Oltre a quattro mura ho riscoperto me stessa

di Annabelscrive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Qualcosa di inaspettato ***
Capitolo 2: *** Il ragazzo della cella affianco ***
Capitolo 3: *** Il risveglio ***
Capitolo 4: *** La Prima Prova ***
Capitolo 5: *** Guarda in Alto ***



Capitolo 1
*** Qualcosa di inaspettato ***


E fuori, l’acqua bagnava le pareti della mia finestra.

Scorreva giù, senza fermarsi, odio i vetri bagnati, per me è come se mancasse qualcosa.

E vederla andar giù tra i minuscoli vetri  di quella  microscopica cella mi intristiva ancora di più.

Cercavo costantemente di ritornare alla mia quotidianità, mentre mi prendevo le ginocchia  avvolgendole con le braccia.
Ricordavo tutto di ciò che mi era successo prima di ritrovarmi qui.

L’estate oramai,è quasi finita, e con quel ticchettio delle gocce dal mio davanzale riuscivo  già  a sentire tutto ciò che questo autunno aveva da riservarmi.

Onestamente, non odio, la pioggia, anzi, essa rende tutto così, fresco, ma d’altra parte detesto le cose bagnate.
Sebbene tutto questo ho un ribrezzo, ancora, a portare l’ombrello.

“Piuttosto arrivo zuppa a casa, ma l’ombrello non lo uso”.

Il sol pensiero di dover ripararmi da qualcosa di naturale mi faceva riflettere, “ se la pioggia fa parte del nostro universo, non ci potrà mai fare del male, allora perché ci dobbiamo riparare da qualcosa che fa parte di noi?”

Mi giravo di tanto in tanto per vedere se quel ticchettio era finito, quest’ultimo si sentiva di meno. 

“Tra poco finisce di piovere, era solo una pioggia passeggera!”

Aveva smesso.

Pensai, che per me fosse tempo per uscire.
Mi vestii , con il mio solito ottimismo, quindi nonostante  fino a pochi istanti fa ci fosse una pioggia così forte, indossai pantaloncini corti e canottiera.
Purtroppo niente da fare per le scarpe, infatti le indossai chiuse.Ovviamente non mi portai l’ombrello.

Preparai, la mia fedele borsa della Eastpak, dove inserii il portafoglio.

Cercai disperatamente un paio di cuffie, non potevo sapere quanto sarei stata fuori, e il mio mondo è nulla senza un po’ di musica.

Di certo il mio ordine non mi aiutò, ma  ricordai  dove li avevo messe dopo l’ultima volta,infatti le trovai dopo solo pochi minuti dalla ricerca.

Uscì, con la borsetta tracolla, e il cellulare nella mano.

Chiusi  la porta,la mia eleganza, non ha limiti, e quindi finì, come al solito per sbatterla.

Indosso le cuffie,appena entrata in ascensore.

Misi musica casuale, ma alla fine finisco sempre per cambiare e sentire le solite 3- 4 canzoni per tutta la durata della mia passeggiata.

Questa volta il mio cellulare, mi propose come prima canzone, l’amore è un altra cosa, di Arisa.

Mi intristisce così tanto  quella canzone, ma la purezza della voce che ha lei, ha un effetto peggio della droga così, misi immediatamente la ripetizione automatica.

Ho intenzione di ascoltarla per un po’.

Nel frattempo  sono già metà del mio percorso abituale.

Quella “droga” mi fa cantare, adoro cantare.

Non mi sono mai fatti tanti problemi a cantare con le cuffie, nessuno mi ha mai guardato e ascoltato per più di tanto. Nessuno per fortuna mi ha mai detto: “Guarda sei stonata smettila, subito!”.

Abbasso la voce quando sono troppo vicina a una persona, ma  non smetto mai.
Arrivai alla mia prima destinazione: Libreria.

Sinceramente, non so bene perché mi piace così tanto andarci, dato che in verità di libri da leggere ne ho.

Ma in realtà credo che sia per quell’odore di pagine nuove, e la cordialità dei commessi del negozio.

Finisco sempre per soffermarmi dalla parte artistica, e dai libri di viaggio.

Sfogliai  un libro, e mi soffermai su un immagine.
Guernica di Pablo Picasso così c’era scritto sulla didascalia di quella pagina.
 La  osservai per un po’ riflettei sulla vita di quel artista, e pensai che mi piacerebbe anche a me disegnare in quel modo.

Mi spostai verso il reparto viaggi,o Lonely Planet, come la chiamo io.

Presi uno di quei libri, così pieni di energia e che mi fanno ancora sognare.

Ricordai  i viaggi già fatti e quelli che avrei fatto in futuro e quelli che mi prometto di fare.

In verità mi converrebbe dire dove non vorrei andare dato che, sono così poche le città e i paesi, che per ora non mi piacciono. Sono sicura pero che cambierà la mia idea prima o poi.

Ancora con la stessa canzone nell’orecchio girai ancora un po’, e mi arrestai sui libri di Paulo Coelho, lessi un pezzo della trama dell’ultimo libro: Aleph.

L’unico che manca a casa mia. Mia madre li ha tutti.

