Liaisons dangereuses

di Neal C_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First ***
Capitolo 2: *** Second ***
Capitolo 3: *** Third ***
Capitolo 4: *** Fourth ***



Capitolo 1
*** First ***




Liaisons dangereuses






Quel giorno il cancelletto era malchiuso,  semplicemente accostato, il martelletto della chiusura penzolava nel vuoto e la sua catenella ogni tanto sussultava quando un leggero colpo di vento si faceva sentire.
Mi sono sempre chiesto come, nella periferia di Londra, a migliaia di chilometri dal mare, in piena campagna, anzi per essere più precisi, in uno di quei quartieri residenziali per ricchi benestanti, potesse soffiare il vento. Da dove vengo io, nello Yorkshire, non c’è un alito.
Un altro segno di stranezza era la cassetta della posta, che straripava di lettere.
Helena non è certo quel tipo di persona che lascia marcire la corrispondenza in quella scatola di latta con la sciatteria di certe donne in carriera, super impegnate, certi fuoriclasse che non possono spendere neppure un minuto del loro prezioso tempo per la cura della casa.
No, non era da lei.  Doveva essere successo qualcosa che l’aveva distratta, che aveva sconvolto i suoi programmi, la sua prima giornata di ferie dopo più di sei mesi di intenso lavoro.
Con la chiave alla mano, percorsi il selciato fino alla porta di casa, fiero di poter ammirare il giardino che io stesso avevo rimesso a posto senza dover ricorrere al giardiniere che puntualmente veniva una volta al mese a dare una sistemata.
Era una tradizione consolidata, risaliva al tempo in cui Helena ed io ancora non ci conoscevamo.
In un anno che abbiamo convissuto non ho mai osato dire la mia ma guardavo spesso, con malinconia, l’erba tosata al millimetro come fosse una crudeltà.
Ho sempre amato il prato all’inglese*, un prato un po’ più selvaggio e campagnolo e vedendolo ridotto ad uno zerbino mi metteva tristezza.
Non ci misi molto a capire il perché di tutte quelle novità: in soggiorno trovai una giacca di pelle nera buttata sul bracciolo di un divano, un bicchiere di acqua prosciugato, abbandonato sul tavolino, un pacchetto di sigarette Wiston rosse a fargli compagnia, mezzo vuoto e senza accendino.
Dalla cucina delle voci, una bassa e pacata, l’altra acuta, nasale e concitata, si sovrapponevano e si accavallavano, ogni tanto quella più bassa, femminile e terribilmente paziente taceva e ascoltava i passi pesanti dell’interlocutore sul piastrellato.
“Cody si è accorto che qualcosa è cambiato, che mamma e papà non si amano più, che non siamo più una famiglia…”
“Helena, Cody è mio figlio! Certo che siamo una famiglia!”
”Ascoltami, non voglio dire che tu non sia suo padre. Voglio solo farti capire che ormai siamo una famiglia… diversa. Più ampia.
Non so come devo dirtelo, Brian, ma vorrei che Cody sapesse che può contare anche su Andrew quando ne ha bisogno! Così come può contare su Rebecca…”
Ci fu un attimo di silenzio e poi uno sbuffo da parte di lui. Per un momento mi sentii un intruso e mi chiesi se dovevo ascoltare di nascosto e poi, a discussione finita, fingere di essere appena tornato, ignaro di ogni cosa, o se dovevo intervenire e fare la mia parte.
In fondo quella discussione mi riguardava personalmente, o meglio riguardava il mio ruolo nella famiglia della mia donna.
“Lasciamo Rebecca fuori da questa storia, per piacere”  replicò aspro, Brian.
Mi avvicinai alla porta della cucina socchiusa e intravidi l’ex marito della mia donna accendersi una sigaretta con gesti bruschi e nervosi, scuotendo l’accendino più volte perché quello si decidesse ad accendere.  Vidi Helena sospirare profondamente e rispondere con un filo di voce, rassegnata:
“Certo, Brian.”
“Ma perché questa settimana?! Perché la settimana che io avevo prenotato una vacanza per me e per Cody?! Perché, con trecentosessantacinque giorni l’anno, avete scelto proprio quei fottuti sette giorni,  cristo santo!”
“Perché la settimana prossima abbiamo preso le ferie sia io che Andrew e Cody non ha scuola.
Non vogliamo rimandare ancora e non so quando tu sarai ancora disponibile con il nuovo tour e tutto il resto.”
Helena aveva appena finito di parlare quando feci il mio ingresso in cucina.
Non potevo origliare ancora o forse volevo semplicemente chiarire la situazione.
“Buongiorno amore”  mi avvicinai per schioccarle un veloce bacio sulla guancia, mentre quella, dopo un momento di iniziale sorpresa mi sorrideva, rilassata.
“Brian”  gli feci un cenno di saluto, appoggiando su una sedia la borsa da lavoro e togliendomi la giacca nera di quel completo che faceva tanto uomo d’affari.
“Andrew”  ricambiò lui, secco, mentre si avvicinava al tavolo e lasciava cadere la cenere della sigaretta nella tazzina da caffè ancora incrostata.
“Amore è rimasto del caffè, te lo riscaldo?”
“No grazie. Piuttosto… a cosa si deve questa riunione di famiglia?”  scherzai osservando la reazione di Brian che sbuffò, scrollando le spalle, risentito.
“Sei profetico; neanche a farlo apposta stavamo parlando di questo.”  Ritorse Molko sputando una nuvola di fumo che mi fece arricciare il naso.
Forse lo fece apposta. Di certo sapeva che odio il fumo e solitamente impedisco a chi mi sta intorno di appestare l’aria, fosse anche una semplice “innocua” sigaretta.
Ad ogni modo mi limitai ad allontanarmi da lui, verso la finestra e, senza neppure chiedere,  spalancai le ante perché entrasse un po’ d’aria pulita.
“Andy, ti ricordi quando parlavamo di portare Cody sulla neve?”
“Ah si, che idea carina.”
“Verrebbero anche Brian e Rebecca. Così magari Cody  potrà… abituarsi a tutti noi.”
Accolsi la notizia con un sorriso poco entusiasta e un’inquietudine inspiegabile.
Avevo la strana sensazione che sarebbe stato un esperimento disastroso, che la convivenza civile con Brian Molko non avrebbe mai funzionato.  Il mio sesto senso mi gridava a gran voce di oppormi all’utopia della famigliola felice che Helena prospettava.
Sapevo che stava parlando della settimana prossima, mi aveva già accennato di aver parlato con Alicia e Tim che ci avrebbero lasciato la casa mentre erano in vacanza alle Bahamas.
Tra l’altro io non ero mai stato sulla neve.
In campagna, dove ho vissuto fino a vent’anni fa, la neve era un odiato nemico che annunciava drammatici giorni di inattività, il gelo dei campi e la rovina delle piante da frutta.
Insomma non avevo mai contemplato la possibilità di andare a “divertirmi ” sulla neve.
Quando Helena mi aveva accennato la cosa avevo già pensato che avrei trovato qualche scusa per essere il meno presente possibile e non trovarmi a dover ammettere che non sapevo sciare.
Mi sentivo un po’ provinciale per questo quasi come se fossi il topo di campagna della situazione.
“Helena, io non ho mai detto che sarei venuto volentieri, tanto meno in compagnia di Rebecca.”  Aggiunse Brian con voce annoiata, tornando poi ad aspirare dal cilindro di tabacco che impugnava fra le dita, con piccoli gesti vezzosi, tremendamente femminili.  Questo devo ammetterlo aldilà del fastidio del fumo, guardare Brian impugnare una sigaretta era qualcosa di più unico che raro.
C’era una leggerezza in quel gesto, un’eleganza subdola, sfacciatamente provocatoria che riusciva a catalizzare l’attenzione degli spettatori sulle sue piccole mani avorio e poi sulle sue labbra rosee che lambivano il filtro bianco.  Ci si poteva godere ogni istante, come in uno di quei vecchi film degli anni trenta, lenti, con attori pacati e austeri pure nel momento massimo di azione.
Una misura nei movimenti che incantava come se quel gesto fosse stato a lungo studiato, provato e riprovato davanti ad uno specchio da un attore consumato.
Ancora una volta mi assalì  quell’inquietudine vaga che non seppi spiegarmene la ragione con la lucidità che mi contraddistingueva.
“Brian, per favore, è importante per Cody! È importante per noi. E per me.”  Concluse il diminuendo Helena, enfatizzando con un piccolo gesto, il pugno della destra stretto, le fragili dita avvolte l’una sull’altra per scaricare la tensione e frenare l’esasperazione.
“Ho detto che voglio Rebecca fuori da questa storia…”
Poi improvvisamente chiesi, con un sospiro comprensivo che sfoderavo solo nei momenti più inopportuni. In quei momenti se mi fossi guardato allo specchio probabilmente mi sarei preso a schiaffi da solo.
“Chi è Rebecca?”
Brian per poco non sgranò gli occhi ma mi riservò solo un piccolo guizzo di sorpresa prima di lasciarsi andare in una risata ironica che mi punse sul vivo.
Era ragionevole che io non sapessi niente di questa Rebecca, sarebbe stato ragionevole che  Brian, con la pazienza e l’amabilità che lo contraddistingueva nei momenti in cui era di buon umore, mi spiegasse tranquillamente di chi stavamo parlando. Non potevo certo conoscere tutte le frequentazioni di Brian, una rockstar che vedeva più facce in un’ora di quante ne vedessi io in una giornata. Ma allora, se avevo ragione, perché ero arrossito come un peperone e mi vergognavo come un ladro?
“è la sua compagna.”   Spiegò brevemente Helena con voce sommessa ignorando totalmente il suo ex compagno.
Brian la sentì lo stesso e affondò la cicca mezza spenta nella tazzina di caffè, lasciandola a mollo in quel residuo di polvere e acqua scura.
“Non è la mia compagna.”
Mi parve un’osservazione stupida. Se non era la sua compagna allora chi era?  Da quando aveva paura di chiamare le cose con il loro nome?
Questo non era da Brian.  O forse era un Brian molto diverso da come l’avevo conosciuto.
In realtà, sarà stata al massimo la sesta volta in un anno che condividevo il mio spazio vitale con lui più a lungo dei cinque minuti canonici, buoni per i convenevoli e due saluti.
Forse stavo semplicemente scoprendo chi c’era dietro quel sorriso impeccabile e quella voce nasale e dolciastra sempre cerimoniosa.
“E quindi chi è?”  chiesi ancor più stupidamente.  Volevo a tutti i costi provocare in lui una reazione, capire anche solo un attimo come ragionava. Ero curioso come un ragazzino che esplora un insetto, osservandolo affascinato oltre la spessa superficie del vetro del barattolo sotto cui lo tenevo prigioniero.
“è la mia scopata”  ribattè lui e prese a studiarmi come se si aspettasse che io mi ritraessi scandalizzato come una donnetta puritana.  
Helena intervenne in quel confronto per sottrarmi ai suoi occhi indagatori.
Era incredibile come Helena riuscisse ad attrarre immediatamente l’attenzione di Brian.
Come se lui non potesse ignorarla, come se le riconoscesse una qualche autorità.
Non che lei potesse zittirlo ma sicuramente poteva osare interromperlo senza ricevere un’occhiata derisoria. Credo non volesse essere severa o bacchettona, eppure le sue parole mi suonarono come una predica:
“ Ed è  così che la presenterai a tuo figlio?”
“Oh no, per lui lei sarà la mia ‘amichetta’  ”  le rispose a tono, con un cinguettio che sapeva tanto di presa in giro e che, non so perché, le strappò un sorriso. Non me ne capacitavo.
Cosa c’era da sorridere?  Se era uno scherzo era di cattivo gusto!
“Ma il problema non si pone dal momento che non ho intenzione di portare Rebecca con me.
Penso che inviterò Stef e Dave” commentò sovrappensiero lanciando occhiate smaniose al tavolo, al bancone della cucina e infine ad ogni superficie piana , chiaramente alla ricerca di qualcosa.
“Ma non doveva essere una riunione di famiglia?  Cosa diamine c’entra… Stefan? ”
Sapevo davvero poco di Stefan. Non conoscevo nemmeno il cognome.
Sapevo a stento della sua esistenza da quando aveva telefonato, un giorno, per parlare con Helena, non so di che. Ricordo che questo episodio mi aveva ingelosito e avevo preteso di sapere almeno chi fosse, cosa facesse, se fosse un amico di famiglia e simili.
Ad ogni modo non vedevo alcuna connessione fra lui e la nostra settimana da famigliola felice.
Per non parlare di quell’altro, Dave , che non avevo mai sentito nominare.
“Stef è quanto di più vicino ci sia ad una famiglia per me.”  Concesse Brian,  pensoso,  poi commentò, irritante come sempre   “altrimenti sentiti  pure in diritto di invitare chi vuoi”
In quel momento trillò il suo telefono in salotto, cosa che lo costrinse ad allontanarsi pigramente dal tavolo della cucina a cui si appoggiava con i gomiti, uscendo dal nostro campo visivo.
Dopo qualche minuto di silenzio fra me ed Helena Brian annunciò ad alta voce che andava a prendere Cody a casa del suo amichetto.  
Poi, dopo il fruscio di una giacca, lo stridore della porta che si apriva e si chiudeva con un tonfo, pensai che ancora una volta questa decisione era rimandata al giorno dopo.
Non avremmo rivisto Brian prima di allora.


