Nel cuore della notte

di miseichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Passami il telefono ***
Capitolo 3: *** Preparo il caffè ***
Capitolo 4: *** Sibili e caffè ***
Capitolo 5: *** Palpatine ***
Capitolo 6: *** Basi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


prologo

 

 

Nel cuore della notte

 

- Dammi la pistola.

Nessuna reazione. Lei sospirò, riempiendo quel silenzio fin troppo pesante.

- Dammi la pistola, ora. – ripeté, il tono duro.

Lui scosse la testa, limitandosi poi a fissare la canna nera con espressione assente.

- Non me la vuoi dare? – borbottò la ragazza, sempre più irritata – Benissimo. – sentenziò, decisa.

Posizionò le mani sui fianchi sottili, le labbra strette tanto forte da diventare pallide:

- Premi quel grilletto, allora. – lo sfidò, furiosa – Premi il grilletto, Lello. Non indugiare oltre, te ne prego. Se proprio devi, facciamola finita! -

Lui sollevò la pistola, avvicinandola alla tempia. Non la guardava.

- Fallo! – inveì la ragazza, sbattendo violentemente un piede sul selciato umido – Forza! Premi quel dannato grilletto! – continuò a gridare, imperterrita.

E finalmente i loro occhi si incontrarono. Ginevra tremò impercettibilmente, forzandosi a non indietreggiare di un solo passo di fronte alla disperazione che lesse in quelli umidi di lui.

S’impuntò, come era solita fare, piegando le labbra in un broncio infantile e abbassando la voce:

- Dammi la pistole, Lello. – mormorò, avvicinandosi piano – Per favore. -

Percepì l’incertezza di lui e decise di approfittarne all’istante:

- Uccido Bis. – minacciò, assottigliando lo sguardo – Quant’è vero lo faccio fuori, questa volta. -

La bocca del ragazzo si piegò: se anche aveva voluto essere un sorriso, tutto quello che ne uscì fu una smorfia a metà strada fra lo scherno e la disperazione. Abbassò il braccio, lentamente, quasi al rallentatore.

E la presa sulla pistola si allentò. Le dita di lui lasciarono la presa, lanciandola in direzione di Ginevra.

Un lampo di sorpresa attraversò gli occhi della ragazza che, impreparata, afferrò al volo l’oggetto all’ultimo secondo: strinse la pistola con mani tremanti, mettendo la sicura come lui le aveva insegnato.

Prese un bel respiro, relativamente sollevata.

Fu con sconforto che poi sollevò nuovamente lo sguardo verso di lui, fissandolo decisa:

- Ora scendi di lì, Lello. – sibilò, fingendo sicurezza.

Lui sembrò non sentirla neanche. Le diede le spalle, voltandosi a fronteggiare il vuoto sotto di sé.

Ginevra rabbrividì, perdendo anche quell’ultimo briciolo di autocontrollo che le rimaneva: ora che lui non aveva modo di vederla non doveva più dissimulare il terrore che la stava invadendo, incontrollabile.

- Scendi. – ringhiò ancora, le lacrime che le pizzicavano gli occhi – Scendi, Lello, scendi! – proruppe, alzando la voce. Tremava per lo sforzo di non correre verso di lui e tirarlo giù dal muretto: non avrebbe funzionato, non sarebbe servito a nulla. Rischiava di peggiorare solamente le cose, vero? Vero?!

- Ti scongiuro. – sussurrò, la voce ormai spezzata – Ti prego, vieni qui. –

Sentiva un groppo in gola, qualcosa di amaro che le impediva quasi di respirare.

Una lacrima le rigò la guancia, calda. E sentì di non poter reggere ancora per molto.

- Lello… - chiamò un’ultima volta, le ginocchia che rischiavano di cederle.

Vide le spalle del ragazzo avere un tremito e sussultò, temendo il peggio: smise di pensare e semplicemente si tuffò verso di lui, raggiungendolo in pochi secondi. Protese le dita e strinse un lembo della sua camicia.

Lo strinse con tutte le sue forze, aggrappandovisi con le unghie e con tutta la speranza che le rimaneva.

Fu questione di un attimo. Un misero, infinitesimale, attimo.

Dietro il velo delle lacrime vide il piede di lui che si sollevava, muovendo un passo.

Poi il tempo sembrò rallentare, scandito dalla disperazione, come per dar modo al suo cervello di realizzare il tutto: la camicia che le sfuggiva dalla mano, il corpo di lui che spariva dalla sua visuale.

Boccheggiò, la vista appannata.

Crollò in ginocchio, incapace di pensare a qualsiasi cosa…

E l’unica cosa che riuscì a fare, senza nemmeno sapere perché, fu guardare l’orologio.

 

§§§

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Passami il telefono ***


Passami il telefono

 

 

Nel cuore della notte


- Pronto?

- Lello, finalmente! – squittì una voce femminile, inconfondibile – Non indovinerai mai chi ho incontrato! –

- Ti richiamo… dopo… - gemette lui, respirando pesantemente nel microfono.

- No, ma come?! – s’impuntò Ginevra, delusa – Dai, tienimi gioco. –

Questa volta non ebbe risposta. Sentì un sospiro, prolungato.

- Lello? – chiamò, leggermente insospettita – Sicuro di star bene? -

Ancora niente. Un gemito soffuso e un grido femminile, inarticolato, di puro piacere.

Ginevra impallidì, il cellulare che rischiava di sfuggirle di mano nel momento stesso in cui la consapevolezza di cosa stesse facendo l’amico si fece strada in lei.

E cominciò ad imprecare sommessamente.

- Eccomi… - sospirò lui – E sì, ti ringrazio, sto benissimo. -

- Non ridere, deficiente. – borbottò lei, inacidita.

- Non sto ridendo. –

- Stai ghignando, lo so. –

- E se anche fosse? – sussurrò lui, stringendosi appena nelle spalle – Posso farti notare, tesoro, che ne avrei tutte le ragioni? –

Ginevra ebbe il buon gusto di restare qualche attimo in silenzio, raccogliendo le idee:

- Ti ho interrotto sul più bello? – chiese poi, la voce che si andava affievolendo mentre un rossore diffuso le imporporava le guance.

- Sì, temo di sì. – ghignò lui, divertito – Tranquilla, però, sono riuscito ugualmente ad arrivare dove volevo. -

- Scusa. – borbottò la voce risentita di lei – Cercherò di non farlo più. –

- Intendi chiamarmi mentre sono occupato a… -

- Sì, sì, sai benissimo cosa intendo! – scattò Ginevra, interrompendolo – Al diavolo! –

- E allora? – continuò lui, tranquillo come mai – Chi è che hai incontrato? –

- Lello! – sbottò lei, incredula – Si può sapere perché parli con me invece di pensare a lei, chiunque sia?!

- Sei tu che hai chiamato! –

- E ti ho promesso che non lo farò più! –

- Ma come farai a sapere quand’è che puoi o non puoi chiamare? – ridacchiò lui, scuotendo il capo.

- Lo capirò. – fece lei, convinta – Per te, naturalmente, vale lo stesso. –

- Oh, certo… significa che, fammi pensare, non potrò chiamarti quando? Una volta al mese? –

E fu su quel finale, con la sua risata in sottofondo, che lei chiuse la chiamata.

 

 

- Ti suona il telefono… -

Ginevra aprì gli occhi, mordendosi piano il labbro.

Fissò lo sguardo perso di lui, la piccola goccia di sudore che gli scivolava sulla tempia, indecisa se scendere o no; sollevò le dita, passandole fra i corti capelli biondi del ragazzo e lasciando che i loro respiri si accordassero.

Sorrise, scuotendo leggermente il capo:

- Riesci a vedere il numero? – chiese, respirando con affanno.

Ridacchiando lui si sporse di lato, allungando il collo più che poteva: rischiò di cadere di lato, il materasso che si inclinava pericolosamente. Furono le gambe di lei a trattenerlo, saldamente aggrappate alla sua vita.

- Sì. – ansimò lui alla fine – E’ un numero privato. -

Lei reclinò il capo all’indietro, inspirando dal naso. Si passò la lingua sulle labbra, solleticando con il piede il polpaccio di lui. E il respiro gli si fece più sconnesso.

- Dici che devo rispondere? –

Le labbra di lui le si posarono leggere sul collo, scosse da una risata che lottava per uscire:

- Come vuoi tu, amore… - mormorò, le dita intrecciate a quelle di lei.

Si inarcò sulla schiena, un brivido che le attraversava il corpo:

- No… - sospirò, gemendo appena – No, non è necessario. -

Un bacio passionale la fermò dal dire altro, togliendole definitivamente il respiro.

Fu in quel momento che un nuovo brivido la colse totalmente impreparata: diverso dal primo, più intenso, le fece accapponare la pelle.

Sbatté le palpebre, confusa, il battito accelerato.

- Tutto bene? – s’informò lui, guardandola senza capire. Un ciuffo biondo gli cadeva scomposto sulla fronte, coprendogli un occhio.

- Passami il telefono. –

 

 

- Parliamone. -

Ginevra neanche si girò, continuando ad aprire i cassetti uno dopo l’altro.

- Amore, ti fermi? – sospirò lui, passandosi più volte una mano sul viso, l’espressione tesa.

- Non posso. – sibilò lei, scuotendo convulsamente il capo – Devo sbrigarmi, okay? –

Luca assottigliò lo sguardo, sporgendosi verso di lei e attirandola a sé senza pensarci due volte: se la rivoltò tra le braccia, gli occhi che cercavano impazienti quelli della ragazza. E finalmente li trovò, spauriti ma li trovò.

- Puoi anche partire domani, lo sai? – sussurrò, carezzandole le braccia fredde.

Lei scosse la testa, sbattendo le palpebre.

- Puoi anche non partire, Gigì. -

Non aveva finito la frase che lei si era già allontanata, fissandolo con sguardo truce:

- Io devo partire, Luca. – sibilò, scossa – Stiamo parlando di… -

- So di chi stiamo parlando! – la interruppe, l’espressione contrariata – Non lo vedi da anni, però. –

- E questo cosa significa?! – scattò lei, sbattendo un piede sul tappeto.

- Significa che non sei obbligata a partire così, su due piedi! –

Ginevra sbuffò, incredula: si voltò di scatto, cominciando a mettere la biancheria nel borsone azzurro.

Luca si alzò, raggiungendola piano. Lei lo ignorò, scegliendo alcune magliette e delle felpe.

- Scusami. – sussurrò lui, sollevandole il mento con due dita – Scusami, davvero. -

Fissò gli occhi chiarissimi di lei e sospirò vedendoli umidi di lacrime:

- Non volevo, ti assicuro. – continuò, il tono basso – E’ che… non mi va che tu parta così. -

- Devo farlo. – mormorò lei, sfiorandogli lievemente la mano.

Luca annuì, limitandosi ad aprire l’anta destra dell’armadio e passarle un pigiama. Scelse quello blu, con le nuvole e gli arcobaleni disegnati sopra.

- Grazie. – fece lei, scivolandogli fra le braccia, un singhiozzo che le scuoteva le spalle.

Si lasciò stringere, permettendogli di cullarla come si fa con una bambina spaventata: strusciò la guancia contro la sua spalla, sforzandosi di sorridere. Non ci riuscì.

- Non starò via molto. – disse, cercando di convincere più che altro se stessa.

Luca annuì, senza lasciarla andare. E il groppo amaro che le stringeva la gola sembrò allentarsi un po’.

Ripensò alla telefonata, alla voce di Amanda e sentì il cuore che si appesantiva: come era potuto accadere?

- Vuoi che venga anche io? – chiese improvvisamente Luca, riportandola al presente.

Ginevra scosse la testa, districandosi gentilmente dall’abbraccio e allontanandosi di un passo:

- No. – sussurrò – Grazie ma no. E’… è una cosa che devo fare da sola. -

- E se non ci riesci? – fece lui, aggrottando le sopracciglia.

