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Salve a tutti! Questa storia è molto incompleta e accetto suggerimenti e
consigli di qualsiasi genere… anche insulti se non vi piace…
Ma vi prego, datele almeno una chance! Gli eventi si svolgono in un
tempo indefinito dopo gli eventi di Dirge of Cerberus ignorando quello che sia accaduto in quel gioco
(capirete perché :P), e seguono le storie e le avventure
(principalmente drammatiche, ovvio!) di molti personaggi, in particolare delle
coppie Cloud e Tifa, Vincent e Yuffie con l’aggiunta di alcuni personaggi
originali. Se vi interessa sapere di più sui nuovi
personaggi creati da me, potete contattarmi, ho la possibilità di mostrarvi
disegni e quant’altro.
Grazie e buona lettura! :D
DISCLAMER: no, i personaggi di Final Fantasy VII e Square-Enix non sono
miei purtroppo… Le neanche i Good Charlotte.. PER FORTUNA!
Capitolo 1:
Is anybody listening?
Can they hear me when I call?
I'm shooting signals in the air
'Cause I need somebody's help
I can't make it on my own
So I'm giving up myself
Is anybody listening?
Listening
I've been stranded here and I'm miles away
Making signals hoping they'd save me
I lock myself inside these walls
'Cause out there I'm always wrong
I don't think I'm gonna make it
So while I'm sitting here
On the eve of my defeat
I'll write this letter and hope it saves
S.O.S –Good Charlotte-
La notte è madre e orditrice di complotti. Con inganni e mistero cela nelle tenebre tutto il male del mondo, come un vaso di
pandora. Il giovane presidente della Shinra Corporation, lasciava la sua mente
libera da timori e stringeva la mano alla complicità della sera per ordire i
suoi nuovi piani. Seduto sulla sua sedia a rotelle, costretto a convivere con
un corpo martoriato da un'orrenda malattia, Rufus scorreva i suoi occhi azzurri
sui profili notturni di una Midgar a pezzi.
Un tempo questa città era il centro del mondo, ora è solo un mucchio di
spazzatura.
Con l'aiuto dei Deepground Soldiers, la Shinra aveva ottenuto una nuova sede operativa, un'imponente palazzo di venti piani circa, di cui dieci
sotterranei. Non era di certo grande come il precedente grattacielo, ma
riusciva in ogni modo a sovrastare con autorità le macerie di Midgar. Il
presidente passava buona parte della giornata nel suo nuovo ufficio, una stanza
enorme situata all'ultimo piano del palazzo, controllando e gestendo la sua
corporazione, che diventava sempre più potente di giorno in giorno. Soffitti,
pavimenti e pareti erano ricoperti di un prezioso marmo nero, che s’intonava
perfettamente con l'umore del giovane Rufus; al centro della stanza vi era una
lussuosa scrivania, sulla quale era stato impiantato un monitor che al momento
trasmetteva l'immagine di una vasca di contenimento contenente una persona.
Rufus distolse lo sguardo dalla vetrata quando
sentì alle sue spalle l'arrivo di un estraneo. Nonostante
la stanza fosse illuminata dalla scarsa luce proveniente dall'esterno della
vetrata, Rufus riconobbe all'istante la sagoma formosa di Scarlet.
"Siamo passati alla fase due, presidente."
Scarlet disse avanzando verso la scrivania ancora di qualche passo prima di
fermarsi. Ora Rufus poté riconoscere alcuni lineamenti del volto della donna,
illuminati dalla luce lunare.
"Bene." Rispose, poggiando le mani sulle ruote della sua sedia e
facendo leva su di esse. Si spostò di lato,
rivolgendosi totalmente verso Scarlet.
"Il soggetto reagisce con profitto agli esperimenti."
Rufus ascoltò le parole di Scarlet, rivolgendo lo sguardo verso il monitor.
L'immagine mostrava ora la vasca di contenimento completamente vuota.
"Molto bene.." risposeassentemente, continuando a fissare la luce bluastra
del monitor.
"... ora voglio vederla."
Scarlet sorrise maliziosamente, nascondendo i suoi
sentimenti avversi nell'oscurità della stanza.
"Temo che il professore non sia d'accordo."
La donna affermò, appoggiando le sue mani sulla scrivania.
"Sai che non mi interessa la sua opinione.
Portami da lei."
Scarlet sospirò, scostandosi con stizza una ciocca di capelli dal volto.
Attese che il presidente la raggiungesse e poi gli
fece strada fino agli ascensori.
Lilian, assistente di grado elevato del laboratorio sotterraneo della
Shinra Corporation, sobbalzò da dietro la sua scrivania, non appena vide il
presidente e Scarlet uscire dall'ascensore numero uno.
La ragazza si alzò di scatto, gettò in fretta nel cestino alcune cartacce che
disordinavano la sua postazione e poi si sistemò in fretta i capelli. Scarlet,
che procedeva più velocemente del presidente, si avvicinò a Lilian, guardandola
con disprezzo.
"Il presidente desidera vedere i progressi dell'esperimento. Comunica
al professore del suo arrivo." Lilian fece per rispondere negativamente
alla richiesta scortese di Scarlet, poiché il professore aveva fatto esplicita
richiesta di non ammettere estranei ali laboratori, ma
non appena Rufus le fu di fronte, abbassò lo sguardo ed impugnò la cornetta del
telefono. Lilian ci mise poco a comunicare ciò che le era stato riferito: dopo
un paio di sì e di no ottenne il permesso di entrare.
"Prego, seguitemi." Lilian disse con
calma, uscendo dalla sua postazione. A causa della sedia di Rufus percorsero a
rilento un corridoio asettico, che conduceva ad una grossa porta metallica,
illuminata di viola, come il resto dell'ambiente, dai faretti situati sul
pavimento ai lati del passaggio. Lilian si fermò di fronte alla porta, estrasse
con attenzione una scheda dalla tasca del camice e la passò due volte sul
lettore posto a sinistra della parete. Una ventata di fumo bianco uscì da sotto
la porta, non appena questa si aprì lentamente. L'aria all'interno dalla nuova
stanza era notevolmente fredda, impregnata pesantemente di un odore simile a
cloro.
"Perdonate le emanazioni, ma questi ambienti
devono essere totalmente sterili." Lilian spiegò, continuando a camminare,
senza rivolgersi ai suoi interlocutori. La stanza, un laboratorio d’ultima
generazione, pieno di monitor, computer, macchinari enormi ed inquietanti, era
deserto. Nessuno scienziato si dedicava al proprio lavoro davanti ad un
microscopio o nessun assistente era intento a trascrivere dati: questo non
c’entrava con l’orario insolito della visita, i macchinari presenti erano totalmente
autosufficienti, perciò bastava solo qualche tecnico per le revisioni
mensili. Senza dubbio un vantaggio: significava più segretezza sugli
esperimenti, e meno soldi da elargire in stipendi. Lilian, Scarlet e Rufus
giunsero alla fine della stanza, dove si trovava una grossa vasca di
contenimento, collegata ad altri congegni mediante dei
tubi.
"Così ha già superato la prima fase." Rufus si rivolse a Lilian,
dopo aver scrutato alcune gocce di uno strano liquido verde sul pavimento.
L'assistente, sorrise con grazia, prima di rispondere.
"L'esposizione ad un tasso elevato d’energia Mako ha dato i suoi
frutti prima del previsto. Il professore è soddisfatto, non si aspettava una
risposta così immediata."
Scarlet lasciò i due soli, mentre discutevano dell'esperimento in corso. Si
allontanò dalla vasca verso un tavolo di metallo, facendo
attenzione a non calpestare con i suoi tacchi nuovi lo strano liquido verde,
ricoperto di provette e montagne di carta. Notò che buona parte delle provette
conteneva sangue e recava sulle etichette date molto recenti.
Che sia il sangue della ragazza?
Una delle provette sembrava riportare il nome del soggetto a cui era stato
prelevato tutto quel sangue. Scarlet fece per allungare la mano per girare l'etichetta,
quando fu frustata da una matita sulle dita. La donna si arrestò ed alzò
furiosamente lo sguardo, per vedere chi l'aveva colta alla sprovvista.
"Nessuno tranne me mette le mani sul materiale di questo laboratorio."
Scarlet, si massaggiò la mano colpita ed osservò il suo disturbatore con
cattiveria. L'uomo non la considerò ed avanzò zoppicando verso Lilian e Rufus.
L'assistente fece un profondo inchino di riverenza verso il nuovo arrivato,
mentre Rufus rimase impassibile.
"Professor Hojo, il presidente desidera vedere i progressi
dell'esperimento JEP3-3" Lilian annotò.
Hojo sogghignò, appoggiando sul tavolo delle provette la cartella e la
matita che recava in mano. Prima di parlare guardò ancora una volta Scarlet. La
donna, irritata alzò gli occhi al cielo e si congedò.
"Con questo io ho finito. Me ne vado." Scarlet lasciò la stanza,
dopo che Rufus la salutò con un gesto della mano.
Hojo sembrò visibilmente sollevato. Lui e Scarlet non andavano
molto d’accordo per svariati motivi. Si riaggiustò gli occhiali con l'indice
della mano destra e si avvicinò alla vasca vuota.
"Finalmente ho l'occasione di lavorare su di un soggetto dal
potenziale illimitato. Sono sicuro che il risultato finale sarà più che ottimo.
JEP3-3 sarà integrata nei Deepground Soldiers senza alcun problema." Hojo
parlò fissando la propria immagine distorta dal riflesso del vetro della vasca.
"Voglio vederla." Rufus ordinò, il suo tono di
voce freddo ed autorevole.
Hojo rimase immobile, con le mani raccolte dietro la schiena ingobbita,
silenzioso per diversi istanti. Poi rispose.
"Non sono d'accordo."
Rufus, che si aspettava una tale risposta da parte del professore, rise con
disapprovazione. Fece per alzarsi dalla sedia, con molta fatica e raggiunse
l'equilibrio sui propri piedi dopo qualche incertezza. Lilian lo guardò alzarsi
con timore, tenendosi pronta ad aiutarlo in qualsiasi momento. Ora Rufus e Hojo
erano uno di fronte all'altro, in piedi e con gli
sguardi fissi uno sull'altro.
"Anch'io non ero d'accordo a riaverti qui, non
dopo tutti i tuoi fallimenti che mi hanno portato alla rovina e non dopo aver
visto in che mostro ti eri trasformato a causa delle cellule di Jenova. Eppure..."
Hojo si trovò spiazzato. Non poteva ribattere dopo la verità che gli era
stata rinfacciata. Era solamente grazie a Rufus se si era potuto risollevare
dall'oblio in cui era precipitato. Essere di nuovo in un laboratorio, poter
lavorare ancora ad un progetto ambizioso di sua invenzione, erano le sue uniche ragioni di vita. No, forse c'era anche la vendetta
che stava finalmente portando a termine con i suoi ultimi esperimenti.
Il professore annuì e Rufus si tornò a sedere sulla sua sedia. Con un sospiro di sollievo, si riposò alcuni istanti prima di
seguire il professore e Lilian verso una nuova sezione del laboratorio.
"Il professore chiama questa stanza, Il Tempio."
Lilian bisbigliò a Rufus, mentre aspettavano che Hojo aprisse la porta. I tre
entrarono, il professore davanti a tutti. L'ambiente era completamente buio, eccetto per poche lucine verdi e rosse, probabilmente spie
di un qualche macchinario. Hojo conosceva a memoria i suoi laboratori, e
movendosi attraverso il buio con molta sicurezza raggiunse gli interruttori
della luce. Dopo un rumore secco, le luci si accesero.
Rufus si accorse di trovarsi su di una passerella metallica sopraelevata:
il laboratorio vero e proprio si trovava al piano inferiore, e per osservare
meglio i dintorni, si avvicinò alla balaustra della passerella. Abbassò lo
sguardo e finalmente vide il suo prezioso esperimento.
Al centro della stanza inferiore, adagiata su di una barella e coperta sino
alle spalle da un telo bianco, c'era il corpo di una ragazza.
… io non credevo..
Rufus si perse ad osservare i lineamenti delicati del volto della ragazza.
Capelli corvini corti e tinti di rosso sulle punte, palpebre velate di scuro, ciglia lunghe, labbra dischiuse, carnose e
violastre, la sua pelle che si distingueva a fatica dal candore delle coperte.
Il corpo che emergeva da sotto il telo era molto
esile, ma di statura alquanto elevata per essere quella di una giovane ragazza.
Quella figura così eterea fece trasalire i sensi di Rufus, che ignorarono per
un attimo la presenza di Hojo e Lilian.
Il professore intanto aveva raggiunto la fine della passerella, raggiungendo le scale che conducevano al piano inferiore.
Aveva percorso in fretta ogni gradino, zoppicando come il solito, sino ad
arrivare di fianco alla barella. Hojo fissò la ragazza, e le scostò il telo,
scoprendole le spalle e la parte alta del petto. Rufus notò che all'altezza del
cuore della giovane, c'era una grossa cicatrice da arma da fuoco.
…Allora è davvero....
"Che destino crudele per una ragazza di
quattordici anni" Lilian pronunciò queste parole, come se fosse stato un
pensiero ad alta voce. Si trovò molto imbarazzata quando
si accorse che Rufus l'aveva sentita. Mentre
continuava ad essere osservato da Lilian e Rufus, Hojo prese una siringa da un
carrello vicino la barella, la riempì di una sostanza nera e la iniettò nel
collo della ragazza. Passarono circa venti secondi, prima che la ragazza
aprisse gli occhi di scatto, risvegliandosi con uno spasmo ed inarcando la
schiena. Respirava a fatica, e teneva la bocca aperta in cerca d'ossigeno. O forse tentava di urlare, ma la voce non le usciva dalla
gola. La sostanza iniettata era energia Mako, liquida ma con una concentrazione
elevatissima. Di certo quest’iniezione era molto dolorosa, perciò la ragazza
continuava a contorcersi sulla barella. I suoi sforzi erano inutili, poiché era
stata legata alle caviglie e ai polsi, ma nonostante ciò continuava a muoversi
disperatamente. Hojo le fece un'altra iniezione (dopo diversi tentativi) e la
ragazza cominciò a calmarsi. Ora era quasi immobile, ma continuava a respirare
a fatica, con grossi sospiri.
Rufus osservò impassibile il dolore visibile della ragazza, prestando molta
curiosità al colore delle iridi, scarlatti, come se le avessero iniettato del sangue direttamente negli occhi.
Davvero inquietante,
ma la cosa non mi stupisce.
"Sei sveglia ora, JEP3-3. Ti ho riportato in
vita…" Hojo guardò con freddezza gli occhi del suo
esperimento.
"..Io.. Ho.. un..nome.."
La ragazza rispose con un filo di voce.
Coley, il tuo nome è
Coley..
"Il tuo nome non m’interessa. Tu per me sei e resterai JEP3-3"
La ragazza sembrò alterata dalla risposta, e tra uno spasmo e l'altro,
socchiuse gli occhi, lasciando che alcune lacrime le solcassero il viso.
"..Perché?"
"Oh, no... non ancora!" Hojo ribatté, alzando la voce. Riteneva
che il pianto fosse una delle cose più insignificanti esistenti al mondo, e
soprattutto non voleva che il suo esperimento mostrasse tali debolezze emotive.
Coley, d'altro canto, ignorò il tono di rimprovero del professore. Si
concentrò sulle cinghie che le stringevano con forza i polsi. Sfregò fino a farsi
sanguinare la pelle, cercando di liberarsi dalla fredda stretta della barella.
Nuove lacrime le scesero dagli occhi, non appena vide il professore preparare
un'altra iniezione.
"Vediamo se ora ti calmi." Hojo disse a denti stretti, sibilando
come se fosse un serpente. Mentre era già chino su
Coley e con la mano destra pronta ad iniettare la siringa nel collo della
giovane, voltò la testa verso il presidente e l'assistente.
"Il vero potenziale di questo soggetto si manifesta
quando raggiunge uno stato d’incoscienza." Hojo urlò, per farsi
sentire sino in cima alla passerella. Lilian si portò una mano davanti alla
bocca, per coprire la sua smorfia di disapprovazione, riguardo quello che Hojo
avrebbe fatto al più presto. Rufus non batté ciglio.
Il professore appoggiò con forza il proprio ginocchio sul petto della
ragazza, per bloccare ogni fastidioso movimento da parte di essa.
Poi, con velocità e decisione, conficcò l'ago nello stesso punto di prima e
svuotò l'intera siringa nelle vene di Coley. La ragazza cominciò ad urlare come
se fosse un animale feroce, si contorceva con una violenza inaudita, fino a
spezzare una delle cinghie.
Hojo, che nel tentativo d’iniezione precedente, si era scompigliato i
capelli ed aveva lasciato cadere i suoi occhiali sino a raggiungere la punta
del naso, guardò con soddisfazione la sofferenza di
Coley. Le urla della ragazza riempivano la stanza, facendo rabbrividire Lilian.
Rufus si voltò verso l'assistente, nell’attesa di spiegazioni.
Lilian cercò di ricomporsi, mantenendo a fatica un'espressione impassibile.
Si passò una mano sul collo, un evidente segno di stress.
"Il professore le provocherà uno stato d’incoscienza farmacologicamente indotto. E' un'esperienza molto
dolorosa. Dopodichè potrà mostrarle alcune abilità del soggetto."
"Ma non è pericoloso portarla a questi
limiti?" Rufus chiese. I suoi occhi brillarono per un istante, come se
pregustassero la risposta affermativa dell'assistente.
"Abbiamo precauzioni d’ogni genere, nel caso l'esperimento diventi
troppo aggressivo."
Lilian si avvicinò alla balaustra, appoggiando le mani sul corrimano della
passerella. Osservò il professore misurare i battiti cardiaci della ragazza con
uno strano marchingegno. Dopo aver annotato i dati su di un foglio sopra il
carrello, Hojo slegò le caviglie e il rimanente polso della giovane. Coley si
calmò all'istante. I suoi respiri si fecero lenti e profondi, lo sguardo
rimaneva fisso sul soffitto del laboratorio mentre i
polsi sanguinanti erano a penzoloni dalla barella.
"Alzati, e siediti." Hojo ordinò, girando le spalle alla ragazza.
Camminò verso una cassettiera piena di documenti relativi ad esperimenti in
corso. Aprì un cassetto e frugò per un po' al suo interno.
Coley, nello stesso tempo, si alzò a fatica, sistemandosi come le aveva ordinato il professore. La ragazza teneva i suoi occhi
scarlatti fissi sull'uomo, come se fosse nell’attesa di un ordine. La quantità
impressionante di Mako che le era stata iniettata,
l'aveva drogata, rendendola vulnerabile come una marionetta. Inutile specificare
che a muovere i fili, vi fosse la mente contorta di
Hojo.
Il professore terminò la sua ricerca, chiudendo il cassetto. Si voltò
velocemente verso la ragazza, alzò la mano sinistra verso di essa,
impugnando una piccola pistola. Non ci pensò due volte prima di aprire il fuoco
verso l'indifesa Coley. Seguirono nella manciata di
pochi istanti un sibilo, prodotto dal proiettile che tagliava in due l'aria
gelida del laboratorio, un urlo da parte di Lilian e il tonfo del corpo di
Coley sul pavimento.
Rufus spalancò gli occhi, sorpreso dall'azione improvvisa del professore.
Il corpo della ragazza giaceva a pancia in giù, immerso in una pozza di sangue
scuro. Il proiettile l'aveva colpita di sicuro al cuore, eliminando ogni
speranza di salvezza. Lilian non ebbe il coraggio di guardare la scena e si
lasciò cadere a terra, dando le spalle al laboratorio.
Hojo si avvicinò al cadavere di Coley, la girò sulla schiena con la punta
della scarpa, e poi si chinò di fianco ad essa. Osservò come il sangue sul pavimento brillasse in controluce
di verde smeraldo, lo stesso verde tipico dell'energia Mako allo stato più che
puro.
"Osservi.. l'immortalità di questa ragazza,
la sua invulnerabilità... Sarà la numero uno, così come saranno ' numeri uno '
tutti i soldati che creeremo da quest’individuo perfetto." Hojo urlò.
La grossa ferita sul petto di Coley cominciò a rimarginarsi in fretta per
poi scomparire totalmente, fino ad espellere il proiettile, che cadde a terra
scivolando dal corpo. Rimase solo l'ombra del colpo, una brutta cicatrice al
fianco di quella già esistente. Passati alcuni minuti la ragazza ricominciò a
respirare, non appena il naso si fu liberato dal sangue dovuto allo sparo.
Seguirono alcuni colpi di tosse e Coley riaprì gli occhi, ancora più scarlatti
di prima.
"Incredibile..." Rufus sussurrò, lasciando la bocca dischiusa
dallo stupore. In neanche cinque minuti aveva assistito alla morte e alla
rinascita di una persona.
Hojo notò l'espressione di Rufus e si crogiolò nella soddisfazione dovuta
al risultato positivo dei suoi esperimenti. Lasciò il
laboratorio, dopo aver preso un fascicolo dalla cartellina rossa, salì le scale
e raggiunse il presidente della Shinra. Prima di congedarsi, lanciò la cartella
sulle gambe di Rufus ed ordinò a Lilian di occuparsi della ragazza. Poi, come
un'ombra, scivolò fuori della porta, scomparendo nell'oscurità dell'altro
laboratorio.
Rufus salutò la giovane Lilian e tornò al suo ufficio. Hojo era sparito e
così il presidente non aveva avuto occasione di chiedere alcune spiegazioni
riguardo agli avvenimenti che aveva visto nel laboratorio. Una
volta arrivato, si sistemò in fondo alla stanza, di fianco all'enorme
vetrata. Strinse tra le mani il fascicolo che Hojo gli aveva dato
scortesemente. Si trattava di della cartella clinica di
Coley.
Lilian attese che la calma fosse tornata nel
laboratorio, prima di scendere al livello inferiore per prendersi cura di
Coley. Prese un telo pulito da un armadietto, e corse verso la barella dove
appoggiò la coperta, prima di chinarsi sulla giovane.
La sollevò da terra, appoggiandole le mani sotto le braccia. Coley non fece
alcuna resistenza, sembrava ancora attutita dalla sostanza velenosa che le
scorreva a fiotti nelle vene. La mise a sedere, notando che era completamente
sudicia di sangue.
"Che cosa ti stanno facendo..." Lilian
le disse, accarezzandola sul volto, macchiato da qualche spruzzo di sangue.
C'era molta dolcezza in quelle parole, e Coley le rispose, sbattendo le ciglia
ripetutamente.
"Guardati.. sei talmente disfatta che non
riesci nemmeno a parlare, vero?" Lilian proseguì, mentre le puliva
grossolanamente il sangue dal petto e dal viso. L'assistente capì che era
necessario cambiarle la biancheria intima, gli unici indumenti che Coley portava ormai da giorni.
Coley afferrò il polso di Lilian, bloccando i suoi movimenti.
"Portami a casa ti supplico.." La
giovane bisbigliò con un filo di voce roca, fissando con i suoi bellissimi
occhi il volto impaurito dell'assistente.
"Non posso.. io non..." Lilian rispose,
usando altrettanto un tono di voce basso.
".. Ti.. supplico.." Gli occhi di Coley
brillarono, velati dalle lacrime.
Il cuore di Lilian fece un tonfo, precipitando in fondo allo stomaco. Non
aveva né i mezzi né l'autorità per sottrarre questa piccola ragazza dalle
grinfie di Hojo. Coley apparteneva a Hojo. Lilian considerava l'adolescente che
aveva a pochi centimetri di distanza come una piccola bambina smarrita. Hojo,
al contrario, vedeva solo un corpo senza identità, altra carne
da macello per sperimentare l'ultimo progetto contorto, appoggiato dalla
Shinra.
Soldati d’ultima generazione. Uomini capaci di resistere
alle pallottole, dalle risorse illimitate, dalla forza di una bestia infernale.
Era questo quello che cercavano Rufus, Hojo e alcuni
degli ufficiali Zvet dell'esercito dei Deepground. Uomini immortali ed
invulnerabili. Coley sarebbe stata la numero uno, la
madre di tutti quei futuri soldati che riavrebbero portato il mondo sotto il
dominio della Shinra. Lilian ignorava che dietro la sete di sperimentazione del
Professore, si celasse la vendetta per un torto subito quasi vent'anni addietro. Un rimorso che Hojo si porta nel cuore
e al quale presto avrebbe dato sfogo.
Lilian sospirò, mentre Coley le rilasciava il polso.
"Non posso... io sono solo un'assistente e
nient'altro. Il professore prende le decisioni qui dentro."
Lilian pronunciò queste parole con dispiacere, perchè sapeva perfettamente che
non la pensava a quel modo.
Coley iniziò a piangere. Cercò di nascondere le lacrime e di soffocare i
suoi singhiozzi violenti dietro le proprie mani esili. Lilian la fissò per un
po', sentendosi in colpa per quello che aveva detto. Anche
se poteva sembrare una cosa inadeguata in un momento simile, l'assistente posò
lo sguardo sul suo orologio da polso. Erano ormai le due di notte.
Lilian si alzò ed invitò Coley a fare lo stesso. La ragazza obbedì, e si
tornò a sedere sulla barella. Poi si lasciò cadere all'indietro, tornandosi a
sdraiare con un tonfo. Lilian la coprì con la coperta, promettendole che il
giorno successivo le avrebbe procurato dei vestiti
puliti. Coley, ancora scossa dal pianto, non rispose. Lilian proseguì nel suo
solito lavoro, pulendo il pavimento e mentre asciugava l'ultima parte di sangue
rimasto, notò il piccolo proiettile. La donna si fermò, impugnando la scopa con
forza. Si fece coraggio prima di esternare la sua
curiosità.
".. Fa male.. vero?" Lilian chiese. Ma non ottenne mai una risposta. Capì che Coley non provava
più alcuna fiducia nella giovane assistente. Per un attimo era stata la sua
unica speranza, ma dopo le parole che Lilian aveva
pronunciato, Coley l'aveva catalogata come l'ennesima fedele a Hojo, una
perdita di tempo e basta.
Lilian terminò i suoi lavori, salutò ad ogni modo Coley e prima di spegnere
le luci ed uscire dal laboratorio, la fissò un'altra volta.
Non è
mai troppo tardi continuò a ripetersi tra se e
se tutta la notte.
Rufus era ormai giunto alla fine del fascicolo riservato al progetto Jenova
Experiment Project, meglio conosciuto con il nome della diretta interessata, la
giovane Coley. I Deepground Soldiers l'avevano catturata cinque mesi prima,
durante una pericolosissima imboscata a Nibelhime. Durante l'attacco, morirono
molti cittadini, diversi soldati della fazione del WRO e Coley stessa, freddata
davanti a tutti i suoi amici e familiari da un colpo di pistola partito da
Scarlet. Il cadavere della giovane, catalogato A1, in altre
parole mortalmente pericoloso, fu portato a Midgar ed affidato ad Hojo.
Il professore capì al volo che Coley era più che speciale, perfetta per
realizzare il progetto di Rufus.
Hojo passò i successivi due mesi a lavorare sul corpo della ragazzina,
andandone a modificare diverse volte il proprio DNA, oppure iniettando massicce
quantità d’energia Mako. Dopo una serie infinita d’esperimenti contro ogni
morale umana, Hojo trovò la combinazione giusta per riportare in vita Coley. I
rimanenti tre mesi furono un esclusiva di Hojo.
Nessuno, nemmeno Rufus, conosceva che cosa Hojo avesse fatto
sul corpo della povera Coley. Mutazioni genetiche, strani trapianti, iniezioni
di Mako... cos'altro avrebbe potuto escogitare la mente perversa di Hojo? Rufus
se lo chiese diverse volte, e continuò ad essere
crucciato da questo dubbio persino mentre chiudeva la cartellina rossa. Rimase
a pensare a questo, con il fascicolo stretto tra le mani e la testa appoggiata
allo schienale dalla propria sedia.
Era passato un giorno dalla macabra dimostrazione di Hojo nel laboratorio.
Lilian aveva passato le precedenti 24 ore a pensare alla povera Coley, al
rimorso per non averla aiutata come desiderava, alla colpevolezza nell'essere
complice ad un progetto disumano. Per questo aveva contattato in segreto una
persona che l'avrebbe aiutata a portare giustizia a Coley.
"Incontriamoci alle 23, nel bar vicino alle rovine del settore 4." Una voce maschile le aveva ordinato
dall'altra parte della cornetta.
Lilian attese la fine del suo turno al laboratorio del Livello S10,
riordinò la propria postazione, si assicurò d’essere sola
e si diresse verso gli spogliatoi. Aprì il suo armadietto, si sfilò il camice e
lo ripose con cura nel rispettivo appendiabiti. Si guardò allo specchio,
cercando di aggiustare la gonna marrone e la camicia bianca con alcune pacche.
Una volta soddisfatta prese una spazzola da sopra uno scompartimento
dell'armadietto e si pettinò i suoi capelli fulvi. Terminati i brevi
preparativi, si accorse di essere in perfetto orario e lasciò con tranquillità
l'edificio della Shinra Corporation.
Il bar, nonostante la tarda ora, era pieno di clienti, più che altro lavoratori notturni che prestavano servizio per
ricostruire la città. I lavori a Midgar non si fermavano mai. Lilian sembrava
risplendere nella luce soffusa del locale, con la sua bellezza semplice, ed
attirò diversi sguardi non appena entrata. La donna si guardò attorno, in cerca
del suo uomo. Lo vide subito, seduto all'ultimo tavolo nell'angolo più buio del
bar.
Si avvicinò portandosi una mano sul petto e mordendosi un labbro per lo
stress. Non fece in tempo a raggiungere il tavolo che le interessava, quando
tre uomini vestiti di nero e rosso le sbarrarono la strada. Lilian indietreggiò
intimorita.
"Non ti preoccupare, devono solo perquisirti. Dopotutto sei ancora una
dipendente della Shinra." L'uomo avvolto ancora
nella penombra parlò con calma. Lilian riconobbe la stessa voce con cui aveva
parlato al telefono la mattina precedente.
Gli uomini la perquisirono, sequestrandole il cellulare e le tessere
d'identificazione che teneva in tasca della gonna. Poi le fecero cenno di
sedersi al tavolo. Appena Lilian si accomodò, le guardie circondarono il
tavolo, coprendo la sua figura e quella dell'altro uomo.
"Mi devo scusare ma.. non ci si può mai
fidare della Shinra." L'uomo disse alzandosi, porgendo la mano verso
Lilian.
Finalmente la giovane assistente vide l'aspetto del suo interlocutore: un
uomo alto, molto distinto, vestito in un'elegante completo
blu elettrico, dai capelli lunghi raccolti in una coda, occhi scuri e
profondi e un pizzetto che gli copriva il mento pronunciato. Lilian strinse la
mano dell'uomo.
"Capisco... il mio nome è Lilian Bellamy, assistente di grado elevato
nel dipartimento di ricerca scientifica della Shinra."
L'uomo annuì, lasciando la presa di mano e si tornò ad accomodare. Lilian
attese qualche secondo, fissando l'uomo e nell’attesa che anch'egli si presentasse. L'uomo, non comprendendo come mai Lilian lo stesse
fissando, inarcò un sopracciglio.
"..Qualcosa non va, signora Bellamy?"
Lilian si sfregò le mani sul grembo e fissò la superficie liscia del
tavolo.
"Lei non si presenta?"
L'uomo sogghignò sommessamente, ma Lilian percepì lo stesso il sarcasmo.
"Non è il posto adatto per presentarsi. Ma,
mi chiami pure Reeve." L'uomo rispose sorridendo.
Lilian alzò di scatto lo sguardo su Reeve.
"..Reeve, QUEL Reeve?" Lilian bisbigliò,
cercando di non farsi sentire da altri.
Reeve annuì.
"Non se lo aspettava?"
"Beh.. non mi aspettavo che il WRO potesse
prestarmi così tante attenzioni..."
Reeve tornò a sorridere, e bevve un sorso del liquore che aveva ordinato
prima dell'arrivo della donna.
Lilian si trovava di fronte al presidente del WRO, il principale
antagonista della Shinra. Se qualcuno dei suoi colleghi
l'avesse vista e riconosciuta, avrebbe rischiato di essere giustiziata.
All'improvviso fu assalita dall'agitazione: forse questo era troppo, Coley dopo
tutto non era una sua “faccenda”. Non la conosceva
nemmeno, so non per quelle rare volte che l'aveva
vista nel laboratorio. Perciò come mai tanta
preoccupazione?
D'un tratto le ritornarono in mente gli occhi velati di
lacrime della ragazzina, che supplicavano di essere liberata dalle grinfie di
Hojo. Tutti i dubbi di Lilian, di fronte a quel ricordo, sparirono d'incanto.
L'assistente tornò a sfregarsi le mani sulla gonna, prima di spiegare quali
faccende l'avessero spinta a contattare Reeve.
"Innanzi tutto... Grazie per l'aiuto. Non
posso nascondere che sono un po' intimorita dalla clandestinità di questo incontro, comunque ne è valsa la pena, mi creda
signor Reeve."
"Qual'è la cosa che
l' ha spinta sino qui, dottoressa Bellamy?" Reeve chiese, mentre
osservava, con il bicchiere di liquore ancora in mano, la tessera che le
guardie avevano sequestrato da Lilian.
"Gli esperimenti. La follia che si sta consumando
nei laboratori sotterranei della Shinra Corporation. Credetemi.. Siamo tutti in grave pericolo!"
"Mi scusi.. ha detto laboratori
sotterranei?" Reeve chiese appoggiando il bicchiere e distogliendo
l'attenzione dalla tessera, per concentrarsi su Lilian.
"Sì.. si tratta di dieci livelli sotterranei,
accessibili solo al personale del dipartimento scientifico, poca gente
qualificata, dove si svolgono buona parte degli esperimenti del dipartimento.
Si testano e costruiscono armi, si conducono sperimentazioni oltre ogni soglia
d'immaginazione su persone ed animali... e molto altro ancora."
Reeve s'incupì man mano che Lilian proseguiva con la sua descrizione. Il
WRO sapeva di un rafforzamento da parte della Shinra, ma mai avrebbe
immaginato che il conglomerato si stesse riprendendo con tale velocità.
