Hantis Lilyandrë

di M e g a m i
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione. ***
Capitolo 2: *** Il figlio di Gevries. ***
Capitolo 3: *** Promessa. ***
Capitolo 4: *** Ricordi. ***



Capitolo 1
*** Prefazione. ***


NDA: E niente, parlando con _Haily_, mi è venuta voglia di riprendere in mano questo libro (!) che ho iniziato qualcosa come tipo cinque anni fa. :°D
Ho già qualche capitolo pronto, che ovviamente sarà da rivisitare perché il mio modo di scrivere è maturato parecchio –TIRIAMOCELA– da quando avevo tredici anni.
Come al solito, le recensioni sono ben accette! Adoro leggere le vostre opinioni, positive o negative che siano!
 
 
 
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HANTIS LILYANDRË
 
 
 
PREFAZIONE



 

E di fronte a lui, una vita si spegneva mentre un’altra cominciava il suo corso.
Aveva provato di tutto. Aveva usato, scambiato, anni della sua vita, era diventato più vecchio. Ma non era servito a niente. Julieth stava morendo di fronte a lui, lui, completamente impotente.
Faticava a respirare, la sua fronte era imperlata di sudore per la fatica del parto. Con la poca forza che le era rimasta stringeva al petto la causa della sua morte, e la guardava come se fosse la cosa più bella che avesse mai visto.
« Devi... », Julieth mormorò con voce flebile, quella stessa voce che tante volte aveva cantato per lui, aveva riso con lui, gli aveva dato preziosi consigli, lo aveva consolato. Voce che ora era ridotta a niente più che a un sussurro. La giovane donna chiuse gli occhi, e deglutì, cercando la forza per parlare.
« Devi promettermi che farai in modo che torni da suo padre. So cosa... cosa vogliono fare gli Anziani, e non lo posso permettere. Sarebbe... la rovina del tuo mondo e... la fine del mio. »
A quelle parole, lui sbatté le palpebre più volte, allibito. Come aveva fatto a scoprirlo? Ma Julieth non era una donna, un’umana come tante altre, di questo ormai si era reso conto da troppo tempo. Rimase a riflettere per un breve istante, perché ogni istante che avrebbe perso, non avrebbe potuto passarlo con quella donna che amava come se fosse sangue del suo sangue.
Cosa c’era di male nel piano degli Anziani?, si chiese, incontrando lo sguardo di Julieth, che andava lentamente spegnendosi. Aveva imparato per esperienza che quando quegli occhi dello stesso colore del cielo al crepuscolo asserivano qualcosa, questa risultava sempre esatta. Ed in quel momento, anche se privi della luce che fino a quel momento li aveva illuminati, brillavano di una forza, di una determinazione davanti alla quale non si era mai trovato.
La determinazione di una madre. Di una regina.
Che il suo intuito avesse fallito quella volta? Ne dubitava.
« Promettimi che... farai di tutto per proteggerla... », la voce di Julieth risuonò ancora nel silenzio della foresta, sempre più debole, sempre più distante.
« Ti do... la mia parola. », si sentì rispondere, quasi non riconoscendo il suono spezzato, incerto, che uscì dalle sue labbra. La guardava, e si sentiva impotente. Presto se ne sarebbe andata. E non c’era più niente che lui potesse fare per impedirlo.
Con un gesto impulsivo, qualcosa che non faceva parte di lui, le afferrò una mano e la strinse forte, come a volerla trattenere al suo fianco. La giovane donna fece un sospiro e lasciò dipingersi sulle sue labbra un sorriso. Sembrava in pace, soddisfatta, nonostante quella fosse la sua fine. « Devo... andare, ora. Il mio tempo è finito. Tieni... tieni fede alla tua promessa... »
