Anima nera

di ferti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Superbia ***
Capitolo 2: *** Male al cuore ***
Capitolo 3: *** Inferno in Paradiso ***
Capitolo 4: *** Romeo ***
Capitolo 5: *** Fantasmi ***
Capitolo 6: *** Dietro il sipario ***
Capitolo 7: *** Tre sigarette ***
Capitolo 8: *** 17 anni e 10 mesi ***



Capitolo 1
*** Superbia ***


-Superbia-
Fuori faceva freddo, le mani erano congelate e gli studenti si affrettavano ad entrare nelle aule per assaporare il tepore degli amati caloriferi, amanti insaziabili. Giulia era come al solito in anticipo, un anticipo clamoroso, ma in fondo le piaceva arrivare a scuola quei venti minuti prima. Sosteneva che la scuola era un mondo a parte quanto vigeva il silenzio assoluto e le sue aule non erano piene di teste ansiose e scosse da ormoni. Il liceo scientifico: la dimora delle paure di tutti, delle speranze ma anche della voglia di riuscire. Lei però non amava la scuola, non sperava e non temeva i professori o i voti. Lei amava osservare, ma non essere osservata. Passava costantemente in osservato, eppure memorizzava tutto. Diceva sempre che “osservare è il miglior modo per poter capire le persone” infatti a volte pareva che sapesse leggere nel pensiero.
 
Fu così che andai alla finestra, quella che era l’unica ancora di salvezza della mia giornata senza speranza, e non lo vidi subito.
C’era una ragazza vestita di azzurro, con dei lunghissimi capelli biondi ed una collana giamaicana, sembrava particolarmente agitata e fin troppo felice. Muoveva le mani in modo fluido, due sottili rami d’albero che si dimenavano come durante una tormenta, forse poteva apparire quasi esagerata se non si guardava e considerava il contesto che la circondava. Davanti a lei c’era un ragazzo alto, avrà avuto un paio di anni in più di me, forse di quinta per il piglio deciso. Capelli neri e portamento fiero, come un leone a caccia. Si guardavano in un modo a me troppo noto, lei lo desiderava, non lo amava perché se lo avesse amato lo avrebbe guardato negli occhi, avrebbe notato che lui la stava guardando e avrebbe distolto lo sguardo; invece la ragazza inclinò la testa leggermente a destra, strinse gli occhi e le labbra.
“Le persone sono facili” pensai,facendo l’errore più grosso della mia vita, e così lo vidi. Impassibile, imperturbabile, nero come la pece e come le notti più buie,con quella camminata strana: lo odiai all’istante. Si muoveva lentamente ma era fermamente deciso a non farsi capire da me. La mano stringeva in una morsa agghiacciante una sigaretta e lentamente la portava alla bocca aspirando ed espirando nuvole dense di odio puro. I suoi erano gesti automatici, semplici, meccanici, eppure sembravano sofferti e densi. Lo vidi che varcava il cancello. Dal balcone della mia classe si poteva controllare tutto il parco della scuola, era una posizione strategica per una come me. Entrato si fermò a salutare una brunetta, molto bella, forse anche una ragazza molto intelligente. La baciò sulla guancia e proseguì inesorabile il suo cammino senza sapere che una ragazza lo spiava dall’alto della sua torre (e della sua presunzione oramai disfatta dall’incontro con l’eccezione di tutte le definizioni). Quel ragazzo senza definizione non aveva nome, camminava consapevole della sua bellezza e conservava all’interno di quegli occhi neri un desiderio, una speranza oramai totalmente compressa dalla vita che scorreva lenta sul suo corpo,sulla sua stessa anima. Lo guardavano ammirate le ragazzine di prima come quelle di terza, era strabiliante e mi scosse dentro, tanto che quella notte lo pensai. I pensieri migliori vengono la notte, quando tutto diventa scuro e per potersi orientare si segue la luce proiettata dai sogni. Penso di aver dormito male quella notte, scioccata e confusa da quell’incontro così amaro e dolce allo stesso tempo.

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Capitolo 2
*** Male al cuore ***


-Male al cuore-

Erano tre giorni che nevicava costantemente e oramai le strade erano ricoperte da uno strato di una neve grigio-marrone che mi disgustava. Era uno di quei giorni in cui si dimentica la magia della neve e la si vede come un impedimento, da intonsa e candida anche quella sostanza così pura segue la massa e si tramuta in un anima nera che contamina le strade. Tornavo così scansando i cumuli di neve letamosa che incontravo, mi pareva un gioco. La strada per il ritorno era relativamente corta, la percorrevo almeno quattro volte al giorno, da sola. Attraversai la strada e prosegui con il solito passo lento e costante. Era una routine che si susseguiva giorno dopo giorno: mettevo le cuffie nelle orecchie, attraversavo la strada, saltellavo giù dal marciapiede e proseguivo a ritmo di musica fino a casa dove citofonavo e mio padre rispondeva sempre “Ma petite Juliet”. Quel giorno disse solo “Oh Juliet”, aveva spezzato la routine. Non ci feci caso, pensando che probabilmente si era gettato a capofitto nel suo lavoro di attore. Il mio nome era Giulietta fino a quel giorno. Sono nata durante la tournee di Romeo e Giulietta e mio padre aveva insistito per chiamarmi così. Subito dopo mia madre era scomparsa, una fuga d’amore con un altro attore.
Quando entrai in casa c’era odore d’incenso, quella qualità che avevamo comprato in India l’anno prima, mio papà era in piedi davanti allo scrittoio. La casa era diventata oramai il suo palcoscenico,ogni angolo era un viaggio o un personaggio. C’era la Londra ottocentesca, Verona, New York, Roma, Atene, Bombay, Nuova Deli ecc… Amavo quella casa, era lo specchio dell’anima dorata di mio padre. Ogni anima ha il suo colore. Lui è dorato perché la sua anima splende di una bontà che riflette tutte le altre e le trasforma. Lui era dorato come il sole dell’estate, era il mio Sole.

