Churchill's heroes

di Federico
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mr. Prime Minister ***
Capitolo 2: *** Due piccioni con una fava ***
Capitolo 3: *** Assalto al Campo M ***
Capitolo 4: *** Tovarish ***
Capitolo 5: *** Undert the Rock ***
Capitolo 6: *** Mountain warfare ***
Capitolo 7: *** Macerie ***
Capitolo 8: *** The last stand ***
Capitolo 9: *** Hidden in the jungle ***
Capitolo 10: *** Il giorno più lungo ***
Capitolo 11: *** La pista degli elefanti ***
Capitolo 12: *** To kill a monster ***
Capitolo 13: *** Sons of the Rising Sun ***
Capitolo 14: *** Honora ***



Capitolo 1
*** Mr. Prime Minister ***


Churchill's heroes

 

Mr. Prime Minister

 

Cabinet War Rooms, Londra, 1 agosto 1940

Mentre nei cieli della capitale britannica infuriavano spericolati duelli fra gli apparecchi della Royal Air Force e gli aggressori della Luftwaffe, le bombe piovevano a tonnellate sugli edifici, riducendoli in cenere e e provocando un rumore assordante che si avvertiva distintamente fino in quel bunker sotterraneo, progettato appositamente per resistere a eventi di questo tipo.

Là, fra trasmissioni radio e luci elettriche che mai conoscevano pace, lavoravano senza posa, sette giorni su sette, ventiquattr'ore su ventiquattro, affaccendandosi di là e di qua e pregando di cuore, tutti coloro che contribuivano a progettare e dirigere lo sforzo bellico della Gran Bretagna e dei suoi alleati contro la Germania nazista pur in un momento così difficile, con la disfatta della Francia ancora fresca e bruciante e il panico di un'invasione che cominciava a a diffondersi anche nell'isola.

Seduto a capotavola e avvolto nell'immancabile completo da gentleman inglese, Winston Churchill si cavò dalla bocca uno dei mille sigari che aveva fumato quel giorno, sputando una nuvola di fumo acre e rigirandoselo nelle dita sudate, quindi lo schiacciò nel posacenere e volse con impazienza e nervosismo la faccia grassoccia prima sugli ospiti che erano convenuti al medesimo tavolo e poi sulla porta chiusa.

Diavolo d'un polacco!” sibilò irritato. “E' mezz'ora che ci fa aspettare, manco fosse il re!”.

Nemmeno lo avesse fatto apposta, ed ecco che la porta si spalancò con un boato, lasciando entrare un uomo enorme, vestito con un' uniforme sgualcita, con ispidi capelli a punta, una benda che gli copriva l'occhio destro e un inquietante sorriso da killer.

Costui, senza degnare del minimo sguardo nessuno dei presenti, commentò in un inglese dall'accento est-europeo: “Non ti danno mai un attimo di pace questi crucchi. Sempre bombe, tutto il giorno!”, per poi accomodarsi con malagrazia sull'unica sedia rimasta vuota.

Il primo ministro britannico, ora notevolmente più tranquillo, si alzò in piedi in tutta la propria persona ed esclamò: “Signori qui presenti, a prescindere dal vostro grado e dalla vostra nazionalità, vi saluto come amici e alleati, ma soprattutto come soldati. Vi ho oggi convocati in questo luogo per discutere con voi di questioni segrete e della massima importanza, e affinché possiate fare ognuno conoscenza dell'altro; quest'ultimo è un prerequisito necessario, in quanto per il compito che intendo affidarvi è vitale che formiate un gruppo compatto e ben affiatato”.

Dopo aver scrutato a lungo negli occhi ognuno dei sette ospiti, e aver letto negli sguardi sentimenti misti di curiosità, rispetto e impazienza, Churchill posò con un gesto teatrale una valigetta sul tavolo e ne tirò fuori un dossier composto da vari fogli.

Allora, vediamo un po' di fare l'appello...Colonnello Isshin Kurosaki del British Army, presente?”.

Presente, signor primo ministro!” rispose in tono orgoglioso un uomo robusto sulla quarantina, la barba rada e i capelli a spazzola, il petto costellato di medaglie.

A quanto risulta da questo dossier- aggiunse con ammirazione il premier- avete servito con coraggio e dedizione sul fronte francese e nelle Fiandre durante la Grande Guerra e poi in Egitto, Somalia e Birmania, distinguendovi sempre per ardimento e spirito di iniziativa e rimanendo ferito in parecchie occasioni. Almeno un paio di volte avete salvato il vostro reparto da un sicuro annientamento, esponendovi a gravissimi rischi per la vostra persona...Ichigo Kurosaki?”.

Presente, signor primo ministro!” replicò scattando in piedi e facendo il saluto militare un giovane, poco più che un ragazzo, con rossi capelli arruffati e un volto appuntito e determinato.

Riposo, figliolo, riposo, non sono il tuo superiore...Ora, non credere che io ti abbia convocato qua su raccomandazione di tuo padre. So riconoscere il valore quando lo vedo, e secondo quello che confermano varie fonti, anche se giovane ne possiedi da vendere. Arruolatoti volontario il giorno stesso della dichiarazione di guerra alla Germania, hai condiviso enormi pericoli assieme al colonnello Kurosaki durante la campagna in Belgio e in Francia, e per l'eroismo dimostrato nel frangente dell'evacuazione di Dunkuerque, sei stato decorato e promosso caporale”.

Ichigo, imbarazzato da quelle lodi che provenivano da un personaggio così importante e comunque rispondenti al vero, abbassò lo sguardo arrossendo e Churchill passò al nome successivo: “Signor Byakuya Kuchiki, siete presente?”.

Un giovane, di età compresa fra i venti e i trent'anni, pallido e dalla folta capigliatura nera, solo allora sciolse il suo muto cipiglio e rispose con un sussurro: “Lo confermo”.

Figlio di un politico antifascista costretto a rifugiarsi a Parigi da Torino, allo scoppio della guerra civile in Spagna vi siete recato là per entrare nelle Brigate internazionali, dove avete raggiunto il grado di ufficiale, distinguendovi anche negli scontri con le truppe inviate da Mussolini. Dopo essere stato uno degli ultimi difensori di Madrid, vi siete reso protagonista di un'avventurosa fuga a piedi fino in Francia, nel cui esercito vi siete arruolato al principio del presente conflitto, trovando rifugio qua in Inghilterra dopo la campagna dello scorso maggio”.

L'italiano squadrò i convitati con uno sguardo di ghiaccio e si limitò a sentenziare: “Combatto semplicemente per abbattere la dittatura nel mio paese e altrove. E' il mio dovere”.

Il politico britannico voltò pagina: “Maggiore Kenpachi Zaraki dell'Esercito polacco, presente?”.

L'uomo con la benda, come improvvisamente domato, assentì con un rispettoso saluto militare, dietro il quale si indovinava però un'energia battagliera impossibile da contenere.

Dopo aver combattuto sul fronte orientale nell'Esercito austro-ungarico, avete preso parte alla guerra polacco-sovietica nel 1920 e alla recente guerra con la Germania. Al termine della suddetta invasione, fuggendo attraverso i Balcani, siete riuscito ad arrivare in Occidente, dove, nelle file dell'Esercito polacco in esilio, avete lottato con coraggio in Norvegia e in Francia”.

Kenpachi non rispose, ma era facile intuire che teneva le braccia serrate e digrignava i denti pensando all'infelice destino del proprio paese, risorto al termine della Grande Guerra dopo lunghi secoli di dominazione straniera e cancellato di nuovo dalle mappe dopo appena vent'anni di vita.

Passando al prossimo...Tenente colonnello Jushiro Ukitake delle Forces françaises libres?”.

Oui, mounsier Churchill” replicò con un buffo accento francese un uomo ancora piuttosto giovane, con lunghi capelli precocemente imbiancati che gli cadevano sulle spalle, in apparenza gracile.

Troppo giovane per prendere parte alla Grande Guerra, secondo questo dossier vi siete rifatto con le campagne coloniali: Marocco, Senegal, Ciad e Indocina. Questa considerevole esperienza vi ha fruttato un gran numero di riconoscimenti e promozioni. Poi, una volta tornato in Europa, purtroppo...Mi dispiace molto per la sorte della Francia, ma confido che, con il nostro aiuto, il vostro generale De Gaulle saprà rimettere a posto le cose”.

Lo sguardo dell'ufficiale francese si fece carico di indignazione, la sua bocca si deformò in una smorfia di disprezzo: “Me lo auguro! La vigliaccheria di Petain non fa che disonorare la nostra nazione, e sarà una macchia che non svanirà tanto facilmente”.

Adesso tocca a...Colonnello Shunsui Kyoraku dell'Australian Army, ci siete?”.

Ci sono- confermò con aria sorniona un uomo maturo dalla barba corta e dai capelli raccolti a coda in un inglese australiano piuttosto marcato- ma starei meglio con una tazza di tè”.

Ridacchiando sommessamente per la battuta, Churchill proseguì: “Mi rincresce di avervi separato dal vostro reggimento proprio ora che stanno per scontrarsi con gli Italiani in Egitto, ma credo che le vostre abilità saranno più utili qui che in altre sedi. D'altronde, il servizio da voi prestato nella scorsa guerra nella Nuova Guinea tedesca e nelle Fiandre testimonia pienamente il vostro valore. Ed ora, il nostro ospite speciale...Maggiore Stark? Siete ancora lì?”.

Gli sguardi di tutti si concentrarono su un tale con i capelli lunghi color nocciola e un pizzetto che fino ad allora era rimasto in un angolo, muto e chiaramente scocciato dall'inconveniente.

Per gli amici è “Coyote” ”aggiunse laconico e leggermente irriverente.

Pregherei voi tutti di non divulgare il segreto riguardante il nostro ospite, ovvero che è un ufficiale dello US Army in missione presso di noi, in quanto l'America è ancora neutrale, sebbene amica. In caso di cattura è previsto che il maggiore indossi un'uniforme canadese e si spacci come tale. Le credenziali forniteci sul suo conto sono in ogni caso ottime”.

Scusatemi, signor primo ministro- intervenne il colonnello Kurosaki schiarendosi la voce-non vorrei essere indiscreto, ma...A quale fine siamo stati chiamati qui oggi? A cosa potrebbe mai servire un gruppo così eterogeneo di militari?”.

E' presto detto” soggiunse Churchill srotolando sul tavolo, cosicché la potessero vedere tutti, una carta geografica del mondo, dove erano contrassegnate con colori diversi le ubicazioni di armate e flotte britanniche, francesi, tedesche e italiane alla data del luglio 1940.

Come potete osservare, al momento le forze dell'Asse sono in netta prevalenza rispetto a noi.

Anche se male equipaggiati, gli Italiani hanno preso l'iniziativa sia in Egitto che in Africa Orientale, mentre i Tedeschi controllano ora un territorio che va dalla Polonia all'Atlantico, e mentre parliamo ci bombardano e progettano di invaderci. E dobbiamo ancora vedere come si muoveranno l'Unione Sovietica, il Giappone, la Spagna e la Francia di Vichy...Hitler e Mussolini pensano di aver già vinto la guerra, ma mostreremo loro che si sbagliano, e lo faremo in modo spettacolare. Siete tutti soldati espertissimi e coraggiosi, per cui propongo che costituiate un commando scelto, direttamente agli ordini della Corona e del Primo ministro, finalizzato all'esecuzione di missioni belliche estremamente pericolose e segrete oltre le linee nemiche o sui fronti dove sarà più urgente il vostro aiuto. Spesso un pugno di uomini risoluti può più di una grande armata, lenta da spostare e difficile da gestire. A capo di questa unità pensavo di porre il colonnello Kurosaki e il colonnello Kyoraku, come ufficiali di grado più elevato, ma chiaramente mi aspetto che tutti voi forniate il vostro contributo collaborando con la massima disciplina e armonia. E soprattutto, passatemi l'espressione, fateli neri!”.

Dopo che il primo ministro ebbe finito di parlare, tutti e sette i prescelti cominciarono a studiarsi attentamente: se fino ad allora non avevano fatto che fissarsi a lungo cercando di indovinare dalla fisionomia o dall'espressione del viso che tipo fosse ognuno, adesso che la sapevano più lunga sul conto di tutti potevano già cominciare a supporre quali affinità caratteriali o inimicizie sarebbero sorte all'interno del gruppo, con chi avrebbero voluto essere di pattuglia e di chi si sarebbero fidati durante una resistenza disperata; qualche mente particolarmente acuta e fertile iniziava già a inquadrare e suddividere gli uomini per i vari compiti, pianificando abbozzi di collaborazione e strategie comuni da applicare in qualsiasi situazione, mentre qualcun'altra, fantasiosa o nostalgica, immaginava campi di battaglia che si tendevano a perdita d'occhio, montagne da varcare e fortilizi da assaltare, ponti da minare, guerriglia nella giungla, interrogatori, esecuzione, nascondigli e fughe, dal Mare del Nord al Medio Oriente, dalle foreste ai ghiacci.

Il colonnello Shunsui, però, disincantato e realista, si rivolse a Churchill con un ombra di preoccupazione nella voce: “Perdonatemi, signor primo ministro, ma ho un dubbio. Noi siamo solo sette: per quanto abili e astuti, come potremo fronteggiare formazioni ben più nutrite senza farci ammazzare o prendere prigionieri, in territori che magari non conosciamo?”.

Non preoccupatevi colonnello, prima di ogni missione vi saranno sempre fornite indicazioni sull'obiettivo e mappe della regione il più dettagliate possibile. Anche se le vostre mansioni includeranno principalmente atti di guerriglia e sabotaggio in luoghi favorevoli a queste attività, cercheremo di coordinare i vostri sforzi con quelli delle truppe regolari, in modo che non siate mai veramente soli. Quanto all'equipaggiamento, è giusto che a un'unità d'élite come la vostra spetti il meglio delle armi e delle attrezzature. A tal fine dovrei presentarvi una certa persona...”.

Uscì un momento dalla stanza, e quando vi rientrò era accompagnato da un uomo dai folti capelli biondi, abbigliato con un camice da scienziato, nei cui occhi brillava un lampo astuto.

Vi presento il professor Kisuke Urahara di Pretoria, probabilmente uno dei migliori inventori in circolazione. Sarà lui a fornirvi i giocattolini più sofisticati sulla piazza”.

Il biondo cominciò a parlare con un forte accento sudafricano: “Sono lieto di conoscervi e onorato di servirvi. Ecco, questo è il primo gadget che vi regalo: sembra un normale telefono, con la differenza che non ha fili e funziona con pile a lunga durata. Ingegnoso, no? Lo potrete usare in caso di necessità e per contattarci a missione riuscita”.

Kenpachi prese in mano il congegno e lo fissò estasiato: “Ma davvero? Un telefono che funziona come un orologio? Geniale! Pensate che lo possa usare per chiamare Hitler? Pronto, Adolf?”.

Tutti scoppiarono a ridere, e Churchill e Urahara si osservarono appagati: condividere il riso è spesso il primo passo per un rapporto felice.

Isshin nello stesso tempo stava stringendo le mani ad ognuno, per cementare i rapporti, e ricevette strette sincere e vigorose; ma ciò che lo riempì maggiormente di gioia fu constatare che la stretta più forte e lo sguardo più fiero appartenevano a suo figlio Ichigo.

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Capitolo 2
*** Due piccioni con una fava ***


Spazio autore

Jeanny991: Grazie mille di aver recensito e inserito la fic fra quelle seguite! Faccio una precisazione: ovviamente questa storia è ispirata a Bastardi senza gloria, ma allo stesso tempo anche a Quella sporca dozzina, Salvate il soldato Ryan, Il nemico alle porte e a un'infinità di altri film sulla Seconda Guerra Mondiale, e persino al romanzo Dove finisce l'arcobaleno di Wilbur Smith, a seconda dei vari capitoli. Quanto a Byakuya, ho scelto di farlo torinese senza pensarci troppo, poiché mi bastava che fosse italiano. Un giapponese? Sarebbe stata un'idea elettrizzante, ma purtroppo non mi è venuta: non è detto però che in futuro non possano aggiungersi altri personaggi... Quanto ad Urahara, d'ora in poi non comparirà più molto spesso, ma i suoi diabolici marchingegni saranno una presenza costante. Infine, se proprio devo scegliere i personaggi che ritengo di aver caratterizzato meglio, direi Kenpachi, Shunsui e Coyote, che in ogni capitolo ci allieteranno con battute da film americani di serie B e divertenti siparietti. Grazie ancora e ciao, ci vediamo alla prossima!

 

Due piccioni con una fava

 

Oceano Atlantico, al largo della Guyana francese, 17 agosto 1940

Terminata la riunione, i membri del futuro commando erano stati congedati con l'ordine però di presentarsi il mattino seguente in una località indicata alla foce del Tamigi, da dove si sarebbero imbarcati per la loro prima missione.

Effettivamente il giorno dopo erano tutti lì, a ricevere il saluto di Churchill e a gli approvvigionamenti di Urahara; poi, con un misto di rimpianto e timore per l'ignoto ed esaltazione per le future avventure, erano saliti sulla nave destinata a portarli dall'altra parte dell'oceano e avevano preso il largo.

L'imbarcazione in questione era il sommergibile HMS Aden della Royal Navy, al comando del capitano di fregata Ikkaku Madarame, un ufficiale taciturno e dall'aspetto truce, poco meno che quarantenne (lo so che non è così vecchio, ma alzando l'età a Kenpachi ho dovuto farlo anche a lui nda), universalmente conosciuto in tutta la Marina per due caratteristiche peculiari: la pelata, che spesso non si peritava neanche di nascondere sotto il berretto d'ordinanza, e l'indomito coraggio, che sfiorava spesso nell'incoscienza e lo aveva portato ad intraprendere con assoluta noncuranza missioni tanto pericolose quanto coronate da successo nell'Atlantico e in Norvegia.

Nessuno dei nostri aveva mai viaggiato prima d'allora su un sottomarino, e risultò piuttosto difficile adattarsi all'affollamento e alla mancanza di intimità che imperavano a bordo, all'atmosfera viziata e soffocante, al moto ondoso, alla cucina monotona e alla continua necessità di immergersi il più in fretta possibile ogniqualvolta si presentasse il pericolo di essere avvistati da battelli o velivoli nemici; ma d'altra parte la ciurma era gioviale ed espansiva, ben addestrata e completamente devota al proprio comandante, il quale da parte sua si rivelò un ottimo e competente anfitrione.

Kenpachi aveva subito provato un debole per lui, in quanto entrambi erano letteralmente dei cani sciolti, temerari fino alla follia e insofferenti delle convenzioni gerarchiche fino all'insubordinazione: proprio per questo si piacevano, e spesso e volentieri allietarono le serata a bordo dell'Aden scambiandosi gli avventurosi resoconti delle proprie gesta, gareggiando a chi rievocava la bravata più eroica.

Frattanto, mentre Ichigo trascorreva giornate intere ad ascoltare le narrazioni di soldati e marinai ben più esperti di lui, e si rendeva conto di avere ancora tanto da imparare sull'argomento, qualcuno iniziava a lamentarsi.

Ma quando arriviamo? E cosa ci tocca fare stavolta?” polemizzava Coyote Stark rigirandosi nella propria amaca e fumando.

Con calma, giovane yankee, con calma. La calma è la virtù dei forti” replicava conciliante Shunsui, ma nel frattempo non poteva fare a meno di domandarsi come era possibile che un uomo così pigro e svogliato avesse potuto raggiungere il grado di maggiore: forse nascondeva delle doti insospettate, oppure godeva di conoscenze altolocate, oppure in America semplicemente regalavano le promozioni senza il minimo riguardo per il merito personale...

Ora però era giunto il momento di effettuare tutte le rivelazioni del caso.

Mentre il sommergibile procedeva semi emerso alla normale velocità di crociera, fendendo le onde scure come il petrolio sotto un cielo stellato, Isshin, Shunsui e Ikkaku convocarono i restanti membri del commando nella cabina del capitano.

Signori, ritengo opportuno mettervi a parte della vostra missione ora che siamo giunti in zona” esordì in tono asciutto il padre di Ichigo, al che Byakuya sibilò seccato: “Alla buon'ora!” e aggiunse a bassa voce qualche parola in italiano.

Da un po' di tempo ci sono giunte segnalazioni riguardo a un mercantile battente bandiera francese- e a queste parole Ukitake si fece attentissimo- che nelle acque al largo della Guyana francese rifornisce gli U-boot tedeschi di passaggio di viveri e carburante. Il nostro compito è distruggere questa nave e scoprire se sia l'unica impegnata in tali attività. Ma non è tutto...”.

Prese la parola l'australiano: “ Parrebbe che in questo braccio di mare si aggiri da qualche settimana la Coronel, una nave corsara tedesca. Ce ne sono molti in circolazione di questi mercantili adattati a incrociatori ausiliari per disturbare i nostri traffici commerciali, e questo in particolare ha già mietuto varie vittime. Il suo comandante ha combattuto in Polonia e in Norvegia e sa il fatto suo: si dice che sia spietato e non lasci in vita nessuno sulle navi abbordate. Ma noi non dovremo colare a picco la Coronel, bensì catturarla. Il professore infatti vuole che gliela riportiamo intatta in modo che lui e gli altri tecnici la studino per realizzare incrociatori ausiliari più efficienti”.

Adesso era il turno di Ikkaku: “Fino ad ora le coste della Guyana francese sono rimaste sguarnite perché le nostre navi in quest'area sono impegnate nel blocco della Martinica (dove era internata parte della flotta francese, per evitare che le autorità di Vichy le consegnassero ai Tedeschi nda), ma ora ci siamo noi. L'Aden si incaricherà di affondare la nave rifornimenti, quindi toccherà a voi e a parte del nostro equipaggio abbordare l'incrociatore corsaro e conquistarlo”.

Alla fine della spiegazione Ichigo restava un po' dubbioso: “Non capisco perché affidino a noi questo compito, non siamo abituati a lottare in mare. Non sarebbero stati meglio i Royal Marines?”.

Prima che Isshin potesse rispondergli, si intromise Kenpachi: “Beh, per far fuori i crucchi ci vuole gente con le palle, e noi lo siamo! Per me, che sia per mare o per terra, fa lo stesso”.

Grandioso...Ora ci fanno pure giocare ai pirati...” mormorò Stark poco entusiasta.

In quell'istante arrivarono due marinai a cercare il comandante: c'erano navi in vista.

Immersione rapida!” ordinò con voce stentorea Ikkaku mentre, seguito dagli altri, si precipitava sul ponte di comando.

Una volta che il battello si fu del tutto inabissato, procedendo speditamente a vari metri sotto il livello del mare, il capitano fece innalzare il periscopio e vi si sistemò di persona: “Due piroscafi che si accostano...Un attimo...La bandiera francese...Quei fumaioli, quella prua...Ma sì, è la Coronel che va dalla mammina a succhiare il latte! Che colpo di fortuna, signori!”.

In quello stesso momento, baciate da un invitante chiaro di luna, la nave corsara aveva toccato la fiancata dell'altro battello; lunga e slanciata, doveva apparire un normale piroscafo commerciale alle sue vittime, ma in realtà sul ponte si nascondevano cannoni, mitragliatrici e tubi lanciasiluri.

Mentre le due ciurme collaboravano per caricare sul bastimento tedesco scorte di cibo, munizioni, barili d'acqua e sistemare i tubi destinati a riempirne di nuovo gasolio le cisterne, il comandante francese, un uomo anziano ma ancora ben piantato, con folti baffi bianchi e una cicatrice che gli deturpava il lato destro del volto, lasciò vagare lo sguardo alla ricerca del pari grado nazista e, individuatolo, lo salutò con rispetto: “Il comandante Nnoitra Jirga, giusto?”.

L'ufficiale della Kriegsmarine, alto e molto magro, con una benda sull'occhio sinistro e uno strano sogghigno, non era per niente intenzionato a salire a bordo e si limitò a una smorfia dalla distanza, replicando in un francese dal marcato accento germanico: “Voi dovete essere il capitano Baraggan Luisenbarn, suppongo. Vi sono obbligato per i vostri servigi”.

Trascorsero attimi di profondo silenzio, interrotti solo dall'imprecare degli uomini addetti alle operazioni, quindi fu il tedesco il primo a infrangerlo: “Perché lo fate, capitano? Vi abbiamo sconfitto e umiliato: è tanto grande la vostra ammirazione nei nostri confronti?”.

Il vecchio si inumidì le labbra in tono mesto: “Da quando gli Inglesi hanno accolto quel traditore di De Gaulle e hanno bombardato la nostra flotta in Algeria (ancora una volta per evitare che cadesse in mano ai Tedeschi o agli Italiani nda), per me sono loro i nemici. Assistendovi spero di aiutarvi a concludere la guerra il prima possibile. E allora tutto sarà molto diverso”.

Già, cambierà ogni cosa” sorrise maligno Nnoitra, pensando a un futuro radioso in cui la Germania, oltre che essere imbattibile a terra, avrebbe finalmente tolto il dominio sui mari alla Gran Bretagna inviando le sue navi in ogni angolo del globo: e in quella nuova Kriegsmarine lui forse avrebbe comandato una portaerei o una corazzata, o lo avrebbero addirittura fatto ammiraglio...

Mentre il capitano corsaro fantasticava e supervisionava i rifornimenti, il sommergibile aveva saldamente inquadrato il proprio bersaglio.

Tubi numero uno e due, fuoco!” ordinò Ikkaku, e fu questione di un attimo: come pescecani feroci, come dardi scagliati da un implacabile arciere subacqueo, i siluri morsero le acque e a velocità supersonica si conficcarono nella fiancata del mercantile francese.

Anche per via della gran quantità di munizioni e idrocarburi conservati nella stiva, in un batter d'occhio il piroscafo fu sventrato da una detonazione apocalittica: dove un attimo prima c'era una folla di marinai operosi, ora giacevano macchie di sangue e lamiere contorte.

Baraggan e pochi altri riuscirono a mettersi in salvo su una scialuppa, mentre la Coronel, sotto lo sguardo inorridito di Nnoitra che si aggrappava al parapetto con tutte le forze, veniva spinta lontano dalle onde causate dall'esplosione, lasciandosi dietro chiazze di gasolio incendiato.

Dopo aver schivato il relitto francese in fiamme, l'Aden emerse a fianco del mercantile armato, e, prima che uno qualsiasi dei Tedeschi potesse rendersi conto di cosa stesse accadendo, cominciò a fare fuoco con il cannone, infliggendo danni considerevoli.

Protetti da questo fuoco di copertura, e muniti di rampini speciali costruiti da Urahara, i nostri, dopo aver schivato le pallottole che l'intero equipaggio nemico vomitava su di loro, riuscirono ad arrampicarsi a bordo, seguiti da un buon numero di marinai britannici armati fino ai denti.

Appena mise piede sul ponte, Ichigo udì un urlo selvaggio alle proprie spalle e si vide assalito da un marinaio che brandiva un randello: a seguito di un colpo potente e preciso sferrato con il calcio del fucile, il tedesco precipitò in mare e scomparve.

Kenpachi sembrava addirittura posseduto, tanta era la foga e la velocità con cui consumava e cambiava i caricatori della propria arma: quando li ebbe terminati passò alle pistole, adoperandole sia per sparare che per assestare colpi devastanti in faccia agli avversari.

Byakuya, freddo e impassibile come sempre, scaricava il contenuto della sua mitraglietta contro un numero soverchiante di assalitori: sembrava che non avesse mai fatto altro in vita sua, e non appena i nazisti giacquero tutti sul ponte in un lago di sangue, si limitò a passare ad un altro gruppo.

Shunsui e Ukitake combattevano l'uno nelle vicinanze dell'altro, coprendosi le spalle a vicenda a seconda delle necessità del momento; il primo adoperava con uguale disinvoltura fucile e pistole, mentre il secondo riuscì a centrare in testa un marinaio che stava per scagliare una granata contro gli aggressori.

Come per miracolo, Coyote si era riscosso dal torpore abituale e stava mostrando a tutti di che pasta era fatto; contro i nemici lontani utilizzava un revolver dal calcio decorato, mentre quelli vicini li affrontava con un letale tirapugni metallico impugnato con la sinistra, e non cessava mai di rivolgere commenti e battutine ironiche ai Tedeschi, esasperandoli.