Devo ammetterlo,purtroppo,ultimamente non ho letto tanto, ma Coelho mi ha fatto riprendere l’ossessione per la lettura grazie a quei due capolavori. Entrambi, mi hanno portato a sorridere, e a vivere l’avventura del protagonista.

E Aleph, sembra proprio un richiamo del cammino di Santiago, e dell’Alchimista.

Credo che prima  o poi lo comprerò, con la scusa, regalo per mia madre.

Sfogliai  qualche  altro libro in giro.

Guardai  attorno e vidi   i libri di Arthur Block, lo scrittore che a portato su carta le leggi di Murphy.

Odio quel personaggio, non in senso negativo, con la sua probabilità di sfortuna, credo che nella quotidianità abbia sempre avuto ragione.

In fondo mica le cose fanno sempre male, ma la nostra suggestione dalle leggi, ci fanno pensare che tutto va sempre storto.

Quest’oggi guardai il secondo libro delle leggi di Murphy.

A furia di andare in libreria, ho finito di girare tutte le pagine del primo. 

La canzone oramai mi aveva stufata e decisi di cambiarla 

Disattivai la ripetizione automatica e schiacciai il tasto, seguente.

Chissà che altra canzone mi avrebbe portato il mio cellulare, qualunque essa fosse ero già con il tasto cambio.
Ma non servi. 

Mi propose un’altra canzone che mi piace tanto, Princess of China dei Coldplay e Rihanna.

Pensai: “Per un po’ ascolterò questa”

E di nuovo con la ripetizione automatica attiva.

Nel frattempo mi ero già incamminata verso il mio secondo obbiettivo.

Il negozio della Brisso, amo quel negozio.

Amo quei capi d’abbigliamento, così morbidi, e amo anche il profumo che quel negozio emana, e un po’ come una seconda droga.

Purtroppo finisco sempre per passare e non comprare niente, i prezzi sono un po’ troppo altri per il mio budget. E quindi fantastico un po’ davanti alla vetrina.

Me ne andai.

Osservai un po’ il cielo, completamente sereno, senza una nuvola.

E pensare che fino a poche ore fa diluviava.

Come un fulmine.

Due, anzi tre uomini con il passamontagna entrano nella negozio, mi afferrano  e urlano:
“Questa è una rapina, se non volete vedere questa ragazza morire dateci tutto ciò che avete”.

Mi caddero le cuffie dalle orecchie, rimasi immobile.

La gente che si ritrovava li si mise subito a terra, mani sulla nuca e faccia giù.

In quegli attimi ricordo ancora il mio cuore che batteva all’impazzata, le vene pulsare sul coltello freddo appoggiato sul mio collo.

La negoziante non si muoveva.

Capii che erano già abbastanza spazientiti, infatti iniziò a fare più pressione sul  mio collo.

Cadde una goccia di sangue e urlai.

Immediatamente un’altro mi tappò la bocca.

Ricordo ancora la faccia della commessa, occhi grande, faccia pallida, e sudore che usciva dalla fronte.

Un uomo urlo: “ Allora svelta, metti tutto dentro a questa borsa!”

La donna senza neanche guardare  tiro fuori tutti i soldi, e con gli occhi fissi davanti a lei, li mise tutti dentro la sacca.

Pensavo che a quel punto mi avrebbero lasciato andare.
Uno di loro tirò fuori una pistola e uccise tre persone che si trovavano li.

Degli innocenti a dirla tutta.

Lo stesso uomo mi disse: “ Se non vuoi fare la fine di questi poveretti, ti conviene seguirci!”.

Io non sapevo ne che dire ne che fare, forse alla fine annui.

Prima di uscire uccisero anche la commessa.

Avevo capito io era l’unica testimone.

Perché allora non uccidermi?

Mi voltai indietro mentre uno di loro con il coltello puntato sulla schiena mi faceva incamminare più in là.

Camminavo e piangevo. 

Era la prima volta che vedevo veramente delle persone morire.

Non era come lo vedevo tutti i giorni a CSI.

 L’ultimo della fila si tolse la maschera e, si fece scendere una lacrima.

A passo svelto lasciammo il luogo.

 

 

Guardai un po’ attorno a me.

Per la prima volta dopo un ora decisi di osservare il posto dove mi trovavo rinchiusa.

Fino ad ora ero troppo immersa nei miei pensieri che non mi  accorsi  che accanto a me si trovavano altre due celle. 

Quel luogo presentava due enormi vetrate, non curate da tempo.

Infatti avevano già fatto la muffa.

Un odore sgradevole, probabilmente degli avanzi di cibo di altra gente,un po’ come qualcosa di putrefatto unito alla naftalina, mi salì al naso.

Immaginai fosse per cacciare via i topi, anche se fino a quel momento ne avevo visti a bizzeffe.

Probabilmente loro avevano fatto scaturire l’istinto di sopravvivenza abituandosi per fino all’insopportabile odore della naftalina.

Fissai le sbarre della mia cella, mi parvero vecchie ed arrugginite.

Le sfiorai, erano persino unte.

“Che schifo” pensai.

