Riflessi di specchi rotti.

di Annika Mitchell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Unumgänglich, einmal ist keinmal. ***
Capitolo 2: *** Eternally Missed. ***
Capitolo 3: *** Kunda. ***
Capitolo 4: *** Bluebell. ***
Capitolo 5: *** Fiction. ***
Capitolo 6: *** Cellar Door. ***
Capitolo 7: *** La Veuve Blanche ***
Capitolo 8: *** Aqua vitae. ***
Capitolo 9: *** Quindici maggio ***



Capitolo 1
*** Unumgänglich, einmal ist keinmal. ***


 – Cosa vuoi fare da grande? Il bambino. 

 

 « Vieni a vivere da me, con me. »
Silenzio.
« Ci sei? »

In realtà c’era, ma si trovava in uno stato di semi-coscienza, esattamente in bilico sulla linea effimera dell’incertezza, quella che separa il tutto dal niente, senza concedere il lusso della sfumatura: se ti ci trovi sopra, sta’ sicuro che prima o poi cadi, e non importa da quale parte.
Cadi inesorabile, il vuoto come unica certezza. Non potrai mai sapere se la decisione che non hai preso avrebbe portato a qualcosa di meglio. Non hai punti di riferimento, indicazioni da seguire, nessuna condizione imprescindibile di esistenza.
L’unica condizione d’esistenza possibile per gli esseri umani è il dover scegliere, sempre, senza avere la possibilità di vivere nuovamente per controllare se, effettivamente, le scelte che si sono fatte erano quelle giuste, o se invece sarebbe stato meglio prenderne altre. Si vive solo una volta, ed è qui che sta la più grande – e bella – fregatura, per la razza umana.

Silenzio.
« Senti. Pensaci su, ok? »
« … Ok .»

In realtà non aveva bisogno di pensarci su, perché sapeva – e lo sapeva in seguito ad una vita passata a osservare, invece che agire – che non scegliere era la forma di scelta più pericolosa, ma quella che da sempre aveva contraddistinto tutto il corso della sua esistenza.
Sceglieva di non scegliere, e lo faceva così spontaneamente che nessuno si era mai accorto della sua tacita situazione di non-esistenza.
Nessuno si accorgeva mai di lei, per quella sua incredibile capacità di restare sospesa, in bilico, senza cadere mai, senza sbilanciarsi mai troppo da nessuna parte; lei, fatta della stessa sostanza di cui sono fatti solo la fantasia e gli spettri.

« Cosa vuoi fare da grande?»
Silenzio.
« Il bambino.»









Note: 

Unumgänglich è tedesco e significa "imprescindibile".
Einmal ist keinmal è un proverbio tedesco che significa "ciò che accade una volta sola, è come se non fosse mai accaduto". 
Ho modificato il finale aggiungendo « Il bambino.» perché mi sono resa conto che così è più coerente con il titolo e con quello che in realtà volevo esprimere. 
Il proverbio, in cui non credo poi così tanto, non è messo lì per caso, ma vuole sottolineare il fatto che questa protagonista senza nome abbia preso solo una volta una decisione, in vita sua, ed è come se non fosse mai accaduto. 

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Capitolo 2
*** Eternally Missed. ***


"Chase your dreams away
glass needles in the hay
The sun forgives the clouds
You are my holy shroud."
- Muse.

 

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- Lettera di un poeta disincantato.



Cara Catastrofe,
ti scrivo per dirti che non mi importa se tutto ciò non è reale, se noi stessi non lo siamo più, e se forse non lo siamo mai stati.
Tuttavia ti chiedo un favore, prima che tu continui a leggere. E' necessario, fondamentale anzi, che ti assicuri che ci sia silenzio, quello assoluto.
Spegni quella dannata radio che da sempre ti tiene compagnia solo perché dici di aver paura dell'oblio.
La verità è che hai il terrore di affrontare te stessa, i tuoi pensieri, e quelle parole mute che puoi percepire solo nella quiete della solitudine.
Ora che tutto tace, immagina la mia voce.
Hai paura? Io sì.
Ho paura di essermi innamorato di qualcuno che non esiste, che non c'è. Come quell'isola in cui viveva Peter Pan. Isola che non c'è, si chiamava,
eppure riuscivo a rifugiarmi lì ogni qual volta lo desiderassi. Non so più volare, Wendy.

