L and Watari's memories

di Donixmadness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo sguardo di una una foto ***
Capitolo 2: *** Nuovo inizio ***
Capitolo 3: *** Marmellata ***
Capitolo 4: *** Giocattolo ***
Capitolo 5: *** Cane da compagnia ***
Capitolo 6: *** Fantasma ***
Capitolo 7: *** Ho freddo ***
Capitolo 8: *** Terrorista ***
Capitolo 9: *** C'è sempre stato posto per te ***
Capitolo 10: *** L'ultimo messaggio ***



Capitolo 1
*** Lo sguardo di una una foto ***


La luce bianca degli schermi batte sul volto di un uomo. Questo sorseggia tranquillamente una tazza di caffè, intingendo appena i baffi bianchi nel liquido scuro. Il suo compito è restare lì a controllare dai monitor ogni angolo di quel grattacelo. Watari posa delicatamente la tazza bianca sul piattino di porcellana e fa una pausa. Lascia tutto accanto alla tastiera nera del computer per poi rimanere un attimo in silenzio, tra le onde dei suoi pensieri. Se ripercorre la sua vita, gli sembra un fiume in piena. Non avrebbe mai pensato che una volta conosciuto L la sua vita sarebbe cambiata così tanto, anche se era mutata già da quel giorno.                                                                                                                   
–Oggi avrebbe compiuto 25 anni … - pensa un attimo ad alta voce, immergendosi nei ricordi più lontani e nascosti nel suo cuore.
Ryuzaki, o meglio L, non permette di portare affetti personali, ma un inventore come lui, può nascondere tutto e ovunque. Prende dalla tasca della giacca il suo orologio tascabile d’argento. Con aria quasi malinconica lo tasta piano, levigandolo con le dita. Poi fa scattare il meccanismo ed il coperchio superiore si apre di scatto. Dentro solo lancette nere che scandiscono numeri romani su fondo madreperlato. Il vecchio inglese con la rotellina sposta la lancetta delle ore su II, poi su VI, su X ed infine III. Tic! E’ il rumore che echeggia all’istante. Watari solleva il quadrate dell’orologio per estrarre un minuscolo pezzettino di carta rigida ripiegato su se stesso. Nelle sue mani solo quel foglietto tanto fragile e consunto, quanto pesante ed infrangibile.
Ciò che vi è contenuto non potrà mai essere cancellato per lui, anche dopo tutti quegli anni. Una fotografia di un giovane viso sorridente, sfigurato nella culla dell’età dal dolore. Si ricorda la sua voce squillante, la sua determinazione, ma soprattutto la sua grande inventiva e passione per la meccanica. Proprio la stessa passione di quel vecchio signore inglese che ora guarda la sua foto, amaro. Un rumore interrompe il sanguinare di una vecchia ferita, che nonostante perda è secca ed incrostata.
La porta alle spalle si apre automaticamente, e Watari si gira con la sedia mettendo furtivamente in tasca la fotografia.
Due occhi neri ossidiana lo fissano imperscrutabili: Ryuzaki rimane lì sulla soglia con le mani in tasca e la spalla come sempre ricurva. 
–Ah! Ryuzaki … devi perdonarmi ma ho perso la cognizione del tempo!! Ma stavo giusto per portarti il carrello dei dolci – si giustifica l’uomo alzandosi.
–Non importa , davvero – lo ferma il corvino sollevando la mano diafana e affusolata.
–Ma .. – tenta di dire Watari , intanto L si avvicina e i piedi nudi producono il tonfo sordo dei passi.
–Ce l’hai ancora quella fotografia? – domanda pacato il ragazzo, non stupendo affatto l’uomo dinnanzi a lui. L’inventore abbassa un attimo lo sguardo in direzione della tasca della giacca, e ne estrae la fotografia ingiallita con gli anni.
–Ecco … Mi dispiace Ryuzaki, ma non ce l’ho fatta proprio a sbarazzarmene, anche se mi avevi chiesto di eliminare tutti gli affetti personali.
Il fatto è che preferisco tenerla sempre con me che in cassaforte … sono mortificato – abbassa il capo in segno di scuse.
–Non ho intenzione di rimproveranti, anche se con tutte le precauzioni che ti ho ordinato. Comunque non credo che quella foto debba essere accantonata in una cassaforte. Sono contento che tu ce l’abbia ancora … - gli occhi petrolio di L si spostano sul pezzo di carta. Allunga la mano pallida per afferrare la fotografia e Watari gliela porge. Anche lo sguardo impassibile del miglior detective del mondo si vela di una leggera tristezza. Non si definirebbe malinconia, ma neanche rimorso. Solo lieve stupore lasciano trasparire quelle pozze buie. Null’altro. La sorpresa di aver rinfrescato come un pittore su una parete, dei vecchi ricordi della sua infanzia. Ancora oggi lo lascia ancora perplesso il fatto che il soggetto ritratto nella foto, un tempo era stato l’epicentro dei suoi fastidi. Quelle che lui definiva “seccature”, “futilità” erano in realtà i valori più importanti per un essere umano.
–Se non mi sbaglio – continua il ragazzo, non staccando gli occhi dalla carta – oggi sarebbe stato il suo compleanno.
Watari si limita ad un cenno del capo ed L poggia la foto sulla scrivania, in silenzio. Forse per guardarla meglio da lontano, probabilmente vuole verificare se a distanza ha un altro effetto.
Le punte di due dita sottili afferrano delicate un cioccolatino con la nocciola dal vassoio lì accanto. La mano di L si muove lenta nell'aria, come se ne subisse l’attrito violentemente, ma alla fine posa il dolcetto davanti al ritratto consunto, per poi ritirare la mano nella sua tasca. Watari rimane in silenzio, ma alquanto sorpreso: non avrebbe mai pensato che L facesse un’offerta a quella povera anima.
“E’ davvero cresciuto” pensa tra sé.
Il cespuglio corvino di Ryuzaki gli impedisce di vedere la sua espressione, ma gli pare alquanto triste e malinconico.
–Ne ha passate di tante nella sua vita, vero? – chiede il ragazzo senza scomporsi o volgere l’attenzione al suo collaboratore.
–Sì, ha visto davvero l’inferno per quello che mi ha detto. Chissà quanto dolore occultava dietro quei sorrisi così spensierati.
–Sai, ho sempre pensato che fosse sciocco da parte sua sorridere a quel modo. Ma forse ero solo invidioso perché io non riuscivo mai a farlo. Il suo per me era un atteggiamento falso, ma solo col tempo ho compreso che stava disperatamente cercando di andare avanti per la sua strada. Per non rimanere bloccata nel passato. Mmf … - accenna un mezzo sorriso.
– Quante me ne ha combinate quella ragazzina!! Ho perso del tutto il conto! E l’ultima è stata farsi sparare a morte!! – conclude con una lieve punta di amarezza. Dopotutto anche L è un essere umano, no?
Continua ancora a fissare quel volto, in cui riesce ancora a specchiarsi nelle iridi verde acqua della ragazzina. Gli occhi che sprizzavano vivacità, determinazione  ma anche dolore e sofferenza.
–Non l'ho mai sopportata … - riafferma nuovamente Ryuzaki, stavolta voltandosi.
–Capisco – si limita a dire Watari. L va via per ritornare nella sala dei computer,ma prima di sparire dietro la porta d’acciaio, si ferma sulla soglia.
–I dolci puoi portarli anche più tardi.
–D’accordo, Ryuzaki – e lascia solo il vecchio inglese a contemplare ancora quella foto.
Ricordo ancora la prima volta che ti incontrai, era in quel villaggio in Inghilterra. Una piccola cittadina dove andavi in giro a derubare la gente, ma lo facevi per sopravvivere. Io ero lì di passaggio, ma guardandoti semplicemente negli occhi capii che eri spaventata e confusa, per questo non ti fidavi di nessuno. E così Watari si immerge nei meandri del suo passato.
 


Arrivai a Willand in treno. Non era uno dei più lussuosi e confortevoli, ma diciamo che quei vecchi vagoni erano sempre meglio dei treni a vapore di un tempo. Ero lì per incontrare un mio vecchio amico ed esporli alcuni miei progetti. Con il brevetto della mia ultima invenzione avevo fatto costruire un orfanotrofio a Winchester, a cui avevo dato il mio nome. La Wammy’s House, un posto che accoglieva non solo gli orfani di tutto il mondo, ma soprattutto quelli dotati di capacità intellettive fuori dal comune. In questo modo speravo che quei piccoli geni avrebbero messo al servizio dell’umanità le loro doti, per il bene di tutti.
O almeno era quello che mi auguravo, per impedire che menti come quelle subissero la dura legge della strada. Scesi dal treno con la valigetta in mano. La stazione era caotica a quell’ora ed io mi guardavo intorno per cercare il mio amico, nonché anche socio d’affari.
– Quillsh Wammy!!! Quanto tempo!! – alla mia destra un uomo mi aveva
 chiamato e stava venendomi incontro agitando la mano.
Lui era Micheal Heavy , la persona che stavo cercando. Lo salutai e gli strinsi la mano calorosamente.
– E’ un piacere rivederti!! – gli dissi rafforzando la stretta.
–A quanto pare sei diventato davvero famoso!! Ho saputo che la tua invenzione ha riscosso un grandissimo successo!! Complimenti! Alla fine sei diventato ricco sfondato, eh?
- Bé, si può dire di sì, ma non sono i soldi che mi interessano, la sai vero?
-Sì, sì signor benefattore!!! – scherzò lui.
–Di’ quello che vuoi ma è la verità! – rispondo prontamente, ma prima che lui potesse ribattere udimmo confusione da lontano. C’era gente che imprecava e altra che si scansava come se investita da qualcosa o qualcuno.
–Ma che succede? – domandai io avvicinandomi. Il mio amico si accostò a me.
–Non ne ho idea – rispose Michael, grattandosi il capo sotto il cappello.
Da lontano si udivano parole del tipo “prendetelo”, o “piccolo furfante”. Ed anche urla femminili che reclamavano le loro borse.
Scorgevo della confusione da lontano e gente che sia agitava. Ma poi lo vidi, era poco più di un bambino. Era incappucciato, correva con le braccia strette al torace e sfondava la folla alla velocità di un missile. Era inseguito da degli uomini, ed anche un poliziotto con un manganello in mano. Il ragazzino era veloce e sgusciava da una parte all'altra della folla. Si era girato un attimo per guardare i suoi inseguitori, ma non prestò attenzione davanti a sé. Io non feci in tempo a scansarmi che mi venne addosso e cademmo insieme malamente. Il mio cappello si sfilò dalla testa e anche la mia valigetta scivolò via. Si udì il rumore di oggetti che sfregano il pavimento cadendo. Fu un attimo che mi resi conto che scivolando il ragazzino aveva  perso parte del suo bottino, nascosto sotto la felpa. Sollevai la testa ancora dolorante per la caduta e vidi due occhi verdi fissarmi stupiti, e a col tempo smascherati dal mio sguardo. Ciocche castane ricaddero dal cappuccio: erano troppo lunghe per essere quelle di un ragazzino. Subito quegli occhioni verde acqua si accorsero che gli inseguitori stavano giungendo, così subito il piccolo ladro oscurò il suo volto con il cappuccio e raccattò in fretta tutto ciò che poteva prendere, tra cui notai due pagnotte. Corse via per non farsi beccare e sparì dietro l’angolo. Io ero ancora a terra scioccato per la rapidità degli eventi. Alla fine giunsero un gruppo di uomini con un poliziotto probabilmente della stazione. Micheal si avvicinò a me porgendomi la mano e mi  aiutò a rialzarmi:
- Tutto bene, Quillsh? – domandò premuroso porgendomi il capello e recuperando la valigetta.
–Sì sta tranquillo, piuttosto sai chi era quel piccoletto?- domandai spazzolando il capello con la mano. 
–E’ un po’ che ne sento parlare, ma a quanto pare esiste davvero. E’ un piccolo ladro il quale da qualche tempo si aggira a derubare la gente.
Svaligia fruttivendoli, panettieri e negozi soprattutto di alimentari. E’ una vera e propria canaglia a quanto ho sentito dire.
–Già!– affermò il poliziotto di prima – Ed è davvero bravo a nascondere le sue tracce!! Mi dica, per caso le manca qualcosa?
Io frugai un attimo nelle tasche , ma mi sembra tutto a posto: - No, ho tutto. Ma non credo che abbia avuto il tempo di rubarmi qualcosa- affermai sicuro, mentre esploravo la tasca interna alla giacca. Ma mi accorsi di una cosa davvero straordinaria: il mio orologio d’argento, quello consegnatomi alla premiazione della mia invenzione, non c’era più.
In quel momento palesai che doveva essermi caduto durante lo scontro con il ragazzino, e che lui per la fretta l’abbia raccattato per sbaglio.
Era ben nascosto nella tasca e non credetti che l’avesse rubato di proposito. Anche perché gli oggetti che gli premevano di raccogliere erano alcune solo le pagnotte e una mela.
–Tutto bene, Quilish? Hai una faccia! – proruppe il mio amico.
–No, tutto a posto tranquillo- risposi rassicurante. Non denuncia la scomparsa dell’orologio anche perché c’era qualcosa che non mi convinceva davvero.
E nella mia permanenza lì, decisi di andare in fondo alla faccenda.
–Ahhh! Accidenti a quel ragazzino!! Ce l’ha fatta anche stavolta!! Ma se lo prendo!! – minacciò un uomo stringendo i pugni.
–Sapete almeno dove si nasconde di solito? – domandò Micheal.
–Magari lo sapessimo!! – si lamentò il poliziotto – Quella piccola peste è come l’ombra, ti sfugge dappertutto! L’ultima volta pensavamo che si nascondesse nella vecchia casa sulla collina, ma non trovammo nessuno, e neanche un indizio per acciuffarlo.
–Quel mascalzone!! – imprecò un altro – E’ la terza volta in una settimana che ruba nel mio negozio!!
- Beh, meglio ritirarsi per questa volta.- propose il poliziotto, che guidò via il gruppo di uomini, i quali continuarono a brontolare durante il tragitto. Intanto le acque si erano calmate , e si era ristabilito l’ordine.
–Allora vogliamo andare? – propose Michael.
–Sì, certo- risposi io, ma per tutto la strada che portava all'hotel lì vicino, non feci altro che pensare a quel ragazzino. Quella sua espressione così spaventata e confusa era identica alla mia da ragazzino. Se rubava era sicuramente per sopravvivere, possibile che gli altri non lo capissero? Tuttavia dovevo comunque andare in fondo alla faccenda se volevo per lo meno recuperare l’orologio … Però, più ci pensavo più mi convincevo che non lo volevo fare per l’orologio, nonostante fosse un ricordo molto importante di un successo ottenuto dopo anni di fatica e ricerche. No, non era per quello. Avevo come l’impressione ... che quel ragazzino fosse davvero speciale, e che volesse soltanto un aiuto.
Il tragitto che portava all'hotel lo percorremmo in taxi, e per una deviazione dell’autista arrivammo a percorrere una stradina sterrata ai piedi della collina. Volsi lo sguardo in cima al ad essa e notai una casa abbandonata. Era molto rovinata, e si notava benissimo che era danneggiata dalle intemperie.
–E’ quella la casa abbandonata di cui il poliziotto ha parlato? – domandai al mio socio.
–Sì, è quella – rispose Micheal, avvicinandosi al finestrino opposto al suo.
–Vi riferite alla casa del Dottor Meynell? - intervenne l’autista con una vena di saggezza.
–Era di un dottore? – domandò Heavy precedendomi.
–Sì, viveva lì con la sua famiglia. Ma più che un dottore era anche appassionato di ingegneria applicata al corpo umano.
–Intende biotecnologie come organi artificiali? – approfondii io, incuriosito dalla faccenda.
–Diciamo pure di sì. Ma a quanto pareva aveva anche problemi con i federali inglesi.
–Come i "federali inglesi"? – si stranì Michael.
–Beh, non so come spiegarvi … ma un giorno degli uomini in nero si presentarono a casa sua. Non so cosa volessero ma qualsiasi cosa fosse, il dottore non la cedette e quelli li ammazzarono.
–Li … ammazzarono? – scandii io inorridito.
–Lui e tutta la sua famiglia … - rispose l’autista specificando.
–Che orrore!! – esclamò il mio amico destandosi dalla repulsione.
–E sarebbero federali inglesi? – domandai accigliato e scettico sull'identità di tali individui.
–Bé, è ovvio che non lo fossero … a mio avviso lo hanno detto solo per insabbiare la questione e non far intervenire la polizia. Ma è ovvio ...
-E’ ovvio che si trattasse di qualche organizzazione criminale!!– interruppe Heavy e l’autista confermò con il capo.
–Così potente da mettere a tacere la polizia … - constatai io, portandomi una mano al mento.
–Vedete signori, voi siete come dire “forestieri” e quindi non sapete come vanno le cose qui. Willand è una piccola cittadina che ha appena sfiorato qualche barlume di innovazione e tecnologia, ma qui la mentalità è rimasta ancora quella di un tempo. Poche sono le persone che si affacciano a nuovi orizzonti, gli unici che conosco sono i proprietari dell’hotel, ma per il resto sono rimasti tutti contadini e pecorari! Credetemi!! E certi vizi non li hanno ancora abbandonati, e tra questi l’omertà non fa eccezione …
-Capisco. Nessuno ha approfondito questa faccenda per paura.- tiro le conclusioni, e l’autista si limita nuovamente ad un cenno del capo. Alla fine giungiamo davanti all'ingresso dell’albergo. Paghiamo la corsa e salutiamo l'autista.
Ero appena arrivato lì e già mi frullavano in testa un sacco di cosa. Ma ciò che mi premeva di più era risolvere il mistero del ragazzino.                                                               

Il giorno dopo lasciai un bigliettino a Micheal in cui dicevo che sarei andato a fare un giro e sarei passato per il mercato, ma in realtà quella che avevo in mente era tutt'altra destinazione. Mi ritrovai ai piedi della collina ed in cima vedevo distintamente la figura squadrata della casa abbandonata. Non seppi resistere alla curiosità di indagare su quella faccenda e dell’omicidio del dottore. Soprattutto mi chiedevo chi fossero in realtà i “federali inglesi”, che con questo nome intendessero riferirsi a qualche organizzazione segreta? Probabile, ma invece di rimanere lì a farmi domande, mi incamminai lungo la stradina sterrata. La salita era abbastanza faticosa e mi ci vollero dieci minuti per arrivare in cima. Una volta lì notai che la casa più grande di quel che sembrava. Era diroccata certo, ma non tanto come mi aspettavo. Il portone principale era serrato da assi di legno e sembrava che non ci fosse alcuna entrata. Le finestre erano appannate dalla polvere, il cui odore agre si percepiva anche dall'esterno. Da lì non riuscivo a vedere nulla così girai attorno alla casa per controllare la presenza un’entrata secondaria ed infatti non mi sbagliavo. Nel retro dell’abitazione apparentemente serrata, c’era un altro fabbricato. Pareva un monolocale abbastanza grande, il quale era collegato all'edificio stesso.  Lì c’era la seconda porta, che con non troppa difficoltà riuscii ad aprire. Il che era abbastanza insolito per una casa abbandonata: i vecchi cardini cigolavano ma erano stranamente fluidi nei movimenti. Verificai ciò muovendo avanti e indietro la porta di legno e ciò stava a significare che non era del tutto abbandonata. Lasciai la porta aperta così da poter permettere alla luce del sole di filtrare. Era mattino presto ed il sole era sorto solo da poche ore. Il buio si stava schiarendo, la luce bianca penetrò anche dalle poche finestre opache presenti, illuminando il pulviscolo che galleggiava nell'aria. In un attimo tutto fu chiaro, ciò che mi trovai dinnanzi era uno studio. Proprio così: uno studio.  Essendo appartenuta ad un dottore non mi stupii affatto, ma era incredibile la quantità di libri presenti là dentro.
Erano accatastati ovunque: alcuni erano sparsi sul pavimento, altri disposti in pila agli angoli della stanza e altri ancora  erano disposti negli scaffali di legno accanto alla scrivania che troneggiava in fondo al muro. Anch'essa era piena di fogli e scartoffie varie che sembravano schizzi di disegno.
Alcuni erano appesi con delle puntine al muro: erano dei progetti, e a giudicare dal tratto di matita erano a dir poco favolosi.
Mi addentrai nella stanza per osservare da vicino, e presi in mano uno di quei fogli per esaminarlo. Vi era disegnato un braccio umano ed accanto uno meccanico, l’uno era il simbionte dell’altro. Perfettamente identici se non fosse per il colore, ma il tratto era decisamente di un vero artista …
Anzi di un vero ingegnere  meccanico, gli schizzi sembravano quelli del maestro Da Vinci in persona. Era davvero un ‘ottimo lavoro, ma non c’era solo quello, sotto c’erano altre carte in cui erano esplicitate le varie  componenti … era una cosa sorprendente. Starei rimasto lì per ore, ma all'improvviso avvertii il crick di un grilletto e subito una voce imperiosa mi fece sobbalzare.
FERMO DOVE SEI!! NON MUOVERTI!!!
Io mi girai lentamente con le braccia a mezz'aria. Due occhi verde acqua infuocati mi stavano fissando minacciosi. Una figura minuta si era appostata sulla soglia e stava puntandomi la canna di un fucile addosso. Ed ecco il ragazzino del giorno prima! Ed io che mi chiedevo che fine avesse fatto, e me lo ritrovo qui. Sarà una coincidenza?
Io alzai lentamente le mani cercando di mantenere la calma:
-Tranquillo!! Ti assicuro che non sto facendo assolutamente nulla di male …
-CHI SEI ?? – domanda sospettoso, puntando ancora di più il fucile, di cui insolitamente non percepisce la pesantezza. La sua non era una presa da principiante, ma sembrava quella di un tiratore scelto. Lui continuava a scrutarmi con quegli occhi ardenti di odio per tutto il tempo, mentre il suo volto era appena oscurato dal cappuccio della felpa.
–In realtà sono venuto qui per pura curiosità, sono appena arrivato in questo villaggio.
Non avrei mai immaginato che qui ci fosse ancora qualcuno … ma non era mia intenzione essere invadente, ti prego di scusarmi … - chinai leggermente il capo mortificato.
–Non ti ho chiesto questo, ti ho solo chiesto CHI SEI!!
-Sono Quillsh Wammy, e sono un inventore …
-Cosa? Un inventore …? – sibilò il ragazzino, fremendo di leggeri tremiti. Per un attimo abbassò la canna del fucile, quasi sconvolto dalla parola “inventore”.
–Sì, lo sono – riaffermai deciso. Il ragazzino rimase un secondo sulle sue, ma una furia dentro di sé lo travolse tanto da riprendere la mira con il fucile e questa volta più intensamente di prima. Il suo sguardo adesso era quello di un assassino, ma poi compresi che quelle pozze verdi bramavano vendetta … 

-ALLORA ALLA FINE SIETE RITORNATI, EH? CHE COSA VOLETE DA ME??? – urlò ancora, facendo un passo avanti.
– Calmati! – lo esortai, in un certo senso impaurito – Io da te non voglio assolutamente niente!!
-MENTI!! Ci scommetterei la testa, che tu sei uno di quelli!! Avanti che cosa sei venuto a fare qui?? Vuoi uccidermi? Portarmi via?? O vuoi di nuovo i progetti del dottor Meynell??? RISPONDI!!
-Niente di tutto questo!!! Te lo assicuro, non avrei alcun motivo di ucciderti o rapirti!! E poi se davvero fosse come dici tu ,non sarei qui da solo non ti pare?? Anche se potrebbero esserci altri, controlla tu stesso! Siamo solo noi due.
–Non metto in dubbio che siamo solo noi due, ma nessuno mi assicura che tu non si una spia!! O mi sbaglio?? – stavolta sentii nuovamente lo scricchiolare del grilletto.
–Come faccio a dimostrarti che non sono una spia?
-Non lo so, magari sparendo dalla mia vista?? – non solo aveva un fucile in mano, ma faceva anche lo spiritoso.
–Aspetta!! – lo fermai. Mi era venuta un’idea – Forse posso dimostrarti che non sono un nemico e sono davvero un inventore.
–E come? – domandò scettico.
–Nella tasca interna alla giacca ho una pagina di giornale, posso prenderla?
Rimase un attimo sulle sue ma poi aggiunse: -E va bene … ma togliti la giacca e mostrami la tasca interna, se ci sarà il giornale allora potrei anche crederti.
Lentamente eseguii gli ordini e mi tolsi la giacca, mostrando il giornale ripiegato nella tasca interna. Non abbassò ancora la guardia, ma sembra che cominciasse a fidarsi.
Sfilai il giornale e lo aprii per mostrargli, o forse sarebbe meglio dire mostrarle la prima pagina. Era pubblicata la mia foto e il mio nome, e data la dovuta somiglianza non poté far altro che credermi. Solo allora abbassò il fucile, quasi emettendo un sospiro.
–Allora adesso mi credi?? – domandai rilassando i nervi. I cinque minuti più intensi della mia vita.
–Posso sapere perché un inventore così famoso, è venuto in questo villaggio così lontano dai centri abitati?? – domandò ancora con una punta di scetticismo.
–Sono vento a far visita ad un vecchio amico. – risposi semplicemente. Oramai non c’era più pericolo: il ragazzino poggiò il fucile accanto alla soglia, e aveva il capo chino. Stava fissando un punto non definito del pavimento.
–E chi le dà il diritto di venire sin qui?- replicò ancora , ma stavolta con un filo di voce.
–Nessuno. Hai ragione, ma io ero venuto a fare una passeggiata sulla collina e anche se avevo intenzione di venire a curiosare qui, non potevo di certo sapere che ci vivesse qualcuno - abbassò ancora di più lo sguardo, quasi preso da un senso di colpa e mortificazione.
–Sì , ha ragione. Ma immagino che adesso dovrò andarmene da un’altra parte perché gli abitanti del villaggio verranno di certo a sapere che il ladruncolo fa uso di armi.
–Sta tranquillo – lo rassicurai io rimettendomi la giacca – non dirò nulla. Ti ho già detto che non era mia intenzione arrecarti disturbo, ma quando ho visto i disegni e gli schizzi non ho saputo fare a meno di entrare.
–Capisco, immagino che abbia saputo a chi apparteneva un tempo questa abitazione – rispose atono, quasi senza sentimento.
–Sì mi hanno raccontato della strage del dottor Meynell e della sua famiglia, ma a giudicare da questi progetti – e lì presi il foglio dei due bracci – era davvero in gamba. 
–No, era più che in gamba … era il migliore – la sua voce in quel momento tremò, questi stesse per mettersi a piangere, ma il ragazzino si trattenne stringendo i pugni.
–A come ne parli, lo conoscevi o mi sbaglio? – domandai io capendo come stavano in realtà le cose. L’ho capito sin da quando ho visto puntarmi il fucile addosso. Lui era …
-Ora che la guardo meglio … - interruppe ignorando la domanda, e stavolta alzò il volto - lei è il signore con cui mi sono scontrata alla stazione.
–“Scontrata”? Allora come pensavo sei una ragazza – le risposi sorridendo, mentre lei sviò lo sguardo imbarazza e si levò il cappuccio.
Ciocche castano scuro incorniciavano il piccolo viso conferendole un aspetto angelico.
–Perché, aveva dubbi? Sono gli abitanti del villaggio che mi hanno scambiata per un ragazzo. Io non ho mai detto di essere un maschio!! – si difese prontamente, alzando il mento orgogliosa.
–Sì, lo immaginavo … - stavo quasi per ridere, per la faccia buffa che aveva fatto.
–Quindi credo che questo sia suo ... – disse frugando sotto la felpa, da cui estrasse l’orologio d’argento – per questo era venuto qui … per riprenderselo – si fece improvvisamente cupa e mi protese l’oggetto ovale sul palmo della mano. Io mi avvicinai e lo ripresi.
–Ti ringrazio.
–Tanto per essere precisi io .. non l'ho preso dalla sua tasca …
-Lo so – la interruppi io – mi è caduto quando ci siamo scontrati e tu l’hai preso erroneamente. Ti ho vista, non l’hai fatto di proposito, ma non mi aspettavo davvero di trovarti qui.
–La ringrazio per la comprensione … - a un tratto si fece stranamente educata.
– Comunque, prima volevo sapere se conoscevi il dottore, non mi hai risposto e …
-Adesso … - mi interruppe ancora – la pregherei di andarsene. Le ho restituito l’orologio, e la ringrazio per il suo silenzio riguardo a questa storia … Tuttavia – e abbassò il capo stringendo i pugni con fervore – la prego di andarsene.
Si scostò, mostrandomi la porta ed io varcai la soglia senza replicare, ma mi scusai ulteriormente per la mia presenza.  
Ma da quel giorno, capii che dovevo andare ancora più a fondo alla questione e scoprire l’identità di quella ragazzina. E a giudicare dalla sua reazione, era probabile che fosse un parente del dottore.
Soddisfai la sua richiesta e me ne andai, per quella volta ma ritornai le volte successive e le portavo da mangiare per evitare che rubasse ancora.
Feci anche delle ricerche e scoprii, suo malgrado una terribile verità.
 

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Capitolo 2
*** Nuovo inizio ***