Credei   che fosse per il sudore della gente che si trovava qui, per tutti i disperati tentativi di chiedere aiuto e picchiare sulle sbarre.

Io non le toccai.

Solo il pensiero di dover toccare quei pezzi di metallo mi faceva rabbrividire.

Il pavimento munito di assi di legno un po’ dissestate tra di loro.

Osservandole più da vicino mi accorsi che presentavano  molti chiodi e dei buchi vuoti.

Qualche tentativo di fuga,sicuramente!

Al centro della cella  si trovava il letto.

Dava  l’idea di qualcosa di vecchio, e che stava cadendo a pezzi.

Rivestito con fodere blu, e possedeva un cuscino tutto sfilacciato.

Ed emanava una puzza terribile.

Rabbrividì al pensiero di doverci dormire.

Nella stanza si trova quel che rimaneva di un comodino in legno, mangiato completamente dai tarli.

Sopra si trovava una sveglia digitale, con dei numeri enormi.

L’avrebbe potuta leggere per fino un cieco.

Mi misi di nuovo sull’unico luogo pulito della stanza: la finestra.

Osservai i vetri bagnati e continuai a riflettere su ciò che era successo quel giorno.

Arrivammo alla macchina,salii e mi colpirono con un oggetto, mi bendarono.

Mi presero la mia fedele borsa....

Non ricordo nient’altro.

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Capitolo 2
*** Il ragazzo della cella affianco ***


 

" L'ho provato  pure io”.

In quell’istante, non sapevo se era solo la mia immaginazione oppure c’era qualcun altro in quella stanza.

Mi voltai, e vidi una sagoma vicino alla sbarra della cella affianco.

Urlai.

“Zitta!, Non vorrai mica farci scoprire!”.

MI calmai, anche se il mio cuore continuava a battere all’impazzata.

Mi avvicinai alle sbarre, e senza toccarle e  chiesi: “ Chi sei?”

“Per ora non ti interessa chi sono io, l’unica cosa che devi sapere che come te, io non so ancora perché mi trovi qui, ma che so quel che stai provando” mi disse lui.

“Perché?” Gli domandai.
Mentre mi spiegava cercavo di captare, che tipo di uomo era.

L’oscurità delle celle, non mi fece capire molto di lui.

Ricordo solo che era coperto di fuliggine,  e indossava abiti scuri.

Ma forse si sbagliavo riguardo a quest’ultimi dato che non vedevo a un palmo dal naso

Mi raccontò che come me, lui, si trovava per caso li, che cercava quotidianamente di tornare ai giorni prima di essere qui.

“Da quanto tempo sei qui rinchiuso?”domandai.

“ 5 giorni”.

Si mise a piangere, io non sapevo cosa fare, avrei voluto tenergli la mano per consolarlo ma purtroppo, non avevo il coraggio di toccare la cella.

Mi sentii una codarda.

Gli domandai il suo nome, e se non erro si chiamava: Antony.

Ero pronta a rispondere con il mio nome, ma non mi fece la domanda che speravo.

“Quanti anni hai?” mi domandò

Diciassette.

“Pure io”.

Rimasi stupita, a tal punto di domandargli la stessa domanda per ben cinque volte.

Dopo la quinta conferma, finalmente me ne feci una ragione.

Di un tratto mi si accede una lampadina.

“ Lui si mise a piangere oggi pomeriggio!” Pensai.

Avrei voluto chiederglielo, ma non lo feci.

Lui mi fissò,mi osservò da cima a fondo, e mi domandò: “ Vuoi sapere la mia storia vero?”

Io annui.

Era come se avesse letto la mia mente, come se sapesse quali ragionamenti stessi facendo, e cosa avrei voluto domandargli.

“Cinque giorni fa” Incomincio lui.

Io era attenta, e pronta ad assaporare ogni parola che usciva dalla sua bocca.

Mi posizionai,più comoda che potevo.
Immaginai fosse una storia molto lunga.

“Mi trovavo, a fare la mia solita passeggiata quotidiana come ogni giorno passavo davanti all’Agorà....”

Si interruppe il racconto,pianse, di nuovo.

Cercai di tirargli su il morale, consolandolo un po’.

“ Chissà che orribili cose gli sono accadute!” Pensavo tra me e me.

La curiosità prevalse, e quindi dopo dieci minuti di attesa, dove io lo guardavo senza far nulla, chiesi di continuare la sua storia.

Finalmente si calmò e prosegui: “ Come al solito all’Agorà mi ero fermato, per vedere qualche libro  di gialli, e la parte riguardante la cucina.”
“Ricordo ogni dettaglio di quel giorno, e come se fosse successo tre secondi fa” commentò

Ero tutto orecchie, sapevo che qualcosa di terribile stava per accadere.

Continuò dicendomi che uscito dalla libreria era andato verso  la gelateria il Polipo, per prendersi il suo solito gelato: Nocciola e Caffè.

“ E’ qui che è successo..” sussurrò.

“Come?” gli chiesi io, attenta alla sua risposta.

“Poco prima dell’entrata due uomini mi afferrarono, almeno penso, mi presero come ostaggio e chiesero al commesso di dare tutti i soldi che avevano..”