*******************



Riposi i vestiti da lavoro ben ripiegati su di una sedia, in camera, e decisi di farmi una bella doccia calda. 
A Londra, di questi tempi, tirava ancora aria invernale, benché ci si aspettava che sarebbe giunta la primavera, a fine marzo.
In più io sono un tipo freddoloso che non disdegna quasi mai una bevanda o un bagno caldo.
Tra me e me pregustavo già una serata con Helena tutta per me.
Mi sentivo in vena di romanticherie, volevo stringerla e sussurrarle parole dolci , accarezzandole una guancia morbida e rosea con la mia solita premura.
Lasciai la manopola dell’acqua aperta finché la vasca non fu riempita e  ci versai dentro bagnoschiuma e sali marini da bagno.
Mi spogliai completamente e mi infila nella vasca abbandonandomi con un brivido alla carezza tiepida dell’acqua schiumosa.
Prima di andare a vivere a Londra anche quest’usanza mi era sconosciuta.
Oggi mi chiedo come abbia potuto vivere senza.
Chiusi gli occhi per un attimo e poco dopo mi parve di avvertire lo sgradevole odore di un bastoncino di incenso che fumava lavanda.
Mi risollevai a malincuore mentre le acque intorno a me si agitavano e vidi entrare lei avvolta in un asciugamano, i capelli sulle spalle, sciolti dallo chignon in cui spesso erano costretti e con un lamento attirai la sua attenzione:    “Helen! Cos’è questa puzza?”
Lei mi osservò mentre io tornavo ad adagiarmi sulla superficie concava della vasca e mormorò in tono burbero, con un mezzo sorriso:      “Credo che ci sia un conflitto di interessi in atto.”  
Sbuffai, strofinando il naso con due dita e poi chiesi speranzoso, e perché no, con una punta di malizia:    “Perché non mi raggiungi qui?”
Lei fece finta di pensarci, sedendosi accanto a me, sull’orlo della vasca;
mi sussurrò qualcosa nell’orecchio, con dolcezza come il fruscio indiscreto del vento che sibila negli orecchi, quasi subdolo.
Io mi protesi in avanti per incontrare le sue labbra carnose, un fiorente bocciolo che si schiudeva sotto i colpetti gentili della mia lingua che saettava cercando la sua avidamente.
“Aspetta…”  appoggiò entrambe le mani sulle mie spalle, allontanando il viso dal mio.
Non riuscii a reprimere un mugolio contrariato e accavallai le gambe, rigido, strofinandomi contro la vasca da bagno.  
“… fammi spegnere l’incenso. O forse ti sei abituato al fumo?”    si prese gioco di me lei lanciando un’occhiata divertita  alle mie gambe che si intrecciavano fra loro.
Era bastato poco e già fremevo mentre il mio corpo si risvegliava e un calore bruciante risaliva dal basso ventre.
Quel colloquio con Brian mi aveva stancato, era stato l’ennesimo impiccio di una giornata di lavoro che si trascinava lentamente dalle otto di questa mattina.
Sospirai, cercando di calmare i bollenti spiriti e frenare la voluttà e l’istinto di toccarmi.
Quella stanchezza era cosa ben diversa dalla spossatezza che ti fiacca nell’animo e nello spirito.
Ero improvvisamente stanco di aspettare, quando avevo sperato a lungo in questo momento, fra una telefonata, un  incontro di lavoro, un telegramma da New York, un pranzo d’affari e tante carte da firmare.
Affondai la testa nell’acqua e accarezzai la manopola dell’acqua fredda meditando di abbassare la temperatura corporea che era rapidamente salita mentre nella mia mente si affollavano fantasie e immagini di lei.
Non osai raffreddare troppo l’acqua della vasca, temevo che l’avrebbe fatta rabbrividire e quasi non mi accorsi di quanto rapidamente ella fosse scivolata fuori dall’asciugamano, lasciandolo ripiegato e in ordine sul ripiano di marmo del lavandino, di fianco alla vasca.
Me la ritrovai in grembo, fra le gambe, con i capelli umidi appoggiati sul mio petto mentre accarezzava qualche pelo ribelle che stava ricrescendo dopo la cera.
“Domani vado dall’estetista, prenoto anche per te?”
Sentii solo l’eco di quella domanda che mi rimbalzò in testa solo per un attimo: sentivo il peso delle sue curve sulla mia pancia e sulle mie cosce, sentivo la sua pelle bagnata strusciare contro la mia virilità, messa sull’attenti.
Presi a baciarle il collo, sforzandomi di farlo il più dolcemente possibile.
Sono un cavaliere a letto. Cerco di contenermi e mi controllo fino alla paranoia, voglio che niente vada storto.
Ma mentre cercavo di girarla, stuzzicandole la base del collo con la lingua e facendo pressione sul suo fianco perché accettasse di soccombere al mio peso e invertire le posizioni, lei sembrava prendere le distanze appiattendosi contro la fredda ceramica della vasca, dandomi sollievo e lasciandomi profondamente insoddisfatto.
“Cosa ne pensi di Brian?”
Brontolai, ferito, mentre prendevo fiato, respirando pesantemente come un bagnante che è scampato all’affogamento.  Non potevo credere che stesse menzionando Brian - o anche semplicemente che ci stesse pensando! – in questo momento.
Mentre le baciavo il collo, mentre mi scioglievo sentendola fra le mie gambe, mentre volevo solo seppellirla sotto di me e farla mia, contando ogni singolo gemito che si sarebbe lasciata sfuggire la sua bocca, paffuta e rosea come una tenera guancia infantile, mentre io vivevo tutto questo, lei pensava a Brian.
“Non ci penso. Perché dovrei pensare a Brian mentre faccio sesso con te?”  ribattei, brusco.
Non avrei dovuto mostrarmi così seccato. Adesso avrebbe pensato…
“Sei geloso?”  
Ecco appunto. Non riescii nemmeno a smentirla.
Come potevo dirle che quell’uomo mi metteva una strana soggezione? Che mi infastidiva la sua continua presenza?
Era terribilmente invadente e onnipresente in ogni gesto di Cody, in ogni richiamo di Helena, era una presenza implicita che sembrava permeare quella casa come uno spettro maligno.
“Senti, Helena, perché non ci trasferiamo?”
“Che cosa?”
“Voglio comprare una casa mia.”
Vidi che mi guardava perplessa. Non capiva. Come avrebbe potuto?
In fondo non era lei la seconda scelta. Non era lei il “nuovo” compagno. Lei per me è la prima, metaforicamente parlando – si capisce –  .
Le ho dedicato tutto me stesso, per me non esiste nessun altra.
E so che anche per lei sarebbe lo stesso se non fosse per la presenza di lui che rovina sempre tutto.
Lei mi ama, con tutta sé stessa, ma non riesco a sentirmi l’unico e il solo.  Sono l’eterno secondo.
“Cos’ha che non va questa? È casa mia.”
“Non è casa tua.”
“Cosa?”
“Non è solo casa tua. E casa vostra.”
“Vostra?”
“Di te e lui”
era turbata. Potevo vedere le sue sottili, scure sopracciglia inarcarsi, le linee del viso che si avvallavano con quella sua adorabile fossetta che le deturpa il mento,era buffa e straordinariamente bella, persino mentre mi guardava con una profonda inquietudine negli occhi.
“Andrew, per piacere, piantala di dire sciocchezze.
Io e Brian ci siamo lasciati da più di un anno e non hai nessun motivo per pensare che questa casa sia più sua di quanto non sia tua.”
Non è vero. Lo sapeva e non lo voleva ammettere. O forse semplicemente non lo voleva vedere.
Feci cadere il discorso. Non avevo voglia di litigare ma mi era anche passata la voglia di fare sesso.
In realtà non avevo voglia di niente ed era abbastanza triste che una cosa del genere potesse deprimere i miei appetiti sessuali con grande facilità.
Mi strinsi a lei e poi mi distaccai accarezzandole per un attimo il volto distante; non mi prestava attenzione, aveva lo sguardo fisso sul muro, sulle piastrelle avorio del bagno o forse sul pannello di legno dove sono riposte le mille bottigliette magiche, shampoo, balsamo, bagnoschiuma, crema idratante, sali da bagno, aromi naturali ed effetti speciali per annaffiare l’acqua di spumose schiume.
Volevo costringerla a guardarmi, seguii la linea del collo e affondai sempre di più nell’acqua, nelle clavicole sporgenti, adoro quella cassa toracica così stretta, pizzicai i seni con malizia, e sentivo i suoi capezzoli rispondere con solerzia al calore della mia mano.
La palpavo con movimenti circolari e avvolgenti ma lei apparve quasi infastidita dai miei gesti amorevoli e si ritrasse di nuovo offrendomi il fianco e la spalla dura su cui appoggia il collo cignesco, accartocciato contro l’osso mentre il suo sguardo mi trapassò da parte a parte.
“Volevo sapere cosa ne pensavi di questa settimana di vacanza con Brian…”
Avevo gli occhi liquidi, la bocca arida in fondo e la saliva che si raggrumava ai lati, sarebbe colata giù se non fosse stata impedita dalla lingua e dal muro dei denti, l’acqua mi bolliva intorno e mi sentii pulsare come un vulcano che sta per esplodere e non ne potevp più di sentir parlare di Brian.
“Io…” ingoiai la saliva, la mia gola non era più tanto secca ma la voce che ne uscii continuava ad essere rauca e raschiosa come la ghiaia  “penso…che sia una buona idea…”
Non fu soddisfatta della mia risposta, non potetti fare a meno di giustificarmi:
“non possiamo parlarne…dopo?”  le lanciai uno sguardo significativo.
Scosse la testa. Io infilai giocosamente la mano sotto la sua ascella pizzicandole i peletti, residuo di una cera di qualche tempo fa che aveva bisogno di essere ripassata e con le mani sotto le ascelle la sollevai come si fa con un bambino piccolo, esultando come un papà giocondo e lei reagii con una risatina divertita che mi rilassò.
La appoggiai con delicatezza nella pancia della vasca da bagno e calai su di lei mordicchiandole a turno i capezzoli intirizziti dal freddo che protestavano per essere stati esposti all’aria esterna.
“Io spero…che con Brian… vada tutto bene…che a Cody piacerà…”  mormorò con voce carezzevole e finalmente ansimante Helena mentre la mia lingua scendeva a tradimento a corteggiare la peluria scura, appena sotto quel raggrinzito buco che chiamano ombelico.