La donna si era interrotta, accorgendosi della perplessità dell'uomo.
"La prego, prosegua... sono curioso di sentire cosa succede alla
Shinra."
Lilian si schiarì la voce e proseguì.
"In realtà io non sono venuta per denunciare l'esistenza di laboratori
segreti. Il presidente Rufus, in collaborazione con un gruppo elitario, ha
approvato un progetto di cui io sono al corrente ed ho
il permesso di seguire, che è qualcosa di tremendo. Vogliono costruire un
esercito su misura, composto d’uomini immortali e.. per fare ciò conducono
degli esperimenti senza scrupoli su di un giovane soggetto, la matrice. Sono
venuta da lei per chiedere di salvare questa persona innocente, prima che sia troppo tardi."
Reeve continuava a mostrare perplessità e ascoltava con attenzione
l'assistente.
"Chi è il supervisore del progetto?"
"Il progetto in questione, denominato in codice Jenova Experiment
Project o JEP, è totalmente in mano al professor Hojo."
Non appena la donna pronunciò quel nome, le guardie si voltarono verso il
tavolo, mentre Reeve, con una strana smorfia, si girò di lato, appoggiandosi
allo schienale della sedia. Fissò la gente che lo circondava, tranquilla e
divertita, poi si rivoltò verso Lilian.
"Hojo.. questo nome dice tante cose. E spiega
anche, come mai lei abbia osato così tanto nel venire
sin qui.. Mi dica, la persona di cui lei parlava, il soggetto degli
esperimenti... conosce la sua identità?" Reeve chiese, cercando di
rimanere impassibile.
Lilian sospirò e prese il bicchiere di Reeve. Ingoiò tutto il rimanente
liquore, assaporando il gusto amaro del liquido che le bruciava la gola. Dopo
aver riposto il bicchiere, diede un piccolo colpo di
tosse e proseguì.
"So solo che il nome è Coley, ed ha circa quattordici anni. E'
tremendo che abbiano scelto di fare tali esperimenti su di una
adolescente indifesa.." Lilian si interruppe,
notando che qualcosa non andava in Reeve. L'uomo la stava fissando, i suoi
occhi si erano misteriosamente arrossati e rimanevano spalancati. Sembrava che
il presidente del WRO fosse sull'orlo di piangere.
"Signore.. c'è qualcosa che non va?"
Reeve continuava ad essere sconvolto.
"Ha.. detto.. che si chiama... Coley?"
Lilian annuì.
"Da quanto è lì, nei vostri laboratori?" Reeve chiese con un filo
di voce.
"All'incirca cinque mesi."
Una lacrima scese dall'occhio sinistro dell’uomo, il quale l’asciugò
prontamente con la manica della
Giacca blu. Il presidente del WRO si ricompose in fretta, schiarendosi la
voce ed ordinando ad una sua guardia di portargli un altro drink. Mentre un uomo in nero eseguiva l'ordine, Reeve e Lilian
proseguirono il loro discorso.
"Perdoni la domanda... ma lei conosce
Coley?" Lilian non riuscì a trattenere la curiosità.
Reeve annuì, prendendo in mano e bevendo buona parte del drink che l'uomo
in nero gli aveva appena portato.
"...Suppongo proprio di sì. Si tratta della figlia di un caro amico.
Mi dica.. è viva? Sta bene?"
Lilian si rattristò nel dover comunicare ciò che Hojo stava facendo a
Coley. La donna, lottando per non lasciarsi trasportare dalle emozioni, raccontò
dei vari e misteriosi interventi subiti dalla ragazza, delle iniezioni di Mako,
delle mutazioni genetiche, e dall'incidente della pistola accaduto due sere
prima. Spiegò con chiarezza e precisione tutti i
"progressi" di Coley, dei maltrattamenti psicologici e fisici che
subiva ogni giorno e della follia di Hojo nel persistere a sparare liberamente
sulla giovane per testare la sua invulnerabilità. Reeve rabbrividì, bevve altri
tre drink durante il racconto e rimase sempre silenzioso. Aveva ricevuto una buona
notizia, quella di Coley ancora viva, ma ora temeva il peggio perchè era nelle
mani di un pazzo. C'erano anche molte altre cose che Reeve temeva.
Hojo sapeva dell'identità di Coley?
L'ansia nel vederla mentalmente chiusa in un laboratorio sola con quell'essere gli suggerì che non c'era tempo da perdere.
L'orologio appeso sulla parete sopra il bancone del bar segnava l'una e
mezza. Buona parte dei lavoratori se ne stava andando e il locale si stava pericolosamente svuotando.
Finito l'ultimo drink, Reeve si alzò, seguito da Lilian.
"Le devo un grande favore signora Bellamy, il
suo coraggio e la sua dignità mi hanno aiutato a ritrovare una persona che
temevo fosse persa per sempre. I miei uomini la accompagneranno a casa, e le
lasceranno un mio recapito, con il quale saprà dove trovarmi in luogo più
sicuro di questo locale popolare. Non tema, Coley ora
ha speranza di salvarsi."
Lilian sorrise, e strinse con affetto la mano di Reeve.
"Ah.. dimenticavo di dirle che Coley è tutto,
fuorché una ragazza indifesa.." Reeve sbottò verso Lilian. La donna lo
fissò per un istante e poi i due si salutarono, congedandosi: lei uscì seguita
da due uomini in nero, mentre Reeve lasciò il bar dall'uscita sul retro,
accompagnato da un solo uomo. Nascosto nel vicolo buio dietro il locale, lo
attendeva una lussuosa macchina nera. Reeve entrò nella parte posteriore,
mentre la guardia prese il posto dell'autista. La
macchina partì a fari spenti, percorrendo le strade spettrali di Midgar e
dirigendosi verso la vicina Kalm.
Reeve prese il suo PHS, compose un numero che ormai sapeva a memoria e si
portò il telefono vicino l'orecchio destro. Passarono diversi
squilli a vuoto, prima che una voce femminile, molto addormentata, rispondesse
dall'altra parte.
"..P-ron-to..?"
"..Gaia? Sono Reeve, ho bisogno di uno dei tuoi genitori." Reeve chiese, sobbalzando per le scosse ricevute
dall'auto.
"Reeve..? Ma sono le due..! E... cos'è questo rumore di sottofondo?"
"Sono in macchina.. senti Gaia, è molto
urgente!"
"Va bene... va bene.. attendi in
linea..."
Gaia, una giovane ragazzina di quindici anni, appoggiò il telefono sul
mobile di legno della sala, premendo il pulsante d’attesa. Trascinandosi le
gambe, percorse con sonnolenza le scale che la condussero al secondo
piano. Attraversò il corridoio, passò la propria camera e si fermò davanti alla
porta successiva. Senza neanche bussare, aprì faticosamente la porta della
stanza dei genitori e proseguendo nel buio giunse in prossimità della sponda
del letto. Gaia allungò una mano e la appoggiò sulla spalle
di uno dei suoi genitori, probabilmente si trattava di sua madre.
"Mamma.. c'è Reeve al telefono..." Gaia
mugugnò scotendo la spalla della madre.
La donna emise un lamento incomprensibile, ma continuò a dormire.
"Mamma.. dice che è urgente..."
La madre sbadigliò, e si alzò dal letto, mentre Gaia, completato il suo
lavoro se ne tornò a dormire. La donna si vestì con la propria camicia da notte
che teneva sulla poltrona vicino al letto. Cercò di uscire silenziosamente, ma
inciampò in un paio di ciabatte che si trovavano sul suo percorso, svegliando
il compagno.
"Cos'è?" l'uomo chiese con la voce impastata dal sonno.
"Nulla, dormi pure, io torno subito."
La donna arrivò in sala, scendendo in fretta le scale. Raggiunse il mobile
ed impugnò il telefono.
"Pronto?"
"Tifa sono Reeve. Ho ricevuto una buona notizia. Più che
buona.. anzi un miracolo."
Tifa percorse la sala e si lasciò cadere sul
divano. I capelli le caddero davanti agli occhi, ma non appena si fu sistemata,
cercò di pettinarsi.
"Un miracolo? Vuol dire che il contingente
dei Deepground si è ritirato dal reattore di Corel?"
"No, no Tifa. Parlo di un miracolo vero e proprio."
Tifa si rabbuiò in volto.
"In questo momento non mi viene in mente nulla, Reeve. Se è qualcosa
di più importante di Corel... allora non saprei. Dato
l'orario, spero per te che sia qualcosa degno
d’attenzione." Tifa spiegò, mentre si stendeva
completamente sul divano della propria sala.
"Coley è
viva"
Quelle tre parole fecero trasalire la donna. Tifa si alzò
di scatto, sedendosi sul divano. D'un tratto il sonno
lasciò le sue membra. Lo shock fu tale che Tifa non
seppe più cosa dire.
"O cielo.. l' hai detto a Yuffie? Wutai Lo
sa? E Barrett? Hai chiamato Cid? Shera morirà sul colpo!” Tifa, dopo il silenzio iniziale cominciò
a parlare come in preda ad una forte agitazione. Non si accorse che aveva
alzato il tono della voce, svegliando il marito. L'uomo scese parte delle scale
e si fermò sul penultimo gradino ad osservare Tifa.
Capì che era successo qualcosa.
"Tifa... è tutto a posto?"
Tifa si scusò con Reeve e si voltò per rispondere
al compagno. Gli fece cenno di avvicinarsi, mentre riprendeva la telefonata.
"Reeve, ti passo Cloud. Io intanto vedo di chiamare Yuffie."
Tifa, alzandosi, passò il PHS a Cloud, che prese il
posto della moglie sul divano.
"Cos'è successo? I Deepground hanno lasciato
Corel?" Cloud chiese.
"No. Mi sono
appena visto con una ricercatrice della Shinra. Dice
che Hojo ha con sé Coley, che è viva ma è vittima di una serie di esperimenti,
di cui è la matrice. Cloud, dobbiamo intervenire e subito."
Cloud rimase colpito dalla notizia, ma naturalmente i suoi occhi azzurri
non tradirono alcuna emozione. Fissò Tifa, che era
uscita dalla sala, ed ora stava tornando con in mano
un altro telefono.
La donna compose velocemente un numero e si portò subito il telefono
all'orecchio. Cominciò a camminare avanti e indietro, di fronte Cloud, in attesa di risposta.
"Cercheremo di contattare Yuffie e gli altri, poi ti richiameremo.
Grazie Reeve. Buonanotte." Cloud terminò la chiamata,
concentrandosi su Tifa. All'ennesimo squillo a
vuoto, la donna riattaccò, fermando la sua camminata nervosa. Cloud e Tifa si osservarono per un istante. Cloud impassibile come al solito, Tifa preouccupatissima.
"Richiamerà, non temere. Torniamo a letto ora." Cloud confortò Tifa, invitandola a seguirlo verso la stanza da
letto. Era troppo tardi e la stanchezza non avrebbe aiutato
i due a difendere Coley.
HA! Cercherò di pubblicare il prima possibile i capitoli che ho già scritto….scusate
è che sono sotto maturità e mi sto ammazzando sui libri, perché ho sempre la
netta sensazione di non sapere nulla di nulla… ringrazio i miei primi due
recensori temerari, Dastrea e vinnie_pooh,
per la loro cortesia! E torno a dilettarmi con quel
gran simpaticone di Hegel! Buona lettura J
DISCLAIMER: Square-Enix, Final Fantasy VII e i suoi personaggi non sono miei *sigh* [ e neanche gli Alice in Chains.. ]
Capitolo 2:
I Believe Them Bones Are Me
Some Say We're Born Into The Grave
I Feel So Alone Gonna End Up A Big Ole Pile A Them Bones
Dust Rise Right On Over My Time
Empty Fossil Of The New Scene
I Feel So Alone Gonna End Up A Big Ole Pile A Them Bones
Toll Due Bad Dream Come True
I Lie Dead Gone Under Red Sky
I Feel So Alone Gonna End Up A Big Ole Pile A Them Bones
Them Bones –Alice in Chains-
La sera, con la sua
tranquillità, aveva già incominciato ad intorpidire le strade e la piazzetta
della piccola Nibelhime. Gaia, in attesa che
terminasse la riunione indetta dai suoi genitori e che prevedeva un piccolo
briefing con i dirigenti del W.R.O, aveva scelto di sedersi con le gambe
raccolte in un abbraccio, sulle staccionata davanti casa. La ragazza odiava la
calma di quel luogo così isolato dal resto del mondo, e la noia aveva già preso
il sopravvento nei suoi pensieri.
Tra uno scricchiolio e
l'altro, provocato dal suo dondolarsi con indolenza sulla staccionata, Gaia udì
un suono veloce ma estremamente debole, provenire alle
sue spalle. Dapprima cercò di ignorarlo, dando per scontato che si trattasse di un gatto o di uno scherzo del vento. In
seguito, dopo aver udito un'altro rumore, simile ad
una risata soffocata, Gaia si girò di scatto, scompigliandosi i capelli. In
realtà rischiò anche di cadere, ma poco le importò quando
riconobbe che la sua amica si era finalmente fatta viva.
Coley continuò a
sorridere, mentre osservava Gaia in procinto di cadere dalla staccionata.
"Non ridere, mi
hai fatto paura!" Gaia mugugnò mentre lasciava il
suo appostamento con un balzo. Coley si avvicinò all'amica e una volta raggiunta,
iniziò a seguirla a fianco a fianco verso il centro della piazzetta.
"Ma non eri già partita?" Gaia chiese calciando una
lattina che si trovava lungo il suo percorso.
"E' presto.." Coley rispose osservando la compagna con l'occhio
sinistro, quello che non era coperto dal suo lungo ciuffo.
Passarono alcuni
istanti di silenzio. In lontananza si udiva un cane che abbaia
noiosamente.
Anche se tra le due esisteva un rapporto di profonda amicizia
e comprensione, Gaia non aveva ancora imparato a reggere lo sguardo dell'amica.
Quell'occhio così profondo, grigio come le nuvole portatrici di tempesta, aveva
la capacità di scrutare non solo la sua immagine, ma anche i suoi
pensieri. Dietro quell'iride pareva che ci fosse in agguato una forza inaudita,
un qualcosa d’innaturale che Gaia si sforzava intensamente di comprendere da
tempo. Del resto il mistero che caratterizzava lo sguardo di Coley
sembrava calzare perfettamente con la sua personalità emblematica. Le
differenze caratteriali tra le due ragazze erano tante e in molti si erano
chiesti che razza d’amicizia potesse legarle. Eppure,
nonostante le contrarietà, i pareri avversi e qualche sottile vena di timore,
Coley e Gaia potevano tranquillamente essere definite grandi amiche.
"Meglio così,
vorrà dire che potremo vederci per un altro po'...
allora, quando ripartirai?" Non appena Gaia ebbe finito la frase, lei e
Coley avevano già raggiunto la piazza.
"Domani sera.
Sarà Cid a darci un passaggio." Coley rispose
osservando il cielo stellato. La pallida luce notturna illuminò
il volto della ragazza, il candore della sua pelle si distingueva a
fatica da quello della luna e delle stelle. E mentre il suo volto rivolto verso l'alto fissava la profondità del cielo, Gaia
notò all'istante che parte del ciuffo di Coley si era spostato, rivelando una
"porzione inedita" del viso. Qualcosa di rosso brillò tra le ciocche
scure dei capelli della ragazza, incuriosendo Gaia.
"Perché..." Gaia si fermò. Era giusto esternare la sua
perplessità, conoscendo la riservatezza dell'amica? Un altro bagliore rosso
brillò intensamente da sotto il ciuffo di Coley, mentre tornava a rivolgere
l'attenzione verso la compagna. La curiosità ora era intrattenibile e Gaia
eliminò ogni ombra di timore dalla sua risoluzione.
"Perché tieni sempre il volto coperto dal ciuffo? Che cosa nascondi lì sotto?" chiese con calma, cercando di
nascondere la vena spiritosa che le era sorta. Effettivamente Coley sin
da bambina aveva sempre coperto una buona porzione del viso dietro un
vistosissimo ciuffo di capelli.
Coley la guardò con la
sua tipica impassibilità.
"..Avanti Coley! Non dirmi che ti
vergogni del tuo volto.. sei così carina!" Gaia affermò con crescente
ironia. La sua amica non si scosse di un millimetro e nemmeno diede
l'impressione di voler rispondere. L’amica sospirò e si avvicinò di scatto,
rischiando di urtare il viso di Coley. Fece per allungare una mano, che avrebbe
senza dubbio scostato il ciuffo per saziare la curiosità, ma si fermò subito,
notando che Coley era indietreggiata di qualche passo mostrando uno sguardo
spaventato.
"Ehi, non voglio
picchiarti!" Gaia sbottò sbigottita.
Coley abbassò lo
sguardo e si portò una mano davanti la parte del volto coperta dal ciuffo di
capelli. Quel particolare che, se reso visibile, l'avrebbe contraddistinta per
sempre, era come un peccato o una vergogna da nascondere. Coley, mai e poi mai
avrebbe mostrato a qualcuno i suoi occhi, uno grigio e l'altro scarlatto come
il sangue, una maledizione più che una rarità. Ma
nonostante la vergogna che l'aveva assalita, capì che la sua reazione era stata
scortese e che avrebbe dovuto scusarsi con Gaia.
Così si ricompose e si
preparò per chiedere scusa, quando vide che dietro alle spalle della compagna,
qualcosa si era mosso con eccessiva furtività.
Dall'oscurità si alzò una luce di un mirino laser, che si posò sulla figura di
Gaia. Il battito di Coley accelerò al massimo, rendendosi conto del pericolo:
rimase a bocca aperta per un istante, mentre Gaia ignara della situazione non
ci capiva più nulla.
Il resto fu solo un insieme d’immagine confuse, di suoni orribili e assordanti.
L'esercito dei Deepground, non appena vide fuggire le due ragazze, si riversò
nella città. Seguirono urla, una corsa folle e il rumore di uno sparo che si
era spento dopo aver raggiunto la carne di un qualche innocente uscito da casa,
attirato dall'improvvisa confusione. Gaia era intenta a fuggire per mettersi in
salvo dall'inferno che si era creato, quando vide l'amica accasciarsi a terra
mentre dall'altra parte della strada i suoi genitori e tutti i loro compagni,
usciti dall’abitazione in cui si erano riuniti, avevano assistito alla scena.
Coley emise un gemito, prima di crollare sulla strada polverosa. Il proiettile
aveva colpito il suo bersaglio con una letale precisione. Gridò con quanto
fiato avesse in gola, scalpitando mentre un soldato la
allontanava con forza dal corpo morente della compagna. Fu solo allora, nella
penombra di quella notte infernale, prima di perdere i sensi che Gaia vide per
la prima volta l'occhio scarlatto di Coley spalancarsi prima di esalare
l'ultimo respiro.
Gaia si svegliò di scatto mentre la luce della
mattina le feriva gli occhi con la sua intensità. Sentì che le lenzuola erano
umide per il sudore e che le sue guance bruciavano. Da cinque mesi la ragazza
sognava sempre la morte precoce della sua migliore amica.
Che sia la mia punizione per averla persa?
Lo shock del risveglio presto abbandonò i suoi sensi inibiti e si rese
conto che dal piano inferiore della sua casa proveniva un gran vocio di
persone. Tutte voci familiari all'udito di Gaia, che
stranamente erano tutte riunite in un unico schiamazzo generale. La
ragazza ricordò solo allora della strana telefonata di Reeve e comprese al volo
che qualcosa era accaduto durante la notte. Gaia scese dal letto e si vestì con
fretta, raccattando i primi vestiti che le capitarono sotto tiro; poi raggiunse
con velocità la sala, sicura di trovare buona parte dei compagni di Tifa e Cloud.
Ed infatti la sua intuizione non l'aveva tradita.
Gaia si fermò sulle scale, osservando con curiosità la sala gremita di persone.
Riconobbe subito Cid, seduto sul divano preferito di Cloud e con le gambe
appoggiate sul piccolo tavolino che aveva di fronte, intento a discutere con
Red, il quale si era sistemato sul morbido tappeto rosso che ornava la stanza.
Vicino all'ingresso della casa, Tifa stava
animatamente parlando al telefono con qualcuno, molto probabilmente si trattava
di Reeve. Cloud era insieme a Barrett e Shelke, la nuova collaboratrice di
Reeve.Barrett sembrava estremamente provato, mentre Shelke cercava di mantenere la
calma. Anche Cloud era al telefono con qualcuno, ma sembrava che non ricevesse
alcuna risposta dall'altra parte dell'apparecchio: per questo
ogni tanto rivolgeva la parola a Shelke.
Chissà cos'è capitato? Era da tanto che non si riunivano.
Gaia, sentendosi ignorata a causa dell'agitazione che regnava nella casa,
sospirò e scese definitivamente le scale. L'unico a notarla fu apparentemente
Red, che le rivolse un piccolo cenno con il proprio capo, accompagnato da un lieve
scodinzolio della coda. La ragazza rispose al saluto con un movimento sommesso
della mano e si diresse verso la cucina per fare colazione. Un'ombra le si piombò davanti, bloccandole la strada. Prima di
procedere con gli insulti, alzò lo sguardo per capire chi l'avesse
urtata. Si trattava della sorella maggiore, Eve, anch'essa tornata non
si sa perchè dal suo viaggio a Corel.
"Cosa ci fai qui Eve?" Gaia domandò,
riprendendo i suoi passi verso la cucina.
"Barrett ha insistito
affinché tornassi a casa. Dopo che mamma gli ha telefonato
questa mattina presto, non è più lo stesso." Eve seguì la sorella verso la
cucina.
"Quindi hai abbandonato gli studi a Corel,
senza sapere perchè?"
Eve annuì, evidentemente irritata dalla realtà dei fatti. La sorella di Gaia
aveva lasciato casa poche settimane prima per intraprendere una ricerca riguardo
i danni ambientali arrecati dal generatore Mako di
Corel. Eve non era un genio e non voleva assolutamente intraprendere la
carriera di ricercatrice: le interessava semplicemente capire gli effetti
negativi dell'uomo sul pianeta, per portare qualche miglioramento alla sua
piccola Nibelhime. Il generatore costruito sui monti Nibel
sembrava avere molto in comune con quello a Corel. Ma data la sua collocazione estremamente pericolosa, Eve aveva preferito
spostarsi a Corel, dove, oltre che a studiare, avrebbe passato un po' di tempo
con l'amica Marlene.
Gaia si versò un po' di latte in una tazza e si accomodò a gambe incrociate
su di una sedia, poggiando la sua scarsa colazione sul tavolo. Eve fece
altrettanto e le due ragazze non parlarono per molto tempo, intente ad
ascoltare le discussioni che venivano dalla sala.
"Il telefono di Yuffie e di Vincent non è raggiungibile." Cloud sbottò, chiudendo il telefono e buttandolo
verso Cid. Il pilota lo prese al volo e lo appoggiò di
fianco a se.
"Sicuro di aver composto i numeri giusti?" Shelke gli domandò,
controllando la sua rubrica personale.
"Più che certo" Cloud le rispose dirigendosi
verso Tifa.
Shelke e Barrett si guardarono in faccia, e si capirono al volo. I due
andarono a sedersi nell'altro divano di fronte a Cid, che aveva appena
terminato di discutere con Red. Ora tutti gli sguardi erano rivolti verso Tifa, che continuava a parlare con Reeve.
In un primo tempo Tifa non aveva fatto altro che rispondere con molta
grinta a Reeve, a volte accompagnando la foga delle sue
parola con qualche gesto delle mani. Per tutta la durata della chiamata,
la donna non si era mai fermata per un istante, percorrendo avanti ed indietro
per diverse volte, tutta la sala. Ora i toni della discussione sembravano scesi
e Tifa si stava limitando ad annuire, mostrando
un'espressione preoccupata sul volto stanco.
"Reeve, finché non riusciamo a contattare Vincent e Yuffie, non
potremo fare molto. Non ci rimane che partire per Wutai, immediatamente."Tifa notò, portandosi una
mano sulla fronte.
Cloud la osservò, mostrando un po' di disappunto, poi
chiese a Cid di ritentare a contattare i compagni mancanti.
"Non mi interessa se ci vorranno due giorni
per arrivare a Wutai, costi quel che costi ci faremo portare da Cid oggi
stesso." Tifa sbottò, rialzando il tono della
voce.
"Lo so che è pericoloso e quelli della Shinra noteranno di certo i
nostri spostamenti con l’Highwind ma.. cosa ci resta
da fare?"
Barrett sospirò, e dopo alcuni secondi Cid fece lo stesso, desolato dal
suono del telefono che non dava alcun cenno di risposta.
"Non ditemi che voi uomini siete così
preoccupati..." Shelke domandò, toccandosi le labbra con l'indice. Cercò
di nascondere il suo sorriso, che non era affatto
adeguato alla situazione in cui si trovavano.
"Stavo solo pensando a quando arriveremo a
Wutai, come dice Tifa" Barrett rispose incrociando le braccia.
"Preoccupato di cosa..?" Red fissò il
compagno con curiosità
"Non per me, ma per Yuffie e soprattutto per Vincent."
Red, che sembrava aspettarsi una risposta simile, alzò e riabbassò la coda
con un movimento fluido.
"Non accadrà nulla." L'animale affermò con molta calma. Shelke
annuì e Barrett tornò a sospirare. Red sapeva che Barrett, nonostante
l'amicizia e il rispetto che nutriva verso tutti i suoi compagni, provava un
forte timore nei confronti di Vincent. E forse era un
po' così per tutti, ma c'era chi cercava di non esternare troppo i propri
sentimenti. E Barrett di certo non era fra loro.
"E' quello che si spera Red.." Cid
sbottò con il suo tono rozzo, buttando il telefono sul tavolino dove aveva
appoggiato i piedi.
"Quindi è dalle quattro di questa mattina che
mamma è al telefono con Reeve?" Gaia domandò, dopo aver bevuto l'ultimo
sorso di latte.
"Così sembra." Eve prese la tazza della sorella e la ripose nel
lavandino. Appoggiò le mani sul ripiano della cucina e si voltò verso Gaia.
"Se vogliono andare a Wutai da come abbiamo sentito significa che si
tratta di qualcosa di estremamente grave?" Gaia si
pronunciò preoccupata, facendo risuonare le sue parole come un dato di fatto
più che una domanda.
"Che si tratti di un'altra invasione dei Deepground?"
Eve pensò ad alta voce. Gaia stava per dirle che non
ne aveva idea, quando sentirono uno squillo di telefono. Stanche per tutta
questa faccenda misteriosa, Eve e Gaia lasciarono la cucina, interrompendo la
discussione e dirigendosi verso la sala.
Tifa salutò immediatamente Reeve, mentre il PHS di
Cloud suonava, vibrando sopra il tavolino della sala. Tutti si chinarono verso
l'apparecchio.
Cloud allungò la mano e prese il telefono, portandoselo all'orecchio.
"Cloud, ho visto le tue chiamate perse... c'è qualche problema?"
Tifa e gli altri stavano mangiando con gli occhi
la figura di Cloud. L'uomo coprì il microfono del PHS con la mano e guardò i
compagni.
"E' Yuffie.." Disse velocemente, prima
di tornare al telefono e la sala si riempì di una serie di sospiri di sollievo.
"Abbiamo ricevuto una telefonata da Reeve, riguardo una
cosa molto importante. Data la gravità, credo sia meglio trovarci lì a Wutai
per parlarne." "... Una
cosa importante? Riguarda il contingente di quei
schifosi dei Deepground a Corel? Se è così ne possiamo
discutere..."
"No Yuffie, è veramente importante, a tal punto che parlarne al
telefono peggiorerebbe le cose."
"..Uhm.. ok.. come vuoi, certo che mi spaventi
se parli così."
Cloud chiuse gli occhi. Se Yuffie si era veramente
spaventata per questa telefonata insignificante, non osava pensare al dopo.
"Riguarda anche Vincent. E' lì?"
Tutti i presenti nella sala osservarono ancora più preoccupati la figura di
Cloud. Yuffie d'altro canto ci mise un po' a rispondere,
forse cominciava ad intuire.
".. Sì. Intendo dire che è qui a Wutai. In che senso
riguarda anche lui, Cloud?"
"Non preoccuparti Yuffie."
Cloud sentì alcuni gemiti dall'altra parte dell'apparecchio, intuendo che
Yuffie era sull'orlo del pianto. Forse aveva davvero intuito.
"Ok... fate presto."
La
voce tremante di Yuffie sembrava quasi irriconoscibile, e Cloud si sentì un po'
a disagio per gli eventi che sarebbero accaduti presto. Prima di riattaccare
anch'esso la linea, ascoltò il suono insignificante della linea
libera da ogni chiamata. Poi richiuse l'apparecchio e lo posò sul tavolino.
Sette paia d’occhi lo stavano scrutando, sette sguardi velati da una misto di timore e curiosità.
Cloud non aveva affatto voglia di perdere tempo a
raccontare quella breve chiamata. Non fece altro che voltarsi verso Cid ed
ordinargli di andare a riscaldare i motori dell’Highwind. Il pilota si alzò dal divano, e con un urlo animalesco obbedì al comando
di Cloud. quando si trattava di intraprendere un volo,
Cid saliva sempre al settimo cielo, non importa in che situazione si trovasse.
"Cosa andate a fare a Wutai??" Gaia
chiese finalmente, incapace di trattenere la curiosità. Tifa si accorse solo allora che sua figlia era sveglia: l'agitazione
l'aveva resa cieca e sorda. Bisognava informare anche le due giovani ragazze
dell'accaduto e fu proprio Tifa ad ereditare il
delicato compito. La donna si avvicinò alla figlia più piccola, quella che era
più legata con Coley. SI inginocchiò, fino a raggiungere la stessa altezza
della ragazza, e le poggiò le mani sulle spalle.
"Gaia, tesoro, Reeve ci ha informati di una
cosa che rasenta il miracolo." Gli occhi di Tifa
brillarono e Gaia osservò con altrettanta intensità la propria madre.
"Cos'è successo?" Gaia mormorò come una
macchina.
"La Shinra
ha con sé Coley.. lei.. lei è miracolosamente
viva..." Tifa pronunciò con calma quelle parole, valutò
ogni suono con moderazione, evitando di urtare eccessivamente Gaia. La ragazza
rimase immobile mentre i suoi occhi sgranati fissavano
un punto indefinito oltre le spalle della madre. Eve si era portata una mano
sulla bocca ed aveva lasciato la sala, correndo verso le scale.
Gaia si ritrovò in uno stato di smarrimento totale, lo stesso che la rapiva
ogni notte. Quelle parole pronunciate da Tifa erano
troppo grosse per essere percepite fino in fondo: invece che sforzarsi nel
comprendere ciò che era accaduto, Gaia tornò a rivivere i momenti di
quell'orrenda serata dove perse Coley. Il suono dello sparo tornò a fischiarle
nelle orecchie, le sembrò di rivedere il sangue che cadeva a cascate dal petto
della giovane e credeva di essere di nuovo soffocata dalla stretta di quel soldato che l'aveva trascinata via.
Fu richiamata alla realtà dalla voce insistente della madre. Gaia la fissò,
confusa, e cercò con lo sguardo suo padre. Anche lui
aveva lasciato la stanza, così come tutti gli altri. Intanto Eve era spuntata
dal piano superiore con una borsa ed un paio di guanti da combattimento. Tifa si alzò, lasciando Gaia nel suo stato confusionale.
"Dove credi di andare Eve?"
"Vengo con voi!" la giovane ribatté lanciando la sacca giù per le
scale. Il tonfo fece trasalire Gaia che con uno scatto si piombò verso
l'esterno della casa. Tifa non sapeva da che parte
muoversi.
"Non muoverti, altrimenti saranno guai per te, signorina!" Tifa sgridò Eve, puntandole il dito contro. Poi corse verso
l'uscita per rincorrere Gaia.
La ragazzina non aveva raggiunto nemmeno il centro della piazzetta
quando venne afferrata dall'abbraccio della madre.
"Lasciami, lasciami!" continuava ad urlare
mentre lottava contro la presa di Tifa. La donna, che nonostante
l'apparenza era molto forte, non cedeva agli scatti della figlia: mai e poi mai
le avrebbe permesso di raggiungere l'aeronave che era posteggiata fuori dalla cittadina.
"Dove vuoi andare Gaia? Il tuo posto è qui! Lascia fare a noi!" Tifa cercava di calmare la furia
della figlia.
"Lasciami! Non capisci che è colpa mia se lei è laggiù da sola?"
Gaia diede un ultimo strattone alla madre, poi si
lasciò cadere a terra. Tifa si sedette di fianco alla
figlia, ed osservò con afflizione il suo dolore. Le diede un bacio sul capo,
che ogni tanto sobbalzava per il pianto. Tra un singhiozzo e l'altro, Gaia
lasciava che le grosse lacrime le portassero via parte del risentimento che le
tormentava il cuore.
"Se solo avessi visto che mi stavano puntando con il laser, lei
sarebbe ancora qui con me." Gaia urlò. Tifa
sorrise e cercò di confortarla.
"Erano venuti appositamente per lei, Gaia,
non addossarti delle colpe che non sono tue. Solo noi siamo da biasimare,
poiché non le abbiamo offerto la dovuta protezione."
"Non ti preoccupare, presto sarà qui con noi."
Eve aveva raggiunto la sorella e la madre, portando con se la borsa e i guanti.
Gaia annuì e si asciugò le lacrime con le maniche.
"Ho bisogno che voi rimaniate qua con Shelke,
nel caso Reeve abbia bisogno ancora di noi." Tifa
affermò fissando prima Gaia e poi Eve. La figlia più grande sospirò e
poi annuì. Dopo alcuni istanti annuì anche Gaia, prima
che Tifa le riaccompagnasse in casa.
La mattinata al nuovo complesso della Shinra era stato molto movimentata.
Rufus aveva indetto una riunione con i vertici Zvet, anticipando parte dei
progetti che aveva nel cassetto e che riguardavano i Deepground soldiers. Era
stata introdotta la figura di Coley, che presto avrebbe preso parte all'elite
dell'esercito più temibile del pianeta. Nessuno aveva contestato le intenzioni
di Rufus e la riunione si era conclusa con un breve
applauso e una serie di strette di mano soddisfacenti. Anche
Hojo aveva assistito all'assemblea, attraverso un monitor dal suo laboratorio.
