L'età dell' innocenza di JosieBliss (/viewuser.php?uid=19309)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 1 *** Capitolo Uno ***
“Corrupt you
corrupt and bring corruption to all that you
touch…”
(corrotto, sei corrotto, e porti la corruzione ad ogni cosa che
tocchi…)
La donna si pettinava i lunghi e immobili capelli, che impertinenti
rifiutavano le carezze della spazzola, arricciandosi ugualmente ad ogni
nuova passata. Erano rossi, ma non quel rosso ordinario che si
può
trovare sulle chiome irlandesi, dalla sfumatura di agrume e cannella,
piuttosto era paragonabile alla buccia setosa dei lamponi o ad un
trionfo di papaveri e falò, che in una gioventù
mai terminata le aveva
fatto guadagnare il buffo nomignolo di
“strawberry”.
Non ricordi? L’insolita scritta sul muro, in grandi caratteri
neri
tracciati dalla sua lunga bacchetta, che abbagliavano con un sorriso
indulgente chi la leggeva, là, sul muro di pietra liscia
della vecchia
curva sulla collina, quella che portava a Villa Bliss. Quante volte
l’aveva letta tornando da scuola ai primordi
dell’estate, scivolando
sulla bicicletta d’annata mentre i piedi sfioravano la terra
battuta, e
i suoi capelli prendevano fuoco al sole ardente d’agosto,
come la scia
veloce di una cometa. Tu sei la stella e io seguo la sua coda.
FRAGOLA TI AMO ALLA FOLLIA
“…Hold, you behold, and beholden for all that
you’ve done…”
(capirai, tu vedrai, e vedrai ogni cosa che hai fatto…)
Lo specchio ovale rifletteva la sua bella immagine, il tavolino di
ceramica laccata e legno di ciliegio luccicavano alla luce del vecchio
e acciaccato lampadario di cristallo, a cui mancava qualche pendente
qua e là, probabilmente rubato e conservato gelosamente come
una
reliquia dalle mani di una bambina bella come i campi sterminati di
tulipani rossi. Il letto, sfatto, aveva ancora l’impronta del
suo corpo
esile, e forse di qualcun’ altro che non era sicura di avere
sognato.
Il pendolo del salotto battè le due di notte dell’
otto aprile del 1976
secondo le stime dei calendari inglesi.
Aveva mani piccole e dita sottili che passavano distratte un impronta
di fard sugli zigomi e un altezza poco considerevole, un metro e
sessanta scarso, ma, attenzione, raggiungeva i settanta con le scarpine
più audaci che aveva. Indossando il mantello verde cupo
controllò sua
figlia dormire beata accucciata nel letto, socchiudendo appena la porta
per non permettere alla luce indagatrice di turbare il suo sonno
tranquillo. Sorrise, come fanno tutte le madri guardando i loro figli
dormire docili, piccoli o grandi che siano, e mentre con una mano
sfiorava i riccioli di bistro sparsi sul suo viso, non potè
fare a meno
di ricordare quanto assomigliava a suo padre, e questo lo pensano tutte
le madri sedotte e abbandonate, come nei più desolanti film
d’amore.
“…Spell, cast a spell, cast a spell on the country
you run…”
(e fai incantesimi, tu incanti, e incanti sulla terra in cui
corri…)
Nei film d’amore, di solito, la madre sedotta e abbandonata
si ritrova
a carico un figlio non desiderato, che giustamente impara a desiderare.
Dopo anni di fatica, disperazione e umiliazioni la madre sedotta e
abbandonata realizza il suo sogno lavorativo che mette alla prova il
suo notevole intelletto, e , ovviamente, si innamora
dell’affascinante
e terribilmente anni ottanta proprietario della nuova barca ormeggiata
al porto/turista/dog sitter/cameriere italiano o simili che in
realtà
si rivela figlio in fuga del presidente/primo ministro/imprenditore di
successo/avvocato della situazione. Ovviamente lui adora il figlioletto
e il figlioletto adora il nuovo papà e insieme vivranno
nella bella
casa bianca con il Labrador sorridente che sbava e rotola sul prato.
Josie W. Bliss.la donna dai capelli color lampone, dubitava fortemente
dell’arrivo del figlio in fuga del primo ministro,
considerando che il
poveretto era sterile. E se anche fosse arrivato qualche altro principe
azzurro, viola, indaco, giallo limone, a bussare alla sua porta, sua
figlia gli avrebbe probabilmente vomitato sulle scarpe piuttosto che
rivolgergli la parola.
Meredith assomigliava anche questo a suo padre: poca confidenza agli
sconosciuti se non per ardite manipolazioni. Lo sguardo penetrante e
malizioso era lo stesso, così pure un acerbo egoismo,
un’intelligenza
superiore ai suoi coetanei, una sete inappagabile di conoscenza, una
sottilissima isteria e la paura degli spazi stretti e della folla.
Perché non si può respirare quando tutti ti
rubano l’aria, Josie, non
vedi, è come se lo facessero apposta a starti
così vicino.
“…And risk, you will risk, you will risk all their
lives and their souls…”
(E rischi, tu rischierai, tu rischierari tutte le loro vite e le loro
anime…)
Chiudendo a chiave la porta del piccolo appartamento, sigillandola con
doppi incantesimi di sicurezza, sapeva comunque di non correre nessun
pericolo. Di quei tempi andava di moda stare all’erta,
poiché era
l’epoca in cui colui che si faceva chiamare Voldemort operava
le più
terribili efferatezze, probabilmente alla ricerca del potere. Anche se
pochi osavano pronunciare il suo nome, preferendo sciocchi virtuosismi
verbali per riferirsi a lui, Josie tendeva a non usarlo semplicemente
perché lo riteneva di orrida cacofonia. Fin dai tempi della
scuola,
aveva detestato quel soprannome inquietante. Certo, non era un nome
babbano, ma Tom non le era mai dispiaciuto.
Sul collo, Josie portava due gocce di profumo, mentre il mantello era
impregnato di lavanda e strani odori alchemici.
Lo lasciava spesso al laboratorio, e tutte le volte si caricava di fumi
indecifrabili che salivano da scoppiettanti e colorate pozioni. Ormai
aveva rinunciato a levargli quell’aroma confuso e se lo
teneva addosso
confortata dalla sua familiarità. Aveva sempre amato il suo
lavoro e
ancora di più insegnarlo, anche se pochi alunni apprezzavano
appieno la
raffinata arte dell’Alchimia. Era fin troppo complicata per
dei
quattordicenni, troppo esoterica, ci si confondeva tra le
solennità
ostinate dei libri.
Qualche anno prima una pozione mal riuscita o forse riuscita
splendidamente, era esplosa ribollendo nel calderone, rovesciando su di
lei grandi quantità di una vischiosa sostanza madreperlacea.
Le era
entrata dentro, nella pelle, l’aveva inghiottita, rischiando
di
soffocare, ma ne era uscita incredibilmente viva e sana come un pesce,
senza l’ombra di un’ustione, nonostante il contatto
bollente che aveva
avvertito. Questo accadeva quattordici anni prima. Quattordici anni
dopo, Josie non contava una ruga in più di quel fortunato
giorno, non
un capello bianco, non un cedimento della sua pelle soda e liscia. Era
eternamente giovane. Non sapeva però se gli effetti
miracolosi di
quella pozione si estendevano alla vita eterna, ma ne dubitava
fortemente, aspettava infatti da un momento all’altro di
cadere
stecchita per terra.
Il ticchettio dei tacchi risuonava sinistro per la via deserta e
nebbiosa, costellata di ricordi. Lì,proprio in
quell’angolo, una
mattina d’estate si era fermata a succhiare
un’arancia seduta sullo
scalino, là, sui tavoli deserti della gelateria, la ragazza
coi capelli
neri e il grembiule stracciava a carte i clienti, nella vetrina vuota
una volta scoppiavano mirabolanti e innocui fuochi
d’artificio, e col
naso spiaccicato contro il vetro, stormi di bambini si fermavano a
guardare.
Scivolò dentro il vicolo senza neanche accorgersene. Dalle
finestre
giungevano bagliori sinistri, qualcuno era ancora alzato, o non aveva
intenzione di coricarsi. Un alto signore con il cappello calato e lo
sguardo basso passò veloce alla sua destra, ondeggiando in
un lungo e
lugubre mantello nero. La stradina le si apriva davanti come se
l’avesse già fatta centinaia di volte, gli
irregolari scalini erano fin
troppo familiari, i negozi dall’aria vuota e trascurata si
affollavano
tra le strette pareti delle case. Nocturn Alley non aveva mai un aria
accogliente. Tirò fuori un pesante mazzo di chiavi, e,
nervosamente,
guardandosi intorno, cercò la lunga chiave
d’ottone, consunta dal
tempo. La infilò nella serratura di una porta scheggiata e
leggermente
storta. La chiave smosse i cardini non oliati da tempo immemorabili,
resuscitò le sue giunture addormentate, aprendosi con un
lamento.
Bentornata a casa.
L’odore di vecchio e di chiuso le invase le narici. Tastando
le pareti
cominciò a salire le scale ripide e sconnesse, mentre, per
qualche
strano motivo, il respiro le si affollava in gola
Le quattro parenti dipinte erano sempre le stesse, anche se non le
vedeva. Di notte le erano sempre parse inquietanti. Per terra, i passi
restavano silenziosi sullo spesso strato di polvere. Il profumo di
vecchie alchimie, di vernice, di vaniglia e limoni, era ancora
percepibile, conservato come in un’ampolla, o forse era solo
la sua
immaginazione.
“In vena di ricordi nostalgici?” mormorò
una voce assolutamente reale,
dolce e malsana, alle sue spalle. Josie inghiottì
l’aria fredda.
Il film d’amore di Josie andava contro tutte le regole
soprascritte. Ad
appena ventiquattro anni, era sì madre, sì
sedotta e sì abbandonata, ma
senza alcun umiliazione e anzi un ottimo prestigio dovuto al suo
talento e al suo sangue blu, per esattezza una purissima discendenza di
avi severissimi e donne straordinarie che culminavano con la madre,
Wilelmina, femminista, scandalosa, ribelle ed eccellente maga, bella e
terribile come un esercito schierato in battaglia, primo ministro della
magia donna, contessina del Galles maritata con il Duca di York. E
dieci anni dopo dall’abbandono il mentecatto era tornato, le
labbra
cucite nella scusa
Avevo-bisogno-dei-miei-spazi. Ammetto che forse era più
complicato di
così, ma per Josie era stato difficile dimenticare il primo
amore, i
suoi occhi neri, le mani che scivolavano su lenzuola bagnate dai
sospiri delle prime volte, l’amore folle e profondo che li
aveva legati
per nove lunghi anni. Si era rifiutata di donargli altri sguardi che
uno di furioso rancore luccicante di lacrime ed era tornata alla sua
vita salda e tranquilla. Quello che Lui era diventato non le
apparteneva più, e quella che lei era sempre stata se
l’era fatto
sgusciare dalle mani. Ma a volte, gli capitava, nel sonno, di sentire
una carezza invisibile, di svegliarsi agitata e bagnata sussurrando il
suo nome, di piangere senza motivo e di morire di paura leggendo le
terribili notizie sul giornale.
Sapeva che nulla poteva farle del male, perché il male
più grande la
proteggeva, e tutti i mali minori prendevano ordini da Lui. Ondeggiando
nel senso di colpa della sua frustrante situazione, non potendo fare a
meno di addolcirsi davanti a quegli immutati e penetranti occhi neri,
temeva addirittura di perdere il senno e perdonare gli omicidi, le
torture, le stragi. Si consolava nel pensiero di non toccarlo da
vent’anni, ma a volte non ne era così sicura,
faceva dei sogni strani e
si svegliava con la pelle tatuata del tocco di qualcuno.
Josie inghiottì l’aria fredda e si girò
ad affrontare il drago.
“Che diavolo vuoi?” sbottò freddamente,
torturandosi l’orlo del
mantello, fissando le ombre scure. A grandi passi l’uomo le
si
avvicinò, gli prese il bel viso tra le mani e la
guardò negli occhi
color nocciola.
“Ma che domande, bambina mia…”
Sussurrò Tom Ridde, sollevandola tra le sue braccia forti.
“…And burn, you will burn, you will burn in hell,
you will burn in hell for yours sins.”
(E bruci, tu brucerai, tu brucerai all’inferno, tu brucerai
all’inferno per i tuoi peccati.)
Citazioni ricavate da “Take a bow”, primo pezzo
dell’ultimo album dei Muse, Black Holes and Revelations.
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Capitolo 2 *** Capitolo Due ***
Probabilmente tutto era
cominciato quel
vivido e gelido inverno di tanti anni prima, ma Josie non se ne era
proprio accorta. Nei corridoi la si poteva vedere spesso andare a
sbattere contro qualcuno, considerando la sua abitudine di avere sempre
il suo grazioso e lentigginoso nasino all’insù che
sfiorava le pagine
avariate dalla polvere di pesanti volumi della biblioteca.
Non c’era da stupirsi che la considerassero strana: non aveva
molti
amici, piuttosto molti osservatori, perché la sua treccia
scarlatta non
passava certo nell’ anonimato, e neppure la sua graziosa
figuretta da
ballerina, con l’ossatura da uccello e la pelle candida della
nobiltà.
Si portava sulle spalle l’ingombrante nome di sua madre, una
sirena di
eclatante avvenenza che non stava un attimo ferma, piuttosto ballava su
quegli squisiti piedini di fata, una cenerentola senza mezzanotte che
rideva come gorgogliano i ruscelli. Sua madre si era fatta molti
ammiratori ma altrettanti nemici: nella perbenista società
inglese
degli anni quaranta non stava bene fare tutte quelle sanzioni sulla
parità dei diritti delle creature magiche o la promozione di
centinaia
di posti di lavoro estremamente prestigiosi al ministero per le
streghe, ancora casalinghe e poco audaci a far valere le proprie
ragioni sui grassi e benserviti mariti; linee di comportamento che
scatenavano strane reazioni nella comunità magica, come
sconti del 80%
a tutti i maghi di famiglia mezzobabbana su tutti gli alimenti
all’emporio di Diagon Alley.
