Di sangue e d'ombra

di margheritanikolaevna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



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Mi fa piacere dedicare questa storia a meiousetsuna, amica e fantastica autrice, che è di certo una delle maggiori esperte sulla faccia della terra di … ecco, se ve lo dico la storia si svela già tutta. Ma lei di sicuro capirà a cosa mi sto riferendo.
Buona lettura e grazie a chi avrà voglia di leggere e lasciare un suo parere.
 







 
Di sangue e d’ombra
 
Prologo
 
Era una notte di cristallo e di ghiaccio a New York City.
Sebbene non tirasse nemmeno un alito di vento, l’aria limpida pareva attraversata da innumerevoli lame aguzze che segnavano la pelle, irrigidivano il passo e trasformavano il fiato in sbuffi di vapore biancastro.
Nel cielo insolitamente terso brillava una luna piena e pallida, incredibilmente luminosa; l’atmosfera gelida e immobile rimandava i suoni, anche i più lontani, con impressionante chiarezza e la strada deserta - a causa del freddo e dell’ora tarda non c’era nessuno in giro - risuonava dell’eco dei passi dei detective Mac Taylor e Stella Bonasera che, dopo essersi trattenuti con i colleghi a bere qualcosa al Sully, si apprestavano finalmente a tornare a casa.
Lasciate le auto in un garage a una decina di isolati dal pub, avevano rinunciato a cercare un taxi e avanzavano a passo svelto, facendo scricchiolare l’asfalto gelato sotto le scarpe e di tanto in tanto guardandosi intorno meccanicamente - un gesto proprio da sbirro, considerò Stella con un sorrisetto.
Non c’era anima viva, sembrava di muoversi in un sogno attraversando un silenzio denso come acqua gelida: un silenzio irreale, nella città che non dorme mai.
Ogni ombra, ogni vicolo, ogni portone, per quanto familiari sembravano significare qualcosa che tacevano; in quell’atmosfera così strana, persino il vapore che saliva dai tombini verso l’alto, in spirali via via più sbiadite contro l’oscurità della notte, avrebbe potuto celare un che di spettrale.
Tuttavia i due poliziotti, grazie alle birre bevute e all’eco delle battute di Danny Messer, erano di ottimo umore e, rilassati e insolitamente ciarlieri, camminavano tenendosi sotto braccio, godendo della reciproca compagnia e della bella notte invernale; all’orizzonte si stava addensando una nebbiolina leggera che sembrava avvolgere il panorama in un velo trasparente, mentre qua e là scintillavano i bagliori della luce lunare riflessi sull’asfalto coperto di brina.  
A un tratto, dopo una svolta la luna comparve da dietro la cima di un palazzo, mostrandosi ai due detective in tutto il suo corrusco splendore.
“Accidenti!” si lasciò sfuggire Mac Taylor levando gli occhi al cielo: sebbene non si potesse certo definire un tipo contemplativo, tuttavia solo un cieco avrebbe potuto rimanere insensibile di fronte a uno spettacolo così suggestivo.
Stella ridacchiò, stringendosi di più al braccio del collega, e disse con voce volutamente ovattata: “Sai che quando la luna brilla di una luce così intensa può avere innumerevoli effetti sugli uomini: influisce sui sogni, sull’umore delle persone ed è il segnale di una straordinaria attività spirituale? Guarda!”.
Si fermò e con un sorriso gli indicò gli alberi di Stuyvesant Square Park, accanto al quale stavano passando in quel momento.
“Guarda” ripeté “la luna questa sera è piena di influssi magnetici e arcani: non vedi come le foglie brillano e luccicano sotto questo argenteo splendore, come se misteriose mani fatate le avessero illuminate apposta per rischiarare il nostro passaggio?”.
Mac sgranò gli occhi assumendo un’espressione di esagerato stupore e ribatté, trattenendo a stento una risata: “Come sei romantica, Stella! Solo una persona innamorata può fare di questi discorsi…”.
Si fermò anche lui un istante, la guardò in viso e aggiunse, in un tono che non tradiva tuttavia alcuna particolare emozione: “Già, ne sono sicuro: devi avere un amore nel cuore, anche in questo momento”. 
Non sono mai stata innamorata di nessuno e mai lo sarò” sussurrò Stella nel suo cuore “A meno che non si tratti di te”.
Per quanto si sforzasse di celare quel sentimento a tutti e per prima a se stessa - soffocandoli e ricacciandoli brutalmente indietro ogni volta che minacciavano di riemergere e di farle così perdere il controllo della vita che aveva messo in piedi con fatica -  l’amore per lui era sempre lì immutabile, davanti ai suoi occhi, impresso nel fondo della sua anima vecchia e stanca.
Fin dal primo momento del primo giorno in cui aveva messo piede negli uffici della Scientifica di New York, era stato così; da allora non era passato giorno senza che i suoi sentimenti si fossero arricchiti di nuovi motivi di stima e affetto nei confronti del suo capo, solo all’apparenza freddo e distaccato.
Quante volte, al contrario, aveva colto - solo lei, solo lei! - un tremito incrinare la sua voce solitamente ferma, o un velo umido passare dentro quegli occhi verdi che sapevano essere taglienti come una lama. I suoi sorrisi rari e fugaci, poi, le sue battute imprevedibili erano privilegi riservati esclusivamente a lei e a pochi altri; li ricordava tutti, uno per uno, e li custodiva nella sua anima come regali preziosi.  
Anche dopo la morte di Claire, quando gli era stata accanto aiutandolo a rimettere in piedi la sua esistenza straziata dal dolore e dai sensi di colpa, era sempre rimasta consapevole di quanto fosse senza speranza il suo amore; eppure, nonostante tutto ciò, non era mai stata capace di andarsene.
Sebbene fosse una sofferenza atroce reprimere quotidianamente ciò che provava, celandolo dietro lo schermo di una cameratesca amicizia, aveva preferito restare a New York e continuare a lavorare con lui dividendo il giorno, la notte e il respiro: meglio questo - si era ripetuta un’infinità di volte durante le sue nottate senza sonno - che stargli lontana, perderlo, non saperne più nulla.
E poi, aveva considerato, forse che un amore infelice non era una punizione fin troppo lieve per tutto il male che aveva fatto?
Forse che non aveva scelto di espiare in quel modo le sue passate nefandezze, come se Mac Taylor fosse un inconsapevole cilicio posto esattamente sul suo cuore?  
Stella fu confusamente agitata da questi pensieri, ma non rispose, limitandosi a contemplare a sua volta l’occhio pallido della luna, immobile sopra di loro.
Mac seguitò invece a fissarla, incapace di distogliere gli occhi da lei: com’era bella in quella luce argentata! Timido e strano era il suo sguardo quando, in fretta e senza nessun preavviso, gli si avvicinò e nascose il viso contro la sua spalla, con un sospiro che era quasi un flebile singhiozzo e stringendogli la mano nella sua, che tremava.
Il detective sentiva la sua morbida guancia ardere contro la propria e il suo alito stranamente freddo accarezzargli l’orecchio fino a provocargli un brivido; poi la donna si staccò da lui, repentinamente come gli si era avvicinata, e rimase a fissarlo con uno sguardo di fuoco.
Gli occhi come due tizzoni confitti nel volto pallido ed esangue: occhi pieni di passione, ma allo stesso tempo infinitamente dolenti. Mac vi si immerse, pur senza riuscire a scorgere ciò che era nascosto sul fondo.
Quanto tempo durò quell’istante sospeso che tutto promise e nulla mantenne? Troppo a lungo per non promettere, troppo poco per mantenere: a un tratto il tenente lanciò un grido di dolore e cadde in ginocchio, portandosi la mano alla nuca e ritraendola bagnata di sangue.
Stella si rese conto in una frazione di secondo che dall’oscurità di un vicolo laterale erano emersi tre uomini vestiti di scuro: uno aveva colpito Mac alla testa con una bottiglia, che si era frantumata nell’impatto e che adesso l’uomo stringeva per il collo brandendola come un’arma, mentre un altro puntava contro di lei un coltello la cui lama guizzava sotto la luce della luna.
Il terzo, che aveva sollevato il cappuccio della felpa grigia fino a nascondere parzialmente il viso, le gridò di tirare fuori il portafogli e di togliersi l’orologio e la catenina d’oro che portava al collo.
Stella rivolse lo sguardo a Mac, che giaceva ancora stordito al suolo, e scostò i lembi del cappotto per mostrare ai rapinatori il distintivo che portava agganciato alla cintura, sperando che la cosa li spaventasse e li convincesse a desistere da ciò che avevano in mente.
“Sono un poliziotto, state indietro!” disse con voce ferma, tentando di reprimere la preoccupazione per le condizioni dell’amico. Poi di scatto fece per piegarsi e afferrare la pistola fuori ordinanza che teneva legata al polpaccio, nascosta sotto i pantaloni, quando l’uomo incappucciato tirò fuori a sua volta una rivoltella argentata e la rivolse contro Mac.
“Merda!”pensò Stella mordendosi il labbro inferiore, mentre in un istante passava mentalmente in rassegna le diverse possibilità di reagire, rendendosi conto - proprio grazie alla sua esperienza - che si trovava in una situazione dalla quale difficilmente sarebbe riuscita a tirarsi fuori indenne.
“Non provarci nemmeno, bella” disse l’uomo “Se tocchi la pistola il tuo amico si ritrova all’istante con un buco in mezzo alla fronte”.
La poliziotta deglutì a vuoto e si bloccò istantaneamente: non poteva certo correre il rischio che sparassero a lui, che in qual momento non era in grado di difendersi. Doveva proteggerlo, questa era la sua priorità.
Quindi, sforzandosi di tenere a bada il panico e mantenere una calma almeno apparente, si raddrizzò e con cautela tirò fuori il portafogli, gettandolo poi per terra davanti ai tre. 
“Molto bene” esclamò quello che impugnava l’arma, che pareva anche il capo, e dopo aver gettato un’occhiata d’intesa agli altri due si avvicinò a Stella, passando accanto al portafogli senza degnarlo di uno sguardo.
La squadrò da capo a piedi con studiata lentezza, consapevole dell’orrore che stava attraversando la sua vittima; era chiaro che lei aveva già capito perfettamente ciò che le sarebbe accaduto e quella sensazione aveva il potere di eccitarlo in maniera animalesca. Non era la prima volta, non sarebbe stata l’ultima.
Anzi, sì - considerò, umettandosi le labbra sottili piegate in un ghigno - adesso che ci pensava sarebbe stata la prima volta con una poliziotta… lei avrebbe di sicuro lottato e tutto sarebbe stato dannatamente divertente.  
“Avevamo un programma diverso per stasera” proseguì con un tono che a Stella fece ghiacciare istantaneamente il sangue nelle vene e facendo un cenno col capo ai compagni, che subito lo seguirono accerchiando la detective “Ma non credo che potremmo lasciarci sfuggire un’occasione del genere… che ne dite, amici?”.
Fecero un altro passo verso di lei e quello che impugnava il coltello allungò un braccio per afferrarla.
“F-fermi!”.
La voce di Mac risuonò meno ferma di quanto il tenente avrebbe voluto; ma in tutta onestà era già un miracolo essere riuscito a riaprire gli occhi e a rialzarsi in piedi, col sangue che gli colava ancora lungo la schiena e la vista che si appannava.
Puntò la sua pistola contro i rapinatori, ma prima che Stella riuscisse a tirare un sospiro di sollievo i due che erano più vicini a Mac gli erano già balzati addosso e lo avevano colpito brutalmente all’addome e al capo: non fu necessaria molta forza per metterlo fuori combattimento, già malconcio com’era.     
“Avanti” gridò a quel punto quello che teneva il coltello “Spara a questo bastardo! Così poi potremo divertirci in santa pace con lei…”
L’altro allungò il braccio verso il poliziotto riverso al suolo e tolse la sicura all’arma, preparandosi a premere il grilletto: ancora un istante e sarebbe stato troppo tardi.
Da quando era arrivata a New York e aveva deciso di entrare in polizia, Stella Bonasera aveva sempre temuto che prima o poi si sarebbe trovata in una situazione del genere.
Non aveva altra via d’uscita, doveva agire subito.
Anche se sapeva che le conseguenze sarebbero state devastanti.
Con un balzo felino, si interpose tra il corpo esanime di Mac e la pistola.
Alzò il viso verso i tre, levò su di loro uno sguardo glaciale e disse in tono straordinariamente calmo: “Andatevene. O sarò costretta a uccidervi tutti”.
La voce era piana e sottile, eppure riecheggiò nell’oscurità gelida della notte distorta come se per giungere fino alle loro orecchie avesse dovuto percorrere abissi di tempo e di spazio. 
Il suo volto aveva subito in una frazione di secondo una trasformazione che li allarmò: si era deformato e incupito, diventando orribilmente livido. Strinse i denti con un rumore che fece loro accapponare la pelle e serrò i pugni, mentre li guardava con intensità tale da volergli penetrare fin dentro l’anima. 
L’aria si era fatta d’un tratto opaca, pesante e se possibile ancora più fredda di prima, tanto che i tre uomini rabbrividirono in preda a un orrore improvviso, che non aveva nulla a che vedere con ciò che stavano per fare o con il fatto che avevano davanti uno sbirro.
Istintivamente e senza alcuna ragione apparente, indietreggiarono di un passo, anche se l’uomo col cappuccio seguitava a tenere sotto tiro Mac.
“Certo che, oltre a essere carina, hai anche un gran senso dell’umorismo, eh?” disse questi, cercando di nascondere sotto quella frase spavalda il brivido di inspiegabile terrore che lo aveva attraversato da capo a piedi.
Stella volse lo sguardo verso il collega ancora una volta, come ad accertarsi che fosse effettivamente privo di sensi, fece un passo verso di loro sempre guardandoli torva e ripeté solo: “Andate via!”.
Era ormai vicinissima e il suo alito freddo come l’aria esalante da una tomba colpì in viso l’uomo, facendogli perdere il controllo; stravolto dalla paura, volse l’arma contro di lei.
Tremando, gridò: “Adesso basta giocare!”.
Poi levò il braccio e la colpì con tutte le sue forze, ma Stella si divincolò e, illesa, lo afferrò col suo polso sottile. Il rapinatore si dibatté per liberarsi da quella stretta ma non vi riuscì; sgranò gli occhi per il terrore e lo stupore, domandandosi confusamente come fosse possibile che una donna tanto minuta potesse esercitare una forza del genere.  
Nel silenzio carico di tensione, il suono della sua ulna che si spezzava di netto - serrata in quella morsa femminea ma implacabile - fu udito distintamente da tutti i presenti, subito seguito da un lacerante urlo di dolore. Stringendosi il braccio fratturato e intorpidito come se fosse stato attraversato da una forte corrente elettrica, l’uomo indietreggiò e poi cadde a sua volta in ginocchio con un gemito. 
Mentre a quel punto il ragazzo che aveva colpito Mac con la bottiglia se l’era già data a gambe a tutta velocità, invece il terzo si scagliò contro Stella brandendo il coltello. Menò un fendente verso la sua gola con tutta l’energia che gli era rimasta, certo di non poterla mancare giacché le era vicinissimo, ma rimase paralizzato e incredulo quando davanti ai suoi occhi la donna si scansò in un lampo, veloce come una pantera, e senza alcuno sforzo apparente riapparve a qualche metro da lui, il volto deformato in una smorfia animalesca.  
Lo guardava passandosi la punta della lingua sulle labbra come una fiera che stia per saltare alla gola di una preda, con negli occhi un furore e una fame da troppo tempo repressi.
Poi gli si avvicinò lentamente, mentre dai suoi occhi emanava come un sottile magnetismo che lo paralizzava, impedendogli di muoversi e fuggire: lo fissò per un istante e lui fu certo che l’avrebbe ucciso.
Invece Stella repentinamente distolse lo sguardo da lui e nel medesimo momento - interrottosi il flusso energetico che lo legava - l’uomo corse via pazzo di terrore, fermandosi solo il tempo necessario per aiutare il compagno ferito, che gemeva sommessamente come un bambino tenendosi il braccio, a tirarsi su e a infilarsi il più velocemente possibile nel vicolo dal quale erano sbucati.
La poliziotta respirò profondamente, cercando di riprendere il controllo di sé, i pugni serrati e gli occhi fissi sull’asfalto ghiacciato. Ciò che aveva fatto era sbagliato: inevitabile per salvare se stessa e l’uomo che amava, ma senza dubbio sbagliato.
Ma la cosa più terribile era ciò che aveva provato, mentre artigliava il braccio di quel bastardo o fissava l’altro imprigionandolo nelle sue spire come un serpente a sonagli un topolino: non paura, né senso di colpa, bensì unicamente piacere.
Il piacere profondo e torbido dell’infliggere dolore a una creatura vivente.
Quel piacere selvaggio che aveva il gusto acre della sopraffazione.
Solo una cosa avrebbe reso perfetto il suo godimento, ma di quella era riuscita - sia pure con immenso sforzo - a privarsi di nuovo.
Adesso era ancora stata in grado di controllarsi; ma la prossima volta ce l’avrebbe fatta?
Il sangue le correva tumultuoso nelle vene, mentre il suo corpo era ancora scosso da brividi: troppo a lungo represso, il mostro dentro di lei tornava ad agitarsi.
La bestia che per lunghissimi anni era riuscita a seppellire era stata alla fine risvegliata.

