Il sangue non è acqua

di Blusshi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** (Zara) Titanium ***
Capitolo 2: *** (Ulai) Spirit Indestructible ***
Capitolo 3: *** (Zara) My Immortal ***



Capitolo 1
*** (Zara) Titanium ***


Il portellone si spalancò all’improvviso sopra le nostre teste.
Una gelida luce straniera mi ferì gli occhi, violenta.
Avevo freddo.
Avevo fame.
Il tempo, lo spazio, l’ora, avevo perso ogni coordinata. Solo il fatto di essere nello stesso stanzone con altre centinaia di persone mi aveva fatto capire che ero ancora in vita. La mia vita?
Non certo quella di sempre, più che altro un insieme di fatti troppo vicini, ma in realtà lontanissimi. Il viaggio, il terribile mese passato in navicella aveva distorto la mia percezione.
Eravamo tutti bestie cieche: che fine avremmo fatto, dove saremmo arrivati una volta finiti quei lunghissimi giorni non lo sapeva nessuno. Alcuni non ce l’avevano fatta a sopportare ventinove stramaledetti giorni ammassati nella stiva della navicella.
Incatenati. Al buio.
Senza cibo e con poca acqua.
Quando quella che i nostri tormentatori ci avevano messo a disposizione era finita, avevamo dovuto bere la pipì. Se provo a ripensare a me qualche giorno prima, fatico a credere di averlo davvero fatto. Però la mia era stata purtroppo una scelta poco felice: morire lì, in mezzo a quei profughi spaventati dal buio, dalla morte e dalla fame oppure vivere, magari per diventare carne da macello per quei vermi schifosi. Puah, mi danno il voltastomaco.
Nonostante cercassi di incoraggiarmi come potessi, avevo paura. Mi dicevo di tranquillizzarmi, ma non riuscivo a togliermi dalla testa l’ultimo ricordo della zia che cercava di salvarmi.
Per il resto non riflettevo, non pensavo, non ricordavo.
Avevo paura.
Piangevo troppo.
Immersi nel risucchio nero di quella cella mortale, centinaia di bambini, alcuni anche più piccoli di me, mi fissavano con gli occhi stralunati, da pazzi.
Mi facevano una pena…non sarebbero sopravvissuti neppure al viaggio.
E certi adulti erano uguali, i loro occhi erano buchi pieni di un terrore da animale.
È così che non si sopravvive.
Nemmeno io so come feci a mantenere in vita mio cugino Peter.
Mi sentivo quasi in colpa per averlo “salvato”, per avergli permesso di venire catturato come una bestia assieme a me.
Anche se l’avevo aiutato a non morire cercando in ogni modo di trasferirgli un po’ della mia forza vitale–ne avevo fin troppa per le circostanze- mi sentivo un vuoto a perdere.
Una volta una signora mi aveva fissata come per dirmi se ti senti così tu, che non avrai manco dieci anni, pensa a me che di certo ho più responsabilità di te!
Io avrei voluto guardarla male male per dirle che io di responsabilità ne avevo parecchie, ma alla fine avevo desistito; non ha senso combattere in un buco dove non c’è abbastanza spazio per tutti e ottocento.
 
Quando il portellone si aprì sentii quella luce che quasi mi accecava, ma mi sembrò una ventata di libertà: era da troppo che senza dignità mi ero costretta a masticare pezzi di vestito, a respirare aria infetta: da più di ottocento che eravamo, infatti, alla fine del viaggio di noi non era rimasta che un’abbondante metà.
Gli altri, morti.
Io avevo preferito cercare di mangiarmi il vestito.
Quella luce spettrale e fortissima mi bruciava la pelle.
Per troppo tempo ero rimasta chiusa nell’oscurità.
Mi sentivo anche debolissima.
Coraggio, ancora un po’…
Lo dissi più a me stessa che a Peter, pompandogli nel corpo tutta l’energia vitale necessaria a farlo alzare in piedi e a camminare.
I vermi gridarono qualcosa nella loro lingua grottesca e incomprensibile, mentre calavano dall’altro una scaletta troppo sottile pericolosamente ricoperta di ruggine umida, dall’odore sanguigno.
Volevano che uscissimo.
Non avevo mai visto Uolo e nemmeno ci tenevo.
Me l’ero sempre immaginato come un posto brullo e devastato, con gli alberi tutti congelati, il cielo rosso cupo, montagne altissime, buio spettrale.
Mi immaginavo le disgustose sanguisughe vivere in tane sotterranee per sfuggire al vento.
Immaginavo un vento freddissimo, tanto freddo da stracciare la pelle.
Ma quando uscii dalla navicella, tenendo il braccio di Peter intorno ai miei fianchi, un’aria rovente e soffocante mi infiammò i polmoni, facendomi tossire violentemente.
Guardai ansimante la distesa di alberi arsi vivi che costeggiava uno strano fiume giallognolo, sotto un cielo violetto.
Un odore tossico di zolfo mi prese lo stomaco.
La luce continuava a pugnalare le mie pupille, mentre mi sentivo gli occhi rossi e gonfi per via dello strano vapore che saliva dal fiume.
Vidi i vermi che ci buttavano dentro quelli che erano morti, uccisi da quel viaggio mostruoso.
In non più di cinque secondi i loro resti si degradarono e sparirono, ribollendo.
Peter sobbalzò, stringendo la presa.
I vermi ci rincatenarono e noi iniziammo la nostra marcia attraverso l’inferno.
Dov’erano i giardini della mia casa?
Dov’era la mamma?
Dov’era l’acqua dove mi buttavo quando avevo troppo caldo?
Iniziai a piangere, senza ritegno.
E non so se fosse colpa dei vapori.
 
