Monologo di un'anima errante

di lubitina
(/viewuser.php?uid=190748)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I: L'Inizio ***
Capitolo 2: *** La luce e i rumori ***
Capitolo 3: *** Parte III. In viaggio verso il Buio ***



Capitolo 1
*** Parte I: L'Inizio ***







E' la prima lettera che scrivo. La indirizzo a te amico mio,e non mi aspetto una tua risposta,perché so che quando l'avrai finita di leggere,allora la mia vita sarà spirata via assieme alle sue parole. Ed è anche la prima volta che racconto di me,e voglio farlo con te,amico mio,perché sei l'unico che abbia mai avuto tra gli uomini. I miei ricordi son la cosa più preziosa che io possa donarti,e abbine cura,perché son l'ultima traccia di me che il mondo conserverà. E non voglio morire in silenzio,come un fiore che nasce e appassisce in un campo perduto,ma nella mia morte indegna voglio conservare l'onore che ho avuto in vita. So che se non immortalassi le mie facezie su carta,esse sparirebbero come la parola che smette di risuonare dopo pronunciata,e seppure le urlassi,ed implorassi Dio perché qualcuno mi ricordi,sarebbe inutile e vano,perché il mondo oblia e mescola tutto nella sua incessante cacofonia,e quel tutto va perduto. Ed è una cacofonia assordante quanto il silenzio della vecchiaia e della morte.
Temo l'oblio più della fine,perché si smette di esser vivi solamente quando anche l'ultimo uomo avrà dimenticato la memoria di sé. Temo il silenzio dell'ultimo sonno più della luce di quella Luna che forse non vedrò mai più.
Ti affido la mia anima stanca con i miei ricordi,e abbine cura,perché di me,come di te, rimarrà soltanto qualche riga d'inchiostro e un mucchio d'ossa secche,prima rose dai vermi,poi sbiancate dal sole degli infiniti mezzogiorni.
 
 

 
Ora ti parlerò della mia giovinezza,sperando di non annoiarti.
Nacqui un giorno non troppo lontano in quel paesino sperduto nel Sud,dove il sole splendeva tutto l'anno. Mia madre mi raccontò che avevo gli occhi aperti: e appena uscii dalla sua pancia,cacciai uno strillo,disse poi,quasi a suggellare la mia venuta al mondo. Le levatrici gridarono al miracolo,alla nascita di un nuovo futuro condottiero per il paese. Era  una primavera odorosa ed io un bambino roseo,dopo pochi mesi,con folti capelli neri.
Fui battezzato nella minuscola chiesa del paese,nella piccola piazza principale,e quando il prete mi immerse nell'acqua,reiterai l'urlo,tanto che le vecchiette in chiesa mormorano poi che ero nato con un diavolo dei campi di grano dentro,ucciso dall'acqua santa nel momento in cui urlai. Mia madre ne fu fiera,allorché la potenza dello Spirito Santo aveva sconfitto il male,e poteva star sicura che avrei avuto una coscienza retta,una volta cresciuto,e che non ci sarebbe stato mai più bisogno di un esorcismo. Nel paese si continuò a mormorare a lungo sulla mia nascita,mentre gli spettri dei diavoli dei campi di grano aleggiavano nelle notti umide.
Crebbi con quella diceria addosso,e quando passavo per le strade,ormai cresciuto,se aguzzavo l'orecchio potevo ancora ascoltare i mormorii soffusi del paese al mio passaggio.
 
Mia madre. Lei era una donna forte. Aveva 18 anni quando rimase incinta,di un uomo che non conosceva,e che le aveva strappato la fanciullezza in un granaio,durante una notte di calura estiva,una notte che lei sempre ricordò come un incubo. Era bella,mia madre,con lunghi capelli neri e la pelle chiarissima,gli occhi viola come i petali di un iris;ed era giovane,innocente,e di sicuro fascino,per i grezzi uomini dei campi di grano del sud. Aveva un carattere indomabile,mi raccontò mia nonna: era impossibile costringerla a far qualcosa,come era impossibile riuscire a far affievolire la fiamma metallica nei suoi occhi indaco,che non si spense mai neppure dopo la violenza.
Allora lei,povera e col ventre che sarebbe cresciuto,scelse di tenermi con sé,e non so se ringraziarla o meno,ora come ora. Ammirerò però fino alla mia morte il suo coraggio.
Non so se ebbe altri uomini dopo colui che fu il mio padre naturale,non me ne parlò mai né mai io venni a saper qualcosa a riguardo;nè tantomeno mai mi interessò,perchè chi usa violenza non è degno neppure di esser riconosciuto dagli altri figli di Dio come tale. So però,perchè è ciò che ho potuto toccare con mano,che lei si rimboccò le maniche e  aprì nello sperduto paese il primo e unico commercio di strumenti musicali,perchè sapeva suonare il pianoforte come se fosse Dio a muoverle le dita affusolate. Col tempo,seppi poi,l'attività si ingrandì,fino a poterci consentire un ottimo tenore di vita. Era una donna forte,mia madre. Una vera donna del sud.
“Sei indiavolato,figliolo mio. Sei nato indiavolato!”,diceva lei,quando una volta cresciuto,mi perdevo nel fare qualche marachella. Io non capivo,perchè il diavolo per me era un individuo rosso e lucido,con un forcone in mano,che si nascondeva nei campi di grano,come dicevano i vecchi,e uccideva le pecore succhiandone il sangue. I campi di grano dorati si perdevano a vista d'occhio,con le loro stradine nel mezzo,che conducevano a città lontane. Il vero diavolo,però,scoprii,non è quello che raccontano nelle leggende i vecchi: è quello che è dentro ogni essere umano,quello che dimora assieme all'angelo nella coscienza più intima,e che se prende il sopravvento divora da dentro,fino a far implodere la creatura,e distruggere tutto ciò che ha attorno.
 
