Eternal Mourning

di ViolaNera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Dolore ***
Capitolo 3: *** Sopravvivenza ***
Capitolo 4: *** Incontro ***
Capitolo 5: *** Armonia ***
Capitolo 6: *** Anniversario ***
Capitolo 7: *** Suggestioni ***
Capitolo 8: *** Rottura ***
Capitolo 9: *** Disillusione ***
Capitolo 10: *** Proposta ***
Capitolo 11: *** Fine ***
Capitolo 12: *** Capitolo Extra ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


«Noregur...»


Il ragazzo alza il viso verso il fratello che l'ha chiamato, non mostrando alcuna emozione particolare. Si guardano brevemente negli occhi, prima che Islanda interrompa quel contatto e gli faccia un cenno, appoggiando le spalle al muro e incrociando le braccia, strette, come a tenersi insieme da solo.

«Digli addio anche tu. È al limite.»

Non vorrebbe darlo a vedere, ma sussulta a quelle parole.

Addio.

Dire addio.

Non vuole dire addio. Non può farlo. Non è... pronto.

«Nore, ti prego, fallo.»

Volta leggermente il viso, ma Islanda lo coglie con la coda dell'occhio e fa la stessa cosa per prevenire di essere visto, impedendogli di guardare le lacrime che scendono, lente, sulla pelle chiara.

Islanda sta piangendo. È troppo.

Anche se in quella camera da letto, oltre la porta bianca accostata, c'è tutto quello che non riesce ad affrontare, a quel punto si decide a muoversi, perché quelle lacrime sono una vista insopportabile. Sono l'espressione di ciò che prova lui stesso, ma che fatica a mostrare. Se cedesse ad esse, come potrebbe fermarsi? Sono il dolore straziante al cuore, i ganci dilanianti allo stomaco, il peso opprimente che gli rallenta i respiri fino a fargli mancare l'aria.

Islanda sta soffrendo oltre ogni dire, ma il fratello condivide una parte del proprio personale dolore. Lui...

Senza una parola, senza un singolo suono, Norvegia si dirige con passi malfermi alla porta e la sospinge.


Danimarca è sdraiato completamente, le morbide coperte ben tirate su a ripararlo dal freddo. Non ce n'è, la casa è ottimamente riscaldata, ma ciò non significa che lui non lo senta fin dentro le ossa.

E il gelo di Norvegia? Non esiste nulla al mondo che possa ridurre quegli spifferi terrificanti che gli scorrono dentro, corrompendo fino all'ultima goccia di sangue.

L'unica cosa che potrebbe farlo sparire, quel gelo fastidioso, è un miracolo.

Un miracolo che non avverrà, perché Danimarca è al limite.

Un miracolo che non esiste.

Nel suo aspetto, non c'è molto che possa far supporre la gravità della situazione. È bello come sempre, tolte le profonde ombre scure sotto gli occhi ed i colori sbiaditi. Sembra semplicemente malato, steso a quel modo ed immobile, con le palpebre leggermente abbassate su occhi privi della solita scintilla vivace, calmo e silenzioso con le mani abbandonate vicino ai fianchi.

Norvegia prova l'irrazionale impulso di afferrarle e salire sul letto, chinarsi e gridare con quanta voce ancora gli rimane in corpo di combattere, di guarire, di non azzardarsi a lasciarlo.

Non può farlo, Danimarca. Ci sono ancora tante cose che non sa e che devono fare, insieme. Cose da dire, cose da recuperare, cose da...

«No... Nor», sussurra, dopo una prima pausa per deglutire, sentendolo giungere accanto a sé e sforzandosi di aprire meglio gli occhi.

Norvegia non risponde al suo richiamo, allunga soltanto un dito e glielo posa sul dorso della mano più vicina, scivolando su e giù in una strana carezza timorosa. Ha paura di romperlo, forse. Ha paura di toccarlo davvero, di scuoterlo troppo, di fargli male, di non sentire il calore che ha sempre emanato con la stessa intensità del profumo della sua colonia.

Non abbandonarlo, vita. Tienilo con me, ti darò qualsiasi cosa.

«Sei... arrabbiato con me», tossicchia cercando di sorridere. Però, è una smorfia sofferente quella che gli attraversa il viso.

Era una domanda? Oppure una constatazione? È così sfinito da non riuscire a porre il giusto tono nelle frasi?

Lo odia. Lo sta davvero odiando. Non può lasciarlo. Non è contemplabile, non è autorizzato a lasciarli indietro. Odia persino il modo in cui non riesce a udire il suo respiro che i primi mesi era raschiante e riconoscibile.

Odia quella situazione e odia la malattia che ha aggredito la nazione, consumando il corpo forte e pieno di energie che è sempre stato solito stritolarlo all'improvviso, scatenando proteste e spintoni infastiditi.

Per uno di quegli abbracci, ora, sarebbe disposto a cadere in ginocchio ed implorare, cedere ogni ricchezza che possiede.

«Non sono arrabbiato con te», risponde, lasciando che all'indice si aggiungano anche le altre dita, per posare definitivamente la mano su quella rilassata di Danimarca. Non crede ai propri occhi quando la vede girarsi e stringere la propria con una forza inaspettata.

Forse è la prima vera volta da quando è diventato adulto, ma Norvegia ricambia il gesto.

Brividi. Ah, quei maledetti brividi che rischiano di farlo crollare da un momento all'altro, incrinando una superba facciata che ha sempre meno senso.

«Ti... ti mancherò? Puoi dirmelo.»

Norvegia sta tremando e si detesta quando perde la visione nitida del viso pacato, stanco e grigio di Danimarca, quando tutto diventa confuso e distorto e l'umidità improvvisa degli occhi non lo aiuta minimamente a sfogare il dolore e il senso di impotenza, né a soffocare la lama conficcata in gola. La acuisce soltanto.

«Sei un idiota», riesce a rispondere chinando la testa. «Non hai il diritto di dire certe cose.»

Un verso strano, diverso da tutto ciò a cui l'ha sempre abituato, ma comunque simile ad una risatina, scuote il danese. La mano che tiene la propria rilascia la presa, ma solo per muovere meglio il pollice in una serie di piccole carezze.

«Ho detto... a Is... che deve abbracciarti più spesso, perché tu... a te piace», riprende faticosamente. «Io non po... non posso farlo più... 'spiace.»

«Smettila.»

«Nor-»

«Smettila!», esplode sporgendosi su di lui. «Tu non stai morendo! Non te lo lascerò fare! Mi ascolti? Non ti muoverai da questo mondo schifoso, resterai qui ad infastidirmi fino allo spegnimento del Sole! No, ben oltre!»

C'è una dolcezza infinita nello sguardo di Danimarca, mentre lo osserva e lo lascia sfogare come se quelle parole non fossero una sorpresa, come se la rabbia fosse naturale e prevedibile.

Aspetta con pazienza che si calmi, che si zittisca respirando avidamente, poi si lecca le labbra. «Jeg elsker dig, Norge», sussurra con voce limpida.

«Che... che cosa-»

«Farvel, min ven.»

«D-Dan...»

Le palpebre di Danimarca si abbassano occultandogli le brillanti iridi azzurre in via di spegnimento. Se ne sta andando, si arrende, ha resistito solo per...

«Dan? Dan! Tu, idiota! Aspetta!»

Jeg elsker dig, Norge.

No. Un momento. Solo un dannato, fottutissimo momento. Non può andarsene, non ora, non in quel modo. NO.

«Jeg... elsker... deg», sussurra, tremando dalla testa ai piedi, non vedendo praticamente più nulla. «Mi senti? DANMARK!»

Continua a gridare che lo ama, grida così forte da spaccarsi qualcosa dentro, da perdere la voce e finire a rantolare sul letto. La gola brucia ed implora pietà, mentre continua ad accarezzargli spasmodicamente il viso immoto e rilassato, ignorando tutto il resto, inveendo contro un guscio vuoto.

«Jeg elsker deg... Jeg elsker deg... ti prego, t-torna da me.»

Affonda il viso nel suo petto e il terrore lo avvolge completamente quando capisce che non c'è battito né respiro, che Danimarca se n'è andato e non sentirà più la sua voce stupida che sapeva anche essere calda e profonda e mai, mai più proverà a fargli una carezza sulla testa che verrà allontanata con malagrazia dopo qualche secondo.

La sua mano. Dov'è.

Norvegia scivola in ginocchio accanto al letto e gli prende la mano posandosela sulla testa. Si abbandona con la guancia sul materasso e lo inzuppa di lacrime bollenti.

«Jeg elsker deg», sussurra, buttando fuori ogni sillaba mai pronunciata ad anima viva, con sofferenza straziante.

Vorrebbe essere ascoltato, ora, con tutto se stesso.

Vorrebbe che Danimarca potesse sentirlo e rispondergli ancora.

Teme di essere stato lui stesso a finirlo, dandogli quello che aspettava, quello che ancora lo teneva legato a questo mondo.

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Capitolo 2
*** Dolore ***


Apre gli occhi di soprassalto e si porta immediatamente la mano tra i capelli sparsi sul cuscino. Ha il cuore nelle tempie, impazzito, ed il respiro accelerato dall'incubo appena concluso. Un incubo tremendo, il solito, che dichiarare “finito” è quanto di più erroneo possa fare.

Perché si può definire incubo qualcosa che è realmente accaduto? O vale solo per le paure più nascoste? Che cosa importa, quando al risveglio non cambia niente?

Per lui, che in quell'incubo continua a viverci, non conta dare una definizione al termine, ma sa che ci sono molte ossessioni in quello che sogna e che non è un semplice e cronico rivivere l'evento.

Perché non è andata proprio così.

Non ha detto a Danimarca di amarlo nemmeno dopo che se n'è andato, nemmeno dopo essere rimasto a fissare il suo corpo senza più anima. Non l'ha sussurrato neanche al letto vuoto, vero? Non ne è stato capace. Ha il dubbio di non aver fatto assolutamente nulla di quanto continua a sognare; dirglielo fino allo sfinimento, nei sogni, non serve a nulla.

Sono passati così tanti anni che non è nemmeno sicuro di averglielo sentito dire. La sua debole mente potrebbe aver costruito quel ricordo a regola d'arte, infarcendolo di speranze e desideri mai dichiarati. Essere nel cuore di Danimarca, essere il suo ultimo pensiero, essere amato al punto tale da tenerlo in vita finché non gli avesse detto addio. Chi può dire cos'è vero e cosa frutto di un cuore spezzato e una mente devastata, alleati per continuare a torturare la sua esistenza.

Lancia un'occhiata obliqua alla sveglia e apprende che sono le tre del mattino. Molto tardi o molto presto. Ha importanza?

Accende la luce senza la voglia di rispondersi, si alza e ciondola per casa fino alla cucina per prepararsi un caffè, chiedendosi oziosamente se debba considerarlo l'ultimo del giorno passato o il primo di quello appena iniziato.

Nuovo giorno.

Un altro senza Danimarca e le sue mani invadenti, sempre pronte a toccarlo e ad appiccicarsi a lui, ghermendolo per la manica e stritolandolo.

Non si rende conto di essere immobile con un'espressione assurda dipinta in faccia, un misto tra cordoglio e felicità. Il viso non sa se sorridere o piangere, semplicemente, è indeciso e bloccato davanti a quel ricordo, quella sensazione ancora tanto potente come fosse appena accaduto. Un suo caldo abbraccio.

Torna inflessibile e scuote appena il capo, accendendo la macchinetta e prendendo la sua tazza con gesti automatici. Si domanda se quel vuoto, un giorno, si chiuderà anche solo parzialmente. Se Danimarca è destinato a mancargli per sempre con la stessa intensità del primo momento in cui gli è morto sotto gli occhi, rimpiangerà per tutto il resto della vita di non averglielo mai confessato?

Sì, anche senza la premessa. Il grande segreto è sepolto assieme ai suoi capelli biondi.

Ah, quei capelli. Quanto gli piaceva passarci le dita per ore, mentre gli dormiva con la testa sulle gambe. Si lamentava che erano ossute, ma chissà come non voleva mai un cuscino, lo scemo. Erano le uniche occasioni in cui si permetteva di toccarlo in quel modo, protetto dal suo sonno profondo e quindi libero di lasciarsi andare. Gli piaceva vegliare il suo riposo.

E le mani. Quelle maledette mani, quanto gli mancano.

Di nuovo, non per la prima volta in quei lunghi anni, sale a posarsela al centro della testa lasciandola lì, ferma. Chiude gli occhi e finge che sia la sua. Ignora con tutto se stesso la consapevolezza di avere un braccio alzato, anche quando il muscolo comincia a tirare.

Immagina che sia in piedi, ritto dietro di lui, entrato in cucina poco dopo. Costruisce mentalmente il suo pigiama abbottonato male e i capelli sparati di lato, schiacciati sulla tempia. È così reale da far male.

Buongiorno, Nor! Siediti, ci penso io! Però ne bevi un po' troppo, sai?

Apre la bocca per rispondere a tono, qualcosa di acido del tipo che il caffè può prepararselo benissimo da solo, che c'è da premere un dannato bottone e che non sono affari suoi di quanti ne beve, che badi alle birre che infestano il frigorifero ogni volta che disgraziatamente lo ospita.

Apre e chiude la bocca, senza che un singolo suono faccia la sua comparsa.

Si ritrova il viso bagnato di pigre lacrime che filtrano attraverso le palpebre abbassate. Le labbra continuano a muoversi, lasciando sfuggire deboli soffi d'aria.

«Sì, ti prego. Preparamelo», sussurra infine con voce spezzata, prima di chinare la testa e riabbassare la mano per aggrapparsi al ripiano, contrastando la vertigine. «Hai voglia di cucinare, per caso? So che è notte fonda, ma i tuoi biscotti non sarebbero... non sarebbero male... è tanto che non li fai, Dan.»

I miei biscotti? Ma se ti sei sempre lamentato di tutto il burro che ci metto! Sei strano, Nor! Non ammetti mai che ti piacciono!

«Hai ragione, ma sono davvero buoni. Non lo ripeterò una seconda volta, quindi non esaltarti. Dan, puoi farli per me? È troppo tempo che li aspetto.»

Se ci tieni tanto mi metto subito all'opera! Sono contento, Nor! Hey, vuoi aiutarmi?

«Lo sai che non sono capace.»

Non importa, ci divertiamo lo stesso!

«Non lo dirai quando faranno schifo», esala stringendo più forte il bancone vuoto.

Sì, invece. Mi fa piacere che tu me li abbia chiesti. Grazie, Nor.


È patetico.

Patetico parlare da solo con una voce fantasma che si origina senza controllo, patetico stare male perché sa che quelle frasi sarebbero esattamente quelle pronunciate da Danimarca ed illudersi, proprio a causa di quella capacità di evocarlo, di avere ancora un contatto con lui.

Non c'è.

Potrebbe immergersi nell'oceano, andare al centro della Terra, prendere uno shuttle diretto alla Luna: Danimarca non esiste in alcun luogo, tranne nel proprio cuore. Sono sempre insieme, così? No, errore. È ancora più solo, lasciato ad immaginare dialoghi a senso unico e a bramare una mano che non può né sfiorarlo né preparargli alcunché. Non più.

E poi, già, ci sono i video. Gli stramaledetti video.

Video di tutte le occasioni che Sealand ha sempre voluto filmare quando si ritrovavano a festeggiare qualcosa con Finlandia e Svezia, oppure andavano tutti insieme da qualche parte. Se c'era Sealand c'era sicuramente un video, dopo, anche di una semplice gita al lago. Il bambino ha sempre fatto delle copie per loro e una parte di Norvegia vorrebbe non l'avesse mai fatto.

La prima volta che si è ricordato dei video è stato a causa di Islanda.

Non avrebbe voluto che il fratello indugiasse in quelle scene irripetibili di loro felici, ubriachi ed imbarazzanti. Con Danimarca, soprattutto. Non gli sembrava giusto spiare un passato morto.

Islanda non aveva detto niente quando si era avvicinato durante la visione di uno di questi; si era semplicemente spostato di qualche centimetro per fargli posto davanti allo schermo. Norvegia si era seduto accanto a lui, sul tappeto, ed insieme avevano guardato il video del Natale dell'anno precedente e poi altri, altri, altri, sempre in religioso silenzio.

In seguito, aveva iniziato a guardarli anche da solo. Il dolore era lì, sempre pungente, sempre pronto a spaccarsi in migliaia di schegge e a riformarsi in un unico blocco di pietra pulsante, che si rispezzava con la stessa intensità del primo giorno ad ogni crudele, bellissimo fotogramma.

Aveva scoperto con pacata meraviglia l'utilità del tasto pausa e del rallentatore. Aveva speso ore intere a guardarlo ridere, dire cose senza senso, ballare su un tavolo con Finlandia e far ondeggiare il sedere sotto lo sguardo tremendo di Svezia, il quale cercava di recuperare il più ubriaco affinché non si facesse male.

Da solo, senza rischio di essere visto, aveva commentato, insultato, disapprovato, pianto in silenzio, sfiorato lo schermo in corrispondenza della sua guancia o della fronte. Gli sembrava che ricambiasse gli sguardi e si dimenticava anche di mangiare e bere pur di stargli accanto in quel modo e farsi guardare.

Improvvisamente poteva rivederlo ogni qualvolta avesse voluto farlo, poteva sentire la sua voce e rispondergli togliendo il volume subito dopo una sua frase, in modo da simulare un vero scambio in tempo reale. Aveva finito per imparare tutto a memoria.

Non poteva toccarlo né sentire in cambio il calore del suo tocco. Non poteva sistemargli un ciuffo afflosciatosi davanti ai suoi occhi comicamente incrociati, come il Norvegia nello schermo stava giusto facendo, anche se poteva ricordare nettamente la sensazione del gesto.

Col tempo si era reso conto che quella non era una soluzione né una cura o un balsamo.

Era uno straziante tormento, ma era tutto ciò che gli restava.

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Capitolo 3
*** Sopravvivenza ***


Venticinque anni.

Dopo giorni, settimane, mesi.

Venticinque anni tutti uguali, né troppo lunghi né troppo corti, solo identici e inutili, senza più furori, batticuori, emozioni celate ma vissute ugualmente, provate.

Come Norvegia, come nazione, anni in cui è prosperato e non ha mancato nemmeno una riunione o si è sottratto alle proprie responsabilità.

Come Lukas, come uomo, anni in cui, spento, ha riversato le proprie esclusive attenzioni su Islanda cercando di essere sempre un buon fratello.

Il dovere l'ha fatto andare avanti, ma certe volte ritiene più veritiero ammettere che è stata semplice forza d'inerzia, l'abitudine ad essere perfetto ogni singolo giorno.

Non parla quasi mai di Danimarca, nemmeno con Islanda. Non parla mai del passato, pur vivendoci dentro.

Passato? Venticinque anni è solo ieri ed il tempo si è fermato su quel letto.

Lo sanno gli incubi in cui “ripara” al rimpianto di non avergli mai dimostrato cosa provasse davvero e lo sanno le ore insonni, quando si siede sul divano e parla da solo, recitando con maestria scene già accadute o che sarebbero potute accadere. Lo sa il braccio sinistro, ormai abituato a stare in alto per permettergli di tenere la mano sulla testa anche mentre legge o si addormenta. E lo sa il cuore, inaridito e indolente perché non ha più la persona da amare.

