What lies beneath crimson eyes

di BlackColey
(/viewuser.php?uid=27352)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Painful Beginnings ***
Capitolo 2: *** Clubbed to a beast ***
Capitolo 3: *** Mother and Father ***
Capitolo 4: *** Calm before the storm ***
Capitolo 5: *** What lies beyond crimson eyes? ***
Capitolo 6: *** Queen Rachael ***



Capitolo 1
*** Painful Beginnings ***


Capitolo 1:

Salve a tutti! Questa storia è molto incompleta e accetto suggerimenti e consigli di qualsiasi genere… anche insulti se non vi piace… Ma vi prego, datele almeno una chance! Gli eventi si svolgono in un tempo indefinito dopo gli eventi di Dirge of Cerberus ignorando quello che sia accaduto in quel gioco (capirete perché :P), e seguono le storie e le avventure (principalmente drammatiche, ovvio!) di molti personaggi, in particolare delle coppie Cloud e Tifa, Vincent e Yuffie con l’aggiunta di alcuni personaggi originali. Se vi interessa sapere di più sui nuovi personaggi creati da me, potete contattarmi, ho la possibilità di mostrarvi disegni e quant’altro.

 

Grazie e buona lettura! :D

 

DISCLAMER: no, i personaggi di Final Fantasy VII e Square-Enix non sono miei purtroppo… L e neanche i Good Charlotte.. PER FORTUNA!

 

 

Capitolo 1:

 

Is anybody listening?
Can they hear me when I call?
I'm shooting signals in the air
'Cause I need somebody's help
I can't make it on my own
So I'm giving up myself
Is anybody listening?
Listening

I've been stranded here and I'm miles away
Making signals hoping they'd save me
I lock myself inside these walls
'Cause out there I'm always wrong
I don't think I'm gonna make it
So while I'm sitting here
On the eve of my defeat
I'll write this letter and hope it saves

 

S.O.S –Good Charlotte-

 

La notte è madre e orditrice di complotti. Con inganni e mistero cela nelle tenebre tutto il male del mondo, come un vaso di pandora. Il giovane presidente della Shinra Corporation, lasciava la sua mente libera da timori e stringeva la mano alla complicità della sera per ordire i suoi nuovi piani. Seduto sulla sua sedia a rotelle, costretto a convivere con un corpo martoriato da un'orrenda malattia, Rufus scorreva i suoi occhi azzurri sui profili notturni di una Midgar a pezzi.

Un tempo questa città era il centro del mondo, ora è solo un mucchio di spazzatura.

Con l'aiuto dei Deepground Soldiers, la Shinra aveva ottenuto una nuova sede operativa, un'imponente palazzo di venti piani circa, di cui dieci sotterranei. Non era di certo grande come il precedente grattacielo, ma riusciva in ogni modo a sovrastare con autorità le macerie di Midgar. Il presidente passava buona parte della giornata nel suo nuovo ufficio, una stanza enorme situata all'ultimo piano del palazzo, controllando e gestendo la sua corporazione, che diventava sempre più potente di giorno in giorno. Soffitti, pavimenti e pareti erano ricoperti di un prezioso marmo nero, che s’intonava perfettamente con l'umore del giovane Rufus; al centro della stanza vi era una lussuosa scrivania, sulla quale era stato impiantato un monitor che al momento trasmetteva l'immagine di una vasca di contenimento contenente una persona.

Rufus distolse lo sguardo dalla vetrata quando sentì alle sue spalle l'arrivo di un estraneo. Nonostante la stanza fosse illuminata dalla scarsa luce proveniente dall'esterno della vetrata, Rufus riconobbe all'istante la sagoma formosa di Scarlet.

"Siamo passati alla fase due, presidente." Scarlet disse avanzando verso la scrivania ancora di qualche passo prima di fermarsi. Ora Rufus poté riconoscere alcuni lineamenti del volto della donna, illuminati dalla luce lunare.

"Bene." Rispose, poggiando le mani sulle ruote della sua sedia e facendo leva su di esse. Si spostò di lato, rivolgendosi totalmente verso Scarlet.

"Il soggetto reagisce con profitto agli esperimenti."

Rufus ascoltò le parole di Scarlet, rivolgendo lo sguardo verso il monitor. L'immagine mostrava ora la vasca di contenimento completamente vuota.

"Molto bene.." rispose assentemente, continuando a fissare la luce bluastra del monitor.

"... ora voglio vederla."

Scarlet sorrise maliziosamente, nascondendo i suoi sentimenti avversi nell'oscurità della stanza.

"Temo che il professore non sia d'accordo." La donna affermò, appoggiando le sue mani sulla scrivania.

"Sai che non mi interessa la sua opinione. Portami da lei."

Scarlet sospirò, scostandosi con stizza una ciocca di capelli dal volto. Attese che il presidente la raggiungesse e poi gli fece strada fino agli ascensori.

 

Lilian, assistente di grado elevato del laboratorio sotterraneo della Shinra Corporation, sobbalzò da dietro la sua scrivania, non appena vide il presidente e Scarlet uscire dall'ascensore numero uno. La ragazza si alzò di scatto, gettò in fretta nel cestino alcune cartacce che disordinavano la sua postazione e poi si sistemò in fretta i capelli. Scarlet, che procedeva più velocemente del presidente, si avvicinò a Lilian, guardandola con disprezzo.

"Il presidente desidera vedere i progressi dell'esperimento. Comunica al professore del suo arrivo." Lilian fece per rispondere negativamente alla richiesta scortese di Scarlet, poiché il professore aveva fatto esplicita richiesta di non ammettere estranei ali laboratori, ma non appena Rufus le fu di fronte, abbassò lo sguardo ed impugnò la cornetta del telefono. Lilian ci mise poco a comunicare ciò che le era stato riferito: dopo un paio di sì e di no ottenne il permesso di entrare.

"Prego, seguitemi." Lilian disse con calma, uscendo dalla sua postazione. A causa della sedia di Rufus percorsero a rilento un corridoio asettico, che conduceva ad una grossa porta metallica, illuminata di viola, come il resto dell'ambiente, dai faretti situati sul pavimento ai lati del passaggio. Lilian si fermò di fronte alla porta, estrasse con attenzione una scheda dalla tasca del camice e la passò due volte sul lettore posto a sinistra della parete. Una ventata di fumo bianco uscì da sotto la porta, non appena questa si aprì lentamente. L'aria all'interno dalla nuova stanza era notevolmente fredda, impregnata pesantemente di un odore simile a cloro.

"Perdonate le emanazioni, ma questi ambienti devono essere totalmente sterili." Lilian spiegò, continuando a camminare, senza rivolgersi ai suoi interlocutori. La stanza, un laboratorio d’ultima generazione, pieno di monitor, computer, macchinari enormi ed inquietanti, era deserto. Nessuno scienziato si dedicava al proprio lavoro davanti ad un microscopio o nessun assistente era intento a trascrivere dati: questo non c’entrava con l’orario insolito della visita, i macchinari presenti erano totalmente autosufficienti, perciò bastava solo qualche tecnico per le revisioni mensili. Senza dubbio un vantaggio: significava più segretezza sugli esperimenti, e meno soldi da elargire in stipendi. Lilian, Scarlet e Rufus giunsero alla fine della stanza, dove si trovava una grossa vasca di contenimento, collegata ad altri congegni mediante dei tubi.

"Così ha già superato la prima fase." Rufus si rivolse a Lilian, dopo aver scrutato alcune gocce di uno strano liquido verde sul pavimento. L'assistente, sorrise con grazia, prima di rispondere.

"L'esposizione ad un tasso elevato d’energia Mako ha dato i suoi frutti prima del previsto. Il professore è soddisfatto, non si aspettava una risposta così immediata."

Scarlet lasciò i due soli, mentre discutevano dell'esperimento in corso. Si allontanò dalla vasca verso un tavolo di metallo, facendo attenzione a non calpestare con i suoi tacchi nuovi lo strano liquido verde, ricoperto di provette e montagne di carta. Notò che buona parte delle provette conteneva sangue e recava sulle etichette date molto recenti.

Che sia il sangue della ragazza?

Una delle provette sembrava riportare il nome del soggetto a cui era stato prelevato tutto quel sangue. Scarlet fece per allungare la mano per girare l'etichetta, quando fu frustata da una matita sulle dita. La donna si arrestò ed alzò furiosamente lo sguardo, per vedere chi l'aveva colta alla sprovvista.

"Nessuno tranne me mette le mani sul materiale di questo laboratorio."

Scarlet, si massaggiò la mano colpita ed osservò il suo disturbatore con cattiveria. L'uomo non la considerò ed avanzò zoppicando verso Lilian e Rufus. L'assistente fece un profondo inchino di riverenza verso il nuovo arrivato, mentre Rufus rimase impassibile.

"Professor Hojo, il presidente desidera vedere i progressi dell'esperimento JEP3-3" Lilian annotò.

Hojo sogghignò, appoggiando sul tavolo delle provette la cartella e la matita che recava in mano. Prima di parlare guardò ancora una volta Scarlet. La donna, irritata alzò gli occhi al cielo e si congedò.

"Con questo io ho finito. Me ne vado." Scarlet lasciò la stanza, dopo che Rufus la salutò con un gesto della mano.

Hojo sembrò visibilmente sollevato. Lui e Scarlet non andavano molto d’accordo per svariati motivi. Si riaggiustò gli occhiali con l'indice della mano destra e si avvicinò alla vasca vuota.

"Finalmente ho l'occasione di lavorare su di un soggetto dal potenziale illimitato. Sono sicuro che il risultato finale sarà più che ottimo. JEP3-3 sarà integrata nei Deepground Soldiers senza alcun problema." Hojo parlò fissando la propria immagine distorta dal riflesso del vetro della vasca.

"Voglio vederla." Rufus ordinò, il suo tono di voce freddo ed autorevole.

Hojo rimase immobile, con le mani raccolte dietro la schiena ingobbita, silenzioso per diversi istanti. Poi rispose.

"Non sono d'accordo."

Rufus, che si aspettava una tale risposta da parte del professore, rise con disapprovazione. Fece per alzarsi dalla sedia, con molta fatica e raggiunse l'equilibrio sui propri piedi dopo qualche incertezza. Lilian lo guardò alzarsi con timore, tenendosi pronta ad aiutarlo in qualsiasi momento. Ora Rufus e Hojo erano uno di fronte all'altro, in piedi e con gli sguardi fissi uno sull'altro.

"Anch'io non ero d'accordo a riaverti qui, non dopo tutti i tuoi fallimenti che mi hanno portato alla rovina e non dopo aver visto in che mostro ti eri trasformato a causa delle cellule di Jenova. Eppure..."

Hojo si trovò spiazzato. Non poteva ribattere dopo la verità che gli era stata rinfacciata. Era solamente grazie a Rufus se si era potuto risollevare dall'oblio in cui era precipitato. Essere di nuovo in un laboratorio, poter lavorare ancora ad un progetto ambizioso di sua invenzione, erano le sue uniche ragioni di vita. No, forse c'era anche la vendetta che stava finalmente portando a termine con i suoi ultimi esperimenti.

Il professore annuì e Rufus si tornò a sedere sulla sua sedia. Con un sospiro di sollievo, si riposò alcuni istanti prima di seguire il professore e Lilian verso una nuova sezione del laboratorio.

 

"Il professore chiama questa stanza, Il Tempio." Lilian bisbigliò a Rufus, mentre aspettavano che Hojo aprisse la porta. I tre entrarono, il professore davanti a tutti. L'ambiente era completamente buio, eccetto per poche lucine verdi e rosse, probabilmente spie di un qualche macchinario. Hojo conosceva a memoria i suoi laboratori, e movendosi attraverso il buio con molta sicurezza raggiunse gli interruttori della luce. Dopo un rumore secco, le luci si accesero.

Rufus si accorse di trovarsi su di una passerella metallica sopraelevata: il laboratorio vero e proprio si trovava al piano inferiore, e per osservare meglio i dintorni, si avvicinò alla balaustra della passerella. Abbassò lo sguardo e finalmente vide il suo prezioso esperimento.

Al centro della stanza inferiore, adagiata su di una barella e coperta sino alle spalle da un telo bianco, c'era il corpo di una ragazza.

 

… io non credevo..

 

Rufus si perse ad osservare i lineamenti delicati del volto della ragazza. Capelli corvini corti e tinti di rosso sulle punte, palpebre velate di scuro, ciglia lunghe, labbra dischiuse, carnose e violastre, la sua pelle che si distingueva a fatica dal candore delle coperte. Il corpo che emergeva da sotto il telo era molto esile, ma di statura alquanto elevata per essere quella di una giovane ragazza. Quella figura così eterea fece trasalire i sensi di Rufus, che ignorarono per un attimo la presenza di Hojo e Lilian.

Il professore intanto aveva raggiunto la fine della passerella, raggiungendo le scale che conducevano al piano inferiore. Aveva percorso in fretta ogni gradino, zoppicando come il solito, sino ad arrivare di fianco alla barella. Hojo fissò la ragazza, e le scostò il telo, scoprendole le spalle e la parte alta del petto. Rufus notò che all'altezza del cuore della giovane, c'era una grossa cicatrice da arma da fuoco.

 

…Allora è davvero....

 

"Che destino crudele per una ragazza di quattordici anni" Lilian pronunciò queste parole, come se fosse stato un pensiero ad alta voce. Si trovò molto imbarazzata quando si accorse che Rufus l'aveva sentita. Mentre continuava ad essere osservato da Lilian e Rufus, Hojo prese una siringa da un carrello vicino la barella, la riempì di una sostanza nera e la iniettò nel collo della ragazza. Passarono circa venti secondi, prima che la ragazza aprisse gli occhi di scatto, risvegliandosi con uno spasmo ed inarcando la schiena. Respirava a fatica, e teneva la bocca aperta in cerca d'ossigeno. O forse tentava di urlare, ma la voce non le usciva dalla gola. La sostanza iniettata era energia Mako, liquida ma con una concentrazione elevatissima. Di certo quest’iniezione era molto dolorosa, perciò la ragazza continuava a contorcersi sulla barella. I suoi sforzi erano inutili, poiché era stata legata alle caviglie e ai polsi, ma nonostante ciò continuava a muoversi disperatamente. Hojo le fece un'altra iniezione (dopo diversi tentativi) e la ragazza cominciò a calmarsi. Ora era quasi immobile, ma continuava a respirare a fatica, con grossi sospiri.

Rufus osservò impassibile il dolore visibile della ragazza, prestando molta curiosità al colore delle iridi, scarlatti, come se le avessero iniettato del sangue direttamente negli occhi.  

 

Davvero inquietante, ma la cosa non mi stupisce. 

 

"Sei sveglia ora, JEP3-3. Ti ho riportato in vita…" Hojo guardò con freddezza gli occhi del suo esperimento.    

"..Io.. Ho.. un..nome.." La ragazza rispose con un filo di voce.

 

Coley, il tuo nome è Coley..

 

"Il tuo nome non m’interessa. Tu per me sei e resterai JEP3-3"

La ragazza sembrò alterata dalla risposta, e tra uno spasmo e l'altro, socchiuse gli occhi, lasciando che alcune lacrime le solcassero il viso.

"..Perché?"

"Oh, no... non ancora!" Hojo ribatté, alzando la voce. Riteneva che il pianto fosse una delle cose più insignificanti esistenti al mondo, e soprattutto non voleva che il suo esperimento mostrasse tali debolezze emotive.

Coley, d'altro canto, ignorò il tono di rimprovero del professore. Si concentrò sulle cinghie che le stringevano con forza i polsi. Sfregò fino a farsi sanguinare la pelle, cercando di liberarsi dalla fredda stretta della barella. Nuove lacrime le scesero dagli occhi, non appena vide il professore preparare un'altra iniezione.

"Vediamo se ora ti calmi." Hojo disse a denti stretti, sibilando come se fosse un serpente. Mentre era già chino su Coley e con la mano destra pronta ad iniettare la siringa nel collo della giovane, voltò la testa verso il presidente e l'assistente.

"Il vero potenziale di questo soggetto si manifesta quando raggiunge uno stato d’incoscienza." Hojo urlò, per farsi sentire sino in cima alla passerella. Lilian si portò una mano davanti alla bocca, per coprire la sua smorfia di disapprovazione, riguardo quello che Hojo avrebbe fatto al più presto. Rufus non batté ciglio.

Il professore appoggiò con forza il proprio ginocchio sul petto della ragazza, per bloccare ogni fastidioso movimento da parte di essa. Poi, con velocità e decisione, conficcò l'ago nello stesso punto di prima e svuotò l'intera siringa nelle vene di Coley. La ragazza cominciò ad urlare come se fosse un animale feroce, si contorceva con una violenza inaudita, fino a spezzare una delle cinghie.

Hojo, che nel tentativo d’iniezione precedente, si era scompigliato i capelli ed aveva lasciato cadere i suoi occhiali sino a raggiungere la punta del naso, guardò con soddisfazione la sofferenza di Coley. Le urla della ragazza riempivano la stanza, facendo rabbrividire Lilian. Rufus si voltò verso l'assistente, nell’attesa di spiegazioni.

Lilian cercò di ricomporsi, mantenendo a fatica un'espressione impassibile. Si passò una mano sul collo, un evidente segno di stress.

"Il professore le provocherà uno stato d’incoscienza farmacologicamente indotto. E' un'esperienza molto dolorosa. Dopodichè potrà mostrarle alcune abilità del soggetto."

"Ma non è pericoloso portarla a questi limiti?" Rufus chiese. I suoi occhi brillarono per un istante, come se pregustassero la risposta affermativa dell'assistente.

"Abbiamo precauzioni d’ogni genere, nel caso l'esperimento diventi troppo aggressivo."

Lilian si avvicinò alla balaustra, appoggiando le mani sul corrimano della passerella. Osservò il professore misurare i battiti cardiaci della ragazza con uno strano marchingegno. Dopo aver annotato i dati su di un foglio sopra il carrello, Hojo slegò le caviglie e il rimanente polso della giovane. Coley si calmò all'istante. I suoi respiri si fecero lenti e profondi, lo sguardo rimaneva fisso sul soffitto del laboratorio mentre i polsi sanguinanti erano a penzoloni dalla barella.

"Alzati, e siediti." Hojo ordinò, girando le spalle alla ragazza. Camminò verso una cassettiera piena di documenti relativi ad esperimenti in corso. Aprì un cassetto e frugò per un po' al suo interno.
Coley, nello stesso tempo, si alzò a fatica, sistemandosi come le aveva ordinato il professore. La ragazza teneva i suoi occhi scarlatti fissi sull'uomo, come se fosse nell’attesa di un ordine. La quantità impressionante di Mako che le era stata iniettata, l'aveva drogata, rendendola vulnerabile come una marionetta. Inutile specificare che a muovere i fili, vi fosse la mente contorta di Hojo.

Il professore terminò la sua ricerca, chiudendo il cassetto. Si voltò velocemente verso la ragazza, alzò la mano sinistra verso di essa, impugnando una piccola pistola. Non ci pensò due volte prima di aprire il fuoco verso l'indifesa Coley. Seguirono nella manciata di pochi istanti un sibilo, prodotto dal proiettile che tagliava in due l'aria gelida del laboratorio, un urlo da parte di Lilian e il tonfo del corpo di Coley sul pavimento.

Rufus spalancò gli occhi, sorpreso dall'azione improvvisa del professore. Il corpo della ragazza giaceva a pancia in giù, immerso in una pozza di sangue scuro. Il proiettile l'aveva colpita di sicuro al cuore, eliminando ogni speranza di salvezza. Lilian non ebbe il coraggio di guardare la scena e si lasciò cadere a terra, dando le spalle al laboratorio.

Hojo si avvicinò al cadavere di Coley, la girò sulla schiena con la punta della scarpa, e poi si chinò di fianco ad essa. Osservò come il sangue sul pavimento brillasse in controluce di verde smeraldo, lo stesso verde tipico dell'energia Mako allo stato più che puro.

"Osservi.. l'immortalità di questa ragazza, la sua invulnerabilità... Sarà la numero uno, così come saranno ' numeri uno ' tutti i soldati che creeremo da quest’individuo perfetto." Hojo urlò.

La grossa ferita sul petto di Coley cominciò a rimarginarsi in fretta per poi scomparire totalmente, fino ad espellere il proiettile, che cadde a terra scivolando dal corpo. Rimase solo l'ombra del colpo, una brutta cicatrice al fianco di quella già esistente. Passati alcuni minuti la ragazza ricominciò a respirare, non appena il naso si fu liberato dal sangue dovuto allo sparo. Seguirono alcuni colpi di tosse e Coley riaprì gli occhi, ancora più scarlatti di prima.

"Incredibile..." Rufus sussurrò, lasciando la bocca dischiusa dallo stupore. In neanche cinque minuti aveva assistito alla morte e alla rinascita di una persona.

Hojo notò l'espressione di Rufus e si crogiolò nella soddisfazione dovuta al risultato positivo dei suoi esperimenti. Lasciò il laboratorio, dopo aver preso un fascicolo dalla cartellina rossa, salì le scale e raggiunse il presidente della Shinra. Prima di congedarsi, lanciò la cartella sulle gambe di Rufus ed ordinò a Lilian di occuparsi della ragazza. Poi, come un'ombra, scivolò fuori della porta, scomparendo nell'oscurità dell'altro laboratorio.  

 

Rufus salutò la giovane Lilian e tornò al suo ufficio. Hojo era sparito e così il presidente non aveva avuto occasione di chiedere alcune spiegazioni riguardo agli avvenimenti che aveva visto nel laboratorio. Una volta arrivato, si sistemò in fondo alla stanza, di fianco all'enorme vetrata. Strinse tra le mani il fascicolo che Hojo gli aveva dato scortesemente. Si trattava di della cartella clinica di Coley.

 

Lilian attese che la calma fosse tornata nel laboratorio, prima di scendere al livello inferiore per prendersi cura di Coley. Prese un telo pulito da un armadietto, e corse verso la barella dove appoggiò la coperta, prima di chinarsi sulla giovane.

La sollevò da terra, appoggiandole le mani sotto le braccia. Coley non fece alcuna resistenza, sembrava ancora attutita dalla sostanza velenosa che le scorreva a fiotti nelle vene. La mise a sedere, notando che era completamente sudicia di sangue.

"Che cosa ti stanno facendo..." Lilian le disse, accarezzandola sul volto, macchiato da qualche spruzzo di sangue. C'era molta dolcezza in quelle parole, e Coley le rispose, sbattendo le ciglia ripetutamente.

"Guardati.. sei talmente disfatta che non riesci nemmeno a parlare, vero?" Lilian proseguì, mentre le puliva grossolanamente il sangue dal petto e dal viso. L'assistente capì che era necessario cambiarle la biancheria intima, gli unici indumenti che Coley portava ormai da giorni. 

Coley afferrò il polso di Lilian, bloccando i suoi movimenti.

"Portami a casa ti supplico.." La giovane bisbigliò con un filo di voce roca, fissando con i suoi bellissimi occhi il volto impaurito dell'assistente.

"Non posso.. io non..." Lilian rispose, usando altrettanto un tono di voce basso.

".. Ti.. supplico.." Gli occhi di Coley brillarono, velati dalle lacrime.

Il cuore di Lilian fece un tonfo, precipitando in fondo allo stomaco. Non aveva né i mezzi né l'autorità per sottrarre questa piccola ragazza dalle grinfie di Hojo. Coley apparteneva a Hojo. Lilian considerava l'adolescente che aveva a pochi centimetri di distanza come una piccola bambina smarrita. Hojo, al contrario, vedeva solo un corpo senza identità, altra carne da macello per sperimentare l'ultimo progetto contorto, appoggiato dalla Shinra.

Soldati d’ultima generazione. Uomini capaci di resistere alle pallottole, dalle risorse illimitate, dalla forza di una bestia infernale. Era questo quello che cercavano Rufus, Hojo e alcuni degli ufficiali Zvet dell'esercito dei Deepground. Uomini immortali ed invulnerabili. Coley sarebbe stata la numero uno, la madre di tutti quei futuri soldati che riavrebbero portato il mondo sotto il dominio della Shinra. Lilian ignorava che dietro la sete di sperimentazione del Professore, si celasse la vendetta per un torto subito quasi vent'anni addietro. Un rimorso che Hojo si porta nel cuore e al quale presto avrebbe dato sfogo.

Lilian sospirò, mentre Coley le rilasciava il polso.

"Non posso... io sono solo un'assistente e nient'altro. Il professore prende le decisioni qui dentro." Lilian pronunciò queste parole con dispiacere, perchè sapeva perfettamente che non la pensava a quel modo.

Coley iniziò a piangere. Cercò di nascondere le lacrime e di soffocare i suoi singhiozzi violenti dietro le proprie mani esili. Lilian la fissò per un po', sentendosi in colpa per quello che aveva detto. Anche se poteva sembrare una cosa inadeguata in un momento simile, l'assistente posò lo sguardo sul suo orologio da polso. Erano ormai le due di notte.

Lilian si alzò ed invitò Coley a fare lo stesso. La ragazza obbedì, e si tornò a sedere sulla barella. Poi si lasciò cadere all'indietro, tornandosi a sdraiare con un tonfo. Lilian la coprì con la coperta, promettendole che il giorno successivo le avrebbe procurato dei vestiti puliti. Coley, ancora scossa dal pianto, non rispose. Lilian proseguì nel suo solito lavoro, pulendo il pavimento e mentre asciugava l'ultima parte di sangue rimasto, notò il piccolo proiettile. La donna si fermò, impugnando la scopa con forza. Si fece coraggio prima di esternare la sua curiosità.

".. Fa male.. vero?" Lilian chiese. Ma non ottenne mai una risposta. Capì che Coley non provava più alcuna fiducia nella giovane assistente. Per un attimo era stata la sua unica speranza, ma dopo le parole che Lilian aveva pronunciato, Coley l'aveva catalogata come l'ennesima fedele a Hojo, una perdita di tempo e basta.

Lilian terminò i suoi lavori, salutò ad ogni modo Coley e prima di spegnere le luci ed uscire dal laboratorio, la fissò un'altra volta.

Non è mai troppo tardi continuò a ripetersi tra se e se tutta la notte.

 

Rufus era ormai giunto alla fine del fascicolo riservato al progetto Jenova Experiment Project, meglio conosciuto con il nome della diretta interessata, la giovane Coley. I Deepground Soldiers l'avevano catturata cinque mesi prima, durante una pericolosissima imboscata a Nibelhime. Durante l'attacco, morirono molti cittadini, diversi soldati della fazione del WRO e Coley stessa, freddata davanti a tutti i suoi amici e familiari da un colpo di pistola partito da Scarlet. Il cadavere della giovane, catalogato A1, in altre parole mortalmente pericoloso, fu portato a Midgar ed affidato ad Hojo. Il professore capì al volo che Coley era più che speciale, perfetta per realizzare il progetto di Rufus.

Hojo passò i successivi due mesi a lavorare sul corpo della ragazzina, andandone a modificare diverse volte il proprio DNA, oppure iniettando massicce quantità d’energia Mako. Dopo una serie infinita d’esperimenti contro ogni morale umana, Hojo trovò la combinazione giusta per riportare in vita Coley. I rimanenti tre mesi furono un esclusiva di Hojo. Nessuno, nemmeno Rufus, conosceva che cosa Hojo avesse fatto sul corpo della povera Coley. Mutazioni genetiche, strani trapianti, iniezioni di Mako... cos'altro avrebbe potuto escogitare la mente perversa di Hojo? Rufus se lo chiese diverse volte, e continuò ad essere crucciato da questo dubbio persino mentre chiudeva la cartellina rossa. Rimase a pensare a questo, con il fascicolo stretto tra le mani e la testa appoggiata allo schienale dalla propria sedia.

 

 

 

Era passato un giorno dalla macabra dimostrazione di Hojo nel laboratorio. Lilian aveva passato le precedenti 24 ore a pensare alla povera Coley, al rimorso per non averla aiutata come desiderava, alla colpevolezza nell'essere complice ad un progetto disumano. Per questo aveva contattato in segreto una persona che l'avrebbe aiutata a portare giustizia a Coley.

"Incontriamoci alle 23, nel bar vicino alle rovine del settore 4." Una voce maschile le aveva ordinato dall'altra parte della cornetta.

Lilian attese la fine del suo turno al laboratorio del Livello S10, riordinò la propria postazione, si assicurò d’essere sola e si diresse verso gli spogliatoi. Aprì il suo armadietto, si sfilò il camice e lo ripose con cura nel rispettivo appendiabiti. Si guardò allo specchio, cercando di aggiustare la gonna marrone e la camicia bianca con alcune pacche. Una volta soddisfatta prese una spazzola da sopra uno scompartimento dell'armadietto e si pettinò i suoi capelli fulvi. Terminati i brevi preparativi, si accorse di essere in perfetto orario e lasciò con tranquillità l'edificio della Shinra Corporation.

Il bar, nonostante la tarda ora, era pieno di clienti, più che altro lavoratori notturni che prestavano servizio per ricostruire la città. I lavori a Midgar non si fermavano mai. Lilian sembrava risplendere nella luce soffusa del locale, con la sua bellezza semplice, ed attirò diversi sguardi non appena entrata. La donna si guardò attorno, in cerca del suo uomo. Lo vide subito, seduto all'ultimo tavolo nell'angolo più buio del bar.

Si avvicinò portandosi una mano sul petto e mordendosi un labbro per lo stress. Non fece in tempo a raggiungere il tavolo che le interessava, quando tre uomini vestiti di nero e rosso le sbarrarono la strada. Lilian indietreggiò intimorita.

"Non ti preoccupare, devono solo perquisirti. Dopotutto sei ancora una dipendente della Shinra." L'uomo avvolto ancora nella penombra parlò con calma. Lilian riconobbe la stessa voce con cui aveva parlato al telefono la mattina precedente.

Gli uomini la perquisirono, sequestrandole il cellulare e le tessere d'identificazione che teneva in tasca della gonna. Poi le fecero cenno di sedersi al tavolo. Appena Lilian si accomodò, le guardie circondarono il tavolo, coprendo la sua figura e quella dell'altro uomo.

"Mi devo scusare ma.. non ci si può mai fidare della Shinra." L'uomo disse alzandosi, porgendo la mano verso Lilian.

Finalmente la giovane assistente vide l'aspetto del suo interlocutore: un uomo alto, molto distinto, vestito in un'elegante completo blu elettrico, dai capelli lunghi raccolti in una coda, occhi scuri e profondi e un pizzetto che gli copriva il mento pronunciato. Lilian strinse la mano dell'uomo.

"Capisco... il mio nome è Lilian Bellamy, assistente di grado elevato nel dipartimento di ricerca scientifica della Shinra."

L'uomo annuì, lasciando la presa di mano e si tornò ad accomodare. Lilian attese qualche secondo, fissando l'uomo e nell’attesa che anch'egli si presentasse. L'uomo, non comprendendo come mai Lilian lo stesse fissando, inarcò un sopracciglio.

"..Qualcosa non va, signora Bellamy?"

Lilian si sfregò le mani sul grembo e fissò la superficie liscia del tavolo.

"Lei non si presenta?"
L'uomo sogghignò sommessamente, ma Lilian percepì lo stesso il sarcasmo.

"Non è il posto adatto per presentarsi. Ma, mi chiami pure Reeve." L'uomo rispose sorridendo.

Lilian alzò di scatto lo sguardo su Reeve.

"..Reeve, QUEL Reeve?" Lilian bisbigliò, cercando di non farsi sentire da altri.

Reeve annuì.

"Non se lo aspettava?"

"Beh.. non mi aspettavo che il WRO potesse prestarmi così tante attenzioni..."

Reeve tornò a sorridere, e bevve un sorso del liquore che aveva ordinato prima dell'arrivo della donna.

Lilian si trovava di fronte al presidente del WRO, il principale antagonista della Shinra. Se qualcuno dei suoi colleghi l'avesse vista e riconosciuta, avrebbe rischiato di essere giustiziata. All'improvviso fu assalita dall'agitazione: forse questo era troppo, Coley dopo tutto non era una sua “faccenda”. Non la conosceva nemmeno, so non per quelle rare volte che l'aveva vista nel laboratorio. Perciò come mai tanta preoccupazione?

D'un tratto le ritornarono in mente gli occhi velati di lacrime della ragazzina, che supplicavano di essere liberata dalle grinfie di Hojo. Tutti i dubbi di Lilian, di fronte a quel ricordo, sparirono d'incanto. L'assistente tornò a sfregarsi le mani sulla gonna, prima di spiegare quali faccende l'avessero spinta a contattare Reeve.

"Innanzi tutto... Grazie per l'aiuto. Non posso nascondere che sono un po' intimorita dalla clandestinità di questo incontro, comunque ne è valsa la pena, mi creda signor Reeve."

"Qual'è la cosa che l' ha spinta sino qui, dottoressa Bellamy?" Reeve chiese, mentre osservava, con il bicchiere di liquore ancora in mano, la tessera che le guardie avevano sequestrato da Lilian. 

"Gli esperimenti. La follia che si sta consumando nei laboratori sotterranei della Shinra Corporation. Credetemi.. Siamo tutti in grave pericolo!"

"Mi scusi.. ha detto laboratori sotterranei?" Reeve chiese appoggiando il bicchiere e distogliendo l'attenzione dalla tessera, per concentrarsi su Lilian.