Trascorsero due giorni da quando incontrai la ragazzina, e inizia ad indagare su di lei, ma senza alcun successo. A chiunque chiedessi in giro, nessuno sapeva niente o non voleva dire niente. Le risposte erano sempre evasive, ma più o meno facevano ricorso alla storia raccontata dall’autista.
A qualsiasi persona chiedessi, la reazione era la medesima: si guardavano intorno circospetti e cominciavano a sudare freddo, ma ogni volta rimanevo sempre più sconcertato. Questi uomini in “nero” erano così potenti? Tanto potenti da incutere terrore ad un intero villaggio? Pensai subito alla mafia.
Era un’ipotesi accettabile, ma che cosa avrebbe voluto mai la mafia dal dottor Meynell? E soprattutto chi era in realtà la ragazzina?                                                                                                                                                    
Tutti quei pensieri mi ronzavano di continuo, ma non mi portavano da nessuna parte. Effettivamente non avevo nulla di concreto per le mani, mi mancavano le informazioni.                                                
–Insomma, amico. Mi dici che ti prende??- Micheal interruppe l’arrovellarsi dei mio cervello. Eravamo seduti al bar dell’hotel e da allora non avevo spiccicato parola, perché troppo concentrato a pensare. In realtà, era da quando incontrai la ragazzina che avevo iniziato a rimuginare sulla faccenda, ed era più che normale che Micheal cominciasse ad insospettirsi.                                           
–Allora? – mi intimò a rispondere.                                                                                                                                   
–No, nulla ero solo sovrappensiero … - risposi accennando un mezzo sorriso. Non volevo dirgli ancora nulla, non dopo aver scoperto qualcosa.                                                                     
–Ho visto … - rispose, inarcando il sopracciglio biondo.                                                                                            
–Scusa Micheal, ma ora devo andare … - annunciai alzandomi dallo sgabello.                                               
–Come? Così all’improvviso? E dove te ne vai? – tempestò domande, basito. Effettivamente era comprensibile visto che lo stavo letteralmente piantando in asso.                                                                  
–Scusami ,ma te lo racconterò un’altra volta! – così dicendo presi il cappotto e la valigetta e mi diressi all’uscita. Pensai che trattandosi di un omicidio doveva pur esserci qualche documentazione, magari su un giornale oppure negli archivi della polizia. Dato che dubitavo che la polizia mi desse accesso agli archivi, mi diressi in biblioteca per documentarmi su alcuni giornali del passato.                                                                                                                   
Giunsi lì e mi trovai di fronte ad un modesto edificio, non molto grande ma accogliente per una cittadina come quella. Entrai e chiesi informazioni riguardo alla sezione dei giornali: era l’ultimo scaffale a destra, l’unico ed il solo aggiungerei. Vicino vi era un tavolo con delle sedie per la lettura. Adagiai la valigetta sul legno e cominciai a consultare il dorso di ogni volume. Quella bambina poteva avere all’incirca nove o dieci anni semmai, quindi cominciai a sfogliare dai volumi dell’anno scorso in poi.                                                                                           
All’interno di quei grossi raccoglitori le pagine di giornale erano ingiallite, ma non così tanto da impedirne la lettura. Presi il volume dell’anno precedente, ma non trovai nulla di rilevante. Quelle notizie facevano eco al paese vicino che era poco più grande di Willand, ma riguardo al villaggio nulla se non notizie di sagre e fiere di paese.
Si poteva essere così insensibili e omertosi?                                                                                                                                          
Tuttavia non mi persi d’animo e ricercai nel volume di due anni fa , quello del 1989. Le pagine dei giornali erano disposte in base ai mesi e in ordine rigorosamente cronologico.                                         
Sfogliai le pagine con foga e portando l’occhio su ogni trafiletto possibile, ma ecco che voltando la pagina su un’edizione di settembre trovai ciò che cercavo. La notizia non era in prima pagina, ma sacrificata in un misero trafiletto a destra dove, per lo meno, qualcuno aveva avuto criterio di porre la foto di un uomo. Il titolo era :” Il Dottor Meynell muore improvvisamente con tutta la sua famiglia”.
Quel “muore improvvisamente” non mi sembrava adatto alla situazione. L’articolo diceva che dopo aver ricevuto visita dalle autorità governative il dottor Meynell  uccise sua moglie e suo figlio e poi si tolse la vita. Dopo quanto letto rimasi sconcertato: avevano pubblicato una notizia falsa.
E non corrispondeva al racconto fatto dall’autista, e ciò mi portò a pensare che anche la redazione fosse stata in qualche modo  influenzata da quelle che il giornale definisce “autorità governative”.                                                                
Portai di nuovo gli occhi sull’articolo per leggere il resto. Testualmente c’era scritto: “ Uccide moglie  e figlio e poi si toglie la vita, ma l’unico sopravvissuto è la figlia maggiore. L’unica purtroppo ad aver subito pesantemente gli errori di un genitore“.                                                                                                          
Il volume mi scivolò dalle dita e ricadde sul tavolo con un tonfo sordo. Era vero che non sapevo se la notizia fosse falsa o meno, ma per istinto preferii aver fede al racconto dell’autista. Non potevo credere che avessero avuto una simile faccia tosta  a pubblicare una roba del genere, per lo più di un caso di omicidio accantonato in un articolo di fondo. L’età della bambina non era specificata, ma era palese che quella che viveva nella casa abbandonata fosse proprio quella bambina. Provai a sfogliare altri volumi degli anni precedenti per cercare una qualche notizia sul dottor Meynell, ma niente da fare.
L’unico sbocco era stato quel misero articolo di fondo, nulla più.                                                           
Provai anche a chiedere alla bibliotecaria ma niente informazioni sul dottor Meynell, non avevano alcun dato su quel dottore. Eppure era stato un abitante di quella cittadina, dovevano pur sapere qualcosa! Uscii di corsa da quel posto e ormai l’unico ufficio che mi veniva in mente era l’anagrafe del comune. Arrivai lì col fiatone e per fortuna l’ufficio era deserto.  Mi avvicinai al bancone e quando chiesi del dottor Johan Meynell, l’impiegato increspò un’ espressione a dir poco stranita: tra il sorpreso e lo sconcertato.                                                        
–Perché fa quella faccia?? Cosa c’è non può rispondermi?? Si tratta di una cosa seria!! – per un attimo stavo perdendo le staffe, e battei le mani sul banco di marmo bianco.                                        
L’impiegato abbassò un attimo lo sguardo colpevole, ma alla fine si convinse:                                           
-Se le mostro il fascicolo del dottor Meynell, la prego di non farne parola con nessuno.                     
E dato che lei mi sembra un uomo di fiducia non le chiederò di lasciare il nominativo.                                                              
–La ringrazio … - risposi ansioso di prendere tra le mani la verità. L’impiegato lasciò un attimo la sua postazione per poi ritornare con il fascicolo in mano.                                                                                                                       
Quando lo ebbi tra le mani, sentii come un brivido percorrermi la schiena, ma poi lo aprii con decisione. Dentro c’erano tutti i dati personali del dottore: le sue qualifiche, la data del suo trasferimento a Willand con la moglie, e lì anche i dati dei due figli. La figlia maggiore si chiamava Sarah Meynell. Sarah .
Questo nome  risuonò nella mia mente come il rimbombo di una campana. Subito il lampeggiare abbagliante di due occhi verdi fece luce nel buio dei miei dubbi.
Il figlio più piccolo ,invece, si chiamava Edward Meynell ed era due anni più piccolo della sorella maggiore. A parte i dati personali, e le qualifiche del dottore non c’era nulla di rilevante sull’uccisione.                                                                                                             
–Ma come tutto qui?? – domandai deluso. Tante precauzioni solo per dirmi i nome dei componenti della famiglia! No che non fosse importante ma …                                                                                    
-Mi dispiace signore, anche se in questo ufficio sono contenuti gli archivi della polizia, non mi è concesso far vedere nulla senza l’autorizzazione di un ufficiale di polizia.- rispose stringendosi nelle spalle, con una faccia annichilita. Era la prima volta che mi capitava di trovare persone tanto superficiali e omertose.                                                                                                                                  
Mi arresi all’idea di ricavare altre informazioni e quasi sbattei il fascicolo sul bancone, spazientito.                                                                                                                                                                                       
–Mi dispiace, ma non posso farle accedere senza autorizzazione perché è un ordine che viene dall’alto.                                                                                                                                                        
–Ah, capisco … - risposi noncurante voltandomi. Stavo per andarmene, ma poi all’improvviso mi bloccai di colpo. “Ordini che venivano dall’alto” ripetei nella mia mente.      
A quel punto rivolsi nuovamente lo sguardo a quel ometto dietro al bancone, e lui mi fissava da sotto le lenti ovali. Era come se attendesse qualcosa, oppure come se volesse dirmi qualcosa. Io mi avvicinai di soppiatto e lui fece altrettanto contro il vetro del bancone.                           
–Non conoscevo personalmente il dottor Meynell, ma era un dottore davvero molto stimato un tempo. Ma un giorno, a quel che si dice, ricevette delle minacce.                                               
–Minacce?                                                                                                                                                   
-Sì, non c’è altro temine per descriverle. E da quel giorno stranamente, cominciarono a girare certe voci sul conto del dottore, tanto da perdere la stima degli abitanti del villaggio.                                           
Quegli “uomini in nero”, loro furono a creare tale scompiglio. Tuttavia qualunque cosa fosse il dottore non cedette, e così due anni fa quello che dovevano prendersi, se lo presero con la forza … purtroppo.                                                                                                                                
–Quindi è così che sono andate le cose. E sono stati quegli stessi uomini a … - cercai di concludere, ma l’ometto mi interruppe con un tacito cenno del capo.                                                                                       
–Si sa che cosa volessero? – domandai per approfondire la faccenda.                                                                         
–Magari lo sapessi! La polizia ha insabbiato la questione e hanno archiviato il caso come pluriomicidio e suicidio … - rispose l’impiegato facendo spallucce.                                                                                       
– E della bambina si sa nulla?- domandai con foga, nella speranza di estrapolare qualche informazione in più.                                                                                                                                                                 
–Scomparsa .                                                                                                                                                                                                    
–Come scomparsa?                                                                                                                                 
-In giro si diceva che si fosse trasferita con la famiglia di un amico del dottore, ma di lei non si è saputo più nulla.                                                                                                                                                                         
–Trasferita … - sibilai e l’uomo confermò con l’ennesimo cenno del capo.                                                     
Dopo quell’affermazione rimasi stuccato. Se la storia era vera, allora chi era la ragazzina della casa abbandonata? Dovevo vederci chiaro e due erano le possibilità: o la ragazzina era una ladruncola orfana senza nido, oppure quella era la figlia del dottor Meynell.                               
Ringrazia l’impiegato per le preziose informazioni, e mi catapultai fuori dall’edificio.                                  
Stavo letteralmente correndo, dovevo raggiungere al più presto la casa sulla collina. Mentre mi affrettavo nella mia mente, come la pellicola di un film, si proiettarono le immagini di quella casa, i progetti del dottor Meynell, l’apparizione improvvisa di quella ragazzina che brandiva un arma. Il suo sguardo carico di odio e dolore, sconvolto e minaccioso allo stesso tempo. Possibile che avessero liquidato la questione così, come niente fosse? Possibile che a nessuno importasse la tutela di una bambina di appena 9 anni?? Perché? Cosa aveva fatto di male? Assolutamente niente, eppure nessuno si curava di lei. “Trasferita”, ma a chi credevano di darla a bere?? Ricordai ancora le sue parole : “Siete venuti di nuovo qui!! Che casa volete?’” e  anche “Sei uno di loro!?”. Loro.                                                                                                        
Il quadro era chiaro. Quella bambina non poteva essere Sarah Meynell , lei era Sarah Meynell.
E oltretutto era sola.                                                                                                                          
Stavo correndo a perdifiato, ma non ce la facevo. Sostai vicino ad una fontana arrancando sulle ginocchia. Ero proprio fuori forma!!! Non appena stavo per riprendere quella corsa sfiancante, sentii il rumore di un motore avvicinarsi. Un taxi nero si accostò accanto a me e l’autista abbassò il finestrino.
Quando lo guardai non ci potevo credere: era lo stesso autista della volta scorta.                                                                                                                                                    
–Le serve un passaggio?? – domandò già aprendo la portiera.                                                                       
–Magari – risposi salendo a bordo. Non ci fu bisogno di aggiungere altro, che lui mi disse:                                       
-La collina, vero? – io non dissi nulla, mi limitai ad un cenno accompagnato da un lieve sorriso.                                                                                                                                                                               
Giunsi all’incrocio delle due stradine. L’autista si rifiutò di farmi pagare la corsa e mi disse che lo faceva per una buona causa. La vista di quell’uomo mi fece dubitare del grave giudizio che avevo sentenziato per gli abitanti di quel villaggio. Lo ringraziai e mi avviai a passo spedito in cima alla collina.                                                                                                                                             
Era pomeriggio, potevano essere le quattro e mezza le cinque, e alla fine arrivai. Contai i passi per non far rumore ed evitare che si spaventasse, e peggio ancora brandisse un’altra volta il fucile. Cauto mi avvinai alla porta. Udii dei rumori metallici provenienti dall’interno. Mi avvinai di soppiatto alla piccola finestra impolverata e ad un tratto la vidi. Era seduta alla scrivania, circondata da tutte le scartoffie che vidi l’ultima volta. Aveva il capo chino ed era intenta a  trafficare con qualcosa ,ma non capivo bene cosa fosse. Fatto sta che intravidi la punta di un cacciavite. Pulii il vetro con il palmo della mano per vedere meglio. Era come pensavo: quei disegni così precisi e dettagliati non potevano risalire a due anni fa. I fogli erano troppo puliti e nuovi, ed il tratto poteva decisamente essere sfumato con un semplice dito, perché fresco. Era stata lei a disegnare quei progetti, lei sfogliava quei libri aperti presenti nella stanza. Ed era proprio lei che in quel momento stava costruendo una protesi meccanica. Rimasi a dir poco scioccato, ma tutto quello che avevo visto sino a quel momento cominciava ad avere un senso. La osservai in tutti i suoi movimenti, non persi un passaggio. Il suo era il tocco di un professionista: ogni tanto si fermava a consultare il disegno, mentre alcune volte scriveva delle note accanto alle varie parti. Poi riprendeva di nuovo in mano il cacciavite e assemblava pezzi di metallo  e piccoli bulloni. Era chiaro che quello che stava facendo era solo una brutta copia, come dire. Ad ogni passaggio collaudava i vari movimenti e inseriva dei cavi , gli stessi che costituiscono i freni di una bicicletta. Da quell’angolazione non riuscivo ad avere una visione chiara del progetto, ma era qualcosa al limite dell’incredibile. Non c’era ombra di dubbio: se quella ragazzina era Sarah Meynell, vuol dire che era un genio.                                                                                                              Continuai ad osservarla per tutto il pomeriggio dallo spiraglio di finestra, e la ragazzina continuava interrottamente a costruire e a collaudare senza la minima pausa. Continuò così per tutto il pomeriggio fino alle sei, e alla fine si addormentò sul tavolo con il cacciavite in mano. A quel punto colsi l’occasione per entrare senza far rumore, altrimenti mi avrebbe puntato un altro fucile addosso. Aprii piano la porta illuminando appena la stanza con la luce tiepida di un tramonto d’autunno, e richiusi lentamente maledicendo i cardini cigolanti. La guardai: per fortuna non si era svegliata. Guradingo mi avvicinai alla scrivania: aveva le braccia incrociate sul tavolo, e la testa appoggiata su queste. Il suo respiro era impercettibile e l’espressione assopita dipinta sul viso, mi fece intenerire. Ad un tratto si strinse nelle braccia, come percossa da un brivido di freddo. Già, lì non c’era il riscaldamento e il calorifero non era accesso, chissà come aveva fatto a sopravvivere il precedente inverno, in quella casa … tutta sola … per fortuna all’angolo del muro c’era una coperta di flanella, la colsi e la posai sulle sue spalle. Subito la sua espressione si distese,  e mi parve di scorgere un lieve sorriso da quel viso d’angelo. Approfittando  del fatto che stesse dormendo diedi un’occhiata al suo prototipo. Lo presi tra le mani osservando ogni minimo particolare e tastandolo: era qualcosa di assolutamente incredibile. Una tecnica mai vista prima d’ora. C’erano delle microscopiche pompe d’aria a cui erano attaccati i cavi. Queste erano poste agli angoli di piegatura dell’avambraccio, e  lei ne stava montando altri all’altezza di quello che doveva essere il polso. Era incredibile, nessun inventore era mai riuscito a pensare ad una cosa simile: usare l’aria per i movimenti, o forse i cavi dovevano essere riempiti con dell’olio per motori o con un’altra sostanza viscosa. Era straordinario, sul mio viso era  dipinto puro sgomento. Quella era veramente idraulica applicata al corpo umano. Diedi anche un’occhiata agli altri progetti sulla scrivania: il disegno della mano era semplicemente meraviglioso. Delineato nei minimi particolari, ed ero oltretutto sicuro che fosse opera sua. Il foglio era teso e candido.                                                                                             
Per mia fortuna continuò a dormire per un bel po’, così ne approfittai per sfogliare qualche libro. Era eccezionale che una bambina di appena nove anni leggesse testi tanto complicati e dettagliati. In quella marea di volumi  ne trovai persino alcuni che leggevo io all’inizio della mia carriera.
Mi sedei sul pavimento poggiando la schiena sul muro adiacente, e cominciai a leggere un libro contenente le opere del maestro Da Vinci, con le spiegazioni dell’autore riguardo invenzioni del maestro. Sfogliando le varie pagine notai alcune note scritte a penna sui margini. C’erano alcuni passi cancellati con una netta riga d’inchiostro nero e una freccia che indicava il commento corretto. Non mi sembrava la grafia di un uomo adulto, ma quella piccola e ingombrante di un bambino. Alcune lettere erano, come dire, leggermente tremolanti.
La netta calligrafia di un infante. Andando avanti con le pagine i commenti si moltiplicavano, e la grafia era più evoluta e netta. Il  tratto nervoso di un bambino scrivano, poco più grande. Aveva superato tutte le mie aspettative, e pensare che in un primo momento alcuni passaggi avevano messo in difficoltà persino me. Quella ragazzina era un genio della meccanica. E dato che il padre era specializzato in questo ramo, mi sembrò logico che avesse avuto i primi istinti in tenera età. Finii di sfogliare il libro scrollando velocemente le pagine, quando ad un tratto il vento prodotto da quel movimento fece cadere sul pavimento un pezzo di carta bianco. Lo colsi e ne tastai la rigidità: era una fotografia. La girai e rimasi semplicemente a bocca aperta.
Era allibito, stuccato e soprattutto, mi pervase un senso di tristezza e di angoscia. Era una sensazione viscerale che alla fine mi trafisse il cuore come un pugnale.                                                                                     
Una bambina e un bambino. Sorridenti, spensierati,vivaci. La bambina poggiava le mani sulle spalle del fratello. Il bambino ,invece, sollevava il braccio, come per gridare un “Urrà!”.                                                   
Ma solo quel braccio. L’altro non c’era.                                                                                                               
Ed ecco che risolsi, a malincuore, il mistero della protesi meccanica. Non era un eventuale progetto da presentare a una qualche commissione internazionale, era semplicemente per quel bambino. Edward Meynell monco del braccio sinistro.                                                                                      
Un mugolio riscosse il vorticare dei miei pensieri: la bambina si stava svegliando. Subito riposi la foto tra le pagine del libro, che chiusi frettoloso con due dita.                                                          
Mugugnò ancora qualcosa finché non aprì gli occhi. Erano così cristalline le sue iridi verdi.                                                           
Quando si svegliò del tutto, quasi non le venne un colpo nel trovarmi lì:                                                                            
-E tu che diavolo ci fai qui!!?? – urlò cadendo dalla sedia, e muovendo il braccio a tentoni in cerca di qualcosa.                                                                                                                                                                             
–Il fucile è dall’altra parte – la informai, e a quel puntò credo che si maledì per aver lasciato la sua sicurezza dall’altra parte della stanza.
Una bambina non dovrebbe sentirsi sicura con un fucile in mano, per quanto possa essere intelligente ed esperta.                                                               
–Si può sapere che ci fa lei qui? – domandò rialzandosi e riprendendo la sua compostezza.                                      
–Dimmi una cosa – proruppi ignorando la sua domanda – perché hai usato delle piccole pompe, invece che delle valvole o dei bulloni?                                                                                                        
-Bè, perché le valvole e i bulloni sono materiali troppo pesanti e impediscono i movimenti, invece le pompe d’aria captano i segnali nervosi e li trasmettono lungo i cavi. Così è più facile, no? – rispose in automatico, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ma poi si accorse della sua loquacità e avvampò di colpo.                                                                                                         
–Ma … ma  un momento!! Come fa a sapere tutte queste cose??!!! … Si è permesso di prendere tra le mani il mio progetto??  Come si è permesso?? – farfugliò parandosi davanti alla scrivania e impedire che guardassi oltre.
Io sospirai, quella ragazzina era davvero testarda!!                                                                                                                                                     
-Si può sapere chi le dà il diritto di entrare qui? Guardi che anche se si è presentato noi non ci conosciamo affatto!! – sbraitò, presa dal nervosismo.                                                                                                                         
–Io ho il diritto di entrare qui, perché non credo alle chiacchiere di paese.                                                                           
–Che cosa vuole dire?? Che ha fatto ricerche sul mio conto? – domandò sospettosa, e ci aveva azzeccato in pieno.                                                                                                                                                       
–Sì, mi dispiace ma io non me la bevo la storia del suicidio.- dissi serio.                                                                                                
Lei abbassò il capo e strinse i pugni infervorata.                                                                                                                        
–Perché insiste tanto?? – domandò con un filo di voce – CHE COSA VUOLE DA ME???                               
-Solo aiutarti.                                                                                                                                                                                      
–Aiutarmi ..- ripeté con una punta di  ironia – Che sciocchezze!!! Nessuno può aiutarmi … Per questo preferisco rimanere qui, almeno la mia esistenza non sarà un peso per gli altri! Non voglio commettere lo stesso errore che ho fatto con i miei genitori e mio fratello!!! – urlò infine, sollevando il viso rigato da lacrime di rimorso.                                                                                      
–Che vuoi dire ?? Come “errore” ? – domandai stupito, c’era qualcosa che non sapevo ancora.                                                                                                                                                                                                                              
–Allora, visto che è tanto curioso glielo spiego io, si sieda e ascolti questa bella storiella. Oramai, dato che è giunto sin qui avrà capito che io sono la figlia del dottor Meynell.                                                         
–Bene, raccontami la tua storia – la esortai mestamente.                                                                                                
–D’accordo, ma apra bene le orecchie, perché non intendo ripetere tutto una seconda volta– mi intimò rude passando la manica della felpa sul viso, per asciugare rapidamente le lacrime trasparenti che non voleva mostrare.                                                                                                                                              
–E’ successo tutto due anni fa. Eravamo una famiglia che viveva felice  e serena in questa casa, che ormai oggi cade a pezzi. E’ stato quel maledetto giorno di due anni fa, a cambiare la mia via vita per sempre! Mio padre, il dottor Meynell era un uomo molto stimato e rispettato dal villaggio, sia per le sue competenze che per la sua affabilità. Aveva una grande passione per il suo lavoro e vivevamo dei soldi ricavati dai suoi progetti. Facevamo la classica vita delle famiglie degli inventori. Già da prima che nascesse mio fratello si dedicava anima e corpo alla costruzione di arti artificiali, ma quando nacque mio fratello portare a termine il suo progetto diventò la missione della sua vita. Infatti,  a  causa di una malformazione genetica, mio fratello nacque con un braccio solo. Nonostante fosse un bimbo molto piccolo, notava differenze rispetto agli altri bambini. Anche semplicemente guardando noi, capiva subito dove stava la diversità: noi due braccia, lui uno solo.                                                       
Tuttavia, riuscii comunque ad adattarsi alla sua situazione e giocava come un bambino normale, e io lo proteggevo dai dispettosi che si permettevano di prenderlo in giro e da tutte le male lingue. Sì perché in questo paese la gente è ignorante e meschina, e soprattutto è repellente.
Comunque finché papà lavorava al suo progetto, nulla era impossibile.
Ce l’avrebbe fatta a costruire un braccio nuovo a mio fratello. Perfino io ne ero convinta, tanto che mi dilettai a leggere i suoi libri comprendendoli senza alcuna difficoltà. Decisi di aiutare mio padre e lui notando il mio impegno, con sua sorpresa, mi accolse come aiutante dicendo che ero un piccolo “genio”.
Non mi sentivo un genio, ma stranamente si sparse la voce del progetto di mio padre il quale aveva chiesto aiuti ad una commissione per finanziare la sua opera. E alla fine a metà del lavoro, due anni fa arrivarono loro. Io captai solo alcune frasi della conversazione, ma non riuscii a capire bene cosa volessero.
Da quel giorno mio padre divenne nevrotico, e soprattutto mi proibì di aiutarlo ancora, liquidandomi con la scusa che ero una bambina e che era preferibile che giocassi all’aperto, invece che stare rinchiusa nel suo studio con lui. Passava giornate intere nel suo studio, a volte saltava i pasti e rimaneva sveglio tutta la notte. Ma la sua foga di finire quella maledetta protesi lo portò a diventare più isterico di quanto non lo fosse già.                                                           
Anche la mamma era più taciturna, e anche se non contestava l’operato di mio padre aveva sempre un’espressione malinconica quando guardava me e mio fratello. L’aria in casa era diventata insopportabile, ma alla fine quello stesso anno ritornarono di nuovo. In realtà io non ero in casa, perché io ed Edward eravamo andati a giocare in paese con qualche bambino del villaggio.                                                                                                                               
Edward  li  vide, ma non mi disse niente quello stupido marmocchio! E senza che io me ne accorgessi, perché intenta a capire cosa stesse succedendo in casa mia, lui lì seguì fino a casa. Quella fu l’ultima … l’ultima volta che lo vidi ancora in vita … perché … poi … - la sua voce tremava, non riusciva a trattenere i singhiozzi. Da quegli occhi cristallini scesero copiose lacrime a rigarle il viso. A come tirava su col naso sembrava che le bruciassero violentemente le gote. Io le porsi un fazzoletto, ma lei sviò lo sguardo e si asciugò ancora con la manica sporca della felpa.                                                                                                                                                       
–E’ bastato solo un attimo che le vite dei miei cari mi sono scivolate dalle dita, così come nulla fosse … Come un dannato sapone … Quando mi accorsi  che mio fratello era andato via chiesi agli altri bambini, e loro mi dissero che era ritornato a casa perché aveva dimenticato una cosa. Stava per piovere e corsi immediatamente a casa, ma nella strada in gruppo, sorpassai quei dannati uomini in nero. Portavano delle sacche con loro, forse erano le custodie per le armi ma in quel momento non capii nulla. Dovevo solo tornare a casa. Corsi su per la collina e quando entrai: buio. Li chiamai ma non rispondevano. Non c’era nessuno. Provai ad accendere l’interruttore, ma non funzionava.                                                                                                 
Io la guardavo con un’ansia mozzafiato, e la cosa più terrificante e che mentre raccontava i suoi occhi limpidi si oscuravano di rancore puro.                                                                                     
–Si chiederà che fine avessero fatto, eh? – sorride mesta – Le basti sapere che appena feci un passo qualcosa di denso e bagnato mi cadde sul viso.
Con l’oscurità non vedevo nulla, ma ci pensò un fulmine ad illuminare la stanza. Appesi al soffitto penzolanti e coperti di sangue c’’erano i miei genitori.
Mi accorsi che tutta la stanza aveva spruzzi di sangue dappertutto e segni di tagli  nei muri. Non lo so che … che arma avessero usato , però … gli hanno mutilati!!! Urlai tra le lacrime come non avevo mai fatto prima. Mi ricordo ogni minimo dettaglio … vomitai persino e speranzosa corsi a cercare mio fratello. Trovai la porta del ripostiglio crivellata, l’aprii e trovai mio fratello esanime seduto per terra come un pupazzetto. Lo scossi ma senza successo non si svegliò mai più … il resto lo può immaginare. La richiesta di aiuto in paese e la polizia . Sono stati quegli uomini … QUEI BASTARDI CON LA GIACCA NERA!!!!!! – urlò infine con il viso completamente bagnato, mentre alcune ciocche si attaccavano sulla pelle umida, a causa dello scuotere imperioso del capo. Io ero allibito da un racconto simile.
La trama di un film dell’horror.                                                                                        
Delicatamente allungai la mano per asciugarle il viso con il fazzoletto di stoffa. Lei si ritrasse un attimo, ma poi si ammansì al mio gesto. Le porsi il fazzoletto e lei lo prese in mano:                                          
-Grazie – fu la prima volta che vidi quegli occhioni arrossati esprimere gratitudine.                                                                      
– E così sei rimasta qui per tutto questo tempo? – domandai abbastanza stranito.                                                                  
–In realtà, per un periodo di tempo ho vissuto con un compaesano amico di mio padre e la sua famiglia. Tuttavia l’anno scorso si trasferirono, ma io non li seguii. Il signor Veteran insistette ma io, non andai con la sua famiglia.                                                                                                                               
–Perché?                                                                                                                                                             
-Se avessero saputo che ero con loro, probabilmente avrebbero fatto la stessa fine della mia famiglia. Ci avrebbero uccisi tutti, e poi sarei stata di troppo visto che sia moglie che figli erano abbastanza scettici nei miei confronti, e si tenevano a distanza. Tuttavia l’intero villaggio sa che io mi sono trasferita con loro, quindi il ladruncolo che va in giro a derubare è un’altra persona. Una canaglia, come dicono loro- concluse a capo chino, mentre i capelli le nascondevano il volto.                                                                                                                                                        
–Non hai mai pensato che se rimanessi qui, potrebbero anche venire a prenderti? Se conoscevano tuo padre significa che conoscevano anche tutti i membri della sua famiglia.
Se davvero gli hai incontrati per strada quel giorno, allora perché non ti hanno uccisa? – le mie domande retoriche avevano il preciso scopo di farle arrivare alla mia stessa conclusione. Lei prendendo coscienza di ciò che intendevo dire, spalancò gli occhi allibita.                                       
–Non … può essere … - sibilò rauca, mentre le cornee divenivano lucide.                                                                 
–Probabilmente, era te che cercavano – conclusi amaro. Sarah ricadde sulle ginocchia, come priva di forze. Si guardò le mani tremanti angosciata, come se fosse inorridita da se stessa. E alla fine, come era prevedibile, scoppiò in un pianto dirotto coprendosi il viso con le mani. Per quella povera anima,  io non potei far altro che inginocchiarmi e metterle una mano sulla spalla. Alla fine riuscì a farsi abbracciare, ma in modo tenue e distaccato. Doveva superare tutto da sola, io non potevo fare niente.                                                                                                 
Passò qualche minuto e alla fine, rassegnata, smise di piangere.                                                                             
– Perché? – proruppe ad un certo punto, seduta sul pavimento con le ginocchia alte –Perché lei è qui? Perché vuole aiutarmi?                                                                                                                               
- Perché non sopporto le ingiustizie –le risposi semplicemente. A quel punto mi lasciò di stucco: sorrise. Per la prima volta mi sorrise, in modo sincero e spensierato.
Il sorriso luminoso e bellissimo di una bambina.                                                                                                                                          
–E pensare che le avevo quasi sparato!!! – concluse, direi divertita.                                                                               
–Bé, mi hai messo davvero paura!! – risposi scherzosamente, sorridendo di rimando.                                                                    
–E nonostante questo … lei vuole davvero aiutarmi?                                                                                            
-Sì – confermai convinto, mettendo a disposizione tutta la mia fiducia. Lei timidamente allungò la mano aperta ad attendere la mia:                                                                                                                   
-Allora meglio che ricominciamo da capo – disse flebilmente, con una punta di imbarazzo.                
- Ciao io mi chiamo Sarah. Sarah  Meynell. Ma forse lei sa già il mio nome- quella bambina era più acuta di quanto pensassi. Tesi la mia mano e strinsi amichevolmente la sua.                                    
–Io sono Quilish Wammy, piacere di conoscerti – a quel punto ci scrutammo e sorridemmo entrambi.                                                                                                                                                                                                                          
Trascorse una settimana e per tutto quel tempo io le feci visita ogni giorno portandole da mangiare, così  avrebbe evitato di rubare. Alla fine dissi tutto a Micheal, poiché continuava a punzecchiarmi con la sua insistenza.
Ma gli feci promettere di non farne parola con nessuno. Nonostante fosse un po’ scocciata all’idea di vedermi tutti i giorni, Sarah mi apriva ugualmente e mi accoglieva nello studio del padre. Lei mangiava e viveva lì, perché diceva che se fosse entrata nella casa si sarebbe ricordata del sangue.
Dopotutto era pur sempre una bambina.                                                                                                                                              
Le mostrai alcuni miei progetti di cui lei ne rimase entusiasta. Ed era davvero interessante per me ascoltare le sue opinioni. Sembrava davvero di parlare con un mio pari e anche la descrizione del suo progetto, suscitava l’emozione dell’inventiva che mi pervadeva da giovane. Anche a lei brillavano gli occhi quando parlava.                                                                              
Decisi che dovevo portarla con me alla Wammy’ s House : era l’unico modo per toglierla dalla strada e coltivare il suo talento.
Nel profondo del suo cuore voleva scoprire chi fossero quegli uomini e rovinarli di conseguenza. Un atto come quello era imperdonabile, comprendevo appieno il suo risentimento.
Ma rimanendo lì non avrebbe concluso nulla, così alla fine le proposi di venire con me. All’iniziò fu  un po’ spaventata all’idea, doveva affrontare l’ostacolo più grande di tutti: lasciare il nido, il suo passato ed andare avanti.                                                            
Le parlai dell’orfanotrofio speciale che avevo fondato, le assicurai che lì sarebbe stata al sicuro e che avrebbe approfondito tante nuove materie.
Per una mente come la sua sarebbe stato il paradiso, per come era avida di sapere.                                                                                                                         
All’inizio non era convinta ma poi le lasciai un po’ di tempo per riflettere. Sapevo che era forte e che avrebbe preso la decisione giusta.                                                                             
Quando ritornai il giorno dopo, senza neanche che lo domandassi di nuovo lei aveva già deciso:                                                                                                                                                                          
-Wammy … - disse folgorandomi con le sue pozze verdi, sature di determinazione – Ho deciso!! Verrò con te!! – e poi sorrise soddisfatta.                                                                                                                 
–D’accordo , allora domani partirai con me.                                                                                                                                
Il giorno della partenza arrivai alla collina in taxi, e diedi un ultimo sguardo alla casa ma per mio grande stupore stava divampando.
Fiamme alte si ergevano in cima alla collina.
L’autista fermò di colpo l'auto, io scesi in preda alla disperazione percorrendo a falcate la salita, ma quando giunsi lì tirai un sospiro di sollievo.
Sarah era lì davanti a guardare la sua casa trasformarsi in cenere. Io mi accostai a lei, ma non le dissi niente.                                                          
–E’ giusto così Wammy – proruppe leggendomi nel pensiero. Mentre nei suoi occhi si rifletteva il danzare delle fiamme espandersi in ogni angolo dell’edificio. Aveva soltanto un bagaglio con sé ed aveva indossato i vestiti che le avevo portato. Sembrava un’altra persona, nessuno l’avrebbe mai riconosciuta.
Rimanemmo lì in silenzio ad attendere la pioggia ormai imminente, intanto vapori solfurei si ergevano verso l’alto intingendo le nubi temporalesche di rosso.
Parevano striature demoniache, rosse come il sangue.                                                                                       
Sarah tirò fuori dalla tasca la fotografia che avevo trovato nel libro, la guardò un attimo velata dalla tristezza.  Ma poi la gettò tra le fiamme, le quali l’accolsero in un abbraccio scarlatto.                                                                                                                                                       
–Ma , sei sicura? – replicai.                                                                                                                                               
–Sì. Io non dovrò più tornare qui, se devo ricominciare devo farlo come si deve. E poi , puoi stare tranquillo, io non mi dimenticherò mai di mio fratello e dei miei genitori. Sarà un nuovo inizio.                                                                                                                                                                 
Attendemmo della pioggia, che non tardò a cadere e ad estinguere pian piano le fiamme. Quando arrivammo alla stazione stava poco a poco spiovendo e il nostro treno era in dirittura di arrivo.                                                                                                                                                                                            
–Però non è giusto Quilish! – protestò Micheal –Tu te ne vai in dolce compagnia mentre io resterò da solo a prendere il prossimo treno.                                                                                      
–Non ti preoccupare!! Ci rincontreremo presto e poi sai che lei ormai è la mia assistente!!                                            
Stranamente in quel momento notai il poliziotto dell’altra volta aggirarsi con il fruttivendolo e il panettiere.                                                                                                                                                                                          
–Come agente! Ancora in pattuglia?? – domandò Micheal.                                                                                                                                                                                                                                              
-In realtà, stavamo perlustrando la zona nel caso trovassimo il ladruncolo. Anche se è un po’ di tempo che non si fa vedere!!                                                                                                                                                 
-Certo che siete proprio ossessionati da questo ragazzino!!- proruppe Sarah, catturando l’attenzione dei presenti. Era irriconoscibile però …                                                                          
-Signor Wammy, chi è questa ragazzina? La conosce?? – mi interrogò il panettiere, squadrandola dall’alto in basso.                                                                                                                         
–Lei è  la mia assistente – risposi in maniera naturale. Tuttavia quel terzo grado non durò a lungo perché la sirena del treno aveva annunciato il suo arrivo. Salutammo i presenti, e salimmo sul vagone. Sarah però continuava a fissare fuori dal finestrino assorta, poi sussegui un altro fischio del treno che ne annunciava la partenza. Immediatamente la ragazzina aprì il finestrino sporgendo il capo fuori.                                                                                                                                                      
–Ehi!!! Signor panettiere!! Signor fruttivendolo!!!! Ed anche lei poliziotto!! – urlò ad un certo punto e quelli lì si voltarono – E’ inutile che mi cercate!!!  Tanto non mi prenderete mai!!! BLEAHHHH!!!!! – concluse facendo le boccacce. I tre rimasero di sasso e intanto il treno partì, lasciando i bracconieri con un pugno di mosche in mano. Mi parve anche di sentire dei latrati e delle urla da lontano, e intanto Sarah era ritornata a sedersi nella sua postazione. Incrociò le braccia soddisfatta, mentre io rimasi con un “ma” sulla punta della lingua.                                  
–Adesso ho un motivo in più per non ritornare più in questo villaggio!!                                                                
Io con la mano mi tappai la bocca trattenendo le risa.                                                                                                          
–Piuttosto Wammy, dimmi. Hai detto che tutti i bambini dell’orfanotrofio usano dei soprannomi con lei iniziali dei loro nomi. Hai idea di quale sarà il mio?                                                                                    
- Bé, in realtà si deciderà al momento,ma non penso di saranno problemi ad ammetterti con le doti che ti ritrovi e poi … ho già pensato al soprannome da darti.                                                  
–Ah , sì?? E qual è?? – domandò con gli occhi che le brillavano.

 

-Shiro – sibila Watari immerso nei ricordi dischiusi dalla fotografia. Sorride quasi divertito ripensando a come l‘aveva fatta pagare a quegli uomini tanto stupidi ed ottusi. Sospira, per ritornare alla realtà:  deve portare i dolci a Ryuzaki. Prende il vassoio e va via.
La porta blindata si richiude alle sue spalle.




                                                                                                     

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Capitolo 3
*** Marmellata ***


La porta automatica si richiude e il blocco metallo lo separa dalla persona con cui ha appena parlato. Ryuzaki rimane un attimo a fissare un punto impreciso del pavimento, composto da lastre di acciaio. Lisce, simmetriche, fredde . Sfrega i piedi nudi per riscaldarli in qualche modo, poi si incammina silenzioso in un corridoio atono, sempre uguale.                        
Come un labirinto di specchi. Prosegue adagio, senza alcuna fretta come a voler udire il ritmo dei suoi passi: il tonfo sordo dei piedi nudi che premono sulla superficie levigata del pavimento. Svolta un attimo l’angolo e si ferma davanti ad una di quelle gigantesche vetrate del  grattacielo.
Il sole che fino a poco tempo prima splendeva tenue nel cielo, come assopito, adesso è del tutto occultato da una da una spessa maschera di nubi grigie.                         
Si prospetta davvero un burrascoso temporale, a giudicare dal fragore incessante dei tuoni seguiti dai lampi accecanti.
Non un fiato si ode, c’è  solo la figura di L che pacato si avvicina al vetro per guardare fuori.
Abissi oscuri si riflettono, i suoi occhi sembrano più cupi del solito e le sue occhiaie decisamente più solcate.                                                                                                                       
–Non ti ho mai sopportata … Shiro – irrompe la calma solenne con la sua voce profonda e pacata, marcando sull’ultimo nome pronunciato.                                                                                                                                         
–Sempre in mezzo ai piedi – rimprovera seccato, portandosi l’unghia del pollice sinistro all’altezza del labbro inferiore, al fine di tormentarla con i denti. Il suo dissenso più che a a se stesso, lo ribadisce quasi nell’incredula speranza di percepire una replica da parte della ragazza. Come se da un momento all’altro potesse arrivargli all’orecchio una delle classiche frecciatine di Shiro, che per anni alla Wammy’s House l’avevano assillato.                                                         
Intanto le prime gocce si scontrano sul vetro e scivolando sulla superficie, poi ne giungono altre sempre più veloci e iniziano a picchiettare violente sulle finestre. L vede tanti spilli piovere dal cielo, gli danno una macabra sensazione. Aghi che piovono dal cielo, la sua gli pare una metafora un po’ dolorosa.
Tuttavia non comprende ancora per quale motivo abbia pensato a una cosa del genere. Sospira impercettibilmente: il suo respiro è così flebile da non provocare nessun spostamento d’aria.                                                                                                  
<< Hai attraversato una 
foresta di spine … Shiro  >>.
 


7  Settembre 1991 , The Wammy’s House [ Winchester ; 9:35]                                                                                                                     

Era una tranquilla giornata di inizio autunno, oramai foglie variopinte iniziavano a posarsi sulla vivida erba estiva. I bambini cominciavano già ad infilarsi nei cappotti, a causa delle gelide brezze che spesso provocavano i primi malanni per i più piccoli. Tuttavia in qualsivoglia rigida temperatura, erano immancabili gli schiamazzi dei bambini, i quali proseguivano i loro giochi spensierati. Udivo il suono ovattato del chiasso, dalla finestra della mia camera. Isolata e l’unica finestra presente lì. Per quanto mi riguardava da piccolo non amavo, per così dire: “ la vita all’aperto”; anche se più volte Watari mi aveva esortato a fare qualche passeggiata e a prendere una boccata d’aria, io preferivo di gran lunga star seduto sul pavimento della mia camera davanti al pc.
Rannicchiato nella mia solita posizione mentre la luce bianca dello schermo batteva sul mio viso, come i raggi di un sole artificiale.
Di solito mi occupavo degli affari di Watari: gli consigliavo quali azioni erano favorevoli all’investimento ed al guadagno, ma per il resto non c’era nulla che mi attirasse in modo particolare.
Stavo lì immobile, seduto sul pavimento a contemplare il barattoli di marmellata portati da Roger. In verità,  nelle due ultime settimane Watari non era presente nell’istituto. Mi disse che aveva un affare urgente da sbrigare, ma non sapevo altro. Tuttavia, per non farmi restare in astinenza di dolciumi per tutto quel tempo , aveva preparato torte e pasticcini per soddisfare un’autonomia di circa sette giorni, ma in realtà sono durati pressappoco tre.
Così andavo avanti con la scorta di emergenza: barattoli interi di marmellata. Sembrerà assurdo, ma in quel momento provavo la noia più totale. Io ero accovacciato lì nella mia consueta posizione fatale, e stavo raccogliendo con l’indice l’unica traccia di marmellata di fragola rimasta nel barattolo di vetro.
All’angolo del muro alla mia destra, c’era un cumolo di cilindri di vetro, lindi e trasparenti: nessun granello di zucchero era rimasto su di essi.                                                                                                                                                
<< Accidenti … questo è l’ultimo >> pensai mentre feci rotolare il barattolo vuoto verso il mucchio, esso si scontrò con altri producendo un lieve tintinnio.                                                                            
Sospirai pesantemente : mi  annoiavo. Mi annoiavo a morte . Non c’era per me nessuno sfogo che potesse spazzare via quell’aria monotona, impregnata di spossatezza. Ricurvo con le mani sulle ginocchia, seguivo con gli occhi il movimento oscillante del logo dello screen saver: una grande L gotica.
Sempre le stesse cose, mai una novità.                                                                
–Che tristezza! – mormorai tra me, visibilmente amaro. Forse perché non c’era Watari e mi sentivo, come dire … un po’ solo.
Ma del resto la solitudine per me non era un problema rilevante, non avere contatti con gli altri ed il mondo esterno per il sottoscritto era una cosa priva di interesse. Io la chiamavo: futilità. Preferivo avere la mia stanza, i miei spazi, la mia indipendenza, anche se per quest’ultima i dolci facevano eccezione.
Ed anche tuttora.                                       
Chiusi un attimo gli occhi, per affinare l’udito, nella convinzione di percepire un barlume di speranza, una qualsiasi cosa che avrebbe spezzato quel macabro incantesimo che mi stava soffocando. Ma nulla. Udivo soltanto gli schiamazzi dei bambini che giocavano spensierati nel cortile: le voci libere e confusionarie di bambini che si rincorrono, si rotolano sull’erba e saltano sulle foglie morte per sentire lo scricchiolio sotto le scarpe. Niente di nuovo.
Sospirai impercettibilmente, smuovendo il mouse per visualizzare il desktop, ad un certo punto udii un altro rumore aggiungersi a quelli che percepivo già. Era quello di un motore, un ‘auto. Incuriosito mi alzai ( o per meglio dire gattonai) e mi diressi verso la finestra attraversando a tentoni il labirinto di fili sul pavimento. Mi bastò avvicinarmi giusto di qualche passo, ed i raggi flebili già riscaldavano parte del mio viso diafano.
Rivolsi semplicemente lo sguardo all’esterno, pacato come sempre. Quell’angolazione era sufficiente per permettermi di guardare l’ingresso.
Come potei ben immaginare una limousine nera, lucida era parcheggiata davanti al cancello: ergo Watari era ritornato.
Lo vidi scendere dall’auto e sistemarsi il capello in testa, ma stranamente non varcò subito la soglia.
Bensì aprì lo sportello posteriore: qualcuno era sceso dall’auto. Un nuovo arrivato? Probabile, ma non mi interessavo molto ai nuovi arrivati, per la verità
da quando ero in quell’istituto non mi mancava nulla, ma al col tempo sentivo che non ci fosse nulla che suscitasse particolarmente il mio interesse.
Neanche studiare mi permetteva di essere attratto da qualcosa. Tutto mi scivolava di dosso, non provavo alcun interesse per nulla, se non i dolci che  mi permettevano di concentrarmi meglio, ma a parte questo niente mi coinvolgeva particolarmente.
Quillsh rimase un attimo davanti al cancello della Wammy’s, affiancato da una figura minuta che osservava spaesato l’intera struttura.
Come un lampo nell'oscurità, mi tornò alla mente quel giorno di neve in cui Watari mi portò in questo istituto.
La neve, le campane della chiesa accanto che annunciavano l’inizio della funzione religiosa. Ricordo ancora l’inferriata del cancello automatico aprirsi lentamente in uno stridio metallico. Non appena misi piede nell’edificio si capì subito che ero assolutamente incompatibile con gli altri, perciò preferivo rimanere nella mia stanza, circondato dai puzzle, cubi di Rubik, e dal computer. Anche così, però, non ero sufficientemente stimolato mi mancava qualcosa. Uscivo soltanto per andare a lezione, e neanche studiare mi soddisfava.
Facevo tutto svogliatamente ottenendo sempre il massimo dei risultati: ero un fantasma …
Continuai a guardare da quello spiraglio: Watari stava entrando assieme al nuovo arrivato, mentre lo teneva per mano.
Sicuramente sarebbe arrivato nella mia stanza una volta terminato il consueto colloquio con Roger, ma non mi andava di aspettarlo.                                                      
Così, per la prima volta, presi l’iniziativa ed uscii dalla mia camera per andargli all’incontro. Probabilmente alcuni vedendomi si sarebbero stupiti, ma il caso volle che fosse domenica e quindi gli orfani erano fuori a giocare, mentre i corridoi dell’istituto erano completamente deserti.
Camminai piano, non avevo fretta , e raggiunsi l’ingresso. Bastò un attimo che Watari si accorse subito della mia presenza: si voltò subito e io mi fermai.
Rimase un attimo perplesso, fissandomi interdetto. Potevo ben immaginare il suo stupore: vedere lì il bambino con i capelli corvini, occhi ossidiana solcati da profonde occhiaie, con indosso vestiti più larghi del normale e il consequenziale dito in bocca, credo che anch’io sarei rimasto alquanto sorpreso.                                                                                                                                                                
–L!! – mi chiamò Watari, cancellando lo stupore dal volto, sostituendolo con una gioia ponderata.                                                                                                                                                                                     
–Bentornato, Watari – risposi pacato, togliendo il dito dalle labbra.                                                                                                 
–Come mai qui?- domandò avvicinandosi – Di solito non scendi mai all’ingresso.                                                         
–Bé, mi annoiavo in camera mia e poi ti ho visto arrivare – spiegai senza scompormi, mentre lui accennò ad un lieve sorriso.
Lui capiva e non pretendeva nulla da me. Sapeva semplicemente come ero fatto e perciò mi accettava così com’ero.                                                                                      
Dietro di lui una figura esile faceva capolino: era una bambina dai capelli castano chiaro, non molto tendente al biondo per la verità.
Avevano lo stesso colore dei gusci delle mandorle; erano lisci e lunghi sino alle spalle. Incorniciavano un viso paffuto e affusolato allo stesso tempo, con lineamenti gentili e delicati. Scostando leggermente lo sguardo da Watari, intravidi i grandi occhi verde acqua della bambina, i quali mi fissavano perplessi.                             
Notando la mia curiosità sulla nuova arrivata, Watari si voltò verso la bambina e permise ad entrambi di scrutarci meglio:                                                                                                                                                                                   
-Già che ci sei, ti presento la nuova arrivata –si scostò indicandola con la mano. Io rimasi fermo in silenzio, mentre lei mi guardava incuriosita sbattendo stupita le palpebre. Avevano sempre tutti un’espressione accigliata quando mi guardavano ...                                                                                                                           

