Human Touch di CowgirlSara (/viewuser.php?uid=535)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Human touch - 1
Torno
con un altro episodio del Saraverse di Saint Seiya. Credo che potrei
forse fare una serie per raccogliere le fan fiction sul giovane Milo,
visto che sono già due, ci penserò.
Spero che la mia versione personale della vita al Santuario non risvegli animi troppo talebani…
Dovete capire che sto
vivendo un personale Rinascimento nell’ispirazione per questo
fandom, quindi ho bisogno di raccontare finalmente bene un mondo che ho
impiegato anni a costruire.
Nei commenti alla mia
ultima storia, poi, mi era stato chiesto di dare un po’ di spazio
ad alcuni personaggi originali a cui anche io sono molto affezionata.
Ed eccoli tutti qua, i miei cavalieri preferiti immersi nel loro mondo.
I personaggi usati
appartengono ai loro legittimi autori e sono usati senza scopo di
lucro. La canzone in introduzione – e che da il titolo alla
storia – è la bellissima “Human touch” di
Bruce Springsteen.
Sta a voi dirmi cosa ne è uscito fuori e se questa versione delle cose vi convince.
Buona lettura!
Sara
- Human Touch -
Capitolo 1
You might need somethin' to hold on to
When all the answers, they don't amount to much
Somebody that you could just to talk to
And a little of that Human Touch
Faceva caldo, in quel
pomeriggio di tarda primavera, ma la pineta offriva un riparo
sufficiente al sole greco. L’aria era balsamica e profumava di
aghi e mare. I due giovani guerrieri erano sul ciglio di un pendio ed
osservavano dall’alto l’addestramento nel campo sottostante.
Shura era appoggiato ad un
pino e fissava concentrato l’attività svolta più in
basso, mentre Camus si riavviava i capelli, cercando di dare sollievo
alla nuca accaldata.
“Che te ne sembra dei ragazzi?” Domandò il cavaliere di Capricorn al compagno.
“Sono dei mocciosi.” Rispose Acquarius.
“Lo siamo stati anche noi.” Replicò l’altro, sempre guardando il campo d’addestramento.
“Hn, s’impegnano.” Gli concesse Camus. “Ma ne hanno ancora di strada da fare.”
“Parli come se avessi l’esperienza di un venerabile maestro novantenne, Camus.” Lo derise l’altro.
“Tu ci sei nato vecchio…” Commentò acido lui.
“Difetto dei
Capricorni.” Si limitò ad ammettere Shura, stringendosi
nelle spalle. Camus non volle dirgli quanto era vero. “Ad ogni
modo, non puoi dimenticare che siamo solo poco più vecchi di
quei mocciosi là sotto.” Aggiunse, indicando il campo con
un cenno del capo.
“È vero.” Annuì Camus, del resto non poteva negarlo.
“Molti di loro, poi,
hanno grandi potenzialità.” Riprese Shura. “E ci
sono ancora diverse armature d’ora senza custode.”
“Andiamo!”
Sbottò l’amico. “Non penserai che qualcuno di loro
possa davvero ambire a tanto?!”
“Secondo me
sì.” Dichiarò l’altro. “Ho diretto un
addestramento, giorni fa, e ne ho individuati alcuni veramente
promettenti.”
“Tipo?” L’interrogò Acquarius.
“Ioria.”
Rispose subito Shura. “Il fratello del Traditore.” Camus si
stupì di sentirglielo dire. “È un ragazzo
determinato, coraggioso, incrollabile e non si fa pesare il suo…
problema.”
“Non sono certo che
il Gran Sacerdote gli permetterà mai d’indossare le Sacre
Vestigia.” Sostenne Camus, lanciando un’occhiata al ragazzo
dai corti capelli chiari, impegnato in un corpo a corpo.
“Devi capire contro
cosa sta lottando, Camus.” Affermò serio Shura, anche lui
impegnato ad osservare il soggetto in questione. Il suo tono e la sua
espressione erano stranamente cupi. “Non puoi avere un peso del
genere e vivere con leggerezza, io lo so… Dovrà lottare
il doppio degli altri, per farsi valere, ma la caparbietà non
gli manca.”
Camus si chiese quale fosse
il peso di Shura, ma preferì non indagare, era più
interessante continuare a parlare dei futuri cavalieri. E poi
c’erano cose che era meglio non sapere.
“Chi altro?” Incitò infatti.
Shura accennò di nuovo al campo, ma più di lato rispetto allo scontro in atto. “Aphrodite.” Disse.
“Oh, andiamo!”
Esclamò subito Camus, con un sorrisetto sbieco. “Quello
è praticamente una ragazza – e molto carina –
qualcuno dei compagni gli avrà già messo gli occhi
addosso!”
“Non crederai che
succeda?” L’interrogò Shura, voltandosi verso di
lui. “Hanno solo dodici anni!”
“Beh? Lo sai che sono
sempre successe queste cose, la pubertà, gli ormoni al
galoppo…” Rispose, prima di scoppiare a ridere. Capricorno
scosse il capo.
“Non sottovalutare il ragazzino, comunque.” Gli disse poi. “È furbo e impara in fretta.”
“È un leccaculo.” Fece Camus sprezzante.
“Vero, ma a volte è utile.” Replicò l’altro. “A te chi piace invece?” Aggiunse.
“Il ragazzo che lotta con Ioria.” Rispose sicuro Acquarius, guardando il campo.
“Milo?!”
Esclamò incredulo Shura. Lui annuì. “Quello
è una testina di cazzo, risponde!”
Camus gli lanciò
un’occhiatina furba. “Se non avessimo un po’ di
carattere non saremmo buoni Cavalieri.” Sentenziò.
“Ci vuole rispetto!” Sbottò l’amico, severo. “E lui non ce l’ha.”
“Può sempre
impararlo.” Ribatté Camus. “È intelligente,
un ottimo stratega e… guarda, se la batte alla pari con Ioria,
che è più forte di lui fisicamente.”
“Ammetto che ha delle
potenzialità.” Fece Shura. “Ma se non si lega la
lingua, andrà poco lontano.” Camus, a quelle parole, fece
un sorriso compiaciuto. “Dimenticavo che a te piace il
sarcasmo…”
“Credo sia un segno di grande personalità, sì.” Ammise lui.
“Milo, ad ogni modo,
è un attaccabrighe, si rovinerà con le sue mani.”
Soggiunse Capricorn, prima di girare i tacchi e scendere verso il campo.
“Non se qualcuno gli
insegna la strada giusta.” Mormorò Camus, rivolto
più a se stesso che all’altro cavaliere ormai fuori
portata.
°°°°°°
Elettra finì di
raccogliere i giocattoli di suo figlio, mettendoli in un’elegante
cesta di vimini, poi la chiuse e la ripose accanto al divano. Era
l’unica donna che Camus conoscesse che riusciva a mantenere un
ordine perfetto anche con un bimbo di quasi tre anni.
Per Elettra l’ordine
era più una forma mentale che un qualcosa di ambientale. Se
c’era disordine, lei non pensava bene, era disturbata.
Sospirò soddisfatta e si sedette sul divano.
“Che mi racconti?” Chiese a Camus con un sorriso.
Il ragazzo preferì
non raccontarle dei suoi sogni ricorrenti che prevedevano lei, lui,
bagni notturni e nessun vestito addosso. Preferì qualcosa di
meno frivolo e compromettente.
“Shura dice che Ioria ha le potenzialità per diventare un Cavaliere d’Oro.” Le disse calmo.
“Oh…”
Commentò lei, poi abbassò e deviò lo sguardo.
“È sempre stato il suo sogno, spero che ci riesca.”
Aggiunse, tristemente; poi si alzò ed andò al tavolo a
versare il the freddo.
“Mi dispiace che non vi parliate più.” Ammise Camus, osservandola dal divano.
“Dispiace anche a me.” Affermò fredda lei. “Ma ha fatto la sua scelta, non posso farci niente.”
“Era un bambino, lo
è ancora…” Soggiunse lui. Elettra si voltò
di scatto, in un fruscio di stoffa e gli rivolse un’occhiata
glaciale.
“Niente di quello che
gli ho detto è servito, Jean.” Dichiarò severa.
“Volevo che venisse via con me, ma lui si è convinto di
dover espiare la colpa di suo fratello… Quale colpa, poi.”
Aggiunse, prima di tornare a girarsi verso il tavolo.
Camus sapeva perfettamente
come la pensava Elettra. Era fermamente convinta che quello di Aioros
– il suo grande amore, il padre di suo figlio, il fratello di
Ioria – fosse stato un estremo sacrificio in nome della
Giustizia, contro un non meglio identificato Male che possedeva il
Santuario di Atena. Per questo, dopo la sua scomparsa aveva lasciato il
tempio di Atena, per prendere il suo posto sul trono di Zeus, ben
lontana dal nuovo Gran Sacerdote.
Ioria, invece, forse ben
indottrinato, aveva maturato la convinzione – più
caparbia, perché nella mente di un bambino – che suo
fratello fosse veramente un traditore e che a lui spettava il compito
di salvare l’onore della famiglia. La rottura con la cognata era
stata inevitabile.
“Scusami, ho sbagliato argomento.” Fece il cavaliere, alzando le mani.
“No, scusami tu.” Replicò lei, portandogli il bicchiere con il the. “Come sta, piuttosto?”
“Sembra che stia
bene.” Rispose Camus, mentre lei gli si sedeva di nuovo accanto.
“S’impegna molto.”
“È un ragazzo determinato, può farcela.” Disse la ragazza, annuendo.
Il cavaliere osservò
per un attimo Elettra, che si era appoggiata sospirando alla spalliera.
Era sempre bellissima, ma sembrava più pallida del solito.
“Sembri stanca.” Le disse, lei fece un lungo respiro.
“Ci sono appena state
le cerimonie di maggio, sono piuttosto impegnative.”
Spiegò con un mezzo sorriso. “E Alexi cresce in fretta, da
quando cammina devo avere gli occhi ovunque!”
Camus sorrise e poi le passò un braccio intorno alle spalle; lei si adagiò contro il suo fianco.
“Sai cosa facciamo
domani?” Le disse il ragazzo, Elettra lo guardò
incuriosita. “Portiamo Alexi al mare, così tu ti riposi
sotto l’ombrellone e io gli insegno a nuotare!”
“Jean, ha due anni e mezzo, non può nuotare!” Esclamò la donna.
“E chi l’ha detto? Buttalo in acqua e poi vedrai!” Ribatté sicuro il cavaliere.
“Me lo farai affogare!” Protestò Elettra.
“Che madre apprensiva
sei!” Sbottò Camus. “Non lo sai che i bambini
piccoli hanno l’istinto del nuoto? E poi non gli farei mai
correre rischi, lo sai.”
“A volte sono
preoccupata che tu sia la sua figura maschile di
riferimento…” Accennò lei. “Diventerà
un volgare, bugiardo sciupa femmine, da grande.”
“Hey!” Esclamò lui, fingendosi offeso. “Io non sono volgare!”
“E tutto il resto sì?” Ribatté pronta lei. Camus fece un sorriso sornione.
“Beh, con le donne, a volte, qualche bugia ci vuole…” Sostenne con espressione furba.
“Se le dici a me, ti taglio i capelli nel sonno.” Gli garantì Elettra, con tono preoccupante.
“Basta che tagli solo quelli…” Scherzò lui, stringendo un po’ le gambe.
“Hm, non è detto…” Replicò la ragazza, sollevando le sopracciglia sottili.
“Perfida!” Esclamò Camus, prima che entrambi scoppiassero a ridere.
Era facile ridere con
Elettra, fin da quando erano bambini. Poteva anche riuscire a non
pensare alla più grande bugia di tutte, quella per cui avrebbe
meritato molto più che taglio di capelli e attributi. Il suo migliore amico… Una bugia tanto grande da essere diventata una dolorosa verità.
°°°°°
Odiava il turno
addestramento. Ma, per quanto ci avesse provato, non aveva trovato mai
una scusa sufficientemente valida da riuscire a saltarlo.
