One Step Closer

di Ever Lights
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Indietro a Dicembre ***
Capitolo 2: *** Come nelle favole... o quasi ***
Capitolo 3: *** Ricominciare a respirare ***
Capitolo 4: *** Il tuo principe azzurro ***



Capitolo 1
*** Indietro a Dicembre ***




One Step Closer
Capitolo uno: Indietro a Dicembre


A Simona, Bianca, Camilla e Aurora.
Loro sanno benissimo il perché.
Vi voglio bene, grazie per esserci state, sempre.



Dicembre 2005

Perdonami, perdonami di amarti e di avertelo lasciato capire.
W. Shakespear – Romeo e Giulietta

Nel nostro bar si sentono le note delle canzoni natalizie che il jukebox irradia. Davanti a me, le persone sorridono e trasmettono l'allegria di quel momento gioioso.
Mancano poco più di due settimane a Natale e nessuno sta più nella pelle, io compresa.
Sam mi sorride dall'altra parte della sala, servendo gli ultimi drink ai clienti. Ricambio il gesto, imbarazzata, ripensando a cosa era successo qualche tempo prima.
Sotto il suo sguardo sento di nuovo i suoi sospiri sulla mia pelle, le sue spinte dentro di me, le sue mani ovunque su di me... E anche l'odore di alcool che trasudavano i nostri corpi.
Se possibile, arrossisco ancora di più, distogliendo gli occhi dai suoi.
Nei miei pensieri, continua a spingere, sembra non voglia fermarsi. Ora le sue mani esplorano frenetiche le mie cosce, andando sempre più in là.
Anche se si tratta di un ricordo, il respiro mi si mozza nei polmoni. Sono tutte emozioni troppo forti per me, e ancora devo fare l’abitudine ad averle vissute davvero.
Jessica si avvicina a me, mi guarda attentamente e poi inarca un sopracciglio. «Bells, tutto ok?»
Annuisco appena, provando a riemergere dalle mie riflessioni. «Sì. Sì, scusami, torno a lavorare.»
«In realtà non ti stavo rimproverando…», mormora, sorridendo. «Mi sembrava che tu non stessi molto bene…»
Scrollo le spalle, sminuendo il fatto. «Mi gira un po’ la testa, tutto qui… Anche se preferirei congedarmi un attimo al bagno.»
Me lo acconsente e mi lascia fuggire da lì, ma mi accorgo subito che mi sta seguendo.
Vedo tutto appannato e sbatto sempre più velocemente le palpebre perché so che qualcosa non va. Non riesco a distinguere i contorni delle figure davanti a me, niente è nitido come prima… È una situazione sgradevole, mi sale la nausea.
«Bella? Ehi, stai bene?»
Mi aggrappo al marmo del bancone, fissando per un lungo e intenso momento la ceramica bianca del lavabo.
Penso al fatto che il mio stomaco è stretto in una morsa d’acciaio, al fatto che non ho mangiato niente di leggero per cena ma un hamburger con patatine e mi sono scolata una birra assieme a Sam…
«Aspetta che…» Non termino la frase che mi accascio sul gabinetto a rigettare l’intero pasto, intanto Jess mi massaggia debolmente la schiena, tenendomi i capelli.
«Bella, ascolta, so di essere banale, ma tu non stai per niente bene. Sono giorni che sei strana, che ti vedo correre in bagno di corsa. Quante volte vomiti al giorno? E oltretutto hai momenti in cui mangi in continuazione, e spesso ti devi sedere perché ti manca il fiato. Mi stai nascondendo qualcosa.»
Mentre dice queste parole, io mi sciacquo la bocca per togliere quel gusto amaro che si è impregnato sulla lingua e sui denti. Non mi va di dirle la verità, dopotutto non siamo mai state amiche così intime… Anche se la conosco da tanto tempo. Però è una ficcanaso e il suo modo di fare mi è sempre stato antipatico. Ma è la persona più vicina che ho, dopo i miei genitori, e sento che per una volta mi devo fidare di lei.
«Jessica, c’è una cosa che devo dirti, ma per nessun motivo devi lasciartelo sfuggire, d’accordo? Non lo deve sapere nessuno.»
Dal mio tono greve capisce che si tratta di una confidenza davvero importante, così incrocia le braccia e mi fa segno di proseguire.
«Un mese e mezzo fa… Sono finita a letto con Sam.»
I suoi occhi si spalancano improvvisamente ma non reagisce, o meglio apre la bocca e fa per dire qualcosa ma è come se all’improvviso sia diventata afona.
«Eravamo entrambi ubriachi, è stata una specie di scommessa e… Be’ non capivo più nulla e non ho fatto nulla per fermarlo. Ma tu sai benissimo che non lo avrei fatto perché amo davvero Sam e mi sembrava un sogno…»
«E…?», sussurra, spronandomi a procedere.
«Non ha usato il preservativo e io ho avuto qualche sbalzo con la pillola… Ho fatto un test due settimane fa e ho scoperto di… essere incinta.»
«Cosa?!»
«Di due mesi…»
Chino il capo, non la guardo più tanta è la vergogna che mi circola nelle vene. Proprio io, Isabella Marie Swan, quella che sembrava tanto innocente e una santa da convento, sono stata portata a letto per uno sbaglio, e Sam ha fatto di tutto per vincere un paio di verdoni.
E, come si sa, non è la cicogna a portare i bambini ai genitori… E io mi ero accorta di aver commesso la più grande cazzata della mia vita.
A soli diciotto anni, sono incinta, di un uomo che mi sembrava di amare e ora non lo so più, nonostante l’attrazione fisica sia così intensa da formare un’aura attorno ai nostri corpi. Dopo aver visto quel test, non so più nemmeno cosa pensare.
«Aspetta, lasciami capire: tu sai di essere incinta da ben quattordici giorni e non hai avuto la minima idea di dirmelo?!»
«Ehi, Jess, tu cosa avresti fatto? Ho diciotto anni, diciotto, e già mi ritrovo a fare i conti con una situazione sgradevole che non avevo proprio voglia di vivere adesso. Magari fra dieci anni sì, ma adesso proprio no! Sono rimasta nel silenzio per tutto questo tempo perché non trovavo un modo per dirlo a qualcuno! I miei genitori non lo sanno e presto se ne accorgeranno e vuoi sapere perché? Guarda qui!»
Sollevo il grembiule e la maglia fino a scoprire la pancia, che già dimostra un piccolo rigonfiamento. E tutto questo è incredibile, perché secondo i miei calcoli approssimativi dovrei essere attorno alle otto settimane, e… Be’, se è come nei film, si dovrebbe capire vicino al quarto mese, non al secondo!
Invece io mi illudo sempre, mi baso sui fatti hollywoodiani. Ma qui non siamo in un cinema, non stiamo girando una scena per un film, ma nella vita reale, non si può tornare indietro.
«Bella, io non volevo che tu me lo dicessi subito, ma sai, sono una delle tue amiche più care e se me lo avessi raccontato ti avrei aiutata!»
Le scocco un’occhiata che potrebbe fulminarla sul posto. «Non c’entra quello che potevi fare tu, Jess, parliamo del fatto che sono incinta, e che il padre del mio bambino non fa altro che prendermi in giro. Non fraintendermi, ma non volevo che fossi tu quella ad offrirmi una soluzione, ma lui.»
Jessica è infuriata, nei suoi occhi riesco a percepire l’odio. «Cristo santo, Bells! Ora sono diventata la stronza di turno, e scusami se ti offendo, ma potevate pensarci! Sai che persona di merda è, come si comporta! Non si prende mai le proprie responsabilità e vive sulle spalle degli altri. Potevi anche considerare tutto questo prima, dovevi svegliarti, ora quello che fatto è fatto.»
Il respiro mi si blocca in gola, gli occhi mi pizzicano e la fisso solamente, con uno sguardo carico di disprezzo. «E meno male che ti classifichi mia amica, per dire queste… cose.»
«Oddio, Bella, scusami non volevo.» Mi afferra il polso, cercando di fermarmi, ma io riesco a liberarmi, con le guance inondate di lacrime.
«Lasciami andare!», strillo, isterica. So di sembrare una bambina, totalmente, ma mi ha appena ferito come nessun altro ha mai fatto. «Davvero di me ti importa qualcosa? È questo il tuo modo di tenere agli amici?»
Scuote il capo, provando a scusarsi. «No, ovvio che no! Bella, ascolta, so di aver detto una cattiveria, perdonami, ma non riesco proprio a farti ragionare.»
«Perché tu ne sei capace, vero? Jessica, ti prego: non sai cosa si prova.»
«Non dico che io lo so fare, Bells, ma… Non so, non ti sono venute in mente le possibili conseguenze? Tu non te ne sei accorta?»
Sbuffo, portando le mani al petto. «Oh, certo! Ti vorrei ricordare che ero ubriaca e a pelo mi ricordavo come mi chiamassi, quindi trai un po’ le tue conclusioni.»
«Ma tu prendi la pillola, no?»
«Sì, ma per via del lavoro e della scuola l’ho spesso dimenticata… Non so cosa fare, Jess, non so proprio cosa fare.»
Scoppio di nuovo a piangere, e lei improvvisamente mi abbraccia, lasciandomi basita. «Devi dirglielo, tesoro, devi dirglielo. È il padre del tuo bambino, ha il diritto di conoscere la verità. Devi solo seguire il tuo cuore.»


Fa freddo, il vento gelido mi graffia le guance. Mi avvolgo ancora di più nel cappotto, proteggo me e mio figlio dal gelo. Siamo agli inizi di dicembre e la neve è passata due o tre volte in città, e sento che tornerà di nuovo a imbiancare tutto.
Tiro il naso all’insù, verso il cielo, e respiro intensamente l’aria. C’è odore di smog, di fumo, di caffè, di festa, di attesa e di preparativi.
Dalla fine della via, si sentono i canti natalizi intonati dai bambini del coro della chiesa. Spesso vado ad ascoltarli e rivedo me da piccola, quando Renee e Charlie avevano fatto i salti mortali per soddisfare quel mio desiderio.
Involontariamente, mi accarezzo il ventre da sotto la fodera del cappotto. Faccio su e giù con le dita su quella piccola bombatura, sento quel nuovo cuore battere sotto il mio tocco. È un’emozione indescrivibile che fino a poco tempo prima pensavo impossibile da raggiungere.
Mi guardo un po’ intorno e mi arriva dritto nelle narici la puzza di fumo di sigaretta. Accanto a me c’è Sam, che mi sorride e mi invita ad entrare nel retrobottega.
Non accende le luci e lentamente mi spinge verso il bagno, dove mi fa aderire perfettamente alla parete.
«Sei troppo vestita per i miei gusti…», mormora roco, e mi sfila il giubbotto e il maglioncino, lasciandomi solo con la canotta e il reggiseno addosso.
Guarda più in basso, guarda dove c’è tuo figlio.
La sua bocca si impossessa della mia, non la lascia andare. La succhia avidamente, la morde e non si interessa affatto dei mugolii che faccio per attirare la sua attenzione. Anzi, tutto quello lo eccita ancora di più e mi toglie la canottiera, sgancia il reggiseno di pizzo e si lecca più volte le labbra. Rabbrividisco, ma non per la sua reazione, ma per il freddo della parete, per il ghiaccio che mi penetra le ossa.
Mi pizzica un capezzolo e io sobbalzo. Mi dimeno per sfuggirgli e quando ci riesco mi fissa e mi afferra un polso con prepotenza. Nei suoi occhi non c’è più la tenerezza di qualche ora prima, ora c’è solo eccitazione, egoismo e disinteresse nei miei confronti.
«Smettila, Sam. Basta!», sbotto, scacciandolo. Indosso di nuovo i vestiti e mi dirigo nella stanza adiacente, dove accendo la luce.
«Cos’è, non ti sto facendo felice?»
«No, ora no. Non voglio niente di tutto questo, adesso.», mormoro, senza distogliere lo sguardo da lui. Mi da sicurezza e fiducia in me stessa vedere come sta abbassando le sue difese davanti alla mia reazione.
«Oh… Be’, abbiamo sempre la notte intera per rimediare…» Si avvicina e mi bacia il collo, ma lo allontano di nuovo. Non voglio che mi tocchi, non serve che lui mi lisci il pelo per i suoi sporchi affari.
«No, non hai capito proprio nulla. Non abbiamo nulla da fare né da dirci, dopo.»
Mi guarda interrogativo, non capisce e io subito parto con il contrattacco.
«C’è una cosa che ti devo assolutamente raccontare. Non voglio pregiudizi, ho bisogno che tu mi ascolti dall’inizio alla fine, intesi?»
Annuisce e prendo un respiro profondo per prepararmi alla rivelazione che sto per fare.
«Un mese fa e mezzo fa, quando abbiamo fatto sesso… Non abbiamo usato nessun tipo di protezione. Questo lo sai, vero?»
Lui inarca il sopracciglio e scuote il capo. «Ehi, io non l’ho usato, ma tu prendi la pillola, no?»
«No, mio caro. Mi sono dimenticata un paio di pastiglie.»
«E questo cosa vorrebbe dire? E’ andato tutto bene, no?»
Sospiro. «Magari.»
«Cosa stai cercando di dirmi, Isabella?», sbraita, andando in escandescenze.
Sollevo semplicemente la maglia appena sotto il seno, infischiandomene dell’aria pungente sulla pelle. Gli faccio appoggiare la mano aperta proprio dove inizia la prominenza, dove c’è il cuore del mio, del nostro bambino che batte.
«Sono incinta.»
Silenzio.
«Il figlio è tuo.»
Ancora silenzio.
I suoi occhi sono diventati vitrei, non lasciano trasparire alcuna emozione. Spalanca la bocca, ritrae la mano come schifato e se la passa sui vestiti, come a cacciare le tracce di quella realtà.
«Non è possibile. Mi dispiace, ma non sono il padre.»
Sbuffo. «Certo che è tuo. Nell’ultimo mese e mezzo sono venuta a letto solo con te, a meno che questo non sia un frutto del Padre Eterno.»
«Ripeto che il figlio non è mio.»
«In poche parole mi stai dando della puttana, non è così?», strillo, lasciando uscire la mia collera. Voglio che lo travolga, che lo soffochi, voglio che provi una minima parte del dolore che mi sta causando.
«Non lo voglio. Abortisci, io non voglio un figlio.», borbotta, disgustato.
«Co-Cosa?» Sbatto più volte le palpebre, incredula. «Cos’hai detto, scusa?»
«Hai capito bene: abortisci. È legale, no? Non fa neanche dolore, se sei di poche settimane. Ti danno una pastiglia, e in dieci minuti sei come prima. Non è difficile.»
«Tu… Come puoi minimamente pensare una cosa del genere? È tuo figlio, tuo figlio, cazzo!»
Probabilmente tutto questo chiasso non fa bene al bambino, ma è necessario: Sam deve accettarlo, deve capire che è stato uno sbaglio ma con la forza e l’unione possiamo rimediare, tornare come prima. Basta solo… Sperare e unirsi per combattere la debolezza.
«Perché devi fare così? Metà dei suoi geni sono tuoi, metà miei! Vuol dire che è anche per metà te! È tuo figlio!»
«Ho capito, cazzo! Ma se tu avessi usato una protezione decente ora non saremmo a questo punto!»
«Se tu l’avessi usata, perché era tuo dovere pensare che il tuo sperma non entrasse a contatto con il mio ovulo!»
«Oh, senti, non farmi lezioni di anatomia che so come funziona tutta l’attrezzatura! Non sono così sprovveduto come credi!»
La rabbia ormai è ai massimi livelli, la sento ribollire nelle orecchie. «E allora fattene una ragione! Devi accettarlo, abbiamo sbagliato, è vero, ma chi ce lo dice che non sarà una svolta per noi questo bambino?»
«Chi me lo dice di accettarlo? Chi?»
«Io! Te lo obbligo io!» Siamo a pochi centimetri di distanza, e senza accorgercene ci siamo avvicinati sempre di più alla porta.
Sento la guancia bruciare per qualche istante, le lacrime cercano di placare quel dolore. La mano di Sam è ferma a mezz’aria e si è reso perfettamente conto di quello che ha fatto.
«Tu non sei nessuno per venirmi a dire quello che devo fare o no, Isabella. Io non voglio questo figlio, non l’ho mai voluto. Non starò qui a guardarti mentre lui crescerà e non aspettarti che io sarò in sala parto con te quando giungerà il momento. Non è affare mio, questo bambino. Se vuoi darlo in adozione, non farò nulla per fermarti. Crescilo, prenditene cura, ma a me non interessa. Digli che suo padre non c’è mai stato, di lui non mi importa nulla, per me è come se fosse solo un animale da sfamare quando hai appena qualcosa per te.»
Spalanca l’uscio e esce nelle stradine buie, al che cerco di fermarlo.
«Non puoi farlo! E io? Non ti importa nulla di me? Di quello che provi, di quello che hai vissuto con me?»
«Non se tu porti in grembo quella cosa. Se tu fossi… normale, ti porterei in capo al mondo. Ma aspetti qualcuno che non è mio figlio, e per me sei nessuno, proprio come lui.»
Lo lascio andare, mentre le lacrime, il dolore, l’agonia e il nulla mi avvolgono e io mi lascio completamente andare, cadendo sul marciapiede bagnato e rotto, proprio come il mio cuore.