Lei si avvicinò di qualche passo, senza mostrare alcuna timidezza e sorrise tendendo la mano: - Piacere, io mi chiamo … ah giusto, non posso dire il mio vero nome – disse rivolgendosi a Watari.                                                                                                                                                                                                      
–Non preoccuparti ti assegneremo quello nuovo non appena avrai parlato con il direttore – a quell’affermazione tutta l’iniziativa della ragazzina si spense all’improvviso, e assunse un’aria preoccupata.                                                                                                                                                              
–Sta tranquilla!! Andrà tutto bene vedrai! – la tranquillizzò Watari, e lei sorrise  di rimando. Aveva ancora la mano a mezz’aria, ma poi la ritrasse:                                                                                           
-Allora quando mi daranno un nuovo nome, ci presenteremo- mi disse sorridendomi amichevolmente. Io non mi scomposi, non avevo molto tatto, anche se devo dire che quella fu la prima volta che vidi un sorriso così sincero e spontaneo da sembrare irreale. Prevedevo che prima o poi quel sorriso si sarebbe trasformato in una smorfia di astio, o sarebbe diventato falso col passare del tempo. Non dissi nulla, ma rimasi ad osservarla, chissà se lei avrebbe spazzato via la mia noia. Ma diedi a questa possibilità solo il 3%, o meglio lo 0,3%. In ogni caso la situazione non sarebbe cambiata di molto, per quanto fosse abile ed intelligente. Watari cominciò ad incamminarsi all’interno assieme alla bambina, io li seguii silenziosamente con la mia solita andatura ricurva. Tenevo una certa distanza per osservare meglio, come uno spettatore: mi convinsi che dovevo testare quella ragazza, vedere quanto fosse in gamba.
Non so bene il perché, di solito queste cose mi davano noia, ma forse ci credevo davvero in quello 0,3%. Watari la condusse nell’aula dei test,
dove c’era una vetrata a muro, che mostrava l’interno dell’aula.                                                                                                                        
–Aspetta qui, intanto puoi sederti ad un banco- le suggerì Quillsh lasciando l’aula. Lei annuì lievemente, e colsi del nervosismo nei suoi modi di fare.
Io rimasi fuori in disparte, mi accovacciai su una sedia lì in corridoio e la osservai dal vetro: continuava a guardarsi intorno, come per allentare la tensione. Girava tra i banchi, sfiorandoli con le dita, mentre contemplava dalla finestra il cortile adiacente. Poi si sedette ad un banco, e nell’attesa cominciò a dondolarsi con la sedia , intrecciando le dita dietro la nuca. Rivolse lo sguardo in direzione della vetrata: ora lei mi stava fissando. Io continuavo a monitorarla, tormentandomi l’unghia del pollice. Alla fine Watari ritornò accompagnato da Roger, il quale come sempre era tenuto ad incontrare i nuovi allievi, anche lui notò la mia presenza e cacciò stupore.                                                                                                                                                                                                                   
–Buongiorno L – mi salutò, mantenendo intatta l’espressione sorpresa dipinta sul volto.                                                           
–Buongiorno – risposi senza neanche guardarlo, continuando a giocherellare con l’unghia del pollice. Io puntavo i miei occhi sulla bambina, era lei l’oggetto del mio interesse in quel momento. Roger e Watari entrarono e lei si mise sull’attenti. Il preside della Wammy’s  avvicinò una sedia di fronte alla cattedra e la invitò a sedersi.
Lei ubbidì senza troppe esitazioni, trovandosi faccia a faccia con Roger seduto dalla parte opposta e Watari in piedi alla sua destra.
Dovevano testare il suo quoziente intellettivo, facendolo passare per un gioco ed anch’io fui curioso di scoprire il suo reale potenziale, sempre in virtù di quello 0,3%.                                                              
–Dunque cominciamo … - iniziò Roger, e la bambina annuì attenta. Era un po’ troppo tesa per i miei gusti, ma credo che lo sguardo rassicurante di Watari riuscisse in qualche modo a mitigarla. Il primo test consisteva nel guardare un’immagine e riuscire ad individuare tutto ciò che era sbagliato, e Roger doveva cronometrare quanto tempo ci impiegava a trovare le differenze:                                                                                                                                                                                          
-Allora , guarda questa immagine e poi dimmi tutto quello che c’e di sbagliato- disse azionando il cronometro. In realtà a vederla non sembrava neanche così concentrata: l’immagine raffigurava un uomo alla guida di un’auto, su una strada deserta . Non c’erano altre figure oltre a quella: banale.                                                                                                                                     
–L’uomo ha solo quattro dita – rispose. Mediocre, superficiale.                                                                                                                     
–Giusto- il vecchio spense il cronometro – Ma ora vorrei che la guardassi con un po’ più di calma in modo da individuare … - stava alzando di nuovo il cartoncino stampato, ma la mano della ragazzina lo fermò bruscamente.                                                                                                                                              
–Si calmi. Non avevo ancora finito. L’ombra dell’uomo è dalla parte sbagliata; il volante è dalla parte sbagliata; non c’è il freno; le parole sullo specchietto dovrebbero essere al contrario; l’orologio dell’uomo segna mezzogiorno e invece è il tramonto e …                       
Non c’è qualcosa di un po’ più difficile? – chiese reclinando leggermente il capo, con fare innocente.
Dopo la sua risposta tolsi l’unghia dalla presa dei miei incisivi, dischiusi le labbra.
<< E’ meglio di quel che sembra >> pensai. Ora sì che cominciai ad interessarmi: la probabilità che mi potesse coinvolgere, da 0,3% salì al 5%.
Avvicinai la sedia alla vetrata per udire meglio la conversazione. Correvano solo pochi centimetri tra il mio viso e quella superficie trasparente.
Seguirono una serie di altri test, tutti a mio avviso assolutamente banali: la composizione di un cubo di legno, l’individuazione di figure all’interno di un complesso geometrico, Roger provò addirittura il cubo di Rubik per testare la sua velocità. Eccezionale, e detto da uno come me era già molto.
Riusciva a trovare uno schema di risoluzione nel giro di pochissimi secondi, il resto poi stava in quanto tempo impiegava a creare facce tutte uguali: una volta capito lo schema era un gioco da ragazzi. Infine tentò con un puzzle  che riuscì a completare in 2 minuti e 47 secondi.
Vicinissimo al mio record di  2 minuti e 23 secondi, soltanto quando non mi impegnavo. Ma dovetti anche constatare, che nonostante la tensione iniziale, svolgeva tutto in modo assolutamente rilassato.
Sembrava che fosse già abituata a risolvere enigmi più difficili, e questo la rendeva simile a me. Io che detenevo il primato in tutto l’istituto, guardavo una ragazzina risolvere tutto di getto con tempi vicinissimi ai miei.
Adesso eravamo al 35%. Il mio tasso di interesse nei suoi confronti era salito vertiginosamente: era riuscita a spazzare via la mia noia.                                                       
In quel momento ghignai compiaciuto: capii che da quel momento non mi sarei annoiato così spesso: 15%, per essere  cauti. Dovevo sicuramente conoscerla meglio per comprendere se mi sarei annoiato o meno. In base alle sue azioni future la percentuale sarebbe schizzata o meno.
Per il momento mi limitai a guardarla.                                                                                                                                                          
–Allora sono finiti questi test? – domandò, quasi canzonatoria, poggiando una guancia sul palmo.                                                                                                                                                         
–Sorprendente … - sibilò Roger, con le sue folte sopracciglia sollevate per lo stupore. Adesso anche con lei avrebbe assunto un’espressione accigliata ogni volta che l’avrebbe vista. Anche su Watari leggevo sgomento, ma sicuramente più ponderato del vecchio preside.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       
–Vuol dire che sono stata ammessa?? – domandò eccitata, alzandosi di scatto mentre la sedia strisciò all’indietro in uno stridio acuto.                                                                                                                                                                  
–Ehm … beh, direi proprio di sì – rispose il vecchio Roger, ricomponendosi ed intrecciando le mani davanti a sé.                                                                                                                                                                                                                                                                                              
–Te l’avevo detto che sarebbe andato tutto bene- sorrise Watari, e lei ricambiò con uno a trentadue denti, con gli occhi luccicanti: un sorriso che definirei piuttosto eccentrico.                                                
–Quindi dovremmo darti uno pseudonimo … vediamo un po’, come potresti chiamarti? – Roger ci stava riflettendo, ma Watari lo interruppe entusiasta, fin troppo direi:                                                                    
-Io ce lo già uno. Shiro, d’ora in avanti ti chiamerai Shiro.                                                                                                     
–Sì , mi piace! Suona importante!! – rispose con enfasi, con le iridi verde chiaro traboccanti di entusiasmo.                                                                                                                                                   
–Mi raccomando, fa’ del tuo meglio figliola! – la esortò il preside.                                                                    
Ma certo!!! Vedrà che non la deluderò!!!! Ahhh!! Ce l’ho fatta!!!- urlò infine saltando di gioia, facendo segno di vittoria a Roger, che per la sua età tutta quella euforia era difficile da sostenere tutta in una volta.
Watari trattenne una risata divertita, io dal canto mio avevo il volto segnato da un sorriso enigmatico: il mio si poteva definire un ghigno di compiacimento, più che di felicità. Rivolsi nuovamente l’indice alla bocca, soddisfatto.                
Sì, potevo definirmi soddisfatto, ma non era ancora finita. Era solo il 15% la probabilità che continuasse a coinvolgermi in futuro, ma dentro di me ci speravo. Forse quella ragazzina avrebbe davvero cambiato la mia posizione, ma chissà se era un tipo combattivo. Sarebbero cadute tutte le mie aspettative se alla prima occasione si fosse rivelata debole. In tal caso, avrei continuato per la mia strada indifferente, come nulla fosse. Ma considerando la sua esuberanza e la sua energia direi che poteva definirsi un tipo testardo.                                                                                                                        
Watari mi osservò, ed io posai i miei occhi neri su di lui. Era uno sguardo abbastanza eloquente: astinenza dagli zuccheri, avrebbe dovuto prevederlo che non sarebbero bastati quelli che mi aveva preparato e se avevo finito addirittura la scorta, era codice rosso.                             
Uscì dall’aula assieme alla  ragazzina, e si rivolse a me:                                                                                                                                         
-Vedo che ti sei interessato alla questione- constatò lui, riferendosi alla mia vicinanza al vetro sempre accovacciato sulla sedia. Io rimasi in silenzio per qualche secondo: spostai lo sguardo su Shiro, e poi lo rivolsi a lui.                                                                                                                                                      
–Ti aspettavo – mentii. Non so perché ma in quel momento mi sarei sentito al quanto imbarazzato a dover ammettere che in realtà non era così.                                                                                                                                            
–Vi aspettavo – soggiunsi rivolgendomi alla ragazzina dagli occhi verdi.                                                          
–Ah, già. Noi abbiamo delle presentazioni in sospeso, giusto? –domandò facendo qualche passo avanti .                                                                                                                                                      
– Io mi chiamo Shiro, piacere di conoscerti – e tese nuovamente la mano sorridendo dolcemente. Capelli castano chiaro scivolavano sulle spalle, con qualche punta ribelle che si arricciava all’insù. Gli occhi erano di un verde tenue, e gli sprazzi dei raggi solari conferivano dei riflessi giallo grano.
Il sorriso era spontaneo, puro, limpido, privo di malizia. I lineamenti del volto erano degni di un angelo, la corporatura era alquanto minuta e soprattutto notai una lesta agilità nei suoi movimenti. Ancora non la conoscevo, ma anche il suo aspetto era interessante: non si direbbe proprio che una bambina dall’aria così composta, possedesse tutta quella energia mostrata poco prima nell’aula.
<< Un fattore che potrebbe giocare a suo vantaggio … >> riflettei, e mi decisi a rispondere.                                                                       
Io sono L– proferii atono senza stringerle la mano, però. Infine la ritrasse per l’ennesima volta, cacciando un’espressione perplessa e leggermente delusa. Inarcò un sopracciglio , mentre io scendevo dalla sedia poggiando i piedi nudi sul pavimento. I lembi dei pantaloni erano larghissimi, la maglia bianca era tre taglie in più, e cosa ancora più enigmatica era la mia faccia. Credo che solo ora avesse notato quanto fossero profonde le mie occhiaie, frutto di 102 ore di veglia. Continuavo a fissarla sollevando il labbro superiore con il pollice: la stavo analizzando, come il pezzo di un mosaico. Un tassello. Dovevo solo capire se lei era un pezzo decorativo oppure era la chiave portante dio un puzzle. La mia mente era scossa da tanti interrogativi che non sapevo davvero cosa pensare. Non mi era mai successo sino a quel momento. E il mio cervello continuava irrefrenabilmente a elaborare una risposta per giustificare a me medesimo, le mie stesse azioni. Perché ero così interessato?? In fondo quei test erano banali e non erano sufficienti ad esporre una tesi completa. Mi occorrevano più dati.                                                                                                                                                                                                         
–A quanto vedo non sei il tipo che ama il contatto altrui, o mi sbaglio?- mi domandò, con fare innocente come a volersi scusare in un certo modo. Io sentii gli occhi di Quillsh puntati addosso:era alquanto contrariato. Dato che con i nuovi arrivati non andavo d’accordo non potevo permettermi di fare di testa mia, o Watari non me l’avrebbe perdonata.                                        
–No. Il fatto è che prima ho mangiato un barattolo intero di marmellata e adesso ho le mani appiccicose – spiegai, cercando di non essere scorbutico mantenendo placida pacatezza.
Mi stupii di me stesso: mi stavo sforzando di non dare una cattiva impressione. Non era forse negare se stessi, o semplicemente era aprirsi all’altro?
Come mi ripeteva continuamente il vecchio inglese, l’unico con cui riuscivo a comunicare.                                                                               
–Ahhh… capisco – rispose con un tono di voce che ostentava scetticismo, ma non trasmetteva quell’acidità che si riscontra in una persona sospettosa. Pareva divertita dalla mia risposta e al col tempo aveva capito che non era vera, ma non sembrava neanche che si fosse offesa in qualche modo.
Era stata … gentile
Quella fu la prima volta che capii cosa era veramente la gentilezza. Lo compresi dalla futilità di non stringerle la mano.                                                       
–Marmellata? – domandò Watari stranito – Non dirmi che sei passato immediatamente alla scorta di emergenza.                                                                                                                                                                                   
Annuii lievemente: l’aveva capito subito che i dolci preparati da lui non furono sufficienti. Quasi non si mise una mano sulla fronte, in segno di esasperazione: ma non lo fece.                                                                                  
–Temo di dover provvedere subito ad una tale emergenza- cominciò Watari rivolgendosi al Roger dietro alle sue spalle, appena uscito dall’aula.                                                                                               
–Vorrà dire che farò io da Cicerone a Shiro nell’’istituto. Più tardi le assegnerai tu la nuova stanza.- si raccomandò il preside, e l’altro annuì con il capo.                                                                                 
–Ci vediamo dopo- soggiunse Watari congedandosi dalla ragazzina, la quale salutò con un cenno della mano.
Percepivo una sorta di complicità tra i due, e sarei stato curioso di scoprire in quale occasione si fossero incontrati, ma preferii scoprirlo da solo. Io mi voltai lentamente e susseguii Watari in silenzio, esponendo la mia andatura ricurva. Con la coda dell’occhio intravidi  un’espressione alquanto stralunata da parte di Shiro, ma poi si ricompose intrecciando le mani dietro la nuca. Mi voltai, placido, freddo, silenzioso, ma dentro fremevo dalla voglia di esaminarla. Un soggetto piuttosto interessante.                                                                                 
–Ehi , L!! – mi chiamò ad un certo punto. Mi bloccai all’istante, afferrato da mani invisibili. Girai piano il capo. Trascorse qualche secondo ma fu un’eternità. Shiro, L. L, Shiro.
Che cosa aveva da dirmi? Il mio cervello sfornò: 40%.  Da 15 a 40, ero forse impazzito? Anche Watari e Roger rimasero muti: la tensione era palpabile.                                                                                               
Di che cos’era? Intendo, la marmellata. Di che cos’era?                                                                                                                        
Semplice, no? Una domanda semplicissima. Potevo non soddisfare la sua curiosità?
Che avesse anche lei la passione per i dolci?                                                                                                               
-Alle fragole – risposi, mostrando noncuranza. Lei sorrise. Una smorfia serafica, ma non pungente. Divertita.                                                                                                                                                                       
–Capito- nulla più. Entrambi ci girammo in direzione opposte. Incredibile 55%
                                                                                                                                                                                                                                                     

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Capitolo 4
*** Giocattolo ***



Spilli. Sottili aghi che piovono dal cielo. La gente si ripara con ombrelli, altri sprovvisti corrono con la giacca sulla testa, o facendosi scudo con la borsa.
Ma è inevitabile, non si arresteranno. E’ quella coltre grigia lassù che li genera, li fa cadere. Per L adesso la pioggia non sembra il pianto delle anime, come molta gente pensa. No, è quasi un castigo divino, o meglio la burla di un dio assetato dell’agonia degli umani.
Eppure quei pupazzetti di carne che camminano laggiù non sembrano minimamente accorgersene. Strano, non pungono questi spilli?
Oppure pungono senza che quelli ne avvertano il dolore.                                                                    
Gli occhi pece di L guardano la pioggia, fine, sottile che scroscia al suolo.                                                                            
–Il  55% … - mormora in un flebile soffio. Solleva lo sguardo buio dalla gente e lo rivolge al cielo.
Una luce bianca lampeggia tra le grosse masse grigie, susseguita dal rombo fragoroso di un tuono.                                                                                                                                                           
 




55%. 55% . Mentre mi avviavo nella mia stanza accompagnato da Watari, il mio cervello non faceva altro che ripetere questo risultato a raffica. La percentuale di interesse nei suoi confronti era schizzata come niente, eppure mi domandavo come fosse possibile…                      
Ci doveva essere per forza una spiegazione logica! Perché tra tutti i nuovi arrivati all’orfanotrofio, lei era stata la prima a raggiungere questo risultato?
Era una normalissima bambina con un quoziente superiore alla media. Era brillante lo dovevo ammettere, ma sarebbe stata alla mia altezza? Non c’era altro da fare se non metterla alla prova, in segreto. Avrei suscitato sospetto se avessi chiesto informazioni a Watari. Quindi non mi restava che monitorarla.
E sapevo già cosa avrei dovuto fare.                                                                                                     
–Cosa ne pensi della nuova arrivata, L? – domandò il vecchio inglese di fianco a me, ridestandomi dalle mie riflessioni. Dal canto mio, continuavo ancora a tormentarmi l’unghia del pollice, da una parte volevo tacere dall’altra esprimere la mia sincera opinione, ma considerando ciò che avevo intenzione di fare mi limitai a dire:                                                                                                        
-Non ho sufficienti dati per esprimere un’opinione esauriente. –riferii apatico senza scompormi. Watari inarcò un sopracciglio bianco, leggermente scettico. Probabilmente vista la mia reazione di prima, credeva  che finalmente mi sarei interessato a qualcuno, per la prima volta come persona non come oggetto da analizzare. In realtà, il mio scopo era trovare qualcosa di divertente. Niente di più.                                                                                           
Volevo sperimentare le sue capacità sia deduttive che di spirito di iniziativa. Anche se non lo davano a vedere anche Watari e Roger fremevano dalla curiosità di scoprire le sue reali potenzialità.                                                                                                                                                   
–Io credo che sia davvero brillante e che possegga delle doti fuori dal comune!- irruppe improvvisamente quel silenzio che si era creato poco prima.
Per quanto fosse difficile, forse Watari era l’unico in grado di intuire i miei pensieri, in particolarl modo quando ero piccolo.                                                          
Io non replicai: mi limitai ad osservarlo con le mie grandi iridi incupite dalle occhiaie. Aveva un aria piuttosto soddisfatta sul volto e coglievo un’enfasi ponderata. Doveva avere delle qualità particolari  per coinvolgere anche Watari. In realtà, sapevo bene che gli brillavano gli occhi ogni qual volta trovava un orfano dotato, ma mai l’avevo visto così preso.                                                                               
Questo non fece altro che accendere la miccia della mia arguzia: si sarebbe rivelato davvero un avversario interessante, lo dimostrava anche la percentuale da me calcolata.                                                         
Il giorno dopo ci fu lezione, ed ero in attesa di scoprire qualcosa in più sul suo conto. Come al solito entrai in aula circospetto e silenzioso, nessuno mi notava né io volevo espormi. Non avevo contatti con gli altri orfani, loro erano solo gli altri individui che occupavano i banchi dell’aula. In classe alleggiava il classico brusio di sottofondo degli allievi: gruppetti che chiacchieravano e bisbigliavano tra loro. Io ero totalmente estraneo a tutto ciò. Stavo bene così,  ma per il semplice motivo che i miei compagni di orfanotrofio non erano affatto interessanti. Tutto qui. Io li osservavo ma non interagivo con loro, anzi consideravo una perdita di tempo anche solo osservarli, quindi preferivo di gran lunga stare appollaiato sulla sedia di legno e concentrarmi a mordicchiare l’unghia. Aspettavo il momento in cui avrebbe varcato la soglia. In un attimo il brusio di sottofondo si interruppe di colpo, due paia scarpe nere lucide avevano varcato la soglia con un lieve calpestio.                                                        
Watari era entrato giusto in tempo, seguito dalla ragazzina che scrutava i volti dei compagni con le sue iridi chiare. A prima vista non sembrava spaventata o nervosa, aveva un atteggiamento piuttosto rilassato e composto. Tutti gli altri la osservavano curiosi, io invece dal fondo dell’aula ero solo impaziente di svelare le sue presunte qualità. Mentre la presentava alla classe, Quillsh mi scoccò un’occhiata indagatrice. Io ero immobile nella mia posizione fetale, e continuavo a torturare l’unghia mentre le mie grandi pupille petrolio l’avevano già adocchiata. Seguivo con lo sguardo tutti i suoi movimenti.                                                                                                           
–Piacere di conoscervi! – disse infine, grattandosi la nuca leggermente in imbarazzo nel constatare tanti occhi puntati su di lei – Il mio nome è Shiro e spero che andremo d’accordo … ehehh – seguì una flebile risatina alquanto nervosa, che si ammutolì di colpo. Tutti erano in religioso silenzio a fissarla tra il basito e il curioso, io continuavo a scrutare ogni particolare : ogni espressione, linguaggio del corpo, e gesti vari.                                                         
Dopo aver parlato si era irrigidita di colpo, ma Watari spezzò immediatamente quel suo torpore prima che diventasse una statua di sale.                                                                                                                              
–Bene, puoi andarti a sedere vicino ad L, lì accanto alla finestra – le indicò cortese Wammy, io ghignai divertito. Era un punto strategico quello, perché di solito ero io a  sedermi vicino alla finestra mentre il banco di fianco restava vuoto. Era una sorta di barriera tra me e gli altri, e durante le lezioni spesso mi perdevo a guardare fuori, ed ero puntualmente sorpreso dallo sguardo vigile di Watari il quale però non riusciva mai a cogliermi impreparato.
La ragazzina mi arrivò di fianco rivolgendomi una breve occhiata sorpresa, e poi si sedette al banco. Per tutta la durata delle lezioni non avevo fatto altro che fissarla insistente con il mio proverbiale dito in bocca. Non la guardavo con la coda dell’occhio, ma ero appositamente girato verso di lei in attesa di qualche piccolo movimento. Era chiaro che se ne fosse accorta e notai una leggera irritazione nei fugaci sguardi che mi rivolgeva ad intervalli di due minuti circa. Era infastidita, ed ogni secondo che passava accresceva sempre più la sua rabbia. Cercava di contenersi stringendo con fervore i pugni sul banco.
Si sforzava di ignorarmi ma era tutto inutile, a quanto pareva le infondevo una sorta di macabra sensazione. Watari me ne aveva accennato tempo fa, mi aveva esortato a non fissare troppo le persone. Ma io ero assolutamente insofferente ed insensibile su certi argomenti. I miei occhi pece si incatenarono alla sua figura, che si ostinava a fingere di seguire la lezione, cercando di ignorare volutamente la mia presenza. Era tutto in inutile, era intrappolata nel mio sguardo abissale, non mi sarebbe sfuggito neanche un sibilo.
E inoltre lei non era una campionessa di apatia: << Il soggetto è alquanto suscettibile se osservato con insistenza da altri individui. Ne conseguono reazioni come la stretta dei pugni, leggero tremore delle spalle ed il movimento stizzito e ritmico di un sopracciglio. Ergo: il soggetto si sente minacciato ed infastidito da presenze che invadono eccessivamente i suoi spazi >>.                                                                                                         
Completai la prima analisi senza staccarle gli occhi di dosso: ero come il predatore allerta al minimo movimento da parte della preda. Watari si accorse della mia eccessiva invadenza così tentò di distrarmi in qualche modo:                                                                                                                                                
-L ,vieni alla lavagna a risolvere questa equazione! – mi chiamò dal fondo. Udii i fruscii di stoffa che si torcevano: prevedibile che alcuni si fossero voltati ma io non mi scomposi e continuai a fissare Shiro, non demordevo per nessuna ragione.                                                            
–Non ce n’è bisogno – tuonai atono  - il risultato è 125/71.                                                                               
A volte Watari la tirava un po’ troppo per le lunghe durante la lezione. Shiro sbarrò gli occhi accigliata, non staccando lo sguardo dai numeri impressi sulla lavagna. Più che di stupore, la sua era la classica espressione di chi aveva confermato le sue deduzioni, o  i suoi ragionamenti.
L’avevi già calcolato anche tu, Shiro?                                                                                                          
La mia bocca si curvò in un ghigno compiaciuto: mi stavo divertendo con il mio nuovo giocattolo. Shiro mi folgorò con lei sue iridi verdi: uno sguardo agghiacciante affilato come la lama di un rasoio.                                                                                                                                                        
–Ehi! Tu! – tuonò minacciosa, sbattendo il pugno sul banco – Si può sapere perché mi stai fissando?! E’ dall’inizio della lezione che continui a farlo.– domandò stizzita cercando in qualche modo di trattenersi.                                                                                                                                  
I suoi occhi erano annebbiati da qualcosa di oscuro che si faceva largo in lei: io ero il nemico.                                                                                                                                                                                         –Allora? Non mi rispondi? – esortò con lo stesso tono adirato, stavolta alzandosi dalla sedia. La sua ombra mi sovrastò completamente e lei rimase nella sua postazione, in attesa di una risposta. Mentre le sue iridi chiare si assottigliavano severe e sospettose. C’era qualcosa di particolare nei suoi atteggiamenti, come se avesse avuto una specie di sesto senso.                  
Aveva avvertito in me una sorta di pericolo, e dalla sua reazione e dai primi dati raccolti il giorno precedente potevo certamente affermare che : non era un tipo schivo, ma soprattutto era una ragazzina molto acuta e attenta a ciò che la circondava, e se c’era qualcosa che la infastidiva l' affrontava a viso scoperto. Come stava facendo con me in quel momento.                 
La classe era sprofondata in un silenzio abissale, non un fiato si udiva e Watari stranamente non si mosse. Forse era incuriosito da come avrei reagito, visto che sin dal primo arrivo alla Wammy’s avevo creato scompiglio tra gli allievi mostrandomi assolutamente incompatibile con gli altri. Tolsi il dito dalla bocca e proferii distaccato:                                                                            
-Ti osservo perché sei un esperimento – secco ed inesorabile.                                                                       
–Un esperimento? – domandò tra il sorpreso e il disgustato, arricciando una smorfia che trasudava repulsione.                                                                                                                                           
– Esatto – sollevai lo sguardo piantando i miei onici  nei suoi occhi verde acqua. A quel gesto aggrottò le sopracciglia austera e minacciosa.                                                                                                                                                                   
–Io osservo tutto e lo esamino come il pezzo di un mosaico. Lo giro, lo squadro da diverse angolazioni per coglierne ogni particolare. Ma sei poi si rivela noioso e superficiale lo butto via.                                                                                                                                                                                               
–Quindi adesso io sarei il pezzo di un mosaico, è corretto? – rispose stringendo i pugni, come se un discorso così oggettivo e gelido l’avesse trapassata come una lama.                                                                                                             
–Sì, esatto. L’ho sempre fatto con tutti gli allievi dell’istituto, ma si sono rivelati noiosi e hanno perso il mio interesse.
Ghignai enigmatico: - Ma tu non sei  male come giocattolo…                                                                                                                                                        
A quelle parole Shiro perse il controllo e contrò ogni mia previsione, si scagliò contro di me. La sua piccola mano di bambina ci mise un attimo stringersi in un pugno, ed il suo colpo sferzò in aria all’improvviso. Il pugno si incastonò alla base del viso, facendomi perdere l’equilibrio. Sbarrai gli occhi per la prima volta in vita mia, colto di sorpresa. Mi sembrò di lievitare per interminabili secondi, poi la sentii sotto il mio corpo: la superficie dura del banco, mentre le gambe di metallo si spostarono in uno stridio. Un colpo sferrato con precisione millimetrica, quasi mi sfiorò il dubbio che fosse abilitata a qualche arte marziale. Mi accasciai malamente sul banco reclinando il capo in maniera innaturale. Poi ad un tratto li vidi. Non li dimenticherò mai: gli occhi con il fuoco dentro. Un attimo e mi sollevò leggermente per colletto della maglia, in preda all’isteria ed ad una rabbia incontenibile. Sentii Watari richiamare i nostri nomi, ma non me ne curai minimamente.                                                                                                                                                                                                                           
Mi prendi in giro??!! – urlò – Chi ti credi di essere??!! Non puoi giudicare gli altri sulla base di fatti che tu stesso ritieni rilevanti o meno!!  
Le persone non sono degli oggetti che puoi manovrare a tuo piacere!!                                                                                                                           

Quelle parole mi perforarono i timpani, non per il tono alto della voce, ma per la loro logica. Al mio cervello queste erano informazioni del tutto sconosciute.                                                                                                             
–Qualunque siano le tue ragioni … – bisbigliai a capo chino- Non c’è colpo che non renda! Io sono la giustizia!                                                                                                                                            
Mi divincolai dalla sua presa ed impiantai un calcio in pieno stomaco, lei non poté evitarlo ed indietreggiò annaspando sul bordo del suo banco, dolorante. Ci scrutammo in cagnesco, nessuno staccava gli occhi dall’altro. Prima che uno di noi due potesse fare alcun ché, Watari intervenne a separarci: non poteva sperare in una reazione passiva da parte mia.                                           
–Adesso basta!! Ve le siete date abbastanza! Entrambi nell’ufficio del preside! – tuonò l’inglese con un’autorevolezza che non avevo mai udito dalla sua voce. Com’era prevedibile tutti i nostri compagni di classe erano rimasti a dir poco basiti per lo spettacolo appena assistito. Cominciarono i primi bisbigli e tutti quei ragazzini ci tenevano gli occhi puntati addosso. Non male come primo giorno, eh Shiro?  Nei corridoio deserto echeggiavano solo i nostri passi: quelli stizziti di Shiro, i miei pacati ed annoiati, e quelli rassegnati di Watari. Era chiaro che non avrebbe dovuto arrivare a tanto ma era suo dovere di educatore. Fu  un attimo ed io e Shiro ci trovammo seduti di fronte alla scrivania di Roger. Non appena ci vide il direttore cacciò stupore ed incredulità, susseguito da un profondo sospiro che denotava esasperazione.                                                                                                                                                        
–Prendetevi questo tempo per riflettere su ciò che avete fatto- furono le ultime parole di Watari prima di sparire dietro la porta e tornare in classe.
Roger era di fronte a noi con le mani incrociate davanti al viso e ci guardava sottecchi dalle piccole lenti rotonde.                          
Io fissavo un punto non definito della scrivania in noce, sempre con il dito alla bocca. Shiro era seduta di fianco a me, con numerosi centimetri che ci distaccavano l’uno dall’altro. L’espressione corrucciata, gli occhi puntati sullo scaffale dei libri a sinistra, il gomito sulla scrivania e la mano che sosteneva il viso: assolutamente indisposta a una qualsiasi collaborazione. Gli occhi Roger oscillavano da una parte all’altra. Non un fiato da entrambi, per lo meno non dal sottoscritto che era intento a torturare l’unghia dell’indice destro. In quella stanza l’aria aveva uno spessore innaturale, si udiva persino il ticchettio ritmico dell’orologio da polso di Roger.                                                                                                                                   
–Ahh … Allora qual è il vostro problema? Perché vi siete picchiati? – domandò il preside nel tentativo di farci aprire bocca.                                                                                                                       
–Tsk! Lo chieda lui.- riferì acida scoccandomi un’occhiata ostile, per poi volgere lo sguardo altrove. Io ero impassibile, nessuna replica, solo apatia.
In realtà mi trovavo in un contesto completamente nuovo, e non mi riferisco alla punizione. Per la prima volta da quando ero lì, qualcuno ha aveva saputo tenermi testa, sia mentalmente che sul piano fisico. Una bambina di nove anni dall’aspetto così gracile ed indifeso capace di sferrare un colpo, per quanto impacciato, andato pienamente a segno. Mi aveva colpito la base del viso avvicinandosi pericolosamente all’estremità del labbro inferiore. Che avesse calcolato che la mia posizione fetale, non mi avrebbe permesso di mantenere un equilibrio stabile a livello del volto? Il punto era : l’aveva fatto di proposito o inconsciamente? Una precisione inesperta quanto impeccabile, eppure visto come era andato a fondo il suo pugno non mi sentii di escludere che non fosse la prima volta che faceva a botte o che ricorreva alla violenza fisica.                                                                                                                                                                   
“ Non puoi giudicare gli altri sulla base di fatti che tu stesso ritieni rilevanti o meno!!  Le persone non sono degli oggetti che puoi manovrare a tuo piacere!! “  così aveva detto. Io non potevo giudicare, ma fino ad allora avevo sempre analizzato tutto in ogni particolare, perché non avrei avuto il diritto di reputare se i pezzi di un puzzle fossero utili a completarlo o meno? Che fosse davvero attendibile la sua teoria? Tutto ciò andava contro ogni cosa in cui avevo fermamente creduto sin dalla tenera età, sin da quando appresi di essere capace di pensare. Rimanemmo lì a fissare il nulla, e data la nostra persistenza a tacere Roger ci congedò nelle nostre rispettive stanze. Dopo un’ultima occhiata bieca da parte della ragazzina, ci dividemmo ed imboccammo corridoi opposti. Quel giorno saltammo completamente le lezioni mattutine. Ormai mi ero rintanato nella mia stanza e il riflesso dello schermo del pc già si proiettava nei miei onici vitrei. Il sole stava scomparendo all’orizzonte ed il cielo si faceva violaceo. Nessuna luce accesa, solo la luce dello schermo illuminava quell’angolo della mia stanza in penombra. Ad un tratto sentii bussare e convinto che fosse Watari non risposi, ma poi il tamburellare del legno si fece sentire un’altra volta. Voltai il capo verso la porta, e dopo qualche secondo parlai:                                                                                                                                                                 
-Avanti – proruppi atono, ma con una punta di curiosità. La porta si aprì di colpo, per non dire che si spalancò. Shiro troneggiava sulla soglia: le mani ai fianchi e  sguardo di sfida. Io come reazione abbassai le palpebre sospettoso. Che voleva adesso? Sarà sicuramente una di quelle persone infantili che vogliono sfogare le sconfitte in stupide vendette.                                                
–Ciao L – disse senza muoversi di lì, squadrandomi scettica. Non fiatai e lei sospirò seccata, poi si avvicinò a passo svelto verso di me, e si inginocchiò per arrivare alla’altezza del mio viso. Io la fissavo interdetto: non comprendevo che cosa volesse da me, e che motivo avesse per fissarmi così insistentemente.                                                                                                                                                    
–Lo sapevo – disse infine, alquanto seria.                                                                                              
–Eh ? –fu l’unico suono che le corde vocali mi permisero di emettere.                                                                                             
–Pensavo che fosse solo una mia impressione, ma a quanto pare hai un livido proprio all’estremità del labbro. Non te ne sei accorto? – domandò poi.
La sua espressione e la luce nei suoi occhi erano completamente cambiati. Ora invece che astio e scetticismo esprimevano soltanto premurosità  mista a un che di affettuoso,  pur mantenendo un certo distacco il quale non pareva così freddo e spinoso. Portai un dito sulla parte lesa e tastandola: doleva in modo pungente. Delicata scostò la mia mano e tamponò il livido con una pezzo di carne. Proprio così, poteva trattarsi di un pezzo di bistecca preso dal frigorifero delle cucine. Io ero inerme alle sue cure: tamponava delicatamente senza provocare alcun sintomo di dolore. Non capivo per quale assurda ragione facesse una cosa simile.                                                                     
–Lo so che fa un po’ schifo, ma è sicuramente il miglior modo per far sparire il gonfiore. Ecco fatto – disse dopo un po’ – così è sufficiente.Sicuramente Wammy arriverà con qualche tampone imbevuto dall'infermeria. Quindi sparirà anche qualche traccia viscosa di sangue.
Concluse alzandosi e girando i tacchi. Seguivo la figura minuta allontanarsi da me, stava per aprire la porta ma un mio intervento la bloccò:                                                                      
- Perché l’hai fatto? – domandai apatico, con tono che poteva definirsi un sussurro.                                               
Lei voltò il capo: i suoi occhi acquamarina rimasero un po’ perplessi alla mia domanda, ma poi assottigliò lo sguardo indispettita e quasi sardonica.                                                                                                       
–Perché l’ho fatto? – ripeté girandosi completamente verso di me. Abbassò un attimo il capo guardandosi le dita delle mani, le quali giocherellavano pensierose, infine puntò nuovamente gli occhi su di me e disse:                                                                                                                                                      
-Ho promesso che non mi sarei più cacciata in simili guai, e forse picchiarti non è stata una scelta molto saggia per esprimere la mia opinione.Ma non farti illusioni!- continuò canzonatoria- Non mi pento affatto di averti mollato quel pugno, te la meritavi una lezione!! E poi non mi comporto come certe persone di mia conoscenza! – concluse dispettosa dileguandosi dietro la porta. Poi fu silenzio. Solo il ronzio metallico del computer ancora acceso, ed un sorrisetto compiaciuto si fece strada sul mio volto.                                                                                     
–Questo giocattolo è davvero divertente … - sogghignai con l’indice incastrato fra i canini, e per la prima volta mi brillarono gli occhi dalla felicità. 










