Blake.

di Ariadne_Bigsby
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Anger ***
Capitolo 2: *** Loss. ***
Capitolo 3: *** Fear. ***
Capitolo 4: *** Discover. ***
Capitolo 5: *** Reckoning ***
Capitolo 6: *** Rejection ***
Capitolo 7: *** Intuition ***
Capitolo 8: *** The Dark Knight ***



Capitolo 1
*** Anger ***


Allora, un po’ di spiegazioni: sono una grandissima fan di Batman, tempo fa mi ero cimentata con un ipotetico sequel di “The Dark Knight”, immaginando una Gotham in balia dei due pazzoidi numero 1, ovvero Joker e dolce metà, Harley Quinn. Ben presto ho realizzato che avrei rischiato di fare uno schifo un gran casino e ho abbandonato la FF.

Ho visto il sequel da poco uscito “The Dark Knight Rises” per tre volte e per tre volte ho pianto come una disperata (sono un caso grave), mi sono venuti i brividi, mi sono emozionata come un’adolescente alle prese col suo primo amore.

Arriviamo al sodo: fra tutti i personaggi (oltre a Batman, che rimane il mio amore super-eroico di sempre) sono rimasta colpita da uno in particolare, ovvero John Blake. (interpretato dal quel gran gnoccone da un eccellente Joseph Gordon-Levitt.) Cosa mi ha colpito di Blake? In realtà, essendo io stessa attrice, facevo molta attenzione alla recitazione, alla mimica etc. (deformazione professionale) ma una scena  in particolare ha catturato la mia attenzione, ovvero la scena in cui John Blake parla con Bruce Wayne e gli dice di  aver capito la sua identità. La scena non era basata solo su questo, il caro John parlava della sua infanzia, della sua rabbia repressa, in quanto orfano di genitori morti in circostanze che possono essere “assimilate” a quella di Bruce. Mi ha colpito molto il suo discorso sulla rabbia, sui suoi sentimenti e di come sono serviti per determinare il finale del film. (Attenzione, stiamo entrando nella zona SPOILER)

Dunque, cosa ho fatto io? (“Ho preso il paladino di Gotham e l’ho trascinato al nostro livellooo..”Scusate, non ho resistito) Data la mia passione per tutto quello che riguarda l’introspettività e i trascorsi dei personaggi, ho cercato di ricordare per bene il monologo di John Blake (cavoli, dopo aver visto 3 volte il film, qualcosa ricorderò) e l’ho trasformato in questa Ff che state per leggere. E’ divisa in capitoli, anche se avevo pensato di fare una One-shot (che sarebbe diventata una specie di poema epico) ed ognuno di questi riguarda un pezzettino del discorso di John Blake. Chi ha visto il film forse li riconoscerà!

Soliti bla bla bla: "The Dark Knight Rises" e personaggi non mi appartengono, bla bla bla, non è a scopo di lucro e bla bla bla.

 

AVVENTUROSI ATTENZIONE!

Non cominciate se non intendete finire (cit. “Jumanji”), se non volete spoilerarvi il film (come è successo a me…TT__TT) non la leggete. Se siete masochisti fate pure. Se siete bravi mi lascerete un commento . Il migliore riceverà in premio John Blake. (no scherzo. Me lo tengo io, gli voglio troppo bene. )

Hasta la vista, baby!, (stasera ce l’ho con le citazioni).

 

 

 

                  Anger.

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Il cortile era sovraffollato e rumoroso. Le grida dei bambini che giocavano riuscivano a sovrastare il rumore delle macchine che circolavano svariati piani sotto di loro.

 

Era il primo pomeriggio soleggiato, dopo una lunga serie di giornate piene di neve e di pioggia, giornate fredde, di un inverno che durava troppo a lungo e gli insegnanti del St.Switin’s avevano pensato bene di far prendere una boccata d’aria ai bambini, smaniosi com’erano di correre e giocare sulla terrazza dell’orfanotrofio, per quanto lo spazio glielo consentisse

 

Alcuni bambini parlavano tra di loro in modo concitato, seduti sulle panche poste contro la recinzione che delimitava la terrazza/cortile, battendo ogni tanto i piedi per riscaldarsi, le guance arrossate dal freddo, altri giocavano alla “campana” tracciando disegni con gessetti rossi e  bianchi, altri ancora leggevano, i più scalmanati si lanciavano la neve rimasta sul cemento e scivolando sul ghiaccio formatosi in più punti. I pochi adolescenti che erano rimasti ( di solito, al compimento dei 16 anni, i ragazzi potevano scegliere se rimanere e continuare la scuola, oppure lasciare il nido che li aveva protetti fino a quel momento e cercare di farsi una vita a Gotham) sedevano in disparte fumando di nascosto sigarette rimediate con dei piccoli espedienti o conversando fra di loro.

 

Nell’atmosfera di euforia generale, nessuno pareva fare caso a un bambino seduto in disparte, lontano da tutti gli altri, con le braccia piegate sulle ginocchia e lo sguardo fisso a terra, e a lui stava benissimo così. Gli piaceva questa specie di invisibilità, non aveva alcun interesse nell’unirsi ai giochi degli altri.

 

Aveva circa 10 anni, ma ne dimostrava meno, a causa della sua piccola statura. Strusciò le mani, coperte da guanti rossi a mezzo dito, sulle ginocchia, girando la testa verso quello che gli sembrava un universo a parte.

 

“Come fanno ad essere così felici?” si chiese, osservando due bambini che avevano tutta l’aria di stare divertendosi un mondo, neanche fossero in un parco giochi e non in una squallida terrazza con erbacce fra le crepe del cemento, due altalene e uno scivolo arrugginiti e le barriere del parapetto piene di buchi, anche quelli dovuti alla ruggine.

 

Il bambino sospirò, e una nuvoletta di condensa gli si formò davanti alla bocca.

 

 Era lì dentro ormai da due settimane, ma sapeva che non ci si sarebbe mai abituato. Odiava q uel posto.

 

In realtà, nessun posto gli sarebbe piaciuto: sia che fosse un cupo orfanotrofio nel centro di Gotham, con le sbarre alle finestre come all’Arkham Asylum, sia che si trovasse in un accogliente appartamento.

 

Uno degli insegnanti dei bambini, Padre Shannon, un uomo di 35 anni, dai capelli neri che stavano cominciando a diradarsi e ingrigirsi, notò quel bambino isolato da tutti, che sembrava perso nei suoi pensieri e gli si avvicinò piano, carezzando sulla testa i bambini che si trovavano vicino. Il bambino non batté ciglio, ma continuò a fissare gli altri con sguardo vuoto.

 

“Tutto bene?” esordì Padre Shannon in tono gentile.

 

Il bambino alzò un attimo gli occhi  per guardarlo, annuì in fretta e si girò nuovamente verso i bambini.

 

“Non ti va di andare a giocare con gli altri?” lo incoraggiò l’uomo.

 

“No.” Fu la secca risposta.

 

“Va bene..” Padre Shannon annuì con fare conciliante “allora, magari vuoi un bel libro da leggere! Ne è appena arrivato uno nuovo, molto divertente..” si bloccò un attimo e pensò che forse quel bambino non aveva ancora l’età per capire bene un libro “o magari vuoi un bell’albo da colorare!”

 

“No. E non voglio colorare, non ho 5 anni..” sbottò il bambino, lanciando a Padre Shannon un’occhiataccia.

 

“Scusami, è che non ti conosco. Sei nuovo qui, vero?” Padre Shannon si sedette sulla panchina, sorridendo.

 

“Sì.”

 

“Da quanto?”

 

“Due settimane. Prima stavo con dei tizi, con una famiglia, ma mi hanno mollato qui” rispose il bambino in tono amaro.

 

Padre Shannon lo vide stringere i pugni, mentre lo diceva.

 

“Capisco. Beh, allora forse è il caso di conoscerci meglio, non credi? Io sono Padre Mattatias Shannon e tu sei…?”

 

Ci fu un attimo di pausa, poi il bambino rispose “John Blake.”

 

“John Blake, eh?” ripeté Shannon, estraendo dalla borsa il regist ro con i nomi di tutti i piccoli ospiti dell’istituto.

 

John Blake trattenne il respiro, guardando nervosamente l’indice dell’uomo che scorreva sulla lista, cercando il suo nome. Quando Padre Shannon lo guardò, con aria interrogativa, lui si morse il labbro.

 

“John Blake hai detto? Ma, è il tuo cognome o quello della tua famiglia adottiva?”

 

“E’ il mio..”rispose Blake a voce bassa.

 

“Beh, è strano! Qui c’è un John Cain e un John Maislee, ma nessun John Blake.”

 

Blake si morse di nuovo il labbro e, senza volerlo, assunse un’aria colpevole che non passò ignorata da Shannon.

 

“Allora…non vuoi dirmi chi sei?” gli chiese in tono gentile. Quante volte aveva avuto a che fare con bambini del genere, che si rifiutavano di usare il loro cognome, usando quello della famiglia adottiva, quasi a voler rinnegare le loro origini?

 

“Robin. Mi chiamo Robin Blake..” cedette alle fine il  bambino, abbassando gli occhi.

 

Padre Shannon fece un verso compiaciuto, quando vide il nome del bambino nero su bianco. “Robin Blake..” ripeté, come se gli piacesse il suono “Robin. Bel nome!” esclamò, allungando la mano per scarruffare i capelli del ragazzino.

 

Robin si irrigidì, per tutta risposta, e scosse impercettibilmente la testa, come per indicare a Shannon che il suo gesto non era gradito. Lo guardò dritto negli occhi e disse a voce bassa “Non voglio che mi chiami così. John Blake va benissimo.”

 

“Non credo che…”

 

“Blake.” Scandì il ragazzino, a denti stretti.

 

A quel punto, Shannon si alzò in piedi e si allontanò, senza spiegarsi il perché di questo suo gesto, chiamando i ragazzi e dicendo che era l’ora di rientrare.

 

John Blake si unì alla coda di ragazzini, senza schiamazzare, senza agitarsi. Calmo, una calma innaturale in un bambino così piccolo.

 

Più tardi, quella sera, il piccolo Blake si rigirava nel letto, senza riuscire a prendere sonno. Lui ci stava provando veramente a seppellire tutto, ma proprio non ce la faceva. E quel nome non faceva che ricordargli cose che non voleva più ricordare.

 

Da qualche parte, nell’istituto,Padre Shannon capì perché si era allontanato così in fretta da quel ragazzino taciturno. Non era stato un “dargliela vinta”, no.. Padre Shannon era rimasto sconcertato dallo sguardo che quel ragazzino gli aveva lanciato. Uno sguardo adulto, una sguardo che tradiva una rabbia silenziosa, una rabbia che ribolliva sotto una superficie di calma apparente, una rabbia che non aveva visto negli occhi di nessun bambino, prima di allora.

Fuori, nel frattempo, aveva ricominciato a piovere.

 

E così eccoci con il primo capitolo! In realtà è ancora molto “introduttivo”, ma spero di aver fatto un lavoro accettabile! Aspetto con ansia i vostri pareri! A presto!

 

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Capitolo 2
*** Loss. ***


Il primo capitolo è andato! Siete sicuri di volervi addentrare anche in questo?

 

Io spero di sì, perché mi fate contenta e mi fate ben sperare che il mio “parto” sia ben riuscito :3

 

Allora, in questo capitolo mi concentrerò sui genitori di Blake: nel film, John dice che sua madre è morta in un incidente d’auto e che lui non se lo ricorda nemmeno,e che il padre era stato ammazzato per colpa dei debiti di gioco, e che quello se lo ricordava anche fin troppo bene (chapeau a Joe che mi ha trasmesso la sensazione che lui, mentre parlava stesse “rivivendo” l’accaduto) .

 

Ho inventato di sana pianta i nomi dei genitori, specie quello della madre.

 

Questo capitolo è un po’ più lungo del precedente, perché ho inserito tutti e due gli episodi, con 2 stacchi  temporali. In realtà avevo pensato di mettere due episodi separati, ma mi piace di più così in realtà.

 

Ho fatto una fatica immane a trovare una foto adatta  di inizio capitolo, ma quando l’ho trovata si è praticamente illuminata la stanza!

 

Spero che la mia” invenzione” dia un senso di continuità al film. Bene, siete pronti?

Ready, set…go!

Loss.

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“Papà, dov’è la mamma?” chiese il bambino, infagottato in un cappotto due volte più grande di lui.

 

Il padre lo guardò: nel suo sguardo non c’erano segni di fastidio o spazientimento, sebbene quella domanda gli venisse posta tutti i giorni.

 

“La mamma è volata in cielo, tesoro.” Gli rispose in tono gentile, come faceva ogni volta che suo figlio glielo chiedeva

 

Robin sapeva che la risposta sarebbe stata sempre e solo quella. Non ne capiva benissimo il significato, gli sembrava quasi buffa come cosa ma, in qualche modo, gli piaceva sentirselo dire. Gli piaceva l’idea che sua mamma fluttuasse da qualche parte sopra le loro teste, leggera e senza peso serena e senza preoccupazioni.  Papà non era mai sereno o tranquillo: andava sempre di fretta ed aveva quell’aria preoccupata perennemente stampata sul viso. Spesso si guardava intorno con aria ansiosa, quasi avesse paura di vedere sbucare da un vicolo qualcuno che non voleva vedere.

 

Robin aveva solo 4 anni quando sua mamma era morta: lui era con lei quando era successo, ma per qualche strano motivo, la sua mente aveva rimosso l’accaduto. Un attimo prima c’era la mamma, seduta al volante, che lo aveva appena guardato, sorridendo. Un attimo dopo, Robin vedeva la faccia di suo padre china su di lui, gli occhi rossi e gonfi, l’aria di chi ha appena saputo qualcosa di terribile.

 

“Papà, ma secondo te la mamma ci guarda da lassù?” chi

 

ese timidamente il piccolo, tirando il padre per la manica del lungo cappotto e indicando il cielo che minacciava di neve.

 

Il padre trasalì appena: una persona adulta avrebbe potuto anche notare che i suoi occhi si erano appena inumiditi. “Certo Robin, bambino mio. Ci guarda e ci protegge.”

 

E a Robin bastava sapere questo: alzò gli occhi verso il cielo e agitò la manina, sorridendo.

 

                                                                                                                                                  ***

La signora Blake era morta pochi mesi prima in un tragico incidente d’auto. Era appena uscita dal lavoro e, come tutti i giorni, era andata a prendere il figlio all’asilo. Era una giornata nuvolosa, ma non stava piovendo. Aveva piovuto anche troppo nei giorni passati, così tanto, che l’amministrazione della città aveva accarezzato l’idea di attivare le misure di sicurezza anti-allagamento, ma il pre-allarme era cessato. Tuttavia, le strade erano ancora umide e piene di pozzanghere. Era la fine di Ottobre.

 

Mentre la signora Blake guidava verso la scuola del figlio, poco distante, una banda di malviventi ripuliva in fretta e furia la cassaforte di una banca.

 

Non erano dei professionisti, erano solo dei disperati allo sbaraglio, che avevano già freddato il cassiere, colpevole di aver lasciato cadere un bloc-notes. Il rumore aveva fatto perdere il lume della ragione a uno dei malviventi, che senza pensarci, preso com’era dal nervosismo, aveva aperto il fuoco verso la fonte del rumore.

 

Mentre i ladri arraffavano tutto quello su cui riuscivano a mettere le mani, la signora Blake entrava nell’atrio dell’asilo e cercava con lo sguardo il suo Robin.

 

Quando lo vide, alle prese col suo zainetto rosso, che rifiutava di chiudersi, a causa della quantità di matite, pennarelli e quaderni che il bambino ci stipava dentro, non poté evitare di sorridere intenerita.

 

Aveva scelto  lei il nome di suo figlio: il padre avrebbe preferito qualcosa di più “classico”, come Thomas o Dick, ma lei era stata irremovibile.

 

Robin, pettirosso. Margery Blake non era sempre stata una cittadina di Gotham: c’era nata, ma aveva vissuto in campagna fino a quando non si era sposata.

 

Amava gli animali, ogniqualvolta trovava un animale ferito, si prodigava per aiutarlo. Suo padre la chiamava “Crocerossina” e lei aveva deciso che da grande avrebbe fatto la veterinaria o l’infermiera.

 

Una volta, suo padre le aveva portato un pettirosso ferito ad un’ ala: qualche ragazzino del paese doveva avergli sparato con una pistola a pallini. Lei e suo padre lo avevano curato, ma senza nutrire grandi speranze, perché gli uccellini erano molto delicati da maneggiare e gli esiti non sempre erano buoni.

 

Miracolosamente il pettirosso era guarito: Margery lo aveva guardato, mentre gonfiava il petto rosso, pronto a spiccare il volo ed aveva ripensato a quando gli aveva medicato la ferita e lui era rimasto nel palmo della sua mano, docile e indifeso. In realtà Margery aveva sempre avuto un debole per i pettirossi, per la loro buffa macchiolina rossiccia sul petto, per il loro canto gorgheggiante, per il loro aspetto tenero ed indifeso.

 

Quando aveva scoperto di essere incinta aveva deciso che quello sarebbe stato il suo nome: sarebbe stato il suo Robin, la sua creatura da accudire e proteggere.

 

Il marito John aveva un po’protestato, ma alla fine, data la testardaggine della moglie, aveva finito per cedere.

 

Mentre Margery Blake metteva in moto la macchina, i criminali che avevano rapinato la banca scappavano dal luogo del delitto, mentre l’allarme, scattato in ritardo, riecheggiava nell’atrio, assordandoli. Si infilarono nella macchina del loro complice, che li aveva aspettati fuori controllando maniacalmente i minuti, ma avevano lasciato indietro uno di loro. L’uomo che aveva esploso il colpo che aveva ucciso il cassiere, al sentire l’allarme aveva avuto una specie di esaurimento nervoso ed era stramazzato sul lucido pavimento della banca, singhiozzante.

 

Nel frattempo, la signora Blake guidava,diretta verso casa: erano le 5 del pomeriggio ed avrebbe avuto il tempo di preparare la merenda per Robin e per andare a fare la spesa.

 

Mentre la signora Blake faceva questi progetti, l’auto dei malviventi si gettava nel traffico di Gotham, incurante delle altre automobili. Il contachilometri segnava una velocità sempre più alta, ma il suono delle sirene della polizia si faceva sempre più vicino ed incalzante. I ladri riuscivano quasi a sentire l’odore delle gomme surriscaldate delle auto dei loro inseguitori.

 

C’era un semaforo a pochi metri, che era fermo sul rosso, i banditi non lo videro neanche e continuarono la loro folle corsa. Anche se avessero deciso di frenare, la velocità era troppa e l’asfalto bagnato avrebbe peggiorato le cose.

 

Nell’altro senso dell’incrocio, quello regolato dal semaforo che aveva la luce verde accesa, passava una macchina grigia, la macchina della signora Blake, che non si accorse neanche della macchina che di lì a pochi secondi avrebbe colpito la sua fiancata. E non se ne accorse mai.

 

                                                                                                                                           ***

 

Robin aprì la porta di casa, curvo sotto il peso dello zaino.

 

“Papà!” chiamò, riponendo le chiavi  in una zuppiera al lato della porta.

 

Non ci fu risposta, ma a Robin non servì: la porta della cucina era socchiusa e ne usciva una densa nuvola di fumo e un parlottio concitato, inframmezzato da risate roche e dal tintinnio delle monetine.

