L'età dell' innocenza

di JosieBliss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


“Corrupt you corrupt and bring corruption to all that you touch…”
(corrotto, sei corrotto, e porti la corruzione ad ogni cosa che tocchi…)

La donna si pettinava i lunghi e immobili capelli, che impertinenti rifiutavano le carezze della spazzola, arricciandosi ugualmente ad ogni nuova passata. Erano rossi, ma non quel rosso ordinario che si può trovare sulle chiome irlandesi, dalla sfumatura di agrume e cannella, piuttosto era paragonabile alla buccia setosa dei lamponi o ad un trionfo di papaveri e falò, che in una gioventù mai terminata le aveva fatto guadagnare il buffo nomignolo di “strawberry”.
Non ricordi? L’insolita scritta sul muro, in grandi caratteri neri tracciati dalla sua lunga bacchetta, che abbagliavano con un sorriso indulgente chi la leggeva, là, sul muro di pietra liscia della vecchia curva sulla collina, quella che portava a Villa Bliss. Quante volte l’aveva letta tornando da scuola ai primordi dell’estate, scivolando sulla bicicletta d’annata mentre i piedi sfioravano la terra battuta, e i suoi capelli prendevano fuoco al sole ardente d’agosto, come la scia veloce di una cometa. Tu sei la stella e io seguo la sua coda.
FRAGOLA TI AMO ALLA FOLLIA

“…Hold, you behold, and beholden for all that you’ve done…”
(capirai, tu vedrai, e vedrai ogni cosa che hai fatto…)

Lo specchio ovale rifletteva la sua bella immagine, il tavolino di ceramica laccata e legno di ciliegio luccicavano alla luce del vecchio e acciaccato lampadario di cristallo, a cui mancava qualche pendente qua e là, probabilmente rubato e conservato gelosamente come una reliquia dalle mani di una bambina bella come i campi sterminati di tulipani rossi. Il letto, sfatto, aveva ancora l’impronta del suo corpo esile, e forse di qualcun’ altro che non era sicura di avere sognato. Il pendolo del salotto battè le due di notte dell’ otto aprile del 1976 secondo le stime dei calendari inglesi.
Aveva mani piccole e dita sottili che passavano distratte un impronta di fard sugli zigomi e un altezza poco considerevole, un metro e sessanta scarso, ma, attenzione, raggiungeva i settanta con le scarpine più audaci che aveva. Indossando il mantello verde cupo controllò sua figlia dormire beata accucciata nel letto, socchiudendo appena la porta per non permettere alla luce indagatrice di turbare il suo sonno tranquillo. Sorrise, come fanno tutte le madri guardando i loro figli dormire docili, piccoli o grandi che siano, e mentre con una mano sfiorava i riccioli di bistro sparsi sul suo viso, non potè fare a meno di ricordare quanto assomigliava a suo padre, e questo lo pensano tutte le madri sedotte e abbandonate, come nei più desolanti film d’amore.

“…Spell, cast a spell, cast a spell on the country you run…”
(e fai incantesimi, tu incanti, e incanti sulla terra in cui corri…)

Nei film d’amore, di solito, la madre sedotta e abbandonata si ritrova a carico un figlio non desiderato, che giustamente impara a desiderare. Dopo anni di fatica, disperazione e umiliazioni la madre sedotta e abbandonata realizza il suo sogno lavorativo che mette alla prova il suo notevole intelletto, e , ovviamente, si innamora dell’affascinante e terribilmente anni ottanta proprietario della nuova barca ormeggiata al porto/turista/dog sitter/cameriere italiano o simili che in realtà si rivela figlio in fuga del presidente/primo ministro/imprenditore di successo/avvocato della situazione. Ovviamente lui adora il figlioletto e il figlioletto adora il nuovo papà e insieme vivranno nella bella casa bianca con il Labrador sorridente che sbava e rotola sul prato.
Josie W. Bliss.la donna dai capelli color lampone, dubitava fortemente dell’arrivo del figlio in fuga del primo ministro, considerando che il poveretto era sterile. E se anche fosse arrivato qualche altro principe azzurro, viola, indaco, giallo limone, a bussare alla sua porta, sua figlia gli avrebbe probabilmente vomitato sulle scarpe piuttosto che rivolgergli la parola.
Meredith assomigliava anche questo a suo padre: poca confidenza agli sconosciuti se non per ardite manipolazioni. Lo sguardo penetrante e malizioso era lo stesso, così pure un acerbo egoismo, un’intelligenza superiore ai suoi coetanei, una sete inappagabile di conoscenza, una sottilissima isteria e la paura degli spazi stretti e della folla.
Perché non si può respirare quando tutti ti rubano l’aria, Josie, non vedi, è come se lo facessero apposta a starti così vicino.


“…And risk, you will risk, you will risk all their lives and their souls…”
(E rischi, tu rischierai, tu rischierari tutte le loro vite e le loro anime…)

Chiudendo a chiave la porta del piccolo appartamento, sigillandola con doppi incantesimi di sicurezza, sapeva comunque di non correre nessun pericolo. Di quei tempi andava di moda stare all’erta, poiché era l’epoca in cui colui che si faceva chiamare Voldemort operava le più terribili efferatezze, probabilmente alla ricerca del potere. Anche se pochi osavano pronunciare il suo nome, preferendo sciocchi virtuosismi verbali per riferirsi a lui, Josie tendeva a non usarlo semplicemente perché lo riteneva di orrida cacofonia. Fin dai tempi della scuola, aveva detestato quel soprannome inquietante. Certo, non era un nome babbano, ma Tom non le era mai dispiaciuto.
Sul collo, Josie portava due gocce di profumo, mentre il mantello era impregnato di lavanda e strani odori alchemici.
Lo lasciava spesso al laboratorio, e tutte le volte si caricava di fumi indecifrabili che salivano da scoppiettanti e colorate pozioni. Ormai aveva rinunciato a levargli quell’aroma confuso e se lo teneva addosso confortata dalla sua familiarità. Aveva sempre amato il suo lavoro e ancora di più insegnarlo, anche se pochi alunni apprezzavano appieno la raffinata arte dell’Alchimia. Era fin troppo complicata per dei quattordicenni, troppo esoterica, ci si confondeva tra le solennità ostinate dei libri.
Qualche anno prima una pozione mal riuscita o forse riuscita splendidamente, era esplosa ribollendo nel calderone, rovesciando su di lei grandi quantità di una vischiosa sostanza madreperlacea. Le era entrata dentro, nella pelle, l’aveva inghiottita, rischiando di soffocare, ma ne era uscita incredibilmente viva e sana come un pesce, senza l’ombra di un’ustione, nonostante il contatto bollente che aveva avvertito. Questo accadeva quattordici anni prima. Quattordici anni dopo, Josie non contava una ruga in più di quel fortunato giorno, non un capello bianco, non un cedimento della sua pelle soda e liscia. Era eternamente giovane. Non sapeva però se gli effetti miracolosi di quella pozione si estendevano alla vita eterna, ma ne dubitava fortemente, aspettava infatti da un momento all’altro di cadere stecchita per terra.
Il ticchettio dei tacchi risuonava sinistro per la via deserta e nebbiosa, costellata di ricordi. Lì,proprio in quell’angolo, una mattina d’estate si era fermata a succhiare un’arancia seduta sullo scalino, là, sui tavoli deserti della gelateria, la ragazza coi capelli neri e il grembiule stracciava a carte i clienti, nella vetrina vuota una volta scoppiavano mirabolanti e innocui fuochi d’artificio, e col naso spiaccicato contro il vetro, stormi di bambini si fermavano a guardare.
Scivolò dentro il vicolo senza neanche accorgersene. Dalle finestre giungevano bagliori sinistri, qualcuno era ancora alzato, o non aveva intenzione di coricarsi. Un alto signore con il cappello calato e lo sguardo basso passò veloce alla sua destra, ondeggiando in un lungo e lugubre mantello nero. La stradina le si apriva davanti come se l’avesse già fatta centinaia di volte, gli irregolari scalini erano fin troppo familiari, i negozi dall’aria vuota e trascurata si affollavano tra le strette pareti delle case. Nocturn Alley non aveva mai un aria accogliente. Tirò fuori un pesante mazzo di chiavi, e, nervosamente, guardandosi intorno, cercò la lunga chiave d’ottone, consunta dal tempo. La infilò nella serratura di una porta scheggiata e leggermente storta. La chiave smosse i cardini non oliati da tempo immemorabili, resuscitò le sue giunture addormentate, aprendosi con un lamento.
Bentornata a casa.
L’odore di vecchio e di chiuso le invase le narici. Tastando le pareti cominciò a salire le scale ripide e sconnesse, mentre, per qualche strano motivo, il respiro le si affollava in gola
Le quattro parenti dipinte erano sempre le stesse, anche se non le vedeva. Di notte le erano sempre parse inquietanti. Per terra, i passi restavano silenziosi sullo spesso strato di polvere. Il profumo di vecchie alchimie, di vernice, di vaniglia e limoni, era ancora percepibile, conservato come in un’ampolla, o forse era solo la sua immaginazione.
“In vena di ricordi nostalgici?” mormorò una voce assolutamente reale, dolce e malsana, alle sue spalle. Josie inghiottì l’aria fredda.

Il film d’amore di Josie andava contro tutte le regole soprascritte. Ad appena ventiquattro anni, era sì madre, sì sedotta e sì abbandonata, ma senza alcun umiliazione e anzi un ottimo prestigio dovuto al suo talento e al suo sangue blu, per esattezza una purissima discendenza di avi severissimi e donne straordinarie che culminavano con la madre, Wilelmina, femminista, scandalosa, ribelle ed eccellente maga, bella e terribile come un esercito schierato in battaglia, primo ministro della magia donna, contessina del Galles maritata con il Duca di York. E dieci anni dopo dall’abbandono il mentecatto era tornato, le labbra cucite nella scusa
Avevo-bisogno-dei-miei-spazi. Ammetto che forse era più complicato di così, ma per Josie era stato difficile dimenticare il primo amore, i suoi occhi neri, le mani che scivolavano su lenzuola bagnate dai sospiri delle prime volte, l’amore folle e profondo che li aveva legati per nove lunghi anni. Si era rifiutata di donargli altri sguardi che uno di furioso rancore luccicante di lacrime ed era tornata alla sua vita salda e tranquilla. Quello che Lui era diventato non le apparteneva più, e quella che lei era sempre stata se l’era fatto sgusciare dalle mani. Ma a volte, gli capitava, nel sonno, di sentire una carezza invisibile, di svegliarsi agitata e bagnata sussurrando il suo nome, di piangere senza motivo e di morire di paura leggendo le terribili notizie sul giornale.
Sapeva che nulla poteva farle del male, perché il male più grande la proteggeva, e tutti i mali minori prendevano ordini da Lui. Ondeggiando nel senso di colpa della sua frustrante situazione, non potendo fare a meno di addolcirsi davanti a quegli immutati e penetranti occhi neri, temeva addirittura di perdere il senno e perdonare gli omicidi, le torture, le stragi. Si consolava nel pensiero di non toccarlo da vent’anni, ma a volte non ne era così sicura, faceva dei sogni strani e si svegliava con la pelle tatuata del tocco di qualcuno.

Josie inghiottì l’aria fredda e si girò ad affrontare il drago.
“Che diavolo vuoi?” sbottò freddamente, torturandosi l’orlo del mantello, fissando le ombre scure. A grandi passi l’uomo le si avvicinò, gli prese il bel viso tra le mani e la guardò negli occhi color nocciola.
“Ma che domande, bambina mia…” Sussurrò Tom Ridde, sollevandola tra le sue braccia forti.

“…And burn, you will burn, you will burn in hell, you will burn in hell for yours sins.”
(E bruci, tu brucerai, tu brucerai all’inferno, tu brucerai all’inferno per i tuoi peccati.)

Citazioni ricavate da “Take a bow”, primo pezzo dell’ultimo album dei Muse, Black Holes and Revelations.

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


Probabilmente tutto era cominciato quel vivido e gelido inverno di tanti anni prima, ma Josie non se ne era proprio accorta. Nei corridoi la si poteva vedere spesso andare a sbattere contro qualcuno, considerando la sua abitudine di avere sempre il suo grazioso e lentigginoso nasino all’insù che sfiorava le pagine avariate dalla polvere di pesanti volumi della biblioteca.
Non c’era da stupirsi che la considerassero strana: non aveva molti amici, piuttosto molti osservatori, perché la sua treccia scarlatta non passava certo nell’ anonimato, e neppure la sua graziosa figuretta da ballerina, con l’ossatura da uccello e la pelle candida della nobiltà.
Si portava sulle spalle l’ingombrante nome di sua madre, una sirena di eclatante avvenenza che non stava un attimo ferma, piuttosto ballava su quegli squisiti piedini di fata, una cenerentola senza mezzanotte che rideva come gorgogliano i ruscelli. Sua madre si era fatta molti ammiratori ma altrettanti nemici: nella perbenista società inglese degli anni quaranta non stava bene fare tutte quelle sanzioni sulla parità dei diritti delle creature magiche o la promozione di centinaia di posti di lavoro estremamente prestigiosi al ministero per le streghe, ancora casalinghe e poco audaci a far valere le proprie ragioni sui grassi e benserviti mariti; linee di comportamento che scatenavano strane reazioni nella comunità magica, come sconti del 80% a tutti i maghi di famiglia mezzobabbana su tutti gli alimenti all’emporio di Diagon Alley.
E Josie sopportava pazientemente l’ombra incombente di sua madre, a volte disprezzandola, altre andandone fiera.
Si sentiva estremamente fuori aspettativa da coloro che la guardavano con speranza: insomma, come puoi superare o perlomeno eguagliare personalità del genere? Cosa avrebbe dovuto fare? Salvare il mondo? Per quei tempi si accontentava di prendere ottimi voti a scuola e fumare Gitanes nel bagno delle ragazze al quarto piano.