 
Avevo sempre pensato di essere una brava bambina che non si comportava mai da bambina.
Beh, insomma, quasi mai…
Ma forse mentre attraversavo l’inferno, incalzata dai vermi e dagli altri disperati, mi resi davvero conto di quanto fossi ancora piccola: di punto in bianco scoppiai a piangere, chiamando la mamma.
Peter –ero il suo punto di riferimento- mi seguì a ruota.
Non riuscivo a respirare perché ogni volta che aprivo la bocca, tra un singhiozzo e l’altro continuavo a fare entrare altra aria, che mi bruciava la gola.
E allora piangevo ancora più forte perché oltre che avere paura e volere la mamma mi sentivo immersa nel fuoco.
No, non ce la potevo fare.
Sapevo che alcuni di noi erano durati pochissimo per via di quell’atmosfera tossica e irrespirabile.
Allora mi venne una grande idea.
Io ero capace di alzare tutto quello che volevo. Non so come mai.
Ognuno ha pregi e difetti; i miei difetti erano essere capricciosa, esagerata, un po’ troppo competitiva e decisamente troppo esuberante, ridere da fuori di testa, andare in visibilio per ogni cosa luccicante che vedevo e mangiare solo quello che volevo.
Però in compenso sapevo essere mite e ragionevole (quando ne avevo voglia), altruista, gentile, molto allegra, sapevo saltare molto alto, muovermi velocissima, stare molto tempo sott’acqua e per l’appunto avevo un po’ di forza.
Quando ero ancora a casa della zia e i vermi ci avevano attaccati, ero riuscita a scappare con Peter e ci eravamo nascosti nel buco di un albero.
Poi il verme ci aveva scoperti : gli avevo letto in faccia che intendeva tirarci fuori e ucciderci con la sua scure.
E io mi ero arrabbiata, tanto.
Senza nemmeno pensarci avevo puntato un dito, dritto verso il centro del suo corpo, e non so come e neanche perché ma un fascio sottile e luminoso, aveva trapassato il verme, da parte a parte, così come la casa della zia che gli stava dietro. Mi ero sentita fortissima.
Ecco, se mio padre fosse stato lì sarebbe stato orgoglioso di me, anche se io di solito non faccio come lui che si crede il padrone dell’universo, uccide e distrugge tutto ciò che non gli piace o forse gli piace troppo.
Peter aveva iniziato a piangere e mi aveva abbracciata; ero potentissima e potevo salvare tutti, così mi ero sentita.
Fatto sta che non ero mai più riuscita a rifarlo; e così eravamo stati presi.
L’idea che mi venne in mente era di provare a resistere il più a lungo possibile senza respirare.
Feci due più due e pensai che se riuscivo ad apparire vicino alle persone senza che queste sapessero quando ero arrivata, allora restare in apnea per un po’ era assolutamente alla mia portata.
Scoprii così che i miei polmoni non soffrirono subito per la mancanza d’aria e dopo un buon quarto d’ora ero ancora riuscita a non respirare senza stancarmi. Purtroppo non potevo fare niente per Peter: lui non aveva le mie stesse possibilità, di questo ne ero fin troppo certa.
Mi misi a sperare con tutte le mie forze, anche fisiche, di non dover vedere mio cugino cadere a terra morto, come avevano fatto molti dei sopravvissuti al viaggio.
Dopo un tempo che mi sembrò infinito, la nostra marcia si arrestò di fronte a una specie di casa grande che sembrava fatta di ossa di dinosauro.
Ci ordinarono di entrare.
“Zara…aiutami…”
Sentii il braccio di Peter che scivolava via dal mio vestito.
No! Non adesso! Tieni duro!
Lo imploravo di resistere, di non morire.
Avanti, avanti!
Gli schiaffeggiai la faccia, ma niente da fare, era svenuto.
Non osavo nemmeno pensare che fosse già morto.
Ma una volta dentro la casa grande, mio cugino prese a tossire e a respirare grande boccate d’aria.
Come lui fecero anche tutti gli altri.
Allora provai anch’io a respirare per vedere cosa succedeva.
L’aria che inspirai era piacevole, fresca e non sapeva di niente.
Mi sentii sollevata: la fortuna ci aveva aiutati, appena in tempo.
Senza lasciarci nemmeno un minuto, i vermi si presero ciò che restava di noi, dividendo adulti e bambini. Alcuni non fecero una piega, distrutti da tutto quello che avevano passato, altri presero a urlare e a piangere da far pietà, guardando la mamma, il papà, il figlio, la figlia o l’amico del cuore sparire dalla loro vita.
Ringraziai il fatto che Peter e io fossimo entrambi bambini, io quasi sette anni e lui otto, e quindi non potevano dividerci.
Sapevo che senza di me Peter non sarebbe vissuto un minuto e io senza di lui avrei perso la mia unica certezza e forse sarei diventata scema.
Noi bambini venimmo portati via da un gruppo di vermi.
Gli adulti non li rividi mai più.
Eravamo pochi, si e no, trenta, gli altri erano morti.
Sentendo i vermi parlare, una gran paura mi invase: io non capivo il uolese, non l’avevo mai capito, nemmeno sui cartelli che vedevo a casa.
E se mi avessero ammazzata perché non capivo quello che dicevano e quindi non obbedivo? Ma poi mi riscossi e sfiorai il mio cerchietto: io non dovevo obbedire e inoltre me l’ero sempre cavata.
Cercavo di non dimenticare che, volente o non, ero stata io a uccidere quel uolese che voleva ammazzarci.
Non dovevo avere paura di loro.
Avevo una dignità da difendere e loro erano vermi schifosi, senza nemmeno le gambe, bianchicci, che si muovevano strisciando per terra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Per prima cosa ci lavarono tutti.
Poi ci misero in fila con i vestiti tutti fradici ancora addosso.
 Poi iniziarono a rasarci i capelli.
Sapevo perché lo stavano facendo: nel ventesimo secolo sulla Terra c’era stata una grande guerra e in questa guerra prendevano un certo tipo di terrestri e gli facevano esattamente quello che i vermi avevano fatto a noi; e li rasavano così almeno non si riempivano di insetti parassiti.
Quando arrivarono a me, uno dei vermi disse in denebiano: “Però questo lo prendo io…”
Fece per togliermi il cerchietto d’oro, il mio cerchietto.
“GIU’ LE MANI!” strillai.
Gli altri bambini mi guardarono spaventati, Peter si sporse incautamente e urlò: “Guarda che Zara è forte. Lasciala stare o ti farà a pezzi”.
Glielo sentii sussurrare, ma in quel momento non ero più così sicura delle mie risorse.
Il verme sorrise maligno e fermò quello che stava per rasarmi: “Lei no! Sono così belli…”
Poi indietreggiò e passò oltre.
Avrei forse dovuto ringraziarlo per non avermi toccato i capelli?
Avrei avuto tutto il tempo del mondo per accorgermi che era una crudeltà.
 
 
 
 
Qualsiasi cosa fosse il piatto di brodaglia nerastra che mi avevano messo in mano, non mi azzardai a toccarlo, tanto di fame non ne avevo nemmeno un po’.
Mi facevano pena gli altri bambini che invece si ingozzavano, si sbrodolavano, facevano rumore.
Diedi il mio piatto a Peter, che ci tuffò mani e faccia con beata soddisfazione.
Beh, di una cosa potevo stare tranquilla: non era nei loro piani farci morire di fame.
Restai nel limbo fatto di quella stanza e di sbobba per forse una settimana.
Mi sentivo terribilmente sporca, spaurita, senza speranza; forse anche io avevo gli occhi da matta.
Eravamo nel buio più completo e Peter e gli altri mi sembravano tanti topi di fogna.
C’era una bambina, la più piccola, che stava morendo.
Riuscii a salvarla cercando di passarle la mia energia e dandole il mio cibo, come avevo fatto con Peter; in compenso io mi nutrivo di lacrime e nostalgia.
Dopo molti giorni ci divisero in gruppi da dieci: spiegarono in denebiano che al gruppo dove c’eravamo Peter e io toccava andare a tessere tappeti.
Ma sì, avevo letto anche questo: gli adulti alle fonderie e all’industria pesante, noi che eravamo piccoli ai lavori di precisione oppure nelle case.
Ero tranquilla perché Peter era ancora con me; magari andare in una casa per lui sarebbe stato meno faticoso, ma chi lo sapeva cosa gli avrebbero fatto fare?
Il verme spiegò che il nostro lavoro era tessere i tappeti e che saremmo stati ricompensati ogni giorno; la ricompensa consisteva in un cucchiaio di sciroppo, uno sciroppo molto speciale che serviva a non morire intossicati da quell’aria infernale.
Io ne avrei fatto a meno e avrei usato la mia dose per chi all’occorrenza ne aveva più bisogno, decisi.
 