Funzionava così. I
bambini iniziavano ad essere addestrati intorno ai sette anni, in
gruppi. Due, tre anni dopo veniva fatta una prima scrematura, i
più validi continuavano, gli altri venivano passati alle truppe
comuni. A quel punto, alcuni venivano affidati a maestri personali e
avviati alla conquista di un’armatura minore; altri continuavano
più o meno in gruppo, sotto la supervisione dei cavalieri di
rango più alto, così che venisse deciso chi era degno di
un’armatura della cerchia superiore. A quel punto, via verso i
luoghi più ameni di addestramento.
E Camus odiava il suo turno di supervisione addestramento.
Santi Numi, ma chi li aveva
passati al corso superiore? C’era gente che non era ancora capace
di far esplodere una pietra, parliamone! Menti così granitiche
che, quando gli spiegavi qualcosa, ti fissavano come se gli avessi
confessato un piano per attentare alla vita del Gran Sacerdote. Roba da
pazzi! Quando qualche cervello illuminato sembrava dimostrare di aver
afferrato il concetto, c’era da mettersi a fare il trenino
brasiliano!
Avrebbe dovuto proporre costumi in versione tanga per le saint femmine, ecco quello sarebbe stato interessante…
“Maestro.” Lo chiamò una vocetta petulante, strappandolo ai suoi sogni caraibici.
“Hm?” Fece lui
annoiato, senza nemmeno alzare il mento dalla mano su cui lo
appoggiava. L’occhiata che dedicò ad Aphrodite ed al suo
corpicino efebico fu piuttosto vacua.
“In mensa si stanno picchiando.” Dichiarò deciso il ragazzino.
“E tu fai la spia?” Gli chiese, lo stupore dell’allievo fu palese.
“Il regolamento…” Tentò Aphrodite.
“Seh,
seh…” Lo interruppe Camus, alzandosi dal tronco e
sventolando una mano. “C’è del sangue?”
Domandò poi.
“Cosa?!” Esclamò il ragazzino.
“Se devono picchiarsi
che lo facciano bene, per Atena!” Esclamò il cavaliere,
precedendo l’altro verso la tenda della mensa.
La zuffa era sulla sinistra
dell’entrata. C’erano panche rovesciate, piatti e vassoi
sul pavimento di terra battuta. Un capannello di ragazzini incitava e
faceva il tifo, mentre due, a terra, si picchiavano senza esclusione di
colpi. Camus si avvicinò a grandi passi.
“Adesso basta!”
Gridò; i tifosi si zittirono subito, ritraendosi di qualche
passo dai contendenti. “Ho detto basta!” Aggiunse
autorevole, quando vide che i due non smettevano di darsele.
Il giovane cavaliere
roteò gli occhi spazientito, poi portò le dita alle
labbra e fischiò con tutta la sua forza. Molti ragazzini
presenti dovettero tapparsi le orecchie. I due che si picchiavano, si
staccarono confusi per un istante, poi, con uno sguardo in cagnesco,
ripresero a menarsi.
Camus, allora, esasperato, li prese entrambi per la collottola e gli trasmise una scarica ghiacciata, schiarendogli le idee.
“Vi basta così, o devo congelare i vostri glabri testicoli come palle di neve?” Li minacciò.
I due si ritirarono a
qualche passo di distanza, abbassando il capo. Entrambi avevano un
labbro spaccato, quello coi capelli corti anche un sopracciglio,
l’altro aveva una manica strappata.
“Chi ha
cominciato?” Chiese il cavaliere. Milo e Ioria si scambiarono
un’occhiata e poi riabbassarono subito gli occhi. “Chi ha
cominciato.” Ripeté Camus.
“Il primo pugno l’ha dato lui!” Indicò infine Milo, alzando il dito contro Ioria.
“Sì, perché tu mi ha provocato per tutta la mattina!” Ammise l’altro, difendendosi.
“Vabbene!” Esclamò Camus, tenendoli lontani con le braccia aperte. “Ho capito la situazione.”
“Accipicchia, come sei veloce!” Commentò sarcastico Milo.
Camus, prima lo
guardò malissimo, poi alzò una mano e gli diede lo
scappellotto più veloce e doloroso che il ragazzo avesse mai
ricevuto.
“Ahia!” Sbottò, reggendosi la testa.
“Vedi di chiudere
quel buchetto di culo, perché già mi girano ad essere
dovuto venire a dividervi.” Gli disse il cavaliere minaccioso,
poi si rivolse all’altro ragazzo. “Ioria, sei consegnato
nel tuo alloggio per le ore libere, fino alla fine della
settimana.”
“Sì, Maestro.” Annuì impettito lui.
“Ora vai a farti
vedere quei tagli.” Gl’intimò. “Tu, invece,
vieni con me.” Ordinò a Milo.
“Ma… anche io sono ferito…” Obiettò il ragazzo.
“Non morirai.” Sentenziò il cavaliere di Acquarius. “Seguimi.”
Se non altro, la casetta di
mattoni in uso ai cavalieri in turno di addestramento offriva un
po’ di refrigerio all’afa di quel giorno.
L’arredamento era spoglio: solo un tavolino, qualche sedia, degli
armadietti lungo la parete e una scrivania. La sola finestra aveva una
persiana verde un po’ sverniciata.
Milo, seduto davanti alla
scrivania, osservava la grande pala girare sopra la sua testa, mentre
Camus lo osservava dall’altra parte del tavolo.
“Che devo fare con te?” Si chiese retoricamente il cavaliere, attirando l’attenzione dell’allievo.
“Perché?” Gli rispose lui, con un sorrisetto.
“Non mi piace quando
sorridi così, sembra che tu mi voglia prendere per il culo e non
mi pare il caso, nella tua situazione.” Replicò Camus
controllato.
“Oh, andiamo, era solo una piccola rissa!” Sbottò Milo, atteggiandosi a duro.
“Eh, no!” Gli
rispose subito il cavaliere. “Tu godi di una brutta reputazione,
tra i compagni, Milo.” Continuò poi. “Dicono che li
provochi, che non chiudi mai la bocca quando sarebbe il momento di
farlo, che rispondi ai maestri…”
“Sono un branco di
ottusi cazzoni, quelli!” Commentò inaspettatamente il
ragazzo, stupendo il suo interlocutore.
“Oh!” Fece
Camus. “Ohhh, sì, che lo sono!” Affermò a sua
volta, lasciando basito Milo, che non si aspettava di certo simili
dichiarazioni da uno che faceva parte della categoria. “Ma devi
essere un Cavaliere, per poterti permettere di criticarli, e tu non lo
sei.” Aggiunse serio Camus.
“Tu, lo sei?” Chiese allora timidamente il ragazzo.
“Secondo te?” Replicò lui, raddrizzandosi sulla sedia.
“Quella cosa che hai
fatto prima, col ghiaccio… sembrava fica.” Mormorò
l’altro. “Avresti potuto veramente gelarci le palle?”
“Non vuoi
scoprirlo.” Gli rispose serafico il cavaliere. Lui
ridacchiò. “Non è divertente, Milo.” Riprese
Camus. “Io devo punirti e non credere che mi piaccia.”
“Allora non farlo.” Soggiunse Milo, stringendosi nelle spalle.
“Ma non ce la fai
proprio a tenere chiusa quella boccaccia, eh?” Gli
rimproverò Camus, senza purtroppo riuscire a nascondere bene
quanto lo divertisse la conversazione. “Dicevo, mi rompe le palle
trovare una punizione per te, ma purtroppo devo farlo,
quindi…” Si alzò e aggirò la scrivania.
“Ora torni all’addestramento e tieni chiusa la ciabatta
fino a stasera, domani ne riparliamo.”
“Non puoi farlo subito e basta?” Chiese Milo. “Odio aspettare…”
“Impara la pazienza
– te lo dice uno che non ne ha.” Gli consigliò il
più grande. “Devo parlare con una persona, prima.”
“Cosa devo aspettarmi? Pulire i cessi con uno spazzolino da denti?” Domandò timoroso l’altro.
“Eheh,
divertente!” Commentò acido Camus. “Magari la
prossima volta. Adesso vai e guai a te se combini un altro casino da
qui a stasera.”
“Perché, cosa
mi fai?” S’informò ironico il ragazzo, dopo essersi
alzato. “Mi congeli le palle?”
“Può darsi, non sfidarmi.” Rispose severo Acquarius. Milo ridacchiò, dirigendosi alla porta.
“Sei sicuro di essere un Maestro?” Gli domandò infine, fermo sulla soglia.
“Sì, perché?” Ribatté Camus.
“Hm, sei simpatico.” Rispose lui, poi uscì di corsa.
Aspetta a dirlo, moccioso, vedrai come ti sistemo… pensò il cavaliere, pensando ai dettagli della punizione per Milo.
La biblioteca era fresca ed
in penombra, come sempre. L’aria impregnata dell’odore dei
libri, i suoni ovattati contro l’alto soffitto, la luce che
entrava con tagli strani. Rassicurante come il ventre materno. Il cuore
del sapere e dei segreti del Santuario.
Camus si avvicinò ad
un alto bancone, dove un uomo stava catalogando e ordinando due grosse
pile di libri antichi. Lui era piuttosto alto, i corti capelli biondi
cominciavano a tingersi di grigio; una barba leggera conferiva
autorità al suo viso forte, così come gli occhiali dorati
gli davano saggezza.
“Nikolais.” Chiamò il cavaliere, attirando l’attenzione dell’uomo.
Egli alzò il capo e
si voltò, dedicando al ragazzo un sorriso accogliente, in cui
non era troppo difficile riconoscere quello della figlia.
“Jean!”
Esclamò contento, lasciando il libro che aveva in mano e
andandogli incontro. “Che sorpresa, cosa ci fai qui?” Gli
chiese poi. Il cavaliere sorrise a si avvicinò al banco.
“Come ti vanno le cose?” Chiese il ragazzo al bibliotecario, mentre sedeva davanti a lui, su uno sgabello alto.
“Come sempre, non
vedi?” Rispose l’uomo, indicando il suo lavoro con i libri.
“Tu, piuttosto… ti fai vedere poco, ultimamente.”
Il tono era vagamente di
rimprovero e Camus accusò il colpo, abbassando il capo e
cominciando a giocherellare con un timbro.
“Sono stato
impegnato, lo sai…” Borbottò poi, sempre evitando
di guardarlo. “Sono stato di nuovo in Siberia e poi mi hanno
incastrato con questa menata dell’addestramento…”
“Non mi sembrano
motivi validi per evitare una visita a casa.” Gli fece pesare
Nikolais, prima di afferrare un altro libro e classificarlo con calma.
“Sai che Danae fa il pane alle olive ogni domenica?”
Camus alzò gli
occhi, spalancandoli colpito. Il pane alle olive era il suo preferito,
quanto lo era quello ai semi di papavero per Elettra. Lo adorava,
perché restava sempre morbido e profumava di casa.
“Non farmi sentire in colpa…” Supplicò il ragazzo.
“Oh, è proprio
quello che voglio fare!” Esclamò l’uomo, mentre
passava ad un nuovo volume. “Scommetto che il tempo per andare ad
Atene lo trovi…”
Il giovane cavaliere
roteò gli occhi, voltando il viso in una smorfia rassegnata.
Quando Nikolais ci si metteva, era un vero artista nel farlo sentire
colpevole, perfino più bravo di Elettra, ed era tutto dire.
“Come sta
Elettra?” Domandò però il bibliotecario,
costringendo il ragazzo a guardarlo di nuovo. Camus trovò, con
sorpresa, ad aspettarlo un sorriso gentile.
“Sta bene.”
Rispose sincero. “Niente l’abbatte, lo sai.” Nikolais
annuì, l’espressione remota.
“E il bambino?” Chiese quindi.
Camus non poté
trattenere un sorriso tenero, pensando ad Alexi. “Cresce,
è bellissimo.” Affermò poi.