Dicembre 2011

Non fu molto furbo da parte mia portare mia figlia in quel bar. E il fatto che l'arredamento fosse lo stesso di sei anni prima, quando lo avevo lasciato, ne era una dimostrazione. Ma nonostante tutto, lì avevo vissuto una parte bellissima della mia vita ed incontrato persone speciali.
«Mamma?»
Mi chinai alla sua altezza, cosicché i nostri visi fossero vicini. «Dimmi, Evelyn.»
«Zio Jacob può rimanere?»
Guardai il mio migliore amico, nonché zio adottivo di mia figlia, e gli sorrisi. «Certo, amore. Dai, ora andiamo a sederci.»
Il calore emanato da quel posto mi scaldò il cuore, e involontariamente sorrisi, conscia del fatto che mia figlia e Jake potevano vedermi.
«Ma perché siamo qui?» Quella volta fu il ragazzo a prendere la parola. Lui sapeva solo una parte della storia, e non gli avevo mai detto chi era il padre di Evelyn. Anche perché lui conosceva Sam, e quando aveva abbandonato il nostro piccolo paese Jacob non conobbe mai la vera ragione della fuga dell’amico, e di sicuro non sarei stata io a svelarglielo.
«Diciamo che mi andava di tornare. E poi qui fanno la migliore cioccolata di tutta Brighton. Amore, ti andrebbe di assaggiarla?»
Evie alzò lo sguardo, con un grande sorriso sulle labbra. «Sì! Ti prego!»
Le scompigliai i capelli, ridendo. Evelyn era tutto ciò che mi teneva con i piedi per terra e riusciva a farmi tornare il buonumore.
La feci sedere sulle mie ginocchia, mordicchiandole il collo procurando una cascata di risate.
Intanto mi guardavo attorno e mi meravigliai di scoprire che solo i camerieri erano cambiati: Jess, Mike, Ben… Nessuno di oro c’era più. Jessica aveva lasciato il lavoro proprio il giorno stesso in cui lo feci io, dopo che Sam mi aveva abbandonata. Non lavoravamo più assieme, ma ci sentivamo spesso, soprattutto perché teneva a mia figlia come a una nipote, esattamente come Jacob.
«Mamma, dopo andiamo al mare?»
Evie amava la spiaggia di Brighton, forse perché la adoravo anche io. Avevo fatto di tutto affinché trascorresse quasi tutti i giorni almeno un paio di ore lì, e quando iniziò ad appassionarsi, cominciò anche a chiedermi sempre più spesso di andarci, anche a dicembre nonostante il tempo non fosse l’ideale.
«Ma fuori fa freddo, e sai che ci sarà tanto vento, tesoro.», provai a convincerla, carezzandole le mani. Mi mostrò la sua espressione da cucciolo, quella con il labbro inferiore sporgente e gli occhioni, e sapeva benissimo che non riuscivo a resisterle.
«Ti preeeeego, mamma!»
«Evelyn…»
«Dai, solo un pochino!» Strinse il mio maglioncino, sorridendo. «Solo qualche minuto!»
Jacob si era allontanato per prendere le bevande, e quando lui non c’era Evie ne approfittava, anche se alla fin fine non potevo vincere contro Jake. «Oh, e va bene. Ma solo poco, non voglio che ti prendi un malanno, intesi?»
Batté per qualche secondo le mani, gioendo. «Ok! Grazie, mamy.»
Posò il capo sul mio seno, abbracciandomi. D’istinto, strinsi le braccia attorno al suo corpicino, proprio come facevo quando aveva pochi mesi, quando avevo paura che potesse scivolarmi e l’avvicinavo forte forte al mio petto. Tante volte si era addormentata così, e a quasi sei anni dalla sua nascita era rimasto come un piccolo vizio.
Le baciai la fronte, ripensando a quanto l’amassi e tenessi a lei. Dopo l’abbandono di Sam, ero diventata la persona più ottimista e forte che avessi mai immaginato: per tutta la gravidanza ero riuscita a non pensare mai nel senso negativo, ma sempre rimanere sull’idea che le cose sarebbero solo migliorate.
Quei nove mesi erano volati, e a parte qualche fastidio erano filati lisci. Evelyn la conobbi per la prima volta in una mattina soleggiata di giugno, due settimane prima del termine previsto. Ma era nata bella e florida contro il mondo, scongiurando tutte le sfortune che suo padre ci aveva inviato.
«Eccovi le vostre cioccolate. E per Evie, doppia spruzzata di panna.»
Jacob mi porse entrambi i bicchieri, per via della paura che la bambina si potesse versare addosso il liquido bollente.
L’aiutai a bere lentamente, e risi assieme a Jake un paio di volte quando la piccola alzava lo sguardo dalla tazza e ci mostrava i suoi baffetti di cioccolata.
Restammo in silenzio per qualche minuto, a goderci la serenità di quel momento, fino a che Jacob non guardò Evelyn.
«Ehi, Evie, che ne dici se andiamo al parco giochi?»
Gli occhi di mia figlia si illuminarono, e saltò letteralmente fra le braccia del mio migliore amico, che l’accolse ridendo.
«Sì! Sì! Mamma, possiamo?»
Scrollai le spalle, alzando il viso verso il cielo. «Ormai avete vinto voi… Quindi sì, possiamo, amore.»
Evelyn si strusciò sul petto di Jacob, sorridendo e ringraziandolo. Incredibile quanta energia avesse, non si stancava mai.
«Bene, e giochi siano!» Decisamente, sarebbe stata una lunga e intensa giornata.


«Mamma, guarda!»
Evie mi corse incontro, con le mani giunte a coppa. «Guarda!»
Nei guantini si era posato un fiocco di neve, che dopo pochi secondi divenne acqua. «E’ bellissimo, amore. Vai a prenderne altri.»
Le carezzai la testolina coperta dal berretto e lasciai che tornasse a divertirsi in mezzo a quella coltre bianca.
«Spero che almeno stanotte ti lasci dormire.»
Jacob mi affiancò, tenendo le braccia strette al petto. Gli sorrisi, quasi risi a quella sua constatazione. «Dovrò trovare l’alloggiamento delle batterie, se non succederà.»
Il suo corpo fu percosso da una risata e scosse il capo. «In quel caso, puoi sempre chiamarmi e spengo io il mostriciattolo.»
Annuii e tornai a guardare la mia bambina che saltellava nel tentativo di acchiappare altri fiocchi.
«Sai una cosa, Jake?»
«Dimmi, Bells.»
«Ti voglio ringraziare per esserci stato. In un certo senso, per Evelyn potresti essere un padre. Quando è nata, sei stato la seconda persona della nostra famiglia che lei ha visto. È cresciuta con te, tu sei sempre stato al suo fianco.»
Ripensai a tutti quegli anni, che percorsero la mia mente come un treno alla massima velocità. Lo vidi quando prese in braccio per la prima volta mia figlia, la sua mano attaccata a quella di Evie quando muoveva i primi passi, le loro risate nel salotto di casa nostra, le serate in cui li trovavo addormentati abbracciati davanti alla tv e tutte le volte in cui tornavo a casa dal lavoro e trovavo la cucina in uno stato pietoso, oppure Evelyn sporca dalla testa ai piedi.
Eppure lei era sempre stata felice, grazie a Jacob.
«Sei la figura maschile che più ama, dopo Charlie. E in tutto questo tempo che abbiamo passato assieme non ti ho mai detto grazie in un modo decente. E ora che lei sta crescendo mi rendo conto di quanto tu sia importante nelle nostre vite.»
A metà della frase, mi strinse fra le sue braccia, stritolandomi in un caloroso abbraccio. Sorrisi contro il suo petto, e mi accorsi, per una volta, che sotto quell’aspetto da duro si celava un cuore dolce e tenero, e non era il solito spaccone che dimostrava di essere.
«Bells, io tengo a voi come a una seconda famiglia. Evie l’ho cresciuta anche io, ma non potrei mai essere suo padre, perché per me è una nipotina. E tu sei come una sorella, siamo cresciuti assieme, e adoro essere il compagno di giochi della peste.»
Non risposi e lasciai che mi scaldasse, prima che mia figlia accorresse da noi e prese il mio posto fra le braccia di Jake.
«Fammi fare l’aeroplano, zio! Dai!»
La fece volare in alto, tenendola da sotto le braccia e lanciandola in aria, per poi riprenderla saldamente e non lasciarla cadere.
Guardai quella scenetta da lontano. Si volevano un bene dell’anima, nonostante la mia bambina fosse una specie di piccolo diavoletto travestito da essere umano.
Mi voltai e rimasi sconcertata da ciò che mi si presentò davanti, tanto che dovetti ripetere l’azione due o tre volte prima di capire di chi si trattasse.
«Jacob!», urlai, cercando di attirare l’attenzione del ragazzo. «Puoi un attimo guardare Evelyn?»
Lui annuì e potei allontanarmi tranquilla, o quasi.
«Ciao, Bella.»
Mi fermai quando percepii quell’accento e subito capii di chi si trattava. Il mio stomaco fece una capriola, il respiro si arrestò nei polmoni e cominciò a raschiarmi la trachea nel tentativo di procedere. Strinsi le mani a pugno e mi avvicinai ancora un po’ a quella persona.
«Cosa diavolo ci fai tu qui?»
La mia voce uscì strozzata e molto più acuta di quel che realmente avrei voluto. Lo squadrai, perlustrando il suo volto. Era pieno di quei lineamenti che mi si erano marcati a fuoco, e mentalmente ringraziai il Cielo che Evelyn non aveva ereditato quasi nulla di suo padre, anzi non gli assomigliava per niente.
«Non dovresti essere qui.»
«Nessuno mi proibisce di tornare nella mia città natale, e lo sai anche tu.»
La sua voce mi fece venire da vomitare, facendo scattare in me un senso di autodifesa e i ricordi iniziarono a riaffiorare.
«Allora cosa ci fai qui? Nel parco, intendo.»
«Stavo facendo una passeggiata.»
Risi istericamente, con scherno. «Pensi che me la beva? Tu non sei qui per caso, so che vuoi vedere tua figlia.»
Mi girai e intravidi Jacob lanciare occhiate fuggitive verso di noi, mentre teneva impegnata Evie.
«Certo che riesci sempre a capire tutto, eh? Ebbene sì, sono venuto a incontrare di persona mia figlia, e a conoscerla.»
«Tu non la toccherai né le parlerai.», sputai amara, fulminandolo con gli occhi. Mi guardava intensamente, esattamente come quella sera: quando mi aveva abbandonata con sua figlia in grembo.
«Davvero? Posso farlo benissimo.»
«Ti ricordo che è proibito dalla Legge portare via i figli.»
«Lei è mia figlia.»
Sorrisi, prendendolo in giro. «Ah no, mi spiace. Non porta il tuo cognome, bensì il mio. E il DNA non c’entra. Tu non hai alcuna responsabilità legale su di lei, quindi scordatelo. È  mia.»
Mi fissò, con la fronte aggrottata. «Devi sempre fare la saputella, vero?»
«Quando c’è di mezzo la mia famiglia, certamente. Sam, perché ti importa di lei proprio ora? Cosa è cambiato da qui a sei anni fa?»
Il mio sguardo vagava sul suo corpo, cercando una risposta alla mia domanda, ma non la trovai.

You gave me roses and I left them there to die.

«Non ti sei mai fatto sentire. Durante la gravidanza avevo bisogno di qualcuno che mi stesse accanto e tu non c’eri. Quando è nata, mi hai inviato un mazzo di rose, che io ho lasciato appassire perché non ti importava nulla alla fine di noi. Quindi che senso aveva?»
Sospirò, abbassando il capo. «Avevo paura.. Di te.»
«Di me?! Sam, stai scherzando!»
«No, sono serio. Avevo paura che tu non mi accettassi più dopo quello che era successo quella notte.»
«Tu vuoi farmi credere davvero che mi amassi? Qual è stata la tua prova a tutto questo?»

And I think about summer, all the beautiful times
I watched you laughing from the passenger side
Realized that I loved you in the fall.

«Quante volte ho pensato a quell’estate, di quando andavamo al lago e ridevamo in auto? Ho capito di amarti solo in autunno, quando ci vedevamo tutti i giorni al bar. Ma tu non te ne sei mai accorto, non mi hai mai detto una volta “ti amo”.»
«Ti sbagli: io ti amavo davvero.»

Then the cold came, the dark days when fear crept into my mind.

«Davvero? Perché allora non me l’hai mai dimostrato? Io, a modo mio, l’ho sempre fatto. E tu non c’eri quando la paura mi ha insediato la mente.»
«Io c’ero, sei tu che non te ne sei mai accorta, Bella.»

I miss your tan skin, your sweet smile, so good to me, so right,
And how you held me in your arms that September night,
The first time you ever saw me cry.

«Ma quando, Sam? Quando? Non sai quanto mi sei mancato. La tua pelle abbronzata, il tuo sorriso dolce, che ritenevo così bello e giusto. Oppure in quella notte di Settembre, che era così fredda, quando eravamo tornati dalla fiera, mi hai stretto fra le tue braccia. Mi hai vista piangere per la prima volta quando ho litigato con Charlie e volevo scappare. Sono ricordi marchiati a fuoco.
Tutto questo, per te, cos’è stato? Gesti al vento, buttati a caso.»
Le lacrime cominciarono a scorrermi sulle guance, sotto quel pesante strato di bei ricordi che avevano popolato la mia mente nei mesi dopo l’abbandono.
Mi strinse il polso fra le sue dita, come quella notte, e sentii di nuovo la sua mano bruciare sul mio viso.
«Bella, non sai proprio nulla, non puoi immaginare cosa ho provato io dopo che ti ho lasciata… Ho capito di aver sbagliato tutto. E ora sono qui per rimediare, per una volta.»

I’d go back in time and change it but I can’t

«Secondo te, quante volte tornerei indietro nel tempo per cambiarlo, Sam? Ma io ora ho mia figlia, la amo con tutta me stessa, e non modificherei nulla di tutto questo. E se mi stai chiedendo una seconda opportunità, non te la darò mai, perché non te lo meriti e per Evelyn non saresti un buon padre. Non la meriti, lei non ha bisogno di qualcuno che ha troppa paura per amare la propria bambina.»
«Bella, io sono davvero cambiato, credimi.», farfugliò confuso, e si sarebbe anche inginocchiato davanti a me se non avesse tenuto così tanto al suo orgoglio.
«Mi dispiace, ma è troppo tardi.»
Mentalmente, chiusi dietro a un portone tutti i ricordi che avevo con lui. Li imprigionai dietro alle sbarre, li cancellai e feci di tutto per eliminarli. Dovevano sparire, così come doveva farlo lui.
«Non ho più tempo per tutto questo. Non fai più parte della mia vita da quel giorno.»
Mi allontanai, lasciandolo lì. Presi fra le braccia mia figlia, la mia unica ancora di salvezza, e non mi guardai più indietro, chiudendo definitivamente quel capitolo della mia vita che tanto mia aveva fatto male e che ora non meritava nemmeno di essere considerato.
Sarei stata meglio, ne ero sicura, se lui fosse scomparso per sempre, lasciandomi finalmente vivere come avrei dovuto farlo da sempre.




Angolo Autrice:
Salve! Ebbene sì, sono tornata con una piccola Fanfictiona a tema natalizio... Ok, lo so, non sa molto di Natale, ma vi prego di aspettare anche se per ora sembra molto depressa come storia.
Allooooora, che dire? Sono agitatissima, ma piena di aspettative. Ho in mente quest'idea da un paio di settimane, quando l'ho raccontata alle mie Simona e Bianca che mi hanno appoggiato e supportato visto il momento di crisi.
In realtà questa FF è dedicata a tutte coloro che credono in me e che mi assistono in ogni mio momento di pazzia.
Queste persone sono:
Simona, Bianca, Camilla, Aurora (già citate sopra, loro ripeto che sanno il perchè), Sanya, Ilaria, Martina, Francesca, Giuls, Ianna, Maria Fely, Alessandra, Lulu e tutte le altre. Davvero, se ho dimenticato qualcuna non è cattiveria, è che siete tantissimo e voi sapete benissimo che siete sempre in una parte del mio cuore e della mia mente. <3
La canzone che ho utilizzato è Back to December di Taylow Swift... Inutile dirvi quanto ami questa cantante <3
Non mi voglio dilungare, odio farlo LOL Anche se in momenti come questi ne ho la possibilità, e quindi...
Una cosa che mi farebbe davvero piacere è una vostra recensione: ditemi se come idea vi piace, se è uno schifo, se è da eliminare.. Sono qui per tutti i consigli ;)
Niente... Boh, aspetto numerose le vostre recensioni, solo questo.
Mi fareste veramente felici se mi diceste cosa ve ne pare :3
Un bacione,
Giulia

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Capitolo 2
*** Come nelle favole... o quasi ***


One Step Closer


One Step Closer
Capitolo due: Come nelle favole... o quasi.



