Love in London

di Kaida_ _ _
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Un inzio burrascoso ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - It's Berwald's time! ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - New class, new life ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - I'm a director, yeah. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Kart e attori (e un canadese...) ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Fate, tonni e Palle di Luce ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - La cattiva influenza di una pseudo-maniaca ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Una serie di sfortunati eventi ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Peccato che... ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Like a woman(?) ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - E gli unicorni nitriranno ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Uccelli giardinier ed estoni misteriosi ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - A Capitan America non piacciono gli inglesi misopony ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Tristi patate ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - This is Halloween! ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 - I see Hollynuuk! ***



Capitolo 1
*** Prologo - Un inzio burrascoso ***


One

Prologo~

   Terzo anno nel college… la groenlandese era arrivata solo due giorni prima, dopo il breve “ritorno a casa”, durato solo un  mese e mezzo. Ancora altri venti giorni e sarebbero ricominciate anche le lezioni. Sospirò, mentre attraversava il cortile, facendosi strada tra i tanti studenti. Quell’anno però sarebbe cambiato qualcosa: innanzitutto sarebbe stata nella stessa classe con i suoi migliori amici (il finlandese Tino Väinämöinen e Sesel Lalande, delle Seychelles) e la sua compagna di stanza, fortunatamente, era rimasta la stessa dell’anno passato, ossia Sesel. Inoltre nella nuova classe c’erano ragazzi e ragazze che non conosceva, se non di vista. Primi fra tutti Lily, la sorellina dello svizzero Vash Zwingli, Berwlad Oxenstierna, il più temuto dopo il russo Ivan Brangiski (che, per fortuna, era in un’altra classe), Charlotte Bonnefoy, sorella del francese Francis (amore non corrisposto di Sesel), l’eroico americano Alfred F. Jones e l’italiano scontroso: Lovino Vargas, seguiti da qualcun altro. Magra consolazione. “Dai, che se sei un college londinese esclusivo sei fortunata! Dai, che sei fra i migliori! Dai!” pensò, per evitare la depressione pre-periodo scolastico, anche detta “L’estate è passata troppo in fretta!”, “No, non mi va, sono troppo abituato a dormire adesso!” o “Vaffanculo! Io devo dare fuoco a quella cazzo di scuola!”.

   Assorta nei suoi pensieri, non si accorse che, qualcosa, anzi qualcuno, la stava seguendo, mentre le tirava una manica per attirare la sua attenzione. Finalmente si girò, trovandosi davanti Feliks Łukasiewicz, il polacco. Gli occhi verdi dell’altro la guardavano maliziosi, mentre teneva le mani sui fianchi, come se aspettasse qualcosa.

   «Che c’è?»

   «Oh mio Dio! Cioè, scommetto che non lo sapevi!» sussurrò Feliks, mentre le si avvicinava, contenendo appena l’eccitazione, mentre porgeva la bocca vicino all’orecchio della ragazza, con le mani a coppa per non farsi sentire da nessuno. «Mi hanno detto che a Berwald Oxe… coso… cioè, quello svedese, tipo, be’… gli piace Tino! Cioè, non è, tipo, una news assoluta? Da fonti sicure, eh! » La ragazza carpì subito l’informazione, anzi, la news e guardò il polacco, che saltellava contento da un piede all’altro. Ovviamente, tempo due minuti, il polacco avrebbe presto provveduto a dirlo a chiunque altro incontrasse per adempire al prestigioso incarico di arricchire il patrimonio culturale altrui diffondendo informazioni appetibili per… insomma, avrebbe spettegolato senza freno.

   n quel momento in cortile si fece avanti Tino, che lei si apprestò subito a salutare agitando la mano, tradendo un certo nervosismo. Il pettegolo fuggì contento, per poi appostarsi sull’orecchio di qualcun altro.

   «Ehi, Pipaluk!»

   Pipaluk. Si chiamava così. Avrebbe dovuto dirgli del pettegolezzo? Ovvio, ma con calma. A Tino quello lì non era mai piaciuto. Non che non lo sopportasse per motivi astrusi… il fatto era che Berwald gli faceva paura. Beh, un po’ di paura faceva a tutti: grande com’era incuteva un certo timore, però non si poteva paragonare di certo a tipi come il russo.  A lei Berwald era sempre sembrato una specie di orso, ma non un maniaco.

   Doveva rendere la cosa più divertente, prima del colpo. Così decise di fare la cretina per un po’. «Ehi, qui davanti a me c’è un uomo molto fortunato! » finita la frase fece una trombetta con le mani davanti alla bocca e “suonò” una marcia nuziale.

   «Eh?» il finnico si mostrò abbastanza stupito. Qualcuno si era preso una cotta per lui? Diventò improvvisamente curioso. «E… sai chi è?»

   «Capelli biondi, occhi azzurri, occhiali, eccellente in tutte le materie … insomma, la perfezione fatta persona! Tanti auguri e figli maschi!»

   « C-Charlotte?» tentò il finnico.

   «No, sciocchino!» lo canzonò lei, per poi avvicinarsi al suo orecchio, mettere le mani a coppa e sussurrare il nome fatidico. «Berwald!»

   «C-cosa?! Non dire scemenze! Lui… io… noi… no…» Tino stava ansimando: sapeva perfettamente che lei non gli avrebbe mai potuto dire una bugia e che lui lo seguiva già dall’anno prima per qualche motivo. E ora aveva capito tutto: Berwald era innamorato di lui.

 

 

L’angolo di Kaida

Se siete arrivatie fin qui innanzitutto vi ringrazio per aver letto questa, ehm, cosa. So perfettamente di non essere capace di scrivere a meraviglia, ma sono una di quelle tipe che migliora mano a mano che si avanza con la storia (o almeno credo…)! E quindi, se avreste la cortesia di lasciare una recensione avrò motivo di migliorare e potrò rendere questa fan fiction più migliore! Per il resto spero che abbiate gradito e vi prometto di aggiornare entro circa tre giorni con la seconda parte :D Ah, so di essere una tipa un po’ confusionaria e quindi, se non capite qualcosa, fatemelo sapere (come per gli errori, segnalatemeli senza indugio).                                                                             Per chi non l’abbia capito ho voluto inserire una dei miei OC (l’unica che sono riuscita a completare… più o meno .-.) tra i protagonisti. Lei rappresenta la Groenlandia e si chiama Pipaluk Jensen e mi dispiace per non essere riuscita a creare un giovanotto aitante e palestrato, ma proprio un Inuit del genere non riuscivo a immaginarlo… come ogni buona Inuit ha i capelli neri, gli occhi scuri e la pelle ambrata, ed è “alta” un metro e quarantacinque. Come scoprirete se avrete la pazienza di seguirmi, ha una tendenza allo sproloquio e le piacciono tanto gli orsi, le foche e i cani da slitta. *si dilegua dopo la pseudo-presentazione*                                                                                                                                                                                                                                    

Tanti saluti,                   

                                                                                                                                                                                                                     Kaida_ _ _

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - It's Berwald's time! ***


One

Chapter n°1 ~ It’s Berwald’s time!

 

   «E-ehi, calmati… sentirsi male in questo modo è roba da ragazze, perciò ti ordino di ricomporti subito!» gli ordinò lei con fare deciso. La cosa però non sembrò funzionare. Lui stava cominciando ad avere un attacco di iperventilazione e lei iniziava a pensare che Feliks avesse solo capito male e che lei stesse procurando un quasi-infarto al suo amico… in pratica stava andando nel pallone. «Ehi, qualcuno ha un sacchetto? Il mio amico si sta sentendo male! Per favore!» implorò verso la platea di studenti del cortile. Passarono trenta lunghissimi secondi.

    «Tieni» La voce, o meglio, il vocione proveniva da dietro. Si girò di scatto e vide colui che non sarebbe mai dovuto venire in quel momento: Berwald le stava gentilmente porgendo un sacchetto. Lo prese e lo diede all’amico, consigliandoli di guardare in basso, per ovvi motivi. Mentre quello si riprendeva la ragazza volse lo sguardo verso lo svedese, o almeno, il punto in cui si trovava pochi secondi prima. Infatti se ne era andato via. Che avesse sentito tutto? Che avesse capito tutto? E se fosse stato lui a dare a Feliks la news? No, si stava facendo troppe domande inutili… doveva pensare a Tino, piuttosto.

   «Mio Dio… dimmi che stavi scherzando… per favore… stavi scherzando, giusto? Il fatto che io lo trovi dappertutto è solo un semplice caso, giusto? Sono solo paranoico, no? Dimmi che è così!» il finlandese si era ripreso dall’attacco di panico, o almeno dalla parte critica. Pipaluk non voleva certo procurargli un altro attacco, ma non poteva neppure mentirgli. Gli rispose con un sibillino “La realtà fa male” e lui sospirò.

   Qualche minuto dopo percorrevano insieme la strada che separava le aule dai dormitori. Ovviamente ad un certo punto c’era un bivio che divideva i dormitori maschili da quelli femminili, ma non ci erano ancora arrivati. Potevano ancora parlare un po’. Siccome Tino non voleva decidersi ad intavolare una conversazione, iniziò lei. «Allora, hai idea di che cosa comportino i compiti di inglese?» lui non ripose. «Avanti, la vita continua! E poi… avessi io uno spasimante come te!» ancora niente. «Va bene, ora la smetto, ok? Ci vediamo in biblioteca per aiutarci insieme con le punizioni estive della vipera?» Tino annuì quasi impercettibilmente. Arrivarono al bivio e le loro strade si divisero, anche se sapevano che sarebbe durato solo un’ora o poco più.

   La ragazza aprì la porta della camera e la richiuse con garbo. Di Sesel nessuna traccia. Sesel, la sua adorabile compagnia di stanza: occhi castani come i capelli, che amava legarsi con due nastri rossi in due codine basse. Fissò sconsolata il quaderno d’inglese: il tempo per finire i compiti delle vacanze ormai non era più così tanto e doveva svolgere un tema di almeno cinque facciate! Si buttò sul letto in preda alla disperazione, con la testa affondata nel cuscino, con nessuna voglia di cambiare posizione. Almeno finché non sentì un “toc toc”, seguito da una vocina familiare. «È permesso? Luk?» da quando erano diventate compagne di stanza lei le aveva imposto di chiamarla Luk. “Fa molto figo! E poi diventeremo amiche e ci daremo dei nomignoli, giusto? Quindi dobbiamo iniziare fin d’ora!” aveva spiegato la groenlandese.  Lei però non aveva dato nessun nomignolo all’amica. “Sesel è un bel nome e non va storpiato!” le aveva spiegato. E la castana aveva accettato tutto di buon grado.

   Alla fine la groenlandese decise di aprirle la porta, accogliendola con un “Ti devo raccontare una cosa…” e stravaccandosi ancora sul letto. «Che è successo?» esordì la tipa delle Seychelles, mentre si scioglieva le codine, lasciando scivolare i suoi bei capelli morbidi sulle spalle, mentre Pipaluk stava già iniziando a raccontare i “venti minuti più intensi dell’anno”, con la sua solita parlantina che rendeva tutte le frasi unite, come se fossero un’unica, lunghissima parola. L’accento groenlandese consisteva in quello e anche nella quasi totale capacità di pronunciare la c dolce, la “sh” che diventava una “sk”… e anche l’accento danese derivato da suo padre faceva la sua parte, creando qualcosa che assomigliava molto ad un  incrocio fra una trombetta e una piccola chitarra scordata. Molto scordata, molto piccola e poco chitarra.

   «Non possono essere passati solo venti minuti, Luk! Comunque poi andiamo in biblioteca per i compiti? E per Tino, ovvio! Ma prima pettinati un po’, sembri uno spaventapasseri…!» Luk si alzò dal letto controvoglia facendo scricchiolare le molle, per poi dirigersi verso il bagno indipendente e fissare il suo riflesso nello specchio: davanti a lei c’era una ragazza bassina con un volto incorniciato da ciocche corvine che le accarezzavano il collo. Con quella faccia tonda che si ritrovava avrebbe dovuto farsi crescere i capelli almeno fino alle spalle per non sembrare una bimbetta di cinque anni… il colore ambrato della pelle invece non le dispiaceva: aveva sentito di ragazze che avrebbe pagato oro per avere un’abbronzatura costante come la sua e quindi avere una carnagione scura la riempiva d’orgoglio. Neppure gli occhi marrone scuro le stavano male, anzi! Dopo una veloce pettinata si diresse verso la biblioteca, tenendo per mano l’amica. Notò che c’era Tino all’ingresso. Il ragazzo le salutò con un cenno della mano e poi entrò mogio mogio. I tre decisero di sedersi allo stesso tavolo per lavorare insieme e quando, un quearto d’ora più avanti, in preda ad un improvviso attacco di noia, la groenlandese buttò la testa all’indietro, vive proprio lui, per poco non le venne un colpo. “Ma è uno stalker o cosa?!” mentre lo fissava si ricordò che doveva assolutamente ringraziarlo per il sacchetto, così si allontanò dal posto con una scusa e lo raggiunse. Tino aveva le sue buone ragioni per averne paura: se qualcuno che ti segue ovunque e che trovi ogni volta che ti giri dietro era inquietante Berwald era il plus ultra dei non plus ultra. Dai, chi non potrebbe provare timore… al suo cospetto? Ma plus ultra, stalker o no, doveva comunque ringraziarlo, almeno per non fare la figura della maleducata. Prese coraggio, si sporse verso il tavolo dove Berwald era chino su di un libro e pronunciò le fatidiche due sillabe: «Gra-azie»

   «Prego»

   «A-allora… che leggi di bello?» già che c’era poteva provare anche ad attaccare bottone, giusto? Per tutta risposta lui alzò il libro in modo che lei potesse leggere il titolo e l’autrice scritti sulla copertina: Proibito di Tabitha Suzuma. Si rese conto che lo aveva letto anche lei. Un punto a suo vantaggio!

   «Oh, l’ho letto anche io! Alla fi-… credo che tu non voglia sapere come finisce, giusto? Eheheh…»

   «L’ho già letto. È per il tema»

   «Aaah, ok! P-posso sedermi qui?»

   «Siamo in un paese libero»

   «Già! Infatti! Eheh… » la “conversazione brillante” della povera Luk stava andando a farsi benedire. Eppure aveva tutto in testa! Possibile che non riuscisse a sbloccarsi? Ok, il fatto che Berwald fosse un bestione di un metro e ottanta forse poteva ostacolarla un pochino… però doveva farcela, accidenti! Si ricordò che Sesel le aveva consigliato di ripiegare sul pesce quando non sapeva che dire, però lei non era certo una itticomane come la sua amica. Sfoderò la sua mania per gli accenti di vario genere, coltivata durante i vari periodi di permanenza nel college. «Allora, ho sentito che sei svedese… com’è la Svezia? Fa caldo?»

    «Si muore…»

   «No, è perché… da me fa davvero freddo! A proposito, una volta però ho visto un orso bianco! In pratica… allora, l’orso… come si dice orso in svedese?»

   «Björn…» ma che diavolo voleva da lui quella groenlandese rumorosa?

   «Sai, in danese si dice bære, mentre in kalaallisut si dice “nanuk”! Mio padre è danese quindi lo conosco anch’io… e perciò conosco tre lingue: kalaallisut, danese e inglese!»

   «Complimenti…»

   «Ti sto dando fastidio? Patsit! Scusami, è che… in pratica l’orso era un’orsa e aveva anche i piccoli! Erano due, piccoli piccoli! In Svezia ci sono gli orsi?»

   «Sì…»

   «Fatto sta che poi l’orsa ha ucciso un cane della muta di mio padre con una zampata! Non sai che zampe che hanno gli orsi polari! Certo che il cane un po’ se l’è cercata… è scappato verso l’orsa e ha cominciato ad abbaiare come un matto! E così lei ha fatto quel che ha fatto e lui è caduto per terra come una bambola di pezza! Ovviamente ora ti starai chiedendo se mi sia dispiaciuta o roba del genere…»

   In realtà no. [ehi, tu! Va’ giù nelle note, altrimenti la tua anima sarà perduta!]

   «Ah, in pratica, all’inizio no… quel cane stava sempre sulle sue e non giocava con me, quindi non ho neppure provato a farci amicizia, però poi mi sono accorta che diventare l’amicizia con quel cane sarebbe stata speciale! Non era scontata come quella degli altri cani normali, no? Bene, vorresti imparare un po’ di kalaallisut? Per favore! E-ecco, per favore si dice Ikinngutinnersumik! Qui nessuno parla la mia lingua! Poi se vuoi puoi insegnarmi un po’ di svedese, così facciamo a cambio!»

   «“Per favore” in svedese si dice tack»

   «Solo “tack”? Sicuro? È troppo facile… tack! Tack! Taaa-aaack! Ora però devi dire Ikinngutinnersumik!»

   «No»

   «Avanti! Devi dire “Ikinn”, “gutinner” e “sumik” in un’unica parola! Non è così difficile! Lo hanno imparato anche Sesel e Tino! E scommetto che potrebbe dirlo anche quel tizio laggiù!» fece lei, indicando un ragazzo moro. Doveva essere Lovino Vargas. «Ehi, lo sai dire Ikinngutinnersumik?»

   «Ma che ti fumi?!» fu (l’ovvia, vorrei aggiungere) la risposta del ragazzo moro.

   «Vargas, insomma! Siamo in biblioteca, usi un linguaggio consono al luogo in cui si trova!» lo riprese una professoressa di passaggio. Quello, per tutta risposta, girò i tacchi e si allontanò borbottando. C’era anche un altro ragazzo che lo seguiva, piagnucolando come un bambino; assomigliava molto a Lovino, però aveva i capelli e gli occhi di un colore più chiaro. Luk pensò istintivamente che fossero parenti e poi si rivolse ancora a Berwald, reclamando il suo Ikinngutinnersumik. «Io ho detto tack, Se vuoi proviamo con qualche altra parola… aluu! Ciao!»

   Cosa vuoi esattamente da me?

   «Bene, tu adesso dovresti scrivere il tuo tema, quindi vi ses snart! Credo di aver dato abbastanza fastidio…»  

   «Aspetta» si rigirò dall’altra parte, guardando gli occhi acquamarina dell’altro, pieni di speranza. «Hai detto “Tino” prima? Per caso è Tino Väinämöinen? Lo conosci?»

   «M-mh» annuì lei. «Di vista… Lo conosci anche tu?»

   «Perfetto. Lascialo»

   «EH?! Chi dovrei lasciare?»

   «Tino»

   «Ahahah! T-tu credevi che io e Ti-» Berwald le prese il braccio, guardandola intensamente negli occhi. Se ci fosse stato lo sfondo di un frutteto e una musica melensa in sottofondo probabilmente si sarebbe subito pensato al momento del bacio. E tanti fiori che svolazzavano nell’aura magica formatosi fra i due. Però non era così. Sullo sfondo c’era una noiosissima biblioteca e l’unica musica di sottofondo era il leggero brusio degli altri ragazzi.

   «Lo so che non è vero. Non credere di potermi ingannare»

   «Ma è vero! E lasciami il braccio! Guarda che… beh, io ti… ti mordo, eh!» Ovviamente non l’avrebbe morso. Però, quando si è in preda ad un attacco di disperazione, certe cose ti scappano di bocca. «… tanto sto dicendo la verità! Non ho paura di te! Vedi, sai come funziona con i cani, no? Se mostri di avere paura è finita!»

   «Quindi hai paura»

   «NO!» tentò lei, per poi cambiare discorso: «Guarda che mi lasci il braccio lo faccio venire subito!»

   E invece scapperò!

   «No. Se ti lascio il braccio scapperai urlando che sono un maniaco»

   Agh.    

   «Potrei farlo anche adesso…» no, questo genere di cose non potevano funzionare. O almeno, non con uno come Berwald.   «Tino, puoi onorarci della tua presenza?» sussurrò Luk, sperando che lo sentisse. E per fortuna (o purtroppo?) il richiamo venne udito e recepito. Una testolina bionda si alzò di scatto, per poi girarsi verso il luogo da dove proveniva il suono. Gli occhi violacei guardarono la scena che si stava svolgendo un po’ più in là, terrorizzati. «No, non posso venire! Vedi, sto facendo la relazione…» provò a scusarsi il finnico, indicando la il quaderno aperto e con le pagine ancora immacolate, sovrapposto ad un block notes che sembrava essere un cimelio della Grande Guerra e a circa millemila fogli zeppi di appunti. Ma ovviamente la sua scusa non avrebbe funzionato… «Ehm… Sesel… devo andare…» si congedò, mentre si dirigeva lentissimamente verso l’amica e quell’altro.

   «Dove?» chiese Sesel, alzando gli occhi dal libro.

   A morire…

   «Luk mi sta chiamando…»

   «Vedi che sta venendo? Se mi avessi lasciato il braccio…» sbuffò la groenlandese, cercando di liberare il braccio in trappola.

   «… staresti già piangendo fra le sue braccia» continuò Berwald, senza spostare lo sguardo dal finlandese che si avvicinava, sempre tenendo la velocità di un bradipo morto.

   «C-che c’è?» chiese Tino, sforzando un sorriso, ormai a un metro da loro due.

   «Puoi gentilmente dire a questo signore qui che io e te non stiamo insieme?»

   Oh, Tino. Ora probabilmente penserai che trovarti una ragazza sarebbe un bel modo per evitare le attenzioni di Berwald. E penserai di poter dire che sono io la tua ragazza. In questo modo crederai di potertelo levare di torno. Ebbene, ti prego di non farlo. PER FAVORE. IKINNGUTINNERSUMIK! Ci mangerà tutti e due e poi creerà tamburi conciando la nostra pelle, usando le nostre ossa come bacchette. No, aspetta. Questo lo farà con me. Tu sarai solamente violentato per il resto della tua (breve) vita e non rivedrai mai più la tua famiglia. A parte il giorno del matrimonio, ovvio. No, forse non lo farà. Forse mi guarderà male per il resto della mia permanenza al college. Nooo… non voglio, non voglio!

   «No, non stiamo insieme, te l’assicuro… m-ma perché le tieni il braccio?» chiese Tino, sorpreso. E Luk intanto esultò interiormente per la sincerità del suo amico.

   La verità va detta sempre, soprattutto in questi casi.

   «Voleva scappare» mugugnò lo svedese.

   Ah, ora si spiega tutto… benvenuta nel club.

   «E ora mi lasci?» Pipaluk tentò di tirare via il braccio da sola, senza risultato. Fu Berwald a lasciarla andare, dicendo a Tino qualcosa del genere “Ne parliamo in camera”, per poi risedersi e riaprire il libro. Aveva perso fin troppo tempo con quella lì. E lui non era tipo da perdere tempo. Gli altri due continuarono a scrivere i loro temi (sull’altro tavolo, ovvio), senza fare alcun accenno alla faccenda di prima. Fu Luk la prima ad uscire il discorso, mentre camminava con Tino e Sesel era troppo concentrata sul cadavere di una farfalla per ascoltarli. «Tino… davvero sei in camera con lui?» esordì.

   «Non me ne parlare, per favore… ma perché sei andata a parlarci?»

   «Beh, all’inizio dovevo ringraziarlo per una cosa… poi mi son detta che visto che ero lì potevo anche provare a parlarci un poco, no? Magari diventeremo amici! Come io e te! E alla fine dell’anno ci faremo una bella foto tutti insieme! E…»

   «Ehi, Luk, frena. Berwald… Berwald non è un tipo come gli altri… insomma… è un po’ “particolare”… accidenti, non so come dirtelo…»

   «Nessuno è come gli altri! E non credo che il fatto che sia gay sia un problema tanto rilevante! Per me non è un problema!»

   Per te.

   «Non è quello il problema! Non è un tipo che parla, che gioca, che scherza… accidenti, perché non ti trovi una persona più facile? Tipo Alfred? Quello sarebbe perfetto!»

   «Be’, se non parla, ascolta! E poi a me sembra interessante! Hai visto come mi ha bloccato il braccio?» rispose lei, agitando l’arto. «È diventato molle!»

   «Luk, anche gli orsi polari sono interessanti, ma non ci vai mica a socializzare…»

   «Appunto! Nanuk!»

   «Tu sei un caso perso… »

 

L’angolo di Kaida (alias note di colei-che-scrive)

*rilegge capitolo* o cielo… perdonatemi… questa volta ho fatto proprio un inguacchio °_° ok, il fatto che correggessi il capitolo mentre discorrevo della figosità di Canada con una mia amica forse potrebbe aver influito un pochino… insomma, è risaputo che chi arriva fin qui è un eroe, ma stavolta la cosa vale il doppio, il triplo, il sediciuplolo! Sto ufficialmente sclerando, non si vede? Innanzitutto ringrazio miristar e Cosmopolita, che hanno avuto il coraggio di recensire il prologo (ehi, c’è scritto che ha ricevuto più di 40 visualizzazioni! Quindi 40 persone potrebbero uccidermi! °A°), ma anche tutti coloro che hanno letto e che leggeranno, anche solo per maturare un odio profondo nei miei confronti x°D inutile spiegarvi che amo le balde giovinotte che recensiscono! Ogni recensione è uno spunto per migliorare! *stelline sbrilluccicanti che appaiono negli occhi di colei-che-scrive* ebbene, ora devo spiegarvi quel fatto dei colori, no? Ecco, ripensando alle elementari e cercando un metodo per distinguere decentemente i pensieri dei vari personaggi, mi sono ricordata che usare colori diversi è una tattica stupida, infantile e penosa, ma funzionante! Ergo, i pensieri di Luk sono così, quelli di Tino cosà e quelli di Berwald colà. Oh, vi ses snart sarebbe “arrivederci” in groenlandese. Avevo una mezza idea di scrivere le traduzioni delle parole così: parola[traduzione], ma… fatemi sapere che ne pensate, ok? Altrimenti andrò nel panico ;__; arrivederciii~

                                                                                                                                                                                         Kaida_ _ _

P.S: avete notato la mia totale incapacità nell’inventare titoli, no? Patsit[scusa]! Mmh no, questa cosa con le parentesi non funziona…

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - New class, new life ***


One Chapter n°2: New class, new life

   «… Jensen?» chiamò la voce gracchiante della professoressa di inglese, mentre scrutava la folla.

   «Presente!» esclamò lei, con la sua voce squillante, mentre agitava un braccio per farsi notare meglio.

   Erano passati venti giorni da quella volta in biblioteca e poi non aveva quasi più incrociato Berwald. Ad un certo punto le venne l’atroce dubbio che la evitasse di proposito. Maledì le sue conversazioni scadenti e cominciò a cercarlo con lo sguardo. Certo, non sarebbe stato facile individuarlo, in mezzo a un centinaio di persone. Erano tutti riuniti nell’aula magna per il discorso di inizio anno scolastico del preside, con l’uniforme linda e le scarpe (stivali per le ragazze) tirate a lucido e la professoressa faceva l’appello per accertarsi che non mancasse davvero nessuno. E dopo “Vash Zwingli” (che sarebbe stato per sempre l’ultimo, a meno che non si fosse prima o poi iscritto uno “Zyzu”), si diressero tutti nelle rispettive classi.

   «Quest’anno ho deciso di disporvi nei banchi secondo l’ordine alfabetico… quindi Natalia Alfroskaya con Mathias Andersen, Charlotte Bonnefoy con Alfred F. Jones, eccetera eccetera… fate un po’ voi, siete grandi e responsabili!» finì la professoressa, per poi sedersi sulla sedia e fissare i movimenti degli alunni, sistemandosi freneticamente gli occhiali, che non la smettevano di scivolare giù dal suo nasino a punta. Gli occhi si muovevano fissando prima un alunno, poi un altro. La signorina Ada Griffith, – questo era il suo nome – era l’insegnante d’inglese. Uno stecchino dagli occhi ambra scintillanti. La sua esile figura, infatti, era stata toccata dalla benedizione di avere gli occhi di quel magnifico colore. Purtroppo tutta la magnificenza stava negli occhi, poiché il resto del corpo lasciava molto a desiderare, soprattutto ora che la bellezza della gioventù era ormai sfiorita, diventando un ricordo lontano. No, lontanissimo. Anni luce. Sì, proprio anni luce.

   E quindi, dopo le due “coppie” menzionate prima, gli altri ragazzi si disposero seguendo l’ordine dell’alfabeto. E si arrivò a tali componimenti:

Natalia Alfroskaya con Mathias Andersen

Charlotte Bonnefoy con Alfred F. Jones

Antonio Fernandez Carriedo con Kiku Honda

Pipaluk Jensen con Arthur Kirkland

Sesel Lalande  con Toris Lorinaitis

Feliks Łukasiewicz con Berwald Oxenstierna

Manon Peeters  con Tino Väinämöinen

Lovino Vargas con Eduard Von Bock

Matthew Williams con Lily Zwingli

   Sesel provò, per la prima volta in vita sua, invidia per Luk, che era riuscita a sedersi accanto ad Arthur. Comunque decise che avrebbe stretto amicizia con il lituano accanto a lei: gli sembrava una persona simpatica! Da parte sua la groenlandese non perse tempo a riempire di domande il povero inglese. Tino riusciva quasi a toccare il cielo con un dito: non solo non era accanto a Berwald, ma era vicino ad una bella ragazza! Decise di non guardare in direzione dello svedese, che già gli stava lanciando qualcuno dei suoi pericolosi sguardi alla: “non provarci con lei, altrimenti…”. Il logorroico polacco amante del rosa prese a parlare del suo fantastico pony e a fantasticare sul fatto che potesse diventare del suddetto colore, prima o poi. Ogni tanto il discorso era interrotto da occhiate fugaci del polacco verso Toris, con notevole imbarazzo di quest’ultimo… e Berwald non sapeva se fosse peggio lui o la groenlandese e i suoi discorsi senza senso. Lily si era presentata da subito con il suo nuovo compagno, senza però riuscire a memorizzarne il nome. Intanto l’americano e la francese stravano già entrando in contrasto, causa delle differenze di comportamento. Ad esempio, se lei si era presentata garbatamente, lui le aveva dato una energetica stretta di mano, per poi raccontare vita, morte e miracoli dell’eroica famiglia Jones. Kiku era piuttosto colpito dall’atteggiamento aperto ed espansivo di Antonio che, da parte sua, non smetteva di guardare l’italiano e Natalia non vedeva l’ora che arrivasse la ricreazione per rivedere il suo amore ( alias il russo spaventoso) , rispondendo con vaghi monosillabi alle domande del danese.

   «Insomma, silenzio! Dovrò pure cominciare la lezione, non credete? – iniziò la Griffith, piuttosto adirata – Inoltre ho un importante annuncio da farvi... » il chiacchiericcio cessò e tutti si concentrarono sul labiale della professoressa, la quale, soddisfatta per aver ottenuto tanta attenzione, continuò: «Quest’anno ognuno di voi potrà girare un corto o lungometraggio! La procedura è semplice: innanzitutto dovrete scrivere una breve trama dell’opera che vorrete inscenare e dovrete consegnarla a me. Dopo aver appurato che sia idonea vi restituirò la trama e voi procederete a scrivere la sceneggiatura, ad ingaggiare gli attori, eccetera… ah, ricordatevi che chiunque parteciperà riceverà crediti extra e che le telecamere potranno essere noleggiate solo e soltanto con il permesso del tecnico… la cassetta ve la offriremo noi, ovviamente… potrete prendere spunto da qualsiasi libro, opera o poesia abbiate letto, ma non disdegnerò assolutamente le storie originali!»

   Passò qualche ora (a detta degli studenti qualche anno) e poi suonò la campanella che annunciava la fine delle lezioni (e quindi il pranzo). Luk aveva già deciso che avrebbe dovuto chiedere a Berwald di partecipare al suo film. Un film su Proibito. E siccome l’aveva letto anche lui l’avrebbe potuta aiutare… anzi, ancora meglio: lui sarebbe stato il regista e lei la best boy,  ossia l’elettricista tuttofare. O magari la sceneggiatrice, l’aiuto-regista… si vedeva già seduta in una di quelle poltrone nere durante la notte degli Oscar (che, nella sua fantasia, si era spostata a Nuuk), vestita di rosso e pronta a ricevere la statuetta. “Pipaluk Jensen, come miglior attrice, regista e sceneggiatrice! E Berwald Oxenstierna, con le stesse cose, ma al maschile!”. Aveva questo problema di correre troppo con la fantasia, a volte. Molte volte. Uscita dalla classe identificò la sua preda e provvide a seguirla. Poteva essere anche una stalker, all’occorrenza: aveva circa millemila risorse e non aveva la minima paura di utilizzarle. Camminò per un bel po’. Tap, tap, tap. Dopo circa una decina di minuti si accorse che Berwald stava girando in tondo. Che lo facesse di proposito?

   « Jensen, smettila di seguirmi… »

   Ma cosa ca…?!

   « Io non ti sto seguendo! »

   « Sento la punta del tuo naso sulla mia schiena, Pinocchio… »

   « Ah… io… insomma, io volevo chiederti una cosa… »

   « E sarebbe? »

   « Perché non lavori insieme a me al mio nuovo film, eh? Ho già deciso tutto! »

   « No. »

   « Ma sono crediti extra! »

   « Sentiamo un po’… su cosa ti vorresti basare? »

   « Proibito! Cioè, mi è sembrata una buona idea e avrei anche delle idee sul cast… tipo… »

   « Mi sembra di sentire Łukasiewicz… »

   « E dai! Che ti costa? Devo rammentarti che sono… »

   «… crediti in più. Sì, lo so. Però quei crediti non mi servono più di tanto… ho già una media alta e poi non credo che me la possano alzare più di tanto… sarà un mezzo voto…»

   Non te la tirare!

   « Potranno inventare un nuovo voto solo per te, no? »

   « Ah, sei proprio ostinata. »

   « Lo so! »

   « Ma perché non ti sei diretta in mensa come tutti i bravi bambini? Non hai fame? »

   « Ho fregato due muffins a colazione! Ne vuoi uno? » fece lei, estraendo il dolcetto marrone dalla cartella.

   « No… »

   « Sicuro? Sono al cioccolato… »

   « La cosa non mi fa né caldo né freddo. »

   « Bene, ti seguirò finché non mi dirai di sì! »

   « Non mi sembra una buona tecnica… »

   « E perché? »

   « Perché potrò sempre e comunque andarmene nel dormitorio maschile, dove tu non puoi assolutamente entrare. »

   « A proposito… tu sei in camera con Tino, no? »

   « Sì! C-cioè, volevo dire… sì »

   « A-ah! Ti piace, eh? »

   « Mi stai stancando… »

   « Muffin? »

   « No. »

   « Aaaawww… non vuoi proprio? »

   « No »

   « Ma perché? »

   « È solo una perdita di tempo e io dovrò studiare! Non crederti che me le regalino, le A! »

   « Anche io studio, cosa credi? E poi tu ci metti pochissimo a finire di fare i compiti, non ti costerebbe niente! Che fai per il resto della giornata? »

   « Non sono affari tuoi! »

   « Sai perché sto facendo tutto questo? »

   « Mi piacerebbe molto saperlo… »

   « Beh, si dia il caso che Tino sia terrorizzato da te e che io non sia d’accordo! Ecco, tu mi sei sembrato una persona interessante e per questo volevo far amicizia con te, in modo da dimostrargli che sei come gli altri, se non meglio! E poi mi fai venire in mente la storia del cane e dell’orsa! »

   … quel cane stava sempre sulle sue e non giocava con me, quindi non ho neppure provato a farci amicizia, però poi mi sono accorta che diventare l’amicizia con quel cane sarebbe stata speciale! Non era scontata come quella degli altri cani normali, no?