“papà cosa vuoi da mangiare?”,”Julie nulla ho già mangiato un biscotto e devo finire di riscrivere questa parte…”. Così si chiuse nel suo studio lasciandomi a mangiare da sola una pasta parecchio scotta,troppo poco condita che si appiccicava al piatto. Facevo fatica a deglutire, mi si chiudeva lo stomaco ad ogni boccone. Percepivo qualcosa ma non sapevo dargli una definizione. Avevo avanzato un piatto intero di pasta così decisi di portarla a papà. Mi diressi lentamente, come quando a Natale scendevo le scale in punta di piedi,sospirando e sperando di vedere Babbo Natale, verso lo studio di mio padre. La porta era socchiusa,la aprì lentamente lasciando cigolare i suoi cardini  poco unti e appena fui dentro lo vidi. Era sdraiato sul tappeto, una macchia rossa su un candido manto bianco. Poteva sembrare un quadro di qualche macabro pittore esposto sul mio pavimento, invece era l’ultima speranza di una vita felice che moriva. Si era sparato mi dissero in seguito,”aveva troppi debiti” sosteneva l’assistente sociale, “era stata lasciato dalla moglie con una figlioletta piccola ancora in fasce” continuavano le pettegole che accorsero solo per assistere ad una misera novità che poteva rallegrare la vita di un paese troppo monotono. Mio padre da anima dorata era diventata un anima nera, vuota. Il vuoto è nero perché quando chiudi gli occhi l’unica cosa che vedi è il nero, un nero senza confini, senza spessore e quindi vuoto. Con lui è sparito anche il riflesso d’anima che mi aveva regalato e anche la mia si è tinta di un nero forte, che sovrasta le mie paure e che crea coraggio nascondendo le emozioni.

Così cambiai il mio nome, volevo dimenticare ma non del tutto. Giulia era perfetto.  Andai di famiglia in famiglia, nessuno voleva una ragazzina di dodici anni che aveva visto la morte e che ancora portava con sé un frammento dello specchio che rifletteva la tristezza del vuoto.

Finì qui in questa scuola immensa, dove imparai ad osservare per evitare di trovarmi impreparata di fronte alla prossima persona che avesse voluto strapparmi via l’ultimo pezzo di me che era rimasto. Ho male al cuore ogni volta che smetto di fingere di essere assente e penso allo splendore che vivrei ogni giorno se il mio sole splendesse ancora; invece ha deciso di eclissarsi lasciandomi in un inverno perenne in cui tutto ghiaccia.










Ora probabilmente vi sarà molto più chiaro il titolo e soprattutto il comportamento di Giulia nel primo capitolo. Ora bisogna solo capire chi è lo sconosciuto che l'ha mossa dal suo letargo triste e doloroso. Chi sarà mai?
Alla prossima!

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Capitolo 3
*** Inferno in Paradiso ***


-    Inferno in paradiso-
“Bene ragazzi aprite il libro a pag 255… si parliamo dunque di rivoluzione…… persone… sì esatto Lombardi, gradirei che anche la nostra amica ci ascoltasse o almeno mi facesse credere di seguire… “ Non presto mai attenzione in classe, non sono una attiva nelle discussioni e non sono neanche una di quelle persone che non partecipa perché troppo intelligente per abbassarsi ai livelli dei poveri mentecatti che ancora seguono sperando di ottenere qualcosa. Io sono semplicemente assente. “Prof ci sono ci sono” “bene continuiamo” La lezione era la solita, lei parlava la Lombardi rispondeva. Ero stufa, mi mancava l’aria in quella classe piena. Così chiesi di andare in bagno e mi dimenticai di dirle che non sarei tornata. La mia scuola è talmente grande che la maggior parte degli studenti ne conosce se va bene un ottavo. I rimanenti sette ottavi sono i posti migliori, gli angoli nascosti, che solo chi si avventura trova. Il posto migliore in assoluto è solo mio, infatti ho rubato la chiave e solo io ce l’ho. Un giorno avevo bisogno di aria e decisi di andare al quinto piano per cercare un balcone o qualsiasi altra finestra che potesse farmi respirare a pieni polmoni. Così giunsi in un corridoio isolato, senza finestre e parecchio macabro. Il corridoio finiva con l’entrata alla vecchia biblioteca e una porta di servizio con tanto di cartello vietato l’accesso. Era la vecchia sala caldaie oramai inutilizzata. Dietro alla caldaia c’era un’altra porta, questa però era chiusa così andai a tentoni nel buio cercando una possibile chiave e la trovai attaccata ad un chiodo:“prevedibili,come al solito”. Quando aprì la porta scopri un mondo nuovo. Era una specie di balcone in cui probabilmente una volta i ragazzi leggevano d’estate seduti su quelle piccole poltroncine di vimini che oramai giacevano inerti in un’ammucchiata generale. Giorno dopo giorno ricreai quel piccolo paradiso solo mio e pian piano divenne un luogo perfetto per isolarmi dalla vita.

Uscì dalla classe e salì i quattro piani di scale che mi separavano dal mio piccolo paradiso. Aprì la porta che avevo prontamente riparato mesi fa e la richiusi dietro di me rimettendomi la chiave al collo. Mi addormentai su una poltroncina rannicchiata in una coperta nera che avevo trovato in uno dei tanti magazzini dimenticati da Dio e dalle bidelle. Non so per quanto dormì,ma quando mi svegliai davanti a me c’erano due occhi.

 Niente viso solo due occhi grandi e neri.

