Breathing underwater.

di La Jackson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Balance. ***
Capitolo 2: *** Where the hell are you, Lydia? ***
Capitolo 3: *** Free Fallin. ***



Capitolo 1
*** Balance. ***


Balance - Equilibrio

1
 






Anche quella mattina Stiles aprì gli occhi destato dall’abbagliante luce che penetrava dalla finestra spalancata. Si svegliò estremamente presto per i suoi standard, e invece era già tardi. Solitamente gli bastavano gli ultimi quindici minuti per lavarsi e vestirsi in tutta calma e poi subito a scuola con la quattro ruote longeva. Quella mattina, doveva passare da casa di Scott prima di andare. La sua vecchia bici si era rotta e di conseguenza doveva scortarlo lui, in macchina.
Con sua perspicacia – la sera prima – non appena ricevette il messaggio da parte di Scott, che sosteneva che la bici era finita accidentalmente sotto l’auto della madre, con tutta la calma del mondo si infilò maglietta larga, camicia a quadretti – sbottonata per dare in visuale la t-shirt sotto – e i primi pantaloni che gli capitarono sott’occhio. Appena sveglio era già vestito. Perfetto! Ma stupido, molto stupido. E soprattutto molto sudato. Si lavò il più in fretta possibile, impregnandosi di un profumo maschile trovato nella stanza del padre, un certo Bulgari Man. Lo sceriffo si trattava bene, a quanto pare. Impiegò altrettanto tempo per mettere in moto l’auto e raggiungere casa McCall.
 
“Mi devi una colazione.” Sentenziò Stiles, mentre Scott apriva lo sportello del passeggero. L’amico non diede ascolto a quelle parole, sembrava più stravolto da qualcosa che lo faceva intontire più del solito. Allacciò la cintura, arricciando in naso. Cavolo, l'odore era così forte?
“Scott?” ripeté più volte l’umano, senza ottenere alcuna risposta. “Terra chiama Scott.” Solo quando si decise a rifilare un pugno nella spalla dell’intontito questo si voltò a fissarlo con austerità. Fece spallucce e tornò a guardare la strada.
“Torna nel mio mondo, Scott. Mi servi da vivo.” Continuò a guidare, l’amico non dava segni di intelletto.
“E se qualcosa o qualcuno stesse arrivando in città?” Proferì inaspettatamente, cogliendo l’umano di sorpresa.
“Allora non hai perso la lingua o qualche neurone del cervello!” Enunciò ironico. “Avrei optato per i neuroni smarriti.” Ribadì, mormorando fra sé e sé.
"Sono serio, Stiles." Appunto la sua voce era ferrea e impassibile.
"La gente và e viene a Beacon Hills, Scott." Rispose retoricamente.
"Intendo... se un nuovo pericolo stesse per arrivare?"
"Non sarebbe una novità, di questi tempi."

“E se questo nuovo pericolo potesse far del male a qualcuno?”
“E da cosa intuisci che un nuovo pericolo stia per ucciderci tutti?” Gli occhi costantemente sulla strada, un incidente stradale era la prima cosa da evitare pur di non incasinare la giornata.
“L’ho sognato.” Rispose secco.
“Amico, mi sei diventato un sensitivo?” Fece capolino un sorriso indiscreto nel viso dell’umano.
Scott lo fissò con un cipiglio teso.
“E se magari continui a pensare a Allison e lasci perdere questi tuoi sogni premonitori?”
“È lei il motivo della mia angoscia. Credo sia in pericolo.”
“L’unico pericolo è che potrebbe ficcarti un proiettile in testa quando meno te lo aspetti. Fattene una ragione.” Lo distolse dai suoi pensieri. Voleva solo trascorrere una giornata normale. Cosa c’era di sbagliato? Non ne viveva una da tempo, oramai. E uno Scott assediato da pensieri sinistri era meglio evitarlo.

 

 

*°*°*
 

 

Dopo una ventina di minuti, i due si resero conto che l’unica complicazione che avesse davvero valore, al momento, era oltrepassare l’entrata della classe senza che il prof Harris facesse fare loro dietrofront per spedirli dritti in presidenza. Adagio si addentrarono in classe, per loro fortuna la porta era aperta. Superarono la cattedra dell’insegnante, che era voltato verso la lavagna. Scott riuscì ad accomodarsi per primo. Per Stiles mancava ancora qualche centimetro prima di raggiungere il banco, ma il piede di qualcuno, lo fece incespicare sul banco di Lydia – vuoto – generando gran confusione. “Caaaz-ssapanca.” Mormorò a bassa voce, evitando di imprecare in pubblico. Facendo finta di nulla, avanzò in direzione del banco ormai vicinissimo. Non appena accantonò lo zaino a terra, da esso fuoriuscirono gran parte dei libri, producendo altro frastuono e accrescendo gli sguardi di tutti, mirati su di lui. Stiles fece finta di niente, quando il prof cessò di scrivere. “Signor Stilinski, sa dove andare.” Senza neppure volgere un’occhiata alla classe per accertarsi che lui fosse il vero colpevole, tornò a redigere qualcosa alla lavagna.
“Ma che diavolo?!” Lanciò una severa occhiata a Scott che ne era uscito illeso, probabilmente avvantaggiato dall'agilità dei suoi movimenti felini. Dannati i tuoi sensi ultra evoluti da lupo mannaro, sussurrò troppo piano per essere udito. Scott mimò, senza emettere alcun suono, un sogghigno divertito.
“Sissignore.” Sbuffò, uscendo dalla classe con nonchalance. “Molto gentile, Jackson. Gesto amichevole da parte tua.” Bisbigliò prima di riporre ambedue i piedi all'esterno dell’aula.
“Quando vuoi.” Jackson Whittemore strizzò l'occhio, ritraendo il piede.
Scott aggrottò la fronte con un sorriso stampato in volto, gratificato di essere riuscito ad ingannare l’insegnante.

