Love in London di Kaida_ _ _ (/viewuser.php?uid=154538)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Un inzio burrascoso ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - It's Berwald's time! ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - New class, new life ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - I'm a director, yeah. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Kart e attori (e un canadese...) ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Fate, tonni e Palle di Luce ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - La cattiva influenza di una pseudo-maniaca ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Una serie di sfortunati eventi ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Peccato che... ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Like a woman(?) ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - E gli unicorni nitriranno ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Uccelli giardinier ed estoni misteriosi ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - A Capitan America non piacciono gli inglesi misopony ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Tristi patate ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - This is Halloween! ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 - I see Hollynuuk! ***
Capitolo 1 *** Prologo - Un inzio burrascoso ***
One
Prologo~
Terzo anno nel college… la
groenlandese era arrivata solo due giorni prima, dopo il breve “ritorno a
casa”, durato solo un mese e mezzo.
Ancora altri venti giorni e sarebbero ricominciate anche le lezioni. Sospirò,
mentre attraversava il cortile, facendosi strada tra i tanti studenti.
Quell’anno però sarebbe cambiato qualcosa: innanzitutto sarebbe stata nella
stessa classe con i suoi migliori amici (il finlandese Tino Väinämöinen e Sesel
Lalande, delle Seychelles) e la sua compagna di stanza, fortunatamente, era rimasta
la stessa dell’anno passato, ossia Sesel. Inoltre nella nuova classe c’erano
ragazzi e ragazze che non conosceva, se non di vista. Primi fra tutti Lily, la
sorellina dello svizzero Vash Zwingli, Berwlad Oxenstierna, il più temuto dopo
il russo Ivan Brangiski (che, per fortuna, era in un’altra classe), Charlotte
Bonnefoy, sorella del francese Francis (amore non corrisposto di Sesel),
l’eroico americano Alfred F. Jones e l’italiano scontroso: Lovino Vargas,
seguiti da qualcun altro. Magra consolazione. “Dai, che se sei un college
londinese esclusivo sei fortunata! Dai, che sei fra i migliori! Dai!” pensò,
per evitare la depressione pre-periodo scolastico, anche detta “L’estate è
passata troppo in fretta!”, “No, non mi va, sono troppo abituato a dormire
adesso!” o “Vaffanculo! Io devo dare fuoco a quella cazzo di scuola!”.
Assorta nei suoi pensieri, non si accorse che, qualcosa, anzi qualcuno,
la stava seguendo, mentre le tirava una manica per attirare la sua attenzione.
Finalmente si girò, trovandosi davanti Feliks Łukasiewicz, il polacco. Gli
occhi verdi dell’altro la guardavano maliziosi, mentre teneva le mani sui
fianchi, come se aspettasse qualcosa.
«Che c’è?»
«Oh mio Dio! Cioè, scommetto che non lo sapevi!» sussurrò Feliks, mentre
le si avvicinava, contenendo appena l’eccitazione, mentre porgeva la bocca
vicino all’orecchio della ragazza, con le mani a coppa per non farsi sentire da
nessuno. «Mi hanno detto che a Berwald Oxe… coso… cioè, quello svedese, tipo,
be’… gli piace Tino! Cioè, non è, tipo, una news
assoluta? Da fonti sicure, eh! » La ragazza carpì subito l’informazione, anzi,
la news e guardò il polacco, che
saltellava contento da un piede all’altro. Ovviamente, tempo due minuti, il
polacco avrebbe presto provveduto a dirlo a chiunque altro incontrasse per
adempire al prestigioso incarico di arricchire
il patrimonio culturale altrui diffondendo informazioni appetibili per… insomma,
avrebbe spettegolato senza freno.
n quel momento in cortile si fece avanti Tino, che lei si apprestò
subito a salutare agitando la mano, tradendo un certo nervosismo. Il pettegolo
fuggì contento, per poi appostarsi sull’orecchio di qualcun altro.
«Ehi, Pipaluk!»
Pipaluk. Si chiamava così. Avrebbe dovuto dirgli del pettegolezzo?
Ovvio, ma con calma. A Tino quello lì non era mai piaciuto. Non che non lo
sopportasse per motivi astrusi… il fatto era che Berwald gli faceva paura. Beh, un po’ di paura faceva a
tutti: grande com’era incuteva un certo timore, però non si poteva paragonare
di certo a tipi come il russo. A lei
Berwald era sempre sembrato una specie di orso, ma non un maniaco.
Doveva rendere la cosa più divertente, prima del colpo. Così decise di
fare la cretina per un po’. «Ehi, qui davanti a me c’è un uomo molto fortunato! » finita la frase fece
una trombetta con le mani davanti alla bocca e “suonò” una marcia nuziale.
«Eh?» il finnico si mostrò abbastanza stupito. Qualcuno si era preso una
cotta per lui? Diventò improvvisamente curioso. «E… sai chi è?»
«Capelli biondi, occhi azzurri, occhiali, eccellente in tutte le materie
… insomma, la perfezione fatta persona! Tanti auguri e figli maschi!»
« C-Charlotte?» tentò il finnico.
«No, sciocchino!» lo canzonò lei, per poi avvicinarsi al suo orecchio,
mettere le mani a coppa e sussurrare il nome fatidico. «Berwald!»
«C-cosa?! Non dire scemenze! Lui… io… noi… no…» Tino stava ansimando:
sapeva perfettamente che lei non gli
avrebbe mai potuto dire una bugia e che lui
lo seguiva già dall’anno prima per qualche motivo. E ora aveva capito
tutto: Berwald era innamorato di lui.
L’angolo
di Kaida
Se
siete arrivatie fin qui innanzitutto vi ringrazio per aver letto questa, ehm,
cosa. So perfettamente di non essere capace di scrivere a meraviglia, ma sono
una di quelle tipe che migliora mano a mano che si avanza con la storia (o
almeno credo…)! E quindi, se avreste la cortesia di lasciare una recensione
avrò motivo di migliorare e potrò rendere questa fan fiction più migliore! Per il resto spero che
abbiate gradito e vi prometto di aggiornare entro circa tre giorni con la
seconda parte :D Ah, so di essere una tipa un po’ confusionaria e quindi, se
non capite qualcosa, fatemelo sapere (come per gli errori, segnalatemeli senza
indugio).
Per chi non l’abbia capito ho voluto inserire una dei miei OC (l’unica
che sono riuscita a completare… più o meno .-.) tra i protagonisti. Lei
rappresenta la Groenlandia e si chiama Pipaluk Jensen e mi dispiace per non
essere riuscita a creare un giovanotto aitante e palestrato, ma proprio un Inuit
del genere non riuscivo a immaginarlo… come ogni buona Inuit ha i capelli neri,
gli occhi scuri e la pelle ambrata, ed è “alta” un metro e quarantacinque.
Come scoprirete se avrete la pazienza di seguirmi, ha una tendenza allo
sproloquio e le piacciono tanto gli orsi, le foche e i cani da slitta. *si
dilegua dopo la pseudo-presentazione*
Tanti
saluti,
Kaida_ _ _
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 - It's Berwald's time! ***
One
Chapter n°1 ~ It’s Berwald’s time!
«E-ehi, calmati… sentirsi male in questo modo è roba da ragazze, perciò
ti ordino di ricomporti subito!» gli ordinò lei con fare deciso. La cosa però
non sembrò funzionare. Lui stava cominciando ad avere un attacco di iperventilazione
e lei iniziava a pensare che Feliks avesse solo capito male e che lei stesse
procurando un quasi-infarto al suo amico… in pratica stava andando nel pallone.
«Ehi, qualcuno ha un sacchetto? Il mio amico si sta sentendo male! Per favore!»
implorò verso la platea di studenti del cortile. Passarono trenta lunghissimi secondi.
«Tieni» La voce, o meglio, il
vocione proveniva da dietro. Si girò di scatto e vide colui che non sarebbe mai dovuto venire in quel momento: Berwald le
stava gentilmente porgendo un sacchetto. Lo prese e lo diede all’amico,
consigliandoli di guardare in basso, per ovvi
motivi. Mentre quello si riprendeva la ragazza volse lo sguardo verso lo
svedese, o almeno, il punto in cui si trovava pochi secondi prima. Infatti se
ne era andato via. Che avesse sentito tutto? Che avesse capito tutto? E se
fosse stato lui a dare a Feliks la news? No, si stava facendo troppe domande
inutili… doveva pensare a Tino, piuttosto.
«Mio Dio… dimmi che stavi scherzando… per favore… stavi scherzando,
giusto? Il fatto che io lo trovi dappertutto è solo un semplice caso, giusto?
Sono solo paranoico, no? Dimmi che è così!» il finlandese si era ripreso
dall’attacco di panico, o almeno dalla parte critica. Pipaluk non voleva certo
procurargli un altro attacco, ma non poteva neppure mentirgli. Gli rispose con
un sibillino “La realtà fa male” e lui sospirò.
Qualche minuto dopo percorrevano insieme la strada che separava le aule
dai dormitori. Ovviamente ad un certo punto c’era un bivio che divideva i
dormitori maschili da quelli femminili, ma non ci erano ancora arrivati.
Potevano ancora parlare un po’. Siccome Tino non voleva decidersi ad intavolare
una conversazione, iniziò lei. «Allora, hai idea di che cosa comportino i
compiti di inglese?» lui non ripose. «Avanti, la vita continua! E poi… avessi
io uno spasimante come te!» ancora niente. «Va bene, ora la smetto, ok? Ci
vediamo in biblioteca per aiutarci insieme con le punizioni estive della
vipera?» Tino annuì quasi impercettibilmente. Arrivarono al bivio e le loro
strade si divisero, anche se sapevano che sarebbe durato solo un’ora o poco
più.
La ragazza aprì la porta della camera e la richiuse con garbo. Di Sesel
nessuna traccia. Sesel, la sua adorabile compagnia di stanza: occhi castani
come i capelli, che amava legarsi con due nastri rossi in due codine basse. Fissò
sconsolata il quaderno d’inglese: il tempo per finire i compiti delle vacanze
ormai non era più così tanto e doveva svolgere un tema di almeno cinque facciate! Si buttò sul letto in preda alla
disperazione, con la testa affondata nel cuscino, con nessuna voglia di
cambiare posizione. Almeno finché non sentì un “toc toc”, seguito da una vocina familiare. «È permesso? Luk?» da quando
erano diventate compagne di stanza lei le aveva imposto di chiamarla Luk. “Fa
molto figo! E poi diventeremo amiche e ci daremo dei nomignoli, giusto? Quindi
dobbiamo iniziare fin d’ora!” aveva spiegato la groenlandese. Lei però non aveva dato nessun nomignolo
all’amica. “Sesel è un bel nome e non va storpiato!” le aveva spiegato. E la
castana aveva accettato tutto di buon grado.
Alla fine la groenlandese decise di aprirle la porta, accogliendola con
un “Ti devo raccontare una cosa…” e stravaccandosi ancora sul letto. «Che è
successo?» esordì la tipa delle Seychelles, mentre si scioglieva le codine,
lasciando scivolare i suoi bei capelli morbidi sulle spalle, mentre Pipaluk
stava già iniziando a raccontare i “venti minuti più intensi dell’anno”, con la
sua solita parlantina che rendeva tutte le frasi unite, come se fossero
un’unica, lunghissima parola. L’accento groenlandese consisteva in quello e
anche nella quasi totale capacità di pronunciare la c dolce, la “sh” che
diventava una “sk”… e anche l’accento danese derivato da suo padre faceva la
sua parte, creando qualcosa che assomigliava molto ad un incrocio fra una trombetta e una piccola chitarra
scordata. Molto scordata, molto piccola e poco chitarra.
«Non possono essere passati solo venti minuti, Luk! Comunque poi andiamo
in biblioteca per i compiti? E per Tino, ovvio! Ma prima pettinati un po’,
sembri uno spaventapasseri…!» Luk si alzò dal letto controvoglia facendo
scricchiolare le molle, per poi dirigersi verso il bagno indipendente e fissare
il suo riflesso nello specchio: davanti a lei c’era una ragazza bassina con un
volto incorniciato da ciocche corvine che le accarezzavano il collo. Con quella
faccia tonda che si ritrovava avrebbe dovuto farsi crescere i capelli almeno
fino alle spalle per non sembrare una bimbetta di cinque anni… il colore
ambrato della pelle invece non le dispiaceva: aveva sentito di ragazze che
avrebbe pagato oro per avere un’abbronzatura
costante come la sua e quindi avere una carnagione scura la riempiva
d’orgoglio. Neppure gli occhi marrone scuro le stavano male, anzi! Dopo una
veloce pettinata si diresse verso la biblioteca, tenendo per mano l’amica. Notò
che c’era Tino all’ingresso. Il ragazzo le salutò con un cenno della mano e poi
entrò mogio mogio. I tre decisero di sedersi allo stesso tavolo per lavorare
insieme e quando, un quearto d’ora più avanti, in preda ad un improvviso
attacco di noia, la groenlandese buttò la testa all’indietro, vive proprio lui,
per poco non le venne un colpo. “Ma è uno stalker o cosa?!” mentre lo fissava si
ricordò che doveva assolutamente ringraziarlo per il sacchetto, così si
allontanò dal posto con una scusa e lo raggiunse. Tino aveva le sue buone
ragioni per averne paura: se qualcuno che ti segue ovunque e che trovi ogni
volta che ti giri dietro era inquietante Berwald era il plus ultra dei non plus ultra. Dai, chi non potrebbe provare
timore… al suo cospetto? Ma plus
ultra, stalker o no, doveva comunque ringraziarlo, almeno per non fare la
figura della maleducata. Prese coraggio, si sporse verso il tavolo dove Berwald
era chino su di un libro e pronunciò le fatidiche due sillabe: «Gra-azie»
«Prego»
«A-allora… che leggi di bello?» già che c’era poteva provare anche ad
attaccare bottone, giusto? Per tutta risposta lui alzò il libro in modo che lei
potesse leggere il titolo e l’autrice scritti sulla copertina: Proibito di Tabitha Suzuma. Si rese
conto che lo aveva letto anche lei. Un punto a suo vantaggio!
«Oh, l’ho letto anche io! Alla fi-… credo che tu non voglia sapere come
finisce, giusto? Eheheh…»
«L’ho già letto. È per il tema»
«Aaah, ok! P-posso sedermi qui?»
«Siamo in un paese libero»
«Già! Infatti! Eheh… » la “conversazione brillante” della povera Luk
stava andando a farsi benedire. Eppure aveva tutto in testa! Possibile che non
riuscisse a sbloccarsi? Ok, il fatto che Berwald fosse un bestione di un metro
e ottanta forse poteva ostacolarla un pochino… però doveva farcela, accidenti!
Si ricordò che Sesel le aveva consigliato di ripiegare sul pesce quando non
sapeva che dire, però lei non era certo una
itticomane come la sua amica. Sfoderò la sua mania per gli accenti di vario
genere, coltivata durante i vari periodi di permanenza nel college. «Allora, ho
sentito che sei svedese… com’è la Svezia? Fa caldo?»
«Si muore…»
«No, è perché… da me fa davvero freddo! A proposito, una volta però ho
visto un orso bianco! In pratica… allora, l’orso… come si dice orso in
svedese?»
«Björn…» ma che diavolo voleva da
lui quella groenlandese rumorosa?
«Sai, in danese si dice bære, mentre in kalaallisut si dice “nanuk”! Mio
padre è danese quindi lo conosco anch’io… e perciò conosco tre lingue:
kalaallisut, danese e inglese!»
«Complimenti…»
«Ti sto dando fastidio? Patsit!
Scusami, è che… in pratica l’orso era un’orsa e aveva anche i piccoli! Erano
due, piccoli piccoli! In Svezia ci sono gli orsi?»
«Sì…»
«Fatto sta che poi l’orsa ha
ucciso un cane della muta di mio padre con una zampata! Non sai che zampe che
hanno gli orsi polari! Certo che il cane un po’ se l’è cercata… è scappato
verso l’orsa e ha cominciato ad abbaiare come un matto! E così lei ha fatto
quel che ha fatto e lui è caduto per terra come una bambola di pezza!
Ovviamente ora ti starai chiedendo se mi sia dispiaciuta o roba del genere…»
In
realtà no. [ehi, tu! Va’ giù nelle note, altrimenti la tua
anima sarà perduta!]
«Ah, in pratica, all’inizio no… quel cane stava sempre sulle sue e non
giocava con me, quindi non ho neppure provato a farci amicizia, però poi mi
sono accorta che diventare l’amicizia con quel cane sarebbe stata speciale! Non era scontata come quella
degli altri cani normali, no? Bene, vorresti imparare un po’ di kalaallisut?
Per favore! E-ecco, per favore si dice Ikinngutinnersumik! Qui nessuno parla la mia lingua! Poi
se vuoi puoi insegnarmi un po’ di svedese, così facciamo a cambio!»
«“Per favore” in svedese si dice tack»
«Solo “tack”? Sicuro? È troppo facile… tack! Tack! Taaa-aaack! Ora però
devi dire Ikinngutinnersumik!»
«No»
«Avanti! Devi dire “Ikinn”, “gutinner” e “sumik” in un’unica parola! Non
è così difficile! Lo hanno imparato anche Sesel e Tino! E scommetto che
potrebbe dirlo anche quel tizio laggiù!» fece lei, indicando un ragazzo moro.
Doveva essere Lovino Vargas. «Ehi, lo sai dire Ikinngutinnersumik?»
«Ma che ti fumi?!» fu (l’ovvia, vorrei aggiungere) la risposta del
ragazzo moro.
«Vargas, insomma! Siamo in biblioteca, usi un linguaggio consono al
luogo in cui si trova!» lo riprese una professoressa di passaggio. Quello, per
tutta risposta, girò i tacchi e si allontanò borbottando. C’era anche un altro
ragazzo che lo seguiva, piagnucolando come un bambino; assomigliava molto a
Lovino, però aveva i capelli e gli occhi di un colore più chiaro. Luk pensò
istintivamente che fossero parenti e poi si rivolse ancora a Berwald,
reclamando il suo Ikinngutinnersumik. «Io
ho detto tack, Se vuoi proviamo con qualche altra parola… aluu! Ciao!»
Cosa vuoi esattamente
da me?
«Bene, tu adesso dovresti scrivere il tuo tema, quindi vi ses snart! Credo di aver dato
abbastanza fastidio…»
«Aspetta» si rigirò dall’altra parte, guardando gli occhi acquamarina
dell’altro, pieni di speranza. «Hai detto “Tino” prima? Per caso è Tino
Väinämöinen? Lo conosci?»
«M-mh» annuì lei. «Di vista… Lo conosci anche tu?»
«Perfetto. Lascialo»
«EH?! Chi dovrei lasciare?»
«Tino»
«Ahahah! T-tu credevi che io e Ti-» Berwald le prese il braccio,
guardandola intensamente negli occhi. Se ci fosse stato lo sfondo di un
frutteto e una musica melensa in sottofondo probabilmente si sarebbe subito
pensato al momento del bacio. E tanti fiori che svolazzavano nell’aura magica
formatosi fra i due. Però non era così. Sullo sfondo c’era una noiosissima
biblioteca e l’unica musica di sottofondo era il leggero brusio degli altri
ragazzi.
«Lo so che non è vero. Non credere di potermi ingannare»
«Ma è vero! E lasciami il braccio! Guarda che… beh, io ti… ti mordo, eh!»
Ovviamente non l’avrebbe morso. Però, quando si è in preda ad un attacco di
disperazione, certe cose ti scappano di bocca. «… tanto sto dicendo la verità!
Non ho paura di te! Vedi, sai come funziona con i cani, no? Se mostri di avere
paura è finita!»
«Quindi hai paura»
«NO!» tentò lei, per poi cambiare discorso: «Guarda che mi lasci il braccio lo faccio venire subito!»
E invece
scapperò!
«No. Se ti lascio il braccio scapperai urlando che sono un maniaco»
Agh.
«Potrei farlo anche adesso…» no, questo genere di cose non potevano
funzionare. O almeno, non con uno come Berwald. «Tino, puoi onorarci della tua presenza?»
sussurrò Luk, sperando che lo sentisse. E per fortuna (o purtroppo?) il
richiamo venne udito e recepito. Una testolina bionda si alzò di scatto, per
poi girarsi verso il luogo da dove proveniva il suono. Gli occhi violacei
guardarono la scena che si stava svolgendo un po’ più in là, terrorizzati. «No, non posso venire! Vedi, sto facendo la relazione…»
provò a scusarsi il finnico, indicando la il quaderno aperto e con le pagine
ancora immacolate, sovrapposto ad un block notes che sembrava essere un cimelio
della Grande Guerra e a circa millemila
fogli zeppi di appunti. Ma ovviamente la sua scusa non avrebbe funzionato… «Ehm… Sesel… devo andare…» si congedò, mentre si dirigeva lentissimamente verso l’amica e quell’altro.
«Dove?» chiese Sesel, alzando gli occhi dal libro.
A morire…
«Luk mi sta chiamando…»
«Vedi che sta venendo? Se mi avessi lasciato il braccio…» sbuffò la
groenlandese, cercando di liberare il braccio in trappola.
«… staresti già piangendo fra le sue braccia» continuò Berwald, senza
spostare lo sguardo dal finlandese che si avvicinava, sempre tenendo la
velocità di un bradipo morto.
«C-che c’è?» chiese Tino, sforzando un sorriso, ormai a un metro da loro
due.
«Puoi gentilmente dire a questo signore qui che io e te non stiamo
insieme?»
Oh, Tino. Ora
probabilmente penserai che trovarti una ragazza sarebbe un bel modo per evitare
le attenzioni di Berwald. E penserai di poter dire che sono io la tua ragazza.
In questo modo crederai di potertelo levare di torno. Ebbene, ti prego di non
farlo. PER FAVORE. IKINNGUTINNERSUMIK! Ci mangerà tutti e due e poi creerà
tamburi conciando la nostra pelle, usando le nostre ossa come bacchette. No,
aspetta. Questo lo farà con me. Tu sarai solamente violentato per il resto
della tua (breve) vita e non rivedrai mai più la tua famiglia. A parte il
giorno del matrimonio, ovvio. No, forse non lo farà. Forse mi guarderà male per
il resto della mia permanenza al college. Nooo… non voglio, non voglio!
«No, non stiamo insieme, te l’assicuro… m-ma perché le
tieni il braccio?» chiese Tino, sorpreso. E Luk intanto esultò interiormente
per la sincerità del suo amico.
La
verità va detta sempre, soprattutto in questi casi.
«Voleva scappare» mugugnò lo svedese.
Ah, ora si
spiega tutto… benvenuta nel club.
«E ora mi lasci?» Pipaluk tentò di tirare via il braccio da sola, senza
risultato. Fu Berwald a lasciarla andare, dicendo a Tino qualcosa del genere
“Ne parliamo in camera”, per poi risedersi e riaprire il libro. Aveva perso fin troppo tempo con quella lì. E lui non era
tipo da perdere tempo. Gli altri due continuarono a scrivere i loro temi
(sull’altro tavolo, ovvio), senza fare alcun accenno alla faccenda di prima. Fu Luk la prima ad uscire il discorso, mentre
camminava con Tino e Sesel era troppo concentrata sul cadavere di una farfalla
per ascoltarli. «Tino…
davvero sei in camera con lui?» esordì.
«Non me ne parlare, per favore… ma perché sei andata a parlarci?»
«Beh, all’inizio dovevo ringraziarlo per una cosa… poi mi son detta che
visto che ero lì potevo anche provare a parlarci un poco, no? Magari
diventeremo amici! Come io e te! E alla fine dell’anno ci faremo una bella foto
tutti insieme! E…»
«Ehi, Luk, frena. Berwald… Berwald non è un tipo come gli altri…
insomma… è un po’ “particolare”… accidenti, non so come dirtelo…»
«Nessuno è come gli altri! E non credo che il fatto che sia gay sia un
problema tanto rilevante! Per me non è un problema!»
Per te.
«Non è quello il problema! Non è un tipo che parla, che gioca, che
scherza… accidenti, perché non ti trovi una persona più facile? Tipo Alfred?
Quello sarebbe perfetto!»
«Be’, se non parla, ascolta! E poi a me sembra interessante! Hai visto
come mi ha bloccato il braccio?» rispose lei, agitando l’arto. «È diventato
molle!»
«Luk, anche gli orsi polari sono interessanti, ma non ci vai mica a
socializzare…»
«Appunto! Nanuk!»
«Tu sei un caso perso… »
L’angolo di Kaida (alias note di
colei-che-scrive)
*rilegge capitolo* o cielo… perdonatemi… questa
volta ho fatto proprio un inguacchio °_° ok, il fatto che correggessi il
capitolo mentre discorrevo della figosità di Canada con una mia amica forse
potrebbe aver influito un pochino… insomma, è risaputo che chi arriva fin qui è
un eroe, ma stavolta la cosa vale il doppio, il triplo, il sediciuplolo! Sto ufficialmente sclerando, non si vede?
Innanzitutto ringrazio miristar e Cosmopolita, che hanno avuto il
coraggio di recensire il prologo (ehi, c’è scritto che ha ricevuto più di 40
visualizzazioni! Quindi 40 persone potrebbero uccidermi! °A°), ma anche tutti
coloro che hanno letto e che leggeranno, anche solo per maturare un odio
profondo nei miei confronti x°D inutile spiegarvi che amo le balde giovinotte
che recensiscono! Ogni recensione è uno spunto per migliorare! *stelline
sbrilluccicanti che appaiono negli occhi di colei-che-scrive* ebbene, ora devo
spiegarvi quel fatto dei colori, no? Ecco, ripensando alle elementari e
cercando un metodo per distinguere decentemente i pensieri dei vari personaggi,
mi sono ricordata che usare colori diversi è una tattica stupida, infantile e
penosa, ma funzionante! Ergo, i pensieri di Luk sono così, quelli di Tino cosà e
quelli di Berwald colà. Oh, vi ses
snart sarebbe “arrivederci” in groenlandese. Avevo una mezza idea di scrivere le traduzioni delle parole così: parola[traduzione], ma… fatemi sapere
che ne pensate, ok? Altrimenti andrò nel panico ;__; arrivederciii~
Kaida_ _ _
P.S: avete notato la mia totale incapacità
nell’inventare titoli, no? Patsit[scusa]! Mmh…
no, questa cosa con le parentesi non funziona…
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 - New class, new life ***
One
Chapter n°2: New class, new life
«…
Jensen?» chiamò la voce gracchiante della professoressa di inglese, mentre
scrutava la folla.
«Presente!» esclamò lei, con la sua voce squillante, mentre agitava un
braccio per farsi notare meglio.
Erano passati venti giorni da quella volta in biblioteca e poi non aveva
quasi più incrociato Berwald. Ad un certo punto le venne l’atroce dubbio che la
evitasse di proposito. Maledì le sue conversazioni scadenti e cominciò a
cercarlo con lo sguardo. Certo, non sarebbe stato facile individuarlo, in mezzo
a un centinaio di persone. Erano tutti riuniti nell’aula magna per il discorso
di inizio anno scolastico del preside, con l’uniforme linda e le scarpe
(stivali per le ragazze) tirate a lucido e la professoressa faceva l’appello
per accertarsi che non mancasse davvero nessuno. E dopo “Vash Zwingli” (che
sarebbe stato per sempre l’ultimo, a meno che non si fosse prima o poi iscritto
uno “Zyzu”), si diressero tutti nelle rispettive classi.
«Quest’anno ho deciso di disporvi nei banchi secondo l’ordine
alfabetico… quindi Natalia Alfroskaya con Mathias Andersen, Charlotte Bonnefoy
con Alfred F. Jones, eccetera eccetera… fate un po’ voi, siete grandi e
responsabili!» finì la professoressa, per poi sedersi sulla sedia e fissare i
movimenti degli alunni, sistemandosi freneticamente gli occhiali, che non la
smettevano di scivolare giù dal suo nasino a punta. Gli occhi si muovevano
fissando prima un alunno, poi un altro. La signorina Ada Griffith, – questo era
il suo nome – era l’insegnante d’inglese. Uno stecchino dagli occhi ambra scintillanti.
La sua esile figura, infatti, era stata toccata dalla benedizione di avere gli
occhi di quel magnifico colore. Purtroppo tutta la magnificenza stava negli
occhi, poiché il resto del corpo lasciava molto a desiderare, soprattutto ora
che la bellezza della gioventù era ormai sfiorita, diventando un ricordo
lontano. No, lontanissimo. Anni luce. Sì, proprio anni luce.
E quindi, dopo le due “coppie” menzionate prima, gli altri ragazzi si
disposero seguendo l’ordine dell’alfabeto. E si arrivò a tali componimenti:
Natalia Alfroskaya
con Mathias Andersen
Charlotte Bonnefoy
con Alfred F. Jones
Antonio Fernandez Carriedo con Kiku Honda
Pipaluk Jensen con Arthur Kirkland
Sesel Lalande con Toris Lorinaitis
Feliks Łukasiewicz
con Berwald Oxenstierna
Manon Peeters con Tino Väinämöinen
Lovino Vargas con Eduard Von Bock
Matthew Williams
con Lily Zwingli
Sesel
provò, per la prima volta in vita sua, invidia per Luk, che era riuscita a
sedersi accanto ad Arthur. Comunque decise che avrebbe stretto amicizia con il
lituano accanto a lei: gli sembrava una persona simpatica! Da parte sua la
groenlandese non perse tempo a riempire di domande il povero inglese. Tino
riusciva quasi a toccare il cielo con un dito: non solo non era accanto a
Berwald, ma era vicino ad una bella ragazza! Decise di non guardare in
direzione dello svedese, che già gli stava lanciando qualcuno dei suoi
pericolosi sguardi alla: “non provarci con lei, altrimenti…”. Il logorroico
polacco amante del rosa prese a parlare del suo fantastico pony e a
fantasticare sul fatto che potesse diventare del suddetto colore, prima o poi.
Ogni tanto il discorso era interrotto da occhiate fugaci del polacco verso
Toris, con notevole imbarazzo di quest’ultimo… e Berwald non sapeva se fosse
peggio lui o la groenlandese e i suoi discorsi senza senso. Lily si era
presentata da subito con il suo nuovo compagno, senza però riuscire a
memorizzarne il nome. Intanto l’americano e la francese stravano già entrando
in contrasto, causa delle differenze di comportamento. Ad esempio, se lei si
era presentata garbatamente, lui le aveva dato una energetica stretta di mano,
per poi raccontare vita, morte e miracoli dell’eroica famiglia Jones. Kiku era
piuttosto colpito dall’atteggiamento aperto ed espansivo di Antonio che, da
parte sua, non smetteva di guardare l’italiano e Natalia non vedeva l’ora che
arrivasse la ricreazione per rivedere il suo
amore ( alias il russo spaventoso) , rispondendo
con vaghi monosillabi alle domande del danese.
«Insomma, silenzio! Dovrò pure cominciare la lezione, non credete? –
iniziò la Griffith, piuttosto adirata – Inoltre ho un importante annuncio da
farvi... » il chiacchiericcio cessò e tutti si concentrarono sul labiale della
professoressa, la quale, soddisfatta per aver ottenuto tanta attenzione,
continuò: «Quest’anno ognuno di voi potrà girare un corto o lungometraggio! La procedura è semplice:
innanzitutto dovrete scrivere una breve trama dell’opera che vorrete inscenare
e dovrete consegnarla a me. Dopo aver appurato che sia idonea vi restituirò la
trama e voi procederete a scrivere la sceneggiatura, ad ingaggiare gli attori,
eccetera… ah, ricordatevi che chiunque parteciperà riceverà crediti extra e che
le telecamere potranno essere noleggiate solo e soltanto con il permesso del
tecnico… la cassetta ve la offriremo noi, ovviamente… potrete prendere spunto
da qualsiasi libro, opera o poesia abbiate letto, ma non disdegnerò
assolutamente le storie originali!»
Passò
qualche ora (a detta degli studenti qualche anno) e poi suonò la campanella che
annunciava la fine delle lezioni (e quindi il pranzo). Luk aveva già deciso che
avrebbe dovuto chiedere a Berwald di partecipare al suo film. Un film su Proibito.
E siccome l’aveva letto anche lui l’avrebbe potuta aiutare… anzi, ancora
meglio: lui sarebbe stato il regista e lei la best boy, ossia l’elettricista
tuttofare. O magari la sceneggiatrice, l’aiuto-regista… si vedeva già seduta in
una di quelle poltrone nere durante la notte degli Oscar (che, nella sua
fantasia, si era spostata a Nuuk), vestita di rosso e pronta a ricevere la
statuetta. “Pipaluk Jensen, come miglior attrice, regista e sceneggiatrice! E
Berwald Oxenstierna, con le stesse cose, ma al maschile!”. Aveva questo problema di correre troppo con la
fantasia, a volte. Molte volte. Uscita dalla classe identificò la sua preda e provvide a seguirla. Poteva
essere anche una stalker, all’occorrenza: aveva circa millemila risorse e non aveva la minima paura di utilizzarle.
Camminò per un bel po’. Tap, tap, tap. Dopo
circa una decina di minuti si accorse che Berwald stava girando in tondo. Che
lo facesse di proposito?
« Jensen, smettila di seguirmi… »
Ma cosa ca…?!
« Io non ti sto seguendo! »
« Sento la punta del tuo naso sulla mia schiena, Pinocchio… »
« Ah… io… insomma, io volevo chiederti una cosa… »
« E sarebbe? »
« Perché non lavori insieme a me al mio nuovo film, eh? Ho già deciso
tutto! »
« No. »
« Ma sono crediti extra! »
« Sentiamo un po’… su cosa ti vorresti basare? »
« Proibito! Cioè, mi è
sembrata una buona idea e avrei anche delle idee sul cast… tipo… »
« Mi sembra di sentire Łukasiewicz… »
« E dai! Che ti costa? Devo rammentarti che sono… »
«… crediti in più. Sì, lo so. Però quei crediti non mi servono più di
tanto… ho già una media alta e poi non credo che me la possano alzare più di
tanto… sarà un mezzo voto…»
Non te la
tirare!
« Potranno inventare un nuovo voto solo per te, no? »
« Ah, sei proprio ostinata. »
« Lo so! »
« Ma perché non ti sei diretta in mensa come tutti i bravi bambini? Non
hai fame? »
« Ho fregato due muffins a
colazione! Ne vuoi uno? » fece lei, estraendo il dolcetto marrone dalla
cartella.
« No… »
« Sicuro? Sono al cioccolato… »
« La cosa non mi fa né caldo né freddo. »
« Bene, ti seguirò finché non mi dirai di sì! »
« Non mi sembra una buona tecnica… »
« E perché? »
« Perché potrò sempre e comunque andarmene nel dormitorio maschile, dove
tu non puoi assolutamente entrare. »
« A proposito… tu sei in camera con Tino, no? »
« Sì! C-cioè, volevo dire… sì »
« A-ah! Ti piace, eh? »
« Mi stai stancando… »
« Muffin? »
« No. »
« Aaaawww… non vuoi proprio? »
« No »
« Ma perché? »
« È solo una perdita di tempo e io dovrò studiare! Non crederti che me
le regalino, le A! »
« Anche io studio, cosa credi? E poi tu ci metti pochissimo a finire di
fare i compiti, non ti costerebbe niente! Che fai per il resto della giornata? »
« Non sono affari tuoi! »
« Sai perché sto facendo tutto questo? »
« Mi piacerebbe molto saperlo… »
« Beh, si dia il caso che Tino sia terrorizzato da te e che io non sia
d’accordo! Ecco, tu mi sei sembrato una persona interessante e per questo
volevo far amicizia con te, in modo da dimostrargli che sei come gli altri, se
non meglio! E poi mi fai venire in mente la storia del cane e dell’orsa! »
… quel cane stava
sempre sulle sue e non giocava con me, quindi non ho neppure provato a farci
amicizia, però poi mi sono accorta che diventare l’amicizia con quel cane
sarebbe stata speciale! Non era scontata come quella degli altri cani normali,
no?
« Vuoi fare amicizia con me solo perché provi rimorso?! In questo modo
credi di poter produrre karma positivo
o roba del genere, per rimediare? È semplicemente assurdo! »
« Aaah! È più per il fatto di Tino! Mi dà fastidio che si diano
pregiudizi alle altre persone, senza neppure provare a conoscerle! »
« Tack. »
« P-perfavore? »
« Vuol dire anche grazie. »
L’angolo di colei-che-scrive
La sapete una cosa? Oggi le fanfictions
riguardanti Hetalia su EPF hanno raggiunto la cifra tonda di ben 3000 storie!
