LA LUPA

di lalla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Lupa Parte Prima ***
Capitolo 2: *** La Lupa Parte Seconda ***
Capitolo 3: *** La Lupa Parte Terza ***



Capitolo 1
*** La Lupa Parte Prima ***


LA LUPA

L’ immagine che ci hanno tramandato di lei

 è quella d’un mostro di depravazione.

E se fosse stata una vittima?

 

 

 

LA LUPA

 

 

 

 

 

 

 

Il grido sinistro della civetta le raggelò il sangue dentro le vene. Le avevano detto che qualcuno sarebbe morto, se la civetta si fosse posata sul tetto della casa, e quel grido a un tempo sinistro e monotono era così vicino…Gli Immortali si sarebbero portati via qualcuno che le era caro: suo padre, forse. O sua madre. O magari Canidia, la vecchia serva che sapeva raccontarle le favole e la faceva ridere, quando si disperava perché non riusciva ad acchiapparla e allora si mollava delle gran pacche sulle cosce con le sue mani nodose e alzava al cielo, invocando tutti i numi della sua terra, gli occhi cisposi, venati di rosso. O sarebbe toccato a qualcuno dei suoi fratelli. O forse a lei. Sono brutti tempi, diceva spesso suo padre. Gran brutti tempi. La campagna è più sicura della città. Ma in città le civette non si posano sui tetti delle case.

Si svegliò di soprassalto, madida di sudore ghiacciato.

-Era filia…Che succede?

Aspasia, la sua nutrice greca, dormiva con un occhio aperto e l’altro chiuso, come i bianchi mastini dei pastori addestrati a tenere i lupi alla larga dal gregge.Grassa com’era, rotolò dal giaciglio ai piedi del suo lettino e se la strinse al seno, accarezzandole piano i capelli.

-La civetta, Aspasia…

-Non è niente, era filia. Canidia ti ha messo ancora paura con le sue fole? Sarebbe ora che imparasse a tenere a freno la lingua, quel vecchio scheletro. Adesso dormi.

Attraverso la finestra, aldilà delle colline il cielo nero appariva spruzzato di stelle e la notte era fragrante del profumo dei gelsomini e della menta. La civetta aveva smesso di lamentarsi e solo l’ululato lontano dei lupi infrangeva quel silenzio quieto. Ma lei non aveva mai avuto paura dei lupi. Del lamento della civetta invece sì. E delle parole oscure di suo padre, che li aveva portati via da Roma tutti quanti perché in campagna sarebbero stati al sicuro. Al sicuro da che cosa? Da un vecchio a cui la follia aveva ottenebrato la mente, non certo da un grazioso uccello notturno con le piume morbide e gli occhi rotondi, reo solo di portarsi appresso una gran brutta voce, stridula e lamentosa. La voce della morte. Morte. Morte. Thanatos.

 

 

*

 

-E’ per Valeria.

Qualcosa si agitava sotto il telo, nella canestra che Maccio, il pastore reggeva con le braccia nodose.

-Potrai giocarci, finché è cucciolo. Poi, quando sarà cresciuto, anche lui  dovrà guadagnarsi  il suo pane badando alle pecore.

Era un buffo cagnetto striato, con un orecchio su e l’altro giù, e le lambiva le mani, dimenando la coda come un ossesso.

-Potrei tenerlo con me…per sempre?

Il pastore scosse la grossa testa irsuta come il vello delle sue pecore.

-Guardalo negli occhi, domina, e dimmi che cosa vedi.

-Vedo che ha gli occhi verdi.

-E’ segno che nelle sue vene scorre sangue di lupo. Diventerà grosso e feroce, non sarà adatto a condividere i giochi di una bambina.

Valeria avrebbe voluto piangere, come quando la rimproveravano perché aveva sempre le unghie nere e le ginocchia sbucciate, e perché le piaceva  montare a cavallo e giocare alla guerra, come se fosse stata un maschio. Sarebbe stato doloroso, separarsi da quel cucciolo, una volta che fosse cresciuto. Era talmente carino: sembrava impossibile che quel che le aveva detto Maccio fosse vero.

-L’hanno trovato in una tana di lupi.Le lupe cercano spesso i cani. E quello che nasce, delle due l’una, o è un ottimo guardiano, oppure un cane pazzo e allora bisogna ucciderlo.

Valeria scosse la testolina arruffata e si morse la bocca per non piangere.

-Non permetterò che gli facciano del male.

-Nessuno vuole fargli del male, domina. Ma la vita è cattiva, e finirai con l’impararlo a tue spese.

Anche suo padre lo diceva spesso, e nel dirlo teneva gli occhi a terra, come il vecchio Maccio. La vita è cattiva. Proprio per quello si era trasferito in campagna con tutta la sua famiglia, in attesa di tempi migliori. La vita è cattiva. Cattiva come me, quando disobbedisco o rifiuto di mangiare il cibo che non mi piace. E’ cattiva come un bambino capriccioso o, peggio, cattiva come il lupo quando sbrana l’agnello, come il beccaio quando sgozza il maiale, come le guardie dell’Imperatore quando ti cercano dove ti credevi al sicuro per portarti la morte.

-Spiegami, Maccio.

-Io non sono che un servo ignorante, domina. Chiedi a tuo padre o a tua madre, e loro ti sapranno rispondere. O sarà la vita stessa ad insegnartelo, come succede  a tutti.

 

*

 

-Hai il naso graffiato, Valeria. E le unghie nere, e la tunica sudicia. In più, mi porti in casa quel sacco di pulci senza neppure domandarmi il permesso.

Domizia non avrebbe trovato il tempo o la voglia per rispondere alle sue domande sciocche. Quella figlia che, a quasi dieci anni, continuava a comportarsi come un maschiaccio era il suo cruccio. Era scura di capelli e di carnagione e ancora non si capiva se sarebbe diventata bella o brutta.

Quanti anni ha? Nove, già, quasi dieci, il tempo passa. Pochi mesi ancora, e le sarebbero sbocciati i seni. Pochi mesi ancora, e avrebbe iniziato a sanguinare.Le altre ragazzine amavano starsene quiete in un angolo, a filare e ad ascoltare storie. Lei aveva l’argento vivo addosso e sembrava che soltanto gli sproloqui sugli spettri  della vecchia Canidia avessero il potere di interessarla. Non le piaceva neppure camuffarsi con gli abiti di sua madre, provare  i suoi gioielli e bistrarsi di nascosto gli occhi per vedere come sarebbe stata da grande.

-Quel maledetto cane.Domani lo restituirai a chi te l’ha dato. E incomincerai a comportarti da signora, che tu lo voglia o no: sei la figlia di Valerio Messalla Barbato, nelle tue vene scorre il sangue di Giulio Cesare. Tra qualche anno ti sposerai, e non con uno qualsiasi. Quel momento verrà prima di quanto pensi, e devi essere pronta.

 

*

 

-Non voglio crescere mai.

-Non provocare gli Immortali, bambina.

Gli Immortali non amano gli uomini che hanno osato mischiare il  loro sangue  vile con quello degli Dei. Ma quando Canidia apriva bocca per parlare tutti quanti, padroni e servi, le dicevano vecchia strega, scheletro, uccello del malaugurio e oracolo di sventure. Solo Valeria l’ascoltava con gli occhi sgranati, bevendosi ognuna delle sue parole.

Non provocare gli Immortali. Nelle tue vene scorre un po’ del loro sangue, tuo padre discende in linea diretta da Ottaviano Augusto, il primo Imperatore. E se è vero che Ottaviano era nipote di Giulio Cesare, che a sua volta discendeva da Iulo, figlio di Enea…Beh, nelle tue vene scorre un po’ del sangue di Venere e di Marte, bambina mia. Non era forse Venere la madre di Enea? E Marte non concepì con Rea Silvia i gemelli? Che cosa c’è di male ad avere dentro le vene il sangue degli Dei? Nulla di cui non andare orgogliosi, a sentire sua madre…Eppure il labbro pendulo della vecchia serva tremava, come se le costasse fatica trattenere il pianto, o un urlo di terrore, come quando asseriva di vedere gli spettri.

-Non so se crederti, Canidia.

-Vorrei che tutto questo non fosse vero, bambina mia. Tu non sai quanto. Ma non dirlo a nessuno.

Valeria sapeva mantenere i segreti. Nessuno avrebbe riso ancora di Canidia o le avrebbe detto vecchio scheletro e uccello del malaugurio, ingiungendole di tacere.