- Oh, ti prego! – sorrise lei, tirando su con il naso – Come potrei non riuscirci? –

Luca mugugnò qualcosa, fissando truce il pavimento. La guardò di sottecchi mentre si affrettava a chiudere il borsone, indossando subito dopo un paio di jeans e una maglia trovata sul letto: la seguì fino al bagno, fermo sull’uscio mentre lei raccoglieva in giro spazzolino, creme e cose varie. Non disse una parola.

Le porse il giubbotto, le chiavi e il cellulare.

- Dimentico altro? – borbottò Ginevra, lo sguardo che vagava incerto.

- Credo di no… - bisbigliò lui, ancora in mutande.

- Sembri un cucciolo bastonato. – commentò lei, le dita già strette attorno alla maniglia della porta.

- Mi stai abbandonando, Gigì… -

Ginevra poggiò il borsone sul pavimento e gli gettò le braccia al collo, mordendogli giocosamente il lobo di un orecchio:

- Ti ho detto che tornerò in men che non si dica! – sussurrò, seria.

- Per qualsiasi problema chiamami. – fece Luca, stringendola a sé e baciandole i capelli.

- Non ci saranno problemi. –

Lo sguardo duro di lui la fece arrossire appena, consapevole della sciocchezza detta:

- Non devi preoccuparti. – continuò comunque, cercando di rinfrancarlo.

Luca annuì, l’espressione per niente convinta. Lanciò un’occhiata all’orologio sulla parete e baciò un’ultima volta la ragazza, forzandosi a lasciarla andare:

- Vai. – biascicò – Rischi di perdere il treno, altrimenti. -

E la guardò sparire, il suono dei passi di lei che ancora risuonava sulle scale.

 

§

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Preparo il caffè ***


3

 

 

Nel cuore della notte

 

 

Ginevra si guardò attorno senza sapere cosa cercare.

L’ultima volta che aveva visto Amanda era stato più di cinque anni prima e allora aveva solo sedici anni: la ragazza era certamente cambiata, e tanto.

Come diavolo avrebbe fatto a riconoscerla?

Non aveva finito di chiederselo che qualcuno le si scagliò contro, rischiando di gettarla per terra.

Spalancò gli occhi, incredula, fissando la giovane donna che la stava quasi soffocando:

- A… Amanda? – balbettò, cercando di riprendere fiato.

Quella gemette, stringendola ancora di più. Tremava leggermente, aggrappandosi con tutte le sue forze a Ginevra, apparentemente niente affatto intenzionata a lasciarla andare.

- Amanda… - soffiò lei, annaspando - …mi manca il fiato. -

E la liberò, allentando la presa.

Ginevra inspirò, improvvisamente desiderosa di immagazzinare ossigeno:

- E’… è un piacere vederti. – sorrise, ricominciando a respirare normalmente.

Squadrò la ragazza che aveva di fronte e inarcò un sopracciglio, sorpresa: se non avesse tentato di ucciderla, meditò, probabilmente non sarebbe riuscita a riconoscerla.

Ora doveva avere… circa vent’un anni, ed era splendida: un folletto, certo, ma decisamente deliziosa.

Meno di un metro e sessanta, un caschetto di capelli neri e due occhioni verdi, immensi.

La fissava, Amanda, le labbra rosse dischiuse come se volesse parlare ma la voce non riuscisse a trovare la strada giusta.

- Ho fatto presto? – chiese Ginevra, inclinando il capo di lato.

Amanda annuì, più volte, il respiro che le diventava affannoso: fece per dire qualcosa ma le labbra presero a tremarle, impedendoglielo.

Gli occhi le si inumidirono, riempendosi di lacrime e in meno di un secondo le fu di nuovo addosso, stringendola appena un po’ meno di prima:

- Grazie. – sussurrò, il viso affondato nell’incavo del collo di Ginevra – Grazie, grazie, grazie, grazie. -

Ginevra le carezzò i capelli, il borsone ormai abbandonato poco lontano:

-  Non fare così, Amy. – bisbigliò, tentando di calmarla e chiamandola involontariamente con il diminutivo che usavano all’epoca – Posso chiamarti Amy o sei troppo grande, ormai? -

L’altra tirò su con il naso, annuendo convulsamente senza tuttavia allontanarsi.

- Andrà tutto bene. – sussurrò Ginevra, ostentando una sicurezza che non aveva – Ci sono io adesso, no? -

- Mi dispiace. – mormorò Amanda, staccandosi quel tanto che bastava a guardarla negli occhi.

- Di cosa? –

- Di averti chiamata così di colpo, di averti costretta a… -

Ginevra scosse la testa, fermandola:

- Non mi hai costretta a fare alcunché. – disse seria – Anzi, hai fatto benissimo a contattarmi. -

- Non avrei dovuto… - gemette Amanda, contrita.

- E perché mai? –

- Sono problemi nostri… non avrei dovuto coinvolgerti e… -

Ginevra sospirò, prendendole il viso fra le mani:

- Sono problemi anche miei. – affermò sicura – Che razza di amica sarei, altrimenti? -

Amanda annuì, la paura che non riusciva ad abbandonare quei grandi occhi verdi. Arretrò di qualche passo, fissando il brecciolino e spingendo un sassolino con la punta della scarpa:

- Io non so più che fare… - sussurrò, le labbra che tremavano di nuovo – Non so più come comportarmi, cosa dire. Mi sembra tutto inutile. Non mi guarda, non mi parla… è come se non esistessi. -

- Hai provato a dargli un bel ceffone? – cercò di scherzare Ginevra, accennando un sorriso tirato.

Amanda scosse il capo, una smorfia di dolore che le piegava le labbra:

- Non è più lui, capisci? – gemette – E non riesco a capire chi sia. -

- Perché non mi hai chiamata prima, Amy? Perché hai aspettato tanto? –

- Speravo… ero sicura di riuscire a mettere a posto le cose da sola. E’ mio fratello, no? – sollevò gli occhi spauriti e strinse i pugni – E’ mio fratello, che diavolo! –

Ginevra non parlò, lasciando che l’altra si sfogasse, aspettando il momento giusto per intervenire.

- Invece… invece le cose sono andate peggiorando. E… e l’altro giorno non rispondeva più al citofono. Non… non ha voluto farmi entrare. -

Si fermò, un singhiozzo che le scuoteva le spalle:

- Ho capito che non potevo più andare avanti così e… e l’unica cosa che mi è venuta subito in mente è stata chiamare te. Non ho sbagliato, vero? – gemette, supplicandola quasi – Ora lo aggiusti tu? -

A quelle parole Ginevra non riuscì a trattenere un sorriso. Lo aggiusti tu?

Annuì, stringendo la mano di Amanda e avvolgendole le spalle con un braccio. Sospirò.

- Sì. Lo aggiusto io. -

 

 

- Vuoi salire con me? -

Amanda scosse la testa, le mani strette saldamente sul volante.

- Sei sicura? – chiese ancora Ginevra, rigirandosi la chiave fra le mani.

- Non… non ce la faccio, mi dispiace. – sussurrò contrita – Mi fa troppo male. E… e non sono nemmeno sicura che lascerà entrare te. –

- Sì che mi lascerà entrare. – sorrise l’altra, un piede già fuori dall’auto – Altrimenti quel ceffone rischierà davvero di prenderlo. –

- Stai attenta, okay? – fece ancora Amanda – E… cavoli, sei la sua ultima speranza. –

Ginevra ruotò gli occhi, chiudendosi lo sportello alle spalle e appoggiandosi al finestrino aperto:

- Non esageriamo adesso, su. – tentò di sdrammatizzare, inutilmente.

- Non è più in sé… - ripeté l’altra, senza vederla veramente – Si è perso. Si è del tutto perso. –

Fu con difficoltà che sembrò riuscire a mettere di nuovo a fuoco Ginevra: le sorrise a stento, stringendosi nelle spalle.

Accennò un saluto con il capo e partì, a tutta velocità, lasciandola lì: sul bordo del marciapiedi.

Ginevra inspirò profondamente, obbligandosi a mantenere la calma.

Si avvicinò al portone del palazzo e premette il bottoncino del citofono: non aveva avuto bisogno di cercare il cognome giusto. Per anni non aveva fatto altro che bussare a quella stessa porta, premendo sempre lo stesso bottoncino e una volta che riesci a farlo anche in piena notte, completamente ubriaco, non dimentichi più qual è. Mai più.

Aspettò una risposta che non arrivò.

Bussò ancora, ripetutamente. Bussò finché non cominciò a farle male il dito.

- Ma porca di quella… -

A zittirla fu il cigolio del portone che si apriva: si ritrovò faccia a faccia con un anziano signore, cappello e bastone alla mano; quello la fissò, sorpreso, e sorrise:

- Vuole entrare? – chiese, cortese.

- Sì! – esclamò Ginevra, riconoscente – La ringrazio, davvero! –

Aspettò che l’uomo uscisse, quindi scivolò attraverso il portone e se lo chiuse lentamente alle spalle.

Fissò le scale, combattendo l’impulso improvviso di scappare e, prima che potesse cambiare idea anche solo un pochino, cominciò a salire senza pensarci due volte.

Arrivò al terzo piano in quello che le sembrò un lasso di tempo troppo breve: quando la porta così familiare le apparve dinanzi avvertì enormemente la mancanza di qualcuno al suo fianco.

In cosa diavolo si era andata a cacciare?

Con dita tremanti infilò la chiave nella serratura.

La porta si aprì, silenziosa, mentre il cuore le balzava in gola: si sentì soffocare, il battito impazzito.

Prese un profondo respiro, gli occhi chiusi: doveva farcela. Ce l’avrebbe fatta. Non aveva bisogno di nessuno.

Annuì, sollevando cautamente le palpebre e muovendo un passo nell’appartamento.

E dopo il primo passo si fermò, il borsone che le sfuggiva di mano cadendo con un tonfo sul parquet.

Non vedeva.

Assottigliò lo sguardo, inutilmente: la casa era totalmente avverta nell’oscurità. Avanzò di poco, le braccia protese in avanti per evitare di scontrarsi con qualcosa o con qualcuno.

Le finestre dovevano essere chiuse, le tapparelle abbassate… sembrava che quel posto non vedesse la luce da decisamente troppo tempo.

Respirò, cominciando a tossire subito dopo: l’aria era viziata, malsana quasi, come se si respirasse polvere e chiuso. Che fosse l’odore della morte?

Ginevra si pentì subito del pensiero avuto, allungando il braccio verso destra con impazienza: ormai doveva essere quasi arrivata, si disse; se non era cambiato niente, l’interruttore avrebbe dovuto essere nelle vicinanze.

Incespicò per un po’ con le dita sulla parete, poi trovò quello che cercava e sorrise, rinfrancata.

La luce si accese, uno strano sfrigolio che proveniva dalla lampadina;

Ginevra si guardò attorno, provando ad orientarsi meglio, a capire in che diavolo di trappola fosse appena caduta… e fu in quel momento che lo vide, trasalendo pateticamente.

Sussultò, scattando all’indietro.

Una mano ancorata sul petto, l’altra ferma sulla bocca per trattenere il grido di spavento che altrimenti le sarebbe sicuramente sfuggito.

Gli occhi sgranati, il cuore sbalzato in una posizione che non gli apparteneva.

- Lello… - sussurrò la ragazza, schiudendo appena le labbra, lo sguardo ancora allucinato.

Fissava la canna della pistola, puntata contro di lei, e fu con difficoltà che nascose il turbamento: squadrò il giovane che aveva di fronte e dissimulare lo sbigottimento divenne ancora più difficile.

Un metro e ottanta di uomo, ecco cosa si era trovata davanti. Piedi scalzi, vestiti rovinati e più grandi di lui; capelli e barba lunghi, incolti. Il peggio doveva ancora arrivare, però: era magro, più magro di quanto non fosse mai stato. Diversi chili sotto quello che probabilmente era il peso giusto, le guance scavate.