   « Vuoi fare amicizia con me solo perché provi rimorso?! In questo modo credi di poter produrre karma positivo o roba del genere, per rimediare? È semplicemente assurdo! »

   « Aaah! È più per il fatto di Tino! Mi dà fastidio che si diano pregiudizi alle altre persone, senza neppure provare a conoscerle! »

   « Tack. »

   « P-perfavore? »

   « Vuol dire anche grazie. »

L’angolo di colei-che-scrive

La sapete una cosa? Oggi le fanfictions riguardanti Hetalia su EPF hanno raggiunto la cifra tonda di ben 3000 storie! Credo che sia un fantastico traguardo, no? Comunque non sono qui per parlarvi degli altri, questo spazi è mio, solo mio! Mgwauhahahauah! Ringrazio tantissimo colei che ha recensito con tanta pazienza il primo capitolo (ossia il 2, ma comunque l’uno, cioè… *esplode*), ossia Cosmopolita! Le vorrei dedicare questo capitolo, visto che è l’unica anima misericordiosa che recensisce x° sapete, in realtà avrei dovuto pubblicare questa roba ieri, ma sono stata davvero impegnata fra la miniera di gesso e la casa di mia cugina… sì, ieri la mia sorellina adorata (leggero – ma anche no – sarcasmo) ha comprato una sorta di blocco di gesso nel quale bisogna scavare per trovare vari minerali sbrilluccicanti. Ovviamente, visto che le bimbe di sei anni non amano il lavoro sporco, è toccato a me e a papà impugnare il martello… il bottino consisteva in circa millemila sassolini colorati e adorabili che si potrebbero benissimo spacciare per minerali preziosi. Insomma, non crederò mai e poi mai che una gioielleria di gesso munita di ametiste e quarzi enormi costi solo dodici euro. Come sono brava a divagare, da? A proposito di divagare, ho provato ad imparare un po’ di kalaallisut! So anche presentarmi! *gioia e orgolgio* Ad esempio, “Aluu, Claudiaimik aterqarpunga” vuol dire “Ciao, il mio nome è Claudia” e così avete scoperto il mio nome tramite una pseudo-lezione di kalaallisut!

No, aspettate un po’! Dovrei parlarvi un po’ del capitolo, giusto? Sì, ecco… l’ho corretto in un ambiente quasi tranquillo, quindi spero che sia uscito bene (o anche meglio degli altri!). Sì, è un po’ più corto del precedente, ma avevo scritto quella battuta faiga che mi sembrava adatta per un finale! BD sì, probabilmente non è adatta e non è neppure faiga, ma lasciatemi sognare... prometto solennemente che il 3 potrete leggere il prossimo! ß non so se sia più un annuncio che debba donare gioia e letizia o una minaccia °_° statemi bene,

                                                                                                                                                                               Kaida_ _ _

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - I'm a director, yeah. ***


One

Chapter n°3: Im a director, yeah.

   E quindi decisero di aiutarsi a vicenda. Lui l’avrebbe aiutata con la sceneggiatura e tutto il resto e, dall’altra parte, lei l’avrebbe aiutato con Tino. Si divisero il muffin e si augurarono la buona riuscita di entrambe le missioni.

   « Noi saremo una grande squadra! Pardon, noi siamo una grande squadra! » Esclamò Luk, alzando la sua parte di muffin a mo’ di calice. Aveva trovato il suo aiuto-regista, adesso dovevano soltanto scrivere una presentazione dell’opera e mostrarla alla Griffith, sperando nel meglio. Oh, e c’era anche la sceneggiatura da scrivere, gli attori da ingaggiare… insomma, era un compito abbastanza difficoltoso, ma i due registi non erano i tipi da mollare alla prima difficoltà.

Fuori, nel mondo, Lochan non si è mai sentito a suo agio. Gli altri sono tutti estranei, alieni… Solo a casa riesce ad essere se stesso. Maya ha sedici anni, è una ragazza sensibile, delicata e molto più matura di quello che la sua età richiederebbe. Lochan e Maya sono fratelli, e hanno altri tre fratellini da accudire: Kit, Tiffin e Willa sono la loro ragione di vita e la loro preoccupazione più grande, da quando il padre li ha abbandonati per una nuova famiglia e la madre ha iniziato a bere, si è trovata un altro uomo e a casa non c’è mai. I giorni passano e solo una cosa ha senso: essere vicini, insieme, legati, forti contro tutto e tutti. Per Maya, Lochan è il migliore amico. Per Lochan, Maya è l’unica confidente. Finché la complicità li trascina in un vortice di sentimenti, verso l’irreparabile. Qualcosa di terribile e meraviglioso allo stesso tempo, inaspettato ma in qualche modo anche così naturale. Qualcosa che, ancor prima di iniziare, è già condannato.

Il sentimento era lì che covava da anni, salendo giorno dopo giorno sempre più vicino alla superficie. Era solo questione di tempo prima che squarciasse la fragile ragnatela del nostro rifiuto mentale, obbligandoci a guardare in faccia la realtà e ad ammettere ciò che siamo: due persone innamorate di un amore che nessuno potrà mai capire.”

Proibito. Lo dice il titolo, lo richiama il cuore di filo spinato in copertina.

Proibito dalla legge, dalla morale comune, dalla natura. Ecco perché Lochan e Maya sono “due persone innamorate di un amore che nessuno potrà mai capire”, perché sono fratello e sorella e il loro amore è incestuoso.


Un amore clandestino, nato attraverso lo scorrere lento delle giornate, nato da un'amicizia sorta nel corso dell'infanzia e dell'adolescenza e sbocciata in un sentimento più maturo e complesso alle soglie della vita adulta. L'affetto sfuma verso toni della passione e del bisogno fisico dell'altro. Perchè ora che hanno trovato la propria anima gemella, quel soffio di vita che li riempie interamente, non possono più separarsi. Vivono dentro un incubo irreale, difficile da comprendere e accettare anche per loro stessi, ma la divisione non è contemplata, distanti iniziarebbero lentamente a morire.
Ma se venissero scoperti, come li giudicherebbero le persone? Quale sarà l'epilogo della loro tragica unione?

Due fratelli nati a tredici mesi di distanza, cresciuti come migliori amici, uniti nel disagio di una famiglia che sta andando in pezzi. Il padre li ha lasciati, si è risposato, nonostante le rassicurazioni su gite e viaggi mensili alla nuova casa, ben presto

le telefonate settimanali diventarono mensili, poi solo in occasione di ricorrenze speciali e infine cessarono del tutto. Quando mamma ci annunciò che la nuova moglie aveva appena partorito, capimmo che era solo questione di tempo prima che anche i regali di compleanno smettessero di arrivare. E così fu. Tutto finì ”.

La madre, mai veramente cresciuta, si rifiuta ostinatamente di invecchiare, fingendo di non avere figli da accudire, esce la sera rincasando alle ore più disparate. La sua ultima fiamma, Dave, è più giovane e con un divorzio e figli alle spalle. Non vuole altri problemi, non gli serve una nuova famiglia. Così la sua diventa una figura materna fantasma, che attraversa il salotto ubriaca nel cuore della notte o che sbatte la porta avvolta nel suo vestito di lustrini, lasciando dietro di se solo una scia di profumo.

Sono Lochan e Maya che si fanno carico dei tre fratelli più piccoli: Kit, in piena crisi adolescenziale, Tiffin terremoto iper-attivo, Willa dolce e sensibile ultimogenita. Fare la spesa, controllare i compiti, organizzare la settimana, le visite dal dentista. Tutto è nelle mani di questi due baby-genitori, che hanno perso buona parte della loro spontanea giovinezza, per crescere velocemente ed essere responsabili.

Ma se la casa, nonostante i problemi è il loro porto sicuro, il mondo esterno rivela il disagio che si è annidato nei loro cuori.

Lochan è il primo della classe quando si tratta di fare compiti scritti, ma se interrogato, non riesce a spiccicare parola. Non ha amici, cerca sempre posti isolati in cui passare il pranzo o l’ora di studio, così da non dover affrontare i compagni, con le loro domande e gli sguardi curiosi. Maya non esce mai con l’amica, perché dopo scuola deve correre a prendere i fratellini. Non ha un ragazzo, e non l’ha mai avuto. Sa che alla fine dovrà fare queste cose, ma non si sente pronta e poi, non le piace mai nessuno. Tolto il maglione della divisa e allentata la cravatta, Maya e Lochan escono da quella bolla di sapone che è la scuola, e tornano alla realtà, alla cena da cucinare, Kit da disciplinare, Tiffin da interrogare sulle tabelline e Willa da lavare. Così giorno dopo giorno, la loro complicità cresce, il loro rapporto di reciproco sostegno si evolve in qualcosa che va oltre l’affetto fraterno.

Vivono dietro una maschera, in una finzione comandata da rigidi dettami di una società che non trova spazio per i loro sentimenti. Hanno paura di essere scoperti e sono se stessi solo quando, finalmente giunti al termine di una lunga giornata, possono finalmente bearsi della vicinanza dell'altro. Ma il fantasma della separazione non scompare mai. Nemmeno quando cercano di dimenticare la loro tragica situazione e abbandonarsi alle loro semplici, naturali emozioni. Una vita che minaccia di soverchiarli per i problemi e i doveri che gravano sulle loro giovani spalle. Problemi che scivolano via magicamente con una carezza, un bacio a fior di labbra, un ti amo sussurrato nell'ombra di una stanza illuminata dai tenui raggi della luna.
Attimi di gioia rubati, screziati dalla sofferenza e dalla solitudine.

Tabitha Suzuma dipinge con tratti dolci e delicati i problemi di questi due giovani adulti, l’irritazione verso una madre che non è più tale da ormai molto tempo, la paura costante di non resistere, di non riuscire a fare tutto, e di essere separati dai servizi sociali. Il legame speciale che unisce Maya e Lochan fiorisce lentamente davanti ai nostri occhi: i dubbi, i sensi di colpa, la rabbia, diventano anche i nostri mentre scorriamo ipnotizzati le parole. Il punto di vista che passa da uno all’altra, ci fornisce un quadro completo d’umori e sensazioni, alle quali altrimenti non avremmo accesso. Tutto scritto con uno stile scorre leggero come un soffio, mai volgare e sempre veritiero. Una narrazione che graffia, punge, fa sanguinare dentro per la sofferenza di un amore così disperato, cercato, dotato di spine così feroci da portare alla morte.

Un libro molto bello, lirico, che fa pensare e che ti si aggrappa al cuore.
Una sinfonia che ammalia e conquista lentamente, si insinua senza rumore nella mente e nel cuore del lettore. Una musica intima che fa vibrare le corde più profonde dell'anima provocando gioia, tenerezza ma anche tristezza e dolore. L’attacco di panico di Lochan e la sua rabbia incontrollata la sera dell’appuntamento della sorella, il terrore di Maya per la scomparsa dei fratellini o per la caduta di Willa, sono qualcosa d’eccezionale, per il realismo che traspare. I pensieri, le azioni, i turbamenti trasportano la mente all’adolescente che eravamo in un passato più o meno remoto. Un libro da leggere e assaporare lentamente, da non giudicare senza averlo finito, studiato, capito.

Un libro di straziante bellezza che narra una storia d'amore appassionata e incredibilmente toccante. Suzuma dipinge un quadro di struggente realismo, accompagnato dalla disperazione e dal bisogno d'amore, che si verifica in famiglie distrutte, ma animato dalla speranza di un destino migliore. Una luminescenza che brilla in lontananza che deve essere raggiunta. Un romanzo coraggioso e difficile, affascinante ed emotivamente impegnativo.

"Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce"

-B. Pascal

   All’inizio la professoressa Griffith ci pensò su per un po’: in fondo l’argomento era piuttosto forte e “difficile”, ma i ragazzi non potevano vivere (né vivevano) in una campana di vetro: purtroppo il mondo non è tutto rose e fiori e i telegiornali (sia in televisione che in rete) continuavano a diffondere quasi esclusivamente notizie negative, perché, si sa, la bontà non fa notizia. Così decise di acconsentire alla creazione del lungocortometraggio, purchè fosse censurata qualsivoglia scena troppo “forte”   o “hot”. Luk sospirò e approvò l’idea di Berwald di mettere davanti a queste ultime sequenze un velo rosso o rosa, un po’ come se la scena fosse vista attraverso a delle tende, per rendere il tutto un po’ più romantico e non dare l’idea della censura.     

   Dopo il colloquio con la Griffith Luk era fuori di sé dalla gioia: sarebbe finalmente diventata una regista! Tra i mille filmini mentali della serie Hollynuuk che le frullavano in testa, si ritrovò a camminare fra le varie scrivanie, nella biblioteca, con circa millemila premi Oscar (e qualche Nobel per la Pace, ovviamente! Se si sogna bisogna falro in grande, no?) e la quasi-certezza di avere gambe indipendenti dal resto del corpo.

   Ora qualcuno mi spiegherà come diavolo sono finita qui.

   Cercando una testolina bionda dall’aria familiare alla quale raccontare le ultime avventure della giornata e, soprattutto, delle sue gambe indipendenti, sentì un “Luuuk!” provenire da dietro. Si girò di slancio e trovò un faccino tondo e sorridente, incorniciato da capelli castani acconciati con due codine. Codine. Con due fiocchi rossi. Quello non era un faccino, era il faccino di Sesel. Beh, avrebbe benissimo potuto raccontarlo anche a lei.

   « Ciao, Sesel! Devo raccontarti una cosa… le mie gambe si muov-  » ma la castana la interruppe subito.

   « Oh, Luk! Stai facendo un film, no? »

   « A-aspetta! Tu che ne sai?! »

   « Le voci girano! »

   « Davvero?! » esclamò l’altra. Secondo le sue numerose ricerche la formula “le voci girano” vuol dire qualcosa del tipo “ne parlano tutti”, ma anche “lo so solo io, ma voglio farti sentire importante”, con il 90% delle probabilità per la prima e il 10% della seconda, ma per Luk in quel momento la seconda opzione non esisteva.

   « Volevo chiederti… se io… cioè, potrei partecipare anch’io? » chiese Sesel, mentre giocava con i capelli. Sembrava in imbarazzo. « Ah, poi posso dirti una cosa? Beh, Lochan ha gli occhi verdi, no? E… e anche Arthur ha gli occhi verdi! Quindi… »

   « Mmh, non saprei… dovrebbe fare un provino… e po- » fare la parte della regista esigente le stava piacendo da matti. E ogni volta che pensava ai futuri provini per il cast per poco non si scioglieva per il piacere. Hollynuuk non era poi così lontana, no? Avrebbe comprato una grossa stufa e avrebbe fatto costruire un edificio adatto all’evento. Il problema era spostare Hollywood a Nuuk, ma ci avrebbe pensato più tardi. Per ora voveva godersi il piacere di fare la preziosa.

      Mentre pensava a Hollynuuk e a tutto il resto non riuscì a completare la frase e le sbucò davanti il ragazzo biondo al qualce avrebbe dovuto raccontare le sue innumerevoli avventure.

   « Oh, perché non mi hai parlato prima del film? Posso aiutare? » Le voci girano, sì. Yeah. « Me l’ha detto Berwald! » concluse, contento. STOP! Aveva appena detto “Berwald” in tono felice? Luk fu pervasa da uno sprizzo di felicità, finché non pensò che il tono sarebbe stato lo stesso nella frase: “Ehi, hanno spostato di stanza quel maniaco di Berwald!”. Be’, pazienza: le cose sarebbero cambiate.

   « Accidenti, questa cosa è davvero eccitante! » Luk-la-regista-cattiva era volata via per lasciare il posto a Luk-la-nuova-regista-eccitata-dal-fatto-di-aver-scritto-una-pseudo-sceneggiatura(?). « Dici che dovrei far fare i provini? Beh, in fondo abbiamo quasi finito tutto… insomma, dobbiamo rivedere un po’ le battute, ma… »

   Il finnico provvedette ad aggiungere: « Ehi, Manon ti sembra adatta per la parte di Maya? In fondo ha i capelli biondi come lei… ed è una bella ragazza! Comunque… perché non attacchi un post-it sulla bacheca di classe scrivendo “si cercano attori, eccetera”? Magari ci organizziamo in cortile! »

   « È magnifico…! Facciamolo! » esclamò Luk, tutta eccitata. [Ehm… io… temo di non essermi espressa al meglio…]

   Così decisero di dirlo a Feliks, che provvide a far girare l’informazione per tutto l’istituto. Luk gongolava. Berwald no, anche se lei avrebbe preferito che lo facesse. E non volle neppure scegliere il cast. Pazienza, l’avrebbero aiutata Tino e Sesel.  Passò qualche giorno e si ritrovarono  nel cortile per scegliere il cast. Per lei era un’immane figata, per Sesel e Tino una minima possibilità di organizzare un’uscita con Arthur e Manon, se fossero entrati nel cast.

   « HAHA! In questa roba c’è  un eroe? Perché nel caso lo voglio fare io! » esclamò Alfred, mentre faceva la fila per i provini.

   « Non è una roba, accidenti! È un libro, cretino! » Lo rimproverò Arthur, anche se ormai aveva perso la speranza a provare a insegnare le buone maniere a quel buzzurro. Quell’anno erano ancora compagni di stanza… e ogni volta che ci entrava scambiava quel buco di trenta metri quadrati per uno zoo e il suo compagno per un gibbone impazzito. Forse entrando nel cast se lo sarebbe tolto di torno almeno per un po’, perché ovviamente non avrebbero mai preso quello yankee, no?

   « Perché non fai il cameraman? Nello slide show finale sarai in una delle prime foto, dopo di me, di Mr. Oxenstierna e di Eduard! » chiese Luk. Sotto raccomandazione di Tino aveva deciso che l’estone avrebbe fatto il tizio del montaggio, dato che era un mago con il computer. « È un compito di grande responsabilità, sai? E poi sarai sempre presente… cioè, sarai l’autore delle riprese, accidenti! » sì, era un compito di grande responsabilità, da eroe. E l’eroe accettò, sebbene avrebbe preferito il primissimo posto nello slide show, magari prima del film. Del tipo “questo film è offerto da Alfred F. Jones!”. Beh, li avrebbe convinti in qualche modo, prima o poi.

   Poi  venne il turno di Arthur.

   « Nome, città e raccontaci un po’ di teee! » esordì Luk, mettendosi un paio di occhiali da sole. La domanda “ma che ti fumi?” sarebbe stata d’obbligo, ma Arthur si contenne. «Mi sembri un tipo in gamba! Lo prendiamo?» fece ancora lei, ammiccando verso Sesel, che annuì, per poi girarsi da un’altra parte, evitando di mostrare a tutti le sue guance bollenti.

   « Ma con che metodo scegliete gli attori?! »

   « Se non vuoi entrare a far parte del cast potevi dirmelo subito… » Arthur non sapeva del fatto che Alfred fosse il cameraman e quindi accettò, in un disperato tentativo di toglierselo di torno.

   « Ma… non devo dire niente? »

   « No, questa è una prima selezione, poi ce ne sarà una seconda… forse una terza… » mentre la groenlandese spiegava il suo astruso metodo per le selezioni notò qualcosa che si muoveva per il cortile, in lontananza. Provò a mettere a fuoco, anche se non ci vedeva un granché. Avrebbe dovuto portarsi gli occhiali… eppure, anche sfocato, gli sembrava perfetto per la parte di Lochan. Aveva la stessa aria sofferta, si vedeva dalla camminata. « Ehm, Mr. Kirkland, saprebbe dirmi chi è quel tipo laggiù? » chiese la regista, indicando la figura che si trascinava verso l’ingresso dell’istituto.

   « Mi pare sia Honda… »

   « HONDA! TI VOGLIO NEL MIO FILM! » al nipponico per poco non venne un colpo. Pipaluk non lo notò e decise di correre da lui. «Ehi, vuoi entrare nel cast del mio film?» gli prese le mani e cominciò a stringerle. «Accidenti, sei perfetto! Vuoi?»

   «C-che vuoi da me?! Tu… sei nella mia stessa classe, giusto? Piparuko… »

   « Hai un accento fighissimo, cavoli! Kiku Honda… o Honda Kiku? Mr. Honda… come vuol essere chiamato? Sai recitare? »

   « I-io… adesso dovrei studiare… »

   « Ok… verso che ora sei libero, domani? »

   « Non saprei… »

   « Verso le cinque io sarò qui per le altre selezioni e conto in una tua visita! Takuss! » concluse lei, facendo il saluto militare e correndo verso gli amici e l’inglese.

   Le selezioni finirono una mezz’ora dopo, in funzione agli orari del college (entro le sei e mezza si doveva rientrare dentro per cenare e non si poteva uscire in cortile prima dell’una del giorno dopo, ossia a fine lezione e chiunque non rispettava le regole poteva benissimo essere lasciato fuori). Il bilancio si era chiuso con Alfred F. Jones nel ruolo – indiscusso – di cameraman e Arthur (e forse anche Kiku) come Lochan. Gli altri – o meglio, le altre: Manon e Lily – fecero un breve colloquio con Luk, Tino e Sesel durante la cena. In realtà fu una semplice chiacchierata (sul formaggio francese, per di più), ma Luk amava prendere le cose sul serio (più o meno…), era una regista importante, lei.

Guga-baluga x°D

Salve a tutti, cari lettori. Avrete ben constatato che sono una persona altamente inaffidabile, visto che non pubblico MAI (never!) i capitoli nella data predefinita (e che vi comunico periodicamente nel mio angolo-di-colei-che-scrive).

Bene, ora basta scrivere in questa maniera, non sono una donna abbastanza erudita da poterselo permettere. Ok, il fatto è che ci provo, ma non riesco mai a correggere tutto il capitolo in tempo… “E allora – mi direbbe qualcuno – correggilo il giorno prima!” no, non ne ho voglia, soprattutto adesso che siamo in vacanza e che non ho nemmeno voglia di alzarmi la mattina! Insomma, perdonate questa povera sciocca, questa povera pigra, questa povera me. Inutile ripetere (ma lo faccio lo stesso) che adorerò immensamente chi è arrivato fino a queste righe senza suicidarsi (o, semplicemente, senza maledire me e la mia famiglia e senza chiudere la finestra) e chi recensirà, ovviamente! ^_^ ricordatevi che le critiche, i consigli e i suggerimenti (che poi sono quasi le sinonimi °_°) sono ben accette, basta non andarci giù pesante D: potrei deprimermi. E poi, so dove abitate è__è

E quindi, con questo siamo al terzo capitolo e Luk sta iniziando la sua avventura nel mondo del teatro, olè! Per chiunque pensasse che il libro e la sua trama sono un enorme spoiler: no, non ci sarà alcun incesto. È solo uno dei pochi libri decenti che ho letto con dei protagonisti umani e, soprattutto, adattabile al teatro. Avrei volentieri preferito Io & Marley, ma non era per niente fattibile, purtroppo. Prediligo i cani all’incesto x°D mmh, non credo di avere altro da dire, a parte che ci vedremo tra 5-6 giorni per il prossimo capitolo, ossia… ehm, tre più cinque fa otto, tre più sei fa nove… quindi probabilmente sarà già ricominciata la scuola! D: NON VOGLIO! *corre via piangendo*

P.S.: ringrazio immensamente Cosmopolita e miristar per le precedenti recensioni :*

 

 

La recensione non è mia, l’ho trovata qui: http://www.diariodipensieripersi.com/2011/02/recensione-proibito-di-tabitha-suzuma.html

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Kart e attori (e un canadese...) ***


One

Chapter n°4: Kart e  attori (e un canadese)

   « Bene! C’erano un inglese, un tedesco e un americano… » cominciò Luk, gesticolando e brandendo il suo muffin. Qualche briciola finì sicuramente per terra e sulla divisa dell’altro, per non parlare del mucchio-della-sceneggiatura-che-nessuno-può-toccare-tranne-me-e-Nanuk-pena-la-morte-anche-se-non-è-vero-ma-fa-figo-e-quindi-mi-sento-in-dovere-di-doverlo-scrivere, che aveva maturato grosse macchie marroni – più che altro a causa dell’abitudine di Pipaluk di nutrirsi esclusivamente di muffin rubati di pomeriggio – un po’ dappertutto. La groenlandese sospirò, notando che lo svedese non le stava rivolgendo la minima attenzione e quest’ultimo si chiese per l’ennesima volta perché diamine avesse acconsentito a lavorare con quella sciroccata. Tino, giusto. Comunque, finiti i suoi “discorsi” avrebbe lavorato. Era piuttosto seria, se si impegnava. « Oh, giusto! Dobbiamo lavorare, no? Ah! Ti devo raccontare una cosa! Ieri abbiamo fatto, tipo, le “selezioni”! Allora, ho trovato due possibili Lochan: c’erano Kiku Honda e Arthur Kirkland… io preferirei Honda, però… anche se non mi sembra molto interessato e… ah, per Maya Manon sarebbe adatta e… Lily potrebbe fare Willa, no? Però hai presente il fatto che Lily ha un fratello che frequenta anche lui il college? Mi era balenata l’idea di far fare a loro due Lochan e Maya però non credo che sia il caso, no? Ecco, Alfred fa il cameraman! Ed Eduard il tizio del montaggio… insomma, usa il computer! » spiegò lei, mentre stringeva il povero dolcetto, che ormai era diventato una poltiglia. « C-cosa ho fatto al mio muffin?! » esclamò lei, scioccata, guardando il mucchio informe al cioccolato. « Aspetta! Dobbiamo lavorare, no? Comunque… cosa ne pensi del cast sapientemente scelto da me? » continuò lei, soffermandosi su “sapientemente” e “me”.

   « Non mi piace quella Manon. Tino le fissa sempre il petto »

   Cosa che con te non succede.

   « B-beh, è fortunata! »

   Ma d’altro canto, se fossi una maggiorata, rappresenterei una vera minaccia e Nanuk non lavorerebbe con me, quindi…

   « Perché? Per il fatto che Tino le fissi il petto o perché abbia un seno piuttosto pronunciato? » Berwald si stava insospettendo. Male. Malissimo. Luk rispose con un frettoloso “lascia stare…” e poi continuò a parlare del cast. Kiku Honda era il suo possibile Lochan preferito: aveva visto in lui la stessa aura “sofferta” del protagonista del libro, poi aveva i capelli neri come Lochan e… il suo accento era o non era adorabile? Ovviamente per Berwald il fatto che il giapponese avesse un accento “puccio” non contava. In fondo però sperava che fosse un buon attore; gli sembrava un tipo affidabile e la somiglianza con il protagonista del libro era impossibile da non notare.

   « E poi Fernandez Carriedo! Dovrebbe fare qualcosa… tipo Nico, quello che esce con Maya una sera e quella stessa sera lei si accorge di amare il fratello… in fondo Nico è un gran figo, no? »

   « Mi pare che ti avessi detto di non basarti solo sull’apparenza per scegliere gli attori… »

   « Ma no, vedrai che lui è uno di quelli “belli e bravi”! La parte di Nico doveva essere data ad uno più bello degli altri, a prescindere… E comunque non mi avevi detto niente… »

   « Te l’ho detto ora. »

  « Farò più attenzione, mio capitano! » esclamò Luk con aria importante, gonfiando il petto e facendo il saluto militare. Le piaceva tanto fare questo genere di cose “ufficiali”. La faceva sentire importante. Un po’ come essere la regista-sceneggiatrice di un lungometraggio. « Ehi, - continuò lei - hai notato che abbiamo finito di scriverlo quasi subito? Insomma, dovremo solo girarlo! Ti rendi conto? Peccato che sia complicato quasi quanto scriverlo… »

   « Ehi, regista! » c’era qualcuno che la stava chiamando. L’accento americano era inconfondibile, quindi Luk, girandosi, rispose con un “ehi, cameraman!”, agitando la mano. Il cameraman si avvicinò, per poi fissare lo svedese con un misto di sorpresa e paura. « Uh, quindi è lui l’altro regista di cui si discute tanto, eh? E chi l’avrebbe immaginato! Comunque per stasera avrei organizzato un torneo di Mario Kart… se siete interessati: palestra, subito dopo cena! E portate anche tante bandierine americane per fare il tifo perché ovviamente tiferete me, no? HAHA! A presto !» subito dopo il breve discorso l’americano andò via.

   « Ehi, ho una felpa con la bandiera degli Stati Uniti… secondo te va bene? » chiese Luk, rivolta allo svedese, guardando Alfred che spariva dietro la porta della biblioteca. Per tutta risposta lui sbuffò e continuò a scrivere qualcosa su di un foglio. Davvero voleva fare il tifo per quello statunitense rumoroso? Rumoroso come lei, d’altronde. Tra casinisti ci si intende, giusto? « Vieni anche tu, no, Nanuk? Perché verrai, no? »

   « Dove? »

   « Al torneo di Mario Kart! »

   « Fortunatamente ho cose migliori da fare… »

   « Come preferisci… Allora, prima ti dicevo che nel libro, in pratica, c’è scritto che Nico è un gran figo e siccome… insomma, è bello anche Antonio! Capisco che non mi dovrei far influenzare dall’apparenza, ma non dobbiamo neppure organizzare lo show dei rifiuti della società!» Luk si interruppe: non era quello che avrebbe voluto dire. « N-no, aspetta! Temo di non essermi spiegata bene! »

   Ma va?

   Luk iniziò un altro dei suoi discorsi, spiegando che non aveva alcuna avversione contro le persone… diversamente belle e aggiungendo che neppure lei era una gran bellezza. « Insomma: tappa, capelli neri e corti, faccia tonda, occhi scuri, quasi a mandorla, carnagione olivastra… cioè, NO! Non è che non… cioè, che sono avversa a chi ha la pelle olivastra… insomma, anch’io…» Perché non riusciva MAI a far uscire qualcosa di decente, non fraintendibile dalla massa e che non fosse un discorso (condannato a “terminare” nello sproloquio più sproloquoiso, poi) dalla bocca? Perché doveva sempre prepararsi una scaletta con un discorso se voleva dire qualcosa di decente e capibile? E, soprattutto, perché quel tizio lì non la mandava a quel paese e se ne stava ancora lì? Probabilmente era interessato alla psicologia (e alle malattie che affliggono il sistema nervoso, come quelle che si combattono comprando piante in strada), se frequentava una come lei. A pensarci bene, però, la frequentava anche Tino. E anche Sesel. E nessuno dei due era particolarmente interessato alla psicologia…

   Devo avere un certo fascino. Sì, come no… questo è uno psicologo in erba. Scommetto che tra qualche anno me lo trovo tra i tizi in camice bianco che ti implorano di comprale quelle piante per salvare gente come me. Magari metteranno anche una mia foto.

   « Per caso vorresti fare lo psicologo in un prossimo futuro? »

   « Non lo so, non credo. ‘rchè ? »

   «Perché?» [Piccola spiegazione: la nostra cara, carissima Luk chiedeva “Perché?” riferendosi al “ ’rchè?” pronunciato prima da Berwald – che, come ben sapete, ha questa fama di pronunciare le parole smozzicate – , ma ovviamente non si è spiegata molto bene… no, per niente…]

   « Cosa? »

   « ’rchè! »

   « Ma cosa? »

   « Perché! »

   « Mi stai prendendo per il culo? »

   « ’rchè? »

   « Senti, devo andare. Arrivederci» Berwald si alzò, abbastanza seccato. Lui l’aiutava e lei si permetteva anche di prenderlo per i fondelli? No, non poteva perdere tempo con gente del genere. Luk si alzò insieme a lui, per chiarire il millesimo equivoco. «Credo di non essermi espressa al meglio… »

   Se solo ricevessi un centesimo ogni volta che sento questa formula… che poi precede altre frasi in cui non ti sarai comunque espressa al meglio eo altri sproloqui. Cielo, se non fosse per Tino…

   « Perché hai detto “’rchè”? »

   « Per lo stesso motivo per cui tu non sai pronunciare le consonanti dolci »

   « Ah, è l’accento! Scusa… »

   Ora mi lasci andare. Non si scusi, certe cose da lei me le aspetto.

   « e comunque ci devo lavorare, con la sk… e la k… »

   La sh e la ch. Shy isn’t sky…

   « Per rimediare… »

   Mi lascerai andare? Sì?

   « Perché non vieni a vedere quel torneo? Sembra divertente! »

   Oh, no. Sa, questo è un momento difficilissimo per me. È appena morto il ragno che viveva nell’angolo ovest della mia stanza e devo stare vicino a quello dell’angolo sud. Spero che lei capisca.

   Ovviamente Luk aveva sempre il suo asso nella manica, alias Tino. « A Tino piace giocare a Mario Kart… »

   Beh, il ragno si riprenderà.

   E così Berwald si convinse ad assistere alla gara. La palestra era gremita, ma erano in pochi i veri spettatori interessati alla sfida, accalcati accanto ai quattro “finalisti”, ossia l’americano, il giapponese (ovviamente. Chi poteva essere trai i finalisti di un torneo di videogiochi se non lui?), il maggiore dei fratelli Bielshmit e un australiano. L’ultimo doveva chiamarsi Richard Dawson. I suoi occhi castani guizzavano tra i quattro nomi delle corsie presenti sullo schermo: essendo stato estratto a sorte per la scelta di uno dei percorsi (perché ognuno dei partecipanti ne avrebbe scelto uno, evitando in questo modo di creare individui più avvantaggiati di altri) calcolava le sue probabilità di vittoria a seconda dei percorsi… il suo Tartosso se la sarebbe cavata meglio nel percorso di Mario o in quello di Luigi? O sarebbe stato meglio scegliere il castello di Bowser? Poi l’idea di scegliere le Cascate di Yoshi lo allettava, ma avrebbe avvantaggiato lo Yoshi del giapponese in quel modo… e intanto il tempo passava e gli occhi degli avversari si posavano pesantemente su di lui. Ma al gruppetto formato da Luk, Berwald, Tino, Sesel, Lily e Arthur (Manon era da qualche parte con il fratello) non importava più di tanto. Certo, ogni volta Luk alzava la testa per vedere come procedeva la sfida, ma niente di che. Stavano discutendo animatamente sullo spettacolo e lei era riuscita a non sproloquiare. Un momento memorabile. C’è da dire che neppure gli altri parlavano più di tanto, forse intimoriti dalla mole dell’altro regista.

   « Comunque dovremo pensare a chi potrebbe interpretare i fratelli più piccoli. » sbottò Berwlad.

   « Sì, ma il problema è trovare gente che abbia un visino innocente… signorina Zwingli, io avrei pensato a lei per recitare la parte di Willa… sembra così dolce! »

   La svizzera arrossì leggermente, lusingata dal complimento. « Ah, grazie… però dovrei chiedere a mio fratello… comunque puoi chiamarmi Lily… » Oh, giusto, suo fratello. Vash Zwingli. Quel tipo era basso quanto pericoloso. Per non parlare di come fosse protettivo nei confronti della sorella. Ed era anche tanto patriottico, motivo per il quale guardasse ogni cosa con una certa aria di superiorità, come a dire “in Svizzera è meglio”, cosa che lo accumunava con l’austriaco, Roderich Edelstein.

   « No, mi piace usare i toni formali! Fa tutto più professionale! » esclamò Luk, per poi essere interrotta dall’inglese. « Se vi serve ho anch’io un fratellino… a patto che ve la teniate per sempre, quella peste» sbuffò Arthur, cercando di non ricordare il momento in cui, pochi anni prima, Peter stesse per guardare un video su YouPorn. Avrebbe dovuto farglielo ingoiare, quel computer. Ci stava sempre appiccicato. “Arthur, cos’è questo?” “Arthur, gioca con meee!” “Arthur, ho appena comprato un bazooka su e-bay! Come faccio quando arriva a casa?” no, quella no, fortunatamente. Però le voci del ragazzino gli affollavano la mente come fantasmi, adesso che qualcuno aveva pensato a farglielo ricordare.

   « Quant’è piccolo tuo fratello? » chiese Luk.

