Sogni di Rock n' Roll di Eryca (/viewuser.php?uid=137266)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Porto di Città ***
Capitolo 2: *** Pesche e Vagine ***
Capitolo 3: *** Colpevole ***
Capitolo 4: *** Mostro ***
Capitolo 5: *** Mad ***
Capitolo 6: *** Intoccabile e Afferrabile ***
Capitolo 7: *** Perdersi ***
Capitolo 8: *** Sogni di Rock n' Roll ***
Capitolo 9: *** Mai più sporca ***
Capitolo 10: *** Lacrime di verità ***
Capitolo 11: *** Il suono del silenzio ***
Capitolo 12: *** Oh, amore. Oh, amante. ***
Capitolo 13: *** La strada del successo ***
Capitolo 14: *** Insieme, per sempre. ***
Capitolo 15: *** Mentre il caffè si raffreddava ***
Capitolo 16: *** Epilogo-Sognando l'America ***
Capitolo 1 *** Il Porto di Città ***
1.
Il
Porto di Città
Pioveva
di nuovo, quella sera, notò non appena vide una piccola goccia di acqua
sul suo
braccio sinistro. Riusciva a sentire l’odore di bagnato e umido.
Succedeva
sempre così: quando decideva di fare una delle sue campatine per i
locali, il
cielo cominciava a ruggire minaccioso, per poi lanciarle addosso litri
di
pioggia.
Scosse
il capo senza speranze, conscia del fatto che, molto probabilmente, si
sarebbe
presa un altro di quei stramaledetti raffreddori, dando a sua madre una
nuova
scusa per rimproverarla.
Sembrava
che Charlotte Dupont si divertisse moltissimo a riprenderla per il
fatto che
non aveva messo in ordine camera sua, non aveva lavato i piatti oppure
perché
era rientrata troppo tardi la sera prima; ma la miglior scusa per
urlarle
contro parole arrabbiate era il suo scarso interesse per lo studio,
nonostante
l’Esame di Maturità in vista.
L’Esame
di Maturità.
Il
solo nome le faceva venire i brividi, per questo evitava spesso di
soffermarsi
sull’argomento, preferendo schivarlo e rimandare di continuo lo studio:
in
fondo aveva ancora qualche mese a disposizione, prima di dover
affrontare le
fatidiche prove.
L’autoconvinzione
è pur sempre
un’arma potente.
Se
ne stava impalata in mezzo al lato della strada, appoggiata ad un
muretto
sporco, in attesa di quel ritardatario di Matteo, che le dava gli
appuntamenti
ad ore che non riusciva mai a rispettare.
La
via sembrava piuttosto trafficata quella sera, forse perché l’evento ̶
a
cui stava per partecipare anche lei
̶ era
previsto come uno
spettacolo mai visto prima d’allora; ma, in fin dei conti, si diceva
sempre che
le serate organizzate erano “da non perdere”, quindi non vi aveva riposto troppe
speranze.
Il
marciapiede su cui era appostata anche lei era gremito di gente
decisamente
stramba: una ragazza, che avrà avuto una ventina di anni, portava una
lunga
gonna nera che le sfiorava le caviglie e dei capelli viola, i quali le
davano
una certa somiglianza ad una mora matura.
Un
tizio rasato, coperto di tatuaggi dalla testa ai piedi, la sorpassò
dandole una
spallata; avrebbe voluto gridargli di fare attenzione, ma non appena
vide la
sua stazza decise che forse era meglio far finta che nulla fosse
accaduto: ci
mancava solo un occhio nero e poi sua madre l’avrebbe spedita dai suoi
parenti,
in Francia.
Charlotte
le ricordava ogni tre per due che sarebbe potuta tornare alle origini,
ovvero
in quel piccolo paesino nelle vicinanze di Parigi, dove abitavano i
suoi severi
nonni; l’idea non le andava per niente a genio, quindi cercava di
evitare lo
scontro decisivo con sua mamma.
A
volte pensava che quella donna fosse così frustrata perché si era
ritrovata
incastrata con un marito e una figlia, in quel buco di fogna che era
Torino; ma
in fondo non era colpa di nessuno se si era innamorata di Paolo Melì,
giovane
contabile per un’azienda di elettrodomestici torinese, e aveva deciso
di
lasciare Parigi definitivamente.
Abbandonò
quei pensieri non appena vide arrivare, in lontananza, una figura alta
e
snella, dai capelli castani a spazzola e il portamento di una diva di
Hollywood.
Matteo
Damiani, suo migliore amico da così tanto tempo che neanche si
ricordava la
prima volta in cui avevano parlato, si avvicinava con la camminata
sicura di sé
e sensuale, che solo lui riusciva ad assumere; quel ragazzo
mediterraneo dallo
sguardo assassino avrebbe fatto innamorare qualsiasi fanciulla, il
fatto era
che non le interessavano le signore.
Matteo
era omosessuale.
Molto
omosessuale, avrebbe
detto lui, con il sorriso malizioso di chi aveva appena passato qualche
ora di
sesso selvaggio, rinchiuso in qualche luogo angusto.
La
cosa che più la mandava in bestia era che Matteo le rubava tutti i
ragazzi più
carini, mentre a lei rimanevano solo gli sgorbi affamati che avrebbero
offerto
da bere anche ad una vecchia di ottant’anni, pur di ricavarci una
scopata; ma
in fin dei conti a lei non importava molto abbordare bei maschioni e
abbandonarsi ai piaceri del sesso, non era mai stata una di quelle
ragazze.
Certo, anche lei aveva fatto sesso, qualche volta, non era di certo
Suor
Claretta, però non desiderava trovare l’uomo giusto per la sua vita.
Lei
aveva altri sogni.
«Anne,
ti prego, non mi uccidere, ho avuto da fare!»
Anne
Melì, un
metro e sessantacinque, trentasette di scarpe, capelli rosso schifo e
così
ricci da non avere alcuna possibilità di domarli, occhi verdi ed un
grande,
immenso sogno nel cassetto: sfondare nel
mondo della musica.
Ecco
chi era, si disse ripassando a memoria la presentazione che avrebbe
dovuto fare
al suo primo provino con una major. Era sempre così bello fantasticare…
Se
solo fosse riuscita a mettere su un gruppo, allora si che avrebbe
potuto vedere
i suoi sogni prendere dei contorni reali e non solo più astratti, come
erano in
quel momento; ma dove li trovava dei ragazzi appassionati di rock, in quella Torino fatta solo di
discoteche?
Certo,
Matteo condivideva il suo amore per Jimi Hendrix, ma non potevano
formare una
band con solo una chitarra basso ed una voce solista: avevano bisogno
di
batteria e chitarra elettrica.
Avevano
discusso così tanto di quella questione che a volte le sembrava di non
avere
alcuna speranza di poter cantare su un palcoscenico internazionale.
Stupidi
sogni da diciottenne.
«Scommetto
che il tuo concetto di “avere da fare” equivale con il mio di “avevo
qualche
cazzo da succhiare”.» così dicendo prese il suo amico sotto braccio e
si
incamminarono verso l’entrata del locale in cui facevano musica live.
Fai
che sia rock n’ roll.
****
Fai
che sia rock n’ roll, pensò
Davide seduto ad uno di quegli squallidi tavoli di legno che il pub Porto di Città aveva messo a
disposizione della fetida clientela; in effetti i frequentatori del
locale non
erano di certo parte dell’alta borghesia torinese, ma membri ufficiali
della
feccia della società.
Ma
in fondo, si disse, anche lui era in quel locale e, a causa della sua
onnipresenza in quel posto, i baristi erano divenuti suoi amici.
Pessimo.
Proprio pessimo.
Era
così preso dalla sua musica che, a volte, si dimenticava di essere una
persona
reale, con il bisogno di una casa, un lavoro. Soldi.
Dannazione,
quelli mancavano sempre, nonostante si facesse in quattro per cercare
di
rimediarli, lavorando in quell’odiosa officina di meccanica in
compagnia di un
datore di lavoro non propriamente cordiale.
Si
spezzava la schiena dalle otto di mattina alle otto di sera, per dover
condividere un appartamento ̶ che non meritava
quell’appellativo ̶ con
quel ritardato di Riccardo che, in quello stesso istante, stava in
piedi su un
tavolo rettangolare cercando di bere un boccale di birra senza prendere
il
respiro.
Riccardo
Sacco.
Il
suo amico dai tempi liceali, che lo aveva accompagnato in quella che
poteva
entrare nella classifica delle “Vite più misere dell’anno” senza mai
lamentarsi
troppo; la cosa che più gli andava a genio di Ricca era che non
riuscivi a
togliergli il buon umore neanche con la notizia più tragica, forse
anche grazie
alla quantità industriale di erba che riusciva a fumarsi.
Ma
chi era lui per dirgli ciò che doveva fare?
Si
guardò intorno in cerca di qualche bella ragazza con cui passare la
serata e
magari andare a letto; tutti i sabato sera era la stessa storia:
adocchiava una
preda, la insaponava per bene e poi la convinceva ad aprire le gambe.
Certo,
non era proprio un granché, però doveva pur sfogare i suoi istinti
maschili in
qualche modo e l’idea di trovarsi una ragazza fissa con cui condividere
esperienze e consigli gli faceva accapponare la pelle: aveva solo
ventitré
anni, non poteva mettere su famiglia.
Qualche
volta, però, quando era nel letto e le luci erano spente, lasciando
spazio al
buio della notte, si chiedeva quando la sua vita sarebbe cambiata, se
avrebbe
mai combinato qualcosa di buono oltre alla musica, che era l’unico suo
vero
amore.
Certi
giorni, quando Ricca era fuori, si sentiva così solo che gli sarebbe
quasi
piaciuto tornare all’infanzia, a casa con una madre e un padre in preda
ad un
chiassoso litigio.
Oh,
se
la ricordava alla perfezione la separazione dei suoi genitori.
Quando
suo padre aveva scoperto che la moglie andava a letto con più o meno
mezza
Torino, tradendolo abitualmente e facendolo passare come il marito
scemo che
non si accorgeva di nulla, era andato su tutte le furie e aveva chiesto
il
divorzio immediato; la madre non voleva Davide tra i piedi, così era
stato affidato
al padre, che non gli dava molta retta, troppo preso a darsi da fare
con ogni
donna che incontrava.
La
solitudine era stata un punto fisso nella sua vita, che non se ne
sarebbe mai
andato, ormai si era rassegnato a quell’idea.
Se
solo fosse riuscito a creare una
band…
Ma
tutti i suoi amici erano buoni ad ascoltare
musica, non a comporla, quindi
il
problema di trovare ragazzi in gamba con cui mettere su un gruppo
diventava
serio; non avrebbe potuto di certo andare al Conservatorio e domandare
se
qualcuno degli studenti voleva fare un po’ di rock.
Lo
avrebbero cacciato a suon di calci, molto probabilmente.
Abbandonò
quei pensieri non appena vide la band salire sul piccolo palco di legno
marcio,
munita di strumenti e amplificatori che Davide agognava più di un
aumento di
stipendio.
Le
luci furono abbassate e l’atmosfera divenne molto underground,
cosa che gli fece volare la mente al CBGB &
OMFUG ̶
il cui nome completo “Country, BlueGrass, Blues and Other
Music For
Uplifting Gourmandizers” lo divertiva sempre
̶ ,
club dove si erano esibiti i
più famosi dei del rock n’ roll: dai Ramones a Patti Smith, i Talking
Heads ,
gli Heartbrakers e tanti altri.
Si
vide nel piccolo pub con una chitarra in mano, intento a suonare un
assolo
impossibile degno di Slash, mentre una folla di persone impazziva per
lui,
chiedendogli di fare il bis.
Davide,
hai ventitré fottutissimi
anni, dovresti smetterla di fantasticare.
Probabilmente
si perse la presentazione di quel favoloso
gruppetto di imbecilli, che sembravano essere appena usciti
da una rivista
per ragazzine adolescenti: portavano jeans così stretti che si chiedeva
come
facessero a non dolergli le palle e le loro magliette avevano delle
stupide
scimmiette disegnate sopra.
Dove
finiremo?
«Sai,
Dav, credo che questi qua abbiamo scambiato il Porto per un saggio
scolastico.»
la voce di Ricca, che sembrava essere sbucato dal nulla, risultava così
bassa e
sbiascicante che era difficile prendere sul serio ciò che diceva: era
sbronzo,
come al solito.
Si
era portato dietro una ragazzetta dai capelli blu, con tutta l’aria di
chi non
vede l’ora di farsi scopare in tutte le posizioni esistenti.
Buon
per Ricca.
In
effetti, Davide non aveva mai visto Riccardo con una ragazza; cioè, il
suo
amico lo aveva beccato più volte a letto con qualche ragazzetta nel
loro
appartamento, ma lui non si era mai trovato di fronte Ricca in
compagnia di una
bella donna.
Lo
vedeva solo pomiciare qua e là per i bar, ma niente di più. Forse quel
bastardo
aveva davvero un minimo di pudore che lui, invece, aveva perso per
strada.
«Mi
avevi detto che avrebbero suonato rock, cazzo! Che diavolo stanno
facendo quei
quattro deficienti?»
Una
voce squillante pronunciò quelle parole, sovrastando il rumore
insopportabile
che il gruppo stava facendo uscire dai loro strumenti.
Davide
si voltò e intravide una ragazza con dei selvaggi capelli rossi farsi
spazio
tra la folla, seguita da un giovane che doveva avere più o meno la
stessa età
della prima.
Cercò
di allungare il collo per vedere meglio, ma li perse di vista del tutto
e
dovette sedersi rassegnato, lanciando un’occhiataccia alla sgualdrina
in
compagnia di Riccardo.
Aveva
appena trovato una persona che, come lui e Riccardo, sperava che il
gruppo
della serata suonasse del rock n’ roll, cosa decisamente rara a Torino.
E
se l’era fatta sfuggire.
Ok,
non aveva senso quella sua mania per le persone che amavano la buona
musica,
come lui, ma aveva proprio voglia di fare due chiacchiere con qualcuno
che
parlasse di Guns N’ Roses e non di odiosi ragazzini in gonnella che
cantavano
stupide musichette commerciali.
Perché
era così ossessionato dalla musica?
Si
lasciò andare sulla sedia, ormai disperato dal suo comportamento
infantile; era
immaturo, lo sapeva, lo era sempre stato, ma ultimamente era così
peggiorato
che avrebbe potuto iscriversi di nuovo all’asilo nido.
Quand’è
che sarebbe diventato un uomo, avrebbe messo da parte i sogni
adolescenziali
per concentrarsi sulla vita reale?
«Andiamocene
Ricca, domani dobbiamo lavorare e questa roba fa così pena che me lo fa
ammosciare.»
L’amico,
invece di protestare per il forzato distacco dalla vogliosa fanciulla,
scrollò
le spalle e la abbandonò senza curarsi degli insulti che quest’ultima
gli stava
lanciando.
Quel
ragazzo era davvero strano.
Spintonò
un giovane ragazzo dai capelli blu che gli rivolse uno sguardo non del
tutto
amichevole, per arrivare finalmente al bancone, dove trovò subito una
ragazza
dal viso dolce presa a lavare bicchieri e riempire boccali di birra.
«Marta!»
La
barista si guardò intorno in cerca della persona che aveva appena
urlato il suo
nome e quando vide Davide e Riccardo, sul suo viso comparve un sorriso
sincero.
Abbandonò
il suo lavoro per un solo attimo e si sporse per baciare i due ragazzi
sulle
guance.
«Delusi,
eh?» scherzò, indicando con la testa la “boy band” adolescenziale, sul
palco.
Deluso
non
rendeva bene come si sentiva, il termine giusto era frustrato.
Il
mondo aveva smesso di interessarsi al suono che fuoriusciva da una
chitarra e
aveva preferito concentrarsi su registrazioni e voci manomesse in
studio.
Frustrante.
«Fa
così schifo che stiamo scappando.» intervenne il suo coinquilino, tutto
preso a
ispezionarsi le unghie, in un comportamento tipico di una donna.
Certe
volte Ricca lo lasciava perplesso.
«Almeno
voi che potete!»
Salutarono
ancora una volta Marta, prima di incamminarsi verso l’uscita, che
sembrava
lontana miglia, se si stava a guardare la marea di gente stipata in
quel buco.
Tutti
venuti a vedere questi
quattro ritardati.
L’aria
fresca gli diede una sensazione di benessere, ormai abituato a
quell’odore
stantio che donava al Porto un marchio di fabbrica.
Era
così tanto tempo che passava le serate in quel pub che si era
dimenticato che
nella vita potevano esserci altre cose, come il cinema, il teatro, una
passeggiata tra i portici di Via Roma…
Ma
continuava ad andare al Porto, sperando di sentire della musica.
«E
io che speravo di ascoltare musica!»
Di
nuovo quella voce forte e determinata, quella che aveva sentito prima
all’interno del locale, quella che aveva usato in una frase la parola
“rock”.
Davide
si voltò incontrando due grossi occhi verdi.
Aveva
trovato qualcuno che
conosceva il significato della parola musica.
****
Note
dell’Autrice:
Questa
mia Storia Originale vuole
trattare ̶ come già si nota in questo
primo capitolo di
introduzione ̶ l’argomento della musica,
in particolare
quella rock.
I
personaggi principali sono quattro,
già presentati in questo capitolo: Davide
Lombardo, Anne Melì, Matteo Damiani
e
Riccardo Sacco.
Il
contesto è la Torino dei giorni
nostri, un po’ priva di quel rock che farebbe piacere ai protagonisti.
Ovviamente,
verranno trattati tanti
altri argomenti, non solo quello della musica, che però farà da
contorno a
tutta la storia. Tema molto importante
sarà anche l’omosessualità.
In
questo primo capitolo ̶
e anche nel secondo ̶ verranno
per lo più presentati i personaggi, in modo che
capiate bene con chi avete a che fare.
Per
ora non voglio aggiungere altro, in
modo da non rovinarvi il prossimo capitolo.
Se
avete letto, vi prego di lasciare un
commentino, così potrò sapere se l’idea vi piace e se vi sembra giusto
continuare.
Un
abbraccio,
Eryca.
|
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Capitolo 2 *** Pesche e Vagine ***
2.
Pesche
e Vagine
Non
gli erano mai piaciute le pesche.
Erano
troppo morbide, con quella peluria sulla buccia che gli faceva venire i
brividi
sulla schiena; per non parlare dell’odioso succo: non appena addentavi
il
frutto, quello si schiacciava e il liquido fuoriusciva macchiandoti i
vestiti.
La parte che più detestava, però, era il colore: l’arancione era così
demodé e
pacchiano che avrebbe potuto vomitare alla sola vista; le fragole
avevano
quelle belle sfumature rosate, i limoni erano uno sprizzo di vita con
il loro
giallo solare.
Ma
l’arancione no, era un pugno in un occhio.
E
quel nocciolo. Quell’odioso seme
che
se ne stava al centro quasi fosse il Papa, spaccando i denti ad ogni
povero
essere umano che cercava di dare un morso al frutto.
Di
certo l’odore e il gusto delle pesche non erano d’aiuto, perché Matteo
detestava con tutto sé stesso quel sapore dolciastro ma nello stesso
tempo
amaro, che ti lasciava la bocca impastata e maleodorante.
Non
poteva soffrire le pesche, no.
L’immagine
di una donna dai capelli grigiastri raccolti in una crocchia, il
grembiule rosa
ricoperto di odiosi margherite e una mano che si avvicinava verso la
sua bocca,
con una pesca stretta nel palmo, riaffiorò nella sua mente quasi a
volerla
stuprare.
«Mangia
la pesca, Matteo. Mangiala
o dovrò punirti.»
La
voce di quella strega sembrò rimbombare nel suo cervello come quelle
vecchie
cassette con il nastro un po’ consumato, che facevano sembrare l’audio
lontano.
Non
ne poteva più di sentire le parole di quella megera, doveva smetterla
di
ricordare.
Doveva
cancellare.
Lui
non la voleva la pesca, ripudiava le pesche, le odiava; se solo avesse
potuto
fare un falò, allora avrebbe raccolto tutti quei frutti e ne avrebbe
fatto una
montagna, che avrebbe successivamente bruciato, godendo come un porco
nel
vederle sciogliere.
Sentiva
il suo pianto in lontananza, mentre la mano di quella donna ̶
quella che era sua madre ̶ si abbassava fino a
scontrare la sua guancia,
facendo un forte rumore al contatto; Matteo poteva sentire il dolore,
lo
percepiva come se fosse stato ancora quel giorno.
Come
quando sua madre lo prendeva a calci nello stomaco, costringendolo a
rintanarsi
sotto il letto, mentre lei gridava di uscire, che lo avrebbe ammazzato,
che lo
avrebbe fatto diventare normale.
«Un
abominio, ecco cosa sei! Dio ti
ripudia, io non ti voglio qui! Non sei mio figlio!»
E
quella pesca sembrava sempre più vicina, sempre più grande e
puzzolente, e
Matteo dovette scostarsi sì, perché non voleva mangiarla.
Non
voleva diventare normale, perché lui normale
lo era già.
Abominio.
«Matteo» lo chiamò dolcemente Anne «hai sentito cosa ho
detto? Ho comprato le
pesche fresche dal fruttivendolo, devono essere buone. Ne vuoi una?»
La
ragazza se ne stava sullo stipite della porta, una borsa di plastica
nella
mano, mentre nell’altra teneva stretta una grossa pesca arancio, che si
portò
alla bocca.
Eccolo,
quel dannato succo.
«Non
sono un fan delle pesche, mi dispiace ma passo.»
Matteo
era fatto così: sapeva fingere bene, lo aveva fatto sin da piccolo,
quando sua
madre usciva di casa per comprare il pane e lui si intrufolava nel suo
armadio,
provandosi quel bel vestito a pois rossi che tanto adorava.
Anche
in quel momento, con Anne che gli puntava gli occhi intelligenti
addosso, aveva
tirato fuori il suo lato di attore, sfoderando un sorriso e usando
quella sua
voce squillante come scudo: non voleva che la sua migliore amica
iniziasse a
chiedergli cosa c’era che non andava.
E
poi, era solamente colpa delle pesche.
La
ragazza abbandonò la busta con i frutti sul piccolo tavolo di legno,
per poi
andarsi a sdraiare sul divano, che divideva l’ingresso dal salotto.
Aveva fatto
ciò che poteva con quel buco di appartamento, certo, ma non era proprio
la
villa moderna che si era sempre immaginato; ma aveva afferrato
l’occasione al
volo, quando aveva sentito parlare di un alloggio in affitto a basso
costo:
tutto pur di fuggire da quella stramaledetta casa.
Ormai
era quasi un anno che viveva da solo in quel piccolo loft di città,
senza dover
più subire le botte dei suoi genitori, che gli rimproveravano di non
essere
nato normale.
Solo
perché, a lui, gli piaceva prenderlo nel culo.
Abominio.
Avrebbe
buttato nel cassonetto dell’immondizia quelle maledette pesche non
appena Anne
se ne fosse andata via, cosa che sarebbe successa qualche ora dopo.
Avrebbe
sopportato fino ad allora.
«Che
cosa hai fatto questa mattina, mio pigrissimo amico?»
Anne
riusciva sempre a farlo sorridere, anche nelle situazione meno
appropriate,
anche quando sembrava che il sole fosse scomparso dietro a quella marea
di
nubi, anche quando c’erano le pesche sul tavolo di casa sua. Quella
ragazza
aveva un modo di fare così mascolino, che qualche volta Matteo si era
domandato
se non fosse lesbica, cosa smentita in fretta, vista la sua burrascosa
relazione con un idiota impacchettato.
Aveva
imparato ad apprezzare le battute taglienti della sua amica, quel modo
di fare
strafottente della serie “niente mi tocca”, quel suo modo di vestirsi
sciatto e
slabbrato che non valorizzava per niente il suo bel corpo di donna.
L’aveva
apprezzata perché lei aveva apprezzato lui.
Normale.
«Ho
dormito. Sai, è domenica. Ho fatto finta di studiare per il Compito in
Classe
di Filosofia e, rullo di tamburi, ho suonato.»
Forse
il vero motivo per cui Anne e Matteo erano diventati amici per la pelle
era
stata la passione per la musica che avevano in comune: adoravano
entrambi il
modo in cui Mick Jagger muoveva i fianchi sul palco, mettendo in
evidenza il
suo spropositato pacco, per non parlare delle alzate di ginocchio che
Axl Rose
si faceva durante i live dei Guns N’ Roses.
Insomma,
rock n’ roll e maschioni era la combinazione giusta per i due ragazzi.
Matteo
lanciò uno sguardo alla sua chitarra basso, appoggiata alla televisione ̶
pagata pochi euro ad una svendita di elettronica ̶
:
quello strumento era tutto ciò che lo aveva salvato, quando si sentiva
solo,
chiuso nella sua piccola stanza, quando le lacrime gli bagnavano le
guance
arrossate dalle manate ricevute dalla madre, quando avrebbe voluto
strapparsi
tutti i capelli perché iniziava a credere di essere davvero anormale.
Quando
succedeva qualcosa di simile, be’, Matteo prendeva il suo basso e
iniziava a
suonare, estraniandosi dal mondo, sentendosi a casa
una volta per tutte.
«Ti
ricordi quel maniaco che ha cercato di placcarmi, ieri sera al Porto?»
Oh,
si che se lo ricordava.
Era
un gran bel pezzo di uomo, con due enormi occhi chiari e dei capelli
neri,
decisamente maltenuti e tagliati alla bell’e meglio. Beh, quel tizio
tutto pepe
era arrivato quasi correndo, bloccando Anne per un braccio e iniziando
uno
sproloquio incomprensibile con parole del tipo “Tu”, “Rock N’ Roll”,
“Ti ho
sentita dentro al locale”.
I
due amici si erano guardati con aria preoccupata e se l’erano data a
gambe
prima di sentire cosa quel malato aveva da dirgli; era sicuramente un
ubriacone
che stava cercando di portarsi a letto la sua amica, Anne.
«Si,
era un bel bocconcino.»
Guardò
l’amica e si rese conto che se fosse stato eterosessuale,
probabilmente,
sarebbe stato attratto da lei, perché era proprio una gran bella
ragazza.
Peccato,
le donne glielo facevano ammosciare.
«Credo
di averlo già visto da qualche parte, sai?»
Beh,
lui se li ricordava i bei ragazzi quando li vedeva e se avesse già
incontrato
lo psicopatico della sera precedente, se lo sarebbe certamente
appuntato al
cervello con un Post-it.
Si
limitò a scrollare le spalle, certo che Anne stesse dando troppa
importanza ad
un tipo arrapato con tanta voglia di andare a letto con lei.
Certe
volte era così ingenua e lui
doveva proprio insegnarle tutto.
«Anne,
dolcezza.» disse con tono risoluto, stringendole le mani nelle sue «Non
è stato
un incontro alla Dirty Dancing, anche perché Patrick è decisamente più
sexy di quel
ceffo di ieri… Ma… Oddio, cosa stavo dicendo? Oh, sì, giusto.
Dimenticati
l’accaduto, fidati.»
L’amica
sbatté le palpebre due o tre volte con aria stordita, poi prese a
ridere a
crepapelle, quasi avesse appena sentito la battuta più divertente del
mondo.
Matteo si sentiva offeso nel personale: stava ridacchiando forse per le
sue
parole?
Le
diede le spalle, mettendole il broncio proprio come fanno i bambini
piccoli
quando la mamma dimentica di comprargli le caramelle.
«Oh,
Dio, Matte! Sei esilarante! Volevo solo dirti che quell’imbecille l’ho
visto
alla lavanderia a gettoni di Corso Duca!» riuscì infine a dire non
appena le
risate furono placate.
Oh,
certo, sono proprio esilarante.
Ecco,
lo sapeva, era uno dei lati del suo carattere che più detestava, ma non
riusciva a trattenersi, ci aveva provato diverse volte, eppure
continuava a
farsi prendere dal nervoso.
Sì,
era decisamente permaloso.
«Ma
certo, la lavanderia a gettoni.» sbuffò alzandosi a prendere un
bicchiere
d’acqua, con colonna sonora il risolino di Anne.
Quelle
dannate pesche erano ancora sul suo tavolo.
Maledizione!
****
Riccardo
guardò per l’ennesima volta il suo orologio da polso comprato per due
soldi al
mercato dell’usato, dove si trovavano sempre buone occasioni.
Tre
minuti.
Solo
più tre dannatissimi minuti e poi sarebbe potuto andare in pausa
pranzo, per
mangiare il solito schifoso panino al bar dietro l’angolo, in compagnia
di
Davi.
Si
piegò, sentendo la schiena dolergli atrocemente, mentre prendeva un
altro
scatolone di conserve e lo posizionava sul grosso scaffale del
supermercato.
Fare
il magazziniere non era
proprio il massimo, no.
Gli
era andata ancora bene se si stava a guardare lo stormo di giovani
disoccupati,
senza diploma e in cerca di un lavoro: si doveva ritenere fortunato,
aveva una
casa e un coinquilino che non rompeva le palle.
Ed
è anche esageratamente carino.
No.
No, quella non ero un concetto che doveva stare nella sua mente. Forse
in
quella di una bella ragazza con una quarta di reggiseno, ma non nella sua. Ecco.
Si
costrinse ad eliminare quell’ultimo pensiero, sudando freddo per lo
sforzo di
sopprimere ogni riflessione simile.
Che
diavolo hai nel cervello,
Riccà?
«Due
minuti, Riccardo!» gli sorrise Francesca, una dolce ragazza che
lavorava con
lui da ormai un annetto; era una di quelle donne che avrebbero fatto
andare
fuori di testa qualsiasi uomo: un bel seno abbondante, due lunghe gambe
magre e
un sedere alto e sodo. Per non
parlare
del viso angelico e i capelli biondi e lisci.
Una
vera fata.
E,
si, ci provava spudoratamente con lui da mesi a quella parte; aveva
cercato in
tutti i modi di uscire con lui: gli aveva chiesto di andare a bere
qualcosa
dopo il lavoro, di fare una serata tra colleghi. Ma lui non aveva
alcuna voglia
di vedersi con lei.
Prima
cosa perché era troppo perfetta
per
avere a che fare con un poco di buono, vecchio punk dai cappelli verdi
come
lui, che nella vita aveva solo un obiettivo: fare
musica.
E,
come seconda cosa, proprio non gli andavano a genio quelle grosse
tette.
Sembravano due respingenti pronti a mangiarti e a risucchiarti: in
effetti gli
facevano un po’ di paura.
Che
cazzo stai dicendo, Riccardo?
Ci
aveva provato, davvero. Una volta, prima dell’orario di chiusura, era
andato da
lei deciso a proporle di uscire, perché Davide sarebbe stato fiero di
lui se
gli avesse detto che si era portato a letto una gnocca
del genere, ma non ci era riuscito: aveva guardato quelle
sue gambe sinuose, i fianchi morbidi e… la sua vagina.
Dovette
coprirsi la bocca per non far vedere l’espressione disgustata che era
apparsa
sul suo viso.
Poteva
sopportare le carezze, la mani lungo la schiena, persino i baci, ma non la vagina.
Non
la reggeva, nonostante gli sforzi per farsela piacere: aveva guardato
ore e ore
di porno, sperando di vedere il suo pacco alzarsi e invece niente, era
rimasto
tutto come prima.
Forse
dovrei andare da un
andrologo. Forse ho una disfunzione erettile o qualcosa del genere.
Si
girò di nuovo verso Francesca, ammirando quei lunghi capelli setosi,
che
avrebbero fatto impazzire qualsiasi uomo sulla faccia della Terra.
Tranne
lui.
Un
minuto.
Solo
più un fottutissimo minuto e poi sarebbe potuto scappare, addentando un
grosso
panino alla mortadella, cercando di dimenticare il viso dolce della sua
collega.
Non
sopportava di essere osservato da lei.
Every
single day, every word you say, every game you play, every night you
stay, I’ll
be watching you…
Si,
quella situazione gli aveva fatto tornare in mente una canzone dei
Police che
aveva ascoltato parecchie volte, durante le notti buie della sua vita.
Posizionò
un altro barattolo di sugo al pomodoro sull’apposito scaffale, quello
vicino
alle olive in scatole, alle acciughe e ai cetriolini.
“Niente
è lasciato al caso al
Supermercatino”
Che
razza di slogan poteva mai essere? Di sicuro non faceva venire voglia
alle
persone di andare a fare la spesa in quel buco di fogna! Faceva quasi
più
schifo del nome stesso del supermercato.
Cazzo,
ho finito il turno.
«Siamo
liberi!» esclamò sorridendogli Fra, che si fiondò all’uscita nel retro.
Liberi
un cazzo, pensò
Ricca scendendo dalla scala a pioli con una certa disinvoltura. Si
sarebbe
dovuto subire l’ennesima ondata di lamentele di Davide, che avrebbe
preso a
raccontargli quale grandiosa occasione si era lasciato sfuggire, la
sera
precedente; il suo amico si era fissato con una ragazzetta adolescente
che
aveva detto qualcosa a riguardo del rock, al Porto.
Si
era anche fatto una clamorosa figura di merda, cercando di attaccare
bottone.
Che
coglione.
Riacciuffò
il giubbotto di pelle che aveva abbandonato sopra una pila di scatole,
per poi
uscire finalmente all’aria aperta, inebriandosi dell’odore di
inquinamento
della splendida Torino.
Sfilò
dalla tasca dei jeans un pacchetto di Winston Blue: Davi diceva che
quella
marca di sigarette faceva proprio schifo e che non capiva come
potessero
piacergli; d’altra parte, anche lui detestava le Marlboro Rosse, fedeli
compagne del suo coinquilino.
Si
accorse che il suo accendino aveva stampata la foto di una bionda dalle
tette
enormi e un sedere così spropositato che sembrava finto. Si dovette
trattenere
per non bestemmiare.
Svoltò
l’angolo e si ritrovò davanti al solito, piccolo bar dove lui e Dav
consumava i
pranzi nelle giornate di lavoro. Quando spinse la porta, un
campanellino
tintinnò, dando il segnale che un nuovo cliente era entrare nel locale.
«Cazzo,
Ricca! Potevi metterci un po’ più di tempo!»
Buongiorno
anche a te, Davide.
«Vaffanculo!
Lo sai che in quel cesso di negozio spaccano il minuto.»
Il
suo amico indossava una tuta blu da meccanico, sporca di olio e altre
sostanze
come benzina, proprio per via del lavoro che svolgeva.
Davi
era entusiasta di smontare pezzi di carrozzerie almeno quanto lui lo
era di
mettere in fila stupidi barattoli di sottaceti; ma in qualche modo
dovevano
procurarsi i soldi per il cibo, le spese dell’affitto e per “lo sballo
del
sabato sera”.
Perché
senza lo sballo del sabato
sera saremmo tutti e due fottuti.
Ordinarono
due sandwich con cotoletta e maionese e due birre medie, mentre
Riccardo
pensava a tutta la cocaina che si era sniffato in vita sua; aveva
iniziato
precocemente a far uso di droghe, forse a causa del suo malessere
interiore,
per la sua voglia di voler scappare da sé stesso.
Continuava
a pensare che se si fosse ridotto in uno stato così pessimo da non
capire più
niente, allora magari sarebbe finalmente riuscito ad andare a letto con
una
donna e a vedere il suo pene dare segni di vita.
Era
una cosa tanto stupida?
«Cazzo,
Ricca! Girati!» Gli occhi di Davide
erano sgranati e la sua voce così emozionata che sembrava aver appena
visto…
Oh,
la tipa di ieri sera.
La
ragazzina dai capelli simili ad una criniera di un leone era appena
entrata nel
bar e si guardava intorno in cerca di un posto a sedere; aveva una
stramba
pettinatura, si, ma nel complesso era una ragazza carina che emanava
determinazione da tutti i pori.
Si
girò, quasi stesse cercando qualcuno e, in effetti, qualcuno
lo stava davvero cercando: dietro di lei comparve un
ragazzo alto e snello, con due occhi enormi da cerbiatto, i capelli
scuri e a
spazzola e un portamento degno di Ricky Martin.
Riccardo
dovette sbattere più volte le ciglia prima di rendersi conto che non
era un
allucinazione, ma c’era davvero un uomo così sexy
a Torino.
Ok,
Ricca, questo non è un pensiero
che fa per te.
Ma
come poteva distogliere gli occhi da un essere del genere? Non si
poteva, si
disse cercando di auto convincersi che fosse normale che un uomo
rimanesse
sconvolto alla vista di una persona del suo stesso sesso, solo perché
molto
attraente.
Ma
poi gli uomini pensano che altri
uomini sono attraenti?
«Oh,
Fanculo, Matte! C’è quel pazzo di ieri sera!»
Be’,
Davide, ti ha riconosciuto. Ma
adesso ho anch’io un motivo per perseguitare la tua rossa.
****
Salve
miei cari lettori,
sono
di nuovo io, Eryca, con
un altro
capitolo di “Sogni di Rock n’ Roll”.
Tanto
per iniziare spero che abbiate
gradito il testo e che abbiate apprezzato questo mio soffermarmi sui
pensieri e
i malanni di Matteo e Riccardo, due dei quattro protagonisti; Matteo è
omosessuale dichiarato ̶ come
già detto nel primo capitolo ̶ mentre
invece, per Riccardo, la situazione è un po’ più
complicata: come si è già capitolo, il personaggio è gay, però non sa
di
esserlo o meglio non vuole ammetterlo a sé stesso.
Quindi,
cosa succederà a questi due
poveri ragazzi? :D
Nel
prossimo capitolo ci sarà da
ridere, perché sarà il primo incontro effettivo tra i quattro
protagonisti.
Spero la storia vi stia
incuriosendo, se vi è
piaciuta o avete qualcosa da dirmi lasciate una recensione e vi
risponderò
molto volentieri.
Eryca.
|
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Capitolo 3 *** Colpevole ***
3.
Colpevole
For the music is your
special friend
Dance on fire as it intends
Music is your only friend
Until the end
Until the end
Until the end
The Doors, “When the Music’s Over”
Davide
alzò i suoi grandi occhi in tempesta e incontrò quelli di una riccia
che
sembrava esplodere dalla follia, cosa che lo affascinava estremamente.
Era
lei.
Era
la tipa della sera precedente, quella che lo aveva fatto dannare,
quella che conosceva il
significato della parola
“musica” e lo comprendeva anche.
Pensò
che avrebbe dovuto dire qualcosa di così tosto che la ragazza non
avrebbe
aspettato altro che sedersi al tavolo con lui, per mettersi a discutere
su
quale fosse il sottogenere del rock più forte, quale meno d’impatto.
Ma
Davide non era uno che diceva cose toste; era piuttosto il tizio che
amava fare
casino, stonarsi, quel “bello e dannato” che incantava le ragazze ma
poi non
aveva niente di interessante da offrire, se non la lista dei cento
chitarristi
più bravi al mondo. Forse era per quel motivo che le sue relazioni non
erano
mai andate in porto, se non per una scopata o due.
Ma
adesso non stava pensando ad altro se non a chiacchierare di musica con
quella ragazzetta.