La Danimarca ha attraversato una crisi terrificante, così profonda e travagliata da ridurre in miseria e decimare la stragrande maggioranza della popolazione; lo spirito della nazione stessa è caduto, infine, succube della malattia, dopo mesi di sofferenza ed inutili tentativi di recupero.

È quasi ridicolo che una crisi interna al Paese sia riuscita a portarglielo via. Benché abbia visto i tumulti, le uccisioni, l'anarchia, la disperazione dilagante, benché abbia assistito in prima persona al suo crollo, settimana dopo settimana, ed abbia fatto tutto il possibile insieme agli altri (ma non abbastanza, se lo ripete sempre), è ancora troppo dura da digerire.

Venticinque anni sono relativamente pochi dopo quel disastro, ma la Danimarca è tornata a raccogliere i propri pezzi già da tempo. Presto o tardi, un nuovo Spirito nascerà per sostituire il precedente.

Sostituire. Un sostituto non è lui, non sarà mai lui, anche se avesse il medesimo aspetto non avrà il suo passato né condividerà i loro ricordi.

Norvegia non spera in una resurrezione del suo Dan, è realista e pratico.

Lo accoglieranno, lo conosceranno e lo istruiranno, ma non sarà Dan.

Porterà quel nome e basta. Ogni volta che dirà Danmark, per chiamarlo, sa già che sarà una fitta al cuore.


«Bevilo---!»

Un coro da taverna, tipico di un gruppo di gente brilla, lo distrae dalle proprie elucubrazioni portandolo a fissarli, da sopra la spalla, con malcelata irritazione.

Quell'angolo del pub è gremito e sembra che un giovane, con il piede ben piantato su una sedia, stia tenendo banco scolandosi un boccale grosso come la testa di Norvegia.

«Vai, Mathias! Ce la puoi fare!»

Mathias.

È un nome comune, non dovrebbe colpirlo più di tanto. Comunque non è Mattæus. Non può nemmeno uscire di casa che ecco comparire coincidenze come quella a ricordargli perché ha deciso di provare a superare l'insonnia rintanandosi in un pub a bere birra alle due di notte. Birra che nemmeno gli piace e che è solo un'altra patetica scusa per sentirlo con sé e fingere, in una disperata manovra per tirare avanti dignitosamente un altro giorno, che stia occupando il posto lì accanto.

Per poco non ha ordinato due boccali, quando è arrivato.

Sospira e ne ordina un'altra, sperando che la smettano presto di fare tutta quella inutile confusione.

«Ragazzo, non sei un po' troppo giovane per bere tanto?», lo apostrofa bonariamente il proprietario, inarcando un sopracciglio.

«No.»

«Mh. Almeno chiama qualche amico per farti portare a casa, intesi?»

«Le sembro ubriaco? Si preoccupi di quelli là», risponde laconico indicando dietro di sé.

Il barista ridacchia apprezzando l'osservazione e gli porge il terzo boccale.

Arrivato a circa metà, quando ormai gli schiamazzi sembrano essersi sedati e pensa di aver toccato il fondo, una mano si abbatte decisa sul bancone ed il ragazzo notato prima gli si siede accanto con un balzo scattante.

«Mathias, hai vinto i tuoi soldi?», chiede il barista in tono amichevole.

«Già!»

La sua voce è su di giri, allegra e squillante. Norvegia non si disturba nemmeno a voltarsi a guardarlo meglio, ha già inquadrato il tipo: fastidioso e attaccabottone. Se gli offre anche la minima occasione per rivolgergli la parola sarà finita e lui vuole solo essere lasciato in pace. Niente contatti visivi, niente di niente, neanche la mano a coprirsi l'orecchio con fare annoiato per il tono eccessivamente alto che ha usato a pochi centimetri dalla sua persona. Si comporta di fatto come se il ragazzo non esistesse.

Vede con la coda dell'occhio che questi porge all'uomo dietro il bancone un paio di banconote.

«Ne ho vinti abbastanza da poter fare un regalo alla tua bambina. Tieni, vecchio.»

«Pensa al tuo fegato. Hai solo vent'anni, sai?»

«Venticinque», cinguetta il ragazzo mettendosi d'un tratto a guardare Norvegia e non accorgendosi dei soldi che gli vengono cautamente rinfilati nel taschino della camicia.

Adesso basta. Anche il venticinque che torna. Io me ne vado.

Si volta per scendere dallo sgabello e finisce occhi negli occhi con il ragazzo. E lì si blocca.

Decisamente non è come lui. Gli occhi sembrano verdi, di un verde non molto definibile con le luci artificiali che li circondano, ed i capelli sono sì biondi, ma è un biondo troppo chiaro, quasi come quello di Svezia. Il sorriso che gli rivolge è completamente diverso, così come la singola fossetta sulla guancia e la forma del viso.

Eppure c'è qualcosa. Non sa bene cosa sia, forse l'atteggiamento spavaldo, il fatto che sia tanto allegro e si sia seduto dove, nella sua immaginazione, stava Dan a tenergli compagnia sfinendolo di chiacchiere che solo lui poteva udire. O è colpa del nome, magari.

Tuttavia, Norvegia deve reprimere un lunghissimo brivido e una sensazione quasi sgradevole alla bocca dello stomaco.

«Ciao!», esclama quello, gioviale, girandosi completamente verso di lui e impedendogli la fuga usando le ginocchia. «Sei da solo?»

Che vuole? Abbordarmi?

«Sto andando a casa», gli risponde, poi si volta dalla parte opposta per saltare giù. Qualcosa non va molto bene e se ne accorge appena mette piede per terra. Il pavimento vortica pericolosamente, lo sgabello è troppo alto, ed il pensiero, improvviso, di aver bevuto tanto senza nemmeno preoccuparsi di mangiare (l'ultima volta è stata il giorno prima o quello precedente?) sono indizi sufficienti a fargli capire che non andrà molto lontano.

Due braccia sicure gli si stringono attorno al torace e gli impediscono di cadere in avanti. Il viso sorridente e un po' preoccupato del ragazzo invadente fa capolino sopra la sua spalla.

«Oplà! Qualcuno ha bevuto troppo e non è abituato», gli sussurra divertito.

Il rossore si impadronisce di lui, così come la vertigine improvvisa alla considerazione che quella stretta è terribilmente simile ad un abbraccio. Un abbraccio da dietro, non aspettato, soffocante e rassicurante.

Un abbraccio che non riceve da...

«Lasciami andare!», sbotta, in un inaspettato scoppio d'ira, liberandosi dalla stretta di Mathias.

Si volta e lo guarda duramente, appellandosi alla compostezza, tornando indifferente alla velocità della luce. Voleva essere gentile, non deve aggredirlo.

«Non mi piace essere toccato. Scusa», borbotta con voce incolore senza guardarlo. Mette dei soldi sul bancone e si allontana a passi svelti, meno ondeggianti.

Male.

Di nuovo, il dolore martellante del cuore, che però è più persistente nella gola come se un nodo gli si fosse stretto con la ferma intenzione di impiccarlo. Ci vuole un po' per spingere la porta ed uscire dal locale, ma quando è fuori si dice che non tornerà mai più in quel posto.


«Perché mi chiedi queste cose, Norge?»

Inghilterra lo squadra sorpreso, al di sopra dell'elegante tazzina da tè.

«Sei sempre molto informato, sei la prima persona alla quale penso.»

«Me ne intendo più di magia. Quando parliamo di quegli argomenti mi trovi preparato», ribatte, sorseggiando con grazia innata.

«Vuoi far ancora pesare al mondo di essere la patria di Harry Potter?»

Il gentiluomo sogghigna in maniera perfida, scuote le spalle e abbassa la tazzina posandola davanti a sé.

«Oh, ho smesso. Il mondo se ne rende conto da solo.»

«Engl-»

«Ascolta. Sono addolorato per la tua perdita. Siamo venuti tutti al suo funerale ed è stato un momento al quale spero di non dover assistere mai più. La mor... la scomparsa di una nazione è la scomparsa di un fratello e per quanto sappia di essere considerato un cinico bastardo, credimi, quello che è successo a Danmark ha colpito anche me.»

Norvegia passa l'indice sul bordo della propria tazzina, obbligandosi a bere qualche sorso della bevanda ambrata che non lo fa impazzire, tacendo ad occhi bassi.

«Quello che mi stai chiedendo, però, “a titolo informativo”, come lo chiami tu, è qualcosa che non posso accettare. Una nazione passa attraverso secoli di guerre, boom, crisi, successi e sconfitte. Ci sono infiniti problemi, anche nei tempi moderni, ogni singolo giorno, ma una nazione scompare se viene obbligata a farlo, non decide di scomparire. Perciò no, non puoi morire a piacimento.»

«Non voglio morire.»

«Sì, lo vuoi, me l'hai chiesto tra le righe. Proprio tu, di tutti quelli che conosco, venirmi a domandare... insomma, Nor, credevo che tenessi al tuo popolo con tutto te stesso.»

«Sarei sostituito, col tempo. Me l'hai detto proprio tu.»

«Ci vuole molto tempo, non è come il passaggio del testimone. Sei una nazione benedetta, non puoi spegnerti in questo modo.»

Sono un uomo che non ha più voglia di alzarsi in piedi, Arthur.

«Vuoi che Islanda si disperi, perdendoti?»

«È per lui che io...»

«Che tu cosa? Hai retto fino adesso? Norge, per quanto ti pesi, hai l'obbligo di vivere. E senti, mh... non sono la persona più adatta a fare questi discorsi profondi, ma... io credo che...»

L'inglese armeggia coi bottoni della bella giacca, a disagio, fissandolo al di sotto delle cespugliose sopracciglia. Ha un'espressione insolitamente compassionevole che lo fa assomigliare moltissimo al piccolo Sealand quando si sente in colpa per qualcosa.

«Lui non avrebbe voluto questo», dichiara in tono basso.

Non gli risponde, ma fa un piccolo cenno che potrebbe essere d'assenso.

«Quindi, se lo capisci, smetti di fare certe domande.»

«Arthur», sussurra lanciando uno sguardo fuori dalla finestra, mentre si morde l'interno del labbro inferiore. «Dov'è adesso?»

L'inglese segue il suo sguardo e si perde a fissare un punto imprecisato delle tendine scostate.

«È una bella domanda. Bella davvero.»

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Capitolo 4
*** Incontro ***


«Ragazzo! Hey, ragazzino!»

Ragazzino?!

Si ferma e si volta con la faccia più disinteressata che gli riesca, mentre il rompiscatole lo raggiunge e si spazzola nervosamente i capelli troppo lunghi.

«I tuoi genitori lo sanno che gironzoli di notte ad ubriacarti?»

«E i tuoi?», ribatte prontamente, chiedendosi se un calcio negli stinchi lo azzopperebbe in via definitiva.

«Non ce li ho», ridacchia quello.

«Nemmeno io.»

«Ah, ma... sei comunque troppo giovane per frequentare questo genere di posto. Non hai fratelli che badino a te? Vuoi che ti accompagni a casa? Posso anche-»

«Hai finito di stressarmi con le tue chiacchiere? Tu hai venticinque anni? Io ne ho venti. Visto? Non ho bisogno della balia. Hai così pochi amici da dover sfinire la pazienza al primo sconosciuto che hai la fortuna di salvare da un volo in terra?»

È stato un po' duro, ma si sente mortalmente seccato da quell'invadente attenzione.

«Grazie per poco fa, ma torna dentro ed ignorami.»

Detto ciò si volta ruotando su un piede solo e cerca il cellulare nella tasca per chiamare un taxi, ma la voce ferma dietro di sé lo blocca di nuovo.

«No.»

Ancora? Se non la smette gli salta addosso e lo graffia a morte come un gatto isterico. Chi lo sa, magari dopo si sentirebbe meglio...

«Che cosa no?», sospira, immobile.

«Non riesco ad ignorarti. Ho già visto quel tipo di sguardo e so cosa significa. Non ti lascio andare via da solo, quindi puoi picchiarmi, se vuoi, ma insisto.»

«Di quale tipo di sguardo stai parlando?», gli chiede girandosi per tre quarti.

Mathias sorride debolmente e solleva le spalle come se stesse affermando una cosa ovvia, le mani affondate nelle tasche dei jeans.

«Lo sguardo triste di qualcuno che non ha più voglia di vedere il prossimo mattino.»


Non sa perché ha ceduto, ma se l'è portato a casa come un animale randagio.

Non teme sia un ladro o un assassino, non dopo averlo visto interagire con l'uomo del pub, ma anche senza quella minima informazione sul carattere del ragazzo, Norvegia non teme un essere umano a prescindere.

Umano o meno, si chiede come abbia fatto a leggergli dentro così in profondità senza neppure conoscerlo, senza averlo mai visto prima. Ha sentito un brivido alla base della colonna vertebrale mentre gli snocciolava quella piccola verità che gli altri nordici, per pietà o saggezza, fingono di non vedere.

È passato molto tempo da quando ha fatto quel discorso con Inghilterra, eppure non ha mai smesso di pensarci. Non esisterà un modo volontario per lasciare che la propria vita lo abbandoni, che tutto il dolore scompaia senza lasciare traccia, ma, certamente, può morire per mano altrui.

Farlo sembrare un incidente? Finire coinvolto in una rissa e farsi picchiare al limite della resistenza? Pugnalare, soffocare, gettare in un fiume. Quello lo ucciderebbe, certo, ma far morire il suo corpo non sarebbe una soluzione definitiva.

Per quanto ci abbia pensato e ci ripensi, Arthur ha ragione: le ferite guarirebbero e lui sarebbe nuovo come prima. Perché è una nazione, non un fragile essere umano. Ha ossa e sangue, organi e sentimenti; mangia, dorme, si fa la doccia e ha la febbre, ma se si “danneggia” torna.

Loro tornano sempre, non può annullarsi.

È Danimarca che non è tornato. Quello che se l'è portato via era un qualcosa di inarrestabile, di interno e personale. Non un virus che ha respirato e che ha infettato le sue cellule, un male che se l'è preso e ne ha distrutto il semplice corpo.

Dopo tutte le battaglie, dopo tutto quello che hanno superato insieme, o separati da alleanze diverse, è stato sconfitto. Quanto ha sperato che gli accadesse lo stesso e quanto si è detestato per il proprio egoismo, anche solo per aver speso giorni interi a speculare su un modo per raggiungerlo o sparire soltanto. Come se oserebbe farlo, poi, abbandonando Islanda.

Eppure, anche solo sapere che esista una via di fuga renderebbe le cose meno opprimenti. Trova ingiusto che gli sia preclusa la scelta che è data ai mortali.

«Faccio io», dice Mathias, entrando in cucina e sostituendosi a lui nell'accendere la macchinetta del caffè.

«Non...»

La sua debole protesta si perde nell'aria, mentre il ragazzo aggiunge l'acqua. Norvegia si guarda le mani rimaste inoccupate e si afferra la camicia stringendosi le braccia attorno alla vita, arrossendo impercettibilmente e fastidiosamente per il contatto momentaneo con le sue dita.

«Sembravi un po' sovrappensiero, scusa», si giustifica, prendendo due tazze e sorridendogli. «Credo che ci farà bene un caffè dopo tutta quella birra.»

Restano in silenzio durante il lavorio della macchina, entrambi assorti eppure vicini. Quando Mathias gli porge la tazza colma e si accomoda sulla sedia attorno al tavolo ovale, Norvegia non può fare a meno di sospirare e sederglisi di fronte, sfiorando la propria e beandosi del calore.

È il momento di dirgli che bevuto quel caffè può anche andare, che non ha intenzione di morire e che può tranquillamente tornarsene a casa sua. Grazie di averlo accompagnato e bla bla bla, addio. Apre la bocca per dirglielo, ma viene anticipato da un tornado.

«Non mi hai ancora detto il tuo nome. Lavori? Questa casa è immensa e arredata benissimo! Sei sicuro di avere vent'anni? Te ne darei al massimo sedici e sono generoso. Scommetto che le ragazze non ti si staccano di dosso, non sai come sono invidioso dei tuoi occhi! Sei un modello? So che guadagnano un sacco di soldi. Oppure sei ricco di famiglia! Hai ereditato tutto e vivi di rendita. Ah, beato te! Io faccio tre lavori, una palla che non ti dico. Sei sempre così silenzioso e scazzato oppure è un privilegio che riservi a me? Scommetto che anche un piccolo sorriso, là sopra, cambierebbe tutto il quadro.»

Norvegia lo guarda con tanto d'occhi, stordito dalla velocità con la quale ha parlato e la tazza bloccata sotto le labbra.

Mathias ridacchia e si appoggia al tavolo, incrociando le braccia sotto il mento e abbandonandovisi. «Scusami se parlo troppo. I tipi come me tendono a mettere in imbarazzo quelli come te, non lasciando il modo di esprimersi. Prometto che sto zitto e buono, ma tu raccontami qualcosa!»

Norvegia riesce a sospirare, beve con fare elegante e riposa la tazza sul tavolo.

«Non c'è molto da dire e hai fatto troppe domande in quello sproloquio. Sei sempre così diretto? È come se non avessi un filtro.»

«Non ce l'ho», conferma, scoppiando a ridere subito dopo e dondolando la testa, attento a non staccare gli occhi dai suoi. «Qualcuno lo trova un tratto adorabile, ma direi che non la pensi allo stesso modo. Quanti secondi mi restano prima di venir calciato fuori dalla finestra?»

Ha un sorriso che arriva da un orecchio all'altro e Norvegia si riscopre incantato a fissarlo. Da quanto tempo non vede un sorriso aperto come quello? Non pensa che sia bello, certo che no!, ma trasmette innegabile calore.

«Continua pure a parlare», risponde distogliendo lo sguardo, a disagio.

«Volevo che parlassi tu, puoi rispondere a qualcosa della mia raffica», lo invita in modo suadente, continuando a sorseggiare il caffè. «Se non ricordi le mie domande posso ricominciare.»

Sospira, indeciso se essere esasperato, stanco o causa del proprio male.

«Mi chiamo Lukas, sono sicuro di avere vent'anni, sono ricco per eredità, non sono un modello e no, non sono scazzato. Mai sentito parlare di personalità? Questa è la mia», risponde in tono piatto.

«Accidenti, sei terribile», ride il ragazzo tenendosi la pancia e piegandosi un po' in avanti. «Ma... divertente!»

Divertente?

«Mi piaci, Lukas!», erompe facendogli andare di traverso la bevanda. «Possiamo diventare amici? Non mi hai ancora sbattuto fuori e ti sei fidato di questa faccia angelica al punto tale da farmi entrare in casa tua, forse non ci tieni che la gente ti rompa le scatole, ma decisamente non vuoi stare da solo o mi avresti già mandato al diavolo!»

Tecnicamente ti ci ho mandato, sei tu che non cogli.

«Non so cosa sia accaduto per far cambiare quegli occhi al punto tale da gridare anche ad un estraneo come me che non vuoi stare in questo mondo.»