Attaccai la cornetta del telefono, respirando a fondo. Alle mie spalle, Evelyn strillava giocando con Jacob… Una dolce musica per il mio povero mal di testa.
Mi ripetei mentalmente di stare calma, di non scoppiare a piangere istericamente oppure di rompere qualcosa… ma non trovavo nessuna valida opzione per non uscire di nuovo di casa, andare a riacciuffare Sam e strozzarlo con le mie stesse mani.
La rabbia mi scorreva nelle vene come veleno, mi bruciava i polsi, mi rodeva lo stomaco e il fiato mi raschiava i polmoni.
«No, zio Jake! Non farmi il solletico! Basta!»
La mia vita stava procedendo come avevo sempre desiderato: in sei anni, non c’era mai stata interferenza da parte sua, anche se fino ai primi mesi di vita di Evie avrei voluto vederlo tornare indietro e scusarsi, per poi diventare una famigliola felice, come quella della pubblicità.
Ma dopo tutto quel tempo, non aveva senso chiedere perdono. Cosa era cambiato per lui?
Io, di sicuro, ero cresciuta e avevo imparato dai miei stessi errori, ma mia figlia non potevo considerarla tale: era stata la più grande svolta della mia vita. Sembrava un piccolo passo della mia esistenza, ma mi aveva insegnato a essere più forte: per me, per lei. Per entrambe.
Se io ero debole, anche lei lo sarebbe stata, e non si meritava una vita del genere. Doveva essere felice, spensierata e senza inutili pesi sulle spalle, come tutte le bambine della sua età.
Per sei anni quella era stata la mia filosofia, non l’avevo trasgredita e ora vedevo crollare le fondamenta di quell’idea che mi ero creata. Vedevo tutto andare a rotoli, non mi rimaneva più nulla, neanche la manina di mia figlia da stringere.
Sospirai profondamente, scrollando il capo. Più ci pensavo e più stavo male al pensiero che davvero Sam potesse portamela via, ma non l’avrebbe fatto perché l’avrei protetta come avevo sempre fatto.
Cercai di tornare indietro con la mente, provando a ricordare come stavo bene fino a un’ora prima, con il desiderio della mia bambina di andare al mare, con i sorrisi sulle labbra e le centinaia di idee per la testa. Era tutto normale, ordinario, come poteva esserlo ogni giorno della mia vita.
Mi girai e trovai Evelyn che lottava contro Jake sul tappeto del salotto. Ridevano felici, senza pensieri che li importunavano. Jacob tornava bambino ogni qualvolta stava con Evie: sembrava quasi che lei avesse un filtro speciale per tornare alla gioventù, ma il ragazzo in realtà non ne aveva bisogno. Insomma, non era così vecchio, aveva solo sei mesi in più di me, ma aveva sempre lo spirito del fanciullo.
«Mamma, zio Jake vuole mangiarmi!», strillò la bambina, dimenandosi dalle braccia del mio migliore amico. Le sorrisi per poi iniziare a fargli il solletico: era il suo tallone d’Achille, esattamente come me. Un’altra somiglianza fra noi.
«Smettetela voi due! Basta!», implorò, agitandosi come se avesse avuto le convulsioni, anche se ci mancava davvero poco che le avesse, talmente tanto rideva.
«No, se non mi prometti che non mi mangerai!»
«Lo giuro, lo giuro!», rise ancora, e smisi nel momento in cui il suo viso assunse una sfumatura simile al bordeaux.
Mi misi in ginocchio, stringendo Evelyn al mio petto, mentre ancora ridacchiavamo tutti e tre assieme. Abbracciarla rendeva tutto ancora più reale e il pensiero di una sua scomparsa svanì immediatamente, proprio nel momento in cui i suoi capelli sfiorarono il mio collo.
Restammo per qualche minuto così, senza dire nulla, ad ascoltare il silenzio che ci circondava. Era raro poterlo sentire, dati i continui schiamazzi di mia figlia e di Jacob.
Forse pensare a quei momenti felici mi avrebbe aiutato, almeno a cancellare dai miei occhi l’immagine di Sam al parco, con il viso stravolto… Non mi faceva neanche pena, dopotutto quello che mi aveva fatto passare. Non era più il predatore e la mia paura nei suoi confronti era svanita.
«Vado a darmi una sistemata, ci metto pochi secondi.» Baciai la testa di Evelyn e l’affidai alle braccia forti e protettive di Jacob, che l’adagio sul suo petto. In confronto a lei poteva essere il Grande Gigante Gentile, tanto era mastodontico… Evie sembrava occupare solo un angolino della sua spalla.
Avevo un aspetto improponibile, sembrava non chiudessi occhio da giorni. Mi legai i capelli in una coda alta e misi a posto i vestiti che si erano spiegazzati. Almeno Renee non si sarebbe schifata di vedermi in quello stato, sapendo che comunque con una bambina piccola non si poteva essere sempre impeccabili.
Quando tornai in salotto, ebbi appena il tempo di guardare l’orologio che il campanello iniziò a suonare. Accolsi mia madre con tanta foga da lasciarla spiazzata e subito si preoccupò.
«Nonna!» Evelyn saltò letteralmente fra le braccia di Renee, che la stritolò in un caloroso abbraccio.
Dopo che Sam mi aveva lasciato, io e mamma avevamo stretto un legame fortissimo, che in diciotto anni di vita passati assieme non avevamo mai trovato. E anche lei, come tutti gli altri, d’altronde, amava mia figlia in un modo indissolubile.
«Piccola mia!» Più le guardavo così vicine, più vedevo le somiglianze. I capelli di Evelyn catturavano quel riflesso biondo che avevano quelli di mia madre, la pelle dello stesso colore e anche il caratterino, per qualche punto.
«Non ti vedo per qualche giorno che subito mi sembri più grande. Accidenti, devi smetterla di crescere così veloce, amore!»
Risi e lasciai che Evie tornasse sul tappeto da Jake, per poi abbracciare mia madre.
«Grazie per essere venuta.»
«Farei tutto per la mia bambina. Ora però devi raccontarmi, su.»
Ci sedemmo in cucina, lontano da orecchie in quel caso indiscrete. Renee mi fissava confusa, cercando di trarre dal mio sguardo qualche risposta.
Misi a bollire l’acqua per il tè, pensando alle parole adatte da dirle, ma tutte mi sembravano banali e inutili. Non parlavamo quasi mai del mio passato e di quello che era successo, salvo qualche rara occasione, ma era spesso per fare qualche comparazione.
A mia madre non era mai andato a genio Sam, lo trovava un gradasso e un poco di buono, con quella sua faccia da furbo e spaccone. Spesso mi raccomandava di tenere gli occhi aperti e di fare attenzione, e troppe volte avevo sottovalutato il suo consiglio. E quando poi venne a sapere le conseguenze, di primo acchito avrebbe voluto insultarmi, ma qualche secondo dopo aveva capito che ero poco più di una bambina e mi ero ritrovata con un peso troppo grande da portare da sola.
Per quello le ero grata, perché c’era sempre stata e aveva cresciuto a modo suo Evelyn.
«Tesoro, raccontami cosa c’è che non va.»
Sospirai, abbassando il capo e sporgendole la sua tazza di tè. «E’ difficile da spiegare, però…»
«Sono qui per ascoltarti, avanti.»
Presi un respiro profondo e la guardai dritta negli occhi, e mi ci persi. Quell’azzurro così intenso e profondo mi fece capire che ogni cosa che stavo per dire sarebbe stata sciocca e non avrebbe reso minimamente l’idea di quello che avevo provato ritrovandomi davanti a colui che mi aveva abbandonata perché portavo in grembo suo figlio. Come potevo svelarle che era tornato a rovinarmi la vita? O meglio che ci aveva provato ma che l’avevo cacciato definitivamente? Avrebbe capito, o avrebbe interpretato tutto come un gioco da bambini, mettendosi a ridere e infischiandosene?
«Mamma, Sam è tornato, oggi. Ha chiesto di Evie, voleva conoscerla e vederla ma non gliel’ho lasciato fare. Non ha senso tutto questo… Perché torna adesso?»
I suoi occhi si sgranarono di colpo, e fece per dire qualcosa ma si ammutolì.
«Non so perché lo abbia fatto, se pensa che adesso Evelyn potrebbe capire e accettarlo… Non lo so, io non lo farò mai, per me non ha importanza la sua motivazione. In sei anni non c’è mai stato e ora non c’è più tempo per rimediare.»
Non disse nulla, continuando a fissarmi basita.
«Mamma, ti prego, di’ qualcosa.», la supplicai, mentre le lacrime cominciarono a scorrere tiepide sulle mie guance. Se neanche lei sapeva cosa rispondermi, eravamo punto a capo. Renée conosceva sempre una risposta, trovava sempre la soluzione più adatta, ma a quanto pareva non aveva idea di cosa fare.
Si alzò e mi strinse fra le sue braccia, cullandomi e sussurrandomi parole all’orecchio per tranquillizzarmi.
«Stt amore, stt. Va tutto bene, non vi farà nulla.», mormorò, accarezzandomi i capelli. Sentivo il suo respiro sulla mia fronte e dopo qualche minuto riuscii a calmarmi ma non del tutto.
«Non può avere alcun diritto su Evelyn, dato che legalmente non ha niente a che fare con lei. Il cognome è il tuo, il padre non l’avevi dichiarato, devi stare tranquilla.»
«Ma sai com’è fatto! È capace di qualunque cosa!»
Mi accarezzò ancora la testa, tenendo le mani sulle mie guance. «Non lo farà perché sa le conseguenze che ne seguirebbero. Non ha la minima voglia né la forza di finire nei guai.»
Annuii e lasciai che mi abbracciasse ancora un po’, prima di asciugarmi il viso con la punta delle dita.
«Puoi… Puoi rimanere a cena? Almeno non mi sento sola.»
Sorrise. «Certo. Dopotutto siete la cosa più importante che ho, dopo tuto padre.»
Quasi come se avesse avuto un radar, la piccola peste in questione sbucò dalla porta, venendoci incontro.
«Maaaamma?»
Quando faceva così, era perché aveva combinato qualche pasticcio, il che non era una novità.
«Che c’è, amore?»
Tese le braccina, aprendo e serrando i pugni velocemente. Era un periodo in cui sempre più spesso mi chiedeva di essere presa in braccio, ma era una coccolona quindi forse era solo una cosa momentanea.
«In braccio.», mormorò e la sollevai, appoggiandola al mio petto. Renée le sorrise, accarezzandole i lunghi capelli castani. Evie posò il viso sul mio seno, tamburellando le dita minute sul mio collo.
«Cosa succede, cucciola?» Attirai di nuovo la sua attenzione e i suoi occhi si fusero con i miei. Evelyn, a detta dei miei genitori, era la fotocopia di me da bambina. I capelli, gli occhi, la forma del viso, il caratterino… Eravamo uguali, ed era un bene visto da dove arrivava l’altra parte del DNA.
Nascose il volto fra i miei capelli, stringendo il mio pullover nel pugno. «Nulla…»
Le pizzicai il fianco fra le dita, e lei ghignò. «Ora me lo dici, mi hai incuriosita.»
«Noooo!», quasi urlò, mostrandomi il suo più bel sorriso. Tenendola con un solo braccio, iniziai a farle il solletico, facendola ridere. I ricciolini scuri ballonzolavano oltre le sue spalle e la bambina inarcava la schiena all’indietro, presa com’era.
«Basta, mamma!»
«Tu allora dimmi cosa c’è che non va, avanti.»
Tornò a nascondersi dove era prima e si mise una manina davanti alla bocca. «Ieri all’asilo Ashley è andata via con il suo papà… Perché io non ho un papà?»
Sgranai gli occhi, colta assolutamente impreparata. Mai prima di allora mi aveva fatto una domanda del genere, e non pensavo l’avrebbe fatto prima di andare alla scuola elementare… Invece si dimostrava sempre più sveglia e superava persino me, sua madre. Bella cosa.
«Amore, perché questa domanda?» Certo, Bella, ottima risposta.
«Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda, mamma.» Cinque anni e già la testa dura come il coccio, esattamente come me… Non per niente si divertiva a ripetere le frasi che spesso usavo io con Jacob, tranne le parolacce, almeno quelle.
«Va bene. Tu rispondi prima a me, però, dai.»
Sbuffò e mi fissò dritta negli occhi, specchio dei miei. Vidi tutta la consapevolezza innocente della sua domanda, ma non potevo raccontarle che suo padre ci aveva lasciato quando lei era ancora un granellino dentro di me. «Perché anche io voglio un papà. Perché non ce l’ho?»
Sospirai, provando a formulare una frase di senso compiuto. Provai a cercare in viso una specie di spinta per risponderle, ma trovai solo il suo sguardo interrogativo.
«Amore…»
«Evelyn, perché non vieni con nonna? Voglio farti vedere cosa ti ho comprato.»
Mia figlia si dimenticò di quello che mi aveva chiesto appena sentì quelle parole. Ringraziai solo con un’occhiata mia madre, che mi aveva tirato fuori da un pasticcio che era solo momentaneo, perché ero sicura che presto Evie sarebbe tornata alla carica con i suoi perché.
Tutto ciò che disse – o meglio: strillò, Evelyn fu «Sì!», prima di sparire in salotto fra le braccia di mia madre.
Sospirai, guardando fuori dalla finestra nel tentativo di vedere la situazione da un’altra ottica.
«Bells, tutto ok?»
Mi girai e Jake mi guardava con aria sconcertata. Gesticolai, come a sminuire la cosa, e assentii appena. «Sì, solo un po’ di mal di testa.»
Annuì e si avvicinò al fornello, osservando dentro le pentole che Renée aveva precedentemente preparato con la cena mentre io parlavo con Evelyn.
«Jake?»
«Eh?»
«Stai bene?», gli chiesi, notando come stava rigido al mio fianco. Non gli succedeva mai, o se avveniva era per un motivo in particolare.
«Sì…»
«Sicuro?»
«… No.»
Sorrisi leggermente, squadrandolo. «Dai, cosa c’è che non va? Devi farmi qualche domanda?»
«Cosa ci faceva oggi Sam al parco?»
Però, che schietto…
«Ecco…» Era la giornata delle domande e delle risposte, senza dubbio. E anche a lui ora avrei dovuto dire cosa diavolo aveva combinato quel deficiente di Sam sei anni prima… come se fosse stato facile.
«Bella, non voglio che tu mi racconti balle, intesi? Dimmi la verità, solamente questo.»
Ancora una volta il mio sguardo si posò sulla strada che si vedeva dalla finestra. La neve formava una distesa infinita, senza un punto di fine, e si disperdeva all’orizzonte incontrando gli alberi spogli.
«Okay… Sam è tornato per Evelyn. È il suo padre biologico, colui che mi ha messo incinta e poi se n’è andato spudoratamente. Contento, adesso?»
Non ricevetti risposta e contai fino a dieci. Allo scoccare del termine, mi girai e trovai un Jacob pietrificato e inorridito, probabilmente per ciò che aveva fatto Sam, il suo amico, o forse perché in sei anni avevo taciuto la verità.
«Cosa? Stai scherzando?»
Sbuffai, incrociando le braccia al petto. «Eh certo, secondo te non mi ricordo con chi ero andata a letto? Jake, Sam è davvero suo padre.»
«Perché non me l’hai mai detto?»
Abbassai il capo, e un senso di colpa mi devastò il petto. «Perché pensavo… avevo paura che anche tu non avresti accettato ciò che era successo. Avevo paura che tu cercassi di farlo ragionare e farlo tornare indietro.»
Le sue forti braccia mi strinsero di nuovo, e mi ritrovai ben presto con il viso schiacciato contro il suo petto.
«Perdonami se non te l’ho mai detto… Sei arrabbiato con me, ora?»
Scosse il capo sopra il mio, cullandomi. «Un po’, ma ti sono grato per non avermelo detto, perché sennò gli avrei spaccato la faccia. Comunque certo che ti perdono, Bells.»
Alzai lo sguardo e gli sorrisi, prima di staccarmi e di tornare in salotto da Evelyn, che giocava sul tappeto con Renée.

