(Not) Enough

di S t r a n g e G i r l
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** One. Things I hate. ***
Capitolo 2: *** Two. One-way ticket to the world of ordinary people. ***
Capitolo 3: *** Three. Hope's color. ***
Capitolo 4: *** Four. A world where words are colorful and sweet. ***
Capitolo 5: *** Five. Gruesome nightmares. ***
Capitolo 6: *** Six. Icaro. ***
Capitolo 7: *** Last one. Enough. ***



Capitolo 1
*** One. Things I hate. ***


(Not) Enough.

A Emi, che mi ha fatto sfornare questa follia e che mi aspetta quando tardo.
E' per te, sorella mia, questa storia in cui c'ho messo un piccolo pezzo di cuore.

One . Things I hate.


Ci sono decine di cose che odio.
Se stilassi un elenco, probabilmente, non mi basterebbe la parete intera della mia stanza.
Odio l’odore e la vista del sangue.
Odio i pizzi ed i merletti della lingerie francese, succinta e velata, che lascia ben poco all’immaginazione.
Odio i tacchi a spillo, perchè quando li indosso sembra che cammini su dei carboni ardenti, incespicando nel tentativo di arrivare su un terreno freddo e sicuro.
Odio il profumo vanigliato di Jess, che se ne spruzza sempre a quintali prima di un appuntamento, impregnando le tende del suo letto a baldacchino accanto al mio, cosicchè, poi, mi solletichi e graffi l’olfatto tutto il giorno. Secondo me lo fa di proposito.
Odio le sue unghie laccate di rosso vermiglio, sempre perfette e curate –le è venuta una crisi isterica l'ultima volta perchè sono inciampata e finita addosso mentre si applicava lo smalto, facendoglielo sbavare.-
Odio le sporadiche uscite con mio padre. Ci incontriamo in un bar in centro più o meno una volta al mese da quando sa della mia esistenza. Lui ordina sempre un hamburger a cui aggiunge una vagonata di ketchup, io una semplice insalata che nemmeno tocco. Quando vedo lui ed i suoi baffoni da bravo cittadino rispettabile il mio appetito si suicida fuori dalla finestra, assieme alle parole che non ci diciamo.

Come stai.
Che bel tempo/che tempo di merda.
Non hai fame nemmeno oggi? Devi pur mettere qualcosa nello stomaco.
Ho letto sul giornale un nuovo fatto di cronaca interessante.
Stasera c’è la partita e Sue mi ha promesso una torta di consolazione in caso di perdita.
Questi gli argomenti principali, ripetuti fino alla nausea, in un insulso tentativo di instaurare un rapporto padre-figlia da sempre inesistente.
Lui finge di non conoscere la verità riguardo la vita che conduco ed io assecondo i suoi sforzi, appiccicandomi un sorriso tirato in faccia quell’oretta che gli serve per convincersi che io, Isabella Marie Swan, sono una ventenne come tante.
Una di quelle che frequenta un college prestigioso, colleziona una sfilza di ottimi voti e che di sicuro avrà un posto fisso ed una vita agiata. Una di quelle interessate alla moda, all’ultimo film in uscita al cinema, alle calorie nelle patatine fritte e al make-up. Una di quelle con un bravo ragazzo accanto, che porta fiori e cioccolatini a San Valentino ed è adorato dai genitori.
Ma io non ho idea di che vita sia una come quella.
Posso giusto sognarla di notte, inserendo nelle mie fantasie anche un bel principe azzurro.
Tanto per dirne una, non so più nemmeno se i jeans a zampa d’elefante siano ancora in voga oppure siano stati sostituiti da quelli a sigaretta.
La moda, in fondo, mi serve a ben poco.
Nella vita che conduco io, maglioncini a collo alto e pantaloni zebrati sono solo decorazioni inutili.
Quel che importa davvero è ciò che c’è sotto.
Le persone che frequento per lavoro non si preoccupano che io sia ben vestita e abbia accostato in modo decente i colori. Quello che a loro interessa è che, una volta tolto il cappotto, io sia appetibile.
Come una caramella avvolta in una bella carta luccicante, per intenderci.
Ed ecco un’altra cosa che odio.
Anzi, a dirla tutta, è in cima alla mia lista, scritta in rosso e sottolineata tre volte: essere ciò che sono.
Una prostituta.

< B.? C’è Jacob al piano di sotto che tamburella le dita sul tavolino sgangherato e mangiato dalle tarme da dieci minuti buoni. >
Jessica entra in camera nostra aprendo la porta con un calcio, lasciando sul legno il segno del tacco dei suoi zoccoletti bianchi firmati.
Soffia sulle unghie appena verniciate e mi getta un’occhiata di disapprovazione, osservandomi mentre mi lego i lunghi capelli in una coda di cavallo sfatta, con ciocche ribelli che schizzano in aria e ricadono affrante sulla fronte.
Le sorrido dallo specchio, afferro il giacchetto e la mia copia di chiavi e corro giù, scendendo i gradini due alla volta.
Per la mia goffaggine quel gesto è un tentativo di suicido bello e buono, ma non me ne importa molto.
Voglio solo buttarmi tra le sue braccia e affondare la testa nel suo petto, dimenticando per qualche ora chi sono.
Quando sto con Jake, infatti, non sono più Beauty –il nome d’arte affibbiatomi da Jess-, sono Bella.
Solo Bella.
Lui mi fa sentire diversa...
Normale.
Fa emergere la me stessa adolescente, seppellita sotto metri di terriccio molle assieme a mia madre, con una facilità disarmante.
Mi fa illudere di essere ancora la ragazzina con i capelli corti tagliati da Renèe con le forbici della cucina; quella con chiazze d’inchiostro sul viso per le penne esplose nell’astuccio; quella con i palmi delle mani perennemente sbucciati ed i lividi sulle ginocchia.
Aggrappata a Jacob mi sembra che il tempo non sia trascorso; che, chiudendo gli occhi, possa ancora veder comparire mamma dalla cucina con i mobili in noce, mentre si pulisce le mani con una pezza già sporca e butta i cartoni del ristorante accanto, cercando di farmi credere di aver cucinato lei, quando in realtà non sapeva nemmeno bollire il latte senza far danni.
< Ehi! > mi afferra per i fianchi sull’ultimo gradino, sollevandomi in aria.
Tempismo perfetto il suo: i lacci delle scarpe si erano sciolti e, se non mi avesse preso, avrei di sicuro avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo con le mattonelle del pavimento.
Jacob mi sorride, poggiandomi a terra, e mi bacia la fronte.
< Dove mi porti oggi? > gli domando, precedendolo fuori da quel palazzo fatiscente in cui abitano tutte quelle come me, ripescate sotto un ponte dal padre di Angela.
Alcune di loro fanno questo... “mestiere” per vocazione, quasi avessero ricevuto una chiamata divina; altre ancora lo trovano un lavoro semplice e soddisfacente...e poi ci sono quelle della mia stessa razza, costrette a vendere il corpo pur di tirare avanti.
Dei soldi che guadagno, però, non tocco quasi nulla.
Accumulo tutto in un conto unico, cointestato con Jacob.
Risparmiamo per potercene andare da Forks il prima possibile e poterci permettere una vita senza troppi problemi, rispettabile e possibilmente in Europa.
< Alla discarica. Mi servono dei pezzi per il furgone di un amico di papà. Paga bene! > risponde lui, arrivando di fronte la sua moto nera e passandomi il casco.
Mi chiude il cinturino e poi appanna il vetro davanti ai miei occhi, disegnando sopra l'alone del suo fiato un cuore storto e tremulo.
Rido e gli tiro un pugno giocoso, sbrigandomi ad arrampicarmi sul telaio lucido.
Jake sgasa eccessivamente, tanto per fare il figo, e poi sfreccia via, lontano dal grigiore di quella vita insapore ed opprimente.
Stasera, al mio ritorno, le pagine consunte dell’agenda degli appuntamenti saranno ancora lì, piene di nomi scribacchiati da Jess in fretta, tra una telefonata e l’altra.
Persone importanti, gente ricca e bisognosa di un passatempo piacevole per tappare i buchi che la loro esistenza troppo perfetta e sfarzosa si lascia in giro.
Quando programmi ogni singolo secondo della tua giornata e hai qualcuno che si ammazza di fatica al posto tuo, capita di ritrovarsi spesso a girarsi i pollici fissando il soffitto.
Perciò cercano una scappatoia, un qualcosa di gradevole e appagante che li soddisfi e gli infonda nuova voglia di fare.
Questo è il mio compito: essere il loro giochino per un paio d’ore e lasciare che, infine, si dimentichino anche della mia faccia.
Chiuderanno gli occhi mentre godranno, artiglieranno con le unghie le costose lenzuola di seta e, dopo l’orgasmo, si rivestiranno in fretta, buttandomi i soldi accanto, quasi schifati dal mio corpo.
E’ sempre la stessa routine.
Sempre lo stesso lurido sudiciume che mi serra la gola giorno e notte e da cui cerco inutilmente di liberarmi, lavandomi con la freschezza dei respiri di Jacob.
Lui è la mia dose di normalità, di tranquillità e benessere.
E’ la cura contro la bile che mi si riversa nelle vene ogni volta che resto sola e nuda in un letto matrimoniale anonimo.
E’ il mio angolo di cielo limpido personale. Il sole contro le nubi che mi offuscano la vista ad ogni nuovo appuntamento preso.
E’ il mio migliore amico. L’unica ragione per cui vivo.

< Ehi B. dove hai messo le manette? Non quelle ricoperte di pelo rosso, eh?! Le altre, quelle che uso quando mi vesto da poliziotta. >
Jessica si affaccia al bagno, sfoggiando il suo berretto da agente e la sua camiciola azzurra, sbottonata e allacciata sotto il reggiseno in pizzo nero.
< Io non le ho viste. Controlla nell’armadio, sotto la tua divisa da crocerossina. > replico, aggiustando di nuovo le calze a rete.
A Jess sono sempre piaciuti i giochi di ruolo.
Ogni suo cliente ha una fissazione, una fantasia perversa che lei soddisfa con piacere, calandosi nei panni di Catwoman, Cappuccetto rosso e persino Barbie all’occorrenza.
Io, a malapena, riesco a infilarmi in un babydoll rosa confetto e a mettere delle autoreggenti.
Lingerie di merletti e frustini non sono proprio il mio genere, ma devo adattarmi.
All’età di quindici anni mi sono trovata a dover recitare la parte della donna vissuta, conoscendo appena le basi del sesso.
Renèe mi ha fatto “il discorso” poco prima di morire, soltanto per mettermi in guardia su gravidanze indesiderate e malattie veneree.
Ho imparato presto, comunque.
Ho noleggiato alla videoteca dei genitori di Mike Newton decine di film porno e mi sono piazzata davanti la tv con un blocco degli appunti in mano.
Ho appreso presto come accavallare elegantemente le gambe e ad assumere pose sexy, anche se i primi tempi sembravo un po’ un pesce rosso in agonia fuori dalla boccia stracolma d’acqua.
< Allora, com’è questo Cullen? Un altro vecchio attempato che ha un’erezione di mezzo minuto e soltanto grazie al Viagra? >
Jess si siede sul letto, chiudendo la zip dei suoi anfibi con la suola a carrarmato, e poi si appoggia con i gomiti sul materasso molle che cigola sotto il suo peso.
Mi guarda in attesa, indicandomi con la mano il rossetto rosso sul lavandino che ha lasciato lì appositamente per me.
Mi stringo nelle spalle, indifferente, sciogliendo i capelli e pettinandoli alla svelta.
< Non lo so. Ho solo sentito la sua voce al telefono. Sembra piuttosto giovane. Magari, per una volta, mi dice bene ed è un bel ragazzo! > esclamo, facendole l’occhiolino.
Lei emette un risolino frivolo e si copre la bocca con la mano.
Io e Jessica non siamo propriamente amiche.
Diciamo, più che altro, che trovandoci a vivere sotto lo stesso tetto, gomito a gomito da ormai cinque anni, si è instaurato un rapporto stabile.
Non è una vera amicizia, in quanto lei non conosce alcun dettaglio di me.
Parliamo di cose superficiali e di lavoro perlopiù.
Jess è il tipo di persona che potrebbe parlare per ore di una banalità, trovando sempre nuovi spunti interessanti.
Quando siamo insieme e ho voglia di riempirmi la testa di fandonie senza senso, che mi aiutino a non cadere nell'autocommiserazione, mi basta darle un input.
Lei risponde in automatico e intavola un discorso infinito, in cui la partecipazione richiesta è minima: un commento ogni mezz’ora e dei cenni d’assenso ogni dieci minuti più o meno.
< Allora per un bel ragazzo ci vuole un profumo adatto. > lei si alza e apre il comodino, estraendo il suo Bulgari: il profumo odioso che mi fa prudere il naso.
< No, grazie Jess. Sono a posto così. > indietreggio, barcollando sulle decoltè di vernice lucida.
Lei non si fa abbindolare. Avvantaggiata da scarpe più comode delle mie, mi inchioda in un angolo e sparge una nuvola vanigliata sui capelli e sul mio corpo, che si copre di goccioline appiccicose e dolciastre.
Starnutisco e le cado addosso, schiacciandola col mio peso.
< B. sei proprio un caso irrecuperabile. > sbuffa lei, ridendo sotto i baffi.

Incespico nuovamente nei tacchi a spillo, appoggiandomi ad un albero per non cadere con la faccia a terra e, con la fortuna che mi ritrovo, rompermi il setto nasale.
Ma dove diavolo abita questo tizio?
Su un albero? Dorme a testa in giù, come i pipistrelli, appeso ad un ramoscello secco?
Se così fosse, ha sbagliato. Doveva chiedere di vedere Jess: lei si sarebbe mascherata volentieri da Jane, aspettandosi di trovare quel Cullen con un gonnellino di pelle simile a quello di Tarzan.
Conoscendola sarebbe anche andata a comprare una scimmietta di peluche, tanto per entrare meglio nella parte.
Sbuffo e arranco sul sentiero disseminato di ghiaia fine e decido impulsivamente di chiedere il doppio del compenso, vista la fatica per raggiungere la casa.
L’autista del taxi si è fatto pagare profumatamente –anche più del dovuto, secondo me- solo per scendermi all’imbocco di questa stradina quasi invisibile, nient’altro che una lingua sottile di terra battuta più chiara, cosparsa di sassi e radici sporgenti dall’aria minacciosa.
Quando ormai comincio a credere di aver letto male l’indirizzo –cosa capitata diverse volte in passato a causa degli sgorbi di Jessica- intravedo una costruzione bianca in lontananza.
Un po’ più rincuorata accelero il passo, stringendo convulsamente la cinta del cappotto pesante che indosso.
Non è particolarmente freddo, ma il clima di Forks è imprevedibile ed instabile, peggio dell’umore di una donna con le mestruazioni.
Un attimo prima può splendere il sole tra soffici nuvolette bianco latte; un secondo dopo il cielo può rovesciarti addosso secchiate d’acqua gelida senza nemmeno darti tempo d’aprire l’ombrello.
Man mano che mi avvicino, noto che la casa è rivolta a sud e sembra verniciata con panna montata.
L’architetto che ci ha messo mano deve avere la passione per lo stile moderno, poichè l’edificio è piuttosto sobrio e squadrato, con un piano interamente vestito di vetrate lucide, su cui la luce si riflette in un caleidoscopio di colori iridescenti che mi accecano.
Il patio è sgombro di foglie secche, come se qualcuno meticolosamente lo spazzasse ogni giorno.
Mio padre dovrebbe prendere ripetizioni da questa persona: il vialetto d’ingresso a casa sua sembra situato in una giungla con piante viscide, insetti striscianti che lo attraversano e foglie tutt’attorno.
Salgo i gradini a disagio, alzando gli occhi sull’entrata, nient’altro che l’ennesima vetrata che si affaccia su un salotto arredato con semplicità e mobili bianchi.
I Cullen devono essere fissati con quel colore.
A saperlo prima mi sarei adeguata, vestendo con il corpetto e le autoreggenti avorio.
Busso timidamente, dispiacendomi per l’impronta delle mie nocche su quel vetro lindo, e vedo qualcuno scendere la scalinata che conduce al piano superiore in fretta.
Quando mi apre, il suo viso si illumina e la sua bocca si torce in una specie di sorriso obliquo.
Un sorriso sghembo ma affascinante.
Alto, magro –forse un po’ troppo-, con lineamenti spigolosi, zigomi pronunciati e vivaci occhi verdi, deve avere più o meno la mia età.
< Ciao! > esclama cordiale, passandosi una mano tra i capelli ramati leggermente mossi.
La sua voce è la stessa che ho sentito al telefono. E’ davvero lui che ha preso appuntamento con me?
Avevo supposto fosse suo padre, poichè i ragazzi giovani solitamente non hanno problemi a trovare compagnia per una notte, soprattutto grazie all’ausilio di una bella dose di alcol nel sangue.
< Ciao. > rispondo titubante, arricciando una ciocca di capelli attorno al dito.
Lui si fa da parte per farmi entrare e mi indica il divano.
Mi siedo rigida sulla fredda pelle e lo vedo sparire in corridoio, probabilmente diretto in cucina.
La parete che ho di fronte è interamente affrescata con motivi geometrici bianchi e neri che attirano il mio sguardo, ipnotizzandomi e rilassandomi.
Per qualche attimo smetto di pormi dubbi sulla mia presenza in quella casa enorme, in cui sembra mancare il calore e la fantasia di una presenza femminile, e mi tolgo una scarpa, massaggiandomi la pianta del piede dolorante.
Vedo il ragazzo tornare con un vassoio in mano, così mi affretto a ricompormi.
Aggiusto il bavero della giacca e alzo gli occhi su di lui, che si siede accanto a me mettendo tra noi ciò che teneva tra le mani.
Mi serve una tazza di thè caldo e dei biscotti profumati al limone e poi mi osserva di sottecchi, mentre tuffa un cucchiaino di zucchero in quella che sembra tisana.
Vago con lo sguardo altrove, a disagio, e mi scotto la lingua con la bevanda bollente.
Non mi piace essere fissata a quel modo.
Anzi, non mi piace essere fissata e basta. E’ un’altra delle voci della mia lista chilometrica.
Le persone mi scrutano con sdegno, con commiserazione e pena e poi passano oltre.
Nessuno che si fermi a chiedere < Ehi! Perchè fai la prostituta? Cosa ti ha spinto nei letti di sconosciuti di ogni età? >.
Fondamentalmente la gente è menefreghista e non s’impiccia non per rispetto, ma per paura di contagio.
I problemi che hanno bastano loro. Non vogliono correre il rischio di essere infettati anche dai miei.
L’unica occhiata di cui riesco a reggere il peso è quella di Jake.
Lui sa la mia storia.
Mi ha vista trasformarmi da Bella in Beauty, torturando me stessa affinchè chinassi la testa, gettassi orgoglio e dignità in un angolo remoto e polveroso del mio animo e trovassi il modo di sopravvivere.
Lui c’è sempre stato, non mi ha mai voltato le spalle schifato.
Era ad aspettarmi sotto la casa del primo cliente; a tenermi stretta tutta la notte, mentre piangevo sulla sua spalla la perdita definitiva della mia innocenza.
Continuo a sorseggiare il mio thè in silenzio, stringendo le dita attorno alla tazzina in ceramica fino a farmi illividire le nocche.
C’è una tensione elettrica, sospesa nell’aria, che mi paralizza.
Sono abituata a trattare con uomini adulti, che sanno cosa vogliono e non mi offrono da bere.
Il tempo di essere in casa loro, al riparo da occhi indiscreti, che subito mi svestono e mi prendono con fermezza.
Mi agito inquieta e alla fine poso la tazza con un sospiro, decidendo di porre fine a quel clima d’angoscia per prima.
< Uhm...come ti chiami? > gli chiedo la prima cosa che mi passa per la testa e lui mi sorride di nuovo.
< Edward. Edward Masen Cullen. > risponde con una punta di orgoglio nella voce profonda.
Annuisco e mi ravvivo i capelli con una mano distratta, iniziando a sbottonare la giacca.
< Allora...Edward. > sottolineo il suo nome col tono sensuale che mi ha insegnato Jess. < Cosa vuoi fare? >
Mi sporgo verso di lui, che si affretta a togliere di mezzo il vassoio, e gli infilo una mano nei capelli traendolo a me.
Lui si dà una spinta e fa stendere sul divano, puntellando le braccia ai lati della mia testa.
Avvicina con lentezza il suo viso al mio e mi morde le labbra.
Sospira e m’infila la lingua in bocca con prepotenza.
Poi si sposta leggermente, sfiorandomi col fiato caldo la guancia, il collo e, infine, mi lambisce il lobo dell’orecchio destro con i denti.
< Mi piace il tuo sapore, Isabella. > sussurra lieve, facendomi tremare.
Mi sollevo appena, vigile ed attenta.
Come diavolo fa a sapere il mio vero nome?
Apro bocca per domandarglielo, ma lui è più svelto.
Mi zittisce con un dito sulle labbra e mostra ancora quel sorriso sghembo così particolare.
I suoi occhi verdi brillano, come le foglie bagnate dalla rugiada mattutina.
< So chi sei. Conosco la tua storia. Io ti amo, Isabella. Da sempre. >