Mathias lo guarda con occhi dolci e fa un piccolo sorriso. «Mi piacerebbe vedere le altre espressioni che sanno fare», mormora.

Norvegia abbassa lo sguardo e vede le mani tremare, per cui le infila sotto il tavolo e si stringe le gambe. Cosa ne sa dei suoi occhi e di com'erano prima di perdere interesse per tutto? Come può parlare a quel modo? Cosa ne sa di quello che sta provando, a farsi ridere in faccia e battibeccare in due, quando è così tanto, oh così tanto tempo che non succede?

Cosa mai ne saprà delle espressioni che avrebbe voluto rivolgere a...

Improvvisamente si ritrova a dare voce al tormento e non sa davvero come sia scattato il meccanismo, quando il meglio che sa fare è tenere tutto dentro.

«È morto, va bene? È questo che vuoi sentire?», sibila con amarezza. «Un... un amico, un fratello. È morto e non ho potuto farci niente, solo starmene lì e guardarlo andare via, senza nemmeno dirgli cosa-»

Non riesce a finire la frase, perché la gola si chiude. Le mani tremano ancora, ma per fortuna dimostra un contegno molto serio e di questo è grato.

Fissa il tavolo in silenzio.

Mathias viene in suo soccorso per terminare il concetto, dopo aver atteso con pazienza di avere di nuovo la sua attenzione.

«Non sei riuscito a dirgli quanto contasse per te?»

«Non so nemmeno perché te l'ho detto, non cambia le cose. Parlarne è inutile», dichiara duramente.

«Mi dispiace. Quando è successo?»

«Vent-»

Venticinque anni. Non può dirglielo.

«Quasi due anni», recupera, dicendosi che non sembra una bugia. Continua a pensarci come se fosse appena accaduto e a sognarlo come se potesse intervenire, perciò suona completamente sincero ed il tono tetro è del tutto naturale.

«È davvero poco tempo», commenta Mathias a bassa voce, alzandosi e prendendo anche la sua tazza per sciacquarle nel lavandino.

Ora se ne andrà. Nessuno vuole ascoltare certe cose, certe confessioni scomode, men che meno da uno sconosciuto col quale non si sa come ci si dovrebbe comportare, ma l'acqua scorre pigramente e Mathias è sempre lì, calmo, meno esuberante di prima, compassionevole senza risultare fastidioso.

E poi, all'improvviso, ricomincia a parlare in tono quieto.

«Sono orfano. Non ho mai conosciuto i miei né sono mai stato adottato, passavo da una famiglia affidataria all'altra con la velocità di un colpo di spazzola. Non ho affetti profondi a parte gli amici che mi sono fatto e per fortuna sono tutti in vita, perciò non ho proprio idea di quello che stai passando e hai già affrontato. Anche se dico di capire, in realtà non ho il diritto per affermarlo. Non so proprio niente di questo dolore, però...»

Chiude l'acqua e si volta a guardarlo, asciugandosi le mani e fissandolo intensamente. «Sei talmente triste che riesci a farmelo provare senza nemmeno spiegarmelo.»

La sua risposta arriva pronta, sempre pungente.

«Mi dispiace rovinare il tuo buonumore, so di non essere quello che si definisce una compagnia allegra, quindi puoi and-»

«Ti piacciono gli uomini?», gli chiede improvvisamente, in maniera diretta e senza particolari insinuazioni. È come se gli stesse chiedendo se ama andare in bicicletta.

«Eh?»

«Ti piacciono? O preferisci le ragazze? O entrambi, magari.»

«Perché mi fai una domanda del genere di punto in bianco?»

«Perché vorrei chiederti di passare il resto della notte con me.»

Schiude le labbra per la sorpresa, osservandolo avvicinarsi e posare le mani sullo schienale della propria sedia mentre si china su di lui.

«Hai voglia di stare un altro po' con me?»

Le sue labbra si tirano in una linea sottile e dura. «È questa la tua soluzione, Mathias?» Rabbrividisce pronunciando quel nome, ma non abbandona i suoi occhi né cerca di scostarsi. «Sono una persona triste e sola da consolare, un caso disperato che hai deciso di portarti a letto perché ti fa pena? No, grazie. Non credo nel potere consolatorio del sesso.»

«Chi ha parlato di questo», mormora dolcemente, avvicinandosi ancora un po'. «Ho notato che ti stringi le braccia attorno al corpo come se volessi essere stretto da qualcuno. Posso tenerti abbracciato fino a domattina, se vuoi e se pensi possa farti stare un pochino meglio, senza toccarti con un dito.

Ti ho chiesto se ti piacciono gli uomini perché certe persone eterosessuali provano fastidio ad essere strette in un letto da qualcuno dello stesso sesso. Inoltre non mi conosci e sarebbe più che legittimo un tuo rifiuto, ma voglio fare qualcos-»

«La tua dedizione è ammirevole», sibila, alzandosi e costringendolo a ritrarsi e restare un paio di spanne sopra di sé. «Hai detto di avere tre lavori, se non sbaglio. Non perdere tempo ad analizzare e confortare gente che non hai mai visto prima e torna a casa a riposare, è meglio.»

Le labbra di Mathias si incurvano in un sorrisetto storto.

«Immagino che respingere in questo modo ogni tentativo di essere carini con te sia la norma», cede, sollevando una mano e posandogliela con semplicità sulla testa. «Non voglio infastidirti oltre, ma se cambiassi idea e volessi vedermi...»

I polmoni di Norvegia si bloccano di comune accordo e il respiro si fa rantolante.

«... Lukas?»

«Ah...»

«S-stai bene?»

No, non sta bene. Ha le mani lungo i fianchi, eppure c'è una mano sulla testa, nello stesso punto in cui Danimarca era solito posarcela per sottolineare certe frasi, per dirgli che se non fosse diventato più alto lo avrebbero scambiato eternamente per un minorenne, per accarezzarlo nei momenti più normali e senza un motivo preciso. A volte solo per spostargli il cappello e farlo arrabbiare un po'.

Ha il respiro corto e accelerato e ci mette davvero poco a capire che è finito in iperventilazione. Non riesce a troncare la crisi sul nascere e tutto il corpo si irrigidisce. Cadrebbe in avanti sulle ginocchia se le braccia di Mathias non lo sostenessero prontamente per la seconda volta.

Il ragazzo lo prende di peso e lo porta sul divano nella stanza adiacente, adagiandocelo sopra e mettendogli una mano sul petto.

«Lukas, mi stai spaventando a morte, ti prego... cerca di respirare piano e calmarti, va tutto bene.»

Non va bene niente. Niente.

Quella mano, quella mano così simile alla sua per forma e calore, per grandezza e dolcezza e...

Trema vistosamente, portandosi le mani a coppa davanti alla bocca e costringendosi a respirare la stessa aria, mentre stringe gli occhi e sente le lacrime spillare ai lati.

Danmark! Danmark! Aiutami! Tu, brutto idiota che mi ha lasciato qui!

«Continua così e starai bene. Hey, devo chiamare qualcuno?», sussurra velocemente, spostandogli i capelli dagli occhi e mettendo le mani sulle sue per creare uno spazio più ristretto. Norvegia scuote rigidamente la testa, continuando ad affannarsi.

Trascorrono diversi minuti nei quali alterna ossigeno e anidride, fino a quando finalmente riesce a regolare il respiro e scacciare il panico. Il petto è in fiamme, ma la crisi sembra passata lasciandolo spossato. Tutto per la sua dannata mano.

«Vuoi... vuoi ancora che io-»

«Resta», ansima girandosi verso lo schienale del divano, accecato dalle lacrime che deve nascondere. «Resta e sta' zitto.»

Senza dire una parola, Mathias si alza ed afferra una coperta stendendola su di lui. Gli sfila le scarpe e fa la stessa cosa con le proprie. Abbassa l'intensità della luce della piantana lì accanto fino a spegnerla, poi si sdraia dietro Lukas e lo stringe tra le braccia al di sotto della coperta. Lo tiene delicatamente ma con fermezza. Vorrebbe chiedergli se può farlo, ma non ricevendo proteste scivola al suo viso e gli accarezza la guancia con la punta del naso. Sta ancora piangendo, senza fare il minimo rumore.

Mathias spera che il ragazzo si addormenti in fretta, così non sentirà più dolore. Gli ha spezzato il cuore in mille pezzi e non sa nulla di lui, se non che ha perso qualcuno di importante ed è quasi inavvicinabile.

Non sa spiegarselo, ma prova un sentimento strano e indefinibile. Ha voglia di stringerlo a quel modo, di proteggerlo, di prendersene cura. Lui, che a malapena sa badare a se stesso.

Se si è innamorato a prima vista -come teme- è spacciato. Non è esattamente il suo tipo ideale né sembra una persona facile con cui avere a che fare, eppure vuole restare lì con lui.

«Mathias», mormora dopo qualche tempo con voce arrochita. «Faresti una cosa?»

«Mh», risponde con un piccolo brivido.

C'è un che nel suo profumo delicato che lo stordisce e lo tiene incollato a quel piccolo corpo tremante. Non è piccolo nel senso stretto del termine, sente sotto le braccia che il corpo che stringe è muscoloso, anche se non in maniera eccessiva, ed è più maschile di quanto non sembri a rapide e superficiali occhiate. Lo considera solo minore di lui e quello, di certo, contribuisce a scatenargli l'istinto protettivo.

Ha un profumo così dolce, nostalgico...

«Augurami la buonanotte», chiede con un filo di voce. «Per favore.»

Perché lo chiede in modo così triste? È una cosa naturale, perché gli fa male al petto sentire quelle parole? Non lo conosce che da qualche ora, forse anche meno, perché sentirsi tanto coinvolto?

Emana qualcosa che lo ha attratto dal primo momento in cui l'ha notato, ma ha pensato fosse il suo aspetto. Invece c'è altro che non riesce ad afferrare e comprendere. Se la prende troppo a cuore per essere un ragazzo mai visto prima.

«Buonanotte, Lukas. Fai bei sogni», bisbiglia dentro il suo orecchio.

Lo sente tremare ancora, probabilmente ricominciare a piangere e pensa che si stia odiando per mostrare quel lato tanto intimo e privato ad un estraneo.

Non sa perché ne sia tanto convinto, ma ne è sicuro in maniera totale.

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Capitolo 5
*** Armonia ***


Quando Lukas riapre gli occhi, nella tarda mattinata della domenica, è avvolto da un corpo caldo che non conosce. Ha la testa nell'incavo del suo collo e davanti agli occhi socchiusi alcune ciocche di un biondo eccessivo, al limite dell'accecante.

Si tende e gli sfiora la gola con le labbra, cercando un profumo a cui è abituato e che non respira da troppo tempo. Quello è diverso, ma non gli dispiace. È rassicurante, tenue.

Rimane accoccolato convinto che l'altro stia ancora dormendo, a rivivere gli eventi della notte appena trascorsa. Il pub, il caffè, la crisi. Le lacrime.

È seccato dall'essersi fatto vedere in quel modo patetico, ma è così esausto che ha imparato ad essere più indulgente con se stesso.

Non è una macchina, non ha dei pulsanti che possono azionare e disattivare le emozioni: ha un corpo umano e dei sentimenti, può permettersi di essere debole, di soffrire e di piangere, perfino. Davanti a quel ragazzo sarebbe stato meglio evitarlo, ma è successo.

Gli ha dato sollievo abbracciandolo, tenendolo stretto tutta la notte, facendosi venire con alte probabilità un torcicollo o un mal di schiena epico, dormendo a quel modo.

Farsi dare la buonanotte da qualcuno che un po' somiglia a Danimarca e rilassarsi per quel tono basso e gentile, come se realmente gli importasse di lui, è stato da malati. Sta diventando pazzo, anno dopo anno.

Essere consolato, perché? È solo un ingannevole palliativo.

Quando Mathias si alzerà, prenderà la porta e sparirà. Non gli serve una laurea in psicologia per sospettare che il ragazzo che ha seguito a casa abbia dei seri problemi, no? Si allontanerà.

Norvegia è sorpreso di averlo trovato ancora lì, ma aver bevuto tanto può aver contribuito a quel lungo riposo.

Mentre lo osserva dormire, resta immobile e continua a riflettere.

Per la prima volta da tempo c'è qualcuno in casa sua, qualcuno che non è Islanda né Svezia né Finlandia o il piccolo Sealand. C'è qualcuno di nuovo e di imprevisto.

Qualcuno con il quale, ora che ci pensa, non deve necessariamente mostrarsi forte.

Lui non sa niente di Danimarca né della profondità del suo dolore. Un po' è un sollievo.

«Mmh, sei sveglio», borbotta con voce rauca il ragazzo, stiracchiandosi malamente. «Sei silenzioso, ma ti sento pensare.» Si volta sul fianco e lo ricattura. «Buongiorno», cinguetta.

«B-buongiorno», balbetta arrossendo e sprofondando nel suo petto.

Perché lo imbarazza tanto? Era meglio immaginarlo come un cane randagio senza fissa dimora, non come un umano che ha dei punti in comune con lui.

Non avrebbe vergogna di un cane. Potrebbe stringere un cane senza timore.

«Posso restare ancora un po' o non vedi l'ora di buttarmi fuori?», gli chiede passandogli le mani sulla schiena in calde carezze lente e piacevoli.

«Puoi restare», sospira, sconfitto da quella dolcezza. «Però smettila di coccolarmi tanto.»

«Perché? Sono affettuoso di natura, non posso farci niente. Non mi sembra ti dispiaccia come vuoi farmi credere», asserisce sfacciatamente, dondolandolo e cedendo ad uno sbadiglio.

«Non mi conosci, non sei tanto a posto ad essere affettuoso con me.»

«Forse è vero... però mi fa sentire bene esserlo, quindi che importa?»

A quelle parole, Norvegia pone con fermezza le mani sul suo petto e lo spinge via, mettendosi a sedere e passandosi una mano tra i capelli. «Vado a farmi la doccia. Se c'è una cosa che non sopporto è addormentarmi con i vestiti addosso», borbotta osservando la camicia stropicciata.

«Hey», lo richiama prendendolo per il braccio e facendolo voltare. «Cosa c'è di male se ti coccolo?»

«Sei davvero fastidioso», commenta alzando gli occhi al cielo. «Ti comporti così con tutti i tuoi amici o solo con gli sconosciuti?»

«Solo con chi mi piace», risponde Mathias con un sorriso accattivante e la voce roca, tirandolo per il braccio e costringendolo a sdraiarsi nuovamente accanto a lui.

Gli passa le dita tra i capelli, adagio, prende un bel respiro e lo rilascia con un profondo senso di benessere.

«La doccia può aspettare, sai? Stiamo ancora un po' così, male non fa.»


«Cosa c'è di male se ti coccolo?»


C'è che domani non lo farai più.

C'è che non avrò un'altra notte di vero riposo come questa.

C'è che fa male e tu non puoi capirlo.


Norvegia recupera il se stesso di facciata, quello che non si sognerebbe mai di mettersi a piangere davanti agli altri, quello che adotta sempre un tono basso e monocorde, un viso impassibile come se fosse dipinto nel vetro, una postura elegante arricchita da gesti sempre impeccabili.

Norvegia indossa la maschera che gli è diventata praticamente necessaria da venticinque anni a quella parte. Prima era il suo carattere chiuso e introverso ad obbligarlo ad essere così, ora si deve nascondere volontariamente per tirare avanti con decoro.

Quando esce dalla doccia e si asciuga con calma, quando indossa dei vestiti puliti, stirati e con un buon profumo di ammorbidente sopra, si calma e pensa con lucidità alle parole più adatte per mandar via il ragazzo che sente muoversi nella propria cucina.

Non può restare, non possono diventare amici. Nemmeno se ha mani così grandi e simili alle sue, nemmeno se quel tocco gli porta pace al cuore, nemmeno se la sua voce allegra riempie un vuoto ormai incolmabile. Soprattutto per queste ragioni.

Non può attaccarsi, dipendere da qualcuno, men che meno mortale. È stato sbagliato farlo dormire lì, ma può ancora porvi rimedio.

Esce dal bagno, perfetto in ogni dettaglio, con l'immancabile clip a forma di croce a tenergli una generosa ciocca di capelli lontana dall'occhio sinistro.

Sosta sulla soglia della cucina, inarcando appena le sopracciglia e schiudendo le labbra per lo stupore di ciò che si trova davanti; reazione che viene immediatamente replicata, molto più eccessiva, dal suo indaffarato ospite.

«Ah, eccoti! Io stavo... oh, Kristus!», sussurra Mathias abbandonando le braccia lungo i fianchi, la bocca una grossa O spalancata.

«Che stai-»

«Sei bellissimo», esala, portandosi una mano al petto come se rischiasse un infarto. «Parola mia, tutto in ordine sei... hey, sicuro di non essere un modello? Magari fotomodello? So che devono avere una certa altezza e tu non sei proprio...», blatera gesticolando.

Norvegia si nasconde quasi casualmente la parte inferiore del viso, sentendosi la faccia scottare per la vergogna. Maledetto, come fa ad essere così schietto? Dice proprio quello che pensa?

Si ricompone velocemente ed entra nel locale indicando il tavolo pieno di farina.

«Spiegare», sussurra incolore.

«Ah, sì, ecco! Stavo cercando di preparare qualcosa e ho deciso di gettarmi sui frollini. Ancora dieci minuti e sono pronti», dichiara trionfante.

«Tu cucini.»

«Vivo da solo, devo sopravvivere.»

«Fai i biscotti.»

«Avevi gli ingredienti e ho pensato che... non ti piacciono?», chiede impensierendosi all'improvviso.

«Mi... mi piacciono», sussurra, abbassando lo sguardo.

Cade un piccolo silenzio tra loro, mentre Lukas si ammira le scarpe tirate a lucido e Mathias si passa una mano sul collo, le labbra infuori.

«Lukas», lo chiama infine, gettando fuori quel nome sotto forma di sospiro. Gli mette le mani sulle spalle e lo scruta finché questi non torna a guardarlo in viso, dando segno di ascoltarlo.

«So che non ho alcun diritto di dirti come meglio vivere. Non mi conosci e probabilmente non ne hai nemmeno voglia, ma io sono fatto in maniera molto strana ed ho la testa terribilmente dura, per cui non sparirò dalla tua vita finché sarò certo che non farai sciocchezze.»

«Non ne farò, sei libero da ogni vincolo morale.»

«Non funziona così», ridacchia, facendolo accomodare e spostando una sedia per metterglisi davanti, occhi negli occhi.

«Cosa te ne importa», mormora smorto, lanciando un'occhiata vacua al forno acceso. Il profumo dei frollini ha invaso tutta l'aria intorno e si riscopre ansioso di assaggiarli.

Da quanto tempo non prova più interesse per il cibo? L'unica passione che gli è rimasta è quella per il caffè, ma è talmente insita nella propria natura che non la perderebbe neppure se smettessero di produrlo, quindi non la considera. Lo stomaco non brontola mai per una tazza di caffè, ma un tempo si animava per i suoi dolci... i suoi terribili, grassissimi, burrosi e fantastici dolci.

