A Sherlock Carol.

di Patta97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Tutte scemenze. ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno: Lo Spirito del Natale Passato. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due: Lo Spirito del Natale Presente. ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre: Lo Spirito del Natale Futuro. ***
Capitolo 5: *** Epilogo: Come tutto andò a finire. ***



Capitolo 1
*** Prologo: Tutte scemenze. ***


Ciao!
Sì, sto rompendo parecchio in questo fandom, ultimamente.
Ma questa volta non è una semplice Johnlock, no! Il mio forse-non-così-piccolo ego si è voluto cimentare in qualcosa di "leggermente" più impegnativo e in cui certamente non riuscirò...
Tutto è partito da me che addobbavo la casa ieri pomeriggio... la mia mente contorta pensava ovviamente a Sherlock, ma le decorazioni natalizie che avevo fra le mani mi hanno indirizzata a uno dei miei classici preferiti: A Christmas Carol. E tutto ciò, unito allo spaventoso entusiasmo della mia adorata beta Lauur all'udire l'idea, ha portato a questo
Dato che ciò che ho detto sopra non vi interessava minimamente, vi lascio alla lettura di questo piccolo prologo.
Spero mi lascerete qualche parere,
Chiara

PS Ovviamente, oltre ai personaggi del telefilm, dichiaro che NON mi appartiene (purtroppo) nemmeno il romanzo da cui ho tratto spunto e citazioni. Tutti i diritti (mi sembrava il caso di dirlo), stavolta vanno anche a Charles Dickens (o ai suoi discendenti, fate un po' voi).
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- Non posso crederci! -
 
- A cosa? –
 
John fece una faccia interrogativa, che fece scemare per un attimo quella furibonda.
 
- Non puoi credere a cosa? – ripeté Sherlock.
 
John prese un bel respiro.
 
- Al fatto che tu sia come il Grinch, ecco a cosa – fremette il dottore.
 
L’espressione incredula passò sul volto di Sherlock.
 
- Io sia che? – domandò.
 
- Oh, per l’amor di Dio! – esplose John. – La tua continua voglia di mettermi in ridicolo e di non voler aprirti al mondo è semplicemente assurda! Tieni al tuo prezioso cervello più che a ogni altra cosa! Sei spocchioso e arrogante. Non c’è nulla che mi trattenga a festeggiare il Natale con te – sputò fuori, ferito dal comportamento freddo del coinquilino.
 
- Il Natale, John – commentò Sherlock, lapidario. – Il Natale. Il Natale fa schifo. Una festicciola commerciale senza morale che non serve assolutamente a nulla. È un periodo noioso, dove neanche un criminale osa tagliare un’unghia senza il permesso di Gesù bambino. Cresci, John: il Natale è per gli idioti. E se ti piace così tanto lo devi essere anche tu -
 
John rimase un attimo a guardarlo, inibito. La rabbia era evaporata come neve ai raggi del sole.
 
Voltò lentamente le spalle alla poltrona dove Sherlock stava seduto e si diresse a passi sicuri verso la porta.
 
Sherlock lo udì fare trambusto al piano superiore, sopra la sua testa.
 
Poi il rumore delle ruote di un trolley che sbattevano di gradino in gradino.
 
John fece nuovamente capolino nel salotto, il manico della valigia grigia nella mano sinistra e una faccia seria e rassegnata sul viso.
 
- Vado da Harry a passare il Natal… le feste. Saresti stato e sei il benvenuto. Ti lascio solo con… con i fantasmi dei tuoi casi. Brinda con loro, Sherlock Holmes – si chiuse la porta alle spalle. – E buon Natale – aggiunse oltre la lastra di legno.
 
*
 
Sherlock chiuse la porta della sua camera con particolare cura.
 
Mrs. Hudson era fuori per le vacanze con il farmacista di Oxford Street ed era totalmente solo in casa.
 
Non che questo l’avesse mai preoccupato. Anzi, solitamente quasi non notava di essere solo o in compagnia.
 
Ma quella sera, quella particolare sera, il litigio con John l’aveva scombussolato.
 
Le parole ferite e pungenti del medico rimbombavano in ogni anfratto del suo Palazzo Mentale, scuotendolo nelle fondamenta.
 
Non c’è nulla che mi trattenga… Vado da Harry a passare le feste… Ti lascio solo con i fantasmi dei tuoi casi... Brinda con loro…
 
I “fantasmi dei suoi casi”.
 
Sherlock non credeva nei fantasmi: tutte scemenze.
 
Ma da piccolo, quando la fantasia ancora gli scompigliava i capelli e abbordava in veste di pirata le navi dei sogni, aveva paura dei fantasmi.
 
Era sempre stato rassicurato su quel punto: i fantasmi non esistono.
 
Ne era sempre stato convinto.
 
Eppure si sentiva inquieto.
 
Aveva provato a fare qualche esperimento con una testa – regalo di Molly per Natale, ironia della sorte – ma era stato inutile: neanche i vari tipi di corrosione sulla fronte di quel cadavere non reclamato lo distraevano.
 
Si tendeva ad ogni minimo rumore e stava dritto come un fuso.
 
Provò a darsi un contegno, come se ci fosse qualcuno insieme a lui a rivolgergli scettiche occhiate.
 
Si sistemò sotto le coperte, nonostante non avesse la minima intenzione di dormire.
 
*
 
A mezzanotte, Sherlock si augurò mentalmente “Buon Natale”, con un tono talmente sarcastico che ne sarebbe stato fiero persino Joh… no. Nessun pensiero su John o sugli altri esseri sprovveduti che gironzolavano per le strade cantando canzoncine su pace e amore oppure sugli altri che si ostinavano a stare accanto a uno stupido camino a scambiarsi stupidi regali.
 
*

A mezzanotte e trenta minuti, Sherlock aveva appena finito di ripetere mentalmente simbolo chimico, numero atomico e peso atomico di ogni elemento della Tavola Periodica.

*

All’una meno un minuto, Sherlock si rotolava nel letto senza uno scopo preciso.
 
Quando improvvisamente una luce grigiastra invase la stanza.
 
Come già detto, Sherlock Holmes era sempre stato convinto che fantasmi, spiriti e affini non esistessero.
 
Erano illogici, al di là di ogni comprendonio: quando si muore il corpo si decompone e negli anni non rimane nulla, se non il ricordo nella mente di qualcuno.
 
Erano qualcosa di etereo e di immaginario, leggendario e totalmente fatto di idee.
 
Ma la mano che scostò prepotente le coperte da sopra il suo corpo tremante era abbastanza concreta.
 
Sherlock si sollevò su di un fianco, trovandosi faccia a faccia con un essere del tutto sovrannaturale.
 
Pensò subito di essersi addormentato ed accettò quasi rassegnato la sua proiezione onirica, disapprovando il proprio cervello così impressionabile.
 
Lo spirito aveva, infatti, in tutto e per tutto le sembianze di suo fratello Mycroft.
 
Ma era stranamente rimpicciolito, con le dimensioni di un bambino – un ragazzetto piuttosto brutto e sgradevole, a personale parere di Sherlock -.
 
Il suo corpo assomigliava un po’ a una televisione: dentro di esso si agitavano immagini sconnesse, separate da fotogrammi di gocce grigie. E da lui, come da un piccolo faro mogio o appunto un televisore, splendeva una fioca luce grigio-azzurra.
 
Teneva un ombrello lungo e nero sottobraccio, da usare nei momenti di depressione; allora lo apriva e lo posizionava sopra la testa, così sul suo corpo si proiettavano solo immagini senza interruzioni.
 
- E tu chi e che cosa saresti? – chiese Sherlock, ostentando il suo tono più pragmatico.
 
- Io sono io, Sherlock – rispose la creatura, con una voce bassa e leggermente acuta, come se si trovasse a metri di distanza dal letto e non a un passo. – Sono lo Spirito del Natale Passato – annunciò, pomposo.
 
- Passato da un pezzo? – chiese Sherlock, accovacciandosi sul materasso.
 
Nonostante lo “Spirito” avesse una voce gentile, Sherlock manteneva un tono distaccato e sardonico.
 
Perché di certo la faccia tremolante di Mycroft con cui quell’essere si ostinava a presentarsi, non lo aiutava sicuramente a renderlo simpatico agli occhi del consulente investigativo.
 
- No – sospirò l’essere. – Del tuo passato – chiarì, iniziando a indisporsi: era uno Spirito gentile, ma al momento impersonava Mycroft Holmes e non si sentiva molto disponibile verso gli ignoranti.
 
Sherlock continuava a fissare le immagini di pioggia nel petto tremulo del proprio interlocutore.
 
Se qualcuno avesse potuto chiederglielo, Sherlock non avrebbe saputo spiegarne il motivo; ma sentiva l’irrefrenabile bisogno di vedere quell’ombrello aperto e di seguire così con un filo logico le immagini, perché sembravano davvero immagini molto significative, indispensabili.
 
- Apri quell’ombrello! – quasi ordinò, più brusco del dovuto.
 
- Come! – esclamò lo Spirito, indignato. – Vuoi dare un senso così presto a ciò che in realtà non ne ha? Levando la pioggia, non potresti capire appieno quelle immagini, seppur vedendole e analizzandole. L’ombrello che porto sottobraccio è stato creato da te e da tutti quelli che cercano significati oscuri e intrinsechi dove non vi è che puro e semplice amore. Sei tu che mi costringi ad aprire quell’ombrello ogni volta che rigetti ciò che di bello ti sta attorno. E adesso seguimi, Sherlock Holmes, perché sono uno Spirito impegnato, ma quello che sto per mostrarti è a fin di bene - terminò, sibillino.
 