Il professore era sempre più esaltato dalla serie di approvazioni
che aveva ricevuto riguardo il suo JEP3-3. Presto gli esperimenti si sarebbero conclusi, perciò bisognava accelerare i tempi, affinché
Coley potesse dare prova del suo vero potenziale. Hojo sapeva che
l'invulnerabilità di Coley era un nulla al confronto delle potenzialità che la
ragazza poteva celare complessivamente. E questo era
una certezza, soprattutto dopo la massiccia mutazione che il professore aveva
apportato al genoma del suo esperimento.
Lo schermo mostrava ancora Rufus, che accompagnato da
Scarlet, continuava a salutare i vertici dello Zvet. Con una specie di
grugnito Hojo spense lo schermo e si avviò verso "il Tempio", dove
Coley stava riposando. Arrivato sulla passerella sopraelevata, Hojo si rese
conto che le luci non erano state spente. Sicuro che non fosse
lui il responsabile di una tale dimenticanza, si precipitò zoppicando verso la
parte inferiore del laboratorio. La collera lo invase
quando vide che la sua assistente si era avvicinata senza alcun permesso al suo
speciale esperimento.
Lilian avvertì la presenza del professore e si allontanò dalla barella,
mentre Coley la pregava con lo sguardo
di non lasciarla sola.
"Come si permette di entrare qui dentro senza la mia
autorizzazione?" Hojo non riuscì a trattenere la sua furia e lanciò
un'occhiata terrificante alla sua assistente.
"Mandalo via!" Coley sussurrò a Lilian, prima che ella potesse rispondere all'uomo.
"Avevo dimenticato la mia scheda e ho visto che la ragazza era
sveglia, così le ho suggerito di riposare... nient'altro, stavo proprio per
andarmene." Lilian rispose e fece per raggiungere
le scale quando Hojo sbottò di nuovo.
"Dove va, ora che ho bisogno del suo
aiuto?" la donna si fermò ed abbassò lo sguardo. Il professore le fece
cenno di tornare indietro, e Lilian obbedì al suo ordine.
"Che non capiti mai più.." Hojo la
intimorì pronunciando il suo rimprovero a denti stretti. Lilian annuì senza
rivolgere lo sguardo verso quell'uomo disgustante.
"Mi aiuti a immobilizzarla, oggi faremo un
nuovo tipo di esperimento."
L’assistente obbedì, con molta esitazione e in un attimo lei e il
professore avevano circondato la barella su cui
giaceva Coley. La ragazza mostrava già evidenti segni di paura e la situazione degenerò quando Hojo le afferrò i polsi.
"Prenda le caviglie" il professore urlò per sovrastare le grida
impaurite di Coley. Lilian deglutì ed eseguì il suo compito. I due sollevarono
a fatica il corpo della ragazza, che si dimenava come una pazza e poi lo
adagiarono su di una strana sedia, situata in fondo al laboratorio. Hojo e
Lilian poterono rilasciare le loro prese solamente dopo avere assicurato alla
sedia ogni arto e la vita di Coley.
Mentre il professore preparava alcuni strani
elettrodi legati ad una macchina mediante diversi cavi colorati, Coley puntò i
suoi occhi scarlatti sulla figura di Lilian. La donna lesse il labiale della
giovane, intuendo che le parole mute che le erano indirizzate erano
"traditrice, traditrice.."
Hojo le mise in mano gli strani elettrodi e le spiegò come applicarle sul
corpo di Coley.
Nell'ufficio di Rufus rimasero solo Nero e Rosso,
gli ufficiali più importanti dello Zvet. Nero si era appostato nell'angolo più
buio della stanza (Rufus riusciva a scrutare solo i suoi occhi rossi), mentre Rosso si erano accomodata senza permesso
sulla sedia del presidente.
"Così non solo potremo portare a termine il nostro vecchio piano, ma
avremo inoltre un esercito tutto nuovo..." La
donna mormorò giocherellando con le biro sulla scrivania di Rufus. Il
presidente sogghignò.
"Cosa c'è di male nel voler offrire il meglio
ai miei preziosi soldati?"
"Qual'è il
tornaconto?" la voce di Nero fece rabbrividire i sensi di Rufus.
"Non siamo stupidi" Rosso aggiunse.
Rufus si scostò una ciocca di capelli fulvi dal suo viso ed
rivolse lo sguardo verso quello di Nero.
"Il professore che dirige questo nuovo esperimento ha accettato ad una
condizione." Rufus spiegò guardando anche Rosso.
La donna scese dalla lussuosa poltrona e si appoggiò al tavolo rimanendo in
piedi.
"Pretende che Coley, una volta terminate le sue osservazioni, possa
entrare nello Zvet."
Nero, nascosto nella penombra, sorrise sommessamente mentre Rosso si spostò
dalla scrivania portandosi a pochi centimetri da Rufus.
"Entrare nello Zvet?? Senza neanche sapere
quali abilità rendano così speciale questo
JEP3-3?" Rosso affermò agitando le mani.
"Oggi ci sarà un test e vedremo se si tratta di un fallimento o di asso nella manica." Rufus aggiunse. Rosso portò gli
occhi al cielo e sospirò, mentre Nero uscì silenziosamente dalla stanza.
"Aspetteremo i risultati, allora.."
Rosso ribatté accodandosi al compagno.
Non appena i due furono usciti, Rufus andò a sedersi sulla sua sedia,
stanco per lo sforzo che lo aveva impegnato a lungo. Il monitor della sua
scrivania mostrava la vasca vuota, e in quel momento il presidente moriva dalla
voglia di sapere che cosa stesse faccende Hojo. Lasciarlo solo era molto
pericoloso, ma d'altro canto la ragazza che stava usando nei suoi esperimenti
non aveva nulla a che fare con lui, perciò si sentiva, per
ora, tranquillo. Appoggiato al fianco del monitor vi era ancora il
fascicolo rosso che aveva sfogliato la sera precedente. Rufus allungò la sua
mano coperta da un guanto bianco e prese la cartellina.
Come può rivelarsi
come un fallimento?
D'un tratto gli ritornò in mente che forse era meglio
fermarsi finché si era in tempo. Se davvero Coley
avesse mostrato la sua natura, sarebbero stati all'altezza di controllare i
suoi istinti? Creature infernali, iniezioni di Mako, mutazioni... Rufus capiva ben poco di tutto ciò ed aveva dato tutta la sua
fiducia in mano ad uomo dalla dubbia reputazione.
E se l'esperimento si
rivelasse un qualcosa di incontrollabile?
Perché Rufus era giunto a scegliere Hojo? Ora il
giovane presidente temeva di aver innescato un meccanismo irrefrenabile capace
di generare solo caos, invece che benefici al suo
conglomerato.
Lilian terminò di sistemare l'ultimo elettrodo sul collo di Coley. La
ragazzina era molto agitata, gli occhi erano spalancati e velati di lacrime,
mentre il respiro si era ridotto a boccate irregolari di ossigeno.
Hojo era rivolto verso la macchina da cui partivano i cavi, e teneva in mano
una cartellina dove avrebbe annotato tutte le sue osservazioni.
L'assistente si allontanò a malincuore dalla giovane, andandosi a sedere il
più lontano possibile dal professore. Hojo, dopo aver premuto diversi bottoni
si voltò verso Coley e la guardò. La macchina che aveva azionato
produceva un suono inquietante, come se si stesse caricando di energia. Appena
il rumore raggiunse le orecchie della ragazza, cessò di respirare e concentrò
il suo sguardo verso il professore.
"Più farai resistenza, più soffrirai."
Il professore le spiegò sorridendo.
I cavi si irrigidirono, attraversati da una
scarica verdastra che andò a colpire gli elettrodi sul corpo della ragazza.
Coley urlò, stringendo le mani contro la sedia e chiudendo con forza le
palpebre. La tortura cessò dopo pochi istanti, Lilian come al
solito non aveva osato osservare e Hojo stava scrivendo freneticamente alcuni
appunti sulla sua cartellina. Partì un'altra scarica, più intensa della
precedente e Coley si accasciò sulla sedia, apparentemente priva di sensi. Ma
il professore non si fermò, terminata la scarica ne fece partire un'altra che
non arrivo mai agli elettrodi, poiché la luce saltò,
forse a causa di un sovraccarico.
"Cos'è successo?" Lilian chiese
spaventata. Il buio della stanza era disarmante e in lontananza si udivano già
alcune sirene d'emergenza. La luce aveva lasciato tutto lo stabilimento, forse
a causa dell'esperimento in corso. Hojo non rispose ma
iniziò a sogghignare, finendo per ridere quasi istericamente. Lilian provò un
forte senso di paura e si gettò a tentoni verso la
sedia di Coley. Un grosso rumore di vetri e mattoni rotti, una sorta di fracasso
rimbombò sino ad assordare i due scienziati.Dopo il rumore si alzò una ventata di aria fredda poi nel buio qualcosa iniziò a brillare, un
qualcosa di verde e di spaventosamente grosso. La sagoma era
più imponente di un essere umano e più la donna si avvicinava, più
sentiva di doversi fermare e scappare via.
"Che cos'è?" Lilian bisbigliò,
fermandosi.
Il professore non le rispose, anzi smise di ridere: Lilian perse così ogni
traccia dell'uomo. L'aveva abbandonata in quel laboratorio? Dopotutto Hojo
conosceva a memoria tutti i passaggi dei sotterranei.
Il silenzio di quella stanza era più assordante che mille voci. Lilian iniziò a
fremere dato che la creatura davanti a sè diventava
sempre più grande. Il terreno sotto i piedi della donna iniziò a tremare
improvvisamente e l'assistente non riuscì a contenere un urlo di terrore.
Quella creatura… è
Coley?
"Coley?" Lilian chiese con esitazione.
Nessuna risposta, solo un profondo ruggito che fece
sobbalzare la povera donna. Qualcosa molto simile a due paia di ali spuntarono da dietro l'essere, e Lilian si portò le
mani agli occhi, temendo che la belva misteriosa potesse sbranarla o
torturarla. Lilian rimase per qualche minuto immobile, singhiozzando per lo
spavento e senza rimuovere le mani da davanti la vista.
"Perfetto..." udì la voce la Hojo poco più distante da
dove si trovava. In realtà il professore non aveva mai abbandonato la stanza.
Lilian aprì gli occhi e vide che la luce era tornata. La parete sud del
laboratorio era stata abbattuta, così come tutti i
macchinari che circondavano la sedia dove c'era Coley. La ragazza si era
liberata da elettrodi e cinghie ed se ne stava seduta
scomposta sul pavimento, mostrando un viso assente e smarrito.
"Cos'è stato?" una voce risuonò nella
stanza semidistrutta. Erano diversi soldati, scesi a controllare che tutto
fosse sotto controllo.
"Informate il presidente che siamo
pronti." Hojo rispose voltandosi e indicando Coley. Lilian sentì che la
fine stava per avvicinarsi.
(solito) DISCLAIMER: Square-Enix, Final Fantasy
VII e i Linkin Park non sono miei.. ovvio!
Capitolo 3:
When this began I had nothing to say
And I get lost in the nothingness inside of me
I was confused and I let it all out to find
That I’m not the only person with these things in mind
Inside of me but all the vacancy the words revealed
Is the only real thing that I’ve got left to feel
Nothing to lose just stuck/ hollow and alone
And the fault is my own, and the fault is my own
I wanna heal, I wanna feel what I thought was never real
I wanna let go of the pain I’ve held so long
Erase all the pain till it’s gone
I wanna heal, I wanna feel like I’m close to something real
I wanna find something I’ve wanted all along
Somewhere I belong
Somewhere I belong –LinkinPark-
Wutai, una delle
città più antiche del pianeta. Un paese lontano, bloccato a metà strada tra il
passato, fatto di tradizione e leggende, e il futuro, figlio di un’epoca di
terrore e conflitti. Il sole del mezzogiorno splendeva alto nel cielo, la sua
luce ricadeva come una cascata d’oro sulle case variopinte di rosso e di nero,
i colori tipici di Wutai, illuminando le piccole strade ricoperte di ciottoli
bianchi e le imponenti montagne rocciose di Da Chao,
scolpite a raffigurare le antiche divinità protettrici del villaggio e
ricoperte alla base da un fitto bosco.
Cid fece atterrare l’Highwind lontano dalle
porte della città, diffidente dell’animo poco ospitale degli abitanti di Wutai.
Era meglio evitare contrattempi inutili come sabotaggi o furti.
Tifa varcò le mura di Wutai al fianco di Cloud.
Mentre tutti i suoi compagni non indugiarono sul panorama pittoresco che li
circondava, Tifa non poté fare a meno di sostarsi per un attimo. I suoi occhi
castani si fermarono ad osservare con meraviglia i ciliegi in fiore, che scossi
dal vento lasciavano cadere a terra i loro petali rosa. Quei fiori così fragili
danzavano a mezz’aria come minuscole ballerine, si facevano cullare dal vento
prima di cadere sul terreno, dove la polvere e i passi incauti di molti
viaggiatori li avrebbero distrutti per sempre.
Che peccato.
“Sono belli i
ciliegi in fiore, ma quando arriva la stagione calda procurano solo fastidi..”
una voce roca echeggiò alle spalle di Tifa. La donna si voltò lentamente e vide
una vecchia signora, dai capelli argentati raccolti in una lunga treccia e
vestita in un elegante kimono scuro che stava spazzando la strada dai fiori
caduti. Il silenzio che regnava in quel momento fu interrotto dalla risata
dell’anziana signora, che aveva notato lo stupore di Tifa; malgrado l’interesse
per la straniera, la vecchia non smise mai il suo paziente lavoro.
“..Tifa?”
Tifa tornò a
girarsi verso il centro del villaggio, e vide che Cloud si era fermato per
aspettarla, mentre gli altri erano già andati oltre. La donna annuì e si
diresse verso il marito, affrettando il passo per evitare di dare spazio alla
sua voglia di osservare i dintorni. Dopotutto non erano venuti per una vacanza,
a differenza della maggior parte della gente che decideva di solcare l’oceano
per raggiungere Wutai. Dovevano avvertire Yuffie dell’accaduto e per suo
rispetto bisognava agire in fretta. Nonostante questo flusso rapido di
pensieri, Tifa, dopo aver percorso pochi passi dietro la figura di Cloud, tornò
a girarsi dove aveva visto l’anziana. La donna dai capelli argentati se n’era
andata, sparita nel nulla, lasciando la strada coperta da un soffice manto di
petali rosa.
“Tifa.. cosa
c’è?”
Tifa sobbalzò,
non appena Cloud le rivolse la parola. Che strana sensazione. Quella visione
era stata frutto della sua mente o c’era qualcosa di strano a Wutai?
“Nulla,
perdonami.” Tifa si scusò e riprese il cammino passando oltre Cloud. L’uomo la
fissò, sbigottito per questo suo strano comportamento, poi s’incamminò
anch’esso verso il palazzo.
Wutai portava
ancora i segni del lutto per la scomparsa della giovane erede della casata
dell’Imperatrice. I pochi passanti che Tifa e Cloud avevano incontrato erano
tutti vestiti di scuro, e le strade erano ancora costellate di pali di legno,
sopra ai quali erano stati issati dei lunghi drappi neri e bianchi. Il vento
scuoteva le insegne funebri con delicatezza e il candore della fioritura dei
ciliegi contrastava fortemente con i colori morti del villaggio. Tifa non
osservava nemmeno che strada stesse seguendo o dove stesse appoggiando i piedi.
Era completamente assorta nel contemplare Wutai, così diversa dalla sua lontana
Nibelhime.
Wutai è come un ragno: cattura chiunque
caschi nella sua tela.
Tifa sorrise per
il pensiero stupido e riprese a scrutare i luoghi circostanti. Le costruzioni
erano molto eleganti e raffinate, realizzate in legno e dai tetti a punta.
Dalla finestra semi aperta di una casa vicino a Tifa si affacciò un uomo,
vestito di nero anch’esso, che dopo aver squadrato velocemente Cloud richiuse
gli scuri, barricandosi all’interno.
Di cosa hanno paura?
Anche Cloud notò
l’aria di diffidenza che avvolgeva ogni angolo di Wutai. Le strade erano
deserte, il silenzio regnava sovrano e il vento continuava a soffiare senza
cedimenti, portando con sé uno strano profumo d’incenso e il lontano tintinnio
degli scacciaspiriti appesi alle porte di ogni abitazione. Tifa e Cloud
proseguirono, sollecitati dall’inquietudine che la calma di Wutai incuteva
loro. Le abitazioni divennero sempre più rade fino a sparire, lasciando spazio
alla fitta vegetazione del bosco, antecedente alla piazza. In lontananza
spiccava già tra le fronde degli alberi, la cima della pagoda, ovvero la torre
sede delle cinque divinità di Wutai. Tifa si rattristò sempre più, man mano che
la distanza tra lei e Yuffie si accorciava, presagendo che cosa la stesse per
attendere. E poi…si depresse perchè i suoi occhi non vedevano più nemmeno un
ciliegio in fiore, l’unica cosa incantevolmente dolce in quel momento.
Con un ultimo
sforzo, Cloud e Tifa accelerarono il passo e finalmente videro il sentiero
allargarsi fino ad accompagnarli davanti la piazza, il centro di Wutai.
“Finalmente!”
Cid sbottò con la sua solita sigaretta in bocca, mentre andava incontro ai
compagni ritardatari. Anche Barrett lasciò il suo appostamento, ovvero la
colonna sinistra che reggeva il gong dorato che scandiva il tempo di Wutai. Red
era già davanti l’ingresso del palazzo Imperiale, pronto ad entrare senza tanti
indugi.
“Ma dove eravate
finiti?” Cid proseguì, trovandosi faccia a faccia con Cloud.
“Colpa mia Cid,
mi sono distratta un attimo.” Tifa ammise, scostandosi i capelli dal viso.
Cid rivolse lo
sguardo verso l’amica e distese le labbra in un sorriso.
“Andiamo? Sono
stanco d’aspettare!” Barrett inveì, avendo già raggiunto Red davanti l’ingresso.
“D’accordo,
d’accordo!” Cid rispose con foga mentre buttava a terra la sua sigaretta,
pestandola per spegnere il mozzicone.
Fu Cloud a far
strada a Cid e Tifa. Quando i cinque furono insieme davanti al palazzo, Cloud
fece cenno agli amici di fermarsi e salì la scalinata da solo, percorrendo
l’elegante porticato in cedro che conduceva alla porta del palazzo. Ad ogni
passo di Cloud, il legno produceva un flebile scricchiolio, accompagnato dalla
musica dei campanelli appesi al soffitto, scossi dal vento.
Due guardie,
vestite di un’armatura più che splendente, erano appostate di fianco
all’imponente portone, dove vi era stato inciso l’emblema intarsiato d’oro di
un dragone, probabilmente Leviathan, la divinità protettrice e madre delle
leggende di Wutai. Appena videro avvicinarsi l’estraneo, le due sentinelle
brandirono le loro lance, incrociandole per sbarrare l’entrata al palazzo.
Cloud aveva già
avuto esperienze passate a Wutai: sapeva che certi atteggiamenti o
semplicemente certe parole potevano risultare offese enormi all’orecchie di
questa gente, e il loro risentimento era capace di provocare conflitti mortali.
Gli abitanti di Wutai erano famosi non solo per la loro proverbiale
inospitalità ma anche per le loro conoscenze accurate di diverse e letali arti
marziali. Perciò Cloud, essendo temporaneamente disarmato doveva calcolare
molto bene le sue azioni. Inoltre era sicurissimo che altre guardie, molte
guardie, fossero nascoste in luoghi ben protetti, pronte ad attaccare al minimo
segno di pericolo.
Si fermò a circa
due metri di distanza dai sorveglianti: intuendo la loro impassibilità, Cloud
fece il primo tentativo di approccio.
“Sono Cloud
Strife, membro del W.R.O. L’Imperatrice era stata
avvertita del nostro arrivo e desidera incontrare me e i miei compagni.”La guardia a sinistra dell’entrata aggrottò
le sopracciglia.
“E dovremmo
crederti?” la guardia a destra dell’entrata rispose sogghignando.
Cloud alzò gli
occhi al cielo e si infilò una mano dentro la sua maglia blu scuro. La guardia
a sinistra dell’ingresso strinse la presa sulla sua lancia e fece un passo
avanti.
“Cosa fai?”
urlò, temendo che Cloud potesse nascondere un’arma all’interno del suo
abbigliamento.
Cloud sentì poi
un leggero fruscio alle sue spalle: non si voltò perché aveva già capito che
altre guardie erano arrivate, pronte a difendere il palazzo dalla sua presenza.
In realtà voleva mostrare loro la splendida collana di sfere di materia che
Yuffie gli aveva regalato e che portava sempre con sè:
sarebbe stato il suo lasciapassare, la prova inconfutabile della sua amicizia
con l’Imperatrice di Wutai. Cloud fu costretto a bloccare ogni movimento quando
avvertì che qualcosa di appuntito gli era stato puntato contro la schiena.
“Sono disarmato,
non c’è motivo di agitarsi.” Cloud spiegò parlando lentamente e scandendo ogni
parola.
“E’ a posto.
Lasciatelo passare.” L’oggetto appuntito si ritirò dalla schiena di Cloud,
mentre le guardie dell’ingresso si ritirarono, piegandosi in un profondo
inchino.
Cloud si voltò e
finalmente vide un volto familiare. Tutte le sentinelle si fecero da una parte,
omaggiando il nuovo arrivato.
“Provvidenziale
come al solito, Vincent…” Cloud affermò, dopo aver salutato l’amico con un
cenno del capo. Vincent si fece di lato, mostrando a Cloud che Tifa e gli altri
lo avevano seguito.
“Grazie per
Cloud, Vincent” Tifa dichiarò, posando lo sguardo su Vincent.
Il tempo non passa per lui.
Ed era proprio
vero. Vincent non mostrava alcun segno di invecchiamento, era rimasto
semplicemente lo stesso. Forse era l’unico vantaggio che Hojo gli aveva
procurato dopo tanti, innominabili esperimenti. Tifa lo osservò solo per
qualche istante, anche perché sapeva quanto Vincent odiasse essere fissato.
Fortunatamente aveva smesso di indossare quei vestiti cenciosi che chissà per quanto
tempo aveva portato… nessun mantello, nessun collare, nessuna fascia sulla
fronte… solo un’elegante giacca scura con delle rifiniture argentate dal taglio
tipicamente orientale e dei lunghi pantaloni neri. Tifa notò che da sotto la
manica sinistra pendeva qualcosa di dorato, senza alcun dubbio si trattava del
suo guanto metallico.
Aveva smesso di indossarlo tanto tempo fa…
Tifa cessò la
sua contemplazione non appena gli occhi scarlatti di Vincent la osservarono di
sfuggita.
Impossibile reggere il suo sguardo.
“Possiamo
entrare allora?” Cid chiese, incalzato da Barrett.
“Abbiamo parlato
con Yuffie, c’è qualcosa che dovete sapere.” Cloud si intromise tenendo lo
sguardo fisso su Cid. Il pilota mormorò qualcosa e si voltò verso l’apertura sotto
il porticato per calmare la sua irrequietezza.
“E’ importante e
purtroppo non c’è molto tempo.” Red aggiunse, avanzando con il suo passo
felpato verso Vincent.
Tifa tornò a
guardare il volto pallido di Vincent, notando con un certo piacere che non vi
era alcuna emozione che gli stesse modificando l’espressione, come al solito.
La prerogativa di Vincent era la sua leggendaria inespressività.
“Così importante
da venire sin qui senza un preavviso decente?” Vincent chiese con la sua voce
profondamente calma e piatta.
“Lo sappiamo che
Wutai non è incline ali imprevisti.. ma ti prego, portaci da Yuffie..” Tifa
mormorò quasi inconsciamente.
Nessuno aprì
bocca per qualche istante. Il rumore dei campanelli sotto il porticato
interruppe casualmente il silenzio tra i compagni. Le sentinelle si prepararono
ad aprire il portone.
“D’accordo..”
Vincent rispose quasi bisbigliando. Si voltò velocemente, lasciando che i suoi
lunghi capelli neri fossero scossi dal vento, così come la sua lunga giacca.
Tifa, Cloud,
Cid, Barrett e Red seguirono in un silenzio quasi rituale Vincent, lasciandosi
guidare sino all’interno del palazzo.
Un forte tuono
scosse le vetrate delle finestre, facendo trasalire Eve da sopra il divano
della sala. Gaia si era andata a coricare dopo pranzo, mentre Shelke si era
seduta sul tavolo in cucina per lavorare col suo portatile. Il compito di
Shelke era quello di intromettersi nel data bank della Shinra e trovare qualche
informazione utile su Coley. Impresa impossibile ma comunque degna di un tentativo.
Lo schermo della
piccola televisione nel salotto mostrava il notiziario del giorno, l’immagine
disturbata dalla tempesta magnetica del temporale. Eve ascoltava senza molta
attenzione le notizie, riguardanti gli sviluppi a Midgar e le ennesime promesse
improbabili da realizzare da parte dei vertici Shinra.
“Bastardi..
siete solo dei bastardi..” Eve mugugnò dopo aver spento per l’esasperazione la
televisione. Lo schermo dell’apparecchio, ora nero e lucido, rifletteva la sua
immagine come uno specchio distorto. Eve si alzò dal divano e si diresse in
cucina, per vedere i progressi di Shelke. Prima di accomodarsi di fianco alla
donna, prese una mela dal portafrutta sul tavolo e la addentò con un grosso
morso.
“Niente di
nuovo?” Eve chiese, con la bocca piena.
“Cosa?” Shelke
domandò, tenendo lo sguardo fissò sullo schermo del computer. Il suo viso era
completamente illuminato dalla luce bluastra del monitor.
Eve ingoiò il
boccone prima di ripetere la sua domanda.
“Hai scoperto
qualcosa di nuovo?”
“Uhm.. no. Entrare negli archivi della Shinra è un vero problema..
troppe password da decifrare.. ci vorranno giorni prima di trovare uno straccio
di informazione..”
“Che
seccatura..” Eve aggiunse fissando lo schermo ed addentando un altro morso di
mela.
“Tua sorella si
è ritirata?”
“E’ andata a
letto.. l’intera faccenda di Coley è capitata così all’improvviso.. è stato un
colpo duro per lei..”Eve rivelò,
sedendosi di fianco a Shelke. Lo sguardo della giovane si posò senza volere
sugli occhi velati da un riflesso innaturalmente arancione della ricercatrice.
I suoi genitori conoscevano Shelke da molto tempo ormai, ma Eve non aveva mai
estrapolato nulla riguardo quel curioso particolare.
“Si riprenderà,
non temere..” Shelke affermò, voltandosi verso Eve. La ragazza distolse
l’attenzione dal volto di Shelke, ma non abbastanza velocemente da non essere
vista dalla donna. Shelke inarcò un sopracciglio, in attesa della fatidica
domanda.
“Ma.. i tuoi
occhi…” Eve iniziò la frase, bloccandosi all’improvviso.
Shelke sospirò.
“E’ una storia
lunga.”
“Scusami, io
non..”
“Non ti
preoccupare.. sarebbe meglio se andassi a dare un’occhiata a tua sorella..”
Eve annuì e
lasciò Shelke al suo lavoro. La ricercatrice si sgranchì le braccia e poi tornò
con l’attenzione verso il computer.
E’ una storia lunga.
Vincent si fermò
di fronte ad una porta scorrevole, ricoperta di una sottile carta di riso che
raffigurava alcuni ciliegi in fiore adagiati al fianco un bellissimo lago. Tifa
mentre attendeva che Vincent aprisse la porta guardò uno per uno i suoi
compagni e gli fece capire con il suo sguardo di rimprovero di mantenere la
calma più assoluta.
Un leggero
fruscio annunciò alla donna che la porta era stata aperta e così entrò nella nuova
stanza, seguita dai suoi amici. Vincent attese che tutti fossero entrati e
richiuse la porta alle spalle.
Cloud, il primo
ad essere entrato nella stanza, fu di conseguenza il primo a notare la presenza
di Yuffie. L’ambiente era privo di ogni arredo, solo una grande camera dove al
centro vi era un tavolo molto basso, mentre la parete opposta all’entrata i
realtà non c’era, era solamente un specie di colonnato che dava su di uno
splendido giardinetto. Yuffie era seduta per terra a gambe piegate, tenendo le
mani attorno una tazza di tè fumante appoggiata sul tavolo. La ragazzina solare
e intrattenibile, maliziosa e dai modi di fare completamente privi di
femminilità era totalmente svanita. Davanti agli occhi di Cloud si trovava una
Yuffie diventata donna troppo velocemente ed inasprita dal destino che chissà
perché le aveva riservato una vita estremamente difficile. Il vestito nero, in
segno di lutto, di Yuffie era bellissimo e parte della gonna copriva tutto il
pavimento intorno ad essa.
Cloud notò come
Yuffie fosse dimagrita, ed in viso mostrasse evidenti segni di stanchezza
fisica, nonostante i suoi lunghi capelli neri cercassero in qualche modo di
coprire la sua sofferenza.
Il suono di
chiusura della porta attirò l’attenzione di Yuffie che distolse lo sguardo
assente dal tavolo verso Cloud e gli altri. I suoi occhi grigi si illuminarono
per un attimo.
“Cloud.. così
presto..?” le parole di Yuffie furono simili ad un fruscio impercettibile. La
giovane Imperatrice si alzò a fatica da terra, facendo segno a Vincent di non
preoccuparsi, dato che era già pronto a correre in suo aiuto. Dopo aver ripreso
fiato, malgrado avesse compiuto un minimo sforzo, Yuffie si aggiustò il vestito
e si avvicinò a Tifa. Un elegante fiocco bianco girava intorno alla vita di Yuffie,
e parte di esso ricadeva sullo strascico nero. Tifa notò che praticamente non
c’era differenza tra il colore di quel nastro e la carnagione dell’amica.
“E’ lo stesso
per me..” Yuffie rispose con un filo di voce.
Notando le
difficoltà della giovane Imperatrice, Cid, Barrett e Red si avvicinarono di
propria spontanea volontà verso Yuffie. Dopo un paio di abbracci e di saluti,
il tempo di rivelare la scomoda verità era arrivato.
“La città porta
ancora i segni del lutto…” Red finì la frase sedendosi vicino al porticato. Gli
occhi dell’animale indugiarono sui drappi neri che spuntavano dal giardinetto,
prima di tornare ad osservare i suoi compagni. Yuffie abbassò lo sguardo,
scostandosi da Cid.
“.. già..” fu
l’unica parola che uscì dalle sue piccole labbra dopo qualche attimo di
esitazione.
“Credo sia tempo
di rimuoverli, Yuffie” Cloud aggiunse, fissando lo sguardo sull’amica. Vincent
sembrò molto urtato da quelle parole e suoi occhi si spalancarono per un
istante, prima che il suo crescente rancore lo facesse sospirare.
“E’ una
decisione che non ti riguarda.” Vincent non riuscì a controllare le sue parole.
Era strano come l’argomento del lutto di Wutai lo innervosisse a tal punto.
Quelle parole nascondevano una sottile minaccia, che fece letteralmente
rabbrividire Tifa. La donna infatti guardò Cloud e gli lanciò uno dei suoi
soliti sguardi di rimprovero.
Non dare ordini Cloud, non qui e non con
Vincent.
Yuffie era
rimasta immobile, le mani raccolte in un pugno e i suoi occhi persi a fissare
il vuoto.
Cid avrebbe
voluto urlare e mettere fine a quella straziante ansia, dire a chiare lettere e
senza tanti giri di parole che Coley, l’unica erede della casata imperiale, era
viva. Salva, ma comunque nelle mani sbagliate, sola e… sotto un certo punto di
vista indifesa. Barrett invece era rimasto silenzioso per quasi tutto il tempo,
evitando battute o frasi “colorite”. Il grande Barrett risentiva in questo modo
la grande angoscia che riguardava la sorte di Coley.
“Reeve ci ha
chiamato, ieri. Ha detto che si era incontrato con una donna del reparto
ricerche scientifiche della Shinra. La ricercatrice aveva dei risentimenti
riguardo un progetto che il presidente del conglomerato sta portando avanti.”
Tifa spiegò, avvicinandosi a Yuffie. La giovane Imperatrice alzò gli occhi
verso la figura rassicurante di Tifa.
“Ricerche
scientifiche? Cosa c’entra con Wutai?” Yuffie domandò.
“Ecco... che la Shinra stesse sviluppando
nuovi programmi non era una novità. Reeve ci ha contattato per un altro
motivo.” Tifa spiegò ulteriormente. Yuffie ascoltò l’amica mentre tornava a
sedersi con lentezza dove si era accomodata in precedenza. Red la osservò con
attenzione mentre appoggiava le sue sottili dita ossute attorno la tazza da tè.
Tifa non si preoccupò di accertarsi che Yuffie le stesse dando ascolto. Era
certa che le sue parole sarebbero state udite al volo.
“Rufus sta
lavorando con i Deepground Soldiers e lo Zvet, perché vogliono realizzare un
nuovo esercito composto da uomini indistruttibili o immortali chiamateli come
volete.. quelli sono pazzi” Cid prese la parola al posto di Tifa. Il pilota era
rimasto vicino all’entrata della stanza, al fianco di Vincent.
“Cosa c’entra
con Wutai..?” la voce di Yuffie tremò nel ripetere la domanda. Sapeva che Cloud
e tutti i suoi vecchi compagni dell’Avalanche non si sarebbero presi un così
grosso disturbo solamente per comunicare degli sviluppi di poco rilievo per il
suo interesse e quello della sua gente.
Barrett emise
una specie di grugnito e si avvicinò a Yuffie. La fissò dritto negli occhi
prima di parlare.
