Trickle of Ink

di Kwaku Ananse
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 

Trickle of Ink

 

 

Sergente Blaine Anderson, Armata del Potomac, V Corpo d'armata, 3°reggimento, al dottor Jonatan Carter-Bowman, medico del reggimento

Allenby, Pennsylvania 15 Marzo 1865

 

Caro dottor Carter,

credo che non riuscirò mai a trovare parole abbastanza adatte ad esprimere la mia gratitudine e riconoscenza. Vi devo la vita. Come medico, in specie medico militare, forse sarete abituato a sentirvelo dire; dovete aver strappato dall'abbraccio della morte molti bravi soldati. Ma per me avete fatto molto più di quanto vi imponesse il vostro dovere: quando mi avete visto cadere, ferito da una fottutissima granata, mentre correvo contro le trincee di Petersburg, avete scavalcato il nostro terrapieno e Vi siete messo a correre verso di me. Con le pallottole confederate che sibilavano a un soffio dalla vostra testa mi avete sollevato di peso e riportato al sicuro. Vi sarò eternamente debitore.

Bene, come dite sempre Voi, basta scempiaggini sentimentali e via ai fatti! Sono giunto stamane ad Allenby.

Il viaggio è stato lungo e assai stancante, credetemi, la mia gamba malridotta ha sentito ogni scossone del treno dalla Virginia alla stazione, ma vedendo in che paradiso mi avete fatto giungere non ho potuto lamentarmi più di tanto. Anche alla clinica sono stati molto ospitali.

Il dottor Schuester Vi manda i suoi più calorosi saluti e una lettera da allegare a questa mia che dovrebbe arrivare con la diligenza militare dell'8 Aprile.

I miei più sentiti auguri,

Blaine Anderson


 

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Questa storia è dedicata a Carly, che mi ascolta sempre nei miei numerosi momenti di delirio e ha sempre la capacità di ridarmi un po' di forza.
Ho scritto questa storia per te e non sai quanto sia stato felice dopo aver saputo che l'hai gradita. :)
Un ringraziamento particolare a Marty che ha curato tutta la parte grafica, ha fatto un banner meraviglioso e si è riletta con pazienza certosina ogni singolo capitolo, consigliandomi ogni volta che mi incartavo, se non ci fosse stata non avrei combinato nulla. Grazie Marti, per la tua infinita pazienza XD  Nonché per sopportarmi ogni santo giorno...
Un po' di note fondamentali : non sono una ragazza (questo lo dico perché i malintesi sono già capitati), non sono gay (nulla in contrario, lo dico per amore di completezza). Detto questo, abitualmente non scrivo fanfictions ma questa è stata un'occasione particolare e sono stato convinto a pubblicare la storia dalle due amiche sopracitate. Pubblicherò ogni Lunedì e ogni Giovedì fino ad esaurimento mio e vostro. Spero che la storia possa piacervi :) le vostre opinioni e i vostri consigli ovviamente sono ben accetti. Di qualsiasi natura, non sono permaloso *il naso si allunga andando a sbattere contro lo schermo del PC*
Vengo sollecitato a tagliare XD
Grazie ad ogni lettore e lettrice! 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


  

Trickle of Ink

 



 

Sergente Blaine Anderson, Armata del Potomac, V Corpo d'armata, 3°reggimento, al Tenente Wesley Montgomery, stesso reggimento,

Allenby, Pennsylvania 15 Marzo 1865

 

Wes, amico mio,

sono arrivato oggi alla clinica indicatami dal dottor Bowman e ho preso possesso della mia camera personale. Dopo tre anni passati a dormire nel fango o sulla dura pietra, con un misero telo di stoffa sopra, quattro pareti di pietra, un soffitto e un letto vero mi sembrano un lusso esagerato.

Ho anche potuto fare un bagno, il primo decente dall'inizio dell'assedio di Petersburg.

A dire il vero, mi sento un po' in colpa: tu sei ancora lì, rintanato in una buca limacciosa in attesa di correre nuovamente all'assalto delle linee nemiche, a rischiare la vita in mille modi. Io, invece, sono fuori dai giochi, ormai, nel bene e nel male: la granata, esplodendo, ha tranciato metà dei tendini della mia gamba destra e le ossa se la sono cavata poco meglio. Tuttavia, posso dirmi fortunato, non credo esistano molti soldati che possano dire di essere sopravvissuti allo scoppio di una granata confederata. Adesso non riesco a muovere un passo senza appoggiarmi alla stampella mi sento buffo e goffo come un uccello zoppo e, sebbene dicano che questo dottor Schuester faccia miracoli nel curare le ferite di guerra, probabilmente zoppicherò tutta la vita. Ma sono vivo, è questo che conta! Nel libro del destino non ci sarà più possibilità per Blaine Anderson di morire con una pallottola in fronte o trafitto dalla baionetta di un dixie. Per te non è lo stesso, amico mio, non ancora. La mia paura più grande è non ricevere più alcuna tua notizia se non una lettera del dottor Bowman che mi informa della tua morte, e io qui, al sicuro, distante e inutile, lontano da te.

Ogni giorno prego Dio di proteggerti e che questa maledetta guerra fratricida finalmente abbia fine.

Scrivimi presto e quando la pioggia è più fredda e la notte più buia, pensa alla tua Eleonor, che a Chicago aspetta ogni giorno il momento in cui potrà di nuovo stringerti fra le braccia, e al tuo amico in ospedale che non vede l'ora di partecipare al tuo matrimonio.

Con sincero affetto, 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             Blaine Anderson



Avvertenze e ringraziamenti:
Innanzitutto ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito il primo capitolo di questa storia. Spero che vi sia piaciuto e vi prego di pazientare un po' perché la storia deve ancora entrare nel vivo.
Ringraziamento particolari, vanno, ancora, a Martina che ha betato questo capitolo e tutti gli altri dal primo all'ultimo, con certosina pazienza e a Carly, senza la quale questa storia non esisterebbe :)
Come sempre i vostri pareri e consigli sono più che benvenuti!

 

 _____________RRRRRif

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 

                                                                Trickle of Ink
 

 

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute

Allenby, Pennsylvania 25 Marzo 1865

 

Caro Wes,

Questi nove giorni sono stati sicuramente i più lunghi della mia vita. Dopo avermi visitato, Schuester mi ha ordinato di compiere meno sforzi possibili con la gamba ferita, perciò mi ha praticamente recluso nella mia camera, permettendomi di uscire solo per le sedute di riabilitazione e massaggi, qualcosa che ha chiamato fisioterapia.

Nel dubbio che io provassi a uscire di nascosto (quell'uomo dev'essere in grado di leggere nel pensiero) ha messo a guardia della porta una robusta infermiera nera, che, credimi, non sfigurerebbe di fronte al capitano Stevenson da quanto è dura e autoritaria. Si chiama Mercedes e per ora tutti i miei tentativi di socializzare e accattivarmela sono cozzati contro un robusto muro di dittatura ospedaliera.

Costretto alla quasi totale immobilità, le ore passano lunghissime, sempre uguali, e i miei pensieri non possono andare che a voi del plotone, a te, a Nick e Jeff (non aggiungo altro), a Thad, a David.

Leggo i giornali, che non fanno altro che parlare del carnaio che sta diventando il maledetto assedio di Petersburg, e per quel che ne so uno di voi avrebbe potuto essere morto in qualche assalto, o in un contrattacco dei dixies; avreste potuto essere morti tutti. Perciò quando stamattina Mecedes è entrata nella stanza (per di più senza nemmeno bussare) sventolando una lettera, la mia gioia è stata tale che, ferita o non ferita, le ho gettato le braccia al collo ridendo e piangendo allo stesso tempo; non avevo avuto bisogno di veder scritto "Wesley Montgomery, tenente ecc. ecc." per riconoscere la tua scrittura. Sapere che state tutti bene mi scalda il cuore. Tra qualche giorno, secondo il dottore, potrò iniziare di nuovo a uscire e allora forse potrò raccontarti di più, perché questo paesino mi riempie di curiosità.

Nel frattempo porta i miei saluti alla truppa.

Che Dio vegli su tutti voi.

Blaine Anderson

P. S.

La detenzione ha dei vantaggi: il budino di prugne è assolutamente delizioso.

P. P. S.

So che mi odierai, Wes ma cerca di portare anche Jeremiah sotto la tua ala protettrice. Gli voglio ancora bene nonostante tutto. So che lo farai perché sei l'amico migliore che si possa desiderare.  

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


  

Trickle of Ink

 

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute

Allenby, Pennsylvania 25 Marzo 1865

 

Dottor Carter,

Vi scrivo queste righe dopo lungo silenzio - ben nove giorni - per tranquillizzarVi riguardo alle mie attuali condizioni di salute. Ancora una volta non posso che esserVi profondamente riconoscente: la clinica è davvero un istituto modello, di ottima qualità, e il dottor Schuester la guida e amministra con polso fermo ma anche grande umanità, umanità che permette anche ad un soldato come me, di accedere alle cure più costose a prezzi contenuti. Credo non guadagni quasi nulla, i soldi che arrivano dai pazienti devono bastare appena a mantenere la struttura e i dipendenti.

Non sono l'unico militare in stato di degenza, anzi devo dire che ce ne sono parecchi, probabilmente la maggior parte dei degenti, ragazzi rovinati da una brutta caduta da un cavallo imbizzarrito, da una granata, come me, da un cattivo intervento chirurgico eseguito frettolosamente nell'ospedale da campo e non esagererò dicendo che tra tutti sono quello che versa in condizioni migliori. In nove giorni, infatti, ho fatto progressi da gigante, questa fisioterapia è davvero miracolosa (se lo dicessi al dottor Schuester si arrabbierebbe, per lui non esistono miracoli, fortuna o altro, ma solo la scienza, i suoi progressi e i suoi limiti). Fatto sta che secondo il suo parere, con le giuste cure e il tempo necessario, potrò tornare a camminare normalmente. Non è una notizia meravigliosa?

L'unico problema, qui, è la noia: mi è proibito di uscire, per non stancare la gamba invalida, e le giornate passano lunghissime, rinchiuso tra quattro bianche pareti con la sola compagnia di me stesso e, di tanto in tanto, di Mercedes, l'infermiera, che mi rivela pettegolezzi di paese di cui non può importarmi un fico secco, e con la quale improvviso partite a poker, ma secondo me bara perché non può vincere sempre lei .. Ho anche già letto tutti i libri della - molto limitata - biblioteca della clinica e non potete neanche immaginare quanto questo mi renda disperato.

A parte gli scherzi, sto bene e la salute è quella che conta di più. Il dottor Schuester mi ha assicurato che vi aggiornerà sui miei miglioramenti, quindi potete stare più che tranquillo.

Vi mando i miei più calorosi saluti . Non potrò mai ringraziarVi abbastanza.

Con affetto,

 

Blaine Anderson

 


 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 

Trickle of Ink
 

Lettera anonima recapitata da ignoti a Mr. Peter Anderson, North Hudson Street, Boston

 

Saluti padre,

Dopo lunghe riflessioni ho deciso infine di scriverVi una lettera per informarVi sulle mie condizioni visto che voi non ve ne siete mai preoccupato dall'ultima volta che superai la soglia di casa circa tre anni fa. Spero che significherà qualcosa, per Voi, sapere che in questi ultimi tre anni ho rischiato la vita innumerevoli volte, strisciando nel fango, affrontando pioggia e neve, un campo di battaglia dopo l'altro.

Ho ucciso e ogni assassinio, perché di questo si tratta, ha portato via un pezzo della mia umanità.

Ho ucciso per non essere ucciso, è vero, ma se questa convinzione placa, almeno un poco, la mia coscienza, non placa quella di coloro che ogni notte vengono a visitarmi negli incubi, mostrandomi i loro volti morti, le loro ferite.

Il fatto che Voi abbiate una parte di colpa in tutto questo spero che serva a smuovere il vostro animo, anche solo di una frazione, ma temo che la mia sia solo una pia illusione. Se quella sera di tre anni fa voi non foste stato così stronzo da presentarvi con quel vestito lungo rosa a balze in mano, ubriaco. Le vostre parole sono impresse a fuoco nella mia mente "Se vuoi fare la donzella con il figlio di Wendel allora falla come si deve, deviato rottinculo, quanti altri finocchietti hanno provato la tua accoglienza?" Ci siamo lasciati molto male, tre anni fa, molto molto male. Mi avete ferito, padre, qualsiasi genitore umano sarebbe stato più attento con le parole. Al di là di questo, mi scuso per averVi minacciato coltello alla mano, ma ero fuori di me.

Un genitore dovrebbe amare un figlio in qualsiasi caso, non a determinate condizioni. Evidentemente non ve ne fate nulla del mio affetto, né io ne ho da sprecare per voi.

Non Vi scrivo questa lettera per chiedere il Vostro fantomatico perdono o per riconciliarmi. Scrivo questa lettera per dirVi addio. Una lauta mancia ad un soldato in licenza permetterà alla lettera di giungere fino alla porta serrata della vostra bottega. E basta, non saprete mai dove sono adesso o dove sarò in futuro. Se anche faceste - ma ne dubito - lo sforzo di cercarmi, dubito che mi trovereste. Questa è l'ultima lettera che riceverete da me.

Se non l’aveste ancora fatto, buttate pure senza rimorso ogni oggetto che ho lasciato a casa.

Non sono legato a nulla tanto da spingermi a incrociare di nuovo il mio sguardo con il vostro.

Mi auguro, per la salvezza della Vostra anima, che un giorno possiate pentirvi e provare rimorso per il male che mi avete fatto.
 

Blaine Anderson
 

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Sono particolarmente legato a questo capitolo perché è l'unico in cui si sveli qualcosa del passato di Blaine e che, in un certo senso, da un indizio sulle motivazioni che muoveranno le sue scelte future...
Un grazie calorosissimo a chi ha retto fino a cui, manca poco al capitolo col botto XD
Un augurio particolare a M di riprendersi dall'influenza XD
A C dico solo... Eheheh....