 Due occhi che mi guardavano stupiti e un po’divertiti. Probabilmente avevo dormito due ore e tutti se ne erano già andati, quindi perché c’erano quei due occhi lì a fissarmi? Avevo paura e chiusi gli occhi sperando che fosse solo il mio incubo peggiore. Quando li riaprì gli occhi non c’erano più,ma seduto davanti a me c’era un ragazzo. L’”eccezione” per essere più precisi. Quel ragazzo che avevo tanto osservato ora mi stava osservando: che sapesse del fatto che lo avevo spiato dall’alto? Si stava prendendo forse una sorta di vendetta? Impossibile. Io non sapevo chi fosse e tantomeno lui sapeva chi fossi. Tra me e me pregavo non decidesse di parlarmi, non sapevo cosa dirgli,speravo che credesse che io fossi un fantasma o una mentecatta che sale abitualmente sui tetti bigiando storia. Invece decise di contaminare il mio paradiso:“Ciao” disse con una voce molto cortese, non sembrava essere venuto solo per rovinarmi la vita. “Cosa ci fai qui?” risposi io poco garbatamente, non volevo salutarlo ne tantomeno sapere chi fosse, forse quello in un secondo momento,volevo solo sapere perché si era permesso di violare il mio segreto, il mio paradiso. “Scusa, dovevo fumare e mi hanno obbligato a fare il corso di teatro per lo spettacolo di gennaio. Ero su questo piano e ho visto la biblioteca aperta. Speravo vivamente che ci fosse un terrazzo e ho trovato questo posto. Non volevo svegliarti, ma toglimi una curiosità cosa ci fai qui tu?”-“Maledette bidelle, mai fare una cosa giusta”mugugnai tra i denti, probabilmente mi aveva sentito perché in un battito di ciglia strizzò le sopracciglia in una smorfia interrogativa. “In realtà io sono il fantasma” risposi stizzita, odiavo il suo modo di fissarmi. Aveva uno sguardo indagatore, non volevo che i suoi occhi scovassero il vuoto dei miei occhi troppo grigi. “e io sono Romeo” rispose serio. Non sapevo se scoppiargli a ridere in faccia o tacere e restare al gioco. Romeo Romeo Romeo… “Sono davvero Romeo e tu che sei un fantasma potresti benissimo raccontarmi cosa facevano tutti gli altri Romeo nei vari spettacoli che ogni anno mettono in scena qui per salvare qualche idiota dalla bocciatura certa”. Non Romeo,non Romeo. Il mio Sole era Romeo, lui e basta. Questo imbecille così vuoto non può essere minimamente paragonato al vero Romeo. “Nessuno si salva” risposi decisa “muoiono tutti per amore. Vuoi finire anche tu in questo misero inferno d’amore dipinto come se fosse il miglior paradiso?”. Attonito, avevo colpito i suoi occhi neri nel profondo. Percepivo l’eco delle mie parole come lame taglienti nel suo pensiero. “Preferisco morire avendo amato piuttosto che vivere consapevole di aver perso l’amore per non aver amato abbastanza”quel ragazzo era odio puro, lui non aveva paura. “Tu non sai cosa vuol dire amare” risposi acida. Non poteva saperlo. “Tu non sai cosa vuol dire morire per una persona amata, tu non ti uccideresti mai per Giulietta,oh Romeo dei miei stivali”. “Non puoi sapere come andrà la vita, vieni a vedere lo spettacolo tra due settimane e poi potrai dire se so o non so amare”.Rimasi a fissarlo per un istante:sarei andata a vederlo solo per capire se era davvero Romeo. Senza preavviso gli dissi ”Non sarai mai capace di diventare Romeo se non scopri la sofferenza”. Spavaldo e fiero mi guardò fisso negli occhi e mi disse”Insegnamela”.Eravamo a due sospiri di distanza:“Vieni con me”





Cosa avrà in mente di fare Giulia?
Recensite recensite recensite e soprattutto ditemi cosa ne pensate della storia. grazie a tutti
Al prossimo capitolo!
Ferti

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Capitolo 4
*** Romeo ***


-   Romeo-
La mia casa è un museo che parla solamente di me. Non che io sia un egocentrico, ma mia madre ama ricordare. Su ogni mensola, mobile o superficie c’è un ricordo immortalato in una fotografia e racchiuso in una cornice sempre ben spolverata. Oltretutto le fotografie sono ordinate in ordine cronologico, cosa piuttosto imbarazzante perché le persone appena entrano in casa nostra vedono un piccolo me che mostra il culo a mio padre sulla spiaggia(ero già un piccolo ribelle). Mia madre è la ragione di tutti questi ricordi, lei è una di quelle mamme che vedono i loro figli come piccoli pargoli indifesi. Inoltre mia madre Lucia è una donna super impegnata nel volontariato, tutti la conoscono perché fa parte di tutte le associazioni benefiche che si possono conoscere e in più è l’assistente sociale del paese. La mia casa è anche un porto, perché quella santa donna di mia madre sin da quando avevo quattro anni ha sempre portato i ragazzi che seguiva a casa nostra per tentare di far capir loro che lei voleva solo aiutarli. Ho visto esseri umani di tutti i generi: bambini che guardavano le mie foto spauriti e con gli occhi annacquati di lacrime, ragazzini con la faccia da duri che si appropriavano dei miei giochi, ragazze che si chiudevano a riccio non appena offrivo loro un biscotto, donne e uomini che arrivavano da noi solamente per trovare l’abbraccio affettuoso e efficace di mia madre.