Credo che sia un fantastico traguardo, no? Comunque non sono qui per parlarvi
degli altri, questo spazi è mio, solo mio! Mgwauhahahauah! Ringrazio tantissimo
colei che ha recensito con tanta pazienza il primo capitolo (ossia il 2, ma
comunque l’uno, cioè… *esplode*), ossia Cosmopolita!
Le vorrei dedicare questo capitolo, visto che è l’unica anima misericordiosa
che recensisce x° sapete, in realtà avrei dovuto pubblicare questa roba ieri,
ma sono stata davvero impegnata fra la miniera di gesso e la casa di mia
cugina… sì, ieri la mia sorellina adorata
(leggero – ma anche no – sarcasmo) ha comprato una sorta di blocco di gesso
nel quale bisogna scavare per trovare vari minerali sbrilluccicanti.
Ovviamente, visto che le bimbe di sei anni non amano il lavoro sporco, è
toccato a me e a papà impugnare il martello… il bottino consisteva in circa
millemila sassolini colorati e adorabili che si potrebbero benissimo spacciare
per minerali preziosi. Insomma, non crederò mai e poi mai che una gioielleria
di gesso munita di ametiste e quarzi enormi costi solo dodici euro. Come sono
brava a divagare, da? A proposito di divagare, ho provato ad imparare un po’ di
kalaallisut! So anche presentarmi! *gioia e orgolgio* Ad esempio, “Aluu,
Claudiaimik aterqarpunga” vuol dire “Ciao, il mio nome è Claudia” e così avete
scoperto il mio nome tramite una pseudo-lezione di kalaallisut!
No, aspettate un po’! Dovrei parlarvi un po’ del
capitolo, giusto? Sì, ecco… l’ho corretto in un ambiente quasi tranquillo,
quindi spero che sia uscito bene (o anche meglio degli altri!). Sì, è un po’
più corto del precedente, ma avevo scritto quella battuta faiga che mi sembrava
adatta per un finale! BD sì, probabilmente non è adatta e non è neppure faiga,
ma lasciatemi sognare... prometto solennemente che il 3 potrete leggere il
prossimo! ß non so se sia più un annuncio che debba donare gioia e letizia o una
minaccia °_° statemi bene,
Kaida_ _ _
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 - I'm a director, yeah. ***
One
Chapter n°3: Im a director, yeah.
E
quindi decisero di aiutarsi a vicenda. Lui l’avrebbe aiutata con la
sceneggiatura e tutto il resto e, dall’altra parte, lei l’avrebbe aiutato con
Tino. Si divisero il muffin e si augurarono la buona riuscita di entrambe le missioni.
« Noi saremo una grande squadra! Pardon, noi siamo una grande squadra! » Esclamò Luk, alzando la sua parte di
muffin a mo’ di calice. Aveva trovato il suo aiuto-regista, adesso dovevano
soltanto scrivere una presentazione dell’opera
e mostrarla alla Griffith, sperando nel meglio. Oh, e c’era anche la sceneggiatura
da scrivere, gli attori da ingaggiare… insomma, era un compito abbastanza
difficoltoso, ma i due registi non erano i tipi da mollare alla prima
difficoltà.
Fuori, nel mondo, Lochan non
si è mai sentito a suo agio. Gli altri sono tutti estranei, alieni… Solo a casa
riesce ad essere se stesso. Maya ha sedici anni, è una ragazza sensibile,
delicata e molto più matura di quello che la sua età richiederebbe. Lochan e
Maya sono fratelli, e hanno altri tre fratellini da accudire: Kit, Tiffin e
Willa sono la loro ragione di vita e la loro preoccupazione più grande, da
quando il padre li ha abbandonati per una nuova famiglia e la madre ha iniziato
a bere, si è trovata un altro uomo e a casa non c’è mai. I giorni passano e
solo una cosa ha senso: essere vicini, insieme, legati, forti contro tutto e
tutti. Per Maya, Lochan è il migliore amico. Per Lochan, Maya è l’unica
confidente. Finché la complicità li trascina in un vortice di sentimenti, verso
l’irreparabile. Qualcosa di terribile e meraviglioso allo stesso tempo,
inaspettato ma in qualche modo anche così naturale. Qualcosa che, ancor prima
di iniziare, è già condannato.
“Il sentimento era lì che covava da anni,
salendo giorno dopo giorno sempre più vicino alla superficie. Era solo
questione di tempo prima che squarciasse la fragile ragnatela del nostro
rifiuto mentale, obbligandoci a guardare in faccia la realtà e ad ammettere ciò
che siamo: due persone innamorate di un amore che nessuno potrà mai capire.”
Proibito. Lo dice il titolo, lo
richiama il cuore di filo spinato in copertina.
Proibito dalla legge, dalla
morale comune, dalla natura. Ecco perché Lochan e Maya sono “due persone innamorate di un amore che
nessuno potrà mai capire”, perché sono fratello e sorella e il loro
amore è incestuoso.
Un amore clandestino, nato attraverso lo scorrere lento delle
giornate, nato da un'amicizia sorta nel corso dell'infanzia e
dell'adolescenza e sbocciata in un sentimento più maturo e
complesso alle soglie della vita adulta. L'affetto sfuma verso toni
della passione e del bisogno fisico dell'altro. Perchè ora che hanno
trovato la propria anima gemella, quel soffio di vita che li riempie
interamente, non possono più separarsi. Vivono dentro un incubo
irreale, difficile da comprendere e accettare anche per loro stessi, ma la
divisione non è contemplata, distanti iniziarebbero lentamente a morire.
Ma se venissero scoperti, come li
giudicherebbero le persone? Quale sarà l'epilogo della loro tragica unione?
Due fratelli nati a tredici
mesi di distanza,
cresciuti come migliori amici, uniti nel disagio di una famiglia che sta
andando in pezzi. Il padre li ha lasciati, si è risposato, nonostante le
rassicurazioni su gite e viaggi mensili alla nuova casa, ben presto
“le telefonate settimanali diventarono
mensili, poi solo in occasione di ricorrenze speciali e infine cessarono del
tutto. Quando mamma ci annunciò che la nuova moglie aveva appena partorito,
capimmo che era solo questione di tempo prima che anche i regali di compleanno
smettessero di arrivare. E così fu. Tutto finì ”.
La
madre, mai
veramente cresciuta, si rifiuta ostinatamente di invecchiare, fingendo
di non avere figli da accudire, esce la sera rincasando alle ore più disparate.
La sua ultima fiamma, Dave, è più giovane e con un divorzio e figli alle
spalle. Non vuole altri problemi, non gli serve una nuova famiglia. Così la sua
diventa una figura materna fantasma, che attraversa il salotto ubriaca
nel cuore della notte o che sbatte la porta avvolta nel suo vestito di
lustrini, lasciando dietro di se solo una scia di profumo.
Sono Lochan e Maya che si
fanno carico dei tre fratelli più piccoli: Kit, in piena crisi
adolescenziale, Tiffin terremoto iper-attivo, Willa dolce e
sensibile ultimogenita. Fare la spesa, controllare i compiti, organizzare la
settimana, le visite dal dentista. Tutto è nelle mani di questi due
baby-genitori, che hanno perso buona parte della loro spontanea giovinezza,
per crescere velocemente ed essere responsabili.
Ma se la casa, nonostante i problemi è il loro porto sicuro, il mondo
esterno rivela il disagio che si è annidato nei loro cuori.
Lochan è il primo della classe
quando si tratta di fare compiti scritti, ma se interrogato, non riesce a
spiccicare parola. Non ha amici, cerca sempre posti isolati in cui
passare il pranzo o l’ora di studio, così da non dover affrontare i compagni,
con le loro domande e gli sguardi curiosi. Maya non esce mai con
l’amica, perché dopo scuola deve correre a prendere i fratellini. Non ha un
ragazzo, e non l’ha mai avuto. Sa che alla fine dovrà fare queste cose, ma non
si sente pronta e poi, non le piace mai nessuno. Tolto il maglione della divisa
e allentata la cravatta, Maya e Lochan escono da quella bolla di sapone che
è la scuola, e tornano alla realtà, alla cena da cucinare, Kit da
disciplinare, Tiffin da interrogare sulle tabelline e Willa da lavare. Così
giorno dopo giorno, la loro complicità cresce, il loro rapporto di
reciproco sostegno si evolve in qualcosa che va oltre l’affetto fraterno.
Vivono
dietro una maschera,
in una finzione comandata da rigidi dettami di una società che non trova
spazio per i loro sentimenti. Hanno paura di essere scoperti e sono
se stessi solo quando, finalmente giunti al termine di una lunga giornata,
possono finalmente bearsi della vicinanza dell'altro. Ma il fantasma
della separazione non scompare mai. Nemmeno quando cercano di dimenticare la
loro tragica situazione e abbandonarsi alle loro semplici, naturali emozioni.
Una vita che minaccia di soverchiarli per i problemi e i doveri che gravano
sulle loro giovani spalle. Problemi che scivolano via magicamente con una
carezza, un bacio a fior di labbra, un ti
amo sussurrato nell'ombra di una stanza illuminata dai tenui
raggi della luna.
Attimi di gioia rubati, screziati dalla sofferenza e dalla solitudine.
Tabitha
Suzuma dipinge con tratti dolci e delicati i problemi di questi due
giovani adulti, l’irritazione verso una madre che non è più tale da ormai molto
tempo, la paura costante di non resistere, di non riuscire a fare tutto, e di
essere separati dai servizi sociali. Il legame speciale che unisce Maya e
Lochan fiorisce lentamente davanti ai nostri occhi: i dubbi, i sensi di colpa,
la rabbia, diventano anche i nostri mentre scorriamo ipnotizzati le parole.
Il punto di vista che passa da uno all’altra, ci fornisce un quadro completo
d’umori e sensazioni, alle quali altrimenti non avremmo accesso. Tutto
scritto con uno stile scorre leggero come un soffio, mai volgare e
sempre veritiero. Una narrazione che graffia, punge, fa sanguinare dentro per
la sofferenza di un amore così disperato, cercato, dotato di spine così
feroci da portare alla morte.
Un
libro molto bello, lirico, che fa pensare e che ti si aggrappa al cuore.
Una sinfonia che ammalia e conquista lentamente, si insinua senza rumore nella
mente e nel cuore del lettore. Una musica intima che fa vibrare le corde più
profonde dell'anima provocando gioia, tenerezza ma anche tristezza e
dolore. L’attacco di panico di Lochan e la sua rabbia incontrollata la sera
dell’appuntamento della sorella, il terrore di Maya per la scomparsa dei
fratellini o per la caduta di Willa, sono qualcosa d’eccezionale, per il
realismo che traspare. I pensieri, le azioni, i turbamenti trasportano
la mente all’adolescente che eravamo in un passato più o meno remoto. Un libro
da leggere e assaporare lentamente, da non giudicare senza averlo finito,
studiato, capito.
Un libro di straziante bellezza che narra una storia d'amore
appassionata e incredibilmente toccante. Suzuma dipinge un quadro di struggente
realismo, accompagnato dalla disperazione e dal bisogno d'amore, che
si verifica in famiglie distrutte, ma animato dalla speranza di un
destino migliore. Una luminescenza che brilla in lontananza che deve
essere raggiunta. Un romanzo coraggioso e difficile,
affascinante ed emotivamente impegnativo.
"Il cuore ha le sue
ragioni che la ragione non conosce"
-B. Pascal
All’inizio la professoressa Griffith ci pensò su per un po’: in fondo
l’argomento era piuttosto forte e “difficile”, ma i ragazzi non potevano vivere
(né vivevano) in una campana di vetro: purtroppo il mondo non è tutto rose e
fiori e i telegiornali (sia in televisione che in rete) continuavano a
diffondere quasi esclusivamente notizie negative, perché, si sa, la bontà non
fa notizia. Così decise di acconsentire alla creazione del
lungocortometraggio, purchè fosse censurata qualsivoglia scena troppo “forte” o “hot”. Luk sospirò e approvò l’idea di
Berwald di mettere davanti a queste ultime sequenze un velo rosso o rosa, un
po’ come se la scena fosse vista attraverso a delle tende, per rendere il tutto
un po’ più romantico e non dare l’idea della censura.
Dopo il colloquio con la Griffith Luk era fuori di sé dalla gioia: sarebbe finalmente diventata una
regista! Tra i mille filmini mentali della serie Hollynuuk che le frullavano in
testa, si ritrovò a camminare fra le varie scrivanie, nella biblioteca, con circa
millemila premi Oscar (e qualche Nobel per la Pace, ovviamente! Se si sogna
bisogna falro in grande, no?) e la quasi-certezza di avere gambe indipendenti
dal resto del corpo.
Ora
qualcuno mi spiegherà come diavolo sono finita qui.
Cercando
una testolina bionda dall’aria familiare alla quale raccontare le ultime
avventure della giornata e, soprattutto, delle sue gambe indipendenti, sentì un
“Luuuk!” provenire da dietro. Si girò di slancio e trovò un faccino tondo e
sorridente, incorniciato da capelli castani acconciati con due codine. Codine.
Con due fiocchi rossi. Quello non era un faccino,
era il faccino di Sesel. Beh, avrebbe
benissimo potuto raccontarlo anche a lei.
« Ciao, Sesel! Devo raccontarti una cosa… le mie gambe si muov- » ma la castana la interruppe subito.
« Oh, Luk! Stai facendo un film, no? »
« A-aspetta! Tu che ne sai?! »
« Le voci girano! »
« Davvero?! » esclamò l’altra. Secondo le sue numerose
ricerche la formula “le voci girano” vuol dire qualcosa del tipo “ne parlano
tutti”, ma anche “lo so solo io, ma voglio farti sentire importante”, con il
90% delle probabilità per la prima e il 10% della seconda, ma per Luk in quel
momento la seconda opzione non esisteva.
« Volevo chiederti… se io… cioè, potrei partecipare anch’io? » chiese
Sesel, mentre giocava con i capelli. Sembrava in imbarazzo. « Ah, poi posso
dirti una cosa? Beh, Lochan ha gli occhi verdi, no? E… e anche Arthur ha gli
occhi verdi! Quindi… »
« Mmh, non saprei… dovrebbe fare un provino… e po- » fare la parte della
regista esigente le stava piacendo da matti. E ogni volta che pensava ai futuri
provini per il cast per poco non si scioglieva per il piacere. Hollynuuk non
era poi così lontana, no? Avrebbe comprato una grossa stufa e avrebbe fatto
costruire un edificio adatto all’evento. Il problema era spostare Hollywood a
Nuuk, ma ci avrebbe pensato più tardi. Per ora voveva godersi il piacere di
fare la preziosa.
Mentre pensava a Hollynuuk e a tutto il resto non riuscì a completare la
frase e le sbucò davanti il ragazzo biondo al qualce avrebbe dovuto raccontare
le sue innumerevoli avventure.
« Oh, perché non mi hai parlato prima del film? Posso aiutare? » Le voci
girano, sì. Yeah. « Me l’ha detto Berwald! » concluse, contento. STOP! Aveva appena
detto “Berwald” in tono felice? Luk fu pervasa da uno sprizzo di felicità,
finché non pensò che il tono sarebbe stato lo stesso nella frase: “Ehi, hanno
spostato di stanza quel maniaco di Berwald!”. Be’, pazienza: le cose sarebbero
cambiate.
« Accidenti, questa cosa è davvero eccitante! » Luk-la-regista-cattiva
era volata via per lasciare il posto a
Luk-la-nuova-regista-eccitata-dal-fatto-di-aver-scritto-una-pseudo-sceneggiatura(?).
« Dici che dovrei far fare i provini? Beh, in fondo abbiamo quasi finito tutto…
insomma, dobbiamo rivedere un po’ le battute, ma… »
Il finnico provvedette ad aggiungere: « Ehi, Manon ti sembra adatta per
la parte di Maya? In fondo ha i capelli biondi come lei… ed è una bella
ragazza! Comunque… perché non attacchi un post-it sulla bacheca di classe
scrivendo “si cercano attori, eccetera”? Magari ci organizziamo in cortile! »
« È magnifico…! Facciamolo! » esclamò Luk, tutta eccitata. [Ehm… io… temo di non essermi espressa al
meglio…]
Così decisero di dirlo a Feliks, che provvide a far girare
l’informazione per tutto l’istituto. Luk gongolava. Berwald no, anche se lei
avrebbe preferito che lo facesse. E non volle neppure scegliere il cast.
Pazienza, l’avrebbero aiutata Tino e Sesel. Passò qualche giorno e si ritrovarono nel cortile per scegliere il cast. Per lei
era un’immane figata, per Sesel e Tino una minima possibilità di organizzare
un’uscita con Arthur e Manon, se fossero entrati nel cast.
« HAHA! In questa roba c’è un
eroe? Perché nel caso lo voglio fare io! » esclamò Alfred, mentre faceva la
fila per i provini.
« Non è una roba, accidenti! È
un libro, cretino! » Lo rimproverò Arthur, anche se ormai aveva perso la
speranza a provare a insegnare le buone maniere a quel buzzurro. Quell’anno
erano ancora compagni di stanza… e ogni volta che ci entrava scambiava quel
buco di trenta metri quadrati per uno zoo e il suo compagno per un gibbone
impazzito. Forse entrando nel cast se lo sarebbe tolto di torno almeno per un
po’, perché ovviamente non avrebbero mai preso quello yankee, no?
« Perché non fai il cameraman? Nello slide show finale sarai in una
delle prime foto, dopo di me, di Mr. Oxenstierna e di Eduard! » chiese Luk.
Sotto raccomandazione di Tino aveva deciso che l’estone avrebbe fatto il tizio del montaggio, dato che era un
mago con il computer. « È un compito di grande responsabilità, sai? E poi sarai
sempre presente… cioè, sarai l’autore delle riprese, accidenti! » sì, era un
compito di grande responsabilità, da eroe. E l’eroe accettò, sebbene avrebbe
preferito il primissimo posto nello slide show, magari prima del film. Del tipo
“questo film è offerto da Alfred F. Jones!”. Beh, li avrebbe convinti in
qualche modo, prima o poi.
Poi venne il turno di Arthur.
« Nome, città e raccontaci un po’ di teee! » esordì Luk, mettendosi un
paio di occhiali da sole. La domanda “ma che ti fumi?” sarebbe stata d’obbligo,
ma Arthur si contenne. «Mi sembri un tipo in gamba! Lo prendiamo?» fece ancora
lei, ammiccando verso Sesel, che annuì, per poi girarsi da un’altra parte,
evitando di mostrare a tutti le sue guance bollenti.
« Ma con che metodo scegliete gli attori?! »
« Se non vuoi entrare a far parte del cast potevi dirmelo subito… »
Arthur non sapeva del fatto che Alfred fosse il cameraman e quindi accettò, in
un disperato tentativo di toglierselo di torno.
« Ma… non devo dire niente? »
« No, questa è una prima selezione, poi ce ne sarà una seconda… forse
una terza… » mentre la groenlandese spiegava il suo astruso metodo per le
selezioni notò qualcosa che si muoveva per il cortile, in lontananza. Provò a
mettere a fuoco, anche se non ci vedeva un granché. Avrebbe dovuto portarsi gli
occhiali… eppure, anche sfocato, gli sembrava perfetto per la parte di Lochan. Aveva
la stessa aria sofferta, si vedeva dalla camminata. « Ehm, Mr. Kirkland,
saprebbe dirmi chi è quel tipo laggiù? » chiese la regista, indicando la figura
che si trascinava verso l’ingresso dell’istituto.
« Mi pare sia Honda… »
« HONDA! TI VOGLIO NEL MIO FILM! » al nipponico per poco non venne un
colpo. Pipaluk non lo notò e decise di correre da lui. «Ehi, vuoi entrare nel
cast del mio film?» gli prese le mani e cominciò a stringerle. «Accidenti, sei
perfetto! Vuoi?»
«C-che vuoi da me?! Tu… sei nella mia stessa classe, giusto? Piparuko… »
« Hai un accento fighissimo, cavoli! Kiku Honda… o Honda Kiku? Mr. Honda…
come vuol essere chiamato? Sai recitare? »
« I-io… adesso dovrei studiare… »
« Ok… verso che ora sei libero, domani? »
« Non saprei… »
« Verso le cinque io sarò qui per le altre selezioni e conto in una tua
visita! Takuss! » concluse lei,
facendo il saluto militare e correndo verso gli amici e l’inglese.
Le selezioni finirono una mezz’ora dopo, in funzione agli orari del
college (entro le sei e mezza si doveva rientrare dentro per cenare e non si
poteva uscire in cortile prima dell’una del giorno dopo, ossia a fine lezione e
chiunque non rispettava le regole poteva benissimo essere lasciato fuori). Il
bilancio si era chiuso con Alfred F. Jones nel ruolo – indiscusso – di
cameraman e Arthur (e forse anche Kiku) come Lochan. Gli altri – o meglio, le
altre: Manon e Lily – fecero un breve colloquio con Luk, Tino e Sesel durante
la cena. In realtà fu una semplice chiacchierata (sul formaggio francese, per
di più), ma Luk amava prendere le cose sul serio (più o meno…), era una regista
importante, lei.
Guga-baluga x°D
Salve a
tutti, cari lettori. Avrete ben constatato che sono una persona altamente
inaffidabile, visto che non pubblico MAI (never!) i capitoli nella data
predefinita (e che vi comunico periodicamente nel mio
angolo-di-colei-che-scrive).
Bene, ora basta scrivere in questa
maniera, non sono una donna abbastanza erudita da poterselo permettere. Ok, il
fatto è che ci provo, ma non riesco mai a correggere tutto il capitolo in
tempo… “E allora – mi direbbe qualcuno – correggilo il giorno prima!” no, non
ne ho voglia, soprattutto adesso che siamo in vacanza e che non ho nemmeno
voglia di alzarmi la mattina! Insomma, perdonate questa povera sciocca, questa
povera pigra, questa povera me. Inutile ripetere (ma lo faccio lo stesso) che
adorerò immensamente chi è arrivato fino a queste righe senza suicidarsi (o,
semplicemente, senza maledire me e la mia famiglia e senza chiudere la
finestra) e chi recensirà, ovviamente! ^_^ ricordatevi che le critiche, i
consigli e i suggerimenti (che poi sono quasi le sinonimi °_°) sono ben
accette, basta non andarci giù pesante D: potrei
deprimermi. E poi, so dove abitate è__è
E quindi, con questo siamo al terzo
capitolo e Luk sta iniziando la sua avventura nel mondo del teatro, olè! Per
chiunque pensasse che il libro e la sua trama sono un enorme spoiler: no, non
ci sarà alcun incesto. È solo uno dei pochi libri decenti che ho letto con dei
protagonisti umani e, soprattutto, adattabile al teatro. Avrei volentieri
preferito Io &
Marley, ma non era per niente fattibile, purtroppo. Prediligo i
cani all’incesto x°D mmh, non credo di avere altro da dire, a parte che ci
vedremo tra 5-6 giorni per il prossimo capitolo, ossia… ehm, tre più cinque fa
otto, tre più sei fa nove… quindi probabilmente sarà già ricominciata la
scuola! D: NON VOGLIO! *corre via piangendo*
P.S.: ringrazio immensamente Cosmopolita e miristar per le precedenti recensioni :*
La recensione non è mia, l’ho
trovata qui: http://www.diariodipensieripersi.com/2011/02/recensione-proibito-di-tabitha-suzuma.html
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 - Kart e attori (e un canadese...) ***
One
Chapter n°4: Kart e attori (e un canadese)
« Bene! C’erano un inglese, un tedesco e un americano… » cominciò Luk,
gesticolando e brandendo il suo muffin. Qualche briciola finì sicuramente per
terra e sulla divisa dell’altro, per non parlare del mucchio-della-sceneggiatura-che-nessuno-può-toccare-tranne-me-e-Nanuk-pena-la-morte-anche-se-non-è-vero-ma-fa-figo-e-quindi-mi-sento-in-dovere-di-doverlo-scrivere,
che aveva maturato grosse macchie marroni – più che altro a causa
dell’abitudine di Pipaluk di nutrirsi esclusivamente di muffin rubati di
pomeriggio – un po’ dappertutto. La
groenlandese sospirò, notando che lo svedese non le stava rivolgendo la minima
attenzione e quest’ultimo si chiese per l’ennesima volta perché diamine avesse
acconsentito a lavorare con quella sciroccata. Tino, giusto. Comunque, finiti i
suoi “discorsi” avrebbe lavorato. Era piuttosto seria, se si impegnava. « Oh,
giusto! Dobbiamo lavorare, no? Ah! Ti devo raccontare una cosa! Ieri abbiamo
fatto, tipo, le “selezioni”! Allora, ho trovato due possibili Lochan: c’erano
Kiku Honda e Arthur Kirkland… io preferirei Honda, però… anche se non mi sembra
molto interessato e… ah, per Maya Manon sarebbe adatta e… Lily potrebbe fare
Willa, no? Però hai presente il fatto che Lily ha un fratello che frequenta
anche lui il college? Mi era balenata l’idea di far fare a loro due Lochan e
Maya però non credo che sia il caso, no? Ecco, Alfred fa il cameraman! Ed
Eduard il tizio del montaggio… insomma, usa il computer! » spiegò lei, mentre
stringeva il povero dolcetto, che ormai era diventato una poltiglia. « C-cosa
ho fatto al mio muffin?! » esclamò lei, scioccata, guardando il mucchio informe
al cioccolato. « Aspetta! Dobbiamo lavorare, no? Comunque… cosa ne pensi del
cast sapientemente scelto da me? » continuò lei, soffermandosi su
“sapientemente” e “me”.
« Non mi piace quella Manon. Tino le fissa sempre il petto »
Cosa che con te non succede.
« B-beh, è fortunata! »
Ma d’altro
canto, se fossi una maggiorata, rappresenterei una vera minaccia e Nanuk non
lavorerebbe con me, quindi…
« Perché? Per il fatto che Tino le fissi il petto o perché abbia un seno
piuttosto pronunciato? » Berwald si stava insospettendo. Male. Malissimo. Luk
rispose con un frettoloso “lascia stare…” e poi continuò a parlare del cast.
Kiku Honda era il suo possibile Lochan preferito: aveva visto in lui la stessa
aura “sofferta” del protagonista del libro, poi aveva i capelli neri come Lochan
e… il suo accento era o non era adorabile? Ovviamente per Berwald il fatto che
il giapponese avesse un accento “puccio” non contava. In fondo però sperava che
fosse un buon attore; gli sembrava un tipo affidabile e la somiglianza con il
protagonista del libro era impossibile da non notare.
« E poi Fernandez Carriedo! Dovrebbe fare qualcosa… tipo Nico, quello
che esce con Maya una sera e quella stessa sera lei si accorge di amare il
fratello… in fondo Nico è un gran figo, no? »
« Mi pare che ti avessi detto di non basarti solo sull’apparenza per
scegliere gli attori… »
« Ma no, vedrai che lui è uno di quelli “belli e bravi”! La parte di
Nico doveva essere data ad uno più bello degli altri, a prescindere… E comunque
non mi avevi detto niente… »
« Te l’ho detto ora. »
« Farò più attenzione, mio capitano! » esclamò Luk con aria importante,
gonfiando il petto e facendo il saluto militare. Le piaceva tanto fare questo
genere di cose “ufficiali”. La faceva sentire importante. Un po’ come essere la
regista-sceneggiatrice di un lungometraggio. « Ehi, - continuò lei - hai notato
che abbiamo finito di scriverlo quasi subito? Insomma, dovremo solo girarlo! Ti
rendi conto? Peccato che sia complicato quasi quanto scriverlo… »
« Ehi, regista! » c’era qualcuno che la stava chiamando. L’accento
americano era inconfondibile, quindi Luk, girandosi, rispose con un “ehi,
cameraman!”, agitando la mano. Il cameraman si avvicinò, per poi fissare lo
svedese con un misto di sorpresa e paura. « Uh, quindi è lui l’altro regista di
cui si discute tanto, eh? E chi l’avrebbe immaginato! Comunque per stasera
avrei organizzato un torneo di Mario Kart… se siete interessati: palestra,
subito dopo cena! E portate anche tante bandierine americane per fare il tifo
perché ovviamente tiferete me, no? HAHA! A presto !» subito dopo il breve
discorso l’americano andò via.
« Ehi, ho una felpa con la bandiera degli Stati Uniti… secondo te va
bene? » chiese Luk, rivolta allo svedese, guardando Alfred che spariva dietro
la porta della biblioteca. Per tutta risposta lui sbuffò e continuò a scrivere
qualcosa su di un foglio. Davvero voleva fare il tifo per quello statunitense
rumoroso? Rumoroso come lei, d’altronde. Tra casinisti ci si intende, giusto? «
Vieni anche tu, no, Nanuk? Perché verrai, no? »
« Dove? »
« Al torneo di Mario Kart! »
« Fortunatamente ho cose migliori da fare… »
« Come preferisci… Allora, prima ti dicevo che nel libro, in pratica, c’è
scritto che Nico è un gran figo e siccome… insomma, è bello anche Antonio!
Capisco che non mi dovrei far influenzare dall’apparenza, ma non dobbiamo
neppure organizzare lo show dei rifiuti della società!» Luk si interruppe: non
era quello che avrebbe voluto dire. « N-no, aspetta! Temo di non essermi
spiegata bene! »
Ma va?
Luk iniziò un altro dei suoi discorsi, spiegando che non aveva alcuna
avversione contro le persone… diversamente
belle
e aggiungendo che neppure lei era una gran bellezza. « Insomma:
tappa,
capelli neri e corti, faccia tonda, occhi scuri, quasi a mandorla,
carnagione
olivastra… cioè, NO! Non è che non…
cioè, che sono avversa a chi ha la pelle olivastra…
insomma, anch’io…» Perché non riusciva MAI a
far uscire qualcosa di decente,
non fraintendibile dalla massa e che non fosse un discorso (condannato
a
“terminare” nello sproloquio più sproloquoiso, poi)
dalla bocca? Perché doveva
sempre prepararsi una scaletta con un discorso se voleva dire qualcosa
di
decente e capibile? E, soprattutto, perché quel tizio lì
non la mandava a quel
paese e se ne stava ancora lì? Probabilmente era interessato
alla psicologia (e
alle malattie che affliggono il sistema nervoso, come quelle che si
combattono
comprando piante in strada), se frequentava una come lei. A pensarci
bene,
però, la frequentava anche Tino. E anche Sesel. E nessuno dei
due era
particolarmente interessato alla psicologia…
Devo avere un
certo fascino. Sì, come no… questo è uno psicologo in erba. Scommetto che tra
qualche anno me lo trovo tra i tizi in camice bianco che ti implorano di
comprale quelle piante per salvare gente come me. Magari metteranno anche una
mia foto.
« Per caso vorresti fare lo psicologo in un prossimo futuro? »
« Non lo so, non credo. ‘rchè ? »
«Perché?» [Piccola spiegazione: la nostra
cara, carissima Luk chiedeva
“Perché?” riferendosi al “
’rchè?” pronunciato prima da Berwald – che,
come ben
sapete, ha questa fama di pronunciare le parole smozzicate – , ma
ovviamente
non si è spiegata molto bene… no, per niente…]
« Cosa? »
« ’rchè! »
« Ma cosa? »
« Perché! »
« Mi stai prendendo per il culo? »
« ’rchè? »
« Senti, devo andare. Arrivederci» Berwald si alzò, abbastanza seccato.
Lui l’aiutava e lei si permetteva anche di prenderlo per i fondelli? No, non
poteva perdere tempo con gente del genere. Luk si alzò insieme a lui, per
chiarire il millesimo equivoco. «Credo di non essermi espressa al meglio… »
Se solo
ricevessi un centesimo ogni volta che sento questa formula… che poi precede
altre frasi in cui non ti sarai comunque espressa al meglio eo altri
sproloqui. Cielo, se non fosse per Tino…
« Perché hai detto “’rchè”? »
« Per lo stesso motivo per cui tu non sai pronunciare le consonanti
dolci »
« Ah, è l’accento! Scusa… »
Ora mi lasci
andare. Non si scusi, certe cose da lei me le aspetto.
« e comunque ci devo lavorare, con la sk… e la k… »
La
sh e la ch. Shy isn’t sky…
« Per rimediare… »
Mi lascerai
andare? Sì?
« Perché non vieni a vedere quel torneo? Sembra divertente! »
Oh, no. Sa,
questo è un momento difficilissimo per me. È appena morto il ragno che viveva
nell’angolo ovest della mia stanza e devo stare vicino a quello dell’angolo
sud. Spero che lei capisca.
Ovviamente Luk aveva sempre il suo asso nella manica, alias Tino. « A
Tino piace giocare a Mario Kart… »
Beh, il ragno
si riprenderà.
E così
Berwald si convinse ad assistere alla gara. La palestra era gremita, ma erano
in pochi i veri spettatori interessati alla sfida, accalcati accanto ai quattro
“finalisti”, ossia l’americano, il giapponese (ovviamente. Chi poteva essere
trai i finalisti di un torneo di videogiochi se non lui?), il maggiore dei
fratelli Bielshmit e un australiano. L’ultimo doveva chiamarsi Richard Dawson.
I suoi occhi castani guizzavano tra i quattro nomi delle corsie presenti sullo
schermo: essendo stato estratto a sorte per la scelta di uno dei percorsi
(perché ognuno dei partecipanti ne avrebbe scelto uno, evitando in questo modo
di creare individui più avvantaggiati di altri) calcolava le sue probabilità di
vittoria a seconda dei percorsi… il suo Tartosso se la sarebbe cavata meglio
nel percorso di Mario o in quello di Luigi? O sarebbe stato meglio scegliere il
castello di Bowser? Poi l’idea di scegliere le Cascate di Yoshi lo allettava,
ma avrebbe avvantaggiato lo Yoshi del giapponese in quel modo… e intanto il tempo
passava e gli occhi degli avversari si posavano pesantemente su di lui. Ma al
gruppetto formato da Luk, Berwald, Tino, Sesel, Lily e Arthur (Manon era da
qualche parte con il fratello) non importava più di tanto. Certo, ogni volta
Luk alzava la testa per vedere come procedeva la sfida, ma niente di che.
Stavano discutendo animatamente sullo spettacolo e lei era riuscita a non
sproloquiare. Un momento memorabile. C’è da dire che neppure gli altri
parlavano più di tanto, forse intimoriti dalla mole dell’altro regista.
« Comunque dovremo pensare a chi potrebbe interpretare i fratelli più
piccoli. » sbottò Berwlad.
« Sì, ma il problema è trovare gente che abbia un visino innocente…
signorina Zwingli, io avrei pensato a lei per recitare la parte di Willa…
sembra così dolce! »
La svizzera arrossì leggermente, lusingata dal complimento. « Ah,
grazie… però dovrei chiedere a mio fratello… comunque puoi chiamarmi Lily… »
Oh, giusto, suo fratello. Vash Zwingli. Quel tipo era basso quanto pericoloso.
Per non parlare di come fosse protettivo nei confronti della sorella. Ed era
anche tanto patriottico, motivo per il quale guardasse ogni cosa con una certa
aria di superiorità, come a dire “in Svizzera è meglio”, cosa che lo accumunava
con l’austriaco, Roderich Edelstein.
« No, mi piace usare i toni formali! Fa tutto più professionale! »
esclamò Luk, per poi essere interrotta dall’inglese. « Se vi serve ho anch’io
un fratellino… a patto che ve la teniate per sempre, quella peste» sbuffò
Arthur, cercando di non ricordare il momento in cui, pochi anni prima, Peter
stesse per guardare un video su YouPorn. Avrebbe dovuto farglielo ingoiare,
quel computer. Ci stava sempre appiccicato. “Arthur, cos’è questo?” “Arthur,
gioca con meee!” “Arthur, ho appena comprato un bazooka su e-bay! Come faccio
quando arriva a casa?” no, quella no, fortunatamente. Però le voci del
ragazzino gli affollavano la mente come fantasmi, adesso che qualcuno aveva
pensato a farglielo ricordare.
« Quant’è piccolo tuo fratello? » chiese Luk.
« Ha dodici anni, non sporca, fa il bravo, all’occorrenza può anche
trascinare una slitta, quindi… »
Pipaluk ci riflettè un po’. « Potrebbe andare bene, ma credo che sia
troppo piccolo per far parte di una trama simile… ma d’altronde ormai i bambini
di oggi sanno già tutto... »
« Ah, con quel computer quello lì ne sa una in più del diavolo,
tranquilla… »
« Ma i tuoi devono essere d’accordo, parlagliene prima. » disse lo
svedese.