   « Ha dodici anni, non sporca, fa il bravo, all’occorrenza può anche trascinare una slitta, quindi… »

   Pipaluk ci riflettè un po’. « Potrebbe andare bene, ma credo che sia troppo piccolo per far parte di una trama simile… ma d’altronde ormai i bambini di oggi sanno già tutto... »

   « Ah, con quel computer quello lì ne sa una in più del diavolo, tranquilla… »

   « Ma i tuoi devono essere d’accordo, parlagliene prima. » disse lo svedese.

   « Ve~, anche noi stiamo girando un film! » intervenne qualcuno da dietro. Aveva un accento italiano, ma non sembrava la voce di Lovino. Luk aveva sentito che avesse un fratello, anche lui frequentante del college, quindi decise di girarsi e attaccare bottone, anche se c’era un problema. La “visita” dell’italiano non era prevista, quindi c’era sempre il pericolo di cadere nello sproloquio. Ma lui non sembrava molto sveglio, quindi aveva qualche punto a suo vantaggio.

   « Oh, tu dovresti essere il fratello di Lovino Vargas, giusto? »

   « Sì, ve~ voi cosa state girando? Noi l’amico ritrovato! »

   « Bel libro. L’ho letto qualche anno fa. » intervenne Arthur. L’italiano si limitò ad annuire, per poi fissare Berwald, piuttosto intimorito. Lo svedese ricambiò lo sguardo e Vargas decise di smettere di fissarlo, per non cominciare a piangere: era davvero troppo spaventoso. Un po’ come il suo amico Ludwig. E gli somigliava anche.

   « Che maleducato, non mi sono ancora presentato! I-io mi chiamo Feliciano Vargas! »

   « E io Pipaluk Jensen! » si presentò Luk con aria solenne, stringendogli la mano.

   « Che nome è Pipaluk? » chiese Feliciano, con l’aria più innocente del mondo.

   « B-be’, è un nome groenlandese… c-conosci la Groenlandia, no? »

   « Mi pare… allora, Babbo Natale dovrebbe abitare in Finlandia, quindi… la Groenlandia ha qualcosa a che fare con la Danimarca? È una colonia? Se lo fosse potrebbe essere anche inglese? Quelli hanno colonie dappertutto e poi è vicina agli Stati Uniti… » Arthur si portò una mano sulla fronte in una rappresentazione magistrale di un facepalm. Fortunatamente intervenne un qualcosa, anzi, un qualcuno a salvare l’onore nazionale della piccola groenlandese, che non era riuscita a spiccicare parola, anche se nella testa le frullavano molte parole che non si sarebbero potute sentire nella tv groenlandese. « È vicina al Canada, a dir la verità… » intervenne una voce flebile proveniente da dietro. « La Groenlandia è diventata indipendente dalla Danimarca il  ventuno giugno del 2009… »

   « Chi l’ha detto? » all’improvviso l’italiano non aveva più importanza. Luk doveva scoprire chi fosse quel magnifico ragazzo così istruito su una Nazione importantissima come la Groenlandia, spesso troppo trascurata dalle carte geografiche. Era l’isola più  grande del mondo, accidenti! « Chiunque tu sia, ti adoro! »

   « Io? » fece il ragazzo biondo, alla quale apparteneva la vocina di prima, sbucato da chissà dove. Aveva i capelli mossi lunghi sino alle spalle e un paio di occhiali che gli nascondevano gli occhi blu. La groenlandese ricordava di aver visto un ricercatore in Groenlandia molto simile a lui, mentre parlava degli orsi e dei cani con suo padre. Il signore era cortese e aveva imparato anche un po’ di kalaallisut con il tempo, anche se parlava prevalentemente una lingua simile al danese per certi versi, ma che danese non era. Era restato a Nuuk per qualche mese, per poi far ritorno nel paese che lei chiamava Kananadah. L’accento e il fatto di non avere una pronuncia perfetta giocavano scherzi, a volte… per non parlare del fatto che avesse solo sei anni e nessuna conoscenza del mondo esterno. Fatto sta che crebbe e scoprì che esistevano molti altri paesi al di fuori del suo, tra cui un certo “Canada”. A scuola dovette anche imparare molte delle loro caratteristiche, tra le quali i climi, le capitali e i nomi… una fatica assurda. Il peggio fu quando scoprì che i nomi in kalaallisut non corrispondevano per nulla ai nomi “standard”. Naalagaaffeqatigiit ad esempio vuol dire “Stati Uniti d’America”.

   « Sei canadese? » chiese lei, quasi d’impulso.

  « Aap… » se gli occhi avessero potuto brillare quelli di Luk lo avrebbero fatto sicuramente in quell’occasione. Aveva imparato che conoscere la Groenlandia all’estero non era da tutti, figurarsi parlare il kalaallisut! Va bene, saper dire solamente un misero “sì” non era esattamente “saper parlare” una lingua, ma era il primo passo per iniziare a conoscerla. E in quell’istante Pipaluk decise che il canadese sarebbe stato il suo prossimo allievo di kalaallisut.

  IO TI ADORO!

  « Come ti chiami? Il mio nome è Pipaluk Jensen, ma tu puoi pure chiamarmi Luk, se ti va! »

  « Mi chiamo Matthew Williams… »

   « Come, scusa? »

   « Matthew Williams… » sospirò ancora una volta il canadese.

   « Matthew, eh? bel nome! Dove abiti, a Toronto? O a Vancouver? »

   « A Ottawa… »

   Parla poco…

   « Bello! Ci sono molte cose ad Ottawa? »

   « Tante cose quante ce ne potrebbero essere a Londra! » sbuffò il britannico, un po’ per orgoglio e un po’ per rientrare a far parte del discorso. Inutile puntualizzare che Luk lo fulminò con lo sguardo, anche se con risultati piuttosto scarsi. Insomma, quanto può essere spaventosa una piccola Inuit dalla faccia tonda?    

   « S-sì… ora devo andare, scusa… » il canadese si congedò in fretta e girò i tacchi, per sparire tra la folla. Luk avrebbe voluto trattenerlo, ma non le sembrava il caso. Avrebbe voluto tanto parlare ancora con lui… ma d’altronde aveva preparato la scaletta per discorrere del suo, pardon, del loro film, no?

   Alla fine il torneo fu vinto Kiku Honda e la troupe concluse ben poco, a parte il fatto che ogni membro avrebbe dovuto leggere il libro per evitare qualsivoglia brutta sorpresa. Arthur, proclamando la sua velocità nel leggere, fu il primo ad “affittarlo”. Subito dopo di lui ci sarebbe stata Lily, alquanto interessata alla trama del romanzo. Luk l’aveva sempre immaginata come una scolaretta modello timida e composta, ma si era dovuta ricredere: conosceva moltissime cose! E i lavori dovevano andare avanti… così passò una settimana, tra incontri, compiti e impegni vari, senza che Luk potesse pensare un po’ all’incontro con Matthew o senza che riuscisse ad incrociarlo: il ragazzo era bravo a volatilizzarsi, a quanto pare… o era semplicemente lei che non lo notava? Faceva quasi parte della tappezzeria della classe, quasi fosse stato un banco e una sedia. E il fatto che stesse sempre zitto non giocava certo a suo vantaggio. Insomma, un conto era un tipo rumoroso come Alfred, un conto era il tranquillo Matthew. A ben pensarci si assomigliavano molto di aspetto, ma dal punto di vista del carattere erano agli antipodi.

   « Secondo voi perché sta sempre zitto zitto? » si ritrovò a chiedere Luk, mentre attraversava il cortile insieme a Tino e Sesel.

   « Ehm… di chi stiamo parlando? » chiese ancora Sesel, fermandosi a pensare.

   « Credo… accidenti, ce l’ho sulla punta della lingua… M… Mat… Matthew? » tentò il finnico.

   « Sì, proprio lui! » fece Luk.

   « Probabilmente non… sarà timido, dai! E poi non sono tutti casinisti come te e il cameraman, ysätväni! »  

   « Ah, parla la ragazza! Con la a, eh! Proprio ragazza! Nanuk mi ha detto che oggi vorrebbe chiederti di metterti con » cinguettò Luk. Sesel strabuzzò gli occhi, ma mai quanto il finlandese, che sembrò voler arrivare a raggiungere il cielo, tanto erano arrivate in alto le sopracciglia per la sorpresa. « C-chi ti ha detto queste… assurdità?! » esclamò lui, piuttosto allarmato. Per ora Berwald si era solo limitato a fissarlo, anche se un giorno l’aveva sorpreso ad accarezzarlo, appena sveglio… che ricordi tremendi… avrebbe dovuto pensare a qualcos’altro per tranquillizzarsi… a Manon, oppure a Katya… oh, sì…

   « Avanti, dai! Ad ogni modo, posso fare la damigella? » Luk esibì uno sei suoi migliori sorrisi.

   « Oh, c’è un matrimonio? » chiese Sesel, improvvisamente interessata. « Voglio fare la damigella anche io, ma solo se mi farete vestire di azzurro! »

   « Potremo far trainare il cuscino con gli anelli da uno dei miei cani! E potremo organizzare qualcosa all’Ikea, no? »  

   « E ovviamente ci sarà tanto pesce nel menu! » Sesel sprizzava gioia da tutti i pori.

   « Sì, sì… tanto pesce… » sospirò Tino, sconsolato.

   Gwah!

Salve a tutti! Volevo informarvi che la mia fan fiction ha raggiunto ben 10 recensioni e, per quanto questo risultato a voi possa sembrare modesto, stupido e infantile, per me è un piccolo grande passo verso la conquista del mondo!                                                                                Ah, a scanso di equivoci vorrei spiegare che Manon sarebbe il nome umano per Belgio (nome scelto dai fan che ho deciso di adottare) e Katya quello di Ucraina (sempre scelto dai fan… ho trovato anche il nome intero che dovrebbe essere Yekaterina, ma ho preferito questo) – a proposito, ho deciso di appellare (?) Monaco Charlotte Bonnefoy e mi scuso se per alcunie rappresentanti di stati minuscoli fratellisorelle di stati più importanti abbia donato la nazionalità di questi ultimi paesi. Dunque-dunque, oggi abbiamo fatto conoscenza con un personaggio che, se la sorte non mi sarà avversa, molto probabilmente avrà un ruolo rilevante nella storia, ossia… *indica un canadese a caso* come mai saprà tutte queste cose sulla Groenlandia? Lo scoprirete solo nelle prossime puntate! x°D a proposito, devo dire che però il discorso di Feli non è puramente inventato: quasi ogni persona alla quale ho fatto la domanda del tipo “Ehi, sai cos’è la Groenlandia?” mi ha risposto con cose del tipo “Sì, una provincia della Danimarca”, “No, ma è sicuramente una colonia di qualcuno sperduta nei mari del sud” [Cielo. °_° sempre per questa persona il Canada si trova in America del SUD D:], “Ma Babbo Natale non viveva in Finlandia?” oppure “PINGUINI!” ß tutto ciò è accaduto davvero, purtroppo… Povera Luk! x°D la nostra cara Groenlandia è davvero diventata indipendente nella data del 21 Giugno 2009 (dopo 300 anni di dipendenza dalla Danimarca!), anche se il processo per esserlo “completamente” sarà un po’ più lungo e durerà circa 20 o 30 anni… ma adesso basta con le lezioni di storia perché annoiano alquanto anche me, ergo voglio ringraziare come sempre chi leggerà e recensirà (spero che facciate entrambe le cose!) e in particolare voglio dedicare la storia a due nuove recensitrici (si dice davvero recensitrici? °^°), ossia happylight e nena92 :D e ovviamente alla carissima Cosmopolita che mi segue dall’inizio dei tempi puntuale come un orologio svizzero! Spero vivamente che continuiate a seguirmi e che il capitolo vi sia piaciuto (ma anche no .__.)! Adesso non so più cosa scrivere, quindi vi do appuntamento al prossimo capitolo, tra 6-7 giorni! :) bye!

P.S: Per il “mini-monologo interiore” su Mario Kart ho dato fondo a tutta la mia esperienza x°D

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Fate, tonni e Palle di Luce ***


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Chapter n°5: Fate, tonni e palle di luce

   « Come sei bravo! Davvero! » esclamò Luk con gli occhi spalancati davanti allo schermo del computer, sporgendosi da dietro le spalle dell’estone, intento a modificare un’immagine con Photoshop. « Io te l’avevo detto che è un genio! » fece Tino, gonfio d’orgoglio per l’amico, mentre si sporgeva per fissare il cursore che si muoveva da un lato all’altro dello schermo, cliccando icone e strumenti, aggiungendo effetti, modificando i colori… tutto ciò era svolto con una tale maestria da sembrare un movimento del tutto naturale. E pure Eduard era orgoglioso del suo lavoro, anche se, ovviamente, non lo dava a vedere, a parte per quel sorriso appena accennato. Mentre Eduard trafficava con i pennelli Luk si soffermò sul lavoro grafico, ormai quasi completo. Il colore dello sfondo era nero, ma si potevano notare dei riflessi di luce e alcune citazioni del libro in trasparenza mentre nel mezzo c’era il cuore formato dal filo spinato, l’immagine della copertina. Era semplice, delicato e, nel contempo, forte. Proprio come il libro, proprio come lo stile di scrittura di Thabitha Suzuma. Insomma, era perfetto.

    « Allora, » cominciò l’estone, girandosi dalla parte del finnico e della groenlandese  « vi sta piacendo? » 

   « Sì, è bellissimo! » fece lei, con gli occhi sgranati, per poi porgergli una chiavetta USB. « Vedi, se la salvassi qui la potrei far vedere anche a Nanuk. » Eduard fissò Tino in cerca di una spiegazione e il finnico sputò un “Berwald” fra i denti. Allora l’estone prese delicatamente la chiavetta, la inserì nell’uscita USB e, con qualche click, vi salvò il logo all’interno. Infine la estrasse e la porse nelle mani di Luk, che lo fissò estasiata. « Ragazzo, tu non dovresti essere qui… guarda che il MIT è dietro l’angolo! » lui e  sorrise: « Dai, ho solo salvato un’immagine nella chiavetta… niente di che! »

    « Come vuoi, ma quando soppianterai Bill Gates ricordati di Luk! » esclamò infine lei, ridendo.

« A proposito, Luk… hai presente la ricerca di gruppo che dovremo fare per dopodomani… ? » chiese il finlandese. Lei annuì, ricordandosi il compito assegnato dalla professoressa di letteratura, ossia la signorina May Boulevard: un metro e settanta di pura follia. Lunatica come il clima in montagna, amava in particolare la letteratura antica e quella incentrata su figure mitologiche e animali. Aveva dei grandi occhi verdi e capelli biondo cenere che le arrivavano quasi al bacino, nonostante li legasse spesso in una lunga e setosa coda di cavallo. Non potendo usare vestiti troppo appariscenti in un ambiente qual era il collegio, si accontentava di sovrapporre un foulard fucsia sulla giacca di un marrone spento, lasciata quasi sempre sbottonata per mostrare una camicia bianca, quasi a voler far contrasto con gonna e scarpe nere. Nonostante non avesse tutto questo gran gusto nel vestire era simpatica e sapeva coinvolgere i ragazzi nelle lezioni (ed era sempre la prima a voler accompagnare i ragazzi in giro per Londra per visitare musei o, più semplicemente, per comprare souvenirs e fare shopping!). Una delle sue doti, purtroppo, era quella di assegnare compiti piuttosto “fantasiosi” della serie “inventa una chanson francese medioevale”. Con la ricerca sulle “leggende antiche di popolazioni ai confini del mondo” però era riuscita ad assegnare qualcosa di più “normale”, fortunatamente. « Volete che vi racconti una storia degli Inuit della Groenlandia? » chiese eccitatissima, con gli occhi sgranati e la faccia a pochi centimetri dal naso di Eduard, che si spostò un po’ più indietro, accennando un “se non ti è di troppo disturbo…” no che non le era di troppo disturbo, anzi. Le storie del suo paese erano le più belle che avesse mai ascoltato e non avevano niente da invidiare a quelle dei fratelli Grimm o di Andersen. Andersen, esatto. Suo padre l’aveva imbottita di roba del tipo “La Sirenetta” fin dalla nascita, mentre la madre le aveva sussurrato i racconti e le leggende del suo popolo… lei aveva apprezzato tutti e due i tipi di racconti, ma da quando aveva sentito che il patrimonio culturale degli Inuit (della Groenlandia e in generale) stava pian piano scomparendo aveva fatto di tutto per ricordare quelle storie, chiedendosi perché milioni di persone osannassero le fiabe danesi e perché nessuno pensasse a quelle Inuit. Forse perché queste ultime a volte raccontavano solo il perché delle cose e si preferiva che i bambini crescessero pensando che fosse stato un dio a creare tutto. Forse perché il suo popolo non va certo dietro alle telecamere e non scrive libri. Forse per semplice sfortuna. Sta di fatto che lei non le avrebbe mai dimenticate, anche se a volte la memoria della mamma faceva cilecca e certi racconti della sua infanzia rimanevano senza un finale, perduti per sempre. Infatti sua madre, diventata adulta, aveva deciso di convertirsi al “progresso” ed era emigrata in Danimarca, dove aveva conosciuto il padre di Luk, appassionato di corse con i cani e paesi freddi. Così si erano sposati e lei era tornata nella sua terra accompagnata dal consorte (e da un bel po’ di cani). In quel momento, però, non c’era tempo per i ricordi: doveva assolutamente raccontare una bella storia. Anzi, non bella, bellissima…

   « Lasciate che vi racconti la storia del corvo e della palla di luce… beh, allora… quando la Terra era appena nata… »

Molto tempo fa, risalendo dalle acque che coprivano tutto il mondo, era sempre buio nel mondo degli Inuit.
E gli Inuit avevano molta paura del buio, perché non si accorgevano dell'arrivo di Nanuk, l'orso bianco, che li assaliva silenzioso prima che potessero accorgersi del suo arrivo.
Molti degli antenati erano morti così, fra la disperazione delle donne e il pianto dei figli rimasti orfani senza più chi cacciasse per loro e li sfamasse.
Ma un giorno volò sul mondo degli Inuit un vecchio Corvo che, fermandosi per riposare perché era molto, molto vecchio e stanco, si stupì di quella notte continua, e tanto per passare il tempo, mentre era fermo raccontò loro che in altri luoghi vi erano molte giornate luminose, e per dare un'idea spiegò che quella luminosità era pari alla luce di migliaia e migliaia di lampade di grasso accese, e che grazie a quella luce si poteva vedere lontano, e scorgere le slitte che tornavano dalla caccia ancor prima di udire l'abbaiare dei cani....

Fu così che gli Inuit iniziarono a chieder al vecchio Corvo di andare, per cortesia, a prendere per loro la luce di quelle mille lampade, e portargliela, ma il Corvo titubava, non voleva andare.
Sono troppo stanco, diceva, e la luce è molto, molto lontana.
Ma alla fine, vedendo la misera vita che quella gente conduceva nel buio assoluto si impietosì, e partì alla ricerca della Luce.

Volò per giorni e giorni fino a che, oramai al limite delle forze, proprio nel momento in cui stava per decidere di tornare indietro scorse, lontano sull'orizzonte, un fievole bagliore.
Era la Luce!
Mano a mano che si avvicinava, il bagliore diveniva sempre più forte fino a che si trovò a volare nel giorno pieno, e allora capì di essere finalmente arrivato nel paese della Luce.
Esausto, si fermò a riposare su di un albero, vicino ad un ruscello, ed iniziò a pensare a qualche stratagemma per prendere la Luce e portarla agli Inuit.
In quel momento, una bambina, vestita con un mantello di pelliccia bianco come la neve che avvolgeva tutto il paesaggio, si avvicinò al ruscello ad attingere acqua. Il Corvo, che era abile nei travestimenti, mutò allora il proprio aspetto in quello di un granello di polvere e andò a nascondersi fra le setole del mantello, cosicché, quando la bambina rientrò a casa, senza accorgersene lo portò con sé.

Dentro la casa regnava un caldo tepore.
Una donna stava cucendo una pelliccia, e, in un angolo, il vecchio capo del villaggio si scaldava al fuoco. Il nipote, un piccolo bambino infagottato in una lucida pelliccia di foca, stava giocando sul pavimento con delle statuine di osso.
Il Corvo, che aveva a quel punto già preparato il suo piano, sempre mantenendo l'aspetto di un granello di polvere gli volò nell'orecchio e iniziò a fargli il solletico.

Il bambino incominciò a piangere.
Perché piangi? gli chiese il nonno, dispiaciuto della improvvisa angoscia che aveva assalito il nipotino.
Digli che vuoi giocare con una Palla di Luce, gli bisbigliò il Corvo in un orecchio.
Perché voglio giocare con una Palla di Luce, piagnucolò il nipote.
Il nonno allora andò a pendere la scatola dove teneva le Palle della Luce, ne prese una, piccola piccola, la legò con uno spago, e la diede al nipote affinché vi giocasse.

Il granello solleticò ancora l'orecchio del bambino, che riprese a piangere, ancora più angosciato.
Perché piangi?, chiese ancora il nonno, che come tutti i nonni voleva che il nipote fosse felice.
Digli che vuoi andare a giocare con la Palla di Luce fuori di casa, suggerì il Corvo.
Allora il nonno aprì la porta di casa, e accompagnò il bambino sul terreno innevato davanti alla casa, poi tornò dentro a riscaldarsi davanti al fuoco, perché fuori era molto freddo.

Come il bambino rimase solo, il granello di polvere si tramutò in Corvo, estrasse i suoi artigli e tagliò lo spago che legava la Palla di Luce. Prese la Palla di Luce e volò via verso la terra degli Inuit....

... sentendo lo sbattere delle ali nell'aria, tutti gli Inuit corsero fuori dalle le loro case e rimasero un po' delusi, perché il Corvo ritornava, ma era sempre buio.
Ma appena arrivato sopra il villaggio, il Corvo lasciò cadere a terra la Palla di Luce, che si infranse in mille piccoli pezzi, e liberò la Luce che racchiudeva.
La Luce affrontò la Notte, combatté con lei, la vinse e la scacciò.
Su tutta la Terra dilagò allora il Giorno. Che meraviglia!
Ora gli Inuit potevano vedere lontano.
... guarda le montagne, laggiù, come sono belle!
... e il cielo, come è azzurro!
... potremo finalmente vedere Nanuk arrivare!
... e cacciare tante ore ogni giorno, e andare a pescare più lontano, e cercare mari più pescosi!

Ringraziarono il Corvo ma lui, dopo aver visto quella felicità, era rimasto rattristito per non essere riuscito a portare una Palla di Luce più grande.
Ho potuto portare solo una piccola Palla di Luce, si scusò, così potrete avere luce solo per metà dell'anno...
Ma gli Inuit, che non sono ingordi e sanno accontentarsi di quel poco che hanno, risposero:
ma noi siamo felici lo stesso. A noi basta avere luce per metà dell'anno, prima era buio tutto l'anno!

   « È davvero bellissima, ysätväni! »

   « Grazie! E… e se chiedessimo a Sesel e a Na-… Berwald di partecipare? Oh… temo di essere in ritardo…! » fece Luk,  portandosi una mano sulla fronte. « Avevo detto agli altri di vederci in cortile alle cinque… che ore sono? »  

    Tino si controllò l’orologio. « Le cinque e… e due. Corri che sei ancora in tempo! »  

    La groenlandese si congedò con un “takuss” e cominciò a correre a rotta di collo verso il cortile esterno, maledicendo il fatto di non portarsi una sveglia sempre appresso. Improvvisamente si ricordò della possibilità di inserire una sveglia nel telefonino e le sue maledizioni interiori aumentarono d’intensità. Si fermò in mezzo alle scale per spostarsi un ciuffo di capelli dagli occhi; accidenti, doveva avere un aspetto davvero pessimo dopo ben tre minuti e quarantacinque di corsa! Non avendo uno specchio a portata di mano (e non volendo averlo per la paura di guardare il suo riflesso in quello stato) decise che avrebbe camminato pianissimo e in modo regale, proprio come l’austriaco sul pianerottolo sottostante… ma no, era in ritardo! In un ritardo schifoso! Sospirò e continuò a correre, beccandosi un’altra maledizione mentale, ma da parte del ragazzo elegante sull’altro pianerottolo. Dopo altri tre minuti giunse finalmente nel cortile, accolta da una sferzata di vento gelido. Non ci badò e cerco la sua troupe con lo sguardo, riuscendo a identificare solo un gruppetto di ragazzi riuniti attorno ad un albero, in un angolo. Li raggiunse e si scusò mille volte per il ritardo. C’erano Lily, Manon, Arthur, Sesel e Kiku. Nessuna traccia di Berwald.

   « Gomen, » iniziò il nipponico, abbassando il capo come a voler chiedere perdono. Perdono di cosa? « non me la sento di recitare… nella parte di Lochan, intendo…»

   « Ok… » sospirò Luk, tendendogli la mano. « Sarebbe comunque un piacere collaborare con lei, sempre che non abbia altri impegni, ovvio! » Kiku le strinse la mano. Perché parlava in quel modo « Quindi… quanti giorni sono passati da quando ho prestato il libro ad Arthur? Forse cinque? Insomma, avete già letto tutti il libro? Siete veloci! »

   « Sì, tutti tranne il cameraman… ho appena scoperto con disappunto che sta collaborando anche lui… » iniziò Arthur, sbuffando e mandando un’occhiata sprezzante alla sagoma bionda che si avvicinava, guadagnando sempre più terreno. Guardando bene, c’era un’altra sagoma che si avvicinava, anch’essa bionda. « Scommetto che non lo capirebbe neppure. Ah, guardalo, si sta avvicinando. »

   « Ehi, ho portato l’altro regista! » fece l’americano, appena arrivato, indicando la sagoma in avvicinamento.

  « Salve a tutti. » fece lo svedese, appena arrivato, mietendo già qualche vittima, con il suo sguardo di ghiaccio. « Avrei voluto portare Tino, ma era impegnato… sai, la ricerca… »   

   Sì, la ricerca… alla ricerca di starti lontano… povero Nanuk…

   « Allora, come diavolo facciamo ad effettuare le riprese senza una cacchio di videocamera? » esclamò irritato l’inglese, per poi essere interrotto da Alfred, che provvide a scompigliargli i capelli. « NON MI TOCCARE! » l’inglese era letteralmente esploso nel tentativo di allontanare le manacce di quello schifoso yankee dai suoi capelli. Gli altri del cast rimasero interdetti, fissando la scena: l’americano ridacchiava e il britannico era sul procinto di strozzarlo.

   Ah, ci sono scintille fra il cameraman e l’attore, sembra il set di un vero film!

   « Avanti, smettetela… » tentò Lily.  

   « Tu non ti rendi minimamente conto di quel che ha fatto questo dannato yankee! Mi sono appena lavato i capelli e questo qui si permette di toccarmi con quelle schifose manacce unte! »

   « Ehi, ti ricordo che il modo in cui mi hai chiamat- » iniziò Alfred, piuttosto irritato.    

« Sentite, se volete litigare quella è la porta, – cominciò lo svedese – in caso contrario finitela, perché io non ho tempo da perdere. »   

   « E neppure io, eh. » aggiunse Luk, in tono importante.  « … è un rafforzativo… »   

   Fu così che iniziarono le riprese-senza-videocamera. Luk preferiva pensare che fosse stato il suo “rafforzativo” a far filare tutto liscio come l’olio, anche se si riteneva fortunata ad avere un amichetto dallo sguardo di ghiaccio. Un amichetto intelligente che le fece anche notare che stavano solo perdendo tempo senza usare la videocamera. La groenlandese annuì solennemente e passò un buon minuto ad osservare Manon, Alfred, Lily, Arthur e Sesel… oh, Kiku se n’era andato. Pazienza. Mancava ancora qualche attore e… e che… e che diavolo faceva Sesel in un angolino a fissare il britannico con sguardo sognante, con tanto di guance che pian piano diventavano sempre più purpuree, dato che l’inglese, sentendosi osservato, si girava di scatto e poi fissava un punto indefinito sul muro sul quale lei si era appoggiata. In quel momento le venne in mente un’idea, un’ideona. Fissò l’altro regista ammiccando.

   « Ehi, Nanuk, stai pensando a quel che penso io? »

   « Cielo, no… » sbuffò l’altro.

   « Allora ti spiego io! Hai visto Arthur e Sesel? » chiese lei, ammiccando e indicando un punto imprecisato nel bel mezzo del cortile. « Se non l’hai fatto guardali adesso! »

   « M-mh? E allora? » fece lui, dopo aver dato una rapida occhiata ai due individui prescelti. « Cosa vuoi fare? »

   « Cosa ti ispirano? »

   « A cosa vuoi arrivare? »

   « Noi, e con noi intendo tutti tranne loro due, dovremo andare via di qui in modo che restino soli! Ah-ah! Adesso capisci a cosa voglio fare? » chiese Luk, battendo le mai. Lo svedese annuì. Pipaluk si schiarì la gola, per poi urlare “squadra” a pieni polmoni e avvicinarsi agli altri ragazzi. « Allora, » cominciò « ho notato che il tempo atmosferico è perfetto per la scena finale, quindi non vorrei sprecare quest’occasione per girarla… ebbene,  il signor Jones, le signorine Lily e Manon e, ovviamente, Mr. Oxenstierna, sono pregati di seguirmi! Dobbiamo prendere un paio di sedie, roba varia per la scenografia, il gatto morto e, ovviamente, la videocamera! »

   « C-che cosa c’entra un gatto morto? » chiese allarmata Sesel, rabbrividendo all’idea di un gatto morto. Da quando in qua per girare un film servivano certe cose? Arthur provvide a spiegarle che il gatto morto era semplicemente il nome del microfono nel gergo del cinema. La ragazza tirò un sospiro di sollievo e poi domandò come mai Luk non avesse nominato anche loro due per seguirli. Luk rispose con un sibillino “dovete difendere il territorio” e poi scomparve seguita dagli altri della troupe, con l’aria sorpresa quasi quanto i due rimasti nel cortile.

   « Ehm… allora… oggi è nuvoloso, eh? » osservò Arthur fissando il cielo grigio, per poi indicare una nuvola nel bel mezzo del cielo. « Quella… per me assomiglia ad una fata! »

   « A me invece sembra un tonno! » esclamò lei, indicandola.

   « Sì, in effetti… tonni e fate si somigliano un po’ da lontano, no? » fece lui, lievemente imbarazzato: possibile che non sapesse distinguere una fata da un tonno? E possibile che queste due creature si assomigliassero? Si stava rimbambendo? « Aspetta, le fate ed i tonni sono due cose completamente diverse! » si apprestò ad appuntare, mandando la ragazza leggeremente in confusione.

   « No, hanno un sacco di cose in comune! Insomma: le fate sono creature magiche e… vuoi mettere un paio di fatine con la magia della pesca? » affermò Sesel, incrociando le braccia e continuando a fissare il cielo. Era così presa dal difendere “la magia della pesca” che si era perfino dimenticata di arrossire. Poco male, no?

   « Se sposti lo sguardo su quella… be’, quella sembra proprio una fata, altro che tonni! » sbottò Arthur, indicando un punto alla sua sinistra. Sesel, senza muovere un muscolo, tenne lo sguardo fisso sul tonno.

   Perché è un tonno, ovvio.

   Arthur sbuffò, pensando ad un modo per far valere la sua teoria, un modo per farle spostare quell’adorabile testolina. No, no, testolina e basta. Anzi, testaccia. Non si può confondere una fata con un pesce.

   Perché è una fata, ovvio.

   Almeno quell’altra nuvola potrebbe convincerla… se solo la guardasse! E infatti lei vorrebbe, se non fosse per un peso che le sovrasta il cuore e che le impedisce quasi di respirare: se si girerà diventerà sicuramente color porpora e una figura del genere con un tizio che non sa neppure distinguere le fate dai tonni non la vuole proprio fare. E pensare che solo qualche ora fa avrebbe pagato per starci un po’ insieme, da soli… oh, ecco che la porpora comincia a salire… dove diavolo si era cacciata quella sciroccata di Luk?

   Perché questa è un’idea sua, ovvio.

Note

Toh, quanto tempo è passato? Nove giorni? Dieci? E pensare che io, piena di buone intenzioni, avevo scritto “tra 6-7 giorni”! Be’, probabilmente non avevo tenuto conto della voglia dei miei prof di organizzare almeno tre compiti in classe… ma, finalmente, è finita e ho potuto aggiornare per la vostra giUoia (ma anche no, ahr ahr!) ! :D A proposito, per intenderci il “gatto morto” nominato da Luk è quel microfono grande e peloso posizionato su di un’asta che si mette sopra agli attori… sì, non saprei spiegarlo bene… però è quello! ^A^ La leggenda invece l’ho trovata girando per il web e devo dire che è piaciuta molto anche a me! :) Sì, beh… questo capitolo è… boh, lascio giudicare a voi! E dal prossimo comincia l’azione, eh, promesso! Vorrei scrivere di più, ma devo proprio andare, anzi, no! Ringrazio di cuore Cosmopolita e happy light che continuano a seguirmi <3 e… ehm… chi arriverà a leggere fin qui riceverà una caramella al gusto di cammello! :D *fugge perché è in ritardo pazzesco*

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - La cattiva influenza di una pseudo-maniaca ***


One

Chapter n°6: La cattiva influenza di una pseudo-maniaca

   « Ehi, siamo tornati~ » esordì Luk, stringendo tra le mani un rotolo enorme di carta grigia, una matita e, ovviamente, il mucchio. Aspettandosi tutt’altro – accidenti, dove diavolo era finito l’amore? – , trovò i due ragazzi-possibili-amanti che si rivolgevano entrambi le spalle, per bofonchiare “fata” o “tonno” ogni tanto. Tutto ciò non aveva senso. E se era lei a pensare che non avesse senso… be’, la cosa era grave. Mentre pensava ad un motivo valente per collegare le fate con i tonni Sesel, sbuffando, spiegò l’accaduto: « Quella nuvola è ovviamente un tonno, ma lui continua a dire che è una fata. »

   Ah… sono stata io a rovinare questa povera ragazza! I tonni! Le fate! Oh, no…

   Nell’intento di perdonarsi un gesto tanto orribile qual era stato quello di aver portato quella bravissima & adorabilissima fanciulla che era Sesel alla pura follia, Luk fissava il cielo: non c’era nessun tonno e nessuna fata, soltanto nuvole. Cosa avevano mangiato quei due per colazione? Whisky?

   L’ho anche portata anche all’alcolismo! Semmai mi reincarnerò in qualcosa diventerò un batterio intestinale, di questo passo!

   No, non c’era tempo per piangersi addosso: era giunto il tempo delle risprese, si doveva l-a-v-o-r-a-r-e! La groenlandese provò a far uscire fuori l’aria autoritaria che usava per farsi obbedire dai cani. « Io vedo solo nuvole! » sentenziò, fissando i due. « E adesso fatemi il piacere di alzarvi, perché dobbiamo lavorare sodo! » si sentiva soddisfatta del risultato, ma d’altronde si può sempre migliorare, giusto?

   Ha detto “dobbiamo lavorare sodo”… lo ha detto lei! Deve essere la mia cattiva influenza. Ah, l’ho rovinata…

   E così le riprese iniziarono per davvero. Pipaluk accantonò (fino a nuovo avviso del capo e, visto che il capo dell’Impresa Cupido era lei, fino a quando non le sarebbe ritornata la voglia, ossia per qualche ora) il suo ruolo di “Cupido”. Montò l’attrezzatura insieme a tutti gli altri e, visto che si sentiva inutile a star seduta su di una sedia, decise di seguire il cameraman, incitare gli attori, saltellare da una parte all’altra felice come una Pasqua e canticchiare, con il suo inseparabile mucchio sottobraccio e l’altro regista al massimo a quattro metri di distanza. In poche parole era nella sua fase operativa-euforica; una combinazione niente male per una tipa che di solito divaga appena sente… ehm… qualsiasi cosa.