 





Finalmente riesco a postare!! Scusate il ritardo ma ci tenevo troppo a questo capitolo e dovevo renderlo il meglio possibile. Spero di esserci riuscita!! Grazie a tuttio quelli che mi seguono e che recensiscono: ora tocca voi, che ne pensate? 







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Capitolo 5
*** Cane da compagnia ***



“Brillarono” era un eufemismo. Per la prima volta i miei occhi vitrei, insondabili ed inaccessibili dal carpire il minimo pensiero, si illuminarono.                                                                    
“E poi non mi comporto come certe persone di mia conoscenza!”. Era proprio così che aveva detto. E allora come ti comporti Shiro? Nonostante le sue parole, non avevo affatto rinunciato ai miei propositi, non  proprio quando arrivava il bello! Come primo approccio, limitarmi ad osservarla e studiarla durante le lezioni non bastava. Volevo capire chi era, cosa faceva e cosa avrebbe fatto di lì in poi. La sua inaspettata visita mi aveva convinto ancora di più ad insistere nel monitorarla, perché effettivamente io non conoscevo ancora il mio avversario. Se davvero dovevo esaminarla e capire quali fossero i suoi punti deboli e i suoi punti di forza, io per primo mi sarei esposto: avrei dovuto stravolgere la mia routine quotidiana. Compresi che se volevo il successo di questa operazione, avrei fatto in modo di studiarla in maniera subdola ma discreta: in parole povere dovevo giocare a nascondino con lei. Per questo in classe evitavo di rivolgerle meno sguardi possibili, affinché lei non si insospettisse. Proseguii così per una settimana intera, squadrandola attentamente ed anche se fuori apparivo freddo ed apatico, dentro gioivo come una scolaretta, se così si poteva dire. La mia ostinazione a volerla mettere alla prova a tutti i costi, aveva suscitato la perplessità di Watari, il quale oltre a comprendere le mie intenzioni, notò che per stare dietro a Shiro non rimanevo quasi più nella mia stanza. Contrariamente a ciò che facevo prima, per inseguire i miei propositi fui costretto ad uscire da quelle quattro mura. E quando la sera tutti gli orfani andavano a dormire, io scrivevo un rapporto dettagliato al computer. Appuntavo ogni impressione sui comportamenti della ragazza, e alcuni aspetti che avevo trovato parecchio interessanti. In quella stessa settimana, infatti, si dimostrò particolarmente brillante per alcuni suoi interventi in classe.
Era una ragazzina molto acuta, precisa nei dettagli, e soprattutto possedeva un intuito molto sottile su domande a trabocchetto. Quando trovava qualcosa che apparentemente  non la convinceva, storceva il naso pensandoci su. Alcuni alunni erano stati superficiali nel rispondere ad un quesito che sembrava lampante, in realtà non lo era affatto. Anche io ci stavo riflettendo per la verità, ma lei aveva presagito qualcosa di sbagliato e ci si soffermò.                                                                                                                                               
– Shiro? Qualcosa non va?- domandò Watari leggermente preoccupato, e pertanto si avvicinò al suo banco. Io a mia volta staccai gli occhi dalla lavagna rivolgendole la mia attenzione e fui immediatamente sorpreso dai suoi gesti. Shiro aveva il capo chino, con alcune ciocche castane che ricadevano oltre le spalle. Gli occhi chiusi in segno di concentrazione, ma quello che di più mi lasciò stupito fu quel particolare gesto delle mani. Gli avambracci orizzontali  lungo l’addome, la parte inferiore dei polsi rivolta verso l’alto ed infine le dita intrecciate. Anche i pollici erano intrecciati, e formavano una specie di spazio vuoto somigliante ad un cerchio. Poi col tempo compresi che quello era solo un gesto che le piaceva fare spesso quando doveva riflettere. Diversamente da me, che quando riflettevo puntavo i miei occhi pece sugli oggetti o sull’oggetto da  risolvere, lei chiudeva gli occhi.                                   
Quel giorno non me lo potrò mai dimenticare. Stava lì in silenzio sotto gli occhi di tutti a riflettere, estraniandosi completamente dal mondo.
Poi improvvisamente spalancò le sue pozze verdi e sbatté più volte le palpebre, come se si fosse appena svegliata da una specie di trance.
Watari sussultò leggermente a quell’inatteso cambiamento.                                                        
–Ho capito- sibilò, con una voce piuttosto inquieta per essere la sua. Era come se non credesse di essere giunta ad una qualche soluzione.
Watari le porse il gessetto:                                                
-Davvero? Allora risolvilo alla lavagna.- lei non ci pensò due volte e gli sfilò il bastoncino bianco dalle mani, dirigendosi a grandi falcate verso la lavagna. Aveva una sorta di fretta dettata dall’eccitazione dei suoi ragionamenti, o forse perché non vedeva l’ora di svelare a tutti il trabocchetto. Alla fine riuscì a dimostrare in modo scorrevole e senza la minima sbavatura che il quesito risultava impossibile. E lo aveva spiegato in modo chiaro e limpido, tanto che tutti echeggiarono un generale “oh” di comprensione. Era giunta alla mia stessa conclusione percorrendo inaspettatamente una strada diversa, ma ugualmente valida. Rimasi stupefatto dalla sua rapidità e precisione ed aveva concluso il tutto con un bel sorriso a trentadue denti, grattandosi il capo  leggermente in imbarazzo. Il suo non era il ghigno che solitamente si dipinge sui volti dei geni: quella smorfia di macabro compiacimento misto a sadismo puro. Era il semplice, spontaneo e trionfante sorriso di una bambina di  nove anni, niente di più. Di fronte a lei c’era un campo minato, ma prima di fare un passo il suo istinto l’aveva bloccata. 
E proprio dai suoi comportamenti che mi accorsi di questa sua peculiarità: era paradossale che l’istinto stimolasse la ragione. Eppure era così.
Per Shiro era così. Anche ripensando al primo giorno di lezione, quando la fissai con insistenza. In un contesto simile sarebbe stato inevitabile accorgersi di me, eppure più ci riflettevo più mi convincevo che quella volta mi sbottò contro  non perché fosse tipico del suo carattere, ma perché glielo aveva suggerito l’istinto. Anche lei mi squadrò quella volta e forse aveva capito quali erano le mie intenzioni, o forse no. Dovevo ancora scoprirlo. Watari rimase per un attimo a bocca aperta, ma poi distese le labbra in sorriso soddisfatto e fiero. Sì, lui era fiero di Shiro così come lo era di me. Spesso non comprendevo il motivo per cui Watari mi sorridesse. Non disprezzavo il suo gesto, anzi mi sentivo a casa ogni qual volta incrociavo la sua espressione mite. Ma non capivo perché continuasse a farlo, nonostante io non riuscissi a ricambiare il suo gesto. Shiro invece era così spontanea. Ed in un certo senso, provai un briciolo di invidia nei suoi confronti, quando vidi che sorrise di rimando a Wammy. Un sorriso timido e in qualche modo complice. Sapevo già che era una ragazza particolare, ma perché a Watari stesse così a cuore rimaneva un mistero.                                                                                                                 
Stranamente quella ragazzina sorrise anche a me. Già, a me che non c’entravo nulla. Ero ancora sbalordito dalla sua perfomance.                                                                                               
Dopo le lezioni ci fu la pausa pranzo. Io non andavo mai in mensa per mangiare: divoravo solo dolci e per questo c’era Watari che li portava in camera mia. Ma quella volta l’inventore avrebbe trovato solo un computer abbandonato sul pavimento della mia stanza. Io ero in corridoio, occultato dietro l’angolo a seguire le mosse di Shiro. Gli occhi onici inchiodati su di lei, mentre questa camminava disinvolta. Notai che eccelleva anche nelle competenze sociali: nonostante l’imprevisto del primo giorno, riuscì a stringere amicizia con tutti senza problemi. In particolare era molto legata alla sua compagna di stanza, una ragazzina di nome Emily e anche ad altri compagni. Tutto questo nell’arco di tre giorni, probabilmente grazie al suo carattere estroverso. Stava camminando lungo il corridoio, incrociando lo sguardo degli orfani che scorrazzavano qua e là. Io mi muovevo circospetto,accompagnato dal tonfo sordo dei miei piedi nudi. Lei era davanti a me, esattamente a quindici metri di distanza. Lei proseguiva e io lo facevo quindici metri più indietro. Pareva che non si fosse accorta della mia presenza, oppure la ignorava completamente.  Fatto sta che al mio passaggio gruppetti di ragazzini si voltavano a guardarmi straniti: era chiaro come l’acqua che stavo pedinando Shiro, ma ignoravo la ragione quelli sguardi poco opportuni. Il fatto che io fossi rinomato come “il bambino più asociale dell’istituto”, non implicava che dovessi ricevere occhiate stupite. Forse, forse cominciavo a comprendere come si sentisse Shiro, ma in quel momento non era rilevante.                                                                                                             
I miei occhi fotografavano ogni particolare ed ogni suo passo nella mia mente: non mi sarebbe sfuggita neanche una mosca. Passò davanti alla scalinata, ma prima di oltrepassarla del tutto, da lontano rivolse uno sguardo alquanto interessato. Allora anch’io mi voltai verso l’oggetto della sua attenzione: c’era un bambino seduto su uno scalino che singhiozzava sommesso, cercando di asciugare le lacrime con la manica della maglia. Accanto a lui c’erano altri due bambini che cercavano di consolarlo in qualche modo.                                                                                   
–Che vuoi farci!- esclamò uno dei due al piccolo seduto – Jim è fatto così! Se lo non lo incontri è bene, se lo incontri è male! Che ti ha preso stavolta?                                                                          
-Mi ha rubato il panino!! Per colpa sua stamattina sono stato messo in punizione ed ho saltato la ricreazione! – si lamentò il piccolo seduto sul gradino di legno. Vidi Shiro indugiare per un attimo, ma poi socchiuse gli occhi soffocando un lieve sospiro. Voltò il capo con indifferenza e proseguì verso la porta della sala mensa. E anch’io dietro di lei, varcai la soglia di quella area dell’orfanotrofio per la seconda volta da quando ero lì. La mia memoria fotografica riadattò le immagini di quel luogo sovrapponendola alla mia vista: non era cambiato nulla dalla prima volta che feci capolino là dentro, l’unica differenza riscontrata fu la presenza animata degli orfani, i quali erano intenti a pranzare. Shiro camminò tra i tavoli noncurante, pervasa da una strana pacatezza che definirei piuttosto inquietante. Sapeva mescolarsi tra la folla in modo impeccabile e non era semplice tenerla d’occhio: che volesse seminarmi?  Aveva fatto uno strano giro tra i tavoli, rasentando il muro e le finestre: stava perlustrando la zona, lo si capiva dal suo atteggiamento guardingo. C’era anche una luce nei suoi occhi, ma non saprei dire se fosse minacciosa o diabolica, ma qualcosa di oscuro e scintillante allo stesso tempo. I raggi del sole filtravano dalle finestre in modo abbagliante, la figura esile della ragazzina era lì, ferma davanti al vetro e creava un forte contrasto: Shiro si adombrò, fissando qualcosa o meglio qualcuno. Improvvisamente lo vidi: un ghigno distese le sue labbra. Quella fu la prima volta che vidi sul suo volto fanciullesco l’espressione sprezzante e spudorata, tipica dei geni. In seguito si ricompose, assumendo un atteggiamento naturale. Camminò spedita verso il bancone della mensa. Sembrava una normale orfana che si stava dirigendo all’estremità della coda per prendere un vassoio.
Era vicinissima ad un ragazzino robusto, il quale stava ricevendo l’ultima porzione. Da lontano oltre al piatto del giorno, scorsi sul vassoio di quest’ultimo quello che poteva definirsi un panino. Notai un fugace momento in cui Shiro ghignò per l’ennesima volta, un sorriso malevolo e sadico.              
Poi si mosse velocemente andando a scontrarsi con il ragazzino, il quale aveva appena girato il capo non accorgendosi della sua presenza.
Per un attimo le pietanze sobbalzarono e il bambino rischiò di cadere, ma prese subito l’equilibrio. Lui si voltò visibilmente furibondo.                                                                                       
–Ehi tu!! Sta’ più attenta!! – le intimò. Lei si voltò con un’espressione sorpresa e mortificata allo stesso tempo.                                                                                                                                                           
–Oh, mi dispiace!! Perdonami! Non volevo! – si scusò alzando le mani, e sgranando occhioni verdi colmi di dispiacere.                                                                                                                         
–D’accordo, ma sta più attenta la prossima volta!- sbottò lui, con un‘occhiataccia. Lei sorrise simulando imbarazzo.                                                                                                                                                 
– Eheheh … Scusa!- l’altro si voltò indignato, ma ad un certo punto da un tavolo si levò un urlo.                                                                                                                                                                                         
–Ehi Jim!! Da questa parte!!- gridò un ragazzino agitando la mano e l’altro lo raggiunse spensierato, ancora ignaro dell’accaduto. Io ero a dir poco stupefatto e tolsi il dito dalla bocca per la sorpresa. Quello era lo stesso ragazzino che aveva derubato ingiustamente quel bambino.
Prima che potessi realizzare ciò che aveva fatto Shiro, il ragazzino corpulento di nome Jim, esclamò:  - Ehi! Ma dov’è andato a finire il mio panino?!                                                        
Lo sconcerto di lui era nulla in confronto al mio, ma subito mi resi conto che mi ero distratto. Prestando interesse alla sua reazione, avevo perso di vista Shiro. Mossi il capo da un parte all’altra leggermente agitato, finché non notai la porta della mensa chiudersi. Era stata davvero in gamba: approfittare della confusione per dileguarsi furtivamente. Dovevo ammettere che era veloce, ma anche astuta. Provai l’angosciante presentimento che si fosse accorta di me, e che avesse approfittato della confusione per distrarmi e filare via dalla mia supervisione. Davvero niente male! E c‘erano buone probabilità che avesse sfruttato la situazione per allontanarsi da me. Camminai veloce verso l’ingresso, quasi corsi per davvero. Aprì velocemente la porta e quando fui dall’altra parte solo il corridoio deserto si presentava dinnanzi a me. Cauto mi avvicinai al primo angolo a sinistra del muro. Svoltando c’erano le scale e rimasi qualche metro più indietro rispetto allo spigolo della parete.                                                                                                                                                                                                 –Ehi! Se continui a tenere il muso rischierai di sprofondare nel pavimento!- una voce spezzò scherzosa quel silenzio immobile.
Era inconfondibile la voce energica e cristallina di Shiro. Udii dei passi allontanarsi, sicuramente si era avvicinata al bambino di prima: così ne approfittai per accostarmi all’angolo del muro, senza farmi vedere. La pupilla scura fece capolino per osservare la scena. Il bambino alzò il volto sorpreso, sbattendo più volte le palpebre accigliato. Shiro come sempre sorrideva eccentrica poggiando un gomito sul corrimano.                                                                                                                                                                              
–Perché mi guardi così?- chiese lei – Qualcosa non va?                                                                                           
-Tu … - cercò di dire lui, ma improvvisamente un rumore lo fece desistere. Un gorgoglio di stomaco echeggiò fragoroso e il bambino si portò una mano allo stomaco chinando il capo, visibilmente rosso in viso.                                                                                                                                                                              
– Ahahhh … - rise genuina lei – A quanto pare hai una fame da lupi! Tieni. – disse infine frugando nella tasca della felpa e porgendogli l’agognato panino.                                                                                                
–Credo che questo ti appartenga – e sorrise limpida come non aveva mai fatto prima.                                         
– Grazie … - rispose flebilmente l’altro, con gli occhi sgranati colmi di gratitudine, tant’è che non perse tempo ad addentare il suo spuntino. Seguì un minuto di silenzio che in realtà mi parve un’eternità. In quel lasso di tempo feci dei brevi calcoli: oramai quel 55% era misero, per come mi aveva colto di sorpresa la percentuale salì al 70%.                                                                                     
– Io sono Ryan. Come ti chiami? – chiese il piccolo mentre consumava il suo pasto.                                                
–Il mio nome è Shiro. Mentre quello che ci sta spiando dietro al muro si chiama L. - concluse indicando la mia posizione con il pollice rivolto dietro. Formidabile! Ora eravamo all’85%.                           
Mi scostai pacato ed indifferente mostrandomi in volto, come nulla fosse. Il mio sguardo cupo si concentrò prima sul bambino, il quale mi scrutava perplesso, e poi su Shiro che sorrideva beffarda.                                                                                                                                                                     
–Mi hai scoperto.- affermai portando l’unghia del pollice fra i denti. Lei si girò verso di me, poggiando entrambi i gomiti sul corrimano. Assunse un atteggiamento derisorio e aggiunse:                                                                             
-Sappi due cose, mio caro: la prima è che non mi sono accorta solo ora che mi stai pedinando! Sono ormai tre giorni che vai avanti così!
La seconda è che, lasciamelo dire, sei un pessimo pedinatore. La tua presenza inquietante la si avverte da chilometri di distanza!! Però devo riconoscere la tua buona volontà. – concluse schietta, sbeffeggiandomi. Possedeva un grande carisma, e soprattutto aveva un bel caratterino. Non solo mi aveva smascherato, aveva anche avuto la prontezza di biasimarmi.                                                                                                
–Capisco- risposi freddo, atono. Vidi la sua espressione trionfante scemare in una alquanto delusa: forse si aspettava una qualche battuta o reazione da parte mia.                                                                    
– Ahhh! – sospirò spossata chinando il capo – Non cambi mai eh? Eppure ci conosciamo da appena cinque giorni … Va beh! Non importa. Piuttosto, se proprio non puoi fare a meno di seguirmi, potresti camminarmi di fianco e continuare a fare tutte le osservazioni che vuoi.       
Se mi stai accanto non mi dà fastidio! Ma per favore evita di starmi alle costole, neanche un randagio fa l’elemosina così!!                                                                                                                                                           
Dire che ero confuso era poco: quello che diceva per me era paradossale. Non riuscivo a comprendere quale fosse la differenza tra l’osservarla da dietro e l’osservarla da accanto.  Proprio non capivo. Ma soprattutto aveva detto che non le dava fastidio, eppure il primo giorno avevo fatto la stessa cosa e si era infuriata. Perché?                                                                                  
-Ma che ti osservi da dietro o di fianco, dove sta la differenza?- domandai reclinando leggermente la testa, curioso.                                                                                                                                                  
–Ti sbagli. La differenza c’è e come! Se continui a seguirmi come hai fatto finora, darai troppo nell’occhio.-affermò secca, mentre io solo in quel momento mi inserii negli ingranaggi del suo ragionamento. Dire che era eccezionale era poco, faceva attenzione anche a questi dettagli.                                                                                                                                                                                               
–Se invece camminassi di fianco  a me in modo naturale, potresti tenermi d’occhio senza causare confusione e attirare l’attenzione, come hai fatto poco prima. Se devi seguire qualcuno non basta fare silenzio.- alzò l’indice per spiegarmi la regola fondamentale. Era stimolante, interessante e divertente.
Sì, il mio giocattolo era assolutamente uno spasso!                                                                
Anche il bambino, che aveva divorato il panino da un pezzo, la osservò incuriosito ed affascinato.                                                                                                                                                                             
–Wow! Sei davvero forte!- esclamò Ryan, un bimbo che poteva avere a mala pena sette anni.                                      
–Ti ringrazio! Ma non è niente di ché! Basta fare un po’ di attenzione … – sorrise, grattandosi la nuca.                                                                                                                                                                                                        
–Piuttosto … - soggiunse poi, posando il suo sguardo su di me – A parte seguirmi, tu non vai a mensa? – domandò inarcando un sopracciglio. In quell’istante non sapevo se la sua domanda si riferiva al quel momento, oppure alle mie abitudini generali. Di una cosa ero sicuro: si era certamente accorta delle mie assenze nei luoghi comuni, i quali erano frequentati dalla maggior parte degli orfani. Mi resi conto che invece di raccogliere informazioni su di lei, stavo divulgando informazioni su me stesso. Poteva avvalorare le sue ipotesi semplicemente standomi accanto: davvero impressionante.
Ma così facendo sarebbe stato inevitabile avvicinarci l’uno all’altro in ugual misura, di conseguenza mi limitai a dire:                      
-No, non ci vado - vago e conciso.                                                                                                                                               
–Capito. Strano perché qui si mangia bene … - concluse stiracchiandosi. Se le avessi detto il motivo avrei rivelato altre informazioni sul mio conto, ma era pur vero che l’avrebbe scoperto comunque semplicemente chiedendo spiegazioni a Watari. Quindi ebbi ragione di pensare che non sarebbe cambiato nulla:                                                                                                                                   
-Non c’è un motivo particolare, è solo che io mangio soltanto i dolci.- proferii monocorde, senza staccare il dito dalla bocca. Lei reclinò il capo stranita e confusa:                                                                                          
-Sul serio? – domandò incredula. Io mi limitai ad un cenno del capo.                                                                      
–Bene sarà meglio andare!- disse sviando il discorso.                                                                                                          
–Andare dove? – chiese il ragazzino, alzandosi.                                                                                                                              
–In mensa, no?-rispose ovvia. Il bambino parve un po’ confuso e intimorito.                                     
-Coraggio! – gli circondò le spalle, dandogli una pacca –Se non ci sbrighiamo spazzoleranno via tutto!! E poi io ho fame! Non ho toccato cibo!- si lamentò facendo una faccia buffa, rincuorando Ryan. Cominciarono ad avviarsi ,ma Shiro si bloccò voltando il capo verso di me:                                                                                                                                                                     
-Beh? Cos’hai da fissare con quell’espressione inebetita?- domandò sardonica come sempre, mentre io battei le palpebre interdetto – Non si era detto che mi avresti seguito restandomi acconto? Sai, la mensa è piena di gente … - lasciò la frase a metà, sorridendo furba. Quella era chiaramente una sfida. Shiro mi aveva lanciato una sfida. La mi bocca si incurvò in un sorriso malevolo, mentre continuavo a tormentare l’unghia del dito. Shiro voleva giocare con me. Il giocattolo che chiedeva al bambino di giocare.                                                                                                                                           
Così senza dire una parola la seguii verso la fantomatica sala mensa: dentro gli orfani consumavano tranquillamente i loro pasti, immersi nel vocio generale. Shiro aveva ragione: a meno che non fossimo un gruppo di temuti teppisti, non potevamo dare  nell’occhio. Davanti alla coda del bancone, Shiro esortò il piccolo Ryan a raggiungere i suoi compagni con un: - Coraggio va’ da loro!                                                                                                                                              
Come risposta il piccolo la ringraziò e corse via. Gli occhi di tenue smeraldo di Shiro seguirono la figura del bambino, che si allontanava in una corsa impacciata. Rimase un minuto buono ad osservare il vuoto, finché non si accorse di un paio di lune nere che la fissavano.                                                                                                                                                                                                   
–Sai anche qui ci sono i dolci. Guarda servono il budino … -mi indicò sviando lo sguardo. Alla fine ci sedemmo a un tavolo comune dove c’era Emily, la sua compagna di stanza.                         
–Era ora Shiro!! Quanto ci hai messo!! – si lamentò la biondina di fianco a lei.                          
–Scusami! Ho avuto un piccolo contrattempo!- si giustificò lei, mentre io ero intento a poggiare il vassoio con la punta delle dita. Entrambe mi rivolsero degli sguardi curiosi, probabilmente attirate dai miei gesti sottili ed inusuali. Contemplavo languido quel creme caramel, accovacciato in posizione fetale, strofinandomi gli alluci con i piedi. Quella fu la prima volta che presi in mano un vassoio, e che mangiai il budino della mensa. Non l’avevo mai fatto prima, perché non ne ero interessato.                                                                                         
–Ehi, Shiro … - bisbigliò Emily.                                                                                                                                                                              
– Mmh? – si voltò la castana.                                                                                                                                                     
–Come mai è venuto con te?                                                                                                                                 
-Come non te l’ho detto? Lui è il mio cane da compagnia.                                                                                     

 

Le gocce continuano a scendere imperterrite, come se sentissero la necessità impellente di inveire e scontrarsi al suolo. Il detective solleva il capo pensieroso. Rivolge lo sguardo alle masse d’aria che si scontrano rumorose. I lampi che preannunciano i tuoni, non fanno altro che squarciare nel buio della sua memoria. Una porta che si spalanca … uno sparo … un corpo che si accascia al suolo.                                                                                                                                                                                  
–Dovevi proprio salvarlo, il tuo cane da compagnia ?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ehi!! Allora?? Quanto tempo eh?                                                  
Mi auguro che anche quest’ultimo capitolo vi sia piaciuto, perché dal prossimo non ci saranno tanti sorrisi ve lo garantisco.
E intanto ne approfitto per ringraziare tutti quelli che seguono la storia, e che hanno recensito finora!! Grazie mille!!  

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Capitolo 6
*** Fantasma ***



Un dolcetto alla crema, poi un altro alla frutta. Mani gentili quanto senili poggiano con estrema delicatezza le paste sulla superficie argentea.
Poi un altro al cioccolato, un bignè alla panna con l’immancabile ciliegina vermiglia. Dispone tutto in modo regolare, diligente e curato.
Senza fretta. In seguito passa a disporre a ventaglio i biscotti: quelli di pasta frolla al latte, quelli con scaglie di cioccolato e infine quelli con uno strato di cioccolato fondente e una mandorla incastonata al centro, come la pietra di un medaglione.                                                     
La mandorla. Il profumo sottile e fragrante di quel frutto gli investì le narici. D’altronde con tutti i dolci che serviva, come non poteva riconoscere l’inconfondibile odore del vento d’autunno quando sferza sul manto di foglie variopinte. Inoltre, la mandorla non gli suggerisce solo questo ricordo.
I suoi capelli castani, erano della stessa tonalità di quel frutto.
Lei adorava la mandorla. Non l’avrebbe mai dimenticato: il suo mix preferito era mandorla e cioccolato.
Sorride lievemente sotto i baffi bianchi ripensando alla faccia di Shiro quando guardava stralunata L, il quale ingurgitava quantità industriali di dolci.
Non aveva una grande predilezione per i dolci, non ne mangiava a tonnellate come il detective.
Tuttavia mangiava più che volentieri le paste alla mandorla. Le ricordavano i dolci di sua madre, gli disse un giorno.
Solo adesso, soffermandosi si è risvegliata quella stretta a cuore. Come un rapace che arpiona il muscolo per strapparne le membra.
Sanguina, lento e corrode acido il senso di colpa: lo ha sempre afflitto da quel terribile giorno in cui Shiro sorrise per l’ultima volta.
Mantenne intatta la sua spensieratezza di bambina fino all’ultimo, fino a quando non esalò l’ultimo respiro.
Ancora oggi si chiede come sia potuta accadere una cosa simile.
Nel vorticare di pensieri e ricordi, termina di disporre i dolcetti sul vassoio d’argento e poggia il tutto sul carrello. Accanto c’è una teiera di porcellana inglese finemente decorata, contenente pregiato Earl Grey  ed è accompagnata da un’elegante tazzina della stessa ceramica. Dispone tutto in modo impeccabile, quell’uomo dall’aria di un maggiordomo inglese e si avvia con il carrello fuori dalla sala monitor: è ora di portare quelle leccornie al suo pupillo. Alle orecchie di Watari non sfuggono i rombi sordi dei tuoni, che imprecano dal cielo. E lo scrosciare battente della pioggia.
Non si trattiene ad osservarla, gli basta sentire.                      
 