-La mamma ha detto che tra qualche anno mi sposerò…

-E’ normale, figlia. E’ il destino di tutte quante le donne.Sarai la moglie di un uomo nobile e ricco, tutti ti rispetteranno e ti onoreranno. Avrai stuoli di servi, belle case, e gioielli, e…

-E l’amore, Canidia?

-Che ne sai, tu, bambina, dell’amore?

La vecchia strabuzzò gli occhi rossi. Chi poteva aver messo in testa cose di quel genere alla sua piccolina? L’amore. Lascialo dov’è, non chiamarlo, non cercarlo, e non soffrirai. Qualche anno ancora, e Valeria sarebbe andata sposa. L’avrebbero data a chi volevano loro, Messalla e Domizia, alla stessa maniera di una schiava che si compra e si vende. Forse avrebbe messo al mondo i figli di un principe e si sarebbe fregiata del titolo di Augusta. Avrebbe avuto tutto, e non avrebbe avuto niente.

-Quando mi sposerò, tu verrai a stare con me, racconterai le favole ai miei bambini e nessuno ti dirà taci vecchio scheletro.Mia madre dice che sposerò un uomo ricco e potente, forse un principe e allora nessuno oserà mancarti di rispetto, perché altrimenti...Perché altrimenti lo farei dare in pasto ai leoni.

Il visetto tondo di Valeria era diventato quello secco e grinzoso  di una vecchia, sangue il succo delle more selvatiche che le imbrattava le labbra. Gli occhi si erano stretti in due fessure, come a un cucciolo colto in atteggiamento minaccioso. E la mano secca della serva le aveva scarruffato i riccioli scuri.

 -Quando ti sposerai, la vecchia Canidia sarà nei Campi Elisi già da un bel pezzo, bambina. Ma intanto continua a sognare sogni che non fanno male, finché puoi.

 

*

 

Seppellirono Canidia qualche giorno dopo che Tiberio aveva liberato il mondo dalla sua presenza e Valerio Messalla Barbato dalle sue paure. E’ piccola, povera, vecchia, cara Canidia. Si ritrovò a pensare Valeria. Piccola quasi come la mia bambola. Si diventa più piccoli, da morti, tutti quanti, uomini e bestie.Mi mancherà, con i suoi sproloqui e il suo odore di stantio;mi mancherà come questi prati. Come il mio cavallino. A Roma non avrò un cavallo. Le vere signore si spostano in lettiga, dice mia madre, ed è ora che io lo diventi. Le vere signore non giocano con i cani pulciosi dei pastori e con i loro figli vestiti di stracci. Le vere signore non credono alle favole delle vecchie serve. E lanciò un’ultima occhiata agli schiavi che stavano seppellendo a fior di terra il  cadavere, prima di salire sul carro che l’avrebbe riportata a Roma.

 

*

 

Tiberio, il tiranno, era morto nel sonno a Capri, dove già da tempo si era ritirato nella speranza di sfuggire ai suoi fantasmi. Era stato un uomo giusto, in gioventù, ma il potere e il sangue corrompono. E avevano corrotto anche lui. Forse aveva ragione la vecchia Canidia, quando diceva che gli dei non amano coloro che hanno osato mischiare il loro sangue vile a quello degli Immortali. Chissà se aveva cantato anche per lui, la civetta, si ritrovò a pensare Valeria. La civetta canta la morte per gli schiavi e per gli imperatori, diceva Canidia, quando ancora era viva.

A dodici anni,Valeria era cambiata. Non è ancora una donna, ma lo diventerà, pensava Domizia guardandola. Una donna dai languidi occhi scuri, dalle labbra carnose, dai pensieri nobili e dai gesti composti, come le matrone del buon tempo andato. Una donna di cui l’austero Ottaviano Augusto sarebbe potuto andare orgoglioso. Una donna destinata alla casa e al letto di un principe.

Tiberio era morto nel sonno. Forse si era ucciso inghiottendo del veleno, per sfuggire ai fantasmi di Seiano e della sua famiglia, che continuavano a tormentare l’inferno di sangue delle sue notti. O forse aveva chiesto a un servo di soffocarlo con un cuscino di piume, come si usava per dare una morte pietosa a coloro che erano stati morsi da un cane idrofobo. Chiacchiere se n’erano sprecate tante, mezze bugie tra mezze verità, ma ciò che contava al momento era solo che il vecchio pazzo avesse liberato Roma e il mondo dalla sua presenza ingombrante.

Il carro procedeva lento, sollevando una nuvola spessa di polvere rossastra. Un enorme cane dalla pelliccia striata e dal collare irto di punte balzò dentro il pianale travolgendo Valeria e spaventando a morte la povera Domizia.

-Sei venuto a salutarmi, Anthaeus?

La bestia le lambì la guancia e si lasciò scarruffare il pelo.

-Adesso vattene. Torna da Maccio e dalle pecore.Non so se e quando ci rivedremo.

E si asciugò una lacrima col dorso della mano, mentre il cane la fissava con i suoi occhi scintillanti e chiari, da predatore.

*

 

Come fosse andata, era Gaio Druso Germanico a tenere il potere nelle mani, adesso. I legionari lo avevano soprannominato Caligola perché era solito portare i calzari dei soldati e lo amavano come avevano amato suo padre. Sarebbe stato un buon imperatore.

-E’ molto giovane.Ha già una moglie?

-Ha già una moglie, Domizia. Pensavi di potergli dare nostra figlia?

-I matrimoni si fanno e si disfano, marito mio.

Valeria era nata con quel destino cucito addosso come una seconda pelle, ma aveva solo tredici anni, pensava Messalla. Era una bella ragazzina snella e longilinea, dai magnifici capelli neri, spessi e folti e dai curiosi occhi scuri, piegati all’ingiù come quelli di un’aquila ferita. Gaio ha già una moglie, Domizia. E non credo ci sia posto per uno come lui, nei sogni ad occhi aperti di una giovinetta. E’ un uomo di una bruttezza orribile, il prodotto degenerato di una razza dal sangue fradicio. Dagli tempo, poi, e vedrai che si addormenterà savio e si risveglierà pazzo, com’è capitato alla buonanima del vecchio Tiberio. E questa volta sarà questione di mesi, non di anni. Sei troppo pessimista, Messalla. Delle volte, mi fai pensare a quell’uccellaccio di malaugurio che abbiamo sotterrato in campagna, quella schiava tessala, come si chiamava…Ah, Canidia,ecco.

*

 

Invece Messalla era stato buon profeta. Pochi mesi di regno, e Gaio era cambiato. Sempre più spesso, gli capitava di svegliarsi in piena notte urlando come un cane malato, specialmente quando, fuori, c’era il temporale: i tuoni lo terrorizzavano. Ognuno, certo, ha i suoi vizi e le sue manie, pensava Domizia. Le era giunta all’orecchio la diceria secondo cui sembrava che l’Imperatore avesse in animo di ripudiare la moglie e le sue speranze si erano riaccese con un’improvvisa, baluginante fiammata.

Scendi con i piedi sulla terra, donna; le ripeteva Messalla. Sarà anche l’uomo più potente dell’orbe terracqueo, ma darei mia figlia a uno schiavo, prima di darla a lui.

Eppure, Valeria avrebbe avuto prestigio, ricchezza e potere, se…E’ un degenerato, donna, come tutti i Claudii. La notte si aggira ululando per i corridoi del Palazzo e di giorno pretende d’ essere adorato come un dio. Ha fatto decapitare le teste alle statue dei Numi per sostituirle con la sua, e tutta Roma riderebbe, se non avesse paura, perché anche ridere è diventato pericoloso, di questi tempi.

Doveva aver pensato proprio quello, il povero Batillo, mentre bruciava vivo. Era, costui, uno di quei   guitti da strapazzo che si esibivano per la plebaglia nei giorni di mercato e, nel corso di uno dei suoi scurrili  fescennini, aveva avuto la pessima idea di definire “caprone” la sacra maestà imperiale, alludendo, oltre che alla sua ben nota e incontenibile lubricità, alla selva di ispido pelo nero che gli copriva completamente il corpo ad eccezione della testa, decorata da larghe chiazze di calvizie. Ben l’aveva imparata, la lezione, un patrizio d’illustre e antica casata che avendo osato ostentare in sua presenza una bella capigliatura folta ricciuta e profumata, era finito ad ingrassare i leoni del Circo. Decisamente meglio era andata a quel senatore che era stato costretto ad assistere allo stupro di sua moglie, quindi destituito dalla sua carica e rimpiazzato con il più bel cavallo delle scuderie imperiali.

