Eternal Mourning di ViolaNera (/viewuser.php?uid=163681)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Dolore ***
Capitolo 3: *** Sopravvivenza ***
Capitolo 4: *** Incontro ***
Capitolo 5: *** Armonia ***
Capitolo 6: *** Anniversario ***
Capitolo 7: *** Suggestioni ***
Capitolo 8: *** Rottura ***
Capitolo 9: *** Disillusione ***
Capitolo 10: *** Proposta ***
Capitolo 11: *** Fine ***
Capitolo 12: *** Capitolo Extra ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
«Noregur...»
Il
ragazzo alza il viso verso il fratello che l'ha chiamato, non
mostrando alcuna emozione particolare. Si guardano brevemente negli
occhi, prima che Islanda interrompa quel contatto e gli faccia un
cenno, appoggiando le spalle al muro e incrociando le braccia,
strette, come a tenersi insieme da solo.
«Digli
addio anche tu. È al limite.»
Non
vorrebbe darlo a vedere, ma sussulta a quelle parole.
Addio.
Dire
addio.
Non
vuole dire addio. Non può farlo. Non è... pronto.
«Nore,
ti prego, fallo.»
Volta
leggermente il viso, ma Islanda lo coglie con la coda dell'occhio e
fa la stessa cosa per prevenire di essere visto, impedendogli di
guardare le lacrime che scendono, lente, sulla pelle chiara.
Islanda
sta piangendo. È troppo.
Anche
se in quella camera da letto, oltre la porta bianca accostata, c'è
tutto quello che non riesce ad affrontare, a quel punto si decide a
muoversi, perché quelle lacrime sono una vista insopportabile.
Sono l'espressione di ciò che prova lui stesso, ma che fatica
a mostrare. Se cedesse ad esse, come potrebbe fermarsi? Sono il
dolore straziante al cuore, i ganci dilanianti allo stomaco, il peso
opprimente che gli rallenta i respiri fino a fargli mancare l'aria.
Islanda
sta soffrendo oltre ogni dire, ma il fratello condivide una parte
del proprio personale dolore. Lui...
Senza
una parola, senza un singolo suono, Norvegia si dirige con passi
malfermi alla porta e la sospinge.
Danimarca
è sdraiato completamente, le morbide coperte ben tirate su a
ripararlo dal freddo. Non ce n'è, la casa è ottimamente
riscaldata, ma ciò non significa che lui non lo senta fin
dentro le ossa.
E
il gelo di Norvegia? Non esiste nulla al mondo che possa ridurre
quegli spifferi terrificanti che gli scorrono dentro, corrompendo
fino all'ultima goccia di sangue.
L'unica
cosa che potrebbe farlo sparire, quel gelo fastidioso, è un
miracolo.
Un
miracolo che non avverrà, perché Danimarca è
al limite.
Un
miracolo che non esiste.
Nel
suo aspetto, non c'è molto che possa far supporre la gravità
della situazione. È bello come sempre, tolte le profonde ombre
scure sotto gli occhi ed i colori sbiaditi. Sembra semplicemente
malato, steso a quel modo ed immobile, con le palpebre leggermente
abbassate su occhi privi della solita scintilla vivace, calmo e
silenzioso con le mani abbandonate vicino ai fianchi.
Norvegia
prova l'irrazionale impulso di afferrarle e salire sul letto,
chinarsi e gridare con quanta voce ancora gli rimane in corpo di
combattere, di guarire, di non azzardarsi a lasciarlo.
Non
può farlo, Danimarca. Ci sono ancora tante cose che non sa e
che devono fare, insieme. Cose da dire, cose da recuperare, cose
da...
«No...
Nor», sussurra, dopo una prima pausa per deglutire, sentendolo
giungere accanto a sé e sforzandosi di aprire meglio gli
occhi.
Norvegia
non risponde al suo richiamo, allunga soltanto un dito e glielo posa
sul dorso della mano più vicina, scivolando su e giù in
una strana carezza timorosa. Ha paura di romperlo, forse. Ha paura di
toccarlo davvero, di scuoterlo troppo, di fargli male, di non sentire
il calore che ha sempre emanato con la stessa intensità del
profumo della sua colonia.
Non
abbandonarlo, vita. Tienilo con me, ti darò qualsiasi cosa.
«Sei...
arrabbiato con me», tossicchia cercando di sorridere. Però,
è una smorfia sofferente quella che gli attraversa il viso.
Era
una domanda? Oppure una constatazione? È così sfinito
da non riuscire a porre il giusto tono nelle frasi?
Lo
odia. Lo sta davvero odiando. Non può lasciarlo. Non è
contemplabile, non è autorizzato a lasciarli indietro. Odia
persino il modo in cui non riesce a udire il suo respiro che i primi
mesi era raschiante e riconoscibile.
Odia
quella situazione e odia la malattia che ha aggredito la nazione,
consumando il corpo forte e pieno di energie che è sempre
stato solito stritolarlo all'improvviso, scatenando proteste e
spintoni infastiditi.
Per
uno di quegli abbracci, ora, sarebbe disposto a cadere in ginocchio
ed implorare, cedere ogni ricchezza che possiede.
«Non
sono arrabbiato con te», risponde, lasciando che all'indice si
aggiungano anche le altre dita, per posare definitivamente la mano su
quella rilassata di Danimarca. Non crede ai propri occhi quando la
vede girarsi e stringere la propria con una forza inaspettata.
Forse
è la prima vera volta da quando è diventato adulto, ma
Norvegia ricambia il gesto.
Brividi.
Ah, quei maledetti brividi che rischiano di farlo crollare da un
momento all'altro, incrinando una superba facciata che ha sempre meno
senso.
«Ti...
ti mancherò? Puoi dirmelo.»
Norvegia
sta tremando e si detesta quando perde la visione nitida del viso
pacato, stanco e grigio di Danimarca, quando tutto diventa confuso e
distorto e l'umidità improvvisa degli occhi non lo aiuta
minimamente a sfogare il dolore e il senso di impotenza, né a
soffocare la lama conficcata in gola. La acuisce soltanto.
«Sei
un idiota», riesce a rispondere chinando la testa. «Non
hai il diritto di dire certe cose.»
Un
verso strano, diverso da tutto ciò a cui l'ha sempre abituato,
ma comunque simile ad una risatina, scuote il danese. La mano che
tiene la propria rilascia la presa, ma solo per muovere meglio il
pollice in una serie di piccole carezze.
«Ho
detto... a Is... che deve abbracciarti più spesso, perché
tu... a te piace», riprende faticosamente. «Io non po...
non posso farlo più... 'spiace.»
«Smettila.»
«Nor-»
«Smettila!»,
esplode sporgendosi su di lui. «Tu non stai morendo! Non te lo
lascerò fare! Mi ascolti? Non ti muoverai da questo mondo
schifoso, resterai qui ad infastidirmi fino allo spegnimento del
Sole! No, ben oltre!»
C'è
una dolcezza infinita nello sguardo di Danimarca, mentre lo osserva e
lo lascia sfogare come se quelle parole non fossero una sorpresa,
come se la rabbia fosse naturale e prevedibile.
Aspetta
con pazienza che si calmi, che si zittisca respirando avidamente, poi
si lecca le labbra. «Jeg elsker dig, Norge»,
sussurra con voce limpida.
«Che...
che cosa-»
«Farvel,
min ven.»
«D-Dan...»
Le
palpebre di Danimarca si abbassano occultandogli le brillanti iridi
azzurre in via di spegnimento. Se ne sta andando, si arrende, ha
resistito solo per...
«Dan?
Dan! Tu, idiota! Aspetta!»
Jeg
elsker dig, Norge.
No.
Un momento. Solo un dannato, fottutissimo momento. Non può
andarsene, non ora, non in quel modo. NO.
«Jeg...
elsker... deg», sussurra, tremando dalla testa ai piedi, non
vedendo praticamente più nulla. «Mi senti? DANMARK!»
Continua
a gridare che lo ama, grida così forte da spaccarsi qualcosa
dentro, da perdere la voce e finire a rantolare sul letto. La gola
brucia ed implora pietà, mentre continua ad accarezzargli
spasmodicamente il viso immoto e rilassato, ignorando tutto il resto,
inveendo contro un guscio vuoto.
«Jeg
elsker deg... Jeg elsker deg... ti prego, t-torna da me.»
Affonda
il viso nel suo petto e il terrore lo avvolge completamente quando
capisce che non c'è battito né respiro, che Danimarca
se n'è andato e non sentirà più la sua voce
stupida che sapeva anche essere calda e profonda e mai, mai più
proverà a fargli una carezza sulla testa che verrà
allontanata con malagrazia dopo qualche secondo.
La
sua mano. Dov'è.
Norvegia
scivola in ginocchio accanto al letto e gli prende la mano
posandosela sulla testa. Si abbandona con la guancia sul materasso e
lo inzuppa di lacrime bollenti.
«Jeg
elsker deg», sussurra, buttando fuori ogni sillaba mai
pronunciata ad anima viva, con sofferenza straziante.
Vorrebbe
essere ascoltato, ora, con tutto se stesso.
Vorrebbe
che Danimarca potesse sentirlo e rispondergli ancora.
Teme
di essere stato lui stesso a finirlo, dandogli quello che aspettava,
quello che ancora lo teneva legato a questo mondo.
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Capitolo 2 *** Dolore ***
Apre
gli occhi di soprassalto e si porta immediatamente la mano tra
i capelli sparsi sul cuscino. Ha il cuore nelle tempie, impazzito, ed
il respiro accelerato dall'incubo appena concluso. Un incubo
tremendo, il solito, che dichiarare “finito” è
quanto di più erroneo possa fare.
Perché
si può definire incubo qualcosa che è realmente
accaduto? O vale solo per le paure più nascoste? Che cosa
importa, quando al risveglio non cambia niente?
Per
lui, che in quell'incubo continua a viverci, non conta dare una
definizione al termine, ma sa che ci sono molte ossessioni in quello
che sogna e che non è un semplice e cronico rivivere l'evento.
Perché
non è andata proprio così.
Non
ha detto a Danimarca di amarlo nemmeno dopo che se n'è andato,
nemmeno dopo essere rimasto a fissare il suo corpo senza più
anima. Non l'ha sussurrato neanche al letto vuoto, vero? Non ne è
stato capace. Ha il dubbio di non aver fatto assolutamente nulla di
quanto continua a sognare; dirglielo fino allo sfinimento, nei sogni,
non serve a nulla.
Sono
passati così tanti anni che non è nemmeno sicuro di
averglielo sentito dire. La sua debole mente potrebbe aver costruito
quel ricordo a regola d'arte, infarcendolo di speranze e desideri mai
dichiarati. Essere nel cuore di Danimarca, essere il suo ultimo
pensiero, essere amato al punto tale da tenerlo in vita finché
non gli avesse detto addio. Chi può dire cos'è vero e
cosa frutto di un cuore spezzato e una mente devastata, alleati per
continuare a torturare la sua esistenza.
Lancia
un'occhiata obliqua alla sveglia e apprende che sono le tre del
mattino. Molto tardi o molto presto. Ha importanza?
Accende
la luce senza la voglia di rispondersi, si alza e ciondola per casa
fino alla cucina per prepararsi un caffè, chiedendosi
oziosamente se debba considerarlo l'ultimo del giorno passato o il
primo di quello appena iniziato.
Nuovo
giorno.
Un
altro senza Danimarca e le sue mani invadenti, sempre pronte a
toccarlo e ad appiccicarsi a lui, ghermendolo per la manica e
stritolandolo.
Non
si rende conto di essere immobile con un'espressione assurda dipinta
in faccia, un misto tra cordoglio e felicità. Il viso non sa
se sorridere o piangere, semplicemente, è indeciso e bloccato
davanti a quel ricordo, quella sensazione ancora tanto potente come
fosse appena accaduto. Un suo caldo abbraccio.
Torna
inflessibile e scuote appena il capo, accendendo la macchinetta e
prendendo la sua tazza con gesti automatici. Si domanda se quel
vuoto, un giorno, si chiuderà anche solo parzialmente. Se
Danimarca è destinato a mancargli per sempre con la stessa
intensità del primo momento in cui gli è morto sotto
gli occhi, rimpiangerà per tutto il resto della vita di non
averglielo mai confessato?
Sì,
anche senza la premessa. Il grande
segreto
è sepolto assieme ai suoi capelli biondi.
Ah,
quei capelli. Quanto gli piaceva passarci le dita per ore, mentre gli
dormiva con la testa sulle gambe. Si lamentava che erano ossute, ma
chissà come non voleva mai un cuscino, lo scemo. Erano le
uniche occasioni in cui si permetteva di toccarlo in quel modo,
protetto dal suo sonno profondo e quindi libero di lasciarsi andare.
Gli piaceva vegliare il suo riposo.
E
le mani. Quelle maledette mani, quanto gli mancano.
Di
nuovo, non per la prima volta in quei lunghi anni, sale a posarsela
al centro della testa lasciandola lì, ferma. Chiude gli occhi
e finge che sia la sua. Ignora con tutto se stesso la consapevolezza
di avere un braccio alzato, anche quando il muscolo comincia a
tirare.
Immagina
che sia in piedi, ritto dietro di lui, entrato in cucina poco dopo.
Costruisce mentalmente il suo pigiama abbottonato male e i capelli
sparati di lato, schiacciati sulla tempia. È così reale
da far male.
Buongiorno,
Nor! Siediti, ci penso io! Però ne bevi un po' troppo, sai?
Apre
la bocca per rispondere a tono, qualcosa di acido del tipo che il
caffè può prepararselo benissimo da solo, che c'è
da premere un dannato bottone e che non sono affari suoi di quanti ne
beve, che badi alle birre che infestano il frigorifero ogni volta che
disgraziatamente lo ospita.
Apre
e chiude la bocca, senza che un singolo suono faccia la sua comparsa.
Si
ritrova il viso bagnato di pigre lacrime che filtrano attraverso le
palpebre abbassate. Le labbra continuano a muoversi, lasciando
sfuggire deboli soffi d'aria.
«Sì,
ti prego. Preparamelo»,
sussurra infine con voce spezzata, prima di chinare la testa e
riabbassare la mano per aggrapparsi al ripiano, contrastando la
vertigine. «Hai
voglia di cucinare, per caso? So che è notte fonda, ma i tuoi
biscotti non sarebbero... non sarebbero male... è tanto che
non li fai, Dan.»
I
miei biscotti? Ma se ti sei sempre lamentato di tutto il burro che ci
metto! Sei strano, Nor! Non ammetti mai che ti piacciono!
«Hai
ragione, ma sono davvero buoni. Non lo ripeterò una seconda
volta, quindi non esaltarti. Dan, puoi farli per me? È troppo
tempo che li aspetto.»
Se
ci tieni tanto mi metto subito all'opera! Sono contento, Nor! Hey,
vuoi aiutarmi?
«Lo
sai che non sono capace.»
Non
importa, ci divertiamo lo stesso!
«Non
lo dirai quando faranno schifo»,
esala stringendo più forte il bancone vuoto.
Sì,
invece. Mi fa piacere che tu me li abbia chiesti. Grazie, Nor.
È
patetico.
Patetico
parlare da solo con una voce fantasma che si origina senza controllo,
patetico stare male perché sa che quelle frasi sarebbero
esattamente quelle pronunciate da Danimarca ed illudersi, proprio a
causa di quella capacità di evocarlo, di avere ancora un
contatto con lui.
Non
c'è.
Potrebbe
immergersi nell'oceano, andare al centro della Terra, prendere uno
shuttle diretto alla Luna: Danimarca non esiste in alcun luogo,
tranne nel proprio cuore. Sono sempre insieme, così? No,
errore. È ancora più solo, lasciato ad immaginare
dialoghi a senso unico e a bramare una mano che non può né
sfiorarlo né preparargli alcunché. Non più.
E
poi, già, ci sono i video. Gli stramaledetti video.
Video
di tutte le occasioni che Sealand ha sempre voluto filmare quando si
ritrovavano a festeggiare qualcosa con Finlandia e Svezia, oppure
andavano tutti insieme da qualche parte. Se c'era Sealand c'era
sicuramente un video, dopo, anche di una semplice gita al lago. Il
bambino ha sempre fatto delle copie per loro e una parte di Norvegia
vorrebbe non l'avesse mai fatto.
La
prima volta che si è ricordato dei video è stato a
causa di Islanda.
Non
avrebbe voluto che il fratello indugiasse in quelle scene
irripetibili di loro felici, ubriachi ed imbarazzanti. Con Danimarca,
soprattutto. Non gli sembrava giusto spiare un passato morto.
Islanda
non aveva detto niente quando si era avvicinato durante la visione di
uno di questi; si era semplicemente spostato di qualche centimetro
per fargli posto davanti allo schermo. Norvegia si era seduto accanto
a lui, sul tappeto, ed insieme avevano guardato il video del Natale
dell'anno precedente e poi altri, altri, altri, sempre in religioso
silenzio.
In
seguito, aveva iniziato a guardarli anche da solo. Il dolore era lì,
sempre pungente, sempre pronto a spaccarsi in migliaia di schegge e a
riformarsi in un unico blocco di pietra pulsante, che si rispezzava
con la stessa intensità del primo giorno ad ogni crudele,
bellissimo fotogramma.
Aveva
scoperto con pacata meraviglia l'utilità del tasto pausa e del
rallentatore. Aveva speso ore intere a guardarlo ridere, dire cose
senza senso, ballare su un tavolo con Finlandia e far ondeggiare il
sedere sotto lo sguardo tremendo di Svezia, il quale cercava di
recuperare il più ubriaco affinché non si facesse male.
Da
solo, senza rischio di essere visto, aveva commentato, insultato,
disapprovato, pianto in silenzio, sfiorato lo schermo in
corrispondenza della sua guancia o della fronte. Gli sembrava che
ricambiasse gli sguardi e si dimenticava anche di mangiare e bere pur
di stargli accanto in quel modo e farsi guardare.
Improvvisamente
poteva rivederlo ogni qualvolta avesse voluto farlo, poteva sentire
la sua voce e rispondergli togliendo il volume subito dopo una sua
frase, in modo da simulare un vero scambio in tempo reale. Aveva
finito per imparare tutto a memoria.
Non
poteva toccarlo né sentire in cambio il calore del suo tocco.
Non poteva sistemargli un ciuffo afflosciatosi davanti ai suoi occhi
comicamente incrociati, come il Norvegia nello schermo stava giusto
facendo, anche se poteva ricordare nettamente la sensazione del
gesto.
Col
tempo si era reso conto che quella non era una soluzione né
una cura o un balsamo.
Era
uno straziante tormento, ma era tutto ciò che gli restava.
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Capitolo 3 *** Sopravvivenza ***
Venticinque
anni.
Dopo
giorni, settimane, mesi.
Venticinque
anni tutti uguali, né troppo lunghi né troppo corti,
solo identici e inutili, senza più furori, batticuori,
emozioni celate ma vissute ugualmente, provate.
Come
Norvegia, come nazione, anni in cui è prosperato e non ha
mancato nemmeno una riunione o si è sottratto alle proprie
responsabilità.
Come
Lukas, come uomo, anni in cui, spento, ha riversato le proprie
esclusive attenzioni su Islanda cercando di essere sempre un buon
fratello.
Il
dovere l'ha fatto andare avanti, ma certe volte ritiene più
veritiero ammettere che è stata semplice forza d'inerzia,
l'abitudine ad essere perfetto ogni singolo giorno.
Non
parla quasi mai di Danimarca, nemmeno con Islanda. Non parla mai del
passato, pur vivendoci dentro.
Passato?
Venticinque anni è solo ieri
ed
il
tempo si è fermato su quel letto.
Lo
sanno gli incubi in cui “ripara” al rimpianto di non
avergli mai dimostrato cosa provasse davvero e lo sanno le ore
insonni, quando si siede sul divano e parla da solo, recitando con
maestria scene già accadute o che sarebbero potute accadere.