[cinque anni prima]

Toc toc “arrivo ma’” urlai. Spensi la tele e aprì di corsa il libro di storia, non doveva vedere che non stavo studiando; odiavo profondamente quando la mamma mi sgridava davanti ai suoi “lavori a casa”. Quando aprì la porta vidi che anche questa volta mia mamma non era sola, con lei c’era una ragazza della mia età. Era nascosta per metà dietro al vestito firmato di mia mamma e riuscivo a vedere solamente due grandi occhi verdi che spuntavano luminosi da una pelle chiarissima. Non mi interessava chi fosse o cosa le fosse successo: più o meno avevo imparato a capire dagli occhi di tutte quelle persone cosa avessero passato. C’era chi aveva visto i genitori litigare e guardava mia madre e mio padre come se fossero degli alieni, c’erano ragazzi che erano stati allontanati dai genitori e che solitamente non collaboravano, ragazze molestate che incrociavano le braccia sul petto e  iniziavano a piangere singhiozzando e alla fine c’erano bambine e bambini che avevano perso i genitori: loro erano i peggiori perché avevano perso tutto e non sapevano dove aggrapparsi per poter continuare. La ragazzina entrò e subito guardò fissa il sedere di quel bambino sulla spiaggia e la sua faccia non si mosse neanche di un misero millimetro, ero quasi scocciato di non averla minimamente divertita. Solitamente tutti ridevano, ma quella ragazzina aveva gli occhi talmente bui che il loro verde brillante sembrava trasformarsi in un nero cupo ogni volta che fissava qualcosa. Subito mia mamma iniziò con la solita litania :”Ciao questa è bla bla bla … Noi siamo bla bla bla… lui è bla bla bla… Starai con noi per un paio di mesi bla bla bla… ci dispiace davvero tanto”. Concludeva sempre con un “ci dispiace davvero tanto” che suonava totalmente vuoto, una sorta di formula fissa di falsa cortesia che tutti intendevano e tutti apprezzavano,a quanto pare. Non sapevo la sua storia e non l’avrei mai conosciuta io con lei dividevo la stanza e il passaggio per andare a scuola, nulla di più. Eppure quella ragazzina aveva qualcosa di totalmente insolito: non parlava mai come tutti gli altri delle sue sventure;era una sorta di piccola donna che viveva sola in una casa di estranei.

Le sedute che faceva con mia mamma duravano poco, non riusciva a capirla e a volte sentivo la mamma che si sfogava disperata con mio padre perché questa ragazza non voleva aprirsi. Così una sera armato di coraggio e incazzato per il fallimento di mia mamma la chiusi in camera e iniziai a parlarle: “Senti tu, vuoi dirmi chi sei?”-“tua mamma te lo ha detto il primo giorno”-“Non intendo quello. Tu sei strana, non parli, mangi poco, a scuola non ti ho mai vista, non hai amici, non hai mai provato a parlare con nessuno e soprattutto hai sempre gli occhi tristi”(quanto ero stupido, non si parla così ad una ragazzina. Grazie al cielo ho imparato dai miei errori). Era immobile, mi fissava con gli occhi sbarrati, era bella. Le sue labbra erano socchiuse in una smorfia innaturale, dolore? Rabbia? Improvvisamente si sedette a terra, si rannicchiò e mise la testa sulle gambe. Non sembrava volersi muovere da quella posizione, così mi sedetti anch’io deciso a non mollare la presa, l’avevo in pugno me lo sentivo. Sembrava un tempo interminabile, lei seduta e io ad ascoltare il ritmo del mio cuore nel silenzio. Poi finalmente decise di parlare: “me ne andrò stai tranquillo. E’ questione di giorni e mi toglierò dalle palle. Non preoccuparti per me; tu hai una vita perfetta e Lucia è davvero una mamma coi fiocchi. Ti prepara tutti i giorni la colazione e le tue foto sono ovunque. Ora mi basta stare qui e sentire che almeno il tuo cuore batte”. “Ma dove andrai?”- “in qualche famiglia credo. Non ho nessuno come avrai capito”. I suoi occhi si fecero improvvisamente lucenti, riflettevano perfettamente la sua anima. Un’anima dura, un’anima di diamante. “Ma come ti chiami?”.

Me lo sarei ricordato per sempre il suo nome. L’avrei forse rivista? Non lo so. L’unica cosa che sapevo era che l’avrei ritrovata un giorno.  Se ne andò il giorno dopo. Non fu certo l’ultima ospite di casa, ancora adesso vedo ragazzi che entrano in casa e ridono del mio culo. Eppure lei è l’unica che mi ha colpito dentro.

“Ma come ti chiami?”
“Chiamami pure Giulietta”





Rieccomi! Cosa ne pensate di questo nuovo capitolo? Fatemi capire se vi piace, perchè sono indecisa se continuare la storia.
Ferti

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Capitolo 5
*** Fantasmi ***


-Fantasmi-

Lo portai giù per le duemila scale che ci separavano dall’uscita e ci ritrovammo nel parcheggio della scuola. “Tu hai il motorino?”- “Sì beh, ma non ho due caschi”.”quello ce l’ho io” dissi senza esitazione. Sapevo alla perfezione dove le ragazze avevano nascosto i caschi per bigiare con i vari ragazzi del momento. Era una sorta di tesoro comune,di comunità femminile associata inconsciamente da delle menti romantiche. “Grazie ragazze”pensai sorridendo e tornai vittoriosa con in mano un casco a fiori blu e bianchi. La sua faccia era spettacolare: era sbalordito.

“Andiamo”

Aveva una di quelle moto scure,classiche, costose, da ragazzo per bene. Non mi stupiva affatto, in fondo lui era quel ragazzo che avevo visto dall’alto della mia finestra, che tutte amavano senza motivo. Salimmo sulla moto e partì subito a razzo; “è un idiota; non sa neanche dove andare”pensai, ma in quell’istante mi prese le mani e si cinse i fianchi con un gesto così naturale che mi venirono i brividi. Quella sua disinvoltura rivelava che su quella moto ci erano salite troppe ragazze. Cosa ci facevo lì? Da quando mi buttavo senza creare una nuova stratificazione alle mie mura oramai indistruttibili? Lo odiavo immensamente e gli avrei fatto capire perché non poteva essere Romeo. Così mi avvicinai al suo orecchio e gli dissi lentamente l’indirizzo di quello che era una volta il mio luogo preferito.