-A…almeno…non l’ha fatto…ammazzare dalle sue maa…ledette guardie…

 

*

Sul tetto del Palazzo dovevano aver fatto il nido le civette, pensava Valeria. E ogni notte, gli uccellacci del malaugurio si levavano in volo per andarsi a posare dove l’Imperatore pazzo, il secondo della sua dinastia, aveva deciso che la morte calasse la sua scure. Ripudiata la  moglie, Caligola s’era infatuato della sorella e si sarebbe unito a lei in nozze sacrileghe se una pietosa quanto improvvisa febbre non avesse tolto dal mondo la poveretta. Non erano trascorsi pochi mesi da quel lutto inatteso, che l’ Imperatore aveva conosciuto e impalmato la donna della sua vita: Cesonia.

E’ giovane, Roma dovrà sopportarlo ancora per molto, diceva Messalla,  ma piano, perché in città anche i muri avevano orecchie e non c’era posto dove le spade dei pretoriani non arrivassero. Il suo cervello fa acqua da tutte le parti, ma quel suo lungo corpo sgraziato e peloso è perfettamente sano: camperà parecchi anni, se qualcuno non lo farà fuori. Ci hanno già provato ed è andata sempre male, gli rispondeva balbettando Claudio, il cugino dalle gambe sbilenche e dalla lingua inceppata che aveva preso a frequentare  casa loro. Era zio dell’ Imperatore e viveva a palazzo, ma la consolidata nomea di mentecatto che si portava appresso fin dalla nascita lo aveva sempre protetto dalle ire di Caligola. Di recente, aveva divorziato dalla sua seconda moglie. Quanti anni ha? Una cinquantina. Valeria ne avrebbe compiuti sedici di lì a qualche mese.

 

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Capitolo 2
*** La Lupa Parte Seconda ***


-Cesonia ha partorito l’ennesimo figlio morto

*

 

-Cesonia ha partorito l’ennesimo figlio morto. Claudio è il parente più prossimo dell’Imperatore e non ha moglie.

Dove volevano arrivare? Era da tanto tempo che Valeria aveva intuito le loro intenzioni, anche se si era sempre rifiutata di crederci. Poi, troppo presto, era giunto il momento di pagare il tributo al sangue che le scorreva nelle vene. Il sangue maledetto degli Dei.

-E’ un brav’uomo, ed è meno stupido di quanto sembra.

-Accettando la sua proposta di matrimonio, un giorno potresti sedere al suo fianco sul trono imperiale.

Ha cinquant’anni, e io sedici soltanto; è bavoso, balbuziente,zoppo, ha già ripudiato due mogli…Perfino colei che l’ha messo al mondo lo definiva un idiota. Oh, Dei, che ho fatto di male per meritarmi un simile destino?

-Nelle tue vene scorre il sangue di Cesare Ottaviano Augusto, Valeria.

Non me ne importa niente di quale sangue mi scorre nelle vene, madre, padre. Non me ne importa niente del trono, voglio vivere la mia vita, voglio andarmene lontano da qui, voglio tornare a stare in campagna, voglio cavalcare a gambe aperte come un maschio, voglio correre nella notte  con Anthaeus dagli occhi verdi e dal collare irto di punte, voglio sentire ancora il vento nei capelli, e le storie di Canidia e il lamento della civetta…

-Ubbidirai a tuo padre e a tua madre, Valeria Messalina. Lo sposerai, perché così è deciso.

La giovane si alzò dal suo seggio coperto di broccato. Strinse forte nel pugno il fascinum che portava al collo e, sforzandosi di non piangere, piantò i suoi occhi in quelli gelidi di Domizia.

-Preferirei giacere con la morte.

La mano carica di anelli le calò sulla guancia, lasciandovi impresso il segno   livido delle cinque dita.

-Tu sposerai Claudio, ti piaccia o non ti piaccia. E non uscirai da questa stanza finché non acconsentirai, dovessi restarci per tutto il tempo che ti rimane da vivere.

*

Ne era uscita appena tre giorni dopo, tutta avvolta nel velo giallo delle spose, per dividere con Claudio il pane e pronunciare i voti nuziali: Ubi Gaius, ego Gaia. A sedici anni,  Valeria si ritrovava sposata a quel cinquantenne che trascinava sulle gambette sinistrate il corpaccione panciuto, sputacchiava in faccia ai suoi interlocutori mentre parlava, aveva gli angoli delle labbra sempre bianchi di saliva rappresa e il naso rosso e spugnoso da avvinazzato. Claudio aveva promesso ai Numi e ai genitori della sposa che l’avrebbe amata e rispettata. E non ne avrebbe fatto soltanto la sua regina, Domizia ne era più che sicura: tra i figli di Cesonia e di Caligola, solo una bambina era riuscita a sopravvivere e Claudio era il parente più prossimo dell’Imperatore. C’era solo da augurarsi, senza farsi sentire da nessuno, che i Numi, o se non loro qualcun altro, si prendessero al più presto la vita di quel pazzo.

*

-Finalmente soli, mia dolce sposa…

Che cosa avrebbe potuto dirle, di diverso, quel lurido vecchio bavoso? Che cosa avrebbe potuto darle di diverso da un dolore forte come trafittura di spada, nel momento della deflorazione, a cui non sarebbe seguito il piacere acuto e ubriacante di cui le avevano detto le serve?Valeria  sapeva tutto. Sapeva che da quel vecchio non avrebbe avuto nulla di ciò che una ragazza si aspetta dall’amore, per come l’ha sognato. Quel vecchio  sbevazzone dall’aria scimunita e giuliva la baciò sulle labbra, e le promise che le avrebbe insegnato l’amore. Poi furono il sangue e il dolore: quelli, e quelli soltanto. La lingua vinosa di Claudio, il nauseante ed oleoso aroma dell’essenza di violetta che si era versato sui capelli,  le fecero sentire in gola l’urto del vomito.

-Sarai la compagna della mia vita, la madre dei miei figli…

No, sarò odio e odio soltanto. Sarò l’ortica che cresce nel tuo giardino, sarò la mota che imbratterà in maniera indelebile il tuo onore, Claudio Tiberio Druso Nerone Germanico: mi sottometterò a te quando vorrai, ti darò dei figli, ma ti farò pentire amaramente d’aver preteso d’arrestare il tempo che passa legando a te una giovinetta.Una che non ti voleva. Una che avrebbe preferito giacere con la morte piuttosto che con te.

 

*

 

Invece aveva continuato a giacere con lui, a sottometterglisi senza provare niente e senza sforzarsi neppure di fingere. E, a un anno dalle nozze, gli aveva dato anche un figlio, un bel bambino che era stato chiamato Britannico.

Fu quello stesso anno, che  Cassio Cherea, il Prefetto del Pretorio, assassinò l’Imperatore.

Era una nottataccia di temporale, loro avevano appena preso sonno, quando erano stati svegliati dal clangore delle armi e dalle urla dementi di Caligola.  Claudio aveva trascinato  fuori dal letto sua moglie che tremava in una striminzita vesticciola da camera e si era nascosto con lei dietro una tenda. Ma le guardie li avevano scovati lo stesso.

-Cesare…

Claudio aveva  sempre temuto il momento,la daga alzata sulla sua testa, il baluginio corrusco delle torce sul metallo, l’ ultimo respiro, l’ultimo battito del  cuore impazzito. Invece il Pretoriano aveva riposto la daga  nel fodero e l’aveva chiamato Cesare. Quindi si era tolto il lungo mantello nero e, con un gesto quasi gentile, l’aveva drappeggiato intorno alle spalle tremanti dell’Imperatrice. Era caldo, e odorava di cuoio e di lana. L’orlo, che toccava quasi terra, era umido e zuppo. Forse, quel Pretoriano lo aveva trascinato con lui dentro qualche pozzanghera, mentre correva in quella nottataccia folle, agitata e piovosa. Ma ciò che le scivolava denso e viscido lungo il malleolo e sul piccolo piede scalzo non era acqua: era il sangue di Gaio, di Cesonia e della loro figlioletta.