Lo sa il braccio sinistro, ormai abituato a stare in alto per
permettergli di tenere la mano sulla testa anche mentre legge o si
addormenta. E lo sa il cuore, inaridito e indolente perché non
ha più la persona da amare.
La
Danimarca ha attraversato una crisi terrificante, così
profonda e travagliata da ridurre in miseria e decimare la stragrande
maggioranza della popolazione; lo spirito della nazione stessa è
caduto, infine, succube della malattia,
dopo mesi di sofferenza ed inutili tentativi di recupero.
È
quasi ridicolo che una crisi interna al Paese sia riuscita a
portarglielo via. Benché abbia visto i tumulti, le uccisioni,
l'anarchia, la disperazione dilagante, benché abbia assistito
in prima persona al suo crollo, settimana dopo settimana, ed abbia
fatto tutto il possibile insieme agli altri (ma
non abbastanza,
se lo ripete sempre), è ancora troppo dura da digerire.
Venticinque
anni sono relativamente pochi dopo quel disastro, ma la Danimarca è
tornata a raccogliere i propri pezzi già da tempo. Presto o
tardi, un nuovo Spirito nascerà per sostituire il precedente.
Sostituire.
Un sostituto non è lui,
non sarà mai lui,
anche se avesse il medesimo aspetto non avrà il suo passato né
condividerà i loro ricordi.
Norvegia
non spera in una resurrezione del suo Dan, è realista e
pratico.
Lo
accoglieranno, lo conosceranno e lo istruiranno, ma non sarà
Dan.
Porterà
quel nome e basta. Ogni volta che dirà Danmark, per
chiamarlo, sa già che sarà una fitta al cuore.
«Bevilo---!»
Un
coro da taverna, tipico di un gruppo di gente brilla, lo distrae
dalle proprie elucubrazioni portandolo a fissarli, da sopra la
spalla, con malcelata irritazione.
Quell'angolo
del pub è gremito e sembra che un giovane, con il piede ben
piantato su una sedia, stia tenendo banco scolandosi un boccale
grosso come la testa di Norvegia.
«Vai,
Mathias! Ce la puoi fare!»
Mathias.
È
un nome comune, non dovrebbe colpirlo più di tanto. Comunque
non è Mattæus.
Non può nemmeno uscire di casa che ecco comparire coincidenze
come quella a ricordargli perché ha deciso di provare a
superare l'insonnia rintanandosi in un pub a bere birra alle due di
notte. Birra che nemmeno gli piace e che è solo un'altra
patetica scusa per sentirlo con sé e fingere, in una disperata
manovra per tirare avanti dignitosamente un altro giorno, che stia
occupando il posto lì accanto.
Per
poco non ha ordinato due boccali, quando è arrivato.
Sospira
e ne ordina un'altra, sperando che la smettano presto di fare tutta
quella inutile confusione.
«Ragazzo,
non sei un po' troppo giovane per bere tanto?», lo apostrofa
bonariamente il proprietario, inarcando un sopracciglio.
«No.»
«Mh.
Almeno chiama qualche amico per farti portare a casa, intesi?»
«Le
sembro ubriaco? Si preoccupi di quelli là», risponde
laconico indicando dietro di sé.
Il
barista ridacchia apprezzando l'osservazione e gli porge il terzo
boccale.
Arrivato
a circa metà, quando ormai gli schiamazzi sembrano essersi
sedati e pensa di aver toccato il fondo, una mano si abbatte decisa
sul bancone ed il ragazzo notato prima gli si siede accanto con un
balzo scattante.
«Mathias,
hai vinto i tuoi soldi?», chiede il barista in tono amichevole.
«Già!»
La
sua voce è su di giri, allegra e squillante. Norvegia non si
disturba nemmeno a voltarsi a guardarlo meglio, ha già
inquadrato il tipo: fastidioso e attaccabottone. Se gli offre anche
la minima occasione per rivolgergli la parola sarà finita e
lui vuole solo essere lasciato in pace. Niente contatti visivi,
niente di niente, neanche la mano a coprirsi l'orecchio con fare
annoiato per il tono eccessivamente alto che ha usato a pochi
centimetri dalla sua persona. Si comporta di fatto come se il ragazzo
non esistesse.
Vede
con la coda dell'occhio che questi porge all'uomo dietro il bancone
un paio di banconote.
«Ne
ho vinti abbastanza da poter fare un regalo alla tua bambina. Tieni,
vecchio.»
«Pensa
al tuo fegato. Hai solo vent'anni, sai?»
«Venticinque»,
cinguetta il ragazzo mettendosi d'un tratto a guardare Norvegia e non
accorgendosi dei soldi che gli vengono cautamente rinfilati nel
taschino della camicia.
Adesso
basta. Anche il venticinque che torna. Io me ne vado.
Si
volta per scendere dallo sgabello e finisce occhi negli occhi con il
ragazzo. E lì si blocca.
Decisamente
non è come lui. Gli occhi sembrano verdi, di un verde non
molto definibile con le luci artificiali che li circondano, ed i
capelli sono sì biondi, ma è un biondo troppo chiaro,
quasi come quello di Svezia. Il sorriso che gli rivolge è
completamente diverso, così come la singola fossetta sulla
guancia e la forma del viso.
Eppure
c'è qualcosa. Non sa bene cosa sia, forse l'atteggiamento
spavaldo, il fatto che sia tanto allegro e si sia seduto dove, nella
sua immaginazione, stava Dan a tenergli compagnia sfinendolo di
chiacchiere che solo lui poteva udire. O è colpa del nome,
magari.
Tuttavia,
Norvegia deve reprimere un lunghissimo brivido e una sensazione quasi
sgradevole alla bocca dello stomaco.
«Ciao!»,
esclama quello, gioviale, girandosi completamente verso di lui e
impedendogli la fuga usando le ginocchia. «Sei da solo?»
Che
vuole? Abbordarmi?
«Sto
andando a casa», gli risponde, poi si volta dalla parte opposta
per saltare giù. Qualcosa non va molto bene e se ne accorge
appena mette piede per terra. Il pavimento vortica pericolosamente,
lo sgabello è troppo alto, ed il pensiero, improvviso, di aver
bevuto tanto senza nemmeno preoccuparsi di mangiare (l'ultima volta è
stata il giorno prima o quello precedente?) sono indizi sufficienti a
fargli capire che non andrà molto lontano.
Due
braccia sicure gli si stringono attorno al torace e gli impediscono
di cadere in avanti. Il viso sorridente e un po' preoccupato del
ragazzo invadente fa capolino sopra la sua spalla.
«Oplà!
Qualcuno ha bevuto troppo e non è abituato», gli
sussurra divertito.
Il
rossore si impadronisce di lui, così come la vertigine
improvvisa alla considerazione che quella stretta è
terribilmente simile ad un abbraccio. Un abbraccio da dietro, non
aspettato, soffocante e rassicurante.
Un
abbraccio che non riceve da...
«Lasciami
andare!», sbotta, in un inaspettato scoppio d'ira, liberandosi
dalla stretta di Mathias.
Si
volta e lo guarda duramente, appellandosi alla compostezza, tornando
indifferente alla velocità della luce. Voleva essere gentile,
non deve aggredirlo.
«Non
mi piace essere toccato. Scusa», borbotta con voce incolore
senza guardarlo. Mette dei soldi sul bancone e si allontana a passi
svelti, meno ondeggianti.
Male.
Di
nuovo, il dolore martellante del cuore, che però è più
persistente nella gola come se un nodo gli si fosse stretto con la
ferma intenzione di impiccarlo. Ci vuole un po' per spingere la porta
ed uscire dal locale, ma quando è fuori si dice che non
tornerà mai più in quel posto.
«Perché
mi chiedi queste cose, Norge?»
Inghilterra
lo squadra sorpreso, al di sopra dell'elegante tazzina da tè.
«Sei
sempre molto informato, sei la prima persona alla quale penso.»
«Me
ne intendo più di magia. Quando parliamo di quegli argomenti
mi trovi preparato», ribatte, sorseggiando con grazia innata.
«Vuoi
far ancora pesare al mondo di essere la patria di Harry Potter?»
Il
gentiluomo sogghigna in maniera perfida, scuote le spalle e abbassa
la tazzina posandola davanti a sé.
«Oh,
ho smesso. Il mondo se ne rende conto da solo.»
«Engl-»
«Ascolta.
Sono addolorato per la tua perdita. Siamo venuti tutti al suo
funerale ed è stato un momento al quale spero di non dover
assistere mai più. La mor... la scomparsa di una nazione è
la scomparsa di un fratello e per quanto sappia di essere considerato
un cinico bastardo, credimi, quello che è successo a Danmark
ha colpito anche me.»
Norvegia
passa l'indice sul bordo della propria tazzina, obbligandosi a bere
qualche sorso della bevanda ambrata che non lo fa impazzire, tacendo
ad occhi bassi.
«Quello
che mi stai chiedendo, però, “a titolo informativo”,
come lo chiami tu, è qualcosa che non posso accettare. Una
nazione passa attraverso secoli di guerre, boom, crisi, successi e
sconfitte. Ci sono infiniti problemi, anche nei tempi moderni, ogni
singolo giorno, ma una nazione scompare se viene obbligata a farlo,
non decide di scomparire. Perciò no, non puoi morire a
piacimento.»
«Non
voglio morire.»
«Sì,
lo vuoi, me l'hai chiesto tra le righe. Proprio tu, di tutti quelli
che conosco, venirmi a domandare... insomma, Nor, credevo che tenessi
al tuo popolo con tutto te stesso.»
«Sarei
sostituito, col tempo. Me l'hai detto proprio tu.»
«Ci
vuole molto tempo, non è come il passaggio del testimone. Sei
una nazione benedetta, non puoi spegnerti in questo modo.»
Sono
un uomo che non ha più voglia di alzarsi in piedi, Arthur.
«Vuoi
che Islanda si disperi, perdendoti?»
«È
per lui che io...»
«Che
tu cosa? Hai retto fino adesso? Norge, per quanto ti pesi, hai
l'obbligo di vivere. E senti, mh... non sono la persona più
adatta a fare questi discorsi profondi, ma... io credo che...»
L'inglese
armeggia coi bottoni della bella giacca, a disagio, fissandolo al di
sotto delle cespugliose sopracciglia. Ha un'espressione insolitamente
compassionevole che lo fa assomigliare moltissimo al piccolo Sealand
quando si sente in colpa per qualcosa.
«Lui
non avrebbe voluto questo», dichiara in tono basso.
Non
gli risponde, ma fa un piccolo cenno che potrebbe essere d'assenso.
«Quindi,
se lo capisci, smetti di fare certe domande.»
«Arthur»,
sussurra lanciando uno sguardo fuori dalla finestra, mentre si morde
l'interno del labbro inferiore. «Dov'è adesso?»
L'inglese
segue il suo sguardo e si perde a fissare un punto imprecisato delle
tendine scostate.
«È
una bella domanda. Bella davvero.»
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Capitolo 4 *** Incontro ***
«Ragazzo!
Hey, ragazzino!»
Ragazzino?!
Si
ferma e si volta con la faccia più disinteressata che gli
riesca, mentre il rompiscatole lo raggiunge e si spazzola
nervosamente i capelli troppo lunghi.
«I
tuoi genitori lo sanno che gironzoli di notte ad ubriacarti?»
«E
i tuoi?», ribatte prontamente, chiedendosi se un calcio negli
stinchi lo azzopperebbe in via definitiva.
«Non
ce li ho», ridacchia quello.
«Nemmeno
io.»
«Ah,
ma... sei comunque troppo giovane per frequentare questo genere di
posto. Non hai fratelli che badino a te? Vuoi che ti accompagni a
casa? Posso anche-»
«Hai
finito di stressarmi con le tue chiacchiere? Tu hai venticinque anni?
Io ne ho venti. Visto? Non ho bisogno della balia. Hai così
pochi amici da dover sfinire la pazienza al primo sconosciuto che hai
la fortuna di salvare da un volo in terra?»
È
stato un po' duro, ma si sente mortalmente seccato da quell'invadente
attenzione.
«Grazie
per poco fa, ma torna dentro ed ignorami.»
Detto
ciò si volta ruotando su un piede solo e cerca il cellulare
nella tasca per chiamare un taxi, ma la voce ferma dietro di sé
lo blocca di nuovo.
«No.»
Ancora?
Se non la smette gli salta addosso e lo graffia a morte come un gatto
isterico. Chi lo sa, magari dopo si sentirebbe meglio...
«Che
cosa no?»,
sospira, immobile.
«Non
riesco ad ignorarti. Ho già visto quel tipo di sguardo e so
cosa significa. Non ti lascio andare via da solo, quindi puoi
picchiarmi, se vuoi, ma insisto.»
«Di
quale tipo di sguardo stai parlando?», gli chiede girandosi per
tre quarti.
Mathias
sorride debolmente e solleva le spalle come se stesse affermando una
cosa ovvia, le mani affondate nelle tasche dei jeans.
«Lo
sguardo triste di qualcuno che non ha più voglia di vedere il
prossimo mattino.»
Non
sa perché ha ceduto, ma se l'è portato a casa come un
animale randagio.
Non
teme sia un ladro o un assassino, non dopo averlo visto interagire
con l'uomo del pub, ma anche senza quella minima informazione sul
carattere del ragazzo, Norvegia non teme un essere umano a
prescindere.
Umano
o meno, si chiede come abbia fatto a leggergli dentro così in
profondità senza neppure conoscerlo, senza averlo mai visto
prima. Ha sentito un brivido alla base della colonna vertebrale
mentre gli snocciolava quella piccola verità che gli altri
nordici, per pietà o saggezza, fingono di non vedere.
È
passato molto tempo da quando ha fatto quel discorso con Inghilterra,
eppure non ha mai smesso di pensarci. Non esisterà un modo
volontario per lasciare che la propria vita lo abbandoni, che tutto
il dolore scompaia senza lasciare traccia, ma, certamente, può
morire per mano altrui.
Farlo
sembrare un incidente? Finire coinvolto in una rissa e farsi
picchiare al limite della resistenza? Pugnalare, soffocare, gettare
in un fiume. Quello lo ucciderebbe, certo, ma far morire il suo corpo
non sarebbe una soluzione definitiva.
Per
quanto ci abbia pensato e ci ripensi, Arthur ha ragione: le ferite
guarirebbero e lui sarebbe nuovo come prima. Perché è
una nazione, non un fragile essere umano. Ha ossa e sangue, organi e
sentimenti; mangia, dorme, si fa la doccia e ha la febbre, ma se si
“danneggia” torna.
Loro
tornano sempre, non può annullarsi.
È
Danimarca che non è tornato. Quello che se l'è portato
via era un qualcosa di inarrestabile, di interno e personale. Non un
virus che ha respirato e che ha infettato le sue cellule, un male che
se l'è preso e ne ha distrutto il semplice corpo.
Dopo
tutte le battaglie, dopo tutto quello che hanno superato insieme, o
separati da alleanze diverse, è stato sconfitto. Quanto ha
sperato che gli accadesse lo stesso e quanto si è detestato
per il proprio egoismo, anche solo per aver speso giorni interi a
speculare su un modo per raggiungerlo o sparire soltanto. Come se
oserebbe farlo, poi, abbandonando Islanda.
Eppure,
anche solo sapere che esista una via di fuga renderebbe le cose meno
opprimenti. Trova ingiusto che gli sia preclusa la scelta che è
data ai mortali.
«Faccio
io», dice Mathias, entrando in cucina e sostituendosi a lui
nell'accendere la macchinetta del caffè.
«Non...»
La
sua debole protesta si perde nell'aria, mentre il ragazzo aggiunge
l'acqua. Norvegia si guarda le mani rimaste inoccupate e si afferra
la camicia stringendosi le braccia attorno alla vita, arrossendo
impercettibilmente e fastidiosamente per il contatto momentaneo con
le sue dita.
«Sembravi
un po' sovrappensiero, scusa», si giustifica, prendendo due
tazze e sorridendogli. «Credo che ci farà bene un caffè
dopo tutta quella birra.»
Restano
in silenzio durante il lavorio della macchina, entrambi assorti
eppure vicini. Quando Mathias gli porge la tazza colma e si accomoda
sulla sedia attorno al tavolo ovale, Norvegia non può fare a
meno di sospirare e sederglisi di fronte, sfiorando la propria e
beandosi del calore.
È
il momento di dirgli che bevuto quel caffè può anche
andare, che non ha intenzione di morire e che può
tranquillamente tornarsene a casa sua. Grazie di averlo accompagnato
e bla bla bla, addio. Apre la bocca per dirglielo, ma viene
anticipato da un tornado.
«Non
mi hai ancora detto il tuo nome. Lavori? Questa casa è immensa
e arredata benissimo! Sei sicuro di avere vent'anni? Te ne darei al
massimo sedici e sono generoso. Scommetto che le ragazze non ti si
staccano di dosso, non sai come sono invidioso dei tuoi occhi! Sei un
modello? So che guadagnano un sacco di soldi. Oppure sei ricco di
famiglia! Hai ereditato tutto e vivi di rendita. Ah, beato te! Io
faccio tre lavori, una palla che non ti dico. Sei sempre così
silenzioso e scazzato oppure è un privilegio che riservi a me?
Scommetto che anche un piccolo sorriso, là sopra, cambierebbe
tutto il quadro.»
Norvegia
lo guarda con tanto d'occhi, stordito dalla velocità con la
quale ha parlato e la tazza bloccata sotto le labbra.
Mathias
ridacchia e si appoggia al tavolo, incrociando le braccia sotto il
mento e abbandonandovisi. «Scusami se parlo troppo. I tipi come
me tendono a mettere in imbarazzo quelli come te, non lasciando il
modo di esprimersi. Prometto che sto zitto e buono, ma tu raccontami
qualcosa!»
Norvegia
riesce a sospirare, beve con fare elegante e riposa la tazza sul
tavolo.
«Non
c'è molto da dire e hai fatto troppe domande in quello
sproloquio. Sei sempre così diretto? È come se non
avessi un filtro.»
«Non
ce l'ho», conferma, scoppiando a ridere subito dopo e
dondolando la testa, attento a non staccare gli occhi dai suoi.
«Qualcuno lo trova un tratto adorabile, ma direi che non la
pensi allo stesso modo. Quanti secondi mi restano prima di venir
calciato fuori dalla finestra?»
Ha
un sorriso che arriva da un orecchio all'altro e Norvegia si riscopre
incantato a fissarlo. Da quanto tempo non vede un sorriso aperto come
quello? Non pensa che sia bello, certo che no!, ma trasmette
innegabile calore.
«Continua
pure a parlare», risponde distogliendo lo sguardo, a disagio.
«Volevo
che parlassi tu, puoi rispondere a qualcosa della mia raffica»,
lo invita in modo suadente, continuando a sorseggiare il caffè.
«Se non ricordi le mie domande posso ricominciare.»
Sospira,
indeciso se essere esasperato, stanco o causa del proprio male.
«Mi
chiamo Lukas, sono sicuro di avere vent'anni, sono ricco per eredità,
non sono un modello e no, non sono scazzato. Mai sentito parlare di
personalità? Questa è la mia», risponde in
tono piatto.
«Accidenti,
sei terribile», ride il ragazzo tenendosi la pancia e
piegandosi un po' in avanti. «Ma... divertente!»
Divertente?
«Mi
piaci, Lukas!», erompe facendogli andare di traverso la
bevanda. «Possiamo diventare amici? Non mi hai ancora sbattuto
fuori e ti sei fidato di questa faccia angelica al punto tale da
farmi entrare in casa tua, forse non ci tieni che la gente ti rompa
le scatole, ma decisamente non vuoi stare da solo o mi avresti già
mandato al diavolo!»
Tecnicamente
ti ci ho mandato, sei tu che non cogli.
«Non
so cosa sia accaduto per far cambiare quegli occhi al punto tale da
gridare anche ad un estraneo come me che non vuoi stare in questo
mondo.»