 
 

*°*°*

 
 

Dovette raccattare tutto il coraggio e la determinazione che aveva per decidersi a entrare. Ma lì per lì qualcosa gli diede la possibilità di ritrarre la mano. Suo padre era nell’ufficio del preside e questo bastava come pretesto a non disturbarli. Sospirò gioioso, per poi domandarsi cosa fosse venuto a fare lo sceriffo e tornò serio. Riuscì a scorgere la targhetta posta sul ripiano della scrivania, con su scritto nero su bianco Kendra Douglas. Una donna? Ciò che gli piombò subito all’occhio fu una chioma scarlatta. Ma certo! Il preside, nonché nonno malefico di Allison, era scomparso dalla circolazione – se non deceduto – e un nuovo preside era venuto a rimpiazzarlo. Una donna ramata, un viso noto, non già visto, ma alcuni lineamenti riconducevano a qualcuno di già conosciuto. Stiles si protese verso la finestrella che dava un’ampia visuale dell’ufficio, poggiò l’orecchio sul vetro di essa e stette ben attento a non lasciarsi sfuggire la conversazione in atto. Nella frazioni di due secondi, concepì che era irrealizzabile origliare anche la più acuta delle parole da quell’angolatura. Il desiderio di sentire lo stava divorando. Maledisse di non aver una predisposizione naturale per la lettura delle labbra.
Ed ecco che a metterlo in salvo da quell’ingiustizia fu Scott che apparve, con fare mascolino e Eye Of The Tiger in sottofondo, subito dopo aver voltato l’angolo. Stiles scosse il capo tornando alla realtà e scacciando la canzoncina che risuonava nelle sua testa. “Che hai combinato, testa rovente?” Sforzandosi di mantenere la voce bassa, gli diede un colpo alla nuca.
“Diciamo solo che il prof non sa cos’è l’amore.”
Stiles accigliò, cercando di comprendere cosa intendesse con quell’affermazione.
“Stavo fissando Allison da tutta l’ora e non ho risposto ad alcune domande che mi ha fatto.” Disse, calando il capo con imbarazzo.
“In poche parole, ti ha sorpreso a sbavare su Allison durante la sua ora.” Stiles esplose in una tonante risata. “Scusa, è solo che” un ultimo ghignò contenuto venne fuori autonomamente. “Lasciamo perdere.” La sua espressione si fece seria. “Tornando ai discorsi d’adulti, di cui tu non fai parte, sto cercando di capire cosa dicono quei due. ” Si piazzò nuovamente sulla finestrella, con l’intento di capire alcunché se non altro dai movimenti delle labbra.
“Posso farlo io.” Disse semplicemente.
Già, il suo udito super sviluppato. Com’è che non gli era venuto in mente? Per un attimo, il cervello della situazione era Scott. Quell’attimo che sarebbe terminato pressoché nel giro di tre minuti. “Certo. Anche la tua idea non è male.” Stiles mantenne un’aria saccente.
“Saranno lì a parlare già da ore, cosa vuoi che riesca a capire?”
“Fallo e basta.” Esaminò l’aria circostante, per vedere se qualcuno stesse assistendo a quel talk show di discorsi non abbastanza banali.
Scott, come istruitogli da Derek, mutò solo una parte del suo aspetto in lupo, le orecchie si foderarono di una peluria insolita, tese e in procinto di ascoltare qualsivoglia conversazione nel raggio di chilometri. Focalizzò il punto della situazione. “È la nuova preside. Mi sembra di capire che si chiami Kedra, o qualcosa di somigliante.”
“Kendra.” Lo corresse. “Dimmi qualcosa che già non so.”
“Contavo sul fatto che avrebbe reagito con positività venendo a conoscenza del mio nuovo ruolo in questo istituto. Ma a quanto pare…”
Stiles innalzò un cipiglio in direzione dell’amico.
“Lei. Non io.” Gli lanciò una veloce occhiata, a mo’ di so-tutto-io e tornò in ascolto.
“Grazie per la tua illuminazione, genio.”
“Sono passate ventiquattro ore, so che non è abbastanza, ma devo denunciare la scomparsa. È il mio dovere di madre.” Era sorprendente come il suo udito riuscisse a percepire anche i sussurri, come avvertisse le emozioni e tutto ciò che si portavano a ridosso quelle parole che si manifestavano dentro di lui con una forza tale da fargli provare la sofferenza e l’ira, come se stesse subendo tutto quel dolore in prima persona. Prese parola lo sceriffo. “Conosce qualcuno che non va particolarmente d’accordo con” Scott si interruppe d’improvviso, apparentemente atterrito e disorientato. Il suo cuore ne fu la conferma ma, per sua fortuna, Stiles non poteva captarne i battiti irregolari.
“Con?” Domandò, ormai colmo di curiosità Stiles.
Continuò ad ascoltare, senza prestare interesse alle curiosità dell’amico, grondando sudore dalla fronte. So che da poco fa di nuovo coppia col suo ex, Whittemore. Disse la donna. Ma non vedo come questo possa essere un pericolo. È un ragazzo così caro e ponderato. Presumibilmente, la signora Douglas non conosceva il vero lato del ragazzo in questione, ne conosceva solo la maschera che indossava in sua presenza, quella da perfetto fidanzato liceale, prudente e difensivo. I battiti cardiaci dello sceriffo iniziarono a mostrarsi fuori norma, dando inizio a una lotta tra conformità e anomalia. Per natura, egli era in grado di comprendere da solo che se il ragazzo era stato un pericolo in sembianze di Kanima, anche da lupo mannaro non si sarebbe fatta eccezione. L’incerto era capire se sarebbe riuscito a contenere i suoi istinti devastatori e sterminativi.
A distogliere Scott dai suoi pensieri, fu subito Stiles. “Sto seriamente prendendo in considerazione l’idea di convincere tua madre a spedirti da uno strizza cervelli, il migliore della città, possibilmente.” Il tono di voce si faceva, al contempo, serio e curioso. Il bisogno di sapere era intenso e non poter ottenere informazioni da solo era opprimente. Povero Stiles, al tempo gli era stata data la possibilità di scelta e molte volte si ritrovava a riflettere se la decisione presa davanti a Peter Hale fosse stata esatta o erronea. “Allora?” Sentenziò.
“Stiles… la ragazza sparita è…” non sapeva come concludere la frase senza provocare agitazione nell’amico.
“Sputa il rospo e non indurmi a imprecare.”




To be continued...