« Ve~, anche noi stiamo girando un film! » intervenne qualcuno da dietro.
Aveva un accento italiano, ma non sembrava la voce di Lovino. Luk aveva sentito
che avesse un fratello, anche lui frequentante del college, quindi decise di
girarsi e attaccare bottone, anche se c’era un problema. La “visita”
dell’italiano non era prevista, quindi c’era sempre il pericolo di cadere nello
sproloquio. Ma lui non sembrava molto sveglio, quindi aveva qualche punto a suo
vantaggio.
« Oh, tu dovresti essere il fratello di Lovino Vargas, giusto? »
« Sì, ve~ voi cosa state girando? Noi l’amico ritrovato! »
« Bel libro. L’ho letto qualche anno fa. » intervenne Arthur. L’italiano
si limitò ad annuire, per poi fissare Berwald, piuttosto intimorito. Lo svedese
ricambiò lo sguardo e Vargas decise di smettere di fissarlo, per non cominciare
a piangere: era davvero troppo spaventoso. Un po’ come il suo amico Ludwig. E
gli somigliava anche.
« Che maleducato, non mi sono ancora presentato! I-io mi chiamo
Feliciano Vargas! »
« E io Pipaluk Jensen! » si presentò Luk con aria solenne, stringendogli
la mano.
« Che nome è Pipaluk? » chiese Feliciano, con l’aria più innocente del
mondo.
« B-be’, è un nome groenlandese… c-conosci la Groenlandia, no? »
« Mi pare… allora, Babbo Natale dovrebbe abitare in Finlandia, quindi…
la Groenlandia ha qualcosa a che fare con la Danimarca? È una colonia? Se lo
fosse potrebbe essere anche inglese? Quelli hanno colonie dappertutto e poi è
vicina agli Stati Uniti… » Arthur si portò una mano sulla fronte in una
rappresentazione magistrale di un facepalm.
Fortunatamente intervenne un qualcosa, anzi, un qualcuno a salvare l’onore nazionale della piccola groenlandese,
che non era riuscita a spiccicare parola, anche se nella testa le frullavano
molte parole che non si sarebbero potute sentire nella tv groenlandese. « È
vicina al Canada, a dir la verità… » intervenne una voce flebile proveniente da
dietro. « La Groenlandia è diventata indipendente dalla Danimarca il ventuno giugno del 2009… »
« Chi l’ha detto? » all’improvviso l’italiano non aveva più importanza.
Luk doveva scoprire chi fosse quel magnifico ragazzo così istruito su una
Nazione importantissima come la
Groenlandia, spesso troppo trascurata dalle carte geografiche. Era l’isola
più grande del mondo, accidenti! « Chiunque
tu sia, ti adoro! »
« Io? » fece il ragazzo biondo, alla quale apparteneva la vocina di
prima, sbucato da chissà dove. Aveva i capelli mossi lunghi sino alle spalle e
un paio di occhiali che gli nascondevano gli occhi blu. La groenlandese ricordava
di aver visto un ricercatore in Groenlandia molto simile a lui, mentre parlava
degli orsi e dei cani con suo padre. Il signore era cortese e aveva imparato
anche un po’ di kalaallisut con il tempo, anche se parlava prevalentemente una
lingua simile al danese per certi versi, ma che danese non era. Era restato a
Nuuk per qualche mese, per poi far ritorno nel paese che lei chiamava Kananadah. L’accento e il fatto di non
avere una pronuncia perfetta giocavano scherzi, a volte… per non parlare del
fatto che avesse solo sei anni e nessuna conoscenza del mondo esterno. Fatto
sta che crebbe e scoprì che esistevano molti altri paesi al di fuori del suo,
tra cui un certo “Canada”. A scuola dovette anche imparare molte delle loro
caratteristiche, tra le quali i climi, le capitali e i nomi… una fatica
assurda. Il peggio fu quando scoprì che i nomi in kalaallisut non
corrispondevano per nulla ai nomi “standard”. Naalagaaffeqatigiit ad esempio vuol dire “Stati Uniti
d’America”.
« Sei canadese? » chiese
lei, quasi d’impulso.
« Aap… » se gli occhi avessero
potuto brillare quelli di Luk lo avrebbero fatto sicuramente in
quell’occasione. Aveva imparato che conoscere la Groenlandia all’estero non era
da tutti, figurarsi parlare il kalaallisut! Va bene, saper dire solamente un
misero “sì” non era esattamente “saper parlare” una lingua, ma era il primo
passo per iniziare a conoscerla. E in quell’istante Pipaluk decise che il
canadese sarebbe stato il suo prossimo allievo di kalaallisut.
IO TI ADORO!
« Come ti chiami? Il mio nome è Pipaluk Jensen, ma tu puoi pure
chiamarmi Luk, se ti va! »
« Mi chiamo Matthew Williams… »
« Come, scusa? »
« Matthew Williams… » sospirò ancora una volta il canadese.
« Matthew, eh? bel nome! Dove abiti, a Toronto? O a Vancouver? »
« A Ottawa… »
Parla poco…
« Bello! Ci sono molte cose ad Ottawa? »
« Tante cose quante ce ne potrebbero essere a Londra! » sbuffò il
britannico, un po’ per orgoglio e un po’ per rientrare a far parte del
discorso. Inutile puntualizzare che Luk lo fulminò con lo sguardo, anche se con
risultati piuttosto scarsi. Insomma, quanto può essere spaventosa una piccola
Inuit dalla faccia tonda?
« S-sì… ora devo andare, scusa… » il canadese si congedò in fretta e
girò i tacchi, per sparire tra la folla. Luk avrebbe voluto trattenerlo, ma non
le sembrava il caso. Avrebbe voluto tanto parlare ancora con lui… ma d’altronde
aveva preparato la scaletta per discorrere del suo, pardon, del loro film, no?
Alla fine il torneo fu vinto Kiku Honda e la troupe concluse ben poco, a parte il fatto che ogni membro avrebbe
dovuto leggere il libro per evitare qualsivoglia brutta sorpresa. Arthur,
proclamando la sua velocità nel leggere, fu il primo ad “affittarlo”. Subito
dopo di lui ci sarebbe stata Lily, alquanto interessata alla trama del romanzo.
Luk l’aveva sempre immaginata come una scolaretta modello timida e composta, ma
si era dovuta ricredere: conosceva moltissime cose! E i lavori dovevano andare
avanti… così passò una settimana, tra incontri, compiti e impegni vari, senza
che Luk potesse pensare un po’ all’incontro con Matthew o senza che riuscisse
ad incrociarlo: il ragazzo era bravo a volatilizzarsi, a quanto pare… o era
semplicemente lei che non lo notava? Faceva quasi parte della tappezzeria della
classe, quasi fosse stato un banco e una sedia. E il fatto che stesse sempre
zitto non giocava certo a suo vantaggio. Insomma, un conto era un tipo rumoroso
come Alfred, un conto era il tranquillo Matthew. A ben pensarci si
assomigliavano molto di aspetto, ma dal punto di vista del carattere erano agli
antipodi.
« Secondo voi perché sta sempre zitto zitto? » si ritrovò a chiedere
Luk, mentre attraversava il cortile insieme a Tino e Sesel.
« Ehm… di chi stiamo parlando? » chiese ancora Sesel, fermandosi a pensare.
« Credo… accidenti, ce l’ho sulla punta della lingua… M… Mat… Matthew? »
tentò il finnico.
« Sì, proprio lui! » fece Luk.
« Probabilmente non… sarà timido, dai! E poi non sono tutti casinisti
come te e il cameraman, ysätväni! »
« Ah, parla la ragazza! Con la
a, eh! Proprio ragazza! Nanuk mi ha detto che oggi vorrebbe chiederti di
metterti con » cinguettò Luk. Sesel strabuzzò gli occhi, ma mai quanto il
finlandese, che sembrò voler arrivare a raggiungere il cielo, tanto erano
arrivate in alto le sopracciglia per la sorpresa. « C-chi ti ha detto queste…
assurdità?! » esclamò lui, piuttosto allarmato. Per ora Berwald si era solo
limitato a fissarlo, anche se un giorno l’aveva sorpreso ad accarezzarlo,
appena sveglio… che ricordi tremendi… avrebbe dovuto pensare a qualcos’altro
per tranquillizzarsi… a Manon, oppure a Katya… oh, sì…
« Avanti, dai! Ad ogni modo, posso fare la damigella? » Luk esibì uno
sei suoi migliori sorrisi.
« Oh, c’è un matrimonio? » chiese Sesel, improvvisamente interessata. «
Voglio fare la damigella anche io, ma solo se mi farete vestire di azzurro! »
« Potremo far trainare il cuscino con gli anelli da uno dei miei cani! E
potremo organizzare qualcosa all’Ikea, no? »
« E ovviamente ci sarà tanto pesce nel menu! » Sesel sprizzava gioia da
tutti i pori.
« Sì, sì… tanto pesce… » sospirò Tino, sconsolato.
Gwah!
Salve a tutti! Volevo informarvi che
la mia fan fiction ha raggiunto ben 10 recensioni e, per quanto questo
risultato a voi possa sembrare modesto, stupido e infantile, per me è un
piccolo grande passo verso la conquista del mondo!
Ah, a scanso di equivoci vorrei spiegare che Manon sarebbe il nome umano
per Belgio (nome scelto dai fan che ho deciso di adottare) e Katya quello di
Ucraina (sempre scelto dai fan… ho trovato anche il nome intero che dovrebbe
essere Yekaterina, ma ho preferito questo) – a proposito, ho deciso di
appellare (?) Monaco Charlotte Bonnefoy e mi scuso se per alcunie
rappresentanti di stati minuscoli fratellisorelle di stati più importanti
abbia donato la nazionalità di questi ultimi paesi. Dunque-dunque, oggi abbiamo
fatto conoscenza con un personaggio che, se la sorte non mi sarà avversa, molto
probabilmente avrà un ruolo rilevante nella storia, ossia… *indica un canadese
a caso* come mai saprà tutte queste cose sulla Groenlandia? Lo scoprirete solo
nelle prossime puntate! x°D a proposito, devo dire che però il discorso di Feli
non è puramente inventato: quasi ogni persona alla quale ho fatto la domanda
del tipo “Ehi, sai cos’è la Groenlandia?” mi ha risposto con cose del tipo “Sì,
una provincia della Danimarca”, “No, ma è sicuramente una colonia di qualcuno
sperduta nei mari del sud” [Cielo. °_° sempre per questa persona il Canada si
trova in America del SUD D:], “Ma Babbo Natale non viveva in Finlandia?” oppure
“PINGUINI!” ß
tutto ciò è accaduto davvero, purtroppo… Povera Luk! x°D la nostra cara
Groenlandia è davvero diventata indipendente nella data del 21 Giugno 2009
(dopo 300 anni di dipendenza dalla Danimarca!), anche se il processo per
esserlo “completamente” sarà un po’ più lungo e durerà circa 20 o 30 anni… ma
adesso basta con le lezioni di storia perché annoiano alquanto anche me, ergo
voglio ringraziare come sempre chi leggerà e recensirà (spero che facciate
entrambe le cose!) e in particolare voglio dedicare la storia a due nuove
recensitrici (si dice davvero recensitrici? °^°), ossia happylight e nena92 :D e
ovviamente alla carissima Cosmopolita
che mi segue dall’inizio dei tempi puntuale come un orologio svizzero! Spero
vivamente che continuiate a seguirmi e che il capitolo vi sia piaciuto (ma
anche no .__.)! Adesso non so più cosa scrivere, quindi vi do appuntamento al
prossimo capitolo, tra 6-7 giorni! :) bye!
P.S: Per il “mini-monologo
interiore” su Mario Kart ho dato fondo a tutta la mia esperienza x°D
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 - Fate, tonni e Palle di Luce ***
One
Chapter n°5: Fate, tonni e palle di luce
« Come sei bravo! Davvero! » esclamò Luk con gli occhi spalancati
davanti allo schermo del computer, sporgendosi da dietro le spalle dell’estone,
intento a modificare un’immagine con Photoshop. « Io te l’avevo detto che è un
genio! » fece Tino, gonfio d’orgoglio per l’amico, mentre si sporgeva per
fissare il cursore che si muoveva da un lato all’altro dello schermo, cliccando
icone e strumenti, aggiungendo effetti, modificando i colori… tutto ciò era
svolto con una tale maestria da sembrare un movimento del tutto naturale. E
pure Eduard era orgoglioso del suo lavoro, anche se, ovviamente, non lo dava a
vedere, a parte per quel sorriso appena accennato. Mentre Eduard trafficava con
i pennelli Luk si soffermò sul lavoro grafico, ormai quasi completo. Il colore
dello sfondo era nero, ma si potevano notare dei riflessi di luce e alcune
citazioni del libro in trasparenza mentre nel mezzo c’era il cuore formato dal
filo spinato, l’immagine della copertina. Era semplice, delicato e, nel
contempo, forte. Proprio come il libro, proprio come lo stile di scrittura di
Thabitha Suzuma. Insomma, era perfetto.
« Allora, » cominciò l’estone, girandosi dalla parte del finnico e della
groenlandese « vi sta piacendo? »
« Sì, è bellissimo! » fece lei, con gli occhi sgranati, per poi
porgergli una chiavetta USB. « Vedi, se la salvassi qui la potrei far vedere
anche a Nanuk. » Eduard fissò Tino in cerca di una spiegazione e il finnico
sputò un “Berwald” fra i denti. Allora l’estone prese delicatamente la chiavetta,
la inserì nell’uscita USB e, con qualche click, vi salvò il logo all’interno.
Infine la estrasse e la porse nelle mani di Luk, che lo fissò estasiata. «
Ragazzo, tu non dovresti essere qui… guarda che il MIT è dietro l’angolo! » lui
e sorrise: « Dai, ho solo salvato
un’immagine nella chiavetta… niente di che! »
« Come vuoi, ma quando soppianterai Bill Gates ricordati di Luk! »
esclamò infine lei, ridendo.
« A proposito, Luk… hai presente la
ricerca di gruppo che dovremo fare per dopodomani… ? » chiese il finlandese.
Lei annuì, ricordandosi il compito assegnato dalla professoressa di
letteratura, ossia la signorina May Boulevard: un metro e settanta di pura
follia. Lunatica come il clima in montagna, amava in particolare la letteratura
antica e quella incentrata su figure mitologiche e animali. Aveva dei grandi
occhi verdi e capelli biondo cenere che le arrivavano quasi al bacino,
nonostante li legasse spesso in una lunga e setosa coda di cavallo. Non potendo
usare vestiti troppo appariscenti in un ambiente qual era il collegio, si
accontentava di sovrapporre un foulard fucsia sulla giacca di un marrone
spento, lasciata quasi sempre sbottonata per mostrare una camicia bianca, quasi
a voler far contrasto con gonna e scarpe nere. Nonostante non avesse tutto
questo gran gusto nel vestire era simpatica e sapeva coinvolgere i ragazzi
nelle lezioni (ed era sempre la prima a voler accompagnare i ragazzi in giro
per Londra per visitare musei o, più semplicemente, per comprare souvenirs e
fare shopping!). Una delle sue doti, purtroppo, era quella di assegnare compiti
piuttosto “fantasiosi” della serie “inventa una chanson francese medioevale”.
Con la ricerca sulle “leggende antiche di popolazioni ai confini del mondo”
però era riuscita ad assegnare qualcosa di più “normale”, fortunatamente. «
Volete che vi racconti una storia degli Inuit della Groenlandia? » chiese
eccitatissima, con gli occhi sgranati e la faccia a pochi centimetri dal naso
di Eduard, che si spostò un po’ più indietro, accennando un “se non ti è di
troppo disturbo…” no che non le era di troppo disturbo, anzi. Le storie del suo
paese erano le più belle che avesse mai ascoltato e non avevano niente da
invidiare a quelle dei fratelli Grimm o di Andersen. Andersen, esatto. Suo
padre l’aveva imbottita di roba del tipo “La Sirenetta” fin dalla nascita,
mentre la madre le aveva sussurrato i racconti e le leggende del suo popolo…
lei aveva apprezzato tutti e due i tipi di racconti, ma da quando aveva sentito
che il patrimonio culturale degli Inuit (della Groenlandia e in generale) stava
pian piano scomparendo aveva fatto di tutto per ricordare quelle storie,
chiedendosi perché milioni di persone osannassero le fiabe danesi e perché
nessuno pensasse a quelle Inuit. Forse perché queste ultime a volte raccontavano
solo il perché delle cose e si preferiva che i bambini crescessero pensando che
fosse stato un dio a creare tutto. Forse perché il suo popolo non va certo
dietro alle telecamere e non scrive libri. Forse per semplice sfortuna. Sta di
fatto che lei non le avrebbe mai dimenticate, anche se a volte la memoria della
mamma faceva cilecca e certi racconti della sua infanzia rimanevano senza un
finale, perduti per sempre. Infatti sua madre, diventata adulta, aveva deciso
di convertirsi al “progresso” ed era emigrata in Danimarca, dove aveva
conosciuto il padre di Luk, appassionato di corse con i cani e paesi freddi.
Così si erano sposati e lei era tornata nella sua terra accompagnata dal
consorte (e da un bel po’ di cani). In quel momento, però, non c’era tempo per
i ricordi: doveva assolutamente raccontare una bella storia. Anzi, non bella,
bellissima…
« Lasciate che vi racconti la storia del corvo e della palla di luce… beh,
allora… quando la Terra era appena nata… »
Molto tempo fa, risalendo dalle acque che coprivano tutto il mondo, era
sempre buio nel mondo degli Inuit.
E gli Inuit avevano molta paura del buio, perché non si accorgevano dell'arrivo
di Nanuk, l'orso bianco, che li assaliva silenzioso prima che potessero
accorgersi del suo arrivo.
Molti degli antenati erano morti così, fra la disperazione delle donne e il
pianto dei figli rimasti orfani senza più chi cacciasse per loro e li sfamasse.
Ma un giorno volò sul mondo degli Inuit un vecchio Corvo che, fermandosi per
riposare perché era molto, molto vecchio e stanco, si stupì di quella notte
continua, e tanto per passare il tempo, mentre era fermo raccontò loro che in
altri luoghi vi erano molte giornate luminose, e per dare un'idea spiegò che
quella luminosità era pari alla luce di migliaia e migliaia di lampade di
grasso accese, e che grazie a quella luce si poteva vedere lontano, e scorgere
le slitte che tornavano dalla caccia ancor prima di udire l'abbaiare dei cani....
Fu così che gli Inuit iniziarono a chieder al vecchio Corvo di andare, per
cortesia, a prendere per loro la luce di quelle mille lampade, e portargliela,
ma il Corvo titubava, non voleva andare.
Sono troppo stanco, diceva, e la luce è molto, molto lontana.
Ma alla fine, vedendo la misera vita che quella gente conduceva nel buio
assoluto si impietosì, e partì alla ricerca della Luce.
Volò per giorni e giorni fino a che, oramai al limite delle forze, proprio nel
momento in cui stava per decidere di tornare indietro scorse, lontano
sull'orizzonte, un fievole bagliore.
Era la Luce!
Mano a mano che si avvicinava, il bagliore diveniva sempre più forte fino a che
si trovò a volare nel giorno pieno, e allora capì di essere finalmente arrivato
nel paese della Luce.
Esausto, si fermò a riposare su di un albero, vicino ad un ruscello, ed iniziò
a pensare a qualche stratagemma per prendere la Luce e portarla agli Inuit.
In quel momento, una bambina, vestita con un mantello di pelliccia bianco come
la neve che avvolgeva tutto il paesaggio, si avvicinò al ruscello ad attingere
acqua. Il Corvo, che era abile nei travestimenti, mutò allora il proprio
aspetto in quello di un granello di polvere e andò a nascondersi fra le setole
del mantello, cosicché, quando la bambina rientrò a casa, senza accorgersene lo
portò con sé.
Dentro la casa regnava un caldo tepore.
Una donna stava cucendo una pelliccia, e, in un angolo, il vecchio capo del
villaggio si scaldava al fuoco. Il nipote, un piccolo bambino infagottato in
una lucida pelliccia di foca, stava giocando sul pavimento con delle statuine
di osso.
Il Corvo, che aveva a quel punto già preparato il suo piano, sempre mantenendo
l'aspetto di un granello di polvere gli volò nell'orecchio e iniziò a fargli il
solletico.
Il bambino incominciò a piangere.
Perché piangi? gli chiese il nonno,
dispiaciuto della improvvisa angoscia che aveva assalito il nipotino.
Digli che vuoi giocare con una Palla di Luce,
gli bisbigliò il Corvo in un orecchio.
Perché voglio giocare con una Palla di Luce,
piagnucolò il nipote.
Il nonno allora andò a pendere la scatola dove teneva le Palle della Luce, ne
prese una, piccola piccola, la legò con uno spago, e la diede al nipote
affinché vi giocasse.
Il granello solleticò ancora l'orecchio del bambino, che riprese a piangere,
ancora più angosciato.
Perché piangi?, chiese ancora il
nonno, che come tutti i nonni voleva che il nipote fosse felice.
Digli che vuoi andare a giocare con la Palla di
Luce fuori di casa, suggerì il Corvo.
Allora il nonno aprì la porta di casa, e accompagnò il bambino sul terreno
innevato davanti alla casa, poi tornò dentro a riscaldarsi davanti al fuoco,
perché fuori era molto freddo.
Come il bambino rimase solo, il granello di polvere si tramutò in Corvo,
estrasse i suoi artigli e tagliò lo spago che legava la Palla di Luce. Prese la
Palla di Luce e volò via verso la terra degli Inuit....
... sentendo lo sbattere delle ali nell'aria, tutti gli Inuit corsero fuori
dalle le loro case e rimasero un po' delusi, perché il Corvo ritornava, ma era
sempre buio.
Ma appena arrivato sopra il villaggio, il Corvo lasciò cadere a terra la Palla
di Luce, che si infranse in mille piccoli pezzi, e liberò la Luce che
racchiudeva.
La Luce affrontò la Notte, combatté con lei, la vinse e la scacciò.
Su tutta la Terra dilagò allora il Giorno. Che meraviglia!
Ora gli Inuit potevano vedere lontano.
... guarda le montagne, laggiù, come sono belle!
... e il cielo, come è azzurro!
... potremo finalmente vedere Nanuk arrivare!
... e cacciare tante ore ogni giorno, e andare
a pescare più lontano, e cercare mari più pescosi!
Ringraziarono il Corvo ma lui, dopo aver visto quella felicità, era rimasto
rattristito per non essere riuscito a portare una Palla di Luce più grande.
Ho potuto portare solo una piccola Palla di
Luce, si scusò, così
potrete avere luce solo per metà dell'anno...
Ma gli Inuit, che non sono ingordi e sanno accontentarsi di quel poco che
hanno, risposero:
ma noi siamo felici lo stesso. A noi basta
avere luce per metà dell'anno, prima era buio tutto l'anno!
« È davvero bellissima, ysätväni! »
« Grazie! E… e se chiedessimo a Sesel e a Na-… Berwald di partecipare?
Oh… temo di essere in ritardo…! » fece Luk,
portandosi una mano sulla fronte. « Avevo detto agli altri di vederci in
cortile alle cinque… che ore sono? »
Tino si controllò l’orologio. « Le cinque e… e due. Corri che sei ancora
in tempo! »
La groenlandese si congedò con un “takuss” e cominciò a correre a rotta
di collo verso il cortile esterno, maledicendo il fatto di non portarsi una
sveglia sempre appresso. Improvvisamente si ricordò della possibilità di
inserire una sveglia nel telefonino e le sue maledizioni interiori aumentarono
d’intensità. Si fermò in mezzo alle scale per spostarsi un ciuffo di capelli
dagli occhi; accidenti, doveva avere un aspetto davvero pessimo dopo ben tre
minuti e quarantacinque di corsa! Non avendo uno specchio a portata di mano (e
non volendo averlo per la paura di guardare il suo riflesso in quello stato)
decise che avrebbe camminato pianissimo e in modo regale, proprio come
l’austriaco sul pianerottolo sottostante… ma no, era in ritardo! In un ritardo
schifoso! Sospirò e continuò a correre, beccandosi un’altra maledizione
mentale, ma da parte del ragazzo elegante sull’altro pianerottolo. Dopo altri
tre minuti giunse finalmente nel cortile, accolta da una sferzata di vento
gelido. Non ci badò e cerco la sua troupe con lo sguardo, riuscendo a
identificare solo un gruppetto di ragazzi riuniti attorno ad un albero, in un
angolo. Li raggiunse e si scusò mille volte per il ritardo. C’erano Lily,
Manon, Arthur, Sesel e Kiku. Nessuna traccia di Berwald.
« Gomen, » iniziò il
nipponico, abbassando il capo come a voler chiedere perdono. Perdono di cosa? «
non me la sento di recitare… nella
parte di Lochan, intendo…»
« Ok… » sospirò Luk, tendendogli la
mano. « Sarebbe comunque un piacere collaborare con
lei, sempre che non abbia altri impegni, ovvio! » Kiku le strinse la mano.
Perché parlava in quel modo « Quindi… quanti giorni sono passati da quando ho
prestato il libro ad Arthur? Forse cinque? Insomma, avete già letto tutti il
libro? Siete veloci! »
« Sì, tutti tranne il cameraman… ho appena scoperto con disappunto che
sta collaborando anche lui… » iniziò Arthur, sbuffando e mandando un’occhiata
sprezzante alla sagoma bionda che si avvicinava, guadagnando sempre più
terreno. Guardando bene, c’era un’altra sagoma che si avvicinava, anch’essa
bionda. « Scommetto che non lo capirebbe neppure. Ah, guardalo, si sta
avvicinando. »
« Ehi, ho portato l’altro regista! » fece l’americano, appena arrivato,
indicando la sagoma in avvicinamento.
« Salve a tutti. » fece lo svedese, appena arrivato, mietendo già
qualche vittima, con il suo sguardo di ghiaccio. « Avrei voluto portare Tino,
ma era impegnato… sai, la ricerca… »
Sì, la ricerca… alla
ricerca di starti lontano… povero Nanuk…
« Allora, come diavolo facciamo ad effettuare le riprese senza una
cacchio di videocamera? » esclamò irritato l’inglese, per poi essere interrotto
da Alfred, che provvide a scompigliargli i capelli. « NON MI TOCCARE! » l’inglese
era letteralmente esploso nel tentativo di allontanare le manacce di quello schifoso yankee dai suoi capelli. Gli altri del cast rimasero interdetti, fissando la
scena: l’americano ridacchiava e il britannico era sul procinto di strozzarlo.
Ah, ci sono scintille fra il cameraman e l’attore,
sembra il set di un vero film!
« Avanti, smettetela… » tentò Lily.
« Tu non ti rendi minimamente conto di quel che ha fatto questo dannato
yankee! Mi sono appena lavato i capelli e questo qui si permette di toccarmi
con quelle schifose manacce unte! »
« Ehi, ti ricordo che il modo in cui mi hai chiamat- » iniziò Alfred,
piuttosto irritato.
« Sentite, se volete litigare quella
è la porta, – cominciò lo svedese – in caso contrario finitela, perché io non
ho tempo da perdere. »
« E neppure io, eh. » aggiunse Luk, in tono importante. « … è un rafforzativo… »
Fu così che iniziarono le riprese-senza-videocamera. Luk preferiva
pensare che fosse stato il suo “rafforzativo” a far filare tutto liscio come
l’olio, anche se si riteneva fortunata ad avere un amichetto dallo sguardo di ghiaccio. Un amichetto intelligente che
le fece anche notare che stavano solo perdendo tempo senza usare la
videocamera. La groenlandese annuì solennemente e passò un buon minuto ad
osservare Manon, Alfred, Lily, Arthur e Sesel… oh, Kiku se n’era andato.
Pazienza. Mancava ancora qualche attore e… e che… e che diavolo faceva Sesel in
un angolino a fissare il britannico con sguardo sognante, con tanto di guance
che pian piano diventavano sempre più purpuree, dato che l’inglese, sentendosi
osservato, si girava di scatto e poi fissava un punto indefinito sul muro sul
quale lei si era appoggiata. In quel momento le venne in mente un’idea, un’ideona. Fissò l’altro regista
ammiccando.
« Ehi, Nanuk, stai pensando a quel che penso io? »
« Cielo, no… » sbuffò l’altro.
« Allora ti spiego io! Hai visto Arthur e Sesel? » chiese lei,
ammiccando e indicando un punto imprecisato nel bel mezzo del cortile. « Se non
l’hai fatto guardali adesso! »
« M-mh? E allora? » fece lui, dopo aver dato una rapida occhiata ai due
individui prescelti. « Cosa vuoi fare? »
« Cosa ti ispirano? »
« A cosa vuoi arrivare? »
« Noi, e con noi intendo tutti tranne loro due, dovremo andare via di
qui in modo che restino soli! Ah-ah! Adesso capisci a cosa voglio fare? »
chiese Luk, battendo le mai. Lo svedese annuì. Pipaluk si schiarì la gola, per
poi urlare “squadra” a pieni polmoni e avvicinarsi agli altri ragazzi. «
Allora, » cominciò « ho notato che il tempo atmosferico è perfetto per la scena
finale, quindi non vorrei sprecare quest’occasione per girarla… ebbene, il signor Jones, le signorine Lily e Manon e,
ovviamente, Mr. Oxenstierna, sono pregati di seguirmi! Dobbiamo prendere un
paio di sedie, roba varia per la scenografia, il gatto morto e, ovviamente, la
videocamera! »
« C-che cosa c’entra un gatto morto? » chiese allarmata Sesel,
rabbrividendo all’idea di un gatto morto. Da quando in qua per girare un film
servivano certe cose? Arthur provvide a spiegarle che il gatto morto era
semplicemente il nome del microfono nel gergo del cinema. La ragazza tirò un
sospiro di sollievo e poi domandò come mai Luk non avesse nominato anche loro
due per seguirli. Luk rispose con un sibillino “dovete difendere il territorio”
e poi scomparve seguita dagli altri della troupe, con l’aria sorpresa quasi
quanto i due rimasti nel cortile.
« Ehm… allora… oggi è nuvoloso, eh? » osservò Arthur fissando il cielo
grigio, per poi indicare una nuvola nel bel mezzo del cielo. « Quella… per me assomiglia
ad una fata! »
« A me invece sembra un tonno! » esclamò lei, indicandola.
« Sì, in effetti… tonni e fate si somigliano un po’ da lontano, no? »
fece lui, lievemente imbarazzato: possibile che non sapesse distinguere una
fata da un tonno? E possibile che queste due creature si assomigliassero? Si
stava rimbambendo? « Aspetta, le fate ed i tonni sono due cose completamente
diverse! » si apprestò ad appuntare, mandando la ragazza leggeremente in
confusione.
« No, hanno un sacco di cose in comune! Insomma: le fate sono creature
magiche e… vuoi mettere un paio di fatine con la magia della pesca? » affermò
Sesel, incrociando le braccia e continuando a fissare il cielo. Era così presa
dal difendere “la magia della pesca” che si era perfino dimenticata di
arrossire. Poco male, no?
« Se sposti lo sguardo su quella… be’, quella sembra proprio una fata,
altro che tonni! » sbottò Arthur, indicando un punto alla sua sinistra. Sesel,
senza muovere un muscolo, tenne lo sguardo fisso sul tonno.
Perché è un tonno, ovvio.
Arthur sbuffò, pensando ad un modo per far valere la sua teoria, un modo
per farle spostare quell’adorabile testolina. No, no, testolina e basta. Anzi,
testaccia. Non si può confondere una fata con un pesce.
Perché è una fata, ovvio.
Almeno quell’altra nuvola potrebbe convincerla… se solo la guardasse! E
infatti lei vorrebbe, se non fosse per un peso che le sovrasta il cuore e che
le impedisce quasi di respirare: se si girerà diventerà sicuramente color
porpora e una figura del genere con un tizio che non sa neppure distinguere le
fate dai tonni non la vuole proprio fare. E pensare che solo qualche ora fa
avrebbe pagato per starci un po’ insieme, da soli… oh, ecco che la porpora comincia
a salire… dove diavolo si era cacciata quella sciroccata di Luk?
Perché
questa è un’idea sua, ovvio.
Note
Toh, quanto tempo è passato? Nove
giorni? Dieci? E pensare che io, piena di buone intenzioni, avevo scritto “tra
6-7 giorni”! Be’, probabilmente non avevo tenuto conto della voglia dei miei prof
di organizzare almeno tre compiti in classe… ma, finalmente, è finita e ho
potuto aggiornare per la vostra giUoia (ma anche no, ahr ahr!) ! :D A
proposito, per intenderci il “gatto morto” nominato da Luk è quel microfono
grande e peloso posizionato su di un’asta che si mette sopra agli attori… sì,
non saprei spiegarlo bene… però è quello! ^A^ La leggenda invece l’ho trovata
girando per il web e devo dire che è piaciuta molto anche a me! :) Sì, beh…
questo capitolo è… boh, lascio giudicare a voi! E dal prossimo comincia
l’azione, eh, promesso! Vorrei scrivere di più, ma devo proprio andare, anzi,
no! Ringrazio di cuore Cosmopolita e happy light che continuano a seguirmi
<3 e… ehm… chi arriverà a leggere fin qui riceverà una caramella al gusto di
cammello! :D *fugge perché è in ritardo pazzesco*
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Capitolo 7 *** Capitolo 6 - La cattiva influenza di una pseudo-maniaca ***
One
Chapter
n°6: La cattiva influenza di una pseudo-maniaca
« Ehi, siamo
tornati~ » esordì Luk, stringendo tra le mani un rotolo enorme di carta grigia,
una matita e, ovviamente, il mucchio. Aspettandosi
tutt’altro – accidenti, dove diavolo era finito l’amore? – , trovò i due
ragazzi-possibili-amanti che si rivolgevano entrambi le spalle, per bofonchiare
“fata” o “tonno” ogni tanto. Tutto ciò non aveva senso. E se era lei a pensare
che non avesse senso… be’, la cosa era grave. Mentre pensava ad un motivo
valente per collegare le fate con i tonni Sesel, sbuffando, spiegò l’accaduto: «
Quella nuvola è ovviamente un tonno,
ma lui continua a dire che è una fata. »
Ah… sono stata io a rovinare questa povera
ragazza! I tonni! Le fate! Oh, no…
Nell’intento di
perdonarsi un gesto tanto orribile qual era stato quello di aver portato quella
bravissima & adorabilissima
fanciulla che era Sesel alla pura follia, Luk fissava il cielo: non c’era
nessun tonno e nessuna fata, soltanto nuvole. Cosa avevano mangiato quei due
per colazione? Whisky?
L’ho anche portata anche all’alcolismo! Semmai
mi reincarnerò in qualcosa diventerò un batterio intestinale, di questo passo!
No, non c’era tempo per
piangersi addosso: era giunto il tempo delle risprese, si doveva
l-a-v-o-r-a-r-e! La groenlandese provò a far uscire fuori l’aria autoritaria
che usava per farsi obbedire dai cani. « Io vedo solo nuvole! » sentenziò,
fissando i due. « E adesso fatemi il piacere di alzarvi, perché dobbiamo
lavorare sodo! » si sentiva soddisfatta del risultato, ma d’altronde si può
sempre migliorare, giusto?
Ha detto “dobbiamo lavorare sodo”… lo ha detto
lei! Deve essere la mia cattiva influenza. Ah, l’ho rovinata…
E così le riprese iniziarono per davvero. Pipaluk accantonò (fino
a nuovo avviso del capo e, visto che il capo dell’Impresa Cupido era lei, fino a quando non le sarebbe ritornata
la voglia, ossia per qualche ora) il suo ruolo di “Cupido”. Montò
l’attrezzatura insieme a tutti gli altri e, visto che si sentiva inutile a star
seduta su di una sedia, decise di seguire il cameraman, incitare gli attori,
saltellare da una parte all’altra felice come una Pasqua e canticchiare, con il
suo inseparabile mucchio sottobraccio e l’altro regista al massimo a quattro
metri di distanza. In poche parole era nella sua fase operativa-euforica; una
combinazione niente male per una tipa che di solito divaga appena sente… ehm…
qualsiasi cosa.
All’improvviso qualcosa –
anzi, qualcuno – le picchiettò con le
dita sulla spalla per attirare la sua attenzione. Si girò fischiettando, ma
appena lo vide il suo “firulì” diventò qualcosa di molto simile al suono che fa
Willy il Coyote quando il roadrunner lo fa cadere per l’ennesima volta giù da
un burrone, ma senza il suono del tonfo finale. Strabuzzò gli occhi, incapace
di pensare che in una personcina tanto piccina potesse albergare tanta rabbia.