Mathias
lo guarda con occhi dolci e fa un piccolo sorriso. «Mi
piacerebbe vedere le altre espressioni che sanno fare»,
mormora.
Norvegia
abbassa lo sguardo e vede le mani tremare, per cui le infila sotto il
tavolo e si stringe le gambe. Cosa ne sa dei suoi occhi e di
com'erano prima di perdere interesse per tutto? Come può
parlare a quel modo? Cosa ne sa di quello che sta provando, a farsi
ridere in faccia e battibeccare in due, quando è così
tanto, oh così tanto tempo che non succede?
Cosa
mai ne saprà delle espressioni che avrebbe voluto rivolgere
a...
Improvvisamente
si ritrova a dare voce al tormento e non sa davvero come sia scattato
il meccanismo, quando il meglio che sa fare è tenere tutto
dentro.
«È
morto, va bene? È questo che vuoi sentire?»,
sibila con amarezza. «Un... un amico, un fratello. È
morto e non ho potuto farci niente, solo starmene lì e
guardarlo andare via, senza nemmeno dirgli cosa-»
Non
riesce a finire la frase, perché la gola si chiude. Le mani
tremano ancora, ma per fortuna dimostra un contegno molto serio e di
questo è grato.
Fissa
il tavolo in silenzio.
Mathias
viene in suo soccorso per terminare il concetto, dopo aver atteso con
pazienza di avere di nuovo la sua attenzione.
«Non
sei riuscito a dirgli quanto contasse per te?»
«Non
so nemmeno perché te l'ho detto, non cambia le cose. Parlarne
è inutile», dichiara duramente.
«Mi
dispiace. Quando è successo?»
«Vent-»
Venticinque
anni. Non può dirglielo.
«Quasi
due anni», recupera, dicendosi che non sembra una bugia.
Continua a pensarci come se fosse appena accaduto e a sognarlo come
se potesse intervenire, perciò suona completamente sincero ed
il tono tetro è del tutto naturale.
«È
davvero poco tempo», commenta Mathias a bassa voce, alzandosi e
prendendo anche la sua tazza per sciacquarle nel lavandino.
Ora
se ne andrà. Nessuno vuole ascoltare certe cose, certe
confessioni scomode, men che meno da uno sconosciuto col quale non si
sa come ci si dovrebbe comportare, ma l'acqua scorre pigramente e
Mathias è sempre lì, calmo, meno esuberante di prima,
compassionevole senza risultare fastidioso.
E
poi, all'improvviso, ricomincia a parlare in tono quieto.
«Sono
orfano. Non ho mai conosciuto i miei né sono mai stato
adottato, passavo da una famiglia affidataria all'altra con la
velocità di un colpo di spazzola. Non ho affetti profondi a
parte gli amici che mi sono fatto e per fortuna sono tutti in vita,
perciò non ho proprio idea di quello che stai passando e hai
già affrontato. Anche se dico di capire, in realtà non
ho il diritto per affermarlo. Non so proprio niente di questo dolore,
però...»
Chiude
l'acqua e si volta a guardarlo, asciugandosi le mani e fissandolo
intensamente. «Sei talmente triste che riesci a farmelo provare
senza nemmeno spiegarmelo.»
La
sua risposta arriva pronta, sempre pungente.
«Mi
dispiace rovinare il tuo buonumore, so di non essere quello che si
definisce una compagnia allegra, quindi puoi and-»
«Ti
piacciono gli uomini?», gli chiede improvvisamente, in maniera
diretta e senza particolari insinuazioni. È come se gli stesse
chiedendo se ama andare in bicicletta.
«Eh?»
«Ti
piacciono? O preferisci le ragazze? O entrambi, magari.»
«Perché
mi fai una domanda del genere di punto in bianco?»
«Perché
vorrei chiederti di passare il resto della notte con me.»
Schiude
le labbra per la sorpresa, osservandolo avvicinarsi e posare le mani
sullo schienale della propria sedia mentre si china su di lui.
«Hai
voglia di stare un altro po' con me?»
Le
sue labbra si tirano in una linea sottile e dura. «È
questa la tua soluzione, Mathias?» Rabbrividisce
pronunciando quel nome, ma non abbandona i suoi occhi né cerca
di scostarsi. «Sono una persona triste e sola da consolare, un
caso disperato che hai deciso di portarti a letto perché ti fa
pena? No, grazie. Non credo nel potere consolatorio del sesso.»
«Chi
ha parlato di questo», mormora dolcemente, avvicinandosi ancora
un po'. «Ho notato che ti stringi le braccia attorno al corpo
come se volessi essere stretto da qualcuno. Posso tenerti abbracciato
fino a domattina, se vuoi e se pensi possa farti stare un pochino
meglio, senza toccarti con un dito.
Ti
ho chiesto se ti piacciono gli uomini perché certe persone
eterosessuali provano fastidio ad essere strette in un letto da
qualcuno dello stesso sesso. Inoltre non mi conosci e sarebbe più
che legittimo un tuo rifiuto, ma voglio fare qualcos-»
«La
tua dedizione è ammirevole», sibila, alzandosi e
costringendolo a ritrarsi e restare un paio di spanne sopra di sé.
«Hai detto di avere tre lavori, se non sbaglio. Non perdere
tempo ad analizzare e confortare gente che non hai mai visto prima e
torna a casa a riposare, è meglio.»
Le
labbra di Mathias si incurvano in un sorrisetto storto.
«Immagino
che respingere in questo modo ogni tentativo di essere carini con te
sia la norma», cede, sollevando una mano e posandogliela con
semplicità sulla testa. «Non voglio infastidirti oltre,
ma se cambiassi idea e volessi vedermi...»
I
polmoni di Norvegia si bloccano di comune accordo e il respiro si fa
rantolante.
«...
Lukas?»
«Ah...»
«S-stai
bene?»
No,
non sta bene. Ha le mani lungo i fianchi, eppure c'è una mano
sulla testa, nello stesso punto in cui Danimarca era solito posarcela
per sottolineare certe frasi, per dirgli che se non fosse diventato
più alto lo avrebbero scambiato eternamente per un minorenne,
per accarezzarlo nei momenti più normali e senza un motivo
preciso. A volte solo per spostargli il cappello e farlo arrabbiare
un po'.
Ha
il respiro corto e accelerato e ci mette davvero poco a capire che è
finito in iperventilazione. Non riesce a troncare la crisi sul
nascere e tutto il corpo si irrigidisce. Cadrebbe in avanti sulle
ginocchia se le braccia di Mathias non lo sostenessero prontamente
per la seconda volta.
Il
ragazzo lo prende di peso e lo porta sul divano nella stanza
adiacente, adagiandocelo sopra e mettendogli una mano sul petto.
«Lukas,
mi stai spaventando a morte, ti prego... cerca di respirare piano e
calmarti, va tutto bene.»
Non
va bene niente. Niente.
Quella
mano, quella mano così simile alla sua per forma e calore, per
grandezza e dolcezza e...
Trema
vistosamente, portandosi le mani a coppa davanti alla bocca e
costringendosi a respirare la stessa aria, mentre stringe gli occhi e
sente le lacrime spillare ai lati.
Danmark!
Danmark! Aiutami! Tu, brutto idiota che mi ha lasciato qui!
«Continua
così e starai bene. Hey, devo chiamare qualcuno?»,
sussurra velocemente, spostandogli i capelli dagli occhi e mettendo
le mani sulle sue per creare uno spazio più ristretto.
Norvegia scuote rigidamente la testa, continuando ad affannarsi.
Trascorrono
diversi minuti nei quali alterna ossigeno e anidride, fino a quando
finalmente riesce a regolare il respiro e scacciare il panico. Il
petto è in fiamme, ma la crisi sembra passata lasciandolo
spossato. Tutto per la sua dannata mano.
«Vuoi...
vuoi ancora che io-»
«Resta»,
ansima girandosi verso lo schienale del divano, accecato dalle
lacrime che deve nascondere. «Resta e sta' zitto.»
Senza
dire una parola, Mathias si alza ed afferra una coperta stendendola
su di lui. Gli sfila le scarpe e fa la stessa cosa con le proprie.
Abbassa l'intensità della luce della piantana lì
accanto fino a spegnerla, poi si sdraia dietro Lukas e lo stringe tra
le braccia al di sotto della coperta. Lo tiene delicatamente ma con
fermezza. Vorrebbe chiedergli se può farlo, ma non ricevendo
proteste scivola al suo viso e gli accarezza la guancia con la punta
del naso. Sta ancora piangendo, senza fare il minimo rumore.
Mathias
spera che il ragazzo si addormenti in fretta, così non sentirà
più dolore. Gli ha spezzato il cuore in mille pezzi e non sa
nulla di lui, se non che ha perso qualcuno di importante ed è
quasi inavvicinabile.
Non
sa spiegarselo, ma prova un sentimento strano e indefinibile. Ha
voglia di stringerlo a quel modo, di proteggerlo, di prendersene
cura. Lui, che a malapena sa badare a se stesso.
Se
si è innamorato a prima vista -come teme- è spacciato.
Non è esattamente il suo tipo ideale né sembra una
persona facile con cui avere a che fare, eppure vuole restare lì
con lui.
«Mathias»,
mormora dopo qualche tempo con voce arrochita. «Faresti una
cosa?»
«Mh»,
risponde con un piccolo brivido.
C'è
un che nel suo profumo delicato che lo stordisce e lo tiene incollato
a quel piccolo corpo tremante. Non è piccolo nel senso stretto
del termine, sente sotto le braccia che il corpo che stringe è
muscoloso, anche se non in maniera eccessiva, ed è più
maschile di quanto non sembri a rapide e superficiali occhiate. Lo
considera solo minore di lui e quello, di certo, contribuisce a
scatenargli l'istinto protettivo.
Ha
un profumo così dolce, nostalgico...
«Augurami
la buonanotte», chiede con un filo di voce. «Per favore.»
Perché
lo chiede in modo così triste? È una cosa naturale,
perché gli fa male al petto sentire quelle parole? Non lo
conosce che da qualche ora, forse anche meno, perché sentirsi
tanto coinvolto?
Emana
qualcosa che lo ha attratto dal primo momento in cui l'ha notato, ma
ha pensato fosse il suo aspetto. Invece c'è altro che non
riesce ad afferrare e comprendere. Se la prende troppo a cuore per
essere un ragazzo mai visto prima.
«Buonanotte,
Lukas. Fai bei sogni», bisbiglia dentro il suo orecchio.
Lo
sente tremare ancora, probabilmente ricominciare a piangere e pensa
che si stia odiando per mostrare quel lato tanto intimo e privato ad
un estraneo.
Non
sa perché ne sia tanto convinto, ma ne è sicuro in
maniera totale.
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Capitolo 5 *** Armonia ***
Quando
Lukas riapre gli occhi, nella tarda mattinata della domenica, è
avvolto da un corpo caldo che non conosce. Ha la testa nell'incavo
del suo collo e davanti agli occhi socchiusi alcune ciocche di un
biondo eccessivo, al limite dell'accecante.
Si
tende e gli sfiora la gola con le labbra, cercando un profumo a cui è
abituato e che non respira da troppo tempo. Quello è diverso,
ma non gli dispiace. È rassicurante, tenue.
Rimane
accoccolato convinto che l'altro stia ancora dormendo, a rivivere gli
eventi della notte appena trascorsa. Il pub, il caffè, la
crisi. Le lacrime.
È
seccato dall'essersi fatto vedere in quel modo patetico, ma è
così esausto che ha imparato ad essere più indulgente
con se stesso.
Non
è una macchina, non ha dei pulsanti che possono azionare e
disattivare le emozioni: ha un corpo umano e dei sentimenti, può
permettersi di essere debole, di soffrire e di piangere, perfino.
Davanti a quel ragazzo sarebbe stato meglio evitarlo, ma è
successo.
Gli
ha dato sollievo abbracciandolo, tenendolo stretto tutta la notte,
facendosi venire con alte probabilità un torcicollo o un mal
di schiena epico, dormendo a quel modo.
Farsi
dare la buonanotte da qualcuno che un po' somiglia a Danimarca e
rilassarsi per quel tono basso e gentile, come se realmente gli
importasse di lui, è stato da malati. Sta diventando pazzo,
anno dopo anno.
Essere
consolato, perché? È solo un ingannevole palliativo.
Quando
Mathias si alzerà, prenderà la porta e sparirà.
Non gli serve una laurea in psicologia per sospettare che il ragazzo
che ha seguito a casa abbia dei seri problemi, no? Si allontanerà.
Norvegia
è sorpreso di averlo trovato ancora lì, ma aver bevuto
tanto può aver contribuito a quel lungo riposo.
Mentre
lo osserva dormire, resta immobile e continua a riflettere.
Per
la prima volta da tempo c'è qualcuno in casa sua, qualcuno che
non è Islanda né Svezia né Finlandia o il
piccolo Sealand. C'è qualcuno di nuovo e di imprevisto.
Qualcuno
con il quale, ora che ci pensa, non deve necessariamente mostrarsi
forte.
Lui
non sa niente di Danimarca né della profondità del suo
dolore. Un po' è un sollievo.
«Mmh,
sei sveglio», borbotta con voce rauca il ragazzo,
stiracchiandosi malamente. «Sei silenzioso, ma ti sento
pensare.» Si volta sul fianco e lo ricattura. «Buongiorno»,
cinguetta.
«B-buongiorno»,
balbetta arrossendo e sprofondando nel suo petto.
Perché
lo imbarazza tanto? Era meglio immaginarlo come un cane randagio
senza fissa dimora, non come un umano che ha dei punti in comune con
lui.
Non
avrebbe vergogna di un cane. Potrebbe stringere un cane senza timore.
«Posso
restare ancora un po' o non vedi l'ora di buttarmi fuori?», gli
chiede passandogli le mani sulla schiena in calde carezze lente e
piacevoli.
«Puoi
restare», sospira, sconfitto da quella dolcezza. «Però
smettila di coccolarmi tanto.»
«Perché?
Sono affettuoso di natura, non posso farci niente. Non mi sembra ti
dispiaccia come vuoi farmi credere», asserisce sfacciatamente,
dondolandolo e cedendo ad uno sbadiglio.
«Non
mi conosci, non sei tanto a posto ad essere affettuoso con me.»
«Forse
è vero... però mi fa sentire bene esserlo, quindi che
importa?»
A
quelle parole, Norvegia pone con fermezza le mani sul suo petto e lo
spinge via, mettendosi a sedere e passandosi una mano tra i capelli.
«Vado a farmi la doccia. Se c'è una cosa che non
sopporto è addormentarmi con i vestiti addosso»,
borbotta osservando la camicia stropicciata.
«Hey»,
lo richiama prendendolo per il braccio e facendolo voltare. «Cosa
c'è di male se ti coccolo?»
«Sei
davvero fastidioso», commenta alzando gli occhi al cielo. «Ti
comporti così con tutti i tuoi amici o solo con gli
sconosciuti?»
«Solo
con chi mi piace», risponde Mathias con un sorriso accattivante
e la voce roca, tirandolo per il braccio e costringendolo a sdraiarsi
nuovamente accanto a lui.
Gli
passa le dita tra i capelli, adagio, prende un bel respiro e lo
rilascia con un profondo senso di benessere.
«La
doccia può aspettare, sai? Stiamo ancora un po' così,
male non fa.»
«Cosa
c'è di male se ti coccolo?»
C'è
che domani non lo farai più.
C'è
che non avrò un'altra notte di vero riposo come questa.
C'è
che fa male e tu non puoi capirlo.
Norvegia
recupera il se stesso di facciata, quello che non si sognerebbe mai
di mettersi a piangere davanti agli altri, quello che adotta sempre
un tono basso e monocorde, un viso impassibile come se fosse dipinto
nel vetro, una postura elegante arricchita da gesti sempre
impeccabili.
Norvegia
indossa la maschera che gli è diventata praticamente
necessaria da venticinque anni a quella parte. Prima era il suo
carattere chiuso e introverso ad obbligarlo ad essere così,
ora si deve nascondere volontariamente per tirare avanti con decoro.
Quando
esce dalla doccia e si asciuga con calma, quando indossa dei vestiti
puliti, stirati e con un buon profumo di ammorbidente sopra, si calma
e pensa con lucidità alle parole più adatte per mandar
via il ragazzo che sente muoversi nella propria cucina.
Non
può restare, non possono diventare amici. Nemmeno se ha mani
così grandi e simili alle sue, nemmeno se quel tocco
gli porta pace al cuore, nemmeno se la sua voce allegra riempie un
vuoto ormai incolmabile. Soprattutto per queste ragioni.
Non
può attaccarsi, dipendere da qualcuno, men che meno mortale. È
stato sbagliato farlo dormire lì, ma può ancora porvi
rimedio.
Esce
dal bagno, perfetto in ogni dettaglio, con l'immancabile clip a forma
di croce a tenergli una generosa ciocca di capelli lontana
dall'occhio sinistro.
Sosta
sulla soglia della cucina, inarcando appena le sopracciglia e
schiudendo le labbra per lo stupore di ciò che si trova
davanti; reazione che viene immediatamente replicata, molto più
eccessiva, dal suo indaffarato ospite.
«Ah,
eccoti! Io stavo... oh, Kristus!», sussurra Mathias
abbandonando le braccia lungo i fianchi, la bocca una grossa O
spalancata.
«Che
stai-»
«Sei
bellissimo», esala, portandosi una mano al petto come se
rischiasse un infarto. «Parola mia, tutto in ordine sei... hey,
sicuro di non essere un modello? Magari fotomodello? So che devono
avere una certa altezza e tu non sei proprio...», blatera
gesticolando.
Norvegia
si nasconde quasi casualmente la parte inferiore del viso, sentendosi
la faccia scottare per la vergogna. Maledetto, come fa ad essere così
schietto? Dice proprio quello che pensa?
Si
ricompone velocemente ed entra nel locale indicando il tavolo pieno
di farina.
«Spiegare»,
sussurra incolore.
«Ah,
sì, ecco! Stavo cercando di preparare qualcosa e ho deciso di
gettarmi sui frollini. Ancora dieci minuti e sono pronti»,
dichiara trionfante.
«Tu
cucini.»
«Vivo
da solo, devo sopravvivere.»
«Fai
i biscotti.»
«Avevi
gli ingredienti e ho pensato che... non ti piacciono?», chiede
impensierendosi all'improvviso.
«Mi...
mi piacciono», sussurra, abbassando lo sguardo.
Cade
un piccolo silenzio tra loro, mentre Lukas si ammira le scarpe tirate
a lucido e Mathias si passa una mano sul collo, le labbra infuori.
«Lukas»,
lo chiama infine, gettando fuori quel nome sotto forma di sospiro.
Gli mette le mani sulle spalle e lo scruta finché questi non
torna a guardarlo in viso, dando segno di ascoltarlo.
«So
che non ho alcun diritto di dirti come meglio vivere. Non mi conosci
e probabilmente non ne hai nemmeno voglia, ma io sono fatto in
maniera molto strana ed ho la testa terribilmente dura, per cui non
sparirò dalla tua vita finché sarò certo che non
farai sciocchezze.»
«Non
ne farò, sei libero da ogni vincolo morale.»
«Non
funziona così», ridacchia, facendolo accomodare e
spostando una sedia per metterglisi davanti, occhi negli occhi.
«Cosa
te ne importa», mormora smorto, lanciando un'occhiata vacua al
forno acceso. Il profumo dei frollini ha invaso tutta l'aria intorno
e si riscopre ansioso di assaggiarli.
Da
quanto tempo non prova più interesse per il cibo? L'unica
passione che gli è rimasta è quella per il caffè,
ma è talmente insita nella propria natura che non la
perderebbe neppure se smettessero di produrlo, quindi non la
considera. Lo stomaco non brontola mai per una tazza di caffè,
ma un tempo si animava per i suoi dolci... i suoi terribili,
grassissimi, burrosi e fantastici dolci.