E Josie sopportava pazientemente l’ombra incombente di sua
madre, a volte disprezzandola, altre andandone fiera.
Si sentiva estremamente fuori aspettativa da coloro che la guardavano
con speranza: insomma, come puoi superare o perlomeno eguagliare
personalità del genere? Cosa avrebbe dovuto fare? Salvare il
mondo? Per
quei tempi si accontentava di prendere ottimi voti a scuola e fumare
Gitanes nel bagno delle ragazze al quarto piano.
E così ignorava le prese in giro, le voci che la davano per
zitella a
vita, perché a quindici anni non puoi essere così
bella e non avere un
ragazzo intorno. L’unica persona che la faceva davvero
arrabbiare era
quel tronfio, presuntuoso, arrogante di Tom Ridde.
Insieme al suo gruppetto disgustoso di compagni andava in giro a
terrorizzare la scuola, facendo divertire i suoi seguaci con i
più
biechi divertimenti, e mantenendo una fastidiosa aria di
superiorità.
Che cosa c’era poi di affascinante in lui, che tutte quelle
ragazze
smaniavano e miagolavano per ricevere uno sguardo, mentre se le passava
come fazzoletti, umiliandole senza pietà, proprio non lo
capiva.
Innegabilmente intelligente, certo: fin troppo, per un ragazzino
così giovane. Sapeva giocare bene le sue carte.
Davanti ai professori non aveva un capello fuori posto, e veniva
coccolato e viziato come il povero orfano della situazione.
Prefetto, caposcuola… faceva vomitare la sua
falsità.
Come se non bastasse si divertiva enormemente a prenderla per in giro.
E quella volta alla fine delle lezioni, quando si era infilato
nell’ aula di trasfigurazione mentre lei riordinava gli
appunti…
“Sento puzza di fragole…” aveva
ridacchiato il suo piccolo compare con
gli occhi strabuzzanti, precedendolo saltellando lungo le file ordinate
dei banchi. Josie aveva sospirato e abbassato la lunga piuma
d’oca.
Tom l’aveva superata passandole delicatamente un dito
sull’orecchio. Si era scostata, infastidita.
Oh, bisognava ammetterlo: Tom era terribilmente carino. Aveva labbra
sottili dal sorriso freddo, un naso diritto e presuntuoso, occhi scuri,
profondi e ardenti come il carbone e un cipiglio dolcemente incurvato.
I capelli corvini gli incorniciavano il viso regolare e possedeva un
fisico scattante e atletico, fianchi sottili da torero e arti agili e
forti, ma per niente imponenti.
Si sedette sulla cattedra, sprezzante, e prese a fissarla
spudoratamente.
Sotto le ciglia rosse fisse sul quaderno, Josie si sentì
avvampare.
“Stai arrossendo per me, Strawberry? Mi lusinga.”
mormorò, con il suo sghembo sorriso di scherno.
“Lasciami stare, Riddle” replicò la
Corvonero, girando pagina.
“E perché mai?Mi diverto un sacco a stare con
te.”
Senti I suoi amici ridacchiare e disporsi in cerchio, ai lati della
classe, circondandola. Non aveva più vie d’uscita.
Silenziosamente,
strinse la bacchetta nella tasca del mantello.
“Immagino.” sussurrò, alzando lo sguardo
di ciliegio e fissandolo negli occhi.
“Davvero. Io e te abbiamo un sacco di cose in
comune.”
Pareva divertito.
“Ah si? Non me ne ero mai accorta.”
“Per esempio siamo entrambi superiori a coloro che ci
circondano.
Beh…dimenticavo che tu non hai nessuno di cui circondarti.
Ultimamente
mi sembra che la gente ti eviti.” Sillabò
l’ultima parola come per
gustarla, e farla vibrare nell’aria.
“Entusiasmante” rispose Josie, cominciando a
ficcare i libri nella borsa.
Fu un attimo: se un momento prima Riddle era seduto comodamente sulla
cattedra del professor Silente a gambe dondolanti, in un batter
d’occhio le era vicinissimo, tanto da sfiorare la sottile
peluria
dorata delle sue guance, morbide come pesche, le afferrava le mani
ignorando lo strillo soffocato, e la faceva girare, come in un valzer
immaginario.
Canticchiò al suo orecchio, mentre Josie, incapace di
reagire per lo stupore,lo fissava a bocca socchiusa.
”Nel mondo, bambina mia, ci sono luci e ci sono
ombre.” mormorò,
facendola girare su se stessa. “Tu, cara Josie, sei una delle
luci, la
luce di tutte le luci” *
Josie aveva tremato fra le sue braccia, la situazione le sfuggiva di
mano. Odiava non tenere il controllo, odiava che quella piccola feccia
serpeverde li guardasse sbigottita, odiava che i suoi occhi, gli occhi
di Riddle, la ammaliassero come un incantesimo, e si accorgeva adesso,
solo adesso, che la sua voce era morbida e melodiosa, profonda e
giovane.
Sicuramente le aveva lanciato qualche incantesimo di fascino.
Si era staccata dal suo dolce abbraccio d’improvviso, andando
a finire contro un banco, goffamente.
L’aveva guardato con occhi spalancati, boccheggianti e lui
aveva riso.
“Allora non sei così
frigida…” aveva sussurrato, gli angoli della bocca
dolcemente piegati.
Scossi dal torpore, tutti gli altri, Rosier, Nott, Mulciber, Dolohov,
Lestrange, avevano riso della stessa risata, piccoli burattini i cui
fili si muovevano solo al suo freddo sguardo.
Mentre alcune inspiegabili lacrime si affollavano sotto le iridi di
Josie, lei scattò infuriata, e prima che potesse rendersi
conto del
gesto, la sua mano schiaffeggiava il bel viso di Riddle.
C’era stato un silenzio agghiacciante, dopo.
Josie aveva temuto per chissà quale sciocco motivo, che
quelli sarebbero stati i suoi ultimi respiri.
Ma Tom si era limitato a fissarla in silenzio, con un piccolo sorriso e
gli occhi che mandavano lampi.
Lei, rossa in viso, aveva afferrato la borsa di cuoio carica di libri e
se ne era andata sbattendo la porta.
Non si era accorta di aver lasciato sul banco una lunga e flessuosa
penna rossa, quasi quella di una fenice. Tom la sfiorava con le dita e
rifletteva. Forse, anni dopo, gliela avrebbe restituita in un giorno di
fulmini e tempeste.
Parliamoci chiaro: gli anni di Hogwarts non videro il primo reale
incontro fra Josie e Tom.
Per chissà quale ragione, le anime destinate a condividere
un amore,
prima di conoscersi effettivamente, sono ordinate a vivere fugaci e
inconsapevoli incontri, proprio come se lo Scrittore del Grande
Romanzo, l’Illustre Architetto, il Motore Immobile, il
Demiurgo,
chiamatelo come volete, si divertisse a tessere, disfare e nuovamente
intrecciare i fili delle loro sorti.
Essi non seppero, per esempio, che quando da una parte della
città una
piccola Josie si sporgeva a guardare le stelle lucenti sopra i camini
fumosi di Londra alla ricerca di un fratello, di Peter Pan o di
qualcosa di simile, rinchiusa nella sua torre di cristallo che era la
bella casa all’angolo con giardino di sua madre, da un altra
parte, Tom
fissava con rabbia le stesse stelle, dalla finestra fredda
dell’orfanotrofio, compiacendo e odiando la sua solitudine,
alla
ricerca inconfessata di una sorella, di una fata o di chissà
cos’altro.
A cinque anni si erano incrociati sulle strisce pedonali, era il 1939 e
la guerra era alle porte, Wilelmina teneva per mano sua figlia che
saltellava sul posto perché doveva fare la pipì.
Allo scattare del
verde Josie era corsa liberandosi dalla stretta di sua madre, andando a
sbattere contro un bambino dall’aria imbronciata, in gita al
circo con
i suoi compagni, che era rimasto sconvolto dalla fanciullina. Lei era
scoppiata a ridere invece che a piangere quando era caduta per terra,
con il suo vestito viola acceso, un cappello storto e a punta e la
chioma piena di boccoli color lampone che si spargeva nel pomeriggio
come la sua risata.
Mina era corsa a tirarla in piedi, fasciata nel verde smeraldo del suo
vestito scandalosamente corto per l’epoca.
Belle come il sole del mattino, se ne erano andate mano nella mano e
con un sorriso identico, lasciando Tom tramortito da indescrivibili
sentimenti, a fissare la bambina che continuava a girarsi e a fissarlo
sopra la spalla con uno sguardo curioso.
L’avrebbe sognata per notti intere.
Un'altra volta, questo accadeva nel 1942, Josie sorseggiava una
sontuosa cioccolata calda in un bar francese traboccante di un
fastidioso stile liberty, con le gambe che dondolavano dalla sedia di
ottone e un cappello bianco da bambola di porcellana. Sua madre
parlava fitta fitta con un signore alto e affascinante dai capelli
rossicci. Qualche esperto l’avrebbe chiamato Albus Silente,
ma i
Babbani non riconoscevano né l’uno né
l’altra sua magica consorte.
Cercavano sempre di andare in locali non frequentati da maghi: nessuna
domanda imbarazzante, nessuno sguardo curioso, al massimo qualche
occhiata sbalordita per i fiori giganteschi incastonati
nell’acconciatura della donna o della barba così
lunga da dover essere
infilata nella cintura del vestito indaco dell’uomo.
Le vetrine trasparenti del locale si affacciavano sulla strada
affollata e su un bambino dai capelli spettinati e nerissimi, mani in
tasca e sguardo freddo e attento, che fissava lo strano trio, in
particolare la bambina dall’aria familiare, che ancora
tormentava
alcuni dei suoi sogni.
Josie, vedendolo, aveva sorriso come sorride chi riconosce un vecchio
amico, ed era saltata giù dalla sedia d’ottone
infilandosi sotto i
tavolini rotondi gremiti di ricchi signorotti. Albus Silente aveva
seguito con interesse la scena, il suo sguardo si era posato sul
bambino babbano fuori del locale e sulla piccola Josie che spingeva la
porta del negozio, facendo entrare spifferi e punte di neve. Josie si
era avvicinata così timidamente a Tom, le piccole mani
sporche di
cioccolato che stringevano la tazza bianca, che il bambino si era mosso
a disagio sul posto, calcolando il suo dolcissimo sguardo nocciola e
desiderando ognuno di quei selvaggi fili rossi sotto il buffo cappello.
Voleva tagliarli e intrecciarli in un mantello di cui coprirsi. Non
aveva mai visto un rosso così acceso, più acceso
del sangue.
Josephine gli aveva avvicinato la tazza alle labbra sottili e
imbronciate e lui l’aveva scostata con fastidio, fissandola
avidamente
negli occhi. Le aveva afferrato una mano e aveva succhiato dolcemente
il cioccolato dalle piccole dita rosee.
Josie, senza spavento alcuno, o meraviglia o stupore, sapendo
esattamente cosa fare, come se quei gesti fossero scritti in un copione
già letto, già attentamente studiato, aveva
abbandonato la tazza nella
neve (si sarebbe sciolta in un miscuglio di ghiaccio e cacao), aveva
preso l’altra mano di Tom, sporca di fango, e aveva baciato
quel
piccolo palmo, leccando via il sapore acre e farinoso della terra
bagnata.
Che scandalo! L’erotismo e l’innocenza di quel
gesto avevano strappato
parole indignate a due grasse signore avvolte in bomboniere di pizzo,
avevano cominciato a chiocciare, cameriere, cameriere, chiamavano e
indicavano i due bambini con piccoli indici polposi: la borghese e il
mendicante, la principessa e lo zingaro.
Avevano scatenato un putiferio, il tanto acclamato cameriere si era
precipitato a separare i due innocenti.
Ma erano ormai legati da una promessa, da un patto che vedeva notti di
un amore selvatico e insonne, limiti non ancora esplorati dalle bocche
e dalle mani della purezza, anni di irrefrenabile ardore, tenerezza e
malvagità, braccia che avrebbero stretto ed ucciso, pelle
che avrebbe
tremato e sanguinato, serpenti e unicorni.
* Citazione in onore di quell’uomo meraviglioso che
è Francis Ford
Coppola, anche se l’unico che può renderla con lo
stesso comico pathos
e sentimento è Mr Hopkins.
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Capitolo 3 *** Capitolo Tre ***
Josie era trasformata.
Trasformata da larva a farfalla.
La metamorfosi era venuta d’improvviso, dopo un
corteggiamento durato quel tanto che bastava a sciogliersi
nell’Attesa.
L’attesa di lui, di un bacio agognato e sofferto, delle mani
sulla
pelle, sotto la divisa, le sue tremanti per l’emozione,
quelle di lui
sicure, lente, esperte. Era stato bello.
Lui la prendeva in giro, sempre. La chiamava Virgin Mary.
Lei si arrabbiava.
Uh, che rabbia, quel Riddle! Non la lasciava un attimo stare.
E tutti li osservavano, capivano la tensione, i suoi occhi neri fermi
sulla sua nuca durante pozioni, quella nuca rotonda e sottile, la
treccia lunga, rossa, un fiume in piena. Lei china e attenta prendeva
veloce gli appunti del vecchio Horace (come l’adorava!), e
lui,
assorto, scomposto sulla sedia, con grazia, a fissare le sue piccole
orecchie, le spalle esili che si piegavano sul foglio, il profilo che a
volte fissava la finestra, distratto un attimo, poi di nuovo rapito
dall’inchiostro.
E il ballo di primavera? Lei sapeva ballare il valzer per le belle
feste di sua madre. Suo papà, prima di morire,
gliel’aveva insegnato.
Lei ballava coi suoi piccoli teneri piedi, sugli stivali lucidi di
Alaster Bliss e rideva come una pazza, quando lui la sollevava e la
faceva volare tra le sue braccia, nel salone di specchi e di ambra.
Al ballo di primavera lui aveva abbandonato la bellezza folgorante con
cui stava a braccetto, con passo svelto e deciso era venuto da lei. E
prima che potesse aprir bocca stupita le aveva afferrato le mani e
fatta girare nel suo timido vestito di seta bianca, così
leggero,
delicato. L’aveva portata in un cerchio perfetto al centro
della sala.