Per
un istante, si
soffermò sulle caratteristiche
fisiche di lei: aveva una massa di capelli rossi indomabili che le
davano
un’aria ribelle, ma allo stesso tempo la sfiguravano, nascondendole il
viso dai
lineamenti dolci; portava una maglietta slabbrata dei Ramones, che cadeva morbida sui
suoi larghi pantaloni di
jeans.
Era
una di quelle ragazze nella media, che non noti per strada: non era
brutta, non
era bella.
Carina,
si
disse Davide soffermandosi sul culo della rossa che, a differenza del
resto,
valeva dieci e lode.
«Ehi!»
la chiamò, cercando di attirare la sua attenzione.
La
ragazza si girò, l’espressione del viso altezzosa di chi non ha tempo
da
perdere, un sopracciglio inarcato come a dire “Che cazzo vuoi, adesso?”
e una
mano sul fianco.
Questa
tipa è tosta.
Il
tipo che stava dietro di lei sembrava appena uscito da un salone di
bellezza,
ma allo stesso tempo riusciva a risultare convinto di sé stesso;
indossava una
felpa dei Guns N’ Roses: bingo,
pensò
Davi, un altro.
I
due si avvicinarono al loro tavolo e Davide si sentì emozionato come un
bambino
non appena riceve una bicicletta in regalo, forse perché era da troppo
tempo
che attendeva di fare una discussione come si deve con qualcuno che non
fosse
Ricca.
Ricca
che
sembrava essersi incantato sul ragazzo dall’aria curata.
La
rossa appoggiò un gomito sul tavolo, in una posizione a novanta gradi
che fece
venire a Davide strane idee.
«Che
cazzo vuoi da me? » domandò con un sorriso, come se gli avesse appena
chiesto
di offrirle un drink o di accompagnarla a casa per una scopata.
Adesso,
si
disse, adesso devi dire una frase
d’effetto.
Ma
lui non stava pensando a nessuna stupidissima frase ad effetto, perché
quella
non era una commedia con Hugh Grant e Cameron Diaz che si incontrano in
un
parco e si baciano al chiaro di luna; quella era la fottutissima realtà
e lui
smaniava per chiederle se secondo lei i padri del Classic Rock erano i
Doors o
i Velvet Underground.
Si
sarebbe accontentato di poco.
«I
Doors.» disse infine, un solo nome, un cenno con la testa ad invitarla
a
sedersi.
Lei
sembrò confusa, si girò verso il suo amico quasi a volergli domandare
silenziosamente cosa ne pensasse di questo
maniaco che continuava a tormentarla e che adesso se ne
usciva con il nome
di una band a casaccio.
Ma
doveva rispondergli.
Doveva.
Altrimenti Davide si sarebbe definitivamente rotto il cazzo della
musica,
avrebbe smesso di inseguire quel suo stupido sogno e si sarebbe messo a
lavorare sul serio, avrebbe messo su famiglia e sposato una donna a cui
sarebbe
venuto il seno cadente e la pancia flaccida.
Se
non avesse risposto alla sua domanda, avrebbe smesso con il rock.
Non
si rendeva conto del perché proprio quella ragazza dovesse avere un
ruolo tanto
significativo nel prendere una scelta così importante per la sua vita,
anche se
sentiva nel profondo che quella sarebbe stata l’ennesima sconfitta nel
mondo
della musica; era come una metafora: la ragazzina con la maglia dei
Ramones era
paragonabile ad un’Etichetta discografica che rifiutava di metterlo
sotto
contratto.
Rispondimi,
ti prego.
«I
Doors sono la storia del rock, hanno dato inizio a tutto. Altro che
Beatles!»
Mentre
lei si sedeva e il suo amico prendeva una sedia mettendosi al tavolo
anch’egli,
Davide sentì che un sorriso si stava aprendo sul suo volto, anche se
non lo voleva,
anche se avrebbe voluto fare la figura del ragazzo misterioso che non
ride mai.
La
cameriera arrivò e prese le ordinazioni dei due nuovi clienti: coca
cola e
patatine fritte.
Non
dovevano avere più di diciannove anni, probabilmente frequentavano
ancora il
liceo, perché non aveva ancora quell’espressione rassegnata sul volto,
quella
che era nata in Davide tanti anni prima; non avevano ancora quegli
occhi privi
di spirito di iniziativa, perché quel verde smeraldo che popolava le
iridi
della rossa era ancora colmo di sogni e speranze.
Era
ancora una ragazzina.
Anche
Davi, anni prima, aveva la mente ricca di obiettivi e, invece di
ascoltare le
lezioni della scuola professionale, si concentrava sull’assolo di
chitarra
elettrica che avrebbe voluto fare, davanti ad un migliaio di persone.
Poi
aveva preso la maturità con un calcio nel culo, era uscito e si era
reso conto
che la vita non era proprio come aveva pensato: non c’era un gruppo di
persone
con carta e penna, pronti ad aspettarlo per fargli firmare il suo primo
contratto. Non c’era nemmeno più suo padre ad aiutarlo, troppo avido
per
continuare a mantenerlo.
Si
era dovuto confrontare con la vita reale, con il vivere da solo perché
i tuoi
genitori non sono più obbligati a mantenerti, con il lavoro quotidiano,
l’affitto mensile e la vicina di casa che urla di pulire le scale, una
volta
tanto.
Ma
quel giorno, aveva voglia di sentirsi ancora un po’ bambino.
«No,
dai! E i Velvet Underground, dove li metti?» intervenne Riccardo,
visibilmente
eccitato dal dibattito appena nato.
Tutto,
in quel tavolino, sembrava avere finalmente iniziato a vivere.
Forse
se qualcuno avesse potuto leggere nella mente di Davide avrebbe pensato
che
fosse un esagerato, che respirava anche prima, mentre montava il
tergicristallo
di quella vecchia Uno grigia. Ma loro non potevano capire, non potevano
sapere.
Perché
Davide non respirava.
Davide
viveva con il fiato corto, con il setto nasale deviato, con i polmoni
atrofizzati, con la vista annebbiata.
Ma
in quel momento, sentì che stava davvero smettendo di agonizzare e
iniziando a inspirare.
Inspirare.
Espirare.
Non
sembrava troppo difficile, in fondo, se c’era la
vita a contornarlo, se c’erano persone con il cuore che
batteva
non perché così doveva essere, ma perché desideravano
disperatamente sentirlo pulsare, perché si aggrappavano alla
vita e
gioivano per essa.
Vivevano.
Perché,
in quel tavolino, tutto sembrava avere finalmente iniziato a vivere.
La
musica era vita.
Davide
respirò.
****
Anne
guardò uno ad uno i compagni che aveva appena acquistato: i loro occhi
brillavano di una luce diversa da quella che si accende la sera quando
è buio,
ma più simile a quella che si intravede filtrare dalle tende della
finestra, la
mattina appena svegli.
Vita.
Aveva
dato del maniaco, la sera precedente, ad un ragazzo che in realtà
condivideva
quel suo modo di vedere il mondo, la vita, le cose. Di respirare.
Quel
modo che era la musica.
Non
appena il ragazzo dagli occhi chiari aveva pronunciato il nome della
band più
strepitosa di tutti i tempi, il suo cuore aveva preso a battere
all’impazzata,
perché si era appena reso conto ̶ senza l’approvazione del
cervello ̶ che
aveva trovato un nuovo compagno di giochi.
Così
le sue gambe avevano camminato senza di lei, i suoi piedi si erano
fermati
senza che la sua mente glielo ordinasse, la sua bocca aveva parlato
senza che
lei potesse frenarla.
Vita.
«Suoni?»
chiese improvvisamente il maniaco, interrompendo
lo sproloquio che il suo amico stava tenendo.
Una
domanda. Rivolta a lei.
Era
una semplice domanda, non era difficile rispondere, eppure sentiva che
la voce
non riusciva a uscire, perché… era
emozionata.
Nessuno
avrebbe mai compreso, avrebbero tutti detto che era pazza, che non
poteva
commuoversi nel sentirsi domandare una cosa del genere, eppure il suo
corpo
aveva reagito senza che lei potesse fare nulla.
Le
era venuta la pelle d’oca.
Le
era venuta la pelle d’oca perché
sapeva cosa quel quesito comportasse.
Lei
sapeva.
Lui
sapeva.
Vita.
«Canto.»
Gli
occhi del ragazzo si spalancarono per un attimo solo, prima di
luccicare
nuovamente, con quello sprizzo di vita che solo i quattro ragazzi in
quel
tavolo poteva comprendere fino in fondo.
La
testa scura si rivolse a Matteo, che subito si rese conto della domanda
implicita
che il ragazzo gli stava rivolgendo.
Anne
non sentiva più niente se non il suo sangue scorrere impazzito, come
stesse
facendo a gara con il respiro: vinceva chi andava più veloce.
Afferrò
il bicchiere di vetro davanti a lei e prese a sorseggiare la Coca Cola,
quasi
fosse un tic, un’azione che non poteva evitare di fare, perché da
quella
bevanda dipendeva tutta la sua vita.
Da
quella conversazione dipendeva
tutta la sua vita.
«Chitarra
Basso.»
Le
parole di Matteo si persero nell’aria, ma rimasero impresse nella mente
di
ognuno di loro, come se da esse potesse scaturire il buco nell’ozono,
la pace
nel mondo, la guerra con gli alieni.
Vita.
Tutto
era diventato vita. Tutti i sospiri, tutti gli sguardi, tutti i
silenzi, gli
attimi di condivisione, perché ogni piccolo segno di vita voleva
significare
che loro non erano lì perché le loro madri li avevano messi al mondo.
Loro
erano lì perché erano in vita.
Fu
il ragazzo dai capelli verdi a parlare. «Batteria.»
Vita
vita vita vita.
Si
sentiva un po’ come un albero che dipende dalla fotosintesi, con la
linfa che
scorre nelle sue nervature, con quella vita
che faceva nascere i frutti, nuove
vite.
Ora
non sentiva più le urla dei vecchietti che se ne stavano seduti in
quella
bettola, intenti a guardare il telegiornale. Vide il proprietario del
bar con
indosso uno strambo grembiule spiegante che “il
cuoco più sexy del mondo” era proprio lui.
Anche
quel rumore che fuoriusciva dalle casse, e che doveva essere musica,
scomparve
dalla mente di Anne, che non riusciva più a sentire niente.
Niente
se non ciò che stava accadendo intorno a quel tavolino.
Vita.
«Chitarra
Elettrica, Acustica e Canto.» spiegò infine il maniaco, guardando
dritto nei
suoi occhi.
Sentì
che si sarebbe potuta perdere in quell’oceano azzurro che l’aveva
catturata,
impedendole di girare lo sguardo verso qualcos’altro che non fossero
quegli
occhi.
Vita.
Si
liberò da quella gabbia celeste e prese a scrutare uno ad uno i suoi
compari,
proprio come se stesse cercando di individuare un assassino, un
colpevole.
Lei
era colpevole.
Colpevole
di essersi innamorata di un essere che non intendeva sentirsi
respingere, che
poteva essere placato solo con il sangue, solo donandogli l’anima, per
sentirsi
completamente assuefatti ad esso, senza potersi sottrarsi, senza volersi sottrarsi.
Colpevole.
Era
colpevole di non essersi alzata da quel tavolo e aver iniziato a
correre
lontano da quel bar, da quelle sensazioni, da quei tre ragazzi che
ormai
l’avevano legata a loro, per sempre.
Colpevole.
Era
colpevole di aver rovinato i piani di Matteo, che voleva starsene in
casa sua
tutto il giorno per suonare un po’, e invece l’aveva fatto uscire,
l’aveva
fatto andare dentro a quel locale, dove si erano incatenati a due
perfetti
estranei, per sempre.
Colpevole.
Era
colpevole di non aver ascoltato sua madre, di non essere rimasta in
camera sua,
il libro aperto sulla scrivania a studiare una di quelle tante materie
inutili
che le avrebbero fatto prendere un pezzo di carta utile
per fare qualsiasi cosa nella vita.
Colpevole.
Era
colpevole di essere sé stessa, di non poter fare semplicemente quello
che le
persone le consigliavano, di non poter dire “sì”, di non poter rimanere
in casa
a studiare, di non poter lasciare Matteo solo a vegetare, di non poter
alzarsi
dal tavolo e correre, di essersi innamorata.
Era
colpevole di aver donato tutta
la sua anima alla musica.
Non
c’era persona più colpevole di lei.
Era
colpevole anche in quel momento, mentre tutti sapevano ciò che stava
per
accadere, ma nessuno aveva il coraggio di dire nulla o muovere anche
solo un
muscolo.
C’era
musica nell’aria, lei la sentiva.
Loro
la
sentivano.
Vita.
Poteva
udire il silenzio trasformarsi in un grido acuto, in un pianto
disperato, in un
urlo di gioia; sentiva il rumore dei bicchieri mutarsi in un do acuto,
in una
richiesta di aiuto, in un’indulgenza.
Ogni
cosa,
in quel momento, stava girando attorno alla musica.
Anne
stracciò un pezzo di quella tovaglia di carta, una di quelle che si
trovano al
discount per pochi denari o ̶ come stava pensando
Riccardo, anche se lei
non poteva saperlo ̶ al Supermercatino.
Aprì
la borsa rovinata e prese a rovistare in quella confusione che solo lei
riusciva a creare, finché non trovo ciò che stava cercando: l’astuccio
per i
trucchi.
I
ragazzi la guardavano incuriositi, intimoriti di fare anche solo una
semplice
domanda, spaventati dall’interrompere quel momento di condivisione
assoluta,
dove anche ciò che stava facendo Anne aveva un senso.
Fece
scorrere la cerniera lampo del beauty case e si rese conto che aveva
tutti gli
occhi puntati addosso, come se stesse aprendo una bomba a mano, in uno
di quei
film hollywoodiani.
Tirò
fuori un il rossetto che era solita applicare sulle sue labbra, nelle
serate
brave della sua giovinezza, e prese a scrivere una serie di cifre sul
pezzo di
tovaglia.
Tutti
loro sapevano cosa stava a significare.
C’era
musica nell’aria.
Schiaffò
il biglietto sul tavolo, proprio sotto al viso di Davide ̶
un
viso che era bello come pochi ̶ e guardò dentro a quegli
occhi azzurri ̶
quegli splendidi occhi
azzurri.
Tutti
stavano aspettando la sua prossima mossa.
C’era
musica nell’aria.
Si
alzò dal tavolo ̶ seguita a ruota di scorta
da Matteo, che
sembrava essere realmente interessato al ragazzo dalla cresta verde ̶
e
puntò di nuovo il suo sguardo in quello del maniaco.
«Io
sono Anne. Lui è Matteo.» il tono di voce neutro «Quello è il mio
numero di
telefono, chiamami e ci metteremo d’accordo per il prossimo incontro.»
Tutti
sapevano cosa stava a significare.
Non
erano in cerca di un appuntamento, di una scopata, di una storia
d’amore; non
stavano pensando all’attrazione fisica, alla pelle contro la pelle.
C’era
musica nell’aria.
«Io
sono Davide.» disse il “maniaco” «e lui è Riccardo.», il ragazzo dal
crestino
verde salutò con un’espressione del viso divertita.
«E
ti chiamerò.»
Sul
viso di Anne apparve un sorrisetto sghembo, uno di quelli che le
uscivano fuori
solo quando sapeva di aver ottenuto esattamente quello che voleva,
quando
sapeva di aver vinto.
Girò
sui tacchi, senza accertarsi che il suo migliore amico fosse dietro di
lei,
perché sapeva che era dietro di
lei,
sempre e comunque.
Tutti
sapevano che si era appena verificato uno di quei cambiamenti che
accadono una
volta su mille, nella vita.
Si
era appena creata una nuova rock
band.
Colpevole.
****
Eccomi
qua, ragazzi.
Questo
capitolo è quello che da la
svolta alla storia: si è formato finalmente il gruppo, composto dai
nostri
quattro protagonisti.
Vorrei
farvi soffermare sulle
considerazioni personali di Anne, perché sono le
mie: esattamente, è ciò che penso io quando canto. Sorpresa!
Si,
canto. Beh, era un po’ impossibile, altrimenti, scrivere una storia del
genere
senza sentire la musica un po’ personale.
Ma,
in fondo, lo si può benissimo fare
anche solo ascoltando una canzone allo stereo: la musica è patrimonio
di
chiunque.
Ok,
dopo questo piccolo svarione vi
chiedo di recensire se leggete, perché mi farebbe davvero un immenso piacere conoscere i vostri
pareri su questa storia, altrimenti non saprei proprio se piace oppure
meno.
Un
abbraccio,
Eryca.
|
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Capitolo 4 *** Mostro ***
4.
Mostro
I
mostri che
abbiamo dentro
che
vagano in
ogni mente
sono
i nostri
oscuri istinti
e
inevitabilmente
dobbiamo farci i conti.
Giorgio
Gaber – I mostri che abbiamo dentro
Riccardo
diede un ultimo sguardo alla stanza stracolma di strumenti: la sua
batteria se
ne stava buona in un angolino, lontana dai microfoni, vicini
all’ingresso.
Gli
piaceva così tanto contemplare il luogo in cui tutto nasceva,
in cui le loro menti si univano per tracciare nuove linee
musicali, nuove strofe, nuovi giri di chitarra.
Il
quaderno ad anelli di Anne era appoggiato al pavimento, con le sue
macchie di
caffè e quell’aria vissuta, le pagine un po’ stropicciate e ancora
aperto sul
foglio sporco di inchiostro, pieno di scarabocchi, di parole che
avrebbero
dovuto dar vita ai loro pensieri, riunendoli in un testo.
Quanto
tempo era che andavano avanti con quella storia?
Mesi.
Dovevano
essere passati mesi dal fatidico incontro in quel bar di periferia,
dove avevano
stabilito che si sarebbero uniti per formare un gruppo musicale.
E
l’abbiamo fatto, pensò
Ricca guardando la chitarra di Davide abbandonata sul pavimento
rivestito di
moquette grigia.
Il
suo coinquilino aveva veramente richiamato Anne e si erano messi
d’accordo per
un nuovo appuntamento nello stesso bar, dove avevano preso a parlare di
genere
musicale, luogo dove avrebbero potuto fare le prove e incontri
settimanali.
Tutta
una questione burocratica, si
disse Ricca, nonostante non conoscesse il significato della parola
“burocratico” e non sapesse neanche se fosse il termine giusto per quel
contesto; ma lui non si poneva certe domande.
Gli
bastava sapere che fuori da quella Sala Prove che affittavano tre volte
alla
settimana c’erano Anne, Davide e Matteo intenti a fumare una sigaretta,
come
per consacrare la fine di quelle prove.
In
realtà Riccardo aveva una voglia tremenda di avere le sue ferie
annuali, ma era
solo Maggio e le vacanze sarebbero arrivate non prima di Agosto, quindi
doveva
mettersi il cuore in pace e sfogarsi in quelle serate dopo il lavoro.
In
quei mesi di musica, era finalmente rinato. Quando era incazzato,
triste o
semplicemente non aveva voglia di confrontarsi con quel mondo
difficile,
chiedeva ai ragazzi di andare alla Sala Prove e si mettevano a comporre
musica,
a strimpellare.
E
tutto andava meglio.
Vita.
Per
il primo periodo avevano solo suonato qualche cover, in modo da
prendere
confidenza l’uno con l’altro, di capirsi nel piano musicale e di
conoscersi
bene come musicisti; era servito un po’ per far sciogliere il ghiaccio.
Da
qualche settimana, invece, Davide aveva buttato giù l’idea di comporre
dei
brani, di far uscire la loro creatività e dar sfogo alle idee; si erano
subito
trovati sulla stessa lunghezza d’onda.
Ma
ciò che aveva sconvolto di più i ragazzi era stata la genialità di
Anne; oltre
ad avere una voce spettacolare ̶ una voce molto underground, forte, gracchiante e sicura ̶ , la ragazza si era
rivelata una
compositrice all’altezza dei più grandi artisti della storia della
musica.
I
suoi testi erano inni alla libertà, che allo stesso tempo cantavano il
suicidio, la morte e il dolore; riusciva a esprimere tutte le emozioni
più
profonde e malate dell’animo umano, senza vergognarsi del fatto che
stava
mettendo su un foglio di carta il suo disperato bisogno di sentirsi in
vita.
Quando
Anne iniziava a canticchiare, per far sentire ai compagni ciò che aveva
buttato
giù, tutti gli occhi si puntavano su di lei, incapaci di guardare
altrove.
Magnetica.
E
di certo Riccardo non si era fatto scappare il fatto che Davide
sembrava avere
occhi solo per lei, quando era con loro.
Sperava
che il suo coinquilino avesse avuto meno intuito di lui e non avesse
notato
quanto non riuscisse a smettere di fissare il perfetto culo sodo di
Matteo;
quel sedere era così bello che avrebbe fatto commuovere persino uno
stilista di
alta moda.
Perché
pensi queste cose, Riccà?
Ormai
si poneva quelle domande mentali quasi per disperazione, senza più
rabbia ma
con un filo di rassegnazione, perché sapeva che non sarebbe stato
capace di
cambiare ciò che sentiva.
Non
poteva cambiare il fatto che davanti a Matteo il suo cuore prendesse a
battere
come in uno di quei film strappalacrime hollywoodiani, quelli che si
guardavano
le donne di mezza età rassegnate e zitelle.
Riccardo
comprendeva di essere diverso.
Lui
sapeva che anche se si ostinava ad andare in giro per locali con
Davide, in
cerca di belle ragazze con le tette grosse
̶ respingenti
abnormi che lo
facevano rabbrividire ̶
, non avrebbe
mai provato delle emozioni guardandole. Si rendeva conto che non
avrebbe mai
smaniato per tenere una di quelle donne tra le braccia, per sentire il
suo
cuore battere sul suo.
Però
sentiva che avrebbe voluto che
Matteo
lo stringesse forte, che gli accarezzasse i capelli e gli mormorasse
stupide
paroline romantiche da dodicenne, che lo coccolasse e lo viziasse.
Avrebbe
voluto sentire Matteo dentro di sé.
Mentre
si rendeva conto di quel pensiero alieno, Davide entrò nella saletta,
inducendolo a mettersi una maschera di apatia per nascondere lo
sgomento che
era sorto in lui.
«Niente
sigaretta magica post-prove, oggi?»
lo canzonò l’amico, mentre prendeva la sua chitarra pronto per andare
verso
casa.
Altro
che sigaretta magica, mi ci
vorrebbe una quantità industriale di cocaina.
Si
sentiva un mostro.
Avrebbe
voluto prendere quella cazzo di testa che si ritrovava e sbatterla
contro il
muro finché non avrebbe smesso di fare certi squallidi pensieri.
Perché
era da deviazione mentale pensare
di
voler andare a letto con un uomo, che non aveva la vagina ma bensì un
fottutissimo pene.
“Riccà,
bello mio, li vedi quei due
che si baciano vicino alla fontana? Sono mostri! Non sono mica normali,
sai?”, gli
ripeteva sempre suo padre, da piccolo, con quel marcato accento di Roma
che,
nonostante abitasse a Torino da anni, non riusciva a far sparire.
Mostro.
E
quel maledetto di suo papà aveva ragione, perché era nel normale
ciclo della vita che un uomo fosse attratto da una donna
per procreare, per istinto di sopravvivenza.
Era
anormale vedere due uomini
avvinghiati,
perché non poteva riprodursi, non erano essenziali né utili per la
continuità
del genere umano.
Seguì
il suo amico fuori dalla stanza e si fermò per chiudere il portone del
vecchio
garage che il padre di Anne aveva loro prestato per fare le prove.
Mostro.
Non
appena si voltò incontrò gli occhi da cerbiatto di Matteo, che lo
fissava con
l’aria di volerselo mangiare, pezzo per pezzo, gustandoselo come un
piatto
prelibato.
Riccardo
avrebbe disperatamente voluto farsi mordicchiare da lui.
Si
sentiva un mostro.
Si
accese una Winston Blue, cercando di non pensare a quanto le spalle del
bassista fossero grosse. Sarebbe dovuto essere così
bello aggrapparsi ad esse…
No.
«Andiamo
a bere qualcosa tutti insieme?»
La
voce di Matteo ruppe il silenzio, ponendo una domanda per tutti loro, ma che fece comunque battere
il cuore di Riccardo,
incapace di non comportarsi come una ragazzina mestruata quando c’era
il
ragazzo nei paraggi.
«Io
passo. Ho lavorato come un pazzo oggi, poi le prove… Sono spento.
Facciamo la prossima.»
Piuttosto,
dì che non vedi l’ora di
arrivare a casa, aprire la scatolina delle meraviglie e rollarti una
bella
canna, mio caro Davide.
Il
suo coinquilino spense la sigaretta e posò i suoi occhi su Anne,
pensando che
nessuno lo avesse visto in quel gesto immensamente dolce.
«Sono
già in ritardo di un quarto d’ora e mamma Charlotte potrebbe fucilarmi
se non
torno immediatamente!» si scusò la rossa, facendo spallucce.
Quegli
enormi occhi castani si puntarono su di lei, che ormai aveva perso ogni
cognizione
della realtà, resosi conto di essere rimasto l’unico a dover rispondere.
E
la voce? Dove diavolo erano finite le sue corde vocali?
‘Fanculo!
«Dai,
Ricca! Non darmi forfet anche tu!» scherzò il ragazzo, aprendo le
braccia in
segno di disperazione.
Riccardo
si sentiva la gola secca, come quando lavorava ore e ore nei magazzini
del
Supermercatino e si dimenticava di bere; la parola doveva essere disedretato, o qualcosa del genere.
Guardò
quel perfetto viso da statua greca e non poté nascondere a sé stesso
che non
aspettava altro che l’occasione per rimanere solo con Matteo.
Si
fece schifo per quello che disse, ma lo disse.
«Va
bene, andiamo a bere qualcosa.»
Si
sentiva un mostro.
****
Si
sentiva un dio.
Quando
guardava dentro quei grandi occhi marroni, non vedeva solo il riflesso
di un
bel ragazzo e la sua simpatia; riusciva a scorgere tutto il malessere
che il
suo animo conteneva.
Matteo
intravedeva in quelle pupille lo stesso dolore che aveva afflitto anche
lui,
anni prima, quando sapeva di essere diverso
ma non voleva ammetterlo a sé stesso.
Era
sicuro che Riccardo fosse omosessuale, perché non si poteva fare a meno
di
notare che quando Matteo si chinava per prendere qualcosa l’altro
faceva finta
di niente e, non appena tornava dritto, allontanava lo sguardo con una
nota di
panico nell’espressione.
Si
sentiva un dio quando
il batterista lo squadrava dalla testa ai piedi credendo di non essere
visto; e
lui glielo faceva credere, in modo che non smettesse di osservarlo con
quegli
occhi colmi di desiderio represso da anni.
A
volte gli sembrava un piccolo cucciolo smarrito che aveva perso la
strada di
casa e non sapeva più dove andare, e avrebbe voluto così tanto
prenderlo tra le
braccia e accarezzargli la fronte mormorandogli che andava tutto bene,
che
d’ora in poi non sarebbe più stato solo.
Ma
sapeva benissimo che non poteva usare un approccio diretto con lui,
perché
quando non si è ancora pronti a fare coming-out tutto è complicato e
fragile:
se maneggi male la situazione può andare in frantumi, rovinando per
sempre la
psiche del diretto interessato.
E
Matteo non aveva alcuna intenzione di rovinare la mente del povero
Riccardo.
Il
povero Riccardo che
ora gli camminava così vicino che le loro braccia facevano contatto e
le loro
mani si sfioravano, facendo salire i brividi a Matteo.
Non
era abituato ad avere a che fare con vergini,
quindi non sapeva come comportarsi; di solito “usciva”
̶
forse il termine giusto era scopava
̶
con uomini più grandi di lui e molto esperti, che non
avevano alcun problema
in una relazione alla “botta e via” e non gli creavano pasticci di
cuori
infranti e chiamate nel mezzo della notte.
Non
aveva mai voluto buttarsi in una storia, forse perché aveva scoperto di
essere
omosessuale per il fatto che si era innamorato del suo istruttore di
pallanuoto, a quattordici anni, e quando gli aveva confessato di
provare dei
forti sentimenti per lui, quest’ultimo era rimasto scandalizzato e
aveva
evitato di avere a che fare con lui, se non per pura necessità; aveva
avuto il
cuore infranto per mesi, anche perché il suo allenatore era andato da
sua madre
a dirle ciò che era successo e da lì la sua vita era diventata una
tortura
lenta e dolorosa.
Si
era sentito tradito, ferito, abbandonato, solo.
Si
sentiva da dio, invece,
quando Riccardo gli sorrideva di sottecchi, prima di rendersi conto di
ciò che
aveva appena fatto e abbassava lo sguardo, grattandosi le mani con
ansia.
Gli
faceva così tenerezza che avrebbe voluto riempirlo di baci e accudirlo
come fa
una madre con un figlio. Quello era un fatto veramente strano, perché
non aveva
mai avuto alcuna voglia di mettersi a fare da balia agli omosessuali
non ancora
dichiarati.
L’egoismo
era una parte integrante del suo essere, esatto; lo aveva scoperto una
volta,
quando si trovava da Gucci in cerca di un borsellino da uomo, e un
ragazzo in
fila prima di lui stava per comprare l’ultimo modello, proprio come
quello che
voleva lui; aveva tirato fuori le unghie e non appena l’avversario si
era
girato per guardare una sciarpa, gli aveva sgraffignato il prodotto e
lo aveva
pagato.
Gliel’ho
fatta vedere a
quell’eterosessuale da riproduzione.
Si
rese conto che il punto della situazione non era né il suo egoismo, né
il
borsellino di Gucci, così gettò uno sguardo a Ricca, che si teneva le
mani in
tasca cercando di puntare gli occhi ovunque se non su di lui.
Tenero
come un bignè.
«Che
ne dici di andare al Parco e prenderci un gelato al chiosco? È Maggio,
credo
sia ancora aperto.»
Usò
un tono gentile, sincero, cercando di trasmettergli tutto il bene
possibile,
per non farlo sentire a disagio.
Doveva
capire che con lui non sarebbe mai stato giudicato.
Riccardo
annuì semplicemente, seguendolo verso la stradina che s’intricava tra
le
aiuole, senza mai alzare gli occhi, senza mai provare a buttare giù una
conversazione.
Matteo
si rese conto che per il bene comune avrebbe dovuto fare il primo
passo,
proprio come in quegli stupidi libri della “Harmony”.
Che
amarezza.
«Sai,
continuo a trascurare lo studio, eppure tra nemmeno un mese dovrò
affrontare
l’Esame di Maturità. Io ed Anne siamo messi proprio male…» rise.
Vide
Riccardo sogghignare, mentre oltrepassavano una panchina ospitante due
vecchietti che si stavano teneramente tenendo per mano, in compagnia di
un
cagnolino scodinzolante; gli sarebbe piaciuto, nonostante i suoi sforzi
di
sembrare un tosto, di poter ritrovarsi a quell’età con un compagno
fisso con
cui condividere esperienze e ricordi.
«Non
ti ho mai chiesto che cosa fai oltre a suonare la batteria…» scherzò,
provando
a metterlo a proprio agio, visti gli scarsi risultati precedenti.
Arrivarono
al chiosco e si sedettero in uno di quei tavolini di plastica della
Sammontana
che i commercianti mettevano a disposizione dei clienti passeggeri.
Torino
in primavera rinasceva, proprio come quell’albero che stava davanti a
lui,
pieno di piccoli fiorellini lillà e foglie verdi dall’aria vitale.
«Lavoro
come magazziniere al Supermercatino! Lo so, è patetico.»
Alleluia,
sa parlare.
Ordinarono
due coni gelato: Matteo prese i soliti gusti di sempre, quelli che Anne
detestava, ovvero melone e pompelmo, mentre Riccardo scelse cioccolato
e
nocciola.
Un
tipo dolce.
«No!»
esclamò Matteo ridendo «Niente è lasciato
al caso al Supermercatino!» quella volta Ricca si unì alle
sue risate e la
tensione sembrò finalmente sciogliersi.
Torino
in primavera era come un bel vestito lasciato nell’armadio tutto
l’inverno, che
veniva tirato fuori per la rinascita, più bello che mai.
Vita.
«E
tu? Vivi con i tuoi?» domandò l’altro, in un palese sforzo di parlare.
Allarme
rosso. Domanda sbagliata.
Se
fosse stato qualcun altro, sarebbe già scattato urlando che non erano
affari
suoi di dove viveva o con chi, ma si rese conto che raccontare un po’
la sua
storia avrebbe potuto aiutare Ricca ad aprirsi con lui, in modo da
convincere
sé stesso di essere omosessuale.
Trasse
un profondo respiro.
«No,
non più, da quasi un anno.» il batterista aveva un’espressione
interrogativa
«Mi hanno reso la vita un vero inferno, quando hanno scoperto che io
sono…»
Guardò
Riccardo e si rese conto che anche lui aveva trattenuto il respiro.
Quindi
sapeva già cosa stava per dirgli.
«…che
io sono gay.»
Ok,
l’aveva detto, adesso poteva di nuovo inspirare ed espirare, niente di
troppo
difficoltoso.
Nonostante
fossero passati tanti anni da quando lo aveva ammesso a sé stesso, era
sempre
un trauma dirlo ad alta voce, soprattutto perché non lo faceva da
moltissimo
tempo, abituato com’era ad avere a che fare quasi solo con Anne,
l’unica con
cui parlava di quell’argomento.
E
ora l’aveva appena detto ad un perfetto estraneo.
Il
tuo terapista sarebbe
orgoglioso, Matteo, hai fatto dei passi da gigante.
Aveva
sperato che Riccardo fosse rimasto, che avrebbero intrapreso una
chiacchierata
piacevole, anche se avesse sviato il discorso dell’omosessualità.
Si
rese conto che aveva fantasticato. Era troppo per lui, sopportare quel
peso.
Non
era ancora pronto e lui l’aveva spinto nel burrone.
Si
alzò goffamente dalla sedia, impigliandosi nelle gambe rischiando quasi
di
cadere, cosa che non avvenne grazie ai suoi riflessi pronti.
Rimase
in piedi impietrito a guardarlo come se avesse appena visto il fantasma
della
sua trisnonna.
«Io…D-devo
andare…» balbettò prima di correre verso casa sua.
In
quel momento arrivò la cameriera con i due coni gelati che gli rivolse
uno
sguardo indispettito, della serie “Adesso te lo paghi tu, ‘sto gelato”.
E
così fece.
Mentre
guardava il cono cioccolato e nocciola sciogliersi davanti a lui, si
rese conto
che si era comportato come un mostro, perché sapeva
benissimo che Riccardo non era pronto a sentire quella
storia,
né tantomeno a parlare di omosessualità.
Si
sentiva un mostro.
****
Miei
cari lettori,
spero
che questo capitolo sia stato di
vostro gradimento, per me è stato un vero parto e ne sono abbastanza
orgogliosa.
Ora,
vi volevo parlare di una questione
abbastanza rilevante: questa storia è il
mio vero e grande amore e mi piace scriverla almeno quanto
mi piace il
rock; ma vedere che nessuno mi dice cosa ne pensa o mi dona un piccolo
segno di
vita mi intristisce un po’, forse perché vorrei davvero
sapere cosa ne pensate voi, i miei lettori.
Quindi
vi chiedo per favore, se
leggete, sarebbe carino se mi deste il vostro parere.
Con
affetto,
Eryca.
|
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Capitolo 5 *** Mad ***
5.
Mad
Never fell in love until I fell in love with you
Never know what a good time was until
I had a good time with you
If you wanna get the feeling and
you wanna get it right
Then the music gotta be loud for when the music hit
I
feel no pain
at all
Rancid
– “Radio”
Siamo
pronti.
«Non
credo di essere pronta.»
Anne
lo guardava con l’aria di chi è sull’orlo di una crisi di nervi; si
mangiucchiava le unghie, chiaro segno del suo livello di ansia.
Ma
Davide era sicuro che quella fosse
la
loro occasione, che la loro cantante aveva una voce così potente e
seducente da
poter incantare chiunque, anche il migliore dei musicisti; perché
insieme erano
una forza della natura, sincronizzati al minuto, fratelli, se non di
sangue, di
anima.
Guardò
il viso della ragazza e si rese conto che le erano apparse delle rughe
sulla
fronte, a forza di corrugarla causa nervoso.
Per
l’ennesima volta, mentre guardava in quegli occhi scintillanti, si
ritrovò a
dirsi che no, non era bella, che avrebbe potuto avere di meglio ̶
molto di meglio ̶ ; eppure non riusciva a
far tacere quella
voglia di prenderle il viso tra le mani e posare le labbra sulle sue.
Non
riusciva a non ridere di cuore quando Anne faceva una delle sue battute
taglienti rivolte ad uno di loro, con quel suo tono da comizio e
l’espressione
furba e maliziosa, di chi nella vita sa esattamente ciò che vuole e
come
prenderselo.
Forse,
l’attrazione che nutriva nei suoi confronti, era dovuta alla faccia
tosta di
lei.
Quella
faccia tosta che ora sembrava essere scomparsa, per dar posto al panico
dovuto
al loro imminente concerto, al Porto di Città.
Ormai
era inizio Giugno, formavano un gruppo da mesi ed erano in perfetta
sintonia,
per non parlare dei brani che avevano creato insieme: avevano mischiato
la
strafottenza di Davide, la ribellione di Anne, l’eleganza di Matteo e
l’immaginazione di Riccardo, dando vita a pezzi senza precedenti, con
suoni
forti e delicati, allo stesso tempo.
Avevano
discusso diverse volte riguardo all’argomento concerto ed erano,
infine, giunti
alla conclusione che erano in grado di affrontare la “pretenziosa”
folla del Porto di Mare; così avevano organizzato una
serata, grazie all’aiuto della barista, Marta.
«Tu
sei più che pronta, Anne.» iniziò «La tua voce è un dono pazzesco! Non
si
trovano facilmente in giro persone con il tuo potenziale, ricordatelo!
Insieme
siamo una bomba!»
Davide
non era mai stato un tipo affettuoso, uno di quelli che regalano rose
rosse e
fanno le serenate sotto i balconi delle fidanzate; era, piuttosto, il
classico
ragazzo da palazzina torinese, che si fa i fatti suoi, cambia spesso
ragazze e
non dà nell’occhio.
Eppure,
in quel momento, avrebbe voluto abbracciare la cantante, trasmetterle
tutta la
forza che aveva nel suo corpo, per farle capire che pensava davvero ciò
che
aveva appena detto, perché non era uno che parlava se non credeva in
quello che
diceva.
Avrebbe
voluto sussurrarle che, di voci come la sua, non ne aveva mai sentite
in tutta
la sua vita, che si sognava ancora la sua voce, quando fuori dal Porto
di
Città, la sera in cui si erano incontrati per la prima volta, aveva
detto ad
alta voce ciò che sentiva riguardo la musica.
Avrebbe
voluto dirle quanto, anche se erano ingombranti, inutili e vistosi,
adorava
quei suoi capelli ribelli, che la rispecchiavano tanto.
Magnetica.
«Ragazzi,
è ora.» la voce di Riccardo lo richiamò alla realtà, quella realtà dove
loro
dovevano salire sul palco nei successivi cinque minuti.
