Liaisons dangereuses di Neal C_ (/viewuser.php?uid=101488)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First ***
Capitolo 2: *** Second ***
Capitolo 3: *** Third ***
Capitolo 4: *** Fourth ***
Capitolo 1 *** First ***
Liaisons dangereuses
Quel giorno il cancelletto era malchiuso, semplicemente
accostato, il martelletto della chiusura penzolava nel vuoto e la sua
catenella ogni tanto sussultava quando un leggero colpo di vento si
faceva sentire.
Mi sono sempre chiesto come, nella periferia di Londra, a migliaia di
chilometri dal mare, in piena campagna, anzi per essere più
precisi, in uno di quei quartieri residenziali per ricchi benestanti,
potesse soffiare il vento. Da dove vengo io, nello Yorkshire, non
c’è un alito.
Un altro segno di stranezza era la cassetta della posta, che straripava
di lettere.
Helena non è certo quel tipo di persona che lascia marcire
la corrispondenza in quella scatola di latta con la sciatteria di certe
donne in carriera, super impegnate, certi fuoriclasse che non possono
spendere neppure un minuto del loro prezioso tempo per la cura della
casa.
No, non era da lei. Doveva essere successo qualcosa che
l’aveva distratta, che aveva sconvolto i suoi programmi, la
sua prima giornata di ferie dopo più di sei mesi di intenso
lavoro.
Con la chiave alla mano, percorsi il selciato fino alla porta di casa,
fiero di poter ammirare il giardino che io stesso avevo rimesso a posto
senza dover ricorrere al giardiniere che puntualmente veniva una volta
al mese a dare una sistemata.
Era una tradizione consolidata, risaliva al tempo in cui Helena ed io
ancora non ci conoscevamo.
In un anno che abbiamo convissuto non ho mai osato dire la mia ma
guardavo spesso, con malinconia, l’erba tosata al millimetro
come fosse una crudeltà.
Ho sempre amato il prato all’inglese*, un prato un
po’ più selvaggio e campagnolo e vedendolo ridotto
ad uno zerbino mi metteva tristezza.
Non ci misi molto a capire il perché di tutte quelle
novità: in soggiorno trovai una giacca di pelle nera buttata
sul bracciolo di un divano, un bicchiere di acqua prosciugato,
abbandonato sul tavolino, un pacchetto di sigarette Wiston rosse a
fargli compagnia, mezzo vuoto e senza accendino.
Dalla cucina delle voci, una bassa e pacata, l’altra acuta,
nasale e concitata, si sovrapponevano e si accavallavano, ogni tanto
quella più bassa, femminile e terribilmente paziente taceva
e ascoltava i passi pesanti dell’interlocutore sul
piastrellato.
“Cody si è accorto che qualcosa è
cambiato, che mamma e papà non si amano più, che
non siamo più una famiglia…”
“Helena, Cody è mio figlio! Certo che siamo una
famiglia!”
”Ascoltami, non voglio dire che tu non sia suo padre. Voglio
solo farti capire che ormai siamo una famiglia… diversa.
Più ampia.
Non so come devo dirtelo, Brian, ma vorrei che Cody sapesse che
può contare anche su Andrew quando ne ha bisogno!
Così come può contare su
Rebecca…”
Ci fu un attimo di silenzio e poi uno sbuffo da parte di lui. Per un
momento mi sentii un intruso e mi chiesi se dovevo ascoltare di
nascosto e poi, a discussione finita, fingere di essere appena tornato,
ignaro di ogni cosa, o se dovevo intervenire e fare la mia parte.
In fondo quella discussione mi riguardava personalmente, o meglio
riguardava il mio ruolo nella famiglia della mia donna.
“Lasciamo Rebecca fuori da questa storia, per
piacere” replicò aspro, Brian.
Mi avvicinai alla porta della cucina socchiusa e intravidi
l’ex marito della mia donna accendersi una sigaretta con
gesti bruschi e nervosi, scuotendo l’accendino più
volte perché quello si decidesse ad accendere.
Vidi Helena sospirare profondamente e rispondere con un filo di voce,
rassegnata:
“Certo, Brian.”
“Ma perché questa settimana?! Perché la
settimana che io avevo prenotato una vacanza per me e per Cody?!
Perché, con trecentosessantacinque giorni l’anno,
avete scelto proprio quei fottuti sette giorni, cristo
santo!”
“Perché la settimana prossima abbiamo preso le
ferie sia io che Andrew e Cody non ha scuola.
Non vogliamo rimandare ancora e non so quando tu sarai ancora
disponibile con il nuovo tour e tutto il resto.”
Helena aveva appena finito di parlare quando feci il mio ingresso in
cucina.
Non potevo origliare ancora o forse volevo semplicemente chiarire la
situazione.
“Buongiorno amore” mi avvicinai per
schioccarle un veloce bacio sulla guancia, mentre quella, dopo un
momento di iniziale sorpresa mi sorrideva, rilassata.
“Brian” gli feci un cenno di saluto,
appoggiando su una sedia la borsa da lavoro e togliendomi la giacca
nera di quel completo che faceva tanto uomo d’affari.
“Andrew” ricambiò lui, secco,
mentre si avvicinava al tavolo e lasciava cadere la cenere della
sigaretta nella tazzina da caffè ancora incrostata.
“Amore è rimasto del caffè, te lo
riscaldo?”
“No grazie. Piuttosto… a cosa si deve questa
riunione di famiglia?” scherzai osservando la
reazione di Brian che sbuffò, scrollando le spalle,
risentito.
“Sei profetico; neanche a farlo apposta stavamo parlando di
questo.” Ritorse Molko sputando una nuvola di fumo
che mi fece arricciare il naso.
Forse lo fece apposta. Di certo sapeva che odio il fumo e solitamente
impedisco a chi mi sta intorno di appestare l’aria, fosse
anche una semplice “innocua” sigaretta.
Ad ogni modo mi limitai ad allontanarmi da lui, verso la finestra e,
senza neppure chiedere, spalancai le ante perché
entrasse un po’ d’aria pulita.
“Andy, ti ricordi quando parlavamo di portare Cody sulla
neve?”
“Ah si, che idea carina.”
“Verrebbero anche Brian e Rebecca. Così magari
Cody potrà… abituarsi a tutti
noi.”
Accolsi la notizia con un sorriso poco entusiasta e
un’inquietudine inspiegabile.
Avevo la strana sensazione che sarebbe stato un esperimento disastroso,
che la convivenza civile con Brian Molko non avrebbe mai
funzionato. Il mio sesto senso mi gridava a gran voce di
oppormi all’utopia della famigliola felice che Helena
prospettava.
Sapevo che stava parlando della settimana prossima, mi aveva
già accennato di aver parlato con Alicia e Tim che ci
avrebbero lasciato la casa mentre erano in vacanza alle Bahamas.
Tra l’altro io non ero mai stato sulla neve.
In campagna, dove ho vissuto fino a vent’anni fa, la neve era
un odiato nemico che annunciava drammatici giorni di
inattività, il gelo dei campi e la rovina delle piante da
frutta.
Insomma non avevo mai contemplato la possibilità di andare a
“divertirmi ” sulla neve.
Quando Helena mi aveva accennato la cosa avevo già pensato
che avrei trovato qualche scusa per essere il meno presente possibile e
non trovarmi a dover ammettere che non sapevo sciare.
Mi sentivo un po’ provinciale per questo quasi come se fossi
il topo di campagna della situazione.
“Helena, io non ho mai detto che sarei venuto volentieri,
tanto meno in compagnia di Rebecca.” Aggiunse Brian
con voce annoiata, tornando poi ad aspirare dal cilindro di tabacco che
impugnava fra le dita, con piccoli gesti vezzosi, tremendamente
femminili. Questo devo ammetterlo aldilà del
fastidio del fumo, guardare Brian impugnare una sigaretta era qualcosa
di più unico che raro.
C’era una leggerezza in quel gesto, un’eleganza
subdola, sfacciatamente provocatoria che riusciva a catalizzare
l’attenzione degli spettatori sulle sue piccole mani avorio e
poi sulle sue labbra rosee che lambivano il filtro bianco. Ci
si poteva godere ogni istante, come in uno di quei vecchi film degli
anni trenta, lenti, con attori pacati e austeri pure nel momento
massimo di azione.
Una misura nei movimenti che incantava come se quel gesto fosse stato a
lungo studiato, provato e riprovato davanti ad uno specchio da un
attore consumato.
Ancora una volta mi assalì
quell’inquietudine vaga che non seppi spiegarmene la ragione
con la lucidità che mi contraddistingueva.
“Brian, per favore, è importante per Cody!
È importante per noi. E per me.”
Concluse il diminuendo Helena, enfatizzando con un piccolo gesto, il
pugno della destra stretto, le fragili dita avvolte l’una
sull’altra per scaricare la tensione e frenare
l’esasperazione.
“Ho detto che voglio Rebecca fuori da questa
storia…”
Poi improvvisamente chiesi, con un sospiro comprensivo che sfoderavo
solo nei momenti più inopportuni. In quei momenti se mi
fossi guardato allo specchio probabilmente mi sarei preso a schiaffi da
solo.
“Chi è Rebecca?”
Brian per poco non sgranò gli occhi ma mi riservò
solo un piccolo guizzo di sorpresa prima di lasciarsi andare in una
risata ironica che mi punse sul vivo.
Era ragionevole che io non sapessi niente di questa Rebecca, sarebbe
stato ragionevole che Brian, con la pazienza e
l’amabilità che lo contraddistingueva nei momenti
in cui era di buon umore, mi spiegasse tranquillamente di chi stavamo
parlando. Non potevo certo conoscere tutte le frequentazioni di Brian,
una rockstar che vedeva più facce in un’ora di
quante ne vedessi io in una giornata. Ma allora, se avevo ragione,
perché ero arrossito come un peperone e mi vergognavo come
un ladro?
“è la sua compagna.”
Spiegò brevemente Helena con voce sommessa ignorando
totalmente il suo ex compagno.
Brian la sentì lo stesso e affondò la cicca mezza
spenta nella tazzina di caffè, lasciandola a mollo in quel
residuo di polvere e acqua scura.
“Non è la mia compagna.”
Mi parve un’osservazione stupida. Se non era la sua compagna
allora chi era? Da quando aveva paura di chiamare le cose con
il loro nome?
Questo non era da Brian. O forse era un Brian molto diverso
da come l’avevo conosciuto.
In realtà, sarà stata al massimo la sesta volta
in un anno che condividevo il mio spazio vitale con lui più
a lungo dei cinque minuti canonici, buoni per i convenevoli e due
saluti.
Forse stavo semplicemente scoprendo chi c’era dietro quel
sorriso impeccabile e quella voce nasale e dolciastra sempre
cerimoniosa.
“E quindi chi è?” chiesi ancor
più stupidamente. Volevo a tutti i costi provocare
in lui una reazione, capire anche solo un attimo come ragionava. Ero
curioso come un ragazzino che esplora un insetto, osservandolo
affascinato oltre la spessa superficie del vetro del barattolo sotto
cui lo tenevo prigioniero.
“è la mia scopata”
ribattè lui e prese a studiarmi come se si aspettasse che io
mi ritraessi scandalizzato come una donnetta puritana.
Helena intervenne in quel confronto per sottrarmi ai suoi occhi
indagatori.
Era incredibile come Helena riuscisse ad attrarre immediatamente
l’attenzione di Brian.
Come se lui non potesse ignorarla, come se le riconoscesse una qualche
autorità.
Non che lei potesse zittirlo ma sicuramente poteva osare interromperlo
senza ricevere un’occhiata derisoria. Credo non volesse
essere severa o bacchettona, eppure le sue parole mi suonarono come una
predica:
“ Ed è così che la
presenterai a tuo figlio?”
“Oh no, per lui lei sarà la mia
‘amichetta’ ” le
rispose a tono, con un cinguettio che sapeva tanto di presa in giro e
che, non so perché, le strappò un sorriso. Non me
ne capacitavo.
Cosa c’era da sorridere? Se era uno scherzo era di
cattivo gusto!
“Ma il problema non si pone dal momento che non ho intenzione
di portare Rebecca con me.
Penso che inviterò Stef e Dave”
commentò sovrappensiero lanciando occhiate smaniose al
tavolo, al bancone della cucina e infine ad ogni superficie piana ,
chiaramente alla ricerca di qualcosa.