E il braccio continuava a restare sollevato, la pistola puntata contro di lei.

Ginevra incrociò lo sguardo del ragazzo, quegli occhi che era convinta di conoscere così bene.

In quel preciso attimo perse ogni convinzione.

Erano occhi particolari i suoi: neri, che più neri non si poteva. Il nero dell’iride si fondeva con quello della pupilla, formando un tutt’uno: un colore unico, talmente scuro da far invidia alla notte più buia. Aveva sempre amato quegli occhi: nella loro oscurità riuscivano assurdamente a trasmetterle calore, sicurezza… amore.

E ora? Ora non trasmettevano niente.

Ginevra si perse nel profondo di quegli occhi, rischiando di non riuscire più ad uscirne. Vi lesse di tutto.

Paura, dolore, solitudine, rabbia. Tutto quello che non vi aveva mai trovato.

Provò la sensazione di annegare, un senso di disperazione che minacciava di impossessarsi di lei.

Fu con un movimento improvviso che tornò in sé.

La mano si mosse di propria spontanea volontà, senza che il cervello avesse apparentemente comandato alcunché. Semplicemente, prese l’iniziativa: si spostò, sollevandosi decisa in direzione della pistola e scostando la canna con uno schiaffo seccato.

- Ho sempre detto che sei un cretino, Lello. – sentenziò sbuffando – Non credevo fino a questo punto, però. -

Ginevra incrociò le braccia al petto, severa, un sopracciglio che si inarcava avvicinandosi pericolosamente all’attaccatura dei capelli. Arricciò le labbra, schioccando la lingua:

- E allora? – chiese – E’ questo il modo di salutare qualcuno? -

Lui incespicò leggermente all’indietro, un lampo di confusione che gli attraversava lo sguardo.

Fu come se il braccio gli si fosse improvvisamente appesantito: si abbassò, un po’ alla volta, restando infine disteso lungo il fianco, inerme.

Le dita continuarono a stringere la pistola, questa volta puntata verso il basso, ma la mano gli tremava: come se di lì a poco non sarebbe più stata in grado di reggerla.

- Mi piace sai? -  continuò Ginevra, implacabile, le labbra che si piegavano in un sorriso malizioso.

Gli occhi di lui la fissarono, sempre più turbati, e il sorriso della ragazza divenne presto un sogghigno:

- Il tuo nuovo look. – fece lei, la voce velata di sarcasmo – A chi ti sei ispirato esattamente? -

E la pistola gli cadde di mano, finendo sul tappeto.

- Sembri un incrocio fra un barbone, uno scienziato pazzo e un prigioniero di guerra appena sfuggito ai suoi aguzzini… - ponderò Ginevra, avvicinandoglisi lentamente e facendo per girargli attorno.

La mano di lui, tuttavia, non glielo permise: fulminea le si strinse attorno al polso, costringendola a fermarsi.

Sollevò lo sguardo, un lieve sorriso ad incresparle le labbra, e aspettò.

- Gin… -

Non avrebbe dovuto trasalire, lo sapeva.

Stava anche aspettando che parlasse, del resto: non avrebbe dovuto sorprendersi a quel modo. Eppure, fu il modo in cui parlò che la sconvolse: il tono che usò; quella voce che dava l’impressione di non essere stata usata da anni: roca, graffiante quasi. Completamente diversa da quella dolce e carezzevole che era certa di conoscere.

- Non ti sei dimenticato di me, allora. – si forzò a sorridergli – Mi ritengo lusingata, Lello. -

- Ti ha chiamata lei, non è vero? – ringhiò il ragazzo, la stretta delle dita attorno al suo polso che aumentava.

Ginevra aggrottò le sopracciglia, divincolandosi rapidamente dalla presa di lui:

- Lei? – domandò, l’espressione innocente – Chi avrebbe dovuto chiamarmi? -

- Non giocare con me, Gin. –

- Non lo sto facendo, infatti. Sto cercando con tutta me stessa di non offendermi per l’accoglienza che mi stai riservando, sappilo. Ti sembra giusto che… -

- Vattene. –

Fu un’affermazione talmente decisa da riuscire a zittirla.

Un ordine, ecco cosa era stato. Un ordine. Secco, deciso, perentorio.

Vattene.

E Ginevra perse letteralmente le staffe.

- Vattene? – stillò, incredula – Ma vattene al diavolo, tu! E che modi, insomma! Non solo uno affronta ore di viaggio per venire a trovarti… ecco il ringraziamento! Si può sapere che diamine ti prende?!

Le mani serrate a pugno avanzò in direzione del ragazzo a testa alta.

- Non merito un abbraccio, un saluto come si deve, niente? – lo assalì, spintonandolo – Sono passati più di cinque anni e tutto quello che sai fare è minacciare di spararmi e poi buttarmi fuori casa?! -

Si interruppe per riprendere fiato e lui colse al volo l’occasione per posizionarle una mano davanti alla bocca.

- La voce stridula e petulante è rimasta uguale, sai? – fece lui senza scomporsi minimamente – Raggiungi frequenze non adatte a orecchie umane. -

Ginevra inarcò un sopracciglio, affrettandosi a mordergli le dita quel tanto che bastava per farle liberare le labbra. Sbuffò, guardandolo con aria truce:

- Non ho la voce stridula. – sibilò, la bocca che si piegava in un broncio risentito.

- Avrai svegliato tutti i cani dell’isolato. – ribatté lui, stringendosi impietosamente nelle spalle.

Fu questione di attimi. Pochi secondi e nessuno dei due riuscì più a trattenere un sorriso.

- Ti ho pensato, Lello… - cominciò Ginevra, scuotendo impercettibilmente - …certo non ti immaginavo in questa nuova versione, ma… -

- Non è il momento giusto, Gin. – la interruppe prontamente lui, raccogliendo la pistola.

Lei seguì i suoi movimenti con lo sguardo, senza perderlo di vista mentre apriva un cassetto e vi lasciava l’arma, richiudendolo subito dopo.

Aspettò che si girasse a guardarla per rispondere, incerta:

- Vuoi un caffè? – chiese – No, perché ti capisco: se ne sente la necessità a quest’ora e… -

- Devi andare via. – la fermò ancora il ragazzo, la voce meno roca ma il tono sempre duro.

- Sono appena arrivata, Lello… - fece lei, stringendo le labbra – Dove vuoi che vada? –

Lui sospirò, passandosi una mano sulla barba più volte, teso:

- Senti, - mormorò – mi dispiace, okay? Ma è un periodo nero: sono molto occupato e non ho il tempo di… di avere ospiti, adesso. -

- Non sono un ospite. –

- Gin… -

- Non sono un ospite, Lello. – sussurrò la ragazza – Sono io. –

Gli occhi neri puntarono decisi al pavimento, insondabili. Ginevra riuscì a leggere delle scuse, mimate senza voce dalle labbra di lui, e poi si sentì sospingere fino alla porta.

Si ritrovò sul pianerottolo, il borsone azzurro al fianco, la porta che si andava lentamente chiudendo.

- Dove dovrei andare, eh? – biascicò, scivolando con la schiena lungo lo stipite fino a sedersi per terra.

La risposta arrivò dopo parecchio, quando quasi non si aspettava più di udirla:

- Mia sorella abita a pochi minuti da qui. – disse la voce ovattata del ragazzo, da dietro la porta – Sono sicuro che un posto per te lo troverà. -

Ginevra sospirò, tirando le ginocchia al petto e abbracciandole con le braccia:

- Avevi detto che non sarebbe mai successo, Lello. -

 

Un paio di occhiali da sole sugli occhi, una tazza di caffè in mano, una sigaretta che pendeva dalle labbra.

Lui entrò ondeggiando, sedendosi al tavolo di fronte a lei, uno sbadiglio a scomporgli l’espressione:

- Sbronza, tesorino? – chiese, il sorriso nella voce ancora assonnata.

- Io? – ribatté lei, concentrandosi – Niente affatto. –

Il ragazzo annuì, inclinando il capo di lato e squadrandola con affetto: un ciuffo di capelli scuri gli cadde sulla fronte, finendogli sull’occhio destro e nascondendo quel tripudio di nero puro.

Lui soffiò, allontanandolo senza fatica. E sorrise, sollevando l’indice:

- Hai cancellato gli ultimi episodi di Lost, Gin. – cominciò ad enumerare, divertito.

Ginevra sospirò, l’impressione che la testa stesse per scoppiarle:

- Non è il momento giusto per recriminare alcunché, sai? – borbottò, scura in viso.

- Non c’è più gelato in frigo. – continuò lui, ignorandola, sollevando il medio.

- Sono appena tornata, dai… - provò la ragazza – risparmiami. -

- E’ fallito anche il tuo ultimo attentato nei confronti di Biss. – e l’anulare si alzò a sua volta.

- Lo odio. – intervenne lei, sputando le parole – Deve crepare. -

- E hai graffiato il cd degli U2. – concluse, innalzando il mignolo, il ciuffo che gli ricadeva sulla fronte.

Lello ghignò, un paio di fossette che gli si formavano nelle guance:

- Sei a quattro, - spiegò – un quinto errore e dovrò punirti, scimmia. -

Ginevra allontanò, non senza fatica, gli occhiali dal viso per guardarlo come si deve e tentare di decifrarne l’espressione. Non vi riuscì.

Che fosse colpa della sbronza?

- Punizione? – domandò, strascicando le lettere – Che farai, Lello? Mi butterai fuori di casa? -

La risata di lui le trapassò il cervello, facendole ripromettere di non bere più…

…fino al venerdì successivo, è chiaro.

- No, - sorrise il ragazzo – temo che questo non succederà mai, mi dispiace. -

- E la punizione, allora? –

- Ti tolgo il caffè. –

 

La porta si aprì, una mano che sbucava poco dopo.

Le dita si strinsero sul borsone, tirandolo malamente all’interno della casa.

E l’uscio restò dischiuso, silenzioso invito.

Ginevra si alzò, scivolando nell’appartamento: non vi era traccia del ragazzo ma non se ne preoccupò più di tanto. Chiuse la porta e si diresse verso la cucina.

Sorrise, sospirando di sollievo:

- Preparo il caffè. -

 

§

 

 

 

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Capitolo 4
*** Sibili e caffè ***


3

 

 

Nel cuore della notte

 

 

Ginevra agitava il piede.

In modo cadenzato, ritmico, leggero: era più forte di lei. Lo faceva sempre, da sempre. Era così che cercava di allentare la tensione: l’unico modo sicuro che conosceva. Accavallava le gambe e agitava il piede.

Se ne stava lì, seduta al tavolo della cucina: una tazzina rossa fra le dita, piena di caffè.

L’altra tazzina, quella blu, l’aveva poggiata sul tavolo. La tazzina di Lello.

Si guardò attorno, soffiando sul liquido fumante: la finestra era chiusa, la tapparella abbassata… non filtrava un solo raggio di sole. L’aria era ancora pesante, viziata. Scrutò i mobili, il tavolo, le sedie, e trovò tutto coperto da uno strato di polvere: non era solo come se nessuno si fosse preso la briga di dare una pulita, ma era come se nessuno avesse vissuto in quel posto. Come se in quella casa non vi abitasse anima viva. Terrificante.

Sorseggiò piano, lasciando che il liquido ancora caldo scendesse senza ustionarla. E aspettò.

Guardava la porta, sperando di veder comparire Lello da un momento all’altro. Pregando che tornasse da lei, sedendosi al tavolo e stringendo tra le mani la tazzina di caffè che aveva preparato per lui, come piaceva a lui.

- Lello? -

Era stato più forte di lei: un richiamo. Fievole, timoroso.

Inascoltato.