«Cosa me ne importa? Mmh, non ne ho idea», ribatte dopo averci pensato seriamente, alla ricerca di una risposta sensata e intelligente. «Forse sono un bravo ragazzo?»

La risata di Mathias risuona strana per la cucina di Lukas, facendogli vibrare qualcosa dentro, facendogli considerare che nessuno ha più osato ridere in quella casa, nel suo cuore.

Lo osserva con attenzione, usando un tono assorto.

«Sì, credo che tu lo sia. Darti tanta pena per qualcuno che non conosci è un tratto davvero insolito.»

Il sorriso convinto di Mathias gli arriva da un orecchio all'altro, gli occhi verdi sono così pieni di buone intenzioni da far male. Sembra un bambino che non si può deludere.

«Mathias», dice allungandosi e mettendogli una mano sul polso, grave. Toccarlo non gli causa alcuno sconvolgimento interiore particolare, ma vorrebbe comunque mozzarsi la mano per averlo fatto. «Io non sono normale. Ho qualcosa che non va e non mi piace che tu mi stia intorno. Impegnati per qualcuno che sappia apprezzare i tuoi gesti, non sprecarli con me.»

Il ragazzo inclina la testa verso la spalla, mostrandogli un'espressione tra il buffo e l'indeciso. «Io ti sembro normale?», chiede indicandosi.

Cattura la mano di Lukas quando lui fa per allontanarla e la porta sulla propria gamba, stringendola piano.

Ecco, ora il cuore gli accelera un pochino, ma è la stizza per tutta quella confidenza. Non è altro, non è niente...

«Chiamami pure idiota, ma non c'è un altro posto dove vorrei stare, ora come ora. Devi assaggiare i miei frollini! Se fanno schifo sei autorizzato a calciarmi fuori con l'accusa di avvelenamento», asserisce intrecciando le dita alle sue e giocherellandoci.

Norvegia guarda esterrefatto quel gesto così amichevole ed affettuoso, rimescolando dentro di sé le cose che dice saltando di punto in bianco, di frase in frase, cambiando intonazione dal serio allo spensierato.

È un cavolo di tornado.

«Perché fai così...»

«Cosa?», chiede Mathias in tono sommesso, intrappolando quella mano anche con l'altra ed accarezzandola come se fosse preziosa, cara. Qualcosa che a Norvegia non sfugge e che lo fa contrarre dentro.

«Toccarmi. Mi tocchi continuamente», gli fa notare, senza però sottrarsi.

«Aah, questo! Te l'ho detto che sono affettuoso!» Si dondola sulla sedia, sorridendo in modo disarmante.

«Sei completamente disturbato», commenta secco e meravigliato, chinandosi verso di lui. «Non puoi essere tanto espansivo con chi non conosci. Lo vuoi capire?»

«Chi lo dice? Mi sento di tenerti la mano, così come mi sono sentito di restare a dormire insieme a te e di cucinarti qualcosa di dolce per colazione.»

Si zittisce brevemente, guardandogli un occhio e poi l'altro con troppa intensità.

«Sai cosa sento, anche?»

«No, ma sei troppo vicino», borbotta, imbarazzandosi di nuovo e arretrando.

«Esatto. Sento di essere troppo vicino. Potrei baciarti da un momento all'altro.»

Lo lascia finalmente andare e si alza per controllare il forno. Norvegia resta con la mano sospesa nel vuoto, stecchito sulla sedia. Dice una cosa del genere e poi si alza come se niente fosse?

«Sei sempre così diretto?», esala in tono quasi arrabbiato, girando la testa di scatto.

«Sempre. Scusami.»

Mathias spegne l'elettrodomestico e si volta per infilarsi i guantoni da forno. «Dopotutto mi pare di aver detto che mi piaci. Io farei attenzione, se fossi in te», scherza facendogli l'occhiolino e lasciandolo di sasso.


Quella sensazione.

Quel calore.

Mathias sprigiona qualcosa, non solo nel suo aspetto.

Anche se ha due normalissimi occhi verde smeraldo, in certi momenti Norvegia li vede rifulgere di azzurro. Potrebbe essere la luce. Sicuramente è la luce.

Oppure il colore del cielo esterno che inganna e sembra far cambiare colore a certi tipi di occhi. Verde, azzurro, grigio. Si confondono facilmente in alcune giornate.

Anche se ha i capelli quasi fino alle spalle, se mettesse un po' di gel e li sparasse da una parte, sembrerebbero più corti e ribelli e si potrebbero scurire con poca immaginazione.

Ma non è una questione di aspetto né di colori, in fondo, e, davvero, di viso non ci somiglia affatto.

È la familiarità, troppo insolita per essere un completo sconosciuto.

È il modo in cui si muove per la sua cucina come se vi avesse preparato biscotti per l'ultimo anno, anziché per la prima volta nella sua vita.

È come lo tocca, è come gli parla, è come sa far sbollire la sua irritazione.

È come lo guarda, è come lo ascolta, è come lo fa imbarazzare e mettere a suo agio, in una continua altalena di emozioni.

È come gli ha fatto battere il cuore che sembrava divenuto un muscolo senza più altra funzione, oltre a quella di manifestare il suo essere vivo tramite palpiti sbiaditi.

È come lo cerca e lo porta ad essere cercato da lui, indipendente e gelido da sempre.

È come gli fa sentire, in maniera del tutto irrazionale ed illogica, di non essere solo.

È come gli fa credere che Danimarca sia lì, a sorridergli con il viso di un altro giovane uomo, ad ingannarlo perfino per il sapore del burro che gli ricorda quei dolci.

È come lo fa sentire vivo, abbandonando completamente il desiderio di chiudere il sipario.

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Capitolo 6
*** Anniversario ***


«È davvero strano. Credo», mormora il fratello, avvicinando meglio la sedia attorno al tavolino del bar e girando svogliatamente la cannuccia colorata nel bicchiere di Coca.

«Lo so», risponde Norvegia, il mento posato sulle nocche di una mano. Lo fissa intensamente, evitando di distrarsi per catturare ogni minimo cambiamento nei tratti di Islanda.

«Voglio dire, non so se dovrei appoggiarti o...»

«L'unica cosa che mi aspetto da te è che mi dica il tuo pensiero, in tutta sincerità.»

Il ragazzo gira la cannuccia pensosamente, fissa il ghiaccio e sospira.

«Sinceramente», esala alla fine, smettendo di giocherellare e addossando la schiena alla sedia rigida per incrociare il suo sguardo fisso. «Sinceramente credo sia un errore.»

Norvegia annuisce brevemente ed avvolge tra le mani la tazza di caffè.

«Vedi. Hai una tua opinione ben precisa.»

«Sì, ma...!»

«Ma...?»

Islanda emette un altro sospiro molto più profondo del primo e il suo viso si scurisce come se una nuvola avesse appena coperto il già debole chiarore del sole.

«È la cosa migliore che ti sia capitata da anni. Non mi sento di consigliarti di buttare tutto al vento e lasciarlo andare», sussurra sconfitto e corrucciato, riprendendo poi a bere velocemente.

«Non riuscirei a lasciarlo andare», sospira Norvegia in tono sommesso, sollevando il suo caffè. «Anche se so che è sbagliato.»

«Non fatico a comprenderti, Nore.»

Il tono basso e dolce di Islanda lo obbliga ad incontrare velocemente il suo sguardo ora un po' lucido.

«È sempre stato così, fratello. Tu mi comprenderai eternamente», gli dice dopo qualche momento speso semplicemente a guardarsi.

C'è un minuscolo sorriso che increspa le labbra dell'islandese, fermo a chiedersi quanto sia provvidenziale quel comprendersi profondo.

«Quel giorno ero accanto a te. Ho visto il tuo cuore accartocciarsi e sbriciolarsi come un foglio di carta gettato alle fiamme. Ti ho visto morire insieme a lui. Mai più, Nore. Non potrei sopportarlo un'altra volta.»

La voce sicura ed intensa di Islanda vacilla leggermente, nel momento in cui decide di concludere la frase, consapevole di non poter dire altro senza lasciarsi andare a scene penose.

Sono talmente simili da fare male.

Il bisogno che Islanda ha di lui è palpabile anche senza parole e lo fa vergognare nel profondo, non per la prima volta, di essersi abbandonato per anni alla ricerca incessante di un modo, un sistema, una qualsiasi via di fuga dalla vita.

Islanda di sicuro lo immagina, pur non avendogliene mai parlato.

Chissà se lo odia, per quei pensieri egoistici. Probabilmente sì, perché Islanda non vuole rimanere solo. Non può perdere anche lui.

Avrebbero dovuto parlare di più di Danimarca, perché il loro dolore può essere su due piani differenti, ma ha la stessa ferocia. Avrebbero dovuto sfogarsi insieme, farsi forza insieme, invece di chiudere tutto dentro come sono abituati a fare.

«Is, vorrei chiederti una cosa. Non ho mai avuto il coraggio di farlo», si decide, dopo una pausa tanto lunga da far disciogliere quasi completamente mezzo cubetto di ghiaccio nella Coca del minore.

«Se è qualcosa che può farti male mi rifiuto di rispondere», borbotta mordicchiando la cannuccia.

«Forse, ma non credo possa andare peggio di così», sussurra spaziando con lo sguardo.

«Chiedi.» Sconfitto, già triste.

«Quel giorno cos'ho fatto? Ricordo di aver distrutto dei mobili. Quando sei entrato nella camera di Dan, come mi hai trovato? Sei stato tu a rimettere tutto a posto?»

Quella domanda costringe Islanda a sollevare la testa con eccessiva calma, come se cercasse di opporsi ad una forza contraria. «Nore, me lo stai chiedendo seriamente?»

«Non ricordo con chiarezza», si giustifica, accarezzando la tazza del caffè con l'indice.

C'è una lunghissima esitazione, così protratta che per un po' Norvegia si convince che non gli risponderà davvero o che gli dirà di non ricordare allo stesso modo. Il fratello, però, è più forte di quanto immagini e sta solo cercando le parole giuste da mettere insieme.

«Eri in ginocchio, immobile e silenzioso accanto al letto, con la sua mano posata sopra la testa. Non hai parlato per moltissimo tempo e nulla era distrutto. Eri una bambola, Nore. Una bambola di porcellana muta ed io...»

Si ferma, troppo addolorato dal ricordo. Ha parlato lentamente, con difficoltà ma senza pause rilevanti, come per buttare tutto fuori prima di arrivare a quel prevedibile blocco.

Si massaggia distrattamente la gola, stretta nello stesso identico nodo che Norvegia ormai conosce tanto bene: è tanto più dilaniante quanto più si sforza di trattenere le lacrime.

«Scusa, Is», mormora allungando la mano per toccargli il polso. «Guardami. Sto bene.»

Islanda annuisce appena, ma fissa il tavolo con ostinazione stringendo un lembo della camicia del fratello. Norvegia sospira profondamente, studiando quel loro timido cercarsi e riprendendo a parlare.

«Nei miei sogni, nei miei ricordi, io grido. Se è andata così, credo stessi gridando soltanto dentro di me», commenta, rendendosi conto che quella semplice constatazione è la verità e non una supposizione, una verità che conosce da tempo e che fa male come il rimpianto.

Stava gridando di amarlo. Stava gridando che era un idiota e che non doveva azzardarsi a lasciarli. Stava prendendo a calci armadi e comodini, stava strappando tende e carta da parati. Piangeva e urlava come un pazzo, tanto da scartavetrarsi la gola. Tutto nella propria mente.

«Che cosa... che cosa gridavi?» Impacciato e basso, come incerto su quanto sia lecito chiederglielo.

Norvegia riflette a lungo, anche se non ha davvero bisogno di ricordare.

«Qualcosa che non ha più importanza. Non gliel'ho detto e non ho più modo di farlo.»

«Allora so cos'è», sorride amaramente il fratello, catturando le sue dita e stringendole con necessità improvvisa. «Lo sapeva, Nore.»

«Affatto.»

«Non mi metterò a discutere con te», rincara guadandolo dal basso. «Ma ci sono cose che si sanno anche se non vengono esplicitamente dette.»

Avrei voluto dirlo affinché lo sentisse con le orecchie.

Avrei dovuto, anche solo una volta.

Lo rimpiangerò per sempre, Is, perché le parole hanno un peso e sono importanti.

L'improvvisa venuta di Mathias interrompe quello scambio ed il momento si distrugge così come si è creato, sfumando gli animi tesi.

Il ragazzo prende subito una sedia e la volta per accomodarsi al contrario, tendendo la mano ad Islanda che, nel frattempo, le ha ritirate frettolosamente entrambe attorno al proprio bicchiere, come se stringere le dita del fratello fosse la cosa più disdicevole del mondo.

«Mathias!», esclama con un sorriso sfolgorante, non essendosi accorto di nulla. «Ciao!»

«E-Eirik», balbetta il ragazzo stringendola, preso in contropiede dall'entusiasmo.

«È un piacere!», gli sorride gioviale, girandosi verso Lukas e posandogli il palmo aperto sulla testa per dondolarlo leggermente, attento a non spettinarlo salvo scatenare ire funeste che ben conosce. «Ciao anche a te, Luk.»

«Lukas», sbuffa Norvegia lanciandogli un'occhiata letale.

Letale e dolce, Islanda non può fare a meno di notarlo.

«Mi sei mancato tanto», cinguetta appoggiandosi al suo braccio e strusciandosi come un gattino, scatenando un progressivo sgranarsi degli occhi dell'isola.

«Eirik, ora sai perché ci ho messo tanto a presentarti questo individuo.»

«Ho dovuto insistere molto», si lamenta Mathias, cercando di prendere il suo caffè e beccandosi un pizzicotto sulla mano.

Mentre Norvegia gli sibila di ordinarsene uno e di non osare mai più prendergli il caffè, Mathias, massaggiandosi con l'altra la pelle arrossata del dorso, sorride carinamente ad Islanda.

«Fantastico, anche tu hai questi occhi particolari», afferma, scrutandolo con tanta intensità da farlo diventare bordeaux. «Non potrei mai dire che non siate fratelli. C'è anche l'aura da iceberg e tutto il resto...», continua, disegnando con l'indice un cerchio nell'aria, a spiegare un concetto che è così evidente da risultare inutile formularlo a parole.

«Prego?», sbotta Islanda, prendendo distrattamente un cubetto di ghiaccio tra pollice e indice.

«Aura da iceberg! Sembrate gelidi e indifferenti, ma sotto sotto siete carini e dolci come micetti e... uaaah!»

Lo stridulo grido di sorpresa di Mathias fa girare alcune teste, ma nessuno di loro tre se ne preoccupa.

«Ottimo, Eirik», dichiara Norvegia alzando la mano per battere passivamente cinque col fratello.

«Sempre pronto», risponde l'altro posando il palmo contro il suo generando un piccolo clap.

«F-f-freddo!», rabbrividisce il terzo ragazzo, mentre riesce a recuperare il cubetto finito nella scollatura del maglioncino e se lo infila in bocca ostentando una faccia da schiaffi.

«Hey», riprende subito dopo sbriciolando il ghiaccio sotto i denti, come non fosse accaduto nulla. «Di', è stato per il “micetti”?»


Cosa pensi di lui?


Non lo so, Nore. Per la prima volta dopo tutti questi anni mi sono sentito... a casa.

È stato come se non fosse mai andato via.

Non è solo per la somiglianza; è come se, con le dovute differenze, fosse lui. È stato bello... e tremendamente triste.


So cosa vuoi dire.


Devi trovare un modo. Devi...


Devo...?


Devi tenerlo con noi.


Is...


Mi è andato qualcosa nell'occhio, tutto qui!


«Tuo fratello è uno spasso», dichiara chiudendolo tra le braccia e ciondolando alle sue spalle lungo il marciapiede.

«Ah sì?», bofonchia nel tentativo di liberarsi con poca convinzione.

«Sì, ma tu sei decisamente più amabile», soffia nel suo orecchio posandoci un bacio.

Norvegia continua a camminare, impassibile tranne che per la fronte corrugata.

«Sei così carino che ti stringerei fino ad ucciderti!», mugugna, aumentando la presa e impedendogli di fare un altro passo.

«Ah sì», ripete meno acidamente, come sospeso nei pensieri.

Si guarda intorno e scorge una stradina stretta e deserta, del tutto classificabile come vicoletto. Solleva un braccio e lo afferra per la manica, tirandoselo appresso ed infilando entrambi in quello spazio. Prosegue a passo di marcia per circa tre metri prima di fermarsi e stringersi, sempre di schiena, alle sue braccia intrecciate sotto il mento.

«Allora procedi.»

«Potrei farti male, sono piuttosto forte...»

«Voglio che mi stringi fino ad uccidermi, come hai detto poco fa.»

«Luk, non dire queste cose con tanta serietà. Non potrei mai», sussurra facendolo voltare e bloccandolo tra sé e il muro.

Non ottenendo risposta lo riprende tra le braccia con un sospiro, scivolando con le mani lungo le cosce di Norvegia e tirandolo su per fargli incrociare la gambe dietro il proprio osso sacro, in una posa ferma e sicura, più stretta di un normale abbraccio.

Infila le mani nelle sue tasche posteriori e affonda il viso nel collo, posandoci alcuni baci dolci e sensuali, mentre lo tiene tanto stretto da rischiare di non farlo respirare, ma obbedendo così al suo comando nei limiti del possibile.

Norvegia si aggrappa alle sue spalle ad occhi socchiusi, prima di afferrargli un po' di capelli tra le dita e tirarlo indietro per portarselo davanti al viso.

«Lo sai cosa sto per dire?», bisbiglia ad un centimetro dalle sue labbra.

«Mmh... Buon Anniversario

«No.»

«Sei crudele, non vuoi dirlo! Dopo due anni finalmente mi presenti al tuo unico fratello e non vuoi nemmeno-», piagnucola, tendendosi per mordicchiarlo.

«Mathias, taci.»

«Buon anniversario, Luk», risponde pronto, giulivo, unendo le labbra alle sue in un piccolo bacio.

Norvegia lo trattiene lì impedendogli di allontanarsi troppo. Deglutisce piano, il cuore in fiamme.

«Jeg... elsker deg», esala con un tremito.

«L-Lukas...»

«Jeg elsker... deg.»

«Tu...», sussurra con voce emozionata, baciandolo di nuovo poco sopra le labbra.

«Jeg elsker deg...»

«Ho capito», ridacchia a voce bassa, così sconvolto da rischiare di esplodere contro il muro alle sue spalle. «Quante volte vuoi dirmelo? Tante da farmi fermare il cuore?»

«'lsker...»

«Lukas. Ti amo anch'io. Dal primo. Dannatissimo. Momento.»

Sale con le mani a sfiorargli il viso, poi gli sfrega il pollice sul labbro inferiore prima di avventarsi su di lui e baciarlo a lungo, con tutta l'intensità di cui è capace.


Dillo ancora.

Non smettere mai, Lukas.


Stai diventando avido.


No, è solo che... è come se non potessi più farne a meno.

Mi sento come se non avessi aspettato altro per tutta la vita.

Perciò, ti prego, dillo ogni volta che puoi.