E' tremendo volere qualcosa da morire, da arrivare a voler morire davvero. Tremendamente inesatto.
E' che mi sono sempre illuso che io e te fossimo anime gemelle, capisci cosa intendo?
Ho sempre creduto che l'altra metà fosse esattamente uguale a quella che si possiede già, per  una di quelle assurde convinzioni che hanno solo i
matematici, sai. Una storia di simmetrie, oltreché di ordini cosmici e di equilibri naturali.
In realtà non saremmo stati capaci di creare altro che disordine: disastri e cataclismi.
Come quella volta che ci avvicinammo tanto da ascoltare i nostri respiri sincronizzati, e che non ci baciammo, perché troppo concentrati ad
osservarci allo specchio.
Ci guardavamo e vedevamo noi stessi, non ci toccavamo per paura di scottarci.
Come i binari di una ferrovia, se solo avessimo provato a sfiorarci, avremmo fatto deragliare i treni.
Che assurda pretesa è stata, la nostra, quella di provare ad amarsi.
Siamo nati uguali e incompatibili, per desiderarci al punto da non voler null'altro che noi stessi.
Ti amo, sai.
Mi odio, sai.
Ed è questo a rendere tutto così incoerente, impossibile.
Come si fa ad odiare se stessi al punto di volersi togliere la vita, ma amare alla follia il proprio riflesso?
Perché non siamo nient'altro che questo. Due calzini identici, ma spaiati, destinati a cercarsi sempre e a non trovarsi mai.
Cosa potrà mai riservare il futuro a due come noi, eternamente immobili nelle emozioni calde che ci scoppiano nel petto?
Sono convinto che, così come quando sole e luna si trovano posizionate lungo lo stesso asse, se solo noi decidessimo di stare assieme,
tutto il senso del nostro essere si spegnerebbe in un'eclissi. Infinita, però. Il buio interminabile di una meravigliosa catastrofe.

Non voglio spiegare cosa significhi il mio gesto, ma farti capire cosa vorrebbe dire se non lo facessi.
Ci spegneremmo entrambi, e l'ultima cosa che desidero è vederti sparire nella monotonia di gesti forzati, con la sola abitudine a dettare legge sul
tuo modo di esistere.
Siamo ineffabili.
Tu sei il sole, ed io la luna.
Non spegnerti mai, meravigliosa stella.
La luna qualche volta sparisce.
Chissà se un giorno verrà in mente anche a lei, di farlo per sempre.

Eternamente tuo,
Perduto. 




"Iiiiii 






Note: 
Questo capitolo ha partecipato al contest "Nonsense -edite&inedite" di Gaea, autrice dello splendido banner a inizio capitolo. Ti ringrazio. 

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Capitolo 3
*** Kunda. ***


- Kunda*: il male che è in noi

A chi si è svegliato un giorno e ha detto:
"Voglio fare l'antropologo."

 

«Mi vedi, ma non guardi davvero.».
Che vuol dire, pensò Joel.
Cazzo, aggiunse, come faceva sempre.
«Sto guardando, ma cosa dovrei vedere, esattamente?» chiese il ragazzo.
Di fronte a lui, in piedi, stava una donna, vestita di polvere e parole.
Portava indosso un segreto, ben celato dall’odore di sesso e cose non dette.
«L’incompletezza.» sussurrò lei. E sorrise greve: s’incupì, distendendo le labbra.
Joel sospirò interdetto, dimenticandosi della sigaretta che teneva tra le dita.
«L’incompletezza non si vede.» affermò lieve, come per sgridare il bambino che era morto da un pezzo in lui.
Alzò lo sguardo al soffitto ammuffito, Joel, respirando profondamente l’odore acre della sua solitudine.
Si bruciò le dita, ma non accennò alcun movimento.
Cazzo, pensò solamente.
«Si guarda, si ascolta, si percepisce.» scandì la donna.
Scandì quelle esatte parole, con la dolcezza di una madre che cerca di far addormentare il proprio bambino.
«Si vive.» concluse Joel, consapevole, come se si fosse appena ricordato di una verità che conosceva da sempre.
Era sempre stata dentro di sé, cucita addosso, come un male incurabile, eppure inevitabile: la fragile incompletezza.
La vedeva lì, di fronte a sé, nuda, colpevole nella sua purezza, completa nella sua frammentarietà: illusoria, ma realtà sensibile.
Era realtà nel suo cuore, nel suo animo.
Era finzione per una vista che non sapeva guardare.
Cazzo, pensò Joel.
La sua immaginazione sembrava non volersi arrestare, le immagini confuse si succedevano senza tregua, senza logica. Credeva in qualcosa che non era nient'altro che un miraggio.