 

*

 

Hai avuto il potere, Claudio.Non ho mai capito se era quello ciò che volevi o se era altro, e ti ci sei ritrovato in mezzo per caso. So invece per certo che era me che volevi, quando i nostri sguardi si sono incrociati per la prima volta, nella casa di mio padre, anche se tu eri un vecchio e io solo una bambina. Io non ti volevo, e tutto quello che ho fatto con te è stato solamente per dovere, perché nelle mie vene scorre il sangue di Giulio Cesare e d’Ottaviano Augusto, e non poteva essere altrimenti. Ho sopportato la tua bava, il tuo puzzo di vino e le tue carni flaccide, ti ho dato due figli…Anche se avevo giurato che avrei preferito giacere con la morte, piuttosto che con te. Sarò l’ortica che cresce nel tuo giardino, il disonore che macchierà la tua esistenza in vita e la tua memoria quando non ci sarai più. Guardami, servo, facchino, guardami soldato: sono Licisca, la puttana dalle chiome rosse che puoi avere per quattro assi nel più scalcinato bordello della Suburra. Licisca, la Lupa, che giace con te come un altro si stordirebbe di vino, per dimenticare soltanto. La Lupa che puoi avere anche per niente, se passerai tra le tombe dell’Esquilino in qualche notte senza luna: Licisca, la Lupa rossa del sepolcro diroccato, che adesca i più miserabili tra i miserabili perché detesta il suo  vecchio sposo, colui che stringe in pugno i destini del mondo e che ha ucciso i suoi sogni, colui al quale l’hanno legata gli inganni e i calcoli degli altri. Ha gli occhi bistrati e un’ordinaria parrucca rossa le nasconde i capelli. Non porta gioielli, solo un fascinum che pende da una cordicella, per tenere lontani gli spiriti nefasti. Non la riconosceresti, quando passeggia tra i sepolcri avvolta in un mantello nero da soldato. E’ una vedova? Una prefica, forse? Ha perso qualcuno e lo piange tra le  tombe? No, è solo una miserabile puttana di infima categoria, in cerca di clienti da adescare. E’ Licisca, la Lupa dalle chiome rosse e dalle vesti stracciate. Non lo diresti che nel suo palazzo d’oro e di marmo ha vesti di seta e gioielli preziosi e che, sotto la parrucca ordinaria, i suoi riccioli corvini profumano di mirra e di sandalo. Non lo diresti che Licisca, la Lupa della Suburra e dell’Esquilino e Valeria Messalina, l’Imperatrice, la madre dei figli di Claudio Tiberio Druso Nerone Germanico, sono la stessa persona.

 

*

L’uomo sommariamente coperto da una pelle mal conciata di vacca rossa si guardò intorno. Anche se  da quella distanza non sarebbe stato possibile  fissarlo negli occhi, Valeria sapeva cosa avrebbe potuto leggerci dentro: terrore, e terrore soltanto. Era magro e sparuto, scuro di carnagione come un siriano o un egizio e stringeva nervosamente  nella mano un lungo fuscino.

-Teseo riuscì ad uccidere il Minotauro.

Questo qui non so, non credo proprio. Chi è, aveva domandato Valeria a Gaio Silio, che sedeva alla sua destra, elegante e profumato, sorridente, giovane e bello. Un condannato a morte, uno di quei ribelli ebrei, uno zelota. La carne da macello scarseggia, e bisogna importarla dalle Province. Guardalo come trema, l’ebreo pidocchioso, non sa cosa spunterà fuori da lì dietro, sa che dovrà morire ma non di che morte. Guarda, Augusta, guarda la porta del bestiario…

Un’enorme massa di muscoli, nera come una notte senza stelle si catapultò sbuffando e muggendo nell’arena: un uro, il toro selvaggio delle contrade del Nord, la fiera più grossa, dopo l’elefante, e una delle più pericolose.

Per un istante, l’animale e l’uomo si fronteggiarono fissandosi. L’uro sbuffò, scalciò il terreno sollevando la sabbia rossa con il suo grosso zoccolo anteriore e caricò a testa bassa. Il condannato lasciò cadere il fuscino. La fine, la sua fine, adesso il condannato lo sapeva, era quel mostro nero dalle lunghe corna falcate che stavano per trafiggerlo. Erano il suo sangue e suoi visceri, era il profumo acuto delle foglie di menta e dei petali delle rose che scendevano dall’alto come una pioggia, perché solo ai condannati e non agli spettatori fosse dato d’essere offesi dall’odore della morte.

*

 

-Uno spee…ttacolo per nulla en…tusiasmante…

Claudio sputacchiò dentro il fazzoletto senza distogliere gli occhi dall’arena dell’anfiteatro. Lo zelota ebreo, un poveraccio che in vita sua non doveva mai aver maneggiato un’arma diversa da un bastone o da un falcetto, e che non si capiva  di quale colpa potesse essersi macchiato per meritare una fine tanto orrenda, si era lasciato ammazzare  troppo in fretta. Meglio i gladiatori, almeno impiegavano più tempo a morire.

Al centro dell’arena, si fronteggiavano un andabato e un sannita. Non era difficile prevedere come sarebbe andata a finire, perché gli andabati, che venivano per il solito reclutati tra i condannati alla pena capitale per i delitti più abbietti, portavano una maschera priva delle fessure per gli occhi, quindi menavano i loro colpi alla cieca.

Lo strepito della folla divenne boato, quando il sannita parò il colpo e con un fendente della sua spada mandò l’avversario a giacere supino sulla sabbia.

-Iugula.-borbottò l’Imperatore raccogliendo il desiderio della folla e puntando il pollice verso il suolo.Quel vigliacco dell’andabato, un ladrone di strada, gli era stato detto, non si era portato con coraggio e non meritava di vivere. Anzi, da come si dibatteva e urlava, non era neanche capace di morire con l’irridente indifferenza che il pubblico si aspettava da uno come lui.

Il sannita lasciò cadere lo scudo e sollevò al cielo la spada gocciolante del sangue sgorgato dalla gola recisa dell’avversario. Indossava un giustacuore di cuoio da cui spuntavano brandelli di maglia d’acciaio. Era abbastanza vicino al seggio imperiale e Valeria notò i graffi sulle  braccia e l’ansimare affannoso del  petto. Aveva un teschio di bronzo applicato sulla corazza e a un teschio faceva pensare la sua testa, completamente nascosta da un casco aderente e da una maschera grottesca che non si tolse, come facevano di solito i combattenti che uscivano vincitori da quei duelli.

-Chi è?

-Lo chiamano Thanatos. La Morte.

*

Licisca, la puttana dai capelli rossi, ha lo stesso viso dell’Imperatrice Messalina. E’ lei quella che si aggira nottetempo tra le tombe dell’Esquilino, lei che nei bordelli della Suburra giace tra le braccia della feccia plebea, del servo, del facchino, del soldato, dell’ex gladiatore che ha la faccia sconvolta dalle cicatrici. E’ lei  quella che da anni scava con le unghie nel fango, per gettarlo addosso a chi le ha negato la felicità. Suo padre ha saputo, ed è morto dal dolore. Sua madre ha saputo e l’ha rinnegata. Claudio sa, e ostenta indifferenza. Silio, l’ultimo dei suoi amanti, sa, e vuole farne lo strumento della sua ambizione.

Valeria ripose nella cassapanca il mantello e la parrucca. Quella notte, sarebbe uscita e sarebbe stata lei, non Licisca la Lupa. Avrebbe indossato stola e dalmatica bianche e nascosto il viso dietro una maschera d’argento. Come Thanatos, il gladiatore.

*

Thanatos. Nell’arena, con la spada in pugno e l’elmo scintillante, le era apparso circonfuso da un alone di potenza, selvaggio e terribile come l’uro che aveva maciullato sotto i suoi zoccoli lo zelota ebreo condannato a morte. In fondo alla cella, illuminato dalla torcia tenuta in mano dall’inserviente, Thanatos la Morte era solo un ragazzone biondo e smandrappato con la barba incolta, i capelli lunghi e unti e un raccapricciante squarcio ricucito alla bell’e meglio sulla coscia, a filo con l’orlo della tunica corta di sacco piena di strappi. Un barbaro del Nord, doveva essere quello, un Germano, un Gallo o un Britanno, o magari veniva ancora più da lontano,dalle selve della Tracia, dalle steppe battute dal vento gelido della Pianura Sarmata. Corrucciato e silenzioso, la fissava con i suoi occhi infossati, chiari, indifferenti e freddi come due schegge di ghiaccio. Era incatenato alla parete per le mani e per i piedi.

-Sciogli quest’uomo dalle catene, servo.

-Potrebbe essere pericoloso, domina. Ha mani capaci di spaccare il cranio d’ un uomo.

-Però non spaccherebbe mai quello di una donna.

-E’ un assassino, domina…

-Taci e vattene.