E così ignorava le prese in giro, le voci che la davano per zitella a vita, perché a quindici anni non puoi essere così bella e non avere un ragazzo intorno. L’unica persona che la faceva davvero arrabbiare era quel tronfio, presuntuoso, arrogante di Tom Ridde.
Insieme al suo gruppetto disgustoso di compagni andava in giro a terrorizzare la scuola, facendo divertire i suoi seguaci con i più biechi divertimenti, e mantenendo una fastidiosa aria di superiorità.
Che cosa c’era poi di affascinante in lui, che tutte quelle ragazze smaniavano e miagolavano per ricevere uno sguardo, mentre se le passava come fazzoletti, umiliandole senza pietà, proprio non lo capiva.
Innegabilmente intelligente, certo: fin troppo, per un ragazzino così giovane. Sapeva giocare bene le sue carte.
Davanti ai professori non aveva un capello fuori posto, e veniva coccolato e viziato come il povero orfano della situazione.
Prefetto, caposcuola… faceva vomitare la sua falsità.
Come se non bastasse si divertiva enormemente a prenderla per in giro.
E quella volta alla fine delle lezioni, quando si era infilato nell’ aula di trasfigurazione mentre lei riordinava gli appunti…

“Sento puzza di fragole…” aveva ridacchiato il suo piccolo compare con gli occhi strabuzzanti, precedendolo saltellando lungo le file ordinate dei banchi. Josie aveva sospirato e abbassato la lunga piuma d’oca.
Tom l’aveva superata passandole delicatamente un dito sull’orecchio. Si era scostata, infastidita.
Oh, bisognava ammetterlo: Tom era terribilmente carino. Aveva labbra sottili dal sorriso freddo, un naso diritto e presuntuoso, occhi scuri, profondi e ardenti come il carbone e un cipiglio dolcemente incurvato. I capelli corvini gli incorniciavano il viso regolare e possedeva un fisico scattante e atletico, fianchi sottili da torero e arti agili e forti, ma per niente imponenti.
Si sedette sulla cattedra, sprezzante, e prese a fissarla spudoratamente.
Sotto le ciglia rosse fisse sul quaderno, Josie si sentì avvampare.
“Stai arrossendo per me, Strawberry? Mi lusinga.” mormorò, con il suo sghembo sorriso di scherno.
“Lasciami stare, Riddle” replicò la Corvonero, girando pagina.
“E perché mai?Mi diverto un sacco a stare con te.”
Senti I suoi amici ridacchiare e disporsi in cerchio, ai lati della classe, circondandola. Non aveva più vie d’uscita. Silenziosamente, strinse la bacchetta nella tasca del mantello.
“Immagino.” sussurrò, alzando lo sguardo di ciliegio e fissandolo negli occhi.
“Davvero. Io e te abbiamo un sacco di cose in comune.”
Pareva divertito.
“Ah si? Non me ne ero mai accorta.”
“Per esempio siamo entrambi superiori a coloro che ci circondano. Beh…dimenticavo che tu non hai nessuno di cui circondarti. Ultimamente mi sembra che la gente ti eviti.” Sillabò l’ultima parola come per gustarla, e farla vibrare nell’aria.
“Entusiasmante” rispose Josie, cominciando a ficcare i libri nella borsa.
Fu un attimo: se un momento prima Riddle era seduto comodamente sulla cattedra del professor Silente a gambe dondolanti, in un batter d’occhio le era vicinissimo, tanto da sfiorare la sottile peluria dorata delle sue guance, morbide come pesche, le afferrava le mani ignorando lo strillo soffocato, e la faceva girare, come in un valzer immaginario.
Canticchiò al suo orecchio, mentre Josie, incapace di reagire per lo stupore,lo fissava a bocca socchiusa.
”Nel mondo, bambina mia, ci sono luci e ci sono ombre.” mormorò, facendola girare su se stessa. “Tu, cara Josie, sei una delle luci, la luce di tutte le luci” *
Josie aveva tremato fra le sue braccia, la situazione le sfuggiva di mano. Odiava non tenere il controllo, odiava che quella piccola feccia serpeverde li guardasse sbigottita, odiava che i suoi occhi, gli occhi di Riddle, la ammaliassero come un incantesimo, e si accorgeva adesso, solo adesso, che la sua voce era morbida e melodiosa, profonda e giovane.
Sicuramente le aveva lanciato qualche incantesimo di fascino.
Si era staccata dal suo dolce abbraccio d’improvviso, andando a finire contro un banco, goffamente.
L’aveva guardato con occhi spalancati, boccheggianti e lui aveva riso.
“Allora non sei così frigida…” aveva sussurrato, gli angoli della bocca dolcemente piegati.
Scossi dal torpore, tutti gli altri, Rosier, Nott, Mulciber, Dolohov, Lestrange, avevano riso della stessa risata, piccoli burattini i cui fili si muovevano solo al suo freddo sguardo.
Mentre alcune inspiegabili lacrime si affollavano sotto le iridi di Josie, lei scattò infuriata, e prima che potesse rendersi conto del gesto, la sua mano schiaffeggiava il bel viso di Riddle.
C’era stato un silenzio agghiacciante, dopo.
Josie aveva temuto per chissà quale sciocco motivo, che quelli sarebbero stati i suoi ultimi respiri.
Ma Tom si era limitato a fissarla in silenzio, con un piccolo sorriso e gli occhi che mandavano lampi.
Lei, rossa in viso, aveva afferrato la borsa di cuoio carica di libri e se ne era andata sbattendo la porta.
Non si era accorta di aver lasciato sul banco una lunga e flessuosa penna rossa, quasi quella di una fenice. Tom la sfiorava con le dita e rifletteva. Forse, anni dopo, gliela avrebbe restituita in un giorno di fulmini e tempeste.


Parliamoci chiaro: gli anni di Hogwarts non videro il primo reale incontro fra Josie e Tom.
Per chissà quale ragione, le anime destinate a condividere un amore, prima di conoscersi effettivamente, sono ordinate a vivere fugaci e inconsapevoli incontri, proprio come se lo Scrittore del Grande Romanzo, l’Illustre Architetto, il Motore Immobile, il Demiurgo, chiamatelo come volete, si divertisse a tessere, disfare e nuovamente intrecciare i fili delle loro sorti.
Essi non seppero, per esempio, che quando da una parte della città una piccola Josie si sporgeva a guardare le stelle lucenti sopra i camini fumosi di Londra alla ricerca di un fratello, di Peter Pan o di qualcosa di simile, rinchiusa nella sua torre di cristallo che era la bella casa all’angolo con giardino di sua madre, da un altra parte, Tom fissava con rabbia le stesse stelle, dalla finestra fredda dell’orfanotrofio, compiacendo e odiando la sua solitudine, alla ricerca inconfessata di una sorella, di una fata o di chissà cos’altro.

A cinque anni si erano incrociati sulle strisce pedonali, era il 1939 e la guerra era alle porte, Wilelmina teneva per mano sua figlia che saltellava sul posto perché doveva fare la pipì. Allo scattare del verde Josie era corsa liberandosi dalla stretta di sua madre, andando a sbattere contro un bambino dall’aria imbronciata, in gita al circo con i suoi compagni, che era rimasto sconvolto dalla fanciullina. Lei era scoppiata a ridere invece che a piangere quando era caduta per terra, con il suo vestito viola acceso, un cappello storto e a punta e la chioma piena di boccoli color lampone che si spargeva nel pomeriggio come la sua risata.
Mina era corsa a tirarla in piedi, fasciata nel verde smeraldo del suo vestito scandalosamente corto per l’epoca.
Belle come il sole del mattino, se ne erano andate mano nella mano e con un sorriso identico, lasciando Tom tramortito da indescrivibili sentimenti, a fissare la bambina che continuava a girarsi e a fissarlo sopra la spalla con uno sguardo curioso.
L’avrebbe sognata per notti intere.

Un'altra volta, questo accadeva nel 1942, Josie sorseggiava una sontuosa cioccolata calda in un bar francese traboccante di un fastidioso stile liberty, con le gambe che dondolavano dalla sedia di ottone e un cappello bianco da bambola di porcellana. Sua madre
parlava fitta fitta con un signore alto e affascinante dai capelli rossicci. Qualche esperto l’avrebbe chiamato Albus Silente, ma i Babbani non riconoscevano né l’uno né l’altra sua magica consorte.
Cercavano sempre di andare in locali non frequentati da maghi: nessuna domanda imbarazzante, nessuno sguardo curioso, al massimo qualche occhiata sbalordita per i fiori giganteschi incastonati nell’acconciatura della donna o della barba così lunga da dover essere infilata nella cintura del vestito indaco dell’uomo.
Le vetrine trasparenti del locale si affacciavano sulla strada affollata e su un bambino dai capelli spettinati e nerissimi, mani in tasca e sguardo freddo e attento, che fissava lo strano trio, in particolare la bambina dall’aria familiare, che ancora tormentava alcuni dei suoi sogni.
Josie, vedendolo, aveva sorriso come sorride chi riconosce un vecchio amico, ed era saltata giù dalla sedia d’ottone infilandosi sotto i tavolini rotondi gremiti di ricchi signorotti. Albus Silente aveva seguito con interesse la scena, il suo sguardo si era posato sul bambino babbano fuori del locale e sulla piccola Josie che spingeva la porta del negozio, facendo entrare spifferi e punte di neve. Josie si era avvicinata così timidamente a Tom, le piccole mani sporche di cioccolato che stringevano la tazza bianca, che il bambino si era mosso a disagio sul posto, calcolando il suo dolcissimo sguardo nocciola e desiderando ognuno di quei selvaggi fili rossi sotto il buffo cappello.
Voleva tagliarli e intrecciarli in un mantello di cui coprirsi. Non aveva mai visto un rosso così acceso, più acceso del sangue.
Josephine gli aveva avvicinato la tazza alle labbra sottili e imbronciate e lui l’aveva scostata con fastidio, fissandola avidamente negli occhi. Le aveva afferrato una mano e aveva succhiato dolcemente il cioccolato dalle piccole dita rosee.
Josie, senza spavento alcuno, o meraviglia o stupore, sapendo esattamente cosa fare, come se quei gesti fossero scritti in un copione già letto, già attentamente studiato, aveva abbandonato la tazza nella neve (si sarebbe sciolta in un miscuglio di ghiaccio e cacao), aveva preso l’altra mano di Tom, sporca di fango, e aveva baciato quel piccolo palmo, leccando via il sapore acre e farinoso della terra bagnata.
Che scandalo! L’erotismo e l’innocenza di quel gesto avevano strappato parole indignate a due grasse signore avvolte in bomboniere di pizzo, avevano cominciato a chiocciare, cameriere, cameriere, chiamavano e indicavano i due bambini con piccoli indici polposi: la borghese e il mendicante, la principessa e lo zingaro.
Avevano scatenato un putiferio, il tanto acclamato cameriere si era precipitato a separare i due innocenti.
Ma erano ormai legati da una promessa, da un patto che vedeva notti di un amore selvatico e insonne, limiti non ancora esplorati dalle bocche e dalle mani della purezza, anni di irrefrenabile ardore, tenerezza e malvagità, braccia che avrebbero stretto ed ucciso, pelle che avrebbe tremato e sanguinato, serpenti e unicorni.

* Citazione in onore di quell’uomo meraviglioso che è Francis Ford Coppola, anche se l’unico che può renderla con lo stesso comico pathos e sentimento è Mr Hopkins.

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


Josie era trasformata. Trasformata da larva a farfalla.
La metamorfosi era venuta d’improvviso, dopo un corteggiamento durato quel tanto che bastava a sciogliersi nell’Attesa.
L’attesa di lui, di un bacio agognato e sofferto, delle mani sulla pelle, sotto la divisa, le sue tremanti per l’emozione, quelle di lui sicure, lente, esperte. Era stato bello.
Lui la prendeva in giro, sempre. La chiamava Virgin Mary.
Lei si arrabbiava.
Uh, che rabbia, quel Riddle! Non la lasciava un attimo stare.
E tutti li osservavano, capivano la tensione, i suoi occhi neri fermi sulla sua nuca durante pozioni, quella nuca rotonda e sottile, la treccia lunga, rossa, un fiume in piena. Lei china e attenta prendeva veloce gli appunti del vecchio Horace (come l’adorava!), e lui, assorto, scomposto sulla sedia, con grazia, a fissare le sue piccole orecchie, le spalle esili che si piegavano sul foglio, il profilo che a volte fissava la finestra, distratto un attimo, poi di nuovo rapito dall’inchiostro.
E il ballo di primavera? Lei sapeva ballare il valzer per le belle feste di sua madre. Suo papà, prima di morire, gliel’aveva insegnato. Lei ballava coi suoi piccoli teneri piedi, sugli stivali lucidi di Alaster Bliss e rideva come una pazza, quando lui la sollevava e la faceva volare tra le sue braccia, nel salone di specchi e di ambra.
Al ballo di primavera lui aveva abbandonato la bellezza folgorante con cui stava a braccetto, con passo svelto e deciso era venuto da lei. E prima che potesse aprir bocca stupita le aveva afferrato le mani e fatta girare nel suo timido vestito di seta bianca, così leggero, delicato. L’aveva portata in un cerchio perfetto al centro della sala.