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Capitolo 2
*** Capitolo primo ***


Grazie a coloro che hanno iniziato a leggere questo racconto; a meiousetsuna, Lubylover, Avah, al fantastico Magic Mike e ai suoi addominali, a CarmillaLilith e a celtics per le loro parole così gentili. Spero che questo capitolo, più tipicamente CSI, vi piaccia.
La location e alcune battute, come quella iniziale, sono riprese dal fumetto di CSI NY "Delitto di sangue".
Buona lettura!
 
 
 
 

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 Capitolo primo
 
Las Vegas sarà pure la “città senza orologi”, ma New York è quella che non dorme mai! Puoi ordinare sushi alle quattro del mattino, sbronzarti alle cinque e comprare sesso o droga a ogni ora del giorno e della notte…”
Stella spense la radio, facendo tacere d’improvviso la voce gracchiante dello speaker, e si passò una mano sul viso; sospirò profondamente e dovette chiamare a raccolta tutte le scarse energie che la nottataccia appena trascorsa le aveva lasciato in corpo per aprire lo sportello e scendere dall’auto. Era tornata a casa tardissimo, dopo aver accompagnato Mac in ospedale ed essersi sincerata che non avesse subito nessuna grave lesione, e come se non bastasse aveva anche dovuto stilare il rapporto sull’aggressione che lei e il collega avevano subito.
Però non era stata la mancanza di sonno a lasciarla così stravolta e stordita - giacché a quella si era abituata già da molto tempo - bensì la visione che l’aveva visitata verso l’alba e il cui solo ricordo bastava, ancora adesso che i terrori della notte si erano dissolti alla luce piena del giorno, per mozzarle il respiro e renderle terribilmente difficile concentrarsi sul lavoro che l’attendeva.
Avrebbe anche dovuto inventarsi una storia valida per spiegare come fosse riuscita a  mettere in fuga quei bastardi; certo, per fortuna poteva contare sul fatto che Mac non avesse visto nulla e che nessuno degli aggressori avrebbe mai raccontato la verità. Del resto, se pure l’avessero fatto, chi avrebbe mai prestato fede alle chiacchiere di tre balordi strafatti di crack?
Già - considerò Stella, sforzandosi di reprimere ancora una volta l’ansia atroce che l’attanagliava dalla sera prima, schiacciandola come sotto il peso di un oscuro presagio di sventura - in fondo poteva sperare che la cosa passasse sotto silenzio e fosse presto dimenticata. Sarebbe tornata alla sua vita consueta di instancabile detective della Scientifica di New York e ciò che era accaduto sarebbe stato archiviato come una brutta avventura senza gravi conseguenze.
E poi cosa c’era di meglio, per tornare alla normalità, di una chiamata urgente sulla prima scena del crimine della giornata?
Stella prese la valigetta col suo kit, chiuse l’auto e raggiunse a passo svelto Don Flack, il quale la stava aspettando per accompagnarla sul luogo dove, alle prime luci dell’alba, era stato trovato il cadavere di una giovane donna brutalmente assassinata.
Il collega le rivolse un sorriso e, posandole affettuosamente una mano sul braccio, le domandò in tono preoccupato: “Stella, come ti senti? Abbiamo saputo cosa vi è successo stanotte: certo che tu e Mac avete avuto fortuna, sarebbe potuta andare molto peggio!”.
La donna si strinse nelle spalle, ma ricambiò il sorriso del poliziotto.
“Anche lui è già tornato al lavoro come se nulla fosse: credo che nemmeno un incontro con Jack lo squartatore lo convincerebbe a prendersi una giornata di riposo!” continuò Don.
“È vero” rispose lei, senza smettere di camminare “evidentemente quei tre erano drogati o ubriachi, perché è bastato che mi qualificassi e tirassi fuori la pistola per farli scappare a gambe levate”.
“La terribile detective Stella Bonasera” la canzonò l’altro, socchiudendo gli occhi color del mare “Il terrore dei criminali di New York City: molto meglio per me essere dalla tua parte…”.
Stella sorrise, iniziando finalmente a rilassarsi e ripetendo ancora una volta a se stessa che restare in quel posto, insieme a quelle persone che per lei rappresentavano quasi una famiglia, era stata la decisione migliore della sua vita.
  
***
 
“Chi l’ha trovata?” chiese Mac Taylor al poliziotto in uniforme blu, il quale lesse la risposta dal taccuino dove aveva annotato tutti i dettagli.
Il detective era accovacciato accanto al corpo di una ragazza di circa venti anni: stava distesa sul terreno intriso di sangue, le braccia e le gambe divaricate in una posa scomposta, i vestiti a brandelli che rivelavano la brutalità di un’aggressione incredibilmente feroce, gli occhi spalancati e ciechi nel volto già livido.
Dal corpo senza vita esalava un odore ferroso di sangue rappreso che, mescolato con quello della sudicia terra smossa e dell’erba calpestata, avrebbe fatto rivoltare lo stomaco a chiunque non fosse abituato ad avere a che fare quotidianamente con la morte.
Ma la cosa più terribile erano le ferite: profondi segni di graffi e morsi le ricoprivano la schiena, il busto e il viso, mentre uno squarcio netto alla gola lasciava pochi dubbi su quale fosse stata la causa della morte.  Tutto intorno al cadavere i cespugli e l’erba apparivano calpestati, mentre sul terreno umido di brina si scorgevano molte impronte, con ogni probabilità quelle dei primi soccorritori.
“Una coppia che faceva jogging nel parco all’alba” rispose il giovane poliziotto, cercando di non guardare il corpo se proprio non era strettamente indispensabile.
“Dove sono adesso?” chiese il tenente, raddrizzandosi e levando gli occhi al cielo.
Appariva vigile e concentrato come sempre e l’unica traccia dell’aggressione della notte prima era una vistosa medicazione che gli copriva la nuca, sporgendo dal colletto del cappotto grigio di panno.
Trasse un sospiro e si guardò intorno: la sua attenzione era stata fino a quel momento tutta dedicata alla ragazza morta e un brivido lo attraversò nell’istante in cui si rese conto che si trovavano all’interno dello Stuyvesant Square Park, esattamente dalla parte opposta rispetto al lato dove lui e Stella si erano fermati la notte prima e dove erano stati aggrediti.
Era un poliziotto troppo esperto per credere alle coincidenze, ma allo stesso tempo gli sembrava del tutto inverosimile che i due episodi potessero essere in qualche modo collegati.
“Ehi, Mac, quei due sono piuttosto scossi” la voce di Don Flack, che nel frattempo lo aveva raggiunto, lo strappò da quelle considerazioni, costringendolo a focalizzare di nuovo le sue capacità di analisi sull’omicidio appena avvenuto “Li ho fatti allontanare perché non vedessero; dicono di non aver toccato niente e di avere chiamato subito il 911 e la polizia”.
“Stella sta parlando con loro in questo momento. Non abbiamo trovato documenti e non ha il portafogli” aggiunse il detective “Però se si è trattato di una rapina è senza dubbio la più feroce che io abbia mai visto!”.
Mac annuì lentamente.
“Secondo te è stato un animale a farlo?” chiese Don, fissando con aperto disgusto il corpo.
“Senza dubbio” ribatté l’altro “Ora resta da chiarire se si è trattato di un animale a due o a quattro zampe…”.
“Abiti a brandelli, lacerazioni al viso e alle braccia e carotide perforata, con conseguenti getti di sangue arterioso sui cespugli e sul terreno circostante” considerò Lindsay Monroe, china sul cadavere.
Si avvicinò di più e rigirò le mani della morta tra le sue, infilate nei guanti bianchi di lattice “…eppure sulle mani non ci sono né sangue, né ferite da difesa”.
“Già, questo è strano” fece il tenente, in piedi alle spalle della collega “la vittima ha subito una brutale aggressione che è durata di sicuro alcuni minuti eppure, nonostante questo, non abbiamo rinvenuto nessuna evidente ferita da difesa. Controlleremo i residui sotto le unghie, ma non credo che ci sarà granché”.
“Forse vuol dire che tutto è avvenuto troppo rapidamente o con troppa energia perché lei potesse tentare una reazione?” chiese Danny Messer, tirando fuori dal suo kit l’occorrente per prelevare campioni del suolo e della vegetazione.
Mac scosse lentamente il capo.
“Non mi sento di dirlo, per adesso” rispose con voce ferma “L’unica cosa chiara al momento è che, mancando segni di trascinamento o impronte evidenti, è probabile che sia morta qui”.
“In effetti c’è del sangue sul terreno” disse Don.
“Sì, ma a giudicare dalle ferite che le sono state inferte - e in particolare da quelle alla gola - dovrebbe essercene una quantità molto maggiore” osservò Lindsay.
“Dobbiamo ancora interrogare i due che hanno trovato il corpo” concluse Mac “Don, occupatene tu: da’ una mano a Stella, ascoltateli e verificate se ciò che dicono può portarci a considerare qualche elemento che non ci è balzato subito all’occhio”.
Mentre il poliziotto si allontanava, Danny Messer lanciò uno sguardo angosciato alla moglie e mormorò con voce appena udibile: “Che razza di bastardo figlio di puttana può avere fatto una cosa del genere?”.
Lindsay si strinse al suo fianco e le parole le uscirono di getto, senza controllo: “Mio Dio, era così giovane, la sua famiglia sarà devastata”.
La voce di Mac li costrinse a riprendere il lavoro interrotto: “Concentriamoci solo sulle prove. Danny, tu esamina il perimetro. Io e Lindsay ci occuperemo del corpo”.
“Oh, ecco Stella!” esclamò la giovane detective, tirandosi su per andarle incontro.
La poliziotta avanzò verso gli amici con passo sicuro e un leggero sorriso dipinto sul viso, ma non appena scorse, da dietro le spalle di Mac, il cadavere dilaniato impallidì visibilmente e si bloccò, irrigidendosi all’istante per il terrore.
Il tenente notò il turbamento della collega e le si avvicinò.
“Stella, tutto bene? Hai un’aria strana…” le chiese, osservandola con curiosità e preoccupazione.
Dalla notte prima, quando lei lo aveva accompagnato in ospedale e poi a casa, dopo essere stata rassicurata dai medici che non avesse riportato una commozione cerebrale, non avevano avuto modo di parlare di ciò che era successo. Si era ripromesso di farlo quella mattina in ufficio, giacché c’erano molte cose che non riusciva a ricordare, ma poi c’era stata quell’emergenza che gli aveva impedito di trovarsi a quattr’occhi con l’amica e ringraziarla per avergli - almeno sulla base di ciò che aveva capito - salvato la vita.
“Io…sì” rispose lei, senza riuscire a staccare gli occhi dal corpo e insieme con un’espressione di inesprimibile angoscia dipinta sul volto. Se non si fosse trattato della donna con cui aveva lavorato fianco a fianco ogni giorno negli ultimi dieci anni, esplorando gli abissi più profondi della crudeltà umana, della poliziotta il cui coraggio non avrebbe mai messo in discussione, Mac avrebbe proprio pensato che aveva paura o che la vista del cadavere la disgustava. 
“Non è nulla, è che stanotte ho dormito poco e non mi sento bene”.
Mac la fissò ancora, incapace di nascondere lo stupore per l’insolito atteggiamento della collega e insieme dicendo a se stesso che sì, effettivamente dopo ciò che aveva passato solo poche ore prima era più che comprensibile che fosse ancora scossa. Tutto sommato era una follia che non si fosse presa nemmeno lei un giorno di riposo…
L’uomo sciolse in un lieve sorriso la tensione che li imprigionava e, afferrandola delicatamente per le spalle, le disse: “Facciamo una cosa: tornatene a casa e cerca di riposare, ci vediamo domattina in ufficio. Qui possiamo cavarcela anche senza di te”.
Si sarebbe aspettato qualche resistenza, conoscendo lo stakanovismo della collega, e invece rimase sorpreso quando la vide annuire debolmente e fare subito due passi indietro, incapace di celare l’orrore che le provocava la vista del corpo della ragazza.
“Del resto” continuò Mac, cercando di prendere tempo per studiare le reazioni della donna “darti un giorno libero è il minimo che io possa fare, dopo che stanotte mi hai praticamente salvato”.
“S-sì, va bene” mormorò lei abbassando lo sguardo e arretrando ancora “Ci vediamo domani”.
Non aggiunse altro e si allontanò velocemente come se stesse scappando da una terribile minaccia; l’uomo rimase a guardarla andare via ed ebbe l’impressione che Stella avesse dovuto trattenersi per non mettersi a correre.
Mac Taylor non era uomo facile alla sorpresa - ne aveva viste troppe perché qualcosa potesse ancora sbalordirlo -  eppure in quel momento non poté che notare che Stella Bonasera gli era apparsa, per la prima volta dopo tanti anni, come un’estranea.
Deglutì, serrando le mascelle, e poi si volse verso Danny Messer.
“A te le foto” disse con voce atona. 
Mentre Lindsay Monroe usava lampade con spettro diverso per esaminare il terreno circostante alla ricerca di tracce biologiche e non, suo marito procedeva - inquadratura dopo inquadratura - a prendere primi piani delle ferite, allontanandosi poi di qualche metro per foto panoramiche di tutta la scena del crimine.
Nel frattempo Mac osservava le unghie della vittima, prelevando con un bastoncino dei campioni e riponendoli poi negli appositi contenitori sterili che avrebbe passato al laboratorio per tutte le analisi chimiche del caso.
A un tratto qualcosa attirò la sua attenzione: armato di pinzetta, si chinò di nuovo sul corpo e un istante dopo sollevò verso la luce del sole un lungo pelo scuro.
“Ho trovato un filamento grigio scuro” disse a Lindsay, che gli aveva rivolto un’occhiata interrogativa “non compatibile con i capelli della vittima”.
 