***************
 




Note

* Al contrario di ciò che normalmente si pensa, quando si parla di prato all’inglese non ci si riferisce a quei bei giardini senza neanche un filo d’erba fuori posto, tipico dei giardini rinascimentali, ma di un prato un po’ selvaggio, con l’erba alta, e meno curata, ma più “esotica”, con piante di diversa provenienza, dai cactus alle magnolie , e disposizione varia, tutt’altro che regolare.




Angolo dell’autrice
Sono tornata con Andrew.
Semplicemente amo il suo punto di vista, mi lascia la possibilità di raccontare una storia, di intervallarla con quel tocco di introspezione che guasta sempre (ma che si annida ovunque e non può essere lasciata fuori da ospite indesiderata qual’è)  e darmi l’occasione di scrivere dei miei beniamini. 
Volevo solo precisare che l'etichetta "AU" non è proprio esatta. 
Il racconto non è assolutamente estraneo al contesto reale ma diciamo che quest'ultimo è meno "storico" e specifico del solito.
Un avvertimento: questa storia avrà dei ritmi molto lenti.
Maledico me stessa perché non mi sarei dovuta imbarcare in un’altra impresa di questo genere quindi preparatevi a perdonarmi di tutto e di più. 
Il titolo è tratto dal romanzo di Chaderlos de laclos - letteralmente "le relazioni pericolose" - da cui è stato tratto il film con Michel Pfeiffer e John Malkovic.
Dimenticavo il solito mantra: non li conosco, non loro non conoscono me, è tutto falsissimo, e sicuramente loro stessi sconfesserebbero tutto questo se mai capitasse loro di leggere il racconto (notare il periodo dell'impossibilità ù.ù)

Neal C.

 

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Capitolo 2
*** Second ***




“Mamma, voglio andare in montagna con papà!”

….


“Io in montagna con papà non ci vengo!”
Cody fece il suo ingresso rumoroso e piagnucolante nella nostra camera da letto mentre io ed Helena concordavamo  quando e dove andare a comprare tutto l’occorrente per la settimana bianca.
Helena parve non sentirlo nemmeno e non si girò mentre il ragazzino rimaneva sulla porta con le braccia incrociate guardandoci entrambi con aria di sfida.
Dovetti attirare io l’attenzione della mia compagna perché si decidesse a chiedere pazientemente e con condiscendenza il perché di tutto quel baccano.
“Ho detto che non voglio andare in montagna con papà!”
“Tesoro, ma non andrai solo con papà. Verremo anche io, Andrew, lo zio Stefan e lo zio Dave. Zio Dave porta suo figlio, te lo ricordi Ian? ”
Lo vidi scuotere il capo confuso ma subito si scurì nuovamente in viso, risoluto a non cedere.
“…e poi vengono anche Rebecca e suo figlio Jordan. Te la ricordi Rebecca?”
Mentre continuava ad elencare la folla che avrebbe partecipato alla nostra avventura vacanziera, aggiungeva alla nostra -già lunga-  lista di cose da comprare,  le calzamaglie di lana e le maschere per il casco da sci.
Io me stavo lì in piedi e annuivo, sbadigliando.
Non che l’idea di accompagnarla per negozi di sport e di abbigliamento mi attirasse più di tanto. Più che altro fremevo al pensiero che lei volesse a tutti costi uscire a comprarmi una tuta da sci e io non le avevo ancora confessato che non avevo mai sciato in vita mia e non avrei mai voluto provare.
“Mamma…”
“E poi forse ci saranno i figli di Caroline…”
“Mamma!”
“Amore?”
“Chi è Rebecca?”
Per un attimo i nostri sguardi si incrociarono. Mi chiedevo Helena cosa avrebbe risposto a quella domanda, per così dire, scottante.
La vidi fermarsi e appoggiare il foglietto svolazzante che aveva in mano sul letto, come se potesse ingombrarle le mani e sorridere dolce e rassicurante come solo  Helena sa fare.
“è una cara amica di papà.”
“Anche lei è una troia?”
Il gelo.
Credetti di non aver sentito bene nonostante la vocetta squillante di Cody.
La mia donna se ne stava lì, con gli occhi sbarrati, in un’espressione ammutolita e allo stesso tempo scandalizzata mentre il ragazzino accennava un sorriso, trionfante, ora che aveva la completa attenzione di tutta la sala.
Persino le colonne di maglioni di lana, pile e camicie di flanella sembravano dondolare pericolosamente in avanti verso la figurina gelida di Helena; o forse semplicemente avrei dovuto fare una seconda selezione altrimenti invece che quattro trolley  ne sarebbero usciti fuori anche dodici, materiale da sci escluso.
Mi dissi che non dovevo intervenire;  era una cosa fra Cody e sua madre, assolutamente.
“Cody, cosa vuoi dire? Io e Andrew non abbiamo capito bene…”
Il tono voleva essere minaccioso ma non sortì grande effetto.
Il figlio non sembrò né pentito né vagamente consapevole della volgarità che gli era appena uscita da bocca.
Anzi, più strafottente che mai, mi gettò un’occhiataccia come se fossi io il principale colpevole dei suoi problemi. Non volevo essere immischiato in questa storia!
“Quello che ho detto ma’. Io in vacanza con quella troia non ci vado.”
“Cosa ti fa pensare che sia una troia?”
argomentai pacatamente. Non che fossi d’accordo con lui beninteso, ma era ragionevole che ci rivelasse cosa gli frullava nel cervello, dove aveva sentito quelle cose e perché le pensava.
“Andrew!”  mi attirai un’occhiata furibonda di Helena ma almeno guadagnai la considerazione di Cody che si fece serio in viso, stringendo le labbra in una smorfia  e spostando lo sguardo da sua madre a me.
In quei momenti aveva un’aria molto adulta, terribilmente seria, un portamento eretto e quasi regale nonostante il suo fisico sottile e magro promettesse un’altezza decisamente sotto la media – d’altra parte anche il corredo genetico parlava chiaro-.
E poi c’erano quegli intensi occhi nocciola, gli stessi occhi di lei, ma erano due pozzi in cui si poteva affogare e non riemergere. Non era certo lo sguardo tenero, calmo e riflessivo di Helena che avevo davanti. Anzi, era piuttosto inquieto e inquietante allo stesso tempo, misterioso con un sapore beffardo e malizioso come un bambino di undici anni non dovrebbe essere.
“Non sta con mio padre solo per i suoi soldi?”  accusò il ragazzino ma se avesse avuto ragione o torto non avrei potuto confermarlo o smentirlo. Semplicemente non lo sapevo.
“Cody…”  vidi Helena che gli si avvicinava minacciosa ma Cody era troppo concentrato su di me per badare a ciò che succedeva al suo fianco.
Si era fatto avanti stringendo il pugnetto in un atto ostile e ciabattando con le sue pantofole di pelo sul parquet di camera nostra.
Avevo sempre apprezzato il fatto che Helena non avesse voluto rivestire tutti i pavimenti della casa con la terribile moquette blu scuro che invece troneggia nella cosiddetta “stanza del bambino” ;  poi avevo scoperto che era stato Brian a proporlo, diceva che la moquette gli ricordava troppo quelle enormi stanze d’albergo in cui era costretto a dormire per almeno tre mesi l’anno – in media - .
 In quel momento –irragionevolmente - ricordo che lo avevo apprezzato un po’ meno.   
“E mio padre poi… quello che ha fatto lo ha fatto tutto per soldi… anche lui era una put- ” lo vidi arrivare fulmineo e rumoroso ma non suonò violento.
Fu solo umiliante come un qualunque schiaffo che schiocca sulle guance e arrossa la pelle.
Gli occhi del piccolo persero tutta la loro baldanza, rimasero lì liquidi e smarriti, come quelli dei un  cucciolo ferito nell’orgoglio mentre Helena gli gridava che non si azzardasse neanche a pensare una cosa del genere.
Se ne filò via, dritto in camera, con la promessa di una bella punizione che lo avrebbe tenuto in casa questi ultimi due giorni di vacanza prima di partire.
Sapevo che Helena si sarebbe ammorbidita in qualche ora, d’altra parte rinchiudere un figlio in casa non ha mai ottenuto altro risultato se non quello di farsi odiare profondamente. Specie quando si tratta di un bambino di undici anni che vorrebbe giocare con i suoi amichetti ai giardini, a pallone o in bicicletta, o pattinare sul ghiaccio al centro di Hyde Park.
Tornai a concentrarmi sui pantaloni di maglina che Helena aveva cacciato fuori da chissà quale eccentrico guardaroba invernale degli anni Novanta quando lei colpì rapida, stampandomi sulla guancia tre delle sue cinque dita.
“Come diavolo ti è venuto in mente di incoraggiarlo?! Ripetere le stesse parole che ha usato lui per… Oh Dio!”
Il braccio di Helena si abbatté rabbiosamente sul copriletto del matrimoniale e le colonne di vestiti, camicie e magliette crollarono miseramente, in parte sul pavimento, in parte sul cumolo di biancheria da uomo –la mia – che era stata disposta proprio lì accanto.
Mi massaggiai la guancia sbattendo le palpebre, semi sconvolto e tentati – inutilmente- di replicare:
“Helen…”
“Non so cosa ti sia saltato in mente prima ma per piacere sparisci. Va a fare la spesa, prepara la cena, fai qualcosa ma fallo lontano da qui. E domani vieni con me a comprare la tuta da sci. FUORI! ”


************



“Non ho parole! Semplicemente non so cosa pensare…”
“Hai ragione. Ti sta davvero un incanto.”
“è stato così…”
“insolito ma elegante”
“spaventoso!”
“mostruosamente bello!”
“STEFAN OLSDAL, METTI GIU QUELLA ROBA!”
Lo svedese appoggiò il vestito di lana grossa color panna a collo alto che sventolava davanti allo specchio cercando di provarlo sulla figura longilinea e sconvolta di Helena che passava in rassegna una decina di guanti da sci di colori diversi.
“Punto primo, siamo qui solo per la collezione da neve e poi non ho bisogno di  un altro stupido vestito.”
Lei lanciò un’occhiata di disapprovazione alla pila di maglioni che lui aveva ammassato, tutti con disegni equivoci –abeti di natale, fiocchi di neve, renne e cappelli di babbo natale decisamente fuori stagione - , un paio di felpe grigio e verde di stampa militare che lo facevano assomigliare ad un marines, e due sciarpe di lanona grossa color senape e magenta. Non poteva credere di aver chiesto a Stefan di accompagnarla a comprare le ultime cose per la montagna.
Anzi, se il bassista non l’avesse chiamata in mattinata chiedendole qualche indirizzo utile per rifornire il suo guardaroba montanaro forse non lo avrebbe nemmeno invitato.
Doveva assolutamente sbollire in qualche modo la rabbia e soprattutto aveva bisogno di un consiglio.  Essendo il migliore amico del suo ex-compagno sembrava assolutamente la persona adatta per darle qualche consiglio.
D’altra parte Brian non era a casa sua né da Stefan e il cellulare era staccato –e lei non aveva nessuna intenzione di chiamare a casa di Rebecca-.
“Cosa vuoi che ti dica, Lena?”
Era solo Stefan a chiamarla così ormai.
Lo aveva fatto Brian per un brevissimo periodo, forse quei sei mesi che lei era ufficialmente incinta e in quanto tale andava coccolata e strapazzata fino alla nausea. Almeno quando erano a casa, oppure  ogni volta che si sentivano a telefono, per chiamate brevi e frequenti. Era stato l’unico periodo della sua vita che aveva sentito Brian più di una volta al giorno.
“Dove le ha sentite quelle cose?”
“Andiamo, non essere ingenua. Tuo figlio ha undici anni, ha degli amici, è più che normale che ogni tanto ripeta qualche parolaccia.”
E lo svedese liquidò la questione passando in rassegna i guanti che erano sopravvissuti alla selezione di Helena.
Alle loro spalle una commessa borbottava con la sua collega indicando lo spilungone biondo, ridacchiavano e si gingillavano sospingendosi a vicenda.
Erano quanto mai irritati agli occhi di Helena mentre due o tre clienti si aggiravano disperate per le sale del grande magazzino in cerca della taglia o del colore giusto.
Tentò di ignorarle afferrando Stefan per la giacca e trascinandolo verso il reparto delle calzamaglie. Ma quelle non accennavano a smettere e non si degnavano di fingere disinteresse.
“Capisco che mio figlio ogni tanto possa dire  ‘cazzo’ in un’esclamazione spontanea, oppure che magari quando litighiamo possa scappagli un ‘vaffanculo’ . In quel caso saprei che è semplicemente una cattiva influenza. ”
“Ne parli come se te lo augurassi”  ridacchiò Stefan, andando ad afferrare le calze da neve più vistose in mezzo a quelle esposte.
“…ma nel momento in cui insulta Rebecca e poi suo padre cosa dovrei pensare?!”
“Che non ha torto. In nessuno dei due casi” Replicò ironico concedendole un sorrisetto rilassato che fece sperare le commesse pettegole.
“Stefan!” lei gli sferrò una gomitata sul polso e lui di tutta risposta le arrotolò  in vita una sciarpa lunga a maglia per poi tirarla  contro di sé giocondo, cingendole i fianchi con le lunghe braccia nervose.
Helena resistette per un po’ e infine si lasciò abbracciare appoggiando il capo sul suo petto –o sulla sua pancia? Nonostante i tacchi di Helena c’erano ben quindici centimetri di distanza fra gli occhi di lui e di lei- con un sospiro desolato e si lasciò persino accarezzare una guancia con affetto.
Poi Stefan si chinò su di lei sussurrandole nell’orecchio con fare cospiratore:
“quelle due continuano a seguirci?”
“lo sai che seguono te vero?” ribattè lei imbronciata.
“Si…ma non penso che mi abbiano riconosciuto. Altrimenti mi avrebbero chiesto subito un autografo.”
“Già, chissà che vogliono.” Rispose lei ironica indicandole con un cenno del capo.
“Che vogliono?”
“Portarti a letto”
“Ma come pensi male!” esclamò –fintamente-  scandalizzato Stefan mentre la donna scioglieva l’abbraccio, scrollandoselo di dosso burbera e calpestando la sciarpa che era scivolata a terra .
“Come pensi di scollartele di dosso?” domandò Helena a voce abbastanza alta perché tutto il reparto, camerini inclusi fosse messo al corrente della cosa.
Afferrò cinque paia di guanti, sei calzamaglie, tre fasce da neve, un paio di passamontagna e un cappellino con un pon pon arancio dirigendosi alla cassa.
“Spiacente, sono gay” annunciò altrettanto platealmente Stefan con le mani a mo’ di megafono per poi seguirla ciondolando e sogghignando fra sé e sé.
 