Una ragazza in lacrime diede un bacio ad un giovane, che stava rannicchiato in un angolo, con gli occhi sbarrati.
Il giovane chiuse gli occhi, rispose al bacio e vi si appigliò: aveva trovato la sua cura.
Non pensò a nulla, Joel.

 








Note: 
* "Il Kunda, secondo i Lese, inevitabilmente si trova all’interno del noi.
All’interno del villaggio c’è sempre kunda, kunda è l’invidia, è la gelosia, è il rancore, kunda ha provocato persino la morte, la morte di qualcuno di noi.
Quando muore qualcuno i Lese si rivolgono ai loro amici Efe, così tanto disprezzati su un certo piano, ma così importanti, anzi indispensabili nel momento in cui si tratta di scoprire dov’è il male in noi. Quando muore qualcuno i Lese si rivolgono agli Efe, gli Efe entrano nel villaggio e sono loro che indagano per scoprire chi all’interno del villaggio cova dentro di sé Kunda e cercheranno appunto di liberare il villaggio da questo male, il destino del villaggio viene consegnato praticamente nelle mani degli Efe." (Francesco Remotti).
Queste due popolazioni Africane sono agli opposti: i Lese vivono nei villaggi e ritengono che gli Efe siano dei selvaggi; mentre gli Efe vivono nella foresta, vivono la foresta. Nonostante le divergenze le due popolazioni non potrebbero vivere l'una senza l'altra. Gli Efe sono la cura al Kunda, il male dei Lese, la foresta che si trova nella nostra anima e che a volte rischia di prendere il sopravvento. 

Ho voluto reinterpretare questo "male interiore" con un male che accompagna da sempre l'uomo, sin dalla nascita: l'incompletezza, l'insicurezza. 
Siamo una specie incompleta, ci manca un qualcosa che non abbiamo mai saputo definire. (Saremo mai in grado di farlo?).
 

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Capitolo 4
*** Bluebell. ***


- Il colore (dolore?) della pioggia inglese. 


A Londra, madre di tutti coloro che girano il mondo
con un libro di Shakespeare in borsa
e le bustine di tè tra i fogli.

- chylerblue

 

Quando calava la sera, ma non era ancora del tutto buio, quando il cielo era livido di quel colore che sembra ricordare i desideri mai avverati, era allora – e solo allora – che Bluebell sorrideva.

Aveva il sorriso stanco di chi nella vita non si arrende mai e soffre in silenzio.
Stava sdraiata su una distesa d’erba verde, senza scarpe, ad occhi chiusi.
Il vento soffiava lieve, caldo.
I capelli le ondeggiavano sul viso, né ricci né lisci.

Teneva gli occhi chiusi, quasi sempre, perché le piaceva immaginarsi in altri luoghi, nonostante il profumo d’estate montana fosse sempre presente, così come lo erano i suoni del bosco.
Le capitava, a volte, di trovarsi nel bel mezzo del deserto Sahariano, senza sapere come ci fosse arrivata.
L’unica pecca, di quei sogni ad occhi aperti, era che il ronzio di una vespa o lo scrosciare del torrente rischiavano sempre di richiamarla alla realtà, irrimediabilmente.

Era triste, con quel sorriso stanco.
Ma poi chiudeva gli occhi, e si immaginava felice.
Viveva il sogno come fosse realtà, si svegliava come se si trovasse in un incubo.
Ogni volta.

