Piovre sotto pelle

di MaTiSsE
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Piovra ***
Capitolo 2: *** Famiglie felici ***
Capitolo 3: *** Vibrazioni ***
Capitolo 4: *** Anche se non ricordi ***
Capitolo 5: *** Di bici e memorie ***
Capitolo 6: *** Giorni di perché ***
Capitolo 7: *** Solo noi ***
Capitolo 8: *** Il turbamento della gelosia ***
Capitolo 9: *** Ricordi in bianco e nero ***
Capitolo 10: *** L'età giusta per baciarti ***
Capitolo 11: *** We are demanding the sun ***
Capitolo 12: *** Without You I'm Nothing ***
Capitolo 13: *** La mia gioventù sbagliata ***
Capitolo 14: *** Fingere ***
Capitolo 15: *** La mia presunta (im)perfezione ***
Capitolo 16: *** C'era il sole... ***



Capitolo 1
*** La Piovra ***


Licenza Creative Commons
Piovre sotto pelle by Matisse - Valentina Antignani is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.
Based on a work at http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1089188&i=1.



 

 

"Una piovra? Afferrò il coltello, aperse gli occhi, era un sogno.
La piovra era lì, lo succhiava con le sue ventose: il caldo.
Sudava. Si era addormentato verso l'una,
alle due il caldo l'aveva svegliato,
si era tuffato in un bagno freddo,
poi ricoricato senza asciugarsi;
subito dopo il fuoco s'era rimesso a soffiargli sotto la pelle,
aveva ricominciato a sudare. All'alba si era addormentato,
aveva sognato un incendio; adesso il sole
era certamentegià alto, e Gomez sudava sempre:
sudava senza requie da quarantotto ore.
«Dio buono!» sospirò, passandosi la mano umida sul petto bagnato.
Questo non era calore, era una malattia dell'atmosfera:
l'aria aveva la febbre, l'aria sudava, si sudava nel sudore."

J.P Sartre




 




Roberto Kusterle












Poiché faticavo a comprendere tutto quel suo entusiasmo che mi sapeva un po’ di fanatismo da adolescente, un giorno Romina – la mia migliore amica – si stancò e, decisa a farmi cambiare idea, mi trascinò a La Piovra con l’inganno, promettendo di finire al posto mio la nostra ricerca sul trasformismo politico attuato da Depretis.
Alla fine, per quanto riluttante, mi arrischiai ad accettare il patto: ero troppo impegnata con mille compiti e attività extrascolastiche per perdermi una simile occasione e così mi addentrai in quel luogo sconosciuto in un pomeriggio nuvoloso di metà aprile.
Strano a dirsi, La Piovra non era la discoteca più in voga del momento, né un baretto particolarmente “in” sul lungomare, bensì un umido e decisamente sudicio centro sociale, vero fulcro del fermento giovanile in città: ogni giorno decine di ragazzi si spostavano anche da quartieri molto lontani per raggiungerlo. Non avevamo molti altri luoghi di ritrovo a nostra disposizione e La Piovra sembrava offrire la migliore possibilità per trascorrere il proprio tempo.
Per quel che ne sapevo, La Piovra aveva già alle spalle almeno un annetto di attività. Perlopiù si trattava di produzioni artistiche, mostre d’arte e di fotografia, laboratori creativi di pittura e scultura e concerti e  tanti concerti, dallo ska all’elettronica. Non era quindi un centro sociale particolarmente votato alla politica, sebbene una vistosa falce con martello accogliesse i visitatori all’entrata, chiarendone quasi subito le idee.
 
Per tutto il tempo che fu necessario per arrivarci, Romina non fece altro che  tessermi le lodi del luogo, ripetendomi fino alla nausea quanto quel posto fosse stato figo: il contesto era figo, la gente che c’era lì dentro era figa, gli eventi organizzati era fighi.
Odiavo l’aggettivo “figo”.
 
Appena feci ingresso lì dentro, la prima cosa che notai furono le pareti: apparivano già sporche, invase da manifesti e scritte di varie dimensioni, molto colorate. La tinta preferita era il rosso e lo slogan prediletto qualcosa di molto simile a “we’re underground”.
La trovavo una cosa un po’ scema, ma tant’è.
 
“Non è incredibile?” si ostinava a dire la mia amica, attendendo trepidante una mia reazione spropositata. Reazione che non arrivò poiché mi limitai, piuttosto, ad annuire studiando l’ambiente circostante: i faretti blu posizionati negli angoli, le tubature argentate che scintillavano sfacciate sotto il soffitto, i divanetti logori, una poltrona da dentista affossata e scucita, nascosta dietro un paravento. E poi la gente che andava e veniva, ragazzi dai capelli lunghi e crespi o belle adolescenti con la cresta e troppi tatuaggi sulle braccia. Gente sorridente, impegnata nel sociale, dedita all’arte e… al fancazzismo. Per intenderci: i ragazzi, là dentro, spesso ci stavano soltanto per perdere tempo e fumarsi una canna in santa pace.
In altre parole, prima di dichiararmi entusiasta quanto Romina, decisi di sondare per bene il terreno. E pure se mi fosse piaciuto non avrei sclerato di certo allo stesso modo suo: non ero mai stata tipo da effusioni rumorose in pubblico.

“Allora, ti spiego un po’ di cose.”

Romy partì  in quarta: lo capivo bene da come mi indicava posti e persone, con l’indice ben puntato e gli occhi scintillanti. Aveva quel faccino da pupazzetto scemo che stonava un po’ troppo con l’abbigliamento metallaro; qualcuno (che non fossi stata io) avrebbe dovuto spiegarle che per essere una tosta non bastava vestirsi in un certo modo.

“Quello lì giù, lo vedi? Quello con la cresta gialla e rossa? E’ Polska. Diciamo che è un po’ il capo, coordina tutte le attività, organizza eventi, gestisce il laboratorio di scultura. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti e tenuto  un sacco di mostre a Berlino, dove ha vissuto per un paio di anni. Insomma,  è uno che ne capisce. Pensa che ha programmato lui l’occupazione di questo posto, tutti gli altri l’hanno soltanto seguito.”
 
Ne parlava come un’innamorata.
Lo era, probabilmente.
Che poi, Polska, che nome era? A guardarlo con quella sua maglia sbrindellata, l’enorme simbolo anarchico tatuato sulla spalla sinistra e le mani ossute non mi sembrava neppure tanto interessante, quanto già visto. Eppure Romina lo guardava come un dio: mi decisi a darle corda.
 
“Polska?”
“Sì, è il suo soprannome.”
“Come si chiama veramente?”
“Fabrizio.”
“E perché Polska?”
Romina diede in un’alzata di spalle, rispondendo con fare ingenuo.
“Non lo so, sarà qualcosa che ha a che fare con la Russia comunista.”
“Uhm…”
“Non mi sembri molto convinta. Non ti piace La Piovra?”
“Ma sì, sì mi piace…” mi affrettai a risponderle non desiderando deludere le sue aspettative “E’ solo che è tutto nuovo, non sono mai stata in un centro sociale prima e devo abituarmi.”
“Meg, questo non è un centro sociale, è il centro sociale e te ne renderai conto presto. Ormai siamo fuori dagli oratori e dalle pesche di beneficenza da catechiste dove ci portavano le nostre mamme. La vita è nostra, la società è nostra. Quest’epoca ci appartiene e noi la stravolgeremo!”
Romina parlò da moderna Lenin, guardando un punto lontano: quando la seguii con lo sguardo compresi che quel punto corrispondeva esattamente all’apice della cresta multicolor di Polska ma non ne feci parola. Tutto sommato era divertente osservarla in questa sua nuova veste.
“Okay, okay, Che Guevara dei poveri. Ho capito. Partiamo dal principio allora, sono curiosa: cosa c’era prima della Piovra, qui?”
“Un edificio comunale in disuso. Ci tenevano la vecchia biblioteca che adesso sta a via Cavour.”
Fu la voce di un ragazzo a rispondermi, prima di infilarmi in mano un volantino color ocra.
“Lo so, lo so, è una tonalità di merda. Giangi si è offerto di stamparli in tipografia dallo zio, dovevano essere gialli e invece li ha fatti venir fuori così…”
 
Ma chi cavolo era sto Giangi?
E che speranze di vita poteva avere un tipo che di nome faceva Giangi?
 
“Steeeena! Ciao!”
Romy si affrettò ad abbracciare il nuovo arrivato con calore, come se si fosse trattato di un amico di vecchia data; in realtà, ero certa non lo conoscesse da più di un mese.
“Ciao Rò! Hai portato un’amica, brava. Io sono Stefano però mi chiamano tutti Stena. Piacere.”
Il tipo in questione mi allungò la mano, ossuta quanto quella del famigerato Polska: con molte probabilità mangiare non rientrava tra le attività predilette dei membri de La Piovra. Guardai curiosa ai suoi lunghi rasta biondi prima di ricambiare.
“Margherita…”
“Puoi chiamarla Meg però, se ti va…”
Fulminai Romina con lo sguardo: da quando dava il permesso agli sconosciuti di entrare in confidenza con me?
“Ma ceeeeeerto! Benvenuta Meg, ti troverai come a casa! Anzi, meglio che a casa visto che se ti fumi una canna qui dentro nessuno ti romperà i coglioni… al massimo ce la passiamo!”
 
Rise. Pensava di apparire divertente.
Alzai il sopracciglio destro con aria diffidente.
 
“Allora, programma della settimana…”
Non si perse d’animo, il ragazzo, davanti alla mia tiepida reazione. Piuttosto, piantò l’indice sul manifesto che mi aveva infilato tra le mani, troppo preso dalla sua spiegazione.
“Sabato sera c’è un graaaaandioso reggae party!” calcò molto sull’aggettivo grandioso, lasciando intendere che fosse qualcosa cui certamente fosse un’eresia mancare.
“Reggae party?”
“Già! Hai presente? Dub, reggae, se ci riesce anche un po’ di ska e…”
“No, no, no! Questo l’avevo capito. Intendevo: ero certa che qui passasse solo musica elettronica, da come avete decorato l’ambiente pensavo la facesse da padrone. Che c’entra ora il reggae?”
“Ma no! Qua siamo tutti fratelli, Meg, si accontentano i gusti di ognuno di noi…”
 
Tutti fratelli?
Ma chi ti conosce?
 
“Ogni giorno della settimana una festa diversa! Così non si scontenta nessuno!”
“Ma voi non studiate mai?” risposi di rimando.
Romina mi tirò per la manica della camicia, già pronta a prendermi da parte e rimproverarmi la mia solita acidità. Non le andava di far cattiva figura portandosi a spasso un’amica poco disposta alla chiacchiera o alla carineria ma io non ero di quelle che le mandavano a dire e trovavo giusto esprimere sinceramente le mie opinioni. Del resto, i centri sociali non servivano forse anche a questo?
In ogni caso Stefano, Stena o come cazzo si chiamava lui, non sembrò offendersi e piuttosto continuò ancora a parlare con interesse. A voler essere gentili era un chiacchierone; a dirla in maniera infima non sputava per terra un minuto.
“Ah ma allora sei tipo una letterata te! Ho quello che fa al caso tuo: una mostra fotografica, domani pomeriggio! Che dici?”
Evitai di fargli presente che tra la letteratura e la fotografia c’era una sottile differenza.
“Ecco…”
“Chi è il fotografo?”
“Il Genio.”
Romina fece una faccia sorpresa.
“No! Non ci credo, l’avete convinto? Sarà una mostra fighissima…”
 
Fighissima. Di nuovo.
 
“…Genio è un talento nato!”
“Lo penso anche io! Vedi…”
Stefano riprese a parlare e io mi tappai le orecchie quasi subito: era fin troppo logorroico per i miei gusti. Avrebbe anche potuto dirmi di scappare perché c’era una bomba nell’edificio: non l’avrei ascoltato in ogni caso, in quel momento.
Mi voltai attorno, quindi, un po’ annoiata e senza sapere esattamente cosa fare ma con l’assoluta necessità di staccare dalla voce entusiasta e fastidiosa di Stena. Non vedevo l’ora di tornare a casa; quel posto, per quanto mi riguardava, brulicava di pazzi.
Fu così che lo trovai, mentre scandagliavo l’ambiente circostante: poggiato a una colonna grigiastra e ammuffita, intento a fumare una sigaretta. La cresta viola, non molto alta, i jeans stretti e neri, un paio di anfibi quasi troppo grandi e le braccia nude e tatuate. Tatuaggi di ogni forma e misura, tutti colorati: il massimo che mi riuscì di individuare tra essi fu un teschio e un’ancora che spuntava tra due rose rosse.
Niente di sobrio, lo ammetto, eppure tutti quei ghirigori sulla pelle possedevano un fascino particolare.
Non avrei saputo dire con precisione cosa mi avesse colpito di lui (perché qualcosa mi aveva colpito, era chiaro). Non vestiva in maniera differente da tutti gli altri, per quanto non risultasse in ogni caso per nulla convenzionale. Ma stava proprio qui il problema: la stravaganza ostentata, l’eccesso mostrato sotto forma di piercing e chiome colorate, tutto di quella gente diceva “guardatemi, io esisto e sono qui”, come se per essere parte di quello e di tutti gli altri centri sociali del mondo fosse indispensabile indossare un certo tipo di abiti. Seguire uno standard che per me aveva del ridicolo.
Tuttavia su di lui né la canotta scura e scucita, né tutto quel metallo né il colore atipico dei capelli sembravano stonare. Non lo rendevano un tipo stravagante come gli altri ma, paradossalmente, un individuo quasi anonimo. Sembrava usasse quei vestiti per mimetizzarsi e nascondersi tra decine di persone conciate allo stesso modo ed era chiaro che attirare l’attenzione non rientrasse nelle sue necessità: non si guardava attorno, lo sguardo vagava da una parte all’altra senza cercare riscontro e aveva proprio l’aria di qualcuno che si stava annoiando. Che si stava davvero annoiando.
Sì, forse fu proprio  questo a colpirmi: il suo disinteresse. Ma non solo: quel tipo mai visto prima aveva un’aria terribilmente familiare. Come se nella nostra totale estraneità avessimo condiviso giorni pieni di parole. Non seppi dire come questo fosse possibile.
Quando si girò, squadrandomi con due occhi grigi e inquietanti, mi voltai subito imbarazzata, convinta di esser stata colta nel momento vergognoso in cui lo guardavo a bocca spalancata. In realtà, dopo una frazione di secondo, compresi bene che il giovanotto in questione neppure avesse fatto caso a me. Ruotò lo sguardo sull’intera sala prima di tornare a fissare il vuoto.
 
“Allora ci vediamo?”
“Eh?”
“Ehi! L’ambiente ti ha distratto, vero? Lo so, lo so, questo posto incanta! Beh, ragazze adesso vado, ho un po’ di sana propaganda da fare. Mi raccomando, conto sulla vostra presenza!”
Guardai Stena allontanarsi, inebetita: non ci aveva dato neppure tempo di salutarlo, nella furia di andare a riempire di chiacchiere la testa altrui. Stravolta mi voltai di nuovo verso la colonna alle mie spalle: lui non c’era più. Faticai non poco per ritrovare la concentrazione e tornare a guardare la mia amica.
“Che… che ha detto?”
“Chi?”
“Il tipo lì…”
“Ah, Stena? Dice che ci aspetta per domani, pare che le foto siano sensazionali.”
“Uhmm” risposi poco convinta.
“Tu che hai, piuttosto? Ti vedo pensierosa…”
“Stavo guardando…” troncai la frase sul nascere. Temevo le reazioni di Romina: se le avessi parlato o chiesto qualsiasi informazione riguardo al tipo strano visto soltanto pochi minuti prima avrebbe potuto fraintendere. Avrebbe potuto credere che quel centro sociale avesse destato il mio interesse in un qualsiasi modo. Avrebbe potuto… ooh al diavolo!
Romina era la mia migliore amica da molto tempo: quattro onorati anni di telefonate, risate, pianti, sabati sera passati a mangiare patatine San Carlo davanti alla tv, pizzate di classe e litigi per contendersi l’attore del cuore. Mi sopportava da troppo tempo, me, le mie paranoie, e tutte le volte che non… Oh, insomma! Avrebbe significato pur qualcosa tutto questo, no? Dovevo imparare a fidarmi di più, ecco.
 
“Che c’è?” incalzò allora.
“Non lo vedo adesso in giro…” mormorai.
“Ma chi?!”
 
D’improvviso scorsi di nuovo la sua figura esile  aggirarsi rapida e nervosa dietro altre colonne, alle spalle di alcuni visitatori del centro.
Alle spalle di Romina.
Presi coraggio e mi decisi.
Lui. Chi è lui?”
Lo indicai stando bene attenta a non farmi notare, giusto in tempo perché anche Romina potesse vederlo prima che sparisse di nuovo, inghiottito dai corridoi della Piovra.
“Ah, Andrea! Ti piace?”
 
Ecco, subito. Neanche tempo di parlare.
Decisamente avrei continuato a non fidarmi ancora per molti anni.
 
“Non saltare a conclusioni affrettati, Romy! Ti ho chiesto solo chi sia, stop.”
Romina sorrise furbetta, lo sguardo compiaciuto di chi sappia più del dovuto. In realtà non sapeva un cazzo.
“Andrea Zenovi detto Zeno.”
“Ma qui se non vi affibbiate un soprannome non campate sereni?”
“Mamma mia, non essere pesante! Ci riconosciamo più facilmente! Sai quanti Andrea e Stefano ci sono in giro?”
“Vabbè, come non detto.”
“Un tipo interessante, vero?”
“Mmh.”
“Non rispondermi con questi mugolii indifferenti.  Se non ti piacesse non avresti chiesto.”
Sbuffai.
“Okay, è interessante. Va bene così?”
Annuì soddisfatta.
 
“E’ piuttosto ambito, piace davvero a un casino di ragazze qui dentro. Per esempio, c’è Luna…”
“Oh, per favore, non m’interessano le sue conquiste. A stento ne conosco il nome. Magari è pure il solito belloccio senza cervello…”
“Macché! Lui è il Genio!”
“Chi?”
“Oh, ma lo stavi ascoltando Stena prima oppure no?”
“Mica tanto. Parlava a raffica, a un certo punto ho sconnesso…”
 
Romina sbuffò, ridendo tuttavia sotto i baffi.
Sapeva che avevo ragione.
 
“Genio, il Genio. Domani tiene qui dentro la sua mostra fotografica…”
“Ah, sì, questo l’ho sentito! Ma non si chiamava Zeno?”
“Oh beh, sì, sarebbe Zeno, in principio l’idea era quella. Poi però una sera Caspio… lo conosci Caspio?”
Alzai gli occhi al cielo, spazientita.
“No, chi cavolo è adesso sto Caspio?”
“Alberto Casperini detto Caspio. Vabbè, comunque sia… una sera stavamo tutti qui, me compresa” calcò molto sulle ultime parole, fiera di poter mostrare di essere ormai parte della combriccola “e avevamo bevuto e pure un po’ fumato. Caspio stava strafattissimo, non avrebbe saputo dire manco il suo nome, per cui pronunciò Zenio anziché Zeno. E poi Zenio è diventato automaticamente Genio, in onore del suo cervello enorme e del suo talento artistico. Quindi puoi chiamarlo un po’ come ti pare, Andrea, Zeno, Genio. Io so soltanto che  fottutamente figo e che dovresti provarci.”
Toccò a me sbuffare stavolta. Ero anche piuttosto seria.
“Non ho intenzione di provarci proprio con nessuno, Romy. Smettila di vedere storie d’amore dove non ci sono. Neanche lo conosco.”
“Ma sei così bella! Se ti conoscesse non potrebbe mai dirti di no!” rispose convinta salutando un tipo poco distante, un ragazzetto dai capelli bruni e le braccia, manco a dirlo, cariche di volantini e cartelloni. Sembrava che le attività di propaganda e promozione fossero assolutamente vitali per quel centro sociale.
“Romina, basta guardare film romantici da quattro soldi! E riportami a casa adesso, per favore. Alle sei ho i ragazzi del doposcuola da seguire.”
“Ma ci verrai?”
“Dove?”
“Alla mostra!”
“No.”
“E daaaai! Ti prego! Ti prego, ti prego, ti prego!”

Sbuffai, alzando le spalle. La voglia di vedere più da vicino Andrea detto il Genio c’era e anche il desiderio di conoscere le sue foto, scoprire chi si celava dietro quella faccia da bello e dannato della situazione. La voglia di compiacere Romina un po’ meno. Ma non mi andava neppure di sentirla piagnucolare per tutto il tempo soltanto per cercare di convincermi. Di conseguenza acconsentii a una risposta diplomatica.
“Vedremo…” borbottai poco convinta, prima di incamminarmi verso l’uscita.
 
 
 
 
“Sei così bella, non potrebbe mai dirti di no”.
Ecco cosa pensava Romina di me. Mi guardava come se fossi stata una principessa delle favole, mi aveva sempre guardata in quel modo e dava per scontato da tempo immemore che l’intero universo maschile che ci conosceva cascasse ai miei piedi. Ancora faticavo a comprendere il perché di quella convinzione.
In realtà di bello e particolare, per ciò che mi riguardava, non avevo proprio nulla: insipidi capelli castani contornavano un visetto magro dagli insipidi occhi castani. Trovavo il mio labbro superiore così sottile da risultare irritante e mi deprimeva terribilmente il rotolino di ciccia al punto vita. Andavo in giro con una cartella in cuoio, acquistata per pochi spiccioli al mercato delle pulci, zeppa di taccuini di appunti in pelle e quaderni dalle copertine a fiori un po’ retrò, perché mi piaceva scrivere di tutto, dal romanzetto alla lista per la spesa, e avevo bisogno di tener sempre sottomano l’occorrente per farlo. Insomma, non ero proprio tipo da centro sociale. Non ero tipo da Piovra, soprattutto: il cyberpunk e il mio orologino da polso in finta pelle nera sarebbero andati poco d’accordo.
Certo, spiegarlo a Romina non sarebbe stato altrettanto facile. Per lei ero l’amichetta con cui aveva condiviso l’adolescenza, la sorellina acquisita bella a prescindere e senza un perché. Che poi fosse lei la fanciullina fortunata con gli occhioni blu e le labbra a cuore era un’altra storia.
Tra le due, io ero anche quella saggia. Molto studiosa, un po’ intellettuale… la più noiosa, in altre parole. Quella che disegnava per sfogare su di un foglio i periodi bui, quella che dava forma a strani volti dagli occhi privi di pupille e corpi sformati; mia madre, quando guardava le mie creazioni, lasciava la stanza sempre un po’ rammaricata, preoccupata del mio stato mentale e del fatto che potessi attirare influenze negative dall’etere. Ed ero anche quella ascoltava la musica più strana e sognava un futuro in cui diventava una scrittrice affermata: sognare, per l’appunto. Al massimo avrei fatto l’insegnante sempre se mio padre me l’avesse concesso.
Cosa ci trovasse di tanto speciale in me Romina stentavo ancora a comprenderlo. Poi mi dicevo che fosse tutta una questione di affetto e non ci badavo più di tanto. Ma certamente non avrebbe dovuto accostarmi ad un tipo come Andrea (Zeno o Genio che si chiamasse): era troppo stravagante per me. Senza contare il fatto che fosse un emerito sconosciuto.
 
In ogni caso, il giorno successivo, alla mostra organizzata a La Piovra ci andai per davvero, da sola e senza avvisare Romina. Un pochino appassionata di fotografia lo ero – benché fossi assolutamente incapace di scatti da maestro mi piaceva molto guardare – e non mi mancava la curiosità di vedere che tipo si celasse dietro l’abbigliamento da punk strafottente di quel fantomatico “Genio”.
Così, armata di santa pazienza, mi arrischiai sul bus 480.
“Arrischiarsi” era il termine perfetto da usare in questo caso, considerando che la prima fermata dell’autobus era nei pressi di una vecchia clinica psichiatrica e la seconda all’angolo del mercato del pesce del quartiere San Cristoforo. Indi per cui, il tragitto di andata lo condivisi con un tipo che, seduto accanto a me, continuava a battere il suo ombrello a manico lungo contro sedie, linoleum, corrimani e quant’altro, in maniera sempre più convulsa e grugnendo a intervalli di tempo regolari. Quando qualche santo in paradiso decise di liberarmi da suddetto soggetto da manicomio criminale, quel che ottenni in cambio fu una vecchietta con le buste della spesa piene di pesce fresco. Pesce freschissimo, anzi: si vantava con un’amica di averlo pagato a buon prezzo, mentre io mi tenevo la bocca nello sforzo di non vomitare quando l’odore di merluzzo e cernia mi raggiungeva a ondate.
Quando uscii dall’autobus aspirai l’aria a pieni polmoni, manco mi fossi trovata in aperta campagna: per quanto inquinata potesse essere, la preferivo mille volte alla puzza insopportabile dell’autobus. Dopodiché mi avviai verso La Piovra – l’edificio si trovava esattamente a pochi metri sulla sinistra, una volta svoltato l’angolo – pregando di riappropriarmi il prima possibile del mio profumo di shampoo alla pesca.
La Piovra era incredibilmente affollata quel giorno, molto più del pomeriggio precedente. La pubblicità fatta da Stena aveva certamente ottenuto i risultati sperati perché davvero non avevo mai visto tanta gente strana tutta insieme, neppure ai concerti rock dove mi piaceva andare trascinandomi dietro Romina. Forse proprio grazie a quella folla riuscii a bypassare la mia amica, evitando di attirare la sua attenzione: se ne stava in un angolo, parlottando serena con qualcuno di sconosciuto e gesticolando in modo fin troppo evidente e io cercai di scivolare via dal suo raggio d’azione più velocemente possibile.
L’intero locale era tappezzato di fotografie. Pensavo fossero disposte su pannelli appropriati e invece, soltanto quando andai a sbattere contro una parete nel tentativo di non urtare un paio di visitatori, mi resi conto che erano disseminate ovunque, quasi senza cura ma secondo uno schema interessante. Mi ritrovai proprio di fianco a una cornice molto grande che ospitava una foto in bianco e nero, come tutte le altre esposte alla mostra e fu proprio quella la prima foto che guardai: il sorriso di una madre. Un sorriso grande, un po’ imperfetto ma luminoso. Solo la bocca era ritratta, mentre la donna stringeva tra le braccia un bambino appena nato di cui si poteva ammirare appena la testina piccola e tonda. Il bianco e il nero giocavano sulle forme, le mettevano in risalto, comunicavano una gioia difficile da descriversi. Era una bella, bellissima foto.
Timida, continuai a muovermi lungo la parete mentre la gente intorno a me ciarlava e un po’ mi toglieva l’aria. I ragazzi del collettivo studentesco, quelli della Facoltà di Lettere dove mi sarei iscritta dopo il diploma, stavano lì con i loro occhialoni da nerd studiando allo stesso modo le fotografie e chiacchierandone al riguardo. Dicevano: “avrà usato una Reflex? Sono molto nitide” e “trovo sia meraviglioso l’indicibile senso di amore e solitudine che riesce a tirar fuori”, così come tante altre stronzate. Ne parlavano come i critici d’arte parlano dei grandi quadri di Caravaggio e Van Gogh senza capirci un’acca, vedendoci cose che manco loro sapevano di voler comunicare. Era per questo che li odiavo: mettevano il naso in questioni che ignoravano e pretendevano pure di avere ragione senza neppure sapere, come tutti i grandi sapientoni/intellettualoidi del mondo. Non mi sarei comportata mai come loro.
 
Mi muovevo così, tra facce di bambini, porte illuminate su pareti scure e buie, tramonti su fiumi sporchi e mezzi prosciugati, primi piani su Converse rotte e sfilacciate e cani dal muso umido finché non la vidi.
Una foto, la foto.
Quella finestra stretta e lunga che affacciava su di un vicolo buio. Doveva essere una strada maleodorante, dai mattoncini probabilmente rossi o ocra, i gatti sul bidone della spazzatura - quei bidoni in latta che si vedono nei cartoni animati o nei film americani da quattro soldi - e un barbone che dormiva in fondo alla via. Ma c’era un vasetto di fiori su quella finestra e la tendina di pizzo da cinque euro che sventolava un po’ fuori e la strada terminava con un arco di mattoni tra i due palazzi adiacenti tanto pittoresco quanto inutile che… sì, dava proprio idea che potesse esserci una speranza. Perché qualcosa di bello da ammirare c’era pure in un posto di merda come quello.
 
Un posto che io conoscevo.
Ero certa, l’avevo vista.
Ma dove? Dove si trovava? E quando c’ero stata?
Prima di battere la testa?
Prima di…
 
 
Ricordi?
Le urla e poi il silenzio.
E il nero, buio a fondo.
Dopo, i tasselli non si sono più
incastrati come prima
.
 
 
“Grazie…”
 
Mi voltai di colpo, scombussolata. Qualcosa era tornato a fare male.
Me lo ritrovai faccia a faccia, il fotografo: Andrea detto Zeno detto Genio.
Andrea era un bel nome, perché storpiarlo?
Non lo riconobbi dal viso ma dai suoi tatuaggi: Medea mi occhieggiava con tutte le serpi dalla sua spalla, tra rose, teschi e scritte in lingue sconosciute.
Balbettai qualcosa, i denti stridevano e la lingua non era in grado di articolare una parola. Erano tornati i miei momenti scuri, quel capogiro, la confusione, l'irrazionale sensazione di non saper dove mi trovavo e perché. Ero convinta di essere guarita, quella foto invece mi aveva riportato indietro. Cento passi indietro, tutti gli sforzi dei miei diciotto anni buttati via per una foto.
 
“Grazie di cosa?” sillabai piano, quasi disperata.
Andrea mi sorrise. Sorriso imperfetto e affascinante.
Aveva davvero gli occhi grigi.
 
“Grazie perché stai guardando le mie foto. Le stai guardando veramente.”
 
 























Eccomi qui, sempre a scocciare con una storia nuova! xD
Ho poco da dirvi a riguardo, a parte il fatto che La Piovra è liberamente ispirata a un centro sociale  esistito per davvero, dove passavo sempre da piccina quando andavo a far visita alla nonna. Il nome non è ovviamente "La Piovra" ma ho scelto questo perché una mia amica, parlando qualche anno fa di suddetto centro sociale, si confuse e lo chiamò in questo modo, la Piovra per l'appunto...Per cui, eccoci qui! ;)
Per questo capitolo voglio ringraziare immensamente la mia bellissima Giulia (Butterphil) che, anzitutto, mi ha convinto a pubblicare visto l'entusiasmo con cui ha accolto la storia. In secondo luogo mi ha aiutato con citazioni e immagini... quindi, grazie di cuore.
 Niente, spero leggerete e mi lascerete un parere a riguardo. Grazie a tutti voi se passerete di qui!
Matisse :)

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Capitolo 2
*** Famiglie felici ***


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Roberto Kusterle








“Stai guardando per davvero” ripeté, convinto. Io non sapevo che fare.
Per la prima volta nella mia vita mi sentivo una stupida. Non che fossi stata sempre particolarmente intelligente, pronta o sagace, ma in linea di massima non  potevo lamentarmi troppo del mio modo di approcciare al mondo e alla gente. Era anonimo, essenzialmente, ma sicuro nella sua banalità: non potevo chiedere di meglio. E invece in quel momento seppi che ogni certezza si stava disintegrando dentro di me. La mia capacità di affrontare gli ostacoli e rialzarmi, discutere con la gente, affermare le mia idee, anche solo rispondere, tutto stava andando felicemente a farsi fottere ed era colpa di Zeno. Delle sue foto, di quella strada sconosciuta, di quegli occhi grigi pieni di cose da dire, familiari tanto quanto il bricco del tè che fischiava sul fornello della cucina ogni pomeriggio alle cinque.
O forse era soltanto colpa della mia memoria. Perché ancora mi restituiva ricordi che raramente erano veritieri; più spesso si trattava di sensazioni impossibili da descrivere che mi riempivano e mi spezzavano dall’interno. E così la confusione tornava ad assalirmi,  ripiombavo nel buio e…
 
“Le tue foto sono tutte in bianco e nero.” fu tutto ciò che risposi.
Proprio una stupida risposta eppure lui annuì.
“Trovo che sia più funzionale allo scopo. Le fotografie a colori costringono l’osservatore a vedere quello che c’è: un fiore giallo, il cielo blu, delle labbra rosse. Il bianco e il nero ti consentono di lavorare di fantasia, potrai vedere quello che vuoi, non quello cui ti costringe la realtà. La fotografia è una forma di evasione, non un modo per starsene incatenati a questo mondo.”
Probabilmente lo guardai a bocca spalancata per diversi minuti. Dovette immaginare che fossi una mezza sciroccata.
“Io… io… “ balbettavo. Infine mi voltai, indicai la foto e quella viuzza che conoscevo. Volevo capire.
“Conosco quella strada.”
Fece spallucce.
“E’ possibile: si trova dall’altro lato della città.”
“Dove?”
“Quartiere San Giovanni”
Un quartiere un po’ degradato, gente che si arrangiava.

“Non posso esserci stata. Non è un posto che frequento, normalmente.”
“Certo, non puoi.”
Alzò le spalle, mi sentii colpita. Assunse un’espressione contrita per un istante.
“Non posso?”
“Sei una brava ragazza, si vede. Per San Giovanni non ci passeresti mai…”
“Tu invece?” risposi di rimando, stranita.
 
“Meg!”
La voce di Romina mi raggiunse in un boato nello stesso istante, interrompendo ogni conversazione. Mi scombussolò come un vulcano pronto ad esplodere nelle mie orecchie mentre io volevo solo parlare piano, in un posto quieto con Andrea, davanti a una finestra che desse su di un giardino magari. Proprio la tipica studentessa sfigata, insomma, quella che immaginava di poter vivere ogni scena della propria vita in mezzo ai fiori. Ridicola.
“Allora sei venuta! Oh… Genio, ciao!”
Andrea alzò appena la mano per salutarla. Di sicuro non sapeva neanche chi fosse.
“Allora, Meg… ci vediamo. Grazie ancora.”
Voltò le spalle con eleganza e si allontanò senza aggiungere altro. Aveva salutato solo me ed ebbi l’impressione che anche la sua Medea agitasse le serpi per farmi ciao ciao.
Mi stropicciai gli occhi e quando li riaprii desiderai immediatamente richiuderli.
In questo modo almeno non sarei stata costretta a contemplare l’espressione esaltata di Romina.
“Hai visto?! Che ti dicevo?! Aaaahhhhwww!”
 
“Ahw”.Un “ahw” prolungato. Degna espressione di una fangirl scema.
 
Vi prego, seppellitemi.
 
“Romina, riprenditi. Non è successo niente.”
“Vuoi scherzare?! Capisci chi ti ha rivolto la parola?”
“Un ragazzo tatuato sui vent’anni che per hobby fa il fotografo. Appena parlerò con Dio ti darò il permesso di esultare con tanto di pon pon. Adesso no.”
“Smettila di sminuire sempre tutto! Ero certa che ti avrebbe notata… sei così terribilmente radical chic!”
Alzai gli occhi al cielo, spazientita.
“Guarda che non mi stai facendo un complimento.”
“Oh, non essere pignola! Intendevo dire che hai classe!”
“Ma non è questo il significato…”
 
Prima che potessi impelagarmi con Romina in una discussione su ciò che volesse dire l’espressione radical chic secondo il genere umano e ciò che volesse intendere esclusivamente lei, il cellulare vibrò in borsa, più volte. Mi affrettai a raccoglierlo, rovistando tra scartoffie colorate, carte di gomme da masticare già consumate, un paio di penne mangiucchiate e almeno cinque agendine di diverso colore.
“Pronto!”
“Margherita… Sai che ore sono?”
 
Papà.
La sua voce seria, quella che non ammetteva repliche.

Merda.
 
“Eehmm… sono le…”
Guardai l’orologio. Entrambe le lancette erano ferme sul dodici.
Dov’era l’orologiaio? Avevo bisogno di cambiare la pila.
 
“Non importa. E’ tardi. Stasera ci sono i nonni a cena…”
 
I nonni.
 
… Con zio Aurelio e la sua seconda moglie.
E tua cugina Florinda, quella cara ragazza! Sai che ha superato a pieni voti il primo anno di economia all’università cattolica? Perché lei studia in un ateneo serio e di classe, mica come te che l’anno prossimo vuoi iscriverti a una miserabile facoltà di Lettere in città! Lei è avanti, è andata oltre, è chic, sa cosa vuole dalla vita.
Tu, invece…

 
“Ci sarò. Sto per tornare a casa.”
“Bene.”
 
Un clic dall’altro lato inghiottì la voce di papà eppure mi sembrava rimbombasse nella mia testa in mille echi insopportabili.
 
Zio Aurelio. Sua moglie Katiuscia.
E Florinda.
Aurelio, Katiuscia, Florinda.
I nonni.
Condannarli al rogo, come faceva l’Inquisizione, ecco cosa desideravo.
Era così sbagliato se, nel pensare a quasi tutti loro, mi venivano istinti omicidi?
 
“Devo andare.”
Romina mi guardò delusa.
“Ma come? Stai qui con noi, dopo festeggiamo, la mostra ha avuto parecchio successo! E poi i ragazzi stanno pensando di occupare anche il vecchio edificio abbandonato del Rhodiaceta. Se vuoi puoi vedere come si organizzano.”
Scossi la testa.
“Ho i nonni a cena. E zio Aurelio, Katiuscia…”
“…E Florinda.”
“Esatto.”
“Okay, come non detto. Ci si vede domani, tesoro.”
 
La salutai, agitando la mano, facendomi spazio tra la gente.
Mi guardai ancora un po’ intorno, speranzosa. Inutile non ammetterlo, cercavo Andrea. Tuttavia, di lui, neppure l’ombra si vedeva in giro. Non individuai la sua cresta viola, nessuna Medea mi occhieggiò tra la folla.
Quand’ero già in strada il cellulare tornò a vibrare. Lo recuperai di nuovo frettolosamente, timorosa di un nuovo rimprovero paterno.
Invece era un messaggio di Romina:
“E comunque, complimenti per la conquista.”diceva.
 
La mandai a quel paese, ridendo fra me e me.
 
***

“Tesoro della nonna, come stai?”
Il profumo di mia nonna Margherita m’investì totalmente. Dopo averne aspirato una piccola quantità mi stordii come se mi fossi buttata in corpo chili di hashish. Non mi sarei mai abituata ai suoi profumi fruttati di provenienza francese: semplicemente li detestavo. C’era da dire che la nonna, alla veneranda età di 72 anni, si reggeva ancora benissimo: conservava un fascino antico, fasciata nel suo tailleur scuro, indossando scarpe dal tacco basso e la punta quadrata. Alla sua età chiunque avrebbe desiderato mantenere la medesima estetica.
Lo stesso avrei potuto dire per il nonno, sempre impeccabile nei suoi completi grigi a costine, nonché per mio zio Aurelio che vantava splendidi capelli biondi (frutto di un costoso trapianto effettuato da un’equipe di esperti di Cesare Ragazzi) e un sorriso luminoso da pubblicità della Colgate .
Infine c’era Katiuscia, la seconda e più giovane moglie di mio zio, rimasto vedovo quattro anni prima.
Katiuscia, di origini russe da parte di padre, era alta e bionda; sempre truccata, sorridente e nel 90% dei casi vestita di strass, aveva i capelli vaporosi e le tette più grosse che avessi mai visto. Anche le più siliconate, probabilmente.
Una bella Barbie, in altre parole.
A guardarli tutti erano davvero perfetti. Peccato fossero quanto di più estraneo e lontano avessi visto in vita mia; era sempre così: ci incontravamo una volta al mese, due al massimo in caso di particolari festività, e ogni volta, anziché avvicinarci, li sentivo più distanti che mai. Da un parente caro puoi andarci anche vestito con jeans e t-shirt, non c’è bisogno sempre di stare in tiro, no?
Tra noi questo invece non accadeva mai.
Forse era questo che decretava la nostra lontananza: il vestiario. I legami di sangue non necessariamente sono legami sentimentali: Aurelio, per esempio, di fatto poteva essere mio zio ma per il  mio cuore non era nessuno e viceversa. E per gli estranei bisogna essere tirati a lucido perché è necessario mantenere le apparenze; ecco perché, quando i miei parenti venivano a trovarci, sembrava sempre fossero diretti a una festa di ricconi piuttosto che da gente di famiglia: perché per loro noi non contavamo niente. Forse neanche l’uno per l’altra significavano davvero qualcosa: eravamo una famiglia inutile di borghesi inutili e privi di sentimenti, era questa la verità.
Era la mia famiglia e io la odiavo.
 
“Ciao nonna. Sono felice di vederti.”
 
Menti, Meg. Sai mentire bene.
 
“Ne sono felice anche io.”
Il nonno, dopo di lei, mi salutò con un sorriso e una pacca gentile sulla spalla: fra tutti era quello che preferivo perché non parlava mai inutilmente. Avevo più stima per mio nonno che per l’intero parentado.
“Margherita Egle! Tesoro, quanto sei cresciuta!”
La voce di Katiuscia, al contrario, mi trapanò il timpano. Zio Aurelio, alle sue spalle, fingeva di sorprendersi allo stesso modo degli invisibili centimetri in più che aveva acquisito la mia statura nell’ultimo mese, boccheggiando come un pesce lesso, e a me venne da vomitare. Se almeno avessero smesso di pronunciare il mio nome per intero – lo trovavo improponibile – magari saremmo andati appena più d’accordo.
“Grazie zia. Stai benissimo.”
 
Le tue protesi reggono bene, zia.
 
Rispose con un sorriso a cento denti: ottimo, credeva alle mie bugie.
In ogni caso, e fortunatamente, me li scrollai subito di dosso: alle mie spalle, infatti, mia madre e mio padre facevano allo stesso modo mio gli onori di casa, attendendo sulla porta i loro ospiti come ogni volta in cui venivano a trovarci. Era una processione prestabilita: prima i saluti da parte della piccola di casa, poi i visitatori passavano per il capofamiglia – l’imprenditore Francesco Maria Gherardi – e infine venivano dirottati verso la signora (mia madre) che li trascinava nel salotto buono ordinando per loro qualcosa da bere al nostro maggiordomo. Maggiordomo, poi! Un povero cristo filippino che veniva a pulirci i vetri e che, per guadagnarsi due lire, era costretto a sorbirsi tutti gli ordini e le ramanzine di mio padre. Lo compativo.
Già sorridevo, valutando il tempo che mancava per porre fine allo strazio, quando un rumore di tacchi sul selciato mi ricordò che non era ancora finita. Mancava l’ultimo saluto: quello a mia cugina Florinda.
 
“Cugina… buonasera.”
“Ciao Florinda. Ti trovo bene.”
Mi squadrò da capo a piedi, con aria di evidente disgustoso. Nello stesso momento mi guardai anch’io dall’esterno, immaginandomi come lei mi vedeva: una ragazzina di quasi diciannove anni, più bassa della media, con i soldi che le venivano fuori dalle tasche e che, nonostante questo, seguitava a vestirsi come una stracciona. Una ragazzina insulsa, per essere più precisi, con indosso una camicetta a fiori da sfigata e le ballerine rosse, l’orologino di pelle finta e i graffi sul braccio provocati dagli artigli dell’ennesimo gatto accudito di nascosto, in giardino. I miei capelli non vedevano un parrucchiere da anni, non mi truccavo molto, non ero solita passarmi lo smalto e indossavo della bigiotteria da
quattro soldi. Immaginavo cosa stavo pensando: sei una vergogna per la famiglia Gherardi, Margherita!
Lei, invece – che aveva soltanto un anno e mezzo più di me - vestiva con gonne eleganti, scure, a vita alta, e camicette dai ricami sfarzosi in stile settecentesco. I suoi capelli bruni erano sempre vaporosi, boccolosi, freschi di parrucchiere; il rossetto rosso si stendeva splendidamente sulle labbra carnose e le ciglia lunghe contornavano eleganti i suoi occhi verdi, eredità della compianta zia Carolina. Particolare essenziale: camminava sui trampoli e non cascava mai.
Insomma, a guardarmi dall’esterno stava certamente pensando che io fossi una poverina, in confronto a lei. Beh, amen. Non sapevo che farci.
 
“Ti ringrazio” sputò infine in risposta al mio complimento.
In teoria, e per educazione, avrebbe dovuto dirmi “trovo bene anche te” ma non lo fece. Piuttosto ridacchiò mentre, sorpassandomi per buttarsi tra le braccia dello zio preferito – l’unico, tra l’altro – mormorò un indisponente “sei sempre un po’ sciupatina però, vero?”
 
***
 
“Ludovico si trova a Londra, vero Franco?”
Papà annuì compiaciuto in risposta alla domanda della nonna. Nella sala da pranzo non si sentiva altro rumore che quello di forchette e coltelli che stridevano sui piatti del servizio buono. Io fingevo soltanto di affettare. In bocca c’infilavo la metà di quel che tagliuzzavo: detestavo mangiare a tavola con certa gente. Mia madre – la mia bella e dolce mamma – di tanto in tanto mi lanciava occhiate di rimprovero. Voleva dirmi “mangia altrimenti non esci con Romina” ma io continuavo a fingere di non vederla.
“Si è preso una vacanza.”
“E’ a casa della fidanzata?”
“Sì, da Amy.”
Amy, la ragazza di mio fratello, era inglese. Di famiglia ricchissima ma una famiglia bella, di quelle che si volevano bene. La invidiavo.
“Senza mio nipote è tutto più complicato, in azienda!” commentò zio Aurelio ridendo e pulendosi la bocca con ampi gesti.
Detto per inciso, l’azienda era la Gherardi&Stornelli snc., leader nella regione nella produzione di imballaggi industriali in legno. Fondata nel lontano 1947 da mio nonno e un amico dell’epoca la cui famiglia si era poi fusa con la nostra grazie ad una serie di matrimoni, tra cui quello di zio Aurelio con la compianta Carolina. Non si trattava di un’azienda grandissima ma insomma, fruttava i suoi soldi. Una cosa insopportabile, in altre parole.
“Sì, puoi dirlo forte.”
“Per fortuna è un periodo tranquillo, questo.”
“E’ vero. Nonostante i tagli al personale degli ultimi tempi non ci sono stati grandi problemi.”
“Dopo tutto quel che è accaduto in passato ci mancherebbe.”
L’ultima frase pronunciata da mio padre fu anche la più infelice. Sapevamo tutti cosa significava, per me in particolare. Abbassai gli occhi sul piatto, costernata, mentre gli sguardi di tutti si puntavano sulla mia persona.
“Tesoro, hai ancora quelle orribili crisi?”
No, mi sbagliavo: più infelice degli interventi di mio padre c’erano soltanto quelli di Katiuscia.
Ma perché non si faceva mai i cazzi suoi?
Scossi la testa, stringendo convulsamente il tovagliolo sulle mie gambe.
“No, adesso Margherita sta bene.” rispose mamma con voce dura.
“Non si direbbe, ha quella faccina così pallida!”
 
Florinda, che tu possa crepare!
 
“E poi ancora non ricorda tutto. E’ vero tesoro? C’è ancora qualcosa che non ricordi?”
“Aurelio, lasciala in pace!” l’ammonì mio nonno.


“Sei ancora certa di non voler studiare economia come tuo fratello e tua cugina, Egle? Sarebbe la scelta più giusta, dopo potresti lavorare con noi in azienda. Perché ti ostini con questa stupida facoltà di Lettere?”
“Perché non me ne frega niente della vostra azienda!” sbottai d’improvviso. Avevo raggiunto il limite ormai: ci mancava soltanto la nonna che s’impicciava del mio futuro accademico per completare l’opera. “E per favore nonna, Egle è un nome che non mi piace! Potresti evitare di usarlo? Mi chiamo Margherita. M – A – R – G –H – E – R – I – T – A, come te! Non è difficile!”
Lanciai il tovagliolo sul tavolo, furiosa, e mi allontanai alla svelta mentre papà, alle mie spalle, chiamava il mio nome con voce intrisa di rabbia e mortificazione: la sua figlioletta scema l’aveva gettato nel ridicolo ancora una volta. Non lo ascoltai comunque, né mi preoccupai delle occhiate disgustate o sorprese degli altri ospiti o dei tentavi di mia madre di riportare stupidamente tutto all’ordine proponendo di mettere in tavola il dolce.
Tutto ciò che afferrai fu l’ennesimo commento inascoltabile di mia cugina Florinda:
“Poveretta! Non si riprenderà mai più! Zio, ti ho sempre detto che dovresti portarla da un buon specialista, perché non mi dai ascolto?”
L’istinto di tornare indietro e schiaffeggiarla mi travolse, tuttavia mi appellai a tutto il mio autocontrollo e mi trattenni. Dopotutto, le avevo dato io modo per denigrarmi compiaciuta, ancora una volta.
 
Se avessi potuto, sarei scappata via. Avrei aperto la portafinestra che dava sul giardino e sarai andata via. Prima in giardino, poi sulla strada, oltrepassando il muretto di cinta. E poi sempre più lontano fino a sparire per non pensarci più. O forse non avrei risolto nulla perché gente come me i suoi problemi se li porta cuciti sotto la pelle e li ritrova sempre, ovunque vada.
Fatto sta che non potevo allontanarmi veramente per ovvie ragioni e così, ancora una volta, l’unica cosa che riuscii a fare fu raggiungere il piano superiore. Qui, mi chiusi in camera in tutta fretta, decisa a uscirne soltanto in caso di necessità e possibilmente di nascosto, quando il display del cellulare che avevo lasciato sulla scrivania s’illuminò d’improvviso.
Riluttante mi avvicinai al mio Nokia soltanto per scoprire che l’ennesimo messaggio di Romina era arrivato a destinazione. Sorrisi nel leggerlo. Nonostante la rabbia, la frustrazione, la collera, riuscii a sorridere semplicemente perché recitava così:
 
“Non vorrei dirtelo ma… Zeno ti cercava. Ha chiesto di te!”
 
 















Buonasera ragazze :)
Eccoci qui con l'aggiornamento! :)
In questo capitolo abbiamo scoperto qualcosina in più sulla vita della nostra Margherita: avrete capito che la sua è una famiglia abbastanza benestante (non stiamo parlando di Berlusconi ma comunque i loro soldini ce li hanno) per cui Meg è abbastanza estranea all'ambiente dei centri sociali. Per adesso ;)
In ogni caso è una persona che non riesce a legare neppure al mondo fatto di denaro e falstà della sua famiglia: è molto combattuta e spesso faticherà a trovare il suo posto "nel mondo".

Grazie per le sei recensioni al primo capitolo, mi avete resa felicissima :D Vedo che Zeno già spopola: in questo capitolo è comparso poco, dal prossimo tornerà alla grande. Adesso avevo davvero l'esigenza di presentarvi meglio la nostra protagonista. Detto per inciso, Meg è un nome che le ho attribuito in onore della mitica Meg ex 99 Posse, una cantante che ho sempre amato molto :)
Vi ringrazio ancora molto per l'accoglienza riservata a Piovre sotto pelle: spero continuerete a leggere e lasciarmi i vostri pareri <3
Un bacio a tutte voi
Matisse
PS: il capitolo non è betato, mi scuso per eventuali errori.
PPS: ho "usato" di nuovo Kusterle come immagine del capitolo, la trovo davvero significativa per la nostra Meg, ma non escludo di potervi presentare una copertina più bella per il prossimo aggiornamento :D

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Capitolo 3
*** Vibrazioni ***


Buonasera a tutte :)
Immagino stiate guardando la partita... beh, se non lo state facendo mi auguro vi faccia piacere quest'aggiornamento di Piovre! Allora, qualche appunto: la parte in corsivo con cui comincio il capitolo è un insieme di ricordi/sensazioni di Margherita. E' possibile che inserisca spesso questa specie di "prologo" (passatemi il termine) da cui potrete trarre un po' di dettagli del suo passato.

La canzone che fa da colonna sonora al capitolo è questa:
http://www.youtube.com/watch?v=rDOmXKZ-EdI

E' una canzone dub che amo tanto, spero possa piacervi. Sicuramente combacia molto con l'argomento trattato! ;)

Se manca qualche "enne" nel capitolo vi prego, non fateci caso. Ho seri problemi di tastiera.
Grazie per le recensioni al precedente capitolo, spero mi lasciate il vostro parere anche per questo nuovo :)
Vi lascio con un banner creato da me. Non è un granché, avviso! ;)
Buona lettura!
Matisse


 











Mio padre pensava che il rigore fosse alla base di tutto e non lo dimostrava a parole, ma con i fatti. D’altronde non amava troppo chiacchierare con la gente, neppure con mia madre: dovevo aver ereditato da lui quella mia particolare tendenza al silenzio con gli estranei.

Ciò che contava davvero per lui era lavorare sodo e al meglio, per il bene della famiglia, per se stessi e per dar modo agli altri di parlare. Sì, esattamente: parlare. A suo dire, gli estranei avrebbero dovuto spiare i nostri lussi, commentarli e invidiarli, sempre. Questo, per lui, ci rendeva persone di livello superiore: più soldi, più studio, più salute. Grandezza mentale e fisica, in altre parole, e mille diritti in più rispetto al resto del mondo. Ecco perché ringraziavo sempre chi, nell’alto dei cieli, ci aveva permesso di non diventare straricchi come Berlusconi: se avessimo avuto ancora più soldi e potere mio padre sarebbe stato incontrollabile. In queste condizioni, invece, riuscivamo ancora a gestire la sua mente malata.
Il suo tarlo fisso riguardava i particolar modo noi figli: avremmo dovuto studiare, mantenerci ligi al dovere in ogni occasione e seguire, possibilmente, le orme paterne. Quelle materne no, giacché mamma si era autorelegata sin da subito nel semplice ruolo di padrona di casa. La invidiavo quasi, per questa sua presunta scelta.
Mio fratello Ludovico, comunque, aveva seguito per davvero gli insegnamenti di mio padre: più grande di me di sette anni, si era laureato in economia e adesso gestiva gli affari di famiglia assieme a papà, zio Aurelio e Riccardo, fratello della sempre compianta e ormai famosa zia Carolina.
Io, viceversa, mi ero rivelata la pecora nera. Ero una delusione per la famiglia Gherardi. La più grande delusione per mio padre, soprattutto.
Questo perché, in primo luogo, avevo abbandonato il prestigioso istituto superiore di suore dove ero stata iscritta dai miei geitori, in favore di una normale scuola pubblica in città, la stessa dove avevo poi conosciuto Romina, compagna di banco e amica fidata. Certamente si era trattato di un grosso colpo per papà: anche lui aveva studiato in quella scuola e pure Ludovico, la riteneva tappa fondamentale di un percorso di studi serio e completo. Tuttavia aveva ingoiato il boccone senza obiettare troppo mentre io mi sfregavo le mani di nascosto, fiera di quella prima conquista. Due anni dopo questo primo colpo, gli avevo poi comunicato – con tanto di tachicardia, sudando e balbettando – che non mi sarei mai iscritta a economia come lui desiderava: volevo insegnare. Mi piaceva leggere, adoravo scrivere e anche disegnare a dirla tutta. Avrei studiato alla facoltà di Lettere e nessun rimprovero mi avrebbe dissuasa. Lui non aveva ribattuto ancora una volta e io sapevo perfettamente perché: non poteva, temeva le mie reazioni e temeva per la mia salute. Se avessi avuto l’ennesima crisi a causa di un suo rifiuto, mamma non l’avrebbe mai perdonato. Lui stesso non si sarebbe dato pace. Cosicché aveva acconsentito ma io sapevo che, in cuor suo, sperava di farmi cambiare idea negli anni con la diplomazia. A distanza di tempo non c’era riuscito; ormai alle soglie della maturità, il mio desiderio era rimasto immutato: avrei studiato alla facoltà di Lettere.

 
A volte, di notte, ringraziavo la mia buona stella, nonostante tutto: se non avessi mai battuto la testa sul pesante marmo delle scale che conducevano al piano inferiore nell’azienda di famiglia, tante cose non mi sarebbero state permesse. Men che meno i corsi della facoltà di Lettere.




***
 


Il mattino seguente alla sfortunata cena, lasciai la mia stanza in tutta fretta ma stando bene attenta a non far rumore. Sapevo di per certo che mio padre non fosse in casa – a quell’ora era già affaccendato nel suo ufficio – e così, ridacchiando, me l’immaginai mentre cercava di scusarsi con zio Aurelio per l’accaduto. Me lo immaginavo mentre parlava di me come di una malata di mente, per giustificarsi. Margherita la pazza, avrebbero potuto ribattezzarmi.
Allo stesso modo Joan, il povero cristo filippino che ci puliva le tapparelle, non era in casa poiché di sabato aveva giorno libero. Avrei potuto incontrare mia madre, tuttavia, per cui feci bene attenzione a evitarla benché fossi convinta che a quell’ora poltrisse ancora nel letto.
Come immaginato, schivai ogni pericolo e corsi a scuola con il cuore più leggero. Dopotutto ero felice.
 

Chissà perché.
 

Incontrai Romina sulle scale dell’ingresso, mentre ascoltava musica dal suo iPod standosene seduta in disparte.
 

“Ohi, Romy? Che hai? Perché stai qui da sola?”
Le strappai letteralmente le cuffie, preoccupata; Romina mi guardò sorpresa. Voleva dirmi “ma sei scema?” eppure si trattenne e mugolò un semplice “tutto okay?”.

“Sì, scusa… solo che ti ho vista qui in un angolino, normalmente sei così chiacchierona e socievole. Pensavo ti fosse accaduto qualcosa, mi hai fatto preoccupare.”
 
Romina spense l’iPod e mi rivolse un sorrisetto furbo.

“Io sto benissimo, ti ringrazio. Sto soltanto facendo una full immersion nel fantastico mondo del reggae.”
“Prego?”
“Stasera c’è la festa a La Piovra, te lo sei scordato?”
 
Ah sì. Sabato sera.
Me l’aveva detto Stena: “c’è un graaaaaaaaaandioso reggae party!
 

Yeah.
 

“Vieni anche tu? Tanto è sabato, puoi uscire.”
“Mmh. Penso di no.”
“Perché?”
“Probabilmente sono in punizione fino a nuovo ordine.”
“Che hai fatto?”
“Ho risposto male alla nonna ieri sera, a cena.”
Mi grattai la testa e feci una linguaccia.
“Ulla – là!” mugolò Romina, sorpresa, e nel farlo ripose alla rinfusa libri, iPod e quaderni nello zaino.
 
Uno zaino nero e borchiato?
E da quando?
E che c’entra col reggae, Romy?!

 
“Ti stai ribellando al potere?”
“Ho cominciato anni fa, a essere sincera.”
“Stai migliorando. Brava. Che è successo stavolta?”
“Ha ricominciato con la storia di farmi iscrivere a Economia, come hanno fatto Ludovico e Florinda. Mi hanno stufato… Che si fottano tutti!”
Romina alzò le spalle, in faccia un’espressione indecifrabile.
“Tesoro, cosa ti aspettavi? Sei una Gherardi, ti stanno concedendo fin troppo. Queste cose succedono alla gente comune, figurati ai…”
“…ricchi come me? Lo so. Ma non ricordarmelo, per favore.”
“Cosa?”
“Che sono ricca.”
“E’ inutile che fingi o ti nascondi, Meg. Guarda che la gente farebbe carte false per stare al posto tuo.”
“Se lo prendessero questo posto mio, allora! I soldi non li voglio, non la voglio la mia casa a due piani e l’azienda di famiglia può pure bruciare! Io … io ho sentito …”
 


Ho sentito le parole di mio padre.
Ricordo quello che ha detto.
Sì, purtroppo lo ricordo.
Da quel giorno non è stato più mio padre, per me.

 


Gli occhi di Romina si dilatarono per lo spavento. Forse temeva un mio possibile quanto comune attacco di panico perché si affrettò a tranquillizzarmi:
“Sssh, tesoro! Basta adesso, non pensarci più. Non ci andrai a Economia, non farai quello che ti dicono così come non l’hai fatto finora.”
Mi afferrò i polsi con le sue mani bianchissime e delicate. Mi strinse senza farmi male.
“Non l’ho fatto finora soltanto perché sono un’inferma e loro mi hanno accontentato.”
“Ma sta’ zitta che stai meglio di me! Idiota!” mi lasciò un buffetto leggero sulla guancia e rise. Ecco perché le volevo così bene: le sue parole non mi facevano mai sentire diversa dagli altri.
“E stasera vieni al centro sociale con me, non accetto rifiuti. Parlo io con tua madre.”
“Al massimo dovresti parlare con mio padre. O farci parlare tua madre e comunque non sono certa ti direbbe di sì.”
“Mia madre e mio padre sono andati a trovare mia sorella Claudia, tornano domenica pomeriggio. In casa ci siamo solo io e Lorenzo e dubito che tuo padre voglia parlare con mio fratello Lorenzo.”
“Mmh … se è sempre quello che ha fatto quasi saltare in aria il laboratorio di chimica della scuola due anni fa, no. Non credo voglia parlarci.”
“Oddio, ma perché, lo sa anche tuo papà della storia di Lore!?”
“Ma no, ovvio che no! E non dovrà mai saperlo.”
“Mi hai fatto prendere un colpo, cretina! In ogni caso affidati a me: dirò a tua mamma che lunedì abbiamo un compito importante di… di…”
“…latino. Abbiamo davvero il compito di latino lunedì, Romy!”
“Ah già! Cazzo, me l’ero scordato…” fece una faccia perplessa. Quasi certamente non era preparata. “In ogni caso abbiamo la scusa servita su di un piatto d’argento: dobbiamo studiare insieme per lunedì!”
“Mia madre ti dirà che puoi stare tu da noi…”
“E io le dirò che dobbiamo stare da me perché c’è anche mia cugina che è un fenomeno in latino!”
“Davvero?”
“Ma no! Non ho neanche una cazzo di cugina, sveglia!”
“Oh… e che ne so. Non me lo ricordavo.”
“Senti, è tutto deciso allora!” commentò fiera, alzandosi di botto. Aveva proprio la faccia trionfante e il pugno chiuso in stile eroina dei fumetti. Sembrava un Super Sayan.

In realtà non c’era proprio niente di deciso ma dopo l’ennesimo putiferio scatenato in famiglia non mi dispiaceva pensare di poter staccare la spina e allontanarmi, anche per una sera soltanto. E non m’importava che fosse a La Piovra, non m’importava non avere nulla a che fare con quel centro sociale: era qualcosa di totalmente diverso dal mio ambiente casalingo e per una volta questa cosa mi stava bene.
Dovevo soltanto incrociare le dita e sperare nella benedizione materna.
 



***
 



“Ehm… Romy?”
“Sì?”
“Recentemente sei stata al circo Orfei?”
“No, perché?”
“Allora dove hai pescato la roba che ti sei infilata addosso?”

Romina smise di contemplare compiaciuta la propria figura allo specchio e mi lanciò rapida un paio di maglie colorate in faccia, tirando fuori la lingua. A me venne da ridere e mi distesi più comodamente sul suo letto. Indossava una gonna a balze, non troppo gonfia, di un’ orribile tonalità di … giallo; i bordi della sua maglia nera erano decorati con i colori della bandiera giamaicana. Mi chiedevo cosa ne avesse fatto della ragazza pseudo metallara – cyberpunk con cui avevo parlato quel mattino.


“Lo sai che se pensi di aver adottato un determinato stile dovresti mantenerlo sempre?”
“Che intendi?”
“Beh, se ti vesti in un determinato modo lo fai per esternare quel che hai dentro e non lo cambi così facilmente solo perché cambia il contesto dove ti trovi. Se pensi di essere sufficientemente tosta e oscura per indossare borchie e minigonne nere dovresti farlo anche se vai a una serata di musica reggae, no?”

Romina ci pensò un po’ su, le mani sui fianchi e la testa inclinata su di un lato mentre mi guardava. Poi sorrise convinta.

“Oooh ma chi se ne frega! Mica posso andarci con le borchie stasera!” e così riprese ad armeggiare intorno ai capelli.
“Li lascio sciolti?”
“Romina!” ero esasperata.
“Che c’è?!”
“Ma mi ascolti quando parlo?”
Sospirò comicamente, prima di lanciarsi sul letto accanto a me. I suoi capelli mossi mi solleticarono il braccio.

“Sei pesante.”
“Si chiama coerenza.”
“E se per una volta la lasciassi da parte? E poi, anziché rimproverarmi, perché non mi ringrazi? Ti ho parato il culo, oggi!”
 
Sì, era vero. Romina mi aveva parato il culo, dovevo rendergliene atto.
Ripensai alla conversazione telefonica di quel pomeriggio tra Romina e mia madre; subito dopo scuola ero corsa a casa sua e avevamo organizzato al dettaglio la storia che avremmo rifilato a mamma: ci attendeva un sabato di studio. Lunedì c’era compito, non potevamo permetterci di sbagliare. Romina aveva ripetuto il discorso più volte, con convinzione, alla fine c’avevo creduto quasi pure io: aveva la stoffa dell’avvocato. Comunque a mamma non erano serviti tanti giri di parole: per magia aveva detto subito di sì, senza neanche interpellare papà. La mia amica aveva esultato per la vittoria facile, io invece ero ancora perplessa e dietro mi trascinavo la sgradevole sensazione che i miei genitori avessero voluto soltanto sbarazzarsi di me per qualche ora. Praticamente, avevo fornito loro l’occasione su di un piatto d’argento. Non mi sembrava possibile che continuassero a darmi permesso per ogni cosa soltanto perché di tanto in tanto soffrivo ancora di mal di testa o capogiri. Era passato troppo tempo.

Romina mi sventolò la mano davanti agli occhi.

“Terra chiama Margherita. Sei tra noi, Margherita?”
“Sì, sì…” risposi a stento, scuotendo il capo per riprendermi.
“Bene. Sto aspettando allora…”
“Cosa?”
“Un grazie, no? Guarda che è merito mio se stasera rivedi Zeno…”
“Grazie.”
“Tutto qui?”
“Oh Gesù, Romina, che devo fare? Ballare il Can-can come gesto di gratitudine? E poi che devo farci io con Zeno?”
Romina occhieggiò, ironica.
“Ma finiscila! Dimmi che non ti frega una cippa di Zeno e giuro che alla festa ci vado vestita di piume fucsia!”
“Okay, è interessante. Ti basta?”
“Non è solo questo, non dire bugie.”
Alzai gli occhi al cielo.
Facevo soltanto finta di essere spazientita.

“Ha un’aria familiare. Mi piace questa cosa.”
“Oh ma bene!” Romina si sfregò le mani, aveva l’aria esaltata. “Ti piace…”
“Ho detto che mi piace questa cosa, non che mi piace lui! La finisci di rigirarti le cose a modo tuo?!”
“Sì, sì ti credo. La tua faccia comunque, quando prima ti ho raccontato di come ti cercava a La Piovra, ha parlato chiaro. Ma la finisco qui altrimenti mi meni. A meno che tu non voglia sapere di nuovo ogni dettaglio di quando me lo sono ritrovato alle spalle e mi ha chiesto se Margherita era ancora in giro …”
“No, non lo voglio sapere.”
Okay, caso chiuso.”


Romina alzò le mani, in segno di resa. Io sprofondai di nuovo tra i suoi cuscini che sapevano di lavanda e che non avevano davvero nulla a che fare né con La Piovra, né col reggae, né con i Metallica, e sospirai. Sapeva essere davvero assillante sì… ma era la mia tortura preferita quella ragazzina. E okay, non volevo dargliela vinta soltanto per evitare di finire di nuovo sotto interrogatorio. Per dirle cosa, poi? Di Zeno io davvero non sapevo nulla se non che era un bel ragazzo pieno di tatuaggi, dall’aria lontana, lo sguardo sicuro ma nostalgico e gli occhi grigi e terribilmente familiari, per l’appunto. Ah sì, sapevo anche che gli piaceva scattare fotografie e in tutto questo l’avevo visto solo una volta nella mia vita. E poi?
No, sarebbe stato inutile davvero proseguire quella conversazione: non sarebbe arrivata a nessun punto di svolta e noi non avevamo troppo tempo da perdere.
 
“Allora?”
“Che c’è?”

La guardai sorpresa, ancora una volta.

“Hai intenzione di venirci vestita così alla festa?”

Guardai perplessa il mio jeans scuro e la camicia di cotone blu dalle maniche arrotolate. Feci spallucce.
“Perché, che ho che non va?”
Romina si coprì il viso con entrambe le mani.
“Sei un caso disperato. Vieni qua che ti sistemo io.”
 
Rabbrividii.
Sapevo che quando Romina si metteva in testa qualcosa era difficile anche per me dissuaderla. E adesso, a guardarla con quell’aria afflitta che riservava al mio semplice abbigliamento, ero certa che avesse in mente qualcosa per me: ero troppo “normale” per La Piovra. Non andavo bene. Dovevo essere di più: più eccentrica, più stravagante, più alterativa, più colorata.
Non andavo bene per nessuno, era ovvio, però, almeno in questo caso, c’avrebbe pensato la mia migliore amica a sistemarmi.
 


Chi me l’aveva fatto fare di accettare l’invito per quella festa?
 
 


***
 


“Mi spieghi perché hai sentito la necessità di strapparmi i jeans?” domandai mentre mi facevo strada a fatica tra il casino di punkabbestia dai vestiti colorati e sudaticci che già riempivano La Piovra; i loro dreadlocks mi solleticavano la faccia mentre tentavo di schivarli. Pensavo agli squarci sfilacciati da cui venivano fuori le mie ginocchia e ancora mi rammaricavo: ero riuscita a limitare le intenzioni di Romina ma non ero stata in grado di fermarla con quelle cavolo di forbici.
“Non lamentarti, ti stanno un amore. E quella canotta nera tienitela, fa più figura su di te.”

Non me la sentii di ribattere: troppa calca, troppo caldo. E la canotta, oltretutto, mi andava più che bene considerando che già solo all’entrata del centro sociale mancava l’aria. Più che altro mi faceva ridere l’anello munito di teschio che Romina mi aveva infilato al medio (il mio anulare era troppo sottile per trattenerlo) e ancora mi domandavo come fosse possibile che mischiasse tutti quegli stili con tanta nonchalance.
 
Non ribattei comunque, e piuttosto continuai a tenere gli occhi fissi sulla chioma gonfia della mia amica che mi camminava avanti di qualche passo, stando bene a non perderla di vista.
Il locale che ospitava il centro sociale era sovraffollato quella sera. Più del giorno della mostra, molto di più. Le luci erano basse e dalle casse pompavano i bassi, così forte che mi pareva che qualcosa mi si spaccasse nel petto. I riverberi della musica sgusciavano nelle orecchie, creavano un’atmosfera irreale; i ragazzi che si agitavano intorno a me, ballando sinuosi con i loro vestiti un po’ etnici e i capelli in disordine, ne erano rapiti, sembravano in trance. Tuttavia, quando l’odore arrivò anche alle mie narici compresi meglio: non era per la musica. In molti dovevano aver fumato ed erano semplicemente andati un po’ fuori di testa.
Dopotutto mi venne da sorridere. Li invidiavo, per me non era altrettanto facile perdere il controllo.
Vibronics, Alborosie, la stirpe dei Marley al completo. Conoscevo buona parte della musica che stavano passando: mi piaceva informarmi su tutto e trovavo paradossalmente affascinante il reggae. A vedermi dall’esterno si sarebbe detto che il massimo dell’alternativo per me era Mozart e invece … potevo riservare qualche sorpresa anche io.
Qualcosa sott’occhio richiamò la mia attenzione: dal soffitto pendevano un’enorme bandiera con i colori della Giamaica e poco più avanti una della pace. Qualcuno aveva provveduto a illuminarle sufficientemente cosicché era facile distinguere la frase “non ci avrete mai come volete voi”che una mano decisa aveva riportato con la bomboletta nera sulla seconda bandiera. Non comprendevo che c’entrasse con la festa ma nel vederla e, soprattutto, nel rapportarla a tutta quella gente intorno a me che sembrava essersi scordata dei propri guai così facilmente, mi sentii liberata. Compresa.  
Anche io non ero come mi voleva lui, come mi voleva papà. O almeno ci provavo.
Per la prima volta, quindi, sentii che anche io potevo combaciare un po’ con quelle persone che mi vorticavano intorno, muovendosi in modo affascinante e fingendosi dei rasta veri e vissuti.

Magari La Piovra non era così male come sembrava, no?
 
In ogni caso, ero tanto impegnata nel fantasticare sul mondo attorno a me, che persi di vista Romina. Me ne accorsi per caso quando, cercando il suo profilo tra la folla, mi resi conto che non c’era. Né davanti a me né al mio fianco.
Non c’era, punto.


Ops.


Un pochino mi lasciai cogliere dal panico: per quanto affascinata potessi essere dall’ambiente, non conoscevo nessuno e l’ultimo dei miei desideri era quello di confinarmi tra un mucchio di gente di cui l’unica cosa che conoscevo era il grado di sudore della pelle. Okay, era vero, quella sera avevo voglia di staccare la spina e perdere il controllo ma non in quel modo o non completamente. Ecco, non ero in grado mai di tagliare del tutto i legami con il mio selfcontrol, era quella la verità e forse il mio difetto maggiore.
Provai a pescare il cellulare dalla tasca dei miei jeans ma non trovandolo ricordai che l’avevo lasciato a casa, sul comò della cameretta di Romina, proprio per evitare di perderlo. Poca pena: dubitavo che avrebbe preso campo comunque.

Cominciai a respirare con più fatica - ero proprio una preda facile per l’ansia – quando tentai di darmi una regolata e mi decisi sul da farsi.
Avevo due possibili scelte: o continuare a smanettare tra la gente fino a trovare la mia amica, ovunque si fosse cacciata, o faticare in senso inverso, tornandomene all’ingresso e sperare che si decidesse ad uscire anche lei. In effetti scelsi la seconda opzione, poiché sentivo che l’aria cominciava a venirmi meno, come spesso mi accadeva in situazioni di panico. Per cui, girai rapida sui miei tacchi e tentai subito di farmi largo tra la folla, quando due mani grandi si adagiarono delicate sulle mie esili spalle.
Faticai un po’ prima di riconoscere il viso di Zeno tra le ombre e le luci de La Piovra: con quei colori più cupi neanche la sua Medea sembrava la stessa.
 
“Che stai facendo?” mi chiese, come se fosse stata la cosa più ovvia. Come se ci fossimo conosciuti da sempre e si fosse sentito in diritto di farmi quella domanda banale.
“Torno indietro, non trovo più Romina.” gridai per farmi sentire ma la musica era assordante, i bassi continuavano a picchiare e vibrare nel petto, non avevo aria a sufficienza nei polmoni e la mia voce era troppo sottile per superarli. Zeno mi fece segno di non aver capito e si sporse in avanti per permettermi di parlargli all’orecchio.
“Ho perso la mia amica” ripetei mentre aspiravo il suo profumo. Un misto di tabacco e canne che nascondeva la scia quasi evaporata di un bagnoschiuma forte, qualcosa tipo Pino Silvestre. Mi sembrava strano, quello doveva essere un sapone adatto a mio padre, non a un tipo come Zeno; la sorpresa per quella scoperta cancellò un po’ l’imbarazzo di saperlo così vicino.
“Stavi uscendo?”

Annuii.
“Mi manca un po’ l’aria, in effetti.”
“Vieni con me” gridò al mio orecchio, di nuovo “fuori c’è troppa gente, di sopra starai più tranquilla.”
 
Ora, se in quel posto con me e Zeno fosse stata presente anche mia madre, avrebbe aperto bocca per dire due semplici cose:

1) che La Piovra era un posto lercio e schifoso, pieno di gente sporca da cui dovevo scappare.
2) che Zeno era un malintenzionato che cercava di adescarmi e violentarmi da cui dovevo scappare.


In conclusione, avrei dovuto scappare. Fortunatamente per me, mamma Carlotta non era presente e non poteva parlarmi. Allo stesso modo, e chissà per quale magia, la vocina della coscienza che aveva instillato dentro di me sin da bambina decise di tacere per cui, in maniera del tutto avventata e senza pensarci troppo, afferrai la mano che Andrea mi porgeva e lo seguii tra la gente.
Qualcuno l’avrebbe chiamato istinto, qualcun altro ingenuità. Per altri avrei potuto essere nient’altro che una ragazzina impulsiva e sconsiderata ma a me non importava: Andrea era troppo stranamente familiare, la sua stretta di mano calda e accogliente. Non provavo timore nel seguirlo: in  cuor mio era come se l’avessi seguito tante altre volte prima di allora.
Mi condusse tra la gente, aprendosi facilmente un varco, alto com’era. In molti lo salutarono, tanti conoscevano il suo nome e gli sorridevano mentre li superava. In pochi mi notarono alle sue spalle, notarono la presenza di quella piccola ragazzina sconosciuta che Andrea teneva per mano.
Arrivammo a lato del locale, in prossimità di una porticina di ferro seminascosta da un muro. Andrea mi lasciò la mano, armeggiò in tasca e ne tirò fuori una piccola chiave. Si guardò alle spalle prima di infilarla nella serratura e aprire la porta ma nessuno stava badando a noi e poteva star tranquillo.


“Sali, svelta” mi disse prima di lasciarmi passare.
Guardai i gradini traballanti con sospetto, poi gli rivolsi un’occhiata un po’ perplessa. Infine mi decisi a salire, non volevo farlo aspettare.
Quando raggiunsi la cima di quelle due lunghe rampe di scala, mi accolse un cielo stellato e l’aria pulita.
 
“Siamo sul tetto” spiegò Andrea quando mi voltai estasiata, per ringraziarlo. Forse era di quello che avevo bisogno: di un cielo stellato e nient’altro.


O forse no?


Lui mi sorrise incerto e io ricambiai, quasi senza motivo. L’osservai meglio e ancora una volta mi sorpresi di quanto fosse bello con quella barba un po’ cresciuta, i tatuaggi che sbucavano da una maglia bianca slargata e i jeans stretti infilati in un paio di anfibi troppo scuri. Mi sorpresi di come potesse piacermi un tipo come lui.
 
“Hai … hai le chiavi?” domandai un po’ ingenuamente.
“Ho occupato questo posto con Polska, un anno fa. Polska è un mio caro amico, ho le chiavi di quasi tutti i laboratori. E del tetto, sì.”
“Non lo sapevo.”
“Neanche io sapevo che frequentassi La Piovra.”
“Non la frequento infatti” sorrisi allargando le braccia “stasera mi ci ha portato Romina.”
Andrea mi guardò per qualche secondo. Poi, si decise a sedersi per terra invitandomi a fare lo stesso. Lo imitai standomene a due metri da lui: eravamo un po’ surreali in quella scena in cui ci mostravamo vicini senza esserlo abbastanza. Nessuno dei due atteggiamenti era comprensibile.
“Non dovresti fare cose che non vuoi. Mi sei sembrata spaventata, giù, quando ti ho trovata.”
“Ci sono venuta di spontanea volontà qui. Solo che poi ho perso di vista Romina, non conosco nessuno e allora mi è presa l’ansia. Mi prende facilmente.”


Perché gli davo tutte quelle spiegazioni?


“Non è vero che non conosci nessuno. Conosci me.”
“Non sapevo se c’eri. E poi non ti conosco mica, Andrea.”
“Beh, conosci le mie foto.”
“Non sono l’unica a conoscerle. E poi non è abbastanza.”
“Per me lo è, nessuno le ha viste veramente. Neanche Polska, non completamente almeno. Soltanto tu.”

“Perché mi sembri legato a me in qualche modo, Andrea?”

Lo dissi d’improvviso, tutto d’un fiato. Sapevo che quella domanda premeva per uscire dalle mie labbra fin dal primo momento in cui avevo incontrato gli occhi grigi di Andrea e li avevo trovato quotidiani e familiari come il libro delle favole di Andersen sulla mia scrivania. Tuttavia, non sapevo perché avesse deciso di venir fuori senza controllo o preavviso proprio in quel momento. Dubitavo che la persona che aveva parlato così, senza paure, fossi proprio io.

“E perché tu pure sembri legata a me?”



Già. Perché tu pure, Margherita?
Bella domanda.
 

Se non avessi sentito l’eco fastidiosa di una sirena poca lontana, il risuonare della musica dal basso e le voci in strada dei ragazzi del centro che ridevano ubriachi, avrei dato per scontato di stare sognando. Mi diedi perfino un pizzicotto per realizzare ma percepii il dolore e mi resi conto che tutto era vero. C’era qualcosa di così surreale in quei due estranei che eravamo io e Andrea, nel nostro starcene a distanza di sicurezza, nel nostro conversare usando un codice che non comprendevo appieno che… sì, sembrava davvero tutto un sogno.
Eppure non era brutto, né spaventoso. Soltanto un po’ strano.


 
“Non lo so.” risposi sincera.

Andrea sorrise, un sorriso caldo e luminoso nella brezza primaverile di quella notte.

“Posso avvicinarmi?”
“Se prometti di non mangiarmi, sì…” ridacchiai e lui con me.
“Io no. Tu, invece?”
Scossi la testa serena, mentre Zeno veniva a sedersi un po’ più vicino a me.

“Sono un po’ tocca ma ancora non pratico cannibalismo.”
“E’ un buon inizio.”
“Direi di sì, Genio.”
“Per favore, non chiamarmi così. È un nomignolo stupido. Non sono un genio, non sono meglio di nessuno.”
“Ma tutti hanno una grande considerazione di te.”
“Soltanto perché i ragazzi che sono qui dentro non si prodigano per fare qualcosa per sé non vuol dire che io sia meglio di loro. Ognuno dovrebbe fare quello che lo rende soddisfatto di se stesso. A me piace soltanto fare delle foto.”
“Beh, le fai bene.” commentai arricciando una ciocca sottile di capelli sfuggita alla coda.
“Grazie…” mi parve compiaciuto.
“E fai… soltanto foto?”
“Nella vita, intendi? No, non solo quello. Le foto non mi fanno mangiare. Beh, lavoro nel retrobottega di un supermercato, scarico le consegne, metto a posto le cose.”
“Mmh. Non so se crederti, non hai il fisico per i lavori pesanti.” Scherzai.
“Ehi… guarda che quelli muscolosi sono solo gonfiati. La vera forza è fatta di nervi e astuzia, ricordatelo.”
“Va bene, lo terrò a mente” risi, picchiando la mano sulla ruvida pietra sotto di me. I realtà non avevo compreso bene il suo discorso.

“E tu, invece? Che fai di bello?”

Alzai le spalle.

“Studio. Ultimo anno di liceo classico. Mi piace leggere e scrivere, anche disegnare. L’anno prossimo spero di frequentare Lettere.”
“Speri?”
“Non si sa mai nella vita. Potrei cambiare idea, no?”

Andrea sorrise, guardando lontano.

“No. Non mi sembri una che cambia idea.”
“No?”
“No. Però… non mi sembri neppure una che indossa jeans strappati.”commentò guardando al mio ginocchio che sbucava da uno squarcio sfilacciato.
“Vero? Allora hai notato anche tu il mio stile da collegiale scema? In effetti questa è opera di Romina, non sono riuscita a frenarla.”
“Non hai uno stile da collegiale scema. Hai il tuo stile, ti sta bene.”
“Per questo posto non è okay.”

Mi guardò scioccato mentre si accendeva una sigaretta. Doveva fumare molto.

“Guarda che puoi essere chi ti pare, anche qui. A me piacciono tatuaggi e piercing, per questo ne sono pieno, ma se mi apprezzassi uno stile più… elegante beh, verrei qua dentro anche vestito in giacca e cravatta. Non farti problemi.”

Alzai di nuovo le spalle, ero un po’ imbarazzata. Mi piaceva come mi parlava Zeno; la sua voce era calma e pacata, più che chiacchierare sembrava intonasse una nenia. E poi aveva quello strano modo di fare, come di qualcuno che non avesse altro desiderio che quello di mettermi a mio agio, e ne ero contenta poiché raramente le persone erano così attente e sensibili. Specie gli sconosciuti. Specie con me.
Per un po’ mi cullai nel silenzio. Andrea aveva smesso di farmi domande e io avevo smesso di farne a lui; stavamo bene così, accucciati l’uno accanto a l’altra, con lui che aspirava grandi boccate dalla sua sigaretta mentre le nuvolette di fumo mi passavano quiete davanti. La Medea tatuata sul suo braccio sinistro sfiorava quasi la mia pelle e pensai che fosse la più bella opera d’arte che avessi mai visto: era perfetta. Qualcuno dalla strada rideva, un gatto miagolò lontano, il rumore assordante di una Vespa truccata  giunse fino alle nostre orecchie, delizioso nella sua invadenza Coprì perfino l’eco della musica di sotto.
Respirai forte e chiusi gli occhi: tutto di quella notte sapeva di vita vissuta, di giorni passati, di una Smemoranda dalle pagine sgualcite e gonfia di cartoline, di strade piene di gente nel sole del pomeriggio di un giorno qualsiasi.

Era un momento così bello che avrei pianto per l’emozione se soltanto…
 
… se soltanto il pensiero di Romina non fosse venuto a farmi visita.
 
“Andrea, da quanto tempo siamo quassù?”domandai improvvisamente perplessa.
Alzò le spalle.
“Un quarto d’ora, venti minuti. Non so, non porto mai l’orologio.”
“Devo andare. Romina mi starà cercando.”

Me la immaginai morta di paura: nonostante volesse apparire un tipo abbastanza soft, sapevo che parecchie cose la mandavano in tilt. Io ero una di quelle cose. Pensava sempre di avere un certo grado di responsabilità nei miei confronti e perdermi di vista non rientrava nell’elenco delle sue attività intelligenti. Per quanto fosse una ragazza deliziosamente svampita, una mia coetanea e la mia più grande amica, in certe occasioni – quando si riferiva a me – sembrava quasi una mamma. Mi pregava di vivermi la vita alla grande, uscire e divertirmi, nello stesso modo in cui si raccomandava di fare sempre attenzione; ero certa che in quel momento si stava torcendo le mani per la disperazione di sapermi sola. Conosceva i miei attacchi di panico, i mal di testa ingestibili, le strane vertigini che a volte mi prendevano ancora e li temeva.
Non avrei dovuto farla spaventare soltanto per godermi la compagnia di Zeno.

“Sei sicura di voler tornare di sotto?” rispose lui a quel punto. Mi parve un po’ dispiaciuto.
 
Lo ero anche io.
 
“Sì, devo.”
“D’accordo.” allungò una mano, di nuovo. L’afferrai prontamente. “Non mi lasciare, però” mi ammonì prima di tornare per le scale.

Annuii e obbediente gli tenni la mano. Non mi costava fatica stringere il suo palmo caldo al mio, dopotutto.

Quando riaprimmo la porticina di ferro del piano di sotto, il mondo meraviglioso e colorato della Piovra era un poco cambiato: le luci erano più forti, rosse e verdi, e tanta gente saltellava e sgomitava ridendo.
“Vorrei sapere adesso che c’entrano gli Ska – P” dichiarò Zeno guardando la folla pogare, con sguardo rassegnato e sempre tenendomi per mano. Cercai subito di rispondergli alzando la voce per farmi sentire quando qualcuno mi afferrò tenacemente per le spalle. Mi voltai subito spaventata e così incontrai la faccia stravolta di Romina.
Per un attimo stentai a riconoscerla. Tremai.
Anche con tutta quella musica assordante e il casino della gente che ballava attorno, riuscii distintamente a sentirla gridare:


“Dove cazzo stavi, Margherita?!”









 
 
 








N.B: "Non ci avrete mai come volete noi", l'ho riadattata da "non mi avrete mai come volete voi" frase tratta da L'Anguilla dei 99 Posse. Non è un caso che il soprannome di Margherita sia Meg, come la ex cantante di questo gruppo ;)

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Capitolo 4
*** Anche se non ricordi ***



 
















Le leggevo in faccia l’ansia, l’angoscia, il terrore.
Il terrore.
Rivedevo me stessa nei suoi occhi: la me stessa che vomitava nei cessi della scuola dopo l’ennesima emicrania, urlava contro il nulla, che si chiudeva nel buio della propria stanza. La me stessa che diceva “non ricordo”.
E rivedevo lei e tutte le volte che c’era stata per me. Tutte le volte che mi aveva tenuto per mano, che aveva calmato mia madre o aveva fatto i compiti al posto mio. Persino tutte le volte che mi aveva sgridato perché non era necessario che reagissi in maniera sempre così esagerata.

 
Il suo sguardo voleva dirmi “sai che mi preoccupo per te, ma a te non importa nulla!” e invece non era così. Ero soltanto andata via con Zeno, soltanto quello. Non volevo fare nulla di male né causarle un dispiacere, nello stesso modo in cui non desideravo che fosse tanto arrabbiata con me senza un reale motivo.
Noi due litigavamo raramente, non poteva succedere proprio in quel momento e per una motivazione simile!

“Romina, non fare così, per favore. Stai calma. Non c’è nulla di cui preoccuparsi, Margherita stava con me.”
 
Zeno intervenne nella discussione, con quella sua voce pacata che stavo cominciando a conoscere. Non me l’aspettavo e, probabilmente, neppure Romina. Poiché si rivolse ad Andrea con lo sguardo allucinato, come se lo vedesse per la prima volta e, soprattutto, come se non gli riconoscesse quel diritto che s’era arrogato di risponderle e disturbarla quando stava discutendo con me. Di colpo non era più la solita Romina, la mia svampita Romina dalla risata facile; era mia madre e mio padre assieme, era gli occhi della nonna Anna quando mi diceva di stare attenta a non cadere dalla sedia o lo sguardo severo dell’insegnante di piano mentre assisteva al mio saggio da bambina. E, allo stesso modo, Andrea, per lei, non era più quel “Genio” che era solita guardare ammirata, ma un estraneo qualunque che aveva osato “sequestrarmi” senza domandare se questo fosse lecito.
In tutto questo, io non contavo nulla. Avevo anche smesso di vestire i consueti abiti della donna saggia trasformandomi, mio malgrado, nell’oggetto di una discussione priva di senso. Non ero altri che la ragazzina viziata sfuggita alla sua balia e adesso meritavo una punizione esemplare da parte di Romina.

Margherita Egle è soltanto una bambina
e i bambini fanno le marachelle a volte.

 
 
Una bambina da tenere sott’occhio: ecco cos’ero in definitiva per tutti quanti.
Detestavo sentirmi in quel modo, piccola, fragile, bisognosa di cure e controllo continuo quando, viceversa, sapevo di poter badare tranquillamente a me stessa. Allo stesso modo, detestavo continuare a essere vittima di un passato che non mi permetteva mai di crescere finalmente da sola. La gente non me lo permetteva, a voler essere precisi; per tutti gli altri, anche per Romina certe volte (e l’ammettevo a malincuore) io ero sempre il fungo parassita, mai l’albero forte e pieno di foglie.
 
 
Chissà come trovai, in quel frangente, la forza per risponderle:
“Lo so che sei arrabbiata, ma non puoi reagire così, Romina. Non sei mia madre, sei la mia migliore amica, comportati di conseguenza. E comportati da diciottenne, soprattutto: stai più tranquilla.”

La mia amica si voltò lentamente nella mia direzione, tanto da farmi immaginare che un improvviso torcicollo le impedisse dei movimenti fluidi.

“Non in certe occasioni. Ho delle responsabilità verso di te.”
 
Parlò senza gridare e io, nonostante il rombare delle casse, dei bassi, del dub e dello ska e dello scontro di corpi sudati attorno a noi, percepii perfettamente ogni parola. Soltanto io ci riuscii: Stena, alle spalle della mia amica, sporse appena la testa in avanti, per captare curioso il discorso. Tuttavia, la sua espressione enigmatica chiarì perfettamente come non fosse riuscito nel suo intento. Zeno, invece, dietro di me, non diede alcun segno. Sembrava una statua, la più bella che avessi mai visto.
 
“Tu non hai responsabilità. Soltanto io sono responsabile verso me stessa, Romina. E non è successo niente, ti rendi conto che stai montando una tragedia?”
 
Fremette di rabbia, forse per la delusione.
“Avresti potuto sentirti male. Conosco i tuoi attacchi di panico. Nessuno ti avrebbe aiutata, qua sono tutti fumati, non lo vedi?!”
 
A riprova delle sue parole, una tipa vestita con una lunga tunica scura e piena di ninnoli ci passò avanti senza vederci, ballando sinuosa e con gli occhi chiusi. Poco più avanti qualcuno si schiantò letteralmente sul pavimento, ridendo, trascinandosi dietro due birre e un amico altrettanto ubriaco: le loro bocche storte testimoniavano una risata immotivata, forse si erano anche fatti male. La musica cambiò di nuovo, il volume si alzò.
Di questo passo ci avrebbero cacciati via presto.


“Se avevi paura, perché ce l’hai portata?” domandò Zeno, alzando la voce.
“Ma tu che vuoi? Chi ti conosce!?! Lei è amica mia, so io che cosa…”

Riuscì ad interrompersi prima che fosse troppo tardi, prima di spiattellare ai quattro venti che ero mezza pazza.
Per fortuna.
Abbassò gli occhi quasi costernata mentre mi afferrava il polso con forza.
“Adesso basta, non voglio dare spiegazione a nessuno… andiamocene!”
Mi trascinò via senza permettermi di replicare; tuttavia, ebbi tempo a sufficienza per captare comunque le parole di Zeno. Le gridò, ne sono certa, poiché riuscii a sentirlo anche in mezzo a tutto quel frastuono:
“E’ stata con me Romina, non le è accaduto niente! Ci penso io a lei… Ci penso sempre io!”
 
 



Una mano più grande mi trascinava via
in un corridoio grigio dell’azienda di famiglia,
tanti anni prima.
Le mie scarpette di vernice rossa facevano tac tac sul pavimento.
Andavo lontano, lontano dalla porta e dal cortile.
Lontano lontano
.
 
 

***



“Si può sapere perché ti sei messa a giocare a nascondino con me?! Se volevi stare da sola con Andrea potevi anche dirmelo!”