Se quel discorso fosse stato pronunciato dal vero Mycroft, Sherlock non avrebbe esitato a ridergli in faccia. Ma quell’essere davanti a lui di suo fratello aveva soltanto le sembianze e non l’essenza.
 
Sentì che scherzare su quello che aveva detto sarebbe stato un insulto, con pena immediato incenerimento.
 
Nonostante quello fosse un sogno, ovviamente.
 
Perché fantasmi, spiriti e affini non esistono, ovviamente.
 
Tutte scemenze.

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno: Lo Spirito del Natale Passato. ***


Ciao! Rieccomi col secondo capitolo. Anche se, in effetti, adesso non ha più molto senso... ma facciamo che lo spirito Natalizio dura fino al 6 gennaio, eh? *si guarda attorno speranzosa*
Vi lascio a questo piccolo parto non betato... lasciatemi un parere!

PS Ho dovuto cambiare il raiting in giallo, perché questo capitolo è particolarmente triste (per me, almeno xD ).
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- Come dovrei seguirti? – chiese Sherlock, sospettoso.
 
- Volando – rispose lo Spirito.
 
- Il sarcasmo non è il mio forte – commentò l’altro.
 
- Non sono sarcastico – le immagini sul petto dello Spirito si incepparono un attimo, mentre si stupiva. – Il mio ombrello è tutto ciò che ci serve – e si tolse l’oggetto da sotto il braccio e lo aprì. – Afferra il manico – suggerì, mentre faceva lo stesso.
 
Sherlock roteò gli occhi e maledisse per l’ennesima volta quello stupido sogno. – In caso tu, Spirito, non lo sapessi – spiegò lentamente, beffardo. – Sono un essere umano dotato di una certa massa e soggetto a cadere a causa di una robetta chiamata forza di gravità. E per quanto il tuo ombrello possa essere resistente non è di certo in grado di sorreggere il mio peso, soprattutto se sommato al tuo… - aggiunse, ammiccando alla leggera pancetta del piccolo Spirito.
 
Un lampo e un boato scossero il corpo dello Spirito. – Sherlock Holmes – tuonò. – Afferra il manico del mio ombrello –
 
Sherlock sbuffò e fece come gli era stato detto.
 
Un vento improvviso spinse l’ombrello – e Sherlock e lo Spirito con lui – attraverso il muro della stanza del consulente investigativo. E poi stavano volando, sospesi e dritti, appesi a quell’ampio ombrello nero. Sherlock si ritrovò a pensare che John avrebbe sicuramente trovato un paragone per quella situazione con un qualche film di fama mondiale di cui non era a conoscenza.
 
E Sherlock non seppe dire quando il paesaggio si era trasformato, ma non si trovava più nell’aria pungente di Londra, ma al chiuso.
 
- È il salotto di casa mia – sussurra, flebilmente.
 
Ma lo Spirito lo udì comunque ed annuì.
 
- È il Natale del 1984 – continua, osservando e analizzando ciò che lentamente i suoi occhi iniziano a visualizzare. – Ho otto anni. Mio padre è ancora vivo. Sto scartando i regali… -
 
Ma s’interruppe, guardando stupito la scena.
 
Quello che aveva davanti era proprio un piccolo se stesso di otto anni, seduto su un enorme e morbido tappeto persiano, con davanti un grande pacco incartato. Alle spalle del bambino dinoccolato, magro e ricciuto vi era un albero di Natale enorme e riccamente decorato. Su un pouf accanto a lui stava accomodato suo fratello Mycroft – davvero lui, non lo Spirito – e aveva sedici anni. E sul sontuoso e morbido divano, a guardare attenti i figli, stavano Holmes Senior e consorte.
 
- È stato l’ultimo Natale che ho passato a casa prima del collegio – ricordò lo Sherlock adulto ad alta voce.
 
Due mesi dopo quel 25 Dicembre, a suo padre sarebbe stata diagnosticata la cirrosi alcolica**** e poi sarebbe morto.
 
Una particolare stilettata a livello emotivo percorse il corpo di Sherlock, avvolto nel suo pigiama grigio e nella sua vestaglia blu.
 
E nello stesso istante si rese conto di essere parecchio esposto agli sguardi di quelli che erano (sono?) i suoi parenti.
 
Ma lo Spirito precedette la sua domanda con una rassicurante risposta: - Non possono vederci. Loro sono solo ombre di ciò che è stato –
 
Non aveva molto senso. Ma quello era solo un sogno, in fondo.
 
Poi una giovane voce interruppe le congetture mentali del consulente investigativo, facendolo quasi sussultare.
 
- Sherlock, apri i tuoi regali – suggerì Temperance* Holmes.
 
L’adolescente Mycroft, coi capelli rossi ondulati ben pettinati all’indietro, porse al fratellino due pacchi dalle dimensioni considerevoli.
 
Erano impacchettati entrambi in modo impeccabile, con una carta bianca e lucida e un fiocco argento in cima.
 
Lo Sherlock adulto l’avrebbe scosso pian piano e ne avrebbe giudicato il contenuto con aria di sufficienza, ma il lo Sherlock bambino non lo fece.
 
Non perché non ne sarebbe stato in grado – l’avrebbe dedotto, applicandosi un po’, anche dal comportamento della madre nei giorni precedenti -, ma scartò comunque l’involucro anonimo del primo che gli capitò fra le manine, con parecchio entusiasmo.
 
Temperance si sporse un po’ avanti col busto, trattenendo il fiato, coi capelli rossi e lisci ai due lati del volto pallido.
 
- Oh! Un microscopio! – esultò il curioso bambino, davvero felice. – Grazie, papà – disse, tutto impettito.
 
Arthur Holmes guardò la moglie in maniera strana e poi rivolse al minore dei suoi figli un debole sorriso stirato.
 
- Adesso apri questo – esortò Mycroft, spingendo ancora di più verso il fratellino l’altro pacco col fiocco argentato. Era parecchio emozionato, perché era stato lui a scegliere quel regalo - insieme alla madre - e voleva davvero sapere cosa ne pensava Sherlock, ma non voleva farsi vedere troppo sopra le righe dal padre.
 
Sherlock fece una linguaccia al fratello di nascosto e prese a scartare l’involucro elegante.
 
Una bellissima custodia per violino di pelle nera si presentò agli occhi dell’ammirato bambino.
 
Fece scattare le due argentate chiusure a gancio e sollevò il coperchio: un superbo violino di legno rossiccio era adagiato in un letto di velluto rosso.
 
Un piacevole odore di legno si diffuse nella stanza: Sherlock – adulto – poteva sentirlo benissimo. Quello era stato il suo primo amatissimo violino personale e si sentì scaldare il cuore nel rivederlo.
 
- Grazie, mamma! – esclamò il piccolo Sherlock, emozionato. – E grazie, Mycroft – aggiunse, lasciandosi scappare un sorrisetto in direzione del fratello.
 
Avrebbe voluto saltare al collo della madre e abbracciarla forte, ma aveva timore dello sguardo severo del padre.
 
Fu lei però a lasciare il fianco del marito per abbracciare il suo figlio prediletto.
 
Arthur rimase impassibile e Mycroft distolse lo sguardo, geloso. Ma la madre rivolse anche a lui una piccola carezza sul capo.
 
Il consulente investigativo si sentì salire un pizzicorino agli occhi mentre provava a ricordare la sensazione di quando veniva abbracciato da sua madre; quando lei era ancora giovane e felice.
 
Ma lo Spirito – del quale aveva quasi dimenticato la presenza – gli afferrò stretto un braccio e la scena che Sherlock aveva di fronte mutò.
 
Erano in un luogo pieno di bianco che Sherlock riconobbe immediatamente: una stanza d’ospedale.
 
Un letto asettico era il fulcro dell’attività della scena, pieno di persone in abito scuro come se fosse stato un formicaio.
 
Voci confuse riempivano lo spazio vasto dedicato a quell’unico giaciglio.
 
- Via! Via! Andate tutti via! – quasi urlò una voce giovane e arrochita dal pianto e dalla rabbia. – Siete solo delle sanguisughe! Il testamento non si leggerà di certo qui e io non ho bisogno di voi! -
 
Dalla piccola folla si distinse una delle uniche tre figure colorate fra i tanti vestiti di nero.
 
Temperance Holmes, nonostante la piccola statura, sembrava sovrastare su tutti grazie al suo maglione verde e alla sua rabbia piena di dolore; e le voci si spensero all’istante.
 
- Andate via – ribadì, distrutta. – Qui resteremo solo io e i miei figli, com’è giusto che sia -.
 
Tutta la sfilza di parenti più o meno lontani iniziò a uscire in processione dalla stanza, passando davanti a Sherlock e allo Spirito, sempre compito e silenzioso, con le immagini veloci sul suo petto cangiante.
 
Sherlock udì il commento inacidito di una che riconobbe come una pro prozia: - Morto il giorno di Natale! Arthur Holmes è riuscito a rubare l’attenzione anche a Gesù bambino! –
 
La bisbetica che le stava accanto, chiudendo la fila, ridacchiò. – Che se lo tenga, quella sgualdrina di sua moglie. Lo sanno tutti che lo ha sposato aspettando questo momento –
 
Sherlock, in moto di risentimento, fu tentato di rivelare a tutti i presenti le frustrazioni segrete di quelle due zitelle, in ordine alfabetico**. Ma nessuno avrebbe potuto udirlo, così si concentrò nuovamente sul letto.
 