 
Cominciai,un bel po' di anni dopo, a farmi i primi compagni di giochi,e ci divertivamo a legare col cappio al collo le lucertole,e portandole così,come cagnolini;facevamo le gare di corsa,finchè non eravamo stanchi e sudati,e questo lo ricorderai sicuramente,amico mio,perchè tu eri già con me.
E ricordo allora le giornate estive della mia infanzia: ricordavo la calura,il sudore che scendeva a goccioline lungo la schiena; la bellezza accecante del sole dell'alba,e l'amaranto del tramonto,che si specchiava nelle pozze lasciate per le strade polverose dai temporali;e i vecchi seduti nelle pozze d'ombra degli alberi di ciliegio,con i loro sigari in bocca e i loro occhi che narravano d'altri tempi. C'erano poi,in quelle strade polverose,gli altri bambini che giocavano,sporchi di terra,e le loro madri che urlavano dalle finestrelle delle casette schiarite dal sole,con quelle silenziose lucertole che si crogiolavano sulle pietre ai bordi. I moscerini che svolazzavano attorno a qualche fico caduto,il canto stanco di un uccello.
Ricordo le sieste interminabili,e ogni tanto qualche delicata melodia di pianoforte scuoteva il silenzio con le sue vibrazioni leggere ,quasi raffreddando l'aria bollente.
Io crebbi allora di pari passo con la musica,di cui mia madre è sempre stata la prima e unica vera maestra,tanto che tutt'ora la considero una Musa antica; lei mi insegnò i nomi delle note,mi fece scoprire le vibrazioni delle corde del pianoforte,alle 5 linee con i 4 spazi,e mi introdusse il mondo che all'interno di esse si poteva creare.
Mia madre mi aprì la mente,mi donò una sensibilità dolorosa.
Lei mi diede le chiavi per un mondo fatto solo di suoni,castelli di suoni,persone che possedevano corpo solo creato da vibrazioni;un mondo colorato dall'armonia. Fiumi interi che scorrevano in un unico sol,gocce di pioggia che cadevano tra re diesis e do. La struggente bellezza del sud, trasfigurata in musica dalla mia mente di bambino. Quello,quel luogo di fantasia,è l'unico mondo che,amico mio,posso sentire ancora mio,quando ascolto i canti degli uccelli tra gli alberi frondosi. Niente è più mio.
 
 
Le donne,poi,le donne! Le splendide donne della nostra patria,con i lunghi capelli corvini,e l'odore del fumo sulla pelle scurita dal sole;la voce arrochita dalle urla verso i figli,i mariti,e dai sigari sottratti a questi,e fumati di nascosto durante le segrete passeggiate tra comari.
Le donne amiche di mia madre,le donne con cui tutti noi avremmo poi perso la verginità,tronfi d'orgoglio come giovani galletti,appena scoperto ciò che è la vera droga di ogni uomo.  E qui ecco che appare l'unica donna che io abbia mai amato..si chiamava Sibilla,e aveva la pelle scura e brillanti occhi verdi,ed un mistero profondo attorno.
Un pomeriggio di primavera stavo andando dal prete. Sì,quel prete,con il potere dell'acqua santa; eppure amico mio,era la persona più colta del villaggio. Avevo trovato,in soffitta,lo spartito di una messa il cui coro era cantato in una lingua che non conoscevo,e che nessuno conosceva. E la cosa mi affascinava,mi affascinava molto.
 “Confutatis maledictis, flammis acribus addictis, voca me cum benedictis. Oro supplex et acclinis, cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis”,scrissi su un foglio. Il cielo era terso,l'aria intrisa di profumo di viole.
La chiesa del mio paese natio era piccola,con l'aspetto di una capanna in muratura,che poteva crollare da un momento all'altro con le violente raffiche di vento che c'erano in inverno. Accanto c'era la casetta del prete,una piccola bicocca coperta d'edera verde,che quasi nascondeva la porticina. Bussai,e appena udii la risposa da dentro,entrai. La luce era poca,e tutto era immerso nella penombra. Ero elettrizzato.
“Ciao,ragazzino del diavolo.”- solevano chiamarmi così,come tu sai,i miei compaesani.
“Salve,signore.”,risposi io,dondolandomi sui talloni e nascondendo il foglio dietro la schiena. “Avrei da chiederle un favore.”
L'altro fece un cenno d'assenso,dall'abito talare nero,incrociando le dita sull'addome.
“Ecco,questo..-glielo porsi- Lei sa che mia madre è musicante,e ha ritrovato in un armadio all'interno della sagrestia, forse un segno dell'Altissimo, un antico spartito , il cui coro è cantato in una lingua che io non so comprendere,che a scuola non insegnano. “
Quello mi guardò con sguardo indecifrabile,uno sguardo che non sembrava dettato dagli occhi,ma da qualche sommovimento all'interno del suo animo,di cui le iridi azzurre sbiadite erano solo uno specchio. “ E' la lingua degli Antichi. Viene insegnata soltanto all'interno delle scuole dell'Ecclesia,e noi ministri di Dio in terra non possiamo rivelarla. Essa è la madre di tutte le lingue,e l'Ecclesia ne vietò l'insegnamento fin dal 2000. Tutti i libri che ne contenevano traccia furono bruciati.”
“Ma perchè?”- ero incuriosito,molto incuriosito.
“Il popolo che la parlava,come ora sto facendo io con te,adorava idoli sacrilegi,che l'Ecclesia scacciò fin dalla notte dei tempi della nostra civiltà. Però,circa un secolo fa,alcuni tornarono a dedicarsi a quelle false divinità blasfeme;allora l'Istituzione decise di intervenire,ed il nostro Sommo in persona guidò la crociata contro di esse,come nei tempi più antichi i nostri guerrieri recuperarono la Croce del Figlio in Terra Santa.-continuò a parlare,infervorato,e molte delle parole che pronunciò le compresi solo dopo molto tempo e dopo molte letture- Quella disgustosa setta fu abbattuta,tutti i loro sacerdoti furono uccisi. Non ne rimane traccia,e solo noi Ministri in Terra sappiamo in dettaglio ciò che accadde. Ora va'-e lì,l'uomo strizzò gli occhi,come se riemergesse da una visione,alzò il dito e indicò la porta- e dimentica ogni cosa che ho detto.”
Ricordo benissimo il volto dell'anziano uomo che mi battezzò,e mi tolse il diavolo dal corpo,mentre pronunciava quelle poche cose: sul suo viso le rughe apparivano assai più profonde,e aveva lo sguardo di un uomo sconfitto dal Tempo,e nei suoi occhi azzurri spenti e infossati si poteva leggere l'amarezza di possedere una conoscenza enorme,ma di non poterla condividere. Ero appena adolescente,ma potei comprendere e cogliere quell'animo anziano e tormentato,un animo che non credeva in ciò nel quale aveva consacrato la sua vita terrena,che piano piano veniva uccisa dall'apatia dell'inutilità. Ricordo tutt'ora a memoria quella breve conversazione,e un pensiero lieve mi attraversa la mente,ora come ieri.
L'ira di Dio,quando arriverà il Gran Giorno,sarà terribile.
 