Angolo di un'autrice che è decisamente uscita fuori di testa:
Se vi state chiedendo se quando ho scritto questa long avevo preso un palo in faccia, beh è probabile che abbiate ragione.
E' una storia folle. L'avevate mai pensata come una prostituta di professione, Bella? Io no, mai...almeno fino a quando non ho scritto questo primo capitolo.
Se vi siete incuriosite e avete voglia di scoprire insieme a me questo mondo alternativo, siete le benvenute.
Lasciate un commentino, anche insulso o offensivo, ma mi farete felice. E' un'opera buona, dai <3
Un immenso abbraccio.
Strange

Piesse: il concorso a cui "(Not) Enough" ha partecipato, piazzandosi terza s'intitolava "Si sarebbero amati in qualunque storia fossero andati a finire" e le storie che si sono classificate prima e seconda sono assolutamente da non perdere.
Correte, correte!

Pipiesse: un abbraccio speciale alla mia Ellina e Michela che hanno sopportato le mie seghe mentali per tutta la stesura di questa assurdità.

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Capitolo 2
*** Two. One-way ticket to the world of ordinary people. ***


Two. One-way ticket to the world of ordinary people.

Arretro spaventata, cercando a tentoni la borsa senza staccare gli occhi dai suoi.
Edward nota il mio gesto e mi accarezza la guancia, con una espressione tenera e dolce che mai nessuno dei miei clienti mi ha rivolto.
Ma lui ha mai fatto davvero parte di quella cerchia?
Inizio a pensare che abbia soltanto trovato una scusa per potermi parlare.
< Cosa hai detto? > chiedo rauca, faticando a dar voce a quella domanda.
< Io c'ero, Isabella. Non ti ricordi? > domanda e l'intensità del suo sguardo si altera.
Sembra spegnersi, affievolirsi come una stella morente.
E' ferito ed io non so nemmeno perchè.
E' una situazione folle, assurda ed io vorrei trovarmi dovunque tranne che lì.
Sotto le dita sento come decine di punture d'ago che mi invogliano ad alzarmi e a fuggire dalla casa di panna montata.
Voglio andarmene immediatamente, ma le mie gambe non collaborano.
Gli interrogativi che le parole di quel ragazzo hanno sollevato mi turbinano in testa a velocità frenetica.
Chi è davvero Edward Masen Cullen? E a cosa ha assistito?
Scuoto il capo, sotraendomi alla sua carezza.
< Chi diavolo sei tu? Che vuoi da me? Cos'è che dovrei ricordare? > sbraito di colpo, alzandomi in piedi.
Stringo le mani l'una nell'altra, nel tentativo di acquietare il tremore.
Le pareti immacolate di quel salotto impersonale sembrano chiudersi su di me, grandi fauci spalancate di un animale affamato.
< Voglio proteggerti. Voglio sottrarti alla vita ignobile che stai conducendo. Cerca di riportare a galla quel ricordo, Isabella. So che lo tieni nascosto da qualche parte perchè ti fa male. Il giorno in cui è morta tua madre... >
No.
Io non voglio.
Non voglio assolutamente!

Mi schianto sul pavimento, chinando la testa e piangendo prima ancora che le immagini si affaccino nella mia testa.

Piove.
E' la solita ennesima giornata inutile a Forks.
Le riconosco sulla pelle quelle così: mi sveglio con la pelle d'oca e la voglia di stare a casa in pantofole ad oziare, tanto so che se anche mi muovessi dal porto sicuro di quelle quattro mura domestiche succederebbe sicuramente qualcosa di spiacevole.
Ce li ho tutti segnati sul calendario i giorni storti: quelli in cui ti alzi borbottando, ti lavi i denti svogliatamente e ti infili i vestiti del giorno prima al contrario, fregandotene delle risatine dei tuoi insulsi compagni di liceo.
Prendi la cartella pesante con la consapevolezza di aver probabilmente adocchiato male l'orario e aver quindi preso i libri errati; ti dirigi in cucina con passi strasciati e trovi il frigo vuoto perchè, tanto per cambiare, tua madre non ha fatto la spesa.
Frughi, perciò, nella credenza alla disperata ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti e, alla fine, ti accontenti di una misera fetta di pane tostato insipido come colazione.
Una giornata iniziata male, che non si smentisce col passare dei minuti.
Il pick-up tossisce tre volte e poi esala il suo ultimo respiro con uno sbuffo di vapore nero, quindi devi anche andare a scuola a piedi di corsa, per non rischiare di essere chiusa fuori.
A metà tragitto, ovviamente, l'ombrello si squarcia e, di conseguenza, quando arrivi al cancello sei uno straccio da strizzare.
Ti togli di dosso più acqua che puoi e infine ti siedi stancamente su una di quelle sedie scomode, fissando senza interesse la lavagna sommersa di geroglifici dei professori che ti si alternano davanti con sguardo arcigno, cipiglio severo o sorriso compiaciuto.
Quando infine giungi all'ultima ora, vegeti in una specie di coma e i tuoi piedi sono ghiacciati nelle scarpe di tela.
Sbuffi e consegni il foglio protocollo col tema per casa tutto sbavato dalla pioggia e ti risiedi al tuo posto, aspettando paziente la campanella della salvezza.
A metà lezione, però, accade un imprevisto.
La comparsa del vicepreside, con una faccia lugubre, differenzia questa pessima giornata da tutte le altre.
La sua espressione costernata mi si imprime nel cervello e, istintivamente, inizio a tremare prima ancora che i suoi occhi dispiaciuti si posino su di me, dopo aver scandagliato gli altri venti volti dei miei compagni di classe.
< Signorina Swan, può seguirmi in vicepresidenza? > chiede con voce d'oltretomba, avvicinandosi e tenendomi la mano.
Ignorando gli sguardi pungenti e curiosi che mi vengono rivolti, mi alzo rabbrividendo e ficco nella cartella aperta e ancora gocciolante le mie poche cose.
Il corridoio è silenzioso. Tutte le porte sono chiuse e l'unico suono che percepisco è il passo militare del vicepreside Jones, lo stridio delle suole di gomma delle mie Converse e il ticchettare insistente della pioggia contro il tetto dell'edificio.
Incapace di reggere quella tensione ancora molto, pianto i piedi per terra e apostrofo in malo modo il dirigente scolastico.
< Cosa ho fatto, stavolta? Se è per il minestrone che ho buttato in faccia a Tyler, sappia che se l'è meritato. Mi ha palpato il sedere! >
Il signor Jones si volta e mi guarda con degl'occhi che esprimono stupore e anche compassione.
Faccio un passo indietro. Perchè non ha l'aria burbera di quando mi ha punito la scorsa volta, facendomi rimanere ben oltre l'orario delle lezioni per pulire le aule?
Viene verso di me e mi posa le mani sulle spalle, prendendo fiato.
Ho voglia di tapparmi le orecchie, ma so che sentirei comunque ciò che ha da dire.
< Isabella...devo darti una brutta notizia. > esordisce con un tono morbido che non gli ho mai sentito in bocca prima d'ora.
Serro le mani lungo i fianchi e stringo i denti.
< Tua...tua madre ha...avuto un... >
Mi mordo con ferocia le labbra, fino a quando sento il ripugnante sapore di ruggine in bocca.
La nausea che sguscia tra le mie viscere è una cosa concreta a cui posso aggrapparmi, perchè invece le parole del signor Jones dipingono i contorni di un incubo in cui potrei facilmente cadere, senza riuscire più a svegliarmi.
Lo interrompo prima che concluda la frase.
< E' grave? Dove l'hanno ricoverata? > domande brevi e secche le mie, perchè di meglio non riesco a formulare.
< Lei non...non ce l'ha... è... morta. > conclude con un sospiro il vicepreside
Scoppio a ridere, asciugandomi stizzita delle lacrime che non avevo sentito arrivare
Non è vero.
Non è vero!

Fuggo dalle braccia di quell'estraneo che si è divertito a farmi uno scherzo di cattivo gusto e mi precipito all'uscita, spingendo con tutte le mie forze contro le porte con le maniglie antipanico che non riesco a smuovere.
Gridando di frustrazione scendo al piano inferiore e mi butto in cortile, incespicando nei piedi e riacchiappando la cartella che continua a scivolarmi dalla spalla.
L'acqua scorre irrisoria sui miei vestiti, bagnandomi una seconda volta, mentre corro a casa, dove troverò mia madre stravaccata sul divano, con una rivista sul viso in un vano tentativo di rilassarsi dopo una mattinata sfiancante con dei marmocchi iperattivi.
Piango, singhiozzo e cado e terra, finendo carponi in pozzanghere melmose e viscide.
Mi rialzo tremante e riprendo a correre disperata, asciugandomi l'acqua dal viso con una mano sporca di fango.
Arrivo al cancello di scuola con le gambe di piombo e i muscoli atrofizzati, urtando un paio di genitori con gli ombrelli che mi guardano straniti.
Ho gli occhi annacquati di dolore trasparente e liquido, che si confonde con le gocce di pioggia che mi frustano la faccia.
Le parole del vicepreside ronzano nel mio cervello come se mi avessero impiantato nel cranio un vespaio chiassoso.
Scuoto la testa e continuo ad avanzare, finchè non crollo addosso ad un ragazzo.
< Tutto bene? > mi chiede, scostandomi i capelli fradici dal viso.
Il suo ombrello è rotolato a qualche metro da noi, ma lui non si cura della pioggia che lo sta infradiciando.
Continua a chiedermi se sto bene, cosa mi è successo e se mi serve un passaggio fino a casa.
Mi alzo barcollante, raccogliendo la mia borsa che gronda acqua, e lo sorpasso senza dire niente, nemmeno uno smozzicato "scusa."
Attraverso la strada con la testa china e le dita contratte sulla cinghia della cartella, affannandomi per accelerare il passo, incurante dei crampi ai polpacci.
Sui marciapiedi scorrono rigagnoli d'acqua sporca e foglie morte che cozzano contro le mie scarpe, prima di deviare il loro percorso e finire nei tombini.
Arrivata all'angolo di casa mia riprendo la corsa, salendo i gradini del portico tutti insieme.
Frugo nella cartella alla ricerca delle chiavi ed entro disperata, giocciolando tutto attorno, aspettandomi un rimprovero da mia madre.
Il salotto è silenzioso.
La luce è spenta ed il divano sgombro.
< Mamma? > la chiamo, gettando la borsa per terra e slittano sul parquet, nel tentativo di raggiungere le scale.
Probabilmente si è stesa a letto dopo essersi presa un calmante per il mal di testa.
< Mamma? > alzo la voce, reggendomi al corrimano del piano superiore fino ad arrivare alla porta della sua camera.
Inspiro profondamente, asciugandomi di nuovo la faccia, e giro con lentezza la maniglia.
< Mamma? > sussurro, intrufolando la testa nella fessura.
Vuota.
Il letto è sfatto, come l'ha lasciato stamani; il pigiama spiegazzato è buttato sul cuscino e i vestiti del giorno prima sono accasciati sullo schienale della sua poltroncina.
Scivolo lungo il muro, lasciandovi sopra una scia umida, e scorro le pieghe di quelle lenzuola sfatte che sanno di Chanel come se potessi rintracciare particelle di lei tra il cotone.
Non c'è.
Non c'è più.
< Mamma. Mamma. Mamma. > continuo a ripetere in una cantilena dolorosa e bruciante.
Tiro su con il naso, togliendomi ciocche gocciolanti dalla fronte.
Resto ferma in quella posizione finchè non sento i piedi formicolare e le gambe intorpidirsi.
Mi rannicchio, con le ginocchia al petto infossandoci la testa dentro, e tremo per il freddo penetrato sottocute, nel sangue fino ad atrofizzare il cuore.
Poi, di colpo, sento il portone sbattere e sollevo il capo stordita, strusciando verso l’ingresso della stanza.
< Mamma! MAMMA! > urlo, graffiando con le unghie il pavimento mentre i passi si avvicinano e salgono le scale.
< Bells! > due braccia calde mi avvolgono ed una mano grande mi accarezza la testa, spingendomi contro un collo impreziosito di profumo maschile.
Grido di dolore, guardando le mie speranze cadere al suolo e infrangersi come lastre sottili di vetro.
Le schegge taglienti schizzano in ogni direzione, graffiandomi le braccia e mordendo la pelle delle mie dita.
Artiglio la maglia di Jake, singhiozzando sulla sua spalla, e lui mi stringe forte fino a togliermi il fiato residuo in gola.
< Sono qui. Sono qui. > mormora, baciandomi i capelli bagnati.
Mi culla tra le braccia e borbotta frasi incoerenti, su come abbia appreso la notizia da Billy e sia corso da me, marinando la scuola.
< Va tutto bene, Bells. Vedrai che passa. >
< No, va tutto una merda, Jacob! Lei è morta. MORTA! Mi ha lasciato sola. Io non ho più nessuno! > urlo sul suo petto, prendendolo a pugni.
< Ci sono io, Bells. Ci sarò sempre. >
 