Il giovane rifletté
per qualche secondo sulla situazione. Da quando Elettra aveva lasciato
il Santuario di Atena, lei ed il padre erano stati costretti a diradare
i contatti e questo per l’incolumità di Nikolais. La Gran
Sacerdotessa di Zeus aveva sposato la causa del Traditore ed era
inutile dire che nessuno vicino a lei era più ben visto.
Il silenzio, in quegli
attimi, li aveva avvolti, come succedeva spesso quando da ragazzino lo
aiutava col lavoro su quegli stessi banchi.
“Mi dispiace che tu
non riesca a sentirla spesso.” Si decise a dire, infine Camus.
Nikolais sorrise amaro ma consapevole.
“Per fortuna ci sei tu che mi porti notizie.” Dichiarò quindi.
“Lo faccio volentieri.” Fece lui, stringendosi nelle spalle.
“Jean.” Lo
richiamò l’uomo, serio, costringendolo a guardarlo negli
occhi. “Rischi tanto.” Gli ricordò, con tono paterno.
“Non m’interessa.” Proclamò il cavaliere. “Io so difendermi.”
“Non dovresti farlo.” Disse l’uomo, di nuovo chino sui libri.
“Nikolais, siete la mia famiglia!” Sbottò Camus, quasi indignato.
Il custode della biblioteca
sollevò su di lui uno sguardo retorico ed un sorrisetto sghembo,
fin troppo simile a quelli pericolosi di sua figlia.
“Allora, dovresti venire a trovarci un po’ più spesso…” Buttò lì l’uomo.
Camus sbuffò.
“Quando devo venire a cena?” Si rassegnò a chiedere,
arreso davanti alla cocciutaggine del capostipite dei Niakros.
Conoscendo bene padre e
figlia, poteva tranquillamente ipotizzare che anche il nipote sarebbe
diventato caparbio come un mulo da grande.
“Domani sera, va bene?” Fece nel frattempo Nikolais, con un sorriso soddisfatto.
“Sì.” Annuì Camus. “Posso portare un ospite?”
L’uomo spalancò gli occhi, sorpreso. “Ti sei fatto la ragazza?”
“Ma no!”
Sbottò il cavaliere. “È un mio nuovo
«amico»…” Affermò poi, mimando le
virgolette. “Forse ti ho trovato un nuovo assistente,
Nikolais…”
°°°°°
Milo seguiva Camus mentre
scendevano dalle baracche degli allievi verso il piccolo villaggio dove
vivevano i soldati con le famiglie.
Prima di arrivare ai primi
edifici bassi, tra il ruscello e la pineta, c’era una casa ben
tenuta, con una piccola staccionata di legno scuro davanti, a limitare
il giardino fiorito.
Milo l’aveva
già notata prima, le volte che era sceso al villaggio, e si era
chiesto a chi appartenesse, perché era la migliore di quelle dei
dintorni. Certo lui non era mai stato fuori dal Santuario, magari ce ne
erano di molto più belle. Lui e Camus, ad ogni modo, si
fermarono proprio davanti a quella.
Il cavaliere si
voltò verso di lui con sguardo severo. “Qui vive il
Custode della Biblioteca del Santuario, una persona di una certa
importanza.” Si premurò di spiegargli. “Quindi
comportati bene.” Aggiunse, alzando l’indice.
“Perché ci
tieni tanto? È da lassù che mi ammorbi con sta
storia…” Chiese annoiato l’allievo.
“È la mia famiglia, le persone che mi hanno cresciuto.” Rispose serio l’altro.
“Tu sei greco?” Domandò allora il ragazzo, mentre lo seguiva dentro il cancello.
“Ehm…
no.” Ammise Camus, attraversando il breve vialetto di pietra.
“Sono arrivato qui da piccolo e loro si sono presi cura di
me.”
“Lo dicevo io, con
quell’erre moscia…” Affermò Milo, con un
sorrisetto pestifero. Camus si girò di scatto, fermandosi.
“Io non ho l’erre moscia!” Sbottò offeso.
“Come no!” Ribatté divertito il ragazzo. “Parli come una checca francese!”
“E che cazzo ne sai tu di checche francesi?!” Replicò incredulo il cavaliere.
“Beh, non hanno l’erre moscia?” Fece Milo con aria innocente.
Camus scrollò il capo, poi ridacchiò e lo prese per il collo, conducendolo verso la porta.
“Tu ti ficcherai in
un sacco di guai, se non ti mordi quella lingua!” Esclamò
allegro, prima di bussare energicamente.
La porta si spalancò
quasi subito e loro si trovarono di fronte la figura matronale di una
donna in grembiule bianco, legato sotto al seno prosperoso. I capelli
ancora scuri legati in uno chignon basso, il viso segnato da qualche
ruga ma ancora tondo e simpatico. Gli occhi nocciola vispi ma dolci.
Osservava severamente Camus, che si grattò la nuca imbarazzato.
“Cattivo, cattivo ragazzo!” Lo rimproverò, alzando pericolosamente un cucchiaio di legno.
“Danae…” Mormorò lui, con tono colpevole.
“Oh, vieni qui, per
gli Dei!” Esclamò però la donna, cambiando
completamente tono e diventando melensa, prima di acchiappare il
cavaliere e stringerlo in una morsa d’acciaio. “Santo
cielo, quanto sei magro, ma ti danno da mangiare? Guardati, sei tutto
sciupato! Per fortuna che ho cucinato un sacco di roba! Ma fatti
vedere! Stai diventando una pertica… E le ragazze, eh, eh?
Vieni, vieni, ho apparecchiato in sala da pranzo…”
Trascinati da quel fiume di
parole, i due ragazzi entrarono in casa e la donna, continuando a
parlare, sparì in cucina. Loro si trovarono davanti il sorriso
cordiale di Nikolais.
“Ha veramente apparecchiato in sala da pranzo?” Chiese spaventato Camus.
“Oh, sì.” Annuì l’uomo.
Il cavaliere si rivolse a
Milo. “Preparati, a breve si spalancheranno le porte
dell’Ade, i morti usciranno dalle tombe e noi…
periremo.” Proclamò solenne, Nikolais rise.
“Perché?” Domandò invece il ragazzo, confuso.
“La sala da pranzo di
questa casa è una specie di luogo sacro, intoccabile.”
Spiegò Camus. “Io e Elettra ci beccavamo dei cazziatoni
infiniti anche solo a passarci dentro, da piccoli.”
“Chi è Elettra?” Interrogò Milo.
“Mia figlia.” Rispose Nikolais. “Io sono il padrone di casa.”
“Milo, ti presento
Nikolais Niakros, il Custode della Biblioteca.” Fece Camus
ampolloso. “Nikolais, lui è Milo, un promettente giovane
allievo del corso di addestramento.”
I due si strinsero la mano
ed il ragazzo rimase subito favorevolmente colpito dall’aria mite
e gentile dell’uomo, ma anche dalla sua stretta energica.
Dopo le presentazioni, i
tre, guidati dal padrone di casa, si diressero in sala da pranzo,
passando dal corridoio – perché Danae non voleva che gli
ospiti passassero dalla cucina, non era il modo.
“Hey.” Fece
Camus, richiamando Milo; lui si girò. “Non farti illudere
dai suoi modi carini…” Gli disse, indicando Nikolais con
un cenno. “…è un cazzo di osso duro.” Il
ragazzo sorrise.
La sala da pranzo era una
stanza chiara, con una porta finestra alta che conduceva nel giardino
retrostante la casa. Era arredata con mobili scuri, dall’aria
antica ed era perfettamente in ordine. Il tappeto era allineato alle
grandi mattonelle di cotto del pavimento, la tovaglia bianca col bordo
di pizzo non faceva una piega, sul grande tavolo ovale. I piatti e le
posate splendevano.
“Sono degno di tutto questo?” Domandò Camus, leggermente allarmato.
“Beh, non vieni a cena da quasi un anno, Jean.” Rispose tranquillo Nikolais, sedendosi a capo tavola.
“Jean?” Fece Milo, occhieggiando il cavaliere.
“Uhm,
sì…” Mormorò imbarazzato lui, deviando lo
sguardo. “È il mio vero nome: Jean Michel…”
“Eheheh!” Rise il ragazzino. “Hai pure il nome da checca!”
“Non è un nome da… Ohhh, che palle! È francese, ok?” Replicò Camus.
“Ah, sei francese!” Esclamò divertito Milo, alludendo al discorso precedente sull’erre moscia.
“Oh, tappati la bocca!” Ribatté stizzito l’altro.
“Siete divertenti.” Commentò Nikolais, che li osservava all’altro capo della stanza.
Milo, quindi, si
spostò, avvicinandosi ad un pianoforte a muro su cui erano
disposte diverse cornici. Erano vecchie foto. Nikolais molto più
giovane, con una bella donna bionda e due bambini altrettanto biondi.
Il padrone di casa con un ragazzo vestito di tunica e un cappello
strano, una bimba per mano. Due bambini sorridenti, lei bionda, lui con
i capelli scuri. Una ragazza bella come una dea seduta su un muretto,
sotto degli olivi.
“Questo sei tu?” Domandò Milo a Camus, che gli si era affiancato e osservava a sua volta le foto.
“Sì.” Annuì lui, guardando la foto dei due bambini. “Ero appena arrivato qui.”
“Sembri felice.” Commentò il ragazzo, con un tono leggermente triste.
“Non capivo una
parola, ma lei mi ha aiutato.” Raccontò il cavaliere,
indicando la bambina insieme a lui nella foto. Milo annuì.
“Questo chi è?” Chiese ancora; stavolta la foto era quella del giovane laureato.
“Aristoteles, il
fratello di Elettra.” Rispose Camus. “È molto
più grande di noi, non vive più qui da tanto.”
Aggiunse, poi fece un breve sorriso all’amico.
“Lei è
Elettra?” Milo fece la domanda indicando la foto della ragazza
sotto gli olivi. Camus annuì, fissando rapito l’immagine.
Ricordava che era stata
scattata nella primavera di quasi sei anni prima. Di lì a poco i
lunghi capelli biondi di Elettra sarebbero stati tagliati cortissimi
per la cerimonia di consacrazione a Zeus. Ma in quella foto erano
ancora lunghi fino ai fianchi e si muovevano nella brezza, insieme alle
pieghe del suo abito bianco, con lo sfondo dei mattoni rossi del muro e
delle foglie scure degli alberi. Aveva un sorriso puro e meraviglioso.
Prima che succedesse tutto. Prima che lui la perdesse. Prima del dolore
e delle responsabilità. Prima di Aioros.
“Ma è vera?” La voce ancora infantile di Milo lo riportò alla realtà.
“Cosa?” Chiese confuso.
“Lei, è vera?” Domandò ancora il ragazzo.
Camus sorrise beffardo.
“Oh, sì che lo è, ed ha anche un sacco di
difetti!” Proclamò con le mani ai fianchi.
“Non parlare male
della mia bambina!” Intervenne la voce severa di Danae. “E
adesso andate a lavarvi le mani, che è pronto in tavola!”
Ordinò quindi. Loro poterono solo obbedire.
Erano ormai seduti a tavola
e Nikolais osservava da un po’ il ciondolo al collo di Milo. Era
un ovale d’oro appeso ad una catenina finissima che pure si
sarebbe detta estremamente resistente. Sul medaglione, oltre una
cornice intarsiata a fune in oro rosso, svettava in rilievo la figura
di uno scorpione, contornata da uno sfondo di piccoli rubini. Tutta la
collana sembrava antica.
L’uomo spostò lo sguardo su Camus e lui rispose con un’occhiata esauriente, come se dicesse: “l’hai notato anche tu, eh?”.
Nikolais, essendo il
custode della biblioteca ed avendo conoscenza personale con più
di un cavaliere d’oro, era perfettamente consapevole
dell’esistenza dei gioielli dello zodiaco. Sapeva che Camus
possedeva un bellissimo e pesante anello d’oro con una tormalina
rossa e incisioni riportanti i simboli di Acquarius; lo indossava solo
in occasioni importanti. Elettra, invece, spesso portava il grande
braccialetto di perle d’oro e lapislazzuli, dono di Aioros, tutto
ciò che era rimasto in Grecia delle sacre vestigia di Sagitter.