E poi finalmente, quel bacio.
Rubato prima di un pranzo, prima di entrare in Sala Grande, così.
I libri schiacciati tra loro, sul suo cuore impazzito, perché già da un po’ la sua assenza le faceva male e non capiva perché.
Le sue labbra, dolci, avide, come l’uva.
Le sue mani, su di lei, a strapparle ansiti e sospiri, quasi davanti a tutti. A ricordare quel quarantadue lontano in cui già aveva conosciuto quel sapore, sulle sue mani piccole di bambino.
Era stato un bambino bellissimo.
Era un bambino bellissimo.
Era Tom: rispettato, venerato, invidiato, odiato, da tutti temuto. Popolare come solo alcuni sanno essere, freddo, distaccato, geniale, insensibile.
E si perdeva nella sua bocca, sentendo una bestia nel petto che non aveva mai conosciuto, pulsare, desiderare, amare.
Era un amore egoista il suo, generato dall’auotosoddisfazione.
Così credeva.
E le sciolse i capelli.
Vi affondò le dita.
La chiamò per nome.
Josie.

E lei era trasformata. Da larva a farfalla.
Andava in giro tenendo la testa alta, rideva più forte, teneva sempre i capelli sciolti, liberi, allegri, i riccioli dappertutto sul suo corpo, sul suo petto candido e nudo nelle notti affamate a cercare se stessi nell’altro.
Era vera, più audace, più sua, sempre più sua, fino a morire, le cullava la testa aspirando l’odore di vaniglia sul collo.
“Tom?”sussurrava Josie una notte, fissando il nero delle tende di velluto.
Lo scorcio di luna che gettava uno sguardo luminoso al suo viso l’aveva svegliata, allontanando un sogno già dimenticato.
Si passava la lingua sulle labbra screpolate dall’inverno e dal sonno, e poi si girava, cercava nel buio il giovane amante.
Fissava le medesime tende, le mani dietro la testa, assorto, come di fronte ad una scacchiera troppo difficile a metà della partita.
Josie allungava una mano sottile e accarezzava il suo petto, fermandosi all’altezza del cuore, per sentirlo palpitare, ed era tenere in mano un fuoco acceso, che ti brucia le dita e le rende trasparenti.
“Come mi vedi da grande, Josie?”
“Quanto grande?”
“Grande abbastanza per essere qualcuno. Oltre queste mura, oltre le montagne.”
Lei sospirava e premeva forte la mano sulla pelle.
“Lontano. In un posto che non ti sta stretto.”
“Questo posto esiste?” Tom si girava a guardarla.
“Non lo so. Ma se c’è sarà in alto, dove non c’è gente che ti possa respirare accanto e rubarti l’aria.”
Si mordicchiava le labbra sentendo le piccole ferite pizzicare.
“Guarda che l’asma non ce l’ho quasi più.”
Josie sorrideva.
“Non dicevo quello.”
“E allora? Come mi vedi? Rispondi.”
Josie girava le spalle, sbadigliando, fissava la luna ormai grande fuori dal vetro.
“Lontano, te l’ho detto.”
Lui infilava una mano sotto il piumone e la posava sul suo fianco, e si stupiva, come sempre, di come la curva riempisse il palmo, perfettamente, come fosse stata forgiata apposta per le carezze.
“Verrai con me?” e le accarezzava la schiena, e lei tremava.
“No, Tom. Respiriamo troppo vicino.”
“Non ha importanza.”
Josie si girava e si issava a cavalcioni su di lui, strusciandosi con leggerezza.
Ipnotizzato, lui allungava una mano e la sfiorava, accertandosi che fosse vera, che fosse lì davvero.
Josie si chinava fino a che i riccioli gli sfiorassero il viso, accogliendolo dentro con un movimento veloce dei fianchi.
Lui sussultava.
“Importa invece. Io ti rubo troppa aria” mormorava, sfiorandogli le labbra con le parole.


Era andata avanti per anni. Anni di un amore interminabile, mai soddisfatto, mai saziato. Lei respirava attraverso la sua bocca, e si sa, l’amore rende cechi.
Una volta, al settimo anno, si era trovata impigliata in un brutto pasticcio… per caso Tom quella notte era in giro, ed erano i giorni di terrore del mostro di Serpeverde, lui chissà dov’era, non si doveva girare a quell’ora per la scuola, con gli incidenti da poco avvenuti. Era sgambettata fuori dall’ala ovest come un fantasma, stringendosi addosso un mantello infreddolito pure lui, i piedi scalzi, e il coraggio negli occhi.
Tom, sussurrava per i corridoi deserti, Tom!
Ma dov’era finito? Poi aveva cominciato ad avere paura, c’erano scricchiolii nei muri, il silenzio era innaturale, per terra un gruppo indaffarato di ragni correva verso una finestra, l’avevano fatta strillare, l’avevano punta sui piedi.
Qualcosa di grosso arrivava nell’altro corridoio, correva, no, camminava, anzi… strisciava. E il terrore l’aveva paralizzata con la curiosità, se ne stava ferma, stringendosi il mantello intorno alle spalle, e la Cosa strisciava e sibilava e sembrava ridere, ridere follemente, oh mio Dio oh mio Dio, muoviti stupida… finchè mani familiari l’avevano tirata via, posando il buio sui suoi occhi, l’avevano scostata con gentilezza, facendola arretrare, fino al muro. Lei non osava parlare, la cosa strisciava imponente davanti a loro, parlava, sibilava da sola, e un altro sibilo le era sembrato giungere alle sue spalle, come una risposta, no, un avvertimento…un ordine. La Cosa, il mostro, li aveva sorpassati, ignorandoli, incerta.
Erano rimasti lì un eternità.
Lei con gli occhi chiusi dalle sue dita, che respirava sempre più piano, sempre più tranquilla, lui che la stringeva , pregando che non facesse domande.
E lei non ne aveva fatte.
Non sapeva, non voleva sapere. Era stata una coincidenza, una fortunata coincidenza.
Era viva, erano vivi, e quello le bastava.
Anni dopo avrebbe capito.
Erano gli anni in cui abitavano a Nocturn Alley, e lei tre giorni alla settimana studiava a Lione. I giorni in cui lui era assente, in cui si arrabbiava facilmente, si infuriava, le dava uno schiaffo buttandola per terra, per poi precipitarsi a stringerla, ninnandola e chiedendole cento volte scusa.
Gli anni in cui ballavano alla luce delle candele, come quella volta al ballo di primavera, come ad altri mille balli, inizialmente la cosa la imbarazzava, ma presto scivolava intrepida fra le sue braccia con l’orgoglio negli occhi.
Era una casa particolare, la loro.
Una vasta stanza, che occupava tutto il secondo piano, due colonne di sostegno che scendevano dipinte giù dal soffitto. Non un mobile, non un quadro, se non un letto a baldacchino, al centro della sala , con drappi di velluto rosso, un palcoscenico aperto al mondo. E tende bianche come il latte, alle finestre, che si gonfiavano come vele di nave, allegre, durante i temporali. E tanti, grossi candelabri, che ogni sera si accendevano tremuli e impetuosi, diffondendo una luce calda e accogliente.
Mangiavano per terra, su un tappeto persiano, in silenzio, qualche schifezza comprata alla rosticceria. Cioè, Josie mangiava.
Tom, beveva un po’ di vino rapito dall’abbacinante luce delle candele, coi suoi pantaloni migliori e il torso nudo, e si girava, le passava un braccio intorno alle spalle e la baciava, le labbra bagnate dal vino, dolci, ardenti, avide come l’uva.
Josie viveva in un limbo di dolcezza, passava le giornate in cui non stava con lui a studiare o sonnecchiare, in un eterno dormiveglia, usciva per comprare la frutta e si fermava a succhiare un arancia sul gradino davanti alla gelateria, ballava da sola accarezzata da un vento che gonfiava le tende e i suoi vestiti scandalosamente corti per l’epoca.
A volte lui tornava prima dai suoi oscuri pellegrinaggi e accompagnava il suo ballo suonando un pianoforte a coda, le mani sporche di vernice, in un eterno dipinto che dirigeva come un maestro d’orchestra, nel tempo libero, un dipinto sulle pareti, una selva oscura di animali selvaggi, magici, feroci, delicati che si snodavano sempre incompiuti sui muri bianchi, attirati da una luce, da un Qualcosa che a all’epoca Josie non conosceva. Un giorno avrebbe visto, saputo, e avrebbe pianto, perché sarebbe stato troppo tardi e l’oriente se lo sarebbe portato già via.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***


Josie dormiva. Dormiva in un letto di tulle, onde bianche e sfatte.
La luce sfacciata del sole, con antipatia irresistibile, solcava metro per metro il pavimento di cotto, strisciava sulle lenzuola e si affacciava ai suoi occhi dischiusi, vibranti, come sono quegli occhi appena destati ancora gravidi di sonno.
Si girò, per difendersi dai raggi impertinenti, attorcigliò i drappi intorno al suo corpo, sentì sulla pelle uno spiffero e si rannicchiò, con un brivido.
Poi aprì gli occhi.
Era a casa.
A casa sua, quella grande e comoda e piena di stanze, sul soffitto un lampadario con pendenti di vetro, e un bello specchio ovale da diva, con la toeletta del secolo scorso. Era appartenuto a sua nonna, Messaline Wisteria.
Per l’ennesima volta si chiese perché la sua famiglia mantenesse il cognome femminile di generazione in generazione, indifferente alle altre stirpi purosangue, qualunque Mulciber, Bliss, Black, Lelich o Malfoy capitasse sulla sua strada.
Lei aveva optato per un compromesso… anche se il dilemma tormentava sua figlia. Meredith Wisteria? Meredith Bliss? Meredith Wisteria Bliss…Riddle?
Riddle. RiddleRiddleRiddle.
Un sogno spaventoso e dolcissimo le invase la mente.
Balzò a sedere col respiro affannato, e chiuse gli occhi per ricordare… ei, lei era uscita quella notte, non poteva essere un sogno, aveva sentito il freddo, la nebbia, il silenzio.
Lei aveva camminato fino a Nocturn Alley, fino alla Vecchia Casa… come la chiamava lui? La Scarmigliata.
L’aveva sempre fatta ridere quel nome. Scarmigliata… con le sue scale di polvere, le pareti buie che ancora respiravano, quiete, il suo affresco, la sua voce… la sua voce!
Scese dal letto, incespicando e tirandosi dietro il lenzuolo, frugò tra i vestiti posati ordinatamente sulla sedia, come se non fossero mai stati usati. No, non poteva aver solo sognato. Ricordava tutto, fin quando entrava nell’ampia sala, la Sala da Ballo, e poi… il vuoto. Con un gemito, si strofinò la fronte trafitta da un improvvisa emicrania, si accucciò per terra, come una bambina.
Come era tornata a casa? Non ricordava nulla… oh, Tom! Maledetto il giorno in cui l’aveva incontrato! Desolata sollevò gli occhi all’orologio a pendolo. Le dieci. Erano anni che non dormiva così tanto… l’ultima volta era ancora una disoccupata recalcitrante con una bambina in grembo.
Strofinandosi gli occhi trascinò se stessa e il solito lenzuolo in cucina.
Meredith sfogliava assorta una rivista di ricette, i lunghi riccioli neri che le adombravano il viso e una gamba che spenzolava giù dalla sedia.
“Ciao.”mormorò cupa, masticando il saluto con un enorme cicca rosa.
“Ciao. Da quanto sei sveglia?” chiese Josie accomodandosi sul tavolo e facendo danzare la bacchetta verso una vecchia caffettiera, che subito volò a lavarsi e riempirsi di nuovo, adorato caffè.
“Da un po’” sempre quell’orrida cicca.
“Quanto sarebbe da un po’?” sospirò Josie, trattenendo la sensazione di infilarle due dita in bocca e strappargliela fuori.
“Un‘oretta.”
“E… senti, sei mica passata da me?” Mery alzò lentamente lo sguardo.
“Cioè… sei passata da camera mia? Così, per curiosità. Boh.”
“Hai un uomo nascosto nell’armadio?” aveva smesso di masticare. Sorrideva perfida.
“Non fare la stupida.” delusa, Mery raccolse nuovamente la sua attenzione su un sufflè di asparagi e funghi.
“Perché non cucini mai ‘ste cose, Josie?” Ecco.Non la chiamava mai mamma. Non lo faceva da quando era entrata ad Hogwarts. Lei era Josie, o Bliss. Con una smorfia verso il caffè in una tazzina. Ah, l’espresso.
Meredith era diventata adolescente troppo presto. Tra non molto tempo sarebbe diventata adulta, e tutti le avrebbero pensate sorelle, amiche… conoscenti.
“Perché non so cucinare e lo sai.” sussurrò alla tazzina, imbarazzando e arruffando il caffè in veloci cerchi concentrici.
Mery stette zitta, pensierosa su un porridge particolarmente pesante.
“Quando torniamo ad Hogwarts?”
“Hai voglia di tornare?” La scrutò attenta, ma era indecifrabile. Come Tom.
“Forse. Rispondi.”
“Rispondi?”
“Rispondi, per favore.”
Meglio.
“Se vuoi torniamo anche oggi.” Meredith rizzò le orecchie, sorpresa.
“Oggi esco.”
“Ma vuoi tornare o no?”Josie si stupiva. Mery adorava Hogwarts. Era stato durissimo convincerla a venire giù. Non era colpa sua se la zia si sposava a Londra, sotto pasqua. Violet se la sarebbe presa a morte se non l’avesse vista. Avrebbe lanciato almeno un malocchio. Lo sai come le piace farsi vedere. Far vedere il suo enorme culone ballonzolare per la navata della chiesa.
“No, non ancora.”
“Oh mio Dio. Sei malata, stella?”
“Non chiamarmi stella.”
Josie rimuginava.
“Ah… lui chi è?” e si chinò sul tavolo attenta, i capelli spettinati illuminata da un solitario ma audace raggio di sole. Divampò tutta, come una cometa. Rossa. Era Meredith la pecora nera. Letteralmente. Dov’erano i riccioli rossi? Cosa avrebbe detto Nonna Olivia? Ah, non era facile. Veniva anche lei da sangue orgoglioso. Singolare: la stirpe di Cosetta Corvonero unita a quella di Salazar. Insolito davvero. Meredith sogghignò.
“Lui… lui è un tipo”
“Un tipo come?”
“Un tipo a posto”
Un tipo a posto. Cosa vuol dire per una ragazzina di diciassette anni un tipo a posto?
“ Nome?”
“mmmh…Tom.” Josie sbiancò, si aggrappò al tavolo.
Se tu non sapessi…se tu non sapessi niente… se tu non credessi che è morto…lontano…in oriente…crederei di vederlo in te… nella tua bocca…
Meredith la fissava, vigile. In attesa di un’altra domanda.
La bocca si incurvò in un sorriso.
Josie si alzò, per non guardarla, per non ingannare se stessa.
Era solo una coincidenza.
Quel nome… era un nome comune, comunissimo, qualsiasi ragazzino poteva averlo. E poi, poi cosa temeva? Che Lord Voldemort si presentasse ad una diciassettenne pretendendo la sua stirpe?
Non sarà per sempre tua…
Era troppo presto.
Lui aveva sicuramente altro da fare…
E poi,cominciò a tranquillizzarsi, sciacquando la tazzina nel lavabo, il lenzuolo naufragato sotto il tavolo e la sua pelle candida cesellata dal sole sotto una maglietta troppo larga, e poi, Meredith non sarebbe stata così stupida da darle quell’indizio.
Era solo una coincidenza.
“E quanti anni ha?” si interessò dandole le spalle. Mery la studiava, studiava i suoi movimenti nervosi, senza smettere di sorridere.
“Un po’ più di venti.”.
“Non è un po’ grandicello?”mormorò Josie aggottando la fronte. Sentì Mery ridere di una risata che sembrava un ruscello, gorgogliante, come quella di Mina.
“Dio santo, Josephine, come sei all’antica! Ha appena quattro o cinque anni più di me!Ci sono coppie con dieci, quindici anni di differenza...”
“Quindi siete una coppia?” esclamò sua madre , girandosi con un sorriso e vedendo le sue guance tingersi di un rosso acceso.
“ Ma va, figurati…” borbottò, ricacciando lo sguardo dentro un pasticcio di carne.
“E comunque” aggiunse schiarendosi la voce ” tu e papà…” Josie si irrigidì ”… quanti anni avevate?”
“Quando?” a Josie parve di sentire una musica diffondersi nell’aria.
“Quando vi siete messi insieme, quando sono nata io…” La musica, pensava Josie, accresce, ci abbraccia, ci culla e ci annulla…
“Avevamo la stessa età.” Josie era tornata con le mani nel lavandino, e non essendoci niente da lavare, stava lucidando la ceramica scheggiata con uno straccio. Sentiva lo sguardo attentissimo di sua figlia perforarle la nuca. La musica era finita.
Era ovvio, perché ci stava ancora a pensare? Lui non l’avrebbe mai chiamato per nome, lui era papà, papà e basta, non era mai stato il signor Riddle, o semplicemente il pronome Lui, era proprio papà, e lei non sarebbe mai più stata mamma…
Mery era sempre stata convinta per qualche misterioso motivo che la colpevole della fuga di suo padre fosse Josephine, non ci vedeva altre ragioni. Certo, non glielo aveva mai confessato apertamente, ma dal momento in cui le era balenata in testa la dolce età della ribellione, i suoi occhi si erano fatti cupi, i suoi modi bruschi, e mamma non lo diceva più da tanto tempo…senza conoscere la legimanzia, Josie poteva sentire i suoi pensieri sottili che vibravano come lame puntate al suo cuore, tu, tu l’hai fatto andare via, e lui era un santo, martire di un incubo, lei l’aveva costretto, tradito, ferito, ingannato, odiato… gli occhi le pizzicavano. Sbattendo più volte le palpebre, nervosamente, si ricompose nella sua maschera.
Si girò con un sorriso accattivante.
“Ti va di andare a prendere un gelato?”
Meredith dondolo i suoi riccioli neri con aria pensosa.
“Ok.”