Mi sembrava di sentire la mia storia, e di riviverla mentre lui raccontava  la sua.

“ Successivamente uccisero 4 persone che  erano li, e solo alla fine  uccisero il  negoziante. Io rimasi stupito di questo fatto, cercai di liberarmi, ma non ottenni niente a parte una lacerazione al braccio.” continuò.

“ Ecco te la mostro”.

Mise il braccio, dove c’era più luce possibile.

Osservai quello squarcio che si estendeva dal gomito fino alla spalla, ancora sanguinava.

“ E non ti hanno mendicato?”chiesi perplessa della cosa.

“ No, loro non lo fanno mai, se vuoi sopravvivere devi sempre sapertela cavare”

Ammutolì.

Pensai, che per me era la fine, non sapevo nemmeno chi fossero e perché proprio io, o se ero una scelta a caso.

Il suo racconto termino come il mio: lo legarono, lo colpirono, e lo portarono qui.

“ Ma tu sai chi sono?” gli domandai, sperando in una risposta che mi togliesse ogni dubbio.

“ Non lo so.”

Non ci potevo credere, era cinque giorni che era qui ed ancora non sapeva chi fossero.

“ Sono dei professionisti” immaginai.

Commentò dicendomi che quando vengono a portare da mangiare o per svegliarti , indossano sempre il passamontagna.

Non ce la facevo più a tenermi quel dubbio in testa, così alla fine  gli chiesi se pure lui era presente durante la rapina alla Brisso.

 Stava per iniziare quando la sveglia suonò

Segnava le ore 19:30.

“ E’ l’ora della cena, presto allontanati da queste sbarre, non ci possiamo far scoprire!”

Avrei voluto chiedergli perché, ma obbedì senza esitazione.

Poco dopo, si senti aprire la porta.

Entrò una luce pazzesca. Io cercai di osservare, meglio il luogo illuminato: vidi solo tele di ragno, topi e vecchi letti ammucchiati.
La porta fatta in legno, e mangiata dai tarli.

Da uno spiraglio riuscì ad osservare il corridoio.

Sembrava molto più pulito e presentava molte luci sul soffitto, era di colore giallo. 

Nel frattempo un uomo, incappucciato stava percorrendo il corridoio lunghe le celle.

Arrivato alla mia cella apri uno sportello sotto dalla porta e ci fece passare sotto un piatto.

Del brodo e un po’ di pane.

A me non attraeva per niente: era di colore giallo vomito, e il pane era duro come un mattone, ma a quanto pare era assai gradito da topi e mosche che subito iniziarono a girargli intorno.

Pensavo che era meglio non mangiarli, ma invece ,mi feci coraggio cacciai via le belve e assaggiai un po di quel brodo.

Presi il cucchiaio in mano, e lo riempì  con quella sostanza liquida che loro chiamavano brodo, lo portai alla bocca.

Neanche il tempo di gustarlo e già  l’avevo sputato.

Mi feci coraggio e cercai di berne più che potevo.

Era una cosa rivoltante.

Mentre io, lottavo per cercare di mangiare quella schifezza la guardia della cella, si stava godendo un bel pollo, e delle patate.

Non riuscivo a sopportare questa differenza, e sopratutto  del fatto che ci toccava mangiare differente, lancia il piatto attraverso le sbarre.

Lui non reagì, probabilmente non era stata la prima volta, che accadeva.

Rimasi colpita dal suo comportamento.

La sveglia suono di nuovo: 21:00

Era passata più di un ora dall’inizio della cena, oppure quell’orologio correva un po’ troppo?

Portarono via i rimasugli rimasti e spensero le luci.

Venne buio.

“Ed ora che si fa?”chiesi ad Antony

“ Dormiamo.” mi rispose.

Presi il lenzuolo dal letto, e mi posizionai vicino alla finestra.

Ci misi parecchio ad addormentarmi ma alla fine ci riuscì.

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Capitolo 3
*** Il risveglio ***


Suonò la sveglia.
Apri leggermente le palpebre, per vedere l’ora: erano le 6:30.
Con la coda dell’occhio vidi, prima di girarmi dall’altra parte, l’altro carcerato che si vestiva di fretta.
Me ne fregai.
Ed in pochi secondi mi riaddormentati.

Passarono pochi minuti, prima che venni svegliata di nuovo.
Stavolta, però, non fu la sveglia a farlo, ma bensì Antony che urlo a squarciagola:” Alzati!”.
Con la forza degli addominali, mi tirai su, mi girai, misi le gambe a terra.
Sotto di esse c’erano delle ciabatte di fodera scura, un po’ mal prese.
Le indossai, giusto per arrivare fino alla sedia dove erano stati messi i vestiti.
Camminare per quel pavimento a piedi nudi, non mi esaltava molto dato che sembrava unto oltremodo.
Sfilai la mia veste da notte e la posai sopra la sedia.
Presi la maglia a maniche corte grigie con uno stemma con scritto 

OFE.
Odorava di grano,di erba tagliata.
Infilai anche i pantaloni, che odoravano di fumo, e pagine di giornale.
Erano leggermente larghi per me, per fortuna ci avevano già fornito una cintura di cuoio marrone che indossai all’istante.