«Cosa
me ne importa? Mmh, non ne ho idea», ribatte dopo averci
pensato seriamente, alla ricerca di una risposta sensata e
intelligente. «Forse sono un bravo ragazzo?»
La
risata di Mathias risuona strana per la cucina di Lukas, facendogli
vibrare qualcosa dentro, facendogli considerare che nessuno ha più
osato ridere in quella casa, nel suo cuore.
Lo
osserva con attenzione, usando un tono assorto.
«Sì,
credo che tu lo sia. Darti tanta pena per qualcuno che non conosci è
un tratto davvero insolito.»
Il
sorriso convinto di Mathias gli arriva da un orecchio all'altro, gli
occhi verdi sono così pieni di buone intenzioni da far male.
Sembra un bambino che non si può deludere.
«Mathias»,
dice allungandosi e mettendogli una mano sul polso, grave. Toccarlo
non gli causa alcuno sconvolgimento interiore particolare, ma
vorrebbe comunque mozzarsi la mano per averlo fatto. «Io non
sono normale. Ho qualcosa che non va e non mi piace che tu mi stia
intorno. Impegnati per qualcuno che sappia apprezzare i tuoi gesti,
non sprecarli con me.»
Il
ragazzo inclina la testa verso la spalla, mostrandogli un'espressione
tra il buffo e l'indeciso. «Io ti sembro normale?»,
chiede indicandosi.
Cattura
la mano di Lukas quando lui fa per allontanarla e la porta sulla
propria gamba, stringendola piano.
Ecco,
ora il cuore gli accelera un pochino, ma è la stizza per tutta
quella confidenza. Non è altro, non è niente...
«Chiamami
pure idiota, ma non c'è un altro posto dove vorrei
stare, ora come ora. Devi assaggiare i miei frollini! Se fanno
schifo sei autorizzato a calciarmi fuori con l'accusa di
avvelenamento», asserisce intrecciando le dita alle sue e
giocherellandoci.
Norvegia
guarda esterrefatto quel gesto così amichevole ed affettuoso,
rimescolando dentro di sé le cose che dice saltando di punto
in bianco, di frase in frase, cambiando intonazione dal serio allo
spensierato.
È
un cavolo di tornado.
«Perché
fai così...»
«Cosa?»,
chiede Mathias in tono sommesso, intrappolando quella mano anche con
l'altra ed accarezzandola come se fosse preziosa, cara. Qualcosa che
a Norvegia non sfugge e che lo fa contrarre dentro.
«Toccarmi.
Mi tocchi continuamente», gli fa notare, senza però
sottrarsi.
«Aah,
questo! Te l'ho detto che sono affettuoso!» Si dondola
sulla sedia, sorridendo in modo disarmante.
«Sei
completamente disturbato», commenta secco e meravigliato,
chinandosi verso di lui. «Non puoi essere tanto espansivo con
chi non conosci. Lo vuoi capire?»
«Chi
lo dice? Mi sento di tenerti la mano, così come mi sono
sentito di restare a dormire insieme a te e di cucinarti qualcosa di
dolce per colazione.»
Si
zittisce brevemente, guardandogli un occhio e poi l'altro con troppa
intensità.
«Sai
cosa sento, anche?»
«No,
ma sei troppo vicino», borbotta, imbarazzandosi di nuovo e
arretrando.
«Esatto.
Sento di essere troppo vicino. Potrei baciarti da un momento
all'altro.»
Lo
lascia finalmente andare e si alza per controllare il forno. Norvegia
resta con la mano sospesa nel vuoto, stecchito sulla sedia. Dice una
cosa del genere e poi si alza come se niente fosse?
«Sei
sempre così diretto?», esala in tono quasi arrabbiato,
girando la testa di scatto.
«Sempre.
Scusami.»
Mathias
spegne l'elettrodomestico e si volta per infilarsi i guantoni da
forno. «Dopotutto mi pare di aver detto che mi piaci. Io farei
attenzione, se fossi in te», scherza facendogli l'occhiolino e
lasciandolo di sasso.
Quella
sensazione.
Quel
calore.
Mathias
sprigiona qualcosa, non solo nel suo aspetto.
Anche
se ha due normalissimi occhi verde smeraldo, in certi momenti
Norvegia li vede rifulgere di azzurro. Potrebbe essere la luce.
Sicuramente è la luce.
Oppure
il colore del cielo esterno che inganna e sembra far cambiare colore
a certi tipi di occhi. Verde, azzurro, grigio. Si confondono
facilmente in alcune giornate.
Anche
se ha i capelli quasi fino alle spalle, se mettesse un po' di gel e
li sparasse da una parte, sembrerebbero più corti e ribelli e
si potrebbero scurire con poca immaginazione.
Ma
non è una questione di aspetto né di colori, in fondo,
e, davvero, di viso non ci somiglia affatto.
È
la familiarità, troppo insolita per essere un completo
sconosciuto.
È
il modo in cui si muove per la sua cucina come se vi avesse preparato
biscotti per l'ultimo anno, anziché per la prima volta nella
sua vita.
È
come lo tocca, è come gli parla, è come sa far sbollire
la sua irritazione.
È
come lo guarda, è come lo ascolta, è come lo fa
imbarazzare e mettere a suo agio, in una continua altalena di
emozioni.
È
come gli ha fatto battere il cuore che sembrava divenuto un muscolo
senza più altra funzione, oltre a quella di manifestare il suo
essere vivo tramite palpiti sbiaditi.
È
come lo cerca e lo porta ad essere cercato da lui, indipendente e
gelido da sempre.
È
come gli fa sentire, in maniera del tutto irrazionale ed illogica, di
non essere solo.
È
come gli fa credere che Danimarca sia lì, a sorridergli con il
viso di un altro giovane uomo, ad ingannarlo perfino per il sapore
del burro che gli ricorda quei dolci.
È
come lo fa sentire vivo, abbandonando completamente il desiderio di
chiudere il sipario.
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Capitolo 6 *** Anniversario ***
«È
davvero strano. Credo», mormora il fratello, avvicinando
meglio la sedia attorno al tavolino del bar e girando svogliatamente
la cannuccia colorata nel bicchiere di Coca.
«Lo
so», risponde Norvegia, il mento posato sulle nocche di una
mano. Lo fissa intensamente, evitando di distrarsi per catturare ogni
minimo cambiamento nei tratti di Islanda.
«Voglio
dire, non so se dovrei appoggiarti o...»
«L'unica
cosa che mi aspetto da te è che mi dica il tuo pensiero, in
tutta sincerità.»
Il
ragazzo gira la cannuccia pensosamente, fissa il ghiaccio e sospira.
«Sinceramente»,
esala alla fine, smettendo di giocherellare e addossando la schiena
alla sedia rigida per incrociare il suo sguardo fisso. «Sinceramente
credo sia un errore.»
Norvegia
annuisce brevemente ed avvolge tra le mani la tazza di caffè.
«Vedi.
Hai una tua opinione ben precisa.»
«Sì,
ma...!»
«Ma...?»
Islanda
emette un altro sospiro molto più profondo del primo e il suo
viso si scurisce come se una nuvola avesse appena coperto il già
debole chiarore del sole.
«È
la cosa migliore che ti sia capitata da anni. Non mi sento di
consigliarti di buttare tutto al vento e lasciarlo andare»,
sussurra sconfitto e corrucciato, riprendendo poi a bere velocemente.
«Non
riuscirei a lasciarlo andare», sospira Norvegia in tono
sommesso, sollevando il suo caffè. «Anche se so che è
sbagliato.»
«Non
fatico a comprenderti, Nore.»
Il
tono basso e dolce di Islanda lo obbliga ad incontrare velocemente il
suo sguardo ora un po' lucido.
«È
sempre stato così, fratello. Tu mi comprenderai eternamente»,
gli dice dopo qualche momento speso semplicemente a guardarsi.
C'è
un minuscolo sorriso che increspa le labbra dell'islandese, fermo a
chiedersi quanto sia provvidenziale quel comprendersi profondo.
«Quel
giorno ero accanto a te. Ho visto il tuo cuore accartocciarsi e
sbriciolarsi come un foglio di carta gettato alle fiamme. Ti ho visto
morire insieme a lui. Mai più, Nore. Non potrei
sopportarlo un'altra volta.»
La
voce sicura ed intensa di Islanda vacilla leggermente, nel momento in
cui decide di concludere la frase, consapevole di non poter dire
altro senza lasciarsi andare a scene penose.
Sono
talmente simili da fare male.
Il
bisogno che Islanda ha di lui è palpabile anche senza parole e
lo fa vergognare nel profondo, non per la prima volta, di essersi
abbandonato per anni alla ricerca incessante di un modo, un sistema,
una qualsiasi via di fuga dalla vita.
Islanda
di sicuro lo immagina, pur non avendogliene mai parlato.
Chissà
se lo odia, per quei pensieri egoistici. Probabilmente sì,
perché Islanda non vuole rimanere solo. Non può perdere
anche lui.
Avrebbero
dovuto parlare di più di Danimarca, perché il loro
dolore può essere su due piani differenti, ma ha la stessa
ferocia. Avrebbero dovuto sfogarsi insieme, farsi forza insieme,
invece di chiudere tutto dentro come sono abituati a fare.
«Is,
vorrei chiederti una cosa. Non ho mai avuto il coraggio di farlo»,
si decide, dopo una pausa tanto lunga da far disciogliere quasi
completamente mezzo cubetto di ghiaccio nella Coca del minore.
«Se
è qualcosa che può farti male mi rifiuto di
rispondere», borbotta mordicchiando la cannuccia.
«Forse,
ma non credo possa andare peggio di così», sussurra
spaziando con lo sguardo.
«Chiedi.»
Sconfitto, già triste.
«Quel
giorno cos'ho fatto? Ricordo di aver distrutto dei mobili. Quando sei
entrato nella camera di Dan, come mi hai trovato? Sei stato tu a
rimettere tutto a posto?»
Quella
domanda costringe Islanda a sollevare la testa con eccessiva calma,
come se cercasse di opporsi ad una forza contraria. «Nore, me
lo stai chiedendo seriamente?»
«Non
ricordo con chiarezza», si giustifica, accarezzando la tazza
del caffè con l'indice.
C'è
una lunghissima esitazione, così protratta che per un po'
Norvegia si convince che non gli risponderà davvero o che gli
dirà di non ricordare allo stesso modo. Il fratello, però,
è più forte di quanto immagini e sta solo cercando le
parole giuste da mettere insieme.
«Eri
in ginocchio, immobile e silenzioso accanto al letto, con la sua mano
posata sopra la testa. Non hai parlato per moltissimo tempo e nulla
era distrutto. Eri una bambola, Nore. Una bambola di porcellana muta
ed io...»
Si
ferma, troppo addolorato dal ricordo. Ha parlato lentamente, con
difficoltà ma senza pause rilevanti, come per buttare tutto
fuori prima di arrivare a quel prevedibile blocco.
Si
massaggia distrattamente la gola, stretta nello stesso identico nodo
che Norvegia ormai conosce tanto bene: è tanto più
dilaniante quanto più si sforza di trattenere le lacrime.
«Scusa,
Is», mormora allungando la mano per toccargli il polso.
«Guardami. Sto bene.»
Islanda
annuisce appena, ma fissa il tavolo con ostinazione stringendo un
lembo della camicia del fratello. Norvegia sospira profondamente,
studiando quel loro timido cercarsi e riprendendo a parlare.
«Nei
miei sogni, nei miei ricordi, io grido. Se è andata così,
credo stessi gridando soltanto dentro di me», commenta,
rendendosi conto che quella semplice constatazione è la verità
e non una supposizione, una verità che conosce da tempo e che
fa male come il rimpianto.
Stava
gridando di amarlo. Stava gridando che era un idiota e che non doveva
azzardarsi a lasciarli. Stava prendendo a calci armadi e comodini,
stava strappando tende e carta da parati. Piangeva e urlava come un
pazzo, tanto da scartavetrarsi la gola. Tutto nella propria mente.
«Che
cosa... che cosa gridavi?» Impacciato e basso, come incerto su
quanto sia lecito chiederglielo.
Norvegia
riflette a lungo, anche se non ha davvero bisogno di ricordare.
«Qualcosa
che non ha più importanza. Non gliel'ho detto e non ho più
modo di farlo.»
«Allora
so cos'è», sorride amaramente il fratello, catturando le
sue dita e stringendole con necessità improvvisa. «Lo
sapeva, Nore.»
«Affatto.»
«Non
mi metterò a discutere con te», rincara guadandolo dal
basso. «Ma ci sono cose che si sanno anche se non vengono
esplicitamente dette.»
Avrei
voluto dirlo affinché lo sentisse con le orecchie.
Avrei
dovuto, anche solo una volta.
Lo
rimpiangerò per sempre, Is, perché le parole hanno un
peso e sono importanti.
L'improvvisa
venuta di Mathias interrompe quello scambio ed il momento si
distrugge così come si è creato, sfumando gli animi
tesi.
Il
ragazzo prende subito una sedia e la volta per accomodarsi al
contrario, tendendo la mano ad Islanda che, nel frattempo, le ha
ritirate frettolosamente entrambe attorno al proprio bicchiere, come
se stringere le dita del fratello fosse la cosa più
disdicevole del mondo.
«Mathias!»,
esclama con un sorriso sfolgorante, non essendosi accorto di nulla.
«Ciao!»
«E-Eirik»,
balbetta il ragazzo stringendola, preso in contropiede
dall'entusiasmo.
«È
un piacere!», gli sorride gioviale, girandosi verso Lukas e
posandogli il palmo aperto sulla testa per dondolarlo leggermente,
attento a non spettinarlo salvo scatenare ire funeste che ben
conosce. «Ciao anche a te, Luk.»
«Lukas»,
sbuffa Norvegia lanciandogli un'occhiata letale.
Letale
e dolce, Islanda non può fare a meno di notarlo.
«Mi
sei mancato tanto», cinguetta appoggiandosi al suo braccio e
strusciandosi come un gattino, scatenando un progressivo sgranarsi
degli occhi dell'isola.
«Eirik,
ora sai perché ci ho messo tanto a presentarti questo
individuo.»
«Ho
dovuto insistere molto», si lamenta Mathias, cercando di
prendere il suo caffè e beccandosi un pizzicotto sulla mano.
Mentre
Norvegia gli sibila di ordinarsene uno e di non osare mai più
prendergli il caffè, Mathias, massaggiandosi con l'altra la
pelle arrossata del dorso, sorride carinamente ad Islanda.
«Fantastico,
anche tu hai questi occhi particolari», afferma, scrutandolo
con tanta intensità da farlo diventare bordeaux. «Non
potrei mai dire che non siate fratelli. C'è anche l'aura da
iceberg e tutto il resto...», continua, disegnando con l'indice
un cerchio nell'aria, a spiegare un concetto che è così
evidente da risultare inutile formularlo a parole.
«Prego?»,
sbotta Islanda, prendendo distrattamente un cubetto di ghiaccio tra
pollice e indice.
«Aura
da iceberg! Sembrate gelidi e indifferenti, ma sotto sotto siete
carini e dolci come micetti e... uaaah!»
Lo
stridulo grido di sorpresa di Mathias fa girare alcune teste, ma
nessuno di loro tre se ne preoccupa.
«Ottimo,
Eirik», dichiara Norvegia alzando la mano per battere
passivamente cinque col fratello.
«Sempre
pronto», risponde l'altro posando il palmo contro il suo
generando un piccolo clap.
«F-f-freddo!»,
rabbrividisce il terzo ragazzo, mentre riesce a recuperare il cubetto
finito nella scollatura del maglioncino e se lo infila in bocca
ostentando una faccia da schiaffi.
«Hey»,
riprende subito dopo sbriciolando il ghiaccio sotto i denti, come non
fosse accaduto nulla. «Di', è stato per il “micetti”?»
Cosa
pensi di lui?
Non
lo so, Nore. Per la prima volta dopo tutti questi anni mi sono
sentito... a casa.
È
stato come se non fosse mai andato via.
Non
è solo per la somiglianza; è come se, con le dovute
differenze, fosse lui. È stato bello... e tremendamente
triste.
So
cosa vuoi dire.
Devi
trovare un modo. Devi...
Devo...?
Devi
tenerlo con noi.
Is...
Mi
è andato qualcosa nell'occhio, tutto qui!
«Tuo
fratello è uno spasso», dichiara chiudendolo tra le
braccia e ciondolando alle sue spalle lungo il marciapiede.
«Ah
sì?», bofonchia nel tentativo di liberarsi con poca
convinzione.
«Sì,
ma tu sei decisamente più amabile», soffia nel suo
orecchio posandoci un bacio.
Norvegia
continua a camminare, impassibile tranne che per la fronte corrugata.
«Sei
così carino che ti stringerei fino ad ucciderti!»,
mugugna, aumentando la presa e impedendogli di fare un altro passo.
«Ah
sì», ripete meno acidamente, come sospeso nei pensieri.
Si
guarda intorno e scorge una stradina stretta e deserta, del tutto
classificabile come vicoletto. Solleva un braccio e lo afferra per la
manica, tirandoselo appresso ed infilando entrambi in quello spazio.
Prosegue a passo di marcia per circa tre metri prima di fermarsi e
stringersi, sempre di schiena, alle sue braccia intrecciate sotto il
mento.
«Allora
procedi.»
«Potrei
farti male, sono piuttosto forte...»
«Voglio
che mi stringi fino ad uccidermi, come hai detto poco fa.»
«Luk,
non dire queste cose con tanta serietà. Non potrei mai»,
sussurra facendolo voltare e bloccandolo tra sé e il muro.
Non
ottenendo risposta lo riprende tra le braccia con un sospiro,
scivolando con le mani lungo le cosce di Norvegia e tirandolo su per
fargli incrociare la gambe dietro il proprio osso sacro, in una posa
ferma e sicura, più stretta di un normale abbraccio.
Infila
le mani nelle sue tasche posteriori e affonda il viso nel collo,
posandoci alcuni baci dolci e sensuali, mentre lo tiene tanto stretto
da rischiare di non farlo respirare, ma obbedendo così al suo
comando nei limiti del possibile.
Norvegia
si aggrappa alle sue spalle ad occhi socchiusi, prima di afferrargli
un po' di capelli tra le dita e tirarlo indietro per portarselo
davanti al viso.
«Lo
sai cosa sto per dire?», bisbiglia ad un centimetro dalle sue
labbra.
«Mmh...
Buon Anniversario?»
«No.»
«Sei
crudele, non vuoi dirlo! Dopo due anni finalmente mi presenti al tuo
unico fratello e non vuoi nemmeno-», piagnucola, tendendosi per
mordicchiarlo.
«Mathias,
taci.»
«Buon
anniversario, Luk», risponde pronto, giulivo, unendo le labbra
alle sue in un piccolo bacio.
Norvegia
lo trattiene lì impedendogli di allontanarsi troppo.
Deglutisce piano, il cuore in fiamme.
«Jeg...
elsker deg», esala con un tremito.
«L-Lukas...»
«Jeg
elsker... deg.»
«Tu...»,
sussurra con voce emozionata, baciandolo di nuovo poco sopra le
labbra.
«Jeg
elsker deg...»
«Ho
capito», ridacchia a voce bassa, così sconvolto da
rischiare di esplodere contro il muro alle sue spalle. «Quante
volte vuoi dirmelo? Tante da farmi fermare il cuore?»
«'lsker...»
«Lukas.
Ti amo anch'io. Dal primo. Dannatissimo. Momento.»
Sale
con le mani a sfiorargli il viso, poi gli sfrega il pollice sul
labbro inferiore prima di avventarsi su di lui e baciarlo a lungo,
con tutta l'intensità di cui è capace.
Dillo
ancora.
Non
smettere mai, Lukas.
Stai
diventando avido.
No,
è solo che... è come se non potessi più farne a
meno.
Mi
sento come se non avessi aspettato altro per tutta la vita.
Perciò,
ti prego, dillo ogni volta che puoi.