***
 
Don Flack era abituato a condurre interrogatori; lo faceva ormai da anni e anzi poteva andare fiero di come riusciva a cavare fuori informazioni utili anche ai più incalliti criminali, alternando battute sarcastiche e osservazioni pungenti.
Quando osservò le facce terrorizzate dei due giovani che avevano trovato il cadavere di Stuyvesant Park, tuttavia, non ebbe bisogno di riflettere a lungo per rendersi conto che tutto il suo repertorio di abile investigatore quella volta sarebbe stato inutile: i due, infatti, erano palesemente sconvolti e sembravano chiedere solo di concludere il più presto possibile l’interrogatorio per potersene tornare a casa e cercare di dimenticare ciò che avevano visto. 
“Io sono Mark Greene” disse il giovanotto, che aveva ancora addosso la tuta da ginnastica sudaticcia “E questa è la mia fidanzata, Elizabeth Corday” .
La ragazza rabbrividì nel leggero completo da jogging nero e mormorò, gli occhi dilatati per lo shock: “È stato terribile, io…”.
Mark continuò, sempre tenendo stretta la giovane: “Mi dispiace, forse avremmo dovuto fermarci e vedere se quella ragazza aveva bisogno di aiuto, invece siamo scappati subito come due bambini in preda al panico”.
Il poliziotto sospirò e rispose: “Non c’è nulla di cui vergognarsi, voi vi siete imbattuti in una scena orribile. Lo sarebbe stata anche per me, vi assicuro”.
“E poi, purtroppo, da quel che abbiamo visto per quella poveretta non c’era più nulla da fare quando l’avete trovata”.
“Cosa ci facevate a quell’ora lì, in una giornata fredda come questa?” chiese, considerato che nulla al mondo l’avrebbe mai persuaso - neppure per tutto l’oro del mondo - a mettere il naso fuori di casa all’alba con un tempo del genere per andare a consumarsi il fiato in mezzo alla nebbia e all’umidità di un parco pubblico.
“Ecco” rispose il ragazzo “io lavoro in una società di assicurazioni e lei è la segretaria di un avvocato: passiamo tutta la giornata in ufficio e questa di fare una corsa al mattino presto è una delle poche occasioni per stare all’aria aperta e trascorrere del tempo insieme. Di solito attraversiamo il parco e poi tagliamo per la Quattordicesima”.
“Una bella scarpinata!” ribatté il detective “E lo fate ogni mattina?”.
“Sì” fece a quel punto Elizabeth “tranne quando nevica”.
“Quindi avete imboccato il sentiero che attraversa il parco” disse Don “e poi cos’è accaduto?”.
“Stavamo correndo da circa un quarto d’ora” rispose la ragazza con voce tremante “era tutto tranquillo: a quell’ora non c’è quasi nessuno in giro e noi ridevamo, scherzavamo, come al solito”.
“Poi a un tratto abbiamo visto una sagoma scura muoversi tra gli alberi e lui ha detto: “guarda lì, deve essere una coppietta in cerca di intimità!”.
“A quest’ora e con questo tempo?” ho risposto io. Ci siamo avvicinati, incuriositi, abbiamo guardato meglio e…”.
A quel punto la giovane s’interruppe, scossa da un ricordo ancora troppo fresco e traumatico per essere rievocato, e si portò le mani al viso.
“Le sue gambe, mio Dio!” gemette.
“Non abbiamo toccato niente” intervenne il fidanzato, stringendo la ragazza ancora di più a sé “E all’improvviso abbiamo visto un’ombra scura provenire da quella direzione”. Indicò verso il lato nord-ovest del parco.
“Sembrava, non so, un cane” aggiunse meditabondo.
“No, era troppo grosso per essere un cane!” gridò Elizabeth, palesemente sconvolta “E soprattutto stava eretto come… come un uomo!”.
“Se quella cosa ha ucciso la ragazza” disse, levando verso il fidanzato il viso rigato di lacrime “Vuoi spiegarmi che razza di cane può mai fare una cosa del genere?”.
 

Luby, c'era un regalino per te, l'hai colto?

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


Ecco sabato ed ecco il nuovo capitolo, stavolta un po’ più breve e  - per così dire - interlocutorio: più che svelare, suggerisce e spero che per questo motivo vi incuriosirà.
La prima parte della visione di Stella riecheggia un bellissimo passo di “Pian della Tortilla” di John Steinbeck; l’immagine inserita alla fine è quella facente parte del pacchetto scelto per il contest e che dovevo inserire nel racconto. Quelli in grassetto sono, invece, i prompt.
 
 
 
Capitolo Secondo
 
 
 
 

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Stella Bonasera entrò nella foresta, cominciando a camminare sullo spesso tappeto umido di aghi di pino e foglie secche; la nebbia in alto velava il cielo e al di là di essa splendeva la luna, riempiendo il bosco di una luce che era come una garza biancastra. Avanzava lentamente, le membra imprigionate nello strano torpore proprio dei sogni.
Non si notava traccia di quella decisione di profili che di solito si attribuisce alla realtà: i tronchi degli alberi non erano colonne nere di legno, ma ombre morbide prive di sostanza e le macchie dei cespugli apparivano informi, come galleggianti nel bizzarro chiarore dell’aria.  
Mentre si inoltrava nel folto del bosco sorse un gelido vento da nord, che portò la nebbia a oscurare ancor di più il volto pallido della luna.
Era una notte di spiriti: poteva sentire i passi felpati degli spettri errabondi, poteva vedere - spostando gli arbusti per farsi strada attraverso la macchia - le piccole luci che vibravano dentro alle loro forme trasparenti.
Muovendosi, la coltre d’ovatta lattiginosa regalava alla foresta un aspetto mobile, ondeggiante: ogni albero pareva strisciare via furtivo, ogni arbusto sembrava spostarsi silenzioso e leggero come un enorme gatto nero.
Le cime degli alberi, parlando rauche nel vento, dicevano agli uomini la ventura e la sventura.
Stella seguiva un sentiero che si svolgeva a zig-zag per la foresta, fino a che arrivò a distinguere un dolce chiarore giallastro che si alzava e splendeva una decina di metri davanti lei. Dopo qualche passo si trovò di fronte a un alto cancello di ferro; la caligine era così fitta che si accorse della sua presenza solo quando vi fu praticamente davanti. Lo spinse e, con sua meraviglia, lo trovò aperto.
Entrò e percorse il viale alberato per alcune decine di metri, sempre immersa in un’atmosfera densa e biancastra che le impediva di distinguere chiaramente i contorni degli oggetti: nonostante non riuscisse a orientarsi né a riconoscere i luoghi, tuttavia sapeva esattamente dove andare, come se stesse ripetendo un percorso già compiuto e perfettamente noto.
Si fermò a un tratto alla fine del viale: in quell’istante la nebbia si diradò d’improvviso, rivelando la sagoma di un imponente edificio che si ergeva solitario in mezzo al bosco. La luna piena splendeva alta nel cielo, diffondendo un’incredibile bellezza sul giardino e la villa, che Stella riconobbe immediatamente; l’elegante palazzo scintillava come zucchero, le ombre si rincorrevano nel parco circostante e l’oscurità profonda di alcuni angoli era solcata a metà da un’obliqua colonna di luce lunare.
La luminosità diffusa bagnava i contorni delle alte colonne, dell’ampio timpano che sovrastava la porta, della scalinata che conduceva all’ingresso e degli stipiti delle finestre oscurate da pesanti tendaggi, irraggiandosi poi obliquamente sul cortile sottostante; un lato di questo, quindi, era chiaramente illuminato mentre l’altro rimaneva in ombra, lasciando intravedere unicamente il profilo dei severi frontoni di pietra.
La donna salì le scale e poi si fermò, schermandosi gli occhi con la mano per proteggerli dalla luce lunare, il cui splendore era quasi accecante. Scrutando nel buio scorse - prima vagamente, poi sempre più distintamente - proprio a un paio di metri da lei la sagoma di una porta semiaperta.
Quando la toccò, si schiuse con un sinistro cigolio dei cardini arrugginiti, rivelando un’ampia sala riccamente arredata, ma deserta e semibuia.
Stella l’attraversò senza degnare di uno sguardo i mobili antichi, le tele preziose appese alle pareti rivestite di costoso broccato, i candelabri d’argento scintillanti nella penombra; i suoi piedi nudi calpestavano senza rumore i ricchi tappeti posati sul pavimento di marmo grigio e, sebbene si aprisse davanti a lei una moltitudine di saloni, corridoi e disimpegni, si muoveva senza alcuna esitazione, come se sapesse esattamente dove dirigersi.
La stessa forza misteriosa e inspiegabile che l’aveva guidata in mezzo al bosco ora la conduceva attraverso i meandri di quella magione: ogni stanza, ogni recesso sembrava svelare un ricordo che la donna aveva cercato di ricacciare indietro con tutte le sue forze, senza però riuscirvi del tutto.
Non incontrò nessuno e la cosa non la sorprese: era già accaduto, in un passato lontano ma mai dimenticato.
Stella giunse infine dinanzi a una porta elegantemente ornata di stucchi dorati; la provò e si rese conto che era anche questa aperta. Oltrepassatala, si ritrovò in una camera da letto, vasta e arredata con sfarzo; nella semioscurità scorse le luci tremolanti di alcune candele posate per terra e in mezzo a queste distinse una sagoma di spalle, accovacciata. L’ombra sussultava e si contorceva, china su un’altra massa scura che si allungava sul pavimento e che pareva scossa dai sussulti di una straziante agonia. L’aria era piena di gemiti confusi, misti di piacere e di dolore.
Quando la sagoma sdraiata cessò di dibattersi, improvvisamente anche il silenzio calò sulla stanza: Stella fece un passo avanti e la creatura, senza rialzarsi, si voltò verso di lei.
Stella non urlò, ma tutti i demoni della notte che cavalcano i venti della follia urlarono per lei: in quell’attimo le piombarono addosso i ricordi, non più confusi ma anzi così vividi da schiantarle l’anima.     
Era quasi paralizzata eppure arretrò di un metro, mentre i suoi occhi si rifiutavano di chiudersi, mostrandole in modo distinto la tremenda apparizione.
Di fronte a lei c’era una giovane donna, il cui volto le apparve rischiarato dalla luminosità incerta delle candele: poteva avere al massimo diciotto anni, indossava un abito bianco di foggia antiquata il cui corsetto dai lacci intrecciati le lasciava scoperti il seno e le braccia, d’un biancore tale che al loro confronto l’elegante stoffa pareva grigia e scolorita. Al suo collo splendeva una meravigliosa croce arricchita di pietre preziose, mentre le mani dalle dita affusolate, ornate da lunghe unghie aguzze, riposavano in grembo, avvolte entro raffinati mezzi guanti di pizzo bianco e accanto allo stelo di una rosa bagnata di rugiada.
Rose le ornavano anche i capelli, lunghi e scuri, che le ricadevano in boccoli scomposti sulle spalle e il petto; rose e spine come una corona sul suo capo.
Era immobile e la fissava, il bel viso pallidissimo solcato dalle lacrime, le labbra semiaperte che rivelavano i canini acuminati. I chiari occhi socchiusi esprimevano un godimento selvaggio e Stella, man mano che si abituava all’oscurità della stanza, distinse con orrore crescente le macchie di sangue rosso vivo che imbrattavano il candore dell’abito della fanciulla.
Sangue sul pavimento, sangue sulle cortine azzurro cupo del sontuoso letto a baldacchino accanto al quale la giovane era accovacciata: sangue che gocciolava, saturando l’aria del suo odore disgustoso, dal corpo dell’uomo che aveva intravisto alle spalle della ragazza e che ormai non era altro che un irrigidito cadavere.



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Stella barcollò, incapace di spezzare l’incantesimo in cui la teneva lo sguardo di quella creatura mostruosa; cercò di sollevare una mano per escludere del tutto l’orribile vista, ma i suoi nervi erano tanto scossi che il braccio non le obbedì.
 Il tentativo, comunque, bastò a farle perdere l’equilibrio tanto che incespicò nei suoi stessi piedi e cadde al suolo con un grido.
 
Stella Bonasera sussultò e sbatté le palpebre più volte, ancora sconvolta a causa della scena che le era apparsa davanti agli occhi. Si guardò intorno disorientata e nemmeno il sollievo che le cagionò il fatto di ritrovarsi a casa propria, raggomitolata sul suo divano giallo, bastò a scacciare il terrore che le aveva suscitato la vista di quel volto deformato dall’odio.
L’aveva visto e, cosa anche peggiore, l’aveva riconosciuto.
Si alzò e attraversò il salotto, stringendosi nel vecchio golf di lana mélange a trecce.
Lanciò uno sguardo fuori dalla finestra e, nonostante il tepore dell’appartamento, rabbrividì: in strada, le ombre del crepuscolo sembravano fantasmi. Decine, centinaia di fantasmi che contorcendosi salivano fin lassù.
Le parve a un tratto che avrebbero sfondato i vetri per riversarsi nella camera e che lei vi sarebbe annegata dentro come nell’inchiostro: quanto volentieri vi si sarebbe lasciata sprofondare senza più pensare, senza soffrire ancora…
Nella stanza non restavano colori vivi, l’oscurità gravava su ogni cosa.
Se all’inizio aveva ancora potuto augurarsi che il suo comportamento della notte prima non avesse provocato conseguenze irreparabili, ciò che era accaduto quel giorno era stato sufficiente a cancellare ogni sua residua speranza: lo aveva sentito, prima ancora di averlo capito, nell’istante in cui la visione era tornata a tormentarla di nuovo dopo tanti anni di pace.
Le sue angosciose supposizioni si erano tradotte in certezza, poi, quando aveva visto  
il cadavere della sconosciuta di Stuyvesant Park: il fatto che fosse stata assassinata proprio lì poteva essere una coincidenza, ma le terribili ferite che aveva scorto su di lei non le lasciavano dubbi su chi avesse potuto infliggergliele.
E adesso, si chiese con angoscia la poliziotta per l’ennesima volta, cosa doveva fare?
 
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo terzo ***


 
Con questo capitolo, nel quale a una prima parte più tipicamente CSI se ne contrappone una seconda di tono del tutto diverso, alcune cose saranno svelate. Per tutte le altre, a dopo Natale!
Le frasi evidenziate in grassetto sono la traduzione di alcuni versi della poesia “Le vampire” di C. Baudelaire, che facevano parte del pacchetto da me scelto.
Grazie infinite alle amiche che stanno continuando a leggere e a lasciare il loro parere: non avete idea di quanto mi siate di supporto.
E che il Natale sia per ciascuno di noi un’occasione da vivere con gioia e serenità.
 
