcuni vestiti vagamente più asciutti degli altri, Dakota, Michael ed Alissa si incamminarono alla ricerca di qualche auto abbandonata, di una stazione di servizio, di qualsiasi cosa potesse far carburare l'auto rimasta a secco nonostante si trovassero in mezzo al nulla assoluto. Si vedeva solo il mare, poco lontano, perché durante la fuga erano rimasti lungo la costa. I cani li seguirono, zampettando eccitati poco più avanti, quasi volessero mostrare il sentiero agli umani.
 
 
Quando le loro figure si furono dissolte in lontananza, Colin rilassò i lineamenti del viso. Gli rimasero dei solchi nel punto in cui le folte sopracciglia si avvicinavano.
Jared si appoggiò alla macchina, incrociando le braccia. Erano passati anni da quando gli aerei avevano smesso di solcare i cieli, e quando alzò lo sguardo poté godersi la vista di un cielo completamente privo di scie fumose decisamente antiestetiche.
«Le sigarette le abbiamo lasciate nella palafitta, giusto?» chiese Colin bruscamente.
Jared ci pensò qualche secondo. «Non saprei. Cerchiamole, tanto non abbiamo nulla da fare.»
Rovistarono all'interno dei bagagli, in silenzio. Cercarono di stendere alla meglio gli abiti zuppi d'acqua, appoggiandoli a cavalcioni delle portiere semiaperte.
«Eccole! Ma guarda che fortuna, dentro al pacchetto c'era anche un accendino.» disse Colin. Era ancora visibilmente arrabbiato, la sua voce era uscita distorta e lievemente canzonatoria nei confronti di nessuno in particolare. Nessuno che fosse presente, perlomeno. «Ne vuoi una?»
«Sì, dai.» Jared prese quella che Colin gli stava porgendo. «È l'ultimo pacchetto?»
«Credo di sì.» rispose lui.
Jared aspirò. «Grazie.» disse, mentre il fumo bianco fuoriusciva dalle sue labbra per arrampicarglisi sul viso.
«Di che?»
«Beh. Di avermi tenuto i capelli mentre vomitavo.»
«Più che un “grazie” mi meriterei uno “scusa”!» rise Colin, apparentemente dimentico del suo umore nero.
Jared lo guardò, interdetto. «Perché?»
Colin non rispose, si limitò ad indicare una serie di macchie bianchicce rapprese lungo la coscia dei pantaloni, le labbra incurvate in un sorriso nonostante fossero impegnate a serrare una sigaretta che si andava rapidamente consumando.
Jared realizzò che ciò che quelle macchie decoratrici erano state provocate dalla vomitata di poco prima. Si portò una mano alla faccia, coprendo gli occhi ed arrossendo lievemente.
«Dio... sono proprio una persona di merda. Scusa.»
«Poteva andare peggio.» rispose Colin allegramente. «Potevi vomitarmi in faccia. E non abbiamo neanche l'acqua per lavarci, momentaneamente. Pensa che schifo! Sarei dovuto rimanere col tuo vomito addosso per giorni interi!» improvvisamente, il tono cordiale scomparve così com'era apparso. «E comunque, cosa ne pensi della cosa di prima?»
«Della nave?»
«Sì.»
Ci fu un attimo di silenzio. «Non lo so, Cole.» sospirò. «Capisco perfettamente il tuo punto di vista, sul serio. Capisco che vuoi dedicarti al raggiungimento di un obiettivo concreto, e che non vuoi viaggiare così, cercando di sopravvivere e basta. Ma io sono rimasto chiuso in casa per anni interi. Non mi dà fastidio viaggiare senza una meta.» gettò via il moncherino di tabacco che gli era rimasto tra le dita. «Per ora.»
«Mi sento molto incompreso.» si lagnò Colin, scoraggiato.
«Guarda che io sono d'accordo con te su un sacco di cose!»
«Tipo?» lo guardò, affranto.
«Beh.» Jared chiuse gli occhi, sorridendo. «Ad esempio: Alissa è una stronza.»
«Ok. Noi due siamo ufficialmente diventati migliori amici.»
Jared rise.
«Se avessimo ancora avuto Facebook, sarei subito corso a scriverlo sul mio stato personale, o come si chiamava quella roba dove ci potevi scrivere quello che ti passava per la testa. Oh, non ci posso credere che finalmente potrò condividere tutto l'astio che provo nei confronti di quella donna con qualcuno!»
Passarono svariate ore condite da una colazione dalle dubbie proprietà nutritive, discorsi stupidi e un'attenzione praticamente nulla per quanto riguardava il terreno circostante che avrebbero dovuto sorvegliare durante l'assenza degli altri. Avevano aspettato circa quattro ore prima che quelli tornassero da loro, tra le mani svariati galloni di carburante colmi fino all'orlo.

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