E poi finalmente, quel bacio.
Rubato prima di un pranzo, prima di entrare in Sala Grande,
così.
I libri schiacciati tra loro, sul suo cuore impazzito,
perché già da un po’ la sua assenza le
faceva male e non capiva perché.
Le sue labbra, dolci, avide, come l’uva.
Le sue mani, su di lei, a strapparle ansiti e sospiri, quasi davanti a
tutti. A ricordare quel quarantadue lontano in cui già aveva
conosciuto
quel sapore, sulle sue mani piccole di bambino.
Era stato un bambino bellissimo.
Era un bambino bellissimo.
Era Tom: rispettato, venerato, invidiato, odiato, da tutti temuto.
Popolare come solo alcuni sanno essere, freddo, distaccato, geniale,
insensibile.
E si perdeva nella sua bocca, sentendo una bestia nel petto che non
aveva mai conosciuto, pulsare, desiderare, amare.
Era un amore egoista il suo, generato dall’auotosoddisfazione.
Così credeva.
E le sciolse i capelli.
Vi affondò le dita.
La chiamò per nome.
Josie.
E lei era trasformata. Da larva a farfalla.
Andava in giro tenendo la testa alta, rideva più forte,
teneva sempre i
capelli sciolti, liberi, allegri, i riccioli dappertutto sul suo corpo,
sul suo petto candido e nudo nelle notti affamate a cercare se stessi
nell’altro.
Era vera, più audace, più sua, sempre
più sua, fino a morire, le cullava la testa aspirando
l’odore di vaniglia sul collo.
“Tom?”sussurrava Josie una notte, fissando il nero
delle tende di velluto.
Lo scorcio di luna che gettava uno sguardo luminoso al suo viso
l’aveva svegliata, allontanando un sogno già
dimenticato.
Si passava la lingua sulle labbra screpolate dall’inverno e
dal sonno, e poi si girava, cercava nel buio il giovane amante.
Fissava le medesime tende, le mani dietro la testa, assorto, come di
fronte ad una scacchiera troppo difficile a metà della
partita.
Josie allungava una mano sottile e accarezzava il suo petto, fermandosi
all’altezza del cuore, per sentirlo palpitare, ed era tenere
in mano un
fuoco acceso, che ti brucia le dita e le rende trasparenti.
“Come mi vedi da grande, Josie?”
“Quanto grande?”
“Grande abbastanza per essere qualcuno. Oltre queste mura,
oltre le montagne.”
Lei sospirava e premeva forte la mano sulla pelle.
“Lontano. In un posto che non ti sta stretto.”
“Questo posto esiste?” Tom si girava a guardarla.
“Non lo so. Ma se c’è sarà in
alto, dove non c’è gente che ti possa respirare
accanto e rubarti l’aria.”
Si mordicchiava le labbra sentendo le piccole ferite pizzicare.
“Guarda che l’asma non ce l’ho quasi
più.”
Josie sorrideva.
“Non dicevo quello.”
“E allora? Come mi vedi? Rispondi.”
Josie girava le spalle, sbadigliando, fissava la luna ormai grande
fuori dal vetro.
“Lontano, te l’ho detto.”
Lui infilava una mano sotto il piumone e la posava sul suo fianco, e si
stupiva, come sempre, di come la curva riempisse il palmo,
perfettamente, come fosse stata forgiata apposta per le carezze.
“Verrai con me?” e le accarezzava la schiena, e lei
tremava.
“No, Tom. Respiriamo troppo vicino.”
“Non ha importanza.”
Josie si girava e si issava a cavalcioni su di lui, strusciandosi con
leggerezza.
Ipnotizzato, lui allungava una mano e la sfiorava, accertandosi che
fosse vera, che fosse lì davvero.
Josie si chinava fino a che i riccioli gli sfiorassero il viso,
accogliendolo dentro con un movimento veloce dei fianchi.
Lui sussultava.
“Importa invece. Io ti rubo troppa aria” mormorava,
sfiorandogli le labbra con le parole.
Era andata avanti per anni. Anni di un amore interminabile, mai
soddisfatto, mai saziato. Lei respirava attraverso la sua bocca, e si
sa, l’amore rende cechi.
Una volta, al settimo anno, si era trovata impigliata in un brutto
pasticcio… per caso Tom quella notte era in giro, ed erano i
giorni di
terrore del mostro di Serpeverde, lui chissà
dov’era, non si doveva
girare a quell’ora per la scuola, con gli incidenti da poco
avvenuti.
Era sgambettata fuori dall’ala ovest come un fantasma,
stringendosi
addosso un mantello infreddolito pure lui, i piedi scalzi, e il
coraggio negli occhi.
Tom, sussurrava per i corridoi deserti, Tom!
Ma dov’era finito? Poi aveva cominciato ad avere paura,
c’erano
scricchiolii nei muri, il silenzio era innaturale, per terra un gruppo
indaffarato di ragni correva verso una finestra, l’avevano
fatta
strillare, l’avevano punta sui piedi.
Qualcosa di grosso arrivava nell’altro corridoio, correva,
no,
camminava, anzi… strisciava. E il terrore l’aveva
paralizzata con la
curiosità, se ne stava ferma, stringendosi il mantello
intorno alle
spalle, e la Cosa strisciava e sibilava e sembrava ridere, ridere
follemente, oh mio Dio oh mio Dio, muoviti stupida…
finchè mani
familiari l’avevano tirata via, posando il buio sui suoi
occhi,
l’avevano scostata con gentilezza, facendola arretrare, fino
al muro.
Lei non osava parlare, la cosa strisciava imponente davanti a loro,
parlava, sibilava da sola, e un altro sibilo le era sembrato giungere
alle sue spalle, come una risposta, no, un avvertimento…un
ordine. La
Cosa, il mostro, li aveva sorpassati, ignorandoli, incerta.
Erano rimasti lì un eternità.
Lei con gli occhi chiusi dalle sue dita, che respirava sempre
più
piano, sempre più tranquilla, lui che la stringeva ,
pregando che non
facesse domande.
E lei non ne aveva fatte.
Non sapeva, non voleva sapere. Era stata una coincidenza, una fortunata
coincidenza.
Era viva, erano vivi, e quello le bastava.
Anni dopo avrebbe capito.
Erano gli anni in cui abitavano a Nocturn Alley, e lei tre giorni alla
settimana studiava a Lione. I giorni in cui lui era assente, in cui si
arrabbiava facilmente, si infuriava, le dava uno schiaffo buttandola
per terra, per poi precipitarsi a stringerla, ninnandola e chiedendole
cento volte scusa.
Gli anni in cui ballavano alla luce delle candele, come quella volta al
ballo di primavera, come ad altri mille balli, inizialmente la cosa la
imbarazzava, ma presto scivolava intrepida fra le sue braccia con
l’orgoglio negli occhi.
Era una casa particolare, la loro.
Una vasta stanza, che occupava tutto il secondo piano, due colonne di
sostegno che scendevano dipinte giù dal soffitto. Non un
mobile, non un
quadro, se non un letto a baldacchino, al centro della sala , con
drappi di velluto rosso, un palcoscenico aperto al mondo. E tende
bianche come il latte, alle finestre, che si gonfiavano come vele di
nave, allegre, durante i temporali. E tanti, grossi candelabri, che
ogni sera si accendevano tremuli e impetuosi, diffondendo una luce
calda e accogliente.
Mangiavano per terra, su un tappeto persiano, in silenzio, qualche
schifezza comprata alla rosticceria. Cioè, Josie mangiava.
Tom, beveva un po’ di vino rapito dall’abbacinante
luce delle candele,
coi suoi pantaloni migliori e il torso nudo, e si girava, le passava un
braccio intorno alle spalle e la baciava, le labbra bagnate dal vino,
dolci, ardenti, avide come l’uva.
Josie viveva in un limbo di dolcezza, passava le giornate in cui non
stava con lui a studiare o sonnecchiare, in un eterno dormiveglia,
usciva per comprare la frutta e si fermava a succhiare un arancia sul
gradino davanti alla gelateria, ballava da sola accarezzata da un vento
che gonfiava le tende e i suoi vestiti scandalosamente corti per
l’epoca.
A volte lui tornava prima dai suoi oscuri pellegrinaggi e accompagnava
il suo ballo suonando un pianoforte a coda, le mani sporche di vernice,
in un eterno dipinto che dirigeva come un maestro
d’orchestra, nel
tempo libero, un dipinto sulle pareti, una selva oscura di animali
selvaggi, magici, feroci, delicati che si snodavano sempre incompiuti
sui muri bianchi, attirati da una luce, da un Qualcosa che a
all’epoca
Josie non conosceva. Un giorno avrebbe visto, saputo, e avrebbe pianto,
perché sarebbe stato troppo tardi e l’oriente se
lo sarebbe portato già
via.
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Capitolo 4 *** Capitolo Quattro ***
Josie dormiva. Dormiva in
un letto di tulle, onde bianche e sfatte.
La luce sfacciata del sole, con antipatia irresistibile, solcava metro
per metro il pavimento di cotto, strisciava sulle lenzuola e si
affacciava ai suoi occhi dischiusi, vibranti, come sono quegli occhi
appena destati ancora gravidi di sonno.
Si girò, per difendersi dai raggi impertinenti,
attorcigliò i drappi
intorno al suo corpo, sentì sulla pelle uno spiffero e si
rannicchiò,
con un brivido.
Poi aprì gli occhi.
Era a casa.
A casa sua, quella grande e comoda e piena di stanze, sul soffitto un
lampadario con pendenti di vetro, e un bello specchio ovale da diva,
con la toeletta del secolo scorso. Era appartenuto a sua nonna,
Messaline Wisteria.
Per l’ennesima volta si chiese perché la sua
famiglia mantenesse il
cognome femminile di generazione in generazione, indifferente alle
altre stirpi purosangue, qualunque Mulciber, Bliss, Black, Lelich o
Malfoy capitasse sulla sua strada.
Lei aveva optato per un compromesso… anche se il dilemma
tormentava sua
figlia. Meredith Wisteria? Meredith Bliss? Meredith Wisteria
Bliss…Riddle?
Riddle. RiddleRiddleRiddle.
Un sogno spaventoso e dolcissimo le invase la mente.
Balzò a sedere col respiro affannato, e chiuse gli occhi per
ricordare…
ei, lei era uscita quella notte, non poteva essere un sogno, aveva
sentito il freddo, la nebbia, il silenzio.
Lei aveva camminato fino a Nocturn Alley, fino alla Vecchia
Casa… come la chiamava lui? La Scarmigliata.
L’aveva sempre fatta ridere quel nome.
Scarmigliata… con le sue scale
di polvere, le pareti buie che ancora respiravano, quiete, il suo
affresco, la sua voce… la sua voce!
Scese dal letto, incespicando e tirandosi dietro il lenzuolo,
frugò tra
i vestiti posati ordinatamente sulla sedia, come se non fossero mai
stati usati. No, non poteva aver solo sognato. Ricordava tutto, fin
quando entrava nell’ampia sala, la Sala da Ballo, e
poi… il vuoto. Con
un gemito, si strofinò la fronte trafitta da un improvvisa
emicrania,
si accucciò per terra, come una bambina.
Come era tornata a casa? Non ricordava nulla… oh, Tom!
Maledetto il
giorno in cui l’aveva incontrato! Desolata sollevò
gli occhi
all’orologio a pendolo. Le dieci. Erano anni che non dormiva
così
tanto… l’ultima volta era ancora una disoccupata
recalcitrante con una
bambina in grembo.
Strofinandosi gli occhi trascinò se stessa e il solito
lenzuolo in cucina.
Meredith sfogliava assorta una rivista di ricette, i lunghi riccioli
neri che le adombravano il viso e una gamba che spenzolava
giù dalla
sedia.
“Ciao.”mormorò cupa, masticando il
saluto con un enorme cicca rosa.
“Ciao. Da quanto sei sveglia?” chiese Josie
accomodandosi sul tavolo e
facendo danzare la bacchetta verso una vecchia caffettiera, che subito
volò a lavarsi e riempirsi di nuovo, adorato
caffè.
“Da un po’” sempre quell’orrida
cicca.
“Quanto sarebbe da un po’?”
sospirò Josie, trattenendo la sensazione di infilarle due
dita in bocca e strappargliela fuori.
“Un‘oretta.”
“E… senti, sei mica passata da me?” Mery
alzò lentamente lo sguardo.
“Cioè… sei passata da camera mia?
Così, per curiosità. Boh.”
“Hai un uomo nascosto nell’armadio?”
aveva smesso di masticare. Sorrideva perfida.
“Non fare la stupida.” delusa, Mery raccolse
nuovamente la sua attenzione su un sufflè di asparagi e
funghi.
“Perché non cucini mai ‘ste cose,
Josie?” Ecco.Non la chiamava mai
mamma. Non lo faceva da quando era entrata ad Hogwarts. Lei era Josie,
o Bliss. Con una smorfia verso il caffè in una tazzina. Ah,
l’espresso.
Meredith era diventata adolescente troppo presto. Tra non molto tempo
sarebbe diventata adulta, e tutti le avrebbero pensate sorelle,
amiche…
conoscenti.
“Perché non so cucinare e lo sai.”
sussurrò alla tazzina, imbarazzando e arruffando il
caffè in veloci cerchi concentrici.
Mery stette zitta, pensierosa su un porridge particolarmente pesante.
“Quando torniamo ad Hogwarts?”
“Hai voglia di tornare?” La scrutò
attenta, ma era indecifrabile. Come Tom.
“Forse. Rispondi.”
“Rispondi?”
“Rispondi, per favore.”
Meglio.
“Se vuoi torniamo anche oggi.” Meredith
rizzò le orecchie, sorpresa.
“Oggi esco.”
“Ma vuoi tornare o no?”Josie si stupiva. Mery
adorava Hogwarts. Era
stato durissimo convincerla a venire giù. Non era colpa sua
se la zia
si sposava a Londra, sotto pasqua. Violet se la sarebbe presa a morte
se non l’avesse vista. Avrebbe lanciato almeno un malocchio.