Intanto Isshin era riuscito a mettere con le spalle al muro il comandante corsaro.

Arrenditi e consegna la nave e tutto questo cesserà!”.

Io arrendermi? Mai! Heil Hitler!” ribatté Nnoitra eseguendo il saluta nazista con una mano e sparando con l'altra, ma i suoi colpi si rivelarono imprecisi e furono agevolmente schivati.

Il tedesco estrasse la sciabola, e il britannico rispose sguainando una coppia di coltelli dalla lama telescopica, invenzione di Urahara, e lo invitò a battersi.

Nnoitra gli piombò addosso e calò un fendente, ma mentre si esponeva ricevette una gomitata nello stomaco e barcollò all'indietro, raggiunto da una pugnalata al braccio; anche se dolorante, continuò

comunque a lottare, incrociando la spada con i coltelli, finché il colonnello, approfittando della propria maggior prestanza fisica, lo afferrò per il bavero e lo scagliò via, disarmandolo con una calcio; un attimo prima che il nazista potesse raccogliere da terra l'arma, egli fu raggiunto al torace

dai due pugnali, scagliati con destrezza, e si accasciò vomitando sangue.

In quell'istante l'equipaggio britannico, ammainata la bandiera da guerra rossa e nera della Kriegsmarine, inalberò l'insegna bianca, con la croce di San Giorgio e l'Union Jack nel quarto superiore, della Royal Navy.

A questo punto, con l'incrociatore relativamente intatto, nonché appena rifornito, i marinai dell'Aden si divisero in due squadre: una destinata a rimanere sul sottomarino, che avrebbe proseguito alla volta della Martinica, e un'altra che aveva il compito di governare la Coronel fino in Inghilterra, di cui facevano parte anche i membri del commando.

Mentre manovravano per allontanarsi dalla zona dello scontro, venne avvistata un piccola sagoma in lontananza: era la lancia contenente i pochi sopravvissuti del piroscafo francese.

Non appena li ebbero trasportati a bordo, Ukitake afferrò per il colletto Baraggan e lo affrontò a muso duro: “E così eri tu che li aiutavi, eh? Chien! Homme de merde! Che razza di francese sei?”.

L'anziano uomo di mare non si fece assolutamente intimidire: “E tu, dimmi un po', che francese saresti? Lo sai chi è che ha distrutto quella nave, piena di tuoi giovani compatrioti? I tuoi amici Inglesi! Lo sai chi è che ha aggredito senza alcun motivo la nostra flotta a Mers-el-Kèbir, strappando tante giovani vite? Gli Inglesi! Devi essere un comunista per non accorgertene!”.

Il vecchio fu portato via, sottocoperta, assieme al resto della sua ciurma, ma nondimeno le sue parole avevano lasciato un profondo segno nell'animo del giovane ufficiale.

Nel frattempo Kenpachi, sollevata la cornetta del telefono portatile di Urahara, effettuò la chiamata: “Pronto, Mr. Churchill? Cosa??Vi ho destato? Mi dispiace molto, signore, ma ci tenevo tanto a informarvi che abbiamo portato a termine la missione con successo...Che ne dite? Siamo bravi?”.

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Capitolo 3
*** Assalto al Campo M ***


 

Assalto al Campo M

 

Governatorato di Galla e Sidama, Africa Orientale Italiana (odierna Etiopia Meridionale), 28 novembre 1940

Rombando e tossendo come un vecchio asmatico, l'aereo procedeva a velocità sostenuta nella notte, sorvolando la savana arida, costellata da rocce e cespugli e assolutamente immota; se c'era qualche fiera a caccia o qualche uccello ancora sveglio, di sicuro non si trovava lì, quasi che non volesse rovinare anzitempo la missione dei nostri.

Tutti avevano già indossato i propri paracadute, e ora, seduti sul pavimento della carlinga sobbalzante, si guardavano fissamente l'uno negli occhi dell'altro, in attesa del segnale.

Beh, speriamo solo che vada un po' meglio della nostra ultima impresa nel Continente Nero!”, esordì d'un tratto Coyote Stark per cercare di vincere la tensione del momento.

A quell'accenno Ukitake, già di umore non particolarmente gioviale, si rabbuiò ulteriormente.

Un paio di mesi prima il generale De Gaulle, spalleggiato dalla flotta britannica, aveva tentato uno sbarco a Dakar per far insorgere i possedimenti africani ancora fedeli a Vichy, ma la reazione era stata tutt'altro che entusiasta e gli Alleati si erano ritirati con la coda fra le gambe.

Il commando era stato incaricato di raggiungere la terra ferma in segreto ed effettuare alcune azioni di sabotaggio e disturbo, e lui, con il duplice scopo di esorcizzare le ambigue parola del vecchio Baraggan e dimostrare la propria devozione alla causa della Francia libera, si era sentito particolarmente chiamato in causa e si era impegnato con tutto se stesso per la buona riuscita dell'operazione, fornendo preziose consulenze logistiche grazie a tutti gli anni di servizio che aveva trascorso in Senegal: purtroppo non era servito a nulla, e loro erano sfuggiti alla cattura per puro miracolo.

Kenpachi si dimostrò altrettanto insensibile con un altro compagno: “Ehi, Byakuya, stiamo per incontrare i tuoi compatrioti! Pensi che li saluterai?”.

L'italiano si voltò appena e sul volto pallido gli si disegnò una smorfia di irritazione: “Anche se hanno opinioni politiche diverse, non credere che mi piaccia combattere contro altri Italiani! Il soldato italiano medio è un contadino o un operaio che di punto in bianco, senza che lui ne comprenda il motivo, viene richiamato e spedito in terre lontanissime e inospitali a morire per un impero che è una buffonata completa, a uccidere o a farsi uccidere da popoli di cui a malapena sospetta l'esistenza. Se c'è qualcuno che invece si merita una bella punizione, sono le Camicie nere.

Ho visto troppa gente picchiata o assassinata da loro per fargliela passare liscia...”.

Dopo aver brevemente stretto entrambi i pugni in segno di frustrazione e rabbia repressa, il suo tono tornò a farsi gelido: “In ogni caso, sono loro la componente più fanatica dell'esercito di Mussolini. Non commettette l'errore di sottovalutarli”.

Ascoltatemi tutti attentamente” esclamò Shunsui dopo essersi schiarito la gola “ora vi esporrò lo scopo della nostra missione. Come ben saprete l'armata italiana in Africa Orientale, pur se isolata dalla madrepatria e scarsamente attrezzata, è comandata da un generale in gamba, il Duca d'Aosta, ed è molto superiore numericamente a qualsiasi forza del Commonwealth presente nell'area. Hanno già conquistato l'intera Somalia britannica e varie città in Kenya e Sudan, facendo numerosi prigionieri. Il nostro compito è di infiltrarci in un campo di prigionia italiano non lontano da qui, denominato Campo M dall'intelligence, e liberare tutti i militari alleati là detenuti. A questo fine ci avvarremo dell'aiuto di una banda di guerriglieri etiopi che da un po' di tempo bazzica nella zona, procurando parecchi grattacapi a Mussolini”.

Una domanda che potrebbe sembrare stupida, colonnello...” azzardo Ichigo: “Ma loro lo sanno che stiamo arrivando?”.

Ehm...Diciamo che i servizi segreti di Sua Maestà non hanno ancora avuto modo di allacciare rapporti soddisfacenti con questo ras ribelle” ammise leggermente imbarazzato l'australiano.

Ma di sicuro ci accoglieranno a braccia aperte! Ricordate, da che mondo è mondo in guerra il nemico del mio nemico è mio amico!”.

Questo piano...Ha a vedere con quelle uniformi che portiamo nei nostri zaini?” domandò il francese, al che il colonnello replicò sibillino: “Sì, ma non sarete voi ad indossarle...”.

Frattanto dalla cabina di pilotaggio si udì una voce dal forte accento rhodesiano berciare: “Signori, siamo sul posto! Sbrigatevi a gettarvi, perché se i Macaroni (nomignolo gergale per indicare gli Italiani nda) ci scoprono qui...avrete ugualmente bisogno del paracadute!”.

Grazie pilota!” rispose Isshin, quindi spalancò il portellone e incitò i compagni a paracadutarsi.

Uno dopo l'altro, i paracadute si aprirono come grossi fiori di tela e consentirono a chi li indossava un sicuro atterraggio nella savana.

Kenpachi e Ichigo non avevano ancora finito di imprecare per il brusco impatto che all'improvviso risuonarono nelle tenebre grida autoritarie in una lingua sconosciuta, senza che se ne potesse scorgere da nessuna parte la fonte.

Si udì un leggero fruscio che indusse tutti a voltarsi verso una collinetta poco distante, la cui cima era coronata da arbusti dai quali emersero una quindicina di figura slanciate dalla carnagione scura, abbigliate con lunghi abiti e pugnali ricurvi nelle cinture, che puntarono contro di loro i fucili.

Per reazione istintiva anche i membri del commando misero mano alle armi, ma senza preavviso Byakuya si interpose fra i due gruppi e urlò a pieni polmoni in italiano: “Non sparate! Siamo amici! Inglesi! Amici!”, sperando che lo comprendessero.

Per qualche secondo gli Abissini rimasero impassibili, poi uno di loro abbassò il fucile e nella propria lingua ordinò ai commilitoni di fare altrettanto.

I guerriglieri discesero rapidamente l'altura e si fermarono a pochi passi dai nuovi venuti, esaminandoli con un misto di curiosità e sospetto.

Shunsui si appressò a Byakuya e gli sussurrò nell'orecchio: “Chiedi loro se fanno parte della banda di ras Kaname Tosen, e se è così dì loro che non abbiamo cattive intenzioni, ma veniamo in pace e vogliamo aiutarli a combattere il nemico comune”.

I portavoce delle due bande conversarono a lungo e a voce alta, ma nessuno dei compagni di Byakuya sapeva l'italiano e tutti speravano che nulla del prezioso messaggio andasse perso nella traduzione.

Quando l'italiano si voltò, la sua espressione era insolitamente raggiante: “Sì, sono loro. Hanno capito in pieno, e ci conducono da lui. Dobbiamo seguirli”.

Almeno non sono cannibali...Se lo fossero, ci avrebbero già mangiato” commentò indolente Stark, poco prima di mettersi in marcia anche lui.

Dovettero seguire sentieri impervi e fuori mano, tagliati nell'erba alta e secca e adeguatamente celati dalla boscaglia, finché non giunsero in vista di un enorme baobab, ai cui piedi si scaldavano attorno a un falò molte decine di guerriglieri.

Seduto in atteggiamento pensoso accanto al fuoco c'era ras Tosen, uno dei tanti nobili abissini che dopo la conquista dell'impero del negus si erano nascosti sulle montagne assieme ai propri fedelissimi e da là conducevano una propria guerra personale ai dominatori italiani; era un uomo alto e magro, dai lunghi capelli riuniti in molte treccine, i cui preziosi vestiti e la spada dall'elsa dorata infilata nella cintura ne detonavano la condizione nobiliare.

Sebbene, come lasciavano intuire i grossi occhiali scuri, fosse cieco dalla nascita, nondimeno aveva dalla sua un'astuzia e un ardimento che lo avevano reso una leggenda vivente per amici e nemici.

Byakuya parlò per tutti: “Ti salutiamo, ras Tosen. Anche se parlo la lingua degli invasori, sono loro nemico, e gli uomini che mi accompagnano vogliono aiutarvi a scacciarli, se ce lo concedi”.

L'etiope si girò nella direzione delle parole, guardingo: “Quanti siete? Aiuterete il negus a tornare?”.

Siamo solo sette, ma il nostro coraggio vale per cento. Assieme ai tuoi guerrieri, coglieremo di sorpresa gli Italiani e libereremo molti alleati prigionieri. Quanto all'imperatore, è al sicuro e fra non molto tornerà, assieme a un forte esercito”.

Il ras si concesse qualche secondo per riflettere, poi acconsentì: “A me sta bene. Più lottiamo, più presto libereremo il nostro paese. Diteci dove e quando colpire e vi accompagneremo”.

Qui vicino c'è un campo di prigionia italiano, vero? Un luogo dove tengono soldati inglesi?”.

Sì, ma ci sono molti uomini di guardia, e anche le Camicie nere”.

A questo punto intervenne Isshin: “Non c'è da preoccuparsi, il nostro piano è ben congegnato...” e si avvicinò a Byakuya per esporglielo, affinché l'italiano potesse poi spiegarlo a Tosen.

***

Il giorno dopo una strana carovana percorreva un sentiero polveroso sugli altopiani etiopici.

A vederla da lontano, si sarebbe detto che il drappello era composto da un sottufficiale italiano e dai suoi ascari eritrei che si portavano appresso alcuni prigionieri nemici: in realtà si trattava di Byakuya e alcuni degli uomini di Tosen travestiti che fingevano di spintonare e tenere sotto tiro il resto del commando.

D'un tratto, all'orizzonte, scorsero in lontananza un agglomerato di edifici che, vista l'assoluta desolazione di quelle lande, altro non poteva essere che il famoso Campo M, e accelerarono il passo.

Una volta avvicinatisi maggiormente, fu quasi una delusione per alcuni constatare che si trattava semplicemente di un ammasso di tende, baracche e aridi cortili delimitati da recinzioni e filo spinato, popolato da prigionieri, principalmente nigeriani, indiani e sudafricani, dall'aria rassegnata e indolente e da militari accaldati che forse avrebbero preferito di gran lunga essere a Napoli o a Roma.

Byakuya stava per entrare dall'ingresso principale ignorando bellamente il piantone, una giovane camicia nera dall'aria spaesata, ma costui lo apostrofò piuttosto sgarbatamente con un pesante accento fiorentino: “Alt! Dove andate, sergente? Chi è quella gente?”.

Byakuya dovette far ricorso a tutte le proprie doti di attore e osservò seccamente: “Mi pare evidente. Io e questi ascari abbiamo catturato una pattuglia nemica, e la portiamo al campo”.

Prima dovete identificarvi” insistette l'altro, subodorando qualcosa.

Identificarmi? Oh, certo” replicò il finto sergente affettando stupore, ma mentre fingeva di cercare i propri documenti in tasca ne tirò fuori una pistola e sparò, fulminando la camicia nera.

Gli Abissini spianarono i fucili, mentre i “prigionieri” finalmente estraevano pugnali e pistole e facevano irruzione all'interno del campo, cominciando a bersagliare i soldati che accorrevano attirati dalla detonazione.

Si torna a casa, gente!” esclamò in tono affabile Shunsui mentre abbatteva una recinzione con un paio di tenaglie, permettendo ai detenuti di sciamare fuori, quindi procedette verso altri recinti.

Sai- confidò Kenpachi a Ukitake, mentre entrambi erano accovacciati dietro un bidone metallico per ripararsi dai colpi- a me gli Italiani non hanno mai fatto nulla di particolare, ma se sono alleati dei Tedeschi posso fare un'eccezione!”.

C'è qualcuno che odi più dei crucchi?” chiese sarcastico il francese.

Sì, i Russi” rispose il polacco, improvvisamente molto più serio.

All'improvviso risuonarono grida selvagge, e un'orda umana sbucò dalla rada boscaglia ai lati del campo: era il resto della banda di Tosen che, possedendo una perfetta conoscenza del territorio, da ore era là in agguato senza che gli Italiani nemmeno se ne avvedessero.

Ehi, è un po' strano come Settimo Cavalleggeri!” osservò divertito Coyote subito prima di sfondare la faccia ad un avversario con il suo tirapugni.

I guerriglieri riuscirono a penetrare senza troppe difficoltà, anche per la confusione che regnava fra i difensori, e si gettarono impavidamente in battaglia, sparando e tagliando: Tosen, che a causa della cecità non poteva utilizzare il fucile, tuttavia era un abile spadaccino e grazie a rumori e spostamenti d'aria sapeva sempre dove indirizzare la temibile sciabola ricurva.

In breve tempo gli Italiani furono costretti ad arretrare fino alla piazza centrale, dove, radunati attorno all'asta della bandiera, continuavano a sparare; ma la prospettiva di arrivare al corpo a corpo con una banda di Abissini inferociti e armati fino ai denti non dovette sembrare troppo rosea al comandante del campo che, dopo veloci consultazioni con i suoi subordinati, e dopo aver contato i pochi superstiti, decise di capitolare ammainando il vessillo tricolore e consegnando la propria spada a Ichigo; non già perché era il più alto in grado, ma perché era il nemico più vicino.

Se solo sapesse di essersi arreso a un caporale...” pensava il ragazzo ancora incredulo dell'onore che gli era toccato.

Ora il campo giaceva vuoto, e le parti si erano invertite: mentre gli Etiopi e i Britannici, ora liberi, conducevano via gli Italiani, Byakuya si accostò a Tosen: “Dove li portate?”.

Alla postazione inglese più prossima. Credo che sarà una bella passeggiata, da qui al Kenya”.

Non maltrattateli inutilmente. La maggior parte di loro non sa nemmeno perché si trova qui. Sono la mia gente e non cesserò mai di amarla, anche se sbaglia”.

Intanto, Kenpachi e Isshin si pavoneggiavano con la bandiera italiana: “Credete che a Churchill piacerà?” domandò il colonnello.

Non so,-rispose Shunsui- l'ultima volta gli abbiamo portato una nave, e ora un pezzo di stoffa...”.

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Capitolo 4
*** Tovarish ***


Tovarish

(compagno in russo nda)

 

Cabinet War Rooms, Londra, 20 ottobre 1941

Nonostante fosse stato lui in persona a convocarli, richiamandoli addirittura da Tobruk assediata, luogo dove tra l'altro proprio egli aveva insistito per inviarli (ma d'altronde la volubilità di quell'uomo era cosa ben nota), Winston Churchill tardava ancora a palesarsi, fatto che contribuiva grandemente a irritare i membri del commando.

Non ci aveva mai trattati cosi!” protestò vivamente Kenpachi, senza tra l'altro aspettarsi di essere realmente ascoltato, inducendo qualche viso apatico a sollevarsi per poi ricadere nel torpore.

Abbiamo una guerra da fare, noi! Ci sono decine di fronti su cui combattere, milioni di Tedeschi ancora da ammazzare! E lui cosa fa? Ci fa attendere come in un salotto da tè! Ah, questi Inglesi...”.

Nell'udire queste rimostranze, Ukitake non poté fare a meno di profondersi in un lieve sorriso, soprattutto se si ricordava dell'analogo ritardo del polacco in occasione della loro prima riunione e della conseguente arrabbiatura di Churchill.

E proprio vero- rifletté il francese- che noi uomini troviamo il coraggio di accusare i nostri difetti soltanto quando li scorgiamo negli altri!”.

Dal canto suo, Isshin aveva ben altro per la testa.

Più pensava all'anno in cui si trovava a vivere e combattere, e più che concludeva che si trattava di un annus horribilis per gli Alleati: sebbene la campagna contro l'Africa Orientale Italiana, a cui avevano fornito un piccolo ma importante contributo, si potesse ormai considerare conclusa in modo favorevole, a parte il baluardo montano di Gondar che ancora resisteva e sporadiche azioni di guerriglia, lo stesso non si poteva affermare per altri fronti.

Per rimediare ai disastri capitati al compare Mussolini in Grecia e Nordafrica, Hitler si era visto costretto a inviare le proprie forze in quelle contrade.

Loro stessi avevano svolto pericolosissime e difficili missioni durante l'Operazione Marita, l'invasione italo-tedesca della Grecia, ma nonostante il loro ostinato valore gli Anglo-greci erano stati costretti a capitolare o rifugiarsi a Creta.

Anche il commando si era trasferito su quest'isola, dove tutti speravano di poter tirare il fiato e preparare la rivincita nei confronti dalla Wehrmacht, ma così non sarebbe stato; Creta infatti fu investita da ondate di paracadutisti tedeschi e attaccata dal mare e dall'aria, in quella che fu una campagna cruenta e faticosa, dove anche gli assalitori subirono perdite spaventose e la differenza fra vittoria e sconfitta corse sul filo del rasoio.

Isshin se li ricordava ancora come fosse ieri, e anche gli altri di sicuro, quegli stormi di sagome dondolanti appese a un grosso sacco di tela, che ingombrando il cielo nella sua interezza si lanciavano temerariamente sul suolo dell'isola greca.

Ma proprio in quella fase i paracadutisti offrivano un eccellente bersaglio al loro fuoco, ed erano incapaci di difendersi; per quanto riguardava il loro settore, ben pochi erano atterrati vivi sui prati o negli oliveti, e quei pochi erano durati ancor meno.

Ma anche questa battaglia fu persa, e le forze del Commonwealth vennero evacuate in Egitto, dove c'era gran bisogno di loro.

Anche se avevano avuto modo di rifarsi durante la breve campagna volta a strappare la Siria francese al controllo di Vichy, Isshin, e non solo lui, nel proprio intimo si sentiva ancora amareggiato: avevano combattuto come leoni, avevano dato il sangue, venendo tutti feriti più volte e rischiando seriamente la morte, e per cosa? Per doversi ritirare ugualmente.

Ma anche in Africa c'era poco di cui stare allegri.

Ormai non bisognava vedersela più solo con il Regio Esercito italiano, numeroso ma male armato e ancora peggio guidato, i cui mezzi corazzati erano una vera e propria barzelletta per i militari alleati, ma anche con l'Afrikakorps germanico comandato da quello che sarebbe divenuto noto come

Wüstenfuchs, “la volpe del deserto”, il feldmaresciallo Erwin Rommel.

Questo brillante stratega e assertore della guerra di movimento, verso cui Isshin non poteva fingere di non provare una profonda ammirazione per la sua abilità, era riuscito a ribaltare una situazione disperata riconquistando la Cirenaica e cingendo d'assedio Tobruk, dove un contingente multinazionale resisteva ostinatamente, assistito fino a poco prima dal commando di Churchill.

Ma non era stata questa l'unica novità del 1941, in quanto era finalmente accaduto ciò che molti già da tempo aspettavano, ma sembrava essere stato vanificato dal patto di non aggressione del '39: la Germania nazista aveva invaso la sua nemesi vivente, l'Unione Sovietica comunista, infliggendole nel giro di pochissimo tempo, senza che Stalin e i suoi generali potessero abbozzare alcunché, perdite gravissime fra morti, prigionieri e carri armati distrutti e occupando vastissime aree dall'importanza strategica ed economica incommensurabile; proprio mentre lui era impegnato in tali riflessioni, la Wehrmacht combatteva duramente per aprirsi la strada verso Mosca ed espugnarla.

E a rendere ancora meno allegra la situazione internazionale c'erano le prodezze dei Giapponesi in Cina ed Indocina, che stavano conducendo ad una gravissima crisi con gli Stati Uniti di cui molti già sospettavano il probabile esito.

Mentre il suo umore si faceva cupo e la sua mente era tutta impegnata nell'immaginare lunghissime teorie di soldati e mezzi militari che si battevano in ogni angolo del mondo per terra, per mare e per aria riducendo il mondo a un deserto, Isshin si sentì scuotere con violenza.

Papà, stavi dormendo? E' arrivato il primo ministro!” lo avvertì Ichigo, e il genitore fu estremamente contento di vedere finalmente un volto caro.

Prima che Churchill prendesse la parola o anche solo si sedesse, l'attenzione di tutti si concentrò sull'uomo che lo accompagnava, che nessuno di loro si ricordava di aver mai visto.

Era piuttosto alto e slanciato, anche se dava l'idea di un individuo ugualmente robusto ed energico, impressione confermata dagli occhi mobilissimi, giovane, sicuramente poco più che ventenne, con lunghi e scarmigliati capelli rossi legati a formare una coda; indossava un'uniforme sovietica.

A quella vista, qualcosa di ferino scattò nella mente di Kenpachi; veloce come un lampo, il polacco balzò in piedi e, inchiodando il nuovo venuto con uno sguardo che trasudava fuoco dall'unico occhio, fece per avventarglisi contro, vomitando nel frattempo un fiume di ingiurie in russo e in polacco.

Sotto lo sguardo prima stupefatto e poi decisamente furioso del premier britannico, Kenpachi balzò, ma l'altro lo scansò con un gesto agile ed elegante, mandandolo a rotolare sul tappeto; il polacco aveva estratto dalla fondina la pistola e stava prendendo la mira, quando un paio di braccia robuste si avvinghiarono attorno a lui, lasciandolo a divincolarsi impotente.

Lasciate che lo uccida! LASCIATE CHE LO UCCIDAAAAAAAAAAA!!!!!!!!!!!!” urlava come un ossesso, fuori di sé, come non lo avevano mai visto nemmeno nei peggiori scontri.

Calmati, pazzo furioso. Ti rendi conto della figura che ci hai fatto fare?” lo rimproverò duramente Shunsui, ma quello non demordeva e continuava a rivolgersi al sovietico: “Tu, russo maledetto! Stalin e Hitler si sono spartiti la Polonia come una torta, nemmeno fossero dèi, senza chiederci nulla. Cos'è, ora si è pentito e ti ha mandato a piagnucolare da noi?”.

Un risoluto pugno sul tavolo servì a imporre il silenzio.

Adesso ci mettiamo tutti a sedere- sibilò Churchill cercando di non esplodere- e discutiamo da persone civili. Sono terribilmente mortificato per questo inconveniente, tenente”.

Figuratevi” rispose l'individuo misterioso con un forte accento russo,in tono apparentemente monocorde.

Quando ognuno ebbe preso il suo posto al tavolo, il premier prese la parola serafico: “Signori, vi presente il vostro nuovo collega, il tenente Renji Abarai dell'Armata Rossa. Da quest'oggi lavorerà assieme a voi, e spero che andiate d'amore e d'accordo”.

Stark scrutò diffidente il russo: “E chi lo ha deciso? Cos'ha fatto per meritarselo?”.

A questo posso rispondere anch'io- replicò Renji piccato.- Quando i Tedeschi ci hanno invaso, ci siamo trovati in grandissime difficoltà. Ma per fortuna il nostro servizio segreto era riuscito a venire a conoscenza dell'esistenza di questo commando britannico che si opponeva alle potenze fasciste dovunque fosse necessario, e ha pensato di servirsene per il bene della nostra patria. Il segretario del Partito, il compagno Stalin, ha inviato suoi delegati a Londra per sottoporre la questione all'attenzione del signor Churchill, che si è dimostrato entusiasta della proposta”.

Il primo ministro concordò: “Anche se fra i nostri due Paesi non c'è ancora nessun tipo di accordo o alleanza ufficiali, loro hanno un disperato bisogno del nostro aiuto per non essere sopraffatti e noi abbiamo bisogno di un esercito potente e numeroso che tenga in scacco i crucchi obbligandoli a combattere su due fronti. Consideratelo un nostro favore personale a Stalin, e in fondo, visto il prezioso supporto che ci ha fornito durante la recente invasione dell'Iran, direi che un po' se lo merita”.

Kenpachi, immobile come una statua, nondimeno dava attivi segni di vitalità fumando di rabbia e grugnendo sottovoce, mentre sempre più incredulo ascoltava: non c'era dunque fine all'arroganza dei Russi? Chi si credeva Stalin, il padrone del mondo? E davvero avrebbero dovuto accettare quell'individuo in squadra? Apriti cielo...

Rimase però costernato e disgustato nel constatare che gli altri non solo non ostentavano una faccia indignata, ma parevano pure seriamente interessati alla proposta.

Il compagno Stalin ha però posto una condizione” intervenne Renji. “Per evitare che le Potenze occidentali non rispettino le promesse fatte e non si curino abbastanza degli interessi della nostra madrepatria, ha preteso che nel vostro commando sia inserito almeno un militare dell'Armata Rossa, affinché funga da elemento di controllo. Sono stato scelto io, e posso confessare apertamente che per me è un onore difendere con le armi la nostra causa, anche a costo della mia stessa vita”.

Mentre parlava, tutti, compreso Kenpachi, si accorsero di un particolare importante: per quanto apparentemente i discorsi di Renji traboccassero di retorica politico-militare staliniana ormai trita e ritrita, egli pareva assolutamente convinto della bontà delle proprie parole e del proprio impegno e sincero quando si trattava di confermarli nei fatti, proprio come se la dottrina comunista, l'amor di patria e il culto del capo in lui fossero stati qualcosa di scontato e imprescindibile come l'aria che respirava, e gli fossero stati trasmessi da sempre, sin dal latte materno.