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 

 

Trickle of Ink
 

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute

Allenby, Pennsylvania 6 Aprile 1865

 

Caro Wes,

Come sempre rinnovo i miei saluti e il mio affetto a tutti voi che state ancora combattendo. La conquista di Petersburg e Richmond è stato davvero un bel colpo, avrei voluto essere lì con voi.

Forse la guerra è davvero agli sgoccioli.

E mentre ti crogioli in racconti di guerra ed eroici combattimenti, io ti ricambio con una ben più misera moneta: dopo pietosissime suppliche e un tentativo, andato a vuoto, di sedurre Mercedes, l'infermiera che mi fa da carceriere (non lo avresti mai creduto, ma sì, sono giunto ad un tale livello di disperazione), il dottor Schuester ha ritenuto che fosse finalmente giunto il momento per la mia prima uscita all'aria aperta.

Certo, per non più di un'ora e accompagnato dall'imponente donnone sopracitato, con frequenti pause per non affaticare troppo la gamba in via di riabilitazione, ma è stato comunque piacevole.

La cittadina, anche se sarebbe più corretto definirla un grosso paese, è molto piacevole e pittoresca, una piccola gemma colorata immersa nel verde, verso est quello chiaro e brillante della pianura, a ovest quello ombroso e cangiante delle foreste montane.

Gli abitanti sono schivi e riservati, ma cortesi. Poco abituati agli stranieri, l'apertura della clinica del dottor Schuester, all'inizio della guerra, è stata per loro una vera rivoluzione, quindi non sono stato sorpreso di essere accolto per strada da occhiate sospettose e borbottii tra i passanti, ma nulla di più. Una donna, con un canestro di frutta in mano e una bimba appesa al grembiule, vedendomi incedere col bastone, mi ha perfino sorriso. Povera donna! Chissà che non gli abbia ricordato un marito, o un figlio, lontano, a consumare gli stivali su qualche campo di battaglia...

Ma sto divagando e dimentico di dirti la cosa più importante, che forse, però, avrai già intuito: Wes, io cammino. Con un bastone, certo, e dopo cento metri devo fermarmi perché sento la gamba tutta intorpidita, ma non zoppico! Presto potrò camminare, presto potrò di nuovo correre! Non riesco ancora a crederci, mi sembra un miracolo, anche se il dottore mi picchierebbe se me lo sentisse dire.

Vorrei poterti scrivere molte altre cose, ma il treno postale e dei rifornimenti per il fronte sta per partire.

Riguardati, Wes, non vedo l'ora di poterti riabbracciare.

Blaine Anderson 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


 

Trickle of Ink

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute

Allenby, Pennsylvania 15 Aprile 1865

 

L'Armata della Virginia Settentrionale si è arresa ad Appomatox!

Il generale Lee, comandante in capo di tutti gli eserciti del Sud, ha firmato la resa di fronte al nostro generale Grant.

E' una notizia così grande, Wes, che non so cosa dire. Mille emozioni mi ribollono dentro e non so neanche distinguerle, mi viene da ridere e piangere, mi tremano le mani, la mente va a rilento. E' troppo, troppo grande. E' meraviglioso. La guerra è finita, Wes, e siete sopravvissuti. Nessuno dovrà più rischiare la vita per snidare altri uomini da dietro ad un terrapieno, o assaltare un forte mentre palle di cannone esplodono tutte intorno e tutt'attorno i compagni cadono a terra feriti o morti, o andare allo scontro schiera contro schiera, con la baionetta innestata al fucile...

Sto divagando di nuovo, Wes, ma ti prego di capirmi, tutto questo deve farsi ancora strada in me. Non sai che gioia mi ha dato apprenderlo dal tuo stesso pugno, vedere le sbavature d'inchiostro dove le tue lacrime si sono posate sul foglio, a cui poi ho aggiunto le mie.

Siete vivi.

Siete tutti vivi, anche Thad, Nick e Jeff (ti prego tienili d'occhio e assicurati che non combinino guai... di diverso genere), David.... anche Jeremiah. Non avrei potuto desiderare nulla di più bello. Torni a casa. Torni da Eleonor. Ho apprezzato molto la tua offerta di ospitalità, ma sono costretto a rifiutarla. Chi mai sarebbe così stronzo invadente da stabilirsi nella casa di due sposi novelli? Non vedo l'ora che fissiate la data delle nozze. Ti prometto che come testimone dello sposo sarò impeccabile, non ti farò sfigurare davanti a Eleonor e a tutto il parentado! Ho fatto recapitare l'uniforme ad un sarto di qui e ora è come nuova, ho anche comprato un bel paio di stivali lucidi, vedrai se non farò il mio figurone!

Ti lascio adesso, in paese la voce della resa di Lee si è sparsa come un lampo e le strade ora sono piene di gente in festa che ride, si abbraccia e scola birra e Mercedes ha appena deciso di sollevarmi di peso per arrivare prima in mezzo alla baldoria.

Un affettuoso abbraccio a te e agli altri.

 

Blaine Anderson
 

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Un grazie gigantesco grazie a tutte le lettrici e ai lettori, se ce ne sono, che sono arrivati fino qui! Confesso di aver costantemente controllato costantemente il numero di coloro che leggevano la storia, preoccupandomi nel vederlo diminuire costantemente XD non mi scoraggio, però e questo è l'ultimo capitolo introduttivo, da lunedì inizia la storia vera! Spero possa piacervi :)
R




 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


  

Trickle of Ink 
 

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute,

Allenby, Pennsylvania 18 Aprile 1865
 

 

Wes,
A scrivere queste righe febbrili è la sensazione di aver disperato bisogno di consiglio. Di un tuo consiglio, visto che dei due sei sempre stato tu quello più bravo a ragionare e a trarre le conclusioni. L'argomento, come dire... è delicato, e, dannazione, non so se inviartele, o no. Temo la censura, i controlli. E il tribunale militare. Anche se magari non dovrei scriverlo in una lettera che si dovrebbe muovere su un treno militare.

Oh, Wes perché le alte sfere non sono come te ?! Non hai avuto alcun problema ad accettare me, o Nick, o Jeff, nessuna esitazione, o esclamazione quando ti abbiamo rivelato... quello che siamo. Ne hai preso atto e fine.

Per te non faceva differenza per chi battesse il nostro cuore, a te bastava che fossimo in grado di lavorare come una squadra e salvarci la vita l'un l'altro. E in questo non ti abbiamo mai deluso come tu non hai deluso noi.

Ma andiamo con ordine. Sì, si tratta di quello che pensi. E no, non credo ne sarai felice.

Tutto ha avuto inizio la sera del 15 Aprile. La notizia della resa confederata era appena giunta, come ricorderai ti avevo detto, e per le strade c'era gran festa. Non avrei mai creduto che gente tanto chiusa e riservata fosse capace di tanto trasporto! Dove mi voltavo c'erano balli e canti improvvisati, mentre da chissà dove venivano tirati fuori barilotti di birra e acquavite, prosciutti, lunghi filari di salsicce, dolci e altro ben di Dio, c'era musica nell'aria e risate. Tutte le case erano illuminate e inghirlandate a festa. Bè, non proprio tutte.

Per farti capire meglio, devi sapere che il paese ha una pianta molto semplice composta pressappoco da una serie di abitazioni raccolte in abbozzati cerchi concentrici attorno ad una piazza centrale in cui sono situati la chiesa - l'edificio più grande del villaggio - la casa del sindaco e l'unica locanda (non possiedono uno sceriffo e sembrano non sentirne il bisogno); poco discosto da questo agglomerato, però, c'è un altro edificio di ragguardevole dimensione, che io, nelle mie brevi gite, non avevo mai notato, per non averlo mai raggiunto. Questo edificio, è una grande villa padronale, bianca, con le colonne e la facciata a imitare un tempio classico, una villa come tante ne abbiamo viste in Virginia, ma che non mi aspettavo di trovare così a Nord, una costruzione del genere significa piantagioni, e piantagioni significano schiavi.

Stavo dicendo, questa villa risaltò subito ai miei occhi proprio per essere così buia e desolata accanto alla luce vivida e allegra del villaggio.

Il corpo morto di una divinità tiranna su cui ballano gli ex sudditi.

Preso da una certa curiosità che, col senno di poi, definirei insana, mi avvicinai.

La mia aguzzina L'infermiera era lontana, inebriata dall'alcool e dalla baldoria, avevo tutta la libertà di manovra che volevo, e un robusto bastone cui poggiarmi.

Senza fretta, approfittandomi della solidarietà e della momentanea cordialità dei passanti, arrivai dunque al limitare del villaggio. Fattomi più vicino mi furono subito evidenti le condizioni di abbandono in cui si trovava la grande dimora: l'alto cancello di ferro che segnava l'ingresso verso il centro abitato - mentre era nascosto dalla casa quello posteriore, che dava sui campi - e l'alta recinzione metallica erano completamente arrugginiti, le sbarre cadute in più punti. Il cancello semiaperto sembrava dover crollare da un momento all'altro, rovinato dal suo stesso peso, il giardino all'interno era un trionfo di erbacce, e la facciata, un tempo maestosa, era scrostata in più punti rivelando le assi di legno sotto l'intonaco bianco. Questa visione mi affascinò, la contemplazione dell'opulenta decadenza di quel luogo, il suo fasto rovinato da chiesa sconsacrata, ebbero su di me una presa enorme. Penso di aver capito l'attrazione morbosa per la morte e la rovina che aveva preso alcuni dei nostri commilitoni, che di notte vagavano per il campo di battaglia in cerca di resti dei recenti scontri e quando un compagno moriva rimanevano a fissare i suoi occhi vacui come a cercarne mute risposte.

Mi pentii duramente di non aver portato con me il mio taccuino da disegno, rimasto comodamente appoggiato sul comodino della mia camera alla clinica, pressoché inutilizzato da ormai più di un mese, quello stesso taccuino che mi vedevi tirare fuori alla fine di ogni scontro, per disegnare il campo di battaglia, imprimendone nero su bianco ogni atrocità, per poter ricordare per sempre la follia che avevamo vissuto; quello stesso taccuino che raccoglievo nei rari momenti di pausa, insieme ai pastelli colorati per raffigurare il tramonto, col sole che discendeva ad ovest, oltre gli Appalachi, o un campo sterminato di cotone, una famiglia di schiavi fuggiaschi che si abbracciano dopo essere riusciti a raggiungere le nostre linee, finalmente liberi. Promisi a me stesso che non sarebbe stata la mia ultima visita a quel luogo e che la volta successiva sarei stato meglio equipaggiato.

Volevo, però, osservare e nel preciso istante in cui mi feci più vicino, una musica si sparse dalle buie finestre, quasi travolta dai rumori e dalle allegre canzoni della festa eppure non del tutto soffocata.

Avresti dovuto sentirla, Wes! Quella musica... così cupa e dolente, così carica di infiammata disperazione. Una marcia funebre, fatta nascere da mani esperte dai tasti di un pianoforte, eppure viva, piena di rabbia e potevo quasi vedere due mani sospese nel vuoto precipitare febbrili sui tasti, aggredirli, torturarli per strappare a forza dallo strumento le sensazioni dell'anima.

Imponente, non ci sono altre parole per descrivere quello spettacolo, sublime e terribile, bello e spaventoso insieme.

Sarei potuto stare in contemplazione per ore, forse per tutta l'eternità.

Ma sto divagando, perdonami, in tutta questa faccenda, non so perché, la mia mente tende a vagare, senza riuscire a focalizzarsi sul problema principale.

Ma torniamo al racconto. Quella musica in un luogo che credevo abbandonato da tempo fu per me una sorpresa tale che all'inizio indietreggiai e quasi caddi, incapace di reggermi sulla gamba malferma, tuttavia mi incantò immediatamente.

I miei piedi mossero di nuovo in avanti, senza che io ne avessi il reale controllo, quando un braccio forte mi fermò, trattenendomi per una spalla. Ero così suggestionato dall'atmosfera sepolcrale che si era creata che urlai per la paura e la sorpresa e puoi immaginare quale fu la mia vergogna quando mi vidi davanti un uomo del villaggio, un contadino grande e grosso, quasi del tutto calvo con una folta barba sale e pepe

«Non ti avvicinare a quella soglia!» mi disse con il tono brusco che gli ufficiali d'addestramento usano con le reclute indisciplinate «E' la casa del padrone, se ti avvicini troppo potresti finire in grossissimi guai!»

Quelle poche parole rudi ebbero su di me l'effetto che ha sui bambini la minaccia dell'uomo nero: timore, ma anche accesa curiosità. Chi era il "Padrone", che l'uomo aveva nominato con un misto di disprezzo, paura e soggezione? Probabilmente il proprietario della villa, lo stesso che stava suonando il piano. Nella mia mente si disegnò l'immagine di un uomo non più giovane, dal profilo severo, vestito di abiti eleganti ma ormai antiquati, seduto di fronte ad un grande piano a coda finemente decorato, al buio più completo, o al massimo con l'ausilio di una candela, in una sala ampia e polverosa, in cui sagome di mobili potevano essere solo indovinate, nascoste sotto ampi teloni un tempo bianchi ma ormai tristemente ingrigiti... Vedi, Wes? Non riesco a rimanere concentrato. Fatto sta che per il momento tutto finì lì.

Come potrai immaginare, avevo molte domande in serbo per lo sconosciuto che mi aveva bloccato, ma non riuscii a scucirgli di più la bocca ,né con preghiere, né con minacce, l'arrivo poi di Mercedes, pose fine alla mia momentanea libertà e, non senza proteste, fui riportato senza tanti complimenti in camera mentre la festa era ancora in corso, come un ragazzino.

Il giorno dopo fu per me un autentico tormento! Avendo assaggiato, la sera prima, un po' di libertà vera, non riuscivo più a sopportare la reclusione in gabbia e non facevo che rigirarmi nel letto come se il materasso fosse pieno di carboni ardenti! Per non parlare delle sedute di fisioterapia, o come si chiama.... Pensavo alla sera prima, alle magnifiche rovine così vicine alla vita del villaggio, pensavo alla musica che proveniva da quelle pietre. Ero preso da una sorta di febbre della curiosità, di attrazione per il proibito, alimentato dall'alone di mistero che i paesani avevano contribuito ad infittire.