 
Capitolo terzo
 
 
“È sempre una pena ritrovarsi sul tavolo una ragazza tanto giovane” disse il patologo Sid Hammerback al tenente Taylor, rivolgendo un ultimo sguardo al povero corpo che aveva appena finito di ripulire ed esaminare.
“Non aveva documenti con sé?” domandò, sfilandosi gli occhiali con un sospiro.
“No” rispose l’altro “ma abbiamo fatto diversi primi piani e preso le impronte digitali; ora le stiamo passando all’AFIS e se non dovessero darci esito positivo proveremo anche con i calchi dentali, sperando di riuscire a dare un nome a questa poveretta”.
“E Stella?” chiese a quel punto il dottore “Ho saputo che stamattina non stava bene”.
“Già!” replicò Mac, con una nota di preoccupazione nella voce che non sfuggì all’altro “Le ho dato la giornata libera e più tardi proverò a chiamarla per sentire come vanno le cose: ma vedrai che sarà stata solo un po’ di stanchezza. Torniamo a noi” aggiunse dopo un istante, recuperando il suo solito tono serio.
Sid annuì e afferrò il braccio del cadavere, facendo nel contempo segno all’amico di avvicinarsi.
“Da’ un’occhiata qui” disse, mostrando i profondi tagli che deturpavano le pelle bianca della ragazza “questi segni di morsi sono insoliti…”.
“In che senso?” chiese il poliziotto, improvvisamente incuriosito.
“Sembra che appartengano a un animale selvatico - un lupo o un coyote - ma” ribatté il medico “non ci sono gli strappi e le irregolarità dovute al trascinamento o allo smembramento, tipici delle ferite inferte dagli animali selvatici”.
“Insomma” proseguì, levando il viso verso il collega “se fosse possibile direi che li ha provocati un uomo. O comunque non un animale selvatico”.
“Ecco, i segni sul corpo sono di artigli, mentre quelli sul collo e la gola sono di morsi”.
“Un’altra cosa strana è che la causa della morte” proseguì “non sono state le ferite, né le lesioni alla carotide (che comunque l’avrebbero uccisa, ma nel giro di qualche minuto), bensì la massiccia perdita di sangue che ha provocato uno shock emorragico devastante, facendo fermare il suo cuore in pochissime decine di secondi.
In pratica questa ragazza aveva in corpo sì e no un terzo del volume sanguigno che avremmo dovuto trovare, data la sua corporatura”.
Il tenente fissò l’amico senza riuscire a reprimere un moto di sorpresa: ecco, questo era veramente singolare.
“Ma, Sid” sbottò “com’è possibile che un dissanguamento tanto violento sia avvenuto
in così poco tempo? E, soprattutto, come mai sulla scena del crimine non abbiamo trovato tutto il sangue che lei ha perso?”.
Il trillo insistente del cellulare costrinse il detective a rispondere, interrompendo l’analisi del dottore; ascoltò per qualche istante e Sid notò che la sua espressione si era improvvisamente incupita.
“Dove?” domandò solo. Poi, una volta ottenuta risposta, aggiunse brevemente: “Arrivo” e chiuse la comunicazione.
Trasse un respiro profondo e rispose alla domanda silenziosa che il patologo gli aveva rivolto: “Devo andare: hanno appena trovato un altro cadavere ridotto esattamente come questo qui”.
 
***
 
“Si dice che i lupi dell’isola di Manhattan fossero talmente feroci che le leggende sui licantropi nacquero tra gli indiani e solo in seguito si diffusero tra i coloni europei…”.
Don Flack lesse ad alta voce dal giornale che aveva comprato andando in ufficio e poi, con un gesto stizzito, lo gettò nel cestino.
“Puah!” esclamò disgustato “Ci mancavano solo i lupi mannari!”.
“I media si sono già scatenati dopo il primo omicidio” replicò Mac, bevendo un sorso dall’ennesima tazza di caffè che aveva contribuito a tenerlo sveglio durante tutta la nottata appena trascorsa.
“E quando c’è stato il secondo, quegli avvoltoi hanno colto la palla al balzo per costruirci sopra una storia horror: panico assicurato e migliaia di copie in più vendute ogni giorno”.
Si sfregò gli occhi e represse a fatica uno sbadiglio.
“Piuttosto” domandò all’amico “tu hai notizie di Stella? Non risponde al cellulare e non è venuta in ufficio nemmeno oggi: certo che in momenti come questi la sua mancanza si sente particolarmente! Tra l’altro il secondo corpo è stato trovato in un vicolo a poche centinaia di metri in linea d’aria da casa sua”.
Il detective scosse la testa e rispose: “No, Mac, mi dispiace. Non ne so nulla; certo che non è da lei sparire così, ma magari ha avuto qualche problema personale…”.
“Bah” esalò l’altro, fissando il telefonino come se in tal modo potesse estorcergli qualche informazione sulla collega.
 “Sarebbe la prima volta in tanti anni. Anzi, mi correggo, la seconda volta” aggiunse  dopo aver riflettuto un istante. Non furono necessarie spiegazioni, dato che anche Flack aveva compreso esattamente il riferimento alla brutta avventura vissuta da Stella alcuni anni prima con il suo ex fidanzato Frankie, che l’aveva sequestrata e picchiata brutalmente.
“Sei preoccupato?” domandò allora il poliziotto “Vuoi che mandi una pattuglia a casa sua?”.
“No, Don, grazie” rispose l’altro alzandosi in piedi e afferrando la giacca “Ci vado io, tanto qui le indagini sono a un punto fermo”.
 
***
 
Stella scese la scala buia e incrostata di muschio, appoggiando una mano alla parete di pietra per non scivolare e cercando di reprimere la sensazione di disagio che le provocava trovarsi in quel luogo umido e fetido.
Giunta alla fine dei gradini, oltrepassò l’arco e la porta di metallo tutta arrugginita che chiudeva la cripta e una corrente d’aria gelida la colpì in volto facendola rabbrividire; nonostante il sentore di corruzione che promanava da quel luogo spettrale le desse la nausea, s’inoltrò all’interno della piccola sala sotterranea, rischiarata solo dalla luce proveniente dal finestrino situato in alto.
Il pavimento di lastroni di pietra grigia consunti dal tempo e dall’umidità s’interrompeva dove, al centro della sala, s’innalzavano degli scalini che portavano a un sarcofago di marmo chiaro, ornato di raffinate volute; Stella avanzò vacillando nella semioscurità e salì i gradini, accorgendosi subito che la lastra che copriva il sepolcro era stata spostata lateralmente, in modo da rivelare il contenuto della tomba.
Ancora prima di guardarvi dentro era certa di ciò che avrebbe visto: nel sarcofago giaceva infatti la stessa fanciulla che aveva già scorto, l’abito imbrattato di sangue e il bel volto deformato da un piacere disumano, accosciata sul pavimento della villa in mezzo al bosco. Lei, proprio lei, perfida e bellissima.
I suoi lineamenti, nonostante fosse distesa in una tomba, possedevano ancora il colore della vita; il suo petto si sollevava e si abbassava per una tenue, ma chiara, respirazione e dalla bara non esalava alcun odore di cadavere.
Il cuore batteva debolmente, le membra apparivano intatte e flessibili, la pelle elastica; nel sepolcro fluttuavano circa venti centimetri di sangue, entro il quale il corpo era immerso.
Stella si chinò sulla creatura, che in quell’esatto istante aprì gli occhi e la guardò.
 
Stavolta la poliziotta lanciò un grido e si portò una mano dinanzi alle labbra in un gesto di terrore; si levò a sedere sul letto, di scatto balzò in piedi e meccanicamente attraversò la camera giungendo davanti alla finestra, dalla quale filtrava la tenue luce del pomeriggio. Era nella sua stanza, eppure non trasse alcun conforto dalla vicinanza degli oggetti che le erano familiari.
Sarebbe inutile cercare di spiegare l’orrore che le aveva suscitato quella nuova visione, che le richiamava alla mente un passato di cui credeva di essersi liberata e che, al contrario, stava tornando a tormentarla con tutta la sua atroce forza. Non era un terrore transitorio, come quelli che seguono gli incubi; era piuttosto una paura che sembrava diventare più forte via via che il tempo passava, tanto che la stanza - perfino i mobili e le pareti - ne pareva essa stessa intrisa.
Rimase immobile a fissare le pesanti tende scure che le impedivano di guardare fuori, fino a che un fievole baluginio metallico proveniente dal basso attirò la sua attenzione, costringendola a spostare lo sguardo sul davanzale di marmo biancastro: inesprimibile fu il suo orrore quando Stella si accorse che lì dove fino a qualche minuto prima - quando aveva chiuso gli occhi nel vano tentativo di riposare un po’- non vi era assolutamente nulla, invece adesso scintillava nella penombra un calice d’argento.
Già l’evento in sé era inspiegabile, ma ciò che maggiormente la sconvolse fu rendersi conto che esso era colmo fino all’orlo di un liquido vischioso color cremisi che non ebbe alcuna difficoltà a identificare all’istante: sangue, sangue vivo. Il suo odore dolciastro e ferroso le riempì le narici, provocandole una fitta di desiderio nelle viscere: da troppo tempo si costringeva a spegnere la sua sete con insulsi surrogati del sangue umano, che non avevano mai potuto regalarle quella meravigliosa sensazione di ebbrezza e di potere che solo il caldo liquido strappato dalla vene di una creatura vivente portava con sé.
Quel sangue voleva dire forza, potenza e immortalità, e suggerlo significava riempire se stessa con la vita che allo stesso tempo abbandonava la sua vittima, riducendola a una misera spoglia svuotata di ogni energia vitale.
Stella annusò con piacere selvaggio quel sentore che da tanti anni aveva rinunciato ad assaporare e, senza interrogarsi sulle conseguenze, allungò una mano per afferrare il calice.
In quell’istante udì un suono fin troppo familiare riempire l’oscurità della stanza: era una voce umana, ma dal timbro strano, distorta come se per giungere fino a lei avesse percorso distanze inimmaginabili.
 
“Tu sei mia, non dimenticarlo.
Tu mi appartieni. È la tua natura e alla propria natura non si può sfuggire”.
 
La donna sussultò e istintivamente ritirò la mano.
Poi, senza voltarsi verso l’angolo buio dal quale proveniva la voce, rispose: “Tu, essere infame, dopo tanti anni sei riuscito a trovarmi! Torna nell’oscuro baratro dal quale sei riemerso, perché il tuo viaggio è stato inutile: io sono cambiata, ho scelto di seguire un destino diverso e non tornerò indietro!
Non sarò mai più la tua schiava”.
Una risata stridula, senza alcuna allegria, fece eco alle parole della detective.
 
Ti illudi… ti illudi di potermi allontanare, adesso che ti ho ritrovata! Tu sei legata a me come è legato ai ferri il criminale, lo strenuo giocatore alla roulette, l’ubriaco alla bottiglia di vino. Come la carogna all’abbraccio del verme… tu sei mia da quella notte lontana, in cui scegliesti di seguirmi per salvarti. È solo questione di tempo, ma alla fine cederai: il richiamo del sangue è troppo potente perché tu possa ignorarlo” ripeté la voce, tenebrosa e allo stesso tempo insinuante come una serpente.
“No!” urlò a quel punto Stella, con tutte le sue forze “Hai ucciso tu quella povera ragazza, non è vero? L’ho capito subito che eri stato tu, non appena ho visto com’era ridotta…”.
 
“Io devo nutrirmi e anche tu hai bisogno di farlo: è il nostro destino e lo sai. Noi siamo immortali, eterni, creature superiori: attraversiamo il tempo e lo spazio e se solo lo volessimo potremmo dominare il mondo. Non lo facciamo perché non ci importa, gli esseri umani solo cibo per quelli come noi.
Adesso fingi di odiare ciò che ho fatto, ma non puoi dimenticare che tu stessa l’hai fatto insieme a me un’infinità di volte!”.
 
La voce ora pareva attraversata da una sfumatura diversa, che non era più di comando ma di tenerezza:  la blandiva, la tentava, richiamandole alla mente ciò che un tempo lontano era stata.
 
“Sei potente, Asteria (2), anche se hai scelto di disconoscere i tuoi poteri in nome di una sciocca e inutile pietà verso i mortali, e io non posso costringerti a seguirmi. Devi sceglierlo tu, liberamente, e quando lo farai saremo insieme per sempre. Come una volta.
Rimarrò qui e non mi fermerò fino a che non avrai deciso di riprendere il tuo posto accanto a me”.
 