Con uno scatto si alzò, abbandonando la tazzina sul tavolo e incamminandosi per il corridoio: la conosceva bene quella casa; per anni non aveva fatto altro che rifugiarvisi, immancabilmente. Arrivò fino in fondo, per poi girare subito a destra: era la camera di Lello. La porta era aperta, ma non una luce che fosse stata accesa.

Entrò in punta di piedi, indecisa se cercare o meno l’interruttore della luce.

Stava già tastando il muro, il respiro corto, quando sentì una mano che le si poggiava sulla spalla.

- La miseriaccia nera bastarda! – imprecò, trasalendo miseramente e voltandosi di scatto, il cuore bloccato in alto, proprio in gola – Lello e che diamine! – sbottò, tentando di riprendersi dallo spavento – Perché fai così, perché?! Da dove diavolo spunti, eh?! -

- Dal bagno –

La risposta era stata data con tono ovvio, in un qualche qual modo ancora duro.

Ginevra assottigliò lo sguardo, tornando a passo di marcia verso la cucina e trascinandosi dietro anche lui.

Non fu difficile: lui, certo, non oppose resistenza, ma in ogni caso sembrava leggero… era come tirare un corpo senza vita, o quantomeno un corpo che non ha più voglia di vivere. Di lottare.

Un corpo inerme.

Fu con uno strano scatto che lasciò andare la manica del ragazzo, quasi spaventata.

Era strano. Non era il Lello che conosceva e non riusciva a fare a meno di notarlo, di ripeterselo.

Non riusciva a realizzarlo.

- Il caffè si sta freddando – borbottò, rimettendosi a sedere.

Lui non fece niente, immobile. Fermo sull’uscio, fissava la tazzina blu con aria assente, come se non la vedesse. Il maglione gli stava largo, accentuando quella che ormai era la sua esile struttura. Ginevra rabbrividì, sforzandosi di non dar troppo a vedere lo sgomento che provava nel vederlo in quello stato, nel non riuscire a riconoscerlo. Accennò un sorriso, sperando invano che lui lo ricambiasse.

- Non ti va? – domandò allora, rompendo ancora una volta quel silenzio troppo, troppo pesante.

- Non bevo più il caffè –

Era stata una risposta secca, coincisa. La risposta di uno a cui non va di fare conversazione.

- Come mai? – chiese comunque lei, ignorando la voce ancora roca del ragazzo, sorvolando sul fatto che lui continuasse a guardare nel vuoto, assente.

- Non mi lascia dormire –

Ginevra annuì, inclinando leggermente di lato il capo. Il caffè non lo lasciava dormire? Il caffè?

Non indagò oltre, fingendo di aver dimenticato il passato: quegli anni che avevano condiviso, in cui avevano imparato a conoscersi l’un l’altro meglio di quanto conoscessero realmente se stessi. Fingendo di non ricordare quanti caffè bevesse lui normalmente, giornalmente, senza che la caffeina gli facesse il minimo effetto.

- Preferisci altro? Ho visto qualche bustina di the nella credenza, o un po’ d’acqua, non saprei… -

- Niente – fece lui, strascicando anche quell’unica parola – Niente, Gin –

Ginevra annuì, gettando la spugna.

Cercò disperatamente lo sguardo di lui, senza riuscire ad incontrarlo nemmeno per un secondo.

Pensò ad Amanda, al discorso della ragazza, alla sua paura che lentamente stava cedendo il passo a un cieco terrore, sconvolgente. Lo aggiusti tu?

Voleva aggiustarlo. Voleva farlo con tutta se stessa, non desiderava altro da quando l’aveva sentita al telefono che la pregava di raggiungerla… di raggiungerli. Perché c’era bisogno di lei. Perché era la sua ultima speranza.

Voleva aggiustarlo. E prendendo il treno aveva creduto che sarebbe bastato bussare alla sua porta per farlo. Per rimettere tutto a posto, per far tornare tutto indietro. Non aveva messo in conto questo.

Voleva aggiustarlo, ma non si aspettava di trovarlo così. Di imbattersi in un giovane uomo che non era più il ragazzo che conosceva come le sue tasche, in uno sconosciuto che non riusciva a inquadrare. Con chi diavolo aveva a che fare? Che fine aveva fatto Lello? Il suo Lello?

Voleva aggiustarlo e avrebbe ancora cercato di farlo. Non si sarebbe arresa per niente al mondo.

Solo, doveva mettere un attimo in ordine le idee, fare chiarezza. Delineare un piano, una pista da seguire.

Non poteva muoversi alla cieca.

- La mia stanza è sempre libera? – domandò di punto in bianco, la sua voce che rimbombava nel silenzio.

Aspettò una risposta, una minima reazione da parte del ragazzo: lui non si smosse, apparentemente non la sentì nemmeno. Stava per ripeterlo, le labbra già dischiuse e il cuore più pesante di qualche grammo, quando la replica giunse, come al solito, sorprendendola:

- Non è tua -

Secca, lapidaria come tutte le precedenti. Non se ne lasciò intimidire, affatto scoraggiata.

- E’ libera? – ripeté, sfacciata, stringendosi leggermente nelle spalle.

Un intervallo di qualche minuto, il tempo che a quanto sembrava era necessario al ragazzo per recepire una domanda e formulare una qualche stentata risposta. Qualche minuto di stallo e subito dopo il consenso di lui.

Ginevra sorrise, rinfrancata. Bevve l’ultimo sorso di caffè e poggiò la tazzina nel lavandino, quindi si avvicinò a Lello, passandogli accanto per tornare nell’atrio: non lo sfiorò nemmeno, cauta.

- Mi fermo per qualche giorno – annunciò, giusto a titolo informativo, afferrando con presa salda il borsone.

Aveva già cominciato a percorrere il corridoio quando sentì ancora la sua voce, distante come prima:

- No – biascicò – No, Gin, no -

Era quasi arrivata alla fine del corridoio, il vago sentore che lui la stesse seguendo: invece di girare a destra, però, questa volta svoltò a sinistra; aprì la porta con una spinta decisa e accese la luce:

- Come no? – ribatté, lasciando cadere il bagaglio sul pavimento – Sono appena arrivata, mi devo riposare e questa stanza è libera. Spiegami perché no, Lello -

Si mosse con sicurezza, conscia di avere qualche minuto di silenzio prima di dover riprendere la discussione.

Ripiegò le coperte, lasciando che le lenzuola e il materasso prendessero aria. Quindi si diresse verso l’unica finestra e spalancò il vetro, un gesto di pura liberazione, sollevando in pochi istanti la persiana: quella camera dava a nord e il sole non era visibile, eppure bastò la semplice aria, fresca e pulita, a farla sentire meglio.

- Ti ho già detto che non è il momento – fece il ragazzo, tormentato – Voglio stare da solo -

- Oh, ma io non ti darò fastidio! – esclamò Ginevra, aprendo gli armadi per farli arieggiare – Sarà come se non ci fossi, te lo assicuro. Tu fingi di non avermi visto arrivare, okay? –

Spense la luce, lasciando che ad illuminare l’ambiente cupo fossero soltanto gli ultimi bagliori provenienti dalla finestra: sospirò, rinfrancata, mentre una leggera brezza sembrava restituire un briciolo di vita a quel pezzo della casa. Con il sorriso ancora stampato in viso si voltò per osservare Lello: erano passati più minuti di quanti si aspettasse, cogliendola impreparata. Si voltò e si trovò a fissare un paio di spalle.

Lello si era girato, gli occhi spenti che puntavano nel buio del corridoio: lontano dalla luce, lontano dall’aria.

Lontano anche da lei.

Non fece in tempo ad aprire bocca che lui già si era allontanato, uscendo dalla camera: lo seguì, solamente con lo sguardo, spiandolo mentre rientrava nella sua stanza e si accostava la porta alle spalle. Sparendo.

Ginevra tremò, l’immagine di lui che si seppelliva nel buio che la colpiva diritta al cuore.

Crollò sul letto, il materasso che si inclinava sotto di lei con un movimento fin troppo familiare: quasi le si adattava al corpo, ormai. Affondò la faccia nel cuscino, sperando persino di ritrovarvi gli stessi profumi… quelli di allora, i suoi. Profumo di sogni, caffè, risate e segreti. Profumo di alcol e fumo, di amore e paura.

Profumo di casa, di sicurezza, di certezza.

Come se niente fosse cambiato.

Fremette, rigirandosi fra le lenzuola e lasciando che lo sguardo si perdesse sul soffitto: come poteva fingere che niente fosse cambiato quando la prova tangente che non era così si trovava appena fuori quella porta?

Ah, Lello, Lello… cosa diavolo mi combini?

Non senza difficoltà si mise a sedere, togliendosi le scarpe e restando a piedi scalzi: quando poggiò i piedi sul pavimento, su quel parquet che le era sempre piaciuto da impazzire, avvertì finalmente il freddo. Non si era resa conto di quanto fosse bassa la temperatura in casa, troppo sconcertata da ciò in cui si era appena cacciata.

In punta di piedi arrivò fino alla finestre e la socchiuse appena, lasciando comunque aperto uno spiraglio.

Poi sgattaiolò fuori dalla stanza, raggiungendo quella di Lello: non accese la luce, si limitò ad aspettare fino a che gli occhi non si abituarono all’oscurità. E lo vide: raggomitolato sotto le coperte, solo i capelli visibili, sparsi sul cuscino. Sentì una stretta al cuore, l’impulso fortissimo di correre da lui che l’assaliva: il desiderio assurdo di saltare sul letto, stendersi al suo fianco e stringerlo a sé, avvolgendolo fra le braccia, sussurrandogli parole di conforto… voleva solo riprenderlo con sé e non lasciarlo più andare.

In punta di piedi, silenziosa come era entrata, uscì. Si chiuse la porta alle spalle e strofinò le mani, espirando.

E ora?

 

 

- Pronto? -

- Ginevra? – chiese la voce, esitante – Sei… sei tutta intera? –

- Intera, sì. Distrutta, anche – rispose la ragazza, sospirando mentre poggiava la schiena al frigorifero, uno straccio stretto in mano e un rivolo di sudore che le scendeva lungo la tempia – Questa casa era un macello

- Un macello? – borbottò la voce, recuperando un briciolo di vigore – Quindi… quindi sei entrata? Ti… ti ha vista? Come… come sta? Non… -

- Amy, calmati – sussurrò Ginevra, rilassata – Va tutto bene, okay. Lo aggiusto io, ricordi? –

Una risata raggiunse l’orecchio di Ginevra. Una risata sollevata, con ancora un fondo di isteria.

- Non riesco a crederci -

- Credici, invece. Sono entrata e lui mi ha vista. Ora… ora ti racconto, dai –

Prese un bel respiro e si lasciò scivolare sulla sedia più vicina, sempre attenta a non fare troppo rumore, sempre attenta a non alzare troppo la voce. Camminava in punta di piedi, sempre.

- Gli ho detto che mi fermo qui per qualche giorno -

- E lui? Non ha detto niente, era d’accordo?!

- No. No, non era d’accordo. Ma… mi è sembrato che non avesse nemmeno la forza di discutere. Ci è voluto poco, alla fine: mi sono sistemata di nuovo nella vecchia stanza, ma mi sarebbe andato bene anche il divano. Lui… non lo riconoscevo quasi, sai? Non credevo stesse così… così. Mi sono spaventata –

Amanda non disse niente, il senso di amarezza che tornava a farsi sentire. La preoccupazione sorda che lenta la assaliva di nuovo, rischiando di annientarla.

- Non è più lui, te lo avevo detto – si limitò a ribadire, la voce atona.