Quando, finalmente, nel tardo pomeriggio, Mercedes aprì la porta per accompagnarmi nella solita passeggiata all'aperto, il mio cuore esultò. Mentalmente percorrevo la strada da fare, stando attento a non sbagliare qualche svolta e contando ogni singolo passo necessario.

Quando fummo all'esterno della clinica ebbi un altro autentico colpo di fortuna per cui dovrei ringraziare la mia carceriera personale.

« Signor Anderson» mi disse infatti « Siete migliorato molto e il dottor Schuester mi ha detto di concedervi, da oggi, un paio d'ore per poter camminare liberamente. Ma, sinceramente, per me è uno spreco dedicare tutto quel tempo a voi, quando molti altri pazienti della clinica hanno bisogno di attenzioni. Voglio fidarmi a lasciarvi andare da solo. State attento a non stancarvi troppo. Quando tornerete qui vi farete aiutare da qualcuno a salire le scale» e rientrò dentro.

Non credevo alla mia fortuna! Ero così felice che mi misi a fischiettare. Non l'ho detto ma era chiaro che avevo portato con me pastelli e taccuino da disegno.

La magione era splendida. Il sole tramontava, e la sua luce rossa ne colpiva le pareti bianche e sbreccate obliquamente, dando l'impressione che tutta la struttura fosse un enorme carbone ardente, e accanto a zone in cui dominavano la ricchezza dell'oro e del porpora ve n'erano altre soffuse, nascoste da una coltre opaca di tenebra e lunghe ombre dalle forme strane e contorte attraversavano il parco trascurato.

Ero inebriato, ubriaco, non ho altre parole per descrivermi, mentre afferravo i pastelli e iniziavo ad aggredire il foglio tra le mie mani.

Ne stracciai tre, uno dietro l'altro, poi lanciai il quaderno lontano, in preda alla frustrazione. Il mio animo formicolava nello sforzo creativo, ma sentivo che non stavo afferrando l'essenza, la Verità di quel luogo.

E proprio mentre gli ultimi barlumi di luce e calore abbandonavano il cielo e io, sconfortato, iniziavo a raccogliere le mie cose per andarmene, le mura ripresero a suonare; di nuovo, non un suono allegro o vivace, ma triste, sconsolato e comunque minaccioso. Di nuovo, un pianoforte. Accanto alla musica poi, questa volta, un canto, una voce non vecchia e roca, come avevo sospettato all'inizio, ma giovane, chiara e decisa, bella, ma corrotta da una punta di rabbia.

 

Lacrimosa dies illa

qua refulget ex favilla

iudicandus homo reus”

 

Una voce degna dell'Angelo del Giudizio.

Mi alzai e per un istante non feci nulla, poi ebbi un'illuminazione: qualsiasi cosa stessi cercando, qualsiasi cosa mi permettesse di esprimere davvero l'anima di quella casa, doveva essere custodita al suo interno. Non ebbi esitazione a valicare il vecchio cancello arrugginito e mezzo divelto dai cardini, ma di fronte all'elegante porta bianca, sotto il portico d'ingresso, esitai.

Mi conosci, Wes, non sono un credulone. Quando parlo di anima della casa, essenza e altro non intendo una qualche presenza soprannaturale o uno spirito tormentato, sapevo che a suonare il pianoforte e a cantare così magistralmente era una persona in carne ed ossa, e mi chiedevo quale sarebbe stata la sua reazione di fronte alla visita di un estraneo. Mentre riflettevo su queste cose, la melodia riprese, identica a prima nella successione delle note, ma più spezzata e violenta e la punta d'ira nell'intonazione si era fatta più forte.

 

Lacrimosa dies illa

qua refulget ex favilla

iudicandus homo reus”

 

Il senno mi diceva di allontanarmi, ma la curiosità fu più forte "Non deve vedermi per forza" pensavo "mi limiterò a spiarlo, a vederlo una volta soltanto".

Entrai.

Il salone d'ingresso era polveroso e sontuoso, con lunghi teloni bianchi a coprire i mobili, proprio come immaginavo; tuttavia, quasi non me ne accorsi, impegnato com'ero a seguire la melodia che era ora arrivata al parossismo più rabbioso, senza più nulla di classica eleganza, ma preda totale della bestia.

 

LACRIMOSA DIES ILLA

QUA RESURGET EX FAVILLA

IUDICANDUS HOMO REUS!”

 

E allora, per poco non combinai un disastro. Ero tanto preso dalla musica da non accorgermi di dove mettevo i piedi e, accidentalmente, urtai un vecchio vaso di metallo, che cadde a terra con il frastuono di una palla di cannone. Il piano cessò immediatamente di suonare e prima che potessi fare qualsiasi cosa, da in cima ad una rampa di scale che, nella penombra, non avevo notato, giunse un ordine secco e autoritario:

« Non muoverti, cane di un ladro, se non vuoi che ti riempia la pancia di piombo!»

Ubbidii mentre una sagoma dall'alto lentamente si avvicinava acquistando consistenza. Al buio non mi era possibile distinguere chiaramente i lineamenti del volto o il colore dei capelli, che però dovevano essere di tinta bruna, solo gli occhi si stagliavano chiaramente: grigi, lucidi e minacciosi come quelli di un lupo feroce.

Era bello, però, innegabilmente bello, e giovane, più giovane di quanto avessi immaginato, circa della mia età. Continuò, con voce più calma ma, per nulla più amichevole.

« Nessuno ti ha insegnato che è reato violare la proprietà privata? Morirai, yankee, e questa sarà una lezione che ti sarai meritato.»

Non so perché a quel punto dissi quello che dissi, ma mi salvò la vita, ne sono certo.

« Huic ergo parce, Deus. Pie Jesu Domine, dona eis requiem.» recitai, ripetendo a memoria la formula che tante volte avevo sentito ai funerali della comunità irlandese e di cui, una volta, preso da curiosità, mi ero fatto spiegare il significato dal curato, padre Connor.

« Cosa?» chiese lo sconosciuto – evidentemente il Padrone tanto temuto, forse a ragione, dai miei temporanei compaesani - non aspettandosi una simile risposta.

« E' la frase successiva del requiem, quella che tu non hai recitato.» risposi incerto « Vuol dire, credo, che per quanto un uomo possa sbagliare, e per quanto l'ira di Dio possa essere terribile e spaventosa, Egli perdona sempre» e conclusi « Perchè non hai recitato questa strofa?»

L'altro abbassò il fucile e quando parlò il suo tono era basso e pensoso: « Dio, nella sua perfezione, perdona sempre chiunque, da parte mia ho ancora molta pratica da fare»

Si zittì di nuovo, meditando.

« Vattene, yankee, pe quest'oggi, di fronte a Dio, mi sarò comportato da buon cristiano.»

Non me lo feci ripetere due volte e fuggii senza voltarmi indietro con tutta la velocità che mi permetteva la mia gamba zoppa.

Tornato alla clinica, scosso, col fiatone e dolori lancinanti su tutta la parte destra inferiore del corpo, nessuno fece domande riguardo al mio ritardo, ma Mercedes scosse il capo come si fa con i monelli troppo vivaci che non vogliono redimersi. Da parte mia, d'altro canto, non ero ansioso di rispondere a domande e fui felice di isolarmi nella solitudine della mia camera, dove caddi quasi immediatamente in un sonno agitato. Quella notte i sogni furono fonte di tormento e di messaggi inesplicabili: mi trovavo a correre sulla gigantesca tastiera di un pianoforte mentre due enormi mani calavano su di essa minacciando di schiacciarmi ogni volta, eppure, pur nel pericolo, capivo di non aver mai udito musica più bella. Poi fui di nuovo soldato sul campo di battaglia, nel dannato assedio di Petersburg, solo che, questa volta, invece che essere centrato marginalmente dall'esplosione di una granata, venivo atterrato da un colpo di fucile in pieno petto. Con la lentezza che è propria dei sogni toccavo con due dita la chiazza scura che si allargava sulla giubba blu della divisa e puntavo lo sguardo nella direzione dove pensavo fosse partito il colpo, volevo vedere l'uomo che mi aveva ucciso, prima di morire, e il mio sguardo venne inchiodato da una figura ombrosa e vaga, il fucile ancora puntato contro di me e occhi grigi e scintillanti, occhi da predatore, che mi fissavano con odio. E desiderio.

E all'improvviso non avevo più un arma all'altezza del petto, ma calde labbra da premere contro le mie, avide, esigenti, e mani che mi afferravano come per non lasciarmi mai più. Questa fu l'ultima delle visioni che ebbi quando, all'alba, il canto del gallo ruppe il mio fragile sonno.

Mi svegliai di malavoglia, con la sensazione di stare smaltendo una sbornia: la testa pulsava, all'altezza degli occhi, e la gamba destra, dal ginocchio in giù era un blocco rigido e gonfio di dolore. Credo di aver pianto dal dolore provando a muoverla ma non ne sono sicuro; frammenti dei mie sogni notturni ancora mi aleggiavano nella mente, e come ho detto, non mi sentivo molto lucido. Fu forse per questo che, quando Mercedes entrò per la sua solita visita mattutina, borbottando chissà cosa riguardo alle condizioni della mia gamba, le rivolsi la domanda così, a bruciapelo senza girarci attorno.

« Chi è il giovane che vive nella villa abbandonata?»

Lei si irrigidì a queste parole, stringendo di riflesso le dita attorno alla mia gamba, facendomi ringhiare dal dolore. Questo sembrò riscuoterla.

«Scusatemi» disse « E' meglio che stiate lontano da quell'uomo, signor Anderson. La sua anima è nera come la mia pelle.»

C'era paura nella sua voce, ammonimento. Ma la mia curiosità era grande e il dolore aveva peggiorato il mio umore già teso. Fui duro con lei, e ora me ne vergogno.

« Non voglio una lezione di catechismo, Mercedes, voglio solo sapere chi è! Non mi sembra una richiesta impossibile!»

Così le dissi, forse urlai, non ricordo. Lei indietreggiò per un attimo, fissandomi come se non mi riconoscesse, poi crollò pesantemente sulla sedia accanto al letto, sospirando, e iniziò a raccontare.

La sua memoria era buona, e tornava indietro anche a grande distanza, senza perdersi. Raccontò molte cose, Wes, troppe per essere scritte in una sola lettera e molte neanche le ricordo bene, non avendo ascoltato che quello che mi interessava sentire. Ti farò un breve riassunto di ciò che è importante. Il ragazzo che ha minacciato di uccidermi è il figlio di Bartholomew Smythe e Margaery Allenby. Sì, hai letto bene, Allenby come il villaggio: è stata la famiglia della madre a fondarlo, un secolo prima della Guerra d'Indipendenza. Gli Smythe, famiglia ugualmente antica, proveniva da più ad est, ma ha fatto presto a legare con li precedenti padroni fino a fondersi con loro.

Bartholomew era un uomo duro, austero, governava il villaggio alla stregua di un signore feudale, senza polizia, sceriffi o quant'altro, e i cittadini, ai suoi occhi, erano poco meglio dei suoi cento schiavi neri. Quando morì, nel 1861, raggiungendo la moglie morta dieci anni prima, di un colpo al cuore fulminante, tutto il villaggio andò al funerale ma nessuno lo pianse, nemmeno il figlio.

Sebastian.

Mercedes ebbe un brivido, nominandolo. Lui era diverso dal padre, c'era in lui una raffinatezza estranea al rude colono, per quanto ricco, che essenzialmente era il suo genitore.

« Ma non meno duro!» si affrettò a dirmi l'infermiera.

Infatti, raccontava, allo scoppio della guerra lui fu uno dei pochi, anche tra i proprietari terrieri, a parteggiare per la causa confederata e lo dimostrò ampiamente fucilando personalmente tre neri, una famiglia, che aveva provato a fuggire dalla piantagione, per poi appenderli ad un albero vicino alle baracche dei braccianti, come monito. A quanto pare, però, il progressivo declino dei confederati ebbe in lui un effetto particolare: licenziò i custodi, smise di sorvegliare gli schiavi - che fuggirono in massa - e si ritirò sempre più nella villa di famiglia, senza uscirne nemmeno per andare a messa. Chiuse le imposte, coprì i mobili più preziosi e rimase da solo, con i suoi spettri e qualcosa di rotto dentro. Gli abitanti ancora lo temono, perché il suo carattere si è fatto sempre più teso, venato di crudeltà: un ladro, venuto da chissà dove, introdottosi nella dimora credendola abbandonata, fu trovato il giorno dopo morto - a sentirmi raccontare questa cosa, devo essere sincero, non potei trattenere un tremito.

Ti risparmio altre stravaganze e cattiverie, Wes, me ne ha raccontato parecchie, molte sicuro frutto di fantasia.

Per ultimo volevo ragionare con te su come sia significativo il fatto che i paesani continuino a prendersi cura di lui: ogni giorno, una donna a turno va fino alla porta bianca e scrostata della villa per portare via gli abiti sporchi, lasciare sull'uscio quelli puliti e ogni mattina e ogni sera lascia un cesto di cibo e bevande. E senza il benché minimo compenso. Impressionante.

Mercedes si allontanò senza aggiungere altro, lasciandomi solo con i miei pensieri.

Quel giorno non potei uscire, le condizioni della gamba non lo permettevano, per cui il tempo passò lentissimo, prigioniero della clinica e di lunghe ore aggiuntive di riabilitazione.

Nonostante il dolore fui calmo e remissivo, tanto da guadagnarmi i complimenti del dottor Schuester per la mia capacità di resistenza. In realtà sarebbe più corretto dire che ero apatico. La mia mente era lontana, persa a inseguire le parole della mia onnipresente infermiera, e io stesso non sapevo che cosa cercassi in esse, se non forse l'immagine ricorrente di due occhi nel buio e il lontano eco di una musica desolata e rabbiosa.

Accolsi la sera e il buio come una liberazione, convinto di poter trovare nel sonno un rifugio dalle tribolazioni della veglia e forse la mia volontà ebbe un qualche peso perché in pochi secondi caddi in un profondo sonno senza sogni.