Jeg elsker deg.


Ancora.


Jeg elsker deg.

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Capitolo 7
*** Suggestioni ***


Cinque anni. Cinque anni in cui ha sciolto la corazza del proprio cuore e l'ha donato completamente a qualcuno che ha saputo averne tutta la cura necessaria.

Ci sono state liti, musi da bambini e porte sbattute, tante incomprensioni. E amore? Forse troppo, da bastare per un'esistenza intera e oltre.

Meravigliosi e lunghi (corti, cortissimi, troppo brevi) anni.

Mathias ora ne ha trenta; meno ragazzo, più uomo, la sua bellezza è soltanto aumentata. Lukas ne ha venticinque e non mostra alcuna differenza dal giorno del loro primo incontro.

Dimentica sempre di girare la pagina del calendario quando scatta un nuovo mese e non ha mai un sorriso da offrire quando è la notte dell'ultimo dell'anno. Mathias ha capito che odia il tempo, ma lo fanno in tanti quindi non se n'è sorpreso più di tanto, a parte, forse, dirsi che è troppo giovane per accanirsi su una questione simile.

Il suo Lukas sembra avere un'ossessione particolare per le fotografie e i video. Ne fa in continuazione, anche nei momenti meno importanti. Ha girato almeno quaranta video di Mathias che cucina e spiega cosa sta facendo come uno chef di qualche programma televisivo ed ha altrettante registrazioni delle frasi che ama sentire o del compagno che dorme su un fianco, sfinito.

Gli ruba spesso alcuni scatti, certe volte gli chiede di mettersi in posa, ma perlopiù le preferisce spontanee. Fotografa il modo in cui la luce si riflette sui suoi capelli chiarissimi, la schiena nuda, una smorfia cretina con gli occhiali da sole di traverso, come se tutto avesse la stessa importanza.

Norvegia, che sosteneva di non amare essere toccato, si riscopre a cercare le sue mani di propria iniziativa. Gli piace tenerle vicino al viso affinché cominci ad accarezzarglielo spontaneamente con i polpastrelli, ama mettersene una sopra la testa e sperare non la sposti troppo durante la notte, che gli si incastrino le dita tra le ciocche troppo lisce e resti intrappolato per magia.

Ha una vera fissa per le mani di Mathias che, per quanto siano grandi, non proprio aggraziate e decisamente segnate dal lavoro manuale, possiedono il tocco più dolce che possa desiderare. È talmente teso a cercare il loro contatto (a tratti più il loro che quello di un bacio) che molte volte Mathias ha finto sdegno e gelosia sostenendo che Lukas amasse solo quella parte del suo corpo.

Tuttavia sono la prima cosa che gli avvicina dopo una discussione. Prima delle parole e delle scuse, prima della richiesta di fare la pace, sono le mani quelle che allunga per stringerlo a sé e sfiorarlo.

Mathias gli ha dato il primo bacio con la scusa di pulirlo da un po' di crema rimastagli sulle labbra. Nonostante la sfrontatezza mostrata in precedenza, non ha saputo trovare una scusa migliore per farlo. È stato veloce e sensuale, prima di ritrarsi guardandolo negli occhi e ammirando il suo completo stupore.

Se non l'ha picchiato, è stato esclusivamente perché erano a casa da soli.

Proprio per quella condizione, è stato automatico per Norvegia insultarlo, quasi balbettando, e poi tirarselo addosso per continuare.

Si sono baciati a lungo, persi e confusi dall'irresistibile attrazione reciproca.

Ci sono stati migliaia di baci, dopo quello, uguali eppure unici, diversi uno dall'altro, altrettante carezze e sospiri fino alla prima volta dove entrambi hanno creduto di morire in un vortice di passione.

Si sono amati fino allo stremo delle forze, addormentandosi uno sull'altro, pensando -senza dirlo- che il mattino dopo avrebbero continuato per tutto il giorno. Cosa che hanno fatto, senza risparmiarsi o perdere tempo.

Mentre l'altro riposava, Norvegia ha socchiuso gli occhi e ha pianto, lasciando filtrare le lacrime tra le ciglia, quasi assaporando la sensazione delle scie calde sulla pelle. Senza dare segno di essere sveglio, senza muoversi di un millimetro dallo spazio accogliente sotto il braccio alzato di Mathias, ha dato sfogo a lacrime inarrestabili, espressione di una felicità troppo intensa per non essere espressa a quel modo.

Quando fanno l'amore, quasi ogni volta partono in maniera aggressiva e violenta.

Sembrano belve senza controllo mentre si saltano addosso (talvolta nello stesso momento, sorridendo d'intesa) e cercano di privarsi dei vestiti alla maggior velocità possibile, presi dall'ansia ed il bisogno di possedersi ancora.

Poi, però, iniziano a calmarsi e la dolcezza entra pian piano a sedare gli animi. Le carezze restano audaci e passionali, continuano a cercarsi con forza, ma qualcosa nell'atmosfera cambia e l'irruenza lascia il posto al resto, trasportandoli in un luogo tutto loro nel quale si trattengono per ore e ore.

Mathias non è Dan (Mattæus), nonostante le somiglianze a volte inquietanti.

Ha un modo di posare il cucchiaio, mentre cucina, leggermente spostato verso l'interno e con il manico all'insù, proprio come faceva Dan.

Quando scrive un biglietto gira tutto il foglio verso di sé, curvandosi in maniera storta, come Dan.

A volte ha sussurrato Jeg elsker dig, nonostante sia norvegese e non danese, ma era sempre assonnato quando è successo e Norvegia pensa di aver sentito male.

Non lo ha mai preso in giro per il suo coniglietto rosa di peluche, anzi, quando lo ha visto la prima volta ha sorriso e lo ha preso in mano come fosse un vero cucciolo.

Come se (Norvegia non ha potuto negare questa sensazione) avesse ritrovato un amico che non vedeva da tempo e ne fosse felice, pur non ricordandone il nome.


Suggestioni, continue suggestioni. Fanno bene e fanno male.

Fanno paura, certe volte, come il cucchiaio, come le canzoni stonate sotto la doccia.

Solo... suggestioni.


È una sera dopo le venti, mentre Mathias lo costringe a tenerlo per mano sul marciapiede, che Norvegia scorge un gruppetto intento a fissarli e commentare la loro differenza d'età.

Sente la morsa al petto, scrutando il suo profilo allegro e noncurante illuminato dalle insegne. È un giovane uomo, quello che gli cammina vicino. Lui invece è un ragazzino.

Agli occhi del mondo Mathias deve sembrare un pedofilo e lui una povera vittima circuita per denaro o semplicemente innamorato di una persona molto più grande.

Non è grave come sembra, ha solo trent'anni e lui è sempre stato scambiato per un minorenne.

Adesso sono trenta, ma gli sembra di udire il ticchettio beffardo dell'orologio che lo fa invecchiare secondo dopo secondo, sottraendogli giovinezza ed energia, avvicinandolo alla fine e allontanandolo da sé, strappandoglielo dalle braccia brandello dopo brandello.

Ineluttabile, schifoso destino al quale non può opporsi nemmeno gridando.

Mathias morirà e l'ha sempre saputo, fin dal primo istante, dimenticandosene, perso nella felicità che non credeva di meritare.

«Lukas», lo chiama, voltandosi indietro nel sentirsi tirare per il braccio. «Perché ti sei fermato? Guarda che facciamo tardi e poi Eirik se la prende con me», lo punzecchia mettendoglisi di fronte.

«Luk... oh no, respira.»

La voce di Mathias sale di mezzo tono mentre lo prende per le spalle e lo appoggia al muro, chiudendogli bocca e naso tra le mani.

Ah, era da tanto che non succedeva. Da quella prima notte in cui il fato ha deciso di benedirlo e punirlo, donandogli qualcosa di estremamente prezioso solo per riprenderselo un giorno imprecisato.

La crisi aumenta e non impiega molto a capire che se non la smette con quei pensieri nefasti non si riprenderà facilmente. Annaspa tra le sue mani, tremando, chiude gli occhi con forza.

Ha una vaga percezione della voce nervosa di Mathias che allontana le persone accorse in suo aiuto, mentre pensieri di un'intensità spaventosa gli affollano la mente annebbiata.


Resta, resta, resta con me. Ti prego, se io non posso morire e seguirti, tu... resta.


«Cos'è successo», sibila Islanda, andando loro incontro e mettendo le mani sulle spalle del fratello. Lo scruta con fredda attenzione, ansioso.

«Lui-»

«Sto bene», taglia corto Norvegia, annuisce e stringe la manica di Mathias. «Solo un problema respiratorio. È passato.»

Islanda continua a studiarlo, ma deve cedere davanti a quella testardaggine e annuire a sua volta facendosi da parte.

Per tutta la sera non ha smesso di prendere in giro Mathias e le sue stupidaggini, punzecchiato Nore affinché mangiasse di più e, soprattutto, non ha potuto fare a meno di pensare che per la prima volta dopo anni suo fratello sta di nuovo gridando dentro di sé.


«Luk, stai davvero meglio?», bisbiglia stringendolo affettuosamente una volta dentro casa.

«Sì, è stato solo... non lo so», sospira, voltandosi di lato e lasciandosi accogliere dalle sue braccia.

«Il mio Lukas», mormora con affetto. «Quando sei così dolce mi viene proprio voglia di metterti un paio di catene intorno al corpo e legarti a me.»

«Getta la chiave», sussurra contro i vestiti del ragazzo.

«Mh?»

Non glielo ripete, ma resta a respirare l'odore della città che gli ha impregnato un po' la giacca, contaminando il buon profumo che c'è sotto. Per un terribile momento rischia di addormentarsi a quel modo, per cui si riscuote.

«Questa sera non possiamo fare cose perverse», dichiara Mathias, serissimo, posandogli le mani sulle spalle. «Avrei dovuto mandare Eirik in albergo. Aah, come sono buono e permissivo!»

«Pensi solo al sesso?», lo accusa, spintonandolo leggermente indietro.

«No, ma tu sì», ride giulivo, chinandosi e baciandolo sul naso.

«N-non è assolutamente vero!»

«Non ci sarebbe niente di male. Mi piace essere desiderato da te», sussurra con un sorriso. Gli prende il viso tra le mani e lo fissa mettendoci troppa intensità.

«Lo sei», ribatte un po' acido, rabbrividendo.

«Lo sento sempre. Grazie.» Lo accarezza e lo scruta ancora negli occhi. Qualcosa in quel modo di studiarlo mette Norvegia a disagio.

«Cosa c'è?»

L'uomo sospira e si solleva ritto, senza levargli i palmi caldi dalle guance.

«Niente. Certe volte ho come l'impressione che ti stia allontanando lasciandomi indietro.»

«Allontanando?»

«È una sciocchezza, una paura infondata», spiega in tono leggero. «Forse con l'avanzare dell'età sto diventando troppo apprensivo? Mi sembra che la tua mente vaghi dove non riesco a raggiungerla e mi impensierisco.»

No, fermo. Non parlare di invecchiare.


«Nore. Ho paura», sussurra, seduto sul letto della stanza degli ospiti.

«Di che cosa, Is.»

Si mette accanto a lui senza guardarlo, posando le mani sopra le ginocchia tenute vicine.

«L'amore è passione, giusto? Non è altro che sentimento e scelte irrazionali, non ha a che fare con la ragione. Non puoi pensare lucidamente se sei innamorato.»

«Lo sei?»

«No, non mi è mai successo. Tutto quello che so l'ho imparato guardando te», confida arrossendo un pochino e prendendo un cuscino per stringerselo sotto il mento con calma. Norvegia non ritiene di essere un buon esempio riguardo all'amore, ma preferisce tacere.

«Allora come mai questa premessa?»

«È molto semplice», mormora, voltandosi a guardarlo con occhi quasi fiammeggianti. «Non è finita finché non è finita, Nore. Cosa ti passa per la testa?»

Come al solito, beccato dalla persona che meglio lo conosce e dalla quale non riuscirà mai a nascondersi.

«Lui sta invecchiando. Non riesco a sopportarlo», esala, stringendo le mani sul copriletto e dicendosi che fa più male dicendolo ad alta voce. È più incombente e reale. Sbagliato.

«Si sarà accorto già da tempo che noi due non siamo cambiati. Ha mai detto qualcosa?», domanda impensierito il fratellino.

«No, a parte qualche battuta. Quanto mi resta, Is, prima che fugga di sua iniziativa dandomi del mostro? Quanti anni mi rimangono?»

«Non... non arrenderti. Non puoi sprecare un singolo minuto insieme a lui-»

«Non posso cambiare niente. Contro cosa dovrei combattere? Vuoi che ti prometta di non lasciarlo? Di stargli vicino quando esalerà l'ultimo respiro? Non posso farlo di nuovo, io...»

Non è sopportabile.

«Gli hai detto che lo ami?»

Un piccolo sorriso appare sulle labbra di Norvegia, ma così rapidamente scompare.

«Tante volte da riempire la sua testa vuota.»

«Bene, fratello», sussurra. Alza la mano e gli sfiora i capelli, portandoli dietro l'orecchio. Non può fare a meno di notare l'imbarazzo di quell'ammissione, anche osservandolo di profilo.

«Mathias è Mathias», continua Norvegia. «Questo lo so bene e le cose che ho detto sono sempre state rivolte a lui e a lui soltanto. Però, qui, io-», bisbiglia, afferrandosi debolmente la camicia sul petto all'altezza del cuore. «Sento che sto continuando a... Dan... non se n'è mai andato. Non riesco a spiegarmelo.»

Non ne ha mai parlato. Quelle suggestioni sono frutto della propria immaginazione, non è sano che le esponga al fratello, col rischio di rendere anormale anche lui.

Ha la sensazione di continuare ad amare la stessa persona. Quanto è pazzesco?

Islanda si schiarisce la gola e ritrae la mano, tornando a tormentare il cuscino e la sua semplice federa a righe. Sembra pensare molto a qualcosa, spaziando con lo sguardo sul pavimento lucido.

«Ho parlato con England, di recente», dice mantenendo la voce bassa.

«England?», ripete, voltandosi leggermente a fissarlo.

Islanda annuisce, mordicchiandosi il labbro inferiore.

«Mi ha raccontato una storia, una sorta di leggenda metropolitana. Riguarda noi. Quando me l'ha svelata sembrava scettico, lui stesso non ci ha mai creduto. Però, man mano che proseguiva a narrarmela, ho visto l'esitazione comparire sulla sua faccia e abbiamo finito per fare congetture su congetture mentre gli rivelavo particolari che mi hanno turbato fin dall'inizio. Non so quanto ci sia di vero, ma vorrei tanto crederci e... non lo so, non so più nulla», singhiozza improvvisamente. Si afferra la testa e si piega in avanti. «So soltanto che non voglio perderlo un'altra volta!»

Quel singhiozzo non sfocia in nessun pianto. Resta lì, in fondo alla sua gola, gli ha solo impedito di continuare a parlare. Si dondola brevemente, stringendo alcune ciocche di neve tra le dita e riapre lentamente gli occhi lucidi.

Perderlo un'altra volta. Le suggestioni hanno colpito anche Islanda.

Norvegia solleva il braccio diventato insensibile e posa la mano sulla sua schiena un po' tremante, muovendosi in piccole carezze circolari per confortarlo. Quel singhiozzo lo ha spaventato, perché egoisticamente ha troppo bisogno che lui non ceda.

«Is», inizia con voce appena udibile. «Non commettere questo errore. Mathias non è-»

«Cosa ne sai, Nore», sibila, voltandosi a squadrarlo tra rabbia e sfida. «Hai delle prove assolute

«Is.» Scuote la testa. «Ne ho a centinaia. È un essere umano e non puoi credere che-»

«Che sia tornato per stare insieme a te? Che abbia attraversato il confine per vivere ancora e che sia riuscito a ritrovarti tra miliardi di persone? Che per qualche non troppo illogico motivo sia nato in Norvegia, la nazione che amava? A Oslo, nel tuo cuore? E che mi dici del nome? Un caso anche quello? Se l'è scelto lui, se non sbaglio! All'Istituto dove è cresciuto gli avevano affibbiato un nome, ma appena ha avuto la capacità di decidere per sé ha scelto Mathias. È un caso, vero? Anche l'età che ha?

Nore, non so se credo nella reincarnazione delle anime o se credo all'esistenza delle anime, ma se guardo Mathias io vedo... io lo vedo. Lo stesso modo di illuminare una stanza, la stessa allegria... quel cucchiaio maledetto», singhiozza nuovamente, dopo aver parlato senza quasi prendere fiato, portandosi una mano davanti alla bocca per contenersi.

Anche lui ha notato il cucchiaio.

La mano di Norvegia inizia a tremare mentre la allontana dalla sua schiena e se la riporta in grembo, cercando di tenerla ferma con l'altra che balla allo stesso modo.

Cade un silenzio greve e denso, durante il quale non ci sono suoni tranne i loro respiri e Norvegia non sa più cosa replicare.

Le sue suggestioni. Alcune delle tante, tutte lì davanti agli occhi.


Perché proprio Mathias?


Non lo so, è il primo nome che mi è venuto in mente. Mi sono chiesto come avrei voluto che gli altri si rivolgessero a me e pum!, mi è esploso in testa.

Sono convinto che esista un nome adatto ad ogni persona, Lukas.

Il tuo è perfetto, mi piace da morire! Se avessi dovuto sceglierlo io, per te, non avrei potuto fare di meglio.

Sei luce.


Quel nome gliel'ha dato Danimarca, dicendo la stessa identica cosa.

Sei luce.


«Ch-», si ferma per deglutire, scivolando con le mani sul viso come per riprendersi. «Che cosa ti ha raccontato Arthur?»

Islanda sospira e ritira le gambe sul letto, le incrocia lentamente ed infila il cuscino nello spazio vuoto tra esse. Prende un angolo e comincia a torturarlo con metodo.

«C'è questa leggenda. Dice che quando lo spirito di una nazione muore ha la possibilità di tornare a vivere un'esistenza umana. Non deve necessariamente tornare nel proprio luogo d'origine e non ha neanche lo stesso aspetto, così come non conserva il minimo ricordo della vita precedente.»

«England ti ha detto...?», sibila, continuando ad essere scosso da tremiti visibili.

«Non ci crede, per questo non te ne ha mai parlato. Inoltre temeva che avresti setacciato il mondo in lungo e in largo con l'ossessione di trovarlo, se l'avessi presa sul serio. Per lui è una favola dolce, da ripetersi per chi vuole credere che prima di scomparire ci sia ancora qualcosa, un'occasione per sistemare le cose in sospeso e poter avere una vita normale. Non ci credeva, come non crede all'altra storia che ci considera originati da una precedente vita umana molto antica, morta per proteggere il suo territorio.»

Norvegia annuisce, assimilando quelle informazioni per la prima volta. Diavolo di un inglese, ne sa veramente da riempire un'enciclopedia.

«Non sono altro che belle storie», dichiara dopo una lunga riflessione, alzandosi dal letto.

«No, Nore», lo ferma tirandolo per la manica. «Non liquidarle così.»