Ci portarono a lavorare il giorno stesso.
A me e agli altri bambini grandi diedero un volantino; c’era scritto che non potevamo uscire dalla stanza per nessuna ragione, che non potevamo alzarci per nessuna ragione, che non potevamo lamentarci per nessuna ragione.
Non si poteva andare in bagno, a dormire o a mangiare: si faceva tutto nello stesso posto dove si lavorava, uno spazio minuscolo fra un telaio e l’altro.
Mi misi a piangere.
Il verme mi tirò uno schiaffo e urlò che pianti e lacrime non erano tollerati.
Poi ordinò a una ragazzina più grande di spiegare tutto ai più piccoli che non avevano letto il volantino.
Non sembravano tanto sconvolti, i piccoli, ma forse non sapevano nemmeno quello che stava succedendo.
 
 
Man mano che i giorni passavano senza potermi permettere di restare pulita, mi accorsi di quanto fosse pesante la punizione che mi avevano inflitto per non aver obbedito, per non aver ceduto loro il mio cerchietto d’oro.
Era terribile lavorare lì; le dita sanguinavano a forza di manipolare i fili spessi e di strisciare sulle corde del telaio, il caldo, la puzza, le scudisciate.
Già, come se tutto questo non fosse sufficiente fui costretta a iniziare una guerra contro gli insetti che mi si appiccicavano in testa: ogni volta che mi toccavo i capelli mi toccava strappare via una di quelle orrende bestiacce.
Faceva male, malissimo.
Tutta la testa era piena di ferite, ormai non riuscivo neanche più a passarci le dita per pettinarmi.
Max, un ragazzino al telaio dietro di me, mi aveva spiegato che erano zecche che succhiavano il sangue.
“Zara, ma pensi che ti succhieranno anche il cervello?” mi aveva chiesto Peter una volta, tutto spaventato.
“Quale cervello? Mai avuto uno…”
Io cercavo sempre di buttarla sul ridere, anche se temevo di essere stata contagiata dal dubbio.
Allora ero corsa tutta preoccupata da Max e gli avevo chiesto se sul serio tutte quelle zecche avrebbero finito per succhiarmi via il cervello.
Max si era messo a ridere dicendomi che solo gli zombie dei film terrestri succhiano il cervello.
Quella notte avevo dormito più tranquilla.
 
 
 
 
 
 
Sempre Max mi aveva spiegato che ogni tanto i vermi facevano ispezioni sanitarie: prendevano qualcuno e se lo portavano via dicendo che volevano visitarlo.
Solo che nessuno era mai tornato da quelle ispezioni per raccontare come fosse andata.
 
Saranno state tre settimane che ormai ero su Uolo.
Ogni tanto pensavo ai miei genitori: perché non erano ancora venuti a prendermi?
Mi sentivo sola e abbandonata e mi arrabbiavo: non mi volevano bene, non mi cercavano neanche perché tanto io ero la più piccola, avevo tre fratelli più grandi che potevano rimpiazzarmi.
Poi mi ricordavo che però c’era di mezzo la guerra e allora mi vergognavo tantissimo per aver pensato male di loro.
Cercavo di considerarmi fortunata.
Pensa a Peter, che ha perso la mamma e la sorella…
Un giorno il padrone della fabbrica di tappeti ci fece uscire tutti dalla stanza.
Ormai anche gli altri sopportavano l’aria, lo sciroppo li aveva salvati.
Fuori c’era un altro verme con il quale il nostro carceriere si mise a discutere.
Mi sforzai di aguzzare le orecchie e di cogliere qualche parola di uolese per cercare di mettere a fuoco il discorso.
Niente. Ma uffa!
Poi ci divisero.
Mi allarmai: io da una parte, Peter dall’altra.
No, non separateci!
Cominciarono a incamminarsi con mio cugino e il suo gruppetto.
Poi il padrone della fabbrica prese me e gli altri e si avviò: “Vi piacciono gli animali, bestie strane?” disse.
Io ringhiai.
Ci portarono in una specie di arena tutta piena di sabbia, battuta dal vento.
Una strana sensazione si impadronì di me: non sapevo cos’era, ma ero sicura che a infonderla fosse il rombo sordo che sentivo vibrare sotto il terreno.
La vibrazione penetrò nelle mie gambe e da lì mi risalì tutto il corpo, fino a farmi battere il cuore a velocità doppia.
Percepii qualcosa, una presenza, un’ombra, sotto i nostri piedi.
E allora seppi cos’era.
Significava pericolo.
“Zara perché hai paura? Cosa succede?”
Cavoli Peter non senti qualcosa sotto terra? Miseria, lo si sente da in cima a una montagna, come fai, come fate voi tutti a non accorgervi di nulla?!
Avevo preparato all’attacco ogni muscolo del mio corpo, Peter aveva avvertito il mio disagio e mi ricordai che probabilmente solo io ero in grado di percepire l’energia altrui.
Peter, corri via…CORRETE TUTTI!
Tutt’ad un tratto uno dei vermi tirò una leva che aprì una voragine al centro dell’arena, lontana da me, troppo vicina a Peter.
Di nuovo quella vibrazione ovattata.
Peter…fai in fretta!
All’improvviso mi parve di correre con gli occhi della mente, superando la distanza fra me e il buco per terra, di scendere lì dentro a velocità folle, fino ad arrivare sul fondo, dove gli occhi di un mostro mandavano bagliori.
Riuscii a distinguere un suono, un ruggito.
Quella specie di visione mi abbandonò appena in tempo, proprio mentre il verme –come a rallentatore- metteva in fila Peter e gli altri sul bordo della voragine, preparando il fucile.
Non seppi come successe, ma avvertii la mia energia latente risvegliarsi dal suo stato di quiescenza. Mi sentii come percorsa da scariche elettriche, la rabbia salì tutta in una volta insieme al raggio perforante: velocissima tesi il braccio e puntai il dito contro il verme, sbriciolandogli la testa.
Gli altri guardarono terrorizzati.
“Figlia dell’inferno!”
Un altro dei vermi si allontanò da me e tirato fuori un fischietto, emise un sibilo acuto e lungo.
Tutti i miei compagni scapparono, mentre un terremoto ruggente scuoteva l’arena.
Finalmente eccolo, l’immenso leviatano: emerse dalla sabbia, enorme, mentre io quasi non riuscivo a muovermi.
Ero io sola, sulla sua traiettoria.
Era uno scorpione, gigantesco e affamato; lo vidi puntarmi contro un pungiglione affilatissimo, lungo almeno il doppio di me.
Sei morta: se ti becca SEI MORTA!
Presi a correre così veloce che mi sembrava di volare, mentre sentivo il mostro inseguirmi.
Non pensai più a Peter, né all’orrore di Uolo, né alla mamma, né a me stessa, quando sentii il fuoco più bruciante dell’universo trapassarmi una gamba.