Così,quella sera di primavera,avevo la mente occupata da fantasticherie riguardo quell'antica gente,così misteriosa,e così diversa da come appariva a me,durante la mia adolescenza,la gente che era attorno a me,e la gente della lontana capitale,di cui avevo solo sentito parlare dai mercanti che ogni tanto ritornavano dai loro lunghi viaggi. Ne ero così incuriosito,che pensai,che quando fossi tornato a casa,l'avrei sicuramente chiesto a mia madre,che per me era l'unica vera depositaria della conoscenza.
 
Tornavo a casa,attraversando la via principale del mio paese natio,quando sentii un urlo di donna,provenire da una casetta come le altre,affacciata sulla strada su cui mi trovavo. Ho sempre avuto troppa curiosità per ogni cosa che non riuscivo a spiegarmi nell'immediato in cui la avvertivo,e son sempre finito per infilarmi in cose che di certo non mi riguardavano.
Allora,bussai a quella porta,ed un occhio,un pezzo di naso,alcuni ciuffi di capelli,e una mano poggiata sul legno,apparvero. La figura poi apparve completa,da dietro la porta,e appoggiò vezzosamente una mano su un fianco,il sinistro,per la precisione. Indossava un semplice abito verde scuro,verde come i suoi occhi.
“Ciao,ragazzino del diavolo”.Ed io stetti zitto,zitto come qualunque uomo o donna che si trova davanti ad un qualcosa di meraviglioso,di inconcepibile,di lontano e di mitico,qualcosa che rimanda alle origini del genere umano e dei suoi potenti sommovimenti interiori. Bè,parlando povero,era una donna,ed era bella,il suo sguardo verde mi trafiggeva ogni istante,e ancora ora mi sovvengono parole sublimi al ricordo di quel momento. Ricordo che trattenni il respiro,e nel petto sentivo tamburellarmi il cuore come quando correvamo nei campi di grano,immaginando misteriosi diavoli cui sfuggire, e mi si stringeva lo stomaco,come se una mano forte l'avesse stritolato. Poi quella sensazione meravigliosa svanì,e mi giunse la coscienza di trovarmi di fronte ad un estraneo,donna o uomo che fosse,che aveva lanciato un urlo,che sapeva chi fossi,e che era tardi e che dovevo tornare a casa. E che ero piccolo,brutto,e ignorante,in confronto a tutti i ragazzi della mia età che sicuramente ora,nella capitale, bevevano vino in compagnia di donne bellissime,e chiacchieravano di argomenti che io neppure riuscivo ad immaginare.
Dovevo avere lo sguardo perso nel vuoto,e nelle visioni evocate da lei,perchè la giovane mi passò una mano di fronte agli occhi,e sorrise dolcemente. Quel sorriso,mi rimarrà impresso fino al momento in cui non ricorderò neppure qual'è il mio nome.
 
Allora lei mi sorrise,e ne abbozzai uno anche io.
“Ciao.. Ho sentito un urlo,e allora son venuto a controllare che tutto vada bene.”
“Sì,grazie.. Mi era solo caduta una teiera intera su di una mano”, fece lei,alzando una mano,che effettivamente era molto molto rossa.
“Oh,allora scusa l'intrusione”,risposi io mentre il rosso mi prendeva le guance. Mi sembrò fin da subito di parlare con un'amica stretta.
“No,ma non preoccuparti,ragazzino..”,accennò un sorriso,”Vuoi entrare?”
Accettai con un sorriso smorzato dal ritegno che ancora mi rimaneva.
Entrammo in casa,piccola ma accogliente e un lieve profumo di viole aleggiava nell'aria,ma non trovai da dove provenisse. L'interno era di legno,e lei mi fece accomodare su una sedia della piccola cucina. Ricordo i battiti martellanti del mio cuore,e il sorriso ancora mi nasce al pensiero.
“Torno subito”,disse,sparendo in un'altra stanza. Notai che aveva un accento strano,che non avevo mai sentito da nessun straniero.
Tornò poco dopo,tenendo in mano una piccola bottiglia,da cui proveniva un profumo che non conoscevo,piena di un qualche liquido.
Lei,sorridendo ma in silenzio,ne versò un po' in un piccolo bicchiere posato davanti a me. Profumava di miele.
Lei,senza una parola,se ne versò un goccio,e bevve dolcemente. Teneva gli occhi,verdi,verdi come l'erba dei campi di grano in inverno,fissi nei miei. Io mandai giù in un sol sorso,ed il sapore era buono,buonissimo. Me ne versò ancora,e ancora,ed io bevevo.
Poi,iniziò a girarmi la testa,e sentii la sua voce narrare una storia.
 