Al capezzale del corpo senza vita di suo padre c’erano lui, un Mycroft diciottenne e sua madre. La giovane donna che aveva visto nel ricordo precedente era l’opposto di quella che osservava adesso.
 
Il volto era magro così come il resto del corpo e aveva pesanti borse sotto gli occhi. La malattia aveva consumato lei insieme al marito – di dieci anni maggiore dei trentotto di Temperance – e in quel momento l’unica differenza fra i due volti cadaverici dei coniugi Holmes era che l’una respirava, l’altro no.
 
Temperance chiuse la porta della stanza con delicatezza, a contrasto con la sua rabbia di un attimo prima, e si sedette accanto al letto. Allungò le braccia, con gli occhi chiusi, e il piccolo Sherlock, gli occhi arrossati dal pianto – uno dei pochi - andò a sedersi sulle sue ginocchia. Stette però attento a non gravarle addosso col suo – misero – peso, perché aveva la sensazione che la madre avrebbe potuto spezzarsi da un momento all’altro.
 
Poi Temperance guardò il figlio maggiore, il quale si manteneva rigido, a schiena dritta, col volto solcato da una lacrima solitaria – l’ultima -. Quello scongelò la propria posa per andarsi a posizionare alle spalle della madre, mettendole una mano sulla testa, in una tacita carezza sui capelli rossi identici ai suoi.
 
Sherlock ricordava bene che rimasero in quel modo per almeno un’ora, a fissare il volto del grande, ricco e intelligente Arthur Holmes, deceduto il 25 Dicembre 1986.
 
- Spirito, basta – provò ad ordinare il consulente investigativo, sentendosi di nuovo afferrare per il braccio.
 
Ma quello quasi rise in risposta. – Non ancora, Sherlock Holmes. C’è un ultimo Natale che voglio portare alla tua memoria – annunciò, con la sua strana voce, bassa, melodiosa e lontana.
 
Sherlock sapeva quale sarebbe stato, quel Natale. E avrebbe voluto assestare un pugno a quel viso misterioso coi tratti di suo fratello.
 
Avrebbe preferito di gran lunga fuggire – morire -, piuttosto che rivivere quel ricordo. Ma quello era un sogno e, nonostante ne avesse fatti ben pochi nella sua vita, lui sapeva che dai sogni non si poteva fuggire.
 
Contrariamente a tutte le precedenti scene, si trovavano all’aperto.
 
Una brezza frizzante mischiata a fiocchi di neve colpì Sherlock in pieno viso.
 
Erano al cimitero e nevicava, il Natale antecedente a quello corrente.
 
Sherlock abbassò lo sguardo e trovò una lapide di marmo nero e lucido, col proprio nome inciso.
 
Fece un passo indietro e girò il volto di novanta gradi: poteva scorgere la propria figura slanciata da dietro un cipresso a poca distanza.
 
Lui, se stesso di un anno prima e lo Spirito attendevano una sola persona in quel cimitero deserto: e i passi ovattati di John Hamish Watson non tardarono a farsi sentire, mentre arrancava fra la neve fresca.
 
Il dottore si fermò davanti alla lapide, così vicino allo Sherlock-ombra che questi poteva avvertire il calore.
 
- È il terzo Natale senza di te – sentenziò John ad alta voce, come se Sherlock lo udisse sotto quei due metri buoni di terra ghiacciata, sigillato nella sua nera - e vuota - bara. – Mi… ci manchi. Molly mi ha regalato tre libri deprimenti, Lestrade una bottiglia di vino e la signora Hudson un maglione. L’ho indosso adesso… lo odieresti. Ha renne e abeti ricamati sopra. Ne avresti già fatto legna da ardere, suppongo -
 
Il viso di John venne smosso da qualcosa simile a un sorriso, che però venne subito cancellato; non si ride in due casi: davanti a una scena del crimine*** e al cimitero. E poi John non era dell’umore adatto per ridere, da circa tre anni a quella parte.
 
Sherlock, accanto a lui, sorrise davvero: non aveva mai udito le conversazioni che John aveva davanti alla sua tomba, limitandosi a guardarlo da lontano.
 
Poi John si porto una mano al viso e sembrò stremato, esausto.
 
Ed era stato allora che lo Sherlock dietro il cipresso aveva istintivamente mosso un passo, calpestando un rametto secco, provocando un rumore quasi assordante nel rigoroso silenzio del cimitero.
 
John si era voltato di scatto, vedendo un lembo di cappotto nero svettare contro la neve candida. Poi si erano messi a correre entrambi, l’uno fuggendo da un pericolo che avrebbe mandato a monte tre dolorosi anni di lavoro, l’altro scappando pure, da un terribile incubo.
 
Ma Sherlock riuscì a nascondersi dentro una rimessa per gli attrezzi del giardiniere, inutilizzata in quel periodo.
 
E John camminava alla cieca, mentre la certezza di ciò che aveva visto sfumava di nuovo nel dolore sordo.
 
E Sherlock – dentro la rimessa e fuori sotto la neve, accanto al sadico Spirito – sentì quel dolore pure, che raschiava le pareti del suo cuore svuotato, che pompava sangue per il puro – e cattivo – gusto di farlo. Perché essere morto davvero sarebbe stato più semplice e più definitivo.
 
- Sherlock! – gridò John, con le guance arrossate per il freddo, per l’imbarazzo, per la delusione. – Sherlock, torna. Torna! Non ha più senso, non ha più senso… – quasi invocò, mentre la voce andava a sfumare in un unico, silenzioso e straziante singulto.
 
E lo Sherlock-ombra ricordò di essersi avvolto le braccia attorno alle gambe, seduto sul pavimento di legno della rimessa, per costringersi a non correre fuori a rassicurare John. Ricordò di aver pianto. Ricordò di essere rimasto irrigidito in quel modo finché non aveva sentito John allontanarsi e il cuore tornare a battere in modo meno doloroso.
 
Ma adesso Sherlock poteva vedere anche il volto di John e, nonostante ormai fossero di nuovo insieme e quel lungo periodo di sofferenza era terminato, si sentì nuovamente spezzato in due, come allora.
 
- Tu non sei uno Spirito – sputò contro l’impassibile essere grigio tempesta. – Sei solo una proiezione onirica, particolarmente stronza e sadica, lo ammetto, ma solo questo. Dimmi come posso svegliarmi. Adesso – ordinò a denti stretti.
 
- No, e per due motivi: primo, perché questo non è un sogno; secondo, perché meriti di vedere tutto questo – lo provocò.
 
E le immagini sul suo petto furono sorprendenti: volti.
 
Temperance Holmes distrutta dal dolore, poi Mycroft da ragazzo, poi John, poi suo padre. E ancora sua madre, Mycroft, John, suo padre. E ancora e ancora, sempre più veloce.
 
- Basta! Smettila! – gli intimò Sherlock, incapace di chiudere gli occhi.
 
Ma lo Spirito non accennava a voler smettere quella piccola tortura. E allora Sherlock afferrò l’ombrello dalle sue mani e lo aprì sopra la sua testa: le immagini cessarono, lasciando trasparente il corpo dello Spirito.
 
Il consulente investigativo si sentì soddisfatto per un attimo, prima di vedere che lo Spirito sorrideva fetente.
 
E un vento non reale ma prepotente sollevò Sherlock, aggrappato stretto all’ombrello.
 
Quel vento sovrannaturale turbinava, sbatteva, percuoteva e urtava l’unico consulente investigativo del mondo, facendogli perdere sempre più la presa dal manico dell’ombrello.
 
Scivolava, sentiva le dita cedere… e cadde.
 
Una caduta lunga, surreale e terrorizzante.
 
E Sherlock si ritrovò aggrovigliato fra le lenzuola del proprio letto.
 
Si districò in fretta da quel nido, balzando in piedi, col battito accelerato.
 
Rimase immobile per qualche minuto, spaesato e incredulo.
 
Ma era stato solo un sogno. Un vivido, spaventoso… sogno. Ed era finito.
 
- Ovviament… - provò a dire, per tranquillizzarsi; ma un rumore dalla cucina interruppe il suo mantra.
 
Un rumore insolito che gli fece sospettare che tutte quelle scemenze erano solo all’inizio.
 
Ovviamente. mormorò mentalmente la sua parte più codarda.
 
 
 
*No, non sono pazza, questo nome esiste davvero e mi ha particolarmente ispirata per lei! xD
 
**Piccola semi – citazione dal film “Sherlock Holmes”.
 
***Citazione da “A study in pink”, ovviamente.

****In realtà sarebbe "cirrosi epatica", ma si può dire in entrambi i modi. Per chi non lo sapesse, è una malattia al fegato che, se non curata subito, può anche portare alla morte, ed è principalmente dovuta all'abuso di alcool, appunto.

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Capitolo 3
*** Capitolo Due: Lo Spirito del Natale Presente. ***


Ciao!
Sì, mi sa che dovrò accettare la proposta di Sonia_0911 a darmi una mano a prolungare Natale fino a Giugno! xD
Comunque riuscirò a finire, prima o poi, questo è sicuro (purtroppo per voi, ehe).
Vi lascio a questo capitolo appena sfornato e al mio particolarmente adorato Spirito del Natale Presente!
Un bacio a tutti voi che leggete e recensite,
Chiara
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Sherlock aprì piano la porta della sua stanza e guardò dallo spiraglio.
 