 

 

Angolo dell'autrice:
Bene. Questa è la prima parte della storia Sterek che ho in mente. Come trascritto nelle informazioni, durante il corso della storia, si presenteranno situazioni di suspense, sofferenza, felicità, sangue, amori corrisposti e contrari, sentimenti celati ..etc..
Naturalmente - nella storia - darò spazio a ciascun personaggio, ma attenzionando maggiormente lo Sterek.
Se questa prima parte sarà quantomeno apprezzata, continuerò con le seguenti parti. :)

Anyway, la Jackson vi saluta. 

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Capitolo 2
*** Where the hell are you, Lydia? ***


Where the hell are you, Lydia?


2









“Cosa?!” Stiles agitò le mani al cielo, in pieno calo di temperatura corporea. L’intensità della voce era acuta e simultaneamente strozzata. “Non può averlo fatto! Che diavolo le è venuto in mente? Cazzo, Lydia!” Il suo affanno si saturò di collera, tensione, presagio. Il clamore fu così energico che Scott – rimasto fino ad allora con le orecchie ben tese – digrignò i denti, così da esser obbligato a frenare un ringhio sordo per evitare di farsi sentire dall’intero corpo studentesco.
“Fa’ silenzio, stupido.” Scott drizzò le orecchie, ma a quanto pareva la discussione fra la preside e lo sceriffo era appena terminata, per mano di Stiles.
“Questo vuol dire che la donna che sta parlando con mio padre è… è la madre di Lydia?”
Inaspettatamente la porta si aprì, mostrando il fascino di una capigliatura riccia e perfettamente in tono con il viso magro e i lineamenti delineati, solo qualche ruga coperta dal trucco si intravedeva a malapena, gli occhi erano grandi e castano-dorati e la pelle nivea, messa in risalto dalle guance rosee.
Stiles fece un balzo in aria, battendo la testa sulla finestrella alle sue spalle.
“Stiles.” Lo ammonì il padre sommessamente, facendo cessare le lamentele di quest’ultimo.
“Tu devi essere il dolce e affabile Stiles e, se la memoria non m’inganna, lui è il signor McCall. Amici dall’infanzia, con voti sufficientemente differenti.” La donna posò lo sguardo sugli occhi di Stiles, per tutta la durata della frase.
Il ragazzo – ancora indolenzito – si drizzò dalla sedia, seguito dal licantropo. “Papà, non mi avevi detto di aver incaricato una detective privata per spiare il tuo adorato figliolo e la sua vita intima.” Borbottò l’umano, con un pizzico d’ironia sul fondo, visibile per metà. Aveva rischiato a fare quella battuta, innanzi aveva la nuova preside, colei che aveva il potere di bocciarlo o nientemeno che espellerlo.
La fortuna era a favore di Stiles, poiché questa rise allietata. Scott fu in grado di percepire una venatura di tormento nel suo viso, probabilmente dovuta al pensiero della figlia.
“Lo perdoni Mrs. Douglas, mio figlio ha il vizio di frequentare la zona presidenza più volte al giorno. Spero si abitui alla sua presenza e auspico vivamente che non le causi complicazioni insanabili.” Lo sceriffo aveva il proposito di colpirlo alla testa con una pacca più energica del solito, ma si limitò a conservare una posizione autoritaria e dispotica. Lo sguardo era mirato su di lui, alludendo che l’adolescente avesse afferrato il punto.
La donna annuì e il sorriso tormentato fece spazio ad un volto autorevole. “Tornate pure nelle vostre classi, vi do il congedo” Si protese verso Stiles, accostandosi al suo orecchio e questo scorse una lieve increspatura del naso da parte della donna.E no, cavolo. Pensò il ragazzo.Questo non è profumo, è puzzo di potosino*. Padre, hai un gusto eccentricamente atroce per i profumi maschili. Dannato potosino, ripeté,dannato potosino.
“Solo perché sei tu, Stilinski.” Continuò la donna, riportandolo al presente. Quasi certamente era a conoscenza della sua inesauribile cotta per la figlia, in circolo fin dalla terza elementare. Questo arrossì imbarazzato, ispezionandosi i lacci delle scarpe. Allora Lydia Martin lo sapeva, faceva solo finta di nulla? Lo prese come qualcosa di positivo.
“Con te ne riparliamo dopo, ragazzino.” Lo sceriffo scagliò un’ultima occhiata rigida a entrambi, compreso il lupo. Eppure in altri frangenti era il ragazzo, il figliolo, tanto adorato quanto aborrito. Doveva essere parecchio su di giri per interpellarlo con quella qualifica: un ragazzo immaturo. Ecco cosa intendeva. E Stiles lo avvertiva. Detestava deluderlo, sebbene capitasse assiduamente. Come poteva evitarlo? Piccolo bastardo iperattivo, un barlume di ricordi si accatastò tra i pensieri del ragazzo e per un attimo il battito del suo cuore si fece più lento e i suoi occhi si tinsero di sconforto. Sapeva che ciò era stata un’allucinazione generata dall’infuso versatogli da Lydia alla festa di compleanno, ma in fondo intravedeva un che di vero nelle parole pronunciate dal padre quella sera. Scott notò il turbamento del migliore amico e in quel momento avrebbe voluto essere Edward Cullen, per avere il potere di leggere la mente. Aveva davvero pensato di voler essere il succhiasangue che aveva preferito abolire totalmente il sesso dalla sua vita? Deglutì, pensando a quale triste destino sarebbe andato in contro se solo fosse stato possibile. In pochi secondi, Stiles assunse un’espressione quieta, lasciandosi alle spalle la malinconia che lo calpestava – dannò quel continuo pressare, che lo assoggettava a una delle più dolenti prove di vita.
I sedicenni si dileguarono nell’attimo di mezzo secondo, diretti alla classe dove si sarebbe tenuta la lezione successiva.
Durante la corsa verso l’aula, Scott concluse di rivelare il resto della conversazione all’amico.