Nel frattempo Antony si stava rifacendo il letto così, lo osservai per provarlo a fare uguale.

Presi il lenzuolo e lo posizionai sopra il letto, creai uno svolto di qualche centimetro, cinque per la precisione, e infilai l’eccesso sotto il letto
Inserii il cuscino, e misi il copriletto sopra.
Mi sembrava di rivivere una scena di Full Metal Jacket.

Diedi una battuta al letto picchiandoci forte: usci un sacco di polvere.
Il risultato era abbastanza buono, sapendo come solitamente lo facevo a casa mia.

Speravo con tutto il cuore che non avrebbero detto nulla.
Mi voltai per vedere a che punto era Antony.
Incrociai il suo sguardo e con un cenno mi fece capire che era tempo  per uscire.

Mi infilai quella specie di scarpe.
Nere, leggermente alte, e sporche di terra.
“ Lavare la roba, no?” commentai tra me e me.
Presi la felpa ed usci.
Per la prima volta non avevo la mia musica nella mano, e non so fino a quanto tempo sarei riuscita a sopportare questa cosa.
Mi toccai le tasche per vedere se magari me l’avevano reinserito, ma nulla.
Sbattei la porta della cella.
E con uno sguardo basso, e a passo lungo lasciai quel luogo.
Il mio amico si ritrovava poco più avanti, infatti lo raggiunsi dopo poco.
“Buongiorno!”
“Giorno!” rispose lui con voce bassa.
“ Qualcosa che non va?”
“Nulla, lasciami in pace!” Disse alzando leggermente il timbro della voce.
Continuai ad insistere“Ma come sarebbe, non vuoi dirmi che ti succede?”

“No, ora non possiamo parlare!”
“ Ma poi me lo dirai?”
“ Si, ma ora non possiamo parlare!”

Annui.

In lui quel giorno c’era qualcosa che non andava.
Non è che si fosse dimostrato un gran chiacchierone  ma fino ad adesso non aveva mai alzato cosi la voce.

Mi spaventava.
Mentre camminavo notavo che ogni persona che incontravo indossava una maschera.
Ripensai alle parole di Antony e del fatto che non aveva mai visto uno di loro senza di essa.
Arrivai a destinazione: la mensa.

Alzai la testa dato che fino a quel momento ero stata a guardarmi i miei piedi .

Davanti a me un luogo contrariamente pulito.
Odorava di  fiori di pesco e di pino e nell’aria si era aggiunto un piccolissimo aroma di caffè.
Presentava due enormi vetrate dove entrava tutta la luce.

Il parquè in legno era continuamente pulito da delle donne, che spazzolavano con il sorriso in faccia.
I tavoli erano già forniti di qualsiasi ben di Dio: da fette biscottate a biscotti.

“Sogno o son desta?” pensai.
Non mi pareva possibile che dopo aver visto lo squallore della camera dove “vivevo”, quel luogo potesse addirittura profumare di pesco!

Pensavo di essere diventata matta.
Eppure era passato cosi poco tempo da quando ero entrata lì dentro.
Nel frattempo un uomo mi afferrò al braccio.
Strattone,e in un attimo avevo cambiato la mia postazione.

L’uomo aveva una grande mano, e stringeva cosi forte che la mia era divenuta tutta rossa.
Cercai ti fargli allentare la presa, ma lui ogni volta che spiaccicavo parola me la stringeva ancora di più. Avrei voluto urlare, ma credo che se l’avessi fatto probabilmente me l’avrebbe addirittura rotta.
Confusione.
Ecco cosa c’era nella mia testa, ancora colpita per il posto, ma nello stesso tempo terrorizzata per quell’uomo del quale riuscivo solo a vedere la mano.
“Hai immaginato, vero?”
La sua voce era, assai calma ma la sua domanda confusa.

“Cosa dovrei aver immaginato?”
“Che questo fosse il paradiso, che potessi mangiare quel che volevi!”Rispose lui, scherzando un po.
Cercai di rispondere nella maniera più corretta che conoscevo:

“ No, signore pensavo solo di essere diventata matta!”
Lui mi guardo, sorrise e disse.
“E’ un buon inizio!”
“Ora, siediti e mangia,senza fare domande!”.
Mi accompagnò nel tavolo più vicino, e sorridendo si allontanò.
Massaggiandomi la mano mi voltai, per sorridergli.
Avrei voluto sapere qualcosa di più si di lui, e vederlo senza maschera!
Quelle fottute maschere!
Erano loro che, fino ad ora avevano causato tutte quelle  domande che meritavano una maledetta risposta.
Speravo solo che prima o poi arrivasse.
Mi stiracchiai, allungando le braccia in alto tenendo le mani congiunte, presi una posizione comoda  e osservai, quale leccornia tra quelle avrei iniziato a mangiare.