< Shhhhh, è tutto finito. E' tutto passato, Isabella. > torno al presente di colpo, ritrovandomi carponi su un pallido pavimento di marmo tra le braccia di Edward.
Lui è inginocchiato alla mia destra e mi stringe al suo petto, cullandomi.
Le sue dita sono fredde sulla mia pelle calda e percorsa da tremori, tanto che rabbrividisco e mi mordo le labbra nel vano tentativo di interrompere il flusso scrosciante di lacrime.
Le sue parole ed i suoi gesti rievocano quelli di Jacob nei giorni successivi alla scomparsa di mia madre, di cui ho solo un vago e insapore ricordo.
Fulgidi flash abbaglianti di un funerale sobrio e veloce, di terra smossa e fiori non troppo freschi.
Lampi trasparenti di lacrime trattenute e volti scuri su persone vestite di nero che conoscevano appena mia madre, solo di sfuggita.
Bagliori spenti di grida desolate, rimbalzate da lapide a lapide fino a sfiorare quella più nuova, incisa in caratteri obliqui e adornata della foto più bella che avevo trovato e che, tuttavia, non le rendeva affatto giustizia.
Mia madre ancora sorride in quella cornice ovale dai colori smorti. Mia madre profuma ancora di vita in quella polaroid scattata in un momento di distrazione il Natale precedente.
Di mia madre, quella, è l'unica cosa che rimane: una semplice foto su una croce grigia e fredda.
Senza vita, proprio come lei.
Mi alzo con difficoltà, traballando su quei tacchi vertiginosi che non ho mai smesso di odiare.
Edward mi sostiene per le spalle e mi aiuta a tornare seduta sul divano.
Mi porta i capelli dietro le orecchie e prende le mie mani contratte tra le sue, accarezzando la pelle del dorso col pollice.
< Ti... ti ricordi di me? > sospira, chinando leggermente la testa, come se non si aspettasse una risposta positiva.
< Scusa. > replico, serrando gli occhi per impedire ai ricordi di possedermi ancora.
La dose presa quel giorno è più che sufficiente.
Più che sufficiente per tutta la vita.
< Non importa. Non mi aspettavo di certo che tu...insomma eri sconvolta... > borbotta, allentando un po' la presa.
Scuoto la testa, accennando appena l'ombra tiepida di un sorriso.
< Scusa. Scusa per esserti venuta addosso, averti fatto bagnare e volare l'ombrello lontano. Un po' in ritardo, certo, ma scusami. > biascico, attendendo la sua reazione.
Cosa sto facendo?
Perchè do corda a questo ragazzo? Perchè gli fornisco un appiglio a cui aggrapparsi per scalare le mie difese? C'è il rischio più che concreto che riesca a giungere in cima a quel muro adornato di filo spinato e, in qualche modo, a buttarsi dall'altro lato.
Non che ci possa trovare chissà cosa: ad attenderlo ci sono alberi cavi e mangiucchiati dalle tarme, foglie morte e scricchiolanti sotto le suole delle scarpe dei radi visitatori, pozze melmose e scure, nebbia spessa come una cortina di zucchero a velo e versi di animali inquietanti.
Ecco quello che si annida nel mio essere; ecco quello che celo in profondità: un tetro scenario da film horror, che farebbe fuggire chiunque si arrischi a sbirciare.
Solo Jacob, finora, è stato abbastanza coraggioso da avventurarsi nel mio bosco lugubre.
Anzi, si è scelto una radura, l'ha resa abitabile, ha acceso un falò e preso fissa dimora tra le piaghe del mio cuore sanguinante.
Senza di lui, senza la luce che ha alimentato in me, io stessa sarei affogata nel mio dolore e avrei avuto un posto accanto alla lapide di mia madre.
< Ti...ti ricordi! > la voce di Edward è a dir poco entusiasta.
E' felice che io sappia di avere un legame, seppur sottile, con lui.
Io no.
Non voglio qualcun altro a soggiornare nei meandri della mia anima cupa.
Non voglio un'ennesima persona che pretende di psicoanalizzarmi e sviscerare la mia sofferenza.
Mi basta Jake. Mi sarebbe bastato sempre.
< Devo andare. > mugugno, arraffando la mia borsa e alzandomi in piedi.
Tiro fuori delle invisibili forbicine e taglio quell'esile filo che ci unisce.
< Aspetta, Isabella, ti prego. > mi afferra per un polso con gentilezza e mi fa voltare verso di lui.
I suoi occhi smeraldini sondano frementi il mio viso.
Mio malgrado ricambio lo sguardo, mentre le due estremità del filo si ricongiungono da sole, annodandosi strette l'una all'altra.
Che cosa ha questo Edward Cullen che mi fa vacillare?
Che cosa rappresenta per le mie speranze distrutte? Per la mia vita inesistente?
< Devo andarmene. > ripeto, più a me stessa che a lui.
< E se invece restassi? Io ti amo. Ti amo dal primo giorno in cui ho incrociato i tuoi occhi di cioccolata nei corridoi del liceo. > poggia le mani sulle mie spalle e accenna ancora quel sorriso
sghembo, arrossendo un po'.
< Mi dispiace, Edward. Io non so cos'è l'amore. > replico fredda, abbassando lo sguardo.
Davvero, non ho idea di cosa lui stia parlando.
Ho visto decine di coppiette tenersi per mano in strada, scambiarsi paroline zuccherose alle orecchie e baciarsi tra le lacrime, ma io non sono mai stata nemmeno sfiorata da una delle frecce del fantomatico Cupido.
I sentimenti di quelle persone con lo sguardo terso e felice ed il cuore traboccante d'amore mi accarezzano fugaci e poi mi lasciano andare.
Io non sono altro che un'ombra confusa tra scie di fumo rosso passione.
L'unico sensazione di calore nella mia grigia vita è rappresentata da Jacob, ma non è amore.
E' amicizia, condivisione, bisogno, necessità.
Per il resto, ogni altro sentimento mi è estraneo.
Io, Isabella Marie Swan, non sono capace d'amare. Sono un rifiuto umano che si trascina avanti, arrancando, nella speranza di scovare finalmente una scintilla d'emozione in decine di giorni uguali e senza nome.
< Non ti sto chiedendo di ricambiare quel che provo io. Ti sto chiedendo di lasciarti salvare, di permettermi di donarti una vita...normale. > mormora Edward, con voce seducente ed allettante.
Normalità.
Ecco un altro vocabolo sconosciuto nel mio dizionario.
L'ennesima parola che ho incastrato tra le dita rigide del cadavere di mia madre, cosicchè le portasse con sè, lontano da me.
Non potevo permettermi cedimenti o debolezze, al tempo.
Non potevo alimentare sogni e fantasie su cotte adolescenziali e libri di scuola.
In quel mondo di ragazzi sorridenti non c'era posto per me...ma non per questo non avevo mai desiderato assaggiare un briciolo della loro vita.
Mi sarebbero andati bene anche gli scarti, i resti buttati nel secchio della spazzatura.
Non ero avida; ero soltanto attratta da quelle prelibatezze che gli vedevo sbandierare con noncuranza davanti ai miei occhi, mettendomi l'acquolina in bocca.
Un morso glassato di interrogazioni; un boccone guarnito con panna al sapore di notti insonne per dei compiti in classe impossibili con la professoressa stronza di turno; una fetta al cioccolato con retrogusto di pomeriggi di studio tra amiche, sfociati in pigiama party chiassosi; una mollica zuccherosa condita con un timido sfiorarsi di mani con il ragazzo simpatico del banco accanto; una porzione spennellata di crema pasticcera al gusto di colazioni frettolose con una madre sempre di corsa che, però, alla sera ti ricompensa con abbracci e coccole sul divano.
< Non puoi. Nessuno può. > ribatto mesta, facendo schioccare la lingua.
Edward mi alza il viso con un dito sotto il mento.
< Il modo c'è, Isabella. Devi solo volerlo. >
Mi contorna il viso con le mani e, lentamente, si china sulla mia bocca.
Mi sfiora con le labbra, dandomi modo di scostarmi, se lo volessi, ma io non ne ho alcuna intenzione.
La sua dolcezza è qualcosa di mai sperimentato prima.
La premura dei suoi gesti, l'attenzione nei miei riguardi sono sorsate di normalità che ho sempre bramato.
Ecco cosa rappresenta Edward Cullen per me: la mia possibilità di fuga dalla prigione in cui sono rinchiusa.
Il mio biglietto di sola andata per il mondo della gente comune.
La quotidianità, la normalità.
La mia possibilità d'essere una ragazza ventenne qualunque, come Charlie spera sempre che miracolosamente diventi.
< Cos'è che devo volere? > chiedo quindi, strofinando il naso contro il suo, mentre nelle mie viscere si agita qualcosa.
Sembrano...farfalle?
Hanno ali piccole e tenere e cozzano di continuo contro le pareti dello stomaco, cercando di uscire fuori e svolazzarmi libere nel petto.
E' assurdo.
E' impossibile.
Edward sorride di nuovo e a me tremano le ginocchia.
< Diventare mia moglie. > sussurra, chiudendo gli occhi e baciandomi.


Angolo di un'autrice sopravvissuta alle placche alla gola che torna a rompervi le scatole:
Questo capitolo si conclude in modo ancor più folle del primo.
Mi rendo conto che a molte la proposta di Edward possa sembrare affrettata, ma lui è innamorato di Bella da anni, anche senza mai averle parlato.
La cercava con lo sguardo tra la gente per strada, studiava i suoi occhi curiosi mentre contemplava le vetrine dei negozi, moriva per i sorrisi che lei regalava solo a Jacob.
Coltivare un sentimento simile per anni ha portato Edward a maturare l'idea di poter salvare Isabella dandole il suo cognome; un cognome rispettabile e con esso una nuova vita.
E' un 'offerta generosa e altruista, ma come reagirà lei?
Spero di non essere finita nell'OOC con Edward. Non ho mai scritto di lui e la sua psicologia è parecchio lontana dalla mia.
Grazie a chi ha inserito la storia tra le seguite e a Emi e HelloPrudence per aver recensito il primo capitolo.
A questo sono particolarmente affezionata e mi commuovo sempre un po' rileggendo del giorno in cui Bella rimase sola.
Vi bacio ed abbraccio tutte.
Strange.

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Capitolo 3
*** Three. Hope's color. ***


Three. Hope's color.


< B. dove hai messo lo smalto prugna che ti avevo prestato due giorni fa? >
Jess mi scuote per una spalla, strappandomi bruscamente dai miei sogni confusi.
< Sportello a destra, sotto il lavandino mi pare. > biascico, girandomi dall'altra parte e spiaccicandomi il cuscino in testa, pregando perchè lei esca e mi lasci riposare.
Speranza inutile.
< Trovato! > torna, ticchettando con quei suoi dannati zoccoletti, dal bagno e si siede sul mio letto a gambe incrociate, svitando il pennellino.
Per qualche istante serro gli occhi e cerco di riacciuffare l'ultimo brandello di sonno rimastomi addosso, ma non funziona.
Ho la mente già vigile e sveglia.
Brontolando, emergo da sotto il guanciale e le indirizzo un'occhiataccia spazientita.
< Ma non hai niente di meglio da fare, di domenica mattina, che venire a verniciarti le unghie sul mio materasso? > borbotto contrariata, passandomi una mano sulla faccia.
< Ma se è una settimana che non ti vedo! E dire che viviamo nella stessa stanza! Si può sapere cosa hai fatto con quel dannato Cullen sette giorni di seguito? >
Mi agito a disagio, raccogliendo le ginocchia al petto.
< Uhm...beh immagina. E' un tipo molto...fantasioso e aveva delle ferie quindi mi ha prenotato per dieci giorni consecutivi. Paga bene. > mi stringo nelle spalle, sperando di aver placato la sua insaziabile curiosità.
< Beata te! E' abbastanza giovane, vero? Per sopportare ritmi di quel genere non può essere altrimenti. Come ti invidio, B.! Non è che per caso ha un fratello minore che ha bisogno delle stesse attenzioni? > ride e soffia sulla mano appena colorata.
< Uhm, ha più di un fratello, ma sono tutti impegnati, mi spiace. > mi alzo in piedi in fretta e mi chiudo in bagno, afferrando al volo i vestiti poggiati sulla sedia che avevo preparato il giorno prima.
< Ehi! Non pensare di cavartela così! Voglio un resoconto più dettagliato! > sento Jessica urlare, buttandosi poi a peso morto sul mio povero letto, le cui molle cigolano pericolosamente.
Resoconto dettagliato?
Di sicuro ne resterebbe delusa, visto che non c'è alcun particolare piccante che possa saziare la sua fantasia perversa.

< E' bellissimo qui. > esclamo estasiata, guardandomi attorno e accarezzando i germogli freschi d'erba verde brillante e i fiorellini teneri, che si piegano sotto le mie dita.
La radura in cui mi ha condotto Edward è irradiata da un sole abbagliante, che spesso nega la sua presenza in città.
E' un posto tranquillo e quasi surreale, che sembra essere stato staccato dal paradiso terrestre di Adamo ed Eva e fatto atterrare nella foresta che delimita Forks.
Sospiro appagata e mi stendo sul prato, ammaliata dal cielo terso che posso contemplare di rado e dalle soffici nuvole che di tanto in tanto scivolano nella mia visuale.
Edward si sdraia accanto a me e intreccia le nostre dita con dolcezza, regalandomi brividi di piacere.
E' un'esperienza strana per me. Un appuntamento, in cui il sesso non venisse contemplato, non sapevo nemmeno cosa fosse.
Invece questo è il settimo giorno di seguito che trascorro con lui e non mi ha nemmeno sfiorato.
Mi ha portato al cinema, a cena fuori in un ristorante costoso con candelabri e vista sul mare, a fare una passeggiata sulla spiaggia al tramonto, in giro per musei e perfino per negozi -lo shopping non è una prerogativa femminile a cui tutti gli uomini sono allergici?-.
Mi sta dando modo di conoscerlo poco alla volta, di interessarmi a lui, alla sua vita.
Mi sta facendo innamorare.
Ha sempre la parola giusta da dire sulla lingua, il gesto giusto da fare sulla punta delle dita.
Non tocca argomenti che per me sono taboo e conversa amabilmente del più e del meno, facendo volare il tempo e facendomi desiderare di averne ancora e ancora.
Sempre di più.
< Pensavo che potremmo andare al mare domani, se il tempo regge. > propone con tono leggero, sperando forse che non noti la punta d'ansia nella sua voce.
Ansia che possa rifiutare, che mi possa stancare, che non ci sia alcun domani.
Mi mordo un labbro confusa, sfogliando mentalmente l'agenda fitta di impegni che Jess riempie sempre al posto mio.
< Non posso... Ho un...cliente. > sputo quella parola, vergognandomi del suo significato, e volto la testa dal lato opposto rispetto a lui.
Davanti al mio naso una coccinella si arrampica sullo stelo di una margherita.
< Sai che...che non sei costretta ad andare vero? Hai un'alternativa, se lo vuoi. > butta lì, puntellandosi col gomito per guardarmi meglio.
Con un dito accarezza il profilo del mio viso e del mio collo, baciandomi appena sotto l'orecchio destro.
Mi sfiora con dolcezza i capelli e mi fa voltare verso di lui, chinandosi a toccare appena le mie labbra.
Non cerca mai un contatto più intimo, se non sono io ad incoraggiarlo.
Vuol sempre soddisfare i miei desideri ed assecondare le mie fantasie, mettendosi in secondo piano.
Altruista. E' l'unica parola che riesco ad associare a lui.
Guardo il cielo cristallino che si riflette nei suoi occhi, dandomi l'illusione di starmi specchiando in due laghi verde-azzurri limpidi e quieti, e ci credo davvero, per un solo attimo, di avere una alternativa.
Di poter afferrare la sua mano e lasciarmi condurre a passi misurati nell'esistenza di un'altra persona, della Bella che avrei potuto essere se mia madre non fosse rimasta incastrata tra le lamiere della sua auto, accartocciata come una lattina ormai vuota.
< Lo so. > gli sorrido e gli bacio la punta del naso, lasciando che mi abbracci e mi sussurri parole dolci che mai avevo sentito in vita mia.
Da dove esci fuori Edward?
Da quale libro di fiabe ti hanno prelevato con la forza? Quante principesse col cuore infranto hai abbandonato lungo il tuo cammino prima di giungere a me?
E perchè ti accontenti di una sguattera qualunque?
Sei finito tra le pagine sbagliate: io non sono Cenerentola e tu non puoi sottrarmi alle angherie della mia condizione.
Forse un giorno ci riuscirai, quando io te lo permetterò ma, al momento, non posso ancora trascinarti in questa spirale soffocante e senza uscita.
Non te lo meriti.
Io all'oblio ci sono abituata, tu no.
Mi basta osservare la tua luce fuori dalla tormenta per sperare...io che non sapevo nemmeno che colore avesse la speranza.
Ora lo so: quello dei tuoi occhi.
< Andiamo, dai. Ti riaccompagno. > Edward si alza in piedi e mi tira sù, trattenendomi per i fianchi.
Mi contorna il viso con dolcezza e mi bacia senza più trattenersi.
Gli sorrido sulla bocca e poi appoggio per qualche istante la testa sul suo petto, ascoltando il suo cuore battere vigoroso nel petto solo per me.