*°*°*

 
  

Mancavano due ore alla chiusura dell’edificio e gran parte degli studenti ne aveva già fin sopra le palle di seguire le lezioni per intero. Alcuni preferivano squagliarsela, altri avevano troppa paura di farlo.
“A quanto pare sei il cocco della preside.” Con fare superbo Scott osservò l’espressione dell’amico, per poi posarlo sul proprio armadietto.
“Geloso?” Disse in tutta risposta.
“Guarda il lato positivo, vivono nella stessa casa.” Ironizzò, trattenendo una risata per non sfotterlo in pubblico.
“Osservala da un’altra prospettiva. Lydia, nella maggior parte delle probabilità, avrà quell’aspetto da adulta. Perciò è come conquistare la parte più veterana di Lydia.” Ecco che sopraggiungeva la riflessione razionale alla Stiles, non poteva non mancare. “E non sarebbe neppure complicato, quella donna è invaghita di me!” Si voltò verso Scott, con un sorriso a trentadue denti.
Rifletté mentalmente. “Certo. Avrà solo una trentina di anni in più.”
“Tutto sommato non è poi così tanto. Facendo qualche calcolo matematico… sottraendo la radice quadrata di un numero negativo alla somma della potenza di quaranta alla sedicesima…” Farfugliò con incomprensione, poi si voltò verso Scott. “Qualche possibilità c’è.” Nei suoi occhi sorse una scintilla di speranza.
L’amico scosse il capo lentamente, ubicato al ragionamento del calcolo matematico. L’umano – avvilito – riportò i pensieri alla ragazza-amaranto che gli faceva battere il cuore fin da sempre.
La campanella che proclamava l’inizio della pausa pranzo arginò la riflessione.
 

 

*°*°*

 

Nessuno proferì parola sull’argomento Lydia, nemmeno Jackson. Nessuno sapeva nulla, oltre Stiles e Scott. Era una normale giornata in cui una normale ragazza si era assentata per contingenze totalmente normali.
“Vogliate scusarmi.” Con tono eccentricamente efficiente, Scott si alzò dalla sedia del tavolo da pranzo, rischiando di farla cadere, ma abbrancata all’istante da Stiles che lo osservava sbigottito. Aveva avvertito la presenza di Allison – la sua Allison – separata dal resto della folla, senza Lydia che le ronzava nei dintorni. Mimetizzandosi tra alcuni gruppi di ragazzi rimasti in piedi per mancanza di posti, ridusse la distanza che li separava. Un lampo, che di tanto in tanto veniva oppresso, gli perforò la mente: il tempo scorreva, le persone cambiavano; non erano più una coppia unita, non lo erano e basta. Non aveva nessun diritto di avvicinarsi e sorprenderla, nessun diritto di prenderla per i fianchi e baciarla con dolcezza, nessun diritto di carezzarle il viso, afferrarle la mano e sussurrarle che andava tutto bene, che avrebbe sempre vigilato su di lei. Si incupì, lasciando qualche metro di distacco per non farsi cogliere sul fatto. Nonostante sapesse che gironzolare ancora nei suoi dintorni non fosse corretto, qualcosa in lui si attivò – come ogni volta – forzandolo a opporsi a sé stesso. Perché sentiva di dover salvaguardarla da un pericolo non ancora tangibile, sentiva che qualcosa stava per arrivare, purché non fosse già lì.
“Stalker da quattro soldi.” Una voce nota gli perforò l’udito.
“Erica!” La redarguì alterato.
“Che fai, spii?” Si sporse in avanti per mettere bene in vista la visuale del compagno.
“Sorveglio.” Questo tornò a ispezionare in lungo e in largo, con aria circospetta, l’area delimitata da Allison.
“Quanto sei puntiglioso, Scott.” Ruggì in tutta risposta. “A proposito di sorvegliare, dove hai lasciato Batman?” La voce si fece più tonante articolando l’ultima parola, esuberante, quasi eccitata.
“Chi?” La sua curiosità scemò con scatto immediato, Allison era più importante del desiderio di sapere.
“Non importa.” Ridacchiò.
Non gli era necessario voltarsi per concepire che Erica non era più al suo fianco.Tutto sotto controllo, per il momento.

 
 

*°*°*

 
 

Stiles era immerso nei suoi pensieri. Lydia era sparita, ma aveva fiducia che sarebbe ricomparsa dal nulla entro la fine della giornata. Magari è solo stanca di stare con Jackson. O magari le sono venute le sue cose e sappiamo che il quel periodo la sua idrofobia verso tutti si moltiplica. O… magari mi stava cercando e si è persa… Desunse, concludendo.
Il sospiro profondo di Jackson fu udito da chiunque fosse seduto al suo stesso tavolo, compreso Stiles. “Cos’è questa puzza?” Una smorfia raccapricciata fece capolino sul suo volto.
Stiles si grattò il capo.Porca squillo, da questo momento in poi io e i profumi siamo ufficialmente divorziati. Rammenta, Stiles, disse a sé stesso,mantieni una distanza di dieci metri da qualsiasi tipo di profumo. Soprattutto da quello di potosino asfissiante. Si guardò intorno con innocenza. “Chi ne ha mollata una?” Osservò con sguardo indagatore ognuno, da Jackson a Isaac, da Erica a Boyd.
La campanella annunciò la fine dell’intervallo e, in contemporanea, la fine del disagio di Stiles.
Per primo Scott mise piede in classe, accolto dall’aroma di Allison, seduta già al posto assegnatole. Si affrettò a impadronirsi del posto accanto a lei, con buon esito. Stiles non riuscì a contenere un sorriso gratificato nel vedere la temerarietà dell’amico che, però, ben presto si sarebbe convertita in un logorante imbarazzo.
Un’intensa ora di economia stava per avere inizio.
 

 

*°*°*

 
 