Per quanto il primo giorno si fossero create delle asperità tra loro, Shiro ed L iniziarono in qualche modo a rapportarsi.
Quella ragazzina riuscì in ciò che io non seppi fare in quasi tre anni, da quando portai il bambino nell’istituto.
La smania ossessiva di L a voler esaminare le sue attitudini, gli aveva in qualche modo giovato: innanzitutto. era uscito dal buio della sua camera e pareva che Shiro, in qualche modo, fosse l’unico contatto esterno al di fuori della sua stanza. L era sempre freddo calcolatore, ma con mia grande sorpresa la presenza della bambina riusciva a tirar fuori quel lieve tepore di bambino, nascosto in un angolo remoto del suo cuore. Sapevo benissimo che mangiare dolci, sedersi in  quella posizione fetale- anche se aiutava le sue capacità intellettive – e soprattutto il gesto di porsi un dito alla bocca,
non erano altro che  riflessi della sua natura, del suo essere bambino. Avrebbe potuto avere tutta l’intelligenza del mondo, ma era innegabile che nel profondo lui sentisse la necessità di comportarsi spontaneamente.
E l’esempio lampante era proprio Shiro, indubbiamente. Una sera nel buio della sua stanza, lui era lì rannicchiato a pigiare la tastiera del computer.
Stava scrivendo il suo rapporto quotidiano su Shiro, era un rituale che si svolgeva ogni sera.
Io ero lì accanto a lui e poggiai il vassoio dei dolci su quella parte di parquet libera da tutti quei fili serpeggianti.
A quei tempi internet era poco diffuso, e procurarmi tutti quei processori e towers non fu affatto semplice.
Le sue dita scorrevano veloci ed abili, pigiando con precisione i tasti. Era davvero preso e lo notai subito, dal momento che non aveva lanciato nemmeno uno sguardo alla fetta di torta con fragola accanto a lui. Ero in piedi dietro quella figura rannicchiata davanti allo schermo, il quale inondava luce bianca.
Mai nella mia vita mi capitò di essere curioso come in quel momento. I miei occhi delinearono la figura di L.
Non mi premeva tanto sapere cosa scrivesse, quanto cosa lo spingesse a fare una cosa simile. Volevo sapere quale sarebbe stata la sua risposta in merito:                                                                                                              
-L, perdonami se ti interrompo. Ma posso sapere perché ti interessi tanto a Shiro?                                             
Silenzio. La mia voce rimbombò nel vuoto, solo il ticchettio della tastiera si udiva. Un attimo dopo L si fermò, cessando di scrivere.
Non si voltò a guardarmi, bensì continuò a fissare lo schermo. Dalla sua reazione mi parve che solo in quel momento avesse udito la mia domanda.                                                                                                                                                                                                                                       
–Perché è diversa.- rispose secco, riprendendo ad armeggiare con la tastiera. “Diversa”, questa parola, detta da lui, mi lasciò non poco perplesso.
Che cosa intendeva? In che cosa sarebbe diversa?                                                                                                                                                                
-E in che cosa?- azzardai a domandare, sperando di ottenere un’esauriente spiegazione.                                           
–E’ quello che cerco di scoprire- stavolta rispose prontamente, senza battere ciglio e allo stesso tempo aveva soddisfatto il mio implicito quesito:
cioè in che modo avesse intenzione di scoprire questo dato. La risposta ce l’avevo davanti agli occhi, ossia mettendo nero su bianco tutto ciò che aveva faceva Shiro ogni giorno.
In un certo senso, per un bambino normale sarebbe una cosa eccessiva, ma per L era assolutamente indispensabile per il suo nuovo gioco.
Me lo disse fin dall’inizio, quello era un nuovo gioco che si augurava avrebbe spazzato via la sua noia.
Eppure quella ragazzina glielo disse chiaro e tondo il primo giorno: lei non era un giocattolo!
Niente da fare, quando L si impuntava su qualcosa non c'era verso di fargli cambiare idea. Tuttavia, pensai che forse sarebbe stata l’occasione propizia per farlo aprire al mondo. Allo stesso tempo anch’io mi chiedevo cosa avrebbe fatto Shiro.
Avrebbe continuato a studiare per il suo progetto o avrebbe fatto una pausa momentanea?
Beh, sin dall’inizio prima che mettesse piede nella Wammy’s House, la sua priorità era sempre stata completare il progetto di suo padre.
Mi disse che le mancava qualcosa, ma non sapeva esattamente cosa.
Non riferii nulla ad L riguardo alla sua genialità, perché sapevo che avrebbe preferito scoprire le cose da solo, altrimenti non sarebbe stato
più divertente per lui. Stavo per aprire la porta e portargli altri dolci, ma la sua voce monocorde mi bloccò inaspettatamente:                                                                                                                                                    
- Wammy, secondo te in che cosa sarebbe geniale Shiro? - stavolta si voltò leggermente per incrociare il mio sguardo.
La penombra lasciava intravedere l’occhio sinistro che mi fissava e la bocca  leggermente dischiusa, per poggiare l’indice.
Deglutii un attimo spiazzato, ma poi mi ricomposi sorridendo lievemente:                                                                                                                                                            
-Beh, permettimi di rigirarti la domanda: tu in che cosa pensi sia geniale?                                                             
Lui voltò il capo, indifferente ma rispose comunque:                                                                            
-Da quello che ho potuto vedere fin ora, ha una propensione per il furto e possiede molta elasticità mentale.
Ritengo dunque che sia geniale in un ambito che non è stato mai riscontrato fin ora nell’istituto. C’è una probabilità del 97%.                                                                                                                  
–Ne sei così sicuro?- domandai sbalordito da una analisi così accurata: aveva azzeccato tutto.                          
–E’ un’intuizione.                                                                                                                                                                                                                   
Successivamente i giorni passarono veloci. Shiro era nell’istituto da quasi un mese e intanto si avvicinava un test molto importante
per la nuova graduatoria di quell’anno.                                          
A pesarci bene, nei primi tempi Shiro non giocava molto fuori con i suoi compagni, anzi la trovavo quasi sempre della biblioteca.
Roger mi raccontò che la prima volta che la vide, ne rimase affascinata: mi disse che le brillarono gli occhi non appena si trovò dinnanzi a tutti quei volumi impilati negli scaffali. Già mi immaginai quella ragazzina  avventarsi con foga su quei volumi e divoragli con occhi euforici perché sì, Shiro era avida di sapere su questo non avevo il minimo dubbio. La biblioteca era il suo posto preferito, e lì spesso la trovavo assorta in un libro e c’era sempre accanto a lei un’altra fila di libri l’uno sull’altro, i quali non sapevo mai se li dovesse ancora leggere o li avesse già letti.
Un giorno di inizio ottobre, la trovai proprio in biblioteca. Stavolta, però, non con i capo chino sulle pagine ma con lo sguardo assorto fuori dalla finestra.
Mi avvicinai senza far troppo rumore, affinché non si spaventasse e mi sedei di fronte a lei.                                                                                                                                        
–Ciao Shiro- proruppi cauto, per non farla sobbalzare. A quel punto lei si ridestò e voltò il capo di scatto. Per un attimo rimase con la bocca dischiusa, quasi incantata:                                                      
-Oh, ciao Wammy . Non ti ho sentito arrivare.                                                                                                 
–Mi sembri un po’ sulle nuvole oggi, qualcosa non va?- domandai affabile, tranquillizzandola con un sorriso.                                                                                                                                                                         
–Beh … per la verità stavo pensando.- mi rispose, puntando le iridi verdi sulle pagine del libro davanti a sé. Era l’ennesimo sulla meccanica.                                                                                                                                        
–A che cosa? – domandai incuriosito.                                                                                                                                                   
–Veramente … - riprese, spostando lo sguardo alla finestra- Stavo pensando a mio padre.                                      
Io rimasi un attimo interdetto, ma del resto era comprensibile che pensasse ai suoi genitori. Anche se non lo dava a vedere, i suoi occhi chiari erano gonfi di malinconia e la sua risata mascherava una sofferenza immane: potei immaginare cosa provasse in quel momento.
Nel profondo del suo animo era una ragazzina disperata.                                                                                                                              
–Ah, sì?- proferii con una punta di melanconia. Lei assentì con un cenno del capo, ancora assorta. Poi si girò per guardarmi e notò la mia espressione cupa e triste.                                                                         
–Ma no, dai!! Wammy!! Non ci sto pensando in quel senso!! – mi disse sorridendo, mentre io mi riscossi accigliato.                                                                                                                                                
–Come?                                                                                                                                                                                 
-Stavo pensando al suo progetto, sono arrivata ad un punto morto! Eppure mi manca tanto così! – misurò con il pollice e l’indice.
Shiro, tu preferisci sempre sorridere che piangere? E’ una maschera, oppure è la tua forza?                                                                                                   
-Oh, capisco! E' per questo che stai leggendo tutti questi libri?                                                                                    
-Già, ma li leggo soprattutto perché sono interessantissimi!- si sporse sul tavolo, con il viso illuminato dalla gioia e gli occhi più luccicanti delle stelle.
Io abbozzai un sorriso: quella ragazzina era un’instancabile studiosa.                                                                                                                
– Ahah … mi fa piacere.                                                                                                                               
–Senti, Wammy … - a un certo punto si mise composta sulla sedia, abbassando lo sguardo imbarazzata – mi insegneresti a giocare a scacchi?
Sai l’altro ieri ho visto alcuni ragazzini che ci giocavano in sala comune.                                                                                                                             
-Non sai giocare? – domandai con una lieve punta di stupore.                                                               
–E non guardarmi così! In realtà, un giorno lo chiesi a mio padre, ma mi insegnò solo la disposizione dei pezzi e qualche mossa primaria.
Però il suo lavoro gli impedì di insegnarmi altro. –concluse il discorso quasi sussurrando. Non l’avevo mai vista in imbarazzo sino a questo punto.
Trattenni una risata divertita: era così carina e tenera quando arrossiva!                     
-D'accordo, allora ti insegno!                                                                                                                                                      
-Sì! Grazie Wammy!!! – saltò dall’entusiasmo, alzando la voce. Io mi portai l’indice sulle labbra in segno di silenzio:
tanta euforia ti fa dimenticare di essere in biblioteca! Lei si tappò la bocca all’istante in evidente imbarazzo e poi si guardò in giro circospetta.
Era davvero buffa, a stento riuscii a trattenere le risate. Presi la scacchiera e cominciai ad insegnarle le varie disposizioni dei pezzi, e come si muovevano. Gli scacchi sono un gioco di strategia, ed anch’io volli mettere alla prova le sue capacità intellettive. Mi sembrava di essere L!
Tuttavia dopo qualche incertezza iniziale e una partita di prova, giocammo sul serio.
Io mi basavo su uno schema semplice, essendo la prima volta per lei, ma fu un mio grande errore.                           
– Aahah! Scacco matto! – puntò decisa l’alfiere contro il  mio re.                                                                          
–Come? Cosa? – ero incredulo, mi aveva battuto ed avevamo appena iniziato.                                               
–A quanto pare non è così difficile come sembra! Anzi è divertente! – sorrise compiaciuta, mentre io ero a dir poco scioccato.
Fu a quel punto che decisi di fare sul serio.                                               
Niente da fare, in qualche modo riusciva a cambiare strategia a seconda delle situazioni: questa volta mi attirò in una trappola con le torri per distrarre la mia regina, mentre il cavallo face scacco matto al re. Era sorprendente, ed era solo la seconda partita.                         
–Complimenti, sei davvero brava! Ma sappi che  non ho ancora mostrato le mie vere potenzialità- commentai saccente.                                                                                                                               
–Che bugiardo! Si vedeva benissimo il fumo dalle orecchie per la concentrazione!!                               
Dovetti ammettere che aveva ragione e alla fine ridacchiammo entrambi a bassa voce, per non disturbare la lettura di nessuno.
A un certo punto Shiro si ammutolì di colpo. Cominciò a risistemare i pezzi  della scacchiera, pronta per un’altra partita.                                                                                              
–L , invece di guardare dietro quello scaffale  perché non vieni qui? – domandò Shiro fissando un punto alle mie spalle.
Io mi voltai di scatto e fu sufficiente ad intravedere la pupilla  pece di L, tra un volume e l’altro. La cosa che mi colpì di più, fu come Shiro se ne accorse.
Placido come sempre, L svoltò l’angolo indifferente con il consequenziale dito in bocca. Trascorsero minuti interminabili.
I due si scrutarono attenti. Shiro inarcava un sopracciglio scettica, mentre L restava apatico e silenzioso e continuava a torturarsi l’unghia del pollice.                                                                                                                                                                                                         
–Ahhh!!- la bambina sospirò profondamente, accasciandosi pigra sul tavolo – Sei davvero instancabile, lo sai? Quante volte te lo devo dire?!
Analizzami, squadrami, fammi una radiografia! Ma ti prego, ti scongiuro … Guarda, te lo chiedo come un favore personale. Non mi spiare!!                                                                     
Da L nessuna risposta: continuava a fissarla con i suoi onici bui, mentre Shiro gli lanciò un’occhiata spossata.
Poi la ragazzina rivolse la sua attenzione sulla scacchiera e come presa da un’improvvisa illuminazione disse:                                                                                                                         
-Invece di stare lì a fissarmi, perché non giochi con me?- domandò con sincera spontaneità, indicando con un gesto della mano la scacchiera dinnanzi a sé. L rimase interdetto, lo capii subito. Lo vidi sgranare leggermente gli occhi per la sorpresa, avevo la certezza assoluta che quel bambino tanto solitario non si aspettasse una richiesta simile. Per lui era alquanto difficile interpretare quella della ragazzina come una richiesta spontanea.
L era convinto che fosse una sfida, lui adorava le sfide.                                                                                                                                
–D’accordo.- proferì lapidario, mentre la sua bocca si distese in un ghigno sornione. Lo sapevo.
Senza che nessuno dei due me lo chiedesse, mi scostai dalla sedia per cedere il posto al bambino. Lui mosse a passi alquanto svelti e si accovacciò in posizione fetale sulla sedia. Si incurvò sulle ginocchia poggiando una mano sulla rotula sinistra.
Seguì con gli occhi le dita delicate di Shiro, le quali sistemavano gli ultimi pezzi nelle loro rispettive postazioni.                                                   
–Allora- soggiunse poi lei – bianchi o neri?                                                                                                                                       
-Bianchi- rispose L, senza indugio. A lui piaceva attaccare.                                                                               
–Ok, allora comincia!                                                                                                                                                    
Le punte delle dita di L andarono a spostare il primo pedone in f-3. Shiro fece lo stesso in c-7. La partita si svolse in maniera rapida e veloce:
non appena uno muoveva un pezzo l’altro lo mangiava. Era un testa a testa e non potevo che rimanere a bocca aperta.
Fu la prima volta che vidi un bambino così capace da mettere in difficoltà L; e pensare che Shiro aveva imparato a giocare circa 10 minuti fa.
Le sue capacità di apprendimento erano eccezionali!
La prima partita la vinse L, ma a mio parere la sua fu inaspettatamente una vittoria di Pirro: infatti perse molti pezzi importanti e solo alla fine riuscì a proteggere la regina per lo scacco matto. Shiro arricciò il naso quasi dispiaciuta, ma poi sorrise contenta:                                                                                     
-Ah! Accidenti c’ero quasi!! Ahh … - rise, si stava divertendo sul serio. L invece reclinò il capo confuso: sapevo già cosa gli frullava in testa in quel momento.                                                                   
–Perché ridi? – proruppe atono, non capendone davvero il motivo.                                                                   
–Perché? Perché mi sto divertendo, no?- rispose semplicemente, con un tono stranito non comprendendo la confusione del compagno.                                                                                                                                           
–Divertendo?- ribatté lui, alquanto perplesso – Ma hai perso!- nella sua voce monocorde, scorsi una nota di stupore.                                                                                                                                                                                                       
–Lo so. Ma mi sono divertita comunque! Pensavo di avercela fatta, ma alla fine hai saputo recuperare. Mi hai sorpresa!!
E quindi è per questo che mi sono divertita!! Quando vuoi sei uno spasso!! – sfoggiò un sorriso a trentadue denti, ed era tutto per L.
Io non potei fare a meno di intenerirmi di fronte a quella scena. Shiro non era competitiva, ma anche quando lo era sapeva accettare la sconfitta degnamente in modo sportivo.
Era davvero matura per la sua età,  in quel momento ebbi la certezza che avrebbe insegnato qualcosa di molto importante ad L.                                                                                                                                         
–Ma non darti arie! – riprese sardonica – Tanto nella prossima vincerò io!!- lo canzonò rimettendo i pezzi nuovamente nelle apposite caselle, ma stranamente anche L l'aiutò con uno sconosciuto entusiasmo, che mai avevo visto in lui. La seconda partita Shiro la vinse eccome, e dimostrò di possedere la mentalità di un perfetto generale. Fu una mossa eccezionale: avanzò il re esponendolo al pericolo, L si affrettò a fare scacco con il cavallo ma sorprendentemente lei postò semplicemente l’alfiere di una casella e fu scacco matto.
Fu la prima volta che L perse in assoluto ed anch’io rimasi spiazzato.                                                                         
–Bene , adesso siamo pari- commentò Shiro, puntando quelle luccicanti iridi verdi sul bambino ricurvo di fronte a lei.
Non se lo fecero ripetere due volte e iniziarono un’altra partita, e poi un’altra ancora. Arrivarono ad un totale di 36 giocate:
erano 18 a 18 assolutamente alla pari.
La 37° partita era quella decisiva, nel di silenzio della biblioteca si radunarono anche alcuni orfani, i quali si accorsero dell’accesa disputa.
L’esito lasciò sbalorditi sia me sia i presenti, giocatori compresi: patta. La partita si concluse patta.                                                                                                       
Rimasero entrambi in silenzio e intanto tenevano la presa sulla corona dei rispettivi re, tra il pollice e l’indice.
Si udii il vociare dei ragazzini che li attorniavano stupiti.
Nessuno era mai riuscito ad eguagliare L, fino a quel momento. E non credevo che L l’avesse lasciata vincere, non era nel suo stile,
perché  lui detesta perdere. Quindi …                                                                             
"Grrrr”. Questo, un semplice suono echeggiò in tutta la biblioteca. Quel silenzio religioso accompagnato dai bisbigli dei bambini si interruppe di colpo. Shiro avvampò improvvisamente imbarazzata: - Ehehheh … scusate!! – rise nervosa grattandosi la nuca – Ma ho una fame blu!!                                                                                                                                                                                  
Alcuni cominciarono a ridacchiare sommessi, altri esasperati dall’improvviso cambio di atmosfera si dileguarono. Shiro era nel pieno della vergogna, e le sue guance divennero purpuree. Era così carina quando aveva le gote arrossate: gli occhi verdi spiccavano ancora di più sul suo viso d’angelo.                                                                                                                                                
– Emh … Wammy, c’è un’emergenza … - si rivolse a me in segno di supplica. Io soffocai una risata, ma poi risposi:                                                                                                                                              
-Tranquilla puoi andare già in mensa, tra poco suonerà la campanella del pranzo.                                      
– Evvai! – disse sollevando le braccia- Coraggio andiamo! – fece gesto anche ad L, rimasto rannicchiato ad osservare la scena.
Lui la guardò con l’unghia del pollice fra le labbra.                            
–Hai fame L? Tra qualche minuto ti avrei portato i dolci.- mi intromisi e lui rispose con un cenno del capo.                                                                                                                                                                                          
–Coraggio!! Non penserai mica che ti lasciamo qui a morire di fame!! Arriverebbe un esercito si assistenti sociali a distruggere tutto il prato dell'istituto!!                                                                                               
Era inevitabile: Shiro aveva sempre la battuta pronta. Non sapevo se L avesse colto il suo umorismo, ma si limitò a reclinare in modo buffo il capo.                                                                                       
–Sai, credo che dovremmo giocare più spesso a scacchi. Che ne dici L? –disse poi camminando verso l’ingresso, guardando il piccolo dietro di lei con la coda dell’occhio.                                        
–Si- bofonchiò lui ancora con il dito in bocca. Questo significava che Shiro gli aveva offerto la sua amicizia ed L aveva in qualche modo accettato.
In quel momento guardai le figure dei ragazzi camminare davanti a me. Mi chiesi davvero se il loro legame un giorno non si sarebbe incrinato a causa dell’eccessiva competizione. Shiro sarebbe rimasta quella di sempre? Al pensiero il mio cuore fu affollato da una marea di dubbi e angosce.
Come avresti affrontato la graduatoria, Shiro? Come ti saresti comportata se la mole di lavoro fosse divenuta eccesiva?
Le mie paure e le mie debolezze erano queste.                                                                                        
Proprio ad ottobre cominciarono i test, anche Shiro si preparò come si conveniva e in classe non mancavano acute osservazioni da parte sua.
Il suo entusiasmo lo riversava nello studio, e questo non poté fare altro se non accorami. Lei mi diceva che più era difficile più c’era il gusto della sfida.
Per lei L non era solo un compagno con cui giocare a scacchi, aveva intuito subito la grande genialità del bambino, e diceva che per lei era l’avversario ideale per potersi migliorare sempre più. Nei test metteva tutta se stessa, ad esempio nel primo che fece raggiunse un risultato davvero elevato era solo un punto al di sotto di L. Questa era la nuova classifica: 1- L; 2- Shiro.
Ma lei non se ne preoccupava affatto. Non le interessava della graduatoria se per sé ma dal risultato da lei ottenuto.
Lei puntava all’apice dell’impegno, non le importava quanto tempo ci avrebbe messo ma anche se non avesse mai superato L, almeno voleva conoscere i suoi limiti. Questo mi disse una volta usciti i risultati dei test, inotre era più che sicura che avrebbe dato del filo da torcere ad L. Shiro notò subito l’espressione stupita, a volte scettica e malevola di alcuni orfani che si premeditavano ad essere i migliori. Lei lo sapeva: c’era troppa competizione.
Personalmente, io e Roger Ruvie prendemmo in esame questa situazione: da una parte volevamo allentare un po’ la presa,
dall’altra invece temevamo che questo avrebbe influito sul rendimento degli studenti. Non volevamo ricommettere lo stesso errore del passato.
Dal canto suo il primo in classifica né si curava di quest’ultima e né tanto meno metteva impegno nello studio.
Faceva tutto in modo svogliato senza alcun interesse. La ragazzina se ne accorse e la cosa, le dava un certo fastidio. Lo notai durante i primi mesi, quando si susseguirono altri test. Tutti con risultati eccellenti ed impeccabili, ma il primo posto era sempre e costantemente occupato da L.
Un giorno capitò un altro test, ma quando io e Roger ci apprestammo a correggerli ci capitò tra le mani qualcosa che ci lasciò letteralmente scioccati.
Dopo due giorni, invece che far uscire il tabellone con i risultati della graduatoria, consegnammo i compiti ai rispettivi alunni.
Arrivai tra i due banchi , quello di L e quello di Shiro.
Rilasciai sul banco di L il foglio del suo compito, scritto a tratti leggeri, mentre con l’altra mano sollevai quello di Shiro e lo mostrai alla ragazzina.
Era vuoto, completamente in bianco.
La castana era assorta a guardare fuori dalla finestra, con il viso appoggiato sul palmo. Si voltò solo per prestarmi attenzione.                                                                                                                                                                                                                                 
– Shiro, che cosa significa? Perché, il tuo foglio è completamente in bianco?- assunsi un tono serio, mentre alla parola “bianco” tutti gli alunni
si voltarono stupiti, di conseguenza cominciarono i primi vocii di sottofondo. Anche L con calma placida voltò il capo nella sua direzione.                                          
–La risposta è semplice, non mi andava.- tre lapidarie parole, proferite con un tono austero e fermo da non sembrare il suo.
Stavo per ribattere con qualcosa del tipo:” stai scherzando?”, ma cercai di contenermi. Non era nel mio stile sfociare senza una adeguata motivazione.
Lei non faceva mai niente a caso. Un motivo doveva esserci per forza.                                                                    
–Che vuoi dire?                                                                                                                                                                                                       
-Quello che ho detto: non mi andava.- seguirono interminabili minuti di silenzio. Quelle paure e angosce si fecero di nuovo strada in me,
che si fossero avverati i miei presentimenti.                    
–Non fraintendermi Wammy. Io mi sono preparata eccome a questo test, solo che ho deciso di non farlo.                                                                                                                                                                   
Io ero semplicemente accigliato, come tutto il resto della classe.                                                                                 
–Vedi ero concentratissima, solo che non appena ho preso la penna in mano ho perso interesse. Mi sono accorta che era solo una perdita di tempo e quindi ho preferito non farlo. Non ci sarebbe stata alcuna differenza  tra consegnarlo in bianco e consegnarlo scritto, poiché scrivendolo non avrei riversato la stessa costanza delle volte precedenti. Quindi ho optato per consegnarlo in bianco. Mi dispiace ma io sono una persona coerente.
A questo punto si girò verso L, continuando a parlare con me. Quell’atteggiamento mi ricordava molto … L.                                                                                                                                                                                  
-Ho preferito consegnare il compito di uno studente ribelle e capriccioso, piuttosto che quello di un fantasma.
Se l’avessi fatto avrei mancato di rispetto sia te, sia a miei compagni che si impegnano al massimo e sia alla mia intelligenza che alla sapienza in generale.                                        
E’ per evitare di trasformarmi in un fantasma, che ho deciso così.                                                                                            
L e Shiro si scrutarono intensamente come il primo giorno, in quel momento capii dove voleva andare a parare.                                                                                                                                                                        
–Comprendo le tue ragioni- ammisi abbassando il capo- Per questa volta passi, ma che non si ripeta più. Chiederò al direttore di farti rifare il test, ma davvero non rifarlo mai più.                                                     
–Certo, mi scuso. Non si ripeterà più.- assentì chinando lievemente il capo. Tutti gli sguardi erano puntati su di lei. E fu alquanto difficile distogliere l’attenzione di tutti da Shiro alla lezione del giorno. L continuava a guardarla: era indubbiamente riferito a lui.                                      
Convinsi senza fatica Roger a sottoporla ad un test di riparazione,il quale svolse nel tardo pomeriggio mentre tutti erano in pausa.
Aveva detto di aver studiato per il test, quindi non ci furono problemi.
Il giorno dopo affiggemmo la nuova graduatoria: pari merito. L e Shiro si posizionarono entrambi primi nella classifica. La cosa lasciò stuccati tutti.                                               
La folla dei ragazzini si aprì ad imbuto facendo passare Shiro, la quale osservò la graduatoria.                        
-Complimenti Shiro – soggiunsi alle sue spalle, sorridendo fiero.                                                                            
–Grazie Wammy, ho fatto davvero del mio maglio stavolta.                                                                                                
I tonfi sordi prodotti dai piedi nudi sul pavimento si avvicinarono alle  nostre spalle. L si accostò con espressione di indecifrabile apatia, sollevò il capo:
il suo nome era affiancato da un altro.                               
Poi abbassò il mento per guardare Shiro:- Brava- disse lapidario, conservando freddezza.                     
–Grazie!- ma dopo quel brevissimo scambio di battute, la ragazzina si avviò spensierata. Non c’era beffa nella sua espressione, e nemmeno estrema austerità. Pareva serena, un volto serafico direi.                                                                                                                                                                                   
–Lo sai L? – si fermò di fianco a lui, rivolgendogli una breve occhiata – E’ un po’ inquietante avere alle costole un cane-fantasma.                                                                                                                             
E detto ciò proseguì per il corridoio. In seguito si bloccò  nuovamente, a metà strada. Davvero era stata così seria e adulta?
Quell'atto di fermarsi, mi ricordò quell'episodio nel treno. Si voltò di scatto.               
Ci guardò un attimo, anzi guardò L. Questo si girò sentendosi gli occhi puntati addosso.
Shiro sorrise sardonica, subito abbassò un palpebra con l’indice, per fare l’occhiaccio e poi tirò fuori la lingua: - Bleeeh!!                                                                                                         
Quella che ne uscì fuori fu una spaventosa boccaccia di scherno. Ma poi distese il viso gli urlò: - Ti vuoi dare una mossa?! Se continui così alla fine finirò per superarti e tu non vuoi questo, vero cagnolino dei miei stivali???                                                                                                            
Me lo dovevo aspettare che avrebbe reagito così! Shiro era pur sempre Shiro!                                                                    
Infine, la ragazzina si voltò dispettosa e riprese il tragitto sino ad allontanarsi definitivamente. Io guardai L: aveva il capo chino, i ciuffi neri disordinati facevano ancora più ombra sul suo sguardo.                                                                                                                                                   
-100% - mormorò a fior di labbra. Il suono della sua voce fu quasi impercettibile al mio udito.                                                                    
–Cosa L?                                                                                                                                                                                   
-Niente …
 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    










































Ciaoo!! Finalmente posto scusate il ritardo!!
Le lacrime non sono ancora arrivate, ma che ne pensate?? 

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Capitolo 7
*** Ho freddo ***


 18 agosto 1995 , Wammy’s House  [ Winchester ]

Passarono quattro anni dall’avvento di Shiro alla Wammy’s House e la vita sembrava scorrere serenamente. L’orfanotrofio stesso era diventato più allegro del solito grazie a quella ragazzina e alle sue bravate. Non mancava giorno in cui non facesse sgolare Roger. Il povero direttore l’ultima volta aveva urlato così forte da farsi venire il mal di schiena. Però, in quel giorno non tanto accaldato di agosto, io ed il mio caro vecchio amico Ruvie avevamo ben altro a cui pensare che alle ribalderie di Shiro! C’era un altro problema: L.
Quello che alleggiava nell’ufficio del direttore dell’orfanotrofio, era un silenzio pesantissimo il cui spessore era palpabile ed insostenibile. Solo un ragazzino accovacciato su una sedia di fronte alla scrivania in mogano, pareva non curarsene.
Sempre intento e concentrato a mordicchiare l’unghia del pollice, gli occhi sbarrati nell’atto di riflettere sulla situazione in corso. Roger si sistemò bene sulla sedia girevole, posizionando nella parte dolente della schiena la borsa dell’acqua calda. Pensavo che mi avesse chiamato per dirmi che Shiro ne aveva combinata un’altra delle sue, ma stranamente mi ritrovai un altro problema da affrontare. Margherita, la cuoca della mensa, aveva beccato in flagrante il più dotato della Wammy’s House mentre rubava furtivamente dei biscotti dalla dispensa. In quegli ultimi tempi si erano verificati una serie di piccoli furti, e a quanto pare tutti gli indizi portavano a quel ragazzino dalla folta chioma pece scompigliata. Ruvie mi aveva chiamato in quanto trovava seria difficoltà a comunicare con il ragazzo, per non parlare del mal di schiena che lo stava praticamente uccidendo. Quando arrivai in quella stanza  e mi ritrovai L rannicchiato sulla sedia e Roger con una faccia afflitta: il mio mondo fu scosso dalle fondamenta. Mi avvicinai a lui con passo deciso e allo stesso tempo incerto: era la prima volta che mi ritrovavo in una situazione simile. Non ne capivo il motivo: eppure io non gli facevo mancare mai niente! Se mangiava dolci a palate tutti i giorni, allora che senso aveva rubare dei biscotti? E più di una volta. Non eravamo severi, ma sapevamo che il furto fosse una cosa illecita. Ma la cosa più strana e che li avesse rubati proprio lui! Che gli succedeva?                               
-L, è vero che hai rubato più volte dalla dispensa?- proruppi cercando di instaurare un dialogo- Non ti piacciono più i dolci che ti compro?- domandai ingenuamente, aspettandomi una risposta.                                                                                                                                        
–Sì, certo. - tuonò atono continuando a guardare fisso dinnanzi a sé, cominciando torturare anche l’unghia dell’indice.                                                                                                                                                       
– Emh, figliolo … - cercò di intervenire in qualche modo, Roger – Non vogliamo castigarti, cerchiamo solo di capire il motivo del tuo gesto. Sai più di chiunque altro ogni suppellettile di questa struttura, cibo compreso appartengono a tutti. Mi dici cosa ti ha spinto ad un simile atto?                                                                                                                                                                                 
In quel momento nessuna risposta si udì dalla bocca del tredicenne, poiché qualcuno ci interruppe bussando alla porta.                                                                                                                                                    
–Avanti … - mugugnò dolorante, Roger, sistemandosi meglio a sedere. La porta si aprì: scorsi il riflesso di un bicchiere di vetro, in seguito la figura si mostrò a noi. La tredicenne più vivace e catastrofica che abbia mai incontrato. Shiro era davvero cresciuta, raggiungeva pressappoco il metro cinquantacinque. Era snella, ma non eccessivamente minuta come l’avevo conosciuta tempo fa. La sua era l’età in cui cominciavano a scorgersi le prime rotondità: un seno piccolo appena accennato dalla maglietta rossa e i fianchi leggermente più pieni rispetto a quando era bambina. Indossava dei jeans a pinocchietto, i quali arrivavano sino alle caviglie, di lì in poi c’era un tratto di pelle lattea scoperta al sole e infine calzava un paio di scarpe da ginnastica nere, un po’ vecchiotte ma che lei adorava tanto per la comodità. Il viso stava assumendo una forma sempre più affusolata e definita, completamente diverso dalle guance paffute da angioletto che aveva da bambina. Gli occhi erano più grandi e sempre  più luminosi ogni girono che passava.
Due magnifici smeraldi che si sarebbero accesi anche nel buio più pastoso. La punta del naso era dolce sinuosa, possedeva un profilo assolutamente perfetto  e per finire, le labbra parevano due boccioli di rosa, piene e fresche come accarezzate dalla rugiada mattutina. I capelli, a mio parere, rappresentavano il suo carattere ribelle e confusionario. Quelle ciocche di mandorle mature si arricciavano alle punte formando boccoli sinuosi e leggiadri, ma la col tempo frizzanti e ribelli.                                                                                                
–Ehi! Roger! Ti ho portato … - una volta varcata la soglia, la porta si richiuse a  scatto e lei rimase immobile, imbambolata a fissarci.
Più che altro fissava L, il quale notando la sua presenza si era girato in direzione della porta. Shiro aveva un bicchiere di latte in mano, ma continuava a mantenere la sua espressione accigliata e sbigottita.                                                                       
–Allora è vero quello che Margherita mi ha detto … - mormorò incredula – io all’inizio non ci ho creduto, ma adesso … adesso … - chiuse gli occhi inspirando. In seguito li riaprì espirando profondamente, ma alla fine fu più forte di lei:                                                                            
-Mmh.. mahhhahhhhh!! Ahhahaahahah!!! – scoppiò in una sonora risata, si mise una mano sulla pancia piegandosi leggermente per attutire i crampi nella parte addominale.                                                 
–Ahhah!! O mio Dio!!! Ti sei fatto beccare!!!- continuò così per qualche secondo, intanto L si era girato lentamente dalla’altra parte riprendendo a fissare un punto davanti a sé. Mi parve che si fosse offeso in qualche modo dall’uscita della castana.                                                                      
–Mamma mia!! Non finirai mai di stupirmi!!- e con l’ultimo commento sarcastico si avvicinò alla scrivania di Roger. Guardò prima l’indifferenza glaciale di L e poi la frustrazione del direttore, che con gli occhi supplicava una muta pietà. La ragazzina sorrise a quest’ultimo, e senza permesso alcuno si sedette alla scrivania e porse il bicchiere al direttore.                                                      
–Tieni, è per la gola. Ci ho messo un po’ di miele.- a l’ultima affermazione Ruvie la fulminò con un’occhiata scettica.                                                                                                                                                              
–Sta tranquillo!! Il miele me l’ha dato Margherita!! – commentò la ragazza, esasperata dalla scarsa fiducia nei suoi confronti. Roger bofonchiò qualcosa di incomprensibile, prima di bere un sorso di quel latte tiepido.                                                                                                                                                
– Va meglio? – domandò al direttore, il quale mugugnò con un cenno del capo. In seguito gli smeraldi accesi della ragazzina si posarono sulla figura di L. Era ancora seduta sulla scrivania e dondolava le gambe nel vuoto: oramai lei era di casa in direzione, ma quella volta la combinò grossa al direttore.
Notai una macchia nera che  spiccava sul rosso acceso della maglia, e solo in quel momento mi resi conto che le sue gambe erano a tratti annerite da chiazze di fuliggine.                                                                                                                                                                   
–Bene, bene , bene … - cominciò sardonica, abbozzando un sorriso di scherno – è così alla fine ci hai provato, ma ti hanno colto nel sacco.
- Era sempre stata particolarmente brava ad infierire. Dal canto suo, L le rivolse un’occhiata indagatrice scrutandola con i suoi profondi onici e soffermandosi sulla chiazza nera, che sporcava la maglietta:                                                          
-A quanto pare, nemmeno tu sei stata previdente.- commentò con il solito tono distaccato, indicando la macchia oleosa con lo sguardo. La ragazza aguzzò le iridi indispettita e distese le labbra morbide in una curva capricciosa: a volte era proprio una bambina! Anzi lei era una bambina!                                                                                                                                                  
-Per la cronaca questa volta non c’entro! – affermò sicura, ma poi sussultò notando lo sguardo torvo di Roger su di lei. Tossicchiò sommessa cercando di ignorare la presenza alle sue spalle – Beh, non  l’ho fatto volontariamente, ma … Insomma!! Come potevo immaginare che quel rottame lo usasse ancora qualcuno!?                                                                                                                 
-Ma … ma … Come sarebbe a dire rottame?!?- sbottò il direttore cercando di alzarsi, ma una fitta di dolore gli impedì qualsiasi movimento.                                                                                                          
–Stai calmo!! Non vedi che non riesci ancora a muoverti?- incalzò Shiro, cercando di non peggiorare la situazione, ottenendo però l’effetto di una truce occhiata da parte di Roger.                       
–Come potevo immaginare che fosse tuo! E poi ho visto che perdeva olio quindi ho pensato di intervenire! Non è stata poi una cattiva idea!!- concluse minimizzandola faccenda.                               
–Quella era la mia auto!!- riprese Roger, posando una mano sulla fronte disperato.                                   
–Che ingrato!! Dovresti essermi riconoscente per il mio operato!! Quella carriola perdeva olio, se tu l’avessi usata un’altra volta non saresti stato più in grado di frenare.                                                            
–Hai smontato l’auto, Shiro?!- intervenni sbalordito.                                                                                                         
–“Smontato”, che esagerazione! Ho giusto cambiato qualche bullone … aggiustato qualche  filo qua e là … - rispose vaga, grattandosi il capo per evitare lo sguardo severo che Roger le stava rivolgendo. Pareva che si sentisse bruciare la nuca per quanto era intenso.                                          
-Qualche bullone?! Qualche filo?! Ma se hai espiantato completamente il motore!!- ribatté il direttore, afflitto.                                                                                                                                                                    
– Oh!! Ma quante storie! Ero solo curiosa tutto qui! Tu piuttosto, dovresti darti una calmata.- rispose pronta, con una punta di sagacia.          
–Calmarmi io? – controbatté il direttore, intollerante all’impertinenza.                                                                        
–Sì, tu! Hai capito bene! Sembravi una gallina che si strozzava con un chicco di mais!! Urlare così forte da farti venire il mal di schiena!- pareva una madre che rimproverava il figlio, con lei era a dir poco incredibile come si capovolgessero i ruoli.                                            
La ragazzina e Ruvie si scrutarono in cagnesco, ma alla fine il vecchio abbassò lo sguardo esasperato, mentre Shiro sospirò pesantemente.
Era davvero un quadretto comico  ed il tutto si svolse sotto lo sguardo apparentemente indifferente di L, il quale non proferì nulla.   
–Sta tranquillo!! Ho dato giusto una ritoccatina al carburatole e ho sostituito le candele. Erano inservibili … Ah, e poi ho lubrificato i pedali, facevano un rumore stridulo e assordante. Per il resto è tutto a posto, se sono stata capace di smontalo non vedo perché debba essere così difficile rimontarlo!! – concluse balzando giù dalla scrivania.  Per quanto mi sforzassi, non riuscivo mai a capire quali fossero i reali limiti del suo genio, era esattamente come L: capace di apprendere in fretta. Non potevo che rimanere affascinato dalla sua stessa presenza: era semplicemente sbalorditiva.                                                                           
– Mmhh … - si stiracchiò a un certo punto, tendendo le braccia verso l’alto e incrociando le dita al di sopra del capo. Si voltò per dare un’ultima occhiata alla faccia del direttore: tra il sorpreso e l’incredulo. Ma poi,, come fece il sottoscritto, Roger distese quell’espressione sbigottita in una più rassegnata e consapevole: in fondo quello che avevamo fondato era un istituto per geni. Non c’era alcun motivo per stupirsi di una cosa del genere.                                            
–Oh ,su andiamo! Ti assicuro che trasformerò quella vecchia Morris Minor in un bel bolide da corsa!  Ne uscirà un vero capolavoro! Che ne dici!??- domandò con occhi luccicanti e speranzosi.                                                                                                                              
– Shiro!- riprese Roger, contraendo il viso in una smorfia sofferente: la schiena doleva ancora.                                                                 
–Ok, ok!  Ho capito, la rimetto a posto come prima! In  effetti è una pessima idea … - rispose sospirando.                                      
–Appunto … -  assentì il direttore, chinando il capo sollevato - non è il caso di esagerare.                      
Forse Shiro aveva compreso? Beh, la risposta venne subito dopo: no.                                                                                                                                        
–Già, con il mal di schiena che ti ritrovi, dubito fortemente che  tu possa partecipare a una corsa clandestina! – strizzò l’occhio nella mia direzione, mentre io serravo le labbra per trattenere le risa.                                                                                                              
–Impertinente … - sibilò il direttore a denti stretti, mentre un’altra fitta di dolore gli strozzo la voce in gola.                                      
–D’accordo penso che sia sufficiente così. – intervenni, per chiudere la questione e ritirare L dal suo “arresto”.
– Andiamo L - richiamai il ragazzino il quale scese pacato dalla sedia, infilando le dita in tasca. In generale il suo aspetto non era mutato molto da quando era piccolo. Era più alto, un po’ più ricurvo, le ore di veglia si erano praticamente moltiplicate e il suo sguardo era ancora più insondabile e cupo di prima. Tuttavia se c’era qualcosa che non era affatto cambiata con gli anni, quella era indubbiamente la sua passione per i dolci.                           
Ultimamente le sue richieste si erano fatte più forbite in ambito di pasticceria, ma non era un problema per me. Ecco perché ancora non comprendevo il motivo del suo gesto: qualcuno forse potrebbe dire che lo viziassi, ma per L i dolci erano fondamentali per il suo cervello.
La dimostrazione era che per quanti ne ingurgitasse non ingrassava nemmeno di un etto, pareva paradossalmente denutrito. Uscii dall’ufficio accompagnato dai ragazzi, i due si fermarono di fianco a me non appena si richiuse la porta. L fissò Shiro tormentandosi l’unghia del pollice, sollevando ritmicamente il labbro inferiore.
Shiro rivolse attenzione al suo sguardo, sbattendo più volte le palpebre accigliata:                                                                                                
-Beh? Adesso cos’hai da fissarmi a quel modo?- domandò mettendo le mani ai fianchi. Scene del genere si ripetevano oramai da quattro anni, mi domandai dove volessero andare a pare quella volta. L continuava a fissarla imperterrito: di solito Shiro andava in escandescenza quando il tredicenne cominciava a scrutarla con insistenza.                                                                         
–Se ti stai chiedendo se verrò a concludere la partita a scacchi che avevamo interrotto, allora la risposta è: sì. – rispose chinandosi in avanti, avvicinando il suo viso a quello di L, quest’ultimo si destò e face mezzo passo indietro. Il ragazzo smise di torturarsi l’unghia del pollice: lessi lieve stupore nelle sue pozze buie, ma poi il velo dell’imperscrutabilità si di distese su di esse, come sempre.                                 
– Ahhh … - sospirò seccata, l’altra - Certo che anche tu sei poco conciliante. Potresti spiccicare qualche parola ogni tanto, no?  Soprattutto quando è necessario.                                                          
La castana aveva un atteggiamento particolare nei suoi confronti, non che con altri fosse meno gentile e disponibile, ma era in grado di prendere L dalla parte giusta. Sentivo che lei riusciva a comprenderlo nel profondo, cosa che io ho sempre faticato a fare. Solo con il tempo appresi la tecnica che Shiro utilizzava con lui, così lampante e banale ma al col tempo estremamente efficace: la sincerità. Con questo non dico che io non fossi sincero con L, solo che come tutti gli altri mi contorcevo cercando di addentrarmi nella sua psiche complessa, quando in realtà bastava essere semplicemente spontanei, senza alcuno sforzo. Shiro stessa mi dimostrò che con L non erano necessari paroloni: bastava semplicemente essere se stessi, in questo modo il ragazzo riusciva a rapportarsi in modo trasparente con gli altri. Forse il fatto che fosse il primo della House e le varie aspettative riposte su di lui avevano contribuito, assieme alla sua natura solitaria e calcolatrice, ad estraniarsi dal mondo esterno  limitandosi a pochi contatti umani. Shiro, invece, lo guardava con gli occhi della purezza, privi di malizia e di qualsiasi meschinità nei suoi confronti: per lei era davvero un amico. Solo che questo concetto il ragazzino non l’aveva ancora compreso appieno.                                                
–Ti aspetto in sala comune.- rispose L, dopo una lunga digressione di silenzio. Shiro parve cadere dalle nuvole quando udii la sua voce ferma e atona. Scosse la testa scacciando il momentaneo stupore: - Ci puoi contare, solo devi pazientare un po’ … sai prima devo rimettere a posto l’auto di Roger … - sorrise impacciata, grattandosi la nuca.                                                                       
–Aspetterò. - si limitò a confermare L. Intimamente ero davvero felice che avesse rapporti con un’altra persona oltre me, e forse il gioco degli scacchi aveva fatto da collante a questo relazione.                                                                                                                               
–Ok! – rispose energica la ragazzina salutandolo, mentre il giovanotto si voltava e a passo pacato dirigendosi in sala comune. Io , invece , dovevo riordinare nuovi dolcetti e lasciare delle carte nel mio ufficio.                                                                                                                                          
–Tu non lo segui Wammy ? – chiese voltandosi verso di me. I suoi smeraldi erano incredibilmente limpidi, tanto che ogni volta che la si guardava era difficile distogliere l’attenzione da quelle magnifiche iridi ipnotiche. Per non parlare dei capelli castani che le incorniciavano il viso d’angelo.                                                                                                                           
–No, prima devo fare una cosa.  A questo punto credo che dovremmo fare un pezzo di strada insieme.– le sorrisi, e lei ricambiò assieme ad un cenno del capo. Ci incamminammo per il corridoio, apparentemente isolato mentre dal vetro delle finestre rimbombavano gli schiamazzi dei bambini che giocavano in giardino. Restammo qualche minuto in silenzio, lasciando echeggiare i nostri passi senza alcuna interruzione. A un certo punto nella mente mi balenò una domanda, un quesito che mi ero sempre posto e che mai ebbi l’occasione di rivolgerle, per lo meno fino a quel momento.
Mi parve il momento giusto per farlo, probabilmente avrei avuto altre occasioni, ma l’urgenza della curiosità fu impellente:                                         
- Shiro, posso farti una domanda? – proruppi il silenzio catturando la sua attenzione.                                                  
–Dimmi. – rispose voltando il capo verso di me.                                                                                                                 
–Tu cosa pensi di L? – proferii tutto d’un fiato, quasi temetti di bloccarmi a metà frase. Proseguii di qualche passo ma mi bloccai istantaneamente quando notai che Shiro si era fermata poco dietro di me. Fui sorpreso dalla sua reazione: che la domanda l’avesse sconvolta a tal punto?                                                                                                                          
Dapprima sbatté le palpebre accigliata, successivamente inarcò le sopracciglia e la sua espressione si fece improvvisamente seria:                                                                                                                           
-Cosa penso di lui?- un sussurro roco uscì inaspettatamente dalle sue labbra. Mi parve che l’avesse presa troppo sul serio.                                                                                                                         
–Sì, esatto … - confermai incitandola a proseguire – Cosa pensi di lui?                                                        
Le sue labbra si distesero in un sorriso tra il divertito e il serio: - Beh … Che posso dirti? Per me L … - cominciò sollevando lo sguardo in alto, in segno di riflessione.                                                          
–E’ lo stramaledetto incrocio tra una donna incinta ed una sedicenne depressa!!- buttò tutto d’un fiato, guardandomi fisso negli occhi: era estremamente seria. Dopo quella affermazione per poco non caddi a terra: ma  veramente pensava questo di lui??!                                                                                   
-Come dici ? – domandai flebilmente, come a convincermi di non aver udito nulla di simile.                          
–Hai capito bene! Insomma è davvero fuori dal comune!! Come si fa a mangiare così tanti dolci e non ingrassare nemmeno di un grammo??!
Anzi più ne mangia più pare denutrito!! Ma come è possibile?? E’ un caso unico!! E poi a furia di mangiarne così tanti non rischia un diabete cancerogeno??! E’ davvero strano! – concluse in fretta senza la minima pausa, e soprattutto senza scomporre la sua espressione seria e determinata!
Era davvero convinta di ciò che diceva. Io non potei fare a meno di ridere, lei invece mi guardò stranita.                                      
–Come mai ridi cosi? Guarda che è la verità!                                                                                                              
-Lo so, lo so. Scusami è che non mi aspettavo una simile risposta!- la mia voce era leggermente tremante a causa delle forti risa.
Trattenni il fiato con il dorso della mano davanti ai baffi bianchi: dovevo sedare quell’ilarità, altrimenti si sarebbe offesa.                                         
–Datti un contegno Wammy! Un gentil uomo inglese non dovrebbe ridere così sguaiatamente!– rimbeccò ironica.                                                                                                                  
–Hai ragione … Ma davvero è solo questo che pensi di lui? – continuai sperando di trovare una risposta diversa.                                                                                                                                                                                
–Certo, che no. Non è solo questo.- stavolta il tono non celava ironia o sarcasmo. Divenne improvvisamente atono, monocorde, direi quasi malinconico.                                                                                     
–Lui è solo.- rispose, volgendo lo sguardo fuori dalla finestra: un gruppo di bambini si rincorrevano felici e spensierati.                 
–Forse è il suo genio ad imporgli inconsciamente il distacco dagli altri, ma posso capire che non si senta in sintonia con il resto del mondo.
E il fatto che sia il primo della graduatoria ha probabilmente contribuito ad erigere questo muro tra lui e il mondo esterno. Con questo non voglio di certo farvene una colpa, però è pur vero che L preferisce schermarsi ed evitare il contatto altrui per timore di essere ferito o di trovarsi allo scoperto. La sua ragione lo obbliga a comportarsi con freddo distacco, con indifferenza analizzando e monopolizzando tutto ciò che gli circonda, questo lo so bene.- sulla superficie trasparente scorsi il riflesso di un sorriso, che stentava a trattenere amarezza.
– Adesso devo dire che è lievemente più espansivo rispetto a quando eravamo più piccoli, e mi sembra ancora incredibile che abbia allargato il confine per far passare sia te che me nel suo mondo. Eppure è paradossale da parte sua parlare di giustizia essendo completamente assente da tutto e da tutti, non trovi? Io credo che questo sia un suo tentativo di far capolino dal suo guscio e guardare il mondo esterno con i propri occhi, anziché dallo schermo di un computer o dal vetro di una finestra. Anche L è un bambino e in quanto tale anche lui merita affetto, non credi? Per esempio lui si fida ciecamente di te: questo dimostra quanto sia forte il suo desiderio di essere spontaneo.                    
– Shiro … - mormorai incredulo e spiazzato, mentre lei accennò ad un lieve sorriso dedicandomi uno sguardo amorevole e premuroso.                                                                                           
–Lo so perché mi rispecchio tantissimo in lui, sul serio. Entrambi cerchiamo disperatamente di recuperare e ricostruire la nostra infanzia, anche se in modo diverso. Vogliamo essere piccoli! Capisci?                                                                                                        
-Si, hai ragione.- abbassai il capo in segno di comprensione – Anche per te è la stessa cosa.                                  
–Te ne sarai accorto anche tu che io non sono come le altre bambine, no? – domandò ridestandomi dalla figura di L, la quale si delineò nella mia mente.
La fissai un attimo interdetto senza spiccicare parola.                                                                                                             
–Ma come?! Non ti sei mai chiesto perché io non giochi alle bambole? Sarebbe normale dopotutto. – la lucentezza delle sue iridi  si spense come la debole fiammella di una candela, lasciando posto a uno strato opaco di fumo.                       
–Ti basti sapere che la mia bambola preferita è finita in pasto ai cani. – questa affermazione mi riscosse totalmente, lei invece continuava a guardare fuori, assorta. – Si chiamava Mary, l’aveva fatta mia madre, ed io l’ho sacrificata  per sopravvivere. La mia infanzia è terminata quando sono morti i miei genitori e mio fratello.  Il resto lo puoi immaginare …                                                                  
Solo in quel momento mi resi conto che dietro quei magnifici sorrisi, Shiro nascondeva una profonda sofferenza. Non potei aggiungere altro, qualsiasi cosa avessi detto sarebbe risultata troppo scontata o inopportuna: in questo senso avevo le mani legate.                