 

“Papà sta di nuovo giocando..” concluse il ragazzino dirigendosi verso camera sua “ancora un po’ e metterà pure me come posta..”

 

Erano passati 6 anni da quell’incidente, ormai Robin era un bambino di 10 anni, che ne dimostrava almeno 2 o 3 di meno. Tuttavia, Robin non aveva mai avuto un’infanzia che si potesse definire tale: dopo la morte della moglie, il signor Blake era caduto in una profonda depressione, dal quale non era più uscito. Aveva cominciato a bere e a fumare, saltava il lavoro e quando ci andava non era produttivo. Alla fine era stato licenziato, dopo ripetuti richiami all’ordine, caduti tutti nel dimenticatoio.

 

Robin ricordava benissimo di come il capo di suo padre, fosse venuto personalmente a suonare alla loro porta per comunicargli la notizia.

 

“Mi dispiace solo per questo ragazzino che ti porti appresso..” aveva commentato in tono gelido, lanciando un’occhiata sprezzante a Robin, che era rimasto vicino alla porta con la mano sul pomello, incapace di distogliere lo sguardo da suo padre, che tremava per la vergogna e l’umiliazione.

 

“Se non ti dai una regolata, farai una brutta fine..” aveva concluso l’uomo, allontanandosi dalla loro porta “tu e tuo figlio.”

 

Così, cominciarono tempi difficili per i due Blake: il padre trovava lavoretti occasionali, se aveva fortuna, lavori che venivano pagati poco o che non venivano pagati affatto e che implicavano stare fuori tutto il giorno e tornare a casa esausto e svuotato.

 

Robin aveva assistito impotente alla lenta discesa di suo padre nel baratro, con addosso una voglia tremenda di fare qualcosa per cambiare l’ordine delle cose. Ma cosa avrebbe potuto fare un bambino?

 

Robin era cresciuto troppo in fretta, aveva imparato a convivere troppo presto con la miseria, con lo squallore e con la solitudine. Sentiva dentro di sé qualcosa che non riusciva ad identificare, come un fuoco che ardeva piano . Curiosamente aveva questa sensazione ogni qualvolta sentiva notizie di crimini, di ladri che avevano rapinato banche lasciando una scia di morti, di ingiustizie, di violenze che erano tristemente comuni a Gotham. Ma per qualche ragione, Robin fremeva di indignazione e rabbia, al sentire lo speaker comunicare sempre notizie del genere.

 

Robin sapeva che suo padre avrebbe dovuto dare una sterzata alla sua vita, alla loro vita, ma non riusciva a fargliene una colpa: gli voleva bene, più bene di quanto gli fosse concesso dimostrare, perché era l’unico appiglio che aveva, l’ultimo spiraglio di normalità in una vita dove veniva  sempre visto come “quello con la mamma morta”.

 

Il signor John Blake amava il figlio, che era l’unico ricordo tangibile della moglie scomparsa: quando lo guardava mentre giocava in silenzio in un angolo, studiava ogni sua mossa, a volte maledicendosi per non essere più partecipativo, e in quelle movenze rivedeva Margery. Quando Robin gli dava la buonanotte, alzandosi e guardandolo mentre se ne andava in camera sua, vedeva sua moglie nei lineamenti di suo figlio. Il suo stesso nome gli faceva tornare alla mente quella ragazza che si impuntava per dare quello strano nome al bambino che aspettava.

 

Robin ricordava pochissimo della mamma: quello che a 4 anni gli sembrava indelebile era piano piano svanito, lasciando il posto ad un ricordo nebuloso. Non aveva il coraggio di chiedere a suo padre di raccontargli qualcosa, per paura di farlo stare male.

 

Erano una strana coppia. Una persona esterna avrebbe potuto dire che erano le ultime persone al mondo fatte per stare insieme.

 

Tuttavia, la notte, Robin usciva dalla sua camera e si metteva nel letto accanto a suo padre. Gli si accoccolava accanto, osservandolo finché non si svegliava, a causa del fruscio delle lenzuola, e si accorgeva che il figlio era lì con lui.

 

Allora lo abbracciava stretto, come se avesse paura che, come l’uccellino suo omonimo, gli scivolasse dalle dita, gli dava un bacio sulla fronte e bisbigliava “Robin.Il mio Robin..”

 

                                                                                                                                                ***

 

Robin seguì suo padre nel vicolo buio: era preoccupato, ma cercava di non darlo a vedere. Da quando suo padre aveva iniziato a giocare, per raggranellare qualche spicciolo, i loro guai erano aumentati.

 

In realtà il padre giocava anche quando la moglie era viva, ma non aveva mai puntato somme alte e, soprattutto, giocava solo per il gusto di farlo, senza sentire davvero il bisogno di guadagnare.

Ora era diverso: ora doveva trov

are assolutamente dei soldi in poco tempo e il fine giustificava i mezzi.

Aveva iniziato a giocare in modo più irresponsabile quando aveva toccato il fondo della sua depressione, puntando somme di denaro via via più grosse. C’erano guadagni sì, ma ben presto venivano superati dalle ingenti perdite che lo lasciavano più povero di prima.

 

Il padre aveva cominciato scommettendo sui suoi risparmi, ma ben presto aveva dovuto dare via anche le cose più preziose che aveva, fra cui i gioielli della moglie.

 

Qualche volta, quando vinceva qualcosa, abbracciava il figlio e gli diceva che le cose sarebbero cambiate in meglio, che avrebbe trovato un lavoro rispettabile, che gli avrebbe comprato dei giocattoli nuovi..ma tutte queste promesse svanivano dopo che il padre ci aveva dormito su.

 

Prometteva a se stesso e  che avrebbe smesso di giocare, per il bene suo e per non mettere in pericolo il figlio, ma puntualmente ricadeva nella trappola.

 

“Non fai neanche uno sforzo piccolo piccolo..” aveva commentato una volta Robin con voce incolore, mentre Blake faceva uscire i suoi ospiti, che avevano vinto una somma considerevole. “a te  non importa niente. Dici sempre che smetterai, ma tutte le sere sei in cucina a giocare!”

 

John Blake aveva chiuso la porta e ci si era appoggiato contro, con gli occhi chiusi e Robin non aveva avuto il coraggio di replicare.

 

Non aveva mai visto suo padre così affranto e distrutto:lo vedeva tutti i giorni arrivare con quell’aria spenta, ma quella era la prima volta in cui lo vedeva così provato.

 

“Scusa papà..” Robin si morse il labbro e si avvicinò a suo padre.

 

Robin abbracciò suo padre, che gli carezzò la testa “Vedrai, andrà tutto bene.” Disse il bambino, cercando di crederci davvero.

 

Alla fine le cose gli erano andate ancora peggio del previsto: in una sessione di poker, John Blake si trovò a giocare con due tizi loschi, che dicevano di rispondere al nome di Sal Kennegan e Roger Towers, ma in realtà erano due italo-americani, tirapiedi del re della malavita, il boss Carmine Falcone.

 

Carmine Falcone aveva da poco scoperto un nuovo modo per far soldi: si informava sui giocatori più incalliti, magari quelli con più difficoltà e gli spediva a casa due “amici di amici” che lo spennavano fino all’ultimo centesimo. Quando il suo guadagno arrivava, smetteva di preoccuparsi di quei pesciolini che avevano abboccato all’amo, ma spesso e volentieri i suoi sgherri ci prendevano gusto e portavano il gioco all’estremo, con conseguenze drammatiche.

 

“Ti è andata male amico” aveva commentato Sal dopo aver appurato la sua vincita “ora sborsa la grana.”

 

John Blake dovette implorare e scongiurare affinché gli facessero credito: aveva speso gli ultimi risparmi per pagare una bolletta e stava aspettando un pagamento, non avrebbero potuto concedergli una proroga?

 

I due si erano scambiati uno sguardo d’intesa: “Ma certo. Ti diamo tempo fino alla settimana prossima, alla stessa ora. Naturalmente ci saranno degli interessi..”

 

John Blake aveva deglutito, una gocciolina di sudore gli era colata al lato della fronte ma aveva risposto con voce ferma “Li avrete.”

 

Nell’uscire, i due avevano lanciato un’occhiata a Robin, che era rimasto in un angolo a guardare, senza proferire parola e uno gli sorrise, anche se, più che un sorriso, il suo pareva un ghigno.

 

Robin aveva guardato il padre, con sguardo apprensivo.

 

“Papà..?”

 

“Non preoccuparti Robin. Domani andrò dal signor Figgs e gli chiederò se ha qualcosa da offrirmi..”

 

La settimana era passata ed il padre, ovviamente non era riuscito a rimediare neanche un centesimo: tuttavia, con una puntualità inquietante, Sal e Roger avevano bussato alla porta, reclamando i loro soldi.

 

Ancora una volta il padre li aveva supplicati ed implorati ed aveva proposto una partita per alleggerire, eventualmente, il suo debito.

 

La serata si concluse al solito modo: John Blake si ritrovò con le spalle al muro, mentre il suo debito aumentava. Se avesse saputo a chi avesse dovuto rendere i soldi avrebbe sicuramente fatto le valigie, avrebbe acchiappato Robin per un braccio  e sarebbe scappato, ma i due si erano guardati bene dal rivelare le loro vere identità e il sigron Blake non avrebbe mai potuto immaginare di essere diventato un bersaglio della Mafia.

 

Alla fine arrivò l’ultimatum, ma con una piccola differenza: l’appuntamento sarebbe stato in Sycamore Street “La mia zona.” aveva detto Roger in tono vago mentre si rimetteva il cappello ed usciva.

 

Ora, padre e figlio camminavano nel vicolo: John Blake non aveva voluto lasciare il figlio solo a casa, con tutti furti e le rapine che c’erano state nella loro zona.

Robin avrebbe ricordato per anni la cura con cui il padre gli aveva abbottonato il cappotto e si era assicurato che il figlio si mettesse la sciarpa. Era notte, c’era vento e non voleva che il figlio si prendesse qualcosa.

“Fa freddo, eh?”

“Già..” aveva annuito Robin affondando il naso nella sciarpa.

 

“Dovremmo essere già arrivati..certo che è una zona angusta questa..” aveva osservato Blake, stringendo gli occhi per leggere il numero civico.”zona pericolosa in cui abitare. Mi sembra così strano che Roger abiti qui…”

 

“E non l’ho mai detto..” sentenziò una voce alle loro spalle.

 

Robin ebbe un brivido quando, dopo essersi girato, vide che Roger, che aveva parlato, era accompagnato da altre 3 persone. Indossavano lunghi cappotti neri, che gli ricordavano quelli dei gangster dei vecchi film.

 

“Mi avevi dato appuntamento qui..” disse John Blake facendosi avanti.

 

“Esatto. Spero non ti dispiaccia che abbia portato qualche…amico in più.” Disse Roger.

 

Aveva una voce diversa, tagliente come un rasoio. Dov’era finito il Roger carismatico e affabile che era venuto a giocare a casa loro?

 

Fu in quel momento che John Blake capì che qualcosa non andava e si spostò davanti al figlio, che si sentiva sempre più inquieto.

 

“Dovevamo parlare del mio debito.” Abbozzò John Blake spostandosi verso il gruppo, sempre tenendo il figlio dietro di sé.

 

“Oh beh, ho cambiato idea..” rispose Roger in tono vago “o meglio, il mio capo ha cambiato idea.”

 

“Il tuo..capo?” ripeté Blake.

 

Robin sentì il cuore mancargli di qualche battito: aveva una bruttissima sensazione.

 

Ci fu un attimo di silenzio, poi Roger ruppe le righe e si avvicinò a Blake. Si accese un sigaro e Robin notò quanto fosse inquietante il suo sorriso. Sembrava una tagliola.

 

“Vedi amico mio..” aveva detto Roger mettendo una mano sulla spalla di John Blake, che aveva spinto il figlio ancora più indietro “il mio capo è un uomo d’onore. Lui paga i s uoi debiti, ma vedi..ha come una specie di..deformazione professionale.  Gli piace saldare i suoi debiti e si aspetta che anche gli altri facciano lo stesso. Il mio capo è anche un uomo molto comprensivo ed è disposto a concedere delle proroghe. Una volta, due volte, tre volte…poi la pazienza si esaurisce e la fiducia viene meno. E allora c’è un solo modo per riparare il tutto..”

 

Ci fu un attimo di pausa, un attimo che parve infinito, nel quale gli uomini di Roger estrassero qualcosa dalle loro lunghe giacche.

 

“Robin, scappa!” urlò Blake girandosi di scatto verso il figlio, che aveva già capito cosa sarebbe successo. Quello non era un appuntamento per discutere di un debito: quello era un regolamento di conti.

 

Un secondo prima che gli amici di Roger iniziassero a sparare, Robin iniziò a correre nella direzione opposta. Non sentiva nulla, non sentiva gli spari, non sentiva le risate degli uomini, non sentiva il suo respiro. Sentiva solo il battito impazzito del suo cuore.

 

Poi inciampò su un sacco dell’immondizia e cadde lungo disteso: non pensò che stava per morire, che stavano per sparargli. Gli venne in mente suo padre che gli diceva che mamma era in cielo e che li avrebbe protetti, poi pensò a tutti i telegiornali che parlavano delle vittime degli assassini, che agivano in vicoli angusti come quello e che anche lui sarebbe divenuto un numero in una statistica. Suo padre, che probabilmente era già morto, e lui. Ricacciò indietro le lacrime: non avrebbe dato nessuna soddisfazione a quei bastardi.

 

Sentì dei passi lenti e misurati ed inspirò profondamente: si girò e vide Roger che lo guardava, col suo solito ghigno inquietante, mezzo illuminato dal braciere del sigaro.

 

Ci fu un click e Robin capì che Roger aveva caricato l’arma. Stupidamente si mise in ginocchio  e alzò le mani sopra la testa, come se potesse servire a qualcosa, ma guardandolo con aria di sfida.

 

Roger gli puntò contro la pistola:

 

“Robin, oh Robin” lo canzonò ”cosa dobbiamo fare con te?”

 

 

 

Pheew! Ce l’ho fatta, sono riuscita a copiare tutto sul computer, per la vostra gioia  disperazione! E’ stato un capitolo tosto da scrivere, specie la fine. Non avevo idea di cosa tirar fuori dal cappello, quindi ho attinto un po’ a “Batman” di Tim Burton, per quanto riguarda i vestiti dei sicari e in generale dai film di gangster (infatti, non so perché, ma quando mi visualizzo la scena finale, la vedo ambientata una sottospecie di Gotham anni 30’ O.O).

La parte in cui Roger va incontro a Robin e lui si mette in ginocchio con le mani alzate è presa pari pari da “The Dark Knight Rises”, la scena in cui Blake cerca di fare uscire gli altri poliziotti dalle fogne, ma viene sgamato pieno  ma senza avere successo.

Mi sento in dovere di citare la musica che mi ha fatto da background per la stesura, ovvero The Dark Knight Rises Background Score Soundtrack  (in particolare dal minuto 2:51 al minuto 4:02, minuti che mi fogano da morire, non ho idea del perché)

Bene, mi sembra che sia tutto! Ci vediamo col prossimo capitolo!

 

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Capitolo 3
*** Fear. ***


Ed eccoci qui al terzo  capitolo.

Vi ho lasciato col fiato sospeso? Bene, in questo capitolo fugherò tutte le vostre ansie per il piccolo Robin.

 Per questo capitolo ho dovuto pensare a un modo plausibile nel quale il nostro eroe sia riuscito a scappare da Roger &Co. Fra tutte le opzioni che ho analizzato e sperimentato, questa mi è sembrata la meno artificiosa e più plausibile. Spero che vi piaccia!

Aspetto con ansia i vostri commenti…enjoy the chapter

 

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Fear.

“Cosa dobbiamo fare con te?”

Robin chiuse istintivamente gli occhi, quando vide il sicario avvicinarsi per prendere meglio la mira.

Ma non ci fu alcuno sparo: inconsciamente Robin sperava che questo fosse dovuto al fatto che gli uomini avessero visto qualcuno che li aveva terrorizzati a morte, qualcuno che avrebbe atterrato Roger con un cazzotto ed avrebbe disperso gli altri. Ma non accadde nulla di tutto questo.

Roger scoppiò a ridere, una risata cattiva, senza gioia. Una risatina di scherno.

“Oh, ma guardatelo! Il povero uccellino, il piccolo pettirosso che trema!” sghignazzò Roger, indicando Robin agli altri con la canna della pistola.

Il bambino sentì le risate sguaiate degli altri e realizzò che Roger non aveva intenzione di farlo fuori subito: prima si sarebbe divertito un po’ e solo dopo gli avrebbe sparato. La sua mente galoppava: questo piccolo show, forse, avrebbe potuto regalargli qualche prezioso minuto di vita in più, ma come avrebbe fatto ad impiegarli bene? Come poteva scappare?

Mentre gli altri ridevano, Robin si guardò intorno con aria disperata: la fine del vicolo non era lontanissima, e lui era veloce a correre. Se solo fosse riuscito a scattare ….

Ma Roger, come se avesse intuito quello che stava per fare, lo afferrò per un braccio, che era sempre sopra la sua testa, e lo buttò per terra. Robin cadde lungo disteso, ma si impose di non lamentarsi. Volevano divertirsi? Bene, non gli avrebbe reso le cose semplici.

“Se solo potessi distrarli, in qualche modo…” pensò freneticamente “ Probabilmente non andrò lontano, ma avrò avuto la soddisfazione di farli penare, prima di uccidermi.”

“Dove pensavi di andare, orfanello?” lo derise Roger, avvicinandosi a passi lenti. Robin istintivamente si allontanò un poco, spostandosi con le braccia e con le gambe. Anche questo poteva tornargli utile.

“Eh? Dove volevi andare? Volevi scappare? Per andare dove, dalla mammina?” continuò Roger.

Robin cercò di assumere l’espressione più truce di cui fosse capace, cosa che l’uomo parve trovare incredibilmente divertente.

“Ehi Roger!” esclamò uno del gruppo “non è che vuoi creare un altro Bruce Wayne, eh?”

Robin aggrottò la fronte: cosa c’entrava Bruce Wayne, il miliardario più giovane di Gotham con lui?

“No ragazzi, non ne ho la minima intenzione, anche perché questo qui è quanto di più lontano possa esserci da Bruce Wayne.”sghignazzò Roger, tornando a guardare Robin, indifeso ai suoi piedi.

“Allora..” continuò a provocarlo “vuoi andare dalla mammina? Ops! Forse ho toccato un tasto dolente..Vedi mio caro, noi sappiamo tutto di te e della tua bella famigliola. Sappiamo tutto della tua povera mammina, morta in un incidente, sappiamo tutto di tuo padre un povero fallito, capace solo di frignare e di perdere al gioco. Un codardo!”

Robin sapeva di dover restare calmo per non dargli soddisfazione, ma le ultime parole lo avevano fatto imbestialire.

“Non era un codardo..” disse Robin a bassa voce, guardandolo con aria di sfida.

“Oh, ma che sguardo cattivo!” continuò ad infierire Roger, cogliendo la palla al balzo “ora cosa farai, ti … vendicherai? Vendicherai quella nullità di tuo padre?” Si chinò lentamente su di lui, i loro nasi erano vicinissimi “Non serviva a nulla a questo mondo, era solo un piccolo codardo capace solo di implorare.”

Fece un attimo di pausa, per gustarsi l’espressione di rabbia di Robin, ma si rese conto  con disappunto che il bambino non aveva tradito nessuna emozione.