Edward posteggia la sua macchina costosa, dai morbidi sedili in pelle, davanti all'edificio dall'intonaco scrostato e i tubi arrugginiti in cui vivo, facendomi sprofondare di vergogna.
Vorrei che la cintura di sicurezza mi strozzasse e m'impedisse di vedere lo sdegno dipinto nel suo sguardo smeraldino.
E’ come strillargli in faccia :
Il divario tra noi non mi era mai parso tanto incolmabile.
Lui spalanca la portiera con disinvoltura e fa il giro della vettura, venendo ad aprire anche il mio sportello come un vero gentiluomo.
Mi sorride e mi tende la mano ed io non riesco a scorgere il disgusto nelle sue iridi.
Cerco, scavo, gratto con le unghie in una indagine approfondita delle sue pupille, ma non intravedo nulla.
Nulla che non abbia già visto: Edward è solare e allegro come poco prima, mentre borbottava un motivetto di musica classica a bocca chiusa guidando con scioltezza.
Stringo le sue dita e inciampo nei lacci delle scarpe da ginnastica, che ho indossato per la scarpinata fino alla radura, crollandogli miseramente tra le braccia.
Le solite, pessime figure che mi fa fare la mia goffagine.
Balbetto delle scuse incomprensibili e alzo il viso verso il suo, che è vicinissimo al mio.
Seguo con gli occhi il movimento del suo pomo d'adamo mentre deglutisce e sotto la stoffa della maglietta di cotone avverto il suo cuore accelerare di colpo.
Cosa sono queste scariche elettriche che mi scorrono nelle vene?
Perchè non sei arrivato prima, Edward?
Chiudo le palpebre e mi alzo sulle punte per trovare la sua bocca.
Il sapore della spiga di grano, che si era appoggiato alle labbra meno di un'ora fa, è ancora sul suo palato.
< Bells? >
La voce di Jacob è una secchiata d'acqua gelida, che scivola a piccole gocce sulla schiena.
Rapida, mi stacco da Edward e cerco la sua figura, trovandola appoggiata alla fedele moto con le braccia incrociate sul petto.
Sul suo viso brillano strane espressioni e le sue dita si contraggono a pugno, mentre avanza verso di noi.
Ad ogni passo lo vedo caricarsi, come un toro alla vista del telo rosso retto dal matador.
Istintivamente mi paro davanti ad Edward, che mi prende per mano.
Jake, a quel gesto, stringe gli occhi e respira a fondo, digrignando i denti.
Si ferma di fronte a me e ignora il mio accompagnatore, per quanto gli è possibile.
< Dove sei stata? Sono giorni che ti cerco... > la sua voce, apparentemente tranquilla, non m'inganna.
Sta cercando di nascondere con strati di cenere il suo fuoco rabbioso e divampante.
Tentenno, sperando di trovare una scappatoia, ma non ne vedo.
Sospiro.
< Jacob, ti presento Edward. Sono stata con lui in questi giorni... >
Si stringono la mano guardandosi in cagnesco, ma il mio migliore amico sembra leggermente più rilassato.
< Dunque è un cliente. > deduce, alzando le spalle con indifferenza.
Edward, alle mie spalle, grugnisce.
Jake sfodera, allora, un sorriso smagliante e mi solleva tra le braccia, facendomi girare.
< Fatti abbracciare, bellissima. Mi sei mancata! > grida e so che lo sta facendo affinchè io non sia la sola ad udirlo.
Mi posa a terra, mi bacia la guancia con dolcezza e poi si china a sussurrarmi qualcosa nell'orecchio.
< Domani non voglio sentire scuse. Sei mia, ti rapisco. >
Gli sorrido, poiché le nostre giornate mi mancano davvero, ma decido di avvertirlo poi con un sms di avere un impegno l'indomani.
In questo momento non voglio continuare a stare tra lui e Edward, come fossi un conteso trofeo.
Non mi piace la rivalità che stanno mostrando.
Mi confonde...ed io sono già abbastanza confusa di mio, senza che ci si mettano anche loro.
Mi volto, quindi, e sorrido ad Edward che ricambia con uno sguardo splendente più del sole in cielo.
Mi contorna il viso tra le mani e mi bacia di nuovo, con una passione che non aveva mai ostentato in quella settimana insieme.
Di nuovo ho l'impressione che, più che a me, sia a qualcun altro che è diretto quel bacio.
Mi scosto un po' infastidita e lo guardo incamminarsi, salutandolo con la mano.
Lui monta sulla sua Volvo scintillante e sgasa, prima di sfrecciare via.
< Tsk, esibizionista. > commenta Jacob, acido, seguendo la scia di gas della marmitta.
Sbuffo e mi incammino verso il portone, tallonata da lui.
< Ehi, Bells. Cosa ti va di fare domani? > mi domanda spensierato, appoggiandosi con una spalla allo stipite di legno.
< Ho da fare, mi spiace. Dobbiamo rimandare. > replico incolore, chiedendomi da dove provenga quel pizzicore vicino lo sterno che avverto mentre parlo.
L'espressione del mio migliore amico s'indurisce.
< Hai da fare con quel bellimbusto? > chiede aspro e cerca nei miei occhi la risposta prima che apra bocca.
< No, un altro cliente che ha preso appuntamento un paio di settimane fa. E' un avvocato di Port Angeles, non posso non andarci. > gli spiego, cercando nello zaino le chiavi.
< Non sei mai stata brava a mentire, perciò non iniziare proprio ora. Se ti vedi con lui, dimmelo e basta. >
E' scemo?
Gli ho appena detto che non è così!
Perchè crede che gli stia raccontando una balla?
Possibile che sia...geloso?
< Jacob, smettila. Sono sempre sincera con te, lo sai. Sei il mio migliore ami... >
Alza un mano davanti alla mia faccia.
< Non concludere la frase. Odio quando lo dici. Se non ti vedi con lui, mi spieghi almeno chi cazzo è e quando è comparso? Perchè non ne sapevo nulla? Perchè ti bacia come fosse il tuo ragazzo? Non ho mai visto nessun altro dei tuoi clienti comportarsi così con te! > esplode tutto insieme, ingoiando aria come se fosse fatta di lame sottili e affilate che gli aprono tagli profondi nella trachea.
< Cos'è questo? Un terzo grado? Me lo aspetterei da Charlie, non da te, Jake! Io non ti devo alcuna spiegazione! > m'infervoro, stringendo le chiavi tra le dita, fino a pungermi.
Mi mordo il labbro inferiore, sperando di vederlo tornare sui suoi passi e chiedermi scusa per l'aggressione verbale ingiustificata, ma lo conosco.
Lui non fa mai retromarcia.
Lui prosegue testardo, convinto di essere nel giusto e poi piange lacrime di coccodrillo.
Continua ad infrangere la promessa che mi ha fatto anni addietro, quella di non ferirmi mai, e poi ad abbracciarmi e quasi supplicarmi di perdonarlo per il suo essere così coglione.
< Una volta mi dicevi tutto, Bells. Ti svegliavi la mattina ed ero il tuo primo pensiero. Conoscevo persino il colore della tua biancheria intima giornaliera! Poi, di colpo, sparisci una settimana e riappari con un idiota con la faccia da pesce lesso al fianco, che ti sbaciucchia come fossi un orsacchiotto di peluche. Hai battuto la testa? > ringhia e per me è l'ultima goccia in un vaso già colmo.
< Non puoi giudicare Edward senza nemmeno conoscerlo! Ti stai comportando come un ragazzino superficiale e possessivo, quale non sei. Smettila e cresci, Jacob...e soprattutto lasciami vivere la mia vita come voglio! > esclamo stizzita, aprendo la porta.
Lui mi blocca per un polso e la sua voce mi giunge appena incrinata.
Dentro il suo corpo stanno lottando il mio migliore amico e quell'essere sconosciuto, apparso dal nulla, che non mi piace affatto.
Mi fa circolare acido nel sangue e desiderare di non conoscerlo.
Come posso, però, non voler mai avuto nella vita Jacob?
Senza di lui, io non esisterei.
Dio, ho bisogno di un'aspirina.
< Bells, io...ti pr...scus... > smozzica le parole, rinfilandole in gola.
Non vuole cedere.
< Lasciami. > gli ordino perentoria, senza voltarmi.
Le sue dita si allentano ma non mollano del tutto.
< No...Ti chiamo domani, ok? > propone poi, con un tono forzatamente allegro.
Dietro colgo un cenno speranzoso che mi soffoca il cuore.
Io e lui non avevamo mai discusso.
Non c'erano motivi validi.
Un paio di scaramucce da piccoli, magari per l'ultima fetta di torta di Renèe o per il posto davanti nella macchina di Billy, suo padre, quando ancora era in grado di guidare.
Niente, comunque, che non potesse essere risolto all'istante con un suo sorriso sfacciato o un mio bacio malizioso all'angolo della bocca, che lo faceva diventare rosso come un pomodoro maturo.
< Sì. > mugugno atona, trascinando i piedi in casa e chiudendogli la porta in faccia.

Una melodia di corde di chitarra pizzicate con troppa veemenza, condita con note roche e basse, mi raggiunge al bagno mentre ripasso sulle labbra il rossetto rosso.
< B.? Ma non rispondi? Sarà la quinta chiamata! >
Jessica si affaccia e mi porge il mio cellulare, che continua a illuminarsi nel palmo della sua mano.
Scoppio a ridere, guardando il suo riflesso nello specchio.
Ha in faccia quell’orribile e puzzolente crema ai cetrioli che, secondo lei, dovrebbe purificarle il viso.
< E’ Jacob. Non mi va di parlarci. > le spiego, districando di nuovo i capelli con la spazzola e voltandomi verso di lei.
Jess inarca un sopracciglio, che a malapena riesco ad individuare sotto quella melma verdastra, e mi ostruisce il passaggio.
< B, ti senti bene? Hai la febbre? > con la mano libera mi tasta la fronte ed io mi scosto infastidita.
< Mai stata meglio. > replico fredda, riprendendomi il cellulare con troppa foga.
< Non è normale che tu non voglia sentire Jacob. Cioè...parliamo dello stesso Jacob, no? Alto, muscoloso, carnagione scura, capelli e occhi neri... Avete per caso...litigato? > sonda il terreno, scrutandomi con i suoi occhietti piccoli.
< No! > rispondo in automatico con un tono forse un po’ troppo stridulo, arretrando senza accorgermene.
Sbatto con un fianco contro il lavello e sospiro affranta, sperando che il livido compaia solo dopo l’incontro con l’avvocato.
< Come mai? A causa dei tuoi frequenti e sospetti incontri con quel Cullen? >
Jassica Stanley è come un mastino quando ci si mette.
Fiuta la traccia di una succulenta notizia torbida a miglia di distanza e, una volta afferrato un lembo, non lo molla più finchè non è al sicuro tra le sua zanne e può spolparlo in tranquillità.
< Non essere ridicola! > esclamo agitando una mano davanti al viso.
Lei non sembra convinta e batte uno dei suoi zoccoletti sulle piastrelle grigiastre del bagno, in attesa.
< Ok, va bene, una cosa del genere. Devo ancora capire bene cos’è successo... > mi arrendo, sperando che lei riesca a mettere un po’ d’ordine nel macello che mi sta sconquassando il cervello da più di dodici ore.
Jessica sforna un sorriso gigantesco e batte le mani entusiasta.
< Lo sapevo, lo sapevo! Allora finalmente ti ha detto che ti ama! > deduce rapida ed il suo sguardo scintilla, come quando vede quegli stupidi telefilm per teenager con l’happy end sempre dietro l’angolo.
< Eh? > ovviamente io non ho capito nè a chi si riferisce dei due, nè perchè se ne sia uscita con una frase come quella.
< Oh, andiamo B.! Non dirmi che davvero non ti sei mai accorta dello sguardo da cucciolo innamorato che ti rivolge ormai da anni! Dio santo, lo sanno persino i muri! Quando entri nella stanza lui si illumina. E’ come un girasole. Tu ti volti, lui si volta, tu ti muovi, lui si muove. Sembra quasi che non respiri quando ti è lontano. Va in apnea! >
Spalanco la bocca stordita, cercando d’assimilare tutte le informazioni che Jess mi ha tirato addosso come pietre contundenti.
Ogni parola un ematoma violaceo, ogni pausa ad effetto un taglio superficiale che però brucia.
< Non è vero. > biascico, annaspando da sotto il cumulo di sassi alla ricerca d’aria.
Jacob innamorato di me?
Oh, andiamo è probabile quanto il fatto che l’avvocato da cui devo andare porti i tacchi a spillo!

< Ci sei o ci fai, B.? > domanda la mia amica, scuotendo lievemente il capo.
Perfetto, altro che mettere ordine! Jessica ha aggiunto altro macello nella mia testa, che adesso sembra una lavatrice durante la centrifuga.
I pensierini vorticano incontrollati, appiccicandosi alle pareti del cranio e impedendomi di afferrarne qualcuno.
Infastidita –e incapace di assimilare altre informazioni- la spingo da una parte con poca delicatezza e prendo la borsa sul letto, dirigendomi alla porta senza curarmi dei suoi richiami.

Lo studio dell’avvocato Harrington è al quinto piano di uno degli edifici più alti di Port Angeles.
Mi guardo attorno nervosa, strusciando le decoltè blu sulla moquette color mattone abbrustolito dal sole.
Alle pareti della sala d’attesa sono appesi almeno dieci cornici con altrettanti attestati e lauree.
La sua segretaria, una donnicciola piccola e con la faccia da criceto, mi serve una tazza di caffè bollente mentre attendo che l’avvocato si liberi.
Sorseggio il liquido bollente pian piano, soffiandoci di tanto in tanto sopra perchè si freddi.
Nella mia borsetta, il cellulare vibra di nuovo. Dovrebbero essere quindici chiamate perse, più o meno, ormai.
Sbuffando, lo tiro fuori e contemplo il display illuminato.
Diamine, perchè non riesco a premere quel fottuto tasto per rispondere?
Non è difficile, insomma non ci vuole niente...eppure è come se avessi la mano intorpidita.
No, non solo la mano.
Sono completamente anestetizzata.
Le parole di Jessica ancora mi ronzano nella testa, come uno sciame d’api rumorose e pungenti.
Ti ha detto che ti ama!
Lo sanno persino i muri.
Tu ti volti, lui si volta, tu ti muovi, lui si muove.

Ogni eco di quelle frasi che non riesco ad assimilare si gonfia e prude.
Vorrei potermi svitare la testa dal collo, staccarla e smettere di pensare.
Vaffanculo, Jess!
< Signorina Swan? L’avvocato Harrington ora può riceverla. >
Mi alzo in piedi ancora scombussolata, ricaccio il cellulare in borsa e, con passo sicuro, entro nello studio privato di William Harrington III.
E’ un uomo sulla quarantina, con una barbetta da capra e corti capelli brizzolati sulle tempie.
E’ seduto dietro una scrivania lucida, arredata con soltanto un portapenne, un portatile chiuso, un piccolo calendario da tavolo ed una lampada.
L’ambiente profuma di agrumi e fiori di campo così forte che mi dà la nausea.
L’avvocato indica con una mano la sedia di pelle di fronte a lui ed io mi ci siedo come se fosse rivestita da decine di spilli.
C’è qualcosa che non mi piace nei modi di quest’uomo.
Forse sono le iridi piatte, vacue, senza profondità; forse le mani tozze e sudaticce o forse sto solo diventando paranoica.
Mi impongo di respirare e di assumere un’aria professionale.
< Si spogli. > ordina perentorio, appoggiandosi allo schienale della sua poltrona girevole, come a mettersi più comodo per godersi lo spettacolo.
Non è la prima volta che mi capita di dover fare uno streap-tease.
Col tempo ci ho preso dimestichezza nel muovere i fianchi e sorridere sorniona, senza sembrare una papera che depone un uovo.
Jessica mi ha dato ripetizioni private per più di tre mesi prima che la mia performance fosse guardabile.
Sciolgo la cintura del cappotto e me lo faccio scorrere sulle braccia con lentezza, sfoggiando il babydoll preferito dalla mia amica, che le ho rubato dal cassetto senza permesso.
Un corpetto di ricami in pizzo blu elettrico e neri ed impalpabili decorazioni di tulle.
Faccio il giro della scrivania ancheggiando e volto la sedia di William Harrington, chinandomi poi in mezzo alle sue gambe.
Lui mi scruta ancora con uno sguardo che sà di disprezzo e brama e mi afferra per un braccio facendo girare me.
Presa in contropiede, cado ginocchioni a terra e, prima che possa voltarmi, uno schiaffo sonoro mi colpisce il sedere.
Il segno della mano di quel verme irradia dolore e bruciore lungo tutta la colonna vertebrale.
Stringo i denti e sopporto in silenzio il suo tocco, che si allunga verso le spalle facendo scendere una bretellina del corpetto.
Strizza un seno nella sua mano e, contemporaneamente, mi abbassa il perizoma, mordendomi la coscia.
Chiudo gli occhi con forza, cercando di pensare ad altro.
Rovisto nella mia testa alla frenetica ricerca di qualcosa di piacevole che mi aiuti a resistere e subito abbraccio l’immagine della camera di Jacob, in cui mi sono addormentata migliaia di volte stretta a lui su quel letto sgangherato e troppo piccolo per contenerci entrambi.
Poi, però, mi accorgo che dal pavimento della sua stanza spuntano ciuffi d’erba e fiori.
In un battito di ciglia, i poster alle pareti e il profumo di frittelle sono svaniti, lasciando il posto a coccinelle e margherite.
Il viso di Jake si distorce, impallidisce ed i suoi capelli sfumano nel bronzo.
Mi mordo il labbro, rendendomi conto che sono di nuovo nella radura con Edward, cullata dal ronzio di qualche ape e dal suo del vento che si intrufola nei rami.
Rilasso la tensione delle spalle e mi sento già meglio.
Posso farcela, posso...
Il clangore metallico di una cinta slacciata che cade a terra mi distrae, strattonandomi via con violenza dalla mia fantasia ad occhi aperti.
Mi volto terrorizzata e vedo che l’avvocato Harrington si sta abbassando i pantaloni e gli slip grigio topo.
Apre un cassetto della scrivania ed estrae una scatolina anonima senza etichetta, bianca e col tappo già praticamente svitato.
Quando l'odore dolciastro giunge al mio naso, lui si sta già spalmando la vaselina a piene mani con cui poi mi afferra deciso i fianchi, sporcandomi.
Cerco di divincolarmi, schifata e terrorizzata.
< Mi lasci! > grido, aggrappandomi alla libreria a cui prima non avevo badato, ma che ora sembra l'unica mia ancora di salvezza.
Le ginocchia stridono sulla moquette, bruciano, e i gomiti battono violentemente.
< Puttana, che cazzo fai? > ringhia lui, infilando le dita nella mia carne.
Urlo di nuovo e arranco, cercando di sfuggirgli, ma nonostante la sua pelle sia resa viscida dalla pomata, ha una presa ferrea.
Le sue intenzioni mi scuotono il corpo di brividi osceni che colano sulle braccia come gocce di veleno urticante.
Sono una prostituta sì, ma ci sono cose che non ho mai fatto e non ho intenzione di sperimentare adesso né mai.
In un gesto estremo, spingo la gamba destra all'indietro ed il tacco a spillo si conficca appena sopra la sua rotula.
Impreca e mi toglie le mani di dosso per portarle al punto dolente in cui l'ho colpito.
Io mi alzo di corsa, togliendomi le scarpe affinchè non mi ostacolino, mi tiro di nuovo su il perizoma, afferro borsa e giacchetto e corro fuori da quell'ufficio, inseguita dalla scia di agrumi come da uno sciame di vespe.
Ignoro lo sguardo sconcertato del criceto e mi fiondo a rotta di collo per le scale, scivolando più volte e cadendo sempre in malo modo.
Con lo sguardo umido ed il naso gocciolante, rovisto nella borsa alla ricerca del cellulare, spingendo nel frattempo con tutto il mio peso contro il portone del palazzo.
Compongo un numero che ho imparato a memoria in fretta e, mentre squilla, mi affanno alla ricerca di un posto in cui nascondermi dall'avvocato che, di sicuro dopo essersi rivestito, mi correrà dietro con pessimi propositi.
Mi mordo l'interno nella guancia nell'intento di non singhiozzare e adocchio un secchione in un vicolo alla mia destra, dietro cui mi appoggio rannicchiata.
L'odore acre di cibo avariato e decomposizione mi stordisce l'olfatto.
< Pronto? > la sua voce morbida quieta un po' i miei tremori.
Respiro piano, tendendo le orecchie per cogliere i suoni che mi giungono dalla strada.
< Pronto? > ripete di nuovo, un po' allarmato.
La sua preoccupazione rompe gli argini del mio pianto.
Isterica, lascio che lui ascolti per qualche attimo le mie grida di dolore, notando poi nel sottofondo il rombo di un motore possente.
Mi asciugo le guance bagnate con la manica del giacchetto.
< Sto arrivando, dimmi dove sei. >
Biascico l'indirizzo con un voce che non mi appartiene.
Non c'è più nulla di me in questi abiti sporchi e in questo corpo svuotato.
Non c'è più tracia di Isabella Marie Swan.
Doveva essere morta cinque anni fa, ma come al mio solito sono in ritardo. Il mio pessimo tempismo.
Ho lasciato che mi annientassero un pezzo alla volta, succhiandomi via l'anima dalla bocca ad ogni bacio rude ed insapore.
E adesso io non so più chi sono, non so più cosa voglio.
Chiusa a riccio, ripiegata su me stessa, sono uno spettro.
Un fantasma pallido e sconvolto.
Non sono più nessuno, ma desidero ardentemente una identità.
Una qualunque, non necessariamente una che mi calzi a pennello.
Lui fa per riattaccare, ma io glielo impedisco.
< Edward... > esordisco, premendo la testa sulle ginocchia raccolte al petto. < Edward...salvami. >

Angolo di un'autrice sempre più folle, di capitolo in capitolo:
Ho alzato il rating da giallo ad arancione per quest'ultima scena, dai tratti un po' troppo intensi, forse.
Spero di non aver turbato nessuno, ma era strano parlare di una prostituta senza mostrare questi lati del suo lavoro.
Ed ecco che qui compare la Bella meyeriana, quella che quando si trova di fronte ad una avversità, corre a rifugiarsi tra le braccia della persona più...diciamo disponibile. Disponibile nel senso che è disposta a gettarsi nel fango senza paure e di cui a lei importi meno che si sporchi. Edward fa la parte del cavaliere, ma Bella sceglie sempre sulla scia delle emozioni sbagliate.
Non è la paura che dovrebbe far capire chi ami davvero. E' il bisogno.
Come nel capitolo scorso, i ringraziamenti sono tutti per PosterGirl84, amica e giudicia fantastica, e HelloPrudence.
Un forte abbraccio.
Strange.