Dopo aver velocemente dato un'occhiata agli sguardi dei compagni, Isshin si voltò verso Churchill e confermò: “Siamo onorati di questa nuova aggiunta, signor primo ministro. Siamo fermamente convinti che la vittoria in guerra si basi sulle alleanze, e che fintantoché esse sono necessarie non bisogna guardare in faccia a nessuno. Non abbiamo pregiudizi di nessuna sorta sul conto del tenente Abarai, e siamo sicuri che egli si potrà dimostrare l'ottimo soldato che è anche in nostra presenza”.

Il sovietico, evidentemente soddisfatto per quell'elogio nemmeno troppo forzato- anche lui era in grado di riconoscere un militare capace quando se lo trovava davanti- si concesse un sorriso astuto.

Bando alle ciance signori,- esordì con voce squillante Churchill- è tempo di lavorare seriamente”.

Dopo aver svolto sul tavolo una cartina che evidenziava chiaramente la linea del fronte russo-tedesco e le manovre contrapposte della Wehrmacht e dell'Armata Rossa, puntò il dito su un punticino contrassegnato dalla dicitura “Mosca”: “Suppongo che tutti voi riusciate a vedere l'estensione dei territori attualmente occupati dai Tedeschi, e a trarne le debite conclusioni. In ogni caso, al momento, se c'è una singola località su cui Hitler sta concentrando tutti i propri sforzi e a cui anela più di ogni altra cosa al mondo, quella è Mosca. Presumo che vorrebbe sentirsi come Napoleone, e spero che faccia la stessa fine. In fondo, l'inverno incombe, e chi meglio dei Russi sa combattere sulla neve? In ogni caso, come il tenente Abarai potrà confermare, Stalin sta mobilitando per la difesa della città l'intera popolazione e sta spostando ingenti quantitativi di truppe dalla Siberia, mentre trincee e fortificazioni spuntano come funghi. Ma c'è bisogno di qualcosa in più, di un'arma segreta: cioè voi. Preparatevi a una gita nella Terra dei Soviet, gente, e perdipiù non nella stagione turistica: ho incaricato il professor Urahara e il suo team di realizzare un adeguato equipaggiamento invernale per la vostra missione. E non scordatevi inoltre che in questo momento Leningrado è sotto assedio da parte dei Tedeschi e dei Finlandesi: la sua importanza oltre che simbolica, è soprattutto strategica, in quanto se cadesse i Sovietici perderebbero un importante sbocco sul Baltico e ciò praticamente condannerebbe la loro flotta. Sarà il caso che facciate una capatina anche lì. Ci sono domande?”.

Prima che chiunque potesse alzare la mano, fu Renji a inserirsi nella conversazione: “Al compagno Stalin preme molto ottenere chiarimenti anche su un altro tema. Il nostro paese è in ginocchio, poiché l'intero esercito nazista si è scagliato su di esso. Sareste in grado di effettuare uno sbarco in Francia o in Norvegia per alleggerire la pressione tedesca sull'Armata Rossa?”.

Churchill si concesse un lungo silenzio, poi rispose: “Al momento non abbiamo né i mezzi né i piani, ragazzo mio. Al momento, il nostro futuro si decide in Africa e in Medio Oriente”.

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Capitolo 5
*** Undert the Rock ***


Under the Rock

 

Algeciras, Spagna Meridionale, 5 febbraio 1942

Ma è proprio inevitabile?”domandò stufato Ichigo mentre Kenpachi lo aiutava a indossare un elegante smoking nero, ornato di preziosi bottoni e gemelli ai polsini.

Ma sì, sciocchino, scommetto che farai un figurone!” ridacchiò il polacco, quindi si allontanò di qualche passo per osservare il risultato finale nel suo insieme e commentò sarcastico: “Ecco qua, un perfetto cameriere! Per fortuna che il professore è anche un buon sarto, sennò chissà come dovremmo arrangiarci per i travestimenti...”.

Sono pronto anch'io” disse col solito tono impassibile Byakuya, ma stavolta questo mascherava una reale irritazione, dovuta al carattere del tutto inusuale della copertura che avrebbero utilizzato per la missione.

Spero solo di non perdere il mio tempo, qua!” sibilò astioso Renji, misurando a grandi passi la camera dell'albergo in cui erano ospitati. “La Grande Madre Russia corre un pericolo mortale, i Tedeschi sono tutt'altro che vinti, e noi...ci mascheriamo! Non credevo che collaborare con voi implicasse anche questo genere di pagliacciate!”.

Nel periodo fino ad allora trascorso con il resto del commando, il sovietico, pur contribuendo in modo decisivo al buon esito delle missioni nella sua madrepatria grazie alla conoscenza del territorio e del clima, non aveva lasciato proprio una buona impressione di sé: spesso era arrogante, impaziente, ostinato nelle proprie convinzioni e poco propenso a dare grande peso ai suoi alleati occidentali; in particolare sembrava attribuire scarsa importanza alla strategia generale portata avanti dallo Stato maggiore britannico per concentrarsi esclusivamente sul fronte orientale, anche se questo suo fortissimo desiderio di rivalsa era comprensibile viste le tremende devastazioni che l'Urss aveva subito ad opera di Hitler, e a cui egli stesso aveva assistito di persona.

Il nostro amico non ha tutti i torti” gli fece eco Coyote Stark, come al solito in tono pacato, ma carico di un certo risentimento. “Qua la situazione è relativamente tranquilla, e oltretutto siamo in un Paese sì fascista, ma neutrale... Credo che a Oriente ci sarebbe grande bisogno di noi, invece”.

Da quando, durante la missione in Russia, l'americano aveva appreso via radio dell'attacco giapponese a Pearl Harbor e della successiva entrata in guerra degli States, da una parte si era sentito sollevato, dall'altra annichilito spiritualmente.

Se per certi versi il fatto che la sua patria si fosse finalmente schierata a favore degli Alleati lo rassicurava, veniva incontro ai suoi desideri personali e gli permetteva finalmente di mostrarsi per ciò che era (“Bene, posso dire addio a quella stupida uniforme canadese” era stato uno dei suoi primi commenti all'accaduto, ostentando tranquillità), dall'altro era furibondo e indignato per quell'attacco a tradimento costato agli Stati Uniti moltissime giovani vite e una significativa percentuale della propria flotta, e più considerava la rapidità con cui il Giappone cominciava ad avanzare nel Pacifico e nel Sudest asiatico, più era preoccupato dal quel nemico temibile e apparentemente inarrestabile...

Ora basta tutti e due!” li rimproverò a muso duro Isshin, cui non piacevano né i disfattisti né coloro che contestavano eccessivamente gli ordini ricevuti: “Renji, a Mosca e a Leningrado abbiamo riportato dei buoni successi, e almeno per un po' non rischieranno di capitolare. E tu, Coyote, credi che io non ce l'abbia a morte con i Nippo dopo che hanno conquistato Hong Kong e la Malesia, affondando le nostre migliori navi in quei mari? Purtroppo, le risorse sono quelle che sono, e per il momento è opportuno concentrarle nei settori di importanza strategica, come il Mediterraneo. Se Gibilterra, Malta e Suez cadono in mano al nemico, possiamo anche fare ciao ciao alla vittoria”.

La loro missione attuale, infatti, li aveva portati in quella città costiera spagnola dirimpetto alla Rocca di Gibilterra proprio per sventare una possibile azione contro la piazzaforte che consentiva agli Inglesi il controllo di qualunque rotta fra l'Atlantico e il Mediterraneo, e la cui sicurezza costituiva per Churchill un obiettivo primario, più importante della stessa Gran Bretagna.

Come aveva avuto modo di spiegar loro il Primo ministro durante la loro ultima capatina a Londra, era sin dall'inizio della guerra che l'Asse tentava di impossessarsi della Rocca o di metterla in condizione di non nuocere: era stata bombardata dall'aviazione italiana e da quella di Vichy, e le sue acque erano state penetrate più volte dalla X Flottiglia MAS, i famigerati incursori della Regia Marina italiana; quanto ai Tedeschi, da anni ormai si vociferava che intendessero assaltare Gibilterra passando attraverso la Spagna con o senza il permesso del dittatore Franco, che Hitler aveva a lungo corteggiato affinché entrasse in guerra al suo fianco.

Ma ora- aveva detto turbato Churchill- pare che i Nazisti se ne siano usciti fuori con qualche nuovo piano. Il vostro compito sarà di recarvi ad Algeciras, dove dovrete tenere d'occhio un tale Ulquiorra Schiffer, presunto addetto culturale dell'ambasciata svizzera di Madrid, in realtà nota spia tedesca. Sembra che darà un ricevimento in un albergo a cui confluiranno molti stranieri presenti in Spagna e, abbiamo ragione di crederlo, parecchi suoi complici”.

Tornando ai nostri, anche Shunsui si sentì in dovere di fare un chiarimento: “Guardate che il piano non è poi così azzardato. Una volta saputo in quale hotel si sarebbe tenuto il rinfresco, non abbiamo dovuto fare altro che affittare anche noi delle camere qua, spacciandoci per turisti provenienti da Paesi neutrali per non destare sospetti. Poiché purtroppo non siamo fra gli invitati alla festa, Byakuya e Ichigo dovranno intrufolarsi travestiti da camerieri e una volta là cercare di carpire qualche segreto alla spia o quantomeno di ostacolarla, mentre noialtri ci introdurremo nella sua stanza, lasciata incustodita, e cercheremo elementi utili alle indagini. Non mi piacciono questi metodi da ladri e imbroglioni, ma, se è per il bene della vittoria, allora li accetto volentieri”.

Ukitake indicò nervosamente l'orologio a pendola che troneggiava in un angolo della sala: “Accidenti, sono le otto meno dieci! Dovete sbrigarvi, o non arriverete in tempo al rinfresco!”.

Fantastico, loro fanno gli agenti segreti e io vado a servire tartine e cocktail a ricchi filonazisti perditempo!” si sdegnò mentalmente Ichigo mentre uscivano nel corridoio antistante la parte, ma un'energica stretta sulla spalla dell'italiano lo riportò alla realtà: “Mi raccomando Ichigo, rimaniamo sempre in coppia e lascia parlare me, che so lo spagnolo. Se qualcuno ti interpellasse tu rispondi sempre o Bueno, señor. Se il nostro uomo dovesse allontanarsi, seguilo tu, io penso agli ospiti”.

Il giovane britannico annuì in senso affermativo e insieme attraversarono i numerosi corridoi dell'albergo, sempre intenti a sistemarsi i vestiti e senza incontrare nessuno tranne un vecchio facchino che li degnò appena di uno sguardo, finché, scesi al piano inferiore, non udirono della musica provenire da una vasto salone, evidentemente il ristorante, e fecero il proprio ingresso.

Entrarono velocemente, badando bene a confondersi allo stuolo di camerieri già all'opera, e subito i loro sguardi effettuarono una panoramica della stanza, inquadrando l'orchestra in fondo a sinistra, una pista da ballo a destra, una lunga tavola imbandita di prelibatezze attorno a cui si aggiravano festosi e gioviali uomini e donne in ghingheri, che ridevano e chiacchieravano in varie lingue, e infine il loro obiettivo.

Tutta l'apparenza del presunto svizzero, un individuo estremamente giovane e magro, sembrava giocata sul contrasto fra tinte fosche, come il colore corvino dei lucenti capelli a caschetto e il nero inchiostro della cravatta strettissima, e sfumature chiare, come il pallore innaturale del volto incavato e l'immacolato frac in cui l'uomo era costretto.

Ulquiorra Schiffer, posto che questo fosse il suo vero nome, non sembrava minimamente interessato all'esorbitante quantità di cibo che lo circondava, ma piuttosto gettava attorno a sé lunghe occhiate cariche di gelo e attesa, come se si aspettasse di incontrare qualcuno.

Difatti, qualche minuto dopo, un individuo massiccio e abbronzato, abbigliato con un cappotto di cammello grigiastro e un fez rosso, che a chiunque gli rivolgesse la parola spiegava di essere un diplomatico turco, si fece largo nella calca a suon di gomitate e si sedette accanto a lui.

E' una splendida serata, signor Schiffer, anche se un po' fredda. Pensate che gli uccelli voleranno?” domandò in tono apparentemente innocente il nuovo arrivato.

Credo di sì, effendi. I cacciatori saranno a letto, con un tempo simile, e gli uccelletti avranno di che beccare senza fastidi” replicò lo “svizzero” senza scomporsi.

I due finti camerieri si scrutarono fra loro, perplessi: che senso avevano quelle frasi, così strane e poco appropriate a un ambiente formale? E se fossero state messaggi in codice?

Alla fine l'italiano decise di prendere l'iniziativa avvicinandosi:“Scusate, signori, volete da bere?” .

Certo, garçon, una bottiglia di cognac per me e una per il mio collega, se le avete” disse Ulquiorra, cercando di mostrarsi affabile, mentre inchiodava uno sguardo indagatore su Byakuya.

Non appena i camerieri si furono allontanati, i due cominciarono a parlare in tedesco a bassissima voce, certi di non essere uditi: in realtà, mentre porgeva loro i bicchieri, Byakuya aveva attaccato a una delle sedie una piccola ricetrasmittente inventata da Urahara, che consentiva loro, tramite una cuffia nascosta, di udire l'oggetto della conversazione.

Sono soddisfatto che abbiate voluto presenziare all'operazione di stasera, Herr Oberst. Navi, aerei ed equipaggi sono pronti, e gli Inglesi non sospettano di nulla. Sarà un successo completo” confidava la spia “svizzera”, mentre il “turco” rispondeva: “Già, caro tenente. Se così sarà, il maresciallo Goering e il Fuhrer saranno soddisfatti e ci scapperà una promozione per entrambi, ma soprattutto, se riusciremo a mettere fuori gioco la flotta britannica stanotte, procederemo ad azioni analoghe contro Malta, Cipro, Alessandria e Suez, quindi le invaderemo con i nostri paracadutisti e finalmente avremo il controllo totale del Mediterraneo. La vittoria finale sarà nostra!”.

Inorriditi da quanto avevano appena udito (entrambi conoscevano il tedesco), i due infiltrati cercarono uno stratagemma per uscire dalla sala, e vi riuscirono ancora una volta sfruttando la calca di invitati; quindi si diressero correndo a perdifiato verso i loro alloggi, ma a metà strada incontrarono i loro compagni, ancora abbigliati in borghese.

Presto, presto, per l'amor di Dio! I Tedeschi vogliono attaccare la flotta di Gibilterra, questa notte!” strepitò con ansia Ichigo, e Isshin replicò: “Sappiamo tutto, figliolo! Hanno degli aerosiluranti nascosti su dei mercantili ancorati al largo della Rocca, e vogliono fare un'incursione come quella della RAF a Taranto nel '40 e dei Giapponesi a Pearl Harbor! Nelle stanze di Herr Schiffer abbiamo rinvenuto dei documenti in cui è esposto tutto il piano. Ora basta, non c'è un minuto da perdere!”.

E le spie naziste? Non possiamo mica lasciarle a piede libero!” obiettò Renji, al che Kenpachi ribattè infuriato: “Razza di caprone russo, non hai capito qual'è la posta in gioco? Dimenticati di quei due, se ne occuperà il nostro controspionaggio, prima o poi”.

Dopo aver raccolto precipitosamente i bagagli e aver pagato il conto dell'albergo, i nostri si proiettarono fuori dall'edificio e raggiunsero il piroscafo della Marina Mercantile, noleggiato allo scopo, che li aveva condotti ad Algeciras; dopo aver ordinato al capitano di salpare al più presto e di puntare su Gibilterra, Shunsui compose un numero sul telefono portatile di Urahara e alzò la cornetta, parlando trafelato: “Pronto? Chi sono? Santo cielo, non c'è tempo! Fate conto che io sia Churchill in persona, va bene? Mi dovete passare il Governatore, subito! Dorme? Allora svegliatelo!”.

Dopo un paio di minuti l'australiano riprese: “Pronto, signor Governatore? Sono mortificato di disturbarvi a quest'ora, ma dovete ascoltarmi, sono ordini del Primo ministro. Alcuni aerosiluranti tedeschi stanno per attaccare la Rocca: mireranno alle navi alla fonda. Dovete respingerli, e poi affondare i mercantili da cui si sono alzati in volo. E' tutto. Buonanotte, signore”.

Per fortuna l'allarme, pur se così improvvisato, ricevette il dovuto credito, e subito nella base britannica gli uomini vennero svegliati d'urgenza e le difese approntate in quattro e quattr'otto, poiché in quei medesimi istanti, a bordo di alcuni piroscafi battenti bandiere neutrali turche, spagnole e svedesi, ancorati varie miglia al largo di Gibilterra, gli equipaggi rimossero dei teloni scoprendo intere squadriglie di aerosiluranti pronti a decollare.

Gli apparecchi fecero rotta direttamente verso il porto, convinti di trovarlo immerso nel sonno più completo: in realtà per loro l'effetto sorpresa era ormai svanito da tempo, cosicché ad attenderli trovarono stormi di caccia inglesi e postazioni contraeree, sia sulla terraferma che a bordo delle navi da guerra, puntate su di loro.

Fu una strage, che ruppe con pirotecniche esplosioni e clamori di morte quella che altrimenti sarebbe stata una notte gelida e silenziosa, poco illuminata: gravemente mutilati da scariche di mitragliatrici e cannonate, gli aerei scomparivano nelle acque nere del porto, mente i pochi siluri sganciati non causavano danni significativi: intanto, alcuni sommergibili usciti di soppiatto dalla base si incaricavano di fare piazza pulita dei bastimenti portavelivoli.

Dal ponte della nave i membri del commando si erano goduti tutto lo scontro, felici di aver contribuito a sventare quel colpo di mano che avrebbe potuto mutare profondamente le sorti della guerra, e irridevano rumorosamente gli aerei nazisti, inneggiando al trionfo inglese.

Frattanto, ad Algeciras, sul volto di Ulquiorra, che prima aveva scoperto la sua camera messa a soqquadro, poi si era reso conto che erano stati rubati i piani dell'attacco, e infine aveva assistito con i propri occhi al naufragio di questo, si era disegnata una leggera smorfia di disapprovazione.

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Capitolo 6
*** Mountain warfare ***


Spazio autore

Pubblicando il capitolo di stasera, ne approfitto per augurare a tutti un sereno Natale.

Ovviamente, però, gli eroi di Churchill non vanno mai in vacanza...

 

Mountain warfare

 

Monti del Caucaso, Unione Sovietica (odierna Russia meridionale), 20 agosto 1942

Renji! Cosa fai, guardi le marmotte? Muoviti, che i crucchi potrebbero arrivare da un momento all'altro!” gridò Coyote Stark, portandosi la mano destra alla bocca e asciugandosi la fronte con l'altra; non avrebbe mai immaginato che in Russia si potesse sudare, ma evidentemente ogni tanto veniva l'estate anche lì.

Il tenente sovietico per un istante rimase imbambolato, quindi, voltandosi e accorgendosi di essere rimasto in fondo alla fila, esposto a possibili agguati, rispose meccanicamente: “Arrivo” e si mosse per ricongiungersi con il gruppo.

Si illudeva che voltando le spalle e tenendo gli occhi fissi sul fucile e sul sentiero sassoso, buono solo per il pascolo delle capre, avrebbe potuto scordarsi del triste spettacolo a cui aveva assistito, con la stessa leggerezza d'animo con cui un bambino si dimentica una brutta avventura, ma i fantasmi della guerra non perdonavano.

A scatenare in lui un simile turbamento era stata la vista che si era parata davanti agli occhi del commando quando pochi minuti prima avevano attraversato un piccolo villaggio di montanari caucasici, evacuato dai paesani di fronte all'avanzare del nemico; e fu allora che, più chiaramente di qualsiasi altra volta in Russia, in Africa, nel Pacifico ed in ogni altro luogo, si rese conto di chi davvero pagasse il prezzo più alto della guerra.

Molte case, poco più che stalle di pietra e legno, erano state gravemente danneggiate dai bombardamenti, come se quei pastori avessero potuto rappresentare una reale minaccia per l'esercito di Hitler; nelle abitazioni tutto era stato portato via in preda alla fretta, a parte qualche mobile e giocattoli spezzati: sui muri temprati dal sole qualche abitante, forse più audace degli altri, aveva lasciato scritte patriottiche e massime del compagno Stalin, estremo espediente apotropaico contro gli spiriti maligni.

Il giovane russo rabbrividiva immaginando le scene di panico che dovevano aver avuto luogo là, e come per magia nella mente gli ronzavano i belati di terrore degli animali, l'ansimare dei vecchi, il pianto dei bambini e lo scricchiolare delle ruote dei carri sulla strada polverosa.

A riportarlo alla realtà ci pensò la voce di Shunsui che, in tono per metà ironico e per metà impaurito, continuava a ripetere: “Attento Ichigo, non scivolare! Ricordati che nello zaino hai delle cariche esplosive. Se uno di quei trabiccoli dovesse scoppiare ora... vedremmo come trattano i reduci nell'altro mondo!”.

Colonnello, ma davvero dobbiamo far saltare tutto ed andarcene? Non sarebbe meglio aspettare i Tedeschi ed ammazzarne un po'? Devo tenermi in esercizio!” borbottò Kenpachi senza neanche scherzare troppo, ma Isshin ribatté secco: “No, oggi no. Le direttive sono chiare. Questi monti sono un ambiente infido, e non sappiamo esattamente di quanto il nemico sia avanzato. Non rischiamo”.

Dopo aver brevemente operato dietro le linee nemiche in Jugoslavia, in Libia e nelle Isole Salomone invase dai Giapponesi, il commando aveva ricevuto da Churchill l'ordine di tornare sul fronte orientale e cercare in qualche modo di tamponare i danni prima che diventassero irreparabili.

In quell'estate del 1942, infatti, i Nazisti avevano ripreso la loro formidabile offensiva in Russia, avanzando di moltissimo e sgominando un gran numero di unità avversarie, con degli obiettivi ben precisi: arrivare al Don e al Volga, importantissime vie di comunicazione, espugnare la città di Stalingrado, in modo da sconfiggere anche simbolicamente il dittatore sovietico, e soprattutto raggiungere ad ogni costo il Caucaso ed il Mar Caspio per mettere le mani sulle vastissime risorse petrolifere di quelle regioni, che avrebbero potuto mantenere efficiente e vitale ancora a lungo la macchina da guerra tedesca.

I Russi avevano già cominciato ad attuare una politica di terra bruciata, sabotando gli impianti petroliferi prima che potessero essere conquistati, e quello era esattamente ciò che dovevano fare anche loro quel giorno: raggiungere un giacimento nei paraggi, ormai pericolosamente vicino alla linea del fronte, distruggere le attrezzature, incendiare i pozzi ed eventualmente uccidere ogni nazista che avesse deciso di ficcare il naso.

Non era comunque auspicabile abbassare la guardia, ed ogni membro del commando teneva d'occhio le rupi e si sincerava che pattuglie nemiche non stessero per balzare fuori dai boschi di abeti; ma per ora vedevano solo prati, montagne e cielo terso ovunque.

All'improvviso Byakuya, che aveva scalato una collinetta per scrutare la vallata sottostante, in cui si trovava il loro obiettivo, abbassò di scatto il binocolo e scese tutto trafelato.

Il campo...è pieno di gente. E purtroppo, mi sa che non sono i nostri”.

Con infinita cautela, i nostri strisciarono quatti quatti verso un costone roccioso e da lì, gli occhi che sporgevano guardinghi da sopra i sassi, videro che su una delle torri di perforazione sventolava una bandiera rossa con la svastica, e che l'intera area era presidiata attentamente da una sessantina di soldati bene armati attrezzati con giacconi e stivaloni, come scalatori, l'insegna della stella alpina sul cappello e sulle maniche; avevano un'aria disciplinata e professionale, e si erano sistemati in modo tale da sorvegliare i punti strategici.

Abbassandosi per non essere scorto, Ukitake fece una smorfia e commentò a bassa voce: “Cacciatori di montagna tedeschi. Sono truppe addestrate a combattere in ambienti montuosi e alle basse temperature, l'equivalente degli Chasseurs Alpins francesi e degli Alpini italiani. Sono composti principalmente da Bavaresi, Austriaci ed Altoatesini che hanno abbandonato la cittadinanza italiana, e sono uno dei reparti migliori dell'intera Wehrmacht. Dio ci aiuti”.

Isshin aggiunse con un misto di rispetto e timore reverenziale: “Nella scorsa guerra hanno riportato grandi vittorie in Italia e in Romania, in questa si sono distinti in Polonia, Norvegia, Lapponia e a Creta. Ci hanno battuto sul tempo, ed ora che si sono attestati lì, sarà difficile schiodarli”.

Che bello! I crucchi! I crucchi!” esultò sommessamente Kenpachi, sporgendosi per sparare.

Questa complica maledettamente tutto” osservò Ichigo. “Siamo troppo pochi per un assalto frontale, e loro hanno più possibilità di ricevere rinforzi. Vale la pena di tentare?”.

Renji dovette farsi violenza per non gridare, e ciò che uscì dalla sua bocca sembrava un ringhio irato: “Certo che ne vale la pena! Se gliela dessimo vinta tutte le volte così questa campagna sarebbe già persa! Colonnello, dobbiamo escogitare qualcosa!”.

Mentre il britannico, scuro in viso come non mai, si carezzava nervosamente la barba, Shunsui gli venne in aiuto: “Dobbiamo cercare di eliminarli...discretamente. Ascoltatemi”.

Pochi minuti dopo Ichigo, scivolando fra gli arbusti montani, si nascose dietro il tronco di un pino da dove, ripreso fiato, fece esplodere alcuni colpi di fucile in aria.

Incuriositi, un paio di cacciatori ed il loro caporale si avviarono verso il luogo da dove era giunto il rumore, senza reperire nulla di sospetto; mentre erano intenti ad indagare Ukitake, sdraiato nel sottobosco, puntò il fucile da cecchino e dopo aver imprecato contro di loro premette il grilletto.

Un nazista crollò a terra, colpito alla testa, e prima che gli altri due potessero rendersene conto il francese aveva già fatto fuoco di nuovo; in pochi istanti tre cadaveri insanguinavano la terra.

Ora la questione doveva aver preoccupato non poco i Tedeschi, poiché almeno una decina di uomini si mise in cerca dei commilitoni scomparsi, e, dopo aver rinvenuto i corpi, rimase lì a vociare concitatamente ed a perlustrare con lo sguardo gli strapiombi.

A quel punto tutti ed otto i membri del commando, abilmente celati nella vegetazione o inginocchiati dietro le rocce, presero a sparare, confidando nell'effetto sorpresa, ma accorsero immediatamente a dare manforte ai compagni i restanti cacciatori, per cui ritennero prudente cessare il fuoco e nascondersi ulteriormente: come avrebbero fatto a svincolarsi?

Un ufficiale berciò un ordine, ed un buon numero di soldati, estratte le piccozze dagli zaini, cominciarono ad arrampicarsi lungo la parete rocciosa, le armi a tracolla; sembravano un esercito di grossi ragni scuri che si muovevano con disinvoltura su una rigida ragnatela naturale.

Artigliando la pietra e puntellandosi con gli scarponi, i Tedeschi riuscirono a guadagnare la sommità e reimbracciarono i fucili, avanzando ordinatamente ed addentrandosi con circospezione nel bosco,

dove sapevano con certezza che si celava il nemico.

D' un tratto un un paio di braccia muscolose fuoriuscirono da dietro un tronco, ed uno dei soldati si sentì afferrare alla gola e stringere come da una morsa.

E' ora della ginnastica, bastardo!” disse Kenpachi in polacco, spezzandogli il collo.

Frattanto, altri due cacciatori stavano perlustrando i cespugli; Ichigo, che era nascosto nel folto del fogliame, piantò un coltello nella gamba di uno dei due, che si mise ad ululare zoppicando; mentre si faceva controllare la ferita dal compagno, dagli alberi sbucarono Isshin e Shunsui, che li freddarono senza nemmeno dare loro il tempo di voltarsi indietro.