“No!”ripeté Stella con voce tremante Vattene, va’ via di qui!Che tu sia maledetto, oggi e sempre!” .
Con un gesto repentino afferrò il calice e lo scagliò contro il muro, dove si rovesciò imbrattando la parete di sangue fresco; la donna contemplò con lo stomaco che le si torceva il liquido vermiglio colare lungo la parete fino alla moquette marrone. Deglutì per inghiottire la saliva che le riempiva la bocca e strinse i pugni: mentre l’ombra si dissolveva e si spegneva l’eco delle sue ultime parole di sfida, si lasciò scivolare sul pavimento.
Si sentiva esausta, come svuotata: adesso sapeva che i suoi timori più oscuri si erano avverati, giacché Lui l’aveva trovata. Evidentemente era bastato usare una sola volta, dopo così tanto tempo, i suoi poteri per salvare se stessa e Mac da quei tre balordi, affinché i sensi raffinatissimi dei quello che era stato il suo padrone la ritrovassero e  il mostro attraversasse un oceano per tornare da lei.
Aveva iniziato a uccidere a New York e la colpa era sua: alla fine aveva seminato l’orrendo contagio anche nel paese che l’aveva adottata e nel quale aveva vissuto serenamente durante gli ultimi anni. Quella ragazza così giovane aveva trovato una morte atroce per causa sua… e altri innocenti l’avrebbero presto seguita.
Il senso di colpa le stringeva il cuore come una morsa, tanto che per la prima volta dopo un tempo che le era parso infinito sentì gli occhi che le si inumidivano; un istante dopo grosse lacrime le rigavano il viso pallidissimo e non riuscì a sollevarsi da terra, mentre i singhiozzi la scuotevano come una tempesta.
Era ancora in quello stato penoso quando udì dei colpi alla porta che la fecero sobbalzare, strappandola al contempo dalle angosciose riflessioni in cui era attanagliata. Riconoscere la voce di Mac che la chiamava insistentemente, in tono preoccupato, fu un istante: Stella si levò dal pavimento e andò ad aprire, mescolati nel suo cuore la gioia profonda di rivederlo in un momento così difficile e il timore che lui forse avrebbe potuto scoprire il suo segreto.
Dio sa quanto avrebbe avuto bisogno di confidarsi con lui ora! Eppure, non poteva ignorare che Mac era proprio il tipo d’uomo che non le avrebbe mai creduto, che l’avrebbe presa per pazza e magari l’avrebbe persino costretta a lasciare il laboratorio giudicandola emotivamente instabile.      
Presso la porta esitò qualche istante, mentre l’uomo continuava a chiamarla e a bussare in modo insistente: forse sarebbe stato meglio non aprirgli, magari avrebbe potuto semplicemente fuggire da New York e sperare che il suo nemico l’avrebbe seguita, liberando la città da quell’infestante presenza.
No, Stella sapeva che non sarebbe andata così: ora che l’aveva trovata, che aveva scoperto il suo nuovo nome e dove viveva, stava certamente studiando ogni aspetto della vita che aveva tentato di costruirsi in quegli anni. Senza dubbio aveva osservato sia Mac che tutti i colleghi - i suoi amici - della Scientifica, aveva scoperto dove abitavano e per quell’essere non sarebbe stato difficile scivolare nelle loro case e sorprenderli senza che potessero in alcun modo difendersi.
Mac, Sheldon, Don, Danny e Lindsay, forse persino la piccola Lucy… tutti erano bersagli, vittime potenziali della fame insaziabile del mostro. 
Se anche fosse riuscita un’altra volta a far perdere le proprie tracce, non aveva dubbi che Lui avrebbe sfogato su di loro la sua frustrazione per essere stato di nuovo abbandonato: li avrebbe uccisi uno dopo l’altro, senza pietà.
Si morse la labbra e, asciugandosi gli occhi con la manica del pullover, aprì l’uscio solo di qualche centimetro, senza invitare il collega a entrare.
“Stella, finalmente!” esclamò l’uomo, fissandola sbalordito.
 “Ma cos’hai? Non stai bene? Ti stiamo cercando da ore, come mai non sei venuta al lavoro e non rispondi nemmeno al telefono?”.
La donna non rispose e abbassò sul pavimento gli occhi gonfi e arrossati. 
Che c’è, non mi fai nemmeno entrare?” disse lui, a questo punto insospettito dallo strano comportamento della collega e preoccupato che alle sue spalle vi fosse qualcuno che la minacciava.
Perciò spinse l’uscio con energia e quello si spalancò senza incontrare alcuna resistenza, dato che Stella non ebbe né la forza né la presenza di spirito per bloccarlo; il detective, mano sulla fondina e sensi in all’erta, entrò nell’appartamento e si guardò intorno, ma nella semioscurità della stanza non scorse nulla di insolito, né tanto meno di allarmante.
Trasse un sospiro di sollievo e si avvicinò all’amica, che era rimasta accanto alla porta e appariva confusa, come sotto shock; chiuse l’uscio e le passò una mano intorno alle spalle, stringendola poi a sé.
“Mio Dio, Stella, ma che ti è successo? Chi ti ha ridotta così?”.
Per un istante aveva temuto che potesse essersi ripetuta la storia di Frankie, che qualcuno si fosse introdotto in casa sua e l’avesse aggredita; eppure la sua collega stava apparentemente bene e non recava sul viso alcun segno di violenza. Solo, appariva sconvolta e terribilmente triste.
La abbracciò e quando appoggiò la testa sulla sua spalla sentì che il suo corpo era scosso da un tremito violento; la strinse ancora più forte e posò le labbra sui suoi capelli scomposti, respirando il tenue sentore di vaniglia che ne promanava. Nei lunghi anni in cui avevano lavorato insieme l’aveva vista spaventata, preoccupata e furiosa; l’aveva vista col volto coperto di lividi, ferita e disperata, eppure non gli era mai sembrata vulnerabile come in quel momento.
Fu preso allora da una tenerezza struggente per quella donna che tanto gli era stata vicina nel momento del bisogno, quando aveva perduto Claire nello stesso giorno in cui la città aveva perso le sue torri; sospirò e le si avvicinò ancora di più, conscio che in quegli istanti ogni cosa sarebbe potuta accadere tra loro.
Eppure Stella con un moto imprevisto si allontanò da lui bruscamente e, arretrando di un paio di passi, rimase immobile a fissarlo, con negli occhi uno sguardo impenetrabile.
Mac recuperò subito la sua consueta compostezza, come se il moto che l’aveva spinto verso di lei neppure fosse stato reale, e disse: “Insomma, perché non rispondi? In ufficio c’è una terribile confusione, siamo pieni di lavoro fin sopra ai capelli e la gente è in preda al panico perché ormai, dopo il secondo omicidio, i mass media stanno già parlando di epidemia di vampirismo o di licantropi a spasso per Central Park!”.
“Secondo omicidio?” ripeté Stella, impallidendo visibilmente.
“Già, tu non potevi saperlo: la notte scorsa è saltato fuori il cadavere di un’altra giovane donna - forse una prostituta a giudicare dall’abbigliamento - dilaniata e quasi completamente dissanguata… anzi, è strano che tu non abbia sentito le sirene, perché è stata trovata a meno di tre isolati da qui, da casa tua”.
La donna represse un sospiro: “Maledetto!” considerò mentalmente “Ha colpito di nuovo e non si fermerà fino a che non avrà ottenuto ciò che vuole. Ma io non posso, non posso: ho giurato sulla tomba di mia madre che non avrei mai più ucciso un essere umano per cibarmi del suo sangue e non posso tradire la sua memoria”.
“Ma forse, forse” sollevò a quel punto gli occhi sul collega che le stava di fronte “c’è una soluzione diversa… solo che non posso riuscirci da sola”.
Una determinata risoluzione si stava facendo strada dentro di lei: probabilmente Mac - proprio lui, con la sua ferrea volontà e tutto il suo scetticismo - era l’unica persona che avrebbe potuto aiutarla a fermare il mostro. Lui non si arrendeva mai e Stella sapeva che avrebbe dato persino la sua stessa vita per impedire nuove stragi di persone innocenti: l’aveva visto lottare in passato come un leone, fino allo stremo, e non mollare la presa se non quando aveva raggiunto il suo obiettivo.
Tuttavia,  sapeva anche che la cosa più difficile sarebbe stata convincerlo a crederle; del resto, in quel momento aveva bisogno - un bisogno disperato - di aprirgli il suo cuore, raccontando finalmente a qualcuno la verità che per troppi anni aveva custodito nel cuore.
“Ascoltami” disse, con voce improvvisamente ferma “C’è una cosa che devi sapere: io non sono chi pensi che sia. Non sono la persona che credi di conoscere”.
Stella era consapevole che un solo gesto avrebbe persuaso Mac più di mille parole, che l’uomo avrebbe tenacemente bollato come sciocche credenze popolari, impossibili da credere: per questo, lesta come un fulmine s’impossessò della pistola che il collega teneva alla cintola e prima che lui - interdetto da quel gesto inaspettato - riuscisse a muovere un muscolo puntò l’arma verso il proprio petto ed esplose un colpo.
 
(2) praticamente la versione greca del nome Stella.
 

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Capitolo 5
*** capitolo quarto ***


  
 

Allora, amiche di efp, avete trascorso un buon Natale? Vi preparate e far follie nella notte che si porterà via quest’anno bisestile?
Nel frattempo, qualcosa della storia di Stella vi sarà svelato; non tutto, però…
Grazie infinite per il vostro sostegno così gentile, sono contentissima che questa storia sia stata ben accolta.
Alla prossima.
 
Capitolo quarto  
 
Mac Taylor gettò un grido e si slanciò verso Stella, aspettandosi di vederla crollare agonizzante sul pavimento; al contrario, non appena il fumo dello sparo si diradò, la scorse in piedi davanti a lui, apparentemente indenne, con ancora nella mano destra la pistola.
Sgranò gli occhi per la sorpresa, mentre la sua mente confusa cercava di attribuire a quel fatto inspiegabile una qualche improbabile causale razionale: quella era la sua arma, l’aveva caricata lui stesso poche ore prima! Com’era possibile che Stella fosse sopravvissuta a un colpo del genere?
Con la bocca spalancata, incapace di articolare una sola parola di senso compiuto, vide l’amica gettare l’arma per terra e fare un passo verso di lui; istintivamente lo sguardo gli cadde sul suo petto, dove si sarebbe aspettato di vedere sgorgare un fiotto di sangue vivo e dove, invece, scorse solamente un foro dai bordi grigiastri aperto nel golf di lana.
Prima che potesse anche solo tentare di riprendersi dalla sorpresa, Stella gli afferrò la mano e, tenendola tra le sue, la appoggiò pochi centimetri sopra il buco lasciato dalla pallottola. Con un tremito, Mac si rese conto che il battito del cuore era talmente flebile da non poter quasi essere percepito; con un moto d’orrore cercò di ritirare la mano, ma lei glielo impedì, tenendola ferma con una forza che gli parve disumana e contribuì ad accrescere il suo atterrito stupore.
“Ma?” esalò a quel punto il poliziotto, tentando di svincolarsi e di arretrare di un passo.
“Ascoltami” ripeté Stella senza distogliere lo sguardo dal suo viso, né permettergli di allontanarsi da lei “Devi ascoltarmi. E non interrompermi, ti prego, perché è la prima volta che racconto la mia storia a qualcuno e se mi fermo non credo che riuscirò più ad andare avanti”.
“Quello che hai visto ti ha sconvolto; mi dispiace di essere stata costretta a farlo, ma era l’unica maniera per convincerti che ciò che ti dirò è la pura verità. Il solo modo perché tu mi creda, anche se i fatti che sentirai ti sembreranno folli e sovvertiranno per sempre le convinzioni sulle quali hai basato la tua vita finora”.   
Lasciò andare la sua mano e trasse un respiro profondo, come sperando di riuscire a trarre da questo la forza necessaria. Dopo una pausa che al detective parve infinitamente lunga, disse:
“Io non mi chiamo Stella Bonasera. Il mio nome è Asteria Sophia Iannellis e sono nata nell’isola di Chios il 21 dicembre 1661. Mio padre era un soldato e morì che io ero praticamente in fasce, servendo sotto le insegne della Sublime Porta.
Così rimanemmo io e mia madre: ero solo una bambina e lei poteva avere sì e no venticinque anni. Era così bella: sottile, sorridente, con lunghi capelli scuri, una curva dolce degli zigomi e il portamento altero. Nonostante la nostra povertà e la sua bellezza, era conosciuta da tutti come una donna onesta; poiché da ragazza aveva lavorato come cucitrice da una modista, manteneva se stessa e me cucendo per la gente del circondario.
Riuscimmo a cavarcela fino a che la nostra strada non incrociò quella di Theodora Vaxevanis: era una vicina, rimasta anche lei vedova, e faceva lo stesso mestiere di mia madre. Entrarono in competizione e ben presto tra loro sorsero discordia a gelosia.
Dopo un po’ accadde che il braccio e la mano destra di Theodora si gonfiarono e divennero violacei, tanto che lei soffriva di dolori atroci e non poteva più cucire; si rivolse al dottore del villaggio, che provò tutti i rimedi conosciuti per far sparire i sintomi senza riuscire però a trovare una cura.
Ben presto le vecchie del paese, che già guardavano male mia madre - una donna ancora giovane, bella e soprattutto sola - diffusero la voce che lei avesse stregato il braccio alla sua rivale: Dio Santo, quante sciocchezze furono in grado di inventare, con terribile crudeltà! La nostra vicina, poi, aggiunse di avere scorto mia madre che più di una volta se ne stava alla finestra sfregandosi il braccio destro e fissando con occhi torvi casa sua; lei si stava solo massaggiando le ossa indolenzite a causa delle tante ore di lavoro e invece…”.
La poliziotta scosse tristemente il capo, mentre la voce le si incrinava nel ricordare il momento più doloroso della sua lunga vita.
“Il processo fu breve e spietato: c’ero anche io nell’aula e non ho mai dimenticato le parole sprezzanti del giudice Nikos Constantopoulos che interrogava mia madre, mentre lei cercava di trattenere le lacrime per non sconvolgermi. Fuori, la folla rumoreggiava come impazzita, covando il proposito di strapparla alle guardie per darle una morte ancora più raccapricciante.
Alla fine lei, sotto minaccia di tortura, confessò di essere una strega e fu condannata all’impiccagione; morì una pallida mattina di novembre e io non ebbi nemmeno la possibilità di salutarla un’ultima volta…
Il braccio di Theodora guarì misteriosamente lo stesso giorno e tutto il villaggio ne trasse la conferma che la mia povera madre era davvero una strega. Avevo appena sei anni ed ero già sola al mondo: per fortuna, una signora di buona famiglia ebbe pietà della mia situazione e mi prese a vivere con sé”.
Mac vide passare negli occhi lustri di Stella una strana vaghezza, tanto da non comprendere se stesse parlando a lui, oppure a se stessa.
“Ricordo molto bene mia madre, anche se ero così piccola allora: era dolce e affettuosa e il pensiero di lei mi ha sempre accompagnato, rincuorandomi nei momenti di difficoltà e tristezza”.
La sua voce si ruppe in un gemito: “Ho desiderato mia madre, nessuno sa quanto! Lei era tutta amore e tenerezza, mentre il mondo non è altro che solitudine e crudeltà…
Ma il mio calvario non era finito: sventura volle che tempo dopo un pomeriggio - non avevo nemmeno diciotto anni - mentre tornavo dal mercato incontrassi per strada il giudice Constantopoulos.
Capii che mi aveva riconosciuta immediatamente, poiché avevo risvegliato in lui il ricordo di mia madre: come le assomigliavo, allora! Ero solo più giovane, più fresca ai suoi occhi lussuriosi, ma avevo gli stessi riccioli neri, la stessa vita sottile, il medesimo portamento. Ero molto diversa soltanto nell’espressione del viso: quanto lei era incline al sorriso, altrettanto io avevo spesso un’espressione tesa, timida, triste. La vita mi aveva insegnato così…  
Mi fermò, mi chiese il mio nome e, sebbene io non avessi usato con lui altra cortesia che quella di fermarmi, compresi che quel maledetto aveva messo gli occhi su di me e non si sarebbe fermato fino a che io non avessi ceduto alle sue squallide pretese.   
Qualche giorno dopo - ero andata a raccogliere erbe e radici alla periferia del villaggio -  me lo vidi comparire davanti: mi sbarrò la strada e venne verso di me con la fronte aggrottata e negli occhi un baluginio disgustoso che compresi immediatamente, sebbene non fossi che una ragazzina.
Mi si avvicinò e mi sollevò il mento con due dita verso il suo volto severo, adesso deformato dalla gioia di avermi così vicina; io ero troppo spaventata e sorpresa per riuscire a reagire e fui costretta ad ascoltare le oscenità che provenivano dalla bocca di quell’indegno servitore del Sultano. Mi appariva vecchio e orrendo, con le sue guance vizze e gli acquosi occhi grigi, ma anche se fosse stato bello come Apollo per me sarebbe stato sempre colui che aveva decretato la morte della mia povera madre, condannandola per una sciocca superstizione.  
Insomma, il solo tocco delle sue mani mi faceva venire i brividi; quando mi afferrò per le spalle e mi attirò a sé, quando per una frazione di secondo le sue labbra esangui toccarono un angolo della mia bocca nonostante istintivamente avessi girato la faccia per evitarlo, il disgusto supremo mi diede la forza di pestargli un piede, strappargli le mani dalle mie spalle e liberarmi.
Poi gridai con tutto il fiato che avevo in corpo: “Così, questo è l’onorabile Nikos Constantopoulos?  Un nobile che amministra la giustizia, oppure solo un aggressore di fanciulle? Fatevi avanti di nuovo, se avete il coraggio, perché non esiterò a cavarvi gli occhi con le mie mani!”.
Lui esitò un istante, anche perché lungo il sentiero stavano scendendo due cavalieri e avrebbe fatto una ben magra figura se fosse stato colto mentre cercava di insidiare una ragazzina.
“Strega figlia di strega!” sibilò allora contro di me, furioso per non aver ottenuto ciò che gli pareva ormai tanto vicino “Dovevo immaginarlo: hai la stessa anima nera di tua madre!”.
Quella frase fu per me più dolorosa di una pugnalata; trattenni il respiro e con fatica repressi l’impulso di saltare al collo di quel bastardo.
Non riuscii però a trattenere le parole che segnarono la mia sorte: “Sapevo che la vostra bocca volgare avrebbe offeso la memoria della mia sfortunata madre” risposi, fissandolo in volto e senza accorgermi di quanto si fossero avvicinati nel frattempo i due cavalieri “Proprio così: sono abbastanza strega da sfuggire alle vostre mire perverse, per quanti sforzi potrete mai fare…”.
Il clima di superstizioso terrore era tale in quel momento nel mio paese che bastarono le mie parole imprudenti, unite al ricordo della sorte che dodici anni prima era stata riservata a mia madre, perché fossi subito arrestata e sottoposta a processo con l’accusa di stregoneria.
Fui rinchiusa in cella - nella medesima cella dove era stata imprigionata lei - sotto la pressione della folla, che rumoreggiava e minacciava di linciarmi, gridando che non si era mai visto un caso tanto lampante di trasmissione ereditaria di poteri magici.
Ovviamente il giudice aveva avuto un ruolo non trascurabile in tutta la faccenda e compresi subito che intendeva usare il suo ruolo e il suo prestigio per costringermi a cedere: mi lasciò per ore da sola nella prigione umida e fredda, con l’unica compagnia del ricordo di ciò che mia madre aveva sofferto entro quelle stesse mura rese viscide dal muschio.  Poi, quando ritenne che la solitudine e la paura mi avessero resa più malleabile, venne a farmi visita: lo ricordo ancora, col volto solcato dalle rughe reso ancora più spaventoso dalla luce incerta della candela che teneva tra le mani e che appoggiò sul tavolaccio che fungeva da letto.
Nell’altra mano stringeva un involto si stoffa, che posò per terra, mentre con la destra trasse dalla tasca della giacca un plico recante il suo sigillo impresso nella ceralacca. Col trionfo negli occhi, lo aprì e me ne mostrò il contenuto: si trattava di una Grazia, redatta da lui stesso in mio favore e che mi avrebbe evitato il processo e la sicura condanna a morte. Me la sventolò davanti alla faccia e disse senza mezzi termini che avrei avuto salva la vita a condizione di cedergli la mia innocenza. Una volta e fino a che ne avesse avuto desiderio…     
Il disgusto e la rabbia mi impedirono di rispondergli come avrei dovuto, come mi era stato insegnato a fare; sapevo che ero perduta e la disperazione si stava rapidamente impadronendo di me.
Mi disse che sapeva che sarei stata ragionevole, che comunque, se anche avessi rifiutato, era nelle condizioni di prendersi da me con la forza ciò che adesso mi stava offrendo gentilmente (disse proprio così, quell’essere infame!) e che se non avessi giocato bene le mie carte avrei perso sia l’innocenza che la vita per mano sua.
Prima di andarsene, indicò il fagotto sul pavimento e concluse che mi avrebbe aspettato quella notte nel suo palazzo; le guardie della prigione avevano già ricevuto l’ordine di farmi uscire e di scortarmi fin lì.
Quando ebbe richiuso dietro di sé la porta, con le mani che mi tremavano aprii l’involto e la luce tremolante della candela che lui aveva lasciato lì apposta rivelò il frutto deforme delle fantasie perverse del mio nemico: una croce tempestata di pietre preziose, costose rose rosse, guanti di pizzo e un abito di seta bianca, raffinato e costoso, ma degno della più lercia sgualdrina dell’isola e non di una timida vergine com’ero io… ecco cosa voleva fare di me! Non solo sottomettermi, mostrandomi la sua forza e il suo potere, ma umiliarmi, trasformandomi in una sudicia puttana pronta a soddisfare ogni suo capriccio!
Ero talmente terrorizzata da non riuscire nemmeno più a piangere: non avevo nessuna via d’uscita, ero in trappola. Potevo decidere di accettare e diventare la concubina del mostro che aveva ucciso mia madre, oppure scegliere di lottare e perdere anche la vita, oltre che l’onore. Con un gesto di rabbia cieca scagliai il fagotto e tutto ciò che conteneva contro la parete e così facendo la candela cadde al suolo e con un guizzo si spense. Adesso mi circondavano le tenebre più fitte, ma non me ne importava perché sulla terra non esiste luogo tanto buio quanto lo era il mio cuore in quel momento.
Man mano che i miei occhi si abituavano all’oscurità della stanza, scorsi nell’angolo più lontano come un’ombra più densa e scura delle tenebre che la circondavano: era enorme e si contorceva come un serpente. Sbattei le palpebre, incredula, e mi alzai in piedi: mi sentivo talmente devastata che non pensavo sarei riuscita a provare altro spavento, né altro dolore, e anzi dentro di me speravo in una morte più rapida e onorevole di quella che mi era stata prospettata. (segue)
 