E Mery non era una stupida. Non lo era mai stata. Docile si era fatta portare alla gelateria, sua madre che parlava a vanvera e rideva, gesticolando, muovendo le dita come girandole, come una bambina, era sempre stata una bambina, goffa e innocente come l’acqua, pura, ingenua, fiduciosa del mondo che la circondava, umile, non aveva mai desiderato il potere, mai, con la famiglia che si ritrovava avrebbe potuto diventare qualcosa di ben più che un mero insegnante, ma non l’aveva mai voluto.
Era semplice, fragile, si emozionava per niente, si accontentava di tutto, la sua ambizione era finita dopo Hogwarts… sua madre era felice, e non voleva altro.
Mery era diversa.
Mery era astuta come una volpe, diffidente.
Sapeva che sarebbe diventata qualcuno, qualcuno oltre la patina perpetua dell’ipocrisia che circondava il mondo dei maghi.
Mery vedeva il mondo con gli occhi pallidi della disillusione, non si aspettava niente da nessuno, se non da se stessa.
Fissava sua madre, sorridendole per farla felice, per farla contenta, lasciava che le arricciasse i capelli con le dita, che ordinasse due affogati al cioccolato con la granella di meringhe e noccioline.
Lasciava che scuotesse dolcemente i riccioli infiniti, che mettesse con grazia un piedino davanti all’altro e facesse giravolte, Mery lasciava che la gente per strada si girasse a guardarla stupita.
Josie lo sapeva? Non l’aveva mai capito. Probabilmente no, sua madre era una sciocca, non una civetta, le piacevano gli abiti corti di velluto blu e gli orecchini ingombranti e bizzarri, ma non si truccava mai, era già bella senza, e Mery non l’aveva mai vista con un uomo o sospettato la sua presenza se non il ricordo crepuscolare di Tom Riddle.
Mery, oltre l’aspetto fisico, non capiva cosa ci fosse di attraente in sua madre.
Come diavolo aveva fatto una persona come suo padre a innamorarsi di lei? Certamente per usarla, Josie era accecata dall’amore e non vedeva oltre il suo naso. Se avesse scelto una persona più intelligente gli avrebbe messo i bastoni fra le ruote, se avesse scelto una persona più ambiziosa, bramosa di conoscenza, avrebbe dovuto difendere la sua autorità. Sua madre non creava problemi. Probabilmente, tutto ciò che lui le diceva lo prendeva come oro colato, lo forgiava come un lingotto e se lo chiudeva nel cuore. Eppure le sfuggiva qualcosa.
Erano stati insieme molto tempo, non sapeva quanto, era già tanto che sapesse la sua reale identità: Josie gliel’aveva nascosta, con l’idiota idea di proteggerla, non sapeva quanto l’aveva fatta felice averlo scoperto, certo era una bambina e aveva avuto un po’ di paura, ma non aveva esitato a cercarlo, in tutti i modi, con qualsiasi scusa, sicura che lui l’avrebbe accolta a braccia aperte…e così era stato.
Aveva riconosciuto i suoi occhi, il suo portamento fiero, l’aveva riconosciuta sua.
Non l’aveva cercata prima, le aveva detto, perché sapeva che lei sarebbe venuta da sola all’ovile.
Mery era felice come una pazza, aveva imparato cose che a scuola era peccato solo nominare, era più forte e potente di qualsiasi ragazzo della sua età, era brillante, seducente, infrangibile come i diamanti.
Eppure le sfuggiva qualcosa.
E il non sapere la faceva impazzire.
Era avida di qualsiasi notizia sulla gioventù dei loro genitori, su cosa davvero lo legasse a quella ingrata di Josephine.
Con una scusa si era alzata dal tavolino di ferro battuto, aveva detto di dover andare al Ghirigoro. Sua madre si era lamentata, non aveva toccato nemmeno la punta del suo gelato, si scioglieva nella coppa di vetro.
Mery era tentata di rispondere male, cosa gliene fregava del suo gelato, ma tra la delusione del suo sguardo e la paura di insospettirla, si era riseduta e aveva mangiato metà del gelato. Era pure buono. Josie, contenta, raccontava qualcosa sul concerto dei Maghi Mancini, succhiando il suo cucchiaino.
E poi, in quel momento esatto,alle undici e cinquantacinque scoccate dalle lancette d’oro dell’orologio della Gringott, un orologio che segnava le fasi della luna, il calendario solare, lo zodiaco, proprio allora era successo il fattaccio.
Il cielo si era oscurato d’improvviso, la nebbia era scesa leggera, come una tovaglia.
Mery, aveva alzato il viso, all’erta come una gatta, aveva annusato l’aria.
La gente allegra di poco prima, quelle donne che spettegolavano con un ombra di svogliatezza nello sguardo, i bambini che si rincorrevano tra gli scoppi disordinati di Fuochi Farfalla, le ragazze vestite alla moda babbana e stivali lucidi di pelle bianca, tutti si acquietavano, silenziosi. Il peccato era stato dimenticare per quella domenica che non erano i tempi per ridere e scherzare, la gente si affrettava verso le proprie case, finché si vedeva ancora qualcosa, si andava a sbattere l’uno contro l’altro, si sapeva cosa stava per succedere, il freddo nelle ossa lo preannunciava.
Chi era il predestinato? Chi aveva fatto torto all’Oscuro Signore?
Si alzavano degli strilli, delle voci concitate, delle porte sbattute, delle persiane chiuse come un tonfo, come conigli tutti si rintanavano in casa, mentre con un fruscio gente coi mantelli avanzava nella nebbia.
Pure nelle vicinanze del Paiolo magico, nella Londra babbana, i poveretti che si scontravano nella via affollata cominciavano ad avere freddo, e un timore inspiegabile li faceva camminare più in fretta, chiudersi nelle loro macchine e far rombare il motore fin dove il cielo incontrava di nuovo il sole.
Josie era ferma, tesa, ma non stringeva la bacchetta, bisognava alzarsi e andar via, imbambolata da chissà che cosa era rimasta immobile a fissare il luccichio che lento svaniva dalla coppa di vetro. Con uno scatto alzò la testa, e la paura le tagliò il respiro. Meredith era sparita. Si alzò barcollando sulle ginocchia, strinse la bacchetta e si inoltrò nella nebbia.