Passò il resto della lezione a rimuginare sulle poche informazioni che aveva, senza arrivare mai ad alcuna soluzione. Non aveva la minima idea di cosa avesse spinto Lydia ad abbandonare la scuola nel bel mezzo di una lezione ed essere totalmente scomparsa dalla circolazione. E di certo il motivo non era quello che la madre credeva fosse. Non accettare che il preside sia un proprio parente, a tal punto da sparire, era un comportamento inattendibile e bislacco da parte sua, conoscendola. Pertanto, era da eliminare dalla lista delle possibili giustificazioni.
Adagiò lo sguardo sui due piccioncini, che non avevano spiccicato mezza parola dall’inizio dell’ora. Ma una cosa si riusciva a capire chiaramente, Allison non aveva ancora dimenticato Scott. Era arrossata e visibilmente su di giri, ma mai quanto lo era lui. Tuttavia, qualche sguardo fuggente faceva la sua parte, ma non si erano mai imbattuti l’uno sull’altro.
Un feeling particolare era ciò che li rendeva ottimi compagni di vita. E, in tutta verità, chi se lo filava Scott, Allison esclusa? Sì, okay. Forse qualcun altro c’era che, segretamente, gli correva dietro, ma Allison era l’unica che fosse in grado di accettarlo per come era in realtà. L’una conosceva tutto dell’altro e viceversa. Ma si erano comunque lasciati, questo non cambiava le cose.
Stiles picchiettò la penna sul banco, ripetutamente. L’ora sembrava avere l’intenzione di proseguire in eterno, parevano passate ore intere e invece mancava ancora mezzora. Poi volse lo sguardo verso l’entrata – alla sua destra – attirato da un ombra in trasparenza affacciata da dietro la porta. L’umano la seguì con lo sguardo, sporgendosi troppo avanti e capitombolando dalla sedia.
“Stiles, cosa stai facendo?” Lo redarguì sottovoce Scott, che per un momento era riuscito a distogliere lo sguardo da Allison. Un momento che gli parve interminabile, tantoché, quando si accertò che l’amico non si fosse ferito, tornò a osservarla.
L’ombra superò la porta. L’umano si sollevò da terra e filò fuori dall’aula, lasciando tutti di stucco, il miglior amico in particolare, ma bastarono cinque secondi per vederli ritornare a seguire la lezione con menefreghismo. Le uscite improvvise nel bel mezzo di una lezione erano piuttosto frequenti di quegli ultimi tempi. “Stilinski!” Lo richiamò Finstock, il docente di economia nonché allenatore di lacrosse.
Stiles, ormai fuori dalla classe, si guardò intorno con cautela, ispezionando ogni angolo visibile. Avanzò, con passo lento e guardingo. C’era qualcuno che lo stava aggirando, ne avvertiva la presenza. L’ombra intravista non poteva essere andata lontano. Sperò che fosse un bidello o uno studente che si era perso. Il solo pensiero che potesse essere un lupo mannaro, accelerò la corsa frenetica del suo cuore palpitante. Il corridoio era desolato e agli occhi dell’umano apparve immenso. Voltò l’angolo e una figura alta e rigida gli si parò davanti, evitandolo di qualche millimetro. “Professore!” La voce sorpresa, ansimante. Sospirò, cercando di recuperare la lucidità. Per un pelo non gli ruzzolava addosso.
“Signor Stilinski. Cosa ci fa nei corridoi?” Adrian Harris, docente di chimica, visibilmente in conflitto scolastico con Stiles e Scott fin dal primo anno.
“Ero diretto al… b-bagno.” Occultò la verità e sperò che le parole non iniziassero ad ammassarsi, confondersi tra di loro come spesso capitava quando mentiva. “Bé, problemi di incontinenza.” Sussurrò, mantenendo uno sguardo affidabile.
“In ogni modo, le consiglio di ritornare in classe, sempre se non vuole beccarsi un’altra punizione.”
“Ironia della sorte, era proprio quello che stavo per fare.” Sì, certo. O magari era alla ricerca della misteriosa ombra sbucata dal nulla.
“Deduco che abbia conosciuto la nuova preside.”
“Già...” Quella discussione lo stava mettendo in soggezione. O probabilmente era solo la faccia intimidatrice del professore a fargli quell’effetto.
“Una brava donna.” Disse annuendo a sé stesso. Poi cambiò appieno il discorso. “Ti voglio nella mia classe esattamente tra” Controllò l’orologio al polso. “Venti minuti.” Un sorriso soddisfatto alterò l’animo di Stiles, che ricambiò con un sorriso rabbioso. “Avverti tuo padre che oggi resterai un po’ più del solito, per scontare la tua pena.”
“Punizione.” Lo corresse all’istante il liceale.
“Se preferisci chiamarla così.” Secondi dopo era già diretto verso un’altra classe.
Stiles sbuffò irritato, indignato, e compose un numero sul cellulare, pronto a scrivere un messaggio indirizzato al padre.

Papà, il prof mi tiene prigioniero.
Mi trattiene a scuola per un’altra ora.
Non preoccuparti. Sopravvivrò.
Ti voglio bene.
                                                      Stiles.

Prima che potesse completare l’azione, il cellulare prese a vibrare. Un messaggio. Si affrettò a premere invio e accedere alla cartella dei messaggi ricevuti. Era Scott.

Che stai combinando?
                                Scott.

Con tutta calma rispose al messaggio.

Ho visto qualcosa.
                      Stiles.

Tre secondi dopo.

Ne riparliamo dopo.
Torna in classe.
Il prof non l’ha presa bene.
                                       Scott.