Andrea. Niente più Genio.
Era tenera Romina a guardarla di spalle. Tremava un po’,  non sapevo se per rabbia, se per lo spavento o solo perché a stare fuori c’era davvero un po’ di freddo. Comunque sia, sbatacchiava davvero tanto.
Mi accomodai accanto a lei sui gradini d’ingresso de La Piovra: sul muro cresceva erba selvatica e l’intonaco era tutto ammuffito. Quand’avevano occupato nessuno aveva pensato a sistemare l’ambiente.

“Non volevo stare sola con Andrea, Romy! Mi ha soltanto aiutata quando ti ho perso di vista. Non sapevo che fare, mancava l’aria là dentro e m’ha portata sul tetto, per questo poi sono rimasta con lui.”
Da sotto i ciuffi di capelli scuri sfuggiti al suo chignon, sorpresi l’occhio indagatore di Romina mentre mi osservava curiosa. Se fosse stata più tranquilla – se fosse stata lei, la Romina di sempre che conoscevo io – non avrebbe aspettato altro tempo per travolgermi con domande e gridolini d’entusiasmo.
“Come hai fatto a non vedermi? Ero avanti a te!” commentò piuttosto, ancora arrabbiata.
“Guardavo le… le” agitai l’indice, un po’ confusa “le bandiere. E poi la musica era bella, la stavo ascoltando… Mi sono distratta e dopo non ti ho più vista.”
“Sei una cogliona! Ho incontrato Stena più avanti, mi son messa a parlare con lui.”
“Te lo giuro, non ti ho vista!” portai una mano sul cuore: doveva credermi.
“Avrebbe potuto… una crisi… oh, Meg! Ero preoccupata per te, ecco!” quasi si giustificò, le braccia alzate in un gesto rassegnato. A me venne da sorridere.

Se la conoscevo bene quanto credevo, aveva appena iniziato a rendersi conto di aver sbottato oltre il limite. Probabilmente, la consapevolezza di avermi di nuovo sana e salva accanto a sé, la possibilità di potermi parlare a quattr’occhi e valutare anche le mie ragioni o, semplicemente, l’aria della sera che contribuiva a schiarirle le idee, la stavano aiutando a tornare in sé, a riprendere i toni e i colori della piccola e felice Romina che conoscevo io. In ogni caso, non me la sentivo di farle troppo una colpa di quel suo comportamento; la capivo, sul serio: anche io al posto suo avrei sclerato, dopo un po’ di tempo, a dover star dietro come una specie di badante alla mia amica un po’ tocca. Non era di certo una cosa semplice.
Allungai una mano nella sua direzione, le carezzai i capelli morbidi.

“Va tutto bene” commentai “sono qua, non è successo nulla. È colpa di mia madre che ti ha sovraccaricato di ansie, non dovresti reagire così.”
“Sei sempre con me, è naturale che mi abbia spiegato come comportarmi nel caso in cui…”
 
…Nel caso in cui ti venga una di quelle assurde crisi in cui mi sembri una svitata che urla, piange a va in giro senza una meta precisa?
 
“Romina, basta. È passato tanto tempo, possibile che dobbiamo pensarci in continuazione? Fa’ conto che mi sia imboscata con un ragazzo e stop, non è successo niente. Adesso sono qui, mettiamoci una pietra sopra.”
 
Mia madre, le sue ansie, le stesse che aveva trasmesso a Romina. Cominciavo a trovare frustrante tutta la situazione.
Mi allontanai dalla mia amica e puntai lo sguardo altrove, verso un gruppo di ragazzi che ridevano sguaiatamente sul finire della strada.
Non avevo più nulla da dire.
 
“Meg?”
“Uh?”
Non mi voltai. Con la coda dell’occhio colsi lo sguardo speranzoso di Romina.

“Sei arrabbiata?”
“No, ma non vorrei più tornare sull’argomento.”
“Cerca di capirmi… Mi hai fatta spaventare!”
“D’accordo. Ma non parliamone più, sul serio…”
“Okay…”

“Meg?”
“Che c’è?”
“Eri davvero con Genio, prima?”
 
Genio. Di nuovo.
Le era passata l’arrabbiatura.

“Sì, ero con lui.” sorrisi.
 
“Quindi ti sei imboscata sul serio?!”
 
Perché diavolo avevo usato quella ridicola frase per porre fine alla nostra discussione!? E perché diavolo Romina ci stava credendo per davvero?
Maledetta la mia lingua lunga!
Avrei dovuto chiarire immediatamente l’intera faccenda, prima che Romina elaborasse un falso film nella sua testa. Cosicché mi affrettai ad aprir bocca e spiegarmi ma non mi fu possibile riuscire nel mio intento, purtroppo. Un nuovo, insopportabile e inaspettato aaahhhhwww spacca timpani, infatti, mi raggiunse senza alcun preavviso, e tutto lo splendore dei suoi novanta decibel interruppe le mie valide motivazioni. Sobbalzai , coprendomi le orecchie.
“Che cavolo ti piglia!? Guarda che  non mi ha baciata, se è quello che pensi!”
Romina non mi stava ascoltando; piuttosto, scattò in piedi in tutta fretta, rivolgendosi a me con occhi sognanti.
 
Eccola: Romina is back.
 
“Ti rendi conto?! Ti rendi conto che Andrea Zenovi detto Genio ti ha portata sul tetto de La Piovra?! Sai che significa tutto questo?”
“No, senti…”
“Significa al minimo che gli interessi! Oddio Meg, io lo sapevo! Tu e il Genio siete fatti apposta l’uno per l’altra…”
“Ma guarda che io…”
“Io ho intuito per queste cose!”
“Romina, ascolta…”
“Siete perfetti assieme e il Genio, con quell’aria intrigante che ha, è proprio l’uomo adatto a te! Io…”
“Romina!”
“Che c’è?”
“Sai che l’hai quasi mandato a fanculo prima, il Genio?”
Osservai il viso di Romina mentre si tingeva di un pallore evidente. Con ogni probabilità aveva rimosso l’exploit di poco prima.
“Che cosa?”
“Hai sentito bene. L’hai quasi mandato a fanculo. E l’hai chiamato semplicemente Andrea, senza alcun rispetto” la solleticai nel tentativo di smorzare il suo entusiasmo “… Niente Genio, niente di niente.”

“L’ho fa-fatto? Davvero?”
“Sì, l’hai fatto.”
“Oh cazzo…”
 
Si portò una mano alla bocca. Stava per sentirsi male.
Aveva praticamente mancato di rispetto a uno dei suoi idoli indiscussi, un po’ come se io avessi mandato allegramente a cogliere pomodori un mio personale mito tipo Neruda. Okay, Andrea non era Neruda ma giusto per lasciar intendere il concetto. Ovviamente questa cosa la stava destabilizzando; forse avrei fatto meglio a non farle prendere coscienza dell’intera faccenda, vista la sua espressione rammaricata. O forse avrei soltanto dovuto farle presente che Andrea era un ragazzo normale, molto tranquillo, poco più grande di lei. Niente di trascendentale, in pratica: poteva rilassarsi, in fondo non era successo niente di grave, no?

“Prendi aria, Romy, è tutto okay. Sono sicura che se gli chiedi scusa ti dirà che è tutto a posto.”
“No, no, no!” Romina si girò di scatto, indignata. “Non andrò da nessuna parte!”
“Non vuoi chiedergli scusa? Penso che dovresti…”
“No, non hai capito! Non ci andrò mai da sola! Tu vieni con me!”
“Ma scusa, sei tu…”
“E daaaaai! Mi vergogno! Fammi compagnia, ti prego, altrimenti non potrò mai più mettere piede qui dentro!”
In un colpo aveva dimenticato la nostra discussione, l’ansia, la paura; si chinò verso di me tirandomi per i polsi, per alzarmi e rientrare dentro. Gliela leggevo dagli occhi la smania che aveva di riconciliarsi con Andrea anche se, ne ero quasi certa, Zeno aveva già dimenticato tutto o forse neppure ci aveva fatto caso.
Quasi quasi la preferivo com’era fino a cinque minuti prima, seria e arrabbiata: la Romina di tutti i giorni a volte era difficile da sostenere.
 
“Allora?! Che aspetti? Accompagnami!”

Sospirai rassegnata: non avrebbe desistito finché non l’avessi accontentata. La conoscevo fin troppo bene.
 
“D’accordo, d’accordo, ho capito. Vieni, andiamo, ti ci accompagno io… Fifona!”
 
 
 
***


Quando rientrammo, il mio orologio da polso segnava già mezzanotte passata, ma nessuno nel centro sociale sembrava intenzionato ad abbandonare la festa. La gente ballava ovunque, sui tavoli dei laboratori trascinati nel bel mezzo della sala per l’occasione, sul bancone del bar allestito appositamente per la festa, persino sulla vecchia sedia da dentista spostata nel centro della sala.
“Fra poco viene la polizia e ci caccia via tutti” pensai mentre Romina stringeva più saldamente la sua mano intorno al mio polso, attenta a non perdermi di vista. Non voleva di certo ripetere la triste scena di prima.
Ci facemmo largo tra la folla, tra i corpi sudati e appiccicati e l’odore di marijuana, i capelli scarmigliati e i sorrisi alcolici di gente troppo ubriaca per realizzare dove si trovasse. Ridacchiai guardando la figura di un ragazzo disteso per terra, sul lato della sala: dormiva beatamente, a bocca spalancata e il braccio sugli occhi mentre una ragazza, stesa accanto a lui, rideva smodatamente brandendo una bottiglia di vino. Era ubriaca persa.
“Là!” indicai, strattonando Romina: avevo adocchiato Stena in un angolo e supponevo che Andrea si trovasse con lui.
Ci avvicinammo in tutta fretta; Stena se ne stava in piedi, silenzioso, con i suoi lunghi rasta che scendevano scomposti su nuca e spalle. Non diede sego di averci viste.
“Stena? Dov’è Andrea?”
“Eh?” si voltò appena, guardandoci come se fossimo state due aliene.
“Dov’è Zeno?” gridai più forte, per sovrastare il pompare dei bassi dal fondo della sala.
“Chi è Remo?”
“Ma quale Remo, Stefano! Ho detto Zeno!”
“Zeno… eeeeehhh! Ma tu… hic! chi sei?”

Ubriaco fradicio, anche lui.
Mi voltai scioccata verso Romina.

“Ma stava così pure prima?”
“No ma aveva già bevuto parecchio!”
“Quindi l’alcool ha fatto effetto nel frattempo…”
“Direi di sì.” mi rispose gridandomi all’orecchio.
“Andiamo bene…” mormorai prima di tornare a guardarlo: aveva decisamente gli occhi spenti; fissava un punto indefinito mentre sorrideva di tanto in tanto, senza motivo. Sospirai con le mani sui fianchi: non avrei ricavato nessuna informazione da lui.
“Oh…” Romina mi tirò la canotta “Guarda… è laggiù!”
Mi voltai allora nella direzione indicata dalla mia amica e così lo vidi: poggiato ad una colonna, come la prima volta che l’avevo osservato in quel centro sociale. Le luci basse e colorate insistevano sul suo volto, ne sfumavano certi contorni, ne definivano altri. Anche nel chiaroscuro di quella sala mi sembrava sempre bellissimo.
 
“Andiamo…” incitai Romina a seguirmi. Mi fece segno di no con la testa.
“Vacci tu, digli che mi dispiace. Mi vergogno.” rispose allungandosi verso il mio orecchio.
“Ma tocca a te! Guarda che è peggio…”
“Dai, ti prego, vai tu. Giuro che poi ti devo un favore. E poi, se vengo con te, chi ci pensa a Stena? Guardalo, non si regge neanche in piedi!”
Guardai Stefano, il suo sorriso allucinato, quell’aria sperduta. Effettivamente era un tentato omicidio lasciarlo lì da solo.
“D’accordo” gridai infine “vado io e gli dico che sei dispiaciuta. Ma sappi che poi tocca a te scusarti, non mi piace stare in mezzo.”

Romina annuì sorridendo mentre mi lasciava andare. Di colpo non fui più così certa che fosse rientrata per scusarsi con Andrea.
In ogni caso, perseverai nel mio scopo e, a forza di spintoni e gomitate, lo raggiunsi in tutta fretta. Teneva gli occhi chiusi, non mi sentì arrivare, ma quando gli sfiorai il braccio per richiamarne l’attenzione, vidi le sue labbra atteggiarsi a pronunciare il mio nome ancor prima di alzare le palpebre e verificare che fossi realmente io a disturbarlo.

“Pensavo fossi andata via…”
“Romina voleva scusarsi con te per prima…”

Ancora una volta mi fece segno di non aver compreso: la musica era troppo alta. Mi alzai sulle punte, poggiai il palmo sul suo petto e mi avvicinai a lui. Gli parlai all’orecchio, tremando un po’.
“Siamo rientrate perché Romina voleva chiederti scusa per prima.” spiegai di nuovo “Era soltanto preoccupata per me, non voleva essere scortese.”
Fece segno di no con la testa, sorridendo.
“E’ tutto okay.”
“La faccio venire qui?”
“Non importa.” si chinò a sua volta, sentivo il respiro un po’ caldo sul mio collo sudato: mi venne inspiegabilmente freddo. “Non sono arrabbiato. Tra di voi è tutto a posto?”

Annuii, ancora un po’ lenta nei movimenti. Lui continuò a sorridermi.

“Vuoi ballare?”
“Cosa?”

Bum!
Un improvviso attacco di tachicardia… Qualcuno avrebbe dovuto avvisarmi prima.

Non risposi, comunque. Non subito almeno.

“Vuoi ballare?” ripeté lui dopo qualche secondo.
“Io non…”
“Dovresti farlo. E’ una festa e non te la stai godendo per niente… Vieni.”
 
Mi sfiorò la mano e si affrettò poi a stringere sicuro il mio polso. Mi trascinò verso la folla, sotto le bandiere, prima che potessi rispondere, prima che potessi dirgli “Guarda che non so ballare”. Forse non gliel’avrei detto mai, non lo so: in ogni caso, decise lui per me. E così mi ritrovai tra la gente accaldata, sotto un riflettore giallo e luminoso, con le sue mani sui fianchi e i capelli già appiccicati sulla fronte. I riverberi della musica sgusciavano nelle orecchie e qualcuno dalla voce impastata cantava un inno alla Giamaica, mentre io me ne stavo incastrata tra sconosciuti che ballavano sinuosi, con gli occhi chiusi e il sorriso vago stampato sulle labbra secche.

“Non pensare a nulla, Margherita. Lasciati andare, segui la musica. Ti porterà lei…”

Andrea sussurrò al mio orecchio: con ogni probabilità aveva colto il mio imbarazzo. Avvampai a quelle parole, tuttavia ero consapevole che avesse ragione: bastava seguire il ritmo, lasciarsi travolgere senza pensare. Perdere la lucidità senza bisogno di nessun artificio, dimenticare il giorno e l’ora, la facoltà di Lettere e quella di Economia, la faccia di mio padre e mia madre, il mondo di fuori.

Dovevo dimenticare, dimenticare soltanto per una sera. Potevo farlo.

E dunque presi coraggio, chiusi gli occhi e cominciai a ondeggiare, dapprima un po’ inesperta e poi, via via, sempre più capace. Seguivo la musica, seguivo Zeno, facevo del mio meglio; in ultimo mi allacciai al suo collo con un’audacia che mi era del tutto nuova e sospirai sulla pelle sudata alla base del collo: gli arrivavo a malapena alle spalle.
Andrea sorrise e mi lasciò un bacio sulla fronte, così dolce che mi parve un bacio da mamma. Un bacio che avevo ricevuto tante volte.

“Io non ti conosco…” parlai piano. Lui poteva sentirmi.
“Sì, che mi conosci Margherita…”
Alzai lo sguardo verso di lui, sconcertata. Incontrai i suoi occhi grigi nello stesso istante in un cui un raggio di luce artificiale più bianco del normale illuminava il suo viso.
 


Come un raggio di sole, tanti anni prima.


 
“Sei tornata. Sei di nuovo qui, Margherita…”
 
Margherita, Margherita.
Io non gliel’avevo mai detto qual era il mio nome. Romina mi aveva chiamata Meg.
Lui cosa… Cosa ne sapeva?
 
“Io…Io non lo so…”

Io non so niente di te.
Di me.
Io non so più niente.


 
C’era caldo, troppo.
E i bassi martoriavano le mie orecchie.

C’era caldo e le casse rombavano, la gente mi stava appiccicata addosso ed io non ricordavo. Ma percepivo le risate sguaiate intorno e i volti straniti sotto le luci gialle del locale.

C’era caldo e c’erano le mani di Zeno sui miei fianchi, la sua Medea sulla mia pelle, la mia mano sulla sua t-shirt sudata. E io non capivo e non ricordavo ma d’un tratto le percepii e dimenticai ogni cosa: c’erano le sue labbra, in un istante, incollate senza preavviso alle mie. Sconosciute e aride, improvvise e inaspettate. Ma erano perfette, quelle sue labbra sulle mie, nonostante tutto, e allora non feci più domande.
 
 
 
 
 
Di tutto ciò che accade dopo, nei giorni a venire, ricordai ben poco. Mi addormentai, comunque, verso le sette del mattino, in una sala mezza vuota e disastrata. Sul pavimento giacevano disseminate bottiglie di birra e svariati altri alcolici; Stena, collassato, russava adagiato al muro in prossimità dell’ingresso. Romina dormiva poggiata alla sua spalla, in un equilibrio piuttosto precario. Come loro, altra gente se ne stava sdraiata nei posti più disparati: due ragazzi, per esempio, erano riversi sulla ormai famosa poltrona da dentista; un’altra ragazza era accucciata in un angolo e sonnecchiava a bocca spalancata. I più, comunque, erano andati via.
Mi addormentai mentre un raggio di sole più luminoso entrava timidamente da un finestrone in alto, sulla destra della sala.
In quel momento avrei dovuto essere al sicuro, nel mio letto o in quello di Romina, con i suoi cuscini profumati di lavanda. Oppure, avrei dovuto portar con me il mio cellulare per avvisare la mamma e dirle che era tutto okay e che stavo studiando, anche se era una bugia. E invece il cellulare era abbandonato su un comò in camera di Romina e forse stava già squillando da un bel po’.
E no comunque, non ero in un letto caldo e morbido; mi trovavo su un divano logoro e scricchiolante, piuttosto, nel centro sociale La Piovra, e sulla parete sporca di fronte a me qualcuno aveva disegnato con mano tremolante una falce con martello. Particolare non trascurabile, non ero sola su quel divano: Zeno dormiva al mio fianco, le sue braccia tatuate intorno alla mia vita.
 


***
 
 

“Quando occupiamo?”
“Presto… Aspetto l’okay dei ragazzi del collettivo.”
“Quelli di Lettere? Sono una massa di incompetenti, perché dobbiamo aspettare le loro grazie?”
“Perché sì, da soli non possiamo farcela.”
“Certo che possiamo! Ricordati che l’occupazione di questo posto è partita da noi due soltanto l’anno scorso!”
“Era diverso, Andrea. Adesso gestiamo questo posto, non possiamo esporci troppo. Abbiamo bisogno di aiuto esterno, i ragazzi del collettivo ce l’hanno offerto e noi ce lo prendiamo.”
“In pratica mi stai dicendo che dovrebbero metterci loro la faccia?”
“Esatto.”

 
Aprii lentamente le palpebre: il sole che inondava la stanza mi feriva gli occhi. Coprii il viso con le mani mentre provavo a svegliarmi, a tornare nel mondo dei vivi. Qualcuno parlava a poca distanza da me, le voci mi arrivavano ovattate come in un sogno. Di una cosa tuttavia ero sicura: una di quelle voci apparteneva ad Andrea.
Soltanto quando mi decisi ad aprire del tutto gli occhi, intercettai una cresta gialla e rossa e compresi che l’altro interlocutore era Polska, alias Fabrizio, alias l’idolo di Romina.
Sbattei le palpebre più volte, tastai l’ambiente intorno a me e per poco non mi ferii con una molla che fuoriusciva dal divano rappezzato sul quale stavo dormendo.
 
“Romina? Dove sei?”
Pronunciai a stento quelle parole, strascicandole; avevo la gola arida, la bocca impastata. E, dopo aver dormito su quel divano, mi sembrava che ogni mio singolo muscolo fosse passato sotto un carro armato. In pratica, stavo un vero schifo e immaginavo che la faccia non se la passasse meglio del resto del corpo.
 
“Zeno, la bella addormentata si è svegliata…”
 
Polska mi rivolse un’occhiata divertita e si aggiustò il ciuffo davanti della sua cresta prima di sparire dal mio raggio di azione con una manciata di fogli tra le mani. Ero troppo intontita per indovinare quale direzione avesse preso e troppo intontita per ritrovarmi improvvisamente la faccia di Andrea davanti agli occhi senza sobbalzare.
 
“Ehi! Ti ho spaventata?”
“Ero… In realtà ero sovrappensiero, ecco…”
“Più che sovrappensiero direi che sei ancora tra le braccia di Morfeo” strizzò l’occhio, sorridendo bonariamente. Di riflesso, sorrisi anche io.
 
Proprio un buongiorno, quello…
 
“Dov’è…”
“Romina? In bagno, credo. Diceva che aveva da fare una telefonata ma è scappata via ad occhi chiusi. Mi sa che si è addormentata sul cesso!” rise allegramente. Mi chiesi come potesse essere così in forma, sveglio e brillante dopo una simile serata. Io a malapena mi reggevo.
“Forse è andata a chiamare mia madre.” spiegai stropicciandomi le palpebre “Spero che non abbia già provato a telefonarmi o saranno guai. Che ore sono, Zeno?”
“Mezzogiorno e mezzo.”
“Sì, avrà sicuramente provato a chiamarmi. Sono nei guai.”

Sorrise di nuovo e si alzò dal pavimento dove si era inginocchiato per farsi più vicino a me. Indossava ancora la maglia della sera prima e non sapevo come ma gli si era strappata su di un lato.
Era la stessa maglia della sera cui mi ero aggrappata io.
Di colpo mi svegliai del tutto e tutto mi fu chiaro, vivido e reale come poche ore prima: rividi la stessa sala nel buio della notte appena trascorsa, le luci basse, la gente, la musica. Mi ritrovai abbracciata a Zeno, la mia testa sulla sua spalla, le nostre labbra appiccicate.
E di nuovo riascoltai la sua voce mentre mi diceva che ero tornata. Che noi due ci conoscevamo già.

D’improvviso percepii le mie guance andare a fuoco; le toccai rapida e le scoprii bollenti.

Ho baciato Zeno.
Anzi, Zeno ha baciato me.
Oh merda…!

 
“E’ tutto okay?”
“Ehm… Io…”

Ridacchiò.

“Forse so a cosa stai pensando…”
“Io credo che… Noi due dovremmo…”
“Parlare?”
“Esatto.”
“Sì, forse dovremmo. O forse no…” sentenziò con un sorrisetto, poggiandosi al tavolo sgangherato dietro di lui con le mani.
“Non fare il tipo misterioso con me!” lo rimproverai bonariamente; in realtà amavo studiare la linea che assumevano le sue labbra quando si piegavano all’insù. Non sapevo se fosse sempre stato così allegro ma di certo quand’era con me sorrideva spesso. Mi piaceva questa cosa.
“Non faccio il tipo misterioso… Faccio Zeno!”
“Da oggi in poi ti chiamo Johnny.”
“Johnny?”
“Come Depp. Stai cercando di assumere la sua stessa aria tenebrosa.”
“Certo che ti piace proprio sfottere, eh? Non me lo ricordavo…”
“Neanche io me lo ricordavo così come non mi ricordo nulla di te. Senti, se è una bugia, se non è vero che ci conosciamo…”
“Non ti sto rifilando una balla, Margherita.” si affrettò ad interrompermi “C’è stato un tempo in cui io e te siamo stati molto vicini…”
“Prima dei miei quattordici anni?” mi alzai a sedere sul divano, attenta a scansare la molla pericolosa. Mi sentivo scombussolata e perplessa, il mio cuore batteva all’impazzata: Andrea mi stava dicendo qualcosa, qualcosa di molto importante. Mi stava rivelando che c’erano ancora diversi particolari della mia vita precedente che mancavano misteriosamente all’appello, nonostante gli sforzi operati dalla mia memoria per riportare tutto a galla. Di quella vita precedente, che non riuscivo a mettere a fuoco completamente, lui sembrava aver fatto parte ma io non me lo ricordavo, forse non l’avrei ricordato mai.
Non sapevo se mostrarmi più angosciata dalla situazione, ansiosa o soltanto curiosa; non sapevo neppure se sorprendermi per il nostro incontro, se cominciare a credere al destino che mi aveva trascinato alla Piovra soltanto per permettermi di rivederlo, oppure credere più semplicemente in un piano realizzato da Andrea per incontrarci di nuovo in un giorno qualunque. Semmai ci fossimo davvero incontrati in un altro tempo che non riuscivo a immaginare.
Decine di pensieri diversi affollavano la mia mente, non riuscivo a focalizzarne neppure uno e, difatti, non stavo pensando realmente a niente.
Da quanto tempo non mi sentivo così spaesata?
 
“Margherita, io…”
“E’ stato prima dei miei quattordici anni?” ripetei, come un disco incagliato.
“Sì…”
“Non… Non me lo ricordo.”
“Lo so” annuì “so del tuo incidente, dei problemi di memoria.”
“Mi sembra che tu sappia tutto di me mentre io ero convinta di averti visto per la prima volta nella mia vita soltanto la settimana scorsa. Questa cosa è frustrante.”
“Mi dispiace, non voglio che ti senta così.”

Tornò a inginocchiarsi accanto a me; allungò una mano, poi la ritrasse.

“Ricorda sempre che non pratico cannibalismo…” mi venne da scherzare, nonostante tutto. Anche lui sorrise.

“Penso di averti creato un po’ di casini in testa. Immagino tu mi stia odiando.”
“No. Cioè, sì… Andrea, io vorrei soltanto capire. Davvero.”
“E capirai, credimi…”
 
Mi guardò a lungo e profondamente, carezzando una ciocca dei miei capelli in disordine. Non riuscii a comprendere quella strana sensazione di sentirmi un tutt’uno con lui eppure c’era, era tangibile: la percepivo più viva e più mia ad ogni battito irregolare del cuore.
 
“Sei rimasta uguale. Uguale a come ti ricordavo io.”
“L’ultima volta che mi hai visto quanti anni avevo?”
“Tredici. Io quasi diciotto. Mi hai detto che non avresti avuto tredici anni per sempre e che le cose sarebbero cambiate presto. Avevi ragione.”
“Non lo ricordo Andrea. Non lo ricordo.” mugugnai disperata. Lo ero per davvero… Disperata, intendo.
Affondai la testa fra le mani, i capelli ricaddero davanti ancora più disordinatamente. Zeno afferrò il mio polso, mi costrinse a guardarlo.

“Non così, Margherita. Non così, per favore…”
“Perché non ricordo? Se sei stato anche minimamente importante nella mia vita perché non riesco a…”
“Margherita! Stai calma, ti prego. Non lo so perché non ci riesci ma so che tutto tornerà a galla. Devi essere paziente.”
“Raccontami. Raccontami qualcosa…”

Scosse la testa, sorridendo di nuovo.

“Non voglio parlarti di noi, le parole sminuiscono i fatti e le emozioni. Ma ti aiuterò a ricordare, ogni giorno un pezzetto nuovo. Se vorrai…”
“E se no dovessi ricordare nulla?”
“E’ impossibile. Succederà.”
 
Era così sicuro, così certo delle sue parole e delle sue previsioni che riuscì a infondere anche a me parte della sua fiducia. Gli sorrisi – un sorriso malandato, certo, ma pur sempre un sorriso – e lui ricambiò quasi subito.
 
“Ti andrebbe di alzarti da questo divano, adesso, e sgranchirti un po’?”
Annuii.
“D’accordo…”
Guardai Stena ancora addormentato in un angolo della sala.

“E lui?” lo indicai. “E’ ancora qui?”
“Gli altri sono tutti più o meno riusciti ad alzarsi sulle proprie gambe e andare via. Stefano è rimasto a dormire, non ce la siamo sentiti di metterlo fuori. È un po’ la nostra mascotte” ridacchiò. “Ma sta bene, vedrai che fra poco si riprende. Adesso vieni, ti aiuto ad alzarti.”
Mi allungò le mani, le afferrai in fretta. Ma forse ero ancora un po’ scombussolata da serata, da tutte le rivelazioni di quel mattino, dalla baldoria, la confusione, le luci, i ricordi che non volevano decidersi a tornare, neanche dopo tanti anni, non lo so… fatto sta che persi l’equilibrio. La testa mi girava e per non cadere mi aggrappai alle braccia di Zeno.
 
 
 


“Non so scendere da questo muretto, Andrea! Aiutami!”
“Non aver paura! Ti prendo in braccio io!”

 


 
“E’ tutto okay?”
Alzai lo sguardo, incontrai gli occhi un po’ spaventati di Zeno. I suoi occhi grigi, le sue labbra di nuovo vicine come poche ore prima. E no, non era per niente tutto okay. La testa mi girava più forte di prima.

“Io…”

“MEG!”
 
Ci voltammo nello stesso istante, io e Andrea, nella direzione da cui proveniva una voce  molto più che familiare.
“Romina!”
“Ho – ho interrotto qualcosa?”
Aveva la faccia rossa dal lato in cui aveva dormito poggiata alla spalla di Stena. E beh, se pensavo che i miei capelli fossero in disordine allora i suoi erano una vera e propria selva. Dire che fosse conciata da sbattere era poco, ma in quel momento non era l’aspetto fisico di Romina la questione più imbarazzante  quanto il fatto di essermi fatta beccare da lei proprio mentre me ne stavo comodamente tra le braccia di Andrea e con la sua bocca a due centimetri dalla mia.
Dovevo darmi un tono: tossicchiai, quindi, e cercai di rimettermi in piedi ma la mia scenetta funzionava certamente poco. Non ero credibile.
“Ehm… no. Tutto okay. Sono inciampata e… Zeno mi ha aiutata a non cadere.”
“Ah certo, capisco.”

La sua espressione era eloquente. Diceva in maniera palese “ma a chi vuoi darla a bere?”
Cercai di non badarle.
 
“Tu piuttosto? Che hai, mi sembri agitata.”
“Oh!” batté la mano sulla fronte, come se le avessi improvvisamente ricordato qualcosa di molto importante. Poi mi mostrò il cellulare.
 
“Sarà meglio che torniamo a casa immediatamente, Meg.”
Zeno mi rivolse un’occhiata perplessa che ricambiai immediatamente.
 
“Perché?”
“Ho appena parlato con tua madre. Stava per prenderle un colpo, non hai risposto neppure ad una delle sue telefonate!”
“Ho lasciato il cellulare a casa tua!” cercai di giustificarmi.
“Sì, io questo lo so ma lei no. E per la cronaca è convinta che tu sia a casa mia. O almeno lo era. Le ho detto che stavi ancora dormendo perché abbiamo studiato fino a notte fonda ma… Meg, non siamo credibili. È ora di pranzo.”
 
Aveva ragione: non eravamo credibili.
Sospirai: non avevo voglia di lasciare La Piovra. Sì, era assurdo ma non mi sarei schiodata di lì neanche a pagarmi a peso d’oro, almeno finché anche Zeno si fosse trattenuto in quel posto. Tuttavia, la buona sorte non era dalla mia in quel periodo: prima l’infelice discussione con la nonna, adesso la mamma col suo mezzo infarto… Prima o poi qualcuno mi avrebbe cacciato di casa. Non era davvero il caso di aspettare ancora cosicché, seppur a malincuore, feci segno a Romina di avviarci verso l’uscita.
Romina annuì e salutò frettolosamente Andrea prima di passarci accanto e sparire con altrettanta rapidità dalla nostra vista: in pratica, stava cercando di non fare da terzo incomodo e concederci un po’ di tempo per salutarci in santa pace.
Conoscevo quella ragazza e i suoi modi di fare meglio delle mie tasche.
 
Zeno mi rivolse un sorriso delizioso.

“Allora vai?”
“Sì, devo…”
“Domani. Ci vediamo domani fuori la tua scuola. Va bene per te?”
“Se sono ancora viva volentieri.” ridacchiai. Zeno mi squadrò gentile prima di lasciarmi andare con un bacio sulla guancia.

“A domani, allora.”
“Promesso?”
“Promesso.”

Stava accadendo tutto troppo in fretta, questo lo sapevo, e forse niente aveva un senso. Ma non ci trovavo nulla di sbagliato, per quanto confusa o perplessa potessi essere. C’era una parte del mio cuore che stava bene ed era felice quel mattino, a dispetto dei ricordi confusi, della perplessità, dei rimproveri di mio padre, dell’ansia di quei giorni, e finché quella parte palpitava e viveva anche io mi sentivo viva e raggiante.

C’era qualcosa di nuovo da scoprire, o di vecchio da ritrovare, a seconda dei punti di vista e, forse, quel qualcosa mi avrebbe salvata. Forse, grazie a Zeno, avevo di nuovo la possibilità di ritrovare la mia giusta collocazione nel mondo: non potevo lasciarmela sfuggire.

















Eccoci qui, per l'aggiornamento di Piovre :)
Spero che il tutto vi sia piaciuto, come avrete capito questo è già un primo capitolo di svolta. Avete già qualche conclusione, a riguardo?
Vi sono onesta: mi è piaciuto scriverlo questo capitolo, in certi tratti mi sono anche divertita. Spero che lo stesso valga per voi nell'averlo letto ;)
In ogni caso, spero vi piaccia di più del precedente che non mi sembra abbiate particolarmente gradito... Mi piacerebbe tanto sapere cosa ne pensate, quindi, se vorrete lasciarmi come sempre il vostro parere, ne sarei veramente felice :)
Grazie a chiunque lo farà, sul serio, e grazie anche a chi ha inserito la storia tra seguiti/preferiti/ricordati.
Inoltre, un ringraziamento va a Erika per le ottime correzioni e a Giulia Butterphil per lo splendido banner :)
A presto col nuovo aggiornamento!
Baci
Matisse

 

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Capitolo 5
*** Di bici e memorie ***






Ritrovarmeli fuori scuola, quel lunedì mattina, mi parve quasi un’allucinazione: Polska, Stena, Zeno e altri ragazzi che non conoscevo, tutti con i rasta e le loro creste colorate, tutti stravaccati sul marciapiede, che ridevano mentre fumavano una canna. Erano bellissimi. E, soprattutto, erano veri; non mi stavo immaginando nulla, se ne stavano sul serio fuori la mia scuola.

“Ehi! Hai visto chi c’è?”
Romina mi tirò subito per la giacca, indicandomi il punto dove l’allegra combriccola sostava. Stavano fermando i passanti, gli studenti, distribuendo volantini e ridendo a crepapelle: erano proprio belli a vedersi, mettevano il buonumore.
“Visto…”
“Meg?”
“Eh?” risposi a malapena, gli occhi puntati su Zeno, sul suo sguardo fiero, su quel sorriso luminoso.
“Asciugati la bava…”

“Che?”
“La bava. Asciugatela o tutto il mondo saprà che ti piace una zecca comunista!”
Strizzò l’occhio destro e la sua risata riempì l’aria.
“Io non sto sbavando” commentai offesa ma, ovviamente, le mie guance rosse mi avevano già tradita.
“Come no…”
“Senti, non parlarmi proprio tu così che quando vedi Polska ti rincoglionisci più del solito!”
Mi guardò con un’espressione indecifrabile, il sopracciglio sinistro puntato verso l’alto, le mani sui fianchi.

“Sì, vabbè, ma io mica faccio tutte ste storie. Mi piace Polska, non è un mistero! Comunque adesso vieni, andiamo a salutarli!”

Essere trascinata per un braccio era diventata una costante della mia vita negli ultimi tempi: di conseguenza, non mi lasciai turbare troppo dal fatto che Romina avesse preso a tirarmi per la manica della camicia lungo la strada che, dalla scuola, portava al marciapiede dove Zeno e Polska se ne stavano comodi a far opera di propaganda.

“Ehi, Romina!” Stena alzò un braccio nella nostra direzione per salutarci, appena vide sbucare le nostre faccine felici tra la folla di studenti anonimi che si attardava fuori al liceo. Poiché aveva preso l’abitudine di chiamare la mia amica e mai me sospettai che non ricordasse affatto il mio nome.

“Ciao Stè, tutto bene?”
“Ciao Stefano…”
“Ciao ragazze! Tutto alla grande!” sembrava essersi ripreso piuttosto bene dalla sbornia del sabato precedente. Meno male.
“Che fate qui?” domandò, dunque, Romina, anticipandomi.
“Ooh, grandi cose bollono in pentola!”

Ci allungò un manifesto colorato, in alto capeggiava la scritta “resistenza” in un bel rosso vermiglio. Era l’invito a una protesta di piazza che avrebbe avuto luogo il giovedì successivo, contro la nuova riforma scolastica.

“E’ inammissibile che le scuole private vengano finanziate così tanto dallo Stato! Ricevono già abbastanza soldi dai loro iscritti straricchi!”spiegò con veemenza e io ripensai con un brivido al mio vecchio istituto di suore e a tutte le monetine sonanti che papà aveva sborsato, all’epoca, per la pesca di beneficenza e la manutenzione del giardino, oltre che per far promuovere me e Ludovico sempre a pieni voti, ovviamente. Meno male che ero scappata via da bel un pezzo da quel posto che puzzava di marcio.
Evitai comunque di far presente a Stena che ero stata anche io una di quelle iscritte straricche di cui parlava con tanto disprezzo e, piuttosto, rivolsi la mia attenzione altrove, oltre la sua spalla, fino a una familiare cresta color melanzana.

“Non è qui per me, è qui per promuovere la manifestazione. Mi ha detto una bugia.” pensai mestamente.

Abbassai lo sguardo costernata, con l’autostima che scendeva inesorabilmente sotto le scarpe, mentre Romina - che fino ad allora aveva parlato con Stena di qualcosa cui non avevo prestato attenzione - biascicava un timido “ciao Polska”. Alzai gli occhi su di lei, sulle sue guance sfumate di rosso, sulle sue labbra socchiuse e dopo incontrai lo sguardo sicuro di Polska che ci passava davanti in tutta fretta, con un sorriso gentile.
Per Fabrizio, Romina doveva essere qualcosa di molto simile alla “donna invisibile” vista tutta la fretta che puntualmente mostrava quando lei lo salutava o tentava di rivolgergli la parola: me ne rammaricai e cercai di ricordarmi che presto avrei dovuto fare un bel discorsetto alla mia amica, onde evitare che la sua cotta adolescenziale potesse presto trasformarsi in una dramma sentimentale di proporzioni enormi cui, poi, avrei dovuto porre io rimedio. Tuttavia, non mi fu possibile riflettere troppo a lungo su questo argomento, poiché la consapevolezza di essere osservata mi costrinse inevitabilmente a distrarmi; così mi voltai e incrociai il suo sguardo: Andrea mi stava guardando da lontano. Mi rivolse un sorrisetto delizioso quando intercettò la mia occhiata interrogativa.

“C’è qualcuno per te, mi pare…” mormorò Romina al mio fianco, stringendomi la mano.
“Sì, ma…”
“Non ho capito, farlocca, che stai aspettando?”
“Resti qui da sola?”
“Ma ti pare?!” esclamò “Sto qui a chiacchierare con Stena, l’aiuto a distribuire i volantini… Vero Stena?”

Il poveretto ci guardò sconcertato.

“Va bene, ma non ci sto capendo niente di quello che state dicendo…”

Scoppiammo a ridere entrambe e Romina strizzò l’occhio complice mentre le lasciavo la mano e mi incamminavo verso Andrea. Alle mie spalle, tutto ciò che mi riuscì di udire fu soltanto il commento di Stena che diceva:
 “C’è qualcosa che non so?”
 
 
 
 
“Ehi, super fotografo…” commentai avvicinandomi a piccoli passi. Stavo fingendo un’aria disinvolta che non avevo.
“Buongiorno, signorina. Ancora viva? Tua madre non ti ha sbranato, allora…”

“No, mia madre mi ha proprio scuoiato viva” pensai senza aprir bocca. In effetti, era già tanto che il mio udito funzionasse ancora dopo le urla con cui mi aveva accolto al ritorno a casa, il pomeriggio precedente. Quando mi aveva gridato “pensi davvero che non sappia che ieri sera sei uscita, Margherita?!” avevo perso completamente la lingua. Mi sembrava inaudito che mia madre alzasse la voce a quel modo, di norma era quella che mi comprendeva di più e metteva a tacere le discussioni. Tuttavia, se c’era qualcosa che lei non sopportava era l’esser presa in giro; inoltre, memore delle tristi avventure del passato, doveva essersi preoccupata davvero parecchio per il mio silenzio e per il fatto che non avessi risposto neppure a una delle sue telefonate. Non potevo biasimarla, forse avrei urlato anche io allo stesso modo. In ogni caso, avevo accettato la sfuriata senza fiatare: alle urla non aveva fatto seguito alcuna minaccia e, straordinariamente, la mia libertà non era stata intaccata in alcun modo. Di conseguenza, mi ero limitata ad annuire e biascicare un paio di scuse per evitare di peggiorare la situazione, dopodiché ero corsa alla svelta in camera mia, ringraziando il cielo che mio padre non fosse stato presente alla scenata. Ma evidentemente non era un caso.
Quando al mattino avevo incontrato mamma in cucina per la colazione, mi era parsa un tantino imbarazzata ma di nuovo tranquilla, e così la discussione era stata chiusa e archiviata. Avrei dovuto ritenermi fortunata per il resto della mia vita, nonostante tutto.
 
“No, tutto okay, grazie. Che ci fai qui?”
“Ti avevo promesso che sarei venuto fuori scuola, no?”

Sobbalzai, avvampando.
“Ah, non sei venuto per la propaganda?”
Ridacchiò, poggiato alla bici che teneva sistemata lungo il muretto.

“Direi di no, la mia presenza non era richiesta. In effetti avrei dovuto essere altrove, adesso.”
“E dove?”domandai di getto.
“A lavorare” rispose con un occhiolino.
“Oh…”
“Hai un po’ di tempo da perdere con me?”domandò tranquillo.

Tempo?
Quanto ne vuoi?


In realtà ero molto più che impegnata: avevo da studiare storia, fisica, latino (perché i compiti in classe non bastavano mai e la prof sembrava particolarmente smaniosa di interrogarmi); non avevo uno straccio di programma da proporre per la maturità e avrei dovuto cominciare a organizzarlo. Inoltre, c’era da sistemare camera prima che a Joan prendesse un infarto e, possibilmente, sarebbe stato carino farmi trovare a casa per quel pomeriggio da mamma e papà, dopo tutto quello che avevo combinato.
In teoria, quindi, non potevo stare con Zeno.
In pratica la mia bocca agì da sola, prima che il cervello potesse formulare la risposta giusta, e così mi ritrovai a domandare con naturalezza:
 

“Certo! Dove andiamo di bello?”

 

***
 

Non avrei mai saputo spiegare, in seguito, come ci fu possibile arrancare fino al parco cittadino in due, sulla stessa bicicletta. Niente di più scomodo e divertente; io tenevo il manubrio in un modo, Andrea lo direzionava altrove e puntualmente finivamo con lo sbandare: avrei ricordato per sempre la faccia di quel poveraccio che avevamo quasi investito, mentre ci bestemmiava dietro tutti i santi del Paradiso. Il sellino faceva male e per più di due volte avevamo rischiato di cadere: non eravamo una coppia esperta dell’arte del ciclismo, niente da dire a riguardo. Eppure… Eppure avrei continuato ad andarmene in giro su quella bici assieme a Zeno ancora per ore e ore, senza mai lamentarmi. Tutt’altro.
Quando scendemmo da lì sopra, comunque, le gambe mi tremavano; in ogni caso, non smettevo di ridere e anche Andrea aveva le lacrime agli occhi.

“Siamo un disastro!” scherzò.



“Ma quando impareremo ad andare in bicicletta?”
“Margherita, non è colpa nostra se siamo caduti! Questa bici è troppo piccola per andarci in due!”

 
 
Sobbalzai, lo sguardo perso nel vuoto. Zeno mi si fece più vicino, poggiò la sua mano sulle mie spalle.

“Margherita, è tutto okay?”
 
Erano anni che quelle voci mi perseguitavano, nei miei sogni. Una di esse era la mia, ma più giovane, da ragazzina. L’altra non ero mai riuscita a identificarla, neppure con tutti gli sforzi del mondo; certo, apparteneva ad un ragazzo ma chi era? Dove ci eravamo incontrati?
Incapace di rispondere a questi interrogativi, avevo archiviato il tutto come uno scherzo del mio inconscio e della mia immaginazione, e mi ero figurata quelle voci come un impasto di vita vissuta con qualche scena di un vecchio film che la mia mente aveva poi rielaborato e proiettato nei sogni.

E invece adesso mi era tutto più chiaro.
Non c’era nulla di falso o inventato; quella era davvero la mia voce e l’altra persona, quell’interlocutore che non comprendevo né focalizzavo era… Era Andrea.

Chissà in quale tempo e in quale luogo, ma era già esistito un momento in cui avevamo pedalato assieme e riso allo stesso modo. Un altro momento in cui le sue braccia mi avevano tenuto forte per non farmi cadere.
E io lo ricordavo soltanto adesso.


“Non è la prima volta, vero?”
“Che intendi?”
“Non è la prima volta che andiamo insieme in bicicletta. È così?”

Mi guardò per qualche istante, un po’ sorpreso. Poi sorrise, un sorriso più luminoso del raggio di sole che gli illuminava la faccia in quell’istante.

“Te lo sei ricordato?”
“In realtà credo di saperlo da sempre. Solo che non immaginavo fossi tu, il tuo viso proprio non riesco a figurarmelo …”
 
Abbozzò un altro sorriso, poi cominciò a spingere la bici per il manubrio, lentamente. Mi affiancai a lui, camminando adagio lungo i vialetti ordinati del parco; due bambini che giocavano a rincorrersi ci superarono sulla destra, seguiti da un uomo di mezz’età che faceva jogging e da una ragazza che portava a passeggio un bell’esemplare di labrador.

Rivolsi a Zeno un’occhiata interrogativa.

“Andrea?”
“Sì?”
“Dobbiamo far scena muta ancora per molto?”

Ridacchiò.

“Pensavo… E nel frattempo cercavo un bel posto per accomodarci. Trovato!”
Indicò un pezzo di prato libero, dall’erba tagliata corta, sotto un albero dai rami larghi.
Abbandonammo la bici sul ciglio del vialetto di ghiaia e poi ci avviammo verso la nostra deliziosa postazione; guardai l’erbetta fresca, guardai le mie ballerine di vernice e non riuscii a resistere alla tentazione: le sfilai rapidamente, beandomi poi della sensazione di muovermi su quel prato umido e verdissimo. Andrea, al mio fianco, sorrise osservandomi.

“Non c’è niente di meglio del contatto fisico con la natura…”
“…per ritrovare se stessi.”

Lo guardai perplessa.

“Come lo sai?”
“Lo dicevi anche da ragazzina.” spiegò accomodandosi sotto l’albero, la schiena poggiata al tronco ruvido. Mi allungò poi una mano, invitandomi a sedere accanto a lui: lo accontentai con un sospiro.

“Qualcosa ti dà fastidio?”
“Sì” ammisi risoluta “non ricordarti mi dà fastidio. È un gioco che non mi piace questo, tu sai tutto di me, io ignoro ogni dettaglio. L’unica cosa che ho di noi due assieme è un flash della nostra voce da ragazzini, mentre cerchiamo di non cadere da una bici.”
“Allora come adesso…” mormorò, le braccia stese sulle ginocchia piegate, lo sguardo fisso su di un punto lontano.
“Esatto.”
“Meg?”
“Uh?”
“Fammi qualche domanda.”
“Qualche domanda?”
“Sì. Se l’idea di non sapere nulla di me ti destabilizza tanto, chiedimi quello che vuoi. Ricordare non è tutto, non esiste solo quello. Puoi conoscere prima l’Andrea che sono adesso, dopo quel che sono stato assieme a te. Ti va?”

Lo guardai con la stessa espressione che avrei potuto avere se avesse parlato aramaico: ero sconcertata. Ma non in senso negativo, siamo chiari: a volte mi chiedevo come fosse possibile l’esistenza di un ragazzo – ra-gaz-zo, essere di sesso maschile – così dolce, sensibile, premuroso. E, soprattutto, mi chiedevo come fosse possibile che quel ragazzo provasse interesse nei miei confronti da tanto tempo. Perché io e non un’altra?

“Allora? Non vuoi sapere proprio nulla?” domandò ridendo.
“Io…” passai una mano tra i capelli, nervosa. Venne da ridere anche a me. “Okay, d’accordo. Che… Cosa hai fatto in questi anni? Perché non mi hai cercata se ero così importante?”
Il suo sguardo un po’ si rabbuiò e mi pentii all’istante: tra tante domande, quella di certo non era la più delicata per cominciare.
“Ci sono tanti motivi che non voglio raccontarti ora. Comunque, principalmente, è perché sono stato via.”
“Via? Fuori città?”
“Fuori Italia”
“Oh… E dove?”

Alzò le spalle.

“Un po’ dappertutto: Germania, Francia, Inghilterra. Probabilmente, se non avessi riallacciato i contatti con Polska per puro caso, non sarei neppure tornato.”
“Perché eri via?”
“Per lavoro. Prima in Francia, ma Parigi non era per me, ci son stato pochissimo. Dopo mi sono spostato a Francoforte, lavoravo come cameriere in un ristorante, il proprietario era milanese. Mi ci trovavo bene, ma sono uno che si stanca subito; il giorno in cui ho incontrato Fabrizio, lui era venuto a mangiare nel nostro ristorante per caso, stava per tornare a casa e non immaginava di trovare me là dentro. Non ci vedevamo dai tempi della scuola, quasi gli è preso un colpo. Mi ha detto che aveva grandi progetti qui, voleva portare la sua arte nella terra d’origine e rientrare in politica, dal lato antagonista ovviamente. Mi ha chiesto di seguirlo ma io avevo già in tasca un biglietto per Liverpool e ho desistito.”
“Sei stato a Liverpool?”
“Sì. Cittadina piccola ma pittoresca. Ci sei mai stata?”

Feci segno di no con la testa: avevo girato mezza Europa con i miei genitori, tuttavia una cittadina come Liverpool doveva avere qualcosa di eccessivamente alternativo e troppo rock per loro. Non era mai rientrata fra le nostre mete.

“Dovresti vederla, ha un che di inquietante e affascinante. Secondo me potrebbe piacerti.”
“Magari mi ci porti tu…”
 
Mi ci porti tu?
Mi. Ci. Porti. Tu.

Non l’avevo detto sul serio, vero?
No, l’hai detto.
Che cosa?! Ma che cazzo andavo blaterando con quella bocca stupida che mi ritrovavo?!
Non lo so Margherita, ma ricordati di tranciarti la lingua quando torni a casa, grazie.
 
“Va bene. Ti ci porto io.”confermò Andrea mentre io seguitavo ad imprecare contro me stessa. Lo guardai a occhi sgranati ma già più sollevata: almeno non mi stava dando della pazza. Mi bastavo già da sola a considerarmi una folle.

“Ehm…E c-che cosa facevi a Liverpool?”
“Lavoravo da Caffè Nero, nella zona di Whitechapel”spiegò come se avessi potuto intendere geograficamente dove si trovava il suo posto di lavoro “un amico inglese conosciuto in Germania mi ha aiutato a ottenere un contratto per sei mesi là dentro, mi sono divertito a lavorarci.”
“Però…?”
“Però…”continuò sicuro “avevo le parole di Polska che mi rimbalzavano in testa ogni momento. E lui non mi aiutava certamente, visto che continuava a ripetermi di tornare ogni volta che ci sentivamo. In pratica, è stato molto convincente: dopo un anno in Inghilterra mi sono deciso a far dietro-front fino a casa mia.”
“E adesso lavori in un supermercato…”
Annuì.
“Esatto.”
“Guadagni bene?”
“Meno che all’esterno ma tutto fa brodo. In famiglia non ce la caviamo alla grande, in fatto di soldi: era per questo motivo che sono andato a lavorare fuori.”
 
Famiglia povera.
Pochi soldi, poche possibilità, pochissime speranze.
Ripensai al nostro enorme quanto inutile televisore al plasma in salotto, alle tre auto in garage, alla nuova e costosa camera da letto dei miei genitori e desiderai di sprofondare per chilometri sottoterra. Odiavo i nostri soldi, adesso ancora di più.
 
“Sei pentito?”
“Di essere tornato?”
“Sì.”
Scosse la testa.
“No. Va tutto bene qui, soprattutto da quando esiste La Piovra. Ho trovato un senso nuovo a tutto, alle mie fotografie, a me stesso e alla mia vita in generale. E poi nella Piovra ho ritrovato te e penso che questo valga molto di più di un semplice segno del destino, Margherita. Pensavo non ci saremmo mai più incontrati. E invece…”
“Invece sono qui.”
“Già. Sei tornata.”
“Sono tornata”confermai come se l’avessi sempre saputo. Anche se non ricordavo, dopo tutto quel racconto, le parole di Andrea cominciavano ad assumere un loro significato, qualcosa di molto complicato e profondamente mio: già solo per questo mi piaceva da impazzire.

Zeno mi si fece più vicino, quasi tranciò l’aria con le mani come se fosse stato un ostacolo al nostro stare insieme. Mi sorrise e poi portò una ciocca dei miei capelli dietro le orecchie.
 
Fra poco muoio. Anzi, non fra poco: ora.
 
“Margherita, anche se non ricordi non fa nulla. Io mi ricordo di te, non ti ho mai dimenticata. Non sono tornato a cercarti prima perché non potevo…”
 
Non potevi? E perché?

“…Ma i tuoi occhi ce li avevo stampati nella memoria, sempre. Ti ho portata nel mio cuore in tutti questi anni, ti ho portato in Europa con me, in ogni casa in cui ho dormito, in tutti i posti che ho visto. Tu sei sempre stata speciale, anche quando avevi soltanto tredici anni e non potevi passare molto tempo con me perché eri troppo piccola o, forse, io troppo grande, non lo so. Anche allora ti pensavo di continuo perché sei sempre stata diversa da loro…”
“Da loro?”
“Dalla gente che fa parte del tuo mondo, quelli che votano Berlusconi e vanno a messa la domenica con la pelliccia di visone. Tu non c’entri un cazzo con quella gente, stavi dal lato nostro già da allora, eri mia già da allora. Mi dicevi sempre che a diciotto anni avresti votato la sinistra, sai? Me lo ricordo bene.”
“L’ho fatto. L’anno scorso per la prima volta. Ma non è servito a nulla.” deglutii a fatica, ancora non riuscivo a metabolizzare quel “eri mia” appena pronunciato.

Andrea mi sorrise, mi carezzò una guancia.
“Non importa, tu sei stata coerente con le tue idee. È questo ciò che conta.”
 
Non la smetteva Andrea, proprio non ce la faceva.
Continuava a parlarmi come un innamorato, continuava a parlarmi come se mi amasse da anni e avesse soltanto atteso più del dovuto per avermi e io non capivo; mi sembrava tutto troppo frettoloso, troppo irreale, troppo bello. Non era possibile. Guardavo la sua faccia, i suoi occhi così innaturalmente grigi – non ne conoscevo altri simili – e continuavo a pensare che fosse soltanto la mia immaginazione che mi faceva vedere un’espressione felice, il suo sorriso dolce, uno scintillio di ammirazione. Altrimenti, come avrei potuto spiegare tutto quello se non come un parto della mia fantasia? Andrea era venuto fuori dal nulla, persino nei miei ricordi faticava a trovar posto, eppure c’era adesso ed era esistito in quel passato remoto che mi evitava come la peste; era una presenza vera, tangibile e, in così poco tempo, aveva già occupato tutti gli spazi della mia vita. Da quel giorno in cui avevo parlato con lui alla mostra fotografica, a voler essere sincera, quante volte avevo pensato a lui? Troppe.
E avrei potuto rispondere che il motivo era semplice: Andrea era bello, nelle sue imperfezioni conservava un fascino particolare, qualsiasi ragazza si sarebbe interessata a lui. In realtà, la risposta era molto meno scontata di come voleva apparire: Andrea non era soltanto un bel ragazzo, un tipo figo, come avrebbe detto Romina; era stato, sin da subito, una presenza familiare, un tassello sconosciuto che tornava a far parte di me, una mano che aveva già stretto la mia, un sorriso che conoscevo, una voce che mi aveva già detto “buongiorno”. E io volevo ricordarmelo, ricordarmi di lui e di tutti quei momenti che erano stati i nostri.
Lo fissai per un tempo che mi parve infinito; poi, tra fiori e scritte incomprensibili sulla pelle del suo braccio, colsi un volto di donna che mi guardava con un ghigno di soddisfazione. La riconobbi dall’armatura e dalla sua inseparabile civetta: era Atena, dea della saggezza.

“Anche a te piace la mitologia…”sussurrai, tracciando le linee di quel disegno sulla sua pelle con il dito indice.
“Sì. E questa l’hai disegnata tu, qualche anno fa. Uno scarabocchio sui quaderni che ti portavi sempre dietro, così lo definivi. Te lo rubai per tatuarmelo sul braccio.”

Lo guardai sconcertata.
Il cuore fece bum bum.

Stavo diventando troppo romantica e sentimentale e, forse, Andrea lo comprese: approfittò del momento; sorrise un’altra volta mentre chinava un poco la testa. Si avvicinò cauto, mi guardò a lungo e con profonda tenerezza; ricambiai quello sguardo, emozionata ma preparata questa volta: sapevo cosa stava per accadere sotto quell’albero. Chiusi gli occhi e accolsi quel bacio con tutta la dolcezza di cui ero capace. Stavolta non c’era confusione, nessuna perplessità, alcun timore: quel bacio mi spettava, mi spettavano le sue labbra grandi, il suo sapore di marijuana e caramelle alla menta, persino il pizzicore della sua barba sulla mia pelle un po’ delicata mi era dovuto. Mi carezzò la guancia destra, durante quel bacio, e io finii con lo scivolare un po’ troppo sul suo braccio ma nulla sembrava sbagliato: c’era qualcosa di sorprendentemente naturale nel nostro incastrarci perfino dopo così poco tempo di conoscenza.
Portai le mani ai lati del suo viso, incapace di staccarmi, e lui rispose con maggior dolcezza: percepii le mani sui miei fianchi, la fermezza del gesto garbato con cui mi attirava a sé mentre continuava a baciarmi.

Ero al settimo cielo.


Se mi sta venendo un infarto nessuno mi porti in ospedale, per favore.
Almeno, se devo morire, lo faccio nel modo migliore.

 
Ma, ovviamente, tutte le cose finiscono, soprattutto le più belle. E così fu anche per il nostro bacio, che terminò nel peggiore dei modi, sotto quell’albero dai rami bassi.
Come?
Con le urla di un uomo sconosciuto mentre tentava di avvisarci che…


“Ragazzi! Ragazzi, svegliatevi! Vi stanno a fregare la bicicletta!”
 
…Qualcuno ci stava derubando.

Andrea si staccò di getto, puntando immediatamente gli occhi verso il ciglio del vialetto di ghiaia: era vero, la bici non c’era più.

“Oh merda! E’ di mio fratello!”ringhiò, mentre scattava come razzo verso la strada. Lo vedevo anche dalla mia postazione, il ladro che se ne andava beatamente in sella alla nostra bici, così come vedevo Andrea corrergli dietro con la stessa agilità di un maratoneta.

Sospirai, prima di seguirlo correndo a mia volta, con la borsa a tracolla che mi batteva ritmicamente su gambe e sedere: ovviamente, quando si trattava di me, anche un bacio doveva trasformarsi in qualcosa di comico.
La mia solita fortuna!
 
 
***



Arrancai disperata dietro a quel disgraziato che aveva rovinato il mio momento d’oro e dietro ad Andrea che lo inseguiva, a sua volta. Per fortuna non me la cavavo male in educazione fisica e mi piaceva correre, altrimenti mi sarei schiantata subito per terra, a quel ritmo. Viceversa, osservai il collo di Zeno con quel suo rossore dilagante e mi preoccupai per la sua pressione.
Beh, in realtà mi preoccupai molto di più quando, in uno scatto felino e assolutamente imprevedibile, ormai prossimo alla bicicletta, lo vidi fiondarsi sulla parte posteriore della stessa nel tentativo di riappropriarsene.
 La bici si schiantò su di un lato, sotto gli occhi sconcertati di decine di visitatori nel parco che ignoravano ciò che stava accadendo tra quei due presunti pazzi. Il ladro ruzzolò sul vialetto di ghiaia e di certo dovette procurarsi anche un bel po’ di tagli e lividi; a ruota lo seguì Andrea.

“Oh mamma! Andrea!”

Corsi a perdifiato nella sua direzione, saltando un sasso più grande degli altri, rischiando di cadere, arrancando col cuore a mille. Ma Zeno era già schizzato contro il furfante prima che potessi raggiungerlo, incurante dei tagli e delle escoriazioni sui suoi tatuaggi.

“Andrea! Come stai?”
“Emiliano!”

La voce irritata di Zeno sovrastò il brusio della gente intorno a noi; poi, questo si dissolse da solo allorché il pubblico improvvisato dovette immaginare che tutto il rocambolesco inseguimento non fosse stato altro che lo scherzo rumoroso di un trio di adolescenti. In pochi istanti la piccola folla si dissipò, ognuno tornò alle sue attività. Io, al contrario, in tutta quella situazione, ci capivo veramente poco: non era uno scherzo e lo sapevo. Ma Andrea conosceva davvero la persona che gli aveva rubato la bicicletta? L’aveva chiamato per nome!

Mi avvicinai quindi a piccoli passi, la faccia perplessa e lo sguardo puntato su Zeno che, a pochi metri da me, ormai in piedi, continuava a tenere saldamente per un braccio il ladro disgraziato.
E allora, ormai vicinissima, lo riconobbi anche io quel tale.
Emiliano, sì, si chiamava così.

“Emiliano… Emiliano Borghesi?”

Ero sconcertata. Emiliano era figlio di un amico di vecchia data dei miei genitori; una famiglia agiata, lavoravano nel settore edile e, e per quanto ricordassi , erano tutti belli e perfetti come i protagonisti delle pubblicità Original Marines. Erano almeno un paio d’anni che non lo vedevo, in realtà era una vita che non vedevo più nessuno della sua famiglia; le ultime notizie su di lui lo volevano all’estero, per motivi di studio. A giudicare dal suo corpo magrolino e spigoloso, dal viso scavato e i capelli lunghi e disordinati che gli ricadevano sugli occhi no, non era stato assolutamente impegnato con lo studio.
 
“Ma chi si vede! La piccolina di casa Gherardi! Tutto a posto, bambolina?”
“Non ti azzardare neanche a guardarla!” Andrea lo strattonò per il braccio, scoprendo diversi… tatuaggi?

No, non poteva essere Emiliano.

Lui ci guardò a turno, prima me e poi Zeno e poi di nuovo me, con un ghigno a metà tra lo sconcerto e l’ironia sadica.

“Fammi capire… Una Gherardi se la fa con una zecca comunista? I Maya hanno ragione, fra poco arriva la fine del mondo!”
“Smettila. Sto cercando di non rovinarmi le mani prendendoti a cazzotti.”
“Perché, che ho detto di male?”
“Lascialo perdere Andrea, va tutto bene. Noi ci…Ci conosciamo.”
“Sentito? La piccoletta mi conosce, lasciami stare adesso.”
“Non ti ricordi neanche come si chiama, sta’ zitto stronzo! Margherita, fatti da parte.”

“Sì Margherita, fatti da parte mentre mi mena. Non sia mai che ti schizzi un po’ del mio sangue addosso.”
“Infatti, non voglio che si sporchi col sangue di un tossico!”
“Non mi pare che ti facesse così schifo essere amico di un tossico, una volta.”

Lo guardò con aria di sfida, furfante e disgraziato com’era, mentre Andrea continuava a stringerlo convulsamente. Rabbrividii, senza comprendere le sue parole: non volevo sapere cosa significassero di preciso.

“Tu-tu non eri all’estero a studiare?”
Rise, agghiacciante e fastidioso. Per quanto magro e sfiancato potesse essere era bello, anche troppo, ma terribilmente inquietante: mi aveva sempre fatto un po’ paura.

“E questo quello che vanno dicendo allora?” domandò mentre si asciugava il naso col dorso della mano.
“Margherita, non dargli corda, per favore.”
“Infatti Margherita, non darmi corda. Altrimenti ti passo qualche strana malattia”
Andrea sbuffò, nervoso.

“Che cazzo ci fai qui, si può sapere?”
“Tu che ci fai, Andrea? Te la fai con le ragazzine perbene, adesso?”
“Quello che faccio io a te non interessa.”
“Neanche quello che faccio io deve interessarti, allora.”
“Sì ma io non mi frego le biciclette degli altri.”
“Avevo bisogno di soldi, oh… Guarda che te la puoi riprendere, troverò un altro modo per farmi un po’ di spiccioli.”
“Col cazzo, adesso ti porto in questura.”
“Ah sì?” rise “E dici che ti cagheranno? Basta che guardano la tua bella faccia da punkabbestia e dopo sentono il mio cognome ,e fidati, in carcere dopo mettono te, non me”

Guardai Emiliano, quella faccia da delinquente nascosta dietro un nome troppo prestigioso, i suoi tatuaggi – pochi ma colorati – mimetizzati dietro la manica lunga di una maglia di filo. Poi guardai Zeno, la sua cresta viola, Atena dai colori scintillanti sul suo braccio, la barba un po’ lunga, gli anfibi in finta pelle, il polsino con la stella rossa.
Emiliano aveva ragione: Andrea era troppo palesemente una zecca comunista per risultare gradito a un carabiniere.
 
“Andre, vieni, lasciamolo perdere…” gli poggiai una mano sul petto, con l’altra mi ancorai al suo polso destro “Andiamocene.”

Emiliano ci guardò ironico, doveva risultare troppo divertente per lui che un tipo come Andrea fosse stato in grado di accalappiarsi una ragazzina ingenua e di buona famiglia come me.

“Ecco… Ascolta la tua saggia ragazza, Andrea, e non rompere troppo le scatole, su…”

L’espressione stampata sulla faccia di Zeno era fin troppo eloquente: aveva voglia di sbranarselo, Emiliano. Tuttavia, dovette ragionare anche lui sulle notevoli possibilità di finire in carcere per qualsiasi futile motivo dipendente dalla scarsa simpatia di un carabiniere, per cui si trattenne.
“Vaffanculo Emiliano, ti lascio perdere perché non vale neanche la pena prenderti a schiaffi. Ma non farti più vedere in giro.”
“Tranquillo Zenovi, non ci tengo a incontrarti presto un’altra volta. Grazie per la clemenza, eh. E ciao dolcezza!”

Si allontanò a passo svelto: mentre ancora lo guardavamo interdetti, lui era già andato via, sparito dalla nostra visuale.
Andrea sospirò, al mio fianco, passandosi una mano sulla fronte.

“Quindi lo conosci anche tu?”
Annuì.
“Da un po’di tempo.”
“Non sapevo che andasse in giro a rubare bici per far soldi. Pensavo che i suoi genitori ne avessero abbastanza per togliergli ogni sfizio.”
“I suoi genitori l’hanno cacciato di casa da quando hanno scoperto che si riempie di pasticche.”
“Oh… E tu come…?”
“Lo so? E’ una storia lunga, Meg. Adesso che ne dici di tornare? E’ tardi, penso che i tuoi potrebbero farti storie.”

Aveva improvvisamente voglia di stare da solo, era chiaro: Emiliano doveva aver scombussolato qualcosa, un meccanismo interno che non conoscevo. Fui quasi certa che avesse rovinato molte più cose, non soltanto il nostro semplice bacio.
Acconsentii con un’alzata di spalle: era ormai chiaro che la magia era andata persa. Per quanto non desiderassi staccarmi da lui, quello non era più il momento per stare insieme.


 

Zeno mi lasciò a due isolati da casa, per maggior prudenza. Non volevo che mio padre o mio fratello ci beccassero: avrei scatenato l’ennesimo putiferio.
Mi salutò con un bacio soffice sulla guancia; l’accettai socchiudendo gli occhi e neppure per un istante menzionai l’accaduto. Era una macchia nera sul nostro pomeriggio a due, non volevo ricordarlo in nessun modo.


“Ci vediamo presto?”
“Anche domani.”

Sorrisi.

“Ah, se mai ti venisse in mente qualcosa… Fammelo sapere.”

Strizzò l’occhio complice e si allontanò alla svelta mentre io guardavo un po’ perplessa il biglietto che mi aveva lasciato tra le mani: mi chiesi poi quando e come avesse trovato il tempo per scriverci su il suo numero di cellulare.
 
 
***


Quella sera tentai di studiare seriamente, mettendo da parte il caos interiore che mi portavo dietro; era una faticaccia e Romina di certo non mi aiutava a concentrarmi: quando, con la coda dell’occhio, colsi la finestra della chataperta compresi subito che dall’altro lato del pc doveva esserci lei.
 
“Meg, ci sei?”
“Sto studiando”
“Che hai fatto con Zeno oggi?”


Ecco. Quel “sto studiando” non era valso a nulla, Romina neppure l’aveva calcolato.

“Un giro in bici”

Il bacio neppure lo menzionai, era qualcosa di ancora troppo acerbo, intimo e personale per divulgarlo. Ovviamente, la mia risposta non le bastò.
 
“Chi se ne fotte della bici! Che avete fatto?Parla!”
 
Mi mordicchiai il labbro, non sapevo che risponderle e non potevo perderci troppo tempo o avrebbe capito che le nascondevo qualcosa. Per fortuna un improvviso lampo di genio venne a trarmi d’impaccio:

“Abbiamo incontrato Emiliano Borghesi. Te lo ricordi?”
“Hai voglia! Ma non stava fuori Italia?”
“Sì, fuori di testa! Mi sa che tira alla grande…”
“Ma che dici?!”
“Vorrei fartelo vedere, sembrava uno di quei tossici della stazione…”
“Oh cacchio!”
“Vabbè, poi ti spiego meglio da vicino…Tu che hai fatto?”
“Sono stata alla Piovra con Stena. Polska non mi ha calcolato per niente…”
“Non ci pensare Rò, se son rose fioriranno.”


Non sarebbero mai state rose, ma evitai di scriverlo.


“Che hai fatto?”
“Ho aiutato Stè con gli striscioni per la manifestazione di giovedì, domani continuiamo. Vieni anche tu?”

 
Esatto, bella domanda.
Vai anche tu, Margherita?

 
Ma sì, ormai nella Piovra respiravo aria di casa.


“D’accordo.”
“Perfect! Senti, Stefano vuol sapere se può aggiungerti su Facebook. Dici di sì?”
“Sì, va bene, digli che non ci sono problemi. Adesso però basta chiacchierare, vado a letto. Se mio padre passa di qui e mi trova sveglia è finita.”
“Okay! Ci vediamo allora… Ringrazierò Zeno, senza di lui col cavolo che ci venivi domani”
“Fanculo Romì. A domani”
“Notte gioia”



Spensi il notebook con un sorrisetto: Romina era davvero una piccola peste.
Dopodiché, mi lanciai a peso morto sul letto: ero davvero distrutta, di quel tipo di stanchezza fisica, tuttavia, che non comprende la fase “sonno”. Avevo i muscoli intorpiditi ma la mia mente era sveglia, anche troppo. Per cui, braccia sotto la testa, contemplai per un po’ il soffitto, trasognata; poi, mi spostai su di un lato: alla parete c’erano le mie foto da bambina, nel vestito rosa buono con la manina nella mano più grande di papà.
Quando mio padre era ancora il mio mito.
No, non era il caso di stare proprio in quella posizione, quelle immagini erano quanto di più lontano potesse esserci dalla Margherita che ero diventata. Neanche mi ricordavo quand’erano state scattate.
Passai quindi a pancia in giù ma avevo freddo e mi coprii meglio col piumone. Poi però avevo caldo e mi scoprii del tutto.
Niente, non riuscivo a dormire.

Mi alzai a sedere di scatto quindi e, per prima cosa, raccolsi i capelli in una cosa disordinata. Poi respirai a fondo, presi coraggio e allungai una mano verso il cellulare.
Sapevo cosa volevo fare, dovevo trovare soltanto l’audacia sufficiente per quel mio gesto.


“Non ho ricordato un bel niente, però volevo farti sapere che ti penso. Magari ti fa piacere. Buonanotte, Meg”

Rilessi due volte il messaggio che avevo scritto per Zeno. Mi agitai titubante per diversi secondi fra i nomi in rubrica prima di scovare il suo e, chissà come, trovai poi il coraggio per spingere quel benedetto tasto e inviarlo.
Per fortuna la risposta di Andrea non si fece attendere troppo o sarei impazzita: soltanto in quella breve frazione di tempo intercorsa tra il mio e il suo messaggio avevo guardato il display almeno quindici volte e camminato su e giù per la stanza, col cuore in gola, un altro paio di volte. Ma poi il bip bip del cellulare era arrivato nitidamente alle mie orecchie e io mi ci ero fiondata letteralmente su quel telefono.
Non avevo mai sorriso tanto in vita mia, non mi ero mai sentita tanto tranquilla, eccitata, felice e appagata come in quel momento.
In quel momento che dividevo con Zeno perché, ovviamente, il messaggio era il suo:

 

“Non devi scrivermi solo se ricordi, puoi farlo quando vuoi. Anzi, speravo proprio di sentirti. Io ti penso da 5 anni, benvenuta nel club. A domani, Andrea”






















Buongiorno! 
Come va? state ancora festeggiando la vittoria dell'Italia? ;)
Allora, anzitutto volevo ringraziarvi per il sostegno meraviglioso che state dando alla storia: le 9 recensioni al capitolo scorso sono state una sorpresa enorme e tutte, nessuna esclusa, mi hanno fatto davvero felice! Grazie anche a chi si limita a leggere, seguire, rifcordare e preferire. Spero, comunque, che continuerete a farmi sapere i vostri pareri, come sempre :) 
Per me è molto importante :)
Tra l'altro, in un momento di puro egocentriscmo (;D) ho creato un gruppo personale che si chiama "In the Sky with Diamonds" e che potrete trovare a questo indirizzo: https://www.facebook.com/groups/265306233568958/
L
o userò per postare spoiler e foto della mie storie, soprattutto di Piovre che mi sta prendendo tantissimo, oltre che tutte le scemenze che girano nella mia testolina malata ;)
Se volete unirvi a noi sarete le benvenute :)
Per tutto il resto posso dirvi che ormai sono diventata una specie di psicopatica, ho fatto il giro turistico di quasi tutti i centri sociali della mia città e ogni tanto mi fermo a scattare foto: prima o poi qualcuno mi picchia :-p
Piccolo appunto: a Liverpool ci sono stata, il Caffè nero di cui vi parlo è il bar dove mi fermavo sempre per fare colazione :')
La cresta viola di Andrea non è un caso: la portava così un mio amico al liceo! :D
Infine Emiliano: un nuovo personaggio. Che ne dite, osa ne pensate? Tutto quel che posso dirvi io al riguardo, per ora, è che il suo nome ha una motivazione: se fossi stata un maschietto mamma mi avrebbe chiamato così. O se avessi avuto un fratello beh, il suo nome sarebbe stato Emiliano quindi è una questione di famiglia ;)
That' s all...Grazie ancora una volta a Erika per lo splendido betaggio e a tutte voi per essere arrivate fin qui!
Un bacio
Matisse

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Capitolo 6
*** Giorni di perché ***









 



Cinque anni prima, l’espansione della Gherardi&Stornelli Snc. aveva subito un’improvvisa battuta d’arresto e i guadagni, per un periodo, erano diminuiti in maniera sensibile. Le aziende di medio calibro come la nostra, erano state interessate sin da subito dalle prime avvisaglie di quella che poi sarebbe stata definita, a tutti gli effetti, come la più grave crisi economica degli ultimi decenni. Nel caso della nostra impresa, la faccenda si complicava ulteriormente poiché, pur essendo le entrate certamente inferiori a quelle di una società più sviluppata, spesso e volentieri, sia mio padre che zio Aurelio avevano la pessima abitudine di stringere accordi commerciali, acquistare e investire ben oltre i nostri limiti. Ora, non so bene come si svolse l’intera faccenda, fatto sta che ce la passammo davvero  male  per un bel periodo e Florinda già frignava pensando che non avrebbe più potuto permettersi le sue scarpe firmate Gucci o la borsa Louis Vuitton per andare a scuola. Mia madre la guardava con commiserazione,in quei momenti. Io la guardavo con disgusto.

Si sa, comunque, che la paura di soccombere rende l’uomo ingegnoso, e così accadde per mio padre, in quel periodo nero. Non so ancora definire se si trattò di un lampo di genio o di semplice istinto di sopravvivenza; in ogni caso, si mostrò l’unico in grado di tenere le redini in mano della situazione, salvando miracolosamente le sorti dell’azienda, nonché tutti noi e le nostre belle vite, da quel patatrac certo e annunciato.
Tutti quanti noi, sì. Noi della famiglia, beninteso; perché gli altri, quelli che non presentavano legami col nostro cognome, li lasciò piuttosto annegare nella melma della miseria e del terrore. Mio padre – l’imprenditore Francesco Maria Gherardi – non si limitò, infatti, a ridurre semplicemente le spese e gli accordi economici della nostra azienda, nossignore; operò in maniera molto più impietosa e precisa, secondo quello che, da quel giorno in poi, sarebbe diventata la sua filosofia di vita e di lavoro: tagli al personale.
 
Troppa gente che lavorava per noi,diceva, troppi operai inutili: in dieci per ogni settore, laddove avrebbero potuto faticare in due, tre al massimo. Perché tutti questi sprechi?Era necessario mostrarsi oculati, essenziali e sbrigativi!

Così era stato eliminato il “superfluo”, facendo piazza pulita tra i nostri dipendenti; meno stipendi da pagare, d’altronde, significava anche meno tasse e contributi da versare allo Stato, cosicché tutti i miei parenti - tra coloro che gestivano l’azienda – avevano approvato la proposta di mio padre senza obiettare. Senza un briciolo di pietà.
Ovviamente erano previste anche riduzioni in termini di investimenti, spese e faccende simili: diminuire gli agganci commerciali per tentare di non affossarsi: un’azienda che ha di meno si aspetta di meno e ha meno da perdere, ecco il succo della nostra nuova politica. Ma diminuire il personale… Era quello il passaggio chiave, prima di tutto: non ci serviva spendere così tanti soldi per pagare della gente che avrebbe potuto starsene tranquillamente a casa. Bastava riorganizzare i turni, potenziare le ore e il lavoro sarebbe stato svolto con la stessa precisione ed efficienza, seppur con un tot piuttosto definito di operai in meno. D’altronde, non eravamo di certo una multinazionale: potevamo cavarcela comunque alla grande.
Che poi quegli operai avessero a casa una famiglia cui badare, delle spese da pagare e il cibo da comprare, a mio padre, a mio nonno e allo zio Aurelio questo non interessava.
Non era importante mandarli sul lastrico di punto in bianco, non era importante la loro disperazione di fronte alla notizia di diventare ufficialmente disoccupati a quarant’anni, quando nessun altro avrebbe offerto loro un altro posto di lavoro; ciò che contava era salvare l’azienda, tutto il resto non aveva nulla a che fare con la famiglia Gherardi. Tutto il resto non ci riguardava, era vuoto inconsistente,il pianto di una casalinga senza soldi, lo sguardo vacuo di un uomo che non sapeva come dar da mangiare ai propri figli. Qualcosa che non riguardava i nostri lussi e che, pertanto, non aveva senso; qualcosa di così lontano ed estraneo che la mente di mio padre avrebbe faticato persino a immaginare.

 
 
 


***

 
 
Quando misi piede lì dentro quel pomeriggio, La Piovra era un tripudio di colori: il pavimento del locale centrale era disseminato di barattoli di vernice e schizzi di rosso e nero puntellavano le colonne e buona parte delle pareti. I ragazzi si agitavano per il centro sociale, canticchiavano seguendo musiche sconosciute e ridevano trasportando casse e cataste di fogli; si davano da fare mantenendo un sorriso sulle labbra che faceva piegare all’insù, a sua volta, le labbra di ogni nuovo visitatore. In molti se ne stavano chini su pezzi di stoffa e su lenzuola spiegate sul pavimento, immergevano il pennello nella vernice scelta e poi si impegnavano a scrivere uno slogan; la perizia e la tranquillità, al contempo, con cui si preoccupavano di preparare la loro manifestazione era quasi commovente.

 

“Margherita? Margherita!”

Romina, in mezzo ad un mucchio di gente nell’angolo in fondo alla sala, mi chiamò agitando la mano. Nell’altra reggeva diligentemente un pennello sporco di rosso.
Risposi subito al suo saluto e poi sorrisi ancora di più: accanto a lei se ne stava Andrea col suo sguardo impaziente e divertito.

“Ciao ragazzi”
“Ben arrivata…”

Zeno mi allungò subito la mano: l’accolsi senza neppure pensarci un attimo, m’infilai tra le sue braccia come se mi fosse stato dovuto.

“Tiè, ci mancava questa. Che bello vederti, migliore amica!” mi punzecchiò Romina, ma sapevo che scherzava.

“Romy, sai come si dice?”
“No, come si dice?”
“Non rompere!” tirai fuori la lingua e Andrea rise con me.

“Oh, ciao Margherita!”

Stena alzò lo sguardo dal suo preciso lavoro di scrittura su lenzuolo: aveva una macchia di bianco proprio sulla guancia sinistra.

“Ciao Stena!”
“Grazie per avermi aggiunto su Facebook, eh!”
“Per così poco? Figurati”

Sorrise e si chinò di nuovo sul suo lavoro; Romina lo seguì a ruota e, nel farlo, la sentii bisbigliare qualcosa del tipo: “adesso ci capisci qualcosa?”
Lui annuì ma io finsi di non accorgermi del loro spettegolare sulla mia tranquilla esistenza: avevo di meglio da fare, a stare nell’abbraccio di Andrea.
 
“Tutto bene a scuola?”domandò. Era una domanda semplice eppure a me vennero i brividi: anche allora, nell’altra vita, Zeno mi aveva chiesto come procedeva la mia carriera scolastica? Sì, certamente. Forse questa cosa mi destabilizzava ancora.
 
“Benissimo” mormorai docile, tenendolo per la vita.
“Che hai voglia di fare, oggi?”
“In che senso?”
“Non vuoi andare da nessuna parte?”

Scossi la testa.
 
“No, vorrei stare qui ad aiutarvi. Se posso, ovvio.”
“Ma certo che puoi!” mi passò gentilmente un pennello schizzato di bianco. Poi ci pensò su, gli occhi al cielo per qualche secondo, e decise infine a passarmelo sulla guancia lasciandovi un baffetto, gemello di quello che sfoggiava Stena.

“Ehi!” protestai ridendo “Ho detto che voglio aiutarvi, non che voglio sporcarmi!”
“Tienilo in conto, principessa: La Piovra è tutto fuorché un posto pulito!” scherzò lui mentre mi lasciava altre pennellate candide sulla pelle delle braccia e delle mani. Io urlai cercando di difendermi, ridendo come forse non facevo da tempo; molta gente là dentro si girò nella nostra direzione, qualcuno ci guardò con un sorrisetto, compresa Romina.
Qualcuno ma non tutti, comunque. Lo compresi facilmente quando udii il nome di Andrea pronunciato con astio.
 
“Zeno? Zeno! Ti sto chiamando, mi ascolti?”
 
Ci voltammo insieme, nello stesso istante, ancora intontiti dallo scherzo e dalle risate. E così scoprii che una bella ragazza mora, i lunghi capelli avvolti in dread sottili, ci stava guardando con evidente fastidio. Le mani sui fianchi e le labbra imbronciate, mi sembrava una bimba scocciata piuttosto che un punkabbestia adulta e indipendente.


“Le pene d’amore ci rendono tutti uguali e tutti molto immaturi” diceva nonna Anna. Chissà poi perché mi venne in mente quella frase.
 
L’avevo già vista quella ragazza, non mi era nuova… Certo! Era la barista che serviva birre ghiacciate alla festa reggae del sabato precedente. Beh, non me la ricordavo così bella. Era disarmante.


“Luna, che c’è?”


Luna…Pure il nome ha bello, questa qui!
 

“C’è che Polska ti sta cercando e tu stai qui a perdere tempo. Ti sbrighi?”
“Sai cosa? Immagino che tu sia capace di parlarmi anche in maniera più gentile di così.”
“Ti sbagli. Non conosco la gentilezza, sono un uomo mancato.”


Ah sì? Dalla tua bella  faccia non si direbbe, Luna.
 
Andrea sospirò, scocciato.
 
“Dov’è Fabrizio?”
“Nel laboratorio di scultura, con Caspio, Samuele e gli altri.”
“Ci sono quelli del collettivo?”

Annuì.

“Sì, Agata e Marcello. Ma soltanto loro.”
“D’accordo.”

“Meg?” mi rivolse il più luminoso dei sorrisi, perfino Atena mi parve sghignazzare dal suo braccio. In realtà, mi sembrava più seccato di quanto non volesse dare a vedere “Vado un attimo da Polska, okay? Ci vediamo fra poco.”
“Okay” risposi mentre mi lasciava un bacio sulla guancia.

Luna lo guardò torva e rivolse poi a me un’occhiata così sgarbata che ebbi l’impressione  mi avrebbe uccisa volentieri se avesse avuto in mano una pistola. S’incamminarono veloci, fianco a fianco ma senza parlare; dopo un poco sparirono dietro una delle colonne della sala centrale.
Sconcertata, lanciai un’occhiata enigmatica al pennello prima di abbandonare la borsa in un angolo e accasciarmi per terra, al fianco di Romina.
La mia amica mi commiserò con lo sguardo.


“Lei è Luna.”
“Questo l’avevo capito” risposi piantando letteralmente il pennello nel barattolo di vernice nera, con tanta foga che un po’ schizzò su Stena, poverino. Fortuna che non ci fece caso.
“Lasciala perdere, non ti arrabbiare. Lo sanno tutti che è cotta di Zeno. È solo gelosia, la sua.”


E se fosse una gelosia motivata?


“Magari è la sua ex, non puoi saperlo.” lanciai la bomba, sperando che Romina potesse fornirmi qualche spiegazione dettagliata al riguardo.
“Mmmh… non lo so, onestamente. Certo, se lo mangia sempre con gli occhi, è evidente, eppure non credo che abbiano dei trascorsi. In ogni caso, tu dovresti star tranquilla, Zeno ti adora! Ah, tra l’altro… Sai che sono molto arrabbiata con te?”

Anche tu? Mi basta Luna!

“E per quale motivo?” domandai accigliata, mentre dipingevo la L di lotta sullo striscione.
“Avresti dovuto dirmi ieri in chat che ti eri messa con Zeno! E invece neanche una parola con la tua migliore amica!” sbuffò comicamente e poi riprese a parlare “Certo che siete stati veloci, eh? Vi siete pigliati da subito… Avessi io la stessa fortuna con…”abbassò la voce, per non farsi sentire “…Con Fabrizio!”
 
Alzai gli occhi, spazientita.

“Non sono fidanzata con Andrea, Rò.”
“No?”
“No.”
“E quell’abbraccio appena sei arrivata tu come lo spieghi?”

Mi concentrai nel disegnare precisa la lettera O, prima di aprir bocca.
“Le cose non sono sempre come sembrano. A dirtela tutta, è più complicato di quanto pensi.”
 
Percepii lo sguardo di Stena su di me, dopo quelle parole; quando alzai gli occhi, di rimando, si spostò subito altrove.
 
“Complicato? E quindi è una cosa brutta?”
 
Aspettai prima di rispondere, troppo impegnata a terminare l’ultima lettera. Infine, contemplai soddisfatta il mio lavoro: giovedì, sugli striscioni che avrebbero sfilato durante la manifestazione, ci sarebbe stata anche la mia firma.
“Allora? E’ una cosa brutta?”
“Mmmh no” risposi sorridendo, senza guardarla, sicura delle mie parole “E’ una cosa bella. Un po’ confusa ma bella. Un giorno te la racconto. Quando non ci sono spie in giro!” esclamai infine schizzando – questa volta volutamente – Stena che continuava ad ascoltare le nostre fitte conversazioni fingendo indifferenza.
Lo colsi del tutto impreparato: osservò infatti sconcertato la propria maglia e le braccia brune chiazzate di nero.

“Io non stavo spiando!” tentò di protestare. Comprese subito di non essere credibile.
“Okay… ma soltanto un po’!”


Scoppiai a ridere, di fronte a quella confessione, e Romina con me, mentre il povero Stena ci guardava imbronciato: per un attimo - un attimo soltanto - grazie a quello scherzo, Luna divenne un pensiero lontano e inconsistente.
 
 
 
 
 

 
“L’altro giorno vi ho sentiti parlare… te e Polska, intendo.”
Addentai affamata la pizzetta che Andrea aveva comprato per me al chioschetto all’angolo; avrei preferito comprarmela da sola, considerando che Zeno si faceva in quattro per guadagnarsi qualche soldo e non mi andava lo spendesse per me. Tuttavia, davanti al suo sguardo deluso di fronte al mio ennesimo rifiuto (“Si tratta di due euro e cinquanta, Meg, non mi faranno diventare più ricco, a conservarmeli!”) avevo desistito: non mi andava di offenderlo, mortificarlo, farlo sentire inferiore in qualche modo. Alla fine la pizza l’avevo accettata, scegliendo quella col pomodoro e i dadini di mozzarella: scaldata non era neppure male.
 
Andrea mi rivolse un’occhiata divertita.

“A casa non ti hanno insegnato che non si fa la spia?”

Tirai fuori la lingua.

“Stavate parlando nella stessa stanza dove dormivo io. Dormivo, poi… Beh, più o meno. Ecco perché vi ho sentito.”
“Che cosa vuoi sapere, allora?” rise, staccando un angolo della sua pizza bianca e guardando davanti a sé: stavolta mi aveva portato sul lungomare; avevamo trovato una panchina libera per un colpo di fortuna. Più mi guardavo attorno e più non lo consideravo un posto da Zeno, ma tant’è.
Stavamo bene comunque.
 
“Parlavate di occupare qualcosa…” risposi dunque alla sua domanda.
“Sì, esatto. L’ex stabile del Rhodiaceta, per la precisione.”
“La vecchia fabbrica abbandonata, quella verso la Statale? Aspetta, forse Romina me l’ha già detto…”
“”Sì, quella.”
“Scusa, ma c’è già La Piovra… Perché occupare qualcos’altro?”

Andrea sorrise.

“Non è tutto così semplice, Meg. Non occupiamo per farci passare uno sfizio, né per divertirci un po’. Stiamo creando un le basi per un movimento antagonista serio in città, abbiamo bisogno di punti di appoggio e ritrovo dove organizzare le nostre priorità, programmare le manifestazioni, occuparci dei laboratori. Dobbiamo espanderci per far sentire la nostra voce…”
“Espandersi come i tentacoli di una piovra...” riflettei “È per questo che si chiama così, vero?”
“Esatto” rispose orgogliosamente.

Abbozzai un sorriso, intenerita.

“Ne parli come se fosse un figlio”
“Quasi. Quel posto l’abbiamo occupato io e Polska, insieme a pochi altri. L’abbiamo sistemato, pulito, messo a posto. Abbiamo organizzato le attività, richiamato altra gente. L’ho cresciuto, in tutto quest’anno.” ammise facendomi l’occhiolino.
Gli sorrisi addentando l’ultimo pezzo di pizza. Ingoiai quel boccone e per un po’ non parlai. Neanche Andrea sembrava interessato ad aprir bocca; piuttosto si limitava a guardare la fila di auto e di gente che correva sul lungomare al tramonto. Chissà a cosa pensava. Io, di certo, pensavo a due cose fondamentali:

1. A quanto fosse bello lui con quel raggio di sole arancione che gli baciava il viso.
2. A Luna. E alla sua rabbia apparentemente immotivata nei miei confronti.
 

Luna.
Di nuovo nei miei pensieri, maledetta ragazza! Beh, già che c’ero avrei potuto pure fargli qualche domanda a proposito, no?
Presi coraggio.

 
“Andre?”
“Mmh?”
“Perché ci tieni così tanto a me?”
Si voltò lentamente a guardarmi, un’espressione a metà tra lo sconcerto e il divertimento dipinta sul volto.

“Che domanda è questa?”
“Una domanda, semplice. Ci sarà un motivo per cui sei così legato a me, no? E non penso si tratti di amore, visto che avevo tredici anni e tu diciotto quando ci siamo conosciuti. Non potevo interessarti veramente.”

Mi scrutò a lungo e seriamente.

“Al di là del fatto che sei sempre stata carina. E dico sempre… A tredici anni avevi già l’espressione di una donna fatta, ma non in senso malizioso. Eri fiera, orgogliosa e seria. E i tuoi occhi erano così belli anche allora.”
Arrossii impercettibilmente.

“…Potevo parlare di tutto con te” continuò senza badare al mio imbarazzo “Credo che la prima cosa su cui ci siamo confrontati sia stato Due di Due di Andrea de Carlo. Io lo adoravo e…”
“Anche io!”quasi urlai, presa com’ero dallo stupore.
“Lo so” rispose bonariamente prima di proseguire. “Ma di certo non mi aspettavo che lo conoscessi e l’amassi come me, alla tua età. È stata una bella sorpresa ma… No, non è neanche per questo che sono legato a te.”
“No? E perché allora?”
 
Non riuscivo a capire. Non ancora.

“Davvero non ci arrivi, Meg? Tu mi hai dato una speranza. Tu eri la mia speranza. La speranza che non tutti quelli ricchi o con una certa posizione sociale fossero anche privi di sentimenti. Mi hai fatto conoscere la tua sensibilità, la tua dolcezza; mi hai mostrato che sapevi cos’erano la compassione e il dispiacere. Tu eri la dimostrazione che non tutto fosse perduto e per questo mi sono legato a te, Margherita. Per questo. Tu eri la mia meraviglia in un mondo di ipocriti.”