“Ma non doveva essere una riunione di famiglia?
Cosa diamine c’entra… Stefan? ”
Sapevo davvero poco di Stefan. Non conoscevo nemmeno il cognome.
Sapevo a stento della sua esistenza da quando aveva telefonato, un
giorno, per parlare con Helena, non so di che. Ricordo che questo
episodio mi aveva ingelosito e avevo preteso di sapere almeno chi
fosse, cosa facesse, se fosse un amico di famiglia e simili.
Ad ogni modo non vedevo alcuna connessione fra lui e la nostra
settimana da famigliola felice.
Per non parlare di quell’altro, Dave , che non avevo mai
sentito nominare.
“Stef è quanto di più vicino ci sia ad
una famiglia per me.” Concesse Brian,
pensoso, poi commentò, irritante come
sempre “altrimenti sentiti pure
in diritto di invitare chi vuoi”
In quel momento trillò il suo telefono in salotto, cosa che
lo costrinse ad allontanarsi pigramente dal tavolo della cucina a cui
si appoggiava con i gomiti, uscendo dal nostro campo visivo.
Dopo qualche minuto di silenzio fra me ed Helena Brian
annunciò ad alta voce che andava a prendere Cody a casa del
suo amichetto.
Poi, dopo il fruscio di una giacca, lo stridore della porta che si
apriva e si chiudeva con un tonfo, pensai che ancora una volta questa
decisione era rimandata al giorno dopo.
Non avremmo rivisto Brian prima di allora.
*******************
Riposi i vestiti da lavoro ben ripiegati su di una sedia, in camera, e
decisi di farmi una bella doccia calda.
A Londra, di questi tempi, tirava ancora aria invernale,
benché ci si aspettava che sarebbe giunta la primavera, a
fine marzo.
In più io sono un tipo freddoloso che non disdegna quasi mai
una bevanda o un bagno caldo.
Tra me e me pregustavo già una serata con Helena tutta per
me.
Mi sentivo in vena di romanticherie, volevo stringerla e sussurrarle
parole dolci , accarezzandole una guancia morbida e rosea con la mia
solita premura.
Lasciai la manopola dell’acqua aperta finché la
vasca non fu riempita e ci versai dentro bagnoschiuma e sali
marini da bagno.
Mi spogliai completamente e mi infila nella vasca abbandonandomi con un
brivido alla carezza tiepida dell’acqua schiumosa.
Prima di andare a vivere a Londra anche quest’usanza mi era
sconosciuta.
Oggi mi chiedo come abbia potuto vivere senza.
Chiusi gli occhi per un attimo e poco dopo mi parve di avvertire lo
sgradevole odore di un bastoncino di incenso che fumava lavanda.
Mi risollevai a malincuore mentre le acque intorno a me si agitavano e
vidi entrare lei avvolta in un asciugamano, i capelli sulle spalle,
sciolti dallo chignon in cui spesso erano costretti e con un lamento
attirai la sua attenzione:
“Helen! Cos’è questa puzza?”
Lei mi osservò mentre io tornavo ad adagiarmi sulla
superficie concava della vasca e mormorò in tono burbero,
con un mezzo sorriso:
“Credo che ci sia un conflitto di interessi in
atto.”
Sbuffai, strofinando il naso con due dita e poi chiesi speranzoso, e
perché no, con una punta di
malizia: “Perché non
mi raggiungi qui?”
Lei fece finta di pensarci, sedendosi accanto a me, sull’orlo
della vasca;
mi sussurrò qualcosa nell’orecchio, con dolcezza
come il fruscio indiscreto del vento che sibila negli orecchi, quasi
subdolo.
Io mi protesi in avanti per incontrare le sue labbra carnose, un
fiorente bocciolo che si schiudeva sotto i colpetti gentili della mia
lingua che saettava cercando la sua avidamente.
“Aspetta…” appoggiò
entrambe le mani sulle mie spalle, allontanando il viso dal mio.
Non riuscii a reprimere un mugolio contrariato e accavallai le gambe,
rigido, strofinandomi contro la vasca da bagno.
“… fammi spegnere l’incenso. O forse ti
sei abituato al fumo?” si prese
gioco di me lei lanciando un’occhiata divertita
alle mie gambe che si intrecciavano fra loro.
Era bastato poco e già fremevo mentre il mio corpo si
risvegliava e un calore bruciante risaliva dal basso ventre.
Quel colloquio con Brian mi aveva stancato, era stato
l’ennesimo impiccio di una giornata di lavoro che si
trascinava lentamente dalle otto di questa mattina.
Sospirai, cercando di calmare i bollenti spiriti e frenare la
voluttà e l’istinto di toccarmi.
Quella stanchezza era cosa ben diversa dalla spossatezza che ti fiacca
nell’animo e nello spirito.
Ero improvvisamente stanco di aspettare, quando avevo sperato a lungo
in questo momento, fra una telefonata, un incontro di lavoro,
un telegramma da New York, un pranzo d’affari e tante carte
da firmare.
Affondai la testa nell’acqua e accarezzai la manopola
dell’acqua fredda meditando di abbassare la temperatura
corporea che era rapidamente salita mentre nella mia mente si
affollavano fantasie e immagini di lei.
Non osai raffreddare troppo l’acqua della vasca, temevo che
l’avrebbe fatta rabbrividire e quasi non mi accorsi di quanto
rapidamente ella fosse scivolata fuori dall’asciugamano,
lasciandolo ripiegato e in ordine sul ripiano di marmo del lavandino,
di fianco alla vasca.
Me la ritrovai in grembo, fra le gambe, con i capelli umidi appoggiati
sul mio petto mentre accarezzava qualche pelo ribelle che stava
ricrescendo dopo la cera.
“Domani vado dall’estetista, prenoto anche per
te?”
Sentii solo l’eco di quella domanda che mi
rimbalzò in testa solo per un attimo: sentivo il peso delle
sue curve sulla mia pancia e sulle mie cosce, sentivo la sua pelle
bagnata strusciare contro la mia virilità, messa
sull’attenti.
Presi a baciarle il collo, sforzandomi di farlo il più
dolcemente possibile.
Sono un cavaliere a letto. Cerco di contenermi e mi controllo fino alla
paranoia, voglio che niente vada storto.
Ma mentre cercavo di girarla, stuzzicandole la base del collo con la
lingua e facendo pressione sul suo fianco perché accettasse di
soccombere al mio peso e invertire le posizioni, lei sembrava prendere le
distanze appiattendosi contro la fredda ceramica della vasca, dandomi
sollievo e lasciandomi profondamente insoddisfatto.
“Cosa ne pensi di Brian?”
Brontolai, ferito, mentre prendevo fiato, respirando pesantemente come
un bagnante che è scampato
all’affogamento. Non potevo credere che stesse
menzionando Brian - o anche semplicemente che ci stesse pensando!
– in questo momento.
Mentre le baciavo il collo, mentre mi scioglievo sentendola fra le mie
gambe, mentre volevo solo seppellirla sotto di me e farla mia, contando
ogni singolo gemito che si sarebbe lasciata sfuggire la sua bocca,
paffuta e rosea come una tenera guancia infantile, mentre io vivevo tutto
questo, lei pensava a Brian.
“Non ci penso. Perché dovrei pensare a Brian
mentre faccio sesso con te?” ribattei, brusco.
Non avrei dovuto mostrarmi così seccato. Adesso
avrebbe pensato…
“Sei geloso?”
Ecco appunto. Non riescii nemmeno a smentirla.
Come potevo dirle che quell’uomo mi metteva una strana
soggezione? Che mi infastidiva la sua continua presenza?
Era terribilmente invadente e onnipresente in ogni gesto di
Cody, in ogni richiamo di Helena, era una presenza implicita
che sembrava permeare quella casa come uno spettro maligno.
“Senti, Helena, perché non ci
trasferiamo?”
“Che cosa?”
“Voglio comprare una casa mia.”
Vidi che mi guardava perplessa. Non capiva. Come avrebbe potuto?
In fondo non era lei la seconda scelta. Non era lei
il “nuovo” compagno. Lei per me è la
prima, metaforicamente parlando – si capisce
– .
Le ho dedicato tutto me stesso, per me non esiste nessun altra.
E so che anche per lei sarebbe lo stesso se non fosse per la presenza
di lui che rovina sempre tutto.
Lei mi ama, con tutta sé stessa, ma non riesco a sentirmi
l’unico e il solo. Sono l’eterno secondo.
“Cos’ha che non va questa? È casa
mia.”
“Non è casa tua.”
“Cosa?”
“Non è solo casa tua. E casa vostra.”
“Vostra?”
“Di te e lui”
era turbata. Potevo vedere le sue sottili, scure sopracciglia
inarcarsi, le linee del viso che si avvallavano con quella sua adorabile
fossetta che le deturpa il mento,era buffa e
straordinariamente bella, persino mentre mi guardava con una profonda
inquietudine negli occhi.
“Andrew, per piacere, piantala di dire sciocchezze.
Io e Brian ci siamo lasciati da più di un anno e non hai
nessun motivo per pensare che questa casa sia più sua di
quanto non sia tua.”
Non è vero. Lo sapeva e non lo voleva ammettere. O forse
semplicemente non lo voleva vedere.
Feci cadere il discorso. Non avevo voglia di litigare ma mi era
anche passata la voglia di fare sesso.
In realtà non avevo voglia di niente ed era abbastanza
triste che una cosa del genere potesse deprimere i miei appetiti sessuali
con grande facilità.
Mi strinsi a lei e poi mi distaccai accarezzandole per un attimo il
volto distante; non mi prestava attenzione, aveva lo sguardo fisso sul muro,
sulle piastrelle avorio del bagno o forse sul pannello di legno dove
sono riposte le mille bottigliette magiche, shampoo, balsamo,
bagnoschiuma, crema idratante, sali da bagno, aromi naturali ed effetti
speciali per annaffiare l’acqua di spumose schiume.
Volevo costringerla a guardarmi, seguii la linea del collo e affondai
sempre di più nell’acqua, nelle clavicole
sporgenti, adoro quella cassa toracica così stretta, pizzicai
i seni con malizia, e sentivo i suoi capezzoli rispondere con solerzia al
calore della mia mano.
La palpavo con movimenti circolari e avvolgenti ma lei apparve quasi
infastidita dai miei gesti amorevoli e si ritrasse di nuovo offrendomi il
fianco e la spalla dura su cui appoggia il collo cignesco,
accartocciato contro l’osso mentre il suo sguardo mi trapassò
da parte a parte.
“Volevo sapere cosa ne pensavi di questa settimana di vacanza
con Brian…”
Avevo gli occhi liquidi, la bocca arida in fondo e la saliva che si
raggrumava ai lati, sarebbe colata giù se non fosse stata impedita dalla
lingua e dal muro dei denti, l’acqua mi bolliva intorno e mi
sentii pulsare come un vulcano che sta per esplodere e non ne potevp
più di sentir parlare di Brian.
“Io…” ingoiai la saliva, la mia gola non
era più tanto secca ma la voce che ne uscii continuava
ad essere rauca e raschiosa come la ghiaia
“penso…che sia una buona
idea…”
Non fu soddisfatta della mia risposta, non potetti fare a meno
di giustificarmi:
“non possiamo parlarne…dopo?”
le lanciai uno sguardo significativo.
Scosse la testa. Io infilai giocosamente la mano sotto la sua ascella
pizzicandole i peletti, residuo di una cera di qualche tempo fa che
aveva bisogno di essere ripassata e con le mani sotto le ascelle la
sollevai come si fa con un bambino piccolo, esultando come un
papà giocondo e lei reagii con una risatina divertita che
mi rilassò.
La appoggiai con delicatezza nella pancia della vasca da bagno e calai su
di lei mordicchiandole a turno i capezzoli intirizziti dal freddo che
protestavano per essere stati esposti all’aria esterna.
“Io spero…che con Brian… vada tutto
bene…che a Cody
piacerà…” mormorò con voce
carezzevole e finalmente ansimante Helena mentre la mia lingua scendeva a
tradimento a corteggiare la peluria scura, appena sotto quel
raggrinzito buco che chiamano ombelico.
***************
Note
* Al contrario di ciò che normalmente si pensa, quando si
parla di prato all’inglese non ci si riferisce a quei bei
giardini senza neanche un filo d’erba fuori posto, tipico dei
giardini rinascimentali, ma di un prato un po’ selvaggio, con
l’erba alta, e meno curata, ma più
“esotica”, con piante di diversa provenienza, dai
cactus alle magnolie , e disposizione varia, tutt’altro che
regolare.