Un altro tedesco, dall'aria alquanto intimorita e confusa, vagava borbottando e spianando il fucile ad ogni minimo fruscio; era troppo impaurito dal rumore prodotto da una lepre fra gli arbusti per avvertire una presenza furtiva alle proprie spalle.

Senza proferire parola, Stark gli infilò il pugnale fra le costole, e quando l'altro cadde boccheggiando gli spaccò la faccia a colpi di tirapugni; senza scomporsi, puntò la pistola alle proprie spalle e sparò, centrando un avversario che voleva sorprenderlo con il suo stesso trucco.

Ornai incalzati da più parti dai Nazisti, che stavano setacciando l'intera macchia da cima a fondo, i nostri si incontrarono nuovamente al limitare della vegetazione, costretti quasi allo scoperto.

Siamo fritti, gente!” annunciò impassibile Byakuya, ma Renji prese la parola: “Ho un'idea, statemi a sentire. Ormai i crucchi sono quasi tutti nella foresta, e la strada che conduce nella valle è poco presidiata. Se riusciamo a sbrigarci e a coprirci le spalle a vicenda, possiamo raggiungere uno degli edifici del campo petrolifero e barricarci dentro. Se c'è una radio, posso provare a contattare i nostri: hanno una pista d'aviazione qui vicino, e ci metterebbero poco ad arrivare”.

Direi che si può provare! Meglio che giocare al gatto e al topo con quei bastardi” replicò energico il colonnello inglese, e di soppiatto imboccarono il sentiero che conduceva più in basso.

Un cacciatore di montagna rimasto di guardia li avvistò balzare fra massi ed alberi, e si mise a strepitare ed a sparare in aria, richiamando l'attenzione dei compagni.

Sta' un po' zitto, galletto!” esclamò l'australiano estraendo una bomba a mano e scagliandola per coprire loro la fuga.

Raggiunsero per puro miracolo una casetta adibita in precedenza ad ufficio, una marea di nemici che li inseguivano; mentre Ichigo e suo padre sbarravano frettolosamente la porta, e gli altri si appostavano alle finestre per rispondere al fuoco, il tenente sovietico, individuato un apparecchio radiofonico poggiato sulla scrivania, lo accese e cominciò a cercare la frequenza giusta.

Mentre i suoi commilitoni, chinandosi in continuazione per evitare le pallottole fischianti, sparavano mirando quasi a casaccio per l'impossibilità di uscire da propri nascondigli per un periodo troppo lungo senza essere crivellati, Renji continuava a parlare ad alta voce in russo nel microfono, specificando la propria posizione e situazione e richiedendo supporto aereo e rinforzi urgenti, costretto ogni tanto a chinarsi per rimanere ucciso in quella postazione.

Nel frattempo, i Tedeschi avevano deciso di giocare pesante, piazzando direttamente davanti alle finestre dell'edificio alcune mitragliatrici che, maneggiate da mani esperte e spietate, cominciarono a sputare bossoli all'impazzata, squarciando l'aria tranquilla delle montagne con un fastidioso crepitio.

Sul muro interno i buchi dei proiettili disegnarono intricati arabeschi, e mancò poco che Ukitake fosse martoriato da quell'uragano; accovacciato sotto la finestra, i colpi che gli volavano poco sopra le punte dei capelli e la mitraglietta in mano, Kenpachi gridò spazientito: “Stramaledetto russo dei miei stivali! Arrivano o no? Qui siamo agli sgoccioli!”.

Disperato non tanto alla prospettiva di morire, quanto a quella di vedere i propri amici soccombere ed i Nazisti proseguire nella loro funerea avanzata verso la vittoria finale, costellata di montagne di morti e migliaia di città distrutte, Renji era sul punto di scoppiare a piangere e lasciar cadere il microfono: si sentiva però che non poteva, non doveva finire così, e che l'aiuto sperato sarebbe presto giunto.

Ormai una cupa rassegnazione aleggiava nella stanza e si leggeva negli occhi sfiniti, mentre al di fuori il nemico aveva trovato l'arma risolutiva.

Schierati ad una certa distanza dalla casa, temendo ancora il fuoco dei suoi occupanti, i cacciatori di

montagna iniziavano ad estrarre ed armare le granate; vedendoli, l'italiano si fece il segno delle croce, perché ora solo un miracolo avrebbe potuto salvarli.

Quando erano ormai sul punto di scagliare, i Tedeschi furono distratti da un rombo fortissimo, dall'intensità di un tuono, ed alzarono gli occhi al cielo; a quel punto qualcuno cominciò a fare fuoco con le mitragliatrici, massacrandoli.

Affacciandosi alle finestre, gli otto del commando videro alcuni aerei, le ali decorate con l'emblema della stella rossa, avvicinarsi al suolo per mitragliare i nemici che cercavano disperatamente di ripararsi, mentre un reparto aviotrasportato prendeva terra.

Non sono mai stato così felice di vedere dei rossi in vita mia” sogghignò Coyote mentre i Tedeschi superstiti gettavano le armi arrendendosi.

Poco dopo, i nostri erano a colloquio con l'ufficiale sovietico che aveva condotto l'operazione di soccorso, il quale si complimentò con Renji: “Grazie alla vostra chiamata, tenente Abarai, non ci sarà più bisogno di distruggere questo petrolio. E chissà, forse riusciremo ad arrestarli”.

Il merito, signore, non è solo mio. Se questi prodi non mi avessero difeso con tutte le forze, a quest'ora le mie labbra sarebbero ben cucite”.

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Capitolo 7
*** Macerie ***


Macerie

 

Stalingrado, Unione Sovietica (oggi Volgograd, Russia), 27 gennaio 1943

Il gruppetto, infreddolito ma armato fino ai denti, camminava a passo svelto in mezzo a quello che altri spettatori, non abituati alle durezze della guerra, avrebbero descritto senza eccedere troppo in enfasi come un inferno in terra; ovunque lo sguardo si posasse c'erano crateri prodotti dalle bombe, corpi umani dilaniati orrendamente (altri, pallidissimi, sembravano voler riposare tranquillamente nel bianco, ma erano semplicemente morti di assideramento) e rovine, un mare di rovine, dai sobborghi che si mescolavano con la steppa alle rive del Volga.

Dove un tempo c'erano state abitazioni, fabbriche, uffici, scuole, ospedali, locali e negozi, dove fino a pochi anni o mesi prima risuonavano risate allegre, chiacchiere amichevoli e preoccupazioni di ogni giorno, i Nazisti e i Sovietici avevano provveduto a fare piazza pulita, lasciando scheletri di cemento e pietra, tetti sfondati ed immensi cimiteri a cielo aperto.

C'era ovunque un odore nauseante e pervadente di morte che, sfidando il freddo pungente, soffocava le gole, ma chi aveva tanto duramente sofferto durante quell'assedio lunghissimo e conosciuto la fame e la paura non ci faceva più caso; piuttosto, si guardava intorno guardingo e timoroso, con l'ansia insopprimibile di essere centrato ed ucciso da un nemico, ormai abbrutito e disperato, tremante e nascosto in mezzo a quelle stesse macerie.

I soldati avanzavano sbuffando nuvole di vapore, mentre in lontananza risuonavano cannonate e mitragliatrici e il rumore che più di tutti impressionava i Tedeschi, il sinistro sibilo dei lanciarazzi Katyusha, “gli organi di Stalin”, che, lungi dal rassomigliare alla dolce ragazza della canzone popolare da cui traevano il nomignolo, erano enormi mostri metallici montati su automezzi.

La pattuglia era composta principalmente da militari dell'Armata Rossa, induriti da una sequela di dure sconfitte e clamorose vittorie e rotti a tutte le esperienze, che, equipaggiati con giacconi imbottiti, colbacchi di pelo e guanti e scarponi foderati, soffrivano il gelo ma quantomeno non erano continuamente sull'orlo del congelamento come le loro controparti tedesche e italiane; assieme a loro, imbacuccati come non mai, c'erano gli otto membri del commando di Churchill.

Dopo che i Russi erano riusciti a porre un argine all'avanzata della Wehrmacht nel Caucaso, i nostri erano stati inviati a compiere missioni di spionaggio e sabotaggio in territorio nemico in Olanda e a Singapore, per poi raggiungere l'Egitto, dove si erano posti agli ordini del feldmaresciallo britannico Bernard Law Montgomery, contribuendo al successo alleato nel corso della Seconda battaglia di El Alamein, che costituì la fine di ogni progetto italo-tedesco sull'Africa e sul Medio Oriente.

Una volta accertatisi che Rommel non sarebbe più tornato, la loro nuova destinazione fu ancora il fronte orientale, con lo specifico compito di aiutare i Sovietici a ripulire la zona di Stalingrado dai Tedeschi della VI Armata di Friedrich Von Paulus che, asserragliati in quella città che avevano in parte occupato dopo durissimi scontri casa per casa, si trovavano ora a difendere quelle stesse posizioni dalle forze nemiche giunte a rompere l'assedio, che li avevano completamente circondati e privati della possibilità di ricevere rinforzi e rifornimenti.

Con folle pervicacia, Hitler aveva negato al suo generale il permesso di ritirarsi, condannando praticamente a morte certa tutta l'armata: adesso i Nazisti, sfiniti dal freddo e dalla fame, a corto di munizioni ma non di coraggio, senza la minima speranza di aiuto o scampo, si stavano battendo come diavoli non solo per ottemperare al desiderio del Fuhrer di concedere loro una dipartita eroica, ma anche perché perire sotto il fuoco avversario o sparandosi in bocca era a loro giudizio molto meglio che spegnersi lentamente in un gulag sovietico, maltrattati e malnutriti; per quanto si fosse ormai agli ultimi giorni della battaglia, la resistenza non accennava a diminuire di una virgola.

Fa un freddo assassino!” gridò d'un tratto Kenpachi, stringendosi le braccia attorno al corpo. “In confronto a Leningrado sembrava di stare alle Hawaii!”.

I soldati russi scoppiarono a ridere all'unisono, e Renji rispose malizioso indicando verso ovest: “Allora, amico mio, perché non te ne torni nella tua assolata Polonia? Prego, in quella direzione!”.

Oh, ci tornerò, puoi giurarci, non appena avremo preso a calci nel culo Adolf e i suoi amichetti!”.

Stavolta nessuno rispose, anche perché la prospettiva di sconfiggere definitivamente Hitler, una follia fino a pochi mesi prima, sembrava realmente aver preso corpo ed aleggiare su di loro, come uno spirito che li aveva pervasi tutti assieme: in fondo, se El Alamein era stata un punto di svolta della guerra, non poteva esserlo anche Stalingrado?

In fondo, la vittoria era pressoché certa ed era il minimo che i nostri potessero aspettarsi, dopo aver trascorso in quell'orribile mattatoio più di un mese, compresi Natale e Capodanno.

Continuavano a camminare battendo i denti, quando all'improvviso si udì una leggera detonazione e un proiettile sfiorò un soldato russo, facendogli perdere il colbacco.

Di là, di là! Attenti al cecchino!” gridò Isshin sbracciandosi e dando istruzioni che Renji tradusse a beneficio dei connazionali.

Scorgendo un movimento attraverso la breccia nel muro di quella che un tempo era stata una casa, Byakuya sparò una fucilata, imprecando per non aver colpito il bersaglio; ma la figura misteriosa emerse dalle macerie dandosi alla fuga in un viottolo laterale, e Ukitake, presa la mira con estrema freddezza, riuscì ad abbatterla mentre correva.

Tutti accorsero per esaminare il cadavere, e si trovarono davanti ad un tedesco giovanissimo, a cui a malapena cresceva qualche pelo ispido sulle guance luride ed incavate, con in testa un elmetto slacciato palesemente troppo grande per la sua misura e il foro della pallottola che risaltava netto in una tempia; il poveretto doveva essere stato davvero sul punto di morire di freddo, poiché si era avvolto attorno a mo' di poncho una vecchia coperta, ed in un estremo tentativo di difendere gli arti inferiori dal clima siberiano si era imbottito le scarpe lacere di fogli di giornale.

Una grana in meno” commentò leggermente sollevato Shunsui, poi notò una strana luce negli occhi del parigrado britannico e si pentì; quel ragazzo era perfino più giovane di Ichigo...

Coraggio, proseguiamo!” sbadigliò Stark. “Prima poniamo fine a questa dannata storia, prima ce ne torniamo in un luogo munito di riscaldamento!”.

Ogni giorno la loro missione consisteva nell'assistere l'Armata rossa nell'individuare le ultime roccaforti della resistenza tedesca per snidarne e mettere in condizione di non nuocere gli occupanti; quella mattina, in particolare, dovevano occuparsi di una fabbrica abbandonata in cui un buon numero di Nazisti si erano asserragliati, riuscendo a resistere ad ogni tentativo di penetrazione degli assedianti ed infliggendo loro cospicue perdite.

Un militare sovietico, probabilmente un mongolo o un kazako a giudicare dai tratti somatici, si fece loro incontro ed indicò un grosso e tetro edificio, i muri scalfiti in più punti da razzi e cannonate, le ciminiere silenziose e l'entrata barricata da casse e detriti, davanti a cui stavano in evidente aria di attesa molti fanti, alcuni armati di lanciafiamme e mitragliatrici, ed una batteria intera.

Renji conferì con lui per qualche istante, riferì il contenuto della conversazione al comandate del proprio distaccamento ed infine si volse agli amici: “Fino ad ora questi crucchi sono riusciti a resistere al fuoco dell'artiglieria e ad uccidere chiunque riuscisse a penetrare nel complesso industriale. In ogni caso, prima di entrare in azione potremo godere di un piccolo bombardamento di preparazione, giusto per ammorbidirli un po'. Le truppe che li piantonano credono che ormai siano allo stremo delle forze, e oggi potrebbe essere la volta buona che espugniamo il palazzo”.

Ormai pensavo di essermici abituato, ma questi cannoni mettono sempre una certa soggezione” confessò Ichigo quasi casualmente. “Soprattutto quando iniziano a tuonare...”.

Bah, in confronto a quello che abbiamo visto a Dakar e ad El Alamein questa batteria sembra poco più che una collezione di fionde! E tu non hai mai visto che cannonate in trincea durante la Grande Guerra...Meglio così” replicò il padre nel medesimo tono.

Aveva appena chiuso la bocca che un boato gli squarciò i timpani, facendogli tremare le gambe e costringendolo a tapparsi le orecchie, mentre, come fontane con l'acqua, le canne dei cannoni russi eruttavano fiammate e munizioni che si schiantavano contro la fabbrica, sollevando dense nuvole e aprendo ulteriori buchi in muri e fondamenta già abbastanza flagellati; nonostante il frastuono, dall'interno del palazzo non proveniva nemmeno un respiro, come se gli assediati fossero già stati sbriciolati alla prima salva o avessero perso la facoltà di urlare per la paura.

Si andò avanti così per un quarto d'ora abbondante e Byakuya, a cui durante la guerra civile in Spagna era capitato una volta di rimanere asserragliato in una chiesa sotto il tiro di armi leggere, non riusciva a figurarsi quale inferno potesse regnare all'interno dell'edificio bombardato.

Quando finalmente la batteria tacque, lasciando il posto ad un silenzio irreale, un ufficiale sovietico soffiò in un fischietto, dando il segnale di avanzare.

In cima al gruppo di ispezione, ovviamente stava il commando di Churchill, e già c'era chi fremeva all'idea di scontrarsi con i Nazisti e chi invece sospettava che dietro a tutta quella calma si celasse un trucco deliberato.

Isshin fu il primo ad entrare, e il suo passo era quello leggero di chi stia camminando in un campo minato col timore di rimanere secco ad ogni passo; constatato che l'ambiente interno, spoglio dei grandi macchinari che sicuramente erano stati evacuati altrove e dominato da mucchi di casse, frammenti di muro e travi di legno, era assolutamente deserto, fece cenno agli altro di seguirlo.

Un centinaio circa di uomini esplorava con gli occhi ogni pertugio, senza scorgervi nessuno; sennonché, sdraiati sotto le rovine come talpe nelle proprie tane, inginocchiati dietro pile di contenitori vuoti o celati dietro a finestre e scale, occhi furiosi e stanchi li scrutavano con ostilità, e già qualche mano caricava le armi con gli ultimi, preziosissimi proiettili rimasti e si stringeva, rigida per il freddo, attorno al grilletto, prendendo la mira con la spietata accuratezza di chi per mesi non aveva fatto altro per sopravvivere.

Varie canne, mimetizzate abilmente, spararono, uccidendo i soldati russi che già stavano tirando un sospiro di sollievo; immediatamente i nostri si acquattarono, cercando un riparo nei pressi dell'entrata, dove non c'erano nascondigli per i Tedeschi, e risposero come poterono.

Ukitake continuava ad essere metodico come sempre nell'eliminare i nemici con un solo colpo a testa, anche se la conformazione dell'ambiente rendeva difficile individuare le loro teste, e in ciò era assistito da Renji, che non era affatto nuovo all'arte del cecchinaggio.

Questi Nazi...non cambiano mai!” esclamò spazientito Coyote, quindi colse un guizzo e con una revolverata centrò un cecchino che stava ricaricando, il quale si accasciò urlando fra le casse.

La bravata però costò loro cara, perché quella sparatoria consumò le loro ultime riserve di pallottole; a quel punto gli assediati, la disperazione delle belve circondate che possono solo scegliere di che morte morire ed il fanatismo inculcato loro sin dalla giovinezza che bruciavano nei loro cuori, decisero di tentare il tutto per tutto con un contrattacco all'arma bianca.

Lanciando grida selvagge che rimbombarono ingigantite negli enormi saloni, decine e decine di Tedeschi sporchi e laceri balzarono fuori da ogni angolo, brandendo pugnali e baionette.

Qualche russo riuscì a sparare, ma poi fu investito dall'impeto dell'orda ed ebbero luogo una serie di duelli individuali, in cui militari opposti in tutto, dalla provenienza alle ideologie, ma così simili nell'abbrutimento, entrambi ad un tempo attaccanti e difensori, si stringevano in mortali viluppi finché uno non periva strangolato o dilaniato, una muta domanda negli occhi.

Oplà! En garde figlio di puttana!” esclamò gioioso Kenpachi brandendo il fucile con la baionetta inastata come una spada, rivolto all'avversario che lo caricava; le due lame si incrociarono un paio di volte, quindi la pura brutalità fisica del polacco ebbe la meglio sull'altro che morì trafitto.

Mentre Ukitake, Ichigo e Byakuya menavano fendenti e stoccate a destra e a manca, sempre pronti a indietreggiare o a scansarsi all'ultimo secondo, mentre Stark insegnava una volta di più ai Nazisti la potenza del proprio tirapugni, mentre Renji profondeva nella battaglia anima e corpo assieme ai compatrioti, i due colonnelli si trovarono l'uno a fianco dell'altro, coperti di sangue.

Colonnello Kurosaki! Mi sembra di essere ringiovanito! Ve li ricordate gli assalti alla baionetta in Francia, nel '16?” osservò l'australiano parando un colpo e infilzando l'opponente nel petto, al che il britannico rispose, mentre afferrava un altro per il polso e gli tagliava la gola: “Sicuro! Ma loro rimangono sempre della stessa pasta, mi pare!”.

Dopo minuti di accesissima battaglia, il pavimento era ridotta ad un mare di sangue su cui galleggiavano cadaveri: nemmeno un tedesco si era arreso.

Dannazione!” commentò l'italiano, pulendosi il sangue dalla manica. “Se continuiamo di questo passo, dovremo combattere fino a Pasqua per bonificare la città!”.

Rimarrei a Stalingrado anche per altri dieci anni, se servisse a fermarli!” replicò Renji, che non poteva però fare a meno di rispettare l'ardore con cui quei giovani mandati al macello avevano dato tutti se stessi pur di non cedere.

Il 30 gennaio 1943, Hitler, rifiutato l'estremo appello disperato di Von Paulus, e deciso ormai a sacrificare ciò che restava della VI Armata pur di mostrare come si comportavano i soldati germanici nella sconfitta al resto del mondo, lo promosse sul campo a feldmaresciallo: nel corso della storia, nessun feldmaresciallo tedesco si era mai arreso alle forze nemiche, e ciò costituiva un implicito invito ad un suicidio per salvare l'onore.

Il giorno dopo, Von Paulus si consegnò all'Armata Rossa, mentre entro marzo ogni residua resistenza della Wehrmacht venne debellata.

Dei numerosissimi prigionieri condotti a morire nei gulag, aggiungendosi a quasi un milione di Tedeschi, Italiani, Romeni ed Ungheresi caduti e dispersi, solo poche migliaia furono rimpatriati anni dopo la fine della guerra.

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Capitolo 8
*** The last stand ***


The last stand

 

A ovest del Passo di Kasserine, Tunisia Centrale (protettorato francese sotto occupazione italo-tedesca), 23 febbraio 1943

Subito dopo essere usciti dall'inferno di ghiaccio e sangue di Stalingrado, i nostri, senza che venisse loro concesso nemmeno il tempo di riprendere fiato, erano stati di nuovo inviati sul fronte africano, in un'alternanza di climi ormai per loro usuale, dove in loro assenza si erano avuti mutamenti significativi.

Gli Italiani e ciò che restava dell'Afrikakorps di Rommel, sonoramente battuti ad El Alamein, si stavano rapidamente ritirando verso ovest, lasciando progressivamente l'intera Libia ai Britannici di Montgomery, mentre molto più ad ovest erano finalmente sbarcati gli Anglo-americani, che avevano avuto buon gioco a sottrarre definitivamente all'infido regime di Vichy il Marocco e l'Algeria.

Alle forze dell'Asse, decimate, in fuga e senza via di scampo, non era rimasta altra soluzione che attestarsi in Tunisia, dove ci si attendeva che sarebbero state presso schiacciate o ridotte alla resa dalla pressione esercitata dagli Alleati che ormai le circondavano.

In realtà, paradossalmente avevano finito per regalare su un piatto d'argento a Rommel un'eccellente postazione difensiva, protetta al confine con l'Algeria dagli impervi Monti dell'Atlante, e sulla frontiera con la Libia dalla cosiddetta Linea del Mareth, un complesso di fortificazioni edificate prima della guerra dai Francesi per tutelarsi da eventuali offensive italiane.

Perdipiù, ai ripetuti tentativi di Montgomery di sfondare questa linea e di arginare le controffensive nemiche, proprio nei giorni in cui il commando era sbarcato in Africa si era aggiunta una disastrosa batosta subita dagli Alleati al Passo di Kasserine, in cui i veterani di Rommel e le ultime vestigia dell'Esercito italiano si erano letteralmente mangiati a colazione le inesperte truppe americane, costringendole a cedere moltissimo terreno e causando un gran numero di morti e prigionieri.

La loro prima missione in terra tunisina, aveva precisato via telefono Churchill, sarebbe stata un piccolo favore ai cugini d'oltreoceano: avrebbero dovuto incaricarsi di rintracciare i superstiti di una compagnia statunitense i cui membri, a quanto si era potuto appurare ricevendo via radio la loro disperata richiesta di soccorso, erano completamente isolati dietro le linee nemiche e minacciati dall'incedere dei carri tedeschi.

Sarà un onore per noi adempiere all'incarico, signore! Vedrete che riusciremo a salvare i nostri ragazzi anche questa volta!”aveva risposto con foga il maggiore Stark, strappando di mano la cornetta a un attonito Isshin, non appena aveva inteso udire che erano coinvolti suoi connazionali.

Gli si leggeva chiarissimo in volto che, ancora una volta, l'indignazione e l'amor di patria avrebbero ispirato in lui una sorta di fuoco implacabile, un'energia instancabile che gli avrebbe permesso di varcare mari e scalare monti per giovare alla causa.

In questo modo erano stati paracadutati nei paraggi della località indicata, non lontano dal confine con l'Algeria, una zona ricca più che altro di montagne, collinette brulle e aride distese, che a Coyote ricordava molto la sua natia Arizona.

Più di una volta avevano udito voci distanti che squarciavano la solitudine del deserto strepitando ordini in tedesco o in italiano, e allora gli otto, che volentieri si sarebbero messi ad affrontare anche quegli avversari, ma la cui missione imponeva loro di muoversi rapidamente e di trascurare ogni diversione che potesse inficiarne la riuscita, si limitavano a chinarsi guardinghi dietro le rocce o a sdraiarsi fra gli arbusti, osservando reparti di fanteria e tank nemici sfilare davanti a loro, sporchi e provati ma ancora in buon ordine, marciando verso il fronte che al momento attuale si era spostato molto più ad ovest.

Buono Kenpachi...Se arriviamo vivi alla meta troveremo un sacco di quei boches (“crucchi” in francese nda) da ammazzare, contento?”mormorava Ukitake trattenendo per un braccio il polacco che ringhiava ferocemente, per la paura che balzasse urlando fuori dai cespugli facendo saltare la loro copertura e consegnandoli a una morte certa.

Piuttosto-interloquì preoccupato Ichigo, indicando i mezzi corazzati che avanzavano sui cingoli sollevando nuvole di polvere- avete visto quei mostri? Almeno in Egitto avevamo i mortai e gli aerei, ma noi...”.

Non angustiarti, ragazzo mio” lo consolò con uno sguardo premuroso Shunsui. “Se i Nazi vorranno schierare i loro giocattolini, sarà il momento giusto per testare l'ultima invenzione del professore!”.

Sperando che funzioni!” esclamò scettico Renji, tastandosi lo zaino rigonfio. “Per ora mi è sembrato più che altro un peso sulle spalle? Cosa sono io, un tenente o un cammello mongolo?”.

Perché, sei mai stato in Mongolia?” chiese con un sogghigno lievemente sarcastico Byakuya.

Sì, nel '39, durante la campagna contro i Giapponesi al comando di Zhukov” replicò il sovietico, ma vennero entrambi zittiti con fare autoritario da Isshin: “Basta chiacchierare, gente! I crucchi se ne sono andati, e c'è ancora molta strada da fare. In marcia, ora!”.

Mentre continuavano a camminare, possibilmente a debita distanza dalle piste più battute per evitare sgraditi incontri, Shunsui esordì rivolgendosi a tutta la banda: “Da quello che siamo riusciti a comprendere attraverso la radio, gli Americani si sono attestati su un'altura, dove i Panzer non possono raggiungerli, ma essendo sprovvisti di artiglieria non possono contrattaccare efficacemente. E quel che è peggio, i carri che li stanno assediando non appartengono a un'unità qualunque...Secondo i dati in possesso dell'intelligence, in quel settore starebbe operando il reparto del famigerato capitano Sosuke Aizen. Abbiamo fondati motivi di credere che è con lui che dovremo scontrarci”.

E chi sarebbe questo tipo?” domandò confuso Ichigo, al che il padre rispose: “Ahimè, un osso duro e un vero figlio di una buona donna. Questo bel tipo è noto come un nazista fanatico, un amico personale di Hitler, un potenziale Rommel in erba, insomma, uno dei migliori carristi dell'intera Wehrmacht. Ha guidato alla vittoria la sua compagnia di tank, i cui equipaggi sono efficienti come un orologio svizzero e profondamente devoti a lui, su tutti i fronti, in Polonia, in Francia, in Grecia, in Ucraina, guadagnandosi medaglie a non finire. Lui stesso ha il vezzo di partecipare direttamente agli scontri a bordo del suo mezzo personale, esponendosi sprezzantemente al fuoco nemico. Pare che sia stato richiamato direttamente dal fronte russo per dare una svolta alla campagna, e che a Kasserine sia stato fra i più implacabili nello sfondare le nostre linee. Di lui si sa che non solo è un tattico superbo e uno stratega formidabile, ma anche un inguaribile sadico”.

Udendo questa descrizione, tutti immediatamente provarono rabbia e odio verso quel personaggio ancora indefinito, che a loro pareva quasi incarnare le stesse vittorie del Nazismo e le sconfitte fino ad allora subite, e che con la sua presenza minacciosa metteva in forse non solo il buon esito della missione, ma anche della campagna e forse della guerra.

Cammina cammina, giunsero in vista della postazione dove gli indomiti Yankee ancora resistevano: Isshin, esaminando la brulla collina che si stendeva davanti ai loro occhi, contò circa una cinquantina di uomini e un paio di mitragliatrici, mentre a circa un miglio di distanza, immobili sotto il sole, stavano i carri armati nazisti.