   All’improvviso qualcosa – anzi, qualcuno – le picchiettò con le dita sulla spalla per attirare la sua attenzione. Si girò fischiettando, ma appena lo vide il suo “firulì” diventò qualcosa di molto simile al suono che fa Willy il Coyote quando il roadrunner lo fa cadere per l’ennesima volta giù da un burrone, ma senza il suono del tonfo finale. Strabuzzò gli occhi, incapace di pensare che in una personcina tanto piccina potesse albergare tanta rabbia. Il nefasto sentimento traboccava dagli occhi verde smeraldo con l’intento di fulminarla, colpirla in un qualsiasi modo o farla stramazzare a terra morta. In quel preciso istante la regista realizzò che, probabilmente, in Svizzera il verde era il colore dell’ira.

   « Ora tu mi dirai dove hai nascosto Lily, perché diavolo sparisce sempre e perché ogni volta centri tu. » sibilò. Faceva paura, ma era minuscolo. Un po’ come i ragni… eppure Luk non potè non fare a meno di sorridere – oh, che carino he era a preoccuparsi per la sua sorellina! – , chiamando Lily a gran voce. Ok, la sua “gran voce” era un qualcosa di simile all’urlo di un micetto, ma ci stava lavorando.

   « Lily, tuo fratello ti sta cercando! Oh, non è una cosa stupenda il fatto che ti voglia bene? » Adesso stava usando la sua voce adorabile, che spesso aveva l’esito di farla mandare a quel paese da qualcuno. Lo svizzero però stava pensando a cose ben peggiori… quella tizia in quel momento simboleggiava il demonio in persona. Non si poteva rapire Lily in quel modo, no, no e poi no. Quando lui, Vash Zwingli, avrebbe guadagnato il suo bravo posto come ispettore alla dogana e quando lei avrebbe cercato asilo nella terra dei sogni qual era quel mitico paese di nome Svizzera – perché lo avrebbe fatto, ne era profondamente convinto. Lo fanno tutti prima o poi! – lui non l’avrebbe mai e poi mai fatta passare. I tipi come lei sono banditi dalla Svizzera e se non lo sono ancora lo saranno presto. E pur avendo la stessa età di Lily aveva l’aria da maniaca, pedofila e rapitrice. Insomma, Aveva rapito sua sorella.

   « Non. Toccare. Mia. Sorella. » i pugni, chiusi per il nervosismo, gli pulsavano per il desiderio di fare qualsiasi (terribile) cosa potesse essere concepibile dalla mente umana.

   « Oh, ma noi ci stiamo divertendo! » esclamò Luk, sorridente. Mai esclamazione fu più sbagliata. La groenlandese aveva già intuito che l’altro Zwingli moriva dalla voglia di darle un pugno, strozzarla, eccetera e… e lei non riusciva ad allentare la tensione, anzi, se n’era uscita con una delle tante affermazioni che potevano essere benissimo fraintese dalla gente maliziosa e dalla gente arrabbiata-e-convinta-che-lei-avesse-rapito-la-propria-sorellina.

   « LILY! Non frequentare questa… questa qui un minuto di più, per favore! Potresti pentirtene! »

   Berwald, che intanto si era avvicinato insieme al resto della troupe, alzò gli occhi e al cielo: Parole sante… intanto i due svizzeri si stavano già allontanando, per poi sparire nell’ingresso. Pipaluk riuscì a raggiungerli e tentò di immobilizzare il ragazzo, afferrandogli la manica della giacca. Ovviamente evitò di tirargliela, per evitare di romperla e quindi ulteriori problemi…

   « Ma Lily è così brava… e poi, giuro… » si toccò il petto con la mano destra aperta, a mo’ di giuramento, per poi riprendere il discorso: « … giuro che non svolgiamo alcuna attività scabrosa! » lo disse abbastanza forte da permettere ad un tizio dai tratti asiatici che camminava a pochi metri da loro di sentirlo, per poi cambiare strategicamente direzione. Tanto forte che Arthur esibì un facepalm magistrale. Tanto forte che Alfred scoppiò a ridere da solo. Tanto forte da farlo percepire da una ragazza sul pianerottolo delle scale che, da quel momento in poi, decise di seguire la scena con maggiore attenzione, fingendo di leggere molto attentamente il manga che teneva tra le mani: uno yaoi. Resistette alla tentazione di continuare la lettura, tenendo il segno dell’ultima pagina letta con in dito indice e nascondendo abilmente il disegno in copertina con l’altra mano, infine prese a fissare attentamente i tre tipi con nonchalance: la biondina sembrava davvero in imbarazzo, la mora aveva appena terminato di pronunciare le parole del giuramento e il biondo resisteva a fatica alla tentazione di strozzarla. Gli unici dettagli che potevano saltare all’occhio erano il fatto che i due biondi fossero pressoché identici – era il ragazzo ad essere il genderbend della ragazza o viceversa? – e che tutti e tre fossero incredibilmente, irrimediabilmente, terribilmente bassi. Se non sbagliava i due tipi biondi erano due fratelli svizzeri. Eppure aveva sentito che il latte delle mucche svizzere è uno dei migliori, uno di quelli che fanno crescere meglio i bambini, facendoli diventare alti… l’altra invece aveva dei caratteri asiatici, ma diversi da quel giapponese introverso e schivo che aveva visto più volte – e che le aveva consigliato un sito fantastico per vedere i suo anime preferiti… gli doveva un favore! – insomma, sembrava qualcosa come… tipo… mongola? Però non aveva il naso schiacciato, anzi, era lungo un po’ come quelli dei nativi americani… chi diavolo potevano essere i suoi genitori?

   « Sì, dicono tutti così – sbraitò il ragazzo – … prima di andare in prigione! Lily, muoviamoci… »

   « Un momento, dalle almeno la possibilità di far parlare la diretta interessata che, in questo momento, mi sembra proprio Lily! » sentenziò Luk con tono solenne, guardando la piccola svizzera. La ragazza era nel panico: sapeva che Vash si stava seriamente (e inutilmente) preoccupando per lei e non voleva contraddirlo, ma… ma loro non stavano facendo niente di male! E se poi il suo fratellone si offendesse? E se… e se anche gli altri della troupe si offendessero? Alla fine prese tutto il coraggio che quel suo corpicino minuto poteva contenere e parlò: « Vash, non vorrei essere scortese, ma vedi… credo che tu abbia frainteso… noi stiamo recitando per... »

   « … un porno, no? Guarda che non sono mica scemo, eh! Si vede dalla faccia di questa qui che è una maniaca! » la ragazza con il manga in mano esaminò ancora una volta il viso della piccoletta: non le sembrava una faccia da maniaca, ma avrebbe indagato. In fondo, di solito i cattivi dei film sono piccoli e insospettabili… all’improvviso una mano dal tocco leggero le fece scrollare la spalla. Subito dopo la stessa mano afferrò il suo volumetto e fece in modo che gli occhi verdi del medesimo proprietario potessero guardare per qualche istante le figure, luccicando maliziosi. « Ehi, Eliza, sempre con questi cosi in mano! Cioè, però non posso non dire che tu non abbia un certo gusto, tipo! » Oh, era Feliks. E dato che Feliks era praticamente onnisciente perché non chiedergli qualcosa al riguardo della mongola-nativa americana-tappa? Non dovette neppure chiedere che il polacco si mise a parlare a macchinetta, inserendo qualche decina (di miliardi) di “cioè”, “tipo” e “totalmente”. In soli due minuti venne a conoscenza che quella là veniva dalla Groenlandia – che scoprì essere una pseudo-nazione, qualcosa come Taiwan – , aveva un nome strano e che stava girando un film – non un porno, però – insieme a tutta la piccola folla che poteva scorgere a fatica fuori dal portone e, soprattutto, insieme a quel bestione biondo, che poi era quello al quale piaceva Tino. Oh, secondo alcune fonti stava provando ad avvicinarli… e… già, le mancava ancora qualche attore o attrice, anche se era riuscita a trovare quasi tutti quelli per i personaggi principali, il tipo per il montaggio e il cameraman. Il polacco aggiunse che gli sarebbe, tipo, piaciuto un sacco recitare la parte di una ragazza perché sarebbe stato totalmente fantastico.

   « Feliks, ma perché adesso sembra che Zwingli sia in procinto di strozzarla? » chiese ancora lei, riacciuffando il suo manga e aspettandosi una risposta illuminante dall’amico che, però, sbuffò un “sai com’è quello con la sorella” e tentò di riprendere il fumetto. « Mollalo! Devo ancora finirlo! »

   « Mmh, come vuoi, züllött! »

   « A parte il fatto che la tua pronuncia dell’ungherese è pessima… scappa finché sei in tempo! » esclamò l’ungherese, roteando un pugno per far intendere bene le idee che le frullavano in testa e tradendo un sorriso e delle risatine. Il polacco, per tutta risposta, esibì una linguaccia e poi trotterellò verso il piano superiore, emettendo qualche gridolino spaventato. Certo che con un’uniforme femminile avrebbe confuso chiunque…  peccato che il regolamento del collegio non lo permettesse, perché lui si sarebbe sicuramente divertito un mondo a confondere le idee agli altri ragazzi per poi rispondere con la sua voce – che non era proprio profonda, ma comunque piuttosto maschile :  “Sono già occupato!”. E poi, con dei vestiti da ragazza, nessuno lo avrebbe guardato storto (ahimè, gente così ce n’è ancora!) quando faceva la civetta – o “il civetto”? – con Toris. Per non parlare di quando si baciavano… mmh, si stava perdendo nei suoi pensieri: doveva assolutamente fissare i tappi che si davano battaglia!

   « Se ti trovo almeno tre persone che possono fermamente affermare il fatto che io non sia una maniaca mi concederai di ingaggiare la tua cara sorellina? » esclamò Luk, già pregustando la vittoria: c’erano Tino, Sesel e Nanuk pronti a testimoniare a suo favore, ergo ce l’avrebbe fatta! Vash pensò che sarebbe stato un gioco divertente vederla cercare inutilmente qualcun altro pronto a testimoniare in suo favore, per poi affondare nella vergogna, nella sconfitta e, soprattutto, nella verità, quindi alzò la cifra: « Almeno trenta. »

   « Cinque! »

   « Venti. »

   « Dieci! »

   « Perfetto, dieci. Entro quarantott’ore mi devi mostrare dieci persone che ti credono. Buona fortuna. » sibilò lo svizzero, per poi girare i tacchi insieme alla sorellina. Eppure le sembrava ancora una cosa adorabile che la volesse proteggere da qualsivoglia pericolo. E da lei. Aveva davvero una faccia da maniaca? Come diavolo avrebbe fatto a trovare dieci persone pronte a dimostrare il contrario? E… e perché diamine quella tizia sul pianerottolo la fissava con in mano un libro con due uomini che intrecciavano le rispettive lingue?! « Perché mi fissi in quel modo? »

   « Visto che mi sembri simpatica… so che ti manca qualche attrice e che ti servono dieci persone che affermino il tuo non-essere una maniaca e io posso trovarti due fantastiche attrici e ben tre persone per la gara con Zwingli! »

   « Aaah, grazie! » cinguettò la groenlandese, anche se nel profondo del suo animo era consapevole che presto sarebbe stata pronunciata la fatidica formula “Ma solo se…” . Purtroppo nessuno ti regala niente a questo mondo…

   « Ma solo se mi assicuri che accetti un crossdresser, mi prometti di utilizzare le fantastiche musiche di chi-so-io per il tuo lungometraggio e visto che la mia prof questo weekend non mi vuole accompagnare in centro… questo sabato puoi uscire con la Boulevard e andarmi a comprare il due? » finì lei, mostrando il titolo di quello che probabilmente doveva essere un fumetto e mettendosi con le mani sui fianchi con sguardo deciso, alla prendere o lasciare. Aveva degli occhi verde chiaro proprio stupendi! Luk, realizzando che stavano parlando a quattro metri di distanza, si avvicinò e le strinse la mano: « Bene, affare fatto! »

   Facendo due conti poteva considerare testimoni validi Sesel, Tino, Nanuk – era un suo socio e i soci si spalleggiano, sempre! - , i tipi della troupe escludendo Lily, cioè Manon, Arthur, Alfred e Eduard – che poi le doveva anche un favore per il fatto della leggenda inuit… quindi… sette persone più le tre promesse facevano dieci! Ce l’avrebbe fatta, ce l’avrebbe fatta! Inoltre le servivano assolutissimamente le attrici per il ruolo della madre dei ragazzi e per recitare nei panni dell’amica di Maya… anche se ignorava cosa fosse un crossdresser… ma d’altronde aveva anche le fantastiche musiche di chi-so-io (pur ignorando chi fosse gli sembrava un tipo affidabile)! E tutto ciò per un semplice fumetto! In quello stesso istante decise che se non avesse sfondato nel mondo dello spettacolo poteva benissimo fare una carriera che avesse a che fare con gli affari. Avrebbe venduto ghiaccioli a prezzi stracciati per poi comprare gli Stati Uniti e annetterli alla Groenlandia… oh, Hollynuuk era sempre più vicina!

   Hollynuuk, stiamo arrivando…

Finalmont! (?)

Quella cosa che ho scritto sopra è la mia versione di “finalmente” in francese. Roba da far strappare la br7arba a Francis x°D comunque, pronuncia a parte, posso finalmente dire che ho finito il capitolo, aaw. Mi sono divertita molto a scriverlo! ^_^ Insomma, scrivere e mangiare biscotti caldi appena sfornati dalla tua cara sorellina è davvero rilassante… Bene, facciamo il punto: sono iniziate le riprese (olè!), ma è subentrato un Vash piuttosto iperprotettivo che ha allontanato la sorellina dalle scene… per avere la sua benedizione Luk dovrà trovare – anche se probabilmente le ha già trovate :D – circa dieci persone convinte del fatto che lei non sia una maniaca. Eeee… da grande Luk investirà nei ghiaccioli e comprerà gli States! BD manterrà la parola, fidatevi! E se tra qualche anno gli USA verranno annessi alla Groenlandia per cause misteriose, be’, non mi beccherete mai vivaaah! *fugge*

 *ritorna* Spero di aver reso sia Eliza che Vash IC, anche se purtroppo credo di no… ehm, sappiate che per il comportamento di Vash mi sono ispirata all’istinto protettivo di ogni buona fratellosorella maggiore, come me! :D chi tocca mia sorella è un uomo una donna una creatura MORTA. Elizavetha invece a quanto pare è una yaoista convinta, eh? D’altrone Budapest è una sorta di La Mecca dei porno gay, a quanto pare, quindi…

Oh, züllött dovrebbe voler dire “pervertita” in ungherese, l’ho tradotto con Google traduttore, quindi mi dispiace per tutti gli italo-ungheresi che avranno la sfortuna di leggerlo, nel caso sia sbagliato! D: la mia strada è subito dopo la rotonda, girando a destra! Datele fuoco se vi va ;___; oppure correggetemi x°D insomma, fate ciò che riterrete più opportuno… a proposito, ci sono degli italo-ungheresi all’ascolto? °_° a proposito di Google traduttore! Scrivete in italiano “Pikachu” e fatelo tradurre in arabo, poi sentite l’audio! Io posso solo dirvi di essere letteralmente caduta giù dalla sedia per le risate!

Ringrazio immensamente chi leggerà eo recensirà, vi sarò immensamente grata! ^_^ come sempre le critiche e i suggerimenti sono bene accetti, purchè in linguaggio moderato!

Vorrei dedicare il capitolo a Cosmopolita, l’anima pia che recensisce ogni volta e ad happy light e Bazyliyk19, siete fantastiche! :*

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Una serie di sfortunati eventi ***


Guga

Chapter n°7: Una serie di sfortunati eventi

   Cos’è un leader senza il suo popolo, un cane senza il suo branco, una fata senza il suo tonno, una foca senza il suo grasso, un eroe senza la calzamaglia, una regista senza la sua troupe? Cosa sono tutte queste cose? Sono vuote, spente, impaurite. SOLE. Eppure la regista, a discapito di cani e fate meno fortunate, aveva il suo asso nella manica: era per metà Inuit, un popolo che si era adattato ai ghiacci, al freddo e agli orsi polari. Anche quando i vichinghi se n’erano andati. Però gli Inuit fanno leva sul gruppo, come i cani fanno leva sul branco e i leader sui sussidi statali. E lei era sola e con una roba strana nel piatto. La roba non si muoveva, non profumava né puzzava. Però aveva un colore poco invitante…

   I miei avi – da parte di mamma – hanno mangiato foche crude, quindi… ce la posso fare!

   Deglutì e si portò un pezzetto della roba alla bocca: sentendolo più da vicino c’era una sorta di profumo, ma era molto delicato… come il sapore, osservò, mentre masticava. Improvvisamente qualcuno si intromise tra lei, la roba e i suoi pensieri sui sapori poco decisi. « ‘ser-aà! » pensò istintivamente che fosse un accento carino e ingoiò, in modo da poter rispondere con un “ciao”. Improvvisamente si sentì stupida ad aver usato quella forma così colloquiale in un posto come quello, dove parole quali “fenomenologia”, “ostracismo” e altri termini che alludevano a studi accurati di materie impossibili da concepire per dei comuni mortali erano all’ordine del giorno. Però quel tipo aveva detto “ ‘sera”, ossia un “buonasera” troncato e quindi, forse, lei poteva concedersi anche un “ciao”. Il tipo era alto, non come Nanuk, ma comunque alto, aveva gli occhiali e i capelli corvini che contrastavano la forza di gravità – ah, il gel, che invenzione meravigliosa! – e sorrideva. Emanava un senso di pace. Pura pace…  Luk si dimenticò l’abbandono da parte del suo branco e si concentrò sul tipo che si trovava davanti a lei: la sua pelle chiarissima e i tratti orientali lo facevano sembrare così esotico!      

   « Io sono Niran Amudee, tu? »

   « Che vuol dire Niran? » chiese Luk, incantata dal suono di quel nome: era così musicale! Il significato doveva essere davvero molto interessante… oh, doveva presentarsi anche lei, adesso che ci pensava. « Io mi chiamo Pipaluk Jensen! » si sorprese che la j del suo cognome fosse l’unica che sapesse pronunciare per bene. Anche il suo cognome era molto musicale! Jensen, Jensen, Jensen~ !

   « Voul dire “eterno”! Il tuo che significa? »

   « Piccola cosa carina! »  prima era molto orgogliosa del significato del suo nome. Quand’era più piccola le persone più grandi le dicevano sempre “Ma che nome carino! Ti si addice!”, ma quando sarebbe diventata vecchia o anche solo più grande cosa avrebbero detto? Sarebbe stato un nome sprecato?

   « In effetti sei piccolina! » ridacchiò il thailandese. Non la stava deridendo, sorrideva. Luk avrebbe voluto dire qualcosa di gentile e altisonante come “e la tua anima resterà eterna”, ma improvvisamente calò un grande silenzio tutt’intorno. Il vociare allegro degli altri ragazzi attorno a loro si spense all’improvviso. C’era qualcosa che non andava bene, ne era certa, ma nessuno guardava un punto al di fuori del proprio piatto. Erano tutti come congelati e avevano anche smesso di mangiare.

   « Questo è il mio posto, da~ »

   A quel punto, a quel “da” Luk intuì il motivo del congelamento e del mutismo generale, sperando ardentemente che il russo – perché era sicuramente lui – non si rivolgesse a lei. E infatti Brangiski era qualche metro più in là, ma la sua voce, infantile e terribilmente contrastante con il suo aspetto da yeti, cosa che gli dava un’aura ancor più spaventosa, rimbombava in tutta l’enorme e luccicante sala da pranzo, tant’era il silenzio.

   « Mi hai sentito? » sembrava che il destinatario dell’avviso non volesse alzarsi. La groenlandese si sporse verso l’interno del tavolo per scoprirne l’identità: era Eduard. E, a giudicare dal movimento di mandibole e mascelle, stava ancora mangiando. Accanto a lui c’era un tipetto biondo, basso e con gli occhi blu che tremava come un cucciolo impaurito, tirando il braccio dell’estone e pregandolo di alzarsi e cedergli il posto. L’altro però sembrava sordo sia ai richiami dell’amico sia a quelli del russo spaventoso che aveva dietro. Aveva i nervi saldi, Eduard.

   Non si sarebbe alzato per lui, mai più.

   Eduard era il tipo del montaggio nonché migliore amico di Tino. Era un tipo della sua troupe. Il suo branco… il russo gigante stava importunando qualcuno facente parte del SUO branco?! Se solo non fosse stato almeno il doppio di lei gli avrebbe detto di andarsene. Ma lei era fisicamente svantaggiata. E quindi Brangiski avrebbe mangiato il suo tipo del montaggio nell’ndifferenza generale. Si stava sentendo in colpa…

   Lo mangerà. Lo mangerà per colpa mia.

   « Mmh, mi siederò lo stesso~ »

   In quell’istante Ivan decise che avrebbe avuto comunque il suo posto a sedere: esattamente sopra ad Eduard, usandolo a mo’ di cuscino. Il tipetto che gli era accanto assistette allibito alla scena e si ritrovò con la bocca secca, incapace di dire (o fare) qualsiasi cosa. Luk deglutì e sputò acida un “Io non me lo facevo fare”. Peccato che lo sputò con il suo solito tono di voce acuto e sgraziato… e, soprattutto, ad alta voce.

   « Io non mi facevo fare cosa? »

   Mi ha sentito. OH, MADRE. Non può avermi sentito. NONONONONONO. Al mio tempo capii di non dover aver niente a che fare con quello lì, per nessuna ragione e adesso… e adesso mangerà me. Però… però almeno si sta alzando da Eduard. Mmh, mi sento altruista, dovrei fare più spesso questo genere di cose~ no, non ne avrò la possibilità, adesso mi mangerà. Si sta avvicinando… a me… oh, no…

   « Come ti chiami? »

   « Pipaluk Jensen! Lei? » usare espressioni più formali l’avrebbe salvata? Probabilmente no, ma se ne sarebbe andata con stile. L’opera sarebbe finita con tanti applausi commossi – e magari qualche lacrimuccia – e le avrebbero dedicato la sala da pranzo. Magra consolazione.

   « Ivan Brangiski. Di grazia, puoi spiegarmi cosa non ti saresti far fatta fare da me? »

   « Non vorrei assolutamente che un tipo come lei si sedesse sopra di me. »

   È stato bello finché è durato, addio…

   « Oh, interessante… be’, prova a fermarmi, adesso. » e adesso si stava sedendo su di lei. In quel momento l’istinto di sopravvivenza e l’adrenalina che intanto era entrata in circolo le fecero ricordare di avere delle pericolose armi a sua disposizione: la forchetta e il coltello. Peccato che Ivan avesse già pensato all’evenienza di una posata in un posto ove non battesse il sole, ergo l’argenteria era stata spostata un frangente prima. L’istinto di sopravvivenza parlò ancora una volta, facendole venire l’idea di scivolare via, fin sotto il tavolo, per poi uscire dall’altra parte, afferrare un coltello e fuggire. Chi diavolo c’era davanti a lei? Oh, Charlotte. Bene, le avrebbe spiegato tutto se fosse sopravvissuta. E quindi scivolò, uscì, afferrò e fuggì via come una forsennata. Charlotte era allibita e Vash, qualche metro più in là, era sempre più convinto di poter vincere la scommessa. E Ivan la stava seguendo. Era tutto così spaventoso e, soprattutto, senza senso.

   Allora, ho in mano un coltello e sto fuggendo via da un maniaco – vero! – … credo che se sopravviverò lo racconterò ai miei nipotini davanti al fuoco! Ah, lo farò di certo! Mi sento la protagonista di un film! È eccitante, eh-eh! Peccato che stia per morire…

   Quando Luk si ritrovò faccia a faccia con l’arcigna Ada Griffith per poco non le venne un colpo. Tentò in vano di nascondere il coltello, ma a quanto pare, a giudicare dall’espressione allibita e nel contempo spaventata della donna, doveva averlo già visto.       « Mio Dio, Jensen, che diavolo sta facendo?! Dove ha preso quel coltello? Lo riporti subito a posto! »

   « Ma, professoressa, con tutto il rispetto… io non posso assolutamente! » tentò di giustificarsi Luk, porgendole la posata. « Lo riporti lei! » la donna esibì un’espressione del tutto contrariata e le sequestrò il coltello, promettendole che avrebbe contattato i suoi genitori al più presto. Pipaluk provò ancora a spiegarle qualcosa, ma quella la liquidò velocemente lasciandola disarmata con il maniaco vero a pochi metri da lei e la professoressa Boulevard un po’ più in là. Niente da fare, doveva chiederle di aiutarla… e anche in fretta! A quanto pare però May doveva aver ascoltato qualche frammento della conversazione precedente e si era già avvicinata, chiedendole se avesse qualche problema (a scanso di equivoci: non mentale, in generale ) . 

   « Professoressa, » le rispose trafelata lei, « in pratica stavo mangiando tutta tranquilla, discorrendo con un certo Niran Amudee, quando poi è arrivato quello lì e ha provato a sedersi su un tipo che è il mio… »

   « Il tuo ragazzo? » Luk la guardò strana. « È il mio tipo del montaggio. È un rapporto professionale… »

   « Aaah, dicevo anche io così, alla tua età, eh-eh! » ridacchiò l’insegnante, per poi provvedere a salutare Ivan, che intanto era già arrivato davanti a lei e a Luk, esibendo il suo solito sorriso gelido. Alla groenlandese vennero i brividi. « Allora, Jensen, è lui il fortunato? »

   « Io… io dovrei solo sedermi su di lei, da~ » May impallidì, pensando alla cosa che avrebbe pensato chiunque in quella situazione.

   Adesso qualcuno mi dica se esiste una situazione peggiore di questa. Uno: hai perso il tuo branco, due: da brava idiota ti sei fatta sentire da un orco alto quasi due metri che ora ha intenzione di spaccarti tutte le ossa, tre: chiameranno i tuoi genitori per dire loro che stavi fuggendo con un coltello in mano e quattro: la tua professoressa pensa che l’orco di due metri sia il tuo fidanzato e che voi due dobbiate, argh, copulare.

   In quel momento giunse Elizavetha, raggiante. « Ehi, Pipaluk! Ti devo far conoscere quel tizio che assicurerà a Vash che non sei una maniac- ehm… ho interrotto qualcosa? »

   Oh, certo che c’è di peggio…

Everybody hands up! (?)

Kol kol kol… salve a tutti, care lettrici eo lettori! Posso felicemente annunciarvi che questo capitolo non ha assolutamente senso – ed è corto, accidenti! – , quindi abbiate – ancora una volta – pietà di me e chi vuole recensisca… giuro che il prossimo faccio la seria. Anche perché il prossimo aggiornamento sarà a San Valentino, quindi *lancia rose e biscotti glassati* mmh, sì. E con ciò fuggo, perché questa cosa fa davvero pietà. Ah, un’ultima cosa! La “roba” che Luk non riusciva a mangiare all’inizio erano patate zuccherine – true story D: ! E Niran Amudee è il nome che ho deciso di dare a Thailandia! ^^ au revoir!

P.S.: Estonia sarà mai IC? L’ho fatto sembrare un po’ troppo coraggioso? D’altra parte, però, lui ha sempre desiderato l’indipendenza… !

P.P.S.: Avrete notato che Luk è piuttosto drastica quando si tratta di giungere presto ad una conclusione, neh? X°

P.P.P.S.: Dedico il capitolo a tutte le mie care recensitrici, ma in particolare a Bazylyk19, che è appena entrata nel cricolo (vizioso)! ^_^

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Peccato che... ***


One

Chapther n°8: Peccato che…

   « Pipaluk Jensen… » Già in quel momento, il terribile momento in cui uno dei tuoi genitori per chiamarti usa il nome e cognome completi, Luk capì che le cosa stavano andando male, molto male…. « COSA DIAVOLO HAI FATTO? RIPETIMELO! » urlò la voce dall’altro capo del telefono, spaccandole quasi i timpani. « Far, senti, è stato disguido grande come una casa, ecco… insomma, ho fatto il mio dovere da brava capobranco! Gli stava spezzando le gambe! » Certo, certo. Aveva solo pensato ad alta voce.

   « E io gli spezzo il culo! Nessuno toccherà mia figlia senza il mio permesso! » sorrise, immaginandosi il padre che sbraitava come un pazzo, magari agitando le braccia convulsamente, e la madre che gongolava pensando che lei fosse realmente fidanzata con il russo, pensando a dei futuri nipotini. Un altro urlo del signor Svend Jensen – perché era quello il nome di suoi padre –  la riportò alla realtà. « Non sei neppure maggiorenne! Ma ti scorreggia il cervello o cosa? »

   Cosa.

   Resta il fatto che dopo minuti di bla bla bla continuo Luk si convinse di non poter spiegare efficacemente la questione e quindi mise giù la cornetta del telefono nero, congedandosi con tanti “Sì, lo so”, “Già, hai ragione”, “So che lo fai per il mio bene”, eccetera…  e guardò il preside: era un ometto basso e grasso con dei baffi che potevano lontanamente ricordare due manubri di una bicicletta, di color nero pece. Al contrario dei manubri che aveva sul volto, però, i capelli erano color sale e pepe. Forse si tingeva i baffi? Solo i baffi?  Mentre si interrogava sulle sue possibili tinture l’uomo la fissava con i suoi occhietti marroni.

   « Io non metto in dubbio che tu stia dicendo la verità, però resta il fatto che ti sei messa a correre per l’istituto con un coltello in mano… » si passò la mano rosea e rugosa sulla faccia. « … Un coltello. » Il rugoso passò circa due ore a parlare con Luk dei coltelli e di cosa potessero diventare nelle mani sbagliate, interrompendo ogni tanto il discorso con “non è che non ti creda, ma…” e tanti, tanti “insomma, era un coltello”.

   Uscita dalla stanzetta infernale la groenlandese si tastò il cranio per controllare che non fosse gravemente manomesso da quelle due ore di conversazione – aveva parlato solo lui! – inutile e ringraziò il cielo visto che la Boulevard non aveva aperto bocca riguardo a quel fatto di sedersi sulle persone… improvvisamente le balzò alla mente l’immagine di Berwald costretto ad ascoltare i suoi monologhi tempo prima: era così che ci si sentiva dopo ore di nonsense indesiderato?

   Sono un mostro. 

   Solo un atto estremo e coraggioso l’avrebbe salvata dal giudizio finale di un qualche essere divino e onnipotente, quindi decise immediatamente di dirigersi nella sua camera e soffocarsi con il formaggio francese che Sesel era riuscita a sgraffignare qualche sera prima: la sua puzza di morte (che Sesel, Charlotte e suo fratello consideravano addirittura un profumo sublime, cosa che le aveva fatto segretamente sospettare circa gravi patologie olfattive che colpivano esclusivamente la popolazione francofona e quei critici culinari isterici che aveva visto qualche volta in TV) l’avrebbe uccisa all’istante e sarebbe morta fra atroci spasmi. La prima persona che incontrò nel suo cammino verso la morte da formaggio fu Feliks, che, esordendo con un “Oddio, so tutto!”, la riempì di domande della serie “raccontami tutto!”, come se la sua memoria precedente si fosse improvvisamente cancellata.

   « Cioè, correvi con un coltello! Era, tipo… »

   « …Ridicolo? » provò a completare lei, sospirando. Il polacco fece di non con la testa, facendo ondeggiare i capelli biondissimi e socchiudendo gli occhi color verde prato. « È stato coraggioso, tipo! Chi l’avrebbe fatto? ». Avrebbe tanto voluto rispondere “Un’idiota che non riesce a tenere la bocca chiusa?”, ma riuscì solo a dire “davvero?”.

   « Già! » esclamò da dietro Elizavetha, posandole le mani sulle spalle. « E questa ragazza coraggiosa questo sabato – ossia domani – andrà a comprare il mio yaoi preferito, veeero? ». Non era stata coraggiosa, era stata stupida. E nessuna delle sue prof l’avrebbe accompagnata fuori dalla scuola quella settimana, né in quelle successive: nessuno avrebbe mai accompagnato una tizia che fuggiva con un coltello per l’ambiente immacolato del college. E quindi niente yaoi e niente Lily. Il suo futuro stava andando paurosamente a rotoli. Doveva dirlo anche ad Eliza? Meglio di no, l’avrebbe scannata seduta stante: l’ungherese era famosa per saper picchiare duro, da vero maschiaccio. E l’essere stata per un anno nella stessa camera con la bielorussa – oltre ad aver passato l’infanzia a combattere nel fango tra i maschi – l’aveva temprata per bene. A detta di un certo tedesco, però, l’infatuazione nei confronti di un tale Edelstein l’aveva rammollita non poco. L’aria da ragazza decisa e che sa quel che vuole, però, le era rimasta.

   « A proposito… » continuò la fujoshi « … ti devo far conoscere il tipo delle colonne sonore! ». Era Luk a vedere male oppure l’ungherese stava davvero saltellando da un piede all’altro? Il tipo delle colonne sonore doveva essere un simpatico.

   « Come si chiama? »

   « Tipo, si chiama quel gran bel pezzo di figo di Rodd- » fece Feliks, prima di essere interrotto da una manata di Eliza sulla sua bocca di rose. « Ehi, guarda che, tipo, questa serve a me e a Toris! Cioè, non la rovinare! »

   « Sì, a pomiciare! » appuntò lei, sorridendo maliziosamente.

   « Si dice “baciarsi”, fujishi dei miei stivali! E poi guarda che esiste anche l’amore platonico! »

   « Si dice fujoshi! E comunque lo so! »

   « Ehm, potrei sapere chi è davvero questo qui? E, possibilmente, anche quel… crossdresser? » chiese Luk, sentendosi improvvisamente tagliata fuori dalla conversazione.

   « Non chiamarlo “questo qui”, sennò Eli si arrabbia! » scherzò il polacco. « E il crossdresser, modestamente, sarò io! Ho comprato un vestitino rosa che è, tipo, delizioso! »

   « Oh, quindi un crossdresser è un ragazzo che si veste da ragazza! » esclamò Luk, con l’espressione di chi aveva appena scoperto un nuovo mondo e gli occhi sgranati verso Feliks: se ciò che stava pensando – e che aveva detto – era giusto, il polacco si sarebbe dovuto vestire come una femmina e, facendo un paio di conti, doveva essere una “ragazza” niente male! Insomma, occhi verde chiaro e capelli biondi e leggeri, mingherlino, ma così… aaw! Meraviglioso, doveva essere semplicemente meraviglioso!         Łukasiewicz, per tutta risposta, inarcò un sopracciglio all’insù tenendo l’altro all’ingiù, nella tipica posa da “ma da dove se ne esce questa qua?”, riuscendo ad emettere solo un misero “cioè, sì”.

   Quando i tre arrivarono finalmente nel laboratorio di musica – ossia dove si rintanava abitualmente quel gran bel pezzo di figo di Rodd  Luk potè appurare che era davvero un gran bel pezzo di figo. Parlarono amichevolmente per circa una mezz’oretta, almeno finchè lei non decise di toccargli quel ricciolo carino che gli spuntava sulla testa. In seguito Roderich Edelstein fece una scenata degna di una casalinga isterica, ma con stile. E secondo Elizavetha rimaneva comunque un gran figo. Si può essere tanto fortunati?

   Ah, l’amore fa miracoli!

   Mentre un figo dispensava sermoni sul quanto fosse sbagliato toccare i riccioli altrui, in una stanza come tutte le altre uno svedese di nostra conoscenza cercava per l’ennesima volta di convincere un finlandese che rispondeva al nome di Tino di essere una ragazza, o meglio, la sua ragazza. In realtà stava mettendo solo le cose in chiaro, non voleva convincere nessuno: per lui era già tutto stabilito.