«Amore, devi mangiare!»
Evie scosse ancora il capo, allontanando il piatto da sé. «No! Non le voglio!»
Sbuffai, infischiandomene degli sguardi preoccupati di mia madre e Jacob quando brandii la forchetta e la portai verso la boccuccia di mia figlia.
«Dai, tesoro.»
«Nooo! Non mi piacciono le verdure!», strillò, con il viso imbronciato. Sospirai e non capii il perché del suo comportamento: non faceva quasi mai storie sul cibo, ma evidentemente c’era qualcosa che non andava nella sua testolina quel giorno.
Sbattei la posata sul tavolo, maledicendo le buone maniere e passandomi una mano fra i capelli. «Evelyn, ora basta! Se hai fame, bene, altrimenti rimani con il pancino vuoto fino a domattina!»
Mi sorpresi del tono cattivo che avevo usato contro di lei, e mi morsi la lingua quando il labbro inferiore prese a tremolare e gli occhi si inumidirono.
«Oh, merda…», mormorai mentre mia figlia scoppiava in un pianto incontenibile. Renée mi fissò sconcertata e quando fece per tranquillizzare la bambina, la fermai con un gesto della mano.
«Vieni qui, su…» Presi il corpicino di Evelyn fra le braccia, facendola sedere sulle mie ginocchia. Nonostante fosse arrabbiata con me, posò la testa sul mio seno e iniziò a inumidirmi la maglia; le carezzai dolcemente i capelli, sussurrandole una nenia all’orecchio: solitamente si calmava in quel modo, ma non potei dire la stessa cosa in quel momento. Fu ben difficile arrestare le sue lacrime e solo dopo ben dieci minuti di cantilena, coccole e abbracci sentii il suo respiro tornare regolare.
«Allora?», le chiesi piano, asciugandole le guance piene con i polpastrelli. «Vogliamo farla sì o no questa pappa?»
Non dissentì e si sedette comoda sulle mie gambe, per poi sporgersi verso il tavolo e afferrare la forchetta che poco prima stavo impugnando io.
«Brava, cucciola…» Le baciai una tempia e la imboccai, parlottando con Jake e mia madre. Da quel momento Evelyn non fece più i capricci e rimase tranquilla a godersi il caldo delle mie braccia. Riuscì a tenere gli occhietti aperti per tutta la cena, fatto abbastanza strano perché ultimamente crollava sul piatto… Jake aveva uno strano effetto su di lei, quasi come se riuscisse a farla… scaricare, ecco, in qualche modo.
Quando mia madre la prese in braccio, nel momento dei saluti, le diede un bacio sulla guancia con fatica, per poi pretendere di tornare da me.
«Se hai bisogno di qualunque cosa, tesoro, sai dove trovarmi.», mi disse Renée, baciandomi la guancia.
Annuii, sorridendole. «Domattina papà viene a prendere Evelyn, ché io arrivo dopo dal lavoro… Me la porta in ufficio, vero?»
«Sì, se vuoi però può rimanere con noi, non è un problema.»
Scossi il capo, osservando mia figlia che stava appollaiata sul mio petto, crogiolandosi nel tepore. «No, anzi penso che Angela sarà felice di farla scorrazzare un po’. Allora ci sentiamo domani.»
Le aprii la porta e la salutai un’ultima porta, prima che sparisse nell’oscurità e nel bianco della neve.
Evie sbadigliò fra le mie braccia e andai a sedermi in salotto, dove Jacob guardava distrattamente la TV. Come se fosse stato una calamita, nell’attimo esatto in cui posai la schiena contro il divano, Evie si fiondò fra le braccia di Jake, che fu ben accetto ad accoglierla.
Sorrisi di quel quadretto, perché Jake era la figura maschile più importante, dopo Charlie, per Evelyn, e ogni giorno gli dimostrava quanto bene potesse volergli.
«Sai, diavoletto, che non mi è piaciuto come ti sei comportata a cena?», le borbottò lui, con aria di rimprovero, anche se sotto sotto sapevo che non voleva veramente sgridarla.
Gli occhi di Evie si posarono su quelli del ragazzo, cercando di chiedere perdono. «Scusami, zio Jake…»
Per risposta, Jacob le carezzò i capelli e le diede un buffetto sulla guancia. «Fa niente, però non voglio che tratti così la mamma, intesi?»
«E anche la mamma è stata un po’ cattiva, stasera…», sussurrai io, infilandomi nel discorso, e posai il mento sulla spalla del mio migliore amico. «E per questo voglio chiederti scusa, cucciolo.»
Mia figlia si sporse di più verso di me, quasi fino a scivolare, e mi schioccò un bacio sulla guancia, per poi sbadigliare.
«Ho tanto sonno, mammina.», mormorò, e Jake me la adagiò sul petto. Evelyn si accucciò, come di consueto, addosso a me, con la testolina sul mio seno e le braccia in grembo. Le accarezzai le guance, posandole un bacio leggero sulla testa.
Senza fare tanto rumore, Jacob ci salutò entrambe, facendo due coccole a Evie, e se ne uscì come se fosse stata casa sua, ma per certi versi lo era davvero, dato che spendeva quasi la metà della giornata da noi.
«Vieni, andiamo a nanna, amore.»
Spegnevo e accendevo le luci dei locali che attraversavo, e quando raggiunsi la cameretta di Evelyn, c’era solo la piccola abat-jour a rischiarire la stanza.
Dolcemente, aiutai la mia bambina a infilarsi il pigiamino e a mettersi sotto le coperte. «Hai freddo?», le chiesi, vedendo come tremava da sotto il piumone.
«No, mamma, ma mi abbracci?» La sua voce cominciava ad impastarsi con il sonno, e i suoi occhietti iniziarono a socchiudersi, ma quella sua richiesta arrivò ben chiara alle mie orecchie. L’accontentai, stringendo il suo corpicino fra le mie braccia, scaldandolo.
«Ora va meglio?», sussurrai, e lei annuì appena. «Ora fai la nanna… Domattina dovrai svegliarti presto.»
Posai le mie labbra sulla sua fronte, per il consueto bacio della buonanotte, e mi alzai, ma lei mi fermò. «No! Rimani qui, mamy. Raccontami una fiaba.»
«Va bene…» Presi uno dei primi libri che mi capitò dallo scaffale – La Bella Addormentata, e mi stesi accanto a Evelyn, che subito ne approfittò per farsi stringere.
Non mi interruppe neanche una volta, e quando arrivai alla fine della favola mi accorsi che aveva chiuso gli occhi e teneva il nasino premuto contro il mio petto. Così appoggiai il libro sul comodino e spensi la luce, alzandomi il più delicatamente possibile.
«Mamma?» Diamine, ma non stava dormendo?
«Mh?» Mi voltai verso di lei, e nella penombra riuscii a scorgere il suo visino rivolto verso di me.
«In tutte le fiabe ci sono le principesse che hanno un principe azzurro, e quindi anche da noi ci sono… Ma dov’è il tuo principe azzurro, mamy? Perché non ne hai uno?»
Sorrisi, commossa, e mi risistemai al suo fianco. «Amore… Non lo so, davvero. Magari un giorno lo incontrerò, chi lo sa.»
«Il mio papà non era il tuo principe azzurro?»
Sospirai, pensando a Sam. Lo sembrava, amore, lo sembrava. «No, amore.»
«Perché non è con noi?»
«Perché… Perché non voleva più bene alla mamma, tutto qui. Vieni qui, adesso.»
La strinsi a me, abbracciandola. Non era l’ora adatta a certe domande, ogni risposta sarebbe stata troppo complessa per lei, adesso.
«Ora dormi, ci sono io qui con te.»
Annuì e posò il viso nell’incavo del mio collo. «Ti voglio bene, mamma.»
«Anche io, scricciolo, anche io. Te ne vorrò sempre.»



«Bella!»
Abbandonai sul tavolino i caffè e corsi dall’altro capo dello studio, dove c’era Angela. Ecco di che cosa si trattava il mio lavoro: scorrazzare da una parte all’altra dell’ufficio legale per rispondere alle richieste dei vari avvocati. Era estenuante, e quel giorno le poche ore di sonno non mi aiutarono, tanto che quasi scivolai quando superai la porta.
«Cerca di non ucciderti, Bella!», esclamò la ragazza, ridendo sotto i baffi. «Mi daresti una mano a ordinare queste scartoffie?»
Annuii – non potevo fare altro, e mi avvicinai a lei. Angela era la tipica ragazza della porta accanto, acqua e sapone: i lunghi capelli neri erano raccolti in uno chignon, la pelle olivastra risaltava su quel tailleur chiaro e i tratti tipicamente spagnoli si accentuavano ancora di più con quel trucco. Sul naso, i suoi indimenticabili e insostituibili occhiali.
Era stata lei ad offrirmi il lavoro, un anno prima. Ci eravamo conosciute per caso, ad un convegno sulle ragazze madri, e lei era lì per parlare dei diritti delle donne e dei loro figli… Era stato il suo discorso a toccarmi profondamente, tanto da spingermi a parlarle nonostante la mia insicurezza e vergogna.
Andando avanti nei giorni, avevamo iniziato a conoscerci meglio e quando aveva incontrato Evelyn il nostro rapporto si era rafforzato.
«Sai che c’è un nuovo ragazzo che lavora qui?», disse ad un certo punto, lo sguardo vacuo nel vuoto.
«Davvero?»
«Sì! Si chiama Edward, lavora nello studio del secondo piano… E’ giovane, alto, capelli rossicci, due occhi verdissimi… Un figo da paura, in poche parole.», borbottò, e potei intravedere un filo di bava sgorgarle dal lato della bocca.
«Angy, devo ricordarti che sei felicemente sposata?», ridacchiai, facendola tornare composta.
«Oh, lo so… Ma cavoli, Bella… Se tu lo vedessi!»
Sospirai, scuotendo il capo. «Ora mi hai messo curiosità…»
Mi afferrò forte le mani, con lo spirito di un’adolescente in piena rivolta ormonale. «Devi averne! E’ davvero un bell’imbusto! È arrivato da pochi giorni, ma dicono che abbia tutte le doti per progredire nel suo lavoro.»
Annuii, dando poco peso alle sue parole. Perché diavolo allora ancora non l’avevo visto? Conoscevo tutti i visi dello studio, e di sicuro mi sarei accorta di qualcuno di nuovo… Perché allora non l’avevo notato?
«Ah… Be’, prima o poi avrò l’onore di vederlo anche io, dai.», sussurrai, stringendomi nelle spalle. Lo stesso fece lei, assegnandomi poi un plico pesantissimo di cartelline.
«Le puoi portare nell’archivio al posto mio? Ho ancora un sacco di pratiche da sbrigare.»
«Certo, non c’è problema.», risposi, sorridendole. Uscii velocemente dalla stanza, più che altro perché quel peso immane mi stava distruggendo le mani. Mancava poco all’archivio, quando notai i caffè che avevo lasciato incustoditi.
Decisi allora di finire prima il lavoro assegnatomi da Angela, per poi distribuire le bevande ai colleghi. Tutto quel vai e vieni mi avrebbe scombussolato la testa.
Fortunatamente, quasi tutti i documenti erano disposti per nome e non impiegai molto a disporle nei cassettini appositi.
Tornando indietro, presi a fissare il bracciale che portavo sempre con me, dove c’era una lettera con in mezzo incastonata una pietra rossa, una specie di cuore. Era una E, come Evelyn. Un modo come un altro per portare mia figlia sempre con me, ovunque andassi, per farmi pensare costantemente a lei e immaginare come avrei potuto abbracciarla al mio ritorno a casa.
Senza rendermene conto, finii addosso a qualcosa di grosso e… umano. Pensai fosse il muro, e invece quando mi ritrovai a contatto con qualcosa che stava respirando a pieni polmoni, capii che in realtà non era un oggetto… Ma bensì una persona.
«Oddio, scusami!», quasi strillai, presa alla sprovvista. Quell’uomo mi fissava tramortito, con quei suoi occhi verdi accesissimi. «Scusami, non ti ho visto!»
«Me ne sono accorto…», mormorò piuttosto seccato, osservandosi il petto. Sulla camicia bianca ora c’era stampata una bella chiazza di caffè… Fantastico.
Spalancai la bocca, mortificata, e respinsi l’impulso di strofinare le mani sul tessuto nel tentativo di far sparire la macchia. «Oh, merda.»
«Concordo.», contestò lui, corrugando le labbra in una smorfia di disprezzo, forse nel trattenersi da dire qualche imprecazione.
«Bella? Va tutto bene?» La voce di Angela mi attirò dall’altro capo del corridoio, e quando mi affacciai per vedere il suo volto, notai che mi stava indicando il ragazzo.
«Sì, insomma…», mormorai quando fu abbastanza vicina per notare il pasticcio che avevo appena combinato.
«Edward, vuoi che chieda al signor Smith se ha un cambio per te?» Il signor Smith, uno dei nostri migliori avvocati, non si sapeva perché portava con sé sempre qualche camicia in più… Forse proprio per evitare conseguenze come queste.
«No, ti ringrazio Angela. Ne ho una mia in ufficio.», rispose l’uomo, e solo in quel momento mi ricomposi.
Occhi smeraldini, capelli rossicci, fisico pronunciato… Era lui, il nuovo collega. Il tanto reclamato Edward, il cui cognome ancora mi era sconosciuto.
«Ora, se non vi dispiace, torno al mio lavoro.» Con quella frase, si dileguò da noi due, sfrecciando fino all’ascensore, senza però portarsi dietro il bicchiere di caffè.
«Era…»
«Proprio così, quello era Edward, signorinella. E tu ci sei finita addosso come una palla da bowling contro l’ultimo birillo per fare Spare. Che mossa, ragazza.»
A quel commento, le mie guance presero fuoco, e mi resi conto solo allora di come potevo essere sembrata goffa e poco responsabile agli occhi di quell’uomo.
«Ti giuro che non l’ho fatto a posta. Ero un attimo persa nei miei pensieri, e un attimo dopo mi sono ritrovata addosso a lui.»
«Certo, e io me la bevo?», si mise a ridere, canzonandomi. «Anche tu sei rimasta affascinata da lui, non ne dubito.»
Mi corrucciai e tornammo allo studio. «Stavo dicendo la verità…»
Mi diede bonariamente una pacca sulla spalla. «Ne riparliamo fra qualche giorno, tu che dici? Altro che attimo di smarrimento, per conto mio è bastato un secondo che eri già cotta di lui.»


Se qualcuno mi avesse beccata, mi avrebbe denunciato per molestie personali. Anche perché vista in quel modo la scena voleva dire solo due cose: ero una serial killer oppure una stalker.
Ma in quel caso mi ero prontamente travestita in una stalker professionista, fatto che mai mi sarei aspettata nei miei confronti.
Io, che ero tutta riservata, livello della privacy a livelli mortali, stavo fissando di nascosto, imboscata come un ninja, quel nuovo collega che tanto mi aveva colpita qualche ora prima.
Charlie mi aveva mandato un messaggio che non sarebbe potuto passare in ufficio a portarmi Evelyn, ma l’avrebbe tenuta a casa con lui e Renée, e gli avevo risposto che non ci sarebbe stato problema perché mi sarei trattenuta in ufficio almeno un’ora in più per sbrigare alcune faccende.
Però in realtà le avevo terminate in dieci minuti, e avevo colto la palla al balzo. Ero salita al secondo piano, cercando di dare nell’occhio il meno possibile, e mi ero nascosta, aspettando che la maggior parte degli avvocati se ne fossero andati.
Finalmente era giunta l’ora x, e quando mi affacciai per vedere di nuovo il suo volto, lo trovai seduto alla scrivania a parlare al telefono.
Sembrava piuttosto preso dalla conversazione, una mano fra i capelli, la camicia pulita sbottonata, la giacca nera coordinata ai pantaloni abbandonata sullo schienale della sedia. I suoi occhi si era rabbuiati, concentrati a fissare il monitor del computer, le sue labbra si muovevano frenetiche, la sua fronte era aggrottata.
Non potei leggere il suo labiale, ma mi giunse all’orecchio qualche imprecazione e insulto.
Era così bello… Non potei credere al fatto che Angela avesse avuto ragione, mi ero cotta a puntino di lui, senza lasciare traccia a ogni minimo dubbio. Forse me lo si poteva leggere in faccia, nei miei occhi, nei miei gesti… Sapevo che non mi sarei dovuta comportare così, perché avevo una bambina piccola e non potevo ripetere gli stessi errori, e stavo provando ad uscire da quella trappola, ma lui era una specie di magnete che mi attirava verso quel pozzo profondo, e non volevo venire risucchiata di nuovo in quel vortice dove non si vedeva più la luce.
Rividi l’esperienza passata con Sam, e scossi il capo, continuando a fissare attraverso le tapparelle. Se mai fosse successa una cosa del genere con Edward, non volevo andasse a finire nello stesso modo di sei anni prima. Il nuovo collega sembrava tanto una persona affidabile e amorevole…. Ma anche Sam lo era sembrato.
Chiusi per due secondi gli occhi e quando li riaprii scattai sulla difensiva: Edward si era alzato, abbandonando il cellulare sul tavolo, e si stava infilando la giacca. Spense il computer e infilò il telefonino nella tasta interna del vestito.
Uscii dal mio nascondiglio, correndo silenziosamente vicino alla fotocopiatrice: almeno avrei avuto un alibi.
La porta alle mie spalle si aprì e l’uomo la richiuse alle proprie spalle; si guardò un attimo attorno, per poi avvicinarsi sempre di più a me, ma mi accorsi malvolentieri che stava solo buttando una cartaccia nel cestino.
Deglutii rumorosamente e lui si voltò: probabilmente non mi aveva vista.
«Oh… Ciao, non mi ero accorto di te, scusami.»
Mi girai e gli sorrisi, provando a essere il più naturale possibile. «Ho imparato a sbrigare i miei lavori in silenzio.», risposi e lui mi rivolse un sorriso bellissimo e un po’ sghembo che mi fece sussultare il cuore.
«Immagino… Be’, buona serata, allora.»
«Anche a te…», sussurrai, guardandolo andare via. Quando le porte dell’ascensore si aprirono davanti a lui, si volse ancora una volta, sorridendomi timido. Appena fui sicura che non potesse più vedermi, mi rifugiai nel suo studio e trafugai nei cassetti. Ero come una bambina quando le era stato vietato qualcosa ma voleva comunque ottenere ciò che bramava. Io ero nella medesima condizione. Avevo dato dell’adolescente a Angela, ma io mi stavo comportando nello stesso identico modo se non peggio.
Trovai un portachiavi o un oggetto con sopra un cuore e poi una scritta.
Ohana. Famiglia.
Trattenni il respiro e lo strinsi fra le mani, chiudendo gli occhi e ripetendomi che non avrei mai avuto una chance come quella per tenere qualcosa di suo con me, una parte di lui sempre vicino. E un cuore ne era la prova, specchio del mio che mi batteva furioso nel petto mentre continuavo a pensare agli occhi verdi di Edward.