Con un tonfo leggero su una scacchiera di legno, Shiro muove un altro pezzo. L osserva concentrato la sua mossa, contrapponendola con un’altra. Il loro era un rito abituale, giocavano assieme da parecchi anni oramai, a discapito delle miei previsioni L pareva non annoiarsi mai, il che era alquanto difficile. Non avrei mai immaginato che Shiro gli andasse a genio fino a questo punto.
L mosse l’alfiere accostandolo al cavallo, mentre ingurgitò un pasticcino intero. La ragazzina reclinò il capo perplessa, ma poi squarciò il silenzio lapidaria: -Se ti piacciono i dolci che ti compra Wammy, allora perché hai rubato dalla dispensa della cucina?- una domanda secca e lei lo guardò dritto negli occhi.                                                                                                           
Le dita di L si bloccarono a un millimetro dalla crine del cavallo bianco. Sollevò i suoi opali bui su di lei, scrutandola intensamente come se volesse persuaderla a non insistere, ma Shiro era irremovibile.                                                                                                            
–Perché lo vuoi sapere?-ricacciò la risposta con un’altra domanda, astutamente.                                                    
–Perché tu non fai mai niente a caso, L. Inoltre, a differenza di quello che tu pensi, mi importa eccome saperlo. Anche se può sembrare una sciocchezza.- l’ultima affermazione scosse sia me che il ragazzino, il quale stavolta la scrutava indagatore. La luce del tramonto filtrava dalla finestra della sala comune, gli occhi della ragazzina rispendevano di una luce eterea e i capelli assumevano calde sfumature rossastre.
Lo fissava senza proferire parola alcuna, io stesso rimasi con il fiato sospeso guardando i due.                                                                           –Perché volevo essere come te .- dopo una lunga pausa, L rispose monocorde senza troppi giri di parole. Shiro sgranò gli occhi dall’incredulità: che avrà voluto dire?                                                                
-In che senso scusa?-  domandò quasi stizzita, con voce strozzata dalla sorpresa.                                                      
–Volevo capire come avevi fatto l’altra volta a rubare quel panino per tornarlo al suo proprietario.- rispose semplicemente L. L’espressione aggrottata della ragazzina si distese lasciando spazio alla calma.                                                                                                            
–Non capisco che cosa ci trovi di interessante in me, ma comunque … - abbassò gli occhi e posò con un colpetto due dita sulla fronte di L.
Il ragazzino trasalì a quel contatto inaspettato, scivolando dalla sua posizione e puntellando i gomiti sul pavimento.                                         
–Che furbacchione!- commentò Shiro ironica – Immagino che non sia solo questo che ti interessava, non è vero L? In quattro anni cos’altro hai scoperto di interessante sul mio conto?       
-Stranamente … - cominciò lui accovacciandosi in posizione fetale – solo l’essenziale … Sarah Meynell.- sussurrò il suo nome impercettibilmente, mentre quel sibilo fu accompagnato da un ghigno di sardonica vittoria. Shiro non si scompose minimamente, anzi accennò un mezzo sorriso come a complimentarsi per la sua prodezza.                                                  
–Posso dirti lo stesso … L Lawliet – anche il suo fu poco più che un sussurro,che lasciò stuccato sia il sottoscritto che L stesso.
Lo rividi chiaramente trasalire una seconda volta.                                               
–Quanto tempo ci hai messo?- domandò visibilmente interessato, potandosi come sempre il pollice alle labbra.                                                                                                                                                             
–Circa un mese … ma non è stato così facile visto che dovevo ancora ambientarmi e mi stavi continuamente alle costole- rispose tranquillamente, con un non so che di pensoso, come se avesse voluto rimembrare un evento storico. 
–Io un mese e mezzo circa da quando ti ho conosciuta- informò L, sottolineando le ultime parole.                               
–Idem- confermò la ragazza. Dopo questo discorso, mi trattenni, ma la mascella stava letteralmente cadendo a terra dall’incredulità. In sintesi quei due appena conosciuti avevano incominciato ad indagare l’uno sul conto dell’altro in segreto. Incredibile ...
Dopo una pausa di silenzio, occhi negli occhi, ripresero a giocare come nulla fosse accaduto. Erano straordinari e sarebbero diventati dei grandi un giorno.
Le mosse a scacchi continuano a succedersi a ritmo estenuante e dopo un po’ tocca Shiro fare la sua mossa, ma si blocca bruscamente come se un corpo estraneo e invisibile l’avesse paralizzata. Aveva il capo leggermente chino rivolto alla scacchiera, ma era come se fosse stata risucchiata in un’altra realtà.
Anche L se ne accorse e posò i suoi onici sulla sua figura. Shiro aveva gli occhi sbarrati dallo sgomento, come se all’improvviso fosse stata colta da un’illuminazione.                                  
–Solo … L’essenziale … - mormorò impercettibile mete, con soffio fonetico.                                       
– Shiro?- la richiamai, irrequieto. Lei come risposta si alzò di scatto, urtando lievemente la scacchiera che si spostò bruscamente rovesciando qualche pezzo.  La ragazza aveva una mano tra i capelli e stringeva vigorosa le ciocche castane, stava rifletttaendo. Era giunta ad una qualche conclusione:                                                                                                                                                   
-Solo l’essenziale … ci vuole solo l’essenziale!!! – urlò infine convinta, dandosi un colpetto sulla tempia con il palmo.                                                                                                                                                      
– Shiro ma cosa … - cercai di ottenere una spiegazione esauriente, ma lei mi interruppe all’istante: - Wammy!! Ci sono arrivata!! Ci sono riuscita!!!
Stavolta ne sono sicura!! Il braccio meccanico … mi mancava solo … Oh! Ma come ho fatto a non pensarci prima!!!- era in preda all’euforia e non riusciva a terminare una frase di senso compiuto, ma dalle reminescenze si è capito subito: ci è arrivata!                                                                                                                                                      
-L!!- esclamò di colpo chinandosi e afferrandolo per le spalle – Tu sei un genio!!! – queste furono le sue parole prima di correre via dalla sala comune.
Ci riuscì davvero quella volta!! E andò lontano molto lontano …

 

22 marzo 1996, Wammy’s House [ Winchester ]

Una ragazzina appoggiata allo stipite della porta sbadigliò sonoramente, portandosi una mano davanti alla bocca. Poi incrociò le braccia al petto: osservava la figura rannicchiata, la quale era intenta a leggere un documento trattenuto con la punta delle dita.                            
Shiro faceva mulinare attorno all’indice sinistro la catenina dell’orologio da tasca, che lei si ostinava sempre a chiamare :”giocattolino”. Esattamente otto mesi dopo dalla sua illuminazione, la ragazza riuscì a completare il suo grande progetto. Ce l’aveva fatta davvero ed aveva dimostrato di possedere doti straordinarie, fuori dal comune. Eravamo nella camera di L, evento alquanto raro considerata la sua riservatezza. Il quindicenne teneva in mano l’attestato di riconoscimento ai nuovi inventori conferito alla ragazza, mentre lei giocherellava svogliata con l’orologio d’argento, simbolo e premio per i neo-inventori.                              
Proprio così : presentammo il progetto alla commissione, e lei stessa illustrò davanti  altolocati la sua teoria. Il braccio meccanico era ancora in via sperimentale, tuttavia fu riconosciuto come rivoluzione della medicina e della meccanica. Non mi sarei mai aspettato che sarebbe giunta a simili vette, ma sembrava che il suo obbiettivo fosse un altro.                            
“Io voglio scoprire cosa c’è sotto Wammy”, così mi disse prima che varcassimo la soglia della grande stanza delle conferenze.
Probabilmente si riferiva alla morte dei suoi genitori e suo fratello, in special modo a quella del padre dato che era anch’egli un inventore.
Forse sperava in qualche modo di ottenere qualche informazione dalla stessa commissione.                         
–Concratulazioni. – L spostò lo sguardo onice sulla ragazza, abbassando leggermente il foglio trattenuto dalla punta sottile delle dita.
–Beh … Ti ringrazio. Ma a mio parere avrebbero fatto prima a scrivere: “ Congratulazioni Shiro, sei ufficialmente diventata un cane del governo!!"                                                                                                         
Lei considerava delle quisquiglie simili elogi: era il succo della cosa che le interessava, ovvero il progetto.
–Piuttosto, vedo che hai trovato qualcosa di interessate da fare durante la mia assenza.- e con un cenno del capo, la ragazza indicò il  giornale ripiegato acconto a lui. Era da qualche giorno che L si stava interessando a risolvere il caso di un killer seriale riportato su un giornale.
La polizia lo stava ancora cercando, e non avevano trovato nessuna traccia sulle scene del crimine che riconducessero all’assassino.
L disse che era un enigma interessante da risolvere.                                                 
–Già.- si limitò a confermare il ragazzino, adocchiando il giornale ripiegato  con le sue pozze oscure.                          
–Bene! – esordì la ragazza – ti lascio alle tue elucubrazioni!! Io vado a farmi una bella dormita!- accennò ad un lieve sorriso prima di sparire dietro la porta. L si limitò ad osservare la sua figura allontanarsi. Il loro rapporto era così: semplice sé per sé, ma che racchiudeva accordi impliciti in sguardi e parole di sfida. Mai mi sarei aspettato che si legassero in questo modo. L la considerava una presenza che c’era, ma che allo stesso tempo  riempiva uno spazio, non aveva ben a mente l’idea di amicizia, neanche se avesse letto il miglior libro di sociologia. La teoria non sempre e semplice applicare nella pratica.                                                             
Tutto sembrava tranquillo: il successo di Shiro, il nuovo interesse di L. Tutto sembrava ma non lo era affatto. Chi avrebbe potuto immaginare che dopo quel giorno, quell’ultimo sguardo, quell’ultimo sorriso, si sarebbe abbattuto un destino avverso su Shiro? Io non lo pensavo ma era così. Un uomo, una semplice visita che ha sconvolto la vita di quella ragazza … per sempre.                                                                                                                                                      

Il 23 marzo 1996, Frederich Kindom, conoscente mio e di Ruvie, si presentò all’orfanotrofio.
L’intenzione iniziale era quella di congratularsi con il giovane inventore per la sua impresa.          
Nell’ufficio di Ruvie quasi non gli cadde la mascella quando vide quella ragazzina minuta che lo squadrava scettica. Come l’aveva visto aveva fatto messo passo indietro, diffidente, intimorita, con la guardia alta. Era strano, in effetti. Dopo che li presentammo, l’uomo le porse la mano con un  sorriso, le assottigliò lo sguardo smeraldo. C’era qualcosa di feroce nelle sue occhiate, e non sapevo spiegarmelo. Dopo qualche indugio lei strinse la mano, ma la ritrasse subito come colta da un senso di repulsione. Kindom era venuto alla House per una proposta alla ragazzina: far parte dell’equipe di scienziati della grande STERGON, il nuovissimo centro di ricerca e sviluppo delle tecnologie di Londra. La proposta pareva allettante, e quando Kindom  citò alcuni tra i grandi studiosi ingaggiati, lei sbattè le palpebre come colta da una improvvisa consapevolezza.
Da parte mia e di Ruvie non c’era alcun problema, si trattava di una grande opportunità per lei, tuttavia la decisione finale spettava a Shiro.   
–Ci penserò- disse con sguardo insolitamente basso. E dopo che Kindom se ne andò lei si rintanò in camera sua. Aspettava una risposta tra due giorni.                                                                                                 
La vidi così assente in quei due giorni, non mi sembrò manco lei. Alla fine accettò la proposta.




25 marzo 1996 [ davanti al cancello della 
House]                                                                                                                             
-Mi mancherai Wammy!! – disse affondando nel mio abbraccio.                                                                                            
–Anche tu- mi sentivo triste ormai era parte integrante dell’orfanotrofio, era come una figlia per me. Si udirono passi avanzare metri sul viottolo ciottolato del cortile. Io e la ragazza ci sciogliemmo dall’abbraccio quando scorgemmo la figura incurvata di L: lo sguardo fisso su Shiro, le mani in tasca e i piedi infilati in un paio di scarpe da ginnastica vecchie e slacciate.            
–Non ci siamo salutati prima noi? – domandò la ragazza, sorridendo dolcemente.                                                           
–Io sono un cane, dopotutto. E i cani seguono sempre i padroni, l’hai detto tu. – proferì monocorde e pacato, con studiata lentezza.                                                                                                               
–Già hai ragione – e così si avvicinò parandosi davanti a lui. Lo guardò un attimo reclinando buffamente il capo, poi gli mise una mano sulla chioma nera scompigliandola:                                          
– Comportati bene bastardino, intesi?- dopo di che il taxi aveva già terminato di caricare i bagagli. Salì in macchina e ci salutò con la mano dal finestrino. Partì. Quella fu l’ultima volta che vidi il suo sorriso.

 

Il carrello giunge acconto al detective. Watari versa l’Earl Grey nella tazza bianca e la accosta ai biscotti alla mandorla sotto lo sguardo abissale di L.
 


Fu davvero l’ultima volta che la vidi sorridere …

Wammy … ho…f-freddo…   
 

 
 
 
 
 
 
 










Ciauuuu a tutti!!! Perdonatemi miei cari lettori ma la scuola ha assorbito la maggior parte del mio tempo libero e ho tardato un bel po’!
Avrei voluto postare prima, ma non mi è stato possibile! Spero che il capitolo vi piaccia comunque, ho dovuto velocizzare un po’ quindi è lungo!!
Che ne pensate?

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Capitolo 8
*** Terrorista ***


4 giugno 2006, prigione di San Quentin [ California – USA ]

Echi. Passi lenti che si sovrastano e confondono nel silenzio, in quel vuoto assordate e maniacale. Tutto sembra dare nausea, da quelle pareti affrescate di grigio tenue alla mano nerboruta di quel secondino, che ti stritola un braccio. Un po’ più delicati no, eh? Borbotti una lamentela, ma quel colosso ti fulmina con lo sguardo e poi ritorna a guardare diritto davanti a sé, senza proferire parola alcuna. Lui ti conosce bene, la regola è: meglio non dar peso a ciò che dice. Ma non sarebbe delicato neanche se fosse effeminato, quindi lasci perdere sospirando stancamente. Con lo sguardo puntato a sinistra segui il movimento della tua ombra, la quale ti accompagna come una bieca maledizione. Alla fine giungete davanti ad una porta metallica, di uno stramaledetto colore beige che revoca la sensazione di nausea. Tutto in quel posto sembra avere il colore del vomito!  L’energumeno abbassa la maniglia senza staccarsi un attimo: a volte hai seriamente pensato che avesse qualche disturbo a livello ormonale, ma sorvoli anche stavolta. Ti trascina dentro strattonandoti per il braccio, tu varchi la soglia ciondolando qualche passo incerto: << Questo tizio non conosce la parola delicatezza! >> ti ritrovi a pensare, alzando gli occhi al cielo. Ma poi ti concentri su ciò che hai di fronte: un cubo, quella stanza è un’enorme cubo. Ancora più nauseante e opprimente della tua cella, la quale a confronto sembra Bakingham Palace. Fai una smorfia disgustata osservando le pareti: verdognole, che schifo!! Tutto in quella dannata prigione fa venire il voltastomaco, e poi l’essere circondato da quelle tonalità non aiuta a affatto. In seguito i tuoi occhi si concentrano su una tavolo bianco a centro della stanza, simile ai soliti tavoli bianchi che si trovano nelle camere degli interrogatori nei film polizieschi; accanto una sedia in lamiera, bucherellata.                                                                                                                                                              
–Non avete proprio badato a spese, eh?- commenti sarcastico, abbozzando un ghigno di scherno. Dal canto suo il secondino grugnisce prima di intimare:                                                                 
-Siediti! -. Tu sbuffi seccato mettendo il broncio e controvoglia ti avvicini a quella sottospecie di sedia, la sposti con il piede e ti siedi sospirando ancora pesantemente. Lui ti guarda truce, diffidente poi sposta lo sguardo sulla ricetrasmittente che squilla. Infine il colosso apre la porta blindata dicendoti:
- Aspetta qui -. È davvero disarmante la stupidità di quell’uomo, tanto che non puoi fare a meno di controbattere:                                                                                                                                                       
-Sicuro, perché io potrei spiegare le braccia da un momento all’altro e iniziare a volare!! – dici agitando le braccia e dimenando i polsi contro gli anelli metallici delle manette, che ne impediscono i movimenti. Dopo l’ultima occhiata bieca da parte del secondino, la porta si richiude sbattendo e  viene tirato il chiavistello dall’esterno.                                                                                                                                         
<< Che imbecille, ci sono le telecamere! Non c’è bisogno di prendersi tutti questi fastidi! >>. Ti lamenti nel pensiero adocchiando i quattro obbiettivi saldamente puntati su di te, agli angoli di quelle quattro mura. Passano  sì e no due minuti, e la tua solitudine viene spezzata da una inaspettata compagnia: la porta si riapre e due figure fanno capolino in quella specie di buco che si azzardano a chiamare “stanza”. Sembrano dei tecnici, poiché uno di loro appoggia un portatile sul tavolo di fronte a te. L’altro, invece,  è intento ad estrarre da una piccola valigetta di latta una mini antenna per la connessione wireless, la quale viene attaccata tramite un cavo e appoggiata di fianco al portatile. Uno di loro apre lo schermo e subito si visualizza il desktop. A un certo punto afferri la situazione, un sorriso malsano distende le tue labbra e una sorta di felicità ti pervade l’animo corrotto.                                                                                  
Vorresti ridere, ma stranamente ti trattieni: << No! Se rido adesso poi non avrò più fiato per dopo!! >>, ti imponi mentre quel sorriso diviene sempre più stirato.                                                                                              
–C’è qualcuno che vuole parlarti.- tuona deciso il secondino, poggiato allo stipite della porta. Tu abbassi il capo nascondendo il tuo volto, occultando la tua espressione di puro sadismo misto a quella scintilla di follia che sta per attizzare un incendio.                                                                    
–Chi di grazia?- domandi tra lo scherno e il divertito, mentre incurvandoti ancora di più. Nonostante la folta chioma pece ti ricada davanti al viso, puoi scorgere la smorfia disgustata di quel l’uomo che assiste al tuo strano atteggiamento.                                                                                                    
–Tra poco arriverà la chiamata.- si limitò ad informare, senza aggiungere altro. Per lui quel lavoro era già abbastanza ingrato senza che si mettesse a socializzare con i detenuti.                                  
Infine gli addetti si dileguarono veloci assieme a quell’idiota di un guardiano, che non manca di lanciarti un’ultima occhiata bieca prima di sparire dietro quel portone. Echeggia forte il rumore della porta, la quale viene sbattuta con irruenza. Ancora con il capo chino risparmi gli ultimi pensieri sulla stupidità di quel secondino e ti concentri piuttosto sulla situazione corrente: non puoi davvero crederci! Dopo anni e anni che hai speso a scervellarti per farlo uscire allo scoperto, ecco che ora sbuca fuori dal nulla a fatti compiuti! Non puoi fare a meno di pensare che voglia qualcosa da te, indubbiamente … ma qualsiasi cosa sia non cederesti in alcun modo. Stringi i denti ripensando all’umiliazione subita e allo schifo che sei costretto a vivere. Eterna punizione per essere stato sconfitto. I perdenti strisciano sofferenti nel letame e nel lerciume dell’umiliazione, i vincenti si innalzano al cielo irradiati  dalla luce, risaltando la loro gloria. La cosa ti incuriosisce non poco: perché mai un vincente dovrebbe scendere nei bassi fondi di coloro che ha calpestato? Per umiliarli?
No, c’è qualcosa che non quadra. Che forse si sia accorto di un dettaglio che ancora gli manca?                  
Sì certo può essere. Dopo la chiusura del caso, a fatti compiuti avrà sicuramente svolto ricerche su di te …                                                                                                                                           
- Uahhhhaa … aahhh … mmhahah … - sfugge dalle tue labbra una risatina insana, trattenuta dai tremiti – No dai! Devo darmi un contegno!- ti imponi, in preda al nervoso. Le manette tremano spasmodicamente per via dei tuoi polsi frementi. Serri le labbra con decisione, in modo da soffocare le risa: il grande lui che viene da te! Non puoi che essere intimamente soddisfatto di essere a conoscenza, anche di un solo frammento, che può impedirgli di completare il mosaico. Non vedi l’ora di umiliarlo!! Ancora a capo chino ripensi agli eventi: non può che essere per quello, altrimenti non si sarebbe scomodato tanto a mettersi in contatto con te! A un certo punto il suono di un bip, ti ridesta completamente dai tuoi pensieri. Ti blocchi istantaneamente, i polsi smettono di tremare e i piedi cessano di battere sul pavimento. Un ghigno sardonico allarga esageratamente la tua bocca, ma rimani ancora con il capo rigorosamente chino a fissare la punta delle scarpe. La tua pupilla capta l’intermittenza di una spia arancione e immediatamente la chiamata si apre automaticamente. Il desktop viene occultato da uno sfondo bianco acceso, mentre una L gotica troneggia al centro di esso, imponente , sicuro, forte: la firma del numero uno.                                                                                                  
<< Finalmente  ti sei deciso ad uscire allo scoperto! >> pensi sollevando con studiata lentezza e ferma pacatezza il capo. Non puoi che fissarla con odio quella maledetta lettera che ha segnato la tua esistenza. Cerchi di calmare la rabbia crescente stringendo i pugni, ma era contemplabile che il tuo sangue avrebbe ribollito nell’istante in cui avresti percepito la sua presenza. Non puoi fare a meno di ammettere, tuo malgrado, che la sua presenza è opprimente anche quando si trova fisicamente lontano, perché lui è sempre lontano. Serri le labbra, aguzzando lo sguardo: seguendo il profilo di quel logo ti accorgi di come quella lettera su sfondo bianco faccia dannatamente male agli occhi, o forse è solo un effetto ottico dei neon di quella stanza a renderla così.                                                                                                                            
–Buongiorno B. – saluta la voce sintetizzata e metallica, proveniente dagli altoparlanti.                                 
–Ma bene! Il più grande detective del mondo che si scomoda a tal punto da mettersi in contatto con me!! Quale onore!! – commenti acido e spudorato, sollevando il capo di scatto e chinandolo leggermente all’indietro. Le iridi rosse spalancate, puntate su quella lettera che, denotativamente parlando, vuol dire tutto e niente. Non ti contieni, né ti fai scrupoli a mostrare tutta la tua insanità: oramai cosa servirebbe inscenare una recita, indossando quella maschera di intelligenza e idiozia che hai usato con Misora? A niente, con lui questi trucchetti non attaccano, lo sai benissimo.                                                                                                                                                                
–Dalla tua risposta devo dedurre che se ti facessi delle domande, non saresti disposto a collaborare, non ho ragione?- continua la voce contraffatta del computer, mentre il tuo sorriso allargato poco a poco scompare: ritorni alla tua postura incurvata di poco prima. Stai metabolizzando e studiando ciò che ha appena detto, ovvero che ha delle domande da farti. Ma le domande sorgono da dubbi, e lui i dubbi li risolve studiando e analizzando in tutte le angolazioni possibili e immaginabili le varie situazioni. Dunque ciò ti porta a pensare  che se si è addirittura messo in contatto con te  in una sorta di comunicazione privata, analizzare i fatti per lui non è sufficiente: per cui sta cercando di risalire alla materia prima. Vuole confermare se quello che suppone sia vero oppure no. Neanche stavolta non puoi fare a meno di trattenere un sorriso sprezzante, carico di tutta l’arroganza che hai in corpo:                                     
-Hai dei dubbi? –domandi fingendo ingenuità, prendendoti gioco di lui.                                                                 
L non esita, come ti aspettavi, e ti risponde con un secco: - Sì -.                                                                      
 I capelli ti ricadono sugli occhi, mascherando quella luce vermiglia che riluce nelle tue iridi:                                     
<< Tu sei troppo meticoloso per lasciare le cose a metà … vuoi sapere sempre tutto! >>.                                           
–Ciò che mi preme realmente è sapere se sei coinvolto in qualche modo nella questione, seppur in maniera marginale. Voglio dunque trovare conferma delle mie deduzioni.- continua il detective imperterrito e per nulla scosso dall’atteggiamento di quel detenuto che può nascondere un pezzo mancante
della verità.                                                                                                                            
–Tu lo sai L, che io non avrei alcun movente per assecondarti, vero?- domandi cercando di tirarla per le lunghe, ma da una parte fremi dal spiattellargli tutto. Le tue labbra tremanti si serrano ancora di più: << Devo resistere! Non posso scoppiare adesso!! >>.                                                                               
–Ne sono consapevole … - continua l’altro pacato – Tuttavia questo è l’unico modo che mi resta per sapere la verità. Non c’è altra soluzione - .  
Non ti saresti mai aspettato che si mettesse a nudo in questo modo, anche se effettivamente non ha alcun torto: è davvero l’unica maniera che gli resta per aggiungere quel dettaglio mancante, per archiviare quel caso. Quello che l’ha reso famoso e gli ha spianato la strada verso il successo.
Ha imprigionato te per aver ucciso tre persone, ma lui stesso non si rende conto che di essere salito sul podio a discapito di altri. Forse non si è minimamente accorto di aver camminato su una pozza di sangue, prima di giungere dov’è adesso. O forse lo sa, e ora sente la necessità di concretizzare questa sua condizione, per quanto scomoda possa risultare.                                                                                                                                                                                                                          
–Verità? – fai eco tu, con uno strano acuto strozzato. Sei giunto al culmine e non ti resta che far crollare la diga del tuo autocontrollo:                                                                                                               
- Mmmahhh … mmmhahahahahahh!!!!Aahahahahah!!!! – cominci a ridere sguaiatamente con la testa reclinata all’indietro e gli occhi sbarrati a fissare il soffitto.                                                  
– Ahahah!! La verità!!!! – ti pieghi in avanti con uno scatto, avvicinandoti quanto più possibile a quello schermo bianco, per deridere l’ingenuità di quella lettera nera.                                                                                         
–Lo sai?!! Sembra proprio di sentire S!!! Ahahahahahah!!!! – e con l’ultima affermazione solo il rimbombo delle sue risate riecheggia nella stanza.
La voce metallica fa un lunga pausa per lasciar continuare il detenuto n° 485,  Beyond Birthday.                                                                                
–Sì, grande genio!! Proprio così!! Non so se ebbe tempo di dirtelo, ma fui suo complice quella notte!! Come avrai sicuramente pensato, sarebbe stato impossibile per lei gestire tutto da sola, e in me lei aveva trovato un ottimo alleato! La verità su di lei la conosco anch’io e a quanto pare se n’è andata senza nemmeno rendersene conto!!Allora?! Adesso hai trovato le risposte che cercavi??! – concludi con sprezzo e la linea di un ghigno sardonico.
Ti rimetti composto con aria soddisfatta,attendendo una risposta dal tuo interlocutore.                                            
–Quindi non mi ero affatto sbagliato. – aggiunge L, dopo una pausa estenuante.                                           
–No! Non ti eri sbagliato!! L’attentato a quel clan mafioso è stata opera sua, però per effettuare il piano ha avuto bisogno di qualcuno che le coprisse le spalle e che le facilitasse l’approvvigionamento di esplosivi … Ahahah! Chi poteva immaginare che dalla Wammy’s House uscissero i terroristi!! Aahaah!!!                                                                                                                                                                                                             
-Sai tutto dunque.- si limita a confermare la voce elettronica di quel pc immacolato.                                                      
–Già! Dall’inizio alla fine … e devo dire che è stata spettacolare!! Far crollare due grandi organizzazioni sotto i colpi delle bombe!! Che bastarda!!
Quando ha scoperto che Backup si nascondeva in quel clan londinese, ha saputo cogliere l’occasione al volo! Ora che me la fai ricordare … - alzi il capo in segno di riflessione – Dal suo aspetto fragile e indifeso non pareva proprio un’assassina, che se ne andava in giro con una pistola nei pantaloni  e un coltello a serramanico in tasca!! Bah! Comunque mi scovò e a differenza di voi, lei era l’unica a sapere che ero ancora vivo …                                                                                                                                              
-Tutto questo è avvenuto dopo l’esplosione alla STERGON, suppongo.- continua il detective.                                   
–Esattamente … Quella sera Shiro è passata sopra i suoi sentimenti personali … - abbozzi un sorriso – E ha spazzato via tutti!! Ahhhaah …                                                                                           
Non un sibilo metallico giunge da quel computer e tu ti godi la lunga pausa, puntando le tue pozze sangue rilucenti sull’obiettivo della webcam. Il sorriso sadico e malsano non ti abbandona il volto. Il pensiero di quella ragazza che si è praticamente immolata ti fa pensare che quello della Wammy’s House sia un destino che si tramanda. E tu sei più che sicuro che un giorno toccherà anche a lui.                                                                                                                               
–Dalle informazioni che ho raccolto si parla di un intermediario che faceva parte di un’organizzazione terroristica, la quale voleva allacciare affari sia con la STERGON sia con la mafia – riprende L, per confermare le sue fonti.                                                                                                     
–Cavolo!!- esclami improvvisamente a voce alta – S ha eliminato così tante informazione che ti ha costretto addirittura a contattarmi!! Dimmi … - prosegui senza dargli il tempo di replicare. Allarghi un sorriso malsano a trentadue denti e la luce scarlatta dei tuoi occhi si fa sempre più accesa:
- Lo sai chi era quella persona??!
 


12 gennaio, 1997 [ Da  qualche parte nella periferia di Londra ]

Sono S.                                                                                                                                                                                               
–S! Cosa significa questo?!!- tuonò irato il boss, sbattendo il giornale sul tavolo di legno. Tutti i membri del clan erano radunati in quel salone intriso di fumo e di tabacco. Uomini arcigni che vivevano alle stregue di quel mafioso tanto temuto e potente. Chi stava in piedi, chi seduto su uno dei divani in pelle a far scattare avanti e in dietro la lama di un coltellino a serramanico. Anch’io ero lì, non che l’odore intenso di tabacco bruciato mi attirasse particolarmente, ma quello fu l’unico rifugio che riuscii a trovare dopo essere fuggito dall’orfanotrofio. Avevo 17 anni allora, ed ero il più giovane del clan con tutti quei tizi oltre la trentina. Il boss quel giorno ci convocò lì , attendeva una chiamata da parte di S. Una misteriosa figura che comunicava solo attraverso un computer. Si diceva che fosse l’esponente di una grande organizzazione terroristica segreta, nessuno conosceva né il suo volto né il suo nome. L’unica cosa di cui eravamo a conoscenza era uno sfondo bianco sullo schermo di un primordiale pc portatile: quei tizi potevano permettersi tecnologie all’avanguardia già dieci anni prima rispetto al mercato. E una grande S gotica la quale troneggiava imponente su di esso. Nient’altro.
Era un po’ di tempo che il boss era in affari segreti  con una società londinese chiamata STERGON.  Aveva la facciata di un centro di ricerca tecnologica, ma in realtà si trattava di un’organizzazione criminale che sfruttava il genio dei suoi ricercatori per costruire le armi più potenti che fossero mai esistite. Inoltre c’era anche un’altra persona con cui era in affari ed aveva contatti con la STERGON stessa, ma non ci rivelò mai niente circa la sua identità.                                                                                                                                                             
– Si riferisce all’esplosione della STERGON? – domandò la voce contraffatta, ostentando pacatezza da ciò che si poteva scorgere dal tono.                                                                                                                              
–E’ ovvio!!- grugnì a denti stretti il boss, pareva infastidito da tanta fermezza. Era così furioso, che quasi non cadde sul pavimento il suo pregiato sigaro cubano, quando lo sbatté stizzosamente sul posacenere d’onice.                                                                                                                                                                                                                                                                              
–Sappia che la nostra organizzazione non centra assolutamente nulla con la vicenda.- rispose fermo- Anzi, ho avuto conferma di una spiacevole notizia.                                                                                                                                                         
Il boss aguzzò lo sguardo :- Che vuoi dire? Spiegati meglio.- si espresse con la sua voce roca e disgustosa di sempre, ma in fondo sapevo che l’apprensione cresceva in lui. Faceva il duro ma in realtà era un debole e per niente intelligente come diceva di essere!                                                    
- Fox è riuscito a scappare dal centro di ricerca.                                                                                          
Fox?  Volpe? Avevo già sentito quel nome, ma da quello che capii sembrava essere di vitale importanza per i loro affari. Invece, a tutti quegl’altri zoticoni  parve che S avesse detto una sciocchezza. Sfuggì qualche risolino divertito, ma fu subito smorzato dallo sconcerto inaspettato del capo.                                                                                                                                          
–COSA??!? – urlò improvvisamente alzandosi di scatto e sbattendo i palmi sul tavolo. L’impatto con la superficie legnosa fu tale da rovesciare il bicchiere di scoch sul mogano pregiato.                                                                                                                                                                                                         
–MI STAI PRENDENDO IN GIRO, NON E’ VERO??!!                                                                                                           
-Invece è la verità. È stato Fox far esplodere il laboratorio.- rispose senza scomporsi.                              
Il suo atteggiamento così pacato, sicuro, controllato e privo di alcuna nota di espressione, rievocava in me un’ombra oscura che continuava a perseguitarmi, senza darmi pace.                               
Il boss strinse i denti adirato: -Più che scappato, direi che l’avete catturato voi piuttosto!- commentò scettico.                                                                                                                                                                                             
–No, le assicuro che è scappato davvero. Non creda che Fox sia così stupido, sa meglio di me che costituisce la chiave del Big Hole .Senza il suo intervento non è possibile né costruire quest’arma, né tantomeno azionarla. Solo lui può farlo.- continuò la voce metallica.                                                                           
–Non mi sembri degno di fiducia.- sputò acido il boss mafioso. Anche lui metteva in moto il cervello ogni tanto. Io sapevo benissimo che non poteva assolutamente fidarsi di quell’individuo: la durata vitale che leggevo sul suo capo era notevolmente ridotta. In quel momento diedi uno sguardo anche a quella dei membri dei clan. Sarebbero morti a breve, tra un paio di giorni. La situazione diventava sempre più critica per me: eravamo agli sgoccioli e presto avrei dovuto attuare il mio piano per fuggire da lì. Non mi andava proprio di essere crivellato o carbonizzato assieme a quelli scarti della società. Sarei dovuto fuggire quella stessa sera.                                                                                                                                             
– Tze!- un ghigno metallico provenne dagli altoparlanti. Improvvisamente tutta quella pacatezza e freddezza svanì, per lasciar posto a un atteggiamento sadico e  di scherno.                                    
–Se davvero avessimo rapito Fox, a quest’ora voi non sareste vivi!! Questo è poco ma sicuro! Perché lasciarvi in vita, dato che ci sareste soltanto di intralcio? Se proprio avessimo dovuto farlo, avremmo fatto esplodere il vostro clan e la STERGON simultaneamente. Con tutte le organizzazioni criminali che ci sono a farvi concorrenza, chi sospetterebbe della nostra?                                   
Un ragionamento impeccabile, non faceva una piega. Quel tizio non era da sottovalutare, ma se tra due giorni sarebbero morti tutti come poteva affermare che non avrebbero destato sospetti? Che fosse così potente quell’organizzazione? Tuttavia non era la prima volta che il boss si metteva in contatto con quel tizio. Tutto iniziò circa nove mesi fa, quando quell’uomo cominciò a fare delle video conferenze top secret. Per la verità, solo io ero a conoscenza dei suoi piani: avevo trovato un comodo e sicuro nascondiglio dove origliare le sue conversazioni. Era vitale per me tenermi aggiornato, nel caso in cui avessero deciso di farmi fuori o di usarmi in qualche sporco lavoro, sapendolo in anticipo avrei potuto escogitare con studiata lentezza un modo per uscire da situazioni spinose. Era inconcepibile per me ragionare sottopressione e ridurmi a muovere il cervello ad un passo dal baratro. No, molto meglio tenere la situazione sotto controllo, così sarei potuto fuggire in tempo. Quella sottospecie di buco malavitoso non faceva per me, era assolutamente irritante dover convivere con la falsa gentilezza dei mafiosi! Io facevo un servizio a loro e loro mi davano un posto dove stare. Nessuno di loro era a conoscenza del mio segreto, e per me era un vantaggio non dover prestare i miei occhi per i loro sporchi affari. Inoltre, avrei rischiato che si spargesse la voce dei miei veri poteri e le cose si sarebbero notevolmente complicate per me.                                                                                                                                                                                                        
–Ora abbiamo un altro grosso problema da affrontare. Avrà sicuramente sentito parlare dell’emergente entità che nel giro di due mesi è riuscita a risolvere due casi, già archiviati dalla polizia come irrisolti, fornendo oltretutto delle prove schiacciati.- S continuò imperterrito, suscitando il mio scalpore.
Il primo caso di omicidio pubblicato dai giornali e la notizia di un misterioso detective aveva fatto germogliare qualche sospetto in me, ma già alla seconda pubblicazione non ebbi più alcun dubbio. Doveva essere per forza lui. Quando lessi il quotidiano, il quale riportava l’accaduto le mie labbra si incresparono in un sorriso di intima gioia. Finalmente si era deciso a uscire allo scoperto!! Io stesso mi stavo chiedendo quanto avrei dovuto attendere prima che quel giorno arrivasse.
Gli anni non erano riusciti a lenire le mie ferite: ero risentito sia nei confronti di L, sia in quelli della Wammy’s House. Odio profondo scaturiva in me, ripensando alla loro perfetta concezione dell’intelligenza umana, impersonata da quel ragazzino addirittura tre anni più piccolo di me.
L era l’originale e B solo la copia. L era il padrone e B il suo segugio. Quella condizione mi dava la nausea, per non parlare della forte pressione dei test. Era una prigione non un orfanotrofio! E tutto solo per inseguire l’ideale di perfezione del grande L, poco più di bambino asociale di otto anni.
Una vera umiliazione essere scavalcati ripetutamente da quel moccioso tanto indifferente e pacato. Nessuno si era reso conto che per inseguire L, A si suicidò tagliandosi le vene  e Backup scappò via? Quello fu l’unico modo, il quale mi consentì di uscire da quella prigione soffocante.                                                                                                                                                                                                        
–Questo tizio è pericoloso e potrebbe minacciare l’esito delle nostre operazioni.- continuò S.                                       
–E’ per lui che mi avete fatto procurare gli esplosivi ? – domandò quell’uomo arcigno rimettendosi a sedere, riprendendo il sigaro tra le labbra.                                                                                                           
–Sì esatto. Dalle informazioni fornitemi da T. W. , l’altra persona in affari con noi, risulta che si trovi a Winchester.                                                                                                                                                         
Winchester?  La Wammy’s House?? Erano già arrivati così lontano??                                                                                                                                                                                                                                                               
–Non sapete altro?!- continuò il cinquantenne, stizzito da scarse informazioni. Persino uno stupido come lui si accorge quando lo stanno fregando!                                                                                                         
-Al momento è tutto ciò che sappiamo, tuttavia T.W  mi ha assicurato che a breve scoprirà la sua ubicazione. Nel frattempo siamo riusciti a salvare i progetti del Big Hole, T.W. mi ha inviato una copia. Non appena mi farà sapere il luogo in cui si nasconde il detective ti invierò il file. Sarebbe opportuno che non te lo inviassi adesso, per non creare eventuali sospetti, è già pericoloso che io mi sia messo in contatto diretto con Londra al di fuori del server della STERGON, potremmo destare sospetti. Ci risentiamo tra due giorni.                                                           
–D’accordo. – spiazzato da tali ragionamenti, il grande capo non poté che acconsentire.                                           
 



-Ahahh … - il tuo ghigno malefico si accentua ancora di più – Shiro conosceva perfettamente il mio stato d’animo: la mia avversione nei confronti della Wamm’s House e anche  nei tuo confronti. Così quella sera venne da me per farmi una proposta … dettando delle condizioni.
 