 

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Capitolo 4
*** La Prima Prova ***


Sapevo che c’era qualcosa che non andava, era tutto fin troppo semplice.
Infatti appena presi il mio primo boccone scatto un allarme.
Il mio cuore si arrestò per qualche minuto, tutto divenne soffuso, le luci cambiarono tonalità diventando di un lieve arancione ed una voce iniziò a parlare.
“ Eccoci alla prima prova, eccoci all’inizio di tutto”.
Io tenta a captare non mi ero accorta che mi avevano legato alla sedia  gambe e busto con una fascia elastica blu, fino a che non ci provai.
Ero in trappola, iniziai ad urlare a più non posso.
“ Non serve nulla ad urlare, più hai paura più la corda ti stringerà e questo vorrà dire che fallirai la prova,ed in poche parole morirai”

“Morirai?” pensai.
Il termine morte non mi aveva mai spaventato più di tanto fino a pochi secondi prima.
Provai a calmarmi, ma ogni volta mi ritornava in mente quelle parole, scuotevo il capo chiudendo gli occhi nell’intento di togliermelo dalla testa, ma quella parola rimbombava.
Portai una mano allo stomaco al quale era venuto un crampo , e cercai di piegarmi al fine di sentire meno il dolore.
Provai e riprovai, nulla da fare la corda che mi avvolgeva era troppo stretta.

Presi un respiro e urlai: “ Qual’è la mia prima prova?”
“Finalmente ti sei decisa a parlare, finalmente  ti sei calmata” rispose lui
“Non ti preoccupare non sarà nulla di ché, è veramente una prova facilissima, vedi quella persona laggiù vicino a quel tavolo in fondo a destra? Ecco pure lui è riuscito pochi giorni fa”.
L’uomo che mi disse di osservare era un uomo di elevata anzianità, a occhio penso abbia avuto circa 80 anni, di corporatura esile  che camminava barcollandosi con la sua stampella.
Comunque tra me e me non riuscivo a trovare il nesso tra “ morte” e il “ non ti preoccupare”. Ero completamente perplessa, non sapevo cosa dire.
Scossi un po’ la testa al fine di lasciare i miei pensieri e sapere quale fosse la mia prima prova.
La voce ritorno a rimbombare: “ Se vorrai superare la prova, semplicemente devi mangiare la cosa più piccante e la cosa più dolce che c’è in questo tavolo.”

In effetti la prova era al quanto banale, se non fosse che c’era di tutto sul tavolo, e non era un normale tavolo da pranzo ma era un intera tavolata, sapete come quella dei matrimoni.
Ed io ero legata ad una sedia. Questo mi fece pensare o che ero destinata a fallire la prova, o che si trovava li davanti.
Osservai ogni angolo dei qui 25*30 cm accessibili al mio sguardo.
C’erano crépes, uova, biscotti, cereali, ma nulla che potesse essere tanto dolce e tanto piccante.
Cercai di prolungare il mio sguardo al fine di vedere quanto in la potessi.
Ero in preda alla disperazione quando collegai tutto:
“La prova è destinata a fallire in partenza, non c’è nessuna soluzione ad essa.
Dapprima mi avevano detto che se mi fossi mossa le cinghie sarebbero state strette, e quindi era destino che io non potessi  mangiare l’oggetto che stava oltre i pochi metri possibili.
In più hanno detto che  anche il vecchio aveva superato la prova”.
Feci un respiro profondo ed esclamai: “ Questa prova è impossibile!”
Immediatamente la pressione che comprimeva il mio corpo alla sedia cessò,con un leggero movimento di braccia la feci cadere a terra, dove subito due uomini vestiti di bianco la raccolsero
Mossi velocemente le braccia, mi scroccai il collo; non sapevo però cosa dire, attendevo un loro responso, una sillaba, o per lo meno un sussurro.
Nulla, il silenzio più totale.
Guardavo attorno, in cerca di una voce, di un suono, era come se il tempo si fosse fermato ed io ero rimasta l’unica che potesse far qualcosa.
Provai a far uscire qualche parola ma arrivavano sempre fino alla punta della lingua,  poi deglutivo e tornava giù.
Ero seriamente preoccupata quando inizia a sentire dei bip ad intervallo regolare, il tipico rumore di una bomba. Temevo il peggio.
Le mio piede destro iniziò ad andare su e giù, le mie mani cercavano di fermare la gamba che per inerzia iniziò a muoversi, i brividi salirono fino alle braccia; dovevo fare qualcosa.
Chiusi gli occhi un attimo respirai ed urlai: “C’è un bomba!”
Il rumore cessò e ricominciò il brusio.
E tra tutte quelle voci una  rimbombò: “Complimenti hai completato la prova.”
Feci un sospiro.
“Ora puoi mangiare, e questa volta diciamo sul serio”.

Iniziai con un pezzo di cioccolato fondente; lo presi come se fosse stato un monumento importante,lo  annusai, un odore afrodisiaco mi salì al naso era  come se fosse appena stato sfornato. Immediatamente gli diedi un morso.
Fu meraviglioso: i miei denti masticavano e la mia bocca produceva sempre più saliva che mi aiutava ad ingoiarlo e deglutivo e poi ripetevo il procedimento fino alla terminazione di tutta la tavoletta.