“Usano Coley per
gli esperimenti. Quei bastardi l’ hanno presa, l’hanno curata e ora la usano
come cavia per i loro dannati esperimenti…” la voce roca di Barrett urtò
l’udito di tutti i presenti. Tifa lo guardò, sbiancando per la poca
raffinatezza che il suo compagno aveva mostrato nel riferire una notizia così
delicata. Cloud non si mosse, mentre Red dopo uno sbuffo si acquattò a terra.
Yuffie fece
cadere la tazza che dopo aver rotolato sopra il tavolo riversando tutto il suo
contenuto, cadde a terra frantumandosi. Le sue mani rimasero così com’erano,
raccolte a sostenere la tazza, tremanti ed instabili. Le guance divennero rosse
e gli occhi fecero altrettanto. Ma la giovane Imperatrice non parlò e non si
alzò dal suo posto. Sembrava quasi che stesse attraversando una fase di
completa incoscienza dovuta allo shock. Cid non faceva altro che alternare il
suo sguardo da Yuffie a Vincent poi viceversa, fino a che non si fermò sull’immagine
imponente di quest’ultimo.
Accadde
all’improvviso, come era sempre stato d’altro canto. Vincent aveva udito con
fin troppa chiarezza la frase di Barrett. Coley era viva. La sua unica ragione di
vita era ancora viva. Respirò profondamente ed abbassò le palpebre, che gli
oscurarono la vista per pochi decimi di secondo. Ma quell’arco brevissimo di
tempo fu sufficiente al demone che dormiva assopito nella sua mente per
risvegliarsi, urtato dalle forti emozioni che avevano colpito Vincent. Chaos,
la sua parte nascosta non usava parole che gli umani potessero comprendere o
sentire. Perciò comunicava attraverso immagini ed emozioni.
Vincent chiuse
gli occhi e si trovò perso nell’abisso oscuro, dimora degli incubi grotteschi
di Chaos.
“Papà?” una voce infantile, estremamente
squillante raggiunse l’udito di Vincent. L’uomo aprì gli occhi e si ritrovò in
un luogo indefinito, senza pareti o soffitto, immerso in una fitta nebbia. La
voce era indubbiamente quella di Coley e Vincent, incapace di individuare da
dove lo stessero chiamando, provò un forte senso di panico.
“Papà?” la voce si faceva sempre più
impaurita, e Vincent scoprì di non potersi muovere. La volontà c’era ma il suo
corpo non rispondeva.
“Papa!” ora la voce si era ridotta ad un
urlo e Vincent ribolliva dalla rabbia e dall’angoscia per non potersi muoversi.
“Smettila!” gridò, rivolto a Chaos, il
responsabile di questa temporanea immobilità. Ripeté alcune volte la sua
richiesta, sempre gridando per l’esasperazione, poi d’un tratto il demone
iniziò a ridere. Una risata agghiacciante che rimbombava nell’aria di quel
luogo infinito e si prendeva scherno della sofferenza di Vincent.
Quando anche l’ultimo degli eco della
risata di Chaos si fu assopito, la nebbia si dileguò rivelando agli occhi di
Vincent la figura di Coley, inginocchiata a terra mentre piangeva a dirotto.
Era più piccola, dimostrava all’incirca cinque anni. Perché Chaos aveva scelto
di fargli incontrare Coley da bambina, era un mistero che la mente di Vincent
non riuscì a comprendere. Ma poco importava, perché la gioia di riaverla
davanti a sé era troppo grande per lasciare spazio alla razionalità. Finalmente
i piedi si mossero e Vincent si precipitò verso la sua bambina. La prese in
braccio e la strinse a sé con forza, baciandola sul suo piccolo capo, ricoperto
da folti capelli scuri che profumavano di vaniglia.
Non appena Vincent aveva stretto Coley, la
bambina cessò di singhiozzare. Aveva allungato la sue piccole braccia lungo la
schiena del padre e si era raggomitolata in cerca di riparo dato che qualcosa
di apparentemente invisibile la stava spaventando a morte. La calma della
bambina tranquillizzò Vincent, fino a che il silenzio prolungato della piccola
non tornò ad impensierirlo. Infatti quell’attimo che era sembrato così reale,
si era dimostrato troppo bello per essere frutto della mente di Chaos. Vincent
allentò l’abbraccio su Coley e il suo minuscolo capo cadde a peso morto
all’indietro. Anche le braccia della piccola avevano rilasciato la presa sulla
schiena di Vincent.
Avrà perso conoscenza. Forse lo shock del
pianto l ’ha provata eccessivamente.
Poi gli occhi di Vincent videro che il
petto della bambina non si muoveva, che le sua labbra diventavano violastre e
che la pelle stava scolorendo fino diventare più bianca della neve. Coley era
morta. Ora il suo volto infantile riprese una sembianza più adulta, e Vincent
si trovò a stringere tra la braccia il corpo adolescente di Coley, lo stesso
freddato da un proiettile lanciato da un soldato a Nibelhime. La ferita sul
petto perdeva molto sangue e stava sporcando tutti i vestiti di Vincent: l’uomo
adagiò a terra il corpo della ragazzina, cercando di non urtarla.
Il dolore fu così forte che non c’erano
parole per descrivere la crudeltà di Chaos. Vedere morire una seconda volta
Coley, seppur in sogno, davanti ai propri occhi era una empietà che Vincent non
riuscì a tollerare. Sfiorò il volto freddo della figlia e si accasciò accanto a
lei, mentre la voce bestiale di Chaos gli sussurrava frasi atroci.
“La perderai di
nuovo.”
Vincent riaprì
gli occhi istintivamente, avvertendo che il suo cuore batteva così forte che
avrebbe potuto sfondargli il torace da un momento all’altro. Il suo respiro era
diventato affannoso, persino Cid se n’era reso conto. Nell’incubo di Vincent
sembrava essere passato molto tempo: in realtà il tutto era durato meno di un
battito di ciglio.
La sua mente
stanca e eccessivamente sovraccarica di emozioni fu attirata dall’immagine di
Yuffie. La giovane Imperatrice lasciò cadere lungo i suoi fianchi le mani,
abbassando la testa fino a che il mento non le toccò il petto. Tifa si riprese
dall’attimo di stasi che l’aveva colta dopo le parole di Barrett e si
inginocchiò di fianco a Yuffie, posandole una mano sulla spalla. Percepì che il
corpo dell’amica era un totale tremore.
“Credevo che la
morte di Coley fosse una punizione che mi era stata inflitta per non aver
sposato l’erede designato da mio padre…” Yuffie cercò di parlare tra un
singhiozzo e l’altro. Le grosse lacrime che le scendevano dalle guance cadevano
sul tavolo, mischiandosi alla pozzanghera di tè che si era formata dopo la
caduta della tazza.
“Oh almeno così
mio padre è riuscito a farmi credere per tutto questo tempo…”
“Yuffie..” Tifa
mormorò, sentendo che tra poco il pianto l’avrebbe vinta.
Ma la
disperazione di Yuffie durò ben poco. Si alzò di scatto, rischiando di far
cadere Tifa. Parte della stanchezza sembrò dileguarsi e con diversi gesti di
stizza Yuffie si slacciò il suo fiocco bianco, lasciando che la veste superiore
del suo vestito, quella nera, ricadesse dalle sue spalle e finisse a terra con
un tonfo. Il suo abito nero, il suo modo di esprimere esteriormente il lutto
che l’aveva colpita per aver perso la sua unica figlia, giaceva ora a terra lontano
dal suo corpo, per la prima volta dopo cinque mesi. Yuffie diede un calcio al
vestito ed ignorò i vari giramenti di testa che la facevano barcollare.
L’equilibrio le venne meno ed emise un grido sommesso. Vincent non indugiò e
con la sua velocità quasi disumana anticipò i movimenti di ogni presente nella
stanza ed afferrò Yuffie.
“Dateci un
attimo, per favore.” Vincent chiese mentre poggiava la sua mano destra sul capo
di Yuffie, stringendola a sé. Cloud annuì e fece strada ai compagni che
lasciarono la stanza in un attimo.
Coley si
risvegliò a fatica. Tutto il suo corpo era indolenzito, specialmente nella
parte alta della schiena. Una stretta fasciatura lungo il petto le impediva di
respirare senza fatica. La luminosità della stanza era abbagliante o forse
erano i suoi occhi che a forza di essere stati al contatto col buio del
laboratorio S10, avevano perso il ricordo della luce. Con sua sorpresa Coley
notò che non c’erano cinghie o catene che la stessero legando al letto su cui
era stata adagiata. A dir la verità, da quel poco che poteva vedere stesa
com’era, l’ambiente sembrava diverso da quello in cui aveva passato gli ultimi
cinque mesi. Coley ricordava poco o nulla dei momenti precedenti al risveglio.
Si ricordava delle scosse, del volto sadico di Hojo mentre la osservava durante
l’esperimento e ricordava anche gli occhi impauriti di Lilian. Il resto erano
solo ricordi confusi, brandelli di sensazioni e suoni che aveva provato in
quegli attimi ambigui.
“Buongiorno..”
una voce femminile la salutò dal fondo della nuova stanza. Coley si alzò con
velocità, rimpiangendo la sua foga a causa del dolore che ne seguì.
L’abbigliamento era quello dei Deepground Soldiers, eccetto per uno strano
mantello rosso che partiva dalla vita della nuova arrivata ed altri
abbellimenti del medesimo colore. Sul petto della donna c’era una zeta,
circondata da una fiamma.
E’ un membro Zvet..
Coley si
rannicchiò sul letto contro la parete, intuendo l’ennesimo pericolo
rappresentato da quell’ufficiale.
“E’ un piacere incontrarti
di persona… il mio nome è Rosso.” La donna si presentò camminando verso Coley e
porgendole la mano.
Coley fissò con
i suoi occhi scarlatti la mano di Rosso, rifiutandosi di scambiare il saluto.
“Hai degli occhi
splendidi, ragazza mia, complimenti.” Rosso affermò ritirando la mano. Coley
continuò a fissare la donna, sforzandosi di capire se era veramente un soggetto
pericoloso o no. Passarono alcuni attimi di silenzio
e Rosso si voltò diverse volte verso uno strano specchio in fondo alla stanza.
“Dove sono? Hojo
se n’è andato?” Coley chiese con diffidenza.
La donna
distolse l’attenzione dallo specchio e fissò la ragazzina.
“Per ora, il
professore non c’è”
Coley sospirò e
si distese, acquistando una posizione più rilassata. Si spinse lentamente fuori
dal letto e posò i piedi nudi sul pavimento freddo. Sentiva dei crampi ovunque
e una volta in piedi notò che aveva lasciato due grosse scie rosse sul suo
giaciglio, proprio all’altezza dalla schiena, la parte del corpo che più le
doleva.
Tenendo sempre
le dovute distanza da Rosso, Coley percorse il perimetro della stanza quadrata,
realizzando che era fornita di un letto, una piccola scrivania, un lavandino
con sopra uno specchio appesa alla parete, un piccolo armadietto. Opposto al
letto vi era questa strana parete-specchio, inquietante e gigantesca. A
sinistra c’era la porta d’ingresso della stanza.
Rosso non si
mosse dal centro della stanza ed osservò i movimenti accorti della ragazzina.
Coley scrutava ogni cosa con maniacale attenzione, ignorando che fosse
osservata non solo dall’ufficiale Zvet che aveva conosciuto qualche attimo
prima, ma anche da altri estranei.
“E’ curiosa, si
muove con circospezione, senza impeto o panico. È un’ottima peculiarità.”
Lilian osservò, seduta nella sua postazione dietro lo specchio a due vie che
dava sulla stanza. Hojo mormorò qualcosa, accomodato al fianco della sua
assistente mentre Scarlet si limitava ad osservare con curiosità la scena alle
spalle dei due.
“Sarà perché
ormai è avvezza a questi posti così tristi e sterili.” Scarlet sbottò,
provocando una strana reazione da parte dei due scienziati. Sia Hojo che Lilian
si voltarono verso la donna, mostrando un viso più che irritato.
“Ok, ok… non
parlerò più..” Scarlet rispose con altrettanta scocciatura.
Coley in quell’istante
si fermò davanti alla parete specchio, incuriosita dal riflesso della sua
immagine.
“Riesce a
vederci? Ci ha visto?” Scarlet chiese un po’ agitata.
“No.” Risposero
all’unisono i suoi due colleghi.
Coley guardò lo
specchio e notò che in questi cinque mesi era dimagrita molto, ed aveva assunto
un’aria più matura. Tra l’altro le sue iridi avevano acquistato entrambe il
medesimo, spaventoso colore scarlatto: nessun ciuffo ora avrebbe potuto
nascondere quella maledizione. Ciò comunque non le diminuì la curiosità di
sapere come mai ci fosse un arredo così particolare all’interno della stanza.
“Che cos’è?”
Coley chiese, voltando il viso verso Rosso.
La donna fece
spallucce e si portò una mano all’orecchio.
Hojo allungò la
sua mano viscida sulla console davanti a sé e premette un pulsante, avvicinando
la sua bocca verso un microfono.
“Rosso, dille
che si tratta di uno specchio per allenarsi.” Hojo terminò la frase rilasciando
il pulsante.
A quel punto,
Rosso tolse la mano dall’orecchio, quello in cui nascondeva con una ciocca di
capelli fulvi l’auricolare grazie al quale si teneva in contatto con l’altra
parte dello specchio.
“Serve per
esercitarsi, così potrai notare tu stessa i progressi dei tuoi allenamenti.”
“Progressi?
Allenamenti? Nessuno me ne ha mai parlato..” Coley domandò voltandosi
completamente verso Rosso.
“Presto entrerai
a far parte di un gruppo speciale ed unico, ma solo se dimostrerai di esserne
all’altezza.” Rosso spiegò portandosi verso la porta d’uscita della stanzetta.
“E cosa succede
se mi rifiutassi?” Coley chiese, corrucciando la fronte.
“Morirai.” Rosso
sorrise, salutando con la mano la ragazza e lasciando la stanza.
Coley rimase
sola, meravigliata da ciò che le era stato detto. Lanciò un calcio contro la parete,
procurandosi un brutto taglio sulle dita dei piedi. Avrebbe voluto continuare a
sfogarsi in quel modo, soffocando la sua rabbia nel dolore fisico ma le luci si
spensero all’improvviso, obbligandola a fermarsi. Tornò, con molta difficoltà,
verso il letto dove si sdraiò cercando di dimenticare la realtà con il sonno.
La stanza era
avvolta dal silenzio, interrotto di tanto in tanto dai gemiti di Yuffie.
Vincent la teneva stretta a sé con un abbraccio, cercando di tranquillizzarla
con alcune parole di conforto.
La sottoveste
bianca di Yuffie mostrava ora la magrezza del suo fisico, che era deperito
sempre di più dopo la presunta morte di Coley.
“Aveva detto che
era colpa mia, invece di rassicurarmi.. ha detto che me lo meritavo per averti
dato una figlia invece che sposarmi con l’erede designato da lui stesso…”
Yuffie continuava a mormorare con il volto sprofondato contro il petto di
Vincent.
“Il dolore che
ci ha colpiti deve aver accecato anche la sua ragione…” Yuffie ascoltò le
parole di Vincent e si scostò dal suo abbraccio. Fissò i suoi occhi scarlatti,
profondi, velati di rammarico e d’un tratto si sentì più forte. Yuffie voleva
essere altrettanto coraggiosa come Vincent, voleva imparare a controllare le
emozioni come lui. La giovane Imperatrice si asciugò le lacrime e si piegò per
raccogliere la veste nera che aveva buttato a terra.
“Ciò non
giustifica le parole di mio padre.”
Vincent inspirò
profondamente, realizzando che Chaos non si era ancora assopito del tutto. Con
il passare degli anni e la realizzazione di una vita più tranquilla e serena,
Vincent aveva imparato a controllare parte dei demoni che costituivano una
porzione nascosta della sua personalità. Solo Chaos continuava a persistere,
risvegliando le sue abilità nei momenti più difficili, come quelli che avevano
seguito la scomparsa di Coley.
Vincent sentì
ancora una volta uno strano senso di stanchezza e socchiuse gli occhi.
Yuffie era sparita, davanti a lui nella
stessa stanza in cui si trovava apparve Coley, vestita in un bellissimo abito
rosso. La ragazza fece alcuni passi verso il padre, sorridendo come poche volte
aveva fatto. Quando i due furono a pochi centimetri di distanza, Coley si portò
le mani al volto, iniziando ad urlare. Vincent alzò lo sguardo e vide con
orrore che la stanza si stava riempiendo di sangue, sgorgato all’improvviso
dalle pareti.
“Vincent?”
Yuffie domandò, vedendo che il suo compagno si era distratto.
Vincent si portò
una mano sulla fronte, scostandosi parte dei capelli. Chaos stava tornando
insidioso come in passato e per Vincent voleva dire guai in vista. Guai grossi.
“Stai bene?”
Yuffie chiese, avvicinandosi all’uomo con aria preoccupata.
Vincent cercò di
deviare immediatamente il discorso perché non voleva mettere in apprensione
ulteriormente la compagna. Annuì e si scusò per essersi distratto.
“Stavo dicendo…
sarà una notizia affidabile?” Yuffie chiese.
“Conosco molto
bene Reeve e non fornirebbe informazioni di nessun tipo senza averne provato la
fondatezza.” Yuffie si sentì sollevata dalle parole di Vincent e si lasciò
accarezzare il volto dal suo compagno.
“Possiamo starne
certi.”
La giovane annuì
e portò la sua mano sopra quella di Vincent.
“Ti senti meglio
ora?” le domandò giocando con i capelli.
Yuffie tornò ad
annuire.
Vincent lasciò
il volto della compagna e si diresse verso la porta. Yuffie sospirò, e fissò la
figura imponente di Vincent lasciare la stanza.
“Barrett devi
controllarti! Siamo stati fortunati se le cose sono andate così…” Tifa
rimproverò il suo amico puntandogli contro l’indice della mano.
Barrett sbuffò e
si allontanò dal resto gruppo, camminando verso la fine del corridoio in cui
erano usciti. Cid si accese una sigaretta e dopo aver inspirato una boccata di
fumo si sentì subito meglio. Cloud aveva osservato con indifferenza il rimprovero
che la moglie aveva lanciato verso Barrett, anche se era pienamente d’accordo
con lei. In qualche modo Cloud sembrava il più tranquillo, perché aveva
compreso i sentimenti di Yuffie e Vincent. Così come loro stavano soffrendo per
la perdita di Coley anche Cloud aveva portato per molto tempo nel cuore una
simile angoscia dovuta alla perdita di Aeris.
Red non lasciò
che Tifa terminasse la sua frase rivolta a Barrett ma si intromise nel
discorso, dopo che si era ricordato di un particolare.
“Non abbiamo
detto loro che di mezzo c’è sempre Hojo…” l’animale affermò, posando il suo
sguardo prima sulla donna poi su Cloud.
Cid mormorò
qualcosa e ne seguì un rumore leggero.
Vincent era
riapparso sulla porta, a braccia conserte, mostrando un’espressione rilassata.
Pareva che non avesse udito l’ultima affermazione di Red.
“Sta bene
Yuffie?” Cid domandò per dare tempo agli amici di riprendersi dallo spavento.
Se Vincent avesse udito le parole di Red…
Vincent annuì e
fece cenno di rientrare. Aspettò sulla soglia che ognuno entrasse e quando al
suo fianco passò Cid, Vincent allungò un braccio, sbarrando la strada al
pilota.
“Che cosa ho
fatto adesso?” Cid chiese esasperato.
Vincent fece una
smorfia di disapprovazione ed afferrò la sigaretta del compagno. La buttò a
terra e gli indicò di spegnerla. Cid sbuffò ma notando l’irremovibilità del
braccio di Vincent fu costretto ad obbedire.
“Contento ora?”
“Entra.”
Cid poté
finalmente procedere all’interno della stanza, mugugnando frasi di irritazione
tra sé e sé.
Yuffie era
rivolta verso il giardinetto, tenendo fra le mani il vestito nero che avevo
ripiegato. Lasciò che il vento le scompigliasse i capelli e poi si voltò verso
gli amici.
“Vi ringrazio,
per quello che avete fatto.”
Tifa sorrise,
contenta nel vedere che l’espressione di Yuffie si era rilassata.
“Vi aiuteremo a
recuperare Coley, ma prima bisogna stabilire come agire.” Red affermò,
avvicinandosi alla giovane Imperatrice. L’animale aveva ragione. Non si poteva
pretendere di salvare la ragazza se prima non ci si era organizzati a dovere:
le difese di Midgar erano preparate a difendere alla perfezione il conglomerato
dagli intrusi.“C’è qualcosa però che dovreste sapere, prima di terminare questo
colloquio..” Cloud si intromise.
« A
dirigere l’orchestra è Hojo » Cid sbottò.
Hojo uscì dalla
sala controllo nascosta dietro lo specchio, accompagnato da Lilian e Scarlet,
che lo lasciarono subito ai suoi impegni. Lo scienziato si era assicurato che
Coley si fosse calmata e dopo aver compilato la cartellina dove annotava i
progressi dalla sua JEP3-3, decise di fare una visita al presidente. Hojo
percorse diversi corridoi, tutti illuminati dalla medesima luce viola e tutti
maleodoranti di cloro. Si portò verso gli ascensori e si accomodò dentro al
numero uno, digitando l’ultimo piano, ovvero l’ufficio del presidente.
Lo scienziato
osservò dalla vetrata dell’ascensore il panorama di Midgar, che si
rimpiccioliva man mano che saliva di piano.
Un giorno sarà tutto mio.
Un tintinnio
elegante segnalò all’uomo che era arrivato a destinazione, poi le porte si
aprirono lentamente. Hojo entrò nell’ufficio senza bussare, aprendo con impeto
le porte che sbatterono per la spinta ricevuta.
Rufus alzò lo
sguardo dalla scrivania, disturbato dall’improvviso rumore. Una sagoma scura,
dall’andatura zoppicante si avvicinò, schiarendo i propri lineamenti ad ogni
passo verso la luce che filtrava dai vetri alle spalle del presidente.
Capelli scuri,
lunghi e raccolti; fronte larga e spaziosa; occhiali da vista dalle lenti
spesse e un camice bianco che recava un cartellino d’identificazione per i
dipendenti della Shinra. Indubbiamente si trattava Hojo. Era curioso poterlo
vedere a quell’ora del giorno fuori dai suoi laboratori.
Rufus posò la
biro con cui stava firmando un foglio, appoggiò i gomiti sulla scrivania,
incrociò le mani e pose il viso contro esse. La sua espressione, calma e
severa, indicò a Hojo che era pronto all’ascolto.
“Ho bisogno di
una cosa per proseguire con sicurezza il progetto JEP3-3” il professore dichiarò,
sibilando come un serpente.
“Cosa?”
“Materia.”
Rufus sogghignò
e si appoggiò contro lo schienale della sua sedia, accavallando le gambe.
“Te n’abbiamo
fornito a sufficienza prima di iniziare gli interventi sulla ragazza.”
“Non ho bisogno di
materia ordinaria.” Hojo rispose sbattendo una mano sulla scrivania. Tutti gli
oggetti sopra di essa sobbalzarono e Rufus osservò indignato la reazione
dell’uomo.
“Di che materia
hai bisogno allora?”
Hojo si
riaggiustò gli occhiali e fissò il presidente.
“Materia di
restrizione.”
Rufus sembrò
sbalordito da quella richiesta. Materia di restrizione? Non esisteva alcun tipo
di quella materia. Che il professore stesse delirando con le sue eccessive mire
di conoscenza?
“E’ la prima
volta che ne sento parlare”
Hojo emise una
specie di grugnito, forse si aspettava una simile risposta. Dopotutto Rufus era
un uomo troppo stolto rispetto a lui, ignorante e privo d’ogni senso
d’intuizione. O almeno era quello che pensava il professore.
“Si trova a
Nibelhime, in un posto di mia conoscenza. Ho bisogno di partire per
recuperarla.”
“Non puoi
partire lasciando sola JEP3-3. Manderò qualcuno a prenderla al tuo posto.”
Rufus rispose allungando una mano sul telefono. Hojo lo anticipò e prima che il
presidente potesse sollevare la cornetta, lo scienziato aveva già posto una
mano per fermare i movimenti di Rufus.
“SOLO io, so
dove e come recuperarla.”
Il presidente
tenne lo sguardo sulla mano fredda di Hojo, irritato dalla sua mania di
comandare anche i suoi superiori.
“Non ci andrai
da solo. Non mi fido.” Rufus rispose, togliendo la propria mano dalla stretta
di Hojo. Compose un numero sulla tastiera del telefono e si portò la cornetta
all’orecchio. Nonostante lo scienziato avesse ottenuto ciò che chiedeva, lasciò
la stanza adirato, poiché avrebbe desiderato compiere i suoi lavori da solo,
senza essere disturbato da scienziati o soldati.
I suoi passi
pesanti trascinarono il suo corpo verso i laboratori, dove Hojo avrebbe potuto
sfogare la sua rabbia su qualche sfortunato soggetto vittima delle sue strane
ricerche. Lilian, che era tornata a sedersi nella sua postazione davanti
l’entrata del laboratorio era al telefono con qualcuno. Non appena vide la
figura di Hojo piombarsi con insolita velocità verso di lei, riattaccò la cornetta.
“E’ successo
qualcosa, professore?” domandò con stupore verso il suo superiore.
“Informami
quando il caro presidente chiamerà per il mio trasporto a Nibelhime.” Hojo
affermò con grinta. Lilian annuì, ma lo scienziato non si fermò nemmeno per
assicurarsi che l’assistente avesse capito: estratta la carta che teneva nel
camice, aprì la porta del laboratorio ed entrò.
Lilian fece
spallucce e tornò a concentrarsi sul telefono.
“Vincent
aspetta!” Cloud tuonò nel vedere il suo amico precipitarsi all’esterno della
stanza, pericolosamente adirato.
“Cloud no!”
Yuffie gridò correndo verso il suo amico, che era già pronto a rincorrere
Vincent.
“Lascialo
stare.. dagli del tempo per calmarsi.. te ne prego..” Yuffie supplicò Cloud,
appoggiando le sue esili mani sul petto del guerriero. Cloud, che aveva fissato
per tutto il tempo la porta distrutta dall’impeto di Vincent, abbassò gli occhi
sulla figura dell’Imperatrice. Tifa, Cid e Red sapevano che una reazione del
genere avrebbe infervorato l’animo di Vincent, dopotutto aveva ragione per
essere adirato. Anche Barrett se l’era aspettato, sperando che però si potesse
evitare. E invece non fu così. Ognuno si concentrò su se stesso, lasciando che
le loro menti vagassero tra il flusso di eventi che si erano susseguiti con
velocità.
Delle guardie
arrivarono davanti la porta distrutta, senza entrare nella stanza dove Yuffie e
gli ex membri Avalanche si erano fermati.
“Altezza.. vuole
che lo seguiamo?” una delle guardie si rivolse a Yuffie, puntando un dito verso
il corridoio in cui si era sostato. Le altre guardie si erano perse nel fissare
gli effetti dell’ira di Vincent.
Yuffie sospirò e
scosse la testa.
“Fate solo
attenzione che nessuno si faccia del male.”
Le guardie salutarono
l’Imperatrice con un inchino e lasciarono il corridoio.
“Forse è meglio
se vi mostro dove potete riposarvi. Io andrò a parlare con mio padre intanto.”
Yuffie si scostò da Cloud, che si era ripreso dall’urto. L’Imperatrice, tenendo
sempre tra le mani la veste nera, accompagnò i suoi amici in un’altra ala del
palazzo, dove vi erano le stanze per gli ospiti. Una volta salutati, Yuffie si
precipitò verso la Pagoda,
dove sapeva per certo di trovare il padre, ancora ignaro della notizia portata
da Tifa e gli altri.
Che bello! C’è qualcuno che si
interessa alla mia storia! Grazie dastreaJ! Tra l’altro, ogni volta che la rileggo mi rendo conto di quanto io
sia contorta… Mah! E siamo solo all’inizio, chissà come andràfinire! Buonalettura!
Disclaimer:
Square-Enix e Final Fantasy VII NON sono miei… damage!
Capitolo 4:
Memories
consume
Like opening the wound
I'm picking me apart again
You all assume
I'm safe here in my room
Unless I try to start again
I don't want to be the one
The battles always choose
'Cause inside I realize
That I'm the one confused
I don't know what's worth fighting for
Or why I have to scream
I don't know why I instigate
And say what I don't mean
I don't know how I got this way
I know it's not alright
So I'm breaking the habit
I'm breaking the habit
Tonight
Breaking
the habit –LinkinPark-
Il controllo.
Una parola che
in quel momento era estranea alla mente di Vincent.
Gli era bastato
ascoltare un nome per perdere quell’equilibrio così precario che aveva imparato
a mantenere con molti sforzi. Non appena la labbra di
Cid emisero quelle due sillabe, Ho-jo, Vincent sentì che qualcosa di
orrendamente potente lo stava per assalire. Partì dai piedi, salì per le gambe,
gli avvolse il petto e gli fece affondare il cuore. La vista si annebbiò, la testa cominciò a girare, il respiro a mancare.
Sembrò che la stanza ed i suoi muri di legno si fossero incrinati, che le
colonne si fossero frantumate mentre un terribile ruggito, o piuttosto un urlo,
uno strillo feroce gli aveva fatto contrarre i timpani, che si erano
frantumati.
Chaos era
ovunque ma allo stesso tempo da nessuna parte. Solo Vincent avvertiva quei
bizzarri cambiamenti dell’ambiente e quelle sensazioni
estreme. Il demone aveva spezzato le catene che lo avevano relegato nel suo
profondo, spalancando le porte dell’inferno e facendolo precipitare al suo
interno.
C’era poco tempo
per pensare e non c’era più niente da fare, perchè quel briciolo di coscienza
rimasto presto se ne sarebbe andato completamente, dando il
via libera al demone che si sarebbe impossessato di Vincent.
Avvertiva il
bisogno disperato di nascondersi, prima di perdere completamente quel poco di umano che gli rimaneva, prima di fare del male alle
persone più care che aveva.
L’istinto gli
ordinò di fuggire e Vincent lasciò la stanza, abbattendo la porta e correndo
verso l’uscita. Le guardie ferme sotto il porticato che lo videro non mossero
un passo, coscienti dello stato in cui si trovava. Udì le parole di Cloud e
quelle di Yuffie in lontananza, ma poco importava ormai.
Vincent corse,
finché i polmoni poterono reggere il suo ritmo forsennato. Si nascose nella
fitta vegetazione sottostante le sculture del massiccio montuoso di DaChao. Si era allontanato il
più possibile dal palazzo, da Yuffie e dai suoi amici, senza essere
fortunatamente seguito. Vincent si fermò, portandosi una mano sulla fronte
bollente e lanciò un potente calcio ben assestato contro il tronco di un albero
lì vicino. Molte foglie caddero per l’urto, avvolgendo come in una strana
pioggia il corpo sovraccaricato di Vincent.
Perché Hojo? Non gli era bastato consumare la sua
di vita? Non gli era bastato di aver rovinato l’esistenza sua e di Lucrecia? Il
solo pensiero di immaginare Coley sdraiata su di un letto mentre il professore
la analizzava, la torturava, le iniettava chissà quale sconosciuta sostanza,
fece ulteriormente perdere il controllo di Vincent.
E se le avesse
fatto le stesse cose ignobili che a suo tempo aveva
testato su di lui?
L’ultima cosa
che avrebbe voluto era quella di vedere la figlia costretta a vivere in un
corpo disumano come il proprio.
Tutta la sua ira
si canalizzò nella gola, e Vincent urlò, così forte che tutti gli uccelli che
si erano appollaiati sui rami degli alberi volarono via gracchiando impauriti.
La sua voce era
diventata roca, gutturale, praticamente lo stesso
bestiale tono di Chaos. Nello sforzo le vene della gola si erano ingrossate e
gli occhi erano diventati luminosissimi, come se nelle iridi scorresse puro
sangue. Il demone era ormai del tutto sveglio. Ogni cosa intorno a lui girava
vorticosamente, la sua visuale si era ridotta ad alcune macchie colorate e
senza forma mentre nelle sue orecchie rimbombava solo l’urlo infernale del suo
demone.
Il tempo di
perire era arrivato, la sua resistenza era arrivata al
livello minimo.
Sentì che il
pavimento sotto i suoi piedi si era aperto in una
voragine ma prima che Vincent potesse cadere al suo interno, lasciandosi
trasportare nell’abisso dell’incoscienza, accadde qualcosa che non sarebbe
dovuto accadere e che alla fine non accadde mai. Tutto si fermò di girare, la vista riacquistò chiarezza e le urla si
dileguarono.
La tranquillità
della natura, il calore del sole, i suoni dolci della foresta riappacificarono
i sensi di Vincent. Il suo terrore e la sua rabbia se n’andarono
insieme a quell’ondata di confusione che anche le cose più razionali alla fine
lasciano.
Ecco dunque di
cosa era capace il lato oscuro del fantasticare di Chaos.
Vincent si
accasciò a terra, cercando di calmare la respirazione mentre
alcune gocce di sudore gli scendevano sulle tempie. Era da molto tempo che
Chaos non aveva sferrato un attacco così potente.
Se in un primo
tempo aveva accettato l’idea di aspettare, fino che i suoi compagni non si
fossero organizzati per recuperare dalla Shinra la sua piccola Coley, ora non
avvertiva altro che l’urgente bisogno di raggiungere
Midgar, al più presto, addirittura quello stesso giorno se avesse potuto.
Ma non poteva.
Come fare con
Yuffie?
Senza Vincent,
la giovane Imperatrice sarebbe perita dal dolore e di sicuro il suo destino
sarebbe stato tale se avesse deciso all’ultimo momento di partire verso Midgar
lasciandola sola a Wutai.
Gli sembrò di
vederla proprio di fronte a lui, mentre piangeva accasciata sul letto, mentre quelle
lacrime si portavano via con sé l’ultima volontà di vivere.
Yuffie aveva
sofferto abbastanza, nelle tante notti insonni, nelle giornate passate tra
silenzi e tristezza infinta. La gente di Wutai aveva sofferto abbastanza, rispettando
un lutto protrattosi per ben cinque mesi. Vincent stesso era stanco di tutto
ciò. Il destino gli aveva concesso di vivere una vita normale
e la vita stessa gli aveva portato via la felicità, ancora una volta.