Lo sai
come le piace farsi vedere. Far vedere il suo enorme culone
ballonzolare per la navata della chiesa.
“No, non ancora.”
“Oh mio Dio. Sei malata, stella?”
“Non chiamarmi stella.”
Josie rimuginava.
“Ah… lui chi è?” e si
chinò sul tavolo attenta, i capelli spettinati
illuminata da un solitario ma audace raggio di sole. Divampò
tutta,
come una cometa. Rossa. Era Meredith la pecora nera. Letteralmente.
Dov’erano i riccioli rossi? Cosa avrebbe detto Nonna Olivia?
Ah, non
era facile. Veniva anche lei da sangue orgoglioso. Singolare: la stirpe
di Cosetta Corvonero unita a quella di Salazar. Insolito davvero.
Meredith sogghignò.
“Lui… lui è un tipo”
“Un tipo come?”
“Un tipo a posto”
Un tipo a posto. Cosa vuol dire per una ragazzina di diciassette anni
un tipo a posto?
“ Nome?”
“mmmh…Tom.” Josie sbiancò, si
aggrappò al tavolo.
Se tu non sapessi…se tu non sapessi niente… se tu
non credessi che è
morto…lontano…in oriente…crederei di
vederlo in te… nella tua bocca…
Meredith la fissava, vigile. In attesa di un’altra domanda.
La bocca si incurvò in un sorriso.
Josie si alzò, per non guardarla, per non ingannare se
stessa.
Era solo una coincidenza.
Quel nome… era un nome comune, comunissimo, qualsiasi
ragazzino poteva
averlo. E poi, poi cosa temeva? Che Lord Voldemort si presentasse ad
una diciassettenne pretendendo la sua stirpe?
Non sarà per sempre tua…
Era troppo presto.
Lui aveva sicuramente altro da fare…
E poi,cominciò a tranquillizzarsi, sciacquando la tazzina
nel lavabo,
il lenzuolo naufragato sotto il tavolo e la sua pelle candida cesellata
dal sole sotto una maglietta troppo larga, e poi, Meredith non sarebbe
stata così stupida da darle quell’indizio.
Era solo una coincidenza.
“E quanti anni ha?” si interessò dandole
le spalle. Mery la studiava,
studiava i suoi movimenti nervosi, senza smettere di sorridere.
“Un po’ più di venti.”.
“Non è un po’
grandicello?”mormorò Josie aggottando la fronte.
Sentì
Mery ridere di una risata che sembrava un ruscello, gorgogliante, come
quella di Mina.
“Dio santo, Josephine, come sei all’antica! Ha
appena quattro o cinque
anni più di me!Ci sono coppie con dieci, quindici anni di
differenza...”
“Quindi siete una coppia?” esclamò sua
madre , girandosi con un sorriso e vedendo le sue guance tingersi di un
rosso acceso.
“ Ma va, figurati…” borbottò,
ricacciando lo sguardo dentro un pasticcio di carne.
“E comunque” aggiunse schiarendosi la voce
” tu e papà…” Josie si
irrigidì ”… quanti anni
avevate?”
“Quando?” a Josie parve di sentire una musica
diffondersi nell’aria.
“Quando vi siete messi insieme, quando sono nata
io…” La musica, pensava Josie, accresce, ci
abbraccia, ci culla e ci annulla…
“Avevamo la stessa età.” Josie era
tornata con le mani nel lavandino, e
non essendoci niente da lavare, stava lucidando la ceramica scheggiata
con uno straccio. Sentiva lo sguardo attentissimo di sua figlia
perforarle la nuca. La musica era finita.
Era ovvio, perché ci stava ancora a pensare? Lui non
l’avrebbe mai
chiamato per nome, lui era papà, papà e basta,
non era mai stato il
signor Riddle, o semplicemente il pronome Lui, era proprio
papà, e lei
non sarebbe mai più stata mamma…
Mery era sempre stata convinta per qualche misterioso motivo che la
colpevole della fuga di suo padre fosse Josephine, non ci vedeva altre
ragioni. Certo, non glielo aveva mai confessato apertamente, ma dal
momento in cui le era balenata in testa la dolce età della
ribellione,
i suoi occhi si erano fatti cupi, i suoi modi bruschi, e mamma non lo
diceva più da tanto tempo…senza conoscere la
legimanzia, Josie poteva
sentire i suoi pensieri sottili che vibravano come lame puntate al suo
cuore, tu, tu l’hai fatto andare via, e lui era un santo,
martire di un
incubo, lei l’aveva costretto, tradito, ferito, ingannato,
odiato… gli
occhi le pizzicavano. Sbattendo più volte le palpebre,
nervosamente, si
ricompose nella sua maschera.
Si girò con un sorriso accattivante.
“Ti va di andare a prendere un gelato?”
Meredith dondolo i suoi riccioli neri con aria pensosa.
“Ok.”
E Mery non era una stupida. Non lo era mai stata. Docile si era fatta
portare alla gelateria, sua madre che parlava a vanvera e rideva,
gesticolando, muovendo le dita come girandole, come una bambina, era
sempre stata una bambina, goffa e innocente come l’acqua,
pura,
ingenua, fiduciosa del mondo che la circondava, umile, non aveva mai
desiderato il potere, mai, con la famiglia che si ritrovava avrebbe
potuto diventare qualcosa di ben più che un mero insegnante,
ma non
l’aveva mai voluto.
Era semplice, fragile, si emozionava per niente, si accontentava di
tutto, la sua ambizione era finita dopo Hogwarts… sua madre
era felice,
e non voleva altro.
Mery era diversa.
Mery era astuta come una volpe, diffidente.
Sapeva che sarebbe diventata qualcuno, qualcuno oltre la patina
perpetua dell’ipocrisia che circondava il mondo dei maghi.
Mery vedeva il mondo con gli occhi pallidi della disillusione, non si
aspettava niente da nessuno, se non da se stessa.
Fissava sua madre, sorridendole per farla felice, per farla contenta,
lasciava che le arricciasse i capelli con le dita, che ordinasse due
affogati al cioccolato con la granella di meringhe e noccioline.
Lasciava che scuotesse dolcemente i riccioli infiniti, che mettesse con
grazia un piedino davanti all’altro e facesse giravolte, Mery
lasciava
che la gente per strada si girasse a guardarla stupita.
Josie lo sapeva? Non l’aveva mai capito. Probabilmente no,
sua madre
era una sciocca, non una civetta, le piacevano gli abiti corti di
velluto blu e gli orecchini ingombranti e bizzarri, ma non si truccava
mai, era già bella senza, e Mery non l’aveva mai
vista con un uomo o
sospettato la sua presenza se non il ricordo crepuscolare di Tom Riddle.
Mery, oltre l’aspetto fisico, non capiva cosa ci fosse di
attraente in sua madre.
Come diavolo aveva fatto una persona come suo padre a innamorarsi di
lei? Certamente per usarla, Josie era accecata dall’amore e
non vedeva
oltre il suo naso. Se avesse scelto una persona più
intelligente gli
avrebbe messo i bastoni fra le ruote, se avesse scelto una persona
più
ambiziosa, bramosa di conoscenza, avrebbe dovuto difendere la sua
autorità. Sua madre non creava problemi. Probabilmente,
tutto ciò che
lui le diceva lo prendeva come oro colato, lo forgiava come un lingotto
e se lo chiudeva nel cuore. Eppure le sfuggiva qualcosa.
Erano stati insieme molto tempo, non sapeva quanto, era già
tanto che
sapesse la sua reale identità: Josie gliel’aveva
nascosta, con l’idiota
idea di proteggerla, non sapeva quanto l’aveva fatta felice
averlo
scoperto, certo era una bambina e aveva avuto un po’ di
paura, ma non
aveva esitato a cercarlo, in tutti i modi, con qualsiasi scusa, sicura
che lui l’avrebbe accolta a braccia aperte…e
così era stato.
Aveva riconosciuto i suoi occhi, il suo portamento fiero,
l’aveva riconosciuta sua.
Non l’aveva cercata prima, le aveva detto, perché
sapeva che lei sarebbe venuta da sola all’ovile.
Mery era felice come una pazza, aveva imparato cose che a scuola era
peccato solo nominare, era più forte e potente di qualsiasi
ragazzo
della sua età, era brillante, seducente, infrangibile come i
diamanti.
Eppure le sfuggiva qualcosa.
E il non sapere la faceva impazzire.
Era avida di qualsiasi notizia sulla gioventù dei loro
genitori, su cosa davvero lo legasse a quella ingrata di Josephine.
Con una scusa si era alzata dal tavolino di ferro battuto, aveva detto
di dover andare al Ghirigoro. Sua madre si era lamentata, non aveva
toccato nemmeno la punta del suo gelato, si scioglieva nella coppa di
vetro.
Mery era tentata di rispondere male, cosa gliene fregava del suo
gelato, ma tra la delusione del suo sguardo e la paura di
insospettirla, si era riseduta e aveva mangiato metà del
gelato. Era
pure buono. Josie, contenta, raccontava qualcosa sul concerto dei Maghi
Mancini, succhiando il suo cucchiaino.
E poi, in quel momento esatto,alle undici e cinquantacinque scoccate
dalle lancette d’oro dell’orologio della Gringott,
un orologio che
segnava le fasi della luna, il calendario solare, lo zodiaco, proprio
allora era successo il fattaccio.
Il cielo si era oscurato d’improvviso, la nebbia era scesa
leggera, come una tovaglia.
Mery, aveva alzato il viso, all’erta come una gatta, aveva
annusato l’aria.
La gente allegra di poco prima, quelle donne che spettegolavano con un
ombra di svogliatezza nello sguardo, i bambini che si rincorrevano tra
gli scoppi disordinati di Fuochi Farfalla, le ragazze vestite alla moda
babbana e stivali lucidi di pelle bianca, tutti si acquietavano,
silenziosi. Il peccato era stato dimenticare per quella domenica che
non erano i tempi per ridere e scherzare, la gente si affrettava verso
le proprie case, finché si vedeva ancora qualcosa, si andava
a sbattere
l’uno contro l’altro, si sapeva cosa stava per
succedere, il freddo
nelle ossa lo preannunciava.
Chi era il predestinato? Chi aveva fatto torto all’Oscuro
Signore?
Si alzavano degli strilli, delle voci concitate, delle porte sbattute,
delle persiane chiuse come un tonfo, come conigli tutti si rintanavano
in casa, mentre con un fruscio gente coi mantelli avanzava nella
nebbia.
Pure nelle vicinanze del Paiolo magico, nella Londra babbana, i
poveretti che si scontravano nella via affollata cominciavano ad avere
freddo, e un timore inspiegabile li faceva camminare più in
fretta,
chiudersi nelle loro macchine e far rombare il motore fin dove il cielo
incontrava di nuovo il sole.
Josie era ferma, tesa, ma non stringeva la bacchetta, bisognava alzarsi
e andar via, imbambolata da chissà che cosa era rimasta
immobile a
fissare il luccichio che lento svaniva dalla coppa di vetro. Con uno
scatto alzò la testa, e la paura le tagliò il
respiro. Meredith era
sparita. Si alzò barcollando sulle ginocchia, strinse la
bacchetta e si
inoltrò nella nebbia.
|
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Capitolo 5 *** Capitolo Quinto ***
“Mery!” chiamò, ma la voce era ovattata
dalla nebbia. Josie cominciò a correre a vuoto nella via
deserta, senza
vedere niente se non il grigiore plumbeo e nebuloso che vorticava.
“Meredith!” strillò con una nota
d’angoscia nella voce.
Che fosse già tornata a casa?
Poi
una falla nel terreno le fece perdere l’equilibrio, complici
le scarpe
col tacco, sentì una fitta alla caviglia e cadde,
sbucciandosi i palmi
delle mani. Imprecando si toccò la caviglia dolorante, la
ruotò, e per
fortuna non era rotta. Si levò le scarpette e
cominciò a camminare
scalza, stringendosi il lungo mantello intorno al corpo, zoppicando
lievemente.
“Mery!” dove diavolo era finita? La cercava come
tanti anni prima aveva cercato Tom tra i corridoi bui di Hogwarts.
Che presto fosse strisciato un mostro alle sue spalle?
Gli occhi le pizzicavano, ma alzò fiera la testa e
proseguì nel labirinto di nebbia.
Sentì
un urlo, di una voce maschile, che perforava la nebbia, alla sua
sinistra. Col cuore in gola cominciò a correre in quella
direzione, ci
mancò poco che sbattesse contro un muro, si
infilò in un vicolo e
proseguì, inciampando nei gradini irregolari.
Sentì delle voci, ma non riusciva a capire cosa dicessero.
Si fermò, avanzare ancora era come entrare nella tana del
diavolo.
Mery non poteva essere lì. Ma la curiosità le
premette la gola, false promesse le affollarono le orecchie.
Voleva solo dare una sbirciatina.
Nessuno l’avrebbe vista con quella nebbia.
C’erano delle persone in pericolo, doveva dare una mano, un
aiuto, un solo colpo di bacchetta.
Chiunque sarebbe intervenuto.
Lei sopratutto.
Lei non rischiava niente.
Ma Meredith si.
Non aveva importanza, non poteva essere lì, non era
così stupida.
Con
cautela, graffiandosi i piedi sulla terra nuda, continuò a
camminare. A
tentoni, come una ceca, si reggendosi al muro, sfiorò
qualcosa di
liscio, pieno di incisioni. Era…un mosaico. Doveva essere il
Almerick
Street. Lì vicino, a meno di dieci metri, c’era
una traversa a
sinistra, la strada si sarebbe allargata, ma era un vicolo cieco,
c’era
la villa di Dorothy e Gladius Warthon.
Lui era il regolatore
dell’Ufficio dei Misteri, lei era stata per anni giudice del
Wizengamot, erano brava gente, ma terribilmente riservati, guai che
proferissero parola oltre ad un quieto
“buongiorno”, camminavano dritti
a braccetto come due vecchi ed eleganti retrò, il viso
atteggiato in un
sorriso distaccato e cordiale.