   « Quindi tu sei la mia ragazza. »

   « No, smettila. » sbottò il finnico, girandosi dall’altra parte, ma troppo tardi: Berwald era già riuscito ad intrappolarlo in uno dei suoi soliti abbracci caldi: era semplicemente spaventoso, soprattutto per il fatto che riuscisse a coglierlo sempre impreparato. E poi Tino non era la sua ragazza. Non lo era mai stato e non lo sarebbe mai stato, mai e poi mai. E poi era un ragazzo, un maschio. Non vedeva l’ora che arrivassero le vacanze natalizie per toglierselo di torno per almeno tre settimane… peccato che fossero solo nella metà di ottobre e mancassero altri due mesi…

   « Mi piace dirlo, però... che sei la mia ragazza… » gli sussurrò in un orecchio l’altro. Tino si sentì avvampare per l’ira e si divincolò da quelle spire, cosa che non gli riuscì difficile: pur non essendo grande e grosso disponeva di una forza e di una resistenza notevoli. Si alzò dal suo letto e lo guardò quasi schifato. « Se ti piace illuderti fa’ pure. Io vado. » chiuse la porta con discrezione, anche se avrebbe voluto – e potuto – sbatterla e distruggerla, infrangendola in milioni di schegge. Magari qualcuna avrebbe trapassato gli occhiali di quella talpa per ficcarsi nei suoi occhiacci.

   Eppure quando lo aveva incontrato gli faceva solamente paura. Adesso invece il suo modo di voler imporre la sua volontà con frasi della serie “sei la mia ragazza” lo mandava in bestia. Era una cosa autoritaria e dittatoriale. E quella pazza di Luk che voleva farlo diventare suo amico (e anche qualcosa di più, sospettava…) ! Fu proprio lei la prima persona che incontrò appena uscito dal dormitorio maschile. « Ysätväni, hai una brutta cera! » .

   Scusa, è che sto iniziando a provare cosa sia il sentimento dell’odio profondo verso qualcuno.

   « Dici? » fece un grande sorriso finto, sperando che ci cascasse.

   « Dico, dico. » la ragazza provò ad indagare sui micro-movimenti dei muscoli facciali per trovare la causa di quella brutta faccia, ma si arrese quasi subito: Tino era bravissimo a celare le emozioni. E… Oh, doveva assolutamente raccontargli del fatto di Ivan!        « Ehi, non ci crederai mai! In pratica io ero seduta vicino a tale Niran Amudee, che è thailandese, mentre Brangiski ha ordinato ad Eduard di spostarsi dal suo posto, visto che voleva sedersi lì anche lui… in pratica poi Ivan si è seduto sopra ad Eduard e io… »

   « IVAN HA FATTO COSA?! » in questo caso Tino non era stato molto bravo a celare il suo stato d’animo, ma chi ci sarebbe riuscito in quel caso? Un russo di due metri per due metri si era seduto sopra al suo migliore amico! E non un russo qualsiasi, ma Ivan! Sentiva il cuore martellargli in gola e un incredibile impulso di spaccargli quel naso enorme. « E… e come sta Eduard? »

   « Non ti agitare, l’ho salvato io! » ammise Luk, con grande umiltà, tenendo una mano sui fianchi e mostrando un sorriso a trentadue denti.

   Sarebbe stato più corretto dire “Mi sono lasciata scappare un commento che non ha fatto piacere al gigante e così l’ho attirato verso di me, evitando di procurare ad Eduard una morte lenta e dolorosa e procurandola a me” – e non parliamo di quel che è successo dopo! – , ma voglio anche io i miei cinque minuti di gloria!

   « Luk, non scherzare! Dimmi dov’è Eduard! » la stava strattonando come una bambola di pezza, in preda al panico. Il suo momento di gloria avrebbe dovuto aspettare… gli occhi viola del finnico sembravano essersi ingranditi tre volte tanto per lo spavento. « Beh, fors- » cominciò lei, ma quello non le diede neppure un momento per dargli una pseudo-indicazione che si mise a correre a rotta di collo verso l’infermeria, aspettandosi il peggio e non riuscendo ad augurarsi niente di buono. Con Ivan non si scherza e lui, purtroppo, lo sapeva molto bene. Ma non poteva abbandonarsi ai ricordi in quel momento o sarebbe caduto sicuramente dalle scale.

   Ah, quel ragazzo mi preoccupa. E poi avrei dovuto raccontargli il fatto del coltello e… oggi non dovevo soffocare con il formaggio francese? Oh, non riesco mai a fare niente!

   « Ehi, Tino, dove corri? » individuò subito il proprietario della voce e non potè fare a meno di saltargli al collo. Quando si rese conto di ciò che stava facendo era troppo tardi: si era avvinghiato al suo collo come un koala e teneva la testa premuta sulla cravatta. Sembravano una di quelle coppiette dei film che si ri-incontrano dopo anni e che fanno un sacco di scenate. Si sentiva incredibilmente stupido e cercò di divincolarsi fra mille scuse. Peccato che Eduard non lo stesse lasciando andare, peccato che gli stesse alzando il mento con una mano e… peccato che le loro labbra si stessero avvicinando, andando decisamente oltre al limite normalmente consentito…

   Berwald, dall’altra parte della scuola, sentì che dentro di lui qualcosa si stava spezzando… qualcosa che, forse, non era mai davvero esistito.

 

Buon San Valentino! *foreveralone*

L’avevo pubblicato ieri, ma EFP non me l’ha caricato D:

Buonasera a tutti, oggi è finalmente arrivato San Valentino, la festa perfetta per attaccarsi alla bottiglia e deprimersi, nel caso si sia single come me! No, cari miei compagni di solitudine, non deprimetevi, perché se state leggendo questa cosa avrete benissimamente compreso che c’è gente che sta anche peggio di voi *si indica* e che, non avendo neppure uno straccio di vodka in casa – e non potendo bere la birra ;__; – non può nemmeno sfogarsi con l’alcool!

A parte tutto ciò, ho appena riletto questo capitolo e credo di aver fatto una delle più grandi caspitate nella mia vita. Soprattutto l’ultima frase x° a proposito, quella alla fine era, più o meno, la mia prima descrizione di un bacio! Come… come sono andata? Perché di solito quando si tratta di raccontare queste cose sono piuttosto negata… Oh, spero con tutto il cuore di aver reso i personaggi IC! >__<

Un grazie enorme a chi leggerà e recensirà (dai, che vi costa minacciarmi di morte?) ! Rendereste il San Valentino di questa povera me molto più felice :’D

E quindi credo che basti, no? *fugge*

P.S.: “Far” dovrebbe significare “papà” in danese… nel caso è colpa di Google Traduttore, io sono solo una povera ignorante! D:

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Like a woman(?) ***


Like a Woman(?)

Chapter n°9: Like a woman(?)

   Tino continuò a colpire il peso da kickboxing attaccato con una corda al soffitto, cercando di non usare troppa forza e facendolo roteare su se stesso. Pensare che stesse colpendo Berwald lo divertiva e, nel contempo, gli dava la carica per continuare. Si fermò per un momento, asciugandosi la fronte madida di sudore col dorso della mano, pensando che, a contatto con l’aria condizionata che rendeva l’ambiente interno del college – a parte la palestra nella quale si trovava, a quell’ora stranamente vuota – gelido, sia d’estate che d’inverno. Ridacchiò, considerando la piacevole opzione di prendersi un raffreddore coi fiocchi e passare qualche giorno in infermeria. Non avrebbe certo voluto infettare quella povera stella, no?

   Tirò un altro pugno e sentì la corda emettere un rumore simile a quello di un tessuto che si stava strappando, quindi si fermò e la guardò con uno sguardo di sfida. Improvvisamente una consapevolezza iniziò a farsi strada al suo interno, lasciandolo quasi senza fiato: come quella dannata corda Berwald non avrebbe mai mollato. E lui non avrebbe mai potuto cambiare le sue idee.

   Si passò una mano sul volto, ripensando a quando Eduard aveva tentato di baciarlo. Lui, per tutta risposta, lo aveva spinto – scagliato sarebbe un termine più corretto – verso il muro, facendolo rimanere per terra come un’idiota e con la testa rivolta verso il basso come se fosse quella di una bambola di pezza, con l’unica differenza che le bambole di pezza non piangevano.

   E la gente aveva visto tutto.

   Si lasciò scivolare per terra, diventando anche lui una bambola di pezza, in un estremo atto alla ricerca della sintonia con il suo migliore amico. O forse ex. Sicuramente ex.

   Frocio.

   Lo aveva chiamato così. Frocio. Quella parola iniziò a ripetersi più e più volte nella sua mente con una voce distorta, metallica, per poi diventare il suono di una sorta di coro demoniaco che non gli permetteva di pensare a nient’altro. Perché Eduard non si era mica messo a versare lacrime per la spinta, no, non era il tipo. Eduard si era messo a piangere perché Tino lo aveva chiamato in quel modo, con un tono pieno di odio. Tino, il suo migliore amico.

   L’estone si era accorto di provare per il finnico qualcosa che andasse oltre l’amicizia da circa un anno, ma cercava continuamente di dimenticarselo, comportandosi da ragazzo “normale”. In quella situazione, con le loro labbra a pochi centimetri, però, non era riuscito a fermarsi. Non avrebbe mai voluto baciarlo. Sapeva perfettamente che avrebbe rovinato la loro – ormai quasi secolare – amicizia.

   E adesso quello che lo aveva fatto scoppiare in lacrime stava a sua volta versando lacrime bollenti sul pavimento, come una ragazzina. Il parquet della stanza, però, non era freddo, anzi, gli provocava una strana sensazione di calore, mentre sentiva la porta spalancarsi in un Nfufufu. Forse le porte normali non si aprono emettendo questo suono, ma le porte aperte da un certo americano sì. E quell’uscio quella volta rientrava in quella cerchia.

   « Nfufufu! Ti dico che riesco a farlo cadere! Ho un sinistro che… » cominciò a vantarsi Alfred, tastandosi i muscoli dell’avambraccio. Il suo accompagnatore iniziò a ridacchiare sommessamente. « … guarda che ce la faccio, idiota! » sbuffò lo statunitense, incrociando le braccia.

   « Sono venuto qui soltanto per vederti fallire e quindi cadere rovinosamente a terra in preda ai crampi ed agli spasmi muscolari, yankee. » sbottò acido Arthur, per poi alzare lo sguardo e notare una sagoma per terra, sussultante.

   « Ehi, tu! Stai bene? » chiese il britannico, avvicinandosi. Tino si alzò subito, cercando di asciugarsi i rivoli di lacrime che gli bagnavano il volto e che lo spiffero entrato dalla porta rendeva ghiacciati. « S-sto bene, non preoccupatevi… ero… ehm… ero scivolato! » si giustificò il finlandese, alzando una mano in segno di saluto e poi agitandola come se quello che gli fosse accaduto non fosse poi così importante. Possibile che non ci fosse un diavolo di posto dove piangere in quella dannata scuola? Tanto valeva tornarsene in camera, correndo e sperando in una bronchite.

   E fu proprio quello che decise di fare, perché tanto a quel punto non riteneva di avere più qualcosa da perdere. Fortunatamente nel suo cammino non incontrò né Eduard né Ivan. Sia perché voleva evitare di deprimersi ulteriormente sia perché voleva evitare di fare a pugni con qualcuno, quel giorno, anche se il suo istinto gli suggeriva di commettere un omicidio.

   Girò la maniglia metallica della porta, fredda come il pavimento della palestra, giusto in tempo per carpire una strofa di una canzone, a detta sua abbastanza depressa e a volume troppo alto.

Yesterday I died, tomorrow’s bleeding

Fall in your sunlight

   Berwald era sul suo letto, con la faccia rivolta verso il cuscino. Il finnico sperò che fosse morto in qualche modo, con il dito che ancora pigiava il pulsante dell’MP3. O su altro.

    « Mmh, ciao. »

   Argh, è vivo.

   « ‘ngiorno… » si stiracchiò per un po’, per poi buttarsi anche lui sul suo letto, affondando la testa nel piumone blu. « Metti qualcosa di più allegro, oddio. Sembra un requiem. » appena nella stanza iniziò ad echeggiare la melodia della Caramelldansen  Tino non potè fare a meno di soffocare una risata. « Hai qualcosa degli Abba? » chiese poi, sorpreso di non essergli ancora saltato al collo. Ovviamente per affondarci le unghie e soffocarlo.

   « Mmh? Gli Abba? » fece quell’altro, alzando il tono della voce, sorpreso. « T’ piacciono? »

   « A mia madre piacevano. Non immagini che palle. Ogni fottuto giorno cantava una canzone a random fra le millemila che hanno scritto quei quattro. » sbuffò Tino, in preda all’esasperazione. Si girò per guardare il soffitto, nostalgico. « So a memoria Mamma mia, umpf. »

   « Quella l’ sanno tutt’. » osservò ad alta voce lo svedese, prima di selezionarla.

   « Hai un accento orribile. »

   « Takk. »

   Tino pensò che fosse strano parlare così amichevolmente con il suo possibile carnefice. Eppure non gli stava dando così tanto fastidio, anche se il desiderio di staccargli le budella a morsi si faceva sempre risentire. Immaginarsi però a pochi centimetri dal suo petto nudo mentre lo mordeva e… si rigirò nel letto, dalla parte opposta a quella dello svedese, nascondendo la testa nel cuscino: era arrossito fino alla punta delle orecchie mentre immaginava un porno gay degno di quelli che leggeva (e forse vedeva) Elizavetha – sì, le voci di Feliks erano giunte anche alle sue orecchie – con lui e Berwald come protagonisti. Era troppo strano, stupido ed idiota. E aveva reso la sua mente davvero molto, ma molto impura. Proprio lui che ammirava gli svedesi solo per quella sorta di regola che prevedeva di aggiungere nell’esercito donne con un davanzale abbondante perché sembravano intimidatorie e spaventose o, come la pensava lui, perché gli altri soldati sarebbero morti di epistassi.

Mamma mia, here I go again
my, my, how can I resist you
mamma mia, does it show again
my, my, just how much I've missed you

   « Vado. » si alzò, rigido come un robot e fuggì – letteralmente – fuori dalla camera, sbattendo la porta e creando un chiasso infernale, mentre si ripeteva mentalmente che tutto ciò non poteva avere alcun senso, che lui era un pervertito deviato e che Mamma mia era solo uno stupido brano commerciale, profondo come la già citata Danza del Caramello. Mentre si auto-convinceva di tutto ciò, però, si scontrò contro la schiena di una persona dalla quale avrebbe dovuto stare alla larga, almeno per i prossimi tre milioni di anni. Vabbè, facciamo due, non si sa mai che si riappacificassero, un giorno o l’altro.

   Purtroppo quel giorno non era ancora arrivato.

   « Väinämöinen... ?  » Ivan si girò verso di lui, tutto contento di aver trovato una nuova pallina antistress.

   « No, Babbo Natale.  » sbottò sarcastico l’altro.

   « Mi dispiace, ma oggi non sono proprio in vena di scherzi, da~  » sempre che per “scherzi” non si intendessero picchiaggi e torture di ogni genere, certo.

   «  Neppure io. » Tino tentò dileguarsi in fretta, ma venne trattenuto dalla presa della mano destra dell’altro.

   « Uhm… hai sentito quello che è successo ad Eduard, da? »

   «  Devo andarmene! » si stava innervosendo parecchio, adesso che aveva fatto uscire quel discorso. Ma perché diavolo Luk non gli aveva fatto qualcosa di davvero brutto con quel coltello, invece di morire di paura dietro alla professoressa? Non che lui non fosse intimorito da Ivan, ma… beh, Luk era sacrificabile.

   « Ho sentito che i ricatti psicologici sono i migliori! » il russo gli fece ruotare il braccio, causando uno scricchiolio ed un dolore non indifferenti, a danni di Tino. « Non mi è piaciuto quello che ha fatto, da! E in questo modo glielo farò capire passivamente… » decise d-i prendergli anche l’altro braccio, giusto per fare le cose per bene.

   In quel momento secondo Tino la cosa più terribile non era di certo quello che gli era accaduto – e che gli stava accadendo – in quella dannata giornata, ma il fatto che la gente stesse passando davanti a loro – ne poteva sentire i passi – e che neppure guardava o, se guardava, non si scomodava di certo a dire qualcosa. Forse l’avrebbe fatto anche lui, in effetti. Tieni cara la pelle e fregatene degli altri, giusto? Non era così che si doveva fare?

   Forse per molti era così, ma per una manciata di persone no. E una di queste persone, purtroppo per Tino, rispondeva al nome di Berwald Oxenstierna, Nanuk o più semplicemente Lo Spaventoso Stalker.

   « Brangiski.  » tuonò lo svedese, anche se il russo non sembrò farci caso, continuando a giocare con la sua pallina. « Lascialo in pac’. »

   « No~ » rispose semplicemente l’altro, con il tipico tono da Oca Giuliva. O da Feliks, come preferite.

   « Non m’ costr’ngere a- » fece il terzo incomodo, avvicinandosi pericolosamente agli altri due.

   Eh no, da questo qui non mi faccio proprio salvare. Si cerchi un’altra principessa Peach.

   Il finnico decise di mollare al russo uno di quei suoi famosi calci negli stinchi – che, se non fosse stato per tutte le cose alle quali pensava, avrebbe volentieri usato prima – , deviando con la punta del piede il più possibile, per cercare di arrivare anche agli intoccabili. Dopo il calcio Ivan mollò per un attimo la presa per massaggiarsi la gamba dolorante, lasciando il finnico libero di andare verso il suo improbabile Super Mario.

   « Ce la faccio benissimo da solo. » annunciò, girandosi e continuando a camminare, in cerca della sua amata ed odiata camera da letto. Era decisamente in vena di rompere qualche porta.

   « Ma la stanza è dall’altr’ part’.  » lo informò Berwald, indicando con il dito la direzione esatta

   Il finlandese riuscì solo a sibilargli quasi impercettibilmente qualcosa nelle sua lingua – non di certo una formula di ringraziamento, anzi – , mentre gli passava davanti. Finalmente arrivato alla porta la spalancò, pensando che si stava comportando come un’adolescente in quel periodo là. Piangere per Eduard, ascoltare Mamma Mia con Berwald, mandarlo a quel paese qualche minuto dopo. Chiusa la porta, si controllò le mutande, per scaramanzia.

   Non si può mai sapere.

   Pulite.

   Oh, se stava diventando matto.

Al cervel non si comanda.

Io, santo cielo, mi chiedo come diavolo sia possibile lasciarvi a secco per così tanto tempo, cielo. Perché, cari miei seguaci, è passato più di un mese dallo scorso aggiornamento, eh! Mi sa che mi sto rincretinendo! Ma, d’altra parte, la mia ispirazione sembrava essere fuggita per una vacanza tutto compreso su Plutone °^° e al cervel non si comanda(?).

Ah, con questo capitolo ho finalmente deciso di far parlare Berwald come Dio comanda, ossia alla ca- ok, risparmiamoci commenti inutili -3- quindi… se state leggendo questa roba sappiate che vi amerò, ergo la vostra vita diventerà orrida, come questo capitolo ritardatario. E temo che il prossimo non arriverà tra una settimana, ahimè, ma forse tra due – ma c’è sempre la possibilità che trovi abbastanza tempo °3° – Sapete, la scuola è brutta e cattiva ed i professori mi odiano, puff D:

E in questo capitolo Luk non appare! Sono Capitan Ovvio! *fugge facendo swishhh*

Se qualcosa va male – tipo tutto, lo so, stavolta T^T –  dicetemelo pure e lanciatemi addosso dromedari, ve ne sarò immensamente grata.

With love,

                                                                                                                                                             Kaida_ _ _

Chansons

Shattered – Trading Yesterday

Mamma mia – Abba

 

Scommetto che adesso, mentre premo “invio”, mi verranno in mente miliardi di altre cose molto interessanti che avrei potuto scrivere e che non ho fatto.

Perdonatemi ancora e sappiate che amerò chiunque recensirà come amo già chi lo ha già fatto – o chi lo fa ancora.

 

Angolicchio dello spam!

Luk, per vostra sfortuna, ha invaso anche faccialibro!

Per chiunque la volesse aggiungere eo linciare, la trovate sotto il nome di Pipaluk Kalaallit Nunaat Jensen.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - E gli unicorni nitriranno ***


E gli unicorni nitriranno

Chapter n°10: E gli unicorni nitriranno

   « Uooh, apri la porta! » si lamentò una voce – alquanto sgraziata e rompiscatole, a detta di Tino – da dietro la porta, che, dopo circa sei minuti di toc toc, era giunta all’esasperazione.

   Come se al finnico importasse qualcosa.

   Quest’ultimo si rigirò placidamente nel letto, prendendo in mano il cuscino e tenendolo premuto sulle orecchie. Tanto la porta era chiusa a chiave da dentro e, per quanti toc facesse l’ospite indesiderato, nessuno sarebbe mai riuscito ad aprire. Anche se Berwald rappresentava comunque una minaccia, possedendo anche lui una copia della chiave… ma in quel momento c’erano cose più importanti alle quali pensare. Come Eduard, Ivan, eccetera. E come tenere il cuscino ben premuto sulla testa, in modo da non sentire nient’altro che il magnifico suono del silenzio.

   « E se fosse morto? » chiese Alfred, dietro alla porta – perché a lui apparteneva la voce di prima –, dando un ultimo colpetto alla porta con le nocche e immaginando qualche scena della serie C.S.I. Se solo Väinämöinen gli avesse aperto, beh, lui avrebbe sicuramente messo K.O. il suo (alquanto improbabile) assassino!

   « E se non volesse aprirti? Opinione che, inoltre, condivido in pieno? » sbottò acido Arthur, che, ahimè, aveva deciso di seguirlo, come al solito. Si sentiva un po’ la sua babysitter, ma non poteva perdersi le figuracce dell’americano, assolutamente. Ergo, seguirlo conveniva, dato che le risate fanno bene alla pelle. Certo che il potere benefico dell’ilarità doveva fare le sue belle battaglie con la birilrubina che assaliva il fegato dell’inglese ogni volta che l’altro apriva bocca… o la chiudeva, sbranando magari un hamburger o altre schifezze che solo un americano – o Bear Grylls, ma quello era un altro paio di maniche – avrebbe potuto ingurgitare.

   « Ma se tutti mi adorano! Noi americani siamo simpatici, non come voi inglesini-tutti-tè! » rispose Alfred, con gli occhioni blu ribollenti di ira. Tutti gli avrebbero voluto aprire la porta in quel momento, accidenti!

   « Sei uno stupido. E sono più stupido io che non ti picchio. Ma almeno noi inglesini-tutti-tè » proseguì il birtannico, usando la miglior voce in falsetto che avesse nel repertorio « non ruttiamo né sputiamo noccioli di ciliegie negli occhi degli altri come se fosse uno sport! » era al limite della sopportazione. Come al solito.

   « È successo solo una volta! E poi so che in fondo invidi la mia mira! » rispose l’americano, tutto impettito, memore di quel momento magnifico. Eh, quelli sì che erano i momenti che avrebbe ricordato mentre sfogliava un vecchio album ricolmo di foto ingiallite davanti al fuoco del camino, mentre i suoi nipotini gli chiedevano come avesse fatto a ruttare in modo tanto armonico e a lanciare un nocciolo lungo una traiettoria tanto perfetta! Arthur non avrebbe mai potuto raccontare una cosa del genere!

   E intanto Berwald stava ascoltando il dibattito, con suo sommo gaudio, appoggiato al muro. Era un piacere sentire gli altri litigare – figurarsi per cose tanto stupide – mentre pensava ad una sorta di schema mentale per catalogare meglio i litiganti.

   Alfred F. Jones, ossia l’americano tipo.

   Quando vuole parlare sbraita, magari mentre trangugia qualcosa che sia anche lontanamente commestibile, giusto per urtare i nervi all’interlocutore eo causargli qualche stress emotivo, superabile solo con qualche anno di terapia.

   Nelle scorse elezioni ha tifato per Obama – perché, fortunatamente, non può ancora votare –, semplicemente per il fatto che fosse politicamente corretto votare per quello di colore perché oh, sai-cosa-abbiamo-fatto-noi-bianchi e magari gli ha anche dedicato un tema  scontato e pieno di scenari utopici dove il bene trionfa sempre, tra i nitriti entusiastici di unicorni arcobaleno.

   Ah, è terribilmente sospettoso nei confronti della classe politica, perché secondo lui gli stanno sicuramente nascondendo qualcosa, che si tratti delle autostrade invisibili presenti (senza ombra di dubbio) nell’area 51 o del tunnel sotterraneo che porti al mistico regno delle talpe.

   Poi diventerà presidente del suo grande paese e a quel punto gli unicorni potranno nitrire contenti, finalmente.

   In compenso qualche buona qualità ce l’ha – Cielo, credo… – e insegnerebbe volentieri a Rose la nobile arte dello sputo.

   « Se vuoi te lo insegno! » esclamò Alfred, mimando con eccessiva enfasi l’azione e confermando le tesi dello svedese, fiero di averci azzeccato. Forse avrebbe dovuto fare lo psicologo come gli aveva suggerito Luk, ma il pensiero di trovarsi ogni giorno con gente del suo calibro (o di quello di Jones, anche se non riusciva a capire quale fosse il peggiore) lo uccideva.

    Riprendiamo questo discorso penoso, catalogando per bene Sir Kirkland.

   Il tipico inglese che ama il tè, isterico oltre misura, a volte. Temo che l’americano abbia a che fare qualcosa con questo suo stato mentale, sì.

   Con dispiacere lo vedo già fra qualche decina d’anni nel suo studio da avvocato – anche se ha sempre odiato giurisprudenza, ma che ci vuoi fare, papà ha deciso così… –, mentre premedita il divorzio tra lui e la donna che ha sposato ma che – ahimè – non ama o non ama più. Ma non credo che avrà un amante, se è tanto gentleman come dice.

  E poi si sposerà con qualcun altro e si trasferirà in una villetta in campagna, vivendo dei frutti della terra e passeggiando fra l’erica.

   Gli unicorni potranno nitrire anche lì, a quel punto.

   Lui è Rose.

   Quindi… Jones morirà congelato dopo aver insegnato a Kirkland a sputare?

   Mentre Berwald era immerso nei suoi pensieri, il mago dello sputo giunse alle sue spalle, iniziando a scrollarlo. Ma per cosa l’aveva preso? Per un cane, forse? Non poco stizzito da quel comportamento, lo svedese si girò verso di lui, inchiodandogli addosso il suo sguardo di ghiaccio, anche se l’americano non sembrò notarlo più di tanto mentre teneva gli occhi chiusi nell’espressione del suo sorriso gioviale migliore.

   « Ehi, senti, Väinämöinen a quanto pare non vuole aprire la porta… e siccome tu hai le chiavi potresti controllare per favore  che non sia morto? »

   Lo svedese si alzò controvoglia, per poi arrivare alla porta ed iniziare a bussare con la delicatezza di chi accarezza una bambola di porcellana.

   « Guarda che ho già provato i- » cominciò lo statunitense, avvicinandosi al legno scuro, per poi essere – con sua grande sorpresa – interrotto da un mugolio sommesso proveniente dalla stanza. Era così ingiusto! Perché non aveva risposto a tutti i suoi toc toc e a quello impercettibile di Oxenstierna sì? Era razzismo bello e buono, quello, accidenti!

   « Si può sapere che avete da rompere tanto? » ringhiò dall’altra parte il finnico, alzandosi dal letto e facendo cigolare qualche molla, tanto che sembrava mugugnare anche il letto.

   « No’ lo so. » ammise Berwald, abbassando lo sguardo, contento che Tino non lo potesse vedere.

   « Aspetta! La regista ti stava cercando! » lo informò Alfred. Berwald alzò un sopracciglio.

   « La regista…? Oh, Luk… » fece Tino, stiracchiandosi. La sua amica, no? Quella che, poco tempo fa, aveva definito sacrificabile. Eppure non gli sembrava tanto ingiusto, dato tutto quello che aveva combinato… insomma, se solo avesse evitato di informarlo di Ivan ed Eduard e del suo magnifico salvataggio, beh, forse adesso sarebbe tutto a posto, tutto come prima.

   Con Eduard con tutte le ossa rotte, forse, ma come prima.

   « Beh, che vuole? » Alfred iniziò a spingere la porta facendo leva sulle spalle, ma i suoi sforzi – contrapposti alla forza erculea del finlandese – si dimostrarono vani. Arthur ridacchiò sotto i baffi.

   « E che ne so, ha detto che ha fatto una scommessa con Zwingli… » rispose l’americano, gesticolando.

   « Oh, magnifico. »

   E così, per qualche strana ragione, si era ritrovato con Luk, Berwald, Alfred, Arthur e quelli della troupe sul pianerottolo di una scalinata che, oltrepassato un portone, portava direttamente al cortile. Soltanto perché si sentiva leggermente in colpa dopo averla definita sacrificabile.

   « E adesso? » chiese Tino, dondolandosi da una gamba all’altra e gioendo ogni qual volta che i suoi ginocchi urtavano i polpacci di Berwald. Così, senza alcun motivo in particolare. Anche se adesso sentiva di non provare più di tanto odio nei suoi confronti desiderava immensamente di procurargli un dolore qualsiasi, in qualsiasi posto. E i polpacci in quel momento andavano più che bene. Da parte dello svedese, però, quel tocco era accolto nello stesso modo di una cascata di cioccolata. O di muffin rubati su Luk, la groenlandese cleptomane, fate voi.

   Perché, alla fine, la colpa era di Berwald e Luk. Avrebbero potuto aprire un’agenzia per rovinare le vite.

   O forse lui aveva solo bisogno di scaricare tutta la sua rabbia repressa, tutta la colpa e, più semplicemente, tutto su qualcun altro. E Luk e Berwald andavano più che bene. Loro e quell’assurda storia della recita. E lui che era pure venuto ad aiutarla per vincere una scommessa con quello svizzero, non sapendo neppure di cosa si trattasse.

   Quando Luk iniziò a raccontare la storia Tino non poté fare a meno di alzare le sopracciglia, stupito più che mai. Chi diavolo era lei per pretendere e, soprattutto, predire che tutti loro l’avrebbero aiutata senza battere ciglio, sicuri della sua innocenza e non-maniacità (come l’aveva definita la groenlandese stessa). Aveva corso per tutta la scuola con un coltello, accidenti. Perché, invece, non aveva centrato Brangiski in pieno petto, come avrebbe fatto chiunque? Sì, più o meno…

   « Allora, chi è con me? » chiese la groenlandese, sicura più che mai della sua vittoria, perché l’importante è crederci.

   Due minuti dopo tredici mani (comprese quella di un canadese che era sbucato chissà da quale posto e quella di un thailandese che diceva di essere stato presente e, ovviamente, la mano di Luk) si stagliavano contro il soffitto, animate da un certo rancore verso Vash, noto vecchio-dell’alpe-con-il-visino-da-Heidi, basso quanto scorbutico e neutrale fino alla morte. Amava fissare i conflitti fra i compagni compiaciuto dell’ambiente pacifico intorno a lui ed al suo magnifico paese, senza muovere un dito, alla tanto-io-sto-in-mezzo-e-non-mi-becco-rogne.

   E invece di rogne se n’era beccate parecchie, a quanto pare. Gli amici-Svizzera non vanno mai troppo lontano…

   Vinsero e Lily fu tratta in salvo (sì, più o meno…).

    Inoltre, in quello stesso giorno, Tino riuscì a ringraziare – più che altro a monosillabi che denotavano un certo scocciamento  del tipo lofacciosoloperchésonoeducato – Berwald per quel suo salvataggio non voluto.

   E gli unicorni potranno nitrire.

 

Olè!

Aloha, mie care (e mie cari?)! Sono passate tre settimane ed un giorno dall’ultimo aggiornamento, ma è meglio di niente. Colpa mia che mi riduco all’ultimo momento… e colpa di quelle ricerche assurde che ci assegnano quasi costantemente :’D perché non siamo un regno basato sugli unicorni rosa? Perché non c’è più la Pangea? Perché la macchina del capo ha un buco nella gomma? Queste sono domande per le quali non troveremo mai una risposta, ma intanto ci accontenteremo di assegnarvi qualche compito, giusto per il nostro diletto, hohoho~!

Stendiamo un velo pietoso… a proposito, questo è il decimo capitolo, escluso il prologo! Un numero tondo, pensate un po’! E voglio dedicarlo a chi mi segue (no, non ci saranno rimborsi), a chi legge quello che scrivo (idem) e a tutto il mondo(?), compresa quella mia amichetta indonesiana ed escluso il tizio razzista (Una delle sue perle è “lo sapevate, ad esempio, che i cinesi sono gialli perché sono stati generati dal cerume del diavolo?” Non so se ridere o piangere, seriamente :’D) che, purtroppo, ho dovuto conoscere :’( dite che se faccio sembrare il suo omicidio un incidente qualcuno riuscirà ad incastrarmi?

Fuggo a salvare il mondo,

                                                                                                                                                                                                  Kaida_ _ _

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Uccelli giardinier ed estoni misteriosi ***


Capitolo 11

Chapter n°11: Uccelli giardinieri ed estoni misteriosi

  « Ah! E poi mi ha detto che non mi faranno mai entrare in Svizzera, il nano! Chi ci vuole andare, dico io! » Raccontò Luk, dall’alto dei suoi centoquarantacinque centimetri d’altezza, mentre rendeva pubbliche le sue memorabili imprese, iniziando a narrarle a chiunque le capitasse a tiro e, soprattutto, avesse tempo e voglia di fermarsi. Questa volta le era capitato un aitante giovanotto con i capelli castani e gli occhi verde mela, lo sguardo attento e gli atteggiamenti cordiali e cortesi, ma comunque allegri. Un tipo in gamba, non c’è che dire. La groenlandese intanto provvedeva a dare tante piccole pacche sulla spalla di Sesel che, accanto a lei, sorrideva imbarazzata come i magnifici amici sobri che tentano di calmare i loro amici ubriachi intenti a picchiare qualcuno in una rissa da bar. « C’era anche lei, Sesel! Ti presento Sesel! Sesel, lui è… un tizio? » non era brava a fare le presentazioni, Luk.

   « Mi chiamo Jett! Come l’aereo, ma con una t in più! » si presentò quello, facendo schioccare le dita di una mano e poi tramutando il gesto in una pistola. Sesel e Luk fissarono la mano ammirate. Era figo.

   Jett come l’aereo! BROOM!

   « Tu hai l’aria di uno che sapeva l’inglese già da prima… » fece la groenlandese, esaminandolo.

   « Modestamente… da Camberra con furore! »

   « Io Nuuk! »

   « Victoria! »

   E, nei cinque minuti successivi, mentre Sesel e Jett facevano i loro discorsetti in un inglese velocissimo e quasi incomprensibile, Luk si rammaricava del fatto che la Groenlandia non fosse mai stata una colonia britannica.  L’inglese lo conoscevano tutti, mentre il danese era pressoché inutile. Probabilmente l’avrebbero abolito anche in Danimarca. Il groenlandese forse aveva la stessa (pseudo) utilità della lingua dei colonizzatori, ma almeno era piacevole da sentire.

   Ah, il patriottismo.

   Seguì un’allegra discussione dove si alternarono racconti di orsi, tonni e canguri. Forse la storia di Sesel sul tonno di due metri non era propriamente attendibile, ma almeno era bella da ascoltare. Alla fine i colonizzati si lasciarono con la promessa di imparare a lanciare il boomerang come si deve, prima o poi. Jett, da quel che si raccontava, lo sapeva fare ed aveva vinto qualche gara nella sua città, quindi cosa ci sarebbe stato di meglio che un australiano campione del mondo (Luk aveva un’idea piuttosto distorta delle città al di fuori della sua Nuuk) per imparare la nobile arte del lancio del boomerang?