L’uomo si era chinato a raccattare da terra la moneta d’oro lanciatagli dalla dama mascherata e li aveva lasciati soli, nella penombra di quel cubicolo che puzzava d’umido e di muffa. Non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli uomini pagano, quando non possono avere amore. Perché non poteva farlo una donna? Thanatos, chissà qual era il suo vero nome, odorava ancora di sudore e di sangue. Il sesso e la morte non sono forse le due facce di un’unica moneta?

 

*

Il gladiatore aveva un corpo possente, abbronzato e un volto belloccio, dai lineamenti regolari. L’elmo e la maschera che non si era tolto al termine del combattimento con l’andabato non servivano a nascondere cicatrici ripugnanti, come capitava di frequente e come Valeria aveva temuto.

-E’ la Vergine Vestale che mi onora della sua presenza?

-Solo una  bambola della notte, Thanatos.

La solita, pensava l’uomo strofinandosi i polsi. Pagavano, e pagavano profumatamente per spassarsela una notte con la feccia degli schiavi, gente senza domani,ma circonfusa da un manto di voluttà e di morte che la rendeva irresistibile agli occhi di quelle matrone che, dalla vita, avevano avuto tutto quanto. Anche quella che gli stava davanti, alta, slanciata e sottile, con i polsi ingioiellati e una maschera d’argento che le nascondeva la metà superiore della faccia,  era  la solita gran dama che aveva perso ogni ritegno pur di concedersi quel piacere perverso. Buon per il lanista, dannato maiale. Si sarebbe arricchito anche speculando sulla lussuria,oltre che sul sangue, come il lenone di un bordello della Suburra.

-Mi darai quello che ti chiedo…Thanatos?

Le sorrise. Aveva denti bianchi, quadrati e un ventaglio di rughe sottili come graffi agli angoli degli occhi.

-Butta via quella maschera che ti sei messa, domina.

-Tu non hai gettato la tua, l’altro giorno, dopo aver vinto il combattimento con l’andabato.

-Quel maledetto. Se mi prendeva un po’ più su mi castrava.

E si tastò con la mano aperta la ferita  violacea e gonfia, una bruttura oscena che, al pari della tunica sbrindellata e  dei segni delle catene  lo marchiava per quello che era, deturpando dolorosamente la sua selvatica bellezza bionda.

-Manderò il mio medico personale a curarti.

-Finché la ferita resta aperta non potrò combattere, domina. Più tempo impiegherà a guarire, più giorni mi rimarranno da vivere.

-Potrei…riscattarti.

-In cambio di qualcosa.

-Naturalmente.

-Del piacere per te…o della morte per qualcuno che odi?

-Ti ho già visto ammazzare e ho sentito come la gente ti applaudiva. Ti amano perché riesci ad appagare la loro sete di sangue. Ma io ho sete di vita, dovresti averlo capito.

-Hai un marito, domina?

-Sono stata costretta da mio padre a sposare un vecchio.

Valeria accostò la mano al viso, fece per liberarlo dalla maschera. E sentì le dita  del gladiatore sfiorarle il polso con una carezza insolitamente tenera.

-Quando combatto nell’arena, nascondo la faccia perché non voglio che qualcuno mi guardi e pensi a come sono caduto in basso. Tienila, domina. Tanto ti lascia libera la bocca.

 

*

 

La luce della torcia illuminava di riflessi iridescenti il volto d’argento della donna, immobile ed inespressivo come la faccia impassibile della luna. La maschera aveva nascosto agli occhi di Thanatos tutto quello che lei non aveva voluto mostrargli:la sua identità imbarazzante,aldilà di qualsiasi mancanza di pudore; gli occhi rovesciati all’indietro, la fronte contratta, mentre la bocca   gemeva nell’attimo culminante del godimento. Come ci rende brutti il piacere, animaleschi e ridicoli.  Sei stata fortunata, domina,le aveva detto con la sua voce lenta e grave.Non sai quanti sfregi e quante mutilazioni e quanti denti rotti nascondono i nostri elmi e le nostre maschere. Non ho ancora capito cosa ci trovano le signore come te in quelli come noi. L’idea di sentirsi sfondare da un corpo che oggi è vivo e pulsante e che domani potrebbe essere solo ossa rosicchiate dalle belve. O dormire avvinghiata a un uomo, che tanfa di sangue e di sudore, che non è chi tuo padre ha scelto per te, il tempo che resta di qui a un sorgere del sole che per lui potrebbe essere l’ultimo e per te  è solo uno come un altro.

-Quello che cercavi l’hai avuto, bambola della notte.

La mano  ingioiellata di Valeria gli accarezzò la peluria del petto, fitta e sottile e bionda come l’oro, le grosse spalle muscolose spruzzate di piccole lentiggini chiare.

-Mi piacerebbe sapere chi sei.

-Un miserabile schiavo per il quale ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, domina.

-Adesso sono io a chiederti di gettare la maschera, gladiatore.

Lui si sollevò dal giaciglio puntellandosi sui gomiti e guardò fisso fisso il suo volto impassibile d’argento, aggrottando le sopracciglia bionde.

-Chi credi che io sia?

-Un barbaro del Nord, un Germano, forse un Britanno. Magari un cavaliere delle Pianure, un Sarmata. Non credo che tu sia un Romano, anche se parli bene la mia lingua come se lo fossi.

 

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Capitolo 3
*** La Lupa Parte Terza ***


-Mi piacerebbe sapere chi sei

 

*

Thanatos le sorrise ancora. Un attimo solo, come se farlo gli costasse caro. Aveva qualcosa di vagamente infantile nei tratti, di infantile e di rozzo al tempo stesso, come capitava spesso di vedere  sulla faccia degli uomini del Nord. Quanti anni poteva avere? Tre o quattro in più di lei, pensava Valeria.

-I miei genitori adottivi non riuscivano ad avere figli. Mio padre non voleva ripudiare la donna che amava per cercare di dare una discendenza al suo sangue con un’altra e allora si diede da fare in giro per i mercati di uomini alla ricerca d’una schiava  gravida. Intanto, mia madre aveva preso a imbottirsi sotto i vestiti perché volevano far credere a tutti che ero davvero figlio loro. La schiava fu trovata, era una Britanna. Mi partorì, e fu rivenduta, perché nessuno doveva sapere niente. Ma io vengo da una piccola città, dove ci si conosce tutti. Lavinia, che ha gli occhi e i capelli come tizzi di carbone, un marito altrettanto scuro e che è rimasta dieci anni senza figli, all’improvviso mette al mondo un bambino fulvo come un leone. Sono cresciuto, e i miei compagni di giochi mi chiamavano capelli gialli e cane bastardo. I castelli costruiti con le bugie prima o poi sono destinati a rovinare, domina. Quando gli ho chiesto la verità, piangevano.Non ti abbiamo fatto mancare nulla, figlio, dicevano. E io:mi avete cresciuto nella menzogna, e le menzogne mi fanno orrore. Il mio nome è una menzogna, capisci? Non è quello che mi avrebbe messo la donna che mi ha partorito. Mio padre e mia madre sono menzogne, la lingua che parlo è una menzogna…

La maschera le lasciava scoperta la bocca. Per baciarlo dappertutto, per morderlo e per sorridere. Era una bella bocca larga carnosa e generosa, la bocca di una persona capace di apprezzare i piaceri della vita. Anche se quella donna ricca e dissoluta, quella bambola della notte che, come altre, ricercava il piacere tra le braccia  di un essere abbietto il cui unico scopo dell’esistenza era uccidere e morire, aveva occhi scuri e tristi, tra le fessure della maschera d’argento.

-E’ perché non hai sangue romano che provi orrore delle menzogne.

-Può darsi, domina.

-Ed è per le menzogne degli altri che sei finito qui?

-Ho ucciso un uomo. Non volevo farlo, ma mi aveva insultato, ero ubriaco e…Sono stato condannato al remo per tutto il tempo che mi restava da vivere.Ma non ho mai messo piede sopra una nave. Qualcuno ha ritenuto che sarebbe stato uno spreco.

Thanatos si accarezzò lentamente i muscoli gonfi delle braccia e del petto, guardandola di sottecchi con gli occhi da gatto ridotti a due fessure.

E ti è andata bene, almeno così puoi giocartela, la vita, come in una partita a dadi. E se sarai così fortunato, potresti anche farcela, a vincerti il diritto ad essere lasciato vivere in pace il tempo che ti è stato destinato, lungo o breve che esso sia.

-Thanatos…Hai mai avuto paura, qualche volta?