Certo, era normale che un
Indicibile fosse un tipo silenzioso, di segreti ne aveva da nascondere,
di segreti che ti potevano mettere in guai seri in tempi come quelli. E
certo una sveglia ed onesta signora dalla fama di incorruttibile poteva
essere un bersaglio facile, una presenza scomoda, doveva dare fastidio,
chissà quanti ne aveva mandati dentro, o aveva tentato di
mandare,
pungendoli con una bacchetta con la punta di onice.
Josie scivolò
silenziosa come una gatta e toccò le inferriate, vide le
foglie lucide
della siepe baluginare nella nebbia, seppe che era poco distante dal
cancello. Aiutandosi con le mani più che con gli occhi,
entrò nel
giardino, e i piedi scalzi affondarono nell’erba umida. Con
una mano
che stringeva la bacchetta, come una sonnambula, le orecchie tese al
minimo fruscio, camminava, fata nell’ombra, il cuore che
faceva troppo
rumore, un tum-tum assordante, era così dannatamente forte
che chiunque
l’avrebbe scoperta.
Ma nessuno venne. Scorse le vetrate delle porte
finestre luccicare di una fievole luce grigiastra, e, in alto, il
chiarore giallo di una lampada, che palpitava nella nebbia, doveva
esserci una luce accesa al piano di sopra.
“Josie… mamma.” la voce di Mery la fece
sobbalzare.
Si girò di scatto e vide la sua figuretta stagliarsi
nell’ombra.
“Mery!”
miagolò, afferrandole un braccio “Che…
che ci fai qui? Sei impazzita?
Ma lo sai cosa sta succedendo? Ma ti rendi vagamente conto…
”
“Mi rendo conto.” la voce di sua madre si era fatta
un sibilo sottile, veloce, infuriato, fastidioso.
Mery le prese la mano e la guidò sul vialetto.
” Andiamo, è pericoloso qui.” Josie,
dietro di lei, si bloccò.
“Perché
mi hai chiamato mamma?” Mery si girò a guardarla,
guardare ciò che
riusciva a scorgere. Bella e stupida come una bambola di porcellana.
“Quando?”
“Prima… ”
“Così. Su, andiamo.” Mormorò,
sbattendo le ciglia.
“Mery, perchè sei venuta qui?” Oh,
finalmente! Finalmente un sospetto! La ragazza sorrise.
“Ho sentito un urlo e ho avuto paura per te, sono corsa in
questa direzione, e ti ho trovata.”
L’avrebbe conquistata, dimostrando che si preoccupava per lei.
Ma l’espressione di Josephine non si calmò.
Le si avvicinò di scatto, e gli occhi brillavano di luce
inquieta, tormentata, piena di rabbia e venature di ardore.
Le
afferrò il polso con forza e tirò su la manica
della camicia, ma prima
che potesse scorgerne la pelle Meredith ritrasse il braccio, spaventata.
Vide allora il viso di sua madre mutare, vide lampeggiare i capelli
rossi in un incendio primordiale da Dea irlandese.
“Allora
è così, Meredith?” Sentiva, voleva, che
la voce di sua madre fosse
incrinata dal pianto e dall’isteria, le avrebbe dato forza.
Ma così non
era. La voce di Josie era lucida, fredda, greve.
Meredith annuì.
Josephine si girò e incrociò lo sguardo di Lord
Voldemort.
Era circondato da cinque Mangiamorte incappucciati, le bacchette in
mano pronte a colpire.
L’Oscuro
Signore era il più alto di tutti, il volto non ancora
completamente
deformato veniva però a fondersi con la nebbia, pallido e
scavato, come
il viso di un annegato, l’unica cosa vera erano gli occhi,
vividi come
fiamme.
Sollevò la mano sottile, le dita lunghe tenevano la
bacchetta con delicatezza, con la punta di questa sfiorò il
collo della
sua Josie. Sorrideva.
“Josie…” sussurrò dolcemente,
come se fosse il
nome di un tesoro prezioso, un abracadabra che nascondesse tutti i
segreti dell’umanità, un ingrediente segreto di
qualche mistica
pozione, e Mery non si stupì di vedere sua madre brillare di
una luce
interna mentre si pronunciava il suo nome, ma forse era solo
immaginazione. Teneva gli occhi aperti, sbarrati, attentissimi, la mano
stretta intono al braccio, dove il marchio pulsava.
Era la prima volta che vedeva i suoi genitori insieme, l’uno
davanti all’altro.
Lei, un papavero triste e arrabbiato, teso a scontrarsi col cielo,
testa alta e sguardo fiero e luccicante.
Lui con un cenno della sua mano poteva ucciderli tutti.
“Mi fa piacere vederti.” sussurrò di
nuovo, anzi, sibilò, accarezzando la pelle della donna con
movimenti lenti della bacchetta.
Josie smise di guardarlo e fissò i Mangiamorte, uno per uno,
cappuccio per cappuccio.
Con uno scatto superò Tom, e afferrò un braccio
di uno di loro, tentando di tirarlo avanti.
Questi alzò pronto la bacchetta.
“No, no…” cantilenò
Voldemort, con una risata, dolce e scaltra, muovendo con grazia la
mano.
Il Mangiamorte abbassò la bacchetta.
Josie lo tirò dritto davanti a gli levò il
cappuccio.
“Guarda!” ordinò a Mery.
Tom giocava con la bacchetta, sorridendo, annuì allo sguardo
interrogativo della figlia.
Mery guardò.
Era
un uomo magro, scarno, dalla pelle bianca e malata, il naso adunco e
segni scuri sotto gli occhi, neri come la pece. I capelli, corvini,
erano lunghi, sporchi e spettinati. La bocca sottile fremeva di rabbia,
gli occhi lampeggiavano.
Probabilmente non gli andava di fare parte di quel teatrino.
“Quanti anni hai, Severus?” chiese con tono ironico
Josie.
“Se-Severus…?” mormorò
incredula Mery.
Non era possibile.
Severus
Piton, se di quel Severus si parlava, aveva meno di 20 anni, e meno di
quattro mesi prima era in buona salute. L’uomo che aveva
davanti era un
vecchio, dall’aria sporca, malata, moribonda.
“E’ così che vuoi
diventare? Allora?!” chiese Josie, spingendo Severus
all’indietro, che,
ora senza espressione, fissava il vuoto.
“E’ questa la tua strada?!” e
indicò l’Oscuro Signore, che ammiccò
con impazienza.
“Josephine, cara…” cominciò
con sarcasmo, ma Josie pestò con forza il piede a terra, in
un tentativo di zittirlo.
“Io non sono la cara di nessuno! E tu non avrai mia
figlia.”sibilò minacciosa.
Meredith, impotente, passava lo sguardo da uno all’altro.
Come
osava quella donna zittire il suo Padrone? Perché Severus le
era
sembrato così irriconoscibile, così malato?
Perché Voldemort non
reagiva alle accuse di Josie e non faceva altro che far dondolare la
bacchetta tra le dita lunghe? Perché sua madre non attaccava
i
Mangiamorte? Una voce a intermittenza rispondeva ad ognuna di quelle
domande.
Sua madre zittiva suo padre perché arrabbiata, come in ogni
litigio con il proprio compagno la donna odia sentirsi blandire con
parole affettuose. Questa realtà, così
confidenziale, così intima, la
metteva a disagio, voleva istintivamente girare lo sguardo altrove,
imbarazzata. Per lei i suoi genitori erano due sconosciuti che avevano
per sbaglio condiviso un letto, sicuramente per il volere superiore di
Tom.
Severus era malato perché logorato dal sangue che scorreva
dalla sua bacchetta, dagli omicidi e dalle nefandezze, era inutile
nasconderselo, era un debole e non poteva sopportare il peso della
morte e della colpa.
Lei ci sarebbe riuscita? O sua madre aveva ragione?
L’Umanità l’avrebbe ridotta ad uno
straccio?
Suo
padre non agiva perché sapeva che in quel momento avrebbe
dovuto
lasciar sfogare Josephine, che era una piccola isterica pazza, e che
tra poco era meglio filarsela e farla stare zitta, quella testarda
infantile di una gallese, e tappare le orecchie a Mery, che poteva
farsi calmare e levigare dall’amore e dalla compassione
celata per
Josie.
Sua madre non attaccava i Mangiamorte perché li conosceva
tutti uno per uno dalla nascita, e non aveva avuto cuore di uccidere
Tom Riddle le miriadi di volte che l’aveva potuto fare,
figuriamoci
ammazzare ragazzini sfruttati dalle sue mani di burattinaio cresciuti
pari passo con lei, ad alcuni di quelli, meno di un anno prima, poteva
insegnare filosofia alchemica.
Non li attaccava perché anche se
Tom avrebbe sacrificato cento eserciti per lei poi si sarebbe un
po’
arrabbiato, e Tom arrabbiato faceva paura pure alla notte.
Un fruscio sospettò sfrecciò nell’aria,
e in un battito di ciglia, cinque mantelli volteggiarono e scomparvero.
Josie afferrò la mano di Meredith e allungò un
braccio dietro di sè, alla ricerca di Tom, che le strinse il
polso.
Un
attimo dopo, all’arrivo di una squadra abilissima di Auror
indaffarati
che si lanciavano ordini nella nebbia ormai rada, nel giardino non vi
era più nessuno, mentre in casa i corpi senza vita di
Dorothy e Gladius
Warthon, giacevano rigidi accarezzati da un pallido sole.
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Capitolo 6 *** Capitolo Sei ***
Le donne, le
Cleopatre, le Berenici... anch'esse sono tutte mirabili regine e
principesse.
C.Kavafis
“Meredith
Wisteria Riddle!” tuonò la voce stridula di Madama
Pince, che, dritta e
infuriata come la cima di un albero maestro contro una gloriosa
tempesta, troneggiava su una ragazzina dai capelli neri come la pece.
Il
piccolo nasino all’in su fremette nell’aria come
quello di un gatto, se
avesse avuto vibrisse, sarebbero tremate una ad una sconvolte da
piccoli sismi.
Tra le mani teneva un libro, e fino a pochi attimi prima lo stava
scarabocchiando distrattamente.
Gli occhi della donna mandavano lampi.
Mery sorrise, si alzò di scatto e comincio a correre.
“Vieni subito qui!” strillò la custode,
i capelli dritti , maneggiando una bacchetta di castagno sopra la testa
color ferro.
La
bambina buttò ridendo il libro sul tavolo, e corse con
quanto fiato
aveva in corpo, risalendo le scale a tre, quattro gradini per volta,
quanto lo consentissero le gambe corte da cerbiatta.
I libri vanno
usati, consumati, lavorati, devono viverti tra le mani, conservare la
tua storia per coloro che la leggeranno un giorno a piè
pagina. I libri
vanno graffiati, sporcati, con ditate unte e poesie, con polline giallo
di fiori antichi schiacciati tra le pagine sempre più lise,
con
segnalibri, canzoni, biglietti del treno, date e ricordi
imprescindibili, un romanzo nel romanzo, un diario tra le ricette,
sabbia di mare per tutte le volte che l’hai letto sulle
piccole spiagge
della Normandia, fili di erba e semi di soffioni, soffiati per ogni
desiderio della tua infanzia…
Questo pensava Meredith W. Riddle, correndo nei suoi undici anni fino
al gargoyle di pietra dell’ufficio del professor Silente.
La
sera scozzese calava come un mantello fuori dalle finestre fresche, e
nello strano cielo sfumato di rosa, cori di nubi si affollavano
rincorrendo l’eclissarsi del sole. La montagne si tingevano
di un bel
verde scuro, e da lontano si scorgevano i camini fumosi di Hogsmeade.
Mery
rallentò respirando forte, grattandosi con le dita magre lo
smalto
consumato, aprì una finestra cigolante, e la brezza di
pioggia ed erba
tagliata entrò pizzicandole il naso. Si riempì i
polmoni asciutti di
vento inglese, gelandosi le ciglia nere e le mani, pensò che
sarebbe
stato facile aprire le braccia e volare su. O giù,
sì, sarebbe stato
più probabile.
Ma se avesse potuto, sarebbe tornata in Galles, da
Mina, che le avrebbe aperto la porta ridendo, trangugiando il suo
eterno whisky, leccandosi le labbra, l’avrebbe abbracciata
forte
inondandola di un profumo meraviglioso, indescrivibile, che la seguiva
dappertutto come un strascico bianco.
Le avrebbe intrecciato i
capelli, con colpi di bacchetta li avrebbe fatti diventare blu,
avrebbero riso fino a notte fonda sulle strade di Londra, come faceva
Mina da ragazza quando scappava dal castello del Duca, galoppando su un
verro incantato come la più bella strega del regno, toccando
le stelle
con la punta del mignolo.
Ora aveva i capelli candidi come la
neve, e raccolti nelle trecce più audaci, arrotolate sul
capo e fermate
con quattro rose rosse del giardino dei Wisteria.
Chissà se sua madre da ragazza faceva quelle cose.
Sua madre che cavalcava un maiale di notte, volando
sull’Inghilterra, i capelli cesellati di rose.
Chissà se quando parlava cadevano monete d’oro
dalla sua bocca.
No.
Sua madre non aveva mai imparato a cavalcare, neanche la più
stupida scopa.
Ma
quelli erano i tempi in cui Josie era ancora mamma, e la portava spesso
in Irlanda a vedere le scogliere, bagnandosi i piedi nella schiuma
gelida, facendo giravolte perfette in un vestito bianco un
po’
trasparente.
In fondo loro due si assomigliavano.
Mina era alta
però, col fisico da sfilatrice di passerelle, mentre Josie
era piccola
e magra. Mery aveva preso da Mina, lunga e flessibile come un arco, ma
a quei tempi era solo un calimero con uovo vuoto in testa.
Sospirando, si staccò dalla finestra, scivolando sul
pavimento bagnato dalla pioggia recente e da qualche finestra
spalancata.
“Linfa di zenzero.” biascicò, ficcandosi
un enorme gomma rosa in bocca.
Il gargoyle scivolò di lato. Si lasciò portare su
dalle scale rotanti, ed esitò davanti alla porta di legno
scuro.
Silente aveva ospiti.
Una voce maschile, fredda e sottile, discuteva qualcosa con
l’anziano preside.