Quel cioccolato mi aveva distolto da ogni paura, dallo stress sopportato prima.
Mi chiesi cos’altro avrebbe colmato la mia fame; riguardai quell’immenso tavolo  c’era di tutto ma nulla mi soddisfaceva  in pieno, fino a quando non vedi un piattino con un croissant e un goccio di cioccolato che era caduto su di esso.
Era distante rispetto alla mia posizione così mi alzai dalla sedia e mi avvicinai ad esso.
Mentre camminavo guardavo il mio riflesso sul pavimento, ripensai alla strana allegoria di questo parqué e le assi della mia cella.
Il mio pensiero seguiva il ritmo dei miei passi che risuonavano nell’ambiente, lo scricchiolare sotto le mie scarpe mi facevano sentire così stravagantemente bene.

Arrivai al mio prelibato croissant al cioccolato, con sopra una spolverata di zucchero a velo.
Lo afferrai, dapprima con la mano destra e poi mi ci avvinghia pure con la mano sinistra, lo portai velocemente alla bocca, forse troppo, mi bruciai.
Lo morsi, percepii prima il gusto della pasta e poi dopo arrivai al cioccolato, mi scese fin giù dalla gola, una sensazione di tepore che si trascinava giù fino al mio stomaco.
E mi rilassava come nulla aveva mai fatto prima.
Dopo qualche paio di morsi avevo già terminato il mio croissant.
Guardai anche di trovare qualcosa da bere.

Sul tavolo ci stavano delle caraffe di ceramica bianca, ma non c era scritto cosa c’era dentro, quindi mi avvicinai ad ognuno di esse per vedere il loro contenuto.
In realtà confesso le idee le avevo chiare, ma ero curiosa di vedere cosa proponeva la tavolata.

Mi spostai da una parte all’altra, da una caraffa di thè, ad una di latte, proseguendo dai caffè, succhi di frutta.
E poi eccolo, il cappuccino.
Mi avvicinai a quella caraffa fino sopra e con il mio naso, ne aspirai il contenuto, subito le mie narici furono colmate da un misto di latte e caffé
Era questo ciò che volevo.
Presi la tazza, la posai vicino al cappuccino, toccai la caraffa per vedere se era calda, non lo era, quindi la sollevai e versai il contenuto nella mia tazza.
Guardai se c’era della panna da mettere sopra, ed infatti vicino c’era una piccolo contenitore con un cucchiaino insieme.Ne presi una punta, giusto per vedere la punta di quel cucchiaio in metallo coperto di bianco, e lo misi nel mio cappuccino.

Mescolai un poco,e finalmente lo portai alla bocca.
Forse una delle sensazioni più bella della mia vita, quel cappuccino era davvero sopraffino.
Fini il mio cappuccino posai la tazza mi guardai attorno.
Cercavo uno sguardo che mi guidasse, e mi dicesse che fare ora.
Nessuno muoveva un muscolo, avrei potuto continuare a mangiare all’infinito, ma il mio stomaco era pieno.
“Forse mi stanno mettendo alla prova”.
Avevo capito cosa dovevo fare.
Mi avvicinai a uno di quegli uomini col passamontagna e vestiti di bianco.
-“Mi scusi, io avrei finito di mangiare, come mi devo comportare?”- domandai quasi sussurando.
“Aspettavamo questa domanda, attenda due minuti, due uomini la riporteranno in stanza” rispose un po’ con tono burbero.

 

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Capitolo 5
*** Guarda in Alto ***


Ritornata nella mia stanza, mi tolsi subito quelle scomodissime scarpe, che mi avevano lasciato i piedi gonfi, e mi infilai le ciabatte, che di comodità avevano ben poco.
Posai le scarpe vicino alla finestre e la apri leggermente, magari avrei potuto togliere quel cattivo odore di marcio.

La cella a quest’ora, per precisare le 8:30, rimaneva aperta e quindi ne approfittai per cercare un bagno.
L’idea era quella di aprire la cella con massima discrezione, osservando dapprima quale tra quelle sbarre fosse meno unta.
Le osservai in contro luce, mi avvicinai ad ognuna di esse ed alla fine capii che la terza sbarra poteva essere quella giusta.
La terza sbarra era diversamente pulita, era diversa da tutte le altre non aveva la ruggine o un colore scuro e malandato, lei stonava, aveva un colore lucente, un grigio metallico, sul quale addirittura potevo specchiarmici.
Prima di aprirla mi chiesi il motivo di una sbarra così pulita, e ne conclusi che forse quella prima era stata rotta.
Sempre con questa domanda in testa e alle migliaia che giacevano nella mia testa, uscì.
Mi guardai attorno, in cerca di un segno che mi facesse capire dove fossero  i bagni.
A livello del mio sguardo non vidi nulla, solo altre celle e dei muri con alcune prese e interruttori della luce.
Nessuna insegna.
Dovetti alzare un po’ lo sguardo per notare un insegna con scritto WC, almeno così immaginai dato che primo: la luce era fioca e si vedeva appena, e secondo la scritta era rovinata.