"Sì.. si tratta di dieci livelli sotterranei, accessibili solo al personale del dipartimento scientifico, poca gente qualificata, dove si svolgono buona parte degli esperimenti del dipartimento. Si testano e costruiscono armi, si conducono sperimentazioni oltre ogni soglia d'immaginazione su persone ed animali... e molto altro ancora."

Reeve s'incupì man mano che Lilian proseguiva con la sua descrizione. Il WRO sapeva di un rafforzamento da parte della Shinra, ma mai avrebbe immaginato che il conglomerato si stesse riprendendo con tale velocità. La donna si era interrotta, accorgendosi della perplessità dell'uomo.

"La prego, prosegua... sono curioso di sentire cosa succede alla Shinra."

Lilian si schiarì la voce e proseguì.

"In realtà io non sono venuta per denunciare l'esistenza di laboratori segreti. Il presidente Rufus, in collaborazione con un gruppo elitario, ha approvato un progetto di cui io sono al corrente ed ho il permesso di seguire, che è qualcosa di tremendo. Vogliono costruire un esercito su misura, composto d’uomini immortali e.. per fare ciò conducono degli esperimenti senza scrupoli su di un giovane soggetto, la matrice. Sono venuta da lei per chiedere di salvare questa persona innocente, prima che sia troppo tardi."

Reeve continuava a mostrare perplessità e ascoltava con attenzione l'assistente.

"Chi è il supervisore del progetto?"

"Il progetto in questione, denominato in codice Jenova Experiment Project o JEP, è totalmente in mano al professor Hojo."

Non appena la donna pronunciò quel nome, le guardie si voltarono verso il tavolo, mentre Reeve, con una strana smorfia, si girò di lato, appoggiandosi allo schienale della sedia. Fissò la gente che lo circondava, tranquilla e divertita, poi si rivoltò verso Lilian.

"Hojo.. questo nome dice tante cose. E spiega anche, come mai lei abbia osato così tanto nel venire sin qui.. Mi dica, la persona di cui lei parlava, il soggetto degli esperimenti... conosce la sua identità?" Reeve chiese, cercando di rimanere impassibile.

Lilian sospirò e prese il bicchiere di Reeve. Ingoiò tutto il rimanente liquore, assaporando il gusto amaro del liquido che le bruciava la gola. Dopo aver riposto il bicchiere, diede un piccolo colpo di tosse e proseguì.

"So solo che il nome è Coley, ed ha circa quattordici anni. E' tremendo che abbiano scelto di fare tali esperimenti su di una adolescente indifesa.." Lilian si interruppe, notando che qualcosa non andava in Reeve. L'uomo la stava fissando, i suoi occhi si erano misteriosamente arrossati e rimanevano spalancati. Sembrava che il presidente del WRO fosse sull'orlo di piangere.

"Signore.. c'è qualcosa che non va?"

Reeve continuava ad essere sconvolto.

"Ha.. detto.. che si chiama... Coley?"

Lilian annuì.

"Da quanto è lì, nei vostri laboratori?" Reeve chiese con un filo di voce.

"All'incirca cinque mesi."

Una lacrima scese dall'occhio sinistro dell’uomo, il quale l’asciugò prontamente con la manica della 

Giacca blu. Il presidente del WRO si ricompose in fretta, schiarendosi la voce ed ordinando ad una sua guardia di portargli un altro drink. Mentre un uomo in nero eseguiva l'ordine, Reeve e Lilian proseguirono il loro discorso.

"Perdoni la domanda... ma lei conosce Coley?" Lilian non riuscì a trattenere la curiosità.

Reeve annuì, prendendo in mano e bevendo buona parte del drink che l'uomo in nero gli aveva appena portato.

"...Suppongo proprio di sì. Si tratta della figlia di un caro amico. Mi dica.. è viva? Sta bene?"

Lilian si rattristò nel dover comunicare ciò che Hojo stava facendo a Coley. La donna, lottando per non lasciarsi trasportare dalle emozioni, raccontò dei vari e misteriosi interventi subiti dalla ragazza, delle iniezioni di Mako, delle mutazioni genetiche, e dall'incidente della pistola accaduto due sere prima. Spiegò con chiarezza e precisione tutti i "progressi" di Coley, dei maltrattamenti psicologici e fisici che subiva ogni giorno e della follia di Hojo nel persistere a sparare liberamente sulla giovane per testare la sua invulnerabilità. Reeve rabbrividì, bevve altri tre drink durante il racconto e rimase sempre silenzioso. Aveva ricevuto una buona notizia, quella di Coley ancora viva, ma ora temeva il peggio perchè era nelle mani di un pazzo. C'erano anche molte altre cose che Reeve temeva.

 

Hojo sapeva dell'identità di Coley?

 

L'ansia nel vederla mentalmente chiusa in un laboratorio sola con quell'essere gli suggerì che non c'era tempo da perdere.

L'orologio appeso sulla parete sopra il bancone del bar segnava l'una e mezza. Buona parte dei lavoratori se ne stava andando e il locale si stava pericolosamente svuotando.

Finito l'ultimo drink, Reeve si alzò, seguito da Lilian.

"Le devo un grande favore signora Bellamy, il suo coraggio e la sua dignità mi hanno aiutato a ritrovare una persona che temevo fosse persa per sempre. I miei uomini la accompagneranno a casa, e le lasceranno un mio recapito, con il quale saprà dove trovarmi in luogo più sicuro di questo locale popolare. Non tema, Coley ora ha speranza di salvarsi."

Lilian sorrise, e strinse con affetto la mano di Reeve.

"Ah.. dimenticavo di dirle che Coley è tutto, fuorché una ragazza indifesa.." Reeve sbottò verso Lilian. La donna lo fissò per un istante e poi i due si salutarono, congedandosi: lei uscì seguita da due uomini in nero, mentre Reeve lasciò il bar dall'uscita sul retro, accompagnato da un solo uomo. Nascosto nel vicolo buio dietro il locale, lo attendeva una lussuosa macchina nera. Reeve entrò nella parte posteriore, mentre la guardia prese il posto dell'autista. La macchina partì a fari spenti, percorrendo le strade spettrali di Midgar e dirigendosi verso la vicina Kalm. 

Reeve prese il suo PHS, compose un numero che ormai sapeva a memoria e si portò il telefono vicino l'orecchio destro. Passarono diversi squilli a vuoto, prima che una voce femminile, molto addormentata, rispondesse dall'altra parte.

"..P-ron-to..?"

"..Gaia? Sono Reeve, ho bisogno di uno dei tuoi genitori." Reeve chiese, sobbalzando per le scosse ricevute dall'auto.

"Reeve..? Ma sono le due..! E... cos'è questo rumore di sottofondo?"

"Sono in macchina.. senti Gaia, è molto urgente!"

"Va bene... va bene.. attendi in linea..."

 

 

 

Gaia, una giovane ragazzina di quindici anni, appoggiò il telefono sul mobile di legno della sala, premendo il pulsante d’attesa. Trascinandosi le gambe, percorse con sonnolenza le scale che la condussero al secondo piano. Attraversò il corridoio, passò la propria camera e si fermò davanti alla porta successiva. Senza neanche bussare, aprì faticosamente la porta della stanza dei genitori e proseguendo nel buio giunse in prossimità della sponda del letto. Gaia allungò una mano e la appoggiò sulla spalle di uno dei suoi genitori, probabilmente si trattava di sua madre.

"Mamma.. c'è Reeve al telefono..." Gaia mugugnò scotendo la spalla della madre.

La donna emise un lamento incomprensibile, ma continuò a dormire.

"Mamma.. dice che è urgente..."

La madre sbadigliò, e si alzò dal letto, mentre Gaia, completato il suo lavoro se ne tornò a dormire. La donna si vestì con la propria camicia da notte che teneva sulla poltrona vicino al letto. Cercò di uscire silenziosamente, ma inciampò in un paio di ciabatte che si trovavano sul suo percorso, svegliando il compagno.

"Cos'è?" l'uomo chiese con la voce impastata dal sonno.

"Nulla, dormi pure, io torno subito."

La donna arrivò in sala, scendendo in fretta le scale. Raggiunse il mobile ed impugnò il telefono.

"Pronto?"

"Tifa sono Reeve. Ho ricevuto una buona notizia. Più che buona.. anzi un miracolo."

Tifa percorse la sala e si lasciò cadere sul divano. I capelli le caddero davanti agli occhi, ma non appena si fu sistemata, cercò di pettinarsi.

"Un miracolo? Vuol dire che il contingente dei Deepground si è ritirato dal reattore di Corel?"

"No, no Tifa. Parlo di un miracolo vero e proprio."

Tifa si rabbuiò in volto.

"In questo momento non mi viene in mente nulla, Reeve. Se è qualcosa di più importante di Corel... allora non saprei. Dato l'orario, spero per te che sia qualcosa degno d’attenzione." Tifa spiegò, mentre si stendeva completamente sul divano della propria sala.

"Coley è viva"

Quelle tre parole fecero trasalire la donna. Tifa si alzò di scatto, sedendosi sul divano. D'un tratto il sonno lasciò le sue membra. Lo shock fu tale che Tifa non seppe più cosa dire.

"O cielo.. l' hai detto a Yuffie? Wutai Lo sa? E Barrett? Hai chiamato Cid? Shera morirà sul colpo!” Tifa, dopo il silenzio iniziale cominciò a parlare come in preda ad una forte agitazione. Non si accorse che aveva alzato il tono della voce, svegliando il marito. L'uomo scese parte delle scale e si fermò sul penultimo gradino ad osservare Tifa. Capì che era successo qualcosa.

"Tifa... è tutto a posto?"

Tifa si scusò con Reeve e si voltò per rispondere al compagno. Gli fece cenno di avvicinarsi, mentre riprendeva la telefonata.

"Reeve, ti passo Cloud. Io intanto vedo di chiamare Yuffie."

Tifa, alzandosi, passò il PHS a Cloud, che prese il posto della moglie sul divano.

"Cos'è successo? I Deepground hanno lasciato Corel?" Cloud chiese.

"No. Mi sono appena visto con una ricercatrice della Shinra. Dice che Hojo ha con sé Coley, che è viva ma è vittima di una serie di esperimenti, di cui è la matrice. Cloud, dobbiamo intervenire e subito."

Cloud rimase colpito dalla notizia, ma naturalmente i suoi occhi azzurri non tradirono alcuna emozione. Fissò Tifa, che era uscita dalla sala, ed ora stava tornando con in mano un altro telefono.

La donna compose velocemente un numero e si portò subito il telefono all'orecchio. Cominciò a camminare avanti e indietro, di fronte Cloud, in attesa di risposta.

"Cercheremo di contattare Yuffie e gli altri, poi ti richiameremo. Grazie Reeve. Buonanotte." Cloud terminò la chiamata, concentrandosi su Tifa. All'ennesimo squillo a vuoto, la donna riattaccò, fermando la sua camminata nervosa. Cloud e Tifa si osservarono per un istante. Cloud impassibile come al solito, Tifa preouccupatissima.

"Richiamerà, non temere. Torniamo a letto ora." Cloud confortò Tifa, invitandola a seguirlo verso la stanza da letto. Era troppo tardi e la stanchezza non avrebbe aiutato i due a difendere Coley.  

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Clubbed to a beast ***


Capitolo 2:

HA! Cercherò di pubblicare il prima possibile i capitoli che ho già scritto….scusate è che sono sotto maturità e mi sto ammazzando sui libri, perché ho sempre la netta sensazione di non sapere nulla di nulla… ringrazio i miei primi due recensori temerari, Dastrea e vinnie_pooh, per la loro cortesia! E torno a dilettarmi con quel gran simpaticone di Hegel! Buona lettura J

 

DISCLAIMER: Square-Enix, Final Fantasy VII e i suoi personaggi non sono miei *sigh* [ e neanche gli Alice in Chains.. ]

 

Capitolo 2:

 

I Believe Them Bones Are Me
Some Say We're Born Into The Grave
I Feel So Alone
Gonna End Up A Big Ole Pile A Them Bones

Dust Rise Right On Over My Time
Empty Fossil Of The New Scene
I Feel So Alone
Gonna End Up A Big Ole Pile A Them Bones

Toll Due Bad Dream Come True
I Lie Dead Gone Under Red Sky
I Feel So Alone
Gonna End Up A Big Ole Pile A Them Bones

 

Them Bones –Alice in Chains-

 

La sera, con la sua tranquillità, aveva già incominciato ad intorpidire le strade e la piazzetta della piccola Nibelhime. Gaia, in attesa che terminasse la riunione indetta dai suoi genitori e che prevedeva un piccolo briefing con i dirigenti del W.R.O, aveva scelto di sedersi con le gambe raccolte in un abbraccio, sulle staccionata davanti casa. La ragazza odiava la calma di quel luogo così isolato dal resto del mondo, e la noia aveva già preso il sopravvento nei suoi pensieri.

Tra uno scricchiolio e l'altro, provocato dal suo dondolarsi con indolenza sulla staccionata, Gaia udì un suono veloce ma estremamente debole, provenire alle sue spalle. Dapprima cercò di ignorarlo, dando per scontato che si trattasse di un gatto o di uno scherzo del vento. In seguito, dopo aver udito un'altro rumore, simile ad una risata soffocata, Gaia si girò di scatto, scompigliandosi i capelli. In realtà rischiò anche di cadere, ma poco le importò quando riconobbe che la sua amica si era finalmente fatta viva.

Coley continuò a sorridere, mentre osservava Gaia in procinto di cadere dalla staccionata.

"Non ridere, mi hai fatto paura!" Gaia mugugnò mentre lasciava il suo appostamento con un balzo. Coley si avvicinò all'amica e una volta raggiunta, iniziò a seguirla a fianco a fianco verso il centro della piazzetta.

"Ma non eri già partita?" Gaia chiese calciando una lattina che si trovava lungo il suo percorso.

"E' presto.." Coley rispose osservando la compagna con l'occhio sinistro, quello che non era coperto dal suo lungo ciuffo.

Passarono alcuni istanti di silenzio. In lontananza si udiva un cane che abbaia noiosamente.

Anche se tra le due esisteva un rapporto di profonda amicizia e comprensione, Gaia non aveva ancora imparato a reggere lo sguardo dell'amica. Quell'occhio così profondo, grigio come le nuvole portatrici di tempesta, aveva la capacità di scrutare non solo la sua immagine, ma anche i suoi pensieri. Dietro quell'iride pareva che ci fosse in agguato una forza inaudita, un qualcosa d’innaturale che Gaia si sforzava intensamente di comprendere da tempo. Del resto il mistero che caratterizzava lo sguardo di Coley sembrava calzare perfettamente con la sua personalità emblematica. Le differenze caratteriali tra le due ragazze erano tante e in molti si erano chiesti che razza d’amicizia potesse legarle. Eppure, nonostante le contrarietà, i pareri avversi e qualche sottile vena di timore, Coley e Gaia potevano tranquillamente essere definite grandi amiche.

"Meglio così, vorrà dire che potremo vederci per un altro po'... allora, quando ripartirai?" Non appena Gaia ebbe finito la frase, lei e Coley avevano già raggiunto la piazza.

"Domani sera. Sarà Cid a darci un passaggio." Coley rispose osservando il cielo stellato. La pallida luce notturna illuminò il volto della ragazza, il candore della sua pelle si distingueva a fatica da quello della luna e delle stelle. E mentre il suo volto rivolto verso l'alto fissava la profondità del cielo, Gaia notò all'istante che parte del ciuffo di Coley si era spostato, rivelando una "porzione inedita" del viso. Qualcosa di rosso brillò tra le ciocche scure dei capelli della ragazza, incuriosendo Gaia.

"Perché..." Gaia si fermò. Era giusto esternare la sua perplessità, conoscendo la riservatezza dell'amica? Un altro bagliore rosso brillò intensamente da sotto il ciuffo di Coley, mentre tornava a rivolgere l'attenzione verso la compagna. La curiosità ora era intrattenibile e Gaia eliminò ogni ombra di timore dalla sua risoluzione.

"Perché tieni sempre il volto coperto dal ciuffo? Che cosa nascondi lì sotto?" chiese con calma, cercando di nascondere la vena spiritosa che le era sorta. Effettivamente Coley sin da bambina aveva sempre coperto una buona porzione del viso dietro un vistosissimo ciuffo di capelli.

Coley la guardò con la sua tipica impassibilità.

"..Avanti Coley! Non dirmi che ti vergogni del tuo volto.. sei così carina!" Gaia affermò con crescente ironia. La sua amica non si scosse di un millimetro e nemmeno diede l'impressione di voler rispondere. L’amica sospirò e si avvicinò di scatto, rischiando di urtare il viso di Coley. Fece per allungare una mano, che avrebbe senza dubbio scostato il ciuffo per saziare la curiosità, ma si fermò subito, notando che Coley era indietreggiata di qualche passo mostrando uno sguardo spaventato.

"Ehi, non voglio picchiarti!" Gaia sbottò sbigottita.

Coley abbassò lo sguardo e si portò una mano davanti la parte del volto coperta dal ciuffo di capelli. Quel particolare che, se reso visibile, l'avrebbe contraddistinta per sempre, era come un peccato o una vergogna da nascondere. Coley, mai e poi mai avrebbe mostrato a qualcuno i suoi occhi, uno grigio e l'altro scarlatto come il sangue, una maledizione più che una rarità. Ma nonostante la vergogna che l'aveva assalita, capì che la sua reazione era stata scortese e che avrebbe dovuto scusarsi con Gaia.

Così si ricompose e si preparò per chiedere scusa, quando vide che dietro alle spalle della compagna, qualcosa si era mosso con eccessiva furtività. Dall'oscurità si alzò una luce di un mirino laser, che si posò sulla figura di Gaia. Il battito di Coley accelerò al massimo, rendendosi conto del pericolo: rimase a bocca aperta per un istante, mentre Gaia ignara della situazione non ci capiva più nulla.

Il resto fu solo un insieme d’immagine confuse, di suoni orribili e assordanti. L'esercito dei Deepground, non appena vide fuggire le due ragazze, si riversò nella città. Seguirono urla, una corsa folle e il rumore di uno sparo che si era spento dopo aver raggiunto la carne di un qualche innocente uscito da casa, attirato dall'improvvisa confusione. Gaia era intenta a fuggire per mettersi in salvo dall'inferno che si era creato, quando vide l'amica accasciarsi a terra mentre dall'altra parte della strada i suoi genitori e tutti i loro compagni, usciti dall’abitazione in cui si erano riuniti, avevano assistito alla scena. Coley emise un gemito, prima di crollare sulla strada polverosa. Il proiettile aveva colpito il suo bersaglio con una letale precisione. Gridò con quanto fiato avesse in gola, scalpitando mentre un soldato la allontanava con forza dal corpo morente della compagna. Fu solo allora, nella penombra di quella notte infernale, prima di perdere i sensi che Gaia vide per la prima volta l'occhio scarlatto di Coley spalancarsi prima di esalare l'ultimo respiro.

 

Gaia si svegliò di scatto mentre la luce della mattina le feriva gli occhi con la sua intensità. Sentì che le lenzuola erano umide per il sudore e che le sue guance bruciavano. Da cinque mesi la ragazza sognava sempre la morte precoce della sua migliore amica.

 

Che sia la mia punizione per averla persa?

 

Lo shock del risveglio presto abbandonò i suoi sensi inibiti e si rese conto che dal piano inferiore della sua casa proveniva un gran vocio di persone. Tutte voci familiari all'udito di Gaia, che stranamente erano tutte riunite in un unico schiamazzo generale. La ragazza ricordò solo allora della strana telefonata di Reeve e comprese al volo che qualcosa era accaduto durante la notte. Gaia scese dal letto e si vestì con fretta, raccattando i primi vestiti che le capitarono sotto tiro; poi raggiunse con velocità la sala, sicura di trovare buona parte dei compagni di Tifa e Cloud.

Ed infatti la sua intuizione non l'aveva tradita. Gaia si fermò sulle scale, osservando con curiosità la sala gremita di persone. Riconobbe subito Cid, seduto sul divano preferito di Cloud e con le gambe appoggiate sul piccolo tavolino che aveva di fronte, intento a discutere con Red, il quale si era sistemato sul morbido tappeto rosso che ornava la stanza. Vicino all'ingresso della casa, Tifa stava animatamente parlando al telefono con qualcuno, molto probabilmente si trattava di Reeve. Cloud era insieme a Barrett e Shelke, la nuova collaboratrice di Reeve.  Barrett sembrava estremamente provato, mentre Shelke cercava di mantenere la calma. Anche Cloud era al telefono con qualcuno, ma sembrava che non ricevesse alcuna risposta dall'altra parte dell'apparecchio: per questo ogni tanto rivolgeva la parola a Shelke.

 

Chissà cos'è capitato? Era da tanto che non si riunivano.

 

Gaia, sentendosi ignorata a causa dell'agitazione che regnava nella casa, sospirò e scese definitivamente le scale. L'unico a notarla fu apparentemente Red, che le rivolse un piccolo cenno con il proprio capo, accompagnato da un lieve scodinzolio della coda. La ragazza rispose al saluto con un movimento sommesso della mano e si diresse verso la cucina per fare colazione. Un'ombra le si piombò davanti, bloccandole la strada. Prima di procedere con gli insulti, alzò lo sguardo per capire chi l'avesse urtata. Si trattava della sorella maggiore, Eve, anch'essa tornata non si sa perchè dal suo viaggio a Corel.

"Cosa ci fai qui Eve?" Gaia domandò, riprendendo i suoi passi verso la cucina. 

"Barrett ha insistito affinché tornassi a casa. Dopo che mamma gli ha telefonato questa mattina presto, non è più lo stesso." Eve seguì la sorella verso la cucina.

"Quindi hai abbandonato gli studi a Corel, senza sapere perchè?"

Eve annuì, evidentemente irritata dalla realtà dei fatti. La sorella di Gaia aveva lasciato casa poche settimane prima per intraprendere una ricerca riguardo i danni ambientali arrecati dal generatore Mako di Corel. Eve non era un genio e non voleva assolutamente intraprendere la carriera di ricercatrice: le interessava semplicemente capire gli effetti negativi dell'uomo sul pianeta, per portare qualche miglioramento alla sua piccola Nibelhime. Il generatore costruito sui monti Nibel sembrava avere molto in comune con quello a Corel. Ma data la sua collocazione estremamente pericolosa, Eve aveva preferito spostarsi a Corel, dove, oltre che a studiare, avrebbe passato un po' di tempo con l'amica Marlene.

Gaia si versò un po' di latte in una tazza e si accomodò a gambe incrociate su di una sedia, poggiando la sua scarsa colazione sul tavolo. Eve fece altrettanto e le due ragazze non parlarono per molto tempo, intente ad ascoltare le discussioni che venivano dalla sala.

 

"Il telefono di Yuffie e di Vincent non è raggiungibile." Cloud sbottò, chiudendo il telefono e buttandolo verso Cid. Il pilota lo prese al volo e lo appoggiò di fianco a se.

"Sicuro di aver composto i numeri giusti?" Shelke gli domandò, controllando la sua rubrica personale.

"Più che certo" Cloud le rispose dirigendosi verso Tifa.

Shelke e Barrett si guardarono in faccia, e si capirono al volo. I due andarono a sedersi nell'altro divano di fronte a Cid, che aveva appena terminato di discutere con Red. Ora tutti gli sguardi erano rivolti verso Tifa, che continuava a parlare con Reeve.

In un primo tempo Tifa non aveva fatto altro che rispondere con molta grinta a Reeve, a volte accompagnando la foga delle sue parola con qualche gesto delle mani. Per tutta la durata della chiamata, la donna non si era mai fermata per un istante, percorrendo avanti ed indietro per diverse volte, tutta la sala. Ora i toni della discussione sembravano scesi e Tifa si stava limitando ad annuire, mostrando un'espressione preoccupata sul volto stanco.

"Reeve, finché non riusciamo a contattare Vincent e Yuffie, non potremo fare molto. Non ci rimane che partire per Wutai, immediatamente." Tifa notò, portandosi una mano sulla fronte.

Cloud la osservò, mostrando un po' di disappunto, poi chiese a Cid di ritentare a contattare i compagni mancanti.

"Non mi interessa se ci vorranno due giorni per arrivare a Wutai, costi quel che costi ci faremo portare da Cid oggi stesso." Tifa sbottò, rialzando il tono della voce.

"Lo so che è pericoloso e quelli della Shinra noteranno di certo i nostri spostamenti con l’Highwind ma.. cosa ci resta da fare?"

Barrett sospirò, e dopo alcuni secondi Cid fece lo stesso, desolato dal suono del telefono che non dava alcun cenno di risposta.

"Non ditemi che voi uomini siete così preoccupati..." Shelke domandò, toccandosi le labbra con l'indice. Cercò di nascondere il suo sorriso, che non era affatto adeguato alla situazione in cui si trovavano.

"Stavo solo pensando a quando arriveremo a Wutai, come dice Tifa" Barrett rispose incrociando le braccia.

"Preoccupato di cosa..?" Red fissò il compagno con curiosità

"Non per me, ma per Yuffie e soprattutto per Vincent."

Red, che sembrava aspettarsi una risposta simile, alzò e riabbassò la coda con un movimento fluido.

"Non accadrà nulla." L'animale affermò con molta calma. Shelke annuì e Barrett tornò a sospirare. Red sapeva che Barrett, nonostante l'amicizia e il rispetto che nutriva verso tutti i suoi compagni, provava un forte timore nei confronti di Vincent. E forse era un po' così per tutti, ma c'era chi cercava di non esternare troppo i propri sentimenti. E Barrett di certo non era fra loro.

"E' quello che si spera Red.." Cid sbottò con il suo tono rozzo, buttando il telefono sul tavolino dove aveva appoggiato i piedi.

 

"Quindi è dalle quattro di questa mattina che mamma è al telefono con Reeve?" Gaia domandò, dopo aver bevuto l'ultimo sorso di latte.

"Così sembra." Eve prese la tazza della sorella e la ripose nel lavandino. Appoggiò le mani sul ripiano della cucina e si voltò verso Gaia.

"Se vogliono andare a Wutai da come abbiamo sentito significa che si tratta di qualcosa di estremamente grave?" Gaia si pronunciò preoccupata, facendo risuonare le sue parole come un dato di fatto più che una domanda.

"Che si tratti di un'altra invasione dei Deepground?" Eve pensò ad alta voce. Gaia stava per dirle che non ne aveva idea, quando sentirono uno squillo di telefono. Stanche per tutta questa faccenda misteriosa, Eve e Gaia lasciarono la cucina, interrompendo la discussione e dirigendosi verso la sala.

 

Tifa salutò immediatamente Reeve, mentre il PHS di Cloud suonava, vibrando sopra il tavolino della sala. Tutti si chinarono verso l'apparecchio.

"Chi risponde?" Cid domandò, accendendosi l'ennesima sigaretta.

Cloud allungò la mano e prese il telefono, portandoselo all'orecchio.

"Cloud, ho visto le tue chiamate perse... c'è qualche problema?"

Tifa e gli altri stavano mangiando con gli occhi la figura di Cloud. L'uomo coprì il microfono del PHS con la mano e guardò i compagni.

"E' Yuffie.." Disse velocemente, prima di tornare al telefono e la sala si riempì di una serie di sospiri di sollievo.

"Abbiamo ricevuto una telefonata da Reeve, riguardo una cosa molto importante. Data la gravità, credo sia meglio trovarci lì a Wutai per parlarne."
"... Una cosa importante? Riguarda il contingente di quei schifosi dei Deepground a Corel? Se è così ne possiamo discutere..."

"No Yuffie, è veramente importante, a tal punto che parlarne al telefono peggiorerebbe le cose."

"..Uhm.. ok.. come vuoi, certo che mi spaventi se parli così."

Cloud chiuse gli occhi. Se Yuffie si era veramente spaventata per questa telefonata insignificante, non osava pensare al dopo.

"Riguarda anche Vincent. E' lì?"

Tutti i presenti nella sala osservarono ancora più preoccupati la figura di Cloud. Yuffie d'altro canto ci mise un po' a rispondere, forse cominciava ad intuire.

".. Sì. Intendo dire che è qui a Wutai. In che senso riguarda anche lui, Cloud?"

"Non preoccuparti Yuffie."

Cloud sentì alcuni gemiti dall'altra parte dell'apparecchio, intuendo che Yuffie era sull'orlo del pianto. Forse aveva davvero intuito.

"Ok... fate presto." La voce tremante di Yuffie sembrava quasi irriconoscibile, e Cloud si sentì un po' a disagio per gli eventi che sarebbero accaduti presto. Prima di riattaccare anch'esso la linea, ascoltò il suono insignificante della linea libera da ogni chiamata. Poi richiuse l'apparecchio e lo posò sul tavolino. Sette paia d’occhi lo stavano scrutando, sette sguardi velati da una misto di timore e curiosità.

Cloud non aveva affatto voglia di perdere tempo a raccontare quella breve chiamata. Non fece altro che voltarsi verso Cid ed ordinargli di andare a riscaldare i motori dell’Highwind. Il pilota si alzò dal divano, e con un urlo animalesco obbedì al comando di Cloud. quando si trattava di intraprendere un volo, Cid saliva sempre al settimo cielo, non importa in che situazione si trovasse.

"Cosa andate a fare a Wutai??" Gaia chiese finalmente, incapace di trattenere la curiosità. Tifa si accorse solo allora che sua figlia era sveglia: l'agitazione l'aveva resa cieca e sorda. Bisognava informare anche le due giovani ragazze dell'accaduto e fu proprio Tifa ad ereditare il delicato compito. La donna si avvicinò alla figlia più piccola, quella che era più legata con Coley. SI inginocchiò, fino a raggiungere la stessa altezza della ragazza, e le poggiò le mani sulle spalle.

"Gaia, tesoro, Reeve ci ha informati di una cosa che rasenta il miracolo." Gli occhi di Tifa brillarono e Gaia osservò con altrettanta intensità la propria madre.

"Cos'è successo?" Gaia mormorò come una macchina.

"La Shinra ha con sé Coley.. lei.. lei è miracolosamente viva..." Tifa pronunciò con calma quelle parole, valutò ogni suono con moderazione, evitando di urtare eccessivamente Gaia. La ragazza rimase immobile mentre i suoi occhi sgranati fissavano un punto indefinito oltre le spalle della madre. Eve si era portata una mano sulla bocca ed aveva lasciato la sala, correndo verso le scale.

Gaia si ritrovò in uno stato di smarrimento totale, lo stesso che la rapiva ogni notte. Quelle parole pronunciate da Tifa erano troppo grosse per essere percepite fino in fondo: invece che sforzarsi nel comprendere ciò che era accaduto, Gaia tornò a rivivere i momenti di quell'orrenda serata dove perse Coley. Il suono dello sparo tornò a fischiarle nelle orecchie, le sembrò di rivedere il sangue che cadeva a cascate dal petto della giovane e credeva di essere di nuovo soffocata dalla stretta di quel soldato che l'aveva trascinata via.

Fu richiamata alla realtà dalla voce insistente della madre. Gaia la fissò, confusa, e cercò con lo sguardo suo padre. Anche lui aveva lasciato la stanza, così come tutti gli altri. Intanto Eve era spuntata dal piano superiore con una borsa ed un paio di guanti da combattimento. Tifa si alzò, lasciando Gaia nel suo stato confusionale.

"Dove credi di andare Eve?"

"Vengo con voi!" la giovane ribatté lanciando la sacca giù per le scale. Il tonfo fece trasalire Gaia che con uno scatto si piombò verso l'esterno della casa. Tifa non sapeva da che parte muoversi.

"Non muoverti, altrimenti saranno guai per te, signorina!" Tifa sgridò Eve, puntandole il dito contro. Poi corse verso l'uscita per rincorrere Gaia.

La ragazzina non aveva raggiunto nemmeno il centro della piazzetta quando venne afferrata dall'abbraccio della madre.

"Lasciami, lasciami!" continuava ad urlare mentre lottava contro la presa di Tifa. La donna, che nonostante l'apparenza era molto forte, non cedeva agli scatti della figlia: mai e poi mai le avrebbe permesso di raggiungere l'aeronave che era posteggiata fuori dalla cittadina.

"Dove vuoi andare Gaia? Il tuo posto è qui! Lascia fare a noi!" Tifa cercava di calmare la furia della figlia.

"Lasciami! Non capisci che è colpa mia se lei è laggiù da sola?" Gaia diede un ultimo strattone alla madre, poi si lasciò cadere a terra. Tifa si sedette di fianco alla figlia, ed osservò con afflizione il suo dolore. Le diede un bacio sul capo, che ogni tanto sobbalzava per il pianto. Tra un singhiozzo e l'altro, Gaia lasciava che le grosse lacrime le portassero via parte del risentimento che le tormentava il cuore.

"Se solo avessi visto che mi stavano puntando con il laser, lei sarebbe ancora qui con me." Gaia urlò. Tifa sorrise e cercò di confortarla.

"Erano venuti appositamente per lei, Gaia, non addossarti delle colpe che non sono tue. Solo noi siamo da biasimare, poiché non le abbiamo offerto la dovuta protezione."

"Non ti preoccupare, presto sarà qui con noi." Eve aveva raggiunto la sorella e la madre, portando con se la borsa e i guanti.

Gaia annuì e si asciugò le lacrime con le maniche.