Appoggiò
l’orecchio bianco alla superficie lucida e ascoltò
in silenzio,
succhiando la gomma, sapeva di fragola, no, di lampone, faceva delle
bolle immense, che riempivano il piccolo antro.
Non riusciva a capire molto bene.
Staccò l’orecchio e decise di affrontare la strada
dell’onestà.
Dopotutto, era sua madre ad avergli detto di passare.
Bussò una volta, pausa, cinque volte veloci, pausa, ultime
due volte. Era il modo di farsi riconoscere.
Da
quando era bambina e alloggiava con sua madre nella scuola, capitava
che sgusciasse dai labirinti di corridoi per correre a prendere un
tè
coi biscotti dal Professore, dopotutto, lo conosceva da quando era
nata, era molto amico di sua nonna, succedeva spesso di trovarselo in
casa a qualsiasi ora del giorno e della note a confabulare con Mina
davanti a due bicchieri di Whisky incendiario.
Lei era contenta,
lui le offriva sempre un piccolo dolce, e se poteva fermarsi, senza
rincorrere qualche impegno, passava qualche ora ad insegnarle a giocare
a scacchi, o a portarsela in giro per Diagon Alley con enormi gelati in
mano che le impiastricciavano tutta la faccia.
Se il suo udito
fosse stato fine, non disturbato dal masticare appiccicoso della
mandibola, avrebbe sentito il greve, lungo sospiro di Silente, e forse
non sarebbe entrata.
“Avanti.” disse il Preside, staccandosi dagli occhi
neri di Voldemort, e posandosi su un identico sguardo.
“ ’sera.” mormorò Mery,
osservando curiosa lo straniero.
Tom la fissò in silenzio, e se la riconobbe, non lo diede a
vedere.
Mery valutò il mantello rosso, le dita lunghe e magre, la
pelle bianca.
Pensò di aver già visto da qualche parte quel
tipo.
“Mery,
ora sono occupato. Saresti così gentile da passare
più tardi?” Silente
intrecciò le dita davanti alle lenti a mezzaluna, osservando
lo sguardo
indagatore della bambina.
“Ok. Mamma mi ha chiesto di dirle che
sarebbe passata.” Mery giocherellò con un
ricciolo, appendendosi con
una mano allo stipite della porta e dondolando avanti indietro,
impertinente.
“Certo. Puoi riferirle di passare dopo cena, per
favore?” Mery fece per annuire, quando le mani allegre di
qualcuno le
afferrarono la spalla.
“Presa!” mormorò sorridendo sua madre,
arruffandole i capelli.
“Professore, me la sono sbrigata prima. Scusa,
Mery.”
Lo sguardo color nocciola corse sull’ufficio, e per un attimo
sembrò non rendersi conto della strana presenza.
Forse
gli era parso normale che Tom fosse lì, come ai vecchi
tempi, forse la
scuola non era ancora finita e Dippet l’aveva convocato per
congratularsi dell’elevato profitto ottenuto quel trimestre.
Ah, Tom, sei un ragazzo stupefacente.
Bagliori
rossi non correvano ancora nei suoi occhi, aveva appena diciotto anni,
e sorrideva bello e modesto, girandosi a guardarla.
Poi tutto finì e Josie balbettò il suo nome senza
pronunciarlo, sentendosi gelare dentro.
Tom sorrise davvero, affabile.
“Buonasera, Josie. ” sussurrò,
sfiorandosi la punta del naso con un gesto pigro.
Josie tirò Mery verso di sè nervosamente,
affondandole le dita nelle spalle.
“Ahi, mamma!” esclamò la bambina,
sgusciando via dalla sua presa ferrea e massaggiandosi là
dove sua madre l’aveva stretta.
“E
tu devi essere Meredith.” ne approfittò Tom,
rizzandosi sulla sedia e
perforandola con lo sguardo, sussurrando il suo nome come il segreto
più occulto sibilato all’orecchio.
“No!” ansimò Josie allungando la mano e
afferrando quella della bambina.
Silente la fissò con dolcezza.
“Esci, Josephine.” ordinò.
Mery non distoglieva lo sguardo dallo sconosciuto, come ipnotizzata.
“Sì.” rispose semplicemente, facendosi
trascinare da sua madre.
Fuori
dalla porta, nel passaggio segreto pieno di bolle alla fragola, Josie
prese in braccio sua figlia come se avesse cinque anni in meno, come se
dovesse portarla via a forza da un eccitante giostra troppo pericolosa,
stringendola freneticamente tra le braccia, scivolando lungo la scala a
chiocciola.
“Mamma, lasciami!” protestò Mery,
scalciando come un animale braccato.
Ma
Josie non la lascio, nonostante quella creatura fosse alta come lei, la
strinse finchè non uscirono dal passaggio segreto, gli occhi
umidi e il
respiro veloce.
La posò a terra e le afferrò la mano,
trascinandola lungo il corridoio.
“Mamma, aspetta! Che c’è? Sei
impazzita?” La mente di Mery lavorava come gli ingranaggi di
un orologio.
“Chi
era quello? Perché fai così? Mamma,
perché piangi?” la voce acuta di
Mery si addolcì, quando vide le lentiggini bagnate di Josie
“Scusa.”
Sua
madre si asciugò le lacrime tirando su col naso, come una
bambina, e si
appoggio contro un muro senza smettere di stringere quella piccola mano.
“Mamma…”
“Niente, niente, tesoro, niente.”
“Che c’è? Chi era quell’uomo?
Lo conosci?” chiese Mery curiosa. Josie, rise nervosamente.
“Eravamo…amici,
molto tempo fa.” rispose, fissando il bagliore
dell’ultima luce del
giorno baluginare sulla superficie di un quadro.
“Come faceva a sapere il mio nome, mamma?” e
dicendo questo la tirò in basso, alla sua altezza, le
accarezzò i capelli.
“Quando eri molto piccola, un giorno, ci venne a trovare.
Forse non ricordi.”
Già. Nevicava quel giorno.
Faceva un freddo da gelare le dita insaccate dentro le maniche lunghe
di lana.
La neve ti cadeva e si impigliava tra le ciglia, le tue belle ciglia
nere.
Eri minuscola, sconvolta da tutte quelle pietre leggere che cadevano
dal cielo.
Muovevi
le braccine in aria come un piccolo sbandieratore, per afferrare quelle
perle, e ti ritrovavi delusa le mani vuote e bagnate.
Ti giravi e mi guardavi arrabbiata, un po’ corrucciata, ma
non ti arrendevi, ritornavi a saltellare verso il cielo.
Poi
era arrivato papà che mi aveva stretta forte coprendomi dal
vento, quel
vento che turbinava i miei capelli in girandole impazzite, e io non
avevo fatto domande, non mi ero girata, per paura che sparisse.
Non sarà per sempre tua…
“E avete litigato?” indagò la bambina,
non riuscendo a capire.
“Si.”
“Perché?” Josie riflette.
Poteva dirle una mezza bugia. Non una menzogna tutta intera, solo una
mezza bugia.
“Lui un giorno tradì tuo
papà.”
“In che senso?”
“Lo
abbandonò, in cerca di cose più grandi, almeno
secondo lui,
dell’amicizia, dell’affetto.” Josie si
umettò le labbra secche “ Come
il potere, la gloria, la conoscenza.”
Mery aggrottò la fronte,
pensando a suo padre, un uomo dai capelli neri come i suoi, di cui non
conosceva il viso né la voce, ma una canzone dice che nella
fantasia
gli eroi sono tutti giovani e belli. Immaginò
l’uomo nell’ufficio di
Silente parlare con suo padre, scherzare, vivere come fa un amico, lo
immaginò fare il galante con sua madre, che aveva il
pancione e dentro
ci stava lei.
“ Ma la conoscenza è una cosa buona.”
obbiettò, filosofando.
“E
allora perché non studi?” rise sua madre,
cancellando le lacrime con un
sorriso che avrebbe ucciso il più crudele degli uomini.
Aveva denti
perfetti, come greggi di pecore cordiali e ordinate, che in fila
risalgano il pascolo, senza superarsi o fermarsi, una dietro
l’altra,
bianche e candide sotto le nuvole. Una bocca rosa e carnale, e due
piccole fossette ai lati. Si alzò nella sua gonna a pieghe
larghe,
rossa, lunga fino al ginocchio perché altrimenti la McGranit
si
arrabbiava.
“Andiamo a cena?”
Mery annuì, prendendole la mano.
Ma ripensava allo sguardo di sua madre alla vista dello straniero,
ripensava alla paura che vi aveva letto, al dolore che vi aveva scorto.
Quanto male poteva fare una persona per far germogliare quello sguardo?
Ripensò agli occhi sicuri dell’uomo su di lei, a
come l’aveva perforata, incantandola come un domatore di
leoni.
I cuccioli sono sempre facili da ammaestrare.
Mery
respiro forte, appoggiandosi ad un muro freddo più o meno
quanto la
punta delle sue dita, ansimò come fosse appena uscita da un
apnea
forzata, e vaghe figure si muovevano accanto a lei, fuochi fatui del
mondo di fuori. Era terribile smaterializzarsi.
Sbattè le ciglia e mise a fuoco il corridoio umido e buio di
un castello medievale, o almeno così le parve.
Una
mano piccola e calda, un profumo di vaniglia, la mossero, guidandola,
faro nella notte, nel buio umido di quella reggia nascosta. Forse
qualcuno l’aveva drogata. O incantata.
Riusciva solo a camminare lenta dietro quella scia di fiori bianchi e
dolci, a stringere dita pallide e ardenti.
Vide
sua madre (era sua madre? O era una fata sotterranea che spuntava di
notte dai crateri della terra per assorbire i raggi del cielo, piccola
e infinitesimale, e un attimo dopo immensa come una chiesa
d’argento?
Era sua madre, Josie, Strawberry in tempi felici, o un incendio vibrato
con tre colpi di scure sulla testa del condannato? Sangue e o
marmellata tingeva i suoi capelli? Pietre, granato duro e allegro,
avanzava sulle sue vesti bianche, riportandola all’alto e al
basso a
cui apparteneva…) confabulava sottovoce con Tom, che
assente, come
sempre, le ciglia sognanti dei ragazzi a lezione, attento altrove,
negli altri mondi, oltre la lavagna e la finestra, annuiva leggero,
chinando l’orecchio verso le labbra rosse della bambina che
tanto aveva
amato, annuiva e sorrideva, e Josie si arrabbiava ancora di
più. Mery
abbasso lo sguardo e vide le loro dita strette in un abbraccio, due
fidanzati al cinema o a passeggio sotto i viali alberati, non due
amanti nelle viscere delle terra, sovrani di mondi nascosti, le due
facce della medaglia, il bianco e il nero, l’innocenza e la
colpa,
tingevano di miele e laudano la terra su cui camminavano, e un tappeto
d’oro rosso nasceva al loro passaggio…Tom
stringeva la mano di Josie
con complicità segreta, accarezzandole l’indice
dolcemente, sfiorandole
il polso con il proprio polso e Mery senti che il loro cuore, un unico
cuore, un unico palpitante sanguinante arterioso organo che batteva in
due petti, batteva all’unisono,
Tu-Tum,Tu-Tum,Tu-Tum…e se anche suo
padre non l’avesse posseduto, se la cassa di ossa magre che
doveva
contenerlo fosse stata vuota, silenziosa, impolverata, Josie
l’avrebbe
riempita col suo, che era fastidiosamente grande, fastidiosamente
rumoroso, e fastidiosamente suo.
I Mangiamorte, come sonnambuli
cechi, guardie di un mondo intimo e segreto, passo passo li scortavano,
con un fruscio di mantelli.
Piccole lampade rotonde cominciarono ad
apparire sul soffitto, come stendardi cinesi, lampeggiando di una luce
soffusa e quieta, accompagnando la barca nel Lete.
“Dove siamo?” mormorò, forse
più a se stessa che agli altri.
“Nell’Altrove.” rispose suo padre, che
aveva l’udito fine dei gatti luciferini.
Sua
madre si giro con tratti di eterna preoccupazione, e si morse le
labbra. Lesse nei suoi occhi una battaglia tremenda, con
calamità
naturali e titani di fuoco, una scacchiera incomprensibile, giocata tra
loro due da millenni, prima che si reincarnassero in quei meri corpi di
umani.
Scesero scale d’ambra e videro fremere il centro della terra
, il focolare dell’universo, una fornace bruciante
d’odio. Scesero
chiocciole infinite aldilà degli ioni del tempo, e la musica
li
accompagnava, musica d’organo di violini. Sotto gli strati
terrestri,
sotto gli alberi e le loro radici, le città si
allontanarono, e nacque
un nuovo Nord.
E così quella era la casa dell’Oscuro Signore,
nell’intestino della terra, e lì vi era un secondo
trono, di seta
bianca, vi era inciso il nome impronunciabile del suo Amore.
Poi,
d’improvviso, si ritrovò sola, con Josie, la
Regina, che la guidava
finalmente su una strada dritta, in un solito corridoio di pietra scura
e luce rossa di lampade rotonde.
“Mamma…” mormorò, chiamando
l’unico nome che le bacio la mente.
“Sì, tesoro.”
“Dove andiamo?”
“A farti riposare un po’. Sei stanca?”
“ Vieni spesso qui?” Josie rise.
“Mai.”
“Tu non sei niente.” sussurrò, chinando
il capo. Sentì sua madre fermarsi.
Josie ascoltò il silenzio, si girò a guardarla.
Per farlo le sollevò il viso pallido, sfiorò il
suo respiro.
“Perché?” chiese, fissandola negli occhi
grandi.
“Tu non vuoi e non sai nulla. Io dovrei essere al tuo posto.
Io sono…”
“Io
sono la prima e l’ultima. Io sono l’onorata e
l’odiata. Io sono la
prostituta e la santa.” concluse curiosamente la donna. Poi
la bacio
con un bacio dolce sulle labbra salate di lacrime e la strinse, come
quando era piccola e infinitesimale come un grammo di neve. Si
inginocchiò per terra, sostenendola, restando zitta,
fissando il buio,
e l’ascoltò piangere.
“..Ti amo solo perché io te amo,
senza fine io t’odio, e odiandoti ti prego,
e la misura del mio amor viandante
è non vederti e amarti come un cieco.