- Lo so, lo so. Solo non riuscivo a crederci, ecco tutto. Non è… Lello. Ha la barba, mio Dio! Non si è mai, dico mai, fatto crescere la barba e ora ne ha una che basterebbe a tenerlo al caldo per tutto l’inverno. E i capelli… da quant’è che non li taglia, porca miseria? No, aspetta, da quanto non li pettina?! E la casa, Amy! –

- Te lo avevo detto – la interruppe l’altra, il tono duro che ricordava quello del fratello – Ti avevo detto che non sapevo più che fare, come comportarmi. Ho… ho cominciato a temere il peggio. Tu… tu non sai quello che è successo. E’ stato terribile, ho avuto paura… ho ancora paura che lui non riesca a superarlo e… -

- Non voglio saperlo, Amy –

Amanda si bloccò, presa in contropiede. Le parole che le morivano in gola.

- Non voglio saperlo da te – chiarì Ginevra – Quando e se vorrà raccontarmi cosa è successo per ridurlo così, dovrà essere lui a farlo. Solo lui. Non ho il diritto di sentirlo da te, mi dispiace. Non dopo un’assenza di cinque anni. Tutto quello che mi serve sapere è che sta male e basta uno sguardo per capirlo. Tutto il resto viene dopo. E sta a lui. Solo a lui -

- Va bene –

- Ora. Vuoi sentire cosa ho fatto, sì o no? – sorrise Ginevra, guardandosi attorno con soddisfazione.

- Certo. Lo hai convinto a farsi una doccia? –

- Oh, no, no. Magari. Non faccio miracoli, sai? Lui si è chiuso in camera e sepolto sotto le coperte. Io però mi sono data da fare – ghignò la ragazza – Ho finalmente aperto le finestre, si respira Amy, renditi conto! Ho lavato per terra e spolverato ovunque: non puoi immaginare lo strato di sporco che ho dovuto togliere solo per arrivare a vedere le superfici originarie! E ho messo a cuocere un sugo, anche se ho i miei dubbi che ne uscirà qualcosa di decente… - tentennò un attimo, indecisa, poi prese coraggio - … il frigorifero era vuoto, Amy –

- Lo so –

- E…? Che faceva, Amy? Si stava lasciando morire di fame? –

- Gli portavo io qualcosa – borbottò la ragazza – E restavo con lui finché non mi assicuravo che avesse mandato giù almeno qualche boccone. Poi… quando non mi ha più voluto far entrare ho… -

La voce di Amanda aveva cominciato a tremare.

- Hai chiamato me. Va bene. Va bene così, Amy -

- Lo aggiusti tu – sussurrò quella in risposta, cercando di convincersi della cosa, per poi provare a tornare su un tono più allegro – Ma non stai morendo di freddo con tutte le finestre aperte? –

- Sì, in effetti sì – rispose Ginevra, alzandosi con un certo sforzo – Ora le chiudo e cerco di far funzionare questo dannato riscaldamento. Poi mi faccio coraggio e torno nella tana dell’orso

Amanda accennò una risatina non troppo convinta, ringraziandola ancora e ancora, facendosi promettere altre chiamate e mandandole un enorme, stritolante abbraccio. Ginevra sorrideva quando chiuse la telefonata.

Un sorriso stanco, certo, ma pur sempre un sorriso. Le era sempre stata simpatica quel folletto.

Fece un rapido giro dell’appartamento e chiuse tutte le finestre, lasciando aperte le persiane.

Diede una rapida controllata al sugo e poi tornò in salotto, inginocchiandosi di fianco al centro di controllo del riscaldamento: era un aggeggio che detestava. Fissò la centralina, scorrendo i vari tasti, e scosse il capo.

Girò la manopola dell’aria calda, quindi alzò la temperatura intorno ai 22°C. E aspettò.

Aspettò di sentire quel particolare rumore, come di un jumbo che si appresta a partire, che palesava l’avvio riuscito del riscaldamento. Tese le orecchie, impaziente, ma non sentì niente. Si sollevò sui talloni, incerta.

Che avesse sbagliato qualcosa? Imprecò a denti stretti, nervosa, lanciando un’occhiata malevola in direzione del corridoio: come diavolo faceva Lello a farlo funzionare? Si lambiccò il cervello, cercando di ricordare… e poi sentì un leggero fruscio provenire dalla conduttura. Assottigliò lo sguardo, pregando di esserselo immaginato.

Non poteva essere.

Sollevò il coperchio e, quasi senza respirare, si piegò per guardarvi meglio all’interno: fu con estremo sollievo che non vide assolutamente niente. Arretrò, una risatina che le sfuggiva dalle labbra: si era preoccupata senza motivo. Figurarsi poi se dopo anni andava ancora a dormire…

E il serpente strisciò fuori dalla conduttura.

- Lello! –

Non riuscì a trattenere l’urlo, isterica.

Fissava le lunghe spire del serpente che avanzava verso di lei e si sentiva assalire dalla rabbia, incredula.

Quel dannatissimo serpente era ancora vivo! Ma che cazzo, non ce l’aveva una data di scadenza?!

- Lello! Vieni subito qui! – strillò ancora, mentre il serpente le si avvicinava sempre di più, sibilando piano.

Ginevra ignorò il sibilo del serpente, ignorò il fatto che il riscaldamento avesse cominciato a funzionare.

- Lello, dannazione! – sbraitò nell’istante stesso in cui il rettile le si arrampicò sulle gambe – Lo so che mi senti, bruttissimo bastardo! Vieni immediatamente qui, mi hai capito! Ora! -

Respirò con affanno, le spire dell’animale che ormai erano arrivate fino al suo collo, avvolgendole il collo.

- Lello, vieni – piagnucolò, le membra che le si irrigidivano – Toglimi il tuo stupidissimo serpente di dosso, ti prego. Lo sai che non l’ho mai sopportato. E dire che quasi me l’ero aspettato di vederlo uscire dalle cond… -

Si zittì di colpo.

Fu questione di istanti: pochi attimi e non sentì più il peso del rettile su di sé.

Si voltò, sorpresa, e si trovò faccia a faccia con Lello:

- Oh – riuscì solo a balbettare – Grazie -

Lui non mosse un muscolo, il serpente che placidamente gli si accomodava addosso: lo avvolse in quello che a Ginevra sembrò tanto un amorevole abbraccio, poggiandogli il capo sulla spalla. Gli occhi dell’animale erano fissi in quelli della ragazza, ironici. E Ginevra arretrò di un passo.

- E’ ancora vivo – affermò, ricambiando lo sguardo del serpente con odio.

- E’ sopravvissuto a tutti i tuoi attentati, non vedo perché avrebbe dovuto morire proprio quando non c’eri –

Ginevra aggrottò la fronte, senza sapere se a sorprenderla fosse stata più la risposta in sé o la velocità con cui le era stata data. Arricciò le labbra, risentita, alternando lo sguardo da rettile a padrone:

- Mi stava per uccidere – sibilò – Non avevamo detto che lo avresti regalato a uno zoo? E’ troppo lungo, per la miseria! E ti guarda in quel modo strano, inquietante… e ti viene alle spalle, quando meno te lo aspetti, e poi io non lo sopporto questo dannatissimo serpente, okay? Mi mette i brividi! E… -

Il serpente cacciò la lingua, sibilando in direzione della ragazza, troncandole di netto tutte le parole.

- Ti sta salutando -

Ginevra sgranò gli occhi, incrociando le braccia sul petto. Dannato rettile.

- Ricambia il saluto, Gin -

Roteò gli occhi, sbuffando piano.

- Ciao, Biss -

Lello annuì, solo una volta. Si girò, il serpente sempre sulle spalle, e strascicò i piedi lungo il corridoio. Lei lo guardò, incapace di dire altro, limitandosi a guardarli mentre sparivano entrambi un’altra volta, andandosi a rinchiudere nella stanza del ragazzo.  Sentì il rumore della porta che si chiudeva.

Rilassò le spalle, chiudendo gli occhi.

Doveva ucciderlo quel serpente.

§

 

 

 

* risorge dalle tenebre *

Non sono morta, avete visto? Ancora viva, vegeta… sopravvissuta all’esame di stato! ^-^

A scanso di equivoci: mi sono data un bel po’ da fare con lo scrivere u.u

Ho qualcosa come tre e più capitoli pronti per ogni storia ancora in sospeso, quindi: non disperate!

Detto ciò, non so quanti di voi ancora si ricordano di me .___.

Per quelli che straordinariamente ancora lo fanno, alle recensioni risponderò presto! Mano sul cuore <3

Un saluto enorme a tutti e un abbraccione,

Sara

 

P.s. ricordo sempre, a scanso di equivoci, il gruppo: Tutto fuorché uno sbaglio

      Come sempre, siete i benvenuti *-*

 

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Capitolo 5
*** Palpatine ***


Palpatine

 

 

Nel cuore della notte

 

 

 

- Che stai facendo? -

- Gigì! – esclamò Luca, perforandole il timpano – Finalmente! Continuavo a fissare il telefono! Non sapevo se chiamarti oppure no: temevo sempre di sbagliare momento e… -

- Scusa – mormorò lei, interrompendolo – Dovevo chiamarti prima, ma mi sono fermata solo adesso –

- Che stavi facendo? –

- Pulendo, cucinando, strillando – elencò – Le solite cose, insomma –

- Com’è la situazione? – s’informò Luca, abbassando la voce – Sta messo davvero tanto male? –

Ginevra tentennò, senza riuscire a scegliere le parole. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Che sì, Lello davvero stava messo tanto male? Ma proprio tanto, tanto, tanto. Che lei non aveva idea di come comportarsi?

- No – mentì – Ha solo bisogno di qualcuno che si prenda un po’ cura di lui -

- Non è un bambino, Gigì –

- In questo momento sì. A stento lo riconoscevo, Lu. Barba lunga, occhiaie… non sembrava Lello

- Quanto hai intenzione di restare lì, quindi? –

- Il tempo necessario –

Luca sospirò, avvertendo il tono irritato della ragazza: aveva sbagliato domanda. Si morse il labbro, inveendo mentalmente. Con voce più pacata, cercò di porre rapidamente rimedio:

- Non posso resistere a lungo senza di te, lo sai? -

Ginevra sorrise, stringendosi le gambe al petto e accoccolandosi meglio sul divano:

- Non mi hai più risposto – disse – Che stai facendo? -

- Zapping –

- Hai cenato? –

- Ancora no. Stavo decidendo se ordinare una pizza o ripiegare su una scorpacciata di gelato. Tu? –

Ginevra scosse il capo, mugugnando una risposta negativa: lanciò un’occhiata al sugo ormai pronto e subito dopo al corridoio. Sentì lo sconforto assalirla nuovamente e ringraziò silenziosamente che Luca fosse lì, al telefono con lei:

- Cercavo la forza di alzarmi dal divano per andare a chiamare Lello -

- Ti ha accolto bene, almeno? –

- Certo – rispose lei, decidendo di omettere la pistola che le aveva puntato contro.

- Va bene – sospirò Luca, fingendo un tono più sollevato e accomodante – Non stare via troppo, però, mi raccomando. Ti rivoglio qui, Gigì. Mi sento solo, altrimenti –

- Hai la televisione – ridacchiò lei – Sopravvivrai –

- Lo so. Non voglio sopravvivere con la televisione, però. Voglio vivere con te –

Ginevra reclinò il capo all’indietro, sorridendo a occhi chiusi: lo odiava quando se ne usciva con frasi di quel genere. Lo odiava perché riusciva sempre a colpirla proprio lì, nel profondo.

- Cretino – borbottò – Ordina la pizza e fai il buono -

- Sarà fatto – ridacchiò Luca – Fatti sentire domani, va bene? Non farmi stare in ansia –

- Domani mattina, promesso –

- Buona notte, Gigì –

 

 

- Posso? -

Schiuse la porta, aspettando che gli occhi si abituassero all’oscurità. Era soffocante.

Il buio, il chiuso… soffocante.

- Lello? – chiamò piano, solo un bisbiglio.

Riusciva a scorgerlo adesso: sempre sepolto sotto le coperte, immobile. Se ne stava lì, senza dar segno di vita.

- Ho messo l’acqua per la pasta – sussurrò Ginevra, guardandosi attorno con circospezione: non riusciva ad individuare quel dannatissimo serpente. Dove si era andato a rintanare, adesso?