“Anche tu sei come lui” riprese, avvicinandogli la pistola al viso” sei un piccolo codardo, un niente di cui il mondo potrà fare a meno. Nessuno sentirà la vostra mancanza.”

Robin capì che gli erano rimasti pochi secondi per agire e doveva sfruttarli al meglio: si fece coraggio e gli sputò dritto in faccia.

Roger non realizzò subito cosa era appena successo: Robin aveva calcolato che si sarebbe asciugato la fronte e, confidando nella sua immobilità, si sarebbe alzato in piedi e lo avrebbe finito.

Non gli regalò nessun secondo extra: inspirò profondamente e gli assestò un calcio nello stinco, facendo scattare la gamba con tutta la forza di cui era capace.

Il resto accadde molto in fretta: Roger guaì di dolore, gli amici del sicario non ebbero neanche il tempo di realizzare cosa fosse successo e, mentre facevano due più due, Robin era scattato in piedi con un’agilità mai sperimentata prima di allora ed aveva iniziato a correre a perdifiato verso la fine del vicolo.

Gli sembrava una voce lontana centinaia di chilometri quella che urlava “Che aspettate, imbecilli?Prendetelo e riportatelo qui!” e il rumore di tre paia di piedi che si mettevano al suo inseguimento, gli pareva un rombo lontano.

Robin era già arrivato alla fine del vicolo e si trovava in una strada un po’ più illuminata e di ma completamente deserta. Non potendo concedersi il lusso di stare a pensare troppo, Robin si infilò in un vicolo parallelo a quello dove era stato in balìa dei sicari, sperando che il seguito di Roger fosse abbastanza stupido da credere che si fosse nascosto sotto una macchina, nella strada illuminata.

Continuava a correre, disperato, non trovando nessun posto utile per nascondersi.

“Tanto ti prenderanno, a che serve correre?” gli diceva una vocina nella sua testa. Si sentiva tutto d’un tratto stanco: era solo un bambino, era indifeso e loro erano in 4 e armati di pistole. Che speranze avrebbe avuto?

All’improvviso, Robin notò un particolare che lo fece quasi scoppiare a piangere dal sollievo: alla sua destra, al livello della strada, c’era la finestra aperta della cantina, appartenente ad un palazzo abbandonato. La finestra era abbastanza grande da permettere ad un bambino molto esile di entrarci. Senza indugiare, Robin si tuffò letteralmente  a destra calandosi senza fatica dentro la bocca oscura della cantina, benedicendo per la prima volta ,la sua costituzione esile. Scivolò nella cantina buia ed umida, toccando il suolo con un rumore lieve: notò che la finestra non era molto in alto e che, se l’avesse scampata, non avrebbe fatto troppa fatica ad uscire. Si concesse qualche secondo per permettersi di tranquillizzarsi e si lasciò scivolare per terra, con la schiena contro il muro.

L’imboccatura della cantina era troppo in basso e non era esattamente il tipo di rifugio che i suoi inseguitori avrebbero visto a colpo d’occhio: Robin contava sul fatto che Roger e gli altri si sarebbero concentrati di più su quello che si trovava nel loro immediato campo visivo. E poi, se anche fosse venuto loro il dubbio, non sarebbero riusciti ad entrare nella cantina, perché l’imboccatura era troppo stretta ed il buio che lo avvolgeva  lo avrebbe protetto.

Sentì che gli inseguitori si avvicinavano velocemente e si premette le mani sulla bocca: aveva il fiatone per la corsa e per la tensione e questo  avrebbe potuto farlo scoprire.

“Dov’è andato? Dov’è andato?!” sbraitò Roger, assestando un calcio ad un bidone della spazzatura, che cadde, facendo un gran rumore e sparpagliando tutto il suo contenuto. “Cercatelo, guardate sotto le macchine, nelle nicchie, negli androni delle porte! Trovatelo!”

Robin spostò lentamente le mani dalla bocca e guardò verso l’alto e si arrischiò ad alzarsi lentamente per sbirciare dalla finestrella: con un brivido si accorse che Roger era in piedi proprio davanti al buco.

“Qui non c’è, Roger. E’ veloce il ragazzino..” replicò uno degli uomini più lontani.

Roger imprecò “Ve lo siete fatto scappare, razza di imbecilli.” Ringhiò, come se non fosse stato lui quello che si era fatto distrarre “a quest’ora sarà già sulla Main Street a picchiare contro la porta di un commissariato.”

“Cosa vuoi che facciamo allora?” chiese uno degli amici di Roger, quello che aveva parlato di Bruce Wayne.

Ci fu un lungo silenzio, poi Roger sospirò.

“Cosa vuoi che facciamo?Il ragazzino ormai è sparito, a quest’ora può essere ovunque..E se è nascosto qui da qualche parte, è nascosto fin troppo bene.”

“E lasci perdere così?” lo apostrofò uno degli sgherri, incredulo.

Roger lo fulminò con lo sguardo. “Si, lo lascio perdere così. Ormai il divertimento ce lo siamo perso, non ho voglia di rincorrere un ragazzino per mezza Gotham. Dovevo farlo fuori subito e basta, è stato più furbo di me, lo ammetto.”

Robin non osava quasi respirare: li aveva depistati così facilmente? O era una trappola?

“Non vale al pena perdere una nottata per cercare un orfanello. Tanto non potrà neanche denunciarci, ufficialmente, Roger Towers è morto. Anche se il ragazzino cantasse, si smuoverebbero le acque per due o tre giorni al massimo, poi tornerebbe la tranquillità. Andiamocene, è ancora presto e volevo andare al club.”

Robin fissò, con un misto di incredulità e paura i piedi degli sgherri sfilare davanti alla finestra, mentre si allontanavano. Sentì il rumore dei loro passi diventare sempre più flebili, fino a scomparire, dopo pochi minuti.

“Aspetterò 10 minuti e poi uscirò da qui..” si disse Robin.

Invece passò un’ora, un’ora nella quale il bambino, provato da tutti gli eventi, dalla paura e dallo shock, cadde addormentato, senza rendersene conto.

Nel suo sogno c’era un vicolo buio ed un uomo con la pistola. Sentiva uno sparo, ma non capiva da dove fosse venuto. Gli sembrava che qualcuno lo chiamasse per nome, ma non riusciva ad identificare la voce. Poi vedeva una figura femminile, vaga ed indistinta che lo salutava dal fondo del vicolo. Lui le si avvicinava, con circospezione, ma il volto della donna rimaneva in ombra.

“Eccoti qua, Robin. Ti aspettavo!” gli carezzava il viso, ma quando ritraeva le mani, erano sporche di sangue.

“Robin..” lo chiamava di nuovo la voce. Ma stavolta non era una voce di donna. Era la voce di Roger.

Robin si svegliò di soprassalto: era madido di sudore, nonostante il freddo pungente e tremava di paura.

“E’ stato solo un incubo..” si disse.

 Poi la forza della realtà lo colpì, come un pugno allo stomaco. Non era tutto un incubo: suo padre era morto, era solo al mondo ed era appena scampato per un soffio alla morte.

Di tutte queste considerazioni, una in particolare gli martellava in testa. “Sono solo al mondo..” mormorò.

Rimase immobile ancora per qualche secondo, per dare il tempo ai muscoli di uscire dal torpore del sonno e poi si issò fuori dalla finestra: avrebbe voluto correre dal padre nel vicolo accanto ma non osava. E se i sicari si fossero appostati da qualche parte, aspettando che lui uscisse?

Robin rabbrividì e si strinse addosso il cappotto. Era completamente solo. Non una persona, non un cane o un gatto girava per quel vicolo.

Lentamente, senza fretta, si incamminò verso la fine del vicolo che gli aveva offerto protezione: da lì sarebbe sbucato in una strada più trafficata, con la gente. Qualcuno lo avrebbe aiutato. O forse doveva andare dalla polizia. Non aveva il coraggio di tornare a casa, aveva il terrore di varcare di nuovo quella porta ed infatti non ci sarebbe più entrato.

Continuò a camminare senza meta, le mani in tasca, il viso sporco di polvere nera che gli si  era appiccicata addosso nella cantina. Aveva i pantaloni strappati sul ginocchio destro, a causa della sua caduta , ed aveva la mente annebbiata dal sonno e dalla confusione.

All’improvviso urtò contro qualcosa di morbido. Se ne staccò.

“Ehi, piccolo, tutto bene?”

Era appena andato a sbattere conto un poliziotto: il distintivo con su scritto GCPD  brillava sul lato destro della sua giacca di servizio invernale.

Robin lo guardò e per un attimo desiderò essere come lui: un adulto, forte e armato. Un poliziotto coraggioso, al servizio della giustizia.

Se ci fosse stato lui nei paraggi, tutto quello che gli era accaduto non sarebbe successo.

“Ragazzino, stai bene?” gli chiese il poliziotto  inginocchiandosi ed afferrandolo per le spalle con gentilezza.

Robin sentì una lacrima che gli solcava il volto: aveva retto troppo per quella notte, non aveva tradito nessun segno di debolezza davanti alla pistola di Roger e non si era fatto prendere dal panico in quella cantina buia. Ma ora non ce la faceva più.

“Non proprio…” rispose  asciugandosi la guancia con la manica “sono appena scappato da una cantina, c’erano degli uomini che hanno ucciso mio padre e hanno cercato di fare lo stesso con me. Può aiutarmi, per favore?”

 

E anche questa è fatta! Eravate tutti/e lì, con gli occhi sbarrati e le dita aggrappate al bordo del tavolo a fare il tifo per Robin? Lo spero J

Anche  per questo capitolo ho attinto da una fonte, per un particolare: il calcio che Robin assesta a Roger è preso pari pari dal film “Brick” con…indovinate un po’? Il caro Joseph Gordon-Levitt! (eccovi il trailer, ve lo consiglio tantissimo come film! http://www.youtube.com/watch?v=4Zfw8__A7ps)

Nella scena, lui è coinvolto in una zuffa con un tizio che è ehm, tipo il doppio di lui, che l’ha buttato per terra. Joe lo guarda malissimo e gli tira il calcio che ho appena descritto ( e l’energumeno è pure così idiota che ci casca per due volte). Pensavo che mi sarebbe tornata utile e l’ho “riciclata” per questo capitolo.

La fortuna mi ha assistito anche nella ricerca di una foto di inizio capitolo adatta: la foto inserito è più che adatta, secondo me. Rappresenta il momento in cui Robin è nella cantina ed ascolta quello che i tizi dicono, sopra di lui.

Bene, dire che ho finito con i chiarimenti. Un grazie grosso come una casa a chi segue la storia e un grazie “futuro” a chi la leggerà e la recensirà.

Besos!

 

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Capitolo 4
*** Discover. ***


kjlulululou

 

 

Quarto capitolo on-air. Allora, piccola spiegazione: in realtà era nei miei piani scrivere un capitolo intero sulla vita di Robin con i genitori adottivi, la descrizione del rapporto che non c’è e di come sia stato elegantemente scaricato lasciato all’orfanotrofio, ma sarebbe venuto fuori un capitolo di una lunghezza abnorme, mentre io preferisco fare capitoli più brevi (anche per prolungarmi il piacere di scrivere e non finire in fretta la storia). Quindi qui è descritto l’incontro con i genitori adottivi e…una “sorpresina” finale che è un tassello per aiutare il lettore a capire come diamine abbia fatto John Blake a capire chi era Batman .

In realtà è che ci provo molto gusto a lasciare i capitoli “in sospeso”, dopo avere utilizzato questo espediente nel secondo capitolo ho deciso di ripetere ^^

Mi è stata posta questa domanda, riguardo al capitolo precedente “Ma il poliziotto, è Gordon?” In realtà non avevo neanche contemplato l’idea, visto che nel film non viene mai esplicitata una cosa simile. Però la cosa mi ha intrigato e ho scelto per il nostro poliziotto, un nome che può voler dire tutto o non voler dire nulla. A voi l’intepretazione!

Bando alle ciance, via con la foto e con il capitolo!

Photobucket

Discover.

La berlina grigia si muoveva agilmente nel traffico natalizio di Gotham. I palazzi erano ricoperti di lucine colorate a forma di vischio o di tanti piccoli Babbo Natale.

I negozianti ne avevano approfittato per fare sfoggio di tutto il loro senso del kitsch, affiancando luci a intermittenza color ciano con altre lucine a forma di agrifoglio o di palline dell’albero di Natale, tutte rigorosamente di un colore diverso dall’altro e con altre amenità del genere.

 

Il guidatore non aveva fretta e rallentò in prossimità delle strisce, per far passare una comitiva di allegri bambini.

 

“Allora Blake..” disse girandosi verso il sedile del passeggero “emozionato?”

 

Robin Blake si strinse nelle spalle e continuò a cincischiare con i laccetti del giubbotto rosso “Credo di sì,” rispose in tono incolore.

 

“Come “credo”? Non sei contento che ti abbiamo trovato una nuova famiglia in così poco tempo?” si animò l’assistente sociale, ripartendo.

 

“Una nuova famiglia..” pensò Robin “ come se le famiglie fossero come un vestito vecchio che butti via”

 

“Immagini di sì. Sì, sono contento.” Rispose Robin sforzandosi di fare qualcosa che somigliasse a un sorriso, e non a una smorfia.

 

Si era allenato parecchio, nelle settimane di degenza all’ospedale (dove avevano insistito per tenerlo sotto osservazione) a fare sorrisini falsi, davanti allo specchio. Era stufo di sentirsi rimbrottare sul fatto che fosse sempre serio, neanche fosse un bambino viziato che vuole tornare a Disneyland dopo esserci stato una settimana e non un bambino che aveva appena perso il padre in modo violento.

 

L’assistente sociale, Dominic Browning preferì non continuare la conversazione e Robin lo ringraziò mentalmente.

 

Era un caso speciale, quel ragazzino: orfano, la madre morta in un incidente gravissimo quando lui aveva 4 anni, il padre ammazzato sotto i suoi occhi poche settimane prima, per debiti di gioco.

 

C’era da stupirsi che non avesse avuto un crollo nervoso e non avesse sviluppato strani tic o cose del genere ma quel ragazzino taciturno era rimasto stranamente calmo.

 

Dominic Browning, nelle ultime settimane, si era letto dozzine di pagine di fascicoli su di lui: era stato trovato da un poliziotto, un tale James, mentre vagava in stato di shock fra la Second e la Main Street, intorno a mezzanotte. Aveva raccontato che lui ed il padre erano stati aggrediti in un vicolo, e poi aveva perso i sensi. Dopo averlo portato in braccio dentro la sua macchina, il poliziotto aveva avvertito la centrale.

 

Il ragazzino era stato portato subito all’ospedale per accertamenti e medicazioni. Mentre era ancora privo di sensi, la polizia identificava il cadavere rinvenuto in Sycamore Street, come quello di John Blake, padre di Robin John Blake, 10 anni.

 

Il giorno dopo Dominic era già stato contattato ed era già al lavoro per trovare una sistemazione a quel bambino sfortunato, che si lasciava maneggiare da medici e dottori senza protestare.

 

“La cosa migliore che possiamo fare per lui..” aveva detto al poliziotto che lo aveva soccorso “è di non farlo passare da un orfanotrofio. Meglio se lo lasciamo un po’ in osservazione e lo diamo subito ad una famiglia. Ha già visto abbastanza cose brutte, per avere solo 10 anni. Una famiglia amorevole gli farà dimenticare tutto.”

 

Il poliziotto aveva dei seri dubbi sul fatto che il ragazzino riuscisse a “dimenticare tutto” ma, mentre gli gettava un’ultima occhiata dai vetri della stanzetta dove riposava, glielo augurò con tutto il cuore.

 

Dominic Browning si era dunque prodigato per cercare una famiglia adottiva, ma non era una faccenda da poco: il bambino aveva già 10 anni, era piuttosto grandicello e ben poche famiglie erano disposte ad accogliere bambini di quell’età, visto che il loro carattere a quel punto non era quasi più plasmabile.

 

Tuttavia, la sua perseveranza aveva dato buoni frutti. I Gray sembravano il prototipo della famiglia perfetta: un appartamento in centro, entrambi con un lavoro stabile e ben retribuito, nessun bisogno di sacrifici inutili…mancava solo un bambino.

 

“Eccoci arrivati Robin!”

 

Dominic mise la freccia a destra e parcheggiò davanti ad un alto condominio dai mattoni rossi.

 

Robin alzò lo sguardo: era un palazzo veramente imponente, chissà come doveva essere vivere all’ultimo piano, con Gotham sotto i propri piedi, le persone come tante piccole formichine affaccendate.

 

“Andiamo, Robin?” lo esortò Dominic, che era già sceso ed aveva già afferrato il bagaglio contenente le poche cose del bambino.Tutto quello che gli poteva tornare utile o che poteva usare era stipato in quell’unica valigia nera, ricoperta di adesivi scoloriti.

 

Robin aveva infatti “ereditato” quello che era rimasto nell’appartamento e l’appartamento stesso,del quale avrebbe potuto usufruire al compimento dei 18 anni. Ma fortunatamente, con una famiglia del genere alle spalle, non avrebbe avuto bisogno di un simile appartamento pieno di ragnatele e di ricordi.

 

L’appartamento era ”appena” al settimo piano, ma era fra i più eleganti dello stabile

 

“Considerati fortunato!” esclamò Dominic in tono allegro, mentre l’ascensore saliva.

 

Robin lo guardò come se fosse impazzito: fortunato? Ma per quale dannata ragione tutti si ostinavano a comportarsi come se fossero in una pubblicità di cereali, dove tutto va bene ed il sole splende sempre?

 

La donna che aprì la porta con un sorriso smagliante stampato in faccia era giovane e carina, con lunghi capelli castani e gli occhi neri.

 

“Ma ciao! Tu devi essere il piccolo Robin!” trillò tutta felice, mentre si piegava verso di lui e gli toccava la punta del naso col dito indice “ma lo sai che sei proprio ca-ri-no?”

 

Robin fece uno sforzo immane per non guardarla male, ma non poté trattenersi dal sollevare un sopracciglio con aria perplessa: quella sottospecie di robot era la sua mamma affidataria?

 

“Vieni piccolo, ti accompagno nella tua stanza! Devo sbrigare alcune piccole pratiche col gentilissimo signor Browning, spero tu non me ne voglia se ti lascio solo per qualche minuto! “ continuò la donna tirandolo letteralmente dentro casa per un braccio e scortandolo verso la sua stanza.

 

Non appena la porta si chiuse alle sue spalle, Robin iniziò a studiare la stanza con attenzione.

 

Era completamente diversa dalla sua vecchia stanza, che era piccola, con pareti bianche e una specie di parquet tutto graffiato.

 

Lì invece le pareti erano colorate di azzurro e sotto i suoi piedi c’era della soffice moquette bianca. Il letto sembrava morbido e accogliente.

 

C’era una finestra, lunga dal soffitto fino al pavimento che si affacciava su Wentmore Road, illuminata a festa e dalle luce delle macchine: erano le 5 del pomeriggio, l’ora di punta per Gotham e anche il vagone della monorotaia sopraelevata, che sfrecciava a poca distanza da loro, era pieno zeppo di gente

 

Dopo qualche minuto di contemplazione del ben poco interessante panorama (una schiera di grattacieli tutti uguali, austeri e cupi) sentì la porta aprirsi.

 

La donna che lo aveva fatto entrare era tornata, accompagnata stavolta dal marito, un uomo alto con capelli neri, molto corti. Lo stavano guardando con un sorriso a 32 denti stampato in volto.