"Ho bisogno che voi rimaniate qua con Shelke, nel caso Reeve abbia bisogno ancora di noi." Tifa affermò fissando prima Gaia e poi Eve. La figlia più grande sospirò e poi annuì. Dopo alcuni istanti annuì anche Gaia, prima che Tifa le riaccompagnasse in casa.

 

La mattinata al nuovo complesso della Shinra era stato molto movimentata. Rufus aveva indetto una riunione con i vertici Zvet, anticipando parte dei progetti che aveva nel cassetto e che riguardavano i Deepground soldiers. Era stata introdotta la figura di Coley, che presto avrebbe preso parte all'elite dell'esercito più temibile del pianeta. Nessuno aveva contestato le intenzioni di Rufus e la riunione si era conclusa con un breve applauso e una serie di strette di mano soddisfacenti. Anche Hojo aveva assistito all'assemblea, attraverso un monitor dal suo laboratorio. Il professore era sempre più esaltato dalla serie di approvazioni che aveva ricevuto riguardo il suo JEP3-3. Presto gli esperimenti si sarebbero conclusi, perciò bisognava accelerare i tempi, affinché Coley potesse dare prova del suo vero potenziale. Hojo sapeva che l'invulnerabilità di Coley era un nulla al confronto delle potenzialità che la ragazza poteva celare complessivamente. E questo era una certezza, soprattutto dopo la massiccia mutazione che il professore aveva apportato al genoma del suo esperimento.

Lo schermo mostrava ancora Rufus, che accompagnato da Scarlet, continuava a salutare i vertici dello Zvet. Con una specie di grugnito Hojo spense lo schermo e si avviò verso "il Tempio", dove Coley stava riposando. Arrivato sulla passerella sopraelevata, Hojo si rese conto che le luci non erano state spente. Sicuro che non fosse lui il responsabile di una tale dimenticanza, si precipitò zoppicando verso la parte inferiore del laboratorio. La collera lo invase quando vide che la sua assistente si era avvicinata senza alcun permesso al suo speciale esperimento.

Lilian avvertì la presenza del professore e si allontanò dalla barella, mentre Coley la pregava con lo sguardo

di non lasciarla sola.

"Come si permette di entrare qui dentro senza la mia autorizzazione?" Hojo non riuscì a trattenere la sua furia e lanciò un'occhiata terrificante alla sua assistente.

"Mandalo via!" Coley sussurrò a Lilian, prima che ella potesse rispondere all'uomo.

"Avevo dimenticato la mia scheda e ho visto che la ragazza era sveglia, così le ho suggerito di riposare... nient'altro, stavo proprio per andarmene." Lilian rispose e fece per raggiungere le scale quando Hojo sbottò di nuovo.

"Dove va, ora che ho bisogno del suo aiuto?" la donna si fermò ed abbassò lo sguardo. Il professore le fece cenno di tornare indietro, e Lilian obbedì al suo ordine.

"Che non capiti mai più.." Hojo la intimorì pronunciando il suo rimprovero a denti stretti. Lilian annuì senza rivolgere lo sguardo verso quell'uomo disgustante.

"Mi aiuti a immobilizzarla, oggi faremo un nuovo tipo di esperimento."

L’assistente obbedì, con molta esitazione e in un attimo lei e il professore avevano circondato la barella su cui giaceva Coley. La ragazza mostrava già evidenti segni di paura e la situazione degenerò quando Hojo le afferrò i polsi.

"Prenda le caviglie" il professore urlò per sovrastare le grida impaurite di Coley. Lilian deglutì ed eseguì il suo compito. I due sollevarono a fatica il corpo della ragazza, che si dimenava come una pazza e poi lo adagiarono su di una strana sedia, situata in fondo al laboratorio. Hojo e Lilian poterono rilasciare le loro prese solamente dopo avere assicurato alla sedia ogni arto e la vita di Coley.

Mentre il professore preparava alcuni strani elettrodi legati ad una macchina mediante diversi cavi colorati, Coley puntò i suoi occhi scarlatti sulla figura di Lilian. La donna lesse il labiale della giovane, intuendo che le parole mute che le erano indirizzate erano "traditrice, traditrice.."

Hojo le mise in mano gli strani elettrodi e le spiegò come applicarle sul corpo di Coley.

 

Nell'ufficio di Rufus rimasero solo Nero e Rosso, gli ufficiali più importanti dello Zvet. Nero si era appostato nell'angolo più buio della stanza (Rufus riusciva a scrutare solo i suoi occhi rossi), mentre Rosso si erano accomodata senza permesso sulla sedia del presidente.

"Così non solo potremo portare a termine il nostro vecchio piano, ma avremo inoltre un esercito tutto nuovo..." La donna mormorò giocherellando con le biro sulla scrivania di Rufus. Il presidente sogghignò.

"Cosa c'è di male nel voler offrire il meglio ai miei preziosi soldati?"

"Qual'è il tornaconto?" la voce di Nero fece rabbrividire i sensi di Rufus.

"Non siamo stupidi" Rosso aggiunse. 

Rufus si scostò una ciocca di capelli fulvi dal suo viso ed rivolse lo sguardo verso quello di Nero.

"Il professore che dirige questo nuovo esperimento ha accettato ad una condizione." Rufus spiegò guardando anche Rosso. La donna scese dalla lussuosa poltrona e si appoggiò al tavolo rimanendo in piedi.

"Pretende che Coley, una volta terminate le sue osservazioni, possa entrare nello Zvet."

Nero, nascosto nella penombra, sorrise sommessamente mentre Rosso si spostò dalla scrivania portandosi a pochi centimetri da Rufus.

"Entrare nello Zvet?? Senza neanche sapere quali abilità rendano così speciale questo JEP3-3?" Rosso affermò agitando le mani.

"Oggi ci sarà un test e vedremo se si tratta di un fallimento o di asso nella manica." Rufus aggiunse. Rosso portò gli occhi al cielo e sospirò, mentre Nero uscì silenziosamente dalla stanza.

"Aspetteremo i risultati, allora.." Rosso ribatté accodandosi al compagno.

Non appena i due furono usciti, Rufus andò a sedersi sulla sua sedia, stanco per lo sforzo che lo aveva impegnato a lungo. Il monitor della sua scrivania mostrava la vasca vuota, e in quel momento il presidente moriva dalla voglia di sapere che cosa stesse faccende Hojo. Lasciarlo solo era molto pericoloso, ma d'altro canto la ragazza che stava usando nei suoi esperimenti non aveva nulla a che fare con lui, perciò si sentiva, per ora, tranquillo. Appoggiato al fianco del monitor vi era ancora il fascicolo rosso che aveva sfogliato la sera precedente. Rufus allungò la sua mano coperta da un guanto bianco e prese la cartellina.

 

Come può rivelarsi come un fallimento?

 

D'un tratto gli ritornò in mente che forse era meglio fermarsi finché si era in tempo. Se davvero Coley avesse mostrato la sua natura, sarebbero stati all'altezza di controllare i suoi istinti? Creature infernali, iniezioni di Mako, mutazioni... Rufus capiva ben poco di tutto ciò ed aveva dato tutta la sua fiducia in mano ad uomo dalla dubbia reputazione.

 

E se l'esperimento si rivelasse un qualcosa di incontrollabile?

 

Perché Rufus era giunto a scegliere Hojo? Ora il giovane presidente temeva di aver innescato un meccanismo irrefrenabile capace di generare solo caos, invece che benefici al suo conglomerato.

 

Lilian terminò di sistemare l'ultimo elettrodo sul collo di Coley. La ragazzina era molto agitata, gli occhi erano spalancati e velati di lacrime, mentre il respiro si era ridotto a boccate irregolari di ossigeno. Hojo era rivolto verso la macchina da cui partivano i cavi, e teneva in mano una cartellina dove avrebbe annotato tutte le sue osservazioni.

L'assistente si allontanò a malincuore dalla giovane, andandosi a sedere il più lontano possibile dal professore. Hojo, dopo aver premuto diversi bottoni si voltò verso Coley e la guardò. La macchina che aveva azionato produceva un suono inquietante, come se si stesse caricando di energia. Appena il rumore raggiunse le orecchie della ragazza, cessò di respirare e concentrò il suo sguardo verso il professore.

"Più farai resistenza, più soffrirai." Il professore le spiegò sorridendo.

I cavi si irrigidirono, attraversati da una scarica verdastra che andò a colpire gli elettrodi sul corpo della ragazza. Coley urlò, stringendo le mani contro la sedia e chiudendo con forza le palpebre. La tortura cessò dopo pochi istanti, Lilian come al solito non aveva osato osservare e Hojo stava scrivendo freneticamente alcuni appunti sulla sua cartellina. Partì un'altra scarica, più intensa della precedente e Coley si accasciò sulla sedia, apparentemente priva di sensi. Ma il professore non si fermò, terminata la scarica ne fece partire un'altra che non arrivo mai agli elettrodi, poiché la luce saltò, forse a causa di un sovraccarico.

"Cos'è successo?" Lilian chiese spaventata. Il buio della stanza era disarmante e in lontananza si udivano già alcune sirene d'emergenza. La luce aveva lasciato tutto lo stabilimento, forse a causa dell'esperimento in corso. Hojo non rispose ma iniziò a sogghignare, finendo per ridere quasi istericamente. Lilian provò un forte senso di paura e si gettò a tentoni verso la sedia di Coley. Un grosso rumore di vetri e mattoni rotti, una sorta di fracasso rimbombò sino ad assordare i due scienziati.  Dopo il rumore si alzò una ventata di aria fredda poi nel buio qualcosa iniziò a brillare, un qualcosa di verde e di spaventosamente grosso. La sagoma era più imponente di un essere umano e più la donna si avvicinava, più sentiva di doversi fermare e scappare via.

"Che cos'è?" Lilian bisbigliò, fermandosi.

Il professore non le rispose, anzi smise di ridere: Lilian perse così ogni traccia dell'uomo. L'aveva abbandonata in quel laboratorio? Dopotutto Hojo conosceva a memoria tutti i passaggi dei sotterranei. Il silenzio di quella stanza era più assordante che mille voci. Lilian iniziò a fremere dato che la creatura davanti a diventava sempre più grande. Il terreno sotto i piedi della donna iniziò a tremare improvvisamente e l'assistente non riuscì a contenere un urlo di terrore.

 

Quella creatura… è Coley?

 

"Coley?" Lilian chiese con esitazione.

Nessuna risposta, solo un profondo ruggito che fece sobbalzare la povera donna. Qualcosa molto simile a due paia di ali spuntarono da dietro l'essere, e Lilian si portò le mani agli occhi, temendo che la belva misteriosa potesse sbranarla o torturarla. Lilian rimase per qualche minuto immobile, singhiozzando per lo spavento e senza rimuovere le mani da davanti la vista.

"Perfetto..." udì la voce la Hojo poco più distante da dove si trovava. In realtà il professore non aveva mai abbandonato la stanza. Lilian aprì gli occhi e vide che la luce era tornata. La parete sud del laboratorio era stata abbattuta, così come tutti i macchinari che circondavano la sedia dove c'era Coley. La ragazza si era liberata da elettrodi e cinghie ed se ne stava seduta scomposta sul pavimento, mostrando un viso assente e smarrito.

"Cos'è stato?" una voce risuonò nella stanza semidistrutta. Erano diversi soldati, scesi a controllare che tutto fosse sotto controllo.

"Informate il presidente che siamo pronti." Hojo rispose voltandosi e indicando Coley. Lilian sentì che la fine stava per avvicinarsi.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Mother and Father ***


Capitolo 3: mother and father

Yak yak yak… un altro capitolo! Buona lettura!

 

(solito) DISCLAIMER: Square-Enix, Final Fantasy VII e i Linkin Park non sono miei.. ovvio!

 

Capitolo 3:

 

When this began I had nothing to say
And I get lost in the nothingness inside of me
I was confused and I let it all out to find
That I’m not the only person with these things in mind
Inside of me but all the vacancy the words revealed
Is the only real thing that I’ve got left to feel
Nothing to lose just stuck/ hollow and alone
And the fault is my own, and the fault is my own
I wanna heal, I wanna feel what I thought was never real
I wanna let go of the pain I’ve held so long
Erase all the pain till it’s gone
I wanna heal, I wanna feel like I’m close to something real
I wanna find something I’ve wanted all along
Somewhere I belong

 

Somewhere I belong –Linkin Park-

 

Wutai, una delle città più antiche del pianeta. Un paese lontano, bloccato a metà strada tra il passato, fatto di tradizione e leggende, e il futuro, figlio di un’epoca di terrore e conflitti. Il sole del mezzogiorno splendeva alto nel cielo, la sua luce ricadeva come una cascata d’oro sulle case variopinte di rosso e di nero, i colori tipici di Wutai, illuminando le piccole strade ricoperte di ciottoli bianchi e le imponenti montagne rocciose di Da Chao, scolpite a raffigurare le antiche divinità protettrici del villaggio e ricoperte alla base da un fitto bosco.

Cid fece atterrare l’Highwind lontano dalle porte della città, diffidente dell’animo poco ospitale degli abitanti di Wutai. Era meglio evitare contrattempi inutili come sabotaggi o furti.

Tifa varcò le mura di Wutai al fianco di Cloud. Mentre tutti i suoi compagni non indugiarono sul panorama pittoresco che li circondava, Tifa non poté fare a meno di sostarsi per un attimo. I suoi occhi castani si fermarono ad osservare con meraviglia i ciliegi in fiore, che scossi dal vento lasciavano cadere a terra i loro petali rosa. Quei fiori così fragili danzavano a mezz’aria come minuscole ballerine, si facevano cullare dal vento prima di cadere sul terreno, dove la polvere e i passi incauti di molti viaggiatori li avrebbero distrutti per sempre.

 

Che peccato.

 

“Sono belli i ciliegi in fiore, ma quando arriva la stagione calda procurano solo fastidi..” una voce roca echeggiò alle spalle di Tifa. La donna si voltò lentamente e vide una vecchia signora, dai capelli argentati raccolti in una lunga treccia e vestita in un elegante kimono scuro che stava spazzando la strada dai fiori caduti. Il silenzio che regnava in quel momento fu interrotto dalla risata dell’anziana signora, che aveva notato lo stupore di Tifa; malgrado l’interesse per la straniera, la vecchia non smise mai il suo paziente lavoro.

“..Tifa?”

Tifa tornò a girarsi verso il centro del villaggio, e vide che Cloud si era fermato per aspettarla, mentre gli altri erano già andati oltre. La donna annuì e si diresse verso il marito, affrettando il passo per evitare di dare spazio alla sua voglia di osservare i dintorni. Dopotutto non erano venuti per una vacanza, a differenza della maggior parte della gente che decideva di solcare l’oceano per raggiungere Wutai. Dovevano avvertire Yuffie dell’accaduto e per suo rispetto bisognava agire in fretta. Nonostante questo flusso rapido di pensieri, Tifa, dopo aver percorso pochi passi dietro la figura di Cloud, tornò a girarsi dove aveva visto l’anziana. La donna dai capelli argentati se n’era andata, sparita nel nulla, lasciando la strada coperta da un soffice manto di petali rosa.

“Tifa.. cosa c’è?”

Tifa sobbalzò, non appena Cloud le rivolse la parola. Che strana sensazione. Quella visione era stata frutto della sua mente o c’era qualcosa di strano a Wutai?

“Nulla, perdonami.” Tifa si scusò e riprese il cammino passando oltre Cloud. L’uomo la fissò, sbigottito per questo suo strano comportamento, poi s’incamminò anch’esso verso il palazzo.

Wutai portava ancora i segni del lutto per la scomparsa della giovane erede della casata dell’Imperatrice. I pochi passanti che Tifa e Cloud avevano incontrato erano tutti vestiti di scuro, e le strade erano ancora costellate di pali di legno, sopra ai quali erano stati issati dei lunghi drappi neri e bianchi. Il vento scuoteva le insegne funebri con delicatezza e il candore della fioritura dei ciliegi contrastava fortemente con i colori morti del villaggio. Tifa non osservava nemmeno che strada stesse seguendo o dove stesse appoggiando i piedi. Era completamente assorta nel contemplare Wutai, così diversa dalla sua lontana Nibelhime.

 

Wutai è come un ragno: cattura chiunque caschi nella sua tela.

 

Tifa sorrise per il pensiero stupido e riprese a scrutare i luoghi circostanti. Le costruzioni erano molto eleganti e raffinate, realizzate in legno e dai tetti a punta. Dalla finestra semi aperta di una casa vicino a Tifa si affacciò un uomo, vestito di nero anch’esso, che dopo aver squadrato velocemente Cloud richiuse gli scuri, barricandosi all’interno. 

 

Di cosa hanno paura?

 

Anche Cloud notò l’aria di diffidenza che avvolgeva ogni angolo di Wutai. Le strade erano deserte, il silenzio regnava sovrano e il vento continuava a soffiare senza cedimenti, portando con sé uno strano profumo d’incenso e il lontano tintinnio degli scacciaspiriti appesi alle porte di ogni abitazione. Tifa e Cloud proseguirono, sollecitati dall’inquietudine che la calma di Wutai incuteva loro. Le abitazioni divennero sempre più rade fino a sparire, lasciando spazio alla fitta vegetazione del bosco, antecedente alla piazza. In lontananza spiccava già tra le fronde degli alberi, la cima della pagoda, ovvero la torre sede delle cinque divinità di Wutai. Tifa si rattristò sempre più, man mano che la distanza tra lei e Yuffie si accorciava, presagendo che cosa la stesse per attendere. E poi…si depresse perchè i suoi occhi non vedevano più nemmeno un ciliegio in fiore, l’unica cosa incantevolmente dolce in quel momento.

Con un ultimo sforzo, Cloud e Tifa accelerarono il passo e finalmente videro il sentiero allargarsi fino ad accompagnarli davanti la piazza, il centro di Wutai.

“Finalmente!” Cid sbottò con la sua solita sigaretta in bocca, mentre andava incontro ai compagni ritardatari. Anche Barrett lasciò il suo appostamento, ovvero la colonna sinistra che reggeva il gong dorato che scandiva il tempo di Wutai. Red era già davanti l’ingresso del palazzo Imperiale, pronto ad entrare senza tanti indugi.

“Ma dove eravate finiti?” Cid proseguì, trovandosi faccia a faccia con Cloud.

“Colpa mia Cid, mi sono distratta un attimo.” Tifa ammise, scostandosi i capelli dal viso.

Cid rivolse lo sguardo verso l’amica e distese le labbra in un sorriso.

“Andiamo? Sono stanco d’aspettare!” Barrett inveì, avendo già raggiunto Red davanti l’ingresso.

“D’accordo, d’accordo!” Cid rispose con foga mentre buttava a terra la sua sigaretta, pestandola per spegnere il mozzicone.

Fu Cloud a far strada a Cid e Tifa. Quando i cinque furono insieme davanti al palazzo, Cloud fece cenno agli amici di fermarsi e salì la scalinata da solo, percorrendo l’elegante porticato in cedro che conduceva alla porta del palazzo. Ad ogni passo di Cloud, il legno produceva un flebile scricchiolio, accompagnato dalla musica dei campanelli appesi al soffitto, scossi dal vento.

Due guardie, vestite di un’armatura più che splendente, erano appostate di fianco all’imponente portone, dove vi era stato inciso l’emblema intarsiato d’oro di un dragone, probabilmente Leviathan, la divinità protettrice e madre delle leggende di Wutai. Appena videro avvicinarsi l’estraneo, le due sentinelle brandirono le loro lance, incrociandole per sbarrare l’entrata al palazzo.

Cloud aveva già avuto esperienze passate a Wutai: sapeva che certi atteggiamenti o semplicemente certe parole potevano risultare offese enormi all’orecchie di questa gente, e il loro risentimento era capace di provocare conflitti mortali. Gli abitanti di Wutai erano famosi non solo per la loro proverbiale inospitalità ma anche per le loro conoscenze accurate di diverse e letali arti marziali. Perciò Cloud, essendo temporaneamente disarmato doveva calcolare molto bene le sue azioni. Inoltre era sicurissimo che altre guardie, molte guardie, fossero nascoste in luoghi ben protetti, pronte ad attaccare al minimo segno di pericolo.

Si fermò a circa due metri di distanza dai sorveglianti: intuendo la loro impassibilità, Cloud fece il primo tentativo di approccio.

“Sono Cloud Strife, membro del W.R.O. L’Imperatrice era stata avvertita del nostro arrivo e desidera incontrare me e i miei compagni.”  La guardia a sinistra dell’entrata aggrottò le sopracciglia.

“E dovremmo crederti?” la guardia a destra dell’entrata rispose sogghignando.

Cloud alzò gli occhi al cielo e si infilò una mano dentro la sua maglia blu scuro. La guardia a sinistra dell’ingresso strinse la presa sulla sua lancia e fece un passo avanti.

“Cosa fai?” urlò, temendo che Cloud potesse nascondere un’arma all’interno del suo abbigliamento.

Cloud sentì poi un leggero fruscio alle sue spalle: non si voltò perché aveva già capito che altre guardie erano arrivate, pronte a difendere il palazzo dalla sua presenza. In realtà voleva mostrare loro la splendida collana di sfere di materia che Yuffie gli aveva regalato e che portava sempre con : sarebbe stato il suo lasciapassare, la prova inconfutabile della sua amicizia con l’Imperatrice di Wutai. Cloud fu costretto a bloccare ogni movimento quando avvertì che qualcosa di appuntito gli era stato puntato contro la schiena. 

“Sono disarmato, non c’è motivo di agitarsi.” Cloud spiegò parlando lentamente e scandendo ogni parola.

“E’ a posto. Lasciatelo passare.” L’oggetto appuntito si ritirò dalla schiena di Cloud, mentre le guardie dell’ingresso si ritirarono, piegandosi in un profondo inchino.

Cloud si voltò e finalmente vide un volto familiare. Tutte le sentinelle si fecero da una parte, omaggiando il nuovo arrivato.

“Provvidenziale come al solito, Vincent…” Cloud affermò, dopo aver salutato l’amico con un cenno del capo. Vincent si fece di lato, mostrando a Cloud che Tifa e gli altri lo avevano seguito.

“Grazie per Cloud, Vincent” Tifa dichiarò, posando lo sguardo su Vincent.

 

Il tempo non passa per lui.

 

Ed era proprio vero. Vincent non mostrava alcun segno di invecchiamento, era rimasto semplicemente lo stesso. Forse era l’unico vantaggio che Hojo gli aveva procurato dopo tanti, innominabili esperimenti. Tifa lo osservò solo per qualche istante, anche perché sapeva quanto Vincent odiasse essere fissato. Fortunatamente aveva smesso di indossare quei vestiti cenciosi che chissà per quanto tempo aveva portato… nessun mantello, nessun collare, nessuna fascia sulla fronte… solo un’elegante giacca scura con delle rifiniture argentate dal taglio tipicamente orientale e dei lunghi pantaloni neri. Tifa notò che da sotto la manica sinistra pendeva qualcosa di dorato, senza alcun dubbio si trattava del suo guanto metallico.

 

Aveva smesso di indossarlo tanto tempo fa…

 

Tifa cessò la sua contemplazione non appena gli occhi scarlatti di Vincent la osservarono di sfuggita.

 

Impossibile reggere il suo sguardo.

 

“Possiamo entrare allora?” Cid chiese, incalzato da Barrett.

“Abbiamo parlato con Yuffie, c’è qualcosa che dovete sapere.” Cloud si intromise tenendo lo sguardo fisso su Cid. Il pilota mormorò qualcosa e si voltò verso l’apertura sotto il porticato per calmare la sua irrequietezza.

“E’ importante e purtroppo non c’è molto tempo.” Red aggiunse, avanzando con il suo passo felpato verso Vincent.

Tifa tornò a guardare il volto pallido di Vincent, notando con un certo piacere che non vi era alcuna emozione che gli stesse modificando l’espressione, come al solito. La prerogativa di Vincent era la sua leggendaria inespressività.

“Così importante da venire sin qui senza un preavviso decente?” Vincent chiese con la sua voce profondamente calma e piatta.

“Lo sappiamo che Wutai non è incline ali imprevisti.. ma ti prego, portaci da Yuffie..” Tifa mormorò quasi inconsciamente.

Nessuno aprì bocca per qualche istante. Il rumore dei campanelli sotto il porticato interruppe casualmente il silenzio tra i compagni. Le sentinelle si prepararono ad aprire il portone.

“D’accordo..” Vincent rispose quasi bisbigliando. Si voltò velocemente, lasciando che i suoi lunghi capelli neri fossero scossi dal vento, così come la sua lunga giacca.

Tifa, Cloud, Cid, Barrett e Red seguirono in un silenzio quasi rituale Vincent, lasciandosi guidare sino all’interno del palazzo.

 

Un forte tuono scosse le vetrate delle finestre, facendo trasalire Eve da sopra il divano della sala. Gaia si era andata a coricare dopo pranzo, mentre Shelke si era seduta sul tavolo in cucina per lavorare col suo portatile. Il compito di Shelke era quello di intromettersi nel data bank della Shinra e trovare qualche informazione utile su Coley. Impresa impossibile ma comunque degna di un tentativo.

Lo schermo della piccola televisione nel salotto mostrava il notiziario del giorno, l’immagine disturbata dalla tempesta magnetica del temporale. Eve ascoltava senza molta attenzione le notizie, riguardanti gli sviluppi a Midgar e le ennesime promesse improbabili da realizzare da parte dei vertici Shinra.

“Bastardi.. siete solo dei bastardi..” Eve mugugnò dopo aver spento per l’esasperazione la televisione. Lo schermo dell’apparecchio, ora nero e lucido, rifletteva la sua immagine come uno specchio distorto. Eve si alzò dal divano e si diresse in cucina, per vedere i progressi di Shelke. Prima di accomodarsi di fianco alla donna, prese una mela dal portafrutta sul tavolo e la addentò con un grosso morso.

“Niente di nuovo?” Eve chiese, con la bocca piena.

“Cosa?” Shelke domandò, tenendo lo sguardo fissò sullo schermo del computer. Il suo viso era completamente illuminato dalla luce bluastra del monitor.

Eve ingoiò il boccone prima di ripetere la sua domanda.

“Hai scoperto qualcosa di nuovo?”

“Uhm.. no. Entrare negli archivi della Shinra è un vero problema.. troppe password da decifrare.. ci vorranno giorni prima di trovare uno straccio di informazione..”

“Che seccatura..” Eve aggiunse fissando lo schermo ed addentando un altro morso di mela.

“Tua sorella si è ritirata?”

“E’ andata a letto.. l’intera faccenda di Coley è capitata così all’improvviso.. è stato un colpo duro per lei..”  Eve rivelò, sedendosi di fianco a Shelke. Lo sguardo della giovane si posò senza volere sugli occhi velati da un riflesso innaturalmente arancione della ricercatrice. I suoi genitori conoscevano Shelke da molto tempo ormai, ma Eve non aveva mai estrapolato nulla riguardo quel curioso particolare.

“Si riprenderà, non temere..” Shelke affermò, voltandosi verso Eve. La ragazza distolse l’attenzione dal volto di Shelke, ma non abbastanza velocemente da non essere vista dalla donna. Shelke inarcò un sopracciglio, in attesa della fatidica domanda.

“Ma.. i tuoi occhi…” Eve iniziò la frase, bloccandosi all’improvviso.

Shelke sospirò.

“E’ una storia lunga.”

“Scusami, io non..”

“Non ti preoccupare.. sarebbe meglio se andassi a dare un’occhiata a tua sorella..”

Eve annuì e lasciò Shelke al suo lavoro. La ricercatrice si sgranchì le braccia e poi tornò con l’attenzione verso il computer.

 

E’ una storia lunga.

 

Vincent si fermò di fronte ad una porta scorrevole, ricoperta di una sottile carta di riso che raffigurava alcuni ciliegi in fiore adagiati al fianco un bellissimo lago. Tifa mentre attendeva che Vincent aprisse la porta guardò uno per uno i suoi compagni e gli fece capire con il suo sguardo di rimprovero di mantenere la calma più assoluta.

Un leggero fruscio annunciò alla donna che la porta era stata aperta e così entrò nella nuova stanza, seguita dai suoi amici. Vincent attese che tutti fossero entrati e richiuse la porta alle spalle. 

Cloud, il primo ad essere entrato nella stanza, fu di conseguenza il primo a notare la presenza di Yuffie. L’ambiente era privo di ogni arredo, solo una grande camera dove al centro vi era un tavolo molto basso, mentre la parete opposta all’entrata i realtà non c’era, era solamente un specie di colonnato che dava su di uno splendido giardinetto. Yuffie era seduta per terra a gambe piegate, tenendo le mani attorno una tazza di tè fumante appoggiata sul tavolo. La ragazzina solare e intrattenibile, maliziosa e dai modi di fare completamente privi di femminilità era totalmente svanita. Davanti agli occhi di Cloud si trovava una Yuffie diventata donna troppo velocemente ed inasprita dal destino che chissà perché le aveva riservato una vita estremamente difficile. Il vestito nero, in segno di lutto, di Yuffie era bellissimo e parte della gonna copriva tutto il pavimento intorno ad essa.

Cloud notò come Yuffie fosse dimagrita, ed in viso mostrasse evidenti segni di stanchezza fisica, nonostante i suoi lunghi capelli neri cercassero in qualche modo di coprire la sua sofferenza.

Il suono di chiusura della porta attirò l’attenzione di Yuffie che distolse lo sguardo assente dal tavolo verso Cloud e gli altri. I suoi occhi grigi si illuminarono per un attimo.

“Cloud.. così presto..?” le parole di Yuffie furono simili ad un fruscio impercettibile. La giovane Imperatrice si alzò a fatica da terra, facendo segno a Vincent di non preoccuparsi, dato che era già pronto a correre in suo aiuto. Dopo aver ripreso fiato, malgrado avesse compiuto un minimo sforzo, Yuffie si aggiustò il vestito e si avvicinò a Tifa. Un elegante fiocco bianco girava intorno alla vita di Yuffie, e parte di esso ricadeva sullo strascico nero. Tifa notò che praticamente non c’era differenza tra il colore di quel nastro e la carnagione dell’amica.

“Che piacere vederti” Tifa affermò, abbracciando Yuffie.

“E’ lo stesso per me..” Yuffie rispose con un filo di voce.

Notando le difficoltà della giovane Imperatrice, Cid, Barrett e Red si avvicinarono di propria spontanea volontà verso Yuffie. Dopo un paio di abbracci e di saluti, il tempo di rivelare la scomoda verità era arrivato.

“La città porta ancora i segni del lutto…” Red finì la frase sedendosi vicino al porticato. Gli occhi dell’animale indugiarono sui drappi neri che spuntavano dal giardinetto, prima di tornare ad osservare i suoi compagni. Yuffie abbassò lo sguardo, scostandosi da Cid.

“.. già..” fu l’unica parola che uscì dalle sue piccole labbra dopo qualche attimo di esitazione.

“Credo sia tempo di rimuoverli, Yuffie” Cloud aggiunse, fissando lo sguardo sull’amica. Vincent sembrò molto urtato da quelle parole e suoi occhi si spalancarono per un istante, prima che il suo crescente rancore lo facesse sospirare.

“E’ una decisione che non ti riguarda.” Vincent non riuscì a controllare le sue parole. Era strano come l’argomento del lutto di Wutai lo innervosisse a tal punto. Quelle parole nascondevano una sottile minaccia, che fece letteralmente rabbrividire Tifa. La donna infatti guardò Cloud e gli lanciò uno dei suoi soliti sguardi di rimprovero.

 

Non dare ordini Cloud, non qui e non con Vincent.

 

Yuffie era rimasta immobile, le mani raccolte in un pugno e i suoi occhi persi a fissare il vuoto.

Cid avrebbe voluto urlare e mettere fine a quella straziante ansia, dire a chiare lettere e senza tanti giri di parole che Coley, l’unica erede della casata imperiale, era viva. Salva, ma comunque nelle mani sbagliate, sola e… sotto un certo punto di vista indifesa. Barrett invece era rimasto silenzioso per quasi tutto il tempo, evitando battute o frasi “colorite”. Il grande Barrett risentiva in questo modo la grande angoscia che riguardava la sorte di Coley.

“Reeve ci ha chiamato, ieri. Ha detto che si era incontrato con una donna del reparto ricerche scientifiche della Shinra. La ricercatrice aveva dei risentimenti riguardo un progetto che il presidente del conglomerato sta portando avanti.” Tifa spiegò, avvicinandosi a Yuffie. La giovane Imperatrice alzò gli occhi verso la figura rassicurante di Tifa.

“Ricerche scientifiche? Cosa c’entra con Wutai?” Yuffie domandò.

“Ecco... che la Shinra stesse sviluppando nuovi programmi non era una novità. Reeve ci ha contattato per un altro motivo.” Tifa spiegò ulteriormente. Yuffie ascoltò l’amica mentre tornava a sedersi con lentezza dove si era accomodata in precedenza. Red la osservò con attenzione mentre appoggiava le sue sottili dita ossute attorno la tazza da tè. Tifa non si preoccupò di accertarsi che Yuffie le stesse dando ascolto. Era certa che le sue parole sarebbero state udite al volo.

“Rufus sta lavorando con i Deepground Soldiers e lo Zvet, perché vogliono realizzare un nuovo esercito composto da uomini indistruttibili o immortali chiamateli come volete.. quelli sono pazzi” Cid prese la parola al posto di Tifa. Il pilota era rimasto vicino all’entrata della stanza, al fianco di Vincent.     