Gli occhi erano due fuochi freddi e azzurri, tra lo spolverio dorato delle lunghe ciglia.

-Sempre, domina. Anche se mi hanno insegnato a non darlo a vedere.La sera prima dei Giochi, certi di noi si ingozzano come porci e bevono come spugne; altri hanno lo stomaco stretto da una mano di ferro e non riescono a toccare cibo. Io mangio il minimo indispensabile a placare la fame e bevo solo acqua, perché non voglio che il digiuno o il troppo cibo, o il vino fiacchino le mie possibilità di resistere e di sopravvivere. Ma so che potrebbe non servire. La notte prima, è difficile riuscire a chiudere occhio, a meno di non sbronzarsi. Così quando entri nell’arena sei morto dal sonno, hai la testa che scoppia e le gambe non ti reggono per il terrore. A questo punto, non conta tanto la bravura nel far giostrare la daga o nell’impastoiare l’avversario con la rete. Contano solo la tua voglia di vivere e la tua disperazione…Tutti quanti siamo attaccati alla vita, domina. Al punto da ringraziare il giudice che ti ha condannato al remo invece che alle bestie; al punto da ringraziare gli Dei per averti aiutato a spaccare il cuore ad uno che ti era amico, solo perché la sorte te l’ha messo contro…E tu hai mai avuto paura?

-Non mi sono mai trovata una daga puntata alla gola, Thanatos.

-Perché hai ordinato  di sciogliermi dalle catene?

-Non lo so. Il servo mi aveva detto che eri un uomo pericoloso, ma io non gli ho creduto. I tuoi occhi non sono cattivi, e poi parli bene, sei diverso da come dovresti essere.

-Sono molto diverso…da tuo marito?

Thanatos immaginò che il volto della donna di fosse rabbuiato, sotto la maschera. Doveva essere bella, aveva labbra ben disegnate, il naso delicato, le narici sottili e frementi. Bella in ciò che gli aveva nascosto almeno come in quanto gli aveva mostrato. Bella e totalmente priva di pudore.

-Mio marito è un vecchio puttaniere sbevazzone. Non mi è mai piaciuto.

-E tu cerchi altrove quello che lui non riesce a darti. O mi sbaglio?

-Thanatos…-La maschera le ombreggiava gli occhi e non le nascondeva il sorriso- Con te è  non stato come con tutti gli altri.

E gli accarezzò la guancia con il dorso della mano. Aveva una carnagione morbida e compatta, la barba ispida, un pugno di lentiggini  dorate sul naso e sotto gli occhi.

-Perché non sono un vecchio puttaniere sbevazzone…O perché non sono destinato a invecchiare, domina?

La  fissò con i suoi occhi chiari e corrucciati, e gli sembrò che lo sguardo di lei fosse tornato ad essere quello imperioso di chi  vuole guidare il gioco.

-Qual è il tuo vero nome, Thanatos?

 

*

 

-Il mio nome è Aulo Valerio. Non credo che tu ti ricordi di me.Io di te sì, invece.

Aulo Valerio. Un altisonante nome romano. Partorito da una schiava icena, adottato da due coniugi anziani, benestanti e senza figli. Alto, biondo, occhi azzurri, attraente. Condannato  a vita al remo per omicidio. Riscattato da un lanista con il fiuto degli affari  e scaraventato a combattere nell’arena. Agile, buone gambe e buoni muscoli. Astuto. Terribilmente coraggioso. Piace agli spettatori, che lo hanno soprannominato Thanatos perché quando si batte nasconde la faccia dietro una maschera che ricorda un teschio. Certe  notti, prostituto di lusso per ricche dame annoiate. Ventisette, ventotto anni d’età. Bravo a dare piacere come a portare la morte. Destinato a non diventare vecchio.

-Sono passati sei anni. Era una nottataccia e tu tremavi di freddo e di paura. Mi sono tolto il mantello e te l’ho messo sulle spalle…Un bel mantello di lana pesante, molto caldo.

-Te lo farò riavere.

-Non credo che mi servirà. Tienilo come ricordo…Augusta.

Valeria Messalina. Figlia di Valerio Messalla Barbato e di Domizia Lepida. Discende da Cesare, da Ottaviano Augusto e dagli dei. Ventiquattro anni. Sposata perché costretta  a un uomo che odia e che tradisce con chiunque le capiti. Gli ha dato due figli. La notte del temporale, sei anni prima, tremava. Di freddo, forse, ma non di paura. Sicuramente di rabbia. Pretoriano, che aspetti ad ammazzarlo? Ma il Pretoriano aveva riposto la daga nel fodero e l’aveva chiamato Cesare, inchinandosi al cospetto di quel vecchio sbilenco dall’aria stordita su cui nessuno avrebbe scommesso mezzo asse. Quindi, voltatosi verso di lei, le aveva   sistemato sulle spalle il suo caldo mantello di lana, chiamandola Augusta. Forse avrebbe preferito abbracciarla e scaldarla col suo corpo, dopo essersi liberato dell’elmo e della corazza. I suoi occhi chiari, incorniciati dalle guancere e dal paranaso, scintillavano nel buio rischiarato dalle torce come quelli di un gatto. Se lo ricordava eccome, l’Imperatrice Messalina, il giovane Pretoriano dagli occhi azzurri e dalla barbetta bionda. Sicuramente, doveva essersi augurata di incontrarlo in circostanze più favorevoli di quella, anche se non era mai più capitato. E il tempo era passato. Sei anni. Sei anni di menzogne, d’imbrogli e di sotterfugi. Sei anni di rancori covati dentro come braci nascoste sotto la cenere. Sei anni con l’anima spaccata in due, regina di giorno, puttana della peggiore specie di notte.

 

*

Valerio. Curioso, porti il mio stesso nome. Ma nelle vene non ti scorre il sangue degli dei, ed è sangue vile quello che si rapprende intorno alla schifosa ferita che sconcia il tuo bellissimo corpo. Eri stato gentile con me, la notte del temporale. Avrei voluto che quel che è stato oggi fosse stato allora, Valerio, come avrei voluto che Claudio morisse. In un modo o nell’altro, che non tornasse dalla Britannia, che le febbri se lo portassero via, che mi lasciasse sola…Mi diresti che sono pazza, forse. Hai servito sotto  il cupo Tiberio e il folle Caligola. Quel Claudio che non ami, mi diresti così, ne sono sicura, è un buon diavolaccio, in fondo. E’ molto meno scemo di quel che sembra e la gente lo ama. Lo dici vecchio puttaniere sbevazzone, ma quale uomo non ama il vino e le donne? Sono sicuro che ti vuole bene e che ti rispetta. Adesso vattene e per favore, non fare la stupidaggine di innamorarti di me.

I bagliori della torcia le battevano rossastri sull’argento della maschera. Anche i miei occhi sono sprofondati in fondo alle orbite di un teschio, come lo sono i tuoi  quando combatti e dici di non voler togliere la maschera perché chi ti vede non sappia come sei finito. Coraggio, Valerio, guardami. Guarda la tua regina che ti sei preso questa notte e non una volta soltanto. Guardala piangere.

Era scura di pelle, con folte sopracciglia arcuate, capelli neri e riccioluti, piccole orecchie graziose, appesantite da sontuosi pendenti d’oro e di granati. Aveva un neo proprio in mezzo alla fronte e gli occhi ambrati lucidi di lacrime e sporchi di bistro scolato. La maschera d’argento le era rotolata proprio sui piedi.

-Ho freddo. Abbracciami, Valerio.

 

*

-E’ tutto deciso, Silio?

-Siamo ancora in tempo per tornare indietro…Se hai paura.

La donna gli piantò gli occhi negli occhi, costringendolo ad abbassare lo sguardo.

-Ti ho dato la mia parola, Silio. Aspetto soltanto che  tu rispetti la tua.

-Parli e ragioni come un uomo. Dovresti essere nata uomo, Valeria.

Silio le sorrise. La mia ambizione in cambio della tua sete di vendetta. A me il trono, a te l’ emancipazione da un vincolo che detesti. Ma prima devi diventare mia moglie. Sposiamoci, adesso che il vecchio babbeo si trova ad Ostia per sovrintendere al lavori per l’ampliamento del  porto. Io sono libero, tu lo sarai se ricuserai pubblicamente il legame con cui ti hanno unita insieme a quell’uomo che hai sempre odiato. Ci sposeremo con una cerimonia fastosa, che lascerà tutti a bocca aperta. E poi ci libereremo di lui.