Ma perché se ne stanno rintanati laggiù?” chiese Kenpachi, dominando a stento la frenesia di entrare in azione, indicando i tank in lontananza. “Aspettano qualcosa? O li abbiamo spaventati?”.

Conoscendo quel tale”-considerò Byakuya- “potrebbe essere una trappola, ma in ogni caso dico di approfittare di questo momento di tregua gentilmente concessoci e di raggiungere quei poveracci lassù”.

Senza ulteriori disturbi, si inerpicarono sbuffando per il pendio sassoso; sentendo dei rumori alle proprie spalle, i soldati americani prigionieri in quel luogo pensarono a un assalto alle spalle da parte dei Nazisti, ma si consolarono e abbassarono le armi sentendo parlare inglese.

Coyote, che più di tutti si altri si sentiva chiamato in causa, dopo aver osservato per qualche momento quei suoi commilitoni, in maggioranza reclute giovanissime, assetate, coperte di polvere e sangue, negli occhi il serpeggiare del pessimismo e della sfiducia, parlò loro, calcando l'accento statunitense più di quanto non fosse solito fare: “Sono il maggiore Stark dello U.S Army, in missione speciale. Io e questo commando britannico siamo stati inviati a salvarvi da questa situazione. Posso parlare con il vostro capitano?”.

Un ragazzo altissimo e muscoloso, ma al massimo ventenne, che a giudicare dalla pelle color nocciola e dalla capigliatura riccia e scura che gli scendeva sugli occhi doveva essere di origine portoricana o messicana, fece il saluto militare e replicò rispettoso: “Il capitano è morto a Kasserine, mentre gli altri ufficiali sono caduti durante gli assalti tedeschi alla collina. Sono io il militare più alto in grado al momento. Caporale Sado Yasutora, al vostro servizio”.

Sembra che abbiano mirato prima a fare fuori gli ufficiali...Sono furbi quei bastardi!” pensò Stark, quindi continuò: “Però ora pare che i crucchi si siano ritirati. Perché non ne approfittate per scendere e darvela a gambe verso le nostre linee?”.

Il caporale ribatté spaventato: “Oh, no, signore, è un loro trucco! Ogni tanto lo fanno, ma non appena proviamo a defilarci tornano subito alla carica e circondano l'altura, cominciando a bombardarci. E' un supplizio! Sono giorni che andiamo avanti così, e l'acqua comincia a scarseggiare...”.

Ma un grosso schianto, seguito da un inconfondibile rumore di cingoli, interruppe il dialogo.

Tutti si voltarono, accorrendo al versante opposto del colle, e scorgendo la polvere sollevata in grandi turbini si resero conto che i tank nemici erano partiti alla carica.

Scrutando lo spettacolo attraverso il binocolo, Renji si accorse di un carro che procedeva in fondo alla colonna, sul quale si poteva scorgere distintamente, a mezzo busto, la figura di un uomo dalla sahariana immacolata e carica di medaglie, un ciuffo che ricadeva vezzoso sul volto di ghiaccio e uno sguardo astuto e carico di ironico disprezzo; non poteva che essere il temuto Aizen, e il russo borbottò furibondo nella propria lingua: “Ti assicuro, figlio di puttana, che non rivedrai mai più i campi dell'Ucraina e il Don, né tutti i paesi innocenti che hai terrorizzato! L'Africa sarà la tua tomba!”.

Presto, presto, tutti in posizione!” gridò Isshin, facendo cenno agli Americani di porsi dietro a loro e di preparare granate a mano e mitragliatrici, poi esclamò ironico: “Adesso vediamo un po' di che pasta sono fatte quelle scatole di latta!”.

Gli otto del commando aprirono gli zaini, e ne estrassero strani oggetti metallici che presto si rivelarono essere dei bazooka (arma già di per sé all'ultimo grido) telescopici, e dopo averli posti n posizione atta al tiro, spararono.

Il tuono degli otto proiettili che venivano espulsi contemporaneamente fece tremare i fragili arbusti del deserto, e subito cominciarono a mietere vittime: i Panzer saltavano in aria come fuochi d'artificio e si riducevano in mille rottami incandescenti, finendo per arrestarsi, ormai inutilizzabili, e i pochi Tedeschi che ne uscivano ancora vivi erano sottoposti al fuoco delle mitragliatrici e dei fucili degli Yankee.

Sebbene i carri rispondessero al tiro con i loro pezzi, e i loro colpi andassero di frequente a segno, sollevando piogge di terra e pietre e andando a centrare militari statunitensi, che si accasciavano sulla collina morti o feriti, non uno di loro riuscì ad arrivare alle pendici di questa intatto, tanta era l'efficacia dei lanci di bombe a mano e delle granate sparate dai bazooka.

Constatando con sorpresa e orrore di essere rimasto completamente solo, e che i resti della sua gloriosa unità, vanto e modello dell'intera Wehrmacht, fino ad allora imbattuta e capace di cogliere

allori in ogni battaglia, dalle Ardenne alla Jugoslavia, si riducevano ormai a cadaveri carbonizzati

e mutilati e a una manciata di relitti in fiamme, Aizen fu colto da un'ira terribile, che ne deformò mostruosamente i lineamenti di solito impassibili.

Come si permettono quegli straccioni! Giuro sul mio onore che non mostrerò pietà!” gridò facendosi paonazzo in volto e sbattendo il pugno sul metallo, quindi ordinò al conducente del mezzo di avanzare a tutta birra e ai serventi di fare fuoco a volontà sul nemico.

Ragazzi, c'è un problema...” ammise candidamente Shunsui. “Abbiamo finito sia le granate che le bombe a mano, e quello non vuole darsi per vinto...Cosa facciamo?”.

D'un tratto Ichigo, scorto un masso posto in equilibrio precario sul costone roccioso, ebbe un'illuminazione: “Gente, state a sentire! Ho un'idea, ma mi serve la collaborazione di tutti!”.

Quando il suo carro fu a ridosso dell'altura, e stava per iniziare un bombardamento crudele, Aizen assistette all'incredibile: gli assediati, unendo le loro forze e sbuffando tutti insieme, riuscirono a smuovere l'enorme pietra, e per i Nazisti ormai era troppo tardo per scansarlo.

NOOOOOO!!!!!!!” urlò sconvolto il tedesco, incapace fino alla fine di accettare la sconfitta, mentre il masso precipitava contro di loro, schiacciandolo e mandando il veicolo a rovesciarsi su un fianco.

Tutti per un istante contemplarono il mezzo avversario immobilizzato da quel fardello, quindi Coyote fissò i compatrioti e disse: “Andiamo. Siamo ancora in territorio nemico, e ci vorrà tempo”.

Signorsì, signore!” scattò sull'attenti Sado. “Siamo pronti a tutto per sdebitarci!”.

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Capitolo 9
*** Hidden in the jungle ***


Spazio autore
Carissimi, come va? Purtroppo, come già annunciato sulla mia pagina autore, un repentino problema di natura tecnica ha reso momentaneamente indisponibili gli ultimi sei capitoli della storia in formato Word, cosicché, almeno per ora, sono costretto a ricopiarli da Google Docs per poi pubblicarli. Non so quanto mi ci vorrà con questo sistema, ma spero di riuscire a pubblicare almeno uno o due capitoli a settimana. Voi, intanto, continuate a seguire, e magari fatemi anche sapere cosa ne pensate con qualche recensione. Buona lettura, e alla prossima!
P.S: Scrivo per rettificare un errore che mi accorgo di aver commesso nel settimo capitolo, quando ho definito Montgomery “feldmaresciallo”, grado che avrebbe ottenuto solo nel 1944 in seguito all’invasione della Normandia: all’epoca della Seconda battaglia di El Alamein “Monty” era invece ancora un tenente generale.
 

Hidden in the jungle

 
Penisola di Huon, Territorio della Nuova Guinea (possedimento australiano sotto occupazione giapponese), 6 novembre 1943
Il silenzio che solitamente regnava incontrastato nelle millenarie foreste equatoriali abbarbicate alle pendici montane della Nuova Guinea, anche ora che i combattimenti infuriavano più che mai in quello scacchiere, era ora interrotto dal rumoroso frastuono di un grosso congegno metallico in avvicinamento, il cui sordo ruggito penetrava il fittissimo sottobosco.
Intimoriti da quel baccano innaturale, anche più forte dei colpi di fucile che ogni tanto risuonavano in quelle lande incontaminate, gli uccelli prendevano precipitosamente il volo dai rami, mammiferi e rettili arboricoli si spostavano su piante lontane o si chiudevano nelle proprie tane, mentre lucertole, ragni e insetti zampettavano via disperati per non essere schiacciati dal mostro sempre più prossimo.
Quando i potenti cingoli ebbero triturato gli ultimi cespugli che ancora occludevano la vista del mezzo, divenne chiaro che si trattava di un carro armato Mark II, per gli amici “Matilda II”, un mezzo corazzato ampiamente usato dagli Inglesi in Nordafrica, ceduto in gran numero dopo la chiusura di quel fronte all’Esercito australiano impegnato sugli aspri terreni della Nuova Guinea; il Matilda, difatti, era abbastanza piccolo da muoversi nella giungla senza essere eccessivamente impacciato da acquitrini e vegetazione, e del canto loro i Giapponesi non possedevano assolutamente nulla di simile.
Dalla torretta del mezzo, che continuava ad avanzare lento ma costante, emergeva Shunsui che, la testa coperta da un cappello a larga tesa, spostava continuamente lo sguardo sereno da un angolo all’altro del paesaggio e ripeteva estasiato: “Ah, come sono belle queste foreste vergini! Mi fanno tornare indietro con la memoria a quando, la bellezza di ventinove anni fa, ero ancora uno sbarbatello che percorreva questi stessi sentieri ansioso di incontrare qualche colonna di soldati tedeschi da sconfiggere! Ah, che tempi, che vittorie! In meno di un mese la campagna era finita; qua, invece, sono quasi due anni che i miei compatrioti e gli Americani lottano fino alla morte per conquistare ogni palmo di terreno...”.
Effettivamente, da quando, dopo aver brevemente preso parte ai combattimenti in Sicilia e nell’Italia Meridionale (da allora Byakuya, pensando alla terra natale sconvolta da invasioni straniere e crudeltà senza fine, era anche più irritabile del solito), il commando era giunto in Nuova Guinea, il colonnello australiano si era come sentito di nuovo a casa, quella patria da cui mancava da troppo tempo, incontrando, fra gli ufficiali dell’Australian Army con cui erano chiamati a collaborare, molti vecchi amici, e in parecchi casi aveva dovuto assolvere all’ingrato compito di ragguagliarli sulle sorti di altri amici ancora, che lui aveva visto cadere in Grecia e in Africa e che non avrebbero mai più rivisto Perth e Sydney.
Poco dietro al carro armato procedevano a piedi quattro individui, sudati fino all’inverosimile, i volti segnati da lunghe occhiaie e sporchi di terra, le divise tropicali a mezze maniche sgualcite e i fucili imbracciati.
Uno di essi era Inchigo, che guardò Shunsui e replicò sarcastico: “Sì, certo, peccato che a distanza di trent’anni siamo noi i giovani virgulti che devono riempirsi i piedi di vesciche e farsi mangiare vivi dalle zanzare, mentre qualcun altro viaggia in limousine... Vero signore?”.
Qualsiasi altro ufficiale al mondo lo avrebbe immediatamente fatto mettere ai ferri per insubordinazione e insulti a un superiore, ma quella era un’unità speciale dove ormai, dopo anni di
affiatamento strettissimo, tutte le confidenze erano permesse, perdipiù l’australiano, uomo affabile e accomodante per natura, apprezzava moltissimo le battute e si limitò a sorridere compiaciuto.
In quell’istante dalla botola d’ingresso del mezzo fece capolino anche Isshin, che lo redarguì in modo appena più serio: “Silenzio figliolo, e gambe in spalla! Non mi dirai che dopo tutto quel che hai passato ti spaventa una passeggiata nella giungla? Lo sai che l’equipaggio del Matilda consta di quattro persone, e che noi due, Renji e Stark siamo gli unici a saperlo pilotare. Così, se il guidatore rimane ucciso sul colpo, c’è sempre chi è in grado di rimpiazzarlo”.
Ichigo sbuffò accaldato e rivolse lo sguardo ai suoi compagni di marcia, che da sei ore condividevano stoicamente le stesse fatiche, appena interrotte da una minuscola pausa pranzo.
Kenpachi, che oltre al fucile e alle granate d’ordinanza era gravato anche da un pesante lanciafiamme, proprio lui che solitamente sembrava instancabile, ansimava come un mulo troppo carico sotto quel peso, lamentandosi costantemente: “Io sono un uomo delle foreste del nord, cosa ci faccio qui? Almeno nel deserto non c’era questa umidità che ti ammazza!”.
L’unica consolazione per lui era pensare che, probabilmente, il “maledetto russo” (a distanza di tutto questo tempo nessuno era ancora riuscito a capire se continuasse a chiamare così Renji perchè nutriva tuttora rancore nei suoi confronti, o se adesso scherzasse, visto che l’espressione con cui il polacco pronunciava l’insulto era sempre la stessa faccia assatanata della prima volta), chiuso in quella scatola di sardine su cingoli surriscaldata, soffriva altrettanto se non di più.
Ukitake seguiva ancora più indietro, madido come un atleta durante una maratona, e ogni due per tre si inginocchiava a riprendere fiato, e mormorò: “Ma perché...anf... non possiamo...anf...seguire il sentiero?”, e Byakuya, pallidissimo, gli faceva eco: “Già, perché dobbiamo per forza farci strada in mezzo ad alberi e liane invece che percorrere la strada comune? Conn questo sistema il carro si è pure impantanato, e abbiamo dovuto tirarlo fuori a forza di braccia!”.
Anche se il “sentiero” era poco più di una strettissima pista fangosa, coperta di foglie e pozzanghere e infestata da serpenti, come del resto tutte le strade che tagliavano da una parte all’altra la giungla della Nuova Guinea, in buona parte ancora inesplorata, era sicuramente una via più agevole dell’intrico vegetale in cui si facevano ora strada, scostando o tagliando foglie ad ogni passo.
“Perchè,- rispose beffardo Isshin- cari i miei saputelli, se i Nippo ci vedessero arrivare in lontananza per quella via ci metterebbero il tempo di una scorreggia a farci a pezzi, mentre invece, se ci nascondiamo nei boschi, nessuno si accorgerà in anticipo del nsotro arrivo e quando sbucheremo dagli alberi sarà una brutta sorpresa per loro! E finalmente anche quel maledetto caposaldo cadrà!”.
La loro missione, affidata loro stavolta nientepopodimeno che dal generale Douglas MacArthur, Comandante supremo delle forze alleate nel Teatro operativo del Pacifico Sudoccidentale (incontrare un suo superiore così celebre e blasonato aveva costituito un’emozione fortissima per Coyote Stark, un po’ come quella di Isshin nel conoscere Montgomery a El Alamein), consisteva nell’avventurarsi in un territorio ancora conteso fra le due armate, procedere a neutralizzare una postazione nipponica situata lungo il sentiero nella foresta pluviale, che costituiva un grave ostacolo all’avanzata deegli Alleati, ed occuparla fino a che non fossero giunti i rinforzi.
Sarebbe stato difficile individuare e sgominare la piazzaforte nemica, che secondo le testimonianze di chi ne aveva assaggiato il fuoco era ben mimetizzata nel verde e munita di pezzi anticarro e nidi di mitragliatrici, anche tenendo conto dell’indiscussa maestria dei Giaponesi nell’arte del combattimento nella giungla, ma non a caso il loro era un commando destinato, anche più degli altri, ai compiti più ardui nei territori più pericolosi: la loro fama, specialmente dopo il favore da loro resogli in Tunisia, aveva raggiunto le orecchie anche delle Forze armate americane.
Probabilmente MacArthur aveva pensato che, in un terreno duro come quello della Nuova Guinea,
l’arma segreta fosse rappresentata da dei veri duri come il commando di eroi di Churchill.
Rientrando all’interno del mezzo, Isshin lanciò un’occhiata a Coyote Stark, deducendone che era accaldato ed esausto ma ancora vivo, quindi si rivolse a Renji, che si trovava alla guida: “Secondo la mappa, dovremmo esserci. Ora svolta a sinistra di 90° e fermati”.
Il sovietico, la chioma e le braccia nude imperlate di chiarissimo sudore, annuì laconico: “Ok capo” e portò il Matilda in posizione perprendicolare al sentiero, da cui era separato da folti cespugli e da alberi abbastanza distanziati da permettergli eventualmente di uscire dal bosco, ma abbastanza vicini da camuffarlo ad occhi indiscreti, almeno a prima vista.
Shunsui, abbassandosi nella botola fino a far emergere quasi solo la testa, inforcò il binocolo e scrutò quel che poteva attraverso il muro di foglie e gli spazi fra i tronchi, presto imitato da Ichigo, Ukitake, Byakuya e Kenpachi, che, sdraiati al suolo o accovacciati per non mostrarsi al di sopra della linea dei cespugli, studiando con attenzione la scena che si presentava ai loro occhi.
“Venite a vedere, colonnello Kurosaki” disse l’australiano chiamando il parigrado britannico (erano gli unici nella squadra a drasi esclusivamente del “voi”), quindi gli passò il binocolo e commentò preoccupato: “Vedete? Là, fra gli arbusti, una palizzata. Ci sono un mortaio e alemno tre o quattro mitragliatrici. Quanto agli uomini, potrebbero essere fra venti e trenta...”.
Prima che l’inglese potesse aprire bocca per fare osservazioni a sua volta, l’aria fu pervasa da uno scoppio seguito da un lungo sibilo; riconoscendo il rumore, Ichigo gridò: “A terra! E’ il cannone!” e subito tutti quelli ancora fuori dal tank si allontanarono, gettandosi con il ventre a terra e coprendosi le orecchie in vista del boato ormai prossimo.
Il proiettile si piantò nel terreno a una quindicina di metri dal Matilda, sollevando un uragano di frammenti vegetali e pezzi di terra; all’interno, Isshin ordinò perentorio a Renji: “Avanti figliolo! Ci hanno scoperto, ma renderemo loro la stessa medicina!”, mentre Coyote e Shunsui brandeggiavano il cannone e lo portavano in posizione atta al tiro.
Il carro armato sparò, proiettando il colpo oltre la coltre di cespugli, senza la possibilità di verificare se avesse causato effettivi danni alla postazione, quindi avanzò spingendosi in mezzo al sentiero, bersagliato da una gragnuola di pallottole delle armi più disparate, mentre gli altri quattro membri del commando scattavano in avanti a testa bassa e, superata indenni la tempesta di fuoco, si appostarono dietro al tank, utilizzandolo come scudo, e cominciarono a prendere parte anch’essi allo scambio di salve, mentre dalla giungla posta sul lato opposto della strada si alzava una ridda  incessante di voci e ordini in giapponese.
Un nuovo colpo di mortaio centrò stavolta la torretta del Matilda, causando una grossa ammaccatura e sbalzando all’indietro tutti gli occupanti del veicolo.
“State tutti bene?” domandò Renji verificando le condizioni di ognuno, quindi aiutò a rialzarsi Coyote che, un taglio sulla fronte, bisbigliò boccheggiando: “Il pezzo...Devono distruggere il pezzo anticarro. Ma come facciamo a uscire e dirglielo, con la sparatoria che infuria là fuori?”.
Per fortuna, Byakuya e Ichigo sembrarono aver intuito per conto proprio il desiderio dell’americano, e cercarono di mettere a tacere l’artiglieria nemica; stando bene attento a non esporsi troppo, l’italiano centrò con una fucilata ben precisa l’uomo addetto all’uso del cannone, quindi Ichigo lanciò una bomba a mano il cui scoppio mandò in pezzi buona parte del mortaio e uccise un paio di colleghi dell’artigliere.
Ukitake, che in ginocchio accanto ai cingoli del carro armato poseguiva instancabile la propria opera di tiratore scelto, si sentì d’un tratto sfiorare la spalla da un proiettile di fucile.
“State attenti, hanno dei cecchini nascosti!” urlò il francese per mettere in guardi ai compagni, quindi prese la mira verso la chioma di unn albero dove aveva notato un sommovimento sospetto
fra le fronde e premette il grilletto.
Con un grido acuto un soldato nemico, con numerose frasche vegetali applicate all’uniforme e all’elmetto per mimietizzarsi alla perfezione, precipitò a faccia in giù nel sentiero e là rimase immobile, immerso nel fango e nel proprio sangue.
“Bene, bene! E’ pieno di erbacce qui!” esclamò in tono stranamente giubilante Kenpachi, il ghigno da killer delle grandi occasioni stampato sul volto. “E sapete cosa si fa a casa mia con le erbacce? SI BRUCIANO!!!!!!!”.
Così gridando il polacco si alzòin piedi e, abbandonato il fucile, azionò il lanciafiamme, che lasciò sfrigolare a lungo contro la postazione nemica e contro le cime degli alberi.
In breve tempo l’intero campo niponico era in preda a fiamme altissime, con gli uomini, ormai ridottia torce antropomorfe che strillavano piene di dolore, in fuga in ogni direzione, alla vana ricerca di acqua, e altri che si sparavano in bocca piuttosto che sopportare ancora quei tormenti.
Nel contemplare quell’orrendo e assurdo spettacolo, forse per la prima volta Ichigo si sentì in colpa per aver inflitto sofferenze ad altri esseri umani, e stava per giungere alla conclusione, semplice ma terribile, che la guerra è un male per tutti, sia per chi vince che per chi perde, quando tacitò la coscienza con il solito: “Erano nemici”; ma ormai il seme del dubbio era piantato, e chissà che non avrebbe dato frutti in un futuro lontano.
Alla fine del devastante assalto, anche grazie ad ulteriori cannonate del Matilda che ridussero al silenzio gli ultimi, irriducibili mitraglieri nipponici, il caposaldo giapponese poteva dirsi del tutto eliminato; un’ulteriore ispezione sul luogo condotta da Shunsui e Isshin non reperì alcun superstite, ma fruttò invece la cattura di un grosso vessillo giapponese, strappato miracolosamente alle fiamme che già avevano iniziato ad intaccare la stoffa bianca.
Mentre l’australiano contattava MacArthur e tutti loro attendevano l’arrivo dei rinforzi, Renji si avvicinò a Kenpachi e sorrise: “Sei proprio un matto di polacco, tu! Ma oggi ti devo il culo”.

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Capitolo 10
*** Il giorno più lungo ***