Le cose si mettevano male per me. Se davvero sarebbero morti tutti insieme, come constatai, allora sarei dovuto fuggire alla svelta. Quella sera avevo in mente di squagliarmela il prima possibile: i membri del clan erano degli imbecilli, non prendevano alcuna iniziativa senza gli ordini del boss, e dopo la magra cena di quella sera spettava al sottoscritto sostituire uno di loro per fare la guardia. Mi toccò il retro della baracca: all’esterno rassomigliava ad una catapecchia, mal’interno era eccessivamente arredato, il boss aveva un gusto orribile e le sue finanze venivano sperperate come le briciole del pane.
Non appena quell’ubriacone di Jonny rientrò dentro dalla porticina del retro, io mi mobilitai. Corsi lungo il vicolo stretto e buio, c’era il muro da una parte e il magazzino con gli esplosivi dall’altra. Arriva in fondo a quel corridoio stretto: era un vicolo ceco, un muro di mattoni si innalzava davanti a me  tuttavia non era invalicabile. Infatti, vi erano dei cassonetti lì vicino, assieme al un cumulo maleodorante di sacchi della spazzatura. Spostai l’enorme cassonetto facendolo rasentare al muro e cominciai ad arrampicarmi. Stavo per scavalcare quel muro, quando una voce mi fece sussultare:                                                                                                                                                                       
- Ma come?! Te ne vai proprio sul più bello!?- un brivido agghiacciante mi percorse la schiena, immobilizzandomi per parecchi secondi. Subito mi voltai di scatto per vedere con i miei occhi chi mai avesse parlato. Quando scorsi la sua figura rimasi tra il sorpreso e lo spaventato. Sembrerà assurdo, ma la sua figura in penombra mi fece trasalire. Una figura alquanto minuta era a cavalcioni sul muretto poco dietro di me, precisamente sulla parte sinistra che dava sul magazzino. Scorgevo l’ombra di un sorrisetto sadico e il rilucere di due iridi verdi, le quali mi abbagliarono nell’oscurità.                                                                                             
–Piacere di conoscerti Backup! – al suono del mio secondo nome sbarrai gli occhi incredulo: chi era? Come poteva conoscere il mio pseudonimo??
Che fosse della House?!                     
Intanto quella figura misteriosa, balzò come un gatto giù da quel muro atterrando come un’atleta professionista. Si rialzò dalla sua posizione accovacciatae mosse qualche passo, per rivelarsi alla fioca luce di un lampione. Alzò le intense iridi verdi su di me, ed ecco che la vidi: era poco più di una ragazzina, poteva avere pressappoco quindici anni. Indossava una giacca nera smanicata e una maglia a mezze maniche sotto, dei jeans consunti e strappati e degli enormi anfibi neri.                                                                                                                                                                                                
–Anzi … forse sarebbe più coretto dire Beyond Birthday. – com’era possibile che conoscesse persino il mio nome??                                                                                                                            
-Chi sei??! – urlai con impeto, scendendo dal muro sulla lamiera del cassonetto.                                        
Lei abbozzò un sorriso: -Io sono S.                                                                                                                                                                    
Lapidaria. Ero tentato dal riderle in faccia, ma d’altra parte era a conoscenza della mia vera identità: non potevo ignorare questo fatto.                                                                                                                                     
–Cosa? Tu sei S ?!- domandai sospettoso, riducendo gli occhi a due fessure.                                                                   
–Esatto. Ma puoi chiamarmi Shiro … A giudicare da quello che ho visto, credo proprio che il soggiorno non sia più di tuo gradimento! – commentò sarcastica, irritandomi.                                                                                                                                 
–Se sei a conoscenza della  mia identità, suppongo che tu venga dalla Wammy’s House, oppure che abbia contatti con essa.- risposi saccente.                                                                                 
–Sì , questo non posso negartelo: ho dei legami con la Wammy’s House.- rispose con fermezza. La squadrai attentamente in volto per poter leggere il suo nome: si chiamava Sarah Meynell e le restava pochissimo da vivere. Se doveva morire perché fidarsi? Non volevo essere immischiato in alcun modo con la faccenda: se avessero scoperto dove mi trovavo sarebbe stata la fine. Da un lato ero quasi tentato dal sopprimerla con la forza fisica, del resto era solo una ragazzina. Dall’altro la mia mente fredda e razionale mi consigliava di mantenere la calma: ma come potevo? Era a conoscenza del mio segreto!!
Era un momento di massima tensione per me e io non mi fidavo assolutamente di lei: mi ci vollero anni per imporre maggiore sangue freddo alle miei azioni.                                                                                            
–Che cosa vuoi?- domandai apparentemente calmo e distaccato, mentre estrassi furtivamente un coltellino dalla tasca.                                                                                                                                          
–Soltanto la tua collaborazione.- rispose, io mossi immediatamente qualche passo in avanti ma il mio corpo si bloccò all’istante alla vista di una canna di postola, puntata in direzione della fronte. Strinsi i denti iracondo: mi aveva fregato! Non avevo preso in considerazione che potesse essere armata.
Mi sorpresi della velocità con cui estrasse la pistola.                                                                     
–Pessima idea. - accennò atona – Ma non sono queste le mie intenzioni. Non ho fatto tutta questa strada solo per farti fuori, sia chiaro.                                                                                                                 
Simultaneamente ritraemmo entrambi le armi.                                                                                                                       
–Allora perché sei qui?                                                                                                                                                                           
-Come ti ho già detto ho bisogno della tua collaborazione … per far saltare in aria questo posto.- disse guadando la baracca in lontananza. 
                                                                                            
 

-Si dichiarò disposta a facilitarmi la fuga, anzi così facendo mi avrebbe aiutato a portare a compimento la mia vendetta … - il tuo sguardo carico di odio,
si imprime inesorabile su quella lettera – In cambio io l’avrei aiutata nell’attentato, piazzando le bombe nella baracca. Ma se avessi osato tradirla, lei mi assicurò che avrebbe rivelato dove mi trovavo e per me la fuga sarebbe stata impraticabile. Per la verità i suoi piani non mi riguardavano affatto,tuttavia accettai di buon grado la sua proposta. – accenni a un sorrisetto divertito ripensando a come erano andate le cose.                                                                                                                                        
 
14 gennaio 1997

Le fiamme divamparono inesorabili. L’aria si impreg nò di vapori solfurei e il cielo assunse striature rossastre , di un scarlatto intenso come il sangue … come i miei occhi.                                          
Che dire! Arrivò il momento dei saluti. Io ed Shiro eravamo di spalle:                                                                     
-Sei davvero sicuro di volerti vendicare? – mi domandò.                                                                                              
–Tu non puoi capire … - sputai acido.                                                                                                                                    
–Lo sai … a volte quella che chiamiamo realtà può costituire una mera illusione.
-Tsk! Addio Fox!!                                                                  
E così corse via, incontro alla morte …

 
-Ahahaahah … Immagino che dopo sia venuta a morire da te!! Di una cosa posso essere soddisfatto, della tua inadeguatezza nei suoi confronti!!
Ha versato lacrime di sangue per mettere a tacere le sue emozioni e per che cosa? Per te!! Davvero una bella consolazione!!
Aahahaahahah …  Sei un'illusa Shiro!!                                                                                              
Gridi a pieni polmoni, continuando a ridere sguaiatamente: hai perso un’altra volta. Contro Shiro, perché sai perfettamente che sei tu l’illuso …
 
 
 
 
 
 
 
Mamma mia!!! Che fatica!!! Beh? Che ne dite?? Non ve l’aspettavate vero??? Io credo proprio di no! Non è un caso che abbia evitato costantemente
lo spoiler!! Quindi ora tocca a voi: che ne pensate?? 

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Capitolo 9
*** C'è sempre stato posto per te ***


Un ticchettio disconnesso perdura frenetico sulla tastiera. L non cessa un attimo di scrivere imperterrito la sua relazione sul caso Kira.
Le dita sottili si muovono agili a comporre ogni parola, come un pianista che dà vita ad un’armonia di suoni.
Il detective, dopo un punto fermo, prende una pausa dall’incessante scrivere e beve un sorso di caffè zuccherato. Rimira e osserva con i suoi opali
inchiostro la sua opera: sta scrivendo il resoconto delle indagini sul caso Kira archiviandoli in un programma speciale che si attiva a tempo, da lui stesso
ideato.                                                  
“Le lascio qui come prova tangibile dei risultati da me ottenuti …” completa così, non una parola di più.
Stavolta morte grava su di lui, si fa sentire macabra ed inquietante, e presto sa che dovrà seguirla. Anche lui è un essere umano e in quanto tale deve
sottostare a determinate leggi: nulla è eterno.
Ma probabilmente dovrà piegarsi alle leggi profane del Death Note. L’indice e il medio sfiorano la porcellana della tazzina per afferrarla, ma si bloccano
indecisi sul da farsi. Gli insondabili pozzi bui di L si soffermano pacati sui biscotti, adagiati da Watari poco prima. Ne è rimasto uno alla mandorla.
Lentamente lo afferra con la punta delle dita sottili. Lo studia: rotondo, rassomiglia alla luna piena, la quale presenta due facce.
Una è liscia e vellutata, pare che non conosca increspature. L’altra invece è raggrinzita, presenta  una superficie ruvida al tatto e poi c’è quel seme, quel frutto il quale funge da rigonfiamento sulla terra pastosa. Rassomiglia al taglio di una ferita molto profonda, la quale cerca di cicatrizzarsi disperata, facendo coagulare il sangue al di sotto della patina che la riveste.
Come ha fatto? – si chiede il detective- Come ha fatto ad andare avanti così, per tutti quegli anni e poi morire lì, davanti a lui, come nulla fosse?                                                                                                                                          
-Non avevi paura della morte, Shiro?- mormora il corvino, fissando ancora il biscotto tra le dita: lo trattiene tra l’indice e il pollice, lo fa scorrere tra essi, quasi con ritmo.                                                            
–Non hai mai percepito l’alito gelido della morte sul collo?                                                                                                                   
 

Tutti i giornali lo pubblicarono come il caso del secolo: L’esordio del detective “senza volto”. Così fu intitolato un articolo di cronaca nera, di un rinomato quotidiano inglese.                    
Il grande caso del crollo di potere delle organizzazioni criminali londinesi, anno 1997. Nessuno poteva immaginare che ci fosse stato qualcuno, prima di me, il quale avesse fatto il lavoro sporco e avesse indagato e raccolto tutte le informazioni fondamentali per la risoluzione del caso.                                                                                                                                            
Di certo non poteva trattarsi di una pura coincidenza il fatto che una grande corporazione di ricercatori e il covo di un temuto clan mafioso, fossero esplosi a distanza di due giorni l’uno dall’altro.
Gli sconvolgenti avvenimenti misero  in allarme la polizia inglese e lo stesso governo. Impellenti furono i quesiti dell’opinione pubblica, la quale insisteva nel conoscere i fatti: probabilmente presa da un moto di panico. Per quanto l’immaginazione della gente fosse illimitata, sono più che sicuro che nessuno avrebbe potuto immaginare che la vicenda gravasse sulle esili spalle di una ragazzina di quindici anni.                                                                                                                                                            
L’anno precedente, quando prese la sua decisione, la cosa  non mi convinse affatto.                      
Quel suo improvviso desiderio di andar via dall’orfanotrofio era così innaturale per lei: nonostante le fatiche degli studi, lei amava la House .
Era la sua casa, il suo punto di riferimento.
Perché andarsene? Certo, anche lei era conscia che prima o poi avrebbe dovuto lasciare il nido, ma non così presto. Supponevo che alcuni avessero gli occhi puntati su di lei, per via della sua onorevole nomina di “ricercatore di stato”: era praticamente allo stesso livello di Watari. Ma non mi persuadeva la sua impellente fretta  nel buttarsi a capofitto sulla prima proposta ricevuta.                                                                                                                                
“Carpe diem, L!!” mi  canzonò quella volta, dopo aver parlato con un certo Kindom e accettato la sua offerta. Io non replicai: non avevo diritto alcuno di intromettermi nelle sue decisioni, la vita era la sua e di conseguenza doveva scegliere autonomamente.                  
Tuttavia percepivo , seppur impercettibilmente, una punta di dissimulazione nelle sue parole. Passò quasi un anno dalla sua partenza: alcune volte telefonava a Quillish, ma con una frequenza sempre minore con lo scorrere  del tempo. Tutto avrei immaginato, fuorché fosse implicata in vero e proprio colpo di stato: il secondo tentato bombardamento di Winchester, l’ennesima minaccia di una terza guerra mondiale. Dalle indagini emerse che la STERGON in particolare , era a conoscenza della Wammy’s House e della mia esistenza. Stavano raccogliendo informazioni sugli orfani, informazioni su di me e furono subdoli e discreti nel farlo, poiché decisero di usare una persona che non avrebbe dato nell’occhio: Shiro. Lei non  tradì mai la Wammy’s House, tuttavia solo a distanza di anni mi resi conto di quello che deve aver passato: il ruolo della doppio giochista deve essere stato un incubo per lei. Non so con quale pretesto la condussero via, però lei scelse spontaneamente di affrontare quel supplizio, l’ultimo ad incorniciare macabro il quadro della sua breve esistenza.                                                                                                                                                         
Tutto cominciò da quel lontano gennaio 1997, prima sciagura: l’esplosione della STERGON.                                                                                                                                                       
–L!! Hai letto il giornale!?!- Wammy proruppe affannato, fiondandosi nella mia stanza.                   
Io ero placidamente seduto sulla mia apposita sedia trapuntata. Le dita sottili trattenevano per i lembi i fogli di giornale, completamente immerso nell’articolo in prima pagina.                                                 
Quando sapemmo dell’esplosione, Watari si precipitò immediatamente a Londra, sul luogo dell’incidente.  Del centro di ricerca era rimasto solo un edificio diroccato: le finestre erano ridotte a pozzanghere di vetro infranto, cumuli di mattoni erano abbandonati al suolo, le pareti annerite.
La mano di un terrorista, si mormorava. Vittime ce n’erano, ma nessuna che corrispondesse alla descrizione di Shiro: furono trovati corpi carbonizzati, però nessuna quindicenne fu identificata tra questi. E’ da lì che cominciò a nascere un sospetto, forse il più inquietante che avessi mai avuto:
che fosse stata opera sua?  Ma non avevo prove per accettarlo, così mi concentrai sui contatti della STERGON poco tempo prima della strage.
Però, c’era un neo che affaticava le mie ricerche: l’esplosione aveva cancellato tutti i dati archiviati dal centro di ricerca. Indubbiamente quei primordiali archivi digitali erano assolutamente impraticabili. Forse fu da qui, che mi resi conto che far saltare un generatore elettrico fosse una maniera tanto rude quanto astuta per cancellare informazioni.                              
Ad esempio, una persona con un quoziente intellettivo superiore alla norma e una spiccata propensione per tecnologia, avrebbe potuto facilmente camuffare il suo operato facendolo passare per l’azione di una grande organizzazione estremista. Ciò nonostante, detti a quella possibilità solo il 5%: non tutti i cadaveri erano stati recuperati da sotto le macerie e in cuor loro, Roger e Watari ,pregavano affinché non fosse ritrovato l’esile corpo di quella ragazzina  schiacciato da un pilastro di cemento armato. Per quanto la situazione fosse spinosa, sin dall’inizio, non cedetti mai alla malaugurata ipotesi che fosse morta. Era tutto troppo strano, tanto che nel vorticare frenetico dei miei pensieri si delinearono tre ipotesi:                                                                                                                                   
1) Shiro era riuscita a scappare appena in tempo prima che saltasse tutto in aria. Considerando le sue doti atletiche e il suo istinto di sopravvivenza, non esclusi di certo una simile eventualità.                                                                                                                                                                                                           
2) Aveva provocato lei l’esplosione ed era fuggita.                                                                                                     
3) Entrambe queste ipotesi non si erano verificate: ergo Shiro era morta.                                                                                                              
Nel primo caso, senza dubbio, mi risultò strano che non fosse riuscita a mettersi in contatto con la House, a meno che non si fosse ritrovata in circostanze particolari.                                         
Nella seconda eventualità, era possibile che avesse captato qualcosa all’interno della STERGON. Una situazione che l’avesse spinta ad agire di conseguenza. Questo significava che se aveva scoperto qualcosa riguardo al centro di ricerca, si trattava senza dubbio di qualcosa di grosso.
Tanto da non permetterle la comunicazione con noi. Sin dal principio ebbi una specie di intuito riguardo a quell’improvvisa ed inaspettata proposta, la quale le fecero.
L’ultima eventualità era quella con la maggiore probabilità all’apparenza, eppure era contemporaneamente quella a cui credevo meno.
Subito mi misi a lavoro, cercando di reperire il maggior numero di informazioni possibili sul caso. Se ci fossero stati testimoni dell’accaduto, se quest’ultimi avessero visto qualcuno di sospetto aggirarsi nei pressi del centro di ricerca la sera dell’ 11 gennaio. Così mi presentai, per la prima volta, alla polizia londinese, palesandomi dietro quella L gotica impressa sullo schermo bianco di un computer. Cominciai così a servirmi delle forze dell’ordine, nonostante la diffidenza di queste, per effettuare le indagini. Erano appena passati due giorni da quando mi misi in contatto con le autorità inglesi, ed ecco che sui giornali fu pubblicata la notizia della seconda esplosione: “Esplode covo di un famigerato clan mafioso”.                                                                                     
Allora tutti i miei sospetti non poterono che trovare fondamento: c’era qualcuno che stava facendo strage di organizzazioni per uno scopo ben preciso.
Non poteva trattarsi di una coincidenza, no: il tempismo con cui erano avvenute era impeccabile. Che tutte queste “società “fossero collegate tra loro? Tuttavia,che il colpevole fosse una singola persona o un’organizzazione rivale, era molto probabile che avesse avuto dei contatti sia con la STERGON sia con il clan mafioso. In tal caso, la mia ipotesi sulla presunta morte di Shiro veniva meno: considerando anche che la polizia aveva ispezionato l’intero edificio centimetro per centimetro, senza aver rilevato altri corpi sepolti sotto le macerie.                           
Shiro era viva, ne ero sicuro.                                                                                                     
Supponendo lei  come l’artefice di tutto, era chiaro che volesse nascondere qualcosa a me, alla House , oppure allo stesso governo.
Solo in seguito scoprii che la cosa si estendeva al mondo intero.                                                                                                                                                                  
E se invece avesse voluto comunicarmi qualcosa? Sia che fosse entrata nelle schiere di qualche organizzazione sia che agisse sola, tutto ciò affermava che era ancora in vita.
Partendo da questo presupposto, cominciai a sospettare  un possibile collegamento con colui il quale , l’anno precedente, si presentò alla Wammy’s House con la superficiale intenzione di conoscere il rinomato “genio della meccanica”.                                                                                         
-Wammy  devi dirmi tutto quello che sai su Frederich Kindom , e fai delle ricerche sul suo conto, partendo dalla Commissione Scientifica Inglese .- fu il primo ordine che impartii a Quillsh, in veste di detective. Quando udì il nome di Kindom e dell’ente governativo che l’aveva riconosciuto come inventore di stato, sussultò sorpreso. Ma quando i miei occhi si inchiodarono su di lui, l’incertezza iniziale svanì e rispose fermo e risoluto:                                                          
-Va bene.- nient’altro. Solo la conferma che aveva recepito il messaggio. Da quel momento in poi le stesse parole verranno pronunciate dal fidato collaboratore di L: “Watari”.                                        
Riguardo a Kindom, scoprii del suo rapporto controverso con la Commissione Scientifica: anch’egli era stato un inventore e aveva tentato di essere riconosciuto come tale, ma i suoi studi furono bollati come qualitativamente scarni ed insufficienti a soddisfare i requisiti richiesti. In tal senso, avrebbe dovuto serbare rancore nei confronti della commissione, e invece proprio lui aveva chiesto a Shiro la sua collaborazione al centro di studi londinese, per conto della stessa Commissione. Così nei due giorni successivi utilizzai tutti i mezzi possibili per rintracciare Kindom, ma pareva sparito dalla circolazione. Che qualcuno l’avesse aiutato a fuggire? Quindi non ebbi altra scelta che puntare il mirino su Taylor West presidente della commissione scientifica … tuttavia fu troppo tardi …                                                                                                                                                                                              
 

16 gennaio 1997, Wammy’s House [ Winchester, 21:35]                                                                                                                                  


La luna piena era alta nel cielo e i suoi  raggi filtravano debolmente, attraverso le lastre trasparenti e spesse dei vetri. Carte e documenti erano abbandonati sul pavimento come foglie morte, consunte di inchiostro.                                                                                                                                    
Il vento all’esterno sibilava imperioso, smuovendo alcuni rami spogli nel cortile. La struttura longilinea del campanile della chiesa accanto svettava imponente verso l’alto, come se volesse elevarsi al cielo. Il medaglione lunare ne illuminava i contorni, creando uno scenario suggestivo e affascinate. Quello era il panorama che si scorgeva dalla finestra della mia camera, ma in quel momento ero troppo occupato per ammirare il paesaggio. Stavo continuando le miei ricerche su Frederich Kindom e sulla Commissione Scientifica . Indagando su queste entità venni a conoscenza dei contatti di Kindom con la stessa Commissione, quindi mi risultò facile pensare che uno dei due avesse certamente intercettato Shiro. Ma a che cosa miravano?
Io, allora quindicenne, non disponevo di mezzi veloci per raggiungere i miei scopi, e ciò comportava una lenta progressione delle mie indagini.
Come sempre la mia camera era un labirinto in districabile di fili e processori collegati al mio computer. Accanto a me  vi era collegato un telefono a prova di intercettazioni, con cui mi mettevo in contatto con l’unico uomo di mia fiducia il quale aveva acquisito il nome di Watari. Dato che stavamo indagando su questo caso, era chiaro che Quillsh avesse bisogno di uno pseudonimo che proteggesse la sua vera identità.           
Fu solo grazie a lui se mi avvicinai alla polizia inglese. Volevo avere conferma del coinvolgimento di Frederich Kindom sulla questione, così mobilitai la polizia londinese affinché fosse scovato, ma erano passati due giorni e di lui nessuna traccia. Ne disegnai persino il profilo psicologico e dalle ricerche da me effettuate, risultò essere un uomo estremamente irrequieto e facilmente suscettibile. Paradossale, considerata la sua intelligenza poco superiore alla norma. C’era qualcosa che mi sfuggiva, poiché non era un uomo capace di prendere l’iniziativa.
Che qualcuno l’avesse aiutato a scappare? Possibile.            
E se fosse stata Shiro? Ma a quale scopo? A che cosa mirava? Erano interrogativi a cui ancora non riuscivo a dare una risposta.
La luce bianca dello schermo inondava il mio viso: come sovente ero appollaiato a terra, la mano poggiata sul mento nell’atto di riflettere.
All’improvviso avvertii il suono acuto di un bip. Girai il capo rivolgendo i miei pozzi di petrolio sulla macchina dei fax , procuratami da Watari.
La spia verde si illuminò e un rumore metallico graffiò le acque stagnati del silenzio. Watari mi stava inviando i tabulati telefonici di Kindom e altre informazioni inerenti al caso.
Come era prevedibile il telefono squillò: mossi repentinamente il braccio per afferrare la cornetta con due dita. Sapevo già chi fosse:                                                                                                                                                   
-L .– la voce di Watari rimbombò nelle mie orecchie. Con la scomparsa di Shiro e la rapida successione degli eventi, il suo tono aveva assunto una  conformazione alquanto distaccata e professionale. Non si trattava più del suono cordiale e gentile a cui gli orfani erano abituati.                                                                     
–Ti ho inviato i tabulati e le informazioni che mi avevi chiesto.- proferì risoluto.                                      
–Sì, grazie le sto ricevendo in questo momento.                                                                                                                   
–Adesso sto rientrando in orfanotrofio con alcuni documenti che devi assolutamente visionare. Sarò lì tra quindici minuti circa.                                                                                                                                                                                                          
–D’accordo, grazie. – chiusi la chiamata lasciando cadere con precisione la cornetta sull’apparecchio. Mi alzai dalla mia posizione accovacciata e mi avvicinai pacato verso la macchina dei fax, abbandonata all’angolo della stanza. Un plico di fogli era adagiato sul parquet ed aumentava di volume ad ogni strato sottile che fuoriusciva dalla bocca di quel marchingegno elettronico. La stampa terminò e presi in mano la pila di fogli, c’era tutto : dai tabulati telefonici di Kindom, alle informazioni su di lui ed il suo rapporto con la Commissione. Scostando alcuni fogli notai anche i dati personali di Taylor West , il presidente della C.S.I* . Watari era persino riuscito ad ottenere il suo numero telefonico.         
Non avrebbe avuto senso contattarlo tramite la polizia, altrimenti avrebbe avuto il tempo di nascondere informazioni quindi decisi di prendere l’iniziativa chiamando personalmente West.
Non c’era altra soluzione per estorcere qualche informazione su Kindom e inoltre avrei subito compreso dalle sue parole se fosse implicato o meno nel caso. La probabilità che lo fosse era del 15%, ma sicuramente valeva la pena tentare. Con un balzo leggero evitai il labirinto di fili sugli assi di legno, insidiosi come serpenti, e avvicinai il telefono in quella porzione di pavimento illuminata dalla luce filtrante della finestra.
Buttai malamente i fogli accanto a me e cominciai a comporre il numero telefonico.                                                       
Erano le  21: 41, un’ora che non dimenticherò mai. Mai …


[ 21:41 ]


Il telefono squillava laconico, placido come i rintocchi delle campane della chiesa accanto. Non avrei mai potuto immaginare che proprio lì, protetto dalle mura della mia stanza avrei visto qualcuno morire. Un corpo accasciarsi al suolo inerme, privo di vita. Di anima.                    
Solo una bambola vuota dagli occhi vitrei che osservano un punto imprecisato del soffitto.  La linea era libera, ma udii dei tonfi lontani sovrapporsi a quella litania insinuatasi nelle mie orecchie.
Si facevano sempre più forti e vicini. Scostai la mia attenzione sulla porta che immediatamente fu spalancata con impeto. Tutto accadde velocemente, in un nano secondo.
Dei passi batterono sulle assi di legno ed  in un fugace momento incontrai di nuovo quegli occhi verdi … i suoi occhi verdi …                                                                                                                                 
-L!!!! – un urlo angoscioso inondò le mie orecchie. Non feci in tempo a realizzare di chi fosse, quando vidi un’ombra sovrastarmi. Una mano mi spinse via e il mio corpo si scontrò contro la parete retrostante. Nello stesso istante un sibilo mi perforò i timpani in maniera assordante. Poi un tonfo più fragoroso. Qualcosa aveva penetrato la finestra. In battito di ciglia vidi frammenti di vetro rilucente galleggiare in aria. Diamanti si infransero al suolo. Sollevai lo sguardo e per la prima volta in vita mia sgranai gli occhi dallo sconcerto. Il corpo di Shiro, ancora innaturalmente in piedi, pareva sollevato da mani invisibili. Nella penombra riuscii a scorgere le sue pupille restringersi improvvisamente e le iridi divennero opache, vitree. Vacue come quelle di una bambola. Io avevo i palmi delle mani appoggiati al muro in cerca di equilibrio, ero rimasto raggranchiato contro il muro in stato confusionario. Come un burattino manovrato da fili invisibili, la ragazza mosse qualche passo incerto in avanti. Aveva il capo chino, e nell’oscurità pareva miracolosamente inerme, ma sapevo che non era così. Dalle sue labbra sfuggì un singulto strozzato. Gocce dense, scure come un mantello di velluto caddero sul pavimento. Scrutai meglio la sua figura e realizzai cosa fosse successo.                          
Lo stomaco. Per quanto si potesse vedere, tutta la parte addominale era intrisa di sangue. Quel tonfo seguito dal sibilo era il rumore di uno sparo, e Shiro fu colpita in pieno. Un rivolo scarlatto scivolò a un angolo della bocca, seguito da un altro gemito soffocato. Aveva il capo rigorosamente chino ed io ero ancora paralizzato , spiaccicato contro il muro.                           
Mossi a tentoni le mani sulla superficie fredda e dura, elevandomi appena.                                                                                               
– Shiro … - sibilai a fior di labbra. Non era possibile per me nascondere stupore in quel momento.                                                                                                                                                                
Lei ghignò appena. Scorsi una fila di denti rilucere nella penombra.                                                                                                          
–Stavolta c’è mancato poco … vero bastardino? – puntò gli occhi verdi su di me. Le parole mi morirono in gola. Mi sentii incapace di replicare o spiccicare domanda alcuna.                     
I suoi occhi erano lucidi, limpidi, ma allo stesso tempo straziati e sofferenti. Pareva colta da un senso di gratitudine mentre mi guardava.                                                                                   
–Certo che quel cecchino ha una pessima mira … avrebbe potuto anche sparare alla testa, così si sarebbe conclusa in fretta questa storia -.
Con la coda dell’occhio guardò la finestra dietro di lei ed anch’io allora compresi: il campanile. Il tiratore era sul campanile.                                    
Prima che potessi aprire bocca l’eco di una voce risuonò nella stanza. La voce proveniva dalla cornetta: cadavere di plastica segregato sul pavimento. Anche se tremante, Shiro era ancora miracolosamente in piedi. Girò il capo verso l’apparecchio che suonava persistente:                        
-Pronto? Pronto??! Chi parla?- era la voce di West che reclamava risposta ai piedi della ragazza. Lei osservò l’oggetto e con sforzo si piegò a raccoglierlo: inutile dire che rigettò altro sangue  e tossì sommessa, però riuscì comunque ad afferrare quella cornetta. La mia mente era martellata da incessanti “perché”, i quali rimbombavano sempre più forti e mi impedivano di ragionare lucido. Shiro perse l’equilibrio e si gettò addosso a me appoggiando una mano sul muro, in tempo per non schiacciarmi. Io trasalii a quel contatto. Potevo percepire distintamente il suo addome contro il mio, il quale era zuppo di sangue. Distinguevo con chiarezza quella sostanza scarlatta scivolarmi lungo la stoffa della maglia bianca, macchiandola irrimediabilmente. Con forza spaventosamente innaturale, la ragazza riuscì ad alzare il capo e avvicinò la cornetta all’orecchio. Io avevo le sopracciglia aggrottate dalla tensione: lei respirava affannata, in cerca di ossigeno, ma pareva quasi divertita e compiaciuta. Sorrise beffarda, quando rispose alla persona all’altro capo del filo:                                                                                                                                                    
- Checkmate.- una sola lapidaria parola, mi fece comprendere il fondamento delle miei supposizioni e delle miei indagini. << Allora avevo ragione! >> pensai, intanto Shiro lasciò cadere la cornetta, la quale rantolò al suolo.                                                                                                                                                                                                    
– Shiro … perché … - cercai di domandare, ma fui interrotto da un suo gesto. Mi diede un colpetto sulla fronte con due dita insanguinate. Rammentai quella volta che giocammo a scacchi, lei fece lo stesso gesto. Probabilmente in quel momento le mie pupille tremarono di sgomento, tuttavia il suo viso mi mozzò ancora il fiato. Sorrideva, stava sorridendo. Lo stesso sorriso che mi aveva rivolto molte volte: caldo, deciso e rassicurante. Ma stavolta pareva quasi stentato, come se stesse cacciando indietro le lacrime le quali, notai, erano rimaste impigliate nelle ciglia lunghe.                                                                                                                                                                             
Boccheggiante mi guardò negli occhi:  dopo un po’i suoi cominciarono a saturarsi di speranza e sollievo, sentimenti che scacciarono la malinconia letta poco prima. La luce nella mia camera si fece improvvisamente più intensa, il vento era riuscito a spazzare via quella nuvola che occultava la luna.                                                                                                                                                                                                     
Mi dispiace L, ma stavolta è la fine … Non credo che ci sarà più occasione per una partita a scacchi...  q- questa è già conclusa p-per … m-me…                                                                                         
La sua forza di volontà non resse a lungo e le gambe tremanti cedettero. Istintivamente riuscii ad afferrarla in tempo e scivolai lungo la parete.                                                                                                                            
– Shiro resisti! – le intimai, alzando la voce per la prima volta.                                                                             
Lei continuava a respirare irregolarmente, in preda a tremiti incontrollati delle braccia e spasmi che le strozzavano il respiro tra una boccata e l’altra. Dei passi giunsero frettolosi, inchiodando all’istante una volta raggiunta la soglia della stanza. Watari non fece in tempo ad entrare e già le parole gli morirono in gola:                                                                                                                                       
-L! Cos…. Shiro??!!?- urlò infine stuccato alla visione della ragazzina sanguinante. Accorse fulmineo in preda alla disperazione, portando in grembo Shiro e sollevandole il capo. La ragazzina tossì sommessamente ed abbozzò un sorriso nel rivedere di nuovo il vecchio inglese. Watari immediatamente le aprì la giacca, scoprendo la ferita copiosa di sangue, per darle maggiore libertà. L’inglese si tolse la giacca formando una specie di cuscino sotto sua testa. L’uomo aveva una sciarpa di stoffa con cui cercò di tamponare la ferita. Era una grave emorragia quella che le stava corrodendo il fisico.                                                                                                                                                              
–Shiro!! Resisti!!- le urlò Wammy disperato. All’istante prese in mano il suo vecchio cellulare chiamando l’ambulanza. Ma fu tutto inutile …                                                                                                                                      
Tutto l’orfanotrofio quella notte si svegliò di soprassalto: le collaboratrici cercavano di rassicurare i bambini invitandoli a ripiegare nelle loro stanze. Roger
fu avvisato immediatamente ed accorse nella stanza, dove vide sconcertato la ragazza in fin di vita.                                                                               
Watari strinse ancora di più quella garza provvisoria, per fermare il sangue.                                                                 
–Sta tranquilla! Adesso l’ambulanza arriverà subito … Resisti figliola!!- la voce di Watari era scossa da fremiti incontrollabili. L’uomo strinse la mano sanguinate della ragazzina.                                      
–E’…è  inut-tile Wammy… ho..ho f-freddo… non mi sento più… le gamb-be. Sai che significa… ver-ro? – balbettò convulsamente rafforzando la stretta di mano.                                                                                         
Io non volevo che morisse, non potevo accettare che morisse.                                                                                                                                                                                                                         
–Non dire così! Non è da te arrenderti in questo modo!!- Watari era disperato.                                                                                                        
– Wammy … g-grazie di t-tutto. Mi h-hai rid-ato la fam … famiglia che av-vevo p-perso per sempre. Gr-grazie mil-le…                                                                                                                             
Istitutrici correvano da una parte all’altra del corridoio con pile di asciugamani, i quali si inzuppavano copiosi di scarlatto. A quel punto la mia mano andò a premere sul cumulo di stoffa sopra l’addome di Shiro. Lei voltò debolmente il capo verso di me, quasi stupita dal mio gesto ma poi sorrise nuovamente.                                                                                                                                            
–Cerca di non parlare. Se ti sforzi il sangue aumenterà- la esortai io concentrato sulla ferita.                  
Le sue labbra si incresparono nella dolce curva di un sorriso. Pareva divertita, credo che se ne avesse avuto la forza avrebbe riso come di suo solito.                                                                                                                                                       
–L … - mi chiamò flebilmente ed io voltai il capo. Il suo viso era illuminato dal chiarore lunare e quelle iridi verdi rilucevano come non mai. Il chiarore lunare occultava quel pallore malaticcio che stava a poco a poco assumendo. Tentai di ribadirle di tacere, ma fui interrotto:                                                                                                                                                                                                                   
-Forse ne-lla tua giustizia … n-non c’è posto per una com-e me … però nella mi-mia è sempre e-sistito un p-posto per te …                                                                                                                                             
Sgranai gli occhi : il suo volto era rigato di lacrime e continuava a sorridere. Era il più bello che ci avesse mai rivolto. Non era triste, era felice.
Di questo fui certo in quel momento.                                     
–Shiro…- mormorai infine.                                                                                                                                                    
L, Wammy … GRAZIE!- disse ad alta voce. Poco a poco la sua espressione cominciò di distendersi serena. Le palpebre schermarono gli occhi smeraldo. Reclinò il capo in abbandono. Spirò.                                                                                                                                                                                                    
Wammy cominciò a scuoterla imperterrito. I suoi richiami continui furono totalmente inutili: Shiro era morta.  Alle 22:o1, Sarah Meynell lasciò questo mondo.                                                                                                                                                                                                                         
Non riuscii più a sentire le urla disperate di Watari che continuava a ripetere il suo nome, poiché nelle mie orecchie rimbombavano i rintocchi delle campane. Assordanti, fragorosi stordivano il mio udito. Dopo tanto tempo le campane ripresero a suonare nella mia testa.       
                                                    
 

18 gennaio 1997, 9:05 [ Cimitero di Winchester ]                                                                                                                              


Tutto l’orfanotrofio pianse amaramente la scomparsa di Shiro. I bambini più piccoli riuscivano a stento a trattenere le lacrime. Fu un susseguirsi di pianti sommessi e sguardi bassi e addolorati. La bara laccata di bianco si adagiò nella fossa, fiori furono posati su di essa assieme a cumuli di terra, i quali ricoprirono il suo corpo come una coperta.                         
Watari si portò il cappello al petto stringendolo con la mano. Un monito a trattenersi.                           
Io ero accanto a lui, in piedi, con i pollici ai lembi delle tasche.                                                                                                         
La cerimonia giunse al termine. Le istitutrici portarono di nuovo i bambini in orfanotrofio. Chi non conosceva Shiro alla Wammy’s House?  Sempre allegra e confusionaria.                                                                   
La sua compagna di stanza, Emily, si trattenne per un ultimo istante davanti alla sua tomba posando un mazzo di fiori bianchi. Singhiozzò un’ultima volta, ma poi su consiglio di Watari si allontanò per rientrare in istituto. Alla fine rimanemmo solo io e Watari.                                                                                               
–Risolverò questo caso. Il suo sacrifico non andrà sprecato. - gli dissi con voce ferma fissando il cumulo di terra. Watari con un cenno del capo poggiò una mano sulla mia spalla.                                                                                                                                                                                                                                                                                                   
–Vuoi rientrare? – mi domandò cortese, con un timbro di mestizia.                                                                                                    
–No. Voglio restare ancora per un po’.                                                                                                                                                                              
–D’accordo- rispose il vecchio inglese  dando un ultimo amaro sguardo alla tomba di Shiro. Così Watari si allontanò lasciandomi solo, nelle mie riflessioni. Me ne accorsi troppo tardi che ero di nuovo solo. Le campane avevano ripreso di nuovo ad assordare nella mia testa. Per un lungo periodo tempo i loro rintocchi si arrestarono: nei sei anni trascorsi dall’arrivo della ragazza, le campane smisero di suonare.                                                                                                                                                
Il mio volto riprese l’ espressione enigmatica di sempre al pensiero delle sue parole:                    
” C’è sempre stato posto per te”.                                                                                                                                                     
Strinsi amaro un pugno: - Non ti ho mai sopportata Shiro.- proferii con durezza, puntando i miei onici sulla sua figura sepolta a più di un metro da terra. Sospirai impercettibilmente rassegnato infilando le mani in tasca. Non appena lo feci, qualcosa mi ridesto completamente.
Preso alla sprovvista estrassi repentinamente dalla tasca sinistra un oggetto a me estraneo. Portai davanti agli occhi l’oggetto in questione: lo tenevo per l’estremo di una catenella, e alla base di questa c’era un pesante disco rotondo. Quello era l’orologio di Shiro, lo stesso che le fu consegnato alla sua premiazione. Cosa ci faceva nella mia tasca? Quando l’aveva messo? La risposta mi fu chiara subito dopo.
Le immagini di quella notte mi folgorarono all’istante: fu in quel frangente, quando si avvicinò a me poggiandosi alla parete, che deve avermelo infilato in tasca. Questo significava che non era ancora finita. Osservai l’orologio d’argento oscillare ipnotico davanti ai miei occhi. Lo aprii: numeri erano incisi sul fondo del coperchio. Un enigma? Probabile visto che lo ritrovai proprio nella mia tasca.                               
–Shiro … riesci sempre a sorprendere anche quando non ci sei … - mormorai abbozzando un sorriso, anche se percepii distintamente amarezza. Il suo ultimo messaggio lo aveva lasciato a me.