Jeg
elsker deg.
Ancora.
…
Jeg
elsker deg.
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Capitolo 7 *** Suggestioni ***
Cinque
anni. Cinque anni in cui ha sciolto la corazza del proprio cuore e
l'ha donato completamente a qualcuno che ha saputo averne tutta la
cura necessaria.
Ci
sono state liti, musi da bambini e porte sbattute, tante
incomprensioni. E amore? Forse troppo, da bastare per un'esistenza
intera e oltre.
Meravigliosi
e lunghi (corti, cortissimi, troppo brevi) anni.
Mathias
ora ne ha trenta; meno ragazzo, più uomo, la sua bellezza è
soltanto aumentata. Lukas ne ha venticinque e non mostra alcuna
differenza dal giorno del loro primo incontro.
Dimentica
sempre di girare la pagina del calendario quando scatta un nuovo mese
e non ha mai un sorriso da offrire quando è la notte
dell'ultimo dell'anno. Mathias ha capito che odia il tempo, ma lo
fanno in tanti quindi non se n'è sorpreso più di tanto,
a parte, forse, dirsi che è troppo giovane per accanirsi su
una questione simile.
Il
suo Lukas sembra avere un'ossessione particolare per le fotografie e
i video. Ne fa in continuazione, anche nei momenti meno importanti.
Ha girato almeno quaranta video di Mathias che cucina e spiega cosa
sta facendo come uno chef di qualche programma televisivo ed ha
altrettante registrazioni delle frasi che ama sentire o del compagno
che dorme su un fianco, sfinito.
Gli
ruba spesso alcuni scatti, certe volte gli chiede di mettersi in
posa, ma perlopiù le preferisce spontanee. Fotografa il modo
in cui la luce si riflette sui suoi capelli chiarissimi, la schiena
nuda, una smorfia cretina con gli occhiali da sole di traverso, come
se tutto avesse la stessa importanza.
Norvegia,
che sosteneva di non amare essere toccato, si riscopre a cercare le
sue mani di propria iniziativa. Gli piace tenerle vicino al viso
affinché cominci ad accarezzarglielo spontaneamente con i
polpastrelli, ama mettersene una sopra la testa e sperare non la
sposti troppo durante la notte, che gli si incastrino le dita tra le
ciocche troppo lisce e resti intrappolato per magia.
Ha
una vera fissa per le mani di Mathias che, per quanto siano grandi,
non proprio aggraziate e decisamente segnate dal lavoro manuale,
possiedono il tocco più dolce che possa desiderare. È
talmente teso a cercare il loro contatto (a tratti più il loro
che quello di un bacio) che molte volte Mathias ha finto sdegno e
gelosia sostenendo che Lukas amasse solo quella parte del suo corpo.
Tuttavia
sono la prima cosa che gli avvicina dopo una discussione. Prima delle
parole e delle scuse, prima della richiesta di fare la pace, sono le
mani quelle che allunga per stringerlo a sé e sfiorarlo.
Mathias
gli ha dato il primo bacio con la scusa di pulirlo da un po' di crema
rimastagli sulle labbra. Nonostante la sfrontatezza mostrata in
precedenza, non ha saputo trovare una scusa migliore per farlo. È
stato veloce e sensuale, prima di ritrarsi guardandolo negli occhi e
ammirando il suo completo stupore.
Se
non l'ha picchiato, è stato esclusivamente perché erano
a casa da soli.
Proprio
per quella condizione, è stato automatico per Norvegia
insultarlo, quasi balbettando, e poi tirarselo addosso per
continuare.
Si
sono baciati a lungo, persi e confusi dall'irresistibile attrazione
reciproca.
Ci
sono stati migliaia di baci, dopo quello, uguali eppure unici,
diversi uno dall'altro, altrettante carezze e sospiri fino alla prima
volta dove entrambi hanno creduto di morire in un vortice di
passione.
Si
sono amati fino allo stremo delle forze, addormentandosi uno
sull'altro, pensando -senza dirlo- che il mattino dopo avrebbero
continuato per tutto il giorno. Cosa che hanno fatto, senza
risparmiarsi o perdere tempo.
Mentre
l'altro riposava, Norvegia ha socchiuso gli occhi e ha pianto,
lasciando filtrare le lacrime tra le ciglia, quasi assaporando la
sensazione delle scie calde sulla pelle. Senza dare segno di essere
sveglio, senza muoversi di un millimetro dallo spazio accogliente
sotto il braccio alzato di Mathias, ha dato sfogo a lacrime
inarrestabili, espressione di una felicità troppo intensa per
non essere espressa a quel modo.
Quando
fanno l'amore, quasi ogni volta partono in maniera aggressiva e
violenta.
Sembrano
belve senza controllo mentre si saltano addosso (talvolta nello
stesso momento, sorridendo d'intesa) e cercano di privarsi dei
vestiti alla maggior velocità possibile, presi dall'ansia ed
il bisogno di possedersi ancora.
Poi,
però, iniziano a calmarsi e la dolcezza entra pian piano a
sedare gli animi. Le carezze restano audaci e passionali, continuano
a cercarsi con forza, ma qualcosa nell'atmosfera cambia e l'irruenza
lascia il posto al resto, trasportandoli in un luogo tutto loro nel
quale si trattengono per ore e ore.
Mathias
non è Dan (Mattæus), nonostante le somiglianze a
volte inquietanti.
Ha
un modo di posare il cucchiaio, mentre cucina, leggermente spostato
verso l'interno e con il manico all'insù, proprio come faceva
Dan.
Quando
scrive un biglietto gira tutto il foglio verso di sé,
curvandosi in maniera storta, come Dan.
A
volte ha sussurrato Jeg elsker dig, nonostante sia norvegese e
non danese, ma era sempre assonnato quando è successo e
Norvegia pensa di aver sentito male.
Non
lo ha mai preso in giro per il suo coniglietto rosa di peluche, anzi,
quando lo ha visto la prima volta ha sorriso e lo ha preso in mano
come fosse un vero cucciolo.
Come
se (Norvegia non ha potuto negare questa sensazione) avesse ritrovato
un amico che non vedeva da tempo e ne fosse felice, pur non
ricordandone il nome.
Suggestioni,
continue suggestioni. Fanno bene e fanno male.
Fanno
paura, certe volte, come il cucchiaio, come le canzoni stonate sotto
la doccia.
Solo...
suggestioni.
È
una sera dopo le venti, mentre Mathias lo costringe a tenerlo per
mano sul marciapiede, che Norvegia scorge un gruppetto intento a
fissarli e commentare la loro differenza d'età.
Sente
la morsa al petto, scrutando il suo profilo allegro e noncurante
illuminato dalle insegne. È un giovane uomo, quello che gli
cammina vicino. Lui invece è un ragazzino.
Agli
occhi del mondo Mathias deve sembrare un pedofilo e lui una povera
vittima circuita per denaro o semplicemente innamorato di una persona
molto più grande.
Non
è grave come sembra, ha solo trent'anni e lui è sempre
stato scambiato per un minorenne.
Adesso
sono trenta, ma gli sembra di udire il ticchettio beffardo
dell'orologio che lo fa invecchiare secondo dopo secondo,
sottraendogli giovinezza ed energia, avvicinandolo alla fine e
allontanandolo da sé, strappandoglielo dalle braccia brandello
dopo brandello.
Ineluttabile,
schifoso destino al quale non può opporsi nemmeno gridando.
Mathias
morirà e l'ha sempre saputo, fin dal primo istante,
dimenticandosene, perso nella felicità che non credeva di
meritare.
«Lukas»,
lo chiama, voltandosi indietro nel sentirsi tirare per il braccio.
«Perché ti sei fermato? Guarda che facciamo tardi e poi
Eirik se la prende con me», lo punzecchia mettendoglisi di
fronte.
«Luk...
oh no, respira.»
La
voce di Mathias sale di mezzo tono mentre lo prende per le spalle e
lo appoggia al muro, chiudendogli bocca e naso tra le mani.
Ah,
era da tanto che non succedeva. Da quella prima notte in cui il fato
ha deciso di benedirlo e punirlo, donandogli qualcosa di estremamente
prezioso solo per riprenderselo un giorno imprecisato.
La
crisi aumenta e non impiega molto a capire che se non la smette con
quei pensieri nefasti non si riprenderà facilmente. Annaspa
tra le sue mani, tremando, chiude gli occhi con forza.
Ha
una vaga percezione della voce nervosa di Mathias che allontana le
persone accorse in suo aiuto, mentre pensieri di un'intensità
spaventosa gli affollano la mente annebbiata.
Resta,
resta, resta con me. Ti prego, se io non posso morire e seguirti,
tu... resta.
«Cos'è
successo», sibila Islanda, andando loro incontro e mettendo le
mani sulle spalle del fratello. Lo scruta con fredda attenzione,
ansioso.
«Lui-»
«Sto
bene», taglia corto Norvegia, annuisce e stringe la manica di
Mathias. «Solo un problema respiratorio. È passato.»
Islanda
continua a studiarlo, ma deve cedere davanti a quella testardaggine e
annuire a sua volta facendosi da parte.
Per
tutta la sera non ha smesso di prendere in giro Mathias e le sue
stupidaggini, punzecchiato Nore affinché mangiasse di più
e, soprattutto, non ha potuto fare a meno di pensare che per la prima
volta dopo anni suo fratello sta di nuovo gridando dentro di sé.
«Luk,
stai davvero meglio?», bisbiglia stringendolo affettuosamente
una volta dentro casa.
«Sì,
è stato solo... non lo so», sospira, voltandosi di lato
e lasciandosi accogliere dalle sue braccia.
«Il
mio Lukas», mormora con affetto. «Quando sei così
dolce mi viene proprio voglia di metterti un paio di catene intorno
al corpo e legarti a me.»
«Getta
la chiave», sussurra contro i vestiti del ragazzo.
«Mh?»
Non
glielo ripete, ma resta a respirare l'odore della città che
gli ha impregnato un po' la giacca, contaminando il buon profumo che
c'è sotto. Per un terribile momento rischia di addormentarsi a
quel modo, per cui si riscuote.
«Questa
sera non possiamo fare cose perverse», dichiara Mathias,
serissimo, posandogli le mani sulle spalle. «Avrei dovuto
mandare Eirik in albergo. Aah, come sono buono e permissivo!»
«Pensi
solo al sesso?», lo accusa, spintonandolo leggermente indietro.
«No,
ma tu sì», ride giulivo, chinandosi e baciandolo sul
naso.
«N-non
è assolutamente vero!»
«Non
ci sarebbe niente di male. Mi piace essere desiderato da te»,
sussurra con un sorriso. Gli prende il viso tra le mani e lo fissa
mettendoci troppa intensità.
«Lo
sei», ribatte un po' acido, rabbrividendo.
«Lo
sento sempre. Grazie.» Lo accarezza e lo scruta ancora negli
occhi. Qualcosa in quel modo di studiarlo mette Norvegia a disagio.
«Cosa
c'è?»
L'uomo
sospira e si solleva ritto, senza levargli i palmi caldi dalle
guance.
«Niente.
Certe volte ho come l'impressione che ti stia allontanando
lasciandomi indietro.»
«Allontanando?»
«È
una sciocchezza, una paura infondata», spiega in tono leggero.
«Forse con l'avanzare dell'età sto diventando troppo
apprensivo? Mi sembra che la tua mente vaghi dove non riesco a
raggiungerla e mi impensierisco.»
No,
fermo. Non parlare di invecchiare.
«Nore.
Ho paura», sussurra, seduto sul letto della stanza degli
ospiti.
«Di
che cosa, Is.»
Si
mette accanto a lui senza guardarlo, posando le mani sopra le
ginocchia tenute vicine.
«L'amore
è passione, giusto? Non è altro che sentimento e scelte
irrazionali, non ha a che fare con la ragione. Non puoi pensare
lucidamente se sei innamorato.»
«Lo
sei?»
«No,
non mi è mai successo. Tutto quello che so l'ho imparato
guardando te», confida arrossendo un pochino e prendendo un
cuscino per stringerselo sotto il mento con calma. Norvegia non
ritiene di essere un buon esempio riguardo all'amore, ma preferisce
tacere.
«Allora
come mai questa premessa?»
«È
molto semplice», mormora, voltandosi a guardarlo con occhi
quasi fiammeggianti. «Non è finita finché non è
finita, Nore. Cosa ti passa per la testa?»
Come
al solito, beccato dalla persona che meglio lo conosce e dalla quale
non riuscirà mai a nascondersi.
«Lui
sta invecchiando. Non riesco a sopportarlo», esala, stringendo
le mani sul copriletto e dicendosi che fa più male dicendolo
ad alta voce. È più incombente e reale. Sbagliato.
«Si
sarà accorto già da tempo che noi due non siamo
cambiati. Ha mai detto qualcosa?», domanda impensierito il
fratellino.
«No,
a parte qualche battuta. Quanto mi resta, Is, prima che fugga di sua
iniziativa dandomi del mostro? Quanti anni mi rimangono?»
«Non...
non arrenderti. Non puoi sprecare un singolo minuto insieme a lui-»
«Non
posso cambiare niente. Contro cosa dovrei combattere? Vuoi che ti
prometta di non lasciarlo? Di stargli vicino quando esalerà
l'ultimo respiro? Non posso farlo di nuovo, io...»
Non
è sopportabile.
«Gli
hai detto che lo ami?»
Un
piccolo sorriso appare sulle labbra di Norvegia, ma così
rapidamente scompare.
«Tante
volte da riempire la sua testa vuota.»
«Bene,
fratello», sussurra. Alza la mano e gli sfiora i capelli,
portandoli dietro l'orecchio. Non può fare a meno di notare
l'imbarazzo di quell'ammissione, anche osservandolo di profilo.
«Mathias
è Mathias», continua Norvegia. «Questo lo so bene
e le cose che ho detto sono sempre state rivolte a lui e a lui
soltanto. Però, qui, io-», bisbiglia,
afferrandosi debolmente la camicia sul petto all'altezza del cuore.
«Sento che sto continuando a... Dan... non se n'è mai
andato. Non riesco a spiegarmelo.»
Non
ne ha mai parlato. Quelle suggestioni sono frutto della propria
immaginazione, non è sano che le esponga al fratello, col
rischio di rendere anormale anche lui.
Ha
la sensazione di continuare ad amare la stessa persona. Quanto è
pazzesco?
Islanda
si schiarisce la gola e ritrae la mano, tornando a tormentare il
cuscino e la sua semplice federa a righe. Sembra pensare molto a
qualcosa, spaziando con lo sguardo sul pavimento lucido.
«Ho
parlato con England, di recente», dice mantenendo la voce
bassa.
«England?»,
ripete, voltandosi leggermente a fissarlo.
Islanda
annuisce, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Mi
ha raccontato una storia, una sorta di leggenda metropolitana.
Riguarda noi. Quando me l'ha svelata sembrava scettico, lui
stesso non ci ha mai creduto. Però, man mano che proseguiva a
narrarmela, ho visto l'esitazione comparire sulla sua faccia e
abbiamo finito per fare congetture su congetture mentre gli rivelavo
particolari che mi hanno turbato fin dall'inizio. Non so quanto ci
sia di vero, ma vorrei tanto crederci e... non lo so, non so più
nulla», singhiozza improvvisamente. Si afferra la testa e si
piega in avanti. «So soltanto che non voglio perderlo un'altra
volta!»
Quel
singhiozzo non sfocia in nessun pianto. Resta lì, in fondo
alla sua gola, gli ha solo impedito di continuare a parlare. Si
dondola brevemente, stringendo alcune ciocche di neve tra le dita e
riapre lentamente gli occhi lucidi.
Perderlo
un'altra volta. Le suggestioni hanno colpito anche Islanda.
Norvegia
solleva il braccio diventato insensibile e posa la mano sulla sua
schiena un po' tremante, muovendosi in piccole carezze circolari per
confortarlo. Quel singhiozzo lo ha spaventato, perché
egoisticamente ha troppo bisogno che lui non ceda.
«Is»,
inizia con voce appena udibile. «Non commettere questo errore.
Mathias non è-»
«Cosa
ne sai, Nore», sibila, voltandosi a squadrarlo tra rabbia e
sfida. «Hai delle prove assolute?»
«Is.»
Scuote la testa. «Ne ho a centinaia. È un essere umano e
non puoi credere che-»
«Che
sia tornato per stare insieme a te? Che abbia attraversato il confine
per vivere ancora e che sia riuscito a ritrovarti tra miliardi di
persone? Che per qualche non troppo illogico motivo sia nato in
Norvegia, la nazione che amava? A Oslo, nel tuo cuore? E che mi dici
del nome? Un caso anche quello? Se l'è scelto lui, se non
sbaglio! All'Istituto dove è cresciuto gli avevano affibbiato
un nome, ma appena ha avuto la capacità di decidere per sé
ha scelto Mathias. È un caso, vero? Anche l'età
che ha?
Nore,
non so se credo nella reincarnazione delle anime o se credo
all'esistenza delle anime, ma se guardo Mathias io vedo... io
lo vedo. Lo stesso modo di illuminare una stanza, la stessa
allegria... quel cucchiaio maledetto», singhiozza
nuovamente, dopo aver parlato senza quasi prendere fiato, portandosi
una mano davanti alla bocca per contenersi.
Anche
lui ha notato il cucchiaio.
La
mano di Norvegia inizia a tremare mentre la allontana dalla sua
schiena e se la riporta in grembo, cercando di tenerla ferma con
l'altra che balla allo stesso modo.
Cade
un silenzio greve e denso, durante il quale non ci sono suoni tranne
i loro respiri e Norvegia non sa più cosa replicare.
Le
sue suggestioni. Alcune delle tante, tutte lì davanti agli
occhi.
Perché
proprio Mathias?
Non
lo so, è il primo nome che mi è venuto in mente. Mi
sono chiesto come avrei voluto che gli altri si rivolgessero a me e
pum!, mi è esploso in testa.
Sono
convinto che esista un nome adatto ad ogni persona, Lukas.
Il
tuo è perfetto, mi piace da morire! Se avessi dovuto
sceglierlo io, per te, non avrei potuto fare di meglio.
Sei
luce.
Quel
nome gliel'ha dato Danimarca, dicendo la stessa identica cosa.
Sei
luce.
«Ch-»,
si ferma per deglutire, scivolando con le mani sul viso come per
riprendersi. «Che cosa ti ha raccontato Arthur?»
Islanda
sospira e ritira le gambe sul letto, le incrocia lentamente ed infila
il cuscino nello spazio vuoto tra esse. Prende un angolo e comincia a
torturarlo con metodo.
«C'è
questa leggenda. Dice che quando lo spirito di una nazione muore ha
la possibilità di tornare a vivere un'esistenza umana. Non
deve necessariamente tornare nel proprio luogo d'origine e non ha
neanche lo stesso aspetto, così come non conserva il minimo
ricordo della vita precedente.»
«England
ti ha detto...?», sibila, continuando ad essere scosso da
tremiti visibili.
«Non
ci crede, per questo non te ne ha mai parlato. Inoltre temeva che
avresti setacciato il mondo in lungo e in largo con l'ossessione di
trovarlo, se l'avessi presa sul serio. Per lui è una favola
dolce, da ripetersi per chi vuole credere che prima di scomparire ci
sia ancora qualcosa, un'occasione per sistemare le cose in sospeso e
poter avere una vita normale. Non ci credeva, come non crede
all'altra storia che ci considera originati da una precedente vita
umana molto antica, morta per proteggere il suo territorio.»
Norvegia
annuisce, assimilando quelle informazioni per la prima volta. Diavolo
di un inglese, ne sa veramente da riempire un'enciclopedia.
«Non
sono altro che belle storie», dichiara dopo una lunga
riflessione, alzandosi dal letto.
«No,
Nore», lo ferma tirandolo per la manica. «Non liquidarle
così.»
«Is,
ti prego», sussurra, prendendogli la testa tra le mani e
chinandosi su di lui. Posa fronte contro fronte e lo lascia con gli
occhi a vagare imbarazzati.