Mi svegliai all'improvviso e perfettamente lucido nel cuore della notte, un numero imprecisato di ore dopo. A svegliarmi era stato un vecchio e fidato amico: l'istinto di sopravvivenza, affinato da tre anni di vita militare, lunghe ore di guardia, appostato nel fango all'alba o sotto la volta stellata, in attesa del minimo segno del nemico, un movimento, un passo mal coperto, un sospiro, o fissando il cielo, le orecchie tese ad udire i primi bassi fischi, segno dell'inizio di un bombardamento.

Quello stesso istinto, mi diceva che in quel momento non ero solo nella stanza. La mano si mosse istintivamente ad afferrare la pistola sempre carica accanto al letto, per ricordarsi troppo tardi che quei tempi erano finiti, che ero disarmato, invalido, contro un nemico ignoto. Ebbi paura.

«Blaine Anderson. Dunque è questo il tuo nome, yankee?»

Un'ombra più scura delle altre si staccò dal fondo della stanza, prendendo la forma alta e longilinea di un giovane elegantemente vestito.

« Sergente dell'Armata del Potomac, quinto corpo, terzo reggimento. E' l'armata di Grant, vero? E' a lui che Lee si è arreso»

Si avvicinò ancora al letto, mentre io lo fissavo imbambolato, incapace di articolare una risposta.

Erano i suoi occhi, grigi e luminosi nel buio, in un modo che credevo impossibile, ad ipnotizzarmi, come un topolino sotto lo sguardo di una serpe.

«Militare, dunque, e per di più sergente, anche se un soldato storpio è utile come un cane da guardia sdentato.»

Si fermò ai piedi del letto le braccia mollemente conserte. Il buio era fitto e la fioca luce della luna penetrava appena attraverso le imposte ma potevo indovinare sul suo volto la linea di un sorriso sardonico. Trovai la forza di articolare le labbra e il respiro in una replica.

«Smythe! Che ci fate voi qui? Come sapete chi sono? Chi vi ha parlato di me?»

Le parole suonarono fioche e patetiche alle mie stesse orecchie. Il sorriso si allargò in un ghigno.

«Ma guarda, qualcuno ti ha parlato di me. Come ho saputo il tuo nome? Come tu hai saputo il mio, ho fatto domande e la paura – insieme a una manciata di monete - possono aprire porte ben più robuste di quelle di una camera d'ospedale.»

Con un unico movimento fluido, il ragazzo si sedette sul materasso, passando distrattamente le lunghe dita affusolate sul lenzuolo bianco.

«Che cosa volete da me, Smythe? Siete venuto a completare l'opera che ieri avete lasciato incompiuta?» dissi e per tutta risposta lui rise di gusto.

Per un attimo mi chiesi perché nessuno arrivasse, attirato dalle voci e dal rumore, poi mi resi conto di quanto questo pensiero fosse stupido: il mio interlocutore aveva certamente preso le sue precauzione per presentarsi accanto a me con tanta tranquillità. Se anche qualcuno avesse sentito, di certo non sarebbe accorso a salvarmi.

«L'ultima volta che un uomo ha provato ad introdursi nella mia proprietà senza permesso» aveva intanto ripreso Smythe dopo essersi ripreso «non è più tornato a casa. Forse te ne hanno parlato>>

Totalmente inebetito annuii senza fiatare, lottando per impedire al tremito delle mani di farsi evidente. Ero terrorizzato.

«Secondo te perché non hai fatto la stessa fine, yankee? >> la domanda mi spiazzò, cercai di riordinare le idee per formulare un pensiero coerente ma un “Non lo so” balbettato a mezza voce fu il meglio che mi riuscì.

Il mio ospite il mio aguzzino rise ancora,

«Andiamo, yankee, non dirmi che non ci hai pensato nemmeno una volta, perché non ci credo. Non hai mai alzato gli occhi al cielo nemmeno una volta per rendere grazie al Creatore della mia misericordia? Saresti morto, yankee, ma io ti ho graziato. Per un'unica e semplice ragione.» si sporse in avanti allungando il suo corpo contro il mio, sfiorandomi attraverso la sottile protezione della coperta da ospedale, in un modo che mi eccitò scandalizzò terribilmente. Lui se ne accorse e qualcosa di indecifrabile si mosse dietro agli occhi grigi e canzonatori. Il suo petto era contro il mio e sentivo il suo cuore – allora ne aveva uno - battere contro la cassa toracica, calmo e regolare, così diverso dall'incessante rullo che sentivo dentro di me, le sue labbra a pochi centimetri dal mio viso. Sentii caldo. Non era la paura che mi faceva scorrere con più forza il sangue nelle vene

«Mi affascini, Anderson. Solo per questo sei vivo. Mi hai sorpreso. Sei diverso dai villici con cui ho a che fare di solito, sei fatto di materia più... fine» le sue mani si mossero ancora, delicate, sul mio corpo, e la sua bocca disegnò un unico bacio sul mio collo.

Ero in estasi. L'illusione durò un solo, lungo istante, poi fui di nuovo me stesso. Conscio di quanto stava accadendo, con la mente di nuovo in grado di formulare pensieri coerenti, premetti con forza le mani contro di lui e lo allontanai da me di scatto, come scottato un tizzone ardente, spingendo con entrambe le braccia. Non si aspettava una simile reazione da me, credeva ormai di avermi vinto, per cui cadde rovinosamente a terra, senza nulla dell'eterea grazia che aveva mostrato fino a pochi momenti prima.

Il tonfo sordo del corpo contro il legno del pavimento rimbombò nel silenzio della notte. Se anche l'intrusione della sua camera fosse passata inosservata, questo di certo non lo sarebbe stato. I sorveglianti dovevano aver di certo sentito. Sarebbero venuti, mi dicevo, per lo meno a controllare lo stato di un paziente. Ovviamente mi stavo ingannando e in fondo lo sapevo, infatti non arrivò nessuno.

Mi preparai, per quanto mi era possibile, ad affrontare un attacco; non mi aspettavo, infatti, nessun'altra reazione da chi mi era stato dipinto a tinte così fosche e macabre.

Ma sbagliavo anche in quello: Smythe scoppiò a ridere. Proprio così, ancora semisdraiato a terra, le spalle tremavano di una risata bassa e sinceramente divertita, che continuò ancora anche dopo che si fu riordinato e rimesso in piedi. Pensai che fosse impazzito.

«Bene, bene, bene. D'accordo, ho esagerato. Faremo come vuoi tu.» disse e si sedette di nuovo sul letto, questa volta composto e a debita distanza, come un tale che vada a visitare un caro infermo.

« Posso farti una domanda, yankee?»

«Blaine.»

«Come scusa?» mi chiese inarcando il sopracciglio, in modo assolutamente affascinante.

«E' il mio nome, chiamami con il mio nome, o Anderson, se preferisci, non m'importa, basta che non mi chiami yankee. A te farebbe piacere sentirti chiamare dixie?»

Per un lungo istante mi guardo come soppesandomi, poi il suo sorriso si allargò e.. mutò, per così dire, non più un ghigno lupesco da predatore, ma un sorriso franco da pari a pari.

«Molto bene. Posso farti una domanda, Anderson?»

« Sentiamo.» gli dissi.

« Credi alle cose che ti hanno detto sul mio conto?»

Mi spiazzò, non era certo quello che mi aspettavo. Si, ci credevo, ma mi sembrava poco saggio farglielo sapere. Ma non sono bravo a mentire, lo sai. Dopo alcuni patetici tentativi mi zittì con un cenno.

« Proprio come pensavo.» disse con una sfumatura strana nella voce. Rassegnazione?

«Vorrà dire che adesso mi toccherà rimediare.» e allora si lanciò in un lunghissimo monologo, senza che io avessi il coraggio di interromperlo.

Temevo la sua possibile reazione e nello stesso tempo ero assolutamente rapito dal racconto: la notte invecchiava mentre lui mi parlava della sua infanzia, della madre, aristocratica e raffinata, così simile a lui e che la morte aveva rapito troppo presto, del padre, presenza scomoda e ingombrante fino alla fine dei suoi giorni, diverso da lui come il giorno dalla notte.

«Un uomo pratico, con i piedi per terra e saldi principi morali, senza tanti grilli per la testa, dicevano gli altri. Io invece vedevo una persona gretta e superficiale, materialista e avara a livelli quasi maniacali, un animo povero e semplice, abborracciato, incapace di elevarsi oltre alla semplice realtà della piantagione, delle giornate di caccia con amici della stessa risma, delle serate passate a tracannare bourbon rivangando vecchi episodi degni di nota, incapace di elevarsi all'arte, alla bellezza dell'espressione, alla musica, figurarsi parlare con lui di poesia, di letteratura, di Shakespeare e di Milton. Baggianate, se non peggio. Mia madre, che Dio abbia in gloria la sua anima, lo sapeva e mi salvò, mi impedì di diventare come lui. Rabbrividisco al solo pensiero.»

Questo, che cerco di riportare a memoria il più fedelmente possibile è uno stralcio dei suoi discorsi, per darti un'idea del loro tenore. Ad ogni modo non si rammaricò molto “quando il vecchio tirò le cuoia per ritirarsi in qualche anfratto del ben meritato Inferno”.

Mi parlò, inoltre di come, superata l'infanzia, prendesse progressivamente coscienza della sua omosessualità.

« Il primo bacio lo diedi ad uno stalliere, avevo quindici anni. Si chiamava Tom, me lo ricordo ancora. Aveva la mia stessa età. Com'era spaventato, la prima volta, ma di certo non mi sono dovuto scusare.» mi lanciò un'occhiata eloquente, dopo questo commento.

L'alba era ormai prossima e il cielo all'orizzonte, pur ancora scuro, cominciava a sfumare nel grigiazzurro nebuloso che precede il sole, quando alla fine il mio ospite tacque. Sembrava spossato e anche un po' sorpreso dalla piega imprevista che aveva preso la sua visita.

«Ecco fatto. Non so perché ti ho detto tutto questo, Anderson. Forse alla fine mi stai più simpatico di quanto credessi.»

«E' la mia faccia da bravo ragazzo che ispira fiducia, me lo dicono sempre.» le mie prime parole dopo molto tempo.

Lui scosse la testa e si alzò stiracchiandosi voluttuosamente come un gatto, dandomi modo di apprezzare la curva armonica della sua schiena e l'eleganza affusolata delle sue braccia e delle lunghe dita da pianista. Si voltò ancora una volta verso di me, guardandomi intensamente, inchiodando i miei occhi ai suoi.

« Buona giornata. Confido che parleremo ancora.»

« Spero che possa succedere presto.»

Non potei che sorprendermi io stesso della risposta. Con un ultimo cenno del capo sull'uscio, Sebastian uscì, silenzioso e furtivo come uno spettro, lasciandomi solo con la mente persa in un vorticare di pensieri discordi e inarticolati.

Come potrai immaginare, non chiusi più occhio e quando, a mattina ormai inoltrata, Mercedes entrò a portarmi la colazione e a controllare lo stato della mia gamba, mi sentivo sbattuto come un tappeto.

Come c'era da aspettarsi, nessuno fece allusione alcuna a quanto accaduto nella notte, né Mercedes, che per tutto il tempo si mostrò insolitamente taciturna, né il dottor Schuester, che, durante le sedute di riabilitazione si limitò a congratularsi per i miei progressi, raccomandandomi di trascorrere più tempo possibile all'aria aperta. Queste ultime parole suonarono come campane a festa nelle mie orecchie.

Appena riuscii a sottrarmi alle braccia degli infermieri, uscii, impiegando il resto della giornata a passeggiare e parlando qua e là con la gente del posto, riservata, all'inizio, ma cordiale e di buon cuore, riposandomi di tanto in tanto su una panca accanto ad un'abitazione, o sui prati ai limiti del paese, finché il freddo della sera incombente non mi costrinse a rientrare.

Ebbi, così, molto tempo per pensare al mio ultimo singolare incontro, ma senza veri progressi. Davvero, non ero in grado di giudicare Sebastian Smythe, persona dalle molte sfaccettature.

In teoria lui incarnava tutto ciò che avevo combattuto in tanti duri anni di guerra: era uno schiavista, un membro dell'aristocrazia più tradizionalista, che era stata uno dei principali promotori del conflitto. Io credevo nella libertà di ciascun individuo, nella democrazia; lui riteneva che il suo semplice sangue lo rendesse superiore non solo ai neri ma anche a molti bianchi. Era, inoltre, una persona di provata durezza, che non aveva esitato ad usare la violenza quando gli aveva fatto comodo.

Ma c'era dell'altro oltre a questo, sotto e accanto a questo: un animo profondamente sensibile, raffinato, una mente brillante e interessata, modi gentili e garbati, una fresca vivacità che lo faceva sorridere.

Era il nemico, ma come persona non poteva non piacermi.

Riflessioni, riflessioni, per stasera vi lascio, sto crollando di sonno. Ci lasciamo qui, per ora, caro Wes. Non mancherò di riportarti qualsiasi tipo di novità.

Grazie di cuore per la tua comprensione. Come sempre, sei il miglior amico che potrei desiderare. Ti auguro ogni bene.