Uno strano luccichio proveniva dal salotto dell’appartamento.
 
Il consulente investigativo si fece coraggio e aprì di scatto la porta.
 
La stanza era dilatata in ampiezza, lunghezza, altezza; il che era ovviamente impossibile e Sherlock si rese conto di star sognando ancora.
 
Le pareti, il soffitto, tutto era ricoperto di fotografie e di puntine e di percorsi tratteggiati con pennarello rosso.
 
E poi, al centro della stanza, stava un cumulo di ciambelle.
 
Appena se ne rese conto, Sherlock alzò un sopracciglio e sollevò gli occhi al cielo: aveva la certezza che la sua mente – brillante, ovvio – eppure suggestionata, avesse partorito un altro Spirito e sapeva anche di chi avrebbe avuto le sembianze…
 
- Vieni dentro – esclamò una voce.
 
E Sherlock, rassegnato, si fece avanti, cercando lo Spettro con lo sguardo.
 
Finalmente da dietro la montagna di dolciumi, sbucò la stranamente alta figura di Gregory Lestrade.
 
Indossava un impermeabile grigio allacciato alla vita e teneva in mano un’enorme bottiglia di birra; aveva alla vita la fondina della pistola, nonostante fosse vuota. I capelli erano neri e non aveva molte delle sue caratteristiche rughe di espressione.
 
- Mai vista una cucina del genere prima d’ora! – aggiunse lo Spirito-Lestrade, stupito. Aveva una voce possente che rimbombava come uno scroscio di risate.
 
- Ah, no? – Sherlock faticava a prenderlo sul serio.
 
- Già. Neanche una cosa commestibile! Menomale che mi sono portato una piccola scorta prima di venire da te, Sherlock Holmes – disse, ammiccando alla montagnola di ciambelle.
 
- D’accordo – sospirò, gli occhi al cielo. – Tu saresti lo Spirito del Natale Futuro? – dedusse.
 
- Presente – lo corresse lo Spirito, tracannando un gran sorso di birra.
 
Sherlock stava ancora provando a riprendersi dal fatto che Lestrade lo avesse corretto, che quello iniziò a parlare.
 
- Direi che possiamo andare – disse, sorridente e leggermente brillo.
 
- Andare dove? A vedere come si divertono le persone senza di me? – si esasperò Sherlock: dover sottostare a Lestrade era più frustrante e umiliante che ubbidire allo Spirito-sadico-Mycroft.
 
- ! – esultò lo Spirito. – Afferra l’impermeabile -
 
Quel sogno stava diventando frustrante, si rese conto il consulente investigativo, prima di fare come gli era stato detto.
 
I mobili, quelle strane fotografie, i tappeti, il camino, le poltrone, il teschio, le ciambelle glassate, tutto sparì immediatamente e così pure la stanza, l’appartamento, il chiarore biancastro, l’ora notturna.
 
Si trovarono nelle vie della città, quella sera stessa, forse.
 
C’erano persone che suonavano campanelli, luci accecanti, chiacchiere e tanta, tanta neve.
 
Lo Spirito condusse Sherlock, ancora come incollato al suo impermeabile – forse era la glassa appiccicaticcia dei dolciumi, pensò disgustato il detective – davanti a Scotland Yard.
 
Sherlock si stupì nel trovare le luci interne ancora accese.
 
- Instancabili lavoratori, eh? – commentò acido il consulente investigativo, sicuro che dentro ci fossero Donovan e Anderson.
 
E infatti, seduti alla scrivania dell’ispettore, stavano seduti i due colleghi.
 
Sally piangeva. Non sembrava depressa, eppure piangeva frustrata, mentre Anderson la guardava impotente, con un braccio attorno alle sue spalle.
 
Sherlock li osservò per un attimo e poté benissimo rendersi conto che non era stata l’ennesima risposta restia di Anderson a lasciare la moglie per lei che la faceva disperare così tanto.
 
Decise di ascoltare quel che stava dicendo Anderson per capire qualcosa, nonostante le sue orecchie si rifiutassero palesemente di sintonizzarsi sulla stupida voce dello stupido uomo.
 
- Non preoccuparti, Sally! Sappiamo tutti quanto tu… - stava tentando di dire.
 
Ma la donna lo interruppe. – Non m’importa di questo! Io… io ho lavorato duramente per arrivare fin qui. Prima per pagarmi gli studi e poi per guadagnarmi un titolo! –
 
Sherlock iniziò ad intuire dove il discorso andasse a parare e guardò lo Spirito. Ma quello osservava la scena stranamente silenzioso, gli occhi severi ed arrossati dall’alcol.
 
- Io provo a dare il meglio di me… - un’altra lacrima le scese sulla pelle scura e Anderson la guardò con lo sguardo più comprensivo che la sua faccia potesse fare. – Ma poi arriva lui. Rovina sempre tutto. Mi fa sembrare un’idiota. Fa sembrare te, un’idiota. E tutto quello che ho fatto da una vita si… disintegra -
 
Anderson fece una smorfia e la strinse più forte.
 
Sherlock si sentì leggermente in colpa: quella mattina in dieci minuti aveva scoperto il colpevole di un omicidio su cui Donovan stava lavorando da un mese. Poi si era burlato di lei (forse) ed anche di Anderson (probabile).
 
Ma in fondo era in rapporti meno amichevoli che mai da quando era tornato: sapeva che erano stati loro due ad indurre Lestrade nel dubbio quando Moriarty aveva appena iniziato a minare la sua reputazione.
 
Praticamente tutto il senso di colpa sparì a quel pensiero e Sherlock si ricoprì di freddezza.
 
- Non preoccuparti, Sally – ripeté nuovamente Anderson. – Devi farci l’abitudine. Io ormai non mi arrabbio più, è solo un’idiota -
 
Sherlock alzò un sopracciglio a quel discutibile commento.
 
Ma sembrò che per Sally quella fosse la cosa giusta da dire, perché lo abbracciò con trasporto.
 
- A proposito – esclamò la donna, asciugandosi le lacrime. – Tua moglie? -
 
- Ehm… - iniziò a balbettare Anderson, mentre la scena svaniva.
 
Sherlock e lo Spirito erano fuori Londra, a circa un’ora di macchina dalla capitale: Braintree.
 
Dalle case spaziose ma non ricchissime, Sherlock intuì di trovarsi in Stetson Street.
 
Passarono attraverso le pareti di una casa azzurro acceso.
 
Si ritrovarono in un salotto dai toni giallo limone e verde scuro di gusto contestabile.
 
Uno spazioso divano (giallo) era occupato da persone che Sherlock conosceva, a parte due.
 
C’era Lestrade, intento a mangiare un pezzo di torta, c’era Molly con un bicchiere di vino fra le mani, c’era John, con un sorriso mite rivolto alle sue interlocutrici.
 
Una era senza dubbio sua sorella Harry. Aveva i capelli dello stesso biondo di John e gli occhi blu. Lo stesso sorriso del fratello minore, nonostante le labbra fossero più carnose e truccate. Aveva una mano impegnata a reggere il suo secondo… no, terzo bicchiere di vino e l’altra a stringere quella dell’altra estranea.
 
Questa aveva capelli rossi, ordinati ai due lati del viso, e occhi verdi troppo grandi per il viso piccolo e magro. Non portava nessun gioiello e stava raccontando qualcosa di esilarante, probabilmente, perché tutti scoppiarono a ridere.
 
Compreso John, notò Sherlock con una punta di gelosia.
 
- Vieni, Mary* – disse poi Harry rivolta alla ragazza. – Devo dirti una cosa – si alzarono e sparirono fuori dalla stanza.
 
“Devo dirti una cosa” doveva essere il nuovo modo per dire “ho il bisogno assoluto di baciarti”, perché era chiaramente quello l’intento di Harry.
 
Sherlock tornò a concentrarsi sulla scena, sentendo nominare il proprio nome.
 
- Notizie di Sherlock? – chiese infatti Lestrade.
 
John si alzò dal divano e arrancò verso la mensola sopra il camino, da dove recuperò il suo cellulare.
 
John stava zoppicando, vistosamente**. Oh, John, pensò Sherlock, dispiaciuto.
 
Il dottore premette il tasto di chiamata veloce e mise il cellulare all’orecchio.
 
Dopo qualche secondo lo mise giù, di nuovo sul camino.
 
- Niente – scosse il capo e zoppicò verso il divano, dove si risedette sconsolato.
 
- Dispiace anche a me che non ci sia, John – sussurrò Molly, comprensiva. – Ma parliamo d’altro! Mary mi sembra adorabile, a voi? – abbassò il tono e tentò vivacemente di cambiare discorso.
 
Cercava di riparare i danni che Sherlock lasciava dietro di sé, come sempre, e questi provò un moto d’affetto nei confronti di quella donna minuta e dolce.
 
- Adorabile, sì! – ribadì Lestrade, allegro, finendo in un boccone quel che restava della sua torta. – Non mi stupisce che Harry sia così attaccata a lei -
 
- Lo era anche con Clara – ricordò John, acido.
 
Molly si rese conto di aver parlato solo di un’altra preoccupazione del dottore e così fissò il pavimento, intristita anche lei.
 
Lestrade batté le mani e si alzò. – Scusate, ragazzi, ma io devo andare. Ho… faccende di lavoro da… fare. Sbrigare, cioè – annaspò.
 
John fece un sorrisetto strano e girò il capo verso il posto accanto al suo. Si incupì nuovamente quando si rese conto che quel posto era vuoto e che nessuna frecciatina sugli appuntamenti “segreti” di Lestrade sarebbe giunta.
 