«Non
ho bisogno di questo.»
«Come
puoi-»
«Se
in quello che ti ha raccontato Arthur non c'è un modo per
rendere umana una nazione o un sistema per donare ad un uomo lo
Spirito di una nazione, non me ne faccio niente.»
«Danmark
non esiste più», ammette l'altro, dolorosamente,
aggrappandosi alla sua camicia e spingendosi verso il fratello in
piedi, il quale apre le braccia e lo accoglie come quando era ancora
un bambino e gli abbracci se li prendeva senza vergogna, arrivando a
chiederli con una vocetta timida. «Non c'è ancora un
sostituto, nessuno è nato per prendere il suo posto e
rappresentare la nazione. Vorrei che Mathias...»
«Anche
se fosse possibile, hai mai pensato che lui potrebbe non
desiderarlo?»
«Lui?
Vuole stare con te, di questo sono assolutamente certo.»
«Se
quello è Dan in un'altra forma, io non l'ho mai visto più
felice e sereno. Potrebbe bastargli questo, una manciata di anni da
vivere senza il peso dell'eternità.»
«Se
glielo chiedi, so cosa ti risponderebbe. So che non perderebbe
l'occasione di avere mille responsabilità sulla testa, pur di
affrontarle insieme a te. È felice solo perché è
con te.»
«Credi
che possa essere il nuovo Danmark o vorresti che potesse diventarlo.»
Islanda
annuisce, nascosto nel suo petto.
Ti
manca così tanto, Is. La ferita è ancora aperta, come
la mia, e non si chiuderà mai.
Ti
aggrappi a favole, ma la realtà è che non esiste alcun
modo.
Dobbiamo
accettarlo.
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Capitolo 8 *** Rottura ***
«Te
ne devi andare. Adesso.»
Mathias
lo guarda con un'espressione seria, perché sa che non sta
scherzando. Abbassa gli occhi alle scarpe e fa un sorriso storto,
muovendosi come in sogno verso di lui, perché anche se ha
capito che fa sul serio non riesce ad accettare quelle parole.
«Non
ti avvicinare. Prendi le tue cose e va' via.»
Norvegia
si volta per non affrontare quegli occhi feriti nuovamente diretti a
lui, perché non può capire, Mathias, cosa significhi
aver finalmente compreso e accettato che tutto è stato un
enorme sbaglio.
Si
è lasciato confondere da quel senso di completezza,
dimenticando (o obbligandosi a farlo) che quell'uomo non appartiene
al suo mondo né potrà mai farne parte.
Non
esiste un modo. Meglio recidere quel legame, meglio che sia lui a
scegliere quando finirla, anticipando il naturale corso degli eventi.
È
la cosa giusta, certamente, ed avrebbe dovuto farlo prima.
«C'è
solo una ragione che mi convincerebbe, Lukas. Finché non lo
dirai, io...»
Sa
cosa vuole. Deve dirgli che ha smesso di amarlo, sta tutto lì.
Semplice come soffiare dentro un cerchiolino di plastica per
originare una bolla di sapone.
Semplice
e impossibile. Sa nascondere la verità, ma non mentire
apertamente. Anche se basterebbe quella menzogna ad allontanarlo per
sempre, non può offrirgliela.
«Perché
fai così? Mi sembrava che andasse tutto bene», sussurra
l'uomo, fattosi più vicino. «Cos'è successo
dall'oggi al domani?»
Bene?
Più
si lascia andare, sentendosi completamente felice, più
soffrirà. Pensa troppo, si preoccupa troppo e se solo fosse
capace di vedere le cose per quelle che sono, se riuscisse a godersi
quella storia come qualcosa di momentaneo e destinato a svanire,
tutto sarebbe diverso.
Niente
dolore, solo fredda consapevolezza.
Ma
come può vivere giorno dopo giorno, a cuor leggero,
consapevole di perderlo gradualmente? Amare tanto qualcuno destinato
a svanire non è affatto semplice.
Stringe
i pugni e assottiglia lo sguardo rivolto alla finestra, sibilando tra
i denti in tono implacabile. «Devi andare via.»
Mathias
si morde le labbra e scuote la testa, tenace.
«Dovrei?»,
replica.
No.
Dovresti restare per sempre, dannato zuccone, ma non puoi farlo.
Quindi vattene adesso che sono ancora felice, che sei bello e mi hai
dato tanto.
Farò
finta che tu sia partito per un lungo viaggio.
Qualche
volta scriverò una lettera che non avrò tempo per
spedirti e mi convincerò che da qualche parte nel mondo tu
continui ad esistere.
Tra
trenta, quaranta o cinquant'anni, ti immaginerò coi capelli
scompigliati dal vento su qualche spiaggia sconosciuta, eterno ed
immutabile.
Fingerò
di essere troppo impegnato per raggiungerti e che tu sia sempre lì,
ad attendermi con un broncio di impazienza come un ragazzino.
Lukas
alza gli occhi al cielo, sentendoli troppo umidi per continuare a
guardare in basso, col rischio che qualche goccia si ripresenti a
rigargli le guance.
«Non
è così facile, Lukas. Non posso uscire da quella porta
e far finta che gli ultimi anni non ci siano stati. Non capisco.
C'è... qualcosa che mi nascondi?»
Norvegia
si volta di scatto e fa un gesto secco con la mano, alzando appena la
voce.
«Sei
sempre il solito rompiscatole, Mattæus, mai che tu
faccia ciò che ti si chiede.»
Sgrana
gli occhi, mormorando il suo nome alcune volte, febbrile, per
correggersi. Ma è troppo tardi, Mathias ha sentito
perfettamente come l'ha chiamato.
«È
Mattæus il problema? Chi è? È quella persona di
cui mi parlasti la prima volta? Che cosa c'entra con me? Dannazione,
parlami, Lukas. Non me ne andrò mai, hai capito?»
Norvegia
scuote debolmente la testa, arretrando quando l'altro avanza, finché
sente le sue mani sulle spalle in una presa che è sia ferrea
che dolce, dentro la quale combatte e viene infine sconfitto, stretto
al suo petto senza possibilità di fuga.
«Parlami
di lui. Parlami di Mattæus, se vuoi.»
Norvegia
scuote la testa di nuovo con maggior convinzione e solleva le braccia
divenute pesanti come mattoni, staccandosi da quella stretta sempre
più soffocante. Indica la porta con un cenno del mento e si
scosta, dirigendosi fermamente alla finestra a braccia conserte. Ci
appoggia la fronte ed accarezza con lo sguardo il riflesso dell'uomo
dietro di lui, abbastanza rassicurato dal fatto di non cogliere in
quel vetro tutti i dettagli della sua espressione addolorata.
«Mi
somigliava, vero?», mormora infatti, con voce tenera e tremante
come stesse camminando su un sentiero estremamente fragile e
pericoloso, pronto a crollargli sotto i piedi da un momento
all'altro. «Ti fa male stare con me perché te lo
ricordo, è questo?»
Attende
una risposta, una spiegazione per quella rottura inspiegabile, senza
preavviso alcuno, in un mattino assolutamente normale.
Non
arriva niente, solo una barriera di gelo e ostinato silenzio.
«Puoi
parlarmene, prometto di non interromperti. Non ti chiederò
niente più di quanto tu non sia disposto a dirmi, Lukas.»
I
minuti passano lenti, pesanti, le spalle del norvegese alla finestra
non sembrano neanche muoversi mentre respira pacatamente.
Mathias
lascia che i capelli biondi gli ricadano sugli occhi.
«Va
bene. Ho capito.»
Si
volta e raggiunge la camera da letto per raccogliere tutte le sue
cose, tutto quello che, nella fretta, riesce ad infilare dentro
l'unica valigia che possiede. È capiente, ma non ci entra
tutto. Quella è casa sua, ormai, non sta partendo per una
vacanza. Tutto quello che ha è lì ed il “pezzo”
più importante si rifiuta di trattenerlo, come se si fosse
stancato di un vecchio giocattolo.
Si
mette la valigia sulla schiena e si dirige a passo spedito alla
porta, la testa china e le chiavi nel palmo. Non capisce se anche
Lukas stia soffrendo, non vedendo i suoi occhi che tanto bene ha
imparato ad interpretare.
Vorrebbe
scuoterlo e gridare, anche se non otterrebbe nulla, smuoverlo da
quella posizione fissa che lo fa apparire come un'insensibile statua.
«Ci
sono altre cose. Non buttarle, tornerò a prenderle.»
Qualcosa
gli si incastra in gola; vorrebbe dare ancora uno sguardo a
quell'uomo complicato che ama probabilmente troppo, anche adesso che
lo sta gettando via come qualcosa che non ha valore e, peggio ancora,
sembra non averne mai avuto. Come fa ad essere così freddo?
Socchiude
gli occhi ed esce senza un saluto.
Una
volta sceso in strada si porta al limite del marciapiede e prende il
cellulare dalla tasca dei pantaloni per chiamare un taxi, sollevando
il viso in attesa di sentire una risposta. Non riesce a trattenersi,
a questo punto, lì al sicuro dal suo gelido addio e dalla sua
muta schiena.
Va
bene anche quello, come ultima immagine, va bene la sua figura ritta
alla finestra, a braccia incrociate. Da qualche parte nei suoi
pensieri frenetici è convinto che gettarsi in quella storia
sia stato, fin dall'inizio, da masochisti. Lukas non è mai
stato facile. Eppure...
Amabile,
incredibilmente sensibile e tenero, prezioso proprio perché
perennemente nascosto dietro strati di timidezza e falsa
indifferenza. Sarebbe stato impossibile non sentirsi attratto da lui,
innamorarsene perdutamente e desiderare soltanto di trascorrere ogni
giorno al suo fianco.
Come
molte altre volte, pensa di essergli destinato. Anche se non lo vuole
più.
Sente
finalmente giungere la risposta dall'altro capo dell'apparecchio, ma
invece di parlare continua a fissare la finestra del soggiorno e
corruga la fronte.
I
palmi delle mani e la guancia di Lukas sono premuti contro il vetro.
Per
poco non lascia cadere il cellulare sul marciapiede quando lo vede
chiaramente cadere sulle ginocchia come un burattino al quale siano
stati d'un tratto tagliati i fili.
Chiude
lo sportellino col mento, restando ancora una manciata di secondi con
il viso in direzione della grande finestra. Vede le sue dita muoversi
piano contro il vetro, come un cucciolo chiuso in una gabbia, il suo
respiro che appanna troppo velocemente la superficie trasparente.
A
quel punto Mathias smette totalmente di pensare.
Corre
come se avesse il Demonio alle calcagna e falcia i pochi gradini, la
valigia pesante che gli massacra il braccio e le dita per la forza
con la quale la tiene. Apre la porta con una testata, aggredendo la
maniglia e lanciando il bagaglio per terra. Si getta su di lui e lo
prende tra le braccia.
Lukas
non è minuto come sembra, ma in quel momento pare un ammasso
informe di vestiti sormontato da una testa chiara.
Lo
afferra, premendo sulle ginocchia, lo raccoglie da terra come un
bambino e se lo stringe contro, dondolando fino a schiacciarlo contro
la finestra.
«Hai
una crisi? Hai una crisi, Lukas?!»
Sa
che non deve urlare e che non dovrebbe avvolgerlo tanto, ma non
riesce a controllarsi. Stava per andarsene, se non avesse
controllato...!
Norvegia
respira veloce, ma non sembra una crisi come le precedenti alle quali
Mathias ha assistito. Non è irrigidito, si aggrappa alla sua
camicia e muove le gambe, arrampicandoglisi addosso con un'agilità
impressionante.
Mathias
lo accoglie, premendogli la mano sulla nuca e chiudendo gli occhi.
Piangono
tutti e due, ma Mathias fa decisamente molto più rumore. Ci
sono i suoi insulti straziati, mentre si mangia le parole, e c'è
il silenzio boccheggiante di Lukas fatto di singhiozzi senza suono.
C'è
quella stretta soffocante che sembra riportarli entrambi alla vita,
come se quei pochi minuti separati li avesse privati di ogni forza.
«Non
ti lascerò, Lukas. Non mi manderai via mai più, perché
non ti ascolterò, amore mio.»
Arretra
con la schiena fino al divano, infila il viso nel suo collo e lo
respira con urgenza, sfregando le labbra sulla pelle nuda.
Mathias
si accorge con stupore che fuori è tramontato il sole, quando
hanno smesso di cercarsi con tanta disperazione.
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Capitolo 9 *** Disillusione ***
Islanda
lo guarda con un cipiglio severo, ma si trattiene dall'esplosione
vulcanica piantandosi le unghie nei palmi delle mani.
Norvegia
non si accorge del furore della nazione finché non incrocia i
suoi occhi violetti, benché abbia percepito un certo astio già
da qualche minuto.
«Andrai
avanti a fulminarmi a lungo?», sussurra pacato.
Unisce
le mani come a formulare una preghiera e le infila tra le gambe
chiuse. Si mette a lanciare occhiate placide al maschietto di circa
cinque anni che traccia linee pesanti su un album da disegno,
interrompendo così il contatto visivo col fratello.
«Se
credi che dovrei smettere», sbuffa, in tono piccato,
ricominciando anche lui ad osservare il bimbo dai capelli biondi che
solleva un pastello colorato e se lo mette sotto il naso. Cerca di
morderlo, sputa disgustato e lo lancia via con sdegno. Si mette le
manine nei capelli e dondola canticchiando qualcosa, poi afferra la
matita rossa, la risposta magica a ciò che mancava.
A
quel punto sorride, contentissimo della scoperta, e riprende a
disegnare come se nulla l'abbia interrotto.
Islanda
si rasserena suo malgrado, distratto da quella vista, addolcendo
l'espressione del viso eternamente giovane.
«Anche
io ero così quando mi avete trovato?», chiede,
coccolando con un dito il volatile nero che gli sta appollaiato sulla
spalla e dorme della grossa.
Norvegia
ci pensa un po' su, il tempo di vedere il piccolo strepitare forte
per un errore commesso nel suo capolavoro, poi le sue labbra si
incurvano appena in un sorrisino. «Simile nell'aspetto, ma
molto più tranquillo.»
Il
bambino li guarda e sorride, agitando velocemente la manina libera.
«Ciao!
Ciao! Ciao!», ridacchia.
«È
davvero... gioioso», osserva l'isola, non propriamente
scontento della cosa.
«Finché
sarà così piccolo non dirò che mi infastidisce.»
Islanda
gli tira una piccola spallata e va a sedersi accanto al bimbo,
posandogli con circospezione una mano sulla testa.
«Che
cosa disegni?»
«Disegno...
mh...»
Il
bambino diventa paonazzo, abbassa la testa e si agita fino a cercare
di posizionarsi tra le gambe incrociate di Islanda. Il ragazzo
sorride e lo prende per i fianchi morbidi, apre le gambe per fargli
posto e lo aiuta a sedersi nello spazio vuoto che sembra fatto
appositamente per lui.
Il
piccolo dagli occhi blu butta indietro la testa e gliela preme contro
lo stomaco, sorridendo al contrario. Ha uno sguardo limpido, felice,
come se niente al mondo possa ferirlo.
Quando
Islanda si perde in quegli occhioni innocenti, un po' della sua
tristezza e del senso di solitudine che lo segue sempre come un'ombra
sembrano dileguarsi. O perlomeno attutirsi.
«F-famiglia!»,
squittisce alla fine, agitando vittoriosamente il pastello vermiglio
e facendolo sobbalzare.
«Oh,
vediamo.»
Islanda
solleva il disegno con entrambe le mani e guarda le figure
striminzite, lunghissime come stecchi, che rappresentano i nordici.
Ha
disegnato Svezia altissimo, con una serie di ondine blu notte che si
diffondono dalla sua figura come un odore cattivo. Accanto a lui c'è
Finlandia con un sorriso che gli esce dai contorni del volto rotondo
e tiene una Hana gigantesca in equilibrio sulla testa.
Subito
dopo, nella fila, ci sono lui e Norvegia che si tengono per mano;
quando e dove li abbia visti così non se lo spiega, ma non
commenta e indica il foglio.
«Perché
hai il rosso in mano? Non lo hai ancora usato in questo disegno.»
Il
bimbo guarda il colore e inclina la testolina, analizzando la
domanda, poi si illumina e cerca di tirare il fiocco della camicia
bianca di Islanda.
«Ah!
Devo... devo... devo ancora fare io!»
Il
ragazzo soffoca una risatina.
«Me.
Si dice me.»
Il
piccolo ripete la correzione con estrema serietà e riprende il
foglio appoggiandolo a terra. Tira fuori la punta della lingua mentre
preme con energia il pastello e sparge rosso fino a creare un uomo
imponente, molto più alto di Svezia.
L'isola
soffoca nuovamente una risata, ma non commenta perché sarebbe
inutile fargli notare che non è affatto così che
appare, non ancora. Gli accarezza pacatamente i capelli che gli
adornano la testa di mille riccioli biondi da angioletto, osservando
lo svolgersi del suo impegnato lavoro.
Norvegia
si avvicina a loro e si accovaccia, lanciando un'occhiata lunga e
penetrante alla rappresentazione. Capisce immediatamente chi siano
quelle figure alte, reprime un verso stizzito per essere stato
ritratto più basso del fratello minore e indica la nuova
figura rossa appena aggiunta.
«Sei
sicuro di essere più alto di Sverige?», mormora.
Islanda
alza gli occhi al cielo. No, non c'è verso che il fratello si
tenga per sé i commenti, fossero anche verso bambini dalla
mente ancora semplice.
Il
piccolo annuisce e alza i pugnetti in alto.
«Un
giorno sarò più alto dello zio! Sarò grande,
grosso, muscoloso e sarò il più forte di tutti!»
«Ah-ah,
come no.»
Norvegia
fa un piccolo sorriso sbilenco e il bambino si emoziona, dondolandosi
sul sedere a destra e sinistra. Gli prende la mano per giocarci un
po', trovandola d'un tratto più interessante dei colori.
«Gli
zii vogliono bene a Danmark?»
Islanda
e Norvegia si guardano ed un velo di tristezza cala su entrambi. Il
minore si schiarisce la voce e continua a coccolare con pacatezza i
ricciolini dorati.
«Gli
zii ti vogliono bene.»
Lo
dice come se avesse qualcosa incastrato in gola, ma è
assolutamente sincero e il bambino non può che essere vittima
di una nuova ondata di emozione.
Norvegia
sfila gentilmente le dita dalla sua presa e gli sfiora la guancia a
lungo, dandogli infine un buffetto che lo fa gongolare.
«Andiamo.
Gli altri zii ti stanno aspettando per studiare un po'.»
Dopo
averlo lasciato nelle braccia di uno Svezia visibilmente lieto della
“consegna”, i due fratelli passeggiano lungo una strada
affollata di Oslo. Si fermano una volta sola, per comprare alcune
caramelle da mangiare con calma nel primo parco raggiungibile a
piedi.
Islanda
diventa più taciturno del solito, infilandosi in bocca troppe
liquirizie tutte assieme e gonfiando le guance per riuscire a
masticarle.
Mangia
sempre troppo in fretta quando è nervoso o quando vorrebbe
dire qualcosa che non sa come esprimere. Certe volte il fratello
crede che lo faccia per censurarsi, impegnando la mandibola.
Norvegia
gli lancia un'occhiata e reprime un sorrisino, mettendosi tra le
labbra uno zuccherino rosa.
«Senti,
Nore», comincia dopo un po', deglutendo a fatica e sforzandosi.
Si
siedono su una panchina ed infilano le mani nei sacchetti,
contemporaneamente.
«Sono
veramente...», sospira, non riuscendo a finire. Mr. Puffin
emette un verso strano e gli si accoccola meglio sulla spalla,
rovinando il momento e facendolo brontolare.
L'altro
fa un debole cenno del capo, guardandolo fisso. «Lo so.»