Angolo Autrice:
Dopo una settimana, rieccomi qui! Devo ammettere che sono molto ispirata, e questo aiuta molto!
Che dire? Sono felicissima di aver ricevuto ben 8 recensioni per il nuovo capitolo! (anche se spero che salgano ehehe)
Mi fa davvero capire che tutti i miei sforzi vengono sempre ripagati, in qualche modo <3
Come al solito ringrazio dìtutte le mie amiche pazzoidi sparse per l'Italia per aiutarmi sempre, soprattutto ultimamente che non è proprio un bel periodo per me, ecco.
Agigungo alle persone anche Jess Vanderbilt, che è una grande ragazza dal cuore d'oro <3
Niente... Non so cosa dire. Spero che il capitolo vi sia piaciuto... Per una recensioncina c'è sempre posto :3
Un bacione,
Giulia

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Capitolo 3
*** Ricominciare a respirare ***


One Step Closer


One Step Closer
Capitolo due: Ricominciare a respirare.



Io ero la persona più cinica della Terra quando si parlava di cambiamento. Non avevo mai creduto che le cose potessero modificarsi a mio favore e girare finalmente per il verso giusto.
Dopo quello che era successo con Sam, dopo le piccole disavventure che avevo vissuto nella gravidanza, la nascita di Evelyn e i primi anni complicati di convivenza con il rapporto madre-figlia non avevo più pensato che i fatti tornassero a posto.
Gandhi diceva: «Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere.» Quindi per me l’unico modo per arrivare davvero a ciò che desideravo dovevo prima cambiare… Ma qual era il mio obbiettivo? Ripensandoci, non me n’ero prefissato uno. Forse la pace dei sensi, forse il poter vivere finalmente una vita normale con mia figlia e darle tutto l’amore che potessi donarle… O probabilmente neanche quelle erano delle mete. L’essere indecisa non mi aveva mai portato a decisioni definitive ma solo a idee e supposizioni, che nella vita di oggi non servono a nulla, solo a mandarti sulla strada errata, a farti sbagliare e a farti rendere conto troppo tardi del tuo malinteso.
Erano giorni che riflettevo su questo: perché non l’avevo mai capito prima? Cosa era successo che mi aveva fatto aprire gli occhi?
Tutto era sempre uguale, le giornate passavano con la loro monotonia… o quasi. C’era solo una cosa che mi aveva fatto cambiare idea.
Quel portachiavi. Quel piccolo cuore con un incisione che avevo rubato a quel ragazzo tanto bello quanto in gamba che era il mio nuovo collega, Edward. Da ormai una settimana abbondante rimanevo ore a fantasticare osservandolo nelle sue azioni, ad esempio quando andava in pausa caffè e arrivava alla macchinetta, e per puro caso anche io ero lì…
Mi sentivo una stalker, anzi lo ero, eppure non riuscivo a farne a meno. Edward mi affascinava...
Forse il mio comportamento non si addiceva a una persona matura, madre di una bambina, eppure avevo provato a smetterla con questa cattiva abitudine, e ovviamente ogni mio tentativo fu invano.
Così, di nuovo, quella mattina mi ero ritrovata ancora a fissarlo svolgere le sue normali mansioni nell’ufficio, con quell’espressione seria e professionale in viso. Ben poche volte alzò lo sguardo, e solo una volta si scontrò con il mio, facendomi arrossire violentemente e distogliere gli occhi dai suoi, facendolo sorridere.
E il suo sorriso era bellissimo: una schiera di denti perfetti bianchi e dritti, le labbra incurvate in un ghigno sghembo davanti alla mia goffaggine.
Per tutto il turno ero rimasta mezza imbambolata, abbagliata dai suoi occhi… Un tipico atteggiamento da adolescente. Dio, sembravo tanto una ragazzina con gli ormoni sparati a mille: non riuscivo a fare nulla senza ripensare al suo viso e rabbrividire.
Sospirai così rumorosamente che Evelyn, sdraiata sul tappeto a fare un disegno, si voltò verso di me.
«Che c’è, mamma?»
Venni riportata alla realtà dalle sue parole cristalline e scossi il capo, rivolgendole un sorriso per tranquillizzarla. «Va tutto bene, amore.»
Si alzò e si sedette vicino a me, per poi appoggiare il capo sul mio grembo. «Cosa stavi guardando?»
«Nulla, pensavo, tesoro.»
«A cosa?»
Ogni giorno che passava quella bambina aumentava le sue domande…
«Al fatto che dovrebbe arrivare Angela fra poco…»
Evie annuì poco convinta per poi iniziare a tossire prepotentemente. Erano due giorni che non andava all’asilo per quell’inizio di influenza. Il pediatra aveva detto che aveva le difese un po’ basse, ma era normale data la stagione, ma questo non voleva dire nulla. Evelyn aveva un normale raffreddore con un principio di bronchite, malanni comuni, eppure il mio cuore da mamma si preoccupava tantissimo quando lei stava male, e diventavo apprensiva.
«Ti fa tanto male la gola? Vuoi dello sciroppo?»
«No, mamy. Voglio solo delle coccole.»
Sorrisi e la strinsi a me, cullandola e infischiandomene se avesse potuto attaccarmi i batteri. Col avvicinarsi delle feste, trovavo tutti i meccanismi per poter passare più tempo possibile con mia figlia, cosa non facile per via del lavoro. In più, per riuscire a portare a casa qualche soldino in più, per le feste, per i regali, ma soprattutto per me e Evie, avevo trovato un piccolo posto al sabato in una libreria, ma era cosa di poche ore, due o tre, quindi poco impegnativa; riuscivo così a unire il lavoro con la mia passione dei libri.
Mentre pensavo ai regali per Evelyn, il campanello suonò, e mia figlia schizzò via dalle mie braccia, pronta ad aprire la porta.
«Dovrebbe essere Angela.», mormorai e guardai dallo spioncino. Ovviamente, le mie supposizioni non furono errate. Lasciai che mia figlia abbassasse la maniglia – adorava farlo, il motivo mi era ancora sconosciuto – e feci entrare Angy, che aveva un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
«Ma buongiorno!» esclamò, allungando le braccia verso di Evelyn, che non se lo fece ripetere due volte e saltò addosso a Angela.
Il rapporto fra quelle due scalmanate si rafforzava ogni giorno che passava: la ragazza adorava mia figlia, si divertivano sempre assieme… Però, sinceramente, chi riusciva a non resistere a Evelyn?
Okay, forse ero poco modesta, ma la mia bambina aveva il potere di incantare tutti con quei suoi occhioni e il suo viso paffuto, e anche Angela era stata colpita.
«Come sta questa principessa?», chiese, passandomi Evie fra le braccia.
«La principessa stanotte ha avuto la febbre.», commentai, mentre andavamo in cucina. «E ha pensato bene di far rimanere la mamma sveglia tutta la notte.»
«Sul serio?» Evelyn nascose il viso fra i miei capelli e scoppiai in una grassa risata.
«Sembro un mostro, e stasera c’è anche la cena… Santo cielo.», borbottai, mentre servivo il pranzo. Rimanemmo in silenzio, solo ogni tanto la bambina faceva qualche capriccio, probabilmente portato dal sonno, data la nottata in bianco.
Fissavo Angela che mangiava guardando Evelyn. I suoi occhi e il suo sorriso luccicavano, riuscivo a intravedere tutta la gioia e l’affetto che provava nei confronti della bimba. Chissà se anche io ero così quando fissavo la persona più importante che avevo…
Dopo pranzo, lasciai il piacere a Angy di mettere a letto Evie per il pisolino quotidiano, mentre io mi occupavo di rassettare un po’ la casa, per quanto possibile. Sembrava un campo di battaglia, c’erano giochi ovunque… Avrei dovuto fare qualcosa, lo sapevo, ma più riprendevo mia figlia e più lei si divertiva a farmi uscire di testa. Renée diceva che mi assomigliava, anche io da bambina avevo un bel caratterino, e quindi non c’era da stupirsi se in qualche modo Evelyn era così: i geni erano quelli, da qualcuno avrebbe pur dovuto prendere.
Ad un certo punto, spinta da chissà quale intenzione, ripresi dal cassettino del mobile del salotto il portachiavi rubato. Ritornai a fissarlo, persa nei miei stessi pensieri. Tutte le sfaccettature di quel cuore di chissà quale materiale sembravano fatte a posta per combaciare con il palmo della mia mano.
Mi affacciai alla finestra, continuando a rimirarlo, e un raggio di sole colpì l’oggetto, che rifletté la luce producendo giochi di colore incredibili. Tanti piccoli prismi si proiettarono sul pavimento, sui mobili, sul mio corpo, tanti piccoli arcobaleni luminosi.
Non era un gingillo da poco, era cristallo, Swarovski, esattamente come quel piccolo ciondolo che portavo al collo, il pendente, con quell’iniziale, che mi avevano regalato i miei genitori e Jacob alla nascita di Evelyn.
«È crollata!» Sussultai alle parole di Angela, che si scusò per avermi spaventata. In una frazione di secondo, nascosi il portachiavi affinché non lo notasse, ma conoscendola se ne sarebbe accorta, o almeno mi avrebbe chiesto che cosa non andava.
«Meno male, almeno si riposa un po’…», commentai, sedendomi accanto a lei sul divano.
Rimanemmo per un lungo minuto in silenzio, senza scambiarci uno sguardo, fino a che non lei sospirò.
«Sai… Edward ha perso una cosa.»
Aggrottai le sopracciglia, fingendomi sorpresa e preoccupata, sebbene sapessi a che cosa si stava riferendo. «Davvero?»
«Già. È un oggetto a cui tiene molto, sono giorni che lo cerca e sta uscendo pazzo. Mi chiedevo se tu ne sapessi qualcosa.»
Bingo.
«N-no…», finsi, ingoiando il groppo che mi si era formato in gola. «Non ne sapevo nulla.»
Mi guardò di sbieco, provando a capire se davvero stessi dicendo la verità – ovviamente no, e sbuffò. «Ha setacciato l’intero ufficio, l’ha messo sottosopra, eppure non sbuca fuori ciò che cerca.»
«Non ha detto di cosa si tratta?»
Scosse il capo. «Purtroppo no, ma se lo facesse renderebbe le ricerche più semplici, in qualche modo. Ma vuole fare a modo suo, è un testone…»
Risi appena e mi rivolse un’occhiata. «È strano. Insomma, se fosse qualcosa di veramente importante, varrebbe la pena di comunicarcelo.»
Annuii e lei continuò. «Siete simili, sai?»
«Eh?»
«Sul serio, Bells.», mormorò, guardandomi intensamente. «È come se voi due foste la stessa persona, ma in due corpi diversi. Due testardi, tenaci e sicuri di sé, forti…»
Abbassai lo sguardo, leggermente sconcertata, per non far notare quanto le sue parole trapelassero la verità. Forse Angela aveva colto nel segno quello che ormai da una settimana cercavo di nascondere: Edward mi piaceva, molto. Era come se il suo sguardo fosse stato un magnete che attirava i miei occhi, come se ogni suo movimento fosse lo specchio dei miei. Era assurdo, ogni cosa era assurda: il mio comportamento in quella settimana, oltretutto, si era modificato in maniera stupida, come se tutto ora girasse attorno a quel ragazzo. Assurdo, anche quello.
«E sai… Non provare a nasconderlo.»
«Di cosa stai parlando?», domandai sottovoce, facendo scrocchiare le nocche.
«Avanti, non fare la finta tonta.», sorrise, carezzandomi la guancia. «Edward, ti piace. E tanto. Lo si vede da come arrossisci quando si parla di lui, come lui ti guarda in ufficio, come ti comporti in sua presenza. Sei diversa, stai cambiando, per lui.»
Sospirai. «Lo so, è stupido. È una cosa da adolescenti.»
«È una cosa intensa, invece. Vuol dire che nonostante quello che hai provato tanti anni fa, sei ancora capace di far battere il tuo cuore così forte per una persona. È un buon segno.»
«Lo dici solo perché sei mia amica.»
«Lo dico perché sono sincera, Bells. Se non lo fossi, ti avrei detto che sì, è sciocco comportarsi così, ma non l’ho fatto, perché credo in te, e so che puoi affrontare questa situazione.»
«E in che modo? Insomma, ci conosciamo da troppo poco, e chiedergli di andare a prendere qualcosa al bar è eccessivo.»
Lei sorrise. «Invece secondo me è un ottimo inizio.»
Corrugai la fronte, pensando se davvero stesse dicendo sul serio. «Scusa?»
«Un caffè al bar, due chiacchiere e lo scambio dei numeri: il tipico inizio di una grande storia d'amore.»
«Devo forse ricordarti che non siamo in un film?», borbottai e Angela rise. Evidentemente mi stava prendendo in giro.
«E tu che ne sai? Magari può bastare uno sguardo d'intesa e lì nasce tutto!»
Presi svogliatamente il telecomando della tv, accendendola. «Contenta te...»
«Eh no, devi esserlo tu! E poi stasera c'è anche lui alla cena, e quindi...»
Le lanciai un'occhiata, e lei prese a fischiettare. «Stai scherzando.»
«Ehm.. No. Sono serissima, io. È stato invitato anche lui, o meglio mi è stato proposto, e mi è sembrato carino aggiungerlo.»
Mi alzai di scatto, fissandola guardinga. «Perfetto, allora non vengo.»
Angela sbuffò rumorosamente, sprofondando nello schienale del divano. «Ma che palle!»
«No, lo dico io! Potevi avvertirmi?»
«Ma è una normalissima cena fra colleghi! Non ti mangerà, tranquilla. Cosa ti costa venire? Oltretutto paga l'azienda!»
«Non è per i soldi che mi dà fastidio, ma il fatto che tu non mio hai avvisato che sarebbe venuto pure Edward! E ora, cosa faccio?»
Alzò le spalle, senza levarsi dal viso quel sorriso compiaciuto. «Molto semplice: vieni.»
«Bastarda.», sibilai e in quel momento suonò il telefono. «Continuiamo dopo.»
Lo squillare si propagò ben presto nel salotto e quando risposi mi fischiavano le orecchie. «Pronto?»
«Ciao, tesoro, sono mamma
«Oh, ciao, mamma. Che succede?»
Lei dall'altra parte tossì. «Odio doverti avvisare così in ritardo, ma stasera non possiamo prendere Evelyn
«Cosa? E perché?»
«Tuo padre ha la febbre, e dato che Evie è appena uscita dall'influenza non mi pare il caso di esporla nuovamente
Perfetto. E adesso?
«Eh? Mamma, io stasera ho la cena con l'azienda, come faccio ora? Jacob è fuori città e non posso assolutamente disdire il mio appuntamento!»
Renée sospirò. «Tesoro, pensi che non mi dispiaccia? Sono io la prima che si sente in colpa perché sta rovinando i tuoi piani, ma preferisci che Evelyn prenda di nuovo la febbre, o trovare un'altra soluzione?»
Come sempre, mia madre riusciva a essere molto più razionale di me. Le difficoltà, lei, le superava sempre nei modi migliori, senza andare in escandescenze.
«Okay... Vedrò... che posso fare.», sussurrai, pensando già a possibili risoluzioni.
«Scusami, tesoro, ma è per il bene di Ev. Vi vogliamo bene.»
«Sì, anche noi.»
Quando attaccai la cornetta, sentii il fumo uscirmi dalle orecchie come nei cartoni animati. Giusto perché la giornata non era iniziata nel migliore dei modi, serviva qualcosa per peggiorarla.
«Che succede?», chiese Angela quando tornai in salotto. Avrei voluto rompere qualcosa o picchiare qualcuno, ma mi sedetti solamente accanto a lei, respirando profondamente.
«Non ho nessuno che mi guardi Evelyn stasera, e non so cosa fare.»
Angy mi guardò, sollevando un sopracciglio. «Jacob?»
«È fuori città, purtroppo...»
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, fino a che lei al mio fianco non sobbalzò e si girò verso di me. «Ho un'idea!»
«Cioè?» I suoi occhi brillarono per un secondo e sul suo volto comparve un sorriso radioso.
«Puoi portarla alla cena.»
In un istante, presi a ridere istericamente, perché per lei era una cosa ovvia, ma non per me. «Sai cosa vuol dire portarla ad una cena? Finirò per sgridarla in bagno perché combinerà qualcosa.»
«Cosa combinerò?»
Ci girammo in contemporanea a quella voce e trovammo, accanto all'ingresso, Evelyn con gli occhietti ancora appiccicati dal sonno.
Mi avvicinai a lei, chinandomi all'altezza del suo viso. «Ehi.»
Si arrampicò fra le mie braccia, baciandomi le guance. «Che succede?»
In quel momento, presi alla lettera la proposta di Angela, senza sapere un perché. Era l'unica opzione rimastami, dopo disdire il mio posto alla cena, ma era importante per me e per la mia carriera.
Ritornai sul divano con mia figlia che mi fissava con sguardo interrogativo. Si girò verso Angela, come per chiedere cosa stesse accadendo, ma non ottenne risposta. «Mamma?»
«Tesoro, ora mi devi ascoltare bene, ok?», le dissi con voce dolce e rassicurante e lei annuì sicura, sebbene nei suoi occhi potessi vedere tutta la sua preoccupazione.
«Purtroppo stasera nonno e nonna non possono venire.»
Sgranò gli occhi. «Perché?»
«Perché il nonno non sta bene, e quindi pensavo...»
«Cos'ha il nonno?», chiese allarmata e le carezzai amorevolmente i capelli. «Solo un po' di febbre, ma gli passerà. Comunque, stavo dicendo che pensavo di portarti con noi...»
Mi aspettai un suo capriccio o lacrime a non finire, poiché per lei le cene di lavoro erano una vera e propria tortura, e dopo le due precedenti esperienze, avevo deciso di lasciarla con i miei genitori. Invece mi sorrise, e batté le mani. «Davvero?»
«Certo, amore.», sussurrai e fui felice della sua reazione. Subito corse in camera sua, urlando come un'aquila e io e Angela non potemmo trattenere le nostre risate.