Depose il cellulare in tasca. Si voltò, diretto in classe. Poteva giustificarsi con Finstock facendo uso della stessa scusa utilizzata con Harris. No, così facendo troppi professori avrebbero creduto che avesse problemi di vescica di serio rischio e la notizia si sarebbe diffusa, includendo gran parte del corpo studentesco. Questo equivaleva a uno Stiles rovinato dalle sue stesse fandonie. Meglio evitare di essere protagonista di uno scoop catastrofico e derisorio.
All’improvviso, un respiro strozzato – più che altro un ringhio moderato – fece balzare Stiles. Si girò di scatto. Sembrava essere solo. Nessun altro aveva avuto l’idea malsana di gironzolare per i corridoi alla ricerca di un’ombra inesistente. Ma il ruggito continuava a circondare Stiles che ormai era pervaso dal panico. Afferrò il cellulare dalla tasca dei pantaloni e con estrema rapidità compose il numero di Scott. Riuscì a scrivere “C’è qualc” prima che, a causa della premura, gli scivolasse dalle mani. Il cellulare atterrò al suolo creando un gran botto. Il tentativo di chiedere soccorso al migliore amico, adesso era irrealizzabile. Notò che la batteria era finita a metri di distanza. Si voltò dal lato opposto per controllare se quella cosa, quel qualcuno, volesse sorprenderlo alle spalle. Rivoltandosi e facendo qualche passo avanti per riprenderla, vide che la batteria era ridotta in cenere, come se fosse stata incenerita da lava ardente. Cosa che era, essendo in un istituto disciplinare e non in un vulcano, concretamente impossibile. Non poteva mentire a sé stesso, era spaventato, terrorizzato. Non aveva mai sentito un latrato così. Niente che assomigliasse al ruggito di Scott, Derek, Isaac, Erica o Boyd. Li conosceva bene i loro, li subiva pressoché ogni giorno della sua vita. L’ululato si fece più forte, ma non troppo. Chiaramente, stava cercando di evitare di essere udito del resto della scuola. Allora eri lì per lui? O era lì per divorare il primo studente incappato?
Il corridoio era deserto e agli occhi dell’umano apparve sconfinato e terribilmente chilometrico. La stanza si stava allungando a dismisura e lui diventava piccolo, così piccolo che un intero corridoio non poteva ospitarlo. Una sensazione di impotenza si accavallò a tutto il resto. Temeva che quel supplizio non sarebbe finito presto. Un senso di soffocamento gli permeò la gola. Vertigini. Debolezza. Si stava separando dal suo corpo, sentiva qualcosa che lo trascinava verso l’esterno e non voleva lasciarlo andare. Era una continua lotta, lui tirava verso l’interno e l’altro dal senso opposto. Adesso, la paura di morire era grande, immensa, più forte di prima. Provava impotenza a difendere sé stesso. Diverse vampate di calore gli pervasero il corpo, dalla testa ai piedi. Barcollò in direzione del muro. Tremori ovunque. Voglia di morire. Sapeva bene cosa stava accadendo e non sapeva come fermarlo. Gli occhi vagavano, la vista si annebbiava. Cercò un disperato sostegno, ma il muro era l’unica cosa tangibile che poteva per metà sostenerlo. Lentamente, scivolò per terra, col muro alle spalle, e il corpo atrofizzato e invaso dai brividi. La testa si faceva pesante, come tutto il resto del corpo. I tremori non cessavano, si facevano agonizzanti. Scivolò lateralmente e di sicuro non sarebbe riuscito a scampare un urto alla testa, tutt’altro che tenue. Ad un tratto, il sostegno di qualcuno gli fece evitare la caduta dolorante. L’umano si acquattò su quelle braccia comode e accoglienti, calde e ampie, forti e robuste. Non si chiese a chi appartenessero, anche perché non riusciva a focalizzarsi su un punto preciso, tanto meno su quel volto, la vista non glielo permetteva. Rimase lì e basta, sperando di essere nelle mani giuste. Un attimo dopo, il buio.

 

To be continued...


*Potosino: animale molto simile alla puzzola, che emette un odore asfissiante s'è intimorito.

 

 


Angolo dell’autrice.

Sono strafelice di annunciarvi che nella prossima parte che pubblicherò entrerà in gioco Derek Hale. E vi accoglierò con un momento Sterek che spero gradirete. *-*
Scusate se ho prolungato così tanto il capitolo, ma temevo sarebbe risultato noioso leggerlo in due parti separate. Spero che non vi abbia annoiati con tutto questo scrivere. E se l’ho fatto… bé, scusate, non era mia intenzione farlo. T.T
Naturalmente so bene che Stiles e la madre di Lydia (è chiaro che non si chiama Kendra Douglas anche nella serie) si sono già visti nella puntata 1x05 della serie tv – quando Stiles va a trovare Lydia e lei dice “What the hell is a Stiles?”. Ma ho voluto cancellare quella scena dalla mia testa per creare qualcosa di nuovo da poter inserire nella storia. Perciò… fate finta che Stilinski e Mrs. Martin non si siano mai incontrati.
Spero abbiate gradito quest'altro capitolo e spero continuerete a seguirmi.
Accetto consigli, giudizi, critiche e chi più ne ha più ne metta. Perciò mi raccomando, lasciate una recensione. :)

Anyway, la Jackson vi saluta.

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Capitolo 3
*** Free Fallin. ***


Free fallin – Caduta Libera

3








Non si può scappare da quello che si è.
Non importa quanto si corre veloce e lontano.
Si può arrivare ai confini del mondo e tornare.
L’ombra del nostro passato ci sarà sempre un passo dietro.
Ho cercato di seminarla, ho cambiato il mio nome.
Credevo di potermi lasciare tutto alle spalle.
E invece eccomi qui, di nuovo agonizzante nei miei ricordi.
La vita è così.
 


 
Era sempre così le prime volte, e adesso, anche a distanza d’anni, gli era sembrata la prima volta. Da tempo aveva smesso di soffrire così tanto. Aveva smesso di soffrire per gli attacchi di panico, inattesi e strazianti. Ma adesso erano tornati, più amari e demolenti di prima. Come sarebbe riuscito a reggerli ancora una volta? Aveva consumato metà infanzia a soffrire a causa loro. Lo sceriffo e Scott erano stati gli unici ad assisterlo, gli unici a stargli accanto. Non era mai stato solo per paura che accadesse da un istante all’altro, quando ancora la vita viaggiava in una linea di regolarità, niente di paradossale o anomalo. E adesso? Adesso che la vita viaggiava in una linea sottile – pronta a spezzarsi da un momento all’altro – chi l’avrebbe sostenuto, chi avrebbe vegliato su di lui? Faceva male non avere le capacità di ribellarsi. Faceva male non poter controllare il proprio corpo, le proprie emozioni, quando accadeva.
Le prime volte ci vuole un po’ prima di abituarsi, anche se non si è mai sufficientemente sicuri di esserlo. È una continua lacerazione, una morte repentina, ripetitiva e confusa, tanto confusa, da cui risorgi all’incirca dieci – eterni – minuti dopo, se sei fortunato. Ebbene è un miracolo? Affatto. È la cosa più funesta e deleteria che un ragazzino di sedici anni possa patire.
Ti si accappona la pelle. Il battito si ferma. La vista si offusca. I rumori che prima ti accerchiavano sono spariti. La paura di morire. Il timore di impazzire ed essere strappato via dal proprio corpo. I tremori. Il senso di asfissia. Vertigini. Debolezza. Tutto ciò deve essere subìto da un ragazzino che non ha ancora vissuto appieno la vita. Ma che ha un mondo di supplizi che l’attende a braccia aperte.
Pervengono così, senza preannuncio, nessuna avvertenza. Ti avvolgono il cuore in una stretta morsa e lo stringono fino a che tu inizi a lottare contorcendoti e urlando per far porre fine alla sensazione di caduta libera nel nulla più assoluto, un vuoto tutt’altro che ospitale.
Questa è la sua vita e non sa cosa farsene.