Il giorno più lungo

 
Normandia, Francia occupata dai Nazisti, 5 giugno 1944
“Ed io che pensavo che la Francia fosse solo Parigi! Sembra quasi di stare nel New Jersey!” esclamò Coyote Stark, un filo di stupore nella vocce sommessa, osservando la natura che li circondava.
“A me ricorda un po’ certe regioni d’Italia” aggiunse Byakuya con aria seriosa, ma Shunsui li redarguì: “Silenzio, poltroni! Non siamo qui per discutere di geografia, ma per fare un lavoro senza farci beccare dai Nazi! E quanto a me, in Australia non ho mai visto nulla del genere!”.
I nostri stavano camminando con passo felpato ed in ordine sparso in una notte illuminata da una spettrale luna piena, simile alla faccia id una gigantesca sentinella, attraversando uno degli ambienti più peculiari d’Europa, il bocage.
Tipico della Francia Settentrionale, esso consisteva in una vasta distesa vegetale dove si alternavano boschetti naturali e coltivazioni umane, acquitrini e campi, dominata da folti sbarramenti di siepi che avrebbero costituito un grave ostacolo all’avanzata dei tank alleati, quasi quanto il nemico.
Ma quellos arebbe stato solo in seguito; per ora la sterminata forza di invasione anglo-americana al comando di Dwight D. Eisenhower , accompagnata da una flotta altrettanto colossale e composta dai vascelli più variegati, stava ancora solcando le fredde acque della Manica, pronta a terrorizzare con la propria repentina comparsa i Tedeschi che si attendevano invece uno sbarco nel Passo di Calais.
Il 6 giugno sarebbe passato alla storia come il D-Day, il giorno che, con la creazione di una solida testa di ponte nel nord della Francia, avrebbe costituito l’inizio della liberazione dell’Europa dalla tirannia della svastica.
Ma già dalla sera prima nutriti contingenti britannici e statunitensi erano stati paracadutati in territorio nemico, col compito di conquistare e presidiare vie di comunicazione e punti strategici, e fra costoro c’erano anche gli otto valorosi del commando di Churchill.
Nei mesi precedenti ne avevano letteralmente viste di cotte e di crude, combattendo fino allo stremo delle forze in ambienti ostili contro avversari ben appostati e dalla ferrea determinazione: dopo la Nuova Guinea avevano partecipato alla sanguinosissima invasione di Tarawa, nelle isole Gilbert, dove i carri anfibi dei Marines americani furono gravemenet intralciati dalla barriera corallina e la guarnigione nipponica, soverchiata nel numero e duramente bombardata, combatté fino all’ultimo uomo; poi si erano trasferiti sul fronte italiano, dove trascorsero mesi sugli impervi monti attorno all’Abbazia di Montecassino, fra freddo e morte, solo per riportare un’altra vittoria di Pirro.
Ma il dovere continuava a chiamare, e per quella missione così audace, in un paese che la Germania considerava ormai come propria provincia e aveva riempito di soldati e fortificazioni fino all’inverosimile, ma altresì decisiva per la buona riuscita dell’invasione, da soli e con tutte le probabilità contro loro erano i tipi adatti.
Stavolta le loro istruzioni erano di eseguire azioni di sabotaggio contro strade e ponti, in modo da ostacolare i rinforzi avversari che il giorno dopo dall’entroterra sarebbero affluiti verso le spiagge, e in seguito di nascondersi bene ed attendere, a non troppa distanza dalla costa, l’arrivo delle truppe d’invasione più prossime, fossero esse gli Inglesi che avrebbero dovuto toccare terra a Sword Beach o i Canadesi che avrebbero investito Juno Beach.
“Il giugno del ’44!” borbottò Renji, abbozzando una sorta di risata, al che Isshin replicò: “Parla
piano! E poi, cosa c’è da ridere?”.
“E’ solo che è strano pensare che per anni il compagno Stalin vi ha chiesto inutilmente di aprire un secondo fronte in Europa, mentre l’Armata Rossa si dibatteva nelle difficoltà, e l’invasione scatta ora che invece stiamo vincendo anche ad Est!”.
“Di che ti lamenti?” lo incalzò Kenpachi, in preda ad un’eccitazione omicida che ormai gli altri conoscevano bene: “Da qui la prossima fermata è direttamente la Germania, e sapete cosa significa questo? Tutti i crucchi ancora in circolazione saranno lì pronti a farsi ammazzare! Che gioia!”.
Di umore molto meno garrulo appariva Ukitake, che da quando avevano preso terra rispondeva a distratti monosillabi e sembrava rivolgere costantemente lo sguardo verso qualcos’altro.
“Non sei contento di tornare in Francia?” mormorò Ichigo, avvicinandoglisi con empatia.
“E’ proprio per questo che mi sento così strano” rispose l’uomo senza abbassare lo sguardo. “Erano anni ormai che non mettevo piede nella mia patria, anni che ho speso attraversando il mondo con voi e combattendo perché un giorno potesse tornare libera. Ora che ci siamo così vicini, stento a crederci, e mi chiedo se non sia l’ennesima illusioen con cui il destino vuole beffarmi”.
“Coraggio amico, la patria è sempre la patria” filosofeggiò Byakuya, che sugli esili la sapeva lunga; intanto camminavano fra tronchi e cespugli, abbastanza nascosti alla vista ma non così tanto da non poter osservare cosa succedeva nella strada accanto alla macchia.
D’un trattao, si udì il rombo di un motore e una luce lontana penetrò sinistramente l’oscurità.
“Presto, trovatevi un riparo!” ordinò Isshin, e celati fra le fronde assistettero al passaggio di una camionetta tedesca che ansimava a fanali spiegati.
“Forse sanno già dei paracadutisti e stanno sorvegliando tutta la zona...” commentò accigliato Shunsui, al che Renji replicò: “Chi se ne frega! In mezzo a questi boschi non ci troveranno mai!”.
“Dicevi la stessa cosa anche a Singapore, e tutti ci ricordiamo come è andata a finire...” osservò ironico il polacco, ricevendo per tutta risposta un’occhiata feroce.
Una volta passato il pericolo, essendo ormai la notte nella sua fase avanzata, i nostri poterono permettersi di scivolare fuori dal nascondiglio e cominciare la propria opera di guastatori.
Si divisero in due squadre: Isshin, assieme a Renji, Ukitake e Coyote, avrebeb supervisionato la distruzione di un ponte, situato in un punto strategico per l’afflusso di rinforzi nemici, mentre Shunsui, in compagnia di Ichigo, Kenpachi e Byakuya, avrebbe provveduto a minare un tratto di strada dove sicuramente sarebbero passate ignare turbe di carri e fanti.
Grazie ad una speciale miscela esplosiva inventata dal geniale Urahara, e di cui erano riempite le mine fornite loro per la missione, lo scoppio non avrebbe provocatoun rumore eccessivo, consentendo loro di operare discretamente.
“Non ho la più pallida idea di come si usino questi aggeggi, e non ho voglia di saltare in aria per il solo piacere di scoprirlo” commentò Ukitake osservando con aria stranita la bomba che teneva tra le mani.
“Coraggio, da’ qua” sbuffo Stark, quindi la fissò all’arcata del ponte a cui nel frattempo erano gunti, una piccola costruzione di pietra che si inarcava sopra un fiumiciattolo ristagnante: “Visto? E’ a prova di idiota”.
“Sono molto contento di far parte di questo club che hai appena citato, Coyote” ridacchiò il colonnello inglese, quindi tutti si misero all’opera,a nche entrando nell’acqua fino al petto, ed in qualche minuto l’intera struttura era minata.
Reggendo il detonatore, il francese esclamò: “Siete pronti? Trois...deux...un...Vive la France libre!”, quindi premette il congegno ed in un singolo istante il ponte rovinò su se stesso, sollevando spruzzi d’acqua e lasciando di sé solo una parte dei piloni.
“Bene gente, possiamo anche riunirci al resto della ciurma! Sarà una bella sopresa, domattina, per quei crucchi, trovarsi la strada sbarrata... E se anche riusciranno a guadare il fiume, non potranno sfuggiare alla prossima sorpresina” annunciò Isshin, e si incamminarono muti verso nord.
Il loro obiettivo era instillare nel nemico un falso senso di sicurezza, lasciando “pulito” un lungo tratto di strada per poi soprenderli con uno sbarramente massiccio di mine anticarro, che sarebbe riuscito ad arrestare a lungo l’avanzata avversaria causando loro ingenti perdite.
Erano ormai piuttosto vicini al punto stabilito per il rendez-vous, e già iniziavano a godersi la bellezza della campagna e la tranquillità della notte, quando una luce artificiale li abbagliò, e un ordine perentorio rimbombò nei loro timpani: “Halt!”.
Voltandosi anche solo per un attimo colsero l’immagine di vari soldati nazisti, armati con fucili e mitragliette, in sella a moto con il sidecar.
“Merda! Correte ragazzi! Correte!” gridò il britannico, quindi si girò e sparò a bruciapelo con la pistola, rompendo il fanale di uno dei veicoli che si spense come eclissato.
Immediatamente i Tedeschi partirono all’inseguimento, e per seminarli i nostri si addentrarono fra siepi e cespugli, sperando che offrissero sufficienrte schermo al fuoco nemico.
Il passeggero di uno die mezzi sventolò il mitra, abbattendo con una raffica un ramo che cadde proprio sula spalla di Ukitake; liberatosi dall’impaccio, il francese si inginocchiò e fece fuoco, centrando in testa il nazista, cosicché il guidatore, cosparso di sangue e pezzi di encefalo, per lo spavento perse il controllo della moto e si schiantò contro un albero.
“Sapete...una...cosa...ragazzi?” ansimò Coyote, un sorriso beffardo sulle labbra. “Una volta...ero...al derby...del Kentucky...e...parola mia...nemmeno quei...cavalli...correvano come noi!”.
“Se devi dire queste stupidaggini, risparmia il fiato!” sbottò il russo, lasciando nel fattempo rotolare per terra una granata, che andò ad infilarsi proprio sotto una moto tedesca; incuriositi dal rumore, gli occupant arrestarono il mezzo, solo per essere travolti e disintegrati dalla detonazione.
Ormai non c’erano più alberi o sottobosco a proteggerli, edi i membri del commando correvano all’impazzata e a testa bassa, braccati dalle ultime due moto superstiti, che aprirono il fuoco.
Mentre i proiettili gli fischiavano a pochissimi centimetri dalle braccia e dalle spalle, Isshin scorse una figura davanti a sé: era suo figlio, e stava facendo loro segno di seguirlo.
In breve tutti e quattro si accorsero del giovane gesticolante, e fu così che si salvarono; mentre si acquattavano in una buca a lato della strada maestra, accolti con gioia dai compagni che li davano ormai per defunti, i Nazisti proseguirono, finendo così sul campo minato.
Una grande fiammata rischiarò la notte, e mentre rottami incandescenti piovevano in ogni dove, Kenpachi scopiò in una risata satanica: “Che belli, i crucchi d’artificio! Ancora! Ancora!”.
“Beh, per stanotte i nostri giocattoli hanno fatto il loro lavoro” disse fiero l’australiano, che poi aggiunse: “Ora però, colonnello Kurosaki, occorrerebbe proseguire la nostra opera”.
“Certo, ma con prudenza”.
Le ore che seguirono furono estremamente lunghe; quando ebbero finito le mine, i nostri dovettero trovarsi un altro luogo isolato dove trascorrere la notte, organizzandosi in turni di guardia (non che quelli “addormentati” vegliassero di meno, anzi).
Per tutto il giorno successivo da quel rifugio poterono osservare i Panzer di Rommel (ancora lui) avanzare frettolosamente verso la costa, accompagnati da formazioni di fanti che andavano da plotoni di reclute a gruppi ben organizzati di SS; qualcuno finì sul campo minato, qualcun altro dovette fare un lungo percorso per aggirarlo.
Il problema era che, con il passare della giornata, i rinforzi nemici non si arrestavano, mentre d’altro canto gli Alleati dovevano ancora palesarsi; per ingannare il tempo, gli otto del commando non facevano che elencare le caratteristiche di divise e carri armati per cui avrebbero potuto distinguerli.
“A proposito, com’è la bandiera del Canada?” chiese ad un tratto Kenpachi: “Non vorrei sparare loro addosso semplicemente perché non li ho riconosciuti!”.
Ichigo replicò: “E’ rossa, con uno stemma particolare in basso a sinistra e l’Union Jack britannica nel quarto superiore (la bandiera attuale, quella con la foglia d’acero, entrerà in vigore solo nel 1965 nda). Ma noi preferiremmo vedere i nostri, vero papà?”.
“E’ quello che dico anch’io” grugnì Coyote, disteso sull’erba, il volto teso: si leggeva chiaramente che era in pensiero per i propri connazionali impeganti sulle altre spiagge.
Giunti quasi a sera, Isshin si spazientì e, presa in mano la cornetta del telefono, conferì direttamente con il loro diretto superiore, il generale Eisenhower: “Come? Nessuna unità? Comprendo, signore, comprendo. Vi faremo sapere in seguito”.
“Ragazzi, abbiamo una notizia buona ed una cattiva: la buona è che i nostri sono sbracati e hanno stabilito una testa di ponte, la cattiva è che quei bastardi sono stati così tenaci da arrestarne l’avanzata, e così nessuno degli obiettivi previsti è stato raggiunto. Per un po’ nessuno verrà a prenderci, e dovremo cavarcela da soli, ma so che ce la faremo”.
Nessuno di loro fiatò, perché erano abituati a sopravvivere in ambienti poco favorevoli, e in mille occasioni avevano campeggiato dietro le linee nemiche, anche per più giorni di seguito; piuttosto, Ukitake azzardò una domanda, che rodeva l’animo di tutti ma nessuno aveva il coraggio di porre: “Come stiamo a perdite?”.
Il colonnello inglese si rabbuiò: “In generale sono state accettabili, ma pare che ad Omaha Beach gli Yankee se la siano vista davvero brutta... Mi dispiace Stark”.
“Non fa niente, se sono morti per la libertà sono morti felici” rispose con un sussurro l’americano, anche se sapeva benissimo di stare dicendo una menzogna soprattutto a se stesso.
“Suvvia gente, non facciamone una tragedia! Sarà come quella volta che abbiamo dormito nella giungla a Vella Lavella (isola delle Salomone teatro di molti scontri fra Giapponesi ed Alleati nda)...” cercò di tirare su il morale il polacco, ma Byakuya subito aggiunse: “Già, ma almeno quella volta c’era quel simpatico commando neozelandese con cui abbiamo giocato a carte!”.
Tutti risero di buon cuore, ma sottovoce; in fondo, i Tedeschi erano ancora in circolazione.
 

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Capitolo 11
*** La pista degli elefanti ***


La pista degli elefanti

 
Alta Birmania (colonia britannica sotto occupazione giapponese), 13 ottobre 1944
In una mattina d’autunno leggermente meno torrida del solito, lungo un tortuoso sentiero che si inerpicava fra le montagne della Birmania coperte dalla foresta tropicale, una curiosa carovana si inoltrava con decisione verso il territorio duramente disputato al nemico.
Il nerbo della spedizione era costituito da tre grossi elefanti, che, con delle casse fissate attraverso cinghie ai loro dorsi rugosi, avanzavano a passi lenti e circospetti, guidati sapientemente da dei mahour che sedevano loro a cavalcioni sul collo.
Non si trattava però di locali; gli uomini, così come le loro inusuali cavalcature, provenivano dalle fila dell’Indian Army, l’esercito dell’India britannica costituito da soldati indigeni inquadrati e guidati da ufficiali europei.
Sebbene un certo numero di Indiani, sia ferventi militanti per l’indipendenza del loro Paese che prigionieri di guerra attratti dal miraggio di un trattamento migliore, si fossero arruolati in specifiche unità degli eserciti tedesco e giapponese, milioni di loro compatrioti avevano volontariamente scelto di mettersi ancora una volta agli ordini dei propri dominatori inglesi, contribuendo in ogni modo allo sforzo bellico e lasciando dietro di sé un’infinità di morti e dispersi dall’Eritrea all’Italia, dalla Malesia all’Iraq.
A questo specifico drappello era stata assegnata una scorta di tutta eccezione, motivata dall’eccezionale pericolosità del percorso da coprire, composta da soldati esperti e impavidi, professionisti del rischio vaccinati da intemperie e battaglie di ogni tipo.
In cima alla colonna, fucili spianati, mente attenta ad ogni rumore sospetto e pistole, bome e repellenti per zanzare a portata di mano, camminavano Isshin, suo figlio e Byakuya; dietro veniva chi sembrava spassarsela di più, con Stark, Renji e Kenpachi che scherzavano in modo informale, senza però abbassare del tutto la guardia, mente in coda avevamo uno Shunsui che tesseva le lodi della natura circostante, più confortevole però da sperimentare in fotografia che sulla propria pelle, ed un Ukitake talmente teso che pareva sul punto di sparare alle frasche  ogni volta che scimmie ed uccelli le muovevano.
“Quante zanzare! Sciò, bestioline del cazzo! Secondo voi mi prenderò la malaria?” domandò il polacco agitando vigorosamente le braccia per scacciare gli insetti, e il russo rispose sarcastico: “Sarebbe una grazia divina per il mondo! Ora piantala di fare il buffone, o sveglierai tutti i Nippo della zona!”.
“Io non ci scherzerei troppo” borbottò Coyote guardando  svogliatamente il fianco di uno dei pachidermi, coperto di fango secco e radi peli: “Quelli là sono così bravi a nascondersi che potrebbero anche travestirsi da cespuglio per fare i bisogni, e sarebbero capaci di restare impassibili per giorni e giorno con la merda che cola loro addosso. Vi ricordate in Nuova Guinea?”.
“Beh-ridacchiò Kenpachi- quella volta ho proprio risolto il problema alla radice! Capito? La radice, come quella delle piante con cui si camuffavano! Buona questa!”.
Mentre nessuno mostrava di apprezzare la battuta, vari passi più avanti Byakuya, dopo aver passato alcune noccioline ad un elefante che le accettò con gusto, si rivose al colonnello: “Pensate che troveremo Giapponesi una volta a destinazione, signore?”.
“Non lo so, ma è meglio sbrigarsi. La consegna di questo carico è vitale proprio per consolidare le nostre posizioni e impedire una loro ulteriore avanzata. Speriamo che questo maledetto teatro di guerra si chiuda il prima possibile, perché non fa altro che ingoiare le nsotre risorse da anni senza
produrre frutti”.
“Oh Signore, fa che non ci abbiano teso qualche sorpresina lungo il sentiero...” sussurrò Ichigo, scrutando con preoccupazione ora il suolo fangoso, ora la volta verdeggiante formata dalle chiome degli alberi, che lasciava filtrare macchie di luce, aspettandosi da un momento all’altro di udire lo scoppio violento di una mina o il soffio mortale del fucile di un cecchino.
La loro missione stavolta consisteva nel rifornire di armi e munizioni, che costituivano il carico degli elefanti, un’isolata postazione nella giungla tenuta da soldati cinesi, parte della forza di spedizione che era stata costretta a ritirarsi in India nel 1942; avrebbero dovuto neutralizzare ogni potenziale minaccia alla sicurezza della carovana, un po’ come i cacciatorpediniere che solcavano i mari scortando mercantili e navi da trasporto truppe insidiati dagli U-boot tedeschi.
Ormai, finalmente, potevano dirlo ad alta voce: gli Alleati avrebbero vinto la guerra.
Malgrado la disperata resistenza che opponeva su tutti i fronti, la Germania aveva dovuto evacuare la Francia, invasa sia dalla Normandia che dalla Provenza, aveva dovuto cedere ulteriore terreno in Italia, nei Balcani e sul fronte orientale e si trovava drammaticamente a corto di soldati, risorse, mezzi ed alleati; ma anche l’impero del Sol Levante non poteva dormire sonni tranquilli, ora che aveva fallito l’invasione dell’India, aveva perso avamposti strategici nel Pacifico Centrale ed in Nuova Guinea, MacArthur si preparava a sbarcare nelle Filippine e il suo stesso territorio metropolitano era bombardato giorno e notte.
Fortunatamene per loro, durante la propria brillante carriera Isshin aveva prestato per molti anni servizio in Birmania, ed aveva un’ottima conoscenza del territorio e del clima locale, per cui, consultandosi con i soldati indiani, era riuscito a trovare una pista abbastanza praticabile.
Ichigo non diceva niente, ed ammirava la competenza del genitore, ma non poteva nemmeno dimenticarsi che era stato proprio per trascorrere anni in posti come quello che suo padre non era mai stato una figura particolarmente presente nella sua infanzia; se lo ricordava ogni tanti, affettuoso ma distante, quando tornava a casa a Natale o durante rari e brevissimi periodi di licenza, e dopo la morte di sua madre, che aveva fatto l’impossibile per crescerlo in modo accettabile, aveva sviluppato un sordo rancore verso di lui, che non aveva mai trovato il coraggio di esprimere.
La guerra, però, aveva contribuito a riavvicinarli, e fra padre e figlio si era prodotto un un legame di fiducia reciproca e complicità ormai inscindibile.
La tensione, visto che ormai avevano già superato la metà del tragitto senza incontrare ostacoli, si stava allentando, quando all’improvviso trovarono il sentiero sbarrato da un tronco.
Docilmente, gli elefanti si fermarono e rimasero là, sventagliandosi con le orecchie e scandagliando il suolo con le proboscidi, mentre gli uomini discutevano sul da farsi.
Subito Kenpachi, Isshin, Shunsui ed Ichigo si precipitarono a riuovere l’oggetto, ma, una volta avvicinatisi, l’australiano esclamò: “Ehi, guardate! Non sembra che sia caduto da solo, sembra piuttosto che lo abbiano... tagliato”.
Aveva apena terminato la frase quando, repentino, udì uno sparo alle proprie spalle, ed il cappello a larghe tese gli cadde nel fango, perforato da una pallottola.
“Gente, a terra! E’ un’imboscata!” gridò il polacco mentre rivolgeva il proprio fuoco contro la giungla, nel tentativo di coprire la ritirata degli altri.
I pachidermi, addestrati ai lavori pesanti, e non alla battaglia, furono terrorizzati dagli spari e si misero a barrire come impazziti, imbizzarrendosi e iniziando a ruotare confusamente su se stessi, le casse sulle loro schiene che barcollavano ed i mahout che tentavano di riprendere il controllo pregandoli e imprecando; infine, con i guidatori ormai del tutto impotenti, galopparono nella direzione opposta a quella da cui erano venuti.
Merde! Così li perderemo!” sbraitò Ukitake prendendo la mira, ma Stark lo riprese duramente: “Chi se ne importa! Se ci facciamo impallinare, non ci sarà più nessuna missione!”.
Dovevano trovare un rifugio, e alla svelta dato che la tempesta di colpi contro le loro schiene non accennava a finire ed i primi soldati giapponesi avevano fatto la loro apparizione sul sentiero, gettandosi all’inseguimento.
Fortunatamente, Renji si ricordava di aver visto una gross buca su un lato del sentiero in cui uno degli elefanti aveva rischiato di fratturarsi una zampa poco prima, e riuscirono a nascondervisi; la depressione, abbastanza larga da contenerli tutti, senza però consentire una grande facoltà di movimento, era ulteriormente schermata da alcune rocce.
Udendo l’urlo dei nemici che correvano verso di loro, e non dovevano distare più di un centinaio di metri, Isshin affrontò gli altri a muso duro: “Bene, signori, o ce ne usciamo con una strategia nei prossimi cinque secondi o siamo ufficialmente fottuti! Proposte?”.
“Ho qualcosa che potrebbe fermarli per un po’” esordì in tono misterioso Byakuya, e subito estrasse dallo zaino quello che tutti riconobbero come uno dei bazooka inventati da Urahara con cui avevano fronteggiato i tank di Aizen in Tunisia.
“Sono un tipo previdente- replicò l’italiano alle facce stupite di tutti- e ho preferito un po’ di cibo in meno in cambio di un po’ di sicurezza in più!”.
Detto questo, si voltò (i Giapponesi erano ormai a una decina di metri da loro), si appoggio ad una roccia, prese la mira e sparò: un secondo dopo dei nemici non rimanevano che alcuni caaveri mutilati orrendamente e brandelli di intestini ed uniformi sul sentiero
Non fecero in tempo a tirare un sospiro di sollievo che immediatamente furono investiti da un’ondata di terra e detriti vegetali; i soldati nipponici li stavano bersagliando con bombe a mano, e la loro mira si faceva sempre più precisa ad ogni lancio.
“Ora gli faccio vedere io!” esclamò d’un tratto Ichigo, e si sporse leggermente all’infuori, impugnando il fucile per la canna; “Che diavolo credi di fare, figliolo? Torna giù!” gridò con ansia il padre, ma lui rispose con un sorriso enigmatico: “Facciamo una partitina di baseball, papà”.
“Ed ecco, signore e signori- comincià a recitare Coyote in tono monocorde- che va alla battuta la stella della squadra ospite, Ichigo Kurosaki! E’ un punto decisivo per questo inning!”.
Come accettando la sfida un nemico, che si era avvicinato tanto da lasciar intravedere il proprio volto, scagliò una granata; con una coordinazione impressionante, Ichigo la colpì respingendola e facendola rimbalzare contro un tronco, da dove ricadde sul sentiero esplodendo fra i Giapponesi.
“Straordinario, amici tifosi, straordinario! Un fuoricampo perfetto!” esultò lo statunitense abbracciandosi con uno stupefatto Shunsui, mentre Isshin si asciugava la fronte madida di gelido sudore.
Un paio di soldati che stavano trascinando sul luogo dello scontro una mitragliatrice furono abbattuti implacabilmente dalla mira di Ukitake, fatto che dissuase i loro compagni dal proseguirne l’incarico.
Rincuorati da questi successi, gli assediati trovarono finalmente il coraggio di rispondere al fuoco, con grave imbarazzo dei nemici che si trovavano ora in campo aperto, impossibilitati ad avvicinarsi troppo alla buca e a far valere la propria superiorità numerica; ciononostante, un drappello di Nipponici, strisciando fra i cespugli, si diresse verso il rifugio del commando, deciso a prenderli alle spalle.
Contemporaneamente, Kenpachi era intento a ricaricare quando udì qualcosa sibilare rumorosamente vicino a lui e, giratosi, vide un grosso cobra che si inarcava gonfiando il collo e fischiando con decisione nella sua direzione.
“Ehi, ciao piccolo! Scusa, ma non ho proprio tempo per giocare con te” disse il polacco, una vena di consueta pazzia nell’occhio sano,e con una mossa fulminea afferrò il rettile per la coda e lo scagliò fuori dalla buca; il caso volle che il serpente atterrasse proprio davanti ai Giapponesi che stavano per piombare loro addosso da tergo, atterrendoli a tal punto da farli fuggire a gambe levate.
“Ragazzo, avrebbe potuto ammazzarti con un solo morso. A volte penso seriamente che tu abbia qualche problema…” osservò con compiacimento dissimulato Shunsui.
“Figuratevi colonnello, deve ancora nascere il serpente che mi faccia paura! E poi ci ha aiutato!”.
Orma davanti a loro non rimaneva che una decina circa di avversari, divisa fra la fedeltà agli ordini ricevuti e la voglia di ripiegare, che si guardavano attorno spaesati; accorgendosi di ciò, Isshin estrasse la pistola ed esortò gli altri: “Forza ragazzi! Usciamo fuori e facciamogli vedere che la Birmania è ancora nostra!”.
Con un urlo di sfida, gli otto si proiettarono fuori dalla buca, sparando all’impazzata; i Giapponesi, a corto di munizioni, li attesero a pié fermo e ne nacque una mischia furibonda.
Alcuni rotearono i fucili come clave, altri incrociarono i coltelli, sferrarono pugni e calci, si spintonarono e si abbrancarono; alla fine pur se ammaccati e coperti di tagli, i nostri erano usciti vincitori.
“Correte vigliacchi, andate a tagliarvi la pancia da un’altra parte!” gridò Renji irridendo un paio di superstiti che correvano come matti fra gli alberi.
“Per un po’ non ci daranno più fastidio” osservò con soddisfazione il colonnello britannico. “Ora però dobbiamo proseguire la missione, perché i Cinesi aspettano solo noi. Forza, cerchiamo Dumbo e i suoi amici!”.
“Non sarà difficile, papà” rispose Ichigo. “Ti sembra facile per tre elefanti nascondersi?”.

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Capitolo 12
*** To kill a monster ***


Spazio autore
Irnstad: Grazie mille di aver inserito la fic fra i preferiti! Spero che continuerai a seguire la storia anche ora che mancano solo tre capitoli con quello di stasera (dovrei riuscire a terminare la pubblicazione la prossima settimana).
Ora, il capitolo più spudoratamente copiato da Bastardi senza gloria di tutta la fic. Buona lettura!