Angolo
dell’autrice
Sono tornata con Andrew.
Semplicemente amo il suo punto di vista, mi lascia la
possibilità di raccontare una storia, di intervallarla con
quel tocco di introspezione che guasta sempre (ma che si annida ovunque
e non può essere lasciata fuori da ospite indesiderata
qual’è) e darmi l’occasione di
scrivere dei miei beniamini.
Volevo solo precisare che l'etichetta "AU" non è proprio
esatta.
Il racconto non è assolutamente estraneo al
contesto reale ma diciamo che quest'ultimo è meno "storico"
e specifico del solito.
Un avvertimento: questa storia avrà dei ritmi molto lenti.
Maledico me stessa perché non mi sarei dovuta imbarcare in
un’altra impresa di questo genere quindi preparatevi a
perdonarmi di tutto e di più.
Il titolo è tratto dal romanzo di Chaderlos de laclos -
letteralmente "le relazioni pericolose" - da cui è stato
tratto il film con Michel Pfeiffer e John Malkovic.
Dimenticavo il solito mantra: non li conosco, non loro non conoscono
me, è tutto falsissimo, e sicuramente loro stessi
sconfesserebbero tutto questo se mai capitasse loro di leggere il
racconto (notare il periodo dell'impossibilità
ù.ù)
Neal C.
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Capitolo 2 *** Second ***
“Mamma,
voglio andare in montagna con papà!”
….
“Io
in montagna con papà non ci vengo!”
Cody
fece il suo ingresso rumoroso e piagnucolante nella nostra camera da
letto mentre io ed Helena concordavamo quando e dove andare a
comprare tutto l’occorrente per la settimana bianca.
Helena
parve non sentirlo nemmeno e non si girò mentre il ragazzino
rimaneva sulla porta con le braccia incrociate guardandoci entrambi con
aria di sfida.
Dovetti
attirare io l’attenzione della mia compagna perché
si decidesse a chiedere pazientemente e con condiscendenza il
perché di tutto quel baccano.
“Ho
detto che non voglio andare in montagna con papà!”
“Tesoro,
ma non andrai solo con papà. Verremo anche io, Andrew, lo
zio Stefan e lo zio Dave. Zio Dave porta suo figlio, te lo ricordi Ian?
”
Lo
vidi scuotere il capo confuso ma subito si scurì nuovamente
in viso, risoluto a non cedere.
“…e
poi vengono anche Rebecca e suo figlio Jordan. Te la ricordi
Rebecca?”
Mentre
continuava ad elencare la folla che avrebbe partecipato alla nostra
avventura vacanziera, aggiungeva alla nostra -già
lunga- lista di cose da comprare, le calzamaglie di
lana e le maschere per il casco da sci.
Io
me stavo lì in piedi e annuivo, sbadigliando.
Non
che l’idea di accompagnarla per negozi di sport e di
abbigliamento mi attirasse più di tanto. Più che
altro fremevo al pensiero che lei volesse a tutti costi uscire a
comprarmi una tuta da sci e io non le avevo ancora confessato che non
avevo mai sciato in vita mia e non avrei mai voluto provare.
“Mamma…”
“E
poi forse ci saranno i figli di Caroline…”
“Mamma!”
“Amore?”
“Chi
è Rebecca?”
Per
un attimo i nostri sguardi si incrociarono. Mi chiedevo Helena cosa
avrebbe risposto a quella domanda, per così dire, scottante.
La
vidi fermarsi e appoggiare il foglietto svolazzante che aveva in mano
sul letto, come se potesse ingombrarle le mani e sorridere dolce e
rassicurante come solo Helena sa fare.
“è
una cara amica di papà.”
“Anche
lei è una troia?”
Il
gelo.
Credetti
di non aver sentito bene nonostante la vocetta squillante di Cody.
La
mia donna se ne stava lì, con gli occhi sbarrati, in
un’espressione ammutolita e allo stesso tempo scandalizzata
mentre il ragazzino accennava un sorriso, trionfante, ora che aveva la
completa attenzione di tutta la sala.
Persino
le colonne di maglioni di lana, pile e camicie di flanella sembravano
dondolare pericolosamente in avanti verso la figurina gelida di Helena;
o forse semplicemente avrei dovuto fare una seconda selezione
altrimenti invece che quattro trolley ne sarebbero usciti
fuori anche dodici, materiale da sci escluso.
Mi
dissi che non dovevo intervenire; era una cosa fra Cody e sua
madre, assolutamente.
“Cody,
cosa vuoi dire? Io e Andrew non abbiamo capito
bene…”
Il
tono voleva essere minaccioso ma non sortì grande effetto.
Il
figlio non sembrò né pentito né
vagamente consapevole della volgarità che gli era appena
uscita da bocca.
Anzi,
più strafottente che mai, mi gettò
un’occhiataccia come se fossi io il principale colpevole dei
suoi problemi. Non volevo essere immischiato in questa storia!
“Quello
che ho detto ma’. Io in vacanza con quella troia non ci
vado.”
“Cosa
ti fa pensare che sia una troia?”
argomentai
pacatamente. Non che fossi d’accordo con lui beninteso, ma
era ragionevole che ci rivelasse cosa gli frullava nel cervello, dove
aveva sentito quelle cose e perché le pensava.
“Andrew!”
mi attirai un’occhiata furibonda di Helena ma almeno
guadagnai la considerazione di Cody che si fece serio in viso,
stringendo le labbra in una smorfia e spostando lo sguardo da
sua madre a me.
In
quei momenti aveva un’aria molto adulta, terribilmente seria,
un portamento eretto e quasi regale nonostante il suo fisico sottile e
magro promettesse un’altezza decisamente sotto la media
– d’altra parte anche il corredo genetico parlava
chiaro-.
E
poi c’erano quegli intensi occhi nocciola, gli stessi occhi
di lei, ma erano due pozzi in cui si poteva affogare e non riemergere.
Non era certo lo sguardo tenero, calmo e riflessivo di Helena che avevo
davanti. Anzi, era piuttosto inquieto e inquietante allo stesso tempo,
misterioso con un sapore beffardo e malizioso come un bambino di undici
anni non dovrebbe essere.
“Non
sta con mio padre solo per i suoi soldi?”
accusò il ragazzino ma se avesse avuto ragione o torto non
avrei potuto confermarlo o smentirlo. Semplicemente non lo sapevo.
“Cody…”
vidi Helena che gli si avvicinava minacciosa ma Cody era troppo
concentrato su di me per badare a ciò che succedeva al suo
fianco.
Si
era fatto avanti stringendo il pugnetto in un atto ostile e ciabattando
con le sue pantofole di pelo sul parquet di camera nostra.
Avevo
sempre apprezzato il fatto che Helena non avesse voluto rivestire tutti
i pavimenti della casa con la terribile moquette blu scuro che invece
troneggia nella cosiddetta “stanza del bambino”
; poi avevo scoperto che era stato Brian a proporlo, diceva
che la moquette gli ricordava troppo quelle enormi stanze
d’albergo in cui era costretto a dormire per almeno tre mesi
l’anno – in media - .
In
quel momento –irragionevolmente - ricordo che lo avevo
apprezzato un po’ meno.
“E
mio padre poi… quello che ha fatto lo ha fatto tutto per
soldi… anche lui era una put- ” lo vidi arrivare
fulmineo e rumoroso ma non suonò violento.
Fu
solo umiliante come un qualunque schiaffo che schiocca sulle guance e
arrossa la pelle.
Gli
occhi del piccolo persero tutta la loro baldanza, rimasero
lì liquidi e smarriti, come quelli dei un cucciolo
ferito nell’orgoglio mentre Helena gli gridava che non si
azzardasse neanche a pensare una cosa del genere.
Se
ne filò via, dritto in camera, con la promessa di una bella
punizione che lo avrebbe tenuto in casa questi ultimi due giorni di
vacanza prima di partire.
Sapevo
che Helena si sarebbe ammorbidita in qualche ora, d’altra
parte rinchiudere un figlio in casa non ha mai ottenuto altro risultato
se non quello di farsi odiare profondamente. Specie quando si tratta di
un bambino di undici anni che vorrebbe giocare con i suoi amichetti ai
giardini, a pallone o in bicicletta, o pattinare sul ghiaccio al centro
di Hyde Park.
Tornai
a concentrarmi sui pantaloni di maglina che Helena aveva cacciato fuori
da chissà quale eccentrico guardaroba invernale degli anni
Novanta quando lei colpì rapida, stampandomi sulla guancia
tre delle sue cinque dita.
“Come
diavolo ti è venuto in mente di incoraggiarlo?! Ripetere le
stesse parole che ha usato lui per… Oh Dio!”
Il
braccio di Helena si abbatté rabbiosamente sul copriletto
del matrimoniale e le colonne di vestiti, camicie e magliette
crollarono miseramente, in parte sul pavimento, in parte sul cumolo di
biancheria da uomo –la mia – che era stata disposta
proprio lì accanto.
Mi
massaggiai la guancia sbattendo le palpebre, semi sconvolto e tentati
– inutilmente- di replicare:
“Helen…”
“Non
so cosa ti sia saltato in mente prima ma per piacere sparisci. Va a
fare la spesa, prepara la cena, fai qualcosa ma fallo lontano da qui. E
domani vieni con me a comprare la tuta da sci. FUORI! ”
************
“Non
ho parole! Semplicemente non so cosa pensare…”
“Hai
ragione. Ti sta davvero un incanto.”
“è
stato così…”
“insolito
ma elegante”
“spaventoso!”
“mostruosamente
bello!”
“STEFAN
OLSDAL, METTI GIU QUELLA ROBA!”
Lo
svedese appoggiò il vestito di lana grossa color panna a
collo alto che sventolava davanti allo specchio cercando di provarlo
sulla figura longilinea e sconvolta di Helena che passava in rassegna
una decina di guanti da sci di colori diversi.
“Punto
primo, siamo qui solo per la collezione da neve e poi non ho bisogno
di un altro stupido vestito.”
Lei
lanciò un’occhiata di disapprovazione alla pila di
maglioni che lui aveva ammassato, tutti con disegni equivoci
–abeti di natale, fiocchi di neve, renne e cappelli di babbo
natale decisamente fuori stagione - , un paio di felpe grigio e verde
di stampa militare che lo facevano assomigliare ad un marines, e due
sciarpe di lanona grossa color senape e magenta. Non poteva credere di
aver chiesto a Stefan di accompagnarla a comprare le ultime cose per la
montagna.
Anzi,
se il bassista non l’avesse chiamata in mattinata chiedendole
qualche indirizzo utile per rifornire il suo guardaroba montanaro forse
non lo avrebbe nemmeno invitato.
Doveva
assolutamente sbollire in qualche modo la rabbia e soprattutto aveva
bisogno di un consiglio. Essendo il migliore amico del suo
ex-compagno sembrava assolutamente la persona adatta per darle qualche
consiglio.
D’altra
parte Brian non era a casa sua né da Stefan e il cellulare
era staccato –e lei non aveva nessuna intenzione di chiamare
a casa di Rebecca-.
“Cosa
vuoi che ti dica, Lena?”
Era
solo Stefan a chiamarla così ormai.
Lo
aveva fatto Brian per un brevissimo periodo, forse quei sei mesi che
lei era ufficialmente incinta e in quanto tale andava coccolata e
strapazzata fino alla nausea. Almeno quando erano a casa,
oppure ogni volta che si sentivano a telefono, per chiamate
brevi e frequenti. Era stato l’unico periodo della sua vita
che aveva sentito Brian più di una volta al giorno.
“Dove
le ha sentite quelle cose?”
“Andiamo,
non essere ingenua. Tuo figlio ha undici anni, ha degli amici,
è più che normale che ogni tanto ripeta qualche
parolaccia.”
E
lo svedese liquidò la questione passando in rassegna i
guanti che erano sopravvissuti alla selezione di Helena.
Alle
loro spalle una commessa borbottava con la sua collega indicando lo
spilungone biondo, ridacchiavano e si gingillavano sospingendosi a
vicenda.
Erano
quanto mai irritati agli occhi di Helena mentre due o tre clienti si
aggiravano disperate per le sale del grande magazzino in cerca della
taglia o del colore giusto.