Insomma, ogni sacra armatura d’oro era accompagnata da un
gioiello che riportava le insegne della costellazione e aveva
incastonata una pietra simbolica.
Ma quello che indossava Milo non poteva
essere uno di quei gioielli, era impossibile. Il ragazzo non era ancora
un cavaliere e, a quanto ne sapeva, l’ultimo custode di Scorpio
era scomparso anni prima, il ragazzo non poteva essere già nato.
“Milo.” Lo chiamò l’uomo, distraendolo dal suo piatto di cozze gratinate.
“Sì?”
Fece il ragazzo, senza distogliere lo sguardo dal paradiso in cui era
affondato il suo naso e che presto avrebbe fatto godere anche il suo
palato.
“Tu da dove vieni?” Gli domandò delicatamente Nikolais. Lui lo guardò perplesso.
“In che senso?” Replicò aggrottando la fronte.
“Beh, Jean è
nato in Francia ed ha vissuto lì fino ai sei anni, circa.”
Spiegò tranquillo l’uomo. “Tu dove sei nato?”
Il ragazzo si strinse nelle
spalle, afferrando la prima cozza. “Non lo so, da che mi ricordo
sono sempre stato qui.” Rispose infine, con tono indifferente,
prima di cominciare a mangiare.
“Potresti essere nato
al Santuario, quindi.” Insisté Nikolais, prendendo anche
lui la forchetta per iniziare il proprio pasto.
“Boh.” Fece Milo, stringendosi ancora una volta nelle spalle.
“Il medaglione, lo
hai da molto?” Chiese allora il padrone di casa, senza guardare,
intento ad estrarre il polposo ripieno di una cozza.
Milo sollevò gli
occhi su di lui, allarmato, poi strinse il pugno sul ciondolo.
“È mio, ce l’ho da sempre.” Affermò
poi, deciso.
“Nessuno mette in
dubbio che non sia tuo, Milo.” Gli disse comprensivo
l’uomo. Il ragazzo guardò Camus e poi Nikolais e quindi
lasciò la presa sul medaglione.
“Qualcuno lo ha
fatto, Ioria tempo fa ha detto che l’ho rubato, ma non è
vero.” Raccontò l’aspirante cavaliere. “Io
l’ho sempre avuto.”
“Vedo che ci sei
molto affezionato.” Intervenne Camus, cercando di stemperare la
tensione. Milo guardò di nuovo la collana.
“È la cosa più preziosa che ho e pensavo…” Disse con una piccola smorfia.
“Cosa?” Lo incitò Nikolais.
“Beh, forse è
collegato alla mia famiglia… insomma, qualcuno dovrà
avermi messo al mondo, non sono nato sotto un cavolo.”
Spiegò risoluto.
“Tutti noi vorremo
saperlo.” Affermò mogio Camus, facendo voltare Milo verso
di se. “Spero che tu possa riuscirci, un giorno.”
Nikolais sorrise
tristemente a quelle parole. Tutti quei ragazzi erano orfani, molti
reclutati in istituti in giro per il mondo. Quasi tutti senza un
passato che potesse essere chiamato tale e senza alcuna
possibilità di recuperare le proprie radici.
Lui però sapeva
quale era il luogo in cui tutte quelle strade perdute
s’incontravano. C’era una stanza, nella biblioteca, il cui
accesso era proibito anche a lui, dove erano depositati e archiviati i
documenti di tutti quei bambini. Di Jean Michel Tessier, il piccolo
francese arrivato da un orfanatrofio della Borgogna. O di questo
ragazzo dagli occhi vispi e dolci, color cristallo azzurro, che non
aveva nemmeno un nome da ricordare.
“Su…”
Incitò l’uomo, ostentando buonumore.
“…mangiamo, o Danae non ci servirà il resto!”
L’orto era buio e
fresco, profumava di rosmarino e salvia, col grande ulivo che
torreggiava al centro, immutabile nel corso degli anni, se non per la
varietà delle verdure piantate.
Camus si avvicinò al
tavolo di legno, sotto alla tettoia coperta di viti rampicanti;
Nikolais gli sorrise alla luce della vecchia lampada a olio che
illuminava fiocamente lo spazio circostante.
“Ouzo?”
Invitò il cavaliere, sollevando la bottiglia di liquido chiaro
verso l’uomo. Lui lo guardò male. “Sono maggiorenne,
adesso!” Sbottò Camus.
“Siediti.” Gli
concesse allora il padrone di casa. Il ragazzo si mise a cavallo della
stessa panca in cui era seduto l’altro e divise il liquore in due
bicchierini.
“Ora spiegami
cos’è questa storia di Milo.” Lo incitò
quindi Nikolais, dopo aver preso il proprio bicchiere. “Non
è una punizione, mandarlo a lavorare in biblioteca con me.”
“Ne sei sicuro?” Ribatté malizioso il ragazzo.
“Jean.” Lo gelò Nikolais.
Solo lui ed Elettra avevano
il potere di riportarlo all’ordine col solo pronunciare il suo
nome. Ma lui non era sicuro di riuscire a spiegare bene cosa stava
succedendo. Chinò il capo, poi prese un sorso di ouzo che gli
scaldò la gola.
“Non è giusto.” Mormorò quindi.
“Cosa?” Chiese
delicatamente l’uomo, avvicinandosi a lui. Camus risollevò
lo sguardo verso il buio del bosco.
“Forse la nostra vita
sarebbe stata dura lo stesso.” Affermò, evidentemente
alludendo alla condizione di orfano sua e degli altri cavalieri e
aspiranti tali. “Ma non ci è stata data la
possibilità di scegliere.” Aggiunse serio.
Nikolais gli appoggiò una mano sulla spalla. “Avresti voluto una vita diversa?” Domandò poi.
Camus si risollevò,
mettendosi dritto. “No, sono fiero di essere un Cavaliere.”
Ammise orgoglioso. “Il mio equilibrio, però, l’ho
trovato solo quando ho conosciuto te e la tua famiglia.” Gli
disse, guardandolo negli occhi.
“È una bellissima cosa, quella che hai detto.” Gli disse Nikolais, con un sorriso dolce.
“Non voglio essere
l’unico che ha avuto questa opportunità.”
Ribatté però il cavaliere, guardando negli occhi
l’uomo. “Lui non ce la farà se non ha qualcuno che
lo aiuta e tu puoi farlo.”
“Sono fiero di questa
tua fiducia in me.” Soggiunse Nikolais, stringendogli la spalla.
“Mi occuperò di Milo, stai tranquillo.” Gli promise
poi.
“Grazie.” Fece il ragazzo, prima di stringergli il braccio.
“Hey!”
Chiamò una voce giovane e arrabbiata. Si voltarono per vedere
Milo avvicinarsi a grandi passi alla tettoia. “Mi hai lasciato
nelle mani di Danae!” Protestò quindi.
“Hai chiesto tu se potevi dare una mano…” Replicò distrattamente Camus.
“Mi ha fatto lavare i
piatti!” Esclamò indignato l’apprendista cavaliere.
Camus e Nikolais ridacchiarono, mentre lui faceva un’espressione
offesa a braccia conserte.
“Milo, da
domani…” Gli annunciò poi l’uomo.
“…farai qualcosa di molto più
interessante…”
°°°°°
La biblioteca del Santuario
era sembrata a Milo, fin dal primo giorno, un luogo enorme, solenne e
tetro. I torreggianti scaffali ingombri di libri, gli infiniti rotoli
di antiche pergamene debitamente arrotolati e classificati, i vetusti,
titanici tomi impolverati che avevano l’aria di non essere stati
aperti dai tempi di Aristotele, continuavano a dargli
l’impressione di trovarsi in un posto fuori dal tempo, che viveva
di se stesso, senza legami col mondo di fuori.
Nikolais, però, con
l’andare dei giorni, aveva cominciato a fargli capire quanto in
realtà viva e importante fosse la biblioteca. C’era gente
che andava e veniva, chiedeva, che andava aiutata a trovare quel che
cercava. C’erano libri che uscivano ed entravano, che andavano
registrati, classificati, analizzati, restaurati, curati: i libri erano
vivi. Ed il lavoro poteva essere piuttosto impegnativo, specie se ti
sei alzato all’alba e fino a mezzogiorno ti hanno massacrato sul
campo di addestramento.
Per questo il custode, pur
nella sua severità, era a volte indulgente col giovane aiutante,
provato dallo sforzo. Sempre che non si addormentasse su
un’antica bibbia rinascimentale e la decorasse con la propria
saliva come stava facendo adesso. Nikolais incrociò le braccia
sul petto, continuando a fissare il ragazzo riverso sulla scrivania,
con la testa posata sulle soffici pagine in pergamena del prezioso
volume.
“Milo.” Lo
chiamò senza inflessione, lui non si mosse. “Milo.”
Alzò il volume e aggiunse un colpo di tosse. L’aspirante
cavaliere sobbalzò, raddrizzandosi sulla sedia.
“Sì?” Fece confuso, guardandosi intorno.
“Stavi sbavando sui
miei libri.” Gli disse il custode, accennando alla scrivania; lui
abbassò gli occhi sulla macchia più scura sulla carta e
arrossì. “Milo, sai che puoi riposarti quando vuoi, ma
vorrei che non lo facessi su una Bibbia del Cinquecento.”
Milo guardò il libro
e poi si strinse nelle spalle. “È solo
carta…” Mormorò per giustificarsi.
“Ne abbiamo
già parlato…” Replicò l’uomo, con tono
retorico e un po’ deluso. “Non è solo carta e
inchiostro, Milo, sono parole.”
Continuò con tono saggio e severo. “E le parole scritte
sono la cosa più importante che abbiamo, perché restano e
testimoniano che siamo esistiti.”
Milo osservò ancora
Nikolais, poi abbassò gli occhi rammaricato. “Io…
io non volevo, ma mi sono alzato alle quattro stamattina…”
L’uomo gli fece un
sorriso bonario. “Stai tranquillo, non è un danno
irrimediabile.” Lo rassicurò quindi. “Ma credo che
dovresti cominciare a leggere qualcosa.”
Il ragazzo spalancò
gli occhi allarmato. Non era mai stato un lettore appassionato e solo
l’idea di mettersi su uno di quei libroni che puzzavano di muffa
lo inorridiva.
“Ti darò qualcosa di adatto a te, prima che te ne vada.” Gli disse ancora l’uomo.
“E quando leggo? Non ho tempo…” Tentò il ragazzo.
“È la scusa di
chi non ha voglia di farlo.” Ribatté prontamente Nikolais,
Milo stava imparando che quell’uomo era implacabile.
“Troverai il tempo, un po’ alla volta, i libri non vanno a
male, possono durare secoli, è il loro vantaggio.”
“Ma…” Provò ancora Milo, alzando una mano.
“No.” Lo
bloccò subito l’altro. “Non capirai mai quanto
importanti siano le parole, se non lo impari da chi ha capito la vita
prima e meglio di te.” Aggiunse deciso. “Prima di uscire,
vieni da me.”
Milo rimase sorpreso. Non
si trattava di un tomo polveroso. Era un libro snello, quasi tascabile,
“narrativa per ragazzi” lo definì Nikolais. “Zanna bianca”
di Jack London. E lui lo lesse. Lo appassionò davvero tanto, con
le ambientazioni, le avventure, l’amicizia tra il protagonista ed
il cane-lupo. Ne parlò col custode, in lunghe discussioni e
appena lo finì ne pretese subito un altro.
Lui e Nikolais parlavano
sempre dei libri che il ragazzo leggeva. Sembrava quasi che
l’uomo lo facesse apposta, che si tenesse una mezz’ora,
alla fine del lavoro, per parlare con lui dei racconti, dei personaggi,
delle trame, per spiegargli punti che lui non aveva afferrato bene.