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Capitolo 4
*** Four. A world where words are colorful and sweet. ***


Four. A world where words are colorful and sweet.

Sono sempre stata un tipo schivo e riflessivo, chiuso e introverso.
Rifuggo le parole e i discorsi introspettivi da quando ho iniziato a comprenderne il significato.
Alle volte mi sembra di essere un bambino terrorizzato all’idea di dormire per colpa dei mostri che si annidano sotto il letto nella trepidante attesa di vedermi cadere nel mondo dei sogni, vinta dalla stanchezza.
Il mio mostro personale, però, anzichè essere fatto d’ombra e denti affilati come rasoi, è fatto di frasi smozzicate, lettere e verbi buttati a caso.
Se mi chiedessero qual’è la cosa che più apprezzo al mondo, risponderei senza nemmeno soffermarmici sopra, che è il silenzio.
Il nulla sospeso tra due bocche come il filo di un funambolo; il vuoto riempito di sguardi e pensieri inconsistenti, che sanno essere più dolci di decine di frasi grondanti di miele.
Attraverso le parole, le persone si beffano le une con le altre.
Le maschere della gente son costruite con fatica, calce, lettere e punti.
Parlando, si inganna più facilmente.
Il rapporto con mia madre, difatti, era basato più su ciò che non ci dicevamo che su quello di cui realmente parlavamo.
Non avevamo bisogno d’esternare ciò che provavamo. Ci bastava poco, a me e lei, per capirci e star bene.
Qualche messaggio striminzito scribacchiato sui post it sbiaditi che appiccicavamo sul frigorifero e lapidarie domande che non necessitavano di risposte filosofiche.
La sera a cena, ad esempio, erano i giornalisti a intavolare una conversazione per noi, che ci limitavamo a condire il tutto con qualche banale osservazione buttata lì.
Con mio padre, una volta venuta a conoscenza della sua esistenza e del suo nome attraverso un vecchio diario di Renèe, il silenzio era stato, invece, voluto.
Non c’era nulla da dire. Mai.
Avevamo vissuto senza conoscerci per anni, era inutile sforzarsi di recuperare assenze, mancanze alle recite scolastiche, compleanni e Natali non condivisi.
L’unica persona di cui non ho mai temuto la voce è Jacob.
Lui parla e parla e parla per ore, senza mai farmi pesare i laconici commenti che sputacchio ogni tanto.
Conversa amabilmente, mi fa ridere e mi trasporta in un mondo dove le parole sono colorate e dolci, non armi improprie da usare contro qualcun altro.
< A cosa pensi? >
Sposto gli occhi su Edward e sulle sue dita che mi accarezzano i capelli con movimenti lenti e rilassanti.
< Al silenzio. > rispondo d’istinto e lui mi sorride.
< Non ti piace chiacchierare, vero? >
Faccio segno di no con la testa e mi rannicchio sul suo petto, che profuma di dopobarba al muschio.
< Allora staremo zitti e ascolteremo il respiro l’uno dell’altra. Non devi spiegarmi nulla, Isabella. >
Mi bacia la fronte, gli zigomi e la punta del naso facendomi il solletico.
< Ma i tuoi li butti fuori di casa ogni volta che vengo? > gli domando, giocherellando con un bottone della sua camicia.
Sto bene.
Dopo la brutta esperienza appena vissuta, incredibilmente mi sento a mio agio, protetta e al sicuro.
Cerco una collocazione precisa per Edward, ma non ne trovo.
Sono indecisa se infilarlo nella squadra formata dalle persone di cui preferisco il silenzio alla voce o nell’avversaria...forse a metà.
Adoro sentirlo sussurrare, suonare il pianoforte e riempire l’aria attorno a noi della sua essenza, ma mi piace anche la melodia creata dalle sue corde vocali.
Ride e cambia posizione, mettendosi a pancia all’aria sul materasso morbido della sua stanza e trascinandomi sul suo petto.
Sotto il mio orecchio, il suo cuore batte regolare e calmo.
Decido all’istante che quello è il mio suono preferito.
< Mio padre è un ottimo medico ed è sempre richiesto a tutte le conferenze sulle nuove scoperte genetiche. Lui e mia madre, quindi, sono spesso fuori. I miei fratelli, invece, rincasano tardi puntualmente. Si godono la vita. >
Si attorciglia una ciocca dei miei capelli al dito e poi la usa per farmi il solletico.
< E tu? Non ti godi la vita? > lo provoco, prendendogli una mano.
< La mia vita è cominciata otto giorni fa, Isabella. > replica e non c’è ironia nella sua voce.
Trattengo il fiato.
< Stavo aspettando te. Ti aspetto da sempre. > mormora ed io tremo.
Il mio cuore si gonfia e galleggia nel petto senza peso.
E’ questo che si prova quando ci si innamora?
Perchè...io non mi sono mai sentita così, ma è una di quelle sensazioni che danno assuefazione.
Vorrei provare tutto questo più spesso. Una vita intera, se possibile.
< Ci hai messo tanto ad uscire allo scoperto, perchè? > chiedo, dando voce ad un interrogativo che mi ha tenuto compagnia tutte le sere dopo averlo incontrato.
Sembra rifletterci sù, ma alla fine risponde con tono rilassato e sereno, come se confessarmi quelle cose non lo disturbasse molto. Non più, almeno.
< Perchè, nonostante la vita che conducevi, ti vedevo felice. Ci incontravamo nei supermercati, ti passavo accanto sul marciapiede mentre ti stringevi in un cappotto spesso e traballavi sui tacchi, aspettavo sotto il tuo palazzo la sera di vederti rientrare sana e salva...ma tu non eri mai sola. C’era Jacob al tuo fianco e tu sorridevi. Invidiavo colui che riusciva a donarti quella gioia così sincera e mi ripetevo che tu non avevi bisogno di me. > tace e so che vorrebbe aggiungere qualcosa.
Mi accarezza il naso con la punta dell’indice ed io gli bacio il petto, lasciato scoperto dai primi bottoni della sua camicia blu.
< Poi cos’è cambiato? >
Ride della mia ingenuità e mi scompiglia i capelli sulla fronte.
< Ho semplicemente realizzato che ero io ad aver bisogno di te e mi sono fatto coraggio. Al massimo avrei ricevuto un rifiuto e mi sarei messo l’anima in pace...forse. > aggiunge divertito e nella pancia quel battito timido di farfalle diventa un tornado.
< Mi hai chiesto di salvarti...da cosa? > sussurra, come se temesse di vedermi scappare orripilata al cospetto di quella domanda tanto importante.
Sonda il terreno, cercando di non pressarmi troppo per ottenere una risposta, ma io non mi sento in imbarazzo ad ammettere cosa intendessi.
Qualcosa nella mia testa grida e scalcia terrorizzata.
E’ sbagliato!
E’ troppo presto!
Io, però, sono diventata brava a fingermi sorda e ignorare quelle proteste non è difficile.
< Dalla vita schifosa che conduco. Portami via, Edward. > sospiro.
Alzo la testa e trovo le sue labbra.
< Stai dicendo che... >
< Sì. >
E non appena pronuncio quella sillaba, mi rendo conto di aver fatto una stronzata.
Non che non voglia sposare Edward e acquistare nome rispettabile, ma semplicemente non ho incluso Jacob in questi piani.
Ho bruciato i progetti che avevamo fatto io e lui senza nemmeno pensarci un attimo, abbagliata dalle promesse luccicanti di Edward.
Sono una completa idiota.

Che diavolo ci faccio qui?
Cos'è che sto aspettando? Un segno divino? Un aiuto dall'alto dei cieli?
Sbuffo e spengo il motore, rimanendo comunque con le dita incollate al volante della macchina che Jessica mi ha gentilmente prestato.
In realtà è un vecchio attrezzo scassato, con la vernice scrostata e la marmitta appesa col fil di ferro, ma finchè mi tiene all'asciutto e mi consente di arrivare a casa di Jacob non m'importa: potrebbe essere anche un monopattino, non vedrei la differenza.
All'inizio ho pensato di scrivergli un misero sms, in cui gli spiegavo per sommi capi la situazione, da brava vigliacca quale sono.
Poi ho optato per una telefonata, che mi permettesse di non sciogliermi in lacrime mentre gli comunicavo la mia decisione.
Alla fine, però, non ce l'ho fatta.
Ho cancellato almeno venticinque messaggi superficiali e freddi e altrettante pagine scarabocchiate, su cui ho tentato di mettere per iscritto il bel discorso che mi figuravo di fargli, ma con Jacob le parole non mi sono mai servite. Probabilmente avrebbe capito tutto ancor prima che aprissi bocca.
Fisso con insistenza il muro rosso di casa Black e provo l'irresistibile tentazione di attaccarmi al campanello, farmi aprire e, incurante delle pozze d'acqua che avrei seminato in giro, andare a rintanarmi sotto le coperte del letto sgangherato di Jake.
Ma lui non mi avrebbe accolto a braccia aperte.
Forse non mi avrebbe nemmeno lasciato entrare.
E avrebbe tutti i diritti di comportarsi così.
Ho impacchettato i nostri sogni insieme per anni, ammirandoli come se fossero regali di Natale sotto l'abete addobbato, e ora li sto buttando al secchio senza nemmeno avere il coraggio di guardarli un'ultima volta.
Dovrei essere io quella che annega nell'immondizia e nell'odore acre di cibo andato a male.
< Bells? > la sua voce, accompagnata da un picchiettare insistente contro il finestrino, mi fa sobbalzare.
Respiro.
Ingoio aria, sperando che qualcuno l'abbia alterata con un po' di coraggio liquido, e apro lo sportello, atterrando in una pozzanghera che quasi mi arriva alle caviglie.
Jake mi prende una mano, aiutandomi a stare in equilibrio sotto una pioggia che mi destabilizza e mi fa barcollare.
In pochi attimi siamo zuppi e gocciolanti entrambi.
Le sue dita calde scivolano tra le mie, così mi afferra per i fianchi.
Scroscia, l'acqua, sulla sua maglietta fina, incollandola ad un petto che non avevo mai fatto caso a quanto fosse scolpito.
Corre sul suo collo in piccoli rigagnoli, gli annacqua gli occhi e gli bacia le labbra carnose.
< Bells, vieni dentro! Ci prenderemo una polmonite! > mi esorta lui, cercando di spostarmi.
Mi aggrappo allo sportello del ferro vecchio di Jess, sentendomi un verme.
Non potrei mai entrare in quella casa soltanto per abbandonarlo.
Devo farlo qui, adesso. Ora. Subito.
Rapido, veloce, conciso e indolore.
Strappa, Bella. Strappati via da lui.
Hai scelto un posto diverso. Braccia diverse.
Un futuro diverso.
Sarai capace di costruirlo senza Jacob? Lui rappresenta le tue fondamenta. Lui è il tuo passato, il tuo presente.
La tua costante.
E tu lo stai lasciando per il primo venuto. Fatti schifo.
Rabbrividisco.
Rabbrividisco e piango.
Non so come fa, ma lui lo nota.
< Bells, che cazzo è successo? >
Odia non sapere, essere allo scuro, muoversi alla cieca.
Odia le mie lacrime, ma gli piace asciugarmele. Detesta quando lo faccio da sola con le maniche delle felpe larghe che indosso quando sto con lui.
Mi stringe in un abbraccio che ha già il sapore del taglio decisivo.
Netto e pulito, ma non per questo meno profondo e doloroso.
< Ti ha fatto del male? Quel bastardo ti ha messo le mani addosso? Lo ammazzo, dimmi dove abita! >
Ringhia e si stacca da me.
Stringe gli occhi e sembra che pianga anche lui.
Si morde l'interno della guancia, se lo tortura perchè non può fare altro: sa che non gli permetterei mai di avvicinarsi ad Edward.
Addio.
Gli accarezzo il viso bagnato e memorizzo la forma del naso, la tenerezza delle palpebre, la lunghezza delle ciglia, il colore preciso delle sue iridi umide.
Addio.
< No, non è questo. Io...io mi sposo, Jake. Mi sposo con Edward. >
Mi bacia la punta delle dita, leccando via le goccioline di pioggia.
< Sei una pessima bugiarda, Bells. Il tuo scherzo non mi diverte. >
Abbozza un sorriso, ma non gli arriva agli occhi.
Non ci crede nemmeno lui. Sta ridendo di me soltanto per non piangere se stesso.
Punta lo sguardo in basso, soffermandosi sull'invisibile lama con cui gli sto incidendo la carne.
Il suo sangue si mischia alla pioggia in gocce rosate e scivola sul suo addome e sulle mie mani.
Perchè quando ferisco te, mi faccio del male anche da sola?
Perchè, perchè devi rappresentare una parte di me?
E non una qualunque, ma la migliore, la più splendente e bella.
Quella che curo amorevolmente ogni giorno da anni. Quella senza la quale non potrei vivere.
Dimmelo, che sto facendo una stronzata.
Dimmelo, che sono una cretina.
Dimmelo, Jake.
Dimmelo.
< Sono seria, Jacob. Sono venuta qui per...salutarti. >
Mi mordo le labbra e le sue mani sui miei fianchi ardono.
Nel sangue delle vene, delle arterie e nei capillari scorri tu.
L'aria nei miei polmoni sei tu.
Mi sto uccidendo, Jake, ma seguirò la scelta che ho fatto se tu non mi trattieni.
Tienimi con te, dammi una motivazione.
Dimmelo.
Dimmelo.
< Avevamo dei progetti, io e te. Che fine gli hai fatto fare, eh? Tutto a puttane per quel damerino impaccato di soldi? Da quando sei così venale? >
Mi stringe il polso, ora, e i suoi occhi sputano saette.
Mi brucia il cuore, lui. Mi brucia la pelle, lui. Mi brucia l'anima, lui.
Incenerisce la nostra vita insieme perchè il ricordo lo tormenta.
E si arrabbia, allontanandosi da me.
< Io...io non ti merito. > biascico, sviscerando una verità che non ho mai rivelato.
A Jake, come a me stessa.
Stargli accanto, tenerlo fra le braccia, mi dà la sensazione di avvelenarlo, di contaminarlo con cellule infette che morderebbero le sue spolpandole fino all'osso.
Lui è la mia luce.
Ma io per lui sono l'ombra, l'oscurità, le tenebre, e più tempo passiamo insieme, più lo risucchio nel mio vortice incolore.
Nero.
< Cos'è, la frasetta dietro cui ti pari? La stronzata che mi rifili per lasciarmi? Per farmi credere di essere migliore di te e persino di lui? >
< Lo sei. >
Abbracciami.
< Cazzate! Resta con me, se è vero! Sposa me, Cristo! >
Tira un pugno contro la corteccia nodosa e bagnata di un pino alle sue spalle e si graffia le nocche.
La vista del suo sangue mi paralizza e non solo per la repulsione che provo.
< Non posso. > sussurro.
Si volta e si avvicina di nuovo, furioso.
Serra le dita attorno ai miei gomiti e mi strattona.
< Perchè? > la sua voce sembra un grido d'aiuto.
Ha l'espressione disperata.
< Amo Edward. Non sono capace di amare nessun altro. >
La pioggia che ci frusta è più forte del mio sussurro.
Un lampo alle mie spalle illumina il suo sguardo attonito e ferito.
Cos'è che vuoi, Bella? CHI è che vuoi?
Non puoi averli entrambi.
Incespica nei respiri, Jacob.
Mi guarda come un maratoneta a corto di fiato scruta l'orizzonte in cerca dell'agognato traguardo.
Mi tocca, mi scalda e quelle mani sono familiari, sono quelle che conosco e che ho sempre amato.
Non hanno affusolate dita da pianista, non sono bianco latte e non hanno unghie perfette e curate, ma sono le stesse che hanno costruito per me decine di castelli di sabbia.
Sono quelle di cui conosco ogni tendine, callo e giuntura. Sono le stesse che mi accarezzano i capelli da una vita mentre dormo.
Come posso buttare via tutto?
Tu sei per me quello che nessuno sarà mai.
Sei quanto di più caro e dolce io abbia...e proprio per questo devo starti alla larga.

Io non ti faccio del bene.
Muori un po' alla volta, un brandello di pelle e di cuore ogni attimo di più.
Ti stai spegnendo, Jake.
Ti sto spegnendo io. Sono una nube di gas nocivo e denso che appanna lo splendore del sole.
Sono velenosa e devo proteggerti. Proteggerti da me e dalla mia schifosa vita.
Si beve il mio dolore.
Lo vedo stillarlo goccia a goccia, leccandolo via insieme all'acqua fredda.
< Tu sai amare anche me. Forse ancora non l'hai capito o non te ne accorgi, ma è così. >
Afferra la mia mano e se la porta al petto.
Sotto il cotone fradicio, il suo cuore batte contro le costole prepotente e furioso.
Rimbomba, scalpita, grida.
Tu ti volti, lui si volta, tu ti muovi, lui si muove.
No.
Non voglio sentirlo. Non voglio saperlo.
Taci, maledetto organo.
Rallenta, smetti di battere!