Anne
sgranò gli occhi, puntandoli dritti nei suoi, probabilmente in cerca di
conforto, forse di una pacca sulla spalla, di un augurio, di un insulto…
E
chi le capisce, le donne?
Si
limitò a sorriderle, mormorandogli qualcosa come “coraggio”, prima di
accompagnarla su quello che doveva essere un palco, invece assomigliava
più ad
una piattaforma di vecchio legno marcio.
Per
quanto avesse cercato di far vedere agli altri membri della band che
era
rilassato e non temeva il loro primo show in luogo pubblico, dentro di
lui
stava scoppiando la Terza Guerra Mondiale, con tanto di bombe atomiche
e fucili
a canne mozze.
Rilassati,
coglione.
Grazie
al cielo la sala era caduta nell’oscurità, cosa che non avrebbe aiutato
solamente lui, ma anche la bella Anne, alle prese con la sua autostima
e
sicurezza.
Doveva
andare tutto alla perfezione, perché se qualcosa fosse andato storto,
allora
nessuno li avrebbe più richiamati e la loro carriera sarebbe morta lì,
insieme
alle mosche abbrustolite dalle candele alla citronella.
Come
poteva andare per traverso qualcosa? Era primavera.
Si,
già, allora cambia tutto.
Vide
Anne avvicinarsi timidamente al microfono, i movimenti impacciati, il
viso
arrossato dall’imbarazzo; era strano vederla così a disagio, lei che
aveva
sempre qualcosa da ridire su tutti e non si lasciava mettere i piedi in
testa
da nessuno, lei che
camminava con grosse falcate
per attirare l’attenzione(,) perché sapeva benissimo di essere sensuale.
Gli
fece tenerezza, avrebbe voluto pizzicarle le guance, come si fa con una
bambina
paffutella.
Ma
che cazzo stai pensando?
Concentrati, piuttosto.
«Ciao»
cominciò «Noi siamo i Mad e questo
è
il nostro primo concerto, quindi …» la ragazza scoppiò in una risatina
isterica, che la rese irresistibile. Magnetica.
«… siate clementi.»
Mad.
Ovvero,
folle.
La
questione di come chiamarsi era uscita quando si erano trovati davanti
al
foglio da compilare per poter esibirsi, dove c’era la casella che
chiedeva di
segnare il nome del gruppo; Matteo aveva proposto degli appellativi
osceni,
come “Bambole Psichedeliche” o “Drag Queen”. A volte, il bassista
riusciva a
divenire esilarante, quando la sua omosessualità si faceva sentire e
lui non
riusciva più a contenerla: era forte, quel ragazzo.
Gli
era venuta l’illuminazione grazie all’impazienza di Riccardo, che aveva
lanciato il documento per aria urlando “è folle.” E anche lui era stato
folle, la sera in cui aveva fermato
Anne, braccandola come un pazzo: se così non avesse fatto, loro non
sarebbero
mai esistiti.
Mad.
Davide
si mise in linea con gli altri e ascoltò il suono della batteria che
dava il
via alla prima canzone che avevano scritto: Garbage,
spazzatura. Il testo era un’opera di Anne, che aveva dato il
meglio di sé
descrivendo la “Torino pattumiera” e le sue squallide periferie.
Le
dita si mossero senza il suo segnale e pizzicarono le corde della
chitarra,
dando vita al giro su cui avevano lavorato intere serate, prendendosi
per i
capelli e facendo volare insulti; non era di certo tutto rose e fiori
fare
musica, soprattutto se si doveva collaborare con altre persone, magari
con idee
diverse dalle tue.
Ma
i momenti come quello, in cui stavi su un palco, la gente che ascoltava
te e
solo te, pagavano tutte le giornate a sgobbare, tutte le magliette
sudate e i
soldi spesi alle lavatrici automatiche.
Non
ha prezzo, no.
Davide
non seppe perché, ma penso a sua mamma, quella che aveva tradito il
marito e
aveva fatto la sciacquetta in giro, senza preoccuparsi del figlio, a
casa a
piangere stretto al suo orsacchiotto di pezza, suo unico e fedele amico.
Pensò
a quella donna e l’immagine di lei che usciva di casa con il trucco
pesante
spalmato in viso, l’ombretto viola a ricoprirle le palpebre, il
lucidalabbra
rosso a donarle
quell’aspetto per cui ogni uomo
avrebbe pagato.
Rivolse
i pensieri a quella donna e non poté trattenere un sorriso soddisfatto,
accompagnato dalla magnetica voce
di
Anne, che aveva iniziato a cantare.
Vorrei
tanto che mi vedessi per
mangiarti la mia merda, mamma cara.
****
Vorrei
tanto che mi avessi vista per capire qual è il motivo del mio
disinteresse per
lo studio, mamma cara.
Ecco
a cosa stava pensando Anne mentre
beveva la sua dissetante birra bionda, seduta ad un tavolo del Porto di
Città,
in compagnia dei suoi compagni di band.
Il
concerto era finito, loro avevano
dato il meglio di sé, avevano sperimentato la loro sintonia, che li
aveva
spiazzati, perché nelle prove nessun brano era mai venuto bene come
quella
sera.
Era
stato un vero successo, le persone
presenti avevano saltato, spinto, urlato, acclamato e chiesto perfino
il bis,
cosa che li aveva lasciati interdetti.
Il
sorriso strafottente che comparve sul
suo viso non fu fermato, anzi, esposto al mondo come un trofeo che
diceva
“andatevene tutti a fare in culo”.
Non
si erano esibiti a San Siro, certo,
ma in un pub maltenuto, in presenza di una quarantina di persone,
eppure il suo
cuore non riusciva a smettere di battere.
Ci
era riuscita.
Aveva
lottato, sognato, sperato così
tanto di trovare un gruppo di persone con la sua stessa passione, di
riunire un
gruppo, che alla fine qualcosa o qualcuno, lassù o laggiù, l’aveva
ascoltata.
«Siamo
delle bombe!» esclamò Matteo,
sovreccitato come nessun altro, mentre si scolava la sua ennesima media.
Il
suo migliore amico si era ritrovato
in una situazione a dir poco sconveniente, ovvero l’essere attratto da
un gay
non dichiarato, quale Riccardo; il moro era sicuro che il batterista
fosse
omosessuale, nonostante i suoi modi di fare fossero quelli di un tipico
eterosessuale e Anne non poteva dargli torto: lo aveva visto un paio di
volte
mentre fissava il sedere del bassista.
Matteo
non era di certo un santo, anzi, aveva l’orgoglio di detenere una
fedina penale
decisamente lurida, per quanto riguardava storielle disinteressate e
follie
notturne, ma nonostante questo, si era veramente preso a cuore Ricca,
che,
però, lo trattava come se avesse la lebbra.
Nessuno
aveva mai rifiutato il bel ragazzo dal fascino mediterraneo, il quale
era
decisamente irritato da quella storia, a differenza di Anne che la
trovava
esilarante.
Davide
batté le mani arricciando il naso, in un’espressione che lo rese
assolutamente
sensuale.
Dio,
quanto sei bello.
«Allora,
propongo di brindare a questo successo!» propose il chitarrista.
La
voce di Matteo risuonò in tutto il locale: «E lunga vita ai Mad!»
Che
diventino i
migliori di sempre.
Quello
non era il suo sogno, ma era il loro; era la loro occasione, la loro
condivisione. Non si trattava più di essere un singolo, Anne lo sapeva,
non
sarebbe mai più stata capace di pensare solamente per sé stessa, ormai
doveva
mettere in conto che, qualsiasi cosa avrebbe fatto, si sarebbe potuta
riscuotere sul bene del gruppo.
Erano
un’unità.
«E
vaffanculo!» concluse Ricca, dando il suo tocco elegante al brindisi.
Scoppiarono
a ridere, condividendo un momento di pura genuinità, uno di quelli che
nessuno
avrebbe potuto toglierli, perché era solo loro.
Con
il sorriso ancora stampato in viso, incontrò lo sguardo di Davide che
increspò
le labbra facendole un occhiolino di congratulazioni: lui aveva sempre
saputo
che sarebbe stata capace di sostenere quella prova, aveva creduto in
lei, senza
dubitare delle sue capacità.
Avrebbe
dovuto ̶
voluto
̶
ringraziarlo, facendogli capire che il suo gesto non era
passato
inosservato, esattamente allo stesso modo delle sue labbra carnose,
quegli
occhi color oceano, i capelli corvini e la mandibola squadrata, che lo
rendeva
mascolino.
Magari
ometti tutto il
resto, Anne, fermati al gesto.
Gli
altoparlanti sparavano una canzone dei Guns N’ Roses
̶ Nightrain
̶ che
lei adorava e non poté
trattenersi dall’alzare le braccia al cielo, chiudere gli occhi e
prendere a
cantare a squarciagola; non si interruppe quando si accorse che Davide
la stava
accompagnando in quel brano, anzi, presero a canticchiare ̶
urlare ̶ guardandosi negli occhi e
ridendo, come due
bambini piccoli davanti al nuovo videogioco di Spiderman.
«… feelin’ like a space
brain, one more time tonight! I’m
on the Nightrain!»
I
vecchi bavosi che li guardavano con desiderio sparirono, esattamente
come le
risate di Riccardo e Matteo che li filmava con il cellulare, sperando
di
ridicolizzarli alla prima occasione. C’erano solo più loro due e quella
canzone.
Occhi
negli occhi.
Anne
dovette concentrarsi per non sospirare guardando quella bellezza
perfetta, così
affascinante perché non si curava affatto, anzi, lasciava i capelli
arruffati e
maltenuti, vestiva vecchi jeans sbiaditi e felpe sformate.
Eppure
era bellissimo.
«Che
spettacolo!» gridò il chitarrista battendo le mani, non appena finì il
brano.
Non
se ne era resa conto, troppo concentrata sulle labbra del ragazzo, che
sembravano invitarla a baciarle.
L’alcol.
Doveva
essere tutta colpa della quantità industriale di birre che avevano già
bevuto,
per festeggiare il loro strepitoso debutto; non poteva semplicemente
trovare il
chitarrista bello, nonostante avesse due enormi occhiaie nere e… due dolcissime fossette, sulle guance.
Sospirò,
rassegnandosi all’idea che non poteva farci niente se uno dei membri
della sua
band era estremamente affascinante; il fatto era che aveva sempre
pensato ad un
gruppo musicale come un unità, come essere tutti fratelli e non qualcosa di più.
Incontrò
gli occhi foschi di Davi, proprio mentre si stava convincendo che non
avrebbe
dovuto più guardare dentro a quegli oceani blu, altrimenti sarebbe
annegata.
E,
infatti, stava proprio annegando.
Le
sembrò di tornare bambina, quando andava dai suoi parenti, e suo nonno
la
guardava con quel viso solcato dalle rughe e le puntava addosso quegli
stanchi
occhi smeraldini, ricordandole che erano identici ai suoi, che non si
sarebbero
mai separati. Si ricordava ancora alla perfezione le volte in cui lei e
suo
nonno Jérôme sgattaiolavano dalla cucina, sfuggendo ai pranzi familiari
per
rifugiarsi nel piccolo bosco dietro casa, dove passavano intere ore a
leggere
libri fantastici, che parlavano di folletti, elfi e fate; mentre
l’anziano
suonava il suo flauto traverso, la piccola Anne immaginava di essere
una
principessa con l’elmo, di cavalcare per enormi steppe incantate e
uccidere la
strega cattiva e snobbare il principe azzurro: era sempre stata una
combattente.
Suo
nonno le aveva insegnato a sognare.
Certe
volte, quando tornava in Francia a trovare la nonna rimasta vedova, si
soffermava sui dipinti dell’uomo a cui aveva voluto bene e,
contemplando le
spiagge e i castelli medievali disegnati sulle tele, le sembrava di
tornare ai
momenti in cui il nonno era ancora vivo e le leggeva storie di magia.
E
adesso arrivava quel ragazzo dai capelli corvini e pretendeva di
ricordarle il
nonno.
Doveva
concentrarsi
sulla musica, null’altro.
«Sono
sbronzo.» sentenziò Riccardo, alzandosi dalla sedia.
Era
notte inoltrata e il giorno dopo lei e Matteo si sarebbero dovuti
presentare in
classe, per la prova d’esame; tra due sole settimane avrebbero dovuto
affrontare la Maturità e lei non era neanche lontanamente pronta, viste
le sue
occupazioni.
Il
fatto era che se non avesse preso il diploma sarebbe rimasta bloccata
in quella
Torino per tutta la vita, probabilmente a lavorare come cameriera e lei…
…
lei doveva sognare.
Lei
era aggrappata alle sue ambizioni quasi fossero la sostanza della sua
anima,
per questo spesso si dimenticava di essere solo una ragazzina di
diciotto anni
che doveva sostenere un esame. Se avesse smesso di dedicarsi
completamente alla
sua musica, allora sarebbe stata vinta.
«Va
bene» Davide si alzò, prendendo il suo amico per le spalle «ti porto a
casa»
Vide
Matteo seguirli fuori dal locale, ormai vuoto. Rimase a fissare tutti
quei
tavoli di legno, la barista che asciugava gli ultimi bicchieri e il
palco dove
avevano suonato poche ore prima.
Possibile
che una bettola del genere gli avesse regalato tante emozioni?
Si
decise ad andare, salutando con la mano la giovane cameriera, che le
sorrise di
rimando; doveva essere un vero schifo lavorare in quel posto lurido.
Non
mi ridurrò mai
così, promesso.
Subito
fuori trovò i suoi compagni di gruppo accasciati sul marciapiede:
Riccardo
sdraiato, si teneva la pancia, visibilmente ubriaco, mentre Davide si
accendeva
una sigaretta poco lontano.
Era
affascinante quando si avvolgeva in quella sua nube di misterioso
silenzio.
«Buona
notte, ragazzi» salutò il chitarrista, alzando il coinquilino e
portandoselo a
alla macchina.
Matteo
alzò la mano e prese ad incamminarsi verso la sua utilitaria, mentre
Anne
rimase ferma a fissare la sagoma dei due ragazzi che scomparivano.
Prima
che fosse impossibile riconoscerli, vide Davide voltarsi e sorriderle
dolcemente. Fu un attimo, un istante quasi impercettibile, prima che
rimanesse
da sola nel buio.
Non
poteva smettere di sognare, pensò guardando quel luogo dimenticato da
Dio.
Sarebbe
stato folle.
Mad.
****
Salve
lettori,
Il
capitolo prende il titolo dal nome
della nostra nuova rock band: i Mad.
Che ne pensate di questo nomignolo?
Approfitto
per ringraziare Aniasolary
per lo splendido banner, ma
anche per il suo sostegno continuo e la sua amicizia, che mi danno
coraggio.
Un
grazie di cuore anche alla mia beta
reader, Lavisvampita, che mi aiuta
e
mi riempie di buoni consigli, mi sostiene.
E,
ovviamente, grazie a voi, che mi
leggete. Non smetto di chiedervi un commento, farebbe piacere sapere i
vostri
pensieri riguardo a questa storiella.
Eryca.
|
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Capitolo 6 *** Intoccabile e Afferrabile ***
6.
Intoccabile e Afferrabile
Started at the age of four
My mother went to the grocery store
Went sneaking through her bedroom door
To find something in a size four
Sugar and spice and everything nice
Wasn’t made for only girls
Green Day – “King For A Day”
C’erano
momenti in cui Matteo si sentiva intoccabile.
E
quello, si disse alzandosi dalla sedia per mettersi in spalla lo zaino
con una
mossa spavalda, era proprio uno di quegli splendidi attimi.
Consegnò
il foglio a protocollo riempito di scritte in inchiostro, di lettere e
parole,
che si univano a formare frasi; la sua calligrafia era così anonima che
lo
faceva sembrare altrettanto, quindi doveva rivederla.
Intoccabile.
Il
professore dai folti capelli bianchi e gli occhialetti antiquati lo
squadrò
quasi fosse un esperimento genetico, per poi alzare le sopracciglia con
fare
incredulo; il ragazzo gli rispose con una scrollata di spalle, girò sui
tacchi
e sfilò per la stanza, come se in realtà fosse sul tappeto rosso.
Niente
e nessuno avrebbe potuto rovinargli quella giornata, perché aveva
appena dato
dimostrazione del suo innato talento di faccia da culo, nonché scritto
un tema
degno del più merdoso intellettuale.
Intoccabile.
Prima
di uscire dalla sala, diede uno sguardo ai ragazzi con cui aveva
condiviso
cinque anni, nella stessa classe, con gli stessi problemi
adolescenziali;
probabilmente avrebbe dovuto commuoversi, scoppiare in lacrime, così
quei
piccoli bastardi avrebbero avuto ragione a dire che era una “checca
frignona”.
La
verità è che avrebbe voluto sputare in faccia ad ognuno di loro, magari
togliendo loro l’uso di un occhio. O due, anche meglio. Quegli
stronzetti dalle
polo bianche e i pantaloni cachi, gli avevano reso la vita un inferno,
canzonandolo e stuzzicandolo con frasi offensive, degne di qualsiasi
stupido
eterosessuale da riproduzione.
E
ora, mentre li osservava scrivere panicati, i volti chini sui loro
fogli, si
prendeva la sua rivincita; perché loro non potevano sapere quanto il
suo tema
fosse stato geniale, il migliore
testo che avesse mai scritto in tutta la sua vita. Forse era stata
davvero una
questione di illuminazione o ispirazione, come scrivevano nei romanzi,
ma a
Matteo piaceva di più pensare che fosse stata semplicemente la voglia
di
umiliare tutti i suoi merdosissimi compagni di classe.
Intoccabile.
Lanciò
un’occhiata ad Anne, ancora indaffarata a scribacchiare, mentre si
ravvivava i
capelli ricci, più scompigliati del solito; la sera prima lo aveva
chiamato in
lacrime, dicendogli che era stata una stupida a non studiare, che aveva
una
paura folle e che l’avrebbero bocciata. Era tipico della sua migliore
amica,
farsi prendere dagli attacchi di ansia all’ultimo momento, pentendosi
di tutto
ciò che aveva fatto, o meglio, che non aveva
fatto.
Uscì
dall’aula e si chiuse la porta dietro, con la sensazione di aver appena
lasciato dietro di sé un passato che non aveva alcuna intenzione di
riportare a
galla; aveva lasciato alle sue spalle non solo una semplice porta di
legno, ma
un Matteo un po’ più giovane, con i capelli meno curati e l’espressione
del
viso meno strafottente, meno sicura di sé.
Era
ora di ricominciare.
Intoccabile.
Nessuno ̶
nessuno
̶ avrebbe
potuto più farlo
sentire un piccolo verme indegno di essere al mondo, perché, ora,
riusciva a
camminare a testa alta, senza vergognarsi di essersi innamorato di un uomo, di essere andato a letto con un uomo.
Era
consapevole di non essere un mostro.
Normale.
Aveva
superato la prima prova d’esame in modo più che degno, facendo vedere a
tutti
quanto valeva, cosa che attendeva fin da piccolo, quando aspettava che
sua
madre uscisse per provarsi tutti i suoi vestiti scollati.
Ora
sapeva molte più cose rispetto ad allora, come ad esempio il fatto che
le gonne
a pois della madre non gli donavano per niente ed era meglio optare per
una
semplice maglietta.
Non
si fermò nell’atrio del liceo, dove stavano seduti diversi suoi
professori, ma
tirò dritto, la nuova sensazione di vittoria ormai sorta dentro di lui
che gli
suggeriva la via da percorrere.
Mi
presento.
Matteo
Damiani, diciotto anni
compiuti da poco.
Una
nuova persona.
Avrebbe
voluto gridare al mondo quanto quello stupido tema avesse significato,
perché
non era un semplice testo di esame, era il traguardo finalmente
raggiunto, la
linea di orizzonte non più così lontana.
Era
un nuovo inizio.
Intoccabile.
Spalancò
con una mano la porta che aveva dovuto varcare per cinque eterni anni,
affiancato dall’unica persona che lo avesse fatto sentire normale, Anne.
Non
appena si ritrovò alla scalinata d’entrata del Liceo Statale Giovanni
Pascoli
di Torino, si sentì libero come non lo era stato in tutta la sua vita;
la
voglia di provare nuove esperienze, di riprovare in ciò in cui non era
riuscito, scalare nuove montagne, anche se sembravano insormontabili.
Inspirò.
Espirò. E si rese conto che era proprio bello
respirare.
Prese
a scendere le scale, soffermandosi
sul
gruppetto di ragazzini ̶ probabilmente del biennio ̶
intenti a fumare le loro sigarette, l’aria di chi della
vita ha già
imparato ogni cosa e non ha alcun bisogno di ascoltare ciò che i più
grandi
suggeriscono; li vide tirare boccate di fumo, avidi, come se la
nicotina fosse
l’unica cosa importante nella loro esistenza, esattamente come i
motorini
truccati e il gel per capelli.
E
poi c’erano quelle bambine di quattordicenni con il trucco pesante
sulle
palpebre, le guance rosee infantili coperte da strati di fondotinta, i
capelli
tirati così tanto da sembrare di plastica; se ne stavano in compagnia
di quei
finti uomini, aspettando che uno di loro gli chiedesse di aprire le
gambe per
qualche minuto da donna matura.
Ma
a Matteo non importava ̶ non poteva importare ̶
perché doveva concentrarsi sui suoi problemi, sulla sua
vita, e non
aveva alcuna intenzione di dire a quei bambocci quanto risultassero
ridicoli.
Intoccabile.
Mentre
faceva mente locale su cosa aveva o no negli scaffali della sua cucina,
e a
cosa doveva o no comprare da lì a pochi minuti
̶ salsa di pomodoro, sì, maionese... sì, la maionese
serve sempre ̶ ,
notò una figura magrolina appoggiata al muro che separava la scuola
dalla
strada.
Matteo
dovette sbattere più volte le palpebre per essere sicuro di essere
sveglio e
non in uno di quei sogni favolosi; si rese conto di essere fermo a metà
scalinata, una sopraciglia inarcata e lo zaino di scuola su una sola
spalla.
Non
doveva sembrare poi così affascinante agli occhi del suo spettatore, Riccardo.
Riccardo
che lo guardava con un espressione che era a metà tra il divertito e
l’intimorito, le mani nella tasche degli sgualciti jeans e il viso di
chi ha
passato tutta la notte in piedi, tirando cocaina.
Non
era poi più tanto intoccabile,
ora.
Non
sapeva bene come
comportarsi: il ragazzo che lo
attendeva pochi metri più in là era un membro del suo gruppo musicale,
quindi,
per logica, avrebbe dovuto assumere quell’aria da ragazzo svelto e
socievole;
ma quello che sembrava in apparenza il tipico rockettaro eterosessuale,
con
tanto di cresta verde, era un gay non dichiarato che faceva arrapare
Matteo.
L’apparenza
inganna, pensò
in modo sarcastico.
Stare
lì impalato non aiutava di certo a migliore la tensione, quindi si
costrinse a
scendere le ultime gradinate e a fermarsi davanti al suo amico, che si
massaggiava le mani con fare ansioso, quasi fosse stato lui ad aver
appena
affrontato l’esame di Maturità.
Adesso
doveva parlare, e lo sapeva, perché se avesse aspettato Ricca,
probabilmente
sarebbero rimasti zitti e muti finché quello dai capelli verdi non si
fosse
agitato e sarebbe scappato.
Quanto
sei cinico e negativo,
Matteo.
«Per
quanto ancora hai intenzione di fissarmi senza dire una parola?»
commentò infine,
rendendosi conto di non avere fatto affatto
una mossa furba; ma d’altronde si stava parlando si sé
stesso, come poteva
abbandonare quel suo istinto che gli faceva dire cose offensive?
Ricca
sembrò sbiancare un po’, poi il suo viso mutò forma, come quel pongo
con cui si
gioca da bambini, e prese a ridere di gusto, quasi avesse appena
sentito la
barzelletta più esilarante del mondo.
Matteo
era perplesso: solitamente quando se ne usciva con una delle sue
frecciatine
taglienti, le persone ne rimanevano ferite e lo evitavano.
Perché,
adesso, quell’imbecille dai capelli inguardabili rideva come un matto?
«In
realtà» disse quando si fu ripreso e reso conto del fatto che Matteo
non si stava
per niente divertendo «ero venuto a chiederti scusa per il gelato che
ti ho
lasciato da pagare…»
Si
era aspettato di tutto: la scusa di una nuova canzone, il pretesto di
aver
finito prima lavoro o di aver fatto il turno di mattina, ma non aveva
messo in
conto la verità.
Quel
ragazzo impacciato e timido, incapace di ammettere di essere
omosessuale, aveva
appena spiazzato il veterano.
Che
cosa si rispondeva ad un’affermazione del genere?
“Scuse
accettate” ?
Si,
“Scuse accettate” andava
benone.
«Andiamo
a prenderci un caffè, Ricca.» nessuna domanda, era un’affermazione.
Sarebbe
stato molto meglio il famoso “Scuse accettate”, ma Matteo non sapeva
fare le
cose che si prefissava, sapeva di poter dire ciò che voleva.
Intoccabile.
****
Afferrabile.
Riccardo
non poteva che sentirsi esposto alla vista di una bellezza perfetta,
come
quella del bassista, che lo aveva appena obbligato ad andare in un bar
insieme
a lui. E se qualcuno li avesse visti? Se avessero subito pensato al
peggio?
Riccà,
rilassati. Le persone non
pensano a due omosessuali, se vedono due uomini prendere un caffè
insieme.
Il
fatto era che la sua coscienza era, per così dire, sporca; sapeva
benissimo che
non stava andando a fare due passi con un amico, come poteva essere con
Davide,
ma non riusciva a smettere di fissare il sedere perfetto di Matteo.
Ecco,
quella non era una cosa normale, una cosa che un ragazzo virile
ventenne come
lui non avrebbe dovuto pensare neanche nei sogni più deviati; era
meglio
concentrarsi su una bella ragazza immagine, magari vestita da
infermiera, come
piaceva a tanti uomini viscidi e schifosi e …
No,
di certo quelle riflessioni non lo stavano portando ad un buon
traguardo.
Matteo
gli lanciò un’occhiata di sottecchi, mentre camminavano fianco a fianco
per le
vie di Torino, facendo sentire il già abbastanza ansioso Riccardo,
ancora più a
disagio.
Afferrabile.
«Va
bene qua?» domandò il moro, fermandosi davanti al molto frequentato bar
che, a
quanto poté notare Ricca, era stracolmo di gente.
Si
guardò intorno in cerca di un locale meno affollato, dove sarebbero
passati
indiscreti e, se gli fosse andata bene, non sarebbero passati come una
coppia
di froci.
Dio,
che cazzo pensi, Riccà?
Adocchiò
un bar che non prometteva un eccellente servizio, le vetrine
impolverate e l’insegna
al neon bruciata in diversi punti, cosa che rovinava la scritta “Caffè”
in
“Cfè”.
Era
il posto perfetto.
Sei
ridicolo, mormorò
la sua coscienza, che nell’ultimo periodo lo martellava togliendogli
anche la
fame, nei giorni peggiori.
Ma
Riccardo non aveva alcuna intenzione di ammettere che stava cercando di
sotterrare i problemi e le paure, invece di affrontarle, perché voleva
dire di
essere un vigliacco, un codardo; così continuava a scusarsi, dicendosi
che
forse era normale essere un po’ nervosi, quando si aveva un gruppo
musicale di
successo, richiesto da decine di locali di Torino.
I
Mad stavano facendo scintille. La
notizia del loro concerto al Porto di Città si era sparsa in fretta,
come un
virus, ed in poco tempo erano diventati popolari nei sobborghi urbani,
inducendo i pub più squallidi a contattarli per le loro serate.
Erano
abbastanza esaltati, nonostante tutto.
«Che
ne dici di quello là?» incominciò «Sai, ho dei problemi con la folla
nei luoghi
chiusi…» balbettò in un modo non troppo convincente.
Si
rese conto che Matteo aveva un espressione saputa sul viso, il ghigno
beffardo
appena comparso, come se gli stesse dicendo “Ci sono passato anche io,
bello,
chi vuoi prendere in giro?”.
«Oh,
non ne ho dubbi… Infatti suoniamo sempre in enormi stadi olimpici e
parchi
naturali.»
Afferrabile.
Cercò
di trattenere il rossore, che però non tardò ad arrivare, facendolo
sprofondare
in quello che era un imbarazzo assoluto, senza ritorno. Avrebbe dovuto
immaginarlo, che non avrebbe potuto prendere in giro un tipo sveglio
come
Matteo.
Comunque,
il bassista non fece altri commenti e attraversò la strada, seguito da
un
Riccardo sempre meno sicuro di sé, avente la sola voglia di tornarsene
a casa
per rintanarsi nell’oblio della droga.
Non
credere di scappare da te
stesso creandoti una dipendenza da cocaina, amico, borbottò
la sua coscienza, sempre più spazientita dal suo comportamento
infantile.
Anche
sua madre, che andava a fargli visita all’appartamento, lo ammoniva
quando
notava bustine con della polvere bianca sparse un po’ ovunque, in
quella casa;
un giorno, quando lo aveva trovato stordito sul letto, con occhi simili
a due
palline da tennis, era scoppiata a piangere, urlando che suo figlio era
un
drogato.
Ma
cosa ne poteva sapere lei di ciò che significava essere un mostro?
Lei
non doveva scappare costantemente dalla verità, dai suoi desideri, che
erano
così malati da indurlo a graffiarsi la pelle, cercando di farsi del
male,
perché si odiava.
Perché
non si accettava.
Perché
non poteva essere così.
La
cocaina mi aiuta, concluse
zittendo quella stupida voce che continuava a parlare, dentro di lui.
Si
sedettero in uno dei tanti tavolini impolverati, prima di rendersi
conto che
quel posto faceva veramente pena; sembrava un luogo abbandonato,
talmente era maltenuto
e la cameriera era una vecchia anziana, probabilmente con otto ernie,
che si
avvicinava a loro con fare infastidito, come se gli unici clienti che
aveva da
un mese fossero indesiderati.
«Un
caffè» disse Matteo, non appena vide la nonnina.
«Anche
per me.»
Ci
mise un po’ a tornare dietro al bancone, la vecchia, e con molte
probabilità
avrebbero atteso fino al giorno dell’Apocalisse per avere i loro due
caffè, che
sarebbero stati bruciati.
«Se
scappi anche questa volta ti vengo ad acchiappare per la pelle del
culo, perché
non ti pago di nuovo il conto.»
Risero
entrambi e per un attimo Ricca abbandonò il pensiero di essere
sbagliato,
perché stava ridendo di gusto, come non succedeva da parecchio tempo.
Forse,
era perché non si sentiva giudicato, perché Matteo non si faceva
problemi a
dire ad alta voce di essere gay ̶
dio, che pensiero ̶
, anzi
sembrava esserne fiero.
«Direi
che rimango, anche perché scommetto che Davide non ha rispettato il
turno in
cucina e mi lascerà senza cena, quindi il caffè sarà il mio pasto.»
Matteo
ridacchiò, sfoderano un sorriso che avrebbe lasciato senza fiato anche
Brad
Pitt.
No.
Brad
Pitt no, perché lui era normale.
Non
avrebbe voluto finire in un altro bar, avrebbe preferito passeggiare,
aveva
pensato ad una camminata di cinque minuti di numero, giusto il tempo di
scusarsi, per poi tornare da dov’era venuto con molta nonchalance.
Ma,
ovviamente, la cosa non aveva funzionato, perché niente ̶ ma niente per davvero ̶
di
quello che Ricca programmava, andava in porto.
«Allora,
ehm, quest’esame?»
Ma
certo, la prossima volta
chiedigli se ricama la sera, prima di andare a dormire.
«Oh!
Alla grande!» riuscì a vedergli gli occhi illuminarsi, in un emozione
palpabile
«li ho stesi tutti, quei figli di puttana! Non avrei potuto scrivere
qualcosa
di migliore.»
Modesto,
il ragazzo.
Matteo
era l’incarnazione della sensualità, cosa che lo rendeva estremamente
sicuro di
sé, quasi borioso, in effetti; ma lui non si preoccupava di apparire
petulante
o fastidioso, perché sapeva di essere affascinante ed interessante.
Riccardo
si sentiva solo un completo idiota.
Afferrabile.
«Se
fossimo stati in una commedia americana, a questo punto avremmo
discusso
riguardo a qualche merdoso filosofo, facendo uscire tutte le cose che
avevamo
in comune.»
Se
lo lasciò sfuggire, perché non voleva davvero dire ad alta voce che
stava
pensando a loro come una coppietta
̶ eppure
l’idea di avere un
ragazzo come Matteo glielo faceva venire duro
̶ , però la sua bocca aveva agito senza il suo permesso.
«Si…
lo stramaledetto colpo di fulmine! E poi magari saremmo andati a
pattinare sul
ghiaccio di notte, per poi coricarci sulla neve a guardare le stelle!»
continuò
Matteo, che non sembrava affatto sconvolto dalla sua affermazione, ma
sembrava
condividere quegli stupidi pensieri.
Riccardo
trattenne a stento il sorriso che fremeva per uscire, perché l’emozione
lo
aveva messo sotto: ne aveva detta una giusta e il disagio sembrava
essere
improvvisamente svanito, come in quei cartoni animati in cui gli
oggetti
spariscono con un “puff”; stava ridendo tranquillamente insieme al
ragazzo più
intrigante che avesse mai conosciuto, parlando di film e musica,
sorseggiando
un caffè che avrebbe fatto vomitare chiunque.
Eppure
lui era contento, contento come non lo era mai stato in vita sua.
Il
fatto era che solo con Matteo riusciva ad abbandonare l’idea di
sentirsi
diverso e giudicato, ma allo stesso tempo la consapevolezza si faceva
sempre
più martellante, facendolo soffermare sul pacco del bassista.
Non
mi rovinare anche questi momenti,
coscienza del cazzo, pensò
prima di mettere a tacere tutte le
sue ansie sulla questione omo… omoses… omos… No, non riusciva neanche a
pensarla, quella parola.
Mentre
ridacchiavano per l’ennesima battuta tagliente di Matteo riguardo la
donna
della lavanderia di Corso Dante, Riccardo si chiese da quanto tempo
erano
seduti a quel tavolino, parlando di cose futili, che però erano
essenziali.
Doveva
tornare al lavoro, il turno probabilmente stava per iniziare e se fosse
arrivato in ritardo, il capo del Supermercatino del cazzo non ne
sarebbe stato
molto felice. E nemmeno la sua paga.
E
il suo stipendio era la cosa più importante.
«Devo
tornare al lavoro…» mormorò guardando la tazza di caffè vuota.
Matteo
non rispose, sorrise e andò alla cassa
̶ una
calcolatrice dei primi del
Novecento ̶ con quel passo seducente
che non permetteva a
nessuno di distogliere lo sguardo, nemmeno se fossi stato il più
eterosessuale
di tutta Torino.
Come
poteva essere così bello? Avrebbero dovuto mettere dei divieti per la
troppa
bellezza, perché per le persone deboli come Riccardo non era un bene
vedere
tutto quell’armamentario.
Pagarono
quello schifo che si ostinavano a chiamare caffè, per poi uscire
nuovamente in
strada, la consapevolezza di essere in compagnia di un uomo
gay affascinante tornò a colpirlo e con essa il disagio e
l’introversione.
«Ci
separiamo qua, allora, io devo andare nella traversa a sinistra…»
sussurrò
debolmente Ricca, sperando che l’amico non si offendesse per
quell’evidente
imbarazzo di arrivare al lavoro con lui.
Ma
Matteo non disse assolutamente nulla, non espose nessuna espressione,
nessun
segno di aver sentito ciò che il batterista aveva detto, ma fece una
cosa così
inaspettata che Riccardo rimase attonito. Si avvicinò a lui e,
semplicemente,
come se fosse stata la cosa più normale del mondo, appoggiò le labbra
sulle
sue, prendendo a baciarlo.
Non
è normale. Non è normale. Non è
normale.
Mandando
a quel paese tutto il buon senso del mondo, rispose al bacio, inducendo
Matteo
a far scivolare la lingua nella sua bocca, prendendo ad esplorarla in
ogni suo
centimetro; le mani del bassista si erano strette alla vita sottile di
Riccardo, che ormai aveva perso qualsiasi cognizione di tempo e luogo,
perché
se avesse saputo che due anziani li avevano visti ed erano inorriditi,
gli
sarebbe preso un colpo al cuore.
Ma
non importava, non aveva più alcuna importanza, perché le loro labbra
sembravano essere fatte per stare unite, le loro lingue per roteare in
quella
danza d’amore, le loro mani per intrecciarsi in quella morsa senza via
d’uscita.
Era
intontito, ma non aveva alcuna intenzione di fermare le sue mani, che
toccavano
i morbidi capelli del bassista.
Pelle,
profumo, labbra, lingue…
Matteo
e Riccardo.
Uomo
e uomo.
La
consapevolezza tornò all’attacco nel momento meno inopportuno,
scuotendolo
quasi fosse un frullatore, per urlargli nel cervello che erano in mezzo
ad una
strada, Matteo era un maschio e lui lo stava baciando. Contro
natura. Mostro.
Si
staccò dal bassista, guardandolo con gli occhi sgranati, la paura
leggibile sul
suo viso, la voce che era scappata dal suo corpo.
Si
girò e prese a correre verso il Supermercatino, lasciando Matteo lì,
come un
pollo, mentre le lacrime correvano veloci lungo le sue guance, incapaci
di
rimanere dentro.
Mostro.
Mostro.
Mostro.
Gli
sarebbe servita una quantità industriale di cocaina, quella sera, per
addormentarsi.
Afferrabile.
****
Miei
cari lettori,
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto e
che la scena del bacio tra Matteo e Riccardo sia stata abbastanza
veritiera, ci
ho messo me stessa lì dentro, cercando di renderlo reale.
Ho
voluto rendere l’idea dell’immensa
differenza tra i due ragazzi con le parole opposte “Intoccabile” ed
“Afferrabile”.
Un
grazie speciale alla mia beta
reader, Lavisvampita, che non si è
ancora stufata di me e mi sopporta con pazienza e dedizione.
Vi
sarei grata se lasciaste una piccola
recensione.
Un
abbraccio,
Eryca.
|
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Capitolo 7 *** Perdersi ***
7.
Perdersi
They know how to break all the girls
Like you
And they rob the souls of the girls
Like you
And they break the hearts of the girls
Hole
– “Awful”
Non
aveva bisogno di un uomo.
Poteva
sentirsi donna anche senza un essere del genere opposto, che non
sarebbe
servito a nulla, se non a procurarle una serie di fastidi sui vestiti
da
indossare, la ceretta da prenotare e le unghie da smaltare.
Non
aveva bisogno di un uomo, perché era una donna del ventunesimo secolo,
fiera ed
orgogliosa, che si sarebbe trovata un lavoro ed un alloggio in città,
avrebbe
fatto musica e si sarebbe divertita; un compagno sarebbe servito solo
ad
opprimerla, toglierle quella libertà che aveva tanto sudato per
ottenere, per
cui lottava da quando era solo una bambina.
Non
aveva bisogno di un uomo perché le
avrebbe fatto male.