Tentò
di ignorarle afferrando Stefan per la giacca e trascinandolo verso il
reparto delle calzamaglie. Ma quelle non accennavano a smettere e non
si degnavano di fingere disinteresse.
“Capisco
che mio figlio ogni tanto possa dire
‘cazzo’ in un’esclamazione spontanea,
oppure che magari quando litighiamo possa scappagli un
‘vaffanculo’ . In quel caso saprei che è
semplicemente una cattiva influenza. ”
“Ne
parli come se te lo augurassi” ridacchiò
Stefan, andando ad afferrare le calze da neve più vistose in
mezzo a quelle esposte.
“…ma
nel momento in cui insulta Rebecca e poi suo padre cosa dovrei
pensare?!”
“Che
non ha torto. In nessuno dei due casi” Replicò
ironico concedendole un sorrisetto rilassato che fece sperare le
commesse pettegole.
“Stefan!”
lei gli sferrò una gomitata sul polso e lui di tutta
risposta le arrotolò in vita una sciarpa lunga a
maglia per poi tirarla contro di sé giocondo,
cingendole i fianchi con le lunghe braccia nervose.
Helena
resistette per un po’ e infine si lasciò
abbracciare appoggiando il capo sul suo petto –o sulla sua
pancia? Nonostante i tacchi di Helena c’erano ben quindici
centimetri di distanza fra gli occhi di lui e di lei- con un sospiro
desolato e si lasciò persino accarezzare una guancia con
affetto.
Poi
Stefan si chinò su di lei sussurrandole
nell’orecchio con fare cospiratore:
“quelle
due continuano a seguirci?”
“lo
sai che seguono te vero?” ribattè lei imbronciata.
“Si…ma
non penso che mi abbiano riconosciuto. Altrimenti mi avrebbero chiesto
subito un autografo.”
“Già,
chissà che vogliono.” Rispose lei ironica
indicandole con un cenno del capo.
“Che
vogliono?”
“Portarti
a letto”
“Ma
come pensi male!” esclamò
–fintamente- scandalizzato Stefan mentre la donna
scioglieva l’abbraccio, scrollandoselo di dosso burbera e
calpestando la sciarpa che era scivolata a terra .
“Come
pensi di scollartele di dosso?” domandò Helena a
voce abbastanza alta perché tutto il reparto, camerini
inclusi fosse messo al corrente della cosa.
Afferrò
cinque paia di guanti, sei calzamaglie, tre fasce da neve, un paio di
passamontagna e un cappellino con un pon pon arancio dirigendosi alla
cassa.
“Spiacente,
sono gay” annunciò altrettanto platealmente Stefan
con le mani a mo’ di megafono per poi seguirla ciondolando e
sogghignando fra sé e sé.
***********
Cody non riemergeva da camera sua.
Erano
passate almeno un paio d’ore da quando Helena si era
precipitata fuori di casa furibonda, sventolando in aria le chiavi
della macchina, e promettendo di investire qualunque cosa le si parasse
davanti.
L’acqua
bolliva, era tempo di calare la pasta ma nessuno era pronto per il
pranzo.
In
più lei non rispondeva al cellulare né aveva
avvertito che non sarebbe tornata a pranzo, decisamente non era da lei.
Lasciai
l’acqua ribollire sotto il coperchio e salii al secondo
piano, deciso a scoprire che ne era stato di quella piccola peste.
Già
sulle scale si sentiva un gran fracasso provenire da camera sua, uno
stereo assordante scoraggiava i visitatori ma la porta della sua camera
non era sbarrata come pensavo.
Bussai
e attesi stupidamente almeno cinque minuti lì fuori.
Quando
realizzai che non avrebbe mai potuto sentirmi mi congratulai con me
stesso per la mia idiozia e spalancai la porta con un moto di stizza.
Cody
era buttato sul suo lettone ad una piazza e mezzo, le lenzuola mezze
disfatte mentre dall’altro lato della stanza, dal mobile
televisione una musica assordante rimbombava nella stanza e fuori alla
finestra spalancata.
La
stanza era gelida e c’era una corrente tremenda.
Ma
cosa diavolo si era messo in testa quel moccioso?
Lui
continuò ad ignorarmi, raggomitolato sotto una copertona di
pile, avvolto in una delle felpone lunghissime che tanto si usavano fra
i suoi amici.
Aveva
in mano un joystick e osservava come ipnotizzato lo schermo della Tv
dove si susseguivano immagini di creature sanguinolente, uomini o
zombie , fotogrammi che cambiavano a velocità record sotto i
suoi piccoli e misurati gesti, e contemporaneamente si susseguivano dei
clic fastidiosi che dopo neanche cinque minuti promettevano
un’emicrania garantita.
Fortunatamente
dallo stereo si diffuse una litania cadenzata, una di quelle ballate
strappalacrime sull’ingiustizia dell’amore non
corrisposto, tutta acustica e ogni tanto qualche aggiunta elettrica che
però tutto sommato non assordavano più di tanto,
anzi erano quasi piacevoli.
Mentre
mi precipitavo a chiudere la finestra, inciampai nelle bretelle del suo
zaino e mi dovetti appoggiare alla scrivania per non cadere lungo
disteso.
Sul
pavimento era l’anarchia: fogli, quaderni, libri
sparsi, un portapenne con i pastelli disseminati intorno alle rotelle
della sedia, c’erano un paio di camicie che pendevano dalla
scrivania, tre paia di jeans diversi ammonticchiati sulla
comoda poltroncina che faceva da spola fra la scrivania e il
televisore, una colonna di CD che si era riversata tutta sotto la
poltroncina e nell’angolo, nascosto a chiunque si affacciasse
dalla porta, c’era un vero e proprio laboratorio del caos.
Fogli
di giornale sparsi per terra proteggevano la moquette dalla pittura che
colava dai bordi di cinque barattoli di acrilico dai colori arcobaleno.
Seguivano tre quattro pennelli grossi, un rullo impiastricciato di
verde limone e infine un catino d’acqua dal colore indefinito
in cui galleggiavano dei panni un tempo bianchi.
Dov’ero
io mentre questo ragazzino trasformava camera sua in una
tintoria-laboratorio da imbianchino?
Ma
La mia priorità, in quel momento, era la finestra.
Nel
chiuderla, mi misi davanti allo schermo cosa che infastidì
parecchio Cody che si sporgeva a sinistra e a destra per non perdere la
partita.
Lo
sentii sbottare un “e levati!” e solo quando mi
sedetti sulla poltrona quello si acquietò, tornando ad
osservare assorto una marea di bestie che assalivano il suo personaggio
sfortunatamente in fin di vita dopo il mio maldestro intervento.
Al
comparire della scritta GAME OVER a caratteri cubitali, Cody mi
fulminò lasciando cadere sul materasso il joystick con uno
sbuffo irritato.
Ne
approfittai per sporgermi verso lo schermo e spegnere, sicuro che
avrebbe protestato ferocemente.
Ma
lui si limitò a dare un calcio a quel congegno di plastica
lasciando che cadesse sullo zaino, atterrando sul morbido con un soffio.
La
sua manina corse subito alla tasca dei jeans da cui cacciò
fuori l’iPhone e si mise a giocherellare con quello, muovendo
agilmente le piccole dita come le zampette di una tipula in fuga.
“Cody?”
“Mhm…”
“Quello
che hai detto prima…”
“Mhm…”
“Ti
va di parlarne?”
Dopo
pochi secondi di silenzio, nell’intervallo fra una canzone e
l’altra, partì un frastornante duetto di chitarra
e batteria che per poco non mi rintronarono facendomi fare un salto
sulla poltrona.
Velocemente
misi in pausa lo stereo e tirai un sospiro di sollievo quando il
silenzio invase la stanza, intervallato dai rumori della strada,
attutiti dal vetro.
“Che
palle, rimetti la musica.”
Lo
ignorai ; mi bruciavano le mani tanto era forte la tentazione di
strappargli di mano quel dannato aggeggio.
“Allora?”
“Allora
cosa?”
“Dove
le hai sentite quelle cose?”
“Quali
cose?” rispose con un tono ingenuo che avrebbe facilmente
convinto chiunque non lo conoscesse bene come me o Helena
“Quelle
che hai detto prima.”
“Cos’è
che ho detto prima?” si ostinava a rispondere, evitando il
discorso e non alzava gli occhi da quel dannato schermetto.
E
io cominciavo seriamente ad averne abbastanza.
“Rispondimi
prima che ti tolga quel coso di mano. E guardami quando
parlo.”
Mi
uscì un tono talmente severo che per poco non mi convinsi di
essere il suo legittimo genitore e di star parlando con mio figlio.
Cody
alzò lo sguardo, quello sfoggio di
autorità doveva averlo sorpreso non poco.
In
fondo io ero sempre molto remissivo, non mi ero mai arrogato il diritto
di entrare nella sua vita, non avevo mai cercato di avvicinarmi a lui
facendo l’amicone, non ne avevo avuto bisogno per farmi
accettare dalla famiglia e soprattutto non avevo mai osato dargli
ordini o lezioni d’educazione.
Ero
di quanto più lontano da un padre ci fosse nel suo
immaginario, ma non ero né un amico, né un
rivale. Semplicemente una presenza “altra” come la
signora delle pulizie o uno zio che si aggira per la casa spesso ma
sempre per i fatti suoi.
Non
ne vado fiero ma non avevo mai speso troppo tempo con Cody, almeno da
quando era cresciuto. A sette anni, quando lo avevo conosciuto per la
prima volta, era ancora assolutamente adorabile, tenero e disponibile
con tutti.
In
due anni e mezzo era cambiato in maniera incredibile: non si faceva
più accompagnare al parco, preparare la colazione o aiutare
a fare i compiti né si poteva più giocare con lui
a scarabeo. Andava a scuola in autobus con il suo migliore amico e se
intravedeva me o Helena da lontano faceva finta di non vederci,
evitando di incontrarci a tutti i costi. Si vergognava terribilmente di
qualunque cosa e si incazzava per qualunque sciocchezza.
Era
semplicemente diventato un lunatico, irritante, noioso e annoiato
adolescente.
Eppure
sembrava sempre più giovane, più piccolo,
più fragile dei ragazzini della sua età cosa che
rendeva tutto più difficile; ed era decisamente poco
credibile mentre cercava di fare l’adulto.
“Dove
le hai sentite quelle cose?” mia aggiustai sulla poltrona,
ribadendo il concetto
“Non
sono vere?” replicò lui laconico e
provocatorio
“Non
lo so. Tu perché pensi che siano vere?”
“Perché
mio padre ha un mucchio di soldi. E c’è sempre
gente che ronza intorno a quelli che hanno i soldi. Specialmente le
troi...”
“Non
usare quella parola per favore.”
“Quale
parola? Troie?”
Si
divertiva a stuzzicarmi con palese divertimento mentre aveva ripreso a
battere assiduamente sullo schermo touch dell’ iPhone.
“Quella.
E quindi…” cambiai di nuovo posizione e raddrizzai
la schiena per darmi un minimo di contegno “quindi
tutte le ragazze di tuo padre secondo te stanno con lui solo per i suoi
soldi?”
“Si.”
“Non
ti sembra di esagerare?”
“No.
Tanto anche lui lo fa.”
Mi
si accese una spia. Cosa significava quella frase detta
così, con amarezza e delusione? Era solo un capriccio
dettato dalla sua natura infantile e lunatica come sembrava sostenere
Helena che sorvolava con nonchalance sul cattivo umore di
Cody? Oppure c’era veramente qualcosa che non
andava, qualcosa che lo inquietava e che non aveva il coraggio di
raccontare a nessuno di noi?
“Cosa
vuoi dire?” dovevo andarci piano se volevo saperne di
più e conquistare la sua fiducia in un colpo solo.
“Non
è così? Anche mio padre ha fatto lo stesso per
diventare famoso.”
“Cody,
tuo padre fa il musicista, mica… la prostituta
d’alto borgo.”
Quando
ero ragazzo avevo sempre trovato ridicolo come gli adulti
“addolcissero” le parole a scopo educativo facendo
sembrare tutto più grottesco.
Evidentemente
dovette pensarlo anche Cody perché si lasciò
sfuggire una risatina acuta e derisoria e scosse il capo quasi lezioso.
Osservai
per un attimo le sue dita che danzavano toccando con leggerezza lo
schermo dell’ iPhone e dopo qualche istante mi porse il
telefono facendomi segno di guardare.