 
To kill a monster

 
Berlino, Germania nazista, 22 febbraio 1945
La vita di un soldato è costantemente in bilico fra la vita e la morte, votata a cercare con ogni mezzo, anche i più disperati e crudeli, di conservare intatta la propria vita e di strappare quella del nemico; è una vita dura, sporca, in cui un uomo può realmente sentirsi sull’orlo della dannazione o a contatto con potenze sinistre, che velenose gli infettano la mente e fanno venir meno gli ultimi brandelli di pudore e innocenza.
Esattamente così si sentiva Ichigo, e vanamente tentava di controllare la tensione irrigidendo la postura e le braccia, ma le dita continuavano a piantarglisi con dolore nei pantaloni scuri; trovarsi là, così vicino al nemico, quello per eccellenza, e sapere chedi lì a poco lo avrebbero visto faccia a faccia lo induceva a immaginarsi come una sorta di anima perduta addentratasi nel profondo dell’Inferno per conferire col Maligno in persona.
Si guardò intorno e, con un brivido di disorientamento, si vide circondato da nemici, e provò l’impulso tanto folle quanto umano di scappare lontano, uscendo dall’abitacolo della macchina, ma subito si tranquillizzò e il sudore freddo si dissolse sulla fronte: erano semplicemente Shunsui, Kenpachi e Coyote, abbigliati come lui, con le lugubri divise delle Waffen SS.
Come al solito, l’abilità di Urahara nel riprodurre le uniformi delle unità nemiche nei più minuti dettagli,  fino alle decorazioni fasulle e ai bottoni più insignificanti, era straordinaria, e difficilmente qualcuno vedendoli avrebbe potuto intuire che erano militari alleati in incognito per una missione che definire top secret era quanto mai riduttivo.
A dare il tocco definitivo di realismo contribuivano i mezzi di locomozione che attualmente ospitavano loro ed il resto della squadra, due berline dipinte di nero come il piumaggio di un corvo, la statuetta di un’aquila bene in vista sul cofano e le maniglie delle portiere decorate con svastiche e motti in tedesco: si trattava delle automobili dell’entourage di un alto ufficiale delle SS, catturate dagli Inglesi in Normandia e ora riadattate come insospettabili cavalli di Troia.
Non appena, qualche tempo prima, durante il rituale colloquio con Churchill, di ritorno da Jalta, i nostri, che di recente avevano portato a termine un incarico rischiosissimo e delicato durante la Battaglia delle Ardenne, ebbero udito quale sarebbe stata la loro successiva missione, una sola fu la loro risposta: incredulità.
Non che, dopo tanti anni di fatiche e abnegazione, si fossero fatti meno ligi al dovere; semplicemente, per la prima volta dal 1940 in poi, avevano la sensazione che l’obiettivo loro imposto fosse semplicemente una follia.
Il premier britannico li aveva informati che, durante la conferenza con gli altri due leader alleati, aveva esposto una propria “modesta proposta” a Roosevelt e Stalin, che del canto loro l’avevano assai apprezzata, e che loro erano sicuramente i più qualificati per assolvere a quel compito, quindi aveva sganciato la bomba: avrebbero dovuto uccidere Adolf Hitler.
Invano Isshin e Shunsui, il primo con bruciante veemenza ed il secondo con misurata diplomazia, aveva cercato di dissuaderlo, insistendo che, sebbene ormai il suo potere fosse a pezzi e Sovietici ed Anglo-americani si preparassero a sciamare nel territorio del suo Reich, il dittatore nazista poteva contare sull’appoggio fanatico della popolazione e soprattutto su un sistema di sicurezza efficiente, capillare e spietato, che aveva metodi piuttosto sbrigativi di vedersela con i sovversivi: Churchill era stato irremovibile, e aveva continuato a spiegare che ormai le sorti della guerra erano contro i Tedeschi, che il Fuhrer non era più cos’ onnipotente come il resto del mondo pensava e che la
missione sarebbe stata un successone, perché ogni dettaglio era stato pianificato nei minimi particolari.
In sostanza, questo era il piano: nottetempo, un aereo da trasporto li avrebbe sbarcati, con infinita cautela, nei dintorni di Berlino; là, perfettamente camuffati, avrebbero dovuto approfittare di una delle rarissime occasioni in cui Hitler lasciava il proprio bunker, dato che l’intelligence segnalava che il 22, salvo imprevisti, egli si sarebbe recato a tener un ultimo discorso, stanco e farneticante, alle truppe della contraerea impegnate a difendere la capitale dai bombardamenti e a decorare i soldati più valorosi.
Prima che il dittatore arrivasse fin là, si sarebbero dovuti infiltrare nel suo corteo, travestiti da guardie del corpo, e quindi, anche a costo di farsi ammazzare dal primo all’ultimo, cercare di eliminarlo in ogni modo, sparandogli, picchiandolo, investendolo: tutto, pur di far scomparire dalla faccia della Terra quel mostro fattosi uomo e accorciare la durata del conflitto.
La prima parte del progetto era filata liscia come l’olio, anche perché, nella Berlino devastata dalle bombe, in cui l’arrivo di Russi o Americani era ormai questione di mesi o meno, nessuno si sarebe stupito di vedere altre SS in giro; il difficile sarebbe stato riuscire ad intercettare il Fuhrer, sperando che non avesse cambiato idea all’ultimo momento, com’era suo costume, e che nessuno li scoprisse nel frattempo.
Quanto al ritorno, nessuno si faceva più illusioni: sapevano bene che sarebbe stato più facile fare poker alla prima mano che uscire vivi dal ventre dell’inferno, e questo scuro presagio contribuiva ad appesantire vieppiù l’atmosfera all’interno delle auto.
Le due macchine erano posizionati in due piccoli vicoli, sporchi, bui e semi intasati dalle macerie dei bombardamenti, che si affacciavano direttamente sulla strada dove era previsto transitasse il dittatore: in quel rifugio avrebbero avuto modo di celarsi a sguardi indiscreti, nonché di ripassare metodicamente i dettagli della congiura, pregare per un eventuale miracolo e soprattutto attendere, attendere non si sa quanto e quando, con l’ansia che aumentava col trascorrere dei minuti.
Per distrarsi Ichigo, che più che per sé era tremendamente preoccupato per il proprio padre (ora più che mai capiva quale stretto vincolo li legasse) si mise ad esaminare i propri compagni di squadra: Shunsui, giocherellando con il volante, si esercitava, studiandosi nello specchietto, ad assumere un cipiglio da perfetta SS; Stark, la pistola dal calcio d’avorio ed il tirapugni già a portata di mano, tentava di ritemprare le forze in un nervoso pisolino, ed intanto lo si poteva udire pregare; Kenpachi, l’unico membro del commando che fosse realmente convinto del buon esito della missione, continuava a blaterare sulle stragi di Tedeschi che avrebbe compiuto, e mentre fantasticava il viso gli si deformava in terrificanti smorfie da carnefice.
“Vedrete gente, vedrete che spasso! Già me lo vedo, quell’imbianchino austriaco, in ginocchio che frigna come un maiale, ed io ch gli affondo la lama nel collo e scendo verso l’inguine … Ne dovrà versare di sangue, quel porco, per quello che ha fatto alla Polonia!”.
“Sì, e nel frattempo starai lì a farti crivellare come un dollaro bucato!” replicò ironico lo statunitense, ma furono interrotti da Ichigo: “Zitti, arriva qualcuno!”-
Il nuovo venuto si rivelò essere una vecchietta malvestita e dall’aspetto provato, che spingeva una carriola piena di rottami metallici; la donna si voltò a fissarli e subito Shunsui, l’unico che parlasse il tedesco senza accenti stranieri, la redarguì: “Allora donna, cos’hai da guardare? Siamo qui per vegliare sul Fuhrer, che ci condurrà immancabilmente alla vittoria! Ora torna a lavorare!”.
“Agli ordini! Heil Hitler!” rispose lei irrigidendosi nel saluto nazista e, facendo violenza a se stesso, poiché lo ripugnava nel profondo, l’australiano ripeté il gesto.
Dopo che l’anziana si fu allontanata, il giovane inglese disse malizioso: “… ci condurrà
immancabilmente alla vittoria … Siete proprio entrato nel personaggio, colonnello!”.
“Eh già, credo di meritare un Oscar per essere riuscito a dirlo senza ridere!”.
Contemporaneamente, a pochi metri di distanza, all’interno dell’altra macchina si ripetevano scene simili, con Isshin che dava istruzioni agli altri: “Mi raccomando ragazzi, non traditevi in nessun modo! Fino al momento dell’azione, dovremo sembrare fedeli cagnolini di Hitler! So che tutti preferireste correre incontro al fuoco nemico che farlo, ma la sorpresa è l’unico mezzo possibile!”.
“Grazie a Dio siamo boches solo per finta! Queste uniformi mi fanno venire il voltastomaco!” biascicò con rabbia Ukitake, e Byakuya concordò: “Già, dopo tutto quello che hanno combinato per i Tedeschi sarà difficile redimersi … Ci spero davvero, ma dipenderà solo da loro!”.
“Per quanto mi riguarda- sentenziò Renji, gli occhi ridotti a fessure piene d’odio- possono anche piangere in turco, ma non li perdonerò mai, nel lo faranno i Russi. Pagheranno per tutto”.
Mentre erano ancora immersi nelle dissertazioni sul futuro della Germania postbellica, la loro attenzione fu attratta da una fila di auto che erano apparse alla loro vista in strada.
Due macchine assai simili alle loro, una davanti ed una in coda, scortavano una vettura scura e assai poco appariscente, mentre motociclisti armati fino ai denti sciamavano ai loro fianchi, occupando la via per tutta la sua larghezza; a tutti ed otto bastò una sola, fugace occhiata di un viso ormai fin troppo noto che si affacciava brevemente ad un finestrino, gettando al mondo esterno uno sguardo spento, per riconoscere Adolf Hitler.
“FIGLIO DI PUTT …” urlò Kenpachi preparandosi a scattare fuori dall’abitacolo, ma Coyote lo afferrò energicamente per una manica: “A sedere, scimunito! Non erano questi i patti! Ucciderai dopo”; intanto, Shunsui metteva in moto la macchina ed usciva con cautela dal vicolo, imitato in questo dal parigrado britannico.
Le due vetture riuscirono ad incolonnarsi al corteo senza dare soverchiamente nell’occhio, ma non era da escludere che una volta che si fosse accorto della loro presenza il dittatore tedesco, paranoico per natura, si facesse cogliere dai sospetti ed ordinasse un’indagine ravvicinata.
La tensione era palpabile: fintantoché i nostri avessero continuato a rigare dritto, senza niente di insolito, probabilmente la finzione avrebbe tenuto, e nessuno avrebbe seriamente pensato di tenerli d’occhio, ma se avessero fatto anche un solo passo falso, non avrebbero avuto scampo, soli e sopraffatti nel numero nel cuore dell’impero nemico …
Ormai si stavano avvicinando alla meta della visita di Hitler, e non c’era più molto tempo per indugiare; l’australiano, che era il più vicino al corteo, era sul punto di accelerare e di puntare sull’auto di mezzo quando una motocicletta si affiancò loro e il conducente si mise a bussare sul vetro del finestrino per convincerlo ad aprire.
“Non ora … Al diavolo la prudenza!” sbottò mentalmente il colonnello, ed anziché abbassare il vetro rivolse un cenno a Kenpachi; quest’ultimo, palesemente felice come una pasqua, un ingombrante aggeggio fra le mani, aprì il finestrino e gridò: “Sorpresa!”.
Il nazista probabilmente non fece nemmeno in tempo a stupirsi prima di essere avvolto dal getto del lanciafiamme e di rotolare sull’asfalto, dove sfrigolò un poco prima di giacere immobile.
“Si balla, ciurma!” esclamò Isshin, e premendo al massimo sull’acceleratore si gettò contro uno stuolo di moto che già cominciavano ad aprire il fuoco, mentre, in lontananza, le tre automobili si allontanavano a tutta birra.
Renji si sporse dal finestrino e commentò sprezzante: “Pista! Siete solo una perdita di tempo!”, quindi sparò con il bazooka, risolvendo definitivamente la pratica con l’aiuto del polacco che continuava a sputare fiammate qua e là; frattanto Ukitake, conscio dell’importanza della propria mira come mai lo era stato, centrò il guidatore della macchina delle SS che chiudeva l’ormai
piccolo corteo, arrestando momentaneamente la marcia del veicolo.
I suoi occupanti superstiti, che erano usciti dall’auto con le armi in pugno per coprire la fuga del capo, furono semplicemente falciati via dai mezzi in corsa; troppo grande era la determinazione del commando nel perseguire il suo obiettivo, troppo forte il timore che esso svanisse all’ultimo istante per un puro colpo di sfortuna, quando gli erano ormai così vicini.
Arrivarono a pochi metri dalle due vetture inseguite, e l’ultimo veicolo delle SS si staccò per fronteggiare gli avversari; mentre di loro si occupavano Isshin e i suoi, e si accendeva un duello di colpi che infrangevano i vetri e fischiavano a pochi millimetri dalle facce, sulle tracce di Hitler si metteva l’equipaggio di Shunsui, che con una curva vertiginosa si mosse per aggirare la preda e colpirla sul fianco.
“Ma guidano tutti così in Australia?!” chiese semiserio Coyote, e il colonnello, la testa china sul volante per schivare le pallottole che i Tedeschi esplodevano contro di loro, rispose gioviale: “Anche peggio! Mi ricordo quella volta nel Nuovo Galles del Sud, sarà stato nel ’23, che…”.
“Non c’è tempo per gli aneddoti, signore! Ci porti dritti sul bastardo!” sbraitò Ichigo esasperato, e subito fu preso in parola; la loro macchina speronò l’altra con un urto tremendo proprio sul lato dove sedeva Hitler, di cui poterono nettamente distinguere la faccia pallida di terrore, quindi Coyote, con un centro perfetto, la immobilizzò sparandole a uno pneumatico.
Rapidi e professionali, i nostri abbandonarono il mezzo e raggiunsero l’altra auto, freddando sbrigativamente l’autista che brandiva una pistola contro di loro; scoprirono che l’unico sopravvissuto adesso era Hitler stesso, e per la prima volta poterono ammirare da vicino, con un misto di disprezzo da vincitori e timore reverenziale, il crudele dominus del Terzo Reich, il responsabile diretto o indiretto della morte di milioni di persone, quello che già in vita molti avevano incoronato come l’uomo più malvagio della Storia.
A dire la verità non faceva una grande impressione, confuso, spaurito, stretto in un impermeabile smorto macchiato di sangue, i capelli ormai ingrigiti e scompigliati: era un omino baffuto piccolo piccolo, il petto pieno di medaglie ma lo sguardo pieno di orrore, di consapevolezza che la sua fine stava per giungere, che lui, che per ogni suo capriccio aveva mandato al macello popoli ed eserciti interi, era alla mercé di qualcuno più forte di lui.
Per un solo, folle istante ebbero la certezza di avergli letto nelle pupille una muta richiesta di pietà, ed è difficile affermare se davvero la presero in considerazione.
Ripetendosi che stava semplicemente per compiere il proprio dovere, una volta di più, Ichigo spianò la pistola, ed il dittatore chiuse gli occhi aspettando il peggio, ma il grilletto non fu mai premuto.
“Merda! Cecchini!” urlò il giovane mentre tiratori invisibili, appostati sui tetti semidistrutti, li bersagliavano da ogni parte, e reparti di soldati e SS sbucavano dai vicoli; con una mossa fulimena Hitler riuscì a fuggire dal sedile della macchina e a ricongiungersi ai propri seguaci, da dove prese a impartire ordini strillando e sbracciandosi come di consueto.
Kenpachi gli si sarebbe volentieri avventato addosso, anche a costo di farsi riempire di piombo come un fagiano, ma con mezzi coercitivi gli altri riuscirono a ricondurlo a bordo, per poi fuggire a più non posso; la seconda squadra li seguiva, e Ukitake, Renji e Byakuya sparavano come ossessi nel tentativo di coprire le spalle a tutta la banda.
Sarebbe stata dura uscire da quel labirinto, dove nemici spietati e fanatici sbucavano da ogni angolo, e una volta fuori nascondersi fino a che non fossero tornati a prenderli.
Nonostante questo, Coyote Stark si concesse un sorriso, mentre era intento a ricaricare; potevano anche aver fallito lo scopo principale, ma un risultato lo avevano raggiunto di sicuro: finalmente qualcuno era riuscito ad instillare una paura matta nell’animo di Hitler, a farlo sentire di nuovo umano.

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Capitolo 13
*** Sons of the Rising Sun ***


Spazio autore
Come già annunciato, questo è il penultimo capitolo della fic, nonché l’ultimo ad avere per oggetto la guerra “guerreggiata” (il prossimo avrà tutt’altro tono). Ringrazio ancora una volta tutti coloro che mi hanno seguito fino ad ora e intendono continuare a farlo, e li invito caldamente, ora che la fine si avvicina, a lasciarmi magari un commento generale sulla fic nel suo insieme, con quello che hanno apprezzato o meno. Buona lettura, e alla prossima!
 

Sons of the Rising Sun

 
Isola di Okinawa, Impero giapponese, 19 giugno 1945
“Però, mica male come posto! Mi piacerebbe venirci in villeggiatura, se arriverò vivo alla pensione” commentò Shunsui, il cappellaccio ben calcato a riparargli la testa dal sole subtropicale ed un sorriso smagliante sulle labbra, indicando al resto del commando l’isola cui si stavano avvicinando; sin da lì si potevano intuire una rigogliosa vegetazione ed un panorama ameno e variegato, con un alternanza di boschi e alture rocciose, mentre le coste consistevano in elevatissimi e brulli strapiombi che terminavano con rocce acuminate battute dai frangenti marini.
“Io non sarei così tranquillo- osservò Byakuya con un leggero ribrezzo- a pensare che non so quanti civili si sono uccisi gettandosi da scogliere come queste. Poveracci, i Giapponesi li hanno persuasi che gli Americani erano venuti a torturare e stuprare e loro ci hanno creduto”.
“E allora? Non erano nemici anche loro?” domandò Kenpachi con molta noncuranza, suscitando più di una smorfia sdegnata, per cui Stark replicò: “No, loro non c’entravano nulla. Gli abitanti di quest’isola appartengono ad un popolo diverso, ed i Nippo non hanno fatto che sfruttarli, arruolandoli a forza, usandoli come scudi umani e rubando loro il cibo. Non c’è da stupirsi che molti abbiano preferito rifugiarsi presso le nostre truppe, nonostante fossero invasori”.
Ancora i nostri non sapevano come avessero fatto ad uscire vive dall’affare Hitler; in ogni caso Churchill, dopo una delle sue tipiche sfuriate, si era complimentato con loro e per ringraziarli aveva pensato bene di spedirli a compiere nuove missioni in Italia ed in Germania.
Alla fine, il Fuhrer era morto sul serio, ed il suo successore, l’ammiraglio Dönitz, aveva saggiamente deciso di gettare la spugna, sancendo la fine della guerra in Europa.
Era ancora fresco nella loro memoria, quell’8 maggio: erano al confine fra Baviera e Boemia, impegnati in una missione di ricognizione per aprire la via all’esercito statunitense e, quando aveva udito la notizia alla radio, Kenpachi era scoppiato a piangere, confessando agli attoniti commilitoni che non lo faceva tanto perché avevano vinto, e la Polonia era vendicata, ma perché così non avrebbe più potuto uccidere tutti i Tedeschi che voleva, cosa alla quale si era ormai assuefatto.
I combattimenti, però, erano tutt’altro che cessati, e, per quanto fieri e orgogliosi dei propri meriti, i nostri non potevano dormire sugli allori: lasciatasi alle spalle l’Europa in rovina, percorsa e occupata da eserciti e dove perniciose separazioni cominciavano già a svilupparsi fra gli Alleati, potevano concentrarsi interamente sull’Oriente, dove l’Impero giapponese, nonostante le sconfitet subite su tutti i fronti, la fame e i bombardamenti che imperversavano in patria, continuava a resistere testardo, e sacrificava la sua migliore gioventù mandandola a schiantarsi con gli arei o a difendere fino all’ultimo uomo remoti baluardi, in nome di un monarca parte dio e parte uomo.
In particolare gli USA avevano investito con ingenti forze marittime e terrestri la piccola isola di Okinawa, che avrebbe costituito un punto d’appoggio per l’invasione del Giappone vero e proprio in programma per la fine dell’anno, ma se si aspettavano una vittoria facile avevano preso un grosso abbaglio: fra stormi di kamikaze e combattimenti all’ultimo sangue nelle grotte e sulle colline, gli Americani si erano trovati di fronte alla resistenza più accanita che i Nipponici avessero mai offerto, subendo un numero di perdite spaventosamente alto, e, per quanto la conquista dell’isola fosse inevitabile per l’eccessiva disparità fra gli schieramenti, ogni metro quadrato di territorio costava letteralmente litri di sangue, perfino negli ultimissimi giorni dello scontro.
Al commando di Churchill era stato chiesto di intervenire in zona per vincere questa vivace opposizione, ed ora, a bordo di un vaporetto in servizio presso una delle portaerei che avevano
partecipato alla battaglia, si stavano dirigendo verso terra.
La prima località che visitarono fu un campo base dove soldati, marines e altre figure gravitanti nell’ambito militare si aggiravano trafelate sotto il sole cocente o trascorrevano qualche minuto a rilassarsi, in attesa di rituffarsi di nuovo nel fervore della battaglia; c’erano anche parecchi civili okinawani, per la maggior parte vestiti di stracci e dall’aspetto quanto mai misero, che vagavano mestamente fra tende e carri armati supplicando pietà a qualche animo gentile.
D’un tratto Ichigo si trovò a passare davanti a due ragazzini, presumibilmente gemelli, i piedi scalzi e la faccia sporca e smunta: avevano gli occhi pieni di lucciconi e lo fissavano senza avere il coraggio di chiedere, così fu lui ad estrarre dallo zaino una generosa porzione della sua razione a porgergliela.
Mentre i piccoli saltellavano via ridacchiando per la contentezza, il giovane si sentì una mano sulla spalla e voltandosi incrociò lo sguardo fiero comprensivo del genitore.
Frattanto, mentre gli gruppetto attendeva l’ufficiale americano che avrebbe funto da collegamento con il quartier generale ed esposto loro la questione da sbrigare, un paio di militari statunitensi, dei marines a giudicare dalla divisa, e piuttosto alticci a giudicare dal colorito rossastro delle guance, si fermarono davanti a loro e, riconosciuta l’uniforme di Stark, cominciarono a cantare con voce impastata e stonatissima: “From the halls of Montezuma/ To the shores of Tripoli (sono le prime parole dell’inno dei Marines, e si riferiscono alle battaglie da questi sostenute in Messico e in Africa nel corso del XIX secolo nda)… A casa soldatino di merda! Qui ci vuole gente con i coglioni! (Nel corso della Guerra del Pacifico fu sempre molto forte la rivalità fra i Marines, che la consideravano la “propria” guerra, e l’Esercito comandato da MacArthur, che non scherzava anch’egli quanto a manie di protagonismo; Okinawa fu una delle poche battaglie in cui le due forze armate si trovarono a combattere fianco a fianco nda)".
Uno dei due sputò sull’abito di Coyote, che fuori di sé per la rabbia, dovette essere trattenuto disperatamente da Ukitake e Renji per non scattare loro addosso come un cane inferocito, e la scena sarebbe sicuramente degenerata se una voce, dal tono squillante, ma autoritario, non avesse intimato: “A posto, voi due! E’ così che si trattano gli ospiti? Filate, o dovrò fare rapporto ai vostri superiori!”.
A parlare era stato un uomo alto e snello, i capelli biondi tagliati a caschetto ed un viso incorniciato da dei grossi denti da castoro; aveva la divisa dello US Army e, non appena lo riconobbe, Stark si precipitò a stringergli la mano: “Shinji, amico mio! Quanto tempo! Non ci vediamo dal ’37. Ti ricordi che bei tempi, a Panama?”.
L’altro vinse un momentaneo imbarazzo e ricambiò, in modo sincero ma un po’ ingessato: “Guarda un po’ qui, “Coyote” Stark! Sembra ieri che eravamo a West Point! Non dirmi che sei uno di loro!”.
“Del commando? Eccome se lo sono! Ma tu invece, cos’hai fatto per tutti questi anni?”.
“Un po’ di tutto! Ero a Bataan con MacArthur nel ’42, poi sono stato in Nuova Guinea, nelle Marshall, a Leyte … Ne ho viste di cotte e di crude, ma per fortuna sono ancora qui!”.
“Io sono stato a Vella Lavella, in Nuova Guinea, a Tarawa, ma anche in Africa, in Russia, in Normandia … E’ ancora sulla breccia il vecchio Doug (MacArthur nda)? E’ un po’ che non lo vedo!”.
“Non vorrei essere scortese, Stark … Ma avremmo del lavoro da sbrigare” intervenne pacato Isshin, e subito l’americano si scusò: “Certamente, signore, certamente. Signori, questo è il mio vecchio amico Shinji Hirako, che, a quanto vedo, è diventato maggiore. Presumo che sia lui l’ufficiale di collegamento che attendevamo”.
Il biondo si lisciò i capelli e disse: “Sì, sono proprio io. Il vostro capo sarebbe …”.
“Non mi piace per niente questo qui, mi sembra uno che si dà troppe arie” commentò sottovoce e in tono acido Renji, e a Byakuya quasi scappò un: “Senti chi parla!”.
“Molto piacere, colonnello Isshin Kurosaki del British Army. E’ un onore servire al suo fianco” disse in tono formale l’inglese, e Shinji replicò ironico: “E’ piacevole constatare come gli ufficiali di Sua Maestà non perdano mai la loro consueta educazione …”.
“ Ci sarei anch’io, signore! Colonnello Shunsui Kyoraku dell’Australian Army, per servirvi!” si introdusse l’australiano con una svolazzo del cappello, ed in breve anche gli altri si presentarono.
“Venite, ho fatto preparare delle jeep apposta per voi. Discuteremo dell’affare lungo la via£ spiegò il loro anfitrione, ed in breve si trovarono a saltellare su aspri sentieri cosparsi di crateri e carcasse di veicoli, i motori che scoppiettavano faticosamente in salita.
Shinji prese a delineare la situazione a Isshin e Shunsui, che sedevano vicino a lui: “Come saprete, ormai i combattimenti sono limitati al settore meridionale dell’isola. I Nippo si sono barricati nelle grotte, e non c’è verso di farli uscire nemmeno con le bombe. Proprio ieri il comandante della X° Armata, il tenente generale Buckner, è rimasto ucciso dalle loro cannonate! Morti e feriti ammontano ad una quantità esorbitante da entrambe le parti. In particolare, in una zona c’è una sacca di resistenza che ci sta procurando notevoli grattacapi. Saranno più o meno duecento uomini, che sono nascosti in una caverna sotterranea da dove nessuno è stato ancora capace di stanarli. E non che ci manchino i mezzi! Ogni sera, quei bastardi se ne escono per una delle loro stupide cariche banzai, e ammazzano un sacco dei nostri ragazzi, sfuggendo ogni volta che stiamo per metterli nel sacco. Sono dei figli di baldracca maledettamente astuti, e potremmo continuare a combattere fino a che Truman non verrà rieletto. Per questo abbiamo bisogno di professionisti del settore, dico bene?”.
Come a fugare ogni dubbio e a far pesare l’indubbio bagaglio della propria esperienza, il colonnello britannico si lasciò andare ad un commento quasi casuale: “Mi ricorda un po’ quella volta in quella fabbrica di Stalingrado. Rammentate, colonnello Kyoraku?”.
“Altroché se rammento! Quella volta non prendemmo neppure un prigioniero! Vediamo se i Giapponesi di qui saranno tosti come quelli in Birmania!”.
In quello stesso momento, su un’altra macchina, mentre Kenpachi continuava ad annoiare Renjio farneticando della propria maggiore avversione verso i Tedeschi che i Giapponesi, ricevendo per tutta risposte piccate e sarcastiche del russo ( e non era solo perché fra Alleati occidentali e Sovietici si aprivano già le prime crepe, perché i rapporti fra i due erano sempre stati di questo tipo), Ukitake sospirava stanco e malinconico, appoggiandosi ad Ichigo: “Finirà mai questa guerra? Ogni volta ci illudiamo che sia l’ultima, ed invece ci mandano sempre più lontano … Il mio dovere è combattere, ma ormai ho versato abbastanza sangue, e ho paura che un giorno dovrò scontarlo. Sarebbe stato meglio cadere nella mia terra che qui, all’altro capo del mondo. Non ti manca l’Inghilterra, figliolo?”.
“Moltissimo, ma so che se metto tutto me stesso nella lotta contribuirò alla vittoria e potrò tornare prima” replicò il ragazzo con convinzione, ed il francese disse: “Bravo, è questo lo spirito giusto”.
Dopo qualche ora di sobbalzi, giunsero alla meta prefissata, un po’ più a nord delle zone dove attualmente infuriavano i combattimenti: si trattava di un grande spiazzo erboso, intervallato da rocce e da un boschetto, davanti a cui si alzava una brulla collinetta, in cui si apriva un antro oscuro, i cui meandri rocciosi si snodavano nelle viscere del sottosuolo fino ad essere invisibili.
Shini scese dalla jeep, seguito a ruota dagli ospiti, e si recò verso una batteria composta da alcuni mortai, affiancati da mitragliatrici; soldati ed artiglieri, qualche centinaio, si dividevano fra chi oziava allegramente, fumando e giocando a carte, e chi montava la guardia con occhio vigile.
Il maggiore si avvicinò ad un individuo altissimo e dalla pelle scura, voltato di spalle, e lo informò dei nuovi venuti: non appena questi si voltò, i membri del commando trasalirono.
Coyote, riconoscendolo con felicità, balbettò: “Ma noi ci siamo già visti! Sì, in Tunisia!”.
Il giovane ispanico eseguì il saluto militare con deferenza: “Sergente Sado Yasutora, 7° Divisione di Fanteria, di San Juan, Porto Rico, signore! Anch’io mi ricordo di quando ci avete salvato dai Tedeschi! E’ un piacere rivedervi sani e salvi, signore!”.
“Riposo ragazzo, riposo” intervenne bonario Shunsui, che poi aggiunse: “Vedo che ti hanno promosso da allora. Cos’hai combinato di notevole nel frattempo?”.
Sado replicò in tono conciso, senza vantarsi: “Dopo l’Africa, sono stato mandato in Sicilia, e lì sono rimasto ferito piuttosto gravemente in un attacco aereo. Mi hanno rimpatriato e mi hanno anche proposto il congedo, ma io non l’ho accettato ed ho insistito per essere inviato nel Pacifico. Ho combattuto nelle Filippine, ed ora eccomi qua, solo che ora è molto, molto peggio”.
“Dove sta esattamente il problema? Ogni quanto si fanno vivi i Giapponesi?” domandò Byakuya, ed il portoricano rispose: “Ogni sera, più o meno verso le 10, escono per una carica, uccidono quanti più nemici possono, e tornano nelle grotte. Questo si ripete ormai da una settimana, nonostante ogni giorno raccogliamo nuove forze. Crediamo che le caverne abbiano un’uscita segreta da qualche parte, visto che tutto quello che abbiamo buttato nei cunicoli non  servito a nulla. D’altronde, entrare lì dentro significherebbe solo mettersi in loro potere”.
“A proposito, dov’è il carro armato? Non vi avevo detto di arrostirli col lanciafiamme, se necessario?” chiese Shinji profondamente seccato, come se fosse stata una questione personale.
Sado si limitò ad indicare prosaicamente la carcassa di un cingolato annerita e divelta che giaceva a non molta distanza, soggiungendo: “Evidentemente hanno anche un cannone”.
Gli otto del commando si radunarono un attimo per consultarsi, bisbigliando e gesticolando, quindi Isshin prese la parola a nome di tutti: “Maggiore Hirako, pensiamo di aver escogitato una soluzione. Facciamo affluire altri rinforzi in zona, ma teniamoli nascosti, e facciamo lo stesso con la maggior parte delle truppe qui presenti; se i Nippo vedranno l’obiettivo sguarnito, sarà un boccone troppo succulento per non provarci. A quel punto, entrerà in azione il grosso delle forze, e li falcidieremo prima che possano anche solo guardarci negli occhi. Siete d’accordo nell’attuare questa strategia?”.
Shinji si lisciò il mento, quindi assentì col tono di chi faccia una concessione: “Sì, si può fare. Ma badate bene, colonnello, che se vi siete sbagliati siamo tutti fritti”.
***
Le nuvole oscuravano in buona parte la luna, ma quel po’ di luce bastava ad illuminare un paesaggio irrealmente deserto, con solo tre o quattro bivacchi ad illuminare l’ambiente.
Mentre intorno agli altri i militari statunitensi si facevano grasse risate su qualche battuta che capivano solo loro, attorno ad un fuoco vegliavano Stark, Renji e Kenpachi.
“Stasera mi sento proprio ispirato! Scommetto, caro il mio maledetto russo, cinque sterline che stasera ne faccio fuori almeno venti!” si vantò sbracciandosi il polacco, ed il sovietico ridacchiò sarcastico: “Sì, venti moscerini! Tu vuoi proprio farti ammazzare! Comunque ci sto”.
“Sarà meglio che manteniate le promesse” osservò serio Coyote “perché sento che stasera ci faranno sudare sette camice quegli stronzi! Di solito fanno le cariche banzai per morire in combattimento piuttosto che farsi catturare, e questi devono essere motivati al massimo se continuano a passarla liscia da una settimana”.
In quello stesso istante, nascosto fra gli alberi, i reparti americani, che i superiori di Shinji avevano deciso di prestargli per quell’operazione, e gli altri membri del commando si preparavano allo scontro: chi pregava, chi dava disposizioni nel caso non fosse tornato, chi scherzava, il maggiore
Hirako che fissava nervoso l’orologio, Ukitake che lucidava la canna del fucile,  Shunsui che tentava di tirare su di morale Ichigo e Byakuya ed Isshin che cercava di ostentare serenità davanti a tutti.
Ad un tratto si udì uno scalpiccio lontano, ed una sorta di sordo brontolio che saliva dalla terra; più di qualcuno tese un orecchio guardingo, molti occhi si levarono preoccupati.
Una fiumana umana si slanciò fuori dall’ingresso della grotta come lava eruttata da un vulcano, una fiumana che portava le divise, ormai logore e stracciate, dell’Esercito Imperiale giapponese; tutti quegli uomini, con le barbe lunghe e i lineamenti rifiniti dalla fame, avevano negli occhi cerchiati di rosso un che di invasato, come se una folla di demoni guerrieri li possedesse.
Stringevano nelle mani fucili, pistole, granate, qualcuno un paio di bandiere con il Sol Levante legate alla bell’e meglio a delle aste, ed in prima fila c’era un ufficiale, in apparenza giovanissimo, assai alto e segaligno, i capelli rizzati sotto il berretto ed un paio di occhiali sopra il naso, che si agitava come un folle, brandendo un’affilatissima katana.
Un grido innaturale, più simile ad un tuono, uscì dalle loro gole: “Nippon banzai!”.
“Eccoli, eccoli, eccoli!” ridacchiò Kenpachi battendo le mani, quindi imbracciò il fucile e si mise a sparare, contando i morti, mentre gli Americani si precipitavano alle mitragliatrici ed i mortai aprivano il fuoco; una granata atterrò in mezzo ai Giapponesi provocando molte vittime, ma essi non sembrarono curarsene e proseguirono imperterriti.
Stark si posizionò ad una mitragliatrice e si unì al carnaio, abbattendo i frangenti estremi dell’onda che distava ormai una sessantina di metri; mentre premeva il grilletto e Renji gli passava le munizioni, borbottava mentalmente: “Avanti Shinji, non fare la merda … Esci fuori!”.
Come se gli avessero letto nel pensiero, quando ormai pareva che il piccolo manipolo di difensori sarebbe stato inesorabilmente travolto, dalla selva emerse il resto delle forze statunitensi, e la tempesta di fuoco che si scatenò fu impressionante.
Non per questo, però, gli ostinatissimi Nipponici gettavano la spugna: erano quasi da soli, su un’isola che entro pochi giorni sarebbe caduta, soverchiati nel numero e nelle armi, e l’unico risultato che potevano proporsi era quello di vendere cara la pelle e uccidere talmente tanti invasori da sconsigliare agli Stati Uniti un’invasione della madrepatria.
Nelle tenebre si susseguivano le fucilate a breve distanza, finché non si giunse al corpo a corpo, che come sempre sarebbe stato una roulette russa di sangue e budella.
Byakuya si riparò da una coltellata con il calcio del fucile, inciampando, ma proprio quell’involontario slittamento fece cadere anche il suo avversario, consentendogli di avventarglisi addosso e di finirlo; frattanto Ukitake, in posizione fra i cespugli, eliminava un nemico dopo l’altro ed Ichigo si misurava con avversari ben più robusti a colpi di pugni e baionetta.
“Venti! Venti!” gridò entusiasta Kenpachi, mentre pugnalava un uomo allo stomaco facendgli vomitare sangue, ma Renji era troppo occupato per stare ad ascoltarlo; un po’ più in giù, Sado fracassava la testa di un giapponese con il fucile, mentre Coyote infilzava un  uomo da dietro e Shinji gli sparava in mezzo agli occhi.
“Gioco di squadra! Ci hanno insegnato bene, a West Point!” esclamò il primo, e l’amico sorrise: “Davvero! Ma il prossimo lascialo a me!”.
Intanto Isshin, un pugnale per mano, stava fronteggiando il giovane ufficiale con la sciabola; questi riuscì quasi a decapitarlo, con un fendente precisissimo che si limitò a fargli perdere il copricapo, quindi tornarono a scontrarsi e ad avvinghiarsi; per essere così giovane e smilzo, il nemico era molto forte e soprattutto esperto.
Dopo varie finte e affondi, il britannico si trovò disarmato, e il nipponico, lanciando un selvaggio
urlo di soddisfazione, levò la katana; ma si bloccò in quella posizione, perché Shunsui gli saltò addosso gettandolo a terra, e con un pugni gli fece perdere i sensi.
“Grazie mille colonnello. Se non fosse stato per voi …” lo ringraziò Isshin mentre raccoglieva i coltelli, e l’australiano lo liquidò con un gesto: “Pfui! Robetta! Una volta, nel ’39, in un circo a Canberra, ho avuto un incontro di boxe con un canguro decisamente più interessante!”.
Alla fine il numero aveva prevalso, e, nonostante vistose perdite fra morti e feriti, gli Americani potevano dirsi vincitori: dei Giapponesi non rimaneva che una pila di cadaveri mutilati, e furono fatti prigionieri solo quelli troppo feriti o intontiti per suicidarsi.
Fra costoro c’era il giovane ufficiale con gli occhiali, appena rinvenuto, che, portato al cospetto di Shunsui e Isshin, l’ squadrò gelido attraverso le lenti e scandì in un buon inglese: “Capitano Uryu Ishida, Esercito Imperiale giapponese. Riconosco la sconfitta e vi chiedo il permesso di morire con onore”.
“Avete già dimostrato il vostro valore, capitano. Non c’è bisogno che sprechiate la vostra vita invano” rispose l’inglese, e, mentre veniva trascinato via, Ishida si voltò e gridò: “Ricordatevi di quello che avete visto stasera! Ricordatevelo, quando sarete a Tokyo, e allora vi pentirete di averci fatto la guerra!”.
Le sue parole avevano un fondo di verità, sicuramente impressionarono i presente più di quanto non volessero dare a vedere, ma ora era tempo di celebrare: per simboleggiare la vittoria, i nostri, dopo aver catturato il cannone giapponese nella caverna ed essersi impadroniti degli stendardi nemici, piantarono all’imboccatura  dell’antro una lunga asta, su cui sventolavano assieme l’Union Jack e la bandiera a stelle e strisce, a indicare un sodalizio inscindibile fra il vecchio impero e la nuova superpotenza.
Vedendoli Kenpachi, che aveva appena litigato con Renji poiché questi si rifiutava di riconoscergli la vittoria nella scommessa, si precipitò là ed estrasse dal suo zaino una bandiera polacca, donatagli da alcuni connazionali con cui aveva combattuto assieme a Montecassino, che conficcò a terra: era il suo modo di dire che anche la sua patria, divisa e martoriata, aveva contribuito a quella vittoria.
Il 21 giugno 1945 fu ufficialmente dichiarata la conquista completa dell’Isola di Okinawa.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 14
*** Honora ***