« Come... come la vuoi chiamare?», le chiese, lui e ancora faticò a riconoscere il tono disperato impresso nella sua voce. Aveva posto quella domanda nonostante conoscesse già la risposta. L’aveva saputa nello stesso momento in cui quella creatura indifesa era venuta al mondo. Julieth capì che il suo era solo un vano tentativo di rubare tempo che non gli era concesso, e sorrise ancora, guardando con amore sia lui che quella che era la sua unica e sola figlia.
« Lo sai... » sussurrò sfiorandogli una guancia, talmente delicatamente che quel tocco gli parve carezzevole e ormai immateriale come l’aria. « E fai in modo... che sia per sempre. So... che puoi farlo. È l’ultimo... è l’ultimo favore che ti chiedo ».
Un brivido gli percorse la schiena, a lui che non conosceva né il freddo né la paura. Per la prima volta in vita sua, si sentì smarrito. Piccolo, come quell’essere fragile e delicato che Julieth gli stava ponendo gentilmente tra le braccia. Il calore che emanava quell’esile corpo, era tipico degli umani. Qualcosa in grado di scaldare pure il più glaciale e immortale dei cuori.
Per l’ultima volta, alzò gli occhi a incontrare lo sguardo di lei, quasi in una muta richiesta di aiuto. La sensazione di smarrimento crebbe dentro di lui come il calore che pian piano gli si stava diffondendo all’altezza del petto.
« Addio... », per l’ultima volta, la dolce voce di Julieth cantò, per entrambi, per entrambe le vite che stava lasciando. Poi si abbandonò contro il tronco dell’albero, e per l’ultima volta sorrise, andandosene con quell’espressione incantevole sul viso.
Non pianse. Il suo cuore inflessibile, rigido, vecchio come la luna e le stelle non sapeva come fare. Rimase a guardare quel corpo vuoto senz’anima chiedendosi se tutto quello che gli avevano insegnato gli Anziani fosse vero. Se era così allora lei non era morta. Sarebbe continuata a vivere per sempre. Avrebbe fatto parte della magia del mondo.
Rimase immobile finché non trovò la forza di andare avanti. Non sapeva quanto tempo fosse passato. La bambina tra le sue braccia, era silenziosa, probabilmente dormiva. Fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di guardarla. Cosa avrebbe provato?
Lentamente, abbassò lo sguardo. Con stupore vide che non stava dormendo. Ma la cosa che più lo sorprese furono i suoi occhi. Non avendo mai visto un neonato, né umano né della propria specie, non poteva sapere che era una cosa straordinaria che quella bambina avesse gli occhi color azzurro vivo che brillavano, mentre lo guardava, attenta come non avrebbe dovuto esserlo. A meravigliarlo, perciò, non fu quello, ma il fatto che quegli occhi del colore del cielo al crepuscolo fossero identici a quelli della madre.
Delicatamente le sfiorò una guancia e l’unico ciuffo di capelli neri. La bambina sorrise, e anche lui non poté farne a meno. Dentro di sé provava una sensazione strana, si sentiva pieno d’emozione. Un’emozione che però non aveva mai provato e che quindi non sapeva decifrare.
«Lilyan…», mormorò con dolcezza. Lei in risposta rise ancora, scatenando in lui quell’emozione strana.
Una folata di vento, gli fece ricordare la sua promessa. Si chiese se non fosse stata proprio Julieth, che ora faceva parte della magia del mondo sotto forma di aria, di acqua, di terra, di fuoco, di stelle, di tutto ciò che rientrava sotto il nome di Natura. Ora non voleva più separarsi da quella bambina con gli occhi azzurri che lo faceva sentire vivo. Ma le aveva dato la sua parola.
Sospirò, pensando a come poteva fare per riportarla da suo padre. Per lui non era possibile. Avrebbe incaricato qualcuno di fidato. Sapeva già a chi dare quel compito. Ora rimaneva un ultima cosa da fare.
Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, raccogliendo la sua magia, e, pronunciando il nome che era nato con lei, la sfiorò dietro la spalla destra.
Dalle sue dita si sprigionò una luce violacea.
E fu per sempre.