 

*°*°*


 
Otto minuti dopo.
Si rese conto di riuscire a sentire di nuovo le braccia e le gambe, la bocca amara, le labbra impregnate di saliva, il respiro fioco, il cuore martellante. Riusciva a sentire i rumori, le sensazioni che il suo corpo provava a contatto con qualcosa di estraneo e madido. Era vivo, un superstite scampato a qualcosa che non riusciva ancora a sopportare. Adesso sentiva freddo, una sensazione di umido e bagnato abbracciava il suo corpo, totalmente. I brividi si facevano meno violenti, ma pur sempre presenti. Il battito cominciava ad accelerare, seguito dal respiro che si faceva ansante, mentre cercava di ristabilirsi.
Era come se il tempo si fosse sospeso in quell’attimo, come se l'eternità – tutto d'un tratto – si fosse rivelata davanti ai suoi occhi. Come se l'ossigeno si fosse congelato a rilento, come se il suo ventre si fosse stretto in una turbinosa morsa che era in grado di recidere quel che ne restava del suo fiato vitale. I muscoli erano intorpiditi, perfettamente immobili, paralizzati. Le labbra schiuse in un'espressione di smarrimento, le iridi colorate di avellana che fissavano un ambiente a lui familiare – ma astratto – e decisamente indefinito per quegli occhi stanchi di vedere il male circondarlo. E poi vide qualcosa, un movimento a ralenti che tendeva ad amplificare quel senso di perennità, quel senso oppressivo che gli dava la percezione di essere schiacciato al suolo. Non riusciva a pensare, né a parlare, né a respirare, nulla gli era permesso. Era morto, caduto in una trance senza via di fuga? La cosa certa era che stava precipitando nell'oblio delle terre più profonde e buie. L'udito non percepiva nulla ed era come un flash, un déja-vu del suo passato. Fotogrammi confusi. 


 

*°*°*



Flashback
Un urlo.
Due urla.
Tre urla.
Quattro urla.
Quella condanna doveva finire. Lui provava a risolvere il problema ma fallire era più forte dell’istinto di provarci.
Ci provava. Falliva. Ci riprovava. Rifalliva. Un susseguirsi ininterrotto di fallimenti.
Anche lui aveva iniziato a gridare.
“Genim?” Una voce giunse – sommessa – dalla porta. Una voce calda, accogliente, così tanto rassicurante. “La mamma è qui e ti vuole bene.” Lo raggiunse nel letto e lo strinse forte al torace ossuto.
“Ho paura, mamma.”
“Non devi averne. Tu sei un bambino forte e questo lo sai bene.” Un sorriso sostò sul volto della donna, così avvilita, segnata dal dolore. Il viso era pallido, trasudante. Emanava fiacchezza.
“Mamma, stai tremando.” La voce del bambino si sfumò di una preoccupazione intensa.
Solo allora si accorse che il piccolo le aveva afferrato la mano. Era presa dai tremori. “Torna a dormire, non è niente. La mamma è solo un po’ stanca.” Il solito sorriso rassicurante. “Ho fatto un brutto sogno, tutto qui.”
Come fa ed essere così forte e allo stesso tempo delicata? Decisamente delicata. Così tanto da toccarla e vedere il suo corpo inerte frantumarsi dinanzi a quello sguardo innocente. “Resta qui, con me.” Genim sapeva che c’era qualcosa di sbagliato in tutto quello che stava passando la madre. In un modo o nell’altro, voleva sorvegliare la donna, assicurarsi che passasse la notte indenne. Aveva ancora cinque anni, ma era perspicace. Lui capiva. Più cercavano di occultargli la verità, più si avvicinava al sapere.
La donna emise un sospiro fiacco, debole. Non aveva voglia di opporsi. Non aveva le forze necessarie.
“Tesoro.” Un’altra voce. Molto più intensa paragonata all’altra, vigorosa ma indiscutibilmente affranta. “Torniamo a dormire?” Sfumature di fiacchezza nel suo volto, voglia di smettere di opporsi alla malattia della moglie.
Genim lanciò un’occhiata fiduciosa alla donna. Voleva essere rassicurato che quella notte sarebbe rimasta al suo fianco. Per salvaguardarla. Lui era il valido cavaliere pronto a difenderla in qualsiasi istante, nessuna eccezione.
“Credo che farò compagnia a Genim, stanotte.” Sorrise gioiosa.
“Ti va di venire a letto con noi, campione?” Non voleva lasciarli soli. Non in un momento indefinibile come quello, dove la cosa più giusta da fare era restare uniti. Nel bene e nel male.
Genim non riuscì a trattenere un sorriso a trentadue denti e corse verso il papà, abbracciandolo per le gambe, l’unica cosa che poteva afferrare alla sua altezza. Poi tese la mano, aspettando che la madre lo raggiungesse. Era lì, pochi passi e l’avrebbe presa, stringendola con vigore. Pochi passi e quelle mani avrebbero creato un contatto indissolubile, crogiolato dai loro calori.
Poi un botto. Un’ombra accasciata al suolo. L’urlo del papà. Nient’altro.


 