 

“Robin..”cominciò l’uomo avvicinandosi “sappiamo già tutto di te, ma tu non sai ancora nulla di noi! Noi siamo i tuoi nuovi genitori “ Robin ebbe un fremito. “Io sono James Gray e lei è mia moglie, Stephanie. Siamo così felici che tu sia qui..questa casa è molto silenziosa e triste senza bambini..speriamo con tutto il cuore che tu qui possa stare bene e che tu possa trovare la felicità che ti è mancata!”

 

Robin, in cuor suo, sapeva che probabilmente quei due ci tenevano seriamente al suo benessere. Tuttavia, non riusciva proprio a scacciare quella sensazione di disagio che provava da quando era entrato in casa.

 

Non aveva dubbi sul fatto che quei due erano probabilmente la cosa migliore che gli potesse capitare, era già tanto che non fosse stato spedito subito in un orfanotrofio, ma sentiva che c’era qualcosa di terribilmente storto in tutto ciò.

 

Il pomeriggio passò con una lentezza esasperante: i suoi nuovi genitori gli fecero fare il giro della casa, e Robin non poté fare a meno di notare quanto fosse accogliente, spaziosa e calda.

 

Quando suo padre era vivo (Robin sentì come un groppo alla gola, al pensiero) aveva spesso vagheggiato su una casa come quella, ma nel suo sogno c’erano i suoi veri genitori. Per quanto sfocato fosse il ricordo di sua madre, Robin si immaginava una specie di figura eterea, vestita di bianco che lui riconosceva come sua mamma mentre abbracciava suo padre, che rideva sereno.

 

Per quanto affettuosi fossero i signori Gray, lui non riusciva proprio a placare quel senso di inadeguatezza che gli stava addosso come un fantasma.

 

La sera fu il momento peggiore: i Grey avevano invitato tutti i parenti a conoscere “il loro bambino” (come lo presentavano in tono orgoglioso a zie, nonni e conoscenti).

 

La sala da pranzo gli sembrava stipata di gente che lo guardava e che lo trascinava da una parte all’altra, come se fosse una specie di animaletto da compagnia. Robin si sforzò di essere affabile e carino: non era assolutamente abituato ai convenevoli e dopo mezz’ora gli dolevano i muscoli della bocca, per tutti i sorrisini tirati che si sentiva in dovere di fare.

 

A giudicare dall’aria preoccupata con cui lo guardavano, I padroni di casa sembravano aver intuito che il buonumore di Robin era tutta facciata e che la sua mente era altrove.

 

I Grey non erano persone cattive, ma erano giovani ed inesperti. Per loro, che non avevano la minima idea di quali forze si stessero agitando nell’animo di Robin, il suo comportamento era causato solo dalla sua mancanza di disciplina, dovuta al suo passato turbolento e senza punti di riferimento.

 

Non amavano pensare che il loro figlio adottivo aveva visto uccidere suo padre davanti au suoi occhi e che era sfuggito per un soffio alla morte. Nella loro inesperienza, quelli erano ricordi da soffocare, non da elaborare per riuscire a venirne a capo.

 

Finita la cena e riaccompagnati gli ospiti alla porta, la signora Gray prese in disparte Robin e lo portò davanti all’ingresso della sua camera.

 

“Robin..” gli disse in tono premuroso “c’è qualcosa che non va?”

 

Robin fissò un attimo il volto della donna, i suoi capelli castani ed i suoi occhi scuri.

 

“No.” Mentì “non c’è proprio nulla che non va.”

 

Stephanie sospirò e si inginocchiò davanti a lui, posandogli le mani sulle guance.

 

“Robin, non darmela a bere. So che c’è qualcosa che non va, ma..” sospirò di nuovo, guardò il pavimento e poi tornò a guardare il bambino “io so esattamente come ti senti Robin. Voglio aiutarti.”

 

Robin la guardò incredulo. Cosa ne sapeva quella donna così diversa da lui di come si sentiva? Per tutte quelle settimane passate in ospedale, Robin non aveva ,mai conosciuto un attimo di pace.

 

Il ricordo di quanto era accaduto infestava i suoi incubi: sentiva la voce di Roger che gli bisbigliava all’orecchio, sentiva suo padre urlargli “Robin, scappa!”, ma nei suoi sogni non riusciva mai a scappare.

 

Sentiva la rabbia, tanta rabbia per quello che gli era stato fatto, per il fatto che gli assassini di suo padre erano a piede libero e che, probabilmente, non avrebbero mai pagato per tutto il male che avevano arrecato a lui e a chissà quante altre persone.

 

Si era svegliato spesso la notte, soffocando le urla nel cuscino, incapace di capire perché tutto quello che era successo fosse capitato proprio a lui.

 

Anche sua madre era morta ingiustamente: la vittima innocente di un incidente causato dall’avidità di 4 uomini, che avevano travolto e spezzato quello che si era messo sul loro cammino.

 

E quanto avevano pagato? Di sicuro meno di quanto avesse perso lui.

 

Ed ora, quella donna, quella sconosciuta che di sicuro, non aveva mai conosciuto lo squallore in cui era vissuto lui, veniva a dirgli che capiva esattamente quello che provava?

“Robin..”continuò la donna dopo avergli dato un bacio sulla guancia “sono la tua mamma adesso, i tuoi problemi sono anche i miei.”

 

Era troppo per Robin, che si divincolò dalla stretta di lei.

 

“No, questo no. Non te lo permetto.” Mormorò in tono gelido.

 

Lei lo guardò affranta, ma si ricompose subito “ E’ evidente che sei molto stanco Robin e che il cambio di casa ti abbia sconvolto! Ti lascio andare a dormire.” Gli disse in fretta, aprendo la porta della sua stanza “domani faremo i biscotti, va bene? Buonanotte.”

 

La porta si chiuse dietro di lui e Robin tirò un sospiro di sollievo, pur essendo sempre tremante dalla rabbia repressa.

 

“Forse dormire mi farà stare meglio..” pensò mentre si metteva il pigiama,tirandolo fuori dalla valigia.

 

Si sentiva pieno come un uovo, a cena aveva mangiato a sazietà, dando probabilmente l’idea di essere un bambino che non aveva mai visto tanto cibo in vita sua. In realtà aveva ben presente i pasti offerti da Gotham General Hospital e quel tacchino con le patatine gli era sembrato una specie di apparizione divina.

 

Si buttò sotto le coperte, ma realizzò dopo pochi secondi di avere lasciato le tende aperte: la luce dei grattacieli illuminava troppo la stanza e gli dava fastidio. Sbuffando si diresse verso la finestra e fece per tirare le tende, ma si bloccò.

 

I grattacieli di Gotham, così cupi e poco interessanti di giorno, erano tutti illuminati: molte delle luci erano quelle di appartamenti, ma c’erano anche delle solitarie luci di qualche ufficio. Tuttavia non furono queste a catturare l’attenzione di Robin.

 

Lontano dal condominio dive si trovava, spiccava su tutti un grattacielo, più moderno ed elegante rispetto agli altri. Di giorno Robin non lo aveva degnato di uno sguardo visto che gli era sembrato un grattacielo come tanti altri, ma di notte veniva accesa un’enorme insegna luminosa con il nome della compagnia.

 

Robin sentì un brivido lungo la schiena quando lesse il nome illuminato.

 

Era la Wayne Enterprises.

 

 

Anche questa “fatica” è compiuta! Ringrazio calorosamente chi ha letto e chi ha recensito!

Il capitolo non è un granché ma, ripeto, è stato necessario staccarlo dal resto (che non è ancora finito, by the way) perché la lunghezza sarebbe stata eccessiva J

Ci vediamo al prossimo capitolo! Stay Tuned u.u

Inutile ricordare che le recensioni sono molto gradite! Besos!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Reckoning ***


kjlulululou

 

 

Non ci posso credere, siamo già arrivati al 5 capitolo?! All’inizio pensavo che la storia sarebbe durata massimo 5 capitoli, ma mi rendo conto che, fortunatamente posso allungarla ancora un pochino!

Allora, capitolo abbastanza importante, come al solito è stato diviso in due. Alla fine del capitolo, su carta, la storia continuava fino all’abbandono di Robin da parte dei genitori, ma mi è venuta un’altra ideuzza e preferisco aggiungerla al prossimo (che forse sarà un pochino più corto, come capitolo. Forse!)

Bene, vi lascio alla storia! Ciaooo!!!!!

 

 Photobucket

Reckoning

 

Dalla cucina arrivava un delizioso profumo di cioccolato e di pane caldo e Robin, ancora leggermente disorientato dal sonno, ci arrivò affidandosi al suo naso.

 

“Buongiorno dormiglione!” lo accolse Stephanie tutta felice, mentre il Signor Gray abbassava il giornale per osservarlo.

 

“Dormito ben?” gli chiese lui, osservandolo sempre da sopra il giornale.

 

“Mh si, suppongo di sì.” Rispose Robin in tono vago, mentre metteva a fuoco la cucina. Era spaziosa (come del resto lo era tutta la casa) e linda.

 

“Cioccolata calda?” chiese Stephanie in tono zuccheroso, come se l’episodio della sera prima non fosse mai accaduto.

 

Robin si sentiva un po’ in colpa per il modo in cui le aveva risposto e si sforzò di essere il più accomodante possibile

 

“Si, grazie.” Rispose semplicemente.

 

“Come ti senti?” gli chiese James Gray in tono cordiale, ma continuando a studiarlo, come se avesse paura che desse di matto all’improvviso “è stata la tua prima notte nella tua nuova casa e con la tua nuova famiglia! Non sei felice?”

 

Robin sentì un filo di irritazione salirgli lungo la schiena, ma si impose di restare calmo. Con quei due doveva conviverci e avrebbe fatto meglio ad abituarsi.

 

“Oh sì, è stato fantastico.” Rispose, girando la tazza in modo da poterla afferrare per il manico.

 

Mentre beveva gli venne in mente una cosa, così dopo qualche sorso posò la tazza e chiese timidamente:

 

“Ehm, posso chiedervi cosa sapete di Bruce Wayne?”

 

Sentì due paia d’occhi che lo fissavano in modo stralunato.

 

“Com’è che ti viene in mente questo?” gli chiese in tono curioso Stephanie, servendosi di caffè.

 

James si dimostrò più pratico e gli rispose.

 

“Beh, è il più giovane miliardario di Gotham!Ha poco più di 20 anni, ha quasi finito il college e fra poco partirà per un viaggio, come ha annunciato alla stampa. E’il principale azionario della città, nonché proprietario di una quantità di ristoranti, alberghi e locali. Naturalmente la sua fortuna è tutta l’eredità che gli ha lasciato suo padre Thomas..” la voce di James parve abbassarsi “pover’uomo.”

 

“Perché “pover’uomo”? domandò Robin, smanioso di saperne di più.

 

“Oh ma insomma!” disse James in finto tono spazientito, senza nascondere un sorrisetto complice “ Dai, perché lo vuoi sapere, eh?”

 

Robin a quel punto aveva perso la pazienza e quindi sbottò:

 

“Beh, mi interessava e basta. Vedete, l’uomo che ha ammazzato mio padre, mentre stava per sparare anche a me mi ha preso in giro, forse voleva farmi reagire e divertirsi in quel modo..non so. Comunque ad un certo punto ha borbottato qualcosa sul fatto di non voler creare un altro piccolo Bruce Wayne. Ero solo curioso di sapere cosa abbiamo in comune io e questo Wayne. Sul momento non ci ho pensato, ero troppo preso dal pensare ad un modo per evitare che mi sparasse, ma stanotte ho visto il grattacielo della Wayne Enterprises e mi è tornato in mente. Tutto qui.”

 

Le sue parole ebbero un effetto tanto insolito quanto insoddisfacente: Stephanie aveva avuto un tremito violento, come se fosse stata attraversata da una scarica elettrica, mentre James lo aveva guardato con uno sguardo di sconcerto misto a paura.

 

“Io non…” aveva iniziato a balbettare il Signor Gray, guardando la moglie come in cerca d’aiuto.

 

“Questo non è un argomento da bambini.” Tagliò corto Stephanie.

 

Robin stava per aprire bocca per replicare, ma la signora Gray gli intimò di tacere, sollevando la mano “Non sono cose di cui vale la pena di parlare adesso..e comunque non è un argomento adatto a un bambino.”

 

Schiumante di rabbia, Robin mollò la tazza sul tavolo e fece per dirigersi in camera sua, ma la Signora Gray gli si parò davanti.

 

“Robin..” aveva sfoderato di nuovo il tono da mamma-chioccia “non te la prendere, è che non voglio che tu ti dilunghi su…su certe cose!”

 

“Non vuoi che mi dilunghi su certe cose?” ripeté Robin socchiudendo gli occhi.

 

“Esatto! La cosa migliore da fare è senz’altro quella! Perché rimuginare su cose che portano solo dolore? Perché non pensi ad altro? Per esempio, che regalino vorresti per Natale?”

 

Robin la fulminò con lo sguardo.

 

“Non posso pensare ad altro, non ti pare? Non credo che quello che mi è successo si possa cancellare…”

 

Stephanie si affrettò a scusarsi.

 

“Oh, ma certo piccolo mio! Lo..lo capisco! Però cerca di occupare il tuo cervellino anche su altre cose, d’accordo?” e gli scompigliò i capelli.

 

Trattenendosi dall’imprecarle in faccia, Robin tornò in camera sua a passi pesanti. Una volta dentro si diresse verso la valigia, che era ancora da disfare, alla ricerca dei vestiti e di uno spazzolino da denti, ma si bloccò un attimo, con le mani sulle chiusure della sua valigia. Forse aveva trovato un modo per saperne di più su Bruce Wayne.

 

 

 

Dopo circa un’ora (nella quale Robin era rimasto in camera a mettere a punto la sua strategia) raggiunse i Gray in salotto.

 

Erano seduti sul loro divano rosso e parlottavano animatamente: il fatto che si fossero interrotti proprio mentre lui entrava nella stanza, gli dette la sgradevole sensazione che stessero parlando proprio di lui.

 

“Oh, ciao Robin!” lo salutò la Signora Gray agitando la mano, mentre James lo squadrava con attenzione. Robin si chiese stancamente se quella donna si sforzasse di essere sempre così allegra e frizzante o se fosse tutta una facciata.

 

“Vi volevo chiedere una cosa..” disse Robin sfoderando il tono di voce più infantile e innocente di cui fosse capace.

 

“Oh, ma certo piccolo!” rispose la Signora Gray scambiandosi un’occhiata fiduciosa con il marito.

 

“Ecco mi chiedevo se…” continuò Robin modulando la voce e sperando in un successo “ è che, dopo tutte le settimane passate chiuso in ospedale mi manca andare a fare un giro fuori, ehm al parco. Ci andavo spesso a..dare da mangiare alle anatre” buttò li, non sapendo che scusa inventarsi “quindi mi chiedevo se potevate lasciarmi uscire. Mi copro bene e sono di ritorno fra 2 ore al massimo.”

 

Il piano di Robin era quello di uscire da solo e andare fino alla Gotham Central Library: lì avrebbe di sicuro trovato informazioni sulla famiglia Wayne negli archivi. Tuttavia, l’espressione contrita dei due gli fece perdere le speranze.

 

Oh, no no no piccolo Robin! Questo non lo posso proprio fare!” rispose la Signora Gray guardandolo come se le avesse appena dato fuoco al tappeto “No no no! Un bambino piccolo come te da solo per Gotham!” esclamò in tono inorridito “no, non posso lasciarti andare da solo. Però posso portarti io!” si offrì, tutta contenta.

 

“Giro da solo per Gotham da quando avevo 8 anni!” protestò Robin in tono indignato.

 

“Beh, scusami ma è da irresponsabili. Chi mai poteva permettere ad un bambino della tua età di girare da solo per questa città?” intervenne il signor Gray.

 

“Mio padre..” ringhiò Robin, stringendo i pugni.

 

Il signor Gray si rese conto di aver detto la cosa sbagliata e, molto saggiamente, tacque.

 

La Signora Gray tuttavia non si era persa d’animo e si stava già infilando un cappotto bianco dall’aria costosa.

 

“Se Robin vuole andare al parco, ci andrà! Vai a metterti un cappotto, ti ci porto io! Ci divertiremo un sacco!”

 

 

 

Erano passati due giorni dalla disastrosa uscita al parco: la Signora Gray e Robin avevano girato senza meta  per mezza mattinata, alla ricerca di un’anatra fra le acque gelide del laghetto del parco (anche se ci voleva un bel coraggio a chiamare laghetto quello stagno putrido), ma senza esito.

 

La Signora Gray non si era mai persa d’animo e, con un insopportabile ottimismo aveva trascinato un Robin molto silenzioso da una parte all’altra del parco.

 

Il mutismo di Robin era dovuto al fatto che stava architettando un altro piano per andarsene in biblioteca.

 

“Sgattaiolare fuori di nascosto è fuori discussione..” aveva constatato amareggiato, mentre la Signora Gray continuava a chiamare con la sua irritante voce squillante le paperelle nascoste. “Quei due non mi perderanno d’occhio neanche per un secondo. In più sono in vacanza, quindi non c’è speranza che mi lascino solo per qualche ora.”

 

Ci aveva rimuginato tutto il giorno e, alla fine, l’idea tanto agognata gli balenò in testa. Tuttavia si disse che avrebbe fatto meglio ad aspettare 2 o 3 giorni, per far calmare le acque e per fare dimenticare ai Grey l’episodio della colazione.

 

Aspettò due giorni e, subito dopo pranzo, sfoderò di nuovo la sua vocetta infantile e piagnucolosa, che gli faceva venire voglia di prendere a testate un muro.

 

“Ehm..mi chiedevo se potevate portarmi in biblioteca oggi.” Disse Robin guardando i due coniugi, intenti ad impacchettare regali in cucina.

 

“In biblioteca?” ripeté James distogliendo per un attimo l’attenzione dal regalo che stava incartando.

 

Robin snocciolò la scusa che aveva preparato ad arte in quei due giorni “Oh beh, prima ci andavo molto spesso e l’ultima volta avevo preso in prestito un libro che ora è in valigia!  Devo restituirlo al più presto perché il termine è quasi scaduto e perché l’ho finito.”

 

Mentre parlava, si stupiva della facilità con cui riusciva ad inventarsi delle bugie: non era mai stato un contaballe perché non ne aveva mai avuto bisogno, ma ora sentiva che la sua tecnica doveva essere innata.

 

I due Gray, istintivamente, si guardarono e Robin dette il tocco finale “In realtà volevo andare anche a leggere qualcosa in biblioteca! Ci sono affezionato e poi mi piace tanto leggere!” questa, a differenza di quanto detto prima, non era una menzogna. Robin era andato spesso in biblioteca a leggere, per evadere un po’ dalla grigia realtà quotidiana. Gli piaceva immergersi in avventure fantastiche in quella biblioteca dall’aspetto antico e imponente.

 

”Io..”principiò a dire la Signora Gray e Robin si preparò mentalmente all’ennesimo rifiuto “io credo che si possa fare! Vero James?” la donna guardò il marito come per trovare conferma.

 

“Si, immagino di sì.” Disse il signor Gray in tono leggero, rimettendosi ad impacchettare il regalo “alle 3 ti ci porto.”

 

Robin li guardò incredulo, ma poi sorrise: non riusciva a credere di averli abbindolati così bene.