Perdonatemi se ho spezzato in due il capitolo, lasciandovi in sospeso, ma altrimenti ho temuto che sarebbe diventato troppo lungo da leggere e forse un po’ contorto da seguire.
Il racconto di Stella è liberamente ispirato alla novella dei primi del ‘900  dal titolo “Progenie di strega”, scritta dal giornalista americano Henry Wire.

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Capitolo 6
*** Capitolo quinto ***


 Ed ecco la seconda parte del racconto di Stella: spero che adesso le sue visioni inquietanti svelino anche a voi il loro mistero e che la creatura fatta d'ombra soddisfi finalmente le vostre curiosità.
  Grazie infinite a chi continua a seguire questa storia, spero che abbiate trascorso un ottimo Capodanno e vi auguro un 2013 ricco di soddisfazioni e serenità!
 
 
In me c’era soprattutto - e stranamente - curiosità: quando arrivai a un paio di metri dalla forma misteriosa, udii una voce che sembrava provenire esattamente da quell’oscurità palpitante. Non era affatto spaventosa, ma anzi aveva un timbro carezzevole e gentile, come da molto tempo ormai non mi capitava di udire; solo, certamente non apparteneva e un uomo, a un essere di carne e di sangue com’ero io allora.
In un altro momento sarei scappata via, folle di terrore, mi sarei aggrappata alle sbarre e avrei urlato sperando di richiamare l’attenzione delle guardie; in quello, invece, sentivo che ciò che avevo davanti non poteva essere peggio dei figli di Adamo con i quali avevo diviso il mio destino fino ad allora.
Non mi disse chi - che cosa - era e, del resto, che importanza avrebbe avuto saperlo? Eppure compresi che era potente, di un potere incredibile: mi disse che conosceva mia madre e che lei era stata davvero una strega. Quando era stata scoperta e condannata, era andato anche da lei offrendole ciò che adesso stava offrendo a me: la libertà e una nuova vita in cambio del suo sangue e della devozione per tutta l’eternità. L’aveva scelta per i suoi poteri, gli stessi che aveva trasmesso a me senza che io ne fossi consapevole; lei non aveva accettato, forse perché più di me sapeva a cosa sarebbe andata incontro e aveva preferito, nonostante tutto, la morte.
Invece io… io ero giovane e impulsiva e così piena di odio verso il giudice e tutti coloro che senza un attimo di esitazione mi avevano condannata, che cedetti: in fondo, cosa poteva accadermi di peggio che finire tra le grinfie lascive di quel vecchio odioso? Chi era il mostro, Mac? Chi era, quell'essere oscuro che veniva a offrirmi una possibilità di riscatto, oppure un uomo che abusava del suo potere per rubare l'innocenza a una creatura sola e infelice? Fu così che il vrykolakas (3) mi uccise, bevve il mio sangue e mi rese ciò che sono adesso.
Sentii dolore solo all’inizio, quando i suoi artigli mi lacerarono la carne, ma subito dopo mi invase una sensazione di sopore, di dolce sonnolenza - come quando mi addormentavo, nei torridi pomeriggi d’estate, sulle ginocchia di mia madre. Mi abbandonai completamente a lui, accettando senza riserve la trasformazione.
Fu come scivolare, lasciarsi andare, annegare in un mare d’inchiostro: nessun dolore, nessuna paura, nessun rimorso.
Quando riaprii gli occhi, l’essere era scomparso e io mi sentivo bene come non mai: ero forte, sveglia, elastica. Nelle mie vene correva una linfa nuova, tumultuosa, e il mio cervello ne era come annebbiato.
I ricordi di ciò che avvenne dopo sono confusi: evidentemente indossai l’abito bianco che mi avrebbe aperto le porte della prigione, intrecciai tra i capelli le rose che il giudice mi aveva lasciato e attraversai il bosco, fino alla sua villa.
Era una notte fredda e nebbiosa, ma io - sebbene fossi seminuda in quel corsetto da sgualdrina di seta bianca - non avvertivo nessuna sensazione sgradevole: i miei sensi erano divenuti incredibilmente acuti, come quelli di un animale selvatico, e per la prima volta nella mia vita mi sentivo potente, sapevo che sarei stata io la più forte. Che avrei finalmente avuto vendetta per ciò che era stato fatto a mia madre”. 
Mac deglutì e serrò le mascelle.
“Lo uccidesti?”  ansimò.
Stella annuì gravemente e iniziò a tormentarsi le mani, cercando di dominare il fiume impetuoso dei ricordi che rischiavano di sopraffarla.
“Ricordo ancora il suo sguardo lubrico che mi esplorava fin sotto i vestiti, quando mi vide entrare nella sua camera da letto… ricordo come si spense, trasformandosi prima in terrore e poi in dolore quando straziai le sua carni, squarciai le sue vene abiette e feci scempio del suo corpo.
Ricordo che, quando l’ultima scintilla di vita abbandonò quegli occhi che mi avevano frugato con indecente lussuria, non rimaneva nessuna traccia di quello che era stato in vita il potente e severo giudice Nikos Constantopoulos: al suo posto vi era solo un ammasso devastato di carne sanguinolenta.
Il piacere, l’odio e il gusto della vendetta mi avevano sopraffatta: agii come in un sogno e non so quanto tempo durò… so solo che quando ripresi il controllo di me e mi guardai intorno all’istante mi resi conto di ciò che avevo fatto. Di che cosa ero diventata: un mostro condannato per sempre a vivere nascondendosi dagli uomini, perseguitato dal loro odio. Costretto a uccidere per nutrirsi.
Fuggii nel bosco, ma ben presto Lui mi ritrovò e pretese che tenessi fede al mio patto: diventare la sua compagna, dividere l’eternità e il terribile potere che il regno delle tenebre gli aveva attribuito”.
“Ma c-chi… che cosa era?” domandò Mac, confuso e sconvolto.
Stella fece un passo verso l’amico, incrociò le braccia e rispose, per la prima volta con la voce incrinata da un percepibile tremito.
“Il vrykolakas è essere a metà strada tra un vampiro e un lupo mannaro… alcuni dicono che gli uomini che in vita sono stati malvagi o hanno subito una scomunica quando muoiono diventano  dei “revenants”: larve che tornano dalla morte per funestare il riposo dei vivi, che si nutrono del loro sangue e della loro essenza vitale e da ciò traggono forza”.
“E tu, vuoi dire che tu…” l’uomo non riuscì a completare la frase: ciò che aveva appena visto e udito usciva completamente dai suoi schemi e gli imponeva di prendere in considerazione l’evidenza di cose che aveva sempre relegato al rango di mere superstizioni, di chiacchiere sciocche indegne di uno scienziato.
Aveva sempre fatto affidamento sui propri sensi acuti e la sua razionalità ferrea: come poteva adesso rinnegare che Stella, invece di essere sul tavolo di un obitorio con un proiettile nel torace, se ne stava in piedi di fronte e a lui e gli parlava… era viva, o almeno pareva essere viva.
La donna levò sul tenente uno sguardo umido di lacrime e avanzò ancora di un passo; quando tuttavia si accorse che Mac istintivamente arretrava, come per evitare il contatto con lei, serrò le labbra in una piega esangue e si bloccò.
“Io sono diventata come lui: esatto, la tua collega, la tua fedele amica non è altro che un mostro. Un essere immondo uscito da una tomba fetida per seminare follia e morte sulla Terra”.
“Ma come è possibile?” trovò finalmente la forza di articolare il detective “Io non ho mai notato nulla di strano nel tuo comportamento?”.
A quel punto il viso di Stella si tese in un sorriso amaro: “Se ti riferisci al fatto che quelli come me non sopporterebbero la luce del giorno e non si rifletterebbero negli specchi, sappi che si tratta solo di chiacchiere superstiziose inventate nell’illusione di poterci  riconoscere più facilmente…” 
“Aspetta!” anticipò poi la sua successiva domanda “La mia storia non è ancora finita: non resistetti a lungo insieme a Lui, perché una volta soddisfatta la mia sete di vendetta mi resi conto che non sarei mai stata in grado di continuare a uccidere per cibarmi e mantenermi potente. Farlo avrebbe significato gettare nel fango tutto ciò che mi era stato insegnato fin da quando ero una bambina.
Non era la mia natura: mi ero lasciata trascinare dall’odio, ma non potevo… capisci, non potevo continuare! Più volte tentai di fuggire, ma riuscì sempre a ritrovarmi e a piegarmi ancora al suo volere”.
Io sono legata a lui” continuò Stella, quasi ripetendo una funebre cantilena “come il forzato alla catena, lo strenuo giocatore alla roulette, l’ubriaco alla bottiglia di vino. Come la carogna all’abbraccio del verme…”
 