Svoltai mille volte prima di arrivare dove voleva quella ragazza. Mi aveva portato davanti ad un cancello, ferro battuto, direi vecchio con un catenaccio arrugginito e delle incisioni di fianco al campanello. Lei era il fantasma, non mi sarei aspettato luogo migliore. Con un colpo secco aprì il cancello e mi fece entrare per richiuderselo alle spalle con un lamento. Il giardino era immenso, rose, tulipani e fiori di ogni genere crescevano in piccole aiuole e una parte della casa era ricoperta dall’edera. Sulla porta d’ingresso c’era un cartello, pareva un sigillo della polizia. Mi fece entrare da una porticina sul retro, la casa era grande e piena di oggetti strani che sapevano di viaggi e di felicità. “cosa ci facciamo qui?” chiesi con un bisbiglio leggero, manco fossi in chiesa. “Qui è iniziato tutto”, mi prese una mano, un nano secondo e senti che era viva, pulsava e le sue mani erano calde. Probabilmente in quella casa non ci entrava nessuno da tempo; i mobili erano ricoperti da uno strato di almeno due centimetri di polvere e piccole impronte di animali si distinguevano sul pavimento di fianco alle nostre. Mi lasciai guidare come un bambino in un luna park fino ad una porta bianca, l’aprì e per l’ennesima volta si aprì lamentandosi con un cigolio quasi spaventoso. La stanza era buia e non distinguevo dove ci trovassimo così mi lasciò la mano e si diresse sicura verso una finestra e la spalancò: era una specie di mercatino delle pulci. Sulle mensole c’erano fogli ammucchiati, incenso e maschere d’ogni tipo. Con circospezione guardai tutte quelle cose finché non abbassai lo sguardo e notai il tappeto. Era bianco e nel mezzo una macchia rossa sbiadita dal tempo, ma pur sempre macabra. Non mi guardava e si torceva le mani tranquillamente. Con un gesto naturale si sedette su una poltrona scostando il telo bianco che la copriva. Era tutto bianco tranne la macchia sotto di me. “Cosa è successo qui?”- “vedi quella macchia rossa? E’ tutto l’amore che mi è rimasto, è la certezza che qualcuno mi ha amato”. I suoi occhi verdi vibravano in tutto quel bianco, sembrava che esistessero solo loro in quel vuoto. “chi era?” “Mio padre”. Ora era in piedi di fronte alla finestra e guardava fuori con il mento alto.


Perche gli stavo dicendo tutte quelle cose? Ah già voleva essere Romeo.
Una frazione di tempo impercettibile e sentì calore divampare nel freddo di quella casa vuota abitata dai miei demoni. Era li che mi cingeva i fianchi e immergeva la sua testa tra i miei capelli neri. I fantasmi scomparirono per un istante e probabilmente il mio cuore perse dieci chili di paure, c’era luce ovunque anche se oramai il Sole era tramontato da cinque anni.






Ciao a tutti, scusate il ritardo ma mi ero totalmente bloccata. Ho provato a buttare giù un nuovo capitolo: che ne dite?! Fatemi sapere, bacioniii

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Capitolo 6
*** Dietro il sipario ***