E' inutile,amico mio,che io ora ti narri per filo e per segno quello che Sibilla mi raccontò: lo ricordo come un vago sogno,poco netto e che presto sparisce.
Disse di provenire da molto lontano, da una terra al di là del mare,dove non batteva mai il Sole,il cielo era sempre ricoperto da nuvole grigie e il terreno da neve gelida che si scioglieva solo dove spuntavano stenti alberi grigi; disse di esser fuggita da quel luogo,con complessi stratagemmi,perchè era conscia che la sua anima non vi apparteneva. Lei amava il Sole,diceva,e vivere il presente. Disprezzava il suo popolo,creature grigie e dagli animi antichi,così antichi che quella terra,mi raccontò, non era mai mutata dall'inizio dei tempi. Era situata a nord,al di là del mare e delle montagne più alte, e l'oceano oscuro lambiva le sue coste. Lei era salita sulla prima barca che era diretta a sud,ed era impazzita di gioia quando,salendo sul ponte,aveva visto la luce piena e calda del Sole rifrangersi sul mare. Era poi scesa nel porto più vicino alla capitale,portando con sé la sua arte,la sua conoscenza e,cosa più importante,il suo dono: disse di saper legger nel futuro,come tutte le donne della sua razza. Fece un sorriso amaro,un sorriso che compresi venire da molto lontano ed essere molto più vecchio di quanto il suo volto non mostrasse.
Tutt'attorno a noi aleggiava un profumo di viole,misto a quello del miele.
“Ora sai la mia storia,ragazzino del diavolo,ma non ti ho raccontato un'ultima cosa: la mia terra è solo leggenda per voi del Regno Interno. Il vostro re,o quel che dice d'essere, impedisce qualunque contatto. Siamo pericolosi,dice. Noi Kymmeri siamo pericolosi,-rise amaro-eppure noi vediamo nel futuro,e i nostri antenati son vicini a noi,mentre la vostra Ecclesia non va oltre uno sciocco libro,in un popolo che non sa nulla di sé. Odio la mia gente,ma ne faccio profondamente parte. Ah,chiamami Sibilla. E prendi questo.” Mi colpì profondamente il suo modo aulico di parlare,cosa che io ho preso da lei.
La ragazza-o donna,chissà quanti anni aveva realmente?- mi porse un libro dalle pagine ingiallite,antiche. Lessi l'anno di stampa, 1994,ed il titolo, Odissea.
“Parla di un uomo e della sua vita,un libro che ho trovato tanto tempo fa,che descrive il mondo fuori dall'Ecclesia. Leggilo,ti piacerà.”
“Sì,lo leggerò,Sibilla..Hai uno strano nome.”
“E' tipico della mia gente. Nella vostra lingua antica significava 'manifestazione degli dei',sai?”
 
Continuai a vedere Sibilla,e avvenne ciò che era scontato fin dall'inizio,ma che io non potevo immaginare di certo: me ne innamorai. Passarono i mesi e persi completamente la ragione per lei,come lo si può fare soltanto per il primo amore,quello per cui si passano le notti a scriver poesie,e a comporre sonate di violino. Solo per lei.
E lei divenne il più grande mistero della prima parte della mia vita. Era nata in quel regno lontano del nord, la Cimmeria,come mi disse quel giorno in cui ci conoscemmo,in cui abitavano creature come lei. Si dilettavano con quella bevanda mielata, che seppi poi chiamarsi idromele. Miele e vino. Essi erano eternamente giovani;giovani,ma soltanto fino alla loro morte. Vivevano più di due volte un uomo normale,e infatti Sibilla aveva 35 anni quella sera di primavera. Ma più importante d'ogni altri cosa,i Kymmeri sapevano legger nel futuro. Lo sapeva anche Odisseo,e li odiava.
 
Ed io non ero che un bambino cresciuto troppo in fretta,e tenevo per mano la più bella donna del mio paesino. Tutti i ragazzi mi guardavano ammirati.
E le vecchie con i loro sussurri non si davan pace al mio baldanzoso passaggio. Ricordi,amico mio?

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La luce e i rumori ***


Parte II. La luce e i rumori

 

 