In fede,

 

Blaine Anderson
 

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Eccoci qua!!! Scusate ma le feste e la conseguente giravolta di ravioli, insalata russa e quant'altro mi hanno impedito di pubblicare Lunedì! Pubblico dunque oggi, sperando che nessuno mi abbia maledetto o cose simili.... Come avrete notato questa lettera è molto più lunga delle altre e c'è molta più sostanza XD prendetelo come un regalo di Natale anticipato.... Ammetto che non è stato facile immedesimarsi nei protagonisti, ma in definitiva mi sono divertito a scrivere tutta questa parte. Spero vi piaccia, commenti e consigli sono sempre ben accetti :)
Un ringraziamento speciale va a M che oggi mi ha salvato la giornata e come sempre a K visto che questa ff è nata per lei :)
R

 

                           _____________________________ ajihfisfh

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


 

Trickle of Ink

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute, a Eleonor Eventree,

S. Clark Street, Chicago.

 

Allenby, Pennsylvania 18 Aprile 1865

 

Cara Eleonor,

devo essere sincero, mi ha sorpreso ricevere una tua lettera, qui alla clinica, e mi ha dato davvero una strana sensazione. Non fraintendermi, mi ha fatto molto piacere che ti sia interessata alle mie condizioni di salute e abbia scavalcato Wes - poverino chissà come ci rimarrà, gli piace avere sempre tutto sotto controllo! Ahaha - per chiedere direttamente a me. Intanto ti confermo che sto bene e sono in via di rapida guarigione. Il dottore pensa sia una sorta di miracolo della scienza, io semplicemente lo attribuisco alla fortuna e alla fibra forte di soldato che mi sono dovuto fare che tutti noi ci siamo dovuti fare. Ma ora basta brutti pensieri! Quel che importa è che ormai non zoppico quasi più e per il matrimonio non avrò nemmeno bisogno del bastone da passeggio. A proposito, grazie per l'invito, è davvero molto grazioso, Maggio è davvero un bel periodo per sposarsi, caldo, verde e rigoglioso, ma non ancora avvolto dal caldo afoso dell'Estate. 18 Maggio. Non mancherò.

Ma stavo dicendo altro prima. Vedi, noi non ci siamo mai visti, ti conosco solo attraverso le parole di Wes, che ogni sera, l'unico momento in cui potevamo essere leggermente più rilassati, spargeva le tue lodi a chiunque nella compagnia fosse disposto ad ascoltarlo, specie quando esagerava un po' col cattivo whiskey che ci rifilavano. Non voglio dire che parlasse di te solo da ubriaco, però in quei casi scioglieva il muro di riserbo che normalmente lo avvolge per parlare davvero col cuore in mano. Noi, rudi soldatacci insensibili, lo canzonavamo, be’ non molto, comunque, e sempre col sorriso, perché erano davvero belle parole, parole d'amore, senz'altro, che chiamavano altre cose, una vita tranquilla, in pace, lontana dalla guerra e dalla sofferenza, dei figli, piacendo a Dio, una vita passata a cercare di rendere felici i propri cari.

Questo pensiero gli dava molta forza, specie quando le notti erano più buie, la pioggia più fredda, o l'aria più riarsa dal sole o quando, dopo uno scontro, pochi tornavano a contare i volti familiari e dava forza anche a noi, ci dava la speranza che anche noi, in pace, avremmo potuto essere come lui.

Sempre, ogni volta che mi parlava di te, Wes diceva di essere un uomo fortunato, che non aveva mai conosciuto una ragazza così dolce, buona, così sinceramente innamorata, capace di risollevarlo col semplice ricordo del suo sorriso. E allora vorrei dirti che anche tu sei fortunata, perché non troverai mai un altro uomo così innamorato e devoto, così empatico, carismatico, capace di fondere assieme persone e personalità diversissime. Un uomo risoluto ma gentile, che farebbe qualsiasi cosa in suo potere per renderti felice, per darti la vita che pensa tu possa meritare. Spero che possa essere per te la roccia incrollabile che è stata per me e per tutti i ragazzi del plotone.

Vi auguro ogni bene e, se le parole di un uomo hanno un qualche potere, che tutti i vostri sogni possano realizzarci.

Non vedo l'ora che giunga la data del matrimonio per poterti finalmente parlare di persona.

In fede,

 

Blaine Anderson 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


 

Trickle of Ink

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute

Allenby, Pennsylvania 18 Aprile 1865

 

Caro Wes,

sono davvero felice di saperti vivo e vegeto, come sempre. Certo, presidiare e sorvegliare Richmond non deve essere esaltante, ma di certo è molto più sicuro che caricare una formazione di moschetti e bocche di cannone come succede ancora in Texas. Chissà quando capiranno, quei bovari, che la guerra è finita. Io sto bene. Mi riprendo in fretta e t'informo che per il matrimonio sarà arzillo come un grillo! Niente bastone ricurvo a sostenere uno storpio Blaine Anderson.

Ti informo, inoltre, che ho ricevuto dalla tua amata l'invito ufficiale al matrimonio e non ho mancato di innalzare le tue lodi cosicché si illuda ancora un po' di star sposando una persona coscienziosa e non un pendaglio da forca quale sei.

Scherzo dai, non ti arrabbiare. Io… mi annoio a morte, qua non succede nulla di interessante e passo le giornate a leggere e fare riabilitazione. Passeggio molto, ormai sono diventato parte del paesaggio. Vorrei poterti raccontare qualcosa di più interessante, ma la mia attuale vita non permette, a quanto pare, eccitanti confidenze.

Non vedo l'ora di poterti riabbracciare. Riguardati e saluta gli altri da parte mia.

Con affetto,

 

Blaine Anderson
 

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Scusate ho di nuovo saltato la pubblicazione ma le feste e lo studio mi hanno tenuto ben lontano dal computer...... Questa volta per cercare di farmi u pochino perdonare ho pubblicato due capitoli di seguito! Buona lettura :)

 


 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


  

Trickle of Ink

Blaine Anderson, degente presso Provvidence Institute,

Allenby, Pennsylvania 19 Aprile 1865

Caro Wes ,                                                                                                                             

Questa giornata ha avuto davvero risvolti inaspettati: la mattina si è svolta con la solita routine, anzi, Mercedes, più allegra del solito, mi ha dato un buffetto sulla guancia e dandomi da mangiare si è messa a raccontare di come sua nonna le preparava le frittelle quando era bambina. Interessante, a suo modo. Anche il dottor Schuester sembrava essere ritornato quello di sempre e durante i miei esercizi quotidiani siamo riusciti a parlare di piacevoli futilità.

Ma non è di questo che voglio parlarti, non qui almeno, su queste carte che custodirò gelosamente nell’attesa di potertele consegnare.

E' accaduto tutto nel pomeriggio, quando sono uscito dalla clinica per fare due passi. Era davvero una bella giornata oggi, quasi estiva, nemmeno una nuvola macchiava il cielo e il sole, caldo e rinfrancante, sembrava rendere tutto più bello e invitante, con la sua luce e il suo tepore. Ero felice, molto, mi sentivo in pace con me stesso e con il mondo circostante, ero portato a vedere con più chiarezza le cose positive che mi circondavano, la nipotina che aiuta il nonno a camminare, diretto alla chiesa, il bambino che porta la spesa alla mamma, mentre vanno assieme all'emporio, i verdi prati a pascolo punteggiati di spruzzi colorati di fiori, mossi da un vento leggero. Davvero, non riuscirei mai a descrivere quanto tutto intorno a me, oggi, fosse meraviglioso, chiudevo gli occhi e respirando a fondo sentivo l'odore della primavera riempirmi la testa, profumo di fiori, di animali al pascolo, di legna verde, di dolci appena sfornati, di terra buona e grassa, se ascoltavo potevo udire, lontano, il rumore del vento sui prati, le risate dei ragazzini che giocavano, le chiacchiere, lo scampanellio delle bestie al pascolo. Ma sto divagando, neanche questo è il punto.

La giornata iniziava a volgere alla fine, ma faceva ancora caldo, e io, stanco di camminare, avevo trovato un posto perfetto per riposare: un ampio prato fuori dal villaggio, poco distante dalla magione degli Smythe, che avevo solo per me, tenendosi tutti ben lontani dall'edificio.

Ero lì seduto e, massaggiandomi piano la gamba, più per riflesso che per reale bisogno, osservavo il sole mentre iniziava a scendere all'orizzonte, tingendo di oro il bordo inferiore del cielo, mentre mano a mano comparivano tutte le sfumature della viva fiamma, dall'arancione, al rosso cupo della brace, dando l'impressione che il cielo stesse prendendo fuoco.

Ero talmente preso da questo spettacolo che mi accorsi dell'arrivo di qualcuno solo quando ormai si era seduto accanto a me, un'ombra scura ai limiti della mia visuale. Mi voltai - un po' incuriosito ma anche vagamente infastidito - verso il mio nuovo compagno e non potei trattenere un verso di puro stupore.

Era Sebastian, comodamente seduto con le gambe allungate sull'erba, così vicine alle mie, vestito con i soliti abiti eleganti ma ormai chiaramente desueti, che ormai non potevo che associare alla sua persona, neri, in questo caso, con una candida camicia inamidata con sbuffi sui polsini e sul petto. Chiunque altro sarebbe sembrato buffo, in lui calzavano come una seconda pelle.

«Anche io sono felice di vederti, Anderson.» disse col suo solito sorriso sfrontato.

Io cercai di borbottare un saluto che mi riuscì male, ero imbarazzato e mi sentivo anche un po' in colpa per la mia precedente reazione. Doveva avermi visto da una delle sue finestre, e così aveva deciso di scendere per venire da me.

Ero stupito, Mercedes mi aveva raccontato che dall'inizio della guerra non aveva più lasciato i confini della sua proprietà. Se era così doveva essere qualcosa di molto importante a spingerlo ad uno strappo così vistoso alla sua regola.

Ero forse io?

Ancora adesso, a questo pensiero, il mio cuore perde un battito. Comunque, riordinando le idee cercai di riprendermi.

«Mi fai compagnia, Smythe?» dissi, cercando di mostrare noncuranza «Sto guardando il tramonto.»

Ci voltammo entrambi a fissare l'orizzonte e per un po' nessuno dei due disse nulla.

«Non posso certo biasimarti per essere venuto qui. E' magnifico. Guarda il cielo: il sole si spegne affondando oltre il mondo e morendo restituisce al cielo i suoi colori, in pagliuzze d'oro e in rosso sangue, un ultimo abbagliante trionfo prima di discendere nel buio. E' così che dovrebbe essere la morte per un uomo.»

Il suo tono era ispirato, teso, fui colpito che un uomo apparentemente così superficiale potesse avere simili riflessioni.

«Dimentichi una cosa, Smythe: il sole muore ogni notte, come dici tu, ma ogni giorno all'alba, rinasce per dare di nuovo vita e calore alla terra.»

«Soles occidere et redire possunt; nobis, cum semel occidit brevis lux, nox est una dormienda.» disse.

Parole che non capii.

«Come scusa?» chiesi.

«E' latino. Vuol dire che il sole può sorgere e tramontare quante volte desidera, a noi invece è dato solo un breve giorno prima di una notte eterna.»

Un pensiero che mi riempì di tristezza.

«Io non credo che questa sia la fine dei giochi, penso che ci sia ancora qualcosa in serbo per noi, dopo.»

Lui sorrise, ma questa volta era un sorriso triste.

«Staremo a vedere, quando entrambi saremo morti, chi dei due avrà avuto ragione, Anderson.»

«Blaine.» lo corressi d'istinto, senza pensarci «Chiamami Blaine.»

Si voltò a guardarmi, così intensamente da farmi arrossire, sembrava sorpreso e quasi emozionato.

«E allora tu chiamami Sebastian.»

« Molto bene.»

Per diversi minuti ancora rimanemmo di nuovo in silenzio.

«Non ho mai conosciuto mia madre, non davvero, intendo, è morta di tubercolosi quando io avevo solo due anni. Penso che tu sia stato fortunato. Insomma, hai molti ricordi della tua, molti bei ricordi aggiungerei, lei ti ha cresciuto, ti ha guidato finché ha potuto, ti ha indirizzato verso chi saresti diventato, una parte di lei, si può dire, vive in te, attraverso di te, mia madre, invece, non ha potuto darmi nulla, nemmeno il nome, scelto da mio padre. Dopo che lei è morta sono rimasto solo con lui.»

Un silenzio carico di sottintesi.

«Ho vissuto con lui finché non mi sono arruolato tre anni fa, era tutta la mia famiglia.»

E da lì fu come se una diga si fosse rotta, dietro alle mie labbra: gli raccontai tutto, cose che fino a quel momento avevo detto solo a te - ti prego non volermene -, del rapporto, disastroso con quel porco di con mio padre, di come aveva reagito allo scoprire la mia omosessualità, e di come, quindi ci fossimo lasciati, con la mia mano armata puntata contro la sua gola bianca e flaccida e il puzzo del suo fiato alcolico ad ammorbarmi il respiro. E altre cose ancora, più distanti, più intime, come già aveva fatto lui per me, parlai dei primi passi verso la scoperta della mia natura, le mie paure, i miei tentativi, futili, inutili, sbagliati, di resisterle, delle difficoltà che la mia origine irlandese e cattolica aveva posto alla mia coscienza.

Gli raccontai di te, di voi, di Nick e Jeff, di David, di come voi mi abbiate accettato da subito, senza riserve senza compromessi, di come con voi abbia avuto per la prima volta una famiglia, persone su cui potessi fare affidamento, persone di cui fidarmi senza remore.

Gli dissi di Jeremiah, la mia prima delusione amorosa, la grande rabbia, la tristezza, che avevo provato all'inizio, e la lenta, a volte faticosa, risalita, soprattutto grazie al vostro determinante aiuto.

Io parlavo, parlavo, incapace di fermarmi, non potevo, non volevo. Era come se ci fosse un vuoto, fra noi, un vuoto fatto di misteri, di ignoranza, non sapevamo nulla l'uno dell'altro, fino a due giorni prima non intuivamo nemmeno la reciproca esistenza. Era come se stessimo cercando di recuperare, in così poco tempo, un silenzio tanto lungo. Era stato lui, incredibilmente, a fare il primo passo, era stato lui, la notte precedente, seduto sulla sponda del mio letto d'ospedale. Allora io non avevo parlato, limitandomi ad ascoltare, e ora tutto si ripeteva, ma con ruoli invertiti, io aprivo la valvola dei pensieri e delle riflessioni più recondite e personali, e lui mi guardava senza commentare, ma sapevo che partecipava dei miei stessi sentimenti.