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


“Mery!” chiamò, ma la voce era ovattata dalla nebbia. Josie cominciò a correre a vuoto nella via deserta, senza vedere niente se non il grigiore plumbeo e nebuloso che vorticava.
“Meredith!” strillò con una nota d’angoscia nella voce.
Che fosse già tornata a casa?
Poi una falla nel terreno le fece perdere l’equilibrio, complici le scarpe col tacco, sentì una fitta alla caviglia e cadde, sbucciandosi i palmi delle mani. Imprecando si toccò la caviglia dolorante, la ruotò, e per fortuna non era rotta. Si levò le scarpette e cominciò a camminare scalza, stringendosi il lungo mantello intorno al corpo, zoppicando lievemente.
“Mery!” dove diavolo era finita? La cercava come tanti anni prima aveva cercato Tom tra i corridoi bui di Hogwarts.
Che presto fosse strisciato un mostro alle sue spalle?
Gli occhi le pizzicavano, ma alzò fiera la testa e proseguì nel labirinto di nebbia.
Sentì un urlo, di una voce maschile, che perforava la nebbia, alla sua sinistra. Col cuore in gola cominciò a correre in quella direzione, ci mancò poco che sbattesse contro un muro, si infilò in un vicolo e proseguì, inciampando nei gradini irregolari.
Sentì delle voci, ma non riusciva a capire cosa dicessero.
Si fermò, avanzare ancora era come entrare nella tana del diavolo.
Mery non poteva essere lì. Ma la curiosità le premette la gola, false promesse le affollarono le orecchie.
Voleva solo dare una sbirciatina.
Nessuno l’avrebbe vista con quella nebbia.
C’erano delle persone in pericolo, doveva dare una mano, un aiuto, un solo colpo di bacchetta.
Chiunque sarebbe intervenuto.
Lei sopratutto.
Lei non rischiava niente.
Ma Meredith si.
Non aveva importanza, non poteva essere lì, non era così stupida.
Con cautela, graffiandosi i piedi sulla terra nuda, continuò a camminare. A tentoni, come una ceca, si reggendosi al muro, sfiorò qualcosa di liscio, pieno di incisioni. Era…un mosaico. Doveva essere il Almerick Street. Lì vicino, a meno di dieci metri, c’era una traversa a sinistra, la strada si sarebbe allargata, ma era un vicolo cieco, c’era la villa di Dorothy e Gladius Warthon.
Lui era il regolatore dell’Ufficio dei Misteri, lei era stata per anni giudice del Wizengamot, erano brava gente, ma terribilmente riservati, guai che proferissero parola oltre ad un quieto “buongiorno”, camminavano dritti a braccetto come due vecchi ed eleganti retrò, il viso atteggiato in un sorriso distaccato e cordiale.
Certo, era normale che un Indicibile fosse un tipo silenzioso, di segreti ne aveva da nascondere, di segreti che ti potevano mettere in guai seri in tempi come quelli. E certo una sveglia ed onesta signora dalla fama di incorruttibile poteva essere un bersaglio facile, una presenza scomoda, doveva dare fastidio, chissà quanti ne aveva mandati dentro, o aveva tentato di mandare, pungendoli con una bacchetta con la punta di onice.
Josie scivolò silenziosa come una gatta e toccò le inferriate, vide le foglie lucide della siepe baluginare nella nebbia, seppe che era poco distante dal cancello. Aiutandosi con le mani più che con gli occhi, entrò nel giardino, e i piedi scalzi affondarono nell’erba umida. Con una mano che stringeva la bacchetta, come una sonnambula, le orecchie tese al minimo fruscio, camminava, fata nell’ombra, il cuore che faceva troppo rumore, un tum-tum assordante, era così dannatamente forte che chiunque l’avrebbe scoperta.
Ma nessuno venne. Scorse le vetrate delle porte finestre luccicare di una fievole luce grigiastra, e, in alto, il chiarore giallo di una lampada, che palpitava nella nebbia, doveva esserci una luce accesa al piano di sopra.
“Josie… mamma.” la voce di Mery la fece sobbalzare.
Si girò di scatto e vide la sua figuretta stagliarsi nell’ombra.
“Mery!” miagolò, afferrandole un braccio “Che… che ci fai qui? Sei impazzita? Ma lo sai cosa sta succedendo? Ma ti rendi vagamente conto… ”
“Mi rendo conto.” la voce di sua madre si era fatta un sibilo sottile, veloce, infuriato, fastidioso.
Mery le prese la mano e la guidò sul vialetto.
” Andiamo, è pericoloso qui.” Josie, dietro di lei, si bloccò.
“Perché mi hai chiamato mamma?” Mery si girò a guardarla, guardare ciò che riusciva a scorgere. Bella e stupida come una bambola di porcellana.
“Quando?”
“Prima… ”
“Così. Su, andiamo.” Mormorò, sbattendo le ciglia.
“Mery, perchè sei venuta qui?” Oh, finalmente! Finalmente un sospetto! La ragazza sorrise.
“Ho sentito un urlo e ho avuto paura per te, sono corsa in questa direzione, e ti ho trovata.”
L’avrebbe conquistata, dimostrando che si preoccupava per lei.
Ma l’espressione di Josephine non si calmò.
Le si avvicinò di scatto, e gli occhi brillavano di luce inquieta, tormentata, piena di rabbia e venature di ardore.
Le afferrò il polso con forza e tirò su la manica della camicia, ma prima che potesse scorgerne la pelle Meredith ritrasse il braccio, spaventata.
Vide allora il viso di sua madre mutare, vide lampeggiare i capelli rossi in un incendio primordiale da Dea irlandese.
“Allora è così, Meredith?” Sentiva, voleva, che la voce di sua madre fosse incrinata dal pianto e dall’isteria, le avrebbe dato forza. Ma così non era. La voce di Josie era lucida, fredda, greve.
Meredith annuì.
Josephine si girò e incrociò lo sguardo di Lord Voldemort.

Era circondato da cinque Mangiamorte incappucciati, le bacchette in mano pronte a colpire.
L’Oscuro Signore era il più alto di tutti, il volto non ancora completamente deformato veniva però a fondersi con la nebbia, pallido e scavato, come il viso di un annegato, l’unica cosa vera erano gli occhi, vividi come fiamme.
Sollevò la mano sottile, le dita lunghe tenevano la bacchetta con delicatezza, con la punta di questa sfiorò il collo della sua Josie. Sorrideva.
“Josie…” sussurrò dolcemente, come se fosse il nome di un tesoro prezioso, un abracadabra che nascondesse tutti i segreti dell’umanità, un ingrediente segreto di qualche mistica pozione, e Mery non si stupì di vedere sua madre brillare di una luce interna mentre si pronunciava il suo nome, ma forse era solo immaginazione. Teneva gli occhi aperti, sbarrati, attentissimi, la mano stretta intono al braccio, dove il marchio pulsava.
Era la prima volta che vedeva i suoi genitori insieme, l’uno davanti all’altro.
Lei, un papavero triste e arrabbiato, teso a scontrarsi col cielo, testa alta e sguardo fiero e luccicante.
Lui con un cenno della sua mano poteva ucciderli tutti.
“Mi fa piacere vederti.” sussurrò di nuovo, anzi, sibilò, accarezzando la pelle della donna con movimenti lenti della bacchetta.
Josie smise di guardarlo e fissò i Mangiamorte, uno per uno, cappuccio per cappuccio.
Con uno scatto superò Tom, e afferrò un braccio di uno di loro, tentando di tirarlo avanti.
Questi alzò pronto la bacchetta.
“No, no…” cantilenò Voldemort, con una risata, dolce e scaltra, muovendo con grazia la mano.
Il Mangiamorte abbassò la bacchetta.
Josie lo tirò dritto davanti a gli levò il cappuccio.
“Guarda!” ordinò a Mery.
Tom giocava con la bacchetta, sorridendo, annuì allo sguardo interrogativo della figlia.
Mery guardò.
Era un uomo magro, scarno, dalla pelle bianca e malata, il naso adunco e segni scuri sotto gli occhi, neri come la pece. I capelli, corvini, erano lunghi, sporchi e spettinati. La bocca sottile fremeva di rabbia, gli occhi lampeggiavano.
Probabilmente non gli andava di fare parte di quel teatrino.
“Quanti anni hai, Severus?” chiese con tono ironico Josie.
“Se-Severus…?” mormorò incredula Mery.
Non era possibile.
Severus Piton, se di quel Severus si parlava, aveva meno di 20 anni, e meno di quattro mesi prima era in buona salute. L’uomo che aveva davanti era un vecchio, dall’aria sporca, malata, moribonda.
“E’ così che vuoi diventare? Allora?!” chiese Josie, spingendo Severus all’indietro, che, ora senza espressione, fissava il vuoto.
“E’ questa la tua strada?!” e indicò l’Oscuro Signore, che ammiccò con impazienza.
“Josephine, cara…” cominciò con sarcasmo, ma Josie pestò con forza il piede a terra, in un tentativo di zittirlo.
“Io non sono la cara di nessuno! E tu non avrai mia figlia.”sibilò minacciosa.
Meredith, impotente, passava lo sguardo da uno all’altro.
Come osava quella donna zittire il suo Padrone? Perché Severus le era sembrato così irriconoscibile, così malato? Perché Voldemort non reagiva alle accuse di Josie e non faceva altro che far dondolare la bacchetta tra le dita lunghe? Perché sua madre non attaccava i Mangiamorte? Una voce a intermittenza rispondeva ad ognuna di quelle domande.
Sua madre zittiva suo padre perché arrabbiata, come in ogni litigio con il proprio compagno la donna odia sentirsi blandire con parole affettuose. Questa realtà, così confidenziale, così intima, la metteva a disagio, voleva istintivamente girare lo sguardo altrove, imbarazzata. Per lei i suoi genitori erano due sconosciuti che avevano per sbaglio condiviso un letto, sicuramente per il volere superiore di Tom.
Severus era malato perché logorato dal sangue che scorreva dalla sua bacchetta, dagli omicidi e dalle nefandezze, era inutile nasconderselo, era un debole e non poteva sopportare il peso della morte e della colpa.
Lei ci sarebbe riuscita? O sua madre aveva ragione? L’Umanità l’avrebbe ridotta ad uno straccio?
Suo padre non agiva perché sapeva che in quel momento avrebbe dovuto lasciar sfogare Josephine, che era una piccola isterica pazza, e che tra poco era meglio filarsela e farla stare zitta, quella testarda infantile di una gallese, e tappare le orecchie a Mery, che poteva farsi calmare e levigare dall’amore e dalla compassione celata per Josie.
Sua madre non attaccava i Mangiamorte perché li conosceva tutti uno per uno dalla nascita, e non aveva avuto cuore di uccidere Tom Riddle le miriadi di volte che l’aveva potuto fare, figuriamoci ammazzare ragazzini sfruttati dalle sue mani di burattinaio cresciuti pari passo con lei, ad alcuni di quelli, meno di un anno prima, poteva insegnare filosofia alchemica.
Non li attaccava perché anche se Tom avrebbe sacrificato cento eserciti per lei poi si sarebbe un po’ arrabbiato, e Tom arrabbiato faceva paura pure alla notte.
Un fruscio sospettò sfrecciò nell’aria, e in un battito di ciglia, cinque mantelli volteggiarono e scomparvero.
Josie afferrò la mano di Meredith e allungò un braccio dietro di sè, alla ricerca di Tom, che le strinse il polso.

Un attimo dopo, all’arrivo di una squadra abilissima di Auror indaffarati che si lanciavano ordini nella nebbia ormai rada, nel giardino non vi era più nessuno, mentre in casa i corpi senza vita di Dorothy e Gladius Warthon, giacevano rigidi accarezzati da un pallido sole.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei ***


Le donne, le Cleopatre, le Berenici... anch'esse sono tutte mirabili regine e principesse.