Ed io,il giorno dopo di quella sera di primavera che mi cambiò la vita,mi immersi nella lettura di Odissea. E mi piacque.
Il protagonista era un tale Odisseo,un uomo probabilmente non bello,ma dall'incredibile intelligenza e forza fisica,sposato con una certa Penelope. Egli era sopravvissuto,anzi,era tra  i vincitori,di una guerra che si era svolta tanti tanti anni orsono in un luogo chiamato Troia;era Greco,un re Greco,e Troia non era in Grecia.
Tutto era nato per via di una donna,tale Elena,fuggita al suo legittimo marito alla volta di uno sciocco giovane;così,il marito tradito aveva dichiarato guerra alla città del giovane,Troia.
Vinta questa guerra, per merito suo, arriva il momento per Odisseo di tornare in patria. Ma non vi riesce se non vent'anni dopo,stanco e malridotto,corroso da tanti viaggi e da tanto peregrinare,mentre giovani uomini fanno baldoria nella sua reggia e si contendono sua moglie. Infine,l'uomo scaccia quegli adulteri e si ricongiunge alla sua gente.
Eppure,e mi parve più importante di tutto,il mondo di Odisseo era dominato da creature. Creature? Non avrei saputo come definirle,all'epoca. Forse entità. Forse...trascendenti,ed ora infarcito come sono di letteratura sacra,esseri composti da materia divina. Una creatura governava i mari e le acque,il quale detestava Odisseo,tale Nettuno;e io iniziai ad aver paura di andar a prender l'acqua alla sorgente. Un altro era chiamato Mercurio,ed era il messaggero divino,in grado di volare; e ogni spostamento d'aria poteva esser lui. Infine, c'era Zeus,il padre di tutti gli altri,il più potente di tutti gli altri; egli era colui che mandava i fulmini dal cielo. Ed i temporali mi spaventavano a morte.
Odissea cambiò il mio modo di vedere la realtà.
Odisseo,poi,nei suoi vent'anni da pellegrino nei mari,aveva visitato la Cimmeria,la terra di Sibilla,che era descritta esattamente come lei raccontava: un luogo grigio,antico,coperto di nebbie striscianti e abitato da fantasmi divinatori. L'autore poi racconta anche come Odisseo fosse riuscito ad uccidere un uomo gigante con un solo occhio,figlio di Nettuno,e anche come avesse convinto una strega,Circe,che aveva trasformato i suoi marinai in maiali,ad annullar l'incantesimo e a far in modo che lui potesse ricominciar il viaggio.Ciò non mi terrorizzò,però.
Ma ci fu una figura che iniziò ad angosciare i miei sogni,che si trasformarono quasi ogni notte in incubi: Calipso,si chiamava Calipso,ed aveva lunghe trecce nere.
 



Ero solo un ragazzo. Non ne avevo affatto compreso il valore. Sibilla ne era scontenta,quando gliene parlavo; tu,e gli altri nostri amici d'infanzia non capivate il perchè del mio attaccamento a quella carta buona solo per esser bruciata. Il libro, lui non mi abbandonava mai. Mia madre non ne parlava,nascondeva il suo sguardo viola dietro le note nere.
 
Io e la mia amata grigia creatura ci sposammo il giorno del mio diciottesimo compleanno,tra i sussurri delle vecchie( “Quei due diavoli, Dio li fa e poi li mette assieme” ) ed i commossi pianti di mia madre. Lei suonò il pianoforte,piangendo,mentre io imbracciavo il violino. Tu eri il testimone di nozze,amico mio.
E fu in quei giorni che io dissi addio a mia madre. Nel villaggio non c'era lavoro,le dissi. Io non avrei proseguito la sua vita nel mondo della musica,e pianse. Le dissi che di lì a poco sarei andato a vivere nella capitale,e pianse.
 “Va bene,fai come vuoi. Quando vorrai tornare qui,io sarò pronta ad accoglierti..” Sorrise tra le lacrime.
Sai una cosa,amico mio? Non la rividi mai più.
 
Dopo tre giorni di viaggio arrivammo in città,e trovammo un piccolo appartamento all'ultimo piano di una catapecchia;ma a noi bastava.
La capitale era un sogno ad occhi aperti continuo,in confronto al mio piccolo villaggio del Sud. La cosa che mi sbalordì di più,a prima vista,fu la gente. Troppa gente,quanta non ne avevo mai vista tutta assieme. Nelle strade miscugli di suoni,voci,odori,vestiti,fruscii,passi;in ogni bottega il capomastro che dava ordini ad ogni apprendista,e nella porta affianco donne urlavano i prezzi delle loro merci. Mendicanti ai lati delle strade,con i loro violini appoggiati alle spalle; ragazzini che tenevano in equilibrio in testa il pane per i ricchi. Mi sentivo spaesato,in mezzo a tutte quelle persone così diverse tra loro;mi sentivo piccolo,minuscolo,inadatto. Sibilla al mio fianco,quando attraversavamo la folla, rimaneva muta,limitandosi ad evitare gli spintoni.
Poi,abituatici alla gente,fu la volta delle campane,perchè nella capitale le chiese erano migliaia. E le campane suonavano tutte assieme,e devo dire che il ricordo di quei taan taan  mi mette un po' di nostalgia nel cuore.
La capitale era bellissima. Io non so nulla d'arte,ma la bellezza so coglierla. Dai fregi sui palazzi nel centro,ai dipinti in ogni chiesa,alla più piccola statua che ornava la piazza più anonima. Ecco,la capitale era ed è una poesia. Una continua e mutevole poesia,che è cantata dagli uomini e dal cinguettio degli uccelli sui platani.
Trovai lavoro in una bottega d'un falegname;ero pagato pochissimo,ma almeno era qualcosa.  Sibilla faceva la cameriera nella villa di una ricca signora,credo la zia di un sacerdote,o qualcosa del genere.
La nostra vita,per qualche mese,scivolò tranquilla. Io affittavo tantissimi libri nelle biblioteche ambulanti,ed ero avaro di conoscenze. Sibilla rideva di me,curvo su qualche pagina stampata.
Amavo e amo Sibilla,e non puoi immaginare quant'è doloroso parlarne,per me,perchè è un amore che non può e non deve sparire. La amavo perdutamente. Era la mia Dea,la mia luce di ogni mattino,lei e i suoi occhi verdi. Amavo i suoi silenzi e le sue risa,amavo il suo idromele(la bevanda profumata di miele); quando facevamo l'amore per me il mondo non esisteva: le campane sparivano,spariva la folla; spariva la lontana cupola della Basilica,e tutto l'Universo si riduceva alle sue braccia. Quando tornavamo a casa,da lavoro,stanchi e sudati,ci abbracciavamo stretti,e rimanevamo così,a ristorarci l'uno con l'altra.
E per me era una magia ogni giorno sapere che lei veniva da lontano,che lei era una creatura mitica di un popolo mitico che viveva nelle nebbie, che lei prevedeva il futuro. Eppure mi terrorizzava,pensare che lei mi sarebbe sopravvissuta.
“Non potrei mai vivere lontano da te,Sibilla” le giurai una sera,mentre stavamo abbracciati sulle lenzuola profumate di lei e la luna ci illuminava.
“Neppure io. Ringrazio il vostro Dio ogni giorno,perchè mi ha dato te. “ Mi baciò.
Quella sera le giurai amore eterno,le giurai che non le avrei mai infranto il cuore. Le giurai che la mia vita senza la sua non avrebbe avuto senso.
Questo è vero. Ma il cuore glielo infransi, e ne morii.
 