Quando non trovai più niente da dire il sole era ormai tramontato quasi del tutto e la stella della sera aveva fatto la sua apparizione sul cielo cupo della sera. Rabbrividii per il freddo, non mi ero certo aspettato di rimanere fuori tanto a lungo e non avevo portato nemmeno una giacca, e Sebastian mi passò un braccio attorno alle spalle. Un gesto semplice, eppure così intimo, così denso di significati. Sentii caldo al petto, un calore diverso dall'eccitazione che avevo provato quando si era sdraiato sul mio letto e aveva iniziato a provocarmi. Era una sensazione più dolce e nello stesso tempo più forte e più sincera. Non aveva nulla, in sé, di carnale, di volgare. Non so come descriverlo meglio, Wes, sono ancora così confuso. Mi ha fatto stare bene, come non sono mai stato in tutta la mia vita, questo lo so e non posso ignorarlo, non posso fare finta, ormai, che lui non sia niente per me.

Mi sento così sciocco: lo conosco da due giorni e già faccio discorsi simili. Potresti avere mille obiezioni da farmi, soprattutto ricordandoti ciò che già ti avevo detto di lui. Forse avresti ragione tu, ma in realtà non mi importerebbe. Per la prima volta, oggi, ho visto una persona diversa, e questa persona mi è piaciuta.

«Devo andare o mi trasformerò in un cubetto di ghiaccio, e poi Mercedes mi picchierà.»

Una risata, l'ennesima. Mi piace sentirlo ridere.

«Vai allora, non ti metterò certo una catena al collo. Ma vediamoci ancora, domani, sempre questo prato, sempre al tramonto.» mi dice e io non posso che annuire. Ci separiamo, nessun commiato sdolcinato, nessuna frase canzonatoria, nemmeno un abbraccio. Un breve cenno e siamo già lontani, lui nel suo mondo, io nel mio, rimane quel prato deserto, terreno di confine, zona franca in cui possiamo incontrarci, in cui possiamo comprenderci.

Appena sono arrivato alla clinica mi sono preso una bella sgridata da Mercedes e anche un non molto amichevole manrovescio dietro al collo ma quasi non me ne sono accorto, la mia mente era impegnata altrove, era persa in altri , ben lontani.

Guardami come sono ridotto, Wes, sembro una ragazzina al suo primo appuntamento! Sto pure diventando poetico, per carità... Se mi vedessi da fuori riderei, così invece... Va be’, dormo, amico mio, sto davvero crollando. Chissà che la notte non mi porti qualche riflessione.

Se anche tu stai andando a dormire, ti auguro sogni d'oro .

 

Blaine Anderson
 

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Scusate ma il mio computer ieri aveva deciso che non potevo pubblicare -.- .... Cmq ora ecco il nuovo capitolo.... Devo dire che, da maschio etero, non è stato facile scrivere del rapporto tra Blaine e Sebastian, più che altro perché immedesimarsi non è facile affatto... Spero che l'effetto sia riuscito abbastanza bene e vi auguro buona lettura :) 


 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


 

Trickle of Ink

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute

                                                                                                                                                                    Allenby, Pennsylvania 20 Aprile 1865

 

 

Wes,

Le mie puerili illusioni sono crollate miseramente come un castello di carta alla prima folata di vento.

Sto così male che se potessi mi strapperei il cuore dal petto. Ma ho bisogno di parlare con qualcuno, ho bisogno di sfogarmi, ho bisogno di capire come tutto questo possa essere successo.

Ti risparmio il resoconto della mia giornata, monotona e noiosa come tutte le precedenti, per arrivare al cuore del problema, all'incontro con… lui - non riesco neanche a scriverne il nome te ne rendi conto? - , al tramonto, nel prato nei pressi della villa.

Era già lì quando sono arrivato. Aveva preso uno dei teloni che normalmente coprivano i suoi mobili antichi e preziosi e l'aveva disteso sull'erba, un bianco diaframma fra noi e il terreno ancora umido e freddo.

«Ciao.» lo salutai, sorrisi.

«Buonasera, Anderson.» mi risponde, mi fa persino un breve inchino col capo e il busto.

«Ancora questa storia! Ti ho già detto di chiamarmi Blaine.»

«Anderson mi piace di più, ha un suono più importante.»

Sogghigno: «Come mai cerchi di farmi sentire importante?»

«Se non lo facessi saresti irrimediabilmente schiacciato dalla mia personalità e dal peso della mia nobile stirpe.» lo dice ma non è un insulto, bensì una canzonatura, e forse più a sé stesso che a me.

Ho subito la risposta pronta: «L'unica cosa di pesante, qui è il tuo alito, che puzza più delle vecchie reliquie che tieni in casa.»

Continuiamo così ancora per un po' scherzare poi ci quietiamo; iniziamo a fissare il tramonto e mi sembra di vivere una bella replica del giorno precedente.

«Credo di non averti raccontato di come finì con Tom, lo stalliere.»

Sebastian parlò per primo, rompendo il silenzio con una strana voce bassa e roca, quasi dolorante.

«No, non me l'hai mai raccontato >> cercai di ostentare tranquillità ma mi sentivo misteriosamente teso.

«Mio padre ci sorprese, un giorno, nella stalla. Non ci diede nemmeno il tempo di ripulirci dalla paglia.» una risata priva di allegria «Prendemmo tante botte quel giorno,da non sapere più quale fosse il cielo o la terra, quali fossero i nostri nomi. Il padre di Tom fu immediatamente licenziato e spedito chissà dove con non so che lettera di raccomandazione, lui ovviamente lo seguì. Non l'ho più rivisto. Io per un mese dovetti portare il cilicio, per guarire la mia anima dai pensieri impuri.» la voce si caricò di scherno «Fu un'esperienza orribile, di cui porto ancora adesso i segni.» si fece poi improvvisamente serio e di nuovo non parlò.

Io aspettai che raccogliesse le forze per continuare.

«Lo cercai, sai? Senza farlo sapere a mio padre, ovviamente. Per anni. Nessuna mia conoscenza, aggancio, potere vero o presunto, servirono per farmelo ritrovare. Non so nemmeno se sia ancora vivo o morto. Non credevo che mi sarei più potuto legare ad una persona. Non che non ci sia più stato nessuno nella mia vita, anzi, i rampolli di vecchia nobiltà sanno come divertirsi, e non solo loro, ma credevo che non mi sarei mai più potuto affezionare a qualcuno. Fino ad ora, almeno.»

Si voltò verso di me, a guardarmi. Io lo fissavo già da un po', attonito, per la cruda tristezza del racconto e per le implicite rivelazioni di quelle parole. Provai a dire qualcosa ma mi uscì solo un ridicolo balbettio; lui mi precedette.

«Non fraintendermi, Blaine, io non ti amo, lungi da me un simile pensiero! L'amore è un' illusione per fanciulle troppo giovani e zitelle troppo vecchie. No, non intendo camminare sotto quella bandiera logora sotto cui hanno marciato eserciti di infelici, cornuti e sciocchi. Ma mi interessi, e molto anche, sei una persona che non mi giudica per come sono, non mi addita a memento di tutto ciò di negativo che potrei rappresentare, crudeltà, dissolutezza, egoismo, quello che ti pare, ma si limita a prendere atto di come sono e accettarlo, magari iniziando a scavare per vedere quanto ci sia di vero nelle storie degli sciocchi. Mi hai visto, abbiamo parlato. Non sarò privo di difetti, ma non sono nemmeno un demone partorito dall'Inferno. Sono una persona, e come tutte le persone ho i miei bisogni, le mie esigenze.»

Ci fu uno strano guizzo nei suoi occhi che lì per lì non capii, finché non mi afferrò con forza con una mano sulla nuca, spingendomi poi verso di lui, baciandomi con violenza. La sorpresa fu tale che per alcuni secondi non reagii, proprio com'era accaduto in ospedale, poi sussultai e cercai di scrollarmelo di dosso, ma questa volta non era disposto a cedere.

«Basta, Sebastian, smettila! Non voglio, lo sai bene.»

Lui nel frattempo stava provando a sbottonarmi la camicia, mentre io cercavo di tenerlo fermo, questo sembrava divertirlo.

«Ma voglio io, Blaine, dunque che problema c'è?» non ci vidi più. In un attimo, con la forza della furia, mi scostai da lui, e con un pugno ben mirato alla mascella lo ridussi a terra. Provò a protestare, mugolando non so cosa, stordito, ma non lo sentii, ero fuori di me.

« Che problema c'è? Questo è il problema! Ma non ti senti? Lo voglio io, lo voglio, e allora, cosa significa? Solo perché sei tu a volerlo deve andare bene per forza? Perché tu sei più importante, tu sei il Padrone.» scimmiottai il tono di reverendo timore con il quale gli abitanti del villaggio pronunciavano il titolo «Io sono una persona. Cosa credi, di potermi ignorare? Ero stato molto chiaro, mi sembra: non voglio le tue mani addosso, né qualsiasi altra cosa.» mio malgrado alcune, rabbiose, lacrime colarono sulle mie guance «Hai rovinato tutto! Tutto quello di bello che stava nascendo! Mi importava di te, avevo scommesso su di te, ti credevo diverso. Forse lo avrei fatto, sai? Ma non ora! Dio non ci conosciamo nemmeno! Dannata voglia, dannata la tua fottutissima voglia! Addio Sebastian Smythe. Non cercarmi se non vuoi avere il resto di quanto ti spetta.»

Me ne andai.

Non lo avevo nemmeno guardato mentre parlavo, né dopo, ma avevo sempre tenuto la testa bassa. Non volevo che vedesse le mie lacrime. Lui rimase lì. Immobile, furioso e ferito, incapace di reagire. Per quanto ne so è ancora lì. Non importa. Anzi sì, importa, importa eccome, ma devo reggere. Passerà.

Passerà, è così poco che ci conosciamo, sarà facile dimenticarlo.

Spero di non starmi solamente prendendo in giro.

Vorrei morire, Wes, se potessi morirei. Non sai quanto mi manchi in questo momento. Tu avresti sicuramente qualcosa di bello da dire per tirarmi su. Ma non ci sei. Ci sono solo io.

Spero che la notte porti consiglio, o perlomeno un po' di pace.

 

Blaine Anderson
 

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Ormai siamo davvero nel pieno della storia, e del dramma interiore di Blaine, che sembra destinato a essere la vittima prediletta di ogni diabolica mente che arriva a scrivere di lui, provare per credere... Personalmente, a me questo capitolo piace molto (discutendo di altre trame, M ha sbottato esasperata dicendo che sono un amante dell'angst) che dire sarò cattivo nell'animo XD buona lettura XD

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


   

Trickle of Ink

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute

                                                                                                                                                                 Allenby, Pennsylvania 21 Aprile 1865

 
 

 

Wes,                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             
Credo di aver provocato un certo nervosismo in quel Don Giovanni da strapazzo. Gli sta bene visto come ha fatto sentire me, se lo merita  appieno, ma adesso rischia di cacciarsi in guai molto grossi per colpa dei suoi stessi errori. Ma perché mi preoccupo per lui? Non dovrei. Lui non è niente per me, non più. Deve essere così.

Comunque iniziamo da principio: questa mattina, ad Allenby era giorno di mercato, così ne ho approfittato per distrarmi dai dispiaceri della sera scorsa e dal tedio delle giornate sempre uguali in degenza. Chiesi prima il permesso al dottor Schuester, ovviamente, che me lo concesse, essendo io, in gran parte, ormai ristabilito, e, forse, intuendo clinicamente il mio bisogno.

Scesi molto presto in strada. L'alba era spuntata da meno di un'ora, ma la piazza già fremeva di attività e le bancarelle erano gremite di gente assiepata tutt'attorno.

Stavo facendo due passi, così, senza meta, passeggiando qua e là, quando il brusio della folla fu squarciato dal fragore di uno sparo. Proveniente dalla dimora degli Smythe. A differenza di quanto mi aspettavo, nessuno fuggì, nessuno si lasciò prendere dal panico, a tal punto è arrivata l'assuefazione di questa gente al suo dominatore, semplicemente il chiacchiericcio divenne un vago ronzio mentre uomini e donne si gettavano tra loro nervose occhiate.

La risposta a tutti gli interrogativi arrivò pochi secondi dopo nella veste di una donna affannata per la corsa e terrorizzata, che stringeva tra le mani, spasmodicamente, un grosso fagotto avvolto in un lenzuolo. Era in panico. Ci vollero alcuni minuti prima che io e il curato riuscissimo a tranquillizzarla, ma alla fine il suo resoconto fu questo: quel giorno era il suo turno di portare cibo e vivande al Padrone (e ho buone ragioni di scriverlo con la P maiuscola), ritirando gli abiti e la biancheria da lavare. Era appena giunta di fronte all'antica porta bianca e sbrecciata quando sopra di lei aveva udito uno sparo. Il Padrone aveva provato ad ucciderla; temendo per la sua vita era scappata a gambe levate - ma aveva portato con se il fagotto dei vestiti sporchi, vedi a che punto può arrivare l'abitudine all'obbedienza?

Questo è quanto. In realtà non credo che Sebastian volesse davvero far male a quella donna, o ucciderla, se non per sua bontà d'animo, per una constatazione di puro utilitarismo: i servitori sono preziosi, quindi è meglio non perderli, o danneggiarli. Tanto più che un conto è uccidere un ladro, sconosciuto, un forestiero, un altro uccidere una madre di famiglia, con marito, figli e parenti a carico, qualcuno potrebbe provare a vendicarsi.

No, io penso che volesse solo farle paura, così per divertimento, per distrarsi un po' . E' stato stupido, lo so, ma almeno non efferato.

Gli abitanti non hanno accolto bene la cosa: gli uomini si sono radunati in piccoli gruppi, in piazza, bofonchiando tra loro, attorniati da nugoli di donne pigolanti. Spero che non vogliano fare qualche sciocchezza. Tuttavia, ho davvero un brutto presentimento, spero di sbagliarmi. Alcuni di loro mi hanno fissato in modo strano e troppo a lungo. Sanno. Non parlano, logico, ma sanno. Non vorrei che volessero includere anche me, nei loro propositi di vendetta. Che Dio mi protegga.

Ti terrò informato su qualsiasi nuovo sviluppo,

 

Blaine Anderson
 

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Scusate l'ora un po' tarda! Ecco il nuovo capitolo, buona lettura!!!