< Non è vero. Tu per me sei un amico e basta, Jake. >
Tremo e cerco di sottrarre la mano dalle sue, favorita dalla pioggia, ma lui me lo impedisce.
Devo andarmene, prima di fare qualche stupidaggine come quella di baciarlo.
Devo andarmene prima che lui abbia il tempo di...
< Ti amo, Bells. >
...dire questo.
< Guardami in faccia e dimmi che puoi vivere senza di me ma non senza di lui. >
Con la mano libera mi alza il viso, esponendolo al cielo plumbeo senza pietà che piange lacrime affilate e gelide sulle mie guance.
< Non chiedermi di mentirti. > mormoro, muovendo appena le labbra.
Labbra su cui lui si china per un attimo, tenendo gli occhi aperti per studiare la mia reazione.
Mi sfiora, piano e con dolcezza, e poi succede una cosa imprevedibile.
Di colpo il mio corpo si anima da solo, come se qualcuno avesse inserito una sorta di pilota automatico.
Di slancio gli getto le braccia al collo e infilo le dita tra le sue ciocche gocciolanti, mordendogli le labbra.
Lo ferisco, come lui ha ferito me mettendomi davanti alla verità.
Sanguina lui, sanguino io.
Assaporiamo l'uno il gusto conosciuto e al tempo stesso estraneo dell'altro.
Non siamo mai stati così vicini.
Non siamo mai voluti diventare quel noi che sapevo da tempo esistesse e che mi ero sempre sforzata di ignorare.
Faceva paura.
A me più che a lui.
Adesso non più.
Non c'è traccia di Isabella Marie Swan e di Jacob Black.
Sono morti.
Sono risorti, fusi in un solo essere.
Sono io.
E' lui.
Siamo. Insieme.
Prendo aria dalla sua bocca, la ingoio come fosse mia.
Me ne approprio e lui non protesta.
Mi stringe e tra le nostre labbra finisce anche qualche goccia di pioggia che lecco via.
Chiude la portiera con un calcio e mi spinge contro la lamiera bagnata, ghiacciata e scivolosa.
Famelico, gioca con la mia lingua e insinua le dita nel casino che devono essere i miei capelli.
Ancora. Ancora.
Serra le dita tra le mie e tra un affanno e l'altro borbotta qualcosa che non capisco.
< Mi ami, Bells. > sbotta infine, scendendo col viso sul mio collo umido.
Rabbrividisco perchè la sua non è una domanda.
Sì.
Dieci, cento, mille volte sì.
< No. >
Mi stacco e lo spingo via, piangendo senza ritegno.
< Perchè sei così ostinata? > esplode lui, arretrando.
Allarga le braccia distrutto e calcia il fango delle pozzanghere ai suoi piedi.
< Non possiamo stare insieme. Io...sposerò Edward. Mi dispiace, Jake. >
Prima di poterlo vedere crollare di schianto al suolo, salgo in macchina, scivolando nel tentativo di arrampicarmi sul sedile di pelle marrone.
Con mano malferma metto in moto e mi affanno per fare la cosa che mi riesce meglio: fuggire via.
< BELLA! >
Il suo urlo addolorato mi giunge lo stesso, mentre mi allontano più in fretta che posso.
Attraverso lo specchietto retrovisore lo vedo immobile nel punto in cui l'ho lasciato, con le ginocchia in quella poltiglia grigio-verdastra e gli occhi spenti, vacui.
Sconfitti.

< B., ma che diavolo hai combinato? >
Prima di poterle risponderle, crollo a terra.
Jessica emette uno strillo acuto.
Butta sul cuscino lo smalto aperto e corre verso di me, cercando di tenermi cosciente con piccoli schiaffetti.
Mi rialza, passandosi un braccio dietro le spalle, e mi adagia sul mio letto, togliendomi subito le scarpe sporche con un'espressione disgustata.
< Tu scotti. Hai la febbre! > esclama, precipitandosi in bagno e tornando poco dopo con almeno dieci flaconi di pasticche diverse, che mi fa ingoiare una dopo l'altra senza nemmeno leggere il foglietto illustrativo.
Mando giù una pillola anonima dopo l'altra, ubbidiente.
Non mi lamento neppure del suo pungente profumo.
Nelle narici ho ancora l'odore di terra umida, erba bagnata e pioggia fredda.
< Vitamine, minerali, antidolorifici, aspirine, calmanti, antipiretici. Ti ho dato tutto quello che avevo. > scuote la testa, sconsolata, spogliandomi lentamente con le sue mani calde.
Mi lascio muovere come una bambola, senza riuscire a emettere un suono.
Sono troppo stordita.
Mi sento...anestetizzata, narcotizzata, ma non c'entrano nulla i farmaci.
Non è di natura fisica l'apatia di cui sono vittima.
Sono chiusa in un bozzolo rigido e stretto, che mi immobilizza e concentra i miei pensieri su un unico punto.
Amo Jake.
Lui si volta, io mi volto, lui si muove, io mi muovo.
Abbiamo varcato i confini del termine ''amicizia'' e tornare indietro non è più possibile.
Non posso stare con lui, ma non riesco nemmeno a immaginare di vivere senza.
< B., perchè piangi? Perchè sei fradicia? Ti prego, dimmi qualcosa. >
La preoccupazione di cui è pregna la voce di Jessica fa scorrere nuove lacrime sul mio viso cadaverico.
< Mi sposo, Jess. > biascico, sanguinando ad ogni parola.
Lei ride con sollievo e mi abbraccia, cercando di scaldarmi.
Io tremo, mi dispero e faccio a pezzi me stessa senza mostrare alcunchè all'esterno.
L'hai ucciso, Bella.
Avverto il sonno calare su di me come un avvoltoio e, indifferente, lascio che mi afferri e porti via.
Qualunque cosa in questo momento è gradita.
Qualunque cosa che non lo riguardi.
Qualunque cosa che cancelli la sua espressione abbandonata dall'epidermide del mio cuore, dove è rimasta tatuata.
Mio.
Indelebile.
Lontano, perso.
Troppo distante.
Perfetto, tu. Sbagliata, io.
Non posso ferirti. Non posso starti accanto, non come vorrei.
Ho tenuto gli occhi aperti al posto tuo, che non volevi vedere cosa sono.
Ho messo un punto prima ancora d'iniziare la frase.
Ho anteposto la fine al principio, in un cerchio che non si chiuderà.
Perdonami. Perdonami, io ti amo.
Addio.

  
Angolo di un'autrice che, al contrario di quanto voi crediate, non si è dimenticata della sua storia: 
Chiedo umilmente perdono per il disastroso ritardo con cui ho aggiornato.
Avevo perso la pennetta su cui era salvata l'intera storia riveduta ed è saltata fuori soltanto ieri -ovviamente era tra le grinfie di quella scimmia di mio fratello, che stava cancellando le mie cose per far posto alle canzoni di Eminem. -
Comunque ho poco da aggiungere. Questo capitolo è uno dei miei preferiti in assoluto nella mia vita di FanWriter.
Ne sono davvero orgogliosa, specialmente della scena sotto la pioggia che richiama quella di NewMoon.
Come colonna sonora al pezzo ho pensato a ''Goodbye my lover'' di James Blunt; spero che ve l'ascolterete leggendo.
Un grazie enorme alle tre stupende ragazze che hanno recensito il capitolo precedente : HalloPrudence, SteffyBlack e Bells85.
Vi abbraccio forte. Ci leggiamo la settimana prossima, promesso.
Strange.


 

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Capitolo 5
*** Five. Gruesome nightmares. ***


Five. Gruesome Nightmares.

Una goccia fredda e viscida si fa largo sulla mia fronte, rotolando poi sul naso e atterrando silenziosa sul tessuto logoro di quei jeans che porto da tre giorni.
Tiro le maniche della felpa nera fin sulle dita e calco di nuovo bene in testa il cappuccio, rannicchiandomi per cercare di contrastare il freddo pungente che mi pizzica le guance.
Mi mordo le labbra screpolate e le faccio sanguinare, provocandomi conati di vomito di cui davvero non avrei bisogno. Quel poco che conservo nello stomaco vorrei riuscire perlomeno a digerirlo, senza risputarlo in una pozza dall’odore acido che mi terrebbe compagnia per ore.
Fisso il fiume marrone sporco, ingrossato dalle piogge torrenziali dei giorni precedenti, e freno l’istinto di buttarmi in acqua e lasciare che la corrente mi inghiotta, annegandomi crudelmente.
Mi sembra quasi di sentire già il sapore del fango sulla lingua e le bolle d’ossigeno che risalgono la trachea, abbandonando i miei polmoni.
Non che non abbia più voglia di vivere, ma non intendo nemmeno consumarmi poco a poco sotto questo ponte in rovina, morendo di fame o per assideramento.
La lentezza non fa per me. Meglio subito, veloce. Senza dolore, da brava codarda.
Sospiro e i contorni della mia vista si offuscano, come se stessi guardando attraverso l’obiettivo di una macchinetta fotografica non messo a fuoco.
Stringo le mani a pugno, infilandole nelle tasche per cercare di non fissare troppo le dita violacee.
Se durante la giornata il tempo di Forks è uno schifo, di notte è ancor peggio.
Pioggia e vento non mi hanno graziato mai, impedendomi di chiudere occhio per più di dieci minuti consecutivi.
Sbatto le palpebre più volte sulle cornee secche, cercando di dare di nuovo nitidezza a ciò che vedo, e realizzo che probabilmente non sarei comunque in grado di dormire.
Ho impresso nella retina il fotogramma sbiadito della bara di mia madre su cui Billy Black ha gettato una pala di terra ed un tulipano rosso, mentre in sottofondo un prete recitava sottovoce una preghiera di cui non capivo le parole.
Sono passate tre notti dal suo funerale.
Tre interminabili notti in cui non sono riuscita a scorgere nemmeno una stella in cielo, per chiederle se per caso Renèe Dwyer fosse passata a tenerle compagnia per un po’.
Tre interminabili notti in cui ho tenuto stretto al petto lo zaino di scuola, dove avevo buttato alla rinfusa tutte le mie cose, salvate dalla casa che mi era stata tolta per saldare i debiti che mia madre aveva accumulato nel corso degli anni per fornirmi un’istruzione decente.
Tre interminabili notti in cui ho rifiutato caparbia l’invito di Jacob a usufruire del suo letto caldo e della ospitalità che Billy mi ha offerto.
Non che l’idea non mi allettasse, ma i Black stentavano a sopravvivere già così con un figlio minorenne, due al college ed un padre di famiglia invalido, senza il bisogno di un’altra bocca da sfamare.
Avrei potuto essere affidata ad una coppia attempata per pochi annetti, il tempo di diventare maggiorenne, ma non ho nemmeno voluto incontrare gli assistenti sociali.
Sono fuggita via, rintanandomi qua sotto prima che venissero a sbirciare nella mia vita, mettendo sottosopra casa mia e di mia madre, la mia testa ed il mio stomaco.
Preferivo un’esistenza randagia ad una posticcia accanto a persone a cui non mi sarei mai affezionata e che avrebbero sorriso abbracciandomi in una foto di Natale, incorniciata sopra il camino.
I denti iniziano a battere, scricchiolando uno sull’altro, mentre qualcuno trivella il mio cranio con un invisibile martello pneumatico.
Soffia ancora un vento gelido eppure io brucio.
< Isabella? > una voce gentile, di una bambina intrappolata nel corpo di una ragazza, mi sfiora lieve.
Per un attimo penso perfino di essermela sognata, ma una mano fresca che mi accarezza la guancia fuga i miei dubbi.
Sollevo i miei occhi annebbiati su un viso preoccupato, incorniciato da capelli castani e anonimi.
< Sei Isabella, vero? > chiede ancora, avvicinandosi finchè non riesco a intravedere la montatura di un paio di occhiali da vista squadrati.
I restanti tratti del suo viso sono confusi, sbavati, appena abbozzati dalla mano di un disegnatore distratto.
< Ha la febbre alta... > sembra rivolgersi a qualcun altro, poi torna da me, sventolandomi una mano sotto il naso.
La sua pelle profuma di cocco. E’ familiare.
< Mi riconosci? Sono Angela Weber, siamo in classe insieme. >
Riesco appena ad annuire, aggrappandomi al suo odore più che ai ricordi che ho di lei.
< Adesso ti portiamo a casa, Bella, ok? Ti troveremo dove stare, non preoccuparti. > Alla voce morbida della mia compagna di scuola si sostituisce quella più rude di un uomo adulto, che mi prende tra le braccia.
Mi aggrappo al suo collo e chiudo gli occhi velati, illudendomi che quel signore dai capelli brizzolati possa davvero trarmi in salvo.
 
< Bella? Bella! >
< Sono tre giorni che va avanti così. La febbre non si abbassa, io non so cos'altro fare. >
< Mio padre è uno stimato dottore. Sta rientrando di corsa da un viaggio di lavoro per venire a darle un’occhiata. >
< Spero faccia presto. Sta delirando di nuovo e mi sembra che i suoi incubi peggiorino. Non fa che invocare il nome di sua madre. >
< Bella, ti prego, resisti. Io sono qui. Mi senti, Bella? Sono Edward. >
 
Le dita ghiacciate nei guanti tremano.
Piegarle mi provoca fitte di dolore acuto e la lana raschia la pelle delle nocche, arrossandole ancor di più.
Mi stringo il giacchetto addosso e infilo le mani nelle tasche dei jeans, saltellando sul posto per cercare di scaldarmi un po'.
Il mio fiato si addensa in piccoli sbuffi di vapore davanti al mio naso ghiacciato ed io continuo a scrutare la strada ammantata di foschia alla ricerca della luce della moto di Jake.
E' in ritardo ed io sto morendo assiderata qui fuori.
Se non si sbriga gli toccherà scongelarmi col phon o nel microonde insieme alla lasagna che consumeremo per pranzo.
Il mio cellulare non dà segni di vita e Jessica è uscita prima di me, portandosi via come al solito suo anche la mia copia di chiavi.
Alzo di nuovo il bavero della giacca, che sembra fatta di cartone umido, sul collo infreddolito e tremo.
Tremo un po' troppo, per la verità, tanto che inizio perfino a battere i denti in modo aritmico e fastidioso.
Decido, quindi, di canticchiare una canzone a bassa voce, accennando qualche passo di danza.
Mamma mi aveva fatto prendere un paio di lezioni quando ero più piccola e, per quanto fossi goffa, stranamente ballare non mi aveva mai causato grandi problemi.
Al contrario mi erano stati fatti anche i complimenti.
Fischietto una melodia imprecisata e tremula, zompettando sul bordo del marciapiede in punta di piedi.
Allargo le mani per stare in equilibrio e continuo a passeggiare e saltare, sbuffando ogni volta che il mignolo sbatte contro la stoffa fredda delle scarpe.
< Non sapevo che miss-ginocchio-perennemente-sbucciato sapesse improvvisare un balletto simile. > la sua voce mi fa sussultare e inciampare.
Finisco a carponi sul terreno, con i guanti che si bagnano immediatamente assorbendo l'umidità dell'asfalto.
< Bells, possibile che tu non sappia tenerti in piedi? > mi si avvicina e mi solleva tra le braccia senza sforzo, scuotendo il capo.
E' sudato e caldo.
Mi aggrappo al suo collo rabbrividendo e cerco di scaldarmi il naso strofinandoglielo sotto il mento.
< Sei un ghiacciolo, per la miseria! > esclama ridendo e io balbetto un'offesa poco originale, infilandomi di nuovo le mani in tasca.
< H-ho ffreddo, J-Jaake. > riesco a dire senza allungare troppo le lettere, nemmeno fossero chewingum appiccicate ai denti.
< Scusa, è colpa mia...ma come un coglione non ho controllato la benzina e sono rimasto a secco a metà strada. Ho trascinato la moto fin qui. Dovremmo accontentarci della tua camera, invece che... >
< Nooon ho le...siamo cccch-chiusi fuo-ri. > biascico e lui ride, divertito.
< Hai mangiato pane e simpatia a colazione, Bells? >
La sua risata gli fa vibrare il petto e mi sembra quasi che si espanda tra le mie costole, riempiendo gli spazi vuoti.
Mi sento un po' come una cassa di risonanza.
Ma far riecheggiare vicino al cuore la sua risata non è poi male. Tutt’altro.
Il mio cuore accenna qualche passo di danza, nell'udire quel suono, proprio come avevo fatto io poco prima.
Non replico e continuo a tremare tra le sue braccia, mordendomi le labbra per diminuire lo stridore dei denti.
< Oh...cazzo ma sei seria? > domanda poi, fissandomi incredulo.
< Je-Jessica si è poorta-tata via le chii-chiavi. > gli spiego strizzando gli occhi secchi.
Jacob rimane pensieroso qualche istante.
Sono sicura che sta ponderando le alternative che crede abbiamo, anche se la verità è che siamo bloccati su questo marciapiede al freddo.
Poggia, d'improvviso, la bocca sulla mia fronte e sospira.
< Bells, credo tu abbia la febbre. >
Annuisco e quel gesto porta con sé dei giramenti di testa vertiginosi.
< Conosci un fabbro per caso? > mi domanda di colpo, girando sui tacchi diretto verso il portone con la chiusura sempre difettosa, che solo lui riesce ad aprire senza chiave.
Inarco un sopracciglio curiosa e sussurro una risposta negativa appena udibile.
< Oh, beh, lo cercheremo poi. Devo per forza buttare giù la porta della tua camera. >
Ride e rido anche io, posandogli le labbra screpolate sul collo bollente.
Mi poggia a terra contro il muro, accarezzandomi la testa e fissandomi intensamente qualche attimo, prima di mormorare contro il mio orecchio qualcosa che sento appena.
< Mi prendo io cura di te. > mi sembra di cogliere.
Difficile stabilirlo con certezza: ho i timpani bombardati da un ronzio fastidioso e persistente che non riesco né a spegnere né ad abbassare.
Chiudo gli occhi qualche istante e quando li riapro sono sdraiata sul mio letto, con una pezza gocciolante sulla fronte e troppe coperte addosso.
Mi agito per toglierne almeno un paio, ma due mani brune sono più svelte di me.
< Bentornata nel mondo dei vivi, bella addormentata. > sussurra la voce di Jake alla mia destra.
Mi volto appena e mi ritrovo a strofinare il naso contro il suo.
E’ caldo e sorride.
In automatico anche a me viene spontaneo farlo. Quando c’è lui io non posso farne a meno.
Ogni mio sorriso gli appartiene, così come ogni lacrima che ha asciugato con affetto e nascosto dentro di sè per non mostrarmi il dolore che io stessa avevo intrufolato in quella stilla d’anima.
Billy, una volta, mi ha raccontato di averlo sentito mugugnare qualcosa nel sonno che somigliava a “ Non piangere più. Se piangi mi uccidi”.
Non ne ho mai parlato con Jacob, ma da allora ho sempre tentato di mostrarmi più forte, un po’ più coriacea per non caricarlo di altra sofferenza.
Doveva essere saturo sommando la mia, di cui si faceva carico da sempre, e la sua.
< Fortuna che eri seduta quando sei svenuta o saresti crollata per terra come un sacco di patate. > mi prende in giro e mi morde giocosamente il naso.
Mi rannicchio contro il suo petto e lui mi stringe in un abbraccio che mi scalda più delle coperte.
Il suo tepore mi accarezza la pelle e penetra sottocute, avvolgendo il cuore in una membrana protettiva e bollente.
Starnutisco e lui finge di pulirsi schifato e continua a ridere e a coccolarmi finchè non mi riaddormento.
Entro ed esco dal dormiveglia per ore intere.
Ogni volta che riapro gli occhi, però, Jacob è al mio fianco.
Alle volte si appisola con me, accompagnandomi per mano nei sogni confusi derivati dalla febbre, altri veglia il mio sonno, accarezzandomi i capelli o giocando con il ciondolo a forma di lupo che lui stesso ha intagliato e che penzola dal braccialetto da cui non mi separo mai.
Ciò che conta è che mi resta accanto. Non mi lascia sola. Mai.
Lui c’è da sempre e continuerà ad esserci. Lo so, ne sono sicura.
Non potrebbe essere diversamente.
 