C.Kavafis


“Meredith Wisteria Riddle!” tuonò la voce stridula di Madama Pince, che, dritta e infuriata come la cima di un albero maestro contro una gloriosa tempesta, troneggiava su una ragazzina dai capelli neri come la pece.
Il piccolo nasino all’in su fremette nell’aria come quello di un gatto, se avesse avuto vibrisse, sarebbero tremate una ad una sconvolte da piccoli sismi.
Tra le mani teneva un libro, e fino a pochi attimi prima lo stava scarabocchiando distrattamente.
Gli occhi della donna mandavano lampi.
Mery sorrise, si alzò di scatto e comincio a correre.
“Vieni subito qui!” strillò la custode, i capelli dritti , maneggiando una bacchetta di castagno sopra la testa color ferro.
La bambina buttò ridendo il libro sul tavolo, e corse con quanto fiato aveva in corpo, risalendo le scale a tre, quattro gradini per volta, quanto lo consentissero le gambe corte da cerbiatta.
I libri vanno usati, consumati, lavorati, devono viverti tra le mani, conservare la tua storia per coloro che la leggeranno un giorno a piè pagina. I libri vanno graffiati, sporcati, con ditate unte e poesie, con polline giallo di fiori antichi schiacciati tra le pagine sempre più lise, con segnalibri, canzoni, biglietti del treno, date e ricordi imprescindibili, un romanzo nel romanzo, un diario tra le ricette, sabbia di mare per tutte le volte che l’hai letto sulle piccole spiagge della Normandia, fili di erba e semi di soffioni, soffiati per ogni desiderio della tua infanzia…
Questo pensava Meredith W. Riddle, correndo nei suoi undici anni fino al gargoyle di pietra dell’ufficio del professor Silente.
La sera scozzese calava come un mantello fuori dalle finestre fresche, e nello strano cielo sfumato di rosa, cori di nubi si affollavano rincorrendo l’eclissarsi del sole. La montagne si tingevano di un bel verde scuro, e da lontano si scorgevano i camini fumosi di Hogsmeade.
Mery rallentò respirando forte, grattandosi con le dita magre lo smalto consumato, aprì una finestra cigolante, e la brezza di pioggia ed erba tagliata entrò pizzicandole il naso. Si riempì i polmoni asciutti di vento inglese, gelandosi le ciglia nere e le mani, pensò che sarebbe stato facile aprire le braccia e volare su. O giù, sì, sarebbe stato più probabile.
Ma se avesse potuto, sarebbe tornata in Galles, da Mina, che le avrebbe aperto la porta ridendo, trangugiando il suo eterno whisky, leccandosi le labbra, l’avrebbe abbracciata forte inondandola di un profumo meraviglioso, indescrivibile, che la seguiva dappertutto come un strascico bianco.
Le avrebbe intrecciato i capelli, con colpi di bacchetta li avrebbe fatti diventare blu, avrebbero riso fino a notte fonda sulle strade di Londra, come faceva Mina da ragazza quando scappava dal castello del Duca, galoppando su un verro incantato come la più bella strega del regno, toccando le stelle con la punta del mignolo.
Ora aveva i capelli candidi come la neve, e raccolti nelle trecce più audaci, arrotolate sul capo e fermate con quattro rose rosse del giardino dei Wisteria.
Chissà se sua madre da ragazza faceva quelle cose.
Sua madre che cavalcava un maiale di notte, volando sull’Inghilterra, i capelli cesellati di rose.
Chissà se quando parlava cadevano monete d’oro dalla sua bocca.
No.
Sua madre non aveva mai imparato a cavalcare, neanche la più stupida scopa.
Ma quelli erano i tempi in cui Josie era ancora mamma, e la portava spesso in Irlanda a vedere le scogliere, bagnandosi i piedi nella schiuma gelida, facendo giravolte perfette in un vestito bianco un po’ trasparente.
In fondo loro due si assomigliavano.
Mina era alta però, col fisico da sfilatrice di passerelle, mentre Josie era piccola e magra. Mery aveva preso da Mina, lunga e flessibile come un arco, ma a quei tempi era solo un calimero con uovo vuoto in testa.
Sospirando, si staccò dalla finestra, scivolando sul pavimento bagnato dalla pioggia recente e da qualche finestra spalancata.
“Linfa di zenzero.” biascicò, ficcandosi un enorme gomma rosa in bocca.
Il gargoyle scivolò di lato. Si lasciò portare su dalle scale rotanti, ed esitò davanti alla porta di legno scuro.
Silente aveva ospiti.
Una voce maschile, fredda e sottile, discuteva qualcosa con l’anziano preside.
Appoggiò l’orecchio bianco alla superficie lucida e ascoltò in silenzio, succhiando la gomma, sapeva di fragola, no, di lampone, faceva delle bolle immense, che riempivano il piccolo antro.
Non riusciva a capire molto bene.
Staccò l’orecchio e decise di affrontare la strada dell’onestà.
Dopotutto, era sua madre ad avergli detto di passare.
Bussò una volta, pausa, cinque volte veloci, pausa, ultime due volte. Era il modo di farsi riconoscere.
Da quando era bambina e alloggiava con sua madre nella scuola, capitava che sgusciasse dai labirinti di corridoi per correre a prendere un tè coi biscotti dal Professore, dopotutto, lo conosceva da quando era nata, era molto amico di sua nonna, succedeva spesso di trovarselo in casa a qualsiasi ora del giorno e della note a confabulare con Mina davanti a due bicchieri di Whisky incendiario.
Lei era contenta, lui le offriva sempre un piccolo dolce, e se poteva fermarsi, senza rincorrere qualche impegno, passava qualche ora ad insegnarle a giocare a scacchi, o a portarsela in giro per Diagon Alley con enormi gelati in mano che le impiastricciavano tutta la faccia.
Se il suo udito fosse stato fine, non disturbato dal masticare appiccicoso della mandibola, avrebbe sentito il greve, lungo sospiro di Silente, e forse non sarebbe entrata.
“Avanti.” disse il Preside, staccandosi dagli occhi neri di Voldemort, e posandosi su un identico sguardo.
“ ’sera.” mormorò Mery, osservando curiosa lo straniero.
Tom la fissò in silenzio, e se la riconobbe, non lo diede a vedere.
Mery valutò il mantello rosso, le dita lunghe e magre, la pelle bianca.
Pensò di aver già visto da qualche parte quel tipo.
“Mery, ora sono occupato. Saresti così gentile da passare più tardi?” Silente intrecciò le dita davanti alle lenti a mezzaluna, osservando lo sguardo indagatore della bambina.
“Ok. Mamma mi ha chiesto di dirle che sarebbe passata.” Mery giocherellò con un ricciolo, appendendosi con una mano allo stipite della porta e dondolando avanti indietro, impertinente.
“Certo. Puoi riferirle di passare dopo cena, per favore?” Mery fece per annuire, quando le mani allegre di qualcuno le afferrarono la spalla.
“Presa!” mormorò sorridendo sua madre, arruffandole i capelli.
“Professore, me la sono sbrigata prima. Scusa, Mery.”
Lo sguardo color nocciola corse sull’ufficio, e per un attimo sembrò non rendersi conto della strana presenza.
Forse gli era parso normale che Tom fosse lì, come ai vecchi tempi, forse la scuola non era ancora finita e Dippet l’aveva convocato per congratularsi dell’elevato profitto ottenuto quel trimestre.
Ah, Tom, sei un ragazzo stupefacente.
Bagliori rossi non correvano ancora nei suoi occhi, aveva appena diciotto anni, e sorrideva bello e modesto, girandosi a guardarla.
Poi tutto finì e Josie balbettò il suo nome senza pronunciarlo, sentendosi gelare dentro.
Tom sorrise davvero, affabile.
“Buonasera, Josie. ” sussurrò, sfiorandosi la punta del naso con un gesto pigro.
Josie tirò Mery verso di sè nervosamente, affondandole le dita nelle spalle.
“Ahi, mamma!” esclamò la bambina, sgusciando via dalla sua presa ferrea e massaggiandosi là dove sua madre l’aveva stretta.
“E tu devi essere Meredith.” ne approfittò Tom, rizzandosi sulla sedia e perforandola con lo sguardo, sussurrando il suo nome come il segreto più occulto sibilato all’orecchio.
“No!” ansimò Josie allungando la mano e afferrando quella della bambina.
Silente la fissò con dolcezza.
“Esci, Josephine.” ordinò.
Mery non distoglieva lo sguardo dallo sconosciuto, come ipnotizzata.
“Sì.” rispose semplicemente, facendosi trascinare da sua madre.
Fuori dalla porta, nel passaggio segreto pieno di bolle alla fragola, Josie prese in braccio sua figlia come se avesse cinque anni in meno, come se dovesse portarla via a forza da un eccitante giostra troppo pericolosa, stringendola freneticamente tra le braccia, scivolando lungo la scala a chiocciola.
“Mamma, lasciami!” protestò Mery, scalciando come un animale braccato.
Ma Josie non la lascio, nonostante quella creatura fosse alta come lei, la strinse finchè non uscirono dal passaggio segreto, gli occhi umidi e il respiro veloce.
La posò a terra e le afferrò la mano, trascinandola lungo il corridoio.
“Mamma, aspetta! Che c’è? Sei impazzita?” La mente di Mery lavorava come gli ingranaggi di un orologio.
“Chi era quello? Perché fai così? Mamma, perché piangi?” la voce acuta di Mery si addolcì, quando vide le lentiggini bagnate di Josie
“Scusa.”
Sua madre si asciugò le lacrime tirando su col naso, come una bambina, e si appoggio contro un muro senza smettere di stringere quella piccola mano.
“Mamma…”
“Niente, niente, tesoro, niente.”
“Che c’è? Chi era quell’uomo? Lo conosci?” chiese Mery curiosa. Josie, rise nervosamente.
“Eravamo…amici, molto tempo fa.” rispose, fissando il bagliore dell’ultima luce del giorno baluginare sulla superficie di un quadro.
“Come faceva a sapere il mio nome, mamma?” e dicendo questo la tirò in basso, alla sua altezza, le accarezzò i capelli.
“Quando eri molto piccola, un giorno, ci venne a trovare. Forse non ricordi.”
Già. Nevicava quel giorno.
Faceva un freddo da gelare le dita insaccate dentro le maniche lunghe di lana.
La neve ti cadeva e si impigliava tra le ciglia, le tue belle ciglia nere.
Eri minuscola, sconvolta da tutte quelle pietre leggere che cadevano dal cielo.
Muovevi le braccine in aria come un piccolo sbandieratore, per afferrare quelle perle, e ti ritrovavi delusa le mani vuote e bagnate.
Ti giravi e mi guardavi arrabbiata, un po’ corrucciata, ma non ti arrendevi, ritornavi a saltellare verso il cielo.
Poi era arrivato papà che mi aveva stretta forte coprendomi dal vento, quel vento che turbinava i miei capelli in girandole impazzite, e io non avevo fatto domande, non mi ero girata, per paura che sparisse.
Non sarà per sempre tua…
“E avete litigato?” indagò la bambina, non riuscendo a capire.
“Si.”
“Perché?” Josie riflette.
Poteva dirle una mezza bugia. Non una menzogna tutta intera, solo una mezza bugia.
“Lui un giorno tradì tuo papà.”
“In che senso?”
“Lo abbandonò, in cerca di cose più grandi, almeno secondo lui, dell’amicizia, dell’affetto.” Josie si umettò le labbra secche “ Come il potere, la gloria, la conoscenza.”
Mery aggrottò la fronte, pensando a suo padre, un uomo dai capelli neri come i suoi, di cui non conosceva il viso né la voce, ma una canzone dice che nella fantasia gli eroi sono tutti giovani e belli. Immaginò l’uomo nell’ufficio di Silente parlare con suo padre, scherzare, vivere come fa un amico, lo immaginò fare il galante con sua madre, che aveva il pancione e dentro ci stava lei.
“ Ma la conoscenza è una cosa buona.” obbiettò, filosofando.
“E allora perché non studi?” rise sua madre, cancellando le lacrime con un sorriso che avrebbe ucciso il più crudele degli uomini. Aveva denti perfetti, come greggi di pecore cordiali e ordinate, che in fila risalgano il pascolo, senza superarsi o fermarsi, una dietro l’altra, bianche e candide sotto le nuvole. Una bocca rosa e carnale, e due piccole fossette ai lati. Si alzò nella sua gonna a pieghe larghe, rossa, lunga fino al ginocchio perché altrimenti la McGranit si arrabbiava.
“Andiamo a cena?”
Mery annuì, prendendole la mano. Ma ripensava allo sguardo di sua madre alla vista dello straniero, ripensava alla paura che vi aveva letto, al dolore che vi aveva scorto. Quanto male poteva fare una persona per far germogliare quello sguardo?
Ripensò agli occhi sicuri dell’uomo su di lei, a come l’aveva perforata, incantandola come un domatore di leoni.
I cuccioli sono sempre facili da ammaestrare.

Mery respiro forte, appoggiandosi ad un muro freddo più o meno quanto la punta delle sue dita, ansimò come fosse appena uscita da un apnea forzata, e vaghe figure si muovevano accanto a lei, fuochi fatui del mondo di fuori. Era terribile smaterializzarsi.
Sbattè le ciglia e mise a fuoco il corridoio umido e buio di un castello medievale, o almeno così le parve.
Una mano piccola e calda, un profumo di vaniglia, la mossero, guidandola, faro nella notte, nel buio umido di quella reggia nascosta. Forse qualcuno l’aveva drogata. O incantata.
Riusciva solo a camminare lenta dietro quella scia di fiori bianchi e dolci, a stringere dita pallide e ardenti.
Vide sua madre (era sua madre? O era una fata sotterranea che spuntava di notte dai crateri della terra per assorbire i raggi del cielo, piccola e infinitesimale, e un attimo dopo immensa come una chiesa d’argento? Era sua madre, Josie, Strawberry in tempi felici, o un incendio vibrato con tre colpi di scure sulla testa del condannato? Sangue e o marmellata tingeva i suoi capelli? Pietre, granato duro e allegro, avanzava sulle sue vesti bianche, riportandola all’alto e al basso a cui apparteneva…) confabulava sottovoce con Tom, che assente, come sempre, le ciglia sognanti dei ragazzi a lezione, attento altrove, negli altri mondi, oltre la lavagna e la finestra, annuiva leggero, chinando l’orecchio verso le labbra rosse della bambina che tanto aveva amato, annuiva e sorrideva, e Josie si arrabbiava ancora di più. Mery abbasso lo sguardo e vide le loro dita strette in un abbraccio, due fidanzati al cinema o a passeggio sotto i viali alberati, non due amanti nelle viscere delle terra, sovrani di mondi nascosti, le due facce della medaglia, il bianco e il nero, l’innocenza e la colpa, tingevano di miele e laudano la terra su cui camminavano, e un tappeto d’oro rosso nasceva al loro passaggio…Tom stringeva la mano di Josie con complicità segreta, accarezzandole l’indice dolcemente, sfiorandole il polso con il proprio polso e Mery senti che il loro cuore, un unico cuore, un unico palpitante sanguinante arterioso organo che batteva in due petti, batteva all’unisono, Tu-Tum,Tu-Tum,Tu-Tum…e se anche suo padre non l’avesse posseduto, se la cassa di ossa magre che doveva contenerlo fosse stata vuota, silenziosa, impolverata, Josie l’avrebbe riempita col suo, che era fastidiosamente grande, fastidiosamente rumoroso, e fastidiosamente suo.
I Mangiamorte, come sonnambuli cechi, guardie di un mondo intimo e segreto, passo passo li scortavano, con un fruscio di mantelli.
Piccole lampade rotonde cominciarono ad apparire sul soffitto, come stendardi cinesi, lampeggiando di una luce soffusa e quieta, accompagnando la barca nel Lete.
“Dove siamo?” mormorò, forse più a se stessa che agli altri.
“Nell’Altrove.” rispose suo padre, che aveva l’udito fine dei gatti luciferini.
Sua madre si giro con tratti di eterna preoccupazione, e si morse le labbra. Lesse nei suoi occhi una battaglia tremenda, con calamità naturali e titani di fuoco, una scacchiera incomprensibile, giocata tra loro due da millenni, prima che si reincarnassero in quei meri corpi di umani.
Scesero scale d’ambra e videro fremere il centro della terra , il focolare dell’universo, una fornace bruciante d’odio. Scesero chiocciole infinite aldilà degli ioni del tempo, e la musica li accompagnava, musica d’organo di violini. Sotto gli strati terrestri, sotto gli alberi e le loro radici, le città si allontanarono, e nacque un nuovo Nord.
E così quella era la casa dell’Oscuro Signore, nell’intestino della terra, e lì vi era un secondo trono, di seta bianca, vi era inciso il nome impronunciabile del suo Amore.
Poi, d’improvviso, si ritrovò sola, con Josie, la Regina, che la guidava finalmente su una strada dritta, in un solito corridoio di pietra scura e luce rossa di lampade rotonde.
“Mamma…” mormorò, chiamando l’unico nome che le bacio la mente.
“Sì, tesoro.”
“Dove andiamo?”
“A farti riposare un po’. Sei stanca?”
“ Vieni spesso qui?” Josie rise.
“Mai.”
“Tu non sei niente.” sussurrò, chinando il capo. Sentì sua madre fermarsi.
Josie ascoltò il silenzio, si girò a guardarla. Per farlo le sollevò il viso pallido, sfiorò il suo respiro.
“Perché?” chiese, fissandola negli occhi grandi.
“Tu non vuoi e non sai nulla. Io dovrei essere al tuo posto. Io sono…”
“Io sono la prima e l’ultima. Io sono l’onorata e l’odiata. Io sono la prostituta e la santa.” concluse curiosamente la donna. Poi la bacio con un bacio dolce sulle labbra salate di lacrime e la strinse, come quando era piccola e infinitesimale come un grammo di neve. Si inginocchiò per terra, sostenendola, restando zitta, fissando il buio, e l’ascoltò piangere.

“..Ti amo solo perché io te amo,
senza fine io t’odio, e odiandoti ti prego,
e la misura del mio amor viandante
è non vederti e amarti come un cieco.