La gente crederà che sia la lussuria ad unirci pensava Valeria guardando, sdraiato nudo nel suo letto, quell’uomo attraente e privo di qualsiasi scrupolo, il suo amante di cui tutti sapevano. Anche Claudio, malgrado fingesse di ignorare tutto quanto: aveva ragione Valerio, era molto meno stupido di quanto sembrasse e aveva capito che, se voleva tenersi la moglie giovane e bella, un vecchio della sua età doveva necessariamente allentare o addirittura sciogliere il guinzaglio. Tanto, chi ha potere e denaro fa in fretta a consolarsi, anche se è  un vecchio avvinazzato sbilenco e balbuziente. Ma la gente sbaglia. Non è la lussuria che mi unisce a Gaio Silio. E’ il desiderio di vendetta di cui questo giovane fatuo, ambizioso e pieno di sé sarà mezzo e strumento. Del resto, l’unico sentimento che mi riesce ancora di provare è solo l’odio, perché io non sono altro che odio e odio soltanto.E’ l’odio che mi tiene in piedi. E’ l’odio che mi dà la forza di tirare avanti.

-La tua parola, Silio.

La libertà per quel gladiatore, Thanatos. L’aveva visto battersi bene, impugnando le armi del sannita o del secutor. Molto coraggioso. Al termine dei combattimenti non si toglieva mai la maschera, per chissà quale misteriosa ragione. Forse semplicemente perché era sfregiato. No, non lo è, gli aveva confidato Valeria. E’ un iceno romanizzato, ha servito per anni nella Terza Coorte Pretoriana. Lo conoscevo. Era con Cassio Cherea, la notte che fecero fuori Caligola. E’ stato…molto gentile con me.

Un sorrisetto sarcastico stirò sui denti le labbra sottili di Gaio Silio. Era stato gentile con lei, come no. Thanatos . La corazza, l’elmo e la maschera non rivelavano molto di lui, se non che aveva spalle e braccia poderose e che dal casco di bronzo che gli aderiva alla testa spuntava una treccia di capelli color oro rosso. Valeria non era la prima gentildonna romana, e di sicuro non sarebbe stata l’ultima, a perdere la testa e la decenza appresso a un gladiatore.

-Perché vuoi la libertà per quell’assassino, Valeria?

-Perché odio l’ipocrisia e le menzogne, Silio. E perché riesco a provare rispetto solo per il coraggio.

Silio incassò, limitandosi a sorriderle senza guardarla negli occhi. Avrai il tuo giocattolo libero a cose fatte, Valeria. E potrai farne ciò che ti pare. Qualcosa te la devo, no? Non mancherò di parola, stanne certa.

 

*

Quanto tempo era passato dall’ultima volta che si erano viste? Tanto, se entrambe erano così cambiate da stentare a riconoscersi. Gli occhi di Domizia erano quelli cerchiati di chi non dorme abbastanza e una spessa ciocca di capelli bianchi le attraversava come una folgore il nero della testa.

-Che hai fatto, figlia?

Lo sai che ho fatto, madre. Lo sapevi  dal momento in cui hai deciso di darmi a quel vecchio che odiavo senza degnarti di stare a sentire il mio parere. Quello non contava niente, per te, tanto non ero che una ragazzina, un oggetto senza sentimenti nelle mani di due genitori ambiziosi, e avrei ubbidito a testa china, perché la mia vita non era la mia. Dacché viene al mondo, una donna non è mai sua. E’ degli altri.

-Ti cercano. Ti troveranno. E ti uccideranno.

Valeria alzò le spalle. Lo sapeva. Silio doveva essere già morto, o se non lo era ancora lo sarebbe stato presto.

-Figlia, perché…

Il volto senza trucco era pallido come gesso, i capelli sciolti le ricadevano disordinati sul mantello da soldato. Perché non sono stata una donna remissiva e ubbidiente? Perché non sono stata capace di amare né lui né nessuno? Perché ho pregato gli Dei chi mi rendessero vedova, perché mi sono data a chiunque per sfregio, per rabbia, per dispetto, perché mi sono lasciata coinvolgere nei disegni criminosi di quel damerino vanesio? Ti sei mai domandata, madre, come sarei potuta essere se avessi avuto una vita diversa da questa? Se fossi stata una qualunque e non progenie degli Immortali? 

-Madre mia…

L’abbracciò singhiozzando, come se fosse tornata bambina. Le ombre della sera oscuravano i Giardini Luculliani e la brezza  che soffiava tra i rami era quella fresca di settembre. Domizia aveva ragione, l’avrebbero scovata. E non avrebbero avuto pietà.

-Non dar loro la soddisfazione di prenderti viva, figlia.

La punta acuta dello stiletto che preme contro la pelle e lascia gocciolare fuori il sangue fa male, madre. Non è facile morire, tutti siamo attaccati alla vita. Anche quando non è più tale, ma diventa sofferenza soltanto. Anche quando si è vecchi come le montagne. Aveva ragione Valerio, quando le aveva detto che tutti temono la morte, pure i coraggiosi. Lei gli aveva risposto ridendo che non si era mai trovata una daga puntata alla gola. Quanto tempo era passato, da allora? Dieci giorni, non di più, ma  le erano sembrati eterni. Chissà, si ritrovò a pensare, se la ferita gli faceva sempre male. Se zoppicava ancora. Perché, si domandò, pensare a quello schiavo, a quell’assassino, a quella creatura abbietta, le dava tanto struggimento? Solo perché era l’unico uomo tra le cui braccia non fosse stata costretta a fingere il piacere?

Domizia guardava il pugnale scintillare nelle mani tremanti della figlia. Non aveva fatto che deluderla, dacché stava al mondo. Era stata una bambina ribelle, con le ginocchia sbucciate e i capelli arruffati, sempre pieni di festuche e di paglia secca. Giocava con i cani e con i cavalli, come i maschi, e se ne stava ore ad ascoltarsi a bocca aperta le storie inverosimili della vecchia Canidia. Non era stata capace di accettare il suo destino di donna, una volta cresciuta, si era coperta di fango e di turpitudine e adesso non sapeva neppure morire con dignità. Domizia scosse la testa, si districò dal suo abbraccio e si allontanò da lei, abbandonandola alla sua sorte.

La luce scialba della luna illuminava gli elmi e i fregi sulle corazze dei Pretoriani. Il liberto Narcisso, l’uomo di fiducia dell’Imperatore, l’afferrò per i capelli, costringendola a guardarlo negli occhi. Erano chiari quasi quanto quelli di Valerio e brillavano di riflessi metallici, come la sua daga sguainata. Istintivamente, la donna alzò verso di lui il pugno, allo stesso modo in cui i gladiatori che cadevano domandavano grazia.

-Chi ti sta davanti non è quel vecchio babbeo di tuo marito.E’ inutile  sperare nel perdono, puttana.

Dai rami più alti di un cipresso, una civetta fece udire il suo verso lamentoso.

 

*

-Un deprecabile incidente, Domine. Abbiamo tentato il possibile per salvarla, ma non c’è stato nulla da fare.

Gli occhi sporgenti dell’Imperatore guardavano vacui e ubriachi la faccia dura di Narcisso. Peccato che sia morta, era giovane e bella, era la madre dei miei figli…Le volevo bene, malgrado lei non me ne volesse, ma ero convinto di poter avere lo stesso il suo corpo e la sua anima solo perché sono quello che sono. Ho sbagliato. Tutti possono sbagliare.

Claudio allungò verso lo schiavo la coppa ingemmata.

-Veee..rsami ancora del vino,disse. Quindi, rivolgendosi al Prefetto del Pretorio: aa..mmazzami con la tua spaa..da, se dovesse baa..lenarmi in testa l’idea bal..zana di prendere nuoo..vamente moglie.

 

FINE

 

POSTFAZIONE

 

E adesso che il racconto è scritto, spieghiamone le ragioni. Che io sia sempre stata affascinata dalla storia, questo è un dato di fatto inconfutabile. Se per storia poi si intendono i periodi  oscuri e turbolenti, allora ci vado a nozze. Il periodo della Roma Imperiale ha tutte queste caratteristiche: è un mondo di grande bellezza, ma anche di corruzione vergognosa e di efferata crudeltà. Che sia la faccia buia della luna, il lato misterioso che c’è in ognuno di noi? Può darsi.