Harry e Mary si materializzarono nuovamente nella stanza, le guance arrossate, e porsero l’impermeabile – gli scherzi del destino, osservò Sherlock lanciando un’occhiata all’impassibile Spirito accanto a lui – a Lestrade.
 
Questi salutò tutti e ringraziò Harry per la cena, scusandosi ancora per la sua dipartita.
 
Mary lo accompagnò all’ingresso.
 
- Salutami Mycroft! – gli gridò dietro John, mai troppo triste per battute del genere.
 
- Dannazione – si sentì mormorare.
 
Tutti scoppiarono a ridere e Sherlock fu invidioso di non essere lì con loro.
 
Ma lo fu per poco, perché la scena sparì.
 
Si trovavano in una strada buia ed innevata, con solo la luna a dare chiarore.
 
Sherlock notò che lo Spirito non aveva più i capelli neri, bensì bianchi.
 
- Stai morendo – constatò il consulente investigativo.
 
- Vivo poco – sussurrò lo Spettro e Sherlock lasciò andare il lembo di impermeabile.
 
- C’è una mano – si rese conto poi, indicando qualcosa ai piedi dello smisurato e vecchio Spirito.
 
Due bambini sporchi vennero illuminati dai raggi lunari e Sherlock trovò i loro volti e nomi impressi nella memoria: Claudie e Max Bruhl.
 
I due bambini che avevano gridato a Scotland Yard non appena lo avevano visto. Non li aveva ancora eliminati dal suo Palazzo Mentale perché era stato grazie a loro che tutti avevano iniziato a dubitare di lui, quasi quattro anni prima.
 
Anche in quest’occasione erano vestiti con un pigiama lacero ed erano sporchi e smagriti come due piccoli scheletri.
 
- Cosa ci fanno qui? – “nel mio sogno?” avrebbe voluto aggiungere.
 
- Non sono chi tu pensi siano. Non sono quei due bambini. Loro sono i tuoi migliori amici – disse lo Spirito con voce affannata e Sherlock dal volto ormai irriconoscibile di Gregory Lestrade per concentrarsi sui due ragazzini.
 
- E quali sono i loro nomi? – domandò, socchiudendo gli occhi.
 
- Arroganza e Ignoranza – i bambini risero, inquietanti, udendo i propri nomi.
 
Sfregarono le manine ossute l’una contro l’altra e iniziarono ad arrancare verso Sherlock, sul ventre e aiutandosi con le braccia e le unghie, come se le gambe fossero effettivamente troppo fragili per reggere il loro peso.
 
- Arroganza – Sherlock ripeté, guardando la bambina. - Ignoranza – ripeté, volgendo gli occhi al bambino. Un moto di consapevolezza le percosse e sollevò il mento.
 
- Dove posso mandarli? – chiese, perché il pensiero di far loro del male, sopprimerli in malo modo, era impensabile.
 
- Annientali – fu la risposta del decrepito Spirito, accartocciato su se stesso.
 
- Mai – Sherlock scosse la testa, sconvolto da quella richiesta.
 
Un’ultima risata possente scosse lo Spirito del Natale Presente e la bottiglia di birra, tenuta stretta in mano nonostante le forze manchevoli, cadde sull’asfalto e si infranse. Lui sparì nelle ombre della notte.
 
I due malconci, inquietanti e tanto cari bambini, dopo essersi guardati intorno spaventati ed angosciati, seguirono il loro appena defunto padrone.
 
Le luci sembrarono tornare e Sherlock si accorse che c’erano case attorno a lui, dalle quali provenivano festosi auguri di buon Natale.
 
Il consulente investigativo si guardò intorno, spaesato, non sapendo cosa fare o dove fosse.
 
Ma evidentemente mancava un terzo Spirito all’appello, il più terribile, improbabile e pazzo.
 
E Sherlock si ritrovò nel buio.
 
 
 
 
*Sì, la nuova fidanzata di Harriet Watson è Mary Morstan. Leviamola pure dalla piazza, John è di Sherlock. xD
 
**Se avete letto A Christmas Carol, avrete capito: John è il “mio” Piccolo Tim.

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre: Lo Spirito del Natale Futuro. ***


Ciao!
Ok, penultimo capitolo. Il caro Spirito del Natale Futuro mi inquieta leggermente.
La cosa piuttosto triste è che ho ideato come scrivere di lui mentre ero sotto la doccia, a riflettere sui misteri della vita, sulla seconda parte della settima stagione del Doctor Who e sulla terza serie di Sherlock (dato che il sadico Arwel Wyn Jones ci sta riempiendo di immagini su Twitter).
D'accordo, dato che questo vi interessa poco e niente, vi lascio al capitolo.
Lasciatemi un parere, eh!
Chiara
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- Il terzo Spirito! – disse Sherlock ad alta voce, per ingannare se stesso di avere più coraggio di quanto in realtà ne avesse.
 
Ma solo il buio più assoluto e tenebroso gli venne in risposta.
 
- Mostrati! – intimò, pervaso da un senso di freddo.
 
Di nuovo nulla rispose, ma accadde qualcosa di strano: tutta quell’aria nera si scosse, come se stesse ghignando.
 
- Devo venire con te, immagino – continuò Sherlock, perché parlare era l’unica cosa che lo riscaldava.
 
Una sagoma più nera del nero che lo circondava comparve accanto a lui.
 
Non era più alta di lui, ma era solenne, grave e cattiva, imprevedibile.
 
Il consulente investigativo si sentì spiato da più punti da piccoli occhi rossi e cercò di reprimere i brividi. Evidentemente non ci riuscì, perché l’aria tremò di nuovo fra le risate.
 
La figura nera iniziò a camminare e rivolse il viso verso Sherlock, scrutandolo con invisibili e terribili occhi derisori.
 
L’uomo lo seguì, non sapendo che altro fare: era inevitabile.
 
Londra venne verso di loro e si trovarono in una stanza illuminata da luci al neon: l’obitorio del Bart’s.
 
Sherlock si voltò verso lo Spirito, adesso sicuro di poter distinguere i suoi tratti, ma quello si era rintanato fra le ombre ed osservava la scena, cupo e solenne.
 
Dopo qualche attimo la porta si aprì ed entrò Molly Hooper.
 
Si diresse verso uno dei tavoli di metallo coperto da un lenzuolo e rimase ferma a fissare il punto dove doveva esserci il volto.
 
Sherlock si avvicinò a lei e si accorse di quanto fosse più matura della Molly che vedeva abitualmente.
 
La porta sbatté di nuovo ed entrò un accaldato Mike Stamford.
 
- Ciao, Molly – salutò in tono compunto, con solo metà del suo solito sorriso sul volto.
 
Lei sollevò lo sguardo e Sherlock notò che aveva gli occhi vitrei.
 
- Un cadavere non reclamato – sussurrò lei, indicando con un cenno del capo il corpo nel lenzuolo. – Lui avrebbe voluto qualcosa. Sarebbe venuto qui, avremmo parlato un po’… - sospirò. – Poi io gli avrei regalato una mano o un piede per un qualche suo intelligente e improrogabile esperimento – la voce le si ruppe ed abbassò la testa.
 
Il consulente investigativo si sentì pervadere da una strana sensazione e il suo battito accelerò.
 
- Ti trattava male – constatò Mike.
 
- Solo dopo che John è andato via – si risentì la dottoressa. – Prima eravamo amici, quando io l’ho aiutato sei anni fa… - la sua voce si spense.
 
- Io vado a casa, Molly – disse l’altro dopo un minuto di silenzio. – Tu… stammi bene. E buon Natale -
 
Il dottore uscì dall’obitorio lasciando sola la collega.
 
- Oh, Sherlock – sospirò la donna, accorata. – Mi manchi… perché lo hai fatto? -
 
Lo Sherlock che guardava la scena avrebbe voluto scoprire di più, ma il buio lo avvolse di nuovo.
 
Di nuovo al chiuso, stanza con qualche fiore qua e là.
 
Pareti con carta da parati con disegni che potevano sembrare allegri, se non per il fatto che fossero neri su sfondo grigio. Qualche candela e una lampada al soffitto a trasmettere luce fioca, quindi il misterioso e freddo Spirito trovò con facilità dove rintanarsi.
 
- Povero diavolo – disse una voce e Sherlock si girò di scatto.
 
Ancora Lestrade, così ingrigito che Sherlock pensò di essere nuovamente alla presenza del secondo Spirito. Ma, osservando meglio, quell’ispettore era dell’altezza giusta e aveva il suo solito e caratteristico atteggiamento che lo rendevano parecchio umano.
 
La signora Hudson – non sembrava cambiata di una virgola, sempre abbigliata e truccata in maniera impeccabile - era accanto a lui e c’era anche Molly, gli stessi occhi vitrei di un attimo – o di qualche ora? – prima.
 
- È la seconda volta che sono davanti alla sua bara – disse la signora Hudson. – Ma adesso è vero -.
 
Molly si limitava ancora a un pesante silenzio contemplatorio nei confronti della bara di legno cui stava davanti.
 
- Mancherà a tutti, temo – sospirò Lestrade. – Un dannato bastardo. Ma ci mancherà -
 
- Era così freddo negli ultimi tempi… sapete, da quando… - tentò di dire la vedova, ma fu interrotta da una porta che si apriva.
 
Con sorpresa di tutti i presenti, Mycroft Holmes, stempiato, fece qualche passo nella stanza, altero nella luce flebile.
 