Il nefasto sentimento traboccava dagli occhi verde smeraldo con l’intento di
fulminarla, colpirla in un qualsiasi modo o farla stramazzare a terra morta. In
quel preciso istante la regista realizzò che, probabilmente, in Svizzera il
verde era il colore dell’ira.
« Ora tu mi dirai dove
hai nascosto Lily, perché diavolo sparisce sempre e perché ogni volta centri tu. » sibilò. Faceva paura, ma era
minuscolo. Un po’ come i ragni… eppure Luk non potè non fare a meno di
sorridere – oh, che carino he era a preoccuparsi per la sua sorellina! – ,
chiamando Lily a gran voce. Ok, la sua “gran voce” era un qualcosa di simile
all’urlo di un micetto, ma ci stava lavorando.
« Lily, tuo fratello ti
sta cercando! Oh, non è una cosa stupenda il fatto che ti voglia bene? » Adesso
stava usando la sua voce adorabile,
che spesso aveva l’esito di farla mandare a quel paese da qualcuno. Lo svizzero
però stava pensando a cose ben peggiori… quella tizia in quel momento
simboleggiava il demonio in persona. Non si poteva rapire Lily in quel modo, no, no e poi no. Quando lui, Vash
Zwingli, avrebbe guadagnato il suo bravo posto come ispettore alla dogana e
quando lei avrebbe cercato asilo nella terra dei sogni qual era quel mitico
paese di nome Svizzera – perché lo avrebbe fatto, ne era profondamente convinto.
Lo fanno tutti prima o poi! – lui non l’avrebbe mai e poi mai fatta passare. I
tipi come lei sono banditi dalla Svizzera e se non lo sono ancora lo saranno
presto. E pur avendo la stessa età di Lily aveva l’aria da maniaca, pedofila e
rapitrice. Insomma, Aveva rapito sua
sorella.
« Non. Toccare. Mia.
Sorella. » i pugni, chiusi per il nervosismo, gli pulsavano per il desiderio di
fare qualsiasi (terribile) cosa potesse essere concepibile dalla mente umana.
« Oh, ma noi ci stiamo
divertendo! » esclamò Luk, sorridente. Mai esclamazione fu più sbagliata. La
groenlandese aveva già intuito che l’altro Zwingli moriva dalla voglia di darle
un pugno, strozzarla, eccetera e… e lei non riusciva ad allentare la tensione,
anzi, se n’era uscita con una delle tante affermazioni che potevano essere
benissimo fraintese dalla gente maliziosa e dalla gente
arrabbiata-e-convinta-che-lei-avesse-rapito-la-propria-sorellina.
« LILY! Non frequentare
questa… questa qui un minuto di più, per favore! Potresti pentirtene! »
Berwald, che intanto si
era avvicinato insieme al resto della troupe, alzò gli occhi e al cielo: Parole
sante… intanto i due svizzeri si stavano già allontanando, per poi sparire nell’ingresso.
Pipaluk riuscì a raggiungerli e tentò di immobilizzare il ragazzo,
afferrandogli la manica della giacca. Ovviamente evitò di tirargliela, per
evitare di romperla e quindi ulteriori problemi…
« Ma Lily è così brava… e
poi, giuro… » si toccò il petto con la mano destra aperta, a mo’ di giuramento,
per poi riprendere il discorso: « … giuro che non svolgiamo alcuna attività
scabrosa! » lo disse abbastanza forte da permettere ad un tizio dai tratti
asiatici che camminava a pochi metri da loro di sentirlo, per poi cambiare
strategicamente direzione. Tanto forte che Arthur esibì un facepalm magistrale. Tanto forte che Alfred scoppiò a ridere da
solo. Tanto forte da farlo percepire da una ragazza sul pianerottolo delle
scale che, da quel momento in poi, decise di seguire la scena con maggiore
attenzione, fingendo di leggere molto attentamente il manga che teneva tra le
mani: uno yaoi. Resistette alla
tentazione di continuare la lettura, tenendo il segno dell’ultima pagina letta
con in dito indice e nascondendo abilmente il disegno in copertina con l’altra
mano, infine prese a fissare attentamente i tre tipi con nonchalance: la biondina sembrava davvero in imbarazzo, la mora
aveva appena terminato di pronunciare le parole del giuramento e il biondo
resisteva a fatica alla tentazione di strozzarla. Gli unici dettagli che
potevano saltare all’occhio erano il fatto che i due biondi fossero pressoché
identici – era il ragazzo ad essere il
genderbend della ragazza o viceversa? – e che tutti e tre fossero
incredibilmente, irrimediabilmente, terribilmente bassi. Se non sbagliava i due tipi biondi erano due fratelli
svizzeri. Eppure aveva sentito che il latte delle mucche svizzere è uno dei
migliori, uno di quelli che fanno crescere meglio i bambini, facendoli
diventare alti… l’altra invece aveva dei caratteri asiatici, ma diversi da quel
giapponese introverso e schivo che aveva visto più volte – e che le aveva
consigliato un sito fantastico per vedere i suo anime preferiti… gli doveva un
favore! – insomma, sembrava qualcosa come… tipo… mongola? Però non aveva il
naso schiacciato, anzi, era lungo un po’ come quelli dei nativi americani… chi
diavolo potevano essere i suoi genitori?
« Sì, dicono tutti così –
sbraitò il ragazzo – … prima di andare in prigione! Lily, muoviamoci… »
« Un momento, dalle
almeno la possibilità di far parlare la diretta interessata che, in questo
momento, mi sembra proprio Lily! » sentenziò Luk con tono solenne, guardando la
piccola svizzera. La ragazza era nel panico: sapeva che Vash si stava
seriamente (e inutilmente) preoccupando per lei e non voleva contraddirlo, ma…
ma loro non stavano facendo niente di male! E se poi il suo fratellone si
offendesse? E se… e se anche gli altri della troupe si offendessero? Alla fine
prese tutto il coraggio che quel suo corpicino minuto poteva contenere e parlò:
« Vash, non vorrei essere scortese, ma vedi… credo che tu abbia frainteso… noi
stiamo recitando per... »
« … un porno, no? Guarda
che non sono mica scemo, eh! Si vede dalla faccia di questa qui che è una
maniaca! » la ragazza con il manga in mano esaminò ancora una volta il viso
della piccoletta: non le sembrava una faccia da maniaca, ma avrebbe indagato.
In fondo, di solito i cattivi dei film sono piccoli e insospettabili…
all’improvviso una mano dal tocco leggero le fece scrollare la spalla. Subito
dopo la stessa mano afferrò il suo volumetto e fece in modo che gli occhi verdi
del medesimo proprietario potessero guardare per qualche istante le figure,
luccicando maliziosi. « Ehi, Eliza, sempre con questi cosi in mano! Cioè, però
non posso non dire che tu non abbia un certo gusto, tipo! » Oh, era Feliks. E
dato che Feliks era praticamente onnisciente
perché non chiedergli qualcosa al riguardo della mongola-nativa americana-tappa?
Non dovette neppure chiedere che il polacco si mise a parlare a macchinetta,
inserendo qualche decina (di miliardi) di “cioè”, “tipo” e “totalmente”. In
soli due minuti venne a conoscenza che quella là veniva dalla Groenlandia – che
scoprì essere una pseudo-nazione, qualcosa come Taiwan – , aveva un nome strano
e che stava girando un film – non un porno, però – insieme a tutta la piccola
folla che poteva scorgere a fatica fuori dal portone e, soprattutto, insieme a
quel bestione biondo, che poi era quello al quale piaceva Tino. Oh, secondo
alcune fonti stava provando ad avvicinarli… e… già, le mancava ancora qualche
attore o attrice, anche se era riuscita a trovare quasi tutti quelli per i
personaggi principali, il tipo per il montaggio e il cameraman. Il polacco aggiunse che gli sarebbe, tipo, piaciuto un
sacco recitare la parte di una ragazza perché sarebbe stato totalmente
fantastico.
« Feliks, ma perché
adesso sembra che Zwingli sia in procinto di strozzarla? » chiese ancora lei,
riacciuffando il suo manga e aspettandosi una risposta illuminante dall’amico
che, però, sbuffò un “sai com’è quello con la sorella” e tentò di riprendere il
fumetto. « Mollalo! Devo ancora finirlo! »
« Mmh, come vuoi, züllött! »
« A parte il fatto che la
tua pronuncia dell’ungherese è pessima… scappa finché sei in tempo! » esclamò
l’ungherese, roteando un pugno per far intendere bene le idee che le frullavano
in testa e tradendo un sorriso e delle risatine. Il polacco, per tutta
risposta, esibì una linguaccia e poi trotterellò verso il piano superiore,
emettendo qualche gridolino spaventato. Certo che con un’uniforme femminile
avrebbe confuso chiunque… peccato che il
regolamento del collegio non lo permettesse, perché lui si sarebbe sicuramente
divertito un mondo a confondere le idee agli altri ragazzi per poi rispondere
con la sua voce – che non era proprio profonda, ma comunque piuttosto maschile
: “Sono già occupato!”. E poi, con dei
vestiti da ragazza, nessuno lo avrebbe guardato storto (ahimè, gente così ce
n’è ancora!) quando faceva la civetta
– o “il civetto”? – con Toris. Per non parlare di quando si baciavano… mmh, si
stava perdendo nei suoi pensieri: doveva assolutamente fissare i tappi che si
davano battaglia!
« Se ti trovo almeno tre
persone che possono fermamente affermare il fatto che io non sia una maniaca mi
concederai di ingaggiare la tua cara sorellina? » esclamò Luk, già pregustando
la vittoria: c’erano Tino, Sesel e Nanuk pronti a testimoniare a suo favore,
ergo ce l’avrebbe fatta! Vash pensò che sarebbe stato un gioco divertente
vederla cercare inutilmente qualcun altro pronto a testimoniare in suo favore,
per poi affondare nella vergogna, nella sconfitta e, soprattutto, nella verità, quindi alzò la cifra: « Almeno
trenta. »
« Cinque! »
« Venti. »
« Dieci! »
« Perfetto, dieci. Entro
quarantott’ore mi devi mostrare dieci persone che ti credono. Buona fortuna. » sibilò
lo svizzero, per poi girare i tacchi insieme alla sorellina. Eppure le sembrava
ancora una cosa adorabile che la volesse proteggere da qualsivoglia pericolo. E
da lei. Aveva davvero una faccia da maniaca? Come diavolo avrebbe fatto a
trovare dieci persone pronte a dimostrare il contrario? E… e perché diamine
quella tizia sul pianerottolo la fissava con in mano un libro con due uomini
che intrecciavano le rispettive lingue?! « Perché mi fissi in quel modo? »
« Visto che mi sembri
simpatica… so che ti manca qualche attrice e che ti servono dieci persone che
affermino il tuo non-essere una maniaca e io posso trovarti due fantastiche
attrici e ben tre persone per la gara con Zwingli! »
« Aaah, grazie! »
cinguettò la groenlandese, anche se nel profondo del suo animo era consapevole
che presto sarebbe stata pronunciata la fatidica formula “Ma solo se…” .
Purtroppo nessuno ti regala niente a questo mondo…
« Ma solo se mi assicuri
che accetti un crossdresser, mi
prometti di utilizzare le fantastiche musiche di chi-so-io per il tuo lungometraggio e visto che la mia prof questo
weekend non mi vuole accompagnare in centro… questo sabato puoi uscire con la
Boulevard e andarmi a comprare il due? » finì lei, mostrando il titolo di
quello che probabilmente doveva essere un fumetto e mettendosi con le mani sui
fianchi con sguardo deciso, alla prendere
o lasciare. Aveva degli occhi verde chiaro proprio stupendi! Luk,
realizzando che stavano parlando a quattro metri di distanza, si avvicinò e le
strinse la mano: « Bene, affare fatto! »
Facendo due conti poteva
considerare testimoni validi Sesel, Tino, Nanuk – era un suo socio e i soci si
spalleggiano, sempre! - , i tipi della troupe escludendo Lily, cioè Manon,
Arthur, Alfred e Eduard – che poi le doveva anche un favore per il fatto della
leggenda inuit… quindi… sette persone più le tre promesse facevano dieci! Ce l’avrebbe
fatta, ce l’avrebbe fatta! Inoltre le servivano assolutissimamente le attrici per il ruolo della madre dei ragazzi
e per recitare nei panni dell’amica di Maya… anche se ignorava cosa fosse un
crossdresser… ma d’altronde aveva anche le fantastiche musiche di chi-so-io
(pur ignorando chi fosse gli sembrava un tipo affidabile)! E tutto ciò per un semplice
fumetto! In quello stesso istante decise che se non avesse sfondato nel mondo
dello spettacolo poteva benissimo fare una carriera che avesse a che fare con
gli affari. Avrebbe venduto ghiaccioli a prezzi stracciati per poi comprare gli
Stati Uniti e annetterli alla Groenlandia… oh, Hollynuuk era sempre più vicina!
Hollynuuk, stiamo arrivando…
Finalmont!
(?)
Quella
cosa che ho scritto sopra è la mia versione di “finalmente” in francese. Roba
da far strappare la br7arba a Francis x°D comunque, pronuncia a parte, posso
finalmente dire che ho finito il capitolo, aaw. Mi sono divertita molto a
scriverlo! ^_^ Insomma, scrivere e mangiare biscotti caldi appena sfornati
dalla tua cara sorellina è davvero rilassante… Bene, facciamo il punto: sono
iniziate le riprese (olè!), ma è subentrato un Vash piuttosto iperprotettivo
che ha allontanato la sorellina dalle scene… per avere la sua benedizione Luk
dovrà trovare – anche se probabilmente le ha già trovate :D – circa dieci
persone convinte del fatto che lei non sia una maniaca. Eeee… da grande Luk
investirà nei ghiaccioli e comprerà gli States! BD manterrà la parola,
fidatevi! E se tra qualche anno gli USA verranno annessi alla Groenlandia per
cause misteriose, be’, non mi beccherete mai vivaaah! *fugge*
*ritorna* Spero di aver reso sia Eliza che
Vash IC, anche se purtroppo credo di no… ehm, sappiate che per il comportamento
di Vash mi sono ispirata all’istinto protettivo di ogni buona fratellosorella
maggiore, come me! :D chi tocca mia sorella è un uomo una donna una creatura
MORTA. Elizavetha invece a quanto pare è una yaoista convinta, eh? D’altrone
Budapest è una sorta di La Mecca dei porno gay, a quanto pare, quindi…
Oh, züllött dovrebbe voler dire “pervertita”
in ungherese, l’ho tradotto con Google traduttore, quindi mi dispiace per tutti
gli italo-ungheresi che avranno la sfortuna di leggerlo, nel caso sia
sbagliato! D: la mia strada è subito dopo la rotonda, girando a destra! Datele
fuoco se vi va ;___; oppure correggetemi x°D insomma, fate ciò che riterrete
più opportuno… a proposito, ci sono degli italo-ungheresi all’ascolto? °_° a
proposito di Google traduttore! Scrivete in italiano “Pikachu” e fatelo
tradurre in arabo, poi sentite l’audio! Io posso solo dirvi di essere letteralmente
caduta giù dalla sedia per le risate!
Ringrazio
immensamente chi leggerà eo recensirà, vi sarò immensamente grata! ^_^ come
sempre le critiche e i suggerimenti sono bene accetti, purchè in linguaggio
moderato!
Vorrei
dedicare il capitolo a Cosmopolita,
l’anima pia che recensisce ogni volta e ad happy
light e Bazyliyk19, siete
fantastiche! :*
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 7 - Una serie di sfortunati eventi ***
Guga
Chapter n°7: Una serie di sfortunati
eventi
Cos’è un leader senza il suo popolo, un cane senza il suo branco, una
fata senza il suo tonno, una foca senza il suo grasso, un eroe senza la
calzamaglia, una regista senza la sua troupe? Cosa sono tutte queste cose? Sono
vuote, spente, impaurite. SOLE. Eppure la regista, a discapito di cani e fate
meno fortunate, aveva il suo asso nella manica: era per metà Inuit, un popolo
che si era adattato ai ghiacci, al freddo e agli orsi polari. Anche quando i
vichinghi se n’erano andati. Però gli Inuit fanno leva sul gruppo, come i cani
fanno leva sul branco e i leader sui sussidi statali. E lei era sola e con una
roba strana nel piatto. La roba non si muoveva, non profumava né puzzava. Però aveva
un colore poco invitante…
I miei avi – da parte di mamma – hanno mangiato foche
crude, quindi… ce la posso fare!
Deglutì e si portò un pezzetto della roba alla bocca: sentendolo più da
vicino c’era una sorta di profumo, ma era molto delicato… come il sapore,
osservò, mentre masticava. Improvvisamente qualcuno si intromise tra lei, la
roba e i suoi pensieri sui sapori poco decisi. « ‘ser-aà! » pensò
istintivamente che fosse un accento carino e ingoiò, in modo da poter
rispondere con un “ciao”. Improvvisamente si sentì stupida ad aver usato quella
forma così colloquiale in un posto come quello, dove parole quali “fenomenologia”,
“ostracismo” e altri termini che alludevano a studi accurati di materie impossibili
da concepire per dei comuni mortali erano all’ordine del giorno. Però quel tipo
aveva detto “ ‘sera”, ossia un “buonasera” troncato e quindi, forse, lei poteva
concedersi anche un “ciao”. Il tipo era alto, non come Nanuk, ma comunque alto,
aveva gli occhiali e i capelli corvini che contrastavano la forza di gravità –
ah, il gel, che invenzione meravigliosa! – e sorrideva. Emanava un senso di
pace. Pura pace… Luk si dimenticò
l’abbandono da parte del suo branco e si concentrò sul tipo che si trovava
davanti a lei: la sua pelle chiarissima e i tratti orientali lo facevano
sembrare così esotico!
« Io sono Niran Amudee, tu? »
« Che vuol dire Niran? » chiese Luk, incantata dal suono di quel nome:
era così musicale! Il significato doveva essere davvero molto interessante… oh,
doveva presentarsi anche lei, adesso che ci pensava. « Io mi chiamo Pipaluk
Jensen! » si sorprese che la j del suo cognome fosse l’unica che sapesse
pronunciare per bene. Anche il suo cognome era molto musicale! Jensen, Jensen,
Jensen~ !
« Voul dire “eterno”! Il tuo che significa? »
« Piccola cosa carina! » prima era
molto orgogliosa del significato del suo nome. Quand’era più piccola le persone
più grandi le dicevano sempre “Ma che nome carino! Ti si addice!”, ma quando
sarebbe diventata vecchia o anche solo più grande cosa avrebbero detto? Sarebbe
stato un nome sprecato?
« In effetti sei piccolina! » ridacchiò il thailandese.
Non la stava deridendo, sorrideva. Luk avrebbe voluto dire qualcosa di gentile
e altisonante come “e la tua anima resterà eterna”, ma improvvisamente calò un
grande silenzio tutt’intorno. Il vociare allegro degli altri ragazzi attorno a
loro si spense all’improvviso. C’era qualcosa che non andava bene, ne era
certa, ma nessuno guardava un punto al di fuori del proprio piatto. Erano tutti
come congelati e avevano anche smesso di mangiare.
« Questo è il mio posto, da~ »
A quel punto, a quel “da” Luk intuì
il motivo del congelamento e del mutismo generale, sperando ardentemente che il
russo – perché era sicuramente lui – non si rivolgesse a lei. E infatti
Brangiski era qualche metro più in là, ma la sua voce, infantile e
terribilmente contrastante con il suo aspetto da yeti, cosa che gli dava
un’aura ancor più spaventosa, rimbombava in tutta l’enorme e luccicante sala da
pranzo, tant’era il silenzio.
« Mi hai sentito? » sembrava che il destinatario dell’avviso non
volesse alzarsi. La groenlandese si sporse verso l’interno del tavolo per
scoprirne l’identità: era Eduard. E, a giudicare dal movimento di mandibole e
mascelle, stava ancora mangiando. Accanto a lui c’era un tipetto biondo, basso
e con gli occhi blu che tremava come un cucciolo impaurito, tirando il braccio
dell’estone e pregandolo di alzarsi e cedergli il posto. L’altro però sembrava
sordo sia ai richiami dell’amico sia a quelli del russo spaventoso che aveva
dietro. Aveva i nervi saldi, Eduard.
Non si sarebbe alzato per lui, mai
più.
Eduard era il tipo del montaggio nonché
migliore amico di Tino. Era un tipo della sua troupe. Il suo branco… il russo
gigante stava importunando qualcuno facente parte del SUO branco?! Se solo non
fosse stato almeno il doppio di lei gli avrebbe detto di andarsene. Ma lei era
fisicamente svantaggiata. E quindi Brangiski avrebbe mangiato il suo tipo del
montaggio nell’ndifferenza generale. Si stava sentendo in colpa…
Lo mangerà. Lo mangerà per colpa mia.
« Mmh, mi siederò lo stesso~ »
In quell’istante Ivan decise che avrebbe avuto comunque il suo posto a
sedere: esattamente sopra ad Eduard, usandolo a mo’ di cuscino. Il tipetto che gli
era accanto assistette allibito alla scena e si ritrovò con la bocca secca, incapace
di dire (o fare) qualsiasi cosa. Luk deglutì e sputò acida un “Io non me lo
facevo fare”. Peccato che lo sputò con il suo solito tono di voce acuto e
sgraziato… e, soprattutto, ad alta voce.
« Io non mi facevo fare cosa? »
Mi ha sentito. OH, MADRE. Non può avermi
sentito. NONONONONONO. Al mio tempo capii di non dover aver niente a che fare
con quello lì, per nessuna ragione e adesso… e adesso mangerà me. Però… però
almeno si sta alzando da Eduard. Mmh, mi sento altruista, dovrei fare più
spesso questo genere di cose~ no, non ne avrò la possibilità, adesso mi mangerà.
Si sta avvicinando… a me… oh, no…
« Come ti chiami? »
« Pipaluk Jensen! Lei? » usare espressioni più formali l’avrebbe
salvata? Probabilmente no, ma se ne sarebbe andata con stile. L’opera sarebbe finita con tanti applausi commossi – e
magari qualche lacrimuccia – e le avrebbero dedicato la sala da pranzo. Magra
consolazione.
« Ivan Brangiski. Di grazia, puoi spiegarmi cosa non ti saresti far
fatta fare da me? »
« Non vorrei assolutamente che un tipo come lei si sedesse sopra di me. »
È stato bello finché è durato, addio…
« Oh, interessante… be’, prova a fermarmi, adesso. » e adesso si
stava sedendo su di lei. In quel momento l’istinto di sopravvivenza e
l’adrenalina che intanto era entrata in circolo le fecero ricordare di avere
delle pericolose armi a sua disposizione: la forchetta e il coltello. Peccato
che Ivan avesse già pensato all’evenienza di una posata in un posto ove non
battesse il sole, ergo l’argenteria era stata spostata un frangente prima.
L’istinto di sopravvivenza parlò ancora una volta, facendole venire l’idea di
scivolare via, fin sotto il tavolo, per poi uscire dall’altra parte, afferrare
un coltello e fuggire. Chi diavolo c’era davanti a lei? Oh, Charlotte. Bene, le
avrebbe spiegato tutto se fosse sopravvissuta. E quindi scivolò, uscì, afferrò
e fuggì via come una forsennata. Charlotte era allibita e Vash, qualche metro
più in là, era sempre più convinto di poter vincere la scommessa. E Ivan la
stava seguendo. Era tutto così spaventoso e, soprattutto, senza senso.
Allora, ho in mano un coltello e sto fuggendo via da un
maniaco – vero! – … credo che se sopravviverò lo racconterò ai miei nipotini
davanti al fuoco! Ah, lo farò di certo! Mi sento la protagonista di un film! È eccitante,
eh-eh! Peccato che stia per morire…
Quando
Luk si ritrovò faccia a faccia con l’arcigna Ada Griffith per poco non le venne
un colpo. Tentò in vano di nascondere il coltello, ma a quanto pare, a
giudicare dall’espressione allibita e nel contempo spaventata della donna,
doveva averlo già visto. « Mio Dio, Jensen,
che diavolo sta facendo?! Dove ha preso quel coltello? Lo riporti subito a
posto! »
« Ma, professoressa, con tutto il rispetto… io non posso assolutamente! »
tentò di giustificarsi Luk, porgendole la posata. « Lo riporti lei! » la donna
esibì un’espressione del tutto contrariata e le sequestrò il coltello,
promettendole che avrebbe contattato i suoi genitori al più presto. Pipaluk
provò ancora a spiegarle qualcosa, ma quella la liquidò velocemente lasciandola
disarmata con il maniaco vero a pochi metri da lei e la professoressa Boulevard
un po’ più in là. Niente da fare, doveva
chiederle di aiutarla… e anche in fretta! A quanto pare però May doveva aver
ascoltato qualche frammento della conversazione precedente e si era già
avvicinata, chiedendole se avesse qualche problema (a scanso di equivoci: non mentale,
in generale ) .
« Professoressa, » le rispose trafelata lei, « in pratica
stavo mangiando tutta tranquilla, discorrendo con un certo Niran Amudee, quando
poi è arrivato quello lì e ha provato a sedersi su un tipo che è il mio… »
« Il tuo ragazzo? » Luk la guardò strana. « È il mio tipo del montaggio.
È un rapporto professionale… »
« Aaah, dicevo anche io così, alla tua età, eh-eh! » ridacchiò
l’insegnante, per poi provvedere a salutare Ivan, che intanto era già arrivato
davanti a lei e a Luk, esibendo il suo solito sorriso gelido. Alla groenlandese
vennero i brividi. « Allora, Jensen, è lui il fortunato? »
« Io… io dovrei solo sedermi su di lei, da~ » May impallidì, pensando
alla cosa che avrebbe pensato chiunque in quella situazione.
Adesso qualcuno mi dica se esiste una situazione
peggiore di questa. Uno: hai perso il tuo branco, due: da brava idiota ti sei
fatta sentire da un orco alto quasi due metri che ora ha intenzione di
spaccarti tutte le ossa, tre: chiameranno i tuoi genitori per dire loro che
stavi fuggendo con un coltello in mano e quattro: la tua professoressa pensa
che l’orco di due metri sia il tuo fidanzato e che voi due dobbiate, argh, copulare.
In quel momento giunse Elizavetha, raggiante. « Ehi, Pipaluk! Ti devo far conoscere quel tizio che
assicurerà a Vash che non sei una maniac- ehm… ho interrotto qualcosa? »
Oh, certo che c’è di peggio…
Everybody hands up! (?)
Kol kol kol… salve a tutti, care lettrici eo
lettori! Posso felicemente annunciarvi che questo capitolo non ha assolutamente
senso – ed è corto, accidenti! – , quindi abbiate – ancora una volta – pietà di
me e chi vuole recensisca… giuro che il prossimo faccio la seria. Anche perché
il prossimo aggiornamento sarà a San Valentino, quindi *lancia rose e biscotti
glassati* mmh, sì. E con ciò fuggo, perché questa cosa fa davvero pietà. Ah,
un’ultima cosa! La “roba” che Luk non riusciva a mangiare all’inizio erano
patate zuccherine – true story D: ! E Niran Amudee è il nome che ho deciso di
dare a Thailandia! ^^ au revoir!
P.S.: Estonia sarà mai IC? L’ho fatto sembrare un
po’ troppo coraggioso? D’altra parte, però, lui ha sempre desiderato l’indipendenza…
!
P.P.S.: Avrete notato che Luk è piuttosto drastica
quando si tratta di giungere presto ad una conclusione, neh? X°
P.P.P.S.: Dedico il capitolo a tutte le mie care
recensitrici, ma in particolare a Bazylyk19,
che è appena entrata nel cricolo (vizioso)! ^_^
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 8 - Peccato che... ***
One
Chapther n°8: Peccato che…
« Pipaluk Jensen… » Già in quel momento, il terribile momento in cui uno
dei tuoi genitori per chiamarti usa il nome e cognome completi, Luk capì che le
cosa stavano andando male, molto male…. « COSA DIAVOLO HAI FATTO? RIPETIMELO! »
urlò la voce dall’altro capo del telefono, spaccandole quasi i timpani. « Far, senti, è stato disguido grande come
una casa, ecco… insomma, ho fatto il mio dovere da brava capobranco! Gli stava
spezzando le gambe! » Certo, certo. Aveva solo pensato ad alta voce.
« E io gli spezzo il culo! Nessuno toccherà mia figlia senza il mio
permesso! » sorrise, immaginandosi il padre che sbraitava come un pazzo, magari
agitando le braccia convulsamente, e la madre che gongolava pensando che lei
fosse realmente fidanzata con il russo, pensando a dei futuri nipotini. Un
altro urlo del signor Svend Jensen – perché era quello il nome di suoi padre
– la riportò alla realtà. « Non sei
neppure maggiorenne! Ma ti scorreggia il cervello o cosa? »
Cosa.
Resta il fatto che dopo minuti di bla bla bla continuo Luk si convinse
di non poter spiegare efficacemente la questione e quindi mise giù la cornetta
del telefono nero, congedandosi con tanti “Sì, lo so”, “Già, hai ragione”, “So
che lo fai per il mio bene”, eccetera… e
guardò il preside: era un ometto basso e grasso con dei baffi che potevano
lontanamente ricordare due manubri di una bicicletta, di color nero pece. Al
contrario dei manubri che aveva sul volto, però, i capelli erano color sale e
pepe. Forse si tingeva i baffi? Solo i baffi? Mentre si interrogava sulle sue possibili
tinture l’uomo la fissava con i suoi occhietti marroni.
« Io non metto in dubbio che tu stia dicendo la verità,
però resta il fatto che ti sei messa a correre per l’istituto con un coltello
in mano… » si passò la mano rosea e rugosa sulla faccia. « … Un coltello. » Il
rugoso passò circa due ore a parlare con Luk dei coltelli e di cosa potessero
diventare nelle mani sbagliate, interrompendo ogni tanto il discorso con “non è
che non ti creda, ma…” e tanti, tanti “insomma, era un coltello”.
Uscita dalla stanzetta infernale la groenlandese si tastò il cranio per
controllare che non fosse gravemente manomesso da quelle due ore di
conversazione – aveva parlato solo lui! – inutile e ringraziò il cielo visto
che la Boulevard non aveva aperto bocca riguardo a quel fatto di sedersi sulle persone… improvvisamente
le balzò alla mente l’immagine di Berwald costretto ad ascoltare i suoi
monologhi tempo prima: era così che ci si sentiva dopo ore di nonsense indesiderato?
Sono un mostro.
Solo
un atto estremo e coraggioso l’avrebbe salvata dal giudizio finale di un
qualche essere divino e onnipotente, quindi decise immediatamente di dirigersi
nella sua camera e soffocarsi con il formaggio francese che Sesel era riuscita
a sgraffignare qualche sera prima: la sua puzza di morte (che Sesel, Charlotte
e suo fratello consideravano addirittura un profumo sublime, cosa che le aveva fatto segretamente sospettare circa gravi
patologie olfattive che colpivano esclusivamente la popolazione francofona e
quei critici culinari isterici che aveva visto qualche volta in TV) l’avrebbe
uccisa all’istante e sarebbe morta fra atroci spasmi. La prima persona che
incontrò nel suo cammino verso la morte
da formaggio fu Feliks, che, esordendo con un “Oddio, so tutto!”, la riempì
di domande della serie “raccontami tutto!”, come se la sua memoria precedente
si fosse improvvisamente cancellata.
« Cioè, correvi con un coltello! Era, tipo… »
« …Ridicolo? » provò a completare lei, sospirando. Il polacco fece
di non con la testa, facendo ondeggiare i capelli biondissimi e socchiudendo
gli occhi color verde prato. « È stato coraggioso, tipo! Chi l’avrebbe fatto? ».
Avrebbe tanto voluto rispondere “Un’idiota
che non riesce a tenere la bocca chiusa?”, ma riuscì solo a dire “davvero?”.
« Già! » esclamò da dietro Elizavetha, posandole le mani
sulle spalle. « E questa ragazza coraggiosa questo sabato – ossia domani –
andrà a comprare il mio yaoi preferito, veeero? ». Non era stata coraggiosa,
era stata stupida. E nessuna delle sue prof l’avrebbe accompagnata fuori dalla
scuola quella settimana, né in quelle successive: nessuno avrebbe mai
accompagnato una tizia che fuggiva con un coltello per l’ambiente immacolato
del college. E quindi niente yaoi e niente Lily. Il suo futuro stava andando
paurosamente a rotoli. Doveva dirlo anche ad Eliza? Meglio di no, l’avrebbe
scannata seduta stante: l’ungherese era famosa per saper picchiare duro, da
vero maschiaccio. E l’essere stata per un anno nella stessa camera con la
bielorussa – oltre ad aver passato l’infanzia a combattere nel fango tra i
maschi – l’aveva temprata per bene. A detta di un certo tedesco, però,
l’infatuazione nei confronti di un tale Edelstein l’aveva rammollita non poco.
L’aria da ragazza decisa e che sa quel che vuole, però, le era rimasta.
« A proposito… » continuò la fujoshi
« … ti devo far conoscere il tipo delle colonne sonore! ». Era Luk a vedere
male oppure l’ungherese stava davvero saltellando da un piede all’altro? Il
tipo delle colonne sonore doveva essere un simpatico.
« Come si chiama? »
« Tipo, si chiama quel gran bel
pezzo di figo di Rodd- » fece Feliks, prima di essere interrotto da una
manata di Eliza sulla sua bocca di rose.
« Ehi, guarda che, tipo, questa serve a me e a Toris! Cioè, non la rovinare! »
« Sì, a pomiciare! » appuntò lei, sorridendo maliziosamente.
« Si dice “baciarsi”, fujishi dei
miei stivali! E poi guarda che esiste anche l’amore platonico! »
« Si dice fujoshi! E comunque
lo so! »
« Ehm, potrei sapere chi è davvero questo qui? E, possibilmente, anche
quel… crossdresser? » chiese Luk, sentendosi improvvisamente tagliata fuori
dalla conversazione.
« Non chiamarlo “questo qui”, sennò Eli si arrabbia! » scherzò il
polacco. « E il crossdresser, modestamente, sarò io! Ho comprato un vestitino
rosa che è, tipo, delizioso! »
« Oh, quindi un crossdresser è un ragazzo che si veste da ragazza!
» esclamò Luk, con l’espressione di chi aveva appena scoperto un nuovo mondo e
gli occhi sgranati verso Feliks: se ciò che stava pensando – e che aveva detto
– era giusto, il polacco si sarebbe dovuto vestire come una femmina e, facendo
un paio di conti, doveva essere una “ragazza” niente male! Insomma, occhi verde
chiaro e capelli biondi e leggeri, mingherlino, ma così… aaw! Meraviglioso,
doveva essere semplicemente meraviglioso! Łukasiewicz, per tutta risposta, inarcò un
sopracciglio all’insù tenendo l’altro all’ingiù, nella tipica posa da “ma da
dove se ne esce questa qua?”, riuscendo ad emettere solo un misero “cioè, sì”.
Quando
i tre arrivarono finalmente nel laboratorio di musica – ossia dove si rintanava
abitualmente quel gran bel pezzo di figo
di Rodd – Luk potè appurare che era davvero un gran bel
pezzo di figo. Parlarono amichevolmente per circa una mezz’oretta, almeno
finchè lei non decise di toccargli quel ricciolo carino che gli spuntava sulla
testa. In seguito Roderich Edelstein fece una scenata degna di una casalinga
isterica, ma con stile. E secondo
Elizavetha rimaneva comunque un gran figo. Si può essere tanto fortunati?
Ah, l’amore fa miracoli!
Mentre un figo dispensava sermoni sul quanto
fosse sbagliato toccare i riccioli altrui, in una stanza come tutte le altre
uno svedese di nostra conoscenza cercava per l’ennesima volta di convincere un
finlandese che rispondeva al nome di Tino di essere una ragazza, o meglio, la sua ragazza. In realtà stava mettendo
solo le cose in chiaro, non voleva convincere nessuno: per lui era già tutto
stabilito.
« Quindi tu sei la mia ragazza. »
« No, smettila. » sbottò il finnico, girandosi dall’altra parte, ma
troppo tardi: Berwald era già riuscito ad intrappolarlo in uno dei suoi soliti
abbracci caldi: era semplicemente spaventoso, soprattutto per il fatto che
riuscisse a coglierlo sempre impreparato. E poi Tino non era la sua ragazza.