Nella capitale c'era l'Ecclesia. E c'era il Pontefice. Risiedeva in una piccola cittadella circondata da mura,al centro della quale s'ergeva la Basilica,costruita sulle spoglie dell'uomo cui Cristo affidò la sua eredità. Da dove abitavo e lavoravo io,per arrivarvi,si doveva attraversare una zona chiamata “Fori Imperiali”.
Appena vidi il luogo,capii che erano resti dell'antica civiltà scomparsa,quella di cui mi aveva parlato l'anziano parroco del villaggio,quel lontanissimo giorno di primavera. Si trattava di pochi ruderi di marmo,scoloriti dal sole,che spuntavano tra le erbacce, e in lontananza,su tutto,si ergeva una costruzione circolare,alta,composta d'archetti l'uno sopra l'altro. Era il “Colosseo”.
Eccole,dunque,le ultime vestigia di una civiltà sparita,defunta,annichilita. Ed era,pensai,un'atrocità che quel cimitero del tempo si trovasse vicino al suo carnefice,quell' Ecclesia che dal quel giorno di primavera odiavo. Credevo in Dio,vi credevo ciecamente,ma non ai suoi “ministri in terra”. Eppure quel giorno(era estate,il sole splendeva alto) volevo andare a pregare. Senza Sibilla. Avevo bisogno di Dio.
Attraversai quel cimitero,attraversai anche le porte della cittadella ( le guardie,vestite in modo ridicolo),e mi trovai nella grande piazza della Basilica,circondata da un alto portico di colonne,lastricata di marmo,la luce accecante del  mezzogiorno. Ed in mezzo,un grande “obelisco”,con incisi su disegni misteriosi. Si diceva venisse dall'Egitto,ma io non sapevo e quasi  nessuno sapeva dove fosse.
Era affollata di gente. Chi dava faceva dar da mangiare ai piccioni dai propri bambini(le manine strette attorno alle briciole di pane),chi era seduto all'ombra del colonnato,chi semplicemente  guardava la chiesa. Ed io guardai il sole,ricordo,ed era alto e brillante nel cielo. Un disco perfettamente rotondo.
Quando abbassai gli occhi,la follaera sparita.
 