Forse consumerà la luce di Gennaio,
il raggio crudo, il mio cuore intero,
rubandomi la chiave della calma.

In questa storia solo io muoio
E morirò d’amore perché t’amo…”

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Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***


Josie rise, scostandosi i capelli dal viso.
“Immagino che Ermete Trimegisto non sarebbe del tutto d’accordo, vero, Black?” chiese al ragazzo dagli occhi scuri e lucenti, stravaccato con noncuranza sulla sedia che dondolava sotto il suo peso.
“Oh, no, signorina Bliss, presumo di no.” rispose Sirius con un sorrisino. Alcuni giovani Grifondoro risero.
“E che voto pensi di meritarti dopo questa brillante dimostrazione?” Josie mosse distrattamente la penna, lunga, rossa, lucente, sul registro di pelle, sorridendo e fissandolo negli occhi.
“Voti? Ma non hanno nessuna importanza…potrebbe bocciarmi, professoressa, non importerebbe, tenterei di invitarla a cena comunque. Questa scuola dovrebbe imparare a mettere insegnanti meno attraenti, lei ci turba troppo.” Josie alzò divertita le sopracciglia, segnando un perfido ma realistico appunto sulla carta ingiallita (chissà perché, le pergamene, pur se appena uscite dalla stampa, hanno sempre l’aria invecchiata da mappa del tesoro).
Gli studenti chiacchieravano distratti, Mery contrasse una smorfia sul viso, Dio, ma non si potevano trattenere quegli affamati?
“Penso di essere troppo vecchia per te, Black. Per ora ti posso offrire solo una cosa…” Josie si alzò sorridendo spavalda, calcandosi il solito cilindro sui riccioli rossi, e abbottonandosi la giacchetta di velluto. Le gambe, pallide, sostenute da caviglie sottili e stivaletti di pelo blu, danzavano tra le pieghe della gonna rossa. Sirius si sporse con un sorriso accattivante dipinto sulle labbra beffarde. Mery alzò gli occhi al cielo e allungò le altrettanto magre gambe sotto il banco.
“…un Desolante in teoria, e sbrigati a rimediarlo, scansafatiche!” terminò la donna, chiudendo la borsa di pelle, mentre suonava la campanella.
Potter si alzò per dare una sonora pacca sulla spalla all’amico.
“Ti è andata male, scansafatiche. E’ irraggiungibile! Concentrati sulla figlia piuttosto!” rise il ragazzo, ammiccando verso Mery, che si legava i capelli, concentrata su un punto indefinito del pavimento, mentre sua madre usciva con un trillo dei bracciali d’argento.
“Ma che dici, quella serpe?” esclamò Sirius, uscendo dalla classe e fissando vacuo la professoressa Bliss. “Ma figurati! Quella è difficile come poche! Basta solo a se stessa, mai vista scambiare due parole con qualcuno…non so come facciano ad essere madre e figlia… se solo fossi più grande, sai che farei…” mormorò con uno sguardo velato.
“Sì, lo sappiamo, grazie, non entrare nei dettagli.” mormorò Lupin, armeggiando con le cinghie della cartella di cuio.
“Già. Non deve essere così vecchia, quanti anni avrà, venticinque?”
“Pazzo, che dici? Josie Wisteria Bliss andava a scuola ai tempi di mio padre!” esclamò Holmes, un ragazzo del Tassorosso, che si dirigeva come loro alla torre, per divinazione.
“Ah si? E tuo padre, quanti anni ha, sentiamo...?” lo interrogò Sirius, inarcando un sopraciglio.
“Quarantacinque anni! Era più piccola certo, ma anno più anno meno…”
“Ma figurati, al massimo avrà trent’anni, ed è già tanto…” lo interruppe James.
“Qualunque età abbia, fatevi i fatti i vostri.” li interruppe una voce femminile, roca come carta vetrata.
Meredith li sorpassò con il suo solito cipiglio severo.
“Ma crepassi…”
“Sirius!” lo sgridò Remus, guardandolo indignato.
“Va bene, amico di pelo, abbiamo capito che ti garba la Riddle, ma è innegabilmente una rottura.” replicò Sirius.
“No, non si tratta di quello,” si giustificò il ragazzo ”vorrei vedere voi se dei ragazzi ci provassero con vostra madre. Si tratta solo di rispetto.”
“Come sei melodrammatico, Lu’!” si lamentò James.
“Io li compatirei i ragazzi che ci provano con mia madre. Poveretti. Dovrebbero essere sordi. E cechi.”ghignò Sirius “ La Bliss è un’altra cosa. E’ bella. E’ giovane. E’…”
“…sposata.” terminò Lunastorta.
“E tu come fai a saperlo? Guarda che solo perché ha una figlia non vuol dire che…”
“No, certo.” mormorò il ragazzo. “Ma ha anche una fede, all’anulare destro.”
“L’hai osservata bene per essere così indifferente alle sue grazie.” sogghignò James, mentre Sirius bofonchiava deluso qualcosa di incomprensibile.
“Semplice spirito d’osservazione, grazie.” replicò Lupin, con un’espressione cheta e indecifrabile.

Josie sfregava quello stesso anello, senza rendersene conto, per la forza dell’abitudine. Nuvole nere si addensavano nel cielo serale. Dense di pioggia, di tempesta.
Era un bell’anello, di oro bianco, come piaceva a lei, fine, delicato, una linea premurosa a tingerle la mano. Una linea che la proteggeva sempre e comunque, appena il suo cuore batteva forte per paura.
Il sentiero verde, brillante, lucido di umidità, si perdeva oltre i confini di Hogwarts. Una dolce e saporita frescura autunnale le gonfiò il mantello, inondandola di profumi di pioggia e castagne bruciate e fasci di erba tagliata, che riposava morendo in capanni persi nei campi, carichi di ruggine e schegge.

Gliel’aveva regalato prima di andar via, l’anello, infilandolo al dito sottile, cercando di non svegliarla, mentre i capelli immobili alla luce dell’alba dormivano sul cuscino, sparsi come uno strascico d’oro. Come acqua, gettata da un secchio azzurro, a rinfrescare una terra ardente d’estate. Che brucia, che sfrigola. Lei questo non lo sapeva.

Girò con passo leggero e bagnato verso Hogsmeade, doveva prendere presto la metropolvere. Una goccia cadde, rimase sospesa sulle sue ciglia, le annacquò la vista. Fare un incantesimo di protezione? No. Odiava gli ombrelli, magici e non. Al contrario, si tolse la tuba, gli occhialetti rotondi, da sole, li teneva per vizio, per stupida vanità. Sorrise, e la pioggia le sfiorò le labbra. Sfregò l’anello.
Forse, inconsciamente, sperava fosse una lampada di Aladino, da favola di Mille e Una Notte, che sfregando sarebbe apparso il suo genio.
Non sapeva.
Si bagnò da capo a piedi, rise, ballò sotto la pioggia, si spogliò, come una Naiade, mani bianche la strinsero.

Non aveva lasciato un biglietto. Non aveva chiesto perdono. Aveva riposto tutto ciò che era Lei in quell’anello, l’aveva chiuso al suo dito. Sapeva, lei non se lo sarebbe mai sfilato. Si sarebbe svegliata. Lenta, dolce, acquatica, languida. Lo avrebbe aspettato, guardando fuori dalla finestra. Come una Giulietta. Tom aveva sentito un peso dentro, sconosciuto, pensandola a quella finestra. Disperatamente, aveva temuto che gli pizzicassero gli occhi. No, non a lui. Era abbastanza forte.
E andò allo sbaraglio.
Andò a godimenti ora reali ora turbinanti nell’anima, dentro la notte illuminata.
Si abbeverò dei più gagliardi vini, quali bevono i prodi del piacere.
E l’Oriente lo accolse con braccia essenziali, cariche di frutti neri, dei frutti del bene e del male. Più del male, diciamo.
Donne di Smirne danzarono per lui, sui suoi fianchi, donne dagli occhi cavi pieni di tormento. Certo, lo amarono. Chi non lo amò? Cercava Sophia in ogni luogo, la trovava e faceva l’amore con lei, tra i frusciii dei libri, della sapienza, delle biblioteche arabe. Sophia, sapere, conoscenza.
E Josie? La tradì. Con cento la tradì, lei che ospitava il suo cuore, in cui il suo seme cresceva, diventava un bimbo dallo stesso identico sguardo, lei che aspettava alla finestra, lei che piangeva, vivendo in lui, legata all’anello che la metteva in gabbia, sfregandolo, isterica, nervosa.
Con cento la tradì e la dimenticò, più la sua anima di nero si inzuppava, più baciava altre bocche, più la sua pelle non implorava il tocco di avidi riccioli rossi.
Ma allora perché gli dissero che invocava il suo nome perduto nell’oppio?

Josie si bagnava sotto la pioggia, le mani alzate al cielo, ad accogliere un dono, con giravolte sfocate cadeva. Nell’erba, la dolce erba delle Highlands. Aspettava Josie, aspettava che mani bianche la stringessero.
Il vento asciugava la pioggia. Il vento le asciugava i capelli. E il vento cantava una cantilena…

O fruire di carni… fra semiaperte vesti, celere denudare di carni...il tuo fantasma ventisei anni ha valicato… e giunge, ora, per rimanere, in questi versi...

Era una grande sala, quella del Re, come uno si immagina i fasti dell’età antica, un salone di pietra levigata, e uno stendardo verde cupo tingeva il muro, illuminato da fiaccole agitate. Per il resto, solo un trono di pietra, rialzato, ben lavorato da mani di elfi artigiani, mani escoriate dallo sforzo, esauste, sanguinanti, decorava la grande sala, e un camino, dove moriva un fuoco, tra braci ardenti.
Un uomo, se ancora si trattava di un uomo, sedeva pigro, le gambe allungate da ragazzo svogliato, le mani sottili che dondolavano una lunga bacchetta bianca. Il volto bianco, divertito, malcelato dall’ombra, seguiva i movimenti furiosi di una giovane donna, che camminava su e giù come una pazza, i capelli indaffarati intorno al viso da irlandese. Stupide apparenze! Se ai suoi antenati avessi accusato origini dall’isola, mi avrebbero fatto tagliare la testa su un ceppo di quercia gallese, rigorosamente gallese.
“Come hai osato? Come diavolo hai osato insegnarle quelle cose senza il mio permesso? Non è un’adulta! Non le hai dato possibilità di scegliere! Lei ti ha seguito come un cane, non aspettava altro! Bravo, fai l’eroe della situazione!” Josie mormorava furiosa quelle parole, indicando Tom con un piccolo indice accusatore.”Tu! Gli ho detto che eri morto, che ti avevano ucciso! Ti ho salvato, sai? Ti odierebbe se sapesse che l’hai abbandonata!”
“O che ho abbandonato te?” Tom rispose indolente. Con un sibilo, un enorme serpente si avvicinò al suo padrone, sfiorando le caviglie di Josephine, che saltò di lato, con uno strillo. Tom rise.
“Non prendermi in giro! Questo è un discorso serio! No, non sto parlando di me.” la voce acuta della donna si abbassò, nervosa,”Parlo di lei. E non dirmi che questo discorso te l’ho già fatto mille volte, che devo smetterla di fare la bambina, che… Tom, ascoltami!” strillò. L’uomo sibilava parole confuse al serpente, carezzandogli il capo squamoso.
“Amore mio, ti sto ascoltando…” disse dolcemente Tom. Animale e padrone si volsero a guardarla con lo stesso identico sguardo.
“Non chiamarmi Amore Mio!Quanto sei falso…” Josie sbuffò esausta.
“Cosa hai fatto a quella povera gente?” la sua voce d’improvviso divenne dolce, rotta, disperata. Salì i gradini del trono e si sedette, posando le piccole mani bianche sulle ginocchia magre, mentre il serpente le strisciava sulle gambe nude. “Cosa hai fatto a quei poveretti, Tom?”
Tom le accarezzò i capelli, lo sguardo assorto in un ricordo lontano, la fronte aggrottata.
“Ciò che meritavano.” sentenziò, allontanando la mano dalla morbida chioma. Anche Josie si tolse, separandosi dal suo tocco.
Era così per loro: avvicinarsi, toccarsi, e di nuovo separarsi, per rincontrarsi ancora.
“Ti odio.”
“Non fare la bambina.”
“Ho detto che ti odio.”
“Bugiarda.”
“Mi fai schifo.” pronunciate queste parole, Josie si trovò una mano ferrea stretta intorno alla gola, e una bacchetta puntata al cuore.
“Attenta a quello che dici, Josephine.” la ragazza si divincolò, ridendo e tossendo.
“Come se osassi farmi del male!”
“No, Josie, farò di peggio. Ti farò implorare, implorare di non lasciarti, implorare di starti accanto. Lo faccio sempre, Josie. Sono l’unico che può farlo.” Tom, giovane indossatore della maschera della morte, la perforava con uno sguardo cupo, inquieto. Con un gesto elegante del mantello nero si voltò per uscire. “Ora va, va da tua figlia. Domani ti accompagneranno a casa. Per questa notte resta… Josie” la chiamò un ultima volta, e la donna se lo trovo d’improvviso vicino, con la sua bocca che sapeva di sangue, con le sue mani che sapevan di morte. Le sollevò il mento, la strinse.
“Come fai a dire di essere l’unico? Credi che io ti abbia aspettato?” sibilò Josie contro le sue labbra, mentre lui girava in piccole, sbilenche ma sicure giravolte di un valzer invisibile.
“Ma certamente. So che vestiti indossavi a natale. I fiori che usasti al funerale di Mina, camelie, ovviamente. So la data esatta del tuo primo giorno di lavoro, i libri che leggesti nel torpore del sofà con le mani piene di sigarette, quello sporco vizio babbano… so le persone che difendesti e coloro che invece odiasti, so nomi e indirizzi degli uomini che si interessarono a te e so che tutti li rifiutasti, so che hai venerato un sogno, che hai marciato sul mio ricordo, che piangevi nel cuore della notte e in una celata e silenziosa speranza scrutavi la folla del sabato per trovarmi…” gli occhi di Josie divennero lucidi.
“Ricordi, Josie, l’età dell’innocenza?
Ti conobbi trenta anni fa seria e chiusa come un guscio di noce, l’aria che si respirava tutt’intorno a te costringeva a temerti, perché eri lontana da quel mondo, lontana da quella gente. Eri cresciuta in una campana di cristallo, paradosso delle idee di tua madre, pronta a buttarsi nel secolo come la rana nello stagno. Eri cresciuta nella dolce casa delle bambole che era Villa Bliss, e il declivio verde tutt’intorno era la tua collina degli elfi. Come l’uomo incauto che si lascia ghermire dai canti del Piccolo Popolo, e ritorna al suo mondo dopo un secolo che gli è parsa un’ora, così era avventurarsi tra i tuoi balocchi di bambina, gli intellettuali pazzi ospitati nel salotto di Mina, le riunioni segrete alle spalle del Ministero, i personaggi dal sorriso sghembo e la tuba che ispirarono la tua maturità, era come perdersi, catapultati in una Belle Epoque fuori tempo, dove rubicondi astrologi dai calici di vino sanguigno stretto in mano brindavano con alchimisti ebrei vestiti di blu tenebroso.
Il tuo regno era una moderna Praga e Mina il Rodolfo II che la crebbe magica e civettuola perfino tra i maghi. Santi di pietra arenaria, bambole parlanti, carillon, erano le tue dimensioni in miniatura, piccoli mondi a parte in cui crescevano i tuoi sudditi. E quando uscisti dalla tua dorata fortezza, trascinata da eventi preannunciati ma sconvolgenti, ti ritrovasti con scarpe sconosciute in una scuola sconosciuta, circondate da stupide creature. Rinunciasti a sguazzare nell’oceano della superficialità, emarginata, sola.
Io ti elevai ai loro occhi, io ti scelsi fra tutte e tutti, per amarmi e servirmi, sempre, per rispondermi fino all’ultimo grido, per rispondermi sempre di sì. Non puoi far altro Josie, fosti plasmata per me da artefici più alti, io ti volli prima del tempo così come sei, come eri, Josie, non ti amai perché eri speciale, ma perché eri già mia, innocente, innocente, innocente, per l’innocenza che io potevo sporcare.”
Josie boccheggiò. Prese fiato molte volte prima di parlare.
“Giura che da domani non cercherai più Mery.” mormorò infine.
Tom rimase zitto, sorrise, le baciò la mano, si volse e se ne andò.