Non mi piace raccontare la storia paludata che si insegna a scuola, anche se bisogna conoscerla, e conoscerla bene altrimenti rischi di scrivere fesserie più grandi di una casa. I personaggi, illustri od oscuri, reali o inventati, preferisco manipolarli a modo mio, anche a costo di stravolgere tutto. In fondo, erano gente come noi, né più né meno: con i nostri vizi e le nostre virtù. Tutti quanti, anche Messalina, la perfida, la dissoluta. Messalina,alias Licisca (la Lupa, metafora che sta per prostituta) che Giovenale, nelle sue Satire definisce “la puttana imperiale”, attribuendole qualsiasi nefandezza. Forse perché non aveva molto in simpatia Claudio, il di lei poco amato e molto cornificato consorte.

Una donna di cui so poco. A proposito, ho letto quel che di lei dicono Regis Martin, Montanelli e Spinosa, nelle loro opere dedicate alla storia di Roma. Ho letto anche la biografia curata da Luca Goldoni, che di questo personaggio non doveva saperne molto più di quanto non ne sappia io.Vale a dire: che proveniva da nobilissima e onorata famiglia, imparentata con Cesare, con Ottaviano Augusto e perfino con Venere e con Marte (presso gli antichi, impastare assieme verità e bugie per abbellire la prima era una consuetudine largamente diffusa); che doveva essere carina, intelligente e sensibile; che i suoi ambiziosi genitori non avevano certo in animo di darla ad uno qualsiasi; infine che le toccò in sorte, nell’Anno Domini 25, la disgrazia di nascere donna.

Nella Roma imperiale, le donne del patriziato e della ricca borghesia godevano di parecchia libertà. Ma solo dopo il matrimonio: prima, erano alla completa mercé dei loro genitori, che potevano farne ciò che volevano, compreso darle in mogli, per i loro tornaconti, a uomini che non appartenevano certo al genere che si sogna di notte. Ci vuol poco a immaginare che proprio questo sia stato il destino di Messalina, la quale sposò, sedicenne, il cinquantenne Claudio: pluridivorziato, zoppo, bavoso, balbuziente,alcolista e puttaniere, nonché accreditato da tutti, madre compresa, d’una solida fama di mentecatto (sicuramente, non trattandosi d’un modello di coraggio, si fingeva tale senza esserlo, per proteggersi dalla  brutalità dei tempi: una volta al potere, si dimostrò infatti un ottimo imperatore, giusto ed avveduto).  La Messalina che avevo in testa, è tutto il contrario di quella di cui si favoleggia da poco meno di duemila anni. Non la ninfomane assetata di piaceri perversi, ma una frigida che si dà a tutti senza provare niente solo per vendicarsi di chi ha “ucciso i suoi sogni”. Perfino il torbido legame che la unì a Gaio Silio e che costò la vita ad entrambi nasce e si consolida nel desiderio di vendetta e nell’ambizione, non nella lussuria. Forse  non è andata proprio così, ma io ho voluto scrivere un racconto, non un saggio storico: anche a costo di forzare i fatti. Valerio, l’unico uomo che fosse riuscito ad accendere i sensi di questa gelida creatura, ovviamente me lo sono inventato. E me lo sono inventato biondo e gladiatore, come si usa adesso. Russell Crowe (mamma, quanto è bello) c’entra fino a un certo punto. Va detto che, dentro la testa, ho sempre le immagini dettagliate dei miei personaggi e potenza della suggestione o di chissà che diavolo d’altro, la fisicità granitica, lo sguardo da cucciolo e le lentiggini sul naso del Marlon Brando degli Antipodi la loro parte l’hanno fatta. Ma va anche detto che molti gladiatori, di origine celtica, germanica o trace, (Valerio è iceno, originario dalla Britannia) avevano gli occhi azzurri e i capelli biondi come Russell, che ha sangue scandinavo nelle vene, essendo figlio di padre mezzo norvegese. E’ comunque un dato di fatto suffragato da attendibilissime testimonianze che i gladiatori esercitassero molto fascino sulle signore dell’epoca. Sarà stata la loro prestanza fisica,sarà stata la provenienza da luoghi esotici come la Germania, l’Africa o le Gallie, sarà stata la plumbea cappa di sangue e di morte che si portavano appresso, questo non lo so, ma come “oggetti del desiderio” funzionavano a meraviglia. I muri di Pompei sono decorati di scritte inneggianti a tali Crescenzio e Celado, di cui non vengono esaltate le doti  sportive ma quelle amatorie; sempre a Pompei, nel corso degli scavi, in una caserma di gladiatori è stato rinvenuto, in mezzo ad una settantina di scheletri appartenuti a marcantoni usi o costretti a giocarsi la pelle nell’arena, anche quello minuto di una dama doviziosamente ingioiellata;  personaggi di fama e di rango, quali il senatore Ninfidio Sabino e soprattutto l’imperatore Commodo (di cui erano ben noti la corporatura erculea e i gusti grossolani e sanguinari) non erano in realtà figli dei legittimi consorti delle loro madri, bensì degli amanti gladiatori di queste ultime. Per non parlare delle testimonianze scritte, Petronio Arbitro, Marziale, Giovenale, che nelle sue Satire prende di mira una certa Eppia, nobilissima matrona che appresso a un gladiatore, tale Sergiulus, ha perduto qualsiasi decenza. Ed è completamente fuori strada chi immagina il fortunato con gli affascinanti tratti e il corpo scultoreo del Gladiatore cinematografico: il poveretto era un combattente alle soglie della pensione, calvo, sfregiato e con un bitorzolo sul naso…Sarà stato il fascino dell’armatura?

Esistevano diverse tipologie di gladiatori, contraddistinti dalle armi e dalle tecniche di combattimento. I più noti erano il retiarius e il secutor, che duellavano l’uno contro l’altro, armati rispettivamente di rete e di tridente e di daga. C’erano anche l’oplomaco, o mirmillone, il sannita,il provocator e il trace armato di sciabola ricurva, la “sica supina” (come tale combatteva ed altresì della Tracia era originario il più famoso gladiatore della storia, l’eroico Spartaco); gli equites, che combattevano a cavallo e gli essedarii sui carri. Infine, i più sfortunati di tutti erano gli andabati, che non a caso venivano reclutati tra i condannati alla pena capitale per i delitti più abbietti, mentre tra le precedenti categorie era possibile trovare anche uomini liberi e non necessariamente di bassa estrazione. I poveracci erano costretti a menare i loro colpi alla cieca, avendo la testa infilata in un casco sprovvisto dei buchi per gli occhi. A questo punto, è doveroso per me ringraziare Dario Battaglia, dell’associazione Ars Dimicandi, al quale devo tutte le informazioni su armi e tecniche di combattimento. Il “mio” Valerio combatte con le armi del sannita, daga, scudo, casco, maschera e corazza. Come  Maximus-Russell Crowe, che nel film si cimenta comunque anche in qualità di secutor, equites e perfino venator, ma questa è una forzatura, perché a lottare contro le bestie feroci venivano mandati i condannati a morte: le probabilità di farla franca contro una tigre, un orso o un branco di cani inferociti erano uguali a zero, e non a caso fu quella la fine di parecchi martiri cristiani in tempo di persecuzione.

Lo sfortunato taurarius che nel mio racconto è costretto a cimentarsi contro un uro è uno zelota ebreo. Erano costoro gli adepti di una setta nazionalista, che mal tolleravano l’occupazione romana della Palestina e contro di essa si battevano. Pare fossero zeloti alcuni apostoli di Cristo, tra cui Giuda Iscariota. Sicuramente un ribelle zelota era Barabba, il ladrone graziato dalla folla nel giorno della condanna di Gesù, e tali dovevano essere anche i due poveracci giustiziati con Lui sul Calvario.

L’uro era un bellissimo animale, un gigantesco toro selvatico  comune nelle praterie dell’Europa centrale e settentrionale, che si è estinto intorno al 1600 a causa della caccia indiscriminata a cui è stato sottoposto e della distruzione del suo habitat. Gli zoologi ne stanno tentando la “ricostruzione” mediante incroci di razze bovine selezionate.

Un’ultima cosa: è vero che l’imperatore Claudio ingiunse al suo uomo di fiducia, il liberto Narcisso, d’ammazzarlo con le sue mani qualora gli fosse balenata in testa la poco felice idea di risposarsi. Ma  cambiò opinione in fretta, non fu ammazzato e, accasandosi con la nobile Agrippina, che gli portava in dote un figlio nato da un precedente matrimonio e da lui tempestivamente adottato, servì su un piatto d’argento il trono a un degno soggetto, Lucio Domizio Enobarbo, passato alla storia come Nerone…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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