< Allora, papà? >
< La febbre è alta. Le ho somministrato degli antibiotici. Dobbiamo solo attendere che facciano effetto. >
< Ma non si può fare nulla per i suoi incubi, dottor Cullen? >
< No, Jessica. Su quelli io non ho alcun potere, mi dispiace. >
< Andrà tutto bene, Isabella, vedrai. Tieni duro. >
 
Scendo le scale reggendomi al corrimano.
Ho la testa traballante, che resta al suo posto solo perchè sostenuta dal collo.
Strizzo gli occhi ma mi sembra di aver messo sul naso degli occhiali con la graduazione sbagliata.
Ho la vista fuori fuoco e tutto intorno a me danzano i colori in punta di piedi con fruscii vividi e intensi. Troppo.
Il solito odore di latte bollito e pane bruciato mi dà il benvenuto mentre trascino i piedi in cucina.
Mamma ha lasciato il bricco sul fornello acceso e ora tutto il suo contenuto s'è sparso sulla macchina del gas e il tostapane fuma.
Normale routine in casa Dwyer.
Strofino gli occhi pesti di sonno e le stampo un bacio rumoroso sulla testa.
Lei alza il viso dalla rivista che sta leggendo e mi sorride.
Mi sono sempre piaciuti i sorrisi di mia madre.
Anche nei periodi più neri riusciva a farlo spuntare sul suo viso giovane, quasi di bambina.
Io mi stringevo a lei e, contemplando le sue fossette giocose, riuscivo a credere che ce l'avremmo fatta, che ogni cosa si sarebbe potuta sistemare.
Prendo la scatola aperta dei cereali con le mani che tremano e mi siedo al tavolo con lei, mangiando senza fretta e in silenzio.
C'è qualcosa che non va.
Un presentimento sinistro che s'inerpica con agilità sulla mia colonna vertebrale e mi punge la nuca.
Un inquietante senso di inadeguatezza, di qualcosa di completamente sbagliato che accende di nuovo le tonalità circostanti.
Lampi abbaglianti di verde mela, giallo banana e nero caffè davanti alla mia retina.
Scatto indietro, rovesciando la sedia, e mi copro la faccia impaurita.
Fai un bel respiro, Bella.
E' autosuggestione.
Va tutto bene, non devi temere nulla.
E' solo spossatezza. Sei stanca e stressata dalla scuola.
Ora torni in camera, ti metti sotto le coperte calde e...
Uno scricchiolio alla mia destra cattura la mia attenzione.
Un tonfo ed il rumore di una crepa che s'allarga nella porcellana.
Incuriosita, allargo le dita e scopro un occhio.
Un urlo agghiacciante mi rimbalza in gola e poi muore nei polmoni.
Glaciale come un boccone di neve sporca, come un respiro di vento invernale che mi gela il naso.
Mia madre mi restituisce uno sguardo vitreo, insapore.
Mi guarda ma non mi vede davvero. Non può.
La sua pelle risplende bianca come il latte incrostato vicino al fornello. Lucida e dura come una scorza.
Una bambola di cera inanimata, priva di vita.
Lungo le sue braccia corrono fenditure quasi invisibili, espanse come i fili di una ragnatela.
Nel punto in cui toccano le nocche, spezzano il suo corpo.
Cado a terra senza far rumore.
Sul tavolo, assieme alle briciole del pane tagliato fresco, giacciono le sue dita di argilla bianca tranciate di netto.

Mi sveglio di soprassalto, gemendo e gridando.
Ansimo, spingendo via l'aria dal naso e dalla bocca.
E' contaminata.
Odora ancora di latte troppo bollito e pane bruciato.
Mi graffio il viso, cercando di strapparmi via dalla pelle quei brividi macabri, ma non ci riesco.
Si sono appiccicati lungo tutto il corpo e mi turbano.
< Isabella, amore... > due braccia asciutte e pallide mi circondano la vita.
Appoggio la fronte sulla spalla di Edward e singhiozzo sommessamente, artigliandomi le cosce per essere sicura di essere finalmente sveglia.
Nell'incoscienza ho rivissuto momenti tristi, dolorosi e di serenità, culminati tutti nel senso di atroce perdita.
Mi sento come se mi trovassi ad affrontare di nuovo il lutto, come se mia madre fosse appena stata ripescata tra le lamiere accartocciate della sua auto.
Come se stessi ancora correndo sotto la pioggia, disperata, per tornare a casa illudendomi di trovarcela.
< Ehi, B., come ti senti? >
Il profumo stucchevole di Jess mi trascina definitivamente nella realtà che conosco.
Sollevo la faccia dal petto di Edward e, da sopra la sua spalla, guardo la mia amica sorridermi incoraggiante.
< Uno schifo. >
Lei ride, coprendosi la bocca con la mano come sempre.
Deglutisco a vuoto.
Bentornata nel mondo dei vivi, bella addormentata.
Sospiro e di colpo mi ritrovo a pensare che il tessuto della maglia di Edward sia troppo morbido e non mi piaccia che profumi di biancheria appena lavata.
Dovrebbe sapere di marmitte annerite e grasso di motore e le fibre dovrebbero essere lise e consunte.
< Siamo stati così in pena. Non facevi che agitarti inquieta, invocando il nome di tua madre. >
Jessica sembra a disagio. Si arrotola la cintura della vestaglia sulle dita e poi la riannoda senza sosta.
Una, due, dieci volte.
< Ora, però, è tutto finito. Mi occupo io di te. > la voce di Edward è vellutata, così come le sue dita fresche.
Rabbrividisco quando mi accarezza e mi mordo le labbra ancora febbricitanti con ferocia.
Mi prendo io cura di te.
Pelle calda e abbronzata. Mani grandi che incorniciano tutto il mio viso.
Mi ami, Bells.
Un abbraccio possessivo nel sonno, dita che giocano con i miei capelli.
Il suo sapore.
Il sapore di una vita intera.
Fisso Jess e lei distoglie lo sguardo.
Mi stacco da Edward senza remore e m'infilo le scarpe al volo traballando sulle gambe, affannandomi poi a cercare un cappotto.
< Cosa... >
< Mi dispiace, Edward. Sono una stupida. Perdonami se puoi, ma io ora devo andare. Andare da Jacob. >
Non mi volto, non gli regalo un ultimo gesto o un ultimo sguardo.
Afferro decisa la maniglia e sto per chiudermi la porta alle spalle, ma la voce di Jessica mi blocca un istante.
Uno soltanto. Non posso sprecarne di più.
< Sta partendo, Bella. Sbrigati! >

Angolo di un'autrice-zombie:
Tenete duro, siamo quasi alla fine.
Il prossimo sarà l'ultimo capitolo e poi ci sarà un epilogo breve, che darà un senso di completezza alla storia e al suo titolo, che non è affatto casuale.
Volevo ringraziare tutte le ragazze che mi hanno accompagnato in questo viaggio, anche se ne ho persa qualcuna per strada a causa di una poca chiarezza nella descrizione della trama.
Di questa storia sono particolarmente orgogliosa e fiera e spero che vi rimanga nel cuore per un pochino.
Vi abbraccio forte.
Alla settimana prossima.
Strange.

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Capitolo 6
*** Six. Icaro. ***


Six. Icaro.
 

< Jake! Jake, apri questa dannata porta! >
Mi sbuccio le nocche contro il portone di casa sua, tentando per la quindicesima volta di buttarlo giù a spallate.
Stringo le dita intorno al pomello che sembra un cubetto di ghiaccio e tiro verso di me, sbuffando sonoramente all'ennesimo tentativo andato a vuoto.
< JAKE! > grido allora, girando intorno alla casa, fino ad arrivare alla finestra del soggiorno.
Il vetro è appannato, ma con la manica della giacca creo una striscia pulita a cui attaccare il naso per poter vedere.
Billy dorme sul divano ed io sbatto i piedi a terra inferocita.
Ha il sonno così leggero che anche il ronzio di una mosca in un'altra stanza lo sveglia, perciò sta solo fingendo di star schiacciando un pisolino per non venirmi ad aprire.
Mi mordo il labbro, tirando via le pellicine.
Sto di nuovo andando nel panico, come poco prima guidando per arrivare qui alla riserva.
La macchina di Jessica si è spenta per protesta almeno due volte quando ho superato i centoventi chilometri orari e probabilmente ho fatto fuori gli ammortizzatori, dato che non mi sono affatto curata di evitare buche e dossi irregolari.
Avrei voluto avere le ali o possedere il potere di teletrasportarmi in un luogo solo focalizzandolo nella mia mente.
Desideravo buttarmi tra le braccia di Jake e implorare perdono in tutte le lingue conosciute al mondo, anche quelle morte da centinaia d'anni.
Avrei sbagliato pronuncia senza ombra di dubbio, ma lui mi avrebbe preso in giro e poi fatto roteare in aria tenendomi per i fianchi.
Ho ali fragili, Jake.
Sono come Icaro e tu sei il mio sole.
Mi ferisce avvicinarmi a te. Sciogli la cera che mi permette di volare e mi guardi stramazzare al suolo senza salvarmi.
Impudente, Icaro.
Egoista, Icaro, che ha lasciato qualcuno di caro a terra a piangere la sua morte.
Non gl'importa. Non m'importa.
Dovevo sfiorarti anche solo per un ultimo istante prima di farmi risucchiare dalla gravità.
Mi stringo le braccia al petto e mi dirigo al garage in cui ho passato giornate intere a contemplare Jacob immergere mani sicure nel motore di decine di auto e ridare vita a vetture che molti meccanici avevano dato per spacciate.
Gli passavo le chiavi inglesi, i bulloni e gli stracci con cui si puliva le dita sporche e che poi mi lanciava in faccia.
Non facevo mai in tempo ad afferrare la pezza unta prima che si schiantasse sul mio naso.
Lui scuoteva la testa ogni volta ridendo di me, ma alla fine si avvicinava, mi toglieva il grasso dal viso e mi baciava le palpebre.
Dove sei? Dove sei?
Torna qui.
Non te ne sei andato davvero.
Tu non mi lasceresti mai.
Il sole è onnipresente: non può abbandonare il suo posto nel cielo.
La serranda arrugginita è abbassata ed io scivolo sulle doghe sconnesse, rannicchiandomi per terra in mezzo al fango.
Piango in silenzio, come se temessi di farmi udire. Lui non sopporta le mie lacrime ed io mi sono ripromessa di essere più forte.
Non sono stata capace di mantenere nemmeno un proposito scemo come quello. Ed io che rimproveravo sempre lui per le mille promesse infrante.
Asciugati le lacrime, Bella, prima che lui le veda.
Chiudi gli occhi e non mostrargli il rossore. Non vuoi ferirlo.
Non vuoi far tramontare il tuo sole, vuoi che continui a splendere per te.
Sopra la mia testa rimbomba l’eco lontano di un tuono.
Sobbalzo e mi raggomitolo su me stessa, cercando di non cadere a pezzi.
Non sono mai stata brava, però, a tenermi assieme.
Era Jacob quello bravo a ricollocare ogni frammento al posto giusto.
Senza di lui...senza di lui io...
La serranda alle mie spalle si alza d’improvviso verso l’alto con un colpo secco e qualche scricchiolio.
Cado all’indietro, sbattendo la testa sul cemento ruvido che fa da pavimento al garage.
Una luce abbagliante mi costringe a strizzare gli occhi mentre mi lamento con un gemito impercettibile.
Le mie orecchie sono assordate dal rombo di una moto familiare.
La prima che ha riparato a sedici anni; la sorella di quella rossa che ha assemblato per me e con cui mi sono sfracellata sulla strada sterrata dopo la scogliera.
Annaspo, senza riuscire a fare trovare al suo nome la fessura delle labbra.
Mi resta incagliato alla lingua, appiccicato al palato.
Riesco solo a tendere un braccio verso la luce del faro, continuando a versare lacrime mute.
Sei qui. Sei davvero qui.
< Bells ma che cazz... >
S’interrompe a metà frase, imprecando.
La luce si smorza e il pavimento vibra sotto lo schianto del telaio della moto, distrattamente buttata di lato.
Si precipita su di me e mi prende tra le braccia, premendo la mia testa sul suo petto.
Mi culla ed io reprimo i singhiozzi.
Sii forte. Sii forte per lui.
E’ ancora qui.
< Che diavolo ci facevi lì davanti? Cristo, sei coperta di fango! >
< Tu...Io...pensavo te ne fossi andato. > sussurro, aggrappandomi al suo giacchetto di pelle fredda.
L’ho sempre detestato. Gli sottrae il tepore del corpo e m’impedisce di lasciarmi scaldare quando lo abbraccio.
Si irrigidisce ed io apro gli occhi annacquati per guardarlo.
Sta fissando casa sua, nascosta da un paio di alberi un centinaio di metri più in là. Non me.
Per Jake quello è un assenso.
< Lo stavo facendo e ti ho quasi investito. Non mi aspettavo di... > mormora e sembra rivolgersi più a se stesso che a me.
< Lo so. >
Puntello le mani sul suo petto, sporcandogli la maglietta di fango, e mi stacco da lui, inginocchiandomi a pochi centimetri di distanza.
Avanti, Bella. Raccontagli perchè prima sei fuggita e poi ti sei disperata quando hai pensato che fosse partito lasciandoti qui.
Dì la cosa giusta per una volta.
Spiegagli che sei una cretina che comprende l’importanza di qualcuno solo quando riesce materialmente a misurare il vuoto che lascia la sua assenza.
< Sai, ho incontrato Jessica al negozio di souvenir a First Beach. > stringe le mani a pugno e continua imperterrito a non fissarmi < Si è congratulata con me per il matrimonio. Pensava che fossi io il... >
Inghiotte aria, amarezza e risentimento.
A fatica, stringendo gli occhi. Con dolore.
Dimmi che puoi vivere senza di me ma non senza di lui.
Non è vero.
Bugia.
Insulsa, stupida, inutile bugia.
Non posso vivere senza di te.
E’ l’unica cosa di cui sono sicura. La mia sola certezza.
Tu.
Tu e nessun altro.
< Dove volevi andare? > gli chiedo, cercando con lo sguardo lo zaino che una volta usava per scuola.
Lo trovo schiacciato dal peso della moto, la cui ruota posteriore ancora gira, e scuoto la testa lievemente.
Conoscendolo ci avrà buttato tutte le sue magliette migliori appallottolate malamente.
< Lontano. >
Lontano da me.
< In Europa. > si stringe nelle spalle, come se non fosse sicuro e a me manca l’aria.
< Dovevamo vederla insieme. > la mia voce è un gemito. Dolorante della sofferenza scaturita da qualcosa che non si è mai avuta e già si è persa.
Non riesco a trattenermi dal fare quel commento inopportuno. Quando c’è Jake nei paraggi ho il brutto vizio di spiattellare qualsiasi cosa mi attraversi il cervello anche solo per un secondo, il tempo di afferrarla.
Dovevamo, sì, prima che io gettassi tutti i nostri programmi alle ortiche.
I pomeriggi trascorsi sulle mappe geografiche per tracciare i percorsi con un pennarello rosso, le opere d’arte e i monumenti che lo avrei trascinato ad ammirare e tutte le fiere di moto che lui avrebbe fatto vedere a me controvoglia, giacevano tra le foglie urticanti di quelle piantine fameliche.
Ora, inginocchiata e sudicia di fronte a lui, cerco disperatamente di riprendermi ciò che è mio e che ho buttato via con troppa leggerezza.
Mi pungo nel tentativo, ma non importa.
Devo salvare il salvabile, a costo di scorticarmi via la pelle delle mani dal prurito.
Sanguino e non ne sono nauseata. E’ un sacrificio accettabile per riavere indietro Jacob.
< No. Non esiste più alcun noi. L'hai dimenticato? TI SPOSI. > sputa quella parola con sdegno, come se il suo sapore lo disgustasse.
E dentro quel rinfaccio io ci colgo decine di frasi che non pronuncia ma vorrebbe.
Le conserva dentro il petto, invece, lasciando che feriscano lui piuttosto che me.
Tagli infinitamente minuscoli, quasi indistinguibili ad occhi nudo, ma che lo dissangueranno poco a poco.
Nonostante tutto, non hai mai imparato a farmi male, a infliggermi la giusta punizione che merito.
Si alza di scatto e scaglia un pugno contro la serranda alzata per metà.
Quella stride e si accartoccia su se stessa, lasciandogli un po' di ruggine sulle nocche.
Sobbalzo ma non mi sposto. Seguo il suo movimento inquieto in quei pochi metri di spazio.
Avanti e indietro.
Avanti e indietro.
Si passa una mano tra i capelli, li stringe tra le dita.
Si strofina il viso. Borbotta e impreca ancora.
Avanti e indietro.
Calcia la sua cassetta degli attrezzi e una lattina di Coca Cola che è lì da chissà quanto tempo.
< Che cazzo c'ha lui che io non ho, eh? > si gira di colpo e sbraita, allargando le mani.
Niente. Il mio cuore è tuo.
< Rispondimi, Cristo! > mi prende per le spalle e mi scuote.
I suoi occhi neri sono pezzi di universo senza stelle. Galassie morte.
E' il momento della verità, Bella. Adesso o mai più.
ADESSO.

Ruoto il viso e arrivo a baciargli la punta delle dita.
Gli sorrido in un modo che spero sembri incoraggiante.
Jacob mi fissa interdetto e lo vedo accantonare per un secondo la sua rabbia.
< Ti amo, Jake. >
Eccoli, eccoli amore.
Li vedi i fuochi d'artificio?
Come puoi non farlo? Sono assordanti e colorati e riempiono lo spazio tra noi con i pezzi del mio cuore esploso.