«Ho cinque vestiti, ora dovete dirmi con quale sto meglio.»
Per un'ora abbondante, se non di più, avevo cercato un abito abbastanza elegante, ma ovviamente non avevo trovato qualcosa di indicato.
Mi maledetti più volte mentalmente, dandomi costantemente della stupida perché, sebbene sapessi della cena, non avevo preparato nulla per l'occasione... Brava, Bella.
«Sono uno peggio dell'altro...», borbottò Angela, con sguardo disgustato. Gli occhi di Evelyn vagarono un po' sui tessuti, per poi adagiarsi sui miei. «Ma mamy, non puoi mettere il vestito con i fiorellini?»
Ridacchiai e le carezzai i riccioli. Beata innocenza, dopotutto lei cosa poteva saperne?
«Va be', facci vedere.», disse Angy, dandomi una bonaria pacca sul braccio.
Provai un abito dopo l'altro, ascoltando le critiche di Angela e di mia figlia.
«Sembri una carota gigante.»
«Ti fa grassa.»
«Sembra che tu non abbia tette.»
«Hai ventiquattro anni e con questo vestito ne dimostri cinquanta, che tristezza.»
Ovviamente, me lo aspettavo. Okay, forse avevo – e ho ancora adesso, un pessimo gusto nel vestire, ma Angela non poteva dire che sembravo una cinquantenne... O era seria?
«Ma se io dicessi che ho la febbre e non mi presentassi?»
Lei sbuffò, coprendosi il volto con le mani. «Ma se solo tu cercassi meglio in quell'armadio e trovassi qualcosa?»
Stavo leggermente andando nel panico: in poche ore, i miei piano si erano trasformati in fumo. I miei genitori non sarebbero venuti a prendere Evelyn, io non avevo qualcosa di elegante da mettermi, Angela non mi dava una mano e le lancette dell'orologio sembravano rintoccare così forti da rimbombarmi in testa, facendomi così capire che non avevo tutto il tempo del mondo, né potevo fermarlo per un po'.
«Ascoltami: tu cerchi qualcosa, io faccio il bagnetto alla peste; poi ci invertiamo, tu ti fai la doccia e io vesto Evie, d'accordo?»
Annuii, senza ascoltare una singola parola di quello che disse: ero diventata sorda, totalmente persa nei miei pensieri. Ero in una situazione scomoda e quasi ingestibile; per un secondo, avrei voluto tornare indietro e disdire il mio posto alla cena, così sarei rimasta a casa con mia figlia... E invece non avevo pensato a quello che sarebbe potuto succedere, come al solito, d'altronde.
Pensai a tutti i vestiti rinchiusi nell'armadio, alla polvere, che avevo comprato mesi e anni prima, nella speranza di poterli indossare un giorno, che non era mai arrivato.
Per lo più, la maggior parte li avevo acquistati qualche mese dopo la nascita di Evelyn, per potermi riprendere dall'abbandono, come se l'uso del denaro fosse stato una medicina qualunque. Ma mi sbagliavo, perché non avrebbe mai funzionato, e così tutti quei soldi furono sprecati...
Fra i tanti involucri di plastica nella cabina, dove mi persi e tossii più volte, scovai un vestito blu, poco invernale, ma molto elegante e fine... Strano, di solito tutto ciò che era blu lo indossavo senza problemi, in molti mi avevano detto che era un colore adatto a me...
Dal bagno, giungevano le risate di Evie e Angy, con qualche filastrocca e lamento che accompagnava il tutto. Per Angela doveva essere stata un'impresa fare il bagnetto a quella peste... Già per me, che ero sua madre e che la accudivo da quasi sei anni, era complicato farla stare buona per quei venti minuti, il tempo di insaponarle il corpo e lavarle i capelli, figuriamoci per Angy, che non aveva figli e che, di certo, non era allenata.
Mentre provavo l'abito e mi specchiavo nel grande specchio a muro, ripensai a quanti anni potessero essere passati sopra quella fodera di plastica che lo aveva custodito per così tanto tempo. Più che altro, quanti ricordi fossero trascorsi all'insegna del passare dei giorni, dei mesi e degli anni, per giunta.
In quegli ultimi attimi di solitudine, provai l’abito, sperando mentalmente che mi entrasse nonostante i chili presi; fortunatamente, la zip sulla schiena si chiudeva, e niente da dire sul fatto che il tessuto blu, così liscio e perfetto – quasi mi maledetti da sola per non aver mai messo quel vestito, mi ricadesse sui fianchi senza una piega storta o qualche gobba.
«Mammina, noi abbiamo…»
Mi voltai nello stesso istante in cui Angela rientrava nella stanza tenendo per mano mia figlia, avvolta nell’accappatoio rosso, con i piedini scalzi e gocciolanti.
«Sei bellissima, mamma!» Gli occhi di Evelyn si illuminarono e il sorriso sul suo volto si espanse ancora di più, fin quasi ad arrivare ai lobi delle orecchie.
«Cavolo, Bells, stai da favola! Si può sapere perché non l’hai mai messo?» Angela mi fissava sbalordita, con la bocca semi spalancata e gli occhi fuori dalle orbite… Ovviamente, fu una reazione decisamente troppo eccessiva.
«Non ricordavo di averlo nell’armadio… In realtà non ne conoscevo neanche l’esistenza.», ammisi, guardandomi allo specchio. Più rimiravo la mia immagine, più capivo che sarei stata bene vestita in quel modo. Forse non era proprio indicato per la stagione, ma di sicuro non avrei avuto freddo, dato che contavo di inseguire Evie per tutta la serata.
«Sei bella bella, mamma. La mamma più bella che abbia mai visto.», sussurrò al mio orecchio Evelyn, con un sorrisino compiaciuto.
I miei occhi rispecchiarono del tutto il mio animo, ossia quello di una madre commossa davanti a sua figlia. «Sei la bambina che tutti vorrebbero avere, amore mio.»


Ogni secondo che passava, la mia paura e la mia impazienza aumentavano, e i livelli di saturazione salivano così tanto che ogni volta mi sembrava di essere a un passo dal limite, ma non succedeva mai.
Angela guidava con calma per le strade deserte che portavano a Londra. Era da tanto che non andavo, presa com’ero da vari impegni, e quella sera tutte le luci erano illuminate, le strade sembravano coperte da specchi tanto erano lucide per la recente nevicata; non c’era nessuno, poche automobili circolavano in quel momento. Il sole era tramontato da un’ora abbondante, ma il cielo continuava a essere tinto di una sfumatura violacea che faceva intravedere all’orizzonte nuvoloni neri e spessi, portatori di pioggia.
«Quanto manca?» Evelyn si sporse verso di me, con quel suo sguardo assonnato e perso. Per lei era un grande sacrificio passare la serata a cena fuori con gli amici della mamma anziché rimanere sul divano a guardare la TV con Jacob, ma a mali estremi, estremi rimedi, si sapeva benissimo.
«Siamo quasi arrivati, cucciola, stai tranquilla.» Le carezzai i capelli ricci raccolti nei codini, cercando di non disfare quell’acconciatura così intricata per noi da mantenere anche solo per poco tempo.
«Uff, va bene, ma io mi sto annoiando.», borbottò, ricadendo dentro il seggiolino. Fissava fuori dal finestrino, i suoi occhietti seguivano senza fine le luci dei lampioni, brillavano di tutte quelle sfumature, quasi come quelle lucine che si appendono all’albero per Natale.
«Chiudi un attimo gli occhi, riposati un pochino, così quando arriviamo sei bella arzilla.», le sussurrai, carezzandole una gamba. La vidi annuire ma non mi diede molto ascolto, e nel giro di pochi secondi era già bellamente andata nel tanto agognato mondo dei sogni.
«Sei preoccupata?», mi chiese Angela dopo qualche minuto, non trovando un argomento per conversare.
Feci spallucce, come a sminuire una cosa troppo grande per essere gestita tutta in una sera. «Un po’, ma è normale, no?»
Sorrise. «Ma sei preoccupata per via del fatto che Evelyn possa combinare qualche disastro… O sei preoccupata perché c’è anche Edward?»
Ahia.
Presa in pieno, bingo.
Arrossii violentemente e sperai che, attraverso l’oscurità della sera, Angela non notasse quel piccolo particolare, ma ovviamente non fu così.
«Ho indovinato?» Sul suo viso comparve un sorriso vittorioso, e dovetti trattenermi per non metterle le mani intorno al collo dato che riusciva sempre e comunque a capire cosa mi passava per la testa.
«Non è possibile che indovini sempre.», confabulai esasperata, incrociando le braccia al petto. «Sì, sono agitata perché c’è Edward. Non ho la minima idea di quello che pensa di me, e non so cosa farà quando vedrà che ci sarà mia figlia…»
«Pensi di interessargli?», domandò Angy, girandosi verso di me. «Insomma… voglio dire, interessato nel senso…»
«Sì, sì, ho capito. Comunque non so, in ufficio non è che si interessi così tanto di me… Non che io lo voglia, sia chiaro, ma ogni tanto spero che si giri anche solo perché i nostri occhi si incrocino…»
A quelle parole, mi accorsi di quanto fossi stupida e adolescenziale, così mi coprii il viso con le mani, ridendo. «Dio, ma quanto sono ridicola?! Mi faccio pena da sola.»
Ma Angela, evidentemente, non la pensava allo stesso modo: mi fissava torva, non ridacchiava né un sorriso aveva fatto capolino sul suo viso.
«Perché dovresti essere ridicola?» La sua voce era rigida, piatta, colma di severità. «È davvero questo quello che pensi?»
Abbassai il capo, mordendomi la lingua. «Sinceramente non lo so nemmeno io. Sai come mi sento io quando lui è anche solo a cinque metri da me, quindi…»
«Secondo me lui corrisponde i tuoi sentimenti.» Sembrava così sicura di sé, totalmente il contrario di… me. «Poi ovviamente non posso entrare nella sua testa, ma per me è così.»
Parcheggiò davanti al ristorante, non dicendo nient’altro. Io non toccai più il discorso e mi girai per slacciare le cinture a Evelyn, che aveva aperto gli occhietti.
«Amore, la mamma deve chiederti una cosa.», sussurrai, prendendola in braccio e aggiustandole il vestitino e i capelli. «È una cosa molto importante.»
Posò la mano sul mio viso, sorridendo. «Dimmi…»
«Per mamma stasera è una serata molto importante, ma veramente tanto tanto. Quindi volevo che mi facessi una promessa… Sei d’accordo?»
Annuì. «Allora mi devi promettere che farai la brava e non mi farai arrabbiare, okay?», le baciai i capelli e la posai a terra, tenendole sempre la mano affinché non cadesse.
«Te lo prometto, mammina.» Nelle sue parole percepii tutta la verità che trapelavano, e non era la prima volta che succedeva.
Entrammo nel locale, avvolto da note di musica classica che si perdevano nel vocio confuso dei clienti; oltrepassammo un corridoio a vetri che dava sul giardino, pieno di laghetti e stagni. Evie rimase rapita dalle cascate poste tra le piante nella stanza e dovetti richiamarla per non doverla trascinare.
Il nostro capo, il superiore di Angela, aveva fatto riservare un’intera sala solo per il nostro gruppo; tutti erano già presenti ma ancora non avevano preso posto e chiacchieravano ridendo, sembravano tutti così tranquilli…
Ripensai alle parole di Angy e nel mio stomaco si moltiplicarono le farfalle, e fu così fino a quando non incrociai l’uomo dagli occhi di smeraldo, e lì cominciai a sudare e tremare.
Strinsi di più la mano di Evelyn, tenendola salda e cercando di trovare conforto e coraggio in mia figlia, così piccola e fragile.
Respira, Bella. Respiri lunghi e profondi.
Si avvicinò a me sorridendo e ogni mio muro crollò, compresa la mia autostima. Le ginocchia tremavano incredibilmente e…
Al diavolo le emozioni.
«Ciao.»
La sua voce arrivò amplificata nelle mie orecchie, mandando così in subbuglio i miei neuroni e sterminandoli.
«Ciao…», risposi, carezzando le spalle di Evie, che guardava Edward da lì sotto.
«Oggi… Non c’eri in ufficio.», disse, scricchiolandosi le nocche. Annuii, le mie mani continuavano a sfiorare i capelli di mia figlia. «Sì, ho… avuto qualche impegno.»
«Mamma?» Abbassai il capo e vidi Evelyn stendere le braccia verso il mio viso, segno che voleva essere presa in braccio.
Mi chinai alla sua altezza, mentre Edward ci guardava confuso. «Dimmi, amore.»
La bambina si girò verso l’uomo, con sguardo corrucciato. «Chi è lui?»
Risi della sua espressione e diedi un’occhiata verso il mio collega che sorrise. «Lui è un amico della mamma, si chiama Edward.»
Ed si piegò sulle ginocchia per poter veder meglio mia figlia. «Ehi.»
Evelyn, così uguale a me, si nascose tra le mie gambe, arrossendo. «Ciao…»
«Come ti chiami?» Le porse una mano, sperando che lei l’afferrasse lasciando così andare le mie gambe. Secondo i miei presupposti, fu facile ammaliare la mia bambina, perché subito si staccò da me e si affacciò verso l’uomo, con quel sorriso così dolce e tremendamente timido.
«Evelyn.», sussurrò, mordicchiandosi il labbro. Edward si voltò verso di me, stupito. «È tua figlia?»
«Sì…», ammisi e le mie guance presero fuoco. Perché? Perché mi vergognavo a dire una cosa del genere? Mia figlia era uno dei più grandi doni che mi fossero mai capitati, era grazie a lei se ero riuscita a tirare avanti.
Per il resto della cena non incrociai più lo sguardo di Ed, provai a pensare ad altro, la mia mente doveva girare su altri argomenti a parte a quello del mio collega.
«Mamma?»
Mi voltai verso Evie, che mi fissava con aria stufata. «Che succede, cucciola?»
«Mi sto annoiando.», sbuffò, facendo oscillare le gambe sotto il tavolo. «Posso alzarmi?»
«Abbiamo quasi finito, amore.», sussurrai e le carezzai i capelli che ormai si erano sciolti dall’acconciatura. «Qualche minuto e poi puoi andare.»
«Se vuoi la posso portare con me.»
Sobbalzai sorpresa a quella voce che proveniva dalle mie spalle, e quando mi girai vidi Edward che si stringeva nelle spalle.
Non vorrai mica dare tua figlia a un quasi perfetto sconosciuto?
«Devo uscire a fumarmi una sigaretta, tanto sono qui sul balconcino. Vengono anche Matt e Ophelia.»
Gli occhi di Evelyn brillavano in un modo tale che sembravano quasi scongiurarmi di lasciarla andare.
Sospirai. «D’accordo, però non far arrabbiare, tesoro.»
Evie trotterellò via con Edward e intravidi le loro mani intrecciarsi, e il mio cuore perse un battito.
Per il resto rimanente della conversazione, catturai poche parole, tanto ero presa dal pensiero di mia figlia con quell’uomo.
Cosa vuoi che possa succederle? È al sicuro, a pochi metri da te.
Lanciavo occhiate sfuggenti oltre i vetri che dividevano il balcone dalla sala; vedevo mia figlia saltellare e danzare davanti agli occhi di Ed, che era chinato contro la ringhiera e che la osservava rapito, con un sorriso sulle labbra.
«Bella?» Angela posò una mano sulla mia spalla, come per calmarmi. «Stai tranquilla, è lì, con Edward, non le accade nulla.»
Respiri profondi.
«Lo so, Angy, ma è mia figlia, è naturale che…»
«Tu rilassati, okay?» Si sedette più comodamente, come a farmi capire che non c’era bisogno di preoccuparsi così tanto.
Quando finirono di parlare, scattai in piedi e raggiunsi il porticato all’aperto, stringendomi per bene nel cappotto.
Evelyn stava parlando vivacemente con Ed, che l’ascoltava come se stesse facendo uno dei più importanti discorsi del mondo.
«Amore?»
Il mio richiamo la fece voltare e mi sorrise. «Sì?»
«Cosa stai combinando?»
Ridacchiò e tornò a guardare Edward, che era talmente rapito da lei che solo in quel momento si accorse di me.
Rapido, si rimise in piedi, mentre Evie fu attratta da qualcosa che proveniva da dentro, probabilmente Angela aveva fatto in modo che rientrasse. «È terribile, scusami.»
«Terribile?» Sgranò gli occhi, quasi impressionato. «È una bambina… Sbalorditiva, non ho mai visto niente del genere.»
«Devo prenderlo come un complimento?», scherzai e quando sentii la sua risata qualcosa dentro di me si scatenò, il mio stomaco si contrasse, le farfalle sbatterono le ali più velocemente.
«Non pensavo avessi una figlia...», mormorò imbarazzato. Feci spallucce. «Sì, ma è una storia lunga.»
«Quanti anni ha?», domandò e quando glielo dissi, lo vidi ragionare mentalmente, dandomi chissà quale età, dato che non lo sapeva.
«Lo so che è strano.», borbottai, fissando l’oscurità, cercando una luce oltre essa. «Nessuno se lo aspetterebbe, ecco.»
Sorrise e infilò le mani nelle tasche dei jeans. «Non è strano. È perfettamente normale.»
«Ma non tutti si aspetterebbero un figlio piombare dal cielo all’improvviso. C’è chi lo cerca per anni e non arriva, e poi c’è qualcun altro a cui basta una sera e…»
Stavo per dire “Si rovina la vita con nulla, per cinque maledetti minuti, per un preservativo non usato e una bottiglia di troppo” ma non lo feci. Era troppo cattivo, e io non pensavo una cosa del genere, non quando parlavo di mia figlia, non quando pensavo al mio cambiamento più grande.
«Oppure c’è quell’altro ancora che non riesce a fare nulla di buono nella vita.», disse lui, con gli occhi visibilmente lucidi. Perché? «Il cambiamento arriva quando ce n’è bisogno, quando non si può far altro per capovolgere la situazione, buona o meno che sia. Karen Kingston diceva: “La vita è un costante cambiamento. Quando qualcosa entra nelle vostre vite, dunque, siatene felici.” Io la penso allo stesso modo, ogni cambiamento porta a qualcosa che, in un modo o nell’altro, ti rende contento e accontentato, e niente e nessuno potrà mai farti cambiare idea.»
Dischiusi la bocca per dire qualcosa ma lui proseguì. «Se non possiamo cambiare il mondo, possiamo cambiarlo in noi stessi, e sarà comunque una grande soddisfazione.»
Abbassai il capo, capendo quanta verità ci fosse dentro quelle parole e subito lo sentii sospirare. Cosa potevo rispondergli?
Il suo cellulare vibrò e lui guardò il messaggio, prima di distogliere lo sguardo totalmente rattristito.
«Scusami…», mormorai, pensando fosse colpa mia. Ma lui si strinse nelle spalle. «Bisogna tenersi stretto quello a cui si tiene…»
Si allontanò accendendosi un’altra sigaretta e io rimasi con quella sua frase in testa, mentre dal locale arrivarono le note di una famosa canzone dei Beatles.
E quando le persone dal cuore spezzato che vivono nel mondo saranno d’accordo, allora ci sarà una risposta.
Eravamo così, io e Edward? Due persone dal cuore spezzato?
Io lo ero di certo, ma con la sua presenza, sentivo il mio cuore cominciare a rimarginarsi, dopo tanti anni di sofferenze e delusioni.
Stavo ricominciando a respirare.