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


 

Trickle of Ink

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute,

                                                                                                                                                                  Allenby, Pennsylvania 22 Aprile 1865

 

 

Wes,

Non mi ero sbagliato. Avrei voluto essere in errore. Per fortuna, non tutte le mie fosche previsioni si sono avverate.

Nel cuore della notte, tutto il villaggio è stato svegliato da una serie di spari provenire dalla vecchia magione. Per una decina di minuti per me è stato come tornare sul campo di battaglia, sentivo la smania della lotta scorrermi nel sangue, mi sentivo forte, mi sentivo vivo.

Scesi immediatamente dal letto, vestendomi in tutta fretta. Volevo uscire, vedere con i miei occhi quello che stava accadendo, intervenire, se necessario. I miei progetti vennero mandati drasticamente a monte da due robusti infermieri, appostati fuori dalla mia porta. A nulla valsero le parole, le proteste, nemmeno la forza. Minacciarono di legarmi al letto, se non mi fossi dato una calmata; ero disarmato, invalido, niente da fare. Gli spari cessarono e con quelli la speranza di capire prima della mattina cosa fosse successo. Mi coricai di malavoglia e dormii pessimamente, sprofondato in un sonno inquieto.

Al mattino, svegliatomi quando il cielo aveva appena iniziato a rischiararsi, nessuno mi impedì di uscire in strada. E finalmente riuscii a vedere quanto di ciò che avevo pensato si era, infine, avverato: era molto presto ma per le vie c'era già gente e in particolare in piazza era radunata una gran folla, uomini soprattutto, armati e scuri in volto, ma anche un capannello di donne di tutte le età, pallide in volto, tese e preoccupate. Tutti costoro facevano cerchio attorno a due individui dall'aria malconcia, uno poco più che un ragazzo, cui il dottor Schuester stava cambiando i bendaggi

Appresi allora, un po' per essermela fatta raccontare da chi avevo vicino, un po' dai discorsi che carpivo, la dinamica degli eventi: non ricordo affatto i nomi dei due protagonisti della vicenda, so solo che sono padre e figlio. Non è importante, comunque, quello che conta è che, ieri notte hanno provato ad entrare nella villa degli Smythe per dare una lezione al "Padrone", credo che nelle loro intenzioni non dovesse farsi realmente del male, solo qualche brutto livido e un bello spavento, una piccola vendetta per i fatti della mattina.

Le cose erano andate molto diversamente. Te la faccio più breve possibile.

Era stato facile superare il vetusto cancello mezzo divelto, e superare la vecchia porta bianca segnata dal tempo. Non avevano capito, gli idioti, che erano riusciti ad arrivare fin lì solo perché Sebastian aveva deciso di attenderli in cima alle scale che davano sull'atrio, proprio il punto da cui aveva puntato il fucile contro di me, e da lì era molto facile prendere la mira. Se Sebastian avesse voluto ucciderli, sarebbero di certo morti, riempiti di piombo prima ancora di aver il tempo di capire che cosa li aveva colpiti. Ma evidentemente Sebastian era affezionato ai suoi servitori, anche ai più vivaci e si era limitato a scaricare su di loro diversi chili di ottimo sale grosso che aveva bruciato la pelle e l'orgoglio dei sedicenti giustizieri e inseguendoli poi fino ai limiti della sua proprietà ridendo come un forsennato, a detta loro, e incitandoli a correre più forte con parole del tipo "Sollevate più in alto i vostri deretani da bovari ficcanaso". Stolti. Avevano poco di cui lamentarsi e molto da ringraziare: Smythe, a quanto pare, non è così cattivo come vuole far credere, per lo meno con i paesani. Loro però sembravano non capire i rischi appena corsi, parlavano di vendetta, di tornare in molti, con fucili e torce, per distruggere "l'ultimo schifoso monumento a un'era ormai tramontata, allo schiavismo, ai vecchi e mummificati costumi aristocratici, ai nababbi del Sud. Diamo fuoco al vecchio per far risorgere un glorioso futuro anche per la nostra gente!" che meschinità! Tante belle e nobili parole per nascondere istinti così bassi: invidia, desiderio di rivalsa, orgoglio. Immagina per quanti stupidi motivi un uomo può versare il sangue di un suo simile.

I discorsi dei due attecchirono, almeno in alcuni, che se ne andarono borbottando e scuotendo il capo, voltandosi spesso in direzione della vecchia, malridotta villa, con l'aria di chi intende compiere un sacrilegio. Gli altri si limitarono a poche parole per smorzare gli animi e se ne tornarono alle loro attività. Il dottor Schuester, in particolare, si raccomandò di pensarci mille volte prima di combinare qualche pericolosa sciocchezza. Sono sicuro che lanciò anche un'occhiata a me.

Per parte mia, ho cercato di allontanarmi senza dare troppo nell'occhio e ho trovato un posticino tranquillo, un prato ai limiti del villaggio, sì, hai capito bene, proprio quel prato, per accogliere il primo sole del mattino. Spero che mi schiarisca le idee, illuminando il mio animo e i miei pensieri.

Eh si, amico mio, sono roso da una bestia assai pericolosa: il tarlo dell'indecisione.

Ti spiego: ho un debito di vita nei confronti di Sebastian Smythe, avrebbe potuto uccidermi, non l'ha fatto, mi ha lasciato andare via sulle mie gambe, mi ha graziato. Non posso dimenticarlo, nonostante si sia comportato con me in modo più che vergognoso.

Ora so che qualcuno vuole fargli del male, male sul serio, e sento che è mio dovere avvertirlo, perlomeno metterlo in guardia contro un simile pericolo. Nessun altro, però, lo aiuterà, la gente lo teme, non lo ama di certo. Che posso fare, Wes? Oh non sai quanto vorrei averti veramente qui, accanto a me. Tu avresti senz'altro una risposta, una saggia, sensata risposta. Invece sono solo, e solo dovrò arrivare ad una conclusione.

Prega per me, amico mio, perché ne avrò bisogno.

Blaine Anderson

 

Postilla alla lettera del 22 Aprile 1865:

 

Basta, ho rotto ogni indugio. Sarà anche una persona deplorevole, a volte, ma è una persona e ha dimostrato sentimenti sinceri e profondi sotto una superficie arrogante e materialista. Vado ad avvisarlo, mi farò ascoltare, in qualche modo. Non merita l'orribile morte che vogliono riservargli.

Affrontarlo non mi riempie certo di gioia ma lo farò comunque. Per lui, perché non può non valere nulla per me. Se anche proverà di nuovo a posarmi addosso le sue dita lunghe e affusolate non si risparmierà un altro dei miei pugni.

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Ecco qua! Scusate l'ora tarda ma gli esami mi stanno uccidendo X__X.... Allora che ve ne pare?  Sebastian è piuttosto cattivello ma i due sfortunati se la sono un po' andata a cercare... E Blaine proprio non può fare a meno di fare il Lady Oscar della situazione... Vediamo la faccia che fa Seb quando se lo vede dalla porta XD Ditemi cosa ne pensate, a presto!!

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


    

Trickle of Ink

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute                                                                                                                                

                                                          Allenby, Pennsylvania 22 Aprile 1865

                                                                                                                        

Caro Wes,

La situazione mi è leggermente sfuggita di mano.

In che senso? Lo vedrai tra poco.

Torniamo per un attimo alla giornata di ieri e ai suoi fatti: avevo deciso di avvisare Sebastian del grave pericolo che correva e il miglior modo per farlo era introdursi nella villa nottetempo. Lo ritenevo il sistema di gran lunga più sicuro, temevo, infatti, che ,se avessi provato ad andare da lui di giorno, qualcuno avrebbe provato a fermarmi, o magari, riconoscendomi come il forestiero che aveva frequentato negli ultimi tempi, riservarmi una sorte ben peggiore. Per cui si trattava di una missione notturna, con l'ovvio e non trascurabile inconveniente di dover evadere dalla clinica. In realtà quest'ultimo punto si dimostrò meno impervio del previsto, per fortuna, - buffo vero? - grazie al dottor Schuester. Ti avevo detto di aver fatto progressi da gigante nel recupero della mia gamba ferita, fino al quasi totale, per ora, recupero delle sue funzioni. Non fu quindi così difficile calarsi dalla finestra, sfruttando i facili appigli dati dai molti mattoni sconnessi del vecchio muro.

Nessuno mi notò, la sorveglianza era concentrata all'interno, nei corridoi, non ci si aspettava, in realtà, che un paziente desiderasse fuggire e, nell'eventualità, che riuscisse ad arrampicarsi come una lucertola. O forse fui aiutato nella mia impresa, mi lasciarono andare; qui la gente sa sempre più di quello che dice e di quello che appare e chissà che il dottor Schuester non lo abbia fatto per evitare, come diceva ieri, qualche pericolosa sciocchezza.

Un lato indiscutibilmente positivo di un tipico paese, rispetto ad una grande città come Boston o Chicago, è che la gente di notte dorme, seguendo il regolare corso della natura, invece che andare a zonzo a bere, fare baldoria o cacciarsi nei guai.

Un po' come stavo facendo io.

Nessuno mi vide, nessuno provò a ostacolarmi. Ma arrivato di fronte alla cancellata arrugginita, che mi era divenuta familiare come la facciata della mia vecchia casa, a Boston, un dubbio, e non da poco, balenò nella mia mente: e se non avesse voluto vedermi? Non c'eravamo lasciati certo molto bene e non mi aspettavo da lui un'accoglienza calorosa, ma la sua reazione era stata molto peggiore di quanto non avessi previsto. E se avesse provato a spararmi, appena entrato nel parco? O appena aperta la porta? Di certo con me avrebbe usato pallottole vere, non si sarebbe scomodato a sprecare grani di sale.

Avevo paura. Mi sporsi a dare un'occhiata. Il silenzio era perfetto. Nessuna luce filtrava dalle grandi finestre coperte. Forse stava dormendo. Probabilmente stava dormendo. Dovevo tentare.

Presi il coraggio a quattro mani e feci primi passi avanti. Superai il parco in pochi balzi affrettati e arrivai all'ingresso della villa incolume. Feci per spingere il pesante pomolo ed entrare all'interno, ma esitai.

La porta si spalancò di scatto. Il mio cuore smise di battere. Sebastian era di fronte a me, con indosso una vestaglia da casa di broccato rosso decisamente pacchiana anche per lui, mi guardava e i suoi occhi brillavano di collera. Era disarmato ma non dubitai che potesse farmi a pezzi con la sola forza delle braccia. In quel momento pensai che andare fin là fosse stato un tragico, madornale errore.

«Sebastian…» provai ad iniziare con voce esitante, senza sapere nemmeno io cosa dire.

«Non osare dire nulla, Anderson. Entra dentro e chiudi la porta.» il suo tono era così perentorio che non potei che ubbidire senza fiatare.

«Molto bene.» continuò «Adesso seguimi.»

«Sebastian, io veramente...» provai a ribellarmi.

«Avrai tutto il tempo di mostrarmi le tue ragioni dopo. Adesso sali e non fiatare.»

Sconfitto su tutta la linea.

Mi guidò in cima alle scale da cui era spuntato imbracciando il fucile, la prima volta che ci eravamo visti, e mi ritrovai a domandarmi se fosse un buono o un cattivo auspicio.

Scoprii che non tutta la grande abitazione era in stato di abbandono come avevo pensato all'inizio - e in effetti con il senno di poi mi rendo conto di quanto questa mia teoria fosse ridicola - , ma Sebastian si era ritagliato un piccolo spazio su misura in cui vivere confortevolmente. Mi guidò ,infatti, in un salotto pulito e ordinato ben diverso dagli androni polverosi che avevo visto prima. Qui i mobili non erano protetti dai teloni, ed evidentemente qualcuno teneva la polvere lontana, probabilmente Sebastian stesso. Inoltre mancavano dell'opulenta magnificenza che sembrava dominare il resto della mobilia ma piuttosto a prevalere era un elegante semplicità, non priva di raffinatezza. Un caminetto spento faceva mostra di se sulla parete di fondo di fronte alle finestre rigorosamente coperte da pesanti tende nere. A dominare lo spazio era un pianoforte a coda, nero e lucido, e attraverso una porta aperta intravedevo un'altra stanza, una camera da letto.

Sebastian si accomodò su una poltroncina accanto al camino e mi fece cenno di fare altrettanto. Il suo sguardo non aveva perso nulla della sua ombrosità. Notai per la prima volta, in quel momento, un segno verde e bluastro che, sulla mascella , appena sotto la guancia, deturpava la sua pelle chiara coperta da una barba leggera; il segno lasciato dal mio pugno. Deglutii a vuoto sentendomi profondamente a disagio.

«Avanti su, Anderson, cosa aspetti, cosa devi dirmi? Non ti sparerò, se è questo che ti spaventa, soprattutto se porti con te delle scuse.»

«Scuse?» non potei trattenere l'indignazione e la sorpresa «E' per questo che pensi ch'io sia venuto? Per scusarmi? Sei tu che dovresti porgermi le tue scuse! Sei tu che mi sei saltato addosso come uno stallone in calore…!»

«Fino a prova contraria sono io ad aver preso un pugno in faccia.» commentò caustico Sebastian puntandosi un dito contro il mento per enfatizzare le sue parole «mi sembra che su di te le mie mani si siano comportate in modo molto diverso.»

Arrossii mio malgrado, sentendomi in colpa.

«Comunque avanti cosa sei venuto a dirmi?» la rabbia sembrava sparita da ogni sua fibra, sembrava solo molto stanco.

«Non avresti dovuto sparare a quella donna. Che ti è saltato in testa?» cercai di dare alla mia voce il tono più duro possibile.

Lui fece spallucce: «Volevo divertirmi. Ero molto arrabbiato. Molto, molto arrabbiato. Per colpa tua, ben inteso, e avevo bisogni di distrarmi.»

"Tipico" non potei fare a meno di pensare.

«Non ho mirato a lei, se davvero lo pensi. Non volevo ucciderla, sei forse impazzito? Non mi aveva fatto nulla. Ho sparato in aria e ho riso a crepapelle vedendo come filava via.» il ricordo gli strappo un sorriso sbieco.