Ma
il punto non era il desiderare o meno un uomo nella sua vita, perché
sapeva
benissimo di poter vivere da sola, come aveva sempre fatto, spensierata
e
svampita in compagnia del suo migliore amico, Matteo.
Non
era un maschio in generale, ciò che voleva.
Era
Davide.
Non
riusciva a smettere di osservare tutti i gesti involontari del suo
corpo, il
modo in cui si scompigliava i capelli con la mano destra, lo strizzare
gli
occhi ogni cinque minuti e quel sorriso
senza barriere.
Il
fatto che il chitarrista non avesse paura ad esporsi, a mostrare sé
stesso alle
persone, era una cosa che aveva affascinato l’introversa Anne fin dal
primo istante,
rendendole impossibile perdersi una sola parola di ciò che il ragazzo
diceva.
La
cosa bizzarra era che riusciva ad apparire estremamente misterioso,
nonostante
non facesse alcuno sforzo per nascondere il suo animo alla gente; era
spontaneo, sincero in tutto ciò che faceva, dal sorridere gioiosamente
allo
scrivere musica.
Era
una cosa che la mandava in bestia, forse perché ne era invidiosa, lei
che si
era creata uno scudo protettivo, in modo che nessuno potesse guardare
dentro di
lei; aveva messo tutta la dedizione del mondo per oscurare la sua vera
personalità, per essere una persona che non era, infossando tutti i
suoi
sentimenti, timorosa che qualcuno potesse ferirla di
nuovo.
E
ora si presentava quel ragazzo un po’ cresciuto, con gli occhi
brillanti e
colmi di sincero affetto, a sconvolgerle ogni certezza.
L’ironia
della vita.
«Tutto
bene, Annegata?» si rese conto che
Riccardo era comparso al di sopra della sua spalla, intento a scrutare
ciò che
lei stava osservando.
Da
qualche giorno a quella parte, il batterista aveva iniziato ad
affibbiarle dei
soprannomi senza senso, che si collegavano al suo nome di battesimo.
“Annegata” doveva essere la sua ultima
invenzione.
«E
tu, Riccardodioso?» lo fronteggiò
beffarda «ti comporti in modo strano, ultimamente.»
Il
ragazzo sgranò gli occhi improvvisamente, in un'evidente confessione
del fatto
che stava nascondendo qualcosa, per poi scrollare le spalle, sperando
di
risultare indifferente.
Non
ci cascherebbe neanche il più
idiota degli idioti, amico.
Non
aveva potuto fare a meno di notare l’elettricità che sembrava essersi
creata
tra Ricca e Matteo, che cercavano in tutti i modi di starsi alla larga,
eppure
sembravano attrarsi a vicenda, come due poli opposti di una calamita.
«Il
tuo segreto è al sicuro con me» concluse il batterista voltandosi.
Anne
rimase di stucco, il panico si era appena impossessato di lei, mentre
cercava
una soluzione al quel casino; a cosa si stava riferendo Riccardo?
«Quale
segreto, imbecille?» gli urlò dietro, ottenendo la reazione desiderata:
il
ragazzo compì quei pochi passi che lo aveva portato lontano da lei,
andandole
ad un centimetro dal viso, la puzza di alcol che invase le narici di
Anne.
Dio,
Ricca, perché ti sballi
perennemente?
Doveva
esserci qualcosa di tormentato, nell’animo del batterista, per indurlo
a
cercare sempre la perdita del controllo, dei sensi, del tempo.
«Non
dirò a nessuno che sbavi guardando il nostro piccolo Davide.»
Cazzo.
Si
ritrovò a ridere istericamente, gesticolando in modo nervoso, in cerca
di una
delle sue tante battute taglienti che riuscivano sempre a fare centro;
ma
sembrava esserne a corto, perché rimase impalata come una stupida a
guardare
quel ragazzo dall’oscena cresta verde.
«Lo
guardo cercando di capire come può essere una persona così…» Bella? Affascinante? Solare? «brutta,
ecco.»
Nella
vita ne aveva dette a marea di bugie, non era una di quelle brave
ragazze che
dicevano sempre la verità e sorridevano al mondo, anzi, faceva parte
della
fetta di donne che riuscivano ad ingarbugliare fatti per girare le
situazioni a
loro vantaggio. Ma non aveva mai ̶ mai
̶
detto un’idiozia simile a quella.
Non
era neanche credibile, pensò, perché Davide poteva avere un centinaio
di
difetti, ma l’essere brutto non rientrava nella lista. No, di certo.
Forse
fu per quello che Ricca scoppiò in una di quelle risate che riusciva
solo a lui
ad emettere, forti e rumorose, che ti facevano vergognare di essere in
un pub
pieno di gente(,) in sua compagnia.
La
barista, Marta, si voltò per cercare la fonte di tutto quel frastuono e
sorrise
scuotendo la testa, non appena si accorse che era solo un’altra delle
stramberie di Riccardo.
«Ne
ho sentite tante su Davide» riuscì a dire tra un risolino e l’altro «ma
nessuno
aveva mai osato dire che è brutto, Annebbiata.»
Quella
conversazione non stava portando a nulla di buono e lei non aveva
nessuna
intenzione di rivelare ciò che aveva nell’animo al batterista; non
perché non
gli andasse a genio o avesse qualche tipo di problema con lui, ma Anne
non si
esponeva. Mai.
E
l’unica persona che era sempre stata in grado di sondarle il profondo,
nonostante lei lo infossasse sempre più giù, era stato Matteo, con cui
aveva
condiviso anche le lacrime.
Quel
luogo era diventato troppo piccolo, troppo affollato, troppo caldo. Non
riusciva più a guardare dentro agli occhi di Riccardo, perché si
sentiva
esposta, alla sua mercé e non poteva semplicemente far vedere quanto
fosse debole.
Non
rispose al ragazzo, ma si voltò e prese a sgomitare tra la gente,
cercando di
farsi strada in mezzo a quella ressa di uomini ubriachi e puzzolenti,
donne
svestite e cameriere indaffarate.
Cozzò
con una ragazza ossigenata che la squadrò dall’alto in basso; se fosse
stata in
condizioni normali l’avrebbe fulminata con un’occhiataccia, ma non
aveva più il
controllo di sé stessa.
Persa.
Dove
cazzo era Matteo, quando serviva?
Aprì
la porta di legno marcia e non appena sentì l’aria sfiorarle il viso
respirò di
nuovo, facendo uscire tutta la tensione dai suoi polmoni. Si accostò al
muro
del piccolo vialetto stretto in cui sorgeva il Porto di Città ed
estrasse una
sigaretta del pacchetto che teneva in tasca.
Si
era lasciata prendere dal panico non appena qualcuno aveva osato
metterla al
muro, lasciandola senza alcuna via d’uscita. Sapeva benissimo perché
aveva
avuto quell’esagerata reazione, ma continuò a far finta di non saperlo,
mentre
faceva un altro tiro dalla sua Lucky Strike.
Non
poteva permettersi di apparire fragile. Doveva essere quella ragazza
risoluta e
cocciuta, con la passione per il rock e gli anfibi neri. Se non avesse
tenuto
quell’aria strafottente sul volto, allora sarebbe finita di nuovo male.
«Non
devi nasconderti a me, Anne.
Io so tutto.»
Scacciò
dalla mente gli incubi che infestavano le sue notti, per scompigliarsi
i
capelli con la mano destra, in un evidente gesto di impazienza.
Non
riusciva più a convivere con quel dolore.
Ci
aveva provato, aveva tentato di nascondere quel buco nero, che però era
solo
aumentato minacciando di inghiottirla nella sua oscurità; c’erano
giorni, in
cui Anne non riusciva neanche a respirare, talmente le
faceva male e sentiva il fiato scomparire, così doveva
aggrapparsi alla sua forza di volontà, alla sua fama di sopravvivenza.
Il
passato non si poteva cambiare, ne era consapevole, ma avrebbe tanto voluto poterlo cancellare.
Persa.
«Vaffanculo!»
esclamò tirando un calcio ad una lattina di birra scadente, per non
pensare
alla morsa che le aveva preso lo stomaco.
«Non
dovresti essere così volgare, Anne.»
Quella
voce.
Davide
se ne stava a pochi passi da lei, una nube di mistero avvolta intorno a
lui e
la sigaretta accesa, penzolante tra le sue labbra a donargli quell’aria
da
straccione.
Anche
la sua presenza nell’ombra la impauriva, quella sera, così si lasciò
andare a
terra, rimanendo seduta sul marciapiede umido e i mozziconi di
sigaretta,
pensando che non era poi tanto differente da quella spazzatura: usata e
gettata
via, come un fazzoletto sporco, una carta straccia senza alcun valore.
La
cantante udì dei passi e un calore inaspettato alla sua sinistra, segno
che il
chitarrista si era appena seduto vicino a lei, tenendole compagnia in
quello
schifo; Davide non poteva sapere cosa significasse, che si fosse seduto
tra
l’immondizia insieme a lei, ma Anne dovette mettere tutta sé stessa per
trattenere le lacrime: la stava accompagnando nella sua fogna interiore.
«Non
credo sia bello stare seduti tra le sigarette spente.» mormorò la
ragazza, con
una voce debole e sottile, che non si avvicinava neanche lontanamente a
quella
sicura della Anne di sempre.
Ma
la Anne di sempre era solo una maschera.
«Appunto.»
sussurrò convinto, guardandola negli occhi. «Non è bello in compagnia,
figurati
da soli.»
Anne
non poté che rispondere al sorriso che era apparso sul volto di lui,
sincero e
luminoso, in grado di accendere il mondo, di far sembrare quella merda
un po’
meno dolorosa.
Non
le chiese niente, nonostante sapesse benissimo che qualcosa non andava;
rimase
in silenzio, a fumare la sua sigaretta, la coscia che sfiorava quella
di lei,
facendole ricordare che non era da sola.
Rimasero
zitti a scrutare dentro i loro abissi.
Persa.
****
Davide
non sapeva dire con certezza per quanto tempo rimasero in silenzio.
La
pioggia aveva preso a cadere rovinosamente, in quella Torino a cui non
interessava che fosse estate e faceva scendere l’acqua comunque.
Anne
non aveva accennato ad entrare al riparo, era rimasta accucciata su
quel lurido
marciapiede, le mani strette alle ginocchia e il viso impassibile di
chi sta
nascondendo un tormento infinito.
L’aveva
vista correre fuori dal pub, il viso sfigurato dal terrore e la fretta
di chi
ha il fuoco alle calcagna; non aveva voluto lasciarla sola in quelle
condizioni, chiaramente pietose, così era uscito per tenerle compagnia
nell’agonia.
Anche
se aveva rispettato le sue volontà, non poteva di certo negare che la
curiosità
lo stava attanagliando: avrebbe desiderato con tutto sé stesso
conoscere le
pene interiori della cantante.
Si ritrovò a seguire con gli
occhi la linea
curva della sua mascella, per poi soffermarsi su quella bocca di
fragola, che
aveva l’aria di essere morbida come le nuvole, come i sogni. Gli
sarebbe
piaciuto così tanto posare una
mano
sulla sua guancia, seguire con il dito i contorni delle sue labbra, per
constatare quanto potesse essere liscia la sua pelle.
Perso.
Le
persone si fermavano solamente alla Anne strafottente, forte, sicura di
sé
stessa, che non aveva problema a dirti le cose in faccia, anzi, non
aspettava
altro che lanciarti
una delle sue
frecciatine per farti sentire piccolo ed umiliato; ma era lui a vederla
piccola
ed impaurita, una bambina che giocava
a
fare l’adulta per scappare da una sofferenza che la stava facendo
perdere.
Avrebbe
voluto prenderla tra le braccia e mormorarle che andava tutto bene, che
avrebbe
potuto volare sulle ali del vento per sempre, se solo l’avesse voluto.
Perso.
Gli
faceva così tanta tenerezza, con quei suoi occhi pieni di lacrime
represse, per
non apparire sensibile ai suoi
occhi.
Ci metteva così tanto impegno a sembrare una dura, pensò Davide, che ti
faceva
pensare a quale dovesse essere il motivo di tanto sforzo.
Il
suo trucco nero diceva di starle alla larga, perché era una ragazza con
gli
attributi, che non aveva alcuna paura di dirtene quattro; ma i suoi
occhi
tristi raccontavano mille storie drammatiche, di dolori in sospeso e
solitudine.
«Just take this song and you’ll never feel
left all alone.» canticchiò improvvisamente Davide, sperando
che la ragazza
capisse il messaggio di quelle parole.
Prendi
questa canzone e non ti
sentirai sola.
Incontrò
gli occhi azzurri di Anne e ci scorse dentro il mare di emozioni che
stava
cercando con tutta sé stessa di sotterrare, per continuare a far finta
che
tutto andasse bene, che l’unica cosa importante nella sua vita era la
musica.
«I’m on my way,
home sweet home.»
Anne
riprese la canzone, senza smettere un attimo di incatenargli gli occhi
con i
suoi, in una silenziosa richiesta di aiuto, che Davide non poteva non
afferrare. Doveva fare qualcosa per quella bambina, perché avrebbe
voluto
essere lui il motivo per cui i suoi occhi sarebbero tornati a sorridere
e le
sue labbra a risplendere.
Quella
canzone conteneva un messaggio di condivisione, che valeva più di un
centinaio
di parole, utili solo a far sentire tutti a disagio e fuori luogo.
Perso.
La
vide prendere in mano il cellulare, mentre il silenzio tornava a
regnare in
quella notte malinconica.
«Matteo
è già a casa, si scusa per non avermi aspettata, ma non mi ha trovata.»
Quindi
sarebbe dovuta andare a casa, da sola, con quella paura che le si
poteva
leggere nelle iridi?
No,
cazzo, no.
Cercò
un centinaio di buoni motivi per non proporle ciò che aveva in mente,
ma non ne
trovò neanche uno: non aveva alcuna intenzione di lasciarla vagare in
solitudine per le vie malfamate di Torino.
Sembrava
una preda perfetta per qualsiasi malvivente, senza più la sua faccia
tosta e
l’aria da donna vissuta, che l’avevano abbandonata.
«Ti
accompagno io.» non era una domanda, ma una semplice constatazione. Non
propriamente un ordine, ma un invito senza via d’uscita.
La
ragazza inarcò un sopracciglio, in cerca di una proposta, non di un
obbligo; ma
non poteva di certo accontentarla.
Sarebbe
andata in macchina con lui, senza storie, in modo che nessuno avrebbe
potuto
ferirla ulteriormente. Era già piena di cicatrici, non poteva
permettersi di
vederla ancora più sfigurata.
«E
mi offri una sigaretta.» scherzò, senza però essere realmente divertita.
Il
chitarrista sbuffò teatralmente, estraendo dal pacchetto una Marlboro
rossa,
per poi porgerla alla ragazza, che la aspettava con espressione
vittoriosa.
Sembrava
essersi rasserenata da quando gli aveva detto che non l’avrebbe
lasciata a
piedi per tornare a casa; era evidentemente impaurita, ma Davide ne
ignorava il
motivo.
Le
tese la mano, aiutandola ad alzarsi da quello schifo in cui erano
rimasti
seduti per un tempo indefinito; probabilmente puzzavano come due
senzatetto.
«E
Riccardo?» mormorò allarmata, mentre salivano nella vecchia Uno color
diarrea,
comprata di seconda mano ad uno di quei concessionari in cui nessuna
persona
sana di mente metterebbe mai piede.
«Lo
accompagnerà Marta, come ogni sera in cui è fatto.»
Cazzo,
il
suo amico stava davvero prendendo una brutta piega con quella droga;
aveva
cercato di parlargliene più volte, ma sembrava dover dimenticarsi di un
dolore
che gli prendeva lo stomaco.
Erano
settimane che andava avanti a mele, e quando mangiava un pasto
completo, Davide
lo sentiva vomitare in bagno.
Aveva
un serio problema di dipendenza dalla cocaina.
Si
sedette sul sedile del guidatore e fu una strana sensazione avere Anne
accanto,
pronta a farsi portare ovunque da lui, incline
̶ se solo gliene avesse data l’occasione
̶ a
fidarsi di lui.
Non
fu una di quelle scene in cui il rombo del motore spezzò il silenzio,
facendo
sembrare Davi un vero uomo: il silenzio fece di nuovo da sfondo ad una
situazione emotiva, mentre la macchina partiva dolcemente, cullandoli.
Non
avevano alcun bisogno di azioni adrenaliniche o selvagge, perché il
chitarrista
sapeva che Anne aveva bisogno di tranquillità, di essere rassicurata,
proprio
come una bambina che avesse appena fatto un brutto sogno.
Bambina
mia, ti cullerei fino a che
non ti addormenteresti…
Perso.
Continuò
a tenere gli occhi puntati sulla strada, perché se avesse dato uno
sguardo alla
sua destra non avrebbe resistito all’impulso di fermare l’auto e fare
sua la
cantante, lì su due piedi.
Si
figurò l’immagine dei suoi folti capelli ricci aperti a ventaglio,
mentre la
teneva ferma sotto il suo peso, chiusa in una morsa alla quale non
sarebbe
potuta scappare; avrebbe preso a baciarla con passione, ma allo stesso
tempo dolcemente,
per farle sentire tutto l’affetto di cui aveva bisogno.
‘Fanculo,
Davide! Concentrati sulla
strada.
Quel
collo…
Cosa
non avrebbe fatto per toccare la sua pelle candida, anche solo per un
istante,
giusto per il gusto di poter sentire tutta quella morbidezza sotto le
sue dita.
Passò
il resto del viaggio a fissare con sguardo spiritato la strada,
cercando di non
dare importanza ai movimenti impercettibili della ragazza, che
continuava ad
avere quell’aria impaurita.
Quali
sono i tuoi demoni, Anne?
«Guarda,
è quel complesso in fondo alla strada.» mormorò con voce flebile «Mia
mamma mi
ammazzerà, questa volta…»
Davide
non vide l’ansia di essere sgridata dai genitori nei suoi occhi, ma
l’amarezza
causata da qualche ricordo, da qualche incubo represso e messo a
tacere,
tornato a ruggire più forte che mai; se si concentrava riusciva a
sentirlo,
quel leone dentro Anne, e doveva essere arrabbiato.
Perso.
Perché
stava prendendo tanto a cuore la questione di quella ragazzina? Avrebbe
dovuto
interessarsi solo di come cantava, delle sue prestazioni sul palco, non
del
perché sembrava essere morta dentro.
Non
riusciva a guardare dentro a quegli occhi tristi, gli faceva male
vedere quanto
dolore contenessero; poteva scorgere le spine che infestavano le sue
piante rigogliose,
gli artigli scalfire quell’anima pura e renderla sofferente.
Anne,
compariamo le nostre ferite e
vediamo quale delle due è più profonda.
«Beh,
allora… ci vediamo per le prossime prove, eh?» balbettò non appena la
portiera
della sua macchina venne aperta da Anne, intenta a scendere.
Era
così bella, quando abbandonava per qualche istante la sua maschera
personale.
«Certo.»
Si
fermò un attimo, sembrava voler dire qualcos’altro; rimase ferma con la
bocca
semi aperta, l’aria di chi sta lottando con sé stessa, cercando di
mormorare
qualche ringraziamento, forse.
Non
ne sarebbe stata capace, Davide lo sapeva bene, così la precedette.
«Prego,
Anne.»
La
ragazza sfoderò un sorrisino sghembo, e se non fosse stato per quegli
occhi
piangenti, sarebbe assomigliata ad una bambina. Una bambina pestifera.
La
guardò aprire la porta del cancelletto, per poi fermarsi sulla soglia e
alzare
la mano in segno di saluto, lo sguardo un po’ imbarazzato; Davide
increspò
appena le labbra, ricambiando.
Quella
serata era stata una rivelazione, una serie di eventi che lo avevano
mandato in
corto circuito totale, pensò mentre faceva manovra per riprendere il
corso
principale.
La
sua testa era scombussolata, aveva preso a roteare, come se fosse
ubriaco.
E
in effetti, un po’ ubriaco lo era.
Ubriaco
di Anne.
Perso.
****
Questo
capitolo è qualcosa di davvero
intimo per me; scriverlo mi ha iniziata in un percorso di uccisione
delle mie
paure. Quindi, devo ringraziare ancora una volta Aniasolary
per avermi sostenuta in questa battaglia.
Ma
ancora di più, devo tutto alla mia
beta-reader, che non smette mai di stupirmi, Lavisvampita;
tra l’altro vi consiglio caldamente la sua storia, Hereafter,
perché è davvero una chicca.
Eryca.
|
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Capitolo 8 *** Sogni di Rock n' Roll ***
8.
Sogni di Rock n’ Roll
You feel you're winning, that's what it's all
about,
Knowing you are winning, oooh,
And it could be the very last time,
I could be in a rock 'n' roll dream,
I could be in a rock 'n' roll dream
AC/DC – “Rock n’ Roll Dream”
Sognare.
Gli
era sempre piaciuto come verbo, aveva una cadenza originale, un suono
interessante, mistico, che ti faceva volare sulle ali della libertà,
dell’immaginazione; era perfetto per il significato che conteneva, in
poche
parole.
Nella
sua vita, quella voce verbale era stato un punto fisso, un chiodo
impuntato
proprio nel suo cervello, che aveva prolificato mandandogli in corto
circuito i
sistemi razionali, per far prevalere quelli dell’irrealtà; forse era
per quel
suo ostinarsi a viaggiare sulla cresta dell’onda, che si era ritrovato,
a
ventiquattro anni, con un lavoro umiliante e la maturità di un bambino
di
sette.
Ma,
anche se stava affondando nel baratro causato dal voler nascondere
l’evidenza e
la droga che lo stava facendo inginocchiare, Riccardo non aveva ancora
smesso
di sentire dentro di sé quell’impeto di eccitazione che solo un sogno
riusciva
a donargli.
Il
sogno.
Quello
che si era portato dietro per tutta la vita, fin dal giorno in cui sua
mamma lo
aveva accompagnato al negozio di musica, cercando di tranquillizzarlo;
non
aveva mai creduto ai colpi di fulmine, all’amore a prima vista, erano
cosa da
romanzi rosa e la sua vita non era di certo paragonabile ad un di essi,
ma era
più che sicuro che quella volta, davanti alla batteria tenuta in
esposizione,
si era davvero innamorato.
E
da lì il sogno aveva preso piede,
diventando sempre più insistente con gli anni, fino a che non lo aveva
portato
da Davide, Matteo ed Anne.
I
Mad.
I
Mad con le loro sensazioni, i loro testi mistici, colmi di emozioni e
paure
represse, quelle canzoni scritte di notte che ti toglievano il fiato,
cantate
dalla donna più seducente e tenebrosa che esisteva; il loro mondo,
messo su un
piatto d’argento e servito, in quella serata estiva, ad un pubblico
silenzioso,
incapace di esaltarsi veramente.
Il
fatto che ̶ mentre sbottava sulla sua
batteria,
estraniato da tutto e da tutti ̶ gli spettatori non
stessero urlando e
saltellando, com’erano soliti fare, lo irritava enormemente, rendendo
la sua
musica più forte e rabbiosa, inducendolo a picchiare sui tom-tom in
modo
esagerato.
Avrebbe
voluto immortalare quel momento, per
sempre.
Imprimerlo
nella sua mente come una cartolina di saluti, un breve messaggio
d’amore,
perché era l’unica sensazione che nella sua vita aveva veramente
importanza;
quando se ne stava seduto dietro il suo strumento non si doveva
preoccupare di
sembrare troppo gay, troppo drogato.
Si
sentiva un dio.
E
sapeva di poter continuare a sognare, ancora per qualche istante, per
il
momento del suo assolo, per quegli attimi in cui si innalzava e non
faceva più
parte del mondo terreno, ma entrava in una dimensione che solo pochi
privilegiati riuscivano a raggiungere.
E
mentre la voce di Anne lo guidava in quel luogo spirituale, Riccardo
non aveva
più paura di mostrarsi per quello che era, non doveva nascondere chi
era,
perché alla musica non interessava nulla, se non il suono che stava nel
suo
cuore.
Il
sogno.
Si
lasciò guidare dalla danza sciamanica che stava prendendo piede dentro
di lui,
la batteria che scandiva il tempo di ogni cosa, della canzone, della
sua vita;
gettò un’occhiata a Matteo, le gocce di sudore che gli imperlavano il
viso, gli
occhi chiusi e l’espressione persa in un’altra dimensione: non riusciva
a non
essere bello.
Riccardo
non seppe con certezza per quanto tempo suonarono quella sera, forse
anche a
causa della dose massiccia di cocaina che aveva tirato, prima di salire
sul
palco; stava esagerando con quella merda, se ne stava rendendo conto,
ma appena
rimaneva lucido per troppo tempo ̶ di solito quando era al
lavoro ̶ tornava
alla sua mente l’immagine di lui e Matteo che si baciavano, in mezzo
alla
strada, alla mercé di chiunque.
L’unica
soluzione a quei tormenti era la sua fedele cocaina, mischiata con un
bel po’
di erba; probabilmente anche Davide, che aveva spesso sniffato in sua
compagnia, si stava chiedendo se non stesse andando troppo in là.
Forse
la signora Sacco non aveva tutti i torti, forse suo figlio era davvero
un
drogato, pensò il batterista mentre dava l’ultima botta sul piatto, in
chiusura
del brano.
Vide
Anne prendere in mano il microfono quasi fosse una pistola: «Siete un
pubblico
di merda! Fate schifo!» sputò, il viso disgustato.
In
effetti quell’esibizione era stata una vera vergogna, soprattutto a
causa degli
spettatori noiosi e poco di compagnia, che non avevano fatto neanche un
po’ di
sano pogo.
Seguì
Davide giù dall’improvvisato palco in legno, domandandosi come potesse
reggere
tutto quel peso: era stata una fortuna che non fosse crollato mentre
suonavano;
avrebbero dovuto pensarci due volte prima di accettare un incarico, la
prossima
volta.
Ma
fare concerti in piccoli locali angusti e maltenuti gli serviva come
allenamento, e Riccardo aveva notato che in quel modo si stava
affiatando,
capendosi meglio a vicenda e provando nuovi riff,
assolo e quant’altro; era un’attività produttiva, che aiutava
parecchio.
Sprofondò
in un divanetto bucato, con molte probabilità mangiucchiato dai topi,
seguito
da una decisamente incazzata Anne, che si sdraiò sopra di lui,
appoggiando la
testa sulle sue gambe.
Doveva
essere lo spazio vip, quello?
Matteo ̶
il suo Matteo ̶
era
al bancone a ordinare i litri di birra che avrebbero dovuto aiutarli a
superare
quel tristissimo fallimento; il fatto che il ragazzo stesse appoggiato
con i
gomiti alla base di legno, mentre il suo sedere statuario se ne stava
in
esposizione, non era per niente d’aiuto allo scarso autocontrollo di
Riccardo
Sacco.
Quel
luglio era relativamente fresco, anche per Torino, dove di solito l’afa
regnava, contrastandosi solo con l’umidità, e Ricca era stato costretto
a
mettersi i pantaloni di jeans.
«Eccomi,
bei fusti.» esordì Matte, il vassoio colmo di boccali «Ho portato la
consolazione. Anche se potrebbero essercene di migliore, in effetti… »
brontolò
irritato, fissando il batterista che, scioccato, si rovesciò la bevanda
addosso.
Grazie,
Matteo del cazzo, grazie
tante.
Non
si era contenuto all’idea che il bassista avesse fatto un allusione
sessuale così esplicita davanti a
Davide ed Anne,
senza preoccuparsi che loro potessero scoprire qualcosa o pensare male
di lui;
la consapevolezza che la cantante potesse essere già a conoscenza di
ciò che
era successo tra di loro lo invase come un vento gelido, lasciandolo di
marmo.
Merda
merda merda merda merda merda
merda merda merda merda merda.
Ma
la ragazza rimase muta e buona sulla sue gambe, senza dar cenno di
vita, se non
per la sigaretta che diventava sempre più corta, lasciata penzolare tra
le sue
labbra, proprio come avrebbe fatto un bravo camionista.
D’un
tratto, senza alcun preavviso, Davide scattò in piedi e, come se avesse
appena
ingerito una pasticca eccitante, salì sul tavolo, mettendosi ad urlare
a
squarciagola, in un’imitazione di un indiano pellerossa, o forse di un
tricheco, non ne era sicuro; poi, non contento, prese un bicchiere e lo
scaraventò a terra, mandandolo in frantumi.
Cosa
cazzo sta facendo?
Prese
a saltellare su due piedi, alzando prima una gamba poi l’altra, le mani
intorno
alla bocca mentre ululava come se fosse uno di quei licantropi che si
vedevano
nei film. Matteo sembrava spaesato, invece, Anne se la rideva
allegramente e,
da brava psicopatica qual era, decise che doveva essere una gran
bell’idea
unirsi al chitarrista: così gli schizofrenici divennero due, le urla
raddoppiarono, seguite però dalle risate fragorose dei ragazzi.
Riccardo
sapeva ̶
lo sapeva veramente ̶
che
Anne e Davide erano un po’… particolari, ma
non avevano mai inscenato un simile spettacolo che, a quanto sembrava,
stava
intrattenendo tutto il pub, ancor più del loro concerto; fu in quel
momento che
si rese conto di quanto il suo coinquilino e la cantante fossero
immensamente rock star. Non si
limitavano a fare una
musica grandiosa, loro davano al pubblico un vero e proprio show, fatto
di
follie e eccessi smisurati, senza doversi sforzare neanche tanto, visto
che gli
veniva in modo naturale.
E
allora Ricca non si trattenne più, neanche mentre il sorriso da ebete
gli si
apriva in viso: si puntellò con le braccia e si fece spazio sul tavolo,
per
seguire quei due malati nella loro danza sciamanica, prendendo a
muovere le
braccia come se fosse un uccello.
Il
fatto che dovessero sembrare tre idioti non colpì troppo Matteo, che si
fece
convincere a mandare avanti quel ballo: tutti e quattro i Mad erano
impegnati
in quella che sembrava essere, più di ogni altra cosa, una crisi
epilettica
collettiva.
E,
mentre girava su stesso, si rese conto che un uomo di mezza età, in
giacca e
cravatta, si stava avvicinando a loro, il sorriso benevolo stampato in
faccia e
l’aria di chi ha preso per il culo una centinaia di persone.
Fu
in quella sera di luglio, durante il loro spettacolo post-concerto, che
ebbero
l’onore di incontrare per la prima,
fatidica volta Mauro Polloni.
****
«Mauro
Polloni» disse l’uomo, mentre allungava la mano in un cordiale gesto di
presentazione: nessuno però la afferrò, così l’uomo fu costretto a
tirarla
indietro senza averne stretta alcuna. Comunque, non ne sembrò troppo
infastidito.
Pareva,
con quei suoi Ray-Ban sul naso, il tipico uomo d’affari che sarebbe
stato
capace di contrattare con chiunque e di vendere persino la moglie, per
un
prezzo abbordabile; un vero e proprio avvoltoio in valigetta e scarpe
lucidate.
Il
fatto che avesse abbinato in maniera eccellente la camicia e la
cravatta, stava
a significare quanto egli desse importanza al primo impatto e di certo
loro,
con i jeans stracciati e le magliette di gruppi musicali, non avevano
passato
il test. Eppure, Mauro Polloni non diede alcun segno di disgusto, anzi,
non
sembrava avere alcuna intenzione di togliersi dalla faccia quel sorriso
da
ebete.
Questo
è un vero coglione.
Ecco
ciò che stava pensando Matteo, seduto in uno dei tanti tavolini del
pub, in
evidente imbarazzo nel trovarsi di fronte ad un simile individuo, che
non ti
faceva sicuramente sentire a tuo agio.
Il
bassista lanciò uno sguardo sghembo a Riccardo, intento a
mangiucchiarsi le
unghie con fare nervoso, in un comportamento tipico di lui.
Erano
passate diverse settimane dal loro passionale
bacio, gli esami erano finiti, per sua grande gioia, ed era
anche riuscito
a passare con ottantatre; ad Anne non era andata ugualmente bene e se
l’era
cavata con un sessantanove e un calcio nel culo, dovuto al fatto che i
professori non avevano alcuna intenzione di sopportare le sue
rispostacce per
un altro anno.
Ovviamente,
la sera dell’esame orale, si erano ubriacati e avevano fumato erba a
volontà,
in compagnia di un amichevole Davide ed un decisamente taciturno
Riccardo,
troppo sballato per capire anche solo dove si trovasse.
Matteo
aveva cercato più volte di rimanere solo con il batterista, per cercare
di
parlargli, di fargli uscire dalle labbra quella fatidica confessione,
perché
solo in quel modo avrebbe potuto essere in pace con sé stesso, senza
dover
ricorrere alle sostanze stupefacenti; Ricca doveva solamente ammettere
ad alta
voce di essere omosessuale, gay, frocio,
finocchio, checca, prendi in culo.
Prima
o poi avrebbe dovuto farlo, volente o nolente, perché la vita glielo
stava
spiattellando in faccia e non intendeva sentire un rifiuto.
Le
sue considerazioni vennero interrotte dal raschiamento di gola di
Davide, che
cercava di portare l’attenzione del signore su di loro e smorzare quel
silenzio
imbarazzante; in effetti, Polloni li aveva avvicinati, dicendogli che
aveva una
proposta da far loro, ed ora se ne stava zitto e muto a fissarli con un
sorriso
plastificato.
Qual
è il tuo problema, bello mio?
La
clientela del locale non era minimamente interessata allo spazio intimo
che si
erano creati, piuttosto concentrati sulle cameriera affascinanti che si
aggiravano tra i tavoli, in minigonna e maglietta estremamente
scollata; gli
uomini di mezza età ubriachi e sudici erano le creature che facevano
più
ribrezzo sulla faccia della terra, avevano un che di laido.
Quelle
povere bariste dovevano sopportare le pacche sul sedere e le allusioni
sessuali
di un branco di eterosessuali vecchi e allupati.
Se
solo il mondo fosse interamente
gay…
Si
girò verso Riccardo ̶ il suo
Riccardo ̶ e
incrociò il suo sguardo tenebroso: nelle iridi castane del ragazzo
c’era una
tempesta in atto, si poteva vedere il vento del senso di colpa spazzare
via
tutte le insicurezze; ma ciò che ti impediva di distogliere gli occhi
dai suoi
era quel dolore, quelle gocce di sofferenza che sembravano implorarti
aiuto.
Guardare
dentro a quegli occhi faceva male, nel
senso più stretto del termine.
«Signori,
la vostra esibizione è stata grandiosa!» la voce di Polloni interruppe
il
dialogo silenzioso tra i due ragazzi, improvvisamente; Matteo si
ritrovò con la
testa roteante, in sincronia con quella della Terra.
I
tuoi sogni repressi mi fanno
male, Riccardo.
Si
costrinse ad osservare Anne mentre, risoluta come al suo solito, si
metteva a
sedere e prendeva un cipiglio aggressivo, segno che quel tizio non le
andava
per nulla a genio.
La
canottiera della cantante era così scollata che, quando si piegò
appoggiandosi
al tavolo, a fronteggiare Mauro Polloni, rimase ben poco
all’immaginazione.
Matteo
era convinto di aver visto un guizzo negli occhi di Davide, palesemente
perso per la sua migliore amica.
«La
sai una cosa, amico?» chiese la
ragazza, così vicina al viso dell’uomo che, se avesse voluto, avrebbe
potuto
baciarlo. «Abbiamo fatto schifo. È
stato il concerto più penoso che io abbia mai fatto.»
Il
nuovo arrivato si abbandonò ad una di quelle risate di convenienza, in
cui non
ridi perché sei divertito, ma perché stai per dire qualcosa di molto serio, o in alternativa per fare una
steccata.
Ora,
il timore aleggiava nell’aria, quel tizio metteva inquietudine.
«Se
permetti, sono un produttore discografico e credo che il vostro show
sia stato
a dir poco… coinvolgente.»
Produttore
discografico.
Produttore
discografico.
Produttore
discografico.
Produttore
discografico.
Produttore
discografico che
era appena riuscito a zittire Anne, sconvolta apparentemente quanto il
resto
del gruppo, consapevole di trovarsi davanti ad una vera possibilità per
la loro
carriera.
Ed
eccolo lì, insistente come mai prima d’allora: il
sogno.
«Il
finale, in cui hai esplicitamente insultato il pubblico, era molto rock
e
durante tutto il concerto si poteva sentire la rabbia…» cominciò, il
tono
mellifluo, mentre cercava le parole giuste «e agli
spettatori, la rabbia, piace.
E se piacete a loro, signori, allora siete nelle mie grazie.»
Matteo
dovette ragionare due o tre volte per connettere la situazione: loro
piacevano
al pubblico, quindi, di conseguenza piacevano anche a quel tizio in
giacca e
cravatta che altro non era se non un fottutissimo produttore
discografico.
In
effetti, erano diversi mesi che facevano serate per Torino, la gente
ormai li
conosceva, li apprezzava e si portavano dietro sempre un piccolo
seguito di
fan, che sembravano andare matti per Anne, più che altro.
Non
avevano mai pensato seriamente ad un possibile futuro, era già
abbastanza avere
a che fare con una piccola cerchia di persone, un gruppo; ma ora, con
quel tipo
che gli stava realmente offrendo
un’opportunità, il sogno prese a
stiracchiarsi, ad uscire dal sonno e ruggire, facendosi sentire.
Era
sempre lì, non se n’era mai andato, il
sogno di rock n’ roll.
Davide,
di solito loquace e benevolo, era rimasto come ammutolito di fronte ad
un uomo
così potente, che li teneva in pugno e avrebbe potuto decidere se farli
salire,
oppure gettarli nel cassonetto dell’immondizia, insieme alle lattine di
birra
vuote; Riccardo, dal canto suo, manteneva quell’espressione annebbiata
dovuta
agli effetti della cocaina.
Nessuno
osava più spiccicare una parola.
Mauro
Polloni aveva il controllo della situazione, se non il coltello dalla
parte del
manico.
Dannati
avvoltoi affaristici…
«Questo
significa, signorina, che mi siete piaciuti. E se qualcuno piace a
Mauro
Polloni, allora vuol dire che ha un colloquio assicurato con Franco
Tasso.»
Chiunque
avesse a che fare con la musica, o se ne interessasse anche solo
minimamente,
era a conoscenza di chi fosse il proprietario dell’Etichetta
discografica più
in voga nella scena underground italiana:
Franco Tasso.
Con
la sua Alternative Productions, Tasso
aveva scoperto alcuni dei migliori gruppi alternativi d’Italia, facendo
salire
di livello la sua Etichetta; ogni persona che aveva intenzione di
sfondare nel
mondo della musica underground puntava ad un contratto con la Alternative.
E
adesso, davanti a loro, sedeva uno degli agenti discografici di quella
Casa,
sorridente come un bambino, ben consapevole di aver fatto colpo.
Il
sogno.
Eccolo
di nuovo, forte, determinato, a spingere con tutto sé stesso per uscire
dalla
custodia ermetica in cui Matteo lo aveva rinchiuso, sperando di poterlo
placare, di poter vivere andando al lavoro e tornando a casa da un
compagno.
Ma
il sogno era lì.