Si posizionò alla destra di Lestrade, che gli lanciò un’occhiata comprensiva e gli sfiorò il braccio.
 
- Uomo puntuale, mio fratello – commentò l’ormai unico Holmes. – Mia madre e mio padre, morti a distanza di qualche anno il giorno di Natale, lui non poteva essere da meno. Tutto pur di non esserlo. Anche morire -
 
- Non mi sembrano commenti da fare – borbottò la signora Hudson, alterata.
 
- Oh, andiamo – Molly prese la parola per la prima volta. – È morto un vostro amico, un vostro parente. Che fosse antipatico, gentile, scontroso o matto, smettetela di fare commenti inadeguati o pettegolezzi inutili – esplose. Tutte le voci si spensero.
 
A Sherlock ricordò tanto sua madre, quando aveva scacciato tutti quegli odiosi parenti approfittatori dalla stanza d’ospedale di suo padre. Sorrise nell’osservare la piccola e intrepida Molly sovrastare tutti quanti.
 
- Era un genio. Un brav’uomo. Tutti gli avvenimenti della sua vita non hanno certo contribuito a far di lui una persona felice o disponibile… o gentile – abbassò lo sguardo ed arrossì. – Ma qualunque cosa l’abbia spinto, ieri notte, a prendere quell’eccessiva dose di cocaina e a morire, siatene dispiaciuti e basta. A nessuno interessano i vostri commenti – terminò, riprendendo a fissare la bara come un paio di minuti prima.
 
Lestrade, la signora Hudson e perfino Mycroft si misero a fare lo stesso, dispiaciuti e mortificati.
 
E Sherlock Holmes si sentì grato e commosso.
 
Quindi andava così, alla fine: si sarebbe suicidato. Come sarebbe dovuto essere.
 
Fin da ragazzino, nella morbosa età in cui si pensa alla propria morte, aveva sempre pensato che si sarebbe ucciso da solo, se non altro per non dare a qualcuno la soddisfazione di farlo al posto suo.
 
Ma poi la sua opinione era cambiata. Dopo aver conosciuto John e dopo aver inscenato la propria morte. C’era qualcuno che soffriva davvero. Il suicidio non era più sembrato una prospettiva così allettante, sentiva lo strano e nuovo bisogno di vivere ogni secondo che poteva appieno, una volta finiti quei tre anni di scena.
 
Era tornato, c’erano voluti quattro mesi, ma John aveva ceduto ed erano tornati a vivere insieme, quasi come nulla fosse accaduto. Non era così: John era più restio ad accettare i suoi umori e malumori, le sue assurde pretese e le sue mancanze. Possibile che, in quell’orrendo futuro, John l’avesse abbandonato definitivamente a causa di un comportamento sbagliato? Era un pensiero insopportabile. Eppure sembrava l’unica possibile tessera del puzzle.
 
Poi l’immagine, il ricordo, la proiezione, il sogno – qualsiasi cosa fosse – s’immobilizzò. Tutti i presenti si bloccarono a metà di un respiro o di un colpo di tosse, un moscerino rimase attaccato a un petalo di giglio bianco, la fiamma di una delle candele rimase ondulata a causa di un soffio di vento.
 
Lo Spirito si spostò da un’ombra all’altra, fino ad arrivare nella pozza di buio alle spalle di Sherlock.
 
E l’uomo, spaventato e tormentato da quella risata silenziosa che il buio gli rivolgeva, venne avvolto nuovamente dalle tenebre e l’ultima scena di quella lunga notte gli venne mostrata.
 
Sapeva che sarebbe morto, prima o poi. Non c’era nulla di sconvolgente nel sapere il quando o il come. Morire. È quello che la gente fa.
 
Ma non era pronto a quello che stava per ascoltare.
 
Lo Spirito gli teneva saldamente una spalla, quasi come un gesto di conforto, affettuoso ed opprimente.
 
Era John. Tutto quello che aveva davanti era John, in tutta la sua disarmante presenza.
 
Era John con la sua psicologa.
 
- Non veniva qui da sei mesi – disse la dottoressa con voce pacata, distaccata. – Stavolta cos’è successo? -
 
- È successo – rispose semplicemente John, con una smorfia di autocommiserazione.
 
- Davvero, stavolta – aggiunse la psicologa.
 
- Davvero, sì. Si è ucciso ed io non ero lì, ad impedirlo – il dottore chiuse gli occhi ed inspirò a fondo.
 
- Perché non era lì, mentre il suo migliore amico si uccideva? – chiese la donna, spietata.
 
Sherlock avrebbe voluto saltarle addosso per farla tacere e lo Spirito rise alle sue spalle, con la mano sempre artigliata alla sua spalla.
 
- Abbiamo litigato. Non era più come prima. Litigavamo spesso… lui pretendeva che fosse tutto come prima, ma non lo era. Io ero insofferente alle sue solite lamentele – si odiava per ogni parola che diceva, eppure la psicologa gli fece cenno di proseguire col capo.
 
- Una sera sparì. Tornai nell’appartamento e lui non c’era. Aspettai in piedi tutta la notte, il suo cellulare era staccato e nessuno sapeva dove fosse andato. Andai nel panico – John fece un sospiro e continuò. - Tornò quarantott’ore dopo, comportandosi come se fosse appena rientrato da una passeggiata su e giù per la strada. Ovviamente non gli chiesi cos’avesse fatto: non mi avrebbe risposto. Salii al piano di sopra, feci la valigia, misi dentro tutte le mie cose che trovai in giro e me ne andai -
 
- E lui non fece nulla per fermarla, John? – disse l’altra.
 
- Lui non faceva mai nulla – fu la risposta triste del dottore. – Non lo sento da allora, ed è successo dieci mesi fa. È stato come vivere di nuovo quei tre anni, quando lui prese in giro il mondo inscenando la sua morte – John rise senza allegria. – Dopotutto, questi mesi sono stati solo un preludio di cosa sarà la mia vita adesso -
 
Seguirono dei minuti di silenzio. E poi John risprese a parlare. Parlò e le sue parole furono impresse a fuoco nella mente di Sherlock, facendolo cambiare intimamente.
 
- Perché Sherlock Holmes si è suicidato? Qualcosa mi dice che io ero il suo contagocce. Limitavo la sua esuberanza, la sua voglia di farsi del male, le sue dipendenze. Io ero… indispensabile, a volte forse sono stato troppo, ma comunque necessario. Sono andato via, e Sherlock è esploso come un fiume in piena. Si è drogato di nuovo. Con l’intento di morire. È stata colpa mia – John chiuse di nuovo gli occhi e le sue palpebre tremarono. Strinse le labbra. - Dovrei morire io. Sarebbe giusto così -
 
Sherlock non ascoltò più, sarebbe stato troppo. Crollò in ginocchio.
 
Non ascoltava più ciò che la psicologa diceva a John e le sue risposte.
 
Lo Spirito se ne accorse e lasciò che il buio si impadronisse nuovamente di loro.
 
Sherlock si tenne la testa fra le mani, ancora inginocchiato sull’inconsistente pavimento, ma lo Spettro lo costrinse ad alzarsi in piedi con la pura forza mentale.
 
- Spirito, ti prego – supplicò Sherlock. – Lasciami cambiare le cose. Lascia che non succeda questo -
 
Ma sempre lo strano e freddo silenzio venne in risposta.
 
Lo Spirito però fece un passo avanti e una pozza di luce si allargò sul suo volto, illuminandolo.
 
Sherlock boccheggiò, gli occhi vitrei di fronte a quel fantasma.
 
Gli occhi infossati e neri di James Moriarty, Spirito del Natale Futuro, si rivelarono e l’uomo pensò che fosse arrivata la sua ora definitiva.
 
Senza poter aiutare Molly, Lestrade, Mycroft, la signora Hudson. Perfino Sally ed Anderson. O John.
 
La mano dello Spirito lasciò la salda presa sulla sua spalla e, prima di sentirsi cadere nel buio vuoto, Sherlock ebbe l’ultima visione di quei freddi occhi derisori.
 
Per la seconda volta quella notte, Sherlock provò l’orribile sensazione di cadere per miglia e miglia nel buio più assoluto.
 
Poi, si rese conto che le interminabili pareti buie erano le lenzuola del letto pigiate sui suoi occhi.

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Capitolo 5
*** Epilogo: Come tutto andò a finire. ***


Quel giorno se lo ricordarono in molti, e per molti anni a venire.
 
Sherlock Holmes uscì in Baker Street trafelato, col cappotto infilato sopra il pigiama grigio.
Si rese conto di non essere vestito in modo adeguato solamente quando il freddo gli penetrò nelle ossa attraverso gli abiti leggeri e gli allegri passanti lo evitarono con aria sconcertata.

Si chiuse nuovamente la porta del 221B alle spalle e si vestì come al solito.
Mentre stava scendendo i diciassette gradini, si scontrò con la signora Hudson, rientrata dalla sua vacanza con largo anticipo.

Nonostante il consulente investigativo fosse parecchio su di giri, gli bastò una sola occhiata al viso della padrona di casa per rendersi conto che era venuta a conoscenza dell'amante del suo adorato farmacista.

- Signora Hudson! - salutò, euforico. Poi rimase interdetto, come se non sapesse che dire, o come dirlo.

- Oh. Sherlock caro... Buon Natale - augurò lei, mogia.

Le labbra di Sherlock si contrassero in un involontario spasmo di orrore. Poi articolò con voce sconnessa parole che forse non aveva mai detto: - Buon Natale -.