Non lo era mai stato e non lo sarebbe mai stato, mai e poi mai. E poi era un
ragazzo, un maschio. Non vedeva l’ora che arrivassero le vacanze natalizie per
toglierselo di torno per almeno tre settimane… peccato che fossero solo nella
metà di ottobre e mancassero altri due mesi…
« Mi piace dirlo, però... che sei la mia ragazza… » gli sussurrò in un
orecchio l’altro. Tino si sentì avvampare per l’ira e si divincolò da quelle
spire, cosa che non gli riuscì difficile: pur non essendo grande e grosso
disponeva di una forza e di una resistenza notevoli. Si alzò dal suo letto e lo
guardò quasi schifato. « Se ti piace illuderti fa’ pure. Io vado. » chiuse la
porta con discrezione, anche se avrebbe voluto – e potuto – sbatterla e
distruggerla, infrangendola in milioni di schegge. Magari qualcuna avrebbe
trapassato gli occhiali di quella talpa per ficcarsi nei suoi occhiacci.
Eppure quando lo aveva incontrato gli faceva solamente paura. Adesso invece
il suo modo di voler imporre la sua volontà con frasi della serie “sei la mia
ragazza” lo mandava in bestia. Era una cosa autoritaria e dittatoriale. E
quella pazza di Luk che voleva farlo diventare suo amico (e anche qualcosa di
più, sospettava…) ! Fu proprio lei la prima persona che incontrò appena uscito
dal dormitorio maschile. « Ysätväni, hai una brutta cera! » .
Scusa, è che sto iniziando
a provare cosa sia il sentimento dell’odio profondo verso qualcuno.
« Dici? » fece un grande
sorriso finto, sperando che ci cascasse.
« Dico, dico. » la ragazza provò ad indagare sui micro-movimenti dei
muscoli facciali per trovare la causa di quella brutta faccia, ma si arrese
quasi subito: Tino era bravissimo a celare le emozioni. E… Oh, doveva
assolutamente raccontargli del fatto di Ivan! « Ehi, non ci crederai mai! In pratica
io ero seduta vicino a tale Niran Amudee, che è thailandese, mentre Brangiski
ha ordinato ad Eduard di spostarsi dal suo posto, visto che voleva sedersi lì
anche lui… in pratica poi Ivan si è seduto sopra ad Eduard e io… »
« IVAN HA FATTO COSA?! » in questo caso Tino non era stato molto bravo a
celare il suo stato d’animo, ma chi ci sarebbe riuscito in quel caso? Un russo
di due metri per due metri si era seduto sopra al suo migliore amico! E non un
russo qualsiasi, ma Ivan! Sentiva il cuore martellargli in gola e un incredibile
impulso di spaccargli quel naso enorme. « E… e come sta Eduard? »
« Non ti agitare, l’ho salvato io! » ammise Luk, con grande umiltà, tenendo una mano sui fianchi e mostrando un
sorriso a trentadue denti.
Sarebbe stato più corretto dire “Mi sono lasciata
scappare un commento che non ha fatto piacere al gigante e così l’ho attirato
verso di me, evitando di procurare ad Eduard una morte lenta e dolorosa e
procurandola a me” – e non parliamo
di quel che è successo dopo! – , ma voglio anche io i miei cinque minuti di
gloria!
« Luk, non scherzare! Dimmi dov’è Eduard! » la stava strattonando
come una bambola di pezza, in preda al panico. Il suo momento di gloria avrebbe
dovuto aspettare… gli occhi viola del finnico sembravano essersi ingranditi tre
volte tanto per lo spavento. « Beh, fors- » cominciò lei, ma quello non le
diede neppure un momento per dargli una pseudo-indicazione che si mise a
correre a rotta di collo verso l’infermeria, aspettandosi il peggio e non
riuscendo ad augurarsi niente di buono. Con Ivan non si scherza e lui,
purtroppo, lo sapeva molto bene. Ma non poteva abbandonarsi ai ricordi in quel
momento o sarebbe caduto sicuramente dalle scale.
Ah, quel ragazzo mi preoccupa. E poi avrei dovuto
raccontargli il fatto del coltello e… oggi non dovevo soffocare con il
formaggio francese? Oh, non riesco mai a fare niente!
« Ehi, Tino, dove corri? » individuò subito il proprietario della voce e
non potè fare a meno di saltargli al collo. Quando si rese conto di ciò che stava facendo
era troppo tardi: si era avvinghiato al suo collo come un koala e teneva la
testa premuta sulla cravatta. Sembravano una di quelle coppiette dei film che
si ri-incontrano dopo anni e che fanno un sacco di scenate. Si sentiva
incredibilmente stupido e cercò di divincolarsi fra mille scuse. Peccato che
Eduard non lo stesse lasciando andare, peccato che gli stesse alzando il mento
con una mano e… peccato che le loro labbra si stessero avvicinando, andando
decisamente oltre al limite normalmente consentito…
Berwald,
dall’altra parte della scuola, sentì che dentro di lui qualcosa si stava
spezzando… qualcosa che, forse, non era mai davvero esistito.
Buon
San Valentino! *foreveralone*
L’avevo
pubblicato ieri, ma EFP non me l’ha caricato D:
Buonasera a tutti, oggi è finalmente arrivato San
Valentino, la festa perfetta per attaccarsi alla bottiglia e deprimersi, nel
caso si sia single come me! No, cari miei compagni di solitudine, non
deprimetevi, perché se state leggendo questa cosa avrete benissimamente compreso che c’è gente che sta anche peggio di voi
*si indica* e che, non avendo neppure uno straccio di vodka in casa – e non
potendo bere la birra ;__; – non può nemmeno sfogarsi con l’alcool!
A parte tutto ciò, ho appena riletto questo capitolo e
credo di aver fatto una delle più grandi caspitate nella mia vita. Soprattutto
l’ultima frase x° a proposito, quella alla fine era, più o meno, la mia prima
descrizione di un bacio! Come… come sono andata? Perché di solito quando si
tratta di raccontare queste cose sono piuttosto negata… Oh, spero con tutto il
cuore di aver reso i personaggi IC! >__<
Un grazie enorme a chi leggerà e recensirà (dai, che vi
costa minacciarmi di morte?) ! Rendereste il San Valentino di questa povera me
molto più felice :’D
E quindi credo che basti, no? *fugge*
P.S.: “Far” dovrebbe significare “papà” in danese… nel caso
è colpa di Google Traduttore, io sono solo una povera ignorante! D:
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 9 - Like a woman(?) ***
Like a Woman(?)
Chapter n°9: Like
a woman(?)
Tino continuò a colpire il peso da kickboxing attaccato con una corda al
soffitto, cercando di non usare troppa forza e facendolo roteare su se stesso.
Pensare che stesse colpendo Berwald lo divertiva e, nel contempo, gli dava la
carica per continuare. Si fermò per un momento, asciugandosi la fronte madida
di sudore col dorso della mano, pensando che, a contatto con l’aria
condizionata che rendeva l’ambiente interno del college – a parte la palestra
nella quale si trovava, a quell’ora stranamente vuota – gelido, sia d’estate
che d’inverno. Ridacchiò, considerando la piacevole opzione di prendersi un
raffreddore coi fiocchi e passare qualche giorno in infermeria. Non avrebbe
certo voluto infettare quella povera
stella, no?
Tirò un altro pugno e sentì la corda emettere un rumore simile a quello
di un tessuto che si stava strappando, quindi si fermò e la guardò con uno
sguardo di sfida. Improvvisamente una consapevolezza iniziò a farsi strada al
suo interno, lasciandolo quasi senza fiato: come quella dannata corda Berwald
non avrebbe mai mollato. E lui non
avrebbe mai potuto cambiare le sue idee.
Si passò una mano sul volto, ripensando a quando Eduard aveva tentato di
baciarlo. Lui, per tutta risposta, lo aveva spinto – scagliato sarebbe un
termine più corretto – verso il muro, facendolo rimanere per terra come
un’idiota e con la testa rivolta verso il basso come se fosse quella di una
bambola di pezza, con l’unica differenza che le bambole di pezza non
piangevano.
E la gente aveva visto tutto.
Si lasciò scivolare per terra, diventando anche lui una bambola di
pezza, in un estremo atto alla ricerca della sintonia con il suo migliore
amico. O forse ex. Sicuramente ex.
Frocio.
Lo aveva chiamato così. Frocio. Quella parola iniziò a ripetersi più e
più volte nella sua mente con una voce distorta, metallica, per poi diventare
il suono di una sorta di coro demoniaco che non gli permetteva di pensare a
nient’altro. Perché Eduard non si era mica messo a versare lacrime per la
spinta, no, non era il tipo. Eduard si era messo a piangere perché Tino lo aveva
chiamato in quel modo, con un tono pieno di odio. Tino, il suo migliore amico.
L’estone si era accorto di provare per il finnico qualcosa che andasse
oltre l’amicizia da circa un anno, ma cercava continuamente di dimenticarselo,
comportandosi da ragazzo “normale”. In quella situazione, con le loro labbra a
pochi centimetri, però, non era riuscito a fermarsi. Non avrebbe mai voluto
baciarlo. Sapeva perfettamente che avrebbe rovinato la loro – ormai quasi
secolare – amicizia.
E adesso quello che lo aveva fatto scoppiare in lacrime stava a sua
volta versando lacrime bollenti sul pavimento, come una ragazzina. Il parquet
della stanza, però, non era freddo, anzi, gli provocava una strana sensazione
di calore, mentre sentiva la porta spalancarsi in un Nfufufu. Forse le porte normali non si aprono emettendo questo
suono, ma le porte aperte da un certo americano sì. E quell’uscio quella volta
rientrava in quella cerchia.
« Nfufufu! Ti dico che riesco a farlo cadere!
Ho un sinistro che… » cominciò a vantarsi Alfred, tastandosi i muscoli
dell’avambraccio. Il suo accompagnatore iniziò a ridacchiare sommessamente. « …
guarda che ce la faccio, idiota! » sbuffò lo statunitense, incrociando le
braccia.
« Sono venuto qui soltanto per vederti fallire
e quindi cadere rovinosamente a terra in preda ai crampi ed agli spasmi
muscolari, yankee. » sbottò acido
Arthur, per poi alzare lo sguardo e notare una sagoma per terra, sussultante.
« Ehi, tu! Stai bene? » chiese il britannico,
avvicinandosi. Tino si
alzò subito, cercando di asciugarsi i rivoli di lacrime che gli bagnavano il
volto e che lo spiffero entrato dalla porta rendeva ghiacciati. « S-sto bene, non preoccupatevi… ero… ehm… ero scivolato! »
si giustificò il finlandese, alzando una mano in segno di saluto e poi
agitandola come se quello che gli fosse accaduto non fosse poi così importante.
Possibile che non ci fosse un diavolo di posto dove piangere in quella dannata
scuola? Tanto valeva tornarsene in camera, correndo e sperando in una
bronchite.
E fu proprio quello che decise di fare,
perché tanto a quel punto non riteneva di avere più qualcosa da perdere. Fortunatamente
nel suo cammino non incontrò né Eduard né Ivan. Sia perché voleva evitare di
deprimersi ulteriormente sia perché voleva evitare di fare a pugni con
qualcuno, quel giorno, anche se il suo istinto gli suggeriva di commettere un
omicidio.
Girò la maniglia metallica della porta,
fredda come il pavimento della palestra, giusto in tempo per carpire una strofa
di una canzone, a detta sua abbastanza depressa e a volume troppo alto.
Yesterday I died, tomorrow’s bleeding
Fall in your
sunlight
Berwald era sul suo letto, con la faccia
rivolta verso il cuscino. Il finnico sperò che fosse morto in qualche modo, con
il dito che ancora pigiava il pulsante dell’MP3. O su altro.
« Mmh, ciao. »
Argh, è vivo.
« ‘ngiorno… » si
stiracchiò per un po’, per poi buttarsi anche lui sul suo letto, affondando la
testa nel piumone blu. « Metti qualcosa di più allegro, oddio. Sembra un
requiem. » appena nella stanza iniziò ad echeggiare la melodia della Caramelldansen Tino non potè fare a meno di soffocare una risata.
« Hai qualcosa degli Abba? » chiese poi, sorpreso di non essergli ancora
saltato al collo. Ovviamente per affondarci le unghie e soffocarlo.
« Mmh? Gli Abba? » fece quell’altro, alzando
il tono della voce, sorpreso. « T’ piacciono? »
« A mia madre piacevano. Non immagini che
palle. Ogni fottuto giorno cantava una canzone a random fra le millemila che
hanno scritto quei quattro. » sbuffò Tino, in preda all’esasperazione. Si girò
per guardare il soffitto, nostalgico. « So a memoria Mamma mia, umpf. »
« Quella l’ sanno tutt’. » osservò ad alta
voce lo svedese, prima di selezionarla.
« Hai un accento orribile. »
« Takk.
»
Tino pensò che fosse strano parlare così
amichevolmente con il suo possibile carnefice. Eppure non gli stava dando così
tanto fastidio, anche se il desiderio di staccargli le budella a morsi si
faceva sempre risentire. Immaginarsi però a pochi centimetri dal suo petto nudo
mentre lo mordeva e… si rigirò nel letto, dalla parte opposta a quella dello
svedese, nascondendo la testa nel cuscino: era arrossito fino alla punta delle
orecchie mentre immaginava un porno gay degno di quelli che leggeva (e forse
vedeva) Elizavetha – sì, le voci di Feliks erano giunte anche alle sue orecchie
– con lui e Berwald come protagonisti. Era troppo strano, stupido ed idiota. E aveva
reso la sua mente davvero molto, ma molto impura.
Proprio lui che ammirava gli svedesi solo per quella sorta di regola che
prevedeva di aggiungere nell’esercito donne con un davanzale abbondante perché
sembravano intimidatorie e spaventose o, come la pensava lui,
perché gli altri soldati sarebbero morti di epistassi.
Mamma
mia, here I go again
my, my, how can I resist you
mamma mia, does it show again
my, my, just how much I've missed you
« Vado. » si alzò, rigido come un robot e
fuggì – letteralmente – fuori dalla camera, sbattendo la porta e creando un
chiasso infernale, mentre si ripeteva mentalmente che tutto ciò non poteva
avere alcun senso, che lui era un pervertito deviato e che Mamma mia era solo uno stupido brano commerciale, profondo come la
già citata Danza del Caramello.
Mentre si auto-convinceva di tutto ciò, però, si scontrò contro la schiena di
una persona dalla quale avrebbe dovuto stare alla larga, almeno per i prossimi
tre milioni di anni. Vabbè, facciamo due, non si sa mai che si
riappacificassero, un giorno o l’altro.
Purtroppo quel giorno non era ancora
arrivato.
« Väinämöinen... ? » Ivan si girò verso di lui, tutto contento
di aver trovato una nuova pallina antistress.
« No, Babbo Natale. » sbottò sarcastico l’altro.
« Mi dispiace, ma oggi non sono proprio in
vena di scherzi, da~ » sempre che per
“scherzi” non si intendessero picchiaggi e torture di ogni genere, certo.
«
Neppure io. » Tino tentò dileguarsi in fretta, ma venne trattenuto dalla
presa della mano destra dell’altro.
« Uhm… hai sentito quello che è successo ad
Eduard, da? »
«
Devo andarmene! » si stava innervosendo parecchio, adesso che aveva
fatto uscire quel discorso. Ma perché diavolo Luk non gli aveva fatto qualcosa
di davvero brutto con quel coltello, invece di morire di paura dietro alla
professoressa? Non che lui non fosse intimorito da Ivan, ma… beh, Luk era sacrificabile.
« Ho sentito che i ricatti psicologici sono
i migliori! » il russo gli fece ruotare il braccio, causando uno scricchiolio
ed un dolore non indifferenti, a danni di Tino. « Non mi è piaciuto quello che
ha fatto, da! E in questo modo glielo farò capire passivamente… » decise d-i prendergli anche l’altro braccio, giusto
per fare le cose per bene.
In quel momento secondo Tino la cosa più
terribile non era di certo quello che gli era accaduto – e che gli stava accadendo
– in quella dannata giornata, ma il fatto che la gente stesse passando davanti
a loro – ne poteva sentire i passi – e che neppure guardava o, se guardava, non
si scomodava di certo a dire qualcosa. Forse l’avrebbe fatto anche lui, in
effetti. Tieni cara la pelle e fregatene degli altri, giusto? Non era così che
si doveva fare?
Forse per molti era così, ma per una
manciata di persone no. E una di queste persone, purtroppo per Tino, rispondeva
al nome di Berwald Oxenstierna, Nanuk o più semplicemente Lo Spaventoso Stalker.
« Brangiski.
» tuonò lo svedese, anche se il russo non sembrò farci caso, continuando
a giocare con la sua pallina. «
Lascialo in pac’. »
« No~ » rispose semplicemente l’altro, con
il tipico tono da Oca Giuliva. O da
Feliks, come preferite.
« Non m’ costr’ngere a- » fece il terzo incomodo, avvicinandosi
pericolosamente agli altri due.
Eh no, da questo qui non
mi faccio proprio salvare. Si cerchi un’altra principessa Peach.
Il finnico decise di
mollare al russo uno di quei suoi famosi calci negli stinchi – che, se non
fosse stato per tutte le cose alle quali pensava, avrebbe volentieri usato
prima – , deviando con la punta del piede il più possibile, per cercare di
arrivare anche agli intoccabili. Dopo
il calcio Ivan mollò per un attimo la presa per massaggiarsi la gamba
dolorante, lasciando il finnico libero di andare verso il suo improbabile Super
Mario.
« Ce la faccio benissimo da solo. »
annunciò, girandosi e continuando a camminare, in cerca della sua amata ed odiata
camera da letto. Era decisamente in vena di rompere qualche porta.
« Ma la stanza è dall’altr’ part’. » lo informò Berwald, indicando con il dito
la direzione esatta
Il finlandese riuscì solo a sibilargli quasi
impercettibilmente qualcosa nelle sua lingua – non di certo una formula di
ringraziamento, anzi – , mentre gli passava davanti. Finalmente arrivato alla
porta la spalancò, pensando che si stava comportando come un’adolescente in
quel periodo là. Piangere per Eduard, ascoltare Mamma Mia con Berwald, mandarlo a quel paese qualche minuto dopo.
Chiusa la porta, si controllò le mutande, per scaramanzia.
Non si può mai sapere.
Pulite.
Oh, se stava diventando matto.
Al cervel non si
comanda.
Io, santo cielo, mi chiedo
come diavolo sia possibile lasciarvi a secco per così tanto tempo, cielo.
Perché, cari miei seguaci, è passato più di un mese dallo scorso aggiornamento,
eh! Mi sa che mi sto rincretinendo! Ma, d’altra parte, la mia ispirazione
sembrava essere fuggita per una vacanza tutto compreso su Plutone °^° e al
cervel non si comanda(?).
Ah, con questo capitolo ho
finalmente deciso di far parlare Berwald come Dio comanda, ossia alla ca- ok,
risparmiamoci commenti inutili -3- quindi… se state leggendo questa roba
sappiate che vi amerò, ergo la vostra vita diventerà orrida, come questo
capitolo ritardatario. E temo che il prossimo non arriverà tra una settimana,
ahimè, ma forse tra due – ma c’è sempre la possibilità che trovi abbastanza
tempo °3° – Sapete, la scuola è brutta e cattiva ed i professori mi odiano,
puff D:
E in questo capitolo Luk
non appare! Sono Capitan Ovvio! *fugge facendo swishhh*
Se qualcosa va male – tipo
tutto, lo so, stavolta T^T – dicetemelo pure e lanciatemi addosso
dromedari, ve ne sarò immensamente grata.
With love,
Kaida_
_ _
Chansons
Shattered – Trading Yesterday
Mamma mia – Abba
Scommetto
che adesso, mentre premo “invio”, mi verranno in mente miliardi di altre cose
molto interessanti che avrei potuto scrivere e che non ho fatto.
Perdonatemi
ancora e sappiate che amerò chiunque recensirà come amo già chi lo ha già fatto
– o chi lo fa ancora.
Angolicchio dello spam!
Luk, per vostra sfortuna, ha invaso anche faccialibro!
Per chiunque la volesse
aggiungere eo linciare, la trovate sotto il nome di Pipaluk Kalaallit Nunaat Jensen.
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Capitolo 11 *** Capitolo 10 - E gli unicorni nitriranno ***
E gli unicorni nitriranno
Chapter n°10: E gli unicorni nitriranno
«
Uooh, apri la porta! » si lamentò una voce – alquanto sgraziata e rompiscatole,
a detta di Tino – da dietro la porta, che, dopo circa sei minuti di toc toc, era giunta all’esasperazione.
Come se
al finnico importasse qualcosa.
Quest’ultimo si rigirò placidamente nel letto, prendendo in mano il
cuscino e tenendolo premuto sulle orecchie. Tanto la porta era chiusa a chiave
da dentro e, per quanti toc facesse
l’ospite indesiderato, nessuno sarebbe mai riuscito ad aprire. Anche se Berwald
rappresentava comunque una minaccia, possedendo anche lui una copia della
chiave… ma in quel momento c’erano cose più importanti alle quali pensare. Come
Eduard, Ivan, eccetera. E come tenere il cuscino ben premuto sulla testa, in
modo da non sentire nient’altro che il magnifico suono del silenzio.
« E se
fosse morto? » chiese Alfred, dietro alla porta – perché a lui apparteneva la
voce di prima –, dando un ultimo colpetto alla porta con le nocche e immaginando
qualche scena della serie C.S.I. Se solo Väinämöinen gli avesse aperto, beh,
lui avrebbe sicuramente messo K.O. il suo (alquanto improbabile) assassino!
« E se
non volesse aprirti? Opinione che, inoltre, condivido in pieno? » sbottò acido
Arthur, che, ahimè, aveva deciso di seguirlo, come al solito. Si sentiva un po’
la sua babysitter, ma non poteva perdersi le figuracce dell’americano,
assolutamente. Ergo, seguirlo conveniva, dato che le risate fanno bene alla
pelle. Certo che il potere benefico dell’ilarità doveva fare le sue belle
battaglie con la birilrubina che assaliva il fegato dell’inglese ogni volta che
l’altro apriva bocca… o la chiudeva, sbranando magari un hamburger o altre
schifezze che solo un americano – o Bear Grylls, ma quello era un altro paio di
maniche – avrebbe potuto ingurgitare.
« Ma se
tutti mi adorano! Noi americani siamo simpatici, non come voi
inglesini-tutti-tè! » rispose Alfred, con gli occhioni blu ribollenti di ira.
Tutti gli avrebbero voluto aprire la porta in quel momento, accidenti!
« Sei
uno stupido. E sono più stupido io che non ti picchio. Ma almeno noi
inglesini-tutti-tè » proseguì il birtannico, usando la miglior voce in falsetto
che avesse nel repertorio « non ruttiamo né sputiamo noccioli di ciliegie negli
occhi degli altri come se fosse uno sport! » era al limite della sopportazione.
Come al solito.
« È
successo solo una volta! E poi so che in fondo invidi la mia mira! » rispose
l’americano, tutto impettito, memore di quel momento magnifico. Eh, quelli sì
che erano i momenti che avrebbe ricordato mentre sfogliava un vecchio album
ricolmo di foto ingiallite davanti al fuoco del camino, mentre i suoi nipotini
gli chiedevano come avesse fatto a ruttare in modo tanto armonico e a lanciare
un nocciolo lungo una traiettoria tanto perfetta! Arthur non avrebbe mai potuto
raccontare una cosa del genere!
E
intanto Berwald stava ascoltando il dibattito, con suo sommo gaudio, appoggiato
al muro. Era un piacere sentire gli altri litigare – figurarsi per cose tanto
stupide – mentre pensava ad una sorta di schema mentale per catalogare meglio i
litiganti.
Alfred F. Jones,
ossia l’americano tipo.
Quando vuole parlare sbraita, magari mentre
trangugia qualcosa che sia anche lontanamente commestibile, giusto per urtare i
nervi all’interlocutore eo causargli qualche stress emotivo, superabile solo
con qualche anno di terapia.
Nelle scorse elezioni ha tifato per Obama –
perché, fortunatamente, non può ancora votare –, semplicemente per il fatto che
fosse politicamente corretto votare per quello di colore perché
oh, sai-cosa-abbiamo-fatto-noi-bianchi e magari gli ha anche dedicato un
tema scontato e pieno di scenari utopici
dove il bene trionfa sempre, tra i nitriti entusiastici di unicorni arcobaleno.
Ah, è terribilmente sospettoso nei confronti
della classe politica, perché secondo lui gli stanno sicuramente nascondendo
qualcosa, che si tratti delle autostrade invisibili presenti (senza ombra di
dubbio) nell’area 51 o del tunnel sotterraneo che porti al mistico regno delle
talpe.
Poi diventerà presidente del suo grande
paese e a quel punto gli unicorni potranno nitrire contenti, finalmente.
In compenso qualche buona qualità ce l’ha –
Cielo, credo… – e insegnerebbe volentieri a Rose la nobile arte dello sputo.
«
Se vuoi te lo insegno! » esclamò Alfred, mimando con eccessiva enfasi l’azione
e confermando le tesi dello svedese, fiero di averci azzeccato. Forse avrebbe
dovuto fare lo psicologo come gli aveva suggerito Luk, ma il pensiero di
trovarsi ogni giorno con gente del suo calibro (o di quello di Jones, anche se
non riusciva a capire quale fosse il peggiore) lo uccideva.
Riprendiamo questo discorso penoso,
catalogando per bene Sir Kirkland.
Il tipico inglese che ama il tè, isterico
oltre misura, a volte. Temo che l’americano abbia a che fare qualcosa con
questo suo stato mentale, sì.
Con dispiacere lo vedo già fra qualche
decina d’anni nel suo studio da avvocato – anche se ha sempre odiato
giurisprudenza, ma che ci vuoi fare, papà ha deciso così… –, mentre premedita
il divorzio tra lui e la donna che ha sposato ma che – ahimè – non ama o non
ama più. Ma non credo che avrà un amante, se è tanto gentleman come dice.
E poi si sposerà con qualcun altro e si
trasferirà in una villetta in campagna, vivendo dei frutti della terra e
passeggiando fra l’erica.
Gli unicorni potranno nitrire anche lì, a
quel punto.
Lui è Rose.
Quindi… Jones morirà congelato dopo aver
insegnato a Kirkland a sputare?
Mentre
Berwald era immerso nei suoi pensieri, il mago
dello sputo giunse alle sue spalle, iniziando a scrollarlo. Ma per cosa
l’aveva preso? Per un cane, forse? Non poco stizzito da quel comportamento, lo
svedese si girò verso di lui, inchiodandogli addosso il suo sguardo di
ghiaccio, anche se l’americano non sembrò notarlo più di tanto mentre teneva
gli occhi chiusi nell’espressione del suo sorriso
gioviale migliore.
« Ehi,
senti, Väinämöinen a quanto pare non vuole aprire la porta… e siccome tu hai le
chiavi potresti controllare per favore che
non sia morto? »
Lo
svedese si alzò controvoglia, per poi arrivare alla porta ed iniziare a bussare
con la delicatezza di chi accarezza una bambola di porcellana.
« Guarda
che ho già provato i- » cominciò lo statunitense, avvicinandosi al legno scuro,
per poi essere – con sua grande sorpresa – interrotto da un mugolio sommesso
proveniente dalla stanza. Era così ingiusto! Perché non aveva risposto a tutti
i suoi toc toc e a quello
impercettibile di Oxenstierna sì? Era razzismo bello e buono, quello,
accidenti!
« Si
può sapere che avete da rompere tanto? » ringhiò dall’altra parte il finnico, alzandosi
dal letto e facendo cigolare qualche molla, tanto che sembrava mugugnare anche
il letto.
« No’
lo so. » ammise Berwald, abbassando lo sguardo, contento che Tino non lo potesse
vedere.
«
Aspetta! La regista ti stava cercando! » lo informò Alfred. Berwald alzò un
sopracciglio.
« La
regista…? Oh, Luk… » fece Tino, stiracchiandosi. La sua amica, no? Quella che,
poco tempo fa, aveva definito sacrificabile.
Eppure non gli sembrava tanto ingiusto, dato tutto quello che aveva combinato…
insomma, se solo avesse evitato di informarlo di Ivan ed Eduard e del suo
magnifico salvataggio, beh, forse adesso sarebbe tutto a posto, tutto come
prima.
Con
Eduard con tutte le ossa rotte, forse, ma come prima.
« Beh,
che vuole? » Alfred iniziò a spingere la porta facendo leva sulle spalle, ma i
suoi sforzi – contrapposti alla forza erculea del finlandese – si dimostrarono
vani. Arthur ridacchiò sotto i baffi.
« E che ne so, ha detto che ha fatto una
scommessa con Zwingli… » rispose l’americano, gesticolando.
« Oh,
magnifico. »
E così,
per qualche strana ragione, si era ritrovato con Luk, Berwald, Alfred, Arthur e
quelli della troupe sul pianerottolo di una scalinata che, oltrepassato un
portone, portava direttamente al cortile. Soltanto perché si sentiva
leggermente in colpa dopo averla definita sacrificabile.
« E
adesso? » chiese Tino, dondolandosi da una gamba all’altra e gioendo ogni qual
volta che i suoi ginocchi urtavano i polpacci di Berwald. Così, senza alcun
motivo in particolare. Anche se adesso sentiva di non provare più di tanto odio
nei suoi confronti desiderava immensamente di procurargli un dolore qualsiasi,
in qualsiasi posto. E i polpacci in quel momento andavano più che bene. Da
parte dello svedese, però, quel tocco era accolto nello stesso modo di una
cascata di cioccolata. O di muffin rubati su Luk, la groenlandese cleptomane,
fate voi.
Perché,
alla fine, la colpa era di Berwald e Luk. Avrebbero potuto aprire un’agenzia
per rovinare le vite.
O forse
lui aveva solo bisogno di scaricare tutta la sua rabbia repressa, tutta la
colpa e, più semplicemente, tutto su
qualcun altro. E Luk e Berwald andavano più che bene. Loro e quell’assurda
storia della recita. E lui che era pure venuto ad aiutarla per vincere una
scommessa con quello svizzero, non sapendo neppure di cosa si trattasse.
Quando
Luk iniziò a raccontare la storia Tino non poté fare a meno di alzare le
sopracciglia, stupito più che mai. Chi diavolo era lei per pretendere e,
soprattutto, predire che tutti loro
l’avrebbero aiutata senza battere ciglio, sicuri della sua innocenza e non-maniacità (come l’aveva definita la
groenlandese stessa). Aveva corso per tutta la scuola con un coltello,
accidenti. Perché, invece, non aveva centrato Brangiski in pieno petto, come
avrebbe fatto chiunque? Sì, più o meno…
« Allora,
chi è con me? » chiese la groenlandese, sicura più che mai della sua vittoria, perché
l’importante è crederci.
Due
minuti dopo tredici mani (comprese quella di un canadese che era sbucato chissà
da quale posto e quella di un thailandese che diceva di essere stato presente
e, ovviamente, la mano di Luk) si stagliavano contro il soffitto, animate da un
certo rancore verso Vash, noto vecchio-dell’alpe-con-il-visino-da-Heidi,
basso quanto scorbutico e neutrale fino alla morte. Amava fissare i conflitti
fra i compagni compiaciuto dell’ambiente pacifico intorno a lui ed al suo
magnifico paese, senza muovere un dito, alla tanto-io-sto-in-mezzo-e-non-mi-becco-rogne.
E
invece di rogne se n’era beccate parecchie, a quanto pare. Gli amici-Svizzera non
vanno mai troppo lontano…
Vinsero
e Lily fu tratta in salvo (sì, più o meno…).
Inoltre, in quello stesso giorno, Tino riuscì a ringraziare – più che
altro a monosillabi che denotavano un certo scocciamento del tipo lofacciosoloperchésonoeducato
– Berwald per quel suo salvataggio non voluto.
E gli unicorni
potranno nitrire.
Olè!
Aloha, mie care (e mie cari?)! Sono passate tre
settimane ed un giorno dall’ultimo aggiornamento, ma è meglio di niente. Colpa
mia che mi riduco all’ultimo momento… e colpa di quelle ricerche assurde che ci
assegnano quasi costantemente :’D perché non siamo un regno basato sugli
unicorni rosa? Perché non c’è più la Pangea? Perché la macchina del capo ha un
buco nella gomma? Queste sono domande per le quali non troveremo mai una
risposta, ma intanto ci accontenteremo di assegnarvi qualche compito, giusto
per il nostro diletto, hohoho~!
Stendiamo un velo pietoso… a proposito, questo è
il decimo capitolo, escluso il prologo! Un numero tondo, pensate un po’! E voglio dedicarlo a chi
mi segue (no, non ci saranno rimborsi), a chi legge quello che scrivo (idem) e
a tutto il mondo(?), compresa quella mia amichetta indonesiana ed escluso il tizio
razzista (Una delle sue perle è “lo sapevate, ad esempio, che i cinesi sono
gialli perché sono stati generati dal cerume del diavolo?” Non so se ridere o piangere,
seriamente :’D) che, purtroppo, ho dovuto conoscere :’( dite che se faccio
sembrare il suo omicidio un incidente qualcuno riuscirà ad incastrarmi?
Fuggo a salvare il mondo,
Kaida_ _ _
|
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Capitolo 12 *** Capitolo 11 - Uccelli giardinier ed estoni misteriosi ***
Capitolo 11
Chapter n°11: Uccelli giardinieri ed estoni misteriosi
« Ah! E poi mi ha detto che non mi
faranno mai entrare in Svizzera, il nano! Chi ci vuole andare, dico io! » Raccontò Luk, dall’alto
dei suoi centoquarantacinque centimetri d’altezza, mentre rendeva pubbliche le
sue memorabili imprese, iniziando a
narrarle a chiunque le capitasse a tiro e, soprattutto, avesse tempo e voglia
di fermarsi. Questa volta le era capitato un aitante giovanotto con i capelli
castani e gli occhi verde mela, lo sguardo attento e gli atteggiamenti cordiali
e cortesi, ma comunque allegri. Un tipo in gamba, non c’è che dire. La
groenlandese intanto provvedeva a dare tante piccole pacche sulla spalla di
Sesel che, accanto a lei, sorrideva imbarazzata come i magnifici amici sobri
che tentano di calmare i loro amici ubriachi intenti a picchiare qualcuno in
una rissa da bar. « C’era anche lei, Sesel! Ti presento Sesel! Sesel,
lui è… un tizio? » non era brava a fare le presentazioni, Luk.
« Mi
chiamo Jett! Come l’aereo, ma con una t
in più! » si presentò quello, facendo schioccare le dita di una mano e poi
tramutando il gesto in una pistola. Sesel e Luk fissarono la mano ammirate. Era
figo.
Jett come
l’aereo! BROOM!
« Tu
hai l’aria di uno che sapeva l’inglese già da prima… » fece la groenlandese,
esaminandolo.
«
Modestamente… da Camberra con furore! »
« Io
Nuuk! »
« Victoria! »
E, nei
cinque minuti successivi, mentre Sesel e Jett facevano i loro discorsetti in un
inglese velocissimo e quasi incomprensibile, Luk si rammaricava del fatto che
la Groenlandia non fosse mai stata una colonia britannica. L’inglese lo conoscevano tutti, mentre il
danese era pressoché inutile. Probabilmente l’avrebbero abolito anche in
Danimarca. Il groenlandese forse aveva la stessa (pseudo) utilità della lingua
dei colonizzatori, ma almeno era piacevole da sentire.
Ah, il
patriottismo.
Seguì
un’allegra discussione dove si alternarono racconti di orsi, tonni e canguri.
Forse la storia di Sesel sul tonno di due metri non era propriamente
attendibile, ma almeno era bella da ascoltare. Alla fine i colonizzati si lasciarono con la promessa di imparare a lanciare il
boomerang come si deve, prima o poi. Jett, da quel che si raccontava, lo sapeva
fare ed aveva vinto qualche gara nella sua città, quindi cosa ci sarebbe stato
di meglio che un australiano campione del mondo
(Luk aveva un’idea piuttosto distorta delle città al di fuori della sua Nuuk)
per imparare la nobile arte del lancio del boomerang?
Intanto
Tino, dopo aver ricevuto gli utili consigli di Berwald, era tornato in camera
per riflettere ancora un po’ sulla situazione che si era creata, mentre lo
svedese aveva avuto la brillante – senza un velo di sarcasmo, questa volta –
idea di girare un po’ al largo, almeno per qualche ora. Chissà che nel mentre
il finnico non si addolcisse un po’; lo aveva addirittura ringraziato! Le cose
stavano girando nel verso giusto, finalmente. Da bravo psicologo, però,
Oxenstierna aveva notato un certo nervosismo nello sbocconcellato “grazie” di
Väinämöinen. Meglio non darci peso e crogiolarsi nel ricordo del gesto, più che
nel modo in cui era stato fatto, giusto?