   Intanto Tino, dopo aver ricevuto gli utili consigli di Berwald, era tornato in camera per riflettere ancora un po’ sulla situazione che si era creata, mentre lo svedese aveva avuto la brillante – senza un velo di sarcasmo, questa volta – idea di girare un po’ al largo, almeno per qualche ora. Chissà che nel mentre il finnico non si addolcisse un po’; lo aveva addirittura ringraziato! Le cose stavano girando nel verso giusto, finalmente. Da bravo psicologo, però, Oxenstierna aveva notato un certo nervosismo nello sbocconcellato “grazie” di Väinämöinen. Meglio non darci peso e crogiolarsi nel ricordo del gesto, più che nel modo in cui era stato fatto, giusto?

   E cosa c’era di meglio di un enorme enciclopedia per nascondere qualche sorrisetto ebete che sarebbe derivato da qualcuno dei suoi filmini mentali su Tino, che non sarebbero certo mancati in quel giorno magnifico? Così lo scandinavo decise di dirigersi in biblioteca, dove però trovò qualcun altro al quale dedicare qualcuno dei suoi film, ad appena un metro da lui.

   Rose!

   Non si poteva non provare una certa compassione per l’inglese continuamente punzecchiato dall’americano a scuola e dai fratelli in casa, iscrittosi probabilmente per trovare un po’ di pace. E anche in quel ventoso giorno di metà ottobre Alfred era presente, assieme alla sua fedele matita, che marciava imperterrita sulla schiena del britannico.

   Fu così che la magia ebbe inizio…

   Siamo in un magnifico prato fiorito, dove le genziane ed i mughetti danzano al dolce canto del vento. Proprio nel bel mezzo di questo paradiso si erige un edificio color pastello. Una signorina bionda vestita di rosa accoglie coloro che entrano, facendoli accomodare su morbidi pouf dalle tonalità chiare. Qualche minuto dopo suonano alcune piccole campanelle ed un uomoragazzoqualcuno si alza, entrando in una magnifica stanza completamente in legno, dall’aspetto caldo, rilassante e familiare. Il tizio – che identificheremo d’ora in poi in tale Arthur Kirkland – si stende su di una chaise lounge, iniziando a parlare dei suoi problemi, di come sia difficile vivere in una barca di soldi mentre americani e fratelli ti infastidiscono, di come sia idiota dipingere un centro psichiatrico (perché questo è!) di rosa, di quanto sia gay quello che l’ha progettato. Ed io, il magnifico psicologo, mi giro, uscendo con una soluzione brillante, sfavillante, sbrilluccicosa.

   « Signor Rose, credo che lei sia omosessuale. »

   Quello spalanca la bocca, poi gli occhi, poi se ne va imprecando. Un anno dopo si sposa con un uomo e adottano un bimbo adorabilmente grasso.

   Oh, sarebbe adorabile. Una volta ho accarezzato un bimbo grasso, ma si è messo a piangere. Devo averlo fissato troppo. Ah, era mio fratello.

   Berwald, protetto dal suo libro – che scoprì trattare di approfonditi studi sui vari rituali di corteggiamento di bestie che andavano dai rinoceronti agli uccelli giardinieri –, si ritenne fortunato per non aver nemmeno sussurrato la frase ad effetto del suo caro Dottor Berwald, che nella sua mente stava formando già tante famiglie omosessuali con figlioli obesi ed amabili come solo un rotolo di ciccia che parla può essere. Sbirciando ogni tanto sul libro imparò che se i rinoceronti inseguivano la partner anche per giorni per giungere allo scopo (e qui ogni malizioso potrà trovare tutti i doppi sensi che vorrà), gli uccelli giardinieri abbellivano il nido, usando addirittura spazzolini blu. Lui aveva provato con la tecnica del rinoceronte, molto di più di qualche giorno, adesso non gli restava che ornare il letto di Tino con degli spazzolini, giusto? Forse non aveva senso, ma nessuno aveva mai sentito degli uccelli giardinieri lamentarsi per le proprie storie d’amore finite male, di quanto fosse difficile trovare gli spazzolini perfetti e di quanto fossero incontentabili le uccelline. Quei baldanzosi volatili, invece, se ne stavano nel nido, tutti impettiti, a fissare le loro uova. E anche lo svedese voleva un uovo, accidenti.

   E, tra uova e spazzolini blu, Berwald avvertì uno spostamento d’aria ed il suono di un computer che si accendeva, a pochi centimetri da lui. E a manovrare il PC c’era un tizio biondo, occhialuto, abbacchiato. Il tizio del montaggio, insomma. L’amico del cuore di Tino. Aveva sempre tenuto un po’ le distanze da lui perché lo aveva considerato una sorta di “rivale”, causa probabilmente il rapporto intimo che aveva con Tino. Loro due parlavano insieme e scoppiavano a ridere per cose che conoscevano solo loro. E lui – anche il mondo circostante, ma, accidenti, un po’ di egocentrismo in questi casi non guasta – si sentiva escluso ed esiliato, con Luk che gli raccontava storie assurde su cani, orsi e corvi che tenevano palle di luce.

   Ok che avevano preso una A per quella ricerca sulle leggende dei popoli al confine del mondo, ok che da quel giorno la Boulevard aveva iniziato a guardare la groenlandese con uno sguardo che somigliava molto a quello con il quale una madre orgogliosa guarda il proprio figlio, ma dopo la trentaquattresima (nella disperazione si era dato ai conti) volta iniziava a stancare, no?

   Lo svedese, ben nascosto dalla foto di due cigni che proteggevano le proprie uova (ma soprattutto dal libro che conteneva), adocchiò lo schermo del PC. Un sito qualsiasi in lingua estone e, anche se si fosse trattato del kamasutra gay in versi, nessuno sarebbe riuscito a capirlo.

   « E quind’ t’ e Tino siet’ amici… » cominciò Berwald, chiedendosi lui stesso il perché dell’inizio di quella conversazione. Avrebbe volentieri preferito continuare a cercare nuove efficacissime tecniche di corteggiamento, ma il desiderio di riuscire a farsi amico il migliore amico del suo spasimante era troppo forte. Magari Eduard avrebbe iniziato di parlare bene di lui con Tino e, dato che una cosa tira l’altra, prima o poi avrebbero avuto qualcosa di simile ad un appuntamento e qualche decennio dopo dei figli…

   Il gioco vale la candela.

   L’estone lo fissò per un po’, con un sorriso triste dipinto sul volto. Berwald non sapeva ancora niente, ma contemporaneamente lui non aveva il benché minimo desiderio di raccontargli tutto il fatto. Quando però l’altro si mise a ticchettare con l’indice sul lavolo di legno, forse per il nervosismo di non aver ancora ricevuto una risposta, si decise finalmente a parlare o, almeno, a dare una non-risposta che magari avrebbe smorzato la sua curiosità.

   « Aaah, insomma… sì. Credo… »

   « Mh? » invece di smorzarsi, la curiosità di Berwald si era fatta più forte. Accidenti.

   « Beh, è un po’ un… accidenti, è una storia lunga e noiosa, ecc- »

   « Amo l’ storie lungh’. »

   « Ma sono fatti nostri… »

   Il campanello d’allarme dello svedese iniziò a suonare. Il pronome nostri voleva dire solo una cosa. Qualcosa di tremendo e spaventoso. Eduard e Tino erano intimi ed avevano avuto una litigata, forse. L’unica cosa rassicurante era il fatto che ci fosse un’estrema probabilità che a Tino piacessero i ragazzi… macchè estrema, era quasi un buon cinquanta percento.

   O forse si sbagliava, non poteva ancora saperlo.

   « Siet’ intimi? » chiese, mettendo una certa enfasi nell’ultima parola. Per tutta risposta Eduard guardò il pavimento, scosse la testa e tornò al suo computer, dicendo qualcosa nella sua lingua natia.

   « Mitte selles mõttes, et ma tahan... »

   « Pardon? »

   L’estone serrò la mano sinistra in un pugno, sospirando.

   « Non nel senso che vorrei io. » detto ciò spense il computer, si alzò ed uscì dalla biblioteca a passi veloci, lasciando lo svedese con un palmo di naso e l’immagine di un uccello giardiniere davanti.

 

I mesi passano…

Buonsalve a tutti, belli e brutti! (?)

Ecco, un altro capitolo (breve, peraltro) che viene sfornato davvero in ritardassimo... Non mi piace quando accade, quindi credo che durante questa settimana mi metterò sotto e riuscirò a pubblicare qualcos’altro, si spera molto presto! Ho già impostato una sorta di scaletta mentale e so più o meno cosa scrivere. Adesso che sta finendo la scuola sono tutti morti di stanchezza, ma io diventerò l’eccezione! Sarò magnifica ed efficiente, sì!

Ok, ok, forse ho esagerato, ma so esattamente cosa (il come è il problema, il come!) scrivere stavolta, quindi ci metterò un tempo relativamente breve e magari riuscirò a far raccontare il salvataggio di Lily da qualcuno x’D

Un’ultima cosa: non vedevo davvero l’ora di far agire il Dottor Berwald e temo che catalogherà qualcun altro, magari nei prossimi capitoli…

Tanti saluti e tante grazie a chi leggerà e recensirà,

                                                                                                                                                                                                                     Kaida_ _ _

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - ***


Come va, Ed?

Chapter n°12: “Come va, Ed?”

   Per l’ennesima volta, nella solitudine della sua camera, Tino era giunto alla conclusione che di tempo, nella camera, ne stava passando davvero troppo. Ok che rifletteva, ok che poco tempo prima era uscito per salvare Lily, ma doveva parlare con Eduard, assolutamente. Eppure qualcosa lo bloccava. Qualche giorno fa, semplicemente, avrebbe aperto la porta e si sarebbe diretto in biblioteca, cercando la sua testa bionda dietro ad un Apple bianco. L’avrebbe volentieri fatto anche in quel momento, ma qualcosa era cambiato. Tino non poteva sapere che anche Eduard, con il computer sottobraccio, stava pensando più o meno le stesse cose. Non sapeva che anche il suo amico desiderava con tutto il cuore incontrarlo. Voleva chiarirsi. Volevano chiarirsi.

   « Uoh, Ed! Eduard, Ed! Posso chiamarti Ed? » Luk venne letteralmente addosso all’estone. Quello era il primo incontro in assoluto tra salvatrice e salvato, quindi si allisciò i capelli con una mano. Doveva apparire magnifica ed in ordine. D’altronde i supereroi non hanno mai un capello fuori posto, giusto? E lei non voleva essere da meno.

   « S-sì? » chiese lui, esitante. Trovarsi una groenlandese a pochi centimetri non era cosa alla quale gli estoni erano preparati. Non che adesso lo siano…

   « Come va? »

   Sono tranquilla, non è davvero successo niente. Un semplice incontro fra colleghi, ecco cos’è questo. Non ho salvato nessuno, non mi aspetto mica ovazioni e grazie da persone commosse…

   « Ah, bene… insomma… » il ragazzo si pentì subito dell’insomma. Aveva già abbastanza problemi e sentiva che la regista gli avrebbe sicuramente chiesto qualcosa al riguardo. Si vedeva dalla faccia.

   Il mio grazie…?

   « Insomma che? » ecco, Luk alla riscossa.

   « Niente… » L’estone riprese a camminare, più spedito di prima. Non voleva certo apparire maleducato, ma lei gli avrebbe sicuro fatto vuotare il sacco. Purtroppo lei cominciò a seguirlo.

   « Non posso permettere che i componenti della mia troupe mi nascondano qualcosa! Poi finisce che si deprimono e questo non va assolutamente bene! » esclamò Luk, accelerando. In un altro momento, in un’altra galassia, sarebbe sembrato un gesto davvero carino. E forse lo era, anche se Eduard non sembrava d’accordo con questa opinione.

   Tenendo il computer ancora più stretto a sé, il ragazzo girò improvvisamente, accelerando. Stavano giocando a gatto e topo? Anche se, guardando le rispettive dimensioni dei due studenti, più che altro giocavano a topo e gatto. E l’estone, che qualche giorno prima si era opposto a Brangiski, adesso scappava da Jensen.

   « Ed, se poi ti deprimi e ti butti giù da un ponte io che faccio, poi? » chiese la groenlandese, quasi al limite. L’unica buona notizia era il fatto che lo stesse portando verso un vicolo cieco, ergo la Walk of Fame dell’istituto. Un corridoio grigio tappezzato di foto e premi accademici, sportivi e non. Un paradiso luccicante al quale chiunque avrebbe voluto appartenere, soprattutto per il fatto che ciò comportasse magnifici crediti extra. Luk, incantata da tutto quel luccichio, si fermò per osservare le medaglie e poi indicare uno spazio vuoto sulla parete con l’indice. « Noi saremo qui! E poi tra qualche anno riuscirò ad appoggiare il palmo della mia mano in uno spiazzo con del cemento ancora fresco ad Hollywood – o Hollynuuk – ed a scriverci il mio nome, quindi la gente inizierà a conoscermi ed amarmi ed io diventerò ricca e famosa! » concluse, entusiasta.

   « Te lo auguro, Pipaluk… » fece Eduard, cercando di non dare peso al fatto del ponte. Non era così depresso. O almeno non ancora. Nel caso le avrebbe consigliato qualcun altro come tipo del montaggio prima di buttarsi nel Tamigi.

   « Ad ogni modo, se tu ti butterai da un ponte tutto ciò non succederà! » esclamò la ragazza in tono seriamente preoccupato. « E moriresti di una morte lenta e dolorosa! E moriresti da solo! Chi vorrebbe morire da solo? »

   « Perché, ho scelta? »

   « Mh? » mugolò Luk, curiosa.

   « Eh? »

   « A te piace qualcuno! » affermò infine lei, con il dito puntato stavolta verso il viso di Eduard, che si affrettò a fare cenno di no con le mani. Ci mancava solo la regista schizzata che si immischiava nei suoi personalissimi affari. La sola cosa che lo tranquillizzava era che non avesse Lukaseiwcz davanti. Almeno Pipaluk avrebbe mantenuto il segreto, giusto?

   Non che glielo volesse rivelare, no.

   « Comunque, Ed… se me lo volessi dire potrei anche aiutarti, visto che ho una certa esperienza… » continuò la studentessa, con l’atteggiamento più calmo e disinteressato del mondo, mentre nel profondo del suo cuore moriva senza il suo “grazie”. Sperava soltanto che se l’avesse aiutato avrebbe ottenuto un ringraziamento qualsiasi, prima o poi.

   « Esperienza? » domandò il tipo del montaggio, piuttosto scettico. « Sentiamo, quanti ragazzi hai avuto? »

   « A sei anni ho organizzato dodici matrimoni nella mia vecchia classe. » annunciò seria, incrociando le braccia. « E adesso sto aiutando un mio amico nello stesso campo, quindi me ne intendo. »

   Eduard sbuffò. « Ma ti è mai piaciuto seriamente qualcuno? »

   Luk era spiazzata. Sapeva che non avrebbe potuto rispondere “sono attualmente sposata con il mio cane e credo che adotteremo un gatto”, anche se sarebbe stato davvero bello. E poi non le era mai piaciuto nessuno, Ed aveva fatto centro. Aveva solo letto qualche libro, visto qualche film ed assistito allo spettacolo di due cani che si accoppiavano, ma niente di più. L’amore era semplicemente una parola, un link su facebook o una frase di un bel libro, ma niente di più.

   « Voglio dire, sai quanto sia tremendo quando sai di amare qualcuno, ma quel qualcuno è addirittura troppo importante perché una semplice cotta possa rovinare il vostro rapporto? Sai quanto sia orribile quando la cotta non è più tale, quando cerchi di fare l’amico di sempre? E quando capisci che non ce la puoi, non ce la vuoi fare e devi far uscire da quella parte quel sentimento, tanto “o la va o la spacca”? E finisce che spacca. »

   « Non lo so. » improvvisamente Luk sentiva il bisogno di fissare i suoi stivali. Si sentiva un’ipocrita. E lo era stata per tutto quel tempo. Adesso si sarebbe volentieri buttata nel Tamigi assieme ad Eduard. Suicidio di gruppo. Depresso, ma non troppo.

   Cosa. Sto. Pensando.

   « Sai chi mi piace, Luk? »

   « Beh… »

   « Ch’ t’ piace? » tuonò Berwald, sbucato da chissà dove. In realtà aveva adocchiato il simpatico duo mentre attraversava il corridoio, sorprendendoli a fissare uno spazio vuoto nel muro. In altri casi avrebbe semplicemente provato pietà, ma in quello era più che altro curioso. Insieme a Luk c’era Eduard, ossia colui che gli doveva delle spiegazioni. Non siamo intimi nel senso che voglio io era una frase troppo ambigua per essere archiviata senza problemi.

   Eduard impallidì, incapace di alzare lo sguardo. Rispondere “Tino” era una condanna a morte bell’e buona con un bestione davanti che soffriva della stessa sindrome. Pensò che magari fra qualche anno ne avrebbero riso, mentre qualcun altro apostrofava loro Tinomani. Magari.

   « È difficile da spiegare… » con quella risposta poteva aver guadagnato tempo, ma si rendeva conto benissimo da solo di non poter fare il misterioso per tutta la vita. Prima o poi sarebbe esploso o l’avrebbe detto a qualcuno, che l’avrebbe detto a qualcun altro che l’avrebbe spifferato a Łukasiewicz. Quindi sarebbe giunta la fine della sua giovane vita, che aveva sempre immaginato come qualcosa di pittoresco e misterioso.

L’hacker – modello a tempo pieno – Eduard Von Bock si perde in un pomeriggio d’autunno, dopo essere stato visto scomparire in un turbinio di foglie. Men’s Health reclama il suo modello migliore, sguinzagliando investigatori ovunque. L’Estonia ed il mondo intero si chiudono nel dolore.

   E invece no. Sarebbe stato incenerito da uno svedese geloso. Geloso? Ma se Tino non aveva fatto che parlargli di quanto fosse fastidioso, spaventoso e tremendo? Lui aveva molte più carte vincenti, cavoli! Poteva rimontare! Non era tutto perduto!

   Gli si dipinse un sorriso speranzoso sul volto, che gli altri due non poterono interpretare in alcun modo. O forse sì.

   « Stai sorridendo! Ti piace qualcuno! » esclamò Luk, saltellando da un piede all’altro. « Non è vero, Nanuk? Non si capisce? » il progetto sul suicidio di gruppo era stato appena cancellato dalla sua personale lista delle cose da fare. « Se ci dessi qualche indizio potremo aiutarti! Ti prego, Ed! Se vuoi puoi dircelo anche con un indovinello! Sarà divertente, Ed! Ti sposerai! »

   « Fors’ no’ vuol’ dircelo. Peccat’. »

  « Infatti. » Disse Eduard, piatto. Non voleva un matrimonio organizzato dal suo più tremendo rivale. Si liquidò velocemente, con il computer ancora sottobraccio. Non si era mai sentito tanto speranzoso quanto quel giorno.

   Ce la puoi fare, Ed.

   Camminò attraverso il corridoio, con la testa alta, tra le nuvole. Troppo alta. Troppo tra le nuvole. Non si accorse che la sua testa era in collisione con una sciarpa. Con un sorriso raggelante. Con qualcuno che lo aspettava da tempo, appostato dietro l’angolo che stava girando.

   Pomf.

   Era troppo tardi quando l’estone si accorse di lui. Gli aveva già scompigliato i capelli, nell’impatto. Lui indietreggiò, aggiustandosi meglio la sciarpa e cercando di lisciarsi i capelli. Toris non faceva altro che spostare lo sguardo dai suoi capelli ad Ed, da Ed ai suoi capelli. Ormai era accaduto l’irreparabile.

    « Cholera! Eliza mi aveva prestato la piastra ed erano, tipo, totalmente perfetti! Che ti salta in mente, Eduard?! »

  « Scusa… »

    « Le scuse non bastano, Ed. » il polacco si arrotolò una ciocca tra le dita. « Voci sicure hanno, tipo, detto che ti sei messo a piangere per un pugno di Tino. E so anche che quello stesso giorno stava, tipo, piangendo totalmente anche lui. Mi devi, tipo, delle spiegazioni, non delle scuse. »

   « Non sei la prima persona alla quale racconterei un segreto… »

   Feliks gonfiò le guance, in una smorfia di disappunto. Non era il pettegolo di turno, lui.  « Non avrebbe dovuto, tipo, agire così! Perché non ti vuoi, tipo, aprire totalmente con me? E con Toris? » strinse il braccio del lituano, avvicinandolo. « Lui è tuo amico, no? Parlane, tipo, con lui! » 

   Toris sospirò, imbarazzato. « Scusalo, lo fa in buona fede… »

   « Per cosa? Avere un’altra storia da spifferare a mezzo mondo?! » non voleva alterarsi, ma aveva voglia di sfogarsi in qualche modo. La situazione che gli gravava sulle spalle era un fardello troppo pesante per permettergli di restare il pacato Ed di sempre. «  La smettete di impicciarvi tutti negli affari? Se non ne parlo saranno pure cazzi miei, no? »

   « Ehi, c-calmati! » tentò Toris, facendogli segno di tranquillizzarsi con le mani. « Feliks non vuole mica raccontare i fatti tuoi a tutto l’istituto… volevamo semplicemente sapere come stavi, Ed… »

   Chi ti piace, Ed?

   Dicci cos’è successo, Ed?

   Cos’hai, Ed?

   Cos’è successo fra te e Tino, eh?

   … Quindi voi due siete intimi?

   Si rese improvvisamente conto che nessuno, fino a quel momento, gli aveva chiesto come stesse. Ok, Pipaluk gli aveva chiesto di non deprimersi o suicidarsi, ma era diverso. Un suo amico era preoccupato. Per lui. E anche Feliks. Abbracciò il lituano, d’impulso, iniziando a singhiozzare e pensando che stesse seriamente rovinando la sua reputazione da pacato, piatto e ordinario nerd modello.

   

A volte ritornano…

Della serie “e per fortuna che sapevi cosa scrivere…”! Scusatemi se non ho risposto alle recensioni, ma EFP aveva dei problemi, almeno sul mio PC .-. non me ne vogliate, sapete benissimo che amo follemente ognuna delle vostre recensioni! Mi sciolgo al solo leggerle… ;__; fortunatamente adesso la scuola è giunta al termine e avrò molto più tempo per scrivere, ma non posso promettervi un nuovo capitolo prima delle due settimane! Sto diventando davvero svogliata, lo so… ma migliorerò, sì.

Dedico questo capitolo a… *rullo di tamburi*

Cosmopolita, l’orologiA svizzerA che possiede Ippolita, il pony più magnifico del west;

Yanyan, che scrive sempre delle belle recensioni ed è appena entrata nel giro ;w; ;

Bazylyk, alla quale non ho risposto nell’ultima recensione causa cecità, pc demente e altra roba che non vorrete ascoltare;

Chiaki, che è diventata la mia beta~;

Chloe, perché so che legge sempre tutto! So che ci sei, Chloe!

Patsit a tutte voi, carissime, e alla prossima…!

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - A Capitan America non piacciono gli inglesi misopony ***


Chap13

Chapter n°13: A Capitan America non piacciono gli inglesi misopony

   « Dai, Ed… » fece Toris, dandogli una pacca sulla spalla. Non gli era mai capitato di essere la spalla su cui piangere per qualcuno che non fosse Feliks. Il lituano era stato l’unico al quale il polacco era riuscito a mostrare le proprie cicatrici, ricordi di un suo doloroso passato del quale non parlava mai. Addirittura il suo compagno ne possedeva pochi accenni, ma non gli dava fastidio. Già avere un posto privilegiato nel cuore dell’altro gli bastava. E anche giocare con lui a scacchi, nonostante le bizzarre regole polacche adottate da Feliks, gli piaceva. E sentire piangere un suo amico perché era quella la cosa che gli mancava era tremendo. « Perché non ti siedi accanto a Tino stasera? »

   « È-è un’idea… » mormorò Eduard, sciogliendo l’abbraccio. « Ti avrò bagnato tutta la divisa, accidenti… pagherei il conto della tintoria se ce ne fosse una… potrei metterla io in lavatrice… » la sua natura timida e servizievole non tardò a mostrarsi. E Toris, anche lui della stessa natura, non fece altro che dirgli che non importava, con le mani davanti a lui, rosso per l’imbarazzo. Quando mai qualcuno doveva un lavaggio solo perché si era sfogato un po’? E così, tra una moltitudine di “non fa niente” e “pensa a stasera, piuttosto”, Eduard rimase nuovamente da solo e troppo vicino al corridoio in cui Berwald e Pipaluk l’avevano riempito di domande. Va bene, era una, ma ne valeva troppe. Si affrettò a tornare in camera.

   « Lui ci nasconde qualcosa, Nanuk. » affermò Luk, le mani sui fianchi e un’espressione decisa, volta ad ammirare orizzonti lontani. Lo svedese mormorò un “già” a mezza bocca, mentre pensava a chi potesse essere l’oggetto del desiderio dell’estone. Manon era una ragazza piuttosto carina. E anche Charlotte. E Sesel… però non riusciva a non pensare all’eventualità che gli piacesse un ragazzo. Tino. Deglutì.

   « E se gli piacesse un ragazzo? » proseguì lei, con lo sguardo rivolto verso di lui.

   « Nh! » negò lui, forse con troppa enfasi. Luk gli appoggiò gentilmente una mano sulla spalla, cosa piuttosto complessa date le sue dimensioni.

   « Avanti, non credo sia Tino… con tutto il tempo che hanno passato assieme sarebbe qualcosa di piuttosto… incestuoso, non credi? » ridacchiò, non a conoscenza del fatto che lo stesse facendo agitare sempre di più.

   Perché mi leggi il pensiero?!

   « ‘ proposit’ d’incesto… se’ ‘n elegante ritard’ per le ripres’. » La informò. Non poteva essere l’unico ad agitarsi e, da bravo socio, doveva condividere la sua agitazione con gli altri. Luk, per tutta risposta, gli fece un cenno con la mano ed iniziò a camminare frettolosamente per il corridoio, maledicendo la regola per la quale nessuno poteva correrci. Lei l’aveva fatto con un coltello in mano e nessuno si era fatto male. E inoltre cercare di camminare velocemente su quel marmo era pericoloso, si rischiava di scivolare. Perché non vivevano in una foresta? O sulla neve, magari, così avrebbe potuto sfoggiare i suoi bei kamik… Dopo aver rischiato la vita più di una volta, in seguito a qualche principio di scivolata, giunse trafelata alla porta che conduceva al cortile, notando con piacere che la sua troupe era seduta sul cemento e tutti conversavano allegramente senza importarsene più di tanto della sua assenza. Si morse il labbro inferiore, stringendo i pugni, ma, da brava regista responsabile, evitò di condividere il suo disappunto con gli altri ed arrivò in mezzo a loro, saltellando. La salutarono e Sesel si avvinghiò al suo braccio, cosa che la fece sentire decisamente più amata e le fece dimenticare l’indifferenza di prima. Solo qualche secondo dopo scoprì che il suo braccio era stato assalito dalle mani (o, più precisamente, dita) sottili di Sesel causa oddio-Arthur-si-è-spostato-di-un-millimetro-e-non-ce-la-faccio-a-sostenere-il-suo-sguardo-che-fissa-quel-muro-in-maniera-tanto-sexy. Decise di non darci peso e di soffocare una risatina quando l’isolana ebbe il suo bel sbuffare mentre l’americano prese il suo posto accanto all’inglese, continuando il discorso che tutti ascoltavano interessati e che non faceva che ingrandire il suo petto sempre più.

   In pochi secondi sciorinò loro la trama di qualche cartone improbabile con protagonisti che si potevano identificare in magici ponies colorati. Qualcuno rabbrividì scoprendo che erano più i fan adulti (uomini forzuti e prestanti che si concentravano più sugli adorabili cavallini che sulle loro signore; il fatto che la stragrande maggioranza di questi fosse single era un dettaglio di scarsa importanza)  delle bambine a seguire lo show, mentre ammiravano nelle loro buie stanzette cosplayer dai davanzali abbondanti e le parrucche variopinte. Noevo specificare che Luk più di tutti, condannata a poche ore di internet al mese, scroccate in un qualche internet point, non ci capì nulla, ma che non fece che sorridere ed annuire per tutto il tempo, giusto? Sesel ascoltò tutto il racconto con curiosità, rimanendo comunque fedele ai suoi tonni, mentre Arthur si chiese se ci fossero unicorni nel programma. Mai avrebbe espresso la propria curiosità, però. A meno che tutti a parte lui non fossero stati ubriachi e quindi in grado di dimenticare tutte le sue imbarazzanti domande su degli sciocchi cartoni per bambine. Il pensiero su simpatiche compagnie di ubriaconi che dimenticavano situazioni imbarazzanti, gli portò alla mente il momento in cui i suoi genitori, per telefono, gli avevano annunciato di avere intenzione di organizzare un party di Halloween per aumentare la propria popolarità e la possibilità del figlio di vincere le prossime elezioni che l’avrebbero riconfermato rappresentante d’istituto per la seconda volta consecutiva. Essendo una famiglia piuttosto influente nella capitale britannica, se lo dovevano permettere.

   « Comunque ragazzi, i miei in pratica starebbero organizzando una specie di party di Halloween quest’anno, quindi… » sbottò Arthur, come se si trattasse di un qualcosa di poco importante. E mentre lui parlava, quasi annoiato dal suo stesso tono di voce, le dimensioni degli occhi degli altri ragazzi alle parole party ed Halloween triplicarono. E dato che la frase “i miei stanno organizzando una specie di party”, se pronunciata da un Kirkland, si poteva tradurre in “vi divertirete da matti” qualcuno non poté fare a meno di trattenere un sorriso compiaciuto. Peccato che implicasse anche un voto quasi obbligato nei suoi confronti… ma erano o non erano in una democrazia e quindi- oh, giusto. God save the queen and vote the person who invite you in a party!

   « Se io mi travestissi da Capitan America e trovassi dei costumi di Thor, Hulk, Vedova Nera e Iron Man potremo formare la formazione completa dei Vendicatori… » pensò ad alta voce Alfred, mentre nella sua testolina ovale si faceva spazio l’idea di appioppare ad Arthur un costume da Loki e buttarci casualmente in martello di Thor sopra. Sarebbe stato un bel party, senza dubbio.

   « Dear, è più probabile trovare qualcuno che si travesta da minipony o roba del genere, invece che di quelle stupidaggini da fumetti americani… » commentò acido il britannico. « O da tonno. » e qui ci fu uno scambio di ammiccamenti tra lui e Sesel che, per tutta risposta, non riuscì a spiccicare parola ed emise una risatina nervosa, con gli occhi fissi sul cemento e il desiderio di scavare una buca dentro di esso e farne ostruire l’entrata, con lei all’interno. Possibile che fosse così impacciata ed ottusa? La sua frustrazione si tradusse in un’unghia affondata nel braccio di Luk, che imprecò qualcosa, ringraziando che la sua lingua fosse sconosciuta ai più.

Il disappunto di Alfred, invece, si tradusse con un’amichevole pacca sulla schiena di Arthur ed il suo british nose sull’asfalto. E il dolore di quest’ultimo si tradusse con tante belle imprecazioni che arricchirono il patrimonio della lingua inglese dei presenti. Una giornata all’insegna della lingua dei segni, non c’è che dire. Ovviamente, il gentleman offeso, si liquidò stringendo il suo naso dolorante e la groenlandese non poté far altro che dare il via alle riprese delle scene nelle quali il protagonista non era presente, con l’amaro in bocca per la spiacevole conclusione dei loro allegri discorsi sui pony. Ad ogni modo, raccolsero molto materiale, scaricando ognuno la tensione sul proprio ruolo nel lungometraggio. L’unica a non potersi scaricare fu la ragazza delle Seychelles, che affondava le unghie nella superficie su cui sedeva, sfaldandole e rompendole.

   Finite le riprese e scaricate le batterie della videocamera, ci fu la consueta ricerca di Berwald di Luk, all’insegna dell’accidenti-non-sai-cos’è-successo e dovevi-esserci, con risultati che andavano da un sì con la testa a qualche mugugno poco comprensibile. E dato che questi incontri avvenivano solitamente al massimo ad una ventina di metri da Tino, la ragazza si stupì che quel giorno quello non facesse parte dello scenario o del riflesso negli occhiali di Berwald.

   « Dicon’ ch’ stia ‘mpre ‘n camera, m’ no’ lo trov’, nott’ esclusa… » mormorò lo svedese, pensieroso. Sapeva di non rientrare nelle simpatie del finnico, ma non era mai stato ignorato a quel modo. E ovviamente non avrebbe potuto chiedergli il perché di quel comportamento, a meno che non volesse ottenere altro nervosismo da parte sua o uno sguardo a metà fra l’annoiato della sua presenza e l’irritato per le sue stupide domande. Non voleva niente di questo. Il giorno in cui avevano ascoltato Mamma Mia degli ABBA assieme sembrava così lontano…

   « Se riesco a beccarlo glielo chiedo… ultimamente è un po’ sfuggente, sì. E se lo è per te figurati per me… » Pipaluk provvide ad aggiustare l’impostazione della frase, ma quello fu più veloce a girare i tacchi che la sua lingua a formulare altre parole. La seconda persona che se ne andava senza preavviso.

La groenlandese sperò che la cena potesse cancellarle quel brutto sapore dalla bocca, dato che aveva finito i muffin, ma non aveva molta fiducia nella cucina inglese, quindi sperò di riuscire ad elemosinare qualche cioccolatino da Lily. Sempre che non fuggisse anche lei… non avendo individuato nessun possibile possessore di leccornie in abbondanza fra gli studenti che affollavano l’entrata, decise di tornare in camera, precedendo di qualche minuto l’entrata della sua compagna di stanza. Venne salutata con un lieve cenno della mano, mossa nel tempo necessario per riposizionarla parallelamente al braccio in modo da buttarsi sul letto senza rompersi i polsi.

   « Brutta giornata, eh? » chiese, allentandosi il nodo della cravatta e sentendosi incapace di gestire una situazione in cui lei rappresentava la tipica amica idiota e felice che non riusciva a comprendere i sentimenti di nessuno. O forse stava solo drammatizzando. Se avesse scritto i suoi pensieri in quaderno e l’avesse lasciato casualmente aperto nella pagina delle sue migliori riflessioni su di un banco probabilmente qualcuno sarebbe riuscito a comprendere la sua complessa personalità, la sua rara intelligenza e sensibilità e la sua vita sarebbe stata un tripudio di rosee emozioni e delusioni violacee, efficacemente interpretate nei numerosi quadri che le avrebbero dedicato, nelle sue autobiografie e, ovviamente, del film sulla sua vita che sarebbe stato motivo di litigio fra i maggiori produttori di Hollynuuk.

   « Alfred è un idiota. » mugugnò Sesel, che sembrava aver perduto il proprio contagioso ottimismo. Addirittura le sue codine sembravano essersi afflosciate per il dispiacere.

   « Quella era una pacca amichevole, poi se Arthur è un fuscello non lamentarti! » lo giustificò Luk, lanciandole un cuscino sopra. «  Dovrai accudirlo per tutta la vita, pensa! E vivrà moltissimo! Fa un conto dei pannoloni che dovrai cambiare… io lascerei perdere… » Sesel le restituì il favore, con un sorrisetto triste rivolto al piumone.

   « È troppo importante per lasciar perdere… »

   Ed è troppo importante per aggiungere uno dei miei commenti stupidi.

   « Come intendi coprirti quelle sfaldature? » chiese ancora la groenlandese, indicando le unghie dell’altra.