Aspettò trepidante per un secondo.
Evidentemente riconobbe che le proprie facoltà intellettive non erano state compromesse da tale augurio e sorrise. - Tanta tanta felicità e un felice anno nuovo! -

- Cosa è successo, caro? Un triplice omicidio? - domandò ridacchiando. Poi mosse la testa di lato per guardare dietro il consulente investigativo. - Dov'è John? - chiese, preoccupata. - Non avrete mica litigato anche voi! -

Il debole sorriso di Sherlock si smorzò. - Litigheremo - puntualizzò. - Ma il gioco, signora Hudson, è iniziato e il premio davvero non posso cederlo ad altri. Buona giornata! - terminò euforico, scoccandole un bacio sulla testa.

Uscì definitivamente dalla porta in uno svolazzo di cappotto e capelli neri. 

La donna sorrise ed entrò dentro casa, lamentandosi appena della sua anca e del suo "insospettabile farmacista".


Molly Hooper viveva con i suoi tre gatti in un appartamento non lontano dal Bart's.

La sua famiglia - sua madre e un fratello e una sorella più grandi - vivevano a Bath. La sua maniacale ossessione verso la compagnia di gente morta era la dimostrazione di quanto stare sola non le importasse più di tanto.

Così la mattina di quel 25 dicembre, quando Sherlock bussò alla porta del suo appartamento, questi non si stupì di trovarla ancora assonnata e in pigiama.

Era tornata tardi dal paesino, dopo un'ora piena di guida e non si era premurata di alzarsi presto nonostante fosse la mattina di Natale.

La cosa che la stupì più di trovarsi Sherlock Holmes davanti la porta di casa, fu che lo stesso sociopatico iperattivo le depositò fra le braccia un enorme cestino pieno di regali profumati.

- Sherlock! - salutò, la voce smorzata per lo sforzo di reggere il pesante cesto. - Che ci fai qui? -

- Un regalo di Natale! Perché oggi è Natale e voglio farti gli auguri! - sorrise allegro Sherlock. - Meriteresti di più, Molly Hooper. Quindi ti dico che anche se mi dovessi comportare male come prima, tu ricorda che ti sono grato - terminò, impacciato ma sincero.

- Grazie - disse la ragazza, grata. Poi si ricordò di qualcosa. - Tu stai bene, allora! John era preoccupatissimo per te ieri se... -

Sherlock la zittì con un frettoloso abbraccio.

- Penserò a tutto! - dichiarò, scendendo frettoloso le scale.

E l'anatomopatologa si rintanò nuovamente nel suo appartamento, barcollando sotto il peso del suo voluminoso regalo.

Chiudendosi la porta alle spalle, Molly sorrise a quella mattina di Natale.
 

- Sherlock! Finalmente sei arrivato! - Lestrade sospirò di sollievo. 

Sherlock si compose sul viso la sua solita maschera di sufficienza e si avvicinò all'ispettore.

- Un omicidio - spiegò Greg.

L'espressione di stizza di Sherlock fu reale a quell'ovvio commento. 

Osservò il corpo riverso sul marciapiede e si chinò per dedurre al meglio.

La soluzione giunse spontanea dopo cinque minuti e ventinove secondi.

Solitamente avrebbe sbocconcellato con aria di sufficienza la soluzione del caso, ma i suoi piani erano altri quel 25 dicembre.

- Sally, parlavamo del diavolo e spunta la coda - commentò una vocetta acida alle spalle di Sherlock.

- Spuntano le corna, Anderson... al solito la tua conoscenza anche delle cose più basilari come i modi di dire si rivela... - il consulente investigativo si interruppe e si voltò verso il viso disgustato di Anderson e quello furente di Sally. Prese un bel respiro e continuò: - ...pienamente soddisfacente - concluse, maledicendo John Watson e ciò che gli toccava fare a causa sua.

- Soddisfacente?! - ripeté l'altro, come se non avesse capito bene.

Sherlock avrebbe voluto ucciderlo per la sua lentezza. - Pienamente - ribadì invece, con la smorfia più simile a un sorriso che riuscisse a fare.

Lestrade tossicchiò. - Sai dirmi qualcosa, allora? -

Sherlock voleva rispondere che sì, avrebbe potuto dirgli tutto, ma si trattenne. Alzò le spalle e scosse la testa, dispiaciuto.

- Casi come questi li cataloghi come quattro o cinque di solito ("questo è appena un tre, Lestrade, per la Regina!" pensò Sherlock). Sei davvero sicuro di non riuscire a capire nulla? -

Sherlock annuì, contrito.

Lestrade alzò gli occhi al cielo nel vedere quell'espressione così simile a quella di Mycroft quando gli nascondeva qualcosa, e si chiese cosa mai stesse architettando il consulente investigativo nella sua pazza testa.

- D'accordo! Oggi niente pacchia, Sherlock "non capisce" il caso. Lavorate! - disse l'ispettore ad alta voce per farsi sentire da tutti, fra la delusione generale per il lavoro extra il giorno di Natale. 

Sherlock approfittò della confusione per posizionare la prova in bella vista, confidando nel fatto che Sally non fosse arrivata fin lì solo per il suo bel faccino.

Fece per allontanarsi, ma si bloccò dopo pochi istanti con un sorriso.

- Ispettore! Venga a vedere cosa ho trovato al collo della vittima! - chiamò infatti il sergente Donovan con una nota dall'allegria nella voce, stonata col corpo di quella donna ucciso sul marciapiede.
 
Sally alzò trionfante la propria mano destra avvolta nel guanto di lattice, stretta ferrea attorni ad una sottile catenina d'argento.

Il gruppo di agenti si strinse attorno alla prova di Sally e anche il consulente investigativo si avvicinò per sentire l'intuizione della donna.

Questa aprì il ciondolo che pendeva dalla catenina, trovandovi dentro una ciocca di capelli e un bigliettino. Sally lo spiegò e lesse ad alta voce: "dalla tua adorata figlia, per la mia mamma. Spero che lì ti servirà a ricordarti di me".

La suspense generale si spense ed alcuni si allontanarono, disinteressati. 

- Mi spiace, Sally - intervenne Lestrade. - Non credo sia la pista giusta da...-

Ma Sherlock lo interruppe. Sperava che il sergente avesse solamente bisogno di una spintarella, perché quella catenina era davvero la pista giusta; lui stesso, un attimo prima, aveva slacciato il piccolo gancio della collana e l'aveva posizionata in bella vista.

- Non vi sembra strano? – disse a voce alta.

- Strano cosa? – chiese Sally, pronta ad un insulto.

- La collana è nuova – constatò Sherlock.

Sally avvicinò il gioiello al viso e vide che la catenina era pulita, lucida come se fosse appena uscita dal negozio.

- Sì. In effetti lo è – concordò la donna, stranita dal comportamento paziente del consulente investigativo. – Quindi? –

- Quindi direi che qualcuno che non sia la vittima… – Sherlock lasciò in sospeso la frase, guardando poi Sally con un messaggio ben visibile negli occhi: usa l’immaginazione.
 
Lestrade guardò sconcertato l’amico.
 
- L’assassina ha messo la collana al collo del cadavere – disse Donovan, con un debole sorriso.
 
- Cosa ti fa dire che sia una lei? – chiese Sherlock.
 
- Io non lo so… - sbuffò Sally, ma si ricompose sotto lo sguardo del consulente investigativo. – La figlia di questa donna voleva vendicarsi, l’ha uccisa e le ha messo al collo quella collana nuova con una ciocca dei propri capelli e quel biglietto. “Spero che lì…” – rilesse dal bigliettino, concentrata. – Suona più come una minaccia -.
 
- Brava. Adesso posso? – quasi supplicò Sherlock, che non ce la faceva più a trattenersi. Sally gli rivolse un cenno affermativo.
 
- Questa donna è sulla quarantina ed è in gran forma, dubito abbia avuto figli dopo i vent’anni. Deve essere rimasta incinta giovanissima e avrà abbandonato la neonata in gran segreto. Questa ragazza sarà cresciuta in orfanotrofio con una personalità instabile e iraconda, si vede da come traccia le ‘s’ e le ‘t’. Non deve essere stato facile rintracciare la madre, ma è evidentemente una ragazza sveglia. Dopo averla trovata tutto si è svolto come Sally ha detto – terminò tutto d’un fiato, rilassandosi.
 
Sally si aprì in un mezzo sorriso, un po’ orgoglioso un po’ esasperato.
 
- Come troviamo questa ragazza? – chiese Lestrade, spiccio.
 
- Abbiamo il suo DNA a portata di mano – disse una voce e tutti si voltarono sconcertati verso Anderson.
 
- Be’? – sbottò, risentito. – Non sono poi così stupido –
 
- No, certo che no – disse Lestrade, alzando un sopracciglio. – Coraggio! Voi della scientifica esaminate quei capelli… - continuò a dare istruzioni e il gruppo di agenti si disperse di nuovo, indaffarato.
 
– Dubito che tu non avessi capito tutto immediatamente, geniaccio. Allora perché tutto questo teatrino? – domandò Sally.
 
Anderson, rimasto accanto a lei, aveva dipinta sul volto la stessa espressione sospettosa.
 
- So che hai faticato – spiegò Sherlock. – Per arrivare fin qui, intendo. Ho dei dubbi su Anderson, ma… vi meritat… visiete guadagnati il vostro posto -.
 
- Be’, grazie – disse Sally, burbera.
 