-Dietro il sipario-

“Forza Leo ripeti con me la battuta e poi procediamo con il secondo atto…”: la professoressa di recitazione aveva due grossi occhi perennemente circondati da una linea netta di matita verde, che spiccavano su quella corporatura esile,minuta, quasi infantile. Era insostenibile con quella vocina che ti entrava nella testa e non ne usciva più. Ogni pomeriggio dovevo rimanere a scuola per questo benedettissimo spettacolo che forse avrebbe potuto salvarmi il culo alla fine dell’anno. Non ne ero sicuro, ma piuttosto che essere cannato preferivo sorbirmi quel folletto della Macchioli che mi ripeteva di fare una piroette di qua, un inchino di là,una riverenza ad una dama o qualche altro atteggiamento che Romeo probabilmente avrebbe trovato normale al suo tempo. Alla fine mi avevano assegnato la parte di Romeo e mi ero quindi trovato a dover imparare un copione interminabile e a fingere di baciare una ragazza di terza, piena di piercing e perennemente di cattivo umore. Si chiamava Diletta e come tutti gli altri era lì solo per ricevere qualche credito extra per migliorare la sua situazione scolastica disastrosa. Eravamo, insomma, una banda di buoniannulla. Era quasi impossibile non fermare una scena ogni due per tre per correggere qualche pronuncia assurdo o la malavoglia di quei quattro attorucoli.Non l’avevo vista più. Ogni giorno speravo che comparisse il fantasma e mi portasse in qualche posto spettacolare che solo lei conosceva. Invece i giorni passavano e io tentavo inutilmente di concentrarmi su questa parte che così poco mi si addiceva. La Macchioli sosteneva che avrei dovuto avere un rapporto più intenso con Diletta, così decisi di chiederle di uscire. Ogni sabato sera uscivo con una ragazza diversa, tornavo a casa ubriaco oppure non tornavo direttamente. Ero sempre stato un grande bugiardo e mia madre presa com’era dal suo lavoro non faceva altro che adularmi. Non avevo nessun problema insomma. In quel periodo frequentavo una certa Vanessa, una bionda da paura, tutti la divinizzavano eppure lei era cotta solo di me. Spessissimo mi chiamava e andavo da lei. “Leo rimani qui con me” “No devo andare”. Non la guardavo mai in faccia, facevo quello che voleva che facessi, uscivo, fumavo una sigaretta, liberavo i polmoni, prendevo le mie cose e me ne andavo così come ero venuto. Un animale insomma. Tutto istinti e basta. Ebbene decisi di invitare Diletta al Fiesta quel sabato. Era il mio locale preferito, andavamo tutti lì perché il proprietario non aveva mai fatto storie e ci riservava sempre un piccolo baldacchino. La andai a prendere,”cazzo” pensai quando la vidi arrivare “dove le hai nascoste queste tette tutto questo tempo?”; probabilmente il mio sguardo mi tradì poiché fece spallucce e mi disse”Senti non fissarmi, andiamo e basta”. Non mi piaceva, in fondo aveva un carattere di merda diremmo, tutto arroganza, presunzione, tatuaggi e piercing. Non che abbia qualcosa contro i tatuaggi ma lei era una ragazzina fasciata in una pelle che tentava di essere trasgressiva in un modo a volte buffo. Nonostante questo era seduta dietro di me sul motorino e sfrecciavamo nel traffico notturno. “Bella Leo! Stasera che amichetta ci porti”, Gigi era sempre il solito pirla “la mia giulietta Gigi. Ti ho detto che la Macchioli vuole che ci sia feeling. Io le farò conoscere la mia vita lei la sua”. Sentenza. Da quando ero così risoluto? “Aò Le abbonazza la tua Giulietta” altro cretino: Lorenzo. Non ne faceva una giusta ma faceva ridere e questo bastava. Tenevo Diletta stretta a me, non doveva finire con quei marpioni dei miei amici; non me ne fregava nulla di lei ma dovevo portarla sana e salva a casa sennò la bocciatura sarebbe stata terribilmente vicina.
Vanessa era a due schioppi, un vestito leopardato cortissimo l’avvolgeva. La solita pensai. E’ già ubriaca. Mi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio”Amore vieni via con me, lascia qua questa piccola dark” “no scusa, stasera sono uscito con lei quindi ci vediamo dopo, promesso”. Lo sguardo di Diletta mi ringraziava sotto due chili di matita e eye-liner. La serata iniziò. Bevevamo alla grande inneggiando “bevo,bevo,bevo bevo bevo, mi ubriaco e son felice anche se poi vomito”. Terrificante, distruttiva come cosa. Diletta saltellava felice. Ero stufo dovevo andare a respirare. Così presi la solita  scorciatoia per uscire passando dal bar. Fu lì che la vidi. Il fantasma era al bar, aveva i capelli raccolti, gli occhi verdi leggermente truccati e stava preparando drink a due ragazzi che ci provavano spudoratamente. Seria, professionale, impeccabile. “cosa ci fai qui?” “come cosa ci faccio qui?Ci lavoro.”. Non mi aveva riconosciuto, guardava dei cubetti di ghiaccio a forma di stella e li metteva a uno a uno in bicchieri colorati. “Fantasma”. Alzò gli occhi come se qualcuno l’avesse appena scoperta nel commettere un reato. Mi aveva riconosciuto ora. “cosa ci fai qui?” mi chiese con gli occhi spalancati più verdi del solito “Ci vengo ogni sabato sera. Ti va se usciamo un secondo?” “va bene”. Appallottolò il grembiule e mi seguì verso la veranda. In quel luogo tutto era blu e il soffitto era cosparso di piccole stelle fosforescenti, c’erano anche le costellazioni. Le chiesi dove era stata, che cosa aveva fatto,perche non l’avevo più vista. Avevano scoperto la sua piccola oasi, l’avevano sigillata e così aveva deciso di non girare più quell’ala della scuola. Lei era sempre stata a scuola ma io non l’avevo più vista. Era un fantasma d’altronde. L’abbracciai come l’altra volta e la lasciai andare. Doveva lavorare.
Quando tornai dentro Vanessa era già seduta su un divano con un altro ragazzo e Diletta necessitava aiuto. “leo leo leo senti devo parlarti” “va bene dai andiamo a prendere un bicchiere d’acqua che ne dici?” dissi nel tono più gentile che avessi mai usato. Mi seguiva come un cagnolino, ogni tanto mi strattonava per la maglietta e rideva. Dove era finita la darkettona tutta timida, scontrosa e acida?! E’ proprio vero che l’alcol fa miracoli. “senti puoi portarmi un bicchiere d’acqua?” dissi ad uno dei baristi. “senti leo, lo avrai capito.” Mi baciò così all’improvviso, con gli occhi chiusi e i pugni stretti lungo le cosce. Era troppo ubriaca per essere terrorizzata da quel gesto di cui si sarebbe presto pentita. Alzai lo sguardo dai capelli neri di Diletta e vidi due occhi che mi fissavano. Verdi. Era lì che mi guardava con il bicchiere in mano, aveva gli occhi di chi capisce tutto e non mostra nulla. Di chi ha un segreto ma ha deciso che rimarrà suo e sboccerà solo nel silenzio dei suoi pensieri.
La mia Giulietta non era quella con il vestito attillato che si era avvinghiata a me, la mia Giulietta stava scappando e io non me la sarei persa sta volta

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Capitolo 7
*** Tre sigarette ***