Milo si domandò se lo avesse fatto anche con i suoi figli e
Camus, prima di lui. Ad ogni modo, gli piaceva talmente tanto
approfondire le sue letture, che non ci volle molto prima che Nikolais
gli assegnasse testi più difficili e profondi e facesse di lui
un appassionato lettore.
Il lavoro in biblioteca, se
anche era cominciato come una punizione, si stava rivelando una delle
cose migliori capitate a Milo da quando era iniziato il suo
addestramento al Santuario. Anche perché, finalmente, qualcuno
stava nutrendo il suo spirito e non solo addestrando il suo corpo.
CONTINUA
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
human touch
Secondo
e ultimo capitolo di questa breve fic. Mi rendo conto che non sia
chissà quale capolavoro, però mi aspettavo qualche
commento in più, visto che l’avete letta in tanti…
Vabbè, la prossima volta m’impegnerò di più, ora vi lascio alla lettura.
Le canzoni usate
– senza alcun scopo di lucro – sono “Hungry
heart” di Bruce Springsteen e “Blood on blood” dei
Bon Jovi.
Capitolo 2
Everybody needs a place to rest
Everybody wants to have a home
Don't make no difference what nobody says
Ain't nobody like to be alone
Era un pomeriggio di
primavera limpido come solo in Grecia poteva essere. Camus si era
seduto su un gradone, all’ombra della cresta di roccia che
sovrastava la grande scala della biblioteca e si godeva la brezza
profumata di oleandri. Milo se lo trovò davanti mentre correva
giù.
“Hey!” Lo bloccò il cavaliere. “Dove vai di corsa?”
“Sono in ritardo per l’addestramento, non voglio essere punito di nuovo.” Rispose il ragazzo.
Camus si alzò
lentamente e si stirò, con le braccia in alto, assumendo una
posizione che lo faceva sembrare un arco teso.
“Sei
giustificato, mezza sega.” Gli disse, voltandosi con un sorriso
furbo. “Oggi, allenamento speciale con me.” Aggiunse.
“Oh, no.” Fece Milo scrollando il capo. “Non ti è bastato seppellirmi sotto ai libri?”
“Andiamo.”
Gli ordinò l’altro, ignorando la domanda. “Non ho
detto che ti farò sudare.”
“E allora,
cosa?” L’interrogò l’allievo, improvvisamente
interessato, mentre lo seguiva giù per le scale. Camus
ridacchiò.
“Hai fame?” Gli chiese, evitando ancora di dargli informazioni.
“Ho sempre fame…” Mormorò Milo abbacchiato. “…ma non ho un soldo…”
“Pensi che ce ne sia bisogno?” Fece Camus con tono cospirativo. Lui lo fissò perplesso.
Milo capì il
significato delle parole di Camus quando arrivarono al mercato del
villaggio. Quando il cavaliere chiedeva qualcosa, gli veniva data senza
chiedere pagamento e tutti lo riverivano, diventando improvvisamente
collaborativi e chiamandolo “venerabile”.
“Perché
fanno così?” Domandò Milo, quando, con la loro
scorta di focaccia, formaggio e frutta, si erano seduti su un muretto
all’ombra di una macchia di alberi.
“Perché sono un Cavaliere.” Rispose Camus, addentando un pezzo di pane.
“E questo basta
perché tutti ti lecchino i piedi?” Il tono era curioso,
mentre fissava l’amico e masticava il nuovo boccone.
“Beh, al
villaggio tutti sanno che i Cavalieri sono la massima autorità
del Santuario, dopo il Gran Sacerdote.” Spiegò Camus.
“Ed è sufficiente a chiamarti venerabile?” S’informò, pronunciando pomposamente l’ultima parola. Camus rise.
“Quello dipende dall’importanza che hai.” Rispose poi.
“Però, a
noi hanno spiegato che è tipo un segreto.” Affermò
Milo. “I Cavalieri non possono rivelare quale sia il loro grado,
la casta di appartenenza e la costellazione.”
“È
così.” Confermò l’altro annuendo. “Ma
ciò non toglie che si sa, non di preciso, non direttamente,
però si sa qual è l’importanza di certo
Cavaliere.”
“Quindi tu sei uno di quelli importanti…” Ipotizzò maliziosamente il ragazzo.
“A quanto pare.” Rispose vago il più grande.
“E non puoi proprio dirmelo?”
“Tu non sei un Cavaliere e, a dire il vero, se ne parla poco anche tra di noi.” Disse Camus.
“Ma tra poco lo diventerò!” Esclamò Milo.
“Quanta
fretta!” Sbottò l’altro. “Come minimo ti ci
vorranno ancora tre anni e poi… non è detto.”
“Pensi che non ce la farò?” La domanda del ragazzo risultò un po’ incerta, dubbiosa.
“Non l’ho
mai pensato di te, però…” Rispose gentilmente
Camus. “Le armature disponibili sono molte meno, rispetto agli
allievi in addestramento, sarà molto dura Milo, non te lo posso
negare.”
Il volto del ragazzo
si fece pensieroso, mentre fissava una fontanella di fronte a loro. I
suoi occhi chiari si persero tra la terra battuta della strada ed i
ciuffi d’erba rada e già secca.
“Ti hanno mandato in un posto molto brutto, per l’addestramento finale?” Gli chiese infine.
Camus
s’intenerì, ripensando a quanto era dura essere un bambino
solo e con nessuno che risponde a tutti quei dubbi. Lui avrebbe voluto
avere qualcuno che gli spiegasse com’era diventare un cavaliere.
Milo era fortunato, ora ce l’aveva. Alzò una mano e gliela
posò sul capo, in una carezza ruvida, lui guardò il suo
sorriso solidale con speranza.
“Orrendo.”
Confessò con leggerezza. “Gelato, inospitale e
ostile… e con un Maestro che era una vera merda, pace
all’animaccia sua.”
“E come hai
fatto a resistere?” Domandò accorato Milo. “Io odio
il freddo…” Aggiunse allarmato.
Camus
ridacchiò. “È stato proprio grazie al
freddo.” Raccontò quindi. “È diventato parte
di me, mi ha reso forte, più del mio Maestro ed un giorno
lui… non ha potuto colpirmi più.”
“Davvero?!” Fece allora il ragazzo, improvvisamente entusiasta.
“Sta tutto a
noi, Milo, alla nostra volontà ed a quanto siamo bravi a
richiamare il potere delle stelle.” Spiegò Camus.
“Io ero stato mandato là per un’armatura e sono
tornato con un’altra.”
“È possibile questo?” S’informò cauto il ragazzo, a lui avevano detto tutt’altro.
“Sono Loro che
ci scelgono, ricordalo.” Dichiarò il cavaliere. “Le
Armature Sacre hanno un’anima e sanno chi è più
degno di ricevere il loro potere.”
“Ci dicono tante
cose, alle lezioni e me ne ha dette anche Nikolais,
però…” Commentò Milo, sempre con espressione
assorta. “…sembrano sempre delle favole
assurde…”
Camus gli posò
una mano sulla spalla e strinse un po’, per attirare la sua
attenzione. Lui lo guardò. “Lo pensi perché sei un
ragazzo intelligente, i dubbi sono normali in chi ha cervello.”
Gli disse rassicurante. “Non rinunciare mai ai tuoi dubbi, ma
fidati del potere delle stelle.”
Milo sorrise. “Sto imparando a riconoscere la sensazione del cosmo.” Gli confessò poi.
“Bene.” Fece Camus colpito. “Molto bene.” Aggiunse orgoglioso.
“È strano, percepirlo.” Affermò Milo.
“Già.” Annuì l’altro. “Mai quanto lo sarà indossare un’Armatura.”
“Com’è?”
Domandò l’allievo, genuinamente curioso, sporgendosi verso
di lui. Camus sorrise storto, poi guardò il cielo.
“È puro
potere.” Dichiarò rapito. “È dolore e
piacere, adrenalina, ma soprattutto è completezza.”
Descrisse, sempre guardando in alto. “Quando l’ultima
cerniera si chiude sul tuo corpo e Lei si adatta a te, ecco, in quel
momento ti senti veramente completo.”
Milo lo osservava
colpito. Nessuno dei suoi maestri gli aveva mai parlato così
della propria armatura, eppure anche loro dovevano possederne una. Si
era sempre chiesto cosa si provasse con quelle corazze di metallo
addosso, specie quelle poche volte che gli era capitato di vedere un
guerriero portarla. Camus, però, ne parlava come se fosse una
cosa viva, quasi una persona e che la sensazione di indossarla fosse
un’esperienza stupenda. Forse valeva davvero la pena di tutta
quella fatica, se il risultato era così.
°°°°°
Elettra era seduta davanti a lui e lo fissava, apparentemente ignorando che la cameriera le aveva messo davanti il suo piatto.
Era raro che uscissero
a cena, prima di tutto perché alla ragazza non piaceva lasciare
Alexi e poi perché poteva essere piuttosto pericoloso incrociare
qualche scagnozzo del Gran Sacerdote. Restare nel centro di Atene,
però, limitava almeno questa seconda possibilità; non
erano molti, difatti, gli abitanti del Santuario ad uscire abitualmente
dalla cerchia del Tempio.
Tornando alla
situazione attuale, dunque, Camus era piuttosto a disagio sotto
l’indagatore sguardo turchese di Elettra. Che cavolo aveva da
fissarlo così? Gli era spuntato un brufolo?
“Che c’è?” Chiese infine scocciato il cavaliere, prima di affondare la forchetta nei suoi ravioli.
“Sei un po’ sparito, ultimamente.” Fece la ragazza, mangiando il primo boccone.
“Voi Niakros siete fissati con la mia presunta latitanza…” Commentò acido lui.
“Non è
quello, sei sempre stato misantropo.” Riprese Elettra tranquilla.
“Ma nelle ultime due settimane, ti sei fatto vedere solo un paio
volte, prima eri sempre da me, me ne chiedevo il motivo.”
Stavolta fu Camus a
fissarla. Il suo lungo orecchino con una goccia brillante
luccicò, quando lei scosse piano la testa bionda.
“Puoi dirmelo, se frequenti qualcuno…” Continuò Elettra, con tono casuale.
“Non frequento nessuno.” Rispose lui. “Non nel senso che credi tu.”
La ragazza alzò
gli occhi dal piatto e lo scrutò per un lungo attimo. Non le
piaceva sentir raccontare a Camus delle sue avventure galanti, era una
cosa che la infastidiva profondamente. Ma questo… questo
sembrava diverso e non per il sorriso divertito che era nato sulle
belle labbra dell’amico.
“No?” L’interrogò quindi, curiosa.
“Sai, l’addestramento?” Ribatté subito lui.
“So che lo odi.” Affermò compita la sacerdotessa, prendendo un altro raviolo.
“Beh,
però ho conosciuto questo ragazzino che…” Elettra
sollevò improvvisa gli occhi su di lui, stupita, con ancora la
forchetta tra le labbra. “Ora non farti venire idee strane, so
come lavora quella tua pazza testa!” Sbottò allora il
ragazzo. Lei deglutì e si pulì la bocca.
“Allora spiegami.” Lo incitò con un cenno del capo.
“È uno
degli allievi del corso superiore.” Spiegò Camus, con un
sorriso sghembo. “Ha veramente delle potenzialità, ma
è un bastardello con la lingua troppo pronta e la testa troppo
indipendente.”
“Mi ricorda qualcuno…” Commentò divertita la ragazza.
“Anche a
me.” Fece lui sorridendo. “Ho dovuto punirlo e l’ho
spedito a fare da assistente a tuo padre.” Aggiunse soddisfatto.
“Ah…”
Fu il commento sorpreso di Elettra, poi gli sorrise con furbizia.
“Quindi ti stai prendendo cura di lui…”
“Beh…”
Soffiò imbarazzato Camus, deviando lo sguardo. “So cosa
vuol dire essere soli, non avere nessuno a cui chiedere un consiglio, o
che ti conforti dopo una brutta giornata…” Elettra,
allora, gli sorrise con calore e dolcezza. “Volevo che avesse una
possibilità, come l’ho avuta io.”