Boccheggiai, sconvolta.
Ripensai alla me stessa dei miei tredici anni, alla ragazzina ingenua che ero, quella che doveva frequentare il liceo dalle suore, andare a pranzo dai nonni alla domenica e rendere felici mamma e papà. Ci ripensai, ripercorsi le pieghe giovani del mio viso di allora e mi scoprii di nuovo piccola e insignificante, una sciocca adolescente alle prese con uno sciocco mondo, schiava delle sue regole, della paura, oppressa dalle responsabilità e le aspettative di un padre che pretendeva troppo dall’acerba persona che ancora ero. No, era possibile che quella ragazzina insulsa avesse significato qualcosa di così importante per qualcun altro; dove aveva visto in me, Andrea, tutto quel che diceva di aver visto? Come poteva considerarmi l’emblema delle sue speranze non del tutto vanificate, la testimonianza di un possibile mondo migliore? Io ero soltanto Margherita Gherardi, ero sempre stata soltanto Margherita Gherardi: nessuno di così importante, non tanto almeno da rappresentare un appiglio per un’altra persona. Io cercavo appigli, tutt’al più, non ne distribuivo. E adesso lui veniva a dirmi… No, doveva trattarsi di un scherzo.


“C’è qualcosa che non va? Hai una faccia…turbata.”
“Eh? Io… Sì, ecco…” tirai un grosso sospiro, passai una mano tra i capelli lunghi, li portai dietro le spalle “Andrea, io non vedo come… tu possa aver visto tutto questo. Ero soltanto una ragazzina, non Wonder Woman.”
“Infatti non sto dicendo che tu fossi una supereroina, probabilmente in apparenza non hai fatto niente di speciale. Ma io ti dico che non è così. Non sono i gesti plateali che fanno grande una persona ma certi suoi modi di fare, i suoi silenzi, le scelte che fa, le parole giuste dette al momento giusto. Tu eri così a tredici anni, lo sei adesso che ne hai quasi diciannove. Hai scelto di dividere il tuo tempo con me all’epoca così come ora e non sai quanto questo sia importante e speciale. Non vivertela male, ti prego. Forse, un giorno in cui avrai ricordato tutto, potrai capirmi meglio.”
“Non puoi dirmi come ci siamo conosciuti?”
 
Esatto. Come ci eravamo conosciuti?
Quella domanda era la chiave di tutto, l’unico argomento che, fra mille parole, non avevamo mai sfiorato. Perché?
Andrea non rispose subito; piuttosto, abbozzò un sorriso ma era triste: gli occhi non lo riflettevano.
Il vento tirò più forte dal mare, lottai per scostarmi i capelli dal viso, per guardarlo mentre rivolgeva i suoi occhi grigi verso di me.

“Detto con le parole non va bene. Preferisco che lo ricordi da sola.”
“Ma perché? Aiutami!”
“Non ti aiuto se lo faccio, Margherita. Riportare a galla quei ricordi ti aiuterà a rimettere insieme tutti i tuoi pezzi, quelli che ancora non sono a posto. Perché lo so che non è tutto okay, non provare a dire il contrario.”

Gli lanciai un’occhiata perplessa: era vero, non tutto era stato sistemato dentro di me, ma cosa ne sapeva lui dei miei vuoti? Cosa ne sapeva di quella voragine che si scavava all’improvviso nel mio petto e sempre nei momenti più improbabili, mentre Romina rideva per qualche telefilm scemo alla tv, ad esempio, o la prof interrogava Matteo Salvemini in letteratura inglese, senza che io potessi far nulla per arginarla? Ero così chiara e trasparente per lui, un libro aperto senza possibilità di sorpresa? Oppure chiunque poteva vedere la mia confusione, l’angoscia e il disinteresse che a volte si dipingevano sul mio viso, la convinzione che nulla sarebbe stato come prima?
Non lo sapevo, non sapevo dare una risposta a questi quesiti. Forse non volevo farlo per davvero.

“Se è così importante, perché non ricordo?”
“Forse proprio perché è importante. Magari non vuoi riportarlo a galla e il tuo subconscio sta lavorando per te. Il cervello sa far cose che non ci aspetteremmo mai, d’altronde…”
“E se non dovessi ricordare mai più?” piagnucolai un’altra volta, quasi disperata.
“Non preoccuparti, succederà.”
Sorrise, un sorriso disarmante e pieno di speranze. Anche la persona più sofferente avrebbe trovato un po’ di pace a guardarlo.


E va bene, ti credo. Ricorderò, lo farò solo per te Andrea.


 
Per un altro po’, continuammo a starcene in silenzio. Stavo imparando ad apprezzare i nostri momenti di pausa, mi davano l’opportunità di assimilare a capire quello che Andrea mi diceva; non che ci riuscissi sempre, sia ben chiaro, ma almeno ci provavo.
Poi, con la coda dell’occhio, lo scoprii intento a guardare l’orologio. Controllai veloce anche io l’orario: quasi le sette. Sapevo cosa volesse dirmi e lo anticipai: non potevo andarmene senza sapere.
 

“Meg, mi sa che è ora di…”
“Perché Luna ce l’aveva con me?”
 
Eccola: la domanda.
Mi rivolse un’occhiata a metà tra sconcerto e imbarazzo.
 
“Che?”
“Hai capito bene. Prima Luna mi ha guardata come se avesse voluto incenerirmi. Perché?
“Ti sbagli, Meg…”
“Zeno…Non prendermi per il culo.”

Rise, poggiando la testa all’indietro, sulla panchina.

“Stavate insieme?”
“Eh? Ma no!”
“E allora?”
“Ma perché ti importa così tanto?!”
“Voglio capire. Non credo ci sia niente di male…”
“No, non c’è. Comunque Luna… beh, la tua amica dovrebbe saperlo, le piace tanto chiacchierare, no?”
“Che c’entra Romina adesso?”
“Scommetto che ti ha detto che Luna mi viene dietro … E’ così”?
 
Deglutii a fatica.

Merda.
Sì, l’ha fatto.

 
“Ehm… Le hai dato speranze per comportarsi in questo modo?”
“Uh?”
“State insieme, Andrea?”
Mi sembrava una domanda lecita, dopotutto: Zeno mi aveva baciato, più di una volta per giunta. Se mi stava facendo fare la figura dell’amante avevo diritto a saperlo e a rifiutare il ruolo, ovviamente.
 
“Ma scherzi?! Ti pare che se avessi una ragazza…”
Non terminò la frase: si chinò, piuttosto, per darmi sfiorarmi leggero le labbra.

“…Bacerei te?”
“Lo spero bene!”

Incrociai le braccia, fingendomi offesa.
“A proposito… Perché?”
“Perché cosa?”
“Perché mi hai baciata?”

Andrea alzò gli occhi al cielo, un sorrisino rassegnato e divertito sulle labbra.
“La donna dei perché… Se non spieghi tutto con le parole non campi bene, vero?”
“Vero” risposi con puntiglio.
“Mmh… Va bene, allora, ti svelerò un segreto.”
“Dimmi.”

Si voltò verso di me, chinando lentamente il suo volto verso il mio. Ero ipnotizzata.


Ops.
Tachicardia. Un’altra volta. Non va bene, non va affatto bene.

 
“Ti ho baciata perché era da una vita che aspettavo di farlo.” rispose, strizzando l’occhio.
 
Totalmente impreparata a una simile rivelazione, arrossii e balbettai qualcosa di incomprensibile; ero così confusa che non sapevo neppure dove guardare. Andrea ridacchiò, per nulla sorpreso dalla mia reazione, prima di passarmi il braccio attorno alla vita alzandomi di peso da quella panchina. Non immaginavo fosse così forte o, forse, ero soltanto io a pesare quanto una piuma rispetto a lui. Ero di facile trasporto.

“E’ ora di andare adesso, Maggie. Vieni, o rischi di far storie a casa”  batté la mano sul sellino della ormai famosa bici, per invitarmi a seguirlo. Dal canto mio, ero ancora intontita e non per il bacio che mi aveva lasciato, forse neppure dalle sue parole: era la naturalezza e la spontaneità che contraddistinguevano ogni suo gesto a destabilizzarmi

“Ah, Meg?”
“C-che c’è?”
“Non essere gelosa…”
“Io non sono gelosa!”
“No?”
“No.”
“E perché mi sembri tu quella arrabbiata con Luna?” domandò ancora mentre mi porgeva la mano, aiutandomi a salire sulla bicicletta.
Mi sistemai meglio che potevo, reggendomi al manubrio e cercando le parole più adatte per la mia bugia.

“Ehm… Perché è una ragazza maleducata e a me la maleducazione fa saltare i nervi.”

Sì, maleducata. E invadente.
Una gran seccatrice.
Era quello il modo di portarti via? E quella faccia? Mi guardava come fossi stata una piccola, sciocca, penosa ragazzina!
Ehi!

 
“Mmh, d’accordo, se è per questo… Ma se si tratta di gelosia beh, puoi star tranquilla…”
“Mh?”
“Nessuno potrebbe valere qualcosa più di te”soffiò sulla pelle del mio collo, prima di partire veloce verso casa. Prima che io stessa potessi sprofondare chilometri sottoterra per l’imbarazzo.
 
***
 
Quel giovedì mattina, anziché entrare in classe come al solito, io, Romina e molti altri fra i miei compagni di scuola, ci accalcammo nel cortile d’ingresso per ritrovarci e partire tutti insieme, pronti a manifestare contro la nuova riforma scolastica e universitaria. La pubblicità fatta dai ragazzi de La Piovra sembrava aver riscosso successo poiché l’adesione fra gli studenti del mio istituto era stata quasi unanime; beh, c’era da scommettersi che in molti neanche conoscessero i motivi della protesta e fossero semplicemente più interessati a perdersi un giorno di scuola e scampare a qualche interrogazione, ma insomma: eravamo in tanti, facevamo numero, questo contava veramente tanto.
Per parte mia, avevo sinceramente a cuore l’argomento: da ex studentessa di un istituto privato diretto da suore, adesso che frequentavo la scuola pubblica, la differenza tra i due ambienti mi risultava palese.
All’Istituto Suor Maria Asprinia Guglielmini, in otto anni in cui ero stata chiusa là dentro, non era mai mancato un cancellino per la lavagna e per ogni aula avevamo decine di gessetti di svariati colori. I banchi erano sempre puliti, i laboratori curati, c’era un computer per ogni studente e i bagni sapevano di candeggina e deodorante per ambienti alla malva a qualsiasi ora del giorno. Al liceo Garibaldi che frequentavo ora, invece, ad ogni inizio lezione la prof era costretta a farsi puntualmente il giro dei bidelli per racimolare un pezzetto di gesso decente con cui scrivere e non sempre riusciva nel suo intento. I gabinetti s’intasavano spesso e, in genere, i bagni erano piuttosto sporchi, ma gli studenti se ne infischiavano e li usavano soprattutto come ritrovo dove fumare in santa pace e perder tempo, senza badare che si trattasse del cesso maschile o di quello femminile. Nessuno aveva idea di cosa fosse un computer, visto che gli unici disponibili venivano usati soltanto dalle segretarie (il cui rapporto con la tecnologia era decisamente discutibile), in palestra mancavano gli spogliatoi e il banco cui stavamo sedute io e Romina aveva il ripiano di legno che si sollevava a premerci troppo sopra col gomito. Ora, a raffrontare le due realtà, mi veniva da chiedere perché l’istituto Guglielmini avrebbe dovuto essere ulteriormente sovvenzionato dallo Stato quando riceveva già abbastanza donazioni dai generosi familiari dei suoi iscritti mentre il Garibaldi doveva marcire nella sua confusa miseria; lo trovavo inammissibile e, tuttavia, continuavo a preferire la divertente anarchia del Garibaldi alla bigotta rigidità di tutti gli istituti privati del mondo.
Certo che se mio padre avesse saputo che mi ero infilata in una manifestazione per figli di proletari, anziché starmene in classe a sgobbare, mi avrebbe chiusa in camera con doppia mandata per un mese.
Per fortuna non lo sapeva e non l’avrebbe mai saputo.

Durante il tragitto che da scuola conduceva sino a Piazza Cavour, punto di partenza della manifestazione, Romina mi tartassò con domande che di politico e socialmente impegnato avevano veramente poco. Ovviamente, il soggetto di tutti i quesiti fu uno soltanto: Andrea Zenovi.

“Allora, vi siete chiariti? State insieme?”
“No. E no.”
“Luna è stata la sua fidanzata?”
“No”
“La vuoi finire di rispondermi no?”
“No” mi venne da ridere e Romina mi guardò male.
“Sei odiosa”
“E tu un’impicciona.”
“Sono la tua migliore amica! Dovrebbe essere naturale per te dirmi certe cose!”
“Sono una persona riservata, dovresti saperlo…”

Le labbra di Romina si atteggiarono in un broncio delizioso.

“Non fare quella faccia lì, Romy”
“E allora sii più gentile con me!”

La guardai con la coda dell’occhio, divertita. In fondo aveva ragione.

“D’accordo. Ti dirò questa cosa ma tu non metterti a urlare, saltellare e fare cose strane. Potrebbe essere complicato da capire, perciò stai tranquilla… Va bene?”

Annuì, ipnotizzata ed eccitata all’idea della succulenta notizia che stavo per darle.

“Okay… Allora… Io e Zeno ci conosciamo già.”
“Come?”
“Ci conosciamo già. Da quasi cinque anni.”
“CHE COSA?!” urlò sbigottita “E tu così me lo di…”

 
“Sssssssshhh!!”le tappai la bocca, disperata, fermandomi nel bel mezzo della strada. Alcuni ragazzi che camminavano al nostro fianco – credo fossero della III B – ci guardarono perplessi, vagamente disgustati, mentre Caterina Torriani, la cocca della prof di filosofia, ci passò accanto con la sua amichetta del cuore – untuosa e saccente quanto lei – mormorando qualcosa come “sono due svitate”.

“Ti avevo detto di non urlare!”
“Ma tu tiri fuori certe bombe! Quando volevi dirmelo?!” rispose a voce più bassa, arrabbiata, mentre riprendevamo a camminare lentamente guardandoci attorno.
“Te l’ho detto, è una cosa complicata. Per questo non volevo parlarne subito, non prima di capirci qualcosa. Andrea dice che ci siamo conosciuti molto tempo fa, quando avevo tredici anni… Ma io non me lo ricordo.” spiegai infine, mestamente.

“Prima dell’incidente?”
“Sì, prima dell’incidente.”
“E non ricordi proprio nulla?” domandò con più calma. Aveva perso la sua morbosa curiosità, sembrava quasi perplessa mentre ne parlavamo.
Scossi la testa, affranta.

“Soltanto qualcosa, un paio di flash, perlopiù si tratta di voci. Di certo non ricordo quello che dovrei.”
Romina fischiò, un po’ turbata, un po’ divertita adesso.

“Che casino…”
“Già.”
“Scusa, ma lui non ti dice niente, non ti racconta nulla?”

Scossi la testa.

“Dice che devo ricordare da sola, che questa cosa mi aiuterà.”
“Mmh… Io non ne sono troppo sicura.”
“Neanche io. Potrei non ricordare mai e a cosa sarebbe servito tutto questo?”
“Non lo so” rispose in un soffio. Camminò ancora un po’ in silenzio e dopo riprese, più vivace:

“Beh, se non altro la tua vita è più interessante adesso che hai qualcosa da scoprire… No? E comunque avevo ragione io dal principio, siete proprio fatti l’uno per l’altra… C’ho l’occhio luuuungo, eh!”
Ridacchiò; io, di tutta risposta, le diedi un buffetto dietro alla testa.

“Cogliona!”
 
“Toh, guarda chi c’è là! Il tuo uomo misterioso!”

Giunte in piazza Cavour, Romina m’indicò un folto gruppo di persone situate in prossimità del bar all’angolo; tra tutti riconobbi subito la cresta multicolor di Polska, i rasta disordinati di Stena che, con la sua bella kefia avvolta intorno al collo, rideva con un’amica spiegando gli striscioni, e il viso bello e serio di Andrea mentre scattava foto all’intorno, per testimoniare l’adesione della gente alla manifestazione. Poco più distante Luna parlottava con dei tizi che non conoscevo; sembrava molto presa dalla discussione, accompagnava le parole con ampi gesti e annuiva spesso e vistosamente. Con quella sua salopette di jeans scolorito e le Converse rosse mi sembrava più bella del solito e per me fu un vero pugno allo stomaco.
Come poteva Andrea trovarmi interessante per davvero quando, tutti i giorni, aveva a che fare con un esempio così raro di bellezza mentale e fisica? Io, rispetto a lei, ero insipida e scialba, così anonima nel mio vestiario da brava ragazza un po’ retrò!

“La mia meraviglia”, mi aveva definito. Eppure non mi sembrava di avere proprio nulla di meraviglioso.

 
Modalità “complessiamoci in allegria” attivata, Margherita.

 
Se qualcuno non mi avesse fermata entro breve, avrei cominciato a farmi talmente tanti problemi mentali da scappare di corsa a casa senza farmi vedere mai più in giro per La Piovra. Tuttavia, una mano mi trattenne prima che mettessi in atto il mio proposito.


“Margherita?”
“A-Andrea! Sei tu?”

Quasi urlai: da dove era sbucato fuori? Non stava vicino al bar, dall’altro lato?
Mi guardò perplesso. Romina, al mio fianco, sembrò turbata a sua volta.

“Così dicono. Stai bene?”
“Io ho… ho un po’ di… Mi gira la testa.”
“Vuoi tornare a casa?” domandò. Sembrava preoccupato.
“No.”
“Sicura Meg?” Romina si unì a lui.
“Sì, sicura.”
“Va bene. Ma andiamo allora, che i ragazzi si stanno già sistemando per partire.”
 
Annuii ancora un po’ incerta; Romina mi guardò turbata: se la conoscevo abbastanza, stava certamente pensando che fosse in atto un’altra delle mie crisi post-incidente, quelle che ancora mi perseguitavano dopo anni. Non aveva capito che si trattava soltanto di gelosia mista a un profondo senso di inferiorità rispetto alla restante parte dell’universo femminile. Comunque, cercai di tranquillizzarla con un sorriso, sillabando un “tutto okay” poco convincente. Rispose annuendo, come se mi avesse creduto, ma da quell’esatto istante seppi che non mi avrebbe mai più tolto gli occhi di dosso mentre le camminavo davanti nel corteo, la mia mano nella mano di Andrea.


 
***


Inizialmente si trattò di una manifestazione tranquilla, molto allegra e colorata; i ragazzi più giovani, quelli delle scuole superiori che avevano aderito alla protesta, stavano davanti tenendo gli striscioni e urlando slogan in cui forse nemmeno credevano. A loro si mescolavano quelli dei collettivi studenteschi e i membri de La Piovra, facilmente riconoscibili dal loro aspetto più stravagante ed eccessivo; questi ultimi se ne stavano più dietro, cantando vecchie canzoni, sventolando l’immancabile bandiera rossa con la faccia di Che Guevara stampata sopra o quelli multicolore della pace. Quando il corteo si arrestava, di tanto in tanto, qualcuno prendeva a intonare canzoni dei 99 Posse  o la più conosciuta Bella ciao (che poi c’entrasse davvero molto poco con i motivi della protesta non era importante) e allora i ragazzi si organizzavano in girotondi, ballavano, si divertivano dimostrando come fosse possibile protestare  senza creare scompiglio ma, anzi,strappando un sorriso ai passanti.
Anche io sorridevo: c’era un bel clima di festa, ero felice e mi sentivo a posto con me stessa. Per una volta stavo lottando a modo mio per quello in cui anche io credevo e mi sembrava una bella cosa; Andrea, al mio fianco, mi teneva la mano, sorridendo di tanto in tanto e allontanandosi solo in talune occasioni per scattare foto ai partecipanti. Neppure per un istante lo scoprii a guardare Luna, un paio di file dietro di noi, e questa cosa mi rincuorò per quanto percepissi ancora una spiacevole sensazione di inferiorità, un dubbio che talvolta si insinuava nella mia mente e si condensava in un vuoto fastidioso proprio alla bocca dello stomaco. Forse avrei dovuto imparare a conviverci.

Pochi poliziotti e alcuni carabinieri sorvegliavano la situazione, ma sembravano tranquilli; ne scoprii addirittura un paio intenti a chiacchierare con i ragazzi più giovani che partecipavano alla manifestazione, quelli delle scuole superiori. Difatti, l’intera protesta si stava svolgendo in un clima così pacifico, di estrema diplomazia e rispetto, che neppure mi preoccupai quando, in lontananza, scorsi una macchia di nero.
Erano almeno in venti; venti ragazzi vestiti di scuro, qualcuno tra loro indossava il cappuccio. Sventolavano bandiere rosse e nere e io li guardai incuriosita, prima di richiamare l’attenzione di Andrea.

“Zeno? Chi sono loro?” domandai indicandoli.
“Chi?” Andrea rispose con un sorriso sulle labbra. Scomparve immediatamente appena si voltò nella loro direzione e allora compresi che qualcosa non andava: stonavano troppo, quei ragazzi, con tutto il nostro intorno colorato e festoso, adesso lo sapevo anche io.

“Oh merda! Polska!” si voltò in fretta, urlava il nome di Fabrizio, lo cercava con lo sguardo tra decine di volti sconosciuti. Fui presa dall’ansi e, senza capire, cercai anche io di ritrovare Romina che stava più indietro nel corteo: la scoprii accanto a Stena, rideva. Mi tranquillizzai un po’.

Fabrizio si materializzò al nostro fianco dal nulla, la faccia stravolta.
 
“Che cazzo ci fanno loro qua?!”
“Non lo so Andre, ma devo andare prima che facciano danni!”
“Vuoi parlarci tu? Seriamente?”
“Che dici, ci mando i poliziotti? Questi fra poco combinano qualche macello dei loro, li conosco troppo bene... Manderanno a puttane tutto il nostro lavoro!”
“Allora vengo con te Fabrì, non ci vai da solo.”


Vengo. Con. Te.

Avvampai.
Dove voleva andare Andrea? A me quei tipi non promettevano nulla di buono e lui voleva addirittura parlarci? Perché?

Lo tirai per una manica della sua maglia blu.

“Andre, dove vuoi andare?”

“Ah Maggie… Devo allontanarmi, solo per cinque minuti. Ti prego, resta con Romina e Stena, d’accordo?”
“No!” urlai quasi, di rimando “Dimmi prima dove vuoi andare!”

Polska non rispose a quella mia protesta, ma mi lanciò un’occhiata scocciata mentre riprendeva a camminare lentamente al nostro fianco. Un brusio leggero si levò da alcuni poliziotti disposti a pochi metri di distanza da noi: guardavano anche loro la macchia scura e immobile sul finire della strada.

“Maggie, ti prego, non ti allarmare. Io e Fabrizio abbiamo una cosa da risolvere.”
“Non parlare come se fossi il salvatore della patria, Zeno! Che hai in mente? Chi sono quelli?”

“Seccatori” mormorò Polska. Non gli badai.

“Zeno? Ti prego, rispondimi!”

Sospirò.

“Anarchici.”
“Anarchici?”
“Già. Almeno così si definiscono. Ma stando a quel che conosco io dell’anarchia, ti assicuro che sono soltanto dei teppisti. Hanno più voglia di far casino e farsi notare che altro e penso che la nostra protesta faccia proprio al caso loro. Dobbiamo allontanarli prima combinino qualche disastro, sono carta conosciuta sotto questo punto di vista.”
“Non ho capito, questi sono dei violenti, dei teppisti, e tu vuoi andare a parlarci da solo?”

“Non sono da solo, c’è Fabrizio con me e verranno anche quelli del collettivo. Adesso lasciami andare Meg, per favore. E stai dietro con Romina e Stena, non far casino. Scappa se necessario.”



“Scappa se necessario”.
Di certo le ultime parole di Andrea non mi aiutarono a tranquillizzarmi; sconcertata, lo vidi sparire tra la folla in tutta fretta, fianco a fianco con Polska, senza che potessi fare nulla per fermarlo. Non mi aveva ascoltata neppure per un istante, aveva messo da parte le mie parole e me stessa in nome del suo senso di responsabilità verso il centro sociale, verso la manifestazione e verso la sua coscienza politica. Se n’era andato mentre decine di persone ignare ciarlavano intorno a me ed io non sapevo neppure cosa fosse andato esattamente a fare.

Non avrei saputo spiegare il perché ma mi prese il mal di stomaco: d’improvviso, la mia perfetta giornata multicolor mi stava dando la nausea.



***


Accadde tutto velocemente.
Qualcuno, da quella macchia scura, lanciò improvvisamente un sasso in direzione dei poliziotti, poi un altro e un altro ancora.
Gli studenti più piccoli si spaventarono subito, di colpo la loro pacifica protesta aveva cambiato volto. In molti cominciarono a scappare.
Alle mie spalle, i ragazzi de La Piovra mostravano facce spaventate, sorprese; la musica si arrestò di colpo, così come i cori e i balletti. Poliziotti e vigili, presi totalmente alla sprovvista, tentarono di sistemarsi, ricompattarsi, difendersi come meglio potevano.
Non riuscivo a credere che la nostra protesta pacifica avesse assunto dei connotati simili, mi sembrava assurdo, qualcosa di stonato e distorto. Perché tutto questo? Insomma, non era il G8 quello, solo una semplice manifestazione studentesca! Come potevano aver rovinato le cose in quel modo ridicolo?


La macchia scura si allargò e poi si mosse, nella nostra direzione. Allora, tutto apparve veramente confuso; Romina urlò presa dall’ansia mentre Stena ci diceva di scappare. Non volevo farlo, non sapevo dove fosse finito Andrea e avevo paura. Ma la mia amica mi ci costrinse a muovere quelle gambe, mi spintonò finché non mi decisi a smuovermi, a correre nel primo vicolo libero a disposizione e mettermi in salvo. Da cosa poi, ancora non l’avevo ancora capito, francamente.
Non avevo una meta precisa, una direzione da seguire: mi limitavo a correre, a mettere un piede davanti all’altro più alla svelta che potevo. Dietro di me sentivo urlare ma neppure una volta mi voltai per vedere; piuttosto, mi concentrai sulla chioma scura di Romina che mi ballava davanti, battendo sulla sua schiena e sulle spalle. Un unico pensiero in testa: Andrea. Dov’era finito, in quel parapiglia? Che stava facendo? Stava bene?
Maledissi Polska per averlo costretto ad abbandonarmi, poi imprecai contro me stessa perché avrei dovuto mostrarmi più ferma e trattenerlo e infine contro di lui, per aver ceduto così facilmente. In realtà la rabbia durò lo spazio di pochi secondi: ero impaurita e troppo preoccupata per avercela seriamente con lui.

Continuai comunque a correre, da lontano già scorgevo la statua di Cavour nell’omonima piazza quando… Quando una mano sconosciuta mi afferrò saldamente per un braccio, trascinandomi di peso in una delle stradine laterali del corso.



Andrea?

 
“Ehi! Sta’ ferma!”


No, non era Andrea.


“Emiliano!”
 
Nessuna cresta viola familiare, nessuna Atena dai colori sgargianti dipinta sulle braccia; solo un viso dai tratti spigolosi ma bello, e quegli occhi scuri conosciuti, i più inquietanti che avessi mai visto.
Mi tratteneva per il polso, guardandomi con quel suo risolino assolutamente snervante e fastidioso. Odiavo il suo sguardo di sfida, l’avevo odiato pure quando frequentava casa mia con i suoi genitori e mamma gli offriva il gelato all’amarena.
 
“Ma che vuoi, Emiliano? Da dove sei venuto fuori?!”
“Margheritina bella, come sei scorbutica! Pensavo che voi Gherardi foste più gentili!”

Lo guardai scocciata.

“Senti, spicciati a parlare. Che c’è? Ho fretta, muoviti. E lasciami il braccio, mi stai facendo male.”
“Ops! Scusa” mormorò ridendo, lasciandomi il polso.

“Bel movimento fuori, eh?”
“Anche troppo.”
“Uhm…A me piace” commentò passando il dorso della mano sul naso, in un gesto che riconoscevo come familiare. Fissai lo sguardo su di lui per qualche istante: era già troppo magro di suo e quei vestiti scuri che indossava non miglioravano di certo la situazione.

“Allora? Guarda che devo andare!”
“Vai dal tuo adorabile comunista?” mi sbeffeggiò.
“Se anche fosse non ti riguarda.”
“D’accordo signorina, d’accordo. Ho capito, non sei disposta alla chiacchiera.”
“Ah, ma come sei perspicace, che bravo.”
“Già… Ti lascerò andare, non preoccuparti. Vorrei soltanto che rispondessi a una mia domanda, poi puoi correre da Zenovi o ovunque ti pare.”
“Una domanda?”


E che vuole ora questo da me?

 
“Esatto. Una domandina, semplice semplice. Dopo ti lascio in pace.”
“Spara. E fai in fretta.”
Incrociai le braccia al petto, non vedevo l’ora di andarmene. Emiliano sorrise un’altra volta, odiavo lo facesse così spesso.


“Okay… Dov’è Florinda?”
 
 



 
 
Eh?”
 
 
 
 









 
 
 
 
Eccoci qua per l’aggiornamento… Buongiorno! =)
Anche oggi voglio anzitutto ringraziarvi per come avete accolto questa storia J
Grazie a chi ha recensito la volta scorsa, a chi segue/ricorda/preferisce…E a chi mi ha scritto nel gruppo dicendomi cose tanto carine! A tal proposito ve lo ricordo, il mio gruppo personale, dove potrete trovare spoilerSSSS (;D), foto e quant’altro: https://www.facebook.com/groups/265306233568958/
Il gruppo si chiama In the Sky with Diamonds (non riesco a farvi leggere il nome direttamente, sono una frana con certe forme di tecnologia -.-‘’) e niente… se vorrete essere dei nostri, sarete le benvenute! J
Per quanto riguarda questo capitolo, devo dirvi che per me è molto importante. Anzitutto, ho disseminato un altro po’ di indizi sulla passata vita di Margherita e Andrea e sull’esistenza agiata cui è stata abituata Meg fino ai suoi quattordici anni. Dopodiché, siamo passati alla scena della manifestazione che, tra l’altro, mi ricorda tante proteste cui ho partecipato io stessa da liceale: il corteo contro la nuova riforma scolastica era una costante ogni anno! XD Alla fine sono sbucati fuori gli Anarchici. Mi è sembrato più giusto dar spazio a loro piuttosto che a un’intrusione di ragazzi di destra come ci si sarebbe aspettati, perché ho un intento e spero che finora sia risultato chiaro: vorrei mostrare come tra i buoni (i ragazzi punkabbestia della Piovra, ovviamente) talvolta possano crescere delle radici cattive (i nostri Anarchici violenti) e come, viceversa, nel mondo ipocrita di Margherita, ci sia spazio anche per persone sensibili come lei. Il mondo non è fatto solo di bianco e nero, ci sono sfumature di grigio (aiutatemi, non voglio usare il titolo di quel libro orrendo! xD) che vanno viste e comprese; la mia storia cerca di raccontarvi proprio di quello. Tra l’altro, io amo l’ideologia anarchica, quindi in questo racconto non voglio assolutamente offendere nessuno e spero si sia compreso J
(Penso di aver blaterato, mi auguro che c’abbiate capito qualcosa).
Insomma, sembra un capitolo tranquillo, in apparenza, in realtà non lo è per nulla. Anche la faccenda della crisi economica e del momentaneo tracollo dell’azienda è piuttosto complicata per cui, siccome sono un poco preoccupata, spero che vorrete lasciarmi un vostro parere a riguardo e farmi sapere come vi sembra il tutto. È sempre molto importante per me J
Ah, oltre Emiliano avrete notato anche l’arrivo di un ulteriore, nuovo personaggio: la bella Luna.
Immagino vi stia sufficientemente sulle scatole! xD
Il finale è a sorpresa…Dal prossimo capitolo ne capirete qualcosa in più! ;)
Ultimi due appunti: la fabbrica del Rhodiaceta esisteva veramente, dove abito io, mentre Due di Due di De Carlo è uno dei miei libri preferiti ;)

Se ci sono errori mi scuso: desideravo mettermi alla prova, dopo che gli ultimi capitoli sono stati tutti betati, e vedere se sono migliorata anche a correggermi da sola. Insomma, incrociamo le dita e speriamo che il capitolo sia okay! ;)
Vi mando un bacio enorme, grazie di tutto.
Matisse.
 

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Capitolo 7
*** Solo noi ***











“Ma che c’entra Florinda adesso?”


Guardai Emiliano sconcertata, sbattendo più volte le palpebre: mi avrebbe procurato di certo minor meraviglia se avesse preso a parlare il greco antico di punto in bianco.
Il nome di mia cugina, pronunciato dalle sue labbra e in quel momento assolutamente improbabile, era la cosa più assurda che avessi mai sentito.


“Vuoi dirmi che tua cugina non ti ha mai detto nulla?”
“Di cosa? Merda Emiliano, non ci sto capendo niente! Parla!”
“Mmm… Eppure pensavo che voi ragazze Gherardi una chiacchierata ogni tanto ve la faceste. Evidentemente mi sbagliavo…”
“E basta, smettila di parlarmi in codice!”
Emiliano rise in modo tanto spontaneo e sincero che avrei sorriso anche io, se soltanto non l’avessi considerata come l’ennesima presa in giro.
 
“Sei troppo ingenua per arrivarci, vero? Te lo dirò in maniera delicata: io e tua cugina siamo molto… intimi.”


Persi l’uso della parola per qualche minuto; svariate immagini della mia impeccabile cugina mi passarono davanti in tutta la loro sfacciataggine. Florinda era bellissima, sempre elegante, assolutamente perfetta; non conosceva sbavature, sotto nessun punto di vista: era stata brava a scuola e lo era altrettanto adesso che frequentava la sua prestigiosa facoltà di Economia. Suonava il pianoforte, sapeva cantare; possedeva capelli lucenti, lunghi e profumati, aveva labbra rosse e carnose di natura e le sue gambe lunghe e sode avrebbero fatto impallidire una modella professionista. Pupilla della nonna e centro di ogni comitiva ed evento mondano, frequentava soltanto locali all’ultima moda e gente ricca e facoltosa.
Davanti a me, invece, stava Emiliano Borghesi, del cui passato da figlio di famiglia illustre era rimasto soltanto il cognome; percorsi con lo sguardo le linee del suo corso spigoloso, i tratti belli ma inquietanti del viso, il luccichio di sfida crudele dei suoi occhi scuri cerchiati di viola e un po’ tremai. Quel ragazzo mi dava l’ansia, con quella fretta che aveva ogni tanto di grattarsi il braccio o la spalla e l’abitudine di sorridermi senza motivo; ora, se irritava me che ero decisamente più accomodante di Florinda, se lo consideravo io stessa stonato e indesiderato, com’era possibile che la mia perfetta e immacolata cugina l’avesse frequentato?
Forse era accaduto nel tempo lontano in cui i Borghesi erano di casa dalle mie parti? Okay, va bene, ma neanche allora io mi ricordavo di Emiliano come di una persona gentile, a modo, dall’aria accogliente. Anche in quel tempo lontano la sua immagine accanto a quella di Florinda avrebbe prodotto uno sgradevole risultato finale.
 

“Q-quando è successo tutto questo? Qualche anno fa? Vuoi dire che Florinda tradiva il suo fidanzato di allora con te?”
 
Detto per inciso, il suo fidanzato di allora si chiamava Matteo Barberini, laureato in Economia anch’egli, master alla Bocconi e tanti soldi in tasca: era figlio di un dirigente di banca. Florinda ne era innamorata persa, lui la lasciò dopo un anno e mezzo di idillio, apparentemente per incomprensioni caratteriali. Dopo scoprimmo che si era fidanzato con la figlia di un primario di cardiologia dell’ospedale cittadino con cui si sposò dopo quattro mesi appena di relazione: evidentemente mia cugina non era sufficientemente ricca per lui o per la sua famiglia, al contrario della nuova compagna. Florinda fu inconsolabile per tantissimo tempo.
 

“Qualche anno fa? Ma che hai capito?” Emiliano rise di nuovo smodatamente prima di riprendere a parlare “Guarda che io a tua cugina l’ho vista l’ultima volta giusto un paio di giorni fa! Solo che ho perso il suo numero… Potresti ridarmelo, per cortesia?”

 

“Un paio di… giorni fa?”

Avevo la gola secca.


“Sì, l’ho portata ad un rave fighissimo sulla Nazionale, non puoi capire e…”
“Ma che cazzo dici?!”
 

Annaspai alla ricerca d’aria. Non avevo più soltanto sete, adesso, o soltanto paura per il casino che si stava svolgendo alle mie spalle o per Andrea che non sapevo dove fosse finito. Nossignore, adesso non riuscivo proprio più a respirare.



Mia cugina Florinda.
Alta, bella, bruna.
Studiosa, competente, di cultura.
Sempre elegante, fasciata com’era nei suoi tailleur dai mille colori.
L’orgoglio della famiglia.
Florinda.

Lei sarebbe andata dove, di preciso?
A un rave, scarmigliata e… drogata, presumibilmente?
Insieme a Emiliano, per giunta?

No, fermi tutti: che cazzo andava dicendo?!

 



“Senti, tu stai dando i numeri!”
“Oh ma che c’è, non mi credi? Puoi chiedere a chi vuoi eh, non eravamo da soli. C’erano pure i miei amici e possono testimoniare.”


I miei amici.
Guardai la sua maglia scura, i jeans neri. Ebbi un’improvvisa illuminazione.


“Stronzo di merda, chi sarebbero i tuoi amici, sentiamo?! Quegli idioti che stanno seminando il panico qua fuori? Vuoi dirmi forse che un riccone come te sarebbe un anarchico?”
“Ma quale anarchico! Per quel che mi riguarda potrebbero pure essere una manica di fasci o dei tamarri da discoteca… Ci passiamo la droga, uno di loro mi lascia dormire in un box auto vicino casa sua. Io li ricompenso prendendoli per il culo, vestendomi di nero come loro così li faccio contenti, tutto qua. E comunque sono passati i tempi belli della ricchezza, per me, Margherita cara… Adesso vuoi darmi il numero di Florinda, per favore?”
 
Boccheggiai, di nuovo.
Quel ragazzo era snervante, fastidioso, irritante e assolutamente privo di tatto. Sparava notizie bomba nei momenti meno opportuni, mentre, spaventata a morte dalla ressa di fuori mi disperavo per Andrea , e lui insisteva con quella sua richiesta che valicava qualsiasi limite di privacy e sensibilità. Lo detestavo.


Tra l’altro, io il numero di Florinda non ce l’ho neppure.


Per fortuna, qualcun altro venne a salvarmi, impedendomi di continuare quella insopportabile discussione ai limiti del surreale. Quando sentii la sua voce familiare chiamare il mio nome, ringraziai il mio angelo custode, semmai ne avessi avuto uno.



“Margherita!”
“Romina, sei qui!”
 

Mi allungò le braccia, stremata; alle sue spalle torreggiava il più alto Stena, l’espressione spaventata, il viso pallido.

“Io sono qui! Tu dov’eri finita? Perché sparisci sempre quando sei con me?!”
“Romina era davvero spaventata, Meg…” aggiunse Stefano, dispiaciuto.


Certo che farsi rimproverare da una testa sballata come la sua è davvero il top.



“Prendetevela con lui, io non c’entro niente. Mi ha praticamente sequestrata.” indicai Emiliano che, pochi metri di distanza, sbuffava in continuazione, gli occhi al cielo.
“Emiliano Borghesi!”
“Eh, è arrivata un’altra che ha fatto la scoperta dell’acqua calda! Io lo so come mi chiamo…Tu invece chi saresti, scusa?”
“Romina, idiota! Non ti ricordi più?”
Ci pensò un po’, poi riprese a parlare con ritrovata enfasi.

“Ah sì, ma certo! L’amichetta di Margherita che ogni tanto trovavo a casa Gherardi… Ma non avevi l’apparecchio ai denti?”
“L’ho tolto” rispose Romina con astio. Mi sembrò che digrignasse i denti ma evidentemente fu un semplice abbaglio.
 
“Raga, andiamocene, torniamo a La Piovra adesso…” intervenne Stena a un certo punto, tirandoci entrambe per un braccio. Mi voltai a guardarlo e, per un attimo, non mi parve neppure piùil ragazzino scanzonato e allegro che conoscevo io: aveva un’aria così seria e protettiva che mi sentii istintivamente al sicuro.

Andrea mi aveva lasciato in buone mani.

“Ehi! Io voglio il numero di Flo…” Emiliano si allungò nella mia direzione senza considerarlo, tentando di arpionarmi il polso: non ci riuscì. Stena fu più pronto e veloce: lo agguantò a sua volta.
“Lei non ti darà nessun numero. E adesso levati dalle palle, idiota!”


Lo strattonò, infine, sotto lo sguardo sconcertato mio e di Romina: era davvero un’altra persona. Infine, tornò a voltarsi verso di noi e ci sospinse per le spalle, fino alla fine del vicoletto. Prima di andarmene via, decisi di farmi passare l’ultimo sfizio, cosicché guardai di nuovo Emiliano e, con una smorfietta di derisione, gli urlai:

“In ogni caso io il numero di Florinda non ce l’ho… Provvedi da solo, uomo dell’anarchia!”
 
Mi rispose di certo qualcosa, ma non so cosa: il casino e il traffico della strada coprivano la sua voce. Comunque, mi parve di captare un “stronza” o qualcosa del genere, ma non avrei potuto metterci la mano sul fuoco.
 
 
 


***
 


 
“…Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile…”

 
Sbuffai, lanciando il cellulare sul divanetto sgangherato della sala centrale; era la venticinquesima volta che provavo a telefonare ad Andrea e continuava a rispondermi sempre la solita vocina fastidiosa del disco: la odiavo. Era allegra e cordiale mentre mi ricordava che Zeno non era rintracciabile, allegra e cordiale come se tutto fosse stato okay, mentre io ero divorata dall’ansia e dal terrore.
Una gran bella presa per il culo, in pratica.
 
Ricominciai a grattarmi la guancia, poi il collo e, infine, la zona dietro le orecchie: si trattava di un gesto automatico, quando ero nervosa, che mi chiazzava completamente di rosso la pelle. Romina se ne accorse e mi bloccò, trattenendo la mia mano:
“Sta’ ferma, ti stai combinando un macello in faccia…”


Sospirai di nuovo e mi guardai attorno; eravamo una trentina là dentro, non di più. La maggior parte delle persone che avevano preso parte alla manifestazione non erano tornate. Forse qualcuno aveva deciso di rinchiudersi in casa, piuttosto che far dietro-front al centro sociale; gli altri chissà dov’erano.
 

Zeno chissà dov’è…


Sulla faccia di ognuno aleggiava un’espressione indecifrabile, un misto di sconcerto, delusione, rabbia e paura. Quasi nessuno parlava, se proprio c’era qualcosa di urgente da dire si bisbigliava appena. Neanche un rumore, manco a pagarlo: la tensione si tagliava col coltello.
Luna, dall’altro lato della sala, guardava sconsolata gli amici che le stavano attorno, parlottando tra di loro. A volte annuiva, a volte scuoteva la testa; intercettò il mio sguardo rivolgendomi un’occhiata disgustata: di certo si chiedeva cosa ci facessi io lì dentro, in mezzo a loro, ma francamente il suo disappunto era l’ultimo dei miei problemi, in quel momento.
 
La ignorai.
 

 
Per fortuna, quella situazione statica e surreale durò ancora per poco tempo.

 
“Polska! Zeno!”

Dopo appena qualche minuto, infatti, Stefano, che fino ad allora non aveva fatto altro che fissare il vuoto e sospirare a intervalli regolari di tempo, si alzò di scatto, chiamando a gran voce quei due nomi così familiari. In molti seguirono il suo esempio, abbandonando sedie, sgabelli, poltrone e pavimento per correre da quelli che erano considerati, a tutti gli effetti, come i capi indiscussi nonché padri fondatori del centro sociale. Dal canto mio, c’impiegai buoni cinque minuti per riprendere coscienza dal quel mio stato di torpore dovuto all’ansia e allo spavento. Fu Romina a scuotermi energicamente per una spalla, a sorridermi e invitarmi ad alzare: senza di lei c’avrei messo molto di più per smuovermi.
Quando rivolsi il mio sguardo verso Zeno, oltre la schiera di teste ricce e disordinate che gli stavano attorno, Luna si era già fiondata al suo fianco; vedevo i suoi bei rasta scuri che dondolavano a pochi centimetri dal viso di Andrea, sentivo la sua voce mentre domandava qualcosa riguardo la sfumata manifestazione, parlando sia a lui che a Polska. Non vi badai comunque, perché gli occhi grigi del mio fotografo preferito erano già piazzati su di me e lei avrebbe potuto fare e dire qualsiasi cosa, ma di certo non avrebbe ottenuto la sua attenzione. Lo sguardo di Zeno tradiva una forte emozione, un misto di preoccupazione per il pericolo appena scampato e sollievo al pensiero di vedermi sana e salva nel centro sociale. Dal canto mio, avrei voluto tanto potergli sorridere e rassicurarlo ancora di più, ma, con tutti gli sforzi di questo mondo, non mi sarebbe stato possibile: l’alone scuro che si stendeva sul suo zigomo m’impediva di pensare ad altro. Quell’ematoma così evidente sul suo bel viso, m’impediva di dirgli che ero felice di rivederlo e finalmente tranquilla adesso che lui era lì dentro, con me.
 

“Cosa ti hanno fatto?” trovai la forza di domandare infine, avvicinandomi a lui noncurante degli sguardi curiosi dei ragazzi che gli stavano attorno, quelli che ancora non mi conoscevano e non si erano mai preoccupati di scoprire chi io fossi sino a quel momento. Gli carezzai la guancia piano e socchiuse gli occhi.
 
“Sono contento di sapere che stai bene.”
“Che ti hanno fatto?” ripetei.

Polska rispose per lui.

“Qualsiasi cosa abbiano fatto, sta’ tranquilla che non accadrà più.”
 

Lo guardai di sbieco, cominciavo a trovare seccante la sua abitudine di metter bocca continuamente nei miei discorsi con Zeno, quando questi riguardavano il centro sociale o le sue attività.
Andrea forse lo comprese, mi lanciò uno sguardo molto dolce, come di scuse.


“Ti dirò tutto dopo, promesso. Lasciami spiegare agli altri adesso, io e Polska abbiamo un po’ di cose da mettere in chiaro. Dopo ne parleremo soltanto io e te.”
 

Te lo giuro.



Mi sorpassò velocemente, prima che potessi rispondergli. A occhi bassi respirai il suo profumo di tabacco mentre andava via, dicendomi che ci sarebbe stato tutto il tempo, dopo, per capire; quando alzai lo sguardo, rassegnata, incontrai il viso di Luna, la sua espressione accigliata. Ero certa di sapere a cosa stava pensando: la mia presenza accanto a Zeno le aveva dato fastidio.
 
“E chi se ne frega” mormorai tra me e me, quasi soddisfatta. Dopo qualche istante, tuttavia, toccò a lei prendersi la rivincita: mi sorrise, addirittura – un ghigno così ironico e crudele da superare persino i risolini di mia cugina Florinda – mentre mi sorpassava con aria altezzosa. Mentre si affiancava a Zeno, Polska e pochi altri, rintanandosi poi con loro in una stanzina laterale che, per me e per tutti gli altri comuni mortali de La Piovra, era off limits.
Perché lei poteva, aveva occupato quel posto assieme a loro e aveva quasi il medesimo potere di gestione di Polska e Zeno.
Lei, quindi, poteva ascoltare la spiegazione di Andrea prima di me; forse, poteva addirittura prestare una prima cura a quel livido che si allungava e pulsava sotto il suo occhio.
Prima di me.
Prima di me che ero la sua meraviglia.
 


Non vale abbastanza questo mio titolo, Margherita.
Rassegnati.

 
 

Luna poteva perché era parte integrante de La Piovra; era una di loro.
Io non ero nessuno là dentro, invece.


Difatti, in quel posto, io – la ricca Margherita Egle Gherardi – non c’entravo proprio un bel niente; dopotutto, avrei potuto smettere di rammaricarmi: la scena cui avevo assistito era soltanto l’ennesima testimonianza di un fatto già evidente.


 
 

***
 



“Ahi.”
“Non lamentarti, te le sei cercate…”
“Fa’ un po’ male…”
“Ci credo che fa male, hai uno zigomo viola!”

Mi chinai sul corpo di Andrea nell’intento di passargli la borsa del ghiaccio sul viso, mentre lui se ne stava seduto comodo su un ammasso di casse in legno sistemate alla rinfusa sul tetto de La Piovra. Mi sembrava quasi un miracolo che in quel centro sociale fosse presente una cassetta per il primo soccorso: quantomeno potevo tamponare almeno in parte l’ematoma, evitando che si diffondesse ulteriormente. In ogni caso, si trattava di una grossa macchia, piuttosto evidente, scura e pulsante: ci sarebbero voluti molti giorni prima di vederla scomparire oltre la pelle chiara di Andrea.
 

“Dovremmo passare in farmacia, comprare una crema apposita…”
“Naa, passerà da solo.”
“Andrea, per piacere, non farmi arrabbiare più di quanto non sia già: sei conciato un disastro!”
 

Zeno ridacchiò prima di passarmi una mano intorno alla vita; con un solo scatto fu in grado di farmi perdere l’equilibrio: ruzzolai dritta dritta tra le sue braccia.


“Sai che sei deliziosa quando ti arrabbi? Hai le guance rosse e ti si vedono di più le lentiggini!”
“Oh Zeno, per favore! Sto cercando di fare la persona seria e mantenere il punto con te, lasciami fare!” protestai.
“Niente affatto” commentò sornione mentre io, sbuffando, cercavo di assumere una posizione più comoda bloccata com’ero a pancia in giù sulle sue gambe. In realtà stavo una meraviglia, ma non potevo darlo a vedere: l’ansia per la sua condizione fisica e la costante irritazione al pensiero di Luna mi impedivano di mostrarmi sorridente come al solito nei suoi confronti.
“Per quanto possa trovarti assolutamente carina e pure divertente con quell’aria incazzata, preferirei saperti tranquilla. Quindi, adesso dimmi perché sei arrabbiata e vediamo se si può trovare una soluzione.”
“Cioè, devo pure spiegartelo?”
 

Lo fissai sbalordita: mi prendeva in giro?


“Ti lascio sano e ti ritrovo con un pataccone sotto l’occhio, dimmi tu se non devo essere arrabbiata!”
“Inconvenienti del mestiere…” scherzò, senza guardarmi.
“Andrea, ho provato a chiamarti al cellulare decine di volte, non ho mai avuto risposta: hai idea di quanto mi sia preoccupata?”
“Lo so, mi dispiace. Comunque, mi lusinga la tua ansia…”


Lo colpii con un debole pugno sul braccio.


“Per favore, la smetti? E potresti lasciarmi andare? Vorrei mettermi comoda, grazie!” protestai mentre ancora mi costringeva a starmene a sedere all’aria, stesa sulle sue gambe: a vederci dall’esterno doveva sembrare una scenetta molto divertente. O molto equivoca.
 
“Perché, non stai comoda così? Io tantissimo!”
“Ooooh, Andrea!”

Rise mentre mi lasciava andare; mi sollevai di scatto, imbarazzata; veniva da ridere anche a me, ancora una volta: quel ragazzo e il suo modo di fare avrebbero decretato la mia rovina.
 

“Scusami Maggie, sto solo cercando in ogni modo possibile di farti passare l’incazzatura…”
“Non ci riuscirai così facilmente, sappilo.” commentai infine mettendomi seduta accanto a lui. Il mio tentativo di darmi un contegno, sistemarmi gonna e capelli e assumere un’aria seriosa e distaccata appariva veramente ridicolo se associato al color porpora delle mie guance, ma tant’è: avrei dovuto quantomeno provarci, no?
 


A Zeno piace se gli stai seduta in braccio!
A Zeno piace se gli stai seduta in braccio!



“Oh cazzo, sta’ zitta!” mormorai istintivamente: la mia vocina interiore – che, stranamente, parlava come Romina – partiva a razzo sempre nelle situazioni più improbabili. Quella era una situazione improbabile, ad esempio: come potevo avere certi pensieri quando Andrea se ne stava lì, affianco a me, con mezza faccia pestata?!



Sei pessima, Margherita!
 
 
“Parlavi con me?”
“Scusa?”
“Hai detto a qualcuno di star zitto… Parlavi con me?”
 
 

Parliamone, Margherita: il tuo grado di coglionaggine su quale livello si attesta?
 


“Ehm, no… No. Non parlavo con te…”
“Parlavi da sola?”
“Poi te lo spiego un giorno, okay? Senti, adesso non avresti da dirmi tu qualcosa o sbaglio?”


Sviai immediatamente l’argomento; in realtà ero davvero interessata a conoscere quel che era accaduto dopo che Andrea mi aveva lasciato da sola alla manifestazione e scoprire, soprattutto, come si fosse procurato quel livido. Se questo mi avesse poi aiutata a distrarre Zeno dalla mia imbecillità, tanto di guadagnato. La mia vocina interiore prima o poi me l’avrebbe pagata, comunque.
 
Andrea, dal canto suo, sospirò impercettibilmente e c’impiegò qualche istante più del dovuto prima di rispondere alla mia domanda: sembrava improvvisamente turbato.
 

“Potrai immaginare che non siamo riusciti a dialogare con i compagni anarchici.”
“Se tu li chiami compagni…Ti hanno fatto loro questo?”
“Abbiamo cercato di fermarli mentre davano inizio alla sassaiola. Eravamo preoccupati soprattutto per i ragazzi più giovani che avevano preso parte al corteo, abbiamo tentato di spiegarglielo ma, ovviamente, non è servito a nulla ragionare pacificamente. Dopo poco dalle parole siamo passati alle botte.”
“E ti sei beccato un pugno…”
“Già…”
“Mi sembri triste, Zeno… E’ per la manifestazione, per com’è andata?”
“Anche. C’era tanto lavoro dietro quella protesta e non è valso a nulla. So come ne parleranno domani i giornali locali, ci descriveranno come una massa di violenti e non è vero. Stavamo manifestando per i diritti di tutti gli studenti del mondo ma questo nessuno lo calcolerà e sai perché? Perché non fa notizia, la vera notizia sarà la sassaiola e chiunque potrà utilizzarla per dimostrare che siamo soltanto dei nullafacenti a cui piace fracassare le vetrine dei negozi. Forse la polizia verrà alla Piovra per sondare il terreno e noi saremo fottuti.”
“Oh, Andre! Mi spiace così tanto…” mormorai afflitta. Lui annuì.
“Grazie. È davvero un casino. Inoltre…”
“Inoltre?”
“Sono dispiaciuto Meg, parecchio anche:  non è una bella cosa combattere contro gente che  crede in quello in cui credi tu, almeno in apparenza. Dovremmo stare tutti dalla stessa parte e invece…”
“Fammi capire, tu stai male perché hai giustamente menato qualcuno tra quei pazzi?”

“Margherita…” si voltò di nuovo verso di me, lo sguardo improvvisamente triste e serissimo “Non è così semplice come credi. Se fossero dei fottuti fasci, credimi che tutte queste storie non me le farei. Ma loro… loro per molti versi dovrebbero essere nostri alleati ed è per questo che ci resto di merda. Meg, dovrebbero appoggiarci, non abbatterci, eppure mi pare che agiscano sempre in maniera tale da distruggere tutti i tentativi che portiamo avanti per far sentire la nostra voce.”

Strinse il pugno, fin quando non vidi le sue nocche impallidire. Il dorso della sua mano destra era graffiato; lo coprii immediatamente con il mio palmo, tornando poi a guardarlo e sorridendo. Mi piangeva il cuore a scoprirlo così affranto.
 
“Ma sono tutti così, questi anarchici?”domandai ingenua.
 
Scosse la testa.

“No, non tutti. Questo è un gruppetto distaccato da uno originario di maggiori dimensioni che faceva capo al movimento Bakunin, il più grande movimento anarchico della zona. Per quanto mi riguarda, quelli che hai visto oggi non sono anarchici per davvero: potrebbero tranquillamente passare per teppisti di destra o ultrà, tanto gli atteggiamenti e i  modi sono gli stessi. Ho sempre avuto l’impressione, anche quando facevano ancora parte del movimento, che a loro interessasse semplicemente sfogare la propria rabbia interiore in qualche modo. Non si sono mai interessati per davvero alla politica, all’ attività antagonista, ai problemi della nostra piccola società. Parlavano solo di violenza e ancora violenza, a volte quasi senza un vero scopo. Alla fine si sono staccati dal movimento per agire in totale autonomia e così ce li siamo ritrovati quasi ad ogni manifestazione, protesta e sit- in organizzati da un anno a questa parte. Il loro intento è sempre lo stesso: seminare il panico e credimi se ti dico che ci riescono. Questa cosa mi fa rabbia, sotto un certo punto di vista mi pare che abbiano tradito noi e i loro compagni. E poi mi rammarico perché penso che avrebbero potuto stare dalla nostra parte e invece ci hanno abbandonato. Sono un ulteriore aiuto alla causa che abbiamo perso, ecco la verità.”


Ripensai alle parole di Emiliano di poche ore prima:“ma quale anarchico!  Per quel che mi riguarda potrebbero pure essere una manica di fasci o dei tamarri da discoteca!”
 
Inconsapevolmente, Andrea aveva usato quasi gli stessi aggettivi per descriverli: dunque Emiliano, per quanto strafatto o idiota potesse essere, aveva ragione?
 


“Sai che Emiliano sta con loro?”
“Emiliano sta con loro perché gli passano coca e pasticche, tesoro.” rispose quasi in automatico. Poi non fiatò per qualche istante, perso com’era a guardare, in lontananza, la strada affollata dal traffico di auto e passanti del mezzogiorno, finché una lucina non gli si accese nel cervello. Si voltò di scatto, fulminandomi con lo sguardo.

“Che ne sai tu di Emiliano, Maggie?!”
“Ehm…Mi ha…fermata per strada.”
 

Evitai di fargli presente che, di fatto, Emiliano mi aveva trascinata in un vicoletto sporco solo per estorcermi il numero di mia cugina. Pensai che, se gliel’avessi confessato, sarebbe andato a cercarlo per tutta la città soltanto per pestarlo a sangue: per la prima volta, Andrea aveva una faccia che non lasciava intendere nulla di buono.

“Che voleva da te?”
“Non so, blaterava di voler vedere mia cugina Florinda ma secondo me stava dando i numeri. Florinda non uscirebbe mai con lui.”
“E’ un Borghesi, non dimenticartelo.”
“Sì, un Borghesi decaduto. Per gli standard di Florinda è totalmente out.”
“Mh…”
 
 
Passammo alcuni minuti in silenzio; Andrea si alzò, poggiandosi al parapetto e guardando verso la strada dal secondo piano del centro sociale. Ebbi il sospetto che, in realtà, non vedesse nulla: già prostrato dagli eventi del mattino, gli avevo dato il colpo di grazia nominandogli Emiliano, era ovvio.

 
Applausi, Meg.
 

“A-Andrea?” mormorai avvicinandomi al parapetto, a mia volta.
“Sì?”
“Sei arrabbiato?”
“No, non sono arrabbiato.”
“Mi sembravi un po’ agitato… Non dovevo parlarti di Emiliano?”
“Ma no, no. Hai fatto benissimo.”
“Perché ti secca anche solo sentirlo nominare?”

S’irrigidì.

“Perché sì. È una cattiva persona e preferirei sapere che non ha nulla a che fare con te. Starei più tranquillo.”
“Ma che ti ha fatto? Cos’è successo tra voi due? Da come ti parlava l’altra volta mi sembrava che sia stato tuo amico, in passato!”

Mi guardò di traverso, un sopracciglio puntato verso l’alto.


“Ci conoscevamo, siamo stati a qualche festa assieme, avevamo amici in comune. E ho creduto che fosse una persona diversa, tutti qui. Che dici, basta così o vuoi continuare a fare domande, detective Conan?”
“Mh…”
“Sbaglio o prima eri tu quella arrabbiata?”
“Ero preoccupata. È ben diverso.”
“Okay, però mi sembravi anche arrabbiata.”
“E’ tutto passato.”
“Ottima notizia, signorina!”


Sorrisi anche io mentre Zeno mi faceva più vicino, abbracciandomi da dietro e poggiando la sua testa sulla mia. Socchiusi gli occhi e mi beai del suo profumo di tabacco e menta: l’avrei riconosciuto tra mille, persino dopo così poco tempo. Forse perché, in un tempo lontano già l’avevo aspirato, ma mi sembrava molto più familiare dell’acqua di colonia di mio padre.

Sospirò, alle mie spalle.

“Sai, a volte penso che non sia tu quella ad aver bisogno di informazioni.”

Aprii gli occhi di scatto.

“In che senso?”
“Non allarmarti, non voglio dirti una cosa brutta. È soltanto che…”
“Che?”
“Maggie, tu non ti ricordi di noi e di quel che eravamo tanto tempo fa, è vero. Ma allo stesso modo io brancolo nel buio. Di questi cinque anni di silenzio fra me e te io non so nulla. Non so cos’hai fatto, chi hai incontrato – Romina a parte – e che posti hai frequentato. Non so se hai amato qualcuno, se sei stata ricambiata…”

Le mie labbra si piegarono all’insù.

“Vorresti sapere se ho avuto un ragazzo?”
“Più o meno. Non soltanto quello, comunque…”
“Quindi non ti interessano i miei eventuali fidanzati…?”
“Perché, ne hai avuto uno?”

L’urgenza che percepii nella sua voce mi costrinse a ridere: era la prima volta, da quando ci eravamo ritrovati, che lo scoprivo così preoccupato riguardo quel passato di cui lui non aveva fatto parte. Mi sentii rinfrancata: forse quella gelosa non ero soltanto io.
 
Ripensai ad Angelo, al maldestro tentativo operato da mia madre due anni prima per convincermi a frequentare un ragazzo di buona famiglia. Per un periodo di tempo c’era anche riuscita perché Angelo, oltre che schifosamente ricco – suo padre possedeva una concessionaria e i soldi gli uscivano dalle tasche – aveva anche occhi scuri e belli, un sorriso contagioso e la capacità di farmi divertire con poco. Non avevo mai pensato di amarlo per davvero ma durante i sei mesi della nostra presunta relazione continuai a uscirci assieme regolarmente, ogni sabato sera e talvolta nei pomeriggi della settimana. Facevamo shopping insieme, lo baciavo, gli tenevo la mano, lo guardavo con la coda dell’occhio durante le ore spese accanto a lui nella sua Audi nuova, sorprendendomi della sua bellezza come una qualsiasi altra normale fidanzatina. Quello in cui Angelo fece parte della mia vita fu, probabilmente, il periodo in cui i miei genitori mi amarono di più dopo l’incidente, poiché sembravo esser tornata la Margherita di sempre che assecondava di nuovo ogni loro desiderio.
Alla fine, tuttavia, mi bastò poco per infrangere i ritrovati sogni di potere di mamma e papà: piantai Angelo di punto in bianco, infatti, un pomeriggio di fine luglio, d’improvviso e pochi giorni dopo il mio diciassettesimo compleanno. La settimana prima eravamo finiti a letto e non avevo sentito un bel niente di tutte quelle belle storie che la gente racconta sulle emozioni della prima volta e sull’appartenenza reciproca. Piuttosto, la necessità impellente del mio corpo che Angelo aveva srotolato così d’improvviso quella sera, dopo mesi in cui l’aveva tenuta sapientemente nascosta sotto la patina opaca del suo essere un finto gentiluomo, mi avevano costretta a sentirmi soltanto come l’ennesima ragazzina inesperta finita tra le sue braccia. Non avevo percepito amore nel suo abbraccio, nessuna premura; possedevo fianchi rotondi e un bel seno per la mia età, era questo il succo di tutta la vicenda.
Il resto era contorno.
Il giorno dopo quella prima e unica volta, Angelo lo sentii per puro caso: mi telefonò soltanto per chiedermi se le sue chiavi di casa si trovavano ancora nella mia borsa. Niente di più, come se quel che era accaduto tra di noi fosse stato semplicemente dovuto e privo di significato: piansi una notte intera su quella telefonata.
Continuammo a vederci ancora per un po’, dopo, ma la delusione aveva bruciato ogni mia illusione di sentimento. Ancora una volta, non mi ero sbagliata su quel mondo di falsi luccichii di cui facevo parte: Angelo era stato soltanto l’ennesima conferma. Cosicché, non c’impiegai poi molto a far croce nera sul suo nome: lo mollai improvvisamente e senza troppe lagne, un pomeriggio mentre eravamo al telefono, e urlai ogni qualvolta mia madre tentò di pronunciare di nuovo il suo nome nel tentativo di riportarmi da lui: non volevo saperne più nulla.

Successivamente ad Angelo, frequentai poco l’universo maschile: mi sentivo molto più felice e soddisfatta nel considerarmi una single indipendente. Certo, ero pure uscita con un tipo della mia scuola, una volta, ma questi si era limitato a tenermi allacciata per la vita e sfiorarmi il collo con un bacio, niente di più. Difatti, le labbra di Andrea erano state le uniche che avevo toccato, dopo quelle del mio primo ragazzo.
 
 
 
“Ho avuto un fidanzato, sissignore.”
“Quanto tempo fa?”
“Tra i sedici e i diciassette anni.”
“E non era un po’ presto certe cose?!”
“Mi pare che fossi addirittura un’ingenua tredicenne quando frequentavo te!” protestai.
“La nostra frequentazione non era a sfondo sentimentale…”
“Allora… E adesso, invece?”
 
Mi girai nella sua stretta, lo costrinsi a guardarmi. Deglutì un paio di volte, prima di rispondermi.


“Adesso…”
“Sì, adesso… Sorprendimi Andrea, dimmi che anche i Comunisti hanno un cuore.”
“Non hai neanche idea di quanto questo sia grande.”
“E potrebbe amare anche una ragazzina ricca e viziata come me?”
“Escludi il viziata, non lo sei…”
“Non mi stai rispondendo…”
“Vuoi sapere se ti amo? Non posso dirtelo adesso, Maggie. Ti voglio bene da impazzire, ti ho vista crescere, a dirla tutta. E sono terribilmente attratto da te per tutto quello che già sai…”
“Solo per quello? Perché mi ammiri, perché sono un simbolo per te?”
“Sì. E anche perché sei bella, tremendamente, fottutamente bella e a volte mi chiedo se te ne accorgi.”
“No, a dir la verità no.”
“Lo sospettavo. Ma non è questo… Non posso dire di amarti, sarebbe ridicolo. Ci siamo ritrovati da troppo poco tempo per parlare di amore.”
“Lo so, è così. Ma io volevo sapere un’altra cosa.”
“Cosa?”
“Se questo tuo cuore da Comunista potrebbe aver spazio per una come me, piuttosto…”
“Parli di te come una specie di assassina. Non credo tu debba fartene una colpa se tuo padre è ricco, sai? In ogni caso sì, il mio cuore ha già tutto quello spazio: deve soltanto sistemarlo. E tu, invece? Tu cosa pensi? Potresti accogliere dalle tue parti una disperata zecca comunista?”

Ridacchiò mentre io lo stringevo di più, in risposta alle sue parole.

“Ti ho già accolto, stupida zecca comunista. E fidati, non ti lascio scappare più, mai più: non ci divideranno altri cinque anni.”
“Anche perché di questo passo diventeremo vecchi e non avremo concluso nulla.”
“E che vorresti concludere?!” lo stuzzicai.

Lui tirò fuori la lingua e poi sorrise appena, guardandomi intensamente. Compresi le sue intenzioni e socchiusi gli occhi mentre Andrea chinava il capo e mi sfiorava le labbra con uno di quei suoi baci dolcissimi

 
 
 
“Tu guarda, ecco i piccioncini! Ragazzi, non vorrei disturbarvi, sul serio… Ma devo.”

 
Se il tono della voce non fosse stato così astioso, avrei trovato anche divertente la frasetta con la quale qualcuno era venuto a disturbarci. Tuttavia, seppi all’istante che non c’era niente di scherzoso in quelle parole, non se a pronunciarle era Luna.
Ormai era sempre tra me e Andrea, sempre presente: cominciavo a detestarla.
 
“Andrea, ti stiamo cercando. Riunione straordinaria, sei atteso in sala grande. Da solo. Grazie.”
“Margherita mi stava dando una mano a curarmi il livido, Luna. Arrivo subito.”
“Ah, tu quella la chiami cura?” rispose acida, rivolgendo a me un’occhiataccia infastidita.
Non mancai di risponderle a tono; mi riusciva abbastanza naturale essere antipatica con lei.

Comunque, non mi diede troppa pena di averci a che fare: sparì dopo solo qualche istante di esitazione e senza aggiungere nulla, oltre la porticina che, dal tetto, riportava ai piani bassi de La Piovra. Per una buona volta aveva avuto la decenza di eclissarsi in tutta fretta, dovevo rendergliene atto.
 

“Mi pare di capire che hai da fare…”
“Lo so che t’annoia, Maggie…”
“Naaa! E’ il tuo dovere.”
“Grazie, allora” mi sorrise, tenendomi per mano.
“Solo una cosa…”
“Dimmi.”
“Mi spieghi perché ho come l’impressione che Luna stia sempre tra di noi?”


Lo guardai da sotto in su, un po’ perplessa, un po’ infastidita; Luna, per me, aveva il sapore di un tornado che andava via lasciando disordine e confusione alle sue spalle. Ogni qualvolta si intrometteva tra di noi e mi riservava quei suoi sguardi piena di malcelata gelosia e insopportabile irritazione, qualcosa veniva a distruggersi, piegarsi, mischiarsi dentro di me lasciandomi spiazzata. Perché mi detestava così palesemente? Percepiva un senso di possesso nei confronti di Andrea tale da indurla a sentimenti tanto negativi e feroci nei miei confronti? Davvero era soltanto questo – competizione, invidia – o c’era qualcos’altro che la spronava a comportarsi in un certo modo? Forse quel senso di appartenenza era stato ricambiato in passato? E se era così, perché Zeno non me ne aveva mai parlato? Eppure gliel’avevo chiesto, l’avevo invitato a essere sincero con me!
Torturai il mio labbro inferiore; improvvisamente mi sentivo di nuovo molto abbattuta.
Zeno dovette comprenderlo e mi lanciò uno sguardo pieno di dolcissima comprensione prima di stamparmi un bacio sulla fronte.


“Meg? Comprendi una cosa” mi disse piano “e pensaci bene perché si tratta di qualcosa di molto importante. Niente, e sottolineo niente, potrà mai intromettersi tra me e te. Ci siamo noi, solo noi, e ti assicuro che mai nessuno sarà più forte di tutto questo.”


 
Ci siamo solo noi.
A sentire la tua voce dire cose dolcissime di me e di te mi viene quasi da piangere, lo sai?


 
Assimilai ogni parola, la registrai e rimandai a rallentatore nella mia mente finché Andrea non terminò il suo discorso. Alla fine, annuii con convinzione. Avrei dovuto credere sempre a tutto ciò che mi aveva detto e ricordarlo poi nei momenti di sconforto. Avrei dovuto farlo per il mio bene, per il bene di entrambi e per la fiducia che riponevo in lui.
 


 
 
***

 


Comunque, quando tornai a casa quel pomeriggio, non ebbi tempo a sufficienza per pensare a Luna o rammaricarmi del suo precedente e misterioso rapporto con Andrea; aprii la porta d’ingresso, infatti, e il primo viso che incontrai fu quello di Florinda mentre se ne stava stravacca sul divano del mio salotto con una tazza di tè tra le mani. Il tè era la sua ossessione.
 

Il tè è terribilmente radical chic.
 

Accanto a lei sedeva mia madre e poco più in là, in piedi presso il camino, c’era mio fratello Ludovico. Più bello di come l’avevo lasciato venti giorni prima, quand’era partito per Londra.
Mi guardai intorno: accanto alla porta d’ingresso c’erano le sue numerose valigie. Come avevo fatto a non notarle subito?

Il trio si girò a guardarmi, quasi istantaneamente. Sospirai: ero tornata a casa, dovevo mettere da parte La Piovra adesso, specie con Florinda in giro a far danni.

O forse no?



“Ciao Ludo, bentornato.” mormorai chiudendo la porta alle mie spalle. Mio fratello sorrise, senza smuoversi dalla sua postazione adiacente il camino; non un bacio, né un abbraccio da parte di entrambi. I gesti d’affetto erano quasi un tabù per noi due, nonostante il grado di parentela.
 
“Grazie Margherita. Come stai?”


Strascicai i piedi fino al divano e mi ci buttai a peso morto, stando bene attenta a scegliermi la posizione più lontana possibile da mia cugina. Mia madre mi fulminò con lo sguardo, non amava quelle mie “movenze sciatte”, come le definiva lei.

“Tutto okay, solo un po’ stanca.” commentai poggiando il gomito sulla spalliera del divano e tenendomi la testa con la mano.

Un risolino fastidioso giunse alle mie orecchie: Florinda sorseggiava il suo tè alla mente guardandomi in un misto di divertimento e commiserazione.


“Saresti stanca per la scuola, tesoro?”

Le riservai, con ogni probabilità, lo stesso sguardo inacidito che avevo rivolto a Luna appena un paio d’ore prima; guardai i suoi boccoli scuri, gli occhi appena truccati e comunque bellissimi, le labbra carnose. Indossava un pantalone a vita alta che le fasciava i fianchi alla perfezione e un tacco dodici impossibile da portare, almeno non con la stessa disinvoltura che sapeva esibire lei; per un attimo dimenticai l’odio e l’irritazione e ripensai a Emiliano, alle sue parole. Mi venne da scuotere la testa: più guardavo Florinda e più pensavo che fossero state solo bugie, le sue.

 
“Allora? La scuola ti distrugge?”continuò a stuzzicarmi. Mi scossi dal torpore e le risposi subito per le rime.

“Già. Sai, la scuola pubblica è molto più faticosa di quella privata. Mica mi regalano otto e nove come se piovesse! Ma dubito tu possa capirlo, cuginetta.”

S’irrigidì e mia madre con lei: provava una sorta di venerazione fastidiosa nei confronti di quella nipote acquisita. Probabilmente le dispiaceva il fatto di saperla orfana di madre e pensava che Katiuscia non fosse in grado di gestire il ruolo di matrigna (lo pensavo anche io, a dirla tutta), fatto sta che mi sembrava sempre molto protettiva nei suoi confronti.

 
“Margherita, sii gentile con tua cugina!”
“Non importa zia, ti ringrazio. Non darti pena: purtroppo non si può piacere sempre a tutti.”


Povera Florinda, povera piccola vittima!
Margherita è davvero una carnefice senza pietà!


Sbuffai.

“Florinda è venuta a prendermi all’aeroporto perché papà era impegnato in azienda…” aggiunse mio fratello, come se il passaggio che nostra cugina gli aveva offerto avesse fatto di lei una specie di eroina della patria. Mi feci da parte per farlo accomodare accanto a me ma non considerai neppure lontanamente le sue parole. Mamma, allo stesso modo, mi squadrò dispiaciuta per qualche istante mentre Florinda fingeva di guardarsi attorno con nonchalance. Alla fine lasciò cadere il discorso, per buona pace di tutti e quattro.

 
“Margherita, tesoro, per domani sera non prendere impegni” esordì comunque dopo poco.
“Perché, mamma?”
“Ho organizzato un aperitivo e successiva cena, per festeggiare il ritorno di tuo fratello. Ci sarà anche Amy.”

“Amy è qui?!” mi voltai a guardare speranzosa Ludovico. La prospettiva di un’ennesima in serata in “famiglia”, con zio Aurelio che sparava una cazzata dietro l’altra, Katiuscia che si ripassava il rossetto ogni volta che poteva, i nonni che m’avrebbero guardata male tutto il tempo dopo la sfuriata dell’ultima cena assieme, Florinda che sfotteva e papà che aspettava la mia prima mossa sbagliata per farmela pagare cara, non mi allettava per niente. Tuttavia, sapevo che la presenza di Amy avrebbe addolcito l’intera facceba: le volevo bene davvero. Era una ragazza bella e dolce, sapeva come prendermi e sapeva dimostrarmi affetto; le stavo sempre appiccicata quand’era nei dintorni.

Ludovico annuì, un’espressione felice stampata sul volto: gli faceva sempre molto piacere verificare che avessi tanto a cuore la sua ragazza.


“Ehm… Ecco, io domani potrei non esserci.”

Florinda ci sbalordì tutti con le sue parole; io, Ludovico e nostra madre ci voltammo a guardarla in sincrono, visibilmente sorpresi.


“Non ci sei, tesoro?”

Mamma le allungò la mano ingioiellata; Florinda l’accolse subito con quel sorrisino melenso da brava ragazza che io detestavo e a me venne da vomitare.

“No, zia. Magari potrei venire comunque ma andrò via piuttosto presto. Mi dispiace così tanto, se l’avessi saputo prima!”
“E’ un impegno irrinunciabile?”

Annuì.

“Una cena con alcuni colleghi universitari, molti sono dei dottorandi, capisci…”
“Ma certo, certo… Una questione importante.”
“Direi di sì. Ha una notevole valenza sulla mia carriera universitaria. Molto spesso non sono soltanto i voti a fare la differenza ma anche i rapporti che riesci a instaurare possono rappresentare un ottimo pass per il futuro…”
 


Pass per il futuro?
Ma che andava blaterando?




“Lo capisco tesoro. Se è così non importa allora, sarà per la prossima volta…”

“Mi dispiace tanto zia, sul serio…”
“Non pensarci più cara! Va’ e divertiti…”
 
Guardai Florinda con sospetto, mentre rivolgeva l’ennesimo sorriso di circostanza a mia madre. Non c’era niente di vero nella sua parte da nipotina rispettosa, com’era possibile che nessuno lo comprendesse?

Poi, un dubbio s’insinuò nella mia mente: davvero mia cugina doveva prendere parte a una cena così importante? O c’era dell’altro dietro?

Emiliano ne aveva parlato a lungo, era innegabile che la conoscesse. Okay, la facciata esteriore di Florinda faceva di lei una persona che non avrebbe mai potuto né voluto avere a che fare con un tossico come Borghesi, eppure… Eppure la vita poteva riservare delle straordinarie sorprese.
Perché non concedere il beneficio del dubbio a quel farabutto di Emiliano? Dopotutto mia cugina non era meno disgraziata di lui e avrei potuto aspettarmi di tutto da lei.

Se c’era del vero in quel che Emiliano Borghesi mi aveva riferito, io dovevo scoprirlo. E, forse, era arrivata anche l’ora buona per farlo.
Cosicché mi decisi alla svelta: presi alla palla al balzo offerta da Florinda e farfugliai una scusa per disertare a mia volta la cena. Avevo altro da fare.


“Ma come non puoi neanche tu?!”
“Mamma, ho già preso appuntamento con Romina, dormo da lei: organizziamo le tesine, hai dimenticato che io quest’anno ho il diploma?”

Mamma mi guardò con aria contrita: non poteva ribattere se la causa della mia assenza era la scuola. Costituiva un buon motivo persino per mio padre, figurarsi per lei.


“Addirittura devi programmare il lavoro in coppia? E’ così complicata la maturità dalle vostre parti?” cinguettò mia cugina con voce ironica.
Mi si contorse lo stomaco.

“Non immagini neanche quanto. Non puoi immaginarlo…”

Mamma tornò a guardarmi male, spaventata e dispiaciuta al contempo, torcendosi le mani. Ludo tossicchiò, per riportare la calma.

“Ehm… Okay, okay, non importa. Magari poi la cena al completo la si organizza un’altra volta, va bene? Margherita, ascolta: ho scordato il cellulare in cucina. Ti spiacerebbe andarmelo a prendere? Se Amy dovesse chiamarmi non lo sentirei squillare da qui…”



Margherita, ti spiacerebbe andartene un po’ da qui e smetterla di trovare ogni scusa per attaccar brighe con tua cugina?
Grazie.



Lo guardai con la coda dell’occhio, vagamente offesa.

“Sì, sì, stai comodo Ludo…Vado io.”
“Ti ringrazio.”


Mi allontanai alla svelta da quel salotto; sentivo lo sguardo dei miei familiari su di me e non vedevo l’ora di uscire dal loro raggio d’azione, specie da quello di Florinda il cui unico scopo nella vita pareva essere quello di deridermi. In ogni caso,  quell’allontanamento sarebbe servito anche a me: avevo altro da fare, oltre che cercare il cellulare di mio fratello in cucina. Sempre ammettendo che si fosse trovato lì per davvero.


Tirai fuori dalla tasca il mio di telefono e scrissi rapidamente un messaggio per Romina.


“Domani sera puoi passare a prendermi? Per favore!”

La risposta non tardò ad arrivare: a volte credevo che Romy passasse la sua vita attaccata a un cellulare, era sempre molto veloce.

“Che devi fare?”
“Ho una missione da compiere… E ho bisogno del tuo aiuto.”


Ennesimo bip bip, altro messaggio.
Romina stava morendo di curiosità.


“Che missione?”
“Te lo dico domani!”
“E dai, Meg! Sto soffrendo, parla! Chi riguarda?”

“Florinda.”

“Oh, la cosa si fa interessante! Okay, andiamo quando vuoi, dove vuoi. A domani Meg!”



Rilessi il messaggio di Romina un paio di volte, col sorriso sulle labbra: sapevo di poter contare sul suo aiuto, tollerava molto poco la mia perfetta cugina. Dopodiché, calcolai mentalmente le ore che mancavano all’appuntamento: poco più di ventiquattro. Poco più di ventiquattro ore e di certo avrei scoperto molte informazioni succulente riguardo mia cugina: se quel che Emiliano diceva era vero – e se c’entrava anche solo in parte con l’improrogabile appuntamento di Florinda del giorno dopo – forse era finalmente arrivata l’occasione per riprendermi la rivincita. Per smascherare quella mia immacolata cugina e ripagarla di tutti i soprusi e le derisioni cui mi aveva costretto nel corso degli anni.























Ho poco da dire: il capitolo non mi convinceva ma meglio di così non sapevo scriverlo.
Spero mi perdonerete.
Comunque, volevo ringraziarvi. Per tutto l'amore che mostrate per Piovre, per le belle parole, il supporto, per il seguito, le letture, TUTTO. Non me l'aspettavo <3
Non vergognatevi mai di dirmi cosa ne pensate: ogni vostra parola è fondamentale per me, Meg e Zeno!;)
Grazie di cuore e a presto.
Vostra Matisse

PS: vi ricordo, come sempre, il mio gruppo personale, In The Sky With Diamonds, che potrete trovare a questo indirizzo:

https://www.facebook.com/groups/265306233568958/
E' pieno di spoilerS, immagini e delle mie follie xD Vi aspetto! :)

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Capitolo 8
*** Il turbamento della gelosia ***









Il giorno seguente, l’operazione “Vendichiamoci della cugina malvagia” ebbe inizio; ovviamente, era stata Romina a ribattezzare in tal modo il nostro piano diabolico. Avevo trovato da subito delizioso questo improbabile nome, sebbene mi facesse venire in mente un’inquietante connessione con Biancaneve, probabilmente perché la mia cugina ricca e bellissima incarnava alla perfezione il mio ideale di strega cattiva.


I fatti si svolsero in modo molto semplice: alle sette e mezza di quella sera, qualcuno telefonò a Florinda mentre l’intera famiglia sorseggiava con pigrizia un cocktail in veranda. Il suo viso s’illuminò, mentre guardava il display: era evidente che non aspettava altro che tagliare la corda per andarsene chissà dove. Biascicò quindi delle scuse a mezza bocca e, con estrema eleganza, si alzò dalla sua poltrona per conversare a qualche metro di distanza, lontano dalle nostre inutili chiacchiere.
Cosicché, mentre Joan passava maldestramente tra gli ospiti e offriva tartine e zio Aurelio blaterava circa un gita in barca molto divertente che aveva fatto con Katiuscia qualche giorno prima, io tesi l’orecchio con prontezza, nel tentativo maldestro di recuperare, nonostante il parlottare del resto della famiglia intorno a me, frammenti di quella conversazione spicciola tra mia cugina e il suo misterioso interlocutore.
Beh, misterioso mica tanto: ero sicura che l’interlocutore in questione fosse Emiliano.
In ogni caso, la conversazione durò davvero lo spazio di pochi minuti, dopo i quali Florinda raggiunse nuovamente il parentado, con aria contrita.


“Perdonatemi tutti, ma devo lasciarvi per davvero adesso. Stanno aspettando soltanto me per cominciare la cena.”
“Oh tesoro!” mia madre si alzò di scatto e la strinse con affetto, le sue mani dalle pelle chiarissima sulle braccia più scure di mia cugina. Per un qualche motivo a me sconosciuto lo stomaco mi si contorse in un moto di disgusto e rammarico “Va’ pure, non trattenerti oltre tra noi vecchiacci!”

Le fece l’occhiolino e mia cugina sorrise sinceramente.
Sembrava che fosse lei sua figlia. Ecco perché era tanto nauseata.

Forse soltanto gelosa, Margherita?


Nello stesso istante in cui anche mia nonna si avvicinava a Florinda per schioccarle un bacio sulla guancia truccata, il bip bip del cellulare mi segnalò l’arrivo di un messaggio. Mi venne da benedirlo perché mi stava offrendo la possibilità di distrarmi da quella scena pietosa.


“Sono qua fuori, spicciati”

Romina e i suoi modi “ortodossi”.

Florinda è ancora qui in casa, aspetta.”


Lasciai scivolare il cellulare in tasca e attesi che la pantomima dei saluti contriti – manco Florinda stesse partendo per l’Iraq – dei baci soffici e dello scambio di sorrisetti ipocriti fosse finita prima di espormi a mia volta. In altre parole, attesi che l’eco dei tacchi di mia cugina svanisse sul selciato e comunicai alla famiglia che anche io stavo per uscire.

“Ah, vai via?”
“Certo, avresti potuto stare qui con noi.”
“Che ne parliamo a fare, Carlotta? Ha da studiare. Spero almeno prenderai un cento, alla maturità, altrimenti che senso avrebbe tutto questo presunto studio?”
“Se scopro che poi te ne sei andata in giro, Margherita…!”
“Comunque adesso va’, altrimenti, se ci sediamo a tavola, tu non esci più di qui”



Mia nonna, mia madre, mio padre, mia madre, mio padre.
Un saluto più affettuoso dell’altro. Certo, non mi sarei aspettata il medesimo trattamento riservato a Florinda, ma quantomeno un bacetto di arrivederci sarebbe stato gradito. Beh, di cosa mi stupivo ancora? In fondo, ero io la pecore nera della famiglia e questo era ciò che, a detta loro, meritavo. Tra l’altro, mia nonna era ancora offesa per il trattamento ricevuto dalla sottoscritta durante l’ultima cena insieme e a stento mi guardava; mia madre mi mostrava il broncio da due giorni, ormai, perché non riusciva a perdonarmi quell’assenza al party di bentornato di mio fratello e papà beh… Lui mi rivolgeva davvero di rado la parola, negli ultimi tempi. Quando lo faceva, poi, le sue non erano mai intenzioni pacifiche.

Tutto nella norma, in pratica.
 
Cercai, quindi, di non farmi affossare dal loro mancato affetto e, senza attendere eclatanti saluti dell’ultimo minuto, liquidai tutti con un più formale buonasera, lasciando casa con un senso di vuoto e rammarico difficile da gestire. Mi concentrai allora su mio fratello – l’unico che mi avesse riservato un sorriso più luminoso – per ritrovare la calma e balzai fuori, alla ricerca di Romina.
La trovai ferma all’angolo, in sella alla sua Vespa 50 color zucca.
 

“Alla buon’ora!”
“Dovevo aspettare che Florinda lasciasse casa, avrei dato troppo nell’occhio a uscire in contemporanea con lei!” spiegai afferrando il casco che mi porgeva così gentilmente.
“E’ andata verso il garage, presumo stia prendendo la sua auto.”
Feci spallucce.
“E’ possibile. Non saprei dirti; comunque, ha ricevuto una telefonata, ha salutato tutti e, adesso, aspettiamo soltanto la sua mossa.”
“Una telefonata? Emiliano?”
Annuii.
“Così credo.”
“Mh…”

Arrancai sulla Vespa, dietro di lei. Mi guardò con la coda dell’occhio mentre salivo.

“Tutto bene, Meg? Sei un po’ pallida.”
“Solite storie a casa.”
“Immagino. Amy come sta, l’hai vista?”
Scossi la testa.
“Purtroppo non era ancora arrivata. Credimi, se ci fosse stata lei adesso sarei di umore migliore.”
“Lo so” annuì solidale, allacciandosi il casco. “Ehi, guarda!”

Indicò una bella Bmw X3 dal colore scuro e lucente, ferma all’uscita del garage in attesa di potersi immettere sulla strada principale; alla guida c’era mia cugina Florinda. L’auto era di suo padre.

Non avrei mai capito come potesse essere tanto disinvolta su un’auto di quella cilindrata; io non ero in grado di guidare neppure una Cinquecento.

“Seguila” sillabai all’orecchio di Romina che, in risposta, annuì trattenendo il fiato.

Diede gas alla motoretta, la sentii scoppiettare nel silenzio del nostro viale alberato. Non mi preoccupai che Florinda potesse accorgersi di noi. La vedevo come se fossi stata seduta accanto a lei, nell’abitacolo di quell’auto: attenta e sicura, concentrata sulla guida, mani ferme sul volante e sguardo sereno, mentre ascoltava Katy Perry che canticchiava qualche canzoncina allegra.

Katy Perry era il massimo dell’alternativo per lei.






Non ci avrebbe mai badato, doveva essere già troppo presa da ciò che l’aspettava di lì a poco. E da Emiliano, ovviamente.
Io, viceversa, già pregustavo il momento in cui l’avrei smascherata. Avevo tra le mani l’occasione della mia vita, quella che mi avrebbe permesso di prendermi la rivincita su ogni singola presa in giro di quella cugina orribile che mi era capitata. Non vedevo l’ora.

“A noi due, Florinda” mormorai tra me e me, allora, sfregandomi le mani con soddisfazione.


 
***



Fu così che ci lanciammo, con inaudita audacia, nel bel mezzo del traffico cittadino di metà settimana e alle otto di sera, per giunta, proprio nell’ora in cui si è soliti rincasare dal lavoro. Le strade principali erano, per ovvi motivi, affollate di auto, motorini e passanti, e faticammo non poco a tenere dietro alla veloce e lussuosa auto di mia cugina.
Romina fu costretta ad azzardati sorpassi, persino sulla destra –  non pochi automobilisti imprecarono contro di noi, e a ben ragione; si arrischiò in slalom pericolosi tra macchine e scooter e superò ogni limite di velocità. Per fortuna nessun vigile all’orizzonte, altrimenti Romina la sua Vespa l’avrebbe vista col cannocchiale perché di certo gliel’avrebbero sequestrata.
Alla fine, riuscimmo per poco a evitare di schiantarci contro un albero cresciuto proprio lungo il ciglio della strada; respirai a fondo, una volta scampato il pericolo: di certo, non avrei mai scordato quel tragico inseguimento.
Alla fine, scoprimmo quasi con sgomento che rischiare l’osso del collo pur di tenere dietro alla Bmw di mia cugina non era valso praticamente a nulla, visto che conoscevamo alla perfezione la strada lungo la quale si era mossa e il luogo dov’era approdata.
Esatto, il luogo.

Perché il posto dove Florinda si era diretta, mi era familiare quasi più di casa mia: era un centro sociale, il mio centro sociale.
Florinda era arrivata a “La Piovra”.
 





 
Guardai ad occhi sgranati la sua bella auto parcheggiata tra due alberi, a poca distanza da quell’edificio conosciuto. Percepii nell’aria il bip dell’antifurto, mentre Florinda pigiava il tastino della chiusura centralizzata sul telecomando; continuai a seguirla con lo sguardo, sconcertata, mentre, disinvolta e bellissima nel suo completo costoso, si avviava a passo svelto verso l’ingresso de La Piovra, incurante della falce con martello che le dava il benvenuto dal muretto di fianco all’entrata.

Non proferii parola; Romina, dietro di me, tratteneva il fiato.

Non riuscivo a crederci, tutta quella situazione aveva dell’assurdo. E poi, francamente, davvero non potevo accettarlo: insomma, La Piovra ormai la consideravo un po’ anche casa mia e sapere che l’odiosa cugina che mi ritrovavo stava per metterci piede rappresentava, per me, una specie di profanazione del mio mondo. Il mio vero mondo.
Era inammissibile.
 

“Credi davvero che voglia entrare a La Piovra?”
“Sta già entrando a La Piovra, Meg” rispose Romina guardando da lontano a Florinda che arrancava sui grandini sconnessi del centro sociale, in cima alle sue Louboutin.
“Ti pare un posto da lei?”
Scosse la testa.
“Ovviamente no.”
“Ma perché proprio qui?”continuai con tono lamentoso, afflitta “C’è una festa che tu sappia?”
“No, Stena non mi ha detto nulla.”
“Neanche Andrea, l’ho sentito tramite sms stamattina, era al lavoro, e non mi ha accennato nulla!”

Ero sconvolta.

“Vabbè Meg, è inutile che stiamo qui a fare congetture. Entriamo anche noi e vediamo che combina lì dentro.”
“Non lo so se ho il coraggio, Romy…”
“Certo che ce l’hai!”grugnì, di tutta risposta “Per poco non mi sono rotta l’osso del collo per inseguirla, quindi adesso entri con me! A saperlo che veniva qui non mi sarei data tutta quella fretta!”
Era indispettita, mi sembrava chiaro. La guardai con tanto d’occhi.