Non
se ne sarebbe mai andato, perché lui era stato toccato dal dono della
musica,
dal talento di saperla creare, di essere in grado di parlare quel
linguaggio,
di captare i segnali; non si poteva voltare le spalle alla musica, lei te lo impediva.
Davide,
improvvisamente, era diventato pallido come un lenzuolo, inducendo i
suoi amici
a preoccuparsi per la sua salute, ma presto si resero conto che era
solo estremamente
sotto choc.
«Franco
Tasso dell’Alternative Productions?»
domandò Anne, a quel punto estasiata e dimenticata del fatto che quel
tipo
proprio non le piaceva.
Polloni,
a quel punto, tirò fuori dalla tasca della giacca un biglietto da
visita, sul quale
erano incisi il numero di telefono, il suo nome e cognome e il logo famosissimo dell’Etichetta indipendente;
sorridente, sapeva di aver appena acciuffato un banco di pesci.
Il
chitarrista sembrò riscuotersi dallo stato di semi-trance nel quale era
calato,
prese in mano il biglietto e lo esaminò a lungo, probabilmente
intimorito di
incontrare lo sguardo pieno di giudizio del produttore.
«Chiamatemi.»
disse solamente, senza mai cambiare espressività «E pensateci. Potrebbe
essere
il vostro trampolino di lancio.»
Detto
questo, si alzò, allungò nuovamente la mano in segno di commiato,
sapendo che,
questa volta, tutti avrebbero ricambiato la stretta, cosa che, in
effetti,
successe.
Era
davvero ridicolo come le persone cambiassero di fronte ad elementi da
cui avrebbero
potuto dipendere, pensò Matteo, mentre sentiva la pelle liscia di
Polloni sulla
sua mano.
Rimasero
soli e il silenzio prese a ruggire, mentre scariche di adrenalina si
propagavano per tutti loro, che non stavano più nella pelle.
«Ehi,
tu! Portaci un altro giro, cazzo! Dobbiamo festeggiare!» esclamò infine
Davide,
scaturendo l’urlo liberatorio di Anne, che sembrava essere sull’orlo
delle
lacrime.
Tutti
stavano pensando allo stesso identico fardello, il quale li seguiva
indomato da
troppo tempo.
Le
cose sarebbero cambiate, d’ora in poi.
Il sogno stava
diventando sempre più reale
****
Capitolo
importantissimo, questo qua,
perché d’ora in poi inizieranno i veri e proprio disastri e la scalata
dei
nostri quattro ragazzi verso il successo.
Ovviamente,
Mauro Polloni, Franco Tasso
e la Alternative Productions sono frutto della mia
fantasia, perché mi
sembrava giusto così, invece di usare Etichette realmente esistenti e
figure di
spicco nel mondo dell’underground.
Nel
prossimo capitolo ci saranno delle
grandi sorprese, la festa inizierà ad entrare nel vivo e finalmente si
scoprirà
qualcosa di più del complicatissimo personaggio di Anne; ma
soprattutto, le
cose tra Davide e Anne si faranno, diciamo… più calde.
Ragazzi,
vi chiedo di lasciare un commentino
se leggete, perché mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensate,
altrimenti gli
stimoli per continuare la storia diventano davvero pochi.
Grazie
a tutti, come sempre,
Eryca
|
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Capitolo 9 *** Mai più sporca ***
9.
Mai
più sporca
Mi
rivolgo
direttamente a te,
con
la speranza
che la vita ti possa portare
il
peggio;
ricordati
sempre
di questa bambina con le trecce
che
ti ha
rovinato la vita,
almeno
quanto tu
l’hai rovinata a lei.
*
*
«Ci
vuole più coraggio per dimenticare che per ricordare.»
Sören
Kierkegaard
Sporca.
Non
c’erano altri modi per descrivere il modo in cui Anne Melì si sentiva,
quel
giorno di fine luglio.
Si
era alzata con il cuore che martellava, dopo l’ennesimo rude incubo che
aveva
come protagonista lui, il lurido
bastardo.
Aveva
fatto almeno tre docce di seguito, quella mattina, sperando di potersi
sentire
purificata, cosa che ovviamente non era accaduta; sua madre l’aveva
pregata di
ingerire qualcosa, per pranzo, ma la fame aveva abbandonato il suo
corpo quando
la mente l’aveva costretta a rivivere quei terribili
momenti di anni prima.
Per
quanto avesse cercato di fuggire dai suoi demoni, da quegli occhi
azzurri,
pallidi e vitrei, che le mettevano i brividi, il passato tornava
imperterrito a
bussarle alla porta.
Sporca.
Così,
il suo ingegno infallibile, le aveva consigliato di fermarsi al negozio
di
liquori sulla traversa di casa sua, comprare una bottiglia di Jack
Daniel’s e
sbronzarsi alle tre di pomeriggio, per dimenticare quella pelle
abbronzata e
quel ghigno malefico; il fatto che, invece di stare su quella lurida
panchina a
bere come una vecchia ubriacona, sarebbe dovuta essere agli studi della
Alternative Productions, non l’aveva
toccata minimamente.
Davide
aveva contattato Mauro Polloni, il produttore che li aveva avvistati
durante un
loro concerto, e avevano fissato un incontro con la Casa Discografica,
per
discorrere delle loro qualità e cercare di trarne fuori un contratto.
Anne
si ritrovò a ridere di gusto, pensando che, con tutte le probabilità di
quel
mondo, stava mandando a rotoli la sua carriera musicale per colpa di lui, o forse, a causa della sua
incapacità di reagire alla vita.
Bevve
un lungo sorso di liquore, sentendo la gola infiammarsi al suo
passaggio.
I
suoi compagni di gruppo dovevano essere neri di rabbia, convenne la
ragazza,
rendendosi conto di avere un centinaio di chiamate perse sul cellulare;
quello
era il lato di Anne che i suoi amici non avevano ancora conosciuto:
nessuno
poteva imporle di fare qualcosa, se voleva comportarsi da testa di
cazzo,
allora lo faceva. Punto e basta.
Sporca.
Dio,
faceva proprio schifo. Da quanto era finita così in
fondo? Aveva dimenticato il momento in cui aveva iniziato ad
affondare; forse era successo dopo la vittoria in tribunale che, invece
di
rincuorarla, l’aveva fatta scivolare ancora più sul lastrico.
Si
alzò dalla panchina, barcollando in modo ridicolo, e prese a camminare
per le
strade di Torino, con la bottiglia di Jack Daniel’s vuota nella mano
sinistra.
Era una persona sporca, non sarebbe mai potuta essere pulita.
Dio,
si faceva ribrezzo a tal punto che se avesse avuto un oggetto
contundente,
probabilmente si sarebbe tagliata, cercando di far sgorgare dalle vene
quel
sangue putrido e fangoso.
Che
cosa ci facevano al mondo persone sporche
come lei?
Quegli
occhi continuavano
ad incendiarle i pensieri, ora annebbiati dall’alcol, e vedeva quelle
iridi
azzurrine guardarla con gusto, mentre il suo padrone godeva, il sudore
che gli
scendeva dalle tempie, quel ghigno perverso.
Non
poté fare a meno di far scendere le mani sul suo ventre, lasciandosi
crollare
in un prato dei Giardini Reali, facendo fuggire una coppia di
fidanzatini
innamorati; sentì le lacrime rigargli le guance, il sapore salato sulla
lingua
e la consapevolezza che sarebbe rimasta sporca,
per sempre.
Prese
la testa tra le mani, appoggiandosi al tronco di un albero, cercando di
mettere
a fuoco la situazione, tentando in tutti i modi di tornare cosciente,
di
spazzare dalla mente quei ricordi sporchi.
Probabilmente
prese a piangere rumorosamente, con tanto di singhiozzi e gemiti,
perché le
sembrò di vedere delle persone fermarsi e guardarla con fare
preoccupato; ma
non poteva essere sicura di niente, così sopraffatta dalla quantità
industriale
di alcol che aveva ingerito.
Si
sentì la testa completamente vuota e prese ad entrare e uscire da uno
stato di
semi-incoscienza, che la faceva sentire in un altro universo; era quasi
certa
di essere svenuta per un periodo indefinito, perché quando riuscì a
mettere a
fuoco il cielo si rese conto che il sole era tramontato e il parco era
quasi
deserto.
Ma
nulla aveva un senso, quel giorno, perché di nuovo sprofondò in una
dimensione
alternativa, dove vide lui mentre
la
sottometteva, legandole le braccia e la mani, tenendole un coltello
puntato
alla gola... ora le stava aprendo le gambe, la guardava con quel ghigno
malato...
Riaprì
gli occhi improvvisamente, probabilmente perché la sua mente si impose
di non rivivere
quei momenti, conscia che la ragazza non
avrebbe potuto sopportarli.
Si
guardò intorno, cercando un segno per riconoscere il luogo in cui si
trovava e
si rese conto di essere ancora appoggiata all’albero e seduta su un
prato
d’erba fresca; l’aria era tiepida e afosa, la luce aveva ceduto il
posto alle
tenebre ed Anne realizzò di trovarsi nei Giardini Reali, di notte.
Dio,
la testa le faceva così male... Sembrava che l’avessero picchiata con
un
bastone.
Acciuffò
il cellulare nella tasca e i sensi di colpa le artigliarono lo stomaco
quando
si accorse delle numerose chiamate che gli amici e sua madre le avevano
fatto;
dovevano essere tutti così in pena per lei. Aveva fatto un enorme
casino e a
causa della sua irresponsabilità, aveva mandato a puttane il provino
con
l’Etichetta. Se fosse stata fortunata, avrebbe solamente dovuto subire
l’umiliazione di essere sbattuta fuori dai Mad, che per colpa sua
avevano perso
l’occasione della loro vita.
Sei
una stupida, Anne.
L’animo
tormentato, il dolore sempre più forte man mano che riprendeva il
controllo di
sé stessa, si alzò e decise che era ora di andare a fare rifornimento
di alcol:
se doveva affrontare, oltre ai ricordi tenebrosi del suo passato, anche
quell’aggiuntiva consapevolezza di aver mandato a rotoli il
sogno della sua vita, allora aveva bisogno di estraniarsi
dalla
realtà.
E
al diavolo i conati di vomito che le intimavano pietà.
Si
rese conto di avere i jeans sporchi di fango in diverse zone e la
maglietta
macchiata di liquore; quando vide il suo riflesso in una vetrina, si
rese conto
di aver toccato il fondale: aveva delle profonde occhiaie nere, i
capelli
arruffati e il volto di chi si è completamente smarrita.
Persa.
Sporca.
«Anne!»
Si
voltò, stupita di sentirsi chiamare, persa com’era nelle sue
considerazioni da
depressa cronica; ma ciò che vide non la rincuorò affatto.
Davide
si era sporto dal finestrino della sua vecchia macchina, fermo con le
luci di
emergenza, il volto contratto dalla rabbia, gli occhi infuocati di chi
aveva
aspettato tutto il giorno una pazza psicotica che non si era fatta
vedere.
Sei
nei guai, Anne, cara.
Non
seppe bene cosa la spinse a rispondere nel modo in cui fece, ma, la sua
faccia
tosta, le impose di sfoderare un sorriso sfacciato, l’aria strafottente
e di
alzare il dito medio, in segno di saluto.
Davide
parve prendere fuoco, mentre smontava dall’automobile, raggiungeva la
cantante
e la prendeva per un braccio, in una maniera così forte che lei non
poté che
spaventarsi; dio, non lo aveva mai visto così incazzato, sembrava fuori
di sé.
«Che
cosa cazzo ti è venuto in mente, eh? Si può sapere?» prese a sbraitare,
la vena
sul collo visibile e il viso arrossato «Hai mancato all’appuntamento
più
importante della nostra carriera e non ti sei neanche degnata di
rispondere
alle chiamate! Che cosa cazzo hai in quel cervello?»
Poi,
d’un tratto, Dav prese ad annusare l’aria, la sua faccia si sfigurò in
una
smorfia disgustata, mentre prendeva una ciocca dei capelli di Anne e se
li
portava al naso, per poi lasciarli cadere, l’aria di chi ha capito
tutto.
Questa
volta, lo sguardo che le rivolse era peggiore della rabbia, peggiore
della
tristezza e di qualsiasi altra emozioni: quella che si era dipinta sul
volto
del chitarrista era delusione.
«Puzzi
di alcol.» disse semplicemente, il tono piatto, che le fece più male di
una
pugnalata.
Aveva
deluso l’unica persona di cui gli era mai importato veramente qualcosa,
oltre a
Matteo; lui si era fidato di lei, aveva riposto le sue speranze nella
sua voce,
nella loro musica e aveva sperato di poter avere un futuro con il
gruppo.
E,
in un modo che era estremamente tipico di lei, aveva calpestato ogni
cosa,
rovinato tutto e buttato nel cesso, tirando lo sciacquone; il fatto era
che non
sapeva come comportarsi quando le cose iniziavano ad andarle bene,
reagiva male
alle notizie positive e si rinchiudeva nel suo bunker solitario,
crogiolandosi
nelle brutte esperienze passate.
Dio,
quanto avrebbe voluto poter abbracciare Davide, dirgli che era una
stupida e
far finta che nulla fosse successo.
«Ti
interesserà sapere ̶ o forse no, in effetti ̶
che
siamo riusciti a farci dare un’altra possibilità dall’Alternative»
cominciò «Erano molto seccati dal fatto che la nostra cantante
avesse deciso di non degnarci della sua presenza, ma alla fine hanno
consentito
a venire a vederci ad un live.»
Probabilmente
erano riusciti in quell’impresa solo grazie alla personalità di spicco
ed
eccentrica di Davide, che li aveva incantati con il suo bel parlare.
Non di
certo grazie a lei.
Fanculo.
Fanculo tutto.
Il
chitarrista si scompigliò i capelli corvini, guardandola con occhi
diversi,
sinceramente preoccupati, nonostante la rabbia visibile.
«Ti
porto a casa, Anne.»
«No!»
si ritrovò ad urlare, gli occhi sgranati. Non voleva tornare a casa,
con sua
madre che avrebbe iniziato a farle il terzo grado, a piangere per la
sua
ennesima ricaduta nella spirale della depressione; per non parlare di
suo padre
che si sarebbe rinchiuso in quel suo silenzio assordante, sperando che
le cose
si sarebbero messe a posto da sole.
«Non
voglio andarci a casa, ti prego.»
Dovette
sembrare davvero disperata, perché Davi la guardò per un lungo momento,
gli
occhi indagatori, prima di annuire e montare sull’auto.
Dio,
come poteva anche solo rivolgerle la parola? Dopo tutto quello che gli
aveva
fatto...
«Riccardo
è andato da sua madre per il week-end, quindi c’è la sua stanza libera.
Puoi
dormire lì.»
Il
tono di voce del ragazzo era freddo, lo sguardo fermo sulla strada,
eppure le
mani tradiva la sua apparente calma: stringeva così forte il volante
che le
nocche erano divenute bianche.
Per
tutto il resto del tragitto rimasero in silenzio, la tensione palpabile
nell’aria; ma Anne era troppo sconvolta, troppo persa nei suoi pensieri
per
preoccuparsene.
Voleva
solo svanire, scomparire...
Scesero
dalla Uno e Davide aprì il portoncino di un vecchio condominio
maltenuto; le
scale erano sporche e le piastrelle rotte, qua e là, segno che doveva
essere
una costruzione piuttosto vecchia e fatiscente. Non dovevano passarsela
bene, i
due membri più anziani della band.
La
band che tu hai quasi mandato a
puttane, idiota.
L’appartamento
la lasciò di stucco: si era aspettata un vecchio sottoscala puzzolente,
lasciato a marcire, con la muffa sui muri e il caos ovunque. Invece si
ritrovò
in un si, piccolo alloggio, ma decisamente artistico: la sala
principale era
occupata da un piccolo divanetto verde, posizionato sul muro di fondo,
proprio
sotto una grossa vetrata circolare, che assomigliava ad un oblò; il
pavimento
era in parquet, lucidato e ben tenuto, mentre i muri erano tappezzati
da foto
di qualsiasi genere: alcune ritraevano vecchie signore con un cane,
altre dei
paesaggi, mentre alcune facevano vedere Davide in compagnia di
Riccardo, oppure
delle semplici istantanee di vita quotidiana; erano foto di qualità
altissima e
decisamente molto artistiche.
Al
lato della sala, sulla destra, era situato un piccolo cucinino, con i
fornelli
e giusto due mobiletti, dove poter mettere i cibi e le pentole; sul
piccolo
frigorifero arrugginito era situata una televisione di vecchia
generazione, con
tanto di antenna. Sul lato sinistro del soggiorno stava una piccola
porta che,
probabilmente, portava alle camere da letto e al bagno.
La
parete dove stava il divano era invasa da mensole, ricavate da vecchi
assi di
legno, colme di libri di qualsiasi dimensione e dischi musicali.
Era
una casa magnifica.
«Adesso
tu mi spieghi che cosa ti è preso, oggi.»
«Vaffanculo,
Davide.»
Il
ragazzo le si scaraventò addosso, bloccandola con il suo peso al muro,
facendola sentire in gabbia; fu una questione di un attimo: i ricordi
tornarono
veloci nella sua mente e l’immagine di lui
che la teneva ferma, senza impedirle di uscire, la paralizzò.
Poi
scoppiò in lacrime.
Sporca.
Dio,
non riusciva più a sopportare quei dannati occhi deviati.
Perché non sparivano?
Perché
non spariva lei?
Davide
si scostò, l’espressione del viso mortificata, di chi sa di aver fatto
la mossa
sbagliata; aveva lo sguardo doloroso, che chiedeva scusa anche solo con
le onde
magnetiche.
«Anne»
prese a chiamarla dolcemente, mentre se la stringeva al petto e le
massaggiava
i capelli, in un movimento così affettuoso che
la ragazza si sciolse tra le sue braccia,
aggrappandosi a lui come se fosse l’unica cosa che contava.
«Anne,
piccola» disse mentre la guardava con quei suoi occhi color oceano, che
avrebbero incatenato qualsiasi donna sulla faccia della Terra.
«Non
c’è la faccio più, Davide...» singhiozzò «fa
così male.»
Il
ragazzo continuò con le sue carezze docili, che ebbero un effetto
calmante su
di lei; aveva bisogno di quell’abbraccio, di quell’affetto, ne aveva
così
dannatamente bisogno che sentiva il cuore esplodere, perché non
riusciva più a
nascondersi.
Basta.
«Qual
è il tuo dolore?» Fu una domanda semplice, senza doppio fine, senza
inganno,
perché Davide era così: chiaro, puro,
vero; lui non mirava ad un qualche scopo, era troppo buono,
troppo limpido
per pensare a qualcosa del genere.
E
fu grazie a quei suoi occhi veri che
Anne prese a parlare.
No,
a raccontare.
«È
successo due anni fa. Lui era un
amico di famiglia, di mia madre; era simpatico, divertente, l’amico dei
bambini
che era in grado di far ridere chiunque. Era un bel tipo, non poteva
non
andarti a genio. Mi si avvicinò, durante un periodo che non ricordo,
accompagnandomi in macchina un po’ ovunque, comprandomi il cibo che
volevo.»
Prese
una boccata d’aria, perché sapeva che
dire ciò che era venuto dopo le avrebbe fatto male,
ma non più di chiuderlo dentro sé stessa.
E
Davide aveva gli occhi saggi, di chi stava iniziando a capire.
«Un
giorno, non ricordo di preciso quando, iniziò a parlarmi di cose che
riguardavano il sesso. Io ridevo, ero curiosa, ero ingenua, ero una
bambina.
Gli piaceva spiegarmi le posizioni sessuali, i giochi erotici. Godeva,
si
vedeva in quei suoi occhi deviati. Poi, un giorno decise che era
arrivato il
momento di più. Mi portò a casa
sua,
con la scusa di farmi ascoltare il nuovo album dei Green Day e…»
La
voce le venne meno, gli occhi si riempirono nuovamente di lacrime e
solo quando
sentì la mano di Davide accarezzarle un braccio, lo sguardo che la
invitava e
la rassicurava silenziosamente, si decise a proseguire.
Doveva
finire, ormai era ora, lo doveva a sé stessa.
Mai
più sporca.
«Mi
stuprò.»
****
Lo
sapeva già.
Quando
la ragazza, che sembrava essere una bambina sperduta, pronunciò quelle
fatidiche parole, Davide ne era già consapevole, lo aveva capito. Era
evidente.
Ma
non poté, comunque, rimanere impassibile. Anzi, ne fu sconvolto.
Scioccato.
Si
sentiva uno stronzo per averla insultata, per essersi arrabbiato così
tanto con
lei, prima; se solo avesse saputo, non avrebbe mai
osato trattarla in quel modo...
Sei
così piccola, Anne.
Lei
lo stava guardando, gli occhi stanchi, gonfi e arrossati, cercava di
trattenere
le lacrime che, però, scesero comunque, rigandole quelle guance rosee,
di una
ragazza che ero poco più che bambina.
Le
parole che sentiva dentro, semplicemente, uscirono fuori, come un fiume.
«Se
potessi guarire i tuoi mali, li guarirei tutti.»
Le
baciò l’occhio sinistro.
«Se
potessi alleviare i tuoi dolori, li allevierei tutti.»
Le
baciò l’occhio destro.
«Se
potessi rendere mio il tuo male, lo renderei mio.»
Le
baciò il naso.
«Se
potessi renderti felice, Anne, ti renderei felice.»
Si
calò lentamente e dolcemente a
sfiorarle
le labbra, senza toccarle: voleva che fosse lei ad avvicinarsi a lui, a
desiderare quel bacio, perché non
aveva
alcuna intenzione di fare qualcosa che facesse scattare i suoi ricordi.
La
reazione della ragazza non tardò ad arrivare e fu dolce come se l’era
aspettata: si avvicinò al suo viso, unendo i loro fiati, strofinò il
naso sul
suo, in un gesto estremamente intimo e delicato ed infine unì le labbra
alle
sue.
In
un primo momento, Davide non rispose, facendole capire che non aveva
alcuna fretta,
che non l’avrebbe costretta a fare niente, senza il suo consenso; poi,
quando
Anne prese a muovere le labbra con le sue, fece pressione con la
lingua,
delicatamente, entrando nella sua bocca ed esplorandola, assaporandola
in ogni
centimetro.
La
cantante aderì di più al suo corpo, facendo scendere la mani sulla sua
schiena,
per poi tornare su, sui suoi capelli. Davide era su di giri, se avesse
dato
ascolto al suo istinto, l’avrebbe presa lì, in piedi, con mascolinità a
rudezza; ma la ragazza aveva bisogno di affetto, di amore.
E
lui voleva essere la sua fonte di guarigione.
Conscio
che ora avrebbe potuto osare un poco di più, appoggiò delicatamente le
mani sui
fianchi della ragazza, massaggiandoli con cerchi circolari, con
dolcezza
estrema.
Si
staccò da quelle labbra di cotone solo per poter gustare la morbidezza
della
pelle del suo collo, lasciando una linea di baci teneri, ma allo stesso
tempo
infuocati, sulla sua mascella.
L’ansimo
della ragazza fu il segnale che gli permise di far scivolare con
estrema
cautela le mani sull’orlo della maglietta sudicia, per poi, introdurne
una al
di sotto, a toccare la pelle fresca di lei.
Dio,
sei perfetta.
Davi
poggiò il suo palmo sul ventre della ragazza, lasciandolo dapprima
abbandonato,
mentre si concentrava di nuovo sulle sue labbra, trasmettendole tutto
il suo
sentimento.
Come
se le stesse lasciando il suo
marchio.
Anne
raggiunse la mano di lui e, imprigionandogli gli occhi nei suoi, spinse
il suo
palmo più in su, facendolo fermare sopra il reggiseno.
Davide
si rese conto che ora, la sua eccitazione era evidente nei pantaloni di
jeans
e, sicuramente, Anne la sentiva anche aderire a sé, ma non sembrò
esserne
scandalizzata.
Dio,
aveva così paura di fare qualcosa di sbagliato con lei...
La
cantante gli sorrise debolmente, illuminando tutto il suo mondo con
quel raggio
di sole, prima di afferrare i lembi della t-shirt di lui e sfilargliela
dalla
testa, facendolo rimanere a torso nudo; gli occhi di lei si posarono
sul suo
torace, esplorando ogni minima parte del suo corpo, infine, timida,
appoggiò la
mano sul suo petto, proprio vicino al cuore.
Poteva
sentire il calore di lei penetrargli la carne e finire lì, proprio
dentro
all’organo vitale, che aveva preso a pulsare all’impazzata.
La
desiderava.
Davide
si impossessò nuovamente delle sue labbra, accendendo con le sue mani,
ogni
parte del corpo della ragazza in cui passava, prima di baciarle
l’orecchio e
guardarla negli occhi, mentre prendeva l’orlo della sua maglietta, in
una
silenziosa richiesta di assenso.
Lei
gli sorrise di rimando, e lui seppe che poteva toglierle di dosso
quell’indumento; rimase affascinato, come se stesse guardando una
statua greca,
mentre osservava il torace di Anne, coperto solo da un anonimo
reggiseno nero.
Sei
bella come nessun’altra lo è.
Le
scostò una ciocca di ricci ribelli e le baciò affettuosamente il collo,
mentre
con le mani, senza fretta, le slacciava il reggiseno, per poi
abbandonarlo sul
pavimento; la ragazza si strinse di più a lui, evidentemente eccitata,
almeno
quanto lui.
A
quel punto, Anne prese ad armeggiare con il bottone dei suoi jeans,
lasciandolo
stupefatto da tanta iniziativa: aveva pensato che sarebbe stata restia,
anzi,
non aveva proprio messo in conto l’idea di rimanere senza pantaloni.
Ma
quella ragazza era una scoperta dietro l’altra.
Strattonò
i jeans e li scalciò via senza troppo riguardo, suscitando la prima
risata di
Anne della serata, anzi, probabilmente della giornata. Risero insieme,
in un
momento di completa intimità e condivisione, senza alcuna fretta di
romperlo.
Fu
la rossa ad avventarsi nuovamente sulla sua bocca, lasciandolo senza
fiato ed
eccitato, per poi scendere lungo il suo collo e sul suo petto
muscoloso,
riempiendo di baci ogni parte della sua pelle.
Sei
un angelo.
Con
quei baci stordenti e le carezze sul suo corpo di uomo, Anne gli fece
capire
che poteva lasciarsi andare un po’ di più, così la prese sotto le
ginocchia e
le passò una mano intorno al collo, alzandola dal pavimento e
scortandola fino
alla sua camera da letto, dopo la porta, in fondo al corridoio.
La
adagiò sul letto ad una piazza e mezza, rimanendo in piedi ad osservare
la
perfezione del suo corpo: le curve seducenti ma non volgari, la pelle
candida e
pura, i capelli lunghi e infuocati.
Dio,
avrebbe potuto guardarla per ore, se solo non avesse avuto la voglia di
assaggiarla pezzo per pezzo, fino a prenderla tutto per sé.
La
sovrastò senza schiacciarla o farla sentire in gabbia, la baciò a lungo
e
dolcemente prendendole il viso tra le mani, accarezzandole la guance e
succhiandole i residui delle lacrime, cercando di far scomparire dal
suo animo
il dolore.
Scese
verso il basso, abbandonando la sua bocca, per andare a posare le
labbra,
dischiuse, su un capezzolo; non appena toccò la sua pelle, la ragazza
si
inarcò, gemendo dolcemente e in un modo che fece perdere il controllo a
Davide.
Prese
a succhiare con trasporto il seno, mentre con le mani scendeva verso
l’orlo dei
jeans, per armeggiare con i bottoni e aprire la cerniera: Anne non
aspettava
altro e alzò il sedere dal letto, in un invito esplicito a levargli di
dosso
quell’ostacolo.
Rimase
in mutandine e il chitarrista fece scivolare la mano dalla punta dei
piedi fino
all’interno coscia, dove si soffermò a lungo pizzicandole la pelle e
farle
capire quali erano le sue intenzioni, mentre la sua bocca era impegnata
a
stuzzicare il suo seno sinistro.
Continuò
la sua salita e si fermò non appena arrivò alla mutandine, il palmo
appoggiato
delicatamente e possessivamente sulla sua intimità, sopra la
biancheria;
aspettò un segno della ragazza, che, infine, si inarcò avvicinandosi di
più
alla sua mano.
Davide
si lasciò sfuggire un sorriso vittorioso, mentre alzava i bordini di
tessuto e
si infiltrava in quella che era una zona segreta, per lui; prese a
stuzzicarla
dapprima in superficie, strappandole qualche ansimo insoddisfatto e al
limite,
con l’intenzione di farle volere di più, sempre di più, cosa che in
effetti
successe: fu Anne a raggiungere la mano di lui e a spingerla più in
giù, mentre
catturava le sue labbra in un bacio appassionato.
Lui,
palesemente eccitato, insinuò un dito dentro di lei, ansimando e
gemendo
insieme a lei ogni volta che toccava una parte più sensibile; fece
roteare il
dito, a cui poi ne aggiunse un altro, ormai smanioso di porre fine a
quel
supplizio e farla sua, all’istante.
Eppure,
c’era una cosa che bramava fare...
Le
sfilò le mutandine, sorridendole complice, mentre sul viso di lei
nasceva un
sorriso colpevole e malizioso; le aprì le gambe, posizionandosi
all’interno,
incapace di trattenersi ancora un solo istante da quel suo desiderio
irrefrenabile...
Abbassò
la testa e prese in bocca la sua intimità, strappandole un gemito
rumoroso. Era
così morbida che avrebbe potuto assaggiarla per ore, senza mai
stancarsi; prese
a mordicchiarle le labbra interne, leccandole la pelle, facendole
ansimare e
pregarlo per averne di più...
Si
stava ubriacando della sua pelle, del suo sapore intimo e segreto, che
lo
mandava fuori di sé e gli faceva perdere completamente il senso della
ragione,
perché nulla in quel momento contava, se non Anne, la sua
Anne.
Anne
morbida, dolce, accogliente.
Le
labbra di lui sul suo sesso, in un bacio languido e divino, gli occhi
di lei
nei suoi, la mano di lui che andava ad unirsi all’amore che la sua
lingua le
stava già procurando, aumentando il desiderio, incrementando la
passione.
Alzò
finalmente la testa, notando che la ragazza era pronta, mentre spingeva
in su i
fianchi, per chiederne di più, per averne
di più...
Percorse
a ritroso il suo corpo, il ventre, la pancia, il seno, fino a tornare
sulle labbra
di lei, morbidi, dolci ed accoglienti
come la sua intimità, sigillando il loro legame, per
sempre.
Anne
fece scivolare le mani lungo i fianchi di lui, fino a strattonare i
boxer, in
un vano tentativo di sfilarglieli, che fece ridere Davide.
«Ci
penso io» disse con il fiato corto, mentre si disfaceva di quell’ultimo
fastidioso intralcio.
Lei
rise sulle sue labbra, scaturendogli mille brividi nel corpo, che lo
accompagnarono per i successivi istanti.
Dio,
quella ragazza lo mandava completamente fuori, come nessuna era mai
riuscito a
fare; forse era per via dei suoi modi intraprendenti, della maniera in
cui
riusciva a passare da bambina desiderosa di affetto a donna bisognosa
di carne.
O
forse, più semplicemente, perché era ubriaco
di Anne.
Si
guardarono per un solo istante, prima di capire che entrambi avevano
bisogno di
unire il loro legame e non avrebbero sopportato più a lungo quel
supplizio:
erano arrivati al culmine, il membro di Davide fremeva per avere ciò
che
desiderava, esattamente come la sua mente.
Le
diede un ultimo lunghissimo bacio, mentre scendeva di nuovo verso il
basso,
lambendole l’ombelico, soffermandosi sul ventre, per poi, infine,
puntellarsi
sulle braccia e imprigionarle gli occhi nei suoi.
Occhi
negli occhi.
Scese
su di lei e le baciò lievemente la fronte, prendendosi con estrema
lentezza
possesso di quel corpo, maltrattato da un essere che meritava solamente
di morire.
Si
fece spazio dentro di lei, non trovando alcun ostacolo, come già
sapeva, quindi
la riempì fino in fondo, tremando dal piacere che lo stava portando al
limite.
Anne
spinse in alto il bacino, in un’esplicita richiesta per
averne di più e Davide la accontentò: uscì di nuovo
lentamente
da lei, per poi affondare con una sola spinta, fino in fondo,
abbandonandosi ad
un gemito animalesco, godendo di quel piacere estremo, mentre sentiva
la
ragazza inarcarsi sotto di lui e ansimare. Allora Davi prese ad
ondeggiare,
facendo sfregare i loro bacini, per farla abituare a quella intrusione
e il
piacere iniziò a prendere il posto della ragione, annebbiandogli la
mente.
Non
ci fu tempo per altre considerazioni, perché Davide aumentò il ritmo,
entrando
ed uscendo da lei con un nuovo impeto passionale.
I
loro gemiti uniti.
Le
loro labbra unite.
I
loro sessi uniti.
Si
fecero trasportare dal piacere, volando sopra il mondo, liberandosi dai
pensieri tristi e dai ricordi dolorosi, mentre tutto diveniva sfocato e
perdeva
consistenza.
«Sarò la tua cura, Anne...» riuscì a
mormorare tra un gemito e l’altro.
Quegli
occhi verdi erano la cura.
La
voce di lei nella sua.
Il
sesso di lui nel suo.
E
poi gridò ̶ la
voce
di lui in quella di lei ̶ mentre toccava il culmine,
inebriandosi della
sua pelle, del suo odore, dei suoi occhi, di lei.
Fu
scosso da numerosi fremiti, mentre si accasciava su di lei, stremato.
Rotolò
su un fianco, il petto che si alzava e abbassava al ritmo incostante
del suo
cuore, i battiti cardiaci al massimo, reduci da quell’esperienza
estrema.
Anne
si accoccolò su di lui, appoggiò la testa sul suo petto e Davide la
abbracciò,
intrecciando le gambe con le sue, in una morsa che non aveva niente di
pericoloso, ma significava solo appartenenza.
Non
si rese conto del momento preciso in cui chiuse gli occhi, ma, prima
che
venisse trascinato nel mondo dei sogni, sentì due labbra morbide
depositare un
bacio sul suo petto.
Profumo
di vita.
Profumo
di Anne.
****
Angolo
Autrice:
Per
tutti quelli che sono abituati a
leggere delle vere scene Rosse, chiedo
scusa umilmente a causa di questo capitolo, che ho provato a rendere
rosso;
questa è stata la prima scena “hot” scritta in vita mia, quindi vi
prego di
essere clementi e perdonare questo orrore e, vi chiedo di dirmi cosa ne
pensate
in tanti, davvero una recensione sarebbe ben gradita, perché è
importante.
In
più, è un capitolo in cui ho messo
anima e corpo, soprattutto per quanto riguarda l’esperienza di stupro
di Anne e
ci tenevo a precisare che le parole ad inizio capitolo, quelle senza
alcune
firma, sono mie.
Grazie
a tutti per il sostegno, in
particolare ad Aniasolary, per i
suoi consigli riguardo ogni scena di questa storia, commentando in
anticipo;
sei stata essenziale.
A
Postergirl
per l’aiuto riguardante la fatidica scena rossa, sei stata la
mia
consigliera e senza te probabilmente avrei fatto un vero disastro.
Ed
infine, come sempre, un enorme
ringraziamento alla ragazza che si subisce tutti i miei errori e le mie
insicurezze, che corregge con dedizione, anche se pensa di essere una
“beta-reader sciagurata”: Lavisvampita.
Grazie
a chiunque abbia letto, un
abbraccio,
Eryca.
|
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Capitolo 10 *** Lacrime di verità ***
10.
Lacrime di verità
Has someone taken your
faith?
Its real, the pain you feel
The life, the love
You die to heal
The hope that starts
The broken hearts
You trust, you must
Confess
Foo Fighters – “Best Of You”
Era
sempre stato più facile, per Riccardo, mentire piuttosto che raccontare
la
verità.
Quando
era solo un bambino, sua madre gli ordinava spesso di mettere in ordine
la sua
stanza e lui, piuttosto di non farlo, decideva di fare la faccia
d’angelo e
nascondere la polvere sotto il letto.
Non
aveva mai provato sensi di colpa, nel dire bugie; aveva sempre pensato
che
oscurare la verità non avrebbe ferito nessuno, in fondo erano solo
piccole
trasgressioni.
Eppure,
con il passare degli anni, mentire era divenuta una vera e propria
mania per
lui, che gli impediva di essere sincero con il mondo ma, soprattutto,
con sé
stesso.
E
continuava a raccontarsi delle fandonie, pensando che stesse facendo
del bene.
E
invece si stava torturando.
Aveva
sempre pensato che ci fosse un confine sottile tra realtà e finzione,
le cose
possono fondersi a formare una crema densa e succosa, a tal punto da
impedirti
di riconoscerle; ma non si era mai soffermato sul fatto che quel limite
era
maledettamente importante.
Impediva
di perdere sé stessi.
E
adesso, dove sei tu, perso nel
nulla, Riccardo?
Se
ne stava seduto sul piccolo letto singolo in cui aveva dormito tutte le
notti
della sua infanzia, dentro quella stanza un po’ troppo piccola e un po’
troppo
grossa; la trapunta era di un blu intenso con macchine disegnate sopra,
sempre la stessa, si ritrovò a
pensare
sorridente.
Si
alzò e si diresse verso il piccolo armadio nel quale si nascondeva
quando aveva
paura di sé stesso. Riccardo
contemplò la sua immagine nello specchio affisso alla parete: occhi
vitrei,
assenti, di chi ha imparato a mentire.
Mentire
era respirare per lui.
Si
ricordava vagamente dei momenti spensierati che aveva passato in quella
casa,
cucinando torte al cioccolato in compagnia di sua madre, giocando a
prendersi
con la sorellina, Caterina. Poi era subentrata l’adolescenza e con essa
i
dolori, il suo sentirsi costantemente inadeguato e fuori posto; al
liceo era un
ragazzino strano che se ne stava sempre per i fatti suoi, lo zainetto
nero sulle
spalle, l’album dei Ramones custodito nella tasca interna.
D’un
tratto sentì una fitta lancinante al petto, come se il cuore dovesse
implodere
da un momento all’altro. Fu costretto ad accasciarsi al pavimento,
abbracciandosi le ginocchia come a nascondersi dentro di sé, mentre si
rendeva
conto che la testa minacciava di spaccarsi in due, il dolore
insopportabile.
Il
cervello concentrato su una sola, malatissima cosa.
Cocaina.
«No,
no, no, no, no...» si ritrovò a balbettare come un pazzo, il terrore
impadronitosi
del suo corpo, conscio solo della sua disperazione.
Doveva
fare qualcosa, trovare una soluzione.
Il
suo corpo non ammetteva scuse, voleva una sola cosa in quel momento e
se non
l’avesse ottenuta allora, probabilmente, si sarebbe rivoltato contro la
mente.
Cocaina.
Doveva
trovare della dannatissima cocaina o sarebbe andato completamente fuori
di
testa nel giro di pochi minuti. La consapevolezza di essere un
tossicodipendente alle prese con una crisi d’astinenza non lo toccò:
non era
ancora il momento per la lucidità.