La ragazza
allungò una mano e prese la sua. “A quanto sembra, anche
se si deve scavare un po’, sotto tutto quel ghiaccio siberiano,
anche il Signore delle Energie Fredde ha un cuore.”
“Smettila.” La pregò lui, alzando gli occhi al cielo.
“Sì, lo vedo! Basta grattare ancora un altro po’!” Insisté lei, troppo divertita.
Camus, però si
fece serio, girò la mano e strinse quella morbida e bianca di
Elettra, poi la guardò negli occhi con intensità.
“Lo sai che ho un cuore.” Le disse con tono profondo. “Meglio di tutti, lo sai.”
Lei gli sorrise.
“Certo che lo so.” Replicò tranquilla. “Sei il
mio Cavaliere, sarei persa senza di te.”
Camus sperò con
tutto se stesso che fosse vero, che lei non avesse detto questo anche a
lui, di essere rimasto sempre – e per sempre – il suo unico
cavaliere. Quello che l’avrebbe salvata davvero.
“Me lo fai conoscere?” Chiese la voce di Elettra, riportandolo alla realtà.
“Chi?” Fece lui confuso.
“Il tuo nuovo amico.” Rispose lei ovvia.
“Non credo proprio!” Sbottò Camus negando col capo.
“Perché?” Domandò la ragazza delusa.
“Ha visto una tua foto ed ha detto che non sembri vera.” Raccontò infastidito il cavaliere.
“Oh, ma che carino!” Esclamò estasiata Elettra. “Quanto è dolce.”
“Vedi?”
Soggiunse lui, indicandola con un gesto. “È bastato questo
ad innescare il tuo istinto materno, che farai quando vedrai il suo bel
faccino ed i suoi occhioni azzurri?”
“Per quanto io
sia lusingata dalla tua gelosia, Jean.” Replicò tranquilla
la ragazza, appoggiandosi alla spalliera imbottita della sedia.
“Quanti anni ha questo ragazzo? Undici, dodici?”
“Dodici.” Rispose vago Camus. Elettra sorrise retorica.
“Capisco tu
creda che la mia continenza sia innaturale, ma da qui a concupire un
dodicenne ce ne passa, Jean.” Affermò poi, sarcastica. Lui
sbuffò infastidito e lei rise.
“Scherzaci, ma diventerà bellissimo.” Biascicò il cavaliere.
“Ci crederò!” Rise ancora la ragazza.
“Quanto alla tua continenza…” Riprese Camus, con tono fintamente disinteressato.
“Hm?” Fece lei.
“Potresti
superarla facilmente…” Continuò lui, fissandola
negli occhi con uno sguardo più che eloquente. “…se
solo lo volessi.”
“Oh, ti
prego!” Glissò Elettra, ignorando il palese invito.
“Preferisco ordinare un dessert con molto cioccolato, dicono che
sia sostitutivo…”
Ecco, rimpiazzato da un Chocolate Fudge Cake*… E dire che le altre facevano la fila per lui…
°°°°°
L’allenamento
del mattino era appena finito e Camus aveva tutta l’intenzione di
portare Milo a mangiare la deliziosa zuppa di fagioli, funghi e
melanzane che facevano all’osteria del villaggio.
Si fermò fuori
dalla recinzione, osservando i ragazzi che si lavavano il viso nella
lunga fontana di pietra. Milo lo vide e lo salutò con la mano,
lui rispose allo stesso modo.
“Te lo stai
tirando su bene, il ragazzino, eh?” Fece una voce antipatica alla
sua sinistra. Camus si girò e vide la faccia di Death Mask
ghignare ad un passo dal suo viso.
“Fatti i cazzi tuoi.” Gli rispose, prima di tornare a guardare il campo.
“Oh, come siamo
permalosi!” Sbottò l’altro, con fastidioso
divertimento. “Volevo solo dirti che te lo sei scelto bene,
è carino ed ha un bel culetto…” Continuò,
lascivo. “Se te lo lavori bene, in un annetto te lo da.”
“Adesso
basta.” S’impose Camus interrompendolo; si era girato verso
di lui con sguardo minaccioso. “Stagli lontano, non è roba
per te.” Gli sibilò in faccia.
“Chi te lo
tocca!” Replicò lui, sempre con un sorrisetto irritante.
“Ho già fatto acquisti, io.”
“Non sono capi di bestiame, Mask.” Affermò serio Acquarius.
“Quanto siamo sensibili…” Commentò sarcastico. “Il pidocchio è capitato bene.”
Camus decise, per la
propria sanità mentale e la buona pace tra i cavalieri, che era
meglio ignorare la meschinità di Death Mask. Tanto più
che Milo si era avvicinato. Diede le spalle all’altro cavaliere e
si rivolse con sguardo serio all’allievo.
“Vieni Milo,
andiamo a mangiare.” Lo invitò, spingendolo delicatamente
avanti a se. Mask, nel frattempo, ridacchiava malignamente.
“Che vuole quello stronzo?” Domandò il ragazzo.
“Zitto!”
Gl’intimò Camus a bassa voce. “Stagli lontano e
tappati la bocca, non è la persona giusta per essere
arrogante.” Aggiunse serissimo.
“Quello è un sadico, sapessi cosa ci fa fare, quando dirige l’allenamento…” Disse Milo.
“Ascoltami.”
Proclamò Acquarius, fermandosi e prendendolo per le spalle, una
volta lontani da Mask. “Qualunque cosa succeda, ti prego, ti prego,
non metterti mai contro di lui, è troppo pericoloso.” Gli
disse, con un’espressione che non fece dubitare a Milo nemmeno
per un attimo che non dicesse la verità. Annuì convinto.
La zuppa era stata
veramente deliziosa, col formaggio filante ed il sapore delle spezie,
una delle cose più buone che Milo avesse mai mangiato. Del
resto, era abituato alla mensa degli allievi…
Camus, al ritorno,
aveva deciso di percorrere una strada diversa, all’interno del
bosco, lungo il crinale est. Era certamente più fresca, ma Milo
era preoccupato per il posto in cui passava.
“C’è il campo d’addestramento delle femmine, di qua.” Disse al cavaliere.
“Ah, sì?” Rispose lui con tono malizioso.
“Ehm… credo che sia abbastanza proibito…” Tentò ancora il ragazzo.
“Non per me!” Esclamò allegramente Camus.
“Ah, già, tu sei il venerabile Camus.” Commentò lugubre Milo.
“Eh, sì!” Gongolò l’altro.
“Ma io
no!” Sbottò il più giovane. “Mi faranno un
culo così, quando lo scopriranno!”
Camus si girò
verso di lui, con espressione rassicurante. “Non temere, sei con
me, so quello che faccio, non corri rischi.”
Milo, ancora poco
convinto, continuò a seguire l’amico, finché non
giunsero ad una radura dove era stato costruito un grande recinto in
legno. Due casupole di mattoni erano, invece, al limitare
dell’area. Le ragazze erano in pausa, infatti non ce ne erano
molte nei dintorni del recinto e tutte con la maschera
d’ordinanza.
I due ragazzi
passarono vicino ad un gruppetto. Loro salutarono il cavaliere con un
cenno del capo molto rispettoso e lui rispose con un sorrisetto
vomitevole – almeno secondo il giudizio di Milo. Quando le ebbero
sorpassate, quelle parlottarono tra di loro e risero come galline.
“Le ragazze sono veramente stupide.” Commentò Milo, quando furono quasi dall’altra parte.
“Oh, no, non dire così!” Esclamò deluso Camus.
“Insomma, cosa hanno da ridacchiare sempre e fare le cretine?” Insisté l’allievo.
“Datti tempo, un
anno o due, e le ragazze ti sembreranno improvvisamente molto
interessanti.” Gli rispose l’amico, mentre continuavano a
camminare.
“Ho i miei dubbi…”
“Aspetta che ti crescano i peli pubici e cambierai idea.” Fece Camus con un sorriso sghembo. Milo fece una smorfia.
“Sarà…”
Biascicò. “Tu perché hai sorriso in quel modo a
quelle tipe?” Chiese poi. Camus gli sorrise ammiccante.
“Beh, si gettano
degli ami, sai com’è…” Rispose poi, con
noncuranza. “…se uno vuol pescare…”
“Ma non eri fidanzato?” La domanda colse di sorpresa Camus, che guardò il ragazzo con la fronte aggrottata.
“Io? No davvero, sono libero come l’aria.” Affermò quindi.
“E Elettra?” Fece Milo, senza sapere cosa poteva causare quell’interrogativo.
Camus si fermò,
come colpito da qualcosa. Milo era dietro di lui e lo vide prendere un
lungo respiro, poi il cavaliere si voltò a capo basso e sedette
su un tronco.
“Non è la mia ragazza, Milo.” Dichiarò infine, senza guardarlo.
“Io credevo di sì, da come hai guardato la sua foto…” Replicò intimidito lui.
“È…
complicato.” Confessò Camus. “Lei aveva un
fidanzato, che è morto… ha molto sofferto per questo
e…” Tentò di spiegare.
“Ma sei innamorato di lei?”
Camus sollevò
di scatto il capo, con gli occhi spalancati. Era l’innocenza che
aveva involontariamente colpito dove faceva più male. Questo ragazzino è un chirurgo del dolore…
“Io…”
Provò Camus, ma poi cambiò discorso, abbassando di nuovo
il viso. “L’amore è un’illusione Milo. Passi
la vita a dirti che potrai amare solo lei, che è perfetta,
è quella che terrà insieme la tua vita, ma poi…
poi scopri che non è lo stesso per lei e allora puoi solo uscire
dal mondo dei sogni.”
Milo lo fissò
perplesso per qualche secondo, poi incrociò le braccia, fece una
smorfia un po’ sdegnata e scosse la testa.
“Senti, io non
mi sono mai innamorato, però…” Esordì con
tono goffamente saggio. “Se questo tizio è morto, non
capisco perché ti fai tutte queste paranoie.”
Camus scrollò le spalle sconsolato. “È complicato, te l’ho detto!” Commentò arreso.
“Cosa
c’è di complicato? Tu sei vivo, lei è viva,
l’altro è morto.” Ribatté pratico il ragazzo.
“Dovresti dirle che ti piace, al massimo ti manda a quel
paese.” Aggiunse con un’alzata di spalle.
“Tu non la conosci!” Sbottò il cavaliere. “Mi ha preferito un dolce al cioccolato!”
“Allora sei sfigato.” Sentenziò il ragazzino.
“Fanculo!”
Esclamò Camus con un sorriso allibito. “Mi sto facendo
dare consigli da un dodicenne che non s’è ancora mai fatto
una sega!”
“Beh, se sei sfigato mica è colpa mia!” Affermò compito Milo.
“Santi
Numi!” Borbottò Camus. “Andiamo, e spero che Mask ti
faccia un culo come una rosa, nell’allenamento del
pomeriggio!” Aggiunse esasperato, mentre spingeva un ridacchiante
Milo per la nuca.
°°°°°
Le ancelle erano
sempre le sue preferite. Il loro era un ruolo fondamentale, al
Santuario. Fornitrici da secoli di servizi indispensabili ai cavalieri.
E poi portavano quei pepli pieni di pieghe e panneggi, ma spesso sotto
non avevano niente…
“Scusa, ma non credo di ricordare il tuo nome.” Mormorò Camus alla ragazza spalmata su di lui.
“Non fa niente, mio signore, sono qui per servirti…” Rispose lei lasciva.
Il ragazzo sorrise e
spostò una gamba per farla aderire di più al proprio
corpo. Ecco un’altra cosa che adorava delle ancelle: non avevano
pretese e non facevano domande.
Questa era arrivata
una mezz’ora prima, probabilmente per le solite faccende nelle
stanze private di Acquarius, ma quando lo aveva visto uscire dal bagno
con addosso solo un asciugamano, il suo sguardo si era dimostrato molto
interessato a ben altro. E lui non era uno che sprecava le occasioni.