E cosa
c’era di meglio di un enorme enciclopedia per nascondere qualche sorrisetto
ebete che sarebbe derivato da qualcuno dei suoi filmini mentali su Tino, che
non sarebbero certo mancati in quel giorno magnifico? Così lo scandinavo decise
di dirigersi in biblioteca, dove però trovò qualcun altro al quale dedicare
qualcuno dei suoi film, ad appena un metro da lui.
Rose!
Non si
poteva non provare una certa compassione per l’inglese continuamente
punzecchiato dall’americano a scuola e dai fratelli in casa, iscrittosi
probabilmente per trovare un po’ di pace. E anche in quel ventoso giorno di
metà ottobre Alfred era presente, assieme alla sua fedele matita, che marciava
imperterrita sulla schiena del britannico.
Fu così
che la magia ebbe inizio…
Siamo in un magnifico prato fiorito, dove le
genziane ed i mughetti danzano al dolce canto del vento. Proprio nel bel mezzo
di questo paradiso si erige un edificio color pastello. Una signorina bionda
vestita di rosa accoglie coloro che entrano, facendoli accomodare su morbidi
pouf dalle tonalità chiare. Qualche minuto dopo suonano alcune piccole
campanelle ed un uomoragazzoqualcuno si alza, entrando in una magnifica stanza
completamente in legno, dall’aspetto caldo, rilassante e familiare. Il tizio –
che identificheremo d’ora in poi in tale Arthur Kirkland – si stende su di una
chaise lounge, iniziando a parlare dei suoi problemi, di come sia difficile
vivere in una barca di soldi mentre americani e fratelli ti infastidiscono, di
come sia idiota dipingere un centro psichiatrico (perché questo è!) di rosa, di
quanto sia gay quello che l’ha progettato. Ed io, il magnifico psicologo, mi
giro, uscendo con una soluzione brillante, sfavillante, sbrilluccicosa.
« Signor Rose, credo che lei sia
omosessuale. »
Quello spalanca la bocca, poi gli occhi, poi
se ne va imprecando. Un anno dopo si sposa con un uomo e adottano un bimbo
adorabilmente grasso.
Oh, sarebbe adorabile. Una volta ho
accarezzato un bimbo grasso, ma si è messo a piangere. Devo averlo fissato
troppo. Ah, era mio fratello.
Berwald, protetto dal suo libro – che
scoprì trattare di approfonditi studi sui vari rituali di corteggiamento di
bestie che andavano dai rinoceronti agli uccelli giardinieri –, si ritenne
fortunato per non aver nemmeno sussurrato la frase ad effetto del suo caro
Dottor Berwald, che nella sua mente stava formando già tante famiglie
omosessuali con figlioli obesi ed amabili come solo un rotolo di ciccia che
parla può essere. Sbirciando ogni tanto sul libro imparò che se i rinoceronti
inseguivano la partner anche per giorni per giungere allo scopo (e qui ogni
malizioso potrà trovare tutti i doppi sensi che vorrà), gli uccelli giardinieri
abbellivano il nido, usando addirittura spazzolini blu. Lui aveva provato con
la tecnica del rinoceronte, molto di più di qualche giorno, adesso non gli
restava che ornare il letto di Tino con degli spazzolini, giusto? Forse non
aveva senso, ma nessuno aveva mai sentito degli uccelli giardinieri lamentarsi
per le proprie storie d’amore finite male, di quanto fosse difficile trovare
gli spazzolini perfetti e di quanto fossero incontentabili le uccelline. Quei
baldanzosi volatili, invece, se ne stavano nel nido, tutti impettiti, a fissare
le loro uova. E anche lo svedese voleva un uovo, accidenti.
E, tra
uova e spazzolini blu, Berwald avvertì uno spostamento d’aria ed il suono di un
computer che si accendeva, a pochi centimetri da lui. E a manovrare il PC c’era
un tizio biondo, occhialuto, abbacchiato. Il tizio del montaggio, insomma.
L’amico del cuore di Tino. Aveva sempre tenuto un po’ le distanze da lui perché
lo aveva considerato una sorta di “rivale”, causa probabilmente il rapporto
intimo che aveva con Tino. Loro due parlavano insieme e scoppiavano a ridere
per cose che conoscevano solo loro. E lui – anche il mondo circostante, ma,
accidenti, un po’ di egocentrismo in questi casi non guasta – si sentiva
escluso ed esiliato, con Luk che gli raccontava storie assurde su cani, orsi e
corvi che tenevano palle di luce.
Ok che
avevano preso una A per quella ricerca sulle leggende dei popoli al confine del
mondo, ok che da quel giorno la Boulevard aveva iniziato a guardare la
groenlandese con uno sguardo che somigliava molto a quello con il quale una
madre orgogliosa guarda il proprio figlio, ma dopo la trentaquattresima (nella
disperazione si era dato ai conti) volta iniziava a stancare, no?
Lo
svedese, ben nascosto dalla foto di due cigni che proteggevano le proprie uova
(ma soprattutto dal libro che conteneva), adocchiò lo schermo del PC. Un sito
qualsiasi in lingua estone e, anche se si fosse trattato del kamasutra gay in
versi, nessuno sarebbe riuscito a capirlo.
« E
quind’ t’ e Tino siet’ amici… » cominciò Berwald, chiedendosi lui stesso il
perché dell’inizio di quella conversazione. Avrebbe volentieri preferito
continuare a cercare nuove efficacissime
tecniche di corteggiamento, ma il desiderio di riuscire a farsi amico il
migliore amico del suo spasimante era troppo forte. Magari Eduard avrebbe
iniziato di parlare bene di lui con Tino e, dato che una cosa tira l’altra,
prima o poi avrebbero avuto qualcosa di simile ad un appuntamento e qualche
decennio dopo dei figli…
Il gioco vale la
candela.
L’estone lo fissò per un po’, con un sorriso
triste dipinto sul volto. Berwald non sapeva ancora niente, ma
contemporaneamente lui non aveva il benché minimo desiderio di raccontargli
tutto il fatto. Quando però l’altro
si mise a ticchettare con l’indice sul lavolo di legno, forse per il nervosismo
di non aver ancora ricevuto una risposta, si decise finalmente a parlare o,
almeno, a dare una non-risposta che magari avrebbe smorzato la sua curiosità.
« Aaah,
insomma… sì. Credo… »
« Mh? »
invece di smorzarsi, la curiosità di Berwald si era fatta più forte. Accidenti.
« Beh,
è un po’ un… accidenti, è una storia lunga e noiosa, ecc- »
« Amo
l’ storie lungh’. »
« Ma
sono fatti nostri… »
Il
campanello d’allarme dello svedese iniziò a suonare. Il pronome nostri voleva dire solo una cosa.
Qualcosa di tremendo e spaventoso. Eduard e Tino erano intimi ed avevano avuto
una litigata, forse. L’unica cosa rassicurante era il fatto che ci fosse
un’estrema probabilità che a Tino piacessero i ragazzi… macchè estrema, era
quasi un buon cinquanta percento.
O forse
si sbagliava, non poteva ancora saperlo.
« Siet’
intimi? » chiese, mettendo una certa
enfasi nell’ultima parola. Per tutta risposta Eduard guardò il pavimento,
scosse la testa e tornò al suo computer, dicendo qualcosa nella sua lingua
natia.
« Mitte selles mõttes, et ma tahan... »
« Pardon? »
L’estone serrò la mano sinistra in un pugno, sospirando.
« Non
nel senso che vorrei io. » detto ciò spense il computer, si alzò ed uscì dalla
biblioteca a passi veloci, lasciando lo svedese con un palmo di naso e
l’immagine di un uccello giardiniere davanti.
I mesi
passano…
Buonsalve a tutti, belli e brutti! (?)
Ecco, un altro capitolo (breve, peraltro) che
viene sfornato davvero in ritardassimo... Non mi piace quando accade, quindi
credo che durante questa settimana mi metterò sotto e riuscirò a pubblicare
qualcos’altro, si spera molto presto! Ho già impostato una sorta di scaletta
mentale e so più o meno cosa scrivere. Adesso che sta finendo la scuola sono
tutti morti di stanchezza, ma io diventerò l’eccezione! Sarò magnifica ed
efficiente, sì!
Ok, ok, forse ho esagerato, ma so esattamente
cosa (il come è il problema, il come!) scrivere stavolta, quindi ci metterò un
tempo relativamente breve e magari riuscirò a far raccontare il salvataggio di
Lily da qualcuno x’D
Un’ultima cosa: non vedevo davvero l’ora di far
agire il Dottor Berwald e temo che
catalogherà qualcun altro, magari nei prossimi capitoli…
Tanti saluti e tante grazie a chi leggerà e
recensirà,
Kaida_ _ _
|
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Capitolo 13 *** Capitolo 12 - ***
Come va, Ed?
Chapter n°12: “Come va, Ed?”
Per
l’ennesima volta, nella solitudine della sua camera, Tino era giunto alla conclusione
che di tempo, nella camera, ne stava passando davvero troppo. Ok che
rifletteva, ok che poco tempo prima era uscito per salvare Lily, ma doveva
parlare con Eduard, assolutamente. Eppure qualcosa lo bloccava. Qualche giorno
fa, semplicemente, avrebbe aperto la porta e si sarebbe diretto in biblioteca,
cercando la sua testa bionda dietro ad un Apple bianco. L’avrebbe volentieri
fatto anche in quel momento, ma qualcosa era cambiato. Tino non poteva sapere che anche Eduard, con il computer
sottobraccio, stava pensando più o meno le stesse cose. Non sapeva che anche il
suo amico desiderava con tutto il cuore incontrarlo. Voleva chiarirsi. Volevano chiarirsi.
« Uoh,
Ed! Eduard, Ed! Posso chiamarti Ed? » Luk venne letteralmente addosso
all’estone. Quello era il primo incontro in assoluto tra salvatrice e salvato,
quindi si allisciò i capelli con una mano. Doveva apparire magnifica ed in
ordine. D’altronde i supereroi non hanno mai un capello fuori posto, giusto? E
lei non voleva essere da meno.
« S-sì?
» chiese lui, esitante. Trovarsi una groenlandese a pochi centimetri non era
cosa alla quale gli estoni erano preparati. Non che adesso lo siano…
« Come
va? »
Sono tranquilla,
non è davvero successo niente. Un semplice incontro fra colleghi, ecco cos’è
questo. Non ho salvato nessuno, non mi aspetto mica ovazioni e grazie da
persone commosse…
«
Ah, bene… insomma… » il ragazzo si pentì subito dell’insomma. Aveva già
abbastanza problemi e sentiva che la regista gli avrebbe sicuramente chiesto
qualcosa al riguardo. Si vedeva dalla faccia.
Il mio grazie…?
«
Insomma che? » ecco, Luk alla riscossa.
«
Niente… » L’estone riprese a camminare, più spedito di prima. Non voleva certo
apparire maleducato, ma lei gli avrebbe sicuro fatto vuotare il sacco. Purtroppo
lei cominciò a seguirlo.
« Non
posso permettere che i componenti della mia troupe mi nascondano qualcosa! Poi
finisce che si deprimono e questo non va assolutamente bene! » esclamò Luk,
accelerando. In un altro momento, in un’altra galassia, sarebbe sembrato un
gesto davvero carino. E forse lo era,
anche se Eduard non sembrava d’accordo con questa opinione.
Tenendo
il computer ancora più stretto a sé, il ragazzo girò improvvisamente,
accelerando. Stavano giocando a gatto e topo? Anche se, guardando le rispettive
dimensioni dei due studenti, più che altro giocavano a topo e gatto. E l’estone, che qualche giorno prima si era opposto a
Brangiski, adesso scappava da Jensen.
« Ed,
se poi ti deprimi e ti butti giù da un ponte io che faccio, poi? » chiese la
groenlandese, quasi al limite. L’unica buona notizia era il fatto che lo stesse
portando verso un vicolo cieco, ergo la Walk
of Fame dell’istituto. Un corridoio grigio tappezzato di foto e premi
accademici, sportivi e non. Un paradiso luccicante al quale chiunque avrebbe
voluto appartenere, soprattutto per il fatto che ciò comportasse magnifici
crediti extra. Luk, incantata da tutto quel luccichio, si fermò per osservare
le medaglie e poi indicare uno spazio vuoto sulla parete con l’indice. « Noi
saremo qui! E poi tra qualche anno riuscirò ad appoggiare il palmo della mia
mano in uno spiazzo con del cemento ancora fresco ad Hollywood – o Hollynuuk –
ed a scriverci il mio nome, quindi la gente inizierà a conoscermi ed amarmi ed
io diventerò ricca e famosa! » concluse, entusiasta.
« Te lo auguro, Pipaluk… » fece
Eduard, cercando di non dare peso al fatto del ponte. Non era così depresso. O
almeno non ancora. Nel caso le avrebbe consigliato qualcun altro come tipo del montaggio prima di buttarsi nel
Tamigi.
« Ad ogni modo, se tu ti butterai da un ponte tutto ciò non succederà! »
esclamò la ragazza in tono seriamente preoccupato. « E moriresti di una morte
lenta e dolorosa! E moriresti da solo! Chi vorrebbe morire da solo? »
« Perché, ho scelta? »
« Mh? » mugolò Luk, curiosa.
« Eh? »
« A te piace qualcuno! » affermò infine lei, con il dito puntato
stavolta verso il viso di Eduard, che si affrettò a fare cenno di no con le
mani. Ci mancava solo la regista schizzata che si immischiava nei suoi personalissimi affari. La sola cosa che
lo tranquillizzava era che non avesse Lukaseiwcz davanti. Almeno Pipaluk
avrebbe mantenuto il segreto, giusto?
Non che glielo volesse rivelare, no.
« Comunque, Ed… se me lo volessi dire potrei anche aiutarti, visto che
ho una certa esperienza… » continuò la studentessa, con l’atteggiamento più
calmo e disinteressato del mondo, mentre nel profondo del suo cuore moriva
senza il suo “grazie”. Sperava soltanto che se l’avesse aiutato avrebbe ottenuto
un ringraziamento qualsiasi, prima o poi.
« Esperienza? » domandò il tipo del montaggio, piuttosto scettico. «
Sentiamo, quanti ragazzi hai avuto? »
« A sei anni ho organizzato dodici matrimoni nella mia vecchia classe. »
annunciò seria, incrociando le braccia. « E adesso sto aiutando un mio amico
nello stesso campo, quindi me ne intendo. »
Eduard sbuffò. « Ma ti è mai piaciuto seriamente qualcuno? »
Luk era spiazzata. Sapeva che non avrebbe potuto rispondere “sono
attualmente sposata con il mio cane e credo che adotteremo un gatto”, anche se
sarebbe stato davvero bello. E poi non le era mai piaciuto nessuno, Ed aveva
fatto centro. Aveva solo letto qualche libro, visto qualche film ed assistito
allo spettacolo di due cani che si accoppiavano, ma niente di più. L’amore era
semplicemente una parola, un link su facebook o una frase di un bel libro, ma
niente di più.
« Voglio dire, sai quanto sia tremendo quando sai di amare qualcuno, ma
quel qualcuno è addirittura troppo importante perché una semplice cotta possa
rovinare il vostro rapporto? Sai quanto sia orribile quando la cotta non è più
tale, quando cerchi di fare l’amico di sempre? E quando capisci che non ce la
puoi, non ce la vuoi fare e devi far
uscire da quella parte quel sentimento, tanto “o la va o la spacca”? E finisce
che spacca. »
« Non lo so. » improvvisamente Luk sentiva il bisogno di fissare i suoi
stivali. Si sentiva un’ipocrita. E lo era stata per tutto quel tempo. Adesso si
sarebbe volentieri buttata nel Tamigi assieme ad Eduard. Suicidio di gruppo.
Depresso, ma non troppo.
Cosa. Sto. Pensando.
« Sai chi mi piace, Luk? »
« Beh… »
« Ch’ t’ piace? » tuonò Berwald, sbucato da chissà dove. In realtà aveva
adocchiato il simpatico duo mentre attraversava il corridoio, sorprendendoli a
fissare uno spazio vuoto nel muro. In altri casi avrebbe semplicemente provato
pietà, ma in quello era più che altro curioso. Insieme a Luk c’era Eduard,
ossia colui che gli doveva delle spiegazioni. Non siamo intimi nel senso che voglio io era una frase troppo
ambigua per essere archiviata senza problemi.
Eduard impallidì, incapace di alzare lo sguardo. Rispondere “Tino” era
una condanna a morte bell’e buona con un bestione davanti che soffriva della
stessa sindrome. Pensò che magari fra qualche anno ne avrebbero riso, mentre
qualcun altro apostrofava loro Tinomani.
Magari.
« È difficile da spiegare… » con quella risposta poteva aver guadagnato
tempo, ma si rendeva conto benissimo da solo di non poter fare il misterioso
per tutta la vita. Prima o poi sarebbe esploso o l’avrebbe detto a qualcuno,
che l’avrebbe detto a qualcun altro che l’avrebbe spifferato a Łukasiewicz. Quindi sarebbe giunta
la fine della sua giovane vita, che aveva sempre immaginato come qualcosa di
pittoresco e misterioso.
L’hacker
– modello a tempo pieno – Eduard Von Bock si perde in un pomeriggio d’autunno,
dopo essere stato visto scomparire in un turbinio di foglie. Men’s Health
reclama il suo modello migliore, sguinzagliando investigatori ovunque.
L’Estonia ed il mondo intero si chiudono nel dolore.
E invece no. Sarebbe stato incenerito da uno svedese geloso. Geloso? Ma
se Tino non aveva fatto che parlargli di quanto fosse fastidioso, spaventoso e
tremendo? Lui aveva molte più carte vincenti, cavoli! Poteva rimontare! Non era
tutto perduto!
Gli si dipinse un sorriso speranzoso sul volto, che gli altri due non
poterono interpretare in alcun modo. O forse sì.
« Stai sorridendo! Ti piace qualcuno! » esclamò Luk, saltellando da un
piede all’altro. « Non è vero, Nanuk? Non si capisce? » il progetto sul
suicidio di gruppo era stato appena cancellato dalla sua personale lista delle cose da fare. « Se ci dessi
qualche indizio potremo aiutarti! Ti prego, Ed! Se vuoi puoi dircelo anche con
un indovinello! Sarà divertente, Ed! Ti sposerai! »
« Fors’ no’ vuol’ dircelo. Peccat’. »
« Infatti. » Disse Eduard, piatto. Non voleva un matrimonio organizzato
dal suo più tremendo rivale. Si liquidò velocemente, con il computer ancora
sottobraccio. Non si era mai sentito tanto speranzoso quanto quel giorno.
Ce la puoi fare, Ed.
Camminò attraverso il corridoio, con la testa alta, tra le nuvole.
Troppo alta. Troppo tra le nuvole. Non si accorse che la sua testa era in collisione
con una sciarpa. Con un sorriso raggelante. Con qualcuno che lo aspettava da
tempo, appostato dietro l’angolo che stava girando.
Pomf.
Era troppo tardi quando l’estone si accorse di lui. Gli aveva già
scompigliato i capelli, nell’impatto. Lui
indietreggiò, aggiustandosi meglio la sciarpa e cercando di lisciarsi i
capelli. Toris non faceva altro che spostare lo sguardo dai suoi capelli ad Ed,
da Ed ai suoi capelli. Ormai era accaduto l’irreparabile.
« Cholera! Eliza mi aveva
prestato la piastra ed erano, tipo, totalmente perfetti! Che ti salta in mente,
Eduard?! »
« Scusa… »
« Le scuse non bastano, Ed. » il polacco si arrotolò una ciocca tra le
dita. « Voci sicure hanno, tipo, detto che ti sei messo a piangere per un pugno
di Tino. E so anche che quello stesso giorno stava, tipo, piangendo totalmente
anche lui. Mi devi, tipo, delle spiegazioni, non delle scuse. »
« Non sei la prima persona alla quale racconterei un segreto… »
Feliks gonfiò le guance, in una smorfia di disappunto. Non era il
pettegolo di turno, lui. « Non avrebbe
dovuto, tipo, agire così! Perché non ti vuoi, tipo, aprire totalmente con me? E
con Toris? » strinse il braccio del lituano, avvicinandolo. « Lui è tuo amico,
no? Parlane, tipo, con lui! »
Toris sospirò, imbarazzato. « Scusalo, lo fa in buona fede… »
« Per cosa? Avere un’altra storia da spifferare a mezzo mondo?! » non
voleva alterarsi, ma aveva voglia di sfogarsi in qualche modo. La situazione
che gli gravava sulle spalle era un fardello troppo pesante per permettergli di
restare il pacato Ed di sempre. « La
smettete di impicciarvi tutti negli affari? Se non ne parlo saranno pure cazzi
miei, no? »
« Ehi, c-calmati! » tentò Toris, facendogli segno di tranquillizzarsi
con le mani. « Feliks non vuole mica raccontare i fatti tuoi a tutto l’istituto…
volevamo semplicemente sapere come stavi, Ed… »
Chi ti piace, Ed?
Dicci cos’è successo, Ed?
Cos’hai, Ed?
Cos’è successo fra te e Tino, eh?
… Quindi voi due siete intimi?
Si rese improvvisamente conto che nessuno, fino a quel momento, gli
aveva chiesto come stesse. Ok, Pipaluk gli aveva chiesto di non deprimersi o
suicidarsi, ma era diverso. Un suo amico era preoccupato. Per lui. E anche
Feliks. Abbracciò il lituano, d’impulso, iniziando a singhiozzare e pensando
che stesse seriamente rovinando la sua reputazione da pacato, piatto e
ordinario nerd modello.
A
volte ritornano…
Della serie “e per fortuna che
sapevi cosa scrivere…”! Scusatemi se non ho risposto alle recensioni, ma EFP
aveva dei problemi, almeno sul mio PC .-. non me ne vogliate, sapete benissimo
che amo follemente ognuna delle vostre recensioni! Mi sciolgo al solo leggerle…
;__; fortunatamente adesso la scuola è giunta al termine e avrò molto più tempo
per scrivere, ma non posso promettervi un nuovo capitolo prima delle due
settimane! Sto diventando davvero svogliata, lo so… ma migliorerò, sì.
Dedico questo capitolo a… *rullo di tamburi*
Cosmopolita, l’orologiA svizzerA che
possiede Ippolita, il pony più magnifico del west;
Yanyan, che scrive sempre delle belle
recensioni ed è appena entrata nel giro ;w; ;
Bazylyk, alla quale non ho risposto nell’ultima
recensione causa cecità, pc demente e altra roba che non vorrete ascoltare;
Chiaki, che è diventata la mia beta~;
Chloe, perché so che legge sempre tutto!
So che ci sei, Chloe!
Patsit a tutte voi, carissime, e alla
prossima…!
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Capitolo 14 *** Capitolo 13 - A Capitan America non piacciono gli inglesi misopony ***
Chap13
Chapter n°13: A Capitan America
non piacciono gli inglesi misopony
« Dai,
Ed… » fece Toris, dandogli una pacca sulla spalla. Non gli era mai capitato di
essere la spalla su cui piangere per qualcuno che non fosse Feliks. Il lituano
era stato l’unico al quale il polacco era riuscito a mostrare le proprie
cicatrici, ricordi di un suo doloroso passato del quale non parlava mai.
Addirittura il suo compagno ne possedeva pochi accenni, ma non gli dava
fastidio. Già avere un posto privilegiato nel cuore dell’altro gli bastava. E
anche giocare con lui a scacchi, nonostante le bizzarre regole polacche adottate
da Feliks, gli piaceva. E sentire piangere un suo amico perché era quella la cosa che gli mancava era
tremendo. « Perché non ti siedi accanto a Tino stasera? »
« È-è
un’idea… » mormorò Eduard, sciogliendo l’abbraccio. « Ti avrò bagnato tutta la
divisa, accidenti… pagherei il conto della tintoria se ce ne fosse una… potrei
metterla io in lavatrice… » la sua natura timida e servizievole non tardò a
mostrarsi. E Toris, anche lui della stessa natura, non fece altro che dirgli
che non importava, con le mani davanti a lui, rosso per l’imbarazzo. Quando mai
qualcuno doveva un lavaggio solo perché si era sfogato un po’? E così, tra una
moltitudine di “non fa niente” e “pensa a stasera, piuttosto”, Eduard rimase
nuovamente da solo e troppo vicino al corridoio in cui Berwald e Pipaluk
l’avevano riempito di domande. Va bene, era una, ma ne valeva troppe. Si
affrettò a tornare in camera.
« Lui
ci nasconde qualcosa, Nanuk. » affermò Luk, le mani sui fianchi e
un’espressione decisa, volta ad ammirare orizzonti lontani. Lo svedese mormorò
un “già” a mezza bocca, mentre pensava a chi potesse essere l’oggetto del
desiderio dell’estone. Manon era una ragazza piuttosto carina. E anche
Charlotte. E Sesel… però non riusciva a non pensare all’eventualità che gli piacesse
un ragazzo. Tino. Deglutì.
« E se
gli piacesse un ragazzo? » proseguì lei, con lo sguardo rivolto verso di lui.
« Nh! »
negò lui, forse con troppa enfasi. Luk gli appoggiò gentilmente una mano sulla
spalla, cosa piuttosto complessa date le sue dimensioni.
«
Avanti, non credo sia Tino… con tutto il tempo che hanno passato assieme
sarebbe qualcosa di piuttosto… incestuoso, non credi? » ridacchiò, non a
conoscenza del fatto che lo stesse facendo agitare sempre di più.
Perché mi leggi
il pensiero?!
«
‘ proposit’ d’incesto… se’ ‘n
elegante ritard’ per le ripres’. » La informò.
Non poteva essere l’unico ad agitarsi e, da bravo socio, doveva condividere la sua agitazione con gli altri. Luk, per
tutta risposta, gli fece un cenno con la mano ed iniziò a camminare
frettolosamente per il corridoio, maledicendo la regola per la quale nessuno
poteva correrci. Lei l’aveva fatto con un coltello in mano e nessuno si era
fatto male. E inoltre cercare di camminare velocemente su quel marmo era
pericoloso, si rischiava di scivolare. Perché non vivevano in una foresta? O
sulla neve, magari, così avrebbe potuto sfoggiare i suoi bei kamik… Dopo aver rischiato la vita più
di una volta, in seguito a qualche principio
di scivolata, giunse trafelata alla porta che conduceva al cortile, notando
con piacere che la sua troupe era seduta sul cemento e tutti conversavano
allegramente senza importarsene più di tanto della sua assenza. Si morse il
labbro inferiore, stringendo i pugni, ma, da brava regista responsabile, evitò
di condividere il suo disappunto con gli altri ed arrivò in mezzo a loro,
saltellando. La salutarono e Sesel si avvinghiò al suo braccio, cosa che la
fece sentire decisamente più amata e le fece dimenticare l’indifferenza di
prima. Solo qualche secondo dopo scoprì che il suo braccio era stato assalito
dalle mani (o, più precisamente, dita) sottili di Sesel causa oddio-Arthur-si-è-spostato-di-un-millimetro-e-non-ce-la-faccio-a-sostenere-il-suo-sguardo-che-fissa-quel-muro-in-maniera-tanto-sexy.
Decise di non darci peso e di soffocare una risatina quando l’isolana ebbe il
suo bel sbuffare mentre l’americano prese il suo posto accanto all’inglese,
continuando il discorso che tutti ascoltavano interessati e che non faceva che
ingrandire il suo petto sempre più.
In pochi secondi sciorinò loro la trama di
qualche cartone improbabile con protagonisti che si potevano identificare in
magici ponies colorati. Qualcuno rabbrividì scoprendo che erano più i fan
adulti (uomini forzuti e prestanti che si concentravano più sugli adorabili
cavallini che sulle loro signore; il fatto che la stragrande maggioranza di
questi fosse single era un dettaglio di scarsa importanza) delle bambine a seguire lo show, mentre
ammiravano nelle loro buie stanzette cosplayer dai davanzali abbondanti e le
parrucche variopinte. Noevo specificare che Luk più di tutti, condannata a
poche ore di internet al mese, scroccate in un qualche internet point, non ci
capì nulla, ma che non fece che sorridere ed annuire per tutto il tempo,
giusto? Sesel ascoltò tutto il racconto con curiosità, rimanendo comunque
fedele ai suoi tonni, mentre Arthur si chiese se ci fossero unicorni nel
programma. Mai avrebbe espresso la propria curiosità, però. A meno che tutti a
parte lui non fossero stati ubriachi e quindi in grado di dimenticare tutte le
sue imbarazzanti domande su degli sciocchi cartoni per bambine. Il pensiero su
simpatiche compagnie di ubriaconi che dimenticavano situazioni imbarazzanti,
gli portò alla mente il momento in cui i suoi genitori, per telefono, gli
avevano annunciato di avere intenzione di organizzare un party di Halloween per
aumentare la propria popolarità e la possibilità del figlio di vincere le
prossime elezioni che l’avrebbero riconfermato rappresentante d’istituto per la
seconda volta consecutiva. Essendo una famiglia piuttosto influente nella
capitale britannica, se lo dovevano
permettere.
«
Comunque ragazzi, i miei in pratica starebbero organizzando una specie di party
di Halloween quest’anno, quindi… » sbottò Arthur, come se si trattasse di un
qualcosa di poco importante. E mentre lui parlava, quasi annoiato dal suo
stesso tono di voce, le dimensioni degli occhi degli altri ragazzi alle parole party ed Halloween triplicarono. E dato che la frase “i miei stanno
organizzando una specie di party”, se pronunciata da un Kirkland, si poteva
tradurre in “vi divertirete da matti” qualcuno non poté fare a meno di
trattenere un sorriso compiaciuto. Peccato che implicasse anche un voto quasi
obbligato nei suoi confronti… ma erano o non erano in una democrazia e quindi-
oh, giusto. God save the queen and
vote the person who invite you in a party!
« Se io mi travestissi da Capitan America e
trovassi dei costumi di Thor, Hulk, Vedova Nera e Iron Man potremo formare la
formazione completa dei Vendicatori… » pensò ad alta voce Alfred, mentre nella
sua testolina ovale si faceva spazio l’idea di appioppare ad Arthur un costume
da Loki e buttarci casualmente in martello di Thor sopra. Sarebbe stato un bel
party, senza dubbio.
« Dear, è più probabile trovare qualcuno
che si travesta da minipony o roba
del genere, invece che di quelle stupidaggini da fumetti americani… » commentò
acido il britannico. « O da tonno. » e qui ci fu uno scambio di ammiccamenti
tra lui e Sesel che, per tutta risposta, non riuscì a spiccicare parola ed
emise una risatina nervosa, con gli occhi fissi sul cemento e il desiderio di
scavare una buca dentro di esso e farne ostruire l’entrata, con lei
all’interno. Possibile che fosse così impacciata ed ottusa? La sua frustrazione
si tradusse in un’unghia affondata nel braccio di Luk, che imprecò qualcosa,
ringraziando che la sua lingua fosse sconosciuta ai più.
Il disappunto di Alfred, invece, si tradusse con
un’amichevole pacca sulla schiena di Arthur ed il suo british nose sull’asfalto. E il dolore di quest’ultimo si tradusse
con tante belle imprecazioni che arricchirono il patrimonio della lingua
inglese dei presenti. Una giornata all’insegna della lingua dei segni, non c’è
che dire. Ovviamente, il gentleman offeso, si liquidò stringendo il suo naso
dolorante e la groenlandese non poté far altro che dare il via alle riprese
delle scene nelle quali il protagonista non era presente, con l’amaro in bocca
per la spiacevole conclusione dei loro allegri discorsi sui pony. Ad ogni modo,
raccolsero molto materiale, scaricando ognuno la tensione sul proprio ruolo nel
lungometraggio. L’unica a non potersi scaricare fu la ragazza delle Seychelles,
che affondava le unghie nella superficie su cui sedeva, sfaldandole e
rompendole.
Finite
le riprese e scaricate le batterie della videocamera, ci fu la consueta ricerca
di Berwald di Luk, all’insegna dell’accidenti-non-sai-cos’è-successo e
dovevi-esserci, con risultati che andavano da un sì con la testa a qualche
mugugno poco comprensibile. E dato che questi incontri avvenivano solitamente
al massimo ad una ventina di metri da Tino, la ragazza si stupì che quel giorno
quello non facesse parte dello scenario o del riflesso negli occhiali di
Berwald.
«
Dicon’ ch’ stia ‘mpre ‘n camera, m’
no’ lo trov’, nott’ esclusa… »
mormorò lo
svedese, pensieroso. Sapeva di non rientrare nelle simpatie del
finnico, ma non
era mai stato ignorato a quel modo. E ovviamente non avrebbe potuto
chiedergli
il perché di quel comportamento, a meno che non volesse ottenere
altro
nervosismo da parte sua o uno sguardo a metà fra
l’annoiato della sua presenza
e l’irritato per le sue stupide
domande. Non voleva niente di questo. Il giorno in cui avevano ascoltato Mamma Mia degli ABBA assieme sembrava
così lontano…
« Se
riesco a beccarlo glielo chiedo… ultimamente è un po’ sfuggente, sì. E se lo è
per te figurati per me… » Pipaluk provvide ad aggiustare l’impostazione della
frase, ma quello fu più veloce a girare i tacchi che la sua lingua a formulare
altre parole. La seconda persona che se ne andava senza preavviso.
La groenlandese sperò che la cena potesse
cancellarle quel brutto sapore dalla bocca, dato che aveva finito i muffin, ma
non aveva molta fiducia nella cucina inglese, quindi sperò di riuscire ad
elemosinare qualche cioccolatino da Lily. Sempre che non fuggisse anche lei… non
avendo individuato nessun possibile possessore di leccornie in abbondanza fra
gli studenti che affollavano l’entrata, decise di tornare in camera, precedendo
di qualche minuto l’entrata della sua compagna di stanza. Venne salutata con un
lieve cenno della mano, mossa nel tempo necessario per riposizionarla
parallelamente al braccio in modo da buttarsi sul letto senza rompersi i polsi.
«
Brutta giornata, eh? » chiese, allentandosi il nodo della cravatta e sentendosi
incapace di gestire una situazione in cui lei rappresentava la tipica amica
idiota e felice che non riusciva a comprendere i sentimenti di nessuno. O forse
stava solo drammatizzando. Se avesse scritto i suoi pensieri in quaderno e
l’avesse lasciato casualmente aperto
nella pagina delle sue migliori riflessioni su di un banco probabilmente
qualcuno sarebbe riuscito a comprendere la sua complessa personalità, la sua
rara intelligenza e sensibilità e la sua vita sarebbe stata un tripudio di
rosee emozioni e delusioni violacee, efficacemente interpretate nei numerosi
quadri che le avrebbero dedicato, nelle sue autobiografie e, ovviamente, del
film sulla sua vita che sarebbe stato motivo di litigio fra i maggiori
produttori di Hollynuuk.
«
Alfred è un idiota. » mugugnò Sesel, che sembrava aver perduto il proprio
contagioso ottimismo. Addirittura le sue codine sembravano essersi afflosciate
per il dispiacere.
«
Quella era una pacca amichevole, poi se Arthur è un fuscello non lamentarti! »
lo giustificò Luk, lanciandole un cuscino sopra. « Dovrai accudirlo per tutta la vita, pensa! E
vivrà moltissimo! Fa un conto dei pannoloni che dovrai cambiare… io lascerei
perdere… » Sesel le restituì il favore, con un sorrisetto triste rivolto al
piumone.
« È
troppo importante per lasciar perdere… »
Ed è troppo
importante per aggiungere uno dei miei commenti stupidi.
«
Come intendi coprirti quelle sfaldature? » chiese ancora la groenlandese,
indicando le unghie dell’altra.
« Credo
che andrò da Mei… » rispose Sesel, alzandosi in piedi e aprendo la porta. « A
cena! » si liquidò. Pipaluk diede uno sguardo all’orologio che aveva al polso,
la lancetta verde dei secondi che continuava a girare, imperterrita. Mancava
circa una mezz’ora all’orario stabilito per la cena. Troppo poco per mettersi
decentemente uno smalto, se sognavi Hollynuuk e dovevi coprire le sfaldature di
una tua amica delle Seychelles. Forse per la famigerata Mei, taiwanese chic di
professione, no. La ragazza con gli occhi a mandorla era conosciuta in tutto il
dormitorio femminile per la sua capacità di rendere qualsiasi ragazza uno
splendore, possedendo un senso della moda innato e una trousse fornita di
qualsiasi trucco una donna potesse sognare. Insomma, le unghie di Sesel erano
in buone mani, essendo Mei ferrata anche nella nobile arte della manicure. Voci
sicure raccomandavano che creando un arcobaleno con sette colori dei suoi mille
smalti si arrivasse alla famigerata trousse d’oro, protetta da un leprecauno.