“Io-io non riesco a crederci!” esclamò a quel punto il tenente “Ho visto qual è stata la tua vita in questi anni, so che l’hai dedicata a proteggere le persone, a fermare i criminali”.
“È così, infatti” rispose Stella senza smettere di guardarlo “alla fine mi resi conto che servendomi dei poteri di strega potevo tentare di ingannare il mio padrone.
Ci riuscii inscenando la mia “morte”: soggiogai alcuni contadini di Chios e misi in scena il ritrovamento della tomba di un vrykolakas. Feci in modo che fossero compiuti i riti di esorcismo e purificazione che secondo la tradizione possono mettere fine ai vagabondaggi funesti del mostro; un cadavere che si pensò fosse il mio venne trafitto con punte metalliche e inchiodato alla bara affinché non ne uscisse più. Gli vennero recisi i tendini e alla fine sulla tomba, nuovamente chiusa, vennero apposte una croce di cera e un pezzo di ceramica con la scritta “Gesù Cristo vince”.
Io ero tra la folla e presi parte alle preghiere per sincerarmi che tutto fosse credibile: riuscii a ingannarlo e a scomparire senza lasciare dietro di me tracce che il mostro fosse in grado di seguire.
Rinunciai ai miei poteri e mi rassegnai a sopravvivere consumando surrogati del sangue umano; scelsi di dedicare la mia vita a tentare di rimediare al male che avevo fatto quando ero insieme a Lui. Mi sono spostata tante volte, nella mia lunga vita vagabonda, costretta a non restare nello stesso posto troppo a lungo perché la gente si accorgesse che il tempo per me non passa. Costretta a non legarmi mai a nessuno per non rivelare il mio segreto.
Se fossi rimasta con Lui continuando a uccidere innocenti, conserverei ancora adesso l’aspetto della fanciulla che ero quando la mia vita mortale è finita; dato che ho costretto il mio organismo a cibarsi solo di sangue animale o del contenuto di sacche di plasma comprate da infermieri disonesti, invece, la mia pelle ha perso splendore, la mia carne cede e pian piano invecchierò in una lenta - lentissima - dissoluzione, senza nemmeno la speranza che la morte ponga fine alla mia eterna agonia.
Qualcuno potrebbe invidiare la mia sorte, l’immortale potere che mi è stato concesso al prezzo della mia umanità, e invece io credo che non esista nulla di peggio della condanna alla solitudine senza fine: ci sono solamente io e i miei ricordi. E i miei rimorsi.
Ho cercato di fare del bene, di affermare la giustizia, di salvare persone innocenti da esseri che, sia pure perfettamente umani, a volte si sono rivelati mostruosi come e più di quanto io non sia mai stata. Sono arrivata qui e ho conosciuto tutti voi… e te.
Ho creduto di avere trovato finalmente un posto nel quale potermi sentire come a casa, tra persone che consideravo quasi una famiglia; la mia “copertura” ha tenuto fino all’altra notte, quando ho dovuto affrontare quei tre che altrimenti ti avrebbero ucciso… sono stata costretta a servirmi dei miei poteri per la prima volta dopo secoli e lui subito mi ha trovata. È bastato questo, solo questo, e immediatamente è comparso a New York”.
“Quindi vuoi dire che i due omicidi sono stati commessi da questo… questo” Mac esitava, non riuscendo a capire bene quale termine utilizzare “ essere mostruoso che tu hai chiamato vrykolakas e che ti avrebbe seguito fin qui in città?”.
“Ne ho avuto il sospetto” ribatté Stella, reprimendo un singhiozzo “quando ho visto il primo cadavere…”.
“Ecco perché eri così sconvolta e sei dovuta correre via!” la interruppe l’uomo.
“E i miei timori sono diventati certezza quando l’ho visto: è stato qui, in questa stessa casa, poco prima che arrivassi tu”.
“Così hai portato nella nostra città il mostro che ha già ucciso due persone e forse ne ha ammazzate altre mentre noi ce ne stiamo qui a parlare!?” il suo tono adesso era freddo e tagliente come una lama.
Mac e Stella rimasero immobili, l’uno di fronte all’altro, senza saper cosa dire: tra loro solo pochi metri e una distanza incolmabile.
Aveva sperato che le credesse, che comprendesse il suo strazio, che cercasse di superare i propri pregiudizi.
Lei gli si avvicinò, il volto adesso solcato da lacrime amare: come aveva potuto pretendere che uno come lui mettesse da parte tutto ciò in cui aveva fino ad allora creduto per amore suo, di un essere sconosciuto e mostruoso, che si era macchiato di crimini orrendi e gli aveva mentito per anni sulla sua stessa natura?
     
“So che sei sconvolto” mormorò Stella, facendo un altro passo verso il collega “So che  credere a ciò che ti ho raccontato è difficile, quasi impossibile per te. Eppure ti sto implorando di farlo, perché è la verità e perché ho bisogno del tuo aiuto”.
Mac non rispose, ma levò su di lei uno sguardo interrogativo; la sua abilità nel comprendere se chi aveva di fronte stesse mentendo o meno, affinata nei tanti anni trascorsi in polizia, gli diceva che quel che aveva appena ascoltato era vero. O almeno che lei era sicura che lo fosse, mentre parlava.
“Esatto” ripeté “ho bisogno del tuo aiuto: la mia vita è legata indissolubilmente alla sua e per questo da sola non sono abbastanza forte per sconfiggere il mostro. Ma se tu sarai con me forse potremo riuscirci”.
“Ti prego, aiutami: dobbiamo fermarlo o continuerà a uccidere senza fermarsi fino a che non avrà ottenuto ciò per cui è venuto qui”.
Mac strinse i pugni e abbassò lo sguardo sul pavimento, sfuggendo quello di Stella: spesso in vita sua era stato posto di fronte alla necessità di scegliere, di decidere da che parte stare, ma si era sempre trattato di situazioni che aveva la capacità di comprendere e, quindi, di gestire. Adesso, invece, una realtà mostruosa eppure indiscutibile aveva squarciato il velo della sua ordinaria esistenza, imponendogli di prendere atto di qualcosa che soltanto fino a poco prima avrebbe giudicato del tutto folle e incredibile.
Era troppo per lui: l’orrore e il disorientamento si mescolavano con la rabbia. Si sentiva tradito dalla persona di cui più si era fidato, ingannato da colei che più gli era stata vicina negli anni. E quando Stella gli mise la mano sul braccio e ripeté con voce incrinata la sua richiesta, l’unica cosa che seppe fare fu di scostarsi bruscamente, quasi che il contatto con lei l’avesse scottato o fosse troppo repellente da sopportare.
Fece un passo verso la porta, senza guardarla in volto.
“Ascoltami, Mac” disse Stella, immobile al centro della stanza “Dobbiamo agire entro l’alba di domani: la notte del sabato è l’unico momento in cui il vrykolakas non può uccidere. Io lo cercherò e proverò a fermarlo, ma da sola sarà ancora più difficile: ti supplico, dimmi che mi aiuterai…”.
In silenzio, incapace di dire nulla, l’uomo si voltò e uscì dall’appartamento.
 

(3) La parola vrykolakas ha una radice slava e a quanto sembra discende da termini che significano "lupo" e “capelli o pelle di lupo”, tanto che originariamente significava "lupo mannaro", conserva ancora questo significato nelle lingue slave moderne e ne ha uno simile in rumeno.

Ma il salto etimologico da licantropo a vampiro è a tutt’oggi oscuro. La prima menzione del vrykolakas è fatta da Leo Allatius (Leone Allacci) nel 1645 nella sua opera “De quorundam Graecorum Opinationibus”: secondo questo religioso, il termine “vrykolakas” deriva da parole che significano “pozzo nero” e lui è una persona cattiva e malvagia, che potrebbe essere stata scomunicata in vita da un vescovo.

Il suo corpo, dopo la morte, si gonfia in modo che tutte le sue membra appaiono distese e quando le si tocca producono come il suono di un tamburo; sono creature diaboliche che possono vagare liberamente a qualsiasi ora del giorno o della notte.

Nell’isola di Chios c’è l’usanza di non rispondere fino a quando il proprio nome non sia stato chiamato due volte, giacché si crede che il vrykolakas sia in grado di chiamare un vivente solo una volta. Se si risponde prima ed è lui a pronunciare il nome della vittima, questa morirà nel giro di ventiquattro ore. Il vrykolakas è visibile anche durante il giorno e il suo aspetto è così orribile che i testimoni hanno riferito di aver rischiato morire di paura.

Allatius racconta anche che quando un’epidemia misteriosa e incurabile funestava un villaggio, gli abitanti usavano aprire le tombe alla ricerca di un corpo nella condizione sopra descritta, ovvero con l’aspetto roseo e sano di una persona vivente. I greci tradizionalmente credono che una persona possa diventare un vrykolakas dopo la morte a causa di un modo di vivere sacrilego, una scomunica, una sepoltura in terra non consacrata, o del consumo della carne di una pecora che era stato uccisa da un lupo o un lupo mannaro.

Alcuni credevano che un lupo mannaro potesse diventare un potente vampiro dopo essere stato ucciso, mantenendo del lupo le zanne, il pelo e gli occhi luminosi. Altre testimonianze dei vrykolakas sono quelle lasciate da Padre Francois Richard, nella sua “Relation de l'Isle de Sant-Erini”, 1657: Richard sostiene che il diavolo lascia taluni cadaveri incorrotti e li anima, tanto che questi, sotto il suo comando, sono in grado di andare in giro, entrare nelle case e assalire persone uccidendole.

Quando un paese è afflitto da una tale infestazione di vrykolakas - prosegue l’autore - si chiede al Vescovo il permesso di riesumare il sospetto e ciò viene fatto di sabato, l'unico giorno in cui un vrykolakas non può muoversi dalla tomba.

Se il corpo è ritrovato "fresco e rimpinzato di sangue nuovo", viene esorcizzato con la preghiera fino a quando non si scioglie davanti ai loro occhi. Se la preghiera è inefficace, il corpo viene smembrato e poi cremato; altri metodi erano l’apposizione di una croce di cera e un pezzo di ceramica con la scritta "Gesù Cristo vince" sul cadavere.

Nel diciottesimo secolo il viaggiatore francese Pitton de Tournefort si riferisce al revenant come ad un "lupo mannaro" e racconta di avere assistito alla riesumazione e alla “uccisione” di vrykolakas presso l’isola di Mykonos. Uno dei pochi casi di vrykolakas o vorvolaka comparsi in un film è la pellicola “l'Isola della morte”, con l’icona dei film horror Boris Karloff: il film, diretto da Mark Robson e prodotto dal leggendario Val Lewton, ruota attorno un gruppo di persone in una piccola isola, la cui vita è minacciata da una forza che alcuni ritengono essere la peste e gli altri credono essere, invece, l'opera di un vorvolaka. Infine, scavi archeologici a Lesbo e nella sua capitale Mitilene hanno portato alla luce due sepolture di presunti vrykolakas: entrambi erano uomini di mezza età sepolti con punte di metallo lunghe venti centimetri infilate nel collo e in altre parti del corpo, secondo un metodo tipico dei Balcani di trattare con un revenant sospetto. (fonte: wikipedia).

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


E così siamo giunti anche alla fine di questo racconto. Per me il fatto che sia piaciuto è stata una gioia immensa - e in parte inaspettata - e di questo ringrazio tutti coloro che l’hanno commentato, l'hanno inserito tra le storie preferite o tra quelle seguite. Ma anche chi l’ha solamente letto, riservandogli comunque un po’ del proprio tempo e della propria attenzione.
 

Stella, Mac e il vrykolakas vi salutano, sperando di riuscire a riservarvi ancora qualche sorpresa finale.
Alla prossima.
 
 
 
Epilogo
 
Stella parcheggiò l’auto sul marciapiede davanti al cancello di ferro del Saint Mary’s Orthodox Cemetery; trasse un respiro profondo e scese, chiudendo la portiera dietro di sé.
Non poteva avere la certezza matematica che Lui si fosse nascosto lì, in una delle tombe del più antico camposanto ortodosso di New York, eppure lo conosceva abbastanza bene per comprendere i meccanismi che guidavano le sue azioni, in qualche maniera vincolandole a un’assurda coazione a ripetere.
Le creature come loro, nonostante gli enormi poteri, erano sottoposte a determinate condizioni (4) e una di queste riguardava proprio l’impossibilità di uccidere e cibarsi la notte del sabato: quello era il momento in cui il mostro sarebbe stato vulnerabile e lei doveva cercare di approfittarne, anche se non era certa di riuscire a sopraffarlo con le sue sole forze.
Attese ancora qualche istante, ferma davanti alle volute metalliche del cancello, nella folle speranza che Mac avesse cambiato idea e deciso alla fine di aiutarla, ma nessuno la raggiunse.  
Del resto, il collega se n’era andato da casa sua in silenzio, senza dirle nulla, e nelle ore successive in cui lei aveva cercato di immaginare dove il vrykolakas avesse trovato rifugio, non si era fatto vivo in alcun modo. O non le credeva, oppure - e forse questa era la cosa peggiore - era stato costretto a crederle, ma ciò che aveva saputo lo aveva disgustato troppo perché potesse anche solo pensare di volerla vedere un’altra volta.
A quel pensiero le si riempirono gli occhi di lacrime e dovette tergerle con la mano, trattenendo un singhiozzo.
Sospirò, sforzandosi di riprendere il controllo di sé: in fondo, non poteva aspettarsi nulla di diverso da uno come Mac. La sua inflessibilità, il suo rigore (proprio ciò che, alla fine, l’aveva fatta innamorare di lui) adesso gli impedivano di capire quanto avesse bisogno del suo aiuto e della sua presenza.
Forzare il cancello e schiuderlo con un lento cigolio dei cardini arrugginiti fu facile per la detective, che senza un fiato si inoltrò tra le lapidi di pietra calcarea del piccolo cimitero; calpestava silenziosamente la ghiaia umida di rugiada dei vialetti, guardandosi intorno alla ricerca di un qualche segnale che rivelasse, in quel luogo solitario e spettrale, la presenza di colui che stava cercando.
Tuttavia, se i sensi potevano ancora farla dubitare della giustezza della sua scelta, la vaga sensazione di oppressione che le serrava il petto da quando aveva varcato il cancello le confermava che il mostro doveva effettivamente trovarsi lì: sì, ma dove? In quale delle centinaia di tombe aveva trovato rifugio il suo carnefice?
A un tratto, la sua attenzione si concentrò sulla porta di una delle cripte più antiche e maestose, che era stata lasciata semiaperta; quando vi si avvicinò, si rese conto che il lucchetto che la chiudeva era stato spezzato e gettato al suolo e ciò le diede la conferma che bramava.
Spinse la lastra di metallo, che si schiuse su un’oscurità densa e profonda: ne sgorgò un tanfo di muffa e di vecchio, tanto che Stella involontariamente indietreggiò di un passo. Prima di entrare, trasse dalla cintura la piccola torcia che tante volte aveva usato per illuminare una scena del crimine: sospirò silenziosamente e poi, con cautela, chinò il capo e s’infilò nel maleodorante passaggio, indirizzando il fascio di luce davanti a sé.
Scese la stretta scala appoggiandosi alle pareti rivestite di lastroni di pietra, fino a giungere nella cripta in cui si scorgevano, in nicchie ricavate nelle pareti, una decina di sarcofagi di marmo grigio. Con la torcia illuminò il pavimento ricoperto di polvere, individuando una serie di impronte che conducevano verso una delle tombe.
Senza fare rumore e finanche trattenendo il fiato, tirò fuori dalla tasca le punte metalliche con cui avrebbe compiuto il rito di esorcismo: quando giunse davanti al sepolcro, spostò con forza la lastra che lo copriva, facendola cadere a terra con un tonfo che si propagò, rimbombando e riecheggiando contro le umide volte di pietra.
Stella levò il braccio e contemporaneamente iniziò a recitare ad alta voce la preghiera che il rituale richiedeva.
Subito, tuttavia, una voce più possente, ferma e chiara della sua la bloccò, cristallizzando il suo gesto che non riuscì a trovare compimento.
 
“Fermati, non oserai fare una cosa del genere!
Sai che la tua vita è legata alla mia e che se mi uccidi morirai anche tu… non c’è niente da fare, tu sei legata a me come è legato ai ferri il criminale, lo strenuo giocatore alla roulette, l’ubriaco alla bottiglia di vino. Come la carogna all’abbraccio del verme
Sei pronta a lasciare questa vita? Sei pronta ad affrontare la dannazione eterna in nome dell’amore per i mortali, per queste sciocche creature deboli e limitate? Sei disposta a rinunciare al potere, all’immortalità, alla conoscenza?”. 
 