 


Simile ad un medaglione, quel disco d’argento oscillava silenzioso dinnanzi agli occhi di Ryuzaki. I contorni metallici rilucevano bianchi dalla luce artificiale dello schermo.                 
L abbassa un attimo lo sguardo sulla mezza ciambella deposta sul piattino. Alla fine ripone l’orologio in tasca e si alza per dirigersi alla porta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 







Mamma mia!! Ce ne voluto di tempo ma alla fine sono riuscita a postare!!! Alla fine il fatidico capitolo strappalacrime è giunto.
Sì è proprio così che è morta Shiro. Tuttavia vi avverto che questo è il penultimo capitolo! Attention please.
Spero di aver reso bene il racconto di L e i suoi pensieri!!
Sono l’una e mezza di notte e i pensieri con un po’ fiacchi, quindi mi auguro di non aver pastrocchiato la parte finale. Bene!
Adesso tocca a voi recensire!!

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Capitolo 10
*** L'ultimo messaggio ***



Acuto come un spillo, sottile come il filo, la lancetta dei secondi scandisce ritmicamente lo scorrere degli attimi. Il tempo non si ferma mai: questo constata Watari quando rivolge l’ennesimo sguardo alla fanciulla ritratta nella foto. Tuttavia i ricordi non svaniscono, non i suoi perlomeno.
La fotografia è ancora lì, in equilibrio, sostenuta dalla cornice di uno schermo ed è ancora presente il cioccolatino posato da Ryuzaki.
Quella piccola offerta alla sua anima lo ha fatto riflettere molto. Quanti anni saranno passati, si chiede l’uomo. Tanti. Watari ne conta esattamente dieci.
Dieci lunghi anni in cui ha dovuto imporre alla sua mente ad accantonare i prepotenti ricordi su Shiro,i quali ogni volta gli corrodevano il fegato lasciando quel retrogusto amaro, simile alla bile bruciata. Sono terribili. Fanno male anche adesso. Una condanna non udire più la sua risata, lacera più di mille frustrate non incrociare i suoi scintillanti smeraldi che rilucevano anche nel buio più pastoso. Gli mancava la sua energia e il suo travolgente carisma, tuttavia si sente dannatamente in colpa poiché non ha mai avuto il coraggio di andare oltre quella maschera allegra e sorridente.
In Shiro aveva percepito l’ombra tremula della malinconia e del dolore: del resto non poteva essere che così, considerando il triste passato di quella ragazzina. Ha vissuto quasi due anni da sola in quella casa creduta abbandonata, in cui ebbe luogo la strage della famiglia Meynell.
Nonostante tutto quello che ha subito è andata avanti fino alla fine, con la speranza di vivere al meglio e di veder finalmente sorgere il sole.
Com’è possibile? Da sempre questa domanda ha tartassato la mente del vecchio inventore, già da quando conobbe la ragazzina.                                                                                                    
Però lei non avrebbe voluto, no. Non avrebbe mai accettato il fatto che Watari fosse triste, perché lei per prima ha continuato a lottare per la felicità. 
Shiro alla fine ha sorriso.                                                    
Alla fine, pensa il vecchio inglese, la cosa più dolorosa è solo non averla a fianco.
 

17 gennaio 1997 [ Obitorio alla periferia di Winchester ]

La luce bianca del neon batteva sul mio viso. Era aliena, folgorante, strana.  Ma risultava ancora più inquietante su quel gracile ed innocente corpo, il quale spiccava ancora più glabro e cadaverico. Un bianco lenzuolo fasciava le membra pallide e smunte. Ciocche di capelli castani, un tempo di una tonalità intensa e rilucente, parevano sbiadite, spente come il resto del corpo. I tratti fini del viso sembravano essere invisibili, tuttavia la sua espressione tradiva ciò che comunicava oramai il suo corpo senza vita. Serena, mi appariva così: temperata da quella placida compostezza, la quale le conferiva un aspetto etereo. Un angelo addormentato era adagiato sulla barella di quell’obitorio, ma purtroppo quel sonno sarebbe durato per sempre.
Dopo aver indossato il consueto camice verde plastificato, cominciai ad infilare i guanti in lattice. Shiro era morta il giorno precedente, la causa fu uno sparo a lungo raggio. Mai avrei immaginato che l’orfanotrofio potesse essere preso di mira. Per far in modo che la polizia non si immischiasse nella faccenda, io stesso decisi di effettuare e monitorare l’intera autopsia. Dovetti richiamare tutta la mia professionalità e il mio zelo per impedirmi di non piangere al suo capezzale.
Annodai la mascherina dietro la nuca: ero pronto.                
 Avevo deciso di farmi carico personalmente della questione ed ero determinato ad andare fino in fondo.                                                                                                                                                        
Un mio amico dottore, che conoscevo da anni, mi concesse di operare al suo fianco per le dovute analisi sulla ragazza. Questo giunse immediatamente a Winchester non appena lo chiamai: comprese subito la situazione e soddisfò volentieri la mia richiesta.                                                 
–Allora Quillsh, sei pronto?- mi domandò sistemandosi il guanto in lattice . Io annuii deciso. Quando scoprimmo per intero quelle membra, trattenni un singulto strozzato. All’apparenza il suo corpo era una distesa lattea, se non per alcuni abbacinanti segni purpurei sulle braccia. In particolare c’erano tracce di punture sulla piegatura dell’avambraccio: lì le vene erano state perforate per introdurre un ago di notevoli dimensioni, a giudicare dai fori. Svettavano  violacei sulla pelle lattea e martoriata. Strizzai gli occhi per contenere stille di lacrime, infine abbassai il capo mesto e con la rabbia che montava dentro come mai in vita mia.                                    
Chi poteva essere stato così crudele da drogarla?! Prelevammo quelle poche tracce di sangue presenti per effettuare il test sul DNA . Ciò che venne fuori fu a dir poco abominevole: nel corpo di Shiro erano state iniettate sostanze psicoattive in grado di aumentare e sviluppare le sue capacità intellettive, quindi questo dimostrava le reali intenzioni della STERGON.              
Altro che centro di ricerca, quello era un vero e proprio laboratorio per esperimenti umani!! Il mio cuore si contrasse in una morsa letale, simile ad un arresto cardiaco: un dolore mi dilaniava struggendomi il petto. Come potevo non sentirmi in colpa per la sua tragica fine? Riflettendoci io non mi ero opposto alla sua decisione, anzi, fui proprio io a condurla nella tana del leone! Ma avrei voluto che ciò accadesse!! Mai e poi mai!! Il dolore mi corrodeva dentro come un parassita…                                                                                                                             
- Quillsh, tutto bene? – domandò il mio collega, apprensivo. Io scossi la testa per indurmi ad uscire da quel macabro torpore.                                                                                                                                                             
–Sta tranquillo. Continuiamo.- risposi risoluto. Oltre ai segni violacei scorsi la presenza di alcuni graffi superficiali e anche un livido alla caviglia sinistra.
A differenza delle sostanze iniettate la cui assuefazione risaliva da circa sette mesi, questi ultimi erano più recenti. La contusione risaliva a due giorni prima della sua irruzione in orfanotrofio, quindi quando scappò dalla STERGON. Anche i graffi possedevano la medesima storia.                                                               
Figlia mia, cosa ti hanno fatto?!  Perché il fato è stato così meschino con te?!                                                                                                                                 
Non potevo consentirmi di versare alcuna lacrima, e né potevo permettere che dei simili mostri rimanessero impuniti. Avrei dato tutto me stesso contribuendo alle indagini di L, forse sarebbe stata l’unica cosa da fare per redimere le mie madornali colpe.

 
18 gennaio 1997 [ Cimitero di Winchester ]

Al funerale di Shiro si raccolse tutto l’orfanotrofio, addolorato da una simile perdita.               
James Dilan, colui che chiamai per lo svolgimento dell’autopsia, era ancora in laboratorio a sviluppare gli ultimi dati forniti dai campioni di DNA.
Le analisi sul corpo terminarono la notte precedente, e così ebbi tutto il tempo di occuparmi in fretta del funerale. Con le mie risorse finanziarie fu alquanto facile preparare tutto. Quando l’adagiammo sul letto foderato della bara, pareva un piccolo angelo a cui erano state tarpate le ali. Aveva un vestitino bianco semplice, il quale le fasciava dolcemente il corpo gracile e oramai privo di calore. Lì dentro era simile ad una bambola di porcellana, quando viene conservata nel baule dei giocattoli in soffitta. Tutto in lei mi comunicava qualcosa di gelido ed immutabile: forse perché era strano per me vedere le sue gote pallide anziché imporporate da quella beltà giovanile. Forse perché nelle mie orecchie rimbombava il suono del silenzio, il quale scacciò per sempre quello della sua risata cristallina. Forse perché quegli occhi che mi folgorarono per la prima volta in quel villaggio, ormai erano spenti, privi di luce.
Le carezzai piano il volto: la sua pelle ancora liscia e morbida al tatto, era fredda. Tanto fredda. Come avvolta da un sottilissimo strato di ghiaccio invisibile, come a voler conservare le sue giovani fattezze. Socchiusi gli occhi amaro abbassando il capo rassegnato, impotente al cospetto della crudeltà della vita e della sua compagna morte, spietata traghettatrice di anime. Loro non conoscono la compassione, né il calore umano: ci considerano inetti a loro confronto, mentre questi non sono altro che sadici burattinai in cerca di “divertimento” . Quante volte avevo assistito alla morte di esseri umani!
Trascorsi la gioventù nel crudo periodo della Seconda Guerra Mondiale. Avevo appena quattro anni e già numerose persone spirarono davanti ai miei occhi, sotto i colpi delle bombe. Probabilmente fu questo il motivo che mi spinse a cercare soggetti in grado di mettere ordine nel mondo. Li ricercai nei geni sventurati ed incompresi, sperai con tutto il cuore che questi potessero utilizzare le loro abilità per aiutare il mondo. Poi incontrai L, un bambino dalle straordinarie doti intellettive, tali da riconoscerlo un fenomeno vivente.                                                                                                                
Nella House i bambini si impegnavano per raggiungere i massimi livelli, ed L era indiscutibilmente la barriera da scavalcare. Ma a che cosa mi era servito fare tutto ciò?? Avevo provocato soltanto la morte di una povera bambina innocente!!                                                                                                                      
La mia condotta, in un certo senso, non era poi così diversa da quella dei manipolatori: senza accorgermene diventai anch’io un  burattinaio.
Non potrò mai redimermi da questa colpa! Trattenni a stento le lacrime, mentre con i polpastrelli rasentai delicatamente le palpebre smunte e lievemente trasparenti di Shiro. Le dita della mano si intrecciarono con qualche ciocca castana come un pettine.                                                                                                                                                                
–Signor Wammy ? E’ ora … - mi richiamarono dal fondo della camera mortuaria.                                   
–Sì, solo un secondo … - risposi laconico. Non volevo che la portassero via, avrei voluto che restasse lì accanto a me per sempre.                                                                                                                                                  
–Perdonami Shiro … non sono riuscito a proteggerti! Tu ti sei fidata ciecamente di me ed io ti ho mandato sul patibolo … - una lacrima solitaria mi sfuggì prepotente.                                                             
–Ma ti giuro che almeno il tuo sacrificio non sarà stato vano! Questa è una promessa … - mi chinai e le posai un lieve bacio sulla fronte :
- Addio, figlia mia.                                                                                 
–Mi scusi ancora signore, ma dobbiamo andare.                                                                                                                                                              
–Sì … - un ultimo sguardo verso quel viso sereno e poi, con il cuore in preda a fitte spasmodiche , mi voltai infilando il capello nero: - Potete chiudere…                                                      

La cerimonia fu tanto sobria quanto triste: non mancarono singulti strozzati e capi melanconicamente chini. Un’altra fitta mi artigliò il petto, quando i primi cumuli di terra cominciarono a depositarsi sulla superficie di quello scrigno di morte, laccato di bianco. Conficcai le unghie nel tessuto del capello, aumentando la pressione di questo sul petto.                 
L era accanto a me: sguardo indecifrabile e penetrante su ciò che accadeva davanti a lui. Dalla mia posizione non potei scorgere molto del suo viso, il quale era abbondantemente coperto dalla sua folta frangia, ma non mi sfuggì quella nota nostalgica e cupa. Era il suo linguaggio del corpo a comunicarmelo.
In fine, il funerale giunse al termine e dopo un po’ di tempo le collaboratrici accompagnarono i bambini in orfanotrofio, seguiti anche da Roger con cui scambiai uno sguardo di eloquente dolore. Rimanemmo solo io ed L davanti a quel cumulo di terra nefasta, prigione di tutti i defunti. Silenzio permeava davanti a quella tomba, del resto qualsiasi parola che fosse stata pronunciata in quel momento sarebbe stata oscenamente inopportuna. Che senso poteva mai avere parlare, ora che Shiro non c’era più?                            
Sospirai impercettibilmente, nel vano tentativo di sedare il dolore e la tristezza che avevano saturato il mio cuore: tanto ne era pieno, che questi colavano straripanti da quel muscolo, sede della  vita e dei sentimenti. Non seppi contare lo scorrere del tempo, poiché tutto per me si era bloccato quel maledettissimo 16 gennaio.
Ma era tutto inutile, era morta.                                      
–Risolverò questo caso. Il suo sacrificio non andrà sprecato.- la voce di L rimbombò improvvisamente nelle mie orecchie. Mi voltai di scatto incredulo, quasi fosse stato uno scherzo della mia immaginazione. Posai gli occhi su di lui e constatai che avevo ragione: quella nota malinconica percepita in precedenza non fu un’illusione. Anche L era triste, forse più di tutti.                                                                                                                                                                                    
–Vuoi rientrare? – domandai tentando di assumere la consueta inclinazione cortese, per quanto fosse difficile in quel momento.                                                                                                                                         
–No. Voglio restare ancora per un po’.- mi rispose con il solito tono laconico. La sua voce non ammetteva alcuna flessione diversa dall’atona, ma forse quella volta era più che legittimo che fosse così. E ringraziai il cielo se, almeno in apparenza, quel ragazzino apparisse inflessibile, altrimenti esternare i propri dolori sarebbe stato peggio. Avevo sempre esortato L a mostrare qualche forma di sentimento, ma quella volta fui d’accordo con lui.                             
–D’accordo .- risposi semplicemente.                                                                                                                                                       
Pensai che il ritorno in orfanotrofio sarebbe stato scandito da secondi eterni e tempo immutabile, ma non fu affatto così. Tutto passò così celermente che per parecchi minuti non riuscii più a percepire nulla, come se fossi improvvisamente precipitato in una distorsione spazio-tempo. Risultava davvero devastante tutto ciò.
I miei passi scandivano sui ciottoli di quel lugubre viottolo, fiume di pietra che separava due sponde costellate da lapidi.                       
Mi avvicinai all’auto come un automa, privo di forze direi. Mi appoggiai lievemente alla portiera, sospirai volgendo gli occhi al cielo grigio e plumbeo.
Le nuvole si addensavano con lentezza estenuante, sembravano macini in precario equilibrio. Una forte umidità stagliava prepotente, appesantendo un’atmosfera già cupa di suo. Notai le prime stille di pioggia cadere sul feltro nero del mio cappotto. Solo allora realizzai che da quando conobbi Shiro, la pioggia aveva sempre accompagnato quella ragazzina. Non ci pensai molto, o almeno non ne ebbi il tempo, poiché avvertii dei passi avvicinarsi con un lieve scalpitio. Sollevai lo sguardo su L, ed immediatamente sgranai gli occhi incredulo quando estrasse dalla tasca l’orologio d’argento. Il tempo riprese a scorrere.


19 gennaio 1997 [ Wammy’s House ]                                                                                                    

Non appena arrivammo alla House, L si rintanò immediatamente nella sua stanza selezionando documenti e scartoffie varie. Ordinò da subito alla polizia inglese di continuare le ricerche su Kingdom ed indagare in segreto su Taylor West, il presidente della Commissione Scientifica.  La cosa che gli premeva di più era decifrare quel messaggio che  Shiro aveva lasciato inciso all’interno dell’orologio. Quando il giorno prima mi mostro l’orologio d’argento della ragazza, quasi mi cascò la mascella dallo stupore. Lo aprii e saltò subito all’occhio l’incisione sul retro del coperchio.
Una successione di numeri: 6408 – 3572.                              
All’inizio non mi venne in mente assolutamente nulla. Non appena L me lo mostrò lo portai immediatamente a farlo analizzare in laboratorio. Non  furono rilevati tracce particolari se non le impronte di Shiro, granelli di cenere e microscopiche tracce di sangue appartenenti sempre alla ragazza. Anch’io mi chiedevo insistentemente  cosa volesse comunicarci Shiro, mentre L fissava l’orologio con i suoi onici penetranti, alla ricerca di un indizio. Anzi sarebbe stato più corretto dire che stava decifrando l’indizio, ma la sorpresa venne subito dopo. Sì, quella stessa mattina fu tutto risolto da un inatteso aiuto, che direi proprio provenisse dal cielo. Ero con L, nella sua stanza: lui lavorava frenetico al computer mentre io preparavo la consueta fetta di torta, accompagnata dal tè.
All’improvviso si sentì bussare, L non si voltò e né interruppe il suo lavoro. Quando aprii la porta mi ritrovai davanti una delle assistenti trafelata, con il fiatone che le smorzava il respiro.                                                                                                                                                       
–Che succede Nina? – domandai alquanto sorpreso.                                                                                                                                                                    
–Signor Wammy, è arrivato un pacco per lei! – gettò tutto d’un botto.                                                                                      
–Cosa? Un pacco per me?                                                                                                                                       
–Già, scenda subito all’ingresso!                                                                                                                                                                                       
Com’era possibile? Non attendevo posta di alcun genere in quel periodo.                                                                               
– Sapete il mittente? – chiesi confuso. Lei scosse la testa in segno di diniego: - No. È anonima.                                            
Anonima? Come sarebbe?? Immediatamente mi precipitai all’ingresso, proprio davanti all’atrio e sul pavimento marmoreo spiccò una grande scatola incartata.
Mi avvicinai all’involucro scrutandolo nei minimi particolari: era abbastanza grande per essere un pacco normale, le sue dimensioni non superavano quelle di un contenitore medio, un vero e proprio parallelepipedo. Il timbro postale era di Londra ma neanche l’ombra di un nome. Preso da un moto furioso, che mi era poco consueto, scartai febbrile la carta che avvolgeva quel pacco. Percepivo qualcosa di sconosciuto ed inquieto montarmi dentro: quell’oggetto ignoto pareva suscitare un’attrazione emotiva nei miei confronti e in seguito compresi il perché. Sbarrai gli occhi sconcertato, incredulo davanti a ciò che mi si presentò davanti.
Non poteva essere!! Quella forma, quei bordi un po’ consunti, i quali avrei riconosciuto fra mille … quella serratura d’onice. Lo sollevai fra le braccia e mi diressi spedito nella camera di L. Irruppi con poca grazia, ma in quel momento poco importava. Il ragazzino si voltò  puntando gli onici scuri su di me, tuttavia nella sua compostezza di sempre scorsi un accenno di stupore nei suoi occhi quando constatò l’oggetto fra le mie mani. Ciò che attirò di più la sua attenzione fu senza dubbio la serratura a combinazione.                                                                                    
–L, questa è la valigia di Shiro.- proferii lapidario fissandolo negli occhi. Non ci fu bisogno di aggiungere altro, poiché io posai subito la valigia sul pavimento ed il ragazzino balzò dalla sedia accovacciandosi davanti a questa. La scrutava in maniera ossessiva, mordicchiandosi il pollice.
La chiusura presentava ai lati i numeri per la combinazione, gliela regalai il giorno in cui mi seguii alla Wammy’s House  per custodire il suo progetto.                                                                                      
–Wammy l’orologio presto.- ordinò L, ed io glielo porsi senza indugio. Aprì il coperchio per osservare la combinazione: tutto coincideva, quattro cifre da un lato e quattro dall’altro. Cominciò a far scorrere i numeri sotto i polpastrelli, il codice era  6408 – 3572. Non appena terminò si udì distintamente lo scatto di una molla: la chiusura era stata sbloccata. L sollevò le piccole levette di ottone ed aprì la valigia. Alla visione del suo contenuto sia io che L sgranammo gli occhi dalla sorpresa: cassette, una moltitudine di cassette erano ammucchiate all’interno della valigia. Erano quelle dei mangianastri utilizzati per ascoltare musica. Non c’era nessun altro indizio se non quelle, che d’altronde non erano neanche numerate.                                                                                                                                                                                   
–Watari…                                                                                                                                                                                                       
-Sì, ho capito.                                                                                                                                                                               
Per nostra grande sorpresa quelle cassette costituivano delle prove schiaccianti contro la STERGON, la mafia e quello che pareva essere Taylor West.  Erano audio di riunioni segrete, anzi sarebbe più corretto dire  “video-riunioni” segrete. Infatti, queste si svolgevano tramite computer e non veniva mai mostrato il volto dei membri. In particolare, ciò che più colpì sia me che L fu la presenza di un misterioso individuo, il quale si faceva chiamare S  ed era il capo di un’organizzazione terroristica.                                                                                                                                   
–Direi che dopo quanto ascoltato finora, non mi sento di escludere che Shiro ed S siano la stessa persona . Ciononostante do a questa possibilità solo il 10 %. – affermò L ad un certo punto, poi continuò ad ascoltare le registrazioni.                                                                                  
Tutte le conversazioni avevano come unico argomento un grande progetto chiamato  Big Hole: da quanto capii si trattava di un’arma dalla potenza distruttiva incalcolabile e  Fox  era la chiave per costruirla. Non appena sentii pronunciare questo nome, compresi: Fox era il nome in codice con cui identificavano Shiro e questa in qualche modo era riuscita ad infiltrarsi spacciandosi per il capo di una grande organizzazione, vale a dire S. In pratica Shiro usò loro come loro usarono lei: ne rimasi sconcertato, incredulo. Il suo obiettivo era stato sin dall’inizio eliminare qualsivoglia traccia del Big Hole: a quanto pare ne aveva compreso i meccanismi, ma cercò anche di non scucire alcun indizio al riguardo. Ed ecco che fu anche spiegato il movente delle iniezioni. Quella ragazza non si arrese, resistette, tenne duro fino alla fine, sopportando le peggiori torture. In ogni riunione venivano letti dei verbali in cui erano esposti i progressi o i regressi di Shiro.
Si trattava di alti e bassi finalizzati a temporeggiare e permetterle di portare avanti il suo piano: cioè evadere e distruggere ogni informazione al riguardo. Tuttavia le cose si complicarono quando durante le riunioni cominciarono a parlare della fama di L: lo temevano e perciò cominciarono ad effettuare ricerche sulla Wammy’s House. Ciò non fu affatto difficile per loro dato che riuscirono a scovare Shiro, inoltre non nascosi ad L la tragica storia della ragazza. Quindi gli raccontai anche degli individui che sterminarono la sua famiglia.                                                                                                                                                                   
–E’ possibile che ci sia un nesso con questi uomini?                                                                                           
-E’ molto probabile. Credo che abbiano anche scoperto chi portò via Shiro da quel villaggio, vale a dire te Watari. Credo che tu alla’interno della commissione abbia suscitato l’interesse di alcuni e, a questo proposito, ritengo anche che abbiano cominciato ad indagare su di te. - asserì L – Quindi ho motivo di pensare che con le esplosioni Shiro non abbia solo eliminato i dati del Big Hole  ma anche quelli riguardanti la Wammy’sHouse.                                                                                                                                   
Chinò il capo e posò le mani sulle ginocchia: faceva sempre così quando doveva riflettere. Comprendevo la sua perplessità: le cassette erano prove inconfutabili su persone che oramai erano morte. Gli unici ancora in vita erano T.W. ed S, ma supponendo che S fosse effettivamente Shiro allora l’unico che rimane e senza dubbio T.W. , il quale si mostrò particolarmente autorevole durante le riunioni segrete. La ragazza ci mise a corrente della situazione, ma era palese che lei puntasse il mirino sul quel tizio.                                                             
– Watari . – la voce di L mi ridestò dalle mie riflessioni – Fa setacciare tutto l’orfanotrofio. E’ possibile che abbia lasciato qualche altro indizio. Sarebbe auspicabile cominciare da adesso.                                         
–D’accordo.                                                                                                                                                                                                                                       
–Non deve sfuggire neanche un angolo e … neanche il tetto.                                                                                  
–Il tetto?- non nascosi la mia sorpresa.                                                                                                                                   
–Sì, ho come una strana impressione. Partendo dalla notte del 16 gennaio, ancora non sappiamo come sia arrivata qui e come abbia fatto ad individuare la giusta angolazione del proiettile , quindi …                                                                                                                                                                                     
-Ho capito. Sarà fatto.                                                                                                                                            
Come promesso il tetto, o meglio dire terrazzo, fu esplorato: L aveva visto giusto. Adagiato sul pavimento, precisamente sotto la piccola tettoia, c’era un computer portatile. Lo schermo era completamente bianco e questo era collegato all’antenna telefonica. Ora tutto cominciava ad avere un senso: quando Shiro notò il cecchino sul campanile, lei era sul terrazzo nel medesimo punto.                                                                                                                   
Riposi l’apparecchio nelle mani di L:                                                                                                                        
-Davvero incredibile! – esclamò improvvisamente .                                                                                                                                                                
–Cosa?                                                                                                                                                                                    
-Shiro ha progettato un virus a tempo che serve a cancellare tutti i dati negli altri computer. Anzi, sarebbe più preciso dire che il virus “ruba” via i dati dei pc colpiti. Davvero formidabile … - in seguito inserì la scheda madre del portatile nel suo pc, ed immediatamente si aprirono numerose cartelle contenenti i file mancanti. Non c’erano però informazioni riguardanti il Big Hole, probabilmente Shiro non volle mostrarcele neanche a noi.                                                                    
–Qui c’è una conversazione telefonica tra il presidente della STERGON e T.W. Stavolta però il nome è esplicitato: Tylor West.                                                                                                                                           
–Abbiamo le prove.- affermai solenne.                                                                                                                                                   
–Sì .  

 
22 gennaio 1997                                                                                                                                                                                                                                                  

Passarono tre giorni da quando quella valigia giunse in orfanotrofio. Tylor West fu incriminato da L con prove schiaccianti. In seguito ad un estenuante interrogatorio West confessò di aver fatto uccidere Kingdom, il cui corpo fu rinvenuto sulle sponde del Tamigi poco lontano dal Towers Bridge. L’autopsia confermò l’ora del decesso verso le 20:00 del 16 gennaio, l’avevano ucciso per evitare che spifferasse qualcosa.                                                                                                     
Alla fine L decise di lasciare la Wammy’s House e di inseguire questa nuova passione da detective. Si sarebbe spostato di volta in volta in giro per il mondo, potevo permetterglielo poiché con le mie risorse finanziare non era un problema. Stavo riponendo i libri nella scatola di cartone: nel trasloco decisi di portarmene dietro qualcuno, non si sapeva mai. Alcuni erano vecchi ed ingialliti altri più recenti. Sospirai impercettibilmente: quante cose erano cambiate! Ma se non altro fui felice di aver contribuito a rendere giustizia a Shiro.                                   
Mi mancava soltanto da selezionare i libri dell’ultimo ripiano, quando notai qualcosa di insolito: tra questi vi era un libro della biblioteca che non ricordavo di aver preso. Lo riconobbi subito poiché i volumi erano sempre etichettati con dei numeri e la materia al riguardo. Lessi : “ N° 64 . Sezione meccanica 08“.
Rimirai la copertina ed immediatamente lo riconobbi: era uno dei libri preferiti di Shiro: “La meccanica dalle origini sino ad oggi”. Trattava sulle opere di grandi inventori del passato e Shiro amava soprattutto il pezzo dedicato al maestro Da Vinci, una sorta di guida intellettuale per lei. Sospirai emettendo malinconica tristezza: ancora non riuscivo a crederci. Stavo per riporlo nuovamente sullo scaffale ma inconsciamente scattò una molla. Cosa ci faceva un libro della biblioteca sullo scaffale dei miei libri, per giunta nel mio ufficio? Non ricordavo affatto di averlo preso! Gli unici che potevano entrare qui erano L e Shiro: considerando che il primo non usciva mai dalla sua stanza non poteva che essere Shiro. L’avrà dimenticato? Poteva darsi, ma se invece l’avesse lasciato lì di proposito?
Dopo qualche attimo con gli occhi fissi su quell’etichetta, un illuminazione colpì come un fulmine a ciel sereno: all’istante rimembrai il codice della valigia. Le prime quattro cifre erano 6408, in questo caso rispettivamente 64 e 08 indicati dal libro. Coincidenza? Impossibile. Ciò dunque stava a significare che Shiro aveva lasciato un ultimo messaggio.
Le cifre seguenti della composizione erano 3572. Dividendo le cifre come in precedenza si otteneva 35 e 72. Che l’indizio fosse alle pagine 35 e 72? Aprii il libro seguendo l’ordine: a pagina 35 non trovai nulla di rilevante se non le indicazioni d’autore sull’immagine analizzata, quindi il nome dell’artista e le misure su scala. A pagina 72 c’era un’immagine intera raffigurante un modello di aeroplano. Nessun indizio, cosa volevi dirmi Shiro? Forse era il mio approccio ad essere errato, quindi cominciai a meditare un’altra strategia. Istintivamente provai a sommare decine ed unita delle rispettive cifre: 3+5 faceva 8 mentre 7+2 era 9. Subito mi balzarono in testa, poiché 8 e 9 erano due numeri consecutivi nonché l’inizio del libro, la prefazione insomma. Subito riaprii il libro all’intervallo desiderato, e ciò che vi trovai confermò le mie congetture: tra pagina 8 e 9, esattamente all’inizio della prefazione, vi era un foglio di carta ripiegato. Lo presi fra le mani febbrilmente con l’ansia sempre più crescente.
Lo aprii e spalancai gli occhi dallo sgomento:                                                          
-Una lettera? – la calligrafia era inconfondibile, era quella di Shiro.

 
“ Caro Wammy,                                                                                                                                       
sarai certamente sorpreso di aver trovato una lettera in mezzo ad un libro. Se la stai leggendo, significa che in adesso non sono più in questo mondo o comunque che sono lontana da Winchester.                                                                      
E’ difficile per me spiegarmi … Ma adesso più che mai ho bisogno che tu legga queste mie parole. In questi quattro giorni ( mi riferisco dal giorno della proposta a quello della partenza), ho scoperto molte cose. Tante quanto spaventose per me. Sono loro, Wammy, mi hanno trovata ed ora mi sto consegnando spontaneamente. Non voglio e non posso oppormi, poiché voi tutti rischiereste la vita. No, no! Io non posso permettere che ciò accada!  Non soffrirei mai la vista del sangue un’altra volta … No! Non lo posso neanche lontanamente immaginare! Spero soltanto che tu stia leggendo questa lettera come avevo calcolato, altrimenti quello che sto per fare non avrà alcun senso.                                                                                                                           
Sento che c’è qualcosa di estremamente losco in questa faccenda ed io ho intenzione di andare fino in fondo, lo devo ai miei genitori, a mio fratello ed anche a te Wammy. Io ti sarò grata per sempre per ciò che hai fatto per me: mia hai dato una casa, un’istruzione , una famiglia … Seguirti fu la scelta migliore che potessi fare in assoluto. Grazie a te ho potuto approfondire le mie conoscenze e terminare finalmente l’opera di mio padre. Tu non immagini come tutto ciò mi renda felice!
Sei riuscito a concretizzare i miei sogni e le mie speranze, semplicemente porgendomi la mano. Riconosco che a volte le fatiche dello studio mi abbiano un po’ provata, ma la gratificazione che mi ha dato realizzare il braccio meccanico ha compensato tutto. La competizione era solo un espediente a fere del mio meglio.
Parlando di ciò, non posso che rivolgere il mio pensiero ad  L. Già! Quanto è strano quel ragazzino vero?
E pensare che all’inizio non lo sopportavo nemmeno e invece adesso è il mio migliore amico.                
Non  so se per lui è la stessa cosa: in effetti  ha una strana concezione dell’amicizia lui. Ma credo che dopo sei anni passati insieme, qualcosa la mia presenza deve aver pur fatto. Non è mai stato distante da me e per questo sono grata alla sua testardaggine: inseguirmi tutto il tempo gli ha giovato un po’ al suo spirito, per così dire.
Ed è soprattutto di lui che voglio parlarti, di L. E’ una richiesta che ti faccio con il cuore in mano: ti prego Wammy, non lasciarlo mai da solo. Ti sembrerà strano che te lo chieda, in quanto ne avevamo già parlato la scorsa volta. Ti dissi che L era solo ed io comprendevo il suo stato d’animo, ma adesso ci tengo a puntualizzare.                               
Ricordati Wammy, che a differenza mia, L è cresciuto senza l’’affetto dei genitori. Per quanto brillante sia la sua mente, non riesce a delineare la figura materna o paterna, quindi in mancanza d’altro si diletta a monopolizzare tutto ciò che lo circonda nella speranza di colmare questo vuoto.
L’ho capito sin da subito: la solitudine ricercata è solo una richiesta di aiuto. E’ un bambino Quillsh! Nei comportamenti, nei gesti … il suo strano modo di sedersi, ricordano molto quelli di un bambino. E’ un bambino che non piange, che non sa dischiudere emozioni semplicemente perché  non l’ha mai potuto apprendere.
La sua razionalità rappresenta l’’ostacolo ma anche la sua protezione contro la sofferenza.
Anche così va bene lo stesso: L è sempre L, no? Ciò che conta davvero è non abbandonarlo al se stesso, e vedrai che alla lunga imparerà ad apprezzare i sentimenti.
Ma lui già lo fa, dico bene Wammy?                                                                                                                                             
Non ho bisogno di aggiungere altro se non grazie Quillsh. Di tutto.                        
Ora tocca a te prenderti cura del mio cagnolino.”

 


La porta automatica si apre con uno scatto metallico. Watari si volta sulla sedia girevole:                              
-Ryuzaki? Che cosa c’è?                                                                                                                                        
Il ragazzo è insolitamente in piedi davanti a lui. Non parla, lo guarda soltanto. L’inglese aggrotta la fronte: - Allora che ti prende?                                                                                                                                
-Watari …
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fiato alle trombe mie cari lettori!! Posso affermare senza dubbio il termine di questa fic!! Sono felice e triste allo stesso tempo!!
Tuttavia questo è il momento dei ringraziamenti!!                                                     
Un particolare grazie va a coloro che hanno recensito la storia: MadLucy, chiaraelle99 e ParaJey99. Mi inchino a voi.                                                 
Ringrazio anche Metal Fearless e _montblanc_ , per aver messo la storia tra le preferite.
Un bacione a DPotter e Ketry per aver inserito la fic nelle seguite (oltre alle sopracitate ParaJey99 e chiaraelle99).
E ovviamente non potevo mancare voi lettori assidui ed anonimi, i quali avete seguito la storia fino alla fine.
Davvero grazie! E mi auguro che in futuro possa scrivere ancora.

L’autrice Donychan.

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