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Capitolo 2
*** (Ulai) Spirit Indestructible ***


Ulai, capo della tribù uolese fedele alla dea protettrice delle madri, aveva saputo del’ultima orda di prigionieri di guerra sbarcata da poche settimane sul suo pianeta.
Di solito lei non se ne serviva, neanche quando la dea le richiedeva un sacrificio particolare.
Negli ultimi mesi i soldati di Uolo e i mercanti di schiavi le avevano fornito una quantità di bambini denebiani maggiore del solito, per operare esperimenti medici.
Solitamente i mercanti li facevano uccidere dagli scorpioni giganti e glieli consegnavano già morti, immersi in un liquido.
A Ulai piacevano i bambini, sia uolesi che denebiani. Ulai amava la vita.
Per questo non aveva mai apprezzato lo scempio dei soldati sul pianeta nemico.
Lei faceva la sua parte: accettava i prigionieri facendoli passare per vittime sacrificali, ma in realtà li teneva al sicuro nel tempio della Dea, li aiutava rischiando lei stessa e per quanto le fosse possibile cercava di rimandarli indietro.
Sapeva di esser malata, di un male incurabile, ma non si dava per vinta.
Il tempio era diventato una casa famiglia segreta che accettava tutti, in cui tutti potevano trovare una parola di conforto, un sorriso, un amico perduto, un abbraccio, un letto, un pasto.
Per questo cercava di non mostrare lo sdegno che provava, in modo che gliene mandassero continuamente.
Ed era anche per questo che li voleva vivi, provando disperazione ad ogni cadavere.
Ulai non riusciva a pensare ai bambini, spaventati, lontani dalla loro casa, soli al mondo, preda di un terrore atavico.
Non si immaginava cosa potesse passare per la loro mente, anche se buona parte di ciò si rifletteva nei loro occhi spiritati.
Erano tutti così, anche gli ultimi che le erano arrivati, da parte di una fabbrica di tappeti qualche giorno prima.
Andavano tutti sacrificati, dal primo all’ultimo, le aveva detto il padrone dell’industria: avevano provato a scappare, quindi si erano ribellati. E la Dea non accetta la ribellione.
Ulai era infastidita da queste farneticazioni di ignoranti che snaturavano il culto della Dea: lei era buona, proteggeva tutte le donne e i loro figli.
Anche quei bambini erano figli di donne e quindi erano sacri alla Dea.
Ulai sapeva che la fabbrica aveva recentemente acquisito dieci nuovi schiavi e ora in teoria le sarebbe toccato sacrificarne sei.
Anzi, cinque: il padrone della fabbrica le aveva detto che la fautrice della sommossa era stata avvelenata dal suo scorpione, per cui gliel’aveva consegnata avvolta in un sacco.
“Mi dispiace non averlo catturato vivo, il piccolo boia. Ma non potevo rischiare che eliminasse qualcun altro…”
Sentendo quelle parole, nel profondo del suo animo Ulai aveva quasi esultato.
Aveva permesso ai cinque bambini di ristabilirsi, occupandosi di loro, curandone le ferite e ascoltando quello che avevano da dirle.
Come al solito, voleva aspettare il momento più adatto per rimandarli su Deneb; non sapeva quando sarebbe arrivato, mesi, anni forse.
Alcuni aspettavano da una vita.
Un giorno andò a controllare nella cella frigorifera, dove teneva tutti i morti che le venivano consegnati; l’idea di usarli per fare esperimenti era mostruosa.
Ogni tanto ne prendeva pochi alla volta per bruciarli sul fuoco purificatore della dea: in questo modo la loro anima non avrebbe vagato nello spazio per l’eternità.
Quella volta Ulai desiderava vedere la bambina (era una bambina?) che aveva fatto saltare qualche gretto soldato.
Ma si sorprese nel vedere che il sacco che racchiudeva il corpicino era vuoto.
Mentre usciva, sentì un fruscio lievissimo a cui non fece quasi caso.
Quello che la costrinse a girarsi fu il peso di uno sguardo diverso da tutti gli altri che aveva incontrato.
Quando incontrò quegli occhi non vide alcuna traccia di orrore.
La guerra non li aveva contaminati.
Ardevano magnetici in tutta la loro forza, nello splendore dell’oro.
Ulai ne restò folgorata.
All’improvviso, come una valanga le tornarono i ricordi di quando lei e i suoi bambini erano caduti prigionieri di Deneb.
Era il 1997.
Ricordò la paura, le lotte continue per difendere lei stessa e il suo tesoro di madre.
I denebiani uccidevano, senza pietà.
Ulai se lo sentiva, presto sarebbe toccato a lei.
A loro.
Ma c’era stata una donna che li aveva salvati.
Aveva riacceso la speranza di vita nel loro cuore, aveva sfidato tutto e tutti pur di sottrarre alla morte lei e gli altri prigionieri civili uolesi.
Le aveva insegnato a tenere duro anche nei momenti più bui, a difendere il suo onore.
La regina Areida.
Ulai ricordava perfettamente quella donna stupenda, regina di Deneb durante la prima guerra contro Uolo.
La sua bellezza impressionante, il fuoco che ardeva nei suoi occhi d’oro.
Il coraggio, la volontà.
Tutto andava ben oltre i suoi diciassette anni.
Ricordava quando l’aveva vista per la prima volta: era incinta, il viso da bambina che strideva con il mantello color porpora, gli occhi inquieti, l’oro delle iridi sopito, una mano che stringeva convulsamente la lista dei condannati a morte, l’altra che carezzava con amore la pancia dilatata.
Si era accostata alla cella, le lacrime che scintillavano sulla sua pelle color cielo stellato.
Era venuta a decidere chi salvare e chi condannare.
Ulai si ricordava benissimo di quando le si era avvicinata: a separarle c’erano soltanto le sbarre di laser.
La regina aveva rivolto uno sguardo pieno di dolore a Ulai e ai suoi figli.
Allora lei aveva alzato lo sguardo sul ventre gravido della giovane sovrana:
“Noi non siamo diverse”.
Quelle sole parole erano bastate a risvegliare la fiamma potente nei suoi occhi; senza paura la regina aveva allungato una manina esile fra le sbarre, fino a sfiorare il viso di Ulai.
“Ti prometto che vivrai: non permetterò che ti accada più niente. Hai la mia parola”.
Ulai aveva sentito la forza e il sentimento nella voce di quella ragazzina incredibile.
L’aveva guardata in tutto il suo sconvolgente splendore e in quel momento aveva capito che non erano mai state nemiche.
La regina Areida aveva mantenuto la sua promessa.
Tutti i giorni faceva arrivare grandi scorte di cibo e di oggetti di uso quotidiano per tutti i prigionieri, si ritagliava degli spazi per passare un po’ del suo tempo con loro.
Chiacchierava con Ulai, giocava con i suoi figli.
La sacerdotessa uolese aveva scoperto che la regina era una ragazza molto allegra e ottimista; rideva sempre.
Si prodigava per loro; tutti sapevano che così facendo si stava mettendo contro il suo spietato consorte.
Ulai aveva persino iniziato a preoccuparsi per lei, vedendola deperire sempre di più a causa della gravidanza; stava sempre male e diventava qualcosa di sempre più simile a un cadavere in piedi ogni giorno che passava.
Tutti si rendevano conto che quella maternità la stava uccidendo, ma la regina le aveva sempre detto che non vi avrebbe rinunciato nemmeno per la sua stessa vita.
Quando si erano salutate per l’ultima volta, le aveva regalato un pettinino di cristallo a forma di cigno, in segno di amicizia.
Ulai l’aveva abbracciata: “Che la dea ti benedica, che la dea ti benedica…”
Le aveva baciato le mani con dedizione, prima di salire sull’astronave segreta che lei aveva fatto allestire solo per loro.
Dopodiché non aveva più avuto sue notizie.
Non aveva mai dimenticato quel vortice dorato che ora rivedeva davanti a sé, restando senza fiato.
Appena dietro di lei stava ritta e fiera una bambina.
La testa era coperta da una folta massa di boccoli che –Ulai lo sapeva- sotto lo strato di sangue rappreso era argento abbagliante.
Sotto la sporcizia la pelle era chiara, verde pallido spruzzato di polvere di stelle che scintillava alla luce.
Le guance avevano una sfumatura pesca.
Indossava un vestito rosso sbrindellato, tra i capelli portava un cerchietto di sottili foglie d’oro e su una coscia aveva una ferita ancora aperta.
Le iridi erano di un colore magnetico e familiare.
Erano occhi d’oro, belli, in cui Ulai sentiva ribollire una forza devastante: gli occhi della regina Areida.
Il viso infantile era disteso in un’espressione di falsa resa.
Quella bambina le tolse il fiato; era ancora più stupefacente di sua madre. Impossibile.
Lei continuava a guardarla senza tregua.
Sì, non c’era dubbio, si disse Ulai osservando quel volto perfetto, meraviglioso: era  la figlia della regina Areida.
E di quel demonio del padre.
“Chi sei?” le chiese, senza tradire la sua meraviglia.
La bambina sorrise; le labbra verde aranciato scoprirono due file di denti da latte bianchissimi.
“Martina Webb”.
“Devo crederti?” pensò Ulai.
“Bene, Martina. Ma dimmi, non eri morta? Posso vedere sulla tua gamba che lo scorpione ti ha punta”.
Ulai parlò con dolcezza, in modo da non metterla in guardia.
Martina le spiegò che anche lei si era creduta morta, ma ad un certo punto si era svegliata e si era ritrovata in un sacco, chiusa in una stanza zeppa di cadaveri congelati.
Non conosceva il posto, aveva detto, perciò era rimasta lì ad aspettare che venisse qualcuno.
“Ma adesso tocca a me farti una domanda” disse Martina.
Ulai avvertì la fiamma di quei soli ardenti lambirle la pelle umida e squamosa.
“Dove sono i miei compagni? Ma soprattutto…quanto male hai intenzione di fare?”
Ulai si ritrovò spalle al muro. Non sapeva cosa rispondere.
Di fronte allo sguardo infuocato e puro di Martina si sentiva colpevole dei crimini peggiori.
“Allora?”
Ulai non li poteva vedere, i soli dorati, girata di schiena com’era; ma li sentiva, puntati su di lei.
Percepiva nell’aria il loro impeto.
Se quella bambina era la principessa denebiana –e lo era- Ulai aveva la prova vivente di quanto dovesse alla regina Areida.
Era un capo, una che contava tra i uolesi: in quel momento avrebbe voluto essere capace di fermare di colpo la seconda guerra tra Uolo e Deneb.
Martina non era che una bambina, come i suoi figli quando erano stati salvati dalla regina Areida.
Era forse quella bambina la creatura nel grembo della bellissima sovrana ragazzina, l’ultima volta che l’aveva vista?
No, calcolò mentalmente: la principessa dai capelli d’argento doveva essere arrivata molto dopo.
“Tu non sei cattiva. Tu li aiuti, ma non so se mi sto sbagliando o no. Sai anche dove sono i miei compagni”.
Lo sguardo che la bambina rivolse a Ulai era adulto, brillante, veemente.
“Salvali. So che puoi farlo. Fallo o morirai”.
Ulai rimase colpita da quelle parole e si accorse che, mentre la voce della bambina ostentava un’imperiosità fredda e pacata, l’oro sotto fremeva, come brace ardente.
 