Le fece scendere le
spalline della tunica e percorse con le mani la sua schiena liscia e
magra, mentre lei gli leccava e baciava devotamente il collo. Camus si
lasciò sfuggire un sorrisetto storto, mentre le passava le mani
sul petto. Hm, tette piccole, quasi inesistenti, non molto il suo
genere. La ragazza affondò le mani dietro di lui, fino alle
natiche, sfilandogli l’asciugamano da sotto.
“Oh, mio
signore! Il tuo corpo merita tutta la mia devozione!”
Esalò la donna, prima di cominciare a lasciare una scia umida di
baci lungo il suo petto, l’addome, fino a parti molto
piacevoli…
Camus sorrise ancora,
furbo, poi si lasciò andare ad un sospiro di piacere, quando lei
cominciò ad usare la bocca non più per pronunciare
idiozie.
Ma fu in quel momento
che bussarono pesantemente alla sua porta. Il cavaliere roteò
gli occhi, infastidito, mentre la ragazza sollevava il viso dal suo
inguine e lo guardava interrogativa.
“Cosa c’è?” Sbottò scocciato Camus.
“Ti mandano a chiamare dal campo di addestramento, mio signore.” Riferì il ragazzo dietro la porta.
Camus sbuffò
esasperato. L’ancella era ancora stesa su di lui e non sembrava
minimamente intenzionata a mollare la presa sui suoi glutei marmorei.
“Ho già
fatto il mio dovere, oggi, togliti dai piedi!” Ordinò al
valletto. “E tu: continua…” Disse alla ragazza, a
bassa voce. Lei annuì entusiasta.
“Mi hanno detto
che è urgente, uno dei ragazzi sta male ed ha chiesto di
te.” Insisté però il ragazzo.
Quelle parole ebbero
il potere di scuotere Camus. Bloccò di nuovo l’ancella,
prima che tornasse alla sua ludica attività e si tirò
meglio a sedere sul letto.
“Milo?” Interrogò preoccupato.
“Sì, Venerabile Camus.” Rispose il valletto.
Il cavaliere non perse
tempo, scostò la giovane ancella e balzò giù dal
letto, in tutto il suo nudo splendore. Lei sospirò delusa. Lui,
nel frattempo, saltellava col sedere al vento cercando
d’infilarsi i calzoni di una tuta grigia, poi prese una maglietta
blu.
“Portami
lì.” Ordinò al valletto. Quello, poco più
che un bambino, si era incantato a fissare la ragazza seminuda distesa
sul letto che lo salutava con un sorriso ironico. “Imparerai
domani cosa sono un vero paio di tette.” Sbottò Camus
impaziente; il ragazzino sussultò e gli corse dietro.
La baracca in cui
dormivano gli allievi era una costruzione bassa e lunga, con una fila
di finestre dalle persiane sgangherate. Non era accogliente e nemmeno
calda d’inverno, ma le intemperie erano uno dei prezzi da pagare
se vuoi diventare un cavaliere.
Camus si
avvicinò prima alla casupola dei custodi, fuori dalla quale
aveva riconosciuto la figura severa di Shura, evidentemente il
cavaliere di turno.
“Ti ho fatto
chiamare solo perché so che ci tieni.” Gli disse subito
Capricorn, mentre lui non si soffermava, costringendolo a seguirlo
verso il dormitorio. “Non sarebbe la procedura…”
“Me ne sbatto!” Esclamò Camus, continuando a camminare. “Cosa è successo?” Chiese quindi.
“Oggi
l’allenamento è stato particolarmente duro, lo dirigeva
Death Mask…” Spiegò Shura con tono amaro. “Ho
una decina di ragazzini in infermeria, un paio… forse non ce la
fanno.”
“Merda.”
Imprecò Camus, soffermandosi un attimo nei pressi della baracca
grande. “Milo perché non è in infermeria?”
“Stava bene, quando sono arrivato io.” Rispose l’altro. “Poi gli è venuta la febbre.”
“Potrebbe avere un’emorragia interna, cazzo!” Gli sbottò in faccia Acquarius.
“Chi di noi non ne ha avuta una?” Replicò controllato Shura.
“Vaffanculo.” Ringhiò Camus, spalancando la porta ed entrando nel dormitorio.
Due file di vecchi
letti di legno con materassi imbottiti di foglie di granturco erano
disposti lungo le pareti, divisi ogni tanto da qualche tenda
improvvisata. Le cassapanche maltrattate dal tempo e qualche sedia di
paglia erano tutto il resto dell’arredamento. In fondo, un arco
conduceva alle latrine, l’unico modo in cui si potevano chiamare
quegli orridi gabinetti.
Circa a metà
della parte di sinistra c’era il letto di Milo. Il ragazzo era
steso supino e respirava male. L’unica luce era una candela
consumata sul traballante comodino.
Camus si sedette sul
bordo del letto ed osservò l’allievo. Aveva il volto
tumefatto: un grosso, brutto livido prendeva tutto l’occhio
destro e lo zigomo, le labbra spaccate, l’altro occhio gonfio e
rosso, il naso incrostato di sangue. Anche le mani, sopra la coperta,
erano piene di escoriazioni. E poi… il respiro era affannoso e
rantolante. Gli posò pianissimo una mano sulla fronte, scottava.
“Milo.” Lo chiamò delicatamente.
Lui aprì lentamente l’occhio più sano e gli sorrise appena. “Camus…”
“Shh, va tutto
bene, ci penso io.” Lo rassicurò il più grande,
prima di stringergli una mano nella propria; quindi prese un lungo
respiro e si alzò, diretto verso Shura.
Lo trascinò lontano dal letto del ragazzo, in un angolo e lo guardò negli occhi risoluto.
“Chiedo la procedura speciale, per Milo.” Gli disse.
“Non te lo
affideranno mai, sei un Gold Saint e non sai quale
missione…” Ribatté l’altro; lui lo prese per
un braccio, interrompendolo.
“A me no, ma
conosco qualcuno a cui non lo negheranno.” Affermò sicuro.
“E ora lo porto via con me.” Aggiunse e, senza ascoltare
repliche, tornò verso il letto di Milo.
°°°°°
Era quasi
l’alba. Camus si appoggiava inquieto al muretto delle scale,
mentre Nikolais era in piedi, a qualche passo da lui, con le braccia
incrociate. La porta della camera si socchiuse ed entrambi si voltarono
di scatto in quella direzione.
Un giovane dai corti
capelli biondi uscì nel corridoio, il bel viso contratto in una
smorfia seria. Sospirò e posò la propria borsa
professionale sulla consolle di legno scuro alla sua destra.
“Come sta?” Domando preoccupato Camus, mettendosi in piedi. Nikolais gli si era avvicinato.
“Quando la
smetterete con tutto questo schifo?” Replicò invece il
medico. Il ragazzo si ritrasse colpito. “C’è
qualcosa per cui valga veramente la pena di ridurre così un
bambino?”
“Ci… ci
siamo passati tutti… e siamo qui.” Fu l’unica cosa
che riuscì a balbettare il cavaliere.
“Pensa a tutti quelli che invece non ci sono, Jean.” Dichiarò l’altro.
“Aristoteles…” Lo bloccò Nikolais, con tono severo.
“Padre.”
Fece lui, rivoltò all’uomo. “Quel ragazzino è
ridotto male, non ha un’emorragia interna per puro miracolo, ha
almeno cinque costole rotte!” Sbottò contrariato.
“Una spalla lussata, così come il polso destro e
l’occhio… andrà bene se ci vedrà
ancora.”
Camus chinò il
capo sentendosi terribilmente colpevole. Era difficile che lui si
sentisse inferiore a qualcuno, ma Ari aveva dieci anni più di
lui, era un chirurgo ed aveva scelto volontariamente di lasciarsi alle
spalle la vita del Santuario. Una scelta coraggiosa che lui gli aveva
sempre ammirato. E poi, somigliava così tanto a Elettra.
“Sono pratiche
incivili anche per un posto come questo…” Continuò
il medico; Camus, finalmente, stava per rispondergli per le rime, ma
intervenne Nikolais.
“Adesso basta,
Ari.” Disse al figlio. “Hai infierito abbastanza, lascialo
andare dal suo amico.” Aggiunse, indicando il cavaliere con un
cenno. Aristoteles prese un lungo respiro.
“Vai, ma non
farlo stancare.” Incitò poi, con un gesto distratto. Camus
si diresse subito alla porta di quella che era stata la sua stanza.
“Io devo fare delle prescrizioni…”
“Andiamo di sotto.” Suggerì il padre e scesero insieme le scale.
Poco dopo, seduti al
tavolo della cucina, Nikolais ed il figlio stavano in silenzio, mentre
quest’ultimo scriveva le prescrizioni per curare Milo.
L’unico rumore erano le stoviglie che Danae usava già per
preparare la colazione.
“Sei stato duro
con lui, Ari, non è colpa sua.” Esordì
l’uomo, osservando il figlio scrivere le ricette con la sua
grafia orrenda da dottore.
“Non mi è mai piaciuto quello che succede qui, lo sai.” Ribatté l’altro, senza alzare il capo.
“Infatti non ti
ho mai impedito di andartene.” Gli ricordò il padre. Lui
smise di scrivere e buttò la penna con un sospiro esasperato.
“Quello che non
capisco è perché voi non ve ne andate.”
Sbottò quindi, guardando negli occhi Nikolais; lui rimase calmo.
“Noi non possiamo.” Affermò ineluttabile il custode della biblioteca.
“Oh, adesso non
venirmi a fare i soliti discorsi sul destino, la chiamata degli dei e
la difesa della giustizia! Li ho già sentiti!”
Esclamò battendo la mano sul tavolo, cosa che fece sobbalzare
Danae. “A che cosa sono serviti, eh?”
“Aristoteles…” Cercò di bloccarlo Nikolais.
“Guarda Jean, te
lo ricordi quando è arrivato qui? Era solo un bambino innocente
e adesso? È una macchina di morte, solo gli dei sanno cosa
è capace di fare.” Dichiarò implacabile. “E
quel bambino di sopra? Poteva morire stanotte… E mia sorella? Ha
soltanto vent’anni ed ha già visto il peggio della vita e
solo perché lo ha voluto un fantomatico Destino…”
“Oh, Santi Numi,
che discorsi!” Borbottò scandalizzata Danae, girandosi
verso i fornelli. “Io faccio di tutto, ma in questa casa crescono
dei selvaggi!”
“Non venirmi a
dire che devono accettarlo perché è il filo tessuto dalle
Moire…” Soffiò infine, adagiandosi contro lo
schienale di legno della sedia.
“Non te lo
dirò, perché so che soffriranno.” Gli disse serio
il padre. “Ed è proprio per questo che non posso lasciarli
soli.”
Ari sospirò
scuotendo il capo. “È che sono in pensiero per voi, per
te, Elettra e anche Jean.” Ammise infine, ad occhi bassi.
“Al Santuario sta… sta succedendo qualcosa e
m’inquieta il fatto di rendermene conto, ho sempre questa
sensazione di oppressione…”
Il padre si
allungò sul tavolo e gli prese la mano, si guardarono negli
occhi. “Non puoi farci niente, è parte di te, sei nato qui
e saresti potuto…”
“Ti prego, evita
di dirmi cosa sarei potuto diventare restando.” Lo interruppe il
figlio. “La mia vita mi va bene così com’è,
vorrei solo sapervi al sicuro.”
Nikolais gli strinse
di più la mano. “Farò di tutto perché sia
così.” Gli garantì poi.
“Credi a tuo
padre, figliolo.” Lo implorò Danae; lui la guardò e
le fece un piccolo sorriso tirato, poi tornò a rivolgersi a
Nikolais.
“Mi hanno
offerto un posto in un ospedale di Salonicco, è una struttura
prestigiosa e… la famiglia di Toula vive lì.”
Confessò poi, il padre annuì. “Vogliamo avere un
bambino e lei si sentirebbe più sicura ad avere i suoi
vicino.”
“Capisco.” Fece l’uomo. “I desideri di tua moglie sono importanti, Ari, come i tuoi.”
“Io…” Replicò lui, abbassando di nuovo gli occhi. “…ho bisogno di cambiare.”