“Cosa c’entra con Wutai..?” la voce di Yuffie tremò nel ripetere la domanda. Sapeva che Cloud e tutti i suoi vecchi compagni dell’Avalanche non si sarebbero presi un così grosso disturbo solamente per comunicare degli sviluppi di poco rilievo per il suo interesse e quello della sua gente.

Barrett emise una specie di grugnito e si avvicinò a Yuffie. La fissò dritto negli occhi prima di parlare.

“Usano Coley per gli esperimenti. Quei bastardi l’ hanno presa, l’hanno curata e ora la usano come cavia per i loro dannati esperimenti…” la voce roca di Barrett urtò l’udito di tutti i presenti. Tifa lo guardò, sbiancando per la poca raffinatezza che il suo compagno aveva mostrato nel riferire una notizia così delicata. Cloud non si mosse, mentre Red dopo uno sbuffo si acquattò a terra.

Yuffie fece cadere la tazza che dopo aver rotolato sopra il tavolo riversando tutto il suo contenuto, cadde a terra frantumandosi. Le sue mani rimasero così com’erano, raccolte a sostenere la tazza, tremanti ed instabili. Le guance divennero rosse e gli occhi fecero altrettanto. Ma la giovane Imperatrice non parlò e non si alzò dal suo posto. Sembrava quasi che stesse attraversando una fase di completa incoscienza dovuta allo shock. Cid non faceva altro che alternare il suo sguardo da Yuffie a Vincent poi viceversa, fino a che non si fermò sull’immagine imponente di quest’ultimo.

Accadde all’improvviso, come era sempre stato d’altro canto. Vincent aveva udito con fin troppa chiarezza la frase di Barrett. Coley era viva. La sua unica ragione di vita era ancora viva. Respirò profondamente ed abbassò le palpebre, che gli oscurarono la vista per pochi decimi di secondo. Ma quell’arco brevissimo di tempo fu sufficiente al demone che dormiva assopito nella sua mente per risvegliarsi, urtato dalle forti emozioni che avevano colpito Vincent. Chaos, la sua parte nascosta non usava parole che gli umani potessero comprendere o sentire. Perciò comunicava attraverso immagini ed emozioni. 

Vincent chiuse gli occhi e si trovò perso nell’abisso oscuro, dimora degli incubi grotteschi di Chaos.

 

“Papà?” una voce infantile, estremamente squillante raggiunse l’udito di Vincent. L’uomo aprì gli occhi e si ritrovò in un luogo indefinito, senza pareti o soffitto, immerso in una fitta nebbia. La voce era indubbiamente quella di Coley e Vincent, incapace di individuare da dove lo stessero chiamando, provò un forte senso di panico.

“Papà?” la voce si faceva sempre più impaurita, e Vincent scoprì di non potersi muovere. La volontà c’era ma il suo corpo non rispondeva.

“Papa!” ora la voce si era ridotta ad un urlo e Vincent ribolliva dalla rabbia e dall’angoscia per non potersi muoversi.

“Smettila!” gridò, rivolto a Chaos, il responsabile di questa temporanea immobilità. Ripeté alcune volte la sua richiesta, sempre gridando per l’esasperazione, poi d’un tratto il demone iniziò a ridere. Una risata agghiacciante che rimbombava nell’aria di quel luogo infinito e si prendeva scherno della sofferenza di Vincent.

Quando anche l’ultimo degli eco della risata di Chaos si fu assopito, la nebbia si dileguò rivelando agli occhi di Vincent la figura di Coley, inginocchiata a terra mentre piangeva a dirotto. Era più piccola, dimostrava all’incirca cinque anni. Perché Chaos aveva scelto di fargli incontrare Coley da bambina, era un mistero che la mente di Vincent non riuscì a comprendere. Ma poco importava, perché la gioia di riaverla davanti a sé era troppo grande per lasciare spazio alla razionalità. Finalmente i piedi si mossero e Vincent si precipitò verso la sua bambina. La prese in braccio e la strinse a sé con forza, baciandola sul suo piccolo capo, ricoperto da folti capelli scuri che profumavano di vaniglia.

Non appena Vincent aveva stretto Coley, la bambina cessò di singhiozzare. Aveva allungato la sue piccole braccia lungo la schiena del padre e si era raggomitolata in cerca di riparo dato che qualcosa di apparentemente invisibile la stava spaventando a morte. La calma della bambina tranquillizzò Vincent, fino a che il silenzio prolungato della piccola non tornò ad impensierirlo. Infatti quell’attimo che era sembrato così reale, si era dimostrato troppo bello per essere frutto della mente di Chaos. Vincent allentò l’abbraccio su Coley e il suo minuscolo capo cadde a peso morto all’indietro. Anche le braccia della piccola avevano rilasciato la presa sulla schiena di Vincent.

Avrà perso conoscenza. Forse lo shock del pianto l ’ha provata eccessivamente.

Poi gli occhi di Vincent videro che il petto della bambina non si muoveva, che le sua labbra diventavano violastre e che la pelle stava scolorendo fino diventare più bianca della neve. Coley era morta. Ora il suo volto infantile riprese una sembianza più adulta, e Vincent si trovò a stringere tra la braccia il corpo adolescente di Coley, lo stesso freddato da un proiettile lanciato da un soldato a Nibelhime. La ferita sul petto perdeva molto sangue e stava sporcando tutti i vestiti di Vincent: l’uomo adagiò a terra il corpo della ragazzina, cercando di non urtarla.

Il dolore fu così forte che non c’erano parole per descrivere la crudeltà di Chaos. Vedere morire una seconda volta Coley, seppur in sogno, davanti ai propri occhi era una empietà che Vincent non riuscì a tollerare. Sfiorò il volto freddo della figlia e si accasciò accanto a lei, mentre la voce bestiale di Chaos gli sussurrava frasi atroci.

“La perderai di nuovo.”

 

Vincent riaprì gli occhi istintivamente, avvertendo che il suo cuore batteva così forte che avrebbe potuto sfondargli il torace da un momento all’altro. Il suo respiro era diventato affannoso, persino Cid se n’era reso conto. Nell’incubo di Vincent sembrava essere passato molto tempo: in realtà il tutto era durato meno di un battito di ciglio.

La sua mente stanca e eccessivamente sovraccarica di emozioni fu attirata dall’immagine di Yuffie. La giovane Imperatrice lasciò cadere lungo i suoi fianchi le mani, abbassando la testa fino a che il mento non le toccò il petto. Tifa si riprese dall’attimo di stasi che l’aveva colta dopo le parole di Barrett e si inginocchiò di fianco a Yuffie, posandole una mano sulla spalla. Percepì che il corpo dell’amica era un totale tremore.

“Credevo che la morte di Coley fosse una punizione che mi era stata inflitta per non aver sposato l’erede designato da mio padre…” Yuffie cercò di parlare tra un singhiozzo e l’altro. Le grosse lacrime che le scendevano dalle guance cadevano sul tavolo, mischiandosi alla pozzanghera di tè che si era formata dopo la caduta della tazza.

“Oh almeno così mio padre è riuscito a farmi credere per tutto questo tempo…”

“Yuffie..” Tifa mormorò, sentendo che tra poco il pianto l’avrebbe vinta.

Ma la disperazione di Yuffie durò ben poco. Si alzò di scatto, rischiando di far cadere Tifa. Parte della stanchezza sembrò dileguarsi e con diversi gesti di stizza Yuffie si slacciò il suo fiocco bianco, lasciando che la veste superiore del suo vestito, quella nera, ricadesse dalle sue spalle e finisse a terra con un tonfo. Il suo abito nero, il suo modo di esprimere esteriormente il lutto che l’aveva colpita per aver perso la sua unica figlia, giaceva ora a terra lontano dal suo corpo, per la prima volta dopo cinque mesi. Yuffie diede un calcio al vestito ed ignorò i vari giramenti di testa che la facevano barcollare. L’equilibrio le venne meno ed emise un grido sommesso. Vincent non indugiò e con la sua velocità quasi disumana anticipò i movimenti di ogni presente nella stanza ed afferrò Yuffie.

“Dateci un attimo, per favore.” Vincent chiese mentre poggiava la sua mano destra sul capo di Yuffie, stringendola a sé. Cloud annuì e fece strada ai compagni che lasciarono la stanza in un attimo.

 

 

Coley si risvegliò a fatica. Tutto il suo corpo era indolenzito, specialmente nella parte alta della schiena. Una stretta fasciatura lungo il petto le impediva di respirare senza fatica. La luminosità della stanza era abbagliante o forse erano i suoi occhi che a forza di essere stati al contatto col buio del laboratorio S10, avevano perso il ricordo della luce. Con sua sorpresa Coley notò che non c’erano cinghie o catene che la stessero legando al letto su cui era stata adagiata. A dir la verità, da quel poco che poteva vedere stesa com’era, l’ambiente sembrava diverso da quello in cui aveva passato gli ultimi cinque mesi. Coley ricordava poco o nulla dei momenti precedenti al risveglio. Si ricordava delle scosse, del volto sadico di Hojo mentre la osservava durante l’esperimento e ricordava anche gli occhi impauriti di Lilian. Il resto erano solo ricordi confusi, brandelli di sensazioni e suoni che aveva provato in quegli attimi ambigui.

“Buongiorno..” una voce femminile la salutò dal fondo della nuova stanza. Coley si alzò con velocità, rimpiangendo la sua foga a causa del dolore che ne seguì. L’abbigliamento era quello dei Deepground Soldiers, eccetto per uno strano mantello rosso che partiva dalla vita della nuova arrivata ed altri abbellimenti del medesimo colore. Sul petto della donna c’era una zeta, circondata da una fiamma.

 

E’ un membro Zvet..

 

Coley si rannicchiò sul letto contro la parete, intuendo l’ennesimo pericolo rappresentato da quell’ufficiale.

“E’ un piacere incontrarti di persona… il mio nome è Rosso.” La donna si presentò camminando verso Coley e porgendole la mano.

Coley fissò con i suoi occhi scarlatti la mano di Rosso, rifiutandosi di scambiare il saluto.

“Hai degli occhi splendidi, ragazza mia, complimenti.” Rosso affermò ritirando la mano. Coley continuò a fissare la donna, sforzandosi di capire se era veramente un soggetto pericoloso o no. Passarono alcuni attimi di silenzio e Rosso si voltò diverse volte verso uno strano specchio in fondo alla stanza.

“Dove sono? Hojo se n’è andato?” Coley chiese con diffidenza.

La donna distolse l’attenzione dallo specchio e fissò la ragazzina.

“Per ora, il professore non c’è”

Coley sospirò e si distese, acquistando una posizione più rilassata. Si spinse lentamente fuori dal letto e posò i piedi nudi sul pavimento freddo. Sentiva dei crampi ovunque e una volta in piedi notò che aveva lasciato due grosse scie rosse sul suo giaciglio, proprio all’altezza dalla schiena, la parte del corpo che più le doleva.

Tenendo sempre le dovute distanza da Rosso, Coley percorse il perimetro della stanza quadrata, realizzando che era fornita di un letto, una piccola scrivania, un lavandino con sopra uno specchio appesa alla parete, un piccolo armadietto. Opposto al letto vi era questa strana parete-specchio, inquietante e gigantesca. A sinistra c’era la porta d’ingresso della stanza.

Rosso non si mosse dal centro della stanza ed osservò i movimenti accorti della ragazzina. Coley scrutava ogni cosa con maniacale attenzione, ignorando che fosse osservata non solo dall’ufficiale Zvet che aveva conosciuto qualche attimo prima, ma anche da altri estranei.

 

“E’ curiosa, si muove con circospezione, senza impeto o panico. È un’ottima peculiarità.” Lilian osservò, seduta nella sua postazione dietro lo specchio a due vie che dava sulla stanza. Hojo mormorò qualcosa, accomodato al fianco della sua assistente mentre Scarlet si limitava ad osservare con curiosità la scena alle spalle dei due.

“Sarà perché ormai è avvezza a questi posti così tristi e sterili.” Scarlet sbottò, provocando una strana reazione da parte dei due scienziati. Sia Hojo che Lilian si voltarono verso la donna, mostrando un viso più che irritato.

“Ok, ok… non parlerò più..” Scarlet rispose con altrettanta scocciatura.

Coley in quell’istante si fermò davanti alla parete specchio, incuriosita dal riflesso della sua immagine.

“Riesce a vederci? Ci ha visto?” Scarlet chiese un po’ agitata.

“No.” Risposero all’unisono i suoi due colleghi.

 

Coley guardò lo specchio e notò che in questi cinque mesi era dimagrita molto, ed aveva assunto un’aria più matura. Tra l’altro le sue iridi avevano acquistato entrambe il medesimo, spaventoso colore scarlatto: nessun ciuffo ora avrebbe potuto nascondere quella maledizione. Ciò comunque non le diminuì la curiosità di sapere come mai ci fosse un arredo così particolare all’interno della stanza.

“Che cos’è?” Coley chiese, voltando il viso verso Rosso.

La donna fece spallucce e si portò una mano all’orecchio.

 

Hojo allungò la sua mano viscida sulla console davanti a sé e premette un pulsante, avvicinando la sua bocca verso un microfono.

“Rosso, dille che si tratta di uno specchio per allenarsi.” Hojo terminò la frase rilasciando il pulsante.

 

A quel punto, Rosso tolse la mano dall’orecchio, quello in cui nascondeva con una ciocca di capelli fulvi l’auricolare grazie al quale si teneva in contatto con l’altra parte dello specchio.

“Serve per esercitarsi, così potrai notare tu stessa i progressi dei tuoi allenamenti.”

“Progressi? Allenamenti? Nessuno me ne ha mai parlato..” Coley domandò voltandosi completamente verso Rosso.

“Presto entrerai a far parte di un gruppo speciale ed unico, ma solo se dimostrerai di esserne all’altezza.” Rosso spiegò portandosi verso la porta d’uscita della stanzetta.

“E cosa succede se mi rifiutassi?” Coley chiese, corrucciando la fronte.

“Morirai.” Rosso sorrise, salutando con la mano la ragazza e lasciando la stanza.

Coley rimase sola, meravigliata da ciò che le era stato detto. Lanciò un calcio contro la parete, procurandosi un brutto taglio sulle dita dei piedi. Avrebbe voluto continuare a sfogarsi in quel modo, soffocando la sua rabbia nel dolore fisico ma le luci si spensero all’improvviso, obbligandola a fermarsi. Tornò, con molta difficoltà, verso il letto dove si sdraiò cercando di dimenticare la realtà con il sonno.

 

 

La stanza era avvolta dal silenzio, interrotto di tanto in tanto dai gemiti di Yuffie. Vincent la teneva stretta a sé con un abbraccio, cercando di tranquillizzarla con alcune parole di conforto.

La sottoveste bianca di Yuffie mostrava ora la magrezza del suo fisico, che era deperito sempre di più dopo la presunta morte di Coley.

“Aveva detto che era colpa mia, invece di rassicurarmi.. ha detto che me lo meritavo per averti dato una figlia invece che sposarmi con l’erede designato da lui stesso…” Yuffie continuava a mormorare con il volto sprofondato contro il petto di Vincent.

“Il dolore che ci ha colpiti deve aver accecato anche la sua ragione…” Yuffie ascoltò le parole di Vincent e si scostò dal suo abbraccio. Fissò i suoi occhi scarlatti, profondi, velati di rammarico e d’un tratto si sentì più forte. Yuffie voleva essere altrettanto coraggiosa come Vincent, voleva imparare a controllare le emozioni come lui. La giovane Imperatrice si asciugò le lacrime e si piegò per raccogliere la veste nera che aveva buttato a terra.

“Ciò non giustifica le parole di mio padre.”

Vincent inspirò profondamente, realizzando che Chaos non si era ancora assopito del tutto. Con il passare degli anni e la realizzazione di una vita più tranquilla e serena, Vincent aveva imparato a controllare parte dei demoni che costituivano una porzione nascosta della sua personalità. Solo Chaos continuava a persistere, risvegliando le sue abilità nei momenti più difficili, come quelli che avevano seguito la scomparsa di Coley.

Vincent sentì ancora una volta uno strano senso di stanchezza e socchiuse gli occhi.

 

Yuffie era sparita, davanti a lui nella stessa stanza in cui si trovava apparve Coley, vestita in un bellissimo abito rosso. La ragazza fece alcuni passi verso il padre, sorridendo come poche volte aveva fatto. Quando i due furono a pochi centimetri di distanza, Coley si portò le mani al volto, iniziando ad urlare. Vincent alzò lo sguardo e vide con orrore che la stanza si stava riempiendo di sangue, sgorgato all’improvviso dalle pareti.

 

“Vincent?” Yuffie domandò, vedendo che il suo compagno si era distratto.

Vincent si portò una mano sulla fronte, scostandosi parte dei capelli. Chaos stava tornando insidioso come in passato e per Vincent voleva dire guai in vista. Guai grossi.

“Stai bene?” Yuffie chiese, avvicinandosi all’uomo con aria preoccupata.

Vincent cercò di deviare immediatamente il discorso perché non voleva mettere in apprensione ulteriormente la compagna. Annuì e si scusò per essersi distratto.

“Stavo dicendo… sarà una notizia affidabile?” Yuffie chiese.

“Conosco molto bene Reeve e non fornirebbe informazioni di nessun tipo senza averne provato la fondatezza.” Yuffie si sentì sollevata dalle parole di Vincent e si lasciò accarezzare il volto dal suo compagno.

“Possiamo starne certi.”

La giovane annuì e portò la sua mano sopra quella di Vincent.

“Ti senti meglio ora?” le domandò giocando con i capelli.

Yuffie tornò ad annuire.

Vincent lasciò il volto della compagna e si diresse verso la porta. Yuffie sospirò, e fissò la figura imponente di Vincent lasciare la stanza. 

 

“Barrett devi controllarti! Siamo stati fortunati se le cose sono andate così…” Tifa rimproverò il suo amico puntandogli contro l’indice della mano.

Barrett sbuffò e si allontanò dal resto gruppo, camminando verso la fine del corridoio in cui erano usciti. Cid si accese una sigaretta e dopo aver inspirato una boccata di fumo si sentì subito meglio. Cloud aveva osservato con indifferenza il rimprovero che la moglie aveva lanciato verso Barrett, anche se era pienamente d’accordo con lei. In qualche modo Cloud sembrava il più tranquillo, perché aveva compreso i sentimenti di Yuffie e Vincent. Così come loro stavano soffrendo per la perdita di Coley anche Cloud aveva portato per molto tempo nel cuore una simile angoscia dovuta alla perdita di Aeris.

Red non lasciò che Tifa terminasse la sua frase rivolta a Barrett ma si intromise nel discorso, dopo che si era ricordato di un particolare.

“Non abbiamo detto loro che di mezzo c’è sempre Hojo…” l’animale affermò, posando il suo sguardo prima sulla donna poi su Cloud.

Cid mormorò qualcosa e ne seguì un rumore leggero.

Vincent era riapparso sulla porta, a braccia conserte, mostrando un’espressione rilassata. Pareva che non avesse udito l’ultima affermazione di Red.

“Sta bene Yuffie?” Cid domandò per dare tempo agli amici di riprendersi dallo spavento. Se Vincent avesse udito le parole di Red…

Vincent annuì e fece cenno di rientrare. Aspettò sulla soglia che ognuno entrasse e quando al suo fianco passò Cid, Vincent allungò un braccio, sbarrando la strada al pilota.

“Che cosa ho fatto adesso?” Cid chiese esasperato.

Vincent fece una smorfia di disapprovazione ed afferrò la sigaretta del compagno. La buttò a terra e gli indicò di spegnerla. Cid sbuffò ma notando l’irremovibilità del braccio di Vincent fu costretto ad obbedire.

“Contento ora?”

“Entra.”

Cid poté finalmente procedere all’interno della stanza, mugugnando frasi di irritazione tra sé e sé.

 

Yuffie era rivolta verso il giardinetto, tenendo fra le mani il vestito nero che avevo ripiegato. Lasciò che il vento le scompigliasse i capelli e poi si voltò verso gli amici.

“Vi ringrazio, per quello che avete fatto.”

Tifa sorrise, contenta nel vedere che l’espressione di Yuffie si era rilassata.

“Vi aiuteremo a recuperare Coley, ma prima bisogna stabilire come agire.” Red affermò, avvicinandosi alla giovane Imperatrice. L’animale aveva ragione. Non si poteva pretendere di salvare la ragazza se prima non ci si era organizzati a dovere: le difese di Midgar erano preparate a difendere alla perfezione il conglomerato dagli intrusi.“C’è qualcosa però che dovreste sapere, prima di terminare questo colloquio..” Cloud si intromise.

 

« A dirigere l’orchestra è Hojo » Cid sbottò.

 

 

Hojo uscì dalla sala controllo nascosta dietro lo specchio, accompagnato da Lilian e Scarlet, che lo lasciarono subito ai suoi impegni. Lo scienziato si era assicurato che Coley si fosse calmata e dopo aver compilato la cartellina dove annotava i progressi dalla sua JEP3-3, decise di fare una visita al presidente. Hojo percorse diversi corridoi, tutti illuminati dalla medesima luce viola e tutti maleodoranti di cloro. Si portò verso gli ascensori e si accomodò dentro al numero uno, digitando l’ultimo piano, ovvero l’ufficio del presidente.

Lo scienziato osservò dalla vetrata dell’ascensore il panorama di Midgar, che si rimpiccioliva man mano che saliva di piano.

 

Un giorno sarà tutto mio.

 

Un tintinnio elegante segnalò all’uomo che era arrivato a destinazione, poi le porte si aprirono lentamente. Hojo entrò nell’ufficio senza bussare, aprendo con impeto le porte che sbatterono per la spinta ricevuta.

Rufus alzò lo sguardo dalla scrivania, disturbato dall’improvviso rumore. Una sagoma scura, dall’andatura zoppicante si avvicinò, schiarendo i propri lineamenti ad ogni passo verso la luce che filtrava dai vetri alle spalle del presidente.

Capelli scuri, lunghi e raccolti; fronte larga e spaziosa; occhiali da vista dalle lenti spesse e un camice bianco che recava un cartellino d’identificazione per i dipendenti della Shinra. Indubbiamente si trattava Hojo. Era curioso poterlo vedere a quell’ora del giorno fuori dai suoi laboratori.

Rufus posò la biro con cui stava firmando un foglio, appoggiò i gomiti sulla scrivania, incrociò le mani e pose il viso contro esse. La sua espressione, calma e severa, indicò a Hojo che era pronto all’ascolto.

“Ho bisogno di una cosa per proseguire con sicurezza il progetto JEP3-3” il professore dichiarò, sibilando come un serpente.

“Cosa?”

“Materia.”

Rufus sogghignò e si appoggiò contro lo schienale della sua sedia, accavallando le gambe.

“Te n’abbiamo fornito a sufficienza prima di iniziare gli interventi sulla ragazza.”

“Non ho bisogno di materia ordinaria.” Hojo rispose sbattendo una mano sulla scrivania. Tutti gli oggetti sopra di essa sobbalzarono e Rufus osservò indignato la reazione dell’uomo.

“Di che materia hai bisogno allora?”

Hojo si riaggiustò gli occhiali e fissò il presidente.

“Materia di restrizione.”

Rufus sembrò sbalordito da quella richiesta. Materia di restrizione? Non esisteva alcun tipo di quella materia. Che il professore stesse delirando con le sue eccessive mire di conoscenza?

“E’ la prima volta che ne sento parlare”

Hojo emise una specie di grugnito, forse si aspettava una simile risposta. Dopotutto Rufus era un uomo troppo stolto rispetto a lui, ignorante e privo d’ogni senso d’intuizione. O almeno era quello che pensava il professore.

“Si trova a Nibelhime, in un posto di mia conoscenza. Ho bisogno di partire per recuperarla.”

“Non puoi partire lasciando sola JEP3-3. Manderò qualcuno a prenderla al tuo posto.” Rufus rispose allungando una mano sul telefono. Hojo lo anticipò e prima che il presidente potesse sollevare la cornetta, lo scienziato aveva già posto una mano per fermare i movimenti di Rufus.

“SOLO io, so dove e come recuperarla.”

Il presidente tenne lo sguardo sulla mano fredda di Hojo, irritato dalla sua mania di comandare anche i suoi superiori.

“Non ci andrai da solo. Non mi fido.” Rufus rispose, togliendo la propria mano dalla stretta di Hojo. Compose un numero sulla tastiera del telefono e si portò la cornetta all’orecchio. Nonostante lo scienziato avesse ottenuto ciò che chiedeva, lasciò la stanza adirato, poiché avrebbe desiderato compiere i suoi lavori da solo, senza essere disturbato da scienziati o soldati.

I suoi passi pesanti trascinarono il suo corpo verso i laboratori, dove Hojo avrebbe potuto sfogare la sua rabbia su qualche sfortunato soggetto vittima delle sue strane ricerche. Lilian, che era tornata a sedersi nella sua postazione davanti l’entrata del laboratorio era al telefono con qualcuno. Non appena vide la figura di Hojo piombarsi con insolita velocità verso di lei, riattaccò la cornetta.

“E’ successo qualcosa, professore?” domandò con stupore verso il suo superiore.

“Informami quando il caro presidente chiamerà per il mio trasporto a Nibelhime.” Hojo affermò con grinta. Lilian annuì, ma lo scienziato non si fermò nemmeno per assicurarsi che l’assistente avesse capito: estratta la carta che teneva nel camice, aprì la porta del laboratorio ed entrò.

Lilian fece spallucce e tornò a concentrarsi sul telefono.

 

 

“Vincent aspetta!” Cloud tuonò nel vedere il suo amico precipitarsi all’esterno della stanza, pericolosamente adirato.

“Cloud no!” Yuffie gridò correndo verso il suo amico, che era già pronto a rincorrere Vincent.

“Lascialo stare.. dagli del tempo per calmarsi.. te ne prego..” Yuffie supplicò Cloud, appoggiando le sue esili mani sul petto del guerriero. Cloud, che aveva fissato per tutto il tempo la porta distrutta dall’impeto di Vincent, abbassò gli occhi sulla figura dell’Imperatrice. Tifa, Cid e Red sapevano che una reazione del genere avrebbe infervorato l’animo di Vincent, dopotutto aveva ragione per essere adirato. Anche Barrett se l’era aspettato, sperando che però si potesse evitare. E invece non fu così. Ognuno si concentrò su se stesso, lasciando che le loro menti vagassero tra il flusso di eventi che si erano susseguiti con velocità.

Delle guardie arrivarono davanti la porta distrutta, senza entrare nella stanza dove Yuffie e gli ex membri Avalanche si erano fermati.

“Altezza.. vuole che lo seguiamo?” una delle guardie si rivolse a Yuffie, puntando un dito verso il corridoio in cui si era sostato. Le altre guardie si erano perse nel fissare gli effetti dell’ira di Vincent.

Yuffie sospirò e scosse la testa.

“Fate solo attenzione che nessuno si faccia del male.”

Le guardie salutarono l’Imperatrice con un inchino e lasciarono il corridoio. 

“Forse è meglio se vi mostro dove potete riposarvi. Io andrò a parlare con mio padre intanto.” Yuffie si scostò da Cloud, che si era ripreso dall’urto. L’Imperatrice, tenendo sempre tra le mani la veste nera, accompagnò i suoi amici in un’altra ala del palazzo, dove vi erano le stanze per gli ospiti. Una volta salutati, Yuffie si precipitò verso la Pagoda, dove sapeva per certo di trovare il padre, ancora ignaro della notizia portata da Tifa e gli altri.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Calm before the storm ***


Capitolo 4: calm before the storm

Che bello! C’è qualcuno che si interessa alla mia storia! Grazie dastrea J! Tra l’altro, ogni volta che la rileggo mi rendo conto di quanto io sia contorta… Mah! E siamo solo all’inizio, chissà come andrà finire! Buona lettura!

 

Disclaimer: Square-Enix e Final Fantasy VII NON sono miei… damage!

 

Capitolo 4:

 

Memories consume
Like opening the wound
I'm picking me apart again
You all assume
I'm safe here in my room
Unless I try to start again
I don't want to be the one
The battles always choose
'Cause inside I realize
That I'm the one confused
I don't know what's worth fighting for
Or why I have to scream
I don't know why I instigate
And say what I don't mean
I don't know how I got this way
I know it's not alright
So I'm breaking the habit
I'm breaking the habit
Tonight

 

Breaking the habit –Linkin Park-

 

Il controllo.

Una parola che in quel momento era estranea alla mente di Vincent.

Gli era bastato ascoltare un nome per perdere quell’equilibrio così precario che aveva imparato a mantenere con molti sforzi. Non appena la labbra di Cid emisero quelle due sillabe, Ho-jo, Vincent sentì che qualcosa di orrendamente potente lo stava per assalire. Partì dai piedi, salì per le gambe, gli avvolse il petto e gli fece affondare il cuore. La vista si annebbiò, la testa cominciò a girare, il respiro a mancare. Sembrò che la stanza ed i suoi muri di legno si fossero incrinati, che le colonne si fossero frantumate mentre un terribile ruggito, o piuttosto un urlo, uno strillo feroce gli aveva fatto contrarre i timpani, che si erano frantumati.

Chaos era ovunque ma allo stesso tempo da nessuna parte. Solo Vincent avvertiva quei bizzarri cambiamenti dell’ambiente e quelle sensazioni estreme. Il demone aveva spezzato le catene che lo avevano relegato nel suo profondo, spalancando le porte dell’inferno e facendolo precipitare al suo interno.

C’era poco tempo per pensare e non c’era più niente da fare, perchè quel briciolo di coscienza rimasto presto se ne sarebbe andato completamente, dando il via libera al demone che si sarebbe impossessato di Vincent.

Avvertiva il bisogno disperato di nascondersi, prima di perdere completamente quel poco di umano che gli rimaneva, prima di fare del male alle persone più care che aveva.

L’istinto gli ordinò di fuggire e Vincent lasciò la stanza, abbattendo la porta e correndo verso l’uscita. Le guardie ferme sotto il porticato che lo videro non mossero un passo, coscienti dello stato in cui si trovava. Udì le parole di Cloud e quelle di Yuffie in lontananza, ma poco importava ormai.

Vincent corse, finché i polmoni poterono reggere il suo ritmo forsennato. Si nascose nella fitta vegetazione sottostante le sculture del massiccio montuoso di Da Chao. Si era allontanato il più possibile dal palazzo, da Yuffie e dai suoi amici, senza essere fortunatamente seguito. Vincent si fermò, portandosi una mano sulla fronte bollente e lanciò un potente calcio ben assestato contro il tronco di un albero lì vicino. Molte foglie caddero per l’urto, avvolgendo come in una strana pioggia il corpo sovraccaricato di Vincent.

Perché Hojo? Non gli era bastato consumare la sua di vita? Non gli era bastato di aver rovinato l’esistenza sua e di Lucrecia? Il solo pensiero di immaginare Coley sdraiata su di un letto mentre il professore la analizzava, la torturava, le iniettava chissà quale sconosciuta sostanza, fece ulteriormente perdere il controllo di Vincent.

E se le avesse fatto le stesse cose ignobili che a suo tempo aveva testato su di lui?

L’ultima cosa che avrebbe voluto era quella di vedere la figlia costretta a vivere in un corpo disumano come il proprio.

Tutta la sua ira si canalizzò nella gola, e Vincent urlò, così forte che tutti gli uccelli che si erano appollaiati sui rami degli alberi volarono via gracchiando impauriti.

La sua voce era diventata roca, gutturale, praticamente lo stesso bestiale tono di Chaos. Nello sforzo le vene della gola si erano ingrossate e gli occhi erano diventati luminosissimi, come se nelle iridi scorresse puro sangue. Il demone era ormai del tutto sveglio. Ogni cosa intorno a lui girava vorticosamente, la sua visuale si era ridotta ad alcune macchie colorate e senza forma mentre nelle sue orecchie rimbombava solo l’urlo infernale del suo demone.

Il tempo di perire era arrivato, la sua resistenza era arrivata al livello minimo.

Sentì che il pavimento sotto i suoi piedi si era aperto in una voragine ma prima che Vincent potesse cadere al suo interno, lasciandosi trasportare nell’abisso dell’incoscienza, accadde qualcosa che non sarebbe dovuto accadere e che alla fine non accadde mai. Tutto si fermò di girare, la vista riacquistò chiarezza e le urla si dileguarono.

La tranquillità della natura, il calore del sole, i suoni dolci della foresta riappacificarono i sensi di Vincent. Il suo terrore e la sua rabbia se n’andarono insieme a quell’ondata di confusione che anche le cose più razionali alla fine lasciano.

Ecco dunque di cosa era capace il lato oscuro del fantasticare di Chaos.

Vincent si accasciò a terra, cercando di calmare la respirazione mentre alcune gocce di sudore gli scendevano sulle tempie. Era da molto tempo che Chaos non aveva sferrato un attacco così potente.

Se in un primo tempo aveva accettato l’idea di aspettare, fino che i suoi compagni non si fossero organizzati per recuperare dalla Shinra la sua piccola Coley, ora non avvertiva altro che l’urgente bisogno di raggiungere Midgar, al più presto, addirittura quello stesso giorno se avesse potuto.

Ma non poteva.

Come fare con Yuffie?

Senza Vincent, la giovane Imperatrice sarebbe perita dal dolore e di sicuro il suo destino sarebbe stato tale se avesse deciso all’ultimo momento di partire verso Midgar lasciandola sola a Wutai.