-Tre sigarette-
Non so perché ho reagito così. Sono scappata. Una ragazzina, stupida come tutte le altre. Non mi aspettavo che avrebbe invaso così la mia vita. Maledettissimo ragazzino viziato. Io me lo ricordo, eravamo piccoli, ma aveva gli occhi cattivi, di chi sa di poter avere ciò che vuole. Comunque ho deciso di andarmene, ho detto ad Alessandra, la ragazza del bar, che avevo bisogno di una pausa e sono uscita. Ho preso la bicicletta e ho iniziato a pedalare. Nessuna meta, solo aria nei polmoni. Quando finalmente sentì di essere arrivata abbastanza lontana, mi fermai esausta. Ero vicino all’autostrada. Non faceva troppo freddo, il giusto. Quel freddo che entra nelle ossa, come quando perdi qualcuno di importante e ti senti vuota per un istante. Appoggiai la bicicletta ad una transenna e mi sedetti su una panchina. Ero finita in uno di quei parchi piccolissimi creati solo per dare la soddisfazioni agli ecologisti di cinque metri quadrati di verde tra le foreste di cemento dei grattaceli. Avevo bisogno di respirare, odiavo fare la barista il sabato sera, ero sempre fuori luogo tra i miei coetanei che mi chiedevano drink su drink per divertirsi e andare a scuola il lunedì e ridersela con i compagni delle cazzate fatte. Tirai fuori una sigaretta, non ero una fumatrice. Semplicemente amavo riempirmi i polmoni di male quando ero da sola in posti come quelli. Buttavo fuori male concentrato e pian piano mi svuotavo del male che altrimenti mi avrebbe fatto implodere. Sbuffavo tremando per il freddo, mi passavo la sigaretta da una mano all’altra perché le dita congelavano. Le macchine sfrecciavano, vedevo le scie delle luci riflesse nella barriera dell’autostrada. Erano le quattro oramai. Potevo dire addio al mio lavoro. Ce l’avrei fatta comunque. Ero distrutta: le mie giornate erano fatte di corse contro il tempo per arrivare ai miei mille lavori in tempo. Perché non avevo una vita normale? Perché io non potevo uscire il sabato sera come gli altri? Perché quel ragazzo si era intrufolato nel mio equilibrio? Dormì credo quattro ore, mi svegliai che era giorno, mattina. Pensavo che sarei morta congelata invece ero viva e vegeta. I miei due mozziconi di sigaretta ai piedi della panchina e due piedi di fianco a me. Non ero sola. Non posso negare che ero tremendamente spaventata da quei due piedi che spuntavano di fianco ai miei. Ero troppo addormentata per rendermi conto che non c’erano solo due piedi. C’era una persona,non era semplicemente seduta di fianco a me, mi abbracciava e mi aveva scaldato. Perché qualcuno avrebbe dovuto preoccuparsi per me. Alzai lo sguardo per cercare il viso di quelle mani forti e lo vidi: dormiva ancora.

Leo.

Era lì, con me. Sembrava uno di quei film strappalacrime che le mie compagne vedevano troppo spesso, io non potevo esserne la protagonista, semmai ero una comparsa, una di quelle che prendono per fare le scene di spalle, per fare la passante o qualche ruolo inutile. Come le comparse me ne sarei andata, sarei sparita. Lui non doveva essere lì. Presi un’altra sigaretta e la consumai velocemente cercando di trovare il coraggio di andarmene. Poi scivolai velocemente fuori dalla sua presa e iniziai a pedalare più velocemente del solito, lasciando al mio posto un mozzicone ancora fumante. Ero una comparsa, nulla di più. 

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Capitolo 8
*** 17 anni e 10 mesi ***


-17 anni e 10 mesi-

La mia casa era semplicemente un posto in cui stavano tutti i ragazzi senza genitori come me, un orfanotrofio moderno senza orari e suorine ingessate che pretendono preghiere o altro. Era un bel posto, era un casolare all’interno del parco della scuola, che riusciva a sopravvivere solo grazie ai soldi di un anonimo donatore che ogni anno regalava agli studenti che vivevano in quella casa un libro di aforismi sulla vita. Nessuno sapeva cosa volesse significare ma accettavamo quei libricini senza farci problemi e li accumulavamo sulle mensole nelle stanze. Si occupavano di noi dei ragazzi poco più grandi che in realtà erano più degli amici che degli educatori. Emanuele era quello che vedevo più spesso,non mi sgridava mai per gli orari, sapeva che ce la mettevo tutta e mi spronava. La mattina dopo quella sera così strana, entrai in punta di piedi nel dormitorio, non volevo che gli altri spettegolassero qualcosa sotto voce negli angoli dei corridoi. Al mio ritorno però nella mia stanza trovai Emanuele addormentato sulla poltrona rossa di fianco alla finestra. Lo scossi un po’ brutalmente per svegliarlo, era rimasto lì ad aspettarmi tutta la notte?? “Ema che succede?? Cosa ci fai qui??” gli chiesi cercando di essere più dolce possibile-“Giulia avevo bisogno di parlarti. E’ arrivata una lettera per te, sembra importante… Volevo dartela di persona”. Aveva in mano una busta elegante, in cui era scritto a caratteri svolazzanti e precisi il mio nome e l’indirizzo della scuola. “Grazie Ema”. Lo feci uscire senza troppe cerimonie, quella lettera palpitava sotto le mie dita. Chi era? Chi poteva sapere della mia esistenza? Maledizione. Non ci voleva. Sono anni che riesco a vivere in pace con tutti e con me stessa: arriva quel cretino che pretende di sapere tutto di me e tutto va in rovina.
Ero agitata. Decisi di riempire la vasca di acqua calda e schiuma e di leggere immersa in quella piccola oasi di pace che mi aiutava sempre nei momenti critici. Ogni volta facevo così, immergevo il mio piccolo corpo nell’acqua e andavo sotto per qualche secondo, aprivo gli occhi e guardavo il soffitto a macchie bianche e grigie (che in realtà erano macchie di muffa e umido) da sotto. Mi sembrava ogni volta di ritornare nella pancia di quella mamma a me così sconosciuta e lontana. Si creava così un legame indissolubile, una specie d’istinto animale che unisce i cuccioli alla madre.
Presi la lettera e la gettai sul pavimento, misi il piede nella vasca e nonostante l’acqua fosse bollente mi ci gettai tutta d’un fiato. Guardai per un attimo il soffitto e poi decisi di aprire quella busta. Aveva l’aspetto di un invito formale, una lettera mandata ad una gentildonna per invitarla ad un qualche evento di gala. Con l’indice sfiorai il lembo superiore della busta e con un movimento secco l’aprì, non volevo rovinare il mio nome scritto in quei caratteri così inusuali. Nella busta c’erano un foglio e una busta più piccola. Decisi di partire dal foglio; era scritto con lo stesso carattere della busta.