“Rinunciare a che cosa?” esclamò Stella, senza riuscire tuttavia ad abbassare il braccio, incatenata dalla forza misteriosa dell’essere che aveva davanti “A un’esistenza fatta di solitudine, menzogne e sensi di colpa? Sì, sono pronta…”.
 
“Non è vero. La tua esitazione lo dimostra: non sei abbastanza forte per sopraffarmi. La tua volontà non è abbastanza salda, perché tu non vuoi davvero lasciare questa Terra.
Non lo vuoi, c’è qualcosa che ti lega ancora più della catena che io ho stretto intorno al tuo cuore tanti secoli fa…”
 
“No!” gridò lei, serrando le dita convulsamente intorno al metallo “No! Ormai non c’è più nulla che mi tiene legata a questa esistenza che ti ostini a chiamare vita, ma che vita non è”.
 
E allora fallo, fallo se ne hai la forza: uccidi me e te stessa” la voce risuonava perfettamente calma, senza alcun tremito, ma anzi con una sfumatura canzonatoria che produsse l’effetto di far ribollire ancor di più il sangue nelle vene a Stella.
Sollevò il braccio, rivolgendo una delle punte acuminate all’altezza del cuore dell’essere che giaceva immobile nel sepolcro… strinse i denti e serrò le palpebre nello sforzo. Per un lunghissimo istante rimase così, immobilizzata in un gesto lasciato a metà, fino a che una forza invisibile la rovesciò all’indietro sul pavimento lercio, strappandole un gemito di sorpresa e dolore.
Riuscì a mettersi in ginocchio, mordendosi le labbra per la disperazione: era vero, non ce l’aveva fatta. Nonostante ci avesse provato con tutte le forze, non era stata in grado di vincere ciò che ancora le impediva di dire addio al mondo… e non si trattava solo dell’incantesimo del mostro.
Chiuse gli occhi e chinò il capo, mentre nelle orecchie le rimbombava la sua terrificante risata di scherno.
 
“Sapevo che non ci saresti riuscita! Sei sempre la sciocca ragazzina che salvai dalla vergogna centinaia di anni fa, non sei cambiata: mi ero illuso che tu fossi all’altezza di dividere con me l’eternità e il potere, ma non era così. Sono stato fin troppo indulgente con te, come non lo sono mai stato con nessuno, nonostante tu mi abbia ingannato e sfuggito. Ma adesso non ripeterò lo stesso errore: verrai con me e sarai la mia schiava, ora e per sempre!”.
 
Una forma oscura più del buio della cripta si era infatti levata dalla tomba e si avvicinava a Stella, lenta e implacabile.
“No, ti supplico!” singhiozzò lei “Preferisco morire: ti prego, uccidimi!”.
 
Se lo facessi, morirei anche io e lo sai” ribatté l’essere “Sei legata a me…
 
“Basta!” la voce severa di Mac Taylor riempì in un istante l’aria pesante della cripta gelida. L’uomo rimase poi in silenzio, spostando lo sguardo prima su Stella - che aveva sollevato il capo e lo guardava con gli occhi spalancati per lo stupore e il sollievo - e poi davanti a sé, verso la penombra densa che minacciava di assalirlo da un momento all’altro.
Dannazione! pensava. Era uno scienziato, un uomo con i piedi ben piantati sulla rassicurante terra e mai - mai - nella sua vita avrebbe pensato di dovere affrontare qualcosa del genere. Qualcosa che non riusciva a capire, che andava contro tutte le sue convinzioni più profonde e a cui non voleva nemmeno credere, ma che comunque gli faceva drizzare i capelli sulla nuca e stringere nervosamente le dita gelate sul calcio della sua, inutile, pistola.
Non accadeva ancora nulla, e quell’attesa era peggio di tutto …
In quell’istante, però, percepì qualcosa che lo fece sobbalzare violentemente, che gli fece trattenere il respiro con un sussulto e contrarre ancor di più la destra sull’arma di servizio che impugnava con mano tremante.
Nelle ombre davanti a loro, a pochi metri da lui e dalla collega, vide qualcosa addensarsi e avanzare… qualcosa di vivo, vibrante, pulsante, animato da una soprannaturale coscienza demoniaca. Attimo dopo attimo, sotto il suo sguardo incredulo, diveniva sempre più densa.
Mac si rese conto chiaramente - e in ciò la sua ragione non gli fu di nessun aiuto - che la terza entità nella cripta era una presenza di inesprimibile malvagità, che il poliziotto poteva più intuire con i suoi sensi sconvolti che distinguere veramente.
Nonostante ciò, sentì un brivido corrergli lungo la spina dorsale e si chiese se, d’improvviso, si fosse davvero abbassata la temperatura oppure se quel gelo repentino che gli serrava le membra fosse solo frutto della sua immaginazione.
Guardò Stella, che nel frattempo si era rialzata: i suoi occhi erano fissi e la fronte corrugata in un’espressione di intensa concentrazione. D’improvviso, sembrava immensamente più vecchia della sua età.
Le sue labbra avevano ora iniziato a muoversi veloci, mormorando parole che il detective non riusciva a capire, mentre la mano sinistra si alzava e si abbassava disegnando croci nell’aria e la destra stringeva ancora le punte di metallo che prima non era riuscita a usare contro la creatura.
Essa diveniva, invece, di momento in momento più vicina e minacciosa.
Dall’alto finestrino cominciò in quel momento a filtrare, dapprima impercettibilmente e poi via via in modo più sensibile, la luce rosata dell’alba: la notte del sabato era finita e il mostro sarebbe stato adesso libero di uccidere di nuovo…
Un terrore cieco travolse il poliziotto quando l’essere, divenuto ormai di carne e di sangue, si volse verso di lui e il suo volto demoniaco fu rivelato senza pietà dalla luce che pioveva dall’alto.
Mac era immobile, incapace di muovere anche solo un muscolo, impietrito come accade, talvolta, durante un incubo.
Il vrykolakas si avvicinò con inquietante lentezza, studiandolo.
Nel silenzio mortale della stanza, si udiva solo il bisbiglio di Stella, che seguitava a ripetere parole incomprensibili in una lingua misteriosa all’indirizzo della creatura.
L’orrore del suo volto era indescrivibile: era apparentemente umano, ma i suoi tratti erano distorti da una malvagità così diabolica che Mac, solo fissandolo per un istante, temette d’impazzire.
Quella mostruosa abiezione lo fissava da dietro occhi come i suoi, sogghignava scoprendo denti come i suoi…e questo lo rendeva ancora più intollerabile.
Stella fece un passo verso di lui; i suoi occhi brillavano febbrili nel viso mortalmente pallido. Sollevò la mano destra, mentre la sua voce - divenuta all’improvviso sonora - echeggiava imperiosa.
Mac fissò ancora l’amica e non poté non notare che il suo volto era imperlato di sudore per il terribile sforzo emotivo che stava sopportando.
Le sillabe magiche riempivano l’aria, rimbombando contro le pareti della cripta: Stella avanzò ancora, brandendo gli stili appuntiti, mentre guardava dritta negli occhi quella demoniaca incarnazione.
All’improvviso, la creatura tese entrambe le braccia in direzione della donna; Mac non vide nulla, eppure percepì che una forza mostruosa si stava sprigionando da essa.
L’aria prese a vibrare, come distorta, e la poliziotta vacillò. Poi fece un passo indietro e, con un grido di dolore, lasciò cadere le punte metalliche che tintinnarono sul pavimento e infine si accasciò al suolo.
Allora il mostro si voltò verso il detective con una disgustosa smorfia di trionfo sul volto deformato dall’odio.
Rise, e Mac pensò che nessuna creatura di questo mondo poteva ridere in quel modo.
Si avvicinò a Stella che, adesso, doveva sembrargli molto più indifesa. Per il momento non degnò d’uno sguardo il detective che, da parte sua, aveva assistito a tutta la scena da semplice spettatore, sbigottito e incapace di muoversi per l’orrore che lo incatenava.
Stella, invece, levò gli occhi sull’amico e gli rivolse uno sguardo che era una muta, ma inequivocabile, richiesta di aiuto.
Il poliziotto dovette chiamare a raccolta tutto il suo coraggio per coprire i pochi passi che lo separavano dal vrykolakas; senza riflettere, senza domandarsi se il piombo mortale potesse o meno fermare la creatura e solo confusamente sperando che almeno l’avrebbe rallentata, usò l’unica arma che possedeva e scaricò l’intero caricatore sul mostro che, colpito al torace e all’addome, lanciò un urlo spaventoso  - che nulla possedeva di umano - e si girò verso di lui.
Con una velocità soprannaturale, senza dargli il tempo di ritrarsi, gli afferrò il polso destro: il suo tocco era gelido come la pelle di un serpente, eppure bruciante, doloroso al pari del fuoco.
Mac urlò per il dolore e tentò di liberarsi da quella morsa che lo serrava, spietata, con una forza che lui non sarebbe mai riuscito a vincere.
Per fortuna, tuttavia, il suo gesto folle aveva consentito a Stella di riprendersi: si rialzò e, stringendo più saldamente i sottili pugnali, si diresse decisa verso il mostro.
La sua voce risuonava autoritaria, senza un tremito.
L’essere lasciò la presa e Mac cadde in ginocchio, tenendosi col sinistro il braccio destro intorpidito come da un gelo mortale; la creatura, indebolita nella sua veste terrena dalle ferite inflittele dal detective, indietreggiò a sua volta, resa più vulnerabile all’esorcismo che Stella stava tentando.
La ferrea volontà della donna la dominava, adesso, tanto che i suoi lineamenti apparivano offuscati dalla rabbia e dal terrore.
Lei se ne stava ferma, eretta e salda; la fissava negli occhi senza arretrare.
Mac invece, in ginocchio, respirava a fatica per il dolore; il braccio fremeva e gli faceva male dal polso fino alle spalle per quel contatto ultraterreno.
Le sillabe della preghiera che Stella stava recitando rotolavano e rimbombavano come il mare in tempesta. Altrettanto potenti, altrettanto incomprensibili.
L’essere mostruoso urlò, facendo tremare le pareti e il pavimento della cripta, quando Stella con un gesto preciso rivolse la punta di acciaio contro il proprio petto e la affondò dritta nel cuore fino all’impugnatura. Cadde in ginocchio, trattenendo a sua volta un gemito di agonia.
Mac a quel punto, nonostante il dolore, si sollevò in piedi e si avvicinò alla collega, ma non riuscì a impedire che Stella, con le energie che le rimanevano, si trafiggesse il polso sinistro con un’altra delle punte che aveva portato con sé, cadendo poi sul pavimento semisvenuta.
Col cuore in gola, quasi sopraffatto dall’angoscia, il poliziotto comprese il disegno di Stella: se evidentemente non era riuscita a uccidere il mostro, avrebbe ucciso se stessa. E quindi anche lui.
L’esorcismo che stava praticando non era diretto contro la creatura, bensì contro se stessa…
Con lo sguardo velato da lacrime di rabbia e di dolore, il detective si inginocchiò accanto a Stella e le sollevò il capo: il suo volto già perdeva colore, divenendo orribilmente livido, e i suoi occhi splendevano cupamente degli ultimi bagliori di vita.
“No, no…” mormorò, scuotendo il capo “Perché?”.
“Ti prego” disse però lei, con voce ancora straordinariamente ferma, nonostante l’agonia che la stringeva ormai come una morsa “Io non ho la forza di completare l’esorcismo… devi farlo tu. Devi liberare per sempre il mondo da questo flagello che lo ha tormentato per centinaia di anni…”.
“Ma questo significherà uccidere anche te” protestò Mac.
Stella annuì lentamente, la voce sempre più flebile.
“È la cosa giusta da fare, l’unica”.
Afferrò le ultime due punte e gliele mise nel palmo della mano destra, chiudendo poi le dita in modo da serrarle intorno a esse.
“Fallo, ti prego, prima che sia troppo tardi…liberami dalla maledizione”.
Mentre Stella continuava a ripetere dolorosamente le sillabe della preghiera, Mac - gli occhi offuscati dalle lacrime, il fiato mozzo - sollevò uno dei due pugnali e con esso inchiodò il sottile polso destro della donna al pavimento di pietra.
Lei non riuscì a trattenere un gemito di dolore, che fece rabbrividire il detective.
Reprimendo un conato di vomito, fissò la creatura che davanti ai suoi occhi - man mano che l’esorcismo procedeva - stava diventando nebbia, tanto che i suoi contorni adesso quasi si confondevano con la semioscurità della stanza.
Stella deglutì e gli lanciò una muta implorazione.
Mentre l’uomo spingeva l’ultima punta esattamente nella gola palpitante della donna che aveva imparato a conoscere e amare nei lunghi anni della loro amicizia, mentre con quel gesto le spezzava il respiro e spegneva la sua vita per sempre, lesse nei suoi occhi spalancati non odio, né dolore, ma solo un’estrema carezza.
Prima di chiudere a sua volta le palpebre, vinto dalla sofferenza, Mac Taylor vide che il mostro era ormai trasparente, il viso cristallizzato in una smorfia di incredula disperazione.
Senza avere il coraggio di guardare ancora una volta il volto di Stella, illividito e già rigido, il detective si tirò su e completò il rituale che aveva studiato nelle ore precedenti, prima di raggiungere la collega.
Era stato combattuto come mai prima di allora e alla fine aveva deciso che non poteva lasciarla sola in un momento del genere, anche se ciò avrebbe significato gettare alle ortiche tutto ciò in cui aveva creduto fino ad allora ed esporsi anche a un terribile rischio. Non era stata una scelta dettata dall’intelletto, né dalla ragione, bensì da un ignoto impulso che affondava le radici nelle profondità più intime della sua anima e del quale non sarebbe riuscito a dare conto a chi gliene avesse chiesto una spiegazione.
In quel momento c’era solo Stella e tutto ciò che era stata per lui negli ultimi anni: chi fosse veramente e che gli avesse mentito… ogni cosa passava in secondo piano di fronte al terrore di perderla per sempre.
Trovare la sua auto localizzandone il GPS era stato facile e individuare la cripta - l’unica aperta - lo era stato ancor di più. 
Trattenendo a fatica le lacrime, frugò nelle tasche della giacca di Stella e ne trasse una croce di cera, che le pose sulla fronte madida di sudore freddo, e un pezzetto di ceramica con la scritta “Gesù Cristo vince”, che le appoggiò all’altezza del cuore.
Quando si volse verso l’estremità della cripta, il vrykolakas era scomparso.
Per l’eternità.
 
FINE
 
 (4) Per tradizione si immagina che i vampiri, pur potenti e quasi immortali, siano vincolati a rispettare determinate regole e consuetudini: ad esempio, J.S.Le Fanu racconta che la protagonista di “Carmilla” fosse costretta a mantenere il suo nome originario nelle diverse incarnazioni e attraverso i secoli, solo anagrammandolo in maniera diversa da Mircalla a Millarca a Carmilla, appunto.

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