“Non la perderò
ancora.” Vincent si lamentò tra se e se.
“Mai e poi mai.”
La notte era
scesa con solennità, risvegliando il monotono gracidio dei grilli. Cid aveva
diviso la stanza con Red e Barret, che in quel preciso istante si era assentato
per fare una passeggiata. La camera che Yuffie aveva loro assegnato era semplice ma elegante. Sul pavimento che recava delle
preziose intarsie, alcune graziose donne di servizio
avevano preparato tre comodi letti, lasciando poi tutto il tempo necessario
agli ospiti per disfare i loro scarsi bagagli. Mentre Red non aveva portato nulla con sé, Cid aveva
lasciato i suoi effetti sull’Highwind e Barrett aveva preferito portare
solamente un’arma di scorta e qualche munizione.
Il pilota si era
seduto su di una sedia ricoperta di velluto rosso, vicino alla balconata della
camera. Cid amava osservare il cielo stellato in ricordo dei tempi passati a
lavorare come addetto al dipartimento di ricerche spaziali della Shinra. Con
una sigaretta spenta che gli pendeva dal labbro inferiore, il pilota in quel
preciso istante non era proprio in vena di sognare ad occhi aperti: cercava
soltanto un modo per distrarsi. Aveva ancora davanti ai propri occhi l’immagine
di Yuffie che lasciava cadere a terra la tazza di tè e lo scatto furibondo di
Vincent.
Pensò a cosa potessero provare nei loro cuori, dopo aver saputo che la
loro figlia era ancora viva dopo cinque strazianti mesi. Il pensiero risultò difficile da realizzarsi, perciò Cid cambiò punto di
vista.
Come si sarebbe
sentito se qualcuno le avesse portato via la sua cara
Shera, a causa di un incidente per poi scoprire che tutto era falso?
Che presa per i fondelli…
Il pilota sbuffò
e prese tra il pollice e l’indice la sua preziosa
sigaretta, riponendola nel pacchetto che teneva incastrato nell’elastico dei
suoi occhiali.
Anche Red era molto pensieroso e fu contento di
notare che Cid si era finalmente alzato dalla sedia. Il pilota si stirò,
lanciando una specie di lamento.
“Chissà se Tifa
e Cloud hanno deciso qualcosa?” Cid sbottò, dando le spalle all’animale.
“Credo che non
spetti solo a loro decidere sul da farsi.” Red
rispose, inarcando la schiena per sgranchirsi le zampe.
“..già..” Cid
rispose.
Passarono alcuni
attimi di silenzio, seguiti dal rintocco del gong in oro massiccio. Suonò per
tre volte, indicando che erano circa le otto di sera.
“Sono un po’
preoccupato per Yuffie… mi è sembrata molto deperita dall’ultima volta che
l’abbiamo incontrata a Nibelhime prima di.. beh..”
Red annuì
all’affermazione di Cid; effettivamente Yuffie non era sembrata mai così debole
e rassegnata.
“Spero che
Vincent stia bene” l’animale affermò fissando la pallida
luna che s’intravedeva dalla balconata.
“Oh, lui se la
sa cavare da solo..” Cid rispose, voltandosi verso la
porta della stanza.
“Dove vuoi andare?”
“Mi sono rotto
di stare qui senza fare nulla… vado a vedere se hanno deciso qualcosa…”
“Vengo con te.”
Cid sorrise e
lasciò la camera insieme a Red.
“Così siete a Wutai…
avete…avete già riferito?”
“Sì, anche se
qualche contrattempo ci sta rallentando.”
“Contrattempo?”
“Vincent non l’
ha presa molto bene. Se n’è andato da oggi e deve ancora
tornare, per quanto ne so io. Mi dispiace, capisco cosa si prova in
queste situazioni.”
“Beh, c’era da aspettarselo.. questa notizia ha dell’incredibile. E se quella
ricercatrice non si fosse fatta avanti di sua spontanea volontà, saremmo ancora
all’oscuro di tutto..”
“E’ quello che mi irrita più di ogni altra cosa. Hai trovato altre
informazioni, Reeve?”
“Sì, siamo sempre in contatto con
l’assistente di Hojo che ci sta fornendo una quantità incredibile di materiale
riservato. Date le dimensioni dei file stiamo spedendo
il tutto al server di Shelke, dove potremo conservarli nella massima
segretezza. Ci penserà lei a farvi ricevere tutto, quando saremo pronti.”
“Avete notizie
delle condizioni fisiche di Coley?”
“L’assistente dice
che sta bene, il suo corpo è come una macchina perfetta, anche se è molto
provata psicologicamente. Deve essere molto dura vivere in quegli ambienti,
senza nessun contatto con l’esterno e senza un appoggio morale.”
“Non sai che
tipo di interventi abbia subito, se Hojo le abbia
davvero fatto del male?”
“Purtroppo no.
L’assistente dice che le prime fasi del progetto,
quelle cruciali sono state seguite esclusivamente da Hojo. Solo lui sa a quali
operazioni Coley sia stata sottoposta.”
“Grazie per
l’aggiornamento… e ti faremo sapere come e quando ci muoveremo.”
“Sono io che devo ringraziare te e i tuoi
compagni, ci sentiremo presto.. ah Cloud, salutami
Yuffie..”
“Sarà fatto,
Reeve.”
Cloud riattaccò
la linea, appoggiando il telefono sul letto in cui si era accomodato. Accanto a
lui giaceva Tifa, che si era addormentata da poco. Le
rimboccò le coperte, facendo attenzione a non
svegliarla, e non appena ebbe terminato, Tifa borbottò qualcosa ad occhi
chiusi, contorcendosi sommessamente. Cloud la osservò incantato per qualche
secondo, notando che era sempre bellissima, in particolare
quando dormiva e rilassava completamente l’espressione del suo viso. Nel
guardarla, Cloud si ricordò di Eve e Gaia, che erano
rimaste con Shelke a Nibelhime. Tifa le aveva già chiamate, assicurandosi che
tutto andasse bene, ma Cloud comunque non era
tranquillo: voleva chiudere al più presto la faccenda per ritornare a casa.
Stanco di
rimanere con le mani in mano e completamente privo di
sonno, Cloud si alzò e lasciò la stanza. Si sorprese di trovare Red e Cid fermi
nel corridoio, come se fossero lì ad aspettarlo.
Cloud li guardò
meravigliato, cercando di nascondere un sorriso.
“Eravamo stanchi
di aspettare” Red chiarificò, appoggiato dai gesti di Cid.
“..E’ il mio stesso problema..” Cloud ammise.
“Pensavo di fare un salto in villaggio per comprare un po’ di materia e
qualche accessorio utile. Se non domani, saremo comunque
costretti a partire per Midgar.” Cid affermò.
Cloud trovò che l’idea dell’amico non era per niente pessima. I
tre s’incamminarono nel corridoio, quando Cloud si fermò all’improvviso.
“Barrett?”
“Era uscito a
camminare per sgranchirsi le gambe... tornerà.” Red
spiegò dopo aver ripreso il cammino.
Yuffie era stata
costretta a posticipare l’incontro con il padre a causa della stanchezza. Dopo
essersi riposata per tutto il pomeriggio ed aver cambiato abbigliamento,
decise solo a sera inoltrata di dirigersi verso la Pagoda. L’emozione e la
preoccupazione avevano giocato un brutto tiro alla giovane Imperatrice, che ora
doveva dare prova di una grande sicurezza per
affrontare faccia a faccia l’odiato padre.
Yuffie entrò
nella Pagoda, deserta a quell’ora della sera, salì i cinque piani di scale ed
entrò nell’ultimo piano. La stanza era buia, illuminata da piccoli fuochi
sorretti da quattro splendide statue in oro, poste a due a due ai lati del
piano, raffiguranti il dio dell’acqua, Leviathan. Per terra erano stati accesi
degli incensi che profumavamo di cedro. Davanti a lei, seduto a gambe
incrociate e dando le spalle verso l’entrata c’era suo padre, Godo Kisaragi,
raccolto in preghiera. Era difficile distinguere la sua figura nell’ombra
addolcita dalla scarsa illuminazione fornita dai fuochi. Yuffie vide solo i
capelli argentati e parte del kimono nero.
Ringraziò con
tutto il cuore di aver studiato le arti dei ninja, perché i suoi passi felpati
non attirarono per buona parte del tempo l’attenzione di Godo.
Yuffie camminò, fino a raggiungere la minima distanza tra sé e il padre:
aspettò qualche attimo prima di schiarirsi la voce. Godo si voltò velocemente, senza mostrare stupore o paura.
Fissò la figlia e notò subito che non era vestita, come doveva, di nero.
“Tua figlia non
conta più per te, Yuffie?” Godo sbottò, irritato nel
vedere il vestito verde scuro della figlia.
“Non ho motivo
di portare il lutto. La mia Coley è viva.” Yuffie rispose
scrutando con rimprovero Godo.
L’uomo
sogghignò, e si alzò aiutandosi con una spinta delle
mani sul pavimento.
“Se è viva allora dov’è?” Godo credeva che quell’affermazione
fosse frutto di un’ennesima falsa speranza di Yuffie.
“Quelli della
Shinra l’ hanno ferita, senza… ucciderla, come noi temevano…
e portata nei loro laboratori.”
Godo
scoppiò a ridere,
risuonando grottescamente malefico.
“Allora è come
se fosse morta!” Godo ridacchiò.
Yuffie spalancò
gli occhi, infuriata da quella dichiarazione priva di sentimento. Si scostò di
qualche centimetro dal padre e calciò un piattino d’incenso che si trovava a
terra. La polvere sporcò parte del vestito e il rumore del coccio interruppe le
risate di Godo.
“Non fare
stupidaggini davanti alle statue delle divinità di Leviathan!!”
Godo tuonò puntando un dito contro la figlia. Yuffie strinse i pugni e si portò
petto e petto col padre, osservandolo negli occhi.
“Me ne frego
delle divinità! Come puoi dire un’atrocità simile!
Coley è tua nipote, la tua unica nipote!” Yuffie sentì che era sul punto di
piangere, ma si controllò poiché frignare davanti a
Godo avrebbe mandato in fumo ogni sforzo.
Godo retrocesse
di un passo e fissò l’incenso sparso sul pavimento.
“Vorrei che
Vincent avesse sentito quello che hai detto. Allora avresti
avuto ben poco da ridere…” Yuffie affermò. Godo si chinò
per risistemare il danno procurato da Yuffie, e rimase piegato per un po’.
“Come mai non è
qui con te?”
“Lui aveva.. bisogno di calmarsi. E’ stato un bruttissimo colpo…”
“Non mi pare che
fosse così urtato nell’aver perso una figlia. Non l’
ho mai visto piangere, onorare gli dei e chiedere perdono per l’accaduto in
questi cinque mesi. Hai visto con che uomo hai deciso di unirti?”
“Non iniziare.
Te l’ ho già spiegato. E’ una persona molto riservata.”
Godo
si rialzò, sbattendo le
mani per pulirsi dalla polvere.
“Non ha fatto
altro che viaggiare, tornare qua casualmente per poi ripartire. E’ come se rimanesse qui perchè obbligato… Non c’era mai per te…”
“Smettila! Sono solo bugie! Quello che non mi ha mai
ascoltato o aiutato eri tu!”
“Vedi… non ha nemmeno voluto sposarti…”
Yuffie si sentì
bruciare. Il fuoco della rabbia fu tale da farle urlare un “basta” così forte
da scostare l’aria della stanza. Godo si zittì subito,
ed osservò la figlia, visibilmente alterata e sull’orlo di muovere le mani.
“Mi chiedo
perché diamine io sia venuta sin qui!” Yuffie affermò ad alta voce, lasciando
solo il padre. Godo tornò a sedersi, non toccato
minimamente dalla scoperta della salvezza di Coley o dall’ira furibonda della
figlia. Al contrario Yuffie si precipitò fuori dalla
Pagoda, scendendo con velocità le scale ed aprendo con forza il portone d’entrata
dell’edificio. Si ritrovò nella piazza, dove una brezza leggera la salutò,
scompigliandole i capelli ed il vestito.
Attraversò la
piazza tenendo lo sguardo fisso sui propri piedi, eliminando ogni contatto con
ciò che la circondava. Non salutò nemmeno Cloud, Cid e Red che erano appena usciti dal palazzo.
“Che le prende?” Cid domandò, mentre era rimasto con la mano
a mezz’aria per salutare Yuffie.
Hojo non è qui.
Ho speranza di salvarmi?
Devo trovare il coraggio per fare quello
che ho in mente, ma non ci riesco.
E se mi scoprono?
Ormai non ho più nulla da perdere…
Coley era
rimasta sdraiata sul letto, costretta a rimanere
immobile per l’assenza di luce. Si era rigirata sui fianchi per qualche volta,
sbuffando e sospirando, nella speranza che potessero sentirla. E invece nessuno si degnò di considerarla.
Forse mi hanno chiusa qui dentro per farmi
marcire…
Come vorrei essere
a casa…
Coley si mise a
sedere ed aprì gli occhi, notando che non c’era alcuna differenza dal tenerli aperti
o chiusi. Tutto quello che percepiva era una pesante coltre di tenebra. Sbatté
ripetutamente le palpebre fino a che si accorse che riusciva a distinguere una
forma verdastra in fondo alla stanza.
Il cuore le
saltò in gola.
C’era qualcuno
che la stava osservando a sua insaputa?
Non riusciva a pensare a nulla, la paura le ingolfava ogni
reazione. Ma la sagoma verdastra rimaneva fissa,
immobile ed immutabile. Coley spostò lo sguardo leggermente a sinistra e notò
che altre figure emergevano dal buio.
Era come se per
magia riuscisse a distinguere gli oggetti della stanza nell’oscurità.
Riconobbe
l’armadio, il lavandino e la scrivania. Posò lo sguardo dove aveva creduto di
vedere una persona e comprese che non era altro che la sua immagine riflessa
sulla parete-specchio.
Coley si stupì
piacevolmente nello scoprire quella particolare abilità. Ora era nelle
condizioni di soddisfare il suo piano, al quale aveva pensato per tutto il
giorno.
Scese dal letto
e raggiunse la porta. Si fece forza prima di poggiare le mani sulla maniglia e
premere.
Purtroppo era
chiusa. Non rimaneva che sfondarla.
Indietreggiò di alcuni passi, si voltò leggermente e caricò la spalla con
tutta la forza che aveva in corpo, sbattendo contro la superficie metallica
della porta. Ripeté questo sforzo per cinque volte, aumentando l’intensità dei
colpi ad ogni volta. Al sesto tentativo, notando che la porta non aveva ceduto
nemmeno un po’, aumentò la sua rincorsa e la percorse
con più velocità. All’ultimo istante qualcosa le disse di arrestarsi e Coley si
bloccò poco prima che la spalla toccasse la porta. Improvvisamente essa si
spalancò e la ragazza chiuse gli occhi con una smorfia, abbagliata
dall’eccessiva luce che riempì la camera.
“Cosa stai facendo?” una voce tuonò.
Coley riaprì gli
occhi lacrimanti per la fatica, sforzandosi di riacquisire la vista. La
persona, di cui percepiva solo la sagoma, prese forma
e nitidezza, finché Coley non la riconobbe completamente.
Era una donna
alta e bionda, vestita provocantemente di rosso e con una pistola argentata in
mano. Coley prima di rispondere si portò una mano davanti agli occhi per
coprirsi dalla luce.
“Niente…!”
Mentì.
La donna alzò
gli occhi al cielo ed agitò la pistola.
“E pretendi che io ti creda? Cos’erano
quei rumori?”
Coley si guardò
intorno e poi fissò la donna. Era sola, nessuno era intervenuto insieme a lei.
Anche se armata, io sono
invulnerabile ai colpi di pistola. E’ sola, non c’è ombra di altre
guardie e la porta adesso è aperta.
Il cuore di
Coley accelerò i battiti, e le gambe cominciarono a formicolare. La ragazza si
accorse di una strana agitazione che la stava vincendo, poiché era sicura di
riuscire a battere con facilità quella strana donna per mettere in atto la
fuga. Era come se nessuno potesse sconfiggerla. C’era qualcosa in lei, fuori di
lei, possente ed estremamente paziente che non aveva
paura di restare anche se era ed è sempre stata libera di andare.
La donna bionda
che Coley ignorava essere la fida collaboratrice di Rufus, ovvero
Scarlet, avrebbe dovuto farci caso: vedere il colore degli occhi della ragazza
che le stava di fronte, registrare la diversa sfumatura di rosso… Scarlet
avrebbe dovuto fare attenzione.
“Sì..” Coley
rispose sibilando, spostando di lato la testa ed osservandola di sbieco.
“Tornalo a fare
e te ne pentirai, bambina.”
Scarlet decise
di troncare la discussione e voltò per un attimo le spalle alla ragazzina,
commettendo l’errore più grave della sua vita.
In un primo
tempo la vista di Coley registrò i movimenti della donna come se fossero al rallentatore:
le sue gambe che si piegavano, la gonna rossa che svolazzava tranquilla, i
capelli biondi che seguivano lo spostamento del collo mentre
le dava le spalle. Poi quello strano effetto al rallentatore cessò di
funzionare, sostituito da una specie di velocità che Coley non aveva mai
provato prima.
Il cuore della
ragazzina sentì risuonare i timpani della guerra e li seguì. Si mise a carponi, poi in piedi, digrignando i denti come una belva avvezza
a frantumare ossa e a strapparne via la carne a brandelli; la sua piccola mano
si raccolse in un pugno, duro come la roccia, e poi Coley scattò, veloce come
il vento e altrettanto silenziosa, gettandosi addosso a Scarlet.
La donna non
fece nemmeno in tempo a capire cosa le stesse succedendo, perché
improvvisamente qualcosa l’aveva spinta a terra con lo
stesso impeto di un treno in corsa. Partì un colpo dalla pistola, che si andò a
piantare nel muro di fronte la porta d’entrata della stanza.
Coley strinse le dita introno al collo di Scarlet, affondando le
falangi nella carne della sua vittima. La donna cambiò subito colore in volto,
diventando paonazza e incapace di respirare, mentre dagli occhi le scendevano
grosse lacrime. Inizialmente il pestaggio era iniziato come una sorta di
vendetta poco ragionata per Coley, messa in atto in nome dell’ingiustizia che
l’aveva relegata in quei laboratori strappandola dalla famiglia. Ma diventò
subito qualcos’altro, senza logica, senza senso, era come l’atto stesso di
autoalimentarsi bruciando sempre di più, diventando più brutale, un conflitto al di là di qualunque spiegazione.
A quel punto
Scarlet capì al volo cosa stava succedendo, vedendo il viso di Coley che la
stava sovrastando con quella forza disumana, e cominciò a gridare aiuto, ma non
le uscì un grido vero. Piuttosto un balbettio, troppo debole
perché qualcuno lo potesse sentire.
Niente di simile
alla pietà si mosse dentro Coley. La ragazza stava scivolando oltre un limite
interno. Sentiva la voglia di strappare la pelle di Scarlet a mani nude, di
fracassarle le costole, di farle provare lo stesso dolore che l’aveva dilaniata
in quei lunghissimi cinque mesi.
Coley colpì
violentemente la tempia di Scarlet, rilasciando la presa sul collo. Poi di
colpo vide qualcosa, disegnata nero su nero, in fondo
alla vela d’ombra del suo occhio sinistro, accorgendosi che diverse guardie
capeggiate da Lilian stavano correndo verso di lei.
Lilian stava
correndo verso di Coley, le braccia tese, le unghie pronte a graffiarle il volto, gli occhi ridotte a due fessure. O almeno furono
questi gli unici e probabilmente distorti particolari che raggiunsero
la vista di Coley.
La ragazza, dopo
l’ennesimo pugno sul viso di Scarlet si sentì minacciata: urlò, un orrendo
grido strappato al centro di se stessa che esplose nel viso di Lilian,
privandole di colpo della volontà di portare a termine
ciò che in quel momento sarebbe stato un suicidio. Lilian si fermò, ma le
dodici guardie non si arrestarono di fronte la violenza animalesca di Coley.
L’assistente,
mentre veniva sorpassata dai soldati, non ebbe nemmeno
la forza di voltare il viso. Sbiancò, le labbra grigie e
senza sangue poiché ora quei due occhi feroci, dello stesso colore del sangue
la stavano scrutando.
Coley avrebbe dovuto risparmiarglielo, avrebbe dovuto distogliere
lo sguardo dalla povera assistente. Invece le permise di
leggerle nei suoi occhi tutto ciò che stava per farle se le guardie non
l’avessero interrotta.
Un soldato si
avvicinò alla ragazzina, in quel momento distratta nel fissare Lilian, e
sollevò il calcio del suo fucile sbattendoglielo violentemente sul volto. Coley
emise un gemito straziante e si accasciò a terra scompostamente.
Scarlet iniziò a
tossire, finalmente libera dall’aggressione, mentre gli altri soldati pestavano
a sangue la fuggitiva. Il colpo di grazia arrivò dalla prima guardia, che prese
una strana macchinetta e l’appoggiò sul collo della ragazzina: dopo aver
premuto un piccolo pulsante rosso, l’apparecchio rilasciò una violenta scossa
elettrica che inibì completamente Coley.
Ecco
infine il buio che tornava a calare sui sensi della giovane. Nessun singhiozzo di luce mentre ogni
arto le doleva e la forza per aprire gli occhi era già scomparsa insieme al
minimo frammento di speranza che le avrebbe potuto
regalare la libertà.
Coley ora
sembrava una creatura calma.
Incosciente e
infinitamente sola.
Fu il dolce
canto di un uccellino a risvegliare Yuffie. Aprì lentamente gli occhi,
assaporando gradualmente la tenera luce del mattino che aveva invaso la sua
camera da letto. Lasciò la presa sul cuscino ed alzò il tronco, rimanendo quasi
seduta sul suo confortevole letto. Le coperte scivolarono, scoprendole le
spalle e il petto, adagiandosi sul grembo. Si stropicciò gli occhi prima di
posare la mano dietro di lei.
La parte del
letto alle sue spalle era fredda e vuota.
Vincent non era
tornato.
Le sembrò
stupido, ma per un attimo pensò che probabilmente non sarebbe più tornato. La
donna stava per precipitare nel pericoloso circolo che il padre le aveva suggerito la sera precedente. E se
quelle parole taglienti fossero davvero vere? Impossibile, fu la risposta che
Yuffie si diede da sola.
Che
stupida… invece che precipitarsi in camera e affogare la propria ira nel pianto
avrebbe dovuto cercare Vincent.
L’ ho abbandonato… l’ ho lasciato solo in
un momento di grande bisogno…
Yuffie scostò le
coperte e poggiò i piedi sul pavimento freddo. Aveva intenzione di uscire e
prepararsi per cercare il suo compagno ma l’indecisione tornò a farsi strada tra i suoi pensieri, non appena ebbe appoggiato
le mani sulla sponda del letto per alzarsi.
Un profondo
brivido le attraversò la schiena, raggiunta da un’insolita brezza: forse nella
confusione della serata precedente aveva lasciato persino le finestre aperte.
Pazzesco..
Yuffie girò solo
il volto, mantenendo la sua postura, per verificare se davvero la sua
disattenzione era arrivata sino a tale dimenticanza.
Per alcuni
istanti non sapeva come descrivere quello che aveva dinnanzi a sé… forse un
sogno ad occhi aperti o una sorta di fantasma…
La luce era
veramente intensa e il cielo si era leggermente velato di bianco, ma il forte
contrasto concesse comunque a Yuffie la possibilità di
riconoscere la figura appoggiata all’imposta della balconata.
Vincent era a
braccia conserte, ritto in piedi con le gambe accavallate. Si era tornato a
vestire con i suoi vecchi abiti, e dalla fondina legata alla gamba destra
pendeva la sua arma prediletta, Death Penalty. Yuffie
rimase sconcertata ma in un certo senso si tranquillizzò
nel vedere che era tornato.
L’uomo alzò lo
sguardo, mentre il suo volto era tornato a nascondersi dietro il collare e la
fascia rossa.
Yuffie si alzò,
avvicinandosi al compagno, senza nemmeno coprirsi con qualche cosa di più
pesante della sua misera mises notturna. La donna
appoggiò una mano sul braccio di Vincent che non mosse ciglio.
“Come stai?” gli
sussurrò forzando l’espressione in un sorriso.
Vincent sospirò
e ad allontanò la carezza di Yuffie dal proprio corpo. Dopo quello
che era successo il giorno prima, non voleva essere toccato, nel timore che
potesse involontariamente fare del male a qualcuno.
Yuffie sembrò
irritata da quella risposta muta, quel gesto
distaccato, da quel modo di fare che le ricordava un Vincent che ormai non
esisteva più.
“Non ti ci
mettere anche tu!” Yuffie tornò a sedersi sul letto, lasciandosi cadere a peso
morto.
La rabbia
iniziale si spense notando l’apatia che stava circondando le reazioni di
Vincent. Gli occhi dell’uomo erano diventati opachi, velati di
tristezza, assenti. Lo stesso sguardo che Vincent aveva
quando decise di unirsi a quelle persone che gli avrebbero cambiato la
vita.
Yuffie si
sentiva triste, benché la speranza di riavere Coley si fosse riaccesa. Nel
vedere le condizioni di Vincent, il suo dispiacere aumentò finché rilasciò la sua ansia in un grosso sospiro. Gli occhi grigi di Yuffie
vagarono sulle nervature ambrate del pavimento, prima di posarsi una seconda
volta sul compagno.
Ora il viso di
Vincent si era voltato verso l’esterno della balconata, perso a fissare chissà
cosa.
Yuffie si morse
il labbro inferiore, sovrappensiero e si tornò ad
alzare dal letto.
Chiudersi in se
stessa non avrebbe aiutato nessuno.
“Perdonami… dove
li hai trovati questi vestiti? Non te ne eri
disfatto?” Yuffie chiese avvicinandosi alla balconata.
Vincent riportò
l’attenzione sulla donna, che aveva usato il suo asso nella manica per rompere
il ghiaccio: sdrammatizzare. Nessuna domanda su cosa Vincent avesse fatto in
quelle ora d’assenza, dove fosse andato, se avesse contattato qualcuno,
tralasciando ogni particolare sull’incontro infelice con Godo.
Solo una banale considerazione, tirata in gioco da un’astutissima Yuffie, che
sapeva quanto Vincent odiasse parlare dei propri problemi legati ai suoi demoni
interiori.
L’uomo socchiuse
gli occhi, gli riaprì e sentì una fitta al cuore. Chaos calcitrava, si
dimenava, voleva uscire e dare sfogo al suo istinto. Yuffie notò la smorfia di
dolore di Vincent, e percorse alcuni passi avvicinandosi, prima di fermarsi,
rendendosi conto della pericolosità. Allungò una mano, pallida ed esile,
appoggiandola sul volto freddo di Vincent.
L’uomo non si
mosse e concentrò ogni sforzo nel modulare con calma il respiro.
“E’ lui vero..? Non ti preoccupare..” Yuffie
mormorò accarezzando la guancia del compagno.
Un’improvvisa
vertigine, un doloroso senso di mancamento e poi tutto se n’era andato. Vincent riprese controllo e alzò la
schiena dalla parete su cui si era appoggiato. Yuffie ritirò la mano e lo
osservò, sovrastata dalla sua altezza.
“Stai bene ora?”
Vincent annuì,
camminando silenziosamente verso il letto. Prese la coperta che era piegata
vicino il fondo del materasso, la distese con un colpo e vi coprì le spalle di
Yuffie.
“Molto
probabilmente oggi partiremo per Midgar. Preparati con calma, io vado a parlare
con Cloud.”
Yuffie si voltò
verso Vincent e lo abbracciò con forza, bloccando ogni suo movimento, così
intensamente da poter sentire il calore del suo corpo filtrare attraverso lo
spesso strato di vestiti. Vincent si piegò a sufficienza per poterla baciare
sul collo, prima di distaccarsi per uscire dalla camera.
“E chi avverte mio padre?”
“Ci parlerò io..” Le parole di Vincent furono quasi impercettibili
poiché era ormai fuori dalla porta.
Cloud e Tifa erano già svegli da molto. Avevano equipaggiato le armi con
la materia che Cid aveva comprato la sera precedente. Mentre
Cloud infilava una sfera di materia nella prima cavità della sua enorme spada,
Tifa si era seduta su di uno sgabello di legno, intenta a regolare la larghezza
dei polsi dei suoi guanti da combattimento.
Cloud sapeva che
presto Vincent o Yuffie si sarebbero fatti vivi, decisi a partire per Midgar,
anche se non avevano pensato ancora ad un piano.
“Sarà difficile
entrare nei laboratori, se Coley è ancora lì…” Tifa affermò,
infilandosi il primo guanto.
“Prima di
raggiungere lo stabilimento della Shinra, andremo da Reeve. Lui saprà come
aiutarci.” Cloud rispose prendendo in mano una seconda sfera di materia.
“Gli altri sono
già andati?”
“Ho detto a Cid
di partire per accendere i motori dell’Highwind in anticipo. Barrett e Red sono
con lui.”
“Bene, così
risparmieremo del tempo prezioso.”
Una
volta terminato di
indossare entrambi i guanti, Tifa uscì dalla stanza, mentre Cloud proseguiva
con l’equipaggiamento.
L’eleganza e la
raffinatezza del Palazzo Imperiale erano tali da incantare
completamente i sensi di Tifa. Le decorazioni delle pareti, i colori
caldi del legno, le fantasie della carta che rivestiva porte e pareti
addolcivano la vista della donna, mentre il leggero profumo di’incenso
e il tintinnio soffuso degli scacciaspiriti la portavano in un'altra
dimensione. Tifa non si accorse che invece di voltare
a sinistra in fondo al corridoio dove c’era la sua stanza, aveva proseguito a
destra. Si era ritrovata in un porticato di forma quadrata, dove all’interno vi
era uno splendido giardino con un lago al centro, riscaldato dai colori
variopinti dei numerosi pesci al suo interno. Tifa si accorse del suo errore e
fece per tornare indietro quando vide arrivare dalla
parte opposta del porticato, un uomo distinto, vestito di scuro e dai capelli
bianchi. L’uomo si guardò intorno con aria sospetta e fece pochi passi, prima
di essere bloccato dall’arrivo di Vincent.
Tifa non udì le
parole che gli uomini si scambiarono, ma capì dai gesti e dagli sguardi dei due
che non si trattava di un incontro piacevole. L’uomo
vestito di nero puntò più volte l’indice contro Vincent, mentre quest’ultimo
dimenava minacciosamente il suo guanto metallico di fronte al volto del suo
interlocutore. Le uniche parole che raggiunsero l’udito di Tifa
furono quelle di congedo dell’uomo vestito di scuro.
“Provaci Vincent
e non sarai più benvenuto a Wutai!” tuonò prima di girare i tacchi e sparire in
un altro corridoio. Vincent fissò l’ombra dell’uomo svanire,
poi alzò lo sguardo verso Tifa.
La donna lo
salutò brevemente con la mano, prima di tornare indietro, facendo finta di
niente.
Chissà cos’è successo?
Eve si era
addormentata sul divano, il telecomando pericolosamente racchiuso nella mano a penzoloni oltre i cuscini, e il panno che aveva usato per
coprirsi in fondo ai piedi. La televisione era rimasta accesa per tutta la
notte, ed ora disturbava la quiete della sala con un vocio di una giornalista
dell’ennesimo telegiornale.
Nel divano di
fronte a quello di Eve si era appisolata Shelke,
seduta con il suo portatile acceso appoggiato sul grembo.
Il telecomando
com’era prevedibile scivolò dalla presa di Eve,
sbattendo sul pavimento e rompendosi in due. Shelke si svegliò di scattò, portando le mani sul portatile per evitare che
cadesse anch’esso, mentre Eve si risvegliò con più tranquillità.
“Che.. cos’è stato?” Shelke chiese ancora scossa dal risveglio
brusco.
Eve guardò la
sua mano, poi sforzandosi fissò il pavimento e vide ciò che rimaneva del
telecomando.
“Il telecomando..” Eve mugugnò drizzandosi. Si guardò intorno, in cerca di Gaia ma non vi era alcuna sua traccia.
“Mia sorella?”
“Non lo so…
forse è rimasta nella sua stanza…” Shelke rispose alzandosi. La donna si chinò
per raccogliere i frammenti del telecomando, dopo aver appoggiato il portatile
sul tavolino. Eve si preoccupò: Gaia si era risentita per la notizia di Coley e
questo suo isolamento non era per niente rassicurante.
“Ora vado a
parlarle… forse se si sfoga con qualcuno riuscirà a riprendersi un po’…” Eve
affermò alzandosi definitivamente dal divano. Shelke annuì, rialzandosi con i
pezzi di telecomando tra le mani.
“Buona idea!” rispose sorridente verso Eve.
Ventiquattro
scalini, un metro circa di corridoio ed una porta in legno.
Il brusio della televisione in lontananza e lo scricchiolio
del legno del pavimento. Un minuto e mezzo. La maniglia emise un lungo
cigolio non appena la mano di Eve la impugnò e così
anche i cardini della porta. Una folata d’aria e la ragazza fu
all’interno della camera.
I suoi occhi non
videro ne i capelli biondi, ne i grandi occhi bruni
della sorella. La stanza era fredda e vuota. E chissà da quanto lo era stata
prima dell’arrivo di Eve. I vecchi vestiti di Gaia
giacevano parte a terra, parte sulla sedia della
scrivania. Il letto era disfatto, le coperte ammassate e il cuscino vicino alla
sponda finale. Eve si guardò intorno, analizzando ogni centimetro di quella
vista desolante mentre il suo cuore le urlava di
correre veloce come la luce per cercare la sorella.
La finestra era
spalancata, le tende svolazzavano tranquille mentre il
sole uscito temporaneamente dalle nuvole cercava di riscaldare la gelida aria
della mattina.
Eve corse verso la
finestra, appoggiò le mani sul davanzale e si sporse all’esterno, con il
temibile presentimento di vedere una scena tremenda.