In piedi sotto l'obelisco,c'era un uomo. Si voltò verso di me,e mi sorrise. L'aria era cambiata, era elettrica. 
“Non sai chi sono,vero?”, disse divertita una voce virile, ma musicale.
Io non riuscii a rispondere,sul momento. Ero paralizzato. L'uomo-ma cos'era?,mi chiesi- era bello,troppo per un essere umano comune. I capelli neri lunghi gli incorniciavano il viso perfetto, di pelle marmorea priva di barba,ma assolutamente inespressivo. Sotto la veste bianca si intravedeva uncorpo scultoreo. Una spada-di quelle che si vedono brandire solo all'arcangelo Gabriele negli affreschi- gli pendeva dalla cintura. Coperta dal fodero, dorato ed abbagliante. Provai un accenno d'invidia mista a paura.
“No,non lo so. E tu lo sai chi sono?”. Che domanda sciocca,pensai poco dopo
“Certo che lo so,altrimenti non sarei qui.” S'avvicinò a me di un passo.
“Cosa vuoi da me?” La mia voce era spavalda, ma dentro ero raggelato. Chi era? Cosa voleva?
“Io sono ciò che è stato bandito tanto tempo fa,e che vaga.” Contai uno,due,tre passi. “ Io ciò che gli antichi della tua razza adoravano,per cui uccidevano i tori e lasciavano il sangue scorrere sugli altari. Ero padrone degli animi quando erano presi dalla passione della guerra. Potevo comandare legioni intere... Ma ero difficile da comprare,sai? Non ho mai parteggiato per nessuno. Mi limitavo a dare una mano a chi la voleva maggiormente,”fece un sorriso crudele. E una luce fiammeggiante gli accese lo sguardo. “Poi son stato bandito,ed ora vago. Vago”,sospirò,” e non voglio esser visto.” E mi fu ad un passo di distanza.
Ero sconvolto.
“Perchè da me ti fai vedere?Che vuoi?
“Nel tuo destino c'è scritto molto. Tu hai fatto innamorare di te una donna della Cimmeria,e la Cimmeria è un luogo da cui nessuno fugge. Lei è giunta qui perchè era scritto che avrebbe incontrato te.”
“Sibilla...”
“Sì,Sibilla. E' una creatura bandita dall'Ecclesia. Lo sono anche io,lo sono anche i miei fratelli. Ora vaghiamo,non abbiamo una patria. Non abbiamo un rifugio.” Mi sembrò che apparisse una vena di tristezza nella sua voce. “ Ma i tempi cambieranno. L'Ecclesia ha un enorme potere,un potere che ci tiene ingabbiati; ma sparirà. E la nostra Età dell'Oro ritornerà.” , disse solenne, infine, alzando le mani aperte al cielo. Un brivido mi attraversò.
“..l'Ecclesia vi tiene ingabbiati?Ma voi,chi?”, mormorai confuso, indietreggiando.
“QUESTO!”, rispose immediatamente. E indicò la Basilica, enorme e bianca . "E' questo che mi impedisce di infuocar gli animi. E' questo che non mi permette di far venir giù la pioggia dal cielo. E' questo che mi ha ucciso,2300 anni fa!
La sua voce era carica di rabbia e odio. Strinse l'elsa della spada. Grandi occhi neri divennero pozze infuocate.
“Ora io valgo meno della polvere che calpesti per le strade dell'Aventino. Non sono niente. Niente. Nient'altro che una goccia di miele in un mare di vinsanto. Del loro vinsanto!" Imbracciò l'enorme spada, con entrambe le mani, e colpì una colonna di marmo,antichissima. Un urlo terribile risuonò per i Fori, e scintille apparvero sulla pietra, spegnendosi nella polvere.
“La gente,con la loro fede in quell'ebreo,mi ha ucciso. Capisci? Hanno smesso di credermi vivo e potente.Hanno iniziato a pensarmi falso,e mi hanno ucciso. Hanno bruciato i miei altari, hanno gettato nel mare immenso le mie lucide armi. E io ora non sono niente.” Strinse i pugni. Ringhiava.
Ora iniziavo a capire. Ero sconvolto,ma capivo.
“ Uomo,fai bene a non rispondere. Tu in tutto ciò hai un ruolo che è scritto e che s'adempierà. Fato ha già deciso."
“Cosa mi accadrà..?” Tremavo forte,fortissimo. Provai a fissarmi una mano, ma non vidi altro che una macchia rosa. Il cuore cavalcava nel mio petto.
“ Non ci sono solo io. I miei fratelli,le mie sorelle..sono tutti morti. Ma esistono. E tu hai il potere di chiamarci. Ce l'hai da sempre,fin da quando tu nascesti ed i diavoli dei campi iniziarono ad infestare il grano. E' tutto scritto e saprai cosa fare quando accadrà.
“ Io sono Leucesios, e sarò fino alla fine del mondo ed oltre. Ricorda di me che io comandai gli eserciti,i lampi e amai una vergine latina.” La fiamma nello sguardo era spenta, le sue lunghe mani bianche erano intrecciate.
“Io...”, biascicai.
“Lascia che ti dica un'ultima cosa. Anzi,prendi questo,“ mi porse una boccetta,piena di liquido scuro. Involontariamente sfiorai con una mano la sua pelle,ed era gelida come il marmo della Basilica, “ti tornerà utile. Ricorda uomo..Che dal buio,dove la luce non è mai arrivata,c'è una bestia che ci spia tutti. Dorme in un nido di spine,profuma di viole e ha la pelle di ghiaccio. Uccide con lo sguardo. Lo sai,cos'è che compone le sue cellule? Qual'è l'elemento ultimo di tutto l'Universo? Solo,tanto,maledetto,amore. E' solo l'amore,questo orribile amore,questa orribile fede,che muove ogni cosa.”
E lì,lasciando un alone di rabbia viva,Marte sparì.
Piansi.




Eccomi!Beh, ci ho messo un po' ad aggiornare.. Comunque grazie, lettori silenziosi, dell'ascolto della mia storia :D

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte III. In viaggio verso il Buio ***


 
Entrai in chiesa. E piansi. Guardavo il crocifisso,lontano,immerso nell'oro,e le lacrime mi riempivano gli occhi. Perchè,chiedevo. Perchè Dio voleva questo per me? Perchè dovevo amare una donna che apparteneva ad una razza mitica?Chi e cos'era Sibilla? Perchè Leucesios mi aveva parlato? Perchè me?
Dio,dove sei?,imploravo. Dove sei? Aiutami! Rispondimi se se qui!
Non rispose nessuno.
Cristo continuava a fissarmi da sotto la sua corona di spine.
Chissà se al Sommo parlava. Non credo. Io parlavo con creature d'altre epoche,morte ma vive,e nessuno era più immerso nel divino di me. Nessuno lo sarebbe mai stato.
Fu una consapevolezza orribile da raggiungere,spaventosa.
All'improvviso,sentii come uno strappo provenire dalla mano in cui stringevo la boccetta. Una puntura,piccola ma violenta. E allora capii,amico mio.
La feci scivolare in tasca e,baldanzosamente,calpestai quel sacro pavimento di marmi,varcai la sacra soglia,e sputai sul sacro suolo di marmo bianco della Basilica.
E me ne pento solo adesso.
 
Dio non è nelle chiese; Dio non è nei marmi,non è nei fregi; Dio non è misericordioso. Dio è nei poveri,Dio è nei disperati, Dio è nei pavimenti di terra battuta, e sta a guardare i suoi Figli in balia del destino,tendendo loro la mano da dentro,dal cuore. Dio è nel cuore,Dio è in ognuno di noi. Dio aiuta chi sa capire se stesso.
 