“Oh Meg, caccia fuori le palle e vieni dentro con me! Tranquilla che gliela facciamo vedere noi a quella disgraziata di tua cugina!”
“Dici davvero?” risposi ancora un po’ titubante, sorridendo.
“Certo che dico davvero! Forza…” sorrise anche lei “Andiamo: ho proprio voglia di scoprire cosa gira in quella sua testolina bacata” rispose, infine, tirandomi per un braccio e conducendomi verso il centro sociale.

Per fortuna che Romina era con me. Senza il suo sostegno ed entusiasmo, difficilmente avrei trovato la forza per non girare sui miei tacchi e fare dietro front fino a casa mia.
 
 


***



La prima cosa che notammo, mentre facevamo il nostro ingresso a La Piovra con finta disinvoltura, fu un manifesto appiccicato male sulla porta d’entrata. Era scritto a mano, con Uniposca colorati, e segnalava l’organizzazione di un concerto voce e piano, a scopo benefico.
La data di tale concerto era chiara e capeggiava nella parte alta del foglio: 3 maggio.

“Oggi” mormorai tra me e me. Romina dovette formulare lo stesso pensiero poiché mi guardò ad occhi sgranati e, poi, fece spallucce.

“Non ho capito, è venuta a sentire un concerto benefico qui a La Piovra?”
“Non lo so, Romy, non ci sto capendo niente.”
“Va bene, tanto lo scopriremo fra poco” aggiunse e mi fece entrare.

La sala principale del centro, quella sera, era bene illuminata e decisamente più pulita del solito, sebbene le numerose scritte a scopo rivoluzionario dipinte sulle pareti contribuissero a mantenere l’ atmosfera familiare cui ero abituata io.
In un angolo, qualcuno aveva allestito una specie di palco di dimensioni ridotte, su cui faceva bella mostra di sé un pianoforte a coda.

Era bizzarro a vedersi, il contrasto che creava rispetto all’ambiente intorno era notevole. Tuttavia, lo trovai pittoresco e accolsi la sua presenza con un sorriso, concentrandomi poi su altro.

Molti ragazzi affollavano il centro, quella sera; alcuni avevano la faccia conosciuta e sfoggiavano quell’abbigliamento usuale che avevo imparato a conoscere; creste colorate, ispidi drealocks, gonne in stile etnico, Converse sporche e scolorite sfilarono davanti ai miei occhi in una danza ormai nota e usuale. Non vi badai. Allo stesso modo, non mi soffermai troppo ad ascoltare i discorsi di quanti ancora parlavano della manifestazione del giorno precedente: dopo quanto era accaduto, mi pareva piuttosto normale che se ne chiacchierasse.
Piuttosto, mi sbalordì la presenza di molti visitatori mai visti prima, certamente studenti della facoltà di Lettere o di Filosofia di cui, però, non avevo mai riscontrato la presenza nel centro sociale, qualcuno di loro addirittura vestito in giacca e cravatta.
Di Florinda, comunque, neanche l’ombra: cominciavo a credere di aver avuto le allucinazioni e sperai che non fosse entrata per davvero là dentro.

Ero ancora persa nei miei pensieri, dunque, quando una voce femminile richiamò improvvisamente la mia attenzione. Nello stesso istante, Romina mi tirò per un braccio e mi suggerì di nasconderci dietro una delle colonne.

“Così nessuno ci nota” spiegò. Annuii e tornai a concentrarmi su una ragazza che, dall’angolo dove era stato posizionato il piano, parlava con voce ferma e gentile al pubblico.
Era una bella ragazza, bionda, con lunghi rasta che le coprivano le spalle. Somigliava a qualcuno, a dir la verità.


“Lei è Morgana.”
“Morgana?” guardai scioccata la mia amica.
“Sì. La gemella bionda di Luna”


Spalancai la bocca per la sorpresa.
Ecco a chi somigliava.


“Ma dici sul serio?”
“Sì. Non è la prima volta che la vedo, non è proprio un’assidua frequentatrice, ma la conosco. Credo stia per laurearsi in qualcosa tipo Lingue e culture africane. Insomma, una cosa del genere.”

Morgana, eh?
Nomi stravaganti, in famiglia!


Tornai a guardarla con più attenzione, nel momento stesso in cui cominciava la sua presentazione.

“Buonasera a tutti e benvenuti. La vostra presenza oggi, in questo centro sociale, ha un significato preciso e molto importante per tutti noi organizzatori, per questo, anzitutto, vi ringraziamo di cuore per essere qui stasera. Come ben sapete, già da diversi mesi, il comitato solidale del centro sociale “La Piovra” si adopera in aiuto delle famiglie più disagiate dei quartieri  di San Giovanni e San Teodoro, nella speranza di poter provvedere quantomeno ai bisogni delle fasce più deboli, rappresentate soprattutto da anziani e bambini. A tal scopo, vi ricordo che è proprio in loro favore che saranno devoluti i proventi di questa serata e pertanto vi chiedo un aiuto concreto affinché si possa materialmente sostenere strutture fondamentali come la mensa popolare  o i laboratori ricreativi per i bambini in età scolare. Come noi tutti sappiamo, il momento attuale è estremamente difficile: la crisi economica è evidente e sta travolgendo chiunque, dal pesce più piccolo a quello più grande. Per questo è importante mostrare reciprocamente la nostra solidarietà e la voglia che abbiamo di aiutarci con l’altro. Non possiamo chiudere gli occhi davanti a simili drammi, far finta che non ci riguardino soltanto perché abbiamo ancora un tetto sulla testa e del pane sulla nostra tavola: abbiamo tutti diritto a una vita dignitosa, indipendentemente dal nostro status sociale o forse proprio in virtù di quello. Per tale motivo vi chiediamo di aiutarci in questa piccola, grande sfida di solidarietà, partecipando anche con un contributo minimo. Un solo euro può fare la differenza nella nostra lotta alla povertà e al degrado.”
L’intera sala scoppiò in applausi e cenni di approvazione. Morgana sorrise, soddisfatta.

“Ora, non saremo da soli in questo progetto. Il concerto di questa sera è solo il primo di una lunga serie di eventi che porteremo avanti da ora fino a settembre per sostenere le nostre opere di solidarietà. E a tal proposito, sono qui presente questa sera per presentarvi un’eccellente pianista che ha deciso di mettere la propria arte e il proprio talento a disposizione della nostra causa. Pregherei voi tutti, signori, di accogliere con un grande applauso la stella di punta della nostra serata: la signorina Florinda Marina Gherardi.”

Di nuovo la sala proruppe in uno scroscio di applausi; a me per poco non venne un infarto. Quasi mi accasciai lungo la colonna dietro la quale ci eravamo nascoste, facendomi aria con la mano.

“Non ho…capito bene.”

Romina non era meno sconcertata di me.

“Fammi capire: tua cugina sa suonare?”
“Sì, prendeva lezioni da bambina.”

In tutto quel frangente, m’era passato di mente. E, certo, non avrei mai potuto immaginare che la musicista della serata fosse proprio lei.

“E da quando quella vipera fa la crocerossina per i bambini poveri di San Giovanni?!”
“Ma che ne so, Romina… Che ne so!”

Ero basita. Dopo le presunte rivelazioni di Emiliano riguardo un’eventuale conoscenza/frequentazione con mia cugina, ero certa di avere in mano la carta giusta per scoprire quella che avevo già figurato come la sua seconda vita; già pregustavo, quindi, il momento in cui l’avrei smascherata, rivelando una nuova persona che non c’entrava assolutamente nulla con la signorina perfetta e invincibile che Florinda incarnava ogni giorno, agli occhi della mia famiglia soprattutto. In questo modo, mi sarei finalmente vendicata di anni di derisione e dispetti crudeli. E invece, cosa mi ritrovavo in mano, adesso, se non un pugno di mosche? Perché Florinda non soltanto aveva mantenuto la sua fama di donna bella, elegante, competente e di classe, ma in quella serata aveva guadagnato, mio malgrado, un ulteriore punto a suo favore perché aveva rivelato al mondo intero anche il suo lato buono e solidale. Quello che non conoscevo io. Se la mia famiglia fosse stata presente a quel concerto, non avrebbe badato neppure per un attimo a posto in cui esso si teneva: piuttosto, avrebbe applaudito con impeto, commossa davanti al buon cuore di mia cugina. Adesso più che mai, lei era quella perfetta e io soltanto la stupida di turno.

“Meg, è tutto okay?”

Romina mi scosse, riportandomi alla realtà.

“Non molto…”
“Riprenditi. Tua cugina è entrata e si è appena seduta al piano.”


Mi voltai quasi subito: Romina aveva ragione, Florinda si era appena accomodata e studiava soddisfatta i tasti del suo pianoforte a coda. Sotto la luce di un faretto bianco posto nell’angolo, i suoi lineamenti risaltavano donandole una nuova bellezza.

“Alla voce” riprese Morgana, mentre ancora qualcuno applaudiva dal fondo della sala “Ho l’onore di presentarvi una persona che amo e stimo con tutta me stessa: mia sorella, Luna Manfredi.”

“Che cosa?!” l’esclamazione mia e di Romina, praticamente uguale e in perfetta sincronia, costrinse qualcuno tra il pubblico a voltarsi verso di noi, infastidito. Ci schiarimmo la voce e tentammo di darci un contegno, allora, ma la sorpresa era stata troppo grande: non soltanto mia cugina Florinda suonava il pianoforte per una buona causa in un centro sociale, quanto poi si accompagnava nella sua esibizione a quella che ormai era diventata, a tutti gli effetti (e senza un motivo conosciuto se non quello della gelosia) la mia rivale.

La guardai fare il suo ingresso in sala da una porticina laterale, fasciata in un abito nero, in stile etnico; i lunghi rasta erano acconciati in una specie di chignon scomposto sulla nuca e alle orecchie esibiva dei pendenti in legno, a forma di luna per l’appunto. Dire che era bellissima era un eufemismo.
Luna.
Dunque Luna sapeva anche cantare?
Bella e di talento, decisamente. La guardai scambiarsi un sorriso con mia cugina e sbiancai.


Quali altre orribili sorprese mi avrebbe rivelato quella serata?

Quando le luci un po’ si abbassarono nella sala, cercai comunque di non farmi più domande e concentrarmi su ciò che stava accadendo: meglio conoscerlo il nemico prima di attaccarlo in fondo, no?
Allora, la prima a cominciare fu Florinda: attaccò subito con una musica molto dolce e bella ad ascoltarsi che, tuttavia, inframmezzava momenti di delicatezza ad altri così struggenti e malinconici da indurre quasi al pianto. Su tutto questo ben si miscelava la voce di Luna: ero sbalordita dalla sua perfetta intonazione, da quanto fosse melodiosa e particolare. Non sapevo cosa stessero suonando di preciso, ignoravo la canzone che fino ad allora Luna aveva intonato, ma quando quella prima parte della loro performance ebbe fine, anche io applaudii con il resto della sala, nonostante tutto. Successivamente, Florinda attaccò immediatamente con un altro pezzo e questo riuscii a riconoscerlo sin dalle prime note perché si trattava di una delle mie canzoni preferite: “Love is a losing game” di Amy Winehouse, in una particolarissima versione al piano. Avvampai quando Luna riuscì a catturare la medesima, struggente intensità vocale di quella che era una delle mie cantanti più amate; non riuscivo a credere al suo talento e, quando, infine. lo realizzai, mi sentii una nullità al suo confronto.

Luna era bella, anche troppo.
E aveva un talento così grande che non mi sarei mai sognata. Di certo non l’unico.
Florinda stava dando prova di essere, a sua volta, una musicista eccellente, e di possedere un cuore d’oro oltre tutte le altre caratteristiche ormai famose che la contraddistinguevano. Mi ero sbagliata su di lei: ero certa che, quella sera, avrei messo in luce il suo lato più infido e nascosto e invece mi ero ricreduta, unendomi all’applauso di una folla di sconosciuti che celebravano il suo talento musicale.

A conti fatti, l’unica stupida, incompetente, non particolarmente bella né particolarmente dotata, ero proprio io.


“Meg? Ehi, Meg, guarda laggiù!”

Mentre le ultime note della canzone sfumavano nell’aria, le luci tornarono ad accendersi completamente nella sala e allora lo vidi.
Emiliano.
Fermo in prossimità del palco ma seminascosto tra la folla e una delle colonne, un po’ come me e Romina; il suo sguardo era fisso su Florinda, l’espressione rapita, ammirata, lontana anni luce dall’aria provocatoria che sfoggiava ogni qualvolta lo incontravo io.
“Anche lui è qui, visto?”
“Visto.”
“Chissà per quale motivo…”
“Dal modo in cui la guarda direi Florinda… Ma come avrà fatto ad entrare? Andrea lo detesta!”
“Andrea non lo vedo in giro, Meg. Inoltre, La Piovra è un luogo pubblico e, tecnicamente, chiunque può entrarci. A meno che non venga da CasaPound.”

Feci una smorfia infastidita.

Nel frattempo, sul palchetto improvvisato, era rimasta soltanto Florinda.
Dov’era finita Luna? Non ricordavo di averla vista andare via.

In ogni caso, il fatto di essere rimasta da sola su quel palco non sembrava causare troppo fastidio in mia cugina: riprese subito a suonare, infatti, e intonò una melodia nuova, fresca e deliziosa; mi ricordava certe musichette che canticchiava a mezza bocca durante le nostre estati sulla costa ligure. All’epoca eravamo delle bambine, Florinda aveva tredici anni, io undici e mezzo. Sua madre era ancora viva e ci portava a fare lunghe passeggiate con lei, comprandoci il gelato. Era buona zia Carolina, non aveva proprio nulla a che fare con quell’idiota di Aurelio: com’era possibile che si fosse innamorata di lui?
Comunque, in quelle giornate assolate, Florinda mi stringeva la mano mentre camminavamo sulla spiaggia ad Alassio e cantava per tenermi allegra. Mi piaceva stare con lei, all’epoca: mi voleva bene e sapeva dimostrarlo. Cos’era successo poi? Come si era trasformata nella donna crudele che conoscevo io? Era stata la morte di sua madre a cambiarla? Si sentiva in competizione con me per un motivo a me sconosciuto? Non lo sapevo, avevo un buco nero nella memoria: l’ennesimo buco nero.
 
Sospirai e poi mi voltai verso Romina.
Mi era venuta una tristezza incredibile e non c’era più nulla da guardare: il nostro piano era fallito. Volevo soltanto andare via di lì.

“Andiamocene” le ordinai, quindi.
“Ma come? E perché? Guarda che Emiliano è qui, sicuramente c’è qualcosa sotto!”
“Non m’interessa” risposi convinta “Non voglio saperne più niente. Andiamocene via, per favore.”

Anche Romina sospirò, ma preferì non ribattere. Stava morendo di curiosità, ne ero certa, tuttavia ben conosceva quel mio tono di voce e sapeva che non ammetteva repliche: non mi avrebbe contraddetta.
Detestavo quel modo di fare che talvolta sfoggiavo, mi faceva somigliare a una piccola dittatrice cui nessuno avrebbe potuto dire di no. Però davvero non riuscivo più a resistere nel centro sociale, dovevo andare via: una strana malinconia si era impossessata di me e, forse, allontanandomi da quel luogo e da Florinda, dai nostri ricordi di bambine risucchiati dai soldi e dalla sete di successo, forse me ne sarei liberata.
A Romina avrei chiesto scusa più tardi.

Tuttavia, il mio desiderio di scappar via da La Piovra a gambe levate, non aveva fatto i conti con un ostacolo pressappoco insormontabile: il fastidio, l’irritazione e la rabbia di una rivale difficile da gestire.
Luna, ovviamente.


Ci scontrammo con lei più o meno all’ingresso del centro sociale, mentre chiacchierava con certe persone che le stavano facendo i complimenti per la sua voce e per la splendida performance. Quando ci beccò, mi rivolse uno sguardo così truce e infastidito che mi mortificai, come se mi avesse sorpresa a rubare in una proprietà privata. Molto privata.

 “Che ci fate voi due qua?!” esplose allora, incurante degli sguardi curiosi della gente attorno a lei. Se avesse potuto, mi avrebbe incenerita con gli occhi.

“Io…Io”
“Io, io, io. Sai parlare, Margherita? Ti ho fatto una domanda semplice. Che. Ci . fai. Qua. Allora?”

Ero paralizzata. Luna non era mai stata particolarmente simpatica e garbata con me, ma mai neppure così aggressiva, specie in pubblico.
Non riuscii a ribattere.

“Ehi, ma che ti prende?!”strepitò allora Romina, infastidita. “Qual è il tuo problema? Il centro sociale è aperto a tutti, noi comprese!”

Luna le rivolse un’occhiata truce; qualcuno, intorno a lei, cominciò a parlottare, perfino a ridacchiare.
Questo peggiorò il suo umore.

“Non siete le benvenute in questo centro sociale quando gli eventi in programma li organizzo io…” sottolineò con voce piena di astio, mentre si avvicinava pericolosamente al viso di Romina. La stava sfidando e la mia amica avrebbe accolto tale sfida, se non l’avessi fermata.

“Okay, okay… Senti Luna, mi dispiace. Ce ne stiamo andando, va bene? Basta che ci mettiamo un punto. Forza Romy, via di qui…” m’intromisi, trascinandomela per un braccio. Mi scostò con uno strattone.
“Ma stai fuori?! Io da qui non me ne vado solo perché me lo dice lei! Chi saresti, fammi sentire? La versione femminile di Stalin? Che ti è andato in testa Luna, sono proprio curiosa di conoscerlo!”
“Come ti permetti, piccola stronzetta…”

Quasi si avventò su Romina, riuscii a tirarmela via per poco. Qualcuno, alle spalle di Luna, gridò di smetterla. Chiunque fosse aveva ragione, gli eventi stavano prendendo una brutta piega e avevano decisamente il sapore di una pagliacciata di cui vergognarsi. In ogni caso il peggio doveva ancora venire. E quel peggio aveva un nome: Emiliano.
“Ma tu guarda, la piccola di casa Gherardi se la fa a La Piovra! Avrei dovuto immaginarlo, visto che te la spassi con Zenovi!”

Quando udii la sua voce farsi sempre più vicina e distinta, avrei desiderato sprofondare per chilometri sotto terra. Con tutto quel che stava accadendo, con Luna che voleva disintegrare me e la mia migliore amica, con Florinda che suonava a pochi metri da me da cui desideravo ormai disperatamente fuggire, la sua venuta rappresentava l’evento più improbabile, inopportuno e ridicolo che avesse potuto capitarmi.

“Allora, sei un’assidua frequentatrice?”
“Lei non è un’assidua frequentatrice. Anzi, se la conosci, prenditela e portala a casa!” gridò ancora Luna.


Prenditela e portala a casa?
E cosa sarei, un pacco postale? Un animaletto?


Una molla scattò dentro di me: la molla della dignità, forse, o di chissà cos’altro. Dopotutto, per quanto potessi essere scossa dall’intera situazione, avevo ancora un mio amor proprio e non ero esattamente una persona paziente. A dirla tutta, davanti a quella caterva di insulti gratuiti e atteggiamenti volutamente sgarbati, anche un santo avrebbe perso la pazienza a lungo andare.

“Luna, adesso basta, mi stai stancando! Ti ho detto che me ne vado, finiscila di fare tutte queste storie!”
 
Romina mi guardò annuendo. Approvava il mio improvviso atteggiamento combattivo.
 
“Margherita Gherardi…Sporca figlia del capitalismo” sibilò allora Luna al mio orecchio, e mi colse di sorpresa. Avrei dovuto ringraziare Emiliano per averle fornito l’unica informazione sul mio conto che avrebbe dovuto sempre ignorare: il mio cognome.
“Io non ti ci voglio qua dentro. Sei una Gherardi, sei merda borghese…Vai fuori di qui!”
“Con l’altra Gherardi c’hai suonato però, mi pare…” le risposi dunque piccata e poi avvampai. Lei,al contrario, sbiancò: forse stava realizzando la parentela con Florinda per la prima volta. Tuttavia, il suo disorientamento durò lo spazio di pochi minuti: non c’impiegò molto per tornare in sé e rispondermi con quell’astio che le era ormai consueto.

“L’altra Gherardi non ha rovinato Andrea, però. È certamente più benvenuta di te qua dentro.”


 
L’altra Gherardi non l’ha rovinato Andrea.
Non l’ha rovinato.
Andrea.


E io, invece, cos’ho fatto per rovinarlo?
Che casino avrei mai creato nella sua vita che adesso non ricordo neanche più?


M’immobilizzai sull’ingresso del centro sociale. Non avevo parole per ribattere perché, semplicemente, ignoravo il senso di quell’allusione e non avrei mai potuto dimostrarle che si sbagliava. Oltretutto, l’improvvisa idea di aver potuto procurare del male ad una persona così speciale come Andrea, bastava da sola per destabilizzarmi e farmi perdere la lucidità nel fornire una delle mie solite risposte piccate e taglienti.
Ero fuori di me.

Allora, accadde qualcosa di molto, molto stravagante: Emiliano mi tirò verso di lui per un braccio. E, nello stesso momento, guardò duramente negli occhi Luna prima di parlare con una serietà che non gli era affatto abituale. Neppure si curò della piccola calca di gente che s’era formata attorno al nostro teatrino mentre la rimproverava in quel suo modo sicuro, quasi da fratello maggiore.


“Smettila, Luna. Se ti brucia il fatto che Zenovi adesso frequenti Margherita dovresti sfogare in altri modi la tua rabbia, piuttosto che prendertela con lei.”

Luna assottigliò lo sguardo. Romina batté le mani un po’ comicamente.


Dieci punti per te, Emiliano!



“Io non devo sfogare proprio niente, idiota!”
“Ah no? Eppure sono sicuro che se Andrea si scopasse ancora te non avresti tutti questi problemi a lasciare stare Margherita qui a La Piovra.”
Per fortuna, Emiliano mi teneva ancora per il braccio perché, senza quel sostegno, probabilmente, sarei schiantata in terra con estrema facilità dopo quelle parole. E no, non ero mai stata un tipo da melodrammi e neppure mi piaceva quella scena che stavamo offrendo tanto pubblicamente, ma… L’ultima cosa che le mie povere orecchie erano state costrette a sentire aveva proprio il sapore di un bel calcio nei fondelli.

Zeno ti ha detto una bugia, Margherita.
Sveglia!

 
Deglutii a fatica, guardavo tutti e non vedevo nessuno.
Come avrei potuto definire  ciò che stavo provando in quel momento? Un misto  sgradevole di rabbia, sconcerto, ansia, confusione, sbalordimento, nervosismo.
Confusione, ancora. Tanta. Troppa.

Come avrei potuto spiegarlo con un’unica espressione?

Il turbamento della gelosia, l’avrebbe forse definito nonna Anna, ma per lei era sempre tutto questione di sentimenti. Non lo sapevo se fosse veramente così. Con ogni probabilità, prima di ogni cosa, veniva la delusione per tutte le bugie che avevo sentito. Perché Zeno aveva giurato che non c’era niente tra lui e Luna, che non c’era mai stato niente.
“E’ solo una che mi viene dietro”,“ti pare che se avessi una ragazza bacerei te?”, così aveva detto.
Eppure le parole di Emiliano erano state chiare e, nel recepirle, Luna non aveva battuto ciglio. Scopare, aveva detto. Che brutto termine.

Comunque, la questione principale era un’ altra: a quanto sembrava, Andrea mi aveva mentito.
Davvero l’aveva fatto?
 

Sì, idiota! Ti ho detto che devi svegliarti!
Pensavi sul serio di essere l’unica?

Ma no, certo che no! Non avrei mai avuto la presunzione di credere che Andrea non avesse mai avuto un’altra ragazza nella sua vita, impegnato com’era a struggersi nel ricordo di quella bimbetta che ero stata e che gli aveva rovinato in qualche modo l’esistenza. Il punto era un altro: gli avevo chiesto di essere sincero; gli avevo chiesto di chiarirmi la posizione di Luna, soltanto per farmene un’idea più appropriata. Però, sembrava che lui non l’avesse fatto.
Mi aveva mentito.
Mi aveva deluso, così d’improvviso. In una sera di maggio.

Chiunque può deluderti.
La famiglia, gli amici, le persone più care. Dovresti saperne qualcosa tu, Margherita.
Perché ti lagni tanto per uno sconosciuto, allora?

Perché di lui mi fidavo. In maniera del tutto irrazionale, ma mi fidavo.
Ecco perché.
 
 
 
“Margherita? Margherita!”
Qualcuno mi stava scrollando per le spalle; com’è che non me n’ero accorta?

“Ro-Romina…”
“Tutto okay?”

Annuii per inerzia; con la coda dell’occhio colsi lo sguardo accigliato di Luna. Le parole di Emiliano l’avevano frenata in qualche modo, almeno stava tenendo a bada la lingua.
La presa sul mio braccio si allentò; a quel punto, fu proprio verso Emiliano che mi voltai. Aveva l’aria un po’ dispiaciuta, ma la preferivo a quella strafottente e fastidiosa che era solito sfoggiare: lo rendeva più umano e sensibile, più amichevole. Forse non immaginava che ignorassi i trascorsi tra Andrea e Luna: sembrava seriamente mortificato, per quella mia reazione.

“Vogliamo andare adesso?”
“Sì, voglio andarmene. Togliamo il disturbo.”

Luna non rispose, Emiliano alle mie spalle sbuffò.
La gente intorno a noi dovette comprendere che il battibecco era finalmente finito, in un modo silenzioso che nessuno si sarebbe aspettato, viste le premesse. Non avevamo offerto l’esibizione che gli altri avrebbero voluto vedere, e per fortuna; dopo pochi istanti, quindi, ognuno dei nostri curiosi spettatori tornò alle proprie chiacchiere. I gruppetti si ricompattarono, in molti distolsero lo sguardo e tornarono a ciarlare dei fatti propri. Mi sentii più libera anche io; ero felice di non dover condividere le mie ferite con una folla di sconosciuti.
Allora, strinsi la mano di Romina e le feci cenno di andare. Non degnai di uno sguardo Luna; piuttosto, mi voltai verso Emiliano: non sapevo se doverlo ringraziare per avermi difesa, o maledirlo per avermi detto la verità in modo tanto cruento. Non feci niente di tutto questo; piuttosto, lo guardai a lungo e cercai di sorridergli. Non vi riuscii; Emiliano, comunque, dovette comprendere, mi restituì un occhiolino.


Mi avviai lungo le scale del centro sociale, dunque, percorrendole a passo svelto, quando un familiare rumore di tacchi mi costrinse a voltarmi.

Florinda mi guardava in un misto di curiosità e rabbia, dall’alto della scalinata centrale.



***



“Margherita! Che ci fai qui?”


La sua voce mi giunse atona e impersonale: non sembrava neppure lei.
Che dirle?

Ero qui per spiarti?
Mi avrebbe sbranata, a ben ragione.
E allora? Rifilarle la scusa – che tanto scusa poi non era – che io a La Piovra ci stavo sempre? Di male in peggio! L’avrebbe raccontato a mio padre e addio mondo. Avrei conosciuto il convento di clausura da ora fino alla fine dei miei giorni.


Udii l’eco dei suoi tacchi alti sui gradoni del centro sociale. Era a pochi metri da me, quando riprese a parlare:


“Non eravate a studiare voi due?” domandò rivolta ad entrambe. Romina rispose per me.

“Siamo…uscite per fare un giro.”
“Un giro?”la guardò sospettosa.
“Sì, una passeggiata.”
“Una passeggiata, dici, eh? Non è che siete uscite per seguire me, piuttosto? Che ne sapete voi di questo posto, sentiamo?!”

Sussultammo, entrambe: ci aveva scoperte.

“Ecco, noi… ehm…”

Romina mi guardò impacciata: cercava il mio aiuto. Forse si aspettava che le dessi l’okay per rivelare a Florinda che noi già conoscevamo e frequentavamo quel centro sociale, fugando i suoi sospetti. Tuttavia, ero convinta che, se gliel’avessi confessato, avrei potuto scordarmi La Piovra per il resto dei miei giorni e non me la sentii di accordarle quel permesso. Meglio rischiare la pelle, piuttosto.

“Suoni bene…” azzardai piuttosto, sperando che il complimento potesse sviare quel discorso compromettente. Le mie speranze si rivelarono vane: Florinda si accigliò, interpretò male il mio commento. O forse lo interpretò per quello che era davvero: una chiara testimonianza del fatto che sì, l’avevo seguita.
 
“Quindi mi hai seguita?”
“N-no…”
“No? A chi vuoi darla a bere? Conosco quella faccetta colpevole, te l’ho vista stampata in faccia decine di volte. Solo che io non sono tua madre e non te la passo liscia, Margherita!”
“Florinda, ascolta…” Romina tentò di intromettersi, mia cugina la scacciò in malo modo.
“Non impicciarti, tu! Perché sei qui, Margherita?”

Che dovevo dirle?
Che scuse inventarmi? E per farci cosa, poi? Tanto ormai era chiaro che la mia intenzione fosse stata proprio quella di pedinarla, la mia faccia aveva parlato per me.
Dunque, piuttosto che spiegarmi con le parole, alzai lo sguardo e incontrai quello di Emiliano: stava in piedi, sulle scale del centro, osservando tutta la scena. Luna era accanto a lui, perplessa: ci stava studiando.

“Pensavo fossi con… Lui.”

Indicai Emiliano; di risposta, contraccambiò con una smorfia e poi un sorrisetto, uno dei suoi.
Florinda mi rivolse un’occhiata accigliata, senza capire; poi si voltò, incontrò la faccia di Emiliano. Quando tornò a guardarmi era disgustata.

“Non ho capito, tu pensavi che io dovessi uscire con quello lì? E perché?”
“Perché mi aveva detto di conoscerti!”
“Tutti lo conoscono, Margherita! Anche tu! È Emiliano Borghesi, cretina, veniva a casa nostra!”
“Lo so chi è!”
“E allora?”

Calai lo sguardo, rassegnata.

“Non lo so, scusami. Ho frainteso.”

Davvero non avevo capito niente. Romina mi strattonò per la mano, mi guardò sconcertata. Sembrava volesse dirmi “Ma sei scema? E secondo perché Emiliano è qui, allora? Riprenditi!”

In realtà, non ne avevo idea e neanche m’interessava. Da come stava reagendo mia cugina, mi sembrava ormai logico che non c’entrasse niente con lui; probabilmente, Emiliano aveva preso semplicemente una fissa immaginaria per Florinda e l’aveva poi srotolata a me.


“Hai frainteso, sì!”
“Ma allora come ci sei finita a La Piovra?!” s’intromise di nuovo la mia amica: non si rassegnava a veder sfumare tutto così semplicemente. Flora le rispose a stento, nauseata.

“Mi ha invitato un mio caro amico, un dottorando di Lettere. Si chiama Riccardo, se lo vuoi conoscere è in sala. Visto che non credi a me, magari di lui potresti fidarti, piccola idiota. Aveva bisogno di una pianista per la serata e io ho acconsentito, visto che era per una buona causa. Ho una notizia per voi due: non sono l’essere inqualificabile che immaginate, sapete? Ho un cuore anche io. E anche un briciolo d’intelligenza in più di voi, grazie al cielo!”


Mi torturai il labbro inferiore con i denti: avevo le lacrime agli occhi. Mi sentivo un verme, come se avessi condotto un’innocente al rogo, senza alcun motivo. Florinda non badò al mio sguardo mortificato e s’impegnò a portare a termine la sua tiritera contro di me. Se Luna avesse potuto ascoltare agevolmente ogni singola parola di quel discorso, le avrebbe proposto di diventare la sua migliore amica. Per fortuna era distante e di certo non poteva captare tutto.


“Con quel che hai fatto oggi, hai proprio toccato il fondo, Margherita. Avevo una pessima opinione di te eppure tu hai contribuito a peggiorarla ulteriormente. Complimenti. Sai che ti dico? Curati. Sei psicopatica.”


Psicopatica.
Lo diceva sempre di me. Da quando avevo battuto la testa, da quando non ricordavo, da quando mi venivano gli attacchi di panico e non sapevo che fare per calmarli, ero la psicopatica della famiglia.
Beh, per una volta aveva ragione.

Mi sentivo una stupida ragazzina. Avevo creduto alla storiella del primo tossico che m’era venuto a tiro, senza pensare che forse mi aveva soltanto preso in giro o incartato son i suoi stessi film mentali; di colpo, anche quel briciolo di simpatia che avevo provato poco prima nei suoi confronti era svanito. Dopodiché mi ero comportata come una bambina viziata e immatura, prendendo al volo l’occasione, convinta di potermi vendicare, finalmente, di mia cugina. Vendicare? Che sciocchezza! Ma come avevo potuto crederci veramente?
Non sarebbe stato meglio restarsene a casa, quella sera? In fondo, che ne avevo ricavato?
Solo brutte sorprese.

Un litigio con Luna davanti a mezzo centro sociale, una strigliata da mia cugina e una… Rivelazione che avrei preferito evitare di conoscere. In quel modo, almeno.

Ora non so come accadde: improvvisamente, tutto sembrava essere molto confuso attorno a me. Volevo soltanto scappare, andar via, ficcare la testa sotto le coperte e dimenticarmi di mia cugina, di Andrea, della gelosia nei confronti di Luna, di quell’immagine mentale di lei che divideva lo stesso letto con Zeno.
Non guardai in faccia Florinda, non volevo saperne più niente. C’era troppa gente intorno a me, le loro facce si sovrapponevano davanti ai miei occhi; afferrai il braccio di Romina – almeno mi sembrava fosse quello della mia amica – e poi girai sui miei tacchi. Non salutai nessuno.
Mi sentivo una scema. Lo ero, lo stavo dimostrando.
Avrei dovuto prepararmi alle prese in giro che avrei subito il giorno dopo; ci avrei pensato poi, sul serio, ma adesso volevo soltanto scappare.

Non diedi, quindi, peso a Romina mentre mi chiedeva di fermarmi; ero stanca, provata, continuavo a mettere semplicemente un piede davanti all’altro e non vedevo l’ora di raggiungere la Vespa. Che la gente mi chiamasse, mi fermasse o tentasse chissà cos’altro non m’importava, non era questione mia.

Ma evidentemente, la mia sorte interessava viceversa a qualcuno perché quel qualcuno mi fermò, mentre correvo via.
Ovviamente non si trattava di uno sconosciuto qualunque: il suo nome era Andrea.


Da dove era sbucato fuori?

Mi bloccò, trattenendomi per un braccio, quando io ero ormai prossima al motorino.

Mi guardò poi con occhi spaesati, mentre cercava di capire, mentre s’interrogava sul perché avessi quell’espressione così confusa stampata in faccia. No, non stavo piangendo, ma ero davvero prossima alle lacrime: probabilmente, notò anche quello.


“Margherita, che hai? E’ successo qualcosa?!”
“Oh Andrea, lasciami stare per favore!” biascicai a mezza bocca. Avrei dovuto fomentarmi, piuttosto, per essere riuscita quantomeno a parlare. Chissà come avevo fatto.

Fissai i miei occhi nei suoi; Romina, alle nostre spalle neanche più fiatava. Era strano a vedersi, quel misto di terrore e dispiacere che registravo dalla sua espressione. Sembrava volesse dirmi “io soffro perché tu soffri” ma ignorava che parte di quella mia mortificazione venisse proprio dalle sue bugie. E okay, lo sapevo, stavo esagerando probabilmente, ma non ne potevo più di farmi deludere dagli altri. E da me stessa.
Non sempre riuscivo a essere la Margherita forte che volevo io.


“Che è successo?”
“Niente”
“Non dire bugie!”
“Ah, io non dovrei dirne a te?! Da quale pulpito!”commentai scocciata.
“Ma che significa?”
“Ehm… Andrea? Non è il momento, d’accordo? È stata una serataccia per Margherita…” intervenne la mia amica, abbracciandomi.

“Posso sapere cos’è successo?”
“Discussioni con Luna. E con sua cugina…”
“Discussioni con Luna?”
“Non mi voleva alla sua serata di beneficenza, la mia presenza le dava fastidio. Dopotutto, però, mi sembra anche giusto…In fondo io sono la presunta nuova fiamma del suo ex, no? Peccato tu non me l’abbia mai detto che stavate assieme, avrei capito prima tante cose!”
Mi guardò stralunato, a bocca spalancata.
L’avevo sorpreso.

Ero sorpresa anche io.


“Senti Maggie, non so cosa tu sappia e come lo abbia saputo…”
“Emiliano” rispose Romina. Era scocciata quanto me.


“Ah, certo! E chi altri…” strinse i pugni, Andrea. Sarebbe stato meglio per Emiliano se fosse scappato via perché non mi sembrava che Zeno fosse molto propenso a un dialogo pacifico con lui.

 “Dobbiamo parlarne.”
“Non ora.”

Non li vedevo Emiliano, Florinda e Luna ma ero quasi certa di avere il loro sguardo fisso su me. Insieme a quello di tutti gli altri visitatori de La Piovra.

Respirai a fondo. Poi, ripresi a camminare.
Andrea mi fermò di nuovo.

“Quando, allora?”

L’urgenza della sua voce mi colpì; la sua espressione ancora di più: le labbra si atteggiavano in una smorfia, la sua aria spaesata mi feriva.
Non volevo vederlo così, eppure non potevo fare altrimenti. Ancora, l’unica cosa che desideravo era andarmene, frastornata e arrabbiata com’ero.
Tentai di calmarmi, comunque.


“Quando sarò più tranquilla. Ti chiamo io, d’accordo? Scusami, stasera no. Devo andare via.”

Mi guardò a lungo e intensamente, poi deglutì: guardai il suo pomo di Adamo andare su e giù. Sospirò, prima di lasciarmi il braccio.

“D’accordo. Ma lasciami la possibilità di spiegarmi, per favore. Non dimenticartene.”

“Non lo farò” risposi. Poi mi voltai e ripresi la strada verso la nostra Vespa.

Alle mie spalle, solo il rumore dei passi svelti di Romina, i suoi anfibi che scalciavano le pietruzze della strada. Andrea non mi fermò, non aggiunse nulla; nessun altro tentò di chiamarmi e riportarmi indietro.
Chissà se Florinda era tornata a suonare.




Quando quella sera poggiai la testa sul cuscino, troppe immagini affollarono la mia mente.: l’espressione scura di Luna, ad esempio, la sua bellezza sfigurata da quella malcelata irritazione nei miei confronti; somigliava a Florinda quando si arrabbiava. E Florinda, Gesù! Me l’avrebbe fatta pagare! Non avevo coraggio di tornare a casa; chissà se aveva già raccontato tutto ai miei genitori, chissà se aveva detto loro che l’avevo inseguita, spiata e quant’altro! Controllai il cellulare: nessuna telefonata, nessun messaggio. No, forse, ero ancora salva. Poi mi calmai: in effetti, Florinda non gliel’avrebbe detto. Dopotutto aveva mentito, inscenando una cena di lavoro che non c’era mai stata. Sapeva anche lei che l’idea del centro sociale, qualsiasi fosse stato il motivo, non sarebbe andata a genio a nessuno.
Sì, ero decisamente salva. In ogni caso, non avevo voglia di tornare a casa: prima o poi, gli occhi accusatori di Florinda avrei dovuto incontrarli e non ne avevo la forza, sul serio.
Sospirai, voltandomi a fatica nel letto di Romina: non era facile muoversi col suo peso morto addosso. Aveva l’abitudine di dormire sulla mia spalla.
Guardai l’orologio sulla parete opposta: le tre e venti del mattino. Sospirai di nuovo.


“Se Andrea si scopasse ancora te, Luna…”

Chiusi gli occhi, irritata, nervosa. Delusa. Avevo mal di pancia.
Quelle odiose parole di Emiliano mi rimbombavano nella testa. Come avrei potuto liberarmene?
Poggiai il braccio sugli occhi; nascondermi con le braccia o sotto le coperte era sempre stato il mio modo per sfuggire alle cose brutte del mondo. Peccato che, alla fine, non servisse a niente, visto che me la portavo dentro l’angoscia.

Il bip bip del cellulare mi costrinse ad un sussulto, tuttavia. Chi poteva cercarmi a quell’ora?

Domande stupide. Chi altri sennò?

Andrea.


“Margherita, non so cosa ti abbia detto Emiliano, ma penso di poterlo immaginare. Non ti darò fastidio, credimi, prenditi tutto il tempo che vuoi. Ma ti prego, appena sarai più tranquilla, permettimi di spiegarmi. Ti chiedo solo questo, per favore, non dirmi di no. Ti voglio bene, Andrea.”


Guardai il display del cellulare imbambolata, per cinque minuti buoni. Poi, mi rigirai di nuovo sul fianco e, senza rispondergli, cercai di addormentarmi.
Addosso e nello stomaco, sentivo una strana sensazione di disagio, ansia. Inquietudine.
Non era la prima volta che Andrea mi diceva in modo così esplicito di volermi bene, ma era la prima volta che me lo scriveva e risaltava in modo tanto vivido e reale. Avrei dovuto gioirne, dopotutto. Non ci riuscii.

Andrea mi aveva detto una cosa molto bella, era vero.
Me l’aveva detto, però, nel momento peggiore.
 
 
 
 















Piccole noticine :)
1. Love is a Losing Game è una delle canzoni che preferisco tra quelle che costituiscono il repertorio di Amy Winehouse. Amo Amy Winehouse e il nome della fidanzata di Ludo, in questa storia, non è un caso ;) Non so se esistano versioni fatte col piano di questa canzone… Beh, in Piovre sì! ;D
2. Il turbamento della gelosia non è un’espressione casuale, bensì il titolo di una canzone che mi piace molto. È del Teatro degli Orrori, tu Triggy sai di che parlo ;)
3. Penso di avervi un po’ sconvolto, no? Florinda è meno cattiva di quel che sembra ed Emiliano è solo un pazzo allucinato.
O forse no? :-p
4. Lo so, mi vorrete uccidere, ma un po’ di discussione fra questi due prima o poi ci sarebbe stata. Ah, la gelosia e non soltanto quella… che possono combinare!
5. Non odiate Zeno: non è stato sincero, è vero, ma si spiegherà nei prossimi capitoli. E non possiamo fargli una colpa se ha avuto altre ragazze ;)

Grazie come sempre per le recensioni, i complimenti, le belle parole, per i seguiti/preferiti/ricordati e le letture silenziose. Non abbiate paura di lasciarmi un commentino, i vostri pareri mi rendono sempre tanto felice :)
Adesso vado a riposare un pochino perché ho lavorato stamattina, son stanca e ho bisogno di dormire un po’ xD però prometto che dopo risponderò a tutte le belle recensioni che mi avete lasciato per lo scorso capitolo. Siete meravigliose, grazie: le vostre parole sono il sostegno di Piovre <3
Come sempre, vi ricordo il mio gruppo personale, per foto, spoilerSSSS e quant’altro:
https://www.facebook.com/groups/265306233568958/

Grazie a Erika, per aver betato splendidamente il capitolo, per i consigli fondamentali e per tutto il resto :D

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Capitolo 9
*** Ricordi in bianco e nero ***










Bip, bip!

Un messaggio ricevuto.
Andrea.

09:15:07
04/05/2010

“Ho già sistemato otto casse di latte Berna, e tre di pomodori nel banco frutta e verdure. Però ho dimenticato di pulire gli scaffali prima e il boss mi sta guardando storto. Lo so, avevo giurato che non ti avrei scocciato, ma non riesco a farne a meno Maggie. Buona giornata, Andrea.
 



Bip, bip!

Un messaggio ricevuto.
Andrea.

15:10:17
05/05/2010

Sono a La Piovra, con quelli del collettivo. Domani sera c’è un concerto ska, te lo dico anche se credo non verrai. Stena sta scrivendo cose strane sul muro con la bomboletta, ha imbrattato anche me. Ti penso, Maggie.
 



 
Bip, bip!

Un messaggio ricevuto.
Andrea.

21:45:51
07/05/2010


Domattina ho la sveglia alle sei, sto crollando. Volevo darti la buonanotte. Ciao Meg, pensaci. Ho tante cose da dirti.






Cu – cu!

Al quarto messaggio di Andrea, avevo cambiato la suoneria perché quel bip acuto cominciava a infastidirmi. Mia madre, tuttavia, non era pronta al cambiamento: trasalì quando un lugubre, metallico verso di civetta risuonò per il salotto annunciando al mondo che qualcuno mi stava cercando. Aveva decisamente interrotto la sua tranquilla lettura.



“Dio! Cos’era quello, Margherita?”
“Niente, la suoneria del cellulare.”
“Non puoi sceglierne una più carina?”
“Mamma, per favore…  È  soltanto un messaggio!”
“Chi ti sta scrivendo? Sembra insistente, stai appiccicata a quel telefono da giorni.”
“Niente d’importante… È Romina.”
Mentii lasciando scivolare il cellulare in tasca. Sul display avevo fatto a malapena in tempo a leggere l’ennesimo, dolcissimo appello di Andrea:

 
“Sei autorizzata anche a picchiarmi, Meg. Okay, non sto facendo il buffone solo per farti ridere, però lo vorrei. Farti ridere, intendo. Giuro che non ti scoccio più, sul serio. Pensaci, per favore, dammi modo di spiegarmi. Ti voglio bene, Andrea.”

 
Sorrisi: così aveva concluso il suo diario quotidiano, con quell’ultimo messaggio così tenero che serviva a chiedermi un’altra chance.
Sospirai.
Non ci vedevamo da quattro giorni, io e Andrea, da quando, cioè, il mio mondo fatto di piccole certezze e ridicoli atti di vendetta si era rivoltato contro di me nel peggiore dei modi. Convinta di poter smascherare finalmente la torbida esistenza di quella cugina crudele che il destino mi aveva assegnato, ero finita viceversa col capitolare vergognosamente, mentre il mio Io gradasso veniva  bacchettato con violenza: avevo scoperto che non esisteva nessuna cugina cattiva da sconfiggere bensì aveva preso forma, davanti ai miei occhi, lo spirito solidale di una Florinda sino ad allora sconosciuta. Tale bontà, unita a un talento smisurato nel campo scolastico e lavorativo, a un’innata bellezza e a un savoir faire piuttosto complesso da imitare, rendevano mia cugina un mostro ancora più difficile da combattere perché, contro un simile tripudio di splendidi aggettivi, non sarei mai stata in grado di portare avanti alcuna battaglia: avrei perso in partenza. Tutto ciò, comunque, era ancora ben poca cosa se paragonata a quel che mi attendeva nel futuro prossimo: la rabbia di Florinda stessa, che non avevo più visto e, quindi affrontato, da quel giorno a La Piovra, per esempio; oppure l’astio di Luna e quei suoi sguardi carichi di risentimento che avrei ritrovato ancora molte volte e che non ero affatto in grado di sostenere. E infine, Andrea.

Andrea che se la faceva con Luna.
Andrea che non me l’aveva detto.
Andrea che aveva mentito.
Andrea che adesso voleva rimediare.

Rimediare a cosa? Ai suoi trascorsi? In definitiva, che colpa ne aveva lui se era finito a letto con una tipa tanto bella e di talento come Luna? Qualcuno di certo più vicino al suo mondo rispetto a me, niente da dire al riguardo; potevo davvero rimproverarlo? Dovevo accusarlo di avermi detto una bugia o, meglio, di aver omesso dei particolari sui cui più volte gli avevo chiesto di essere sincero?
E perché? A pensarci, non aveva alcun dovere nei miei riguardi, questo era un punto chiaro. Eppure… Eppure ero ancora arrabbiata con lui, come se quella confessione mi fosse stata dovuta. Perché Andrea era mio, in un modo sottile e quasi spaventoso che non avrei saputo decifrare; ogni particella di me mi gridava che quella non era una pazzia, che quel passato tra di noi che mi sfuggiva così crudelmente ci legava più di quanto io stessa potessi immaginare e mi autorizzava a richiedergli quell’atto di sincerità. Mi autorizzava persino a indignarmi, in sua assenza.
Forse.
O forse no.
Ero la persona più confusa del mondo. Volevo Andrea, volevo vederlo, parlarci, scherzare con lui. Volevo baciarlo ogni minuto, incessantemente, da quattro giorni. Avrei voluto anche prenderlo a schiaffi, in effetti, ma questa era un’altra storia. E poi volevo soltanto sfuggirgli, rimanermene nell’ombra e nel silenzio, rimuginando su ciò che di giusto o sbagliato ci fosse nella nostra stravagante storia e spremendomi le meningi fino a comprendere il senso delle parole di Luna, quell’accusa velata in cui mi diceva di aver rovinato l’esistenza di Zeno.
Io?
In che modo?
Quando, soprattutto? A quattordici anni?
Non ricordavo di avere un simile potere, a quell’età!

La testa mi scoppiava.

Da quattro giorni non vedevo Andrea, non mettevo piede a La Piovra, non ascoltavo Stena che cantava El pueblo unido o guardavo Romina mentre contemplava da lontano la cresta multicolor di Polska.
Quattro giorni, quindi, erano trascorsi senza quell’odore familiare di canna e tabacco, senza le risate sguaiate, i sorrisi alcolici, i baci appassionati, la musica reggae; avevo provato anche ad ascoltarlo Bob Marley ma, nell’asettica perfezione di camera mia, l’effetto non era stato lo stesso.
Quattro giorni vissuti senza Andrea, di nuovo.

Avevo così scoperto e compreso quanto fosse astratto e opinabile, nonché totalmente dipendente dall’umore soggettivo, il concetto di “tempo”: quattro giorni non son nulla, sono un periodo piccolo e limitato, che passa in fretta. Per me erano valsi quanto quattro mesi, forse anche di più.
Perché erano stati giorni sprecati, in cui in cui non avevo deciso nulla della mia vita, in cui non avevo ancora neppure trovato il coraggio di chiarirmi con Zeno.
Quattro giorni in cui mi ero comportata come l’insipida Margherita Gherardi di sempre, come la persona senza spina dorsale che odiavo essere.
Quattro giorni, vuoti e inutili, da cancellare.


Sospirai, tornando a guardare al cellulare. Mamma era nuovamente immersa nella lettura di Cime tempestose e non badava a me; mio padre era lontano, ancora a lavoro.
Avevo campo libero.
 
“D’accordo, se ci tieni davvero credo che ti picchierò, alla fine! Andre, non tormentarti, ti ho promesso che ne parleremo e così sarà. Dammi solo un po’ di tempo,  sono successe un botto di cose e non mi ci raccapezzo. Solo un po’ di tempo, okay? Buonanotte, Meg.”


Andrea c’impiegò meno di un minuto per rispondermi; per fortuna, mi ero premunita togliendo la suoneria, cosicché evitai di far sobbalzare nuovamente mia madre dalla sua poltrona di velluto.
Immaginai la mia espressione estasiata, mentre leggevo: nonostante tutto, i dubbi, la confusione, la velata rabbia e la delusione, Andrea restava sempre la prima causa del mio sorriso.


“Tutto il tempo che vuoi… Solo non farmi aspettare troppo. Andrea.”
 


 
***
 

 
“…Abbandonando le convenzioni sociali e morali l'uomo può ascoltare la propria interiorità e vivere nel mondo secondo le proprie leggi, cala la maschera e percepisce se stesso e gli altri senza dover creare un personaggio, è semplicemente persona…”1
 

Presi un grosso respiro: Pirandello mi era sempre piaciuto, trovavo affascinante il suo pensiero e la sua visione del mondo; aveva un che di anarchico, quasi egoistico, che avrei voluto saper applicare anche a me stessa. Tuttavia, il problema principale, in quel momento, stava nel fatto che non stavo leggendo Pirandello per passione personale o semplicemente per rilassarmi: di lì a poco, infatti, avrei dovuto sottopormi all’interrogazione di italiano. Ero nervosa: si trattava dell’ultima interrogazione prima della maturità. I professori volevano chiudere in fretta con compiti e questionari e lasciarci poi lo spazio necessario per dedicarci all’esame finale: io e Romina, in realtà, avremmo avuto bisogno del triplo del tempo, visto che, nell’ultimo periodo, studiare non rientrava neanche più nell’elenco delle nostre priorità e, ovviamente, sentivo che, almeno la mia di preparazione, fosse carente in più punti.
In ogni caso, nell’ultima settimana, avevo cercato di recuperare; nel vano tentativo di mettere da parte l’inquietante immagine mentale di Florinda che suonava il piano per i bambini poveri di San Giovanni, quella di Luna che cantava in stile Katia Ricciarelli, fasciata in un lungo abito nero e di Andrea che se la spassava con lei in un letto, nel tempo lontano in cui io neanche ero contemplata, avevo cercato rifugio e distrazione nei libri. Nei libri scolastici, s’intende: almeno così potevo unire l’utile al dilettevole e cercare di trarne fuori qualcosa di buono per me stessa.

“Meg?”
Romina mi tirò un calcio alla caviglia.
“Ouch! Oh, fa’ piano!”

“Scusa!” bisbigliò per non farsi sentire dall’insegnante, mentre quest’ultimo, in un estremo atto di sadismo, lasciava scorrere l’indice sul registro, intento a cercare la prossima vittima della sua interrogazione. In classe nessuno fiatava e a me stavano per saltare i nervi, davanti a quella pantomima: sapevo già di essere io la prescelta, era tutto calcolato. Perché fare tante storie?

“E’ che sembravi proprio andata, sei sovrappensiero?”
“Sì.”
“Per l’interrogazione?”
“Esatto.”
“Dai che andrà alla grande, stai studiando da cinque giorni come una disperata! A qualcosa servirà.”
“Ho come l’impressione che cinque giorni non siano abbastanza per recuperare tutto quel che avevo da recuperare.”
“Se esci da quest’interrogazione con un otto giuro che ti prendo a schiaffi, così la smetti di lamentarti!”
“D’accordo, vada per il sette e mezzo. Mi sembra un buon compromesso per la mia carriera scolastica e per la mia salute.”
“Ti picchierei comunque” rispose, concludendo il discorso con una linguaccia.


“Gherardi.”

La voce del professore rimbombò nell’aula stranamente silenziosa; pronunciato da lui il mio cognome appariva ancora più solenne e altisonante, un macigno che difficilmente riuscivo a portarmi dietro.
Mi alzai riluttante: per quanto preparata potessi essere, mi sentivo agitata.

“Davvero, davvero stupida, Margherita” pensai tra me e me “Non è mica la prima volta che qualcuno ti interroga… Sono cinque anni che vai al liceo!”

Non riuscivo a comprendere tutta quell’adrenalina che mi scorreva nelle vene per un paio di domande d’italiano; eppure avevo le mani ghiacciate e le gambe mollicce. Forse, era l’idea che si trattasse di una delle ultime verifiche a mettermi l’ansia. Forse, sentivo di dover puntare a un voto alto per potermi dare un nuovo contegno: in fondo, la scuola era tutto ciò che mi restava per farmi valere, per mostrare alla mia famiglia che anche io contavo qualcosa, esattamente come Florinda. Se fossi venuta meno anche in quello, davvero non avrei meritato più alcuna attenzione da parte loro e l’avrei data vinta in modo completo a mia cugina.
O forse, quella mia stravagante reazione era soltanto il frutto di tutta la tensione che avevo accumulato negli ultimi giorni? Magari, la banale ansia che di solito accompagna ogni interrogazione, stava dando il colpo di grazia a un sistema nervoso – il mio – già piuttosto compromesso.
Non lo sapevo, non ero in grado di rispondere. L’unica cosa certa ai miei occhi era quella maledetta tachicardia che mi faceva saltare letteralmente il cuore in gola; guardai Romina con la coda dell’occhio, rispose con uno sguardo solidale e poi mi fece segno di vittoria. Il professore chiamò Alessandro Rubini all’interrogazione con me e poi chiuse il registro: per quel giorno non voleva sfiancarsi troppo. La classe tirò un sospiro di sollievo: c’erano solo due vittime sacrificali, gli altri erano salvi. Anche Romina si fece il segno della croce e ringraziò qualcuno nell’alto dei cieli per essersela cavata tanto a buon mercato.
Ma non era atea?
Mi voltai lentamente e incrociai lo sguardo di Alessandro: mi sembrava spaurito, forse non aveva studiato abbastanza. Difatti, di lì a poco, mi sillabò un “non so un cazzo” piuttosto eloquente. Non sapevo che rispondergli, non eravamo mai entrati molto in confidenza, e mi limitai ad alzare le spalle. L’insegnante, nel frattempo, se ne stava in silenzio, mani giunte e occhi chiusi: stava formulando la prima domanda di quell’interrogazione e forse, in contemporanea, pensava a chi rivolgerla.

“Non è niente di complicato, potresti smetterla di fare il melodrammatico e sparare quella cacchio di domanda!” continuai a pensare tra me e me; ero sulle spine.

Dopo poco, si smosse. Ovviamente guardò me, per prima.


“Gherardi” disse con tono solenne “Parliamo di Pirandello.”
 

Bingo!


“Sì professore.” risposi allora risoluta. Respirai a pieni polmoni, cercando un briciolo di sicurezza: dopotutto, Pirandello mi piaceva, ero a cavallo.
Ormai si trattava di una questione personale: avrei vinto quella piccola battaglia.
E poi tutte le altre.

Con in testo questo pensiero, ritrovai la voce e cominciai a parlare.

 


***



“Nove. N.O.V.E. Fai schifo, fai schifo seriamente Gherardi!” Romina fischiò, approvando nei suoi soliti termini l’ottima valutazione della verifica. Le sorrisi, poggiandomi al termosifone spento nel bagno delle ragazze: ero soddisfatta di me stessa.
La paura non mi aveva battuto, l’ansia si era rivelata produttiva: avevo risposto con convinzione a ogni singolo quesito del professore. Difatti, l’agitazione era sparita alla prima domanda e tutta la mia preparazione si era tramutata in un fiume in piena di parole. Con ogni probabilità, ero stata anche fortunata perché l’insegnante non aveva toccato un solo argomento che non avessi conosciuto a memoria in ogni suo dettaglio ma, in ogni caso, avevo avuto la prova di essere effettivamente preparata e di essere anche in grado di mostrare una certa sicurezza nell’esporre gli argomenti. Ero davvero fiera di me stessa.
 
“E brava la nostra Margheritina!”
Chiara Squillante ridacchiò, fumandomi in faccia le sue congratulazioni. Non faceva altro che accendere e spegnere sigarette tutto il giorno, di questo passo sarebbe morta prima dei vent’anni. Comunque, era una ragazza simpatica, una di quelle con cui avevo stretto di più in cinque anni di liceo, a parte Romina; conosceva le mie origini, non le aveva mai invidiate né aveva mostrato disgusto nei miei confronti. Era un tipo semplice e alla mano, uno di quelli che prende la vita per come viene; forse ero io a invidiarla, a volte, per questo suo modo di fare che, purtroppo, non riusciva ad appartenermi.
“Grazie Chià…” risposi sorridendo, a mia volta.
“Adesso sei tranquilla, sì?”
“Ah beh, non so se posso star tranquilla… Mica è finita, il peggio deve ancora arrivare!”
“La maturità, dici? Ma sarà una cazzata, fidati! Mia sorella l’ha passata due anni fa e credimi se ti dico che sta molto più sbattuta adesso per gli esami universitari!”
“Bella consolazione…” mugugnò Romina, facendosi passare la sigaretta.
“Quanto vi manca, raga?”
“Di interrogazioni dici?”
“Sì, Roma, che c’hai ancora da studiare te?”
“Eh, un casino di cose… In primis italiano che mi mette proprio ansia, il professore è così deprimente!”

Chiara scoppiò in una risata melodiosa: era proprio bella.

“Hai ragione, Baroni mette ansia anche a me! Beata te Gherardi, che te lo sei tolto dalle scatole! Oggi che si fa, esci col fidanzato per festeggiare?” domandò tranquilla, gettando via la sigaretta.

La guardai allibita.

“Co-come?”
“Non hai il ragazzo? T’ho vista fuori scuola l’altro giorno con quello con la cresta viola…Com’è che si chiama?”
“Genio” rispose Romina sicura.
Le rivolsi un’occhiata truce.

“Si chiama Andrea. E no, non stiamo insieme.”
“Oh… Eppure  ne ero convinta! Ultimamente non frequentate La Piovra voi due?”
“Perché, la frequenti anche tu?”
Non ricordavo di averla mai vista là dentro.

“No, io no. Però devo venirci, m’hanno detto che ci fanno feste interessanti, poi a me piace il reggae quindi sono proprio a cavallo. Comunque, me l’hanno detto Ernesto e Seba della III E, ti hanno vista là dentro. E hanno visto anche te, Roma!”

Romina si affrettò a sorridere a quelle parole, fiera di poter testimoniare la propria familiarità con un luogo così in voga come quel centro sociale; io, dal canto mio, sbiancai in preda all’ansia.
Di nuovo.

Se altri compagni di scuola mi avevano adocchiato senza che io mi rendessi conto di nulla, quanta gente in realtà mi aveva vista a La Piovra?
E quante persone erano già al corrente di quel mio rapporto vacillante con Andrea?
Dunque Florinda – che, detto per inciso, ancora dovevo incontrare dopo la sera del concerto al centro sociale – non era l’unica al corrente di quelle mie frequentazioni così estranee al contesto familiare? E se mio padre fosse venuto a conoscenza del centro sociale, della manifestazione, di Andrea, cosa avrebbe fatto?


Non vedrò più Andrea.
Non potrò più chiarirmi con lui.
Forse a casa già sanno tutto e mi tireranno un ceffone appena varcherò la porta d’ingresso e io… Io avrò solo sprecato tempo. Tutti questi giorni spesi inutilmente quando potevo parlarne con Zeno!
Io…

 
“Meg, ma stai bene?”

Romina mi scosse per le spalle; non mi ero ancora resa conto del fatto che stavo respirando d’improvviso a fatica.

“Che c’è, che ti succede?”
“Non…”
“…Non?”

 
Mio padre mi chiuderà in casa. Mi chiuderà in camera mia, appena saprà di Zeno. Magari lo manderà pure a cercare, per punirlo di averci provato con me!

Florinda, di nuovo, sarà l’unica principessa della famiglia, l’unica degna del nostro cognome.
Invece io sarò quella di cui vergognarsi. Mi puniranno, non mi faranno più vedere Andrea, ma io voglio vederlo, lo voglio con tutta me stessa!


 
Ripresi a respirare più energicamente ma quanto più cercavo di inglobare aria tanto più restavo senza fiato.
Conoscevo bene quella reazione: era il primo passo verso un inaspettato, mostruoso, insopportabile attacco di panico.


“Ma che ha?!” la voce di Chiara mi giunse improvvisamente lontana, quasi indecifrabile. La stanza già mi girava intorno, le mattonelle sporche del bagno formarono un’unica striscia grigia davanti ai miei occhi. Persi l’equilibrio, mi poggiai a qualcosa, forse al termosifone spento.
Era sempre così, non riuscivo mai a gestire quelle reazioni spropositate: mi coglievano troppo di sorpresa e senza mai un reale motivo alle spalle, per questo raramente ero in grado di fermarle prima che esplodessero, travolgendomi.
 
“Margherita! Margherita, ascoltami…”

“Che c’ha?! E’ pallidissima!”
“Chiama qualcuno! Vai dalla professoressa di educazione fisica, lei lo sa!”

“Margherita!”
“Io…”


La stanza continuava a girare.
Di nuovo il mio incubo che tornava a tormentarmi , com’era potuto accadere così all’improvviso?
Avevo le mani congelate e le membra intorpidite, non riuscivo a spiccicare una sola parola. A dirla tutta, neppure la vedevo Romina davanti ai miei occhi, era solo un ammasso di pelle e capelli cui non riuscivo a dare il volto familiare che amavo e conoscevo io.
Chiara scappò via da quel bagno, il tonfo della porta che si richiudeva dentro di lei mi giunse in mille echi spezzati e fastidiosi.
Forse, era andata a cercare aiuto per quella povera pazza che si ritrovava comecompagna di classe.

“Margherita! Mi senti?! Adesso calmati, d’accordo? Va tutto bene… Respira piano! Molto piano…”
“Romina…”
“Che cosa? Dimmi, che vuoi che faccia? Vuoi dell’acqua?”

Scossi la testa.

Io…Io…

 
 
 
 


“Io devo tornare a casa, Andrea. E’ tardi, papà vorrà sapere dove sono andata!”


Quanti anni fa dovevo andare via così di fretta?
E perché lo stavo ricordando proprio in quel momento così brutto?
 


“Dai, sali… Soltanto per cinque minuti.”
“Va bene. Ma cinque proprio, altrimenti poi mi trovo nei guai!”


Gli occhi grigi di Andrea che mi pregavano di restare.
Una stretta al cuore, la ricordavo ancora molto bene. Non gli avrei mai detto di no.
 
 
Lui mi sorrise, la sua mano stretta alla mia mentre mi aiutava a salire quei gradini di pietra scalfiti e usurati dal tempo. Guardavo la punta delle mie ballerine di vernice, salendo, e stavo attenta a dove mettevo i piedi, per paura di cadere.
Le risate di bambini sconosciuti risuonavano per la tromba delle scale; qualcuno di loro ci passò  accanto, correndo. Delle donne si parlavano a voce alta, battendo i tappeti polverosi fuori la porta d’ingresso delle loro abitazioni.
Intorno c’era un buon profumo di ragù e io ero contenta, tutto sommato.


Poi, ci fermammo sul pianerottolo del terzo piano e così la vidi, a pochi metri da me: una ragazzina con i capelli castani raccolti in una coda disordinata e l’espressione imbronciata. Mostrava dieci anni, non di più; era magra e carina e mi guardava con aria diffidente.
“Lei è Arianna, mia sorella. Se siamo fortunati c’è anche mio fratello Alessio in casa, ma non ci giurerei.”
“Tutti nomi con la lettera A…”



La mia voce. Le mie parole.
In un tempo lontano.


“Come sei perspicace, brava Margherita! Tutti i nomi di noi figli cominciano con la lettera A, come quelli dei nostri genitori, Armando e Amalia. È tradizione di famiglia.”


Il sorriso di Andrea, di nuovo.
Uguale a ieri, come oggi.
Il suo sorriso.


E poi venne un uomo, con lo stesso sorriso e gli stessi occhi grigi. Sbucò all’improvviso fuori dalla porta dove c’eravamo fermati, accanto a quella bambina inquieta che era la sorellina di Andrea; indossava una tuta sgualcita e aveva l’aria stanca ma buona. Mi strinse la mano con calore, il palmo era ruvido, le dita callose. La mano di mio padre era morbida, invece,e liscia. Fresca e bellissima ma non calda e accogliente allo stesso modo.
Volevo piangere, già allora.

“Tu sei la signorina Margherita, presumo. Andrea mi parla sempre di te, dice che sei tanto sveglia e intelligente. Benvenuta.”


Benvenuta, Margherita, benvenuta.


Ricordavo adesso, ricordavo quel viso e la stanchezza di quelle rughe fiorite troppo in fretta su una pelle ancora giovane.
Quell’immagine che mi stava travolgendo, assieme al fiato corto e al batticuore, era di nuovo vivida e reale come nel momento in cui l’avevo vista per davvero.


Ricordavo tutto, la nostra presentazione.
Forse sorrisi a quell’uomo, gli dissi “buongiorno”

Lui mi rispose:

 
“Sono il papà di Andrea.”
 
 


***
 
 
 

“Come sta?”

La voce di mio padre, ovattata, lontana; una lieve incrinatura, come se fosse preoccupato. Mi guardai appena attorno: la stanza era avvolta nella penombra.

“Non lo so, dorme ancora. Francesco, com’è possibile? Stava così bene!”
 
Mamma bisbigliò per non disturbarmi, senza sapere che ero già sveglia. In ultimo, tuttavia, la frase si trasformò in un singhiozzo.

“Che è successo esattamente?
“Non lo sa nessuno. Aveva appena finito di farsi interrogare in italiano, è andata bene sai? Ha preso nove. E poi… Le è venuta una crisi. Forse si sentiva sotto pressione, forse ha studiato troppo?”
“Carlotta, lo studio non è mai stato un problema per Margherita. Conosci bene il motivo delle sue crisi, perché stava male.”
“Ma quel motivo non esiste più!”
“Probabilmente per il suo inconscio si tratta d un problema ancora presente.”

Aprii gli occhi, sconcertata; davo loro le spalle, non potevano sapere che mi fossi svegliata.
Di cosa stavano parlando?
Quale problema presente avrebbe mai turbato il mio inconscio?
 
“Dove vai?”


Mia madre riprese a parlare; involontariamente, mi rannicchiai di più contro il cuscino di Snoopy che mi aveva regalato Ludo qualche anno prima, per un compleanno: amavo Snoopy da sempre

“Torno in fabbrica. Chiamami quando si sveglia.”
“D’accordo.”

Restai in ascolto trattenendo il fiato, mentre il rumore dei passi rapidi di mio padre si allontanava lungo il corridoio, fino alle scale. Dopo un po’ non lo sentii più. Mamma sospirò più volte, mi venne da pensare che piangesse addirittura; non trovai comunque il coraggio per voltarmi e dirle che era tutto okay. Me ne stetti lì, quieta, silenziosa, con il vago presentimento che mi stessero nascondendo qualcosa, finché non udii una voce che mi era cara.

“Carla? Come sta?”

Un accento particolare, quella parlata familiare. Me l’immaginai Amy, mentre faceva capolino nella mia stanza in penombra, e non riuscii a evitare di girarmi verso la porta, seppur lentamente.

“Non lo so, tesoro, non si è ancora…”
“No, guardala! È sveglia!”

Aprii gli occhi nello stesso istante, la luce che proveniva dal corridoio m’infastidì; Amy, comunque, protese subito le mani verso di me e anche mia madre si accomodò rapida ai piedi del letto.

Honey… Come va?”
“Stai meglio, Margherita?”

Le guardai entrambe e deglutii più volte prima di risponder loro: avevo il palato secco, la lingua mi si appiccicava ovunque.

“Un po’ di… acqua?” domandai allora, cercando di mostrarmi quanto più tranquilla possibile; in realtà mi sentivo come se un carro armato mi fosse passato addosso più volte.
“Ma certo!” Amy si allungò prontamente verso la caraffa sul comodino: mamma accese la luce dell’abat – jour per permetterle di veder meglio ed evitare di sparpagliare acqua in giro. Dopo poco mi offrì un bicchiere colmo fino all’orlo che bevvi in un sorso solo.
 
“Allora, come stai?” ripeté mia madre, contrita. Amy mi guardò qualche istante col suo sguardo dolcissimo,quello che amavo io: era bella e le volevo un gran bene. Ancora non l’avevo incontrata da quando Ludovico era tornato insieme a lei da Londra e, di certo, avrei preferito salutarla in un’occasione migliore. Tuttavia, ero contenta che fosse accanto a me in quel momento, pronta a darmi il suo sostegno: non potevo desiderare una cognata migliore di lei.

“Lasciati abbracciare” mi disse nel suo impeccabile italiano dall’altrettanto impeccabile accento straniero e io mi sollevai un poco, finendo dritta tra le sue braccia.

“Sto meglio…” risposi allora e mia madre sospirò di sollievo.
“Cos’è successo? Non ricordo niente. Soltanto l’attacco di panico…”
“…Mentre eri in bagno. Lo so, Margherita. Per fortuna Romina era con te, ha subito chiamato aiuto. Tuttavia, non hai retto: hai avuto un calo di pressione e sei svenuta dopo poco. Quando sono arrivata a scuola eri ancora frastornata, ti sei addormentata subito appena ti ho messa a letto. Comunque, mi sembra che adesso tu abbia riacquistato colore. Sei sicura di star meglio?”
“Sì, te l’ho detto.”
“Hai studiato troppo, my love? Sei stanca, è per questo?” domandò Amy ancora, stringendomi più forte.

Le risposi con un mezzo sorriso, alzando le spalle.
“Non lo so, può darsi. Pensavo di aver superato certe cose, comunque…” risposi afflitta.
“Può capitare quando si è sotto stress, non fartene una colpa.”

Di nuovo alzai le spalle.

“Vuoi mangiare qualcosa?”
“No.”
“Dovresti.”
“Non ho voglia adesso.”
“Davvero non ricordi nulla? Qualcosa che ti abbia fatto arrabbiare, Margherita?”

Certo che ricordavo qualcosa!
D’improvviso ogni singola immagine di quelle che mi avevano investito e travolto come un treno durante l’attacco di panico, tornava con prepotenza davanti ai miei occhi, colorata, tuttavia, del bianco e del nero tipico delle scene di un film d’epoca. In pratica, la mia mente si comportava come se quel che aveva riportato a galla non fosse stato reale, ma costituisse la rappresentazione di attimi di vita che non avevo vissuto io per davvero.

E invece no, ne ero certa: ero stata io, Margherita Gherardi, a salire le scale dissestate di un vecchio palazzo in città. E sempre io avevo stretto la mano callosa di quell’uomo dagli occhi stanchi.
Io, ancora, avevo conosciuto il padre di Andrea e buona parte della sua famiglia.

Dunque, su questo punto non mi aveva mentito affatto: c’era stato un passato solo nostro di cui mi mancavano decine di tasselli. Un passato in cui Andrea mi teneva per mano, mi portava a casa sua, mi lasciava annusare l’odore di ragù della domenica mattina e mi sorrideva di continuo, nella luce di una giornata di sole.
Avrei voluto piangere, ancora una volta: perché diavolo ero così imbecille da non ricordare nulla di tutto questo?!

Daisy, tua amica Romina ha telefonato prima. Vuol sapere come stai… Vuoi richiamarla?”

La voce di Amy mi scosse rapida dal vortice di pensieri che mi stava attanagliando di nuovo, riportandomi via. Sobbalzai, stranita.

“Non ora” rispose comunque mia madre , molto più pronta di me “Margherita chiamerà Romina più tardi, appena starà meglio. O se vuoi proverò ad avvisarla io, era molto preoccupata. Che ne dici?”
“No” scossi la testa “La chiamo io più tardi, mamma. Appena mi sento più in forze. Adesso vorrei soltanto dormire un altro po’.”

Era vero, ero esausta. Dopo sarei stata presente per chiunque; avrei chiamato Romina, chiacchierato per ore con Amy, telefonato a Ludo, forse persino parlato con mia madre. Ma adesso avevo solo voglia di chiudere gli occhi, pensare ad Andrea, smembrare i nuovi ricordi che si erano affacciati alla mia memoria, fantasticare sul dove e sul quando, dimenticarmi di Luna, di Florinda, dei problemi che turbavano il mio inconscio e sfinirmi al punto tale da addormentarmi. Per il resto c’era tempo, adesso non avevo forze.
“Okay” rispose dunque Amy, stampandomi un bacio sulla fronte “Allora riposa, adesso. Voglio vederti per cena più tardi”

Mi fece l’occhiolino e io ricambiai sorridendo, di nuovo le membra improvvisamente intorpidite dalla stanchezza. Mia madre, nel mentre, si lasciò sfuggire una carezza e da una parte me ne rallegrai, dall’altra tornai a sentirmi come la malata di turno, vezzeggiata e coccolata solo per compassione. Tuttavia scacciai anche quel pensiero e quando una delle due spense la luce dell’abat – jour, chiudendo poi la porta dietro di sé, lasciai andar via con loro tutti i cattivi pensieri. Non volevo ricordarli. Non volevo mai più sentirmi di nuovo così male, fragile e impotente.

 


***

 

“Come stai?”

 
Fu quella la prima domanda che Romina mi rivolse in chat, appena la contattai, quella sera, per farle sapere che era di nuovo tutto okay. Mi ero alzata alle otto, avevo mangiato un’insalata di pollo in compagnia di mia madre e di Amy – Ludovico e papà erano fuori per una cena di lavoro – e mi sentivo di nuovo in forze. La testa mi scoppiava, certo, ma, quantomeno, mi tenevo di nuovo in piedi.
In ogni caso, cominciavo a detestare quel semplice interrogativo: a sentirlo per la duecentesima volta nel corso della giornata  risultava snervante.


“Sto bene adesso. Tu come stai?”
“M’hai fatto spaventare!”
“Lo immagino… Scusami, non dovevi esserci più abituata!”
“Infatti no… Prossima volta avvisami, invece di farmi credere che sei guarita!”
“…”
“Maggie, sto scherzando.”
“Ah, okay.”
“Idiota. Comunque a Chiara per poco non è preso un colpo!”


Mi venne da ridere.

“Poveretta, che poteva saperne lei? In ogni caso, adesso non fare la tipa forte, ti sei cagata sotto anche tu!”
“E va bene, lo ammetto! Contenta?”


Sorrisi.
“Che hai fatto oggi pomeriggio?” domandai allora, tanto per sviare il discorso perché mi ero stancata di parlare dei miei attacchi da psicopatica.

“Niente di che…”
“Romy, dai! Mica sei stata a casa?”
“No, no. Ho incontrato Stena fuori scuola,siamo andati a La Piovra a fare un giretto veloce…”
“Stena? Solo lui?”


Il cuore mi balzò in gola.

“Yes! Ti aspettavi ci fosse anche Andrea?”
“No…Sì.”
“Non c’era, meglio per te visto che non c’eri manco tu e te lo saresti perso. Al centro l'ho visto di sfuggita, quindi vai tranquilla.Comunque, qualcosa di succulento da dirti riguardo Andrea ce l’ho, se vuoi… Ma tu proprio non l’hai sentito?”
“No, ho il cellulare spento da oggi, credo si sia scaricata la batteria. Che devi dirmi di Andrea, Rò? Parla!”


Stavo fremendo.
Che poteva sapere Romina riguardo Zeno?
Aveva a che fare con Luna?
Con me?
Con il centro sociale?

La risposta arrivò subito.

“Vai sulla bacheca di Stena. Guarda cos’ha linkato.”

Non me lo feci ripetere due volte e digitai subito il nome di Stefano nel riquadro ricerca. Dopo pochi istanti, stavo già spiando nel suo account; il link che m’interessava figurava tra gli ultimi di quelli che Stefano aveva pubblicato sulla sua bacheca e rimandava a una pagina dal nome eloquente: Andrea Zenovi Ph.

Ero sbalordita: ignoravo che Andrea, privo di un account personale su Facebook, gestisse viceversa una pagina sulla sua attività di fotografo. 
Curiosa, chiusi in maniera veloce la conversazione con Romina, anunciandole che l’avrei contattata più tardi, per dedicarmi completamente alla visione di quelle foto meravigliose.
Quasi tutte in bianco e nero, ritraevano perlopiù volti di persone sconosciute, colte in momenti inaspettati, mentre parlavano con un innamorato, per esempio, o sorridevano nella luce di una giornata di sole. A Zeno dovevano piacere molto i sorrisi della gente, le loro rughe d’espressione, gli sguardi rassicuranti di coloro che amavano: era ciò che preferiva ritrarre maggiormente, sembrava evidente dal numero spropositato di fotografie che presentavano tali caratteristiche. Non mancavano comunque, anche immagini a sfondo politico: la più bella, tra queste, era stranamente colorata e mostrava un contrasto netto di toni: rappresentava una manifestazione dell’anno precedente di cui io non avevo memoria; non riconobbi i volti dei partecipanti ma mi colpì il titolo: “La rivoluzione è un fiore che non muore”2.
Sorrisi, perché Andrea ci credeva davvero e l’ammiravo per questo.
In ogni caso, scorrendo successivamente le pagine,  mi resi conto di come conoscessi già molte tra quelle fotografie, poiché li avevo in parte viste durante quella mostra a La Piovra quando, per la prima volta, Zeno mi aveva rivolto la parola.
Ritrovai, così, l’immagine dolcissima della mamma col bambino, la figura inquieta e quasi surreale di un salice piangente che si stagliava, in controluce, verso un cielo chiarissimo, e quel profilo dolce di una coppia di innamorati in riva a un fiume placido.
Stavolta, tuttavia, potevo godere non soltanto della fotografia in sé, quanto della descrizione accurata che accompagnava ogni singolo scatto: finalmente ciascuna immagine aveva anche un nome, per me.
Allora, fui colta da un impeto improvviso e la cercai: dopo ciò che mi era accaduto durante la mattinata, dopo quel che avevo finalmente ricordato nel mentre del mio terribile attacco di panico, pensai che quella foto potesse essere la chiave. Pensai che, finalmente, avesse qualcosa da dirmi.
Non si trattò di una ricerca lunga ed estenuante comunque, tutt’altro; dopo solo pochi clic, la fotografia di quella stradina lercia e terribilmente pittoresca tornò prepotente davanti ai miei occhi, in tutto lo splendore di quel suo bianco e nero pieno di speranza. Ripercorsi le linee di quella tendina di pizzo da pochi euro, mentre svolazzava in quell’improvvisa folata di vento, e la curva precisa dell’inutile arco di mattoni; immaginai un vaso di fiori sul davanzale della finestra, ricordai, soprattutto, il vociare dei bambini che giocavano sulle scale. Mi commossi.

E dopo… Dopo, cercai con lo sguardo qualcosa che forse già conoscevo: il titolo di quella fotografia. 

Un nome così semplice eppure disarmante: tremai nel leggerlo perché il nome era il mio.
Quella fotografia, Andrea l’aveva chiamata come me: Margherita

 



“Vieni, ti aiuto a scendere dalla bici.”
 
Un altro ricordo, l’ennesimo flash della giornata.
Le nostre voci, a ritroso nel tempo.


“Non c’è bisogno, faccio da sola” risposi convinta. Ero buffa, nella mia infantile arroganza. Andrea mi guardò compiaciuto, sorrideva.
“La principessa non ha mai bisogno di aiuto, vero?”
“Mai. La principessa fa da sola. Sono una principessa senza principe, non lo sai?”
“Ah sì?”
Ridacchiò mentre mi porgeva la mano e accostava la bici al muro.

“Sta tranquilla qui la tua bicicletta?”
“Sì, non la toccherà nessuno.”
“Sicuro?”
“Sicuro.”
“Che bello è quell’arco di mattoni, Andrea! Sembra qualcosa di antico”
“Stai scherzando? Questo posto fa schifo tutto.”
“Non è vero. Dove siamo?”

 
 
Lo sapevo dove c’eravamo fermati.
Adesso lo sapevo.


Davanti a quel palazzo mezzo diroccato, quello con il profumo di ragù che si spandeva per le scale a mezzogiorno.


“Siamo a San Giovanni, nel mio quartiere, Maggie. Qua c’è casa mia.”


Mi alzai di scatto dalla sedia, senza fiato. Nessun attacco di panico in atto, ma ero comunque molto scossa: non ero certa di reggere tutte quelle emozioni, tanti ricordi in un giorno solo potevano far male.
Lasciai correre la conversazione con Romina: ero certa che mi stesse tempestando di messaggi su Facebook, ma in quel momento avevo qualcosa di più importante da fare: avrebbe capito.

Cercai il cellulare, anzitutto: era sepolto tra  libri e quaderni in borsa e, come sospettavo, era spento. Grugnii, prima di avventarmi sulla mia cassettiera, alla ricerca di quel benedetto carica batterie che perdevo un giorno sì e l’altro pure; lo ritrovai dopo dieci minuti, perfettamente conservato in un cassettino laterale della scrivania. Ce l’avevo messo io lì dentro, qualche giorno prima, sperando di facilitarmi in questo modo il suo ritrovamento; come previsto, non c’ero riuscita: avevo scordato completamente quel nascondiglio.


“Dai, dai, dai! Muoviti!” sbraitai mentre la musichetta di avvio del Nokia mi confermava che il cellulare si stava finalmente rianimando.
 
Cinque messaggi in memoria.
Quattro soltanto di Romina.


“Stronza, come stai?!”
“Fatti viva, appena resusciti.”
“Meg, muoviti, voglio sapere come stai.”
“Aspetto la tua telefonata!”

 
Sorrisi: era davvero premurosa. Beh, lo era a modo suo, ma sapevo che mi voleva bene da impazzire. Pensare che l’avevo lasciata chiacchierare da sola in chat! Avrei rimediato il prima possibile; non prima, tuttavia, di aver letto l’ultimo messaggio in memoria.
 
Andrea.

“Meg? Tutto okay? Oggi ho visto Romina a La Piovra, mi sembrava un po’ allarmata, ma non mi ha detto nulla su di te. Aspetto tue notizie, mi manchi.”
 

Respirai a fondo.
Adesso avevo davvero bisogno di parlare con lui, molto più che nei giorni precedenti.

Digitai in fretta la mia risposta, lasciandomi poi andare su letto, di nuovo agitata; sapevo in parte cosa mi aspettava. Avevo davvero tante cose da chiarire con Andrea, adesso che, oltre tutto quel che già era accaduto a La Piovra, ricordavo anche qualcosa di noi. Di quel che eravamo stati assieme.


“Domani fuori scuola alle otto. Porta la bici, andiamo dove vuoi… Ho bisogno di parlare con te. Margherita.”
 

Sorrisi, leggendo pochi minuti dopo la sua risposta.


“Andiamo dove vuoi tu, Maggie, non dove voglio io. Finalmente ci vediamo, grazie! A domani tesoro… Ti voglio bene. Zeno.”
 
 


Ti voglio bene.

Te ne voglio anche io Zeno e forse domani, nonostante tutto quel è accaduto tra di noi ultimamente, te ne vorrò ancora di più: perché, grazie al tuo aiuto, scoprirò un nuovo pezzetto di noi. Scoprirò un nuovo pezzetto di me.
 
 
 
 
 
 
 








***

 
1Ringrazio Wikipedia per il contributo su Pirandello: ammetto di ricordare molto poco del suo pensiero, nonostante mi piacesse tantissimo al liceo! ;D
2”La Rivoluzione è un fiore che non muore mai”, è una frase che ho letto ieri su un muro, a Napoli. Non so se sia ripresa da qualche canzone o libro, comunque, però mi piaceva tanto :)

Dunque… Questo avrebbe dovuto essere l’ultimo capitolo prima delle vacanze, però ho fatto in fretta ad aggiornare e forse riuscirò a pubblicarne un altro per la settimana prossima. Direi anche senza forse ;)
Dopodiché, Piovre andrà in vacanza fino a settembre. Io lavoro dal 1° al 15 in farmacia, ho la turnazione estiva e sarò impegnata mattina e pomeriggio, quindi non avrò tempo per scrivere. Idem dal 16 in poi quando andrò in vacanza. Spero che aspetterete i nostri fino a settembre, comunque! :)
Ah, proprio per aggiornare ancora più velocemente, il capitolo non l’ho betato, ergo: perdonate orrori e mostruosità. In ogni caso, mi sento di dover ringraziare Erika, come sempre, perché se questo capitolo è qui in parte è merito suo J
Detto questo, penso che i capitoli senza Andrea proprio non vi piacciano! xD Lo so, avete ragione, Andrea è Andrea e cose così ma… A volte non può essere presente fisicamente! ;) Anche in questo capitolo è una presenza nell’etere, ma spero che vi sia piaciuto comunque perché vi ho detto davvero un sacco di cose… A voi metterle insieme, in pratica.
Ah, non spaventatevi per le reazioni eccessive di Margherita: a parte che, a me, gli attacchi di panico sono venuti per molto meno di un po’ di stress accumulato, c’è anche da dire che Meg è davvero molto fragile dopo l’incidente subito a 14 anni. L’attacco di panico, l’ansia, gli incubi, sono il retaggio di quel passato che lei non ricorda (lo so, mi odiate perché ancora non ve ne ho parlato… pazientate), ecco perché è così facile che vada incontro a certi fenomeni.
Ah! Il prof. d'italiano di Meg è liberamente ispirato a quello che avevo io al liceo... mamma, che uomo noioso! xD


Grazie come sempre per le recensioni, le letture silenziose, i seguiti/preferiti/ricordati che aumentano ogni giorno di più: Piovre ha bisogno del vostro sostegno e spero vorrete farmi sapere anche stavolta cosa ne pensate J
Vi lascio con un bacio enorme, sperando di avervi detto tutto, e vi ricordo il mio gruppo personale [In the Sky with Diamonds] per spoilerSSSS, immagini e quant’altro:

https://www.facebook.com/groups/265306233568958/

Ci sentiamo presto, grazie per tutto e buon fine settimana! :D
Matisse
 

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Capitolo 10
*** L'età giusta per baciarti ***










Da che avevo memoria – il che era una cosa piuttosto complicata per me – non avevo mai marinato la scuola. O fatto sega, per dirlo alla Romina.
Fintanto che frequentavo l’istituto delle suore, era mio padre ad accompagnarmi personalmente ogni santo giorno, attendendo con infinita pazienza il mio ingresso nell’edificio scolastico; quando proprio non poteva a causa del lavoro, mamma prendeva il suo posto. Dopo l’incidente e la perdita di memoria, avevo vissuto un periodo di “ribellione adolescenziale” durante il quale mi ero rifiutata di continuare a frequentare l’istituto Guglielmini; i miei genitori avevano acconsentito, seppur a malincuore, troppo spaventati che una loro eventuale opposizione potesse generare in me l’ennesima crisi di pianto o un attacco di panico cui non avrebbero saputo porre rimedio. Ero stata quindi iscritta al liceo Garibaldi senza troppe chiacchiere, seppur mio padre non mi avesse risparmiato sguardi torvi ogni qualvolta poteva, per farmi capire che non approvava tale scelta. In ogni caso, una volta approdata alla scuola pubblica, quel rispetto per le regole che mi era stato inculcato sin dall’infanzia, unito a un personale senso del dovere che da sempre mi aveva contraddistinta, mi avevano impedito di concedermi qualsiasi altra forma di libertà da adolescente scapestrata.  Per esempio, non mi ero mai unita al resto della classe, a Romina o agli altri amici, quando uno di questi decideva di saltare arbitrariamente le lezioni nei giorni in cui c’era una verifica complicata o, in maniera più semplice, quando si aveva soltanto voglia di passare una mattinata in allegria. Insomma, per dirla in parole povere, dopo che i miei genitori avevano addirittura acconsentito a farmi frequentare la scuola che volevo io, non me l’ero sentita di ripagarli mettendomi a fare simili giochetti: sotto questo punto di vista, ero rimasta la Margherita Gherardi remissiva e ubbidiente che avevano cresciuto loro.


Tuttavia, quel martedì mattina, ubbidienza e rispetto rappresentavano concetti a me sconosciuti e l’eventuale ira di mio padre davanti a quell’assenza scolastica costituiva l’ultimo dei miei pensieri.
Non davvero se, davanti agli occhi, avevo l’immagine di Zeno, pensieroso, mentre fumava una sigaretta seduto con la schiena contro il muro grezzo di una casa; teneva le braccia poggiate sulle ginocchia, le mani penzoloni e di tanto in tanto aspirava una bocca svogliata dalla sua sigaretta. E no, non era un parto della mia fantasia quell’immagine: Andrea se ne stava davvero a breve distanza da me, in paziente attesa. Come promesso, era venuto in bicicletta: l’aveva abbandonata sul marciapiede, poggiandola a un palo della luce a pochi metri da lui. Sembrava tranquillo, non pensava potesse interessare a nessuno, sgangherata com’era; Emiliano, poi, non era nelle vicinanze cosicché davvero soltanto un pazzo avrebbe potuto decidere di rubarla.
Era decisamente al sicuro.

 
Tuttavia, per quanto non vedessi l’ora di riabbracciarlo, qualcosa ancora mi tratteneva dal correre fino all’altro lato della strada. Che fosse l’imbarazzo, il risentimento che ancora di tanto in tanto riaffiorava, la paura di riportare a galla ricordi che non ero certa di voler conoscere o che altro, io questo non lo sapevo e proprio non riuscivo a trovare il coraggio per muovere un passo dai gradoni d’ingresso del Garibaldi. Con ogni probabilità, avrei continuato a non muovermi – ferma nella mia mistica contemplazione della bella figura di Andrea – se Romina non fosse giunta a darmi una mano.
Detto così sembrava qualcosa di molto principesco; in realtà, i suoi modi di fare erano molto simili a quelli di un terrorista.


“Oh, ma ti muovi?” esclamò infatti dandomi uno spintone. Per poco non ruzzolai giù per le scale.
“Sempre una principessa tu, eh?” risposi di rimando, rivolgendole un’occhiataccia, mentre mi massaggiavo il fianco.
“Ma te ne stai lì, a guardarlo, manco fosse il quadro di… Che ne so… Sant’Antonio! Dai, corri da lui e non rompere!”

Mi venne da ridere, nonostante tutto. Da dove le tirava fuori certe battute?
 

“Allora?”
“Mi dai un attimo?”
“Per fare che, la bella statuina? Muoversi, prima che arrivi qualche professore! Dai, al massimo, se non sei capace, domani ti falsifico io la firma sul libretto”
“Romina?”
“Sì?”
“Diciotto anni li ho già compiuti, firmo da sola le giustifiche.”
“Oh!” guardò in alto, pensosa. Aveva dimenticato quel particolare interessante: io ero più grande di lei di ben sei mesi. E sì, l’aveva dimenticato volutamente come accadeva ogni volta.
“Beh, tanto meglio… non hai scuse! Dai corri, ci vediamo al ritorno!”

Mi strizzò l’occhio, e poi, senza concedermi altro tempo per risponderle, sparì tra la folla di studenti che, alle otto e dieci del mattino, cominciava ad affannarsi fuori scuola.

Le otto e dieci: ero in ritardo all’appuntamento.

Allora, mi decisi a raggiungere Andrea: non potevo avere la presunzione di lasciarlo lì fuori ad aspettare finché non avessi trovato abbastanza coraggio. Tanto, neanche a cercarlo in ogni anfratto di me, ne avrei recuperato a sufficienza per affrontare quella giornata.
Per cui, respirai a fondo, lasciai scrocchiare le dita delle mani – era il mio antistress preferito – e così preparata, semmai lo fossi stata, m’incamminai dall’altro lato della strada.
 
 






 
“Ciao…”
 
Quando Zeno alzò gli occhi su di me, mi rivolse uno sguardo così caldo, intenso e felice, che quasi mi venne da piangere per l’emozione; forse neppure mia madre, nei nostri momenti migliori, mi aveva guardato con altrettanto affetto e trasporto. Aveva l’aria di qualcuno che avesse atteso a lungo una cosa cara e non riuscisse a capacitarsene adesso che l’oggetto del desiderio era tra le sue mani; Andrea mi aveva sempre trattato con una delicatezza anomala per un ragazzo della sua età senza mai, tuttavia, farmi sentire debole o fuori posto. Eppure, ancora mi stupivo di quel suo atteggiamento, come se fossi io quella che non riusciva a credere di poter contare veramente così tanto per lui.
No, davvero mi sembrava impossibile.