Mosse un passo in direzione del letto, solo uno. Allungò la mano come a voler toccare le coperte, ma si fermò subito, incapace. Non ci riusciva. Non poteva.

- Vattene -

La mano ancora sporta verso il letto, sussultò, rischiando di perdere l’equilibrio.

- Io… - balbettò, incrociando le braccia al petto – Non ti va la pasta? Preferisci la pizza? Posso ordinarla, sai. O il cinese, non so. C’è sempre quel ristorantino adorabile, dopo l’incrocio? -

- Non ho fame, Gin –

La voce già normalmente rauca di Lello, da sotto le coperte giungeva ancora più attutita.

- Io sì, però – fece lei – Non vorrai lasciarmi mangiare da sola, vero? Lo sai che non mi è mai piaciuto: è triste, okay? Vieni a farmi compagnia, almeno. Ti siedi al tavolo con me e… -

- Sarà come se non ci fossi – grugnì il ragazzo – Hai detto così. Come se non ci fossi –

Ginevra fremette, cercando con tutta se stessa di impedire all’angoscia di avere il sopravvento su di lei. Non doveva dargliela vinta, per nulla al mondo. Doveva essere lei quella forte, forte per entrambi.

- E invece ci sono! – sbottò – Lo sai che dico un sacco di scemenze, Lello, non sono cambiata. Ci sono e non voglio cenare da sola. Alzati -

- No –

Assottigliò lo sguardo, l’impressione sempre più forte che l’aria cominciasse a mancarle.

- Alzati – ripeté – Vieni a farmi compagnia, dai -

- No –

Ginevra gemette, massaggiandosi le tempie con le dita. Un bambino, ho a che fare con un bambino. Guardò le coperte e strinse le labbra, prendendo una decisione improvvisa. Un bambino, eh?

- Non fare i capricci! – borbottò, stringendo saldamente le dita sulle coperte e tirandole via.

Lo aveva fatto con un gesto fulmineo; e subito dopo scattò all’indietro, orripilata. Un grido le era salito alle labbra, irrefrenabile:

- Oh, ma che schifo! – eruppe – Dormi con il serpente, Lello?! Con il serpente?! -

A fissarla erano due paia d’occhi: uno nero e uno giallo. Entrambi irati, temibili e minacciosi. La guardavano, palesemente infastiditi dalla sua presenza. Ginevra scuoteva il capo, incredula e schifata:

- Come, come si fa a dormire con un serpente? – continuava a borbottare – Non è freddo? E viscido? Oh mio Dio, non riesco a crederci… toglilo, dai. Allontanalo –

Lello non mosse un muscolo, girando il viso dall’altra parte. Il rettile continuava a squadrarla, gli occhi gialli che sembravano animati da una luce di aspettativa. Ginevra rabbrividì mentre strisciava via.

Quando si fu allontanato sospirò, ancora scossa. Se ne era andato da solo, realizzò dopo poco: bravo, Biss.

Senza più la presenza del serpente a intralciarla, si piegò su Lello e lo attirò con forza a sé, ignorando il suo sguardo omicida. Le dita strette sul maglione del ragazzo, lo buttò giù dal letto:

- Vieni a cenare con me -

Lello a stento si reggeva in piedi, le gambe che non riuscivano nemmeno a sopportare il peso del suo corpo. La guardò come se la vedesse per la prima volta.

- Ho detto che non ho fame – biascicò dopo poco, facendo per ricadere sul letto.

Ginevra lo placcò giusto in tempo, bloccandolo con il braccio:

- Dai, Lello – pregò – Vieni a farmi compagnia, almeno. Che ti costa? Posso anche parlare solo io, no? Tu devi solo stare lì, seduto. Presenza fisica ecco tutto -

- No, Gin, no! – sbottò il ragazzo, spaventandola – Perché non capisci un no?! Non ho fame, è così difficile da capire?! Non mi va di uscire dal letto, non mi va di lasciare la mia stanza! Non voglio farti compagnia! –

Ginevra arretrò, guardandolo con due occhioni enormi, feriti. Non era preparata alla sfuriata, ecco tutto.

Non se l’aspettava.

I bambini non ti gridano contro, ecco. I bambini ubbidiscono.

- Va bene – mormorò, abbassando il capo – Scusami –

Uscì dalla stanza senza guardarsi indietro. A passo veloce raggiunse la cucina, appoggiandosi al ripiano dei fornelli e riprendendo finalmente a respirare; aveva i pensieri in subbuglio, l’espressione dura e scostante di lui che non smetteva di ripresentarsi davanti ai suoi occhi. Non erano state tanto le parole a ferirla, quanto il tono.

Aveva alzato la voce, Lello. Non lo faceva mai.

Era la prima volta che gridava con lei, la prima in assoluto. E l’aveva sconvolta.

Buttò la pasta e guardò l’ora, gesti automatici che non si rese realmente conto di star compiendo. Ogni tanto girava il mestolo, lanciando occhiate alla tavola apparecchiata per due: la mente, però, era sempre altrove.

Sempre in quella stanza, mentre le urla di Lello le rimbombavano nelle orecchie. Assurde, inconcepibili.

Sbagliate.

Continuò a muoversi davanti ai fornelli senza essere davvero in sé: la pasta nel piatto, il sugo sulla pasta, una spolverata di parmigiano; quando si girò, ormai pronta, il piatto quasi non le scivolò dalle mani.

Lello era seduto al suo posto, le braccia incrociate sul tavolo, e la guardava in silenzio.

Non lo aveva sentito arrivare: lo fissò senza riuscire a camuffare lo sbalordimento; si sedette, rigida, posando il fazzoletto sulle gambe. Serrò le dita attorno alla forchetta e addentò il primo maccherone. Muta.

Quando sollevò lo sguardo, incontrò gli occhi di Lello: avrebbe giurato di vederci passare un lampo divertito, ironico quasi. Lo vide sporgersi verso di lei, annusando l’aria. Poi riabbassò lo sguardo e tornò a mangiare.

- Ha un buon odore -

Si impose di non sollevare il viso, il cuore che aumentava i battiti.

- Grazie – si limitò a rispondere, tesa, la voce controllata. Senza guardarlo si versò un bicchiere d’acqua, pieno fino all’orlo. Stava per chiudere la bottiglia quando la grande mano di lui entrò nel suo campo visivo, avvicinandole il suo bicchiere: lo riempì, velocemente, e poi tornò a fissare il piatto.

Lo sentì bere, i loro respiri unici rumori nella cucina silenziosa.

Avrebbe voluto sollevare lo sguardo, avere il coraggio di incontrare di nuovo gli occhi di lui… solo per poter ritrovare il Lello che conosceva. Ogni volta che era sul punto di farlo, però, sentiva la voce del ragazzo alzarsi.

Serrò la mano sinistra attorno al coltello, frustrata.

E fu in quel momento che sentì la mano di Lello. La grande, fredda mano di Lello: avvolse la sua, facendole liberare il coltello; gliela fece poggiare sul tavolo, le dita distese, e ci poggiò sopra la propria, coprendola tutta.

Ginevra guardò le loro mani e sospirò, un peso che la abbandonava.

- Sono riuscita ad accendere il riscaldamento – mormorò Ginevra, lo sguardo sempre fisso nello stesso punto del tavolo: lì, dove la sua mano spariva sotto quella di Lello.

- Adesso posso camminare a piedi scalzi tranquillamente – continuò, lasciando che la propria voce riempisse la cucina, scaldandola. Ravvivandola.

- Sai cos’è successo l’altro giorno? – fece ancora, rilassandosi un po’ di più a ogni parola – Ero in fila alla cassa, in libreria, e davanti a me c’era uno sui trenta: un figo pazzesco, per farla breve. Comunque, la cassiera se la prendeva comoda, così avevo tutto il tempo di starmene là, buona, a fissare il didietro di questo tipo

Sorrise, mandando giù un altro boccone, gli occhi che di tanto in tanto si sollevavano a incontrare quelli di lui. Sembrava che la tensione si andasse alleggerendo, un po’ alla volta, lentamente.

- Un sedere da dieci e lode, ti assicuro. Ed ero lì tranquilla che me lo rimiravo, quando due ragazzini che si stavano rincorrendo mi urtano, spingendomi in avanti: vado a sbattere contro il tipo. Assurdo. Gli palpo il culo, capisci? Non volontariamente, eh -

Ridacchiò, bevendo un sorso d’acqua, la vaga impressione di star tornando indietro nel tempo: a qualche anno prima, quando chiacchierate come quelle erano all’ordine del giorno, normali.

A quando quelle chiacchierate, però, non erano a senso unico.

- Oddio, non che non ci avessi pensato… ma erano fantasie, no? E invece per colpa di quei marmocchi sono finita giusto con le mani sulle sue chiappe

Masticò per qualche attimo in silenzio, come se stesse riflettendo su qualcosa.

- Mmh – mugugnò, assorta – Forse dovrei dire grazie a loro, sai? Sì, perché quel sedere da dieci e lode non era bello solo da guardare -

Sogghignò, scuotendo il capo. La pasta era quasi finita.

- Solo io sono capace di fare queste figure da niente, Lello – sussurrò – Non puoi immaginare la faccia che ha fatto il tipo, completamente persa! Si è girato e mi ha fissato con due occhi enormi, spalancati. Non riusciva a crederci, poverino… come se poi fosse la prima volta che qualcuno glielo tastava a dovere! -

Ginevra fissò il piatto vuoto e aggrottò le sopracciglia, sorpresa: non si era nemmeno accorta di star ancora mangiando, troppo distratta dal suo monologo. Troppo impegnata nello sperare che Lello la interrompesse, o le rispondesse, o commentasse: un qualsiasi segno, insomma, che le ricordasse che lui era davvero lì con lei.

Un segno che fosse vivo.

- Mi sono scusata, comunque, spiegandogli l’inconveniente. Lui non mi è sembrato troppo convinto, però… e non aveva tutti i torti, devo dire. Potrei aver indugiato un po’ più del necessario sulle sue chiappe, sai com’è. Mi sono detta: già che ci sono, perché avere fretta? -

La storiella era finita. Stava già cercandone un’altra da raccontare: qualcosa di così divertente che forse lo avrebbe smosso, facendolo ridere, quando sentì la stretta della sua mano aumentare. Abbassò lo sguardo, come per accertarsene: la mano di Lello ricopriva ancora la sua, avvolgendola tutta. E stringeva. Affettuosa.

Sollevò lo sguardo, fermandolo negli occhi scuri del ragazzo: e fu sicura, questa volta, di vederli addolcirsi.

Solo un pochino, solo un istante. Prima di alzarsi e andare via, verso il buio.

Erano le sue scuse, quelle. Una promessa silenziosa.

Non avrebbe più alzato la voce.

 

 

Faticava a riprendere sonno, Ginevra.

Si era svegliata di soprassalto, senza sapere come mai. E da più di dieci minuti non faceva altro che girarsi e rigirarsi nel letto, il lenzuolo che le si avvolgeva attorno. La casa era avvolta nel silenzio, completamente buia.

Aveva teso l’orecchio, aspettandosi di cogliere qualche rumore, ma niente.

Che rumore doveva poi esserci alle tre di notte, eh?

Nel cuore della notte.

Passarono altri dieci minuti, un po’ alla volta si calmò: smise di agitarsi, il viso che affondava nel cuscino.

Stava per cedere di nuovo al sonno, i sensi già smorzati e gli occhi chiusi, quando percepì quel qualcosa che non si aspettava più di sentire: un rumore, alle tre di notte. Un rumore che proveniva dalla camera di Lello.