Era persa, con quella solitudine come unica compagna.
Ma poi si ricordava di quando il suo primo amore cantava per lei, di quanto fosse dolce quella malinconica sofferenza.
Viveva il ricordo come fosse presente, si dimenticava di non avere un futuro.
Ogni volta.

Era polvere, come una presenza intangibile.
Ma poi la si sentiva sussurrare nel vento, se solo ci si fermava ad ascoltare.
Stava tra le pagine dei libri, con quel profumo di mai che dura per sempre.
Era un attimo, che quasi nessuno sapeva cogliere.
Quasi nessuno.

Solo uno. Un giorno ne colse l’essenza come si colgono i fiori, come si indicano le stelle, come si accendono le candele.
Solo uno. Un giorno la guardò negli occhi, come nessuno aveva fatto mai, e le disse qualcosa di doloroso come le spine e di vero come le lacrime.

«Sei triste di una bellezza che fa male.»

Nessun altro sembrò capire.

Lei sorrise come la pioggia d’Inghilterra; decise di chiamarsi Bluebell.

 








Note: 
Bluebell è un nome bellissimo che ho rubato al telefilm Sherlock (BBC). Lì non era altro che un coniglietto fosforescente, a cui ho voluto bene per varie ragioni che non c'entrano nulla con queste note.

Ho dato però, a questo nome, un significato tutto mio, una specie di etimologia personalizzata. 
Blue ha a che fare con l'inglese, ma non con il colore. In Inghilterra dicono, quando sono tristi o depressi, che si sentono blu.
"I feel blue today", ad esempio.
Bell non ha nulla a che fare con le campane, ma deriva direttamente dall'italianissimo "Bella-Bellezza". 
È una bellezza triste, Bluebell; fa male come possono farlo solo le cose belle.

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Capitolo 5
*** Fiction. ***


- Queen of superficial.

"Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma."



Celine sognava. Di amare una rockstar, di essere bella, di saper scrivere ciò che pensava del mondo e di vedere l’America.

Sognava di essere qualcun’altra; in un’altra vita sarebbe voluta essere in grado di amare, quando in realtà non era altro che misantropa e incoerente.

Incoerenza era quel suo modo di attaccarsi alle cose materiali, nonostante definisse il mondo come superficiale; lei, regina della superficialità.
Incoerenza era il sentimento di odio che nutriva nei confronti degli oggetti del suo amore: amava deridere i lineamenti degli uomini di cui si infatuava, perché diceva che le faceva meno male saperli imperfetti nella loro irraggiungibilità.
Incoerenza era la sua falsa modestia, di quando cercava complimenti dicendo di non meritarli e si arrabbiava pensando che il mondo non fosse in grado di comprendere la sua arte.

Celine viveva. Male, di passioni fugaci, di sospiri e desideri impossibili, di scelte sbagliate o non intraprese, di vite vissute da altri.

Viveva come il peggiore dei codardi, fingendosi Don Chichotte senza avere il coraggio di fronteggiare i propri mulini a vento.
 

«Non c’è coerenza, in questa vita.» soffiò una mattina d’inverno,  rivolgendosi alla gatta, troppo magra da accarezzare e troppo vecchia per correre.
La gatta, Jamie, non le rispose mai.
Lei credette di sentirla miagolare che persino l’incoerenza è una forma di coerenza.

Celine si morse la lingua, pensando che nella vita aveva sprecato troppo tempo a lamentarsi di non averne abbastanza.

Si stese sul letto che aveva settant’anni e troppi rimpianti.
Chiuse gli occhi sperando di riuscire finalmente a vedere l’America.
Non li riaprì più.

Sulle labbra, l’ombra di un sorriso delineava il futuro che non era mai riuscita a raggiungere. Mai, prima d’allora.






Note: 
La seconda legge della termodinamica messa lassù, come citazione, è fondamentale negli studi delle tre del mattino sull'oltretomba e le manifestazioni di chi non c'è più (e non c'è mai stato).
Io ci credo spesso, in queste cose.
E credo che la vita sia incoerente; o perlomeno non è possibile trovarvi coerenza se non nella stessa morte.
Celine era morta in vita, mi piace pensarla viva in morte.