«Is, ti prego», sussurra, prendendogli la testa tra le mani e chinandosi su di lui. Posa fronte contro fronte e lo lascia con gli occhi a vagare imbarazzati.

«Non ho bisogno di questo.»

«Come puoi-»

«Se in quello che ti ha raccontato Arthur non c'è un modo per rendere umana una nazione o un sistema per donare ad un uomo lo Spirito di una nazione, non me ne faccio niente.»

«Danmark non esiste più», ammette l'altro, dolorosamente, aggrappandosi alla sua camicia e spingendosi verso il fratello in piedi, il quale apre le braccia e lo accoglie come quando era ancora un bambino e gli abbracci se li prendeva senza vergogna, arrivando a chiederli con una vocetta timida. «Non c'è ancora un sostituto, nessuno è nato per prendere il suo posto e rappresentare la nazione. Vorrei che Mathias...»

«Anche se fosse possibile, hai mai pensato che lui potrebbe non desiderarlo?»

«Lui? Vuole stare con te, di questo sono assolutamente certo.»

«Se quello è Dan in un'altra forma, io non l'ho mai visto più felice e sereno. Potrebbe bastargli questo, una manciata di anni da vivere senza il peso dell'eternità.»

«Se glielo chiedi, so cosa ti risponderebbe. So che non perderebbe l'occasione di avere mille responsabilità sulla testa, pur di affrontarle insieme a te. È felice solo perché è con te.»

«Credi che possa essere il nuovo Danmark o vorresti che potesse diventarlo.»

Islanda annuisce, nascosto nel suo petto.


Ti manca così tanto, Is. La ferita è ancora aperta, come la mia, e non si chiuderà mai.

Ti aggrappi a favole, ma la realtà è che non esiste alcun modo.

Dobbiamo accettarlo.

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Capitolo 8
*** Rottura ***


«Te ne devi andare. Adesso.»

Mathias lo guarda con un'espressione seria, perché sa che non sta scherzando. Abbassa gli occhi alle scarpe e fa un sorriso storto, muovendosi come in sogno verso di lui, perché anche se ha capito che fa sul serio non riesce ad accettare quelle parole.

«Non ti avvicinare. Prendi le tue cose e va' via.»

Norvegia si volta per non affrontare quegli occhi feriti nuovamente diretti a lui, perché non può capire, Mathias, cosa significhi aver finalmente compreso e accettato che tutto è stato un enorme sbaglio.

Si è lasciato confondere da quel senso di completezza, dimenticando (o obbligandosi a farlo) che quell'uomo non appartiene al suo mondo né potrà mai farne parte.

Non esiste un modo. Meglio recidere quel legame, meglio che sia lui a scegliere quando finirla, anticipando il naturale corso degli eventi.

È la cosa giusta, certamente, ed avrebbe dovuto farlo prima.

«C'è solo una ragione che mi convincerebbe, Lukas. Finché non lo dirai, io...»

Sa cosa vuole. Deve dirgli che ha smesso di amarlo, sta tutto lì. Semplice come soffiare dentro un cerchiolino di plastica per originare una bolla di sapone.

Semplice e impossibile. Sa nascondere la verità, ma non mentire apertamente. Anche se basterebbe quella menzogna ad allontanarlo per sempre, non può offrirgliela.

«Perché fai così? Mi sembrava che andasse tutto bene», sussurra l'uomo, fattosi più vicino. «Cos'è successo dall'oggi al domani?»

Bene?

Più si lascia andare, sentendosi completamente felice, più soffrirà. Pensa troppo, si preoccupa troppo e se solo fosse capace di vedere le cose per quelle che sono, se riuscisse a godersi quella storia come qualcosa di momentaneo e destinato a svanire, tutto sarebbe diverso.

Niente dolore, solo fredda consapevolezza.

Ma come può vivere giorno dopo giorno, a cuor leggero, consapevole di perderlo gradualmente? Amare tanto qualcuno destinato a svanire non è affatto semplice.

Stringe i pugni e assottiglia lo sguardo rivolto alla finestra, sibilando tra i denti in tono implacabile. «Devi andare via.»

Mathias si morde le labbra e scuote la testa, tenace.

«Dovrei?», replica.


No. Dovresti restare per sempre, dannato zuccone, ma non puoi farlo. Quindi vattene adesso che sono ancora felice, che sei bello e mi hai dato tanto.

Farò finta che tu sia partito per un lungo viaggio.

Qualche volta scriverò una lettera che non avrò tempo per spedirti e mi convincerò che da qualche parte nel mondo tu continui ad esistere.

Tra trenta, quaranta o cinquant'anni, ti immaginerò coi capelli scompigliati dal vento su qualche spiaggia sconosciuta, eterno ed immutabile.

Fingerò di essere troppo impegnato per raggiungerti e che tu sia sempre lì, ad attendermi con un broncio di impazienza come un ragazzino.


Lukas alza gli occhi al cielo, sentendoli troppo umidi per continuare a guardare in basso, col rischio che qualche goccia si ripresenti a rigargli le guance.

«Non è così facile, Lukas. Non posso uscire da quella porta e far finta che gli ultimi anni non ci siano stati. Non capisco. C'è... qualcosa che mi nascondi?»

Norvegia si volta di scatto e fa un gesto secco con la mano, alzando appena la voce.

«Sei sempre il solito rompiscatole, Mattæus, mai che tu faccia ciò che ti si chiede.»

Sgrana gli occhi, mormorando il suo nome alcune volte, febbrile, per correggersi. Ma è troppo tardi, Mathias ha sentito perfettamente come l'ha chiamato.

«È Mattæus il problema? Chi è? È quella persona di cui mi parlasti la prima volta? Che cosa c'entra con me? Dannazione, parlami, Lukas. Non me ne andrò mai, hai capito?»

Norvegia scuote debolmente la testa, arretrando quando l'altro avanza, finché sente le sue mani sulle spalle in una presa che è sia ferrea che dolce, dentro la quale combatte e viene infine sconfitto, stretto al suo petto senza possibilità di fuga.

«Parlami di lui. Parlami di Mattæus, se vuoi.»

Norvegia scuote la testa di nuovo con maggior convinzione e solleva le braccia divenute pesanti come mattoni, staccandosi da quella stretta sempre più soffocante. Indica la porta con un cenno del mento e si scosta, dirigendosi fermamente alla finestra a braccia conserte. Ci appoggia la fronte ed accarezza con lo sguardo il riflesso dell'uomo dietro di lui, abbastanza rassicurato dal fatto di non cogliere in quel vetro tutti i dettagli della sua espressione addolorata.

«Mi somigliava, vero?», mormora infatti, con voce tenera e tremante come stesse camminando su un sentiero estremamente fragile e pericoloso, pronto a crollargli sotto i piedi da un momento all'altro. «Ti fa male stare con me perché te lo ricordo, è questo?»

Attende una risposta, una spiegazione per quella rottura inspiegabile, senza preavviso alcuno, in un mattino assolutamente normale.

Non arriva niente, solo una barriera di gelo e ostinato silenzio.

«Puoi parlarmene, prometto di non interromperti. Non ti chiederò niente più di quanto tu non sia disposto a dirmi, Lukas.»

I minuti passano lenti, pesanti, le spalle del norvegese alla finestra non sembrano neanche muoversi mentre respira pacatamente.

Mathias lascia che i capelli biondi gli ricadano sugli occhi.

«Va bene. Ho capito.»

Si volta e raggiunge la camera da letto per raccogliere tutte le sue cose, tutto quello che, nella fretta, riesce ad infilare dentro l'unica valigia che possiede. È capiente, ma non ci entra tutto. Quella è casa sua, ormai, non sta partendo per una vacanza. Tutto quello che ha è lì ed il “pezzo” più importante si rifiuta di trattenerlo, come se si fosse stancato di un vecchio giocattolo.

Si mette la valigia sulla schiena e si dirige a passo spedito alla porta, la testa china e le chiavi nel palmo. Non capisce se anche Lukas stia soffrendo, non vedendo i suoi occhi che tanto bene ha imparato ad interpretare.

Vorrebbe scuoterlo e gridare, anche se non otterrebbe nulla, smuoverlo da quella posizione fissa che lo fa apparire come un'insensibile statua.

«Ci sono altre cose. Non buttarle, tornerò a prenderle.»

Qualcosa gli si incastra in gola; vorrebbe dare ancora uno sguardo a quell'uomo complicato che ama probabilmente troppo, anche adesso che lo sta gettando via come qualcosa che non ha valore e, peggio ancora, sembra non averne mai avuto. Come fa ad essere così freddo?

Socchiude gli occhi ed esce senza un saluto.

Una volta sceso in strada si porta al limite del marciapiede e prende il cellulare dalla tasca dei pantaloni per chiamare un taxi, sollevando il viso in attesa di sentire una risposta. Non riesce a trattenersi, a questo punto, lì al sicuro dal suo gelido addio e dalla sua muta schiena.

Va bene anche quello, come ultima immagine, va bene la sua figura ritta alla finestra, a braccia incrociate. Da qualche parte nei suoi pensieri frenetici è convinto che gettarsi in quella storia sia stato, fin dall'inizio, da masochisti. Lukas non è mai stato facile. Eppure...

Amabile, incredibilmente sensibile e tenero, prezioso proprio perché perennemente nascosto dietro strati di timidezza e falsa indifferenza. Sarebbe stato impossibile non sentirsi attratto da lui, innamorarsene perdutamente e desiderare soltanto di trascorrere ogni giorno al suo fianco.

Come molte altre volte, pensa di essergli destinato. Anche se non lo vuole più.

Sente finalmente giungere la risposta dall'altro capo dell'apparecchio, ma invece di parlare continua a fissare la finestra del soggiorno e corruga la fronte.

I palmi delle mani e la guancia di Lukas sono premuti contro il vetro.

Per poco non lascia cadere il cellulare sul marciapiede quando lo vede chiaramente cadere sulle ginocchia come un burattino al quale siano stati d'un tratto tagliati i fili.

Chiude lo sportellino col mento, restando ancora una manciata di secondi con il viso in direzione della grande finestra. Vede le sue dita muoversi piano contro il vetro, come un cucciolo chiuso in una gabbia, il suo respiro che appanna troppo velocemente la superficie trasparente.

A quel punto Mathias smette totalmente di pensare.

Corre come se avesse il Demonio alle calcagna e falcia i pochi gradini, la valigia pesante che gli massacra il braccio e le dita per la forza con la quale la tiene. Apre la porta con una testata, aggredendo la maniglia e lanciando il bagaglio per terra. Si getta su di lui e lo prende tra le braccia.

Lukas non è minuto come sembra, ma in quel momento pare un ammasso informe di vestiti sormontato da una testa chiara.

Lo afferra, premendo sulle ginocchia, lo raccoglie da terra come un bambino e se lo stringe contro, dondolando fino a schiacciarlo contro la finestra.

«Hai una crisi? Hai una crisi, Lukas?!»

Sa che non deve urlare e che non dovrebbe avvolgerlo tanto, ma non riesce a controllarsi. Stava per andarsene, se non avesse controllato...!

Norvegia respira veloce, ma non sembra una crisi come le precedenti alle quali Mathias ha assistito. Non è irrigidito, si aggrappa alla sua camicia e muove le gambe, arrampicandoglisi addosso con un'agilità impressionante.

Mathias lo accoglie, premendogli la mano sulla nuca e chiudendo gli occhi.

Piangono tutti e due, ma Mathias fa decisamente molto più rumore. Ci sono i suoi insulti straziati, mentre si mangia le parole, e c'è il silenzio boccheggiante di Lukas fatto di singhiozzi senza suono.

C'è quella stretta soffocante che sembra riportarli entrambi alla vita, come se quei pochi minuti separati li avesse privati di ogni forza.

«Non ti lascerò, Lukas. Non mi manderai via mai più, perché non ti ascolterò, amore mio.»

Arretra con la schiena fino al divano, infila il viso nel suo collo e lo respira con urgenza, sfregando le labbra sulla pelle nuda.


Mathias si accorge con stupore che fuori è tramontato il sole, quando hanno smesso di cercarsi con tanta disperazione.

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Capitolo 9
*** Disillusione ***


Islanda lo guarda con un cipiglio severo, ma si trattiene dall'esplosione vulcanica piantandosi le unghie nei palmi delle mani.

Norvegia non si accorge del furore della nazione finché non incrocia i suoi occhi violetti, benché abbia percepito un certo astio già da qualche minuto.

«Andrai avanti a fulminarmi a lungo?», sussurra pacato.

Unisce le mani come a formulare una preghiera e le infila tra le gambe chiuse. Si mette a lanciare occhiate placide al maschietto di circa cinque anni che traccia linee pesanti su un album da disegno, interrompendo così il contatto visivo col fratello.

«Se credi che dovrei smettere», sbuffa, in tono piccato, ricominciando anche lui ad osservare il bimbo dai capelli biondi che solleva un pastello colorato e se lo mette sotto il naso. Cerca di morderlo, sputa disgustato e lo lancia via con sdegno. Si mette le manine nei capelli e dondola canticchiando qualcosa, poi afferra la matita rossa, la risposta magica a ciò che mancava.

A quel punto sorride, contentissimo della scoperta, e riprende a disegnare come se nulla l'abbia interrotto.

Islanda si rasserena suo malgrado, distratto da quella vista, addolcendo l'espressione del viso eternamente giovane.

«Anche io ero così quando mi avete trovato?», chiede, coccolando con un dito il volatile nero che gli sta appollaiato sulla spalla e dorme della grossa.

Norvegia ci pensa un po' su, il tempo di vedere il piccolo strepitare forte per un errore commesso nel suo capolavoro, poi le sue labbra si incurvano appena in un sorrisino. «Simile nell'aspetto, ma molto più tranquillo.»

Il bambino li guarda e sorride, agitando velocemente la manina libera.

«Ciao! Ciao! Ciao!», ridacchia.

«È davvero... gioioso», osserva l'isola, non propriamente scontento della cosa.

«Finché sarà così piccolo non dirò che mi infastidisce.»

Islanda gli tira una piccola spallata e va a sedersi accanto al bimbo, posandogli con circospezione una mano sulla testa.

«Che cosa disegni?»

«Disegno... mh...»

Il bambino diventa paonazzo, abbassa la testa e si agita fino a cercare di posizionarsi tra le gambe incrociate di Islanda. Il ragazzo sorride e lo prende per i fianchi morbidi, apre le gambe per fargli posto e lo aiuta a sedersi nello spazio vuoto che sembra fatto appositamente per lui.

Il piccolo dagli occhi blu butta indietro la testa e gliela preme contro lo stomaco, sorridendo al contrario. Ha uno sguardo limpido, felice, come se niente al mondo possa ferirlo.

Quando Islanda si perde in quegli occhioni innocenti, un po' della sua tristezza e del senso di solitudine che lo segue sempre come un'ombra sembrano dileguarsi. O perlomeno attutirsi.

«F-famiglia!», squittisce alla fine, agitando vittoriosamente il pastello vermiglio e facendolo sobbalzare.

«Oh, vediamo.»

Islanda solleva il disegno con entrambe le mani e guarda le figure striminzite, lunghissime come stecchi, che rappresentano i nordici.

Ha disegnato Svezia altissimo, con una serie di ondine blu notte che si diffondono dalla sua figura come un odore cattivo. Accanto a lui c'è Finlandia con un sorriso che gli esce dai contorni del volto rotondo e tiene una Hana gigantesca in equilibrio sulla testa.

Subito dopo, nella fila, ci sono lui e Norvegia che si tengono per mano; quando e dove li abbia visti così non se lo spiega, ma non commenta e indica il foglio.

«Perché hai il rosso in mano? Non lo hai ancora usato in questo disegno.»

Il bimbo guarda il colore e inclina la testolina, analizzando la domanda, poi si illumina e cerca di tirare il fiocco della camicia bianca di Islanda.

«Ah! Devo... devo... devo ancora fare io!»

Il ragazzo soffoca una risatina.

«Me. Si dice me.»

Il piccolo ripete la correzione con estrema serietà e riprende il foglio appoggiandolo a terra. Tira fuori la punta della lingua mentre preme con energia il pastello e sparge rosso fino a creare un uomo imponente, molto più alto di Svezia.

L'isola soffoca nuovamente una risata, ma non commenta perché sarebbe inutile fargli notare che non è affatto così che appare, non ancora. Gli accarezza pacatamente i capelli che gli adornano la testa di mille riccioli biondi da angioletto, osservando lo svolgersi del suo impegnato lavoro.

Norvegia si avvicina a loro e si accovaccia, lanciando un'occhiata lunga e penetrante alla rappresentazione. Capisce immediatamente chi siano quelle figure alte, reprime un verso stizzito per essere stato ritratto più basso del fratello minore e indica la nuova figura rossa appena aggiunta.

«Sei sicuro di essere più alto di Sverige?», mormora.

Islanda alza gli occhi al cielo. No, non c'è verso che il fratello si tenga per sé i commenti, fossero anche verso bambini dalla mente ancora semplice.

Il piccolo annuisce e alza i pugnetti in alto.

«Un giorno sarò più alto dello zio! Sarò grande, grosso, muscoloso e sarò il più forte di tutti!»

«Ah-ah, come no.»

Norvegia fa un piccolo sorriso sbilenco e il bambino si emoziona, dondolandosi sul sedere a destra e sinistra. Gli prende la mano per giocarci un po', trovandola d'un tratto più interessante dei colori.

«Gli zii vogliono bene a Danmark?»

Islanda e Norvegia si guardano ed un velo di tristezza cala su entrambi. Il minore si schiarisce la voce e continua a coccolare con pacatezza i ricciolini dorati.

«Gli zii ti vogliono bene.»

Lo dice come se avesse qualcosa incastrato in gola, ma è assolutamente sincero e il bambino non può che essere vittima di una nuova ondata di emozione.

Norvegia sfila gentilmente le dita dalla sua presa e gli sfiora la guancia a lungo, dandogli infine un buffetto che lo fa gongolare.

«Andiamo. Gli altri zii ti stanno aspettando per studiare un po'.»


Dopo averlo lasciato nelle braccia di uno Svezia visibilmente lieto della “consegna”, i due fratelli passeggiano lungo una strada affollata di Oslo. Si fermano una volta sola, per comprare alcune caramelle da mangiare con calma nel primo parco raggiungibile a piedi.

Islanda diventa più taciturno del solito, infilandosi in bocca troppe liquirizie tutte assieme e gonfiando le guance per riuscire a masticarle.

Mangia sempre troppo in fretta quando è nervoso o quando vorrebbe dire qualcosa che non sa come esprimere. Certe volte il fratello crede che lo faccia per censurarsi, impegnando la mandibola.

Norvegia gli lancia un'occhiata e reprime un sorrisino, mettendosi tra le labbra uno zuccherino rosa.

«Senti, Nore», comincia dopo un po', deglutendo a fatica e sforzandosi.

Si siedono su una panchina ed infilano le mani nei sacchetti, contemporaneamente.

«Sono veramente...», sospira, non riuscendo a finire. Mr. Puffin emette un verso strano e gli si accoccola meglio sulla spalla, rovinando il momento e facendolo brontolare.