Gli sembrò di vederla proprio di fronte a lui, mentre piangeva accasciata sul letto, mentre quelle lacrime si portavano via con sé l’ultima volontà di vivere.

Yuffie aveva sofferto abbastanza, nelle tante notti insonni, nelle giornate passate tra silenzi e tristezza infinta. La gente di Wutai aveva sofferto abbastanza, rispettando un lutto protrattosi per ben cinque mesi. Vincent stesso era stanco di tutto ciò. Il destino gli aveva concesso di vivere una vita normale e la vita stessa gli aveva portato via la felicità, ancora una volta.

“Non la perderò ancora.” Vincent si lamentò tra se e se.

“Mai e poi mai.”

 

La notte era scesa con solennità, risvegliando il monotono gracidio dei grilli. Cid aveva diviso la stanza con Red e Barret, che in quel preciso istante si era assentato per fare una passeggiata. La camera che Yuffie aveva loro assegnato era semplice ma elegante. Sul pavimento che recava delle preziose intarsie, alcune graziose donne di servizio avevano preparato tre comodi letti, lasciando poi tutto il tempo necessario agli ospiti per disfare i loro scarsi bagagli. Mentre Red non aveva portato nulla con sé, Cid aveva lasciato i suoi effetti sull’Highwind e Barrett aveva preferito portare solamente un’arma di scorta e qualche munizione.

Il pilota si era seduto su di una sedia ricoperta di velluto rosso, vicino alla balconata della camera. Cid amava osservare il cielo stellato in ricordo dei tempi passati a lavorare come addetto al dipartimento di ricerche spaziali della Shinra. Con una sigaretta spenta che gli pendeva dal labbro inferiore, il pilota in quel preciso istante non era proprio in vena di sognare ad occhi aperti: cercava soltanto un modo per distrarsi. Aveva ancora davanti ai propri occhi l’immagine di Yuffie che lasciava cadere a terra la tazza di tè e lo scatto furibondo di Vincent.

Pensò a cosa potessero provare nei loro cuori, dopo aver saputo che la loro figlia era ancora viva dopo cinque strazianti mesi. Il pensiero risultò difficile da realizzarsi, perciò Cid cambiò punto di vista.

Come si sarebbe sentito se qualcuno le avesse portato via la sua cara Shera, a causa di un incidente per poi scoprire che tutto era falso? 

 

Che presa per i fondelli…

 

Il pilota sbuffò e prese tra il pollice e l’indice la sua preziosa sigaretta, riponendola nel pacchetto che teneva incastrato nell’elastico dei suoi occhiali.

Anche Red era molto pensieroso e fu contento di notare che Cid si era finalmente alzato dalla sedia. Il pilota si stirò, lanciando una specie di lamento.

“Chissà se Tifa e Cloud hanno deciso qualcosa?” Cid sbottò, dando le spalle all’animale.

“Credo che non spetti solo a loro decidere sul da farsi. Red rispose, inarcando la schiena per sgranchirsi le zampe.

“..già..” Cid rispose.

Passarono alcuni attimi di silenzio, seguiti dal rintocco del gong in oro massiccio. Suonò per tre volte, indicando che erano circa le otto di sera.

“Sono un po’ preoccupato per Yuffie… mi è sembrata molto deperita dall’ultima volta che l’abbiamo incontrata a Nibelhime prima di.. beh..”

Red annuì all’affermazione di Cid; effettivamente Yuffie non era sembrata mai così debole e rassegnata.

“Spero che Vincent stia bene” l’animale affermò fissando la pallida luna che s’intravedeva dalla balconata.

“Oh, lui se la sa cavare da solo..” Cid rispose, voltandosi verso la porta della stanza.

Dove vuoi andare?”

“Mi sono rotto di stare qui senza fare nulla… vado a vedere se hanno deciso qualcosa…”

“Vengo con te.”

Cid sorrise e lasciò la camera insieme a Red.

 

“Così siete a Wutai… avete…avete già riferito?”

“Sì, anche se qualche contrattempo ci sta rallentando.

“Contrattempo?”

“Vincent non l’ ha presa molto bene. Se n’è andato da oggi e deve ancora tornare, per quanto ne so io. Mi dispiace, capisco cosa si prova in queste situazioni.

“Beh, c’era da aspettarselo.. questa notizia ha dell’incredibile. E se quella ricercatrice non si fosse fatta avanti di sua spontanea volontà, saremmo ancora all’oscuro di tutto..

“E’ quello che mi irrita più di ogni altra cosa. Hai trovato altre informazioni, Reeve?”

“Sì, siamo sempre in contatto con l’assistente di Hojo che ci sta fornendo una quantità incredibile di materiale riservato. Date le dimensioni dei file stiamo spedendo il tutto al server di Shelke, dove potremo conservarli nella massima segretezza. Ci penserà lei a farvi ricevere tutto, quando saremo pronti.

“Avete notizie delle condizioni fisiche di Coley?”

“L’assistente dice che sta bene, il suo corpo è come una macchina perfetta, anche se è molto provata psicologicamente. Deve essere molto dura vivere in quegli ambienti, senza nessun contatto con l’esterno e senza un appoggio morale.

“Non sai che tipo di interventi abbia subito, se Hojo le abbia davvero fatto del male?”

“Purtroppo no. L’assistente dice che le prime fasi del progetto, quelle cruciali sono state seguite esclusivamente da Hojo. Solo lui sa a quali operazioni Coley sia stata sottoposta.”

“Grazie per l’aggiornamento… e ti faremo sapere come e quando ci muoveremo.

“Sono io che devo ringraziare te e i tuoi compagni, ci sentiremo presto.. ah Cloud, salutami Yuffie..”

“Sarà fatto, Reeve.”

Cloud riattaccò la linea, appoggiando il telefono sul letto in cui si era accomodato. Accanto a lui giaceva Tifa, che si era addormentata da poco. Le rimboccò le coperte, facendo attenzione a non svegliarla, e non appena ebbe terminato, Tifa borbottò qualcosa ad occhi chiusi, contorcendosi sommessamente. Cloud la osservò incantato per qualche secondo, notando che era sempre bellissima, in particolare quando dormiva e rilassava completamente l’espressione del suo viso. Nel guardarla, Cloud si ricordò di Eve e Gaia, che erano rimaste con Shelke a Nibelhime. Tifa le aveva già chiamate, assicurandosi che tutto andasse bene, ma Cloud comunque non era tranquillo: voleva chiudere al più presto la faccenda per ritornare a casa.

Stanco di rimanere con le mani in mano e completamente privo di sonno, Cloud si alzò e lasciò la stanza. Si sorprese di trovare Red e Cid fermi nel corridoio, come se fossero lì ad aspettarlo.

Cloud li guardò meravigliato, cercando di nascondere un sorriso.

“Eravamo stanchi di aspettare” Red chiarificò, appoggiato dai gesti di Cid.

..E’ il mio stesso problema..” Cloud ammise.

“Pensavo di fare un salto in villaggio per comprare un po’ di materia e qualche accessorio utile. Se non domani, saremo comunque costretti a partire per Midgar.” Cid affermò.

Cloud trovò che l’idea dell’amico non era per niente pessima. I tre s’incamminarono nel corridoio, quando Cloud si fermò all’improvviso.

“Barrett?”

“Era uscito a camminare per sgranchirsi le gambe... tornerà. Red spiegò dopo aver ripreso il cammino.

 

Yuffie era stata costretta a posticipare l’incontro con il padre a causa della stanchezza. Dopo essersi riposata per tutto il pomeriggio ed aver cambiato abbigliamento, decise solo a sera inoltrata di dirigersi verso la Pagoda. L’emozione e la preoccupazione avevano giocato un brutto tiro alla giovane Imperatrice, che ora doveva dare prova di una grande sicurezza per affrontare faccia a faccia l’odiato padre.

Yuffie entrò nella Pagoda, deserta a quell’ora della sera, salì i cinque piani di scale ed entrò nell’ultimo piano. La stanza era buia, illuminata da piccoli fuochi sorretti da quattro splendide statue in oro, poste a due a due ai lati del piano, raffiguranti il dio dell’acqua, Leviathan. Per terra erano stati accesi degli incensi che profumavamo di cedro. Davanti a lei, seduto a gambe incrociate e dando le spalle verso l’entrata c’era suo padre, Godo Kisaragi, raccolto in preghiera. Era difficile distinguere la sua figura nell’ombra addolcita dalla scarsa illuminazione fornita dai fuochi. Yuffie vide solo i capelli argentati e parte del kimono nero.

Ringraziò con tutto il cuore di aver studiato le arti dei ninja, perché i suoi passi felpati non attirarono per buona parte del tempo l’attenzione di Godo. Yuffie camminò, fino a raggiungere la minima distanza tra sé e il padre: aspettò qualche attimo prima di schiarirsi la voce. Godo si voltò velocemente, senza mostrare stupore o paura. Fissò la figlia e notò subito che non era vestita, come doveva, di nero.

“Tua figlia non conta più per te, Yuffie?” Godo sbottò, irritato nel vedere il vestito verde scuro della figlia. 

“Non ho motivo di portare il lutto. La mia Coley è viva.” Yuffie rispose scrutando con rimprovero Godo.

L’uomo sogghignò, e si alzò aiutandosi con una spinta delle mani sul pavimento.

Se è viva allora dov’è?” Godo credeva che quell’affermazione fosse frutto di un’ennesima falsa speranza di Yuffie.

“Quelli della Shinra l’ hanno ferita, senza… ucciderla, come noi temevano… e portata nei loro laboratori.”

Godo scoppiò a ridere, risuonando grottescamente malefico.

“Allora è come se fosse morta!” Godo ridacchiò.

Yuffie spalancò gli occhi, infuriata da quella dichiarazione priva di sentimento. Si scostò di qualche centimetro dal padre e calciò un piattino d’incenso che si trovava a terra. La polvere sporcò parte del vestito e il rumore del coccio interruppe le risate di Godo.

“Non fare stupidaggini davanti alle statue delle divinità di Leviathan!!” Godo tuonò puntando un dito contro la figlia. Yuffie strinse i pugni e si portò petto e petto col padre, osservandolo negli occhi.

“Me ne frego delle divinità! Come puoi dire un’atrocità simile! Coley è tua nipote, la tua unica nipote!” Yuffie sentì che era sul punto di piangere, ma si controllò poiché frignare davanti a Godo avrebbe mandato in fumo ogni sforzo.

Godo retrocesse di un passo e fissò l’incenso sparso sul pavimento.

“Vorrei che Vincent avesse sentito quello che hai detto. Allora avresti avuto ben poco da ridere…” Yuffie affermò. Godo si chinò per risistemare il danno procurato da Yuffie, e rimase piegato per un po’.

“Come mai non è qui con te?”

“Lui aveva.. bisogno di calmarsi. E’ stato un bruttissimo colpo…”

“Non mi pare che fosse così urtato nell’aver perso una figlia. Non l’ ho mai visto piangere, onorare gli dei e chiedere perdono per l’accaduto in questi cinque mesi. Hai visto con che uomo hai deciso di unirti?”

“Non iniziare. Te l’ ho già spiegato. E’ una persona molto riservata.”

Godo si rialzò, sbattendo le mani per pulirsi dalla polvere.

“Non ha fatto altro che viaggiare, tornare qua casualmente per poi ripartire. E’ come se rimanesse qui perchè obbligato… Non c’era mai per te…”

“Smettila! Sono solo bugie! Quello che non mi ha mai ascoltato o aiutato eri tu!”

Vedi… non ha nemmeno voluto sposarti…”

Yuffie si sentì bruciare. Il fuoco della rabbia fu tale da farle urlare un “basta” così forte da scostare l’aria della stanza. Godo si zittì subito, ed osservò la figlia, visibilmente alterata e sull’orlo di muovere le mani.

“Mi chiedo perché diamine io sia venuta sin qui!” Yuffie affermò ad alta voce, lasciando solo il padre. Godo tornò a sedersi, non toccato minimamente dalla scoperta della salvezza di Coley o dall’ira furibonda della figlia. Al contrario Yuffie si precipitò fuori dalla Pagoda, scendendo con velocità le scale ed aprendo con forza il portone d’entrata dell’edificio. Si ritrovò nella piazza, dove una brezza leggera la salutò, scompigliandole i capelli ed il vestito.

Attraversò la piazza tenendo lo sguardo fisso sui propri piedi, eliminando ogni contatto con ciò che la circondava. Non salutò nemmeno Cloud, Cid e Red che erano appena usciti dal palazzo.

Che le prende?” Cid domandò, mentre era rimasto con la mano a mezz’aria per salutare Yuffie.

 

 

Hojo non è qui.

Ho speranza di salvarmi?

Devo trovare il coraggio per fare quello che ho in mente, ma non ci riesco.

E se mi scoprono?

Ormai non ho più nulla da perdere…

 

Coley era rimasta sdraiata sul letto, costretta a rimanere immobile per l’assenza di luce. Si era rigirata sui fianchi per qualche volta, sbuffando e sospirando, nella speranza che potessero sentirla. E invece nessuno si degnò di considerarla.

 

Forse mi hanno chiusa qui dentro per farmi marcire…

Come vorrei essere a casa…

 

Coley si mise a sedere ed aprì gli occhi, notando che non c’era alcuna differenza dal tenerli aperti o chiusi. Tutto quello che percepiva era una pesante coltre di tenebra. Sbatté ripetutamente le palpebre fino a che si accorse che riusciva a distinguere una forma verdastra in fondo alla stanza.

Il cuore le saltò in gola.

C’era qualcuno che la stava osservando a sua insaputa?

Non riusciva a pensare a nulla, la paura le ingolfava ogni reazione. Ma la sagoma verdastra rimaneva fissa, immobile ed immutabile. Coley spostò lo sguardo leggermente a sinistra e notò che altre figure emergevano dal buio.

Era come se per magia riuscisse a distinguere gli oggetti della stanza nell’oscurità.

Riconobbe l’armadio, il lavandino e la scrivania. Posò lo sguardo dove aveva creduto di vedere una persona e comprese che non era altro che la sua immagine riflessa sulla parete-specchio.

Coley si stupì piacevolmente nello scoprire quella particolare abilità. Ora era nelle condizioni di soddisfare il suo piano, al quale aveva pensato per tutto il giorno.

Scese dal letto e raggiunse la porta. Si fece forza prima di poggiare le mani sulla maniglia e premere.

Purtroppo era chiusa. Non rimaneva che sfondarla.

Indietreggiò di alcuni passi, si voltò leggermente e caricò la spalla con tutta la forza che aveva in corpo, sbattendo contro la superficie metallica della porta. Ripeté questo sforzo per cinque volte, aumentando l’intensità dei colpi ad ogni volta. Al sesto tentativo, notando che la porta non aveva ceduto nemmeno un po’, aumentò la sua rincorsa e la percorse con più velocità. All’ultimo istante qualcosa le disse di arrestarsi e Coley si bloccò poco prima che la spalla toccasse la porta. Improvvisamente essa si spalancò e la ragazza chiuse gli occhi con una smorfia, abbagliata dall’eccessiva luce che riempì la camera.

Cosa stai facendo?” una voce tuonò.

Coley riaprì gli occhi lacrimanti per la fatica, sforzandosi di riacquisire la vista. La persona, di cui percepiva solo la sagoma, prese forma e nitidezza, finché Coley non la riconobbe completamente.

Era una donna alta e bionda, vestita provocantemente di rosso e con una pistola argentata in mano. Coley prima di rispondere si portò una mano davanti agli occhi per coprirsi dalla luce.

“Niente…!” Mentì.

La donna alzò gli occhi al cielo ed agitò la pistola.

E pretendi che io ti creda? Cos’erano quei rumori?”

Coley si guardò intorno e poi fissò la donna. Era sola, nessuno era intervenuto insieme a lei.

 

Anche se armata, io sono invulnerabile ai colpi di pistola. E’ sola, non c’è ombra di altre guardie e la porta adesso è aperta.

 

Il cuore di Coley accelerò i battiti, e le gambe cominciarono a formicolare. La ragazza si accorse di una strana agitazione che la stava vincendo, poiché era sicura di riuscire a battere con facilità quella strana donna per mettere in atto la fuga. Era come se nessuno potesse sconfiggerla. C’era qualcosa in lei, fuori di lei, possente ed estremamente paziente che non aveva paura di restare anche se era ed è sempre stata libera di andare.

La donna bionda che Coley ignorava essere la fida collaboratrice di Rufus, ovvero Scarlet, avrebbe dovuto farci caso: vedere il colore degli occhi della ragazza che le stava di fronte, registrare la diversa sfumatura di rosso… Scarlet avrebbe dovuto fare attenzione.

“Sì..” Coley rispose sibilando, spostando di lato la testa ed osservandola di sbieco.

“Tornalo a fare e te ne pentirai, bambina.

Scarlet decise di troncare la discussione e voltò per un attimo le spalle alla ragazzina, commettendo l’errore più grave della sua vita.

In un primo tempo la vista di Coley registrò i movimenti della donna come se fossero al rallentatore: le sue gambe che si piegavano, la gonna rossa che svolazzava tranquilla, i capelli biondi che seguivano lo spostamento del collo mentre le dava le spalle. Poi quello strano effetto al rallentatore cessò di funzionare, sostituito da una specie di velocità che Coley non aveva mai provato prima.

Il cuore della ragazzina sentì risuonare i timpani della guerra e li seguì. Si mise a carponi, poi in piedi, digrignando i denti come una belva avvezza a frantumare ossa e a strapparne via la carne a brandelli; la sua piccola mano si raccolse in un pugno, duro come la roccia, e poi Coley scattò, veloce come il vento e altrettanto silenziosa, gettandosi addosso a Scarlet.

La donna non fece nemmeno in tempo a capire cosa le stesse succedendo, perché improvvisamente qualcosa l’aveva spinta a terra con lo stesso impeto di un treno in corsa. Partì un colpo dalla pistola, che si andò a piantare nel muro di fronte la porta d’entrata della stanza.

Coley strinse le dita introno al collo di Scarlet, affondando le falangi nella carne della sua vittima. La donna cambiò subito colore in volto, diventando paonazza e incapace di respirare, mentre dagli occhi le scendevano grosse lacrime. Inizialmente il pestaggio era iniziato come una sorta di vendetta poco ragionata per Coley, messa in atto in nome dell’ingiustizia che l’aveva relegata in quei laboratori strappandola dalla famiglia. Ma diventò subito qualcos’altro, senza logica, senza senso, era come l’atto stesso di autoalimentarsi bruciando sempre di più, diventando più brutale, un conflitto al di là di qualunque spiegazione.

A quel punto Scarlet capì al volo cosa stava succedendo, vedendo il viso di Coley che la stava sovrastando con quella forza disumana, e cominciò a gridare aiuto, ma non le uscì un grido vero. Piuttosto un balbettio, troppo debole perché qualcuno lo potesse sentire.

Niente di simile alla pietà si mosse dentro Coley. La ragazza stava scivolando oltre un limite interno. Sentiva la voglia di strappare la pelle di Scarlet a mani nude, di fracassarle le costole, di farle provare lo stesso dolore che l’aveva dilaniata in quei lunghissimi cinque mesi.

Coley colpì violentemente la tempia di Scarlet, rilasciando la presa sul collo. Poi di colpo vide qualcosa, disegnata nero su nero, in fondo alla vela d’ombra del suo occhio sinistro, accorgendosi che diverse guardie capeggiate da Lilian stavano correndo verso di lei. 

Lilian stava correndo verso di Coley, le braccia tese, le unghie pronte a graffiarle il volto, gli occhi ridotte a due fessure. O almeno furono questi gli unici e probabilmente distorti particolari che raggiunsero la vista di Coley.

La ragazza, dopo l’ennesimo pugno sul viso di Scarlet si sentì minacciata: urlò, un orrendo grido strappato al centro di se stessa che esplose nel viso di Lilian, privandole di colpo della volontà di portare a termine ciò che in quel momento sarebbe stato un suicidio. Lilian si fermò, ma le dodici guardie non si arrestarono di fronte la violenza animalesca di Coley.

L’assistente, mentre veniva sorpassata dai soldati, non ebbe nemmeno la forza di voltare il viso. Sbiancò, le labbra grigie e senza sangue poiché ora quei due occhi feroci, dello stesso colore del sangue la stavano scrutando.

Coley avrebbe dovuto risparmiarglielo, avrebbe dovuto distogliere lo sguardo dalla povera assistente. Invece le permise di leggerle nei suoi occhi tutto ciò che stava per farle se le guardie non l’avessero interrotta.

Un soldato si avvicinò alla ragazzina, in quel momento distratta nel fissare Lilian, e sollevò il calcio del suo fucile sbattendoglielo violentemente sul volto. Coley emise un gemito straziante e si accasciò a terra scompostamente.

Scarlet iniziò a tossire, finalmente libera dall’aggressione, mentre gli altri soldati pestavano a sangue la fuggitiva. Il colpo di grazia arrivò dalla prima guardia, che prese una strana macchinetta e l’appoggiò sul collo della ragazzina: dopo aver premuto un piccolo pulsante rosso, l’apparecchio rilasciò una violenta scossa elettrica che inibì completamente Coley.

Ecco infine il buio che tornava a calare sui sensi della giovane. Nessun singhiozzo di luce mentre ogni arto le doleva e la forza per aprire gli occhi era già scomparsa insieme al minimo frammento di speranza che le avrebbe potuto regalare la libertà.

Coley ora sembrava una creatura calma.

Incosciente e infinitamente sola.

 

 

Fu il dolce canto di un uccellino a risvegliare Yuffie. Aprì lentamente gli occhi, assaporando gradualmente la tenera luce del mattino che aveva invaso la sua camera da letto. Lasciò la presa sul cuscino ed alzò il tronco, rimanendo quasi seduta sul suo confortevole letto. Le coperte scivolarono, scoprendole le spalle e il petto, adagiandosi sul grembo. Si stropicciò gli occhi prima di posare la mano dietro di lei.

La parte del letto alle sue spalle era fredda e vuota.

Vincent non era tornato.

Le sembrò stupido, ma per un attimo pensò che probabilmente non sarebbe più tornato. La donna stava per precipitare nel pericoloso circolo che il padre le aveva suggerito la sera precedente. E se quelle parole taglienti fossero davvero vere? Impossibile, fu la risposta che Yuffie si diede da sola.

Che stupida… invece che precipitarsi in camera e affogare la propria ira nel pianto avrebbe dovuto cercare Vincent.

 

L’ ho abbandonato… l’ ho lasciato solo in un momento di grande bisogno…

 

Yuffie scostò le coperte e poggiò i piedi sul pavimento freddo. Aveva intenzione di uscire e prepararsi per cercare il suo compagno ma l’indecisione tornò a farsi strada tra i suoi pensieri, non appena ebbe appoggiato le mani sulla sponda del letto per alzarsi.

Un profondo brivido le attraversò la schiena, raggiunta da un’insolita brezza: forse nella confusione della serata precedente aveva lasciato persino le finestre aperte.

 

Pazzesco..

 

Yuffie girò solo il volto, mantenendo la sua postura, per verificare se davvero la sua disattenzione era arrivata sino a tale dimenticanza.

Per alcuni istanti non sapeva come descrivere quello che aveva dinnanzi a sé… forse un sogno ad occhi aperti o una sorta di fantasma…

La luce era veramente intensa e il cielo si era leggermente velato di bianco, ma il forte contrasto concesse comunque a Yuffie la possibilità di riconoscere la figura appoggiata all’imposta della balconata.

Vincent era a braccia conserte, ritto in piedi con le gambe accavallate. Si era tornato a vestire con i suoi vecchi abiti, e dalla fondina legata alla gamba destra pendeva la sua arma prediletta, Death Penalty. Yuffie rimase sconcertata ma in un certo senso si tranquillizzò nel vedere che era tornato.

L’uomo alzò lo sguardo, mentre il suo volto era tornato a nascondersi dietro il collare e la fascia rossa.

Yuffie si alzò, avvicinandosi al compagno, senza nemmeno coprirsi con qualche cosa di più pesante della sua misera mises notturna. La donna appoggiò una mano sul braccio di Vincent che non mosse ciglio.

“Come stai?” gli sussurrò forzando l’espressione in un sorriso.

Vincent sospirò e ad allontanò la carezza di Yuffie dal proprio corpo. Dopo quello che era successo il giorno prima, non voleva essere toccato, nel timore che potesse involontariamente fare del male a qualcuno.

Yuffie sembrò irritata da quella risposta muta, quel gesto distaccato, da quel modo di fare che le ricordava un Vincent che ormai non esisteva più.

“Non ti ci mettere anche tu!” Yuffie tornò a sedersi sul letto, lasciandosi cadere a peso morto.

La rabbia iniziale si spense notando l’apatia che stava circondando le reazioni di Vincent. Gli occhi dell’uomo erano diventati opachi, velati di tristezza, assenti. Lo stesso sguardo che Vincent aveva quando decise di unirsi a quelle persone che gli avrebbero cambiato la vita.

Yuffie si sentiva triste, benché la speranza di riavere Coley si fosse riaccesa. Nel vedere le condizioni di Vincent, il suo dispiacere aumentò finché rilasciò la sua ansia in un grosso sospiro. Gli occhi grigi di Yuffie vagarono sulle nervature ambrate del pavimento, prima di posarsi una seconda volta sul compagno.

Ora il viso di Vincent si era voltato verso l’esterno della balconata, perso a fissare chissà cosa.

Yuffie si morse il labbro inferiore, sovrappensiero e si tornò ad alzare dal letto.

Chiudersi in se stessa non avrebbe aiutato nessuno.

“Perdonami… dove li hai trovati questi vestiti? Non te ne eri disfatto?” Yuffie chiese avvicinandosi alla balconata.

Vincent riportò l’attenzione sulla donna, che aveva usato il suo asso nella manica per rompere il ghiaccio: sdrammatizzare. Nessuna domanda su cosa Vincent avesse fatto in quelle ora d’assenza, dove fosse andato, se avesse contattato qualcuno, tralasciando ogni particolare sull’incontro infelice con Godo. Solo una banale considerazione, tirata in gioco da un’astutissima Yuffie, che sapeva quanto Vincent odiasse parlare dei propri problemi legati ai suoi demoni interiori.

L’uomo socchiuse gli occhi, gli riaprì e sentì una fitta al cuore. Chaos calcitrava, si dimenava, voleva uscire e dare sfogo al suo istinto. Yuffie notò la smorfia di dolore di Vincent, e percorse alcuni passi avvicinandosi, prima di fermarsi, rendendosi conto della pericolosità. Allungò una mano, pallida ed esile, appoggiandola sul volto freddo di Vincent.

L’uomo non si mosse e concentrò ogni sforzo nel modulare con calma il respiro.

“E’ lui vero..? Non ti preoccupare..” Yuffie mormorò accarezzando la guancia del compagno.

Un’improvvisa vertigine, un doloroso senso di mancamento e poi tutto se n’era andato. Vincent riprese controllo e alzò la schiena dalla parete su cui si era appoggiato. Yuffie ritirò la mano e lo osservò, sovrastata dalla sua altezza.

“Stai bene ora?”

Vincent annuì, camminando silenziosamente verso il letto. Prese la coperta che era piegata vicino il fondo del materasso, la distese con un colpo e vi coprì le spalle di Yuffie.

“Molto probabilmente oggi partiremo per Midgar. Preparati con calma, io vado a parlare con Cloud.

Yuffie si voltò verso Vincent e lo abbracciò con forza, bloccando ogni suo movimento, così intensamente da poter sentire il calore del suo corpo filtrare attraverso lo spesso strato di vestiti. Vincent si piegò a sufficienza per poterla baciare sul collo, prima di distaccarsi per uscire dalla camera.

E chi avverte mio padre?”

“Ci parlerò io..” Le parole di Vincent furono quasi impercettibili poiché era ormai fuori dalla porta.

 

Cloud e Tifa erano già svegli da molto. Avevano equipaggiato le armi con la materia che Cid aveva comprato la sera precedente. Mentre Cloud infilava una sfera di materia nella prima cavità della sua enorme spada, Tifa si era seduta su di uno sgabello di legno, intenta a regolare la larghezza dei polsi dei suoi guanti da combattimento.

Cloud sapeva che presto Vincent o Yuffie si sarebbero fatti vivi, decisi a partire per Midgar, anche se non avevano pensato ancora ad un piano.

“Sarà difficile entrare nei laboratori, se Coley è ancora lì…” Tifa affermò, infilandosi il primo guanto.

“Prima di raggiungere lo stabilimento della Shinra, andremo da Reeve. Lui saprà come aiutarci.” Cloud rispose prendendo in mano una seconda sfera di materia.

“Gli altri sono già andati?”

“Ho detto a Cid di partire per accendere i motori dell’Highwind in anticipo. Barrett e Red sono con lui.”

“Bene, così risparmieremo del tempo prezioso.

Una volta terminato di indossare entrambi i guanti, Tifa uscì dalla stanza, mentre Cloud proseguiva con l’equipaggiamento.

L’eleganza e la raffinatezza del Palazzo Imperiale erano tali da incantare completamente i sensi di Tifa. Le decorazioni delle pareti, i colori caldi del legno, le fantasie della carta che rivestiva porte e pareti addolcivano la vista della donna, mentre il leggero profumo di’incenso e il tintinnio soffuso degli scacciaspiriti la portavano in un'altra dimensione. Tifa non si accorse che invece di voltare a sinistra in fondo al corridoio dove c’era la sua stanza, aveva proseguito a destra. Si era ritrovata in un porticato di forma quadrata, dove all’interno vi era uno splendido giardino con un lago al centro, riscaldato dai colori variopinti dei numerosi pesci al suo interno. Tifa si accorse del suo errore e fece per tornare indietro quando vide arrivare dalla parte opposta del porticato, un uomo distinto, vestito di scuro e dai capelli bianchi. L’uomo si guardò intorno con aria sospetta e fece pochi passi, prima di essere bloccato dall’arrivo di Vincent.

Tifa non udì le parole che gli uomini si scambiarono, ma capì dai gesti e dagli sguardi dei due che non si trattava di un incontro piacevole. L’uomo vestito di nero puntò più volte l’indice contro Vincent, mentre quest’ultimo dimenava minacciosamente il suo guanto metallico di fronte al volto del suo interlocutore. Le uniche parole che raggiunsero l’udito di Tifa furono quelle di congedo dell’uomo vestito di scuro.

“Provaci Vincent e non sarai più benvenuto a Wutai!” tuonò prima di girare i tacchi e sparire in un altro corridoio. Vincent fissò l’ombra dell’uomo svanire, poi alzò lo sguardo verso Tifa.

La donna lo salutò brevemente con la mano, prima di tornare indietro, facendo finta di niente.

 

Chissà cos’è successo?

 

 

 

Eve si era addormentata sul divano, il telecomando pericolosamente racchiuso nella mano a penzoloni oltre i cuscini, e il panno che aveva usato per coprirsi in fondo ai piedi. La televisione era rimasta accesa per tutta la notte, ed ora disturbava la quiete della sala con un vocio di una giornalista dell’ennesimo telegiornale.

Nel divano di fronte a quello di Eve si era appisolata Shelke, seduta con il suo portatile acceso appoggiato sul grembo.

Il telecomando com’era prevedibile scivolò dalla presa di Eve, sbattendo sul pavimento e rompendosi in due. Shelke si svegliò di scattò, portando le mani sul portatile per evitare che cadesse anch’esso, mentre Eve si risvegliò con più tranquillità.

“Che.. cos’è stato?” Shelke chiese ancora scossa dal risveglio brusco.

Eve guardò la sua mano, poi sforzandosi fissò il pavimento e vide ciò che rimaneva del telecomando.

“Il telecomando..” Eve mugugnò drizzandosi. Si guardò intorno, in cerca di Gaia ma non vi era alcuna sua traccia.

“Mia sorella?”

“Non lo so… forse è rimasta nella sua stanza…” Shelke rispose alzandosi. La donna si chinò per raccogliere i frammenti del telecomando, dopo aver appoggiato il portatile sul tavolino. Eve si preoccupò: Gaia si era risentita per la notizia di Coley e questo suo isolamento non era per niente rassicurante.

“Ora vado a parlarle… forse se si sfoga con qualcuno riuscirà a riprendersi un po’…” Eve affermò alzandosi definitivamente dal divano. Shelke annuì, rialzandosi con i pezzi di telecomando tra le mani.

Buona idea!” rispose sorridente verso Eve.

Ventiquattro scalini, un metro circa di corridoio ed una porta in legno. Il brusio della televisione in lontananza e lo scricchiolio del legno del pavimento. Un minuto e mezzo. La maniglia emise un lungo cigolio non appena la mano di Eve la impugnò e così anche i cardini della porta. Una folata d’aria e la ragazza fu all’interno della camera.

I suoi occhi non videro ne i capelli biondi, ne i grandi occhi bruni della sorella. La stanza era fredda e vuota. E chissà da quanto lo era stata prima dell’arrivo di Eve. I vecchi vestiti di Gaia giacevano parte a terra, parte sulla sedia della scrivania. Il letto era disfatto, le coperte ammassate e il cuscino vicino alla sponda finale. Eve si guardò intorno, analizzando ogni centimetro di quella vista desolante mentre il suo cuore le urlava di correre veloce come la luce per cercare la sorella.