Spazio autore
Iria: Grazie, grazie mille! La pagina di Nonciclopedia su Renji l’ho letta, ma ed è fantastica (a parte che il povero Byakuya, dopo aver passato tutta la fic a imprecare contro Mussolini, è stato fatto diventare leghista): diciamo che l’idea mi è venuta, oltre che molto banalmente per il colore del capelli, perché in questa fic deve interpretare il ruolo del personaggio superbo, musone e bastian contrario, e ho pensato che un russo, diffidente verso una banda improvvisata di alleati, fosse perfetto.
Quanto ai personaggi, se non sono indiscreto, posso chiederti chi è che ti è piaciuto di più, sia fra i buoni che fra i cattivi?
Devo dire che ho adorato da matti usare Shunsui e Kenpachi, e che ero il primo a ridere delle loro battute, mentre fra i cattivi mi ha divertito particolarmente usare Nnoitra e Aizen, così come li conosciamo, e Ishida nei panni inediti del cattivo.
Gli errori di battitura mi preoccupano e sono dovuti principalmente alla fretta di copiare gli ultimi capitoli, ma ancora di più mi preoccupano gli errori storici, che temo di aver commesso in quantità industriale.
Grazie di tutto, ci vediamo alla prossima!
Ciacinski: Eh già, ma almeno è stato un ultimo capitolo lungo ed avvincente.
Sì, un riferimento alle bombe atomiche è di dovere, ma con altro “tono” intendo principalmente dire che nell’ultimo capitolo saranno narrate le vicende dello scioglimento del commando in seguito alla fine della guerra, con tanto di anticipazioni sulle vite future dei personaggi.
Il tono non sarà più concitato ed entusiasmante, ma calmo, lento e alle volte malinconico: sarà come salutare dei vecchi amici che ci hanno tenuto compagnia per tanto tempo.
Grazie di cuore, e alla prossima!
P.S.: Non so se lo hai notato, ma la ricomparsa di Sado nello scorso capitolo non è dovuta solo al fatto che è uno dei miei personaggi preferiti, ma anche a quello che è, nell’universo di Bleach, nato proprio ad Okinawa.
 
Finalmente, con un certo ritardo sulla tabella di marcia, anche questa storia è andata. Prima di lasciarci, non posso che ancora una volta ringraziare tutti quelli che con costanza ed interesse hanno letto Churchill’s heroes, lo abbiano gradito o meno, e tutti quelli che hanno voluto o vorranno farmi sapere cosa ne pensano.
Quanto alla mia prossima storia, qualunque essa sarà, penso che dovrete aspettare un po’ prima di vederla: non che mi manchino la voglia o le idee, ma in questo periodo sono molto stanco e molto occupato, e in più ho bisogno di un periodo per testare l’affidabilità del computer riparato, ed evitare che mi giochi brutti scherzi.
In ogni caso, vediamo alla prossima: ciao a tutti, e buona lettura!
 

Honora

 
Londra, Regno Unito, 4 settembre 1945
Ecco, finalmente Isshin Kurosaki aveva capito a cosa non era più abituato da molto, ormai: la pace.
Passeggiare per le vie di Londra, in una radiosa mattina che non lasciava intuire la prossima fine dell’estate, assieme al figlio finalmente disteso e sorridente, gli pareva uno strano retaggio di epoche migliori, una consuetudine per lungo tempo dimenticata e ora riesumata in modo graduale e incerto.
Era strano non dover più portare uno zaino sulle spalle, il fucile in braccio e la pistola nella fondina,  e poter camminare tranquillamente, senza bisogno di scrutare tetti e pertugi in cerca di cecchini o di tendere l’orecchio per cogliere il sibilo delle bombe, gli pareva una conquista incredibile.
Perfino tornare a casa propria, mangiare un pasto caldo nel proprio tinello, in compagnia delle figlie che da troppo tempo non riabbracciava, e schiacciare un pisolino sul divano erano atti da vivere appieno, con l’oscuro timore che in realtà fosse tutto un sogno fugace e che presto sarebbe ripiombato in un’esistenza di morte e precarietà.
Dopo la missione ad Okinawa, i membri del commando avevano svolto altri incarichi nel Vietnam occupato dai Giapponesi ed in Manciuria, in vista dell’offensiva sovietica che avrebbe dovuto dare il colpo di grazia all’impero nipponico.
Quest’ultima era davvero arrivata e, unita all’orribile effetto delle bombe atomiche impiegate dagli Americani (da allora Isshin non faceva altro che domandarsi cosa avrebbero potuto inventare di più efficace gli esseri umani per uccidersi, e in colloquio riservato, proprio il 15 agosto, il giorno della resa del Giappone, Stark gli aveva confessato di sentirsi terribilmente in colpa per i fatti), aveva costretto perfino il più irriducibile dei nemici a capitolare e ad accettare l’occupazione straniera, un’onta che non lo aveva mai colpito.
I nostri erano tornati al loro quartier generale in Inghilterra, in vista della firma dell’armistizio, che era stato firmato un paio di giorni prima sulla corazzata USS Missouri all’ancora nella Baia di Tokyo: solo allora le luci nelle Cabinet War Rooms si erano finalmente spente, ed il mondo aveva potuto tirare l’ennesimo, lungo sospiro di sollievo e cominciare a pensare alla ricostruzione.
In attesa di essere ufficialmente convocati e congedati dal servizio, avevano ricevuto un invito di Urahara che, prima di partire per tornare in patria, avrebbe voluto organizzare una festa in loro onore, in ricordo dei momenti piacevoli o dolorosi condivisi: particolare bizzarro, aveva chiesto loro di presentarsi in alta uniforme.
Adesso Isshin e Ichigo si stavano dirigendo verso la residenza del sudafricano nel centro di Londra, e più di un passante li aveva fermati per chiedere loro se si stessero recando a una festa in maschera o se fossero appena tornati dal fronte: il colonnello fra sé e sé aveva imprecato contro l’assurda richiesta del professore (perché questi geni devono sempre essere mezzi matti?) e aveva tirato dritto.
Da un viottolo laterale i due videro fuoriuscire un individuo massiccio dall’aspetto lugubre e familiare, e furono sorpresi di incontrare Kenpachi elegante come non mai: era una delle sue uniformi di prima della guerra, aveva spiegato, aggiungendo che la pace iniziava ad annoiarlo e che presto o tardi avrebbe dovuto inventarsi un passatempo alternativo al servizio militare.
Mentre il polacco parlava in tono infervorato, Ichigo notò che piccole lacrime gli si stavano addensando nell’occhio sano, e provò un’immensa pena per lui: sapeva bene che ormai, quasi sicuramente, la Polonia sarebbe stata di nuovo sacrificata agli interessi delle grandi potenze e ridotta a stato satellite dell’Urss per moderare le ingenti pretese di Stalin al tavolo della pace; era difficile
prevedere come avrebbe reagito un carattere fiero e indomito come Kenpachi ad una situazione del genere.
Fecero l’ultimo pezzo di strada assieme, ed una volta giunti all’indirizzo loro indicato scorsero gli altri cinque commilitoni, anch’essi in divisa, che parlavano fra loro, oggetto ogni tanto degli sguardi stupiti  della gente di passaggio; nell’intravedere Renji, con l’insegna della stella rossa bene in vista sul berretto, il polacco si arrestò e strinse i pugni fremente di rabbia, quindi si impose un minimo di autocontrollo e proseguì.
Avvicinandosi, poterono udire Byakuya che stava spiegando agli altri come, una volta tornato in patria, avrebbe lottato con tutto se stesso per far sì che la dinastia regnante dei Savoia, fin troppo compromessa con il fascismo, lasciasse il potere, e che l’Italia potesse finalmente diventare una repubblica democratica: “Ma non sarà facile, comunque. L’Italia è a pezzi, è piena di rovine e sfollati, e dobbiamo ricostruire tutto da capo. Comunisti, cattolici, monarchici, liberali … Per un po’ dovremo mettere da parte i rancori e rimboccarci le maniche, o non ne usciremo”.
“Oh, guardate chi arriva! Buongiorno colonnello! Buongiorno Ichigo!” esclamò bonario Shunsui, con quell’accento australiano così caratteristico di cui tutti sapevano già che avrebbero sentito la mancanza: era triste pensare che di lì a non molto tempo si sarebbero separati, ed ognuno sarebbe tornato al proprio paese e alle proprie incombenze, ma tutte le cose, belle o brutte, hanno una fine.
“Ben trovati ragazzi! Forza, entriamo o qui penseranno che sia Carnevale in anticipo se continuano a vederci” li esortò ridendo Isshin, e Ukitake bussò alla porta: “C’è nessuno? Professore?”.
La porta si spalancò in meni che non si dica ed apparve lo scienziato, i capelli biondi scompigliati e l’aspetto piuttosto trasandato, senza il solito camice, che con vigore strinse la mano al francese e rispose: “Sono qua, al vostro servizio! Vedrete, vi piacerà la festicciola!”.
Li condusse in un salotto spoglio, dove l’unica cosa che potesse vagamente far pensare ad un’occasione di divertimento erano alcuni vassoi contenenti sandwich e delle bottiglie di birra e vino posati su un tavolo; “Festa?! Il tipico umorismo scadente degli scienziati” sentenziò acido Stark, quindi afferrò un panino ed iniziò a sbocconcellarlo: “Non male però!”.
Mentre tutti prendevano a dare morsi e versarsi bicchieri, una voce proveniente da un corridoio vicino risuonò: “Sì, sono proprio deliziosi quei panini! Prego, mangiate pure!”.
Riconoscendola, tutti si girarono, e dal vano emerse la figura grassoccia di Winston Churchill; cosa ci faceva lì?
Lo statista, che anche dopo aver perso in modo del tutto inaspettato le recenti elezioni a favore dei Laburisti conservava intatto il proprio prestigio personale e la propria influenza politica, si accese un sigaro e prevenne le loro stupefatte domande: “Devo confessarvi che l’idea del professore di tenere un party in vostro onore era genuina, e che io me ne sono appropriato senza ritegno. Volevo aver modo di parlarvi a quattr’occhi, dato che la vostra bellissima esperienza insieme sta per terminare ed io stesso non potrò più incontrarvi”.
Senza perdere tempo, il politico si recò da ognuno di loro per stringergli la mano, accompagnando l’atto con uno dei suoi tipici commenti al vetriolo: “Ed ora, colonnello Kurosaki, vi consiglio di prendervi una vacanza! Ah, colonnello Kyoraku, quando tornate giù ricordatevi di salutarmi i canguri! Maggiore Zaraki, che mondo sarà senza crucchi? Non ditelo a me. Tenente colonnello Ukitake, il generale De Gaulle si è interessato personalmente alle vostre vicende: vedrete, quando tornerete a Parigi vi aspetta una bella sorpesa! Anche a voi Babbo Natale porterà qualcosa maggiore Stark, o forse dovrei dire colonnello? Signor Kuchiki, dovremmo brindare per celebrare i buoni rapporti che si sono ristabiliti fra le nostre nazioni, vi va? Tenente Abarai, il segretario generale non faceva che chiedermi di voi a Jalta: per un po’ sarete al sicuro dalle purghe, ve l’assicuro”.
Per ultimo raggiunse Ichigo, e mentre si stringevano le mani gli chiese: “E tu, figliolo, cosa vuoi fare della tua vita? Io sono vecchio ormai, ma tu hai ancora tempo per decidere. Ti piacerebbe rimanere nell’Esercito? Le paghe sono ottime, e sono certo che faresti rapidamente carriera!”.
Il giovane arrossì, e replicò come se dovesse vergognarsi: “Ehm … Non sono molto sicuro. Prima della guerra stavo studiando Ingegneria al college, e mi piacerebbe riprendere appena possibile”.
Churchill scoppiò a ridere e gli assestò una pacca sulla spalla: “Ben detto Ichigo, abbiamo bisogno di ingegneri per risollevarci dalle macerie! Non preoccuparti, anche quello è un bel mestiere!”.
Urahara li interrupe: “Mr. Churchill, non pensate che sia ora di far intervenire il nostro ospite speciale? Ha molto da fare, e non vorrei trattenerlo inutilmente …”.
“Sicuro! Sicuro! Portatelo qui!” rispose l’ex premier, quindi si voltò a spiegare: “C’è un altro pezzo grosso che vuole conoscervi, oggi. No, state tranquilli, non è Attlee (il leader del Partito laburista vincitore delle elezioni nel 1945 nda): quello è bene che se ne stia a Downing Street a lavorare!”.
Una simile affermazione li gettò nel dubbio, e subito iniziarono ad arrovellarsi su chi potesse essere questo soggetto misterioso: quando il professore sudafricano fu di ritorno, non cedettero ai propri occhi.
Assieme a lui, scortato da un paio di Coldstream Guards con i loro colbacchi e fucili, c’era un uomo austero di mezza età, abbigliato con una divisa di gala piena di medagllie, un berretto dal taglio militare e la sciabola al fianco; nientepopodimeno che Giorgio VI, re di Gran Bretagna, Irlanda, Canada, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda e imperatore delle Indie (ancora per poco).
Tutti ed otto si irrigidirono fulminei nel saluto militare, e quasi non osavano fissare il monarca in volto, tanta era l’autorità che promanava dalla sua persona.
“Riposo, soldati” ordinò con voce calma e suadente il re, quindi, dopo essersi scambiato uno sguardo d’intesa con Churchill, iniziò a parlare: “Per tutta la durata di questo lungo e atroce conflitto avete rappresentato un faro di speranza per tutto il mondo libero. Anche durante i momenti più bui, quando tutto sembrava perduto e molti pensavano al disastro e alla resa, le vostre gesta mi hanno convinto a non demordere, e sono convinto che in ciò il sovrano debba fungere da esempio per tutto il suo popolo. Insieme abbiamo combattuto questa guerra, e insieme l’abbiamo vinta. Se di tutti i milioni di uomini che hanno vestito le uniformi e imbracciato le armi per la patria contro la tirannia, sacrificando la vita, dovessi indicare i più valorosi, sceglierei voi. Provvederò affinché nelle vostre nazioni il vostro valore sia riconosciuto come merita, e vi siano attribuiti i giusti onori”.
Calò un silenzio tombale, pieno di solennità, ma ad un certo punto a Ukitake scappò da balbettare: “G-g-grazie V-Vostra M-M-Maestà. S-siete m-molto g-gentile. D-dio vi b-benedica”.
“Grazie a voi, tenente colonnello” replicò sorridendo il sovrano, quindi soggiunse: “Intanto, rimedierò io: quest’oggi vi conferirò la Victoria Cross, una delle nostre più elevate onorificenze”.
Urahara gli si avvicinò, reggendo fra le mani una scatoletta piena di medaglie, e lo stesso Giorgio VI le appuntò sul petto di ognuno, facendo seguire una calorosa stretta di mano.
“Ci pensi? Sono stato appena decorato da un re! Chi l’avrebbe mai detto!” esclamò entusiasta Kenpachi, sfoggiando la medaglia, al che Renji ribatté fissando la propria e sentenziando: “Puà! Noi non abbiamo re!”; non poteva però fare a meno di stupirsi di come un personaggio così potente potesse mischiarsi ai suoi sottoposti in modo così affabile e spontaneo, così diverso dalla coltre di gelido sospetto di cui si circondava Stalin.
Il monarca, terminata la cerimonia, disse: “Non ho ancora finito! Colonnello Kurosaki, in ginocchio!”.
Isshin ubbidì d’istinto, ma fu solo quando il sovrano sguainò la spada e gli si appropinquò che comprese e cercò di schermirsi imbarazzato: “Vostra Altezza, io … Io sono solo un semplice servitore! Non lo merito!”.
Il re sorrise e rispose: “Sciocchezze, di tutti coloro che ho nominato voi siete probabilmente il più degno”, quindi gli toccò la spalla con la lama e scandì ad alta voce: “Per il potere conferitomi io, Giorgio VI, re di Gran Bretagna e Irlanda, sovrano del Commonwealth e imperatore delle Indie, vi nomino cavaliere per i servigi resi alla Corona. Ora alzatevi, Sir Isshin Kurosaki”.
Il colonnello obbedì, gli occhi colmi di lucciconi di commozione, quindi il sovrano conferì lo stesso onore a Shunsui ed Ichigo; l’australiano, dopo essersi rimesso in piedi, continuò a fissare il proprio
re come se si trattasse di uno strano animale, mentre il giovane dovette soffocare un grosso groppo in gola per non esplodere in un pianto dirotto.
“Purtroppo- aggiunse Giorgio vi- non posso fare cavalieri anche voialtri perché non siete miei sudditi, ma nel cuore consideratevi tali. Da questo momento in poi, siete congedati con onore. La Gran Bretagna tutta vi è grata, ed io vi sono obbligato”.
Tutti ed otto gli eroi scelti da Churchill fecero il saluto, un bagliore comune negli occhi.
La guerra era davvero finita.
 
In seguito, le vicende dei membri del commando si divisero, ma non per questo cessarono di ricordarsi di quegli eventi tanto tragici che avevano stretto un vincolo indissolubile fra loro.
Ecco cosa accadde loro nel resto delle loro vite:
 
·         Isshin Kurosaki continuò a prestare servizio nell’Esercito inglese, ora con il grado di maggiore generale, e fu impiegato in Palestina e in Malesia, dove rimase gravemente ferito in un attacco di rivoltosi, fatto che lo convinse da allora in poi a limitarsi ai lavori d’ufficio
finché non fu messo a riposo. Morì nel 1977, all’età di 82 anni, nella sua residenza sull’Isola di Man.
·         Suo figlio Ichigo, come annunciato, decise di tornare al college, dove si laureò in Ingegneria ed esercitò la professione per molti anni. Si sposò ed ebbe una vita felice e tranquilla. Morì nel 2009, ottantanovenne, a Londra.
·         Nel 1945 Byakuya poté finalmente tornare in Italia dopo un esilio più che ventennale e trovò impiego come giornalista. Contemporaneamente esercitò un’intensa attività politica nella sua Torino e tentò varie volte di farsi eleggere in Parlamento nelle file del Partito Repubblicano, uscendone sempre sconfitto. Si spense a Napoli, dove trascorse gli ultimi anni di vita, nel 1993, a 77 anni.
·         Dopo il termine delle ostilità, rifiutandosi di rientrare nella Polonia ormai ridotta a Stato satellite dell’Urss, Kenpachi fu contattato dai servizi segreti americani e svolse varie missioni per loro oltre la Cortina di ferro. Fu rinvenuto morto in una strada di Budapest, nel 1952, all’età di 54 anni, senza che venisse mai accertato se si era ucciso gettandosi dal balcone della propria stanza d’albergo o se era stato vittima di un omicidio.
·         Ukitake rimase nelle file delle Forze armate francesi e, divenuto colonnello, partecipò alla Guerra d’Indocina. Morì  nel 1953 in Laos, all’età di 48 anni, in un campo di prigionia degli insorti.
·         Shunsui, ora divenuto brigadiere  generale dell’Australian Army, ebbe incarichi prestigiosi durante l’occupazione alleata del Giappone e la Guerra di Corea. Si spense settantaduenne nel 1968, nella propria dimora di Adelaide, in profondo disaccordo con la decisione del proprio Paese di intervenire in sostegno degli Stati Uniti nel conflitto vietnamita.
·         Coyote Stark fu elevato per i propri meriti di guerra al rango di colonnello, e partecipò con coraggio e distinzione alle operazioni in Corea e Vietnam. Morì novantaquattrenne nel 2006, dopo essersi ritirato con il grado di tenente generale e aver ricevuto una gran quantità di decorazioni nel corso della propria lunghissima carriera.
·         Renji, promosso maggiore e decorato come Eroe dell’Unione Soivietica, per lunghi anni ebbe il comando di unità stanziate in Asia Centrale o nei Paesi del Patto di Varsavia. Dopo aver preso parte all’invasione dell’Ungheria nel 1956 e ai brevi scontri di confine con la
Cina nel 1969, ritornò in azione durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan, durante la quale rimase ucciso nel 1980. Aveva 62 anni all’epoca, ed era salito fino al grado di tenente generale.
·         Terminata la guerra, Urahara ritornò in Sudafrica, dove continuò la propria carriera di brillante inventore, purtroppo senza grande successo economico. Dopo aver preso le distanze per molti decenni dalla politica di apartheidportata avanti dalle autorità sudafricane, morì all’età di 91 anni nel 1995, a Pretoria, dopo aver avuto la gioia di assistere alle elezioni vinte da Nelson Mandela.
·         Quanto a Winston Churchill, pur perdendo in modo inatteso le elezioni del 1945, rimae una figura di primissimo piano del panorama politico inglese e mondiale. Dopo aver di nuovo capeggiato il Governo dal 1951 al 1955, assistendo all’ascesa al trono di Elisabetta II, e aver ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1953 grazie al saggio storico La Seconda Guerra Mondiale, passò a miglior vita nel 1965, a 90 anni.

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