L'altro fa un debole cenno del capo, guardandolo fisso. «Lo so.»

«No, non lo sai.»

«Lo sono anch'io.»

«Sei incazzato con te stesso?»

Norvegia annuisce appena, spaziando con lo sguardo per il parco, sfila la mano dal sacchetto e si mette alcune caramelle nel palmo.

Islanda sospira rumorosamente e lo fissa da sopra la spalla. «D'accordo. Allora spiegami come ti è saltato in testa di mandare via Mathias. Mi avevi detto che non saresti mai riuscito ad allontanarlo di tua volontà, poi di punto in bianco decidi di troncare tutto. Non mi importa che sia tornato indietro e tutto si sia sistemato, quello che mi imbestialisce è che tu ci abbia provato. Che senso ha, Noregur?»

Il fratello maggiore mastica lentamente, socchiudendo le palpebre come se ci fosse una luce violenta ad infastidirlo.

«C'è un collegamento, vero? La tua decisione è stata una conseguenza dell'aver incontrato Danm... non c'è un altro modo per chiamarlo?», sbotta, chinandosi in avanti e posando i gomiti sulle ginocchia.

Si tortura le mani, incapace di trovare una posizione meno frustrata. «Anche prima, quando ci ha fatto quella domanda, non sono riuscito a ripeterlo.»

«Gli daremo un nome, un giorno. Oppure potrebbe sceglierselo lui.»

Islanda sbuffa, si infila le dita tra i capelli e si adombra.

«È carino, vero? Ma non è... non è per niente lui.»

«No. Non è lui.»

Un leggero soffio di vento gioca coi loro capelli, mentre entrambi sospirano piano.

«Quanto ci hai sperato?»

«Un po'.»

«Eppure lo sapevamo che non sarebbe tornato. Non lui.»

«Lo sapevamo.»

«Non è giusto.»

«Non lo è mai niente, Is.»

La risposta non soddisfa l'isola, che torna seduta diritta per proteggere il sonno del compagno sulla spalla, ma ha ancora addosso quell'espressione sofferente, infastidita.

«Perché volevi lasciare Mathias dopo aver visto il piccolo Danmark?»

Norvegia appallottola il sacchetto di carta bianca, lo tiene tra le mani e abbassa lo sguardo alle sue stropicciature. Segue con la punta delle dita i rilievi da meringa. Riflette per un po', mentre il fratello aspetta con calma una risposta che potrebbe anche non arrivare, nonostante la domanda a bruciapelo.

Islanda resta curvo sulle gambe un po' distanziate, lo sguardo velato di tristezza, finché una mano di Norvegia non gli si posa sul polso facendolo sussultare un poco per il gelo della pelle.

«Ho capito che è umano. Ho capito che lo perderemo. Volevo fare la cosa giusta per entrambi.»

Vede il parco un po' appannato, ma ingoia il leggero pizzicorino al centro della gola e annuisce, comprensivo. L'aveva capito da prima, ma aveva bisogno di sentirgli dire che non hanno più alcuna speranza per il futuro.

Se il piccolo Danmark è il nuovo Danmark, ovvero quello che stavano aspettando...

«Mathias non può diventare Danmark», sussurra in tono greve, dando voce ai loro pensieri.

Norvegia annuisce di nuovo e gli stringe le dita attorno al polso, delicato come un bracciale di seta.

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Capitolo 10
*** Proposta ***


«Ah, credevo non saresti più tornato», cinguetta Mathias, battendo il palmo sullo spazio vuoto accanto al letto con un ampio sorriso. «Mettiti comodo, vado a dare la buonanotte ad Eirik.»

«Si è già addormentato», sussurra, cominciando a spogliarsi e poi posando i vestiti sulla sedia in maniera ordinata.

«Oh. Peccato», borbotta abbassando le coperte. «Volevo stuzzicarlo un po' e chiedergli se non preferisse dormire tra noi due. Non capita così spesso che passi la notte qui!»

«Ti piace proprio farti tirare gli schiaffoni», commenta con un sorrisino storto.

«Sono schiaffi pieni d'affetto filiale, lo so», gongola attirandolo a sé e facendolo sdraiare. Lo avvolge immediatamente tra le lenzuola e le braccia. «Stai bene?»

«Io...»

Sì. Digli di sì. Lascia che ti baci e ti riscaldi e ti dia la buonanotte. Lascialo in pace.

«Mat.»

«Sì?»

«Che cosa risponderesti se ti dicessi che tra un po' di tempo dovremo separarci perché devo andare in un posto nel quale tu non puoi venire?»

«... Stai male? È questo? Sono... sono sempre stato preoccupato da quando hai avuto quella crisi, poi però sei stato bene e non è più successo, ma poi è capitato di nuovo ed io ho pensato migliaia di cose e non volevo dire niente o farmi vedere ansioso, ma-»

«Mat.»

«Scusa. Sono partito a macchinetta. Ho... paura.»

«Rilassati, io sto bene. Nessuna malattia mi porterà via prima del tempo.»

«Promettilo», sussurra, stringendolo più forte e sprofondando nel suo collo.

«Lo prometto. Il mio corpo sta bene, è solo un fattore mentale.»

«A che cosa pensi? Sai perché ti succede? Forse posso aiutarti.»

No, non puoi. Puoi solo aggravarlo.

«Lascia stare e dormiamo, va bene?», borbotta, allungandosi per spegnere la luce dopo un breve momento di riflessione, ma Mathias la riaccende entro pochi secondi.

«Lukas.»

«Sto dormendo.»

«Non è vero, non dormi mai se prima non ti auguro la buonanotte.»

Un sospiro arreso, poi il fruscio prodotto dal corpo di Norvegia che si gira sul fianco per stargli di fronte.

Vuoi dire che quando mi avrai abbandonato non dormirò mai più? Presuntuoso. Non sognerò, ma di sicuro perderò conoscenza quando sarò troppo stanco.

Se non altro.

A meno che non trovi un modo per sussurrarmelo comunque.

Anche il vento fuori dalla finestra andrebbe bene, Mathias, se sapessi che sei tu.

«Sei fastidioso.»

«Lo so, ma è un aspetto che adori di me.»

«Hai sempre la risposta pronta per qualunque cosa?»

«Sì. Tu ne sei capace? Vediamo se rispondi immediatamente ad una domanda.»

«Chissà quali contorte questioni vuoi propin-»

«Sposiamoci.»

La prima cosa che pensa: eh?

La seconda: ho sentito male.

La terza: non è una domanda, idiota. È una proposta.

Le braccia di Mathias si avvolgono ulteriormente attorno al suo corpo, avvicinandolo, mentre va a sfregare le labbra contro la sua fronte.

«Non sei veloce come me, Luk. Hai visto?»

Danmark, se davvero sei tu, sei il peggior...

«Ogni secondo che lasci passare senza fiatare un pezzetto del mio cuore si autodistrugge, sai?»

«T-taci, sto pensando», sbotta, stringendosi e sentendo scottare tutta la faccia.

«Fai con calma, ti sto soltanto chiedendo di passare l'eternità insieme.»

Eternità. No, non è l'eternità. Se la domanda fosse quella, ci sarebbe una sola risposta e la vorrebbe gridare anche dalla finestra aperta, scriversela sulla fronte, dirla agli estranei che passano per strada ed essere preso per un uomo impazzito e ridicolo. Troppa gioia rende così, folli agli occhi altrui, ma cosa importerebbe?

Purtroppo non è l'eternità, in gioco, perché a quella saprebbe cosa rispondere.

«Lukas, è stata una richiesta poco romantica? Preferivi iniziassi dicendo che nel momento in cui ti ho incontrato ho capito che ti stavo cercando senza nemmeno saperlo? Che il mio stomaco si è contratto e mi è scattato un meccanismo dentro come un vecchio orologio che riprende magicamente a funzionare?»

Mathias si ferma e sussulta leggermente, prima di ricominciare a coccolarlo facendo praticamente le fusa.

«Oh. Questo era davvero romantico», commenta tra sé, soddisfatto.

Norvegia solleva il mento per sentire il calore del suo viso contro le labbra.

«Lukas, rispondimi, mi sta venendo davvero l'ans-»


«Ja, testa di burro», mormora senza nemmeno rendersene conto.

«Ja?»

«Ja. Ja. Ja.»

Cento, mille, un milione di sì.

Ad ognuno preme la bocca contro di lui, avvicinandosi sempre più fino ad unirle finalmente in un bacio lunghissimo che non necessita altre parole o spiegazioni.

Non riesce a stringerlo, ma si abbandona tra le sue braccia come una bambola di pezza, consapevole che non ha bisogno di aggrapparsi, quando è sempre l'altro a tenerlo tanto vicino.


«Non è necessario sposarci», sussurra, dopo aver fantasticato qualche secondo su una prospettiva di reazione diversa.

«... Non mi aspettavo entusiastici salti nel letto, ma... Oh, non importa», sussurra Mathias in tono basso, continuando a tenerlo vicino a sé. «Per quanto ti senta mio e per quanto sappia di essere importante per te almeno quanto lo sei per me, c'è sempre qualcosa che non riesco a-»

«Mat, mi dispiace. Ne possiamo discutere un'altra volta?», lo interrompe posandogli le mani sulla schiena nuda.

L'uomo sospira, ma preme le labbra sulle sue per pochi secondi.

«Scusa, non volevo comportarmi da bambino capriccioso. Immagino che dovrei incassare il rifiuto da adulto.»

C'è una pausa piuttosto lunga, fatta solo di un abbraccio unilaterale.

Il cuore della nazione soffre, sapendo che basterebbe poco per provare una felicità senza confronti, ma conosce le implicazioni future che rischiano di cancellare per sempre quello stesso cuore che ora batte come impazzito.

«Ti capita mai di avere terrore della felicità, Mat?», chiede senza forte intonazione.

«Terrore? No, perché dovrei? Tutti vogliono essere felici.»

«E non temi mai che un giorno possa finire?»

«Hai paura che dopo esserci sposati possa lanciarti la fede addosso al primo litigio e scappare con il fiorista?»

«Idiota», bofonchia senza cattiveria, piantandogli le unghie corte sulla scapola. «Smettila di andare dal fiorista.»

«Ma i fiori ti piacciono tanto», sospira col broncio, stringendolo più forte per qualche secondo. Resta in silenzio a pensare a come rispondergli per i successivi minuti.

«Hey, Lukas, non avere paura di niente, perché non ti lascerò mai, non posso farlo. Non pensare alle cose brutte, vivi il presente e sii felice perché sei felice. Mi capisci? Io ho iniziato ad esserlo da quando sei entrato nella mia vita e non ho mai smesso. Mai.»

Altre frasi. Altri ricordi meravigliosi da recitare da solo, stringendosi in un letto vuoto. Il cuore comincia di nuovo a far male, ancora quegli artigli gelidi a stringersi così forte da togliere il respiro. Invidia per il suo candore e l'ottimismo, invidia per lui che non dovrà mai sopportare tutto il dolore che lo aspetta, crudele, pronto a riaffondare i denti nelle vecchie ferite per farle sanguinare ancora e questa volta per sempre.

Se solo non lo avesse mai amato, se solo non avesse mai conosciuto quel tormento, sarebbero stati trent'anni di strazio ininterrotto. Forse, a quel punto, ne sarebbe avvezzo? O deve essere grato per quella boccata di pace, per aver sperimentato e goduto del sentimento più profondo?

«Pensi troppo, ti sento», cantilena spostando una mano fino al suo petto e accarezzandolo. «Soprattutto qui c'è un gran frastuono. Sta battendo così forte da spaventarmi.»

Mathias lo lascia un po' libero, scivola verso il basso e posa la guancia all'altezza del cuore di Lukas, tenendo le braccia incrociate dietro la sua schiena.

«Cosa devo fare con questo qui?», chiede, fingendosi esasperato dalle palpitazioni.

«Un giorno tu morirai. Non lo trovi inaccettabile?»

La domanda improvvisa di Norvegia, soffiata in un tono quasi arrabbiato, spazza via la giovialità di Mathias. Non perché la domanda lo turbi particolarmente, ma perché capisce che ha un'estrema importanza, per lui, quell'argomento.

Sospira contro la sua pelle e lo stringe piano, sbirciandolo con la testa inclinata.

«Non ne sono felice, ma sono le regole. Però... ecco, credo che se questi anni che mi sono concessi riesco a viverli pienamente, senza rimpianti, allora possa anche andarmi bene che ci sia una fine.»

Norvegia irrigidisce il volto e interrompe il contatto visivo, assorto.

«Non dovrebbe esserci una fine.»

Mathias soffoca una risatina, imponendosi la massima serietà. Striscia piano verso l'alto e gli punzecchia il mento con l'indice, fino a prenderlo tra le dita e accarezzarlo.

«Va tutto bene, Luk. Nessuno è eterno.»

«Un giorno, tu... morirai», ripete, la trachea ridotta ad uno spillo.

Non era mai stato tanto diretto, tanto sincero nell'esporre le proprie paure, i propri segreti ragionamenti. Da una parte è spaventoso, dirglielo, dall'altra lo rende meno solo.

La mano di Mathias si apre e il palmo comincia ad accarezzare docilmente il viso dell'altro. «Anche tu, amore mio, ma non dovresti pensarci tanto.»

Anche tu, amore mio.

Come vorrebbe che fosse vero.

Resta a farsi coccolare spingendo la guancia contro la mano e cerca il suo sguardo verde nella luce soffusa della stanza da letto.

«Matt, scusami. Vuoi ancora sposarmi?», gli chiede, sentendosi la testa improvvisamente vuota.

«Non... non devi dire di sì se non ne sei-»

«Ti prego, sposami. Forse dopodomani dal cielo cadrà un enorme meteorite e distruggerà ogni cosa, ogni città e ogni essere vivente, ma domani sposiamoci. Anche se potrò dirlo solo per un giorno, voglio essere tuo marito. Un'ora, anche un'ora va bene, s-se tu-»

«Lukas, smetti, stai tremando di nuovo», sussurra, risalendo ed intrappolandolo contro di sé con tutta la forza che riesce a metterci senza fargli male.

«Ti amo con tutto me stesso quando dici queste cose e la tua voce esita, trasmettendo più delle parole. Mi apri i tuoi pensieri, sei vero e sono al settimo cielo, ma non posso sopportare di vederti soffrire. Ti sposo, certo che ti sposo, non devi implorarmi, sono io a farlo. Niente mi farebbe cambiare idea. Ora, però, calmati.»

Lukas prende lunghi respiri, allontanando una nuova crisi di panico grazie alla sua presenza, cerca di ricomporsi e di non pensare, di trattenere quel vuoto mentale che ha invaso il suo cervello come una nebbia rilassante.

Sposare Danimarca, sposare Mathias. Il desiderio sembra lo stesso, se ripensa ai vecchi discorsi fatti con il fratello.

«Potrò dire al mondo intero che Lukas è tutto mio», gongola, perdendosi in mille carezze tra i suoi capelli, nei quali ha immerso le lunghe dita.

«Al mondo intero non importa niente di noi», ribatte, ascoltando il proprio cuore impazzito.

«Importa a me. Buonanotte, Luk, fai bei sogni.»



* * *



Amo te. Solo te. Non vorrei amare nessun altro allo stesso modo.

Amerò te. Solo te. Non potrei amare nessun altro allo stesso modo.



Che razza di promessa hai scritto? È così imbarazzante e sdolcinata e... Non vorrai leggerla davanti a tutti?


È la verità, Lukas. Hai qualcosa da ridire?



* * *

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Capitolo 11
*** Fine ***


Si siede accanto al letto e lo guarda dormire con quelle piccole e odiate cannucce trasparenti infilate nelle narici. Ha l'espressione rilassata, in pace, un lieve sorriso increspa le sue labbra sottili.

I macchinari lo informano che è vivo, che sta respirando, e quel suono ritmico e monotono lo tranquillizza come se dovesse durare per sempre. Dà quell'illusione. Si sposta in avanti con la sedia e gli sfiora la mano abbandonata sulle lenzuola bianche.

«Mmh.»

Mathias apre gli occhi, il verde ancora brillante nonostante ora appartengano ad un volto segnato dall'avanzare inarrestabile degli anni. Incredibilmente bello, nonostante tutto, perché è il suo volto.

«Non volevo svegliarti. Facevi un bel sogno?»

«... Un sogno?»

La sua voce è roca, pacata e bassa, così diversa da quella di quand'era un giovane e forte uomo. A Lukas sembra passato un istante, un soffio, un battito di ciglia. Mathias giovane, Mathias anziano. Mathias, sconosciuto, che lo insegue fuori da un pub, Mathias che lo sposa e alla fine della cerimonia lo prende in braccio facendolo morire di vergogna, strappandogli la promessa di un ballo in cambio di essere rimesso con i piedi per terra.

L'animo della nazione ora sembra sereno, ha avuto una vita per prepararsi a quei momenti.

Sereno. Certo, è la vita, è la famosa regola. Prima o poi dovrà accettare che per gli umani finisca e che a volte, in condizioni molto particolari, anche per loro potrebbe giungere quell'epilogo. L'ha già visto accadere a qualcuno che non avrebbe mai dovuto andarsene e che manca sempre, atrocemente, nonostante il piccolo Danimarca sia dolcissimo e riempia un vuoto al cuore.

«Sorridevi», gli spiega dopo una pausa abbastanza lunga, passando la punta delle dita sul dorso di carta velina.

Mathias sembra ricordare e sorride di nuovo.

«Aah, sì. Un sogno davvero bello. C'eri tu, eravamo su una barca e mi leggevi delle poesie. Facevi finta, perché in realtà le avevi lette talmente tante volte che le conoscevi a memoria. Il lago era...»

Si interrompe e si inumidisce le labbra, concentrato. Lo fissa intensamente e capovolge la mano per accogliere la sua nel palmo. «Sembrava proprio il Paradiso. Se è così non è male.»

Sereno, Lukas. Controllato. Non hai intenzione di fare scenate, se mai hai imparato a farle.

Mathias è sempre più distante e lui non farà altro che restargli accanto, fino alla fine, come ha promesso il giorno in cui si è unito a lui, anche se fa un male infernale, anche se vorrebbe fuggire per non assistere e poter così continuare a ricordarlo vivo.

«Sei così bello, Lukas», sospira, riuscendo a toccargli la guancia un momento e ricadendo nuovamente sul letto col braccio. Norvegia gli riprende subito la mano, anche se la sua è fredda e irrigidita dal dolore e non vorrebbe se ne accorgesse. «Tu sarai sempre così. Mi dispiace di essere invecchiato e di non poterti più stringere come una volta.» Riesce a ridacchiare, un suono fiacco ma malizioso.

«Scemo», ribatte il norvegese seduto, senza riuscire a ricambiare il tenue sorriso.

La piccola risata continua a scuotere il corpo dell'uomo nel letto, riempiendogli gli occhi di un pacato divertimento. Si è sempre divertito a fare quelle battute.

«Non hai mai avuto paura di me, Mathias. Hai accettato ciò che sono senza un dubbio, mai.»

Come è stato possibile?, vorrebbe chiedergli. Come ha fatto a rimanere accanto ad un uomo che non è davvero un uomo, è solo l'incarnazione di uno Spirito, la forma antropomorfa di un territorio.