Forse consumerà la luce di Gennaio,
il raggio crudo, il mio cuore intero,
rubandomi la chiave della calma.
In questa storia solo io muoio
E morirò d’amore perché
t’amo…”
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Capitolo 7 *** Capitolo settimo ***
Josie rise, scostandosi i capelli dal
viso.
“Immagino che Ermete Trimegisto non sarebbe del tutto
d’accordo, vero, Black?”
chiese al ragazzo dagli occhi scuri e lucenti, stravaccato con
noncuranza sulla
sedia che dondolava sotto il suo peso.
“Oh, no, signorina Bliss, presumo di no.” rispose
Sirius con un sorrisino.
Alcuni giovani Grifondoro risero.
“E che voto pensi di meritarti dopo questa brillante
dimostrazione?” Josie
mosse distrattamente la penna, lunga, rossa, lucente, sul registro di
pelle,
sorridendo e fissandolo negli occhi.
“Voti? Ma non hanno nessuna importanza…potrebbe
bocciarmi, professoressa, non
importerebbe, tenterei di invitarla a cena comunque. Questa scuola
dovrebbe
imparare a mettere insegnanti meno attraenti, lei ci turba
troppo.” Josie alzò
divertita le sopracciglia, segnando un perfido ma realistico appunto
sulla
carta ingiallita (chissà perché, le pergamene,
pur se appena uscite dalla
stampa, hanno sempre l’aria invecchiata da mappa del tesoro).
Gli studenti chiacchieravano distratti, Mery contrasse una smorfia sul
viso,
Dio, ma non si potevano trattenere quegli affamati?
“Penso di essere troppo vecchia per te, Black. Per ora ti
posso offrire solo
una cosa…” Josie si alzò sorridendo
spavalda, calcandosi il solito cilindro sui
riccioli rossi, e abbottonandosi la giacchetta di velluto. Le gambe,
pallide,
sostenute da caviglie sottili e stivaletti di pelo blu, danzavano tra
le pieghe
della gonna rossa. Sirius si sporse con un sorriso accattivante dipinto
sulle
labbra beffarde. Mery alzò gli occhi al cielo e
allungò le altrettanto magre
gambe sotto il banco.
“…un Desolante in teoria, e sbrigati a rimediarlo,
scansafatiche!” terminò la
donna, chiudendo la borsa di pelle, mentre suonava la campanella.
Potter si alzò per dare una sonora pacca sulla spalla
all’amico.
“Ti è andata male, scansafatiche. E’
irraggiungibile! Concentrati sulla figlia
piuttosto!” rise il ragazzo, ammiccando verso Mery, che si
legava i capelli,
concentrata su un punto indefinito del pavimento, mentre sua madre
usciva con un
trillo dei bracciali d’argento.
“Ma che dici, quella serpe?” esclamò
Sirius, uscendo dalla classe e fissando
vacuo la professoressa Bliss. “Ma figurati! Quella
è difficile come poche!
Basta solo a se stessa, mai vista scambiare due parole con
qualcuno…non so come
facciano ad essere madre e figlia… se solo fossi
più grande, sai che farei…”
mormorò con uno sguardo velato.
“Sì, lo sappiamo, grazie, non entrare nei
dettagli.” mormorò Lupin, armeggiando
con le cinghie della cartella di cuio.
“Già. Non deve essere così vecchia,
quanti anni avrà, venticinque?”
“Pazzo, che dici? Josie Wisteria Bliss andava a scuola ai
tempi di mio padre!”
esclamò Holmes, un ragazzo del Tassorosso, che si dirigeva
come loro alla
torre, per divinazione.
“Ah si? E tuo padre, quanti anni ha, sentiamo...?”
lo interrogò Sirius,
inarcando un sopraciglio.
“Quarantacinque anni! Era più piccola certo, ma
anno più anno meno…”
“Ma figurati, al massimo avrà
trent’anni, ed è già
tanto…” lo interruppe James.
“Qualunque età abbia, fatevi i fatti i
vostri.” li interruppe una voce
femminile, roca come carta vetrata.
Meredith li sorpassò con il suo solito cipiglio severo.
“Ma crepassi…”
“Sirius!” lo sgridò Remus, guardandolo
indignato.
“Va bene, amico di pelo, abbiamo capito che ti garba la Riddle,
ma è innegabilmente
una rottura.” replicò Sirius.
“No, non si tratta di quello,” si
giustificò il ragazzo ”vorrei vedere voi se
dei ragazzi ci provassero con vostra madre. Si tratta solo di
rispetto.”
“Come sei melodrammatico, Lu’!” si
lamentò James.
“Io li compatirei i ragazzi che ci provano con mia madre.
Poveretti. Dovrebbero
essere sordi. E cechi.”ghignò Sirius “ La Bliss
è un’altra cosa. E’ bella. E’
giovane. E’…”
“…sposata.” terminò
Lunastorta.
“E tu come fai a saperlo? Guarda che solo perché
ha una figlia non vuol dire
che…”
“No, certo.” mormorò il ragazzo.
“Ma ha anche una fede, all’anulare
destro.”
“L’hai osservata bene per essere così
indifferente alle sue grazie.” sogghignò
James, mentre Sirius bofonchiava deluso qualcosa di incomprensibile.
“Semplice spirito d’osservazione,
grazie.” replicò Lupin, con
un’espressione
cheta e indecifrabile.
Josie sfregava quello stesso anello, senza rendersene conto, per la
forza
dell’abitudine. Nuvole nere si addensavano nel cielo serale.
Dense di pioggia,
di tempesta.
Era un bell’anello, di oro bianco, come piaceva a lei, fine,
delicato, una
linea premurosa a tingerle la mano. Una linea che la proteggeva sempre
e
comunque, appena il suo cuore batteva forte per paura.
Il sentiero verde, brillante, lucido di umidità, si perdeva
oltre i confini di
Hogwarts. Una dolce e saporita frescura autunnale le gonfiò
il mantello,
inondandola di profumi di pioggia e castagne bruciate e fasci di erba
tagliata,
che riposava morendo in capanni persi nei campi, carichi di ruggine e
schegge.
Gliel’aveva regalato prima di andar via, l’anello,
infilandolo al dito sottile,
cercando di non svegliarla, mentre i capelli immobili alla luce
dell’alba
dormivano sul cuscino, sparsi come uno strascico d’oro. Come
acqua, gettata da
un secchio azzurro, a rinfrescare una terra ardente d’estate.
Che brucia, che
sfrigola. Lei questo non lo sapeva.
Girò con passo leggero e bagnato verso Hogsmeade, doveva
prendere presto la
metropolvere. Una goccia cadde, rimase sospesa sulle sue ciglia, le
annacquò la
vista. Fare un incantesimo di protezione? No. Odiava gli ombrelli,
magici e
non. Al contrario, si tolse la tuba, gli occhialetti rotondi, da sole,
li
teneva per vizio, per stupida vanità. Sorrise, e la pioggia
le sfiorò le
labbra. Sfregò l’anello.
Forse, inconsciamente, sperava fosse una lampada di Aladino, da favola
di Mille
e Una Notte, che sfregando sarebbe apparso il suo genio.
Non sapeva.
Si bagnò da capo a piedi, rise, ballò sotto la
pioggia, si spogliò, come una
Naiade, mani bianche la strinsero.
Non aveva lasciato un biglietto. Non aveva chiesto perdono. Aveva
riposto tutto
ciò che era Lei in quell’anello, l’aveva
chiuso al suo dito. Sapeva, lei non se
lo sarebbe mai sfilato. Si sarebbe svegliata. Lenta, dolce, acquatica,
languida. Lo avrebbe aspettato, guardando fuori dalla finestra. Come
una
Giulietta. Tom aveva sentito un peso dentro, sconosciuto, pensandola a
quella
finestra. Disperatamente, aveva temuto che gli pizzicassero gli occhi.
No, non
a lui. Era abbastanza forte.
E andò allo sbaraglio.
Andò a godimenti ora reali ora turbinanti
nell’anima, dentro la notte
illuminata.
Si abbeverò dei più gagliardi vini, quali bevono
i prodi del piacere.
E l’Oriente lo accolse con braccia essenziali, cariche di
frutti neri, dei
frutti del bene e del male. Più del male, diciamo.
Donne di Smirne danzarono per lui, sui suoi fianchi, donne dagli occhi
cavi
pieni di tormento. Certo, lo amarono. Chi non lo amò?
Cercava Sophia in ogni
luogo, la trovava e faceva l’amore con lei, tra i frusciii
dei libri, della
sapienza, delle biblioteche arabe. Sophia, sapere, conoscenza.
E Josie? La tradì. Con cento la tradì, lei che
ospitava il suo cuore, in cui il
suo seme cresceva, diventava un bimbo dallo stesso identico sguardo,
lei che
aspettava alla finestra, lei che piangeva, vivendo in lui, legata
all’anello
che la metteva in gabbia, sfregandolo, isterica, nervosa.
Con cento la tradì e la dimenticò, più
la sua anima di nero si inzuppava, più
baciava altre bocche, più la sua pelle non implorava il
tocco di avidi riccioli
rossi.
Ma allora perché gli dissero che invocava il suo nome
perduto nell’oppio?
Josie si bagnava sotto la pioggia, le mani alzate al cielo, ad
accogliere un
dono, con giravolte sfocate cadeva. Nell’erba, la dolce erba
delle Highlands.
Aspettava Josie, aspettava che mani bianche la stringessero.
Il vento asciugava la pioggia. Il vento le asciugava i capelli. E il
vento
cantava una cantilena…
O fruire di carni… fra semiaperte
vesti,
celere denudare di carni...il tuo fantasma ventisei anni ha
valicato… e giunge,
ora, per rimanere, in questi versi...
Era una grande sala, quella del Re, come uno si immagina i fasti
dell’età
antica, un salone di pietra levigata, e uno stendardo verde cupo
tingeva il
muro, illuminato da fiaccole agitate. Per il resto, solo un trono di
pietra,
rialzato, ben lavorato da mani di elfi artigiani, mani escoriate dallo
sforzo,
esauste, sanguinanti, decorava la grande sala, e un camino, dove moriva
un
fuoco, tra braci ardenti.
Un uomo, se ancora si trattava di un uomo, sedeva pigro, le gambe
allungate da
ragazzo svogliato, le mani sottili che dondolavano una lunga bacchetta
bianca.
Il volto bianco, divertito, malcelato dall’ombra, seguiva i
movimenti furiosi
di una giovane donna, che camminava su e giù come una pazza,
i capelli
indaffarati intorno al viso da irlandese. Stupide apparenze! Se ai suoi
antenati avessi accusato origini dall’isola, mi avrebbero
fatto tagliare la
testa su un ceppo di quercia gallese, rigorosamente gallese.
“Come hai osato? Come diavolo hai osato insegnarle quelle
cose senza il mio
permesso? Non è un’adulta! Non le hai dato
possibilità di scegliere! Lei ti ha
seguito come un cane, non aspettava altro! Bravo, fai l’eroe
della situazione!”
Josie mormorava furiosa quelle parole, indicando Tom con un piccolo
indice accusatore.”Tu!
Gli ho detto che eri morto, che ti avevano ucciso! Ti ho salvato, sai?
Ti
odierebbe se sapesse che l’hai abbandonata!”
“O che ho abbandonato te?” Tom rispose indolente.
Con un sibilo, un enorme
serpente si avvicinò al suo padrone, sfiorando le caviglie
di Josephine, che
saltò di lato, con uno strillo. Tom rise.
“Non prendermi in giro! Questo è un discorso
serio! No, non sto parlando di
me.” la voce acuta della donna si abbassò,
nervosa,”Parlo di lei. E non dirmi
che questo discorso te l’ho già fatto mille volte,
che devo smetterla di fare
la bambina, che… Tom, ascoltami!”
strillò. L’uomo sibilava parole confuse al
serpente, carezzandogli il capo squamoso.
“Amore mio, ti sto ascoltando…” disse
dolcemente Tom. Animale e padrone si
volsero a guardarla con lo stesso identico sguardo.
“Non chiamarmi Amore Mio!Quanto sei
falso…” Josie sbuffò esausta.
“Cosa hai fatto a quella povera gente?” la sua voce
d’improvviso divenne dolce,
rotta, disperata. Salì i gradini del trono e si sedette,
posando le piccole mani
bianche sulle ginocchia magre, mentre il serpente le strisciava sulle
gambe
nude. “Cosa hai fatto a quei poveretti, Tom?”
Tom le accarezzò i capelli, lo sguardo assorto in un ricordo
lontano, la fronte
aggrottata.
“Ciò che meritavano.”
sentenziò, allontanando la mano dalla morbida chioma.
Anche Josie si tolse, separandosi dal suo tocco.
Era così per loro: avvicinarsi, toccarsi, e di nuovo
separarsi, per
rincontrarsi ancora.
“Ti odio.”
“Non fare la bambina.”
“Ho detto che ti odio.”
“Bugiarda.”
“Mi fai schifo.” pronunciate queste parole, Josie
si trovò una mano ferrea
stretta intorno alla gola, e una bacchetta puntata al cuore.
“Attenta a quello che dici, Josephine.” la ragazza
si divincolò, ridendo e
tossendo.
“Come se osassi farmi del male!”
“No, Josie, farò di peggio. Ti farò
implorare, implorare di non lasciarti,
implorare di starti accanto. Lo faccio sempre, Josie. Sono
l’unico che può
farlo.” Tom, giovane indossatore della maschera della morte,
la perforava con
uno sguardo cupo, inquieto. Con un gesto elegante del mantello nero si
voltò
per uscire. “Ora va, va da tua figlia. Domani ti
accompagneranno a casa. Per
questa notte resta… Josie” la chiamò un
ultima volta, e la donna se lo trovo
d’improvviso vicino, con la sua bocca che sapeva di sangue,
con le sue mani che
sapevan di morte. Le sollevò il mento, la strinse.
“Come fai a dire di essere l’unico? Credi che io ti
abbia aspettato?” sibilò
Josie contro le sue labbra, mentre lui girava in piccole, sbilenche ma
sicure
giravolte di un valzer invisibile.