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Capitolo 6
*** Cellar Door. ***


A Erica con la c,
ai suoi diciotto anni,
alla logica e al suo talento innato.

 

Cellar Door.
 
"Most English-speaking people... will admit that cellar door is 'beautiful', 
especially if dissociated from its sense (and from its spelling).
More beautiful than, say, sky, and far more beautiful than beautiful."

- J.R.R. Tolkien

 
La notte era carica di stelle cadenti, che si susseguivano comandate dalla volontà di un folle dio senza misericordia né amore. Un dio di quelli egoisti, che mettono in mostra la propria magnificenza e scombinano gli universi, pur di intimorirci tutti.

Ricordo che gridai, con tutto il fiato che poterono permettermi i miei polmoni neri di fumo,  a quel dio maledetto, a quelle dannate stelle che andavano a schiantarsi cariche dei sogni della gente. Gridai la mia solitudine e la mia innocente pazzia.

«State uccidendo la luna!»

Rimasi per un attimo senza fiato, aspettando una risposta che sapevo non sarebbe mai arrivata. Non da quel cielo che tanto bestemmiavo.

 
Non credevo neppure che esistesse un dio, in quel delirio di incoerenza che ero a diciotto anni. A diciotto anni ci si sente padroni di un mondo che dà il voltastomaco, per cui non si riesce a trovare la forza di lottare. Il mio era un mondo da cui non potevo fare altro che fuggire. Correvo, senza voltarmi mai, senza curarmi delle conseguenze.

Avevo la strana convinzione che se non mi fossi mai soffermata a pensare al passato, quello non sarebbe tornato a riempire i miei giorni di rimpianti. La verità è che io un passato non lo avevo. Costruivo i miei giorni di falsi ricordi e di allucinazioni.

Capitavo nella vita della gente come una parentesi graffa, che esiste disgraziatamente senza che nessuno sia mai stato in grado di delinearne correttamente le curve.
Entravo nel letto di uomini che giuravano di amarmi e ne uscivo con una sigaretta tra le labbra che aveva il sapore delle menzogne. Era facile non rimpiangere nulla, folle com’ero, con le mie gonne larghe e i miei sorrisi maliziosi.

La vita per me non era un lasso di tempo da riempire di azioni logiche o sensate. Per me la vita era il senso. Un’avventura disordinata in cui buttarsi a capofitto, accettando le sfide che la sorte avrebbe posto sulla strada tortuosa di una donna senza regole né verità. Ero una donna-bambina, inconsapevole dell’esistenza di una teoria della causalità.

 
Quella notte, quella delle stelle cadenti che distruggevano sogni e speranze, capii che avrei finalmente scoperto il vero senso della parola libertà, quella che tanto decantavo di essermi guadagnata.

Cinque poliziotti mi fermarono nel bel mezzo di quel sogno ad occhi aperti, mi ammanettarono e mi dissero: «Fine dei giochi.». Uno mi tirò un calcio dandomi della cagna, sputandomi addosso le sue verità. Diceva che il suo dio si vergognava di aver messo al mondo uno scherzo della natura come me. Un altro incolpava la mia devianza mentale come causa della morte di suo figlio al fronte. «Quale fronte?» domandai. Risero tutti.

Ero una deviata mentale.

Ero una donna sola e non avevo diritti.

Ero nauseata, ma più ancora ero pazza, contro l’iniqua polizia e il gioco iniquo della vita.

La vita che fino a quel momento mi era parsa una caotica partita a scacchi senza vinti né vincitori, mi sembrò come la peggiore delle cospirazioni. Sapevo che non sarei stata in grado di esistere nella condizione di reclusa psichiatrica.

Mi dissero che la mattina seguente sarei dovuta partire con tutti gli altri.
Ignoravo la destinazione. Ignoravo chi fossero gli altri.

Nell’umidità della cella spoglia che odorava di urina, ricordai di quell’italiano che incontrai nel mio vagabondare senza meta né passato.
Mi disse di essere un poeta e che la parola più bella della lingua inglese fosse “cellar door”. Gli chiesi come mai e lui rispose con un sorriso, dicendomi che la porta per il paradiso, in un mondo al contrario, doveva senz’altro essere quella di una cantina.