E se Gaia avesse tentato di togliersi la
vita con un gesto sciocco e ingiustificato?
Il nome di
Shelke le stava già per esplodere in bocca, l’immagine della sorella stesa per
terra in lago di sangue ormai davanti ai propri occhi,
quando vide che al piano inferiore non c’era nulla. Solo un gatto che si
leccava oziosamente il pelo e la solita sconfortante calma della piazzetta.
Gaia non aveva
tentato di gettarsi dalla finestra.
L’aveva usata
per scappare indisturbata.
Eve inspirò
profondamente e rientrò nella camera. Se Gaia avesse scelto veramente la fuga,
ormai sarebbe stata troppo lontana per raggiungerla
ovunque lei fosse. A Eve non rimanevano che due
opzioni: contattare i genitori o intraprendere una ricerca per proprio conto.
La ragazza fissò
il PHS della sorella poggiato sul comodino del letto,
cominciando a pensare alla prima possibilità. Tifa si sarebbe di sicuro agitata
all’inverosimile, mentre Cloud avrebbe di sicuro perso la pazienza una volta per tutte. Una volta tornati
a casa, parte della responsabilità sarebbe ricaduta su Eve, e la ragazza odiava
essere rimproverata per colpa dell’impulsività di Gaia, era già successo altre
volte.
Forse non le
rimaneva che cercare da sola Gaia, e se per caso i suoi sforzi non l’avessero
portata a nulla, sarebbe ricorsa a malincuore all’opzione
numero uno. La ragazza chiuse le imposte della finestra e si fiondò nel
salotto, dove Shelke era ancora intenta ad aggiustare il telecomando.
“E’ scappata.
Non so quando, non so dove ma su non c’è.” Eve affermò
con la stessa precisione di un telegrafo mentre si
dirigeva verso l’attaccapanni del salotto.
Shelke si fermò,
assumendo una posizione poco naturale ma estremamente
suggestiva nel comunicare il suo stupore.
“S-scappata?” Shelke balbettò, facendo ricadere il
telecomando a terra.
Eve indossò un
giaccone nero e si avvolse attorno al collo una morbida sciarpa bianca. Durante
i preparativi non guardò mai la sua compagna.
“Vado a
cercarla. Se per caso i miei genitori si fanno sentire… dì loro che non è
successo nulla di particolare… che io e mia sorella siamo
andate a fare una passeggiata, intesi?” Eve spiegò, portandosi verso
l’ingresso. In un attimo la ragazza era già uscita, non lasciando a Shelke
nemmeno un attimo per reagire.
Si era lasciata
la propria casa alle spalle da pochi attimi, attraversando la piazzetta in
direzione est. Le scarpe di Gaia calpestarono la strada polverosa, portandola sempre
più vicina al suo luogo segreto, il punto in cui si rifugiava
quando aveva bisogno di riflettere come in quel momento. Altri passi, l’aria pungente che le pizzicava la pelle e poi un
istantaneo senso di smarrimento. Gaia si fermò, aggiustandosi il colletto
della giacca con la mano destra, cercando di comprendere come mai un qualcosa
di misterioso le avesse ordinato di fermarsi.
Le suole grigie degli scarponi della ragazzina erano fermi
davanti ad un qualsiasi punto della strada, eppure ci doveva essere un perché.
Mi hanno colpita
qui… non ricordi?
Gaia si voltò di
scatto, uscendo dallo stato pensieroso in cui si era rifugiata, credendo di
aver udito la voce di Coley. Ma non la vide, non ebbe
quella fortuna.
“Come ho fatto a non ricordare….” Gaia sospirò tra se e se,
fissando il panorama di Nibelhime avvolto nella pallida luce della mattina.
Tornò a voltarsi per guardare attentamente quella porzione di strada, così
maledettamente significativa. Rabbrividì di colpo,
poiché più i suoi occhi bruni scrutavano la terra grigiastra e polverosa, più
le sembrava che essa si tingesse di rosso, un rosso fin troppo familiare.
Basta fantasticare, Gaia.
Con qualche
esitazione la ragazza andò oltre, camminò per diversi minuti e raggiunse uno
dei luoghi più grotteschi dell’intero villaggio: la tenuta della Shinra, la
casa degli orrori, come la chiamavano i cittadini di
Nibelhime.
Gaia preferì
evitare di entrare dal cancello principale della casa, uno strano aggeggio
costruito con assi di legno e qualche decorazione in
ferro battuto. Saltò la recinzione di mattoni, accedendo
al giardino –se così si può chiamare una distesa di erbacce ed alberi
rinsecchiti- e fece il giro della costruzione. Conosceva molto bene quei luoghi
e il passaggio che utilizzava per accedere all’interno
dell’abitazione abbandonata non era difficile. Si chinò, poggiando le ginocchia
a terra, per aprire una piccola finestra impolverata che distava dal terreno
poco più di dieci centimetri. Spinse con forza e dopo uno scatto
il vetro si alzò, rivelando un angusto accesso.
Gaia si infilò nel cunicolo, strisciò nel buio per una breve
distanza, raggiungendo la fine del passaggio. Saltò e atterrò all’interno, più
precisamente dentro una stanza scura, sporca e disordinata. C’era veramente
poca luce che filtrava a mala pena dalla superficie di
una grossa e antica vetrata. La polvere, diventata spessa e scura come una
grossa crosta marrone a causa dell’intensa umidità, ricopriva le decorazioni in piombo della finestra: gli unici particolari ancora
visibili richiamavano la forma di una creatura alata, probabilmente un angelo.
Gaia si pulì le
mani battendole tra loro, e poi sfregandole sui pantaloni. La ragazza non si
stupì nel vedere diverse bare aperte che giacevano
davanti a lei, senza coperchio e fortunatamente vuote. Non era la prima volta
che visitava quel luogo insolito. In particolare ce n’era una che attirava
sempre la sua attenzione: era quella che si trovava proprio al centro della
stanza, rivestita all’interno di un velluto rosso e viola, ancora inspiegabilmente
pulito e splendente. Ai lati la cassa recava degli strani ornamenti, delle
insolite incisioni simili a graffi che erano presenti anche nella parte interna del coperchio, adagiato sul pavimento accanto alla
bara.
Chissà quale storia raccapricciante
nasconde questa bara..
Dopo aver perso
molto tempo nell’osservare la strana cassa, Gaia lasciò la stanza per
ritrovarsi in un corridoio che odorava di terra bagnata e ferro arrugginito,
ancora più buio e umido. In lontananza si udivano, ad intervalli regolari,
rumori simili ad un gocciolio, mentre le catene che pendevano dal soffitto
cigolavano in maniera agghiacciante.
La temperatura
di quel luogo era probabilmente ancora più fredda di quella esterna e Gaia
sentì che il naso le incominciava a gocciolare, intanto che le dita dei piedi
si stavano addormentando.
Perché la
ragazza aveva scelto quella strana casa come rifugio? Innanzitutto perché nessuno avrebbe mai osato entrarvi, non
dopo aver udito tutte le strane storie e leggende riguardanti il passato di
quella tenuta.
Poi una cosa era
certa: la desolante tristezza e l’arcano mistero che trasudavano dalle pareti
della casa avevano catturato la curiosità di Gaia. Anche senza toccarla con
mano, la ragazza ogni volta cominciava ad avvertire un’immane pesantezza, a
percepire qualcosa di orribile nelle sue proporzioni,
nel silenzio, nell’immobilità di quell’abitazione. Particolari inquietanti ma estremamente attraenti.
I piani
superiori erano il trionfo della abbandono, l’immagine
di un passato sbiadito e di tutto ciò che vi rimaneva, brandelli di vita
vissuti da persone sconosciute che avevano abitato in quelle stanze lasciandovi
parte di essi.
Gaia aveva visto
e rivisto fotografie, abiti, diari, quadri e mille
altri oggetti lasciati a marcire su mobili, dentro a dei cassetti o
semplicemente gettati a terra. Non sapeva a chi appartenessero,
per questo a volte tornava nella casa per cercare di capirlo e perdersi nella
fantasia dimenticando a quel modo i problemi della vita al di fuori
dell’immortalità di quelle pareti. Gaia amava lo stupore e il modo in cui
l’inimmaginabile talvolta veniva suggerito da semplici
oggetti inanimati. In quella casa le cose non erano unicamente cose.
L’atmosfera
sinistra del corridoio spinse Gaia a proseguire: si lasciò alle spalle
l’accesso del seminterrato, una pericolosissima scala a chiocciola composta da pioli in legno che ormai tendevano a sbriciolarsi per
l’umidità. La ragazza raggiunse la seconda e ultima porta del seminterrato,
l’unica ala della casa che non aveva mai visto. Si fermò, avvertendo strani
brividi che la scuotevano lungo la schiena.
Qualcosa stava
cambiando: Gaia ebbe la sensazione che l’oscurità di quel luogo sarebbe stata
capace di qualsiasi cosa, forse anche di sfregiare e fare a pezzi le pareti di
terriccio battuto o il pavimento. In quel momento se qualcuno le avesse detto di stare in guardia, gli avrebbe dato retta.
Ma non appena la sua mano, che agì senza un
comando ben preciso, girò la maniglia della porta, i presentimenti di Gaia
svanirono in un lampo.
La prima cosa
che la colpì fu l’odore. Non era cattivo, però era incredibilmente forte. E non era neppure un solo odore, ma un sentore stratificato,
un accumulo di tanti odori la cui vera fonte era evaporata già da un po’. La sommerse, nauseante, amaro, putrido, corrotto. Gaia notò
le immense librerie che coprivano tutte le pareti della stanza, ogni scaffale
che ospitava centinaia se non migliaia tra libri, enciclopedie o semplici
fascicoli. Alla sua destra c’era un grosso tavolo da laboratorio, coperto da
strani macchinari e provette vuote, e più in là due vasche di contenimento dai
vetri spezzati. Tutte le finestrelle situate nelle parti più alte
dell’ambiente, erano inchiodate e sigillate, a
differenza di quella nella “stanza delle bare”. La porta da cui era entrata era
talmente possente che sarebbe stata a prova di ciclone. Perfino le diverse
prese d’aria tra le finestrelle, di vitale importanza per una stanza
sotterranea come quella, erano tappate con un particolare nastro sigillante.
Qualcuno aveva cercato disperatamente di eliminare qualunque corrente d’aria,
come se il mondo esterno lo spaventasse.
Gaia ricordò di
aver sentito raccontare, dalla signora che gestiva l’albergo all’entrata di
Nibelhime, di un professore e della sua equipe che molti anni addietro si
fermarono nella tenuta per sviluppare strani esperimenti scientifici, approvati
e finanziati dalla Shinra. La signora inoltre sosteneva che dentro quella casa
fossero morte tante persone innocenti per colpa del professore, compresi
diversi soldati qualificati, qualche agente della Shinra e dei ricercatori
stessi. Gaia purtroppo non ricordava nomi o altri particolari perché di solito
prestava poca attenzione alle chiacchiere logorroiche
della gestrice dell’albergo.
Infatti quella stanza sembrava proprio una sorta
di laboratorio rozzo, una fabbrica degli orrori per rimanere in tono con il
nomignolo della casa. Gaia svoltò a sinistra, passando in un breve passaggio
fiancheggiato da altre librerie piene di volumi polverosi raggiungendo il fondo
del laboratorio. Vi trovò una cattedra impolverata e una grossa poltrona verde
coperta da ragnatele, situate al centro di quel piccolo ambiente circolare, le
cui pareti erano sempre attorniate da scaffali e libri. Era una postazione
tranquilla, una sorta di trono da cui quel professore, di cui Gaia non
ricordava il nome, avrebbe potuto controllare tutto il
laboratorio.
Per terra, qua e
là, vi erano dei tomi impilati e Gaia ne prese in mano uno a caso, con la vana
speranza di poter trovare qualche informazione sul professore.
Tra le pagine
giallastre di quel volume, la ragazza vide anni e anni di dichiarazioni
consegnate all’inchiostro, sovrapposte, riscritte, corrette, scritte sia a mano
che a macchina, in parte leggibili in parte non,
un’accozzaglia infinita di parole, date, nomi, termini scientifici, disegni,
frecce, numeri e calcoli.
La ragazza stava
perdendo la vista nel tentare di decifrare quelle pagine e non appena il suo
sguardo si alzò dal libro per riposarsi, udì delle voci in lontananza,
Gioco
dell’immaginazione o realtà?
Davvero qualcuno
aveva osato entrare lì dentro, fino al seminterrato?
Erano venuti a
cercarla?
Dopotutto era
fuggita di casa senza dire nulla, a differenza delle
altre volte.
Gaia richiuse il
libro con entrambe le mani, e le pagine rilasciarono
una grossa nuvola di polvere non appena sbatterono tra esse. Appoggiò
velocemente il volume dove lo aveva preso e si nascose sotto la scrivania,
scostando la poltrona. Sperava di non essere vista e non voleva nemmeno
fuggire, perché moriva dalla curiosità di scoprire l’identità degli intrusi.
“Questo posto è
orrendo!” Scarlet urlò dopo aver appoggiato un piede sul penultimo scalino
della scala a chiocciola. Ogni gradino era pericolosamente cedevole e la donna
procedeva attaccandosi alle fughe dei mattoni che costituivano la tromba della
scala. Non c’era alcun corrimano o appoggio, per questo
scendere era così difficile. E Scarlet non si
era facilitata la sua impresa visto che indossava un altro paio di costosissimi
tacchi neri. Dopo una breve interruzione del lavoro per riprendersi
dall’incidente con Coley, la donna era già tornata in servizio. Il Presidente
però non aveva badato ad assegnarle un compito facile.
“E’ la prima e
ultima volta!” la donna si sfogò raggiungendo l’agognata fine della scala.
Davanti a lei la
stavano attendendo due guardie armate vestite
distintamente di nero e blu, la divisa tipica dei Turk, e l’immancabile Hojo.
Quando Scarlet scese dalla scala, il professore fece
strada ai tre, indirizzandosi verso il buio grave del corridoio alle sue spalle
e senza indugiare ulteriormente.
Scarlet osservò
con evidente disappunto l’atmosfera spaventosa di quel luogo, prima che una
delle due guardie la invitasse a sbrigarsi.
Quell’uomo era
simile ad un armadio, parlando di proporzioni. Alto, spalle
larghe, braccia e petto robusti. Portava occhiali da sole scuri, e
Scarlet si chiese come potesse vederci in un posto così privo di luce. Il suo
volto portava lineamenti decisi, era calvo e indossava molti orecchini su
entrambi i lobi delle orecchie.
“Non sarà una
cosa lunga, vero Rude?”
Il Turk si
guardò intorno, aggiustandosi il nodo della cravatta.
“No. Il
professore ha bisogno di una singola cosa poi potremo partire.”
Scarlet sospirò,
rincuorata dall’informazione e si accodò insieme a Rude e agli altri due
compagni.
Gaia udì la
porta spalancarsi, seguito da diversi passi che si avvicinavano sempre di più.
Alcuni dei nuovi arrivati si fermarono subito, mentre altri continuarono a
camminare, più lenti rispetto a prima e probabilmente anche con più
circospezione. La ragazza spostò il volto da dietro la scrivania, permettendo
ai suoi occhi castani di vedere che cosa stesse
accadendo. Due persone vestite di un completo scuro stavano controllando la
stanza, ognuno impugnando una pistola argentata.
Una delle due
guardie si voltò verso Gaia e la ragazzina tornò a nascondersi con uno scatto,
mentre il cuore le era saltato in gola.
Mi vedranno di questo
passo… sono finita…
Gaia si portò
automaticamente una mano sulla bocca per bloccare un urlo provocato
dall’apparizione improvvisa di una delle guardie. Era un uomo calvo che aveva
appoggiato le mani sulla scrivania, esponendosi oltre di essa,
dalla parte opposta a dove si trovava Gaia. L’uomo fortunatamente non abbassò
lo sguardo, e perciò non vide la presenza della ragazzina. Fissò
i libri, la poltrona, si guardò intorno poi alzò le mani dal tavolo.
Girò sui propri tacchi e tornò nell’altra parte del laboratorio.
Gaia sospirò
interiormente, sollevata dal non essere stata scoperta.
Rude ritornò dai
suoi colleghi e dal professore, che si erano fermati all’ingresso.
“Tutto in
ordine, professore.”Il Turk confermò,
riponendo nella fondina la sua pistola. L’altro Turk fece lo stesso.
“Bene.” Hojo
sbottò, dirigendosi verso uno scaffale di libri.
Gaia si
risistemò in modo tale da poter osservare le azioni di quelle persone senza
essere vista. Avvertì una strana fitta al cuore quando
la guardia chiamò “professore” uno degli intrusi. Che
strana coincidenza.
Gaia non ebbe
dubbi nel riconoscere lo scienziato dal resto del gruppo. I due tizi in nero
erano sicuramente guardie del corpo, lo confermò anche il fatto che avessero
con sé delle pistole; la donna vestita con un abito bianco e succinto non aveva
minimamente l’aspetto di una scienziata o qualcosa di simile.
Rimaneva un uomo
magro, alto e dalla schiena curva, che indossava abiti scuri coperti da un
camice bianco. Il suo aspetto era inquietante, ma dava comunque
l’idea di essere un professore, una specie di intellettuale dal fare asociale
ed arrogante.
Gaia lo osservò mentre si sistemava i suoi spessi occhiali da vista
e si scostava dalla donna e dalle guardie.
“Faccia presto doc… questo posto puzza orribilmente…” la donna sbottò,
tappandosi il naso con il pollice e l’indice. Le due guardie alzarono gli occhi
al cielo dopo il suo commento.
Gaia notò che il
professore non venne minimamente toccato
dall’esortazione della donna. Camminò tranquillamente fino ad uno scaffale,
cominciando a scrutare le copertine dei vari libri esposti. Dopo un minuto
circa, il professore allungò una mano ossuta verso un volume nero bordato di
giallo, lo tirò fuori dalla libreria e fece alcuni
passi all’indietro prima di aprirlo. I suoi occhi brillarono, un guizzo di luce
che Gaia riuscì a scrutare persino dalla sua postazione lontana. Ma l’espressione dell’uomo mutò drasticamente non appena il
libro fu completamente aperto.
Il professore
rimase impietrito, lo sguardo puntato sulle pagine del volume. Le sue dita si irrigidirono, aumentando la pressione sotto la copertina
del libro.
“Impossibile…”
mugugnò a denti stretti. Le sue parole sibilarono, acide come il veleno di una
vipera.
“Cosa c’è ADESSO che non va?” la donna chiese con noia,
sbattendo le mani sui fianchi.
Il professore
richiuse il libro e lo lanciò a terra, verso Gaia, con un tale impeto da fare
sobbalzare tutti i presenti. La ragazza si concentrò sul tomo che giaceva a
pochi centimetri da lei. Durante l’impatto con il pavimento, il volume si era
aperto e Gaia vide che al posto delle pagine vi era una cavità circolare,
probabilmente quel libro serviva come contenitore segreto per qualcosa di altrettanto segreto.
“Non è qui!” il
professore urlò, puntando l’indice verso il libro.
Gaia tornò a
nascondersi dietro la scrivania, non appena gli sguardi si indirizzarono
di nuovo verso la sua direzione, o meglio verso il tomo.
“Passiamo al
piano B, professore?” la guardia calva chiese con impassibilità.
Il professore
non rispose, ma si diresse come un treno fuori dalla stanza,
alzando una leggera corrente che disturbò la donna e le due guardie.
“Suppongo sia un
sì.” L’altra guardia affermò, seguendo il professore.
La guardia calva
uscì senza proferire una parole, mentre la donna si
guardò intorno.
“Ancora quelle
scale??” si lamentò con una smorfia di disappunto.
Lasciò la stanza con molta indecisione.
Gaia uscì dal
suo nascondiglio dietro la scrivania soltanto quando
il silenzio tornò sovrano nell’abitazione. Sentì l’urgente bisogno di scoprire
come mai quei quattro strani individui avessero preso
il disturbo di entrare nel seminterrato della tenuta. Voleva capire se quel
professore c’entrava qualcosa con quello citato più volte dalla gestrice
dell’albergo e… che diamine era il piano B? Di sicuro c’entrava qualcosa con
l’oggetto che il professore cercava con così tanta smania.
Non c’era un
minuto da perdere.
Ignorando quella
piccola vena di paura che le suggeriva di lasciar perdere,
Gaia lasciò il laboratorio, uscendo dall’abitazione nello stesso modo in cui vi
era entrata, Si graffiò leggermente le ginocchia quando tentò di uscire dalla
finestrella con eccessiva fretta. Ma il fastidio di
quella ferita da due soldi non la preoccupò più, non appena vide che cosa c’era
parcheggiato nel giardino della tenuta.
Un elicottero.
Enorme, munito di grosse mitragliatrici e recante
l’inconfondibile simbolo della Shinra sulla fiancata sinistra. Le grosse pale
del velivolo erano immobili e durante l’atterraggio avevano
piegato le erbacce del giardino, portando alla luce una piattaforma d’atterraggio
recante una P al centro, seppellita da chissà quanto tempo sotto quelle
sterpaie.
Il sangue di
Gaia ribollì, non appena riconobbe la fazione nemica.
La Shinra era a Nibelhime.
Forse c’era
anche la remota possibilità che fossero venuti sin lì
per la faccenda di Coley. Forse avevano scoperto che una talpa aveva diffuso a
Reeve delle informazioni su Coley. Forse erano lì per
uccidere chiunque fosse entrato in possesso di quei dati.
Shelke. Eve.
Erano in pericolo.
Gaia si riprese
dallo shock, decidendo di agire. Il pilota dell’elicottero, uno strano ragazzo
dai capelli rosso fuoco e vestito di nero, era appoggiato al velivolo, mentre
leggeva una rivista. Non sembrava molto attento, ma
Gaia fece comunque molta attenzione nel lasciare il giardino. Strisciò lungo le
pareti, cercando di posare passi leggeri e di non urtare contro nulla. Con
qualche difficoltà, voltò l’angolo dell’abitazione, raggiungendo la parte
anteriore del giardino. Si mise a correre, scavalcò la
recinzione in mattoni e corse sulle tracce dei nemici della Shinra. In
lontananza, incamminati verso i monti Nibel, vide la sagome dei quattro intrusi.
Sono ancora in tempo.
“Gaia!”
Gaia si freddò,
bloccando i movimenti a pochi metri dalla tenuta. Girò solamente il volto per
vedere chi l’avesse chiamata con tale severità.
“Ti è andato di
volta il cervello? Scappare a quel modo e farci prendere una tale paura!”
“Eve… No aspetta! E’ urgente!”
Gaia si voltò
completamente, mentre la sorella percorse la breve distanza che le separava.
Eve non mostrò alcun cenno di comprensione verso Gaia. La fronte era corrugata
e gli occhi ridotti a due fessure strette, intanto che le sue iridi azzurre
bruciavano di rabbia.
Gaia si impuntò altrettanto, puntando un dito verso la strada
irta che portava ai monti Nibel.
“Quelli della
Shinra sono qui!”
“Un motivo in
più per rincasare, forza!” Eve indicò la propria abitazione
mentre Gaia si incupiva in volto.
“A te non
importa di Coley, vero? E se fossero venuti qui per
lei?”
“Coley è a
Midgar! Se sono venuti qui ci sarà un altro motivo. Abbiamo già abbastanza problemi, non complicare ulteriormente le
cose!” Eve si mise le mani in tasca, mostrando l’intenzione di tornare a
casa. Gaia però non si mosse di un millimetro. Si voltò di nuovo verso la
strada che portava ai monti Nibel, notando che ormai
i quattro individui erano scomparsi tra la bruma. Altri istanti e Gaia avrebbe perso le loro preziose tracce per sempre.
“Devo seguirli!”
Gaia affermò, voltandosi di scatto per raggiungere gli uomini della Shinra.
“Ferma!” Eve
rispose con foga, lanciandosi all’inseguimento della sorella.
Gaia era più
atletica di Eve e di sicuro correva anche più veloce.
Per questo raggiungere Gaia sarebbe stata un’ardua
impresa per la sorella più grande.
L’ultimo dei capitoli
che avevo già scritto, dopo ci metterò un po’ a pubblicare
nuovi capitoli… grazie per l’attenzione, non vi deluderò J
SOLITO
DISCALIMER: non sono miei ne Final Fantasy VII ne
Square Enix, ne la canzone qua sotto
Capitolo 5:
Oily marks appear on walls
Where pleasure moments hung before.
The takeover, the sweeping insensitivity of this still life.
Hide and seek.
Trains and sewing machines. Oh, you won't catch me around here
Blood and tears, they were here first.
Hide and
Seek –Imogen Heap-
Tic. Tac.
Oscurità, dolore fisico e… un totale senso di smarrimento. Ecco cosa provo.
Tic. Tac.
L’interminabile corso del tempo, a volte inesorabilmente lento a
volte tremendamente rapido. Ecco cosa temo.
Tic. Tac.
Ma…c’era
un orologio in questa stanza?
Tic. Tac.
Perché la mia memoria è spappolata? Perché
nella mia mente gli eventi non sono registrati in maniera continua? Perché ricordo solo suoni atroci e immagini indefinite? Gli
ultimi cinque mesi sono stati un calvario indescrivibile e
questo sesto mese si è preannunciato peggiore dei precedenti. Che dannata fortuna.
Tic. Tac.
E che cos’è
questo rumore?!
Io non ci
duro in questo posto. Morirò, me lo sento. Non rivedrò
più Wutai. Non potrò più vedere i miei amici, mia
madre, mio padre… E se per caso riuscissi a scappare da qui, non mi
riconoscerebbero più. Direbbero “chi è quel mostro?”. Gridare il mio nome non
servirebbe a nulla. Sputare i polmoni nell’urlare ai sette cieli che sono
Coley, non basterebbe a farmi accettare.
Tic. Tac.
E’ evidente
che tutti mi odiano. Ecco perché sono qui. Mio nonno
me l’aveva detto più volte. Non sarei mai dovuta nascere. Io sono un mostro. Se la gente, se i miei genitori avessero visto quello che ho fatto
alla donna bionda e al laboratorio… Non oso nemmeno pensarci. Meglio se ragiono su come fuggire da qui, invece che a blaterare a
vuoto. Sempre meglio essere fuori da questo
inferno, piuttosto che rimanere per sempre in mezzo a questi squilibrati.
Tic. Tac.
Prima, però, devo capire cos’è questo rumore.
La giornata per
Lilian era iniziata noiosamente, obbligata dagli eventi della sera precedente a
sorvegliare le condizioni di Coley. La ragazza giaceva immobile sul letto, la
pelle bianca macchiata da diversi lividi sparsi su tutto il corpo, mentre un
apparecchio portato apposta nella camera della giovane registrava il suo
battito cardiaco con un ticchettio meccanico.
Lilian aveva
ancora davanti agli occhila furia disumana di Coley, la sua rabbia e la
violenza con la quale i soldati l’avevano calmata brutalmente.
“Ti sarebbe
bastata un’iniezione di anestetico e tutto si sarebbe
calmato.” Lilian pensò ad alta voce, sistemandosi sulla sedia dove si era
seduta accanto al letto.
“Non c’era
bisogno di tanta violenza” l’assistente proseguì, disgustata dal ricordo dei
maltrattamenti che Coley aveva ricevuto.
La porta della stanza
si aprì dolcemente, Lilian lo avvertì a mala pena, ma non distolse comunque lo sguardo dalla ragazzina.
“Come sta
Rachael?” qualcuno chiese sinistramente.
Lilian non
riconobbe quella voce.Era profonda, cupa e talmente priva di espressività che avrebbe fatto raggelare il sangue di
chiunque. Non assomigliava al tono autorevole del presidente Rufus, e nemmeno
al sibilo insopportabile di Hojo, alla voce stridula di Scarlet, al tono
arrogante di Rosso. E poi chi era Rachael?
Lilian si voltò,
parlando prima di poter metter a fuoco la sua vista.
“Mi dispiace ma il nome di questa ragazza è Coley… ha sbagliato
esperimento” Lilian finì la frase non appena il suo volto fu faccia a faccia
con l’interlocutore. Ma davanti a sé vide solo una chiazza nera, un qualcosa di
estremamente inspiegabile.
Rasentava
l’impossibile ciò che Lilian tentava di osservare: una macchia d’ombra, che
resisteva alla luce fredda del neon della stanza, immobile, impassibile e
carica di inquietudine.
“E’ proprio qui
che vi sbagliate..” la
macchia rispose.
Lilian corrugò
la fronte, mentre dentro la sua mente sorgeva il dubbio che stesse solamente
sognando. Come poteva parlare con un’ombra?
La macchia si
rimpicciolì, mentre strane onde di luce violastra plasmavano l’ombra dandole
una sembianza umana. Lilian rimase più che stupita di fronte a quell’improvvisa
trasformazione: nella sua breve carriera di scienziata mai e poi mai aveva
assistito ad un tale fenomeno.
La donna si alzò
dalla sedia, allontanandosi intimorita da quella cosa.
Fu proprio nel
momento in cui Lilian si appostò nell’angolo della camera, spingendo la schiena
contro la fredda parete, che riconobbe l’identità di quell’essere.
Nero, soprannominato anche la profonda oscurità, un nome che
designava un grottesco profilo all’immaginazione di Lilian… ma non solo.
Nonostante tutta la macchia se ne fosse andata, Nero
continuava ad essere avvolto da una sinistra aura scura, che rendeva difficile
il suo riconoscimento.
“Come è riuscito ad entrare qui dentro?” Lilian chiese, non
rincuorata dall’aver identificato Nero.
“Nulla è
irraggiungibile per me.” L’ufficiale rispose, freddo e apatico. “Rachael ha
bisogno di me.”
“Le ho detto che la ragazza si chiama Coley!” Lilian insisté con
autorità. Nero rivolse lo sguardo sulla donna, anche se la sua espressione era indecifrabile poiché nascosta dallo strano bendaggio che gli
avvolgeva il viso.
“Ma io non sto parlando di Coley.”
“A chi si
riferisce allora, dato che in questa stanza ci siamo solo io, lei e la mia
paziente?” Lilian chiese alzandosi dalla parete su cui si era appoggiata.
Gli occhi di
Nero si strinsero, suggerendo all’assistente che l’uomo la
stesse deridendo.
“Coley è la sua
paziente e non sa nemmeno di Rachael… mi stupisce… che incompetenza!” Nero
rispose distogliendo lo sguardo dalla scienziata e portandosi al fianco del
letto su cui giaceva Coley.
“Adesso basta! O mi dice chi è questa Rachael, cosa c’entra con Coley, o
chiamo le guardie affinché la portino via con la forza da questo luogo!” Lilian
si spiegò con eccessiva agitazione. Nero si chinò su Coley e le sussurrò
qualcosa nell’orecchio tenendo gli occhi fissi su Lilian. L’assistente si agitò
ulteriormente, poiché Nero si era avvicinato a Coley senza permesso.
La ragazza,
d’altro canto, udite le parole dell’ufficiale Zvet, si contorse leggermente tra
le coperte prima di aprire con tranquillità gli occhi.
Lilian rimase
sbigottita, mentre Nero si allontanò dal letto, osservando questa volta le
reazioni di Coley.
Nonostante la mia curiosità nel comprendere la sorgente di questo straziante
ticchettio, il mio corpo non rispondeva ai miei comandi. Volevo aprire gli
occhi, ma era come se le mie palpebre fossero diventate pesantissime, e le mie
poche forze non bastavano ad esaudire il mio ordine. Sentivo male ovunque, alle
gambe, al costato, persino il naso mi doleva. Mi
ricordo che diverse persone mi avevano aggredita nel
corridoio, e perciò suppongo che questi dolori siano una conseguenza del loro
intervento. Poi il nulla, seguito da un ticchettio. Mentre mi ero persa nello
sforzo di ricostruire quei momenti ancora così estremamente
confusi, qualcosa di profondo, di cupo, parole strane, incomprensibili ma dal
suono ipnotizzante mi giunsero all’udito. Le ascoltai, incapace di fare
altrimenti, e mi persi nel suono di quelle lettere.
Veni ad me,
Rachael
Rachael.
Qualcuno mi
aveva chiamata così, ne ero sicura.
Chi era
Rachael?
Cos’è questo,
un altro sogno bizzarro? Un altro tentativo di Hojo di manipolarmi?
Eppure non sentii alcun disagio, come se quel nome mi appartenesse per
davvero. Sentivo che quella Rachael era dentro di me, che io ero Rachael.
Ma
cosa sto farneticando?
Il mio nome è
Coley e non sono Rachael.
Tuttavia
qualcosa era cambiato.
Percepii che
la forza mi stava tornando, calda e potente come uno
schiaffo di luce.
Ero sicura
che sarei stata capace di risvegliarmi da questa specie di coma e così feci.
Yuffie si era
preparata con molta calma, ascoltando il consiglio di Vincent. Aveva dimesso
con piacere il suo kimono verde scuro, tolto buona parte degli accessori che
un’Imperatrice era obbligata ad indossare e si era vestita con degli abiti molto più semplici e comodi.
Mentre
finiva di allacciarsi la cintura dei pantaloncini neri che aveva scelto, la
donna fissò la borsa che giaceva sul letto. Dalla tasca più grande uscivano tre punte della sua arma,
Conformer, lo shuriken più prezioso della sua collezione. Yuffie temeva che le
sue braccia avessero ormai dimenticato come usare quell’arma letale.
Era passato
tantissimo tempo da quando la grande ninja Yuffie era
stata costretta a deporre i suoi amati shuriken.
La cintura
scivolò sotto la cinghia e Yuffie era pronta a lasciare la stanza. Prese la
borsa e se la gettò oltre la spalla destra. Richiuse la porta della camera e
percorse il corridoio, pronta ad andarsene dal palazzo
Imperiale. Fece diversi passi e poi si fermò. Yuffie appoggiò la borsa a terra
e si portò vicino ad una delle tante porte che spuntavano dalla parete del
passaggio. La aprì, quasi con timore, lasciando schiusa soltanto una fessura,
abbastanza sufficiente da permettere ai suoi occhi grigi di poter scrutarne
l’interno.
Era la sua
vecchia stanza.
La stanza che
aveva ceduto a Coley.