***********



Cody non riemergeva da camera sua.

Erano passate almeno un paio d’ore da quando Helena si era precipitata fuori di casa furibonda, sventolando in aria le chiavi della macchina, e promettendo di investire qualunque cosa le si parasse davanti.
L’acqua bolliva, era tempo di calare la pasta ma nessuno era pronto per il pranzo.
In più lei non rispondeva al cellulare né aveva avvertito che non sarebbe tornata a pranzo, decisamente non era da lei.
Lasciai l’acqua ribollire sotto il coperchio e salii al secondo piano, deciso a scoprire che ne era stato di quella piccola peste.
Già sulle scale si sentiva un gran fracasso provenire da camera sua, uno stereo assordante scoraggiava i visitatori ma la porta della sua camera non era sbarrata come pensavo.
Bussai e attesi stupidamente almeno cinque minuti lì fuori.
Quando realizzai che non avrebbe mai potuto sentirmi mi congratulai con me stesso per la mia idiozia e spalancai la porta con un moto di stizza.
Cody era buttato sul suo lettone ad una piazza e mezzo, le lenzuola mezze disfatte mentre dall’altro lato della stanza, dal mobile televisione una musica assordante rimbombava nella stanza e fuori alla finestra spalancata.
La stanza era gelida e c’era una corrente tremenda.
Ma cosa diavolo si era messo in testa quel moccioso?
Lui continuò ad ignorarmi, raggomitolato sotto una copertona di pile, avvolto in una delle felpone lunghissime che tanto si usavano fra i suoi amici.
Aveva in mano un joystick e osservava come ipnotizzato lo schermo della Tv dove si susseguivano immagini di creature sanguinolente, uomini o zombie , fotogrammi che cambiavano a velocità record sotto i suoi piccoli e misurati gesti, e contemporaneamente si susseguivano dei clic fastidiosi che dopo neanche cinque minuti promettevano un’emicrania garantita.
Fortunatamente dallo stereo si diffuse una litania cadenzata, una di quelle ballate strappalacrime sull’ingiustizia dell’amore non corrisposto, tutta acustica e ogni tanto qualche aggiunta elettrica che però tutto sommato non assordavano più di tanto, anzi erano quasi piacevoli.
Mentre mi precipitavo a chiudere la finestra, inciampai nelle bretelle del suo zaino e mi dovetti appoggiare alla scrivania per non cadere lungo disteso.
Sul pavimento era l’anarchia:  fogli, quaderni, libri sparsi, un portapenne con i pastelli disseminati intorno alle rotelle della sedia, c’erano un paio di camicie che pendevano dalla scrivania,  tre paia di jeans diversi ammonticchiati sulla comoda poltroncina che faceva da spola fra la scrivania e il televisore, una colonna di CD che si era riversata tutta sotto la poltroncina e nell’angolo, nascosto a chiunque si affacciasse dalla porta, c’era un vero e proprio laboratorio del caos.
Fogli di giornale sparsi per terra proteggevano la moquette dalla pittura che colava dai bordi di cinque barattoli di acrilico dai colori arcobaleno. Seguivano tre quattro pennelli grossi, un rullo impiastricciato di verde limone e infine un catino d’acqua dal colore indefinito in cui galleggiavano dei panni un tempo bianchi.
Dov’ero io  mentre questo ragazzino trasformava camera sua in una tintoria-laboratorio da imbianchino?
Ma La mia priorità, in quel momento, era la finestra.  
Nel chiuderla, mi misi davanti allo schermo cosa che infastidì parecchio Cody che si sporgeva a sinistra e a destra per non perdere la partita.
Lo sentii sbottare un “e levati!” e solo quando mi sedetti sulla poltrona quello si acquietò, tornando ad osservare assorto una marea di bestie che assalivano il suo personaggio sfortunatamente in fin di vita dopo il mio maldestro intervento.
Al comparire della scritta GAME OVER a caratteri cubitali, Cody mi fulminò lasciando cadere sul materasso il joystick con uno sbuffo irritato.
Ne approfittai per sporgermi verso lo schermo e spegnere, sicuro che avrebbe protestato ferocemente.
Ma lui si limitò a dare un calcio a quel congegno di plastica lasciando che cadesse sullo zaino, atterrando sul morbido con un soffio.
La sua manina corse subito alla tasca dei jeans da cui cacciò fuori l’iPhone e si mise a giocherellare con quello, muovendo agilmente le piccole dita come le zampette di una tipula in fuga.
“Cody?”
“Mhm…”
“Quello che hai detto prima…”
“Mhm…”
“Ti va di parlarne?”
Dopo pochi secondi di silenzio, nell’intervallo fra una canzone e l’altra, partì un frastornante duetto di chitarra e batteria che per poco non mi rintronarono facendomi fare un salto sulla poltrona.
Velocemente misi in pausa lo stereo e tirai un sospiro di sollievo quando il silenzio invase la stanza, intervallato dai rumori della strada, attutiti dal vetro.
“Che palle, rimetti la musica.”
Lo ignorai ; mi bruciavano le mani tanto era forte la tentazione di strappargli di mano quel dannato aggeggio.
“Allora?”
“Allora cosa?”
“Dove le hai sentite quelle cose?”
“Quali cose?” rispose con un tono ingenuo che avrebbe facilmente convinto chiunque non lo conoscesse bene come me o Helena
“Quelle che hai detto prima.”
“Cos’è che ho detto prima?” si ostinava a rispondere, evitando il discorso e non alzava gli occhi da quel dannato schermetto.
E io cominciavo seriamente ad averne abbastanza.
“Rispondimi prima che ti tolga quel coso di mano. E guardami quando parlo.”
Mi uscì un tono talmente severo che per poco non mi convinsi di essere il suo legittimo genitore e di star parlando con mio figlio.
Cody alzò lo sguardo,  quello sfoggio di autorità doveva averlo sorpreso non poco.
In fondo io ero sempre molto remissivo, non mi ero mai arrogato il diritto di entrare nella sua vita, non avevo mai cercato di avvicinarmi a lui facendo l’amicone, non ne avevo avuto bisogno per farmi accettare dalla famiglia e soprattutto non avevo mai osato dargli ordini o lezioni d’educazione.
Ero di quanto più lontano da un padre  ci fosse nel suo immaginario, ma non ero né un amico, né un rivale. Semplicemente una presenza “altra” come la signora delle pulizie o uno zio che si aggira per la casa spesso ma sempre per i fatti suoi.
Non ne vado fiero ma non avevo mai speso troppo tempo con Cody, almeno da quando era cresciuto. A sette anni, quando lo avevo conosciuto per la prima volta, era ancora assolutamente adorabile, tenero e disponibile con tutti.
In due anni e mezzo era cambiato in maniera incredibile: non si faceva più accompagnare al parco, preparare la colazione o aiutare a fare i compiti né si poteva più giocare con lui a scarabeo. Andava a scuola in autobus con il suo migliore amico e se intravedeva me o Helena da lontano faceva finta di non vederci, evitando di incontrarci a tutti i costi. Si vergognava terribilmente di qualunque cosa e si incazzava per qualunque sciocchezza.
Era semplicemente diventato un lunatico, irritante, noioso e annoiato adolescente.
Eppure sembrava sempre più giovane, più piccolo, più fragile dei ragazzini della sua età cosa che rendeva tutto più difficile; ed era decisamente poco credibile mentre cercava di fare l’adulto.
“Dove le hai sentite quelle cose?” mia aggiustai sulla poltrona, ribadendo il concetto
“Non sono vere?”  replicò lui laconico e provocatorio
 “Non lo so. Tu perché pensi che siano vere?”
“Perché mio padre ha un mucchio di soldi. E c’è sempre gente che ronza intorno a quelli che hanno i soldi. Specialmente le troi...”
“Non usare quella parola per favore.”
“Quale parola? Troie?”
Si divertiva a stuzzicarmi con palese divertimento mentre aveva ripreso a battere assiduamente sullo schermo touch dell’ iPhone.
“Quella. E quindi…” cambiai di nuovo posizione e raddrizzai la schiena per darmi un minimo di contegno  “quindi tutte le ragazze di tuo padre secondo te stanno con lui solo per i suoi soldi?”
“Si.”
“Non ti sembra di esagerare?”
“No. Tanto anche lui lo fa.”
Mi si accese una spia. Cosa significava quella frase detta così, con amarezza e delusione? Era solo un capriccio dettato dalla sua natura infantile e lunatica come sembrava sostenere Helena che sorvolava con nonchalance sul cattivo umore di Cody?  Oppure c’era veramente qualcosa che non andava, qualcosa che lo inquietava e che non aveva il coraggio di raccontare a nessuno di noi?
“Cosa vuoi dire?” dovevo andarci piano se volevo saperne di più e conquistare la sua fiducia in un colpo solo.
“Non è così? Anche mio padre ha fatto lo stesso per diventare famoso.”
“Cody, tuo padre fa il musicista, mica… la prostituta d’alto borgo.”
Quando ero ragazzo avevo sempre trovato ridicolo come gli adulti “addolcissero” le parole a scopo educativo facendo sembrare tutto più grottesco.
Evidentemente dovette pensarlo anche Cody perché si lasciò sfuggire una risatina acuta e derisoria e scosse il capo quasi lezioso.
Osservai per un attimo le sue dita che danzavano toccando con leggerezza lo schermo dell’ iPhone e dopo qualche istante mi porse il telefono facendomi segno di guardare.
Scorsi le immagini su Google dapprima curioso e poi raggelato.
La maggior parte era abbastanza innocua, inquadrature stratosferiche del servizio fotografico per il nuovo album, altre erano prese a tradimento in pose che non gli donavano molto e poi c’erano quelle, disseminate silenziosamente per la pagina.
Foto di lui in vasca da bagno, avvolto da una schiuma vaporosa che sfrigolava fra le sue gambe aperte, che non lasciava molto all’immaginazione; foto di lui vestito da donna,  in giarrettiera abbandonato languidamente su un materasso, lui avvinghiato ad un altro uomo mezzo pelato e biondo che con grande orrore mi parve addirittura di riconoscere in Stefan, lui – nudo-  in un mare di lenzuola nere e lucide simili a petrolio, e poi tante altre. Non erano scandalose in sé ma quel suo sguardo lanciato di sottecchi dietro una nuvola di fumo, quel modo lezioso e femminile di tenere in mano una sigaretta, le spalle strette e la schiena eretta, e la camicia sbottonata sul petto erano terribilmente allusive.
Non sapevo cosa dire. Non mi ero mai preoccupato di cercare la voce “Brian Molko” su Google ma sicuramente se lo avessi fatto ancor prima di conoscerlo avrei avuto non pochi pregiudizi.
“Allora? Non ho ragione?” incalzava il ragazzino petulante mentre abilmente mi sfilava il telefono di mano.
Dovevo dire qualcosa, maledizione.
“Sai” esitai un attimo, sentendo la bocca pastosa e inaridita “da giovani per farsi notare si fanno tante cose. In queste foto poi tuo padre sembra solo un ragazzino.
Non è poi così grave no? Non è mica porno!”
Non suonai molto convincente ma mi appigliai all’unico argomento che avevo:  poteva effettivamente andare peggio.
Cody sembrò capire ma non toccava a lui essere comprensivo.
 Lui faceva la parte dell’adolescente deluso e questo era il copione.
Lo vidi di nuovo rabbuiarsi e commentare piccato:
“e tu immagina che uno di questi giorni quel coglione di Tom Gilligam venga da te sventolando questa pagina di internet. O che cominci a taggarti su facebook in queste foto facendo commenti tipo ‘frocio’ o ‘trans’ o ‘succhiam’… ”
“Ok, ok ho capito.”
“A che cazzo serve chiamarsi  ‘Berg’ se queste stronzate mi perseguitano comunque? ”
“E tu cosa fai?”
“Rimuovo il tag, segnalo all’amministrazione, ignoro, che cazzo dovrei fare?!”
Per poco non mi urlò addosso e tirò un pugno al materasso con veemenza facendo rimbalzare l’iPhone pericolosamente.
“Cody, tutti fanno gli errori. Dobbiamo solo fare in modo che tu non ne soffra. Questo è tutto.”
Si arrotolò ancora di più nel pile addossandosi alla parete, le ginocchia al petto lo facevano sembrare ancora più piccolo e i ricci castano scuro gli coprivano gli occhi lucidi, sembrava un piccolo barboncino con quella capigliatura scompigliata.
Mi venne quasi l’impulso di accarezzargli la testa ma qualunque gesto in quel momento mi sembrava invadente e inopportuno, tanto più che io ero solo un estraneo per lui.
“E Will che dice?”
“Will dice che dovrei mandarli a fanculo.”
“Uhm… perché non inviti anche Will in montagna?  Tu, Will e Gill vi prendete una stanza, sciate per conto vostro e tu ti prendi un po’ di tempo per pensare a questa cosa?”
Sollevò il capo come folgorato e mi guardò per un attimo perplesso come se stesse osservando un animale strano.
“Ma così… all’ultimo momento… non so se la madre li lascia venire…”
“Ci parlo io con la mamma. Chiamalo subito e passami la mamma.”
Non fu difficile convincere la signora Foster. In fondo era una settimana di vacanza per tutti e lei non aveva ancora fatto programmi.
Vedevo lo sguardo speranzoso di Cody, la sua aspettativa mentre si mordicchiava il labbro in attesa e gli feci l’occhiolino, complice, quando ricevetti la conferma dei nostri programmi.
Lui mi riservò un sorriso luminoso e per l’eccitazione prese a saltare sul materasso del letto, rischiando di sfondarlo.
Con un urlo, si precipitò verso l’armadio e comincio a buttare in maniera disordinata pullover, camicie e magliette sul letto, blaterando a più non posso e lamentando la scomparsa del suo trolley.
Ebbi appena il tempo di gridargli che avvertisse la mamma e non facesse troppo disordine, poi la valigia l’avrebbero fatta insieme loro due.
Annuì distrattamente mentre io, fiero di me stesso, mi avviavo in cucina serafico, e orgoglioso come un padre che ha riacquistato la fiducia del figlio.
Non mi era mai  capitato di sentirmi così bene.
Chi l’avrebbe mai detto che avere “figli” desse tante soddisfazioni?
Quando rimisi piede in cucina il coperchio dell’acqua era sul pavimento, i fornelli erano zuppi e sul pavimento c’era un lago.
Sulla segreteria Helena minacciava rappresaglie se non l’avessi richiamata, il mio cellulare emetteva dei bip intermittenti, segno che mi la mia casella di posta era piena e il gatto miagolava, aggirandosi intorno alla sua ciotola, palesemente affamato.
Ma non me importava niente, e mentre versavo a Junior i suoi croccantini al filetto di salmone sorridevo come un ebete.