La finestra era spalancata, le tende svolazzavano tranquille mentre il sole uscito temporaneamente dalle nuvole cercava di riscaldare la gelida aria della mattina.

Eve corse verso la finestra, appoggiò le mani sul davanzale e si sporse all’esterno, con il temibile presentimento di vedere una scena tremenda.

E se Gaia avesse tentato di togliersi la vita con un gesto sciocco e ingiustificato?

Il nome di Shelke le stava già per esplodere in bocca, l’immagine della sorella stesa per terra in lago di sangue ormai davanti ai propri occhi, quando vide che al piano inferiore non c’era nulla. Solo un gatto che si leccava oziosamente il pelo e la solita sconfortante calma della piazzetta.

Gaia non aveva tentato di gettarsi dalla finestra.

L’aveva usata per scappare indisturbata.

Eve inspirò profondamente e rientrò nella camera. Se Gaia avesse scelto veramente la fuga, ormai sarebbe stata troppo lontana per raggiungerla ovunque lei fosse. A Eve non rimanevano che due opzioni: contattare i genitori o intraprendere una ricerca per proprio conto.

La ragazza fissò il PHS della sorella poggiato sul comodino del letto, cominciando a pensare alla prima possibilità. Tifa si sarebbe di sicuro agitata all’inverosimile, mentre Cloud avrebbe di sicuro perso la pazienza una volta per tutte. Una volta tornati a casa, parte della responsabilità sarebbe ricaduta su Eve, e la ragazza odiava essere rimproverata per colpa dell’impulsività di Gaia, era già successo altre volte.

Forse non le rimaneva che cercare da sola Gaia, e se per caso i suoi sforzi non l’avessero portata a nulla, sarebbe ricorsa a malincuore all’opzione numero uno. La ragazza chiuse le imposte della finestra e si fiondò nel salotto, dove Shelke era ancora intenta ad aggiustare il telecomando.

“E’ scappata. Non so quando, non so dove ma su non c’è.” Eve affermò con la stessa precisione di un telegrafo mentre si dirigeva verso l’attaccapanni del salotto.

Shelke si fermò, assumendo una posizione poco naturale ma estremamente suggestiva nel comunicare il suo stupore.

S-scappata?” Shelke balbettò, facendo ricadere il telecomando a terra.

Eve indossò un giaccone nero e si avvolse attorno al collo una morbida sciarpa bianca. Durante i preparativi non guardò mai la sua compagna.

“Vado a cercarla. Se per caso i miei genitori si fanno sentire… dì loro che non è successo nulla di particolare… che io e mia sorella siamo andate a fare una passeggiata, intesi?” Eve spiegò, portandosi verso l’ingresso. In un attimo la ragazza era già uscita, non lasciando a Shelke nemmeno un attimo per reagire.

 

Si era lasciata la propria casa alle spalle da pochi attimi, attraversando la piazzetta in direzione est. Le scarpe di Gaia calpestarono la strada polverosa, portandola sempre più vicina al suo luogo segreto, il punto in cui si rifugiava quando aveva bisogno di riflettere come in quel momento. Altri passi, l’aria pungente che le pizzicava la pelle e poi un istantaneo senso di smarrimento. Gaia si fermò, aggiustandosi il colletto della giacca con la mano destra, cercando di comprendere come mai un qualcosa di misterioso le avesse ordinato di fermarsi.

Le suole grigie degli scarponi della ragazzina erano fermi davanti ad un qualsiasi punto della strada, eppure ci doveva essere un perché.

 

Mi hanno colpita qui… non ricordi?

 

Gaia si voltò di scatto, uscendo dallo stato pensieroso in cui si era rifugiata, credendo di aver udito la voce di Coley. Ma non la vide, non ebbe quella fortuna.

“Come ho fatto a non ricordare….” Gaia sospirò tra se e se, fissando il panorama di Nibelhime avvolto nella pallida luce della mattina. Tornò a voltarsi per guardare attentamente quella porzione di strada, così maledettamente significativa. Rabbrividì di colpo, poiché più i suoi occhi bruni scrutavano la terra grigiastra e polverosa, più le sembrava che essa si tingesse di rosso, un rosso fin troppo familiare.

 

Basta fantasticare, Gaia.

 

Con qualche esitazione la ragazza andò oltre, camminò per diversi minuti e raggiunse uno dei luoghi più grotteschi dell’intero villaggio: la tenuta della Shinra, la casa degli orrori, come la chiamavano i cittadini di Nibelhime.

Gaia preferì evitare di entrare dal cancello principale della casa, uno strano aggeggio costruito con assi di legno e qualche decorazione in ferro battuto. Saltò la recinzione di mattoni, accedendo al giardino –se così si può chiamare una distesa di erbacce ed alberi rinsecchiti- e fece il giro della costruzione. Conosceva molto bene quei luoghi e il passaggio che utilizzava per accedere all’interno dell’abitazione abbandonata non era difficile. Si chinò, poggiando le ginocchia a terra, per aprire una piccola finestra impolverata che distava dal terreno poco più di dieci centimetri. Spinse con forza e dopo uno scatto il vetro si alzò, rivelando un angusto accesso.

Gaia si infilò nel cunicolo, strisciò nel buio per una breve distanza, raggiungendo la fine del passaggio. Saltò e atterrò all’interno, più precisamente dentro una stanza scura, sporca e disordinata. C’era veramente poca luce che filtrava a mala pena dalla superficie di una grossa e antica vetrata. La polvere, diventata spessa e scura come una grossa crosta marrone a causa dell’intensa umidità, ricopriva le decorazioni in piombo della finestra: gli unici particolari ancora visibili richiamavano la forma di una creatura alata, probabilmente un angelo.

Gaia si pulì le mani battendole tra loro, e poi sfregandole sui pantaloni. La ragazza non si stupì nel vedere diverse bare aperte che giacevano davanti a lei, senza coperchio e fortunatamente vuote. Non era la prima volta che visitava quel luogo insolito. In particolare ce n’era una che attirava sempre la sua attenzione: era quella che si trovava proprio al centro della stanza, rivestita all’interno di un velluto rosso e viola, ancora inspiegabilmente pulito e splendente. Ai lati la cassa recava degli strani ornamenti, delle insolite incisioni simili a graffi che erano presenti anche nella parte interna del coperchio, adagiato sul pavimento accanto alla bara.

 

Chissà quale storia raccapricciante nasconde questa bara..

 

Dopo aver perso molto tempo nell’osservare la strana cassa, Gaia lasciò la stanza per ritrovarsi in un corridoio che odorava di terra bagnata e ferro arrugginito, ancora più buio e umido. In lontananza si udivano, ad intervalli regolari, rumori simili ad un gocciolio, mentre le catene che pendevano dal soffitto cigolavano in maniera agghiacciante.

La temperatura di quel luogo era probabilmente ancora più fredda di quella esterna e Gaia sentì che il naso le incominciava a gocciolare, intanto che le dita dei piedi si stavano addormentando.

Perché la ragazza aveva scelto quella strana casa come rifugio? Innanzitutto perché nessuno avrebbe mai osato entrarvi, non dopo aver udito tutte le strane storie e leggende riguardanti il passato di quella tenuta.

Poi una cosa era certa: la desolante tristezza e l’arcano mistero che trasudavano dalle pareti della casa avevano catturato la curiosità di Gaia. Anche senza toccarla con mano, la ragazza ogni volta cominciava ad avvertire un’immane pesantezza, a percepire qualcosa di orribile nelle sue proporzioni, nel silenzio, nell’immobilità di quell’abitazione. Particolari inquietanti ma estremamente attraenti.

I piani superiori erano il trionfo della abbandono, l’immagine di un passato sbiadito e di tutto ciò che vi rimaneva, brandelli di vita vissuti da persone sconosciute che avevano abitato in quelle stanze lasciandovi parte di essi.

Gaia aveva visto e rivisto fotografie, abiti, diari, quadri e mille altri oggetti lasciati a marcire su mobili, dentro a dei cassetti o semplicemente gettati a terra. Non sapeva a chi appartenessero, per questo a volte tornava nella casa per cercare di capirlo e perdersi nella fantasia dimenticando a quel modo i problemi della vita al di fuori dell’immortalità di quelle pareti. Gaia amava lo stupore e il modo in cui l’inimmaginabile talvolta veniva suggerito da semplici oggetti inanimati. In quella casa le cose non erano unicamente cose. 

L’atmosfera sinistra del corridoio spinse Gaia a proseguire: si lasciò alle spalle l’accesso del seminterrato, una pericolosissima scala a chiocciola composta da pioli in legno che ormai tendevano a sbriciolarsi per l’umidità. La ragazza raggiunse la seconda e ultima porta del seminterrato, l’unica ala della casa che non aveva mai visto. Si fermò, avvertendo strani brividi che la scuotevano lungo la schiena.

Qualcosa stava cambiando: Gaia ebbe la sensazione che l’oscurità di quel luogo sarebbe stata capace di qualsiasi cosa, forse anche di sfregiare e fare a pezzi le pareti di terriccio battuto o il pavimento. In quel momento se qualcuno le avesse detto di stare in guardia, gli avrebbe dato retta.

Ma non appena la sua mano, che agì senza un comando ben preciso, girò la maniglia della porta, i presentimenti di Gaia svanirono in un lampo. 

La prima cosa che la colpì fu l’odore. Non era cattivo, però era incredibilmente forte. E non era neppure un solo odore, ma un sentore stratificato, un accumulo di tanti odori la cui vera fonte era evaporata già da un po’. La sommerse, nauseante, amaro, putrido, corrotto. Gaia notò le immense librerie che coprivano tutte le pareti della stanza, ogni scaffale che ospitava centinaia se non migliaia tra libri, enciclopedie o semplici fascicoli. Alla sua destra c’era un grosso tavolo da laboratorio, coperto da strani macchinari e provette vuote, e più in là due vasche di contenimento dai vetri spezzati. Tutte le finestrelle situate nelle parti più alte dell’ambiente, erano inchiodate e sigillate, a differenza di quella nella “stanza delle bare”. La porta da cui era entrata era talmente possente che sarebbe stata a prova di ciclone. Perfino le diverse prese d’aria tra le finestrelle, di vitale importanza per una stanza sotterranea come quella, erano tappate con un particolare nastro sigillante. Qualcuno aveva cercato disperatamente di eliminare qualunque corrente d’aria, come se il mondo esterno lo spaventasse.

Gaia ricordò di aver sentito raccontare, dalla signora che gestiva l’albergo all’entrata di Nibelhime, di un professore e della sua equipe che molti anni addietro si fermarono nella tenuta per sviluppare strani esperimenti scientifici, approvati e finanziati dalla Shinra. La signora inoltre sosteneva che dentro quella casa fossero morte tante persone innocenti per colpa del professore, compresi diversi soldati qualificati, qualche agente della Shinra e dei ricercatori stessi. Gaia purtroppo non ricordava nomi o altri particolari perché di solito prestava poca attenzione alle chiacchiere logorroiche della gestrice dell’albergo.

Infatti quella stanza sembrava proprio una sorta di laboratorio rozzo, una fabbrica degli orrori per rimanere in tono con il nomignolo della casa. Gaia svoltò a sinistra, passando in un breve passaggio fiancheggiato da altre librerie piene di volumi polverosi raggiungendo il fondo del laboratorio. Vi trovò una cattedra impolverata e una grossa poltrona verde coperta da ragnatele, situate al centro di quel piccolo ambiente circolare, le cui pareti erano sempre attorniate da scaffali e libri. Era una postazione tranquilla, una sorta di trono da cui quel professore, di cui Gaia non ricordava il nome, avrebbe potuto controllare tutto il laboratorio.

Per terra, qua e là, vi erano dei tomi impilati e Gaia ne prese in mano uno a caso, con la vana speranza di poter trovare qualche informazione sul professore.

Tra le pagine giallastre di quel volume, la ragazza vide anni e anni di dichiarazioni consegnate all’inchiostro, sovrapposte, riscritte, corrette, scritte sia a mano che a macchina, in parte leggibili in parte non, un’accozzaglia infinita di parole, date, nomi, termini scientifici, disegni, frecce, numeri e calcoli.

La ragazza stava perdendo la vista nel tentare di decifrare quelle pagine e non appena il suo sguardo si alzò dal libro per riposarsi, udì delle voci in lontananza,

Gioco dell’immaginazione o realtà?

Davvero qualcuno aveva osato entrare lì dentro, fino al seminterrato?

Erano venuti a cercarla?

Dopotutto era fuggita di casa senza dire nulla, a differenza delle altre volte.

Gaia richiuse il libro con entrambe le mani, e le pagine rilasciarono una grossa nuvola di polvere non appena sbatterono tra esse. Appoggiò velocemente il volume dove lo aveva preso e si nascose sotto la scrivania, scostando la poltrona. Sperava di non essere vista e non voleva nemmeno fuggire, perché moriva dalla curiosità di scoprire l’identità degli intrusi.

 

“Questo posto è orrendo!” Scarlet urlò dopo aver appoggiato un piede sul penultimo scalino della scala a chiocciola. Ogni gradino era pericolosamente cedevole e la donna procedeva attaccandosi alle fughe dei mattoni che costituivano la tromba della scala. Non c’era alcun corrimano o appoggio, per questo scendere era così difficile. E Scarlet non si era facilitata la sua impresa visto che indossava un altro paio di costosissimi tacchi neri. Dopo una breve interruzione del lavoro per riprendersi dall’incidente con Coley, la donna era già tornata in servizio. Il Presidente però non aveva badato ad assegnarle un compito facile.

“E’ la prima e ultima volta!” la donna si sfogò raggiungendo l’agognata fine della scala.

Davanti a lei la stavano attendendo due guardie armate vestite distintamente di nero e blu, la divisa tipica dei Turk, e l’immancabile Hojo. Quando Scarlet scese dalla scala, il professore fece strada ai tre, indirizzandosi verso il buio grave del corridoio alle sue spalle e senza indugiare ulteriormente.

Scarlet osservò con evidente disappunto l’atmosfera spaventosa di quel luogo, prima che una delle due guardie la invitasse a sbrigarsi.

Quell’uomo era simile ad un armadio, parlando di proporzioni. Alto, spalle larghe, braccia e petto robusti. Portava occhiali da sole scuri, e Scarlet si chiese come potesse vederci in un posto così privo di luce. Il suo volto portava lineamenti decisi, era calvo e indossava molti orecchini su entrambi i lobi delle orecchie.

“Non sarà una cosa lunga, vero Rude?”

Il Turk si guardò intorno, aggiustandosi il nodo della cravatta.

“No. Il professore ha bisogno di una singola cosa poi potremo partire.

Scarlet sospirò, rincuorata dall’informazione e si accodò insieme a Rude e agli altri due compagni.

 

Gaia udì la porta spalancarsi, seguito da diversi passi che si avvicinavano sempre di più. Alcuni dei nuovi arrivati si fermarono subito, mentre altri continuarono a camminare, più lenti rispetto a prima e probabilmente anche con più circospezione. La ragazza spostò il volto da dietro la scrivania, permettendo ai suoi occhi castani di vedere che cosa stesse accadendo. Due persone vestite di un completo scuro stavano controllando la stanza, ognuno impugnando una pistola argentata.

Una delle due guardie si voltò verso Gaia e la ragazzina tornò a nascondersi con uno scatto, mentre il cuore le era saltato in gola.

 

Mi vedranno di questo passo… sono finita…

 

Gaia si portò automaticamente una mano sulla bocca per bloccare un urlo provocato dall’apparizione improvvisa di una delle guardie. Era un uomo calvo che aveva appoggiato le mani sulla scrivania, esponendosi oltre di essa, dalla parte opposta a dove si trovava Gaia. L’uomo fortunatamente non abbassò lo sguardo, e perciò non vide la presenza della ragazzina. Fissò i libri, la poltrona, si guardò intorno poi alzò le mani dal tavolo. Girò sui propri tacchi e tornò nell’altra parte del laboratorio.

Gaia sospirò interiormente, sollevata dal non essere stata scoperta.

 

Rude ritornò dai suoi colleghi e dal professore, che si erano fermati all’ingresso.

“Tutto in ordine, professore.”  Il Turk confermò, riponendo nella fondina la sua pistola. L’altro Turk fece lo stesso. 

“Bene.” Hojo sbottò, dirigendosi verso uno scaffale di libri.

 

Gaia si risistemò in modo tale da poter osservare le azioni di quelle persone senza essere vista. Avvertì una strana fitta al cuore quando la guardia chiamò “professore” uno degli intrusi. Che strana coincidenza.

Gaia non ebbe dubbi nel riconoscere lo scienziato dal resto del gruppo. I due tizi in nero erano sicuramente guardie del corpo, lo confermò anche il fatto che avessero con sé delle pistole; la donna vestita con un abito bianco e succinto non aveva minimamente l’aspetto di una scienziata o qualcosa di simile.

Rimaneva un uomo magro, alto e dalla schiena curva, che indossava abiti scuri coperti da un camice bianco. Il suo aspetto era inquietante, ma dava comunque l’idea di essere un professore, una specie di intellettuale dal fare asociale ed arrogante.

Gaia lo osservò mentre si sistemava i suoi spessi occhiali da vista e si scostava dalla donna e dalle guardie.

“Faccia presto doc… questo posto puzza orribilmente…” la donna sbottò, tappandosi il naso con il pollice e l’indice. Le due guardie alzarono gli occhi al cielo dopo il suo commento.

Gaia notò che il professore non venne minimamente toccato dall’esortazione della donna. Camminò tranquillamente fino ad uno scaffale, cominciando a scrutare le copertine dei vari libri esposti. Dopo un minuto circa, il professore allungò una mano ossuta verso un volume nero bordato di giallo, lo tirò fuori dalla libreria e fece alcuni passi all’indietro prima di aprirlo. I suoi occhi brillarono, un guizzo di luce che Gaia riuscì a scrutare persino dalla sua postazione lontana. Ma l’espressione dell’uomo mutò drasticamente non appena il libro fu completamente aperto.

Il professore rimase impietrito, lo sguardo puntato sulle pagine del volume. Le sue dita si irrigidirono, aumentando la pressione sotto la copertina del libro.

“Impossibile…” mugugnò a denti stretti. Le sue parole sibilarono, acide come il veleno di una vipera.

Cosa c’è ADESSO che non va?” la donna chiese con noia, sbattendo le mani sui fianchi.

Il professore richiuse il libro e lo lanciò a terra, verso Gaia, con un tale impeto da fare sobbalzare tutti i presenti. La ragazza si concentrò sul tomo che giaceva a pochi centimetri da lei. Durante l’impatto con il pavimento, il volume si era aperto e Gaia vide che al posto delle pagine vi era una cavità circolare, probabilmente quel libro serviva come contenitore segreto per qualcosa di altrettanto segreto.

“Non è qui!” il professore urlò, puntando l’indice verso il libro.

Gaia tornò a nascondersi dietro la scrivania, non appena gli sguardi si indirizzarono di nuovo verso la sua direzione, o meglio verso il tomo.

“Passiamo al piano B, professore?” la guardia calva chiese con impassibilità.

Il professore non rispose, ma si diresse come un treno fuori dalla stanza, alzando una leggera corrente che disturbò la donna e le due guardie.

“Suppongo sia un sì.” L’altra guardia affermò, seguendo il professore.

La guardia calva uscì senza proferire una parole, mentre la donna si guardò intorno.

“Ancora quelle scale??” si lamentò con una smorfia di disappunto. Lasciò la stanza con molta indecisione.

Gaia uscì dal suo nascondiglio dietro la scrivania soltanto quando il silenzio tornò sovrano nell’abitazione. Sentì l’urgente bisogno di scoprire come mai quei quattro strani individui avessero preso il disturbo di entrare nel seminterrato della tenuta. Voleva capire se quel professore c’entrava qualcosa con quello citato più volte dalla gestrice dell’albergo e… che diamine era il piano B? Di sicuro c’entrava qualcosa con l’oggetto che il professore cercava con così tanta smania.

Non c’era un minuto da perdere.

Ignorando quella piccola vena di paura che le suggeriva di lasciar perdere, Gaia lasciò il laboratorio, uscendo dall’abitazione nello stesso modo in cui vi era entrata, Si graffiò leggermente le ginocchia quando tentò di uscire dalla finestrella con eccessiva fretta. Ma il fastidio di quella ferita da due soldi non la preoccupò più, non appena vide che cosa c’era parcheggiato nel giardino della tenuta.

Un elicottero. Enorme, munito di grosse mitragliatrici e recante l’inconfondibile simbolo della Shinra sulla fiancata sinistra. Le grosse pale del velivolo erano immobili e durante l’atterraggio avevano piegato le erbacce del giardino, portando alla luce una piattaforma d’atterraggio recante una P al centro, seppellita da chissà quanto tempo sotto quelle sterpaie. 

Il sangue di Gaia ribollì, non appena riconobbe la fazione nemica.

La Shinra era a Nibelhime.

Forse c’era anche la remota possibilità che fossero venuti sin lì per la faccenda di Coley. Forse avevano scoperto che una talpa aveva diffuso a Reeve delle informazioni su Coley. Forse erano lì per uccidere chiunque fosse entrato in possesso di quei dati.

Shelke. Eve. Erano in pericolo.

Gaia si riprese dallo shock, decidendo di agire. Il pilota dell’elicottero, uno strano ragazzo dai capelli rosso fuoco e vestito di nero, era appoggiato al velivolo, mentre leggeva una rivista. Non sembrava molto attento, ma Gaia fece comunque molta attenzione nel lasciare il giardino. Strisciò lungo le pareti, cercando di posare passi leggeri e di non urtare contro nulla. Con qualche difficoltà, voltò l’angolo dell’abitazione, raggiungendo la parte anteriore del giardino. Si mise a correre, scavalcò la recinzione in mattoni e corse sulle tracce dei nemici della Shinra. In lontananza, incamminati verso i monti Nibel, vide la sagome dei quattro intrusi.

 

Sono ancora in tempo.

 

“Gaia!”

Gaia si freddò, bloccando i movimenti a pochi metri dalla tenuta. Girò solamente il volto per vedere chi l’avesse chiamata con tale severità.

“Ti è andato di volta il cervello? Scappare a quel modo e farci prendere una tale paura!”

“Eve… No aspetta! E’ urgente!”

Gaia si voltò completamente, mentre la sorella percorse la breve distanza che le separava. Eve non mostrò alcun cenno di comprensione verso Gaia. La fronte era corrugata e gli occhi ridotti a due fessure strette, intanto che le sue iridi azzurre bruciavano di rabbia.

Gaia si impuntò altrettanto, puntando un dito verso la strada irta che portava ai monti Nibel.

“Quelli della Shinra sono qui!”

“Un motivo in più per rincasare, forza!” Eve indicò la propria abitazione mentre Gaia si incupiva in volto.

“A te non importa di Coley, vero? E se fossero venuti qui per lei?”

“Coley è a Midgar! Se sono venuti qui ci sarà un altro motivo. Abbiamo già abbastanza problemi, non complicare ulteriormente le cose!” Eve si mise le mani in tasca, mostrando l’intenzione di tornare a casa. Gaia però non si mosse di un millimetro. Si voltò di nuovo verso la strada che portava ai monti Nibel, notando che ormai i quattro individui erano scomparsi tra la bruma. Altri istanti e Gaia avrebbe perso le loro preziose tracce per sempre.

“Devo seguirli!” Gaia affermò, voltandosi di scatto per raggiungere gli uomini della Shinra.

“Ferma!” Eve rispose con foga, lanciandosi all’inseguimento della sorella.

Gaia era più atletica di Eve e di sicuro correva anche più veloce. Per questo raggiungere Gaia sarebbe stata un’ardua impresa per la sorella più grande.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** What lies beyond crimson eyes? ***


Capitolo 5: what lies beyond crimson eyes

L’ultimo dei capitoli che avevo già scritto, dopo ci metterò un po’ a pubblicare nuovi capitoli… grazie per l’attenzione, non vi deluderò J

 

SOLITO DISCALIMER: non sono miei ne Final Fantasy VII ne Square Enix, ne la canzone qua sotto

 

Capitolo 5:

 

Oily marks appear on walls
Where pleasure moments hung before.
The takeover, the sweeping insensitivity of this still life.
Hide and seek.
Trains and sewing machines. Oh, you won't catch me around here
Blood and tears, they were here first.

 

Hide and Seek –Imogen Heap-

 

Tic. Tac.

Oscurità, dolore fisico e… un totale senso di smarrimento. Ecco cosa provo.

Tic. Tac.

L’interminabile corso del tempo, a volte inesorabilmente lento a volte tremendamente rapido. Ecco cosa temo.

Tic. Tac.

Ma…c’era un orologio in questa stanza?

Tic. Tac.

Perché la mia memoria è spappolata? Perché nella mia mente gli eventi non sono registrati in maniera continua? Perché ricordo solo suoni atroci e immagini indefinite? Gli ultimi cinque mesi sono stati un calvario indescrivibile e questo sesto mese si è preannunciato peggiore dei precedenti. Che dannata fortuna.

Tic. Tac.

E che cos’è questo rumore?!

Io non ci duro in questo posto. Morirò, me lo sento. Non rivedrò più Wutai. Non potrò più vedere i miei amici, mia madre, mio padre… E se per caso riuscissi a scappare da qui, non mi riconoscerebbero più. Direbbero “chi è quel mostro?”. Gridare il mio nome non servirebbe a nulla. Sputare i polmoni nell’urlare ai sette cieli che sono Coley, non basterebbe a farmi accettare.

Tic. Tac.

E’ evidente che tutti mi odiano. Ecco perché sono qui. Mio nonno me l’aveva detto più volte. Non sarei mai dovuta nascere. Io sono un mostro. Se la gente, se i miei genitori avessero visto quello che ho fatto alla donna bionda e al laboratorio… Non oso nemmeno pensarci. Meglio se ragiono su come fuggire da qui, invece che a blaterare a vuoto. Sempre meglio essere fuori da questo inferno, piuttosto che rimanere per sempre in mezzo a questi squilibrati.

Tic. Tac.

Prima, però, devo capire cos’è questo rumore.

 

 

La giornata per Lilian era iniziata noiosamente, obbligata dagli eventi della sera precedente a sorvegliare le condizioni di Coley. La ragazza giaceva immobile sul letto, la pelle bianca macchiata da diversi lividi sparsi su tutto il corpo, mentre un apparecchio portato apposta nella camera della giovane registrava il suo battito cardiaco con un ticchettio meccanico.

Lilian aveva ancora davanti agli occhi la furia disumana di Coley, la sua rabbia e la violenza con la quale i soldati l’avevano calmata brutalmente.

“Ti sarebbe bastata un’iniezione di anestetico e tutto si sarebbe calmato.” Lilian pensò ad alta voce, sistemandosi sulla sedia dove si era seduta accanto al letto.

“Non c’era bisogno di tanta violenza” l’assistente proseguì, disgustata dal ricordo dei maltrattamenti che Coley aveva ricevuto.

La porta della stanza si aprì dolcemente, Lilian lo avvertì a mala pena, ma non distolse comunque lo sguardo dalla ragazzina.

“Come sta Rachael?” qualcuno chiese sinistramente.

Lilian non riconobbe quella voce. Era profonda, cupa e talmente priva di espressività che avrebbe fatto raggelare il sangue di chiunque. Non assomigliava al tono autorevole del presidente Rufus, e nemmeno al sibilo insopportabile di Hojo, alla voce stridula di Scarlet, al tono arrogante di Rosso. E poi chi era Rachael?

Lilian si voltò, parlando prima di poter metter a fuoco la sua vista.

“Mi dispiace ma il nome di questa ragazza è Coley… ha sbagliato esperimento” Lilian finì la frase non appena il suo volto fu faccia a faccia con l’interlocutore. Ma davanti a sé vide solo una chiazza nera, un qualcosa di estremamente inspiegabile.

Rasentava l’impossibile ciò che Lilian tentava di osservare: una macchia d’ombra, che resisteva alla luce fredda del neon della stanza, immobile, impassibile e carica di inquietudine.

“E’ proprio qui che vi sbagliate..la macchia rispose.

Lilian corrugò la fronte, mentre dentro la sua mente sorgeva il dubbio che stesse solamente sognando. Come poteva parlare con un’ombra?

La macchia si rimpicciolì, mentre strane onde di luce violastra plasmavano l’ombra dandole una sembianza umana. Lilian rimase più che stupita di fronte a quell’improvvisa trasformazione: nella sua breve carriera di scienziata mai e poi mai aveva assistito ad un tale fenomeno.

La donna si alzò dalla sedia, allontanandosi intimorita da quella cosa.

Fu proprio nel momento in cui Lilian si appostò nell’angolo della camera, spingendo la schiena contro la fredda parete, che riconobbe l’identità di quell’essere. Nero, soprannominato anche la profonda oscurità, un nome che designava un grottesco profilo all’immaginazione di Lilian… ma non solo.

Nonostante tutta la macchia se ne fosse andata, Nero continuava ad essere avvolto da una sinistra aura scura, che rendeva difficile il suo riconoscimento.

Come è riuscito ad entrare qui dentro?” Lilian chiese, non rincuorata dall’aver identificato Nero.

“Nulla è irraggiungibile per me.” L’ufficiale rispose, freddo e apatico. “Rachael ha bisogno di me.

“Le ho detto che la ragazza si chiama Coley!” Lilian insisté con autorità. Nero rivolse lo sguardo sulla donna, anche se la sua espressione era indecifrabile poiché nascosta dallo strano bendaggio che gli avvolgeva il viso.

Ma io non sto parlando di Coley.”

“A chi si riferisce allora, dato che in questa stanza ci siamo solo io, lei e la mia paziente?” Lilian chiese alzandosi dalla parete su cui si era appoggiata.

Gli occhi di Nero si strinsero, suggerendo all’assistente che l’uomo la stesse deridendo.

“Coley è la sua paziente e non sa nemmeno di Rachael… mi stupisce… che incompetenza!” Nero rispose distogliendo lo sguardo dalla scienziata e portandosi al fianco del letto su cui giaceva Coley.

“Adesso basta! O mi dice chi è questa Rachael, cosa c’entra con Coley, o chiamo le guardie affinché la portino via con la forza da questo luogo!” Lilian si spiegò con eccessiva agitazione. Nero si chinò su Coley e le sussurrò qualcosa nell’orecchio tenendo gli occhi fissi su Lilian. L’assistente si agitò ulteriormente, poiché Nero si era avvicinato a Coley senza permesso.

La ragazza, d’altro canto, udite le parole dell’ufficiale Zvet, si contorse leggermente tra le coperte prima di aprire con tranquillità gli occhi.

Lilian rimase sbigottita, mentre Nero si allontanò dal letto, osservando questa volta le reazioni di Coley.

 

Nonostante la mia curiosità nel comprendere la sorgente di questo straziante ticchettio, il mio corpo non rispondeva ai miei comandi. Volevo aprire gli occhi, ma era come se le mie palpebre fossero diventate pesantissime, e le mie poche forze non bastavano ad esaudire il mio ordine. Sentivo male ovunque, alle gambe, al costato, persino il naso mi doleva. Mi ricordo che diverse persone mi avevano aggredita nel corridoio, e perciò suppongo che questi dolori siano una conseguenza del loro intervento. Poi il nulla, seguito da un ticchettio. Mentre mi ero persa nello sforzo di ricostruire quei momenti ancora così estremamente confusi, qualcosa di profondo, di cupo, parole strane, incomprensibili ma dal suono ipnotizzante mi giunsero all’udito. Le ascoltai, incapace di fare altrimenti, e mi persi nel suono di quelle lettere.

 Veni ad me, Rachael

Rachael.

Qualcuno mi aveva chiamata così, ne ero sicura.

Chi era Rachael?

Cos’è questo, un altro sogno bizzarro? Un altro tentativo di Hojo di manipolarmi?

Eppure non sentii alcun disagio, come se quel nome mi appartenesse per davvero. Sentivo che quella Rachael era dentro di me, che io ero Rachael.

Ma cosa sto farneticando?

Il mio nome è Coley e non sono Rachael.

Tuttavia qualcosa era cambiato.

Percepii che la forza mi stava tornando, calda e potente come uno schiaffo di luce.

Ero sicura che sarei stata capace di risvegliarmi da questa specie di coma e così feci.

 

 

Yuffie si era preparata con molta calma, ascoltando il consiglio di Vincent. Aveva dimesso con piacere il suo kimono verde scuro, tolto buona parte degli accessori che un’Imperatrice era obbligata ad indossare e si era vestita con degli abiti molto più semplici e comodi.

Mentre finiva di allacciarsi la cintura dei pantaloncini neri che aveva scelto, la donna fissò la borsa che giaceva sul letto. Dalla tasca più grande uscivano tre punte della sua arma, Conformer, lo shuriken più prezioso della sua collezione. Yuffie temeva che le sue braccia avessero ormai dimenticato come usare quell’arma letale.

Era passato tantissimo tempo da quando la grande ninja Yuffie era stata costretta a deporre i suoi amati shuriken.

La cintura scivolò sotto la cinghia e Yuffie era pronta a lasciare la stanza. Prese la borsa e se la gettò oltre la spalla destra. Richiuse la porta della camera e percorse il corridoio, pronta ad andarsene dal palazzo Imperiale. Fece diversi passi e poi si fermò. Yuffie appoggiò la borsa a terra e si portò vicino ad una delle tante porte che spuntavano dalla parete del passaggio. La aprì, quasi con timore, lasciando schiusa soltanto una fessura, abbastanza sufficiente da permettere ai suoi occhi grigi di poter scrutarne l’interno.