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Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo ***


"L’amore è la meta di tutte le partenze, il punto di eterno ritorno. Lo sguardo più breve, quello verso lo sguardo di chi ci è accanto, è in realtà infinito. Le passioni mortali possono offuscare l’eternità."
V.I


“Il suo nome è…” Perry si fece scivolare gli strani occhialetti obliqui sul naso a patata e scrutò la malsana figura di Josie “…Josephine Wisteria Bliss?”
Josie, legata stretta al trono di pietra del tribunale, gli occhi vacui e sbiaditi, i polsi arrossati da altre catene, e le guance cave, consumate dal digiuno e dall’insonnia, annuì.
“E’ la figlia di Wilhelmina Berenice Harcker e Dorian Thomas Bliss?” continuò l’uomo, arricciando le labbra.
Josie ripetè il gesto con svogliatezza.
“Signorina Bliss, lei è stata accusata da numerose testimonianze di aver passato preziose informazioni segrete del Ministero a Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato, e inoltre di aver avuto…” il giudice si fermò alzando lo sguardo al cielo, corrugando la fronte imbarazzata. Alle sue spalle, la statua di Wilhelmina languiva con occhi lampeggianti al riverbero delle torce.”… un’intima complicità con il suddetto, di essere stata contattata da Esso più volte, e di non averne mai informato le autorità. Come risponde a queste accuse?” Un centinaio di occhi la fissavano nella semioscurità, e il doppio delle palpebre sbattevano, e il millesimo delle ciglia fremevano.
Josie tacque. Mantenne il suo sguardo spento su una pietra davanti al seggio dell’imputato. Un brusio sottile si diffuse per la sala. Il giudice tossì e risuonò di nuovo il silenzio.
“Signorina Bliss, le è stata posta una domanda. Risponda. Come replica alle accuse?”
Josie sfregò la punta dei piccoli tacchi per terra. Li aveva messi prima di uscire una settimana prima. Ricordava di averli cercati dappertutto, ed erano sotto il letto e si era infilata contorcendosi per riuscire a prenderli. Aveva parigine nere e una gonna stretta, fino al ginocchio, di velluto marrone. E una camicetta che sapeva di lavanda.
Josie si fisso le ginocchia sbucciate e le calze strappate. La gonna impolverata e la camicetta sudata e sporca. Non l’avevano nemmeno fatta cambiare. I capelli, nelle loro peggiori condizioni si attorcigliavano come meduse. Con pigra attenzione, si guardò le unghie.

”… ricordi, Josie, l’età dell’innocenza?”


Meredith contorse i polsi arrossati, afferrò un lembo della tunica nera di Mangiamorte cominciando a torturarla tra le dita.
Buttando i riccioli sporchi all’indietro, rise.
“Me l’hanno lasciata addosso apposta.” squittì ad un interlocutore immaginario, gli occhi umidi e folli fissi contro la parete.
“Guarda!” con le mani tirò la tunica scura, come per indicarla. Tremava di freddo, sotto era nuda come un verme, le avevano tolto tutto, bacchetta, vestiti, dignità, spogliandola come una prostituta, sotto luci vivide e accecanti, così bianche che le impedivano di vedere i suoi seviziatori. Urlando e scalciando come una baccante, trattenuta da mani forti, schifosamente sudate, che l’avevano tenuta ferma, mentre altre la spogliavano, violentemente, per lasciarla nuda e umiliata su un pavimento gelido, rannicchiata, a mordersi le ginocchia. Potevano tramortirla per farlo. Invece no, la volevano veder urlare, mordere, bestemmiare. Ma piangere no. Non aveva versato una lacrima. Non quella soddisfazione.
“Ecco, vedi? L’hanno fatto apposta, i bastardi” si raggomitolò contro il muro, dondolando sui talloni. ”E’ per fare scena, sai. Per far vedere quello che sono. Per far paura. Temetemi!” urlò l’ultima parola, che rimase ad echeggiare per la stanza, stretta, ma col soffitto alto. Alcune catene scendevano ossidate e arrugginite dai vecchi muri, sfregiati da infinite suppliche, da unghie conficcate, da giorni contati con sottili segni bianchi. Gli sembrò che dondolassero al suo urlo.
Un’ombra passò alla sua destra. Mery si tappò le orecchie.
“Non pensare, non pensare, non pensare…” ripetè la litania un centinaio di volte, mentre immagini lontane si affacciavano tra le tempie e la fronte. C’era una donna, stesa e bianca come un cencio, gli occhi aperti rivolti al soffitto, un bicchiere di vetro pesante rotolava di lato, il brandy sparso per terra. Una sigaretta ancora fumava tra le sua dita. Poteva essere l’immagine di una propaganda particolarmente sadica contro il fumo e l’alcol. Invece la donna aveva i capelli bianchi, attraversati da venature rossastre.
“Mina!” urlò quel nome strappandolo dal cuore.
Il Dissenatore ondeggiava oltre le grate, sibilando minaccioso
E poi le venne in mente il castello bruciato, e suo padre che zoppicava e rideva, e muoveva la bacchetta incessantemente, con piccoli aggraziati movimenti del polso e luci verde smeraldo che lampeggiavano come fari, e quelli che cadevano a terra uno dopo l’altro, senza una parola, un addio, suoi compagni di scuola, persone che per anni aveva visto entrare e uscire con una tazza di tè dal salotto di Mina, che le facevano sorrisi allegri, e le conosceva una per una, e ora cadevano come birilli, gli occhi pieni di terrore, altri di coraggio. E suo padre rideva.



Nel novembre 1981 furono catturati quattordici Mangiamorte.
Furono stanati nei loro covi di vipere o alla luce del sole, nomi già macchiati di infamia o altri immacolati e impensabili si andarono ad aggiungere alla lista dei servi di Voldemort.
Alcuni confessarono con orgoglio e folle luce negli occhi la loro cieca devozione all’Oscuro Signore, molti piansero e si contorsero prostrandosi a terra, negando e spergiurando, che non erano stati loro, che erano innocenti, che Lui li aveva costretti con mille terribili maledizioni, il loro cuore era onesto e quel Marchio ancora pulsante di vita e di gloria non significava nulla.
Mai nella storia della magia venne preparato più Veritaserum per sciogliere la lingua agli imputati. Confessarono tutto, gli omicidi, le stragi, le crudeli cacce ai Babbani, le violenze e i progetti segretissimi del loro Signore, fecero nomi su nomi, portando all’arresto di altri fedeli, inerti come bambole di pezza sopra il trono degli Ultimi.
Ma, sotto qualsiasi tipo di incantesimo o pozione della verità, quattordici bocche giurarono sul nome di quel Dio che forse c’è che Josephine Wisteria Riddle era innocente, casta e purissima, che mai l’avevano vista in compagnia del loro Signore, che osare soltanto pensare che la figlia di Wilelmina Harcker aveva a che fare con Lord Voldemort era una bestemmia, che Tu-sai-chi in persona aveva fatto tacere quella serpe dai capelli rossi, uccidendola mentre si alcolizzava come al solito in quella villa di babbanofili.
Questo e qualche sapiente orazione di Albus Silente bastarono a far scarcerare Josephine, che, dimagrita e stanca, tornò in quella casa vuota di babbanofili a piangere tutte le lacrime che aveva, stesa su un tappeto persiano in compagnia della migliore amica di sua madre: la vodka.
E pianse per Wilelmina e per il suo assassinio, del ricordo tanto lieve, color seppia, di quando la domenica pomeriggio sua mamma e Tom duettavano con il pianoforte a coda nella sala da ballo, mentre lei li guardava un po’ invidiosa, mancando di qualsiasi talento musicale.
E pianse per la sua bambina in quella prigione di matti, la sua dolce, piccola Meredith, che parlava da sola ad un muro sgualcito, dondolandosi sui talloni, che la graffiava sul viso quando lei le baciava le mani, durante i rarissimi giorni di visita, che si impiccava con una striscia di corda la notte di carnevale, i capelli ingrigiti nonostante i suoi trent'anni scarsi sciolti sulle spalle ossute, quei capelli che dovevano essere rossi, che portavano fortuna, che scaldavano come una trapunta di mantelli, ma che erano neri come la pece e la perspicace notte. La seppellì sotto un faggio, senza più lacrime da versare, a Villa Bliss, un funerale modesto, con un corteo di cinque persone armate di viole e di fresie.
E poi pianse per Tom, quel Tom umano e sepolto ed andato, andato per sempre, e non importa che undici anni dopo sarebbe tornato, perché Tom Riddle, quello vero, quello che la stringeva con abbracci disperati, che si aggrappava al loro amore profondo di radici, impalpabile di vento, lo avevano ammazzato, ucciso, sterminato, massacrato per mille buoni motivi.
Ma Josie era stupida, stupida perché l’amore è così forte, l’amore è così denso di pazzia, che ti rende cieco e sordo e muto, e quando Tom era un mostro, l’aborto di un’anima violata, lei lo guardò negli occhi e pianse, perché la bella amava la bestia e tutti marciavano su Babilonia e quando Tom morì per la seconda volta, in modo totale e definitivo, per mano di quel bambino sopravvissuto che ci è tanto caro, quando Tom morì possedendo soltanto una bacchetta ed un anello di oro bianco, Josie sparì come era arrivata, nel nulla, come l’estate.
Al suo posto, in quella villa antica, che certi vecchi dicevano fosse abitata un tempo dalla strega più bella del regno, che di notte volando cavalcava un verro sulle strade di Londra, nuda e bianca come un’ostrica d’oro e faceva impazzire i Babbani con una risata, al suo posto, addormentata su un pianoforte a coda, trovarono un’anziana signora, dai riccioli bianchi come la neve, il volto addormentato nel dolce abbraccio della morte fatto mappa di molti e molti anni e portatore di una remota grande bellezza.
Nessuno conosceva quella signora, che stringeva forte nel pugno una piccola vera di oro bianco.
La seppellirono nel cimitero di Little Devon, su di una lapide senza nome, all’ombra di un faggio, e una bambina bionda posò sulla terra fresca una margherita.
La primavera successiva, una domenica mattina, gli abitanti del villaggio, come riscossi da un sogno, guardavano increduli e immobili dal cancello di ferro il terreno sul quale avrebbero dovuto riposare i loro cari. Ma il cimitero di Little Devon era sparito, e così tutte le lapidi, le croci e i sentieri di erba curata: al suo posto fioriva un campo di fragole.



Dedicata a me e a te, a Loro, al mio aspettare gufi al balcone in quell'estate di otto anni fa, a tutto quello che sai, alla fine e all'inizio, a Peter e a tutti quelli che crederanno per sempre all'isola che non c'è.

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