***************




Angolo dell'autrice

Si, lo so, scado terribilmente nella fiction.  Ma non mi pento, pfui.
E poi volevo affrontare questo tema da un casino di tempo.
Come ci si sente ad essere il figlio di uno che ha una nomea ”compromettente”?
E nel caso di Brian oserei dire che è il minimo.
Pensate ai figli di Michael Jackson quando sono uscite le denunce per pedofilia…
Oppure a quelli di Rocco Siffredi (non ridete – non viene in mente altro ù.ù)  se per caso si imbattessero in uno dei film del padre…
Insomma c’è decisamente di peggio <.<
Così come chissà che colpo si prenderebbero se provassero a leggere le fiction a luci rosse che affollano i nostri fandom.
Aggiornamenti lumaca come sempre, non mi smentisco.

Neal C.


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Capitolo 3
*** Third ***





Ebbi prova del caratterino di Brian fin dal primo giorno.
Noi lo attendevamo con la macchina caricata,  Cody raggiante che si intratteneva con Will e Gill e la vicina che cercava in tutti i modi di attaccare bottone con Helena, che le lanciava occhiate cortesi e diplomatiche e cercava di scoraggiarla rispondendo a monosillabi.
Dopo un’ora e mezza di ritardo dall’orario dell’appuntamento concordato, dopo aver tentato inutilmente di raggiungere il cellulare di Brian scontrandosi contro la sua irritante segreteria telefonica, ci arrivò la chiamata di Alex che annunciava in maniera formale che i Placebo quel giorno avevano prenotato lo studio per tutto il giorno e certo non potevano buttare 1700 euro di affitto, considerando poi che, per una volta, stranamente, non mancavano né musicisti, né tecnici, né altro personale di supporto.
Insomma ci fece (e neppure troppo) gentilmente capire che se pensavamo di sequestrare cantante/ chitarrista e bassista in un colpo solo era meglio per noi cambiare programma e girare al largo.
Naturalmente Helena era furente, Cody era deluso, i suoi amici annoiati e io non sapevo cosa pensare poiché di Brian non avevamo sentito neanche la voce.
Partimmo con due ore di ritardo e Helena insistette per guidare lei;  nel tentativo di recuperare parte del tempo perduto la mia donna incollò la suola dello stivaletto all’acceleratore e non scese mai sotto gli 80 all’ora, slittando e superando in autostrada prima e sui tornanti poi.
Ogni qualvolta che i ragazzi sembravano sentirsi poco bene gli davamo un chewin- gum  e li tenevamo buoni con della musica. Non era il mio  primo viaggio in auto con Helena, l’anno scorso ci eravamo fatti mezza Scozia in auto ma era sempre stato un viaggio tranquillo, piacevole, pieno di pause laddove era stato possibile, visto che l’entroterra era abbastanza deserto.
Ma qui non facemmo neppure una fermata e dopo quattro ore di auto finalmente arrivammo a destinazione.
I ragazzi tirarono un sospiro di sollievo, scendendo dalla macchina barcollando e io mi offrii di accompagnarli al negozio più vicino per rimpinguare la nostra scorta di chewin-gum ormai agli sgoccioli e procurare qualcosa da mangiare.
Fortunatamente dopo un po’, in giro per il reparto fumetti di una simpatica libreria, i ragazzi annunciarono di avere voglia di un hamburger.
Io e Helena abbiamo sempre avuto da ridire sul junk food, abbiamo cercato di evitare il più possibile coca cola, bibite gasate e schifezze piene di grassi idrogenati.
Ma in quel momento però avrei fatto qualsiasi cosa pur di tirare su il morale alla truppa.  Per un attimo li osservai mentre addentavano  avidamente i panini ad olio, ben cosparsi di ketchup e maionese ma, svanito l’entusiasmo iniziale, il silenzio si fece pesante.
E poi c’erano gli occhi di Cody, scuri,  due pozzi neri, accigliati, gli occhi di Helena eppure riflettevano un’apatia sconosciuta della quale lei non sarebbe mai stata capace.
Tutto si potrebbe dire di Helena tranne che sia apatica; era indubbiamente brava a mascherarsi con i suoi toni dolci ma fermi, parole rassicuranti e diplomatiche, a sorvolare su qualunque argomento scomodo con nonchalance oppure uscire di scena con uno charme seducente.
Ma il vuoto non era contemplato,  neppure nei momenti difficili, anzi, era in quelle situazioni che veniva fuori la sua indole, combattiva, schietta e decisa, una vera leader. Vederlo negli occhi di un ragazzino mi fece una certa impressione.
“Andiamo ad affittare gli sci?”
Le risposte furono poco entusiaste ma almeno riuscii a smuoverli dal tavolo e ad arginare la deriva che stavano prendendo i dispettucci di Will: il ragazzino infatti si ostinava a rubare patatine dal piatto della sorella e quella non la smetteva di lamentarsi, di allontanare il piatto, di affibbiargli piccoli schiaffi sulle mani senza grandi risultati.
Mentre ritornavano alla macchina li sentii litigare su chi fosse più bravo a scendere a scodinzolo e rallentai il passo, affiancandomi a Cody.
“Non ha neanche chiamato”  esordì lui, masticando quelle parole con amaro risentimento.
“Cody, tuo padre è famoso, è una star. Deve avere un’agenda fittissima. ”
“Me lo aveva promesso. Una settimana di vacanza e niente lavoro.” Ribadì il ragazzino, seccamente, accelerando ancora di più il passo e stavolta lasciai che mi superasse per infilarsi in macchina, lasciando la portiera aperta.
Dal lato del guidatore, Helena parlava concitatamente a telefono con il proprietario dell’appartamento che avevamo affittato.
“Questo stronzo ha detto che prima di mezz’ora non ci raggiunge. ”
“Perché?”
“Perché siamo in ritardo di almeno un’ora all’appuntamento e nel frattempo è andato in banca a sistemare dei conti.”
“Beh, non ha tutti i torti no?”
Helena spostò le gambe da sotto il volante, appoggiando il tacco semi alto e quadrato sul cemento del parcheggio ricoperto di neve schiacciata e fangosa.
“Hel, devi cambiare le scarpe.”
La vidi scuotere stancamente la testa in un accenno di assenso e poi allungare la mano verso la borsa. Qualche secondo dopo aveva una sigaretta fra le labbra e le mani a coppa con l’accendino che sembrava non voler collaborare.
 Mi bastò quel gesto per sentirmi respinto e annunciai che andavo a noleggiare gli sci con i ragazzi.
Fortunatamente la tensione si allentò;  il proprietario del noleggio sci era un simpaticone e per di più aveva un figlio quindicenne con cui i due maschi si intesero subito a perfezione.  Gill invece provò più volte tre paia di scarponi con tre numeri diversi, cercando di prevedere quali sarebbero stati più comodi con calzamaglia e calzettone di lana.  Assistetti esasperato alla sua indecisione e ai suoi lamenti poiché lo scarpone era troppo stretto, le faceva male lo stinco destro, le dava fastidio il polpaccio sinistro, gli attacchi di chiusura erano troppo duri e quelli sugli sci troppo larghi.
Poco prima di pagare mi arrivò la chiamata di Helena  che mi avvertiva di raggiungerla  immediatamente e darle una mano con i bagagli.
Lasciai che ciascuno dei ragazzi si portasse i proprio sci, le scarpe in borsa e gli scarponi slacciati ai piedi.
Il nostro appartamento non era troppo lontano né dal parcheggio né dalla seggiovia che portava al primo complesso di impianti a 1200 metri di altitudine.
Gli interni erano accoglienti, con un parquet di legno chiaro,  un divano bianco ad elle in soggiorno e una vetrata che dava sulla neve, una piccola cucina e due camere da letto, una matrimoniale e una con un letto a castello e un lettino più piccolo, accanto al balcone. Inoltre era piena di armadi e librerie a parete, un tocco di classe.
Cercai di far sparire ogni cosa negli armadi per non turbare la pace di quella casa intonsa, evidentemente molto curata dai suo proprietari.
Fu allora che accadde il miracolo:  i ragazzi annunciarono che il loro nuovo amico Sam “quello degli sci”  si era offerto di fare una sciata con loro e fargli da guida fra gli stabilimenti.
Nessuno di noi si azzardò a rifiutare e, per una volta, vidi Helena più accondiscendente del solito e meno propensa a indagare più a fondo sull’attività del figlio.  Promisero che avrebbero tenuto i cellulari accesi e che avrebbero avvertito quando stavano per scendere.
Inoltre ormai si erano fatte le due e mancava giusto un paio d’ore alla chiusura degli impianti. Di certo non avrebbero avuto abbastanza tempo per fare danni.
Quando la casa fu nuovamente silenziosa, vidi Helena abbattersi a braccia spalancate sul matrimoniale esausta.
Nel frattempo io avevo riposto le nostre valige aperte negli armadi, aperte e stavo appendendo le giacche e le camicie perché non si stropicciassero troppo.
“La vacanza non è neppure iniziata e già sono distrutta”  mormorò lei, in un raro momento di sincerità e fragilità.
Appesi la sua giacca della Moncler color ghiaccio e mi accostai al letto, sedendomi in punta per non risultare troppo ingombrante.
Lei si spostò lentamente per farmi posto e mi stesi accanto, di fianco, e con la destra cominciai a carezzarle  il braccio destro.
Mi feci più vicino fino a stringerla fra le braccia e carezzarle il fianchi sottili eppure piacevolmente curvi. Adoravo le sue curve, quelle dei fianchi e dei seni, così sottili senza mai essere legnosi o spigolosi, sempre morbidi e caldi sotto i miei polpastrelli ruvidi. Ho sempre avuto delle mani piuttosto sgraziate, callose quando lavoravo nella campagna di mio padre, dure e spellate tutt’ora poiché dimentico sempre di idratarle e la mia pelle secca ne soffre.
 Dunque la mia donna avrebbe tutto il diritto di lamentarsene eppure non ha mai accennato niente in proposito.
Lei collaborava poco, era evidentemente provata dal viaggio, dallo stress per quella mattinata infernale e rimase ancora ferma, a farsi carezzare, benché riuscissi ad intuire, almeno dagli occhi leggermente lucidi e appannati, che non mi fosse affatto indifferente.
Quando tentai di spogliarla della maglia e del maglione di cashmir in una sola mossa mi fermò invitandomi ad alzare immediatamente il riscaldamento.
Ma proprio mentre trascinavo in basso lo slip e i pantaloni e mettevo a cavalcioni su di lei, sentii il cellulare vibrare forsennatamente e poi esplose l’irritante trillo della suoneria di Helena.
“Questo è Brian”  sussurrò con voce roca e un sospiro mentre si tirava a sedere con grande sforzo e allungava il telefono verso il comodino.
Fui costretto a mia volta ad interrompere la mia azione, slanciando in avanti il braccio per intercettare il cellulare prima di lei.
“Hel” la implorai con lo sguardo mentre mi sporgevo su di lei per costringerla a distendersi di nuovo. Arrivai a sussurrarle all’orecchio, indugiandovi con piccoli baci “lo richiamiamo dopo. ” e infine ribadii “Adesso non ci sei per nessuno. E neppure io.” . Ma quando cercai di baciarla quella si sottrasse, allungandosi ancora di più verso il cellulare.
“Hel, ti prego.”
La mi preghiera suonò a vuoto quando lei premette il tasto verde, portandosi poi il telefono all’orecchio.
“Brian?”  rispose con voce incerta, ancora roca per l’emozione ma quello ruppe per un momento quell’atmosfera intima che avevo faticosamente creato.
Mi alzai delicatamente, cercando di non scivolarle addosso e schiacciarla e mi allontanai verso il bagno furtivamente,  i pantaloni ancora dolorosamente stretti e il viso in fiamme.