< Che hai detto? >
Annaspa, Jacob, in quel sentimento brioso che lo esalta.
Ci entra dentro con cautela, come aspettandosi tagliole e trappole ad ogni nuovo passo.
E' assuefatto al dolore e non riesce a credere che non ne avverta l'amarezza.
Gli prendo il viso tra le mani e, costringendomi a cavare dalle ossa qualche goccia di coraggio, premo le mie labbra sulle sue.
Ti amo. Ti amo.
Perchè non te l’ho mai detto prima?
Per proteggerti. Per salvaguardarti, preservarti da me.
Cercavo qualcuno a cui aggrapparmi di cui non mi importasse granchè.
Un salvagente, una ancora, una mano, qualunque cosa mi sarebbe andata bene.
Così, quando è arrivato Edward, bello e incredibile, mi sono illusa che le mie preghiere fossero state ascoltate: sembrava uno di quei perfetti principi delle favole con tanto di armatura scintillante e destriero.
Per un solo istante ho creduto di potermi salvare e di poter salvare anche te.
Mi sono sforzata di seguire quel che mi gridava la ragione, zittendo i sussurri del cuore...ma l’idea di dover passare tutta una vita a soffocare i miei sentimenti mi terrorizzava.
Perchè Edward, per quanto amorevole e premuroso sia, ha un solo, unico e insormontabile difetto: non è te.
Mi scansa, prendendomi entrambe i polsi con una sola mano.
Mi guarda incerto, in bilico tra l’entusiasta e l’atterrito.
Ringhia.
< Che cazzo stai facendo? > mi spintona via e si allontana.
Scottato. Umiliato. Ferito ancora.
Hai sbagliato di nuovo, Bella. Non ne fai mai una giusta.
< Io... >
Non mi vuole più. Non mi vuole più.
< Ti ha mollato e allora sei corsa dal coglione di turno che ti accoglie sempre a braccia aperte, vero? >
Dì di sì, salvalo. Proteggilo.
Lasciagli credere quello che meno lo uccide.
Cerca di apparire migliore ai suoi occhi di quel che in realtà sei: un mostruoso essere color verde egoismo.
< No. >
Stupida. Idiota. Cretina.
Mi alzo sulle gambe malferme e lo raggiungo.
Torreggia su di me ed il suo viso mi sembra troppo lontano.
Solo ora mi rendo conto che stava sempre un po' chino per non farmi alzare sulle punte per parlargli.
L'ennesimo gesto di gentilezza passato inosservato, dato per scontato.
< Sono qui perc... >
Cazzo, Bella, che ci vuole? Dillo. Dillo!
< Bells, perchè piangi? >
Il suo sguardo s'ammorbidisce di colpo.
Scusami se sono così debole; se non so tenerti lontano dal mio dolore; se ti ci trascino dentro, annegandotici pian piano.
Con un dito m'asciuga una guancia e poi continua ad accarezzarmi, invitandomi col suo silenzio a proseguire.
< Non ti ho mai amato abbastanza, eppure tu sei sempre... >
< Ti ho amato io per entrambi. > non mi lascia finire.
Un attimo prima era furibondo e pensavo avrebbe ridotto a pezzi il garage, l'attimo dopo mi sta baciando.
E non è un bacio come quello che mi aveva dato sotto la pioggia.
Le sue labbra non sanno di disperazione, di ultimo ed estremo gesto.
Non devono convincermi, pormi di fronte alla realtà perchè io ci sbatta il naso contro.
Sono morbide, attente, premurose.
Dolci come quei mirtilli selvatici che raccoglievamo sempre da ragazzini e con cui ci impiastricciavamo il viso, mangiandone a piene mani fino a farci venire il mal di pancia.
Mi stringo a lui e lo assaggio ancora e ancora. Non sono mai sazia.
Mi infila le mani nei capelli e ripete il mio nome nelle brevi pause tra un bacio e l’altro.
Se è un’altra delle allucinazioni date dalla febbre, non voglio mai svegliarmi.
Voglio morire per autocombustione tra le braccia del mio sole.

Ma le sue dita ruvide che s’intrufolano sotto la giacca sono reali. Io non riuscirei in nessuna fantasia a rendergli giustizia, a renderle così vere.
Sospiro e appoggio la testa contro il suo petto ansante e lui posa le labbra sui miei capelli disordinati e sporchi di polvere.
< Scusa per averci messo tanto. > chiudo gli occhi e strofino il naso sulla sua maglietta, cercando di non piangere ancora.
Ma come si fa a non scoppiare di felicità allora?
Ne ho talmente tanta accumulata nel sangue, nei polmoni, nei muscoli e nelle ossa, che da qualche parte devo pur farla uscire.
Vorrei regalarne un po’ a Jake come risarcimento per gli anni passati ad aspettarmi, a guardarmi preparare per qualcuno che non era mai lui: eterna mia seconda scelta.
Vorrei ci fosse un modo per recuperare il tempo perso nell’ostinata ciecità, nell’affannata ricerca di qualcuno che mi vedesse migliore di quel che ero.
Ce l’ho sempre avuto davanti, quel qualcuno.
Mi ama per quella che sono. Interamente, non tralasciando pezzi vergognosi qua e là.
< Ti farai perdonare. > mi sorride e a me sembra di fissare la luce accecante di una stella intrappolata sulla Terra.
Mi morde il labbro inferiore e mi prende in braccio.
Mi toglie il giubbotto frenetico ed io gli allaccio le gambe intorno alla vita.
Finiamo addosso al mobiletto che contiene le sue chiavi inglesi e qualcuna cade a terra tintinnando.
Mi lamento, massaggiandomi la schiena, e lui ride e si scusa.
Si guarda intorno, smarrito, ed io intanto gli mordicchio il collo e tento di sfilargli il giacchetto di pelle.
Mi scivola dalle dita impacciate e sbuffo più volte, fino ad attirare l’attenzione di Jake.
< Che c’è, Bells? >
< C’è che questo dannato coso non si toglie e io...io... > mi sento imbranata e inadeguata.
Non abbastanza.

Mi mette seduta sul tavolo da lavoro ingombro di scartoffie e modelli d’auto da corsa e poi mi alza il viso preoccupato.
< Ho fatto qualcosa che non va? Ti sei pentita o... > distoglie gli occhi a disagio e si allontana.
Deficiente! Deficiente che non sei altro!
Possibile che devi sempre riuscire a rovinare tutto? A far dubitare lui di essere giusto?

Si strofina la mano sulla fronte e si china a raccogliere la moto solo per tenersi occupato.
< Jake. > lo richiamo scalciando con i piedi.
Lui mi ignora ed io avverto dei crampi allo stomaco.
Fastidiosi come morsi e acuti come punture di spillo.
< Jake. >
Alza anche lo zaino e lo sgrulla con una mano.
Scendo dal ripiano con un salto e lo afferro per una spalla, costringendolo a guardarmi.
< Jacob Black smettila immediatamente di pensare di aver sbagliato qualcosa! >
Dalla sua espressione tentennante capisco di non averlo convinto.
< Dio santo perchè non capisci che...che tu sei diverso da...e io...non voglio...ho paura di... >
Andiamo, Bella, è come fare la ceretta.
Uno strappo veloce ed il più indolore possibile. Non puoi sempre bloccarti ogni volta che devi confessargli quel che provi.
Lui è Jake. Ti conosce da una vita e ti capisce meglio di quanto faccia tu stessa!

< ...di rovinare tutto. Di deluderti. Di...disgustarti...di perderti. >
< Quanto sei scema, Bells. Come fai a pensare una stupidaggine del genere? In che lingua devo dirtelo affinchè te lo metti in quella testa bacata? Io ti amo praticamente dalla prima volta che ti ho visto, con quei codini scomposti e due finestrelle nel sorriso birichino. E, purtroppo per te, sono testardo e non cambierò idea. MAI! Oh cazzo, questo sì che è sdolcinato.>
Mi dà una botta leggera sulla fronte e sorride di nuovo.
Mi bacia ed io dimentico come si respira, come si cammina e persino come mi chiamo.
Isabella Marie Swan esiste solo con Jacob Black.
Per il restante tempo è un’ombra morta e anonima sui muri di questa cittadina grossa quanto un pugno chiuso.
Nel tentativo di direzionarlo di nuovo verso il tavolo da lavoro –l’unico posto che mi sembra adatto-, inciampo in quello zaino che lui ha mollato a terra e me lo trascino dietro, facendolo scoppiare a ridere vicino al mio orecchio.
Offesa, cerco di scansarlo, ma lui non si muove.
Mi bacia la gola, le spalle tirando il colletto della t-shirt e mi fa perdere la testa.
Nonostante il freddo che s’intrufola dallo spiraglio della serranda alzata ed i sassolini che s’incastrano tra le scapole, io lascio che lui mi spogli e baci ogni centimetro di pelle nuda.
Senza vergogna, senza più paure.
Lui le ha buttate in un angolo assieme ai miei pantaloni e le tiene a distanza perchè non mi tormentino più.
Ogni sua carezza è un raggio di sole che mi sfiora, ogni impronta di labbra è un’eclissi infuocata che sconfigge le tenebre.
Niente favole, principi o animali incantati.
Non mi servono più per sopravvivere.
Non voglio più fantasie inconsistenti e promesse eterne.
Voglio la realtà con tutti i suoi tiri mancini, le perdite e i dolori.
La voglio senza filtri di protezione.
Dura e meschina così com’è...ma con Jake.
Mi stringe le mani quando entra dentro di me. Mi guarda negli occhi e dice ancora di amarmi.
Bacia la mia bocca e non ne resta avvelenato.
Possibile che sia davvero giusta per lui? Possibile che sia capace di amare senza riserve nonostante abbia trascorso gli ultimi cinque anni a convincermi del contrario?
Il suo corpo s’incastra col mio alla perfezione e ci muoviamo insieme come se non avessimo mai fatto altro.
I sogni, quei sogni che aveva tessuto insieme, sono di nuovo in piedi e mi scavano dentro ad ogni nuova spinta.
Più di una volta avevo pensato di farla finita, di smettere di vivere, ma solo ora mi rendo conto che a vivere, io, inizio ora.
Jake è il sole. Jake è vita e la sta infonendendo in me con i suoi sospiri e le gocce di sudore che gli scivolano tra i capelli.
Io vivo. Io sento. Io respiro. Nient’altro che non sia Jacob.
< Ti amo. > mi alzo e poggio la fronte sulla sua spalla e gli infilzo la schiena con le unghie mentre glielo dico.
Non sto delirando. Non sto sognando.
Non ne ho più bisogno.
Finalmente, abbastanza.

Angolo di un'autrice sull'orlo di un crollo psicologico:
Ci siamo. This is the end.
Vi romperò le scatole solo un'ultima volta per l'epilogo e poi sarà davvero conclusa.
Questa storia non era prevista. Mi ero sforzata con tutta me stessa di non iscrivermi al contest di cui conoscevo bene l'esistenza...eppure l'ho fatto. Beauty m'è scappata di mano e ha preteso che raccontassi di lei e così è stato.
Il risultato mi ha emozionato come una bambina: era la mia prima volta sul podio, perciò sono particolarmente fiera di questi miei Bells e Jake.
Spero che siano piaciuti a voi almeno un quindicesimo di quanto sono piaciuti a me.
Ringrazio Ipswich Rochester Clearwater per il meraviglioso banner alla storia (che a me proprio non riusciva) e ringrazio tutte coloro che mi hanno seguito, letto e accompagnato per mano fin qui.
A voi, bellezze incommensurabili, un pezzetto di me ed un abbraccio immenso.
Strange.

 

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Capitolo 7
*** Last one. Enough. ***


Last One. Enough.


4 Aprile.

Ho trovato il diario di mia madre, ieri, cercando qualcosa di decente da abbinare alla mia gonna a pieghe nei suoi cassetti disordinati.
Era sotterrato sotto comuli di lingerie di pizzo e tulle con ancora il cartellino e calzini spaiati.
Una semplice agenda di pelle nera senza scritte sulle copertina o disegni infantili, al contrario del mio che ha sopra una fatina con la faccia di Barbie a cui ho cancellato le ali con un pennarello grigio.
So che non avrei dovuto farlo, ma l’ho preso e l’ho portato in camera mia per sbirciarne il contenuto.
Mi sono sentita sporca ed in torto, ma volevo conoscerla meglio. Capire interamente che tipo di persona sia, visto che lei non parla mai volentieri del suo passato o dei suoi sentimenti.
Tiene chiuso tutto in una cassaforte sotterrata nel suo cuore. Solo mio padre, con il passare degli anni, è riuscito a intuirne la combinazione.
Dalle prime pagine sono spuntate fuori quattro fotografie dai bordi mangiucchiati.
La prima è in bianco e nero ed è la stessa che fa bella mostra di sè in una cornice sul camino in soggiorno: un’immagine della mamma e della nonna stese su un tappeto a leggere libri di favole ridendo.
Giovani, inafferrabili, bellissime.
Hanno gli stessi occhi e la stessa curvatura delle labbra che ho ereditato anche io.
Mi sarebbe piaciuto conoscerla nonna Renèe; mia madre ne parla sempre con nostalgia e lo sguardo velato di dolore.
La sua voce trema d’amore e le sue mani si stringono intorno ad una collana che le dato nonno Charlie qualche anno fa: aveva dimenticato di averla in cantina, tra le vecchie cianfrusaglie.
Per la mamma, quello, è il tesoro più grande che esista.
Le altre tre foto sono a colori.
In una c’è zia Jessica vestita da crocerossina sexy che indirizza a mia madre una linguaccia. E’ un’amicizia strana la loro, lo è sempre stata visto che mia madre è più chiusa di un portone blindato e parla di se stessa volentieri quanto parla di sesso con me.
Il famigerato e temuto “discorso” è toccato a mio padre farlo tra un’imprecazione, un disegnino storto ed un bicchiere di camomilla e l’altro –di cui detesta persino l’odore-.
Nella terza fotografia mia madre è sdraiata in una radura rischiarata da una luce chiarissima, piena di margherite e stupendi fiori azzurri. Variopinte farfalle svolazzano sopra il suo naso e chiassose api succhiano il nettare indisturbate.
Lei guarda un cielo, che suppongo sia limpido e sgombro, coprendosi il viso con una mano, mentre l’altra è intrecciata a quella di un ragazzo pallido, dai capelli mossi e bronzei e gli occhi verde bosco.
La sua bellezza toglie il fiato.
Non ho idea di chi sia, ma se mamma ne conserva ancora gelosamente il ricordo, deve essere stato importante per lei.
L’ultima foto è stata scattata nella casa di nonno Billy.
Il divano coperto da una fodera giallo sporco è ancora lo stesso e anche il tavolinetto in legno con la zampa anteriore destra storta.
Sopra, a gambe incrociate, sono seduti mamma e papà.
Hanno entrambi dei joystick in mano e guardano il televisore di fronte a loro con espressione concentrata e determinata.
Lei ha i capelli legati in una traccia sfatta, come quella che faccio sempre anche io al volo, e lui porta la maglietta nera che ho ripescato dal fondo del suo armadio e che uso ora per dormire al posto del pigiama.
Mi aiuta da sempre a prendere sonno.
C’è la sua essenza intrecciata tra le fibre di cotone; l’essenza del mio eroe personale.
Quella, la quarta foto, è la mia preferita.
E’ bella nella sua semplicità. Sà di quotidianità, di tranquillità. Di una vita trascorsa insieme.
Profuma come la mamma, come il dopobarba di papà, come i biscotti della domenica al limone, come le omelette a colazione, come il lucidalabbra al lampone che lei gli lascia sempre sulle labbra e che lui si toglie con la manica della maglietta con faccia disgustata.
Tra le mie dita riecheggiano le loro risate negli anni, i sospiri e gli insulti gridati in un impeto di rabbia, sempre seguiti però da scuse sentite e lacrime aspre.
Ogni volta che si abbracciano, mia madre e mio padre, sembrano fondersi.
Mi capita di non riuscire più a distinguere dove inizi uno e dove finisca l’altro.
Complementari. Indispensabili.
Aria.
Acqua.
Clorofilla.
Vita.

Chissà se troverò mai anche io una persona che mi guardi nello stesso modo in cui papà guarda mamma.
Nei suoi occhi rispende la luce di mille soli, tutte le sfumature dell’arcobaleno, la limpidezza delle gocce di una pioggia estiva.

Sfogliando il diario di mia madre, ho trovato spesso una frase scritta in corsivo, ripassata più volte, a lato della pagina.
Credo che esprima meglio di quanto potrei mai fare io con insipide parole d’adolescente il loro amore.
Lui si volta, io mi volto, lui si muove, io mi muovo.
Un girasole notturno.
Un satellite intorno al suo pianeta...

 

***


Ho lasciato perdere quel diario, alla fine.
L’ho scorso velocemente, senza soffermarmi su nulla in particolare.
Mi sono resa conto che, per capire ciò che mia madre è, non serve conoscere quella che era.
Quel che ha vissuto da giovane l’ha formata, ha gettato le sue fondamenta.
Ma è stato papà ha porre un mattoncino dopo l’altro e plasmare Isabella Marie Swan così come la conosco. Così come la amo. Così come la ama lui.
Vorrei solo poter rispondere alla sua domanda, che non ho potuto ignorare, vergata in rosso nell’ultima pagina da lei scritta, senza farla arrabbiare e senza confessarle di essermi impicciata dei suoi affari.
Quel foglio, pieno di cuori e aspettative, reca la data del giorno del fidanzamento suo e di papà –o della sua presa di coscienza, come la definisce sempre lei-.
Sarò mai abbastanza?
Sì, mamma. Lo sei.

 

Renèe Sarah Black.
 

Angolo di un'autrice che ha portato finalmente a conclusione questa storia:
Ogni volta che rileggo questo epilogo (il capitolo che più mi ha fatto impazzire) mi rendo conto di quanto ho amato questa Bells e questo Jake in particolare.
Non a caso, grazie a ciò che avete appena letto, "(Not) Enough" si è aggiudicata il premio come "Miglior Jacob".
Ne sono orgogliosa. Spero di non avervi deluso.
I Ringraziamenti vanno perciò a:
HelloPrudence, per aver letto, sognato e amato con me.
Postergirl, amica, sorella e giudicia insostituibile e impagabile.
SteffyBlack, sempre presente col suo affetto.
A tutte coloro che hanno messo la storia nelle preferite/seguite/ricordate pur non avendomi mai lasciato una parola.
A tutte coloro che mi hanno letto o hanno aperto per sbaglio la mia storia e poi richiuso in fretta la pagina.
  GRAZIE col cuore. 
 Alla prossima, spero.
Strange.

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