E, nonostante la storia del leprecauno l’attirasse, Luk non si era mai affidata
a lei. Non sarebbe stato un filo di matita sugli occhi a renderla interessante,
lei aveva il suo magnifico carattere. E poi si sentiva bella, era un peccato
che quasi tutti i ragazzi che conoscesse le chiedessero di presentarle le sue
amiche. Il problema era esprimere le sue qualità agli altri, se lo diceva
sempre. Ma tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare o, nel suo caso, una
capacità organizzativa che rasentava il last minute e ore ed ore di sproloquio.
Quindici minuti alla cena. Berwald aveva rischiato un infarto alla vista
dell’orologio appena uscito dalla doccia. Quindici minuti. Solo quindici. Tino
non c’era, non si era fatto vedere per tutta la giornata eccetto in classe e
sentiva il tremendo impulso di vederlo, tenerlo d’occhio ed averlo ad una
distanza ravvicinata. Ecco perché si sarebbe seduto accanto a lui, quella sera.
Si vestì il più velocemente possibile ed inciampò su di un foglio di carta
lasciato strategicamente sul pavimento marmoreo per ucciderlo. Fresco, vestito,
salvo e profumato, si diresse verso la sala da pranzo con l’agitazione celata
di chi sta per passare la serata con il proprio spasimante e che, se non si
sbriga, perderà il posto accanto a lui, perché non si tratta di un appuntamento
organizzato.
Cinque
minuti alla cena. Eduard ringraziò il cielo che Jett fosse già uscito e non
stesse saltando da un letto all’altro fingendosi qualche fantomatico
esploratore in un’oscura giungla. Stava cercando di trovare la forza di uscire
dalla camera, sedersi accanto a Tino e parlare. In uno sprazzo di coraggio,
aprì la porta e riuscì ad arrivare nella sala senza troppi problemi.
Due
minuti alla cena. Due persone si stavano sedendo accanto alla medesima. Due
paia di occhi si incontravano stupiti, spaventati, rassegnati. Due menti
iniziavano ad elaborare strane strategie. E la mente dietro agli occhi viola
nel mezzo non riusciva a capirci più niente.
Luk,
intanto, era contenta che la cena consistesse in patate al burro.
Cha-cha-cha! (?)
*entra ballando* è finita la scuola, me
ne sono accorta pienamente oggi – a quasi un mese di distanza, ovviamente –
mentre il mio fido gelato si scioglieva sulle mie (ancor più fide) mani. E dopo
uno sprazzo di improvvisa gioia e spensieratezza ho guardato il diario,
accorgendomi che sono nella cacca, pardon,
nei compiti fino al collo. Ma, come disse il timer di una bomba, c’è ancora
tempo e quindi non me ne sono preoccupata più di tanto.
Scherzo, l’angoscia mi è finita nelle
vene, unita al fatto che non riuscirò – a quanto pare, ma c’è ancora una misera
speranza – a connettermi per circa un
mese… D: non so come farò senza di voi e il web in generale, ma dovrò
sopravvivere. Il fatto che non sia su internet fortunatamente però include che
non aggiornerò, quindi le vostre menti saranno salve per un po’! Bello, no?
*ha, tipo, totalmente fatto delle rime, cioè*
Ah, se il capitolo vi piace non è merito
mio, ma di Marie che me l’ha betato. E di Kie che mi ha detto che Sesel non era
OOC, perché ero in crisi x°°° il titolo invece è mio e accetto tanti bei
pomodori in risposta. Anche se Marie avrebbe potuto farmi cambiare idea. È
COLPA SUA, GWEEEEE--- *corre via piangendo*
*ritorna* bella partita quella di ieri,
eh? Mi ero fatta il trucco tricolore e facevo ondeggiare la bandiera ogni
nanosecondo. NON VA BENE, NO. Dobbiamo rifarla, non vale. (?)
Misopony (pronunciare misòponi): odio
verso i pony. (???) voglio dei grossi pomodori su questa faccia.
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Capitolo 15 *** Capitolo 14 - Tristi patate ***
Tristi Patate
Chapter n°14: Tristi patate
« Cia’.
» non aveva idea di come cominciare un discorso, Berwald. Se già si trovava
impacciato con Tino per cause naturali, con Eduard tanto vicino la sua mente
non riusciva a fare altro che chiedersi perché diavolo fosse lì. Anche tutti
quei film mentali su di un omicidio fra le mura dell’istituto però non erano
male e, benché la sua immaginazione fosse sempre stata abitata dal Dottor
Berwald, non poteva dire di non avere il fascino dell’assassino. Oltre alle
porte della psicologia, dunque, gli si sarebbero spalancate anche quelle del
cinema e delle serie TV della serie C.S.I
Stoccolma.
Tutti
queste sue fantasie non fecero altro che compensare il silenzio imbarazzante
che intanto si era creato fra loro, interrotto solo dal tintinnare dei piatti
di ceramica sulla tavola, appoggiati con poca grazia dall’inserviente della
mensa, una triste donna di mezz’età con i capelli rinchiusi in una retina che
amava la TV e il suo fantomatico figlio trasferitosi in un qualche paese
esotico dopo aver guadagnato un mucchio di soldi. Il fatto che ne parlasse con
gli occhi luccicanti di una madre orgogliosa (col figlio al quale di questo
orgoglio materno non importava un bel niente, a quanto pare) faceva nascere o
compassione o scetticismo. La povera signora era tanto triste e sola che pur di
intavolare una misera conversazione con qualcuno era disposta ad inventarsi un
figlio ricco e famoso.
« In realtà quella del figlio è solo una
bugia creata dalla sua mente per cercare un minimo contatto umano, anche in
qualcuno di inesistente. Se continuerà così finirà con l’accudire bambole di
plastica, signora. » avrebbe detto il Dottor B., togliendosi gli occhiali
in maniera innegabilmente sexy e prescrivendo una cura miracolosa a base di
infuso di zucchero filato e fagioli magici. Ma non c’era tempo per pensare a
lui, adesso. Qualcuno doveva trovare un modo per cominciare la conversazione.
«
Patat’. » fece lo svedese, cercando di apparire la persona più felice del mondo
alla vista del tubero. Purtroppo non era né tedesco né un irlandese vissuto
durante la Grande Carestia, quindi la
cosa non gli riuscì molto bene. O meglio, non gli riuscì perché era
semplicemente lui.
« Non
ti piacciono? » chiese Eduard con un filo di voce. Perché Berwald era lì?
Proprio quella sera? Ne avrebbe avute milioni da passare nella vita, non poteva
permettersi di rovinare quelle degli altri. In un momento di particolare odio
verso il rivale sperò che fosse
inconsciamente allergico alle patate, ma che quelle lo ispirassero tanto da
fargli fare un scorpacciata. E anche se dal tono di voce non sembrava tanto
contento, gli sarebbe bastato un semplice assaggio per lasciarlo secco, dato
che la sua allergia sarebbe stata ovviamente
caratterizzata da morti fulminanti. « C’è il burro… » aggiunse, sperando che
magari fosse intollerante al lattosio. Combinazione letale.
Non parlavo con
te. Lascia parlare Tino. E mi piacciono le patate, sì. Ma prima mangiale tu,
così potrai tapparti quella dannatissima bocca.
Amore
e odio nascono e crescono in tempi notevolmente veloci, si sa. Anche
l’imbarazzo però non scherza, notando la gote del finnico, sempre più purpurea.
Perché era proprio là in mezzo? Perché Luk non stava tenendo Berwald in
ostaggio? Se l’era mangiata pur di raggiungerlo? E perché Eduard si era deciso
a parlargli (non ancora, ma quella probabilmente era la sua intenzione) proprio
quella sera? Non potevano mettersi
d’accordo per vederlo, come fanno tutte le coppie divorziate?
Un momento.
COSA. STO. PENSANDO.
«
A te piacciono le patate, Tino? » domandò ancora Eduard, prendendo un altro po’
di coraggio, cosa che lasciò lo svedese interdetto. Non poteva parlare in sua
presenza, non doveva. Lui era il
grande Nanuk che aveva spaventato intere legioni di studenti, che metteva in
soggezione con un solo sguardo. Nessuno poteva parlare con Tino in sua
presenza. Nessuno.
Berwald usa sguardo omicida.
« Non
immagini quanto… » rispose Tino, girandosi dalla parte dell’Estone e cogliendo,
più che il significato letterale, l’altro senso della domanda, pensando che
sarebbe stato un momento magico quello in cui i ragazzi che aveva ai lati
avrebbero esclamato in coro “anch’io!” e se ne sarebbero finalmente andati,
lasciando spazio a compagn(i)e più gradite.
Berwald fallisce. Berwald si evolve in Svedese
Triste!
Era
ancora più doloroso di non trovarlo mai in camera. Lo ignorava per dare
attenzione a qualcun altro, ecco la cosa peggiore. Qualcosa di brutto e
mortificante gli invase il cuore, sembrando volerlo tenere per sempre in quella
morsa. A meno che Eduard non sparisse all’istante, ovvio. Era lui il problema.
E Berwald non ricordava di aver mai provato un odio tanto profondo nei
confronti di qualcuno in maniera tanto infantile ed, in certo senso, giustificata. Spostò lo sguardo verso la
folla per far sbollire un po’ la rabbia e non posare il suo sguardo glaciale –
avrebbe desiderato che fosse incandescente, in realtà – su qualcun altro e
lasciare Tino più tranquillo. Si capiva dal modo sconsolato con cui fissava il
piatto che non gradiva tutte quelle attenzioni. Mentre la vista indagava tra i
volti dei commensali, qualcosa gli sfiorò la manica della giacca. Si stava strusciando.
Chi osa?
« Ciao!
» Luk spostò a sua volta lo sguard+-+o verso Eduard e Tino, alzando una mano in
segno di saluto. Ovviamente non ricevette alcuna risposta, se non un sorrisetto
nervoso di Tino. Eduard era troppo concentrato per dire alcunché. Probabilmente
stava scaricando dei dati nel suo cervello usufruendo del wi-fi.
Come
chiarirsi con il tuo amico e uccidere gli svedesi di troppo.zip – file in
download, attendere…
« Sappi
che ti sto inviando tutta la mia energia positiva, Nanuk. » lo informò la
groenlandese, con tono serioso. « Quindi se sentirai scorrerti in corpo una
forza prorompente, beh, sono io! » si batté la mano destra sul petto, orgogliosa.
Berwald ignorava ancora (e sempre avrebbe ignorato) i motivi del suo arrivo e,
soprattutto, dell’improbabile invio di energia. Doveva monitorare i movimenti
degli altri due, con attenzione. Fino a quel momento non c’era stato nessuno
scambio di sguardi complici, la situazione era rimasta stabile. E il fatto che
la stabilità coincidesse con sguardi imbarazzati, discorsi appena abbozzati e
poi subito troncati, sorrisetti nervosi e così via non faceva sperare in uno
sviluppo migliore, né per Eduard né per Berwald. Almeno i due contendenti
avrebbero avuto come premio di consolazione la sconfitta dell’altro. Meglio di
niente, ma davvero poco.
Eduard
si sentiva terribilmente fuori posto, in quello scenario. Era al lato sinistro,
all’esterno di qualcosa che sarebbe
potuto accadere, qualcosa che sarebbe potuto andare avanti. Troppo lontano da
un risultato che non sarebbe riuscito a raggiungere, dopo tutti gli anni di
confidenze, risate e amicizia. Un’amicizia che magari ad occhi esterni era
potuta sembrare indissolubile, una di quelle amicizie che sarebbe finita –
almeno fisicamente – con un fiore poggiato accanto ad un epitaffio, con i
racconti di un vecchio nonno, le battute di circostanza, “amici come quelli non
se ne vedono più!”. E bene o male era stato così, per i primi tempi. Amicizia,
pura e semplice, disinteressata. Era
stato lui a renderla qualcosa di diverso, da quando aveva iniziato a desiderare
ben altro che passare un po’ di tempo in più con il finnico, da quando
sfiorarlo per un semplice gioco era diventato un piacere che andava ben oltre i
canoni di un’amicizia normale, per
così dire. E Tino non se n’era accorto, fino al momento in cui le loro labbra
erano arrivate a sfiorarsi, fino a quando le braccia di Eduard non l’avevano
stretto un po’ di più, finché due occhi verdi non l’avevano guardato,
speranzosi di essere stati compresi una volta per tutte. Credendo che tutti
quegli sguardi, quegli invisibili segnali avessero fatto accendere una
scintilla in lui, credendo che sapesse.
E adesso quegli stessi occhi lo guardavano come lo avevano sempre guardato da
un anno a questa parte. Rassegnati, con una minuscola scintilla di speranza
che, però, adesso tardava a farsi vedere. Non brillavano più.
«
Berwald. » lo svedese si girò di scatto, tant’era diventato impaziente di
sviluppi. Ebbene, si arrendeva? Oppure no? Che diavolo voleva, adesso? Perché
Tino continuava a rigirare la forchetta tra le patate, disinteressato ai loro
discorsi? O faceva finta? O non aveva sentito? Nonostante fossero tanti i
quesiti che lo attanagliavano, si limitò a rispondere con un grugnito
disattento e lo sguardo ancora posato su qualcosa di vago. « Non importa. » e
qui gli sorrise. Lo scandinavo restò per un po’ ad esaminarne il sorriso. Era
stranamente dolce e vero. Perché non gli importava? Si riferiva a Tino? E
perché Luk stava stranamente zitta? Dov’era tutta quell’energia positiva che
gli stava inviando? Stava solo iniziando a innervosirsi, con quello sguardo
mellifluo davanti. Eduard sembrava un ebete, perché non si decideva a darsi un
contegno e ad andarsene, accettando la sconfitta.
Non importa.
Forse
non gli importava di essere sconfitto o di vincere. Stava semplicemente
lasciando perdere. Si era arreso, ma quello sguardo era stranamente sereno.
Perché si stava alzando, perché salutava Tino e Luk? Perché salutava anche lui?
Non erano nemici, fino a prova contraria? Stava lasciando perdere prima di iniziare?
O aveva già iniziato? Lo sguardo di Tino si posò sullo svedese per un attimo,
incredulo. Credeva che si sarebbero battuti,
in qualche modo. Che avrebbero cercato di aggiudicarsi le sue attenzioni,
mettendolo più in imbarazzo di quanto non fosse già. Si sarebbero lanciati
arcigni sguardi di sfida e si sarebbero dati appuntamento all’alba, in un posto
abbastanza lontano da occhi indiscreti, per passare alle mani. Si rese
improvvisamente conto quanto fossero egoistiche queste sue teorie. Tutti a
battersi per lui, il centro del mondo. E invece Eduard era andato via,
tranquillo, e Berwald fissava il burro fuoriuscire dalle patate ormai fredde.
L’inserviente della mensa passò, sottraendogli le patate da sotto il naso e
mettendogli davanti uno spezzatino. L’espressione non era cambiata, però, e le
sue guance sembravano essersi tinte di un colore più acceso. Si girò di slancio
verso di lui, fulminandolo con lo sguardo. Tino iniziò a mangiare la carne.
«
Eduard se n’è andato, Nanuk! » esclamò Luk, cercando di attirare la sua
attenzione. « Che gran botta di fortuna, eh? » e qui s’infilò in bocca un grande
pezzo di carne, cominciando a masticare con lena. « Un po’ stopposa, non credi?
»
E
quindi quel grande turbinio d’emozioni, quegli sguardi e quello strano sorriso
rassegnato, erano rimasti sconosciuti al resto? Nessuno si era accorto di
niente? Era stato un evento intimo, distaccato dagli avvenimenti del mondo
circostante.
« No’
ho ‘na gran’ fame. » fece lui, voltandosi poi verso Pipaluk. « E ‘piegami ‘sto
fatto de’ energia positiv’. » si interruppe un attimo. « Spiegam’. » Luk
sorrise al tentativo dell’altro di rendere più comprensibile il proprio
accento.
« Si
vedeva che eri in difficoltà, Nanuk. Fin quando saremo sochi dovrò spalleggh-
insomma, aiutarti. » affermò lei, con le mani incrociate davanti al petto. Era
riuscita ad evitare una caduta nel suo mirabolante accento, quindi si sentiva
molto orgogliosa di sé. Per l’altra pazienza, ci sarebbero state altre
occasioni.
« No’
ho bisogn’ d’aiuto. » mugugnò lui. Ci mancava solo una tappa che gli facesse da
balia. Carino da parte sua, ma alquanto fastidioso per lui.
«
Questo l’hanno detto un sacco di persone prima di morire, Nanuk, eh-eh! »
ridacchiò per un po’, contenta della battuta ad effetto. « Ma forse per ghli orsi polari non vale! » colpo di
glottide per finire in bellezza.
Lo
stesso giorno Eduard fece richiesta per ritirarsi da scuola alla fine del
quadrimestre e tornare in Estonia. La segretaria lo trovò stranamente
tranquillo.
I’m back!
Salve, mie care carissime lettrici,
lettori e procioni! (?) Si vede che l’Inghilterra m’ha fatto male, eh…
fortunatamente sono tornata sana, salva e affamata, soprattutto. E vorrei ben
dire, dopo due settimane di mele, riso, verdure lesse e pollo arido… vi dirò,
il pane-con-sopra-salsa-di-pomodoro-e-mozzarella-che-doveva-essere-pizza era
buono, già. E i tizi della mensa simpatici. E il professore figo. Dovrei
scrivere una mail alle mie amichette del Kazakistan (alzi la mano chi lo
conosceva già!) e anche alla francese, sennò credo che penseranno che io sia la
solita italiana pesaculo che le ha già dimenticate. Beh, tra un po’ raggiungerò
le palle di polvere nell’esotica Metaponto (vale la stessa domanda riguardante
il Kazakistan x°) e, lì, a fare da cibo alle zanzare e alle meduse, avrò un bel
po’ di tempo per scrivere… che dire, mi siete mancate. Tanto. <3 E adesso passiamo alla
pallosa parte della fan fiction, yeah… devo farvi un annuncio che vi riempirà
di gioia, già. Avete presente il fatto che le cose belle finiscono e bla bla
bla? Beh, lo fanno anche le cose brutte, quindi tra un paio di capitoli (non di
meno, non di più, a meno che non succeda qualcosa di non previsto) la ff
volgerà al termine, tra costumi, Luk e milkshake. E vi ho detto tutto il
dicibile. (?)
Baci al gusto di fish ‘n chips – che poi,
le squame di pesce si trovano in parecchi rossetti!,
Kaida_ _ _
P.S.: Che titolo figo, eh? Eh...
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Capitolo 16 *** Capitolo 15 - This is Halloween! ***
Zucca
Chapter n°15: This is Halloween!
I giorni che separavano gli studenti del college dall’evento
più atteso dell’autunno – la festa di Halloween a spese dei Kirkland,
ovviamente – passarono velocemente, tra interrogazioni, primi compiti in classe
e, per quanto riguardava Luk, corse a rotta di collo per evitare di far tardi
all’ennesimo appuntamento con la sua troupe, giù nel cortile. Appuntamento
organizzato da lei, poi. E l’idea di mettersi una sveglia sul cellulare oppure
di attaccarsi dei post-it in fronte non la sfiorava minimamente, mai.
L’aria autunnale
cominciava a farsi sentire, col sole che scivolava dietro i palazzi senza
neppure aver avuto il tempo di riscaldare alcunché e le siepi che iniziavano a
spogliarsi. E la pioggia che batteva più che mai, ovviamente. Più volte si
erano ritrovati a dover invadere qualche stanza per girare le scene
all’interno, visto che non c’era stata altra scelta.
Ma andiamo al dunque. Era quasi la sera di Halloween e l’istituto
sembrava essersi svuotato del tutto, con quasi tutti i ragazzi stipati nelle
loro stanze a sistemarsi i costumi. A passeggiare nei corridoi del dormitorio
femminile, si sarebbero potuti sentire i vestiti frusciare sui loro corpi,
mentre roteavano davanti ad un qualche specchio, in un turbinio di “Come mi
sta?” o “Non avrei dovuto mangiare tutti quei muffin…”.
Quella che proprio non si faceva problemi sui muffin che ingurgitava
abitualmente, era Luk, spaparanzata sul proprio letto, a fissare Sesel che si
infilava in un vestitino adorabile, modificato solo qualche tempo prima dalle
abili mani di Mei – eh sì, la taiwanese ci sapeva fare anche con ago e filo –
e, secondo il parere della groenlandese, davvero anana. L’isolana non faceva altro che sorridere nervosamente,
rimirando la sua immagine nello specchietto messo strategicamente sulla
finestra in modo da potersi guardare interamente. L’abito di acetato azzurro,
monospalla, le stava alla perfezione e le piccole paillettes sulla spallina
destra sembravano proprio delle piccole squame, che diminuivano in un effetto
di dissolvenza, diventando pian piano che si scendeva sempre più rade e infine
lasciando l’acetato nudo. Sorrise alla sua immagine riflessa e le sorrise anche
Pipaluk, nella sua maglia di lana bianca e con un paio di orecchie da orso in
testa, applicate su di un cerchietto scuro che si confondeva col colore dei
capelli. Non era poi così chic come
si era immaginata nei suoi viaggi mentali verso le scintillanti serate di
Hollynuuk, anzi. Eppure ci ho provato,
continuava a dirsi, sono i vestiti che mi
rifiutano. Sarei una femme troppo fatale, con uno di quei cosi addosso. Potrebbero mettermi in prigione,
chissà. Eppure, nel suo inconscio, sapeva che avrebbe dovuto iniziare a
ripiegare sullo sgranocchiare cereali integrali e a correre decentemente in
palestra, anziché camminare. Quella sua sorta di goffo travestimento da orso
polare della serie non-entro-nei-vestiti-ma-ho-fantasia-da-vendere
però le piaceva. Le sue orecchie erano così morbide! Iniziò ad accarezzarsele,
allontanando i tristi pensieri su di un possibile abbandono dei muffin. Ma
senza di lei cosa avrebbero fatto, tutti soli? Chi li avrebbe rubati e portati
con sé in lungo e in largo? Chi avrebbe fatto conoscere loro il mondo, usandoli
come spuntino nelle uscite a Londra? Chi?
Lo squittire nervoso della ragazza in acetato la ridestò, non riuscendo
comunque ad allontanare la sua mente dal pensiero di un bel muffin al
cioccolato. « E poi, Luk, nel caso si vestisse da figo alla festa – cosa che
farà! – che diavolo dovrei dire, eh? Non posso sembrare una maniaca! Che
faccio, Luk? » le mani tra i capelli, i capelli tra le mani, l’espressione
persa da giovane innamorata. A Luk brontolò lo stomaco. Il muffin doveva
sentirsi solo…
« Dovresti spiegargli che, ehm… lui ti piacerebbe comunque anche senza
quei vestiti, sempre e comunque! Lo ameresti anche se fosse un topo morto in un
sacco di patate, perché è lui! Leggi Twilight e fatti venire qualcosa! »
affermò lei, in piedi sul letto e con il dito indice rivolto verso la lampada
sul soffitto.
« Twilight, libri americani… che dovrei farmi venire, un accidenti? »
chiese lei, sarcastica.
« Mi fai paura, smettila! Questo paese e quel tizio ti stanno rovinando!
Torna a pescare e lascia perdere l’istruzione in questo paese senza sole,
donna! » la groenlandese alzò le braccia al cielo – in quel caso, al soffitto
–, esasperata. « Se continui così ti cresceranno le sopracciglia! » l’altra,
per tutta risposta, esplose in una risata cristallina. Davvero attraente. Luk
si morse un labbro. Arthur, a sentirla, sarebbe caduto ai suoi piedi. Ovvio che
l’avrebbe fatto. Sesel era carina, simpatica e abbronzata, con i capelli setosi
e profumati. In quell’abito era semplicemente magnifica e poteva contare su di
una risata sexy. Lei cos’aveva? Un paio di orecchie di peluche e dei rotolini
indesiderati da nascondere.
« Luk, sei una sagoma! » continuò la bruna. « Perché non hai un
fidanzato? »
Lei fece per aprire bocca, poi se ne uscì con un “Capita anche ai
migliori!” e andò in bagno per esaminare la sua immagine riflessa nello
specchio. Niente bugie, niente Sesel che dice che sei adorabile con quelle
orecchie. Solo una superficie trasparente e fredda che ti mostra come sei in
realtà. Una faccia tonda, due occhi troppo piccoli e, nell’insieme, una ragazza
che dovrebbe far ricorso ad un lifting – o alle mani di Mei. Mei che,
sicuramente, a quell’ora era chiusa in bagno con la sua inseparabile trousse e
non aveva tempo per nessuno. Provò a farsi una treccia, ma era praticamente
inutile con i capelli che al massimo le accarezzavano la base del collo. Forse
se si fosse data per malata nessuno avrebbe notato la sua assenza. Forse, ma
avrebbe lasciato i suoi migliori soci – vedesi Sesel e Berwald – senza la sua
ispiratrice presenza. E anche se, facendo due più due, non aveva fatto poi
molto per loro, si sentiva comunque una traditrice ad abbandonarli così, da
vigliacca. Si sarebbe potuta sedere vicino al tavolo del punch mandando la
propria energia positiva da lì e nessuno l’avrebbe notata, no? E avrebbe
rimediato un sacco di punch. Magari avrebbe trovato anche qualche alcolico
posizionato a tradimento da qualche studente scaltro, chissà… e si sarebbe
goduta tutta la festa da spettatrice passiva, monitorando i suoi protetti. Non
sembrava poi così male, come piano. Si sforzò di sorridere all’immagine
riflessa, che– chi l’avrebbe mai detto! – ricambiò. Uscì dal bagno come se
nulla fosse accaduto, a testa alta.
« Mi permetta di allontanarmi dalle mie stanze, Miss Tuna… » fece, indietreggiando mentre si abbassava in una marea
d’inchini. Sesel ridacchiò. « Mi sposto nel dormitorio maschile. » e, detto
ciò, chiuse la porta dietro di sé. La ragazza sgranò gli occhi per la sorpresa,
e non perché fosse proibito. Era possibile farlo, ma per questioni d’etichetta che pochi – ragazzi
particolarmente avventurosi e coppiette – avevano deciso di contestare, i
dormitori femminili e maschili agli occhi degli individui di sesso opposto
apparivano categoricamente off limits.
E anche per Luk, in realtà. Era la prima volta che si avventurava tra quei
corridoi, mentre si chiedeva se ci fossero russi spaventosi che ne
proteggessero le porte o che sbucassero dagli angoli, però non voleva stare
nella sua stanza un minuto di più. Chiamasi complessi di inferiorità
improvvisi.
Uno, due, tre… qual era il numero della stanza di Berwald e Tino? Il
finlandese doveva avergliene parlato qualche volta, no? Sfiorò il mogano di una
porta, poi ritrasse subito la mano spaventata, sentendola vibrare. Qualcuno ci
doveva aver sbattuto, e con forza. Perché sembrava tanto impaurita? Era solo
una porta e qualche cretino ci aveva sbattuto accidentalmente. Nessun russo in vista. Era un semplice dormitorio,
cavoli. Con ragazze un po’ meno intelligenti e mutande più capienti,
nient’altro. Non aveva bisogno di un coltello stretto nella mano per cavarsela.
Nessuna corsa che avrebbe compromesso la sua reputazione.
Quattordici, quindici, sedici…
« Mh---! »
Un solo, unico mugugno. Doveva essere Nanuk, per forza. Spalancò la
porta con tutta la sicurezza del mondo. Sicurezza che andò a farsi benedire
quando le si parò davanti un tizio quasi in mutande con una sorta di bizzarro
copricapo provvisto di corna sulla testa. Tizio che, poi, conosceva. Tizio che
esclamò “Bloody Hell!” cercando di coprirsi con il cuscino, come se fosse una
ragazza sprovvista di reggiseno. Tizio che aveva organizzato il party e che si
stava trattenendo dallo scattare per chiuderle la porta in faccia. Tale Arthur
Kirkland. Ah, i casi della vita. In compenso adesso aveva una storia in più da
raccontare davanti al fuoco.
« Ah, regista! » il responsabile del cappello si sporse verso di lei,
con un sorriso beota stampato in faccia. Almeno non aveva sputato qualche
imprecazione. « Quand’è stata l’ultima volta che ti sei trovato una ragazza in
camera da letto, Arthur? » lo punzecchiò. Quello si mise una camicia in fretta
e furia e si girò dall’altra parte.
« Tu sai dov’è la stanza di Tino e… Berwald?
» chiese la groenlandese in un soffio. Era strano chiamare lo svedese per nome
e non si era mai trovata davanti ad una reazione tanto esagerata. In fondo era
un maschio, Arthur. Tutto quel macello l’aveva messa in imbarazzo.
All’americano parve strano vederla così. Di solito erano allo stesso livello:
due adorabili simpaticoni. Sembrava Sesel, adesso.
« La ventitré, mi pare… » poi iniziò a socchiudere la porta, in seguito
agli ordini del britannico, che assomigliava ogni secondo di più ad una vecchia
bisbetica. « Scusa, sua maestà deve adempire al rito della vestizione… » il
copricapo cornuto gli atterrò in testa, un chiaro invito a sbrigarsi. « … Belle
orecchie! » poi chiuse definitivamente l’uscio.
Ventitrè,
ventitré. Cerca di non scordartelo, Luk. Non vorrai aggiungere altre figuracce
alla tua bella lista, no?
Ventuno, ventidue, ventitré. Fece un
gran sospiro e bussò. Stavolta ebbe in risposta un altro mugugno, ma di quelli
autentici.
« Nanuk? » chiese, aspettando una risposta. Quello – perché ci aveva
azzeccato, stavolta –, dall’altra parte della porta, inizialmente non riuscì a
collegare il suono squillante di quella voce a nessuno. Poi la sua mente corse
alla groenlandese che tanto le era stata appiccicata. La socia. Era lì, quindi?
« L’k? » buffo chiamarla col suo soprannome. Lei annuì, pretendendo che
Berwald avesse degli occhiali a raggi X per vederla. Dopo un po’ assentì a
voce, iniziando a premere con forza sulla maniglia. Chiusa.
« D’bbiam’ far’ la d’ccia. » spiegò l’altro, adocchiando la maniglia che
si muoveva su e giù, ininterrottamente. La groenlandese bussò un’altra volta.
Che diavolo voleva?
« Ma io devo entrare… »
avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non restare lì fuori, alla mercé di…
nessuno, in pratica. Però voleva starsene chiusa da qualche parte, senza Sesel
che le chiedevano se stessero bene e senza inglesi urlanti. Ovunque. Perché
aveva scelto proprio quella camera, poi? Che avrebbe potuto fare? Che avrebbe dovuto fare, meglio. Sapeva quanto lo
svedese gioisse della sua “affettuosità”, ma era comunque il suo socio. E Tino
il suo migliore amico, nonostante fosse davvero sfuggente negli ultimi tempi.
Scrollò le spalle. Il fatto che tu sia socia o amica di qualcuno non ti obbliga
ad irrompere nella sua camera quando non riesci a reggere il confronto con la tua
compagnia di stanza.
« Beh, non vorresti mica lasciarmi qui fuori, no? » riprese, un
sorrisetto nervoso sulle labbra. Il silenzio che ci fu dopo non le augurava
nulla di buono. A torto, perché qualche secondo dopo si ritrovava sul letto
comodo di Tino, ad esaminare un copricapo vichingo dal quale pendevano lunghe
trecce rosse. Di Berwald, a quanto pare. Tributo a Pippi. Magari Tino avrebbe
seguito il suo esempio travestendosi da ippopotamo bianco¹, chissà. Ed in
effetti ci aveva pensato, peccato che in Gran Bretagna non fossero così tanto
famosi…
« Sesel è meravigliosa. » disse Luk, mettendosi l’elmo in testa. « Io
sono un orso. Un orso che ha mangiato troppi muffin. » sospirò, girandosi i
pollici.
Ci mancava l’inuit
depressa, ecco.
« Gl’ ‘rsi son’ figh’. »
tentò Berwald. « Vad’ a
d’cciarm’… » al
contrario della sua controparte immaginaria, non è che Berwald
fosse un gran
consolatore. E poi c’era Tino, lì. Si sentiva a disagio.
Si chiuse nella
doccia, aprendo il getto dell’acqua calda. In pochi secondi era
immerso nel
mondo nebbioso e avvolgente della doccia. Come ogni essere umano,
pensò per
buona parte del rito. Magari se si
fosse dimostrato più affettuoso con Luk Tino avrebbe capito una volta per tutte
che era un adorabile orsacchiotto svedese e l’avrebbe sposato tra qualche anno
o giù di lì… perché non ci aveva pensato prima? Magari Luk aveva messo su la
commedia dell’amica depressa per dargli una possibilità in più… ma avvisarlo
prima no, eh? Mandargli un po’ di energia positiva per avvertirlo, come alla
cena? Appoggiò la testa sul vetro della doccia, il getto – ormai bollente – gli
ustionò la schiena. Si allontanò di scatto dallo schizzo, spalmandosi sulla superficie trasparente e piacevolmente gelida.
Forse aveva ancora una possibilità, però. In fondo Eduard gli aveva spianato la
strada, ritirandosi a quel modo. Alcuni dicevano che si sarebbe addirittura
ritirato tra qualche mese per motivi ignoti.
Chiuse l’acqua, sgusciando fuori dalla doccia ed avvolgendosi immediatamente un
asciugamano in vita. Era nudo come un verme e Luk sarebbe potuta entrare da un
momento all’altro. O forse non era tanto stupida e pervertita. Ma non avrebbe
comunque corso il rischio. Si mise anche le mutande, prima di sbucare fuori
dalla porta.
« … mica male, eh? » fischiò la groenlandese, ammiccando a Tino. Quello
si girò dall’altra parte. Berwald raccattò il costume da vichingo per poi
richiudersi nuovamente in bagno.
« L’hai spaventato. È come un cerbiatto. » osservò il finlandese, per
poi estrarre dalla tasca dei pantaloni una bandana alquanto piratesca ed
esibire uno dei suoi migliori sorrisi. « … Io sono un pirata! »
« Ed io sono un orso che si ubriacherà di punch! » riprese lei,
rivolgendogli un altro sorriso.
« Dai, Luk, sei una bella ragazza… » Tino le diede un buffetto. « Devo
stare qui a propinarti quelle frasette smielate che si condividono su facebook
per farti contenta? »
« Nah! » Luk si lasciò andare, atterrando di schiena sul letto. « Sta un
po’ con Nanuk, stasera. È proprio un bel vichingo! » dettò ciò, saltò in piedi
ed in poco tempo fu sulla porta. « Fallo per me, Tino! »
« Ma pensa a rimorchiare! » La porta si richiuse, un cuscino ci sbatté
contro, cadendo rovinosamente sul pavimento. Sul viso del ragazzo comparve un
sorriso amaro. Probabilmente anche lo svedese avrebbe pensato a rimorchiare. E lui conosceva anche il
suo obiettivo.
L’anno prima ci era andato con Eduard, alla festa in maschera. L’avevano
organizzata nel periodo di Carnevale ed era stata una sorta di “regalo” dall’istituto
agli studenti, poiché quello stesso anno uno di loro aveva raggiunto uno dei
primi posti (se non proprio il primo) in un concorso d’informatica. Ed non era
riuscito a qualificarsi per una manciata di punti, causa notte in bianco per
cercare un film che Tino doveva assolutamente
vedere. E aveva cercato un download decente in un disperato tentativo di
strappargli qualche altro sorriso. Al finnico, però, disse che si era trattato
solo di un mal di pancia per quei ggshhgs che gli aveva preparato. Quella sera,
con una maschera sugli occhi, ci avevano riso su, facendo il brindisi col punch
e aspettando che qualche ragazza in minigonna si abbassasse per allacciarsi le
scarpe. L’estone aveva appena cominciato la sua recita. Faceva un po’ male, ma
forse ce l’avrebbe fatta. In fondo aveva ancora qualche anno, per provarci!