“Lena, tutto bene? Ho interrotto qualcosa? ”
“Figurati. Dove siete? Avete finito le prove?”
“Ne abbiamo almeno fino alle sei. Penso che arriviamo verso le dieci di stasera.”
“Ho prenotato un albergo a pochi passi da noi.”
“Ha la sauna e la piscina?”
“Ovviamente.”
“Ok allora va bene. A stasera.”
“Non fate tardi, Brian, ne ho avuto abbastanza per oggi.”
“Promesso”

Mentre chiudeva la chiamata, ancora una volta Helena si ritrovò a pensare,  “non fare promesse che non puoi mantenere Brian.”

*******************

Ma Brian non arrivò affatto quella sera e la mattina dopo Helena salì anche lei con i ragazzi e insistette che venissi anche io.
Non volli contraddirla, era profondamente irritata: la sera prima era rimasta in attesa di un segno di vita dell’ex compagno, stesa sul letto con un thriller in mano.
Così l’avevo lasciata e così l'avevo ritrovata, di ritorno dal cinema, dopo aver accompagnato i ragazzi a vedere l’ultimo episodio di una sterminata saga fantasy, atteso spasmodicamente dalle nuove generazioni.
Purtroppo in paese non c’era niente del genere e quindi avevamo dovuto fare cinque o sei km in macchina per raggiungere una cittadina che contasse più di un centinaio di abitanti.
Già prevedevo che sarei andato a recuperarli dopo un paio d’ore e poi avrei dovuto accompagnare anche Sean, Sten o come diavolo si chiamasse il nuovo amichetto dei ragazzi.
Per lasciare loro un po’  di libertà avevo detto che avrei lasciato loro il tempo di farsi un giro nel centro commerciale, lo stesso provvisto di un grosso multisala che proiettava proprio il loro film. Avrebbero potuto prendersi un gelato o divorare marshmallow comprati al candyshop del terzo piano.
In realtà non mi interessava più di tanto quello che avrebbero fatto, purché potessi spendere qualche altro minuto accanto a Helena.
La vedevo stanca, i nervi a fior di pelle, come se dallo squillo del telefono dipendesse la sua pace, la sua tranquillità.
Ormai sembrava quasi che la nostra vacanza dipendesse da Brian.
Non so come riuscissi ad accettare questo pensiero con calma, non so perché non mi girassero i coglioni, e per l’ultima volta, non so come riuscii a mantenermi assolutamente calmo, comprensivo, un compagno modello.
La guardavo mentre faceva finta di leggere, davanti a noi la tv mandava in onda un vecchio film in bianco e nero, il volume era talmente basso che a stento riuscivo a seguirne le battute, tanto più che non ne avevo voglia.
“Ho parlato con Cody”
Non dette subito segni di vita come se ogni voce le arrivasse attutita, ovattata.
“Di cosa?”
“Di Brian”
Questo bastò a catalizzare la sua attenzione su di me.
Ovviamente questo mi irritò terribilmente e aggiunsi, per precisare, aspro:
“O meglio, di che razza di esibizionista è suo padre.”
“Cosa intendi dire?”
“Helena, come spieghi ad un ragazzino che i primi risultati su google , se si digita il nome di suo padre, sono una serie di foto provocatorie a metà fra il porno e una prova di trucco emo-dark?”
Mi sentii ancora più disgustato quando intravidi un mezzo sorriso sulle labbra della mia donna che trovai assolutamente fuori luogo, profondamente disturbante, totalmente ingiustificato.
“Ma si conciava veramente in quel modo? Come hai fatto ad uscire per anni con un tipo così?”
“Non lo conosci. E purtroppo neppure Cody.”
“Vuoi dire che saresti in grado di giustificarlo davanti a Cody?
Io non ne sono stato capace e il ragazzo se ne è accorto benissimo.”
“E cosa gli hai detto?”
“Tu cosa gli avresti detto?!” per un attimo trovai la domanda incredibilmente stupida e nella stanza risuonò un tono alterato, più forte di quanto volessi veramente.  
“Gli ho detto che tutti facciamo degli errori. Quello che forse avrei dovuto dirgli è che suo padre è recidivo! ”
“Penso se ne sia accorto da solo.” Ammise poi infine la donna con un sospiro posando il libro sul comodino, lasciandolo a languire piegato a metà.
Trovo quanto mai angosciante che, invece di usare un segnalibro, si metta a dura prova la rilegatura di un libro, specie di quelli le cui pagine sono semplicemente incollate insieme e non ricucite come in passato.
Mi da l’idea di una posizione precaria, una mancanza di rispetto nei confronti del libro. Ma dovetti rassegnarmi a non intervenire tanto più che finalmente avevo l’attenzione totale di Helena, conquistata faticosamente.
“Che razza di padre è uno che non sa niente di suo figlio? Uno che vive una vita separata? Non se ne interessa nemmeno! Sicuramente non si degna di presentarsi al viaggio che ha lui stesso organizzato perché fosse uno splendido quadretto familiare!”
Ancora una volta la vidi compiere quel gesto familiare, insopportabile per me che ogni volta metteva una distanza abissale fra noi.
E quando il primo fil di fumo fluì serpentino dalle sue narici mi alzai, scostando il plaid in maniera teatrale, con un gesto di grande insofferenza, e mi appoggiai di schiena alla vetrata, dall’altro lato della stanza, aprendo appena l’anta della finestra perché aria pulita mitigasse l’effetto di quella venefica.
“Quello che devi capire, Andrew, è che Brian non è una persona semplice.
Non è una persona coerente se non suo modo assurdo di comportarsi.
Ormai è lui stesso un clichès vivente. ”
“E allora perché stressarsi troppo per uno così? Perché non togli gli occhi da quel dannato cellulare e lasci perdere tutto? Perché non ce ne andiamo in sauna, io e te, o magari all’idromassaggio, al centro benessere più vicino?  Chiamiamo i ragazzi e diciamo loro di prendere un taxi. Che tornassero quando vogliono.”
La vidi farsi immediatamente altera, raddrizzò la schiena, e poi accavallò le gambe sotto il plaid, appoggiando poi il braccio filiforme sul ginocchio che sorreggeva la sigaretta, lo sguardo obliquo e severo:
“Questa non è la nostra vacanza Andrew. Non siamo qui per farci i massaggi nelle Spa e fare del romantico sesso nella vasca da bagno tutto il giorno.
Questa è una vacanza di famiglia.”
Dette un ultima tirata alla sigaretta ormai prossima alla morte, e si alzò dal letto per andarla a gettare nel cestino dell’immondizia, sotto la cucina.
Quanto a me, non potetti fare a meno di pensare che ero io l’intruso,  ancora una volta, un pesce fuor d’acqua, una presenza gradita ma non giustificata, un elemento contingente, sicuramente non necessario, ma neppure sufficiente.