 

 

 

James Gray si fermò davanti ai portoni di legno della biblioteca “Allora passo a prenderti fra un’ora.” chiese a Robin, che stava già scendendo dalla macchina, impaziente.

 

Robin non aveva neanche osato sperare in tanta fortuna: non solo non avevano fatto storie, ma avevano pure acconsentito a lasciarlo da solo. Evidentemente la biblioteca non era catalogabile come “posto pericoloso”.

 

Robin aspettò che l’auto avesse svoltato all’angolo, prima di salire i gradini di pietra che portavano all’ingresso.

 

Una volta dentro Robin non indugiò, come faceva di solito, a contemplare la bellissima cupola che sovrastava l’intera sala ma appese il suo cappotto ad un attaccapanni e si diresse verso il banco informazioni, unica nota stonata nell’arredamento della biblioteca. La biblioteca aveva un aspetto antico e maestoso, mentre il banco informazioni era stato aggiunto dopo ed era in legno chiaro e vetro.

 

Al banco sedeva una donna sulla cinquantina, corpulenta ma dall’aria gentile.

 

“Salve!” fece Robin cercando di farsi vedere (il bancone era piuttosto alto) “Volevo sapere se tenete copie dei giornali degli ultimi anni.”

 

“Beh, abbiamo le edizioni del Gotham Globe, del Sunday Times, e del Gotham Daily degli ultimi 30 anni.” Rispose la donna osservando quel piccoletto che cercava di sporgersi sul bancone “Cerchi qualcosa in particolare?”

 

“Sì, mi servirebbero articoli su…” pensò un attimo alla discussione dell’altro giorno. Come si chiamava il padre di Bruce Wayne? “Vorrei gli articoli sulla famiglia Wayne.”

 

La donna digitò qualcosa, rapidamente sul computer scassato che aveva di fronte.

 

“Ne abbiamo parecchi di articoli sulla famiglia Wayne..per cosa ti serve?”

 

“Una ricerca scolastica. Compiti per le vacanze.” Improvvisò Robin, tamburellando sul legno del bancone.

 

“Beh qui ne abbiamo in abbondanza di materiale. Dalle donazioni per la ricerca medica, alla costruzione del Gotham General Hospital, dalla beneficienza alla costruzione della monorotaia, le sovvenzioni per l’Arkham Asylum “la bibliotecaria fece una pausa nella quale si aggiustò gli occhiali “ e, naturalmente, una sfilza di articoli sull’orribile omicidio dei Wayne.”

 

Robin sentì i capelli drizzarglisi in testa.

 

“Mi servono quelli.” Disse con voce tremante.

 

La bibliotecaria annuì, senza fare domande e si allontanò per qualche minuto, per poi tornare con un pacchetto di giornali tenuto insieme da un laccetto nero.

 

.Lo accompagnò ad un tavolo e lo lasciò da solo con gli articoli di giornale.

 

Robin inspirò profondamente e cominciò a sciogliere il laccio che teneva insieme il pacchetto dei giornali.

 

 

 

“Robin sei sicuro di stare bene?” chiese Stephanie, notando che il figlio adottivo non aveva praticamente toccato cibo ed era rimasto tutto il tempo guardando il basso, assorto nei suoi pensieri.

 

“Sto bene.” Ripeté per quella che gli sembrò la centesima volta, guardando il piatto di pasta quasi intatto “Non ho appetito, tutto qui.”

 

Ci fu un momento di silenzio, poi Stephanie ripartì all’attacco.

 

“Robin, devi mangiare qualcosa!”

 

“Non ho fame!” sbottò Robin gettando le posate sul piatto, alzandosi e correndo in camera sua.

 

Sbatté la porta dietro di sé e si buttò sul letto, chiudendo gli occhi.

 

Era riuscito a leggere gli articoli,l risalenti ad anni prima, della tragica morte di Thomas e Martha Wayne.

 

Robin era riuscito a figurarsi con estrema chiarezza il Joe Chill descritto dal giornale, mentre si avvicinava a quella normalissima famiglia, uscita in fretta dal teatro per un malessere del figlio (come avevano riportato i giornali).

 

Ad occhi chiusi, Robin riusciva ad immaginare un vicolo umido e buio, proprio come Sycamore Street, col fumo che usciva lentamente dalle fogne ed un odore di marcio che aleggiava nell’aria.

 

Sentiva quei due assordanti spari che avevano stroncato il famoso dottor Wayne e sua moglie.

 

I giornali avevano pareri discordanti sulla successiva fuga di Joe Chill: il Gotham Globe affermava che Joe Chill stava per svuotare il caricatore su Bruce, rimasto impietrito, ma che un rumore lo aveva spaventato e fatto scappare (anche se non era andato lontano), mentre un altro sosteneva che l’assassino non avesse proprio pensato al ragazzino, ma ad arraffare i soldi e a scomparire nella nebbia di Gotham.

 

Robin pensava a quanto fossero simili lui e quel Bruce Wayne: aveva rivisto sé stesso, in quella foto in bianco e nero del Gotham Globe, il volto di un bambino impaurito, dagli occhi che sembravano chiedere “perché?! ” al mondo intero. Pensò alla sua paura, al suo senso di impotenza, a come non fosse nemmeno riuscito ad urlare.

 

Ora capiva cosa intendeva Roger per “creare un altro Bruce Wayne” e per un attimo si chiese se scappare fosse stata in effetti la cosa migliore da fare. Si rese conto proprio in quel momento che avrebbe vissuto tutta la sua vita con quell’immagine davanti agli occhi, un’immagine che avrebbe infestato i suoi incubi per sempre.Inconsapevolmente, Roger gli stava facendo molto più male in questo modo. Cos'era una pallottola in confronto ad una vita del genere? Una vita segnata dalla rabbia e dal ricordo indelebile di quanto era accaduto senza un perché.

 

Gli vennero le lacrime agli occhi.

 

“Perché deve succedere tutto questo? Perché nessuno fa niente?!” bisbigliò Robin

 

“Robin? Piccolo birichino, vieni fuori! Se c’è qualcosa che non va devi dirlo alla mamma. Io..”

 

Non finì la frase perché fu praticamente investita dall’urlo di Robin, anche se c’era una porta a dividerli

 

LASCIAMI..IN..PACE!”

 

La scarpa che Robin lanciò contro la porta, fu il segnale definitivo e Stephanie girò i tacchi, dirigendosi in salotto. Lei e suo marito avevano bisogno di discutere qualcosa di importante.

 

 

 

This is the end of Chapter 5! Grazie a tutti quelli che recensiranno, ma anche a quelli che leggeranno e basta J Ci vediamo presto!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Rejection ***


kjlulululou

< /A>Ed ecco a voi il sesto capitolo! Ho aspettato un po’ a pubblicarlo per…cause indipendenti dalla mia volontà. L’università è appena ricominciata e sono ai corsi dalle 8:30 di mattina fino alle 18:45 di sera quasi tutti i giorni, quindi sta diventando un’impresa eroica trovare il tempo di scrivere, accertarsi che non sia una ciofeca, copiarlo, correggerlo, metterlo on-line e, ovviamente ,rispondere alle recensioni e recensire a mia volta!

Bene, bando alle ciance, vi lascio al capitolo e lascio i chiarimenti alla fine.

 

 Photobucket

Rejection.

 

Robin camminava per un vicolo buio illuminato a malapena da qualche lampione che i vandali avevano graziato, stava camminando da un po’ (un’ora? due ore? non sapeva dirlo con esattezza) e quel vicolo pareva non finire mai.

 

Poi un particolare catturò la sua attenzione: c’era qualcosa in mezzo alla strada.

 

Robin strinse gli occhi, dato che la foschia gli impediva di vedere chiaramente, e riconobbe la figura come quella di una persona che gli dava le spalle.

 

“Ehi!” lo chiamò Robin, sollevato dal fatto che ci fosse qualcuno in quel vicolo angusto che gli dava uno strano senso di inquietudine.

 

Lo sconosciuto non rispose.

 

“Ehi, tu!” lo chiamò di nuovo Robin, avvicinandosi.

 

Anche stavolta non vi fu risposta, ma ora Robin era vicino e, con un’intraprendenza che quasi non riconobbe come sua, mise le mani sulle spalle dello sconosciuto (alto quanto lui e vestito con un cappotto dall’aria elegante) e lo fece girare.

 

Non appena lo vide in faccia Robin lanciò un grido di sorpresa ed indietreggiò, agitando la mano sinistra nella ricerca frenetica di un appiglio alle sue spalle: quella persona era sé stesso!

 

“Ciao Robin.” Lo salutò tranquillamente il suo sosia.

 

“Tu chi sei?” balbettò Robin appoggiandosi contro la parete dietro di lui  “e dove siamo?” aggiunse.

 

“Io sono Bruce Wayne e questa è l’uscita sul retro del teatro di Gotham “ rispose ,indicando una porta arrugginita dietro di sé “è qui che ci hanno aggredito.”

 

“Si, lo so, l’ho letto su quei giornali in biblioteca.” Disse Robin, quasi senza fiato.

 

Il suo sosia gli sorrise, ma era un sorriso strano il suo, lo stesso sorrisino tirato che aveva provato davanti allo specchio molte volte, per mascherare quello che provava, sempre senza successo.

 

“Perché sei qui?” gli chiese Robin scrutando il suo sosia.

 

“Bruce” alzò le spalle “Non lo so, questo è il tuo sogno, quindi mi hai chiamato tu qui.” Si guardò intorno con aria noncurante “forse sono una specie di coscienza o chissà cos’altro.”

 

Robin annuì e si mise a sedere per terra, la schiena contro il muro.

 

“Io volevo solo che capissero.” Mormorò guardando per terra.

 

“Nessuno può capire cosa abbiamo dentro” gli rispose il suo sosia, guardandolo fisso “ possono solo fare finta di capire o, nel migliore dei casi, capire per un po’. Poi devi fare qualcosa che non puoi fare: dimenticare e ricominciare da capo, perché non c’è posto al mondo per quelli come noi.”

 

“Quelli come noi?” ripeté Robin perplesso.

 

Per tutta risposta “Bruce” sorrise, come aveva fatto poco prima.

 

“Cosa hai intenzione di fare?” gli chiese inaspettatamente.

 

Robin trasalì: per tutto quel tempo aveva pensato solo a quello che gli era capitato, senza soffermarsi su altro.

 

“Io voglio sconfiggere tutto questo male” rispose in tono fermo, stringendo i pugni così forte che gli diventarono bianche le nocche “ Voglio diventare un…non lo so, non ho idea di quello che voglio fare. Ma ci sarà pure un modo per cancellare tutto questo male.”

 

“Bruce” annuì, ma Robin si accorse che i suoi contorni si stavano facendo sempre meno definiti: si stava svegliando.

 

“Possiamo cambiare le cose, se lo vogliamo.” Rispose la sua copia “ma questo forse non è il tempo e il modo.”

 

“Cosa vuoi dire?! “ gridò Robin aggrappandosi con tutte le sue forze a quello che rimaneva del sogno, che stava lentamente sgretolandosi.

 

“Verrà un momento in cui le cose cambieranno, ma ora è tempo di indossare una maschera e andare avanti.”

 

Fu l’ultima cosa che Robin sentì nel sogno , prima di svegliarsi nella sua piccola stanza del St Switin’s, dove si trovava da due settimane.

 

Non ricordava più nulla.

 

 

 

La convivenza di Robin con i Gray aveva avuto vita breve: i suoi rapporti con loro si erano sgretolati rapidamente.

 

Dall’episodio della biblioteca, Robin non aveva più fatto nulla per nascondere il suo modo di essere e per mascherare tutta l’inquietudine che portava addosso come una seconda pelle.

 

I Gray all’inizio avevano cercato di essere in qualche modo comprensivi, ma la loro inesperienza e limitatezza in questo campo era tale che spesso, Robin,  si ritrovava ad essere ancora più nervoso e sconcertato di prima.

 

Perché quei due sembravano non arrivare a capire che lui non poteva e non voleva lasciare tutto alle spalle, come se la sua esperienza fosse una sciocchezza di poco conto?

 

Era esasperato dalla loro completa ottusità, dal loro ostinarsi nel voler rimpiazzare nel suo cuore e nella sua testa, due persone che non se ne sarebbero mai andate, due persone che non avrebbero smesso di visitarlo nei suoi ricordi, nei suoi sogni ed anche nei suoi incubi.

 

Tuttavia i signori Gray passarono ben presto dalla loro comprensione mista ad accondiscendenza ai veri e propri rimproveri.

 

“Smetti di tenere quel muso, Robin!” “Robin, perché non ti sforzi neanche di fare il bravo?” erano solo due degli innumerevoli richiami che gli venivano fatti.

 

Il pranzo di Natale fu una vera e propria agonia: frotte di parenti che sembravano la copia-carbone di quei due tizi così stupidamente presi dalla loro facciata di famiglia perfetta, da non tenere conto di questioni più importanti, considerate alla stregua di imbarazzanti contrattempi.

 

Robin non era capace di adeguarsi a tutto questo.

 

“Forse non riuscirò mai a cambiare del tutto.:” si disse guardando con aria assente lo skyline di Gotham, sferzata dalla pioggia invernale “sono condannato a una vita del genere.”

 

Rapidamente, anche l’ultimo granello di pazienza dei Gray si esaurì; il culmine fu raggiunto un piovoso pomeriggio di gennaio, nel quale Stephanie aveva cercato per l’ennesima volta di trovare un dialogo con quel bambino scontroso e lunatico che le era stato affibbiato.

 

La proverbiale goccia che fece traboccare il vaso fu quando Robin, dopo averle sentito dire in tono piagnucoloso “noi siamo i tuoi genitori, Robin!” le rispose in tono ostile “No, non lo siete. E non lo sarete mai. Non pensateci neanche.”

 

Da quell’episodio, qualcosa era cambiato in casa: Robin non venne mandato a scuola, che in quei giorni era ricominciata, ma veniva lasciato a ciondolare per casa, da solo. La sera veniva spedito in camera insolitamente presto, ma Robin non si curava di saperne il perché.

 

Tuttavia una sera, assetato, Robin uscì dalla sua stanza per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina, ma quello che vide lo fece istintivamente fare marcia indietro per non farsi vedere: c’era Dominic in cucina.

 

Dominic sembrava intento a conversare in modo concitato con i Gray, che erano scuri in volto, la bocca contratta e le braccia conserte sul tavolo,

 

Lo vide gesticolare; i suoi gesti tradivano un certo nervosismo per qualcosa che Robin non capì subito.

 

“Forse li sta facendo ragionare” ipotizzò Robin, nascosto nel buio “forse gli sta dicendo che hanno sbagliato tutto!”

 

Le speranze di Robin si afflosciarono tutte all’uniscono quando vide Dominic sospirare rassegnato ed estrarre alcuni fogli dalla valigetta che aveva portato con sé, la delusione stampata sul volto.

 

La consapevolezza di quello che stava succedendo colpì Robin con la forza di un pugno nello stomaco: aprì la bocca, come per dire qualcosa ma la richiuse subito.

 

Silenziosamente tornò in camera sua, si diresse verso l’armadio e si chinò per estrarre la valigia dal fondo per poi spalancarne le ante.

 

Era rassegnato ma, in qualche modo, anche profondamente triste. Si sentiva più solo che mai.

 

Rimase per un attimo immobile, le mani ancora sulle maniglie dell’armadio e si rese conto che la sua vita non sarebbe mai più tornata come quella di un tempo.

 

Non sarebbe mai più stato quel Robin Blake, quella parte di lui faceva ormai parte di un passato neanche troppo lontano, ma che a lui sembrava appartenere alla vita di un’altra persona. Robin era il suo nome, il nome che sua madre gli aveva dato, il nome per il quale sua madre morta lo aveva chiamato affettuosamente quel maledetto giorno, il nome che suo padre John aveva urlato poco prima di essere ucciso, il nome per il quale uno spietato sicario lo aveva deriso, un nome su un pezzo di carta che lo avrebbe spedito in un orfanotrofio.

 

Non sarebbe più stato Robin, da quel momento in poi sarebbe stato come se avesse messo su una maschera per occultare la sua identità: Robin John Blake. John Blake. John.

 

Sentì dei rumori provenienti dalla cucina che lo riportarono bruscamente alla realtà.

 

“Sarà bene che faccia la valigia..” constatò “così domani perdiamo il minor tempo possibile.”

 

 

 

Questo capitolo è stato un po’ più “noioso” da scrivere: non riuscivo a concentrarmi bene sull’azione (anche perché qui di “azione” ce ne è ben poca XD). Tuttavia ne sono venuta a capo, spero che il lavoro sia quantomeno decente xD

Allora..un po’ di chiarimenti: in questo capitolo ci sono suggestioni Inceptioniane per quanto riguarda la prima parte: qualche sera fa hanno trasmesso “Inception” alla TV (Dove sorpresa sorpresa! C’è il caro Joe <3)  e, dopo averne rivisto un pezzettino (prima che i miei cambiassero canale perché lo hanno già visto ) mi è venuta l’idea di aggiungere l’elemento onirico” in questo capitolo.In reatà, come fonte di ispirazione dovrei citare anche un documentario sui sogni del dvd di “Inception” (condotto in parte da…sorpresa sorpresa (x2)! Il caro Joe!<3 <3 ) dove vengono spiegate le varie tipologie di sogni, di come questi acchiappino anche la cosa più infinitesimale del tuo subconscio e la rielaborino in quello che poi è il sogno in sé. Mi ha colpito molto la parte in cui si parla dei “sogni premonitori”, visto che è capitato anche a me di averne uno (giuro!) quindi ho pensato che sarebbe stato carino inserirne una versione un po’ “annacquata”. Il fatto che il “Bruce” del sogno abbia le fattezze di Robin non è casuale, è una parte della mia interpretazione del discorso che John fa a Bruce (il fatto che lo abbia riconosciuto dagli occhi e bla bla bla, ho aggiunto un piccolissimo riferimento a questa cosa anche nel capitolo precedente). Ho praticamente riportato pari pari un pezzo del discorso di Blake (“Not a lot of people know what it feels like. To be angry. In your bones. I mean, they understand, the foster parents. Everybody understands for a while. But then they want something the angry little boy can't do: move on." ) un po’ ovunque, nel corso del capitolo. Spero di non aver peccato di ridondanza xD

Bene, credo di aver detto tutto. Vi saluto e vi do appuntamento al prossimo capitolo (che spero di ultimare prima possibile). Grazie a tutti quelli che leggeranno e che commenteranno! Bye bye!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Intuition ***


kjlulululou

 

 

Ce l’ho fatta! Una ola per me! Non so ancora come ho fatto a copiare tutto questo mastodontico capitolo al computer..ma ci sono riuscita! Spero che questa mia fatica (nel vero senso della parola) sia di vostro gradimento… preparatevi al famigerato incontro fra Bruce Wayne e il giovane Blake, ormai diciassettenne! Pronti, partenza..via!

 

 

 Photobucket

Intuition.

 

“E’ una grande partita per i Gotham Rogues, gli spettatori sono letteralmente in delirio! E’ tutto un tripudio di striscioni gialli e neri per l’ultimo punto appena segnato da Hamilton! Che partita esplosiva, ragazzi!” la voce squillante dello speaker rimbombava per tutta la sala audiovisivi del St.Switin’s, esaltando i ragazzi intenti a guardare i progressi dei Gotham Rogues e infastidendo quelli che cercavano di leggere.