“Pensavo non saresti più venuta…” rispose, senza staccarmi gli occhi di dosso.
“Te l’avevo promesso che ci saremmo visti. Ho soltanto fatto tardi.”
Mentii: mi trovavo fuori scuola dalle sette e un quarto. Solo che c’avevo messo più tempo del previsto per decidermi che potevo farcela a incontrarlo seriamente.


Andrea mi sorrise e non smise di farlo mentre si rialzava, buttava via ciò che rimaneva della sigaretta e mi stringeva in uno di quei suoi abbracci che mi riempivano l’anima. Mi strinse così forte che mi venne da ridere, gli dissi che mi stava facendo male; si staccò subito, un po’ ridendo e un po’ no, per l’imbarazzo. Mi chiese scusa.


“Non c’è bisogno” gli risposi.
“E’ bello vederti.”
“Anche per me”


Mi guardò a lungo, troppe parole erano sospese tra di noi e mi sembrava improvvisamente assurdo, dopo tutto quel che c’era stato. Avevamo fatto dieci passi indietro?
Non lo sapevo.
 

“Avevi scuola oggi…” considerò
“La scuola può aspettare, ogni tanto. Poi ho quasi concluso le interrogazioni e sono andate bene.”
“Sei sempre stata brava, non avevo dubbi.”

Sorrisi.
Sì, ero brava anche a quattordici anni, era vero.


“Vogliamo andare, allora?” domandò mentre continuavo a guardarlo senza parlare. Guardavo i suoi occhi grigi, la barba ispida, Atena che continuava ad occhieggiare dal suo braccio, e non riuscivo a dirgli che mi era mancato. Forse non volevo dirglielo ancora.

“Andiamo.”
“Dove? Hai preferenze?”

Respirai di nuovo a fondo. Risposi risoluta.

“Sì. Ho una richiesta.”
“Dimmi tutto.”
“Vorrei andare a San Giovanni. Per favore.”


Lo colsi di sorpresa: mi guardò per qualche istante, allibito, la bocca dischiusa. Poi, sembro comprendere: una nuova luce brillò nei suoi occhi. Ricambiò lo sguardo e annuì, deglutendo più volte: mi sembrava spaventato e un po’ contento allo stesso tempo.


“Ne sei sicura?”
“Sì.”
“D’accordo, come vuoi” rispose infine “Andiamo a San Giovanni, allora.”


 


 
***
 
 

 
Era giorno di mercato e le strade erano piene di gente: donne grassocce e sformate, ancora giovani ma già con tanti bambini al seguito, arrancavano sui marciapiedi con i loro passeggini e le buste della spesa piene zeppe di carne e verdure; i ragazzini che non erano andati a scuola, quelli che, magari, la saltavano quotidianamente, giocavano a fare i nuovi Maradona, calciando con forza i loro Super Santos negli spiazzi meno popolati. Qualche vecchietta sedeva fuori al proprio balcone o parlava con la comare del piano di sotto del menù della giornata; lo scoppiettare dei motorini si alternava alle parole gridate da un balcone all’altro, tra i panni stesi ad asciugare, e ovunque c’era aria di casa e di miseria. Nonostante tutto, mi pareva gente felice quella.

Camminavo sulle grosse pietre di basalto che lastricavano la strada e, di tanto in tanto, davo un calcio a un sassolino; Andrea, al mio fianco, trascinava la bici lentamente e non parlava. Mi guardava – lo sapevo perché anche io lo guardavo, con la coda dell’occhio – ma sembrava temesse di rovinare con le chiacchiere il nostro momento di quiete prima della tempesta. Tuttavia, doveva sapere che nessun diluvio avrebbe spazzato via quel che c’era o c’era stato tra noi; certo, potevo ancora essere un po’ arrabbiata con lui e avevo tante cose da capire. Volevo fosse lui a parlarmene per primo, su questo non c’erano dubbi, ma mai, in nessun caso, l’avrei scacciato o mandato via dalla mia vita: sapevo di appartenergli. Sapevo che lui mi apparteneva.
 
Avevo soltanto bisogno di tempo e spiegazioni.


Qualcuno ci passò accanto, salutò Andrea: un ragazzino sui quindici anni prima, poi, un uomo anziano. Lui ricambiò gentile; nessuno sembrava dare peso alla cresta viola o ai suoi tatuaggi. Nel mio quartiere la gente perbene l’avrebbe guardato male; nel suo,nessuno ci badava: evidentemente, l’avevano visto crescere e, al di là dell’aspetto stravagante, sapevano che era un bravo ragazzo. Il vecchietto salutò anche me con un cordiale “buongiorno, signorina”, prima di sparire tra la gente.

Guardai allora Andrea che tirava dritto, con sguardo impenetrabile; dovevo trovare il coraggio, di nuovo. Dovevo parlargli.


“Perché non me l’hai detto prima?”
“Cosa?”
“Lo sai. Secondo te come mai siamo proprio qui?”
“Perché hai ricordato qualcosa.”
“Esatto.”
“Sono stati brutti ricordi?” domandò allora, improvvisamente incerto.

Scossi la testa.
“No, ricordi confusi, più che altro. Io e te, per le scale di un vecchio palazzo… Ricordo voci di donne e bambini e l’odore del ragù, lo ricordo come se l’avessi sentito ieri tanto era forte.”

Sorrise, sereno.

“Il ragù alla domenica è quasi un obbligo, dalle mie parti. Se cucini qualche altra cosa per pranzo devi essere solo impazzito, ti guardano male!”

Rise di quella strada tradizione e io con lui; tuttavia, la trovai bella e, soprattutto, rassicurante, come un punto fermo della propria vita cui ci si sarebbe sempre potuti aggrappare: in qualunque modo fossero andate le cose, qualsiasi brutta notizia avesse infranto il tuo cuore, alla domenica avresti trovato sempre il tuo piatto di spaghetti al ragù sulla tavola accompagnato dal sorriso tranquillizzante della mamma mentre te lo serviva.
Era una bella immagine cui io non ero abituata.

 
“Sei fortunato.”
“A vivere qui?”
“Sì. C’è aria di casa, famiglia.”
“Da te non c’è?”

Scossi la testa.

“In modo differente. C’è la voglia di apparire una famiglia perfetta, ci sono i vestiti eleganti, le scarpe col tacco, le buone maniere e si parla con calma. Ma il pranzo lo cucina Joan, spesso e volentieri, e se ho paura di un’interrogazione papà mi rimprovera, anziché rassicurarmi. La domenica mattina papà è in tuta, pronto a fare jogging, e mamma parla con sua sorella al telefono immaginando il nuovo, orrido vestito che Silvana De Santis sfoggerà in chiesa, per la messa; ma non c’è niente di caldo in quella cucina e io mi siederò svogliatamente al tavolo come sempre, mangiando due Tarallucci della Mulino Bianco e bevendo del latte freddo. Anche queste son cose di famiglia ma è una famiglia che mi piace di meno” risposi tutto d’un fiato.
“Non c’è molto da invidiare, Margherita: noi combattiamo la miseria ogni giorno.”
“Ma lo fate uniti. Noi no. Noi siamo schiavi dei nostri soldi e per quei soldi potremmo ammazzare.”
 
Non rispose; piuttosto, guardò altrove. Sembrava davvero colpito dalle mie parole.
Ne approfittai:

“Perché non me l’hai detto la prima volta che te l’ho chiesto? Quando ho visto la foto, intendo… Mi hai detto che era stata scattata a San Giovanni e che certamente non era un posto che potevo conoscere. E invece era una bugia!”
 
Mi fermai in strada di botto; un passante mi urtò e Andrea gli chiese scusa al posto mio, trascinandomi verso un angolo meno affollato.


“Vieni qui…”
“Andre, rispondimi.”
“Voglio farlo ma in un posto dove ci sia meno gente. Possiamo?”
“No, qua. Corro il rischio che tu cambi discorso!”
“Ma ti sembro il tipo?”
“No, ma non sembravi neppure il tipo che potesse raccontarmi palle, invece l’hai fatto!” sbraitai, improvvisamente, con voce da ragazzina.

Zeno sospirò e si passò una mano nella cresta, rovinandosela.
Sembrava rassegnato.

“Dovrò faticare parecchio per farmi perdonare?”

Scossi la testa.

“Devi impegnarti, non faticare. Semplice.”


Sorrise.

“D’accordo… Senti, ti ho portata a San Giovanni, ti ho accontentata, non ho mentito. Adesso possiamo parlare da un’altra parte? Sul serio, per favore… Questo posto non va bene.”


Mi guardai attorno: eravamo bloccati in un angolino all’incrocio tra un vicolo piccolo e rumoroso e la strada principale, affollata di bancarelle e passanti; qualche auto in lontananza suonava insistentemente il clacson, per farsi strada tra la calca, e la gente vociava e chiacchierava senza sosta.
Davvero non era un posto adatto alla conversazione che avevamo da affrontare.


“D’accordo, andiamocene. Ma…” lo ammonii, puntandogli l’indice contro “Non provare a fregarmi, Zenovi!”
“Oh Gesù!” rise, battendo la mano destra sulla fronte “Adesso mi chiama per cognome! Stiamo messi proprio male!”


Risi anche io.
Soltanto lui sapeva strapparmi un sorriso anche nei momenti meno adatti; soltanto Andrea era in grado di fare questa piccola magia.
 
 



***
 
 


“Non sto cercando giustificazioni. È vero, ho molto da farmi perdonare, Maggie, ma ti chiedo soltanto di comprendermi almeno in parte, ora che saprai la verità.”

Così cominciò Andrea il suo monologo. Io, che mi stavo spingendo sulla piccola altalena del parco giochi dove Zeno mi aveva condotto per stare un po’ più tranquilli, mi arrestai di colpo.
La parola verità, seppur pronunciata dalla sue labbra, possedeva un suono brutto, quasi nemico, come se fossi stata certa che avrebbe fatto male.
Lo guardai titubante, allora, e lui non ricambiò. Spostai lo sguardo per distrarmi e, comunque, non servì a nulla: quel parco giochi, con le sue giostrine grigie e arrugginite, era davvero brutto e non offriva nulla di interessante su cui concentrarsi per non pensare.
 
“Quando ti ho vista la prima volta a La Piovra, Margherita…” ricominciò, inaspettatamente “parlavi con Romina e con Stefano. Mi sembravi annoiata, come se quel posto non fosse stato adatto a te e non vedessi l’ora di andare via…”

Ripensai a quel pomeriggio: era stato non molto tempo prima eppure a me sembrava fosse passata una vita da allora; aveva ragione Andrea, io a La Piovra non volevo starci. Non c’entravo niente con quella gente e quel posto, mi ero sentita a disagio per tutto il tempo della permanenza, eppure… alla fine ero rimasta. Spaesata e infastidita com’ero, non mi ero comunque smossa da lì. C’ero persino tornata.
Dopo che avevo visto lui, il mio Zeno.


“In effetti non ero proprio a mio agio. Mi ci aveva portato Romina ed ero venuta solo per accontentare lei. Me ne parlava sempre così bene che non mi è stato possibile rifiutare...”
“Lo sospettavo…” accennò a un sorriso “Romina è un tipo irruento, però ti vuol bene.”
“Molto. Anche se a modo suo!”

Sorrise di nuovo e poi si accomodò sull’altalena sgangherata accanto alla mia, dondolandosi appena.


“Maggie, vederti è stato una specie di miracolo per me. Capisci cosa abbia significato ritrovarti in un giorno qualunque quando ormai neanche speravo più che potessi incontrarti? Per anni ho immaginato come sarebbe stato rivederti: pensavo che mi si sarebbe fermato il cuore per la felicità e poco ci è mancato, sul serio. E sai cosa? Mi aspettavo uno di quegli abbracci pieni di lacrime e senza parole tra di noi, pensavo che avrei riso e sorriso così tanto come mai in vita mia… Pensavo che saresti corsa da me chiamando il mio nome e dicendomi quanto eri felice di rivedermi e poi avremmo passato tutto il tempo del mondo a raccontarci di noi, di quel che avevamo perso l’uno dell’altra in questi anni, delle nostre vite, di quel che adesso ci piaceva e ciò che invece detestavamo. E invece… Invece tu mi hai guardato, con insistenza ma senza interesse. Non in apparenza, almeno. Io ti spiavo con la coda dell’occhio, senza sapere cosa fare, perché non ero certo che mi avessi riconosciuto…”
 

Guardai Zeno a bocca aperta.
Dunque mi aveva visto mentre io credevo che pensasse ad altro, che neppure mi avesse notata?
Incredibile!


“…C’ho quasi creduto, ho sperato che potessi correre subito da me. Però non è accaduto. Hai continuato a guardarti attorno, poi ti sei distratta e non mi hai più filato, neanche per sbaglio.”
“Ma sì, sì che ti ho guardato!” protestai allora, sconcertata “Soltanto che non volevo… Farmi notare. Mi avresti presa per una stalker! Ho aspettato che andassi via per chiedere a Romina chi fossi…”


Calai lo sguardo, imbarazzata.


“Sul serio?” domandò Andrea speranzoso, sorridendo.
“Sì, davvero. Avevi un’aria terribilmente familiaree non capivo il perché. Anche dopo che Romina mi ha detto il tuo nome ho continuato a non comprendere il motivo di quel senso di familiarità che mi comunicavi…  E’ stato frustrante.”
“Se l’avessi saputo prima…”
“Se io l’avessi saputo prima, Andrea! E a questo punto torniamo alla domanda che ti ho fatto mille volte: perché non me l’hai detto? Quando hai avuto la possibilità di parlarmi, alla mostra, hai fatto finta di nulla, come se fossi stato davvero un estraneo per me… Perché?”

Respirò a fondo, dondolandosi con più forza; io strinsi maggiormente la presa sulle catene dell’altalena.

“Sii ragionevole, Maggie: quando ti ho fermata ringraziandoti per le fotografie, mi sembrava ovvio che non mi avessi riconosciuto. Sono perfettamente a conoscenza del tuo incidente e del fatto che tu abbia perso la memoria, non c’ho messo molto per fare due più due e trarre le mie conclusioni: non ti ricordavi di me. Come avrei mai potuto assalirti con certe strane rivelazioni così, all’improvviso? Mi avresti preso per uno squilibrato. E allora, ho preferito agire lentamente e non credo di essermi sbagliato: come vedi, adesso, siamo qui a San Giovanni, insieme. Hai ricordato da sola la mia casa e il mio quartiere e il fatto che tu oggi sia in questo posto con me ha molto più senso, non ti pare?”


Sapeva anche lui del mio incidente, esattamente come tutti gli altri: la notizia si era sparsa in fretta all'epoca. Dopotutto era normale, ero la figlia dell'imprenditore Gherardi - un personaggio abbastanza noto in zona - e anche io avrei dovuto esserci abituata: molto spesso i fatti personali della mia famiglia diventavano di dominio pubblico.
L'unica a non essere mai a parte di nulla ero sempre e solo io, ovviamente.


Sospirai e poi lo guardai a lungo: in ogni caso, aveva ragione. Se avesse parlato a raffica la prima volta che ci eravamo visti, forse non gli avrei creduto, l’avrei scambiato per un folle o per qualcuno che voleva soltanto recare disturbo. Non saremmo di certo arrivati al punto dov’eravamo invece arrivati.  


“E’ vero” confermai allora. Sorrise.

“Com’è stato ricordare?”

Il suo sguardo era preoccupato, mentre me lo chiedeva, come se avesse temuto le mie reazioni e ciò che avevo pensato quanto i ricordi erano tornati a farmi visita. E invece aveva poco da star nervoso perché tutto ciò che quelle immagini si erano portate dietro era stata soltanto una dolce malinconia, il senso di una serenità che avevo assaporato per troppo poco e dimenticato molto in fretta.


“E’ stato… strano, te l’ho detto. Confuso, come se non avessi vissuto realmente io ciò che vedevo. Come un film alla televisione quando salta il segnale, hai presente?”

Rise.

“Sì, ho presente.”
“Però…” ripresi sorridendo “Mi ha lasciato tanta dolcezza. Era tutto bello, la strada dove abitavi…”
“Abito…”
“Ecco, la strada dove abiti, casa tua, la gente del vicinato, il profumo della roba da mangiare, i capelli chiari di tua sorella e tuo padre…”
“Hai ricordato anche lui?” chiese, a occhi sgranati.

“Sì, anche lui. Ma molto poco. Nel mio ricordo mi ha stretto la mano, mi ha dato il benvenuto. Poi black out. Non so più nulla.”
“Oh…”
“Ti spiace?”
“Cosa?”
“Che non abbia ricordato di più?”
“No. Va bene così.”

“Come sta tuo padre?”

S’irrigidì. Non seppi spiegare il motivo.

“Bene” rispose appena. Preferii non continuare a discutere su quel punto – per un qualche motivo a me sconosciuto, sembrava che Andrea non fosse molto propenso a parlarne  – e dirottai la conversazione su di un’altra persona, sperando in una maggior fortuna.

“Mmmh… E Arianna, invece?”
“Arianna?”

Sorrise.
Questa sì che andava bene!

“Sta alla grande, grazie.  Ha quindici anni, adesso e frequenta l’istituto d’arte. L’altro giorno è tornata a casa con i rasta, a mio fratello Alessio stava prendendo un colpo. Ha pure un tatuaggio nascosto sul fianco, se la scoprono è finita. O forse no, considerato che io sono strapieno di tatuaggi e, tecnicamente, dovrei dare il buon esempio… In realtà l’ho accompagnata io a farlo!”
Strizzò l’occhio in un gesto complice; a me venne da ridere, ripensando alla ragazzina fragile e delicata, dall’aria imbronciata, dei miei ricordi. Mi sembrava incredibile che fosse cambiata così tanto.


“Non l’hai ancora portata a La Piovra?”
“No, spero di farlo presto.”
“Capisco.”


Seguì allora un lungo momento di silenzio tra di noi, in cui continuammo a dondolarci docilmente sulle nostra altalene, vicini ma mai abbastanza per toccarci. In realtà avrei potuto farlo con facilità – sfiorargli la mano mentre mi stava di fianco, allungarmi verso di lui e abbattere ogni barriera invisibile – ma c’erano ancora troppe domande, troppi perché e quell’imbarazzo, figlio di un risentimento cui volevo ancora dare una spiegazione. Ma come passare da argomenti così profondi e importanti come i nostri ricordi assieme a… La mia gelosia per Luna?
Mi sembrava davvero ridicolo, l’atto infantile di una ragazzina immatura. Eppure quella questione mi premeva allo stesso modo di tutte le altre o forse ancora di più: Andrea mi apparteneva. Mi apparteneva per quel passato che si divertiva a sfuggirmi, è vero, ma mi apparteneva anche per quel presente che, da solo, aveva deciso di condividere di nuovo con me. E io gliel’avevo permesso, perché sapevo di potermi fidare di lui. Luna non c’entrava niente con noi e la mia gelosia non era motivata soltanto da un legame remoto: Andrea era mio, per una qualche sensazione inspiegabile lo sentivo in ogni parte di me e, per questo, non riuscivo a considerare in maniera tanto dispregiativa e immatura quel mio attaccamento nei suoi confronti. Così come non riuscivo a rimproverarmi per quel desiderio malcelato e continuo che avevo di prendere Luna a randellate. Ma questa era un’altra storia.

Per fortuna, Andrea dovette leggermi nel pensiero e comprendere che c’era altro a disturbarmi, cosicché mi tolse dagli impicci e tirò fuori l’argomento per primo.

Gliene fui sinceramente grata.
 
 
“Maggie, per quanto riguarda Luna…”


Oh, Luna.


“Sì, dimmi…”
“Non stavamo insieme.”
“Non conta.”
“Sì che conta!”
 
Poggiò i piedi saldamente sul terreno sottostante e il dondolio dell’altalena si bloccò di colpo; le catene con cui si agganciava al supporto produssero un fastidioso rumore di ferraglia arrugginita.

“Andrea…”
“Devi lasciarmi parlare” quasi mi supplicò, con occhi sgranati, poggiando la sua mano sulla mia.
“Non sto dicendo il contrario…”
“Io e Luna ci siamo frequentati in passato, è vero. Abbiamo occupato assieme La Piovra, lei è amica di Polska da anni e anche io la conosco da un po’. Uscivamo insieme, abbiamo condiviso parecchie cose oltre la gestione del centro sociale e sì… Ci sono anche finito a letto e più di una volta.”
 
Qualcosa mi strinse allo stomaco.
Quella cosa lì non volevo saperla. In realtà ne ero già a conoscenza – sarebbe stato ingenuo pensare al contrario, no? – però, ecco… Sentirla adesso così esplicitamente era quasi insopportabile.


“Ma non è mai stata la mia ragazza, se può servire a qualcosa. Così come nessun’altra abbia conosciuto nella mia vita è stata mai la mia fidanzata per me. Potrei farti un elenco discretamente lungo di ragazze con cui sono uscito e con cui sono finito a letto se solo servisse a farti capire che Luna era soltanto una fra le tante.”
“Non è carino da dire” lo ammonii, profondamente turbata.
“Lo so e non mi piace neanche, sto soltanto cercando di farmi comprendere. Luna non è diversa o speciale soltanto perché la conosci; non è niente in più che un’amica, per me. E non so perché Emiliano abbia avvertito quest’irrefrenabile impulso di dovertelo dire quando sarebbe toccato a me, ma se ho taciuto su questa cosa è soltanto perché non aveva importanza. Ero certo che, se l’avessi saputo così presto, avrei rovinato qualcosa – com’è accaduto poi in realtà – e allora sono stato zitto. Sono stato codardo, come lo sono tutti gli uomini spesso e volentieri.”

 
Chissà perché, quell’ultima frase mi ricordò nonna Anna e le sue massime sull’universo maschile. Me lo diceva sempre: “gli uomini sanno sbagliare facilmente e disperarsi ancora di più, ma soltanto se amano davvero.”

Adesso capivo il senso di quelle parole.
Avrei dovuto quindi intendere che Andrea mi amava?
Di questo non ne ero certa.


“Non hai m-mai avuto una ragazza fissa?” domandai allora. Ma perché gli avevo chiesto proprio quella cosa?

Scosse la testa.

“No.”
“E perché?”
“Sono allergico alle relazioni fisse.”
“Oh…”


E’ a-l-l-e-r-g-i-c-o.
Capito Margherita?


“E poi c’era sempre un termine di paragone troppo grande e complicato da superare…” continuò, con sguardo eloquente. Non compresi.
“Che vuoi dire?”
“Voglio dire…” riprese, dondolandosi di nuovo “Che nessuna, bellissima o intelligente ragazza che io abbia conosciuto in ogni parte del mondo, poteva superare quella signorina deliziosa che a soli quattordici anni mi parlava di Neruda e mi mostrava quadri di Dalì.”
“Ti mostravo quadri di Dalì?”
“Sì. E De Chirico. Non sono i tuoi artisti preferiti?”

Sorrisi.
Sì, lo erano. Una copia dell’ Ettore e Andromaca di De Chirico troneggiava ancora sul mio letto e mi dava il buongiorno ogni mattina.
 
“Lo sono.”
“Ecco, vedi? E poi mi son ritrovato a conoscere donne di trent’anni che ignoravano cosa fosse il surrealismo e in quale epoca fosse vissuto Baudelaire, e mi parlavano invece di quanto fosse figa la moda dei dread, e ho rinunciato. Loro vivevano di apparenza, chiacchieravano tanto per riempire i loro vuoti con le parole, tu invece amavi il silenzio e nel silenzio mi dicevi tante cose. Ecco perché ogni volta mi venivi in mente tu, la tua voce quando mi parlavi piano e mi confessavi di voler diventare una brava insegnante e quella fissa che avevi di imparare a suonare la chitarra… Ce l’hai ancora?”
“Ho imparato a strimpellarla, in effetti. Quattro accordi, ma li prendo bene.”

Rise con me.

“Sai cosa mi dicevo?”
“No, cosa?”
“Che l’unica persona adatta a me eri tu. E che forse avrei dovuto soltanto aspettare che crescessi. Sempre ammesso che ti avessi ritrovato.”


Avvampai.
Quelle sue dichiarazioni d’amore o pseudo tali mi destabilizzavano ogni volta.

“Se ci tenevi… potevi cercarmi prima, Andrea. Non mi sono mai mossa da qui.”
“Io sì, lo sai.”
“E quando sei tornato?”
“Pensavo fosse troppo tardi, Maggie.”
“E’ sempre per il discorso di essere codardi?”
“Esatto.”
“Se tutti gli uomini sono così stiamo messi male…”
“Lo siamo. Abbiamo un lato immaturo che tiriamo fuori nei momenti peggiori. A meno che non si tratti del principe azzurro e allora okay, lui è l’uomo perfetto…”
“Sì, un tipo un po’ imbambolato, alla Edward Cullen…” scherzai.
 
Twilight piaceva a Romina, avevo imparato quel nome per star dietro a lei.

“Edward chi?”
“Niente, niente… Lascia perdere.”


Mi guardò perplesso; poi, dovette ricordare improvvisamente qualcosa e si affrettò a frugare nel proprio zaino.


“Aspetta eh…”
“Che c’è?”

Ero davvero curiosa.

“Devo trovare una cosa… Ah, eccola!”

Me la mostrò, di lì a poco: una fotografia.
Una polaroid, per essere precisi, un’immagine dalle tinte vintage come solo quelle prodotte da quel tipo di macchina potevano esibire; ritraeva, dall’alto, una ragazza mentre rideva a crepapelle, una cascata di capelli castani che le copriva in parte il viso. Accanto a lei se ne stava un ragazzo dai capelli lunghi fin quasi alle spalle, un sorrisetto sincero e sfrontato sulle labbra e qualche tatuaggio sparso lungo il braccio: era lui l’autore materiale della foto. Indossava una maglia dei Verdena, il mio gruppo preferito, e guardava sicuro verso l’obiettivo, mentre lei si appoggiava al suo fianco.


Andrea.
Lui era Andrea, tanti anni prima. Non aveva ancora la cresta e la sua chioma non era viola, soprattutto. La sua pelle era meno tatuata e appena più abbronzata di adesso.
Gli occhi grigi e bellissimi erano sempre gli stessi invece, forse solo il sorriso era cambiato: gli si era addolcito un po’di più.
Lei invece… Beh, quella ragazza ero io.
Un’adolescente ingenua, ancora inesperta del mondo e per questo più felice; contemplavo quella mia risata spontanea e non la riconoscevo più, non mi apparteneva, era appartenuto a un’altra che aveva la mia faccia e non ero io.
Era incredibile.
In quella foto di cui non avevo memoria, c’era la Margherita che ero stata prima di rotolare lungo le scale della Gherardi&Stornelli snc. e battere la testa sul marmo. C’era, in prospettiva, la persona che sarei diventata e che non era poi riuscita a venir fuori, non del tutto almeno. C’era una ragazza che rideva per niente e poi parlava di Dalì e teneva la mano a un Andrea diverso, dai capelli più lunghi e i tratti da ragazzo al confine tra adolescenza e maturità.
Ero piccola e fragile all’epoca, molto più di adesso. E molto di meno, perché avevo il dono dell’inconsapevolezza.
Mi venne da piangere, in modo istintivo; raccolsi la foto con mani tremanti e singhiozzai perché non era sempre è facile avere a che fare con se stessi. Specie con le parti dimenticate di sé.
Andrea si alzò immediatamente dall’altalena, inginocchiandosi davanti a me; poi, mi carezzò il viso, in un gesto molto dolce.

“Non era questo che speravo. Non volevo farti piangere.”
“Piango perché non ricordo” confessai senza pudore “C’è una foto qui di me e di te, la testimonianza tangibile di quello che ero e di quel che eravamo… E io vedo il buio. È inaccettabile che non riesca a ricordarmelo, Andrea!”

Mi sorrise, gentile.

“Non pensarla sotto quest’ottica. Pensa, piuttosto, che questa foto ti sta restituendo una parte di te che era andata persa, Maggie. Adesso è qui, puoi rifletterci, puoi riprendertela. E un giorno diventerà tua completamente perché ricorderai ogni singolo dettaglio, così come hai ricordato San Giovanni, mia sorella e le nostre fughe in bicicletta. Non piangere, passerà tutto.”

Annuii poco convinta, tirando su col naso. Asciugai una lacrima di troppo e trascinai via con la mano un po’ del mascara che, una volta tanto, avevo deciso di usare per rendermi più presentabile. Ecco perché non mi truccavo mai.

“Primi tentativi di fotografia. Avevo solo una misera Polaroid, all’epoca. Ce l’ho ancora conservata, comunque” spiegò, forse cercando di distrarmi.
“Non hai bisogno di chissà che strumenti per fare foto… Sei bravo, si vede.”
“Sono contenta che ti piaccia.”
“Eri bello già allora, lo sai?” commentai, sorridendo, con improvvisa audacia.
“Tu di più.”
“Posso tenerla?”
“Certo che puoi.”
“Grazie.”
 
Mi rivolse uno sguardo dolcissimo e vidi in lui tutto ciò che vedeva chi l’aveva cresciuto sin da bambino e continuava a salutarlo e volergli bene, oltre l’apparenza da ragazzaccio punkabbestia pieno di tatuaggi: vidi la persona gentile che era, toccai con mano la sua premura e sensibilità. Tutte cose che già sapevo e che adesso ero felice di ritrovare. Dimenticai anche i suoi sbagli, in un istante solo. Forse, mi limitai a perdonarlo e qualcuno avrebbe potuto rimproverarmi di eccessiva indulgenza o debolezza, ma a me non importava: io conoscevo quel che di buono c’era in lui e adesso ero pronta a scusarlo. Del giudizio degli altri non mi sarei curata: Andrea era la persona che mi aveva accettato per quel che ero stata e per ciò che ero adesso, l’unico che stava faticando non poco per farmi riconciliare con la Margherita che mi ero lasciata alle spalle. Davanti a tutto questo, quel singolo passo falso non contava più, non se consideravo che fosse stato spinto dalla paura di perdermi.

Così, gli gettai le braccia al collo e, tra le lacrime, sorrisi sulla sua spalla. Lui mi strinse subito, con impeto: non avrei mai dimenticato il calore di quell’abbraccio, forse lo stesso di quel che sognava Andrea per il giorno in cui ci saremmo ricongiunti.

“Grazie per essere tornato.”
“Grazie a te, non ci speravo più.”
“Sono qui, non andrò più via. Neanche la mia memoria persa è stata più forte di noi.”

Annuì.

“Vieni con me?” domandò a un certo punto, scostandomi per guardarmi bene in faccia: avevo gli occhi pieni di lacrime.

“Dove?”
“Un posto importante. Voglio farti vedere una cosa.”


Acconsentii.
Mi fidavo di Andrea. Di nuovo, speravo per sempre.
Sarei andata ovunque con lui, in quel momento.


“D’accordo, andiamo.” risposi alzandomi dall’altalena quasi a fatica e stringendo quella mano che mi porgeva così gentilmente.

 


***
 
 
L’arco di mattoni era ancora lì, immutato e resistente al tempo che passava via così velocemente; la tendina di pizzo invece non c’era più. La finestra da cui sventolava, anni prima, era stata sbarrata con assi di legno e non c’era più alcun vaso di fiori ad abbellirne il davanzale.

“Ci abitava una vecchietta che poi è morta. La casa è stata abbandonata perché cadeva a pezzi” spiegò Zeno.

Un gatto miagolava in modo inquieto, strusciandosi tra il cassonetto stracolmo di rifiuti e un muro sporco.
Lo scenario era decisamente più desolato e deprimente dello scorcio pittoresco che Zeno aveva immortalato nella sua foto; tuttavia su di me sapeva ancora esercitare un certo fascino, forse per il carico di ricordi – molti ancora da scoprire – che si portava dietro, per quel legame non del tutto identificato che mi ancorava a quel posto.

“In fondo alla strada c’è casa mia. Te lo ricordi?”
“Ricordo che fosse da queste parti, ma non saprei identificare il palazzo. Posso vederlo?”
“Maggie, ti dispiacerebbe se ti ci portassi con più calma?”

Lo guardai perplessa.

“D’accordo…”

Alzai le spalle: si capiva lontano un chilometro quando qualcosa non mi andava a genio. Andrea sorrise e mi cinse le braccia.

“Possiamo aspettare un altro po’? Più in là, te lo giuro, tornerai a casa con me.”
“Davvero?”
“Sì. Solo non adesso. Diamoci un altro po’ di tempo”
“Potrò rivedere Arianna?”
“Arianna la vedrai prima, la porterò a La Piovra.”
“Tu la porterai ma non so se ci sarò io.”
“Non vuoi venire più a La Piovra? Per Luna?”

Non risposi con le parole, mi limitai a morsicare il labbro inferiore.

“Sei seria? Guarda che ti ci porto di peso e fidati che Luna avrà poco da ridire…”

Tutto sommato, sorrisi di soddisfazione: avevo come l’impressione che Zeno avesse messo adeguatamente a posto la mia amica Luna, dopo l’ultima piazzata che m’aveva fatto. In ogni caso, ero decisa a non dargliela vinta.
 
“Okay, ci vengo, però non vale lo stesso.”
“Parli di Arianna?”
“Sì.”
“D’accordo, la vedrai a casa.”
“E conoscerò Alessio, tua madre e tuo padre?”
“Vuoi fare le presentazioni in famiglia? È una cosa seria, allora!” scherzò, stringendomi di più. Anche a me venne da ridere e risi più forte ancora quando Zeno mi solleticò appena il fianco.

Soffrivo il solletico in modo tremendo.

Mi piegai un po’ su di un lato, nel tentativo di sfuggire alla sua presa, e così misi un piede in fallo; sarei caduta rovinosamente sul selciato sconnesso se Andrea non avesse avuto i riflessi pronti: mi afferrò prima che potessi battere le ginocchia a terra. Avrei dovuto ringraziarlo per il resto della vita: con tutte le volte che ero caduta era un miracolo che ancora camminassi decentemente, replicare per l’ennesima volta mi sembrava sconsigliabile.

“Grazie…”

Quando tornai a guardarlo, imbarazzata per l’ennesima figuraccia alla Margherita figlia-sbadata-di-papà Gherardi, Zeno me lo trovai a due centimetri dal viso. Frastornata e già non più abituata a quella vicinanza tra noi – ma non per questo meno felice – me ne stetti a guardarlo per un attimo titubante, in bilico tra le sue braccia. Non avrei saputo dire come andarono le cose poi, del resto Andrea non aveva mai chiesto il mio permesso per darmi un bacio ed era giusto così. Ma così irruento non era mai stato; mi spinse appena contro il muro e mi sfiorò le labbra, senza aspettare la mia reazione; come avrei potuto rifiutarlo, comunque? Ricambiai subito, senza esitazione.
I suoi baci mi erano mancati.
 
 
 
 
“Vorrei darti un bacio…”

La stessa strada, in un giorno di pioggia di tanti anni prima. Il rombo di un tuono mi costrinse a trasalire.
Io e Andrea, anche allora.
Lui, con i suoi capelli lunghi e lisci e nessuna Atena che mi occhieggiasse dal  braccio; io, piccola e magra, chiusa in un cappotto dalla fantasia scozzese.

Mamma l’aveva poi regalato ai poveri della parrocchia, quel cappotto.

“Dovresti darmi un bacio.”
“Sei una bambina, non posso.”
“Se non puoi materialmente, non dovresti neanche pensarci.”
“Piccola furfante, sai sempre fregarmi! Dovresti fare l’avvocato da grande…”


Andrea rise, poi mi baciò la guancia.
Ero poggiata allo stesso muro di adesso, aspettavo che spiovesse e in realtà volevo che quel temporale non passasse mai per restarmene sempre lì con lui.

Cercai di girarmi in tempo per trasformare quel bacio in qualcosa di più serio: non ci riuscii. Ero davvero audace.


“No, piccola mia…”
“Uff.”
“Non protestare.”
“Parli tu che sei il ribelle per eccellenza!”
“La mia ribellione segue motivazioni vagamente differenti...”
“Pff! Sai che c’è? Non avrò quattordici anni per sempre, Andrea.”
“Ne hai tredici, infatti.”
“Oh, non fare lo scemo, sai anche tu che manca poco ai quattordici! E comunque non sarà così per sempre, crescerò, le cose cambieranno presto. E avrò l’età giusta per darti un bacio.”
“O per riceverlo…”
“Esatto.”

Gli sorrisi.

Mi sorrise.

Un tuono sopraggiunse più forte, la pioggia riprese a scrosciare forte.

 


Quando riaprii gli occhi, Andrea faticava ancora a staccarsi da me.
Lo guardai a lungo e intensamente, prima di tornare a parlare.


“I tredici anni sono passati, Andrea. Così come i quattordici e i quindici. Ho quasi diciannove anni, adesso, sai che significa?”

Sorrise in modo tanto radioso da farmi sciogliere il cuore; poi, annuì.

“Significa che hai l’età giusta per baciarmi” rispose subito.

 
Sorrisi anche io.
Lui già sapeva: avevo ricordato un altro pezzetto di noi.

 



***

 


Nulla avrebbe potuto rovinare quel mio giorno felice.
Quando Romina mi ritrovò fuori scuola, in tempo per la campanella che sanciva la fine delle lezioni, scoppiò a ridermi in faccia; era sinceramente contenta per me, ma troppo divertita dalla buffa espressione di beatitudine del mio viso per considerarmi con serietà e parlare della faccenda.

“Pare che hai avuto un’apparizione divina, Gherardi… Sei allucinata!” esclamò mentre io neanche la ascoltavo: ero ancora troppo impegnata a sbracciarmi per salutare Andrea che andava via, pedalando veloce sulla sua bici.

Di tutte le mie nere previsioni – per fortuna – nessuna  si era concretizzata nella realtà; la paura per i miei ricordi, il timore di scoprire il legame tra Andrea e Luna, l’ansia e la tensione accumulata nei giorni passati, erano scomparsi, sciolti come neve al sole, dopo quell’incontro. Di tanto in tanto, nel corso del viaggio in autobus che mi riportava a casa – ormai né i miei genitori né Ludo si preoccupavano di passarmi a prendere a scuola, ero grande abbastanza per cavarmela da sola – tirai fuori la foto che mi aveva regalato Zeno.

Rivedevo me, rivedevo lui, incontravo i nostri occhi in un passato lontano e sfumato e sorridevo, ancora scombussolata: non avevo più nulla da perdonargli, era tutto passato. Come avevo fatto a non credergli? E come avevo potuto permettere a Luna ed Emiliano di rovinare quel che di bello c’era tra noi?
No, non ero stata una stupida a scusarlo tanto rapidamente, ero stata una stupida a permettere che per qualche giorno le cose tra di noi andassero così male, piuttosto!

In ogni caso, dopo la nostra uscita mattutina e dopo aver superato la primitiva, comprensibile confusione, adesso viaggiavo davvero a due metri da terra. E no, non era solo per Andrea, perché avevamo fatto “pace” – semmai avessimo litigato per davvero – o perché era tornato a baciarmi. Era anche e soprattutto per me, quella felicità: stavo scoprendo pian piano i tasselli che mi mancavano e, anche se Zeno non mi aiutava con le parole a far luce sui miei momenti di buio, sapevo che era presente, che mi sosteneva e che avrebbe sempre e comunque avuto il merito di avermi fatto riappropriare di una parte di me stessa. Era quella parte che ancora si celava nel mio inconscio a causarmi le crisi di pianto, gli attacchi di panico o gli incubi notturni che, di tanto in tanto, mi disturbavano; forse avevo paura di lei perché mi era ignota, forse non riuscivo semplicemente ad accettarla per un qualche motivo oscuro,  questo ancora non lo sapevo. In ogni caso, ero certa che, se fossi riuscita nella clamorosa impresa di riappropriarmene, tante cose sarebbero cambiate per me e in meglio, certamente.
 

Davvero, nulla avrebbe potuto neanche scalfire la mia bolla personale di felicità, quel pomeriggio, tant’è che ancora sorridevo quando infilai la chiave nella toppa e annunciai poi alla famiglia che ero tornata.
Semmai fosse interessato a qualcuno, ovviamente, più che altro perché a quell’ora, a casa mia, di norma non c’era nessuno: papà e Ludo erano in azienda e mamma da qualche amica.

Di norma, appunto.

Tuttavia, quel giorno, qualcuno ad accogliermi al rientro c’era e no, mi ero sbagliata: la mia felicità poteva svanire rapidamente così com’era venuta.
Perché quel “qualcuno” aveva il potere di disintegrarla e rovinarmi l’umore. Che stupida ero stata a non calcolare quell’imprevisto! Non lo sapevo, forse, che le cose peggiori accadono sempre nei momenti di maggior gioia?
Tra l’altro, avrei dovuto mettere in conto quell’evenienza già da un po’ e prepararmi psicologicamente ad affrontarla, e invece mi ero crogiolata nel mio turbamento di amore o pseudo tale per Andrea senza pensare a ciò che certamente sarebbe accaduto nel mio futuro prossimo.

Vivevo troppo del mio passato ignoto, era quello il problema.
 

Stupida, stupida Margherita!



Quando varcai la porta d’ingresso, quindi, per un po’ me ne stetti immobile, a bocca spalancata e le chiavi che penzolavano dalla mia mano, puntando il pavimento. Mi furono necessari alcuni minuti per comprendere e capacitarmi che no, non ero sola in casa e no, la persona che mi aspettava non era mia madre, né mio padre, né Amy o mio fratello.
Non ci fu neppure bisogno di vederla, non subito almeno: quel suo profumo – l’Hypnôse di Lancôme – l’avrei riconosciuto ovunque.

Poi, uno sbuffo dei suoi capelli vaporosi si materializzò oltre la colonna centrale del nostro salone e infine Florinda apparve, il suo inconfondibile rumore di tacchi che risuonava sul pavimento in marmo.

Avrei voluto sprofondare.

A braccia conserte, si avvicinò di qualche passo e mi sorrise – un sorriso falso, uno di quelli che celano offese e cattiverie.


Margherita, dovresti scappare.
Non ha buone intenzioni.


“Bentornata, cuginetta. Aspettavo proprio te.”




Gelai, nonostante il caldo di fuori.
Ero nervosa, quell’incontro inaspettato stava già prosciugando le mie energie; se almeno avessi potuto prepararmi psicologicamente prima! E invece stava accadendo proprio adesso, nell’unico momento in cui avrei soltanto voluto godermi la mia ritrovata felicità.

In ogni caso sospirai: era inutile lagnarsi.
Mia cugina era lì, di fronte a me, pronta a farmela pagare per il giochetto che le avevo tirato al centro sociale.
Con le parole, le minacce o chissà che altro aveva in mente, ma c’era e dovevo cavarmela da sola. Mi rimboccai quindi mentalmente le maniche e mi diedi un contegno che non avevo mentre infine aprivo bocca per risponderle con una bugia.



“Ciao Florinda. Sono contenta di vederti. Come mai qui?”


 


 
 
 
 















 
 
 
 
***
 
Buon pomeriggio a tutti :D
Come promesso, sono riuscita ad aggiornare Piovre un’altra volta ancora, ma, come vi avevo già preannunciato, questo sarà l’ultimo capitolo fino a settembre. Sono nel pieno del turno estivo in farmacia, dopodiché vado in vacanza (non vedo l’ora) e quindi non avrò tempo per scrivere. Vorrei potervi dire che per fine agosto tornerò ad aggiornare, ma non voglio farvi promesse che non posso mantenere quindi, con maggior certezza, vi dico arrivederci a settembre ^^
Come avete potuto leggere, questo capitolo è completamente dedicato a Zeno & Meg, sia nella loro versione passata (adoro scrivere dei loro ricordi), che nella loro versione del presente.
A proposito di ricordi, quando Margherita, in un flash del passato, dice a Zeno “non avrò tredici anni per sempre”, è una frase che ho già citato nel 4° capitolo, vi riporto il passo:

“Sei rimasta uguale. Uguale a come ti ricordavo io.”
“L’ultima volta che mi hai visto quanti anni avevo?”
“Tredici. Io quasi diciotto. Mi hai detto che non avresti avuto tredici anni per sempre e che le cose sarebbero cambiate presto. Avevi ragione.”


Ecco il perché Zeno comprende immediatamente di cosa sta parlando Margherita quando ripete quella frase… Io ve l’ho riportata nel caso l’aveste persa per strada nel frattempo ;)
Siccome quella, per me, è anche la parte più importante del capitolo, il titolo del capitolo stesso si rifà proprio a tale episodio :D
Volevo farvi notare che la maglia dei Verdena indossata da Zeno, quella che mostra nella foto non è un caso: i Verdena sono il mio gruppo preferito in assoluto e dovevo infilarceli in qualche modo qua dentro ;)
Per quanto riguarda la descrizione del quartiere popolare di San Giovanni, ci terrei a ribadire che si tratta di un posto assolutamente inventato; tuttavia, nel descriverlo, appunto, mi sono ispirata a certi vicoli della mia città – Napoli. Le pietre di basalto, il vociare della gente, i panni stesi ad asciugare… Provate a passare in qualche vicoletto dalle mie parti e vedrete che è proprio uguale ;)

Ah… appuntino: Twilight piace a me, non a Margherita! ;D
L’Hypnôse è il mio profumo preferito, invece, così come Dalì e De Chirico sono gli artisti che amo di più.


Forse, e dico forse, ho detto tutto quel che volevo dirvi. O forse no, ho la testa tutta in confusione, sono sveglia dalle 7 e mezza di stamattina e ho ancora altre 4 ore di lavoro xD
Vabbè, io adesso vi lascio… Vi ringrazio come sempre per le letture, i seguiti/preferiti/ricordati, per le recensioni e tutto il sostegno che state dando a Piovre e a me… Entro stasera risponderò alle vostre passate recensioni :)
Spero che mi farete un regalo per le vacanze e mi direte cosa ne pensate di questo nuovo capitolo <3
Grazie di tutto, davvero, e buone vacanze a TUTTE voi <3

Un bacio enorme
Matisse
 
PS: per fare in fretta, il capitolo non è stato betato. mi scuso per eventuali ORRORI ;)

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Capitolo 11
*** We are demanding the sun ***











“Ciao Florinda, sono contenta di vederti. Come mai qui?”



Mia cugina mi squadrò per qualche istante, a braccia conserte e battendo il piede per terra, prima di rivolgermi un sorrisetto sadico.

“Togliti quell’espressione felice dalla faccia, cugina. Lo so che preferiresti stare otto metri sotto terra che qui con me, adesso. Non c’è bisogno che fingi, l’intolleranza è reciproca.”

Si allontanò, dandomi le spalle; il rumore dei suoi tacchi risuonò sul parquet. Cercai di ignorarla e d’intavolare comunque una conversazione pacifica.

“Sei venuta con mia madre?” domanda quindi.
“No”
“Con Ludo?”
“Con nessuno, Margherita. Sono venuta da sola e mi ha aperto il filippino.”


Il filippino.
Ci trovai tanto disprezzo in quell’appellativo: Joan cucinava, stirava, puliva per noi. E per mia cugina era semplicemente “il filippino”.
Come poteva trattarsi della stessa ragazza che aveva suonato per beneficenza, per raccogliere fondi a favore dei bambini poveri? Ero sempre più convinta che la persona che avevo visto suonare a La Piovra fosse un sosia: mia cugina non era capace di tanto amore e sensibilità.


“Cercavi mia madre?”
“A dirla tutta cercavo te.”

Rabbrividii a sentire quelle parole: avevano il sapore di una minaccia. Come se non l’avessi saputo, poi. Tuttavia, continuai a mantenere la calma, se possibile; in realtà, la tensione, in quella stanza, si tagliava col coltello.


“Ah sì? E come mai?”
“Non fare la finta tonta: abbiamo un conto in sospeso.”
“Io e te non abbiamo mai avuto nulla in sospeso, Flora. Non ho mai desiderato avere  niente a che fare con te.”
Le voltai le spalle, già troppo schiacciata dalla sua presenza; mi costrinse, tuttavia, a voltarmi di nuovo verso di lei, tirandomi per il polso.

“Ehi, fa’ piano! Mi fai male!”
“Povera, povera piccola Margherita!” ridacchiò crudelmente “Sei così delicata, così fragile… Intoccabile, come un vaso di cristallo, non è vero?”

Nei suoi occhi brillò una strana luce: aveva proprio l’aria di qualcuno che non desiderasse altro che provocare e infastidire. Forse sperava in qualche mia reazione per poter scatenare un battibecco di proporzioni enormi? Non ne avevo idea e non facevo altro che chiedermi cosa le fosse preso così d’improvviso.

“Ma che hai? Che vuoi da me?!” urlai quasi a quel punto, strattonando il braccio nel tentativo di sfuggire alla sua presa. Ci riuscii per poco.

“Voglio che mi stai lontana, Margherita. Non sono tua madre, non te la farò passare liscia solo perché fai quattro moine e due piagnistei: pensavi che mi sarei dimenticata di quel che tu e la tua amica avete fatto al centro sociale?”
“Florinda, non è nulla di catastrofico, avanti…” tentai di sdrammatizzare.
“Ah no? Voi mi avete pedinato! E scommetto che l’idea è stata tua… Mi sto sbagliando?”
“Io…”
“Tu niente, proprio niente! Non tentare di arrampicarti sugli specchi con me! Bada bene, quel che è accaduto la settimana scorsa non dovrà mai più ripetersi, altrimenti ti farò passare la voglia di ficcare il naso nei miei affari a forza di schiaffi! Non voglio avere niente a che fare con te e tu non devi impicciarti della mia vita… Cosa credevi di fare, inseguendomi? Pensavi che avessi qualche affare losco da tenere nascosto? Speravi di screditarmi finalmente davanti a tutti? Beh, mi spiace per te, ma non è andata come volevi!”
“N-non erano quelle le mie intenzioni…”
“Ah no? E quali allora, fammi sentire!”

Annaspai, guardandola: non avevo nessuna scusa pronta al momento.
Sogghignò, irritata.

“Come volevasi dimostrare…” rispose, allontanandosi. Si mosse con calma e affettazione: sembrava che la mia presenza la disgustasse.
 
“Pensavi davvero che mi trovassi lì con Emiliano?” domandò poi, d’improvviso con voce inespressiva.

Allora, presi un grosso respiro e mi decisi a dire la verità: cominciavo a temere quella mia cugina che mi odiava tanto; forse, smettere di rifilarle bugie su bugie l’avrebbe calmata, cosicché mi piegai e adottai una nuova tattica.

“Sì, è così.”

Si morse un labbro e io mi affrettai nella mia spiegazione.

“Mi aveva detto che ti frequentava. Mi aveva chiesto il tuo numero di telefono e io…”
“Tu cosa?”
“Ho fatto due più due. Mi dispiace, volevo soltanto sapere se aveva davvero qualcosa a che fare con te. Emiliano non è un tipo rassicurante.”
“Pensavi che me la facessi con gente poco raccomandabile?”

Annuii, tentando di sembrare quanto più convincente possibile.

“Esatto.”

“Quindi vorresti darmi a bere che ti stavi preoccupando per me?”
“No, volevo soltanto capire.”
“Guarda caso, il tuo cercare di capire riguardava proprio la cugina che detesti, giusto?”
“Sei tu quella che mi detesta, che ha sempre da criticare, da ridire e da sfottere… Non io!” sbottai. Non ne potevo più.

“Ascoltami bene, tesoro” Florinda si avvicinò di nuovo, i suoi tacchi produssero un picchiettio aggraziato sul parquet “Ti dico io come sono andate veramente le cose: quel cretino di Emiliano si è inventato una storia su di me. Tanto è cosa risaputa che mi sia sempre venuto dietro, no? L’ha inventata e tu ci sei cascata, anzi: ci sei voluta cascare. Perché pensavi di avere in mano l’occasione buona per farmela pagare per tutte le volte in cui ho dimostrato al mondo che non sei la perfetta ragazzina che vuoi apparire, né la piccola ammalata da compatire. Ma, come ti dicevo prima, il tuo misero progettino è andato in fumo e mi spiace tanto per te, ma nulla di tutto quel che dirai o farai potrà mettermi in cattiva luce davanti ai nonni, a tuo padre o a tua madre. Ho fatto mille sforzi e sacrifici per essere la donna che sono oggi, una donna con i contro coglioni, di cui l’intera famiglia va fiera, e non sarai tu a rovinare tutto soltanto per la tua antica e insopportabile smania di protagonismo, siamo intese? Ergo, non farti mai più pescare mentre mi segui o ti impicci degli affari miei, perché stavolta te la sei cavata, ma non ti andrà sempre così bene. Donna avvisata, mezza salvata, Margherita!”


Ero basita.
Manie di protagonismo, io? E quando le aveva viste?
Come poteva dirmi certe cose? Eppure sapeva benissimo quante ne avevo passate da ragazzina!
Non comprendevo il motivo di tanta rabbia nei miei confronti, una rabbia da sempre covata e che soltanto adesso, nel momento in cui si sentiva minacciata, Florinda era riuscita a tirar fuori del tutto. Sembrava quasi che mi accusasse dei miei trascorsi, come se l’incidente lungo la scalinata dell’azienda di famiglia me lo fossi procurato di mia spontanea volontà e lo utilizzassi, poi, per ricavarne favori e diritti dalla mia famiglia. Se soltanto avesse cercato di capire! Davvero non aveva idea di quanto ancora soffrissi di tutta quella storia, ancora di più adesso che Andrea era tornato nella mia vita e io ricordavo così poco di lui?

Ero senza parole.


“Perché sei così cattiva con me? E’ per una questione di soldi? Credi che voglia rubarti la tua parte di eredità o cosa? A me di queste cose non importa nulla!”
“Ma certo che no, ti sei sempre divertita a fare la proletaria… Col denaro di tuo padre, però! Ci sputi sopra ogni momento eppure continui a vivere in questa bella casa, con tutti gli agi che ti offre la tua famiglia!”
“Che cavolo vai dicendo?”
“Dico quello che vedo. E no, non m’importa dei soldi, so quel che mi spetterà un giorno e non ho paura che potrai rubartelo tu, è già tanto che sei ancora nel testamento dei nonni. M’infastidisce, piuttosto, l’idea che tu possa cascare sempre in piedi. Nonostante i capricci che fai, ti becchi sempre al massimo qualche rimprovero e poi sei di nuovo viziata e coccolata da tutti, come se fossi la beniamina della famiglia, mentre io studio e lavoro per ottenere lo stesso trattamento. E ora tu vorresti rovinare tutti i miei sforzi con i tuoi improvvisi atti di astuzia… Puoi scordartelo!”

“Florinda, stai delirando! Sei tu la cocca di famiglia, la nonna ti adora! Tuo padre ti tratta come un gioiello e mia madre non fa altro che parlare di te…”
“…Per poi decantarti di continuo e ripetermi fino allo sfinimento che la sua piccola Margherita, in fondo, è solo tanto fragile e delicata, è dolce e ha bisogno di cure e affetto! Che cosa stomachevole! Ti amano così tanto che si stanno spolmonando per farti rientrare nell’azienda di famiglia e tu li snobbi, ripagandoli con un calcio e un vaffanculo ogni volta. Sei una persona che non merita niente, niente di quel che ha!”


Mi paralizzai: ogni singolo muscolo del mio corpo rifiutava di rispondere ai comandi, cosicché stentavo a muovermi e anche solo a sforzarmi per parlare. Mi sentivo l’esserino debole e incapace di difendersi che ero sempre stata, ma a questo si sommava adesso un nauseante quanto fastidioso senso di colpa.

Florinda c’era riuscita a farmi sentire un’ingrata.
Ero io quella cattiva, io l’indegna creatura che sputava sui beni e i lussi che la vita le aveva concesso continuando comunque a sguazzarci dentro.
Ero io che non apprezzavo tutto quanto il destino e la mia meravigliosa famiglia mi avevano dato in dono.

Che poi mia madre, mio padre, i miei nonni e tutto il resto del parentado, cercassero di controllare la mia mente, i miei pensieri, le mie scelte e le mie azioni conformandole a ciò che volevano loro, questo non aveva importanza. Io ero un’ingrata, gli altri i miei salvatori incompresi.
Ancora una volta, per mia cugina, ero io quella sbagliata.
Mi venne mal di stomaco e non risposi.



Florinda batte Margherita 1 a 0.


Così, per qualche minuto, nessuna delle due parlò più; Florinda mi dava le spalle e si trincerava dietro quel suo silenzio ostile che sapeva comunque dirmi tante cose e mortificarmi ancora di più. Io, semplicemente, non aprii bocca perché troppo affossata dalle sue accuse e dalla mia stessa debolezza. Per quel giorno non riusci ad essere orgogliosa di me stessa.
Alla fine, comunque, fu mia cugina a rompere il silenzio:
“Adesso basta, mi sono stancata di star qui a parlare con te” mugugnò ad un tratto, infatti, afferrando la propria borsetta dal mobiletto all’ingresso “Quel che avevo da dirti l’ho detto: stammi lontana e non provare mai più a farmi certi scherzetti stupidi. La prossima volta non ti andrà così bene.”

A quel punto, s’incamminò verso l’ingresso; con sollievo vidi la sua silhouette perfetta sparire nel corridoio, ma non reagii.
Come poteva essere riuscita ad abbattermi così tanto?

Alla fine, sbatté la porta di casa (mia) con tanta violenza che sobbalzai; soltanto allora tentai di calmarmi, di dimenticarmi di lei per riprendere il controllo perso di me stessa. Respirai a fondo per qualche istante e strinsi i pugni. Ma quell’odio smisurato che provava nei miei confronti non se lo portò via il rombo della sua auto che partiva a tutto gas, no di certo. Ogni singola parola pronunciata da mia cugina contro di me rimbombava nella mia testa, il suono ad essa associato si amplificava e dilatava d continuo, tramutandosi  in un urlo singolo prima, in una serie di urla dopo. Avevo mal di testa.

Dopo quell’incontro così insensato e fulmineo, mi accasciai spossata lungo lo stipite della porta. Non avevo mai avuto una simile discussione con nessuno in vita mia, né mi ero mai sentita tanto odiata, attaccata e indifesa: ero priva di energie. Così accoccolata rimasi, quindi, finché Joan, che ancora gironzolava per casa, non mi ritrovò e, preoccupato, mi chiese nel suo cattivo italiano se desideravo una limonata per riprendermi.
La limonata e i suoi zuccheri annessi costituivano un elisir di lunga vita, a suo dire
 
“No, grazie.”
“Signorina, poco poco. Beve limonata di Joan, su.”

Fu così tenero e gentile nella sua insistenza che non riuscii a rifiutare oltre; mi alzai a stento dalla mia postazione, quindi, e lo seguii in cucina dove mi versò un bicchierone della sua bevanda prediletta.
Sperai anch’io, come lui, che gli zuccheri che adesso circolavano nel mio corpo potessero mettere in sesto anche i miei pensieri, oltre che la mia pressione.
 

“Grazie.”
“Prego, signorina”
“Sei gentile” commentai bevendo un ultimo sorso. Mi guardò con solidarietà e comprensione e mi chiesi se avesse capito qualcosa di quell’assurda baruffa con Flora. Di certo doveva averla quantomeno sentita, giacché mia cugina aveva alzato di molto la voce.

Che vergogna.

“Tutto a posto?”
“Sì”

Annuì.

“Okay. Io andare signorina, adesso. Andare casa, ma tu stai bene?”
“Sto bene, Joan.”
“Posso andare sicuro, allora?”

Lanciai un’occhiata all’orologio: era davvero molto tardi per lui. Aveva sforato di quasi tre quarti d’ora il suo turno di lavoro: evidentemente, doveva essersi trattenuto per dividere le due contendenti, nel caso si fossero azzuffate.

“Vai Joan, sto molto meglio. Grazie per la limonata, ci vediamo domani.”


Mi squadrò con poca convinzione, ma non si trattenne più del dovuto: non vedeva l’ora di andarsene a casa propria e non poteva dargli torto. Anche io sarei andata via da casa mia a gambe levate, se solo avessi potuto.
Lo salutai con un cenno della mano, certa di aver fatto la cosa giusta nello spingerlo a lasciarmi, ma quando il tonfo della porta mi segnalò che davvero non c’era più nessuno a sostenermi, dopo quel pomeriggio di delirio, mi sentii più sola e frustrata che mai.
 I pezzi della mia vita non facevano mai abbastanza in tempo a cercare di ricollegarsi tra di loro, che un nuovo tornado veniva a sconvolgere ancora il mio ordine precario. Ero stanca di tutto questo, dell’indifferenza di mio padre, degli sguardi di rassegnata disapprovazione di mia madre, delle insistenze di mia nonna e dell’isteria immotivata di mia cugina nei miei confronti. Trovavo assurda l’accoglienza che mi aveva riservato: per quanto avessi potuto effettivamente sbagliare con lei, mi sembrava ridicolo l’atteggiamento che mi aveva riservato, con quegli sguardi così carichi di odio che di tanto in tanto mi aveva lanciato. Ero certa che, se avesse potuto, mi avrebbe menata di brutto nella migliore delle ipotesi; davvero c’era soltanto della banale gelosia alla base di quella reazione? Davvero mi odiava soltanto perché avevo valicato, per una volta nella mia vita, la sua privacy o perché mi considerava la privilegiata della famiglia? E quando mai sarei stata trattata in modo tanto premuroso da parte dei miei parenti da suscitare in lei una tale invidia?

La mia vita continuava a scivolare silenziosa tra rimbrotti e disapprovazione, sullo sfondo di quella mia memoria confusa che non mi rendeva ancora lucida e sicura al punto tale da prendere in mano ogni situazione e sistemarla per il verso giusto.
Ero stanca.

Per contro, avevo un unico punto fermo al momento nella mia esistenza e tale punto, paradossalmente, era proprio parte di quei ricordi senza contorno che tanto mi facevano male: ovviamente, parlavo di Andrea.
Andrea, l’unica persona che sapesse sempre come prendermi, anche quand’ero arrabbiata, nervosa, o delusa. Anche adesso, che non ero più la Margherita che aveva conosciuto lui. Andrea che possedeva la chiave per farmi sentire di nuovo bene: me stessa. La persona che ero stata e che non ricordavo come avrei dovuto.

Come vorrei fossi qui, adesso, Andre…

Lo desideravo davvero, anche se ci eravamo lasciati da meno di due ore. Forse avevo solo bisogno di una faccia amica, ma avrei potuto anche decidere di telefonare a Romina e invece non l’avevo fatto: volevo proprio Andrea.
Tuttavia, non potevo disturbarlo ogni minuto con i miei problemi da ragazzina di famiglia perbene, e allora mi accontentai di pensarci e basta. Cercai di calmarmi e concentrarmi sul suo sorriso; ripensai a quegli occhi grigi e attenti, alla sua mano calda attorno alla mia, alle nostre risate in una foto ormai vecchia.
E per un attimo, ci riuscii: l’immagine dei porticati di San Giovanni e il suono della risata di Zeno si sostituirono, nella mia mente, alla figura inquietante di ma cugina, alle sue urla e a quegli occhiacci pieni di risentimento.
Riuscii perfino a sentirmi meglio e mi complimentai con me stessa per il self control.

Stai migliorando, Meg!


Tuttavia, la mia ritrovata e precaria beatitudine, durò soltanto lo spazio di pochi minuti; del resto, non avrei mai dovuto illudermi di poter assaporare un po’ di tranquillità per un periodo di tempo particolarmente lungo. Difatti, il mio sogno s’infranse nel momento stesso in cui il suono del cellulare non mi segnalò l’arrivo di un nuovo messaggio.
Romina.


“Meg, corri a La Piovra! Ci sono i carabinieri e Andre sta discutendo con uno di loro!”

In contemporanea, un brivido di freddo mi percorse la schiena e, subito dopo, percepii una vampata fastidiosa di calore; cominciai a sudare e le guance mi si tinsero di rosso. Il mio corpo rispondeva in automatico al senso di panico che quel messaggio mi aveva comunicato.



Carabinieri.
Carabinieri a La Piovra.
Andrea che discute con suddetti carabinieri.



Un dramma, in pratica!

A bocca spalancata, figurai davanti ai miei occhi l’immagine mentale di uno Zeno sudato e ferito, magari anche malmenato, portato in questura da una schiera di uomini in divisa.
A confronto con tale pensiero, mia cugina diventava il minore dei mali. Un angioletto, in pratica.
Non finiva un problema nella mia vita che ne cominciava un altro! Iniziavo a stufarmi sul serio.
Che altro c’era adesso? Da dove erano spuntati fuori i carabinieri?E che si era messo in testa Andrea?

Avrei dovuto affrontare subito la questione e, se possibile, tentare di risolverla. Anche se non sapevo neanche come fare.
In ogni caso, dimenticai subito il precedente capogiro e l’evento che l’aveva scatenato;  scattai dalla sedia e per poco non rovesciai la limonata di Joan.
Dovevo correre a La Piovra: probabilmente non sarei servita a molto, alle prese con i carabinieri in un centro sociale di cui ancora non comprendevo bene le dinamiche, tuttavia volevo vedere la situazione con i miei occhi, cercare di capirla e, soprattutto, mostrare il mio sostegno ad Andrea.
Perché io l’avrei aiutato sempre, come lui aiutava me.
 




 
***






Quando giunsi fuori al piazzale de La Piovra, dopo l’ennesimo, sconquassante viaggio sul bus 480, la prima cosa che vidi fu proprio un’auto dei carabinieri: inutile dire che mi agitai subito tantissimo poiché Romina non mi aveva mentito.
Perché avrebbe dovuto farlo, del resto?
Tuttavia, si trattò di un’ansia produttiva giacché, piuttosto che starmene lì impalata in contemplazione, ad aspettare l’evolversi degli eventi, mi lanciai immediatamente verso l’ingresso del centro sociale. Non sapevo bene cosa volevo fare, ma almeno c’era la buona volontà di impegnarmi.
Ero ancora sui gradoni, quando Romina mi raggiunse, tutta rossa in viso; mi disse “vieni dentro” e, dalla sua espressione stravolta, sembrava davvero che all’interno de la Piovra fosse in atto una condanna a morte. In realtà,  una volta approdata nel centro sociale, la situazione mi parve piuttosto tranquilla: semplicemente, una quindicina di ragazzi, infatti, formava un cerchio in un angolo della sala principale, lì dove un paio di carabinieri se ne stavano immobili, un’espressione di disappunto misto a disagio dipinta sul volto. Era chiaro che non amassero particolarmente l’ambiente.

Tra tutto il gruppo di punkabbestia assiepati nell’angolo, due spiccavano più degli altri: l’uno, Polska, la cui chioma spigolosa e multicolor sarebbe stata riconoscibile ovunque e l’altro - Andrea ovviamente, il quale, più che per i capelli, si faceva notare per la sfilza di tatuaggi sfumati che riempivano ogni centimetro della sua pelle esposta. Entrambi sembravano particolarmente impegnati in una conversazione a senso unico con i due agenti; a senso unico perché, in pratica, erano soltanto loro a parlare con enfasi, accompagnando il tutto con ampi gesti delle mani: i carabinieri non sembravano interessati.
In un angolo più in disparte rispetto a loro, se ne stava anche Stena: quasi raggomitolato su se stesso, le braccia al petto, sbuffava e bofonchiava qualcosa tra sé senza però intervenire.
Prima di sincerarmi della situazione mi guardai bene intorno: di Luna non c’era traccia.
Bene, almeno qualcosa funzionava per il verso giusto.
“Che è successo, Rò?”, domandai dunque rivolgendomi a una – stranamente – silenziosa Romina.
C’impiegò una manciata di secondi per rispondermi: sembrava davvero sconvolta.


“E’ arrivata quest’auto dei carabinieri così, all’improvviso…”
“Me l’hai scritto, infatti. Sono corsa appena possibile, ma con l’autobus c’ho messo più del previsto” spiegai quasi bisbigliando “Però credevo di trovare chissà che macello… Mi pare tutto abbastanza a posto!”
“Sì, è così in effetti… E’ che all’inizio Stena ha cominciato a urlare contro il carabiniere più anziano” indicò uno dei due agenti, quello con la chioma brizzolata e il cappello ben calcato in testa “e Andrea è intervenuto per calmarlo. Poi ha cominciato a discutere con lui, il tipo gli diceva che erano dei sovversivi, che avevano creato dei gruppi di violenti, penso si riferissero alla manifestazione della scorsa volta. Stena è intervenuto di nuovo, hanno alzato tutti la voce, a un certo punto pensavo li avrebbero portati direttamente in carcere.”
“E poi?”
“Poi è venuto Polska e, non so come, li ha fatti calmare tutti quanti.”

“Mmh…”
“Che c’è?”
“Niente, solo che… Per trattarsi di un’ incursione di carabinieri è piuttosto stramba. Da come me l’hai raccontata non mi sembra affatto un’ispezione ufficiale, non so se rendo l’idea…”
“Non capisco…”
“Romy, com’è possibile che Stena abbia urlato come un pazzo e nessuno l’abbia portato in questura subito?”

Romina mi guardò perplessa. Alla fine rispose con un’alzata di spalle.

“Non lo so, ma resta il fatto che mi sono spaventata molto: Andrea era agitato, Stefano irriconoscibile… Mi hanno impressionata!”
Nello stesso istante in cui la mia amica pronunciava quelle ultime parole, il gruppetto in fondo alla sala si zittì d’un tratto: mi voltai a guardarli e notai che i due carabinieri sembravano in procinto di lasciare il centro sociale.

“Alla prossima vi metto tutti dentro, sia ben chiaro!” urlò quello più anziano d’improvviso, raggiungendo l’ingresso a grandi passi: ero sempre più convinta che non vedesse l’ora di sgattaiolare fuori da quel posto. Mi passò davanti in tutta fretta e neanche mi notò. Io l’osservai perplessa, senza degnare di uno sguardo il carabiniere più giovane, silenzioso e anonimo; dopodiché guardai alle mie spalle, incontrando il viso di Stena a pochi centimetri dal mio. Aveva un’espressione stravolta, furiosa e mortificata al tempo stesso; alzò il pugno in aria, con fare minaccioso, prima di urlare “Non mi vedi più, stai sicuro!”

L’uomo, comunque, non lo udì: era già piuttosto lontano, sugli ultimi gradini verso la strada, per poterlo sentire.

“Stena, calmati”

Fabrizio si avvicinò a Stefano; la sua voce era così rassicurante, pur in una situazione tanto strana e paradossale, da riuscire a rilassare sia me che Romina: nonostante le sue pupille apparissero, infatti, ancora dilatate e gli occhi spauriti, la piega delle sue labbra appariva più morbida e distesa. Fabrizio aveva un’ottima influenza su di lei.

“No, non mi calmo.”

Fabrizio l’agguantò per la spalla sinistra, lo costrinse a guardarlo. Stefano fremeva, non l’avevo mai visto tanto nervoso: di norma era così spensierato e giocherellone!

Mi strinsi in un angolo, trascinando con me Romina. Ero corsa a La Piovra per Andrea, per dargli il mio aiuto e difenderlo nel caso qualcuno l’avesse accusato o minacciato, e invece mi sentivo semplicemente fuori posto: non capivo le dinamiche di quella stramba situazione, non comprendevo perché Stena fosse tanto nervoso e irritato e, soprattutto, proprio non sapevo come rendermi utile in qualche modo. In ogni caso, non ero l’unica ad apparire così spaesata: dall’altro lato della sala, il gruppetto di ragazzi del centro non sembrava meno silenzioso e a disagio di me. I più si guardavano in faccia l’un l’altro, perplessi, biascicando paroline incomprensibili; qualcuno si allontanò, dopo pochi minuti, qualcun altro finse di interessarsi del disordine della sala, cosicché il gruppo si disperse in breve tempo. Soltanto Andrea se ne stette lì, immobile, a guardare da lontano allo strano incontro tra Polska e Stena, finché, ruotando il capo in direzione dell’ingresso, non incontrò me.
Guardai alle sue labbra mentre pronunciava piano il mio nome e anche in quella situazione assurda riuscii ad emozionarmi.

Sapevo che era felice di vedermi. Felice quanto lo ero io.

“Stè, andiamo. Se ne parla con calma.”
“Non voglio parlare di niente. È riuscito a farmi fare una figura di merda davanti a tutti, di cosa dovrei discutere ancora?!”

D nuovo, la voce di Fabrizio e Stefano, a pochi passi da me, mi riportò immediatamente alla realtà; cercai di capire di cosa parlassero senza intervenire. Romina, viceversa, fu più pronta e si lanciò immediatamente verso di loro.

“Ragazzi? E’ tutto okay? “
“Tutto okay.” Rispose Polska. Era la prima volta che gli sentivo rivolgere la parola alla mia amica.
“Mi sono spaventata così tanto quando ho visto i carabinieri!”

Stefano non rispose; si limitò a stringere i pugni con forza. Non avrei saputo spiegare il perché, ma mi fece tanta tenerezza: mi era sempre parso un bambinone, Stefano. Adesso, in più, mi sembrava anche indifeso.
Nello stesso istante, Andrea scivolò alle mie spalle e mi agguantò il polso destro; ricambiai con un sorriso la sua stretta e mi feci più vicina a lui. Qualsiasi forma di disorientamento e timore svaniva in una frazione di secondo, in sua presenza: non ricordavo neppure l’ansia con cui avevo preso l’autobus per raggiungere La Piovra, quando Romina mi aveva avvertito. Sapevo comunque che l’avevo fatto per lui e questo bastava.

“Ero preoccupata per te” confessai allora “Pensavo fossi in pericolo. Quando Romy mi ha scritto dei carabinieri…”
“Sei corsa qui per questo? Pensavo non avresti più messo piede a La Piovra” rispose facendomi l’occhiolino, in un chiaro riferimento a Luna.
“Per te ho fatto un’eccezione”

“Stai tranquilla, Meg” intervenne allora Stefano. La sua voce era estranea, così diversa da quella cui ero abituata io; neanche mi guardava mentre parlava.

“Non sarebbe successo nulla a nessuno. È inutile che stiate così sulle spine.”
“Ma erano carabinieri, Stè… E’ per la manifestazione, per questo sono venuti? ” domandò Romina.

Andrea mi pizzicò il braccio, guardandomi poi con un’espressione indecifrabile. Non compresi.
Stefano, dal canto suo, annuì ma sembrava poco convinto.

“Volevano sgomberare La Piovra?”

“No. Non erano qui per questo. Adesso basta parlarne, comunque…” Polska intervenne in modo risoluto, era chiaro che volesse troncare la conversazione. Cercò di spingere Stefano via da noi, ma lui se lo scrollò di dosso.
“No, Fabri… Non cambiamo argomento. Già che ci siamo diciamolo anche a loro.”
“Dirci cosa?”
“Smettila Stè”
“Non che non la smetto, ti vergogni di avermi qui nel gruppo per caso? E’ per questo che non vuoi farlo sapere in giro?”

“Stefano, non dire cazzate. Polska non è il tipo da queste cose!” lo ammonì Andrea.

A quel punto, mi spazientii e intervenni anche io: detestavo i linguaggi in codice.

“Sentite, mi sto stancando. Possiamo capire di cosa state parlando?”
“Quei due carabinieri lì” riprese allora Stefano, con tono nervoso “Non avrebbero fatto un bel nulla al centro sociale, Meg. È questa la verità.”
“Come fa a saperlo, Stena?”
“Perché non erano qui in veste ufficiale. Volevano soltanto minacciare me, per convincermi a lasciare La Piovra. In cambio eviteranno che altri agenti vengano a sgomberare.”
“Ma perché proprio te? Che c’entri con loro?!” domandò a quel punto Romina, con voce stridula.
Proprio non riuscivamo a raccapezzarci.

“C’entro perché” la voce di Stefano acquisì un tono quasi solenne “…Il carabiniere più vecchio è mio padre. Ed io, per lui, sono soltanto un disonore.”






***





“Il papà di Stefano è maresciallo dei carabinieri e non ha propriamente tendenze comuniste o anarchiche.” spiegò Andrea quel pomeriggio, riaccompagnandomi a casa in bicicletta. Il cielo si era annuvolato e qualche goccia di pioggia mi aveva già colpito dritta in testa, tuttavia non le avevo badato molto. Non m’interessavo mai di nient’altro quando ero con lui.
Continuavamo a camminare a passo lento, trascinando la bicicletta con pigrizia, mentre la gente attorno a noi già correva a rifugiarsi dalla tempesta incombente.

Non comprendevo tutta quella fretta, forse, semplicemente, perché avevo altro a cui pensare.

“Quindi non approva quel che fa Stefano, giusto?”
“Esatto. Non approva il suo modo di vestire, i suoi capelli, le idee politiche e le sue frequentazioni. Nulla di tutto questo. Stefano soffre da una vita per questa non accettazione, soprattutto perché viene messo continuamente a confronto con i fratelli maggiori: uno è avvocato, l’altro carabiniere a sua volta.”
“Due cocchi di papà, in pratica.”
Andrea annuì e a me si strinse il cuore: pensavo di poter comprendere quel che avvertiva Stefano.
“Con la storia della manifestazione e del casino che è successo, il papà di Stefano si è agitato ancora di più. È venuto a minacciarci oggi, a dirci che se suo figlio avesse continuato a frequentare La Piovra avrebbe chiesto lo sgombero del centro sociale. Dice che non ci metterebbe proprio niente a raccogliere le firme dei residenti per cacciarci via, ma gli ho fatto presente che è impossibile perché raramente diamo fastidio a qualcuno.”
“Ma è ridicolo! Non può pretendere che impediate a Stena di far parte del vostro gruppo! Inoltre, non fate davvero nulla di male, anzi: lavorate così tanto nel sociale!”

Ripensai al concerto di beneficenza, ai soldi raccolti per i bambini poveri di San Giovanni e San Teodoro.
Mi tornò in mente Florinda seduta al pianoforte. La scacciai subito dai miei pensieri.

“Vai a spiegarglielo, Meg. Ha la testa dura. Pensa che è venuto in divisa appositamente per metterci ansia.”
“Ecco perché Stefano ha urlato tanto contro di lui e nessuno gli ha messo le manette…”
“E’ comunque il figlio del maresciallo Corvari, nessuno lo tocca.”
“Stena non sopporta questa cosa, vero?”
“Affatto. Non so quante volte è andato via di casa a causa dei litigi che ci sono in famiglia. L’ultima non ci ha neanche avvisati e ha dormito a Piazza De Gasperi con i barboni. Stasera, per esempio, credo che starà da Polska, è troppo scosso per tornare dai suoi.”
“Perché non li lascia definitivamente? Si cerca un lavoro e va via!”
“Perché a sua madre, ogni volta, prende un colpo. Dice che la farà morire di crepacuore e allora a lui prende il rimorso e torna sui suoi passi. Stefano è un bravo ragazzo, è gentile e ha il cuore grande, Meg, certe cose non è capace a farle.”

Annuii.

“L’avevo capito, in effetti.”

Per un po’ camminammo in silenzio; avevo conosciuto Stefano sotto un nuovo aspetto ed ero decisamente turbata. L’avevo sempre considerato – molto superficialmente  - un ragazzo spensierato e allegro, senza problemi e con tanta voglia di divertirsi e divertire e invece… Invece, dietro quel suo sorriso sincero e le tasche piene di marijuana, si nascondeva una persona  complessata e combattuta, un tardo - adolescente angosciato dalla non accettazione di suo padre, tormentato dal confronto con quei fratelli perfetti, soggiogato dalle paranoie di una madre il cui unico desiderio era tenerlo ancorato a sé.
Provavo tanta solidarietà nei suoi confronti, perché io in primis ero consapevole di cosa significasse combattere ogni giorno contro lo spettro di un genitore che non ti riteneva all’altezza delle sue aspettative.

Sospirai affranta, nello stesso istante in cui Andrea passava il braccio intorno alla mia spalla.

“Scocciata?”
“Pensavo a Stena… Mi dispiace per lui, so cosa significa avere pessimi rapporti in famiglia.”
Mi guardò teneramente.
“Guai con tuo padre, Meg?”
“Con mia cugina Florinda, soprattutto. Poi te ne parlo, magari. Oggi non mi va neanche più di nominarla.”

Mi strinse più forte, solidale.

“Senti un po’…” ricominciò dopo qualche istante di silenzio. Aveva un tono volutamente scherzoso, forse per aiutarmi a distrarmi, non lo so; in ogni caso, m’incuriosii subito.
“Dimmi”
“Fammi capire una cosa: ti saresti precipitata a La Piovra perché eri in pensiero per me? Mi sembrava di aver captato una cosa del genere, prima”

Continuò a guardare verso l’orizzonte, con un sorrisetto indisponente stampato sulle labbra.

“Stai cercando di estorcermi quanto tenga a te? Non ce n’è bisogno, direi!”
“No?”
“No, lo sai già”
“Meno male”
“Come hai potuto vedere, non ho badato neppure all’eventuale presenza di Luna”
“Luna non sarà mai un problema per te, Meg. Quindi non nominarla neppure più.”

Sorrisi, più rilassata. Poi, poggiai la testa sulla sua spalla; Andrea ricambiò con un bacio tra i capelli.

“Comunque, sono più tranquilla adesso.”
“Tranquilla per cosa?”
“Beh, dal messaggio che mi aveva inviato Romina, credevo che fossi invischiato in una mega scazzottata con i carabinieri… Invece era tutto okay!”

Rise con me.

“Romina è visionaria, a volte. E tu la stai pure a sentire!”
Alzai le spalle.
“Non l’ascolterò più, allora. Ormai l’ ho visto con i miei occhi che non sei un tipo da prender questione con chicchessia.”
“Quindi sono un tipo pacifico, per te?” mi fece l’occhiolino.
“Per certi versi sì. Credo che non avresti discusso con i carabinieri, anche se quella fosse una vera incursione. O mi sbaglio?”
Ci pensò un po’ su.
“Non lo so, Meg. È capitato in passato che abbia avuto momenti poco ortodossi e per poco in galera non ci sono finito per davvero. Probabilmente, adesso, ho imparato a misurare la mia impazienza, a controllare la mia ira, non lo so. O forse la vita mi ha solo insegnato che a volte la diplomatica parlantina ti porta molto più in alto di una scazzottata. Comunque, dove c’è da lottare di certo non mi ritiro, soprattutto se è per una buona causa.”
“Come sei diventato saggio!” lo stuzzicai fermandomi all’angolo della strada perché ormai eravamo quasi arrivati a casa mia.
“Lo sono sempre stato” ammiccò con aria sornione.
“Beh, questo non posso ricordarmelo, ma sappi che gradisco molto il tuo carattere attuale”
“In effetti ti piaceva anche l mio carattere ribelle di un tempo”
“Sì…Adoro anche i tipi ribelli, belli e dannati” scherzai.
“Io sarei dannato?”
“Mmm… Magari dannato no.”
“Ma bello sì?”
“Facciamo che prima ci penso un po’ e poi te lo dico, va bene?”
“Piccola disgraziata!”

Mi venne da ridere, mentre Andrea fingeva di inseguirmi; mi afferrò per il braccio destro e mi solleticò il fianco prima di abbracciarmi.
Dopo quella giornata così incasinata non avevo bisogno di altro.

Andrea aveva lo straordinario potere di farmi sentire bene. E, teoricamente, così non avrebbe dovuto essere perché lui stesso si ricollegava alla mia memoria persa e mi ricordava ogni volta, con la sua presenza, che la mia testolina non funzionava ancora a dovere. Mi ricordava, soprattutto, che la certezza di essere guarita non era tale finché ogni tassello scomparso non fosse tornato al proprio posto.
Eppure, quando mi trovavo in sua compagnia, ero tranquilla: lo associavo a qualcosa di bello, all’idea rassicurante che anche io avessi avuto in passato, e possedessi tutt’ora, un posto nel mondo. Anche soltanto ridere con lui mi aiutava a dimenticare i rimbrotti e la disapprovazione della famiglia sbagliata in cui ero capitata. Mi aiutava a sentirmi più forte, a ricaricarmi di energie per affrontare il domani. Era incredibile.
Forse era sempre stato così tra noi, e forse era per questo che a soli quattordici anni mi ero innamorata di lui.
Perché dovevo essermi innamorata di lui all’epoca, esattamente come stava capitando per la seconda volta. Ammesso che questo fosse un re - innamoramento piuttosto che la continuazione di un sentimento più antico.

“A cosa pensi?” mi domandò a un tratto, mentre, dopo lo scherzo, ancora me ne stavo tra le sue braccia senza dare alcun segno di voler rincasare. Era quasi ora di cena e il sole si era già nascosto oltre i palazzoni popolari alle spalle del quartiere perbene dove abitavo io, ma non m’importava. Ero stretta ad Andrea, la mia testa sul suo petto, sentivo il suo respiro e l’odore di tabacco ed ero felice così: perché tornare in quella gabbia di matti che era casa Gherardi?

“A nulla. A tutto. A quanto sto bene con te. Al fatto che vorrei non dover tornare a casa.”

Non rispose per qualche secondo. Poi, sospirò.

“Florinda ti ha fatto dispiacere così tanto?”
“Abbastanza”
“Non pensarci.”
“Infatti non voglio farlo quando sono con te.”
“Dai, adesso devi andare. Noi ci rivedremo domani, Meg. È una promessa.”
“Ci vedremo domani e dopodomani e l’altro ancora?”
“Tutte le volte che vuoi.”

Sorrisi, più rassicurata. E poi di colpo, come se una lucina si fosse accesa d’improvviso nel mio cervello mentre ascoltavo quelle sue parole, mi tornarono in mente i versi di una poesia che amavo molto. Era di Neruda – uno de miei poeti prediletti – e non avrei mai saputo dire perché, ma la trovai molto adatta per quel momento. Così presi a recitarla a mezza voce, ma Andrea mi sentì subito lo stesso.

“Amore, quando ti diranno che t’ho dimenticata…”
“..e anche se sarò io a dirlo, quando lo dirò…”
“…non credermi. La conosci?” domanda sorpresa. Annuì.


“La conosco. Ti piaceva. L’ho imparata con te.”
“A te piace?”
“Sì, l’ho riletta tante volte.”
“Te la dedico, Andre. Anche se la mia memoria non vuole saperne di tornare non ti ho dimenticato. Altrimenti non si spiegherebbe tutta la mia voglia di starti vicino.”


Mi scostò con dolcezza. Negli occhi aveva una luce che non gli avevo mai visto prima, come d’improvvisa sofferenza.
Mi morsi la lingua: avevo forse fatto o detto qualcosa di sbagliato?


“La dedichi tu a me?” domandò dunque, quasi sorpreso.
“Sì. Ti voglio bene, Andrea.”
“Non sai quanto te ne voglia io, Meg.”
“Ho detto qualcosa che non va? Mi sembri triste. Dovrei forse ricordarmi di qualcosa in particolare, in questo momento?”
Sorrise della mia ingenuità.

“No, Meg. La tua memoria non funziona a comando. E comunque non c’è niente di già detto o fatto che tu debba ricordare.”
“E cosa, allora?”


“Nulla” rispose allora, di nuovo con voce atona “E’ che stavolta sono io a ricordare qualcosa. Ma è qualcosa che vorrei dimenticare”







 


Quella sera, a casa, nel buio della mia stanza prima di andare a dormire, ebbi molte cose su cui riflettere.

1. La famiglia che hai, raramente sarebbe anche quella che ti sceglieresti, se potessi. E questo valeva per me, così come per Florinda: di certo non mi avrebbe mai presa come cugina, né in qualsiasi altro grado di parentela, se avesse potuto. Tuttavia, le ero capitata e non c’era nient’altro da fare; avremmo dovuto renderci indifferenti l’una all’altra, se possibile e soltanto col tempo.
2. Esistono persone con i tuoi stessi problemi, il tuo stesso senso di non accettazione, le tue turbe e i tuoi dispiaceri. Ma queste persone sanno sorridere e mascherare, dopo che la rabbia è sbollita. Queste persone sanno fingere che vada tutto bene e mostrarsi per ciò che non sono.
Una di queste persone era Stena e adesso mi sembrava di conoscerlo un poco di più.

3. La stessa cosa che può rendere felice una persona può causare dispiacere in un’altra.
La stessa poesia che amavo e che avevo recitato ingenuamente con serenità, aveva impensierito Andrea senza motivo apparente. O meglio, senza che io potessi conoscere tale motivo. Perché c’erano ancora tante cose di Andrea che non sapevo, cose che non voleva dirmi, cose che voleva scoprissi da sola forse, o cose che non voleva scoprissi affatto. Magari avrei dovuto preoccuparmi per questa sua titubanza, ma non ci riuscivo: l’unica cosa che mi premeva era sapere che lui stesse bene e non avesse pensieri. Bene, esattamente come mi sentivo io quand’ero con lui, a prescindere dalle perplessità e dai nostri ricordi, quelli che non tornavano e quelli che potevano far male.















Aprile 2008




“Passano gli anni e tu dove sei?
Io sono qui a dirti che non ho più paura”

Un inverno da baciare – Marina Rei







“Ma porca…”

Andrea imprecò, mentre inciampava nelle stringhe delle sue Converse, come spesso accadeva quando aveva fretta perché era in ritardo al lavoro.
Anche quel giorno, come tutti gli altri.

La sera prima aveva bevuto un po’ troppo – anche quella sera, come tutte le altre – ed era ancora rintronato a causa di tutto l’alcool che gli circolava in corpo.

Stava diventando una specie di alcolizzato, o forse lo era già. A sua madre non avrebbe fatto piacere saperlo, quando fosse morto a causa del fegato in cancrena, e neanche al proprio datore di lavoro, ma soltanto perché poi avrebbe dovuto rimpiazzarlo in tutta fretta. In effetti era già un miracolo che lo tenesse ancora lavorare, nonostante quel suo perpetuo ritardo.
Dopotutto, era un ragazzo fortunato.

Quando uscì dal portone di casa una folata di vento gelido lo investì in pieno viso; era vento che proveniva dal mare – quel mare scuro di Liverpool – ed era sempre così freddo che le labbra gli si screpolavano all’istante se non provvedeva a tenerle adeguatamente al riparo con una sciarpa di lana. Tutto sommato, comunque, gli piaceva: gli dava una sensazione di freschezza e lo teneva sveglio: per quanto potesse congelarsi, gli andava a genio. Tollerava molto poco la pioggia, invece, perché gl’inzaccherava gli anfibi e inzuppava i suoi vestiti, quei pochi che aveva. Ma odiare il maltempo inglese e desiderare ardentemente il sole era una sfida persa in partenza: le nuvole si rincorrevano e scontravano sempre nel cielo di Liverpool, di Londra e di tutte le altre cittadine del Regno Unito che aveva visitato. Era una prerogativa caratteristica che avrebbe dovuto accettare in silenzio.
Il problema maggiore era che quella mattina aveva scordato l’ombrello; vero che da Mount Pleasant a Whitechapel erano cinque minuti di cammino, ma si trattava di cinque minuti percorsi sotto una pioggerella man mano più fitta e non aveva proprio voglia di farsi il bagno.

“Andrea, sei un gran coglione. L’ombrello, prossima volta, te l’attacchi al braccio con la colla!” si rimproverò, lanciando la consueta occhiata a una scritta fatta con la vernice nera, su un muro accanto cui passava sempre per andare al lavoro.

“We are demanding the sun”diceva, e Andrea non poteva far altro che compatire quei poveri disgraziati che invocavano così tristemente un raggio di sole. Anche lui lo invocava; a casa sua c’era quasi sempre il bel tempo e il caldo, lui camminava in bermuda e canotte o maglie a maniche corte ed era felice.

A casa sua.
A San Giovanni.
Con le vecchiette che spettegolavano, i ragazzacci in strada che giocavano a pallone, il sole cocente, il tè freddo e il gelato che gli faceva trovare sua madre per coccolarlo un po’; e poi, papà che guardava la partita alla tv, sintonizzato su quei canali privati dove inquadrano solo il telecronista perché non avevano soldi per comprarsi il campionato su Sky.

A casa sua, più o meno nello stesso posto dove lei continuava a vivere e crescere. Lontana da lui e ignara della sua stessa esistenza.
Eppure avevano condiviso una fetta di vita così importante assieme!


L’idea che potesse non ricordarsi di lui lo faceva star male; forse era uno dei motivi per cui beveva così tanto alla sera, quando il buio lo costringeva a pensare e sentirsi malinconico e infelice. Solo soprattutto, pur stando nella stessa casa con altre sette persone più disperate di lui.
Che vita triste.

 
Imboccò la stradina laterale al St. Johnn’s Market e, alzando lo sguardo, ritrovò la torre del Radio City. Adorava quello scorcio di Liverpool.
Accelerò il passo – ormai era prossimo al Caffè Nero dove lavorava – quando il cellulare - un Nokia 3310 dal passato glorioso, ancora funzionante e del tutto degno di rispetto - vibrò nella sua tasca.

Si affrettò a rispondere, nonostante avesse poco tempo da perdere: poteva essere la mamma.

“My love…”mugolò invece una vocina assonnata dall’altro lato del ricevitore. Andrea guardò il cellulare sconcertato: non riusciva ad associare quella voce a nessun volto.
O, forse…
Mica poteva trattarsi di Anastasia, quella bella biondina – non ricordava se fosse russa o estone – che aveva conosciuto al Cavern?
Non ricordava neppure se la tipa in questione avesse il suo numero; in effetti, non ricordava proprio nulla, a stento il proprio nome e l’indirizzo del posto dove lavorava.

Al di là del fatto che fosse ancora ubriaco, infatti,  aveva anche tantissimo sonno: la notte precedente i suoi coinquilini avevano dato una festa a casa e così lui aveva tirato tardi, fino all’alba, dormendo sì e no due ore. Si era svegliato per puro caso e aveva fatto una fatica enorme a capire dove si trovasse e chi fossero quei quattro sconosciuti che russavano sul divano accanto a lui.