«No,
non lo sai.»
«Lo
sono anch'io.»
«Sei
incazzato con te stesso?»
Norvegia
annuisce appena, spaziando con lo sguardo per il parco, sfila la mano
dal sacchetto e si mette alcune caramelle nel palmo.
Islanda
sospira rumorosamente e lo fissa da sopra la spalla. «D'accordo.
Allora spiegami come ti è saltato in testa di mandare via
Mathias. Mi avevi detto che non saresti mai riuscito ad allontanarlo
di tua volontà, poi di punto in bianco decidi di troncare
tutto. Non mi importa che sia tornato indietro e tutto si sia
sistemato, quello che mi imbestialisce è che tu ci abbia
provato. Che senso ha, Noregur?»
Il
fratello maggiore mastica lentamente, socchiudendo le palpebre come
se ci fosse una luce violenta ad infastidirlo.
«C'è
un collegamento, vero? La tua decisione è stata una
conseguenza dell'aver incontrato Danm... non c'è un altro modo
per chiamarlo?», sbotta, chinandosi in avanti e posando i
gomiti sulle ginocchia.
Si
tortura le mani, incapace di trovare una posizione meno frustrata.
«Anche prima, quando ci ha fatto quella domanda, non sono
riuscito a ripeterlo.»
«Gli
daremo un nome, un giorno. Oppure potrebbe sceglierselo lui.»
Islanda
sbuffa, si infila le dita tra i capelli e si adombra.
«È
carino, vero? Ma non è... non è per niente lui.»
«No.
Non è lui.»
Un
leggero soffio di vento gioca coi loro capelli, mentre entrambi
sospirano piano.
«Quanto
ci hai sperato?»
«Un
po'.»
«Eppure
lo sapevamo che non sarebbe tornato. Non lui.»
«Lo
sapevamo.»
«Non
è giusto.»
«Non
lo è mai niente, Is.»
La
risposta non soddisfa l'isola, che torna seduta diritta per
proteggere il sonno del compagno sulla spalla, ma ha ancora addosso
quell'espressione sofferente, infastidita.
«Perché
volevi lasciare Mathias dopo aver visto il piccolo Danmark?»
Norvegia
appallottola il sacchetto di carta bianca, lo tiene tra le mani e
abbassa lo sguardo alle sue stropicciature. Segue con la punta delle
dita i rilievi da meringa. Riflette per un po', mentre il fratello
aspetta con calma una risposta che potrebbe anche non arrivare,
nonostante la domanda a bruciapelo.
Islanda
resta curvo sulle gambe un po' distanziate, lo sguardo velato di
tristezza, finché una mano di Norvegia non gli si posa sul
polso facendolo sussultare un poco per il gelo della pelle.
«Ho
capito che è umano. Ho capito che lo perderemo. Volevo fare la
cosa giusta per entrambi.»
Vede
il parco un po' appannato, ma ingoia il leggero pizzicorino al centro
della gola e annuisce, comprensivo. L'aveva capito da prima, ma aveva
bisogno di sentirgli dire che non hanno più alcuna speranza
per il futuro.
Se
il piccolo Danmark è il nuovo Danmark, ovvero quello che
stavano aspettando...
«Mathias
non può diventare Danmark», sussurra in tono greve,
dando voce ai loro pensieri.
Norvegia
annuisce di nuovo e gli stringe le dita attorno al polso, delicato
come un bracciale di seta.
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Capitolo 10 *** Proposta ***
«Ah,
credevo non saresti più tornato»,
cinguetta Mathias, battendo il palmo sullo spazio vuoto accanto al
letto con un ampio sorriso. «Mettiti
comodo, vado a dare la buonanotte ad Eirik.»
«Si
è già addormentato»,
sussurra, cominciando a spogliarsi e poi posando i vestiti sulla
sedia in maniera ordinata.
«Oh.
Peccato», borbotta abbassando le
coperte. «Volevo stuzzicarlo un
po' e chiedergli se non preferisse dormire tra noi due. Non capita
così spesso che passi la notte qui!»
«Ti
piace proprio farti tirare gli schiaffoni»,
commenta con un sorrisino storto.
«Sono
schiaffi pieni d'affetto filiale, lo so»,
gongola attirandolo a sé e facendolo sdraiare. Lo avvolge
immediatamente tra le lenzuola e le braccia. «Stai
bene?»
«Io...»
Sì.
Digli di sì. Lascia che ti baci e ti riscaldi e ti dia la
buonanotte. Lascialo in pace.
«Mat.»
«Sì?»
«Che
cosa risponderesti se ti dicessi che tra un po' di tempo dovremo
separarci perché devo andare in un posto nel quale tu non puoi
venire?»
«...
Stai male? È questo? Sono... sono sempre stato
preoccupato da quando hai avuto quella crisi, poi però sei
stato bene e non è più successo, ma poi è
capitato di nuovo ed io ho pensato migliaia di cose e non volevo dire
niente o farmi vedere ansioso, ma-»
«Mat.»
«Scusa.
Sono partito a macchinetta. Ho... paura.»
«Rilassati,
io sto bene. Nessuna malattia mi porterà via prima del tempo.»
«Promettilo»,
sussurra, stringendolo più forte e sprofondando nel suo collo.
«Lo
prometto. Il mio corpo sta bene, è solo un fattore mentale.»
«A
che cosa pensi? Sai perché ti succede? Forse posso aiutarti.»
No,
non puoi. Puoi solo aggravarlo.
«Lascia
stare e dormiamo, va bene?»,
borbotta, allungandosi per spegnere la luce dopo un breve momento di
riflessione, ma Mathias la riaccende entro pochi secondi.
«Lukas.»
«Sto
dormendo.»
«Non
è vero, non dormi mai se prima non ti auguro la buonanotte.»
Un
sospiro arreso, poi il fruscio prodotto dal corpo di Norvegia che si
gira sul fianco per stargli di fronte.
Vuoi
dire che quando mi avrai abbandonato non dormirò mai più?
Presuntuoso. Non sognerò, ma di sicuro perderò
conoscenza quando sarò troppo stanco.
Se
non altro.
A
meno che non trovi un modo per sussurrarmelo comunque.
Anche
il vento fuori dalla finestra andrebbe bene, Mathias, se sapessi che
sei tu.
«Sei
fastidioso.»
«Lo
so, ma è un aspetto che adori di me.»
«Hai
sempre la risposta pronta per qualunque cosa?»
«Sì.
Tu ne sei capace? Vediamo se rispondi immediatamente ad una domanda.»
«Chissà
quali contorte questioni vuoi propin-»
«Sposiamoci.»
La
prima cosa che pensa: eh?
La
seconda: ho sentito male.
La
terza: non è una domanda, idiota. È una proposta.
Le
braccia di Mathias si avvolgono ulteriormente attorno al suo corpo,
avvicinandolo, mentre va a sfregare le labbra contro la sua fronte.
«Non
sei veloce come me, Luk. Hai visto?»
Danmark,
se davvero sei tu, sei il peggior...
«Ogni
secondo che lasci passare senza fiatare un pezzetto del mio cuore si
autodistrugge, sai?»
«T-taci,
sto pensando», sbotta,
stringendosi e sentendo scottare tutta la faccia.
«Fai
con calma, ti sto soltanto chiedendo di passare l'eternità
insieme.»
Eternità.
No, non è l'eternità. Se la domanda fosse quella, ci
sarebbe una sola risposta e la vorrebbe gridare anche dalla finestra
aperta, scriversela sulla fronte, dirla agli estranei che passano per
strada ed essere preso per un uomo impazzito e ridicolo. Troppa gioia
rende così, folli agli occhi altrui, ma cosa importerebbe?
Purtroppo
non è l'eternità, in gioco, perché a quella
saprebbe cosa rispondere.
«Lukas,
è stata una richiesta poco romantica? Preferivi iniziassi
dicendo che nel momento in cui ti ho incontrato ho capito che ti
stavo cercando senza nemmeno saperlo? Che il mio stomaco si è
contratto e mi è scattato un meccanismo dentro come un vecchio
orologio che riprende magicamente a funzionare?»
Mathias
si ferma e sussulta leggermente, prima di ricominciare a coccolarlo
facendo praticamente le fusa.
«Oh.
Questo era davvero romantico»,
commenta tra sé, soddisfatto.
Norvegia
solleva il mento per sentire il calore del suo viso contro le labbra.
«Lukas,
rispondimi, mi sta venendo davvero l'ans-»
«Ja,
testa di burro», mormora senza
nemmeno rendersene conto.
«Ja?»
«Ja.
Ja. Ja.»
Cento,
mille, un milione di sì.
Ad
ognuno preme la bocca contro di lui, avvicinandosi sempre più
fino ad unirle finalmente in un bacio lunghissimo che non necessita
altre parole o spiegazioni.
Non
riesce a stringerlo, ma si abbandona tra le sue braccia come una
bambola di pezza, consapevole che non ha bisogno di aggrapparsi,
quando è sempre l'altro a tenerlo tanto vicino.
«Non
è necessario sposarci»,
sussurra, dopo aver fantasticato qualche secondo su una prospettiva
di reazione diversa.
«...
Non mi aspettavo entusiastici salti nel letto, ma... Oh, non
importa», sussurra Mathias in tono
basso, continuando a tenerlo vicino a sé. «Per
quanto ti senta mio e per quanto sappia di essere importante per te
almeno quanto lo sei per me, c'è sempre qualcosa che non
riesco a-»
«Mat,
mi dispiace. Ne possiamo discutere un'altra volta?»,
lo interrompe posandogli le mani sulla schiena nuda.
L'uomo
sospira, ma preme le labbra sulle sue per pochi secondi.
«Scusa,
non volevo comportarmi da bambino capriccioso. Immagino che dovrei
incassare il rifiuto da adulto.»
C'è
una pausa piuttosto lunga, fatta solo di un abbraccio unilaterale.
Il
cuore della nazione soffre, sapendo che basterebbe poco per provare
una felicità senza confronti, ma conosce le implicazioni
future che rischiano di cancellare per sempre quello stesso cuore che
ora batte come impazzito.
«Ti
capita mai di avere terrore della felicità, Mat?»,
chiede senza forte intonazione.
«Terrore?
No, perché dovrei? Tutti vogliono essere felici.»
«E
non temi mai che un giorno possa finire?»
«Hai
paura che dopo esserci sposati possa lanciarti la fede addosso al
primo litigio e scappare con il fiorista?»
«Idiota»,
bofonchia senza cattiveria, piantandogli le unghie corte sulla
scapola. «Smettila di andare dal
fiorista.»
«Ma
i fiori ti piacciono tanto»,
sospira col broncio, stringendolo più forte per qualche
secondo. Resta in silenzio a pensare a come rispondergli per i
successivi minuti.
«Hey,
Lukas, non avere paura di niente, perché non ti lascerò
mai, non posso farlo. Non pensare alle cose brutte, vivi il presente
e sii felice perché sei felice. Mi capisci? Io ho iniziato ad
esserlo da quando sei entrato nella mia vita e non ho mai smesso.
Mai.»
Altre
frasi. Altri ricordi meravigliosi da recitare da solo, stringendosi
in un letto vuoto. Il cuore comincia di nuovo a far male, ancora
quegli artigli gelidi a stringersi così forte da togliere il
respiro. Invidia per il suo candore e l'ottimismo, invidia per lui
che non dovrà mai sopportare tutto il dolore che lo aspetta,
crudele, pronto a riaffondare i denti nelle vecchie ferite per farle
sanguinare ancora e questa volta per sempre.
Se
solo non lo avesse mai amato, se solo non avesse mai conosciuto quel
tormento, sarebbero stati trent'anni di strazio ininterrotto. Forse,
a quel punto, ne sarebbe avvezzo? O deve essere grato per quella
boccata di pace, per aver sperimentato e goduto del sentimento più
profondo?
«Pensi
troppo, ti sento», cantilena
spostando una mano fino al suo petto e accarezzandolo. «Soprattutto
qui c'è un gran frastuono. Sta battendo così
forte da spaventarmi.»
Mathias
lo lascia un po' libero, scivola verso il basso e posa la guancia
all'altezza del cuore di Lukas, tenendo le braccia incrociate dietro
la sua schiena.
«Cosa
devo fare con questo qui?»,
chiede, fingendosi esasperato dalle palpitazioni.
«Un
giorno tu morirai. Non lo trovi inaccettabile?»
La
domanda improvvisa di Norvegia, soffiata in un tono quasi arrabbiato,
spazza via la giovialità di Mathias. Non perché la
domanda lo turbi particolarmente, ma perché capisce che ha
un'estrema importanza, per lui, quell'argomento.
Sospira
contro la sua pelle e lo stringe piano, sbirciandolo con la testa
inclinata.
«Non
ne sono felice, ma sono le regole. Però... ecco, credo che se
questi anni che mi sono concessi riesco a viverli pienamente, senza
rimpianti, allora possa anche andarmi bene che ci sia una fine.»
Norvegia
irrigidisce il volto e interrompe il contatto visivo, assorto.
«Non
dovrebbe esserci una fine.»
Mathias
soffoca una risatina, imponendosi la massima serietà. Striscia
piano verso l'alto e gli punzecchia il mento con l'indice, fino a
prenderlo tra le dita e accarezzarlo.
«Va
tutto bene, Luk. Nessuno è eterno.»
«Un
giorno, tu... morirai», ripete, la
trachea ridotta ad uno spillo.
Non
era mai stato tanto diretto, tanto sincero nell'esporre le proprie
paure, i propri segreti ragionamenti. Da una parte è
spaventoso, dirglielo, dall'altra lo rende meno solo.
La
mano di Mathias si apre e il palmo comincia ad accarezzare docilmente
il viso dell'altro. «Anche tu,
amore mio, ma non dovresti pensarci tanto.»
Anche
tu, amore mio.
Come
vorrebbe che fosse vero.
Resta
a farsi coccolare spingendo la guancia contro la mano e cerca il suo
sguardo verde nella luce soffusa della stanza da letto.
«Matt,
scusami. Vuoi ancora sposarmi?»,
gli chiede, sentendosi la testa improvvisamente vuota.
«Non...
non devi dire di sì se non ne sei-»
«Ti
prego, sposami. Forse dopodomani dal cielo cadrà un enorme
meteorite e distruggerà ogni cosa, ogni città e ogni
essere vivente, ma domani sposiamoci. Anche se potrò dirlo
solo per un giorno, voglio essere tuo marito. Un'ora, anche un'ora va
bene, s-se tu-»
«Lukas,
smetti, stai tremando di nuovo»,
sussurra, risalendo ed intrappolandolo contro di sé con tutta
la forza che riesce a metterci senza fargli male.
«Ti
amo con tutto me stesso quando dici queste cose e la tua voce esita,
trasmettendo più delle parole. Mi apri i tuoi pensieri, sei
vero e sono al settimo cielo, ma non posso sopportare di vederti
soffrire. Ti sposo, certo che ti sposo, non devi implorarmi, sono io
a farlo. Niente mi farebbe cambiare idea. Ora, però, calmati.»
Lukas
prende lunghi respiri, allontanando una nuova crisi di panico grazie
alla sua presenza, cerca di ricomporsi e di non pensare, di
trattenere quel vuoto mentale che ha invaso il suo cervello come una
nebbia rilassante.
Sposare
Danimarca, sposare Mathias. Il desiderio sembra lo stesso, se ripensa
ai vecchi discorsi fatti con il fratello.
«Potrò
dire al mondo intero che Lukas è tutto mio»,
gongola, perdendosi in mille carezze tra i suoi capelli, nei quali ha
immerso le lunghe dita.
«Al
mondo intero non importa niente di noi»,
ribatte, ascoltando il proprio cuore impazzito.
«Importa
a me. Buonanotte, Luk, fai bei sogni.»
*
* *
Amo
te. Solo te. Non vorrei amare nessun altro allo stesso modo.
Amerò
te. Solo te. Non potrei amare nessun altro allo stesso modo.
Che
razza di promessa hai scritto? È così imbarazzante e
sdolcinata e... Non vorrai leggerla davanti a tutti?
È
la verità, Lukas. Hai qualcosa da ridire?
*
* *
|
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Capitolo 11 *** Fine ***
Si
siede accanto al letto e lo guarda dormire con quelle piccole e
odiate cannucce trasparenti infilate nelle narici. Ha l'espressione
rilassata, in pace, un lieve sorriso increspa le sue labbra sottili.
I
macchinari lo informano che è vivo, che sta respirando, e quel
suono ritmico e monotono lo tranquillizza come se dovesse durare per
sempre. Dà quell'illusione. Si sposta in avanti con la sedia e
gli sfiora la mano abbandonata sulle lenzuola bianche.
«Mmh.»
Mathias
apre gli occhi, il verde ancora brillante nonostante ora appartengano
ad un volto segnato dall'avanzare inarrestabile degli anni.
Incredibilmente bello, nonostante tutto, perché è il
suo volto.
«Non
volevo svegliarti. Facevi un bel sogno?»
«...
Un sogno?»
La
sua voce è roca, pacata e bassa, così diversa da quella
di quand'era un giovane e forte uomo. A Lukas sembra passato un
istante, un soffio, un battito di ciglia. Mathias giovane, Mathias
anziano. Mathias, sconosciuto, che lo insegue fuori da un pub,
Mathias che lo sposa e alla fine della cerimonia lo prende in braccio
facendolo morire di vergogna, strappandogli la promessa di un ballo
in cambio di essere rimesso con i piedi per terra.
L'animo
della nazione ora sembra sereno, ha avuto una vita per prepararsi a
quei momenti.
Sereno.
Certo, è la vita, è la famosa regola. Prima o poi dovrà
accettare che per gli umani finisca e che a volte, in condizioni
molto particolari, anche per loro potrebbe giungere quell'epilogo.
L'ha già visto accadere a qualcuno che non avrebbe mai dovuto
andarsene e che manca sempre, atrocemente, nonostante il piccolo
Danimarca sia dolcissimo e riempia un vuoto al cuore.
«Sorridevi»,
gli spiega dopo una pausa abbastanza lunga, passando la punta delle
dita sul dorso di carta velina.
Mathias
sembra ricordare e sorride di nuovo.
«Aah,
sì. Un sogno davvero bello. C'eri tu, eravamo su una barca e
mi leggevi delle poesie. Facevi finta, perché in realtà
le avevi lette talmente tante volte che le conoscevi a memoria. Il
lago era...»
Si
interrompe e si inumidisce le labbra, concentrato. Lo fissa
intensamente e capovolge la mano per accogliere la sua nel palmo.
«Sembrava proprio il Paradiso. Se
è così non è male.»
Sereno,
Lukas. Controllato. Non hai intenzione di fare scenate, se mai hai
imparato a farle.
Mathias
è sempre più distante e lui non farà altro che
restargli accanto, fino alla fine, come ha promesso il giorno in cui
si è unito a lui, anche se fa un male infernale, anche se
vorrebbe fuggire per non assistere e poter così continuare a
ricordarlo vivo.
«Sei
così bello, Lukas»,
sospira, riuscendo a toccargli la guancia un momento e ricadendo
nuovamente sul letto col braccio. Norvegia gli riprende subito la
mano, anche se la sua è fredda e irrigidita dal dolore e non
vorrebbe se ne accorgesse. «Tu
sarai sempre così. Mi dispiace di essere invecchiato e di non
poterti più stringere come una volta.»
Riesce a ridacchiare, un suono fiacco ma malizioso.
«Scemo»,
ribatte il norvegese seduto, senza riuscire a ricambiare il tenue
sorriso.
La
piccola risata continua a scuotere il corpo dell'uomo nel letto,
riempiendogli gli occhi di un pacato divertimento. Si è sempre
divertito a fare quelle battute.
«Non
hai mai avuto paura di me, Mathias. Hai accettato ciò che sono
senza un dubbio, mai.»
Come
è stato possibile?, vorrebbe chiedergli. Come ha fatto a
rimanere accanto ad un uomo che non è davvero un uomo, è
solo l'incarnazione di uno Spirito, la forma antropomorfa di un
territorio.