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COLONNA SONORA:  mentre ultimamente sua maestosità canta di computer che lo sospettano gay (poteva chiederlo a chiunque, nessuno avrebbe mai pensato il contrario, neanche per un attimo) io mi riscopro nostalgica e rimango attaccata sempre alle solite vecchie cose.
Chiamatemi retrograda ma almeno quelle hanno un valore affettivo.


Angolo dell’autrice

Ok, lo ammetto, sono incazzata con Brian Molko.
Questa volta i testi sono penosi, le canzoni scontate, le ballate lamentose, i ritmi delle canzoni più serrate già sentiti, la “too many friends” che invade le radio  poi induce dipendenza in maniera agghiacciante eppure, se la si guarda a mente fredda, ci si chiede “perché cazzo dovrei ascoltare questa roba?”.
Insomma sono tremendamente combattuta perché sono certa che fra un po’ mi ci abituerò ed entreranno, una per una, a far parte della mia playlist preferita.
Ancora peggio. Rimpiango Battle for the Sun, ed è tutto dire.

Indi Helena soffrirà del mio essere scazzata, Andrew vivrà la sindrome dell’abbandono e si rafforzerà il mito misterioso di Brian Molko, troppo impegnato per fare il padre (anche se dai risultati recenti avrei preferito si fosse impegnato un po’ di più nella musica,  magari usciva qualcosa di un po’ più decente… ok , la smetto).
Con il dente avvelenato, più che mai,

Neal C.

p.s  si lo so, è un noioso capitolo di transizione e non meritate una schifezza del genere dopo un anno di attesa. Ammesso che qualcuno legga ancora questa storia…

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Capitolo 4
*** Fourth ***





Anche quella sera non si fecero vivi, non  arrivarono all’ora attesa, non partirono affatto in realtà. Un laconico sms alle cinque e mezza del mattino ci informò che avevano passato la nottata in studio e poi a casa di Brian, presi dall’ardore dell’ispirazione che in quei giorni sembrava non abbandonarli mai, rovinando così tutti i nostri programmi.

Non mi sarei stupito se avessero deciso, con la scusa del lavoro, di non raggiungerci più e mancare alla vacanza familiare che loro stessi avevano tanto insistito per organizzare.
Lo squillo del cellulare di Helena che annunciava il messaggio mi aveva riscosso, con una certa violenza, e nonostante la stanchezza mi facesse sbadigliare non ero riuscito a riprendere sonno.
Pensavo a quali sarebbero state le reazioni dopo l’ennesimo ritardo, pensavo al disappunto di Helena che avrebbe scosso la testa esasperata e sarebbe ricorsa ancora una volta al fumo come palliativo, pensavo alla delusione di Cody che avrebbe passato il resto della giornata imbronciato, magari buttandosi a capofitto sulle discese più ripide, sfidando la pendenza delle nere, particolarmente numerose sul versante est, semi nascosto dal sole e per questo completamente gelato ai bordi.
Quei ragazzini erano spaventosi. Si buttavano giù dalla montagna come se non vi fosse un domani, i loro corpi si curvavano in maniera armoniosa, scattante, aerodinamica come una fuoriserie dal muso appuntito, come pointer a briglia sciolta.
Io, ancora alle prime armi,  ero terrorizzato dalla montagna, dai suoi terreni scoscesi e scivolosi che catturavano il movimento scomposto dei miei sci e mi costringevano a scendere, preso dal vortice della pendenza. Era praticamente impossibile rimanere fermo, sentirsi saldo e con i piedi ben radicati nel terreno;  e poi vedevo loro che sfrecciavano fuori dalla pista, compiendo audaci acrobazie fino a saltare dal primo trampolino di lancio che i piccoli mucchi di neve offrivano, tutt’intorno.
La volta che ero uscito fuoripista invece io ero stato costretto a fermarmi, spaventato dalla mia velocità che mi aveva attirato al di fuori della mia traiettoria e mi ero bloccato, incapace di proseguire.
Ogni movimento, passo o tentativo di spostarmi in qualunque direzione contribuiva solo a farmi affondare nella neve, come se mi stessi scavando la fossa da solo.
Dopo quell’esperienza, la prima mattina, avevo deciso il giorno dopo di rimanere a casa, tanto più che accusavo un maledetto mal di testa dal momento che non avevo chiuso occhio dalle cinque e mezza del mattino fino alle sette, quando mi ero deciso ad alzarmi per una bella doccia calda.
Immedesimandomi nel ruolo del papà o della balia, come dir si voglia,  ero uscito a fare la spesa non appena aveva aperto il supermarket sotto casa.
I ragazzi non si erano svegliati prima delle nove e avevano trovato ad attenderli ogni ben di Dio sulla tavola del soggiorno che si specchiava nella finestra-vetrata, unica barriera che ci separava dal gelo nevoso.
Su una tovaglia rustica, dai colori chiari,  al centro tavola troneggiava un vassoio di toast prosciutto e formaggio, pane caldo integrale e fette biscottate fragranti, persino un dolce allo yogurt e a i mirtilli.
Poi c’era frutta, quali banane, mele e pere, burro e marmellate varie, e avevo addirittura preso una crostata di mele dall’aria attraente,  avevo voglia di strafare.
Per me e Helena caffè, per i ragazzi succo di frutta, the o latte con il muesli alla frutta secca.
Tutta quell’abbondanza faceva l’effetto delle pubblicità della Kellogs cereali, troppo ricostruita per essere vera, eppure i ragazzi non batterono ciglio, ancora mezzi addormentati.
La casa cominciò a rianimarsi quando cominciarono a discutere dei soliti argomenti, conversazioni alle quali facevo sempre fatica a partecipare.
“Ragazzi, oggi il versante est!” 
“Cody, che cavolo, è solo il secondo giorno! Sto ancora arrugginito.”
“Eddai Will, tanto meglio di come scii non sai sciare. Sei negato.”
“Gill, stai zitta.”
“Ma se eri una lumaca!”
“Cody, vuoi scommettere che oggi sulla discesa dell’orso ti semino di chilometri?”
“Non ci credo neanche se lo vedo.”
“Ragazzi”  la voce di Helena scivolò calda e materna in mezzo all’astio generale, una musica per le orecchie, quasi il canto di San Francesco che ammansisce le bestie feroci “perché non rimandate il versante est a quando arriva zio Stef? Non è il caso che vi  avventuriate da soli da quelle parti.”
“Mamma, che ha detto papà? Arrivano oggi?”
Percepii per un attimo lo sguardo della mia donna, un’occhiata di intesa, come avesse bisogno di sostegno nel dire ciò che stava per dire.
“Si, tesoro. Arrivano oggi.”  Dosò le parole e i toni ad arte, dolciastri, un po’ cinguettanti, tanto che lo vidi  storcere il naso infastidito.
La combinazione di toni zuccherini e il “tesoro” materno bastavano ad imbarazzare e confondere qualunque adolescente, e Cody rimase lì a mugugnare mentre cacciava la faccia nella scodella del muesli.
Poco prima di uscire, mentre i ragazzi affollavano il bagno, avevo avuto una discussione con Helena che non sembrava rassegnarsi alla mia incapacità e pretendeva di portarmi, ancora una volta, sulle piste con lei.
Insisteva che dovevo prendere lezioni, che non aveva senso quella vacanza dal momento che non partecipavo dell’unione familiare.
Io avevo chiuso l’argomento con una frecciatina di cui mi ero pentito subito dopo, chiedendole, con piacere sadico, se Brian sciasse.
Conoscendo il personaggio, era una romanza retorica e lei lo aveva subito intuito, incapace di ribattere.
Questo era bastato a troncare la nostra discussione e se la cosa aveva scosso Helena, lei non lo dette a vedere.
Semplicemente mi raccomandò di pensare a qualcosa per la sera visto che, sperabilmente avremmo avuto Brian, Stef e Dave a cena.
Quando mi ritrovai da solo in casa tirai un sospiro di sollievo, misi su un po’ di buona musica e con le note scoppiettanti del DaveBrubeck Quartet mi rilassai e mi misi a lavorare.
Il tavolo della cucina non era  abbastanza largo per contenere tutte le carte che mi ero portato. Infatti checché ne dicesse Helena, quello non era affatto un buon momento per me per andare in vacanza. 
Avevo da lavorare e anche parecchio. 


Mi misi a studiare incessantemente pagine e pagine di curricula di giovani che avevano fatto richiesta di lavoro, di stage, di praticantato, di finanziamento di un progetto artistico di qua, di una lettura di là, richieste di affitto e utilizzo dei locali delle gallerie di Soho a Londra e poi i conti di quella di Manchester.