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Capitolo 2
*** Il figlio di Gevries. ***


NDA: Ma quanto mi piacciono tutti questi nomi strani che derivano dall’afrikaans...! *-*
Forse all’inizio voi farete un po’ di confusione, ma vedrete che col tempo vi abituerete –spero. Magari quando ne avrò raccolti un po’, posterò una specie di glossario!
 
 
 
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CAPITOLO 1: Il figlio di Gevries


 

Vurige, l’Astro Infuocato, stava tramontando dietro le mura fortificate di Rykstad, la capitale dell’Impero, lasciando il posto alla sua consorte Gevries, la Stella di Ghiaccio. Il cielo era tinto di mille colori, il quadro più bello della natura. La ragazza si fermò incantata ad ammirare quell’incredibile spettacolo, nascosta sul tetto, dietro il camino del panificio del villaggio. In diciassette anni di vita, non si era mai stancata di stare ferma a contemplare quella magnificenza; Nania, la sua ancella, quando era piccola la prendeva in giro, dicendo che l’alba e tramonto dell’Astro erano gli unici momenti in cui riusciva a stare calma e immobile senza strillare e fare capricci. Ma, anche se ora era cresciuta, e di capricci non ne faceva più, quell’armonia di colori aveva ancora la capacità di stregarla.
Lentamente scese il crepuscolo, e la Stella iniziò il suo dominio del cielo, circondata dalle costellazioni sue cortigiane. Appiattita contro il camino, la ragazza si sistemò la bandana nera in modo da coprire bocca e naso, si tirò su il cappuccio del mantello, e usando le rientranze del muro di mattoni come appiglio, silenziosamente scese in strada. Confondendosi tra le ombre, scivolò tra una via e l’altra, fino ad arrivare all’osteria.
Come stabilito, il grasso barista la stava aspettando sul retro dell’edificio, appoggiato al muro, che si stava tormentando nervosamente le tozze mani. La ragazza estrasse il coltello dal fodero, legato attorno alla gamba e ben nascosto sotto il mantello, e si fece avanti, rigirandoselo tra le dita, mostrando tutta la sua sicurezza. Immediatamente, l’espressione dell’uomo si trasformò da ansiosa a terrorizzata, e si schiacciò contro il muro, quasi volesse fondersi con esso per nascondersi. Lei si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo. La sua reputazione ormai era piuttosto temuta da tutti, nella Capitale. Ma sarebbe stato ugualmente così se avessero saputo che sotto mantello nero e fazzoletto si celava niente di meno che una donna?
« Figlio di Gevries... », mormorò l’uomo in saluto, deglutendo rumorosamente. Altra smorfia, celata dalla stoffa che nascondeva metà del viso della ragazza, dai lineamenti indiscutibilmente femminili e anche piuttosto avvenenti. Insieme alla brutta reputazione, ora le avevano affibbiato pure quel ridicolo soprannome. Ma in fondo, si disse, il tutto andava a suo favore.
Ignorando i convenevoli, avanzò verso l’uomo: era il suo informatore più fidato, o almeno, quello che le dava sempre le informazioni più attendibili e che non si sarebbe mai sognato di tradirla. Era troppo codardo per farlo. Ma non era ancora riuscita ad abituarsi al suo aspetto ripugnante, agli occhi piccoli e storti, al naso troppo all’insù, simile a quello di un maiale, ai denti rovinati dal tartaro e dalle carie, al puzzo di sudore che gli aleggiava attorno. Ringraziando di avere la bandana a coprirle il naso, si abbassò e lo fissò, inchiodandolo con i suoi occhi di ghiaccio, che tanto incutevano terrore perché ricordavano quelli nelle raffigurazioni della dea Gevries, fredda e glaciale come la notte eterna, la morte. Ormai quella del Figlio era diventata quasi una figura leggendaria.
« Dove? », sibilò a denti stretti per mascherare la voce femminile.
« Io... io non lo so. », farfugliò lui, sputacchiando. Lei rimase interdetta. Lui sapeva sempre tutto, non le aveva mai risposto così. Era o no il barista dell’osteria? Non lo aveva scelto proprio perché la sua sudicia bettola era il luogo dove ogni giorno i sostenitori umani della Resistenza si riunivano per discutere i loro piani? Come era possibile che non avesse informazioni?
« Mi stai prendendo in giro? », ringhiò la ragazza, tornando a trafiggerlo con lo sguardo.
« No, no, n-non oserei mai... », balbettò impaurito. Lei si chinò ancora di più su di lui arrivando quasi a sfiorarlo, e in risposta lui si rannicchiò ancora di più contro il muro.
« Dimmi tutto quello che sai, ora, se non vuoi che ponga subito fine alla tua miserabile vita », lo minacciò gelida, puntandogli il coltello alla gola. Quante minacce come quelle aveva fatto? Ormai ne aveva perso il conto, erano talmente tante che non si notava nemmeno che stesse mentendo. Non aveva ma ucciso e sapeva che non ne avrebbe mai avuto il coraggio, ma questo nessuno poteva sospettarlo: per tutti lei era solo il Figlio di Gevries, perciò un glaciale assassino che portava il sonno eterno in nome della madre. Infatti, l’uomo guaì come un cucciolo spaventato, e cominciò a tremare.