Presto
tornerà ad essere occupata.
I ricordi erano
ancora così nitidi da sembrare pura realtà. La risata di Coley, i suoi passi
felpati, il modo in cui sbatteva la porta, la sofferenza dipinta sul suo volto quando doveva compiere la cerimonia del tè al
pomeriggio, il calore del suo abbraccio e gli sguardi di intesa che scambiava
con il padre.
“Yuffie, sei
pronta?” la voce calda di Tifa fece ritornare la mente
dell’Imperatrice alla realtà.
“Sì.” Rispose,
chiudendo velocemente la porta della stanza e riprendendo in mano la sua borsa.
Tifa sorrise e
si portò al fianco dell’amica. Le due si portarono
così fuori dal palazzo.
“Vincent e Cloud
hanno deciso di fermarsi prima a Kalm per consultarsi con Reeve.” Tifa comunicò a Yuffie mentre
percorrevano il lungo porticato esterno. In lontananza, raggruppati in mezzo alla
piazza antecedente la Pagoda
si erano riuniti tutti i loro compagni e qualche
guardia diffidente.
“Suppongo che
noi sette non bastiamo a raggiungere i quartieri generali della Shinra. Non
dopo che i Deepground hanno preso le loro difese.”Tifa proseguì.
Yuffie ascoltava
l’amica ma non mostrava alcuna preoccupazione in
volto.
“Tifa… dimmi che c’è speranza…” Yuffie chiese timidamente,
fermandosi di camminare. Tifa fece lo stesso, e guardò
con intensità l’amica.
“Dovessi buttare
giù a calci e pugni tutta Midgar… sì Yuffie… la speranza c’è.”
L’Imperatrice
fissò Tifa, il suo volto pieno di fiducia, il suo sguardo che ardeva di ottimismo.
“Ma la speranza
non basterà a porre fine a questo calvario.” Una voce
tuonò alle spalle delle due donne.
Tifa
corrugò la fronte
mostrando un’evidente frustrazione provocata da quella frase. Alzò lo sguardo
da Yuffie e vide che dietro di lei era apparso Godo.
Yuffie si voltò
e non appena riconobbe il padre cambiò colore in faccia.
“Chi ci assicura
che una volta riportata Coley a Wutai, con molti inevitabili sforzi, quelli
della Shinra non ce la riportino via?” l’uomo chiese, severo e tremendamente
imperturbabile.
“Non accadrà!” Tifa tuonò.
“Questa faccenda
non ti riguarda. Hai sempre disprezzato Coley nonostante il rispetto che ti
porta. Come mai d’un tratto provi tutto questo interesse
verso di lei?” Yuffie urlò facendo spaventare Tifa.
“Perché mi preoccupo per te. Quella ragazza ti ha portato
solo dei dispiaceri. E la tua fragilità che ne deriva
non apporta alcun beneficio alla nostra gente. Hanno bisogno di una leader
forte, non di una persona distrutta dal dolore come te.”Godo affermò stringendo i suoi pugni dietro la
schiena.
Yuffie lo guardò
di sbieco, socchiudendo gli occhi.
“Cosa vuoi insinuare?”
“Non puoi
lasciare Wutai. Abbandona Coley al destino che si merita.”
“IO faccio
quello che mi pare e piace.”
“Tu provaci.”
Tifa osservò la discussione senza intromettersi, ma sentiva che
in qualche modo doveva interrompere la cosa. La situazione stava drasticamente
precipitando.
“Cos’è questa?
Una minaccia, Godo?” Yuffie domandò, quasi sussurrando, portandosi faccia a faccia col padre.
“Se la intendi così… sì.” Godo sibilò,
fissando con superiorità il volto della figlia a pochi centimetri dal suo.
“Yuffie…” Tifa la chiamò, senza alzare il tono della voce.
Padre e figlia
passarono diversi istanti a scrutarsi direttamente, un duello muto ma che di sicuro valeva più di ogni frase pronunciata
fino ad allora. Tifa sapeva dell’incompatibilità tra
Yuffie e Godo ma mai e poi mai avrebbe immaginato che il loro antagonismo
arrivasse a tali (infimi) livelli. Godo era la sintesi del cinismo
mentre Yuffie non dava evidenti segni di cedimento. Come poteva Godo
riservare così tanto odio nei confronti di una
ragazzina dolce e speciale come Coley?
Il
matrimonio, già…
Tifa se ne
ricordò solo in quell’istante. Godo, secondo le antiche
tradizioni di Wutai, aveva già accordato il matrimonio di Yuffie con
l’erede di un’ottima casata della città. Questo perchè la salute cagionevole e
l’età ormai troppo anziana non gli permettevano di
continuare ad essere Imperatore: lasciò il trono alla figlia, fiducioso nella
realizzazione dei suoi piani. Ovvero un buon matrimonio, gli
ottimi affari che ne sarebbero derivati e la stabilità del futuro di Wutai.
Purtroppo per lui le cose saltarono sia perché Yuffie, una volta incoronata
settima Imperatrice, rifiutò a priori di scendere a compromessi con degli
estranei e sia perché aveva già trovato la persona con cui avrebbe condiviso il
resto della sua vita. Se non fosse stata per la
gravidanza precoce di Yuffie, Godo, all’oscuro di tutta la vita sentimentale
della figlia, sarebbe riuscito in un modo o nell’altro a farla sposare con il
compagno da lui scelto, persino a costo di ricorrere alla forza.
L’uomo, troppo
orgoglioso e attaccato alle tradizioni, vide crollargli il mondo addosso quando venne a sapere dello stato interessante di
Yuffie. Ma lo smacco più grosso fu sapere che ad essere il padre della futura
nipote non era un originario di Wutai ma bensì un
certo Vincent. Un uomo oscuro, dalla reputazione non proprio
brillante e dalla fama per essere la vittima di uno degli esperimenti più
raccapriccianti di Hojo. I pensieri di Godo si
annebbiarono per molto tempo, si rifiutò di assistere alla nascita e al
battesimo della nipote, si isolò dalla vita della piccola negandole ogni forma
di affetto, spesso causandole dispiaceri enormi. Anche se esternamente Coley
era più che normale, eccetto per quell’occhio dal
colore sinistro, Godo la vedeva come una creatura malsana, un piccolo mostro,
il frutto di una relazione che mai sarebbe dovuta esistere. La sua persistenza
e la sua ostilità riuscirono ad impedire almeno il
matrimonio tra Yuffie e Vincent. Ma ormai tutto il suo
brillante progetto era andato in fumo. Ad ereditare la carica di Yuffie sarebbe
stata una nipote dal sangue impuro, una ragazza che la gente di Wutai non
avrebbe riconosciuto come propria guida portando inesorabilmente alla fine
della gloriosa storia di Da Chao.
Tifa rabbrividì
nel ricordare le parole di Yuffie riguardo un episodio
accaduto qualche anno precedente. “Le ha detto che
non merita di esistere… Coley ha pianto per un giorno intero… quel bastardo…” così
le aveva riferito in lacrime. E quello era solo un esempio della cattiveria
gratuita di Godo.
E tutta la
colpa, naturalmente sempre secondo Godo, ricadeva sia
sui sentimenti impulsivi della figlia, sia sulla nipote, vittima innocente di
una faida senza logica umana.
Se
Godo fosse stato mio padre a quest’ora sarei già impazzita.
Yuffie e Godo smisero di fissarsi e Tifa prese la borsa di Yuffie, pronta
ad unirsi al resto dei compagni.
“Yuffie!” Tifa la richiamò, stavolta con insistenza.
L’Imperatrice si
girò, lasciando dietro le spalle la figura del padre.
“Coraggio segui
i tuoi compagni Yuffie… e non sarete mai più i benvenuti a Wutai.”Godo minacciò, contraendo tutti i
muscoli sul viso.
Yuffie lo ignorò, così come Tifa.
Era tempo di
lasciare per davvero Wutai.
“Ad arrivare a Kalm
non ci vorrà molto… una volta in volo contatteremo Reeve.”
Barret spiegò gesticolando.
“Così una volta arrivati là non ci basterà che organizzare
l’attacco e partire per Midgar.” Red aggiunse sorridendo.
“La sede
operativa del W.R.O ci ha assicurato che non ci sono contingenti nemici sulla
rotta Kalm - Midgar. Questo ci porterà un ulteriore
risparmio di tempo.” Cloud terminò l’analisi, dirigendo l’attenzione su
Vincent.
“L’essenziale è
muoversi inosservati. Se scoprono che ci stiamo organizzando per un
salvataggio, scateneranno l’inferno.” Vincent aggiunse
guardando Cloud. L’uomo annuì prima di concentrarsi sulle figure di Yuffie e Tifa, che si stavano avvicinando al loro gruppo.
Cloud,
dall’espressione delle due donne, capì che qualcosa non andava.
“Come mai così tanto tempo?” Barret domandò infilandosi una mano in
tasca.
Tifa aprì la bocca e rimase immobile per qualche secondo. Era necessario rivelare il contrattempo con Godo? Guardò
Yuffie ancora scossa dalla discussione, che a sua volta fissò Vincent.
“Ci siamo perse
in chiacchiere, scusate.” Yuffie aggiunse, cercando di nascondere la rabbia
della sua voce e riportando l’attenzione su Cloud.
“Allora possiamo
andare.” Cloud, con il suo solito fare da capitano
finì la frase e tutti obbedirono. Il gruppo lasciò il palazzo, ignari che Godo
li stesse osservando da sotto il porticato, e che
erano stati scortati da diverse guardie. Tifa e Cloud si misero
davanti al gruppo, seguiti da Barret e Red, mentre Yuffie e Vincent si
sistemarono in fondo.
Vincent fissò
Yuffie per tutto il cammino, sapeva che prima aveva mentito
ma non voleva urtala ulteriormente con la raffica di domande che avrebbe
voluto farle. E dentro di sé era certo che c’era lo
zampino di Godo. Per questo si astenne dal chiedere cosa fosse successo in
realtà.
Yuffie percepiva
che lo sguardo penetrante di Vincent era su di lei,
ormai ci era abituata a quella strana sensazione e non si sentiva più a disagio
come in passato. Ma non desiderava altro che fissare
il terreno che le scorreva sotto i suoi i passi, piuttosto che confrontarsi
apertamente con lui in quel momento.
La gente che li
incontrò per le strade li salutava con riverenza,
prostrandosi in profondi inchini. Cloud notò con piacere che i colori vivaci di
Wutai erano riapparsi, i drappi funebri scomparsi e l’abbigliamento degli
abitanti ripristinato a standard normali. La città si stava risvegliando dal
gelo del lutto, assumeva un aspetto più che umano e
dava spazio alla speranza di riavere la giovane erede della casata Imperiale
sana e salva tra le mura della leggendaria Wutai.
Le guardie si
fermarono poco prima dell’entrata della città. Salutarono, mostrando le loro armi, l’Imperatrice e Vincent, che si inchinarono a
loro volta. Davanti a loro, spuntava in lontananza la sagoma inconfondibile
dell’Highwind, posteggiata nella pianura distesa che circondava Wutai.
“Arrivederci.”
Yuffie mormorò a nessuno in particolare, prima di
spostare il suo sguardo sull’aeronave che rappresentava il futuro che
l’attendeva. Le sue labbra finalmente si distesero in un sorriso non appena
sentì le grida di Cid che provenivano dalle vicinanze dell’aeronave.
“Ci vogliamo
dare una mossa laggiù!!??! I motori si stanno
surriscaldando!!”
“Datti una
calmata Highwind!” Barret rispose urlando come un forsennato.
“Caproni!!!” il pilota rispose, o meglio fu quello che l’eco delle
sue grida comunicò.
Passo dopo
passo, metro dopo metro, sentiero dopo sentiero la
corsa – rincorsa di Gaia ed Eve si era protratta sino al cuore dei monti Nibel.
Eve ormai aveva dimenticato come mai stesse inseguendo con così tanta foga la
sorella, mentre Gaia ardeva dal sapere in che posto i
tirapiedi della Shinra stessero andando.
Gli uomini
giunsero di fronte ad un ennesimo bivio del percorso, fermandosi ad osservare i
dintorni. Il sole che batteva sulle rocce violastre dei monti
rifletteva una luce irreale che illuminava il cielo e la foschia di un colore
innaturale, scuro, che ricordava le atmosfere fredde della sera.
Gaia interruppe
all’improvviso la sua corsa per mantenere una distanza di scurezza, temendo che
si potesse avvicinare troppo al suo nemico per poi essere scoperta. E non ne valeva la pena dato che l’inseguimento durava da
più di un’ora. Eve andò a sbattere contro la schiena di Gaia, urtando il naso
contro una scapola.
“Ahi!” urlò,
indietreggiando dopo l’urto e portandosi una mano sul naso dolorante.
“Shhhh!” Gaia
ordinò alla sorella mettendosi l’indice contro le labbra.
Le ragazze
ripresero fiato, mentre cercavano di capire che cosa stessero dicendo gli
uomini della Shinra. Il professore sembrava avere dei problemi. O meglio, creava dei problemi alle guardie e alla donna
poiché voleva proseguire da solo.
“Cos’ hanno da
dirsi?” Eve chiese sussurrando.
“Adesso ti interessa saperlo?” Gaia domandò con malizia. “Credevo
che tu fossi a favore del rientrare in casa e pretendere che non fosse successo
nulla.”
“E cosa potrei fare se non interessarmi? Mi sono talmente
persa a seguirti alla cieca che mi sono fatta trascinare in questo pasticcio.
Tornare indietro dopo questo sforzo sarebbe da idioti.”
Gaia guardò con
aria di vittoria la sorella.
“Dai, avanti…
sottoponimi ad una ramanzina degna di quelle della mamma…” Eve affermò
chiudendo gli occhi in segno di sconfitta.
“Sono contenta
che tu abbia capito l’importanza di questo, tutto qui…”
“Sì sì, come no…
guarda! Si stanno muovendo!”
Eve e Gaia
aspettarono qualche secondo prima di proseguire con
l’inseguimento, questa volta senza correre ma procedendo con passo sostenuto.
“Andranno avanti
ancora per molto?” Eve chiese.
“Speriamo di no..” Gaia rispose.
Hojo era
particolarmente irritato. Non solo era stato costretto a portarsi con se queste
persone, dei pesi morti che rallentavano con insulse domande il raggiungimento
del suo obiettivo: doveva anche sopportare le lamentele infantili di Scarlet,
le incessanti domande sul da farsi di una guardia di cui non conosceva
nemmeno il nome e la lentezza nel camminare di Rude. Per
fortuna che il luogo segreto di cui aveva accennato a Rufus era a poche
distanze da lui. La materia di cui aveva bisogno, la cosiddetta materia
di restrizione, era di necessaria importanza per procedere con il progetto
JEP3-3. L’alta instabilità della ragazza, le sue capacità sovrumane
rappresentavano un arma a doppio taglio per il professore: c’era il rischio che
durante uno dei suoi esperimenti Coley potesse perdere il controllo e scappare
o peggio ancora distruggere tutto. La materia di cui sarebbe presto entrato in possesso era la garanzia che ciò non potesse accadere mai e
poi mai.
Il sentiero
davanti a sé cominciò a mutare: le pareti rocciose che circondavano la strada
sterrata su cui camminava, stavano cambiando gradualmente colore, dal tipico
viola delle pietre piene di Mako allo stato solido ad un blu intenso e
brillante; la foschia si era completamente dissolta mentre
dal terreno spuntavano sempre più cristalli di materia.
“Se riuscissimo
a portare via tutta questa materia, potremmo ricavarci un sacco di soldi.” Scarlet notò, avvicinandosi ad una grossa selce di
materia. Il prezioso cristallo era di una luminosità accecante, simile a una pietra preziosa di dimensioni enormi. Anche Rude fissò la quantità di materia che spuntava dal
sentiero man mano che si procedeva nel cammino. Il Turk non aveva mai visto
quel genere di materia, così luminoso e limpido. Si ricordava di molti altri
tipi, che andavano dal rosso infuocato, tipico delle sfere contenenti il potere
delle invocazioni, a quelle verde smeraldo, infuse della potenza delle magie
ordinarie e tante altre. Ma nei suoi ricordi non
figurava alcuna materia così brillante e trasparente.
“Questa materia…
è la prima volta che la vedo. Di cosa si tratta?” il secondo
Turk chiese.
“Hmph…” Hojo
rispose, portandosi le mani nelle tasche del suo camice bianco.
Gli uomini della
Shinra seguirono per altri metri il sentiero, raggiungendo uno sbocco che dava
su di un bellissimo specchio d’acqua. Il bagliore della materia e del riflesso
prodotto dalle pareti rocciose scomparve, sostituito dall’intensità dei raggi solari.
Hojo e gli altri videro un lago circolare, dalle acque limpide che rifletteva la luce del sole e l’immagine delle montagne che
lo custodivano. Poco più distante dalla fine del sentiero si ergeva una
cascata, altissima, che produceva un forte scroscio.
“Siamo quasi
arrivati.” Il professore comunicò al gruppo prima di
riprendere il cammino.
Il trillo
fastidioso di un PHS interruppe i passi di Hojo. Il professore si rivoltò verso
i compagni, annoiato dall’ennesimo contrattempo. Scarlet estrasse il suo telefonino
dalla tasca del suo vestito bianco.
“Qui è Scarlet.”
… “Sì presidente, siamo quasi arrivati.” … “No…nessuno
sembra aver notato la nostra presenza.” … “Siamo
dovuti ricorrere al piano B, la materia di restrizione della tenuta è
scomparsa.” … “Certo, non appena avremo nuove
informazioni la contatterò.”
“Materia di
restrizione?” Eve ripeté le parole della donna bionda voltandosi verso Gaia. La
sorella le ripose facendo spallucce.
“Io non conosco
alcun tipo di materia che abbia a che fare con quella roba lì!” aggiunse,
concentrandosi sulle mosse degli uomini della Shinra.
“Questo posto
sembra un vicolo cieco. Se seguiamo il perimetro del lago
ritorneremo qui, non c’è altro percorso. Solo una cascata e questo sentiero.”
Eve affermò guardandosi intorno mentre la sorella
controllava costantemente la situazione.
“Forse ci hanno
portato in una trappola perché si sono accorti di noi?” Gaia domandò, non
distogliendo lo sguardo dal professore. L’uomo sembrava molto scocciato,
alterato dalla durata eccessiva della chiamata arrivata al telefono della
donna.
“Se davvero si
fossero accorti della nostra presenza, ci avrebbero fatto
fuori da quel pezzo.” Eve rispose a bassa voce.
Scarlet ripose
il telefonino nella tasca.
“Abbiamo poco
tempo, il presidente vuole che ritorniamo a Midgar entro la serata.”
“Già…” Hojo
rispose acidamente.
Scarlet alzò gli
occhi al cielo.
Ripresero subito
il cammino, avvicinandosi alla cascata.
“Ehm,
professore? Dove stiamo andando di preciso, dato che non c’è altra via percorribile
se non il sentiero da cui siamo giunti sino qui?” Rude
chiese avvicinandosi alle spalle di Hojo.
Lo scienziato
non rispose ma, una volta raggiunta la fiancata della
cascata si infilò dietro di essa, bagnandosi buona parte dei vestiti e dei capelli
a causa degli spruzzi d’acqua.
Rude, il secondo
Turk e Scarlet si guardarono in volto a vicenda, perplessi
dalla mossa precedente di Hojo.
“Prego,
proseguite pure.” Scarlet fece spazio ai compagni e indicò loro di seguire per
primi il professore. Rude si tolse gli occhiali di sole e li ripose nel
taschino della sua giacca. L’altro Turk si nascose la pistola all’interno della
cintura dei pantaloni. Poi i due uomini si infilarono
anch’essi dietro la cascata, mugugnando parole di stizza per essersi completamente
bagnati.
“Eh… forza
Scarlet…” la donna sospirò. Si alzò la gonna con entrambe le mani e con uno
scatto veloce passò sotto l’acqua gelida della cascata, bagnandosi solo in
parte. Scarlet era già pronta ad esternare la sua rabbia
quando il fiato le si bloccò nella gola.
“Che… che posto è questo?” la donna balbettò, avvicinandosi a
Rude e all’altro Turk, anch’essi esterrefatti dalla vista di quel posto. Si
trattava di una specie di caverna, buia per modo di dire, perché era costellata
di enormi cristalli di materia trasparente, la stessa
incontrata sui monti Nibel, che illuminavano con la loro magica lucentezza ogni
millimetro dell’ambiente.
Un luogo sospeso
dalle leggi del tempo, immerso in un’atmosfera incantata, resa ancora più
incantevole dai colori della gamma completa di azzurri
e blu che provenivano dai riflessi dei cristalli di materia che sbucavano dal
terreno. Al centro della caverna vi era un altro piccolo specchio d’acqua, per
essere precisi una pozzanghera limpida ma di sicuro
inquinata dall’alto tasso di energia Mako che trasudava da quel luogo. Nel
fondo della caverna si ergeva un cristallo enorme, alto quanto un abitazione di un solo piano, splendente come una luna
pallida. Il professore vi si avvicinò con qualche esitazione, lasciando alle
spalle i compagni, ancora incantati dalla vista di quel luogo.
“Cosa facciamo? Entriamo?” Eve domandò
fissando l’acqua della cascata.
“Hmmm… forse
sono proprio lì dietro ad aspettarci…”
“Aspetta,
aspetta… vuol dire che siamo venute qui per nulla? Che
ci dobbiamo fermare per timore di un’imboscata?” Eve
si voltò verso la sorella portandosi le mani sui fianchi.
“Ehi non ho
detto questo!”
“Ah no? E
allora, capitano, come ci muoviamo ora?” Eve chiese portandosi ancora
più vicino a Gaia.
“Entriamo e se
ci scoprono li riempiamo di botte.” Gaia concluse
gesticolando. Eve sospirò, intuendo che la prossima mossa avrebbe portato le
due a grosse grane.
Silenziose come
i passi felpati di un felino Gaia ed Eve scivolarono sotto l’acqua della
cascata, entrando nella caverna e nascondendosi furtivamente dietro una grossa
pietra che si trovava vicino l’entrata.
“Che posto è questo?” Eve sussurrò, notando l’atmosfera
sinistra di quel luogo.
“Non lo so…” Gaia
rispose fissando i movimenti del professore e il gigantesco cristallo di Mako.
“Eve… c’è una
persona là dentro?!” Gaia affermò, spaventata dalla
scoperta.
“Oh cielo…” Eve
alzò lo sguardo osservando ciò che la sorella le aveva fatto
notare. Custodita dalla fredda consistenza della materia di quel cristallo,
c’era il corpo di una donna, bellissima ma dall’aspetto inquietante. Cosa ci faceva là dentro? Era viva? O
si trattava di uno scherzo della vista?
“Lucrecia…” Hojo
mormorò avvicinandosi al cristallo. Il professore si tolse gli occhiali, li
infilò in una tasca interna del suo camice e portò una mano sulla superficie
liscia e fredda del cristallo. I suoi occhi giallastri si persero nella
bellezza della donna, gelidamente fredda e priva di vitalità come la
temperatura della materia in cui era contenuta.
Hojo restò
immobile per molto tempo, scrutando il volto apparentemente dormiente di
Lucrecia, osservando i lineamenti graziosi del suo corpo e i riccioli castani
sospesi nella materia.
“La tua forza,
mia cara Lucrecia, mi darà la chiave del mio successo.”
Hojo mormorò, sfiorando ulteriormente il cristallo. Poi il professore si voltò,
il suo profilo illuminato in controluce dal riflesso del cristallo in cui
giaceva Lucrecia.
“Scarlet, la tua 9 mm… Dammela.” Hojo ordinò, prolungando scioccamente la
‘s’ del nome della donna. Il professore allungò la mano i
attesa di ricevere l’arma.
Scarlet scostò
lo spacco della gonna ed estrasse la sua pistola dalla fondina legata ad una
giarrettiera nera. Si avvicinò ad Hojo lentamente, il
suono dei suoi tacchi che rimbombava nel silenzio della caverna, unendosi al
suono dell’acqua della cascata. Sorridendo, Scarlet lasciò cadere la pistola
nella mano di Hojo, che la impugnò senza problemi.
Il professore si
voltò nuovamente verso il cristallo.
“Il mio amore
per te resterà eterno, non dimenticarlo.” Hojo sibilò,
mirando dritto sul cristallo, o meglio sul corpo di Lucrecia.
Scarlet alzò un
sopracciglio, meravigliata dalle parole, ora udibili, di Hojo. Era già pronta a
pronunciare una battuta maliziosa sul professore ma
l’iniziativa la lasciò non appena Hojo premette il grilletto della sua 9 mm. Il proiettile si
conficcò nella materia, all’altezza del cuore di Lucrecia, frenato dalla
consistenza del cristallo a pochi millimetri dal corpo. Hojo non sì limitò a
sparare una sola volta. Proseguì, fino a disegnare con i fori provocati dai
proiettili una specie di cerchio. Sparata anche l’ultima munizione, che
miracolosamente non ferì la figura di Lucrecia, il grosso pezzo di cristallo si
staccò dal blocco, cadendo a terra con un tonfo.
Terminata
l’operazione, Hojo si girò verso Scarlet, allungandole nuovamente la pistola.
La donna fissò sbigottita il professore, visibilmente eccitato per ciò che
aveva fatto. Scarlet notò questo particolare vedendo il bagliore celato dietro
lo sguardo di Hojo. Scarlet era sicura: quella era la prima volta in cui aveva
trovato Hojo senza i suoi preziosi occhiali.
“Raccogliete
quella materia. Ora, grazie ad essa, Coley non sarà
più una minaccia.” Hojo affermò.
“…Coley…”
Coley… Lo
sapevo che c’entrava con Coley!!
I pensieri di
Gaia divennero uno strato sottile ed irrequieto di emozioni,
un istinto meccanico che si mutò in un urlo.
“Cosa le avete
fatto bastardi?!?” gridò disperatamente, uscendo allo
scoperto della roccia dietro alla quale si era nascosta. La sua amica,
strappata dalla cattiveria della Shinra, non poteva soffrire per colpa di uno
sciocco presidente e della sua brama di potere.
Hojo, Scarlet,
il secondo Turk e Rude fissarono meravigliate l’esile
figura di Gaia.
Se da un lato l’ira di Gaia la stava
accecando, togliendole la coscienza di capire in che razza di situazione si
fosse intromessa, Eve tremava dalla paura, spaventata dalle possibili,
violente, reazioni di quegli sconosciuti.
“Esigo una
risposta!” Gaia si sgolò, dimenando le mani ai suoi fianchi.
Scarlet rise
istericamente: che ironia essere minacciata da una ragazzina poco più grande di tredici anni. L’unica cosa ammirevole di quel gesto era
il coraggio. Hojo rimase immobile, riportandosi gli spessi occhiali da vista
sul naso, concentrandosi sull’aspetto così familiare della giovane.
Rude fu l’unico
a reagire per davvero. Estrasse la sua calibro 20
dalla fondina che teneva nascosta sotto la giacca blu, ancora umida per essere
passato sotto la cascata. Tenendo il braccio teso e lo sguardo fisso, Rude
puntò la pistola su Gaia. La ragazzina, ancora incosciente del pericolo, non
batté ciglio.
“Porta le mani
in alto e non ti muovere.” Il Turk ordinò, senza però
essere obbedito. Gaia, imperterrita, rimaneva in
attesa di risposte.
“Tu sei… sei la
ragazzina che era in compagnia di Coley quella sera a Nibelhime…” Scarlet
borbottò, facendo chiarezza tra i suoi ricordi. Gaia non poteva assolutamente
ricordare, ma a sparare quel colpo fatale per Coley fu proprio l’arma di
Scarlet.
“Conosce
l’ubicazione di questo posto. Eliminala.” Hojo ordinò, non lasciando il tempo a
Scarlet di proseguire con la sua riflessione. Rude annuì, caricando la sua
pistola con un rumoroso *tack*. Gaia deglutì rumorosamente, palese sintomo di insicurezza: l’ira iniziale si stava lentamente
assopendo, lasciando strada alla sua lucidità mentale di comprendere la
pericolosità della situazione. Eve invece, ancora nascosta dietro alla pietra,
combatteva tra l’idea di mantenere la sua pozione o di uscire allo scoperto e
fuggire con Gaia. Ma chi le avrebbe assicurato che la
fuga avrebbe condotto alla salvezza? Se solo la sorella l’avesse ascoltata a
quest’ora sarebbero sane e salve a casa.
Ma non appena il
suono dell’arma carica e pronta a sparare giunse all’udito di
Eve, la ragazza si alzò, abbandonando il suo nascondiglio.
“Gaia!” urlò,
facendo trasalire tutti i presenti.
“E tu da dove sbuchi fuori?” Scarlet chiese, facendo cenno
all’altro Turk di puntare verso nuova intrusa. La guardia obbedì ed in pochi secondi entrambe le sorelle erano sotto tiro.
“Alza le mani!”
il secondo Turk urlò. Eve, a differenza di Gaia, portò immediatamente le mani
sopra il capo.
“Non vogliamo
fare nulla! Cercavamo solo informazioni sulla nostra amica.”
Eve affermò, fissando sia Scarlet sia Hojo. Il
professore, aveva raccolto il pezzo di materia caduto dal cristallo in cui
giaceva Lucrecia e lo stringeva a sé come se si trattasse di un bambino.
“Coley è un
soggetto promettente. Ma non c’è nulla che possiate
fare. Ora è proprietà della Shinra.” Hojo spiegò accarezzando il grosso
cristallo che teneva tra le braccia.
Gaia aggrottò la
fronte e digrignò i denti. Proprietà? Come poteva definire proprietà la vita di
una persona?
“Balle!” la ragazzina
gridò, così forte da smarrire l’attenzione di tutti. La sua reazione fu molto
rapida, anticipando la risposta di ogni presente. Rude
la perse di mira in un istante, la durata di un battito di ciglia e Gaia si era
già scagliata contro il professore, afferrando un pietra
che aveva raccolto prima dello scatto.
Hojo non ebbe il
tempo di mettere a fuoco ciò che stava accadendo. Vide solo un rapido movimento
e poi una fitta alla fronte, seguito da un rumore sordo, come quello prodotto da un ciottolo caduto a terra. Il dolore che
sentiva era lancinante, accompagnato da una strana sensazione di calore che si
propagò sino a scendere sulla sua guancia destra. Il professore liberò una mano
dalla stretta sul cristallo e si toccò con tremore il volto. Le
sua dita ossute si bagnarono non appena furono a contatto con la pelle
della guancia. Ritirò la mano all’altezza del petto ed osservò con stupore la
propria mano.
Quanto sangue. Il proprio sangue che macchiava con orrore le dita che avevano
sfiorato la faccia.
Gaia lo aveva
ferito con una pietra, colpendolo alla fronte.
Scarlet rimase
impietrita ad osservare la scena, mentre Eve approfittò della distrazione
generale per correre verso il Turk che la stava puntando con la propria
pistola. La ragazza assestò un buon calcio nell’inguine dell’uomo, che dopo un
gemito cadde a terra, lagnandosi come un bambino e coprendosi la parte delicata
che gli doleva mostruosamente.
“Che…” Scarlet si girò verso il Turk ed al suo posto vide
Eve, in piedi con le gambe leggermente divaricate e le braccia tese davanti a
sé, stringendo una pistola puntata dritto su di lei. Anche
se le mani della ragazza tremavano, la risoluzione che traspariva dal suo
sguardo suggerì a Scarlet che Eve era pronta a sparare.
“O ci date una risposta o…” Eve disse con risoluzione,
spostando la pistola sul professore. “o io sparo a
lui.” Rude reagì all’istante, puntando la mira su Eve. Purtroppo per Scarlet,
la sua 9 mm era priva di proiettili a causa della manovra di
Hojo,perciò non poteva reagire. Tra il gruppo della Shinra e la coppia di
ragazzine c’era parità. Una pistola per Rude, una per Eve.
Gaia intanto
aveva raccolto altre pietre e si era sistemata vicino al professore con fare
minaccioso.
“Cosa volete sapere?” Rude chiese, cercando di trattare con
Eve.
“Rude! Non siamo qui per fare salotto!” Scarlet lo rimproverò. La donna
sembrò perdere definitivamente la pazienza. Cercò di avvicinarsi ad Eve quando fu colpita al volto da una pietra.
Scarlet urlò,
portandosi le mani sul volto, già martoriato precedentemente
dalla furia di Coley.
“Dov’è precisamente Coley?” Eve urlò, stringendo il calcio
della sua arma.
Nessuno sembrò
voler rispondere. Gaia lanciò un’altra pietra sia su Hojo sia su Scarlet. La
donna venne colpita sul petto e dopo l’urto, cadde a
terra inginocchiandosi. Il professore invece schivò la pietra per miracolo, ma
nel movimento rischiò di far cadere il cristallo.
“I laboratori
della Shinra.” Rude rispose.
Scarlet ringhiò,
accecata dall’ira. Diffondere informazioni riservate era l’ultima possibilità riservata ad un dipendente della Shinra. E dato che la
diretta responsabile dell’intera operazione era proprio Scarlet, l’aver
rilasciato tali informazione le avrebbe fatto fare una
pessima figura.
“Rude!” Scarlet
urlò istericamente, mentre il sangue che le usciva dal taglio sul labbro si
riversava nella bocca.
Non ci furono
parole per esprimere il mio stupore. La persona che mi trovai di fronte, quando
riaprii gli occhi era il riflesso di mio padre. Anche se vestito diverso dal
solito e bardato in volto di uno strano bendaggio, quello era
davvero mio padre.
Eppure
sentivo che la mia felicità era comunque velata di una
sorta di diffidenza.
Certo, si
trattava solo di una piccola macchia nera che stonava con la brillante felicità
che mi nutrì il cuore in quell’istante. Quindi evitai
di rovinare il momento con inutili preoccupazioni. Non mi chiesi perché fosse
conciato in quella strana maniera, perché si fosse coperto il volto con quella
strana cosa bianca.
Mio padre era
venuto a salvarmi, tutto qua.
Bastava solo
questa notizia a farmi stare bene.