Scorsi
le immagini su Google dapprima curioso e poi raggelato.
La
maggior parte era abbastanza innocua, inquadrature stratosferiche del
servizio fotografico per il nuovo album, altre erano prese a tradimento
in pose che non gli donavano molto e poi c’erano quelle,
disseminate silenziosamente per la pagina.
Foto
di lui in vasca da bagno, avvolto da una schiuma vaporosa che
sfrigolava fra le sue gambe aperte, che non lasciava molto
all’immaginazione; foto di lui vestito da donna, in
giarrettiera abbandonato languidamente su un materasso, lui avvinghiato
ad un altro uomo mezzo pelato e biondo che con grande orrore mi parve
addirittura di riconoscere in Stefan, lui – nudo-
in un mare di lenzuola nere e lucide simili a petrolio, e poi tante
altre. Non erano scandalose in sé ma quel suo sguardo
lanciato di sottecchi dietro una nuvola di fumo, quel modo lezioso e
femminile di tenere in mano una sigaretta, le spalle strette e la
schiena eretta, e la camicia sbottonata sul petto erano terribilmente
allusive.
Non
sapevo cosa dire. Non mi ero mai preoccupato di cercare la voce
“Brian Molko” su Google ma sicuramente se lo avessi
fatto ancor prima di conoscerlo avrei avuto non pochi pregiudizi.
“Allora?
Non ho ragione?” incalzava il ragazzino petulante mentre
abilmente mi sfilava il telefono di mano.
Dovevo
dire qualcosa, maledizione.
“Sai”
esitai un attimo, sentendo la bocca pastosa e inaridita “da
giovani per farsi notare si fanno tante cose. In queste foto poi tuo
padre sembra solo un ragazzino.
Non
è poi così grave no? Non è mica
porno!”
Non
suonai molto convincente ma mi appigliai all’unico argomento
che avevo: poteva effettivamente andare peggio.
Cody
sembrò capire ma non toccava a lui essere comprensivo.
Lui
faceva la parte dell’adolescente deluso e questo era il
copione.
Lo
vidi di nuovo rabbuiarsi e commentare piccato:
“e
tu immagina che uno di questi giorni quel coglione di Tom Gilligam
venga da te sventolando questa pagina di internet. O che cominci a
taggarti su facebook in queste foto facendo commenti tipo
‘frocio’ o ‘trans’ o
‘succhiam’… ”
“Ok,
ok ho capito.”
“A
che cazzo serve chiamarsi ‘Berg’ se
queste stronzate mi perseguitano comunque? ”
“E
tu cosa fai?”
“Rimuovo
il tag, segnalo all’amministrazione, ignoro, che cazzo dovrei
fare?!”
Per
poco non mi urlò addosso e tirò un pugno al
materasso con veemenza facendo rimbalzare l’iPhone
pericolosamente.
“Cody,
tutti fanno gli errori. Dobbiamo solo fare in modo che tu non ne
soffra. Questo è tutto.”
Si
arrotolò ancora di più nel pile addossandosi alla
parete, le ginocchia al petto lo facevano sembrare ancora
più piccolo e i ricci castano scuro gli coprivano gli occhi
lucidi, sembrava un piccolo barboncino con quella capigliatura
scompigliata.
Mi
venne quasi l’impulso di accarezzargli la testa ma qualunque
gesto in quel momento mi sembrava invadente e inopportuno, tanto
più che io ero solo un estraneo per lui.
“E
Will che dice?”
“Will
dice che dovrei mandarli a fanculo.”
“Uhm…
perché non inviti anche Will in montagna? Tu, Will
e Gill vi prendete una stanza, sciate per conto vostro e tu ti prendi
un po’ di tempo per pensare a questa cosa?”
Sollevò
il capo come folgorato e mi guardò per un attimo perplesso
come se stesse osservando un animale strano.
“Ma
così… all’ultimo momento…
non so se la madre li lascia venire…”
“Ci
parlo io con la mamma. Chiamalo subito e passami la mamma.”
Non
fu difficile convincere la signora Foster. In fondo era una settimana
di vacanza per tutti e lei non aveva ancora fatto programmi.
Vedevo
lo sguardo speranzoso di Cody, la sua aspettativa mentre si
mordicchiava il labbro in attesa e gli feci l’occhiolino,
complice, quando ricevetti la conferma dei nostri programmi.
Lui
mi riservò un sorriso luminoso e per l’eccitazione
prese a saltare sul materasso del letto, rischiando di sfondarlo.
Con
un urlo, si precipitò verso l’armadio e comincio a
buttare in maniera disordinata pullover, camicie e magliette sul letto,
blaterando a più non posso e lamentando la scomparsa del suo
trolley.
Ebbi
appena il tempo di gridargli che avvertisse la mamma e non facesse
troppo disordine, poi la valigia l’avrebbero fatta insieme
loro due.
Annuì
distrattamente mentre io, fiero di me stesso, mi avviavo in cucina
serafico, e orgoglioso come un padre che ha riacquistato la fiducia del
figlio.
Non
mi era mai capitato di sentirmi così bene.
Chi
l’avrebbe mai detto che avere “figli”
desse tante soddisfazioni?
Quando
rimisi piede in cucina il coperchio dell’acqua era sul
pavimento, i fornelli erano zuppi e sul pavimento c’era un
lago.
Sulla
segreteria Helena minacciava rappresaglie se non l’avessi
richiamata, il mio cellulare emetteva dei bip intermittenti, segno che
mi la mia casella di posta era piena e il gatto miagolava, aggirandosi
intorno alla sua ciotola, palesemente affamato.
Ma
non me importava niente, e mentre versavo a Junior i suoi croccantini
al filetto di salmone sorridevo come un ebete.
***************
Angolo dell'autrice
Si,
lo so, scado terribilmente nella fiction. Ma non mi pento,
pfui.
E
poi volevo affrontare questo tema da un casino di tempo.
Come
ci si sente ad essere il figlio di uno che ha una nomea
”compromettente”?
E
nel caso di Brian oserei dire che è il minimo.
Pensate
ai figli di Michael Jackson quando sono uscite le denunce per
pedofilia…
Oppure
a quelli di Rocco Siffredi (non ridete – non viene in mente
altro ù.ù) se per caso si imbattessero
in uno dei film del padre…
Insomma
c’è decisamente di peggio <.<
Così
come chissà che colpo si prenderebbero se provassero a
leggere le fiction a luci rosse che affollano i nostri fandom.
Aggiornamenti
lumaca come sempre, non mi smentisco.
Neal C.
|
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Capitolo 3 *** Third ***
Ebbi prova del caratterino di Brian fin dal primo giorno.
Noi lo attendevamo con la macchina caricata, Cody raggiante
che si intratteneva con Will e Gill e la vicina che cercava in tutti i
modi di attaccare bottone con Helena, che le lanciava occhiate cortesi
e diplomatiche e cercava di scoraggiarla rispondendo a monosillabi.
Dopo un’ora e mezza di ritardo dall’orario
dell’appuntamento concordato, dopo aver tentato inutilmente
di raggiungere il cellulare di Brian scontrandosi contro la sua
irritante segreteria telefonica, ci arrivò la chiamata di
Alex che annunciava in maniera formale che i Placebo quel giorno
avevano prenotato lo studio per tutto il giorno e certo non potevano
buttare 1700 euro di affitto, considerando poi che, per una volta,
stranamente, non mancavano né musicisti, né
tecnici, né altro personale di supporto.
Insomma ci fece (e neppure troppo) gentilmente capire che se pensavamo
di sequestrare cantante/ chitarrista e bassista in un colpo solo era
meglio per noi cambiare programma e girare al largo.
Naturalmente Helena era furente, Cody era deluso, i suoi amici annoiati
e io non sapevo cosa pensare poiché di Brian non avevamo
sentito neanche la voce.
Partimmo con due ore di ritardo e Helena insistette per guidare
lei; nel tentativo di recuperare parte del tempo perduto la
mia donna incollò la suola dello stivaletto
all’acceleratore e non scese mai sotto gli 80
all’ora, slittando e superando in autostrada prima e sui
tornanti poi.
Ogni qualvolta che i ragazzi sembravano sentirsi poco bene gli davamo
un chewin- gum e li tenevamo buoni con della musica. Non era
il mio primo viaggio in auto con Helena, l’anno
scorso ci eravamo fatti mezza Scozia in auto ma era sempre stato un
viaggio tranquillo, piacevole, pieno di pause laddove era stato
possibile, visto che l’entroterra era abbastanza deserto.
Ma qui non facemmo neppure una fermata e dopo quattro ore di auto
finalmente arrivammo a destinazione.
I ragazzi tirarono un sospiro di sollievo, scendendo dalla macchina
barcollando e io mi offrii di accompagnarli al negozio più
vicino per rimpinguare la nostra scorta di chewin-gum ormai agli
sgoccioli e procurare qualcosa da mangiare.
Fortunatamente dopo un po’, in giro per il reparto fumetti di
una simpatica libreria, i ragazzi annunciarono di avere voglia di un
hamburger.
Io e Helena abbiamo sempre avuto da ridire sul junk food, abbiamo
cercato di evitare il più possibile coca cola, bibite gasate
e schifezze piene di grassi idrogenati.
Ma in quel momento però avrei fatto qualsiasi cosa pur di
tirare su il morale alla truppa. Per un attimo li osservai
mentre addentavano avidamente i panini ad olio, ben cosparsi
di ketchup e maionese ma, svanito l’entusiasmo iniziale, il
silenzio si fece pesante.
E poi c’erano gli occhi di Cody, scuri, due pozzi
neri, accigliati, gli occhi di Helena eppure riflettevano
un’apatia sconosciuta della quale lei non sarebbe mai stata
capace.
Tutto si potrebbe dire di Helena tranne che sia apatica; era
indubbiamente brava a mascherarsi con i suoi toni dolci ma fermi,
parole rassicuranti e diplomatiche, a sorvolare su qualunque argomento
scomodo con nonchalance oppure uscire di scena con uno charme seducente.
Ma il vuoto non era contemplato, neppure nei momenti
difficili, anzi, era in quelle situazioni che veniva fuori la sua
indole, combattiva, schietta e decisa, una vera leader. Vederlo negli
occhi di un ragazzino mi fece una certa impressione.
“Andiamo ad affittare gli sci?”
Le risposte furono poco entusiaste ma almeno riuscii a smuoverli dal
tavolo e ad arginare la deriva che stavano prendendo i dispettucci di
Will: il ragazzino infatti si ostinava a rubare patatine dal piatto
della sorella e quella non la smetteva di lamentarsi, di allontanare il
piatto, di affibbiargli piccoli schiaffi sulle mani senza grandi
risultati.
Mentre ritornavano alla macchina li sentii litigare su chi fosse
più bravo a scendere a scodinzolo e rallentai il passo,
affiancandomi a Cody.
“Non ha neanche chiamato”
esordì lui, masticando quelle parole con amaro risentimento.
“Cody, tuo padre è famoso, è una star.
Deve avere un’agenda fittissima. ”
“Me lo aveva promesso. Una settimana di vacanza e niente
lavoro.” Ribadì il ragazzino, seccamente,
accelerando ancora di più il passo e stavolta lasciai che mi
superasse per infilarsi in macchina, lasciando la portiera aperta.
Dal lato del guidatore, Helena parlava concitatamente a telefono con il
proprietario dell’appartamento che avevamo affittato.
“Questo stronzo ha detto che prima di mezz’ora non
ci raggiunge. ”
“Perché?”
“Perché siamo in ritardo di almeno
un’ora all’appuntamento e nel frattempo
è andato in banca a sistemare dei conti.”
“Beh, non ha tutti i torti no?”
Helena spostò le gambe da sotto il volante, appoggiando il
tacco semi alto e quadrato sul cemento del parcheggio ricoperto di neve
schiacciata e fangosa.
“Hel, devi cambiare le scarpe.”
La vidi scuotere stancamente la testa in un accenno di assenso e poi
allungare la mano verso la borsa. Qualche secondo dopo aveva una
sigaretta fra le labbra e le mani a coppa con l’accendino che
sembrava non voler collaborare.
Mi bastò quel gesto per sentirmi respinto e
annunciai che andavo a noleggiare gli sci con i ragazzi.