 
Da giorni Ulai cercava di trovar pace.
Sentiva che c’era qualcosa che continuava a sbagliare, che non ci metteva abbastanza impegno in quello che faceva.
Inoltre la malattia avanzava, inesorabile.
D’altra parte, di tutte le cose che amava fare per i suoi protetti, nulla la impensieriva di più che rimandarli a casa presto e senza rischi.
Più a lungo restavano, più erano in pericolo di venire scoperti.
Quella Martina Webb l’aveva contagiata con il suo fervore e ora più che mai Ulai sentiva la grandezza del compito di cui aveva deciso di farsi carico.
E inoltre era affascinata e incuriosita dalla giovane principessa; dopo essersi parlate, Ulai le aveva dato da mangiare, le aveva permesso di lavarsi e le aveva fornito un vestitino leggero di cotone, un paio di sandaletti e un lettino morbido.
Subito l’aveva portata dagli altri bambini, fra cui lei aveva immediatamente riconosciuto i suoi compagni di sventura.
Ulai aveva provato un impeto di tenerezza nel vedere quei bimbi tutti stretti, abbracciati e sorridenti: le ricordavano i suoi quando erano piccoli, quelli che non avevano conosciuto la guerra.
Era rosa dalla curiosità, ma non riusciva a trovare il giusto approccio con Martina.
“E’ bellissimo, il tuo diadema” le disse una volta, passeggiando nel giardino del tempio insieme agli altri bambini.
“Ti piace? Ci sono molto affezionata.”
“Come mai?”
Martina esitò: “E’ un regalo…”
“E’ un bellissimo regalo, Martina” sorrise affettuosa Ulai “Chi te l’ha fatto?”
La bambina spiegò che era un regalo di sua madre, che aveva voluto farle forgiare apposta un diadema unico usando la sua collana preferita.
“Doveva essere davvero una gran collana…e dimmi cara, la tua mamma è brava, non è vero?”
Far parlare Martina non era facile.
Ulai voleva che le dichiarasse di essere la figlia della regina Areida; però Martina si dimostrava sempre molto fantasiosa e Ulai intuiva che aveva usato uno nome fittizio per scongiurare eventuali guai.
Per i uolesi il nome era però qualcosa di molto intimo e la mentalità le suggerì di aspettare che la bimba glielo dicesse da sé; sempre se avesse voluto…
“Sì. È molto brava, come tutte le mamme”.
Martina rispose mostrando due adorabili fossette.
Ulai boccheggiò: si perdeva ad ammirare quel volto perfetto ogni volta che lo vedeva: “A chi somiglia di più?” si chiedeva la sacerdotessa.
La regina Areida aveva la dominanza nell’insieme, ma era nel particolare che si notavano le differenze che, seppur lievi, suggerirono a Ulai che la bambina dovesse avere ereditato da entrambi in egual misura: i tratti della principessina erano più spigolosi, ancora più fini. Ma aveva la sua stessa bocca, le lamine d’oro per iridi erano identiche.
L’espressione era quasi la stessa, se non per la vibrazione quasi crudele che di tanto in tanto la adombrava, unica nota stonata in quel quadro di suprema bellezza.
E poi c’era il colore della pelle, completamente diverso dal blu profondo che Ulai ricordava.
Ulai pensava sempre che, in quanto frutto dell’unione di un angelo e di un demonio, Martina potesse essere o un adorabile diavolo o un angelo maledetto.
“Guarda, la puntura è quasi guarita!” sorrise ancora Martina, mostrandole la gamba.
“Senti, tesoro, ma tu sei stata avvelenata…”
Martina si rattristò: “Oh no, non me lo dire! Era un veleno tutto strano…ho passato due giorni a piangere e vomitare e a succhiarlo via dalla gamba!”
“Tranquilla, sei stata bravissima. Ed è normale che il veleno dia queste reazioni…” la sacerdotessa si chiedeva come avesse fatto a sopravvivere all’avvelenamento. Non riusciva a crederci, a parte nei momenti in cui sembrava volesse incenerire con uno sguardo Martina sembrava una bambina angelo, così tanto bella, così dolce, così delicata; poi si ricordò che era stata quella che aveva combinato un mezzo macello nell’esercito. Del padre aveva molto di più di quanto non desse a vedere. Però lei non era malvagia, quindi la sacerdotessa era giunta alla conclusione che fosse un incantevole diavoletto.
Ulai le accarezzò la massa di riccioli argentei che le scendeva lungo la schiena, giù fin quasi alla vita: chi avrebbe avuto cuore di tagliarli?
La vecchia sacerdotessa mi diceva sempre –se vuoi vedere qualcuno di veramente cattivo, allora fa’ arrabbiare uno bravo-…”
Le diede un bacio sulla guancia.
Subito i suoi compagni le si radunarono intorno:
“Anche io! Anche io!”
“E va bene! Ma stasera mi aiutate e state nascosti bene nelle vostre camere da letto!”
La sera andò di nuovo da Martina e la trovò sveglia: “Mi fa ancora un po’ male, la puntura…”
“Ascolta, Martina, appena possibile radunerò tutti i bambini, te compresa, e vi rispedirò su Deneb. Verrò con voi, perché devo assolutamente parlare con tua madre, se vogliamo fare qualcosa per tutti”.
Martina spalancò gli occhi d’oro, felice; ma appena mezzo secondo dopo si riempirono dell’ombra che li rendeva tremendi: “No, Ulai. Io senza Peter non parto”.
 