   « Credo che andrò da Mei… » rispose Sesel, alzandosi in piedi e aprendo la porta. « A cena! » si liquidò. Pipaluk diede uno sguardo all’orologio che aveva al polso, la lancetta verde dei secondi che continuava a girare, imperterrita. Mancava circa una mezz’ora all’orario stabilito per la cena. Troppo poco per mettersi decentemente uno smalto, se sognavi Hollynuuk e dovevi coprire le sfaldature di una tua amica delle Seychelles. Forse per la famigerata Mei, taiwanese chic di professione, no. La ragazza con gli occhi a mandorla era conosciuta in tutto il dormitorio femminile per la sua capacità di rendere qualsiasi ragazza uno splendore, possedendo un senso della moda innato e una trousse fornita di qualsiasi trucco una donna potesse sognare. Insomma, le unghie di Sesel erano in buone mani, essendo Mei ferrata anche nella nobile arte della manicure. Voci sicure raccomandavano che creando un arcobaleno con sette colori dei suoi mille smalti si arrivasse alla famigerata trousse d’oro, protetta da un leprecauno. E, nonostante la storia del leprecauno l’attirasse, Luk non si era mai affidata a lei. Non sarebbe stato un filo di matita sugli occhi a renderla interessante, lei aveva il suo magnifico carattere. E poi si sentiva bella, era un peccato che quasi tutti i ragazzi che conoscesse le chiedessero di presentarle le sue amiche. Il problema era esprimere le sue qualità agli altri, se lo diceva sempre. Ma tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare o, nel suo caso, una capacità organizzativa che rasentava il last minute e ore ed ore di sproloquio.

   Quindici minuti alla cena. Berwald aveva rischiato un infarto alla vista dell’orologio appena uscito dalla doccia. Quindici minuti. Solo quindici. Tino non c’era, non si era fatto vedere per tutta la giornata eccetto in classe e sentiva il tremendo impulso di vederlo, tenerlo d’occhio ed averlo ad una distanza ravvicinata. Ecco perché si sarebbe seduto accanto a lui, quella sera. Si vestì il più velocemente possibile ed inciampò su di un foglio di carta lasciato strategicamente sul pavimento marmoreo per ucciderlo. Fresco, vestito, salvo e profumato, si diresse verso la sala da pranzo con l’agitazione celata di chi sta per passare la serata con il proprio spasimante e che, se non si sbriga, perderà il posto accanto a lui, perché non si tratta di un appuntamento organizzato.

   Cinque minuti alla cena. Eduard ringraziò il cielo che Jett fosse già uscito e non stesse saltando da un letto all’altro fingendosi qualche fantomatico esploratore in un’oscura giungla. Stava cercando di trovare la forza di uscire dalla camera, sedersi accanto a Tino e parlare. In uno sprazzo di coraggio, aprì la porta e riuscì ad arrivare nella sala senza troppi problemi.

   Due minuti alla cena. Due persone si stavano sedendo accanto alla medesima. Due paia di occhi si incontravano stupiti, spaventati, rassegnati. Due menti iniziavano ad elaborare strane strategie. E la mente dietro agli occhi viola nel mezzo non riusciva a capirci più niente.

   Luk, intanto, era contenta che la cena consistesse in patate al burro.

 

Cha-cha-cha! (?)

*entra ballando* è finita la scuola, me ne sono accorta pienamente oggi – a quasi un mese di distanza, ovviamente – mentre il mio fido gelato si scioglieva sulle mie (ancor più fide) mani. E dopo uno sprazzo di improvvisa gioia e spensieratezza ho guardato il diario, accorgendomi che sono nella cacca, pardon, nei compiti fino al collo. Ma, come disse il timer di una bomba, c’è ancora tempo e quindi non me ne sono preoccupata più di tanto.

Scherzo, l’angoscia mi è finita nelle vene, unita al fatto che non riuscirò – a quanto pare, ma c’è ancora una misera speranza –  a connettermi per circa un mese… D: non so come farò senza di voi e il web in generale, ma dovrò sopravvivere. Il fatto che non sia su internet fortunatamente però include che non aggiornerò, quindi le vostre menti saranno salve per un po’! Bello, no? *ha, tipo, totalmente fatto delle rime, cioè*

Ah, se il capitolo vi piace non è merito mio, ma di Marie che me l’ha betato. E di Kie che mi ha detto che Sesel non era OOC, perché ero in crisi x°°° il titolo invece è mio e accetto tanti bei pomodori in risposta. Anche se Marie avrebbe potuto farmi cambiare idea. È COLPA SUA, GWEEEEE--- *corre via piangendo*

*ritorna* bella partita quella di ieri, eh? Mi ero fatta il trucco tricolore e facevo ondeggiare la bandiera ogni nanosecondo. NON VA BENE, NO. Dobbiamo rifarla, non vale. (?)

Misopony (pronunciare misòponi): odio verso i pony. (???) voglio dei grossi pomodori su questa faccia.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Tristi patate ***


Tristi Patate

Chapter n°14: Tristi patate

   « Cia’. » non aveva idea di come cominciare un discorso, Berwald. Se già si trovava impacciato con Tino per cause naturali, con Eduard tanto vicino la sua mente non riusciva a fare altro che chiedersi perché diavolo fosse lì. Anche tutti quei film mentali su di un omicidio fra le mura dell’istituto però non erano male e, benché la sua immaginazione fosse sempre stata abitata dal Dottor Berwald, non poteva dire di non avere il fascino dell’assassino. Oltre alle porte della psicologia, dunque, gli si sarebbero spalancate anche quelle del cinema e delle serie TV della serie C.S.I Stoccolma.

   Tutti queste sue fantasie non fecero altro che compensare il silenzio imbarazzante che intanto si era creato fra loro, interrotto solo dal tintinnare dei piatti di ceramica sulla tavola, appoggiati con poca grazia dall’inserviente della mensa, una triste donna di mezz’età con i capelli rinchiusi in una retina che amava la TV e il suo fantomatico figlio trasferitosi in un qualche paese esotico dopo aver guadagnato un mucchio di soldi. Il fatto che ne parlasse con gli occhi luccicanti di una madre orgogliosa (col figlio al quale di questo orgoglio materno non importava un bel niente, a quanto pare) faceva nascere o compassione o scetticismo. La povera signora era tanto triste e sola che pur di intavolare una misera conversazione con qualcuno era disposta ad inventarsi un figlio ricco e famoso.

   « In realtà quella del figlio è solo una bugia creata dalla sua mente per cercare un minimo contatto umano, anche in qualcuno di inesistente. Se continuerà così finirà con l’accudire bambole di plastica, signora. » avrebbe detto il Dottor B., togliendosi gli occhiali in maniera innegabilmente sexy e prescrivendo una cura miracolosa a base di infuso di zucchero filato e fagioli magici. Ma non c’era tempo per pensare a lui, adesso. Qualcuno doveva trovare un modo per cominciare la conversazione.

   « Patat’. » fece lo svedese, cercando di apparire la persona più felice del mondo alla vista del tubero. Purtroppo non era né tedesco né un irlandese vissuto durante la Grande Carestia, quindi la cosa non gli riuscì molto bene. O meglio, non gli riuscì perché era semplicemente lui.

   « Non ti piacciono? » chiese Eduard con un filo di voce. Perché Berwald era lì? Proprio quella sera? Ne avrebbe avute milioni da passare nella vita, non poteva permettersi di rovinare quelle degli altri. In un momento di particolare odio verso il rivale sperò che fosse inconsciamente allergico alle patate, ma che quelle lo ispirassero tanto da fargli fare un scorpacciata. E anche se dal tono di voce non sembrava tanto contento, gli sarebbe bastato un semplice assaggio per lasciarlo secco, dato che la sua allergia sarebbe stata ovviamente caratterizzata da morti fulminanti. « C’è il burro… » aggiunse, sperando che magari fosse intollerante al lattosio. Combinazione letale.

   Non parlavo con te. Lascia parlare Tino. E mi piacciono le patate, sì. Ma prima mangiale tu, così potrai tapparti quella dannatissima bocca.

   Amore e odio nascono e crescono in tempi notevolmente veloci, si sa. Anche l’imbarazzo però non scherza, notando la gote del finnico, sempre più purpurea. Perché era proprio là in mezzo? Perché Luk non stava tenendo Berwald in ostaggio? Se l’era mangiata pur di raggiungerlo? E perché Eduard si era deciso a parlargli (non ancora, ma quella probabilmente era la sua intenzione) proprio quella sera? Non potevano mettersi d’accordo per vederlo, come fanno tutte le coppie divorziate?

   Un momento. COSA. STO. PENSANDO.

   « A te piacciono le patate, Tino? » domandò ancora Eduard, prendendo un altro po’ di coraggio, cosa che lasciò lo svedese interdetto. Non poteva parlare in sua presenza, non doveva. Lui era il grande Nanuk che aveva spaventato intere legioni di studenti, che metteva in soggezione con un solo sguardo. Nessuno poteva parlare con Tino in sua presenza. Nessuno.

   Berwald usa sguardo omicida.

   « Non immagini quanto… » rispose Tino, girandosi dalla parte dell’Estone e cogliendo, più che il significato letterale, l’altro senso della domanda, pensando che sarebbe stato un momento magico quello in cui i ragazzi che aveva ai lati avrebbero esclamato in coro “anch’io!” e se ne sarebbero finalmente andati, lasciando spazio a compagn(i)e più gradite.

   Berwald fallisce. Berwald si evolve in Svedese Triste!

   Era ancora più doloroso di non trovarlo mai in camera. Lo ignorava per dare attenzione a qualcun altro, ecco la cosa peggiore. Qualcosa di brutto e mortificante gli invase il cuore, sembrando volerlo tenere per sempre in quella morsa. A meno che Eduard non sparisse all’istante, ovvio. Era lui il problema. E Berwald non ricordava di aver mai provato un odio tanto profondo nei confronti di qualcuno in maniera tanto infantile ed, in certo senso, giustificata. Spostò lo sguardo verso la folla per far sbollire un po’ la rabbia e non posare il suo sguardo glaciale – avrebbe desiderato che fosse incandescente, in realtà – su qualcun altro e lasciare Tino più tranquillo. Si capiva dal modo sconsolato con cui fissava il piatto che non gradiva tutte quelle attenzioni. Mentre la vista indagava tra i volti dei commensali, qualcosa gli sfiorò la manica della giacca. Si stava strusciando.

   Chi osa?

   « Ciao! » Luk spostò a sua volta lo sguard+-+o verso Eduard e Tino, alzando una mano in segno di saluto. Ovviamente non ricevette alcuna risposta, se non un sorrisetto nervoso di Tino. Eduard era troppo concentrato per dire alcunché. Probabilmente stava scaricando dei dati nel suo cervello usufruendo del wi-fi.

   Come chiarirsi con il tuo amico e uccidere gli svedesi di troppo.zip – file in download, attendere…

   « Sappi che ti sto inviando tutta la mia energia positiva, Nanuk. » lo informò la groenlandese, con tono serioso. « Quindi se sentirai scorrerti in corpo una forza prorompente, beh, sono io! » si batté la mano destra sul petto, orgogliosa. Berwald ignorava ancora (e sempre avrebbe ignorato) i motivi del suo arrivo e, soprattutto, dell’improbabile invio di energia. Doveva monitorare i movimenti degli altri due, con attenzione. Fino a quel momento non c’era stato nessuno scambio di sguardi complici, la situazione era rimasta stabile. E il fatto che la stabilità coincidesse con sguardi imbarazzati, discorsi appena abbozzati e poi subito troncati, sorrisetti nervosi e così via non faceva sperare in uno sviluppo migliore, né per Eduard né per Berwald. Almeno i due contendenti avrebbero avuto come premio di consolazione la sconfitta dell’altro. Meglio di niente, ma davvero poco.

   Eduard si sentiva terribilmente fuori posto, in quello scenario. Era al lato sinistro, all’esterno di qualcosa che sarebbe potuto accadere, qualcosa che sarebbe potuto andare avanti. Troppo lontano da un risultato che non sarebbe riuscito a raggiungere, dopo tutti gli anni di confidenze, risate e amicizia. Un’amicizia che magari ad occhi esterni era potuta sembrare indissolubile, una di quelle amicizie che sarebbe finita – almeno fisicamente – con un fiore poggiato accanto ad un epitaffio, con i racconti di un vecchio nonno, le battute di circostanza, “amici come quelli non se ne vedono più!”. E bene o male era stato così, per i primi tempi. Amicizia, pura e semplice, disinteressata. Era stato lui a renderla qualcosa di diverso, da quando aveva iniziato a desiderare ben altro che passare un po’ di tempo in più con il finnico, da quando sfiorarlo per un semplice gioco era diventato un piacere che andava ben oltre i canoni di un’amicizia normale, per così dire. E Tino non se n’era accorto, fino al momento in cui le loro labbra erano arrivate a sfiorarsi, fino a quando le braccia di Eduard non l’avevano stretto un po’ di più, finché due occhi verdi non l’avevano guardato, speranzosi di essere stati compresi una volta per tutte. Credendo che tutti quegli sguardi, quegli invisibili segnali avessero fatto accendere una scintilla in lui, credendo che sapesse. E adesso quegli stessi occhi lo guardavano come lo avevano sempre guardato da un anno a questa parte. Rassegnati, con una minuscola scintilla di speranza che, però, adesso tardava a farsi vedere. Non brillavano più.

   « Berwald. » lo svedese si girò di scatto, tant’era diventato impaziente di sviluppi. Ebbene, si arrendeva? Oppure no? Che diavolo voleva, adesso? Perché Tino continuava a rigirare la forchetta tra le patate, disinteressato ai loro discorsi? O faceva finta? O non aveva sentito? Nonostante fossero tanti i quesiti che lo attanagliavano, si limitò a rispondere con un grugnito disattento e lo sguardo ancora posato su qualcosa di vago. « Non importa. » e qui gli sorrise. Lo scandinavo restò per un po’ ad esaminarne il sorriso. Era stranamente dolce e vero. Perché non gli importava? Si riferiva a Tino? E perché Luk stava stranamente zitta? Dov’era tutta quell’energia positiva che gli stava inviando? Stava solo iniziando a innervosirsi, con quello sguardo mellifluo davanti. Eduard sembrava un ebete, perché non si decideva a darsi un contegno e ad andarsene, accettando la sconfitta.

   Non importa.

   Forse non gli importava di essere sconfitto o di vincere. Stava semplicemente lasciando perdere. Si era arreso, ma quello sguardo era stranamente sereno. Perché si stava alzando, perché salutava Tino e Luk? Perché salutava anche lui? Non erano nemici, fino a prova contraria? Stava lasciando perdere prima di iniziare? O aveva già iniziato? Lo sguardo di Tino si posò sullo svedese per un attimo, incredulo. Credeva che si sarebbero battuti, in qualche modo. Che avrebbero cercato di aggiudicarsi le sue attenzioni, mettendolo più in imbarazzo di quanto non fosse già. Si sarebbero lanciati arcigni sguardi di sfida e si sarebbero dati appuntamento all’alba, in un posto abbastanza lontano da occhi indiscreti, per passare alle mani. Si rese improvvisamente conto quanto fossero egoistiche queste sue teorie. Tutti a battersi per lui, il centro del mondo. E invece Eduard era andato via, tranquillo, e Berwald fissava il burro fuoriuscire dalle patate ormai fredde. L’inserviente della mensa passò, sottraendogli le patate da sotto il naso e mettendogli davanti uno spezzatino. L’espressione non era cambiata, però, e le sue guance sembravano essersi tinte di un colore più acceso. Si girò di slancio verso di lui, fulminandolo con lo sguardo. Tino iniziò a mangiare la carne.

   « Eduard se n’è andato, Nanuk! » esclamò Luk, cercando di attirare la sua attenzione. « Che gran botta di fortuna, eh? » e qui s’infilò in bocca un grande pezzo di carne, cominciando a masticare con lena. « Un po’ stopposa, non credi? »

   E quindi quel grande turbinio d’emozioni, quegli sguardi e quello strano sorriso rassegnato, erano rimasti sconosciuti al resto? Nessuno si era accorto di niente? Era stato un evento intimo, distaccato dagli avvenimenti del mondo circostante.

   « No’ ho ‘na gran’ fame. » fece lui, voltandosi poi verso Pipaluk. « E ‘piegami ‘sto fatto de’ energia positiv’. » si interruppe un attimo. « Spiegam’. » Luk sorrise al tentativo dell’altro di rendere più comprensibile il proprio accento.

    « Si vedeva che eri in difficoltà, Nanuk. Fin quando saremo sochi dovrò spalleggh- insomma, aiutarti. » affermò lei, con le mani incrociate davanti al petto. Era riuscita ad evitare una caduta nel suo mirabolante accento, quindi si sentiva molto orgogliosa di sé. Per l’altra pazienza, ci sarebbero state altre occasioni.

   « No’ ho bisogn’ d’aiuto. » mugugnò lui. Ci mancava solo una tappa che gli facesse da balia. Carino da parte sua, ma alquanto fastidioso per lui.

   « Questo l’hanno detto un sacco di persone prima di morire, Nanuk, eh-eh! » ridacchiò per un po’, contenta della battuta ad effetto. « Ma forse per ghli orsi polari non vale! » colpo di glottide per finire in bellezza.

   Lo stesso giorno Eduard fece richiesta per ritirarsi da scuola alla fine del quadrimestre e tornare in Estonia. La segretaria lo trovò stranamente tranquillo.   

 

I’m back!

Salve, mie care carissime lettrici, lettori e procioni! (?) Si vede che l’Inghilterra m’ha fatto male, eh… fortunatamente sono tornata sana, salva e affamata, soprattutto. E vorrei ben dire, dopo due settimane di mele, riso, verdure lesse e pollo arido… vi dirò, il pane-con-sopra-salsa-di-pomodoro-e-mozzarella-che-doveva-essere-pizza era buono, già. E i tizi della mensa simpatici. E il professore figo. Dovrei scrivere una mail alle mie amichette del Kazakistan (alzi la mano chi lo conosceva già!) e anche alla francese, sennò credo che penseranno che io sia la solita italiana pesaculo che le ha già dimenticate. Beh, tra un po’ raggiungerò le palle di polvere nell’esotica Metaponto (vale la stessa domanda riguardante il Kazakistan x°) e, lì, a fare da cibo alle zanzare e alle meduse, avrò un bel po’ di tempo per scrivere… che dire, mi siete mancate. Tanto. <3                                                                                                                                E adesso passiamo alla pallosa parte della fan fiction, yeah… devo farvi un annuncio che vi riempirà di gioia, già. Avete presente il fatto che le cose belle finiscono e bla bla bla? Beh, lo fanno anche le cose brutte, quindi tra un paio di capitoli (non di meno, non di più, a meno che non succeda qualcosa di non previsto) la ff volgerà al termine, tra costumi, Luk e milkshake. E vi ho detto tutto il dicibile. (?)

Baci al gusto di fish ‘n chips – che poi, le squame di pesce si trovano in parecchi rossetti!,

                                                                                                                                                              Kaida_ _ _

P.S.: Che titolo figo, eh? Eh...

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 - This is Halloween! ***


Zucca

Chapter n°15: This is Halloween!

 

   I giorni che separavano gli studenti del college dall’evento più atteso dell’autunno – la festa di Halloween a spese dei Kirkland, ovviamente – passarono velocemente, tra interrogazioni, primi compiti in classe e, per quanto riguardava Luk, corse a rotta di collo per evitare di far tardi all’ennesimo appuntamento con la sua troupe, giù nel cortile. Appuntamento organizzato da lei, poi. E l’idea di mettersi una sveglia sul cellulare oppure di attaccarsi dei post-it in fronte non la sfiorava minimamente, mai.                              L’aria autunnale cominciava a farsi sentire, col sole che scivolava dietro i palazzi senza neppure aver avuto il tempo di riscaldare alcunché e le siepi che iniziavano a spogliarsi. E la pioggia che batteva più che mai, ovviamente. Più volte si erano ritrovati a dover invadere qualche stanza per girare le scene all’interno, visto che non c’era stata altra scelta.

   Ma andiamo al dunque. Era quasi la sera di Halloween e l’istituto sembrava essersi svuotato del tutto, con quasi tutti i ragazzi stipati nelle loro stanze a sistemarsi i costumi. A passeggiare nei corridoi del dormitorio femminile, si sarebbero potuti sentire i vestiti frusciare sui loro corpi, mentre roteavano davanti ad un qualche specchio, in un turbinio di “Come mi sta?” o “Non avrei dovuto mangiare tutti quei muffin…”.

   Quella che proprio non si faceva problemi sui muffin che ingurgitava abitualmente, era Luk, spaparanzata sul proprio letto, a fissare Sesel che si infilava in un vestitino adorabile, modificato solo qualche tempo prima dalle abili mani di Mei – eh sì, la taiwanese ci sapeva fare anche con ago e filo – e, secondo il parere della groenlandese, davvero anana. L’isolana non faceva altro che sorridere nervosamente, rimirando la sua immagine nello specchietto messo strategicamente sulla finestra in modo da potersi guardare interamente. L’abito di acetato azzurro, monospalla, le stava alla perfezione e le piccole paillettes sulla spallina destra sembravano proprio delle piccole squame, che diminuivano in un effetto di dissolvenza, diventando pian piano che si scendeva sempre più rade e infine lasciando l’acetato nudo. Sorrise alla sua immagine riflessa e le sorrise anche Pipaluk, nella sua maglia di lana bianca e con un paio di orecchie da orso in testa, applicate su di un cerchietto scuro che si confondeva col colore dei capelli. Non era poi così chic come si era immaginata nei suoi viaggi mentali verso le scintillanti serate di Hollynuuk, anzi. Eppure ci ho provato, continuava a dirsi, sono i vestiti che mi rifiutano. Sarei una femme troppo fatale, con uno di quei cosi addosso. Potrebbero mettermi in prigione, chissà. Eppure, nel suo inconscio, sapeva che avrebbe dovuto iniziare a ripiegare sullo sgranocchiare cereali integrali e a correre decentemente in palestra, anziché camminare. Quella sua sorta di goffo travestimento da orso polare della serie non-entro-nei-vestiti-ma-ho-fantasia-da-vendere però le piaceva. Le sue orecchie erano così morbide! Iniziò ad accarezzarsele, allontanando i tristi pensieri su di un possibile abbandono dei muffin. Ma senza di lei cosa avrebbero fatto, tutti soli? Chi li avrebbe rubati e portati con sé in lungo e in largo? Chi avrebbe fatto conoscere loro il mondo, usandoli come spuntino nelle uscite a Londra? Chi?

    Lo squittire nervoso della ragazza in acetato la ridestò, non riuscendo comunque ad allontanare la sua mente dal pensiero di un bel muffin al cioccolato. « E poi, Luk, nel caso si vestisse da figo alla festa – cosa che farà! – che diavolo dovrei dire, eh? Non posso sembrare una maniaca! Che faccio, Luk? » le mani tra i capelli, i capelli tra le mani, l’espressione persa da giovane innamorata. A Luk brontolò lo stomaco. Il muffin doveva sentirsi solo…

   « Dovresti spiegargli che, ehm… lui ti piacerebbe comunque anche senza quei vestiti, sempre e comunque! Lo ameresti anche se fosse un topo morto in un sacco di patate, perché è lui! Leggi Twilight e fatti venire qualcosa! » affermò lei, in piedi sul letto e con il dito indice rivolto verso la lampada sul soffitto.

   « Twilight, libri americani… che dovrei farmi venire, un accidenti? » chiese lei, sarcastica.

   « Mi fai paura, smettila! Questo paese e quel tizio ti stanno rovinando! Torna a pescare e lascia perdere l’istruzione in questo paese senza sole, donna! » la groenlandese alzò le braccia al cielo – in quel caso, al soffitto –, esasperata. « Se continui così ti cresceranno le sopracciglia! » l’altra, per tutta risposta, esplose in una risata cristallina. Davvero attraente. Luk si morse un labbro. Arthur, a sentirla, sarebbe caduto ai suoi piedi. Ovvio che l’avrebbe fatto. Sesel era carina, simpatica e abbronzata, con i capelli setosi e profumati. In quell’abito era semplicemente magnifica e poteva contare su di una risata sexy. Lei cos’aveva? Un paio di orecchie di peluche e dei rotolini indesiderati da nascondere.

   « Luk, sei una sagoma! » continuò la bruna. « Perché non hai un fidanzato? »

   Lei fece per aprire bocca, poi se ne uscì con un “Capita anche ai migliori!” e andò in bagno per esaminare la sua immagine riflessa nello specchio. Niente bugie, niente Sesel che dice che sei adorabile con quelle orecchie. Solo una superficie trasparente e fredda che ti mostra come sei in realtà. Una faccia tonda, due occhi troppo piccoli e, nell’insieme, una ragazza che dovrebbe far ricorso ad un lifting – o alle mani di Mei. Mei che, sicuramente, a quell’ora era chiusa in bagno con la sua inseparabile trousse e non aveva tempo per nessuno. Provò a farsi una treccia, ma era praticamente inutile con i capelli che al massimo le accarezzavano la base del collo. Forse se si fosse data per malata nessuno avrebbe notato la sua assenza. Forse, ma avrebbe lasciato i suoi migliori soci – vedesi Sesel e Berwald – senza la sua ispiratrice presenza. E anche se, facendo due più due, non aveva fatto poi molto per loro, si sentiva comunque una traditrice ad abbandonarli così, da vigliacca. Si sarebbe potuta sedere vicino al tavolo del punch mandando la propria energia positiva da lì e nessuno l’avrebbe notata, no? E avrebbe rimediato un sacco di punch. Magari avrebbe trovato anche qualche alcolico posizionato a tradimento da qualche studente scaltro, chissà… e si sarebbe goduta tutta la festa da spettatrice passiva, monitorando i suoi protetti. Non sembrava poi così male, come piano. Si sforzò di sorridere all’immagine riflessa, che– chi l’avrebbe mai detto! – ricambiò. Uscì dal bagno come se nulla fosse accaduto, a testa alta.

   « Mi permetta di allontanarmi dalle mie stanze, Miss Tuna… » fece, indietreggiando mentre si abbassava in una marea d’inchini. Sesel ridacchiò. « Mi sposto nel dormitorio maschile. » e, detto ciò, chiuse la porta dietro di sé. La ragazza sgranò gli occhi per la sorpresa, e non perché fosse proibito. Era possibile farlo, ma per questioni d’etichetta che pochi – ragazzi particolarmente avventurosi e coppiette – avevano deciso di contestare, i dormitori femminili e maschili agli occhi degli individui di sesso opposto apparivano categoricamente off limits. E anche per Luk, in realtà. Era la prima volta che si avventurava tra quei corridoi, mentre si chiedeva se ci fossero russi spaventosi che ne proteggessero le porte o che sbucassero dagli angoli, però non voleva stare nella sua stanza un minuto di più. Chiamasi complessi di inferiorità improvvisi.

    Uno, due, tre… qual era il numero della stanza di Berwald e Tino? Il finlandese doveva avergliene parlato qualche volta, no? Sfiorò il mogano di una porta, poi ritrasse subito la mano spaventata, sentendola vibrare. Qualcuno ci doveva aver sbattuto, e con forza. Perché sembrava tanto impaurita? Era solo una porta e qualche cretino ci aveva sbattuto accidentalmente. Nessun russo in vista. Era un semplice dormitorio, cavoli. Con ragazze un po’ meno intelligenti e mutande più capienti, nient’altro. Non aveva bisogno di un coltello stretto nella mano per cavarsela. Nessuna corsa che avrebbe compromesso la sua reputazione.

   Quattordici, quindici, sedici…

   « Mh---! »

   Un solo, unico mugugno. Doveva essere Nanuk, per forza. Spalancò la porta con tutta la sicurezza del mondo. Sicurezza che andò a farsi benedire quando le si parò davanti un tizio quasi in mutande con una sorta di bizzarro copricapo provvisto di corna sulla testa. Tizio che, poi, conosceva. Tizio che esclamò “Bloody Hell!” cercando di coprirsi con il cuscino, come se fosse una ragazza sprovvista di reggiseno. Tizio che aveva organizzato il party e che si stava trattenendo dallo scattare per chiuderle la porta in faccia. Tale Arthur Kirkland. Ah, i casi della vita. In compenso adesso aveva una storia in più da raccontare davanti al fuoco.

   « Ah, regista! » il responsabile del cappello si sporse verso di lei, con un sorriso beota stampato in faccia. Almeno non aveva sputato qualche imprecazione. « Quand’è stata l’ultima volta che ti sei trovato una ragazza in camera da letto, Arthur? » lo punzecchiò. Quello si mise una camicia in fretta e furia e si girò dall’altra parte.

   « Tu sai dov’è la stanza di Tino e… Berwald? » chiese la groenlandese in un soffio. Era strano chiamare lo svedese per nome e non si era mai trovata davanti ad una reazione tanto esagerata. In fondo era un maschio, Arthur. Tutto quel macello l’aveva messa in imbarazzo. All’americano parve strano vederla così. Di solito erano allo stesso livello: due adorabili simpaticoni. Sembrava Sesel, adesso.

   « La ventitré, mi pare… » poi iniziò a socchiudere la porta, in seguito agli ordini del britannico, che assomigliava ogni secondo di più ad una vecchia bisbetica. « Scusa, sua maestà deve adempire al rito della vestizione… » il copricapo cornuto gli atterrò in testa, un chiaro invito a sbrigarsi. « … Belle orecchie! » poi chiuse definitivamente l’uscio.

   Ventitrè, ventitré. Cerca di non scordartelo, Luk. Non vorrai aggiungere altre figuracce alla tua bella lista, no?

   Ventuno, ventidue, ventitré. Fece un gran sospiro e bussò. Stavolta ebbe in risposta un altro mugugno, ma di quelli autentici.

   « Nanuk? » chiese, aspettando una risposta. Quello – perché ci aveva azzeccato, stavolta –, dall’altra parte della porta, inizialmente non riuscì a collegare il suono squillante di quella voce a nessuno. Poi la sua mente corse alla groenlandese che tanto le era stata appiccicata. La socia. Era lì, quindi?

   « L’k? » buffo chiamarla col suo soprannome. Lei annuì, pretendendo che Berwald avesse degli occhiali a raggi X per vederla. Dopo un po’ assentì a voce, iniziando a premere con forza sulla maniglia. Chiusa.

   « D’bbiam’ far’ la d’ccia. » spiegò l’altro, adocchiando la maniglia che si muoveva su e giù, ininterrottamente. La groenlandese bussò un’altra volta. Che diavolo voleva?

   « Ma io devo entrare… » avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non restare lì fuori, alla mercé di… nessuno, in pratica. Però voleva starsene chiusa da qualche parte, senza Sesel che le chiedevano se stessero bene e senza inglesi urlanti. Ovunque. Perché aveva scelto proprio quella camera, poi? Che avrebbe potuto fare? Che avrebbe dovuto fare, meglio. Sapeva quanto lo svedese gioisse della sua “affettuosità”, ma era comunque il suo socio. E Tino il suo migliore amico, nonostante fosse davvero sfuggente negli ultimi tempi. Scrollò le spalle. Il fatto che tu sia socia o amica di qualcuno non ti obbliga ad irrompere nella sua camera quando non riesci a reggere il confronto con la tua compagnia di stanza.

   « Beh, non vorresti mica lasciarmi qui fuori, no? » riprese, un sorrisetto nervoso sulle labbra. Il silenzio che ci fu dopo non le augurava nulla di buono. A torto, perché qualche secondo dopo si ritrovava sul letto comodo di Tino, ad esaminare un copricapo vichingo dal quale pendevano lunghe trecce rosse. Di Berwald, a quanto pare. Tributo a Pippi. Magari Tino avrebbe seguito il suo esempio travestendosi da ippopotamo bianco¹, chissà. Ed in effetti ci aveva pensato, peccato che in Gran Bretagna non fossero così tanto famosi…

   « Sesel è meravigliosa. » disse Luk, mettendosi l’elmo in testa. « Io sono un orso. Un orso che ha mangiato troppi muffin. » sospirò, girandosi i pollici.

   Ci mancava l’inuit depressa, ecco.  

   « Gl’ ‘rsi son’ figh’. » tentò Berwald. « Vad’ a d’cciarm’… » al contrario della sua controparte immaginaria, non è che Berwald fosse un gran consolatore. E poi c’era Tino, lì. Si sentiva a disagio. Si chiuse nella doccia, aprendo il getto dell’acqua calda. In pochi secondi era immerso nel mondo nebbioso e avvolgente della doccia. Come ogni essere umano, pensò per buona parte del rito. Magari se si fosse dimostrato più affettuoso con Luk Tino avrebbe capito una volta per tutte che era un adorabile orsacchiotto svedese e l’avrebbe sposato tra qualche anno o giù di lì… perché non ci aveva pensato prima? Magari Luk aveva messo su la commedia dell’amica depressa per dargli una possibilità in più… ma avvisarlo prima no, eh? Mandargli un po’ di energia positiva per avvertirlo, come alla cena? Appoggiò la testa sul vetro della doccia, il getto – ormai bollente – gli ustionò la schiena. Si allontanò di scatto dallo schizzo, spalmandosi sulla superficie trasparente e piacevolmente gelida. Forse aveva ancora una possibilità, però. In fondo Eduard gli aveva spianato la strada, ritirandosi a quel modo. Alcuni dicevano che si sarebbe addirittura ritirato tra qualche mese per motivi ignoti. Chiuse l’acqua, sgusciando fuori dalla doccia ed avvolgendosi immediatamente un asciugamano in vita. Era nudo come un verme e Luk sarebbe potuta entrare da un momento all’altro. O forse non era tanto stupida e pervertita. Ma non avrebbe comunque corso il rischio. Si mise anche le mutande, prima di sbucare fuori dalla porta.

   « … mica male, eh? » fischiò la groenlandese, ammiccando a Tino. Quello si girò dall’altra parte. Berwald raccattò il costume da vichingo per poi richiudersi nuovamente in bagno.

   « L’hai spaventato. È come un cerbiatto. » osservò il finlandese, per poi estrarre dalla tasca dei pantaloni una bandana alquanto piratesca ed esibire uno dei suoi migliori sorrisi. « … Io sono un pirata! »

   « Ed io sono un orso che si ubriacherà di punch! » riprese lei, rivolgendogli un altro sorriso.

   « Dai, Luk, sei una bella ragazza… » Tino le diede un buffetto. « Devo stare qui a propinarti quelle frasette smielate che si condividono su facebook per farti contenta? »

   « Nah! » Luk si lasciò andare, atterrando di schiena sul letto. « Sta un po’ con Nanuk, stasera. È proprio un bel vichingo! » dettò ciò, saltò in piedi ed in poco tempo fu sulla porta. « Fallo per me, Tino! »

   « Ma pensa a rimorchiare! » La porta si richiuse, un cuscino ci sbatté contro, cadendo rovinosamente sul pavimento. Sul viso del ragazzo comparve un sorriso amaro. Probabilmente anche lo svedese avrebbe pensato a rimorchiare. E lui conosceva anche il suo obiettivo.

   L’anno prima ci era andato con Eduard, alla festa in maschera. L’avevano organizzata nel periodo di Carnevale ed era stata una sorta di “regalo” dall’istituto agli studenti, poiché quello stesso anno uno di loro aveva raggiunto uno dei primi posti (se non proprio il primo) in un concorso d’informatica. Ed non era riuscito a qualificarsi per una manciata di punti, causa notte in bianco per cercare un film che Tino doveva assolutamente vedere. E aveva cercato un download decente in un disperato tentativo di strappargli qualche altro sorriso. Al finnico, però, disse che si era trattato solo di un mal di pancia per quei ggshhgs che gli aveva preparato. Quella sera, con una maschera sugli occhi, ci avevano riso su, facendo il brindisi col punch e aspettando che qualche ragazza in minigonna si abbassasse per allacciarsi le scarpe. L’estone aveva appena cominciato la sua recita. Faceva un po’ male, ma forse ce l’avrebbe fatta. In fondo aveva ancora qualche anno, per provarci! Mentre adesso si ritrovava con i giorni contati e la valigia che gli ricordava quel che aveva fatto, dietro la porta. Ogni tanto, quando la sbatteva troppo forte, il suo bagaglio – ancora vuoto –  cadeva con un tonfo sordo, facendolo quasi trasalire. E poi si metteva la testa tra le mani e si scompigliava i capelli, chiedendosi perché. Perché a lui, perché a lui e Tino. Eppure andava così bene, prima.