Era la sua vecchia stanza.

La stanza che aveva ceduto a Coley.

 

Presto tornerà ad essere occupata.

 

I ricordi erano ancora così nitidi da sembrare pura realtà. La risata di Coley, i suoi passi felpati, il modo in cui sbatteva la porta, la sofferenza dipinta sul suo volto quando doveva compiere la cerimonia del tè al pomeriggio, il calore del suo abbraccio e gli sguardi di intesa che scambiava con il padre.

“Yuffie, sei pronta?” la voce calda di Tifa fece ritornare la mente dell’Imperatrice alla realtà.

“Sì.” Rispose, chiudendo velocemente la porta della stanza e riprendendo in mano la sua borsa.

Tifa sorrise e si portò al fianco dell’amica. Le due si portarono così fuori dal palazzo.  

“Vincent e Cloud hanno deciso di fermarsi prima a Kalm per consultarsi con Reeve. Tifa comunicò a Yuffie mentre percorrevano il lungo porticato esterno. In lontananza, raggruppati in mezzo alla piazza antecedente la Pagoda si erano riuniti tutti i loro compagni e qualche guardia diffidente.

“Suppongo che noi sette non bastiamo a raggiungere i quartieri generali della Shinra. Non dopo che i Deepground hanno preso le loro difese. Tifa proseguì.

Yuffie ascoltava l’amica ma non mostrava alcuna preoccupazione in volto.

“Tifa… dimmi che c’è speranza…” Yuffie chiese timidamente, fermandosi di camminare. Tifa fece lo stesso, e guardò con intensità l’amica.

“Dovessi buttare giù a calci e pugni tutta Midgar… sì Yuffie… la speranza c’è.

L’Imperatrice fissò Tifa, il suo volto pieno di fiducia, il suo sguardo che ardeva di ottimismo.

“Ma la speranza non basterà a porre fine a questo calvario. Una voce tuonò alle spalle delle due donne.

Tifa corrugò la fronte mostrando un’evidente frustrazione provocata da quella frase. Alzò lo sguardo da Yuffie e vide che dietro di lei era apparso Godo.

Yuffie si voltò e non appena riconobbe il padre cambiò colore in faccia.

“Chi ci assicura che una volta riportata Coley a Wutai, con molti inevitabili sforzi, quelli della Shinra non ce la riportino via?” l’uomo chiese, severo e tremendamente imperturbabile.

“Non accadrà!” Tifa tuonò.

“Questa faccenda non ti riguarda. Hai sempre disprezzato Coley nonostante il rispetto che ti porta. Come mai d’un tratto provi tutto questo interesse verso di lei?” Yuffie urlò facendo spaventare Tifa.

Perché mi preoccupo per te. Quella ragazza ti ha portato solo dei dispiaceri. E la tua fragilità che ne deriva non apporta alcun beneficio alla nostra gente. Hanno bisogno di una leader forte, non di una persona distrutta dal dolore come te. Godo affermò stringendo i suoi pugni dietro la schiena.

Yuffie lo guardò di sbieco, socchiudendo gli occhi.

Cosa vuoi insinuare?”

“Non puoi lasciare Wutai. Abbandona Coley al destino che si merita.

“IO faccio quello che mi pare e piace.”

“Tu provaci.”

Tifa osservò la discussione senza intromettersi, ma sentiva che in qualche modo doveva interrompere la cosa. La situazione stava drasticamente precipitando.

“Cos’è questa? Una minaccia, Godo?” Yuffie domandò, quasi sussurrando, portandosi faccia a faccia col padre.

Se la intendi così… sì.” Godo sibilò, fissando con superiorità il volto della figlia a pochi centimetri dal suo.

“Yuffie…” Tifa la chiamò, senza alzare il tono della voce.

Padre e figlia passarono diversi istanti a scrutarsi direttamente, un duello muto ma che di sicuro valeva più di ogni frase pronunciata fino ad allora. Tifa sapeva dell’incompatibilità tra Yuffie e Godo ma mai e poi mai avrebbe immaginato che il loro antagonismo arrivasse a tali (infimi) livelli. Godo era la sintesi del cinismo mentre Yuffie non dava evidenti segni di cedimento. Come poteva Godo riservare così tanto odio nei confronti di una ragazzina dolce e speciale come Coley?

 

Il matrimonio, già…

 

Tifa se ne ricordò solo in quell’istante. Godo, secondo le antiche tradizioni di Wutai, aveva già accordato il matrimonio di Yuffie con l’erede di un’ottima casata della città. Questo perchè la salute cagionevole e l’età ormai troppo anziana non gli permettevano di continuare ad essere Imperatore: lasciò il trono alla figlia, fiducioso nella realizzazione dei suoi piani. Ovvero un buon matrimonio, gli ottimi affari che ne sarebbero derivati e la stabilità del futuro di Wutai. Purtroppo per lui le cose saltarono sia perché Yuffie, una volta incoronata settima Imperatrice, rifiutò a priori di scendere a compromessi con degli estranei e sia perché aveva già trovato la persona con cui avrebbe condiviso il resto della sua vita. Se non fosse stata per la gravidanza precoce di Yuffie, Godo, all’oscuro di tutta la vita sentimentale della figlia, sarebbe riuscito in un modo o nell’altro a farla sposare con il compagno da lui scelto, persino a costo di ricorrere alla forza.

L’uomo, troppo orgoglioso e attaccato alle tradizioni, vide crollargli il mondo addosso quando venne a sapere dello stato interessante di Yuffie. Ma lo smacco più grosso fu sapere che ad essere il padre della futura nipote non era un originario di Wutai ma bensì un certo Vincent. Un uomo oscuro, dalla reputazione non proprio brillante e dalla fama per essere la vittima di uno degli esperimenti più raccapriccianti di Hojo. I pensieri di Godo si annebbiarono per molto tempo, si rifiutò di assistere alla nascita e al battesimo della nipote, si isolò dalla vita della piccola negandole ogni forma di affetto, spesso causandole dispiaceri enormi. Anche se esternamente Coley era più che normale, eccetto per quell’occhio dal colore sinistro, Godo la vedeva come una creatura malsana, un piccolo mostro, il frutto di una relazione che mai sarebbe dovuta esistere. La sua persistenza e la sua ostilità riuscirono ad impedire almeno il matrimonio tra Yuffie e Vincent. Ma ormai tutto il suo brillante progetto era andato in fumo. Ad ereditare la carica di Yuffie sarebbe stata una nipote dal sangue impuro, una ragazza che la gente di Wutai non avrebbe riconosciuto come propria guida portando inesorabilmente alla fine della gloriosa storia di Da Chao.

Tifa rabbrividì nel ricordare le parole di Yuffie riguardo un episodio accaduto qualche anno precedente. “Le ha detto che non merita di esistere… Coley ha pianto per un giorno intero… quel bastardo…” così le aveva riferito in lacrime. E quello era solo un esempio della cattiveria gratuita di Godo.

E tutta la colpa, naturalmente sempre secondo Godo, ricadeva sia sui sentimenti impulsivi della figlia, sia sulla nipote, vittima innocente di una faida senza logica umana.

 

Se Godo fosse stato mio padre a quest’ora sarei già impazzita.

 

Yuffie e Godo smisero di fissarsi e Tifa prese la borsa di Yuffie, pronta ad unirsi al resto dei compagni.

“Yuffie!” Tifa la richiamò, stavolta con insistenza.

L’Imperatrice si girò, lasciando dietro le spalle la figura del padre.

“Coraggio segui i tuoi compagni Yuffie… e non sarete mai più i benvenuti a Wutai. Godo minacciò, contraendo tutti i muscoli sul viso.

Yuffie lo ignorò, così come Tifa.

Era tempo di lasciare per davvero Wutai.

 

“Ad arrivare a Kalm non ci vorrà molto… una volta in volo contatteremo Reeve. Barret spiegò gesticolando.

“Così una volta arrivati là non ci basterà che organizzare l’attacco e partire per Midgar.” Red aggiunse sorridendo.

“La sede operativa del W.R.O ci ha assicurato che non ci sono contingenti nemici sulla rotta Kalm - Midgar. Questo ci porterà un ulteriore risparmio di tempo.”  Cloud terminò l’analisi, dirigendo l’attenzione su Vincent. 

“L’essenziale è muoversi inosservati. Se scoprono che ci stiamo organizzando per un salvataggio, scateneranno l’inferno. Vincent aggiunse guardando Cloud. L’uomo annuì prima di concentrarsi sulle figure di Yuffie e Tifa, che si stavano avvicinando al loro gruppo.

Cloud, dall’espressione delle due donne, capì che qualcosa non andava.

“Come mai così tanto tempo?” Barret domandò infilandosi una mano in tasca.

Tifa aprì la bocca e rimase immobile per qualche secondo. Era necessario rivelare il contrattempo con Godo? Guardò Yuffie ancora scossa dalla discussione, che a sua volta fissò Vincent.

“Ci siamo perse in chiacchiere, scusate.” Yuffie aggiunse, cercando di nascondere la rabbia della sua voce e riportando l’attenzione su Cloud.

“Allora possiamo andare. Cloud, con il suo solito fare da capitano finì la frase e tutti obbedirono. Il gruppo lasciò il palazzo, ignari che Godo li stesse osservando da sotto il porticato, e che erano stati scortati da diverse guardie. Tifa e Cloud si misero davanti al gruppo, seguiti da Barret e Red, mentre Yuffie e Vincent si sistemarono in fondo.

Vincent fissò Yuffie per tutto il cammino, sapeva che prima aveva mentito ma non voleva urtala ulteriormente con la raffica di domande che avrebbe voluto farle. E dentro di sé era certo che c’era lo zampino di Godo. Per questo si astenne dal chiedere cosa fosse successo in realtà.

Yuffie percepiva che lo sguardo penetrante di Vincent era su di lei, ormai ci era abituata a quella strana sensazione e non si sentiva più a disagio come in passato. Ma non desiderava altro che fissare il terreno che le scorreva sotto i suoi i passi, piuttosto che confrontarsi apertamente con lui in quel momento.

La gente che li incontrò per le strade li salutava con riverenza, prostrandosi in profondi inchini. Cloud notò con piacere che i colori vivaci di Wutai erano riapparsi, i drappi funebri scomparsi e l’abbigliamento degli abitanti ripristinato a standard normali. La città si stava risvegliando dal gelo del lutto, assumeva un aspetto più che umano e dava spazio alla speranza di riavere la giovane erede della casata Imperiale sana e salva tra le mura della leggendaria Wutai.

Le guardie si fermarono poco prima dell’entrata della città. Salutarono, mostrando le loro armi, l’Imperatrice e Vincent, che si inchinarono a loro volta. Davanti a loro, spuntava in lontananza la sagoma inconfondibile dell’Highwind, posteggiata nella pianura distesa che circondava Wutai.

“Arrivederci.” Yuffie mormorò a nessuno in particolare, prima di spostare il suo sguardo sull’aeronave che rappresentava il futuro che l’attendeva. Le sue labbra finalmente si distesero in un sorriso non appena sentì le grida di Cid che provenivano dalle vicinanze dell’aeronave.

“Ci vogliamo dare una mossa laggiù!!??! I motori si stanno surriscaldando!!

“Datti una calmata Highwind!” Barret rispose urlando come un forsennato.

“Caproni!!!” il pilota rispose, o meglio fu quello che l’eco delle sue grida comunicò.

 

 

Passo dopo passo, metro dopo metro, sentiero dopo sentiero la corsa – rincorsa di Gaia ed Eve si era protratta sino al cuore dei monti Nibel. Eve ormai aveva dimenticato come mai stesse inseguendo con così tanta foga la sorella, mentre Gaia ardeva dal sapere in che posto i tirapiedi della Shinra stessero andando. 

Gli uomini giunsero di fronte ad un ennesimo bivio del percorso, fermandosi ad osservare i dintorni. Il sole che batteva sulle rocce violastre dei monti rifletteva una luce irreale che illuminava il cielo e la foschia di un colore innaturale, scuro, che ricordava le atmosfere fredde della sera.

Gaia interruppe all’improvviso la sua corsa per mantenere una distanza di scurezza, temendo che si potesse avvicinare troppo al suo nemico per poi essere scoperta. E non ne valeva la pena dato che l’inseguimento durava da più di un’ora. Eve andò a sbattere contro la schiena di Gaia, urtando il naso contro una scapola.

“Ahi!” urlò, indietreggiando dopo l’urto e portandosi una mano sul naso dolorante.

“Shhhh!” Gaia ordinò alla sorella mettendosi l’indice contro le labbra.

Le ragazze ripresero fiato, mentre cercavano di capire che cosa stessero dicendo gli uomini della Shinra. Il professore sembrava avere dei problemi. O meglio, creava dei problemi alle guardie e alla donna poiché voleva proseguire da solo.

“Cos’ hanno da dirsi?” Eve chiese sussurrando.

“Adesso ti interessa saperlo?” Gaia domandò con malizia. “Credevo che tu fossi a favore del rientrare in casa e pretendere che non fosse successo nulla.

E cosa potrei fare se non interessarmi? Mi sono talmente persa a seguirti alla cieca che mi sono fatta trascinare in questo pasticcio. Tornare indietro dopo questo sforzo sarebbe da idioti.

Gaia guardò con aria di vittoria la sorella.

“Dai, avanti… sottoponimi ad una ramanzina degna di quelle della mamma…” Eve affermò chiudendo gli occhi in segno di sconfitta.

“Sono contenta che tu abbia capito l’importanza di questo, tutto qui…”

“Sì sì, come no… guarda! Si stanno muovendo!”

Eve e Gaia aspettarono qualche secondo prima di proseguire con l’inseguimento, questa volta senza correre ma procedendo con passo sostenuto.

“Andranno avanti ancora per molto?” Eve chiese.

“Speriamo di no..” Gaia rispose.

 

Hojo era particolarmente irritato. Non solo era stato costretto a portarsi con se queste persone, dei pesi morti che rallentavano con insulse domande il raggiungimento del suo obiettivo: doveva anche sopportare le lamentele infantili di Scarlet, le incessanti domande sul da farsi di una guardia di cui non conosceva nemmeno il nome e la lentezza nel camminare di Rude. Per fortuna che il luogo segreto di cui aveva accennato a Rufus era a poche distanze da lui. La materia di cui aveva bisogno, la cosiddetta materia di restrizione, era di necessaria importanza per procedere con il progetto JEP3-3. L’alta instabilità della ragazza, le sue capacità sovrumane rappresentavano un arma a doppio taglio per il professore: c’era il rischio che durante uno dei suoi esperimenti Coley potesse perdere il controllo e scappare o peggio ancora distruggere tutto. La materia di cui sarebbe presto entrato in possesso era la garanzia che ciò non potesse accadere mai e poi mai.

Il sentiero davanti a sé cominciò a mutare: le pareti rocciose che circondavano la strada sterrata su cui camminava, stavano cambiando gradualmente colore, dal tipico viola delle pietre piene di Mako allo stato solido ad un blu intenso e brillante; la foschia si era completamente dissolta mentre dal terreno spuntavano sempre più cristalli di materia.

“Se riuscissimo a portare via tutta questa materia, potremmo ricavarci un sacco di soldi. Scarlet notò, avvicinandosi ad una grossa selce di materia. Il prezioso cristallo era di una luminosità accecante, simile a una pietra preziosa di dimensioni enormi. Anche Rude fissò la quantità di materia che spuntava dal sentiero man mano che si procedeva nel cammino. Il Turk non aveva mai visto quel genere di materia, così luminoso e limpido. Si ricordava di molti altri tipi, che andavano dal rosso infuocato, tipico delle sfere contenenti il potere delle invocazioni, a quelle verde smeraldo, infuse della potenza delle magie ordinarie e tante altre. Ma nei suoi ricordi non figurava alcuna materia così brillante e trasparente.

“Questa materia… è la prima volta che la vedo. Di cosa si tratta?” il secondo Turk chiese.

“Hmph…” Hojo rispose, portandosi le mani nelle tasche del suo camice bianco.

Gli uomini della Shinra seguirono per altri metri il sentiero, raggiungendo uno sbocco che dava su di un bellissimo specchio d’acqua. Il bagliore della materia e del riflesso prodotto dalle pareti rocciose scomparve, sostituito dall’intensità dei raggi solari. Hojo e gli altri videro un lago circolare, dalle acque limpide che rifletteva la luce del sole e l’immagine delle montagne che lo custodivano. Poco più distante dalla fine del sentiero si ergeva una cascata, altissima, che produceva un forte scroscio.

“Siamo quasi arrivati.” Il professore comunicò al gruppo prima di riprendere il cammino.

Il trillo fastidioso di un PHS interruppe i passi di Hojo. Il professore si rivoltò verso i compagni, annoiato dall’ennesimo contrattempo. Scarlet estrasse il suo telefonino dalla tasca del suo vestito bianco.

“Qui è Scarlet.” … “Sì presidente, siamo quasi arrivati. … “No…nessuno sembra aver notato la nostra presenza. … “Siamo dovuti ricorrere al piano B, la materia di restrizione della tenuta è scomparsa. … “Certo, non appena avremo nuove informazioni la contatterò.

 

“Materia di restrizione?” Eve ripeté le parole della donna bionda voltandosi verso Gaia. La sorella le ripose facendo spallucce.

“Io non conosco alcun tipo di materia che abbia a che fare con quella roba lì!” aggiunse, concentrandosi sulle mosse degli uomini della Shinra.

“Questo posto sembra un vicolo cieco. Se seguiamo il perimetro del lago ritorneremo qui, non c’è altro percorso. Solo una cascata e questo sentiero.” Eve affermò guardandosi intorno mentre la sorella controllava costantemente la situazione.

“Forse ci hanno portato in una trappola perché si sono accorti di noi?” Gaia domandò, non distogliendo lo sguardo dal professore. L’uomo sembrava molto scocciato, alterato dalla durata eccessiva della chiamata arrivata al telefono della donna.

“Se davvero si fossero accorti della nostra presenza, ci avrebbero fatto fuori da quel pezzo.” Eve rispose a bassa voce.

 

Scarlet ripose il telefonino nella tasca.

“Abbiamo poco tempo, il presidente vuole che ritorniamo a Midgar entro la serata.

“Già…” Hojo rispose acidamente.

Scarlet alzò gli occhi al cielo.

Ripresero subito il cammino, avvicinandosi alla cascata.

“Ehm, professore? Dove stiamo andando di preciso, dato che non c’è altra via percorribile se non il sentiero da cui siamo giunti sino qui?” Rude chiese avvicinandosi alle spalle di Hojo.

Lo scienziato non rispose ma, una volta raggiunta la fiancata della cascata si infilò dietro di essa, bagnandosi buona parte dei vestiti e dei capelli a causa degli spruzzi d’acqua.

Rude, il secondo Turk e Scarlet si guardarono in volto a vicenda, perplessi dalla mossa precedente di Hojo.

“Prego, proseguite pure.” Scarlet fece spazio ai compagni e indicò loro di seguire per primi il professore. Rude si tolse gli occhiali di sole e li ripose nel taschino della sua giacca. L’altro Turk si nascose la pistola all’interno della cintura dei pantaloni. Poi i due uomini si infilarono anch’essi dietro la cascata, mugugnando parole di stizza per essersi completamente bagnati.

“Eh… forza Scarlet…” la donna sospirò. Si alzò la gonna con entrambe le mani e con uno scatto veloce passò sotto l’acqua gelida della cascata, bagnandosi solo in parte. Scarlet era già pronta ad esternare la sua rabbia quando il fiato le si bloccò nella gola.

Che… che posto è questo?” la donna balbettò, avvicinandosi a Rude e all’altro Turk, anch’essi esterrefatti dalla vista di quel posto. Si trattava di una specie di caverna, buia per modo di dire, perché era costellata di enormi cristalli di materia trasparente, la stessa incontrata sui monti Nibel, che illuminavano con la loro magica lucentezza ogni millimetro dell’ambiente.

Un luogo sospeso dalle leggi del tempo, immerso in un’atmosfera incantata, resa ancora più incantevole dai colori della gamma completa di azzurri e blu che provenivano dai riflessi dei cristalli di materia che sbucavano dal terreno. Al centro della caverna vi era un altro piccolo specchio d’acqua, per essere precisi una pozzanghera limpida ma di sicuro inquinata dall’alto tasso di energia Mako che trasudava da quel luogo. Nel fondo della caverna si ergeva un cristallo enorme, alto quanto un abitazione di un solo piano, splendente come una luna pallida. Il professore vi si avvicinò con qualche esitazione, lasciando alle spalle i compagni, ancora incantati dalla vista di quel luogo.

 

Cosa facciamo? Entriamo?” Eve domandò fissando l’acqua della cascata.

“Hmmm… forse sono proprio lì dietro ad aspettarci…”

“Aspetta, aspetta… vuol dire che siamo venute qui per nulla? Che ci dobbiamo fermare per timore di un’imboscata?” Eve si voltò verso la sorella portandosi le mani sui fianchi.

“Ehi non ho detto questo!”

“Ah no? E allora, capitano, come ci muoviamo ora?” Eve chiese portandosi ancora più vicino a Gaia.

“Entriamo e se ci scoprono li riempiamo di botte. Gaia concluse gesticolando. Eve sospirò, intuendo che la prossima mossa avrebbe portato le due a grosse grane.

Silenziose come i passi felpati di un felino Gaia ed Eve scivolarono sotto l’acqua della cascata, entrando nella caverna e nascondendosi furtivamente dietro una grossa pietra che si trovava vicino l’entrata.

Che posto è questo?” Eve sussurrò, notando l’atmosfera sinistra di quel luogo.

“Non lo so…” Gaia rispose fissando i movimenti del professore e il gigantesco cristallo di Mako.

“Eve… c’è una persona là dentro?!” Gaia affermò, spaventata dalla scoperta.

“Oh cielo…” Eve alzò lo sguardo osservando ciò che la sorella le aveva fatto notare. Custodita dalla fredda consistenza della materia di quel cristallo, c’era il corpo di una donna, bellissima ma dall’aspetto inquietante. Cosa ci faceva là dentro? Era viva? O si trattava di uno scherzo della vista?

 

“Lucrecia…” Hojo mormorò avvicinandosi al cristallo. Il professore si tolse gli occhiali, li infilò in una tasca interna del suo camice e portò una mano sulla superficie liscia e fredda del cristallo. I suoi occhi giallastri si persero nella bellezza della donna, gelidamente fredda e priva di vitalità come la temperatura della materia in cui era contenuta.

Hojo restò immobile per molto tempo, scrutando il volto apparentemente dormiente di Lucrecia, osservando i lineamenti graziosi del suo corpo e i riccioli castani sospesi nella materia.

“La tua forza, mia cara Lucrecia, mi darà la chiave del mio successo. Hojo mormorò, sfiorando ulteriormente il cristallo. Poi il professore si voltò, il suo profilo illuminato in controluce dal riflesso del cristallo in cui giaceva Lucrecia.

“Scarlet, la tua 9 mm… Dammela.” Hojo ordinò, prolungando scioccamente la ‘s’ del nome della donna. Il professore allungò la mano i attesa di ricevere l’arma. 

Scarlet scostò lo spacco della gonna ed estrasse la sua pistola dalla fondina legata ad una giarrettiera nera. Si avvicinò ad Hojo lentamente, il suono dei suoi tacchi che rimbombava nel silenzio della caverna, unendosi al suono dell’acqua della cascata. Sorridendo, Scarlet lasciò cadere la pistola nella mano di Hojo, che la impugnò senza problemi.

Il professore si voltò nuovamente verso il cristallo.

“Il mio amore per te resterà eterno, non dimenticarlo. Hojo sibilò, mirando dritto sul cristallo, o meglio sul corpo di Lucrecia.

Scarlet alzò un sopracciglio, meravigliata dalle parole, ora udibili, di Hojo. Era già pronta a pronunciare una battuta maliziosa sul professore ma l’iniziativa la lasciò non appena Hojo premette il grilletto della sua 9 mm. Il proiettile si conficcò nella materia, all’altezza del cuore di Lucrecia, frenato dalla consistenza del cristallo a pochi millimetri dal corpo. Hojo non sì limitò a sparare una sola volta. Proseguì, fino a disegnare con i fori provocati dai proiettili una specie di cerchio. Sparata anche l’ultima munizione, che miracolosamente non ferì la figura di Lucrecia, il grosso pezzo di cristallo si staccò dal blocco, cadendo a terra con un tonfo.

Terminata l’operazione, Hojo si girò verso Scarlet, allungandole nuovamente la pistola. La donna fissò sbigottita il professore, visibilmente eccitato per ciò che aveva fatto. Scarlet notò questo particolare vedendo il bagliore celato dietro lo sguardo di Hojo. Scarlet era sicura: quella era la prima volta in cui aveva trovato Hojo senza i suoi preziosi occhiali.

“Raccogliete quella materia. Ora, grazie ad essa, Coley non sarà più una minaccia.” Hojo affermò.

 

“…Coley…”

 

Coley… Lo sapevo che c’entrava con Coley!!

 

I pensieri di Gaia divennero uno strato sottile ed irrequieto di emozioni, un istinto meccanico che si mutò in un urlo.

“Cosa le avete fatto bastardi?!?” gridò disperatamente, uscendo allo scoperto della roccia dietro alla quale si era nascosta. La sua amica, strappata dalla cattiveria della Shinra, non poteva soffrire per colpa di uno sciocco presidente e della sua brama di potere.

Hojo, Scarlet, il secondo Turk e Rude fissarono meravigliate l’esile figura di Gaia.

Se da un lato l’ira di Gaia la stava accecando, togliendole la coscienza di capire in che razza di situazione si fosse intromessa, Eve tremava dalla paura, spaventata dalle possibili, violente, reazioni di quegli sconosciuti.

“Esigo una risposta!” Gaia si sgolò, dimenando le mani ai suoi fianchi.

Scarlet rise istericamente: che ironia essere minacciata da una ragazzina poco più grande di tredici anni. L’unica cosa ammirevole di quel gesto era il coraggio. Hojo rimase immobile, riportandosi gli spessi occhiali da vista sul naso, concentrandosi sull’aspetto così familiare della giovane.

Rude fu l’unico a reagire per davvero. Estrasse la sua calibro 20 dalla fondina che teneva nascosta sotto la giacca blu, ancora umida per essere passato sotto la cascata. Tenendo il braccio teso e lo sguardo fisso, Rude puntò la pistola su Gaia. La ragazzina, ancora incosciente del pericolo, non batté ciglio.

“Porta le mani in alto e non ti muovere. Il Turk ordinò, senza però essere obbedito. Gaia, imperterrita, rimaneva in attesa di risposte.

“Tu sei… sei la ragazzina che era in compagnia di Coley quella sera a Nibelhime…” Scarlet borbottò, facendo chiarezza tra i suoi ricordi. Gaia non poteva assolutamente ricordare, ma a sparare quel colpo fatale per Coley fu proprio l’arma di Scarlet.

“Conosce l’ubicazione di questo posto. Eliminala.” Hojo ordinò, non lasciando il tempo a Scarlet di proseguire con la sua riflessione. Rude annuì, caricando la sua pistola con un rumoroso *tack*. Gaia deglutì rumorosamente, palese sintomo di insicurezza: l’ira iniziale si stava lentamente assopendo, lasciando strada alla sua lucidità mentale di comprendere la pericolosità della situazione. Eve invece, ancora nascosta dietro alla pietra, combatteva tra l’idea di mantenere la sua pozione o di uscire allo scoperto e fuggire con Gaia. Ma chi le avrebbe assicurato che la fuga avrebbe condotto alla salvezza? Se solo la sorella l’avesse ascoltata a quest’ora sarebbero sane e salve a casa.

Ma non appena il suono dell’arma carica e pronta a sparare giunse all’udito di Eve, la ragazza si alzò, abbandonando il suo nascondiglio.

“Gaia!” urlò, facendo trasalire tutti i presenti.

E tu da dove sbuchi fuori?” Scarlet chiese, facendo cenno all’altro Turk di puntare verso nuova intrusa. La guardia obbedì ed in pochi secondi entrambe le sorelle erano sotto tiro.

“Alza le mani!” il secondo Turk urlò. Eve, a differenza di Gaia, portò immediatamente le mani sopra il capo.

“Non vogliamo fare nulla! Cercavamo solo informazioni sulla nostra amica. Eve affermò, fissando sia Scarlet sia Hojo. Il professore, aveva raccolto il pezzo di materia caduto dal cristallo in cui giaceva Lucrecia e lo stringeva a sé come se si trattasse di un bambino.

“Coley è un soggetto promettente. Ma non c’è nulla che possiate fare. Ora è proprietà della Shinra.” Hojo spiegò accarezzando il grosso cristallo che teneva tra le braccia.

Gaia aggrottò la fronte e digrignò i denti. Proprietà? Come poteva definire proprietà la vita di una persona?

“Balle!” la ragazzina gridò, così forte da smarrire l’attenzione di tutti. La sua reazione fu molto rapida, anticipando la risposta di ogni presente. Rude la perse di mira in un istante, la durata di un battito di ciglia e Gaia si era già scagliata contro il professore, afferrando un pietra che aveva raccolto prima dello scatto.

Hojo non ebbe il tempo di mettere a fuoco ciò che stava accadendo. Vide solo un rapido movimento e poi una fitta alla fronte, seguito da un rumore sordo, come quello prodotto da un ciottolo caduto a terra. Il dolore che sentiva era lancinante, accompagnato da una strana sensazione di calore che si propagò sino a scendere sulla sua guancia destra. Il professore liberò una mano dalla stretta sul cristallo e si toccò con tremore il volto. Le sua dita ossute si bagnarono non appena furono a contatto con la pelle della guancia. Ritirò la mano all’altezza del petto ed osservò con stupore la propria mano.

Quanto sangue. Il proprio sangue che macchiava con orrore le dita che avevano sfiorato la faccia.

Gaia lo aveva ferito con una pietra, colpendolo alla fronte.

Scarlet rimase impietrita ad osservare la scena, mentre Eve approfittò della distrazione generale per correre verso il Turk che la stava puntando con la propria pistola. La ragazza assestò un buon calcio nell’inguine dell’uomo, che dopo un gemito cadde a terra, lagnandosi come un bambino e coprendosi la parte delicata che gli doleva mostruosamente.

Che…” Scarlet si girò verso il Turk ed al suo posto vide Eve, in piedi con le gambe leggermente divaricate e le braccia tese davanti a sé, stringendo una pistola puntata dritto su di lei. Anche se le mani della ragazza tremavano, la risoluzione che traspariva dal suo sguardo suggerì a Scarlet che Eve era pronta a sparare.

O ci date una risposta o…” Eve disse con risoluzione, spostando la pistola sul professore. “o io sparo a lui.” Rude reagì all’istante, puntando la mira su Eve. Purtroppo per Scarlet, la sua 9 mm era priva di proiettili a causa della manovra di Hojo,perciò non poteva reagire. Tra il gruppo della Shinra e la coppia di ragazzine c’era parità. Una pistola per Rude, una per Eve.

Gaia intanto aveva raccolto altre pietre e si era sistemata vicino al professore con fare minaccioso.

Cosa volete sapere?” Rude chiese, cercando di trattare con Eve.

“Rude! Non siamo qui per fare salotto!” Scarlet lo rimproverò. La donna sembrò perdere definitivamente la pazienza. Cercò di avvicinarsi ad Eve quando fu colpita al volto da una pietra.

Scarlet urlò, portandosi le mani sul volto, già martoriato precedentemente dalla furia di Coley.

Dov’è precisamente Coley?” Eve urlò, stringendo il calcio della sua arma.

Nessuno sembrò voler rispondere. Gaia lanciò un’altra pietra sia su Hojo sia su Scarlet. La donna venne colpita sul petto e dopo l’urto, cadde a terra inginocchiandosi. Il professore invece schivò la pietra per miracolo, ma nel movimento rischiò di far cadere il cristallo.

“I laboratori della Shinra.” Rude rispose.

Scarlet ringhiò, accecata dall’ira. Diffondere informazioni riservate era l’ultima possibilità riservata ad un dipendente della Shinra. E dato che la diretta responsabile dell’intera operazione era proprio Scarlet, l’aver rilasciato tali informazione le avrebbe fatto fare una pessima figura.

“Rude!” Scarlet urlò istericamente, mentre il sangue che le usciva dal taglio sul labbro si riversava nella bocca.

 

 

 

Non ci furono parole per esprimere il mio stupore. La persona che mi trovai di fronte, quando riaprii gli occhi era il riflesso di mio padre. Anche se vestito diverso dal solito e bardato in volto di uno strano bendaggio, quello era davvero mio padre.

Eppure sentivo che la mia felicità era comunque velata di una sorta di diffidenza.

Certo, si trattava solo di una piccola macchia nera che stonava con la brillante felicità che mi nutrì il cuore in quell’istante. Quindi evitai di rovinare il momento con inutili preoccupazioni. Non mi chiesi perché fosse conciato in quella strana maniera, perché si fosse coperto il volto con quella strana cosa bianca.

Mio padre era venuto a salvarmi, tutto qua.

Bastava solo questa notizia a farmi stare bene.

 

“Papà?” Coley domandò appena riprese conoscenza. Gli occhi scarlatti della ragazza brillavano di gioia, mentre Lilian rimase più che stupita dalla reazione di Coley.