Ancora cercava di rimettere a posto i pensieri, quindi, e dimenticò completamente di rispondere alla ragazza dall’altro lato del telefono; lei, comunque, ridacchiò.

“Hai ancora sonno, vero? Sono Marilena, Andrea. L’amica di Flavio…”

Chi cazzo era adesso Flavio?

“Flavio, l’amico di Emiliano, hai presente?”

 
Marilena.
Flavio.
Emiliano.

Cercò di fare mente locale e, nel frattempo, riprese a camminare rapido visto che il suo ritardo lavorativo aumentava di minuto in minuto, in maniera inversamente proporzionale allo stipendio che avrebbe guadagnato quel mese se avesse continuato così.

Emiliano era venuto alla festa la sera precedente. Questo se lo ricordava.
Era già strafatto quando aveva oltrepassato la porta di casa, ridendo a crepapelle senza un vero motivo e poggiandosi a qualcuno… Ah sì, a Flavio, certo! Quel suo amico biondino che aveva conosciuto quando ancora stava a Milano, alla Bocconi. Come c’era finito a Liverpool anche lui?
Comunque sia, aveva bene a mente quella scena perché, a quel punto della serata, aveva bevuto solo un paio di birre ed era ancora sufficientemente lucido; aveva riso anche lui per le condizioni di Emil e dopo se l’era caricato su di una spalla, lasciandolo poi andare sul divano sgangherato del salotto, già affollato di sconosciuti. Emiliano aveva mezzo biascicato un grazie e poi gli aveva allungato un paio di pasticche: Andrea ne aveva inghiottita una sola, di un celeste bellissimo da vedere.
Anche per lui stava cominciando la festa.
Dopodiché, si era voltato verso la porta di casa, ancora aperta, e aveva adocchiato questa ragazzetta ferma sull’uscio, che si massaggiava il polso in un gesto imbarazzato, indecisa se venire avanti o tornarsene da dov’era venuta.

“Welcome!” aveva gridato allora, ridacchiando, per attaccar bottone, e lei gli aveva subito sorriso. Era esile e proporzionata, occhi scuri e una cascata di capelli liscissimi, castano chiaro.
Quando si era avvicinata a lui, per poco non gli era preso un colpo tanto le somigliava: piccina come lei, delicata come lei.
Come Margherita.
Peccato non fosse Margherita . O per fortuna: non voleva lo vedesse in quelle condizioni.

“Siete tutti italiani qui?”aveva domandato semplicemente. Andrea ci aveva messo un po’ troppo per risponderle, impegnato com’era studiarne il volto e identificare le differenze col visetto che amava.

“No, ci sono anche due spagnoli e un ragazzo polacco. Avrei potuto non capire la tua lingua, nessuno te l’ha detto che sono italiano.”
“Tra di noi ci si riconosce” aveva risposto lei, ridendo“Piacere, io sono Marilena, un’amica di Flavio ed Emiliano. Tu devi essere Andrea, invece… Mi parlano sempre di te.”
“Spero bene.”
“Questo sempre”
Gli aveva teso la mano, lui l’aveva ricambiata. Poi l’antifona gli era parsa chiara abbastanza facilmente, dal modo in cui Marilena lo guardava: aveva quindi abbandonato quei convenevoli ed era passato subito ad abbracciarla. Marilena l’aveva lasciato fare, gli aveva anche stampato un bacio sulla guancia.


Era bella Marilena e, al tatto, mostrava bei fianchi tondi.
Ci aveva pensato subito Andrea: se non poteva avere Margherita, poteva prendersi lei. Tra l’altro, anche il suo nome cominciava per M.
Era un segno del destino.

Adesso se lo ricordava chi era Marilena, sì.
A tratti, ricordava anche di essersela scopata nella stanza da letto del suo coinquilino polacco che non era alla festa, quella sera. Quel coglione era tornato a Varsavia per cinque giorni, dai genitori, e si era perso il meglio: che idiota!
Certo che il bocconcino aveva ceduto subito: Andrea non aveva neppure dovuto lusingarla troppo. Un paio di drink, due birre, una canna e Marilena era partita. Prima di lui che s’era ingollato pure la sua bella pasticchetta colorata. E non gli si era staccata di dosso neppure un minuto, la ragazzina: sì che era amica di Flavio ed Emiliano e neppure li aveva degnati di uno sguardo! Ma, forse, per lei, quei due costituivano semplicemente una carta conosciuta: doveva esserseli già scopati entrambi ( vista la sua facilità a certi approcci non era difficile pensare una cosa del genere) e non dovevano quindi presentare più attrattive: perché perderci ancora il tempo, dunque?



No,decisamente  lei non era come Margherita.
Margherita era innocente.

Poteva somigliarle nell’aspetto, ma non nel carattere. E, a pensarci, Margherita restava comunque più bella di lei.


“Andrea, ma ci sei?”
“Ci sono.”
“Dove sei, tesoro?”

Tesoro?
Avrebbe dovuto mettere in chiaro con quella tipa che una sana scopata non le dava il diritto, poi, di rivolgergli simili epiteti.
Neppure sua madre lo chiamava tesoro, sapeva quanto detestava certi appellativi stomachevoli.

“Senti, ma chi te l’ha dato il mio numero?”
“L’ho preso dal cellulare di Emil. Ti spiace?”

Grugnì.

“Sì, abbastanza. Così come mi dispiacciono gli interrogatori.”
“Dai, non essere scorbutico. Stai andando a lavoro? Se vuoi ti raggiungo, prendo un caffè da te.”


Un caffè da te.
Quella ragazza sapeva troppe cose di lui: non l’avrebbe fregato. Sapeva perfettamente chi fosse, aveva preso informazioni su di lui; forse, si era fatta portare apposta a quella festa perché voleva conoscerlo di persona.

“No, non voglio. Senti Marisa…”
“Marilena”
“Sì, Marilena. Io ho da fare, adesso. Okay? Magari ci sentiamo.”
“Ci vediamo quando torni. Ti aspetto a casa.”


Casa?
Quale casa?
La casa era la sua – di Andrea – non certo di entrambi!


S’irritò enormemente.


“Marilena, tesoro… Cerca di ascoltarmi bene: il fatto che abbiamo scopato stanotte, mentre ero ubriaco e strafatto, non ci rende fidanzati né prossimi all’altare. Non mi aspettare a casa, non mi aspettare affatto. Semmai mi vien voglia di vederti, in futuro, ti chiamo io, okay? Per adesso, scordati questo numero.”


Chiuse la conversazione con uno sbuffo. Marilena riprovò a chiamare e a quel punto, spense direttamente il cellulare, incamminandosi poi verso Caffè Nero.
Fu abbastanza fortunato perché quel mattino il titolare non era ancora arrivato e Chris e Ania, i suoi colleghi, lo accolsero piuttosto con una risata spensierata, quando incontrarono la sua faccia sfatta, dagli occhi rossi, gonfi e le labbra screpolate. Non era al pieno delle proprie forze, decisamente. Continuarono a ridere a crepapelle mentre lui, lanciando occhiate truci, s’infilava il grembiule e preparava il primo cappuccino della giornata per un signore di mezz’età in giacca e cravatta. Odiava il modo in cui quegli inglesi dicevano la parola
cappuccino, storpiandola con arroganza, come se tale storpiatura costituisse la versione giusta di come andava pronunciata effettivamente la parola. Gli inglesi pensavano di sapere sempre tutto.
 
A mezzogiorno era nel pieno del lavoro, impegnato a riscaldare sandwiches e preparare caffè all’americana; il suo boss era arrivato da un’ora e nessuno gli aveva detto del ritardo clamoroso di Andrea. Per una volta si era salvato.
Proprio mentre aspettava che i panini si scaldassero nel forno, si concesse una pausa per bere un succo di frutta: aveva la gola secca e un saporaccio in bocca. Allora, la tirò fuori senza pensarci: era sempre nella tasca dei pantaloni, d'altronde, e ogni tanto aveva bisogno di vederla per stare meglio.

Una foto.
Quella foto.

Loro due, tre anni e mezzo prima.

Margherita che rideva, la mano a coprirle la bocca e quella sua risata bellissima. Perché, poi, voleva nasconderla?
Lui era di tanto più piccolo, sembrava ancora un ragazzino pieno di speranze.
Ormai non ne aveva più.
Indossava la maglia che gli aveva regalato lei, quella dei Verdena: perché era il suo gruppo preferito, doveva piacere per forza di cose anche a lui e tentava in ogni modo di convertirlo. Era tenerissima.

Da quanto non incontrava più gli  occhi scuri di Margherita, Andrea? Aveva perso il conto ma era davvero tanto, tanto tempo.
L’ultima volta che l’aveva vista non rideva neppure; era immobile in un letto di ospedale, priva di coscienza, monitorata da centinaia di asettiche macchine. Il suo cuore, il suo respiro, il suo cervello, tutto di lei era sotto controllo e nulla sembrava voler rispondere. Era una bella bambola senza vita e Andrea avrebbe urlato, pianto e preso il muro a cazzotti soltanto per sfogarsi, perché non era giusto. Lei non avrebbe dovuto stare lì.
Invece non aveva fatto nulla di tutto questo, era rimasto piuttosto chiuso nel suo silenzio, quasi senza fiatare; per un attimo, prima di ricordarsi che non era credente, aveva addirittura pregato Dio di farla svegliare.
Poi, anche quel giorno, qualcuno era venuto a dirgli che non era gradito in quell’ospedale; l’avevano cacciato via di nuovo, gli avevano detto di non farsi più vedere e lui si era rifiutato di assecondarli. S’era beccato uno schiaffo eppure non era andato via.

Margherita, comunque, non si era svegliata e non l’aveva difeso; lui, però, lo sapeva che lei era felice di averlo lì, anche se non poteva parlare e allora resisteva ogni giorno.

 
 
“Non me ne andrò mai, mai Margherita”le diceva.

E invece l’aveva fatto. Era stato un perdente e un codardo, o forse aveva soltanto troppo amato.
Aveva combattuto ancora e non era bastato perché un aereo l’aveva portato lontano da lei, contro la sua volontà.
Non era bastato, non era servito a nulla.
Gli tornarono in mente i versi di una poesia di Neruda che lei amava molto; li aveva annotati su uno dei suoi taccuini e Andrea li aveva letti tante volte perché li trovava dolcissimi:

“Amore, quando ti diranno che
t’ho dimenticata,
e anche se sarò io a dirlo,
quando lo dirò
non credermi”

Deglutì a fatica e sospirò. Anche se era lontano da tanto tempo, lui non l’aveva dimenticata. Ma lei questo non lo sapeva. O, forse, era Margherita a non ricordarsi più di lui e di quel loro amore platonico.
Avrebbe voluto poterglielo dire che era ancora, sempre nel suo cuore.
Chissà se un giorno avrebbe potuto avere una simile occasione. Di certo non l’avrebbe sprecata.



“Andy? What are you doing?”
“Uh?”

Chris gli parlò a voce bassa, tanto per farsi notare e far notare ad Andrea che il loro datore di lavoro tollerava poco quella pausa che lui s’era concesso senza che gli toccasse.
Poi si accorse che i panini stavano bruciando, piuttosto che riscaldarsi semplicemente, e tornò per davvero al suo lavoro: una ramanzina se l’era scansata, quel giorno, voleva evitare anche la seconda, se possibile.
L’unico lusso che si concesse ancora, fu quello di riaccendere il cellulare: pensava sempre che la mamma avesse la precedenza, che se aveva provato a chiamarlo e aveva trovato il cellulare spento, valeva la pensa telefonarle per non farla preoccupare. Tuttavia, quando il display tornò a illuminarsi e l’apparecchio a funzionare, non ricevette nessun messaggio che gli segnalava che sua madre avesse provato a chiamarlo; al contrario, un’altra persona aveva provato a cercarlo: Fabrizio Bentivoglio. Alias, il suo amico Polska.
Il messaggio era chiaro:


“Ho racimolato altri compagni, siamo in tanti ormai. Devi tornare Zeno, è il nostro momento.”


Devi tornare Zeno.
Tornare per i compagni.
Per la lotta e la resistenza, perché chiedono di te.

 
E poi devi tornare per lei.
Lei che è stata la tua rovina.
Lei a cui tu hai rovinato la vita, a tua volta.

 

Lei, Margherita.

 

Spense di nuovo il cellulare con un sospiro, Andrea;cercò quindi di non prestare più ascolto alla sua voce interiore e tornò al lavoro. Forse sarebbe stato meglio non leggere affatto quel messaggio: benedetto Fabrizio, ma non sapeva farsi i fatti suoi?! Adesso, grazie a lui e ai tarli che gli metteva in testa, aveva un crampo allo stomaco, un vuoto nel cuore, un senso di colpa e rimorso a corroderlo dall’interno e la triste sensazione che non sarebbe più riuscito a concludere nulla.

Lo sapeva perché era lontano, in fondo: perché l’aria di casa faceva male alla sua anima, sotto tutti i punti di vista.
 
 





 
 
 
 
 
 
Margherita non può sapere perché ad Andrea quella poesia fa male… ma voi sì! ;)
Gli ricordi i suoi periodi di solitudine, povero tesoro <3

A proposito, la poesia è Lettera lungo la strada di Neruda, se volete leggerla tutta la trovate a quest’indirizzo:
 http://www.clurican.com/poesie/neruda/la_lettera_lungo_la_strada.asp
Penso sia meravigliosa! :’)
Allora ragazze… Rieccoci! E’ arrivato settembre ed è tornato anche Piovre, come promesso… Quando il mese scorso vi scrissi che avrei aggiornato dopo l’estate sembrava che ci volesse chissà quanto tempo… E invece eccoci qui!
Spero che le vostre vacanze siano andate bene! Dove siete state? Io a Parigi, ho fatto un vero e proprio tour della Rivoluzione Francese! :-p
Versailles è bellissima :)

Mi spiace soltanto di avervi accolte con un capitolo di transizione, ma ci voleva: dovete farvi una maggiore idea di com’era Andrea prima de La Piovra, di com’era la sua vita quando viveva all’estero e di quale rapporto lo legava a Meg. In realtà vi ho dato un sacco di notiziole qua e là, spero le abbiate colte tutte! ;)
Anche il confronto con Flora era nell’aria… Prima o poi si sarebbe fatta sentire, quella “cara” ragazza! U_u
In più, vi ho voluto raccontare qualcosa in più su Stena, cui sono particolarmente legata… In pratica, spero vi sia piaciuto e mi farete sapere che ne pensate! <3
Adesso vi lascio, entro la giornata risponderò alle 5 belle recensioncine dello scorso capitolo… Grazie come sempre per la presenza e il supporto!
Un bacio enorme e… bentornate a tutte!
Matisse

PS: capitolo non riletto e non betato… Mi scuso per eventuali ORRORI! Ah, quasi dimenticavo! La frase “We are demanding the sun” l’ho trovata scritta davvero su di un muro a Liverpool, di fronte all’albergo dove alloggiavo. Ho anche la fotografia, da qualche parte, e siccome mi sembra una frase piena di significati, l’ho usata come titolo del capitolo. Tutti i posti che vi ho descritto di Liverpool esistono davvero :)
PPS: l'espressione "tardo-adolescente" l'ho "rubata" dal libro Jack Frusciante è uscito dal gruppo di E.Brizzi, che amo e venero sopra ogni dire! ;)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 12
*** Without You I'm Nothing ***


Prima di cominciare il capitolo volevo scusarmi con tutti voi per il ritardo. Scrivere questo capitolo ha richiesto più tempo del previsto, pardon
:)
Buona lettura.












Ricordo i giorni in cui pioveva e tu venivi a prendermi a scuola con l’ombrello più grande che avevi. Era blu scuro.
Che fine avrà fatto? Si è rotto?
A me piaceva camminare sotto la pioggia, mentre tu eri costretto a rincorrermi con quell’ombrello enorme. Lo sapevo che, se avessi potuto, te ne saresti stato chiuso in casa o da qualche altra parte, ma comunque al riparo da quel tempaccio: a te piaceva il sole, il tepore dei suoi raggi sulla pelle.
Se uscivi con i nuvoloni era soltanto per me, per vedermi.
Te ne sono sempre stata grata, anche se non te l’ho mai detto. Pensavo sempre che, prima o poi, l’occasione per ringraziarti sarebbe arrivata senza che me la cercassi e senza inutili imbarazzi.
Invece, quell’occasione non c’è stata più perché io, poi, me le sono dimenticate quelle giornate. Ho dimenticato il tuo volto, il tuo sorriso, i tuoi lunghi capelli chiari prima che si accorciassero in una cresta viola. Persino la tua voce mentre cantavi qualcosa per me è scivolata via dai miei ricordi.
Ho dimenticato tutto questo per cinque lunghi anni e adesso che comincio a ricordare sembra che io abbia soltanto sognato. Immagini nuvolose e sfumate sono diventati, nella mia mente, i nostri istanti insieme. Ecco che cosa ho perso per sempre: la nitidezza, la realisticità dei miei ricordi.
Questo non me lo darà indietro più nessuno, neanche tu. Per quanto tu possa desiderarlo, Andrea.
Per quanto lo desideri io.





***





“Andre, come ci siamo conosciuti noi due?”

Meg ritorna alla carica: non sia mai che stavolta ti va bene.


Per poco la birra non gli andò di traverso. Mi guardò con aria sconvolta.

“Scusa, ma non ne avevamo già parlato? E poi, come ti è venuto in mente proprio adesso?”
“Perché, non è il momento per chiedertelo?”
“Beh, siamo a una festa.”

L’ennesima festa organizzata a La Piovra, per essere precisi; niente di socialmente utile stavolta, solo un’altra occasione per divertirsi un po’.  La serata, comunque, era decisamente movimentata: il gruppo che si stava esibendo su di un palco improvvisato spacciava i suoi schiamazzi per electropunk. In realtà, più che suonare ero certa che si limitassero a fare solo un gran casino, tuttavia il pubblico sembrava apprezzare: la gente, infatti, si dimenava e pogava con estrema convinzione.
Erano tutti molto coinvolti. Tutti tranne me.

“Allora?” Andrea urlò per farsi sentire sopra quel casino.
“Che devo dirti? Fa poca differenza per me”
“Non me la conti giusta.”

Sorrisi e sospirai.

“E va bene… Stanotte ho sognato qualcosa. Anche se non credo che “sognato” sia il termine più giusto.”
“Qualcosa cosa?” domandò ancora, sospettoso. Forse, soltanto curioso.
“Di te, da ragazzino” indicandolo, alzai la voce per farmi sentire “Eri fuori la mia scuola, quella privata, e venivi a prendermi con l’ombrello blu.”
“Ah sì… Quello grande sotto cui si potevano riparare almeno quattro persone” ricordò con un sorriso triste, a sua volta.
Faticai non poco per captare ogni singola parola; quando realizzai il tutto, comunque, percepii le guance andarmi a fuoco.

“Quindi davvero non era solo un sogno?”

Scosse la testa.
“No, non lo era.”



E se non lo era, allora, voglio saperne di più.
 
“Andre, possiamo andare sul tetto?”
“Che cosa?”
“Sul tetto!” urlai puntando l’indice in alto per indicargli il posto dove desideravo andare. Non riuscivo a spiccicare una parola là dentro, con tutto quel frastuono.
 
Zeno comunque comprese e annuì; mi allungò una mano e tenne stretta la mia mentre ci prendevamo a muoverci a fatica tra la gente.

Quella scena mi ricordò qualcosa: la stessa stretta, solo poco tempo prima; io e Zeno che camminavamo in mezzo alle stesse persone, nello stesso centro sociale. L’atmosfera era la stessa di allora, e anche il contesto, musica a parte; solo, era cambiato il rapporto tra noi due: già allora sapevo che Andrea doveva contare qualcosa per me, percepivo quella strana familiarità, un legame senza nome né motivo, ma non eravamo di certo ai livelli di oggi.



E perché, a che livelli siamo oggi, Margherita?



La solita vocina guastafeste nel mio cervello mi ricordò che io e Andrea non eravamo né carne né pesce, né amici né fidanzati.

E quindi?
Ci stavamo “frequentando”?
A me sta cosa del frequentarsi faceva ridere. Che significato aveva?
Già di norma la trovavo una cosa un po’ stupida questa sospensione in un limbo non ben definito, a metà tra l’essere amici e amanti, figurarsi che senso potevo poi trovarci per noi due che eravamo così intimi e vicini da anni ormai!

In ogni caso, quel dubbio mi torturava da giorni.
Andrea mi baciava, mi teneva per mano, mi cercava di continuo, ogni minuto libero lo passava con me, e viceversa; tuttavia non eravamo ancora arrivati a una conclusione e non sapevo se volevo arrivarci per davvero.

Per certe cose non si è mai pronti abbastanza.
 
Respirai più a fondo, un po’ nervosa, dopo quelle riflessioni; Andrea se ne accorse che non era tutto okay, probabilmente da come gli strinsi la mano. Me la strinse di rimando, lo guardai: mi stava squadrando dubbioso.
Mentendo, gli feci segno che era tutto a posto; credette alla mia bugia o, forse, finse soltanto di farlo. Alla fine proseguimmo spediti verso la porticina che dava sul tetto.
Quando raggiungemmo la destinazione trovammo ad attenderci un cielo libero e tanto silenzio; nessun rumore molesto, nessun decibel di troppo a sfracassarci i timpani: la festa al piano di sotto sembrava molto lontana.
Zeno ne approfittò subito per fare qualche domanda.
 
“Che avevi prima?”
“Mh?”
“Non dire mh che tanto non ti credo. Sembravi nervosa.”
“Ah, due minuti fa intendevi? No, niente, è che avere troppa gente intorno mi mette ansia… Lo sai come funziona. E poi l’elettropunk non è il mio genere preferito, quindi avvisami la prossima volta che c’è un rave a La Piovra, così non ci vengo. ”

Mi guardò ridacchiando, ma ancora un poco dubbioso. Alla fine comunque si rilassò, sembrò credermi; a volte sapevo essere davvero convincente.

“Dovresti stare più tranquilla. Magari non conosci ancora tutti i ragazzi qui dentro, ma davvero questo posto è okay, siamo tutti amici.”



Pensai a Luna, a quanto la detestassi e viceversa: no, non eravamo tutti propriamente amici a La Piovra.
Scossi la testa.

“Se lo dici tu che siamo tutti amici…”

Sollevò un sopracciglio con aria divertita: doveva aver compreso la mia allusione a quella cara ragazza.

“Ovviamente ci sono le dovute eccezioni…” concluse allora, accovacciandosi e poggiando la schiena al muro. Lo seguii a ruota e me ne stetti buona a guardarlo mentre si accendeva una sigaretta. Non ricordavo che fumasse, non l’aveva mai fatto davanti a me. In effetti, non ricordavo un bel po’ di cose di lui e anche di me, probabilmente.

“Sicché, niente più feste electropunk, eh? Quindi avrai il coraggio di lasciarci venire Romina da sola?”
“Decisamente” risposi subito, offesa “Tanto non è di alcuna compagnia e non ha molto bisogno di me, in generale. Considera che l’ho persa appena siamo entrate! Si è dileguata tra la folla con la scusa che andava a prendere una birra insieme a Stena. Non la capirò mai.”

Ridacchiò.

“La conosci da molto?”

Annuii.

“Da quando ho cambiato scuola e mi sono spostata al liceo statale, quindi cinque anni, ormai. È stata la prima persona con cui ho parlato là dentro, non mi ha mai rinfacciato nulla e mi è stata vicina nei momenti peggiori. Dunque, posso ancora perdonarle il fatto di essere logorroica, incostante e casinista… E posso sorvolare anche sulle sue fughe in mezzo alla gente nel pieno di un rave; ha fatto tanto per me” conclusi con un pizzico di divertita tenerezza. 

Andrea mi ascoltò senza fiatare per tutto il tempo; poi, spostò lo sguardo altrove, guardando oltre i tetti e i pali della luce. Chissà a cosa pensava.
 
“Perché sei andata alla scuola pubblica?” esordì dopo poco.
“Bella domanda… Tu non lo sai?”
“No, non lo so.”
“Sul serio? Non ne abbiamo mai parlato?”
“Non direttamente. Mi dicevi che eri stanca di fare la figlia di papà, questo sì. Ma della scuola pubblica non mi hai mai detto nulla.”
“Mmh… In realtà non ne sono sicura neanche io. È come se l’incidente in azienda abbia fatto scattare una molla dentro di me: ce l’avevo con mio padre all’epoca, ce l’ho ancora con lui per come si comporta. Gli interessa solo della società, dei suoi profitti, dei soldi che fa e di quanti potrà farne in futuro. Vuol decidere la mia vita allo stesso modo in cui ha deciso quella di mio fratello, solo che Ludo è sempre stato molto più ben disposto di me a diventare la sua copia. Io non voglio saperne nulla, invece. Comunque, dopo l’incidente ho preso coscienza di tutto questo, ancora meglio di prima, ed è stato come se avessi trovato la forza per dire basta almeno a una parte delle imposizioni dei miei familiari. Smettere di frequentare l’istituto che papà aveva scelto per me equivaleva a dire: ehi, guarda che posso decidere da sola del mio futuro. Ecco sì, credo che sia per questo… Ma non chiedermi di più perché non saprei risponderti, ho un ricordo confuso di quel periodo”
“Ricordi poco…Quindi non sai neanche com’è avvenuto il tuo incidente?”

Il tono di voce con cui mi parlò mi indusse a credere che Andrea ne sapesse quasi più di me. Lo guardai dubbiosa  e cercai il coraggio per andare a fondo.

“Perché, tu lo sai?”
“No, Maggie. Poco tempo dopo quell’episodio sono partito per la Germania. Tu non ti eri ancora ripresa e non sapevo a chi chiedere di te.”

Coincideva tutto: la mia caduta, la sua partenza, il nostro distacco, la mia perdita di memoria. No, mi ero sbagliata: non poteva sapere.
Mi rilassai.
“No, non so niente. O, quantomeno, niente di trascendentale: a quanto pare, ero sulle scale che dal secondo piano degli uffici conducono al piano terra dove ci sono le macchine. Ho messo un piede in fallo e sono rotolata lungo tutti i gradini, senza mancarne uno. Quando sono arrivati a soccorrermi avevo già sbattuto pesantemente la testa contro il muro. Tutto ciò che so è che ho perso conoscenza a causa del grave trauma cranico riportato e che quando mi sono svegliata in ospedale ricordavo la metà delle cose che avrei dovuto. Però non avevo dimenticato il proposito di andare alla scuola pubblica e quando l’ho ripetuto ai miei genitori, stranamente, non si sono opposti. Ancora oggi stentano a dirmi di no quando chiedo loro qualcosa, perché hanno sempre paura che possano ripresentarsi gli attacchi d’ansia e i momenti di confusione legati all’incidente. Vogliamo tutti dimenticarcelo, Andre. Non è stato un bel periodo” conclusi con un sospiro.

Davvero, non era facile per me parlare dell’incidente. Per qualcun altro non sarebbe stato nulla di così negativo, intendiamoci; ci son cose ben peggiori di un mese in ospedale per una rotolata lungo le scale. Il problema, tuttavia, era che riportare alla memoria quanto avvenuto significava anche e soprattutto fare i conti con un evento particolarmente inquietante e molto significativo della mia vita: il giorno stesso in cui avevo perso la memoria, infatti, avevo perso anche una parte di me. E non mi riferisco solo ai ricordi, no; quel giorno aveva sancito il definitivo distacco dalla Margherita un po’ viziata, sicura e insopportabile che ero stata. La Margherita di adesso era molto più calma, pacata e, per contro, molto meno decisa di un tempo. Tuttavia, la preferivo.
Senza contare che il periodo successivo a quell’incidente portava comunque con sé brutti ricordi: solo al pensiero di quei mal di testa continui, della nausea, del senso di confusione, mi sentivo ancora oggi male. E poi c’era sempre quel senso di… non ritorno; di incompletezza.
Qualcosa mi sfuggiva, di quel periodo. Qualcosa che non ricordavo attanagliava la Margherita che ero stata a quattordici anni e, di riflesso, la persona che ero diventata con gli anni.
Era difficile, ancora troppo.

“A che pensi?” domandò d’un tratto Andrea, considerando il mio improvviso silenzio. Preferii non dirgli la verità: non volevo appesantire con i miei momenti tristi quella serata così bella.

“A nulla in particolare” risposi dunque alzando le spalle “Piuttosto, adesso ho voglia di farti io qualche domanda”
“Cos’è, un interrogatorio?” chiese scherzoso, infilandosi tra le labbra un’altra sigaretta.
“Ma quanto fumi? L’hai spenta adesso!”
“Troppo per te, piccola”

Gli diedi un buffetto leggero sulla spalla, lui rise. Anche a me venne da ridere.
Chissà di sotto come stava andando la festa e quante vittime aveva già mietuto: immaginavo il numero di sbronzi che avrebbero dovuto raccogliere l’indomani.

“Allora, che vuoi chiedermi? Sai già un sacco di cose.”
“Per esempio, potresti rispondere alla domanda che ti ho fatto di sotto.”
“A come ci siamo conosciuti?”
“Esatto.”
“E’ per questo che hai voluto portarmi qui, vero? Per parlarne in santa pace?”
“Ovvio, Genio. Una volta tanto che la memoria mi viene in aiuto vorrei approfondire. Non ti sembra giusto?”
Sorrise.
“Mmh…E va bene, affare fatto, hai ragione. Stavolta non ti dirò di no…
Grazie, eh.

“Dunque, ci siamo conosciuti ad ottobre del 2004, in un giorno di pioggia. Una roba tipo Kiss Me Licia, hai presente?”


Sì, ho presente. E non dirmi certe cose che poi mi
viene da cantare “Un giorno di pioggia Andrea e Giuliano
incontrano Licia per caso…” ed è finita. Non la smetto più.



“…E’ stato per strada, per caso.  Tu correvi, io ero in bici, per poco non ti ho investito. Tu ti sei arrabbiata, io pure. Ed eri vestita così da brava signorina che mi è venuta voglia di gridarti quanto detestavo la tua ricca classe borghese, tanto più che sapevo già chi eri…”
“Lo sapevi?” quasi gridai, sconcertata.
“Lo sapevano tutti, Maggie. I due figli dell’imprenditore Gherardi sono abbastanza noti in zona?”

Sospirai, scoraggiata.

“Purtroppo sì. Comunque, vuoi farmi intendere che ci siamo mandati a fanculo? Non ci credo!”

Sorrise, guardando molto più lontano di quanto potessi credere. Stava guardando oltre i giorni e i mesi, a quell’anno e a quel tempo che non ricordavo più, al nostro primo incontro che adesso era soltanto il suo, alle nostre prime parole, per quanto brutte o assurde potessero apparire. Anche allora, come adesso, eravamo noi due, ma io non lo sapevo più.

“Più o meno. Ci salvò un libro, da quel litigio.”
“Due di due, vero?”
Sorridemmo in contemporanea.
“Sì, Due di due di Andrea de Carlo. Nella foga del momento ti cadde di mano, con la copertina all’insù, e a me parve impossibile che avessi una copia di quel romanzo. Ti chiesi se fosse il tuo...”
“Beh, ovvio... Adoro quel libro.”
“Lo so, sono le stesse parole che mi dicesti quel giorno. E poi hai dimenticato il litigio quasi subito e sei partita a raffica a parlar di libri; mi hai detto che Jack Frusciante è uscito dal gruppo ti era piaciuto allo stesso modo. Io pure avevo cominciato a leggerlo e allora abbiamo parlato un po’ di Brizzi, messo da parte l’incidente in maniera del tutto naturale. Alla fine siamo finiti a parlare di poesie, io ti decantavo Rimbaud, tu Neruda. E a entrambi piaceva Prévert. Abbiamo continuato così per un’ora, sotto la pioggia; il giorno dopo avevamo entrambi la febbre e quando ci siamo incontrati di nuovo siamo morti dal ridere per questa cosa.”

“Ci siamo incontrati perché l’avevamo organizzato?”
Scosse la testa.
“No, per caso di nuovo. Passavo in bici fuori la tua scuola e tu mi hai chiamato da lontano…”


Da lontano…
Una bici…

Così, d’improvviso, accadde. Chiusi gli occhi e cercai di afferrare ogni istante di quell’immagine, di quel flash improvviso che la memoria mi rimandava.
Perché io lo vedevo: adesso, vedevo noi due assieme anni fa.


I miei capelli già lunghi, la treccia lungo la spalla,
da brava ragazzina.
E tu, con quella maglia stropicciata dei Nirvana.
Era bucherellata su di un fianco. Era sporca.
Mi piaceva lo stesso.



“Me lo ricordo.”
“Dici sul serio?”
“Sì.”

Era incredibile il modo in cui la mia mente sapeva rispondere al minimo stimolo: erano bastate così poche parole di Andrea per far riaffiorare a galla quei ricordi!
Se soltanto… Se soltanto avessi potuto ritrovarlo prima, quante cose sarebbero andate diversamente?
 


Andrea! Andrea!
Agitai la mano, saltellai su un piede per farmi notare.
Avevo riconosciuto subito la sua bici sgangherata,
i capelli lunghi e lisci.
Mi vide, mi venne incontro con un sorriso.
Avevamo deciso già allora di essere noi.


 

“Hai visto? Basta così poco per ricordare… Non dovresti mai disperare, presto o tardi ti verrà tutto alla mente.”
Mi abbracciò subito, con calore. Affondai in quella stretta e annuii appena: ero troppo scioccata per reagire in modo sensato.


“Sai cosa? Stavi simpatica anche a Polska, all’epoca.”
“Che cosa?!” gridai, scostandomi dall’abbraccio. La saliva mi andò di traverso e per poco non soffocai.
“Ehi, ehi, calma!”
“Fammi capire… Polska mi conosceva già?”
“Puoi giurarci.”
“Ma se a stento mi rivolge la parola! Non mi ha mai detto niente, niente di niente! Com’è possibile?”

Andrea ridacchiò, guardandomi.

“Polska non è mai stato un tipo loquace; anche da ragazzino parlava poco, crescendo è decisamente peggiorato” commentò ridendo “Inoltre, è piuttosto rispettoso della privacy altrui  e sa che la nostra è una situazione delicata: non ti avrebbe detto nulla finché non te l’avessi parlato io per primo”
“E che aspettavi a farlo?!” lo rimproverai e mi guardò divertito. Quella sera ero una specie di clown per Andrea, non faceva altro che ridere. Ancora non avevo capito se era un buon segno.
Alzò le spalle.

“Non lo so, scusa… non ci ho pensato.”
“Ma allora…” domandai improvvisamente curiosa “Tu e Polska vi conoscete da molto tempo?”
“Nove anni almeno, credo.”
“E’ davvero tanto.”
“Già. È con lui che ho cominciato a frequentare laboratori occupati e centri autogestiti. Al tempo c’era uno spazio, il Lanificio… Beh, ci andavamo tutti i giorni. Bob Marley a palla, molto fumo e tanta voglia di rivoluzione. Appiccicavamo ovunque manifesti inneggianti al subcomandante Marcos e leggevamo ad alta voce i diari del Che nelle ore morte del pomeriggio. In pratica ho smesso di studiare anche io e alla fine dell’anno hanno bocciato entrambi.”

Mi venne da ridere: mi immaginavo questi due adolescenti pieni di illusioni e voglia di fare, stravaccati sul pavimento logoro di un vecchio centro sociale, intenti a leggere gli scritti dei grandi rivoluzionari per darsi un tono e l’energia necessaria a smuovere i propri sogni, e non mi sembrava neanche vero di avere davanti quella stessa persona di allora. Andrea di adesso era così pacato, così tranquillo e dolce, pur restando fermo nelle sue posizioni e nella sua voglia di lotta e libertà, che davvero non riuscivo a trovare un nesso con il ragazzo delle sue descrizioni. Però anche quello era stato Zeno, e io sentivo di averlo amato e di amarlo allo stesso modo in cui pensavo di amare quello nuovo e più maturo.
Tra l’altro, era un Andrea che io stessa avevo conosciuto un tempo e forse per questo non mi sembrava così estraneo o lontano, ma anzi simpatico e piacevole allo stesso modo.

“Che è successo al Lanificio?”
“Sgomberato.”
“Oh…”
“Anni fa. Cinque o sei, non me lo ricordo. Comunque, credo che sia anche per questo che oggi esiste La Piovra, è una specie di retaggio dei nostri ricordi di adolescenti. Molta gente che frequentava il Lanificio oggi è qui. Polska ha fatto un ottimo lavoro nel recuperarli tutti, il merito è suo: all’epoca, mentre lui organizzava il da farsi, io ero a Liverpool.”
“Anche Luna faceva parte della gente del Lanificio?” domandai sospettosa. Andrea rise e mi abbracciò, mentre aspirava l’ultima boccata della sua sigaretta.
“Possiamo smetterla di nominarla di continuo? Luna è solo un’amica.”
“Non mi hai risposto.”

Alzò un sopracciglio.

“Sì, anche lei ne faceva parte. Poi l’ho persa di vista e l’ho ritrovata quando abbiamo occupato questo stabile. Contenta adesso?”
“Mh. Com’è che non la vedo in giro oggi?”
“Non ne ho idea.”
“Andrea, non dirmi balle.”

Sospirò.

“Okay, generale. Diciamo che le ho parlato qualche giorno fa, le ho chiesto di farsi da parte e di essere più gentile con te e lei…”
“E’ sparita dalla circolazione?”
“Più o meno. Non l’ha presa troppo bene.”

Sarebbe stato superfluo dire che una piccola particina del mio ego – okay, non tanto piccola – stava esultando senza ritegno in quel momento: Luna aveva avuto il benservito. Di certo adesso mi detestava ancora di più se possibile, ma questo aveva poca importanza: Andrea le aveva dimostrato quanto fossi importante. Le aveva detto chiaro e tondo che lei non valeva quanto me.
Quale creatura di essere femminile non avrebbe esultato allo stesso modo al posto mio? Almeno io avevo la decenza di non mostrarlo pubblicamente e tenerlo per me.

“Comunque, credo che si stia preparando per Roma anche lei…” aggiunse poi a voce più bassa.
Quando mi voltai di scatto a guardarlo, aveva un’espressione colpevole stampata sulla faccia.

“Roma?”
“Sabato è in programma una manifestazione contro il governo…”
“Ci andrai anche tu?” domandai prima che continuasse a spiegare.
“Sì, ci andremo tutti o quasi” rispose con ovvietà.
“E quando pensavi di dirmelo?”
“Maggie, non fare la gelosa.”
“Non sono gelosa!” bofonchiai.

Alla fine misi su il broncio e Andrea rise un’altra volta.

“Dovrei essere molto arrabbiata con te, lo sai?”
“Ah sì? E perché?”

Perché non ti muovi a dirmi se stiamo insieme o no?


Scacciai la petulante vocina del cervello e cercai di riprendere il controllo sulla conversazione.

“Perché vai a Roma e, non soltanto non mi ci porti, ma a stento me lo dici! Perché ancora non mi hai presentato Arianna, né mi hai portato a casa tua come promesso. E perché… Oh, perché mi va e basta!” esclamai risentita, incrociando le  braccia. Non avevo nessun motivo buono davvero per avercela con Andrea in quel momento: ero soltanto gelosa.

Per fortuna Andrea, piuttosto che mandarmi a quel paese come avrebbe potuto e dovuto fare, sorrise e poi mi abbracciò stretto. Quando scivolai al suo fianco mi si troncò anche la lingua, in effetti. Alla fin fine non ero così brava nell’esasperare la gente.

“Dunque, vediamo.” cominciò con vocina innocente “ Per Roma, giuro che la prossima volta ti ci porto. Adesso no, fra poco cominciano gli esami di maturità e tu devi studiare. È già tanto che sei qui stasera!”
“Mmh…”
“Per quanto riguarda Arianna, te la faccio conoscere il prima possibile, te l’ho promesso. E per casa mia ti chiedo ancora un po’ di tempo, va bene?”
“Mmmh….”
“Smettila di dire mmmh”
“Mmmhhh”

Alzò gli occhi al cielo.

“Quando hai finito di fare la capricciosa dimmelo che voglio un bacio”
“Non ti hanno insegnato l’educazione? Si dice vorrei, per favore”

Evidentemente no, ad Andrea del tipo di educazione di cui parlavo io non doveva importare poi molto perché non mi prese affatto sul serio. Piuttosto mi guardò con un ghigno soddisfatto, prima di incollare le proprie labbra alle mie.

Mi si bloccò il respiro, attanagliata com’ero da quel misto di ansia e felicità che sempre mi prendeva quando Andrea si spingeva un po’ di più del solito.
Tuttavia non ero intimidita al punto tale da non ricambiare quel bacio: sprofondai ancora di più nella sua stretta. Quando percepii la sua mano dietro la nuca mi lasciai andare completamente.

Se qualcuno mi avesse chiesto dove avrei voluto passare il resto dei miei giorni, beh… avrei risposto in modo patetico e sdolcinato che potevo stare ovunque purché con Andrea. E non soltanto perché mi restituiva ogni volta un pezzetto andato perso di me stessa; Andrea avrebbe saputo completarmi, probabilmente anche se non mi avesse mai vista prima di allora. La sua tranquillità, la calma con cui sapeva affrontare ogni situazione lenivano le mie ansie continue e la mia paura di sbagliare, aveva coraggio da vendere ed era in grado di dare fiducia anche a me. La sua risata contagiosa poteva risollevare senza problemi il mio umore, anche nel peggiore dei momenti, mentre il suo aspetto esteriore, con quella cresta e i mille tatuaggi sparsi sulla pelle chiara, quasi rappresentava l’esternazione dei moti di ribellione che mi portavo dentro e che raramente ero in grado di tirar fuori come avrei voluto. Semplicemente, Andrea era tutto quel che avrei voluto essere, oltre tutto quel che ero stata in passato e che non ricordavo più.
A conti fatti, nessun altro era come lui. Nessuno lo era stato mai.
Andrea era casa, era amore, era tranquillità, era un ricordo, era la realtà, la quotidianità persa, quella ritrovata, l’imprevedibilità, la ribellione.
Era Andrea.

Significava questo essere innamorati? Sentirsi bene come non mai e soltanto in compagnia di quella persona?
Allora io ero innamorata?

Sospirai sulle sue labbra.
Andrea se ne accorse: mi baciò l’angolo della bocca, poi aprì gli occhi, grigi e luminosi come non mai.

“Sai, penso che…” sussurrò
“Cosa?”
“Che non sarebbe difficile amarti… Non lo è per niente.”

Arrossii. E poi trovai il coraggio di domandarglielo.
Come ci riuscii?

“Andre…N-noi… Stiamo insieme?”
 
Bum.
Bum. Bum.

 
 
 

“Soltanto se tu lo vuoi” rispose.

 


***



Quando tornammo giù, in sala, erano passate le due del mattino e la festa era ancora nel pieno del suo svolgimento, sebbene la stragrande maggioranza dei partecipanti fosse collassata per lo più tra i divanetti e il pavimento. Francamente, di tutto quanto accadeva intorno a me percepivo appena il venti percento; l’electropunk storpiato e spaccatimpani si era trasformato quasi in una piacevole nenia e nessun posto mi sembrava più bello di quel locale umido e ammuffito che era La Piovra. Anche se la gente vomitava negli angoli più disparati.


Camminavo tenendo stretta la mano di Andre, quando incontrai Romina; aveva gli occhi rossi, i capelli scarmigliati e l’aria stanca ma divertita.
Stava trascinando uno Stena palesemente ubriaco tenendolo per le spalle. Non era da sola: Polska la stava aiutando in quella terribile impresa, evidentemente più lucido di quanto non avrei creduto io stessa.

In un altro momento avrei messo su il broncio e fatto una bella strigliata alla mia amica che mi aveva mollato di punto in bianco durante una sottospecie di rave in mezzo agli sconosciuti senza farsi più trovare. E invece ero così contenta che Romina avrebbe pure potuto confessare di avermi fregato cinquanta euro dal portafogli per comprarsi del fumo e l’avrei perdonata comunque. Più o meno.


“Dov’eri finita?” mi limitai a dirle, lanciando un’occhiata distratta a Stena: guardava distrattamente a destra e a sinistra senza vedere niente, a volte rideva e alzava le spalle. Aveva il singhiozzo.
“Niente, ho incontrato Stena che era ancora sobrio e siamo andati a prendere quella birra famosa…”gridò per farsi sentire “Poi ci siamo messi a parlare con certa gente del collettivo di Lettere e Filosofia e dopo ti ho cercata ma eri sparita.”

Vero, ero sparita. Sul tetto.
Strinsi di più la mano ad Andre che ricambiò subito, sorridendo mentre guardava altrove.

“E’ tutto okay?” domandò piuttosto, rivolto a Fabrizio.
“A posto. Solo ubriaco fradicio, come al solito. Li ho trovati assieme, Romina non riusciva a sorreggerlo e mi ha chiesto di aiutarla”
“Gli passerà. Romy, dà qua, ci penso io.”

Lasciò la mia mano per aiutare Polska a trascinare Stena da qualche parte e io mi sentii a disagio in maniera quasi istantanea.


Non riesco a stare senza di te neppure un minuto, Genio.


“Ci vediamo fra poco, Maggie” mi disse all’orecchio ed io annuii, in trance.


“Oh, tutto bene?” domandò poco dopo Romina.
“Mh?” mi voltai a guardarla.

Aveva la febbre? Che occhi luccicanti!

“Ho detto: è tutto okay?”
“Ah… A te è tutto okay?”
Sussultò, intimidita.

“Sì, sì… Certo che è tutto okay! Ma ti ho fatto una domanda, rispondimi… Sei strana!”
“Io? Sì…”
“Sì, cosa? Sì, sei strana?”

Scossi la testa.


“No… Sì nel senso… ho detto sì.”

Mi ci voleva un interprete, me ne rendevo conto, ma davvero non sapevo articolare frasi di maggior senso compiuto. Non con quel sorriso ebete stampato in faccia e il sapore dei baci di Andrea ancora sulle labbra.

“Ma sì a cosa?” gridò, sconcertata. Qualcuno, in sala, abbassò finalmente i volumi della musica. Una ragazza con i capelli verdi ci passò accanto ridendo e barcollando, sorretta da un’amica non meno brilla di lei.

“Ho detto sì.”
Sorrisi ancora. Qualcuno mi piantò in faccia la luce blu di un faretto e sorrisi ancora di più, proteggendomi la vita con una mano.
“Sì, cosa? Ma che, vi siete sposati, idiota?” domandò allora Romina, sconcertata, portandosi le mani sui fianchi “O avete soltanto bevuto?”


Mi venne da ridere per la sua espressione sorpresa. O soltanto perché mi veniva facile.
Mi poggiai al muro della sala e soltanto dopo le risposi vaga:

“Entrambe le cose, credo.”
“Tu sei pazza. O soltanto innamorata?”
“Entrambe le cose?” sorrisi di nuovo.

Romina rise, stavolta. Mi aveva capita.

“No, soltanto la seconda, tesoro mio.”


Annuii soddisfatta. Aveva ragione lei.
Ero soltanto innamorata.
Di Andrea.


 


E’ facile questo nostro amore, Zeno.
E’ bello. Un porto sicuro dove attraccare.
Voglio che sia sempre così. Voglio essere sempre innamorata di te.

 
 


 
***
 
 


“Voglio un bacio” mormorò sulle sue labbra. La testa gli girava già.

Lei nemmeno lo guardò. Piuttosto gli rispose male come al solito:
“Mi sto mettendo il reggiseno, dammi tregua!”

Dopodiché, lo scostò in modo brusco, ma lui non si allontanò poi molto; quella macchina era troppo piccola per permettere grandi movimenti.

Troppo piccola, troppo sporca, troppo vecchia.

 
Ogni volta che lei si trovava lì dentro e si guardava intorno, si chiedeva con quale coraggio non scappasse via a gambe levate. Forse, solo perché gli voleva bene. O perché sapeva essere un ottimo amante.
“Quando fai così ti comporti come una puttana: mi dai quello che voglio e dopo non mi caghi neanche di striscio. Forse a qualcun altro piacerà, a me no.”

PAM!
Lo schiaffo lo colpì in pieno viso; una chiazza rossa prese ad allargarsi sulla sua guancia e lui massaggiò a lungo la parte dolorante con espressione sofferta. Gli aveva fatto davvero male.

“Non azzardarti mai più a darmi della puttana!”
“Ti sei offesa? Non vole…”
“Non volevi ma l’hai fatto. Non provarci mai più.”

Alzò la spallina del reggiseno; il nero del tessuto contrastava perfettamente con la sua pelle chiarissima. A lui venne di nuovo voglia di farci l’amore. Tanto poi lo sapeva che, quando finalmente si lasciava andare tra le sue braccia, quella donna così forte e così sgarbata che gli stava davanti sarebbe diventata la più dolce, la più fragile delle creature.
Un’altra volta, l’ultima.
Per sempre e come sempre, perché con lui non sapeva nascondersi, non del tutto almeno.
Era anche per questo motivo che lui era certo di essere amato.


“Okay, okay, scusa... E’ che tu…”
“Che io cosa?”

Già, che cosa?

Boh. Non me lo ricordo più.
Forse.


“Niente, niente… Lascia perdere.”


Cazzo, ho le vertigini.
Mi stai parlando? Sento la tua voce nella mia testa.

 

La ragazza lo guardò con la coda dell’occhio, sospettosa, per qualche istante. Poi, passò la mano tra i capelli arruffati, nel vano tentativo di darsi un tono; infine si accese una sigaretta, sporcandola con ciò che rimaneva del suo rossetto rosso sbavato.

“Puoi chiuderlo il finestrino, anche se fumi. Non me ne frega niente”

In realtà, anche da strafatto qual era in quel momento, gli dava noia la vista del parcheggio isolato di quel centro commerciale dove l’aveva portata: avrebbe voluto offrirle un posto migliore per i loro incontri d’amore, se di amore si trattava. Con i finestrini chiusi, sporchi com’erano, almeno si risparmiava di vedere tutto quello schifo.
Tuttavia, lei non era del suo stesso avviso. Come sempre.
 
“Non importa, dà fastidio a me. Lo tengo aperto.”
“Fa’ come vuoi.”

Quel suo tono dispettoso la costrinse a voltarsi e guardarlo di nuovo per qualche istante; quando aveva quella faccia scura gli faceva tenerezza. Sapeva di avergli procurato l’ennesimo dispiacere.


“Sei così bello, così bello. Potresti fare e avere molto di più. Potresti cominciare una vita decente e trovare una donna che ti ami per davvero, non me. Sei così bello…”


Avrebbe voluto ripeterglielo all’infinito. E invece, si limitò a dire:

“Non è che… E’ che sono arrabbiata.”
“Lo so.”
“Non avresti dovuto essere così superficiale. Non con lei.”
“Ancora con ‘sta storia? Basta! Lei è tranquilla..”
“Non si direbbe visto come si è comportata.”
“Le stai sempre addosso, che vuoi?”
“La stai difendendo?”

Scosse la testa.

“Non è questo. E comunque, io non ho paura a dire in giro che stiamo insieme.”
“Beh, io sì” s’inacidì ulteriormente “Per te è facile, sai? Non sono io il problema fra noi due!”
Un attimo di silenzio, poi lui ridacchiò appena, una risata triste per nascondere la sua costernazione.

“Certo, tu sei la bambina perbene. Io il tossico che ti devia, giusto?”
Lo guardò di sbieco.
“Avresti potuto essere quello perbene anche tu.”
“Sì, forse” rispose faticando a trovare le parole “Ma non mi serve a niente mettere camicie pulite e giacche eleganti se poi sono marcio dentro. E neanche a te”

Girò la chiave nell’accensione e mise in moto l’auto. Lei si morse il labbro.

“Stiamo andando via?”
“Certo, così non passi altro tempo inutile in questo squallido parcheggio con uno come me!”
“E smettila di fare la vittima!”
“No, guarda che non faccio la vittima, anzi. Mi sto proprio per incazzare e fra poco prendo a pugni il volante, okay?”
“Che ti prende adesso? Non stavi morendo intossicato?”
“…Ascoltami, è meglio se adesso ognuno se ne va a casa sua, va bene? Così non ci si vede più e non m’incazzo ancora”
“Questa è bella! Adesso sei tu quello arrabbiato? Vuoi scherzare?”
“Sta’ zitta, per favore”
“Stai cercando di dirmi che dovrei avere paura, giusto? L’incredibile Hulk si sta incazzando, non provochiamolo!”

Urlò, agitando le mani; pensava di avere ragione, pensava di avere tutte le ragioni di questo mondo. Lui l’aveva messa nei casini, con tutte le chiacchiere che era andato a fare in giro sul suo conto. Quasi l’aveva fatta scoprire da quella pudica bambolina di sua cugina e lei aveva dovuto minacciarla per tenerla a bada, dopo che la suddetta aveva cercato di spiarla e spiattellare ai quattro venti chissà quali segreti.
E tutto questo perché?
Perché lui non era stato in grado di tenere per sé gli affari proprio, né di tenere a freno la lingua.

Sì, era davvero incazzata, ne aveva tutto il diritto.
O forse, era solo più irascibile perché aveva fumato un po’ troppo e le bruciavano gli occhi. E anche lui aveva fumato, e aveva bevuto, e quella dannatissima macchina puzzava di alcool e di chissà quali altre schifezze, e la strada su cui correvano con quella Skoda bianca era così brutta, così grigia… Sembrava un film dell’orrore.

“Pulisci sto catorcio, c’è puzza di birra!”
“E di vodka. L’hai portata tu, cazzo vuoi?”
“Oh ma che ti prende? Non ti si può dire niente oggi!”
“Hai cominciato tu. Cominci sempre tu da un po’ di tempo a questa parte. Stai rompendo le scatole con sta storia, non sopporto più te né tua cugina!”
“La finisci?! Un’altra parola e…”
“E tu cosa? La sto guidando io l’auto, cazzo! Se voglio sbando, usciamo dal guardrail e finalmente la finiamo di discutere!”

Batté un pugno sul volante e lei smise di respirare: aveva paura di lui quand’era così nervoso.

“Tu… tu hai fumato troppo.” rispose tenendosi la testa: le doleva, molto.
“Non solo l’unico”
“Voglio tornare a casa”
Voleva andare via, voleva stare con lui. Aveva la nausea, era confusa.
“E’ quel che sto facendo, ti sto portando nella tua fottuta casa perbene!”
“Ma perché reagisci sempre così? Perché impazzisci all’improvviso, senza un motivo?”
“Un motivo? Vuoi un motivo? Guardati allo specchio, sei tu il motivo! Mi esasperi!”
“Ma che cazzo vuoi?! Se tu non avessi…”
“…Parlato con mia cugina non saremmo a questo punto… E basta, sei noiosa! Decidi cosa vuoi fare della tua fottuta vita, Flora, io non ho più pazienza!”
“Che significa?”
“Ancora? Quale lingua dovrei parlare per farti capire che…”
“Che…?”



Che voglio stare con te.
Che non voglio più essere il tipo che ti scopi e basta.
Che pure un disgraziato, farabutto come me ha un cuore, Florinda.
Io avrei voluto che fosse tuo.
E invece sono qui strafatto come sempre, a litigare con te solo perché non capisci o non vuoi farlo.

 
“Cazzo, smettila di urlare, ho mal di testa!”
“Non sei l’unico… E io non sto urlando!”
“Sì che lo stai facendo! Sei solo una stronza, esci dalla mia macchina!”

Perse il controllo di se stesso e anche il controllo del volante, nello stesso momento; la rabbia guidava ogni suo movimento, ogni decisione. La rabbia e tutta la vodka che s’era scolato, oltre alla striscia bianca che s’era tirato prima di andare a prenderla, da solo nel cesso sporco di un bar sulla statale.

Com’è che faceva a stare ancora in piedi?

“Cazzo, sta’ attento!”

La macchina sbandò per un’altra frazione di secondo: disegnò una mezza curva sull’asfalto prima di riprendere la via. Per fortuna stavano percorrendo una extraurbana poco frequentata e non avevano incrociato altre auto durante la loro performance acrobatica.
Quantomeno nessuno s’era fatto male.

“Sei un imbecille! Scendi da quest’auto, fai guidare me!”
“Perché, sei più capace? O solo meno fatta? Io dico che moriamo uguale” la provocò.
Voleva litigarci, voleva urlare e farla urlare.

I neuroni gli bruciavano, l’adrenalina cominciava a diramarsi nel suo corpo.
Aveva voglia di fare.
Di farci sesso, di farla piangere.
Aveva voglia di punirla, di amarla, di sfinirla, di buttarla fuori da quell’auto.
Aveva voglia di piangere.

Vaffanculo, Emiliano, vaffanculo…



Allora e del tutto improvvisamente, la strada divenne una macchia sfocata; forse, l’alcool stava solo facendo il suo effetto. Finalmente.
Ingranò la quarta, poi la quinta, ma la inserì male e l’auto produsse un rumore strano. Emiliano cominciò a ridere. Rise, rise fino allo sfinimento.
Florinda lo guardò allucinata; poi spostò lo sguardo sul suo riflesso nello specchietto retrovisore: aveva i capelli in disordine, la matita che colava sulla guancia, il rossetto sbavato, gli occhi rossi.

Le venne da piangere.
Finì col ridere anche lei.

Emiliano rise più forte e si dimenticò che la stava odiando solo pochi secondi prima. In realtà, non la odiava mai veramente.
E poi, si dimenticò anche che stava guidando e tolse una mano dal volante. Di nuovo quell’aggeggio infernale scivolò dalla sua presa e la macchina sbandò come poco prima.
Urlarono entrambi. Poi, lui riprese a ridere.
Ormai la cocaina e la vodka ragionavano al suo posto.
Lei invece urlò di nuovo, un “sta’ attento, stronzo!” che Emiliano neppure udì.
L’aveva perso.


L’auto correva troppo; incredibile quanto scivolasse una vecchia Skoda come quella.
Novanta, cento, centoventi.
Sarebbe stato un bravo pilota Emiliano, se avesse voluto; avrebbe potuto tentare quella strada per redimersi. Magari funzionava, ritornava a essere ricco e presentabile e suo padre gliel’avrebbe fatto sposare.
Forse.
Ma adesso da dove usciva sta cosa?

Flora riprese lucidità per qualche secondo. La sua mente cominciava a intorpidirsi e i muscoli pure, doveva approfittarne il prima possibile.
 
“Emil, lascia guidare me…”
“No cazzo!” batté il pugno sul cruscotto “Esci, va’ via!”
“Ma che…”
“Puttana, fuori di qua!”
“Stai delirando, fammi guidare!”

L’auto sbandò di nuovo, pesantemente; le urla di Florinda le avrebbe sentite anche un sordo. Emiliano rise; la paura era la giusta punizione per una donna che sapeva farlo soffrire tanto, che provava vergogna nel mostrarlo al mondo e nell’ammettere che l’amava, ma lo cercava sempre quando aveva bisogno di essere amata. Perché Flora si sentiva sola ed Emiliano era l’unico in grado di colmare i vuoti della sua anima, però poi non lo guardava nemmeno più in faccia quando i suoi amici dell’università la chiamavano per un drink. Una donna che sapeva esasperarlo e senza la quale lui non era più in grado di stare. Come aveva fatto a diventarne così dipendente?

La strada divenne ancora più nebulosa, una macchia inconsistente su cui faticava a trascinarsi e trascinare quel trabiccolo. E poi era buia, così buia: perché cavolo il comune non accendeva le luci? Gli onesti cittadini pagavano le tasse e dovevano essere ricompensati con adeguati servizi!
Magari quelle stramaledette luci le avevano spente perché lui le tasse non le pagava?
O forse erano accese e manco se ne rendeva conto?

Che poi, la testa gli faceva così male anche prima? Non se lo ricordava.
Quand’è che aveva cominciato a bere? Prima di entrare in macchina? Dopo?
E Florinda perché urlava? O forse stava ridendo?
Come corre quest’auto…

“Frena, frena, Emiliano, cazzo! Stai sbandando!”

Stai sbandando.
Il tuo cervello sta sbandando, si sta spappolando. Come il tuo cuore.
Ti ricordi come urlava il tuo nome prima Florinda quando te la scopavi? Volevi dirle ti amo e invece non hai parlato. Ti è venuto solo in mente lo schiaffo che t’ha dato due giorni prima, ancora incazzata per quella storia di Margherita, e non hai aperto bocca.
E sì, Florinda chiamava il tuo nome, ma non c’ha messo niente ad uscire con un altro. Chi era quel tipo? Ah, certo…quel mezzo becchino con la camicia inamidata e le tasche pieno di soldi che piace a papà, sì. Lei ci rideva però con lui, l’hai visto tu mentre li spiavi. Con te invece ci ride solo se beve o se fuma una canna.
Non è sano, non è sano il vostro rapporto.
Come hai fatto a innamorarti di lei?

“Emiliano, frena!”

Non urlare Florinda, non urlare. Tanto non posso frenare, non mi ricordo neppure dove cacchio sta il freno, adesso.

“Emiliano!”


Emiliano, Emiliano, Emiliano…

Il suono lontano della tua voce.
È adesso? Era ieri?
No, ieri è impossibile, ieri eri con lui, con il becchino pieno di soldi. E ridevi.
Con me o ti incazzi o piangi.


“Emiliano, ci schiantiamo cazzo!”



…E schiantiamoci, Florì. Tanto questa è la fine che ci meritiamo entrambi. La fine che si merita questo nostro amore.

Devastante. Malato.

È un incubo questo nostro amore.
Un incubo da cui non so uscire. Un incubo da cui non voglio uscire.

 
 
 
 











Allora... Il capitolo è un po' particolare, lo so. Più che procedere nella narrazione, mi piaceva l'idea di mettervi a confronto le due coppie di questa storia (che Emil e Flora fossero una coppia l'avevate capito tutte, no? ;D), mostrarvi due tipi di amore e come lo stesso sentimento possa essere diverso a seconda delle persone.
In realtà ho disseminato tutta una serie di indizi nella storia e il finale... beh, pure dice parecchie cose.
;)
Il titolo l'ho ripreso da una canzone dei Placebo e lo trovo molto azzeccato sia per Flo ed Emil che per Meg e Zeno.
Il Lanificio,che cito in questa storia, è uno spazio autogestito che esiste veramente a Napoli.

Ci terrei tanto a ringraziare la mia Erica (alias gypsy_rose90) per la disponibilità, per le risate che m'ha fatto fare e per essere un assoluto tesoro <3

Passo a rispondere alle recensioni, spero che mi farete sapere cosa ne pensate di questo capito e vi ricordo che, per qualsiasi cosa, mi trovate in questo gruppetto qui:


https://www.facebook.com/groups/265306233568958/

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Capitolo 13
*** La mia gioventù sbagliata ***


 



 





Come on Balthazar, I refuse to let you die
Come on fallen star ,I refuse to let you die
Cos that's wrong and I've been waiting far too long
It's wrong, and I've been waiting far too long
For you to be mine

Centrefolds – Placebo

 





Quella notte rincasai alle tre e mezzo, accompagnata in auto direttamente da Zeno; era stato Mirko del collettivo a prestargli il veicolo perché di suo Andrea aveva soltanto una bici.
Romina la lasciai a La Piovra, perché proprio non voleva saperne di rientrare, nonostante la giornata scolastica che ci attendeva di lì a poche ore: si stava divertendo troppo, diceva. In realtà, voleva soltanto sfruttare la sua notte brava, una volta tanto che i genitori decidevano di farsi un viaggetto e lasciarla libera. L’affidai quindi alle cure di uno Stena più morto che vivo e ad un più lucido – seppur silenzioso – Polska.
Fabrizio, d’altronde, m’ispirava fiducia.
 

Feci bene attenzione ad essere quanto più silenziosa possibile, una volta varcata la soglia di casa, e forse fui premiata per questo o soltanto baciata dalla fortuna: papà non si svegliò quando la porta d’ingresso scattò, e mamma neppure. Ludovico, con ogni probabilità, non era neanche nel suo letto.
Una specie di miracolo, in altre parole. Scivolai nella mia stanza senza creare problemi e senza trovare ostacoli, ringraziando la mia buona stella.

Alle quattro crollai anche io, stremata dalla stanchezza e da tutte le emozioni di quella serata.

Il mio sonno dei giusti, tuttavia, durò poco; un’ora e mezza dopo, alle cinque e trenta del mattino, infatti, qualcuno telefonò a casa mia.
Stavo sognando, in quel momento. Sognavo di trovarmi con Andrea – un Andrea più giovane , con i capelli lunghi, lisci e chiari, per intenderci – che inveiva contro di me. Nel mio sogno – o forse incubo era più appropriato, come termine? – Zeno aveva uno sguardo furioso; non capivo le sue parole, non ci riuscivo per niente. Era come sentirlo parlare in russo o coreano: incomprensibile. Eppure sapevo che gridava contro di me o contro qualcosa che aveva a che fare con me. Io, viceversa, non mi muovevo affatto, troppo afflitta e stremata per rispondere alle sue accuse. Persino nel sonno riuscivo a percepire il magone alla gola, la disperazione che mi prendeva dall’interno, che m’impediva di difendermi e rispondere a qualcosa che neppure potevo afferrare. Mi limitavo quindi a stringermi nel maglioncino di cachemire da educanda, mangiando le mie lacrime salate e i fili di capelli chiari che mi cascavano davanti agli occhi, incapace di parlare, mentre Andrea continuava a urlare. Ad un certo punto non lo distinguevo neppure più: piangevo troppo e lui si era tramutato in una macchia sfocata della mia visuale mentre il suono di una sirena, forse un’autombulanza, veniva a disturbare il mio udito e la mia concentrazione. Non sapevo, non capivo, tutto quel che potevo afferrare era quel suono straziante. Alla fine del sogno Andrea gridava un “ci siamo rovinati, ci siamo rovinati a vicenda”, le stesse parole che mi aveva riferito Luna nella realtà, qualche tempo prima; le stesse parole, inghiottite dal suono fastidioso di quella sirena.
 
 

A quel punto, mi svegliai di soprassalto e soltanto così scoprii che la sirena del mio incubo non era altro che lo squillo del telefono di casa.
Nessun Andrea aveva inveito contro di me, però io avevo pianto per davvero: mi asciugai le lacrime e respirai a fatica, seduta nel mezzo di quel letto sfatto.


Come potevo aver sognato una cosa così brutta a poche ore di distanza dalla nostra definitiva dichiarazione d’amore?

Non è di buon auspicio questo, Margherita.


Quando mi voltai verso la radiosveglia per controllare l’orario, mi resi conto che non era di buon auspicio neanche il fatto che il telefono di casa squillasse all’alba.

Con il cuore in gola balzai dal letto e schiusi appena la porta. Avevo un unico pensiero in testa: Ludovico.

Forse non era tornato a casa quella notte? Non potevo dirlo.
Gli era successo qualcosa? Non lo sapevo.
Tremai: avevo paura.

Dal basso, udii la voce di mia madre: aveva risposto dal salotto, in camera papà non voleva telefoni di alcun tipo. Ecco perché aveva squillato così a lungo, prima che qualcuno si decidesse ad alzare quella cornetta.


“Sì, sì capisco… Ma come sta?” la sentii mormorare.
“…”
“E dove si trova, adesso?”
“…”
“Devi stare calmo, si sistemerà tutto.”
“Carlotta, che succede?”

Mio padre. I suoi passi concitati, una nota di ansia nella voce.
Mi si rivoltò lo stomaco.

Avanzai verso il corridoio, mi sporsi alla balaustra; potevo vedere un lembo della vestaglietta da camera che indossava mia madre e un piede nudo di papà. Erano decisamente saltati entrambi giù dal letto.
Fuori, il cielo era di un blu appena più chiaro.


Di chi stavano parlando? Cosa dove sistemarsi? Chi stava male?
Ludovico?


“Margherita?”

Sobbalzai; mi voltai di scatto. Alle mie spalle mio fratello mi sovrastava in tutta la sua altezza.
Era a petto nudo e scalzo; indossava soltanto i pantaloni lunghi del pigiama e aveva i capelli in disordine. Era molto più bello così che tirato a lucido, con l’abito scuro, la cravatta e una valigetta da professionista in mano.
Non era comunque quello il particolare importante; ciò che contava, in quel momento, era che lui non fosse l’oggetto della strana conversazione di mia madre. Chiunque si fosse fatto male, non si trattava di mio fratello.
Un gran traguardo.

“Scusami, ti ho spaventata?”
“Ludo, pensavo fossi tu… Ho avuto paura.”

Gli tastai la mano, incerta: normalmente non eravamo molto inclini a sentimentalismi e gesti d’affetto, ma avevo davvero temuto il peggio. Come se avesse compreso, ricambiò la stretta.

“Io cosa? Che succede, Marghe?”
“La mamma sta parlando al telefono. Non so cosa sia successo di preciso, ma qualcuno sta male.”
“I nonni, forse?”

I nonni.
Li avevo dimenticati. Mi mancò l’aria.

Sì, forse i nonni. Dopotutto erano anziani, a quell’età la vita è piuttosto precaria; basta una caduta, un malanno di troppo e finisci dritto dritto al Creatore.
Scossi la testa: per quanto faticassi ad andare d’accordo con nonna Margherita, le volevo bene. Avevo già perso nonna Anna, non ero disposta a lasciar andare via anche lei.
No, non poteva essere.

“Non lo so.”

Nel frattempo, dal basso, udimmo il rumore della cornetta, mentre mamma riagganciava.
Mi affrettai a sporgermi di nuovo dalla balaustra in legno, Ludovico fece altrettanto; poi, più coraggioso di me, chiamò nostra madre.

“Che c’è, mamma?”

“Carlotta, parla, siamo tutti in ansia” gli fece eco papà. Anche lui non sapeva un bel niente.

Mamma, comunque, non parlò. Non subito almeno. La guardai mentre si passava la mano tra i capelli, sulla fronte. Sospirò.

“Francesco…” quasi sussurrò. M’impressionò il suo tono di voce così afflitto e guardai Ludovico – che strinse le spalle – prima di avviarmi verso le scale, scendere alcuni gradini.

“Allora, che è successo?”

Altri istanti di silenzio. Troppi.

“Oh mamma, parla per favore! Mi sto sentendo male per l’ansia! Che c’è? Chi ti ha chiamato?”
“Aurelio.”
“Mio fratello?!” intervenne di nuovo papà “E perché? E successo qualcosa ai miei gen…”
Florinda.

“Cosa?!”

La voce di mamma fu quasi un sussurro. Io, viceversa, urlai.
Non lo so ancora il perché.

“Che è successo a Florinda, mamma?” Ludovico guardava la scena con occhi spalancati: era molto legato a nostra cugina, per qualche causa che proprio non comprendevo. Fuori, il cielo diventava sempre più chiaro.

“Ha avuto un incidente stradale” rispose con tristezza “ l’auto si è schiantata contro un guardrail stamattina alle tre, sulla provinciale. Adesso è in ospedale. È viva ma ha una gamba rotta, ha battuto la testa e perso parecchio sangue, a quanto pare. Dobbiamo andare all’ospedale, dobbiamo vedere come sta.”


Alle tre.
Alle tre io ero ancora a divertirmi a La Piovra.
Incredibile come possa essere diversa la vita nello stesso momento, a seconda delle persone.


Per un po’ ci guardammo in faccia gli uni con gli altri, incapaci di parlare. Papà assunse quell’aria greve e pensierosa che sempre mostrava quand’era molto preoccupato, e una ruga gli solcò con impudenza la fronte; sembrava avesse preso d’improvviso almeno cinque anni. Ma non fiatò davanti a quella notizia; piuttosto, diede subito le spalle alla mamma, impaziente com’era di andare a prepararsi. Ludovico, alle mie spalle, respirò più forte. Aveva la voce incrinata e le lacrime agli occhi mentre si teneva la fronte chiedendosi sommessamente come fosse accaduta una disgrazia simile.
Mia madre, dal canto proprio, continuava a torcersi le mani, incapace di muoversi, parlare, organizzare il da farsi. Si asciugò, piuttosto, le lacrime col dorso della mano e tirò su col naso più di una volta.
Anche lei forse si stava chiedendo come la diligentissima Florinda, sempre attenta alla guida, sempre così sicura, sempre ineccepibile e rispettosa delle regole, avesse potuto avere un incidente stradale su una strada semideserta alle tre del mattino.
Qualcosa non quadrava. A nessuno.
Tuttavia, fui l’unica ad avere abbastanza coraggio per domandare. Dovevo sopire il sospetto che si era insinuato nella mia mente.

“Mamma, quante auto sono coinvolte nell’incidente? C’è altra gente ferita?”

Mia madre necessitò di alcuni secondi prima di focalizzare la mia domanda e rispondermi.

“Non lo so, Margherita. Non l’ho chiesto a tuo zio.”

Respirai a fondo.
Potevo farcela.

“Chi guidava l’auto, mamma? Florinda?”

Mi guardò sgomenta, per qualche istante. Aprì bocca per inerzia.

“No.”

Mio padre tornò sui suoi passi, per un attimo incerto. Ludovico mi superò di qualche gradino, anche lui sorpreso.

“E chi? Qualche amica dell’ università? Un ragazzo?”
“Un ragazzo, sì.”

Strinsi i pugni. Conoscevo la risposta.

“Chi, mamma? Lo conosciamo?”

Mia madre represse a fatica un singhiozzo. Lo sapevano tutti in città che non era un nome da pronunciare, quello: si portava dietro la puzza della vergogna. Forse anche della droga, della delinquenza.
Si portava dietro l’immagine sfacciata di un ragazzo che voleva prendersi gioco del mondo intero.
Io lo conoscevo quel ragazzo.

“Carlotta, per la miseria! E rispondi! Che ti prende oggi? Lo conosciamo? Con chi stava Florinda?!” urlò mio padre, esasperato.
Tacque definitivamente quando mamma si decise a parlare.


“Emiliano Borghesi.”
 
 


***



L’ospedale puzzava di disinfettanti e di quella gomma schifosa e viscida di cui sono fatti i lacci emostatici.


Forse stanno usando uno di quei lacci anche per Flora? Le tireranno il sangue?
No, non può essere, ne ha perso già troppo.



Mi tappai il naso: quegli odori mi perseguitavano da quando, a quattordici anni, ero finita anche io nel letto di un ospedale per trauma cranico. Lo stesso ospedale, a voler essere precisi.
Avevo la nausea.

Nel corridoio si sentiva soltanto il picchiettio dei passi concitati di mia madre. Come le era venuto di indossare i tacchi per entrare in una corsia d’ospedale alle otto e mezza del mattino?

Non lo sapevo. Avevo smesso di cercare risposte quando si trattava della mia famiglia.

Poco distante da mamma, mio padre camminava a testa alta, ma pensieroso e scuro in viso.

Avrà avuto la stessa espressione preoccupata quando hanno ricoverato me?

Ludovico, al mio fianco, invece, inviava messaggi afflitti ad Amy che era tornata a Londra da due giorni. Le stava dicendo che la sua meravigliosa cugina lottava per la vita? Le stava dicendo che soffriva terribilmente per questo?

Gliel’hai detto anche quando è successo a me, Ludo?
No, non l’hai fatto: all’epoca non stavi con Amy.

 
Gli ospedali mi perseguitavano, mi perseguitavano le rianimazioni e le terapie intensive, le macchine che controllavano il respiro, il cuore, il cervello. I pensieri.
No, i pensieri no.

Prima io, adesso Florinda.
Florinda che rappresentava la mia parte cattiva.

O non era proprio nessuno?

Non lo sapevo, ma non mi sentivo bene. L’idea che fosse chiusa là dentro, dietro una di quelle porte e lottasse per se stessa, così come avevo fatto io o come aveva fatto sua madre senza riuscirci, qualche anno prima, mi dilaniava.

Magari ero soltanto stanca: avevo dormito poco più di un’ora e mi trascinavo a stento per quei corridoi.

No, non è solo la stanchezza, ammettilo.
E’ per lei, è per Florinda.

Era giugno, faceva già caldo. Erano le otto e mezza del mattino e quel giorno avrebbe decretato la fine dell’anno scolastico, per me.
Ma a scuola, quel mattino, io non ci sarei andata. E Romina mi avrebbe aspettata invano, con gli occhi ancora chiusi per il sonno, perché avevo scordato il cellulare a casa e non potevo avvisarla.
Le sarebbe venuta l’ansia. E anche ad Andrea, perché non potevo avvisare neppure lui.
 

Florinda è in un letto, priva di sensi, con la gamba rotta e ha perso sangue.
Florinda.
Emiliano come sta, invece?


Annaspai. Non ero certa di volerlo sapere.


“Carla, Franco!”


Mio zio Aurelio ci venne incontro nel corridoio, trafelato; aveva la faccia stravolta, le labbra che si piegavano in una smorfia brutta e straziante al contempo. Era molto pallido e le mani gli tremavano mentre le posava sulle spalle di mio padre – suo fratello – cercando conforto.
Dietro di lui se ne stava un’ammutolita Katiuscia, seduta compita in un angolo, il trucco neanche accennato. Non aveva avuto il tempo necessario per dedicarsi al suo adorato make up quella mattina, evidentemente. Certo che, senza fard o rossetto vistoso, non era proprio un granché.


La zia Carolina era più bella, molto di più. Flora aveva preso da lei, per sua fortuna.


“Come sta, Aurelio?” la voce di mamma si disperse in un soffio, nel vuoto di quel corridoio che sapeva di disinfettante. Un’infermiera indaffarata ci passò accanto, senza degnarci di uno sguardo: le nostre facce perplesse o disperate non valevano molto per lei che, dalla mattina alla sera, non faceva altro che assistere a tragedie. La nostra era solo una in più sul suo macabro elenco.

“Ha riportato una lussazione alla spalla destra e frattura della tibia. Ha battuto la testa e ha una ferita enorme” calcò molto su quell’aggettivo – sulla fronte. Ha perso sangue. Ha qualche scheggia di vetro nel braccio, ma… è viva, per fortuna, e non so neanche come. Mi hanno detto che l’auto è semidistrutta, il muso è accartocciato. Eppure lei è viva, non so quale santo ringraziare. Dicono che la terranno d’occhio per tutta la giornata e se va bene, stasera, la passeranno in Traumatologia. È un miracolo, un… Miracolo.”

La voce gli s’incrinò sul finale; papà se lo strinse a sé leggermente e io lo guardai sconcertata: questi gesti d’affetto, tra loro due, mi erano del tutto nuovi.
Anche mamma l’abbracciò, mentre Katiuscia finalmente si decideva ad alzarsi e venire verso di noi per partecipare al momento di dolore. Aveva l’aria scocciata, come se tutto quel che stava affrontando non la riguardasse e fosse soltanto costretta a farne parte.
Mio fratello mi si fece più vicino, mi sfiorò le spalle quasi poggiandosi a me: aveva gli occhi pieni di lacrime.
Zio Aurelio represse un altro singhiozzo, ci guardò sconvolto.

“Ma non è… Non è neanche l’idea di lei in un letto d’ospedale a farmi più male…” sussurrò d’improvviso.

Io sobbalzai: se non era l’idea di tua figlia ricoverata in ospedale con la testa rotta a causarti dolore, cos’altro?

“Hai sentito… Lo sai con chi era…?”

Si rivolse a mio padre, lui annuì.

“Non pensare a questo, adesso, Aurelio” gli suggerì mia madre, ma lui non l’ascoltò. Ricominciò a parlare guardando nel vuoto, stravolto.

“Viaggiavano su un’auto rubata…”
“Che cosa?!” esclamammo io e Ludovico, in contemporanea. Lo zio annuì mestamente.
“Una vecchia Skoda di cui il proprietario ha denunciato il furto tre mesi fa. I carabinieri che li hanno soccorsi mi hanno detto che era piena di… bottiglie vuote. Di vodka, di birra…”
“Dev’esserci un errore” bisbigliò mamma. Katiuscia la guardò, quasi mi parve di vederla sorridere. Poi, calò gli occhi per terra.
“Nessun errore. Nessuno. I carabinieri pensano che abbiano anche potuto far uso di sostanze stupefacenti ed io… Io…”
“Aurelio…”
“Maledizione!” urlò a quel punto lo zio, sorprendendoci tutti. Persino la sua giovane moglie, che sobbalzò. “Che aveva da nascondermi Florinda?! Ve ne rendete conto? Una vita di bugie, di cazzate, di recite! Mi aveva fatto credere di essere la figlia perfetta…”
“Ma lo è, è un’ottima figlia!” cercò di giustificarla mia madre.
“NO! NON LO E’!”
“Aurelio!”
“E’ una bugiarda! Se sua madre fosse viva, le prenderebbe un colpo per il dolore!”

Per fortuna non è qui, pensai tra me e me.

“Si starà rivoltando nella tomba, la mia povera Carolina!”

Katiuscia, alle sue spalle, fece una smorfia di disapprovazione – come sempre accadeva quando si nominava la mia compianta zia – e biascicò qualcosa in russo. Almeno credo.

“Signori! Dio, siamo in ospedale! Un po’ di silenzio, per favore!” un’altra infermiera spuntò da una porta poco distante, fulminandoci con lo sguardo. “Non lo sapete che qui ci sono dei malati gravi?!”
“Cristo, lo so!” urlò ancora mio zio “Mia figlia è una malata grave, razza d’idiota!” la donna ci guardò interdetta. Mamma le corse incontro, scusandosi e pregandola di preparare un sedativo: lo zio stava dando i numeri.

Katiuscia sbuffò, tornò al suo posto. Ludovico mi guardò con la coda dell’occhio, ricambiai perplessa e non aprii bocca.

“Aurelio” fu mio padre a parlare, con voce ferma, mettendogli le mani sulle spalle “Adesso calmati. Sono certo che c’è una spiegazione a tutto. Questo Emiliano Borghesi… Credo che sia colpa sua. Avrà approfittato della nostra povera Florinda, l’avrà deviata. È sicuramente colpa sua. Rilassati, la nostra Florinda è una brava ragazza e lo sai anche tu, ti ha sempre dato tante soddisfazioni! L’importante, per ora, è che si riprenda: per tutto il resto troveremo una soluzione. La troveremo fra di noi” sottolineò: era fondamentale che certe notizie non si spargessero oltre il confine della famiglia.
“Hanno avvisato i genitori del ragazzo?”
“Dov’è ricoverato?” azzardai io, improvvisamente. Si girarono tutti a guardarmi, allibiti.
“Che t’importa?” commentò mia madre. Io alzai le spalle.
“Niente, era tanto per sapere.”

Mio zio scosse un po’ la testa, sembrava non stesse badando a nessuno di noi.

“Non lo so se li hanno avvisati, i suoi genitori” rispose infine “Non li ho visti ancora. Non so neanche se abbia dei genitori! E comunque, è ricoverato in terapia intensiva. Gli sta bene.”

Fremetti: Emiliano non se l’era cavata tanto a buon mercato.
 
“I suoi genitori sono i Borghesi, li conosci… Ricordi?” commentò ancora mia madre. Lo zio la guardò scocciato.
“In questo momento no. Hanno soldi? Bene. Sia chiaro che non risolveranno un cazzo con i loro soldi, non ho intenzione di fargliela passare liscia a quel delinquente!”
“E i nostri genitori?” domandò papà, cambiando discorso “Li hai avvisati?”
“Arriveranno a momenti. Nostra madre era distrutta, quando l’ho chiamata.”

“Possiamo vedere Flora?” domandò mamma, ancora scossa, sedendo accanto a Katiuscia.
“Per ora no. Più tardi, mi hanno detto.”

Annuimmo. Poi, ci accomodammo in sincrono sulle scomode sedioline del corridoio. Erano blu, in plastica, erano scheggiate e traballavano.
Restai lì seduta per almeno due ore, combattendo contro il sonno, maledicendomi per non aver portato con me il cellulare e mangiucchiando le pellicine ai lati delle unghie per passare il tempo. Smisi quando il pollice cominciò a sanguinare.

Ludovico, accanto a me, non proferì parola. Guardava il vuoto, a volte scuoteva la testa; mamma faceva altrettanto.
Era troppo difficile per loro accettare una verità così scomoda sulla propria cugina e nipote prediletta. Una ragazza esemplare, dall’eccellente carriera scolastica e lavorativa, bella e affascinante, talentuosa e carismatica.
In realtà, solo una povera ventenne delusa dalla vita e intossicata di alcol e fumo.

Emiliano non mi aveva mentito quella volta alla manifestazione, dunque. Era stato più sincero di mia cugina, certamente; lui la conosceva, la frequentava. Forse ne era addirittura innamorato.
Ma Flora sapeva bene che ammettere quella relazione avrebbe implicato un certo grado di disonore; la sua buona reputazione sarebbe stata macchiata dall’infamia di quel figlio di famiglia perbene che i suoi stessi genitori avevano buttato fuori casa, dopo averne scoperto la reale natura di drogato e forse anche delinquente.
Non poteva permetterselo.
Ecco perché aveva negato. Ecco perché mi aveva quasi mangiata viva quando aveva capito che io volevo metterla alle strette.
Lei Emiliano lo conosceva eccome.

Emiliano.

Mi chiesi dove fosse e come stava. Dopotutto, se i suoi genitori neppure erano andati a salutarlo, chi si stava preoccupando per lui?

Mi alzai di scatto dalla sedia.

“Dove vai?” domandò papà sospettoso, dall’angolo più lontano dove si era rifugiato con zio Aurelio, in attesa dei nonni.
“A prendere un caffè al distributore” risposi veloce.  Annuì per darmi il permesso di allontanarmi.

Povero papà.
Non gliel’aveva detto nessuno che il distributore automatico era terribilmente vicino alla terapia intensiva?
L’avevo fregato ancora una volta.
 



***
 


 
La terapia intensiva sapeva ancora di più di quell’odore di disinfettante disgustoso. Il bip bip delle macchine, quelle che ti dicevano se eri vivo e per quanto tempo potevi ancora ritenerti tale, si alternava ad un silenzio inquietante. Una signora piangeva nell’angolo suo marito che lottava dopo un infarto.

Emiliano era da solo. Nessuno era andato ancora a trovarlo.
Da solo, accanto ad altri tre sfortunati come lui.

Teneva gli occhi chiusi, il braccio attaccato a una flebo, due tubicini che gli uscivano dal naso. Sembrava dormire semplicemente, o forse l’avevano sedato o era privo di sensi, questo non potevo saperlo. Ma il suo viso era così pallido che avrei temuto fosse già morto se la macchina cui era attaccato non mi avesse viceversa segnalato il suo debole ma persistente battito cardiaco.

Il cantuccio dov’era relegato avrebbe fatto piangere il più insensibile degli uomini: era grigio, asettico, sterile, privo di amore e rischiarato da una fredda luce artificiale mentre fuori esplodeva il sole di giugno.
In quell’angolo di stanza non c’era soltanto una testa rotta, un braccio fratturato, un’emorragia interna, un respiro affannoso: c’era un cuore spezzato, sgretolato, sanguinante, ma ancora vivo.
Un cuore che chiedeva di essere amato e io lo vedevo e capivo così, all’improvviso, senza un reale motivo. Sapevo che c’era e che piangeva perché nessuno era disposto a ricambiare quell’amore.

Mi venne da piangere. Lo feci.
Mi chiesi perché nessuno fosse ancora andato a trovarlo. Mi chiesi perché ci fossi andata io, che manco lo conoscevo chissà quanto.
Per pietà?
La pietà non è un bel sentimento.

Alla fine, trovai una sediolina di legno scheggiato abbandonata a qualche metro più in là, me la trascinai verso il letto di Emiliano e mi ci accomodai stancamente. Ero esausta.



Adesso che dovrei fare, Emiliano?
Parlarti? Per dirti cosa?
Io non so niente di te.
Pregare? Per chi?
Per te?
Non so neanche se credi in Dio.
Non so neanche se ci credo io.

 


Alla fine, feci solo quel che sapevo, solo quel che potevo.
Piansi ancora.
Piansi per una Florinda che mentiva, che non sapeva se amarlo oppure no.
Per la vita sbagliata che si era scelto Emiliano, per  quella stessa vita sbagliata che forse stava per dirgli addio.
Per quella bici che non era riuscito a rubare, per l’auto che invece aveva sottratto ad un ignaro padrone soltanto per riempirla di coca e bottiglie di vodka, per i tatuaggi strani che qualche altro tossico gli aveva stampato sulla pelle bianca e fredda, per le carezze che di certo aveva ricevuto da bambino e ora non ricordava più, per i baci da innamorata che qualcuno aveva lasciato sulla sua guancia, per i baci di mia cugina che erano gelidi e caldi al contempo. E ancora, per le strade che aveva percorso, per i porticati che aveva abitato, per le risate che erano esplose sulla sua bocca, per le lacrime che aveva finto di non versare, per gli amici che aveva avuto, per la sua famiglia che aveva dimenticato di avere un figlio. Per quel che era stato, per ciò che era diventato, per quel che avrebbe potuto essere.


Emiliano, sei poco più grande di me.
Hai la vita davanti per cambiare, forza!
Alzati da questo letto, fai vedere a Florinda quanto vali.
Fallo vedere al mondo intero, a me, ad Andrea.

 


Andrea. Andrea.
Dov’era Andrea in quel momento? E perché ce l’aveva con me?
D’accordo, era stato solo un sogno, ma perché ce l’aveva con me?
Perché mi accusava di avergli rovinato la vita? Perché diceva di averla rovinata lui a me, a sua volta?
Perché si trattava delle stesse parole brutte, crudeli e senza sentimento che mi aveva rivolto Luna soltanto poco tempo prima?

“L’altra Gherardi non l’ha rovinato Andrea” mi aveva detto.

L’altra Gherardi era Florinda. Perfetta, bellissima, impeccabile Florinda, relegata in un letto d’ospedale con una gamba rotta e troppo alcool in circolo in quel suo sangue blu immacolato.


Continuai a piangere – l’unica cosa che sapevo fare – con la mano ferita di Emiliano nella mia. Era grande, le dita esili e lunghe.
Forse era stato un pianista.
Quando infine alzai gli occhi, intontita com’ero dal dolore, dal mal di testa, dal sonno, dall’incertezza, incontrai altri occhi sconosciuti che mi guardavano.
Appartenevano a una donna biondissima, bella come poche, più giovane di mia madre, con un collier d’oro ben abbinato al colore della chioma e il viso pallido come quello di un fantasma.
Non le stava bene quella tinta dorata, non associata al biancore della sua pelle in quel momento. Comunque, era bellissima lo stesso, sul serio.

Non si trattava di un’infermiera, ovviamente, né di un’estranea qualsiasi.
Quando aprì bocca per parlare, sapevo già perfettamente cosa mi avrebbe detto. La lasciai fare comunque.


“Sono la mamma di Emiliano. Tu sei la sua ragazza?”




***




Secondo il parere dei medici, Florinda stava decisamente bene. Era quasi un miracolo che dopo un simile incidente se la fosse cavata con appena una gamba rotta, un taglio sulla fronte e qualche escoriazione. Sarebbe guarita in fretta.
Ciò che turbava tutti, a fine giornata, era il fatto che, anche nel suo sonno precario, Florinda continuasse ad agitarsi. Talvolta addirittura urlava qualcosa d'incomprensibile, nel bel mezzo del sonno, e respirava a fatica. L’aveva fatto già per tre volte di fila. Alla fine, avevano deciso di darle un calmante.
Nessuno aveva capito cosa biascicava nei suoi deliri, neanche la nonna che, appena aveva visto la sua nipotina preferita così conciata per le feste, era quasi svenuta per il dolore.
Soltanto io avevo riconosciuto, in quelle frasi smozzicate, un’invocazione, la ricerca di qualcuno, la paura di perdere ancora quel qualcuno, di non averlo avuto mai.

Florinda chiamava il nome di Emiliano, lo strascicava, voleva gridarlo e non ci riusciva.
Lo sentii soltanto io. Gli altri no o, forse, finsero soltanto di non ascoltarlo.

Quando lasciai l’ospedale, una donna bionda e profumata di Chanel n°5 – il cui nome era Viviana – stava ancora seduta al capezzale di suo figlio. Medici e infermieri non ne potevano più di sbraitare e farle presente, con le buone o le cattive maniere, che l’orario delle visite era passato da un pezzo.
Non se ne sarebbe andata. Li avrebbe pagati pur di restare.
Non sarebbe andata via.



Arrivai a La Piovra alle sette di sera, senza aver chiuso occhio, senza aver mangiato e senza cellulare. Non avevo avvisato nessuno, non sapevo nulla del mondo intero dalle tre della notte precedente.


Romina ti avrà cercato e tu dov’eri?


Barcollavo ancora sui gradoni del centro sociale, distrutta com’ero dagli avvenimenti della giornata e dal dondolio poco rassicurante di due autobus strapieni, quando incontrai Andrea.
Stava seduto sull’ultimo scalino, l’espressione seria, alcuni fogli tra le mani e una birra di lato. Un tipo alto, con i capelli scuri e un pochino diradati, gli stava affianco, controllando quelle carte con lui; a parte una dilatazione particolarmente grande all’orecchio destro, il suo aspetto non sembrava molto stravagante. Non si accorse di me finché non mi parai davanti a lui.

Alzò lo sguardo, mi regalo un sorriso.

“Toh, guarda chi c’è! Ciao fidanzata, ti ho cercata tutto il giorno, che fine avevi…”

Non continuò. Io stavo ancora piangendo.

Il tipo accanto a lui tossicchiò, imbarazzato. Si alzò di scattò, biascicò qualcosa riguardo certe cose che aveva da organizzare con un fantomatico collettivo studentesco. Se ne andò subito, non gli diedi peso. Dal centro sociale arrivavano delle voci, come di qualcuno che recitasse un copione o leggesse qualcosa d’importante a un pubblico. Non sapevo cosa stavano facendo.
Appena il ragazzo si allontanò, Andrea mi allungò le braccia per invitarmi a sedere accanto a lui. Era turbato.

“Che è successo Margherita?! Perché stai piangendo?”