Comunque insieme alla scritta c’era  una freccia rivolta verso l’alto.
“ Che senso ha fare una freccia verso l’alto?” mi domandai perplessa.
Percorsi con gli occhi rivolti verso l’alto ogni angolo di quel posto per trovare il bagno o il luogo per arrivare ad esso.
Finalmente i miei occhi si soffermarono su una scala in legno e sopra di esso un ripiano e una porta con scritto TOILET.

Mi avvicinai alla scala, la osservai e senso di sicurezza ne dava ben poco.
Penso che sarei stata pazza a salire uno di  quei gradini, di metter il piede, e di appoggiare il mio peso su uno di quelle assi.
Tuttavia il mio bisogno era piuttosto alto e quindi mi feci un po’ di coraggio.
“Possibile che ogni cosa qui sia una prova?” chiesi a me stessa.

Misi un piede dopo l’altro, e facendo attenzione a qualsiasi rumore sospetto, arrivai fino in cima a quei quindici  gradini.
Finalmente ero arrivata in quella piattaforma, finalmente ero davanti alla porta del bagno.

Bussai, nessuno ripose, entrai.
Subito una potente luce mi accecò, una tortura da parte del diavolo sarebbe stata meno terribile.
Entrai, e subito perlustrai ogni angolo di quel posto, ormai ne avevo preso l’abitudine.
Il luogo presentatosi ai miei occhi non era molto più grande della mia cella

Appena entrata si vedeva un lavandino, uno di quei classici lavandini da campeggio, bianco con miscelatore, non era il massimo della perfezione ma posso dire che andava.
Lo specchio sopra di esso, invece aveva una venatura in alto a destra.
Una bella spaccatura, pensai che qualcuno avesse preso a pugni lo specchio, o ci avessero lanciato qualcosa.
Il pavimento era in piastrelle in ceramica, quelle grandi arancioni  nettamente divise una dall’altra. Alcune erano un po’ rovinate, un po’ distaccate  ed alcune sporche.
La luce era fornita da degli enormi neon posti nel mezzo del soffitto.

Poi c’era un cestino, vicino ad una porta chiusa.
“Dietro quella porta ci potrebbe essere il gabinetto” pensai scuotendo la testa su e giù.

Prima di aprire bussai, e siccome non ebbi risposta aprii la porta.

Sbalordita ecco come mi sentii quando vidi quel bagno.
Mi ricordava uno di quei bagni del Ottocento, classici nei castelli di quell’epoca.
“Possibile che in questo luogo, si passi dal putridume alla perfezione?” pensai osservando il posto intorno a me.
Al centro della stanza ci stava una vasca in oro e rame, aveva un motivo a fiori lungo il suo bordo, e sopra di esse c’erano delle candele spente.
Rimasi colpita dall’enorme specchio posto sopra il lavandino,  ma non per o specchio in se ma per la cornice.
La cornice era d’argento con un motivo a rose, che creava un perfetto gioco di ombre su di esso, tra una rose e l’altra c’erano incastonati degli smeraldi e dei rubini.
Nessun senso aveva quello specchio, quella perfezione in quel luogo.

E poi eccolo: il gabinetto.
Credo di non essere mai stata così felice  di andarci, era da un giorno che non ne vedevo uno, fino ad ora, mi era toccata farla in barattoli di metallo.
Finito guardai l’ora su di un orologio posto vicino alla porta; erano le 8.45, 

uscì da quel luogo magico e ritornai alla mia cella.
Era solo passato una quindicina di minuti  da quando mi ero persa nel cercare il bagno, eppure mi sembrava fosse passata un eternità.

Quel luogo mi stava per caso facendo diventare matta

——
Arrivata alla mia cella, notai subito la presenza di Antony.
“Ehy” gli dissi sorridendo e squillando la mia voce.
“Ciao....”.
Al suo ciao mancava di qualcosa, mancava del mio nome.
Lui non conosceva il mio nome.
Aspettavo la sua domanda, ero certa che da li a poco me l’avrebbe posta.
“ Scusami ma non ho afferrato il tuo nome, me lo  diresti?” domandò sorridendomi.
“ Figurati io mi chiamo Annabel”.
“ Piacere Annabel”.

Ci stringemmo la mano attraverso le sbarre.
Me ne ero fregata dell’untuosità di quelle sbarre, ci avevo fatto passare la mia esile mano in mezzo.
Forse le toccai, ma me ne fregai.
Le sue mani erano grandi, e un po‘ sudate.
Mi strinse forte, e io feci lo stesso.
“ Che fosse quella la stretta di  mano dell’amicizia?”
Gli sorrisi.
Ci guardammo, in attesa che uno dei due iniziasse a parlare.
Lui non iniziava così gli chiesi come era andata la sua mattinata fino ad ora.

Mi parve subito stupida questa domanda dato che erano passate solamente due ore da quando ci separammo.

Io mi misi sul letto mi sdraiai e ascoltai.
“ Non è che abbia nulla da raccontare.”
Si fermò.
Forse a causa della mia faccia che sembrava dicesse: “ ma che razza di domanda ho fatto”.
Sapeva che me ne ero pentita.
Alla fine mi raccontò solo che oggi aveva lavorato nei campi.
(Quali campi?)
MI chiese della mia, gli raccontai della mia prova.
E basta  aspettai che arrivassero le  9.

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