 
 
 
 
“Qual è la cosa che vorresti di più?”
“Mi piacerebbero tante cose, ma alla fine della fiera la più semplice è quella che mi piacerebbe di più” sospirò Ulai “vorrei poter volare: libera, senza macchine”.
“Io l’ho fatto!”
“Tu sai volare?”
“No, da sola no. In braccio a papà” sorrise Martina “una volta quando avevo due anni mi ha fatto fare tutto il giro di Deneb in pochissimi minuti”.
Martina era una macchinetta, non finiva mai di riempire Ulai di domande: si era stupita del cielo viola tenue, dell’alternanza fra giorno e notte, dei fiumi strani che aveva visto.
“Non ci devi andare mai, capito?” l’aveva avvertita Ulai “non è acqua, quella roba. Non ci devi entrare, Martina, chiaro?”
“Ssì…perché sennò cosa succede?”
“Succede che non ci devi andare vicino e non ci devi cadere dentro”.
“E perché?”
“Perché è pericoloso…”
“E perché?”
“Perché sono fatti di una sostanza brutta brutta…”
“E perché?”
“Perché è no e basta!!”
Ma Martina sembrava non conoscere l’obbedienza, quantomeno a lei.
Una volta Ulai l’aveva trovata che giocava vicino al ruscello che passava appena fuori dal tempio.
“Cosa ci fai qui, eh?”Ulai adorava Martina, ma quel che era giusto era giusto.
 “Volevo…fare una prova…”
“Cosa ti avevo detto?”
Martina aveva fatto un sorriso quasi cattivo: “Tanto io non mi faccio niente”.
Ulai si stupiva di quanto volubile fosse l’espressione del volto della principessina: in quel momento, con quel sorriso un po’ cattivo assomigliava tantissimo a suo padre.
La bambina le aveva raccontato molte cose, fra cui il legame la univa a suo cugino Peter; non l’aveva più rivisto da quando il veleno dello scorpione l’aveva tramortita e si era ritrovata nel tempio di Ulai.
“Chissà se è vivo…forse sta morendo e io sono qui che non posso aiutarlo!”
Martina si era quasi messa a piangere  quando gliel’aveva detto.
“Ulai, non puoi fare qualcosa? Io non ho idea di dove sia…”
Ulai non sapeva cosa pensare.
Quel bambino poteva essere nel circondario così come dall’altra parte del pianeta.
Non restava che mettersi a cercarlo.
Era rischioso, ma avrebbe usato la sua autorità.
Per Martina avrebbe fatto qualsiasi cosa.
 