Nero socchiuse gli occhi e sorrise.

“Il mio nome è Nero. Ufficiale di secondo rango dello Zvet. Spiacente ma io non sono tuo padre.” Nero si presentò con calma, dando a Coley il tempo per riprendersi dalla delusione.

La ragazza non tolse mai lo sguardo da Nero per qualche secondo, il guizzo di felicità che c’era nei suoi occhi svanì in un attimo. L’espressione, da puro stupore, si distorse in qualcosa simile ad una smorfia.

“Coley?” Lilian la richiamò all’attenzione con dolcezza, mentre si avvicinava sempre più al letto della ragazza.

“Sono venuto qui per comunicare la tua ammissione all’interno dello Zvet. Rosso è rimasta soddisfatta delle tue capacità perciò ti ha nominato quarto ufficiale.” Nero proseguì, fissando il volto di Coley.

La ragazza si morse un labbro e si mise a sedere sul letto.

“Quarto ufficiale?” domandò con un filo di voce.

“Il tuo nome sarà Rachael, come tu saprai, un’ufficiale Zvet non mantiene mai il proprio nome di battesimo. Nero terminò.

Lilian si affiancò a Coley, accarezzandole una spalla.

“Potrò uscire da qui, quindi?”

“Oggi verrai presentata al resto della commissione. Prima però dovrai vestirti della nostra uniforme e dovrai passare un altro test con Rosso. Ti verranno a chiamare più tardi.”

Nero finì la frase e lasciò la stanza, senza preoccuparsi dello sbigottimento di Coley o della rabbia, ora assopita, di Lilian. L’assistente scosse la testa, mentre la figura di Nero spariva dietro la porta che si era chiuso alle spalle.

“Forza Coley. Dobbiamo prepararci.” Lilian incitò Coley a riprendersi dallo shock.

 

Il tuo viaggio inizia da adesso.

 

 

La situazione restava bloccata. Rude rimaneva impassibile, fermo a puntare la sua arma contro Eve; la ragazza invece aveva la sua pistola rivolta contro il professore; Gaia, stringendo tra le braccia diverse pietre, teneva sotto tiro Scarlet e Hojo. Il professore si guardava intorno smarrito, abbracciando con avidità il suo prezioso cristallo di materia. Scarlet giaceva a terra, con il volto sanguinante. Le sue urla isteriche si erano smorzate in grossi respiri, probabilmente dovuti a mantenere la calma. Inutile precisare che il secondo Turk continuava a rotolarsi a terra, straziato da dolore.

La donna si infilò una mano in tasca e, dopo aver frugato per un po’, la riportò fuori. Temeva che Gaia potesse colpirla ancora, incuriosita da quel gesto furtivo. Nelle braccia della ragazzina c’era molta più forza di chiunque potesse immaginare.

“Possiamo rimanere qui per l’eternità se non ci dite la precisa ubicazione di Coley e cosa le avete fatto!” Gaia urlò.

Passarono altri minuti di silenzio.

In lontananza cominciò ad udirsi il suono di un elicottero.

“Allora?!” Eve sbottò, scotendo la pistola.

Scarlet si alzò in piedi, non appena si accorse che i motori dell’elicottero si erano spenti, o almeno sembravano tali. Nessuno sapeva che nella sua tasca vi era nascosto il cercapersone del pilota dell’elicottero, parcheggiato ancora nel giardino della tenuta a Nibelhime.

E’ finita mocciose…” Scarlet sibilò, alzandosi da terra a stento.

“Cosa?” Gaia chiese quando all’improvviso, da dietro le spalle della sorella, apparve una figura scura attraverso la cascata d’acqua. Gaia spalancò gli occhi e tentò di lanciare un grido d’allarme rivolto ad Eve. Ma la reazione del nuovo intruso fu più rapida delle intenzioni della ragazzina.

Un flebile sparo rimbombò nell’antro della caverna, seguito da un gemito di Eve, che si accasciò a terra, rilasciando la pistola che aveva impugnato durante la resistenza. Gaia alzò rapidamente lo sguardo dalla sorella, ancora troppo inibita dallo shock per capire l’evolversi della situazione. La canna della pistola da cui era partito il colpo rilasciava una candida colonna di fumo.

Non appena i suoi occhi si posarono sull’intruso, si udì un altro sparo.

Gaia avvertì una fitta lancinante sulla spalla, che presto si immobilizzò irrigidendosi. Le pietre che stringeva a sé caddero e, prima di perdere i sensi, sentendosi all’improvviso estremamente assonnata, la ragazza riuscì ad intravedere un grosso dardo sedativo conficcato all’altezza della propria clavicola destra.

La vista si offuscò in fretta e nel cadere sbatté violentemente la testa.

 

“Sedativo?? Avresti dovuto colpirle con proiettili d’argento!” Scarlet urlò verso il pilota dell’elicottero.

Il ragazzo sorrise, riponendo nella fondina la sua arma.

“Saranno talmente imbottite di sedativo che al risveglio non si ricorderanno di nulla. Il pilota aggiunse camminando verso Eve.

“Lo spero per te, Reno!” Scarlet rispose.

“Ucciderle sarebbe stato uno spreco di munizioni…”

Reno si inginocchiò al fianco di Eve, osservando la respirazione calma della ragazzina: il sedativo era già entrato in circolo ed ora Eve dormiva tranquilla. Reno raccolse la pistola che giaceva di fianco della ragazza, porgendola successivamente a Scarlet, che si portò verso l’uscita della caverna, scavalcando il corpo supino della giovane.

“Fatele sparire da qui” aggiunse, facendo un gesto al professore, che stranamente era rimasto impassibile per tutta la durata dell’incidente e poi strappando di mano a Reno la pistola.

Si signora…” Reno rispose, alzandosi in piedi. 

“Che questo inconveniente rimanga tra noi, compreso?” Hojo sibilò prima di seguire Scarlet al di fuori della caverna.

Nella grotta rimasero solo Reno, Rude, il Turk stordito dal colpo basso e le due ragazze.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Queen Rachael ***


Capitolo 6: Queen Rachael

E’ finita! Lunedì mattina ho terminato il mio esame di maturità! WOHOOO! Non potete immaginare la mia felicità! Queste sì che sono delle soddisfazioni!!!!! Questo capitolo (scritto con un carattere leggermente più leggibile, come mi è stato suggerito J ) è più breve dei precedenti, ma recupererò presto, dato che ora ho tutto il tempo che voglio per scrivere. Da adesso le cose per Coley e Gaia cominceranno a precipitare. (Bwahahah.. come sono sadica!)

Ho anche ri-iniziato Dirge of Cerberus e… le missioni speciali sono un calvario, che è al di là delle mie capacità! (Dannato toro del piffero!)

Tornando alla storia, il bello arriverà fra poco. Grazie per le recensioni, vi adoro!

 

DISCLAIMER: mi sembra ovvio che Final Fantasy VII e Square-Enix non siano miei…

 

Capitolo 6:


But wait.
A fine line's between fate and destiny.
Do you believe in the things that were just meant to be?
When you tell me the stories of your quest for me.
Picturesque is the picture you paint effortlessly.
And as our energies mix and begin to multiply.
Everyday situations, they start to simplify.
So things will never be the same between you and I.
We intertwined our life forces and now we're unified.

 

Never be the same again –Mel C-

 

Era passato già molto tempo da quando Yuffie aveva lasciato Wutai.

Eppure la rabbia ed il disgusto di Godo non davano cenno di diminuire.

Il vecchio uomo aveva deciso di stemperare gli odi verso la figlia e tutti i suoi compagni, ritirandosi in disparte nei suoi alloggi, dove avrebbe avuto molto tempo per meditare.

Gli occhi grigi di Godo, appesantiti dalla vecchiaia scrutavano con malinconia il panorama che splendeva dal di fuori della sua stanza. La bellezza di quell’antica città era a di poco incantevole, nonostante le difficoltà che aveva attraversato lungo il corso del tempo.

Godo sospirò, massaggiandosi le tempie con entrambe le mani.

 

…Arriverà il giorno in cui Wutai dimenticherà la sua bellezza perché la disperazione e la rassegnazione saranno la sola fonte da cui attingere risorse. Arriverà il giorno in cui i ciliegi in fiore deperiranno e i loro preziosi boccioli si seccheranno, sbriciolandosi in polvere amara; arriverà il giorno in cui la terra sarà così arida e fredda che non potrà più donarci mezzi per sopravvivere; arriverà il giorno in cui le cinque divinità di Da Chao piangeranno alla vista di una Wutai deserta. Ciò che più mi irrita è che Wutai arriverà alla rovina per mezzo della testardaggine della mia famiglia…

 

Gli occhi di Godo iniziarono a bruciare, irritate da lacrime d’ira. Il suo pensiero si arrestò per un attimo di formulare previsioni catastrofiche, anche se faticava a rimanere lucido. Yuffie era la sua unica salvezza, la sua unica figlia e perciò la sua unica erede. Wutai avrebbe trovato una garanzia per sopravvivere proprio nella figura della giovane Yuffie. Ma con l’ultima piega presa dagli eventi ormai non era più così.

Il suo piccolo telefono portatile cominciò a squillare. Godo si infilò una mano all’interno del suo kimono, estraendo l’apparecchio. Sul display esterno lesse –numero privato- ed intuì al volo chi lo stesse cercando.

“Sì?” l’anziano uomo disse, portandosi il telefono all’orecchio.

“Il presidente è furioso.”

Dall’altra parte della linea squillò una voce femminile stridula ed acida, velata di rancore nascosto a fatica.

“E cosa c’entro io?”

“La posizione e la creazione del progetto JEP3-3 dovevano rimanere segreti. Sono trapelate delle informazioni e a causa di ciò c’è stato un contrattempo molto fastidioso a Nibelhime: qualcuno ha parlato troppo.”

Godo ispirò profondamente, alzandosi dal tatami su cui si seduto a gambe incrociate per meditare.

“… Io non ho nulla a che fare con quello che è accaduto. Lo posso giurare su ciò che ho di più caro al mondo.”

“Ha-ha… e ti dovrei credere? Non dopo aver visto come tratti i tuoi familiari: le tue promesse sono di poco valore.”

Godo strinse le sue dita ossute contro la superficie liscia e fredda del telefonino.

“Che cosa vorresti insinuare? Che non sono un uomo di parola? Alluderesti ad una faccenda simile dopo tutto quello che ho fatto per voi della Shinra?” Godo sbottò, agitando davanti a se la mano libera dalla presa del telefono.   

“Voglio solo dire che non mi fido di un uomo che ha venduto la propria nipote in cambio di cinque miliardi di Gil. Una bella somma ma… come si dice: la vita umana non ha prezzo. E considerato che eri a conoscenza che Coley non sarebbe andata di certo in un istituto privato o in vacanza a Costa del Sol… beh, devo dire che sei un personaggio poco affidabile.”

Godo ascoltò in silenzio, analizzando ogni parola, ogni variazione di voce dell’interlocutore dall’altra parte del telefono, ogni significato nascosto in quelle frasi. Terminato il discorso e realizzato ciò che gli era stato rimproverato, Godo uscì dalla stanza, camminando sotto l’ennesimo porticato del palazzo Imperiale, cercando di dimenticare la rabbia crescente con una breve passeggiata.

“Scarlet… Mi hai chiamato per rimproverarmi od altro?” l’uomo chiese con ironia.

“Volevo solo accertarmi che la talpa in questione non fossi tu dato che sei tra i pochi civili a conoscenza di JEP3-3. Dato che non ho ricevuto alcuna certezza, condurrò delle ricerche e spero-proprio-per-te che tu sia innocente.”

“Ci puoi giurare.”

Dall’altra parte del ricevitore echeggiò una breve risata di sfida.

“Scarlet… Coley come sta?”

“Hmph.. buona serata, Godo…”

 L’uomo si fermò di camminare, udendo il segnale ipnotizzante e ripetitivo di linea libera. Passò qualche istante prima che Godo riuscisse a staccare l’apparecchio dal suo orecchio, riponendolo nella tasca interna del kimono. Voleva essere sicuro che la Shinra operasse in modo tale che la nipote mai e poi mai avrebbe rimesso piede a Wutai. E di sicuro non avrebbe abbandonato la speranza di ottenere questa informazione.

Godo tornò nella sua stanza, continuando a pensare a ciò che Scarlet gli aveva riferito. Nella telefonata l’uomo aveva tralasciato la parte in cui ammetteva di aver fatto ben poco per impedire a Yuffie e a suoi compagni di partire a salvare Coley. Come aveva evitato di riportare che gli ex membri di Avalanche erano a conoscenza delle famose informazioni riservate, sfuggite dai quartieri generali Shinra per bocca di una talpa.

Ma ciò non significava che Godo avesse rinunciato al suo doppio gioco.

 

Quando arriverà il momento giusto, lo dirò a Scarlet.

 

 

 

Scarlet appoggiò con una mano il suo telefono sul grembo, mentre l’altra era indaffarata a premere un sacchetto contenente alcuni cubetti di ghiaccio sul volto, sfigurato dalla sassata di Gaia. Per la donna era difficile ignorare il dolore provocato dalla ferita, dato gli scossoni che riceveva stando seduta sull’elicottero che da Nibelhime li avrebbe ricondotti a Midgar.

Rude e Reno erano seduti ai posti di pilotaggio, mentre il Turk di riserva si era appisolato seduto accanto ad un Hojo sempre più silenzioso. Il professore fissava il cielo fuori dal piccolo finestrino posto al suo fianco, stringendo a se il prezioso blocco di materia di restrizione.

Scarlet lo osservò, socchiudendo ogni tanto gli occhi, e soffocando parole di stizza non appena l’elicottero saliva o perdeva quota. Da quando Hojo aveva visto la donna racchiusa nel cristallo di Mako, qualcosa lo aveva reso più docile del normale.

“Tutto bene professore? E’ soddisfatto della riuscita un po’ rocambolesca di questa missione?” la donna domandò accavallando le gambe. Il telefono scivolò, andandosi ad infilare sotto la seduta di Hojo.

“Hmmmmmmmsì…” il professore rispose a denti stretti.

Scarlet sorrise e fece di tutto per evitare di fare delle domande riguardo quella strana donna incontrata a Nibelhime.

“Presto saremo di ritorno. Nel rapporto vorrei che tralasciassimo il particolare delle due ragazzine…. Cioè, il presidente è a conoscenza dell’incidente ma non sa che a farci perdere tempo sono state due adolescenti. A proposito… come le avete sistemate?”

 

 

 

Coley si fissò allo specchio, sistemandosi la maglietta nera senza maniche che Lilian le aveva procurato. L’immagine che lo specchio rifletteva era quella di una ragazzina deperita, dal fisico atletico e sfregiato da innumerevoli lividi, tagli e cicatrici. La ragazzina si piegò verso lo specchio, portandosi una mano sul volto.

L’indice e il dito medio della sua mano sinistra scostarono le ciocche di capelli che era abituata ad avere sempre di fronte agli occhi… i suoi occhi… c’era qualcosa di strano che non aveva mai visto prima di allora.

Coley lo notò subito, avvicinandosi ancora di più allo specchio fino a toccarne la superficie con la punta del naso. Era come se nelle iridi si fosse sciolto qualcosa mischiandosi al solito colore cremisi, una sorta di fiume scarlatto che scorreva avvolgendo le pupille, striato occasionalmente da piccoli, isolati, fiotti dorati.

Era un qualcosa di raccapricciante, bello ma velato di negatività, come se dietro quegli occhi ci fosse qualcosa che stava crescendo, assopito, ma pur sempre pronto a svegliarsi chissà quando.

Un ennesimo particolare che la rendeva sempre meno umana.

Lilian entrò nella camera all’improvviso, recando qualcosa tra le braccia, facendo sbattere la porta contro il muro che a causa dell’urto rimbalzò e si richiuse in un attimo. Coley si “staccò” dallo specchio con uno scatto, e, voltandosi, osservò l’assistente.

“Scusa se ho ritardato ma ero al telefono con un caro amico… qui ci sono altri vestiti utili.”

Lilian gettò sul letto una pila di vestiti scuri e semplici, liberandosi le braccia. Poi spostò l’attenzione su Coley, che la stava fissando incuriosita.

“Coley… tutto bene?” Lilian chiese aggrottando le sopracciglia.

La ragazzina rimase con lo sguardo perso nel vuoto per pochi istanti, poi, mentendo, annuì esageratamente con il capo. Anche Lilian si era accorta che in Coley era cambiato qualcosa. Guardarla era come ammirare un tornado pronto all’azione o un incendio in procinto di distruggere una foresta… una ragazzina tremendamente incantevole ma meglio se osservata ad una debita distanza.

“Lilian… davvero quell’uomo di prima non era mio padre?” La giovane assistente sospirò e si avvicinò a Coley, fingendo di non essere inquietata dalla sua vicinanza.

“Per la milionesima volta… no. Quello è Nero, ufficiale Zvet, membro d’elite dell’esercito controllato dalla Shinra. Non ha nulla a che fare con te o la tua famiglia.”

Coley mostrò del disappunto sul suo volto pallido. Anche se aveva capito che Nero e suo padre non erano la stessa persona, la somiglianza folgorante tra i due l’aveva profondamente disturbata.

“Ed ora… finisci di vestirti: l’incontro con i vertici Zvet è fra meno di un’ora.” Lilian, terminò la frase sospirando, mentre osservava distrattamente il suo orologio da polso. L’apparizione di Nero continuava a disturbare la quiete di Coley e l’assistente non ne era affatto soddisfatta.

 

Per fortuna che il signor Reeve è già a conoscenza di tutto.

 

“Quando tornerà Hojo?” Coley domandò, piegata per allacciarsi le stringhe dei suoi stivali di pelle.

 

Spero mai.

 

“Il loro volo arriverà qui stanotte.”

 

“Spero che precipiti nel vuoto. Lui e tutti questi bastardi della Shinra.”

 

Lilian rimase di stucco, fissando ad occhi spalancati Coley. Non aveva mai sentito un commento simile uscire dalle labbra della giovane adolescente.

“Cos’hai detto?” Lilian domandò con un filo di voce. Aveva udito bene le parole di Coley, ma la sua domanda era più un atto di sorpresa, piuttosto che una richiesta dovuta ad una distrazione.

Coley reagì alla domanda che le era stata rivolta alzandosi da terra con uno strano scatto, come se avesse ricevuto uno schiaffo o fosse stata rimproverata di un qualcosa non commesso. La giovane alzò il proprio sguardo su Lilian, fissandola con stupore.

“Io… non ho aperto bocca.” Coley ribatté, lamentandosi come una bambina capricciosa.

“Ma se mi hai appena detto che desideri la morte di tutti quelli della Shinra!” Lilian riferì questa volta con più autorevolezza. Odiava essere presa in giro, soprattutto da una persona molto più giovane che lei.

Il nervosismo di Lilian diminuì, i lineamenti del suo viso si ammorbidirono non appena vide la reazione di Coley.

Negli occhi della giovane vi fu un bagliore dorato, intenso, che affogò chissà dove il solito inquietante colore scarlatto delle sue iridi. Coley si avvicinò a Lilian, osservandola con quello sguardo insolito, raccapricciante, pericoloso, quasi animalesco.

“Posso anche ripeterlo se vuoi..” Coley affermò, sorridendo grottescamente. Nella sua voce traspariva un sentore di minaccia.

“Coley?” Lilian non si domandò il perché di quella domanda, apparentemente stupida. Era solo che le azioni, le parole, lo sguardo di Coley non appartenevano alla Coley che aveva conosciuto (seppure superficialmente) sino ad allora. Non bastava avere davanti i propri occhi il suo corpicino malridotto, indubbiamente quello di Coley, per contraddire la confusione temporanea di Lilian.

Coley non rispose al richiamo. Si avvicinò ulteriormente all’assistente, che, nonostante le sue calzature munite di tacco, era più bassa di lei di qualche centimetro.

“Coley? E’ troppo debole per risponderti in questo momento.”affermò, alzando una mano all’altezza della guancia di Lilian. Le dita sottili e affusolate della giovane accarezzarono un boccolo morbido della chioma della donna, giocando ad allentarlo tra il pollice e l’indice della propria mano. Lilian continuò a rimanere immobile, sull’attenti come se si trovasse di fronte ad una tigre affamata.

“Se questo è uno scherzo, ti conviene smetterlo subito. O altrimenti..”

“Altrimenti cosa?” la ragazzina chiese digrignando i denti, avvicinando la bocca agli occhi dell’assistente.

Lilian si voltò, dando le spalle alla giovane, mostrando un coraggio insolito. Si precipitò verso la porta della camera, pronta a chiamare a gran voce alcune guardie. Coley se l’era cercata questa volta.

Al minimo accenno di aggressività non esitate a chiamare rinforzi… Era sempre quello che Hojo si era raccomandato sin dall’inizio dell’esperimento JEP3-3.

Lilian fece per appoggiare la mano sulla maniglia della porta quando essa si piegò da sola. Qualcuno l’aveva anticipata, aprendo per prima la porta. L’assistente si trovò faccia a faccia con Rosso, provando all’istante un sentimento misto a stupore e sollievo.

“Mi sto perdendo qualcosa?” l’ufficiale chiese ironicamente, ferma a fissare sulla soglia della porta le reazioni delle due persone che si trovava di fronte.

“Stavo per chiamare delle guardie. Oggi Coley è più agitata del solito.” Lilian affermò portandosi al fianco di Rosso. Entrambe le donne rivolsero i loro sguardi inquisitori su Coley. La ragazzina ricambiò le occhiate ricevute con perplessità, la precedente aria aggressiva e arrogante sparita nel vuoto.

“Ah sì?” Rosso aggiunse, picchiettando le dita contro l’imposta della porta. “A me non sembra così pericolosa. Ha un’aria così smarrita…”

Coley abbassò lo sguardo, arrossendo per la vergogna, mentre Lilian era sul punto di scoppiare.

“Non è colpa mia… Lilian scusami…” Coley si scusò, dispiaciuta, senza prestare attenzione alla sua interlocutrice e a Rosso.

Ma Lilian non sembrava affatto convinta.

 

Come posso spiegarglielo? E’ stato più forte di me. Come un incantesimo lanciato all’improvviso. Sentivo un segreto desiderio di trasgredire, di impormi e non ho saputo resistere. Tutta colpa di quello che il professore mi ha fatto. Qualcosa mi ha chiamato, mi ha ordinato di staccare la spina per un attimo, di abbandonare la razionalità, lasciarmi scivolare in un dolce abisso di cedimento. Mi avrebbe soddisfatto in tutto ciò che desideravo inconsciamente. Però, ora che ho conosciuto questo baratro di cui sono ancora lontana dal vederne la fine, ho paura. Temo che “questa cosa”, che non riesco nemmeno a definire, mi sovrasti a tal punto da eliminarmi. Cosa o chi mi ha permesso di dire quelle parole? E’ questo che mi spaventa. Di che cosa è capace? Se si tratta dello stesso istinto che mi ha sovrastata quando ho attaccato Scarlet.. credo proprio che per me non ci sia più speranza.

 

Interrotto la riflessione, la prima reazione di Coley fu quella di sorridere. Un sorriso così finto che sembrava sul punto di frantumarsi lasciando spazio ad un ghigno beffardo, lo stesso che aveva deriso e preso in giro Lilian. Coley agiva come un pupazzo confuso, pareva un pesce fuor d’acqua, non riusciva a tenere il passo della realtà.

“Appena il professore raggiungerà Midgar, verrà informato dell’accaduto.” Lilian bisbigliò a Rosso, senza lasciare con lo sguardo la sagoma di Coley. Rosso annuì, poggiando le mani sui fianchi.

“Il consiglio ti sta aspettando. Avrai tempo di fare la furba più tardi, quando il professore arriverà a Midgar.” Rosso sbottò, scandendo con precisione ogni parola, come se si trattasse di una condanna. Detto ciò, il generale Zvet si voltò verso l’uscita, staccando lo sguardo da Coley nel momento in cui afferrò la maniglia della porta.

Coley abbassò lo sguardo e non lo rialzò più fino a quando non si sarebbe trovata faccia a faccia con il “famoso” consiglio. Rosso aveva capito che nonostante l’apparenza, Coley era più che pericolosa. Perciò per la ragazzina era essenziale evitare ogni sorta di comportamento bizzarro: tagliare ogni contatto con ciò che la circondava era la scelta migliore. Nessuno sguardo da sostenere, nessun ambiente che le facesse riaffiorare ricordi dolorosi, nessun oggetto che le riportasse la mente sulla figura di Hojo; i suoi occhi vedevano solo le monotone righe grigie e blu del pavimento che scorreva sotto i suoi piedi e nient’altro, mentre la sua mente era a chilometri di distanza da quell’infernale edificio nel cuore di Midgar.

 

 

 

Erano passate molte ore da quando Shelke aveva visto per l’ultima volta Eve. In un primo tempo aveva cercato di ignorare la lunga assenza della ragazza, riempiendosi la mente di frasi come “E’ grande, qualsiasi cosa accada saprà cavarsela” oppure “E’ una ragazza responsabile, non si farebbe mai trascinare in situazioni rischiose”.

Eppure questa strategia di distrazione giunse a perdere il suo effetto inibitorio nella mente di Shelke.

Era già pronta a lasciare la casa per iniziare le ricerche, quando udì un suono provenire dal portatile. La ricercatrice abbandonò la finestra dove aveva trascorso buona parte della giornata in attesa del ritorno di Eve, per dirigersi alla ricerca del portatile. Una volta trovato, aprì lentamente il computer e attese che lo schermo si riprendesse dallo stato di stand-by. Dopo qualche attimo apparve un messaggio.

 

[trasferimento dati terminato. Premere invio per visualizzare files]

 

Shelke lesse e sorrise. Le informazioni che la ricercatrice aveva confiscato a Hojo erano finalmente in suo possesso. Magicamente i pensieri sulle due giovani ragazze che l’avevano assillata tutto il giorno svanirono, e con essi anche tutte le preoccupazioni.

Era il momento di sapere tutta la verità.

Shelke spense la televisione, chiuse tutte le imposte della sala e si accomodò sul divano, appoggiando il suo portatile sul grembo. Un breve raccoglimento e poi il suo indice fece delicatamente pressione sul tasto invio.

“Oh cielo…” mormorò sbigottita alla vista di ciò che le era stato inviato.

I dati inviati da Lilian erano una sorta di diario giornaliero che Hojo aveva tenuto dall’inizio dell’esperimento fino a oggi. Shelke scorse la prima e l’ultima pagina dell’enorme documento, notando che la prima data riportata risaliva a circa cinque mesi prima. L’ultima recava la data odierna. Prima di contattare Reeve, come da programma, non seppe resistere alla tentazione di leggere alcune pagine.

 

19W8-007

Il soggetto (nome in codice JEP3-3) stato prelevato. Le sue condizioni fisiche sono relativamente gravi. Il prelevamento ha avuto dei risvolti violenti, e perciò il soggetto ha riportato delle ferite da arma da fuoco in alcuni punti della cassa toracica. PRIORITA ALTA, NON SI PUO PROCEDERE SENZA UN INTERVENTO SANATORIO. Ad una prima analisi sembra essere idonea ai requisiti necessari all’impianto dell’ospite. È necessario compiere qualche intervento preparatorio che ci assicuri al 100% che l’ospite possa essere introdotto nel nuovo corpo senza rischi di rigetto. Non sarà necessario compiere particolari esami per ottenere una mappa completa del patrimonio genetico del soggetto. Basterà rivedere le schede relative il padre.

 

Shelke aggrottò le sopracciglia. Aveva capito ben poco a cosa Hojo si riferisse in quelle prime righe. Ma soprattutto non riusciva a capire che cosa intendesse per “ospite”.

 

20W8-007

JEP3-3 ha subito il primo intervento. In tutto sono stati espiantati quattro proiettili 9 mm parabellum dal torace. Tre avevano raggiunto zone innocue, provocando qualche lieve emorragia. Al contrario il quarto aveva in parte danneggiato la vena cava superiore. L’operazione ha avuto esito positivo, anche se la gravità dei danni ha rallentato il suo decorso. Ora il soggetto è tenuto sotto sedativi e non appena avrà smaltito gli effetti delle tossine che sono state iniettate in preparazione del nuovo intervento, si potrà procedere con la fase pre-impianto.

 

In due giorni, due interventi. Questa notizia non avrebbe reso felice i genitori di Coley. Purtroppo gli incubi di Vincent si stavano materializzando.

 

22W8-007

Il soggetto ha impiegato solamente due giorni per smaltire ben due iniezioni di mako-tossine. Nella mia carriera non mi era mai capitato di avere a che fare con un organismo così resistente. Questa notte inizierà il pre-impianto. L’intervento durerà al 90% delle possibilità dalle 10 ore alle 20 ore a seconda delle complicanze.

 

“20 ore?!” Shelke esclamò anche se nessuno poteva ascoltarla. Quel particolare le fece passare la voglia di proseguire nello spoglio dei dati. Ci avrebbe pensato Reeve.

A proposito di Reeve… doveva assolutamente contattarlo, non c’era più tempo da perdere.

Nonostante il buio della stanza, fatta eccezione per la luce prodotta dal portatile, Shelke trovò al volo il suo PHS e compose con sicurezza il numero di Reeve.

 

 

 

“Numero privato, prego identificarsi!”

La segretaria ormai non faceva altro che ripetere con tono scocciato quelle stesse, identiche, parole tutti i giorni, non appena il telefono sulla sua scrivania di vetro trillava insistentemente. Smise di limarsi le lunghe unghie coperte da smalto rosso fuoco e spinse con l’indice destro il tasto di ricezione chiamata.

“Sono Shelke. Aggiornamento da riportare al presidente”

“Prego attendere…”

La segretaria schiacciò un altro tasto sul telefono, si alzò dalla sua sedia e attraversò la stanza avvicinandosi all’enorme porta che aveva di fronte. Bussò con gentilezza e senza aspettare che dall’altra parte le arrivasse una conferma, entrò nell’ufficio privato del suo superiore.

Come tutte le giovani segretarie, provava una grande attrazione verso il suo capo e cercò di ancheggiare il più possibile per attirare l’attenzione di Reeve. Ma l’uomo non degnò di uno sguardo la povera donna, anzi si aggiustò i suoi eleganti occhiali da lettura e prese in mano un foglio dalla pila che gli copriva la scrivania. Delusa dal suo ennesimo fallito tentativo di farsi notare, la segretaria riportò telegraficamente il messaggio.

“Shelke a rapporto sulla prima linea, signore.”

Reeve alzò lo sguardo dal foglio e sorrise alla segretaria facendole gesto di congedarsi.

La segretaria annuì e si girò sui propri tacchi per uscire. Non appena la porta si chiuse alle sue spalle, Reeve posò il foglio e gli occhiali. Inspirò profondamente prima di rispondere alla chiamata.

 

…il corpo del soggetto è troppo esile. Al primo tentativo di impianto, il cuore ha ceduto più volte. Ma l’affinità tra l’ospite e JEP3-3 è comunque alta, a dispetto di JEP1-3 e JEP 2-3. Mentre il primo si è rivelato un vero fallimento (il soggetto è deceduto 9 giorni dopo l’impianto) il secondo mostrava maggiori capacità, ma si è privato la vita poiché psicologicamente inadatto all’esperimento. JEP3-3 è diversa, è, oserei definirla perfetta. Forse il piacere della vendetta mi sta distraendo dalle vere finalità del progetto. Prevedo che il prossimo tentativo di impianto sarà un successo. La linea di difesa del soggetto è ormai caduta… 

 

Shelke?”

La giovane sobbalzò sul divano, distratta improvvisamente dalla lettura che aveva ripreso nell’attesa di parlare con Reeve.

“Ho buone notizie Reeve. Cioè… diciamo relativamente buone.”

“Sono tutt’orecchi”

“La tua famosa ricercatrice ha terminato il trasferimento dati. Ora ho davanti a me il diario di Hojo.”

 

Reeve si alzò di scatto dalla lussuosa poltrona in cui era stato seduto per tutta la giornata. Alle sue spalle il cielo tetro di Kalm sembrava sul punto di muovere guerra all’arida terra con cascate d’acqua.

“Il diario di Hojo?!”

“Sì… la prima data riportata risale al 19 agosto… cinque mesi fa. L’ultimo scritto ha la data odierna. Ho iniziato a leggere il documento da pochi minuti e… sono già disgustata. Diciamo che ho paura a proseguire dato che nell’arco di due giorni, Hojo ha avuto la possibilità di mettere le mani addosso a Coley ben due volte…”

Una piccola goccia di sudore attraversò la tempia sinistra di Reeve.

“Riesci a spedirmi il tutto? Credi che ci vorrà molto tempo?”

“… il file è enorme, inizierò il trasferimento di modo tale che termini non appena gli altri ti abbiano raggiunto… a proposito… qualche novità?”

“Sono arrivati a Wutai e hanno lasciato la città insieme a Vincent e Yuffie circa alcune ore fa.”

“Almeno questa è una buona notizia.”

“Già…”

 

 

 

Un mare di nuvole separava l’Highwind dalla sottostante superficie piatta e rugosa, meglio conosciuta come mare. Sfrecciava veloce e sicura verso la propria meta. Mancava poco ormai, ma la distanza per i suoi passeggeri sembrava enorme. Soprattutto nel momento in cui la fredda voce di Reeve riportava le novità di Shelke attraverso l’altoparlante della sala conferenze.  

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=144956