«Non
potevo non crederti e non potevo lasciarti andare. Il mio unico
tormento è che ho compreso troppo tardi tutta la sofferenza
che ti portavi dentro», sospira,
intrecciando le dita alle sue, delicato.
«Vivrò
sempre nei tuoi ricordi, Lukas? Sarò immortale, così.»
Non
gli risponde, ma si avvicina con la sedia, di più, cominciando
a sfiorargli i capelli candidi e spostandoglieli dalla fronte. È
il suo modo di amarlo, senza per forza dire cose struggenti.
Mathias
respira lentamente e sembra felice, senza rimpianti, senza
rammarichi.
«Lukas,
a volte me lo sono chiesto. Hai amato qualcun altro, vero? Per me è
naturale amarti come patria e come uomo, ma mi chiedo se in tutti i
tuoi secoli tu abbia-»
«Mai.»
La
voce di Lukas è ferma e sicura e i due si guardano nuovamente
negli occhi.
«Mai?»
«E
mai più.»
Mathias
non mostra stupore, come se in fondo al cuore si aspettasse una
confessione del genere. Annuisce piano, come abbia compreso una
profonda verità nota solo ad entrambi, e gli stringe la mano
con tutta la forza che gli è concessa.
«Lukas.
Ti ho amato dal primo momento, come se ti avessi sempre avuto
accanto, come se sapessi già chi fossi e non potessi fare
altro che seguirti. Come se tu fossi il mio destino ed io non avessi
scelta se non quella di accettarlo. Ogni gesto mi ha condotto a te e
sarò tuo per sempre, perché so di essere nato soltanto
per te, per darti l'amore che volevi.»
Il
norvegese sulla sedia sbuffa senza acrimonia e sfugge con lo sguardo,
le guance un pochino più colorate.
«Le
tue frasi romantiche sono sempre più imbarazzanti. Con gli
anni sei peggiorato, Mat, devo dirtelo»,
borbotta. Si china per baciargli il dorso della mano.
L'anziano
annuisce grave e un po' comico, gli occhi lucidi per quel gesto
tenero così tipico di lui, e gli posa l'altra mano sulla nuca
quando la nazione nasconde definitivamente il viso contro il suo
braccio.
«Niente
addii, amore. Sarò sempre con te. Con te e con Eirik.»
Norvegia
non si muove, ma gli stringe le dita.
Quando
vede il dottore venire verso di lui, sa cosa sta per dirgli dalla
semplice espressione di cordoglio che indossa. Lo zittisce con un
cenno della mano, scuotendo la testa ed allontanandosi.
Non
vuole sentire, non dopo che si sta preparando a quel momento da
troppo tempo per rischiare che una frase di circostanza faccia
crollare la sua maschera.
Volta
l'angolo dell'anonimo corridoio bianco e sbatte la spalla contro il
muro, restando immobile a fissare un punto inutile. Qualsiasi cosa
sarebbe priva di senso da guardare, in quel momento.
Le
sue labbra si muovono, formano un nome senza avere il coraggio di far
uscire la voce e poi si fermano.
Ha
la strana sensazione di essersi esaurito come un motore con la
batteria a terra, ma, crudelmente, vive ancora e può pensare.
La chiave gira e c'è quel rumore così inutile, così
disperato, raschiante...
Anche
se gli occhi restano asciutti, Lukas, dentro, sta gridando.
«Povero
ragazzo», bisbiglia un'infermiera
ad una collega, passando oltre ed evitando di indugiare sulla massa
appallottolata e tremante contro la parete, per non mancare di
rispetto a quella controllata manifestazione di dolore.
«Si
è preso cura di lui a casa finché gli è stato
possibile, ma poi...»
L'altra
donna gli rivolge uno sguardo comprensivo, poi si volta e si
abbraccia, inspiegabilmente toccata da quell'immagine, come se non
avesse mai visto tanta angoscia.
«Voleva
davvero bene a suo nonno.»
Aspetta
che le poche persone in visita ai propri cari si allontanino, tenendo
d'occhio la situazione da dietro un albero.
Finalmente,
osa uscire dal suo nascondiglio e a passi malfermi raggiunge la
lapide sormontata dalla croce bianca. Legge l'iscrizione come se non
la conoscesse, anche se l'ha fatta preparare lui. La vede al primo
tentativo, per pochi attimi, poi tutto si vela. Eppure insiste e
tenta di osservarla.
Vorrebbe
aprire la bocca e dire tante cose, ma è superfluo. Non lo
sente.
Vorrebbe
allungare le mani e stringere la pietra, ma sa che è futile.
Non lo sente.
Non
è veramente lì. C'è solo la voragine del proprio
cuore, di nuovo spalancata sul vuoto.
Quando
sente dolore alle ginocchia capisce di essere crollato duramente in
terra e quando percepisce freddo alle mani si accorge di essersi teso
a toccare la lapide, automaticamente.
Si
trascina sull'erba, avvicinandosi come faceva una volta nel letto
matrimoniale, stringendosi con trasporto a quella stupida lastra
squadrata. La tiene tra le sue braccia, cercando di coprirne più
possibile, come volesse staccarla e portarsela via o forse soltanto
scaldarla.
Non
ne trae consolazione, ma non riesce a trattenersi.
Dopo
qualche tempo -non c'è più molta luce e le ombre si
sono allungate-, due braccia timide gli si stringono attorno alla
vita e si chiudono su di lui. Un corpo gli si appoggia contro la
schiena, stringendosi senza forza.
Is.
Il
fratello si schiarisce la gola, ma prima di parlare aumenta la
stretta.
«Ho
preso il primo volo quando ho letto il tuo messaggio. Dovevi
avvisarmi prima, sarei venuto immediatamente.»
Se
ti dicessi che non riuscivo a tenere in mano il telefono saresti meno
accusatorio?
«Nore,
lascia la presa. Hai le mani che... stai sang-»
«Non
importa.»
Islanda
è abituato alla voce piatta e bassa di Norvegia. Nonostante
questo, rabbrividisce e si aggrappa fermamente al cardigan, perché
suo fratello è di nuovo un fantoccio.
«Nore,
non lasciarmi solo», lo supplica
in un sibilo appena udibile.
Norvegia
continua ad accarezzare la pietra con le dita ormai grattugiate dal
continuo e ostinato scorrere sul ruvido materiale. Non si stancava di
accarezzare il suo viso, perché dovrebbe essere diverso, ora?
È lì sotto, il suo Mathias. Il suo Mattæus
tornato per lui, per amarlo almeno una volta, per permettergli di
scacciare tutti i rimpianti.
Parlare
è inutile. L'unica cosa che Islanda può fare è
rimanere in ginocchio, il petto completamente appoggiato alla sua
schiena un po' ricurva e chiudere gli occhi.
Aspettare.
Aspettare
che il dolore diminuisca anche solo di un grammo, che si sollevi
dalle loro anime quel tanto che basta per permettere ad entrambi di
alzarsi.
È
con una fitta terribile che Islanda stesso si accorge di non volersi
allontanare da quel punto.
«Is»,
sussurra rauco, strappandolo alle sue considerazioni. «Secondo
te esiste una fiaba dove... dove si dice che ad un certo punto vieni
finalmente lasciato in pace e ti viene permesso di unirti-»
La
sua voce si spezza e Islanda preme forte la guancia alla schiena
tremante del fratello maggiore.
«N-non
lo so, bror. Non-»
Non
lo credo possibile.
«Non
fa male crederlo», risponde
invece.
«Ah,
sì», sussurra la nazione
vedova, scostandosi un po' e scivolando con l'indice rossastro lungo
le lettere incise sulla lapide. «Esiste
sempre la possibilità che ci trovi un'altra volta. Vero,
Mattæus? Tornerai a cercarmi. Riconoscerò i tuoi occhi,
di qualsiasi colore siano.»
Islanda
si rannicchia, accecato dal dolore, ma non vuole essere debole e
trascinare Norvegia in un vortice ancora più profondo,
alimentando disperazione con disperazione, perciò si risolve a
tacere.
«Mi
hai dato tanto», continua tentando
di allontanarsi, eppure tornando sempre con la mano a sfiorare ogni
dettaglio, fino all'erba che cresce alla base del piccolo monumento,
sino ai fiori di un bianco abbagliante.
Lo
ha reso completo, e nessuno, nemmeno lo scorrere del tempo, glielo
potrà togliere.
«Takk,
kjær.»
Sono
felice, Lukas. Ho compiuto lo scopo della mia vita.
Sarebbe?
Non
essere sciocco! Ovviamente amarti!
Sono
nato per stare con te e l'ho fatto.
È
stato bello, Lukas, perciò... non rimpiangerlo mai.
-Angolo
Autrice-
Bene.
Insomma. Eccoci alla fine di tutto.
So
benissimo che alcune di voi adesso saranno in lacrime, distrutte e mi
staranno lanciando ogni male possibile; altre saranno con gli occhi
sbarrati, incredule (anche se in fondo se lo aspettavano), ma
comunque intente a costruire la bambolina voodoo della sottoscritta.
Sappiate
che non è stato semplice né immaginare una storia del
genere (perché rischiavo il collasso ogni due scene) né
metterla per iscritto (perché non vedevo lo schermo a furia di
appannarmi gli occhiali e lanciarli via belando alla Luna.)
Se
siete arrivate fin qui: grazie.
Se
vi siete emozionate e avete sentito il cuore accartocciarsi, sia per
il finale che per ciò che di dolce o angst l'ha preceduto:
grazie mille volte ancora.
Non
so se sia la mia storia migliore, fino adesso, ma la amo molto e se
sono qui, alla fine, a ritagliarmi uno spazio per parlarvi
direttamente, è perché davvero sono stata commossa per
tutte le splendide recensioni e devo dirlo apertamente.
C'è
anche un altro motivo, anzi... due.
Il
primo è che, benché molte stiano soffrendo
-penso/spero- per Lukas e la sua sfortunatissima vita amorosa, c'è
un messaggio di fondo in questo epilogo e anche se non volete
credermi è un messaggio davvero positivo.
Lukas
non cercherà di ammazzarsi, non passerà anni e anni a
posarsi la mano sulla testa come dopo la scomparsa di Mattæus.
Soffre,
è logico che sia straziato, l'abbiamo visto tutte su quella
tomba, ad accarezzare ossessivamente l'ultimo pezzo che lo collega ad
un corpo ormai svanito dalla sua portata.
Però.
La
storia d'amore con Mathias è stata importante e necessaria,
non soltanto per quello che gli ha dato, ma per quello che gli ha
permesso di imparare e di vivere.
Lukas
avrà sempre un vuoto, dentro, per la mancanza del suo amore,
ma adesso è pieno. So che sembra un controsenso, ma è
davvero felice di averlo amato.
Quindi,
se qualcuna di voi si sta chiedendo se non sarebbe stato meglio per
lui fermarsi al primo dolore, senza aggiungere nuovi tormenti, la mia
risposta come autrice è: no, niente affatto.
Spero
si sia capito anche attraverso ciò che si dicono.
(Quel
“Takk, kjær”
di Lukas, tra l'altro, che io traduco come “Grazie, amore/caro”
vi sembra
risentito?)
Mathias
era Mattæus? Lukas l'ha amato solo per questo?
Sì
e no.
Mathias
era Mathias e lui l'ha amato individualmente, ma quando Lukas gli
dice che ha amato solo una volta... beh, non sta mentendo.
Mathias
sente di comprendere una profonda verità e più volte
gli dice di essere nato per lui...
Ci
siamo capite, donne.
La
seconda ed ultima cosa che devo comunicare è che noterete che
questo, pur essendo l'ultimo capitolo ufficiale, non mi ha permesso
di spuntare la casellina che indica la storia come “completa”.
Questo
perché ho intenzione di scrivere un capitolo extra, molto
breve, che non vedrà né Lukas né Eirik né
Mathias, ma che merita di essere letto.
Sempre
se ne avrete voglia.
Grazie
a tutte per l'attenzione. ♥
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Capitolo 12 *** Capitolo Extra ***
L'altra
faccia del dolore
Lo
trova ritto, immobile come una statua imponente. Lo sguardo indugia
sull'ampia schiena rigida, le spalle larghe, la nuca coi suoi corti
capelli biondi.
Rimane
a fissarlo per qualche lungo minuto, stringendo le mani tra loro e
tormentandosi le dita, rabbrividendo nonostante la temperatura mite.
Sa
che deve farsi forza ed affiancare l'uomo in piedi; lo sta
aspettando, in anticipo come ogni volta e, puntualmente, lui esita ad
interrompere il suo momento privato.
Non
ha bisogno di sentire la voce profonda o di vedere le labbra muoversi
per sapere che sta comunicando, perché lo fa interiormente, in
contrasto con lui che invece ha bisogno di parlare per dare forma ai
pensieri e renderli concreti.
Sospira
rassegnato, alla fine, raggiungendolo a piccoli passi, leggeri e
silenziosi sull'erba soffice.
«Eccomi.»
Lo
sussurra inutilmente, gli occhi bassi rivolti al mazzo di fiori dai
colori vivaci posato accanto ad un piccolo piatto di ceramica bianca,
dentro il quale sono disposti ordinatamente alcuni biscotti al burro
preparati in giornata.
Deglutisce
a fatica, anche dopo tutto quel tempo, anche dopo tutti quegli anni e
la tradizione ormai consolidata che li riporta lì, come
dandosi appuntamento per salutarlo insieme.
Lo
svedese annuisce e sbatte pigramente le palpebre, sempre con lo
sguardo fisso alla lapide solitaria posta in quel luogo speciale,
sconosciuto, con quel singolo nome inciso sopra dalle sue abili mani.
Un
nome che provoca solo nostalgia e ganci crudeli che tirano il cuore.
Un
nome che rievoca ricordi di ogni genere, ma che, con il trascorrere
degli anni, sembrano essersi ridotti sempre più a quelli
positivi, i più dolorosi e difficili da affrontare.
Finlandia
alza gli occhi al cielo e tira le labbra tristemente, ricordando la
schiena curva dell'uomo accanto a sé, intento a scolpire
lettera dopo lettera senza singhiozzare.
Il
suo volto era una maschera impassibile di lacrime quando si era
rialzato e voltato. Il lavoro era di una precisione incredibile, come
se le sue mani non avessero tremato tutto il tempo.
«Un
altro compleanno», mormora, un
misto di affetto e pena nel tono basso.
Solleva
il braccio e posa la mano sulla spalla di Svezia.
Ricorda
che a Danimarca piaceva tantissimo sommergere il taciturno fratello
di cose buone da mangiare. Le loro feste erano contigue, quindi
avevano due giorni di fila per abbuffarsi e stare insieme. Erano
belli, quei compleanni, sembravano la celebrazione di tutti, riunioni
di famiglia dove c'erano troppi dolci da dividersi.
Era
felice di festeggiare con loro e a Svezia faceva piacere averlo lì,
anche se si manteneva apparentemente burbero e spesso finivano per
rimbeccarsi sulle questioni più insignificanti, ma non sarebbe
stato lo stesso se non ci fossero stati scontri, non sarebbero stati
loro.
Stai
zitto e bevi un po' di più, Berwy!, gli diceva alla fine
con un ghigno, allungandogli un boccale di birra. Svezia grugniva,
obbediva e riemergeva con il baffo fatto di schiuma, facendoli ridere
per diversi minuti e sorridendo anche lui ad occhi bassi.
Dischiude
le labbra prendendo un bel respiro e torna a guardare la lapide,
allungando la mano che stava sulla spalla dello svedese per fare una
carezza gentile alla pietra.
«Ciao,
Tanska, siamo qui. Come stai?»
È
stupido quando si ferma, prima di continuare il suo monologo. È
stupido ma non può farne a meno, perché ci vuole una
pausa, anche breve, a quel punto.
Il
vento soffia così quieto, tra i capelli di Tino, che gli
sembra la sua carezza contenta e deve quindi fermarsi per riceverla,
sorridere timidamente, godersela.
«Il
piccolo sta imparando tante cose nuove ed insiste per andare a
parlare di politica ed economia al tuo... suo capo. Ha un sacco di
idee, è difficile tenerlo a bada e farlo stare tranquillo, ma
è un bravo bambino, è adorabile e noi tutti gli
vogliamo bene. Siamo sicuri che ti rappresenterà nel migliore
dei modi. È giocoso e saltella ovunque, parla
ininterrottamente! Sai, sembra che abbia qualcosa di te, come se
l'avesse ereditato e per questo motivo, dopo un po', Norja ha
cominciato a dire che non è colpa tua se sei stupido, è
la nazione che incarni ad averti rovinato.»
Il
sorriso si fa più ampio e si ritrova a ridacchiare. È
una risata sincera e argentina, non suona come qualcosa di artefatto.
«È
il suo modo per dire che ama la tua allegria, lo conosci»,
continua accomodante, avvertendo il corpo di Svezia che gli si
avvicina un po', arrivando a sfiorarlo con il braccio.
«Più
tardi verranno a trovarti Nor e Is. Preferiamo lasciarvi soli, non te
la prendere se non rimaniamo mai insieme a loro. Non sta bene
ascoltare le cose che dovete dirvi, s-sai.»
La
sua voce trema sempre, verso la fine. I suoi occhi vedono annebbiato
ogni anno, alla fine.
Si
dice che ci riuscirà, prima o poi, a salutarlo e a dare voce
ai pensieri di entrambi senza ridursi in lacrime, ma gli manca
che risponda per davvero e lo inciti a continuare.
Non
ci sono occhi spalancati, curiosi e limpidi, sormontati da
sopracciglia buffe. Sta parlando con una lapide e le gambe diventano
malferme come la convinzione della voce.
Si
zittisce ed i singhiozzi lo scuotono, impedendogli di salutarlo
ancora, come in una lettera, fare una bella chiusura dove gli dice
che si ricordano di lui, che mai si permetterà di
rivolgerglisi usando verbi al passato.
«Ci
manchi, Ta. Vorremmo abbracciarti, ma... sei ancora con n-noi...»
È
a quel punto che Svezia si volta e lo prende tra le braccia; quando
entrambi non riescono più a reggersi in piedi ostentando
accettazione e contegno, quando tutti e due hanno raggiunto il
limite.
Tino
non riesce più a parlare, Berwald non riesce più ad
ascoltare.
Si
aggrappa alla sua schiena e piange cercando di trattenersi, sempre
inutilmente.
Svezia
gli tiene la grande mano sulla nuca e continua a guardare la pietra
con le sue lettere grandi ed eleganti, le iridi vacillanti dietro le
lenti degli occhiali.
Muove
le labbra senza parlare, formulando un saluto, un augurio ormai
perduto che non riceverà a sua volta.
Buon
compleanno, fratello.
-Angolo
Autrice-
Se
qualcuna di voi sperava in un capitolo speciale diverso, in
qualcosa di rasserenante -se non altro- si sbagliava di grosso.
Angst.
Angst ovunque.
Inutile
dirvi come sia ridotta adesso, ma... dovevo scriverlo.
Dovevo
perché mi è venuto in mente e perché credo sia
giusto, anche se fa male, mostrarvi questi due e la loro dolcezza;
dovevo mostrarvi -come se non si immaginasse- che Danimarca ha
lasciato un vuoto in tutti, non soltanto come uomo/padre amato. Tutti
soffrono come bestie.
La
storia è finita per davvero, adesso, e tirando le fila di
tutto quello che è stato scritto spero davvero di aver
trasmesso emozioni e che vi sia “piaciuto” soffrire, se
l'avete fatto.
Grazie
a tutte quelle che hanno letto, aggiunto la storia alle preferite,
perso del tempo per commentare e farmi quindi leggere le loro
apprezzatissime opinioni.
Dopotutto
si pubblica anche per conoscerle, no?
*piccola
nota, forse inutile: Tanska, per chi non lo sapesse/avesse
capito, è semplicemente Danimarca in finlandese. ♥
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