Fortunatamente la tensione si allentò; il
proprietario del noleggio sci era un simpaticone e per di
più aveva un figlio quindicenne con cui i due maschi si
intesero subito a perfezione. Gill invece provò
più volte tre paia di scarponi con tre numeri diversi,
cercando di prevedere quali sarebbero stati più comodi con
calzamaglia e calzettone di lana. Assistetti esasperato alla
sua indecisione e ai suoi lamenti poiché lo scarpone era
troppo stretto, le faceva male lo stinco destro, le dava fastidio il
polpaccio sinistro, gli attacchi di chiusura erano troppo duri e quelli
sugli sci troppo larghi.
Poco prima di pagare mi arrivò la chiamata di
Helena che mi avvertiva di raggiungerla
immediatamente e darle una mano con i bagagli.
Lasciai che ciascuno dei ragazzi si portasse i proprio sci, le scarpe
in borsa e gli scarponi slacciati ai piedi.
Il nostro appartamento non era troppo lontano né dal
parcheggio né dalla seggiovia che portava al primo complesso
di impianti a 1200 metri di altitudine.
Gli interni erano accoglienti, con un parquet di legno
chiaro, un divano bianco ad elle in soggiorno e una vetrata
che dava sulla neve, una piccola cucina e due camere da letto, una
matrimoniale e una con un letto a castello e un lettino più
piccolo, accanto al balcone. Inoltre era piena di armadi e librerie a
parete, un tocco di classe.
Cercai di far sparire ogni cosa negli armadi per non turbare la pace di
quella casa intonsa, evidentemente molto curata dai suo proprietari.
Fu allora che accadde il miracolo: i ragazzi annunciarono che
il loro nuovo amico Sam “quello degli
sci” si era offerto di fare una sciata con loro e
fargli da guida fra gli stabilimenti.
Nessuno di noi si azzardò a rifiutare e, per una volta, vidi
Helena più accondiscendente del solito e meno propensa a
indagare più a fondo sull’attività del
figlio. Promisero che avrebbero tenuto i cellulari accesi e
che avrebbero avvertito quando stavano per scendere.
Inoltre ormai si erano fatte le due e mancava giusto un paio
d’ore alla chiusura degli impianti. Di certo non avrebbero
avuto abbastanza tempo per fare danni.
Quando la casa fu nuovamente silenziosa, vidi Helena abbattersi a
braccia spalancate sul matrimoniale esausta.
Nel frattempo io avevo riposto le nostre valige aperte negli armadi,
aperte e stavo appendendo le giacche e le camicie perché non
si stropicciassero troppo.
“La vacanza non è neppure iniziata e
già sono distrutta” mormorò
lei, in un raro momento di sincerità e fragilità.
Appesi la sua giacca della Moncler color ghiaccio e mi accostai al
letto, sedendomi in punta per non risultare troppo ingombrante.
Lei si spostò lentamente per farmi posto e mi stesi accanto,
di fianco, e con la destra cominciai a carezzarle il braccio
destro.
Mi feci più vicino fino a stringerla fra le braccia e
carezzarle il fianchi sottili eppure piacevolmente curvi. Adoravo le
sue curve, quelle dei fianchi e dei seni, così sottili senza
mai essere legnosi o spigolosi, sempre morbidi e caldi sotto i miei
polpastrelli ruvidi. Ho sempre avuto delle mani piuttosto sgraziate,
callose quando lavoravo nella campagna di mio padre, dure e spellate
tutt’ora poiché dimentico sempre di idratarle e la
mia pelle secca ne soffre.
Dunque la mia donna avrebbe tutto il diritto di lamentarsene
eppure non ha mai accennato niente in proposito.
Lei collaborava poco, era evidentemente provata dal viaggio, dallo
stress per quella mattinata infernale e rimase ancora ferma, a farsi
carezzare, benché riuscissi ad intuire, almeno dagli occhi
leggermente lucidi e appannati, che non mi fosse affatto indifferente.
Quando tentai di spogliarla della maglia e del maglione di cashmir in
una sola mossa mi fermò invitandomi ad alzare immediatamente
il riscaldamento.
Ma proprio mentre trascinavo in basso lo slip e i pantaloni e mettevo a
cavalcioni su di lei, sentii il cellulare vibrare forsennatamente e poi
esplose l’irritante trillo della suoneria di Helena.
“Questo è Brian”
sussurrò con voce roca e un sospiro mentre si tirava a
sedere con grande sforzo e allungava il telefono verso il comodino.
Fui costretto a mia volta ad interrompere la mia azione, slanciando in
avanti il braccio per intercettare il cellulare prima di lei.
“Hel” la implorai con lo sguardo mentre mi sporgevo
su di lei per costringerla a distendersi di nuovo. Arrivai a
sussurrarle all’orecchio, indugiandovi con piccoli baci
“lo richiamiamo dopo. ” e infine ribadii
“Adesso non ci sei per nessuno. E neppure io.” . Ma
quando cercai di baciarla quella si sottrasse, allungandosi ancora di
più verso il cellulare.
“Hel, ti prego.”
La mi preghiera suonò a vuoto quando lei premette il tasto
verde, portandosi poi il telefono all’orecchio.
“Brian?” rispose con voce incerta, ancora
roca per l’emozione ma quello ruppe per un momento
quell’atmosfera intima che avevo faticosamente creato.
Mi alzai delicatamente, cercando di non scivolarle addosso e
schiacciarla e mi allontanai verso il bagno furtivamente, i
pantaloni ancora dolorosamente stretti e il viso in fiamme.
“Lena, tutto
bene? Ho interrotto qualcosa? ”
“Figurati.
Dove siete? Avete finito le prove?”
“Ne abbiamo
almeno fino alle sei. Penso che arriviamo verso le dieci di
stasera.”
“Ho prenotato
un albergo a pochi passi da noi.”
“Ha la sauna e
la piscina?”
“Ovviamente.”
“Ok allora va
bene. A stasera.”
“Non fate
tardi, Brian, ne ho avuto abbastanza per oggi.”
“Promesso”
Mentre chiudeva la chiamata, ancora una volta Helena si
ritrovò a pensare, “non fare promesse
che non puoi mantenere Brian.”
*******************
Ma Brian non arrivò affatto quella sera e la mattina dopo
Helena salì anche lei con i ragazzi e insistette che venissi
anche io.
Non volli contraddirla, era profondamente irritata: la sera prima era
rimasta in attesa di un segno di vita dell’ex compagno, stesa
sul letto con un thriller in mano.
Così l’avevo lasciata e così l'avevo
ritrovata, di ritorno dal cinema, dopo aver accompagnato i ragazzi a
vedere l’ultimo episodio di una sterminata saga fantasy,
atteso spasmodicamente dalle nuove generazioni.
Purtroppo in paese non c’era niente del genere e quindi
avevamo dovuto fare cinque o sei km in macchina per raggiungere una
cittadina che contasse più di un centinaio di abitanti.
Già prevedevo che sarei andato a recuperarli dopo un paio
d’ore e poi avrei dovuto accompagnare anche Sean, Sten o come
diavolo si chiamasse il nuovo amichetto dei ragazzi.
Per lasciare loro un po’ di libertà
avevo detto che avrei lasciato loro il tempo di farsi un giro nel
centro commerciale, lo stesso provvisto di un grosso multisala che
proiettava proprio il loro film. Avrebbero potuto prendersi un gelato o
divorare marshmallow comprati al candyshop del terzo piano.
In realtà non mi interessava più di tanto quello
che avrebbero fatto, purché potessi spendere qualche altro
minuto accanto a Helena.
La vedevo stanca, i nervi a fior di pelle, come se dallo squillo del
telefono dipendesse la sua pace, la sua tranquillità.
Ormai sembrava quasi che la nostra vacanza dipendesse da Brian.
Non so come riuscissi ad accettare questo pensiero con calma, non so
perché non mi girassero i coglioni, e per l’ultima
volta, non so come riuscii a mantenermi assolutamente calmo,
comprensivo, un compagno modello.
La guardavo mentre faceva finta di leggere, davanti a noi la tv mandava
in onda un vecchio film in bianco e nero, il volume era talmente basso
che a stento riuscivo a seguirne le battute, tanto più che
non ne avevo voglia.
“Ho parlato con Cody”
Non dette subito segni di vita come se ogni voce le arrivasse attutita,
ovattata.
“Di cosa?”
“Di Brian”
Questo bastò a catalizzare la sua attenzione su di me.
Ovviamente questo mi irritò terribilmente e aggiunsi, per
precisare, aspro:
“O meglio, di che razza di esibizionista è suo
padre.”
“Cosa intendi dire?”
“Helena, come spieghi ad un ragazzino che i primi risultati
su google , se si digita il nome di suo padre, sono una serie di foto
provocatorie a metà fra il porno e una prova di trucco
emo-dark?”
Mi sentii ancora più disgustato quando intravidi un mezzo
sorriso sulle labbra della mia donna che trovai assolutamente fuori
luogo, profondamente disturbante, totalmente ingiustificato.
“Ma si conciava veramente in quel modo? Come hai fatto ad
uscire per anni con un tipo così?”
“Non lo conosci. E purtroppo neppure Cody.”
“Vuoi dire che saresti in grado di giustificarlo davanti a
Cody?
Io non ne sono stato capace e il ragazzo se ne è accorto
benissimo.”
“E cosa gli hai detto?”
“Tu cosa gli avresti detto?!” per un attimo trovai
la domanda incredibilmente stupida e nella stanza risuonò un
tono alterato, più forte di quanto volessi veramente.
“Gli ho detto che tutti facciamo degli errori. Quello che
forse avrei dovuto dirgli è che suo padre è
recidivo! ”
“Penso se ne sia accorto da solo.” Ammise poi
infine la donna con un sospiro posando il libro sul comodino,
lasciandolo a languire piegato a metà.
Trovo quanto mai angosciante che, invece di usare un segnalibro, si
metta a dura prova la rilegatura di un libro, specie di quelli le cui
pagine sono semplicemente incollate insieme e non ricucite come in
passato.
Mi da l’idea di una posizione precaria, una mancanza di
rispetto nei confronti del libro. Ma dovetti rassegnarmi a non
intervenire tanto più che finalmente avevo
l’attenzione totale di Helena, conquistata faticosamente.
“Che razza di padre è uno che non sa niente di suo
figlio? Uno che vive una vita separata? Non se ne interessa nemmeno!
Sicuramente non si degna di presentarsi al viaggio che ha lui stesso
organizzato perché fosse uno splendido quadretto
familiare!”
Ancora una volta la vidi compiere quel gesto familiare, insopportabile
per me che ogni volta metteva una distanza abissale fra noi.
E quando il primo fil di fumo fluì serpentino dalle sue
narici mi alzai, scostando il plaid in maniera teatrale, con un gesto
di grande insofferenza, e mi appoggiai di schiena alla vetrata,
dall’altro lato della stanza, aprendo appena l’anta
della finestra perché aria pulita mitigasse
l’effetto di quella venefica.
“Quello che devi capire, Andrew, è che Brian non
è una persona semplice.
Non è una persona coerente se non suo modo assurdo di
comportarsi.
Ormai è lui stesso un clichès vivente.
”
“E allora perché stressarsi troppo per uno
così? Perché non togli gli occhi da quel dannato
cellulare e lasci perdere tutto? Perché non ce ne andiamo in
sauna, io e te, o magari all’idromassaggio, al centro
benessere più vicino? Chiamiamo i ragazzi e
diciamo loro di prendere un taxi. Che tornassero quando
vogliono.”
La vidi farsi immediatamente altera, raddrizzò la schiena, e
poi accavallò le gambe sotto il plaid, appoggiando poi il
braccio filiforme sul ginocchio che sorreggeva la sigaretta, lo sguardo
obliquo e severo:
“Questa non è la nostra vacanza Andrew. Non siamo
qui per farci i massaggi nelle Spa e fare del romantico sesso nella
vasca da bagno tutto il giorno.
Questa è una vacanza di famiglia.”
Dette un ultima tirata alla sigaretta ormai prossima alla morte, e si
alzò dal letto per andarla a gettare nel cestino
dell’immondizia, sotto la cucina.
Quanto a me, non potetti fare a meno di pensare che ero io
l’intruso, ancora una volta, un pesce fuor
d’acqua, una presenza gradita ma non giustificata, un
elemento contingente, sicuramente non necessario, ma neppure
sufficiente.