Non gli risposi. Repressi a stento un altro singhiozzo.
Si alzò di scatto anche lui, mi abbracciò subito; mi persi nella sua stretta, non volevo altro.

“Piccola, che succede?”

Succede che mia cugina è in ospedale a farfugliare del suo presunto fidanzato in fin di vita e per quanto io la detesti sto da cani a vederla così.
Succede che mi sembra di essere tornata indietro di cinque anni, di essere riattaccata a quelle macchine, di non riuscire a respirare, di non riuscire a ricordare niente, come se fossi di nuovo io la malata.
Succede che un ragazzo di vent’anni sta con un piede nella fossa e se l’è cercata, certo, ma non è giusto. Quel ragazzo è stato amico tuo, Andrea? Io questo non lo so.


E quando ti ho rovinato la vita?
Quando l’hai rovinata tu a me? Perché?

 

Dall’edificio arrivavano altre voci, degli applausi. Guardai distrattamente verso La Piovra, poi gli domandai:

“Che… che stanno facendo?”
“Chi?”
“Dentro… che stanno dicendo?”
“Oh, dentro… Niente, leggono brani di Marx. A volte ci riuniamo a facciamo cose così.”
“E tu? Tu che stavi facendo prima?”

Continuavo a formulare domande che non c’entravano niente con quello che avrei voluto dire realmente o col mio stato d’animo. Forse lo facevo per distrarmi, in maniera inconscia, o chissà per quale altro motivo. A volte risultavo strana persino a me stessa.
“Maggie, allora? Che hai?”

Andrea mi strinse più forte, respirò sul mio collo e poi ci lasciò un bacio. Io tremai; cercavo il coraggio che non avevo per aprir bocca e parlare di Florinda ed Emiliano. Alla fine, parlai di tutt’altro.

“Ho sognato…” cominciai.
“E da quando sognare fa un così brutto effetto?” rispose, interrompendomi; lo sentii sorridere sulla mia spalla.

Mi staccai da lui, all’improvviso.
Il sogno era nitido ancora, davanti ai miei occhi.


“Urlavi. Urlavi contro di me…” spiegai.

Mi guardò perplesso.

“Maggie, era solo un sogno. Che c’è?”
“Tu non urleresti contro di me, vero?”
“No, mai.”


Perché non ci credevo?
Mi venne l’ansia.


“Andre, che significa che ti ho rovinato la vita?”
“Che stai dicendo?”
“Me l’ha detto Luna!”

Andrea lanciò un’occhiata irritata verso il centro sociale. Forse Luna era là dentro?

“Allora, che ho fatto? Avevo quattordici anni, che…”
“Margherita, per piacere…”
“Che ho fatto a quattordici anni per rovinarti la vita?!”
La mia voce assunse un tono stridulo. Una ragazza, all’ingresso, mi guardò incuriosita.

“Maggie, stai sragionando… Non può essere soltanto a causa di un sogno, che ti è successo?!”

Mi tenne le spalle, cercò di guardarmi negli occhi.
Non ci riuscì.
Distolsi lo sguardo, mangiucchiai il labbro inferiore; ero disperata, quel pomeriggio. Stanca, provata, preoccupata. Disperata.

C’era qualcosa di profondamente sbagliato nella gioventù che mi circondava, nel risentimento senza ragione di mia cugina, nel bisogno di farsi male di Emiliano, nelle mie insicurezze, nel desiderio di fuga che aveva spinto Andrea, negli anni passati, così lontano da casa propria e da se stesso. Questa certezza, che aveva ormai preso corpo in maniera definitiva dopo l’incidente di Flora, mi stava divorando da quel mattino.
Avevamo avuto tutto o quasi dalla vita e sembrava che niente ci riempisse per davvero. Ognuno di noi era fuggito, fuggiva ancora, a modo suo.

Mi sentivo svuotata, svuotata e incompleta, come ogni volta che non riuscivo ad afferrare un ricordo, farlo mio, riappropriarmi di me stessa e di ciò che ero stata.

E quel sogno, quel mio sogno orribile, in realtà, era un ricordo?
Era parte della mia memoria o solo un brutto scherzo della mia fantasia? Non sarebbe stata la prima volta, del resto.
C’era qualcosa che dovevo ancora scoprire? E quanto quel qualcosa avrebbe potuto minare le basi del nuovo rapporto che intercorreva tra me e Andrea?

“Marghe…”
“E’ un sogno? Solo un incubo, Andre? O quel che ho visto l’ho anche vissuto?”


Mi guardò a lungo, gli occhi improvvisamente lucidi.
Poi, mi rispose sicuro, mentre dal centro sociale veniva uno scroscio di applausi.


“E’ stato solo un sogno, Meg. Calmati, per favore. Adesso andiamo? Devi raccontarmi che ti è successo.”

Che voce dolce hai, Andre.
Così calma, priva d’incertezze.
Andrea, Andrea… Sono stanca oggi, aiutami tu, per favore.



Presi un lungo respiro, lo guardai a mia volta; mi erano mancati i suoi occhi grigi, in quella giornata.
C’impiegai qualche minuto, ma alla fine annuii: gli credevo.

Gli diedi quindi la mano, incerta e tremante, mentre scendevamo piano i gradini d’ingresso de La Piovra.






***

 



Quella sera Andrea non se la sentì di tornare a casa. Affrontare la cena in famiglia, il sorriso rassicurante della mamma, il viso stanco di suo padre e o le domande della sorellina irrequieta trascinandosi dietro il peso di quel che aveva scoperto riguardo Emiliano lo devastava. Saperlo in un letto d’ospedale a combattere contro la morte significava guardarsi in uno specchio – usurato dal tempo – e ritrovare il riflesso di sé che aveva affrontato la stessa battaglia, qualche anno prima.
Lui l’aveva vinta, quella battaglia; non sapeva come, ma ce l’aveva fatta.
Emiliano, invece? Che intenzioni aveva?
Andrea non era certo che il suo amico avesse delle buone motivazioni per lottare, andare avanti e uscire da quell’incubo.

Emiliano.
Il suo amico, sì, perché un tempo erano stati amici, proprio come lo erano adesso lui e Fabrizio.
Emiliano era stato la spalla che l’aveva sostenuto nei lunghi mesi di freddo in Inghilterra, quello con cui era uscito a far casino e a cercare risse, la persona che aveva condiviso con lui notti a base di alcool e Pink Floyd, l’amico con cui si era passato le belle studentesse straniere conosciute nei locali della City.
All’epoca, Emiliano era scappato di casa, almeno stando a quello che diceva lui. In giro, viceversa, si vociferava che l’avessero cacciato dopo aver scoperto la vita dissoluta che conduceva nella propria città, ma Andrea non aveva mai stentato a credere alle parole del giovane perché sapeva quanto la sua esistenza fosse complicata. La famiglia di Emiliano era ricca e perbene; il padre lavorava nel settore edile, aveva soldi a sufficienza per dare da mangiare a un villaggio di bambini africani, era sempre bello, profumato di acqua di colonia costosa, il suo fisico era asciutto, i denti bianchi, indossava camicie fatte su misura, con le sue iniziali cucite sopra, e picchiava regolarmente sua moglie. Almeno una o due volta a settimana, in base ai comportamenti che Viviana adottava, alle risposte che gli forniva e che lui considerava più o meno impertinenti, in base a quanto valutasse succinta la sua mise. A volte, la picchiava solo per noia. In ogni caso, stava sempre bene attento a colpirla in punti poco o per nulla esposti, affinché nessun altro membro dell’alta società, durante un aperitivo o un vernissage, fosse tentato di chiedere come una graziosa e compita signora come Viviana potesse procurarsi tali ecchimosi.
Andrea ancora non capiva come avesse potuto farci tre figli con quell’uomo, Viviana, o perché non avesse ancora chiesto il divorzio.
Emiliano detestava suo padre, sin da bambino e per ovvi motivi; col tempo, era cresciuto trasformandosi in un bel ragazzo alto, slanciato e provvisto di una forza sufficiente a contrastare quella dell’odiato papà. A diciassette anni, per la prima volta, gli aveva rotto il naso dopo aver scoperto l’ennesima serie di lividi sulla schiena immacolata della madre. Solo con l’aiuto di chissà quale santo in paradiso Viviana era riuscita a placare la furia del marito, evitare uno scandalo e tenere il figlio minorenne ancora in casa, sotto la propria protezione. Da allora, comunque, padre e figlio non si erano più parlati; evitavano persino di guardarsi negli occhi poiché sapevano che la reciproca rabbia sarebbe esplosa al minimo segnale. Non era una bella vita, quella in casa Borghesi.
E poi, Emiliano era cresciuto ancora, i suoi genitori l’avevano iscritto ad architettura senza considerare il suo parere, e ad architettura Emil aveva cominciato a prendere parte alle feste organizzate in facoltà. Aveva conosciuto i ragazzi del Lanificio, Zeno compreso, preso a bere, a farsi passare qualche canna. E quando il Lanificio era stato sgomberato aveva continuato a frequentare Andrea, perché gli stava simpatico, anche se lo conosceva da poco. Diceva che era uno a posto, che sapeva il fatto suo. Uno che soffriva in silenzio, come faceva lui.

Emiliano di casa sua non parlava quasi mai, se non quand’era molto sbronzo e molto triste.

Cos’era successo dopo, esattamente?
Ah sì, l’alcool, la coca.
Le pasticche.
Emiliano aveva smesso di ragionare lucidamente. Il giorno che gli aveva comunicato di essere costretto a partire, Andrea aveva faticato non poco per farsi capire. Gli diceva soltanto: “io me ne vado, Emil, me ne vado. Devo farlo per il bene di tutti, mi stai a sentire?” ed Emiliano rideva. Poi gli rispondeva: “se vai a Londra dimmelo, se vai a Londra mi porto la mia ragazza.”
“Hai una ragazza?”
“La vorrei. Lei non vuole me. E’ una fottuta puttana come tutte le altre, ma io la amo.”
“Anche io amo la mia. Ma non lo sa che stiamo insieme, forse non lo saprà mai. È troppo piccola. È immacolata ed è mia.”

Avevano riso, su quelle frasi. Nessuno sapeva chi fosse la ragazza dell’altro. Adesso lo sapevano entrambi.
All’epoca erano entrambe delle bambine.

E poi Andrea aveva percorso l’Europa come un nomade, spostandosi da una nazione all’altra, e quando era approdato a Liverpool, Emiliano aveva rubato un po’ di soldi in giro ed era andato in Inghilterra anche lui, perché era il suo sogno visitare quel paese senza alloggiare in uno stramaledetto college per lo studio della lingua.
Ma Emiliano non stava bene, non meglio di prima. Continuava a farsi dalla mattina alla sera e rubava le sterline ad Andrea, quando non ne aveva per comprarsi la roba. E faceva a botte con la gente; una volta coinvolse anche Andrea in una rissa e poi lo lasciò da solo a vedersela con la polizia.
Zeno se la cavò soltanto perché qualcuno – non ricordava neppure chi – testimoniò in suo favore.

Emiliano toccò infine il fondo quando decise di trascorrere una notte di alcol e droghe a casa di Andrea, con Marilena. Quella che s’era scopato pure l’amico, per intenderci.
La poveretta ebbe un calo di pressione, svenne; sbrodolava saliva, teneva gli occhi a rovescio ed Emiliano rise per tutto il tempo, più fatto di lei, finché non decise di lasciare quella casa e andarsene in giro per la città, fregandosene della bella ragazza che aveva riempito di droga.
Fu Andrea a trovare Marilena, Andrea ad aiutarla, a chiamare un’autombulanza, a cercare di salvarle la vita.
Fu Andrea ad essere cacciato dalla sua padrona di casa.
A quel punto, tornò in Italia e giurò a se stesso di smetterla con le droghe – il viso pallido e scavato di Marilena l’aveva turbato troppo per continuare – e chiuderla con Emiliano che, nel frattempo, era sparito nel nulla.
Con tutto il bene che gli voleva, ma gli aveva procurato soltanto guai. Era questa la verità.

E adesso? Cosa ne sarebbe stato di lui, di quello che un tempo era stato uno degli amici più cari?
Sarebbe morto?
Avrebbe trovato la forza e la voglia, soprattutto, di tornare alla vita?
E se la sarebbe ripresa la sua Florinda o l’avrebbe lasciata andare come aveva fatto un tempo lui, con Margherita?

Avanti Emil, non puoi fare lo stesso sbaglio che ho fatto io!

No, non poteva. Ma d’altronde, Flora non era Meg e forse non meritava tutte quelle premure.

Alla fine, quella sera, Andrea non tornò a San Giovanni. Davvero, non poteva affrontare la sua famiglia con lo spettro del suo passato che gli aleggiava sulle spalle e con lo spettro dei ricordi brutti di Meg che riaffioravano nei momenti meno opportuni, tra l’altro.  

Chissà come aveva fatto a farle credere che era stato soltanto un brutto sogno.

Davvero, non se la sentiva proprio.
Si limitò quindi a inviare un messaggio ad Arianna per avvisarla e poi dirottò verso il bilocale che Polska aveva affittato alle spalle del Borgo Cariati, con i soldi che guadagnava lavorando come cameriere.
Avrebbe potuto parlarne con lui; con Fabrizio era suo agio, si conoscevano da una vita, erano come fratelli. Avrebbe potuto raccontargli di Emiliano, soffrire con lui o forse non andare troppo oltre nelle spiegazioni e accontentarsi di bere una birra assieme al suo amico, perché Polska non era bravo nelle parole, ma lo conosceva così bene che non avrebbe avuto bisogno di una chiacchierata stentata per comprendere il suo stato d’animo e sostenerlo.
Sì, sarebbe andata proprio così.
Tra l’altro, avevano ancora un sacco di cose da organizzare assieme, loro due: la manifestazione di Roma, per esempio, e l’occupazione del Rhodiaceta, che rimandavano da troppo tempo; avrebbero dovuto decidersi sul da farsi.

Arrivò al portoncino d’ingresso con il cuore appena più sollevato. Fuori era già buio e Maggie era tornata a casa: ce l’aveva accompagnata lui stessa. Era esausta e disperata, povera piccola. Sperava proprio che fosse già a letto.

Bussò al citofono – quello senza targhetta col nome – una, due volte.
Attese, respirando a tratti.

I lampioni si accesero uno ad uno, nella strada. Un cane abbaiò da un balcone, dei ragazzini passarono di lì sui loro rumorosi motorini, senza casco. Ridevano.
Un tempo anche lui l’aveva fatto.
Polska non rispose. Non era in casa? Non era neanche a La Piovra.
Ritentò.

Una, due, tre volte.

Alla fine si ricordò che lui le chiavi di casa di Polska ce le aveva: gliene aveva dato una copia l’amico stesso, nel caso in cui avesse avuto bisogno di un posto dove stare che non fosse casa Zenovi. Fabrizio lo sapeva che a volte Andrea aveva ancora la necessità di staccare.
Salì i gradini quattro alla volta, fino al bilocale all’ultimo piano, umido, vecchio, dalle tapparelle scheggiate e il divano con le molle cigolanti su cui gli piaceva addormentarsi. Sorrise: avrebbero parlato di Emiliano, forse sarebbe riuscito a sfogare quel senso di colpa che gli premeva sul petto come un macigno.
Sì, senso di colpa: da quando Meg gli aveva detto che Emil era in fin di vita, aveva cominciato a chiedersi se non avesse potuto salvarlo prima, Emiliano, piuttosto che lasciarlo sprofondare ancora di più nel suo abisso soltanto per ripicca. Se l’avesse cercato, una volta tornato in Italia, se l’avesse aiutato, se avesse provato a farlo smettere di riempirsi di acidi e vodka…

Se, se, se.


Quando superò l’ultimo gradino, gli parve di aver piuttosto scalato l’Everest: era distrutto. Mentre infilava la chiave nella toppa, dall’altro lato della porta, sentì dei rumori, una musica che risuonava per la casa: Polska stava ascoltando gli Smashing Pumpkins. Mellon Collie and the Infinite Sadness era uno dei suoi album preferiti sin da ragazzino.
Sorrise.

“Ma allora sei in casa…” commentò tra sé e sé, sorpreso. Perché non aveva risposto al citofono? Il volume della musica non gli sembrava così assordante da non sentirne che qualcuno lo stava cercando.

“Polska? Sono io…”

Entrò adagio, posando la pesante borsa di tela sul pavimento dell’ingresso prima di richiudersi la porta alle spalle. Si guardò attorno, riconoscendo particolari familiari: la sedia nell’angolo con i vestiti buttati sopra alla rinfusa, i dischi sparpagliati tra il pavimento e il divano logoro, l’orologio fermo sulla parete di fronte, la caffettiera sul fornello. La stanza era in totale disordine – come sempre – ed era vuota ma non silenziosa: la voce di Billy Corgan risuonava piacevolmente.

Si strinse nelle spalle, Andrea, e guardò oltre la porta aperta del bagno: non c’era nessuno.

Polska stava dormendo?

Si avviò verso la stanza da letto dell’amico, tranquillo. Non ci trovò quasi nulla di strano nell’atmosfera surreale che riempiva l’appartamento, soltanto non capiva perché Polska non rispondeva.
Beh, non gli ci volle molto tempo per comprenderlo, in effetti, quando poi Fabrizio schizzò fuori dalla stanza in boxer, la cresta in disordine, una faccia allucinata.

“Andrea!”

Sul pavimento fuori alla porta c’era un reggiseno colorato. Come aveva fatto a non notarlo prima?
“Oh… Oh cazzo Fabrì, scusa! Cazzo, io proprio non immaginavo… Avrei dovuto avvisarti, che cretino!”

Si passò le mani nella cresta viola, mortificato. Avrebbe dovuto pensarci che Polska aveva una vita sessuale, no? Dopotutto, era uno dei più ambiti a La Piovra.

“No, no Zeno, è tutto okay, sul serio…”
“Davvero Fabrì, scusami. Avevo bisogno di starmene lontano da casa stasera e sono venuto qui. Magari potevo evitare di aprire la porta senza chiedertelo…” si rimproverò. Fabrizio fece un gesto con la mano, per indicare che era tutto okay, anche se la sua espressione diceva tutt’altro. La sfumatura rossa delle sue guance lo tradiva: era in imbarazzo.

“E’ successo qualcosa?” riuscì comunque a domandargli. “Perché sei qui?”

Andrea deglutì a fatica.

“Sì… un incidente. Ma ne parliamo un’altra volta, dai…”

Dalla stanza, con la porta semichiusa, arrivavano rumori continui: qualcuno stava aprendo un’anta dell’armadio, spostando una sedia. Forse l’amica di Polska si stava rivestendo, convinta che il divertimento fosse finito.
Beh, certo non sarebbe finito per causa sua.

Andrea fece per voltarsi.

“Incidente? Di chi parli?”

Fabrizio sembrava preoccupato, gli toccò il braccio, lo fermò.

“Che è successo”?
Emiliano” la voce gli uscì in un soffio “Emiliano è in terapia intensiva. Ha avuto un incidente stradale stanotte, sulla provinciale. È sbattuto contro il guardrail.”
“Ma che cazzo dici!” Fabrizio urlò quasi “E da quando aveva un’auto, tra l’altro?”
“Era rubata.”

Polska lo guardò allibito, improvvisamente pallido. Si allontanò di qualche passo, andò avanti e indietro, a piedi nudi, mangiucchiandosi le unghie. Cazzo, cazzo, cazzo ripeteva, come un mantra. Non sarebbe servito a nulla.

“Ma tu che ne sai?”
“Me l’ha detto Margherita. Sua… sua cugina Florinda era in macchina con Emiliano, adesso è ricoverata anche lei. Pare avessero una storia. Margherita era distrutta.”

Dalla stanza venne un rumore sordo, come se la persona che alloggiava in quella camera avesse lasciato cadere in terra qualcosa. Forse il cellulare? Una scarpa? Che altro?
Polska lanciò un’occhiata perplessa in quella direzione.

“Beh, comunque adesso io vado” concluse Andrea, ricordandosi improvvisamente che Polska non era solo “Ne parliamo un’altra volta. Ti faccio sapere di Emiliano appena mi arriva qualche notizia.”
“D – d’accordo” rispose Fabrizio. Andrea non l’aveva mai visto così impacciato.

Aveva già voltato alle spalle all’amico, quindi, pronto ad andarsene e certo che mai più avrebbe messo piede in quella casa senza il suo permesso, quando una voce conosciuta – una voce femminile – chiamò il suo nome.

Si voltò lentamente, quasi non ci credeva che fosse lì, non per fare certe cose, almeno. Aveva sempre avuto così l’aria innocente, Romina, un po’ come Margherita: gli sembrava qualcosa di troppo strano per lei. Ma d’altronde era una ragazza di neanche vent’anni: perché era così sbalordito?
Quando si voltò, perse la lingua per un attimo.
Andrea non l’aveva mai vista così bella, Romina, avvolta com’era nel lenzuolo bianco opaco di Polska, con i capelli arruffati, le guance rosse, la labbra gonfie, gli occhi brillanti. Di solito era sempre curata nel suo aspetto da stravagante ragazza alternativa, eppure soltanto adesso che la scopriva così sfatta e in disordine gli sembrava più vera e graziosa del solito. Aveva l’impressione di conoscerla e vederla per la prima volta realmente.
Sembrava felice e preoccupata al tempo stesso,  oltre che profondamente imbarazzata. Poteva indovinare il motivo di tutti quegli stati d’animo.


“R-Romina?”

Era tentato di dirle “che ci fai qui?”, ma sapeva che non era il caso né la domanda più adatta e originale; si chiese allora, semplicemente, se Margherita sapesse nulla di tutto quello. Di quella presunta storia tra la sua amica e Polska, per essere precisi. Alla fine, la risposta gli parve scontata: era un no. Gliel’avrebbe detto, altrimenti.

Romina, dal canto suo, annuì in risposta all’occhiata sconcertata di Andrea. Polska, viceversa, distolse lo sguardo. Ancora in boxer, si avviò verso il fornello, chiese se qualcuno volesse un caffè.
Andrea rifiutò, la ragazza pure. Poi lo guardò di nuovo.


“Dimmi che è successo, Andrea. Dimmelo, per favore” domandò infine, con voce carica di paura.
 
 
 














 
 
Non ho molto da dire riguardo a questo capitolo, se non che scriverlo mi ha quasi svuotata.
Parlare di Emiliano che sta male mi causa una malinconia tremenda, anche se non mi crederete perché a questo poveretto lo sto proprio torturando! xD
A dispetto di quel che sembra, posso dirvi che amo molto questo personaggio… Se vi va e se trovo l’ispirazione, più in là, potrei scrivere una OS tutta su di lui. Fatemi sapere cosa ne pensate :)
La canzone che ha fatto da colonna sonora a tutto il capitolo è Centrefolds dei Placebo, di cui vi ho scritto le prime strofe all’inizio. Se l’ascoltate cadrete nel baratro della depressione con me.
A dire il vero, per motivi personali, anche parlare di terapie intensive mi mette un po' d'ansia, ma vabbè.... Andiamo avanti! ;D

Sono stata veloce nell’aggiornamento stavolta, visto? ;)
Per qualsiasi cosa, spoiler e quant’altro, vi ricordo il link del mio gruppo personale, In the Sky with Diamonds:
https://www.facebook.com/groups/265306233568958/
Grazie di tutto e a presto!
Mati

PS: Camilla, questo capitolo è tutto tuo, in onore del compleanno, come promesso! ;)
PPS: capitolo non betato, scusate gli errori! :)

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Capitolo 14
*** Fingere ***






C’era la musica assordante e c’erano le luci negli angoli che le sparavano in faccia, di tanto in tanto, un accecante fascio luminoso dall’improponibile colore blu elettrico. C’era la gente, i corpi sudati, le risate ripetute, l’odore pungente dell’alcool, il caldo soffocante, i balli sfrenati.
C’era la vita, il senso di libertà, la voglia di fare.
E c’era Stena accanto a lei su quel divanetto dai braccioli consumati e le molle cigolanti. Era mezzo collassato, a volte rideva, a volte tornava ad addormentarsi.
Le faceva tenerezza.


Margherita era andata via da poco, tenendosi per mano con il suo Andrea: erano così belli a vedersi dall’esterno! La sua amica, piccola e delicatissima, accanto a quel gigante dalla cresta viola e neanche un centimetro di pelle immacolata… Nessuno avrebbe mai scommesso su di loro, erano troppo diversi per stare assieme. Eppure lei ci credeva, ci aveva creduto sin dall’inizio: nella loro diversità sembravano completarsi, per qualche strana ragione.
 
[A volte invidiava la sua amica Margherita: avrebbe voluto una storia d’amore bella allo stesso modo. Perché di certo la sua era una storia d’amore. Ed era anche bella, ovvio.]


Ruotò di poco il capo Romina, guardandosi attorno con aria curiosa e per nulla assonnata; erano passate da un pezzo le tre e la sala era ancora gremita di gente. Certo, la maggior parte di quelle persone si trovava nelle medesime condizioni di Stena: qualcuno si era addormentato, riverso tra il pavimento e la poltrona finta del dentista; altri barcollavano o tenevano lunghi discorsi a occhi chiusi, brandendo una bottiglia di birra come se si fosse trattato di un’ascia o uno scettro, a scelta.
Deliravano.
A Romina venne da ridere di fronte a quelle scene esilaranti e così continuò finché non guardò poco più lontano e, in un angolo, scorse il viso di Polska mentre la osservava.
La osservava, sì.

Non rise più.

“Me? Fabrizio sta davvero guardando me?” si domandò allora piena d’emozione.  Si sentiva quasi onorata di quelle strane attenzioni: Polska le piaceva davvero tanto.
Eppure, molte sue amiche – fatta eccezione per Margherita – avrebbero storto il naso a vederlo: Polska non era bello, non secondo gli standard comuni, almeno. Era molto alto, ma per nulla muscoloso; Romina conosceva poche altre persone magre allo stesso modo ed erano per lo più donne. Il suo viso era in parte segnato dalle cicatrici di una passata varicella e il naso era leggermente aquilino. Tuttavia, quelle imperfezioni contribuivano soltanto a renderlo più affascinante; quel suo sguardo cupo, gli occhi scuri e le labbra carnose erano tutti dettagli che la facevano impazzire, per davvero.  Senza contare la cresta multicolor, ovviamente.
Persino i suoi persistenti silenzi l’attraevano. Forse, Polska  le piaceva proprio perché le appariva come l’opposto di se stessa, così chiacchierona, rumorosa, casinista e infantile.
Sì, di certo era per questo.

Imbarazzata da quello sguardo, Romina chinò il capo e si studiò attentamente le unghie smangiucchiate per due minuti buoni. Quando prese coraggio e alzò di nuovo la testa, Stena ormai russava, definitivamente collassato, mentre Polska… Polska le stava faccia a faccia, inginocchiato davanti a lei a un metro di distanza.
Per poco non le prese un coccolone e non di certo per lo spavento.
Maledetta, imbarazzante tachicardia!

[Comunque, Polska aveva occhi davvero molto belli; a vederli da così vicino era ancora più evidente.]


“Non sei andata via?” le domandò all’improvviso. A Romina si bloccò la salivazione per qualche istante.

“N-no… Avrei dovuto?”

A lui venne da sorridere per quella domanda così ingenua.

“Non stavi con Margherita?”

Scosse la testa, i capelli le ballarono attorno al viso.

“Meg è tornata a casa con Andrea”
Polska annuì, comprensivo, come se avesse inteso che Romina non desiderava fare da terzo incomodo tra quei due.

Comunque, non aggiunse altro, stranamente; dopo un minuto si alzò e fece per andarsene.
Romina non riuscì a decifrare il motivo di quelle stravaganti domande, né dell’improvvisa curiosità del ragazzo nei suoi confronti; tuttavia, intese facilmente che lui si stava allontanando e che il suo illusorio momento di felicità, i suoi quindici secondi di gloria, stavano finendo. Erano già finiti.

“No, non posso lasciarmelo sfuggire. Non stavolta che m’ha finalmente calcolato” si disse allora, prendendo coraggio e correndogli dietro.

Lui le dava già le spalle, era lontano di qualche passo. Romina lo raggiunse, gli strinse il polso; Polska si voltò a guardarla con sorpresa.
O forse no.

Che gli doveva dire per intrattenerlo? Sono rimasta da sola, non c’è nessuno che mi riporti a casa?
No, decisamente no. Scartò dunque quell’idea che l’avrebbe fatta apparire ancora di più come la bambinetta di turno, ma non le avanzarono altre parole per imbastire un discorso serio.
Allora, vergognandosi da morire, annaspò alla ricerca di valide argomentazioni per qualche istante. Una frazione di tempo sufficiente, comunque, affinché Polska finisse col sorridere intenerito davanti al suo evidente imbarazzo.

“Polska, senti…”
“Romina, ascolta…”

Ops.

Si guardarono un attimo. Risero entrambi.
Finalmente qualcuno si decise a togliere la musica, ma a nessuno venne anche in mente di accendere delle luci normali e per questo Romina ringraziò il suo angelo custode. Era un po’ troppo intimidita per avere il coraggio di guardare bene in faccia Polska e per farsi guardare, soprattutto.

“Allora tu…”
“Io volevo…”

Ops, di nuovo.

A Fabrizio scappò da ridere, ma proprio da ridere. Non l’aveva mai visto così divertito. Alla fine, si lasciò andare anche lei.
Forse, però, la sua era soltanto una risata isterica.

“Magari quando smettiamo di parlare in contemporanea…”
“Sarebbe una buona idea.”
“Volevi dirmi qualcosa?”
“In effetti sì, ma…”
“Ma?”
“L’ho dimenticata”

Scossa la testa, si mordicchiò il labbro e calò lo sguardo: avrebbe voluto sprofondare per metri e metri sotto terra. Eppure a Polska, straordinariamente, quell’atto d’imbarazzo smosse qualcosa: Romina mostrava un’espressione così ingenua, così tenera e sincera, che a lui si strinse il cuore e si chiese perché, prima di allora, non avesse mai passato del tempo con lei. Era abituato alla gente smaliziata, alle ragazze che fumavano canne con naturalezza e con altrettanta naturalezza gli lasciavano baci sulla bocca andandosene via, non alle diciottenni che arrossivano davanti a lui.
Gli sembrava strano, gli sembrava bello.
Una ragazzina impacciata  si mordicchiava il labbro davanti a lui, piena di vergogna e per causa sua, oltretutto.
No, non una ragazzina, meglio essere precisi: una Romina impacciata.

Una Romina innocente.

Qualcuno gli passò accanto, lo salutò perché andava via.
Romina, invece, non si muoveva di lì.


“Come torni a casa?” le chiese allora, impulsivo.

Lei alzò lo sguardo, confusa. Non lo sapeva come ci sarebbe tornata a casa.

“In realtà mi ero organizzata con Stena…” indicò l’amico, poco distante. Era steso sul divano e russava ancora a bocca spalancata.

“Stena non è organizzato neppure con se stesso” le rispose, con lo sguardo accigliato.

Lui non lo perdeva mai il controllo?

“Lo so.”
“Hai un orario?”

Romina ridacchiò.

“Credo di averlo sforato da un bel po’” gli sorrise di nuovo, deliziosa “Mamma e papà non sono a casa. Sono in viaggio, ho via libera.”

Mamma e papà.
Quant’era piccola, Romina? Una dolce ragazzina che giocava a fare la persona adulta e disinibita.

“Hai la via libera, eh?”
“Sì.”

Le luci bianche tornarono a riaccendersi, illuminarono la sala e ciò che restava dei partecipanti a quella festa; la Piovra sembrava un campo di battaglia, più che un centro sociale. Illuminarono anche Romina, il viso rosso per l’imbarazzo, i suoi occhi scintillanti.
Qualcosa di indefinito scattò allora dentro di lui: aprì bocca per lasciargli libero sfogo, perché Fabrizio non era tipo da pensarci e ripensarci sulle cose.
Faceva quel che la testa gli suggeriva al momento, sempre.
“Allora ti accompagno io, Romina. Dai, andiamo.”

Le passò di fianco, le afferrò il polso e la trascinò con sé. Romina non comprese subito; piuttosto esitò, incespicò nei suoi stessi piedi prima di fermarlo. Strinse la sua mano tra le proprie, per la prima volta.

“C-come?”
“Usciamo, vieni!”
“Polska! Ma tu non devi stare qui?”
“Non mi tocca la guardia stasera. Ci saranno altre persone a fare il turno.”
“E Stena?”
“Stena resterà a dormire qui. Non è un problema.”
“Ma…”

“Vuoi venire con me, Romina?”

Si voltò a guardarla rivolgendole quella domanda con una tale fermezza, che a Romina parve fosse stato suo padre a parlarle, non un ragazzo di venticinque anni.
Uno sconosciuto di venticinque anni.
E, proprio come se fosse stato suo padre, non le riuscì di dirgli di no. Non che lo volesse, in realtà, ma avrebbe avuto piacere nel comprendere, anzitutto, dov’era che desiderava trascinarla Fabrizio e il motivo di quella loro improvvisa interazione. Si erano salutati sempre a stento, in tutti quei mesi di conoscenza avevano scambiato sì e no due parole, lui non aveva mai intercettato lo sguardo adorante con cui lei lo guardava e adesso… Adesso Fabrizio voleva portarla chissà dove. Chissà perché, soprattutto.

Secondo me non è vero, sto sognando.
Sto sognando, è così?

Alla fin fine, Romina non voleva saperlo se il suo era davvero un semplice sogno. Piuttosto, se quella era la realtà – e lo era - poteva perdersi una simile occasione?
Conosceva la risposta.

No, non poteva.

Trovò coraggio, quindi, e poi tornò a guardarlo.

“Sì” gli rispose.

Sì, ci vengo con te, Fabrizio.

Così, allungò la mano e si lasciò trascinare dal suo stravagante e improvvisato cavaliere nella buia notte che li aspettava fuori da La Piovra.


***


La notte più lunga della vita di Romina. La notte più lunga della vita di entrambi.
Camminarono per vie silenziose, dove il movimento s’era spento da poco, e per vie dove ancora resistevano gruppi di amici con le loro chiacchiere, la loro confusione e le risate, mentre qualche anziano inveiva dal proprio balcone, disturbato da tutto quel chiasso. Anche Romina rise davanti a quelle scene e Fabrizio la seguì, sinceramente divertito.
Camminarono ancora, a lungo; faceva già caldo eppure Romina si stringeva nella sua giacca leggera, perché era un tipo freddoloso. Polska, invece, sembrava a proprio agio nella t-shirt sbrindellata su di un lato che indossava. Le stava di fianco, a volte la guardava, a volte guardava davanti a sé. Un po’ parlavano e un po’ no, e quando stavano in silenzio, Romina s’imbarazzava, certo, ma si sentiva bene in fin dei conti: era con Polska, non le sembrava vero.
Gli raccontò di essere una persona felice. Non aveva grandi problemi, se non la maturità alle porte, e la sua era una famiglia molto bella. La sua mamma era un po’ pazza e amava canticchiare ogni giorno David Bowie mentre cucinava. Andavano tutti abbastanza d’accordo, erano confusionari e chiacchieroni per difetto genetico e suo fratello maggiore era pure un gran pasticcione, perché aveva quasi fatto saltare in aria il laboratorio di chimica quando frequentava il liceo: lei l’adorava. Gli confessò pure che, a quindici anni, aveva rovesciato per terra il gelato di suo fratello più piccolo, quello che gli piaceva tanto. Il bambino –  all’epoca aveva sette anni – s’era messo a piangere per il dispiacere e lei con lui, perché si sentiva in colpa. Questo era il ricordo più triste che Romina si portava dietro e, a sentirglielo raccontare, a Polska si era riempito il cuore di gioia. Più la sentiva parlare dei suoi cuscini di raso rosa sul letto, più si convinceva che non c’entrava nulla col suo mondo, più gli veniva voglia di baciarla.
Alla fine, lo fece, sul lungomare, alle sei e mezza del mattino, mentre la città si svegliava. Loro non avevano ancora chiuso occhio, invece. Neppure ne avevano bisogno.

 
Come e perché erano poi finiti a casa di Polska, non avrebbero mai saputo spiegarlo, nei tempi a venire.
Era quasi venuto naturale e spontaneo a entrambi, tra un bacio a fior di labbra e l’ennesima risata.

Fabrizio voleva solo conoscere l’amore con una ragazza che fosse estranea al suo mondo. Romina voleva conoscere l’amore e nient’altro.

Non c’era nulla di sbagliato in quello. Vero?
No, non c’era nulla di sbagliato in quei baci, nella bocca di Fabrizio che era finita all’improvviso sul suo collo, poi sul suo seno, sul suo ventre. In quelle mani esili tra i capelli, lungo la sua schiena, sulla pelle delle sue gambe così bianche. Non poteva esserci nulla di sbagliato nei loro vestiti sul pavimento scheggiato di una casa triste, dalle imposte difettose e il fornello sporco, nei loro respiri spezzati, nelle parole sussurrate mentre, forse, facevamo l’amore. Mentre la voce di Billy Corgan che cantava our lives are forever changed/we will never be the same si spandeva nella loro stanza; fuori era già giorno, c’era il sole ma loro lo ignoravano perché non avevano aperto le finestre neppure per un attimo.
 
No, non poteva perché era tutto troppo bello per essere sbagliato. Anche il dolore era stato bello tra le braccia di Fabrizio.
 
 
 
Più tardi, Romina ci provò pure a dirlo a Margherita, perché si sentiva in imbarazzo e voleva parlarne con qualcuno.
Con la sua migliore amica.
Era confusa, era felice, si sentiva in colpa. Con chi, ancora non lo sapeva.
Aveva bisogno di dirglielo.
E allora ci provò per svariati minuti, che diventarono poi ore. Ci provò mentre Fabrizio faceva la doccia, mentre andava a piedi nudi in cucina a farsi il caffè, mentre le diceva di mettersi comoda, prima di tornare nel letto da cui non si era mai alzata e baciarla.
Ci provò ma non ci riuscì a mettersi in contatto con la sua amica.
Il suo cellulare squillò a vuoto per ore, finché non fu l’odiosa signorina del gestore telefonico a rispondere al posto di Margherita.

Allora Romina sospirò e si rassegnò. Si rassegnò a non poter parlare con la sua amica più cara, prima di cercare di nuovo le braccia di Fabrizio per consolarsi.
 


 
***


“Fabrizio, perché sei venuto da me, a La Piovra?”
“Perché ti guardavi attorno come se vedessi tutto per la prima volta.”
“E questa cosa ti è bastata?”
“Più di quanto immagini.”
 

 
***




Sfogliavo pigramente il testo di storia dell’arte, quel pomeriggio, alla ricerca di qualche opera particolarmente interessante da inserire nella tesina per l’esame di maturità, ma mi trovavo a un punto morto. Mi sentivo attratta da Salvador Dalì – ne ero follemente innamorata, a dirla tutta – ma almeno la metà dei miei compagni di classe propendeva per lo stesso artista e non volevo cadere nel baratro della banalità collettiva.
Sbuffai un po’ comicamente e mi stiracchiai nell’erba fresca; con ogni probabilità mi stavo imbrattando i jeans di terriccio, ma sedevo con la schiena poggiata a un tronco grande e confortevole e il sole caldo di giugno mi riscaldava la pelle: andava bene lo stesso. Andava bene tutto, anche studiare arte per la maturità, a quelle condizioni. Ero straordinariamente felice, per quanto strano potesse sembrare considerando tutti gli impicci che avevo in testa. Davvero, quel momento di pace inaspettata mi stava ripagando di molto preoccupazioni.

Alzai lo sguardo dal libro soltanto quando percepii dei passi leggeri nella mia direzione: Andrea mi veniva incontro con andatura lenta. Prima di sedersi accanto a me mi allungò una lattina di Coca Cola.

“Grazie” mormorai.

Si sporse ancora più in basso: compresi subito e lo baciai sulle labbra.

“Così va bene. Prego madame” rispose con aria compiaciuta.

“Allora, vada per Dalì?” domandò.
“No, non credo” commentai mogia, lasciando scorrere le pagine.
“Passa a De Chirico. La metafisica ti piace tanto, no?”
“Mmhh…”
Mmmhhh... Risposta scontata! È proprio tipica di te quando sei indecisa. Stai diventando noiosa, lo sai?”

Zeno mi abbracciò ridendo e il libro di arte capitolò sul prato. Tirai fuori la lingua.

“Siamo già a questo punto, Zenovi? Sono noiosa e scontata?”

Ridacchiò ancora; gli lasciai un bacio sulla punta del naso. Ricambiò con un bacio molto meno casto, prima di recuperare il suddetto testo scolastico.

“Sì, a questo punto. E ti dirò di più: sei anche molto pigra. Ti dispiacerebbe metterti d’impegno e studiare? Manca poco alla maturità.”
“Dio, quindi mi stai anche rifiutando adesso? Siamo proprio alla frutta! Che ne sarà di noi semmai dovessimo sposarci?”
Andrea rise un’altra volta e si coprì gli occhi col braccio poggiandosi a sua volta al tronco.

“Quante ne sai, eh?”
“Non capisco proprio cosa intendi dire…” risposi vaga. Mi piaceva fare la parte della signorina innocente.
“Ah no, eh? E comunque, non sapevo fossimo sul punto di sposarci.”
“Beh, ormai il fidanzamento è ufficiale, no? Tanto vale…”
“Tanto vale…” mi fece eco Zeno, cingendomi i fianchi e attirandomi a lui.
Poggiai la testa sulle sue spalle e ripresi a sfogliare il libro di arte.

“E comunque, da quando la storia dell’arte conta tanto? Io la studiavo a malapena una volta all’anno” commentò, lasciandomi un bacio tra i capelli: quello, per noi, era un pomeriggio di piacevolissima apatia.
“A parte che, per l’esame di maturità conta qualsiasi materia. E poi tu non hai idea di quale generale nazista ci sia capitato come insegnante di arte. Tremiamo per le sue interrogazioni!”
“Uhm…” rifletté serio “A maggior ragione devi studiare, allora. Su, ti ho portata apposta qui al parco per stare tranquilla, mettiti d’impegno!”

Era vero: Andrea mi aveva trascinata via da La Piovra un’ora prima perché al centro sociale c’era troppo casino e io avevo bisogno di un briciolo di tranquillità per organizzare lo studio. I ragazzi si preparavano per la manifestazione di Roma – mancavano appena due giorni – ed erano tutti affaccendati nel decidersi sugli orari, gli spostamenti, i punti d’incontro, gli slogan, la distribuzione dei volantini, gli striscioni; da una parte all’altra della grande sala centrale non si sentivano altro che risate e discussioni a voce alta: non era davvero il posto migliore per studiare e lo era diventato ancora di meno quando, da lontano, avevo notato i rasta bruni di Luna.
Per fortuna non si era avvicinata a noi, anzi: era sparita senza intoppi dopo due minuti. Era quasi un miracolo il fatto che quella simpatica, cara ragazza avesse ubbidito in modo tanto conciliante alla richiesta di Andrea di scomparire dalle nostre vite e non crearci più problemi. Io, comunque, non mi fidavo e con lei restavo sempre sul chi va là.

Zeno aveva compreso presto l’antifona – forse aveva notato la mia espressione afflitta alla vista di Luna? – e, liberandosi per un’ora dai suoi impegni, mi aveva accompagnato al parco per darmi la possibilità di concentrarmi come avrei dovuto. In effetti, poiché disdegnavo casa mia per questo genere di cose, il parco era un’ottima alternativa, anche se la soluzione migliore sarebbe sempre stata quella di scegliere la biblioteca.
Ma in biblioteca, io, non ci andavo mai: troppo silenzio mi dava ansia.
 
Sbuffai di nuovo, a quel punto, presa da un improvviso sconforto. Mi poggiai ad Andrea e cercai di rivedere i collegamenti mentali della mia tesina.

“Quando cominciano gli esami?” domandò.
“Il ventidue.”
“Che vi è capitato quest’anno? Latino o greco?”
“Greco” mugugnai. Lo consideravo più complicato del latino, senza alcun dubbio.
“Capisco. E Romina sta studiando?” aggiunse Zeno all’improvviso, senza alcuna ragione. Feci una smorfia sorpresa e poi mi voltai a guardarlo, perplessa.

“Romina?”
“Sì, Romina. Sta studiando?”

Alzai le spalle.

“E che ne so?”
“Ma non siete amiche, scusa?”
“Sì, ma non studia mai. O, quantomeno, studia quel che basta. Non credo che cambierà filosofia di vita per l’esame di maturità. Perché me lo chiedi?”

Trovavo davvero stravaganti tutti quegli interrogativi su Romina. Andrea non si era mai molto interessato a lei.

“Così, tanto per…” rispose vago “Quindi non l’hai sentita?”
“Macché!” sbuffai allora, risentita “E’ da due giorni che è sparita! Ieri ho provato a chiamarla al cellulare ma era spento. A casa ha risposto sua madre e mi ha detto che non c’era, anzi, era proprio convinta che fosse con me. Le ho anche mandato un messaggio su Facebook e aspetto ancora risposta. Chi la capisce è bravo, sul serio. Chissà che sta combinando” conclusi scocciata.

Ero piuttosto seccata dal comportamento di Romina; era sparita nel nulla da due giorni e non ero riuscita a dirle nulla degli spiacevoli eventi che si erano verificati a casa mia.
Non sapeva nulla dell’incidente e ignorava in quale condizioni riversassero mia cugina Florinda e, soprattutto, Emiliano.
Emiliano, che ancora dopo due giorni continuava a starsene disteso inerme nel letto sterile di una terapia intensiva, sedato e perennemente sotto controllo. L’ematoma che aveva nella testa non voleva riassorbirsi, non ancora.
Io ci speravo, pregavo sempre per lui.
Tuttavia, ero passata una sola volta a fargli visita, in quei due giorni, e pure di sfuggita perché avevo trovato la madre accanto al suo letto – ormai non si schiodava quasi più da là – e non mi andava di disturbare i loro momenti d’intimità. Non sapevo in che rapporti fossero, ma ero a conoscenza del fatto che Emiliano fosse andato via da casa già da un bel po’ di tempo; avevano bisogno di stare da soli, loro due, di percepire l’amore reciproco che li univa. Perché Emiliano lo sentiva anche in quelle condizioni, ne ero certa.
Un’estranea come me non poteva partecipare al loro dolore.

Viceversa, di tutte le altre persone con cui Emiliano aveva condiviso la sua vita sino ad allora, i ragazzi del gruppetto di anarchici a cui s’era legato, gli amici di scuola, della facoltà, le ragazze che l’avevano amato prima di Flora, nessuno s’era fatto ancora vivo.
Neanche Andrea, a pensarci.

Andrea.

“Perché non sei andato a trovare Emiliano?” domandai allora, di punto in bianco.
“Uh?”

La mia domanda l’aveva turbato. Lo percepii dal modo in cui allentò la presa intorno alle mie braccia. Non era da lui.

“Perché dovrei?” rispose a denti stretti. Sembrava soffrisse enormemente nel pronunciare quelle parole.
“Perché non dovresti? Non siete stati amici voi due?”
“Noi due? No.”
“Emiliano diceva il contrario…”
“Emiliano diceva tante cose.”

M’indispettì quel suo modo di parlare, non sembrava neanche il mio Zeno.

“Infatti, ne ha dette tante e sempre tutte vere. Prendi la storia di Florinda, per esempio, e dimmi se non aveva ragione lui” conclusi duramente, sfogliando ancora il libro, ma senza vederci nulla.

Zeno si voltò a guardarmi con aria pentita.

“Non t’incazzare, Maggie.”
“Non m’incazzo.”
“A me pare di sì, invece”
“Sai cosa? Ho sempre come l’impressione che tu non mi dica tutto. E no, non m’incazzo. Solo che mi dispiace”

Lo guardai per qualche istante, senza abbassare lo sguardo. Contrariamente a quanto poteva sembrare, non ero affatto sicura di me in quel momento, anzi: conoscevo perfettamente il peso delle parole che avevo appena pronunciato e le sentivo mie nel modo più assoluto. Per quanto fossi parte di Zeno, infatti, e per quanto sentissi che anche lui era parte di me, ero consapevole, ogni volta, che qualcosa tra di noi ancora mi sfuggiva. E no, non si trattava soltanto della mia memoria ballerina: non era quello l’unico problema. Una vocina nel mio inconscio mi suggeriva che anche Andrea non voleva raccontarmi tutto, che i vuoti tra di noi erano in parte l’effetto delle sue parole non dette. Tuttavia, non riuscivo ad avercela veramente con lui per questo; al di là del fatto che le mie potevano essere solo supposizioni o stupide fantasie, seppure avessi avuto ragione, i motivi alla base del suo comportamento potevano essere molteplici e non potevo giudicarli.
Forse aveva solo bisogno di tempo per aprirsi; forse voleva soltanto concederne un altro po’ a me. In ogni caso io stessa non ero certa di voler conoscere tutto ciò che ancora ignoravo: avevo paura e preferivo godermi quella favola in cui Andrea era il mio principe azzurro e nient’altro. La nostra favola, quella dove non c’era mio padre a pianificare la mia vita, mia cugina a deridermi, Emiliano moribondo in un letto d’ospedale. Una favola in cui non c’erano gli operai della Stornelli&Co. ad ammazzarsi la schiena davanti ai miei occhi per uno stipendio di mille euro mensili, o i ragazzi de La Piovra pronti a protestare e scagliare pietre contro un sistema che voleva lobotomizzarli e che un giorno, con ogni probabilità, li avrebbe comunque risucchiati.
Ecco cosa volevo. Ed ecco perché non sapevo mostrarmi coraggiosa con Andrea, almeno per quel che riguardava me stessa.
Ma per Emiliano… Per Emiliano era diverso. Mi sembrava quasi che fosse compito mio salvarlo, anche attraverso Andrea che un tempo gli era stato legato; se fosse riuscito a riprendersi, Emiliano avrebbe dovuto trovare accanto a sé persone sincere, persone che gli erano state amiche e che erano disposte ad aiutarlo un’altra volta, nel momento più difficile. Emiliano aveva bisogno di essere salvato e non soltanto attraverso le cure mediche, ma anche e soprattutto con l’amore.

L’amore della mamma, degli amici, della sua ragazza. Sì, anche di Florinda, se fosse stata ancora pronta a ricambiarlo.

Viviana stava già riuscendo benissimo in questo compito; aveva deciso di guardare oltre tutti gli errori di suo figlio – com’era giusto per una mamma – e tornare a dargli la mano come se avesse avuto ancora cinque anni: la sua speranza tenace sarebbe stata ripagata, ma non doveva essere la sola a sperare e pregare per lui.


Ti aiuterò io, Viviana. Ci sarò anche io.
Ci sarà Florinda, quando tornerà in sé.
E, te lo prometto, ci sarà anche Andrea.

 
 
Tornai a guardare di nuovo Zeno; lui, invece, non ricambiò. Stava seduto nel prato verde facendo pressione sulle proprie braccia e guardava lontano; la sua Atena aveva assunto un’espressione desolata.

Cerco che te ne fai di film, eh Marghe?
Pure sul tatuaggio di Atena adesso!


“Zeno, ascolta…”
“Margherita” non mi lasciò il tempo di parlare, mi bloccò con voce monocorde “Pensi male di me?”
“Non è questo. E’ che…”
“Sai che  volte non si tratta di non voler raccontare? Non è un fatto personale.”
“E cos’è, allora?”

“E’ voglia di dimenticare. Per questo non parlo, per dimenticare. Tutto qui”

Lo guardai sconcertata.
 
 


***


 
“Emiliano mi ricorda… un periodo molto brutto” cominciò “Il periodo della mia vita a Liverpool, con tutti i suoi annessi e connessi.”
“Che sarebbero questi annessi e connessi?” domandai sospettosa. Avevo paura della sua risposta.

Andrea alzò un sopracciglio, le labbra gli si curvarono in un sorrisetto finto e un po’ indisponente.
 
“Tu che dici?”
“Non saprei.”
“Non lo sai, ma puoi immaginare. No?”

Certo che potevo. Droga, alcool a fiumi.
Forse qualche rissa? In effetti aveva un paio di cicatrici sparse tra i tatuaggi il mio Zeno.

“Di che ti facevi?” domandai deglutendo.
“A parte l’eroina, per il resto credo di aver provato tutto.”

Ah, capito.

“E così ti godevi la vita? Che fine aveva fatto tutto il tuo  impegno politico?”

Strinsi un lembo della mia maglia di cotone; più in là, il libro di arte giaceva ormai dimenticato tra qualche trifoglio e una margherita gialla.

“Non mi godevo la vita, Meg. Tutt’altro. Cercavo di dimenticarla. E comunque, in quel periodo, l’impegno politico era andato proprio a farsi benedire. Non me ne fregava più un cazzo di niente, se devo esserti sincero.”
 
Non mi godevo la vita, cercavo di dimenticarla.


“Cercavi di dimenticare me?” mi venne spontaneo chiedergli.

Mi guardò, sorrise.

“Te, me stesso, casa mia, la mia miseria. Ero un ragazzo instabile, molto più di adesso.”

Mi accontentai di quella risposta.

“Emiliano che c’entra in tutto questo?”

Prese un grosso respiro.

“Emiliano era amico mio. L’avevo conosciuto al Lanificio, avevamo legato. È venuto in Inghilterra da me quando l’hanno cacciato di casa sua, o quando è andato via per scelta propria, ancora non si è capita la dinamica di questa faccenda. Comunque io ero contento che fosse lì con me, mi sentivo meno solo.”
“Meno solo quando ti calavi acidi e fumavi marijuana?”
Rise.
“Esatto. Poi, però, mi ha combinato un disastro dietro l’altro, mi ha messo nei casini. M’infilava in situazioni improbabili senza che ne sapessi nulla; a volte mandava a me i suoi creditori, certa gente losca che mi chiedeva soldi per lui. Manco sapevo dove li andasse a pescare, a essere sincero. Sempre per colpa sua ho perso l’ultima casa in cui abitavo; la proprietaria mi ha sbattuto fuori dopo che una ragazza che lui conosceva è quasi morta per overdose là dentro. Io ho aiutato Marilena a salvarsi ed io sono stato sbattuto fuori. È divertente, vero? Alla fine, ho capito che a Emiliano del resto del mondo non gliene fregava niente, neanche di me, e l’ho lasciato perdere. Lui è sparito e io neanche l’ho cercato quando sono tornato in Italia. L’ho rivisto la prima volta il giorno in cui ha cercato di rubarmi la bicicletta, in questo stesso parco, e ti assicuro che non è stato bello rivedersi in quelle condizioni. That’s all, Margherita. Ce l’hai ancora con me, adesso che sai tutto?”

Mi strinsi nelle spalle, scossi la testa.

“No, anche io ce l’avrei con Emiliano, al posto tuo. Ma so che sei buono, Zeno, e il risentimento non è parte di te. Dagli l’ultima possibilità, non lo sappiamo se resisterà fino a domani. Se dovesse andar male, ti porteresti il senso di colpa dietro per sempre.”
Andrea ridacchiò.
“Hai proprio uno spirito caritatevole, Margherita. Hai mai pensato di diventare monaca?”

Lo guardai sbalordita, poi ridacchiai pure io; stava cercando di essere divertente per stemperare la tensione e dimenticare il magone di quei brutti ricordi che si portava dietro, ma lo sapeva che soffriva. Avrei voluto che non fosse così.
Gli diedi allora un colpetto leggero al braccio, poi un altro. Un pizzicotto.

“Pur di non sposarmi ne stai inventando di scuse, eh? Adesso pure suora devo diventare!”

Mi avvicinai di più a lui, carponi; poi, mi accomodai sul prato, con le ginocchia che premevano sul terreno. Andrea rise, per un attimo sembrò dimenticare. Mi abbracciò, stringendosi alla mia vita. Poi, in uno scatto, si stese sul prato e mi portò con lui. Ridemmo entrambi, io con la guancia poggiata sul suo sterno, sul cuore.
“Quante persone sei, Andrea?” sussurrai. Una folata di vento smosse i miei capelli, mi coprì la visuale; si portava dietro un buon profumo di fiori. “Il diciottenne ribelle, il ventenne intossicato di alcool e droga di Liverpool, l’uomo politicamente impegnato di adesso… Che altro mi manca?”
“Non lo so… il rapinatore seriale di farmacie?”
“Che cretino che sei!”
Mi venne da ridere.

“Meg, ognuno di noi è tante cose, tante persone messe insieme. Una persona è i libri che ha letto, la pittura che ha visto, la musica ascoltata e dimenticata, le strade percorse…”
“…Una persona è la propria infanzia, la sua famiglia, vari amici, qualche amore, abbastanza seccatori.”
“…Una persona è una somma abbassata da infinite sottrazioni.”
“Uno, nessuno e centomila, direi.”
“Potremmo continuare all’infinito con le citazioni, lo sai vero? Alla fine sono soltanto Andrea”
“E io sono soltanto Margherita. E tu sei il risultato delle persone che hai amato” sottolineai, con una punta di gelosia.
“Quindi il tuo risultato, perché ho amato davvero solo te.”

Scattai a guardarlo, imbarazzata. Non sapevo se era la verità assoluta, ma volevo crederci e di certo non me l’aspettavo. Ridacchiò e mi bacio. Due ragazzetti in bici passarono lungo il vialetto di ghiaia fiancheggiato dal prato dove ce ne stavamo stesi e fischiarono.

Fra poco mi seppellisco per la vergogna.


“Andrea?”
“Sì?”
“Devi portarmi da Arianna.”

Ancora.

“Dopo Roma” rispose.
“Okay.”
“Andrea?”
“Sì?”
“Non fotografi più?”
“Ho avuto da fare, non c’è stato tempo. Ma se vuoi posso fotografare te, un giorno di questi.”

Annuii.

“Sì, grazie. Ah, Andre?”

Ridacchiò, mordicchiandomi il polso.

“Che c’è ancora, Meg?”
“Andrai a trovare Emiliano?”

Trattenne il fiato per un po’.

“Non lo so. Però ci penserò, te lo prometto.”
 


 
***


 
Florinda si rifiutava di mangiare; da quando, del tutto fuori pericolo, era stata trasferita a Traumatologia con la sua bella gamba ingessata, aveva progressivamente ridotto le porzioni dei pasti che ingeriva, fino a rifiutarli del tutto. Inoltre, ogni volta che qualcuno andava a trovarla, fingeva di dormire. Ne ero certa, non poteva essere un caso che fosse sempre incosciente quando riceveva visite.
Soprattutto con suo padre non aveva scambiato una sola parola dal giorno dell’incidente: ero pressoché convinta che lo evitasse per ripararsi dalla sua furia. Non voleva dargli spiegazioni, ne aveva paura. Tra l’altro, con ogni probabilità, zio Aurelio pagava qualcuno nell’ospedale affinché continuassero a tenere lì la sua unica figlia, almeno fin quando la rabbia non gli fosse sbollita, anche solo in parte. In caso contrario, non sarei riuscita a spiegarmi altrimenti perché i medici si ostinassero a trattenere lì dentro Florinda – in una stanza singola, c’era da aggiungere –  anche se stava discretamente bene.

Quanto potere avevano i nostri soldi, in quella città? E il nostro cognome?
E quanto aveva paura Flora di averlo infangato?

Per dirla tutta, né a casa, né in fabbrica né altrove avevo sentito una sola parola in più riguardo l’incidente. Da quel “martedì della disgrazia”, com’era solito definirlo mia madre, nessuno aveva aperto più bocca riguardo la dinamica dell’intera faccenda, riguardo le bottiglie di vodka ritrovate in auto (un’auto rubata, tra l’altro), riguardo le canne che aveva fumato mia cugina, la sua presunta relazione con Emiliano e la brutta via che sembrava aver preso. Quando qualcuno – Ludovico, ad esempio – informava il resto della famiglia che andava in visita a Flora, sembrava andasse piuttosto a trovare la povera vittima del folle di turno, come se mia cugina fosse stata investita da qualche altro pirata della strada anziché essere lei stessa la causa del suo male.
Il giovane Borghesi neppure veniva più menzionato e mai, neanche per una volta, zio Aurelio aveva incontrato Viviana, l’unico genitore che andasse a trovare quel povero ragazzo, in cerca di chiarimenti.

Ero anche certa che mio zio pagasse con i propri soldi il silenzio dei medici e di quanti erano a conoscenza di quella brutta faccenda. Allo stesso modo, ero certa che Emiliano non sarebbe finito in carcere una volta guarito – semmai fosse riuscito a guarire – perché qualcuno avrebbe pagato per tenerlo in libertà ed evitare di macchiare ulteriormente il buon nome di quella stessa famiglia che l’aveva cacciato di casa. E non parlavo necessariamente di Viviana: il mio sesto senso me lo diceva che il padre di Emiliano, per quanto nascosto, agisse alle spalle del figlio per trarlo fuori dagli impicci. Ovviamente, non lavorava il suo bene, ma solo per salvaguardare la presunta moralità dei Borghesi. Senza neanche conoscerlo di persona, o conoscerne anche soltanto il nome, avevo l’idea che quell’uomo, nei modi di fare, somigliasse a mio padre; ero onesta: questo pensiero mi dava i brividi.


Quel pomeriggio del venerdì, comunque, non mi recai in ospedale per andare a trovare Emiliano.
Era con Florinda che volevo parlare.

Ero piuttosto abbattuta, quel giorno: continuavo a cercare Romina inutilmente. Era dal martedì precedente che non avevo più sue notizie e cominciavo a credere che volesse evitarmi. Mi stava anche bene, solo avrei voluto comprenderne il motivo visto che l’avevo lasciata felice e sorridente a La Piovra, alle tre del mattino, e dopo, misteriosamente, non avevo più ricevuto neanche una nuova brevissima telefonata.
In ogni caso, poiché sono un tipo a cui piace rovinarsi le giornate, decisi di concludere quel mogio venerdì che preannunciava a un fine settimana senza Zeno (impegnato a Roma) e senza la mia migliore amica, in compagnia di mia cugina.
Glielo dovevo: in fondo non avevo passato neanche un briciolo del mio tempo da sola con lei dopo l’incidente. Era pur sempre mia cugina e stava male.
Esatto, era solo per questo.

No, è solo perché sei una scema senza eguali e pure masochista, Margherita!

Scossi la testa e scacciai via la vocina petulante della me stessa sgarbata, mentre bussavo delicatamente alla porta della stanza di Flora.

Nessuna risposta.
Feci una smorfia e ritentai.
Di nuovo, nessuna risposta.

Un’infermiera mi passò accanto e mi squadrò dall’alto in basso: forse non le risultavano graditi i miei jeans stropicciati o la magliettina di cotone con la stampa di Kurt Cobain e gli schizzi della vernice degli striscioni a La Piovra.

“Forse la signorina Gherardi dorme. Lasciala in pace”

La signorina Gherardi, aveva detto.
Come se solo Florinda fosse stata l’unica signorina Gherardi.
Signorina Gherardi. Avrei potuto ripeterlo all’infinito ed esserne disgustata all’infinito. Quanto l’aveva pagato zio Aurelio per preservare con tanta cura quel gioiello di figlia che si trovava?

Non le diedi peso, comunque. Girai la maniglia della porta e feci pressione per entrare.

“Se conosco mia cugina non sta dormendo adesso. E comunque, può stare tranquilla quando mi vede in giro: sono Margherita Gherardi e non ho intenzione di importunare Florinda. Si ricordi il mio nome, per il futuro.”

La donna non rispose, anzi: a dirla tutta mi parve impallidire.

Quando chiusi la porta alle mie spalle, sospirai a lungo: detestavo esibire il mio nome con tanta arroganza, usarlo per trarne benefici personali. Eppure l’avevo fatto, solo perché quella donna mi aveva irritato.

Come può irritare tuo padre.
E tuo zio Aurelio.
O la stessa Florinda.
Vedi che sei come loro?
Staseradiecipadrenostroperfartiperdonare.


Sospirai di nuovo, rammaricata, e soltanto la vista di mia cugina che dormiva – apparentemente – m’impedì di continuare a pensarci.

“Flora?” la chiamai allora, con voce sommessa. Non mi rispose.
Ritentai.
“Florinda?”
Ancora nessuna risposta. Sbuffai.

“Flora, è inutile che cerchi di fregarmi: lo so che non stai dormendo. Avanti, parla, sono qua.”




“Che vuoi? Non ho nulla da dirti.”

Non si mosse, ma almeno aveva pronunciato due parole.
Proprio con me!
Pensare che da tre giorni ignorava le visite di mia madre, mio padre, mio fratello, dei nonni. E suo padre, come già detto. Katiuscia non era compresa nell’elenco perché neanche era andata a trovarla.

Ma la mia visita no, non la stava ignorando. Dimenticai lo spiacevole episodio di poco prima e mi concentrai su di lei, mi avvicinai al suo letto.

“Non ti ho invitato a sederti. Ti ho chiesto che vuoi, è diverso.”

Voltò di scatto la testa, per guardarmi: aveva una benda a coprirle parte della fronte e un ematoma piuttosto diffuso tra la guancia sinistra e il collo. Il labbro inferiore era appena più gonfio del solito e screpolato. Nonostante tutto questo, comunque, era bellissima; il suo sguardo triste e addolorato strideva pesantemente con le parole sgarbate che aveva appena pronunciato. Chiunque, anche un estraneo, se ne sarebbe accorto che stava male e non solo fisicamente.

“Io mi siedo, invece, perché sono venuta a trovarti e voglio stare comoda. Visto che non dormivi?” sorrisi.
“Nessuno te l’ha chiesto di venirmi a trovare, non io almeno. Quindi puoi anche tornartene a casa.”
Tossì.
“Flora, non t’agitare.”
“Non fare la crocerossina con me!”

Suora, crocerossina. Non me ne andava bene una, mi stavano affibbiando dei ruoli improbabili.
“Dovresti trattarmi meglio, sai? Sono l’unica che può dirti come sta Emiliano. Gli altri lo detestano.”

A sentire quel nome impallidì improvvisamente ed io mi pentii di averlo pronunciato.
Voltò di nuovo il capo di lato.

“C-che m’importa di Emiliano, secondo te?”

Respirò più affannosamente.

“Flora…” mi chinai su di lei, parlando piano. Forse perché ero innamorata – e sapevo chiaramente che anche il mio amore sarebbe stato inaccettabile per i miei genitori – mi sentivo solidale, per la prima volta, con la cugina che fino ad allora mi aveva detestato.
“Flora, non avercela sempre con me senza un motivo. Non sono qui per attaccarti. E non dirmi che non te ne frega niente perché non ci credo. Tu eri in macchina con Emiliano. Lui non mi aveva detto una bugia su di voi e tu lo sapevi, per questo mi hai aggredita quella volta a casa mia.”

Si torturò il labbro.

“Lasciami stare, Margherita”
“Non sono qui per giudicarti, non startene sulla difensiva. Sono qui per te.”
“Non mi sembra, visto che non mi hai chiesto neppure una volta come mi sento!”

Sospirai.

“D’accordo. Come ti senti?”
Mi ignorò.

“Ascoltami bene: non sto con Emiliano, lui non è niente per me, hai capito?” alzò la voce “Se stai cercando di insinuare che…”
La bloccai prima che potesse continuare.

Emiliano sta male, Flora. Sta davvero, davvero male. È in terapia intensiva e nessuno sa come andrà a finire. Se vuoi dire qualsiasi cosa contro di lui pensaci bene perché potrebbero essere le tue ultime parole. Non ti portare questo rimorso dietro per sempre.”

Impallidì di nuovo ed ebbi definitivamente paura per lei. Il suo sguardo era vitreo: mi guardò come se non vedesse nulla. In realtà, stava vedendo molto più di quanto io stessa potessi immaginare.

“Flora…”
“Non dire più niente” balbettò.
“Florinda, per favore… Sono dalla tua parte, davvero.”

“Tu dalla mia parte?!” mi aggredì “Non sai neanche di cosa parli! Non sai… niente! Emiliano, io…”
“Lo ami, Flora? Per favore, parliamone. Io posso capirti…”
“Cosa vuoi capire?! Stai solo cercando di estorcermi qualche confessione schifosa da riportare a tua madre o alla nonna. Va’ fuori di qui!”
 
I soliti toni della Florinda di sempre. Non mi erano mancati affatto.
Sospirai.

“Tu vivi di paranoie. Non lavoro per i servizi segreti e non voglio estorcerti un cavolo! Fa’ come preferisci, io adesso me ne vado. Pensavo t’importasse qualcosa di Emiliano ed ero venuta a dirtelo io, visto che sono l’unica dalla tua parte, sotto questo punto di vista. Evidentemente mi sbagliavo.”

Afferrai la borsa che avevo lasciato a giacere inerme sul pavimento; le piastrelle erano bianche, lucide e sapevano di disinfettante.
L’antifona era chiara: dovevo soltanto  andarmene. Era inutile continuare a stare lì, parlare chi non voleva sentire. Sprecavo solo il mio tempo.

Sistemai la borsa a tracolla e riavviai i capelli, prima di andar via; lanciai un’occhiata a Florinda: guardava verso la finestra. Non aveva più parlato, gridato, protestato, dopo quel che le avevo detto. In cuor mio, speravo che stesse soffrendo per Emiliano, e non perché fossi sadica e pensavo si meritasse quel dolore, ma solo perché continuavo a sperare che lo amasse davvero. Quella sofferenza poteva essere sintomo di amore, dopotutto. No?
Le studiai appena i movimenti del petto: si muoveva a scatti.
Forse piangeva?
Respirava solo più affannosamente?
Non lo sapevo, non mi guardava. Non mi parlava.
Mi odiava, come sempre.

Mi avvicinai alla porta con lentezza.

“Poi un giorno me lo dirai perché ce l’hai tanto come me, Flora…” aggiunsi
“Di mio non me lo ricordo, devi dirmelo tu.”

“Tu non ti ricordi mai niente” rispose lei in un soffio “A volte non lo so se fai soltanto finta.”
“Anche io a volte non capisco se fai soltanto finta” risposi uscendo dalla stanza.


“Comunque, Margherita… un giorno te lo dirò” concluse. O almeno mi parve così di comprendere: ero già fuori nel corridoio.
 
 
Corsi allora alla terapia intensiva. Non sapevo neanche se fosse orario di visite.

Sì, lo era.

Lo compresi quando, passando di in tutta fuori dalla stanza di Emiliano, scorsi da lontano la figura alta di Andrea.

Andrea che se ne stava fermo e immobile accanto a Viviana.
Andrea che se ne stava lì, in silenzio, accanto al letto del suo amico.
 
 
 
 
Di quell’ ennesima, anonima giornata soffocata nel dolore, decisi allora di ritagliarmi e conservare soltanto quell’immagine, di Andrea di spalle mentre guardava Emiliano.
Era la più bella immagine che avessi mai potuto desiderare di vedere perché parlava di perdono, di decisione, di amore. E di un po’ di speranza per quel futuro prossimo che ci faceva così paura.

 









 
 





Forse non sapete che:
1.Emiliano è liberamente ispirato a Martino, il personaggio di Jack Frusciante è uscito dal gruppo di E.Brizzi, anche se il loro percorso di vita, alla fine, sarò molto diverso.
2.L’incidente di Margherita, quello della caduta lungo le scale dell’azienda, è ispirato a un simile incidente – con annessa perdita di memoria – della protagonista di romanzo di Banana Yoshimoto, Amrita.
Amo molto questi due libri e penso si sia capito ;)
3.Emiliano è il nome che avrebbe avuto un mio ipotetico fratello, o il mio, se fossi stata un maschio… ma forse questo ve l’ho già detto, così come vi ho già detto che la Piovra è esistita veramente.
4.Al liceo avevo una professoressa terribile di arte… Tremavamo alle sue interrogazioni. Da vera secchiona, l’ho amata molto e tutto quel che mi ha spiegato lo ricordo ancora.

Ormai Piovre mi sta prendendo la mano (anche se penso sempre che possa annoiarvi xD) e, da storia di un amore, sta diventando la storia di tanti amori differenti. Siete in tanti a leggermi e vi ringrazio di cuore per questo. <3 Spero, come sempre, che vorrete lasciarmi un vostro parere: come avete letto, in questo racconto c’è tanto di me e sarei tanto curiosa di conoscere il vostro pensiero al riguardo :)
Vi lascio con due immagini bellissime:
Un banner realizzato dalla mia Ellina (Elle Sinclaire) per i nostri Romina e Fabrizio:






E l’ipotetica copertina di Piovre versione libro, progettata da Giulia (Giulia Butterphil)



Se non conoscete le loro storie leggetele, sono meravigliose.
A presto
 
Matisse

PS: nel capitolo avrete trovato alcune frasi inserite tra parentesi quadre. No, non sono impazzita xD
Anche in questo caso mi sono ispirata al libro Jack Frusciante dove, talvolta, i pensieri del protagonista venivano inseriti tra parentesi improvvisate. Mi piaceva l’idea :)
La citazione riportata da Margherita e Andrea è di Sergio Pitol, mentre la canzone di Billy Corgan (cantante degli Smashing Pumpkins, ndr.) è Tonight, tonight.
Per qualsiasi cosa vi ricordo il mio gruppo:

https://www.facebook.com/groups/265306233568958/permalink/300121050087476/?notif_t=like

Se volete sarete le benvenute :)

 
 
 

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Capitolo 15
*** La mia presunta (im)perfezione ***


 


Alla mia adorata Gypsy Rose,
in ritardo per il tuo compleanno tesoro.

 
 




 
 
Tic, tac.
Tic, tac
.

Tic.
Tac.
 
Flora girò il capo in direzione del comodino; sbuffò, allungò la mano e afferrò l’orologio da polso che qualcuno le aveva portato in ospedale, maledicendo il soggetto in questione per l’idea. Poi, lo scagliò sul pavimento con quel briciolo di forza che le restava, mandandone in frantumi il quadrante; il suo ticchettio continuo aveva il potere di farla impazzire e lei voleva soltanto liberarsene. Non le importava quanto costoso fosse quell’orologio: l’avrebbe ricomprato, se proprio ci teneva.
Tra l’altro, non figurava neppure nell’elenco dei suoi ninnoli preferiti: ne avrebbe fatto a meno in futuro, purché avesse smesso di ticchettare furiosamente nelle sue orecchie in quel momento.
Ma la sua violenta soluzione non servì a nulla, a conti fatti: l’orologio non si fermò. Le lancette continuarono a muoversi , dandole il tormento, anche dopo, quando ormai l’oggetto giaceva sulle piastrelle bianche della sua bella stanza d’ospedale.
 
Tic, tac. Tic, tac.
Perché diavolo quel rumorino fastidioso era così amplificato nella sua testa? Perché si ripeteva in maniera tanto insolente, ritmata, insopportabile?

Le trapanava il cervello, la ossessionava.

Tic tac, tic tac, tic tac.

Florinda lo sapeva molto bene che il tempo stava passando, non aveva bisogno che anche uno stupido orologio glielo ricordasse di continuo.
Le scivolava via tra le dita della mano, quel tempo bastardo, mentre si sistemava i capelli e sospirava, mentre versava una lacrima e poi si voltava di nuovo verso la finestra, quando qualcuno entrava nella stanza, soltanto per fingere di dormire ed evitare di parlare.
Voltare il capo a destra e sinistra, tra l’altro, era tutto ciò che poteva fare, tutto ciò che il suo corpo le consentiva in termini di movimento. Con quella gamba rotta non poteva andare molto lontano e la schiena le doleva anche quando cercava soltanto di sistemarsi meglio sul cuscino.

Il tempo dunque passava, anche se lei non lo voleva, anche se lei piangeva, anche se il suo cuore si frantumava. Il tempo passava e la gente continuava a vivere la propria vita, continuava a scherzare, mangiare, ridere, studiare, disperarsi, gridare, litigare, divorziare; di nuovo mangiare, poi dormire, sognare. Continuava a farlo mentre lei era immobile in un letto – ma viva – ed Emiliano lottava per restare sulla faccia della Terra.
Continuava a farlo perché loro due non erano nessuno per il resto del mondo, ma erano molto per se stessi e questo bastava.
 
Vorrei tenerti per mano, in questo momento, amore mio.
Lo vorrei così tanto…



Lo desiderava Flora, più di quanto desiderasse tutto il resto. Voleva stringergli le mani e promettergli che tutto sarebbe andato bene, proprio come fanno certi protagonisti di telefilm americani quando ogni cosa va a puttane, il protagonista sta morendo e loro continuano a giurare che troveranno una soluzione. Lo desiderava, dunque e, tuttavia, era consapevole che non avrebbe potuto. Era ricca, deteneva un certo potere, a suo modo, ma proprio quel desiderio così insignificante le era precluso. I suoi soldi, in quel caso, non sarebbero serviti a nulla: avrebbero potuto comprare tante belle cose come una stanza singola in un ospedale pubblico, per esempio, il silenzio della gente o il favore di qualche carabiniere compiacente che non avrebbe indagato sull’auto rubata su cui viaggiava e la marijuana che s’era fumata. Avrebbero potuto comprare tante altre cose ancora, ma non il tempo; il tempo prezioso, quello che continuava a scivolare via, a scappare, lasciandola spossata, palesandosi nel ticchettio ripetuto di un orologio che la mandava in bestia.
Il tempo con il suo Emiliano.
No, i suoi soldi non avrebbero potuto mai comprare altri momenti ancora con lui. Non di certo tutti quelli che stava perdendo adesso, mentre Emil se ne stava sospeso in quel limbo che era la terapia intensiva e aveva bisogno del suo coraggio e del suo cuore innamorato per stringere i denti e andare avanti.

Emiliano stava male.
Gliel’aveva detto Margherita, sua cugina. E che altro? Ah sì, le aveva detto pure che lei era l’unica a stare dalla sua parte.
Tradotto in italiano: avrebbe dovuto fidarsi di lei perché era la sola persona che le avrebbe dato tutte le informazioni che desiderava riguardo Emiliano. Del resto, anche se non aveva ancora parlato con suo padre – per propria volontà, andava detto –  Flora era certa che lui non sarebbe mai andato a raccontarle niente del suo presunto ragazzo. O ex ragazzo. O amante.

O grande amore. Sì, se ti dicessi che è il mio grande amore come la prenderesti, papà?

Con ogni probabilità, suo padre non avrebbe desiderato altro che la morte di Emiliano, in quel momento. Così avrebbe cancellato la vergogna, la delusione provocatagli da quell’unica figlia degenere che si ritrovava: sotterrandola sotto false lacrime, sotto i gigli bianchi che qualcuno, forse, avrebbe portato sulla bara di Emil.
Dunque, nessuno avrebbe mai aperto bocca al riguardo, per nessun altro il nome di Emiliano avrebbe significato nulla se non un’offesa, ma allora perché proprio Margherita si era offerta in suo soccorso?
Perché proprio quella cugina che lei amava così tanto detestare?

Non sapeva come definire quel suo atteggiamento: semplice solidarietà femminile rafforzata da un vincolo di parentela su cui avevano sputato entrambe per anni? O, forse, perché anche lei frequentava un tipo strano – quello dalla cresta viola con cui l’aveva vista parlare a La Piovra, la sera del concerto per beneficenza – si sentiva quasi in dovere di mostrarle il proprio sostegno, per salvarsi la pelle a propria volta? Non lo sapeva Florinda ed era confusa; oscillava tra la diffidenza verso la sua poco tollerata cugina e la necessità quasi viscerale di attaccarsi a qualcosa – qualsiasi cosa – che potesse testimoniarle che il suo incomprensibile legame con Emiliano non si era ancora spezzato.
Che non si sarebbe spezzato mai.
Margherita poteva essere quel qualcosa. E non era una domanda.

Cosa le diceva Emiliano, un tempo?

“Tua cugina è una brava ragazza, smetti di essere sgarbata con lei. Smettila Florinda, smetti di comportarti male”

“Ma ti piace Margherita? Non fai altro che difenderla!” gli rispondeva di rimando, scocciata. Dopo metteva su il broncio, ma non glielo dava a vedere troppo palesemente; piuttosto, si scompigliava i capelli, accendeva una sigaretta e si voltava dall’altro lato. Allora, lui le si avvicinava, raggiungendola alle spalle. Poggiava le labbra sul suo collo, sorrideva, le soffiava sulla pelle.
Poi mormorava:
“ Non è per lei, è per te. Perché ti mostri per quello che non sei? Sei dolce Flora, sei deliziosa. Non devi essere cattiva, quella non sei tu.”
 
Aveva ragione su Margherita, Emiliano?
E quanto tempo prima le aveva rivolto proprio quelle parole, per l’ultima volta? Quanto tempo prima Emiliano si era poggiato sulla sua spalla e le aveva baciato la striscia di pelle bianca tra la spalla e l’orecchio, lasciandole intendere che fosse perfetta per lui, la migliore fra tutte?

Non lo ricordava. Era successo prima che litigassero perché Emiliano si era spinto oltre, chiedendo di lei a Margherita? Era terribilmente distratto, aveva perso il suo nuovo numero e non sapeva come rimediare perché tutta la droga che s’era fumato gli aveva bruciato i neuroni e non riusciva a ricordarselo a memoria. Allora aveva pensato di rivolgersi a sua cugina, domandare aiuto a lei, e invece aveva creato soltanto casini perché Meg era troppo testarda e ficcanaso e aveva deciso di vederci chiaro in quella faccenda. E lei aveva avuto paura e ad Emiliano l’aveva rinfacciato per settimane che, a causa sua, c’aveva quasi rimesso la faccia con l’intera famiglia Gherardi.

A pensarci, ora che Emiliano vegetava in un letto d’ospedale cercando di salvarsi, tutto questo non contava più. Le sue sfuriate contro di lui le sembravano solo delle grandi stronzate, perché tutto ciò che contava non era il benestare di suo padre o l’idea che la nonna aveva di lei, ma era Emiliano. La sua salute, la sua vita, la sua età.
Emiliano con i suoi baci, le risate che riusciva a strapparle quando le faceva l’imitazione dei suoi compagni di corso bacchettoni, la birra che le offriva il sabato sera dopo aver rubato qualche spicciolo dalle tasche di un amico. Tutto ciò che contava era la sua voce, la sua risata, gli occhi tristi che guardavano lontano e le mani di Emiliano, la bocca di Emiliano, le lacrime di Emiliano, le sue urla, la sua risata, il suo respiro, il suo cuore e tutto ciò di lui che la vita le stava portando via, meschina.


Allora?
Quanto tempo prima lui aveva sussurrato sulla sua spalla? All’epoca stava ancora bene, le parlava. Non come adesso che giaceva in silenzio in quel letto.
Come cambiano le cose!
Era stato dopo la faccenda di Margherita?
Sicuramente, in uno dei rari momenti in cui non era sballato, strafatto, confuso. In cui non aveva bevuto, fumato, tirato. In uno dei rari momenti in cui non avevano bevuto, fumato. No, tirato lei mai.

E com’era finita poi?
Forse avevano discusso, perché lei gli rispondeva sempre male quando si sentiva attaccata, oppure offesa o messa da parte. Era un tipo permaloso ed Emiliano lo sapeva, a volte si comportava apposta così con lei perché le piaceva quando si arrabbiava. Diceva che le veniva una ruga sexy sulla fronte. O forse, quell’ultima volta in cui l’aveva pregata di essere buona, lei aveva sorriso semplicemente, perché era di buon umore. E poi l’aveva attirato sul sediolino posteriore dell’auto – quella maledetta Skoda – e avevano fatto l’amore. Florinda aveva carezzato i suoi tatuaggi e il suo corpo esile e l’aveva amato con tutto il bisogno di una donna che viva per nessun altro al mondo che per il suo giovane amore. E lui aveva fatto altrettanto, per un tempo infinito, finché non gli era mancato il respiro, finché il cuore aveva  preso a martellare, forsennato, chiedendo un po’ di pace perché non era pronto a quella meravigliosa devastazione.
Certo, era andata proprio così, ne era sicura.
Tutto il resto, al di fuori di quelle immagini così piene d’amore di loro due, dunque, non esisteva. Non era vero. Così Flora cancellava, in quelle giornate inutili in cui non poteva far altro che starsene inchiodata in un letto d’ospedale, tutti i ricordi brutti che aveva di Emiliano. Con Emiliano.
Cancellava dalla sua memoria, per esempio, quel momento lontano in cui lui aveva alzato la voce, l’aveva chiamata puttana perché era strafatto, ma se lo ricordava che era uscita con un altro e non riusciva a perdonarglielo. Lei avrebbe voluto dirglielo che quegli appuntamenti erano innocui; non si faceva neppure sfiorare dagli altri, se ne serviva solo per buttare fumo negli occhi a suo padre. Ma era troppo orgogliosa per dargli tutte quelle spiegazioni e aveva troppa paura di lui quando vegetava in quello stato. Talmente paura che beveva anche lei, si fumava una canna a sua volta e così trovava il coraggio per affrontarlo e per affrontare il resto di quel mondo di merda che le ruotava attorno.
 
Un ricordo in meno, una lacrima nuova sul cuscino.

Cancellava dalla sua memoria, ancora, gli istanti di quel pomeriggio di pioggia in cui l’aveva scoperto a dormire su di un materasso con le molle di fuori, senza coperte e lenzuola; un materasso abbandonato tra un’altra catasta do roba vecchia e spazzatura, nel garage di casa di uno di quegli strani tipi – gli anarchici – con cui Emiliano se la faceva da un po’. Quel giorno Emiliano era così pallido che lei aveva temuto fosse morto; le labbra apparivano bianche, screpolate, le occhiaie violacee. Non mangiava da giorni perché tutti i soldi che racimolava li spendeva in droga e quel pomeriggio Flora si era stesa accanto a lui su quel materasso puzzolente, pulendogli il viso con le sue salviette profumate, baciandolo ripetutamente finché lui non aveva aperto gli occhi. Era stato un miracolo, quello. Un miracolo bellissimo.
Florinda sperava che potesse accadere un’altra volta, che Emiliano aprisse gli occhi di nuovo e le sorridesse come se non vedesse nulla, in realtà. Come aveva fatto in quel pomeriggio ormai lontano.
 
Un altro ricordo, un’altra lacrima sul cuscino.

Cancellava, infine, tutti i giorni in cui avevano fatto l’amore nei posti più assurdi. E non perché non volesse ricordarli – il tocco di Emiliano sul suo corpo era la sensazione più bella che avesse mai conosciuto – ma perché voleva fingere di aver conosciuto il suo amore in un letto dalle lenzuola bianche e profumate, non in un parcheggio al buio, non nell’androne di un palazzo che cadeva a pezzi, non in un vicolo buio della città, non in mezzo alle bottiglie di birra e la puzza del fumo.
Si era sempre detta che andava bene lo stesso, che l’amore con Emil era bello ovunque, che a lei per prima piaceva quella vita così sporca. E invece, adesso, era consapevole che avrebbe voluto soltanto un’esistenza normale, senza tutti quei soldi e senza tutta quell’indecenza, senza tutti quegli eccessi. Solo e soltanto con lui, per sempre con lui, senza vergognarsi, nascondersi, fingere, mascherare.
Solo con Emiliano.


L’ultima lacrima sul cuscino.


Invidiava Margherita, a volte: contrariamente a lei, sua cugina non doveva strapparsi i ricordi dalla testa a forza di pianti e urla silenziose. C’aveva già pensato la vita a farle quel favore.

Se almeno l’avesse fatto anche a lei!

Allora, Flora si asciugò gli occhi col dorso della mano; non si era resa conto di aver pianto così tanto. Nello stesso istante, un’infermiera si affacciò in camera, chiedendole se avesse avuto bisogno di qualcosa. Erano davvero premurosi, molto premurosi con lei, da quando il suo ricco papà sganciava tanti soldini in donazioni per l’ospedale cittadino.
Florinda biascicò un “è tutto a posto, grazie”, poco convinto, mentre lo sguardo della donna si posava, curioso e impertinente, sull’orologio ormai frantumato sul pavimento.

“Signorina Gherardi! Cos’è successo?”
“Niente” si affettò a rispondere “Volevo guardare l’ora e mi è scivolato di mano.”

Assunse proprio quell’aria convincente che tanto amava sfoggiare quando andava a dare esami all’università. Studiava tanto, era vero, ma recitava ancor di più: erano sempre tutti trenta.
L’infermiera dovette crederle e mostrò un’espressione rammaricata per il suo grazioso orologio rotto; rammaricata di cosa? Non sapeva che poteva comprarne altri mille di orologi, esattamente come stava comprando adesso le sue attenzioni?

“Mi dispiace signorina”
“Non importa” rispose con una smorfia. In primis perché aveva dolori ovunque e anche solo parlare le causava un’immensa sofferenza. In secondo luogo, perché voleva tagliar corto: quella donna aveva disturbato il suo personale momento fatto di ricordi strazianti, rimorsi e troppi perché.

“Vuole che faccia qualcosa per lei?”

Sì. Portami da Emiliano.

“Sì. Potrebbe darmi qualcosa per il dolore, per favore? E’ davvero insopportabile.”
“Un po’ di paracetamolo e codeina. Sarà un toccasana!” cinguettò la donna, pronta a somministrarle la capsula che, a suo dire, l’avrebbe guarita da ogni male.

“Mi farà dormire?”
“Potrebbe farle venire un po’ di sonno in effetti, sì. Anche se lei dorme già abbastanza, signorina Gherardi.”

Non è vero, non dormo mai. Passo le notti a vedere Emiliano scomparire dalla mia vita.

“Potrei avere qualcosa di più forte? Della morfina?”
“Signorina, lasci fare a me, la prego.”


Le mostrò due capsuline colorate sul palmo della mano. Florinda le accettò riluttante – avrebbe preferito, piuttosto, un’efficace iniezione di morfina –  ma si trattenne dal protestare. Dopotutto, avrebbe potuto comunque dormire, grazie a quella roba. Avrebbe dormito e avrebbe alleviato i suoi dolori.
I dolori delle ossa, dei muscoli, della carne. Il dolore del cuore no, quello non spariva mai, ma sperava di dormire così a lungo e profondamente da scordarsene per un po’.
 
“Vado, ho da fare in reparto. Per qualsiasi cosa sono a sua disposizione.”

A sua disposizione, signorina Gherardi.

Se mio padre non ti pagasse quanto ti paga per servirmi, saresti garbata allo stesso modo?
Per esempio, con Emiliano come ti comporti?
Perché se non ti comporti come dovresti, io te la farò pagare! Io… io…

 
 
Non ebbe tempo a sufficienza per formulare il suo pensiero, Florinda. O la sua minaccia, che dir si voglia.
La codeina agì prima del previsto; era come ricevere una botta in testa senza l’inconveniente del dolore: una bella storia, in pratica.
 
Quando Flora si rese conto di quell’effetto soporifero, neppure cercò di combatterlo, spremersi le meningi e far funzionare ancora i suoi neuroni; si abbandonò piuttosto al sonno senza ripensamenti, sperando che potesse confortarla.


Ovviamente non accadde: sognò Emiliano per tutto il tempo.
Compariva e scompariva dalla sua visuale, cercava di afferrarlo e lui si dileguava nell’oscurità, ridendo.
Alla fine, soltanto il buio l’avvolse, ma un’immagine le restò fissa davanti agli occhi per tutto il tempo: quella del viso di insanguinato di Emil reclinato sulla sua spalla, privo di sensi.

E quello non era un sogno.
 
 


***


 
“Hitler invase la Polonia il primo settembre del 1939, dando ufficialmente avvio alla Seconda Guerra Mondiale…”
 
Cercavo di concentrarmi sul testo di storia quel pomeriggio – e sembrava un’impresa ardua perché era sabato, era già troppo caldo, Andrea si trovava a Roma per la manifestazione, mio padre aveva passato tutta la giornata in casa sbraitando e sbuffando e a me stava venendo l’orticaria – quando mi squillò il cellulare.
Non mi fu necessario controllare il display per conoscere l’identità della persona che mi stava chiamando: a un solo contatto in rubrica, infatti, avevo associato, come suoneria, Girls just want to have fun1 e quella persona era Romina.
Non la sentivo dal martedì della festa a La Piovra. Dal martedì dell’incidente di Flora ed Emil.
Quasi mi si bloccò il respiro per la sorpresa, poiché avevo perso le speranze di parlarci dopo mille tentativi andati a vuoto. Ero arrabbiata, arrabbiata con lei per questo suo atteggiamento, ma promisi a me stessa che avrei mantenuto la calma, rispondendo pacificamente alla sua telefonata.

“Devi stare tranquilla, Meg” ripetei a me stessa “E’ soltanto Romina. Adesso risponderai con calma, non alzerai la voce e vi chiarirete. Andrà tutto bene.”
“Devi stare tranquilla, Meg.”
“Devi…”
 
That's all they really want…
 
“Stare…”
 
…Some fun…
 
“Calma…”
 
“ROMINA!” urlai infine, accettando la telefonata; decisamente non avevo dato retta ai miei buoni propositi di pace e tranquillità. Il self control della mia vocina interiore non si estendeva anche a me.

“Meg…?”
“Ah cavolo, allora ti ricordi ancora come mi chiamo?!” sbraitai, senza abbassare la voce. Ludovico si sporse dalla porta, mi squadrò alzando un sopracciglio. Nervosa, gli feci intendere che era tutto okay e doveva andarsene. Sbuffò.
“Maggie, non essere arrabbiata, per favore...”
“Non chiamarmi Maggie. E vedi di trovare una scusa plausibile per essere sparita nel nulla.”


Margherita Diktator mode on.
 

“Sparita nel nulla, Maggie… Non esagerare! Sono passati soltanto quattro giorni.”
“Ti ho detto non chiamarmi Maggie! Non mi addolcirai la pillola. Ti ho cercata ovunque!”
“Lo so, ho letto il messaggio su Facebook.”
“E hai visto tutte le telefonate? Tua madre ti ha detto che ti ho cercata?”
“Sì, me l’ha detto.”
“E ti costava tanto richiamarmi?!”
“Meg, è stato un po’…”
“Cosa?”
“Complicato. Scusami.”
“Ah, complicato. Per te è stato complicato, eh? Sai cos’è successo a casa mia?”
“Sì.”

Cascai dalle nuvole.