 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** (Zara) My Immortal ***


Mi sentivo le cose ammassate dentro la testa senza ordine.
Eppure per un attimo mi era sembrato che tutto fosse finito…
Ma no! Me lo volevo io: avrei potuto subito tornare a casa, ma dannata la mia troppa sensibilità…
Ecco, se fossi stata una menefreghista sarei partita subito, sena indugio, senza stare lì a pensare al povero Peter.
Mamma mia, se penso a lui piango.
E se avessi scoperto che era morto durante il periodo che avevamo trascorso separati?
Io gli volevo un bene dell’anima, per me era come un fratello…anzi, penso che avessi più cose in comune con lui che con i miei fratelli che per me erano troppo grandi.
Volevo bene anche a Milly, la sorella di Peter. E anche alla zia Lela.
Però non dovevo farmi prendere dall’ansia e fare la sciocca: Ulai mi stava offrendo la possibilità di ritrovarlo!
Ulai…che dire di lei?
Mi guardava sempre in modo strano, come se mi studiasse.
Inoltre mi faceva delle domande in continuazione: chissà cosa voleva da me…
Avevo fatto bene a fingere di essere Martina Webb: una volta ritornata a casa quella vermona avrebbe perso le mie tracce.
Ci era mancato poco, una volta, che mi scoprisse: aveva continuato a chiamare “Martina! Martina! Martina!”
E io avevo continuato a non risponderle.
Mi aspettavo davvero che iniziasse a urlare “Zara! Zara!”?
Decisamente no.
Me ne ero ricordata per miracolo.
Ulai era l’unica uolese con cui ero riuscita a parlare da persona civile e le avevo chiesto perché ad un certo punto diventava tutto buio: era da quando ero arrivata che quella cosa mi spaventava tantissimo, anche se sapevo che era solo su Deneb (che è una stella) che c’era sempre la luce.
Infatti anche la Terra è un pianeta, come Uolo, e anche là la luce va e viene; questo me l’aveva detto la fidanzata di mio fratello, che è terrestre.
“Come intendi aiutarmi?” le avevo chiesto.
Non è che fossi proprio convintissima che dicesse sul serio.
Lei mi aveva detto che era una persona importante su Uolo, perché era la sacerdotessa suprema della dea.
Essendo influente, avrebbe chiesto al verme che aveva portato da lei i miei compagni e anche me di dirle che ne era stato degli altri.
Così avrebbe ordinato di mandarglieli per sacrificarli.
“Che ne dici, Martina, a te va bene?”
“Uhm…sì…”
Forse un altro dei miei difetti è che sono troppo diffidente; anche se era sempre stata la mamma a dirmi di non fidarmi degli sconosciuti.
 Mentre Ulai telefonava e cercava in giro io avevo dovuto rimanere al tempio con gli altri.
E che barba! Peter era mio cugino, io l’avrei salvato!
Non una vermaccia strisciante…
Ma non potevo uscire, ero una rifugiata e non potevo correre quel rischio: anche perché avrei messo in pericolo tutti.
E non mi sembrava il caso.
Un giorno andai ad osservare le facce nuove che erano arrivate da qualche giorno e fui contentissima di vedere qualcuno di familiare.
“MAX! Max, sei vivo!”
Corsi incontro a braccia aperte al mio amico della fabbrica.
“Ehi verdona! Come vanno le zecche?”
Era il Max di sempre, che gioia!
“Sei il solito stupido, ma dillo che sei contento anche tu di vedermi!” gli dissi, abbracciandolo forte.
Lo era, lo era.
Gli chiesi cos’era successo: dopo che io ero scappata, il verme della fabbrica li aveva tenuti ancora più sotto controllo, facendoli lavorare anche di notte.
Era arrabbiato, ma era contento perché credeva che io e gli altri fossimo già belli che sacrificati.
“Ma infatti: come fai a essere viva?” mi aveva chiesto Max.
E allora anche io gli avevo raccontato tutto. Anche della gentilezza di Ulai e dei suoi piani non troppo malefici.
“Fiuuh…avevo già una paura…”
Max era un dono del cielo: era sempre lui a togliermi i brutti pensieri, arrivava sempre nel momento giusto.
Anche se naturalmente non rinunciava a raccontarmi delle cose sceme.
E io ci credevo!
“Sai qualcosa dei mostri?”
Un pomeriggio stavo giocando con dei fiori ciccioni che crescevano nel giardino di Ulai.
Ahah! Ulai, cicciona. I suoi fiori, ciccioni!
Max era venuto da me e mi aveva raccontato tutto sui mostri.
Beh, sapevo già che mangiavano la gente e che vivevano nelle caverne, che erano grossi eccetera eccetera…
No!
Quello scemo era riuscito a tirare fuori che io ero un mostro!
Sì, perché ero in grado di fare quelle cose che lui si sognava e basta.
“Ah, sei geloso allora?”
Era imbarazzante, ma io da piccola avevo avuto una grandissima paura dei mostri e pensavo che casa mia ne fosse piena.
In cameretta erano sotto il letto, nel letto, dietro le tende, nella cesta dei giochi ,negli armadi, dietro la porta, sul balcone: tutte le volte che di notte sentivo un rumore, mi svegliavo e scappavo fuori piangendo.
E poi andavano in giro per i corridoi e si rintanavano nei posti dove la gente passa poco, come le cantine e i piani più alti.
Avevo paura pesino a tavola, perché siccome di solito la tovaglia era lunga lunga fino a terra e io pensavo che sotto potessero nascondersi dei mostri.
Negli ultimi tempi però il mio concetto di mostri si era ristretto ai uolesi: sì, i uolesi erano dei brutti mostri, tutti tranne Ulai.
Già, Ulai.
Finalmente era ritornata con tutti gli schiavi delle fabbriche.
“Ti prego vieni con me!” avevo preso Max per la tunica e l’avevo costretto a seguirmi.
“Ascolta, adesso guardiamo se c’è Peter…”
Max era più grande di me, aveva dieci anni, quando stavo con lui mi sentivo al sicuro, avevo meno paura.
“Martina…Martina! Vieni qui!” sentii Ulai che mi chiamava sottovoce, ma non l’ascoltai e continuai sulla mia strada.
Arrivai nella stanza piena di gente imbambolata, che mi fissava con aria stranita.
Una dopo l’altra, guardai attentamente tutte le facce dei bambini.
Ti prego, fa che non sia morto, fa che non sia morto!
Sentivo il mio respiro corto, man mano che andavo avanti a scannerizzare quelle facce. Nessuna era quella di Peter.
“Ynas, sono tutti qui?” mi accorsi, quando parlai con una novizia di Ulai, che stavo per piangere.
“Tutti: non ne abbiamo trovati altri…”
Cominciai a riguardare tutti i bambini, ma questa volta ero frenetica, con le lacrime che mi impedivano di vedere bene.
Stavo perdendo il controllo e non lo sopportavo: un mio punto di forza era che sapevo restare sempre calma e impassibile.
Peter! Il mio Peter!
Corsi via alla velocità della luce; non volevo che gli altri mi vedessero piangere e pensassero che ero una bambina capricciosa e viziata.
Entrai nel dormitorio e mi buttai sul mio letto, piangendo in una volta sola per tutte le volte che mi ero trattenuta.
Lo sapevo, lo sapevo! Avrei dovuto prendermi cura di te! e invece…Ti ho fatto morire…
Mentre ero lì a maledirmi e a ripetere che Max aveva ragione, che ero davvero un brutto mostro, che ero un essere spregevole e disgustoso e tutte queste cose, non feci caso alla porta che si apriva.
“Zara perché piangi?”
No, sto diventando tutta matta: adesso sento anche la sua voce…
Una volta avevo sentito una fiaba dove c’era una ragazza che non mi ricordo perché, ma alla fine moriva e diventava schiuma del mare.
Ecco, mi sentivo talmente male, talmente in colpa che avrei potuto sciogliermi da un momento all’altro e diventare schiumetta.
Sì, voglio morire! Così andrò da Peter e gli chiederò scusa!
Sentii qualcuno che si sedeva sul letto.
“Max…”
Mi girai a pancia in su per abbracciarlo, ma la persona che era vicino a me non era Max.
No, assurdo!
Vicino a me c’era mio cugino: i capelli ormai erano quasi ricresciuti come prima del taglio della fabbrica, sulla faccia c’era qualche cicatrice, era un po’ sciupato.
Lo abbracciai fin quando non mi implorò di lasciarlo respirare.
“Oh, Peter, mi faccio schifo…ti ho abbandonato”.
Anche lui ricambiò l’abbraccio: “Dai Zarina non dire queste cose! Anzi, se non ci fossi stata tu, sarei morto da tempo”.
Restammo a chiacchierare tutta la sera, fin quando entrò Max, tutto eccitato:
“Peter, Zara, una bella notizia: Ulai ci farà partire la settimana prossima!”
La settimana prossima?
“Sul serio! Oh, che bello, che bello!”
Presi Max e Peter per mano e iniziai a girare come un’idiota: ero fuori di me dalla gioia.
Casa, casa!
Avrei rivisto i miei genitori, finalmente!
Chissà quanto erano preoccupati per me…sempre che non mi credessero già morta.
Mancava solo una settimana…e io mi facevo già dei film: sì, una volta a casa avrei chiesto se Peter avrebbe potuto stare da noi, e forse anche Max…
“Verdona, non so se lo sai, ma anche io ho una famiglia. Tranquilla.” Mi disse una volta. Oltretutto viveva molto lontano da me, dall’altra parte di Deneb.
“Ma fa niente, ci sentiremo lo stesso e ti racconterò altre cose sui tuoi parenti…”
“IO TI AMMAZZO!” volevo scherzare, ma gli avevo dato una botta così forte da fargli venire un lividone.
Peter mi aveva abbracciata: “Oh Zara sono così felice che tu sia rimasta sempre la solita!”
E come dargli torto? Anche io mi sarei sentita morire a vedere la faccia di Peter stralunata e persa come quasi tutti i bambini.
 