Mentre impazzivo, sommerso dalle scartoffie, non mi accorsi nemmeno del tempo che passava. Si era fatta ora di pranzo eppure non avevo lo stimolo della fame, l’orologio era silenzioso, il suo ticchettio era coperto dalla musica che fluiva dalle casse mentre davo fondo a tutta la discografia del Quartet e di altre formazioni, sempre melodie soft che alleggerivano l’atmosfera eppure suonavano impalpabili, invisibili, intangibili come non esistessero.
Fu così che il campanello ruppe l’armonia che avevo faticosamente riconquistato quella mattina di lavoro.
è proprio vero che il lavoro può essere una droga, una di quelle buone, mentre la vacanza può essere un inferno che fiacca il corpo e affligge l’animo.
Dovetti andare ad aprire la porta. Per un attimo sperai che fosse Helena, già stanca di sciare, che aveva deciso di lasciare i ragazzi sulle pista, magari per dedicarmi un po’ di tempo. 
Ma la donna che mi si presentò alla porta non assomigliava a niente che conoscessi e mi lasciò sbalordito.
Era giovane, non doveva avere più di trent’anni, avvolta in un piumino bianco neve che mettevano in risalto il capello castano incorniciato da una sciarpa verde petrolio e soprattutto la pelle bronzea. 
Sembrava una copia di qualche anno più giovane di Eva Longoria, con i jeans scuri e i Moonboot alti, quasi fino al ginocchio.
“C’è Helena Berg?” 
“Lei… non è in casa.”
“Quindi abita qui.”
“Beh, si.”
Non avevo neppure finito di rispondere che quella superò la soglia con nonchalance trascinandosi dietro un trolley verde oliva di medie dimensioni, abbastanza ingombrante da farmi indietreggiare in fretta, colto alla sprovvista.
“E tu devi essere Andrew. Piacere, sono Rebecca.”
Rebecca? chi era Rebecca? 
Per un attimo mi sforzai disperatamente di ricordare se era una di quelle amiche di lunga data di Helena, londinesi e donne in carriera, che ogni tanto lei portava a casa.
Avevo il buio più totale, una così bella e formosa me la sarei ricordata, credo.
Forse me ne aveva parlato e non l’avevo ancora incontrata.
Ma perché non aveva avvisato che sarebbe venuta a trovarci? Non era da Helena.
Non che negli ultimi giorni Helena si fosse comportata come suo solito, eppure mi pareva strano che l’argomento non fosse uscito neppure di sfuggita, a tavola.
Rebecca mi tese la mano con un sorriso luminoso e, con un ritardo di diversi secondi, piuttosto significativo, finalmente mi decisi a stringerla, ancora  attonito.
“Ci siamo già incontrati?“
La sentii ridere, cristallina, gioconda come una lontra mentre si liberava del piumino, lasciando il posto ad maglione bianco panna, lo scollo a barca, che scendeva morbido fino a metà coscia, mentre in piccolo si distingueva il logo blu del cavaliere, un Ralph Loren.
Ralph Loren sarà l’unica casa di moda che mi è veramente familiare.
Sono i lussi che si conquistano quando improvvisamente si diventa ricchi imprenditori in ascesa e allora si è costretti a vestirsi come tali. 
Non ho mai avuto il coraggio di guardare in faccia i miei colleghi che vestivano Burberry o Dolce & Gabbana e rivelare loro quanto li trovassi ridicoli, con fantasie scozzesi create da menti perverse e completi dai colori insoliti che li facevano assomigliare a venditori porta a porta. 
Non concepivo assolutamente quella stupida moda di essere originali a tutti i corsi, rischiando di assomigliare ad un semaforo ambulante*. 
“In realtà no. E non mi stupisce che Brian non vi abbia detto niente di me.”
decretò con grande naturalezza, aprendo l’armadio a muro accanto all’ingresso e appendendovi il piumino. Si muoveva con tale sicurezza che sembrava conoscere perfettamente l’ambiente, forse persino l’angolo più recondito dell’intero appartamento.
“D’altro canto non siamo quello che si dice una coppia modello” mi strizzò l’occhio sbarazzina, come una Lolita rossa abituata ad ammaliare il suo professor Humbert con un sorriso.
Fu in quel momento che mi ritornò in mente quella conversazione feroce con cui mi avevano accolto Helena e il suo ex-marito, appena dieci giorni prima, quando quella vacanza era ancora un progetto vago nelle loro menti.
Rebecca, la nuova compagna di Brian.
Che cavolo ci faceva lì, a casa mia? Perché non era in hotel, a reclamare la stanza d’albergo che Helena aveva prenotato per lui, Stef e Dave?
Nel frattempo quella era scivolata fuori dai Moonboot, lasciandoli accostati all’armadio, ed aveva armeggiato con la tasca anteriore del trolley, tirandone fuori un paio di ballerine, pantofoline di velluto blu da cui spuntavano sottili caviglie avvolte dalla calzamaglia nera di lana misto cashmere.
Mentre ancora cercavo di levarmi di dosso quell’aria allibita, la seguii in cucina e ancora una volta non chiese indicazioni,  la vidi tirare dritto come avesse la pianta della casa stampata in testa.
Si allungo verso il primo ripiano a destra, sopra il lavandino e con un bicchiere in mano andò a recuperare una bottiglia d’acqua dal frigo.
“Allora… com’è che sono tutti a sciare e tu no? ”
“Ehm… non ne vado matto. 
è già stata in questa casa?”
Nonostante la sua parlantina spontanea e familiare, cercai di mantenere le distanze.
In fondo era appena la prima volta che ci incontravamo, per di più senza presentazioni ufficiali, soli in casa, una situazione che un po’ mi imbarazzava.
“Oh si! Proprio l’anno scorso, stessa stagione.”
“Era in vacanza con Brian?”
“Oh no, ero da un amico.”
Per un attimo ebbi la sensazione che la sua voce si caricasse di significati nascosti, che la parola “amico” fosse tremendamente ambigua, ma non riuscivo a spiegarmi perché mai ammettesse la cosa in maniera serafica ma per nulla innocente.
Tuttavia mi ostinai a chiedere conferma, cercando di mostrarmi interessato e per lo meno educato:
“Avete passato una buona vacanza, Lei e Brian?”
“Oh… Brian non c’era. Ero sola, con il mio amico.”
“Ah. E gliel’ha consigliata lei la casa?”
“Non esattamente. ”
Ma a che gioco giocava quella donna? Era quasi irritante, mentre mi forniva risposte telegrafiche, come fossero preziose perle di saggezza e, per di più,  con tono frivolo e squillante, sorseggiando l’acqua, appoggiata al banco della cucina.
“E da quanto tempo vi conoscete? ”
“Saranno quasi tre anni che ci frequentiamo. Con alti e bassi.”
“Capisco. E con i bassi come fa?”
“Ogni tanto mi prendo un periodo di vacanza. 
Sai com’è, abbiamo entrambi un carattere difficile.”
Adesso mi erano piuttosto chiare le dinamiche, talmente chiare che mi sconvolgevano.  Non saprei dire neppure perché; non che non avessi mai sentito di coppie instabili, “aperte” per così dire , eppure non mi spiegavo come potessero funzionare.
“Ti dispiace se faccio un bagno caldo?  Il riscaldamento faceva le bizze e l’auto era gelida. Brr.”
Sorvolai sull’onomatopea, buttata lì fanciullescamente, e per un attimo mi sentii le guance arrossarsi al pensiero di un’estranea che si serviva della vasca da bagno di casa mia, pur non essendo mia ospite.
Era la situazione che mi appariva assurda, senza senso, una novella di Lewis Carrol.
E Alice era di fronte a me, pronta a mettermi davanti al fatto compiuto, la semplice verità che non le potevo certo rifiutare qualcosa chiesta in quella maniera garbata e allo stesso tempo allegra come un trillo.
“Prego. Fai pure come fossi a casa tua.”
Sfiatai, arrendendomi all’evidenza.


******************************


Helena rientrò con le buste della spesa, i ragazzi al seguito, tutti eccitati perché avevano ricevuto il permesso di andare in piscina con Sam.

Subito si rinchiusero in camera, intenti a ripescare dai bagagli il costume da piscina, la cuffia  e l’accappatoio in microfibra, ignari della presenza della nuova ospite di casa. 
Misi piede in cucina e rimasi ad osservare la mia donna mentre riponeva i freschi in frigo, le scatole di riso e i biscotti per la colazione nella credenza, mentre la macchinetta del caffè ribolliva e borbottava in sottofondo.
Tirai un sospiro di sollievo.
Rebecca non era nei dintorni. Forse era uscita. Forse era ancora in bagno.
O forse semplicemente in veranda a godersi il panorama mozzafiato, l’unico luogo in  cui Helena avrebbe potuto fumare in tutta la casa.
Era accogliente,  invitante, intimo in qualche modo, surriscaldato, arredato con due  sdraio e un tavolino di vimini, in un angolo una cassapanca conteneva pesanti coperte di lana e pile. 
Me la immaginavo lì distesa, le sottili gambe incrociate, la schiena abbandonata all’indietro, magari un libro tra le mani oppure semplicemente le braccia abbandonate lungo il corpo. 
Poi la vidi allungare la mano,  in direzione della macchina del caffè e portarsi poi la tazzina alle labbra,  la vidi scuotere la chioma castana, avrei giurato fosse morbida al tatto, e ridacchiare briosa.
“Ha chiamato qualcuno?”
La voce di Helena mi arrivò attenuata, per un attimo ebbi la sensazione che le due immagini si sovrapponessero, quella della splendida mora dalle labbra piene e rosee e il profilo elegante, sottile, chiaro e affilato della mia compagna.
“Andrew? Tutto bene tesoro?”
Pian piano ripresi il controllo di ciò che vedevo e relegai quei pensieri da qualche parte, concentrandomi sulla macchinetta del caffè, lucida e grigia, il manico in punta semisciolto perché qualcuno doveva aver messo la fiamma troppo alta e la plastica aveva minacciato di gocciolare come la cera di una candela.
“Io… oggi è successa una cosa”
Cominciai attirando l’attenzione di Helena. Quella mi versò del caffè e me lo porse e io indugiai qualche secondo prima di prenderlo, senza motivo.
Il caffè caldo in gola mi tranquillizzò, mi aiutò a riprendere possesso dei miei sensi, sentii perfino il palato bruciare, inaridito dal liquido che scottava.
“è venuta Rebecca. Da Londra. Lei… ha detto che si fermava con Brian. Tu… ne sai niente?”
La vidi spalancare gli occhi totalmente sorpresa ma, dopo pochi secondi, eccola ritornare tranquilla, il volto teso in un sorriso forzato.
“Bene, non sapevo che Brian l’ avesse coinvolta… così staremo finalmente tutti insieme. È quello che volevamo, no?”
“E perché quella faccia allora?”
“Vorrei solo che me lo avesse detto.” Confessò con un sospiro che tradiva tutta la sua fatica “Lei dov’è adesso?” si informò, laconica.
“Non lo so. Forse in salotto, o in veranda.”
Parli del diavolo.
La sua presenza fu annunciata da un canticchiare sommesso, la sua voce allegra e acuta,  persino intonata.
Entrò ancheggiando sinuosa, padrona del campo, e subito si diresse verso il ripiano dei bicchieri, accanto al lavandino.
“Oh Helena! Ciao! Sono arrivata giusto un paio d’ore fa!” riempì il bicchiere dal rubinetto e se lo portò alle labbra, spiegate in un sorriso caloroso.
“Spero di non avervi creato problemi. Sto aspettando che arrivi Brian, sai. 
È lui che ha tutti gli estremi della prenotazione e poi…” mi strizzò l’occhio con un’aria di complicità estremamente imbarazzante, una vera civetta “…avevo bisogno di una doccia. E di un posto accogliente. Di una casa insomma!” decretò alla fine con tono di lusinga.
Quel suo modo così sensuale mi stordiva, mi sentivo in perenne imbarazzo, come se stessi tradendo la mia compagna mille volte. Passeggiava chiacchierina per la cucina commentando le nostre scelte in fatto di cibo, le marche che lei comprava, consigliava nuove ricette e tutto questo chiacchierando a più non posso.
Dopo l’iniziale stupore cominciai a  notare che la mia compagna rispondeva con la stessa moneta, alternava le sue frasi cariche di entusiasmo con brevi commenti cortesi, la gentilezza in persona e , di tanto in tanto, si dimostrava altrettanto civetta.
 Forse è questo il modo di comunicare delle donne in un contesto non familiare?
Non riuscivo a capacitarmi di quel cambiamento improvviso di registro.
Certo tutto ciò le rendeva ancora più attraenti. Entrambe.
“Rebecca, per caso Brian ti ha fatto sapere quando sarebbe arrivato?”
“Oh no, cara, mi dispiace. Ma sai com’è lui! Così indipendente, misterioso nei suoi movimenti. ”
“Io speravo che stasera avremmo cenato tutti insieme. ”
“Oh si! Potremmo cucinare del pesce!”
“In realtà da queste parti sarebbe più indicato del semolino, magari degli gnocchi.”
“Magnifico! Tesoro, che magnifica idea!”
“sarà il caso di chiamarli? Tu che dici, facciamo anche del polpettone alle erbe?”
“E magari la variante ripiena di speck di montagna? Quello si che sarebbe un colpaccio.”
“sono sicura che i bambini ne saranno deliziati!”
“Non vedo l’ora di cominciare!”

Improvvisamente mi ritrovai cacciato dalla cucina, la porta chiusa oltre cui si udivano rumori indistinti, a tratti stoviglie, a tratti il chiacchiericcio femminile che si faceva sempre più insistente, un debole chiocciare ovattato.
Ancora stordito dalla rapidità con cui le cose erano cambiate mi risolsi a rendermi utile: scoprire almeno se Brian, Stefan e Dave sarebbero arrivati in serata.
Il telefono squillò a lungo ma, all’ultimo, invece della segreteria telefonica sentii la voce suadente di Brian accarezzarmi l’orecchio.
“Pronto? Andrew sei tu?”
“Brian! Dove siete? Arrivate in serata?”
“Si. Siamo per strada. Tra un paio d’ore o poco più dovremmo arrivare.”
“Ottimo, avverto Helena. Vi aspettiamo.”
“A dopo.”
Subito mi affrettai a dare la notizia in cucina ma le due donne ormai erano in confidenza e si raccontavano episodi  divertenti su conoscenti in comune.
Non mi restava che scomparire, socchiudendo la porta.




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* Questa Eva Longoria per intenderci : 
http://www.telefilmaddicted.com/wordpress/wp- econtent/uploads/2013/09/eva-longoria-latest-wallpaper.jpg


*Per inciso, ecco qui qualcuno che non è esattamente sobrio nel vestire, con tanto amore
 http://wtfismattbellamywearing.tumblr.com/


Niente postfazione. Mi scoccio. E perdonatemi, questo capitolo è vergognosamente corto.
Ringrazio solo chi mi segue/recensisce/ricorda/preferisce, un saluto particolare a @Nainai, sempre di ispirazione e spero di aver risposto alla richiesta di @alexichains (p.s grazie per l’incoraggiamento).
Soprattutto spero che questo capitolo soddisfi voi, a me non ha convinto del tutto.
Ma pian piano si chiarirà tutto. Abbiate fede.

Neal C.

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