Mentre adesso si ritrovava con i giorni contati e la valigia che gli ricordava
quel che aveva fatto, dietro la porta. Ogni tanto, quando la sbatteva troppo forte,
il suo bagaglio – ancora vuoto – cadeva
con un tonfo sordo, facendolo quasi trasalire. E poi si metteva la testa tra le
mani e si scompigliava i capelli, chiedendosi perché. Perché a lui, perché a
lui e Tino. Eppure andava così bene,
prima.
Tino si chiese da cosa si sarebbe vestito il suo amico, quell’anno. Si
chiedeva se avrebbe partecipato alla festa, se sarebbe restato da solo o con
Raivis, quel tipo lì che gli stava sempre appiccicato da un po’. Uno di Riga, a
quanto pare, conosciuto per il fatto che tremasse continuamente e non facesse
altro che dire cose a sproposito, pur tremando. Sentì uno strano sentimento,
quasi un malessere, che si infiltrava in lui, al pensiero del ragazzino biondo.
Gelosia, perché Eduard era suo amico
o almeno lo era stato. Invidia nei confronti del lettone, perché c’era lui
accanto ad Ed, adesso.
Qualcosa gli frusciò accanto. Alzò piano lo sguardo per accorgersi
dell’enorme vichingo che lo sovrastava, le trecce color carota che gli
arrivavano alle spalle. Inquietante.
« T’ no’ d’vevi far’ ‘l pirata? » chiese, sistemandosi meglio il
cappello.
« Non ho molta voglia di travestirmi da idiota, oggi… »
« Fa f’nta ch’ sia d’mani. » la sua poco nota verve svedese ebbe un
certo successo, perché Tino si mise addirittura la benda nero per coprirsi un
occhio, oltre alla bandana. Un minuscolo, inaspettato successo. Il finnico,
dallo specchio, riuscì ad intravedere un debole sorriso.
*
* *
Halloween non era mai stato così sfavillante. Mentre Luk alzava in segno
di brindisi il suo bel bicchiere colmo di punch, il suo sguardo abbracciava
l’intera sala. Enormi tavolate ripieni di qualsiasi tipo di dolciumi esistenti
nei quattro angoli, tutti in tema rigorosamente mostruoso. Spostando lo
sguardo, poteva vedere una sorta di teschio di ghiaccio dal quale sgorgava
punch rosso carico, che a sua volta si riversava in capienti recipienti di
vetro colorato, a forma d’alambicchi. A volte sul cranio trasparente si
infrangevano fasce di luce lanciate dai lampadari, riflessi talora da alcune
palle di luce psichedeliche.
« Alla mia salute! » brindò, prendendo un lungo sorso della bibita, a
quanto pare analcolica. Meglio di niente, comunque. Doveva distrarsi dalla
sfavillante Sesel e dai muffin glassati ad arte a pochi metri da lei. E,
soprattutto, a quello che teneva in grembo. L’aveva morso giusto una volta, un
pochino. E ogni tanto lo sbocconcellava, trastullandosi nella convinzione che,
mangiandolo così, non sarebbe ingrassata. Ma la sua consistenza soffice e
cioccolatosa, contrastante con i croccanti ragnetti di zucchero sulla sua
sommità ricoperta di glassa candida, era semplicemente irresistibile. E poi il giorno dopo avrebbe cominciato la dieta,
sicuro. Qualcosa di peloso, saltellante
ed australiano le sfiorò la manica lanosa.
« … Jett? »
*
* *
Sesel era già dietro al suo Arthur, vestito in perfetto stile Harry
Potter. Non gli mancava neppure la sciarpa, ovviamente da Grifondoro. Appena
arrivata, la brunetta aveva attirato a sé i più entusiastici complimenti,
soprattutto da parte di Mei, in un sinuoso abito rosa che le aveva aggiudicato
le simpatie di Feliks, il quale non aveva fatto altro che saltellarle intorno
per tutto il tempo. Era un adorabile paggetto medievale, con le maniche bianche
e cascanti e tutto il resto, calzamaglia compresa. Toris, che cercava di
tenerlo calmo, la curva del sorriso perennemente tremolante, aveva optato per
l’avvincente accoppiata jeans & maglietta, con un’enorme stampa del drago
di Varsavia. Inutile spiegare che fosse stata indossata sotto pressione del
polacco.
Il vichingo cercava di parlare con il pirata in una continua risacca,
allontanandosi e poi avvicinandosi di nuovo. E il finnico non faceva alzo che
alzare la testa per rispondere con sufficienza allo svedese e per cercare il
vecchio amico. Come se non lo avesse già
visto, in un angolo troppo lontano a parlare con Raivis. Ma lo cercava
nuovamente, sperando di cambiare la realtà. Sperando che si avvicinasse o che
muovesse il braccio ed alzasse la voce per chiamarlo, per farlo avvicinare.
Niente di niente. Solo un gigante che scandiva le parole a fatica, che non
faceva altro che stargli appiccicato, che non perdeva la speranza.
Ed in effetti, se ci pensava, neppure l’estone aveva perso la speranza e
gli era stato vicino, sognando che prima o poi il finlandese avesse capito.
Sognando, appunto. E scontrandosi con la realtà quel giorno in cui tutto si era
spezzato, quel giorno in cui aveva capito che un anno passato a sognare, a
provarci, non erano valsi a niente. Doveva agire,
evitandosi tutte le sofferenze. Sofferenze che l’avevano colpito come un
fulmine a ciel sereno, che avevano colpito entrambi. Solo perché non si era
deciso, aspettando che l’altro capisse. A pensarci, questo andirivieni dello
svedese era piuttosto coraggioso. Almeno ci stava provando, lui.
Silenziosamente, però stava sempre facendo qualcosa di concreto, nonostante
sembrasse uno di quei bambini che, finiti i biscotti, tornassero comunque a
frugare nella credenza, sperando che nuovi biscotti apparissero magicamente,
pronti per essere mangiati.
« Berwald? » lo chiamò, non appena si fu avvicinato. Non l’aveva mai
chiamato con quel tono quasi entusiasta,
che per lo svedese era tutto nuovo. E piacevolissimo. « Lo vuoi
un muffin? » chiese, poi.
Luk dev’essersi impossessata della sua mente. Non ci
cascherò.
Però nel frattempo cascarci e
seguirlo come un cagnolino si era mostrata una tattica vincente, poiché il
finlandese gli aveva offerto un muffin – uno di quelli che Luk stava bramando
dall’altro lato della sala, per intenderci – e si era messo a parlare. Con lui.
E cominciava a sfogarsi. Si sedettero su un paio di sedie nere, con dei fitti
disegni di ragnatele. E parlarono di Ed, del fatto che gli mancasse ma che le
cose non sarebbero mai più tornate come prima, del fatto che lui, invece, fosse
più coraggioso, del fatto che forse Luk non aveva tutti i torti, di come
fossero stupide quelle treccine rosse. O meglio, Tino parlò. E Berwald ascoltò con attenzione, il solito sguardo
gelido di sempre mentre l’altro metteva la sua anima a nudo. Così,
all’improvviso.
« E mangia quel muffin! » lo esortò poi,
dato che la glassa stava iniziando a sciogliersi, nella sua presa d’acciaio.
Beh, doveva pure aver sfogato la tensione del momento in qualche modo, no? In
fondo la persona che più gli piaceva, che più aveva cercato, gli aveva appena
fatto un enorme discorso su un po’ tutto.
Tanto lo so che è Luk e che domani mi sveglierò con Tino
col broncio.
Tanto valeva godersi l’illusione, però. Era così dolce. E anche il
muffin non era da meno.
*
* *
Un po’ meno dolce era la situazione che stava vivendo Sesel, con un
americano che distruggeva pian piano i suoi sogni di gloria, cercando di
appioppare ad Arthur un cappello cornuto. E il britannico, da bravo padrone di
casa, tentava di scappare e spaventarlo con qualche imprecazione, ottenendo
solo grasse risate da Capitan America. Eh già, lo statunitense si era infilato
in un’assurda tutina attillata, ma ne stava valendo la pena.
La bruna cominciò a stropicciarsi l’abito azzurro, in preda al nervosismo.
Arthur non l’aveva degnata di uno sguardo, tanto era occupato a fuggire
dall’altro. Era disorientata, imbarazzata, intimidita, ma riuscì a raggiungere
prontamente l’americano e ad afferrargli un lembo del costume aderente con le
mani, tirandolo a sé.
« Alfred. » quello si girò con un sorriso beone dalla sua parte,
sbalordito di trovarsi una Sesel tanto carina in quel vestito lucido. Diede uno
sguardo al trafelato potteriano davanti a lui. Sorrise, fece una sorta di
saluto militare e corse via, dicendo di dover andare a salvare il proprio
paese. L’inglese si girò verso il punto in cui si era fermato il suo
inseguitore, vedendolo trotterellare via verso il tavolo del punch, Sesel che
lo seguiva con lo sguardo, attenta affinché non tornasse. E non serviva essere
dei geni per capire, dai suoi pugni chiusi, che per la serata fino a quel punto
non era stata delle più rilassanti.
« Ehi, Sel? » Sel. Non conosceva neppure il perché di quel soprannome,
sfuggitogli così dalla bocca, però gli piaceva come suonava. Era dolce come una
fata e guizzante come un tonno, sempre che una parola potesse guizzare.
Comunque, era perfetto.
« Sì? » domandò lei, dimenticandosi all’improvviso di tutta la
bilirubina portata al fegato nei minuti prima. Quello si avvicinò, le mani in
tasca. Come un motociclista figo che sapeva quel che faceva, gli mancavano solo
gli occhiali da sole, sostituiti da un paio dalla montatura tonda alla Potter. E sarebbe stato davvero un buon
motociclista impassibile se il cuore non gli stesse battendo all’impazzata. La
figura della brunetta stretta nel sinuoso vestitino azzurro le ispirava
parecchi pensieri dei quali si stupida lui stesso. Sentiva risuonare la voce di
Alfred nella sua testa, che chiedeva di che colore fossero le sue mutandine.
« Le sue mutandine, le sue
mutandine! »
Avvampò, apprestandosi a dare la colpa
alla sciarpa e sputando, intanto, qualche imprecazione. Fece un gran respiro e
le chiese se volesse concedergli un ballo, visto che l’aveva salvato
dall’uragano Alfred. Argomentazione piuttosto misera, ma convincente. Non
aspettarono neppure che cominciasse la musica.
*
* *
« … E quindi questo è il mio impero! » finì Luk, annuendo con enfasi. Se
avesse avuto i suoi occhiali da neve sarebbe stata tutta un’altra cosa, ma
doveva accontentarsi. E poi aveva già diviso il suo muffin in quattro, cosa che
la faceva sperare sempre più intensamente in un ventre completamente piatto.
« Pf, è una figata! » fece Jett, ingollando la sua parte di muffin. «
Quindi fai, chessò, il meetic
vivente? » Le sue storie su amici, inciuci e palle di luce erano piuttosto
interessanti. Anche se le leggende che propinava, da vecchietta nostalgica, non
centravano molto con gli altri fatti. Si appoggiò al tavolo, facendo rotolare
per terra un dolcetto a forma di zucca. La sedia accanto a quella della
ragazza, infatti, era stata occupata da Matthew, quel canadese che non vedeva
da oh mio Dio un sacco di tempo.
Canadese che non aveva preso nessuna parte del muffin, lasciandole a Capitan
America che si era trattenuto un po’ con loro e quel neozealandese amico di
Jett.
« Già, e modestamente funziono abbastanza bene… » disse lei, dando un
rapido sguardo al suo impero. Jett
sorseggiò rumorosamente dal suo bicchiere di punch, indicando una coppia più
lontana.
« Cacchio sì che funzioni! » esclamò l’aussie, muovendo il guantone da
box rosso fuoco che gli avvolgeva il pugno. « Guarda un po’ come pomiciano! »
A Luk cadde il muffin.
*Le resuscita*
Ohilà, carissimi lettori, carissime
lettrici e stimatissime recensitrici, Kaida è tornata! E non ci ha messo
neppure poco, eh… ma tra vacanze – che adesso bramo ferocemente, tra compiti in
classe che sembrano non finire mai e prof. convinte che dieci righi di
traduzione siano pochi –, compiti delle vacanze (che quasi nessuno s’è preso la
briga di correggere, ARGH), approvvigionamenti di cancelleria manco fossimo in
guerra (o forse sì), depressissimo inizio della scuola e video dementi per i
compleanni di alcune mie amiche, beh, non riuscivo a trovare un momento nel
qualche ficcare il mio amato spazio della-scrittrice-in-crisi. Poi,
un’illuminazione – a voi giudicare se sia stata una buona cosa o no – ed il
consecutivo ritiro spirituale all’interno del rilassante mondo di Word. Davvero
poco rilassante se si considerano le numerose pause pre e post crisi da
scrittrice in erba (in tutti i sensi, LOL, basta leggere un po’ quello che la
mia mente malata partorisce), ma comunque migliore delle ore passate col capo
chino sul greco, immersa tra le millemila pippe mentali della serie “Se solo
stessi frequentando il linguistico” o “Se solo fossi greca” o “Se solo i greci
avessero parlato usando gli ultrasuoni, i veli colorati e le scorregge di
pony”. Ma, in un modo o nell’altro, ho scritto. E, con un biscotto sulla
memoria ed un saporaccio di dentifricio in bocca, posto ciò. Non spennatemi. Anzi, sì. Mi sento matura, oggi. B’I
Cicca cicca bum bum,
Kaida_ _ _
P.S.: Si vede che il titolo non è uno dei miei soliti, eh? X°°
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Capitolo 17 *** Capitolo 16 - I see Hollynuuk! ***
Zeeee
Chapter n°15: I see Hollynuuk!
« N-Non
stanno pomiciando! » lo corresse Luk, mentre si malediceva per aver distrutto
quel capolavoro di pasticceria, adesso ridotto ad una massa informe e marrone,
per la quale ormai non era più valida la regola dei quattro secondi. Non era un
bello spettacolo. E ad i suoi occhi era uno dei più grandi sprechi di zucchero,
farina e amore, nonostante sul tavolo
al quale era appoggiata la sua sedia ci fossero abbastanza muffin da sfamare un
reggimento. Ma d’altronde la tragedia è tale soprattutto se viene vista nei
singoli casi, giusto? Il povero muffin che non verrà più mangiato, le papille
gustative che aspetteranno inutilmente la sua venuta, i denti che addenteranno
un altro strato di glassa… E intanto
Luk continuava a fissare il dolcetto, sperando che si ri-materializzasse
all’istante, tornando nella sua mano. Niente di ciò succedeva. Sarebbe dovuta
ritornare alla sua vecchia vita di studentessa in lotta contro i grassi.
« Ma da
che razza di eucalipto sei caduto?! » ringhiò, gli occhi che luccicavano di
rabbia, all’australiano. Il quale, sorpreso dal repentino cambio d’umore della
groenlandese – e per una causa del genere, poi – si limitò a fare un sorriso
ebete di chi non ci sta capendo un tubo, di quello che sta succedendo.
« Mi è
morto il muffin, ecco! » riprese quella, con voce lamentosa, ficcandosene un
altro – stavolta intero – in bocca e cancellando la voce dieta dai suoi impegni. « Lui era così carino e lo stavo mangiando
così bene… » una mantide religiosa non avrebbe detto altro. E, con le guance
ingrandite due volte tanto causa muffin, Luk non sembrava la persona più seria
del mondo. Forse per quello Jett si sentì quasi in dovere di dover richiamare
la figura professionale dell’analista. O forse perché, semplicemente, voleva
troncare i discorsi che gli portavano alla mente teste di amanti
sbocconcellate.
« Ah,
una volta sono andato da un’analista! Dovresti provare, è una figata! Ma il tuo
meetic è molto meglio, sì! » a pensarci, per quanto riguardava lo sforare,
Pipaluk e Jett non erano messi poi in modo tanto differente.
« Mpf-!
E chi credo, sto passando Halloween a
mangiare muffin, con un canguro accanto-! » e lo disse con melodrammaticità,
Luk, quasi stesse sacrificando la sua stessa vita per il bene di due (sperando)
futuri amanti. Beata Luk Cupido Martire in lana, ecco cosa si sarebbe dovuto
festeggiare, il trentuno di ottobre. E tutti a fare i meetic viventi. E lei ad
ammiccare ai suoi discepoli dal lucente paradiso inuit, dove le foche e le
balene si lasciano arpionare in pace e gli orsi sono teneri compagni di bevute.
« Almeno
è un canguro figo-! » appuntò quello. « … che vive nell’isola più grande del
mondo. » e qui fece un sorrisetto da vincente, saltellando verso la pista da
ballo. Luk gonfiò le guance – ormai svuotate dal muffin, ingoiato con foga in
un momento di odio verso l’Australia – per il disappunto, cercando nella sua
tonda testolina qualche frase ad effetto. Doveva vincere, stavolta. Lo scettro
di Margherita di Danimarca sulla propria testa e le battutine del danese in
classe erano già abbastanza.
« Anche
tu groenlandese, eh? » chiese, gridandolo quasi. Fu l’ultima battuta. Aveva
vinto.
* * *
Come
recitava il regolamento, tutti gli studenti sarebbero dovuti rientrare nel
college non dopo le dieci di sera, pena il trovare i cancelli ormai sbarrati al
più piccolo ritardo, chiusi automaticamente dal direttore che, con una
precisione svizzera, pigiava il bottone che rendeva l’istituto un mondo a sé
stante, protetto da una barriera invalicabile. Nonostante la presunta invalicabilità,
erano trapelati avventurosi racconti di studenti che erano riusciti a scamparla,
scavalcando i muri ed addormentandosi beatamente nei loro letti ad orari che
avrebbero fatto schiumare di rabbia il preside. Ma andiamo al dunque, ossia al
mesto ritorno alle ventidue di adolescenti stretti in strani costumi, con
troppo punch in corpo, gli ormoni in subbuglio e la testa per aria dopo gli
ultimi balli. Il gruppetto (che tanto etto
non era, poi) si distingueva facilmente tra la folla, non meno bizzarra in
quella notte, così compatto e allegro. Nessuno avrebbe pensato che ognuno di
quei goliardi giovini non avesse nemmeno un goccio di alcol nel sangue. Eppure,
strano a dirsi, erano ubriachi. Di aria, di punch, di muffin, d’amore. Ognuno a
suo modo, non poteva più definirsi sobrio. Sesel che si stropicciava il
vestito, seduta in un angolo della metro, persa in fantasie troppo dolci per
fermarsi, con Luk abbandonata sulla sua spalla, gli occhi socchiusi per la
sonnolenza dovuta ai troppi muffin (o per le troppe energie impiegate a cercare
una risposta decente, chissà). Tino col mento appoggiato al polso in un
equilibrio precario, che lanciava brevi e sfuggenti occhiate all’estone e allo
svedese. Il primo, troppo concentrato a propinare strategie su un videogioco
per pensare a qualcosa, il secondo che batteva un ritmo solo suo con il dito,
sul suo ginocchio, con il cervello in pappa per le troppe novità scaturite
dalla serata.
Una
voce limpida e senz’accento avvisò i passeggeri dell’aver raggiunto la fermata.
L’allegra comitiva si alzò, otturando tutte le uscite del treno in
un’accozzaglia di corpi che spingevano in cerca della luce artificiale della
stazione. A parte qualcuno che dovette affrontare un’altra fermata e scappare a
rotta di collo verso la scuola, sperando che la cancellata fosse ancora
dischiusa, gli altri uscirono dal treno sani e salvi. E forse fu a causa di un
improvviso attacco di sonno da parte del dirigente o per la fortuna, ma anche i
ritardatari la scamparono, oltrepassando le porte, ancora aperte alle dieci e
sei minuti di sera. Ritardatari tra i quali spiccava Alfred, che già si
atteggiava da veterano di guerra, non risparmiando particolari sull’adrenalina
che era diventata la maggior componente del suo corpo in quella folle corsa
verso la salvezza.
« Un after-party!
Ecco che si fa! » aveva poi esclamato lo statunitense, sulla cima delle scale
che l’avrebbero condotto al dormitorio maschile, con un branco di ragazzi
troppo su di giri per addormentarsi. L’approvazione – tutt’altro che silenziosa
– dei compagni non fu neppure troppo inaspettata, tanto che durante il celebre
after-party saltò fuori che già s’era provveduto a conservare birra e alcolici
poco costosi per un evento del genere. Brangiski confessò candidamente di aver
in camera abbastanza vodka per le prossime festività. E alcune bottiglie, a suo
dire, erano avanzate dall’anno precedente, fatto abbastanza sospetto per essere
passato per veritiero ma che, nell’euforia del momento, venne commentato con
ovazioni su ovazioni. Nessuno aveva più paura del coprifuoco, l’alcol nel
sangue era troppo perché si potesse provare un sentimento differente
dall’euforia. Euforia improvvisamente interrotta dal rumore sordo di una porta
sbattuta con violenza contro il muro. E poi il corpo del professore di
matematica del primo anno che si muoveva rigidamente nella camera affollata, il
dito puntato contro ognuno dei volti dei presenti, i rimproveri sputati con
violenza, gli occhi iniettati di sangue, i pochi capelli chiari sparati in
aria, anch’essi che sembravano additare ognuno degli studenti. Il paragone con
uno Stanlio esaurito non sarebbe stata azzardata.
La
minaccia dell’espulsione fu sibilata, a denti stretti, fece ritornare gli
allegri beoni pavidi come micetti, più impauriti dalla possibile reazione dei
genitori ad una punizione del genere che di altro. Micetti, però, abbastanza
ebbri da offrire, uscendo, pacche gratuite all’insegnante, ancora in quella
fase dell’ubriachezza nella quale non ci si pente di quel che si sta facendo,
ma in cui il solo pensiero di una strigliata e di una vita di rinunce confinati
nella propria camera conferiva abbastanza terrore da mantenere almeno una
remota area del cervello attiva e sobria,
finalmente. Della serie andiamo-a-dormire-ma-possiamo-farti-cadere-a-terra-con
un’-amichevole-manata-perché-ancora-non-capiamo-niente.
Tino si
era nascosto dietro la tenda, mentre quello sbraitava. E poi era sgattaiolato
via dalla stanza ad una sua distrazione, appoggiandosi ai muri del corridoio e
compiendo il tragitto un po’ saltellando, un po’ trascinandosi, con un sorriso
beato dipinto sul volto, tant’era l’alcol che circolava nel suo sangue. O al posto del suo sangue, giusto per
denotarne la concentrazione. Le mani gli tremavano un po’, forse perché qualche
minuto prima avevano stretto la sciarpa del russo – che oramai non riusciva più
a ragionare – abbastanza forte da far male. Era inebriato dal profumo della
vendetta, alito alcolico e sudore maschile e birra, puzza di chiuso di quella
stanza troppo piccola per contenere tutti. E nonostante ciò era dolce e faceva
montare in lui il desiderio di averne altre, di vendette, magari da sobrio. Un
ghigno bramoso scacciò il sorriso precedente, mentre il finnico si spalmava
sulla porta di quella che doveva essere la sua camera.
Berwald
era lì. Già troppo intontito da tutto per partecipare ad un after-party ed imbottirsi
di alcolici, troppo confuso per dormire. E quindi aspettava che arrivasse
l’altro, fissando un immaginario soffitto che non vedeva, con il buio e la
miopia. Vagava nella noia e nell’oscurità, attento ad ogni minimo rumore. Un
corpo abbandonato contro la porta. Una risata, strana. Forse era Tino. Oh, sì
che era Tino. Aveva memorizzato la sua voce, sapeva come rideva e quanto amasse
l’alcol. Aveva alzato il gomito, sicuro, e aveva bisogno di lui, che stava già
tastando disperatamente il comodino alla ricerca degli occhiali e… oh, si era
già rialzato. E aveva sbattuto qualcosa contro la porta, per farsi aprire.
Qualcosa di grosso e duro.
La
testa.
« Ah, sa! Quand’ero ancora un baldo giovine
non pensai inizialmente a quest’opzione, oh-oh! » avrebbe esclamato il
Dottor Berwald, intervistato in una trasmissione del pomeriggio da una valletta
d’annata, mentre dava piccoli colpetti colpi col gomito a suo marito, che
avrebbe ridacchiato con lui. E così tutto lo studio. E anche gli unicorni,
fedeli compagni. Ma per le battute squallide di un vecchio dottore c’era ancora
tempo.
« Be~er, apri la porta! » lo pregò il
finlandese, con una voce alquanto zuccherosa. Berwald poteva vederlo con le
guanciotte piene e rosa, infilato in un
vestito alla Holly Hobbies, mentre si
tormentava un ricciolo dorato. « Ti pre~ego~! » immediatamente, lo svedese si
alzò. Aveva troppo potere su di lui e poi non era propriamente colpa sua,
quanto dei suoi ormoni. Lui seguiva solo l’istinto. Istinto che gli sarebbe
stato davvero utile, adesso che non trovava più gli occhiali, muovendo
disperatamente le mani davanti a sé, alla ricerca della maniglia della porta.
Eppure sapeva che era ubriaco, che non si sarebbe dovuto scomodare tanto,
perché probabilmente Tino l’avrebbe scordato. Ma illudersi, giusto un po’, era
così dolce… e, soprattutto, non gli faceva pensare al brusco risveglio che
avrebbe avuto. Le mani del finnico gli avrebbero sfiorato per un attimo la
guancia, in un grazie sommesso. E poi sarebbe ritornato a dormire, sognando
quel ricordo e cullandosi nella dolcezza del momento. E poi lui si sarebbe
alzato e gli avrebbe stampato un bacio, sulla bocca. O sulla fronte, gliel’avrebbe
certamente perdonato a causa della poca illuminazione. E invece aveva ancora un
braccio sul comodino ed un piede fuori dal letto, pronto a scattare per aprire.
E la testa di Tino che bussava, con un certo ritmo, il lessico che si faceva sempre
meno zuccheroso, mano a mano che sentiva pulsare il capo sempre più forte.
Nonostante tutto, non la smetteva. E, non essendo disposto, come i picchi, di
una simpatica e funzionale area spugnosa nella scatola cranica, in grado di
attutire i colpi, con l’aumentare di questi ultimi facevano capolino anche le
imprecazioni in finlandese, che le orecchie dello svedese accolsero con sommo
gaudio, pensando a chissà che cosa. Poi, un tintinnio di chiavi. Una voce amica
che lo canzonava affettuosamente, aprendo la porta al posto suo. Il fascio di
luce che accecava gli occhi stanchi dello svedese, mentre Tino inciampava
malamente sui suoi piedi e si infilava nel letto, vestito.
«
Berwald. » lo conosceva bene, quel timbro vocale.
« Ed. »
Aveva la gola secca e la lingua impastata, fino ad un attimo prima, ma riuscì a
dirlo senza mozzicare le parole. Non che ci fossero tante vocali da lasciare
per strada, ma aveva studiato quel momento nei minimi particolari. Avrebbero
guardato il tramonto assieme e si sarebbero dati delle belle pacche sulle
spalle. Poi Eduard sarebbe finalmente tornato in Estonia e a lui sarebbe
rimasta tutta la torta. Su un ripiano un po’ troppo alto e difficile da
raggiungere, ma avrebbe trovato una scala. Ma, a parte l’Ed, non ricordava più
una parola del suo fantomatico discorso sull’amicizia, sull’amore e su quanto fosse
bella e piena di ragazzi l’Estonia. E non era neppure in condizioni di dare
pacche sulle spalle.
«
Tienilo d’occhio, ok? » riuscì a vedere il suo sorriso nel buio, tagliato nel
mezzo da pugnali di luce. Tremava, il sorriso finto. Il tono calmo che aveva
cercato di mantenere per tutti quegli interminabili giorni si era irrimediabilmente
incrinato e adesso i laghi smeraldini dei suoi occhi lottavano a fatica con la
forza di gravità, invisibili agli altri.
« Sì. »
il silenzio, interrotto appena dal russare leggero del finnico e dal conciso
botta e risposta tra i due, era diventato pressante e difficile da sostenere. E
ancor più complesso da rompere.
« Spero
di riuscire a preparare la parte grafica del film in tempo. Luk ha detto che
siamo sochi e non vale, però… » si
interruppe per una breve risatina, stentata. «… però ho visto come ti guardava
Tino, alla festa. Forse questa è la volta buona. I miei migliori auguri. » e
invece avrebbe soltanto voluto gridargli contro. In una sua idea egoistica del
mondo, Tino era suo. Nessun altro aveva il diritto di strapparglielo. Loro non
capivano le loro battute, le loro allusioni. Non le avrebbero mai capite. E
invece ecco che il suo amico, il suo migliore
amico, lo abbandonava. E forse era stata colpa sua, del suo silenzio riguardo
ai suoi sentimenti prima e della sua impazienza di mostrarli, della sua
impulsività mai vista dopo, ma a questo non pensò. « I miei migliori auguri. »
sibilò poi, mentre richiudeva la porta. Berwald premette la fronte contro il
muro, ripetendosi che ne valeva la pena, ne sarebbe valsa la pena. Eduard
inciampò nel nulla, come l’amico poco prima, atterrando sulle proprie
ginocchia. Lo amava, Tino. Strinse i pugni, le unghie che premevano nella
carne. Se ne stava andando per quello. Per Tino, se ne andava. Lo lasciava
perché gli voleva bene, per il bene di entrambi. E sperava di dimenticare e di
essere dimenticato. E si rialzava a fatica. « I MIEI MIGLIORI AUGURI! »
gridava, una volta sola. Una falciata nel silenzio della notte. Sorrise, ed era
vero. Basta lottare, basta soffrire, basta Tino. Lo svedese uscì di corsa dalla
stanza, con una forza di volontà sconosciuta. Forse l’energia positiva di Luk,
arrivata in ritardo? Eduard camminava tranquillo verso la sua stanza, con le
mani in tasca. « Tervitus. »
« Tack.
» non lo capiva, l’estone, ma era l’unica cosa da dire.
* * *
Non
successero poi grandi cose, in quei mesi, non avvennero grandi imprese che vale
la pena raccontare. Le riprese ripresero – perdonate il gioco di parole – con
la consueta discontinuità, la regista che lottava contro il tempo per arrivare
in orario nel cortile, sempre più freddo ed inospitale, e le frecciatine del
cameraman su Sesel e Arthur, che finivano quasi sempre in educatissime risse. Tino non sbuffava
ogni volta che Berwald tornava in camera ed avevano appena cominciato a cantare
le canzoni degli ABBA assieme quando la città cominciò a vestirsi di rosso e la
pioggia lasciò il posto ad una neve leggera. Quando i ben noti ritardi di Luk
lasciarono spazio ad una strana isteria passeggera, perché non c’era mai tempo e la pagina di novembre venne
strappata brutalmente dal calendario della classe. L’ultima ripresa venne
festeggiata con muffin rubati ed i celebri cioccolatini svizzeri di Lily.
Feliks raccontò che lo svedese ed il finnico avessero preso un milkshake
insieme, in quell’occasione, in un centro commerciale. Nessuno conosceva i
dettagli della faccenda. Luk sapeva solo che Berwald, di punto in bianco, le
aveva sorriso e le aveva chiesto di darle il cinque. E lei lo aveva stretto in
un caldo abraccio groenlandese. E lui non aveva fatto resistenza.
Epilogue
Mai
messa tanto in ghingheri, Luk, mai. Mai perso un chilo, mai. Mai il rossetto
rosso o la piastra, non facevano per lei. Però quella volta doveva brillare,
perché la prima del tuo film (lungometraggio
amatoriale sarebbe decisamente più corretto, ma film fa decisamente più effetto)
non capita tutti i giorni, di certo. Non del primo film. Non del film che ti ha
vista correre con un coltello in mano, non del film che ha fatto avvicinare due
persone, non del film che ha visto un canadese conoscere la Groenlandia, non del
film che ha fatto andare Eduard via. Ma non si vive di farfalle e arcobaleni,
d’altronde. Ed erano tutti lì, Eduard compreso, nella prima fila di una sala
proiezioni un po’ improvvisata, in contrasto con gli studenti eleganti stretti
come sardine, su sedie imbottite e polverose. Il conto alla rovescia,
addirittura. Eduard aveva fatto proprio un bel lavoro. La regista si voltò
verso tutti i suoi attori, collaboratori, amici. Avevano fatto tutti proprio un
bel lavoro. Sorrise, perché tutto era partito da una biblioteca, un
fraintendimento, un soprannome ed un mucchio di fogli. Dalla promessa di una
possibile Hollynuuk, dalla promessa
di un possibile appuntamento. Una promessa mantenuta.
Strinse
il polso di Berwald accanto a lei, gli occhi brillanti. « Si va in scena,
Nanuk. »
E quando
arrivarono gli applausi, Hollynuuk era tremendamente vicina.
Fine.
Izz ovah.
E anche questa piccola, tenera fycci –
come amo chiamarla – è giunta all’epilogo. Vi dirò, quando scrivevo le ultime
righe (o anche solo quando le pensavo) mi prendeva un senso di vuoto terribile.
Perché, nella sua obbrobriosità, questa ff mi ha accompagnato per un bel po’
(causa aggiornamenti lenti, lentissimi… Vogliate perdonarmi!) e credo che se il
mio iniziale progetto di scrivere una long-fic poco long da concludere appena a
febbraio (a febbraio!) non sarebbe stato altrettanto doloroso lasciarla, con
tutte le sue banalità, titoli strambi, battute e colpi di genio (molto colpi) o
con tutti quegli appunti sparsi su fogli e fogli. Sono contenta che alla fine
tutto sia andato più o meno per il meglio – forse un po’ meno per Eduard, ma
cercherò di farmi perdonare ;v; - e di essere riuscita a finirla, però. Mi
sento piena di orgoglio per una cosa che guarderò tra due mesi esclamando
“macheccazz—“, ma se lo farò sarà pieno di giuoia e tenerezza materna.
Ok basta, sono contenta di aver messo la parola fine a quest’agonia, cià-cià.
Non è vero, mi mancherà.
Se ci penso però grazie a ‘sta cosa ho creato anche la Luk su effebbì, quindi è
una figata.
Vabbè.
Le ultime parole sono le più difficili da scrivere.
E quest’ultimo Angolo dell’autrice non finirà come ve lo microonde.
Ringraziamenti
A Hollynuuk, che è tremendamente vicina,
Alla cartina sulla Groenlandia, senza la quale non mi sarebbe mai venuta in
mente l’idea per scrivere ‘sta roba,
A tutto il team HNE (vi voglio bene, guyz), che mi ha accolto e che all’epoca non mi faceva dormire, al solo
pensiero di aver creato una Mary Sue,
A Kaya, che è un gran pensatore e, soprattutto, un gran comico,
A Proibito, che pure mi ha aiutato ed ai libri in generale che sono una gran
cosa,
A mia cugina che non riusciva a leggere la ff perché rideva troppo,
Alle frasi/versioni facili, che mi hanno fatto risparmiare tempo,
A Claudia, che è una grandonna (?) e
dice che scrivo bene,
A Cristina, che mi passa gli yaoi e sa un botto di cose fighe,
A mia sorella, che deve averli visti (sennò il disegnino di due omini nudi che
amoreggiano a 6 anni non me lo spiego),
A La_Marie, che ringrazio per quando
mi ha fatto da beta e mi ha aiutato,
A Renard, che è l’alfa,
Ad Aki_Mori, che è la mia amica-di-Napoli personale,
Ad alysschan, che mi permette di ruolare
IceGreen (e forse non conosce neppure ‘sta fic, LOL),
A Cosmopolita, che recensisce sempre
e che forse andrà in Inghilterra,
A miristar, che è una critica di classe,
A yanyan, che è la regina dello
sclero – mi manchi!,
A Bazylyk19 che scrive delle SuFin scompisciato rie (?),
Ad happylight e alle sue ff
magnificissime,
A Black Air, che mi ha minacciata
con una Bielorussia (vedi che aggiorno, vedi? ;v;),
A Nena92 che mi ha convinto ad
aggiungere “comico” al genere della ff,
A Ippolita, che è una pony figa,
Ai miniponi e a chi li ama,
A Londra e a tutta la bella gente che la abita,
A tutti quelli che scrivono senza pensare alle recensioni,
Ai/alle beta, che sono una grande invenzione,
Ai titoli di capitoli e fic e storie, belli e brutti,
Ai roleplayer ed al fantamondo,
Ai biscotti caldi che aiutano a pensare,
Al cibo in generale,
Agli amici e alla famigghia,
A chi crede in Babbo Natale, finlandese & biondo o meno,
Ad Himaruya (Requiescat in peace -?-), perché alla fine se non veniva l’idea a
lui non veniva manco a me.
Kaida vi ama, vi ringrazia, s’inchina e chiude il sipario su Love in London (mai titolo fu meno
appropriato).
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