 

“Ehi coso, vuoi abbassare il volume?” si spazientì una ragazza bionda, posando con un gesto rabbioso il libro che stava leggendo “qui c’è gente che cerca di leggere!”

“Vattene in camera tua allora.” Le rispose in tono arrogante uno dei ragazzi incollati alla TV,  degnandola appena di uno sguardo.

“John per favore, visto che a te danno retta, potresti dirgli di abbassare il volume?”

 

Il ragazzo  spostò un ciuffo ribelle dei suoi lunghi capelli neri che gli era caduto sulla fronte mentre leggeva: “Li tengo buoni al massimo per 10 minuti Emily, poi torneranno a schiamazzare.”

 

“Ti prego, John!” lo implorò lei “è una questione di principio, non possono fare sempre come pare a loro!”

John sorrise divertito: Emily adorava che qualcuno prendesse le sue parti, specie se quel qualcuno era lui.

 

“Ok, ma non posso andare lì e dirgli di abbassare, non mi guarderanno neanche”

John girò la testa, esaminando rapidamente la stanza, finché qualcosa non catturò la sua attenzione, proprio dietro il televisore.

A-ha..” mormorò John poggiando il libro sul tavolino davanti “aspettiamo ancora qualche minuto..”

 

Emily osservò attentamente John, cercando di capire quale idea gli frullasse in testa: di solito se ne usciva con delle trovate che lasciavano spiazzati gli altri e che lo facevano sempre uscire “pulito.”

I Rogues erano di nuovo in possesso di palla e la stella della squadra, un giocatore di nome O’Keegan, stava correndo a perdifiato verso la base, schivando l’offensiva avversaria.

John si alzò e con fare noncurante si diresse verso il bidoncino distributore d’acqua dietro la tv, poggiata su un mobiletto di acciaio.

“Ed ecco O’Kennegan che schiva Tennison! La base ora è vicina ma…oh no! Sembra che Bosley ce l’abbia proprio con lui! Si avvicina, sono vicinissimi alla base! Ed ecco che…”

 

Zzap! Con un ronzio sinistro, la televisione tacque e John rimase bloccato con un piede impigliato nel filo e  una calcolatissima espressione dispiaciuta stampata in volto.

“Ops!” esclamò John, mantenendo la sua aria dispiaciuta “sembra proprio che sia inciampato.”

“Riattacca quel filo Blake, ci stai facendo perdere la partita!” lo implorò uno dei ragazzi più grossi.

 

“Tra un momento..” rispose John con tutta la tranquillità di questo mondo, chinandosi per afferrare l’estremità della spina che lasciò dondolare fra le dita.

“Blake, riattacca quell’accidenti di spina!” gli gridò un altro in tono quasi piagnucoloso.

John fece un sorrisetto sghembo: erano così stupidi che non si alzavano neanche per strappargli la spina dalle mani.

 

“Fra un momento, prima volevo chiedervi una cosa: dite un po’, ci tenete a guardare questa partita, eh?”

I tizi annuirono all’unisono.

“Lo supponevo. “ continuò John in tono pacato “vedete, la vostra situazione assomiglia un po’ alla mia e quella di Emily. Noi ci teniamo a leggere e no, n on possiamo andare a leggerlo in camera nostra, perché credo che abbiamo il sacrosanto diritto di usufruire di questa sala..”

 

I tre lo guardarono con aria stolida e John sospirò:

“Io vi riattacco la spina, ma voi abbassate quell’accidenti di volume, intesi?”

I tre annuirono di nuovo, senza protestare; se a fare quel discorso ci fosse stato chiunque altro, non sarebbe neanche riuscito a finire la frase perché lo avrebbero letteralmente spalmato sul muro senza pensarci troppo.

Ma quel Blake era diverso: era un tipo solitario che non cercava guai, ma il fatto che l’anno passato avesse mandato al tappeto con un colpo solo, ma ben assestato, un tizio grosso circa il doppio di lui, che lo aveva infastidito solo per il gusto di farlo per una mattinata, combinato al fatto che sembrava un tipo così diverso dagli altri, era un fattore determinante.

 

John, prendendosi il suo tempo, riattaccò la spina e dopo qualche lieve disturbo di frequenza, lo stadio tornò ad essere visibile.

“Non avete neanche perso nulla di importante..” commentò John lanciando una rapida occhiata allo schermo “Non è O’Keegan quello che piagnucola in un angolo?”

E detto questo tornò a sedersi sul divanetto e si immerse di nuovo nella lettura.

 

 

 

John Blake aveva quasi 18 anni e si trovava al St.Switin’s da quando ne aveva 10.

 

Appena era arrivato aveva avuto un’incredibile fama, dovuta a quello che gli era successo. I bambini lo assillavano continuamente chiedendogli particolari sulla sua rocambolesca fuga, ma lui non aveva mai detto niente al riguardo.Col passare del tempo, anche i suoi  “ammiratori” più incalliti si erano stufati  e lo avevano lasciato perdere, con suo sommo sollievo.

John si era distinto da subito per la sua propensione alla solitudine (anche se aveva stretto amicizia con due ragazzi, Emily e Dennis) e per la sua mente sveglia e attenta.

Da bambino aveva brillato nei voti, ma un po’ meno per quanto riguardava la condotta, poiché era soggetto ad improvvisi scoppi d’ira ed era spesso scontroso.Tuttavia col tempo il suo carattere si era addolcito (se così si poteva dire).

A diciassette anni era diventato un ragazzo abbastanza alto e meno mingherlino di quanto fosse stato da piccolo. Si era lasciato crescere i capelli, che erano lunghi fino al collo e neri, ma per quanto fosse cambiato fisicamente (non si sarebbe detto che quel ragazzo alto e dritto, dallo sguardo penetrante, fosse stato un bambino dall’aria così tenera e indifesa) alcuni rimasugli del suo carattere di quando aveva messo piede nell’orfanotrofio non erano mutati.

Era rimasto un tipo essenzialmente solitario (eccezion fatta per i due amici di sempre) ed era diventato estremamente brillante in tutte le discipline.

La rabbia che aveva covato dentro di sé anni prima, era stata in parte domata e convogliata in altri atteggiamenti.

John, crescendo, aveva dimostrato di avere quel tipo di intelligenza mista ad un pizzico di quella che i professori chiamavano erroneamente arroganza, mentre in realtà era solo senso di ribellione, frutto di quella rabbia che era riuscito ad elaborare nel corso degli anni.

Cosa gli passasse per la testa nessuno lo sapeva ma, nonostante i voti e la condotta ineccepibile, i professori avvertivano la presenza di qualcosa di strano in quel ragazzo taciturno.“Testa calda” era l’appellativo che gli veniva rivolto più spesso, ma non c’erano mai state punizioni o cose del genere, visto che non era possibile punire un allievo basandosi solo su una vaga sensazione.

John, dal canto suo, teneva un profilo basso: non esternava quasi mai i suoi pensieri più intimi, ma quella calma, mista a quel pizzico di ribellione era il risultato di anni di ragionamenti e considerazioni. Alla fine John aveva trovato il modo di “voltare pagina” come gli era stato intimato più e più volte e nel farlo aveva anche capito quale sarebbe stata la soluzione per placare tutta la rabbia che lo aveva tormentato per anni.

Gli ci era voluto il ricordo di una notte fredda e di un bambino che era andato a sbattere contro la figura alta di un poliziotto, un tutore della legge  forte e coraggioso.

Doveva solo aspettare qualche altro mese.

 

 

 

La classe lavorava in silenzio sui compiti da svolgere, era una mite giornata di primavera e gli allievi del St.Switin’s erano visibilmente più allegri e vivaci.Quella classe di adolescenti era quasi vuota, visto che buona parte di loro aveva preferito dedicarsi ad attività all’aria aperta.

Psst…John?” bisbigliò un ragazzo biondo dando una leggera gomitata al suo compagno di banco, intento a svolgere un problema di algebra.

Riportato bruscamente alla realtà, John si girò verso il suo amico Dennis .

“Che c’è, Den?”

“L’hai visto il giornale di oggi?” gli bisbigliò di rimando Dennis, sventolandogli davanti una copia del Gotham Globe.

“Non ancora, credevo non lo avessero ancora recapitato.” Che dice di interessante?” si animò John, lasciando il suo amico distendere la copia del Gotham Globe di Venerdì sul tavolo.

John lesse in fretta l’intestazione della pagina e sillabò un :”U-A-O.”

La prima pagina era interamente occupata da un mega articolo sull’argomento che andava per la maggiore di quei tempi, ovvero del vigilante mascherato, conosciuto come “Batman”.

“Che roba, eh?” lo incalzò Dennis, mentre John leggeva l’articolo sottostante, che in realtà non diceva nulla più delle solite ovvietà.

La cosa interessante dell’articolo era la foto che troneggiava in prima pagina: qualche temerario, non era dato sapere come, aveva scattato una fotografia a Batman da una distanza piuttosto ravvicinata, mentre il Batman era in piedi con lo sguardo rivolto da qualche parte nelle vicinanze del fotografo.

“E’ o non è una gran figata? Erano mesi che volevo un’immagine come si deve di questo Batman!”

Il fenomeno di questo giustiziere mascherato era esploso  non molto tempo prima, quando Batman aveva assicurato alla giustizia il noto boss Carmine Falcone, legato come un salame su una specie di riflettore.

Ovviamente la polizia si era subito messa sulle tracce di quel pazzo furioso in costume nero che si ostinava a voler fare il loro lavoro, ma dopo il drammatico episodio dell’allucinogeno nebulizzato in città e di come quel “pazzo furioso” fosse riuscito a sventare una vera e propria apocalisse, era stato sancito una sorta di tacito (ma neanche troppo) patto fra le forze dell’ordine e il cavaliere oscuro. D’altronde, tutta la città poteva vedere il segnale luminoso a forma di pipistrello, installato sul tetto del commissariato di Gotham.

John in realtà non si era interessato subito a Batman, anche perché i giornali erano stati costretti a tacere la verità su come Carmine Falcone fosse stato beccato da un tizio qualunque, e non dai tutori della legge (senza contare il fatto che buona parte di essi erano stati corrotti dallo stesso Falcone).

Solo poco prima dell’episodio dell’esplosione delle tubature e la dispersione del gas allucinogeno nell’aria tersa e fumosa di Gotahm, qualche giornale si era lasciato sfuggire la verità e, da allora, John aveva letto avidamente tutto quello che era riuscito a trovare riguardo a quel Batman che si era fatto carico di quel compito che sarebbe spettato alla polizia.

“Questi tizio o  è un genio oppure è completamente partito” aveva commentato Dennis, lisciando il giornale e contemplando la foto con aria rapita.

“Forse è entrambe le cose..” commentò John in tono leggero, dando a sua volta un’altra occhiata alla foto “però una cosa è certa: deve avere un senso della giustizia impeccabile..”

Dennis lo guardò con aria interrogativa “Parlare come mangi ti fa proprio schifo, eh?” lo incalzò.

“Voglio dire..” si corresse John sospirando ed allontanandosi i capelli dal viso “che gli sta molto a cuore combattere…” osservò per un attimo Dennis e decise di usare una parola più semplice “i cattivi.”

Dennis si animò “Magari, che ne so..è un poliziotto scomunicato!”

“Si dice sospeso Den.” Lo riprese John senza riuscire a trattenere un sorriso.

“Si, insomma, quelli li! Come nei film, John! Il poliziotto sospeso che fa vedere a tutti di che pasta è fatto!.”

“Oppure è un poliziotto che si è allontanato di sua spontanea volontà.:” commentò John guardando il suo amico. “Forse la polizia non gli bastava più, forse per fare quello che sta facendo aveva bisogno di..di agire così.”

Dennis lo guardò con aria dubbiosa “Ma perché la maschera? Perché il pipistrello?”

John alzò le spalle e Dennis si morse un’unghia, con la solita aria pensierosa “E se non fosse proprio un poliziotto? Chi mai potrebbe essere così fuori da mascherarsi e andare a prendere a calci i cattivi? Cosa può spingere una persona a fare questo?”

“Vorrei poterti rispondere Den..” concluse John con un sospiro.

All’improvviso l’altoparlante dell’istituto gracchiò, riferendo che gli studenti dovevano recarsi nell’aula magna per una comunicazione importante riguardo al giorno dopo.

“Comunque sia..” disse Dennis prendendo il giornale “dev’essere fichissimo essere Batman! Vorrei tanto sapere chi è per stringergli la mano!”

“Già..” convenne John prendendo il suo quaderno “anche io.”

 

 

 

“Hai visto niente?” Dennis era impaziente come un bambino in attesa di aprire i regali di Natale, mentre zampettava intorno ad Emily.

“Per l’amor del cielo Dennis, è la terza volta in due minuti che me lo chiedi! No, non è ancora arrivato!” sbottò Emily, dando comunque un’altra occhiata dal terrazzo/cortile dove si trovavano.

“Comunque lo sentiremmo arrivare, no?” intervenne John sporgendosi a sua volta “non credo che Bruce Wayne verrà qui in taxi.”

Il giorno prima, i piccoli occupanti dell’orfanotrofio erano stati radunati nell’aula magna per una comunicazione importante: il giorno dopo il grande Bruce Wayne, generoso donatore di fondi per l’orfanotrofio (che era stato fondato anni addietro da Thomas Wayne) avrebbe visitato la struttura e scambiato quattro chiacchiere con insegnanti e ospiti dell’orfanotrofio, come se fosse un simpatico fratello maggiore sinceramente interessato a loro e non un miliardario pseudo-filantropo, sciocco e vanesio, che di sicuro avrebbe preferito trovarsi ad un cocktail party di celebrità, piuttosto che in un sudicio orfanotrofio del centro.

“Ho sentito un rombo!” strillò Dennis iniziando a saltellare sul posto e indicando il terrazzo e i  tre si affacciarono nello stesso istante, rischiando di battere la testa l’una contro l’altra.

Dennis cacciò uno sgrilletto, indicando in maniera convulsa la strada sotto di loro “E-è lei! Lamborghini Murciélago LPS40, grigio-metallizzata da 640 cavalli!” declamò Dennis in tono rapito, quasi con le lacrime agli occhi.

Emily roteò gli occhi con aria scocciata “Ma santo cielo Den, possibile che tu debba fare tutte le volte questa scena quando vedi una bella macchina? E poi che razza di nome è Murciélago?”

Dennis la guardò come se avesse appena detto una bestemmia “Lamborghini Murciélago LP640, Emily!” E comunque sia significa pipistrello, l’ho letto su una rivista! Ma non è questo il punto…” e si gettò in una carrellata di dettagli tecnici che fecero di nuovo sbottare Emily.

John guardò la macchina, svariati piani sotto i loro piedi, vide la portiera aprirsi dal lato del passeggero, dove scese quella che gli sembrò una top-model dai lunghi capelli rossi, fasciata in un sobrio abito grigio, mentre dall’altro lato scese una figura che venne subito fagocitata dall’orda di giornalisti appostati all’ingresso e venne resa invisibile dai mille flash impazziti.

John, allontanandosi dal balcone, sospirò: “d’altronde è solo qui per la sua immagine, cosa me ne importa di stare a guardarlo come un pesce lesso? Ha i soldi, ha tutte le donne che vuole e sarà pure stupido. Ci vedo solo un gran vuoto..” constatò, mettendosi le mani in tasca e riassumendo la sua tipica faccia seria.

“Oh, beh a me sembra una cosa carina da fare!”  ribatté  Emily raggiungendo John, “d’altra parte anche lui è un orfano, magari gli sta davvero a cuore la cosa..”

John trasalì un attimo: si era quasi completamente dimenticato di quel fatto. Il modo in cui era venuto a sapere del passato di Bruce Wayne apparteneva ad un passato che aveva chiuso in un cassetto della sua memoria.

Non vorrai creare un altro piccolo Bruce Wayne?” una voce dal passato si insinuò prepotentemente nel suo cervello, ma John la scacciò prontamente.

“Che hai John?” gli chiese Emily in tono apprensivo, vedendo che l’amico era come rabbrividito.

“Mhh, niente Em stavo pensando a una cosa. Lascia stare..”

E detto questo, John tornò dentro l’edificio, lasciando i due amici sul terrazzo.

 

 

Il pomeriggio passò molto lentamente: Bruce Wayne era impegnato in un appassionante tour turistico delle stanze dell’orfanotrofio, mentre frotte di bambini gli sciamavano intorno cercando di catturare la sua attenzione, porgendogli disegni e dolcetti. Bruce Wayne, d’altro canto, era conosciutissimo dai bambini dell’orfanotrofio.

Il miliardario orfano”, così veniva chiamato dai bambini dell’istituto, che riuscivano in qualche modo a proiettare sé stessi in quella figura che aveva del leggendario. Aveva soldi e tutto, ma non era molto diverso da loro, era una persona nella quale potevano riconoscersi e potevano condividere con lui una parte del peso che si portavano sulle spalle: la consapevolezza di essere soli al mondo.

John era da solo nella biblioteca dell’istituto, la stanza senza dubbio più bella e meno caotica dell’edificio: era la stanza tenuta un po’ meglio, senza crepe nei muri, anche se le luci erano piuttosto basse, cosa che costringeva chi leggeva a trasferirsi in un’altra stanza, spesso la sala audiovisivi che era tutta finestre.

John era seduto con altre poche persone su una delle poltroncine della sala, immerso come di consueto, nella lettura. Non gli interessava più di tanto correre a “fare la corte” a Bruce Wayne, poiché la cosa gli era quasi del tutto indifferente.  Quasi del tutto: era quella prima parola che lo impensieriva.

In realtà John stava solo fingendo di leggere, aveva infatti lasciato la sua mente andare a briglia sciolta e nella sua mente c’era un turbinio di sensazioni e ricordi che aveva ricacciato da qualche parte dentro di sé e non riusciva a spiegarsi come mai, proprio in quel giorno, avessero deciso di fargli visita tutti assieme.

Sospirando, John poggiò il libro che teneva davanti al naso sulle ginocchia, allungandosi per stiracchiare le gambe: l’idea che gli frullava in testa era una in particolare.

“Perché l’idea di  Bruce Wayne mi fa pensare ad una persona che ho già incontrato da qualche parte? Come se fosse una vecchia conoscenza, come se avessimo qualcosa in comune..”

Si morse il labbro inferiore quando, involontariamente, una vocina nel suo cervello gi bisbigliò in tono dispettoso “Senti di avere qualcosa in comune con lui perché siete orfani

John scosse la testa, come se così facendo potesse allontanare quella vocina fastidiosa: no, non era solo il fatto che fossero entrambi orfani. O meglio, derivava tutto da quello, ma la cosa che li legava era che entrambi avevano perso i genitori in modo tragico, proprio davanti ai loro occhi, senza un perché. John rivide davanti ai suoi occhi una foto di una copia del Gotham Globe, sepolta da qualche parte a prendere polvere nella biblioteca, la foto di un bambino spaventato. La sua espressione non era molto diversa da quella che aveva assunto lui quando si era svegliato in ospedale e si era guardato allo specchio. Lo stesso vuoto, la stessa dura consapevolezza di dover imparare a crescere in fretta in un mondo spietato.

Se potessi cancellerei tutto il male da questa città. Vorrei poter trovare un modo per poter portare la pace, per poter creare un luogo dove queste violenze non esistono.Vorrei poter diventare un simbolo, un simbolo di giustizia” Era quello il pensiero che lo aveva assillato per anni, mentre la notte, rigirandosi fra le coperte cercava di dare una forma alla propria rabbia e al proprio sgomento. John deglutì, mentre la forza dei suoi pensieri lo investiva come un’onda anomala, cancellando tutto il resto.