“Papà?” Coley
domandò appena riprese conoscenza. Gli occhi scarlatti
della ragazza brillavano di gioia, mentre Lilian rimase più che stupita dalla
reazione di Coley.
Nero socchiuse
gli occhi e sorrise.
“Il mio nome è
Nero. Ufficiale di secondo rango dello Zvet. Spiacente ma io non sono tuo
padre.” Nero si presentò con calma, dando a Coley il tempo per riprendersi
dalla delusione.
La ragazza non
tolse mai lo sguardo da Nero per qualche secondo, il guizzo di felicità che c’era nei suoi occhi svanì in un attimo. L’espressione, da
puro stupore, si distorse in qualcosa simile ad una smorfia.
“Coley?” Lilian
la richiamò all’attenzione con dolcezza, mentre si avvicinava sempre più al
letto della ragazza.
“Sono venuto qui per comunicare la tua ammissione all’interno dello Zvet.
Rosso è rimasta soddisfatta delle tue capacità perciò ti ha
nominato quarto ufficiale.” Nero proseguì, fissando il volto di Coley.
La ragazza si
morse un labbro e si mise a sedere sul letto.
“Quarto
ufficiale?” domandò con un filo di voce.
“Il tuo nome
sarà Rachael, come tu saprai, un’ufficiale Zvet non mantiene mai il proprio
nome di battesimo.” Nero terminò.
Lilian si
affiancò a Coley, accarezzandole una spalla.
“Potrò uscire da
qui, quindi?”
“Oggi verrai presentata al resto della commissione. Prima però
dovrai vestirti della nostra uniforme e dovrai passare
un altro test con Rosso. Ti verranno a chiamare più tardi.”
Nero finì la
frase e lasciò la stanza, senza preoccuparsi dello sbigottimento di Coley o
della rabbia, ora assopita, di Lilian. L’assistente scosse la testa, mentre la
figura di Nero spariva dietro la porta che si era chiuso alle spalle.
“Forza Coley.
Dobbiamo prepararci.” Lilian incitò Coley a riprendersi dallo shock.
Il tuo
viaggio inizia da adesso.
La situazione
restava bloccata. Rude rimaneva impassibile, fermo a puntare
la sua arma contro Eve; la ragazza invece aveva la sua pistola rivolta contro
il professore; Gaia, stringendo tra le braccia diverse pietre, teneva sotto
tiro Scarlet e Hojo. Il professore si guardava intorno smarrito,
abbracciando con avidità il suo prezioso cristallo di materia. Scarlet giaceva
a terra, con il volto sanguinante. Le sue urla isteriche si erano smorzate in
grossi respiri, probabilmente dovuti a mantenere la calma. Inutile
precisare che il secondo Turk continuava a rotolarsi a terra, straziato da
dolore.
La
donna si infilò una mano in tasca e, dopo aver frugato per un po’, la riportò
fuori.Temeva che Gaia potesse colpirla ancora, incuriosita da quel gesto
furtivo. Nelle braccia della ragazzina c’era molta più
forza di chiunque potesse immaginare.
“Possiamo
rimanere qui per l’eternità se non ci dite la precisa ubicazione di Coley e
cosa le avete fatto!” Gaia urlò.
Passarono altri
minuti di silenzio.
In lontananza
cominciò ad udirsi il suono di un elicottero.
“Allora?!” Eve sbottò, scotendo la pistola.
Scarlet si alzò
in piedi, non appena si accorse che i motori dell’elicottero si erano spenti, o
almeno sembravano tali. Nessuno sapeva che nella sua tasca vi era nascosto il
cercapersone del pilota dell’elicottero, parcheggiato ancora nel giardino della
tenuta a Nibelhime.
“E’ finita mocciose…” Scarlet sibilò, alzandosi da terra a
stento.
“Cosa?” Gaia chiese quando all’improvviso, da dietro le spalle della
sorella, apparve una figura scura attraverso la cascata d’acqua. Gaia spalancò
gli occhi e tentò di lanciare un grido d’allarme rivolto ad Eve. Ma la reazione del nuovo intruso fu più rapida delle
intenzioni della ragazzina.
Un flebile sparo
rimbombò nell’antro della caverna, seguito da un gemito di Eve,
che si accasciò a terra, rilasciando la pistola che aveva impugnato durante la
resistenza. Gaia alzò rapidamente lo sguardo dalla sorella, ancora troppo inibita dallo shock per capire l’evolversi della
situazione. La canna della pistola da cui era partito
il colpo rilasciava una candida colonna di fumo.
Non appena i
suoi occhi si posarono sull’intruso, si udì un altro sparo.
Gaia avvertì una
fitta lancinante sulla spalla, che presto si immobilizzò
irrigidendosi. Le pietre che stringeva a sé caddero e, prima di perdere i
sensi, sentendosi all’improvviso estremamente assonnata,
la ragazza riuscì ad intravedere un grosso dardo sedativo conficcato
all’altezza della propria clavicola destra.
La vista si
offuscò in fretta e nel cadere sbatté violentemente la testa.
“Sedativo?? Avresti dovuto colpirle con proiettili d’argento!” Scarlet urlò
verso il pilota dell’elicottero.
Il ragazzo
sorrise, riponendo nella fondina la sua arma.
“Saranno
talmente imbottite di sedativo che al risveglio non si ricorderanno di nulla.” Il pilota aggiunse camminando verso Eve.
“Lo spero per
te, Reno!” Scarlet rispose.
“Ucciderle
sarebbe stato uno spreco di munizioni…”
Reno si inginocchiò al fianco di Eve, osservando la respirazione
calma della ragazzina: il sedativo era già entrato in circolo ed ora Eve
dormiva tranquilla. Reno raccolse la pistola che giaceva di fianco della
ragazza, porgendola successivamente a Scarlet, che si
portò verso l’uscita della caverna, scavalcando il corpo supino della giovane.
“Fatele sparire
da qui” aggiunse, facendo un gesto al professore, che
stranamente era rimasto impassibile per tutta la durata dell’incidente e poi
strappando di mano a Reno la pistola.
“Si signora…” Reno rispose, alzandosi in piedi.
“Che questo inconveniente rimanga tra noi, compreso?” Hojo sibilò
prima di seguire Scarlet al di fuori della caverna.
Nella grotta rimasero solo Reno, Rude, il Turk stordito dal colpo basso e
le due ragazze.
E’ finita!
Lunedì mattina ho terminato il mio esame di maturità! WOHOOO! Non potete
immaginare la mia felicità! Queste sì che sono delle soddisfazioni!!!!! Questo
capitolo (scritto con un carattere leggermente più leggibile, come mi è stato
suggerito J ) è più breve dei precedenti, ma recupererò presto, dato
che ora ho tutto il tempo che voglio per scrivere. Da adesso le cose per Coley
e Gaia cominceranno a precipitare. (Bwahahah.. come
sono sadica!)
Ho anche ri-iniziatoDirge of Cerberus e… le missioni speciali sono un calvario, che è al
di là delle mie capacità! (Dannato toro del piffero!)
Tornando alla
storia, il bello arriverà fra poco. Grazie per le recensioni, vi adoro!
DISCLAIMER: mi
sembra ovvio che Final Fantasy VII e Square-Enix non siano miei…
Capitolo 6:
But wait.
A fine line's between fate and destiny.
Do you believe in the things that were just meant to be?
When you tell me the stories of your quest for me.
Picturesque is the picture you paint effortlessly.
And as our energies mix and begin to multiply.
Everyday situations, they start to simplify.
So things will never be the same between you and I.
We intertwined our life forces and now we're unified.
Never
be the same again –Mel C-
Era passato già
molto tempo da quando Yuffie aveva lasciato Wutai.
Eppure la
rabbia ed il disgusto di Godo non davano cenno di diminuire.
Il vecchio uomo
aveva deciso di stemperare gli odi verso la figlia e tutti i suoi compagni,
ritirandosi in disparte nei suoi alloggi, dove avrebbe avuto molto tempo per
meditare.
Gli occhi grigi
di Godo, appesantiti dalla vecchiaia scrutavano con malinconia il panorama che
splendeva dal di fuori della sua stanza. La bellezza di quell’antica città era
a di poco incantevole, nonostante le difficoltà che aveva attraversato lungo il
corso del tempo.
Godo sospirò,
massaggiandosi le tempie con entrambe le mani.
…Arriverà il
giorno in cui Wutai dimenticherà la sua bellezza perché la disperazione e la
rassegnazione saranno la sola fonte da cui attingere risorse. Arriverà il
giorno in cui i ciliegi in fiore deperiranno e i loro preziosi boccioli si
seccheranno, sbriciolandosi in polvere amara; arriverà il giorno in cui la
terra sarà così arida e fredda che non potrà più donarci mezzi per
sopravvivere; arriverà il giorno in cui le cinque divinità di Da Chao piangeranno alla vista di una Wutai deserta. Ciò che
più mi irrita è che Wutai arriverà alla rovina per mezzo della testardaggine
della mia famiglia…
Gli occhi di
Godo iniziarono a bruciare, irritate da lacrime d’ira. Il suo pensiero si
arrestò per un attimo di formulare previsioni catastrofiche, anche se faticava
a rimanere lucido. Yuffie era la sua unica salvezza, la sua unica figlia e
perciò la sua unica erede. Wutai avrebbe trovato una garanzia per sopravvivere
proprio nella figura della giovane Yuffie. Ma con l’ultima piega presa dagli
eventi ormai non era più così.
Il suo piccolo
telefono portatile cominciò a squillare. Godo si infilò una mano all’interno
del suo kimono, estraendo l’apparecchio. Sul display esterno lesse –numero
privato- ed intuì al volo chi lo stesse cercando.
“Sì?” l’anziano
uomo disse, portandosi il telefono all’orecchio.
“Il
presidente è furioso.”
Dall’altra
parte della linea squillò una voce femminile stridula ed acida, velata di
rancore nascosto a fatica.
“E cosa c’entro
io?”
“La
posizione e la creazione del progetto JEP3-3 dovevano rimanere segreti. Sono
trapelate delle informazioni e a causa di ciò c’è stato un contrattempo molto
fastidioso a Nibelhime: qualcuno ha parlato troppo.”
Godo ispirò
profondamente, alzandosi dal tatami su cui si seduto a gambe incrociate per
meditare.
“… Io non ho
nulla a che fare con quello che è accaduto. Lo posso giurare su ciò che ho di
più caro al mondo.”
“Ha-ha… e ti
dovrei credere? Non dopo aver visto come tratti i tuoi familiari: le tue
promesse sono di poco valore.”
Godo strinse le
sue dita ossute contro la superficie liscia e fredda del telefonino.
“Che cosa
vorresti insinuare? Che non sono un uomo di parola? Alluderesti ad una faccenda
simile dopo tutto quello che ho fatto per voi della Shinra?” Godo sbottò,
agitando davanti a se la mano libera dalla presa del telefono.
“Voglio solo
dire che non mi fido di un uomo che ha venduto la propria nipote in cambio di
cinque miliardi di Gil. Una bella somma ma… come si dice: la vita umana non ha
prezzo. E considerato che eri a conoscenza che Coley non sarebbe andata di
certo in un istituto privato o in vacanza a Costa del Sol… beh, devo dire che
sei un personaggio poco affidabile.”
Godo ascoltò in
silenzio, analizzando ogni parola, ogni variazione di voce dell’interlocutore
dall’altra parte del telefono, ogni significato nascosto in quelle frasi.
Terminato il discorso e realizzato ciò che gli era stato rimproverato, Godo
uscì dalla stanza, camminando sotto l’ennesimo porticato del palazzo Imperiale,
cercando di dimenticare la rabbia crescente con una breve passeggiata.
“Scarlet… Mi
hai chiamato per rimproverarmi od altro?” l’uomo chiese con ironia.
“Volevo solo
accertarmi che la talpa in questione non fossi tu dato che sei tra i pochi
civili a conoscenza di JEP3-3. Dato che non ho ricevuto alcuna certezza,
condurrò delle ricerche e spero-proprio-per-te che tu
sia innocente.”
“Ci puoi
giurare.”
Dall’altra
parte del ricevitore echeggiò una breve risata di sfida.
“Scarlet… Coley
come sta?”
“Hmph..
buona serata, Godo…”
L’uomo si fermò di camminare, udendo il
segnale ipnotizzante e ripetitivo di linea libera. Passò qualche istante prima
che Godo riuscisse a staccare l’apparecchio dal suo orecchio, riponendolo nella
tasca interna del kimono. Voleva essere sicuro che la Shinra operasse in modo
tale che la nipote mai e poi mai avrebbe rimesso piede a Wutai. E di sicuro non
avrebbe abbandonato la speranza di ottenere questa informazione.
Godo tornò
nella sua stanza, continuando a pensare a ciò che Scarlet gli aveva riferito.
Nella telefonata l’uomo aveva tralasciato la parte in cui ammetteva di aver
fatto ben poco per impedire a Yuffie e a suoi compagni di partire a salvare
Coley. Come aveva evitato di riportare che gli ex membri di Avalanche erano a
conoscenza delle famose informazioni riservate, sfuggite dai quartieri generali
Shinra per bocca di una talpa.
Ma ciò non
significava che Godo avesse rinunciato al suo doppio gioco.
Quando
arriverà il momento giusto, lo dirò a Scarlet.
Scarlet
appoggiò con una mano il suo telefono sul grembo, mentre l’altra era
indaffarata a premere un sacchetto contenente alcuni cubetti di ghiaccio sul
volto, sfigurato dalla sassata di Gaia. Per la donna era difficile ignorare il
dolore provocato dalla ferita, dato gli scossoni che riceveva stando seduta
sull’elicottero che da Nibelhime li avrebbe ricondotti a Midgar.
Rude e Reno
erano seduti ai posti di pilotaggio, mentre il Turk di riserva si era
appisolato seduto accanto ad un Hojo sempre più silenzioso. Il professore
fissava il cielo fuori dal piccolo finestrino posto al suo fianco, stringendo a
se il prezioso blocco di materia di restrizione.
Scarlet lo
osservò, socchiudendo ogni tanto gli occhi, e soffocando parole di stizza non
appena l’elicottero saliva o perdeva quota. Da quando Hojo aveva visto la donna
racchiusa nel cristallo di Mako, qualcosa lo aveva reso più docile del normale.
“Tutto bene
professore? E’ soddisfatto della riuscita un po’ rocambolesca di questa
missione?” la donna domandò accavallando le gambe. Il telefono scivolò,
andandosi ad infilare sotto la seduta di Hojo.
“Hmmmmmmmsì…”
il professore rispose a denti stretti.
Scarlet sorrise
e fece di tutto per evitare di fare delle domande riguardo quella strana donna
incontrata a Nibelhime.
“Presto saremo
di ritorno. Nel rapporto vorrei che tralasciassimo il particolare delle due
ragazzine…. Cioè, il presidente è a conoscenza dell’incidente ma non sa che a
farci perdere tempo sono state due adolescenti. A proposito… come le avete
sistemate?”
Coley si fissò
allo specchio, sistemandosi la maglietta nera senza maniche che Lilian le aveva
procurato. L’immagine che lo specchio rifletteva era quella di una ragazzina
deperita, dal fisico atletico e sfregiato da innumerevoli lividi, tagli e
cicatrici. La ragazzina si piegò verso lo specchio, portandosi una mano sul
volto.
L’indice e il dito
medio della sua mano sinistra scostarono le ciocche di capelli che era abituata
ad avere sempre di fronte agli occhi… i suoi occhi… c’era qualcosa di strano
che non aveva mai visto prima di allora.
Coley lo notò
subito, avvicinandosi ancora di più allo specchio fino a toccarne la superficie
con la punta del naso. Era come se nelle iridi si fosse sciolto qualcosa
mischiandosi al solito colore cremisi, una sorta di fiume scarlatto che
scorreva avvolgendo le pupille, striato occasionalmente da piccoli, isolati,
fiotti dorati.
Era un qualcosa
di raccapricciante, bello ma velato di negatività, come se dietro quegli occhi
ci fosse qualcosa che stava crescendo, assopito, ma pur sempre pronto a
svegliarsi chissà quando.
Un ennesimo
particolare che la rendeva sempre meno umana.
Lilian entrò
nella camera all’improvviso, recando qualcosa tra le braccia, facendo sbattere
la porta contro il muro che a causa dell’urto rimbalzò e si richiuse in un
attimo. Coley si “staccò” dallo specchio con uno scatto, e, voltandosi, osservò
l’assistente.
“Scusa se ho
ritardato ma ero al telefono con un caro amico… qui ci sono altri vestiti
utili.”
Lilian gettò
sul letto una pila di vestiti scuri e semplici, liberandosi le braccia. Poi
spostò l’attenzione su Coley, che la stava fissando incuriosita.
“Coley… tutto
bene?” Lilian chiese aggrottando le sopracciglia.
La ragazzina rimase con lo sguardo perso nel
vuoto per pochi istanti, poi, mentendo, annuì esageratamente con il capo. Anche
Lilian si era accorta che in Coley era cambiato qualcosa. Guardarla era come
ammirare un tornado pronto all’azione o un incendio in procinto di distruggere
una foresta… una ragazzina tremendamente incantevole ma meglio se osservata ad
una debita distanza.
“Lilian… davvero quell’uomo di prima non era
mio padre?” La giovane assistente sospirò e si avvicinò a Coley, fingendo di
non essere inquietata dalla sua vicinanza.
“Per la milionesima volta… no. Quello è Nero, ufficiale Zvet, membro d’elite
dell’esercito controllato dalla Shinra. Non ha nulla a che fare con te o la tua
famiglia.”
Coley mostrò del disappunto sul suo volto
pallido. Anche se aveva capito che Nero e suo padre non erano la stessa
persona, la somiglianza folgorante tra i due l’aveva profondamente disturbata.
“Ed ora… finisci di vestirti: l’incontro con
i vertici Zvet è fra meno di un’ora.” Lilian, terminò la frase sospirando,
mentre osservava distrattamente il suo orologio da polso. L’apparizione di Nero
continuava a disturbare la quiete di Coley e l’assistente non ne era affatto
soddisfatta.
Per
fortuna che il signor Reeve è già a conoscenza di tutto.
“Quando tornerà Hojo?” Coley domandò, piegata
per allacciarsi le stringhe dei suoi stivali di pelle.
Spero mai.
“Il loro volo arriverà qui stanotte.”
“Spero che precipiti nel vuoto. Lui e tutti questi
bastardi della Shinra.”
Lilian rimase di stucco, fissando ad occhi
spalancati Coley. Non aveva mai sentito un commento simile uscire dalle labbra
della giovane adolescente.
“Cos’hai detto?” Lilian domandò con un filo
di voce. Aveva udito bene le parole di Coley, ma la sua domanda era più un atto
di sorpresa, piuttosto che una richiesta dovuta ad una distrazione.
Coley reagì alla domanda che le era stata
rivolta alzandosi da terra con uno strano scatto, come se avesse ricevuto uno
schiaffo o fosse stata rimproverata di un qualcosa non commesso. La giovane
alzò il proprio sguardo su Lilian, fissandola con stupore.
“Io… non ho aperto bocca.” Coley ribatté,
lamentandosi come una bambina capricciosa.
“Ma se mi hai appena detto che desideri la
morte di tutti quelli della Shinra!” Lilian riferì questa volta con più
autorevolezza. Odiava essere presa in giro, soprattutto da una persona molto
più giovane che lei.
Il nervosismo di Lilian diminuì, i lineamenti
del suo viso si ammorbidirono non appena vide la reazione di Coley.
Negli occhi della giovane vi fu un bagliore
dorato, intenso, che affogò chissà dove il solito inquietante colore scarlatto
delle sue iridi. Coley si avvicinò a Lilian, osservandola con quello sguardo
insolito, raccapricciante, pericoloso, quasi animalesco.
“Posso anche ripeterlo se vuoi..”Coley affermò, sorridendo grottescamente. Nella sua voce
traspariva un sentore di minaccia.
“Coley?” Lilian non si domandò il perché di
quella domanda, apparentemente stupida. Era solo che le azioni, le parole, lo
sguardo di Coley non appartenevano alla Coley che aveva conosciuto (seppure
superficialmente) sino ad allora. Non bastava avere davanti i propri occhi il
suo corpicino malridotto, indubbiamente quello di Coley, per contraddire la
confusione temporanea di Lilian.
Coley non rispose al richiamo. Si avvicinò
ulteriormente all’assistente, che, nonostante le sue calzature munite di tacco,
era più bassa di lei di qualche centimetro.
“Coley? E’ troppo debole per risponderti in questo
momento.”affermò, alzando una mano all’altezza della guancia di Lilian. Le dita
sottili e affusolate della giovane accarezzarono un boccolo morbido della
chioma della donna, giocando ad allentarlo tra il pollice e l’indice della
propria mano. Lilian continuò a rimanere immobile, sull’attenti come se si
trovasse di fronte ad una tigre affamata.
“Se questo è uno scherzo, ti conviene
smetterlo subito. O altrimenti..”
“Altrimenti cosa?”la ragazzina chiese
digrignando i denti, avvicinando la bocca agli occhi dell’assistente.
Lilian si voltò, dando le spalle alla
giovane, mostrando un coraggio insolito. Si precipitò verso la porta della
camera, pronta a chiamare a gran voce alcune guardie. Coley se l’era cercata
questa volta.
Al minimo accenno di aggressività non esitate
a chiamare rinforzi… Era sempre quello che Hojo si era raccomandato sin
dall’inizio dell’esperimento JEP3-3.
Lilian fece per appoggiare la mano sulla
maniglia della porta quando essa si piegò da sola. Qualcuno l’aveva anticipata,
aprendo per prima la porta. L’assistente si trovò faccia a faccia con Rosso,
provando all’istante un sentimento misto a stupore e sollievo.
“Mi sto perdendo qualcosa?” l’ufficiale
chiese ironicamente, ferma a fissare sulla soglia della porta le reazioni delle
due persone che si trovava di fronte.
“Stavo per chiamare delle guardie. Oggi Coley
è più agitata del solito.” Lilian affermò portandosi al fianco di Rosso.
Entrambe le donne rivolsero i loro sguardi inquisitori su Coley. La ragazzina
ricambiò le occhiate ricevute con perplessità, la precedente aria aggressiva e
arrogante sparita nel vuoto.
“Ah sì?” Rosso aggiunse, picchiettando le
dita contro l’imposta della porta. “A me non sembra così pericolosa. Ha un’aria
così smarrita…”
Coley abbassò lo sguardo, arrossendo per la
vergogna, mentre Lilian era sul punto di scoppiare.
“Non è colpa mia… Lilian scusami…” Coley si
scusò, dispiaciuta, senza prestare attenzione alla sua interlocutrice e a
Rosso.
Ma Lilian non sembrava affatto convinta.
Come
posso spiegarglielo? E’ stato più forte di me. Come un incantesimo lanciato
all’improvviso. Sentivo un segreto desiderio di trasgredire, di impormi e non
ho saputo resistere. Tutta colpa di quello che il professore mi ha fatto.
Qualcosa mi ha chiamato, mi ha ordinato di staccare la spina per un attimo, di
abbandonare la razionalità, lasciarmi scivolare in un dolce abisso di
cedimento. Mi avrebbe soddisfatto in tutto ciò che desideravo inconsciamente.
Però, ora che ho conosciuto questo baratro di cui sono ancora lontana dal
vederne la fine, ho paura. Temo che “questa cosa”, che non riesco nemmeno a
definire, mi sovrasti a tal punto da eliminarmi. Cosa o chi mi ha permesso di
dire quelle parole? E’ questo che mi spaventa. Di che cosa è capace? Se si
tratta dello stesso istinto che mi ha sovrastata quando ho attaccato Scarlet..
credo proprio che per me non ci sia più speranza.
Interrotto la riflessione, la prima reazione
di Coley fu quella di sorridere. Un sorriso così finto che sembrava sul punto
di frantumarsi lasciando spazio ad un ghigno beffardo, lo stesso che aveva
deriso e preso in giro Lilian. Coley agiva come un pupazzo confuso, pareva un
pesce fuor d’acqua, non riusciva a tenere il passo della realtà.
“Appena il professore raggiungerà Midgar,
verrà informato dell’accaduto.” Lilian bisbigliò a Rosso, senza lasciare con lo
sguardo la sagoma di Coley. Rosso annuì, poggiando le mani sui fianchi.
“Il consiglio ti sta aspettando. Avrai tempo
di fare la furba più tardi, quando il professore arriverà a Midgar.” Rosso
sbottò, scandendo con precisione ogni parola, come se si trattasse di una
condanna. Detto ciò, il generale Zvet si voltò verso l’uscita, staccando lo
sguardo da Coley nel momento in cui afferrò la maniglia della porta.
Coley abbassò lo sguardo e non lo rialzò più
fino a quando non si sarebbe trovata faccia a faccia con il “famoso” consiglio.
Rosso aveva capito che nonostante l’apparenza, Coley era più che pericolosa.
Perciò per la ragazzina era essenziale evitare ogni sorta di comportamento
bizzarro: tagliare ogni contatto con ciò che la circondava era la scelta
migliore. Nessuno sguardo da sostenere, nessun ambiente che le facesse
riaffiorare ricordi dolorosi, nessun oggetto che le riportasse la mente sulla
figura di Hojo; i suoi occhi vedevano solo le monotone righe grigie e blu del
pavimento che scorreva sotto i suoi piedi e nient’altro, mentre la sua mente
era a chilometri di distanza da quell’infernale edificio nel cuore di Midgar.
Erano passate molte ore da quando Shelke
aveva visto per l’ultima volta Eve. In un primo tempo aveva cercato di ignorare
la lunga assenza della ragazza, riempiendosi la mente di frasi come “E’ grande,
qualsiasi cosa accada saprà cavarsela” oppure “E’ una ragazza responsabile, non
si farebbe mai trascinare in situazioni rischiose”.
Eppure questa strategia di distrazione giunse
a perdere il suo effetto inibitorio nella mente di Shelke.
Era già pronta a lasciare la casa per iniziare
le ricerche, quando udì un suono provenire dal portatile. La ricercatrice
abbandonò la finestra dove aveva trascorso buona parte della giornata in attesa
del ritorno di Eve, per dirigersi alla ricerca del portatile. Una volta
trovato, aprì lentamente il computer e attese che lo schermo si riprendesse
dallo stato di stand-by. Dopo qualche attimo apparve
un messaggio.
[trasferimento dati
terminato. Premere invio per visualizzare files]
Shelke
lesse e sorrise. Le informazioni che la ricercatrice aveva confiscato a Hojo
erano finalmente in suo possesso. Magicamente i pensieri sulle due giovani
ragazze che l’avevano assillata tutto il giorno svanirono, e con essi anche
tutte le preoccupazioni.
Era il
momento di sapere tutta la verità.
Shelke
spense la televisione, chiuse tutte le imposte della sala e si accomodò sul
divano, appoggiando il suo portatile sul grembo. Un breve raccoglimento e poi
il suo indice fece delicatamente pressione sul tasto invio.
“Oh
cielo…” mormorò sbigottita alla vista di ciò che le era stato inviato.
I dati
inviati da Lilian erano una sorta di diario giornaliero che Hojo aveva tenuto
dall’inizio dell’esperimento fino a oggi. Shelke scorse la prima e l’ultima
pagina dell’enorme documento, notando che la prima data riportata risaliva a
circa cinque mesi prima. L’ultima recava la data odierna. Prima di contattare
Reeve, come da programma, non seppe resistere alla tentazione di leggere alcune
pagine.
19W8-007
Il soggetto (nome in codice JEP3-3) stato prelevato. Le
sue condizioni fisiche sono relativamente gravi. Il prelevamento ha avuto dei
risvolti violenti, e perciò il soggetto ha riportato delle ferite da arma da
fuoco in alcuni punti della cassa toracica. PRIORITA ALTA, NON SI PUO PROCEDERE
SENZA UN INTERVENTO SANATORIO. Ad una prima analisi sembra essere idonea ai
requisiti necessari all’impianto dell’ospite. È necessario compiere qualche
intervento preparatorio che ci assicuri al 100% che l’ospite possa essere
introdotto nel nuovo corpo senza rischi di rigetto. Non sarà necessario
compiere particolari esami per ottenere una mappa completa del patrimonio
genetico del soggetto. Basterà rivedere le schede relative il padre.
Shelke
aggrottò le sopracciglia. Aveva capito ben poco a cosa Hojo si riferisse in
quelle prime righe. Ma soprattutto non riusciva a capire che cosa intendesse
per “ospite”.
20W8-007
JEP3-3 ha
subito il primo intervento. In tutto sono stati espiantati
quattro proiettili 9 mm
parabellum dal torace. Tre avevano raggiunto zone innocue, provocando qualche
lieve emorragia. Al contrario il quarto aveva in parte danneggiato la vena cava
superiore. L’operazione ha avuto esito positivo, anche se la gravità dei danni
ha rallentato il suo decorso. Ora il soggetto è tenuto sotto sedativi e non
appena avrà smaltito gli effetti delle tossine che sono state iniettate in
preparazione del nuovo intervento, si potrà procedere con la fase pre-impianto.
In due
giorni, due interventi. Questa notizia non avrebbe reso felice i genitori di
Coley. Purtroppo gli incubi di Vincent si stavano materializzando.
22W8-007
Il soggetto ha impiegato solamente due giorni per
smaltire ben due iniezioni di mako-tossine. Nella mia carriera non mi era mai
capitato di avere a che fare con un organismo così resistente. Questa notte
inizierà il pre-impianto. L’intervento durerà al 90%
delle possibilità dalle 10 ore alle 20 ore a seconda delle complicanze.
“20 ore?!”
Shelke esclamò anche se nessuno poteva ascoltarla. Quel particolare le fece
passare la voglia di proseguire nello spoglio dei dati. Ci avrebbe pensato
Reeve.
A
proposito di Reeve… doveva assolutamente contattarlo, non c’era più tempo da
perdere.
Nonostante
il buio della stanza, fatta eccezione per la luce prodotta dal portatile,
Shelke trovò al volo il suo PHS e compose con sicurezza il numero di Reeve.
“Numero
privato, prego identificarsi!”
La
segretaria ormai non faceva altro che ripetere con tono scocciato quelle
stesse, identiche, parole tutti i giorni, non appena il telefono sulla sua
scrivania di vetro trillava insistentemente. Smise di limarsi le lunghe unghie
coperte da smalto rosso fuoco e spinse con l’indice destro il tasto di
ricezione chiamata.
“Sono Shelke. Aggiornamento da riportare al
presidente”
“Prego
attendere…”
La
segretaria schiacciò un altro tasto sul telefono, si alzò dalla sua sedia e
attraversò la stanza avvicinandosi all’enorme porta che aveva di fronte. Bussò
con gentilezza e senza aspettare che dall’altra parte le arrivasse una
conferma, entrò nell’ufficio privato del suo superiore.
Come tutte
le giovani segretarie, provava una grande attrazione verso il suo capo e cercò
di ancheggiare il più possibile per attirare l’attenzione di Reeve. Ma l’uomo
non degnò di uno sguardo la povera donna, anzi si aggiustò i suoi eleganti
occhiali da lettura e prese in mano un foglio dalla pila che gli copriva la
scrivania. Delusa dal suo ennesimo fallito tentativo di farsi notare, la
segretaria riportò telegraficamente il messaggio.
“Shelke a
rapporto sulla prima linea, signore.”
Reeve alzò
lo sguardo dal foglio e sorrise alla segretaria facendole gesto di congedarsi.
La
segretaria annuì e si girò sui propri tacchi per uscire. Non appena la porta si
chiuse alle sue spalle, Reeve posò il foglio e gli occhiali. Inspirò
profondamente prima di rispondere alla chiamata.
…il corpo del soggetto è troppo esile. Al primo tentativo
di impianto, il cuore ha ceduto più volte. Ma l’affinità tra l’ospite e JEP3-3
è comunque alta, a dispetto di JEP1-3 e JEP 2-3. Mentre il primo si è rivelato
un vero fallimento (il soggetto è deceduto 9 giorni dopo l’impianto) il secondo
mostrava maggiori capacità, ma si è privato la vita poiché psicologicamente
inadatto all’esperimento. JEP3-3 è diversa, è, oserei definirla perfetta. Forse
il piacere della vendetta mi sta distraendo dalle vere finalità del progetto.
Prevedo che il prossimo tentativo di impianto sarà un successo. La linea di
difesa del soggetto è ormai caduta…
“Shelke?”
La giovane
sobbalzò sul divano, distratta improvvisamente dalla lettura che aveva ripreso
nell’attesa di parlare con Reeve.
“La tua
famosa ricercatrice ha terminato il trasferimento dati. Ora ho davanti a me il
diario di Hojo.”
Reeve si
alzò di scatto dalla lussuosa poltrona in cui era stato seduto per tutta la
giornata. Alle sue spalle il cielo tetro di Kalm sembrava sul punto di muovere
guerra all’arida terra con cascate d’acqua.
“Il diario
di Hojo?!”
“Sì… la prima data riportata risale al 19
agosto… cinque mesi fa. L’ultimo scritto ha la data odierna. Ho iniziato a
leggere il documento da pochi minuti e… sono già disgustata. Diciamo che ho
paura a proseguire dato che nell’arco di due giorni, Hojo ha avuto la
possibilità di mettere le mani addosso a Coley ben due volte…”
Una
piccola goccia di sudore attraversò la tempia sinistra di Reeve.
“Riesci a
spedirmi il tutto? Credi che ci vorrà molto tempo?”
“… il file è enorme, inizierò il
trasferimento di modo tale che termini non appena gli altri ti abbiano
raggiunto… a proposito… qualche novità?”
“Sono
arrivati a Wutai e hanno lasciato la città insieme a Vincent e Yuffie circa
alcune ore fa.”
“Almeno questa è una buona notizia.”
“Già…”
Un mare di
nuvole separava l’Highwind dalla sottostante superficie piatta e rugosa, meglio
conosciuta come mare. Sfrecciava veloce e sicura verso la propria meta. Mancava
poco ormai, ma la distanza per i suoi passeggeri sembrava enorme. Soprattutto
nel momento in cui la fredda voce di Reeve riportava le novità di Shelke
attraverso l’altoparlante della sala conferenze.