   Tino si chiese da cosa si sarebbe vestito il suo amico, quell’anno. Si chiedeva se avrebbe partecipato alla festa, se sarebbe restato da solo o con Raivis, quel tipo lì che gli stava sempre appiccicato da un po’. Uno di Riga, a quanto pare, conosciuto per il fatto che tremasse continuamente e non facesse altro che dire cose a sproposito, pur tremando. Sentì uno strano sentimento, quasi un malessere, che si infiltrava in lui, al pensiero del ragazzino biondo. Gelosia, perché Eduard era suo amico o almeno lo era stato. Invidia nei confronti del lettone, perché c’era lui accanto ad Ed, adesso.

   Qualcosa gli frusciò accanto. Alzò piano lo sguardo per accorgersi dell’enorme vichingo che lo sovrastava, le trecce color carota che gli arrivavano alle spalle. Inquietante. 

   « T’ no’ d’vevi far’ ‘l pirata? » chiese, sistemandosi meglio il cappello.

   « Non ho molta voglia di travestirmi da idiota, oggi… »

   « Fa f’nta ch’ sia d’mani. » la sua poco nota verve svedese ebbe un certo successo, perché Tino si mise addirittura la benda nero per coprirsi un occhio, oltre alla bandana. Un minuscolo, inaspettato successo. Il finnico, dallo specchio, riuscì ad intravedere un debole sorriso.

*    *    *

   Halloween non era mai stato così sfavillante. Mentre Luk alzava in segno di brindisi il suo bel bicchiere colmo di punch, il suo sguardo abbracciava l’intera sala. Enormi tavolate ripieni di qualsiasi tipo di dolciumi esistenti nei quattro angoli, tutti in tema rigorosamente mostruoso. Spostando lo sguardo, poteva vedere una sorta di teschio di ghiaccio dal quale sgorgava punch rosso carico, che a sua volta si riversava in capienti recipienti di vetro colorato, a forma d’alambicchi. A volte sul cranio trasparente si infrangevano fasce di luce lanciate dai lampadari, riflessi talora da alcune palle di luce psichedeliche.

   « Alla mia salute! » brindò, prendendo un lungo sorso della bibita, a quanto pare analcolica. Meglio di niente, comunque. Doveva distrarsi dalla sfavillante Sesel e dai muffin glassati ad arte a pochi metri da lei. E, soprattutto, a quello che teneva in grembo. L’aveva morso giusto una volta, un pochino. E ogni tanto lo sbocconcellava, trastullandosi nella convinzione che, mangiandolo così, non sarebbe ingrassata. Ma la sua consistenza soffice e cioccolatosa, contrastante con i croccanti ragnetti di zucchero sulla sua sommità ricoperta di glassa candida, era semplicemente irresistibile. E poi il giorno dopo avrebbe cominciato la dieta, sicuro.  Qualcosa di peloso, saltellante ed australiano le sfiorò la manica lanosa.

   « … Jett? »

*    *    *

   Sesel era già dietro al suo Arthur, vestito in perfetto stile Harry Potter. Non gli mancava neppure la sciarpa, ovviamente da Grifondoro. Appena arrivata, la brunetta aveva attirato a sé i più entusiastici complimenti, soprattutto da parte di Mei, in un sinuoso abito rosa che le aveva aggiudicato le simpatie di Feliks, il quale non aveva fatto altro che saltellarle intorno per tutto il tempo. Era un adorabile paggetto medievale, con le maniche bianche e cascanti e tutto il resto, calzamaglia compresa. Toris, che cercava di tenerlo calmo, la curva del sorriso perennemente tremolante, aveva optato per l’avvincente accoppiata jeans & maglietta, con un’enorme stampa del drago di Varsavia. Inutile spiegare che fosse stata indossata sotto pressione del polacco.

   Il vichingo cercava di parlare con il pirata in una continua risacca, allontanandosi e poi avvicinandosi di nuovo. E il finnico non faceva alzo che alzare la testa per rispondere con sufficienza allo svedese e per cercare il vecchio amico. Come se non  lo avesse già visto, in un angolo troppo lontano a parlare con Raivis. Ma lo cercava nuovamente, sperando di cambiare la realtà. Sperando che si avvicinasse o che muovesse il braccio ed alzasse la voce per chiamarlo, per farlo avvicinare. Niente di niente. Solo un gigante che scandiva le parole a fatica, che non faceva altro che stargli appiccicato, che non perdeva la speranza.

  Ed in effetti, se ci pensava, neppure l’estone aveva perso la speranza e gli era stato vicino, sognando che prima o poi il finlandese avesse capito. Sognando, appunto. E scontrandosi con la realtà quel giorno in cui tutto si era spezzato, quel giorno in cui aveva capito che un anno passato a sognare, a provarci, non erano valsi a niente. Doveva agire, evitandosi tutte le sofferenze. Sofferenze che l’avevano colpito come un fulmine a ciel sereno, che avevano colpito entrambi. Solo perché non si era deciso, aspettando che l’altro capisse. A pensarci, questo andirivieni dello svedese era piuttosto coraggioso. Almeno ci stava provando, lui. Silenziosamente, però stava sempre facendo qualcosa di concreto, nonostante sembrasse uno di quei bambini che, finiti i biscotti, tornassero comunque a frugare nella credenza, sperando che nuovi biscotti apparissero magicamente, pronti per essere mangiati.

   « Berwald? » lo chiamò, non appena si fu avvicinato. Non l’aveva mai chiamato con quel tono quasi entusiasta, che per lo svedese era tutto nuovo. E piacevolissimo. « Lo vuoi un muffin? » chiese, poi.

   Luk dev’essersi impossessata della sua mente. Non ci cascherò.

   Però nel frattempo cascarci e seguirlo come un cagnolino si era mostrata una tattica vincente, poiché il finlandese gli aveva offerto un muffin – uno di quelli che Luk stava bramando dall’altro lato della sala, per intenderci – e si era messo a parlare. Con lui. E cominciava a sfogarsi. Si sedettero su un paio di sedie nere, con dei fitti disegni di ragnatele. E parlarono di Ed, del fatto che gli mancasse ma che le cose non sarebbero mai più tornate come prima, del fatto che lui, invece, fosse più coraggioso, del fatto che forse Luk non aveva tutti i torti, di come fossero stupide quelle treccine rosse. O meglio, Tino parlò. E Berwald ascoltò con attenzione, il solito sguardo gelido di sempre mentre l’altro metteva la sua anima a nudo. Così, all’improvviso.

   « E mangia quel muffin! » lo esortò poi, dato che la glassa stava iniziando a sciogliersi, nella sua presa d’acciaio. Beh, doveva pure aver sfogato la tensione del momento in qualche modo, no? In fondo la persona che più gli piaceva, che più aveva cercato, gli aveva appena fatto un enorme discorso su un po’ tutto.

   Tanto lo so che è Luk e che domani mi sveglierò con Tino col broncio.

   Tanto valeva godersi l’illusione, però. Era così dolce. E anche il muffin non era da meno.

*    *    *

   Un po’ meno dolce era la situazione che stava vivendo Sesel, con un americano che distruggeva pian piano i suoi sogni di gloria, cercando di appioppare ad Arthur un cappello cornuto. E il britannico, da bravo padrone di casa, tentava di scappare e spaventarlo con qualche imprecazione, ottenendo solo grasse risate da Capitan America. Eh già, lo statunitense si era infilato in un’assurda tutina attillata, ma ne stava valendo la pena.

   La bruna cominciò a stropicciarsi l’abito azzurro, in preda al nervosismo. Arthur non l’aveva degnata di uno sguardo, tanto era occupato a fuggire dall’altro. Era disorientata, imbarazzata, intimidita, ma riuscì a raggiungere prontamente l’americano e ad afferrargli un lembo del costume aderente con le mani, tirandolo a sé.

   « Alfred. » quello si girò con un sorriso beone dalla sua parte, sbalordito di trovarsi una Sesel tanto carina in quel vestito lucido. Diede uno sguardo al trafelato potteriano davanti a lui. Sorrise, fece una sorta di saluto militare e corse via, dicendo di dover andare a salvare il proprio paese. L’inglese si girò verso il punto in cui si era fermato il suo inseguitore, vedendolo trotterellare via verso il tavolo del punch, Sesel che lo seguiva con lo sguardo, attenta affinché non tornasse. E non serviva essere dei geni per capire, dai suoi pugni chiusi, che per la serata fino a quel punto non era stata delle più rilassanti.

   « Ehi, Sel? » Sel. Non conosceva neppure il perché di quel soprannome, sfuggitogli così dalla bocca, però gli piaceva come suonava. Era dolce come una fata e guizzante come un tonno, sempre che una parola potesse guizzare. Comunque, era perfetto.

   « Sì? » domandò lei, dimenticandosi all’improvviso di tutta la bilirubina portata al fegato nei minuti prima. Quello si avvicinò, le mani in tasca. Come un motociclista figo che sapeva quel che faceva, gli mancavano solo gli occhiali da sole, sostituiti da un paio dalla montatura tonda alla Potter. E sarebbe stato davvero un buon motociclista impassibile se il cuore non gli stesse battendo all’impazzata. La figura della brunetta stretta nel sinuoso vestitino azzurro le ispirava parecchi pensieri dei quali si stupida lui stesso. Sentiva risuonare la voce di Alfred nella sua testa, che chiedeva di che colore fossero le sue mutandine.

   « Le sue mutandine, le sue mutandine! »

   Avvampò, apprestandosi a dare la colpa alla sciarpa e sputando, intanto, qualche imprecazione. Fece un gran respiro e le chiese se volesse concedergli un ballo, visto che l’aveva salvato dall’uragano Alfred. Argomentazione piuttosto misera, ma convincente. Non aspettarono neppure che cominciasse la musica.

*    *    *

   « … E quindi questo è il mio impero! » finì Luk, annuendo con enfasi. Se avesse avuto i suoi occhiali da neve sarebbe stata tutta un’altra cosa, ma doveva accontentarsi. E poi aveva già diviso il suo muffin in quattro, cosa che la faceva sperare sempre più intensamente in un ventre completamente piatto.

   « Pf, è una figata! » fece Jett, ingollando la sua parte di muffin. « Quindi fai, chessò, il meetic vivente? » Le sue storie su amici, inciuci e palle di luce erano piuttosto interessanti. Anche se le leggende che propinava, da vecchietta nostalgica, non centravano molto con gli altri fatti. Si appoggiò al tavolo, facendo rotolare per terra un dolcetto a forma di zucca. La sedia accanto a quella della ragazza, infatti, era stata occupata da Matthew, quel canadese che non vedeva da oh mio Dio un sacco di tempo. Canadese che non aveva preso nessuna parte del muffin, lasciandole a Capitan America che si era trattenuto un po’ con loro e quel neozealandese amico di Jett.

   « Già, e modestamente funziono abbastanza bene… » disse lei, dando un rapido sguardo al suo impero. Jett sorseggiò rumorosamente dal suo bicchiere di punch, indicando una coppia più lontana.

   « Cacchio sì che funzioni! » esclamò l’aussie, muovendo il guantone da box rosso fuoco che gli avvolgeva il pugno. « Guarda un po’ come pomiciano! »

   A Luk cadde il muffin.

*Le resuscita*

Ohilà, carissimi lettori, carissime lettrici e stimatissime recensitrici, Kaida è tornata! E non ci ha messo neppure poco, eh… ma tra vacanze – che adesso bramo ferocemente, tra compiti in classe che sembrano non finire mai e prof. convinte che dieci righi di traduzione siano pochi –, compiti delle vacanze (che quasi nessuno s’è preso la briga di correggere, ARGH), approvvigionamenti di cancelleria manco fossimo in guerra (o forse sì), depressissimo inizio della scuola e video dementi per i compleanni di alcune mie amiche, beh, non riuscivo a trovare un momento nel qualche ficcare il mio amato spazio della-scrittrice-in-crisi. Poi, un’illuminazione – a voi giudicare se sia stata una buona cosa o no – ed il consecutivo ritiro spirituale all’interno del rilassante mondo di Word. Davvero poco rilassante se si considerano le numerose pause pre e post crisi da scrittrice in erba (in tutti i sensi, LOL, basta leggere un po’ quello che la mia mente malata partorisce), ma comunque migliore delle ore passate col capo chino sul greco, immersa tra le millemila pippe mentali della serie “Se solo stessi frequentando il linguistico” o “Se solo fossi greca” o “Se solo i greci avessero parlato usando gli ultrasuoni, i veli colorati e le scorregge di pony”. Ma, in un modo o nell’altro, ho scritto. E, con un biscotto sulla memoria ed un saporaccio di dentifricio in bocca, posto ciò. Non spennatemi. Anzi, sì. Mi sento matura, oggi. B’I

Cicca cicca bum bum,

                                                                                                                                     Kaida_ _ _

   P.S.: Si vede che il titolo non è uno dei miei soliti, eh? X°°

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 - I see Hollynuuk! ***


Zeeee

Chapter n°15: I see Hollynuuk!

   « N-Non stanno pomiciando! » lo corresse Luk, mentre si malediceva per aver distrutto quel capolavoro di pasticceria, adesso ridotto ad una massa informe e marrone, per la quale ormai non era più valida la regola dei quattro secondi. Non era un bello spettacolo. E ad i suoi occhi era uno dei più grandi sprechi di zucchero, farina e amore, nonostante sul tavolo al quale era appoggiata la sua sedia ci fossero abbastanza muffin da sfamare un reggimento. Ma d’altronde la tragedia è tale soprattutto se viene vista nei singoli casi, giusto? Il povero muffin che non verrà più mangiato, le papille gustative che aspetteranno inutilmente la sua venuta, i denti che addenteranno un altro strato di glassa… E intanto Luk continuava a fissare il dolcetto, sperando che si ri-materializzasse all’istante, tornando nella sua mano. Niente di ciò succedeva. Sarebbe dovuta ritornare alla sua vecchia vita di studentessa in lotta contro i grassi.

   « Ma da che razza di eucalipto sei caduto?! » ringhiò, gli occhi che luccicavano di rabbia, all’australiano. Il quale, sorpreso dal repentino cambio d’umore della groenlandese – e per una causa del genere, poi – si limitò a fare un sorriso ebete di chi non ci sta capendo un tubo, di quello che sta succedendo.

   « Mi è morto il muffin, ecco! » riprese quella, con voce lamentosa, ficcandosene un altro – stavolta intero – in bocca e cancellando la voce dieta dai suoi impegni. « Lui era così carino e lo stavo mangiando così bene… » una mantide religiosa non avrebbe detto altro. E, con le guance ingrandite due volte tanto causa muffin, Luk non sembrava la persona più seria del mondo. Forse per quello Jett si sentì quasi in dovere di dover richiamare la figura professionale dell’analista. O forse perché, semplicemente, voleva troncare i discorsi che gli portavano alla mente teste di amanti sbocconcellate.

   « Ah, una volta sono andato da un’analista! Dovresti provare, è una figata! Ma il tuo meetic è molto meglio, sì! » a pensarci, per quanto riguardava lo sforare, Pipaluk e Jett non erano messi poi in modo tanto differente.

   « Mpf-! E chi credo, sto passando Halloween a mangiare muffin, con un canguro accanto-! » e lo disse con melodrammaticità, Luk, quasi stesse sacrificando la sua stessa vita per il bene di due (sperando) futuri amanti. Beata Luk Cupido Martire in lana, ecco cosa si sarebbe dovuto festeggiare, il trentuno di ottobre. E tutti a fare i meetic viventi. E lei ad ammiccare ai suoi discepoli dal lucente paradiso inuit, dove le foche e le balene si lasciano arpionare in pace e gli orsi sono teneri compagni di bevute.

   « Almeno è un canguro figo-! » appuntò quello. « … che vive nell’isola più grande del mondo. » e qui fece un sorrisetto da vincente, saltellando verso la pista da ballo. Luk gonfiò le guance – ormai svuotate dal muffin, ingoiato con foga in un momento di odio verso l’Australia – per il disappunto, cercando nella sua tonda testolina qualche frase ad effetto. Doveva vincere, stavolta. Lo scettro di Margherita di Danimarca sulla propria testa e le battutine del danese in classe erano già abbastanza.

   « Anche tu groenlandese, eh? » chiese, gridandolo quasi. Fu l’ultima battuta. Aveva vinto.

*   *   *

   Come recitava il regolamento, tutti gli studenti sarebbero dovuti rientrare nel college non dopo le dieci di sera, pena il trovare i cancelli ormai sbarrati al più piccolo ritardo, chiusi automaticamente dal direttore che, con una precisione svizzera, pigiava il bottone che rendeva l’istituto un mondo a sé stante, protetto da una barriera invalicabile. Nonostante la presunta invalicabilità, erano trapelati avventurosi racconti di studenti che erano riusciti a scamparla, scavalcando i muri ed addormentandosi beatamente nei loro letti ad orari che avrebbero fatto schiumare di rabbia il preside. Ma andiamo al dunque, ossia al mesto ritorno alle ventidue di adolescenti stretti in strani costumi, con troppo punch in corpo, gli ormoni in subbuglio e la testa per aria dopo gli ultimi balli. Il gruppetto (che tanto etto non era, poi) si distingueva facilmente tra la folla, non meno bizzarra in quella notte, così compatto e allegro. Nessuno avrebbe pensato che ognuno di quei goliardi giovini non avesse nemmeno un goccio di alcol nel sangue. Eppure, strano a dirsi, erano ubriachi. Di aria, di punch, di muffin, d’amore. Ognuno a suo modo, non poteva più definirsi sobrio. Sesel che si stropicciava il vestito, seduta in un angolo della metro, persa in fantasie troppo dolci per fermarsi, con Luk abbandonata sulla sua spalla, gli occhi socchiusi per la sonnolenza dovuta ai troppi muffin (o per le troppe energie impiegate a cercare una risposta decente, chissà). Tino col mento appoggiato al polso in un equilibrio precario, che lanciava brevi e sfuggenti occhiate all’estone e allo svedese. Il primo, troppo concentrato a propinare strategie su un videogioco per pensare a qualcosa, il secondo che batteva un ritmo solo suo con il dito, sul suo ginocchio, con il cervello in pappa per le troppe novità scaturite dalla serata.

   Una voce limpida e senz’accento avvisò i passeggeri dell’aver raggiunto la fermata. L’allegra comitiva si alzò, otturando tutte le uscite del treno in un’accozzaglia di corpi che spingevano in cerca della luce artificiale della stazione. A parte qualcuno che dovette affrontare un’altra fermata e scappare a rotta di collo verso la scuola, sperando che la cancellata fosse ancora dischiusa, gli altri uscirono dal treno sani e salvi. E forse fu a causa di un improvviso attacco di sonno da parte del dirigente o per la fortuna, ma anche i ritardatari la scamparono, oltrepassando le porte, ancora aperte alle dieci e sei minuti di sera. Ritardatari tra i quali spiccava Alfred, che già si atteggiava da veterano di guerra, non risparmiando particolari sull’adrenalina che era diventata la maggior componente del suo corpo in quella folle corsa verso la salvezza.

   « Un after-party! Ecco che si fa! » aveva poi esclamato lo statunitense, sulla cima delle scale che l’avrebbero condotto al dormitorio maschile, con un branco di ragazzi troppo su di giri per addormentarsi. L’approvazione – tutt’altro che silenziosa – dei compagni non fu neppure troppo inaspettata, tanto che durante il celebre after-party saltò fuori che già s’era provveduto a conservare birra e alcolici poco costosi per un evento del genere. Brangiski confessò candidamente di aver in camera abbastanza vodka per le prossime festività. E alcune bottiglie, a suo dire, erano avanzate dall’anno precedente, fatto abbastanza sospetto per essere passato per veritiero ma che, nell’euforia del momento, venne commentato con ovazioni su ovazioni. Nessuno aveva più paura del coprifuoco, l’alcol nel sangue era troppo perché si potesse provare un sentimento differente dall’euforia. Euforia improvvisamente interrotta dal rumore sordo di una porta sbattuta con violenza contro il muro. E poi il corpo del professore di matematica del primo anno che si muoveva rigidamente nella camera affollata, il dito puntato contro ognuno dei volti dei presenti, i rimproveri sputati con violenza, gli occhi iniettati di sangue, i pochi capelli chiari sparati in aria, anch’essi che sembravano additare ognuno degli studenti. Il paragone con uno Stanlio esaurito non sarebbe stata azzardata.

   La minaccia dell’espulsione fu sibilata, a denti stretti, fece ritornare gli allegri beoni pavidi come micetti, più impauriti dalla possibile reazione dei genitori ad una punizione del genere che di altro. Micetti, però, abbastanza ebbri da offrire, uscendo, pacche gratuite all’insegnante, ancora in quella fase dell’ubriachezza nella quale non ci si pente di quel che si sta facendo, ma in cui il solo pensiero di una strigliata e di una vita di rinunce confinati nella propria camera conferiva abbastanza terrore da mantenere almeno una remota area del cervello attiva e sobria, finalmente. Della serie andiamo-a-dormire-ma-possiamo-farti-cadere-a-terra-con un’-amichevole-manata-perché-ancora-non-capiamo-niente.

   Tino si era nascosto dietro la tenda, mentre quello sbraitava. E poi era sgattaiolato via dalla stanza ad una sua distrazione, appoggiandosi ai muri del corridoio e compiendo il tragitto un po’ saltellando, un po’ trascinandosi, con un sorriso beato dipinto sul volto, tant’era l’alcol che circolava nel suo sangue. O al posto del suo sangue, giusto per denotarne la concentrazione. Le mani gli tremavano un po’, forse perché qualche minuto prima avevano stretto la sciarpa del russo – che oramai non riusciva più a ragionare – abbastanza forte da far male. Era inebriato dal profumo della vendetta, alito alcolico e sudore maschile e birra, puzza di chiuso di quella stanza troppo piccola per contenere tutti. E nonostante ciò era dolce e faceva montare in lui il desiderio di averne altre, di vendette, magari da sobrio. Un ghigno bramoso scacciò il sorriso precedente, mentre il finnico si spalmava sulla porta di quella che doveva essere la sua camera.

   Berwald era lì. Già troppo intontito da tutto per partecipare ad un after-party ed imbottirsi di alcolici, troppo confuso per dormire. E quindi aspettava che arrivasse l’altro, fissando un immaginario soffitto che non vedeva, con il buio e la miopia. Vagava nella noia e nell’oscurità, attento ad ogni minimo rumore. Un corpo abbandonato contro la porta. Una risata, strana. Forse era Tino. Oh, sì che era Tino. Aveva memorizzato la sua voce, sapeva come rideva e quanto amasse l’alcol. Aveva alzato il gomito, sicuro, e aveva bisogno di lui, che stava già tastando disperatamente il comodino alla ricerca degli occhiali e… oh, si era già rialzato. E aveva sbattuto qualcosa contro la porta, per farsi aprire. Qualcosa di grosso e duro.

   La testa.

   « Ah, sa! Quand’ero ancora un baldo giovine non pensai inizialmente a quest’opzione, oh-oh! » avrebbe esclamato il Dottor Berwald, intervistato in una trasmissione del pomeriggio da una valletta d’annata, mentre dava piccoli colpetti colpi col gomito a suo marito, che avrebbe ridacchiato con lui. E così tutto lo studio. E anche gli unicorni, fedeli compagni. Ma per le battute squallide di un vecchio dottore c’era ancora tempo.

    « Be~er, apri la porta! » lo pregò il finlandese, con una voce alquanto zuccherosa. Berwald poteva vederlo con le guanciotte piene e rosa, infilato  in un vestito alla Holly Hobbies, mentre si tormentava un ricciolo dorato. « Ti pre~ego~! » immediatamente, lo svedese si alzò. Aveva troppo potere su di lui e poi non era propriamente colpa sua, quanto dei suoi ormoni. Lui seguiva solo l’istinto. Istinto che gli sarebbe stato davvero utile, adesso che non trovava più gli occhiali, muovendo disperatamente le mani davanti a sé, alla ricerca della maniglia della porta. Eppure sapeva che era ubriaco, che non si sarebbe dovuto scomodare tanto, perché probabilmente Tino l’avrebbe scordato. Ma illudersi, giusto un po’, era così dolce… e, soprattutto, non gli faceva pensare al brusco risveglio che avrebbe avuto. Le mani del finnico gli avrebbero sfiorato per un attimo la guancia, in un grazie sommesso. E poi sarebbe ritornato a dormire, sognando quel ricordo e cullandosi nella dolcezza del momento. E poi lui si sarebbe alzato e gli avrebbe stampato un bacio, sulla bocca. O sulla fronte, gliel’avrebbe certamente perdonato a causa della poca illuminazione. E invece aveva ancora un braccio sul comodino ed un piede fuori dal letto, pronto a scattare per aprire. E la testa di Tino che bussava, con un certo ritmo, il lessico che si faceva sempre meno zuccheroso, mano a mano che sentiva pulsare il capo sempre più forte. Nonostante tutto, non la smetteva. E, non essendo disposto, come i picchi, di una simpatica e funzionale area spugnosa nella scatola cranica, in grado di attutire i colpi, con l’aumentare di questi ultimi facevano capolino anche le imprecazioni in finlandese, che le orecchie dello svedese accolsero con sommo gaudio, pensando a chissà che cosa. Poi, un tintinnio di chiavi. Una voce amica che lo canzonava affettuosamente, aprendo la porta al posto suo. Il fascio di luce che accecava gli occhi stanchi dello svedese, mentre Tino inciampava malamente sui suoi piedi e si infilava nel letto, vestito.

   « Berwald. » lo conosceva bene, quel timbro vocale.

   « Ed. » Aveva la gola secca e la lingua impastata, fino ad un attimo prima, ma riuscì a dirlo senza mozzicare le parole. Non che ci fossero tante vocali da lasciare per strada, ma aveva studiato quel momento nei minimi particolari. Avrebbero guardato il tramonto assieme e si sarebbero dati delle belle pacche sulle spalle. Poi Eduard sarebbe finalmente tornato in Estonia e a lui sarebbe rimasta tutta la torta. Su un ripiano un po’ troppo alto e difficile da raggiungere, ma avrebbe trovato una scala. Ma, a parte l’Ed, non ricordava più una parola del suo fantomatico discorso sull’amicizia, sull’amore e su quanto fosse bella e piena di ragazzi l’Estonia. E non era neppure in condizioni di dare pacche sulle spalle.

   « Tienilo d’occhio, ok? » riuscì a vedere il suo sorriso nel buio, tagliato nel mezzo da pugnali di luce. Tremava, il sorriso finto. Il tono calmo che aveva cercato di mantenere per tutti quegli interminabili giorni si era irrimediabilmente incrinato e adesso i laghi smeraldini dei suoi occhi lottavano a fatica con la forza di gravità, invisibili agli altri.

   « Sì. » il silenzio, interrotto appena dal russare leggero del finnico e dal conciso botta e risposta tra i due, era diventato pressante e difficile da sostenere. E ancor più complesso da rompere.

   « Spero di riuscire a preparare la parte grafica del film in tempo. Luk ha detto che siamo sochi e non vale, però… » si interruppe per una breve risatina, stentata. «… però ho visto come ti guardava Tino, alla festa. Forse questa è la volta buona. I miei migliori auguri. » e invece avrebbe soltanto voluto gridargli contro. In una sua idea egoistica del mondo, Tino era suo. Nessun altro aveva il diritto di strapparglielo. Loro non capivano le loro battute, le loro allusioni. Non le avrebbero mai capite. E invece ecco che il suo amico, il suo migliore amico, lo abbandonava. E forse era stata colpa sua, del suo silenzio riguardo ai suoi sentimenti prima e della sua impazienza di mostrarli, della sua impulsività mai vista dopo, ma a questo non pensò. « I miei migliori auguri. » sibilò poi, mentre richiudeva la porta. Berwald premette la fronte contro il muro, ripetendosi che ne valeva la pena, ne sarebbe valsa la pena. Eduard inciampò nel nulla, come l’amico poco prima, atterrando sulle proprie ginocchia. Lo amava, Tino. Strinse i pugni, le unghie che premevano nella carne. Se ne stava andando per quello. Per Tino, se ne andava. Lo lasciava perché gli voleva bene, per il bene di entrambi. E sperava di dimenticare e di essere dimenticato. E si rialzava a fatica. « I MIEI MIGLIORI AUGURI! » gridava, una volta sola. Una falciata nel silenzio della notte. Sorrise, ed era vero. Basta lottare, basta soffrire, basta Tino. Lo svedese uscì di corsa dalla stanza, con una forza di volontà sconosciuta. Forse l’energia positiva di Luk, arrivata in ritardo? Eduard camminava tranquillo verso la sua stanza, con le mani in tasca. « Tervitus. »

   « Tack. » non lo capiva, l’estone, ma era l’unica cosa da dire.

*   *   *

   Non successero poi grandi cose, in quei mesi, non avvennero grandi imprese che vale la pena raccontare. Le riprese ripresero – perdonate il gioco di parole – con la consueta discontinuità, la regista che lottava contro il tempo per arrivare in orario nel cortile, sempre più freddo ed inospitale, e le frecciatine del cameraman su Sesel e Arthur, che finivano quasi sempre in educatissime risse. Tino non sbuffava ogni volta che Berwald tornava in camera ed avevano appena cominciato a cantare le canzoni degli ABBA assieme quando la città cominciò a vestirsi di rosso e la pioggia lasciò il posto ad una neve leggera. Quando i ben noti ritardi di Luk lasciarono spazio ad una strana isteria passeggera, perché non c’era mai tempo e la pagina di novembre venne strappata brutalmente dal calendario della classe. L’ultima ripresa venne festeggiata con muffin rubati ed i celebri cioccolatini svizzeri di Lily. Feliks raccontò che lo svedese ed il finnico avessero preso un milkshake insieme, in quell’occasione, in un centro commerciale. Nessuno conosceva i dettagli della faccenda. Luk sapeva solo che Berwald, di punto in bianco, le aveva sorriso e le aveva chiesto di darle il cinque. E lei lo aveva stretto in un caldo abraccio groenlandese. E lui non aveva fatto resistenza.

Epilogue

   Mai messa tanto in ghingheri, Luk, mai. Mai perso un chilo, mai. Mai il rossetto rosso o la piastra, non facevano per lei. Però quella volta doveva brillare, perché la prima del tuo film (lungometraggio amatoriale sarebbe decisamente più corretto, ma film fa decisamente più effetto) non capita tutti i giorni, di certo. Non del primo film. Non del film che ti ha vista correre con un coltello in mano, non del film che ha fatto avvicinare due persone, non del film che ha visto un canadese conoscere la Groenlandia, non del film che ha fatto andare Eduard via. Ma non si vive di farfalle e arcobaleni, d’altronde. Ed erano tutti lì, Eduard compreso, nella prima fila di una sala proiezioni un po’ improvvisata, in contrasto con gli studenti eleganti stretti come sardine, su sedie imbottite e polverose. Il conto alla rovescia, addirittura. Eduard aveva fatto proprio un bel lavoro. La regista si voltò verso tutti i suoi attori, collaboratori, amici. Avevano fatto tutti proprio un bel lavoro. Sorrise, perché tutto era partito da una biblioteca, un fraintendimento, un soprannome ed un mucchio di fogli. Dalla promessa di una possibile Hollynuuk, dalla promessa di un possibile appuntamento. Una promessa mantenuta.

   Strinse il polso di Berwald accanto a lei, gli occhi brillanti. « Si va in scena, Nanuk. »

   E quando arrivarono gli applausi, Hollynuuk era tremendamente vicina.

 

Fine.


Izz ovah.

E anche questa piccola, tenera fycci – come amo chiamarla – è giunta all’epilogo. Vi dirò, quando scrivevo le ultime righe (o anche solo quando le pensavo) mi prendeva un senso di vuoto terribile. Perché, nella sua obbrobriosità, questa ff mi ha accompagnato per un bel po’ (causa aggiornamenti lenti, lentissimi… Vogliate perdonarmi!) e credo che se il mio iniziale progetto di scrivere una long-fic poco long da concludere appena a febbraio (a febbraio!) non sarebbe stato altrettanto doloroso lasciarla, con tutte le sue banalità, titoli strambi, battute e colpi di genio (molto colpi) o con tutti quegli appunti sparsi su fogli e fogli. Sono contenta che alla fine tutto sia andato più o meno per il meglio – forse un po’ meno per Eduard, ma cercherò di farmi perdonare ;v; - e di essere riuscita a finirla, però. Mi sento piena di orgoglio per una cosa che guarderò tra due mesi esclamando “macheccazz—“, ma se lo farò sarà pieno di giuoia e tenerezza materna.
Ok basta, sono contenta di aver messo la parola fine a quest’agonia, cià-cià.
Non è vero, mi mancherà.
Se ci penso però grazie a ‘sta cosa ho creato anche la Luk su effebbì, quindi è una figata.
Vabbè.
Le ultime parole sono le più difficili da scrivere.
E quest’ultimo Angolo dell’autrice non finirà come ve lo microonde.


Ringraziamenti

A Hollynuuk, che è tremendamente vicina,
Alla cartina sulla Groenlandia, senza la quale non mi sarebbe mai venuta in mente l’idea per scrivere ‘sta roba,
A tutto il team HNE (vi voglio bene, guyz), che mi ha accolto e che all’epoca non mi faceva dormire, al solo pensiero di aver creato una Mary Sue,
A Kaya, che è un gran pensatore e, soprattutto, un gran comico, A Proibito, che pure mi ha aiutato ed ai libri in generale che sono una gran cosa,
A mia cugina che non riusciva a leggere la ff perché rideva troppo,
Alle frasi/versioni facili, che mi hanno fatto risparmiare tempo,
A Claudia, che è una grandonna (?) e dice che scrivo bene,
A Cristina, che mi passa gli yaoi e sa un botto di cose fighe,
A mia sorella, che deve averli visti (sennò il disegnino di due omini nudi che amoreggiano a 6 anni non me lo spiego),
A La_Marie, che ringrazio per quando mi ha fatto da beta e mi ha aiutato,
A Renard, che è l’alfa,
Ad Aki_Mori, che è la mia amica-di-Napoli personale,
Ad alysschan, che mi permette di ruolare IceGreen (e forse non conosce neppure ‘sta fic, LOL),
A Cosmopolita, che recensisce sempre e che forse andrà in Inghilterra,
A miristar, che è una critica di classe,
A yanyan, che è la regina dello sclero – mi manchi!,
A Bazylyk19 che scrive delle SuFin scompisciato rie (?),
Ad happylight e alle sue ff magnificissime,
A Black Air, che mi ha minacciata con una Bielorussia (vedi che aggiorno, vedi? ;v;),
A Nena92 che mi ha convinto ad aggiungere “comico” al genere della ff,
A Ippolita, che è una pony figa,
Ai miniponi e a chi li ama,
A Londra e a tutta la bella gente che la abita,
A tutti quelli che scrivono senza pensare alle recensioni,
Ai/alle beta, che sono una grande invenzione,
Ai titoli di capitoli e fic e storie, belli e brutti,
Ai roleplayer ed al fantamondo,
Ai biscotti caldi che aiutano a pensare,
Al cibo in generale,
Agli amici e alla famigghia,
A chi crede in Babbo Natale, finlandese & biondo o meno,
Ad Himaruya (Requiescat in peace -?-), perché alla fine se non veniva l’idea a lui non veniva manco a me.

Kaida vi ama, vi ringrazia, s’inchina e chiude il sipario su Love in London (mai titolo fu meno appropriato).





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