Ma John non ebbe il tempo di dilungarsi oltre sui suoi pensieri: sentì la porta della biblioteca scricchiolare ed il parlottio indistinto che seguì l’apertura gli fece intuire che delle persone erano entrate nella biblioteca.

Non si stupì più di tanto quando vide Bruce Wayne, tenuto a braccetto dalla bella ragazza dai capelli rossi fare il loro ingresso, scortati da padre Shannon ed altri due insegnanti.

“E questa è la biblioteca. E’molto fornita, fortunatamente abbiamo molte donazioni da parte di famiglie o di ex-occupanti di questo istituto. A volte anche la biblioteca ci passa delle copie un po’ più fruste di alcune vecchie edizioni di libri, che non possono più tenere..” spiegò Mattatias Shannon indicando la biblioteca.

Bruce Wayne annuì, osservando con aria poco colpita la biblioteca “Le copie più fruste, eh?” disse in tono ironico, osservando un’edizione senza copertina di un libro.

Gli insegnanti si guardarono, con aria imbarazzata, tentando di abbozzare dei sorrisini di circostanza, mentre la ragazza a fianco di Wayne rideva scioccamente.

John nel frattempo aveva lasciato il libro e si stava dirigendo verso l’uscita con fare discreto: non voleva interrompere i signori nella loro disquisizione dei fantastici mezzi di cui l’istituto disponeva, preferiva raggiungere Emily e Dennis, sempre sperando che non avessero definitivamente rinunciato a capirlo.

Proprio mentre John stava per raggiungere la porta, Bruce Wayne si voltò verso di lui, sentendo il rumore dei suoi passi ed  i loro sguardi si incrociarono.

La loro occhiata durò poco più di un secondo, poi Bruce distolse lo sguardo per continuare a seguire i discorsi di padre Shannon che voleva far vedere agli ospiti quanto fossero ben organizzati gli scaffali della biblioteca.

John aprì silenziosamente la porta ed uscì.

 

 

 

“Ma alla fine l’avete visto questo Wayne?” chiese Dennis mentre tornava al tavolo col piatto ricolmo di pastasciutta.

“Io si.” Disse Emily in tono fiero, mentre si versava dell’acqua.

“E tu John?” chiese Dennis a bocca piena “l’hai visto?”

Mh mh..” fece John che stava ripassando gli esercizi di algebra. Lunedì sarebbe stato interrogato e quel giorno aveva perso fin troppo tempo.

“Sempre loquace tu, eh?” lo rimbrottò Emily in tono amichevole, dandogli un colpetto leggero sul braccio, al quale John non rispose.

“Ma non vedi che Mr.Cervellone sta studiando? Non oserai interferire con i suoi doveri di bravo studente?” scherzò Dennis.

“John ma non mangi niente?” chiese Emily in tono preoccupato, osservando il piatto di John, dal quale lui aveva piluccato solo qualche pezzetto di carne.

“Non ho molta fame..In realtà sono un po’ preso dal problema. Se non riesco a risolverlo per l’interrogazione di lunedì sono nei casini..” disse John scribacchiando formule sul quaderno “anzi, credo che me ne andrò in camera. Qui c’è troppa confusione.”

I due amici lo guardarono, mentre per la seconda volta in una giornata si allontanava senza quasi dare spiegazioni.

“John è strano.:” commentò Emily. Non avrebbe mai osato confessarlo, ma aveva una cotta per lui, cotta che sarebbe rimasta inconfessata.

Dennis alzò le spalle “E’ solo preoccupato per l’interrogazione Em. Probabilmente lunedì, dopo l’interrogazione arriverà a pranzo tutto felice e dirà di voler fare un festino per celebrare l’evento. E finalmente gli faremo prendere una sbronza come si deve!”

Emily sorrise, cercando di convincersene, mentre finiva la sua cena.

 

 

 

Nella sua cameretta, John si scervellava per finire il problema che rifiutava di farsi risolvere: mentre andava in camera aveva afferrato per forza dell’abitudine, l’edizione serale del Gotham Globe dove Bruce Wayne troneggiava in prima pagina, tutti i dettagli sulla festa della quale sarebbe stato ospite quella sera e una menzione della sua visita all’orfanotrofio quasi alla fine dell’articolo.

John aveva rinunciato a scrivere le formule sul quaderno, che era tutto pasticciato e pieno di tratti rabbiosi di penna, ma con la mano destra continuava a scribacchiare e disegnare distrattamente.

Alla fine, con un sospiro, si arrese: per quella sera non c’era niente da fare. Forse il giorno dopo avrebbe avuto la mente più sveglia e disposta a risolvere quel dannato problema. Era ora di rilassarsi e di leggere il giornale, un impegno che si prendeva tutte le sere.

Tuttavia , afferrando la copia del Gotham Globe rimase interdetto: per quell’ora aveva scribacchiato distrattamente o meno su quello che aveva accanto, ma non si era accorto di aver fatto disegnini e ghirigori anche sul giornale. Con mani tremanti prese la copia del giornale e la distese davanti a sé, come per sincerarsi di quello che aveva visto: sulla prima pagina era stata stampata una foto di Bruce Wayne, ritratto frontalmente e con espressione seria, rivolta da qualche parte nelle vicinanze del fotografo, ma la penna di Blake aveva alterato completamente al foto, disegnando sulla faccia di Wayne qualcosa che poteva sembrare una maschera.

La maschera di Batman.

 

 

 

Bene, siamo giunti anche alla fine del settimo capitolo. Mi duole dirlo ma la storia volge ormai al termine L Credo che continuerà ancora per due, massimo tre capitolo (anche se propendo per due, considerando i temi che voglio trattare). Spero di essere riuscita a spiegare in maniera sufficientemente fattibile come John abbia capito da un solo, semplice sguardo, che Bruce Wayne, il miliardario spacciato per un frivolo vanesio fosse in realtà il suo idolo, quello che, nei profondi recessi del suo animo avrebbe voluto essere, riconoscendo nelle analogie fra la sua vita e quella di Bruce, quel “fattore X” che avrebbe spinto uno dei due  a voler diventare un simbolo. Due destini legati, in poche parole.

Bene, ho finito con i chiarimenti. Aspetto fiduciosa le vostre recensioni e ci vediamo al prossimo capitolo!! Baci!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** The Dark Knight ***


uui

 

 

 

Chiedo perdono per il mostruoso ritardo con cui pubblico questo capitolo, l’Università non mi ha mai lasciato un attimo di respiro! Quello che conta è che, finalmente, sono riuscita a copiare questo enorme capitolo e a pubblicarlo! Yeeeeee!

Non vi trattengo oltre, vi lascio alla foto e…via col penultimo capitolo!

Photobucket

The Dark Knight.

John sospirò sollevato quando anche l’ultima maglia fu riposta ordinatamente nella sua valigia sdrucita. Con un sorriso soddisfatto  si sedette davanti alla scrivania, una scrivania troppo piccola per lui da quando aveva compiuto sedici anni.

Lanciò un’occhiata alla stanza, come se volesse imprimersi nella mente tutti i particolari di quel cubicolo grigio che lo aveva ospitato per 8 anni, con tutte le sue crepe, le macchie d’umido e i graffiti di qualche precedente occupante.

Quella era la sua ultima notte al St.Switin’s poiché John aveva raggiunto la maggiore età e concluso gli studi:adesso era il momento di fare una scelta.

“Allora , finalmente ci siamo!” gli aveva detto Mattatias Shannon, dopo averlo convocato nel suo ufficio pochi giorni prima. Shannon, col passare degli anni, si era affezionato a John ed era stato l’unico a capire che, quella che gli veniva continuamente rimproverata, non era semplice arroganza.

“Già Padre.” Aveva convenuto lui mettendo le mani nella tasca della felpa.

Padre Shannon si sporse verso il ragazzo, dalla scrivania “E hai già deciso cosa vuoi fare?”

John non rispose subito e Padre Shannon, cogliendo l’occasione al volo, continuò a parlare “Sai che con la borsa di studio che hai vinto non ci sarebbero problemi per il proseguimento della tua istruzione. Per esempio potresti essere un ottimo insegnante! Con i bambini hai pazienza, ti ho visto molte volte aiutarli con i compiti o tirare su qualche piccolo un po’ giù di corda. Credo che come insegnante saresti perfetto! Sei attento, premuroso e paziente. Non si direbbe per un ragazzo che ha dato filo da torcere a tutti gli insegnanti della sua classe, eh?” terminò in modo scherzoso Padre Shannon, ammiccando appena.

John sorrise, palesemente divertito.

“No Padre, non è quello che voglio fare.”

Padre Shannon rimase interdetto per pochi secondi ed un pensiero attraversò la sua mente. Cercò lo sguardo dell'altro e vi lesse una risposta più che chiara.

“Ah, quello dici?”

John non poté non notare una lieve nota di delusione nella voce di Shannon, mentre gli annuiva, il sorriso sparito dalla sua faccia.

“Posso usufruire della borsa di studio anche per quello .” Rispose imitando il tono di Mattatias.

“Beh, d’altronde dovevo aspettarmelo. Lo dici da troppo tempo perché si possa definire una “fissazione” da bambino..”

“Mai stato un bambino.” Disse John cercando di usare un tono scherzoso e fallendo miseramente.

Mattatias guardò il ragazzo che gli stava di fronte: in quegli anni lo aveva osservato attentamente e gli si era affezionato ma, per quantoil ragazzo fosse cresciuto fisicamente o mentalmente, non riusciva a vederlo diverso da quel bambino che si teneva a distanza da tutti gli altri.

Ma ora era diverso, ora doveva guardare in faccia la realtà: quel bambino ora poteva uscire dal St.Switin’s e sarebbe diventato un uomo “libero” non appena avrebbe varcato la soglia. Un uomo libero di fare le sue scelte ed i suoi errori.

Perché, per Mattatias Shannon, la scelta di Blake era un errore: come poteva farsi condizionare la vita a quel modo? Perché diamine buttare al vento un futuro brillante per una carriera che gli avrebbe fatto rivivere ogni giorno quello che gli era accaduto in passato?

“Lo so Blake. Non ti nascondo però che avrei auspicato altro per te. Un lavoro sereno, una bella ragazza, una famiglia..”

John rise “Non vado a fare l’eremita in Tibet! E per quanto riguarda la ragazza e la famiglia..mi dia tempo, ho  diciotto anni!”

Padre Shannon fece un sorrisino un po’tirato, ma poi tornò serio.

“Come farai per mantenerti, prima di iniziare a lavorare, quando sarai ancora al corso? La borsa di studio non può certo coprire tutte le spese!”

“Ho già pensato anche a questo. Troverò un lavoro part-time, così non dovrò preoccuparmi, finché non comincio sul serio. Non farò una vita da nababbo, magari sentirò un po’ il freddo d’inverno e rinuncerò a qualche altro piccolo lusso…ma me la caverò.”

“Sei già passato al municipio per le faccende burocratiche?” si informò Shannon rilassandosi un poco.

John ebbe un lieve fremito “No, non ancora. Contavo di farlo domani.”

Il pensiero di rimettere piede nella sua vecchia casa, con i mobili coperti da lenzuola bianche e lise lo inquietava non poco.

“Non sei obbligato ad andarci.” Gli disse Shannon intuendo il suo turbamento.

“No, Padre.”rispose in tono risoluto “devo farlo. Diciamo che…che fa parte della mia crescita.”

“Ti vedo sempre bambino, Blake. Un bambino spaurito ed arrabbiato.” Disse Shannon in tono nostalgico “c’è una cosa che ti voglio chiedere.”

“Mi dica.”

“Ormai ne è passato di tempo..”principiò Shannon, cercando di trovare le parole giuste da dire “perché non vuoi ancora che ti chiamino..”

John, che si era accigliato mentre realizzava dove Mattatias Shannon voleva andare a parare, lo fermò.

“No, Padre non ho nessuna intenzione di cambiare il modo in cui mi faccio chiamare.”

“Ma è il tuo nome legale!” protestò Shannon.

“E il nome di mio padre è il mio secondo nome legale e farò in modo che tutti mi conoscano solo con questo."

“Non ti si può proprio smuovere, eh?”

“No Padre. Ormai dovrebbe saperlo che sono un testardo” rispose John sfoderando di nuovo un sorriso. “ora, se non le dispiace, è meglio che vada. Em e Dennis partono e vorrei andarli a salutare.”

Emily e Dennis, alla fine, si erano messi insieme (Em non aveva mai trovato il coraggio di dichiararsi a John ed aveva anche capito che lui non si sarebbe mai interessato a lei) ed avevano deciso di lasciare Gotham per cercare fortuna da qualche altra parte. E come dar loro torto?

“Va bene John” annuì Mattatias volgendo di nuovo lo sguardo ad alcuni compiti da correggere, sparsi sulla sua scrivania “salutali anche da parte mia e scusati per la mia assenza. Devo assolutamente correggere questa roba.”

John annuì e uscì silenziosamente.

John svoltò a destra, imboccando una strada decisa all’ultimo momento: il distacco dall’orfanotrofio era stato più complesso del previsto, sotto alcuni punti di vista.

Un plotone di bambini lo aveva abbracciato, gli si erano avvinghiati addosso tutti insieme, strappandogli la promessa che sarebbe venuto a trovarli per fargli da allenatore di baseball, gli insegnanti si erano congedati tutti con un gelido formalismo, mentre Shannon lo aveva abbracciato calorosamente.

“Senti Blake.” Gli aveva detto sciogliendosi dall’abbraccio e rovistando in tasca “ so che avrai bisogno di spostarti, quindi ho deciso di farti un prestito.”

John lo guardò senza capire, ma quando vide Shannon tirare fuori dalla tasca le chiavi di una macchina,c si oppose.

“Oh no,  io non posso...”

“E non cominciare con i “se “ e con i “ma”! “lo rimbrottò Shannon in finto tono di rimprovero “Non farti venire strane idee, ragazzino. Questo è solo un prestito! E’ solo che io non la uso mai e se ne sta qui a prendere polvere e basta.” Continuò porgendogli le chiavi “Quando potrai permettertene una me la restituirai.”

John deglutì, commosso “Grazie Padre.”

Ora, guidava da circa un quarto d’ora, alla ricerca della strada per arrivare al luogo che gli interessava. Aveva fatto una piccola sosta per comprare una cosa ed era ripartito in fretta.

Ovviamente non poteva concedersi il lusso di un navigatore e doveva trovare il posto facendo affidamento sulla sua memoria e sulla sua abilità nel fare gimcane nel traffico perennemente congestionato di Gotham.

Alla fine trovò il posto, dopo aver imboccato diverse strade sbagliate e sentì il cuore accelerare di qualche battito, mentre parcheggiava la macchina e guardava fuori dal finestrino.

I suoi passi risuonarono sulla ghiaia color grigio sporco, mentre John entrava nel piccolo cimitero.

Guardò a destra e a sinistra, osservando le persone venute a rendere omaggio ali loro cari: un’anziana donna in piedi davanti ad una croce bianca, una famiglia con un bambino al seguito che accendeva un cero su una lapide di marmo scuro ed un’altra donna, sui 40, che spazzava le foglie morte da un’altra lapide.

A passo sicuro si diresse verso l’estrema destra del cimitero, ascoltando lo scricchiolare dei sassolini sotto le sue scarpe: in quel silenzio carico di mille ricordi e pensieri, gli sembrò assordante.

Si fermò davanti ad una semplice lapide che una volta era stata bianca ma che, col tempo e con l’incuria, si era ingiallita e sbeccata.

Dove prima riposava Margery Blake, con una foto che la ritraeva felice ed una semplice scritta nera ad indicare il nome, la data di nascita e quella della morte, era stato posto anche suo marito.

Il contrasto fra le due foto era notevole; mentre la Sig.ra Blake rideva come se avesse appena sentito la cosa più divertente al mondo, il signor Blake era serio, con le rughe che gli avevano prematuramente segnato il volto.

John ricordò che quella era la foto che suo padre allegava in tutti i curriculum vitae che presentava nella vana speranza di essere assunto da qualche parte anche perché, nella vita che lui e suo padre avevano condotto dopo la morte della signora Blake, non c’erano mai stati momenti da immortalare.

Si chinò sulla lapide e passò la mano sulle foto, per togliere la patina di polvere e sporco “Avrei dovuto portare uno straccio.” Si disse mentre grattava via la sporcizia dal marmo ingiallito “domani lo farò.”

Si chinò sula lapide e, con estrema cura, mise il mazzo di fiori che aveva comprato,nel vaso di ottone della tomba, un vaso che era rimasto vuoto troppo a lungo.

John rimase fermo, in piedi, davanti ai suoi genitori, lasciando che il vento autunnale gli scompigliasse i capelli.

La chiave girò a fatica nella toppa, proprio come John ricordava. Non si perse d’animo quando questa parve incepparsi e, come aveva fatto tante altre volte anni prima, pose il palmo della mano destra sotto la serratura e spinse continuando a tenere la chiave girata,

La porta si aprì e, dopo aver preso la sua valigia, entrò in quell’appartamento, vuoto da anni.

Non faceva salti di gioia all’idea di rimettere piede in un luogo così denso di ricordi ma, pensandoci razionalmente, poteva considerarsi fortunato:non era da tutti avere una base così stabile, specie se eri un fresco diplomando di un orfanotrofio.

John arricciò il naso: c’era una puzza di chiuso che permeava l’ambiente e ci sarebbe voluto del bello e del buono per farla andare via.

“Tanto vale che cominci subito” Si disse  dirigendosi verso il salotto e spalancando la finestra.

Ripeté l’operazione per ogni stanza, degnando appena di un’occhiata i teli bianchi che coprivano il poco mobilio rimasto (poiché una parte era stata venduta anni prima per pagare i debiti contratti dal Signor Blake.)

John spalancò le finestre della sua vecchia cameretta(prendendo mentalmente nota del fatto che si ricordava l’esatta collocazione di ogni singolo sgraffio del parquet) del piccolo bagno e della camera da letto di suo padre, lasciando la cucina per ultima.

La porta era chiusa e Blakeindugiò per qualche secondo, la mano stretta sul pomello di ferro arrugginito, prima di decidersi ad aprirla.

Aveva quasi paura di cosa avrebbe potuto vedere, avvertiva questo strano senso di inquietudine, lo stesso che provava anni prima, quando si trascinava in cucina per prendere dell’acqua e si sentiva trafiggere la schiena dalle occhiate malevole che gli scoccavano gli ospiti di suo padre.

Quando aprì la porta, tuttavia, rimase quasi deluso nel constatare quanto quella cucina sembrasse banale e scialba senza il tavolo tondo al centro e quelle 4 o 5 sedie spaiate intorno.

Aprì la finestra e contemplò per un attimo il palazzo di fronte al suo, un fabbricato che ricordava essere colorato di bianco, ma che ora era di un grigio smorto e scalcinato in più punti, destino che accomunava tutti i palazzi di Gotham

Guardò il mondo che una volta conosceva, le forme di palazzi che gli erano familiari, illuminati dalla luce settembrina del tardo pomeriggio.

Con un sospiro si tolse la giacca rosso scuro e fece per lasciarla sulla sedia, come faceva anni prima.

Quando questa cadde con un tonfo lieve, poiché non c’era alcuna sedia, John rimase per un attimo impalato a fissarla e poi scoppiò in una risatina.