Non avevo intenzione di demordere: «E l'uomo e il ragazzo, la scorsa notte?»

Il sorriso scomparve: «E' diverso. Loro sono entrati nella mia proprietà. Nessuno può entrare nella mia proprietà senza permesso.» mi lanciò uno sguardo tagliente che mi fece sentire esposto e vulnerabile « E per di più erano venuti non certo per complimentarsi per l'arredamento. Erano armati, ho agito per difendermi, nient'altro. Avrei potuto ucciderli, ma ormai sono affezionato a questi villici.»

Scossi la testa e mi preparai a dirgli quello per cui ero venuto ad affrontarlo: «Ripeto, hai esagerato. Quello che hai fatto non è passato sotto silenzio. Vogliono venire qui, non so quando. Vogliono portare fucili e torce, vogliono vendicarsi per i tuoi soprusi. Ti tireranno fuori da qui. Ti… faranno del male.» tirare fuori quelle parole fu per me più faticoso di quanto pensassi.

Per tutta risposta lui scoppiò a ridere, più correttamente a sghignazzare, fino alle lacrime. Mi sentivo alquanto piccato e non mancai di farglielo notare. Peggiorai solo la situazione e per poco non cadde dalla sedia da quanto stava ridendo.

Dopo un bel po' di tempo riuscì a riprendersi e a formulare una frase coerente: «Molto divertente, Blaine, davvero, mi hai fatto ridere tanto che potrei anche perdonarti, dopotutto. Com'è che hai detto? Portare torce? Farmi del male?» riprese a ridere.

« Io non li sottovaluterei così, credi forse che non ne sarebbero capaci?» ribattei io, seccamente.

« No!» la sua veemenza mi stupì «Blaine andiamo le pecore non impugnano armi, le pecore non si ribellano ai pastori! Credi davvero che io sia il peggiore padrone che abbiano avuto? Illuso, mio padre era sicuramente peggio di me, figurarsi mio nonno! Non lo faranno, mi temono. E mi amano assieme. Sono abituati ad avere qualcuno sopra di loro, senza sarebbero persi, confusi. Ognuno ha un ruolo da rivestire in questo mondo. Io sono sopra, loro sotto. Non c'è niente di strano o innaturale in questo.» sogghignò «A proposito di sopra e sotto. Oggi potremmo riprendere ciò che abbiamo interrotto così bruscamente l'ultima volta.» fece per alzarsi ma io lo bloccai mettendo una mano avanti.

«No.» dissi ma non dovetti essere molto convincente - non mi sentivo convincente nemmeno per me stesso - perché Sebastian tornò all'attacco.

«Andiamo, non puoi negare che io non rappresenti qualcosa per te, se no non saresti venuto fino qua, col rischio di affrontare la mia giusta collera, solo per avvisarmi di un possibile pericolo.»

Ragionamento impeccabile.

«Sì, è vero. M'importa di te, e molto, per quanto io di fatto non ti conosca.» ammisi, era inutile ormai negare «Però non avresti dovuto...»

Mi interruppe, la voce rotta dalla collera: «Che cosa? Baciarti? Darti piacere? Non mi sembra di averti torturato. Hai detto tu stesso che io sono importante, per te. E inoltre ti dirò di più. Mi vuoi, mi desideri almeno quanto io desidero te, te lo leggo negli occhi ogni volta che mi faccio più vicino, perfino quando mi hai buttato a terra con un pugno, perfino ora.» scosse la testa «Perché vuoi negarlo? Credi che per me sia un gioco? Be’, non lo è . E' qualcosa di molto più serio di quanto tu creda. Nessuno è mai riuscito a farmi provare quello che provo ora per te.» sospirò fissandomi intensamente «Sei contento adesso?»

Ero basito, la mia mente girava a vuoto, non sapevo assolutamente che dire: «Io...»

«Oh, al diavolo!»

Sebastian mi risparmiò una risposta, che sarebbe di certo stata penosa, gettandosi su di me e premendo con forza le sue labbra contro le mie.

Capitolai definitivamente.

La foga del suo slancio fu tale che la mia sedia si ribaltò gettandoci a terra, sdraiati l'uno sull'altro.

Non ci fu più tempo per pensare, per riflettere, ma solo per agire.

Non mi ero accorto davvero di quanto avessi bisogno di lui, di quanto lo volessi, finché non fu sopra di me, le gambe strette ai miei fianchi. Scoprii in quel momento che sotto l'orrida vestaglia non c'era niente se non pelle bianca e calda.

Scoprii anche che non mi dispiaceva.

Potresti pensare che fu solo un'esplosione dei sensi, un bisogno istintivo, da animali, dettato dalle nostre voglie, e dalla lunga astinenza di entrambi. Ma non sarebbe la verità. Era un bisogno, è innegabile, un bisogno forte e tangibile, ma andava ben oltre il semplice contatto dei nostri corpi. Erano le nostre menti, le nostre anime ad avere bisogno, le nostre anime a toccarsi, il contatto dei corpi era solo una conseguenza incidentale, un tentativo disperato di unirci nel modo più completo possibile, volevamo essere vicini. Dovevamo. In queste condizioni, la carne non era meno d'impaccio che i vestiti. Erano i nostri due mondi ora, ad essersi congiunti, senza più bisogno di mediazioni o zone franche, una congiunzione violenta e appassionata che ci lasciò entrambi disorientati quando alla fine riaffiorammo alla superficie della coscienza.

E' l'alba adesso e mentre scrivo queste righe, seduto sulla sedia che aveva subìto per prima la nostra foga, Sebastian ancora dorme, nella camera accanto. Non avevo mai dormito su un letto a baldacchino, figurarsi fare l'amore. Nessuna torcia è venuta a disturbarci, quindi, in fondo, le mie paure dovevano essere mal riposte. Un rumore, alle mie spalle, forse si è svegliato. Si è alle mie spalle, forse già da un po' e mi sta guardando come... come se fosse il caso smettere di scrivere.

Non mancherò di darti altre mie notizie.

 

Blaine Anderson
 

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Eccoci arrivati a quello che è un po' il cuore di questa miniserie.... Per me non è stato facile scriverla, soprattutto entrare nella testa dei protagonisti, capire le paure che Blaine si porta avanti da qualche capitolo, ma ne sono tutto sommato soddisfatto :) spero possa piacere anche a voi. Buona lettura!

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


  

Trickle of Ink

Blaine Anderson, degente presso Providence Institute,

Allenby, Pennsylvania 2 Maggio 1865

 


 


Libertà Wes, agognata libertà!

Oggi è stato il mio ultimo giorno alla clinica. Ne esco completamente ristabilito e pronto a riprendere da capo le fila della mia vita. C'è stata un po' di festa per la mia partenza. E dire addio a persone che per così tanto tempo - quarantasette giorni! - sono state il mio solo mondo, devo essere sincero mi ha profondamente commosso. Il dottor Schuester era nella mia stessa identica condizione e piangeva senza ritegno, per la tristezza della mia partenza e la gioia di vedermi completamente ristabilito, e potrei giurare di aver visto Mercedes asciugare di nascosto una lacrima.

La mia meta, naturalmente, era la stazione. Un'ora. Ancora un'ora e sarebbe arrivato il treno per Washington. Tranquillo, Wes, non mi sono dimenticato del tuo matrimonio, ma ho voglia di viaggiare, ora che finalmente posso dire di essere il solo e vero padrone della mia vita, e poi, come ti ho detto, non voglio abusare della tua ospitalità piombandoti in casa con così largo anticipo rispetto al matrimonio.

A proposito di ospitalità, avevo ancora una destinazione, prima di mettermi in attesa di fronte ai binari.

Sì, Wes, hai proprio indovinato.

I miei passi mi guidarono quasi meccanicamente di fronte alle sbarre grigie e punteggiate di ruggine che segnavano il limite della proprietà degli Smythe.

Molte cose sono cambiate da quando ho messo piede in questo villaggio, come hai potuto constatare, e molte ancora dalla mia ultima lettera e il fulcro, la fonte di tutti questi cambiamenti è una sola persona: Sebastian Smythe.

Questi ultimi dieci giorni sono stati davvero intensi, per noi, e non solo per quello che puoi pensare tu, quello c'è stato ovviamente, e si può dire che ci siamo dimostrati alquanto vivaci, ma ridurre tutto a quello sarebbe un'orribile volgarizzazione. Ci siamo compresi. Ci siamo capiti...

Non riesco a spiegarlo meglio di così.

Questi dieci giorni per noi sono state una fonte inesauribile di scoperte reciproche, cose piccole, anche, banali, ma che servivano a cementificarci. Era questo, Wes, era questo di cui sentivo il bisogno, era questo che, anche con lui, mi faceva esitare: dovevo conoscerlo, dovevo sapere chi era per potermi concedere davvero a lui. L'attrazione per quanto forte, non mi permetteva di fidarmi, o per lo meno non era abbastanza. Ed esiste, forse, una vera coppia senza fiducia? Sì, è proprio così. Sebastian non se ne rende conto, o forse non vuole ammetterlo neppure a sé stesso, ma siamo diventati una coppia. E per questo non ho intenzione di andarmene senza di lui.

Non persi nemmeno tempo a bussare, mi limitai ad aprire la porta. Sebastian era già lì, nell'ingresso, appoggiato mollemente alla parete, in apparenza rilassato. Mi chiesi da quanto tempo mi stesse aspettando, perché conosceva perfettamente la ragione del mio arrivo.

«Blaine! Ma che piacevole sorpresa! Potevi almeno bussare. Comunque vieni, accomodati, brindiamo a noi prima che il tuo treno arrivi.»

Non avevo voglia di giochetti.

«Non fare lo stupido, Smythe, sai benissimo perché sono qui.»

La maschera di calma da nobile aristocratico si incrinò un poco: «Per venire a salutarmi prima che il treno ti porti chissà dove, giusto?»

«Parli al singolare?» finsi noncuranza, imitandolo.

«Certo, parti da solo.»

Lo guardai dritto negli occhi e mi compiacqui nel vederlo indietreggiare.

«Io non credo.»

Lui sorrise, fingendo allegria: «Davvero? Ma che bella notizia! E chi sarebbe il fortunato? Joshua il mugnaio?»

Non c'era tempo per tirarla per le lunghe.

«Smettila, non ho più voglia di giocare al gatto col topo, sono qui per…» inspirai profondamente «Vieni con me.»

Ogni traccia di allegria svanì dal suo viso: «Ah si? E chi ti dice che io voglia venire con te?»

«Non mi sembra che ti sia dispiaciuta la mia compagnia, in questi giorni.» ribattei.

Sebastian si sedette su uno scalino, passandosi una mano tra i capelli: «E' diverso, io non sono fatto per legarmi ad una persona, non fa affatto per me.»

Scusa debole e poco convinta.

«Quindi hai intenzione di rimanere qui in attesa di un altro allocco da adescare alla clinica, chiuso in una villa che cade a pezzi, circondato da persone, che ti odiano e ti temono? E' così che vuoi passare il resto dei tuoi giorni?»

Lui, stette un attimo in silenzio, fingendo di riflettere, poi annuì piano: «Sì, stavo appunto pensando a qualcosa del genere.»

Fu troppo. Con un ruggito fui su di lui inchiodandolo lì dov'era, trattenendolo nella presa delle mie braccia.

«Blaine! Ma sei impazzito? Lasciami! Lo scalino mi sta segando la schiena...!»

Ignorai le sue lamentele: « Qual è il tuo problema? Sono stufo di sentirti dire queste cose! Cos'ha questa villa? Cosa rappresentano per te queste persone, per far sì che tu ne sia così morbosamente legato? Hai forse paura di una vita da poveraccio, come la mia?>> gli urlai contro tutta la mia frustrazione.

« Non capisci, Blaine, non puoi capire.» sputò lui con rabbia «Questa è la mia vita, questa è la mia proprietà. Sono nato qui, sono cresciuto qui, non conosco altro posto che questo. La fai facile tu, non sei legato a nulla, non c'è nulla che ti trattenga davvero da nessuna parte.»

«Ti sbagli.» lo interruppi «Tu mi trattieni qui anche se vorrei andarmene, perché non posso più fare a meno di te.»

Tacque per un secondo, fissandomi con gli occhi sgranati, poi riprese l'aria strafottente di prima: «E poi credi davvero che la mia ricchezza sia legata a questa villa? Ingenuo. Questa non è che una frazione della fortuna degli Smythe comodamente riposta nelle banche di Atalanta, Richmond e Washington >> troppo tardi si accorse di quanto quest'ultima affermazione giocasse a suo sfavore.

«A maggior ragione, se non temi la povertà, nulla ti lega a questo posto.»

Mi fissò ancora una volta, con gli occhi sgranati e attenti come se stesse cercando di trovare chissà quale conoscenza tra linee del mio viso - e nel suo sguardo c'era qualcosa che non avevo mai visto in lui, incertezza, dubbio, paura, le sue mani si strinsero spasmodicamente ai miei polsi, mentre le labbra si muovevano a vuoto, tentando di formulare una risposta.
«Blaine...      
                                                                                   
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Siamo giunti, dunque,  alla fine di questa piccola epopea :) spero di non attirare l'odio di nessuno per il finale XD
Ho scritto e iniziato tutto senza pretese e non ne ho ancora adesso, spero solo che chi ha letto abbia apprezzato abbastanza la storia, e per parte mia, mi auguro di non aver scritto troppo male XD
Mi sono divertito, tutto sommato, e non l'avrei creduto, non avendo mai tentato la ff come genere... Ancora una volta, l'ultima, ringrazio M per aver riletto ogni singolo capitolo, dandomi preziosi consigli ogni volta che ne avevo bisogno, e per aver fatto un bellissimo banner :)
Mando, poi un abbraccio a K :) questa storia l'ho scritta per te e senza di te non sarebbe nata :)
Grazie a quanti, lettori e lettrici, hanno seguito questa storia fino alla fine, spero di essere riuscito a trasmettervi anche solo un briciolo di emozione, a questo punto potrei dirmi soddisfatto :)
R

 

 


 


 

                                                                    

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