Sherlock non si aspettò nessun ringraziamento da parte di Anderson, infatti non ci fu, ma l’uomo si limitò a guardarlo meno male del solito.
 
Prima di andare a sbrigare le ultime cose, Sherlock decise di fare un ultimo intervento gentile, in modo da non essere più cortese per i prossimi dieci o undici anni.
 
- Anderson, andiamo. Di’ a Donovan quello che devi, muori dalla voglia di farlo. Aspettare che siate da soli a pranzo non ti farà guadagnare più punti stanotte – dichiarò, andando via a passi veloci.
 
Sally si girò verso Anderson con aria carica di aspettativa e l’altro annuì solamente, con un piccolo sorriso. La donna gli saltò addosso e lo baciò, felice.
 
Sherlock, giratosi per un attimo ad osservare la scena, rettificò la propria opinione: Anderson è un idiota, ma dovrei imparare da lui.
 
 
Quando Sherlock arrivò di fronte al cancello, prese un respiro profondo.
 
Quello che stava per fare era più irritante di dar ragione ad Anderson, più scomodo di cercare un regalo a Molly, più difficile di augurare buon Natale alla signora Hudson.
 
Le mani gli prudevano per la voglia di inviare un sms e togliersi il pensiero, ma ancora una volta, quel giorno, il pensiero del viso ferito ed colpevole del John del futuro lo spinse ad andare fino in fondo.
 
Suonò il campanello del videocitofono e il cancello si aprì automaticamente.
 
Sorpassò velocemente il piccolo giardino quadrato e curato al millimetro e si fermò davanti alla porta dell’enorme eppure discreta casa.
 
Un ultimo respiro ed entrò in solitario: Mycroft non mandava mai il maggiordomo quando il fratello minore veniva a fargli visita, sapeva quanto la cosa lo infastidisse.
 
Sherlock trovò Mycroft nel salotto, intento a sorseggiare il suo tè mattutino.
 
Non si stupì di trovarlo in compagnia di Lestrade, impacciato sulla lussuosa poltrona di pelle.
 
- Buongiorno, fratello – salutò il maggiore degli Holmes, tranquillamente avvolto nella sua vestaglia di velluto rosso.
 
- Mycroft. Lestrade, buongiorno di nuovo – disse Sherlock in maniera eccessivamente educata.
 
Lestrade gli rivolse un cenno col capo e rigirò il proprio tè col cucchiaino, come sempre imbarazzato al cospetto di entrambi gli incredibilmente svegli – e insopportabili – Holmes.
 
- Immagino tu non voglia sederti – constatò Mycroft, nonostante non si dimostrasse sorpreso dalla visita; evidentemente Lestrade gli aveva già riferito il suo comportamento insolito sulla scena del crimine. – È successo qualcosa? – chiese poi, curioso, troppo pigro al mattino per dedurre alcunché.
 
- Volevo solo portare il giornale – disse Sherlock, sforzandosi di essere impeccabile e di suonare il meno falso possibile, sfilandosi il giornale caldo di stampa da sotto il braccio. – E i muffin – allungò il braccio posando un sacchetto fumante sul tavolino da tè.
 
Mycroft inspirò pensoso il profumo zuccherino – e leggermente nauseabondo, a parere di Sherlock – che proveniva dal sacchetto e lo aprì.
 
Sorrise e scosse lievemente il capo.
 
- Come hai fatto? – chiese solamente.
 
- Il vecchio Benjamin mi doveva un favore – rispose Sherlock.
 
- Ovviamente – sorrise ancora Mycroft, socchiudendo gli occhi.*
 
Lestrade fece volare lo sguardo stanco da uno all’altro fratello, per poi rassegnarsi a farsi spiegare tutto da Mycroft, quando sarebbero rimasti soli.
 
- Devo… - iniziò Sherlock.
 
- Lo so. Hai cose da sbrigare, immagino – lo precedette l’altro.
 
- Precisamente – sorrise in modo esagerato e a labbra serrate. – Fratello, Lestrade. Buona colazione – augurò, come se quell’attività da esseri umani lo facesse quasi commuovere.
 
 
Così Sherlock si ritrovò per la seconda volta davanti alla casa azzurra, nuovamente nel salotto giallo e verde, seduto sul divano che odorava di legno.
 
In quel modo, sotto lo sguardo bonario e divertito e severo di Harriet Watson e Mary Morstan, si sentiva come uno scolaretto del liceo che aspettava la ragazzina brufolosa per andare al ballo, controllato in ogni mossa dai due iperprotettivi genitori di lei.
 
John si fece attendere per dieci minuti buoni, al termine dei quali Sherlock sentì il rumore inconfondibile di due piedi e un bastone, attutiti dallo moquette delle scale.
 
Non appena vide il viso tirato ed insonne di John, Sherlock avvertì un tremito nel petto e tutta la buona volontà che lo aveva accompagnato quel giorno si affievolì paurosamente.
 
Il medico rivolse alla sorella uno sguardo eloquente, ma quella evidentemente non volle capire, perché per tutta risposta si sedette sul divanetto di fronte, ignorando la tacita disapprovazione di Mary accanto a lei.
 
John, rassegnato, restò sulla porta a squadrare il coinquilino, nonostante avesse una voglia matta di dire che la sua arrabbiatura era praticamente passata e che sarebbe subito tornato a casa con lui.
 
- Ebbene? – disse invece, dopo essersi schiarito la voce.
 
- Ho detto ‘buon Natale’, stamattina. Ho fatto un regalo. Ho fatto sembrare Sally ed Anderson intelligenti. Ho portato i muffin a mio fratello – spiegò Sherlock, alzandosi dal divano e focalizzandosi sulla sola presenza di John.
 
Questi, stranito, lo guardò con aria interrogativa.
 
- Sono stati i tre Spiriti, John – tentò allora Sherlock. – Mi hanno fatto ricordare, vedere e capire a cosa vado in contro, il mio futuro. E il mio futuro non mi piace, John. Non mi piace come mi ridurrò, perché sarà senza le uniche persone che mi sopportano. Perderei te e ne morirei. Torna a casa, John, ti prego – supplicò.
 
- Tre cosa?! – chiese solo l’altro, dopo un attimo di trepidante silenzio.
 
- È l’unica cosa che il tuo stupido cervello riesce a capire? – s’innervosì Sherlock. – Ti ho chiesto di tornare con me a casa, non importa come io sia arrivato a questo, no? -.
 
- Voglio qualcosa di concreto – disse John, incrociando le braccia, senza rendersi conto di stare in piedi senza il supporto del bastone.
 
- ‘Ti amo’ è qualcosa di abbastanza concreto? – chiese Sherlock, tutto stirato verso John.
 
Si sentì trattenere rumorosamente il fiato e il rumore secco di una gomitata e John si rese conto di stare tenendo quella conversazione davanti a sua sorella e alla compagna di lei.
 
- Veramente mi aspettavo qualcosa come ‘laverò i piatti’ o ‘andrò a fare la spesa’ – ammise il medico, sconcertato e col battito irregolare.
 
- Ah – realizzò Sherlock, colpito. – Okay. Laverò i piatti ed andrò a fare la spesa. Per una settimana. Per due mesi. Per sempre, se servirà -.
 
- Aspetta un secondo, non ho detto che… l’altra cosa non mi sembrasse abbastanza concreta – disse John, impacciato.
 
Sherlock ci rifletté un po’. – Vuoi dire che… anche tu? –
 
- Oh, Dio, – sussurrò l’altro, gli occhi incatenati ai suoi.
 
Si fissarono per un infinito istante e l’avrebbero continuato a fare in eterno se Harry e Mary non avessero improvvisato un coro di “Bacio! Bacio! Bacio!”.
 
E quindi John Watson, che non amava farsi dire le cose due volte, si alzò in punta di piedi e premette le proprie labbra contro quelle di Sherlock.
 
Quando si separarono, intontiti e instupiditi, quasi non sentirono il commento rassegnato di Harry: “povero papà… neanche un figlio etero”.
 
 
Quindi, come dicevo, quel giorno lo ricordarono in molti, e per molti anni a venire.
 
Un Natale come pochi, dove perfino il cuore di Sherlock Holmes seppe sciogliersi e ridere.
 
Non ebbe più nessun rapporto con gli Spiriti, ma cercò di vivere nel modo più accomodante possibile; e di lui si disse sempre che se c’era un uomo che sapesse osservare bene il Natale, quell’uomo era lui.
 
Nel limite, è ovvio.
 
Tutte scemenze.
 

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Anche quell'anno lo ricordarono in molti, come quello in cui Natale fu prolungato fino al 2 di Marzo!
Vi chiedo immensamente scusa, ma c'è stato il mio compleanno, le ultime interrogazioni e un'improvviso calo di autostima e quindi di ispirazione.
L'importante è che finalmente è finita e, anche se un po' mi dispiace, posso dirmi soddisfatta di questo "the end".
Ringrazio tutti, uno per uno. Le mie adorabili recensitrici, i lettori silenziosi, chi ha inserito la storia fra le seguite, le ricordate e *tanti cuoricini* le preferite!
Un grazie in particolare va alla mia adorata Lauur, la mia conduttrice di luce insicura delle proprie - ottime - capacità.
Un grande grande abbraccio,
Chiara 
 
PS Ditemi se ho sforato nell'OOC con Sherlock, qui alla fine, così lo aggiungo negli avvertimenti! :)


*Sono i muffin che comparavano da bambini da un fornaio che è ormai chiuso da anni. Avrei una one shot in testa, a tal proposito.

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