Si districò dalle lenzuola, allontanando le coperte, e scivolò giù dal letto: percorse il corridoio, al buio, senza accendere alcuna luce. In punta di piedi, silenziosa. Quando arrivò davanti alla porta di Lello la vide socchiusa, stava per sporgersi a sbirciare, ma un sibilo la bloccò. Ginevra pietrificò, fissando sconcertata il serpente ai suoi piedi: i due occhi gialli la guardavano, insondabili; poi il rettile voltò il capo, sibilando sottovoce, quando dalla camera provennero altri rumori, più forti, consecutivi. Sembrò invitarla a sbirciare, infilando anch’egli la testa nella piccola fessura per guardare. Ginevra non si fece pregare.

Si piegò in avanti, attenta a non sfiorare il serpente, e spiò attraverso la porta socchiusa.

Gli occhi le si erano già abituati al buio, perciò non fu difficile inquadrare Lello: in piedi, davanti all’armadio. Fissava un completo appeso all’anta: una divisa da poliziotto. Aveva il fiatone, le mani chiuse a pugno.

E ben presto Ginevra capì come mai.

Lo vide arretrare di un passo e poi scagliarsi contro l’armadio, contro la divisa: colpiva, colpiva alla cieca.

Con rabbia, furia, disperazione. Colpiva. Un pugno, due. E poi calci, uno dopo l’altro, in rapida successione. Non sembrava avvertire dolore, totalmente assorto.

Il respiro si faceva sempre più sconnesso, sempre più difficile. Ansante.

Eppure non si fermava.

Al massimo si interrompeva per qualche istante, come prima, e poi tornava alla carica: più deciso e spietato di quanto non fosse stato in precedenza.

Ginevra arretrò, la mano che le copriva la bocca.

Non sapeva come affrontarla, una situazione del genere. Non sapeva se entrare oppure no. Se sgusciare nella stanza e provare a fermarlo fosse o meno una buona idea: e se avesse solo peggiorato tutto, attirando la rabbia del ragazzo contro di sé? Abbassò lo sguardo, combattuta, e incontrò di nuovo gli occhi gialli del serpente.

La fissavano, ancora insondabili.

- Perché non ci pensi tu, Biss? – si ritrovò a bisbigliare – Tu lo conosci, sai cosa fare… -

Si sentì una mentecatta, pronunciando quella richiesta d’aiuto.

Stava chiedendo l’appoggio di un serpente.

Sospirò, smarrita, facendo per muovere un passo malfermo in direzione della porta. Biss le sbarrò la strada, rapido, strisciandole davanti ed entrando nella camera di Lello. Lei sgranò gli occhi, basita, e osservò.

Il serpente strisciò fino al ragazzo, silenzioso. Letale.

Incurante dei calci che lui continuava a tirare, cominciò piano ad arrampicarsi lungo le sue gambe: le avvolse e continuò a salire, arrivando fino al collo. Lieve, rassicurante. Poggiò il capo sulla spalla di Lello come lei gli aveva già visto fare, innumerevoli volte. Lo aveva avvolto tutto: fermandogli le gambe e le braccia.

Salvandolo da se stesso.

 

§

 

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Capitolo 6
*** Basi ***


5 Basi

 

 

Nel cuore della notte

 

 

 

Spalancò la porta di casa con un calcio.

S’intrufolò dentro, gocce di sudore che le imperlavano la fronte: due buste strapiene in ogni mano.

- No, ti ringrazio! – esclamò, sarcastica – Non venire ad aiutarmi, Lello! Davvero, ce la faccio! -

A risponderle solo il silenzio.

Sbuffò, trascinando le buste in cucina e sollevandole sul tavolo con un ultimo, immane sforzo. Si sgranchì le dita, sospirando di sollievo per l’impresa appena compiuta. Sfilandosi il giubbotto si avviò verso la camera del ragazzo, entrandovi senza pensarci sopra due volte:

- Vedo che hai avuto da fare in mia assenza – ironizzò, avvicinandosi, trovandolo nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato quasi un’ora prima. Sepolto sotto le coperte. Invisibile.

- Vieni a guardarmi mentre poso la spesa? –

Silenzio.

- Il frigo era vuoto, e anche la credenza, così ho pensato di rifornirli un po’ -

Silenzio.

- Ho preso anche del gelato, e patatine, e cracker, e schifezze varie… tutto quello che può venirti in mente -

Silenzio.

Ginevra sbuffò, allontanando le coperte per riuscire a vedere il volto del ragazzo.

- C’è anche una sorpresa per te -

Lo vide aprire gli occhi e lanciarle un’occhiata indifferente, colma di apatia. Non gli interessava. No, non gli importava proprio un bel niente della sua sorpresina. Chiuse gli occhi.

- Dai che ti piace! – lo stuzzicò lei, tirandolo verso di sé e mettendolo in piedi come aveva fatto la sera prima.

Il sorriso di Ginevra si incrinò mentre il timore che lui potesse di nuovo urlarle contro l’assaliva. Poi, però, si ricordò della stretta della mano di Lello, della sua promessa silenziosa, e le paure svanirono.

Lo afferrò per la manica del maglione e lo tirò verso la cucina.

- Siedi -

Lello crollò a sedere sulla prima sedia, le braccia incrociate sul tavolo come la sera prima. Si piegò in avanti, poggiando il mento sulle braccia: Ginevra fremette, temendo che lui potesse chiudere gli occhi anche lì.

La stanza era luminosa ma non troppo. Le persiane erano state sollevate solo in parte: Ginevra non voleva interferire troppo, rischiando di indisporre il ragazzo, così si era limitata ad aprirle quel tanto che bastava a far entrare giusto un pochino di luce.

- Guarda – gli disse, cominciando a svuotare la prima busta – La frutta la metto qui – e prese una ciotola di legno, posandola al centro del tavolo.

Lello non rispose, non mosse un muscolo. Gli occhi scuri, però, non perdevano un solo movimento di lei.

- La pasta qui, sul solito scaffale – continuò Ginevra, ordinando i diversi pacchi colorati.

Aveva appena chiuso il mobile quando sentì il solito sibilo, sentore dell’apparire di Biss: lo intravide subito, mentre strusciava sul pavimento e si arrotolava attorno alla gamba del tavolo, arrampicandovisi piano. Fino ad arrivare a poggiare la testa sul bordo del ripiano, affianco a Lello.

Ginevra sospirò, le mani che si poggiavano sui fianchi mentre entrambi la fissavano, nella stessa posizione.

- Ma come siete carini! – esclamò, sarcastica – Da quant’è che state insieme, eh? -

Lello non rispose. Biss neanche.

- E va bene – sbuffò la ragazza, tornando a frugare nelle buste.

Ne estrasse rotoli di carta igienica, boccette di shampoo, due spazzolini, schiuma da barba, rasoi… tutte cose che i due, padrone e serpente, fissavano senza emettere suono. Ginevra le prendeva e le andava a posizionare al loro posto: quali in bagno, quali in salotto, quali in camera da letto. Non si aspettava repliche né tantomeno lamentele. Ormai non si aspettava più niente.

Aveva messo in bella mostra tutti i prodotti d’igiene, sperando forse che in Lello scattasse qualcosa: un vago senso di urgenza, una scintilla, un desiderio impellente. Dai Lello, pregava in silenzio: una doccia, non ti va di farti una bella doccia? Un bel getto d’acqua caldo sulla pelle, eh? O di farti la barba, eh? Non ti va?

Rimaneva solo un’ultima busta.

Ginevra sorrise, prendendo un coltello e poi tornando a sedersi di fronte a Lello.

- Eccoci qui – disse, arricciando le labbra con aria divertita – Vuoi sapere o no qual è la sorpresa? -

Lello non rispose, limitandosi ad inarcare un sopracciglio: Biss, con quei suoi occhioni gialli, quasi quasi era più espressivo di lui. Ginevra sospirò, accettando quel leggerissimo movimento come risposta.

Una scatola di biscotti e un barattolo di nutella, ecco cos’era la sorpresa.

Biscotti al cioccolato e cocco. Nutella.

Il paradiso.

- Te li ricordi, Lello? – sussurrò, cominciando ad aprire la Nutella – Sono quelli al cocco. Ho dovuto girare parecchio per trovarli, sai? Ne avevo una voglia pazzesca, però! -

Sorrise, immergendo il coltello nel barattolo e avvicinandolo poi al primo biscotto:

- Ne vuoi uno? -

Lello non rispose. La guardava con aria assorta, gli occhi che senza fretta indugiavano prima su di lei, poi sul biscotto e infine sulla lama grondante nutella. Apatico.

Biss sibilò, muovendo la lingua come se volesse leccarsi le labbra.

- Oh, signore! – esclamò Ginevra, sinceramente divertita – Il serpente è davvero più espressivo di te! -

Scuotendo la testa, spalmò la Nutella sul primo biscotto. E andò avanti così, prendendoci sempre più la mano, decorando di cioccolata un biscotto dopo l’altro: li poggiava con attenzione sul tavolo, in fila, e di tanto in tanto non resisteva al metterne uno in bocca. Si leccò le labbra, il sapore di cocco che si fondeva agli altri.

Sublime.

- Ti ricordi le porcherie che ci raccontavamo mentre mangiavamo queste bombe, Lello? – sussurrò – Cavolo, erano proprio porcate, eh? E non ci risparmiavamo i particolari – sghignazzò, i ricordi che riaffioravano, spinti a galla dalla Nutella – Come quella volta che lo feci con Angelo in camera dei suoi… - si leccò i denti – O quella di te e la pubblicitaria, nella sala conferenze… -

Si era fermata, limitandosi a mangiare i biscotti, sfaldandone lentamente le fila.

- Cazzo, alcuni racconti erano talmente sporchi che ancora mi chiedo se te li inventavi o cosa. Ci si potevano girare dei film porno, a ripensarci. Potremmo farci bei soldi, sai? – ridacchiò Ginevra, gli occhi del serpente che sembravano essere diventati biasimevoli – Mah, forse non dovremmo riderne. Eravamo dei pervertiti -

Stava scuotendo la testa, pensierosa, quando notò quel biscotto in particolare: era stracolmo di Nutella, traboccante quasi, e si stava lentamente allontanando. Guardò Lello che se lo portava alle labbra e per qualche attimo smise di respirare, sbigottita. Finse di non dar troppo peso alla cosa, continuando a parlare:

- Ci siamo divertiti, però, no? – sussurrò, affrettandosi a preparare altri biscotti – Com’era quella frase che ti piaceva tanto? Se non hai avuto una gioventù bruciata, allora hai bruciato la tua gioventù. Ecco. Di certo noi non abbiamo bruciato la nostra, ti pare? Direi che era già abbastanza bruciata di per sé -

Gli occhi di Ginevra non perdevano di vista la bocca di Lello: aveva mangiato il biscotto, diamine sì, lo aveva mangiato! Sentiva un fiotto di calore che le si spandeva nel petto, un senso di appagamento, di soddisfazione.

Osservava il viso smunto del ragazzo, quelle guance scavate, e non poteva fare a meno di chiedersi da quanto tempo non mangiasse come si doveva. Anzi, da quanto tempo non mangiava e basta… era denutrito, affamato.

Era come se si stesse davvero lasciando morire di fame.

Fino a quel momento. Quell’attimo, cinque minuti prima, in cui aveva addentato il biscotto.

E sì: cioccolato, cocco e nutella erano un ottimo modo per intraprendere il ritorno nel mondo dei vivi. Era come viaggiare in prima classe. La via più breve per rimettere un po’ di grasso su quelle ossa.

- La Saponaro! – esclamò di colpo Ginevra, una luce divertita negli occhi – Quella te la sei inventata, vero? Non ci credevo allora e non ci credo adesso: non è possibile che lo avete fatto sotto la cassa di un supermercato, non se, come dici tu, il supermercato era aperto –

Lello aveva portato un secondo biscotto alle labbra, lo sguardo di Ginevra che si faceva sempre più luminoso.

- Io non invento niente -

Ginevra sentì il cuore che mancava un battito per la troppa sorpresa. Due biscotti e quattro parole. Sembrava troppo bello per essere vero.