Ricca
si prese le mani tra i capelli mentre, come un cane da caccia, prese a
frugare
nei cassetti della piccola scrivania, nella sua piccola borsa da
viaggio,
sperando di trovare le dosi che si era abbondantemente fatto la notte
prima,
quando sua madre lo pensava addormentato.
Cazzo,
cazzo, ne ho bisogno. Ne ho
bisogno.
Si
rese conto di sembrare un ladro, di essere arrivato proprio al fondo,
perché
stava cercando la droga nella casa in cui era cresciuto, ma non gliene
importò
nulla.
Doveva
avere della cocaina, altrimenti non sarebbe sopravvissuto. Sentì le
viscere
contorcersi, gli organi interni contrarsi e rimpicciolire... si ritrovò
ad
urlare.
Urlò
come mai aveva fatto prima.
Urlò
disperazione.
Urlò
sofferenza.
Urlò
stanchezza.
Urlò.
Urlò.
Urlò.
E
pianse.
Si
abbandonò al flusso scorrevole delle lacrime, rannicchiandosi sul
pavimento
come un verme e si sentì veramente come se fosse uno di quegli
animaletti.
Lacrime
di acqua piovana, bagnate, sporche, contaminate dalla droga in circolo
nel suo
corpo, ormai impadronitasi di ogni suo neurone. E Riccardo si sentì
così
viscido e squallido che non riuscì a smettere di piangere, neanche
quando si
rese conto della madre ferma sullo stipite della porta.
Pianse
per la sua dipendenza dalla cocaina.
Pianse
per la sua dipendenza dalle bugie.
Pianse
per la sua dipendenza dall’autodistruzione.
Pianse
per il sé stesso che era andato perduto.
Pianse
perché sapeva che se avesse smesso sarebbero ricominciate le
convulsioni e
avrebbe rubato del denaro a sua madre, pur di avere la sua
maledettissima
cocaina.
Pianse
perché se lo meritava, di piangere per sé stesso.
Sentì
le braccia fragili di sua madre avvolgersi attorno al suo corpo scosso
dai
tremori e non si oppose, non ne aveva la forza, non ne aveva il
coraggio.
Si
costrinse ad aprire gli occhi per incrociare il suo riflesso nel
piccolo
specchio della parete.
Vide
il fantasma distrutto di un ragazzo solare, giocoso, divertente e un
po’ tonto,
come gli avevano sempre detto tutti.
Vide
sé stesso sgretolarsi, mentre le sue menzogne lo mangiavano.
Basta.
«Basta...
» mormorò asciugandosi le labbra, incapace di controllare gli spasmi
delle
gambe.
Desiderava
la cocaina, in quel momento. La voleva e sarebbe stato capace di
uccidere pur
di averla.
Guardò
sua madre, guardò i suoi occhi e si rese conto che la stava uccidendo.
Basta.
Basta
mentire.
«Mamma»
sussurrò attirando lo sguardo addolorato della donna che lo aveva messo
al
mondo.
Cercò
di fermare la mandibola, che continuava a battere.
Basta
mentire.
«Sono
un drogato.»
Basta
mentire.
«Sono
un drogato in crisi d’astinenza.»
Basta
mentire.
«Sono
un drogato in crisi d’astinenza e...»
Basta
mentire.
«…
e sono gay.»
****
Fu
mentre sgranocchiava i deliziosi biscotti al cioccolato di Charlotte
Melì, in compagnia
di Anne e Davide, che il cellulare di Matteo prese a squillare
insistente,
spezzando le risate con la suoneria dei Guns N’ Roses.
«Pronto?»
Silenzio.
Forse
qualcuno aveva sbagliato numero contattandolo, eppure sentiva un
respiro
affannato provenire dall’altro capo del telefono, come se qualcuno
stesse
cercando le parole.
«Chi
parla?» Lanciò un’occhiata furtiva ai suoi due amici, che ricambiarono
con uno
sguardo interrogativo.
Si
stava stancando di quel silenzio e di quel fiato corto, lo mettevano in
soggezione, lo rendeva angosciato e preoccupato, cosa che non gli
piaceva
affatto.
«Matteo...»
Quella
voce.
Sgranò
gli occhi, il panico impossessatosi immediatamente della sua mente,
lasciando
poco spazio alla sensazione di serenità che stava provando pochi attimi
prima
di ricevere quella chiamata.
Era
lui. Lui. Lui.
«Riccardo!»
Non appena udirono quel nome, i compagni di gruppo misero in moto le
orecchie;
soprattutto Davide, amico da sempre dell’introspettivo batterista.
Di
nuovo silenzio.
E
un respiro.
Un
singhiozzo.
Di
colpo la paura prese il posto del panico, rendendolo conscio che, se lo
chiamava mentre stava da sua madre, con una reazione così preoccupante,
Ricca
non doveva stare assolutamente bene; strinse il cellulare all’orecchio
per
udire meglio.
«Che
cosa succede, Riccardo?» la voce preoccupata «Ci sei?»
Davide
si avvicinò velocemente a Matteo, facendogli segno di passargli il
telefono,
evidentemente in ansia per la salute dell’amico; il chitarrista doveva
volere
un bene inimmaginabile a quel ragazzo testardo ed infantile che era
Riccardo,
altrimenti non avrebbe avuto quell’espressione ansiosa sul bel viso.
«Non
c’è la faccio... Ho bisogno di cocaina... La voglio... Non ci riesco...»
Merda.
Fu
come se gli avessero appena tirato un enorme pugno nello stomaco, anzi,
il
dolore fu più forte e il colpo inaspettato: come avevano potuto
sottovalutare
la dipendenza del loro amico dalla droga?
Aveva sempre sminuito l’uso che il batterista faceva di sostanze
stupefacenti,
più preoccupato di fargli ammettere di essere omosessuale; e invece
aveva
sbagliato tutto, era stato egoista.
E
ora Riccardo stava soffrendo, a casa di sua madre.
«Dove
sei, Ricca? Dimmi dove sei!»
Altri
singhiozzi.
Dannazione.
«Davide
lo sa... M-ma...» sembrava che stesse lottando contro i tremori «…
Vieni da
solo, ti prego»
Merda,
merda, merda!
Lo
poteva fare, lo doveva fare.
Prese
un grosso respiro e si fece coraggio, per il suo amico, perché aveva il
disperato bisogno di aiuto e voleva il suo. Glielo doveva, non lo
avrebbe
abbandonato.
«Arrivo,
Riccardo. Arrivo.»
Chiuse
la chiamata.
Guardò
i suoi amici, improvvisamente avvolti da un silenzio tombale, gli occhi
ansiosi
di sapere ciò che stava succedendo.
«Davide,
ho bisogno che tu mi dica dove vive la madre di Riccardo.»
Per
te, Ricca.
Solo
per te.
La
proprietà non era fatiscente, maltenuta e con le foglie d’edera che si
arrampicavano sulle pareti di pietra, come Matteo se l’era immaginata;
si
trattava, piuttosto, di una piccola casetta di campagna, poco fuori
Torino, con
un giardino curato e decorato da tanti fiori colorati.
Scese
dalla macchina e si fece strada lungo il vialetto, fermandosi davanti
alla
porta in legno, che portava su di essa la scritta “Baldi – Sacco”.
Ci
siamo.
Il
campanello emise un piacevole rumore di campana quando Matteo lo pigiò,
riportandogli alla mente che il suo piccolo alloggio non possedeva uno
di
quegli oggetti.
Se
ne sarebbe procurato uno, ma ora non era quella la sua priorità.
Quando
il bassista si ritrovò di fronte alla donna che gli aveva appena aperto
la
porta, dovette concentrarsi per rendere imperscrutabile la sua faccia;
era una
signora sulla cinquantina, con due grosse occhiaie nere sotto gli occhi
gonfi,
segno che doveva aver smesso da poco di piangere. Doveva essere stata
una
ragazza affascinante, da giovane, perché possedeva due labbra carnose
e, dietro
tutto a quel dolore, nei suoi occhi si intravedeva un azzurro tenue.
Dio,
Ricca. Guarda come hai ridotto
tua madre...
«Salve,
signora. Sono Matteo, un amico di Ri...»
«Lo
so. Mi ha chiesto di comporre il tuo numero di telefono.»
Oh.
«Entra.»
disse senza curarsi troppo della sua presenza, in realtà.
Non
aveva mai visto una donna tanto distrutta. Ma, in fondo, cosa voleva
saperne
lui di madri e figli? Come poteva anche solo provare ad immaginare cosa
doveva
significare per quella signora vedere il suo bambino in quello stato?
Sembrava
che le avessero portato via un pezzo di sé stessa.
Gli
fece strada dentro la casa e Matteo notò che anche l’interno aveva
l’aria di
un’abitazione modesta, ben tenuta e vissuta.
Ma
c’era troppo silenzio.
«Ti
avverto, non risponde delle sue azioni.» disse fermandosi davanti ad
una porta,
gli occhi fissi nei suoi, quasi ad implorarlo di riportargli indietro
il suo
piccolo. «Non... non è più lui.»
Non
posso farcela a guardare negli
occhi di questa madre.
La
donna bussò leggermente alla porta, per poi aprire uno spiraglio che
non gli
lasciava intravedere molto; mise la testa dentro la camera e la vide
trattenere
un sussulto.
«Riccardo,
c’è il tuo amico...» la voce dolce, premurosa, ma nello stesso
impaurita.
Che
strazio.
La
madre gli fece cenno di entrare, per poi sorridergli amaramente e
dirigersi
verso qualche altra parte della villa, probabilmente a rintanarsi
dentro ciò
che rimaneva di lei.
Non
si torna indietro.
«Ricca,
sono io, Matteo.»
Nessuna
risposta. Solo rantolii, gemiti, sussurri.
Matte
dovette ricorrere a tutto il suo sangue freddo e alla capacità di
mascherarsi,
per non mettersi le mani nei capelli e scappare alla vista di quel
ragazzo
solare, raggomitolato in fondo ad un letto da bambino, le braccia
intorno alle
sue gambe.
Oh,
dio, Riccardo...
Come
poteva un uomo ridursi in quel modo con
le sue stesse mani?
Ciò
che Matteo provò fu solo un enorme senso di colpa per non essersi
accorto che
Ricca stava soffrendo, si stava annullando cercando conforto in una
finzione
che non lo avrebbe portato ad alcuna soluzione, se non quella di morire.
Oh,
Dio. Come
aveva potuto non rendersi conto di quanto il suo amico stesse soffrendo?
Proprio
lui che di nascosto aveva passato interi pomeriggi a scrutarlo di
sottecchi,
nella sala prova, non aveva notato il cambiamento radicale nei suoi
occhi.
Come
diavolo aveva potuto essere così cieco?
All’improvviso,
Riccardo alzò gli occhi su di lui e Matteo non poté fare a meno di
sussultare.
Occhi
sofferenti, rossi e vitrei come quelli di un morto; occhi feriti,
sciupati,
privati di qualsiasi emozione e lasciati marcire come se niente fosse.
Dove
sei finito, Riccardo?
Occhi
in lacrime.
Il
batterista che si dava tante arie, che faceva finta di essere
eterosessuale,
che aveva sempre la battuta pronta, l’animo del gruppo... stava
piangendo
implorando pietà.
Fu
in attimo che il bassista si ritrovò sul letto, le braccia intorno al
corpo
magro del ragazzo a stringerlo forte contro il suo petto, per fargli
sentire
che no, non era da solo in quel mondo infame, che c’era qualcuno a cui
importava della sua vita, della sua anima.
Riccardo
si aggrappò disperatamente alle spalle di Matteo, lasciandosi
accarezzare i
capelli della mani gentili dell’altro, facendosi cullare, sentendosi un
po’ a
casa.
E
Matteo non poté fare a meno di piangere a sua volta, perché non voleva
che
Ricca morisse, voleva che tornasse il ragazzo svampito e simpatico con
cui
aveva riso quel giorno al bar, lo stesso ragazzo che lo aveva baciato
appassionatamente per poi darsela a gambe levate.
«Ho
detto... Gliel’ho detto... A mia mamma...» prese a farneticare il
batterista
tra un singhiozzo e l’altro, sforzandosi di mettere insieme un discorso.
«Che
cosa gli hai detto, Ricca?»
Il
ragazzo si nascose nel petto di Matteo, che non smise nemmeno per un
attimo di
massaggiargli la schiena, di farlo sentire al sicuro e protetto,
sperando che
potesse essergli di aiuto.
«Che
sono un drogato... e...»
A
quel punto, alzò gli occhi e li fissò su quelli di Matteo, privandolo
di
qualsiasi capacità discorsiva, seccandogli la bocca.
Tutto
con un semplice, intenso sguardo.
«...
Che sono gay.»
Oh,
porca puttana.
Si
era aspettato una qualche strana confessione, magari per aver rubato
con
l’intento di trovare i soldi per la cocaina o chissà quale altra cosa,
ma... non quella confessione. Ormai
aveva
perso le speranze di sentire la verità sulle labbra di Riccardo, ma
quel
ragazzo non smetteva mai di stupirlo.
Lo
abbracciò dolcemente, possessivamente, rendendosi conto che tante cose
stavano
cambiando e non era tutto negativo quello che stava succedendo: Ricca
aveva
deciso di dire la verità.
Avrebbe
affrontato ciò che la vita aveva messo in serbo per lui.
Era
omosessuale, era drogato.
Per
la prima confessione ci sarebbe stato lui al suo fianco... e anche per
la
seconda.
«Va
tutto bene, piccolo...» sussurrò baciando i capelli verdi «Ci sono io
qui con
te.»
Ed
era vero.
Non
lo avrebbe lasciato solo mai più, neanche per un secondo; avrebbe
assistito
alle visite mediche, alle discussione con la famiglia che sarebbe
venute, alla
confessione davanti ad Anne e Davide.
Sarebbe
sempre stato al suo fianco.
****
Angolo
Autrice
Lo
so, è un capitolo straziante, è
stata una vera e propria agonia scriverlo, lo giuro; ma questa era la
svolta
che avevo in mente fin dall’inizio per il nostro caro Riccardo e, in
fondo,
anche per Matteo.
Era
necessario che Riccardo capisse
veramente cosa era importante nella sua vita e cosa doveva fare di sé
stesso:
aveva bisogno di sbattere la testa contro il muro, come succede spesso
anche
nella vita reale. Quante volte è successo a me!
Una
cosa importante: non so di preciso
quali siano i sintomi dell’astinenza da cocaina, visto che non ne
faccio uso
(xD), ma ho trovato questo leggendo; se ci sono scemate vi prego di
scusarmi.
Mi
trovo nuovamente a chiedervi di
recensire, perché, come potete vedere, i commenti sono scarsi e io non
so se la
storia è apprezzata oppure no, cosa vi piace e cosa vorreste che io
migliorassi.
Quindi,
per favore, lasciatemi un pensiero,
io rispondo sempre.
Grazie
ad aniasolary, Chiku, Kureiji, Miliko_Akiko
chan, MoonLilith, Neal C_, oOo
LaViSvampita oOo, postergirl84, RoxannePotter, Stella94, Zonami84 per
aver
inserito la storia nelle Seguite.
Grazie
ad a
n t
o per
aver inserito la storia tra i
Preferiti.
E
un grazie va anche a tutte le persone
che hanno recensito: postergirl84,
aniasolary, Miliko_Akiko chan, Roxanne Potter, cami_country dreamer,
Neal
C_,Yellow Daffodil, Zonami84.
Se
avete voglia di chiacchierare, di
parlare un po’ di questa storia, aggiungetemi su Facebook, cercando Eryca Efp
La
vostra Eryca.
|
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Capitolo 11 *** Il suono del silenzio ***
11.
Il
suono del silenzio
All
I ever
wanted
All I ever needed
Is here in my arms
Words are very unnecessary
They can only do harm
Depeche Mode – “Enjoy the Silence”
Davide
non aveva mai pensato di essere un uomo forte.
Lo
aveva sempre saputo; quando preferiva stare in silenzio piuttosto che
creare
una discussione, quando di fronte al divorzio dei suoi genitori si era
nascosto
nella musica.
Non
si era mai fatto false speranze, pensando che un giorno sarebbe stato
lui a
dettare le regole, aveva preferito arrendersi davanti all’evidenza del
suo
essere mite.
Ora,
si concentrò di più sul suono struggente dalla sua chitarra, facendo
uscire
melodie lente e drammatiche che rispecchiavano appieno il suo stato
d’animo. Si
abbandonò alla musica, lasciandole le redini della sua vita, sperando
che lo
salvasse da quella situazione terribile.
Dio,
non
sarebbe stato in grado di essere forte a tal punto, proprio lui che
aveva
sempre evitato i problemi per non doversi ritrovare rinchiuso.
Il
suo migliore amico era drogato.
Alzò
lo sguardo per un momento dal suo strumento musicale, rivolgendo la sua
attenzione verso Matteo. Riccardo aveva voluto lui,
aveva chiamato lui, si
era lasciato salvare da lui.
Probabilmente
avrebbe dovuto essere contento del fatto che Ricca, dopo tanto tempo,
si fosse
deciso a chiedere aiuto, eppure non poteva che crogiolarsi nella
gelosia: il suo migliore amico di
sempre, con cui
era cresciuto e condiviso tutto, non aveva chiamato Davide, ma Matteo.
Il
suo migliore amico era drogato e
lui non se ne era accorto.
Viveva
con lui giorno e notte, come aveva potuto non accorgersi della sua
dipendenza?
Si diede dello stupido rendendosi conto che aveva sempre preferito
attribuire
l’uso di stupefacenti alla voglia di andare un po’ su di giri,
giustificandolo
per la giovane età.
I
sensi di colpa lo facevano sentire a pezzi, lo stavano mangiando da
dentro,
impedendogli di pensare a qualcosa che non fosse Riccardo.
Il
suo migliore amico era drogato e
lui non se ne era accorto.
L’immagine
del batterista che entrava nel loro alloggio accompagnato da Matteo,
gli occhi
neri cerchiati dalle occhiaie, imploranti pietà, continuava a
riaffiorare nella
sua mente come un pugno nello stomaco. Quando lo aveva visto in quello
stato,
qualche giorno prima, la consapevolezza era entrata improvvisamente nel
suo
animo, come una nube tossica venuta a distruggerlo.
La
consapevolezza che il suo migliore amico
era drogato e lui non se ne era accorto.
La
consapevolezza del fatto che la sua debolezza aveva fatto ridurre il suo migliore amico a un fantasma lo
aveva investito come un treno in corsa, togliendogli il fiato.
Il
suo migliore amico era gay.
Non
era stata una grande rivelazione, dopotutto; quando Riccardo lo aveva
detto ad
alta voce, aveva tutta l’aria di essersi tolto un peso dallo stomaco,
quindi la
cosa non aveva provocato del dolore a Davide, oltretutto ancora
concentrato sul
fatto che il suo migliore amico era
drogato.
Il
fatto che a Ricca piacessero gli uomini al posto delle donne poteva
essere
vista come una diversità dalla massa ma, in fondo, il
suo migliore amico era sempre stato una persone che andava
controcorrente, quindi ce lo si poteva aspettare da lui, se lo si
metteva in
quei termini.
No,
non era rimasto scioccato dalle sue preferenze sessuali, in fondo non
era una
cosa che lo riguardava. Ciò che veramente lo aveva segnato e aveva
intaccato
nel profondo era stato l’apprendere che il
suo migliore amico era drogato.
Nella
frase “il mio migliore amico è gay”, Davide
non trovava niente di sbagliato, doloroso; l’essere omosessuale non
l’avrebbe
di certo portato alla morte o all’autodistruzione, mentre invece fare
uso di
stupefacenti lo aveva reso una specie di non-morto.
Do.
Do
era la nota iniziale, quella senza cui non sarebbe esistita la scala.
Do
era l’inizio di tutto, l’origine del suono, della musica.
Do
era rinascita.
Do
era un nuovo inizio.
E
Davide aveva il disperato bisogno di credere che avrebbe potuto
rinsavire dalle
sue ceneri, che avrebbe potuto abbracciare il
suo migliore amico chiedendogli scusa per essere stato un
debole.
«Ragazzi,
dobbiamo finire qui.» la voce di Matteo
– Matteo che era stato scelto
dal
suo migliore amico – lo riportò alla realtà, mentre la
musica interrotta
lasciava un silenzio malinconico nella Sala Prove.
«Devo andare a prendere Riccardo alla terapia
di gruppo, ha detto che oggi finiva prima.»
Terapia
di gruppo lo
catapultò nuovamente al punto di partenza: il
suo migliore amico era drogato.
Da
quando era tornato da casa di sua madre, Ricca aveva iniziato una
terapia
disintossicante che gli portava via gran parte del suo tempo: doveva
partecipare a conversazioni con altre persone, sedute dallo psicologo e
visite
mediche per accertarsi che non fosse ricaduto nella spirale della droga.
Tutto
ciò comprometteva la sorte dei Mad, che stavano aspettando il prossimo
concerto
per poter finalmente avere a che fare con l’Alternative
Productions; il fatto che il loro batterista fosse in cura
per smettere di
usare stupefacenti non donava una bella immagine al gruppo e per di più
non
potevano prepararsi all’evento come avevano progettato.
Davide
aveva, certo, pensato a questi lati della medaglia, ma il suo rammarico
e la
preoccupazione per il suo migliore amico superavano
il desiderio di sfondare nel mondo della musica: se Riccardo non avesse
fatto
parte di tutto quello che stava accadendo, allora per il chitarrista
non valeva
neanche la pena sforzarsi.
Quello
che era nell’interesse di tutti, ora, era che Riccardo Sacco rimanesse
pulito e
smettesse una volta per tutte con la cocaina.
«Come
sta andando?» chiese Anne – la sua Anne,
quella con cui aveva condiviso la notte più emozionante di sempre –
«Non
ha più toccato alcun tipo di droga, quindi credo stia funzionando, ma è
troppo
presto per poter dire qualcosa... I medici dicono che bisogna vedere
come
risponderà alla terapia, se sarà abbastanza forte da rimanerne fuori
definitivamente...»
Riccardo
era forte.
Anche
se aveva sempre fatto la parte del bambino fragile, Ricca era sempre
stato più
duro di Davide; ultimamente si era rintanato nella cocaina, era vero,
ma era
stato solo un periodo, ora si sarebbe rimesso in carreggiata, tornando
con il
suo sorriso contagioso.
Che
cosa pretendeva di saperne, Matteo?
La
rabbia nei confronti del bassista, l’infantile senso di tradimento che
sentiva
e i sensi di colpa che lo stavano mangiando all’interno lo portarono a
lanciare
la chitarra a terra e uscire a grandi passi dalla Sala, per dirigersi
senza
meta lungo la strada.
Il
suo migliore amico era gay.
Ok,
lo poteva accettare, non era la fine del mondo. In realtà non gliene
fregava
proprio niente.
Il
suo migliore amico era drogato.
Quello
era il vero problema che avrebbero dovuto affrontare insieme. Perché
Davide sentiva
che avrebbe dovuto essere al fianco di Riccardo, in quel momento...
perché non
potevano essere uniti anche in quella disgrazia?
Il
suo migliore amico era drogato e
lui non se ne era accorto.
Si
abbandonò alle lacrime, mentre il fiume scorreva impetuoso sotto di lui.
****
Davide
le aveva donato il suo silenzio, quando non aveva avuto la forza fisica
per
parlare.
Davide
le aveva donato il calore del suo corpo, quando nient’altro avrebbe
potuto
rinfrancarla.
E
ora lei aveva il dovere di ripagarlo con la stessa moneta, di sedersi
accanto a
lui e mettergli una mano sulla spalla, mentre se ne stava seduto a
fissare
l’acqua.
Anne
si avvicinò con lentezza e notò con stupore che non alzò lo sguardo su
di lei,
come faceva ogni volta.
La
consapevolezza poteva fare male come nient’altro quando avevi passato
tutta la
vita ad infossare una verità dolorosa: Davi ne era distrutto.
«Come
stai?»
La
domanda più stupida che si potesse fare ad una persona sofferente era
appena
uscita dalle sue labbra, ancora prima di rendersi conto della stronzata
che
aveva appena detto.
Si
maledisse per tanta mancanza di tatto, ma ormai il danno era fatto e
finalmente
Davide – il suo Davide – alzò gli
occhi andando ad incontrare quelli di Anne.
La
scoperta della condizione psichica e fisica di Riccardo aveva sconvolto
tutto
il gruppo, compresa lei stessa, ma il chitarrista sembrava sconvolto,
come se
un mostro lo stesse divorando dall’interno.
Un
mostro che nessuno avrebbe potuto sconfiggere.
«Ho
mal di testa, sono fuggito per questo.»
La
ragazza gli rivolse uno dei suoi sguardi più affettuosi, mentre si
inginocchiava per afferrare una pietra grigiastra.
«Non
si puoi scappare ogni volta che hai mal di testa, Davide. Tornerà, non
sarà
l’ultima volta, questa. A che cosa serve sottrarsi al dolore del
momento se non
lo curi? Spegnere la musica ti allevierà l’acutezza del male per un
po’, certo,
ma poi tornerà ancora. E ancora. Sempre più insistente, sempre più
forte. E
finché non prendi le medicine non smetterà mai.»
Anche
il tuo dolore, Anne, non
cesserà mai se non ti prendi cura di te stessa.
Lei
non provava pietà per Riccardo. Neanche un po’.
Lo
invidiava.
Anne
era estremamente seccata dal fatto che il batterista fosse riuscito a
tirare
fuori il coraggio sepolto dentro di lui, a gridare al mondo intero che
anche se
era un drogato ed era omosessuale faceva parte di quella Terra anche
lui, e
aveva il diritto come tutti gli altri ad essere felice.
Aveva
smesso di correre dal passato, aveva preso coscienza di ciò che era e
chi
voleva diventare.
Lei
non era mai riuscita a farlo.
L’azzurro
degli occhi di Davide era opacizzato dalle lacrime che oscuravano tutto
il
resto con la loro sofferenza.
«Stiamo
parlando ancora del mal di testa, Anne?»
«Abbiamo
mai parlato del mal di testa?»
Ed
eccolo di nuovo tornare come un tornado insistente, uno di quegli
elementi che,
nonostante tu cerchi in tutti i modi di eliminare, sono una costante
nella tua
vita e non ti abbandoneranno mai.
Il
silenzio.
Il
silenzio era la caratteristica principale della loro relazione, era ciò
che la
rendeva così particolarmente straordinaria. Non erano una di quelle
coppie che
parla, parla, parla fino allo sfinimento, no; non avevano discusso
riguardo a
ciò che si era creato tra di loro, non si erano detti che avrebbe
formato una
coppia fissa, ma nemmeno che non sarebbe stati altro che amici.
Silenzio.
Era
così che doveva andare, perché non c’era alcun bisogno di esprimere a
voce ciò
che entrambi già sapevano; non avevano alcuna necessità di chiarire la
situazione, erano entrambi consapevoli, e allo stesso ignari, di ciò
che stava
accadendo tra loro due, stavano condividendo.
Una
condivisione resa possibile da tutto quel silenzio.
La
quiete non era snervante come invece poteva risultare ad altre persone,
loro la
percepivano: era come se la
potessero
sentire tramite tutti e cinque i sensi e grazie a ciò, il silenzio
poteva
trasformarsi in un’infinità di parole, parole di gioia, di amore, di
tristezza
e di conforto.
Quel
silenzio era un fiume in piena, colmo di emozioni e pronto ad essere
afferrato
da entrambi.
Anne
lo sapeva così profondamente che aprì bocca, perché stava già parlando.
Silenzio.
Davide,
ti sono vicina.
Silenzio.
Davide,
non mi lasciare.
Silenzio.
Davide,
non fuggire da me.
Silenzio.
Davide,
io ti amo.
Ti
amo.
Ti
amo.
Ti
amo.
Ed
Anne non riusciva a togliere lo sguardo da quell’azzurro intenso che la
stava
incatenando, perché adesso il silenzio stava urlando, stava urlando
tutto
l’amore che lei provava per Davide, stava urlando e non si sarebbe
fermato.
Davide
si lasciò sfuggire un’altra lacrima e Anne la vide scorrere frenetica
sulla sua
guancia, come se stesse cercando un rifugio da quella rivelazione.
Smettila
di scappare, Davide.
Smettila
di scappare e mi fermerò
anche io.
Prendiamoci
per mano e diventiamo coraggiosi,
insieme.
Come
poteva permettersi di essere una vigliacca se il silenzio glielo stava
impedendo?
Era
arrivato il momento in cui avrebbe dovuto iniziare a seguire quel
frastuono
inudibile dai più superficiali, avrebbe dovuto smetterla di nascondersi
dietro
il silenzio, perché lui parlava per lei.
Non
avrebbe più potuto dichiararsi traumatizzata e scampare facilmente agli
ostacoli, perché la vita non andava così e lei avrebbe dovuto
impararlo, passo
per passo.
Glielo
aveva insegnato Riccardo.
E
adesso lei doveva insegnarlo a Davide.
«Se
parlo, proprio come sto facendo ora, il dolore sembra più reale, Anne.
Il
silenzio attutisce.»
Parole.
Le
parole facevano male, Anne lo aveva constato decine e decine di volte
nella sua
vita, per questo aveva imparato a stare zitta quando le cose si
facevano
dolorose; era capace di essere tagliente come una strega quando le
parole non
avrebbe fatto male e sé stessa ma a qualcun altro, eppure quando si
trattava di
parlare – parlare veramente, non
per
finta – non ne era in grado.
Si
avvicinò di più al chitarrista e si fece circondare le spalle con un
braccio,
per poi appoggiarsi sul suo petto coperto dalla maglietta a maniche
corte.
Inalò
il profumo intenso della pelle del ragazzo – Mandorle,
sapeva di mandorle – e si concesse di abbandonarsi ancora
per qualche minuto al suono carezzevole di tutto quel silenzio.
Sapeva
che avrebbe dovuto iniziare a parlare, per questo si lasciava ancora la
libertà
di stare zitta: voleva assaporare per l’ultima volta la dolcezza del
mascherarsi
dietro ad uno scudo invisibile. La guerra che sarebbe venuta di lì a
poco le
avrebbe procurato delle ferite terribili.
Ma
non avrebbe potuto fare altrimenti, se ne rendeva conto.
Riccardo,
tutti i miei pensieri
vanno a te.
«Ma
non potrai stare in silenzio per tutta la vita, non credi?»
Il
sorriso che il chitarrista le rivolse era uno di quelli malinconici e
pieni di
amarezza, che però al loro interno conservavano un po’ di
quell’allegria
perduta, un tempo tanto amata.
«Quindi
tu sei convinta che questo mal di testa mi passerà?»
Quello
che comparve sul volto di Anne, però, era un sorriso così radioso che
avrebbe
potuto abbagliare qualsiasi notte di qualsiasi anno di qualsiasi
secolo. Non
aveva tempo.
Cose
come quelle non avrebbe mai avuto tempo.
Riccardo,
mi hai insegnato cosa
significa lottare.
«Certo
che passerà. Non si può avere male per sempre, non credi?»
Contro
ogni previsione, Dav scoppiò in una fragorosa risata, zittendo il
silenzio per
qualche istante, facendo apparire sul viso della cantante
un’espressione
concentrata.
Non
aveva mai capito fino a dove quel ragazzo sarebbe stato capace di
spingersi,
fin dove il suo alone di mistero sopravviveva e dove, finalmente, si
intravedeva la vera essenza della sua anima.
Ora
la vedeva, in un semplice sorriso.
In
un semplice sguardo.
Può
essere reale?
«È reale tutto questo, Anne?»
«Come
potrebbe non esserlo?»
Si
lasciò cullare dalle carezze gentili del ragazzo, mentre puntava gli
occhi su
quel fiume in cui l’acqua scorreva veloce e sicura, dove i pesci
probabilmente
stavano banchettando con gli scarti del panino di qualche passante.
Non
poteva essere più giusto di com’era, perché se avessero mantenuto il
loro
silenzio, molto probabilmente, Davide sarebbe stato ancora in preda al
pianto e
del panico.
«Ho
sempre pensato che le dichiarazioni d’amore avrebbero dovuto essere
melodrammatiche, un po’ tragiche, sai... tipo i romanzi rosa o quelle
cavolate
a mo’ di Cenerentola.» Anne lo ascoltava con attenzione e rise con lui,
quando
lo vide divertito. «Il fatto è che sembrano sempre così tristi. Credo
sia
migliore dirlo e basta, magari quando ci si sta divertendo e ammetterlo con un grosso
sorriso sulle
labbra.»
Ciò
che Davide stava cercando di dirle era di non esternare il suo amore
per lui in
quel momento drammatico, perché lui non avrebbe confessato di amarla
con tutta
quella tristezza.
“Non
ora, Anne.”,
erano quelle le parole nascoste sotto tutto lo sproloquio del ragazzo.
Si ritrovò a sorridergli come una
bambina piccola, mentre si diceva che sì, poteva capirlo e
sì, poteva
accettarlo.
Avrebbe
aspettato per la prima volta in tutta la sua vita, perché era giusto,
quello
non era il tempo per le confessione amorose, era il momento del
silenzio.
Erano
i loro ultimi istanti di silenzio.
Rimasero
in ascolto.
Il
suono del silenzio.
****
Angolo
Autrice
Vi
chiedo scusa per il ritardo, ma
sapete com’è: l’inizio della scuola, le prime verifiche sui compiti
delle
vacanze che tu non hai fatto... il tempo vola! :D
Comunque
sia sono riuscita a scrivere
questo capitolo che non è niente di troppo particolare, visto che non
succede
nulla di straordinario, ma è di passaggio e la cosa del silenzio aveva
una
certa importanza per me e per la storia.
Quindi,
spero lo abbiate importanza!
Sono
contenta di dirvi che la storia sta
aumentando un po’ i lettori, le recensioni e anche le persone che la
seguono: ringrazio tutti coloro
che leggono,
seguono o recensiscono.
Vi
ricordo il mio profilo di Facebook
per chi volesse parlare della storia e non: Eryca
Efp.
Un
abbraccio,
la
vostra Eryca.
|
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Capitolo 12 *** Oh, amore. Oh, amante. ***
12.
Oh, amore. Oh, amante.
Oh Love – Oh Loverboy
What are you doing tonight, hey boy
Set my alarm, turn on my charm
That’s because I’m a good old-fashioned loverboy
Oh, let me feel your heartbeat
(grow faster, faster)
Oh, oh, let me feel your love heat
Queen – “Good old-fashioned loverboy”
«Ci
siete piaciuti, ragazzi. Avete
carisma, talento e potenzialità per poter sfondare. Siamo disposti a
investire
una quantità di denaro sufficiente per farmi incidere un primo album e
la sua
promozione. Nessuno vi toglie la possibilità di firmare un contratto
con noi.»
La
voce di Mauro Polloni rimbombava nella sua testa come se fosse ancora
lì
davanti a lui, le mani incrociate sulla scrivania laccata dello studio
dell’Alternative Productions e il sorriso stampato in viso.
Riccardo
non riusciva a togliersi di mente quelle parole che avevano reso reale il sogno della sua vita, quello
per cui lui e Davide avevano sacrificato tutto, dallo studio ad una
vita
agiata.
Si
sentiva così rinato che le sedute terapeutiche non contavano più nulla,
esattamente come il fatto che i suoi problemi non erano terminati,
perché in
quel momento tutto ciò che aveva importanza era che il sogno della sua
vita
aveva preso consistenza e lui non era più un tossicodipendente alle
prese con
la disintossicazione, che aveva perso anni della sua vita a nascondere
ciò che
era.
Lui
era semplicemente il batterista dei Mad, il
gruppo esordiente che l’Alternative Productions aveva preso sotto la
sua ala
per lanciarlo nel mondo del business musicale.
Si
ritrovò a sorridere come un ebete mentre le braccia forti di Davide lo
stringevano come non succedeva da anni; un moto di irrefrenabile
affetto nei
confronti del suo migliore amico lo travolse, facendolo sentire in
colpa per
tutti i giorni in cui aveva taciuto con lui.
«Mi
dispiace, Dà... Perdonami, per tutto...» mormorò, cercando di fargli
capire
quanto il bene che gli voleva era reale, come
tutto ciò che avevano condiviso nel corso degli anni.
Davide
era il suo migliore amico, l’unica
persona che gli era sempre stato accanto, anche quando nessuno voleva
avere più
niente a che fare con lui perché lo reputavano un derelitto. E invece
Davide
era sempre stato lì, a pulire la sporcizia che lasciava nel loro
appartamento,
a preparargli i maccheroni della Findus riscaldati nel microonde, a
spegnere la
luce quando si addormentava davanti alla televisione.
Fratello.
«Non
importa, amico... Non importa...»
La
voce del chitarrista suonò strozzata e più bassa del normale: Ricca
sapeva bene
che quando Davide assumeva quel tono vocale era a causa dell’emozione
che
cercava di trattenere.
Dio,
aveva davvero temuto che Davide potesse giudicarlo? Si, ed era stato
per quel
motivo che aveva taciuto con lui e aveva evitato di aprirsi. Ora si
rendeva
conto di quanto fosse stato stupido, perché Davi non lo avrebbe mai
abbandonato.
Quando
sciolse l’abbraccio si rese conto che Anne e Matteo li stavano
osservando con
commozione, contenti che si fossero finalmente ritrovati e avessero
ristabilito
il loro equilibrio.
«Merda!
E adesso che si fa? Siamo a cavallo, gente!» esclamò Anne, alzando le
mani in
aria e iniziando a saltellare lungo il marciapiede. Quella ragazza era
così
esuberante che a volte risultava completamente matta; ma faceva parte
della sua
personalità talentuosa.
«Propongo
di andare a mangiarci una pizza tutti insieme! Che ne dite?»
Riccardo
non poté fare a meno di voltarsi a guardare la persona che aveva
parlato, che
era poi la stessa persona che lo aveva sostenuto ed aiutato in quelle
settimane
difficili, restandogli vicino quando non si sentiva abbastanza forte,
lasciandolo solo quando ne aveva il bisogno.
Matteo.
Matteo
che non lo aveva più toccato dopo quel giorno a casa di sua madre, ma
si era limitato
a stargli accanto, rispettando il suo bisogno impellente di star bene
di
salute.
Riccardo
non riusciva a capacitarsi di ciò che provava quando stava accanto a
lui: era
qualcosa che andava oltre la sua esperienza, oltre tutto ciò che aveva
sempre conosciuto;
quando Matteo era nelle vicinanze sentiva il suo corpo tendersi come
una corda
di violino, tutti i suoi sensi si mettevano in allerta e sembrava che
una forza
magnetica lo spingesse sempre più vicino al ragazzo.
Erano
sensazioni che non riusciva a controllare.
Matteo.
«Si,
ehm, sarebbe una buona idea, Matte...» cominciò Davide lanciando
un’occhiata
complice con Anne, che arrossì visibilmente. «Solo che, ecco, io e Anne
avevamo
altri progetti...»
Oh,
certo. Questa non mi è nuova.
Il
fatto che tra Anne e Davide fosse scattata la scintilla era più che
evidente,
ma nessuno aveva mai domandato o osato fare qualche battuta sarcastica
a
riguardo; era una situazione precaria e né lui né Matteo avevano
intenzione di
rovinargli la festa.