“Ma certamente. So che vestiti indossavi a natale. I fiori
che usasti al
funerale di Mina, camelie, ovviamente. So la data esatta del tuo primo
giorno
di lavoro, i libri che leggesti nel torpore del sofà con le
mani piene di
sigarette, quello sporco vizio babbano… so le persone che
difendesti e coloro
che invece odiasti, so nomi e indirizzi degli uomini che si
interessarono a te
e so che tutti li rifiutasti, so che hai venerato un sogno, che hai
marciato
sul mio ricordo, che piangevi nel cuore della notte e in una celata e
silenziosa speranza scrutavi la folla del sabato per
trovarmi…” gli occhi di
Josie divennero lucidi.
“Ricordi, Josie, l’età
dell’innocenza?
Ti conobbi trenta anni fa seria e chiusa come un guscio di noce,
l’aria che si
respirava tutt’intorno a te costringeva a temerti,
perché eri lontana da quel
mondo, lontana da quella gente. Eri cresciuta in una campana di
cristallo,
paradosso delle idee di tua madre, pronta a buttarsi nel secolo come la
rana
nello stagno. Eri cresciuta nella dolce casa delle bambole che era
Villa Bliss,
e il declivio verde tutt’intorno era la tua collina degli
elfi. Come l’uomo
incauto che si lascia ghermire dai canti del Piccolo Popolo, e ritorna
al suo
mondo dopo un secolo che gli è parsa un’ora,
così era avventurarsi tra i tuoi
balocchi di bambina, gli intellettuali pazzi ospitati nel salotto di
Mina, le
riunioni segrete alle spalle del Ministero, i personaggi dal sorriso
sghembo e
la tuba che ispirarono la tua maturità, era come perdersi,
catapultati in una
Belle Epoque fuori tempo, dove rubicondi astrologi dai calici di vino
sanguigno
stretto in mano brindavano con alchimisti ebrei vestiti di blu
tenebroso.
Il tuo regno era una moderna Praga e Mina il Rodolfo II che la crebbe
magica e
civettuola perfino tra i maghi. Santi di pietra arenaria, bambole
parlanti,
carillon, erano le tue dimensioni in miniatura, piccoli mondi a parte
in cui
crescevano i tuoi sudditi. E quando uscisti dalla tua dorata fortezza,
trascinata da eventi preannunciati ma sconvolgenti, ti ritrovasti con
scarpe
sconosciute in una scuola sconosciuta, circondate da stupide creature.
Rinunciasti a sguazzare nell’oceano della
superficialità, emarginata, sola.
Io ti elevai ai loro occhi, io ti scelsi fra tutte e tutti, per amarmi
e
servirmi, sempre, per rispondermi fino all’ultimo grido, per
rispondermi sempre
di sì. Non puoi far altro Josie, fosti plasmata per me da
artefici più alti, io
ti volli prima del tempo così come sei, come eri, Josie, non
ti amai perché eri
speciale, ma perché eri già mia, innocente,
innocente, innocente, per
l’innocenza che io potevo sporcare.”
Josie boccheggiò. Prese fiato molte volte prima di parlare.
“Giura che da domani non cercherai più
Mery.” mormorò infine.
Tom rimase zitto, sorrise, le baciò la mano, si volse e se
ne andò.
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Capitolo 8 *** Capitolo Ottavo ***
"L’amore è la meta di tutte le partenze, il punto
di eterno ritorno. Lo sguardo più breve, quello verso lo
sguardo di chi ci è accanto, è in
realtà infinito. Le passioni mortali possono offuscare
l’eternità."
V.I
“Il suo nome è…” Perry si
fece scivolare gli strani occhialetti obliqui sul naso a patata e
scrutò la malsana figura di Josie
“…Josephine Wisteria Bliss?”
Josie, legata stretta al trono di pietra del tribunale, gli occhi vacui
e sbiaditi, i polsi arrossati da altre catene, e le guance
cave, consumate dal digiuno e dall’insonnia, annuì.
“E’ la figlia di Wilhelmina Berenice Harcker e
Dorian Thomas Bliss?” continuò l’uomo,
arricciando le labbra.
Josie ripetè il gesto con svogliatezza.
“Signorina Bliss, lei è stata accusata da numerose
testimonianze di aver passato preziose informazioni segrete del
Ministero a Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato, e inoltre di aver
avuto…” il giudice si fermò alzando lo
sguardo al cielo, corrugando la fronte imbarazzata. Alle sue spalle, la
statua di Wilhelmina languiva con occhi lampeggianti al riverbero delle
torce.”… un’intima complicità
con il suddetto, di essere stata contattata da Esso più
volte, e di non averne mai informato le autorità. Come
risponde a queste accuse?” Un centinaio di occhi la fissavano
nella semioscurità, e il doppio delle palpebre sbattevano, e
il millesimo delle ciglia fremevano.
Josie tacque. Mantenne il suo sguardo spento su una pietra davanti al
seggio dell’imputato. Un brusio sottile si diffuse per la
sala. Il giudice tossì e risuonò di nuovo il
silenzio.
“Signorina Bliss, le è stata posta una domanda.
Risponda. Come replica alle accuse?”
Josie sfregò la punta dei piccoli tacchi per terra. Li aveva
messi prima di uscire una settimana prima. Ricordava di averli cercati
dappertutto, ed erano sotto il letto e si era infilata contorcendosi
per riuscire a prenderli. Aveva parigine nere e una gonna stretta, fino
al ginocchio, di velluto marrone. E una camicetta che sapeva di lavanda.
Josie si fisso le ginocchia sbucciate e le calze strappate. La gonna
impolverata e la camicetta sudata e sporca. Non l’avevano
nemmeno fatta cambiare. I capelli, nelle loro peggiori condizioni si
attorcigliavano come meduse. Con pigra attenzione, si guardò
le unghie.
”… ricordi, Josie, l’età
dell’innocenza?”
Meredith contorse i polsi arrossati, afferrò un lembo della
tunica nera di Mangiamorte cominciando a torturarla tra le dita.
Buttando i riccioli sporchi all’indietro, rise.
“Me l’hanno lasciata addosso apposta.”
squittì ad un interlocutore immaginario, gli occhi umidi e
folli fissi contro la parete.
“Guarda!” con le mani tirò la tunica
scura, come per indicarla. Tremava di freddo, sotto era nuda come un
verme, le avevano tolto tutto, bacchetta, vestiti, dignità,
spogliandola come una prostituta, sotto luci vivide e accecanti,
così bianche che le impedivano di vedere i suoi seviziatori.
Urlando e scalciando come una baccante, trattenuta da mani forti,
schifosamente sudate, che l’avevano tenuta ferma, mentre
altre la spogliavano, violentemente, per lasciarla nuda e umiliata su
un pavimento gelido, rannicchiata, a mordersi le ginocchia. Potevano
tramortirla per farlo. Invece no, la volevano veder urlare, mordere,
bestemmiare. Ma piangere no. Non aveva versato una lacrima. Non quella
soddisfazione.
“Ecco, vedi? L’hanno fatto apposta, i
bastardi” si raggomitolò contro il muro,
dondolando sui talloni. ”E’ per fare scena, sai.
Per far vedere quello che sono. Per far paura. Temetemi!”
urlò l’ultima parola, che rimase ad echeggiare per
la stanza, stretta, ma col soffitto alto. Alcune catene scendevano
ossidate e arrugginite dai vecchi muri, sfregiati da infinite
suppliche, da unghie conficcate, da giorni contati con sottili segni
bianchi. Gli sembrò che dondolassero al suo urlo.
Un’ombra passò alla sua destra. Mery si
tappò le orecchie.
“Non pensare, non pensare, non pensare…”
ripetè la litania un centinaio di volte, mentre immagini
lontane si affacciavano tra le tempie e la fronte. C’era una
donna, stesa e bianca come un cencio, gli occhi aperti rivolti al
soffitto, un bicchiere di vetro pesante rotolava di lato, il brandy
sparso per terra. Una sigaretta ancora fumava tra le sua dita. Poteva
essere l’immagine di una propaganda particolarmente sadica
contro il fumo e l’alcol. Invece la donna aveva i capelli
bianchi, attraversati da venature rossastre.
“Mina!” urlò quel nome strappandolo dal
cuore.
Il Dissenatore ondeggiava oltre le grate, sibilando minaccioso
E poi le venne in mente il castello bruciato, e suo padre che zoppicava
e rideva, e muoveva la bacchetta incessantemente, con piccoli
aggraziati movimenti del polso e luci verde smeraldo che lampeggiavano
come fari, e quelli che cadevano a terra uno dopo l’altro,
senza una parola, un addio, suoi compagni di scuola, persone che per
anni aveva visto entrare e uscire con una tazza di tè dal
salotto di Mina, che le facevano sorrisi allegri, e le conosceva una
per una, e ora cadevano come birilli, gli occhi pieni di terrore, altri
di coraggio. E suo padre rideva.
Nel novembre 1981 furono catturati quattordici Mangiamorte.
Furono stanati nei loro covi di vipere o alla luce del sole, nomi
già macchiati di infamia o altri immacolati e impensabili si
andarono ad aggiungere alla lista dei servi di Voldemort.
Alcuni confessarono con orgoglio e folle luce negli occhi la loro cieca
devozione all’Oscuro Signore, molti piansero e si contorsero
prostrandosi a terra, negando e spergiurando, che non erano stati loro,
che erano innocenti, che Lui li aveva costretti con mille terribili
maledizioni, il loro cuore era onesto e quel Marchio ancora pulsante di
vita e di gloria non significava nulla.
Mai nella storia della magia venne preparato più Veritaserum
per sciogliere la lingua agli imputati. Confessarono tutto, gli
omicidi, le stragi, le crudeli cacce ai Babbani, le violenze e i
progetti segretissimi del loro Signore, fecero nomi su nomi, portando
all’arresto di altri fedeli, inerti come bambole di pezza
sopra il trono degli Ultimi.
Ma, sotto qualsiasi tipo di incantesimo o pozione della
verità, quattordici bocche giurarono sul nome di quel Dio
che forse c’è che Josephine Wisteria Riddle era
innocente, casta e purissima, che mai l’avevano vista in
compagnia del loro Signore, che osare soltanto pensare che la figlia di
Wilelmina Harcker aveva a che fare con Lord Voldemort era una
bestemmia, che Tu-sai-chi in persona aveva fatto tacere quella serpe
dai capelli rossi, uccidendola mentre si alcolizzava come al solito in
quella villa di babbanofili.
Questo e qualche sapiente orazione di Albus Silente bastarono a far
scarcerare Josephine, che, dimagrita e stanca, tornò in
quella casa vuota di babbanofili a piangere tutte le lacrime che aveva,
stesa su un tappeto persiano in compagnia della migliore amica di sua
madre: la vodka.
E pianse per Wilelmina e per il suo assassinio, del ricordo tanto
lieve, color seppia, di quando la domenica pomeriggio sua mamma e Tom
duettavano con il pianoforte a coda nella sala da ballo, mentre lei li
guardava un po’ invidiosa, mancando di qualsiasi talento
musicale.
E pianse per la sua bambina in quella prigione di matti, la sua dolce,
piccola Meredith, che parlava da sola ad un muro sgualcito,
dondolandosi sui talloni, che la graffiava sul viso quando lei le
baciava le mani, durante i rarissimi giorni di visita, che si impiccava
con una striscia di corda la notte di carnevale, i capelli ingrigiti
nonostante i suoi trent'anni scarsi sciolti sulle spalle ossute, quei
capelli che dovevano essere rossi, che portavano fortuna, che
scaldavano come una trapunta di mantelli, ma che erano neri come la
pece e la perspicace notte. La seppellì sotto un faggio,
senza più lacrime da versare, a Villa Bliss, un funerale
modesto, con un corteo di cinque persone armate di viole e di fresie.
E poi pianse per Tom, quel Tom umano e sepolto ed andato, andato per
sempre, e non importa che undici anni dopo sarebbe tornato,
perché Tom Riddle, quello vero, quello che la stringeva con
abbracci disperati, che si aggrappava al loro amore profondo di radici,
impalpabile di vento, lo avevano ammazzato, ucciso, sterminato,
massacrato per mille buoni motivi.
Ma Josie era stupida, stupida perché l’amore
è così forte, l’amore è
così denso di pazzia, che ti rende cieco e sordo e muto, e
quando Tom era un mostro, l’aborto di un’anima
violata, lei lo guardò negli occhi e pianse,
perché la bella amava la bestia e tutti marciavano su
Babilonia e quando Tom morì per la seconda volta, in modo
totale e definitivo, per mano di quel bambino sopravvissuto che ci
è tanto caro, quando Tom morì possedendo soltanto
una bacchetta ed un anello di oro bianco, Josie sparì come
era arrivata, nel nulla, come l’estate.
Al suo posto, in quella villa antica, che certi vecchi dicevano fosse
abitata un tempo dalla strega più bella del regno, che di
notte volando cavalcava un verro sulle strade di Londra, nuda e bianca
come un’ostrica d’oro e faceva impazzire i Babbani
con una risata, al suo posto, addormentata su un pianoforte a coda,
trovarono un’anziana signora, dai riccioli bianchi come la
neve, il volto addormentato nel dolce abbraccio della morte fatto mappa
di molti e molti anni e portatore di una remota grande bellezza.
Nessuno conosceva quella signora, che stringeva forte nel pugno una
piccola vera di oro bianco.
La seppellirono nel cimitero di Little Devon, su di una lapide senza
nome, all’ombra di un faggio, e una bambina bionda
posò sulla terra fresca una margherita.
La primavera successiva, una domenica mattina, gli abitanti del
villaggio, come riscossi da un sogno, guardavano increduli e immobili
dal cancello di ferro il terreno sul quale avrebbero dovuto riposare i
loro cari. Ma il cimitero di Little Devon era sparito, e
così tutte le lapidi, le croci e i sentieri di erba curata:
al suo posto fioriva un campo di fragole.
Dedicata a me e a te, a Loro, al mio aspettare gufi al balcone in
quell'estate di otto anni fa, a tutto quello che sai, alla fine e
all'inizio, a Peter e a tutti quelli che crederanno per sempre
all'isola che non c'è.
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