Angolo Autrice:
Eeeehm... Salve?
Okay, sono la feccia umana in persona, I know. Non è più una ff natalizia, nè pasquale... Estiva? Sì, è diventata una ff estiva, che terrore e che vergogna.
Avrei voluto finirla entro capodanno, ma ho avuto molte altre cose da fare - chi mi segue sul gruppo sa benissimo.
Anyway, sono qui, giusto? È questo l'importante *yeeee*
Btw, voglio ringraziare in special modo per questo capitolo le mie Simona, Jessica e Lulu, che mi hanno aiutata tantissimo *sapevano mezzo capitolo già lol*
Cmq, non vi so dire quando tornerò con il nuovo capitolo, spero presto, perché ho anche altre idee al momento, ho AITC, Broken Souls... Troppe, troppe, bah.
Qualcuno mi dia una vangata sulla testa.
Vi voglio bene, e grazie di leggere e aspettare un tempo sempre così infinito .-.
Giulia ♥

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Capitolo 4
*** Il tuo principe azzurro ***


One Step Closer


One Step Closer
Capitolo quattro: Il tuo principe azzurro.



Progettare non era mai stato il mio forte, soprattutto quando c’entrava la mia vita. Odiavo fare programmi, più che altro perché non riuscivo mai a mantenere quello che mi ero prefissata, mandando così tutto all’aria.
Non era fondamentale, per me, pianificare tutto con cura, per lo più vivevo alla giornata, da come mi svegliavo la mattina capivo ciò che potevo fare. Avevo iniziato a tener conto di orari e giorni quando era nata Evelyn, perché non sarebbero stati facili i primi tempi da neomamma in cerca di lavoro con solo un diploma in mano.
Ma qualcosa stava cambiando e me ne stavo accorgendo solo in quel momento, al silenzio, nel letto tanto grande quanto vuoto, da sola, al buio.
Il mio cuore non batteva come prima: andava più veloce, quando la mia mente sfiorava una certa immagine iniziava a volare, quasi riuscivo a sentirlo da sotto la pelle. Controllarlo era impossibile, provare a capire il perché era incerto… Anzi, in realtà un’idea ce l’avevo, e anche abbastanza chiara.
Da quando, una settimana prima, Edward aveva iniziato a parlarmi seriamente, non solo più sorrisi e cenni di testa e mano, mi sentivo a due palmi da terra. Tipico comportamento da ragazzina, ma non mi capacitavo di quel capovolgimento di situazione.
Mentre mi lavavo per andare in ufficio, continuavo a ripensare al suo discorso. Sotto sotto, c’era qualcosa che non mi tornava. Perché i suoi occhi erano diventati lucidi mentre parlava di cambiamento? Cosa stava succedendo nella sua vita privata?
Ben presto, mi ritrovai nel corridoio dello studio con in mano un caffè bollente, un mal di testa atroce e le gambe intorpidite per i tacchi alti.
«Buongiorno, Bellina! Dormito bene?» Angela mi arrivò alle spalle, con un sorriso a trentadue denti stampato in viso e sembrava aleggiare in un aurea celestiale.
«Sì, abbastanza.», mormorai mentendo. Dormire era un termine eccessivo viste le ultime notte trascorse a rigirarmi tra le coperte e Evelyn con febbre e malanni vari. «Tu? Stamattina mi sembri molto su di giri, cos’è successo?»
Mi prese per il braccio e mi trascinò fino al suo ufficio, dove chiuse la porta a chiave e ci si appoggiò sopra.
«Cos’è tutta questa enfasi? Angy, mi devo preoccupare?», borbottai posando il caffè sulla sua scrivania. «Sicura di stare…»
«Hanno accettato la nostra pratica per l’adozione.», esordì e sentii le ginocchia cedere, sia per la felicità sia per la sorpresa.
«Cosa?! Angela, non dirai sul serio?»
Si asciugò la fronte madida di sudore, le mani le tremavano visibilmente. «Invece sì. Oddio, non ci credo nemmeno io. Ieri sera ho acceso il portatile e ho visto una mail, ma non pensavo fosse vero e… Sì, c’era scritto che accettavano la nostra richiesta, avremo un bambino, diventeremo genitori.»
Continuava a farneticare senza sosta, fissandomi con gli occhi che le brillavano intensamente.
D’impulso mi avvicinai a lei e l’abbracciai stretta, cercando di calmarla. «Sta’ tranquilla.»
La feci sedere e le portai un bicchiere d’acqua. Erano mesi che lei e suo marito aspettavano quella risposta, c’erano stati giorni grigi e bui e altri pieni di speranza. Aveva pianto tantissime volte, Angela, sulla sua scrivania, con le braccia intorno alla testa; aveva tirato a terra tutto ciò che si trovava nel suo passaggio quando la rabbia raggiungeva livelli mai visti; voleva smettere con tutto quando non trovava altra soluzione.
Più volte mi aveva parlato di quel suo problema, erano anni che cercavano un bambino, ma purtroppo avevano scoperto che le loro possibilità rasentavano il 10 percento, quindi pressoché nulle, ma non si erano arresi, avevano lottato per giorni per diventare idonei all’adozione, avevano sconvolto il loro piccolo appartamento per farlo diventare a prova di bambino, avevano messo a soqquadro le proprie vite per donare il proprio amore a qualcuno da accudire, e vedere quella luce nei suoi occhi ora era la prova che non tutti i mali vengono per nuocere.
«Non hanno detto nient’altro? Quando dovrete presentarvi…?»
Scosse il capo, finendo l’acqua nel bicchiere. «No, ci avviseranno loro, ma penso ci vada qualche mese ancora, non ne sono sicura.»
Annuii, carezzandole una spalla. «Andrà tutto bene, tu e Richard ve lo meritate, siete due persone splendide.»
Sorrise appena, per poi alzarsi e sistemarsi la camicia. «Bene, ora però devo darti una seconda notizia, ma per questo prima devo chiamare una persona. Tu siediti, io arrivo subito.»
Mi accomodai e lei sgusciò fuori dalla stanza come un razzo; sentii il picchiettio dei suoi tacchi lungo tutto il corridoio.
Il mio cuore continuava a battere forte per la novità comunicatami poco prima, perché facevo fatica a crederci… Mi bastava vedere come Angela guardava Evelyn per capire quanto amore materno ci fosse dentro di lei, che non veniva abbastanza consumato ma che sarebbe stato pronto per quel bambino che avrebbe rivoluzionato al meglio le loro vite.
«…Ho in serbo una grande idea, ne rimarrete entusiasti.»
Mi voltai appena in tempo per scorgere Angela rientrare e Edward avvicinarsi cauto all’altra sedia accanto a me.
«Ehm… Ciao.», mormorò alzando la mano a mo’ di saluto. Ricambiai, cercando di apparire il più naturale possibile, ma fu ovviamente impossibile, non quando lui mi stava a meno di trenta centimetri di distanza.
Angela si sedette davanti a noi, sbatacchiando le mani sul tavolo con energia. «Non vi ho chiamati qui a caso, sul serio, ma c’è una scelta ben precisa. Volete che vi dico tutto?»
Ed alzò le spalle, indifferente e indeciso. «Se è per questo che siamo qui…»
Angy congiunse le mani in grembo, adagiandosi meglio sullo schienale della sua sedia. «Ci hanno affidato un’importante caso, e dato che per una persona sola è un lavoro troppo complicato, ho pensato di unire le vostre menti geniali e vorrei che collaboriate al fine di ottenere un ottimo risultato. Cosa ve ne pare?»
Strabuzzai gli occhi e quasi mi soffocai con la mia stessa saliva. «Cosa?»
Edward era altrettanto stupito e sul suo viso era dipinta l’espressione della totale sorpresa. «Sul serio?»
Angela sorrise a entrambi, con una tranquillità disarmante come se si trattasse della cosa più facile del mondo. «Ovviamente. Però ho bisogno che cominciate subito, è molto importante per tutti.»
Sospirai e quando feci per alzarmi e tornare a smistare le scartoffie, la donna mi prese il polso e mi bloccò.
«Cosa c’è, Angela?», bofonchiai, guardandola torva. Forse mi stavo comportando decisamente male, ma non poteva organizzare tutto senza dirmi nulla.
«Non mi pari entusiasta…»
Sbuffai, appoggiandomi al muro. «Non quando una delle mie migliori amiche decide come regolare la mia vita lavorativa tenendomi fuori. Sai com’è, mi sarebbe piaciuto saperne qualcosa prima.»
«Ci ho pensato in fretta, non ho avuto il tempo di programmare. Comunque almeno avrete l’occasione di parlare un po’, ti ricordo che ancora ho in testa la conversazione che abbiamo avuto poco tempo fa.»
Sentii le guance avvampare e subito le coprii con le mani fredde. «L’importante è che non ne fai parola con lui, per favore.»
Sorrise e mi lasciò andare. «Preferirei che fossi tu a fare la prima mossa, non sarebbe tanto male.»
 