*°*°*


 
“Stiles!” Un pugno dritto in faccia.
Lui era lì, immobile e rassegnato. E c’era una voce ferma, decisa ma confortante a chiamarlo. Una voce che gli ricordava quella di sua madre, gli riportava in mente tanti ricordi, per lo più malinconici. Quella voce lo riportava indietro, quasi prendendolo per mano, obbligando i polmoni a riprendere fiato e il cuore a battere con normalità. La dolorosa morsa che gli stringeva lo stomaco iniziava ad alleviarsi. Istanti, attimi, secondi o forse ore dopo, l'eternità svanì e l’umano riprese a respirare, dopo un intervallo perenne di agonia. Gli occhi lucidi, aveva voglia di far uscire il lato da bambino che nascondeva in sé, ma riuscì a trattenerlo. Aveva imparato a farlo durante gli anni di convalescenza dopo che la morte si era – ingiustamente – presa la vita della madre. Il respiro era sempre affannato.
“Stiles” venne richiamato una seconda volta. “Torna da me.”
Gli occhi vagarono, la vista annebbiata.
“Stiles, respira” Una mano lo schiaffeggiò saldamente. “Hai capito? Devi respirare, stupido umano.”
Gli occhi del ragazzo cercarono quelli dell’alfa. Per un attimo riprese a respirare regolarmente. Il primo poggiò le mani sulle sue spalle e lo avvicinò adagio a sé. Qualche centimetro a distanziare i loro volti. Gli occhi fissi sul suo sguardo ancora vagante. “Il pericolo è passato.” Lo rassicurò. Gli era difficile farlo. Oramai non sapeva cos’era il conforto. Non sapeva cos’era la compassione o qualsiasi altro sentimento. Aveva cercato di eliminarli dalla sua vita anni fa, come tutte le emozioni, del resto. Ma tentò di rievocarli. Derek Hale non sapeva come gestire la situazione. Era chiaro. L’unica soluzione che gli era parsa quantomeno adeguata, fu quella di mettere il ragazzo sotto una doccia di acqua gelida. E aveva funzionato.
“Dove mi trovo? Vuoi uccidermi?” Stiles deglutì pervaso dal terrore. Il ricordo di aver cercato di sfuggire all’ombra misteriosa, che lo aveva accerchiato intimorendolo, si fece viva nei suoi ricordi. Adesso temeva il peggio. Era stato lui istanti prima ad intimorirlo? “Non farlo.”
“Non voglio ucciderti, idiota” Era quella tutta la gratitudine che gli stava dando dopo che l’aveva salvato nel bel mezzo di un attacco di panico? “Non ora.” Maledisse di aver preso quella decisione. Avrebbe voluto farlo lì stesso, senza rimorsi. “Siamo negli spogliatoi. Hai perso i sensi.”
“Un attacco di… p-panico?” Più che una domanda sembrava una certezza che voleva essere precisata, decretata.
Derek si limitò ad annuire, lo sguardo enigmatico. Era l’incarnazione di un mistero criptico. Un mistero per chiunque. Era preoccupato, felice, arrabbiato, triste?
Magari è l’espressione che assume quando sta per trangugiare qualcuno. Questo non mi sarebbe per niente d’aiuto. Qualcuno mi spieghi cosa cazzo sta provando.Stiles notò l’acqua che scorreva imperterrita sul corpo incolume, sul viso gocciolante di sudore. Poi rise.
“Cos’hai da ridere?” Accigliò il lupo. Finalmente un’espressione decifrabile.
Ringraziò il cielo. Questo continuò a ridere, obliando l’angoscia provata prima.
L’alfa sospirò divaricando le narici. Un leggero ringhio eruppe dalle sue fauci.
Lo indicò alzando un dito debole. “Sei tutto bagnato.” Strano da ammettere, ma la maglietta aderente che ora traspariva gli addominali del lupo lo rendeva piacente. Attraente. Un tipo interessante, insomma. Persino per un uomo. Persino per Stiles. Ogni lineamento era delineato dalla maglia; il tessuto marcava alla perfezione ogni tipo di muscolo maturato negli anni.
Il sarcasmo dell’umano fece capire all’alfa che egli si era ristabilito completamente. “Non ti reggevi in piedi, ho dovuto farlo.” L’aria di chi voleva uccidere, sterminare chiunque gli capitasse sott’occhio. “Dovresti ringraziarmi, Stiles.” Il lupo bastardo e privo di cuore aveva dovuto reggergli la testa, si era dovuto mettere dietro di lui per farlo stare fermo, per sostenere il suo corpo percosso dal panico, seduto lì con l’acqua a infradiciarlo. Aveva dovuto stringerlo contro il suo petto e il ragazzo sembrava essersi accucciato a lui con piacere, durante il momento di black out. Che intralcio. Avrebbe voluto strangolarlo con le sue stesse mani e poi divorare la carne tenera di quel corpo in procinto di morire a causa della mancanza d'aria, ma c’erano troppi problemi al momento, non voleva aggiungerne un altro alla matassa. Magari più avanti, quando le acque si saranno placate, pensò l’alfa.
“In alternativa mi avresti lasciato lì a morire.” Ne era certo, più che certo.
Entrambi erano seri, adesso. Stiles era intimorito da quello sguardo da serial killer che aveva davanti. Impossibile evitarlo. “Cos’era?”
“Non lo so.” Derek aveva mentito e stavolta era percettibile. Voleva farlo capire o solo non era riuscito a controllare la voce – ora come ora – tremante? Era turbato, più del sedicenne che aveva dinanzi, più di chiunque altro. Per quale motivo? Non era forse stato lui – da sempre – il lucido della situazione, quello calmo e controllato? La frangente doveva essere al di fuori di ogni sua – loro – aspettativa, dunque.
“Il tuo non lo so la dice lunga.”
L’alfa gli lanciò un’occhiata rabbiosa.
“Non tenermi il broncio, lupo brontolone.” Una pausa. Forse in attesa di risposta, forse in attesa di essere divorato. “Cos’era quell’ombra?” Tentò una seconda volta, ma l’altro si disinteressò totalmente. “Dannazione!” Esultò, stavolta guardando l’orologio al polso. Si alzò con estrema fretta per poi raggiungere la porta inciampando più volte lungo il percorso. Poi tornò indietro. “Grazie!” Non sembrava essere sincero, ma nemmeno falso, anche lui stava recitando la parte del personaggio criptico. Derek rimase lì ignaro, con espressione corrucciata, mentre Stiles lasciava gli spogliatoi.



To be continued...



 

 

 


Angolo dell'autrice:
Innanzitutto, vorrei scusarmi con ognuno di voi per aver ritardato l'uscita del terzo 'capitolo'. Sciaguratamente ho subìto problemi al computer, che è rimasto inutilizzabile per un bel po' di tempo -dire mesi è dire poco- e siccome il continuo era lì, ho dovuto aspettare e sperare che niente mi fosse stato cancellato. Non vi dico che collera. #*!@?! Mi dispiace tantissimo! e.e
Anyway, in questa terza parte ho voluto mostrarvi la parte amara della vita di Stiles, quella che lo tormenta tutt'oggi, i ricordi strazianti e ciò che credeva di essersi lasciato oramai alle spalle.
E' sempre stato un tipetto forte questo qui.
Spero che sia di vostro gradimento. E non esitate a lasciare una recensione, piccola o grande che sia.

Au revoir, dudes!
La Jackson vi saluta.

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