*******************
COLONNA
SONORA: mentre ultimamente sua
maestosità canta di computer che lo sospettano gay (poteva
chiederlo a chiunque, nessuno avrebbe mai pensato il contrario, neanche
per un attimo) io mi riscopro nostalgica e rimango attaccata sempre
alle solite vecchie cose.
Chiamatemi retrograda ma almeno quelle hanno un valore affettivo.
Angolo
dell’autrice
Ok, lo ammetto, sono incazzata con Brian Molko.
Questa volta i testi sono penosi, le canzoni scontate, le ballate
lamentose, i ritmi delle canzoni più serrate già
sentiti, la “too many friends” che invade le
radio poi induce dipendenza in maniera agghiacciante eppure,
se la si guarda a mente fredda, ci si chiede
“perché cazzo dovrei ascoltare questa
roba?”.
Insomma sono tremendamente combattuta perché sono certa che
fra un po’ mi ci abituerò ed entreranno, una per
una, a far parte della mia playlist preferita.
Ancora peggio. Rimpiango Battle for the Sun, ed è tutto dire.
Indi Helena soffrirà del mio essere scazzata, Andrew
vivrà la sindrome dell’abbandono e si
rafforzerà il mito misterioso di Brian Molko, troppo
impegnato per fare il padre (anche se dai risultati recenti avrei
preferito si fosse impegnato un po’ di più nella
musica, magari usciva qualcosa di un po’
più decente… ok , la smetto).
Con il dente avvelenato, più che mai,
Neal C.
p.s si lo so, è un noioso capitolo di transizione
e non meritate una schifezza del genere dopo un anno di attesa. Ammesso
che qualcuno legga ancora questa storia…
|
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Capitolo 4 *** Fourth ***
Anche quella sera non si fecero vivi, non arrivarono
all’ora attesa, non partirono affatto in realtà.
Un laconico sms alle cinque e mezza del mattino ci informò
che avevano passato la nottata in studio e poi a casa di Brian, presi
dall’ardore dell’ispirazione che in quei giorni
sembrava non abbandonarli mai, rovinando così tutti i nostri
programmi.
Non
mi sarei stupito se avessero deciso, con la scusa del lavoro, di non
raggiungerci più e mancare alla vacanza familiare che loro
stessi avevano tanto insistito per organizzare.
Lo
squillo del cellulare di Helena che annunciava il messaggio mi aveva
riscosso, con una certa violenza, e nonostante la stanchezza mi facesse
sbadigliare non ero riuscito a riprendere sonno.
Pensavo
a quali sarebbero state le reazioni dopo l’ennesimo ritardo,
pensavo al disappunto di Helena che avrebbe scosso la testa esasperata
e sarebbe ricorsa ancora una volta al fumo come palliativo, pensavo
alla delusione di Cody che avrebbe passato il resto della giornata
imbronciato, magari buttandosi a capofitto sulle discese più
ripide, sfidando la pendenza delle nere, particolarmente numerose sul
versante est, semi nascosto dal sole e per questo completamente gelato
ai bordi.
Quei
ragazzini erano spaventosi. Si buttavano giù dalla montagna
come se non vi fosse un domani, i loro corpi si curvavano in maniera
armoniosa, scattante, aerodinamica come una fuoriserie dal muso
appuntito, come pointer a briglia sciolta.
Io,
ancora alle prime armi, ero terrorizzato dalla montagna, dai
suoi terreni scoscesi e scivolosi che catturavano il movimento
scomposto dei miei sci e mi costringevano a scendere, preso dal vortice
della pendenza. Era praticamente impossibile rimanere fermo, sentirsi
saldo e con i piedi ben radicati nel terreno; e poi vedevo
loro che sfrecciavano fuori dalla pista, compiendo audaci acrobazie
fino a saltare dal primo trampolino di lancio che i piccoli mucchi di
neve offrivano, tutt’intorno.
La
volta che ero uscito fuoripista invece io ero stato costretto a
fermarmi, spaventato dalla mia velocità che mi aveva
attirato al di fuori della mia traiettoria e mi ero bloccato, incapace
di proseguire.
Ogni
movimento, passo o tentativo di spostarmi in qualunque direzione
contribuiva solo a farmi affondare nella neve, come se mi stessi
scavando la fossa da solo.
Dopo
quell’esperienza, la prima mattina, avevo deciso il giorno
dopo di rimanere a casa, tanto più che accusavo un maledetto
mal di testa dal momento che non avevo chiuso occhio dalle cinque e
mezza del mattino fino alle sette, quando mi ero deciso ad alzarmi per
una bella doccia calda.
Immedesimandomi
nel ruolo del papà o della balia, come dir si
voglia, ero uscito a fare la spesa non appena aveva aperto il
supermarket sotto casa.
I
ragazzi non si erano svegliati prima delle nove e avevano trovato ad
attenderli ogni ben di Dio sulla tavola del soggiorno che si specchiava
nella finestra-vetrata, unica barriera che ci separava dal gelo nevoso.
Su
una tovaglia rustica, dai colori chiari, al centro tavola
troneggiava un vassoio di toast prosciutto e formaggio, pane caldo
integrale e fette biscottate fragranti, persino un dolce allo yogurt e
a i mirtilli.
Poi
c’era frutta, quali banane, mele e pere, burro e marmellate
varie, e avevo addirittura preso una crostata di mele
dall’aria attraente, avevo voglia di strafare.
Per
me e Helena caffè, per i ragazzi succo di frutta, the o
latte con il muesli alla frutta secca.
Tutta
quell’abbondanza faceva l’effetto delle
pubblicità della Kellogs cereali, troppo ricostruita per
essere vera, eppure i ragazzi non batterono ciglio, ancora mezzi
addormentati.
La
casa cominciò a rianimarsi quando cominciarono a discutere
dei soliti argomenti, conversazioni alle quali facevo sempre fatica a
partecipare.
“Ragazzi,
oggi il versante est!”
“Cody,
che cavolo, è solo il secondo giorno! Sto ancora
arrugginito.”
“Eddai
Will, tanto meglio di come scii non sai sciare. Sei negato.”
“Gill,
stai zitta.”
“Ma
se eri una lumaca!”
“Cody,
vuoi scommettere che oggi sulla discesa dell’orso ti semino
di chilometri?”
“Non
ci credo neanche se lo vedo.”
“Ragazzi”
la voce di Helena scivolò calda e materna in mezzo
all’astio generale, una musica per le orecchie, quasi il
canto di San Francesco che ammansisce le bestie feroci
“perché non rimandate il versante est a quando
arriva zio Stef? Non è il caso che vi avventuriate
da soli da quelle parti.”
“Mamma,
che ha detto papà? Arrivano oggi?”
Percepii
per un attimo lo sguardo della mia donna, un’occhiata di
intesa, come avesse bisogno di sostegno nel dire ciò che
stava per dire.
“Si,
tesoro. Arrivano oggi.” Dosò le parole e
i toni ad arte, dolciastri, un po’ cinguettanti, tanto che lo
vidi storcere il naso infastidito.
La
combinazione di toni zuccherini e il “tesoro”
materno bastavano ad imbarazzare e confondere qualunque adolescente, e
Cody rimase lì a mugugnare mentre cacciava la faccia nella
scodella del muesli.
Poco
prima di uscire, mentre i ragazzi affollavano il bagno, avevo avuto una
discussione con Helena che non sembrava rassegnarsi alla mia
incapacità e pretendeva di portarmi, ancora una volta, sulle
piste con lei.
Insisteva
che dovevo prendere lezioni, che non aveva senso quella vacanza dal
momento che non partecipavo dell’unione familiare.
Io
avevo chiuso l’argomento con una frecciatina di cui mi ero
pentito subito dopo, chiedendole, con piacere sadico, se Brian sciasse.
Conoscendo
il personaggio, era una romanza retorica e lei lo aveva subito intuito,
incapace di ribattere.
Questo
era bastato a troncare la nostra discussione e se la cosa aveva scosso
Helena, lei non lo dette a vedere.
Semplicemente
mi raccomandò di pensare a qualcosa per la sera visto che,
sperabilmente avremmo avuto Brian, Stef e Dave a cena.
Quando
mi ritrovai da solo in casa tirai un sospiro di sollievo, misi su un
po’ di buona musica e con le note scoppiettanti del
DaveBrubeck Quartet mi rilassai e mi misi a lavorare.
Il
tavolo della cucina non era abbastanza largo per contenere
tutte le carte che mi ero portato. Infatti checché ne
dicesse Helena, quello non era affatto un buon momento per me per
andare in vacanza.
Avevo
da lavorare e anche parecchio.
Mi misi a studiare incessantemente pagine e pagine di curricula di
giovani che avevano fatto richiesta di lavoro, di stage, di
praticantato, di finanziamento di un progetto artistico di qua, di una
lettura di là, richieste di affitto e utilizzo dei locali
delle gallerie di Soho a Londra e poi i conti di quella di Manchester.
Mentre
impazzivo, sommerso dalle scartoffie, non mi accorsi nemmeno del tempo
che passava. Si era fatta ora di pranzo eppure non avevo lo stimolo
della fame, l’orologio era silenzioso, il suo ticchettio era
coperto dalla musica che fluiva dalle casse mentre davo fondo a tutta
la discografia del Quartet e di altre formazioni, sempre melodie soft
che alleggerivano l’atmosfera eppure suonavano impalpabili,
invisibili, intangibili come non esistessero.
Fu
così che il campanello ruppe l’armonia che avevo
faticosamente riconquistato quella mattina di lavoro.
è
proprio vero che il lavoro può essere una droga, una di
quelle buone, mentre la vacanza può essere un inferno che
fiacca il corpo e affligge l’animo.
Dovetti
andare ad aprire la porta. Per un attimo sperai che fosse Helena,
già stanca di sciare, che aveva deciso di lasciare i ragazzi
sulle pista, magari per dedicarmi un po’ di tempo.
Ma
la donna che mi si presentò alla porta non assomigliava a
niente che conoscessi e mi lasciò sbalordito.
Era
giovane, non doveva avere più di trent’anni,
avvolta in un piumino bianco neve che mettevano in risalto il capello
castano incorniciato da una sciarpa verde petrolio e soprattutto la
pelle bronzea.
Sembrava
una copia di qualche anno più giovane di Eva Longoria, con i
jeans scuri e i Moonboot alti, quasi fino al ginocchio.
“C’è
Helena Berg?”
“Lei…
non è in casa.”
“Quindi
abita qui.”
“Beh,
si.”
Non
avevo neppure finito di rispondere che quella superò la
soglia con nonchalance trascinandosi dietro un trolley verde oliva di
medie dimensioni, abbastanza ingombrante da farmi indietreggiare in
fretta, colto alla sprovvista.
“E
tu devi essere Andrew. Piacere, sono Rebecca.”
Rebecca?
chi era Rebecca?
Per
un attimo mi sforzai disperatamente di ricordare se era una di quelle
amiche di lunga data di Helena, londinesi e donne in carriera, che ogni
tanto lei portava a casa.
Avevo
il buio più totale, una così bella e formosa me
la sarei ricordata, credo.
Forse
me ne aveva parlato e non l’avevo ancora incontrata.
Ma
perché non aveva avvisato che sarebbe venuta a trovarci? Non
era da Helena.
Non
che negli ultimi giorni Helena si fosse comportata come suo solito,
eppure mi pareva strano che l’argomento non fosse uscito
neppure di sfuggita, a tavola.
Rebecca
mi tese la mano con un sorriso luminoso e, con un ritardo di diversi
secondi, piuttosto significativo, finalmente mi decisi a stringerla,
ancora attonito.
“Ci
siamo già incontrati?“
La
sentii ridere, cristallina, gioconda come una lontra mentre si liberava
del piumino, lasciando il posto ad maglione bianco panna, lo scollo a
barca, che scendeva morbido fino a metà coscia, mentre in
piccolo si distingueva il logo blu del cavaliere, un Ralph Loren.
Ralph
Loren sarà l’unica casa di moda che mi
è veramente familiare.
Sono
i lussi che si conquistano quando improvvisamente si diventa ricchi
imprenditori in ascesa e allora si è costretti a vestirsi
come tali.
Non
ho mai avuto il coraggio di guardare in faccia i miei colleghi che
vestivano Burberry o Dolce & Gabbana e rivelare loro quanto li
trovassi ridicoli, con fantasie scozzesi create da menti perverse e
completi dai colori insoliti che li facevano assomigliare a venditori
porta a porta.