29 gennaio 1940, Brandeburgo (Germania). 
Helga Schumann, 18 anni. Mentalmente incapace di intendere e di volere, pronta al trasferimento per la Aktion T4*, viene ritrovata morta impiccata in una cella della prigione locale. L’indagine sul significato della parola “cellar door” scritta col sangue sulla parete della cella non è mai avvenuta, in quanto ritenuta frutto della sua instabilità mentale.




Note:
*Aktion T4 è il nome che si utilizza per parlare del programma nazista di eutanasia medica, vale a dire dello sterminio sistematico di quella parte della popolazione debilitata mentalmente e/o fisicamente, la quale, secondo i progetti del terzo Reich, non era che una perdita di tempo e di denaro.
Questa storia si è classificata seconda allo Spoon River Contest indetto da ZKaoru69 con la citazione: "Ero nauseata, ma più ancora ero pazza, contro l'iniqua polizia e il gioco iniquo della vita.".

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Capitolo 7
*** La Veuve Blanche ***


A Emiliana,
che della vita ci ha capito qualcosa in più di tutti noi,
e perciò non fa altro che domandare al cielo lo sterminio dell'umanità tutta.


 
- La Veuve Blanche.


“Professione?”
“Imbucata.”
L’anziana rispose con il massimo della serietà, come fosse la più naturale delle cose.
“Im-pie-ga-ta”, sillabò Thomas Miller, scrivendo a macchina. Aveva due figli, una ex-moglie e l’odore della sua nuova compagna impregnato nei vestiti. Dipendenza da alcool, si chiamava.
“Non ha capito.”
“No?” chiese l’uomo, con gli occhi lucidi e la voce titubante.
Emily Sullivan gli rivolse un sorriso comprensivo, dietro al mosaico di rughe che era il suo viso. Cercava sempre di risultare comprensiva nei confronti del genere umano, il quale, secondo la sua infinita esperienza di vita, comprendeva assai poco del mondo. Ribadì: “No. Faccio l’imbucata.”
“L’imbucata…”, ripeté atono Tom, con lo stesso sguardo vacuo e compromesso dall’alcool di pocanzi. Si ripromise di non bere più – non sul posto di lavoro, almeno – e tentò di ricordarsi di qualche sport a cui avessero dato l’improbabile nome di “imbuckey”.
“Faccio l’imbucata ai funerali.”, chiarì la donna, questa volta mortalmente seria.
“Ai funerali?”
Sto sognando? O sto morendo di cirrosi epatica?, pensò il signor Miller, che di mestiere faceva domande e nella vita non era mai stato in grado di fare nient’altro.
“Mi pare un po’ duro d’orecchi, giovane.”
“Ma la pagano?”
L’anziana donna accennò una risata, poi disse: “Be’, pagarmi! Il massimo che si possa ottenere da un mestiere come il mio è qualcuno che ti pianga su una spalla.”
“Guadagna lacrime?” chiese Thomas, che non poteva concepire l’esistenza di una donna che campasse di lacrime.
“Guadagno affetto.” lo corresse la donna, scostandosi con una mano i capelli perlacei dal viso.
 
La Vedova Bianca, così veniva chiamata Emily Sullivan. Colei che ricercava uno sprazzo di reale commozione in un mondo dove silenzio e lacrime sono gli unici protagonisti. Non era mai stata davvero vedova, perché non si era mai davvero sposata. Era vedova nel cuore, vedova di un amore mai vissuto e mai pensato. L’unica compagna di sempre non era stata altra che la solitudine: per questo motivo, si era rassegnata a celebrare l’amore come defunto.
Nessuno le aveva spiegato che ciò che non esiste non può morire mai.

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Capitolo 8
*** Aqua vitae. ***


Alle sere tristi,
agli amici inconsolati.
Aqua vitae.
 
 
Tre.
Contava i bicchieri vuoti sul bancone, dinanzi a sé, snocciolando verità spicciole sul senso delle vite altrui. Di senso non ne avevano mai, secondo gli sproloqui che propinava incessantemente al barista, ogni sera.
 