 
Osservare gli occhi verdi di Edward di nascosto era rilassante come poche cose in quel momento. Era intento a leggere le scartoffie che Angela ci aveva prontamente portato nell’ufficio dell’uomo dai capelli ramati; in quel momento portava un paio di occhiali che gli davano un aspetto ancora più adulto e severo, anche se l’aspetto del ragazzino persisteva sul suo viso angelico.
«Penso si possa fare.»
Alzai il capo, sbattendo più volte le palpebre. Mi ero fatta cogliere proprio in castagna. «Cosa?»
Il suo sguardo si intensificò sul mio e sentii lo stomaco aggrovigliarsi. Come ci riusciva? «Ho detto che è possibile fare questo lavoro, se ci mettiamo di buona lena.»
Annuii e mi massaggiai le tempie sapendo bene che mi stava guardando. «Non ti senti bene, Bella?»
«Solo mal di testa, ma passerà.» Chiuse la cartellina e la ripose in un cassetto della scrivania, per poi controllare l’ora.
«E se andassimo a mangiare qualcosa? Sembri stanca, magari staccare un po’ la spina ti può servire.»
Feci spallucce. «Se non è un gran problema per te.»
Scosse il capo con un sorriso pacifico sulle labbra; il mio cuore perse un battito. Era così bello, cordiale, sempre alla mano…
Pensai per un nano secondo se le sue labbra erano così morbide come sembravano, la sua pelle profumata, i suoi capelli setosi, la sua voce vellutata se sussurrata nell’orecchio.
«… andare?»
Ero rimasta così imbambolata dal quelle sottili linee carnose che avevo compreso solo metà frase.
«Dove vorresti andare?», ripeté con calma, allentandosi il nodo alla cravatta. Deglutii rumorosamente e mi infilai il cappotto. «È indifferente.»
Venti minuti più tardi, dopo essere stata nella sua Mercedes, aver ascoltato un po’ di musica – scoprii che era un fan sfegatato di Adele, dei Coldplay e di Céline Dion, e aver chiacchierato del più del meno, ci trovammo seduti in un bar al caldo, con la pioggia che scrosciava sui marciapiedi all’esterno, decine di ombrelli colorati che brillavano sotto il cielo grigio londinese, e un caffè bollente fra le mani.
«Adoro questo posto.», sussurrò Edward, accomodandosi meglio. «C’è sempre un’atmosfera così… famigliare.»
Annuii e subito mi trovai nello stesso locale dove avevo lavorato anni prima. La musica era simile, le persone sorridevano nello stesso modo, ero senza pensieri come allora.
«Comunque, sarebbe bene se cominciassimo da subito a lavorare. Non dico da oggi, perché è un po’ assurdo, ma in settimana vorrei stilare una scaletta.»
Dentro di me si accese una spia di allarme: era un maniaco del controllo. «Ehm… d’accordo.»
Posò la tazza di caffè e si rilassò sullo schienale della sedia, alzando le mani in segno di resa. «Voglio dire, non vorrei che ci trovassimo a poco tempo dalla consegna del lavoro con ancora tutto da fare. Odio ridurmi all’ultimo.»
«Non c’è problema», mormorai sorridendo. «Per me va benissimo.»
«Ti ringrazio, davvero.» Mi sorrise a sua volta e sentii nello stomaco qualcosa di strano, ma non erano le farfalle. Lo conoscevo da troppo poco, eppure nel suo sorriso c’era qualcosa che mi trapelava sincerità, e quasi capii che mi sarei potuta fidare.
Dopo gli avvenimenti accaduti con Sam, avevo chiuso il mio cuore a tanti uomini e di sicuro lo avrei fatto ancora per molto tempo, eppure… Eppure con Edward era diverso.
«Tua figlia è adorabile.», disse ad un certo punto, guardando fuori dalla finestra. «Mi ricorda tanto mia nipote, anche fisicamente.»
«Oh, davvero?»
«Sì, è veramente dolce. Ha quel viso così angelico che ti fa scogliere…» I suoi occhi erano così vivi e sereni come mai li avevo visti. «Proprio come mia nipote.»
«Ad Evelyn piaci molto, è difficile che si fidi così facilmente di qualcuno, proprio come è capitato a te alla cena. È… molto timida, anche all’asilo ci mette un po’ prima di legare veramente con qualcuno.»
«Mi piacerebbe rivederla.», mormorò con enfasi, chinandosi in avanti. «Se non è un problema.»
Vedendo la mia espressione, subito si ritrasse ma lo tranquillizzai con uno sguardo. «Non c’è problema, potresti… tipo stasera? Sarà a casa, i miei genitori la portano lì poco dopo che io sono tornata.»
«Sarebbe perfetto.», mormorò, piegandosi sopra la tazza di caffè. «Sarebbe perfetto.»
 
 
Quando aprii la porta di casa, le farfalle nello stomaco erano raddoppiate e il solo pensiero di aver Edward nel mio salotto mi fece vorticare la testa.
«Scusa per il disordine.», bofonchiai, togliendomi la giacca e aspettando che mi porgesse la sua. «Di solito non è così.»
Lui sorrideva come se niente fosse, si guardava attorno con gli occhi lucenti. «Sta’ tranquilla, non c’è problema.»
Rassettai i giochi di Evelyn dal pavimento, infilandoli nella cesta. Edward seguiva ogni mio movimento e mi sentii per qualche secondo messa in soggezione, ma quando distolse lo sguardo verso le fotografie appese al muro capii che si stava solo guardando in giro.
«Posso farti una domanda?»
Mi voltai verso di lui, aggiustandomi i capelli. «Sì, certo.»
«Dov’è il padre di Evelyn?»
Spalancai la bocca per dire qualcosa, elaborai in testa la risposa più adatta ma in quel momento suonarono al campanello, e nella mia testa ringraziai quella persona.
«Magari ne parliamo un’altra volta…», sussurrai avvicinandomi alla porta. Non volevo svelare quella storia fin troppo personale, ma più che altro perché era relativamente presto.
Quando spalancai la porta, Evie si gettò fra le mie braccia, con il cappotto pieno di neve e il nasino ghiacciato.
«Ciao, mamma!» La sua voce era uno scampanellio di campanelle, così angelica e argentina. Mi era mancata tantissimo e in quel momento, mentre la stringevo a me, sentivo che era al sicuro… Non che con i miei genitori non lo fosse, ma mi preoccupavo sempre tantissimo per lei.
«Ciao, amore.» Le carezzai i capelli e acconciai dei ciuffi dietro alle orecchie, prima di voltarmi verso Edward. «Guarda chi c’è.»
Lui le sorrise, mentre la bambina si nascondeva tra le pieghe del mio collo. «Evelyn, ciao.»
Mia figlia sorrise quando Ed cominciò ad avvicinarsi, e gli tese una manina paffuta quando si chinò all’altezza del suo viso.
«Se tu giochi un attimo con Edward, io preparo la cena.», mormorai, baciandole la testa. Con mio gran stupore, scese e subito afferrò l’uomo per la giacca, portandolo a vedere la sua cameretta.
Mia madre mi bussò sulla spalla vedendomi assorta. «È lui?»
«Cosa?»
«È lui l’uomo che ha fatto perdere la testa a mia figlia?», sussurrò e io arrossii. Non ero così cotta di lui da non avere la testa sulle spalle… Ero semplicemente attratta, tutto lì. Mi piaceva, era vero, ma non ci morivo dietro… almeno non in quel momento.
«È carino.», continuò sorridendomi. «Sembra un bravo ragazzo.»
Avrei voluto risponderle: “Sì, hai ragione.”, ma purtroppo non lo conoscevo bene quanto pensassi, ma magari l’aspetto esteriore rivelava davvero quell’uomo di buon cuore qual era Edward.
«Secondo me, è perso di te, glielo si legge negli occhi.» Renée mi guardò per un lungo, interminabile istante; forse aspettava una risposta che non ero capace di dare, ma nella mia mente era stampata a fuoco.
«Vedremo.», borbottai, girandomi dall’altra parte. «In ogni caso, grazie, mamma.»
Mi carezzò una spalla, comprensiva e con un’espressione carica d’amore. «Sai dove trovarmi, tesoro.»
La accompagnai fino al ciglio della strada, aspettando che facesse retromarcia nel vialetto e sparisse nel buio della via.
Tornai dentro e trovai Edward appoggiato allo stipite della porta a osservare Evelyn. La guardava con occhi rapiti, come se fosse l’unica stella nel cielo. A passi lenti e silenziosi sgattaiolai in cucina, dove cominciai a mettere su la cena, con la stessa manualità e quotidianità con cui lo facevo tutte le sere. Feci bollire l’acqua della pasta, scaldai il sugo e preparai la tavola per tre, come sempre: solo che, per una volta, al terzo posto non c’era Jacob.
Quando ebbi finito di cucinare e mettere la pasta nei piatti, mi incamminai verso la stanza di Evelyn; trovai Edward sdraiato sul letto con Evie che dormiva accanto a lui, a pancia in giù. I capelli erano sparsi sul cuscino, i codini si erano sciolti a forza di saltellare ovunque.
«Di là… è pronto, se ti va.», mormorai, appoggiandomi allo stipite della porta. Fissavo Ed mentre, delicatamente, scostava Evelyn da sé e la posava sui cuscini; era gentile e prudente in ogni sua azione, cercava di non svegliarla e, quando pensò che non lo stessi osservando, baciò la testa di mia figlia come se fosse il gesto più naturale al mondo.
«Ho preparato la pasta, spero ti piaccia. Sono una frana in cucina.», gli dissi mentre percorrevamo il piccolo corridoio. Aspettai che si accomodasse per farlo anche io, e quando mandò giù il primo boccone, attesi il suo responso.
«Per essere una frana, te la cavi egregiamente, complimenti.», bofonchiò, prendendo con la forchetta altra pasta.
«Grazie, forse è l’unico piatto che preparo decentemente.», ridacchiai. «La mia unica giudice è Evelyn, si accontenta di tutto.»
Rise con me, e ancora una volta sentii le farfalle nello stomaco. Parlammo del più e del meno, mangiando e ridendo come due persone che si parlano da una vita. Mentre chiacchieravamo, ci avvicinavamo sempre di più, i nostri respiri si scontravano con il passare dei minuti, quasi riuscivo a sfiorargli la mano.
«Prima non hai risposto alla mia domanda.», mormorò ad un certo punto, finendo il suo bicchiere di vino. Scossi il capo, confusa. «Quale?»
«Del padre di Evelyn.» La sua voce per un attimo scaturì una serie di ricordi che poi sparirono; abbassai il capo, aggiustandomi i capelli su una spalla. «Be’…»
Sembrava quasi che qualcuno non volesse farmi raccontare quella parte del mio passato. In quel momento esatto, le luci del lampadario lampeggiarono fino a spegnersi e rimanemmo al buio.
«Cavolo…», sospirai e mi alzai di scatto per cercare le candele. Edward mi aiutò illuminando la cucina con il display del telefono, e quando ne trovammo alcune e un accendino, le mettemmo in mezzo al tavolo in un vasetto, almeno per finire la conversazione.
«Quindi?»
Lo guardai intensamente negli occhi, scrutai il suo viso perfetto: il naso diritto, gli smeraldi che brillavano sotto la luce fioca delle candele, le labbra sottili ma allo stesso tempo carnose… Sembrava una statua vivente di Apollo, era stupendo e…
«Quindi?», mi incalzò e mi sembrò di averlo ancora più vicino. «Non me lo vuoi dire?»
«È una storia lunga.», sussurrai, il suo respiro mi solleticava la pelle. «Molto lunga.»
«Ho tempo: è ancora presto.», rispose di rimando, passando il dito sul bordo del bicchiere. Gli raccontai tutto, dal mio amore per Sam, sebbene non fosse stato corrisposto, alla nascita di Evelyn, lasciando però molti particolari, come ad esempio la notte in cui mia figlia entrò dentro di me, quando Sam mi prese con l’inganno.
«Non è stato giusto per nessuno dei due, evidentemente doveva capitare.», dissi infine, aspettando una sua risposta. «Evelyn però è stata la svolta della mia vita, è tutto per me, è tutto ciò che ho, la mia famiglia, il mio cuore.»
Sorrise e una sua mano, dolcemente, mi carezzò una guancia. Sbattei più volte le palpebre, incredula, e i suoi polpastrelli sfioravano il mio zigomo, dopo scendevano verso il mio mento; lambivano la pelle come se fosse stata seta, la accarezzavano, la baciavano con piccoli tocchi.
«E tu? Com’è la tua vita?», ebbi la forza di mormorare, senza distogliere lo sguardo. Scosse il capo, continuando a sfiorarmi. «È normale, niente che possa inciderla profondamente.»
«Ma qualcosa ci sarà anche.», sussurrai, accarezzandogli la mano. La sua pelle era così morbida, leggermente increspata e screpolata, ma comunque soffice. «La vita non è mai piatta.»
Lo vidi avvicinarsi ancora di più, i nostri nasi quasi si toccarono. «Dici? Be’, a parte un semi divorzio alle spalle, c’è qualcos’altro che potrebbe cambiarmi.»
Non capii perfettamente la prima parte della frase, ma ignorai tutto semplicemente. «Cioè?»
«Questo.», sussurrò, e poco dopo le sue labbra premettero sulle mie. Non c’era impeto, violenza o arroganza, ma solo dolcezza. Quel bacio era diverso dagli altri che avevo mai provato, qualcosa di totalmente diverso.
Le mani di Edward si legarono dietro al mio collo, aumentando il contatto tra di noi. Il suo respiro mi accarezzava le guance, il suo cuore palpitava veloce sotto la mia mano, le sue dita accarezzavano la mia nuca.
In quel momento, il mio stomaco si svuotò, le farfalle sparirono, il mio cuore prese a volare e sembrò voler balzarmi fuori dal petto, la mia anima vacillò un attimo. Il profumo di Ed mi invase i polmoni, lo percepii in bocca, sulla lingua, sulle sue labbra. Dei brividi salirono lungo la schiena, dal basso fino a dove i polpastrelli dell’uomo mi accarezzavano l’attaccatura dei capelli.
Poteva essere il gesto più sbagliato al mondo, come quello più giusto, nessuno poteva dircelo. Dopo anni, finalmente il mio petto si era alleggerito da quell’enorme peso che per tanto tempo mi aveva fatto vivere nel peggiore dei modi; Edward l’aveva fatto sparire, liberandomi.
Quando mi sporsi di più verso il viso del ragazzo, una candela si spense e la fiamma ondeggiò per qualche secondi prima di sparire; feci cadere il bicchiere colmo di vino, che cominciò ad espanderli e colare su tutto il tavolo, scivolandoci addosso, ma a chi importava?
Non a me, non in quel momento, e probabilmente nemmeno a Ed.
«Non andartene.», mormorai sulle sue labbra, vedendo che si stava per allontanare. Come risposta, mi trovai le sue mani a cingermi i fianchi e mi fece sedere sulle sue ginocchia, senza porre fine a quel contatto nemmeno per un secondo.
«Devo andare.», sussurrò poco dopo, accarezzandomi i capelli. Dio, mi sentivo come un’adolescente. E se Evelyn ci avesse scoperti così, al buio? Cosa avrebbe pensato? Era una bambina ma non stupida, anzi.
«Per favore…», dissi, sfiorandogli il naso. Scosse il capo, baciandomi di nuovo. «Non posso, Bella.»
Annuii e lasciai che si alzasse; mi sistemai i vestiti stropicciati e raccolsi i capelli in una coda di cavallo. Lui rimise a posto il nodo alla cravatta, continuando a sorridermi. I suoi occhi mi sembrarono ancora più belli, quel sorriso ancora più amorevole.
Lo accompagnai fino davanti alla porta, porgendogli poi la giacca. «Grazie.»
Corrucciò la fronte, fissandomi stralunato. «Per cosa?»
«Per questo.» Mi alzai sulle punte dei piedi per arrivare all’altezza delle sue labbra che catturai in un bacio. Di nuovo percepii i brividi lungo la colonna vertebrale mentre la sua bocca si modellava sulla mia, come se fossero fatte a posta per completarsi.
Si staccò per prendere fiato e carezzarmi una guancia con il dorso della mano. «Per così poco.»
Sorrisi imbarazzata e gli presi la mano fra le mie. «Allora… Ci vediamo domani.»
«Ovvio. A domani.», sussurrò e fece per allontanarsi ma ci ripensò su. Posò entrambi i palmi a lato del mio viso e baciarmi di nuovo, come se fosse l’ultima volta che potesse farlo. Appoggiai le mie mani sulle sue dita cercando di fargli capire che non volevo che se ne andasse, ma non potevo impedirglielo.
Si staccò e mi posò un bacio sulla fronte. «Allora ci vediamo domani.»
«Certo… A domani.»
Lo guardai salire sull’auto, mettere in moto e lo salutai quando abbassò il finestrino e mi rivolse un ultimo sguardo amorevole.
Lo amavo, ne ero certa. Non avevo bisogno di altro, se non della certezza che anche lui provava i miei stessi sentimenti, non se lui mi aveva dato la sicurezza che c’era qualcosa nel suo cuore, una sensazione uguale a quella che provavo io ogni volta che lo vedevo.
Quando chiusi la porta, trovai davanti a me Evelyn che mi scrutava attenta.
«Che succede, amore?», sussurrai. Lei non si mosse di un centimetro e sbatté velocemente le palpebre.
«Mamma, lui ti ama, è lui il tuo principe azzurro.»






Angolo Autrice:
Salve salvino, gente!
Non ero sparita, ma si sa, gli utlimi due mesi di scuola sono abbastanza stressanti, e ne ho avuto la prova.
Avete presente quando la gente vi dice che il liceo è difficile e voi non volete crederci? Io ho dovuto ricredermi, ecco perché sono sparita.
Ma ora sono di nuovo qui, con un aggiornamento carino caruccio (spero).
Il primo bacio, awwwww! Ammetto che ho ascoltato tantissime canzoni dolci e mielose, roba da diabete, insomma.
Se avete avuto un aumento della glicemia, di sicuro non è colpa mia, ma di questi due u.u Ebbene sì, si amano, Edward si è buttato, che dolce awww.
Comunque, il prossimo è l'ultimo capitolo ç____ç Di già, uff.
Spero di riuscire a scriverlo in una settimana o magari di meno, ora che sono in vacanza muahaha Però devo anche aggiornare AITC, non me ne sono dimenticata, tranquilli u.u
Bom, è tutto... Spero vi sia piaciuto questo capitolozzo qui :3 Aspetto le vostre recensioni, come sempre! E scusatemi  se aggiorno così sporadicamente.
Un bacio,
Giulia ♥

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