- E allora il cassiere cosa faceva mentre voi vi davate da fare ai suoi piedi? – chiese con tono di sfida, mentre a stento si tratteneva dal sospingere un terzo biscotto verso il ragazzo.

Lello si alzò in piedi, abbandonando la cucina.

La risposta arrivò dal corridoio:

- Guardava -

 

 

Aveva passato tutto il pomeriggio su quella poltrona.

Era sgattaiolata in camera di Lello per chiedergli cosa diavolo avesse fatto alla televisione. Aveva provato ad accenderla, ma niente. Aveva guardato l’intrico di fili neri e non ci aveva capito niente. Infine si era arresa.

Ed era andata da lui, sperando che le desse un suggerimento: un aiutino per riuscire a farla funzionare.

Era entrata in punta di piedi, come al solito, e lo aveva trovato sepolto sotto le coperte.

Come sempre. Con Biss che lo avvolgeva in parte, facendogli compagnia.

La voce le si era bloccata in gola, creando un groppo amaro, insopportabile. Doloroso.

Era crollata a sedere sulla poltroncina più vicina, senza curarsi dei vestiti che vi erano stati appoggiati sopra. Lello non si era mosso nemmeno, ignorandola completamente. E lei aveva stretto le gambe al petto, posandovi sopra il mento, cullandosi lentamente. Nel silenzio della stanza, cercava di annullare il boato dei pensieri.

Aveva passato tutto il pomeriggio su quella poltrona.

Inebetita, senza sapere cosa fare, cosa dire, come agire. Impreparata. Del tutto impreparata.

Era una sensazione che non provava più da tanto, tanto tempo: da quando ancora frequentava il liceo, forse. Chiuse gli occhi, le ombre delle interrogazioni passate che le tornavano alla mente: quel momento di paura cieca in cui apri le labbra e non sai cosa dire, perso. Cosa faceva in quei momenti? Prendeva un bel respiro. E poi? Poi cominciava dalle basi. Da ciò che sapeva. E ci ricamava sopra, abilmente, costruendo una conoscenza che non aveva in realtà. Inventandola.

Cominciava dalle basi.

Da ciò che sapeva.

Le basi.

- Ci siamo allontanati, Lello – mormorò, socchiudendo gli occhi – Lentamente, un poco alla volta. Fino a non vederci più, a non sentirci nemmeno. Un po’ alla volta fino ad arrivare agli ultimi cinque anni. Come? Come è potuto succedere proprio a noi? -

C’era un velo di ironia nell’ultima domanda: un’ironia che si riferiva al passato, a loro due. A quegli eterni sognatori che poi avevano dovuto fare i conti con il mondo, con la realtà.

- Siamo stati due sciocchi, non è vero? Convinti di poter superare ogni cosa, di essere invincibili. E poi? Alla fine dei giochi sono bastate la distanza e qualche lite un po’ più violenta per farci fuori. Non è assurdo? -

Ginevra si passò le mani sul viso, massaggiandosi gli occhi:

- Non era mia intenzione allontanarti, lo sai. Non l’ho mai voluto. Io… non è facile parlarne, Lello. Sembra tutto così banale, così scontato. Come hanno potuto batterci poche ore di treno? -

Scuoteva il capo, lottando contro il suono petulante della propria voce: era difficile dare finalmente voce a quei pensieri, renderli veri, reali. Accettare che sì: la loro amicizia non era stata abbastanza forte. Un legame durato anni e anni, sopravvissuto apparentemente a tutto, non ce l’aveva fatto contro la distanza.

Non erano bastate le telefonate, i messaggi, le foto. Non era bastato niente.

Si erano allontanati, sempre più distanti: sommersi dal lavoro, presi dai nuovi amici, dalle famiglie, da tutti i pensieri. Avevano lasciato che i nodi della loro unione si allentassero, che arrivassero perfino a sciogliersi.

Le chiamate da giornaliere divennero settimanali, poi mensili e via via sempre più rade. Sempre più dure, più difficili: avevano tanto da raccontarsi ma non ci riuscivano, come impediti. Non riuscivano a scherzare sulle cose più banali, non avevano modo di fare collegamenti o riferimenti; niente. Si erano persi.

I punti in comune andavano sbiadendo: le persone che nominavano non erano le stesse, gli eventi a cui si riferivano non erano conosciuti… e calava il silenzio, sempre più spesso. Più pesante. Insopportabile.

Un silenzio che non gli era familiare, che non c’era mai stato fra di loro: soppiantava le risate, i doppi sensi. Cambiava tutto, annientando il calore. Cancellando i sorrisi. Sottolineando la distanza.

- Eravamo arrivati a un punto in cui non avevamo più niente da dirci, te ne rendi conto? – balbettava lei, non riuscendo quasi a credere alle proprie parole – Noi, che non avevamo argomenti di cui discorrere. Noi. A dirlo, e ancora stento a crederlo. Mi sembra assurdo. Noi. Noi che potevamo parlare per ore anche di una macchia del tavolo, che passavamo minuti imbarazzanti al silenzio, zitti. Persi -

E poi gli ultimi cinque anni.

Anni di silenzio assoluto, come se non esistessero più l’uno per l’altro. Scomparsi.

- Ho provato dolore, lo sai, per questi cinque anni. Sempre. Un dolore sordo, continuo, ma talmente lieve e indefinito da passare inosservato. Era come se ci fosse un qualcosa di freddo e pesante, lì nel petto, a ricordare che qualcosa l’avevo sbagliato. Ed era sempre lì, immancabilmente: non potevo fare niente, però. Nemmeno chiamarti: se anche lo avessi fatto, cosa avrei potuto dirti, eh? Mi capitava di prendere il cellulare, di digitare il tuo numero e poi di stare lì a fissarlo con sguardo vacuo: gli racconto di Sofia, pensavo. Per poi ricordarmi che tu non conoscevi Sofia. E allora gli chiedo come va con il computer, e poi mi veniva in mente che si era rotto tipo tre anni prima. Così mi perdevo… quel dolore sordo che improvvisamente aumentava. Bastardo -

Ginevra sospirò, reclinando il capo all’indietro.

Ecco come un’amicizia secolare, iniziata alle medie e andata avanti per più di dieci anni, era andata a farsi fottere. Avevano condiviso casa, scuola, emozioni, follie: tutte quelle cose che non si dimenticano più, che ti cambiano, ti temprano, ti rendono ciò che realmente sei. Le avevano passate tutte: insieme. Come nei film, nei libri, e nei migliori racconti. Amici del cuore, per la pelle, di sangue.

Amici del cazzo, avrebbe aggiunto lei con il senno di poi.

Amici che non reggono cinque ore di treno a dividerli.

Amici?

- E cosa ci resta ora, Lello? A parte i ricordi, dico. Come possiamo anche solo pensare di conoscerci ancora, per davvero? Lo sai a cosa ho pensato quando ho messo piede qui? Ho pensato che niente era cambiato. Che era veramente tutto come prima, come quando l’avevo lasciato. Poi vedo te. E fatico a riconoscerti, a trovare i tuoi occhioni neri e a convincermi che sì, sei davvero tu. Il mio Lello… e poi… -

Ginevra si bloccò, mordendosi un labbro.

Aveva perso il filo del discorso, stava divagando: rischiava di dire cose che non voleva, che non doveva.

E poi ricordò: le basi.

Cominciare dalle basi.

Basi.

- Ti ho parlato di Luca, Lello? -

Ricominciò. Dalle basi.

Gli raccontò tutto, gli occhi chiusi, dando libero sfogo a tutte le parole che non le erano uscite durante le loro telefonate. Cominciò dall’inizio.

Gli raccontò di Luca: di come, dove e quando lo aveva conosciuto. Glielo descrisse, sorridendo appena un po’ e scuotendo leggermente il capo. Gli raccontò ogni cosa, ogni particolare. Le sue fobie, i suoi difetti, ciò che la faceva impazzire e ciò che invece amava di lui. Tutto. Persino quanti nei aveva.

Gli raccontò del lavoro: di cosa doveva fare, di quanto caffè beveva, del capo che cercava di tastarle il sedere. Gli descrisse il suo ufficio, minuscolo e senza una finestra. La fotocopiatrice che si inceppava una volta su tre e i colleghi che la facevano mangiare troppo, invitandola sempre fuori. Il gatto randagio che dormiva sotto la sua scrivania e la signora del palazzo di fronte che inveiva contro un marito che non si alzava mai dal divano.

Gli raccontò dei genitori che avevano festeggiato i venticinque anni di matrimonio, chiedendole prima che andasse via che fine avesse fatto quel vecchio amico: quello con i capelli neri e gli occhi ancora più neri.

Gli raccontò del fratello che continuava a leggere fumetti, ormai una cosa sola con il computer.

E poi tornò a Luca, ai viaggi che avevano fatto assieme. Il momento in cui aveva accettato di trasferirsi da lui. E l’appartamento di Luca: la sua nuova casa. In centro, proprio sopra una libreria: quella in cui aveva palpato il sedere al tipo fichissimo. Il cane di Luca: color miele, peloso al punto giusto. I peli che il cane perdeva ovunque e che le si attaccavano sui vestiti, irritandola a morte.

Il passaggio, poi, il collegamento, venne spontaneo. Naturale.

Il cane di Luca e il serpente di Lello.

Il presente che si fondeva al passato, come una magia. Era riuscita a fare quello in cui loro si erano arresi. Era riuscita a ricucire un filo, a riallacciare un nodo. Unendoli di nuovo.

Non si era fermata, per quanto quel peso freddo e duro nel petto si fosse alleggerito. Continuò a straparlare, irruenta, incontenibile. Aneddoti di ieri e di una vita prima, del lavoro e del liceo. Storie con Luca e storie con Lello. Figuracce di cui lei era sempre la protagonista. Immancabilmente.

Fu con sorpresa che si accorse dell’assenza di Biss: non avrebbe saputo dire in che momento il serpente fosse strisciato via; non se ne era proprio resa conto, troppo immersa nei racconti. Troppo felice.

Aveva dato libero sfogo a tutto. Ogni cosa.

E ora Lello era come se fosse tornato a far parte di lei: ormai conosceva quasi tutto, probabilmente stordito dal troppo parlare di lei; eppure Ginevra era contenta. Perché adesso lui avrebbe potuto capire ogni battuta che lei faceva, ogni suo riferimento. Perché conosceva tutto e tutti. Era come se anni e anni di assenza stessero pian piano sbiadendo. Accorciandosi. Assottigliandosi.

Con ancora maggiore sorpresa si accorse degli occhi di Lello che la fissavano.

Aveva cacciato la testa da sotto le coperte e la guardava, come a dare almeno segno di essere sveglio. E lei si sentì sciogliere, esaltata, perché quei pozzi neri erano fermi nei suoi.

Quando le mancò per un attimo la voce non aveva ancora finito di raccontare: era nel bel mezzo di una storia ma la gola le si era completamente seccata, esausta. La lingua sembrava non volerle più ubbidire.

Ginevra si schiarì la gola, sgranchendosi le gambe: era arrivato il momento di prendersi una pausa. Si alzò in piedi, stiracchiandosi. Il sole era tramontato da un pezzo. E a lei andava di guardare un dvd.

- Lello – mormorò semplicemente – Mi accendi la televisione? -

Non attese risposta, uscendo dalla stanza.

Si chiuse in bagno, il bisogno urgente di fare una pipì. Non era certa di ciò che avrebbe trovato uscendo: si stava solo illudendo, molto probabilmente. Illudendo di aver risolto qualcosa, o almeno di averci provato.

Tirò lo sciacquone e si avviò verso il salotto, delusa dal buio che ancora la avvolgeva.

Stava per tornarsene in camera e mettersi a letto, abbattuta, quando lo sentì.

Sorrise e sospirò.

L’audio della televisione.

 

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