Quattro.
Chiese un quarto bicchiere, specificando: “Questa volta doppio”.
“Ricordi quando ti spiegarono, per la prima volta, come si attraversa?” interrogò l’uomo di fronte a sé.
“Cosa?”
“La strada. Ricordi cosa ti dissero di fare, prima di attraversare la strada? Una qualsiasi.”
Il barista alzò gli occhi al soffitto e imprecò mentalmente.
“Richard, sei solo al quarto bicchiere e già deliri”, gli rispose, maledicendosi un po’ tra sé e sé per essere complice della disfatta di un uomo solo.
“Rispondimi”, quasi supplicò l’altro, finendo in un sorso il contenuto del bicchiere ordinato pocanzi.
Il barista, il cui nome Richard non si era mai preoccupato di chiedere, sbuffò, ma pensò di assecondare la sua pazzia, perché in fondo non era colpa di nessuno, se la vita è iniqua e spesso si accanisce contro la miseria.
“Di guardare a destra e a sinistra”.
 
Cinque.
Richard ghignò greve, dietro ai baffi lunghi e sudici, e, schioccando le dita, chiese un altro giro.
“E adesso perché ridi?” quasi esclamò l’altro, pentendosi della buon’azione appena compiuta.
“Perché se dio ce l’avesse detto prima, come s’attraversa questa maledetta vita, dove guardare, quali sono le cose a cui prestare attenzione; se solo ce l’avesse detto prima, a tutti quanti, a quest’ora mica l’avevamo inventato, l’alcool”, disse, battendo con forza il bicchiere sul bancone, già di per sé bisunto. L’alcool ormai gli impediva di esprimere coerentemente i propri pensieri, offuscandogli la vista.
“Perché gli scienziati non ce lo spiegano mica, come si deve attraversare la vita. E dio e tutti i santi ce li siamo inventati per ricordarci quanto insulsamente piccoli siamo sulla faccia della terra. E allora uno che deve fare, quando il peso dell’esistenza diventa insostenibile?”.
Le lacrime cominciavano a scendere copiose, giù da quegli occhi cristallini che tanto avevano visto delle atrocità della vita, in un mondo che oscilla e vortica senza tregua.
“Da che parte devo guardare, in questa vita, per capire se la sto attraversando bene? Perché guardando gli occhi della gente vedo disgusto, osservando il mondo in sordina provo pietà, ma guardando questo bicchiere…” disse, sollevando il boccale che teneva in mano, “… qui vedo ristoro, trovo quel calore amaro che nessuno mi vorrà mai dare. L’acquavite è l’acqua della mia vita, il solo luogo in cui guardo prima di attraversare, di corsa, quest’esistenza”.

Il barista gli riempì un ultimo bicchiere, quella sera.
 
Sei. 



 

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Capitolo 9
*** Quindici maggio ***


Quindici maggio.
 
Amica fragile,

che vivi nascosta dietro ad un sorriso forzato, una calza smagliata e la morte negli occhi; dove sei. Con chi sei.

La tua vita, che fumavi via senza ritegno – incurante – pensandoti incapace di fuggire i tormenti del cuore, svanisce logora in un abbraccio violento.

Sola. Che ti divincoli tra le lenzuola e piangi e gridi nel silenzio di un amore insensato, non corrisposto; dimmi dove sei. Con chi sei.

Vestita di pudore e gemiti. Che ti arrendi alle carezze insistenti, rinunciando ai tuoi segreti più intimi, facendo crollare sconfitta ogni difesa, spoglia delle tue angosce; dove – dove sei. Con chi sei, dimmi.

Amica fragile, dove sei.

Evanescente. Ti ho perduta che non sapevi ancora volare, impudentemente. Il rimpianto per averlo desiderato senza remore si nasconde tra le tue gambe tremanti, amica fragile.

Dove sei? Con chi sei?
Nella violenza di un morso sulle labbra, con la consapevolezza che non tornerai a dire addio.






Note: uno squarcio di vita personale, appena gettato al vento confusionariamente. 

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