“Lo sai? Sai dell’incidente?”
“Sì.”

Ero davvero sbalordita. Mio padre e zio Aurelio avevano fatto di tutto per evitare che la notizia dell’incidente di Florinda e delle sue cattive “frequentazioni” valicasse i confini dell’ospedale cittadino. Ovviamente, questo “tutto” implicava un notevole sperpero di denaro; come poteva allora Romina esserne al corrente, se non aveva mai parlato con me dell’intera faccenda?
 
“Fabrizio” rispose lei, ma pareva poco convinta. Io comunque, lì per lì non ci badai. Soltanto dopo poco, nel silenzio che seguì a quella risposta, focalizzai il nome e la persona e spalancai la bocca per la sorpresa: da quando Romina e Fabrizio erano così intimi da scambiarsi informazioni e confidenze?


“Fabrizio, hai detto? Fabrizio… Polska?”
“Beh, sì… cioè, Andrea l’ha detto a Fabrizio e…”
“E Fabrizio l’ha detto a te? Da quando siete così amici?”

A quella domanda seguì l’ennesimo momento di silenzioso imbarazzo: avevo come l’impressione che Romina mi nascondesse qualcosa.

“Ecco, sì… L’ha detto a me, ma non intenzionalmente. Cioè, stavamo insieme quando Andrea ce l’ha detto.”
“Andrea ve l’ha detto?” scandii bene le parole “Quindi ti ha vista prima di me e non mi ha detto nulla? Eppure lo sapeva che ti stavo cercando come una disperata! Quand’è successo tutto questo?!”

Oh-oh: cominciavo ad arrabbiarmi seriamente.
Buon per Andrea che la telefonata di Romina l’avessi ricevuta mentre lui era a Roma, a sfilare per le strade assieme agli altri manifestanti, perché se fosse stato in città l’avrei già raggiunto per cantargliene quattro. Con amore, s’intende.

“Maggie, non arrabbiarti…”
“Ti ho detto di non chiamarmi Maggie!”
“La puoi smette di sbraitare come un’allucinata e farmi parlare, per favore?” protestò allora “Ho sbagliato, scusa! E mi dispiace tanto per Florinda ed Emiliano, tantissimo! Ma sono successe alcune cose… Vorrei parlartene da vicino, per me è complicato. Per piacere, Meg…”

Non risposi.

“Meg? Dai, per favore! Alle sei al parco giochi fuori casa tua. Ti spiegherò tutto. E non prendertela con Zeno, gli ho chiesto io di non dirti nulla. Va bene?”

Non risposi, di nuovo. Ero arrabbiata e nervosa, mi sentivo presa in giro da tutti; continuavo a mangiucchiarmi il labbro inferiore finché non staccai definitivamente una pellicina: stavo morendo dal dolore. Decisi di smetterla.

“Meg?”
“Va bene. Alle sei al parco giochi. Ci vediamo dopo” risposi allora sbrigativamente, chiudendo la telefonata prima che potesse salutarmi.


Dopotutto, ero davvero curiosa di sentire cos’aveva da dirmi per giustificarsi.
 



***
 


 
Non vedevo la mia Romina abbigliata nel modo in cui si presentò al parco quel pomeriggio da molti anni, ormai.  Indossava un vestito chiaro di cotone, era poco truccata e i suoi capelli erano sistemati in una treccia morbida sulla spalla. Mi ricordava molto la ragazzina che era stata un tempo, intorno ai quindici o sedici anni; quella ragazzina che era stata successivamente scavalcata da una presunta punkabbestia/figliadeifiori/donnadeldark con tanto di borchie. Alla fin fine, Romina aveva sempre cercato solo un modo per emergere e farsi notare; probabilmente aveva sperato di farlo conciandosi per mesi in modo strano, ma era un modo, quello, che non le si addiceva ed ero contenta che, forse, l’avesse compreso anche lei.

Per un attimo, quando incrociai il suo sguardo mortificato, quegli  occhi belli dalle ciglia naturalmente all’insù, dimenticai di essere arrabbiata: era davvero tenerissima.
Mentre camminava spedita nella mia direzione, mi venne spontaneo chiederle cosa le fosse accaduto, perché si fosse sistemata a quel modo. Abbozzò un sorriso, prima di rispondermi.

Qualcuno mi ha detto che non c’era bisogno di far scena per essere interessante. Penso che abbia ragione”

La guardai con diffidenza.

“Chi sarebbe questo qualcuno?”

Sospirò. Poi si accomodò sulla vicina altalena, chiedendomi di fare lo stesso. Cominciò a spingersi con indolenza e io non la guardai mentre dava inizio al su discorso chiarificatore.

“Comincio subito col dirti che non è colpa di Andrea” si affrettò a sottolineare, per fugare ogni dubbio “Neanche lui avrebbe dovuto vedermi o sapere dov’ero, Meg. È capitato per caso e l’ho supplicato di non dirti nulla perché mi vergognavo. Quindi, per favore, non litigate a causa mia.”


Sapere dov’ero.
Ma perché, dove cavolo stavi, Romina?!


E comunque, adesso afferravo il perché di tutte quelle domande allusive di Andrea riguardo la mia amica: voleva sondare il terreno, comprendere se avessi avuto sue notizie. Conosceva circostanze a me ignote e stava cercando di capire come muoversi.
“Non ho capito bene a cosa ti riferisci… Dov’eri quando Andrea ha parlato con Fabrizio?”
“Fammi finire, Meg. Per favore.”
“Roma…”
“Meg…”
“Perché ti vergognavi?”

Sospirò a lungo, guardò dall’altro lato del vialetto di ghiaia, lì dove bambini in calzoncini e maglietta a maniche corte giocavano a rincorrersi.
“Perché stavo a casa di Fabrizio. Dovrei aggiungere mezza nuda a casa di Fabrizio. Ma sono dettagli.”

Sputacchiai per terra, soffocando. Non fu un bel vedere. 
“A fare cosa?!”
“Pettinavo bambole!” fu la sua risposta. Mi guardò accigliata.
“Tu e… Polska? Polska! Che cavolo vai dicendo?!”

Ero molto più che sorpresa o sconcertata. Ero incredula davanti all’assurdità di tutta quella situazione, così priva di senso e stravagante da apparire irreale, considerando che Fabrizio e Romina non si erano mai calcolati per davvero. Okay, che la mia amica ci sbavasse dietro lo sapevo fin troppo bene, ma l’avevo sempre considerato un “amore platonico”, una cotta da ragazzina che sarebbe svanita così com’era venuta. D’altronde, Romina s’innamorava un giorno sì e l’altro pure e la sua lunga lista di amanti includeva cantanti e attori famosi come Kurt Cobain e Robert Pattinson. Ancora non comprendevo il nesso tra i due.
Ecco perché non avevo mai dato peso all’intera faccenda e adesso… Adesso venivo a sapere erano finiti.a.letto.insieme.
Era assurdo.

“Che altro dovrei dirti, Meg?” rispose Romina “Ti sto raccontando solo quello che è successo. Non chiedermi come sia andata di preciso, non lo so ancora nemmeno io. Però posso affermare con sicurezza che non mi sbagliavo e che Fabrizio è molto di più di quel ragazzo silenzioso che tutti hanno conosciuto a La Piovra. Mi ha parlato come nessuno mai ha fatto, mi ha guardata veramente e mi ha apprezzato per quel che sono. E posso giurarti che la nostra notte insieme sia stata la più bella della mia vita.”

Ne parlò con occhi luccicanti e con così tanto trasporto che finii col sorridere involontariamente anche io, nonostante tutto. In fin dei conti, era la mia migliore amica: se qualcosa riusciva a renderla così felice io non potevo far altro che essere felice con e per lei. Le arrabbiature passavano in secondo piano davanti a quella consapevolezza.
Tuttavia, c’era ancora qualcosa che non afferravo, cosicché mi spinsi nel farle qualche domanda.
 
“Ma se sei così felice, allora perché te ne vergogni? E perché non hai permesso ad Andrea di parlarmene?”
“Anzitutto” rispose, rabbuiandosi quasi subito “Volevo essere io a parlartene, per prima. Era una mia confidenza, non un inciucio da diffondere in giro per la Piovra.”
“Pensavi davvero che Andrea l’avrebbe trasformato in un pettegolezzo?”

Ero sconcertata: Andrea non era tipo da queste cose e lei avrebbe dovuto saperlo. Comunque scosse la testa, si affrettò a spiegarsi.

“No, non è questo. Solo che avevo l’idea che si sarebbe automaticamente trasformato in un pettegolezzo se non fossi stata io a parlartene per prima. Non so se riesco a spiegarmi…” mormorò puntando la scarpa nel terreno.
“Credo di sì…” risposi in un soffio “Allora perché non l’hai fatto? Perché non me l’hai detto subito?”
“Perché… Meg, io c’ho provato, credimi. Per tutto il giorno, mentre stavo ancora da Fabrizio. Ma non eri rintracciabile.”

Certo.
Avevo una cugina ricoverata in ospedale.

“Adesso so che era per Florinda. A proposito, come sta?”
“Lei se la cava. Emiliano non molto.”
“Sei preoccupata per lui?”

Annuii.

“Sì. So che non è esattamente un bravo ragazzo, ma credo abbia sofferto tanto e vorrei che la vita gli regalasse un’altra chance. Tutto qui.”

Approvò la mia idea.

“Mercoledì ti ho cercata, te lo giuro. Volevo dirtelo. Però non è andata come desideravo io, non sono riuscita a mettermi in contatto con te. Alla fine sono rimasta a casa di Fabri tutta la giornata e anche il giorno dopo. Sono tornata a casa mia soltanto quando i miei sono rientrati dalla vacanza, giovedì mattina. E nel frattempo io… Ho riflettuto molto, Meg. E sì, ora come ora non cambierei nulla, ma capisci che per una come me che ha sempre sognato molto e mai concluso nulla, tutta quella situazione aveva del surreale. Ero scombussolata, lo sono tutt’ora; non so quanto sia stato giusto, nei confronti dei miei genitori, di me stessa e persino di te, cedere subito all’istinto, essere così impulsiva. Ho come l’impressione che la gente che mi circonda si aspetti da me molto di più che una notte d’amore improvvisata con un ragazzo sconosciuto che forse domani non mi cercherà neppure più, capisci? E’ come se avessi momentaneamente perso me stessa e questa confusione mi ha portato ad eclissarmi.”
“Tutto questo è assurdo, Romy! Tu stessa mi hai detto cinque minuti fa che è stata la notte più bella della tua vita e ora ti fai tutte queste paranoie?”
“Non è detto che solo perché ti fa stare bene non sia sbagliato2, ti pare Meg? Sì, lo rifarei perché è stato perfetto e nella sua perfezione mi ha stravolta… Ma non è detto che abbia agito correttamente. Lo capisci?”
“Hai troppi schemi mentali, tu”
“Tu non ne hai? Non ne hai mai avuti?”

Sì, ne avevo eccome. Solo che pensavo Romina fosse immune da certe cose.
Non risposi.

“Okay, va bene tutto, allora. Ma io che c’entro in tutto questo?" domandai piuttosto.
“Non lo indovini?”
“Vuoi farmi intendere che avevi paura ti giudicassi anche io?”
“Sì” ammise “All’inizio, volevo raccontartelo subito, presa com’ero dalla frenesia del momento. Dopo, a mente fredda, c’ho pensato e ho avuto paura; allora, ho pensato che forse sarebbe stato meglio non confessarti niente. Poi però mi ha scoperta Andrea, per puro caso, e ho capito quasi subito che prima o poi l’avresti saputo anche tu: a quel punto l’ho supplicato di non dirtelo perché preferivo venissi a saperlo da me. Se pure ti fossi fatta una cattiva idea di tutta questa situazione, preferivo rendertene partecipe io, vederlo con i miei occhi come avresti reagito. Ma ho avuto bisogno di qualche altro giorno di silenzio, finché oggi non mi sono fatta coraggio ed eccomi qua. È questa la verità, Meg.”

Avevo la bocca spalancata.

“Stai scherzando? Pensavi davvero che ti avrei criticata, che avrei pensato male?”
“Non lo so Maggie, non lo so che m’è preso. Sì, è vero: c’ho pensato. E ho pensato anche che ci stavo mettendo troppo per cercarti e tu ti saresti arrabbiata. Non lo volevo, ma non sapevo che altro dovevo fare. Poi mi veniva in mente quel che stava capitando a casa tua e mi sentivo in colpa perché non ti stavo sostenendo per nulla. Avevo un pasticcio in testa. Sono una frana, ho combinato un casino e ti chiedo scusa!”

Si voltò rapida, nascondendo il viso: ero certa che le venisse da piangere.
Ancora una volta, mi stringeva il cuore per quanto appariva tenera e fragile: non era proprio da Romina.
 
Allora, davanti a quelle lacrime così insolite per la mia amica, dimenticai tutto in un attimo: dimenticai di essermi arrabbiata, di aver pensato male di lei, di essermi sentita trascurata come mai era successo in cinque anni di amicizia. Dimenticai anche il presunto risentimento nei confronti di Andrea che non mi aveva detto come stavano le cose, ma che, in fondo, l’aveva fatto per una buona causa: potevo perdonarlo.
Quella che mi stava accanto era una Romina insicura che non conoscevo o con la quale, comunque, avevo avuto a che fare poche volte. Forse, io Romina non l’avevo mai conosciuta veramente: mi rimproverai perché, presa com’ero sempre stata dai problemi miei, non mi ero mai sforzata veramente di approfondire la persona che era, di chiederle se le sue cose andassero bene, se avesse qualche speranza o progetto per il futuro. Avevo preso sotto gamba anche la storia di Fabrizio, archiviandola come la solita cotta momentanea, e invece non era vero, era qualcosa di tangibile, un sentimento che aveva preso forma e stava costringendo Romina a crescere, a vedersi diversa da quel che sempre era stata. Ecco perché si sentiva confusa, perché credeva di aver sbagliato, perché provava imbarazzo e, tuttavia, non riusciva a pentirsene: perché stava affrontando qualcosa che le appariva nuovo, che le piaceva ma la obbligava a fare i conti con la persona adulta che stava diventando. Che, forse, non avrebbe mai voluto diventare per davvero.
La capivo.

Mi affrettai dunque a lasciare l’altalena corsi ad abbracciarla; ricambiò immediatamente e affondò il viso nei miei capelli. Compresi che quella era la prima volta, in cinque lunghi anni di amicizia, che offrivo io a lei una spalla su cui piangere, un sostegno; la prima volta che le lasciavo intendere di poterla aiutare, confortare, consigliare per davvero.
Avrei dovuto sentirmi uno straccio e lo feci: non ero mai stata davvero una buona amica per Romina, era chiaro. L’avevo riempita dei miei problemi per mesi, riconoscendole il merito di tanta pazienza e amore, è vero, ma dimenticandomene non appena mi sembrava che mi trascurasse più del necessario.
Lei non si era mai comportata così con me.
 
“Scusami” le dissi “Sono pessima. Mi sono arrabbiata senza un motivo. Avrei dovuto prima vedere cos’avevi da dirmi.”
“Scusami tu, Meg. Sono sparita quando avevi bisogno di me.”
“Non dire scemenze: ci sei sempre stata quando avevo bisogno di te, ci sei anche adesso.”
“Quanto siamo patetiche ad abbracciarci qui in mezzo e chiederci scusa di continuo?” ridacchiò allora, staccandosi. In realtà, ne approfittò per togliersi una lacrimuccia dall’angolo dell’occhio.
Risi anche io.

“Parecchio, mi sa.”
“Sei arrabbiata con Andrea?”
Scossi la testa.
“No. Però lo punirò lo stesso.”

Le feci l’occhiolino. Sorrise.
“E con me?”
“Come potrei? Sei troppo carina con questo vestitino, fai passare qualsiasi arrabbiatura.”
“Sono ridicola?”
“Per niente.”

Mi alzai, perché stare inginocchiata sull’erba era un tantino scomodo e offrii le mani a Romina per aiutarla ad alzarsi a sua volta.

“Sei innamorata, Romy?”

Le brillarono gli occhi.

“Forse, non lo so. Ma ho sempre la testa a Fabrizio. È normale?”
Annuii.
“Ed è per questo che sono così confusa, secondo te?”
“Può essere, sì. L’amore destabilizza. E comunque, non pensare di aver fatto qualcosa di sbagliato, di riprovevole o chissà che altro. Non è vero che quel che ti fa stare bene non sempre è giusto, Roma; finché non limita la libertà degli altri o non causa dolore, è sempre giusto perché ha reso una persona felice: te stessa. Trovi che ci sia nulla di più importante di questo? Fabrizio ti piace e non vedo perché non potresti piacergli anche tu. Qualcosa vi ha spinti a stare insieme, avete condiviso un momento meraviglioso, a chi hai fatto del male? Non avere paura di tutto quel che ti aspetta, Romy: è il percorso della vita, prima o poi avresti dovuto affrontarlo e io sono felice che sia andata proprio così. Sorridi, coraggio, e non farti più problemi, soprattutto con me che sono la pasticciona per eccellenza!” le feci l’occhiolino “Avanti, promettimelo.”
“Te lo prometto.”
“Bene. Fabrizio ti ha più cercata?”
“Ogni giorno. Mi cerca ogni giorno, mi chiama. Anche adesso che è a Roma” ammise, arrossendo.
“E sei contenta di questo?”
“Tantissimo.”
“Bene. Anche io lo sono.”
 
Allungai una mano verso di lei, incamminandomi lungo il prato, verso il vialetto di ghiaia. Per qualche minuto Romina mi seguì in silenzio, anche se mi rivolgeva occhiate curiose di tanto in tanto.
Io sorridevo: per quanto ancora fossi profondamente rammaricata con me stessa per non essermi sempre comportata come avrei dovuto, specie con la mia migliore amica, sapevo di potermi sentire soddisfatta. Contenta.
Il mondo intorno a me si evolveva rapido, non sempre in maniera negativa; per una Florinda che affossava, scoprivo una Romina che cresceva, finalmente, seppure ancora incerta. Non ero circondata solo di lacrime e dolore, ma anche da tanta curiosità, da profondo amore, dalla voglia di superare se stessi e i propri limiti. Dalla vita.
Erano giorni che non ci pensavo più, presa com’ero da quel senso di immobilità che mi trasmetteva il pensiero di mia cugina e del suo presunto, adorato amante, inchiodato in un letto d’ospedale. Adesso ne ero piena, di nuovo.

“Meg?” domandò allora Romina, stringendomi il polso. Tornai alla realtà.
“Che c’è?”
“Dove stiamo andando, scusa?”
“A studiare. A casa mia. Dove, altrimenti? Ti ricordo che abbiamo un esame di maturità in agguato!”


Sorrise.
Lo sapeva anche lei che era tutto a posto, adesso.

Mi seguì senza dire più nulla.




***
 


“Ti aspetta una severa punizione quando torni.”

Bip bip.

“Oddio, che ho fatto?”

Andrea rispose subito al mio messaggio: ma non era impegnato in una serissima manifestazione?
Mi venne da ridere. Dubitavo, comunque, che avesse capito il motivo per cui andava “punito”.
In realtà, non ero arrabbiata con lui per la faccenda di Romina, non dopo il nostro chiarimento soprattutto, ma mi piaceva tenerlo un po’ sulle spine.

“Poi vedrai” risposi allora, di rimando, per incuriosirlo ancora di più.

Bip bip.

“Principessa, non farmi brutti scherzi che poi te ne penti.”
“Ah sì? Non credo proprio. E comunque non mi fai paura.”
“Dovresti. Lo sperimenterai sulla tua pelle, se mi combini qualche giochetto.”
“Te ne combinerò, puoi giurarci.”


Sorrisi, in attesa della sua risposta. Mi piaceva molto provocarlo e scherzarci in quel modo.
 
“E tu puoi giurarci che la mia vendetta sarà terribile. Poi ne riparliamo piccola. Tempo che torno e vedrai.”


Ne riparliamo.
Certo, quando vuoi Andrea. Però prima ti riempio di baci, pensai tra me e me.
 


 
***




Quella domenica mattina andai a trovare  a mia cugina. Perché avessi voglia di vederla, restava un mistero; forse mi sentivo buona e piena di prospettive favorevoli, dopo l’incontro con Romina. Forse ero soltanto preoccupata per lei. Forse avevo troppe cose da chiarire e volevo farlo subito, perché di aspettare non mi andava più, non lo so. Fatto sta che mi vestii in fretta e vinsi sul tempo, nell’andare a trovarla, il resto della famiglia: alle dieci ero già in ospedale. Benché non fosse orario di visite, nessuno mi fece storie quando entrai nella sua stanza bella e isolata; ero “l’altra Gherardi”, tutto mi era concesso.
 
Ovviamente Flora non la pensava allo stesso modo e mi squadrò per bene, quando richiusi la porta alle mie spalle.


“Che vuoi?”
“Buongiorno anche a te, Florinda.”

Feci come se non mi avesse rivolto il suo sguardo così familiare, carico di risentimento e intolleranza, e avanzai piuttosto verso di lei, tranquilla. Spostai una comoda sedia presso il letto e mi ci accomodai con naturalezza.
 
“Sei seria, Margherita?”

Mi guardò sconcertata e ne approfittai per osservarla anche io; l’ematoma sulla guancia era ancora lì, in bella vista, solo i bordi sfumavano di più in un alone giallognolo. Il labbro inferiore aveva ripreso dimensioni normali.
Stava guarendo fisicamente – gamba a parte, visto che era ancora ingessata e ne avrebbe avuto per molto – ma dubitavo che il suo cuore potesse guarire alla stessa velocità. Dubitavo che il suo cuore potesse guarire e basta.
 
“Perché non dovrei esserlo?”
“Ti ho lasciato intendere di essere la benvenuta?”
“No” ammisi “Ma ci sono abituata. Quindi resto. Ti spiace?”
Afferrai una rivista che se ne stava abbandonata sul letto, una di quelle che in edicola ti vendono a un euro, per promozione, piene di falsi gossip e paparazzate da quattro soldi.

“Ma leggi sta roba?” domandai sconcertata.
“Ti pare?!” si affrettò a replicare, scandalizzata “L’ha scordato qui un’infermiera! Anzi, se mi facessi il favore di buttarlo da qualche parte te ne sarei grata a vita.”

Mi venne da ridere.

“Non ci credo! Florinda Gherardi che non solo chiede un favore alla sua detestata cugina, ma le promette anche eterna gratitudine in cambio! Fai progressi a vista d’occhio Flo, solo due minuti fa volevi incenerirmi!”
“Ciò non significa che non lo desideri ancora adesso. Non darti troppo arie Margherita, non sei comunque la mia cugina preferita.”
“No, ma sono la tua unica cugina, quindi dovrai accontentarti” risposi alzandomi per infilare la rivista nel vicino cestino della carta.

Quando tornai ad accomodarmi alla sedia, con le mani in grembo, Florinda mi stava ancora guardando, un po’ curiosa, un po’ diffidente, un po’ scocciata, come suo solito, ma meno di quanto ricordassi io: un altro passo avanti.

Per un po’ stette in silenzio e io feci lo stesso, alzando il sopracciglio di tanto in tanto, divertita dalla situazione surreale. Alla fine, mi decisi a parlare:
“Pensi che potremo stare così a guardarci ancora per molto, Flo?”
“Perché lo fai?” rispose senza badare alla mia domanda.
“Cosa?”
“Perché sei qui, perché insisti, perché? Non siamo mai state grandi amiche, non hai doveri verso di me.”
“Hai ragione, non ho alcun dovere verso di te. Però, su una cosa ti sbagli. C’è stato un periodo in cui eravamo amiche: quando mi cantavi le canzoncine per bambini sulla spiaggia di Alassio. Te lo ricordi?”
Abbozzò un sorriso triste.

“E’ stato una vita fa”
“E’ stato in questa vita, Flora. La stessa vita di adesso”
“Se ci penso, non mi sembra possibile. È cambiato troppo, sono cambiate le persone, i posti. Io.”
“Già, eppure è così. A rifletterci, non c’era neppure Emiliano all’epoca”
Al suono di quel nome, sobbalzò. La vidi trattenere il respiro. Quando aprì bocca per parlare, mi parve le servisse una certa dose di coraggio per dire tutto quel che doveva:
“Potrebbe non esserci neppure dopo”

Non risposi.

“Come sta?” domandò allora.
“Come stava venerdì. Non migliora e non peggiora, credo.”
“Se non peggiora è già qualcosa” mormorò tra sé e sé, guardando verso la parete. Mi venne da piangere nel considerare a come si appigliasse a ogni minima speranza.
“Va avanti da molto la vostra storia, Flora?”


“Flora?”
“La prima volta che ho avuto a che fare qualcosa con lui non avevo compiuto ancora diciassette anni.”
“Diciassette anni?!” gridai. Per poco non cascavo dalla sedia, per la sorpresa.
“Tutto questo tempo? “
“Già. Non puoi ricordartelo, credo. All’epoca la tua famiglia e la sua si frequentavano, erano amici. Venivano a farvi visita spesso e volentieri e a volte c’ero anche io. Tu avevi quindici anni.”
“Sì, quindici anni. Però lo ricordo che venivano a trovarci, certo che me lo ricordo.”
“Sì? Strano. Pensavo fossi troppo impegnata a contorcerti per il dolore, quando ti veniva mal di testa, o  a lamentarti a causa delle tue crisi di panico. Svenivi un giorno sì e l’altro pure, all’epoca”
“Flora, ero caduta. Mi ero fatta male, avevo quasi rischiato la vita. Non è colpa mia se il mio fisico reagiva così! Perché ne parli come se l’avessi fatto volontariamente?”

“Lascia perdere” agitò la mano per chiudere il discorso. Nello stesso momento, un’infermiera che non avevo mai visto fece capolino per verificare che fosse tutto tranquillo, che la sua paziente non provasse fastidi di alcun tipo. Cercai di allontanarla il più in fretta possibile, con tanti sorrisi e frasi di circostanza, perché volevo approfondire quel discorso.
Ci riuscii.

“Flora, rispondimi per favore.”
“Ho mal di testa Margherita, non scocciarmi.”
“Flora…”
“Sai a chi affidava tua madre la sua bambina un po’ psicopatica, durante tutte quelle visite e in tutti gli altri giorni?” sbottò allora, improvvisamente “A me. Diceva che ero l’unica che poteva calmarti. Ero terrorizzata all’idea che ti prendesse una di quelle strane crisi davanti agli estranei, che la gente poi potesse parlarne in giro. Così ti proteggeva, affidandoti a me.”
“E perché sei così arrabbiata per questo? Che c’è di male, cosa t’infastidiva?” alzai la voce, sconcertata. Flora l’alzò più di me, assunse un tono stridulo.
“Sono arrabbiata perché io avevo perso mia madre e a nessuno fregava un cazzo di questo, mi senti bene?! A nessuno! Tu sei stata sempre la prediletta, Margherita, la bimba da coccolare, viziare e proteggere.”
“Ma non è vero, stai dicendo una bugia! Sono anni che lotto contro il tuo spettro e non ne ricavo mai nulla! Guarda Florinda com’è brava, quant’è studiosa, quant’è brillante, quant’è perfetta, bella, simpatica…Ecco cosa sento dire da mattina a sera! Come posso essere io la cocca? Dimmelo!”

Le labbra di Flora si piegarono in una smorfia di doloroso disprezzo.

“Hai idea di cosa sia stata la mia vita, Margherita?” domandò allora, in un sussurro “Mentre mia madre moriva, la mia famiglia, quella che avrebbe dovuto sostenermi e aiutarmi perché ero un’adolescente sola e triste, si rammaricava per la ragazzina tredicenne che eri tu. Quella stessa ragazzina che, improvvisamente, sbraitava di odiare il suo cognome e le proprie ricchezze, quella che li minacciava di piantarli in asso non appena avesse compiuto diciotto anni, di andare chissà dove e chissà con chi, sputando su tutti i soldi che suo padre aveva guadagnato con anni e anni di lavoro e sacrifici. Allora, la nonna si torceva le mani pensando al tuo futuro precario, tua madre piangeva, zio Franco si spolmonava per te e, nel frattempo, io stavo da sola in un angolo pensando al momento in cui avrei detto addio a mia madre. Sei mesi dopo la sua morte, tu sei rotolata per le scale dell’azienda e, per carità, io per prima ho sofferto per te. Ti vedevo nello stesso letto d’ospedale di mia madre, temevo che potessi abbandonarci anche tu. Ho pianto per te, Margherita, se non lo sai. Quando ti sei ripresa, ero felice e se tua madre mi chiedeva di badare a te lo facevo col cuore. Ma continuavo a domandarmi perché nessuno mai s’interessasse a me, perché, se qualcuno mi chiamava, era solo per sapere di te, mai di me. Io ero trasparente, Margherita, la ragazza che non soffriva, quella a cui non mancava una madre, quella che poteva accettare l’amante del padre senza problemi. Io volevo occuparmi di te, ma nessuno mai si occupava di me Margherita. Neanche tu, che mi cercavi spesso, anche da bambina, ti sei mai preoccupata di chiedermi una sola volta come stavo. Una sola volta, lo capisci?”
L’ultima frase la urlò.

Io, dal canto mio, raggelai nel bel mezzo di quell’afosa domenica di giugno.
Perché non sapevo nulla o, ancora una volta, perché non mi ero mai interessata a lei veramente, così come non mi ero mai interessata a nessun altro nella mia vita, in realtà, compresa Romina. Il rimorso per il mio disinteresse tornava a tormentarmi di nuovo, per la seconda volta nell’arco di ventiquattr’ore, solo per ricordarmi che non ero così brava, buona e senza colpe come avevo sempre creduto.
Non mi ero mai soffermata sui dubbi, le incertezze e i perché della mia migliore amica, così come non mi ero mai soffermata sul risentimento di mia cugina, archiviandolo come il frutto del carattere acido, insopportabile e narcisista che si ritrovava. E il perché di quel carattere me l’ero mai domandato? La risposta era semplice, ancora una volta: no.

Alla luce di quelle parole, consideravo adesso l’odio di mia cugina nei miei confronti assolutamente ragionevole. Anche perché non era odio vero; era dispiacere, mortificazione, solitudine e incomprensione che, negli anni, si erano cementificati, amalgamati e trasformati nella maschera di disprezzo con la quale era solita guardarmi ogni giorno. Avrei mai potuto biasimarla, considerarla infantile e detestarla per questo a mia volta? No, non avrei potuto. Se fossi stata costretta a crescere in quelle stesse condizioni, forse, anche io avrei assunto i medesimi atteggiamenti e lo stesso odio nei confronti del mondo che mostrava lei.
Io avevo perso la memoria; Florina aveva perso sua madre e il sostegno di chiunque avesse potuto aiutarla. Si erano tirati tutti indietro per aiutare me e il buon nome della nostra falsa e insopportabile famiglia.
Adesso lo comprendevo: anche io mi sarei odiata, al suo posto, considerando quella cuginetta capricciosa come l’emblema di tutte le mancanze e dell’indifferenza che mi circondava.

Mi sentii in colpa, per la prima volta: c’era voluto un incidente, era stato necessario che Florinda rischiasse la vita per arrivare a capire tutto quello.
Avrei dovuto vergognarmi.
 
“E’ per questo che, col tempo, mi hai odiata?”
“Se è odio, non lo so. Ma sì, credo sia per questo. Sei contenta? Adesso ne sei a conoscenza anche tu.”
“Adesso lo so” risposi, stordita. Mi abbandonai sullo schienale della sedia.

“Ti sembra una cosa stupida?”
“Per niente. Mi dispiace, sul serio. No… Non avevo idea. Come al solito”
“Già, come al solito” sprofondò nel guanciale, a sua volta.
“Hai sempre pensato che tutto ti fosse dovuto. Le attenzioni, le carezze, la preoccupazione dei tuoi genitori, dei nonni. Tutto.”
“Nella mia testa non era così. In realtà, pensavo che nessuno mi capisse”
“Sei solo una ragazzina viziata, Margherita”
“Forse è così” ammisi.

Dopo, non parlai più; ero troppo confusa e arrabbiata con me stessa per dire altro.
Flora, invece, attese alcuni minuti e poi tornò a guardarmi, prima di aprire bocca.

“Comunque non sei davvero cattiva, Margherita e, forse, certe cose non sono neppure colpa tua, a pensarci. No, non fare quella faccia sconcertata: non sto dicendo nulla per confortarti. Ti sembrerà strano, ma lo penso davvero che tu non sia l’unica responsabile. Di certo non sei quella più colpevole.”
 
Deglutii, cercando di mettere insieme i pensieri e le parole; d’improvviso avevo capito molte cose.

“E’ per questo che sei diventata una specie di creatura perfetta, Flora?” domandai allora, senza badare a ciò che mi aveva appena detto. Soltanto dopo compresi che mi aveva rivolto un complimento, tutto sommato, e arrossii.
Annuì.

“Ho lavorato su me stessa per anni, cercando di essere la migliore. La prima volta che ho sentito la nonna dire che avresti dovuto prendere esempio da me mi sono sentita la ragazza più felice al mondo: finalmente qualcuno mi stava considerando. Ho capito qual era la via da seguire per essere notata e ho continuato in quel modo”
“Ed Emiliano, allora?”

Sospirò a lungo. Ci mise qualche istante per parlare.
“Emiliano è stato l’unico a guardarmi veramente, quando avevo diciassette anni. Mentre tutto il mondo correva e mi lasciava indietro, scordandosi pure il mio nome, lui mi cercava. Per lui contavo qualcosa. Poi, negli anni, ha preso una strada diversa rispetto alla mia, ma io non ce l’ho fatta a lasciarlo andare per i fatti suoi. Non potevo dimenticarmi di chi non si era mai dimenticato di me, neppure quand’ero una ragazzina invisibile”
“Alla fine la sua strada è diventata anche la tua.”
“Più o meno. Emiliano ha cercato di uccidermi eppure è stata l’unica ancora di salvezza che abbia avuto. Nel suo mondo potevo smettere di essere la ragazzina perfetta che conoscevate voi, potevo fare a meno di quella maschera che mi serviva per farmi notare dagli altri. Nel suo mondo avevo diritto a piangere senza problemi, a fumarmi una canna per allontanare i guai. Ovviamente, tuttavia, quel che facevo con lui doveva restare un segreto o avrebbe rovinato la faccia perfetta che avevo creato per voi. E così è andata finché... Finché la vita non ha deciso al posto mio che era venuto il momento di smetterla e scoprire le carte. Ecco come sono andate le cose, Margherita, adesso sai tutto.”
 
Piansi, questa volta sul serio.
Non avevo mai ascoltato il racconto di una storia d’amore più bella. Una storia in cui i protagonisti si facevano forza l’un l’altro pur di non soccombere al mondo, per poi uccidersi a vicenda, divorati com’erano dai loro stessi mostri. Eh sì, era bella quella storia perché era reale. Imperfetta. Piena di sbavature, come il rossetto che sporcava la bocca di Flora il giorno dell’incidente.
Vera, perché, nonostante il dolore, non si erano mai allontanati.
 
“Anche se non lo dici, so che lo ami Emiliano.”
“C’è bisogno davvero che usi le parole per farti intendere che l’unica cosa che m’importa è che torni da me?”

Aveva gli occhi pieni di lacrime.

“No, certo che no.”
“Bene.”


Un’altra infermiera fece capolino dalla porta. Mi guardò male, infischiandosene del mio cognome, stranamente.

“Signorina, per favore, devo chiederle di uscire. La signorina Gherardi ha bisogno di riposare un altro po’ e fra poco il dottore verrà a controllarla. Potrà tornare a mezzogiorno, quando comincerà l’effettivo orario delle visite.”

Calcò molto su quell’ultima frase, soprattutto dopo aver notato gli occhi lucidi di Flora.
Forse aveva ragione: era meglio lasciarla in pace per un po’.

“D’accordo” mormorai allora. La donna annuì, compiaciuta, ma non andò via: si posizionò sotto l’ingresso nell’attesa che ubbidissi


“Devo andare adesso, Flora…”

Schiarii la voce: stravolta com’ero, faticavo anche a parlare. Florinda mi guardò e per un attimo, solo per un attimo, mi parve di cogliere come un’inaspettata luce di comprensione nei suoi occhi. Io, che mi sentivo mortificata e profondamente dispiaciuta dopo la sua lunga confessione, riuscii a rincuorarmi per un istante davanti a quello sguardo.

Mi allontanai di qualche passo, verso l’infermiera che mi osservava accigliata. Allora, Florinda mi richiamò:

“Margherita?”

Mi voltai molto lentamente. Mi sembrava di vivere a rallentatore.
 
“Sì?”
“Andrai da Emiliano?”
“Forse sì” ammisi: avevo bisogno di andare da lui. Era come se il contatto con Emiliano potesse purificare anche me. Lo so, è una cosa stupida, ma io ci credevo davvero.
“Bene. Allora salutamelo.”
“D’accordo”


D’accordo, lo farò.


“Ah, Margherita?”
“Sì?”
“Non sei cattiva, comunque, davvero.  Te lo ripeto. Anche se mi stai discretamente sulle scatole”

 
 
Mi venne da sorridere, nonostante tutto, e anche a Florinda.




 
***
 
 


Buongiorno Emiliano.
Sono qui accanto a te oggi, ti tengo la mano.
Tu non ti svegli mai.
Florinda ti manda i suoi saluti. Sono venuta apposta per dirtelo e anche per farti un po’ compagnia.
E’ buffo sai? Non abbiamo mai parlato così tanto noi due,
neanche quando venivi con i tuoi genitori a casa mia
e prendevi il tè o la torta al cioccolato in veranda con me, Ludovico e Flora, quando c’era.
Te li ricordi quei pomeriggi?
Io sì, un po’ sì. Più che altro, ricordo la tua espressione da buffone; avevi proprio la faccia di uno che prenda per il culo il mondo intero.
C’avevi pure ragione: quelle cordiali visite altoborghesi puzzavano di vecchio. Di falso, di ammuffito.
Come lo erano i nostri genitori, come lo sono ancora.
Forse tua mamma si salva però; l’ho rivista all’ospedale, viene a trovarti
tutti i giorni. Ne avevo un po’ scordato la fisionomia; mi chiedo adesso come abbia fatto: è troppo bella per essere dimenticata.

Non lo so poi com’è andata a finire la cosa, sai? Non ricordo perché non ti ho visto più a casa mia.
Intendo che adesso lo so, ma non focalizzo il momento in cui le tue visite si sono fatte più rare, la tua faccia da schiaffi ha cambiato espressione, il tuo sorriso è diventato una smorfia triste che è poi scomparsa nel susseguirsi dei miei giorni.
Davvero, non lo so.
E non so perché adesso ti sto parlando. Spero che mi ascolterai, comunque.

Andrea è passato a salutarti. Penso che tu sia un disgraziato e gliene abbia fatte passare tante, ma credo anche che ti abbia perdonato quindi vedi di riprenderti, così potrai ringraziarlo con un bell’abbraccio e delle scuse sincere.

Florinda non mangia, invece, ed è diventata più magra di come la ricordi tu. Probabilmente le manchi, ma non può venire a trovarti con quel pezzo di legno che si ritrova al posto della gamba.
Sì, credo davvero che la gelida Florinda Marina Gherardi stia soffrendo per amore. E per te.
E’ incredibile come quel che ti uccide possa anche regalarti la vita se ci rifletti, vero? Probabilmente tu eri una disgrazia per lei, una minaccia, un tormento, un incubo, la persona peggiore che potesse capitare sulla sua strada. Chissà quante ne avrete combinate assieme e cosa avrete fatto, di preciso. Non voglio neanche immaginarla la vostra vita sballata.
Eppure, l’hai raccolta e curata e nel vostro amore malato, lei ha avvertito che qualcuno le voleva bene e si è salvata dal cuore di pietra che le stava crescendo dentro. Lo stesso dev’essere accaduto a te.
Devi riprenderti, allora. E devi vedere di combinare qualcosa di buono per voi due.
Non ti dico che ti darò una mano in questo, sono una frana nelle faccende d’amore; pensa a quanto siamo imbranati insieme io e il mio Andrea e te ne renderai conto. Però credo nel vostro amore anomalo e spero che questo ti basti.

Oggi c’è il sole, Emiliano. Fa una caldo bestiale e fra meno di quindici giorni ho la maturità. Chissà se maturerò davvero, se diventerò più grande. Secondo me è proprio una scemenza, questa.
E comunque, per ciò che mi riguarda, questo mio venire a parlare con te ogni volta che posso è proprio stupido. Tanto lo so che, quando ti sveglierai – perché lo farai – non ci calcoleremo più. Tu non ti ricorderai di tutto questo e io sarò troppo imbarazzata per fartelo tornare in mente.
Però, nel frattempo, a me sta cosa fa stare bene e spero pure a te.
Almeno ci facciamo compagnia, no? E poi la mia giornata è stata proprio pesante. Mi sa anche la tua.

Ciao Emiliano, torno a casa a studiare, adesso. Quantomeno ci provo.
 Fatti trovare sveglio la prossima volta che ci vediamo, per favore.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1.Canzone di Cyndi Lauper
2.Per questa frase, mi sono ispirata alla canzone You’ll follow me down degli Skunk Anansie





 
Non è il massimo dei capitoli, lo so, ma non sapevo renderlo meglio e alla fine ho preferito pubblicare. Non so neanche se definirlo di transizione, ma non credo visto che si scoprono parecchie cose.
Non è betato e mi scuso per gli orrori che certamente troverete xD
Grazie alle 4 splendide ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo e grazie a tutte voi per il calore che mi dimostrate nei confronti di questa storia, anche sul gruppo.
Siete fantastiche :’)

Vi lascio il link al gruppo, se volete chiacchierare con me:
In the Sky with Diamonds
A presto!
Matisse

PS: non credo di averlo mai fatto, quello ve lo faccio notare ora: soltanto quando il POV è di Margherita uso la prima persona. Per tutti gli altri POV sempre la terza, per accentuare l'idea che sia comunque Meg la protagonista di tutto, quella da cui parte e dove finirà questa storia :)

 
 

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Capitolo 16
*** C'era il sole... ***











“Ti hanno fatto male? Picchiato?”
“No.”
“Sicuro?”
“Sì.”
“Mmh... Allora tu che hai combinato? Mica hai sfasciato la testa a qualcuno?”

Andrea ridacchiò.

“Direi di no. E’ stata una manifestazione tranquilla, tutto sommato.”
“Ti hanno arrestato?” replicai non del tutto convinta.
“…”
“Andrea?”
“Margherita? Ma ti pare?”

Zeno frenò davanti a un edificio in mattoncini rossi a tre piani, invitandomi a scendere per prima dalla bicicletta. Mi squadrò perplesso, alzando un sopracciglio. Feci spallucce.

“Magari ti avevano già rilasciato, no? Che ne so io di questa manifestazioni?”
“La smetti?!” scoppiò a ridere e io tirai fuori la lingua. Adoravo prenderlo in giro.

“Fammi capire,” commentai allora, cambiando discorso, “siamo arrivati?”
“Yes! Siamo arrivati.”

“Ancora non ci credo che abbiamo fatto mezza città in bicicletta per venire fin qui.”
“Vedrai, come studierai qui non lo farai più da nessuna parte. È il posto più tranquillo che conosca” rispose Andrea dandomi le spalle, mentre armeggiava per assicurare la bici a un palo.

“Vieni, l’appartamento è al pian terreno” commentò infine, spalancando il portoncino in ferro battuto dell’ingresso. Lo seguii con passo incerto, come facevo sempre per i posti che mi erano sconosciuti.

“Sei sicuro che ci sarà abbastanza silenzio? Ne ho bisogno per studiare decentemente! A casa mia continuo a distrarmi e in biblioteca ancora peggio, con quel tipo delle pulizie che fa un casino pazzesco.”
Gianni – si chiamava così il nuovo signore delle pulizie in biblioteca – aveva più o meno una cinquantina d’anni ed era calvo e molto alto. L’espressione stampata sul suo viso era perennemente scocciata e non faceva altro che lamentarsi del proprio lavoro, anche mentre la suddetta biblioteca era strapiena di studenti in modalità studio matto e disperatissimo e lui avrebbe dovuto rispettare il silenzio come tutti gli altri. Che poi, stava lì a spazzare a passare lo straccio a qualsiasi ora del giorno e siccome questo mi sembrava fuori da ogni contratto lavorativo, avevo il sospetto lo facesse di proposito per il solo gusto di disturbarci.

Nonostante le lamentele continue e i richiami della direzione, infatti, Gianni aveva continuato a parlottare e brontolare tra sé, agitando noncurante lo Swiffer sotto al naso dei numerosi, poveri studenti della biblioteca comunale. Me compresa, s’intende.
Alla fine avevo mollato: non potevo continuare a studiare in quel posto che da biblioteca si era trasformato nella succursale di una qualche casa di cura per psicopatici. Ora, considerando che neppure casa Gherardi era il top sotto questo punto di vista con Ludo che entrava e usciva, papà che urlava per un nonnulla e mamma sempre al telefono, ero sostanzialmente fottuta.
O meglio, lo sarei stata se Andrea non fosse giunto in mio soccorso ancora una volta, proponendo quell’appartamento. Pregai affinché quel posto facesse al caso mio: non ne potevo più di girovagare per il mondo trascinandomi dietro i miei “leggerissimi” libri di testo.


“Allora? Mi dici come abbiamo fatto a sbattere fino all’altro lato della città? Casa di Fabrizio non andava bene?” domandai seguendolo all’interno di un appartamento molto luminoso e accogliente. Si trattava di un monolocale ampio, dotato di un minuscolo piano soppalcato e di due finestre molto grandi, dagli infissi verniciati di bianco, che affacciavano su un piccolo ma grazioso giardinetto.
Il parquet scricchiolò sotto i miei piedi mentre avanzavo lì dentro, guardandomi attorno estasiata.

“Wow…” mormorai.
“Hai perso la lingua? Mi sembri attratta dal luogo” commentò Zeno prendendomi in giro, mentre chiudeva la porta alle proprie spalle. Gli diedi una pacca sul braccio.
“Cretino!”

Ridacchiò.

“Comunque, per rispondere alla tua domanda: no, casa di Fabrizio non andava bene. Soprattutto adesso che è così… frequentata.”

Mi venne da ridere: era vero, ormai era chiaro a tutti che Romina e Fabrizio si frequentavano. Da quando Polska era tornato da Roma non facevano altro che vedersi tutti i giorni e Romina viaggiava a tre metri da terra.
Effettivamente, chiedergli casa per farmi studiare sarebbe stata una pessima idea: dire che li avrei disturbati suonava davvero come un eufemismo.

“Inoltre” continuò Andrea “non è colpa mia se casa di Stefano si trova così lontana dal tuo quartiere. Però, se vuoi, posso esporgli le tue lamentele. ”

Per poco non mi cascò la mascella.

“Non ho capito, questa è casa… di Stena?”

Da quando ai presunti comunisti da centro sociale era concessa la proprietà privata?
Zeno non si scompose ma piuttosto annuì molto tranquillamente, prima di lasciarsi cadere a peso morto su un morbidissimo divano dalle tinte arancioni disposto nel bel mezzo del locale.
Agitò la mano con sufficienza nel rispondermi:

“Gliel’hanno tipo… regalato i suoi genitori? Sì, una cosa del genere.”
“E perché i genitori di Stena dovrebbero avergli regalato un appartamento tutto per lui?”
“Per ingraziarselo e convincerlo a non frequentare più centri sociale e le schifose e puzzolenti zecche comuniste. Magari pure per convincerlo a tagliarsi quei suoi rasta stepposi. Speravano che lo scambio gli facesse gola, ma Stena non c’ha mai messo piede qua dentro. L’ha arredato tutto sua madre, lui a stento sa di che colore sono le pareti. Comunque la signora ha fatto un ottimo lavoro, se consideri che quest’appartamento doveva essere, in origine, un deposito o qualcosa del genere.”

Ero sconvolta; guardai Zeno a bocca spalancata prima di sedermi accanto a lui.

“Fammi capire: Stefano ha una casa tutta sua e non ci viene mai?”
“No, non gl’interessa. Dice che se l’accetta poi dovrebbe pure accettare quello che definisce il ricatto di suo padre”
“Ma ha le chiavi, no? Altrimenti, come avrebbe potuto passartele?”
“In realtà, quando gli ho parlato del tuo problema si è offerto lui di prestarmi la casa. Ha rubato le chiavi e me le ha portate a La Piovra. Proprio un bravo ragazzo, vero?”

Non risposi ero a corto di parole.


“Che c’è? Non trovi che Stena sia gentile?” domandò allora Andrea, guardando la mia faccia perplessa.
“No, altroché! Solo che stavo pensando: se dico ai miei che voglio fare qualcosa di veramente brutto, tipo diventare una rapinatrice, per evitarlo potrebbero regalarmi una bella casetta tutta mia, com’è successo per Stena. Dici che funziona?”
 
Zeno mi guardò per qualche istante e poi scoppiò a ridere.
“Ma sei seria? Io dico che sei proprio scema!” esclamò ancora ridendo e attirandomi a lui. Poggiai la testa sulle sue ginocchia e me lo contemplai piena d’amore, carezzandogli il viso.
Era così bello, così sorridente! Così mio, soprattutto.
Ancora stentavo a crederci, a volte.

Andrea era fantastico, intelligente, di talento; aveva un sogno e un ideale per cui combattere e, nonostante tutte le ragazze che gli giravano intorno, lui aveva scelto me come unica persona con la quale condividere i propri giorni e le proprie aspettative, non da adesso, ma già da tanti anni prima. Non riuscivo mai a capire cosa avesse mai trovato in me di tanto speciale per fare una simile scelta e forse, giunta a questo punto, neppure m’interessava più: ero una ragazza così fortunata, perché rovinare la mia felicità con tante domande inutili?


Zeno allora si chinò per lasciarmi un bacio sulle labbra; ricambiai un po’ più emozionata del solito. Davvero, a pensarci sarebbe stato tutto perfetto se …

Se, d’improvviso, non avessi realizzato che eravamo da soli.
Soli in un casa che in pochi avrebbero potuto raggiungere.
Una casa silenziosa.
Nessuno ci avrebbe disturbato, nessuno mi avrebbe telefonato: per tutti ero a studiare in biblioteca.
Soli… Io e Andrea.
Tecnicamente Andrea era il mio ragazzo, quindi…

Vabbè, avrei dovuto sproloquiare ancora molto o si capiva perché m’era venuta un po’ di tachicardia?

“Eeehm, okay! Allora io comincio a studiare!”

Quasi gridai balzando in piedi improvvisamente. Andrea mi guardò perplesso e, ancora più perplesso, guardò alla mia borsa per i libri che, in seguito a un tale scatto, era caduta sul pavimento con gran fracasso.
“Margherita?”
“Eh?” risposi saltellando su una gamba.
“Ma stai bene?”
“Un amore!”

Zeno mi guardò ancora sospettoso, poi rise. Io volevo sprofondare perché pensavo avesse afferrato il motivo del mio imbarazzo.
Da quando ero diventata così pudica?

“Quanti libri ti sei portata dietro?”
“Tutti quelli che mi servono per studiare, ovviamente” risposi un po’ acida, raccogliendo la borsa da terra. Andrea lasciò la sua comoda postazione sul divano per aiutarmi.
Intimidita com’ero in quel momento da un film che si svolgeva solo nella mia testa, avrei preferito non ricevere soccorsi di alcun tipo.

“Va bene, mi sembri un po’ nervosa. Vuoi che ti lasci da sola, Meg? Puoi chiamarmi quando hai finito. Tranquilla che non ti disturberà nessuno, il palazzo è di nuova costruzione e ci abita una sola famiglia, per adesso. Sta al piano di sopra. Ripeterai tutto il programma senza problemi.”
“Ma no! Cioè, s-sì… No! Puoi stare, ci mancherebbe” farfugliai.
“Ah, grazie”
“Che hai tu nello zaino, invece?” domandai, indicando la sua borsa: stavo cercando qualcosa che mi distraesse in maniera convincente dall’immagine mentale di Andrea che si toglieva la maglia di dosso.
Ma come mi venivano in mente certe cose?
E, soprattutto, dove diavolo si era cacciata la mia vocina della coscienza, una volta tanto che avevo bisogno di lei?!

Andrea afferrò lo zaino. Mi sembrava pesante non meno della mia borsa dei libri.

“Beh, tu studi e io che faccio? Dovrò pur passare il tempo, no?”

Così, tirò fuori un blocco di fogli e delle matite (ogni tanto cerco di disegnare anche io, spiegò), appunti e volantini portati via direttamente da La Piovra, e la sua belle macchina fotografica.
Una Reflex, ovviamente.

“Però, mi manca la vecchia Polaroid. Arianna me la distrusse qualche anno fa, inavvertitamente. Se glielo ricordi ancora piange, si mortifica troppo a pensarci.”
“Povera piccola!”
“E già”
“E questa invece?”
“Questa me la sono sudata lavorando come un mulo, mia cara”
“Non ne avrei mai dubitato. Hai fatto foto nuove?”

“Sì” ammise, tornando a sedersi sul divano. Più calma rispetto a pochi istanti prima, afferrai il libro di storia e mi accomodai accanto a lui.

“Un po’ di foto alla manifestazione, pensiamo di inserirle sul sito che Stena sta realizzando per il centro sociale. È molto bravo con questo genere di cose, io invece sono una frana. Bazzico poco sul web”
“Però hai una pagina Facebook che riguarda le tue foto!” commentai indicandolo, come per dire: ti ho beccato!
Rise.
“E’ sempre opera di Stena, dice che sono troppo belle per non mostrarle. Se ne occupa lui e a volte pure Arianna. Poi, insieme a Fabrizio, di tanto in tanto decidono che il Genio de La Piovra deve fare una mostra e così mi faccio conoscere un po’ in giro, quando posso. È una cosa molto stupida, vero?”
“Perché dovrebbe?”
“Perché non sarò mai un fotografo. Non uno serio, almeno”

Lo guardai perplessa e un po’ risentita; conoscevo le capacità di Andrea e avevo visto le sue foto: sapevo quanto valeva.
Era merito di una di quelle immagini se avevo riacquistato un pezzo di noi. Era merito di quella finestra in bianco e nero, della sua tendina di pizzo, del vaso di fiori sul davanzale, di tutte quelle cose che adesso non esistevano più, ma che Andrea aveva catturato in uno scatto, regalandolo poi a me, se avevo imparato a conoscere un pochino la Margherita dei miei quattordici anni.
Di conseguenza, non accettavo neanche lontanamente le autocritiche di Zeno, anche perché sapevo che non era un tipo che si lagnava soltanto per farsi compiacere: credeva davvero di non valere chissà quanto.
Beh, non aveva capito davvero niente.

“Tu lo sarai, invece.”
“Cosa?”
“Un fotografo. Uno serio, come dici te. Basta impegnarsi”
“Sì. Meg, siamo in Italia”
“E con questo?”
“Non lo sai come funziona, tesoro? Non sono figlio di nessuno e notoriamente il nostro paese non è meritocratico. Non ho studi alle spalle, né esperienza…”
“Sì che ne hai di esperienza, fai delle foto bellissime!”
“Sei di parte, piccola…”

Mi carezzò la guancia. Quasi sicuramente arrossii, ma non m’ importava poi molto di assomigliare a una ragazzina timida.   

“Non sono di parte, sei bravissimo, te lo riconoscono tutti! Devi solo esercitarti un altro po’ e poi sarai pronto per il fare.. che ne so… Il fotografo a New York?”

Sorrise guardando verso la finestra con la sua Reflex tra le mani. Mi avvicinai di più a lui.

“Ehi, dì un po’, non avevi detto che volevi fotografarmi, un giorno di questi?”

Andrea mi rivolse un sorrisetto furbo.

“Mi hai beccato. Era proprio quello che avevo intenzione di fare, magari mentre studiavi ed eri distratta. Pensavo di poterti fregare, invece mi sa che mi è andata male. Non ti si può nascondere nulla!”
“No, no, Andrea Zenovi, non ci siamo proprio” risposi “Se vuoi fotografarmi nell’obiettivo devi rientrarci anche tu. Non ho intenzione di mettermi in posa come una scema, non sono così fotogenica”
“Io dico di sì”
“Io dico che farai le foto con me”
“Beh, si può fare”
“Bene! Cominciamo allora!”
“Ma non dovevi studiare tu?”

Lo guardai divertita

“Magari dopo”

 
 






“No”
“Dai, Meg, non ti sto chiedendo nulla!”
“Mi viene da ridere, ho detto di no!”

Ecco che piega aveva preso il nostro servizio fotografico: che altro ci si poteva mai aspettare, poi, quando c’ero io di mezzo? Romina avrebbe riso davvero tanto della mia performance da presunta modella.

“Margherita?”
“Andrea… NO.”
“E suuu…!”
“No.”
“Ma non devi far niente, guarda verso la finestra e basta! Viene una luce fantastica da là”
“Andre, mi viene da ridere! Te l’ho già detto, non la faccio ‘sta foto seria!”

Mi divincolai mentre Andrea tentava di trascinarmi verso la finestra. Si trattava di una scena decisamente comica; avrei riso di più se non fossi stata io il soggetto dell’intera faccenda, comunque.

“Forza, vieni!”
“Non se ne parla! Avresti dovuto dirmelo che volevi facessi le foto in posa come un pinguino! Non erano questi i patti, altrimenti non te l’avrei mai proposto”
“I patti? Quali patti?”
“Andrea!”
“Scusa, ma come le fai tu le foto, Meg?”
“Naturali? E comunque no, non le faccio mai le foto, non ci sono abituata”
“Ah no?”

Mi afferrò, caricandomi sulla sua spalla. Gridai sconvolta e divertita al tempo stesso: ma quanto dovevo essere minuscola per lui se riusciva a prendermi in braccio così facilmente e senza fatica?

“Mettimi giù, mostro che non sei altro!”
“Adesso sono un mostro?” rise mentre tempestavo la sua schiena di pugni. Ovviamente, non gli stavo facendo altro che solletico.

“Sì, lo sei! E dove mi porti ora?” domandai alzando il capo: mi vedevo sempre più in alto.
“Dove dovrei portarti, gioia? Questa casa non offre grandi vie d’uscita”

Stavamo salendo al piano soppalcato.
Ecco dove stavamo andando.

Una strana sensazione di panico, gemella della precedente, tornò ad impossessarsi di me insieme a uno strano presentimento. Chissà perché sospettavo di conoscere l’evoluzione di quello scherzo.
In ogni caso, per il futuro avrei dovuto ricordarmi che, se volevo studiare per la maturità, farlo con Andrea in giro non era decisamente un colpo di genio.


Quando infine mi ritrovai tra le lenzuola di un letto spuntato dal nulla, persi totalmente la lingua, la voglia di urlare, dimenarmi e fare la tipa tosta.
Poiché credevo di avere gli occhi spalancati per la sorpresa e il momento d’imbarazzo, ringraziai la mia buona stella che Andrea non mi avesse guardata in faccia neppure per un attimo: ero certa di apparire quanto meno ridicola con quell’espressione di smarrimento stampata sulla faccia.

E no, non mi stavo guardando allo specchio, ma conoscevo a sufficienza la mia mimica facciale per considerarmi, al minimo, grottesca.

“Andrea…”

Non ebbi neppure tempo per pronunciare il suo nome che Zeno mi stava già facendo il solletico ovunque.
Io detestavo il solletico, non mi si poteva nemmeno toccare che già cominciavo a ridere fino alle lacrime e dimenarmi: era un supplizio intollerabile per me. Anche stavolta mi comportai allo stesso modo, contorcendomi e cercando di liberarmi, mentre Andrea se la rideva di gusto delle mie disgrazie.

“Questa è per punizione, perché non ti sei prestata a far da modella per la mia foto!”
“Andreaaaaa, lasciami!”
“No, così impari!”

Continuai a dimenarmi; non sapevo se ridevo più per il solletico o perché proprio l’intera situazione era comica. Alla fine, in un estremo atto di sopravvivenza, colpii Zeno alla pancia con una ginocchiata. Di nuovo non gli feci un granché male – per fortuna – ma riuscii quantomeno a fermarlo.
Cadde su di me stremato anche lui, continuando a ridere sulla mia spalla.

“Questa mi è piaciuta!”
“Ah sì? Anche a me…” mormorai.
“Ti sai difendere, tesoro.”
“Meno male” la mia voce, d’improvviso, era un soffio.

Pensavo che Andrea si sarebbe alzato, invece non si mosse. Tuttavia, fece in modo da non pesarmi addosso, come se avesse avuto paura di farmi del male con quel suo essere così più alto e più grande di me.
Percepivo il calore della sua pelle irradiarsi lungo il mio corpo; col caldo che c’era di fuori avrei dovuto sentirmi come in una sauna. In realtà stavo benissimo: pur imbarazzata da un contatto così improvviso e più intimo del solito, confusa e impreparata com’ero, sapevo che sensazione più bella di quella non poteva esserci.

Avrei voluto davvero essere altrove in quel momento?
No, era questa in realtà la risposta.
Potevo anche smetterla di farmi tanti film e problemi: stavo bene, contava solo quello.


“Non è vero che non ti piace farti fotografare” sussurrò d’improvviso Andrea sulla mia spalla “Ne facevamo sempre un sacco insieme di foto, anni fa.”

Di nuovo il momento dei ricordi.

“N-non è solo quella Polaroid che mi hai mostrato?”
“No, tante altre. Tantissime”




“Vieni qui, vicino a me”
“Dove?”
“Poggiati sulla mia spalla”

Il tempo lontano, un raggio di sole.
Un parco giochi con le altalene rotte e le mie ballerine sporche di fango sulla punta.

“Manco ci arrivo alla tua spalla”
“No? Ti prendo in braccio?”
“E dopo come la fai la foto?”

La mia risata, una voce da ragazzina.

“Chiedo a qualcuno! Signore? Signore, per favore, può scattarci una foto?”





Per un attimo percepii il mio cuore fermarsi, per lo stesso tempo che durò quel mio ricordo, l’ennesimo con Andrea. Rivedevo la nostra antica immagine, ritrovavo lo stesso legame di oggi, forse solo più infantile.
Più spensierato.
Perché potevo saperlo anche senza ricordare null’altro che avevamo una montagna di problemi alle spalle, di limiti e dubbi, qualcosa che ci aveva frenati in un tempo lontano e che Andrea, adesso, non voleva rivelarmi. Ma tutta quella montagna l’avremmo scavalcata, lo stavamo già facendo; lo sapevo io e lo sapeva lui che ciò che ci univa era più forte di qualsiasi cosa avesse mai potuto separarci, altrimenti la vita non ci avrebbe fatti incontrare di nuovo nel locale sporco e umido di un centro sociale.


“Sai che avresti dovuto studiare?”

Andrea sollevò appena la testa, poggiandosi sui gomiti per guardarmi.
Non gli risposi.

“Mi dispiace”
“Non è importante.”


Che vuoi me ne importi adesso della maturità, Zeno?


“Ti ricordi di quando ti ho detto che non potevo amarti ancora perché era presto?” domandò allora con quella sua voce dolcissima. Io annuii emozionata.

“Non so se mi sono sbagliato allora o mi sbaglio adesso, ma credo che sia qualcosa di molto più… forte? Non è amore, è unione. Non puoi saperlo, ma hai cambiato un casino di cose dentro di me che non andavano, hai cambiato la mia visione del mondo. Non potrei mai vederti con occhi diversi e non ho bisogno di secoli per capirlo. Questo è molto più che amore, sì”
Arrossii. Forse.
Di certo, se il momento fosse stato diverso, più leggero e scanzonato, Andrea mi avrebbe preso in giro dicendomi che lo stavo guardando con quegli occhi da Bambi che piacevano a lui.
Bambi… Che cosa buffa! E comunque sì, probabilmente era proprio così che lo stavo guardando: ero troppo emozionata per contemplarlo in modo diverso.

Era estate e c’era il sole, vero?
Però, avrebbe potuto essere anche inverno e piovere a dirotto, la gente avrebbe potuto indossare giacche e impermeabili e lamentarsi del parcheggio che non c’è mai. Forse lo stava già facendo e a me che importava?
Dentro di me avevo il sole, non fuori da quella finestra.

Incredibile come le sensazioni possano alternarsi tanto velocemente, nell’animo di una persona. D’improvviso non conoscevo più panico o paura, né l’imbarazzo o la confusione di poco prima.
C’era il sole.
La maturità era lontana.
C’era il sole.
Persino l’ospedale, Florinda, Emiliano che lottava per la vita e la puzza del disinfettante erano immagini sfumate. Avrei provato il rimorso, poi, di averli dimenticati per un istante, ma in quel momento non contava. Non c’erano, non esistevo per nessuno se non per Andrea.

C’era il sole, eravamo assieme.
C’era il sole e le sue labbra erano sulle mie.
C’era il sole e la sua mano stringeva la mia mano.
C’era il sole e c’era quel letto,  la maglia di Andrea all’improvviso era scomparsa e anche la mia.

Pancia e pancia, pelle e pelle.
Non avevo più tredici anni, non ne avevo più quattordici né quindici.

Ne avevo diciannove e in quel giorno di giugno, prima del mio esame di maturità, ero con Zeno in un letto dalle lenzuola profumate.

Non era più questione di memoria, era questione di attimi, era questione dell’adesso che ora c’è e fra un secondo non più.
E in quell’adesso che era di Zeno e Meg, oltre che degli Andrea e Margherita che eravamo stati, io stavo sorridendo.



Davvero avevi avuto paura?
E di cosa, Meg?






***
 




Ovviamente non avevo considerato il mio destino avverso.
Sarebbe stato tutto davvero perfetto e romantico, sentimentale e dolcissimo persino nella luce bianca del sole che irrompeva in quella casa, se qualcuno non ci avesse… disturbati?
Disturbati era un eufemismo, davvero.

Sentivo le labbra di Andra premere sulla mia mascella e poi sul collo e mentre lo faceva continuavo a tenerlo stretto a me, quand’ecco che percepii perfettamente il rumore della porta d’ingresso mentre veniva aperta e richiusa subito dopo.

“Andrea?”

Qualcuno chiamò Zeno dal basso; Andrea neppure se ne rese conto.
Dopodiché, quel qualcuno cominciò a salire le scale rumorosamente.

“Andrea!” continuava a chiamare

Io scivolai dalla sua presa e scattai a sedere nel letto.

“Andre, aspetta… C’è qualcuno.”

Afferrai velocemente la mia maglia. Andrea mi guardò perplesso e sbatté le palpebre un paio di volte prima di realizzare ciò che gli stavo dicendo; il brusco passaggio dal perfetto momento di sentimento alla triste realtà non era difficile solo per lui.
Ero certa di guardarlo anche io con occhi spalancati e sconvolta e non sapevo se più per l’imbarazzo dell’intera faccenda o per la sadica rapidità in cui tutto stava cambiando.

“Zeno, ma chi…”
“Lo so io chi!” scattò seriamente infuriato. Io stavo già rotolando dal letto quando i rasta di Stena sbucarono dalla rampa di scale.

“Ah, Andrè, stai qui! Ti cercavo perché… Ops!”

“Stefano, ma che cazzo!”

“Scusa, scusa, scusa!” gridò allora mortificato, portando le mani avanti. Dall’espressione che aveva mi sembrava temere che Andrea lo prendesse a schiaffi, e anche io avrei avuto la stessa paura al suo posto.

“Ma non sai avvisare prima di precipitarti a casa…”

Zeno non concluse la frase; avrebbe voluto dire “a casa degli altri”, ma, tecnicamente, il proprietario del monolocale era Stefano.
“Ma c’ho provato, te lo giuro! Ho chiamato al cellulare, era spento!”
“E’ scarico!”
“E che cazzo posso saperne io!”
“Ho capito, ma ti si può accendere la lucina che forse non è il caso di rompere?”
“Che ne posso sapere?! Tu mi avevi chiesto le chiavi di casa per dare a Meg un posto tranquillo dove studiare, mica per…”

Andrea alzò gli occhi al cielo, esasperato.

“Stefano, basta. Non dire nient’altro.”

Mi scappò da ridere, ma mi trattenni. Avrei trovato l’intera faccenda molto più comica se, in primis, Stena non avesse appena rovinato un momento d’oro, soprattutto considerando che, finalmente, avevo superato tutti i miei presunti attacchi di panico da “cavolo, anche io e Andrea potremo fare del sesso!” e se, in secondo luogo,non mi fossi vergognata da morire di farmi beccare così, anche se da un tipo tranquillo come lui.

 
Solite fortune, Meg!


Andrea riprese a parlare:

“Stena, hai ancora una possibilità di vita, comunque: dimmi perché sei qui e cerca di darmi un motivo valido, se non vuoi che ti sbrani.” commentò ancora mentre indossava di nuovo la sua maglia. Io mi defilai imbarazzata verso la finestra, agitando la mano sinistra per salutare Stena con poca convinzione e usando l’altra per ravviare la folta massa dei miei capelli.

Come avrei dovuto fare per sprofondare chilometri sotto terra?

“Sì, ecco… Abbiamo una data per l’occupazione del Rodhiaceta: il primo luglio”

Amen.

“Chi te l’ha detto?”
“Ci sono quelli del collettivo a La Piovra, per questo sono qua. Fabrizio è già sul posto, manchi solo tu.”
“Devo venirci proprio adesso?”
Andrea spalancò le braccia; a me si spalancò il cuore.
Lo vedevo: stava mettendo da parte quella vita da antagonista che tanto amava soltanto per stare con me. Venivo prima degli impegni politici, del suo centro sociale, anche della fotografia.
Io venivo prima.

Sorrisi inebetita.

“Genio, mi spiace, sul serio. Ti giuro che dopo non ti romperemo più le scatole, ma adesso vieni con me. Ci siamo tutti quanti e non puoi mancare.”

Sbuffò, lanciandomi un’occhiata desolata. Io sorrisi ancora, per dimostrargli che, nonostante l’imprevisto, era tutto okay.
Che poi, tecnicamente, io avrei dovuto studiare quel pomeriggio e non avevo ancora concluso un bel nulla.

“Meg, mi spiace… Avrei voluto aiutarti, ehm… con storia.”

“Seh, con storia!” commentò Stena ridacchiando. Zeno lo fulminò con lo sguardo e non rise più.

“No, Andre, vai tranquillo. Studio da sola, non c’è problema.”

Mi sorrise dolcissimo.

“D’accordo, allora. Stena, come siamo messi? Ti hanno accompagnato in auto?”
“No, sono in motorino con Luna”

Sobbalzai e mi affrettai a guardar giù, verso la strada: Luna era seduta, in attesa, sulla sua Vespa arancione. Per puro caso alzò lo sguardo nello stesso momento e mi riservò un’occhiata tutt’altro che amichevole.
Non la vedevo da un bel po’ di tempo e, francamente, ne avrei fatto volentieri a meno ancora per molto. Tuttavia non mi lasciai intimorire e sostenni il suo sguardo minaccioso finché non fu lei a desistere.
Mi sentivo soddisfatta: se proprio doveva andarsene col mio fidanzato, almeno mi ero tolta lo sfizio di farle capire che non mi faceva paura!

“D’accordo. Allora devo prendere per forza la bici per venire con voi, visto che siete in Vespa. Meg, chiamami quando hai finito, torno a prenderti.”
“Ma non ce n’è bisogno, dimmi quale autobus prendere e torno da sola”
“Puoi prendere il 184 o l’R3!” rispose in fretta Stena, ma Zeno intervenne:

“Non se ne parla proprio. Vengo io più tardi, fammi uno squillo quando hai finito che faccio il prima possibile.”

Stefano si avviò allora lungo le scale e prima di andarsene sillabò piano un “mi spiace Meg!”.
Andrea mi abbracciò forte.

“Scusami. Giuro che se faccio in fretta, ti aiuto a ripassare prima di tornare a casa, uhm?”
“Ripassare?”
“Okay, okay, come non detto” rise con me e mi lasciò un bacio sulle labbra.

Mi rifiutai di vederlo salutare Luna e parlare con lei mentre andava via e no, non era per gelosia. Era questione di principio, magari anche di orgoglio.

Okay, era gelosia.

Affondai di nuovo tra le lenzuola, a quel punto, e decisi di godermi il silenzio e schiarirmi le idee.

Ero da sola in una casa che non mi apparteneva eppure non era questo a preoccuparmi né a impensierirmi.
Sospirai; ero agitata e avevo la tachicardia. Mi tornarono alla mente le immagini di poco prima: la mano di Andrea sul mio collo, sulla mia spalla, sulla mia pancia. Le sue braccia nude, il modo in cui mi aveva stretta, il bacio lasciato all’angolo della bocca mentre eravamo abbracciati in quello stesso letto.
Stavolta sì che arrossii.
Perché cavolo mi facevo tutti questi problemi? Non era la prima volta che avevo un ragazzo e avrei dovuto calcolare che, prima o poi, avremmo avuto un momento del genere.
Certo, era giunto un po’ improvviso e inaspettato, ma davvero potevo prenderla con tanta emozione?
Forse perché si trattava di Andrea, perché l’idea di avere alle spalle un nostro passato che ricordavo a tratti rendeva tutto amplificato, più strano, intenso e per questo imbarazzante? La consapevolezza che mi avesse conosciuta praticamente da bambina mi inibiva?
Eppure non avrei cambiato neppure una virgola di quel che era successo, nonostante il panico e lo smarrimento iniziale.
A dirla tutta, forse era anche arrivato il momento che smettessimo di fare la coppietta solecuoreamore da fiaba romantica: le relazioni sentimentali erano fatte anche di altro, Romina e Fabrizio l’avevano capito molto più facilmente di me e Andrea.
O forse no? Magari mi stavo sbagliando, stavo ragionando in maniera troppo materiale?

Ero ancora confusa, poco ma sicuro.

Nel tentativo maldestro di darmi un tono, tornai giù barcollante, alla ricerca del libro di storia e del volume di letteratura italiana. Non mi ero esercitata neppure un po’ con il classico, né con le traduzioni di greco per la seconda prova. Ignoravo quali argomenti ripetere per geografia astronomica e mancava ormai una settimana all’inizio dello scritto.

“Sono nella merda” pensai molto realisticamente, quando sentii squillare il mio cellulare.

“Mamma” diceva il display. Risposi in fretta e cercai di parlare il più piano possibile, per farle credere di essere in biblioteca per davvero.

“Margherita, dove sei?”
“A studiare mamma, te l’ho detto già”
“Sì, ma perché non torni?”
“Perché dovrei? Ho un sacco di cose da fare e a casa non mi concentro!”

Neanche fuori casa, in realtà. Soprattutto se c’è Andrea in giro.

“Stanno per dimettere Florinda, io e tuo padre andiamo a prenderla adesso. Sarebbe carino se ti facessi trovare a casa insieme a Ludovico, per darle il benvenuto”

Mi cascò la mascella.

“Non ho capito: Flora viene a stare da noi? E perché?”
“Perché tuo zio… Non ha molto tempo per starle dietro come dovrebbe con quella gamba inferma che si ritrova. Lo sai, lavora come un mulo. Mi occuperò io di lei fino a quando non sarà guarita. Forza, sbrigati: ti aspetto a casa entro mezz’ora”

Staccò la conversazione prima che potessi replicare: non mi avrebbe ascoltata in ogni caso.
Restai lì, a fissare il cellulare a bocca spalancata per cinque minuti buoni. In realtà, capivo molto più di quanto mia madre non desiderasse: zio Aurelio non sopportava di vedersi girare Florinda per casa. Era ancora arrabbiato con lei per tutta la faccenda di Emiliano, della droga e di tutto il resto e preferiva non trovarsela intorno per evitare di sbottare proprio adesso che la sua salute era più precaria. Inoltre non avrebbe potuto di certo contare sull’aiuto di Katiuscia mentre era fuori casa, cosicché la via più facile era stata quella di scaricarla a noi, soprattutto considerando il fatto che i nonni erano ormai anziani e non potevano occuparsi loro di un’inferma.
Casa nostra era la soluzione più comoda e ovvia.

Alla fine sospirai: mia madre mi aveva ordinato di tornare a casa e non perché la temessi, ma solo perché ero conscia del fatto che mi avrebbe tartassato per convincermi a rientrare, mi decisi ad assecondarla.
Raccolsi libri e quaderni, tristemente consapevole di non aver studiato proprio un bel niente, e poi feci mente locale per ricordarmi quali autobus mi avrebbero permesso di tornare in centro; per fortuna Stena aveva fatto in tempo a suggerirmeli.


Ero già in pullman quando inviai un messaggio a Zeno; se l’avessi fatto prima sarebbe corso da La Piovra a tempi di record pur di non farmi tornare a casa con i mezzi pubblici, preoccupato di chissà cosa. Di certo non mi sarei persa e non mi andava di disturbarlo nei suoi momenti d’impegno con le mie richieste stupide.

“Sto tornando a casa”gli scrissi allora.

Un minuto di attesa che riempii ascoltando la voce di Amy Winehouse mentre cantava Rehab.
“Ti avevo detto che ti ci avrei portata io”
“Non fare il tipo arrabbiato. Un’emergenza, dovevo tornare subito”
“E’ successo qualcosa?”

Sapevo cosa intendevo: si stava preoccupando per Emiliano.

“No, ho solo un’ospite a casa e penso che ci starà per il prossimo mese: mia cugina Flora”

Due minuti di attesa.

“Auguri”
“Ti ringrazio. Se ti fa piacere potresti dividerla con me”
“Sarò così magnanimo da lasciarla tutta per te”
“D’accordo, però non lamentarti se poi scappo di casa per l’esaurimento e non mi faccio trovare mai più”


Un altro istante di attesa.
Bip bip.
Sorrisi, piena di soddisfazione stavolta:

“Tranquilla, non mi scapperai: ti vengo a cercare ovunque vai”


Davanti a certe parole perdevo sempre un po’ di lucidità.
Non sapevo chi mi avesse mandato indietro Andrea, se Dio, il destino o chissà cos’altro, ma non avrei mai potuto ringraziarlo a sufficienza: i giorni felici che ci erano stati regalati non sembravano mai abbastanza reali, tanto erano belli.
Speravo solo che sarebbero duranti quanto più tempo possibile.
 




***



 
“Ah, ce l’hai fatta a tornare?”

Così mi accolse mia madre mentre ancora cercavo di chiudere la porta d’ingresso, dopo un’ora e mezza d’inferno in mezzo a gente esaurita che sbraitava per rientrare a casa in orari decenti.
Ero sudata, esausta e affamata. Bell’affare, vero?

“Scusa eh, c’era traffico e l’autobus ha ritardato. Dovremmo cambiare questa serratura, comunque, è difettosa.”
“Dai qua, ci penso io a chiudere” mamma si avvicinò per aiutarmi “Scusa, che ci facevi su un autobus? Alla biblioteca ci arrivi pure a piedi!”
“Aehm…” tossicchiai: come avevo potuto essere così distratta e farmi scappare una frase del genere?
“Sì, certo… Però poi sono andata al parco pubblico, a via Belmonte. Si stava più tranquilli, in biblioteca c’è quello delle pulizie che fa casino…”

Povero Gianni, stavolta non c’entrava proprio niente!
Mamma mia guardò sospettosa, comunque, ma non aggiunse altro.

“D’accordo. Florinda è già di sopra, vai a salutarla”
“Okay. Ludovico?”
“Ludovico è da tuo zio Aurelio con papà. Dopo tornano in fabbrica. Su, coraggio, va’ in camera tua. Vuoi lasciare Flora da sola ancora per molto?”

Per poco non soffocai, quando la saliva mi andò di traverso.

“Non ho capito bene: dov’è Florinda?” domandi tra un colpo di tosse e l’altro.
“In camera tua, dove vuoi che stia? Così, se la notte ha bisogno di qualcosa può chiamare te, poveretta. Non deve stare da sola neanche per un minuto!”

Florinda.
In. Camera. Mia.
MIA.
Che bella notizia! Proprio il modo migliore per rovinarmi i momenti di felicità di appena qualche ora prima!

Lo sguardo che lanciai a mia madre fu più di rabbia che di stupore; grugnii afferrando la borsa e trascinandola verso le scale. Continuai a strascicarla lungo ogni gradino, per niente interessata a mettermela a tracolla per evitare tutto quel fracasso: avrei fatto qualsiasi cosa pur di non sentire la sua voce stridula mentre mi richiamava all’ordine.

Quale parte del “ho un esame di maturità, devo studiare, non fate casino per favore” non era ancora chiara in casa Gherardi?

Aprii la porta della mia stanza con uno scatto. Rimbalzò sulla parete e provocò un tonfo sordo. Flora, che stava leggendo comodamente distesa su un letto comparso dal nulla accanto al mio, mi guardò da sotto la lunga frangia che le nascondeva a tratti gli occhi.


“Buongiorno anche a te.” commentò.
“Stai bene?” domandai acida.


Le diedi le spalle, riponendo i libri sulla scrivania.
Io e mia cugina non eravamo amiche del cuore né lo saremmo mai state, per quanto avessimo potuto chiarirci nella nostra vita. Oltretutto, giusto per facilitare ancora di più la convivenza, alla naturale antipatia si era sommato anche un notevole imbarazzo da parte mia, poiché adesso conoscevo le motivazioni che spingevano Flora a detestarmi.
Con queste premesse, come avrei potuto dividere la mia stanza con lei? Più tempo saremmo state costrette a trascorrere assieme, più le probabilità di accapigliarci sarebbero cresciute.
Mia madre e le sue idee geniali!


“Senti, Margherita…”
“Uhm?” mi voltai appena.
“Immagino che dividere la tua camera con me non ti renda troppo felice. Indovina? È lo stesso per me. Ho cercato di convincere tua madre, ma non ha voluto sentire ragioni”
“Non stento a crederci.”
“Comunque cercherò di non darti fastidio. Non sono il tipo che chiede aiuto, dubito di cominciare a rendermi dipendente proprio con te. Quindi studia, fa’ quel che devi fare e fingi che io non ci sia neanche.”

Mi voltai per guardarla; provai quasi tenerezza nel vederla così fragile, con quella sua gamba rotta e i graffi sul viso, mentre ancora cercava di sembrare la forte della situazione. Mi pentii di aver reagito così male.

“Non importa Flora” risposi allora, con un gesto della mano “Tanto non è per sempre”
“No” confermò riprendendo in mano il libro che stava leggendo “Non sarà per sempre, stai tranquilla”

Ritornò alla sua lettura e chiuse ogni possibilità di un ulteriore conversazione. Avrei voluto chiederle di Emiliano, ma mi trattenni.


Sapevo che non ne avrebbe parlato.
Non c’era niente di cui parlare.
 
 
 


***
 


 
“Amante della ricerca erudita e del labor limae, ovvero la curata elaborazione formale, Callimaco influenzò la poesia ellenistica e quella romana. Egli si distinse tra i contemporanei per l'efficace brevità e concisione dei suoi carmi nonché per la levigatezza formale…1
Ripetevo letteratura greca a voce bassissima, nascosta sotto un lenzuolo e munita di torcia, per non disturbare mia cugina che dormiva nel letto accanto al mio accendendo la luce centrale.
Di certo, quelle non erano le condizioni migliori per studiare.

Diedi un’occhiata all’orologio: le tre del mattino.
Avevo decisamente tirato tardi, ma per tutto il giorno avevo concluso ben poco e quella nottataccia mi aspettava almeno per sollevarmi dal rimorso di non essermi impegnata affatto fino a quel momento.

Il display del cellulare si illuminò: un messaggio.
Andrea.

“Sei sveglia?”
“Sì, studio. Anche tu però… Sei a La Piovra? Guarda che domattina lavori!”
“Sono a casa ad ascoltare un po’ di musica, mamma. Comincio a lavorare alle dieci, vai tranquilla. Oggi non t’ho fatto studiare molto, vero?”
Arrossii.
“No, non mi hai fatto studiare per niente”
“Ti è dispiaciuto?”

Quando mi diceva certe cose mi veniva di prenderlo a schiaffi: immaginavo la sua faccia compiaciuta mentre mi scriveva un messaggio del genere!

“No, non mi è dispiaciuto. Contento?”
“Contentissimo.”

Sbuffai, ridacchiando, e poi cercai di cambiar discorso.

“Tutto okay per l’occupazione?”
“Tutto okay, ci siamo organizzati. Tua cugina morde?”
“Meno del solito.”

Inviai il messaggio e poi cercai di far quanto meno rumore possibile, perché avevo sentito Florinda rigirarsi nel letto.

Tesi l’orecchio: no, non si stava semplicemente muovendo.

Un singhiozzo trattenuto, due.
Tre.

Florinda stava piangendo.

Il display del cellulare tornò a illuminarsi, ma lo ignorai per il momento: ero troppo dibattuta tra il farmi i fatti miei (per buona pace di tutti) o l’avvicinarmi a Flora per chiederle cosa le prendesse.
Al quarto singhiozzo mi decisi, scostai il lenzuolo e mi avvicinai al suo letto.

“Flora?” la chiamai piano. Sobbalzò.

“Ti ho svegliata?”
“N-non dormivo. Stavo studiando.”
“Ah… Capisco.”
“E’ tutto okay, Flora?”


C’era da dire che, in quanto a domande originali, ero proprio la maestra.


“Tutto benissimo”
“Senti dolore?”
“Sì”

Non aggiunse altro, ma qualcosa mi spinse a credere che avrebbe voluto dirmi “sì, ho male al cuore”.

“Posso fare qualcosa per te?” domandai accendendo la lampada sul nostro comodino comune. Flora si voltò lentamente nella mia direzione: aveva gli occhi gonfi e un ematoma ancora evidente al di sotto della frangia. La cicatrice sulla guancia stentava a sparire, ma non credo che piangesse né per quello né per la gamba ingessata.

“E’ tutto a posto”
“D’accordo” alzai la mano “Non insisterò, anche se so che non mi stai dicendo la verità. Dopotutto è comprensibile, dubito che si possa mai essere amiche io e te. Le amiche sono altra cosa”
“Non lo so neppure se ho un’amica io, da qualche parte.”
“Hai tanta gente che ti ronza intorno”
“Ho anche un cognome importante e tanti soldi”

Annuii comprensiva.

“Non come te che hai una bella vita, un’amica che ti adora…” si asciugò le lacrime.
“Credo che attualmente adori di più il suo ragazzo…”
“…E un fidanzatino very alternative. È quello con la cresta viola che stava fuori al centro sociale, vero? Come si chiama? Emiliano mi diceva di conoscerlo, ma non mi ha mai detto il suo nome.”
“…”
“Non avrei mai pensato che ti saresti messa con un tipo del genere. Certo, hai sempre avuto queste idee rivoluzionarie con cui hai sempre rotto le scatole a tutti, non lo nego. Tuo padre l’hai fatto quasi impazzire all’epoca, credeva che te ne saresti andata a fare la comunista dei poveri in Russia, un giorno.”
“Flora, stavamo parlando di te o sbaglio? Vuoi un bicchiere d’acqua?”

Cominciavo a innervosirmi: che c’entrava tutto quello sproloquio?

“Hai proprio la faccia innamorata, sai? Tra le nuvole. Non che normalmente fossi più sveglia, però…”
“Un bicchiere di latte?”
“Scommetto che non stai neanche studiando. Eppure hai la maturità...”
“Flora, se stai cercando di cambiare discorso guarda che non ce n’è bisogno, non ti farò più domande…”
“Allora, come si chiama il tuo ragazzo?”

Cercò di mettersi a sedere nel letto, ma quella gamba pesante come un macigno che si portava dietro era difficile da gestire.
Sbuffai, aiutandola ad accomodarsi meglio sul cuscino.

“Lo dirai a mio padre? Si chiama Andrea. Per favore, non fare la spia. Dovresti sapere come la prenderebbero.”
“Andrea, hai detto?”
“Sì.”
“Andrea come?”

Mi guardò perplessa, quasi sorpresa.
Ma che avevo detto di male? Andrea era un nome così comune!

“Senti, non ti dirò il nome per intero di Andrea solo per farmi…”
“Non voglio fregarti.”

Ricambiai il suo sguardo con un’occhiata titubante.

“Okay. Si chiama Andrea Zenovi ed è un fotografo”
“Andrea Zenovi…”
“Flora, ma che c’è? Conosci Andrea?”
“Lui mi conosce?”
“Come mia cugina sì.”
“Come tua cugina…”
“C’è qualcosa che non so?”
“Assolutamente no.”
“Sicura?”
“Sì.”
“Bene, allora me ne torno a letto. E stavolta dormo per davvero. Ciao Flora, buonanotte”
 
Le diedi le spalle un po’ risentita: che aveva da nascondermi? Perché era proprio questa l’impressione che avevo avuto.
 
“Margherita!”
“Eh? Che c’è?”
“Non lo direi a tuo padre. Non sono così crudele.”
“Grazie tante”
“E comunque no, non sto molto bene.”

Inclinai la testa di lato e la guardai curiosa, tornando a sedermi sul bordo del letto.
Aveva improvvisamente voglia di confidarsi con me, forse?


“Allora senti dolore? E’ per via della gamba?”
“No, non è per questo. Lo sai di Emiliano?”
“Cosa dovrei sapere? Mica si è svegliato?”

Un piccola speranza si fece largo nel mio cuore. Sparì subito, com’era venuta.

“No.”
“E allora?”
“L’hanno spostato in una stanza tutta sua.”
“Ah, pensa. Potere dei soldi, eh? Il fatto che sia in coma e che la sua famiglia sia ricca lo salverà anche dalla polizia, considerando l’erba e la vodka che hanno trovato in macchina?”

Flora mi guardò con un’espressione afflitta: si sentiva colpevole. Emiliano non era l’unico ad aver fatto uso di quella roba.
 
“Senti, Margherita…”
“Che c’è?”
“Devo chiederti una cosa. Eviterei di farlo, credimi, perché non mi va di rompere le scatole a terzi e, soprattutto, di chiederlo a te…”

E certo, io sono una specie di appestata.

“Però sei l’unica che può capirmi, soprattutto con la faccenda di Andrea e tutto il resto…”

Quale resto?

“Flora, in breve?” domandai nervosa.
Mi guardò qualche istante più del dovuto e trasse un respiro lungo e profondo: mi sembrava avesse quasi paura di parlare. Non l’avevo mai vista così fragile; ero abituata a una Flora sempre sul piede di guerra, pronta a scagliare battute al vetriolo e deridermi alla prima occasione propizia. E invece adesso, davanti ai miei occhi, scoprivo una ragazza comune e decisamente impaurita, condannata  dalla propria famiglia e dalla vita stessa. Una ragazza che aveva un unico motivo per continuare a combattere e sperare e quel motivo, adesso, giaceva inerme in un letto d’ospedale.
Portava il nome di Emiliano, il suo capelli scuri e un po’ riccioluti sulle punte, le sue mani dalle dita lunghe e affusolate, quelle labbra che non sorridevano più sfrontate.

Perché cavolo mi veniva sempre da piangere a pensare a quei due?
Perché mi tormentavo per loro?

Perché, nonostante tutto, lo trovavo ingiusto?
Perché pensavo che, al posto di Flora, avrei sofferto come un cane e non doveva essere così?
Non lo sapevo.


Flora mi guardò ancora. Per parlare c’impiegò – lo contai – più di tre minuti.


“Devi farmi un favore. Devi farmelo”
“D’accordo, parla”
“Poi mi sdebiterò, te lo assicuro. Se vuoi, ti aiuterò a studiare per l’esame”
“Non ce n’è bisogno. Basta che non parli di Andrea qui”

Scosse la testa.

“Non lo farò”
“Bene. Allora?”

Silenzio, ancora.
Sospirò, prima di parlare.


“Accompagnami da Emiliano. Nessun’altro mi ci porterà se glielo chiedo, mio padre mi riempirà la faccia di schiaffi e mi manderà in qualche collegio in Svizzera, piuttosto, e da sola non posso andarci. Portami tu, aiutami. Forse è la prima volta che ti chiedo un favore, non puoi negarmelo. Mi ci porterai, Margherita? Io ho bisogno di vederlo, ho bisogno di lui”

Ho bisogno di vederlo.
Ho bisogno di lui.


Forse era Florinda quella che avrebbe dovuto piangere a dire certe cose. Allora perché piangevo io?

C’impiegai giusto una frazione di secondo per risponderle: non avevo tutto questo bisogno di pensare, cosicché preferii non farla stare troppo sulle spine.

“Tranquilla Flora” le dissi con un tono di voce così sicuro che quasi stentai a riconoscermi “Tranquilla. Ti ci porto io”
 
 
Mi sorrise.
La vidi sorridermi, per la prima volta, sincera, dopo anni di battaglie e litigi tra noi.

Mi si alleggerì il cuore: forse non tutte le speranze di avere di nuovo una cugina erano andate perse per me.

















In ritardo come al solito, lo so. E' stato un periodo complicatuccio e stentavo a riprendere la scrittura, soprattutto di Piovre, non so perché.
Comunque, rieccoci qui! Bentornati :)
Di questo capitolo una cosa in particolare mi ha fatto penare: il titolo! XD
Proprio dieci minuti fa mi sono lamentata su Fb perché non riuscivo a trovarne uno adatto... Alla fine ho scelto "C'era il sole", riadattandolo dalla frase più ripetuta nel capitolo, perché penso si adatti non solo a Meg e Andrea, ma anche a Meg e Flora che cominciano, finalmente, a essere più vicine.
:)
Il capitolo, in ogni caso, non m'è piaciuto un granché. Spero sia piaciuto di più a voi, anche se la mia teoria che Piovre comincia ad annoiarvi è ancora valida xD
Un ringraziamento particolare alla mia Erica per aver betato 31 pagine di sproloquio! :-p
<3

Vi ricordo il link al mio gruppo, In the Sky with diamonds, se volete avere spoiler e verificare con mano quante scemenze sono in grado di sparare nell'arco di una giornata :-p

https://www.facebook.com/groups/265306233568958/
Sarete le benvenute!

Ora vi lascio. Buon pomeriggio a tutte e grazie per essere arrivate fin qui.
Un bacino
Mati.




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