Ero così grata ad Ulai.
Sarei subito andata da lei per ringraziarla di avermi aiutata, per aver salvato Peter e per il viaggio di ritorno su Deneb.
Ed ero contenta, perché mi aveva detto che voleva assolutamente parlare con la mamma: io le avrei detto che era merito suo se ero viva e forse forse…avrebbero fatto qualcosa per far finire la guerra!
Che bello…
Ero talmente felice che anziché camminare saltellavo.
Da un po’ Ulai diceva di non sentirsi bene, ma l’avrei disturbata solo per poco…
Quando entrai nella sua stanza, la trovai distesa per terra, dentro un lenzuolo.
“Ulai! Che ci fai per terra? Ascolta…”
“Martina! Ah, sei arrivata…” Ulai mi interruppe, parlando con voce fioca “Vieni, vieni qui vicino…”
Deglutii: non era una voce da Ulai.
Mi stai prendendo in giro? Guarda che io mi preoccupo!
“Lo sapevo che saresti venuta…”
Mi sedetti per terra accanto a lei, ma quando si voltò a guardarmi, mi sentii rattrappire le budella.
Quegli occhi non avevano nulla di vivo: semichiusi, con uno strato lattiginoso che li ricopriva.
E il modo in cui respirava…sembrava quasi morta.
“Martina cara, ascoltami: tra poco tornerete a casa, è già tutto pronto. Le novizie vi accompagneranno…”
“Ulai, ma che dici? Devi venire, l’hai detto anche tu!”
Lei provò a sorridere.
Mi sembrava invecchiata di colpo, la faccia che era una ragnatela di rughe: “Mi dispiace, Martina…ma non penso…”
“No, dai…” mi sentivo angosciata, anche io respiravo male.
E allora? Se sto così…vuol dire che mi sono affezionata?
“Tuttavia…non potrei mai morire lasciando incompiuta una cosa tanto speciale…”
Ulai stava morendo…
In quel momento mi sentii di fare io un passo verso di lei: Ulai ne aveva fatti tanti.
Stava per morire, e glielo dovevo.
“Ulai aspetta! Voglio che tu sappia come mi chiamo: il mio vero nome è Zara”.
Lei spalancò gli occhi lacrimosi. Poi protese verso di me i tentacoli, accarezzandomi faccia e capelli.
“Ah, Zara…sapevo che eri tu!” mi fece un sorriso compassionevole “…tu hai i suoi occhi, il suo coraggio…”
Presi in mano un suo tentacolo e lo strinsi.
“Per cui…c’è una sola cosa che voglio dirti…” fece una pausa, stringendo le mie mani “…sii sempre te stessa! Non far spegnere mai il fuoco che arde in te! Sii sempre grande! Oh, che la dea ti benedica…”
No, non deve morire! Lei deve continuare…a salvarci…
Dopo avermi parlato per l’ultima volta, Ulai mi chiese di lasciarla sola: su Uolo era un diritto dei moribondi, in modo che niente potesse ostacolare la strada allo spirito.
Chiese anche che, dopo la sua morte, la bruciassimo sul fuoco purificatore della dea.
L’abbracciai con tutto il mio affetto, una volta per tutte.
“Zara…sei…bellissima!”
Mi sorrise fra le lacrime, mettendomi in mano un sacchettino.
E così, anche un’altra persona buona se ne va…perché? È tutto così sbagliato…
 
 
L’astronave diretta su Deneb era piena dei bambini del tempio, anche gli ultimi sottratti alle fabbriche.
Tutti gridavano, cantavano, erano incollati ai finestrini.
Le novizie erano tante, ma non potevano nulla contro l’eccitazione generale.
“Ehi, Zarona, non ti siedi?”
Quello stupido di Max, stravaccato su una specie di poltroncina, stava scherzosamente facendo il lavaggio del cervello a Peter, in modo che stesse a distanza di sicurezza da me.
“Pensa che una volta l’ho vista sputare fuoco!” sentii Peter sussurrare.
Max rise: “LO SAPEVO! Aveva tutte le carte in regola del classico mostro sputafuoco!”
Non avevo tanta voglia di giocare.
Presto sarei tornata a casa, a casa mia. L’orrore di Uolo era finito.
Tuttavia non riuscivo a non pensare a Ulai, alle sue ultime parole, al pettinino di cristallo che mi aveva dato prima di morire: era a forma di cigno, bello, trasparente.
Era della mamma.
Forse Ulai voleva che capissi che aveva pagato il suo debito, che aveva giocato il gioco dello strascico della guerra come esattamente aveva fatto la mamma con lei.
Dicendomi di restare sempre me stessa mi aveva pregata di continuare sempre ad essere l’eredità di mia madre.
Mentre l’avevano bruciata, tutti pensavamo una cosa sola: era davvero una grande eroina. Non l’avrei mai dimenticata; chissà, forse il ciclo di sarebbe ripetuto e in un domani sarebbe toccato a me salvare qualcuno.
Ma sarebbe stato in un futuro lontanissimo.
Ora ero grata e felice, in un’astronave che mi avrebbe riportata a casa.
Il portellone si chiuse sopra di noi.
E io risi, risi di gioia e di eccitazione, mentre l’astronave sfrecciava via, veloce come un ottovolante.

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