«Ok,
ok...» Matteo rise e Riccardo dovette controllarsi, perché quel sorriso
lo
mandava sempre in corto circuito. Poteva esserci qualcosa di più
radioso?
Va
bene essere gay, Ricca, ma non
comportati da checca.
Si
ritrovò a ridere tra sé, rendendosi conto di quanto ormai gli veniva
normale
scherzare con la sua natura sessuale, proprio come aveva visto fare
tante volte
a Matteo.
«Beh,
io una pizza me la mangerei volentieri, sai Matte?»
Ormai si era sciolto notevolmente con il
bassista e riusciva a parlarci senza farsi venire una crisi
esistenziale: aveva
ammesso di essere omosessuale, quindi riusciva ad accettare con più
facilità
l’attrazione che provava nei confronti del ragazzo. Ciò aveva implicato
anche
un miglioramento del loro rapporto.
«Bene.
Alla faccia vostra, piccioncini. Non avete idea di cosa vi perderete.»
Il
tono di voce con cui pronunciò quella frase, sommato all’espressione
del viso
da snob, scaturì una risata di gruppo.
Salutarono
Anne e Davide per poi incamminarsi a piedi verso il locale preferito di
Matteo,
dove facevano una squisita pizza napoletana, che non aveva niente a che
vedere
con quelle che doveva mettere lui nei frigo al Supermercatino, per
lavoro.
Il
vento era forte, quella sera, e gli alberi si muovevano a destra e a
sinistra,
perdendo le foglie in quell’autunno un po’ pazzerello. Erano passate
settimane,
quasi un mese, dall’inizio della terapia e Ricca si sentiva decisamente
meglio,
come se fosse un’altra persona; tutto ciò che era stato prima non
esisteva più,
adesso aveva di nuovo voglia di scherzare, di ridere e stare in
compagnia.
«Che
ne pensi di Anne e Davide?» gli domandò Matte, sorridendogli.
«Una
coppia male assortita!» scherzò ridendo, forse per smorzare un po’
quella
tensione che si era creata, come ogni volta che rimaneva da soli.
Dio,
quanto avrebbe voluto prenderlo, sbatterlo contro un muro e baciarlo
fino a che
non gli fossero venute le labbra secche. E al diavolo tutto il resto!
Ok,
conteniamoci, Ricca.
Il
fatto era che quel ragazzo mediterraneo riusciva a mandarlo fuori di
testa con
quel suo fascino irresistibile: sembrava essere più che consapevole di
essere
bello e sensuale, per questo ci giocava sopra, scegliendo appositamente
i jeans
più attillati della nuova collezione.
Quel
sedere rotondo e sodo non migliorava di certo la situazione.
Ok,
adesso stai rasentando il
ridicolo.
«Secondo
me finiranno per scannarsi!» adesso Matteo lo guardava «Anne è una vera
leonessa e Davide non ha neanche lontanamente idea cosa voglia dire
mettersi in
gioco con lei.»
Il
batterista lo guardò divertito. «Cosa stai cercando di dire?»
«Voglio
dire che il tuo amico è immensamente fottuto.»
E
mentre si abbandonava ad una risata, pensò che non c’era niente di più
normale
dell’andare in giro per le strade di Torino, ridendo di gusto al fianco
di Matteo.
Era una ragnatela perfettamente tessuta dal destino, che sembrava avere
in
serbo qualcosa di speciale per loro.
Riccardo
fu contento di entrare al caldo della pizzeria, riscaldata dal forno a
legna
dal quale proveniva un delizioso profumino. Si accomodarono in un
tavolino
appartato, vicino ad un’allegra famigliola con tanto di bimbi piccoli.
Se
iniziano a piangere e a
scalpitare li fucilo.
«Che
cosa prendi?» chiese il bassista allungando la mano verso la sua e
stringendogliela, in un gesto estremamente naturale ed ingenuo, che lo
fece
quasi commuovere.
Occhi
negli occhi.
Matteo
e Riccardo.
Uomo
e uomo.
D’un tratto si ricordò che
erano in una
pizzeria, la gente li stava fissando sconvolti per quelle mani
intrecciate, per
quell’abominio imperdonabile.
Riccardo
sorrise.
«Quello
che prendi tu.»
Per
quanto lo riguardava potevano andare tutti a farsi fottere.
****
«Dio,
quella pizza era qualcosa di orgasmico!» convenne Riccardo, guardandolo
dritto
negli occhi.
Avevano
passato una serata a dir poco svagante, tra le risa e il cibo, che gli
aveva
fatto dimenticare per qualche ora i loro problemi e la situazione
precaria in
cui si trovavano.
E
ora Matteo non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi
infuocati che
sembravano volerlo sbranare da un momento all’altro.
Il
suo autocontrollo faceva pena e se Ricca non fosse sceso seduta stante
dalla
sua auto, probabilmente gli sarebbe saltato addosso senza pensarci due
volte;
il fatto era che il batterista stava attraversando un periodo davvero
difficoltoso
e aveva solo bisogno di compagnia e sostegno, non certo di un
omosessuale
arrapato come lui.
Dannazione,
un po’ di contegno.
Il
silenzio imbarazzante stava iniziando a prendere piede, quando Riccardo
si
decise a parlare.
«Sali?»
No,
no, no, no, no, no.
Forse
il ragazzo non aveva la minima idea di ciò che stava rischiando
invitandolo ad
entrare in casa sua, perché tutti i buoni propositi di Matteo potevano
andare
in frantumi se fosse rimasto seduto sul divano in compagnia di Ricca. E
lui non
aveva alcuna intenzione di chiedergli qualcosa che non era ancora in
grado di
dargli: era troppo debole per poter sopportare delle avances.
«Io...
Non credo sia una buona idea»
Il
batterista sembrò rattristarsi, abbassò la testa e quando lo guardò
negli occhi
sembrava lo stesse implorando di non rifiutarlo. Ma che cosa doveva
fare?
Matteo non era una persona costante e soprattutto non era monogamo: in
tutto
quel periodo si era visto con altri ragazzi e con loro era andato a
letto, li
aveva usati, lasciati, abbandonati. Si era fatto lasciare, usare e
abbandonare.
E tutto ciò gli andava bene, perché i sentimenti non erano entrati in
gioco
nemmeno una volta.
Ma
ora, mentre guardava il viso tenero di Riccardo, non poteva pensare di
poterlo
ferire ancora in quella sua anima già tanto graffiata; guardare quegli
occhi
nocciola era come stare di fronte ad un oceano di ingenuità e bisogno
di amore.
«Ti
prego...»
E
di nuovo quegli occhi lo pregarono, lo implorarono, supplicarono di non
lasciarlo da solo in tutto quel dolore che si portava dentro, perché
rimanere
soli di notte faceva paura, Matteo lo sapeva bene.
C’era
qualcosa, nella notte, che induceva le persone ad averne timore; forse
era
tutto quel buio che, invece di confortare e cullare, infettava gli
animi di
panico e confusione; forse era perché di giorno si riusciva a fingere
meglio,
perché ci si poteva nascondere dietro tutta quella luce.
La
notte pretendeva, prendeva, rubava i cuori delle persone.
Di
notte poteva accadere qualsiasi cosa, perché la mattina ti saresti
svegliato e
avresti creduto che si fosse trattato solo di un sogno... ma dov’era il
confine
tra sogno e realtà?
Erano
gli occhi di Riccardo ad essere terrorizzati dal buio, forse perché
aveva
passato troppe notti in stato di semi-incoscienza causato dalla droga.
Matteo
si immaginò il batterista mentre si rintanava sotto le coperte,
cercando di
nascondersi dai mostri della notte, dalla verità che arrivava senza
pietà e
faceva male.
«Ok...»
disse soltanto, smontando dall’auto, consapevole ormai che tutto era
perduto.
Aveva
ceduto a quegli occhi impauriti e ora ne avrebbe pagato le conseguenze,
perché
ogni presa di posizione aveva i suoi pro e i suoi contro, questo Matte
lo
sapeva.
E
la notte scalpitava, stava saltellando di gioia, perché sapeva di avere
già la
vittoria in mano, mentre loro due salivano le scale del condominio fino
al
piccolo alloggio di Riccardo.
Quando
entrarono in casa, trovarono tutto lo spazio invaso dal buio profondo e
terribile della notte, e ancora una volta Matteo pensò che nulla
succedeva per
caso e che loro erano solo delle pedine in una scacchiera troppo grande
per
essere percepita da loro.
Non
c’era bisogno di parlare, perché entrambi sapeva bene ciò che stava per
succedere, era già stato scritto e loro non potevano fare nulla per
cambiare la
sorte, se non assecondarla.
E
così il profumo dolce di Riccardo divenne sempre più forte, mentre lui
si
avvicinava al bassista, poggiandogli le mani all’altezza del cuore,
mentre la
notte sembrava essersi seduta sugli spalti per godersi lo spettacolo da
lei
architettato.
E
non c’era modo di poter fermare quella vibrazione che partiva dal suo
cuore,
pensò Matteo, perché era così che rispondeva al tocco morbido delle
mani di
Ricca, che adesso passavano sulle sue braccia e sulla sua schiena, per
poi
tornare sul suo petto e iniziare a sbottonargli con lentezza la camicia.
Si
sentì impotente Matteo, perché non riusciva a dire di no, non riusciva
a farlo
smettere, perché il suo corpo ne voleva di più, non ne aveva abbastanza
di
Riccardo, che sembrava essergli entrato nella pelle e aver preso
possesso di
tutti i suoi organi interni.
E
sentì le labbra scottare quando quelle del batterista di poggiarono
sulle sue,
dolci, prepotenti, amorevoli e passionali. Era impossibile resistere.
E
ora Matteo capiva che le persone avevano paura della notte perché essa
tentava,
tentava in un modo così impercettibile che ti faceva credere di essere
tu a
scegliere, quando in realtà eri solo una carta mossa da lei.
Adesso
Riccardo gli stava passando le mani sulla vita, stringendolo forte,
impregnandolo con il suo odore, impedendogli di sentire qualsiasi cosa
che non
fosse lui – lui, lui, lui -.
«Lo
senti anche tu, Matte?»
Ed
era la notte, la sentiva anche Riccardo, adesso stava urlando, gli
stava
intimando di non fermarsi perché il giorno dopo tutto quello sarebbe
stato solo
un dolcissimo sogno e loro sarebbe stati lontani, così lontani...
«Si...»
Un
sussurro, fu solo un sussurro, poi Matteo si avventò sul collo di Ricca
e prese
a baciarlo, mordicchiarlo, torturarlo in un dolcissimo supplizio che
non
avrebbe mai trovato il suo epilogo se il batterista non avesse infilato
una
mano nei pantaloni dell’altro.
Fu
questione di secondi - minuti, ore, settimane, mesi, anni, secoli
– e i
due ragazzi si ritrovarono tra
le lenzuola candide del letto di Riccardo, dove aveva versato un mare
di
lacrime e dove ora avrebbe impresso il ricordo di un sogno.
Matteo
era invaso dall’odore del ragazzo, non riusciva a pensare a nient’altro
che non
fosse lui – lui, lui, lui – perché
la
notte gli aveva intimato di fare così, non se ne sarebbe pentito.
Quello
che accadeva di notte, rimaneva nella notte.
Allora
furono labbra, respiri smorzati, pelle contro pelle, corpo contro corpo.
Nessuno
di loro due seppe dire a chi apparteneva il gemito che udirono, mentre
Matteo
aveva sfilato gli slip a Riccardo per avere maggiore accesso a ciò che
lo
interessava.
E
mentre il ritmo aumentava, aumentava anche la consapevolezza che il
giorno dopo
nulla di tutto quello sarebbe rimasto, perché era successo di notte, e
la notte
non aveva pietà.
Matteo
si ritrovò sopra un Riccardo a pancia in giù, pronto ad offrirsi a lui
non
perché si fidasse, ma perché era notte, quindi sapeva che non ne
sarebbe
rimasto ferito, che non avrebbe avuto un’altra cicatrice da andare a
sommare
alle altre.
Ma
Matteo se lo stava godendo quel sogno, lo stava sentendo fin dentro le
sue
viscere e non credeva realmente che sarebbe potuto svanire come un
semplice
ricordo sfocato. Era troppo forte.
Furono
di nuovo labbra, Matteo le sentì ovunque, sulla sua carne, nel suo
stomaco.
Nel
cuore.
E
poi non ci fu più nulla se non i loro corpi fusi in un unico punto,
proprio
come doveva essere, perché quello era il puzzle che la notte aveva
messo loro a
disposizione.
Loro
erano due pezzi di un puzzle che era stato completato.
Gemiti.
Sospiri.
La
notte, la notte, la notte non gli aveva dato pace e gli stava regalando
un
nuovo inizio che di giorno non avrebbe potuto prendere forma, perché il
buio
non terrorizzava più, no, ma cullava... stava cullando e cantilenando
una
canzone mistica.
E
Matteo e Riccardo restavano uniti, mentre il ritmo diventava sempre più
frenetico e i corpi lasciavano il posto alle anime, che sembravano
divenire
concrete, prendere forma...
Andarono
alla deriva insieme – gemiti, sospiri,
pelle – in un oceano che non aveva fine, e l’orizzonte
sembrava così vicino
e allo stesso tempo così lontano.
Matteo
baciò la schiena di Riccardo, prima di rotolare al suo fianco e
incatenare i
suoi occhi nei suoi, prendendo tutto, tutto ciò che quella notte aveva
da
offrirgli.
E
sorrisero, sorrisero come due bambini, mentre la notte ululava
vittoriosa,
consapevole di avergli appena regalato un
sogno d’amore.
****
Angolo
Autrice
Spero
di non essere stata troppo
noiosa, in questa scena Slash, che poi non è molto esplicita e neanche
troppo
rossa, ecco. Volevo donare a questi due un momento molto poetico, fatto
di
amore e passione, così ho pensato che non c’era nulla di più dolce
della
notte... così mi è uscito fuori questo svarione sulla notte xD Spero vi
sia
piaciuto!
Come
sempre ringrazio tutti coloro che
leggono, recensiscono ecc.
Mi
farebbe piacere sapere cosa ne
pensate, vi intimo come al solito di lasciare un commentino, perché
questa
storia ha il disperato bisogno di lettori! Davvero, ragazzi.
Ps.
Il titolo è la traduzione di un
pezzo della canzone “Good old-fashioned lover boy” dei Queen, che fa
anche da
introduzione al capitolo; è una canzone che parla di un amore
omosessuale,
quindi mi sembrava azzeccata.
Un
caloroso abbraccio,
Eryca
|
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Capitolo 13 *** La strada del successo ***
13.
La
strada del successo
If
you think it’s easy
Doing
one night stands
Try
playing in a rock n’ roll band
It
is a long way to the top
If
you wanna rock n’ roll
AC/DC
– “It is a long way to the top”
Migliaia
di persone.
Isolamento.
Grida.
Strilli. Schiamazzi.
Isolamento.
Un
prato. Tende. Persone accampate.
Isolamento.
Un
palco.
Il
suo palco, quello
da cui era appena sceso barcollante, confuso dalle tante emozioni,
dalle nuove esperienze
appena vissute, dall’accoglienza calorosa del pubblico.
Un
festival.
Il
Rock Emergente Fest, dove
partecipavano decine e decine di nuovi gruppi emergenti nel mondo della
musica
rock. Quello per cui le persone arrivavano da tutta Italia, in
macchina, in
treno, in autostop, con un solo zaino in spalla e la voglia di
divertirsi.
Mad.
I
Mad che – Davide ancora non riusciva a crederci –
stavano scalando le
classifiche con il loro singolo Scared, definito
dai critici “Uno dei migliori brani rock degli ultimi
anni”.
I
Mad pubblicizzati ovunque dalla loro Etichetta, l’Alternative Productions, che non perdeva
occasione di farli
partecipare ad un qualsiasi evento.
I
Mad con il loro primo album inciso, composto da quattordici brani
incazzati,
tristi, vuoti, allegri, alcuni scritti sotto l’effetto
dell’alcol, altri invece
nelle notti insonni.
I
Mad che non capivano assolutamente niente di ciò che stava
loro succedendo,
perché gli sembrava un sogno, un sogno troppo bello per
essere reale.
Il
loro sogno.
Ed
era forse per quel motivo che Davide
–“l’attraente
chitarrista del nuovo gruppo
lanciato dall’Alternative”- percorse le
scale che portavano nel retro con
occhi annebbiati, di chi sta viaggiando in un universo parallelo.
Erano
mesi che Davi non capiva assolutamente niente. La sera, prima di andare
a
dormire, rimaneva con gli occhi fissi al soffitto e pensava –
realizzava – che
l’unico grande sogno della sua vita stava prendendo
consistenza, come uno di
quei vasi fatti a mano, che iniziano ad assumere la forma che si vuole
solo
dopo tanto lavoro ed impegno.
E
poi c’erano le sedute di registrazione per il loro album.
Non
è possibile.
Le
interviste con i giornali di critica musicale.
Non
è possibile.
Le
riunioni in studio con il resto del gruppo e lo staff
– il loro staff –.
Non
è possibile.
Continuava
a ripeterlo nella sua mente come un mantra, come una preghiera.
Di
notte, di giorno. A pranzo, a cena. Sempre lo stesso pensiero fisso: non è possibile.
Perché
era vero, non era proprio possibile che stesse accadendo realmente.
«Davi,
vieni di qua, abbiamo l’intervista con Lucia Rocca, del Rock
School.»
Anne.
Quando
sembrava che stesse per arrivare il peggio e si sentiva sopraffare dal
panico,
arrivava lei con la sua voce
inconfondibile e quegli occhi profondi, lo guardava con aria
consapevole e gli
sorrideva, prendendolo per mano e sorreggendolo.
Anne.
Anche
in quel momento, con i capelli scompigliati e il viso stanco a causa
della
perfomance appena terminata, risultava imbattibile.
Perché Davide non aveva mai pensato che Anne fosse
una di quelle donne
belle, belle e basta; no, lei era
semplicemente una tosta, che si faceva notare per quei capelli ribelli,
per le
sue battute taglienti e il fare spavaldo.
Bella,
no.
Unica.
«Quanto
ci manca prima dell’intervista?» chiese portandosi
una mano ai capelli e
spettinandoseli un po’, l’espressione del viso di
chi ha bisogno di una pausa.
«Sei
o sette minuti.»
E
allora fu Davide a sorriderle in modo colpevole, avvicinandosi
pericolosamente
a lei, consapevole di essere solo con lei in uno di quei container
posizionati
apposta per gli artisti supportati da un Etichetta Discografica.
Aveva
bisogno di sentirla sua, perché tutto quello stress lo
mandava fuori di testa e
l’unica cosa che lo riusciva a calmare era lei, Anne.
La
baciò a lungo e con intensità, saggiando con
avidità ogni parte della sua
bocca, giocando con le sue labbra di fragola, mentre le mani cercavano
e
chiedevano di più.
La
vide sogghignare divertita mentre gli sbottonava i jeans e
pensò che era
proprio per via del suo essere una ragazzaccia che impazziva per lei.
Si
lasciò confondere dal suo odore – Anne,
odore di Anne – quando la sentì
tracciare una linea di baci sul collo, per
poi abbassarsi sul petto – si stava
perdendo – e continuare in quella discesa
pericolosamente dolce – si stava
perdendo -, fino al ventre,
dove si soffermò a vezzeggiare il suo ombelico con carezze
umide.
Dio,
Anne, cosa mi fai?
Tra
di loro si era creata una linea retta, senza curve e senza intoppi, che
portava
dritta al cuore di Davide, dove si era radicata nelle vene in un modo
così
profondo che sarebbe stato quasi impossibile staccarla.
E
adesso lo sentiva – lo sentiva fin dentro le viscere
– quell’uragano emotivo
che gli impediva di respirare alla vista della ragazza.
Era
arrivato al punto di non ritorno, quello che non ti permetteva di
prendere una
strada alternativa, quello che ti indicava con una scritta a caratteri
luminosi
che eri esageratamente fottuto.
Ecco,
fottuto.
Carezze,
altre carezze.
Baci,
altri baci.
Si
sentiva completamente stordito, come se fosse sotto effetto di una
qualche
droga potentissima, mentre Anne continuava a dedicarsi a lui, la lingua
sul suo
collo.
E
poi, alcune volte, la consapevolezza ti colpisce
all’improvviso, come una
folata di vento che muove le foglie degli alberi.
E
lui lo sapeva, ora lo sapeva, come mai, mai prima d’allora.
Sapeva.
«Anne,
io...»
Sapeva.
Lo sapeva.
Le
sue mani intorno al viso dolce di lei, gli occhi negli occhi, i loro
odori che
andavano intrecciandosi.
Lo
sapeva.
«Io
ti... »
«Oh,
cazzo!»
Una
voce.
Quella
irritantissima
voce aveva appena rovinato il suo momento.
Mauro
Polloni, il produttore discografico dell’Alternative
Productions, se ne stava davanti a loro, la porta del
prefabbricato
spalancata a lasciar intravedere il marasma di persone ammassate nel
prato.
Davide
sospirò, perché non c’era
più nulla da fare, il momento era passato, la magia
era stata spezzata e ora non poteva fare altro che tornare alla
normalità, a
ignorare l’accaduto.
«Dai,
dai, dai, ragazzi!» Polloni prese Anne per un braccio,
trascinandola verso
l’uscita, senza darle scampo, per poi spintonare senza alcuna
gentilezza Davi.
«Vi stavo cercando ovunque! L’intervista! Non
è un gioco, lo capite? L’intervista!»
Non
era un gioco nemmeno ciò che stava per dire Davi, ma quello
lui non poteva di
certo saperlo.
No,
non era affatto un gioco.
Fottuto.
****
Il
prato erboso assomigliava ad una grossa tavolozza colorata: le foglie
lasciavano la presa ai rami e svolazzavano libere, fino a che non
toccavano
terra e andavano a formare quel tappeto variopinto su cui sedeva Anne.
Nonostante
avesse camminato per qualche chilometro, fino a trovare un
po’ di pace, il
suono della chitarra elettrica giungeva alle sue orecchie come un
fastidioso
ronzio; strano a dirsi, proprio lei che apprezzava la melodia di uno
strumento
musicale più di qualsiasi altra cosa.
Ma,
d’un tratto, si era ritrovata in uno di quei momenti in cui
si ha il disperato
bisogno di rimanere soli con sé stessi e il resto del mondo
appare opaco, un
po’ scolorito.
Così
era partita, senza avvisare nessuno, in cerca di un luogo di calma per
poter
ritrovare un po’ di quella serenità che,
nell'ultimo periodo, le era stata
portata via,
proprio come era successo con la
sua ingenuità.
Sentì
il pubblico applaudire rumorosamente, mentre si appostava comodamente
all’ombra
di una grossa quercia che fungeva da ombrellone.
Oh,
Dio. Chiuse
gli occhi e si lasciò trasportare da quel nero confortante
che la stava
chiamando, il sonno che finalmente sembrava essere arrivato dopo notti
intere
passate a fare musica.
«Si
è parlato molto di te, Anne,
come leader dei Mad. Sinceramente, non credo sia possibile che una
ragazzina
come te possa essere l’anima del gruppo. Ma, dimmi, cosa ne
pensi a riguardo?»
«Penso
– ma è solo la mia umile
idea – che tu sia una fottuta stronza al servizio dei Mass
Media.»
Per
tutta la vita, aveva avuto una acutissima allergia alle persone che,
proprio
come la donna che li aveva intervistati poco tempo prima, pensava di
avere la
situazione in pugno e di poter dire o fare tutto ciò che gli
passava per la
mente.
Non
era riuscita a trattenersi. Ci aveva provato, per qualche frazione di
secondo,
ma poi la sua natura aveva avuto la meglio e aveva dovuto far capire a
quella
Barbie impacchettata che nessuno poteva prendersi gioco di Anne
Melì.
I
suoi compagni di gruppo erano stati entusiasti della sua faccia tosta,
ma Mauro
Polloni non sembrava condividere la loro allegria: avevano appena dato
a quella
donna un pretesto per scrivere una pessima recensione su di loro.
E
addio alle buone critiche prima dell’uscita del disco.
Sbuffò,
Anne, e si lasciò scivolare ancora di più tra le
foglie umide, sperando che
tutto si sarebbe rimesso in ordine.
Aveva
sempre pensato che un artista parlasse con la sua musica, che non
c’era bisogno
di parole inutili sui suoi progetti futuri, per non parlare del dover
rispondere a domande private o autobiografiche; non era pronto
all’assalto del
mondo dello spettacolo, che sembrava aver messo i Mad al centro della
loro
attenzione.
Era...
troppo.
Troppo
stancante,
troppo costruito, troppo
programmato, troppo dettagliato,
troppo ordinato,
troppo obbligatorio, troppo
schematico, troppo limitato,
troppo finto.
Le
sembrava di essere stata catapultata improvvisamente in una giungla,
una
giungla dove lei era solo una semplice antilope e i leoni la guardava
da
lontano, leccandosi i baffi e aspettando solo il momento giusto per
assalirla e
sbranarla voracemente.
I
Mad erano giovani, nati da poco, avevano poca esperienza sul palco e
ancor di
meno con il pubblico, visto il loro passato da musicisti da pub; quel Rock Emergente Fest li aveva duramente
messi alla prova, tra attrezzature professionali, prove microfoni,
tecnici del
suono, giornalisti appostati in ogni angolo, pass per poter accedere
agli
stand, transenne e una marea di spettatori accaldati e affannati per
l’adrenalina.
Aveva
cantano con tutta sé stessa, sapendo di dover dimostrare
all’Italia di essere
all’altezza della scena musicale; aveva passato egregiamente
la prova, il
pubblico era andato letteralmente in visibilio per loro, ma lei ne era
rimasta
segnata.
Dopo
quell’esperienza, qualcosa era stato catastroficamente
modificato in lei, come
se avesse finalmente capito di non essere più Anne
Melì, la semplice ragazza di
Torino, appena uscita dal liceo con il sogno irrealizzabile per la
musica.
Era
diventata Anne Melì, la cantante e leader dei Mad, il nuovo
gruppo emergente
dell’ Alternative Productions, lanciato
sulla scena underground italiana.
Era
sempre la stessa, eppure non era più la stessa.
Troppo.
«Come
al solito trovi sempre i posti migliori per prima, così mi
tocca fare la parte
del personaggio secondario che disturba il tormentato
protagonista.»
Matteo
e il suo senso dell’umorismo innato la guardavano
dall’alto, i capelli
scompigliati e il volto sudato di chi ha solo voglia di farsi una sana
dormita.
Doveva essere stravolto almeno quanto lei.
Gli
sorrise, uno di quei sorrisi che rivolgeva solo al suo migliore amico,
e batté
la mano sul prato facendogli segno di accomodarsi vicino a lei.
Ci
sarebbe sempre stato un posto
per Matte, accanto a lei.
«La
protagonista ha deciso che il personaggio secondario può
farle da spalla in
questa scena.»
Un
pugno sulla spalla le confermò il fatto che il bassista non
aveva affatto
apprezzato la sua battuta.
Rimasero
in silenzio, il sole dell’ultimo pomeriggio a scaldargli il
viso, mentre il
vento fischiettava una dolce melodia e le foglie giallastre danzavano
in aria.
«L’hai
stesa, quella puttanella!»
«Qualcuno
doveva pur farle vedere chi comanda!»
E
poi risa. Perché ne avevano bisogno entrambi, di
dimenticarsi per un solo
istante di tutto ciò che li circondava e abbandonarsi al
suono della risate,
anche se non c’era niente di realmente divertente.
Anne
e Matteo avevano sempre affrontato così i moment critici:
prima della maturità
si erano presi in giro per cose futili, ridendo e scherzando, consci
del fatto
che dentro di loro si stava svolgendo una vera e propria battaglia.
Ma
ridere faceva apparire tutto più semplice.
«Siamo
pronti a tutto questo, Annie?»
Come
poteva rispondergli se dentro di lei aleggiava la stessa domanda
irrisolta?
Forse
nessuno poteva dirlo con certezza, non c’era semplicemente un
momento perfetto
in cui sarebbero stati preparati, perché non si poteva
esserlo; bisognava
semplicemente tirare fuori gli artigli, guardare in faccia
quell’esercito di
felini arrabbiati e metterli a tacere.
Non
sarebbero mai stati pronti, probabilmente.
«Ha
importanza?» domandò più a
sé stessa che al suo amico, volgendo lo sguardo
verso l’orizzonte.
Stava
calando la sera, il sole era sempre meno potente e il cielo andava
scurendosi,
mentre il suono del rock spezzava quel silenzio di campagna.
Era
una scena quasi solenne, pensò Anne, che le faceva tornare
alla mente il
ricordo di suo nonno che le spiegava come il tramonto fosse un sipario
che
scendeva, per dare vita a tutto un altro mondo, nascosto dietro a
quella grossa
tenda.
«Ho
deciso che mi comprerò una nuova sciarpa.»
Ogni
volta che accadeva un fatto veramente rilevante nella vita di Matteo,
lui la
guardava e con aria eccessivamente seria le confidava che sarebbe
andato a
comprarsi una sciarpa; così, nel suo alloggio, possedeva una
grossa scatola
arancione dove teneva una massa di lana e altri tessuti, di colori
sgargianti o
tristi, a seconda del fatto di cui si trattava.
Una
vera follia. Una vera follia alla Matteo.
«Indaco.»
Il
suo migliore amico puntò gli occhi nei suoi, aspettandosi
una spiegazione per
quella parole che, in apparenza, sembrava senza senso.
«Indaco?»
Anne
sorrise. Doveva sempre spiegargli tutto.
Prese
fiato e si rese conto che, se avesse espresso ad alta voce
ciò che stava
pensando, lo avrebbe condiviso con Matteo, lo avrebbe reso partecipe di
quel
moto che stava avvenendo dentro di lei.
Troppo.
«Dicono
che l’indaco sia il colore del risveglio interiore, della
presa di coscienza.»
Cambiamento.
Stava
succedendo, tutto quello, a lei. A lei. Stava succedendo. A lei. Stava.
Succedendo.
Non
era un sogno, non era un sogno, non era un sogno.
Era
reale.
Risveglio
interiore.
«Allora
aggiungerò una sciarpa color indaco alla mia
collezione.»
Il
sole era scomparso del tutto, il sipario era calato, ma, proprio come
diceva
suo nonno, stava per iniziare un nuovo eccitante spettacolo.
Era
arrivato il tempo dei Mad.
Risveglio
interiore.
****
Angolo
Autrice
Sono
tornata, Lettori :)
Allora,
i Mad sono famosi: interviste,
riflettori puntati
su di loro, concerti, giornali, album e quant’altro.
Un
vero e proprio cambiamento che
porta la storia ad una svolta radicale; qui inizia ciò che
è importante, quindi
spero che seguirete ancora per poter capire ciò che avevo in
mente sin
dall’inizio.
Sì,
sì, il mio cuore mi ha
obbligata ad una scena Anne/Matteo, amici da sempre: mi piaceva e spero
sia
piaciuta anche a
voi.
Grazie
a quella pazza scatenata di
una beta- reader, Lavisvampita, che
non smette mai di stupirmi e farmi ridere; vi consiglio le sue storie,
tra
l’altro, sono delle vere chicche: fate un giro sulla sua
pagina. *__*
Grazie
a tutti voi che leggete.
Eryca
|
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Capitolo 14 *** Insieme, per sempre. ***
14.
Insieme,
per sempre.
So
you say it’s not okay to be gay
Well,
I think you’re just evil
You’re
just some racist
Who
can’t tied my laces
Your
point of view is medieval
Fuck
you
Fuck
you very, very much.
Lily Allen
–
“Fuck you”
Il
caffè aveva la grande capacità di calmarlo.
Funzionava
un po’ come una tisana per le persone normali, ma, questo
già si sapeva, Matteo
non era propriamente un tipo comune, quindi usava la caffeina come
tranquillante.
Il
solo odore caldo della bevanda lo faceva sentire meglio, lo invadeva di
una
sensazione di tiepido calore e quasi gli sembrava di essere a casa,
sotto le
coperte.
E,
proprio in quel momento, in cui uno stormo di ragazzine innamorate
– non
avrebbe mai pensato che sarebbe stato possibile, ma sì,
delle donne lo
ammiravano – lo stavano inseguendo per tutta Torino, alla
ricerca
dell’affascinante bassista dei Mad, il gruppo più in del momento, si disse che non ci
sarebbe stato nulla di meglio
se non un sano caffè.
Quindi,
sgattaiolando dall’uscita di sicurezza dello studio
televisivo, nel quale
stavano tenendo un’intervista esclusiva con il famoso
programma Rock Voice, era riuscito
ad arrivare
fino ad un piccolo locale in un viottolo sconosciuto; gli sembrava che
non
avesse mai fatto nulla di più avvincente del sedersi ad un
tavolino rotondo e
ordinare il tanto agognato caffè.
Pace.
Da
quando i Mad avevano iniziato a scalare le classifiche, dopo
l’uscita del loro
album “Born to be Mad”, non
aveva
avuto un attimo di pausa, tra concerti, esclusive, interviste e
apparizioni
televisive. Era una specie di incubo ad occhi aperti.
Il
fatto che la loro musica – una grandiosa
musica
– fosse finalmente ascoltata ed apprezzata da tutta Italia,
non poteva che
renderlo estremamente orgoglioso e soddisfatto, ma il pacchetto
completo, con
tanto di Fan Club, non gli andava troppo a genio.
Sbuffò,
spettinandosi con impazienza i capelli prima di aprire il giornale
posate sul
tavolo, sperando di trovare qualche notizia che lo facesse distrarre: a
pagina
dieci, Gianluca Pezzi aveva scritto un articolo riguardante
l’Istruzione a
Torino, mentre invece a pagina dodici...
Travolti
dalla Follia dei Mad.
«Oh,
Cristo! Basta!» sbottò, per poi rendersi conto che
aveva urlato e che i pochi
anziani presenti nel bar, ora, lo stavano guardando con aria
interrogativa,
additandolo probabilmente come un pazzo.
Portò
la tazzina alle labbra bevendo un piccolo sorso del liquido che lo fece
subito
rilassare, proprio come poteva fare un Valium.
Dio,
non
ci poteva credere, ancora non riusciva a rendersi conto di
ciò che Mauro
Polloni aveva detto a lui e Riccardo, pochi istanti prima. Era
così fuori da
ogni concezione che non avrebbe mai pensato di poter incontrare un uomo
con la
faccia tosta di pronunciare certe parole.
Non
poteva essere davvero reale. Era successo? Era successo.
Diede
un’occhiata nervosa all’orologio da polso: si, lui era in ritardo come al solito e non
si sarebbe fatto vedere per
almeno altri cinque o dieci minuti. Dannazione.
Avrebbe
fatto meglio a muoversi oppure Matteo avrebbe iniziato a dare
completamente di
matto, urlando e imprecando come il peggiore scaricatore di porto del
secolo,
perché non era possibile.
Tutta
quella celebrità, tutti quegli scatti, quelle fotografie di
copertine non erano
che un’immagine fasulla e montata di ciò che lui
era.
«Scusa...»
La
voce docile che aveva appena udito apparteneva ad
un’adolescente elettrizzata,
con gli occhi scintillanti e un foglio di carta stretto nella mano
sinistra.
Ci
risiamo.
«Si?»
Si costrinse a sorridere, sorridere in modo falso, ovviamente, come
tutto ciò
che stava capitando ultimamente nella sua già abbastanza
confusa vita.
Gli
venne in mente sua madre – quella stronza di sua madre
– e pensò che
probabilmente era stata colpa delle ripetute maledizioni che gli aveva
inflitto
se ora si ritrovava in un fosso.
Grazie.
Grazie tante, mamma cara.
«Sei
Matteo, vero? Matteo Damiani, dei Mad!» domandò la
bambina, cercando di
contenere l’euforia che sembrava fremere per sprizzare da
ogni parte del suo
corpo.
Avrebbe
voluto rispondere a quella fastidiosissima ragazzina che era riuscita a
rovinargli l’unico posto di quiete che era riuscito a
trovare, che sì, era
Matteo Damiani dei Mad, ma che una volta la gente preferiva additarlo
come “il
frocio”, però lei non poteva ovviamente
saperlo
perché quella testa di cazzo di
Mauro
Polloni stava cercando di sotterrare la faccenda...
L’intervista
era andata alla grande,
erano riusciti a rispondere a tutte le domande con estremo sangue
freddo e
gentilezza degna di un nobiluomo; Davide ed Anne erano già
spariti,
probabilmente corsi a mangiare un boccone, vista la tarda ora che
avevano
fatto.
Matteo
era pervaso da un senso di
serenità, forse perché durante tutta la seduta
Riccardo non gli aveva lasciato
la mano neanche un secondo, nonostante la telecamere e la diretta
televisiva;
sapere che il batterista non si vergognava di lui lo rendeva
orgoglioso.
Ora,
al fianco del suo fidanzato, Matte stava uscendo dal palazzo,
chiacchierando con tranquillità, mentre un sorriso aleggiava
sulle sue labbra.
«Matte,
Ricca!» la voce del loro
manager lo costrinse a fermarsi – di malavoglia – e
ad attendere che
quest’ultimo li raggiungesse.
«Posso
rubarvi due minuti del
vostro tempo?» domandò, il sorriso di convenienza
già apparso sul suo volto
incipriato.
«Si,
certo.»
Mauro
prese a massaggiarsi le mani,
guardarsi intorno con fare circospetto, come se stesse controllando che
non ci fosse
nessuno nelle vicinanze. Un comportamento decisamente strano anche per
lui,
pensò Matteo.
«Ragazzi,
io credo che... Sì,
ecco... credo che voi due siate due uomini intelligenti e furbi...
quello che
volevo dirvi era che... Tutti noi del management siamo a conoscenza del
fatto
che voi due siete... ehm, sì, gay... Ma, sapete come
funziona con il mercato,
certe cose sarebbe meglio tenersele per sé... In fondo, a
chi importa di sapere
che siete fro... omosessuali?»
«Che
cosa stai cercando di dire,
Polloni?» ringhiò il bassista, la voce tagliente
di un vero leone, la rabbia
che stava già cavalcando nel suo corpo.
«Non
voglio che venga fuori questa
cosa dell’essere gay. Preferisco che manteniate una facciata
di
eterosessualità. Capite, vero?»
No,
non capiva. Matteo non capiva.
Aveva
passato tutti gli anni della sua adolescenza lottando contro il
razzismo,
cercando di non vergognarsi di ciò che era, per farsi
accettare dagli altri,
sudando, piangendo, soffrendo, lacerandosi, torturandosi; e ora
arrivava quel Mauro
Polloni, quel produttore discografico, e pretendeva – pretendeva – che lui rinnegasse
ogni sua battaglia per non fare
scandalo?
Beh,
lo scandalo era il fatto che qualcuno pensasse che potesse essere uno
scandalo.
«Ehm,
Matteo?»
La
ragazzina lo guardava con i suoi occhi grandi e scintillanti, colmi di
speranza, attendendo una sua risposta.
Dio,
Matte, sei diventato un’icona
del sesso etero.
«Sono
io.»