Carissima Giulietta,
mia piccola innocente stella del cielo.
Finalmente posso scriverti, in realtà ti scrivo in anticipo rispetto ai piani. Non voglio sconvolgerti con la verità, quindi ti racconterò tutto dal principio, come se fosse una delle più belle favole.
Quasi cinquanta anni fa oramai (quanto tempo è passato, eppure mi sento ancora una giovincella!) ,conobbi un uomo, il più bello, il più gentile. Passeggiavo con la mia vicina dopo pranzo per le vie del centro della città in cui vivevo, quando un ragazzo attirò la mia attenzione. Aveva dei luminosissimi occhi verdi, come i tuoi se mi ricordo bene, e un sorriso che avrebbe infranto il cuore a tutte le ragazze dell’Italia se solo lo avessero visto. Passando decisi di lasciar cadere un fazzoletto con le mie iniziali. Volevo che mi trovasse, così nei giorni seguenti passeggiai più spesso in quella via per essere rintracciata. La settimana successiva mio fratello mi portò in un caffè per farmi conoscere alcuni giovanotti che giocavano a golf con lui e lo vidi. Era appoggiato al bancone con l’aria assente. Passai davanti a lui senza curarmi del suo sguardo ma, improvvisamente ,una mano mi toccò e sentì la più bella sensazione del mondo percorrermi la schiena. Quando mi girai capì che aveva il mio fazzoletto; probabilmente lo folgorai perché rimase a guardarmi per un secolo e poi mi chiese se l’oggetto che teneva in mano fosse mio. Quel ragazzo divenne mio marito, ci sposammo cinque anni dopo e dal nostro amore nacque un bellissimo bambino. Bello come le più luminose stelle del cielo, aveva i tuoi occhi: limpidi, verdi come i prati della campagna inglese in cui avevamo una tenuta e in cui andavamo ogni estate. Quante volte, durante quelle bellissime vacanze , tornava da una scampagnata con le ginocchia sbucciate e con quanto amore io gli medicavo le ferite e gli asciugavo le lacrime! Tuo padre era il bambino migliore che potessi desiderare, ma con il tempo arriva tutto: l’adolescenza, i colpi di testa, la scuola e i primi amori. Decise di frequentare la scuola di recitazione e glielo permettemmo, lo amavamo troppo. Iniziò la sua carriera con tantissimi alti e bassi. Andavamo a tutti i suoi spettacoli e stavamo male ogni volta che il pubblico non apprezzava quello che noi credevamo fosse geniale. Iniziò la depressione, le pillole, le corse in ospedale nel mezzo della notte, le nottate passate di fianco al suo letto. Gli occhi di tuo nonno si stavano spegnendo, il male della nostra piccola stella aveva contaminato tutti. Poi improvvisamente ecco comparire nella vita di mio figlio tua madre. Isabella era una bellissima ragazza, esile, con delle mani lunghissime e bianche e dei capelli lucenti neri lunghissimi. All’iniziò portò luce nella vita di tuo padre, lo fece uscire dalla depressione e insieme partirono in tournè, andarono a vivere nella tenuta in Inghilterra. In poco tempo Isabella distrusse la nostra famiglia: costrinse tuo padre ad avere sempre più bisogno di soldi.

Litigammo.

Da lì a poco tempo nascesti tu, piccola stella e tuo padre era felicissimo. Eri un piccolo miracolo, una bambina con la pelle della luna e gli occhi come i campi d’Estate. Ci mandava le tue foto e ogni volta eravamo fieri del nostro amore. Poi tua madre lo lasciò. Isabella partì con Fernandez, il migliore amico di tuo padre. Ricominciò tutto: le pillole, l’alcol e le corse in ospedale. Però dopo poco tu diventasti l’unica ragione della sua vita, tu , mio piccolo miracolo, lo feci uscire dalla depressione e con le tue risate stridule lo feci continuare a vivere. Dodici anni dopo, poco prima che decise quello che decise ci scrisse una lettera che trovi nella busta celeste. La lettera era divisa in due parti, nella prima parte rivolta a me e a tuo nonno, tuo padre ci fece promettere di scriverti solo al compimento dei tuoi diciotto anni. Non voleva che la tua infanzia fosse turbata da sensi di colpa, voleva scomparire dalla tua vita per darti la possibilità di vivere veramente senza il peso di un padre che dentro era vuoto. Sosteneva di avere un anima nera e che la tua purezza doveva essere conservata intatta, perché la tua bellezza era l’unica cosa positiva della sua vita. Non voleva neanche che noi ti cercassimo. La seconda parte, ancora sigillata, è indirizzata a te.

Ti preghiamo di perdonarci nostra piccola Giulietta, ci piacerebbe che tu venissi a trovarci. Ti manderemo presto un biglietto d’aereo per raggiungerci in Inghilterra.
Con infinito amore, i tuoi devotissimi nonni

 
La lettera era oramai fradicia, non per l’acqua della vasca, ma per le mie lacrime. Piccola stella. Loro erano la mia famiglia? Avrei accettato di collegare quelle due anime ai miei 17 anni e 10 mesi?
 

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