“Le vecchie abitudini non muoiono mai.” Disse fra sé e sé, chinandosi a raccogliere la giacca. Poi si accorse che mancavano anche il frigo ed il fornello e si mise a ridere quasi istericamente.

“Già, bravo John, cosa pensavi di fare?” si disse, continuando a ridere incontrollabilmente “sarà bene che chiami un fattorino per una pizza..” spostò lo sguardo verso il banco cucina, dove il telefono stava abitualmente, solo per constatare che non c’era neanche quello e questo lo fece ridere ancora di più.

“Sarà bene che controlli se mi hanno almeno attivato la luce elettrica, o ci sarà parecchio da ridere.” Pensò fra una risata e l’altra, arrancando verso l’interruttore.

La luce elettrica, fortunatamente, funzionava e questo parve placare l’ilarità di John.

“Dovrò comprare degli elettrodomestici prima o poi.” Si disse accarezzando il muro freddo e liscio “dovrò rimboccarmi le maniche, ci sarà parecchio da fare.”

Dopo un attimo di esitazione si infilò di nuovo la giacca ed estrasse dalla tasca il consunto portafoglio che gli era stato regalato anni addietro per un compleanno: la pelle si era lacerata in più punti ed il portafoglio era pieno di venature e di bolle d’aria, che avrebbero presto fatto staccare altri brani di pelle.

“E pensare che, quando me lo regalarono, mi parve chissà quale bene di lusso..” rimuginò John controllando rapidamente i dollari a sua disposizione.

Ricordava le parole che gli aveva rivolto Mattatias Shannon, pochi giorni prima che se ne andasse e, per un attimo, accarezzò l’idea di chiedere aiuto o supporto a lui.

Contò meccanicamente i dollari e se ne mise 5 in tasca mentre, con decisione, si vietava di chiedere aiuto a chicchessia:aveva sempre fatto tutto da solo da quando aveva 4 anni, non riusciva a concepire una realtà diversa da quella.

Prese le chiavi e si preparò ad uscire ma, prima di chiudere la porta, percorse con lo sguardo l’anticamera, con le sue pareti bianche, ancora con i segni dei quadri che erano stati li appesi, una volta.

“Le vecchie abitudini non muoiono mai ma..chissà se mi riabituerò mai a tutto questo, a queste 4 mura..” pensò John mentre usciva e chiudeva la porta.

Si svegliò di soprasalto: si sentiva la gola secca e riarsa.

Al buio John tastò il letto, per rendersi conto che si trovava davvero a casa sua.Si accorse che era andato a dormire vestito di tutto punto e si chiese che ora avesse fatto.

La sete che lo tormentava pareva inestinguibile: provò a deglutire ma non ci riuscì:trovava seccante l’idea di doversi alzare per andare in cucina, ma se voleva dormire sonni tranquilli, doveva farlo.

Ancora inebetito dal sonno, John si mise a sedere e si prese la testa fra le mani: non riusciva a focalizzare cosa lo avesse fatto andare a dormire vestito di tutto punto. Buio totale…in tutti i sensi.

A tastoni cercò l’interruttore dell’abat-jour  che aveva comprato, ma non lo trovò. Si lasciò sfuggire un’imprecazione, mentre si alzava al buio e cercava alla cieca l’interruttore, tastando il muro come un cieco. Ancora una volta, nessun risultato.

Sospirando, John aprì la porta della sua stanza dirigendosi in cucina ma, quando arrivò nell’ingresso, udì delle voci sommesse provenire dalla cucina e rimase impietrito. Al buio riusciva a vedere il rettangolino di lice provenire da sotto la porta ed i mormorii provenienti dalla stanza. Nel buio più completo, John si ritrovò a chiedersi cosa diamine stesse succedendo “Che siano dei ladri?” pensò, avvicinandosi in punta di piedi alla porta “Com’è possibile? Li avrei sentiti entrare..” Poi ripensò al buio totale che permeava i ricordi di come fosse rientrato in casa e si preoccupò ulteriormente.

“Qui non c’è proprio niente da rubare, hanno sbagliato posto.” Considerò, rievocando l’immagine del suo spoglio appartamento.

Il parlottio oltre la porta si fece più concitato e John decise che doveva assolutamente sapere cosa stesse succedendo là dentro. La porta si aprì lentamente, con quel familiare cigolio che l’aveva sempre contraddistinta.

La scena che si presentò davanti agli occhi di John aveva i contorni indefiniti di un sogno, ma ben presto capì che quella nebulosità era dovuta al fumo che riempiva la stanza con una coltre spessa.

“Ma guarda chi si vede…” bisbigliò una voce familiare, che aveva infestato gli incubi di John per anni “il piccolo pettirosso spaventato! Non ti smentisci mai, eh? Sempre la solita faccia da ragazzetto impaurito…”

Blake rimase impietrito mentre la figura assumeva contorni più definiti; il familiare ghigno di Roger, che aveva visto così chiaramente quando lui si era acceso quel sigaro, anni prima, fu la cosa che catturò di più la sua attenzione.

Roger non sembrava essere invecchiato e, se era per questo, aveva pure lo stesso cappotto lungo, di colore nero. Alla cintura una rivoltella che aveva già visto.

“Ora non ci sono più nascondigli, figliolo.” Riprese Roger con una lentezza disarmante, aspirando una lunga boccata dal suo sigaro “non ci sono più poliziotti pronti a salvarti. Ora che farai?”

Lo smarrimento di John durò solo un attimo ; con gesto meccanico estrasse dalla fondina della sua divisa d’ordinanza che lo qualificava come poliziotto di Gotham City,la pistola che gli avevano assegnato dopo aver finito il corso preparatorio, che lo aveva impegnato per qualche anno.

“No. Ora siamo io e te. E, per la cronaca, ora sono l’agente Blake.”

“Terra chiama Blake. Ehi, di casa? Terra chiama Blake!” abbaiò qualcuno alla segreteria telefonica.

John sollevò il viso che aveva appoggiato alle sue braccia: si era appisolato in cucina mentre leggeva. Con un movimento rapido afferrò la cornetta

“Frank?” chiese ritrovando subito la lucidità.

“Oh, grazie al cielo John, cominciavo a perdere le speranze.” Sbottò Frank.

“Scusami, mi ero appisolato al tavolo.”

Tanto lavoro e niente riposo rende Jack un ragazzo triste” cantilenò Frank “Comunque ti ho telefonato per confermarti il turno di stasera, Mr. Stakanovista .”

“Si, lo immaginavo. Probabilmente la dormita che ho fatto è stata provvidenziale.”

“Eh già, con la grande mole di lavoro che abbiamo da sorbirci c’è da pregare che tu non ti addormenti durante una sparatoria” rispose Frankie in tono ironico “Va là, John..il massimo rischio che puoi correre al lavoro è di essere l’ennesima vittima della macchinetta del caffè impazzita. Sono quasi sicuro che l’ultima volta che ha sputato caffè da tutte le parti,se fossi stato qualche centimetro più a sinistra, mi avrebbe procurato un’ustione. Non c’è più gusto a fare il poliziotto, era quasi meglio quando qualche pazzo si metteva in testa di radere al suolo la città.”

“Già, già.” Convenne John appoggiandosi al bancone della cucina “allora devo entrare alle 21:00, come sempre?”

“Esatto John. Io stasera non ci sono, ma penso tu lo sappia. In realtà stasera sono quasi tutti a casa.”

“Già, il “Dent-Day..” ricordò John.

“Precisamente. Gli altri a casa e voi poveri stronzi a passare la serata in ufficio a non ricevere segnalazioni. Nemmeno il commissario sarà dei vostri stasera.”

“Si, lo sapevo. E’ invitato alla commemorazione di Harvey Dent a Villa Wayne, vero?”

Frank sbuffò “Commemorazione un accidente. Due paroline accorate, qualche lacrimuccia e poi un bel rinfresco per archiviare la “pratica” fino all’anno prossimo.”

John rise “Va bene Frank, ti lascio alle tue considerazioni. Io mangio un boccone e vengo in centrale.”

“Ci si vede, Blake.”

John riattaccò e aprì il frigo, alla ricerca di qualcosa da preparare in poco tempo. Erano le sette e mezza, aveva fatto ben più di un semplice sonnellino. Le braccia anchilosate erano una valida conferma.

 

John Blake guidava  per le strade di Gotham; qua e là faceva bella mostra di sé uno striscione con su stampato il volto di Harvey Dent, la stessa foto che era stata usata per la sua campagna elettorale e che campeggiava sulla sua tomba, meta fissa dei suoi devoti.

Gotham aveva dimostrato ancora una volta la sua diversità rispetto a tutte le altre città del globo: laddove si commemorava la nascita di un qualche personaggio di spicco ,Gotham (nella sua miglior tradizione macabra) ne commemorava la morte.

Oh, certo non era quello che scrivevano sugli opuscoli e sulle guide della città.

Il Dent-Day è la commemorazione del sacrificio di un uomo integerrimo, un uomo che aveva fatto della giustizia il suo punto di riferimento. Un uomo che ha dato la vita per proteggere questo innegabile valore a cui tutti dovrebbero aspirare. Ricordiamo  Harvey Dent. Crediamo ancora in Harvey Dent! ” Anche a distanza di anni dall’ultima volta in cui aveva letto un simile opuscolo, John poteva recitare a mente la manfrina.

Una particolare che gli opuscoli tendevano ad omettere era il modo in cui Harvey Dent aveva dato la vita per la sua amata giustizia. John aveva iniziato da poco il corso per l’accettazione fra le forze di polizia, quando il criminale Joker aveva fatto la sua comparsa.

Quel clown folle, che ora marciva dentro qualche cella nelle viscere dell’Arkham Asylum, aveva letteralmente messo in ginocchio la città e Batman, il Commissario Gordon e Harvey Dent si erano ritrovati soli a fronteggiare un criminale che sembrava aver messo radici ovunque. Non ci si poteva fidare di nessuno, la notizia che alcuni membri della polizia avevano addirittura collaborato con quel criminale aveva esasperato i cittadini, che si erano sentiti davvero rivoltare le viscere dalla paura. Joker aveva ucciso personalità importanti ed era arrivato quasi ad uccidere lo stesso Dent.

Forse la morte sarebbe stata preferibile: Dent aveva perso tutto, aveva perso la sua fidanzata ed era rimasto orrendamente sfigurato in una parte del volto (come avevano riportato i giornali). Era cominciata una strenua lotta per ristabilire l’equilibrio a Gotham ma qualcosa era andato storto.

Batman si era rivelato per quello che era: un criminale. Era riuscito a fregare tutti: il commissario Gordon, Harvey Dent, la gente di Gotham…

Aveva collaborato con Joker fin dall’inizio per seminare il panico in città, probabilmente smanioso di avere la sua fetta di torta ed era arrivato ad uccidere lo stesso Dent, dopo che questi, uscito coraggiosamente dall’ospedale in procinto di esplodere, aveva cercato di salvare i figli del commissario Gordon, che lo stesso Batman aveva rapito e portato nello  luogo dove la fidanzata di Dent era morta, come se fosse un macabro scherzo. Tuttavia, quando aveva capito che le cose non si sarebbero messe bene per lui, Batman era semplicemente sparito, dopo aver freddato il procuratore distrettuale.

All’indomani della morte di Dent, la città di Gotham aveva perso un falso idolo, ma aveva trovato qualcosa di più: avevano trovato qualcosa in cui credere, avevano trovato la speranza che, anche in una città oscura come Gotham, si potevano ancora trovare uomini giusti. Non cavalieri oscuri come Batman, ma veri e propri paladini dal volto pulito e dalla corazza splendente.

La morte di Dent, per quanto tragica, aveva smosso qualcosa negli animi della gente: subito dopo la sua morte, era stato promulgato il Dent-Act, che prevedeva un inasprimento delle pene dei criminali, in un timido tentativo di scoraggiare la malavita. Gotham aveva stretto i denti, aspettandosi una feroce rappresaglia che non era mai avvenuta. Così come un ingranaggio inceppato riprende piano piano la sua funzione ancora meglio di prima, Gotham aveva ricominciato a vivere tranquilla, con i crimini in vertiginosa diminuzione e  tutto grazie al sacrificio di un uomo giusto, la cui morte andava commemorata come una sorta di scongiuro.

John Blake pensava tutto questo, mentre la sua macchina si faceva strada per le vie di Gotham. Si era sorbito quella storia per anni e, tuttavia, non riusciva a venirne a capo. C’era qualcosa che non quadrava in questo quadro idilliaco di morte e “rinascita”, qualcosa che riguardava Batman.

Ricordava lo sgomento che lo aveva pervaso, quando aveva letto sul giornale quelle cose tremende sul giustiziere mascherato, pubblicamente “bandito”, la sua luce sul commissariato di Gotham pubblicamente fatta a pezzi, come a sancire la sua cacciata.

John scosse la testa, mentre per l’ennesima volta si poneva una domanda che era destinata a rimanere senza risposta. Alla polizia, quando aveva cercato di dire la sua in proposito, aveva ricevuto in premio occhiate astiose e commenti velenosi. Era un argomento tabù: si poteva parlare di Batman solo nel caso di avvistamenti, poiché avevano l’ordine di catturare Batman appeso in bacheca da anni, perché ogni altra parola su di lui sarebbe stata superflua.

Parcheggiò la sua macchina nella zona riservata ai poliziotti ed entrò nella centrale che, come aveva previsto, era semi deserta.

“Ciao John.” Lo salutò Charlie Bowers, anche lui di servizio notturno “ ci aspetta una nottata terribilmente noiosa, temo.”

“Si, Frank me ne ha già parlato. Siamo solo io e te?” si informò l'altro prendendo posto alla scrivania che condivideva con un altro collega.

“Troy  e Gary sono di pattuglia. Bah, benzina sprecata dico io. Non succede mai nulla in questa città. Credo che comincerò a pregare per qualche catastrofe, tanto per avere le mani e la mente occupata.”

“Prega pure, ma le scartoffie di rito non si riempiono da sole.” Osservò John lanciando un’aria preoccupata alla montagna di pratiche inutili che il suo collega aveva premurosamente lasciato lì per lui.

Charlie roteò gli occhi “Cristo santo John. Ti ho appena detto che è una serata noiosa, vuoi farla diventare una serata da suicidio?”

John rise mentre, controvoglia, prendeva una penna e trasportava la pila di fogli sulla sua scrivania “Non avevi detto di volere le mani e la mente occupati? Questo è il modo giusto.”

Dovevano essere passate delle ore, quando John rimise la penna al suo posto e lanciòun’occhiata esausta alle pratiche che aveva esaminato e firmato. Non si era lasciato distrarre da nulla e ora poteva concedersi un caffè ristoratore. Guardò al di là del vetro che separava gli uffici e si rese conto che Charlie era crollato sulla pila immane di pratiche. Sorridendo e scuotendo la testa, John fece per dirigersi verso la saletta con la macchina del caffè, ma lo squillo del telefono lo fece sussultare.

John guardò nervosamente l’ora; era quasi l’una di notte, chi poteva mai essere?

“Polizia di Gotham city.” Rispose John in tono professionale, sollevando la cornetta.

“Mio marito è sparito! Doveva essere qui un’ora fa ed non c’è! Dovete fare qualcosa!” la voce isterica di una donna lo investì e John allontanò d’istinto la cornetta dal suo orecchio.

“Si calmi signora, si calmi. Una persona non può essere dichiarata come ufficialmente sparita se non sono passate almeno 24 ore. Si calmi e mi dica cosa è successo.”

Mentre la donna abbaiava al telefono qualche frase sconnessa, John lanciò un’occhiata nel corridoio. All’attaccapanni c’era un cappotto che riconobbe come quello del Commissario Gordon. La luce nel suo ufficio era accesa, ma non riusciva a vederlo. Mentre la donna continuava a parlare, John aspettò che il Commissario uscisse dal bagno o dalla sala delle macchinette per il caffè, ma non fu così. C’era un solo posto dove poteva essere andato.

 

L’aria sulla terrazza del commissariato era più fresca e John rabbrividì istantaneamente, mentre varcava la soglia delle scale e metteva piede sulla terrazza. Il Commissario era proprio dove lui aveva ipotizzato, accanto ad un riflettore, con il vetro in pezzi. Quel riflettore.

“Signore” esordì John “la moglie del parlamentare Gilly dice che il marito non è rientrato, dopo l’evento della fondazione Wayne.”

Il commissario Gordon lo fissò per un attimo, distogliendo lo sguardo dal foglio che stava leggendo, per poi arrotolarlo e metterselo in tasca.

“E’ un lavoro per la polizia..” commentò in tono stanco.

“Quando lei e Dent avete ripulito le strade avete fatto un buon lavoro” osservò John fissando il Commissario con un mezzo sorriso stampato in volto “ Presto daremo la caccia a quelli che non restituiscono in tempo i libri della biblioteca.”

“Ha!” rispose il Commissario, mettendosi sotto braccio un bloc-notes, l’aria palesemente divertita.

“Eppure..eccola qui.” Continuò John, avvicinandosi lentamente al suo capo “Come se fossimo ancora in guerra.”

John non proseguì oltre, quando vide che il commissario si era mosso a sua volta verso di lui. Per un attimo si chiese se lo avesse irritato, ma il tono conciliante con cui il commissario gli rivolse la parola lo tranquillizzò.

“Come ti chiami, figliolo?”

“Blake, signore.”

“C’è qualcosa che volevi chiedermi, agente Blake?”

John indugiò per un attimo, osservando il volto del commissario, prematuramente segnato dalle rughe. Poi trovò il coraggio di chiedergli qualcosa che, fino a quel momento aveva tenuto solo per sé.

“Si tratta di questa notte, otto anni fa. La notte in cui morì Harvey Dent, l’ultimo avvistamento di Batman. Uccide quelle persone, fa fuori due squadre Swat, spezza il collo a Dent e poi…svanisce?”

Gordon lo fissò attentamente “Qual è la domanda?”

“Non vuole sapere chi era?” chiese Blake osservandolo a sua volta. Se avesse parlato così, anni prima, ad un suo insegnante, sarebbe stato chiamato subito insolente e messo in punizione.

Con sua sorpresa, il tono del Commissario non cambiò. “So esattamente chi fosse.” Commentò lanciando un’occhiata a quello che restava del Bat-Segnale e toccandone un’estremità in modo affettuoso “Era Batman.”

Il Commissario sorrise a John, mentre si incamminava verso la porta dalla quale era entrato “Beh, andiamo a parlare con la moglie del parlamentare Gilly..”

John lo osservò sparire dietro la porta, con ancora più dubbi di prima.

E anche questa meta è stata raggiunta. Mi dispiace un po’ sapere che il prossimo capitolo sarà l’ultimo ma….all good things must come to an end (Good, ma dove?!) Spero di non dovervi fare attendere così tanto per il prossimo capitolo (o forse si?) e spero di potermi anche mettere in pari con le recensioni in tempi ragionevoli.

L’ultima parte del capitolo, la conversazione fra Blake e il commissario, è presa pari pari dal film.La prima parte ho dovuto “ricostruirla” cercando le citazioni del film, la seconda parte eccola qui http://www.youtube.com/watch?v=TY4ad1GqBy0, tradotta liberamente da me (non è uguale al doppiaggio del film ma…penso vada bene)

Bene, detto questo vi saluto e vi anticipo che nelle “note” del prossimo capitolo ci sarà una “chicca” che mi ha ispirato molto nella stesura dei capitolin(è un sottofondo musicale con video di TDKR ma….taccio). Besos!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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