«Mi
faresti un autografo? Io ti adoro, ho comprato il vostro disco,
è strepitoso!
Siete grandi!»
Ti
adoro, Matteo. Sei grande,
Matteo. I Mad sono i migliori. I vostri concerti sono orgasmici. Siete
la band
migliore del secolo. Matteo, sei bellissimo. Portami a letto, Matteo.
Ne
aveva avuto abbastanza.
No,
non ti faccio un autografo. «Certo.»
Da
quando era diventato così bravo a recitare? Non era mai
riuscito a comportarsi
in un modo che non rispecchiava la sua personalità, mentre
in quell’ultimo
periodo stava addirittura fingendo di essere uno stallone
eterosessuale. Un sex
symbol.
Fai
schifo, Matteo. Fai proprio
pena.
«Grazie!
Grazie mille!» cinguettò la ragazzina e,
saltellando, tornò dalla sue amiche
che la accolsero con strilla degne di una scimmia urlatrice.
Ne
aveva avuto abbastanza di tutta quella montatura: il suo sogno era
sempre stato
un palcoscenico musicale ma, quello in cui si era ritrovato, gli
sembrava più
un palco teatrale.
Non
era così che sarebbe dovuta andare.
«Ehi,
Matte!»
Riccardo.
Riccardo
e la sua voce dolce, Riccardo e i suoi capelli bizzarri, Riccardo e il
suo
sorriso sincero, Riccardo e la sua bocca di fragole.
Riccardo.
Riccardo. Riccardo.
«Sei
in ritardo, coglione.»
****
Buongiorno
anche a te, Matteo.
Riccardo,
l’ombra del sorriso ancora impressa sul suo volto, se ne
stava impalato di
fronte al bassista, visibilmente ed estremamente seccato.
Ma,
a differenza del suo ragazzo, Ricca non si sentiva seccato, ma
piuttosto umiliato.
Era
riuscito da pochi mesi ad uscire allo scoperto, mettendo da parte
l’orgoglio,
combattendo le sue dipendenze, divenendo un uomo adulto;
e ora un idiota qualunque osava impedirgli di urlare al
mondo che lui esisteva ed era lì?
Non
era riuscito a spiccicare una parola di fronte a Polloni, era rimasto
semplicemente impassibile, il volto come una maschera di Carnevale,
mentre
dentro si stava svolgendo una guerra nucleare.
Matteo,
come al solito più espansivo, sembrava una ciminiera dalla
quale fuoriusciva
una quantità indefinita di fumo: la sua rabbia sarebbe stata
visibile anche a
chi non aveva a che fare con lui.
«Mi
dispiace.» si scusò sedendosi, pensando che
mettersi a discutere non avrebbe di
certo migliorato la situazione.
Notando
il cimitero di tazzine di caffè presente sul tavolo,
Riccardo si convinse che
il suo amico era estremamente sconvolto e non in grado di prendere una
decisione.
Doveva
essere difficile, per lui che aveva sempre ammesso di essere diverso
nella sua
normalità, ritrovarsi di fronte ad un ostacolo del genere;
in effetti non era
un semplice compromesso, come poteva essere per un atleta non mangiare
una
torta a tre strati: era una vera e propria imposizione, dovevano
fingere di
essere chi non erano.
Il
fatto più sconcertante, però, era che se non
avessero accettato la loro
carriera musicale, ormai alle stelle, sarebbe crollata in un nano
secondo,
rovinando il loro sogno.
Rovinando
Il Sogno.
La
mente di Ricca lo riportò indietro negli anni, ricordandosi
quando lui e Davide
passavano le giornate in piazza Castello a suonare, un cappello posate
a terra
per racimolare quattro lire; la vera ragione per cui si davano tanta
pena per
un’esibizione di strada era che li rendeva felici,
liberi.
Dio,
quanto
avrebbe voluto potersi sentire di nuovo così, poter suonare
come più gli
piaceva per esprimere tutto sé stesso al meglio, senza aver
paura di non andare
a genio al pubblico o, ancor peggio, violare il contratto discografico.
Com’erano
arrivati a tanto?
«Guarda,
cazzo! Guarda questa merda!» sbottò Matteo
passandogli un giornale che li
ritraeva in una posa da veri duri, l’ennesima prima pagina
dedicata a loro.
C’era
qualcosa negli occhi del suo ragazzo che gli rendeva impossibile
prendere la
questione sottogamba: Matte sembrava aver perso ogni controllo di
sé stesso,
fatto estremamente raro. Riccardo non poteva semplicemente fingere che
tutto
andasse bene, perché erano nella merda.
Fino
al collo.
Cazzo.
«Si,
ho già visto. Com’è che sei
così nervoso? Dovresti smetterla con tutto quel
caffè.»
Una
volta era il bassista che gli rivolgeva quelle raccomandazioni, anche
se
l’oggetto in questione non era proprio la caffeina, ma
piuttosto la cocaina.
Gli
capitava spesso di ripensare alla sensazione di completa pace che la
droga era
sola riservargli, qualche volta gli sembrava come se stesse rimuginando
su un
vecchio amico perduto, diveniva quasi malinconico; la verità
era che Ricca non
aveva mai smesso di lottare contro la voglia di una dose,
perché quella lo
perseguitava dalla mattina appena sveglio alla sera prima di andare a
dormire.
Quando
si provava l’emozione di un viaggio era semplicemente
impossibile ripulirsi
completamente, tornare a quando non se ne faceva uso, perché
ti rimarrà sempre
dentro quella malata e disperata smania per averne anche solo un poco.
E,
in una situazione problematica come quella, Riccardo non poteva che
sentirne il
disperato bisogno, proprio come Matteo e il suo caffè.
«Ci
ha chiesto di separarci, lo sai vero, Ricca?»
Gli
occhi scuri del bassista si concentrarono sui suoi come se non ci fosse
niente
di più affascinante, intorno, e forse era proprio
così.
Separarci.
Matteo
dentro di lui, che scivolava, spingeva, lo rendeva pieno, colmava quel
vuoto
insopportabile che aveva lasciato la droga; colmava le sue debolezze,
le sue
rabbie, le sue paure.
Separarci.
Matteo
e le sue mani dolci che sfioravano il suo viso, accarezzavano le sue
cosce,
lasciavano sulla sua pelle impronte digitali, tatuaggi indelebili che
mai
nessuno avrebbe potuto cancellare, neanche dopo anni e anni.
Separarci.
Matteo
e la sua lingua tagliente che lo rimproveravano, lo canzonavano e lo
deridevano
con quell’aria di superiorità che gli era tanto
familiare; ma anche parole
dolci, parole confortanti, parole coraggiose che gli impedivano di
sprofondare
di nuovo.
Separarci.
Matteo,
il suo punto di forza.
Matteo.
Matteo.
Matteo.
Matteo.
Insieme,
per sempre.
«Niente
e nessuno potrà mai separarmi da te. Non mi interessa se
questo vorrà dire
rinunciare alla musica, ai Mad. Tu sei
tutto. Intensi, Matte?»
Insieme,
per sempre.
E
a Riccardo non importava assolutamente nulla se il bassista non provava
ciò che
sentiva lui, perché quello che aveva appena confessato era
vero, lo sentiva fin
dentro lo stomaco e non poteva semplicemente lasciarlo perdere; sarebbe
stato
come mutilare una parte di sé stesso.
Matteo
era penetrato fin dentro al fegato, aveva prolificato nel pancreas e
ora se ne
stava accoccolata proprio nell’atrio sinistro del suo cuore.
Come
poteva separarsi dal suo cuore?
«Te
l’ho già detto che ti amo, Ricca?»
Rivelazione.
Non
ci fu più niente da fare, non si poteva semplicemente
rimanere apatici di
fronte ad un’ammissione del genere, soprattutto se la si
sentiva dal
controllatissimo Matteo, pensò Riccardo.
Si
accorse del suo sorriso ebete solo quando vide il suo riflesso sulla
vetrata
del bar: non sembrava nemmeno lui quel ragazzo felice e spensierato che
se la
rideva con tranquillità.
Matteo
gli faceva quell’effetto.
Matteo.
Matteo.
Matteo.
Insieme,
per sempre.
«No,
non me lo avevi ancora detto, piccolo. Ma il tuo è un amore
ricambiato.»
E
poi non ci fu più nulla per cui trattenersi, così
scoppiarono a ridere con
sincerità, sfogando ogni dubbio, ogni parola taciuta, ogni
rabbia, ogni
rancore.
Furono
risate, giochi di sguardi, mani intrecciate senza paura che qualcuno
potesse
vederli.
Furono
semplicemente Matteo e Riccardo, insieme.
Insieme,
per sempre.
****
Angolo
Autrice
Sono tornata,
lettori, miei cari!
Spero vivamente
che questo capitolo vi
sia piaciuto, è essenziale per la svolta della storia, che
dà inizio all’ultima
parte della storia.
Sì,
avete capito bene: Matteo e
Riccardo decidono di rinunciare al gruppo, piuttosto di fingere di
essere
eterosessuali; la questione sarà spiegata meglio nel
prossimo capitolo.
La fine dei Mad?
Chissà.
Lasciate un
commentino :D
Un
abbraccio,
Eryca
|
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Capitolo 15 *** Mentre il caffè si raffreddava ***
15.
Mentre
il caffè si raffreddava
«Le
decisioni
devono essere prese con coraggio, distacco e, talvolta con una certa
dose di
follia – non la follia che distrugge, bensì quella
che conduce l’essere umano a
compiere il passo al di là dei propri limiti.»
Paulo Coelho
Fu
un sussurro lieve, come quello del vento tiepido primaverile, a
svegliarla con
una dolcezza estenuante.
Furono
delle labbra – morbide, morbidissime – sulla sua
spalla nuda, in un tocco
paziente, a farle aprire gli occhi, in un movimento estremamente lento.
La
prima cosa che Anne vide, furono due enormi occhi chiari che la
fissavano con
un interesse che uno scienziato è solito rivolgere ad una
specie animale
protetta.
Poi,
un sorriso.
Non
uno di quei sorrisi dolci ed amorevoli, quelli che ti strappano il
cuore e ti
fanno venire voglia di vendere l’anima al diavolo, no. Uno di
quei sorrisi che,
piuttosto, potrebbe sfoderare un bambino pestifero quando ha appena
avuto
l’idea geniale di fare un dispetto alla sorellina.
Un
sorriso colpevole.
Infine,
come previsto, acqua.
Acqua
gelida sul suo viso ancora assopito e, seduto sul letto di fronte a
lei, un
Davide rosso in faccia a causa delle troppe risate con in mano un
bicchiere
vuoto.
Divertente.
Veramente divertente,
Lombardo.
Anne
si mise in ginocchio sul letto per catapultarsi con rabbia selvaggia su
Davi,
facendolo rotolare tra le lenzuola ed iniziando così una
vera e propria lotta.
«Ho
pensato che sarebbe stato carino svegliarti in un modo
romantico» iniziò
Davide, non appena ebbero terminato quel gioco scherzoso.
La
cantante riuscì finalmente a spiegarsi, allora, i baci
amorevoli e le carezze
che aveva sentito sulla sua pelle quando era ancora nella fase del
dormiveglia.
Una sensazione magnifica.
«Poi
mi sono detto che tutte quelle smancerie non facevano per me,
così ho optato
per l’acqua.»
Ora
è tutto più chiaro.
Davide
rimaneva un vero e proprio mistero per lei. Certo, pian piano riusciva
a
scoprire particolari strambi della sua persona, come ad esempio il
fatto che
odiasse i piedi e non sopportasse di essere toccato con essi;
però sembrava
essere sempre circondato da quell’alone di enigma che ti
faceva venire voglia
di capirne di più riguardo a lui.
Forse
era proprio per quel motivo che Anne lo amava tanto.
Lo
amava.
Lo
amava.
Lo.
Amava.
Due
semplici parole che erano un’idea concreta nella sua mente,
un vero e proprio
pilastro impossibile da distruggere; eppure non sentiva il bisogno di
confessarlo al suo compagno, perché il loro amore era
espresso nelle piccole
cose: un sorriso di sottecchi, una carezza di sfuggita, un bacio.
«Ovviamente!
Adesso per farti perdonare mi vai a fare il caffè. Su,
su.»
Prese
a spintonarlo giù dal letto, finché non lo vide
rovesciarsi a terra, proprio
come un sacco di patate. Rise, perché le veniva spontaneo
quando si trovava in
compagnia di Davide, che riusciva a rallegrare sempre quella che
iniziava come
una giornata tempestosa.
Ormai
erano mesi che i Mad stavano in testa alle classifiche, i giornali
parlavano di
loro, i fans creavano dei club per idolatrarli e le loro mamme...
continuavano
a fare la torta in casa. Ciò che Anne non riusciva a capire
era che le persone
estranee li vedevano come delle vere e proprie rock star, ma se solo
avessero
saputo chi erano davvero avrebbero cambiato idea.
Rimase
sdraiata sul materasso, le mani dietro la testa, ad osservare con
sguardo
affamato Davide, soffermandosi con interesse su ogni piccola parte del
suo
corpo.
Benessere.
Era
proprio quello il termine che riassumeva alla perfezione la sua
sensazione
quando aveva il chitarrista accanto: i pensieri tristi che invadevano
le sue
memorie svanivano, le sue paure diventavano cenere e le montagne
insormontabili
sembravano divenire scalabili.
Benessere
erano i capelli neri del ragazzo.
Benessere
erano
quegli occhi chiari che sembravano contenere i segreti
dell’universo.
Benessere
era
il suo sorriso scaltro che ti faceva venire voglia di giocare.
Benessere
era Davide.
Anne
si chiese da quando era diventata così sdolcinata; se ci
fosse stato Matteo
accanto a lei, con tutte le probabilità del caso, le avrebbe
tirato un quaderno
in testa, accompagnato da qualche parola intimidatoria. Ma, in fondo,
erano
cambiate così tante cose nel giro di pochi mesi che Anne
faticava ad
assimilarle tutte e a starci dietro senza impazzire.
Allungò
la mano verso il comodino e afferrò il pacchetto di
sigarette di Davide,
estraendone una senza farsi vedere.
«Ti
ho vista, volpe.»
O
almeno così pensava.
Si
accese la cicca sorridendo, prima di smontare dal letto una volta per
tutte e
raggiungere il ragazzo, intento a versare il caffè in due
tazze raffiguranti i
personaggi de “I Simpson”.
Lo
abbracciò da dietro, appoggiando la testa sulla sua schiena,
inebriandosi del
suo profumo – profumo di Davide –
e
pensando che ultimamente le cose andavano davvero per
il verso giusto.
«Che
ne dici di berlo più tardi, questo
caffè?» chiese Davi voltandosi verso di lei,
le mani già posate possessivamente sui suoi fianchi, la
bocca così vicina da
poterne vedere la perfezione.
E
Anne non pensò che probabilmente la bevanda si sarebbe
raffreddata e sarebbe
divenuta imbevibile, perché Davide – lui,
lui, lui – la stava baciando ormai, il sapore di
lui sulla sua bocca.
Dio,
quanto lo amava.
Lo
amava.
Lo
amava.
Lo
amava.
«Ehm,
ehm.»
Il
suono di una voce che si schiariva la gola li indusse a staccarsi in
modo
colpevole, consci di essere appena stati colti in flagrante.
Ricca
e Matte se ne stavano in piedi davanti alla porta d’ingresso
ancora aperta,
segno che dovevano essere appena arrivati a casa.
«Tempismo
perfetto, ragazzi.» borbottò Davi, ormai
concentratosi nuovamente sulle sue
tazzine, prima di prenderne altre due dalla credenza.
«Caffè?»
Riccardo,
però, sembrava essere visibilmente nervoso: continuava a
mandare occhiatine a
Matteo che, a sua volta, si massaggiava le mani in un gesto che non era
da lui.
Qualcosa
bolle in pentola.
«Ragazzi,
sediamoci un momento... dobbiamo dirvi una cosa importante.»
Centro.
Davide
smise di trafficare e Anne, ormai curiosa di sentire
cos’avevano da dire, si
alzò per andarsi a sedere al piccolo tavolo di legno. Il suo
migliore amico
puntò subito gli occhi su di lei, quasi volesse farle capire
ciò che stava per
succedere.
«Allora?»
domandò Davide che, come al solito, dimostrava la pazienza
di un primate.
E
poi ci fu uno di quei momenti che solo loro quattro uniti in una sola
stanza
riuscivano a creare.
Uno
di quelli in cui il tempo sembrava non esistere più,
così come lo spazio, il
mondo, le galassie, i loro nomi, le loro vite, i loro ricordi.
Solo
la musica persisteva.
La
musica vera, quella che avevano creato insieme, volando nei cieli
inesplorati,
tracciando le vie di nuove strade sconosciute.
La
musica del prima.
E
allora Anne lo seppe.
Lo
seppe con certezza.
«Io
e Riccardo abbiamo deciso di lasciare i Mad.»
Anne
lo seppe mentre il caffè si raffreddava.
****
Davide
dovette assicurarsi di essersi lavato le orecchie quella mattina, prima
di
rendersi conto che ciò che aveva sentito non era finzione,
ma la dura e triste
realtà.
Io
e Riccardo abbiamo deciso di
lasciare i Mad.
Il
silenzio regnava nella stanza, quasi a voler sottolineare che non
potevano
davvero esistere parole per esprimere ciò che il chitarrista
sentiva dentro di
lui: un minestrone di emozioni confuse; gli sembrava quasi che tutto il
sangue
che aveva in corpo gli fosse improvvisamente salito al cervello,
facendogli
schizzare i nervi al massimo e il cuore in gola.
«Non
prendiamoci in giro, ragazzi.» Fu tutto ciò che
Davide riuscì a dire, la voce
spezzata, il groppo in gola che gli impediva di deglutire.
C’erano
stati momenti nella sua vita, in cui aveva pensato di non potercela
fare, come
quando Riccardo era stato ricoverato in clinica per disintossicarsi, ma
poi si
era ripreso e, con la forza di un toro, aveva affrontato ciò
che la vita gli
aveva posto come ostacolo e ci era riuscito. Il fatto era che ci aveva
creduto
con tutta la sua anima, il suo cuore, il suo spirito.
Proprio
com’era successo fin da quando era un bambino, per via di
quello sciocco sogno.
Il
sogno.
Il
sogno irrealizzabile che, invece, era riuscito a realizzare con lo
stupore di
ogni persona che lo circondava, mettendoci passione, impegno, sudore e
dolore.
Il
sogno che ora sembrava crollare piano, così piano che ogni
mattoncino che si
sfracellava sembrava scavare una ferita nella sua pelle, facendo uscire
fiumi
di sangue, togliendogli il fiato.
Io
e Riccardo abbiamo deciso di
lasciare i Mad.
«Davide,
amico mio» lo chiamò Ricca, gli occhi dolci
puntati su di lui come una
richiesta di ascolto in onore di quell’amicizia tanto
sofferta e tanto forte.
«Non è uno scherzo.»
Sentì
il rumore di un bicchiere che si infrangeva e, con occhi allucinati,
notò che
Anne aveva appena lanciato la sua tazza a terra e ora guardava il
pavimento, i
pugni stretti lungo i fianchi e l’espressione di viso
contratta in una maschera
di rabbia.
Per
un istante, Davide pensò di abbracciarla, stringerla forte a
sé, farle sentire
che, dopotutto, erano ancora insieme, che potevano ancora consolarsi
con un
bacio, ma fu solo un attimo e rimase seduto su quella maledetta sedia,
fissando
il vuoto quasi stesse cercando nell’aria una risposta.
Sconvolto.
Doveva proprio sembrare sconvolto, sì.
«Dopo
tutto quello che abbiamo sacrificato! Cosa cazzo vi salta in
mente?» urlò Anne,
gli occhi iniettati di sangue, la sua ira quasi palpabile.
Matteo
doveva essere al corrente degli scatti di rabbia dell’amica,
eppure non si era
preoccupato della sua reazione, era rimasto seduto a guardarla con
occhi
impotenti, mentre mormorava delle inutili scuse a bassa voce.
Dio,
possibile
che quei due fossero diventati così egoisti? Avevano
dimenticato tutto ciò che
avevano passato per arrivare alla vetta? Non poteva essere
già finita, no.
Davide non aveva neanche ancora assaporato il gusto
dell’essere arrivato al suo
obiettivo: voleva sentire le urla degli spettatori mentre si esibiva in
un
assolo di chitarra degno di Jimmy Page, voleva dischi su dischi, voleva
premi,
concerti di beneficenza.
Voleva
vivere il sogno.
«Polloni
ha espressamente chiesto di negare la nostra omosessualità,
Anne.» La voce di
Matteo gli arrivò pacata alle orecchie, ma attirò
lo stesso la sua attenzione,
inducendolo ad ascoltare. «Sono disposto a dei compromessi,
Annie, davvero. Ma
come posso nascondere chi sono dopo tutti questi anni di lotta per
vivere alla
luce del sole?»
Furono
parole amare, parole che colpirono Davide allo stomaco,
perché, nonostante
tutto, non avrebbe mai saputo cosa si provava a non essere accettati, a
dover
fingere di essere qualcuno che non si era, in realtà; non
poteva dire il suo
parere, perché non aveva lottato per la propria
libertà, non aveva dovuto
combattere contro sé stesso pur di arrivare ad accettarsi.
Voltò
lo sguardo verso il suo migliore amico, Riccardo, che lo stava
osservando con
occhi colpevoli, l’espressione del viso demoralizzata di chi
sa di aver deluso
una persona a cui si vuole bene. E Davide non seppe più
ciò che era giusto
perché non poteva rimanere distaccato vedendo quanto il suo
amico stesse
soffrendo, non poteva negare che ciò che Mauro aveva imposto
ai due ragazzi era
ingiusto e razzista. Anne si sedette sul pavimento a gambe incrociate e
si
prese la testa tra le mani, in una posa disperata.
Non
c’era più traccia di rabbia nella stanza, no; essa
aveva lasciato posto alla
tristezza, alla delusione, alla rassegnazione, all’idea che
il loro sogno tanto
agognato era corrotto.
E
Davide dovette trattenersi dall’urlare, perché non
poteva credere che tutto ciò
per cui aveva vissuto fino a quel momento era finto. Doveva esserci pur
qualcosa di reale.
La
musica.
La
musica doveva essere vera, lei era pura in ogni minimo accordo, in ogni
singola nota, in ogni loro canzone. E se i Mad erano davvero destinati
a
morire, allora la verità sarebbe sopravvissuta nei loro
testi, nei video delle
loro esibizioni dal vivo, nella loro musica
che urlava parole incontaminate dalla
commercialità e dal denaro.
E
Davi si accorse che erano tutti distrutti da quel mondo che gli stava
chiedendo
troppo, pretendeva gli abiti giusti, le compagnie giuste, i luoghi
giusti, le
chitarre giuste, i cocktail giusti. Anne, che il giorno in cui
l’aveva
conosciuta era energica, schietta e sfrontata, sembrava essere divenuta
un
fantasma di sé stessa: era dimagrita visibilmente, i suoi
sorrisi erano meno
arzilli di quelli usuali e aveva preso a fumare come una ciminiera.
Anche
Matteo, solito curare il suo aspetto fisico in una maniera esagerata,
aveva
accantonato le camicie di marca per indossare magliette a maniche corte
sciupate e nemmeno stirate. Riccardo, poi, sembrava subirne
più di chiunque
altro le conseguenze: non era ancora del tutto disintossicato, quindi
era
obbligato a continuare le terapie di gruppo e di certo
quell’ambiente in cui la
droga era all’ordine del giorno non gli era d’aiuto.
E
tu, Davide? Come ti sei ridotto?
Davi
si rese conto di aver perso quell’entusiasmo infantile tipico
di sé stesso:
conservava la voglia di salire sul palco e dimostrare al mondo chi era,
ma
avrebbe voluto farlo a modo suo e non seguendo le istruzioni di stupidi
manager.
Non
c’era più tensione.
Non
c’era più rabbia.
C’era
solo rassegnazione.
E
Davide seppe, mentre il caffè si raffreddava, che i Mad
erano niente più che un
ricordo sfumato.
****
Come prima cosa
mi scuso immensamente
per l’imperdonabile ritardo con cui pubblico questo capitolo,
ma la scuola mi
sta veramente rubando la vita, ultimamente D:
I Mad si sono
sciolti, avete capito
bene, non è una finzione e non ci sarà un colpo
di scena. La storia si avvicina
al termine, i nostri protagonisti stanno prendendo decisioni drastiche.
Dopotutto il
mondo della musica è
realmente così: difficile, corrotto, per persone forti.
Come sempre vi
chiedo di lasciare un
commentino se leggete! :D
Grazie mille a
tutti per aver letto!
Un abbraccio,
Eryca.
|
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Capitolo 16 *** Epilogo-Sognando l'America ***
16.
Epilogo
–
Sognando
l’America
Don’t
give up
‘Cause
you have friends
Don’t
give up
You’re
not beaten yet
Don’t
give up
I
know you can make it good
Peter
Gabriel – “Don’t give up”
Riccardo
aveva sempre pensato agli addii come dei momenti in cui il cuore ti
veniva
strappato dal petto con una forza bruta incredibile. Si era sempre
immaginato
un’atmosfera tagliente, una canzone come “Wish you
were here” dei Pink Floyd in
sottofondo, mentre le lacrime cominciavano a scorrere come fiumi in
piena.
Sì,
questi erano gli addii che Ricca aveva sempre preso in considerazione:
un’accozzaglia di cliché e stereotipi degni della
peggiore commedia
hollywoodiana.
Guardò
ancora una volta il grosso tabellone che stava davanti a lui: Los Angeles. 19:20.
America.
Sognare
l’America era una tradizione radicata nelle persone da secoli
e secoli, fin dal
momento in cui il Nuovo Continente era stato scoperto e le leggende
misteriose
su di esso avevano iniziato a viaggiare per chilometri e chilometri.
L’America
rappresentava quel luogo di rinascita in cui la gente avrebbe potuto
riscattarsi, reinventarsi, ricrearsi completamente per risorgere una
volta per
tutte dalle proprie ceneri. L’America era un sogno lontano,
quasi
irraggiungibile.
E
così, proprio come centinaia di altri uomini, Riccardo e
Matteo avevano deciso
di sognare l’America: si
erano
guardati negli occhi, mentre i cronisti li bombardavano di domande
relative
allo scioglimento dei Mad, e avevano capito di aver il disperato
bisogno
dell’America e di tutto ciò che essa
rappresentava.
Alla
fine avevano mollato, pensò Riccardo sconfortato. Aveva
abbandonato, dopo
alcuni ostacoli, la musica e il suo gruppo, senza farsi troppe domande,
senza
pensarci su due volte: era stata la scelta giusta? Non lo sapeva,
Ricca, e probabilmente
non avrebbe mai saputo rispondere a quel quesito esistenziali; tutto
ciò che il
suo torturato cuore gli stava domandando, ora, era di cercare un nuovo
appiglio
per poter ricominciare.
Il
batterista si strinse nella sua felpa nera, il freddo
dell’aeroporto lo faceva
sentire ancora più insicuro, rendendogli impossibile pensare
a qualcosa che non
fosse gli errori commessi durante la sua carriera come musicista.
«Ragazzi,
credo che sia ora di andare a fare il check-in»
mormorò Anne, la voce bassa di
chi non avrebbe veramente voluto dire ciò che ha appena
pronunciato. Riccardo
si rese conto che doveva essere un dolore immenso quello che Anne stava
provando nel dover lasciare il suo migliore amico.
E
fu allora che Ricca si voltò verso Davide.
Gli
occhi del chitarrista sembravano aver perso ogni traccia di energia:
spenti,
vuoti; gli occhi di chi ha appena conosciuto una delusione immensa, di
chi ha
perso la cosa per cui ha sempre lottato e combattuto. Davi si era
semplicemente
spento, come uno di quei macchinari tecnologici che, con un semplice
pulsante,
puoi disattivare. Da quando aveva dovuto annunciare al pubblico, in
un’intervista riservata a pochi giornalisti, il definitivo
scioglimento dei
Mad, il suo amico sembrava essersi trasformato in un’altra
persona, la quale
non conservava nulla di Davide, se non il ricordo.
Anne,
per fortuna, le stava sempre vicino, senza mai lasciarlo solo,
accudendolo come
si faceva come i bambini piccoli e bisognosi e donandogli tutto
l’affetto che
sembrava bramare. Era diventata, Anne, una madre, un’amica,
un’amante.
Ehi,
Davide, amico mio.
Dove sono finiti i sorrisi solari che
riuscivi a strapparmi anche quando le nuvole riempivano il cielo in
inverno?
Ehi,
Davide, amico mio. Dov’è
finito il tuo riso inconfondibile, quello di un mezzo bambino e per
l’altra
metà un demonio, che sembrava espandersi come una malattia e
indurre tutto
l’universo a ridere?
Dove
sei? Dove sei, dove sei, dove
sei, Davide, amico mio?
Riccardo
avrebbe voluto afferrarlo per le spalle e scuoterlo, sperando di
risvegliarlo
da quello stato di catalessi nel quale sembrava essere caduto. Ma come
poteva
infierire su Davi quando era stato proprio lui
ad ucciderlo? Sì, Riccardo sapeva di essere
colpevole; era consapevole di
essere stato la causa del crepacuore del suo amico perché,
se lui e Matteo non
avessero abbandonato i Mad, ora Davide avrebbe avuto ancora la voglia
di
illuminare il mondo con la sua energia.
Ed
è per questo, amico mio, che
devo partire per sognare l’America.
Si
rendeva conto, ora, che gli addii che su cui aveva sempre fantastico
erano
irreali, dei semplici ghirigori romanzati, dei quadri ben dipinti ma
assolutamente astratti.
Un
addio non stava nel numero di lacrime che venivano versate e nemmeno
significava un abbraccio disperato, no: era di più, molto di
più.
Un
addio era la fine di un ciclo e
l’inizio di una nuova
fase.
Addio
non era semplicemente morte, dolore, sconfitta, perdita, ma anche la
voglia di
tentare di nuovo, riscoperta, rinascita, speranza.
Sì,
perché era proprio speranza quel ronzio che Riccardo
continuava a sentire
dentro il suo corpo: nonostante fosse affogato nella melma, avesse
toccato
l’apice per poi ridiscendere nell’anonimato, il
batterista aveva ancora voglia
di combattere, di riprovare, perché la vita, in fondo, altro
non era che porte
che si sbattevano in faccia e altre che, invece, si aprivano.
E
lui non aveva nessuna intenzione di fermarsi.
Diede
la carta d’identità e il biglietto alla signorina
che, con educazione
esemplare, gli chiese di appoggiare il bagaglio sul tappetino rullante.
Ricca
guardò la sua valigia sparire dietro una fila di strisce in
plastica, pensando
che l’avrebbe ritrovata in un altro continente.
America.
Non
avrebbe mai potuto scoprire se ciò che lui e Matteo stavano
per fare era una
pazzia oppure il giusto cambiamento. Era sicuro, però, che
dovevano di nuovo
imparare a sognare.
E
questo gli bastava, perché Riccardo, Riccardo non si sarebbe
mai arreso.
****
Riccardo
e Matteo è un calcolo
perfetto che dà come risultato Amore.
Era
questo ciò che Matte pensava mentre si avvicinava al Gate
d'imbarco che
avrebbero dovuto prendere per salire sull’aereo. Aveva dovuto
attendere anni
prima di sentirsi finalmente completato, compreso e amato; poi era
arrivato
quel ragazzo strano con i capelli verdi e l’animo tormentato,
che aveva deciso
di impadronirsi del suo cuore senza chiederlo due volte. E ora stava
per andare
a vivere in America con lui.
Verso
il Nulla.
Andare
verso il Nulla era una cosa che Matteo sapeva fare alla perfezione,
quindi non
si preoccupava troppo di cosa lo avrebbe atteso: se fossero rimasti in
Italia i
media avrebbero continuato a rendergli la vita un inferno, tra
interviste e
foto di paparazzi. Anne e Davide si tenevano per mano, uniti come mai
prima
d’allora, in attesa del fatidico saluto che tutti sapevano
sarebbe arrivato.
Matteo aveva cercato di rimandare il più possibile il
momento dell’addio, ma
ora, in fila per imbarcarsi, non poteva più fingere di avere
ancora del tempo a
disposizione.
«Beh,
è ora di salutarsi...» concluse spostando il peso
da una gamba all’altra, le
mani in tasca.
Dio,
Matteo trattieniti. Nessuna
tragedia greca, per favore.
Anne
era stata per più di cinque anni la sua migliore amica, la
sua unica
confidente, la ragazza che lo aveva sostenuto sempre e comunque,
nonostante
tutto il resto del mondo fosse contro di lui, anche quando faceva uno
dei suoi
errori tremendi... Lei era sempre lì, pronta a tendergli una
mano e ad aiutarlo
a rimettersi in piedi. Anne era stata il suo unico punto di
riferimento. E ora
come poteva semplicemente stringerle la mano e mormorarle un
“Arrivederci”?
Prima
ancora che potesse pronunciare una sola parola si ritrovò le
braccia di Anne al
collo, le sue labbra sul suo collo e il suo corpo aderito al suo.
Ehi,
Anne, amica mia. Non ti sto
lasciando, piccola bambina. La nostra storia non ha qua il suo epilogo,
questo
è solo uno di quei climax che devono accadere.
Ehi,
Anne, bambina mia. Sei la
stella polare della mia vita, quando avrò bisogno di un
aiuto chiamerò il tuo
nome e tu correrai, perché è questo che sai fare
meglio.
Ehi,
Anne, mio piccolo amore. Il
mio umile cuore ti chiede perdono, sanguina e piange, spera che tu non
sia
troppo delusa.
Ehi,
Anne, mia dolce bambina. Mia
piccola, piccola, piccola amica.
E,
nonostante si fosse ripromesso di non piangere, Matteo si
abbandonò alle
lacrime non appena sentì la sua migliore amica fare lo
stesso, mentre lo
stringeva forte a sé, quasi a non volerlo lasciare.
C’erano
amicizie che duravano per sempre, nonostante la distanza, nonostante i
litigi,
nonostante le delusioni, nonostante le circostanze: Matteo ed Anne non
si
sarebbe mai divisi, mai, perché i loro cuori sarebbero
sempre stati legati. Per
sempre.
«Devo
andare, piccola Anne...» riuscì a mormorare tra un
singhiozzo e l’altro.
Sciolse quell’abbraccio –
no, Annie, non
mi lasciare – e notò con stupore che
anche Davide e Riccardo si stavano
stringendo con la forza che solo due uomini sapevano usare.
L’amicizia
è una forza
indistruttibile.
«Chiamateci
quando arrivate!» iniziò la cantante, la voce
spezzata e il tono di una mamma
preoccupata «E ricordatevi di installare Skype, voglio
sentirvi almeno una
volta al giorno! E per le vacanze tornate qua! E poi...» non
riuscì a
continuare, perché un nuovo flusso di lacrime le impedirono
di far uscire la
voce. Davide le mise un braccio intorno alle spalle e le
baciò la testa
dolcemente, come si fa con i bambini piccoli. Matteo non osò
avvicinarsi di
nuovo alla ragazza, altrimenti non sarebbe stato più capace
di lasciarla.
«Tranquilla,
Annie. Non spariremo.»
La
ragazza prese a fare segno di andarsene con la mano, mentre nascondeva
il viso
sul petto di Davi, anche lui con gli occhi lucidi ed umidi.
Arrivederci,
Annie, bambina mia.
Tornerò, ma per ora conserva il ricordo dei tempi andati,
tieni stretto il
profumo del nostro ultimo abbraccio. Tornerò, bambina mia.
Ricca
afferrò la mano di Matte e, insieme, passarono il nastro che
li divideva dai
loro amici. Il cuore che palpitava, il moro si fermò a
salutare ancora una
volta la sua Annie, lo stato d’animo a terra. Non pensava che
gli avrebbe fatto
così male separarsi da quella piccola ragazzina selvaggia e
tutto ciò che lei
aveva significato per lui.
«Non
voltarti più, piccolo...» lo consigliò
Riccardo tenero che, a sua volta, stava
soffrendo la perdita di Davide.
Era
sconvolgente come, ogni volta, condividessero le stesse emozioni e si
capissero
alla perfezione, senza il bisogno di fare troppe domande: bastava
guardarsi
negli occhi e ci si poteva rispecchiare nel compagno.
Continuarono
a camminare attraverso il corridoio rialzato che li avrebbe condotti
all’aereo,
le mani intrecciate, i destini in comune, mentre una parte importante
di loro
rimaneva in aeroporto, insieme ai loro amici. Le lacrime continuavano a
rigare
le guance di Matteo, nonostante egli si stesse sforzando di bloccarle,
perché
doveva essere forte, doveva esserlo, dannazione!
«Buongiorno
e benvenuti.» Li accolse gentilmente una hostess in divisa
blu, il sorriso
cordiale stampato sul volto truccato. Matteo non diede il minimo segno
di vita,
Riccardo rispose al sorriso per poi farsi spazio tra le file di sedili
in cerca
del loro posto.
«Eccoli.»
Si
sedettero, Matteo rigorosamente vicino al finestrino, e rimasero in
silenzio,
entrambi persi nei propri pensieri.
Annie,
piccola mia, già mi manchi.
Forse
stavano commettendo l’errore più grande della loro
vita, forse avrebbero dovuto
continuare a suonare con i Mad e lottare per i loro diritti; eppure,
Matte
sentiva che non avrebbero potuto fare in un altro modo: avevano bisogno
di
nuovi orizzonti.
Quando
l’aereo decollò, Matteo sentì di aver
lasciato a terra un pezzo di sé stesso,
un pezzo che non poteva continuare a portarsi dietro, ma che doveva
perdere,
come la paura. E se per trovare ciò che stava cercando fin
da bambino avrebbe
dovuto volare fino in America, allora tutto quello avrebbe avuto un
senso.
«Cosa
ne sarà di noi, Matte?»
Non
aveva una risposta a quella domanda, Matteo.
Ma
per il momento, gli bastava guardare al futuro.
****
Siamo giunti
all’Epilogo di questa
storia.
Davide ad Anne
rimangono a Torino,
quindi, mentre Riccardo e Matteo volano verso un futuro ignoto.
Probabilmente
mi sembrerà ambiguo, ma è stato scritto
appositamente in questo modo, perché
volevo lasciare lo spazio per immaginarsi cosa sarebbe successo dopo.
Ora passiamo ai
ringraziamenti (ne ho
davvero molti da fare).
Voglio
ringraziare di cuore la mia
amica Vì (grandiosa autrice su efp: Lavisvampita)
che mi ha corretto ogni singolo capitolo di questa storia, aiutandomi e
sostenendomi. Grazie. <3
Ringrazio anche Aniasolary, Postergirl e Miliko
Akiko Chan che hanno letto tutti i capitoli, seguendomi e
sostenendomi
anche quando quasi nessuno leggeva!
Ed infine,
grazie a chiunque abbia
letto questa storia, l’abbia recensita o inserita tra le
Scelte, le Ricordate o
le Preferite.
Spero che questa
storia vi abbia
coinvolti almeno un po’ e vi abbia aiutati a sognare.
Un caloroso
abbraccio,
la vostra Eryca.
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