“Fai la scelta
che ritieni migliore per te e la tua famiglia, Aristoteles.” Gli
disse il padre. “Ma devi sapere che Elettra resterà a
combattere fino alla fine.”
“Se dovesse
avere bisogno di me, io ci sarò.” Garantì il
figlio, guardando Nikolais dritto negli occhi. Lui gli diede
un’ultima stretta di mano, poi fece un sorriso amaro.
“Era quello che volevo sentirti dire.” Dichiarò quindi, con sguardo orgoglioso.
°°°°°
“Camus…” Lo chiamò una vocina stentata, destandolo dal dormiveglia sulla scomoda poltrona.
Lui sbadigliò e
si passò una mano sul viso, poi guardò verso il letto e
vide gli occhi chiari – l’occhio – di Milo osservarlo
smarriti.
“Hey!”
Salutò a bassa voce, cercando di essere allegro, quindi si
spostò sul bordo del letto. “Ti sei fatto pestare
veramente bene, stavolta, scommetto che non hai tenuto chiusa la
bocca.”
Il ragazzo fece un
sorriso amaro, per quando gli permettevano le labbra spaccate e
doloranti; si guardò poi intorno, nella penombra che
attraversava la persiana socchiusa. Non sembrava un’infermeria.
Il letto era molto più comodo del suo e le lenzuola profumavano
di bucato.
“Che posto è questo?” Domandò al cavaliere con un certo sforzo.
“Sei a casa di Nikolais, questa era camera mia.” Gli rispose Camus.
Milo osservò
ancora la stanza. Era piccola e rettangolare, c’era un armadio
dipinto di chiaro, vicino alla porta. Le pareti azzurrine erano
interrotte ad una certa altezza da una greca blu. C’era una
scrivania con una sedia di paglia e una libreria scura piena di volumi.
“Che cosa ci faccio qui?” Chiese allora.
“Beh, d’ora in poi starai qui, ci vivrai.” Gli spiegò l’altro.
“Ma è possibile?” Replicò sorpreso il ragazzo.
“È stato
possibile per me e lo sarà per te.” Lo rassicurò
Camus, mentre gli scostava i capelli dalla fronte. Bene, non aveva
più la febbre.
“Io… non so se…” Balbettò Milo, abbassando gli occhi. Camus contrasse la mascella.
“Non domandarti
se te lo meriti, Milo.” Gli disse poi, duro. “E non
chiederti se lo meriterebbero di più altri, è la vita che
ci costringono a fare che esige un po’ di egoismo, quindi non
farti domande, come non me ne sono fatte io, ringrazia la fortuna e
goditelo.”
Milo rifletté
qualche istante in silenzio, senza guardare l’amico. Si era
già chiesto perché Camus stesse facendo tanto per lui. Il
cavaliere, però, non sembrava interessato a quelle cose di cui
parlavano i suoi compagni, facendo risolini allusivi. Sembrava volerlo
aiutare davvero. Ma lui era grande, ormai, e sei anni di baracche e
stracci non te li dimentichi solo perché non devi più
usare le latrine del dormitorio. Sapeva che non avrebbe mai smesso di
pensare a chi stava peggio.
“Come ti senti, ora?” Gli chiese Camus, tornando ad un tono più delicato.
“Insomma…
mi fa male tutto…” Rispose stentato Milo. “Il
dottore è stato un po’ brusco, ma gentile.” Aggiunse
con un timido sorriso.
“È il fratello di Elettra.” Affermò il cavaliere.
“Sembrava arrabbiato.” Constatò il ragazzo. “Ma non con me…”
“Non gli piace
molto quello che facciamo qui.” Dichiarò Camus a capo
chino. “Ma è una brava persona, col suo aiuto ti
rimetterai presto.”
Milo, a quel punto,
afferrò saldamente una mano dell’amico, costringendolo a
guardare il suo viso tumefatto. Aveva un’espressione seria,
troppo adulta.
“Perché hai scelto me? Che cosa vuoi da me?” Gli chiese con intensità.
Camus lo fissò
per un lungo istante, poi abbassò di nuovo gli occhi, si
alzò dal bordo del letto e raggiunse la finestra. Il cielo
cominciava a schiarirsi, una lunga notte finiva.
“Non… non
voglio niente da te.” Affermò infine il cavaliere,
guardando fuori. “Tu mi ricordi un po’ come ero io alla tua
età e so quanto sia difficile affrontare
l’addestramento… e quanto si è soli nel
farlo.” Continuò pacato, nonostante l’emozione che
provava. “Non è giusto essere soli, c’è
troppa violenza e troppo dolore, e troppa responsabilità dopo,
per essere lasciati ad affrontarla in solitudine.” Le sue parole
suonavano rassegnate, come di chi sa di cosa sta parlando. “La
famiglia di Nikolais mi ha aiutato, mi ha sostenuto, non sono stato
solo.”
Milo cercò di
sollevarsi un pochino, contro i cuscini, non ci riuscì bene,
rimase appoggiato su un gomito, reggendosi le costole doloranti. Aveva
capito quello che gli voleva dire Camus: nessuno può crescere
bene senza degli affetti veri, qualcuno che si occupi di te, anche
quando ti addestrano per diventare un imbattibile guerriero. Capire il
significato dei gesti del cavaliere quasi lo commosse, ma non voleva
mostrarsi debole.
“Che cavolo fai?!” Esclamò Camus, quando, voltandosi, lo vide sollevato. “Stenditi subito!”
Milo avrebbe voluto
ridere, ma gli uscì solo un rantolo strozzato, mentre si
sdraiava di nuovo sul materasso, aiutato dall’amico.
“Non vuoi proprio che diventi come Death Mask, eh?” Domandò divertito il ragazzo.
“Provaci e ti staccherò la testa personalmente!” Rispose Camus, aggiustandogli le coperte.
“Grazie,
davvero, di tutto…” Mormorò allora Milo, con voce
flebile e stanca. “Non saprò mai come sdebitarmi.”
Aggiunse, con un sorriso debole.
“Per quanto mi
riguarda, non hai alcun debito con me.” Replicò sicuro il
cavaliere, lui gli sorrise di nuovo. “Adesso riposati, Milo, da
domani andrà tutto meglio.”
L’aspirante
cavaliere si addormentò poco dopo, mentre l’alba schiariva
le brulle colline del Santuario di Atena. Sognò una donna
bellissima, che gli porgeva il suo medaglione sorridendo. E, anche se
le ossa facevano tutte male, gli sembrò un buon segno per il
futuro.
°°°°°°
Through the years and miles between us
It’s been a long and lonely ride
But if I got that call in the dead of the night
I'd be right by your side
Atene, tre anni dopo
La grande scalinata
bianca bagnata dal sole si arrampicava tra le pietre in direzione del
tredicesimo tempio. Milo guardò l’imponente costruzione
adombrare il piazzale antistante e solo una figura restare immobile
nello spicchio di sole accanto alle grandi statue di marmo.
I larghi copri spalle
d’oro dalla curva flessuosa trattenevano un mantello di seta
bianca, le braccia erano incrociate sul petto ed un sorrisetto beffardo
gl’incurvava le labbra. Era una faccia da schiaffi che non
avrebbe confuso con nessun altra, seppure rivestita d’oro.
Il ragazzo si
fermò a qualche gradino di distanza e guardò
l’altro cavaliere dal basso in alto, sorridendo furbo. Si
scambiarono uno sguardo d’intesa, poi il più giovane
ammirò l’armatura dell’altro, dandogli una lunga
occhiata.
“Hm, e così adesso sono degno di vedertela addosso.” Commentò infine.
“Ora sei un Cavaliere anche tu.” Replicò l’altro.
Milo salì i
gradini che lo separavano dall’amico e si fermò davanti a
lui. Camus lo guardò perplesso, alzando un sopracciglio.
“È bella la tua armatura.” Affermò poi. “Non come la mia…” Aggiunse beffardo.
“Hey!”
Sbottò indignato Milo, che aveva già sviluppato una
discreta venerazione per le vestigia dello Scorpione. “La mia
armatura è stupenda!”
“Humpf, carina,
sì… mi piace l’elmo, originale…”
Ribatté distratto Camus, sorridendo sotto i baffi, quindi
guardò negli occhi l’amico. “Come stai?” Gli
chiese sincero.
“Bene, sono qui.” Rispose Milo, allargando le braccia.
“È stata dura?” Fece ancora l’altro.
“Di
più.” Rispose soltanto il giovane cavaliere e non
c’era bisogno di essere più espliciti con chi ci era
passato prima di lui.
Camus, infatti, gli
sorrise solidale, dandogli una pacca sulla parte di braccio libera, tra
il bracciale ed il copri spalle. Poi lo studiò di nuovo.
“Non starai diventando troppo alto?” Gli domandò, mentre lo scrutava.
“Hai paura che ti raggiunga?” Rispose impertinente Milo, Camus arricciò il naso.
“Sempre la solita linguaccia, eh?” Commentò poi, divertito.
“C’è chi l’apprezza…” Replicò enigmatico il ragazzo.
“Ah, ma non dirmi che stiamo parlando di femmine…”
“Me lo hai detto
tu che avrei cambiato idea…” Sottolineò Milo con
furbizia. Camus rise e lo prese per le spalle, facendo cozzare le loro
armature.
“Con questa
faccia da stronzetto, le donne non ti daranno pace!”
Scherzò Acquarius, ridendo ancora, ora insieme all’amico.
“Stai andando a presentarti al Gran Sacerdote?” Gli chiese
poi.
“Sì.”
Annuì l’altro cavaliere. “A tal proposito…
non dovresti chiamarmi Venerabile Milo?”
Camus lo guardò
seriamente, aggrottando la fronte. “Scordatelo.”
Negò poi, con tono solenne. “Sono un tuo pari – e tu
sei sempre un pivello – non ti devo nessun titolo!”
“Sei uno stronzo!” Esclamò Milo, prima di scoppiare di nuovo a ridere.
Le loro risate si
persero nel grande spazio vuoto e straniante del colonnato, mentre la
tramontana smuoveva i loro mantelli. Camus guardò Milo, poi gli
posò una mano sulla spalla coperta dalla pesante protezione
dorata.
“Sono felice che
tu ce l’abbia fatta, c’è bisogno di persone come te
qui.” Disse il cavaliere di Acquarius all’altro, con tono
orgoglioso.
“Se tu non mi avessi aiutato, forse non ci sarei.” Replicò sereno Milo.
“Non ci
giurerei, fossi in te, sei il migliore che mi sia capitato sotto gli
occhi.” Dichiarò Camus; Milo sorrise storto, ma lusingato.
“Grazie, di tutto, comunque.” Affermò quindi, stringendo a sua volta la spalla dell’amico.
“Dai,
adesso.” Lo spronò allora l’altro, mentre gli dava
una piccola spinta. “Vai a fare il tuo dovere, poi ti offro da
bere.”
“Ehm…” Fece Milo incerto, prima di andarsene. “…io sarei ancora minorenne…”
“E a chi interessa? Hai un’armatura d’oro adesso!” Sbottò incurante Camus; risero ancora.
“Grazie
ancora.” Ripeté Milo, camminando all’indietro verso
l’entrata del tempio. Acquarius gli sorrise con sincero affetto.
“Vai.” Lo incitò. “Io ti aspetto qui, fratello.”
Milo gli sorrise
riconoscente, poi si voltò e scomparve nell’ombra
dell’entrata, consapevole che, nelle incognite che la sua nuova
vita gli riservava, avrebbe avuto almeno la certezza di un amico vero.
FINE
Nota:
*non so se lo avete
mai assaggiato, ma si tratta di una delle cose più lussuriose
che si possano mangiare, stretto parente dei brownies, di solito viene
servito caldo accompagnato da gelato alla vaniglia. Io sceglierei
sempre il dolce, e questo la dice lunga di come son messa con gli
uomini…
Non vi
implorerò per un commento, ma mi farebbe piacere, ecco, tutto
qui. Grazie in anticipo anche a chi ha soltanto letto.
See you soon!
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