« Mio signore... vi prego... non posso... ». Gli occhi gli si riempirono di lacrime e abbassò lo sguardo.
« Cosa vuol dire non puoi? Non mi sei più fedele? » lo accusò lei impassibile, sollevandogli il mento con la lama affilata.
« No, no, io sono fedele solo a voi... ma... ma vi prego... n-non posso! Ne và della mia vita! », la implorò lui, singhiozzando in modo patetico. Se credeva di farle compassione, si sbagliava di grosso.
« Idiota, anche adesso ne va della tua vita », sibilò lei infuriata. Stava davvero per perdere la pazienza. « Parla ».
« M-Mio signore... »
« Ho detto parla! », esclamò, afferrandolo per la maglia e sbattendolo contro il muro. Gli puntò il coltello alla gola, mentre gli occhi di lui si dilatavano all’inverosimile. « Parla o sei morto ».
« V-Va bene, certo, certo... ma v-vi prego, abbassate il c-coltel-... ». La ragazza non gli permise neanche di finire la frase, si limitò a spingere la fredda lama d’acciaio contro sua pelle, fino a fargli uscire una goccia di sangue. L’uomo guaì ancora, più per lo spavento che per il dolore, e deglutì di nuovo, facendo un profondo respiro.
« Questa sera sono venuti i soliti due uomini della Resistenza... », bisbigliò talmente a bassa voce che la ragazza dovette abbassarsi ancora di più per sentire quello che stava dicendo. « Erano allegri come non ce li avevo mai visti, e hanno subito ordinato la mia birra più buona e l’hanno offerta a tutti... certo, ero un poco preoccupato perché avevo paura che non riuscivano mica a pagar-... ». Lei lo strattonò, interrompendolo ancora.
« Non sono venuto qui per sentire le tue lamentele, uomo », la ragazza serrò i denti, per trattenersi dall’urlargli contro. « Dimmi quello che voglio sapere »
« Certo, certo, mio signore, stavo solo... », cominciò ma l’occhiata di lei lo fece ammutolire all’istante. « Comunque, hanno fatto fuori gran parte della mia scorta, e alla fine erano tutti quanti brilli e non ci capivano più niente. E allora a quel punto uno dei due uomini, quello che aveva bevuto più di tutti, si è lasciato scappare qualcosa nell’allegria del momento, qualcosa che gli altri non hanno mica sentito, ma io ho ascoltato, oh, sì che ho ascoltato, per riferircelo a voi come sempre... »
Senza dire niente, si limitò a strattonarlo, per incitarlo a continuare. L’impazienza trapelava dagli occhi della ragazza ogni secondo di più. Che cosa aveva sentito di così importante? L’uomo deglutì per l’ennesima volta, distogliendo lo sguardo mentre un rivolo di sudore freddo scendeva a tracciargli il profilo di una tempia.
« Ha detto una cosa un po’ senza senso, che tre... com’è che aveva detto, tre... tre Oëlig sarebbero arrivati tra una settimana a prendere la merce. M-Ma quando l’ha detto, il suo compagno, quello che aveva bevuto di meno, ci si è accorto che lo avevo sentito, e allora si è subito alzato e mi ha... mi ha minacciato, mio signore, ha... ha detto che... »
Ma ormai la giovane non lo stava più ascoltando, l’attenzione rubata da una sola parola che aveva avuto il potere di far perdere d’importanza a tutto il resto.
Oëlig.
La sorpresa era stata talmente grande che si dimenticò di mantenere la presa sui vestiti dell’uomo, che cadde all’indietro pesantemente sbattendo le grasse natiche a terra e la schiena contro muro. Ma la ragazza non sentì minimamente il gemito di dolore affiorato dalle sue labbra. Non sentiva più niente.
Si portò una mano al petto quasi cercasse di contenere il suo cuore improvvisamente imbizzarrito e fece un passo indietro, la mente in subbuglio.
Oëlig. Nell’antico linguaggio, Occhi Lucenti.
Per tutta la sua giovane vita, non era riuscita a smettere di pensare a quel nome, a dimenticare. Non avrebbe mai scordato quando e soprattutto perché lo aveva sentito per la prima volta, tanti anni fa, quando non era niente di più che una bambina che aveva ingenuamente chiesto cosa significasse il suo nome, dal suono così strano, così inusuale per un’abitante dell’Impero di Ryk.
L’adrenalina cominciò a scorrere più veloce nelle sue vene, e un sorriso diabolico le si dipinse sul viso coperto. Strinse il coltello più forte nella mano sinistra, la mano portante, fino a farsi male alle dita coperte da guanti di pelle, e alzò gli occhi al cielo, alla Stella, ringraziando la dea Gevries per quella notizia.
Finalmente. Da quanto ormai aspettava? Erano anni che attendeva quel momento. Ma ne era valsa la pena. Sì, tutti i suoi sforzi, la sua pazienza, alla fine, erano stati ricompensati. Finalmente si sarebbe trovata faccia a faccia con gli assassini di sua madre.
Oëlig, Occhi Lucenti, o più comunemente conosciuti come Elfi.
Finalmente.
Finalmente avrebbe avuto la sua vendetta.