Decisi,mentre tornavo a casa ( la città,viva,eppure immobile,attorno a me ),di andarmene. Amico mio,fu scioccante e terribile,non compresi la gravità del mio gesto. Entrai nell'appartamento,e lasciai un biglietto a Sibilla,con l'intenzione di farle capire ciò che provavo. Fui egoista.
“Amore,devo andare. Non posso rimanere qui. Loro mi cercano,loro mi vogliono. Tu sai CHI loro. Tu puoi leggere nel futuro,tu vedi in me,tu vedrai quello che mi accadrà. Salperò nella prima nave mercantile che troverò ad Ostia. Tornerò per il tuo amore,tornerò per te. Sei la mia anima,viaggerai con me. Ti amo,Sibilla”
Ero un uomo infranto. Infranto per l'eternità. Infranto come il cuore grigio di Sibilla.
Uscii dalla catapecchia, e andai al porto di Ostia con la prima carrozza che trovai. Pagai le 10 lire, e mi godetti l'ultimo viaggio attraverso la capitale. Quei rumori,quegli odori..le campane, la gente che correva affaccendata,i cavalli per le strade,i carretti di merci, i Ministri con le loro vesti porpora e nere;il profumo del pane di grano della mia terra. Immaginai la mia terra,pensai ai campi di grano e alla rugiada sulle foglie,guardando il Tevere giallo. E lontano,la cupola bianca e bulbosa della Basilica. Mi scese una sola lacrima,durante quel viaggio.
Poi arrivò l'odore del mare. Ed eccolo,all'improvviso, il mare. Blu,di un blu che se non lo si è mai visto prima non si può descrivere. Il blu della libertà,il blu che cercavo per sfuggire da tutto quel bianco,quel bianco candido della Basilica,della veste di Leucesios. Divina e eterna,come lui.
Scesi dalla carrozza. E 2 giorni dopo ero in viaggio come marinaio su di una nave mercantile diretta in Spagna,l'Eternità.
 
Accadde tutto molto in fretta,amico mio. Non ho ricordi di come trovai modo di farmi arruolare nella flotta dell'Eternità. Ero un semplice marinaio,che doveva ammainare e issare le vele,pulire il ponte,portare il vino al comandante (un individuo orribile,tutto bardato di blu).
Sibilla era un pensiero fisso,che oscurava tutti gli altri. Anche se sul mare blu batteva il sole incessante,dentro di me pioveva. Non era temporale: pioveva solamente,senza tregua,senza speranza. Spesso piangevo,nella mia cuccetta,consolandomi dicendo che lo facevo per lei. Fuggivo per lei. Ero dannato,dovevo aspettare che Dio mi perdonasse. Che scacciasse via i diavoli da me,dai campi di grano,dalla piazza della Basilica. Nascosi la boccetta sotto al materasso,senza mai tentare d'aprirla. Gli incubi mi torturavano. Sognavo Leucesios,che mi ripeteva che Sibilla era sua,e lo sarebbe stata per sempre. Sua al punto che,alla fine di ogni sogno,la uccideva sgozzandola,e lasciando il sangue scorrere su un altare bianco,in mezzo a una foresta di colonne bianche. Rosso su  bianco e lei,grigia,morta.
L'alba poi mi svegliava e tornavo a lucidare il ponte.
I primi tempi furono orribili. Scoprii di soffrire di mal di mare e, peggio d'ogni altra cosa,condividevo la stanza con un Ministro. Pregava ogni sera. Ad alta voce. Dentro di me imploravo tacesse per sempre,quando scivolava nel sonno.
Un giorno,sul ponte,mentre mi riposavo un istante,e mi sporgevo dalla balaustra per guardare i delfini grigi che correvano nell'acqua, mi si avvicinò.
“Cos'hai,figliolo?”
“Sono un senza Dio,padre.” Guardavo i delfini giocare tra le onde.
“Lo vedo. Ma hai qualcosa di più profondo che ti turba. Parlane con me.”
“No, non voglio e non posso.”
“Perchè?”
Nel cuore sentivo una morsa violenta,crudele,e immaginavo una bestia con artigli di ghiaccio. L'aria profumava di viole.
“Perchè sono dannato,padre. E nessuno capirebbe. Nessuno...”
Vissi,sull'Eternità,come una lucertola che da piccoli catturavamo. Guardavo il Sole,mi lasciavo arroventare. Mi crebbe la barba,smisi di tagliarmi i capelli, finchè non dovetti legarli. Sono belli,neri,lunghi.. Oh Cielo, Sibilla che li accarezza fino a farmi addormentare.. Le sue mani,le sue labbra,il suo profumo.. E il crack metallico del suo cuore grigio che si spezza.
 
Arrivò settembre con le sue tempeste. Piovve a dirotto quasi tutti i giorni. Io trovai una chitarra nella cambusa,mal accordata,ma ancora integra. Suonavo dolci melodie,nel poco tempo libero che avevo. Pensavo a quanto mi aveva insegnato mia madre,e al mondo che mi aveva regalato tramite la musica. Era mio,è mio,e lo sarà per sempre. L'unico che lo sarà per sempre.
Una sera,ero nella mia stanza,in silenzio,col prete che fumava la pipa mentre io suonavo.
Il mare era agitato,sentivo le ondate abbattersi contro le fiancate dell'Eternità. Salii sul ponte,e iniziò a piovere. Cadevano le prime gocce,si sentirono i primi tuoni: e con loro riapparve il profumo di viole. Il mare iniziò a crescere,il vento ad ululare,e l'Eternità oscillava in balia delle onde.
Insieme agli altri marinai,corremmo sul ponte. Nell'aria c'era..c'era una certa pressione. L'aria gemeva,come se soffrisse. Come se ogni tuono fosse un urlo di dolore. Stava avvenendo qualcosa contro natura,contro Dio. Amico mio,fu quello il momento in cui capii che non potevo più fuggire,neppure in capo al mondo.
Tutto era confuso: ammainammo le vele,urlando sopra l'ululato del vento. Ed i lampi cadevano,e parlavano con la voce dei tuoni.
Rimasi sul ponte,incurante delle urla degli altri marinai,che scendevano sotto coperta. Sentivo ogni goccia cadermi sul viso,ed erano dolorose e gelate.
E mi sporsi dalla balaustra,guardai il mare. Guardai tra le onde e vidi due occhi perfettamente blu,che fissavano i miei.
E poi fu il buio.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1425078