«Non potevo non crederti e non potevo lasciarti andare. Il mio unico tormento è che ho compreso troppo tardi tutta la sofferenza che ti portavi dentro», sospira, intrecciando le dita alle sue, delicato.

«Vivrò sempre nei tuoi ricordi, Lukas? Sarò immortale, così.»

Non gli risponde, ma si avvicina con la sedia, di più, cominciando a sfiorargli i capelli candidi e spostandoglieli dalla fronte. È il suo modo di amarlo, senza per forza dire cose struggenti.

Mathias respira lentamente e sembra felice, senza rimpianti, senza rammarichi.

«Lukas, a volte me lo sono chiesto. Hai amato qualcun altro, vero? Per me è naturale amarti come patria e come uomo, ma mi chiedo se in tutti i tuoi secoli tu abbia-»

«Mai.»

La voce di Lukas è ferma e sicura e i due si guardano nuovamente negli occhi.

«Mai?»

«E mai più.»

Mathias non mostra stupore, come se in fondo al cuore si aspettasse una confessione del genere. Annuisce piano, come abbia compreso una profonda verità nota solo ad entrambi, e gli stringe la mano con tutta la forza che gli è concessa.

«Lukas. Ti ho amato dal primo momento, come se ti avessi sempre avuto accanto, come se sapessi già chi fossi e non potessi fare altro che seguirti. Come se tu fossi il mio destino ed io non avessi scelta se non quella di accettarlo. Ogni gesto mi ha condotto a te e sarò tuo per sempre, perché so di essere nato soltanto per te, per darti l'amore che volevi.»

Il norvegese sulla sedia sbuffa senza acrimonia e sfugge con lo sguardo, le guance un pochino più colorate.

«Le tue frasi romantiche sono sempre più imbarazzanti. Con gli anni sei peggiorato, Mat, devo dirtelo», borbotta. Si china per baciargli il dorso della mano.

L'anziano annuisce grave e un po' comico, gli occhi lucidi per quel gesto tenero così tipico di lui, e gli posa l'altra mano sulla nuca quando la nazione nasconde definitivamente il viso contro il suo braccio.

«Niente addii, amore. Sarò sempre con te. Con te e con Eirik.»

Norvegia non si muove, ma gli stringe le dita.


Quando vede il dottore venire verso di lui, sa cosa sta per dirgli dalla semplice espressione di cordoglio che indossa. Lo zittisce con un cenno della mano, scuotendo la testa ed allontanandosi.

Non vuole sentire, non dopo che si sta preparando a quel momento da troppo tempo per rischiare che una frase di circostanza faccia crollare la sua maschera.

Volta l'angolo dell'anonimo corridoio bianco e sbatte la spalla contro il muro, restando immobile a fissare un punto inutile. Qualsiasi cosa sarebbe priva di senso da guardare, in quel momento.

Le sue labbra si muovono, formano un nome senza avere il coraggio di far uscire la voce e poi si fermano.

Ha la strana sensazione di essersi esaurito come un motore con la batteria a terra, ma, crudelmente, vive ancora e può pensare. La chiave gira e c'è quel rumore così inutile, così disperato, raschiante...

Anche se gli occhi restano asciutti, Lukas, dentro, sta gridando.

«Povero ragazzo», bisbiglia un'infermiera ad una collega, passando oltre ed evitando di indugiare sulla massa appallottolata e tremante contro la parete, per non mancare di rispetto a quella controllata manifestazione di dolore.

«Si è preso cura di lui a casa finché gli è stato possibile, ma poi...»

L'altra donna gli rivolge uno sguardo comprensivo, poi si volta e si abbraccia, inspiegabilmente toccata da quell'immagine, come se non avesse mai visto tanta angoscia.

«Voleva davvero bene a suo nonno.»



Aspetta che le poche persone in visita ai propri cari si allontanino, tenendo d'occhio la situazione da dietro un albero.

Finalmente, osa uscire dal suo nascondiglio e a passi malfermi raggiunge la lapide sormontata dalla croce bianca. Legge l'iscrizione come se non la conoscesse, anche se l'ha fatta preparare lui. La vede al primo tentativo, per pochi attimi, poi tutto si vela. Eppure insiste e tenta di osservarla.

Vorrebbe aprire la bocca e dire tante cose, ma è superfluo. Non lo sente.

Vorrebbe allungare le mani e stringere la pietra, ma sa che è futile. Non lo sente.

Non è veramente lì. C'è solo la voragine del proprio cuore, di nuovo spalancata sul vuoto.

Quando sente dolore alle ginocchia capisce di essere crollato duramente in terra e quando percepisce freddo alle mani si accorge di essersi teso a toccare la lapide, automaticamente.

Si trascina sull'erba, avvicinandosi come faceva una volta nel letto matrimoniale, stringendosi con trasporto a quella stupida lastra squadrata. La tiene tra le sue braccia, cercando di coprirne più possibile, come volesse staccarla e portarsela via o forse soltanto scaldarla.

Non ne trae consolazione, ma non riesce a trattenersi.

Dopo qualche tempo -non c'è più molta luce e le ombre si sono allungate-, due braccia timide gli si stringono attorno alla vita e si chiudono su di lui. Un corpo gli si appoggia contro la schiena, stringendosi senza forza.

Is.

Il fratello si schiarisce la gola, ma prima di parlare aumenta la stretta.

«Ho preso il primo volo quando ho letto il tuo messaggio. Dovevi avvisarmi prima, sarei venuto immediatamente.»

Se ti dicessi che non riuscivo a tenere in mano il telefono saresti meno accusatorio?

«Nore, lascia la presa. Hai le mani che... stai sang-»

«Non importa.»

Islanda è abituato alla voce piatta e bassa di Norvegia. Nonostante questo, rabbrividisce e si aggrappa fermamente al cardigan, perché suo fratello è di nuovo un fantoccio.

«Nore, non lasciarmi solo», lo supplica in un sibilo appena udibile.

Norvegia continua ad accarezzare la pietra con le dita ormai grattugiate dal continuo e ostinato scorrere sul ruvido materiale. Non si stancava di accarezzare il suo viso, perché dovrebbe essere diverso, ora? È lì sotto, il suo Mathias. Il suo Mattæus tornato per lui, per amarlo almeno una volta, per permettergli di scacciare tutti i rimpianti.

Parlare è inutile. L'unica cosa che Islanda può fare è rimanere in ginocchio, il petto completamente appoggiato alla sua schiena un po' ricurva e chiudere gli occhi.

Aspettare.

Aspettare che il dolore diminuisca anche solo di un grammo, che si sollevi dalle loro anime quel tanto che basta per permettere ad entrambi di alzarsi.

È con una fitta terribile che Islanda stesso si accorge di non volersi allontanare da quel punto.

«Is», sussurra rauco, strappandolo alle sue considerazioni. «Secondo te esiste una fiaba dove... dove si dice che ad un certo punto vieni finalmente lasciato in pace e ti viene permesso di unirti-»

La sua voce si spezza e Islanda preme forte la guancia alla schiena tremante del fratello maggiore.

«N-non lo so, bror. Non-»

Non lo credo possibile.

«Non fa male crederlo», risponde invece.

«Ah, sì», sussurra la nazione vedova, scostandosi un po' e scivolando con l'indice rossastro lungo le lettere incise sulla lapide. «Esiste sempre la possibilità che ci trovi un'altra volta. Vero, Mattæus? Tornerai a cercarmi. Riconoscerò i tuoi occhi, di qualsiasi colore siano.»

Islanda si rannicchia, accecato dal dolore, ma non vuole essere debole e trascinare Norvegia in un vortice ancora più profondo, alimentando disperazione con disperazione, perciò si risolve a tacere.

«Mi hai dato tanto», continua tentando di allontanarsi, eppure tornando sempre con la mano a sfiorare ogni dettaglio, fino all'erba che cresce alla base del piccolo monumento, sino ai fiori di un bianco abbagliante.

Lo ha reso completo, e nessuno, nemmeno lo scorrere del tempo, glielo potrà togliere.

«Takk, kjær.»



Sono felice, Lukas. Ho compiuto lo scopo della mia vita.


Sarebbe?


Non essere sciocco! Ovviamente amarti!

Sono nato per stare con te e l'ho fatto.

È stato bello, Lukas, perciò... non rimpiangerlo mai.









-Angolo Autrice-



Bene. Insomma. Eccoci alla fine di tutto.

So benissimo che alcune di voi adesso saranno in lacrime, distrutte e mi staranno lanciando ogni male possibile; altre saranno con gli occhi sbarrati, incredule (anche se in fondo se lo aspettavano), ma comunque intente a costruire la bambolina voodoo della sottoscritta.

Sappiate che non è stato semplice né immaginare una storia del genere (perché rischiavo il collasso ogni due scene) né metterla per iscritto (perché non vedevo lo schermo a furia di appannarmi gli occhiali e lanciarli via belando alla Luna.)


Se siete arrivate fin qui: grazie.

Se vi siete emozionate e avete sentito il cuore accartocciarsi, sia per il finale che per ciò che di dolce o angst l'ha preceduto: grazie mille volte ancora.

Non so se sia la mia storia migliore, fino adesso, ma la amo molto e se sono qui, alla fine, a ritagliarmi uno spazio per parlarvi direttamente, è perché davvero sono stata commossa per tutte le splendide recensioni e devo dirlo apertamente.

C'è anche un altro motivo, anzi... due.

Il primo è che, benché molte stiano soffrendo -penso/spero- per Lukas e la sua sfortunatissima vita amorosa, c'è un messaggio di fondo in questo epilogo e anche se non volete credermi è un messaggio davvero positivo.

Lukas non cercherà di ammazzarsi, non passerà anni e anni a posarsi la mano sulla testa come dopo la scomparsa di Mattæus.

Soffre, è logico che sia straziato, l'abbiamo visto tutte su quella tomba, ad accarezzare ossessivamente l'ultimo pezzo che lo collega ad un corpo ormai svanito dalla sua portata.

Però.

La storia d'amore con Mathias è stata importante e necessaria, non soltanto per quello che gli ha dato, ma per quello che gli ha permesso di imparare e di vivere.

Lukas avrà sempre un vuoto, dentro, per la mancanza del suo amore, ma adesso è pieno. So che sembra un controsenso, ma è davvero felice di averlo amato.

Quindi, se qualcuna di voi si sta chiedendo se non sarebbe stato meglio per lui fermarsi al primo dolore, senza aggiungere nuovi tormenti, la mia risposta come autrice è: no, niente affatto.

Spero si sia capito anche attraverso ciò che si dicono.

(Quel “Takk, kjær” di Lukas, tra l'altro, che io traduco come “Grazie, amore/caro” vi sembra risentito?)


Mathias era Mattæus? Lukas l'ha amato solo per questo?

Sì e no.

Mathias era Mathias e lui l'ha amato individualmente, ma quando Lukas gli dice che ha amato solo una volta... beh, non sta mentendo.

Mathias sente di comprendere una profonda verità e più volte gli dice di essere nato per lui...

Ci siamo capite, donne.


La seconda ed ultima cosa che devo comunicare è che noterete che questo, pur essendo l'ultimo capitolo ufficiale, non mi ha permesso di spuntare la casellina che indica la storia come “completa”.

Questo perché ho intenzione di scrivere un capitolo extra, molto breve, che non vedrà né Lukas né Eirik né Mathias, ma che merita di essere letto.

Sempre se ne avrete voglia.


Grazie a tutte per l'attenzione.

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Capitolo 12
*** Capitolo Extra ***


L'altra faccia del dolore








Lo trova ritto, immobile come una statua imponente. Lo sguardo indugia sull'ampia schiena rigida, le spalle larghe, la nuca coi suoi corti capelli biondi.

Rimane a fissarlo per qualche lungo minuto, stringendo le mani tra loro e tormentandosi le dita, rabbrividendo nonostante la temperatura mite.

Sa che deve farsi forza ed affiancare l'uomo in piedi; lo sta aspettando, in anticipo come ogni volta e, puntualmente, lui esita ad interrompere il suo momento privato.

Non ha bisogno di sentire la voce profonda o di vedere le labbra muoversi per sapere che sta comunicando, perché lo fa interiormente, in contrasto con lui che invece ha bisogno di parlare per dare forma ai pensieri e renderli concreti.

Sospira rassegnato, alla fine, raggiungendolo a piccoli passi, leggeri e silenziosi sull'erba soffice.

«Eccomi.»

Lo sussurra inutilmente, gli occhi bassi rivolti al mazzo di fiori dai colori vivaci posato accanto ad un piccolo piatto di ceramica bianca, dentro il quale sono disposti ordinatamente alcuni biscotti al burro preparati in giornata.

Deglutisce a fatica, anche dopo tutto quel tempo, anche dopo tutti quegli anni e la tradizione ormai consolidata che li riporta lì, come dandosi appuntamento per salutarlo insieme.

Lo svedese annuisce e sbatte pigramente le palpebre, sempre con lo sguardo fisso alla lapide solitaria posta in quel luogo speciale, sconosciuto, con quel singolo nome inciso sopra dalle sue abili mani.

Un nome che provoca solo nostalgia e ganci crudeli che tirano il cuore.

Un nome che rievoca ricordi di ogni genere, ma che, con il trascorrere degli anni, sembrano essersi ridotti sempre più a quelli positivi, i più dolorosi e difficili da affrontare.

Finlandia alza gli occhi al cielo e tira le labbra tristemente, ricordando la schiena curva dell'uomo accanto a sé, intento a scolpire lettera dopo lettera senza singhiozzare.

Il suo volto era una maschera impassibile di lacrime quando si era rialzato e voltato. Il lavoro era di una precisione incredibile, come se le sue mani non avessero tremato tutto il tempo.

«Un altro compleanno», mormora, un misto di affetto e pena nel tono basso.

Solleva il braccio e posa la mano sulla spalla di Svezia.

Ricorda che a Danimarca piaceva tantissimo sommergere il taciturno fratello di cose buone da mangiare. Le loro feste erano contigue, quindi avevano due giorni di fila per abbuffarsi e stare insieme. Erano belli, quei compleanni, sembravano la celebrazione di tutti, riunioni di famiglia dove c'erano troppi dolci da dividersi.

Era felice di festeggiare con loro e a Svezia faceva piacere averlo lì, anche se si manteneva apparentemente burbero e spesso finivano per rimbeccarsi sulle questioni più insignificanti, ma non sarebbe stato lo stesso se non ci fossero stati scontri, non sarebbero stati loro.

Stai zitto e bevi un po' di più, Berwy!, gli diceva alla fine con un ghigno, allungandogli un boccale di birra. Svezia grugniva, obbediva e riemergeva con il baffo fatto di schiuma, facendoli ridere per diversi minuti e sorridendo anche lui ad occhi bassi.

Dischiude le labbra prendendo un bel respiro e torna a guardare la lapide, allungando la mano che stava sulla spalla dello svedese per fare una carezza gentile alla pietra.

«Ciao, Tanska, siamo qui. Come stai?»

È stupido quando si ferma, prima di continuare il suo monologo. È stupido ma non può farne a meno, perché ci vuole una pausa, anche breve, a quel punto.

Il vento soffia così quieto, tra i capelli di Tino, che gli sembra la sua carezza contenta e deve quindi fermarsi per riceverla, sorridere timidamente, godersela.

«Il piccolo sta imparando tante cose nuove ed insiste per andare a parlare di politica ed economia al tuo... suo capo. Ha un sacco di idee, è difficile tenerlo a bada e farlo stare tranquillo, ma è un bravo bambino, è adorabile e noi tutti gli vogliamo bene. Siamo sicuri che ti rappresenterà nel migliore dei modi. È giocoso e saltella ovunque, parla ininterrottamente! Sai, sembra che abbia qualcosa di te, come se l'avesse ereditato e per questo motivo, dopo un po', Norja ha cominciato a dire che non è colpa tua se sei stupido, è la nazione che incarni ad averti rovinato.»

Il sorriso si fa più ampio e si ritrova a ridacchiare. È una risata sincera e argentina, non suona come qualcosa di artefatto.

«È il suo modo per dire che ama la tua allegria, lo conosci», continua accomodante, avvertendo il corpo di Svezia che gli si avvicina un po', arrivando a sfiorarlo con il braccio.

«Più tardi verranno a trovarti Nor e Is. Preferiamo lasciarvi soli, non te la prendere se non rimaniamo mai insieme a loro. Non sta bene ascoltare le cose che dovete dirvi, s-sai.»

La sua voce trema sempre, verso la fine. I suoi occhi vedono annebbiato ogni anno, alla fine.

Si dice che ci riuscirà, prima o poi, a salutarlo e a dare voce ai pensieri di entrambi senza ridursi in lacrime, ma gli manca che risponda per davvero e lo inciti a continuare.

Non ci sono occhi spalancati, curiosi e limpidi, sormontati da sopracciglia buffe. Sta parlando con una lapide e le gambe diventano malferme come la convinzione della voce.

Si zittisce ed i singhiozzi lo scuotono, impedendogli di salutarlo ancora, come in una lettera, fare una bella chiusura dove gli dice che si ricordano di lui, che mai si permetterà di rivolgerglisi usando verbi al passato.

«Ci manchi, Ta. Vorremmo abbracciarti, ma... sei ancora con n-noi...»

È a quel punto che Svezia si volta e lo prende tra le braccia; quando entrambi non riescono più a reggersi in piedi ostentando accettazione e contegno, quando tutti e due hanno raggiunto il limite.

Tino non riesce più a parlare, Berwald non riesce più ad ascoltare.

Si aggrappa alla sua schiena e piange cercando di trattenersi, sempre inutilmente.

Svezia gli tiene la grande mano sulla nuca e continua a guardare la pietra con le sue lettere grandi ed eleganti, le iridi vacillanti dietro le lenti degli occhiali.

Muove le labbra senza parlare, formulando un saluto, un augurio ormai perduto che non riceverà a sua volta.


Buon compleanno, fratello.









-Angolo Autrice-



Se qualcuna di voi sperava in un capitolo speciale diverso, in qualcosa di rasserenante -se non altro- si sbagliava di grosso.

Angst. Angst ovunque.

Inutile dirvi come sia ridotta adesso, ma... dovevo scriverlo.

Dovevo perché mi è venuto in mente e perché credo sia giusto, anche se fa male, mostrarvi questi due e la loro dolcezza; dovevo mostrarvi -come se non si immaginasse- che Danimarca ha lasciato un vuoto in tutti, non soltanto come uomo/padre amato. Tutti soffrono come bestie.


La storia è finita per davvero, adesso, e tirando le fila di tutto quello che è stato scritto spero davvero di aver trasmesso emozioni e che vi sia “piaciuto” soffrire, se l'avete fatto.

Grazie a tutte quelle che hanno letto, aggiunto la storia alle preferite, perso del tempo per commentare e farmi quindi leggere le loro apprezzatissime opinioni.

Dopotutto si pubblica anche per conoscerle, no?


*piccola nota, forse inutile: Tanska, per chi non lo sapesse/avesse capito, è semplicemente Danimarca in finlandese.

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