Non
concepivo assolutamente quella stupida moda di essere originali a tutti
i corsi, rischiando di assomigliare ad un semaforo ambulante*.
“In
realtà no. E non mi stupisce che Brian non vi abbia detto
niente di me.”
decretò
con grande naturalezza, aprendo l’armadio a muro accanto
all’ingresso e appendendovi il piumino. Si muoveva con tale
sicurezza che sembrava conoscere perfettamente l’ambiente,
forse persino l’angolo più recondito
dell’intero appartamento.
“D’altro
canto non siamo quello che si dice una coppia modello” mi
strizzò l’occhio sbarazzina, come una Lolita rossa
abituata ad ammaliare il suo professor Humbert con un sorriso.
Fu
in quel momento che mi ritornò in mente quella conversazione
feroce con cui mi avevano accolto Helena e il suo ex-marito, appena
dieci giorni prima, quando quella vacanza era ancora un progetto vago
nelle loro menti.
Rebecca,
la nuova compagna di Brian.
Che
cavolo ci faceva lì, a casa mia? Perché non era
in hotel, a reclamare la stanza d’albergo che Helena aveva
prenotato per lui, Stef e Dave?
Nel
frattempo quella era scivolata fuori dai Moonboot, lasciandoli
accostati all’armadio, ed aveva armeggiato con la tasca
anteriore del trolley, tirandone fuori un paio di ballerine,
pantofoline di velluto blu da cui spuntavano sottili caviglie avvolte
dalla calzamaglia nera di lana misto cashmere.
Mentre
ancora cercavo di levarmi di dosso quell’aria allibita, la
seguii in cucina e ancora una volta non chiese indicazioni,
la vidi tirare dritto come avesse la pianta della casa stampata in
testa.
Si
allungo verso il primo ripiano a destra, sopra il lavandino e con un
bicchiere in mano andò a recuperare una bottiglia
d’acqua dal frigo.
“Allora…
com’è che sono tutti a sciare e tu no? ”
“Ehm…
non ne vado matto.
è
già stata in questa casa?”
Nonostante
la sua parlantina spontanea e familiare, cercai di mantenere le
distanze.
In
fondo era appena la prima volta che ci incontravamo, per di
più senza presentazioni ufficiali, soli in casa, una
situazione che un po’ mi imbarazzava.
“Oh
si! Proprio l’anno scorso, stessa stagione.”
“Era
in vacanza con Brian?”
“Oh
no, ero da un amico.”
Per
un attimo ebbi la sensazione che la sua voce si caricasse di
significati nascosti, che la parola “amico” fosse
tremendamente ambigua, ma non riuscivo a spiegarmi perché
mai ammettesse la cosa in maniera serafica ma per nulla innocente.
Tuttavia
mi ostinai a chiedere conferma, cercando di mostrarmi interessato e per
lo meno educato:
“Avete
passato una buona vacanza, Lei e Brian?”
“Oh…
Brian non c’era. Ero sola, con il mio amico.”
“Ah.
E gliel’ha consigliata lei la casa?”
“Non
esattamente. ”
Ma
a che gioco giocava quella donna? Era quasi irritante, mentre mi
forniva risposte telegrafiche, come fossero preziose perle di saggezza
e, per di più, con tono frivolo e squillante,
sorseggiando l’acqua, appoggiata al banco della cucina.
“E
da quanto tempo vi conoscete? ”
“Saranno
quasi tre anni che ci frequentiamo. Con alti e bassi.”
“Capisco.
E con i bassi come fa?”
“Ogni
tanto mi prendo un periodo di vacanza.
Sai
com’è, abbiamo entrambi un carattere
difficile.”
Adesso
mi erano piuttosto chiare le dinamiche, talmente chiare che mi
sconvolgevano. Non saprei dire neppure perché; non
che non avessi mai sentito di coppie instabili,
“aperte” per così dire , eppure non mi
spiegavo come potessero funzionare.
“Ti
dispiace se faccio un bagno caldo? Il riscaldamento faceva le
bizze e l’auto era gelida. Brr.”
Sorvolai
sull’onomatopea, buttata lì fanciullescamente, e
per un attimo mi sentii le guance arrossarsi al pensiero di
un’estranea che si serviva della vasca da bagno di casa mia,
pur non essendo mia ospite.
Era
la situazione che mi appariva assurda, senza senso, una novella di
Lewis Carrol.
E
Alice era di fronte a me, pronta a mettermi davanti al fatto compiuto,
la semplice verità che non le potevo certo rifiutare
qualcosa chiesta in quella maniera garbata e allo stesso tempo allegra
come un trillo.
“Prego.
Fai pure come fossi a casa tua.”
Sfiatai,
arrendendomi all’evidenza.
******************************
Helena rientrò con le buste della spesa, i ragazzi al
seguito, tutti eccitati perché avevano ricevuto il permesso
di andare in piscina con Sam.
Subito
si rinchiusero in camera, intenti a ripescare dai bagagli il costume da
piscina, la cuffia e l’accappatoio in microfibra,
ignari della presenza della nuova ospite di casa.
Misi
piede in cucina e rimasi ad osservare la mia donna mentre riponeva i
freschi in frigo, le scatole di riso e i biscotti per la colazione
nella credenza, mentre la macchinetta del caffè ribolliva e
borbottava in sottofondo.
Tirai
un sospiro di sollievo.
Rebecca
non era nei dintorni. Forse era uscita. Forse era ancora in bagno.
O
forse semplicemente in veranda a godersi il panorama mozzafiato,
l’unico luogo in cui Helena avrebbe potuto fumare
in tutta la casa.
Era
accogliente, invitante, intimo in qualche modo,
surriscaldato, arredato con due sdraio e un tavolino di
vimini, in un angolo una cassapanca conteneva pesanti coperte di lana e
pile.
Me
la immaginavo lì distesa, le sottili gambe incrociate, la
schiena abbandonata all’indietro, magari un libro tra le mani
oppure semplicemente le braccia abbandonate lungo il corpo.
Poi
la vidi allungare la mano, in direzione della macchina del
caffè e portarsi poi la tazzina alle labbra, la
vidi scuotere la chioma castana, avrei giurato fosse morbida al tatto,
e ridacchiare briosa.
“Ha
chiamato qualcuno?”
La
voce di Helena mi arrivò attenuata, per un attimo ebbi la
sensazione che le due immagini si sovrapponessero, quella della
splendida mora dalle labbra piene e rosee e il profilo elegante,
sottile, chiaro e affilato della mia compagna.
“Andrew?
Tutto bene tesoro?”
Pian
piano ripresi il controllo di ciò che vedevo e relegai quei
pensieri da qualche parte, concentrandomi sulla macchinetta del
caffè, lucida e grigia, il manico in punta semisciolto
perché qualcuno doveva aver messo la fiamma troppo alta e la
plastica aveva minacciato di gocciolare come la cera di una candela.
“Io…
oggi è successa una cosa”
Cominciai
attirando l’attenzione di Helena. Quella mi versò
del caffè e me lo porse e io indugiai qualche secondo prima
di prenderlo, senza motivo.
Il
caffè caldo in gola mi tranquillizzò, mi
aiutò a riprendere possesso dei miei sensi, sentii perfino
il palato bruciare, inaridito dal liquido che scottava.
“è
venuta Rebecca. Da Londra. Lei… ha detto che si fermava con
Brian. Tu… ne sai niente?”
La
vidi spalancare gli occhi totalmente sorpresa ma, dopo pochi secondi,
eccola ritornare tranquilla, il volto teso in un sorriso forzato.
“Bene,
non sapevo che Brian l’ avesse coinvolta…
così staremo finalmente tutti insieme. È quello
che volevamo, no?”
“E
perché quella faccia allora?”
“Vorrei
solo che me lo avesse detto.” Confessò con un
sospiro che tradiva tutta la sua fatica “Lei
dov’è adesso?” si informò,
laconica.
“Non
lo so. Forse in salotto, o in veranda.”
Parli
del diavolo.
La
sua presenza fu annunciata da un canticchiare sommesso, la sua voce
allegra e acuta, persino intonata.
Entrò
ancheggiando sinuosa, padrona del campo, e subito si diresse verso il
ripiano dei bicchieri, accanto al lavandino.
“Oh
Helena! Ciao! Sono arrivata giusto un paio d’ore
fa!” riempì il bicchiere dal rubinetto e se lo
portò alle labbra, spiegate in un sorriso caloroso.
“Spero
di non avervi creato problemi. Sto aspettando che arrivi Brian, sai.
È
lui che ha tutti gli estremi della prenotazione e
poi…” mi strizzò l’occhio con
un’aria di complicità estremamente imbarazzante,
una vera civetta “…avevo bisogno di una doccia. E
di un posto accogliente. Di una casa insomma!”
decretò alla fine con tono di lusinga.
Quel
suo modo così sensuale mi stordiva, mi sentivo in perenne
imbarazzo, come se stessi tradendo la mia compagna mille volte.
Passeggiava chiacchierina per la cucina commentando le nostre scelte in
fatto di cibo, le marche che lei comprava, consigliava nuove ricette e
tutto questo chiacchierando a più non posso.
Dopo
l’iniziale stupore cominciai a notare che la mia
compagna rispondeva con la stessa moneta, alternava le sue frasi
cariche di entusiasmo con brevi commenti cortesi, la gentilezza in
persona e , di tanto in tanto, si dimostrava altrettanto civetta.
Forse
è questo il modo di comunicare delle donne in un contesto
non familiare?
Non
riuscivo a capacitarmi di quel cambiamento improvviso di registro.
Certo
tutto ciò le rendeva ancora più attraenti.
Entrambe.
“Rebecca,
per caso Brian ti ha fatto sapere quando sarebbe arrivato?”
“Oh
no, cara, mi dispiace. Ma sai com’è lui!
Così indipendente, misterioso nei suoi movimenti. ”
“Io
speravo che stasera avremmo cenato tutti insieme. ”
“Oh
si! Potremmo cucinare del pesce!”
“In
realtà da queste parti sarebbe più indicato del
semolino, magari degli gnocchi.”
“Magnifico!
Tesoro, che magnifica idea!”
“sarà
il caso di chiamarli? Tu che dici, facciamo anche del polpettone alle
erbe?”
“E
magari la variante ripiena di speck di montagna? Quello si che sarebbe
un colpaccio.”
“sono
sicura che i bambini ne saranno deliziati!”
“Non
vedo l’ora di cominciare!”
Improvvisamente
mi ritrovai cacciato dalla cucina, la porta chiusa oltre cui si udivano
rumori indistinti, a tratti stoviglie, a tratti il chiacchiericcio
femminile che si faceva sempre più insistente, un debole
chiocciare ovattato.
Ancora
stordito dalla rapidità con cui le cose erano cambiate mi
risolsi a rendermi utile: scoprire almeno se Brian, Stefan e Dave
sarebbero arrivati in serata.
Il
telefono squillò a lungo ma, all’ultimo, invece
della segreteria telefonica sentii la voce suadente di Brian
accarezzarmi l’orecchio.
“Pronto?
Andrew sei tu?”
“Brian!
Dove siete? Arrivate in serata?”
“Si.
Siamo per strada. Tra un paio d’ore o poco più
dovremmo arrivare.”
“Ottimo,
avverto Helena. Vi aspettiamo.”
“A
dopo.”
Subito
mi affrettai a dare la notizia in cucina ma le due donne ormai erano in
confidenza e si raccontavano episodi divertenti su conoscenti
in comune.
Non
mi restava che scomparire, socchiudendo la porta.
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Questa Eva Longoria per intenderci : http://www.telefilmaddicted.com/wordpress/wp-
econtent/uploads/2013/09/eva-longoria-latest-wallpaper.jpg
*Per
inciso, ecco qui qualcuno che non è esattamente sobrio nel
vestire, con tanto amore:
http://wtfismattbellamywearing.tumblr.com/
Niente
postfazione. Mi scoccio. E perdonatemi, questo capitolo è
vergognosamente corto.
Ringrazio
solo chi mi segue/recensisce/ricorda/preferisce, un saluto particolare a @Nainai, sempre di
ispirazione e spero di aver risposto alla richiesta di @alexichains (p.s
grazie per l’incoraggiamento).
Soprattutto
spero che questo capitolo soddisfi voi, a me non ha convinto del tutto.
Ma
pian piano si chiarirà tutto. Abbiate fede.
Neal
C.
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