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Capitolo 3
*** Promessa. ***


NDA: Pardon per il ritardo! –come sempre, del resto. xD
Non ho niente da dire in particolare su questo capitolo, solo che spero vi piaccia anche se è molto descrittivo. Ma d’altronde mi tocca!
Se avete dubbi o perplessità mi raccomando, non esitate a chiedere nelle recensioni, che tra l’altro mi fanno immensamente piacere! >w<
Ordunque, buona lettura!



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CAPITOLO 2: Promessa
 
 
 
Gli ultimi bagliori del fuoco nel caminetto illuminavano la stanza. Con uno sbadiglio, l’anziana ancella ravvivò i tizzoni ardenti, per poi tornare a sedersi sullo sgabello di legno e riprendere in mano il suo lavoro a maglia.
Fin da giovane, Nania era sempre stata una donna mossa dalla frenesia. Quando ancora le rughe non le deformavano i lineamenti e il grigio non le striava i capelli, quella sua innata vivacità l’aveva sempre spinta a cercare qualche cosa in cui incanalare le proprie energie. Per forza di cose, la sua condizione sociale l’aveva portata a divenire niente di più che una domestica, nonostante i suoi giovanili e piuttosto vani sogni di gloria. Ma non per questo si era persa d’animo, l’ottimismo faceva parte della sua natura così come la facoltà di respirare. Era quindi diventata una domestica efficiente, che svolgeva sempre il doppio del lavoro delle altre sue compagne per il semplice motivo che non era in grado di starsene con le mani in mano. E aveva svolto talmente bene il suo lavoro, che questo l’aveva portata ad ascendere fino al livello di ancella personale della principessa secondogenita. Questo, ovviamente, per lei era motivo del più grande orgoglio. Aveva visto quella bambina crescere, l’aveva amata come se fosse sua. In mancanza di un'altra guida femminile nella sua vita, in un certo senso Nania aveva preso il posto della madre che la principessa aveva perso troppo presto.
Le sue mani ripresero a muoversi veloci ed esperte, nonostante un altro sbadiglio l’avesse nuovamente interrotta. Lavorare a maglia non era esattamente il suo passatempo preferito, eppure come il ceto basso l’aveva costretta a diventare una donna di servizio, ora il penetrante dolore alla schiena che ogni sera si faceva sentire in tutta la sua intensità, la costringeva a rimanere seduta a starsene tranquilla. Ma Nania odiava starsene tranquilla. Tanto quanto odiava quel dolore ai lombi, e l’età del suo corpo che non voleva più tenere il passo della sua mente ancora attiva e piena di forza di volontà. Odiava quella tranquillità così come non sopportava il silenzio che in quel momento rimbombava nella stanza, e il tiepido calore del fuoco che le carezzava il viso segnato dal tempo, avvolgendola di tepore e rendendo le sue palpebre pesanti, sempre più pesanti...
   « Nania! », un sibilo, niente di più, che però ebbe il potere di spezzare il silenzio e strapparla dalle grinfie suadenti del sonno. « Nania, presto! »
Scattando in piedi e lasciando perdere in fretta e furia lana e uncinetti, si diresse a veloci passi verso il pesante uscio di legno vecchio che separava dall’esterno quella piccola stanza nell’ala adibita alle cucine del castello.
Fuori sibilava un freddo vento di inizio primavera. Era notte inoltrata, l’unica fonte di luce proveniva dalla Stella di Ghiaccio che brillava alta nel cielo scuro e limpido, e dalle torce che balenavano in lontananza su tutto il perimetro delle mura fortificate del castello.
Rykfort sorgeva nell’esatto centro di Rykstad, strategicamente posta a nord ovest dell’Impero di cui era la capitale, in un’ampia valle circondata dall’impenetrabile catena montuosa delle Tre Vette. L’unica via di accesso all’interno di essa, era costituita dalle strade che fiancheggiavano il letto del fiume d’Ambra, che costeggiava le mura della capitale su tutto il perimetro orientale e poi sfociava fuori dalla valle, scavandosi il suo sentiero tra la roccia, fino a gettarsi nel mare.
Ma per Ryk Hegertal il Primo, l’Imperatore che dava il nome al regno e alla capitale nonché alla casata regnante, la protezione naturale non era stata sufficiente. Per questo aveva fatto costruire attorno alla sua fortezza e alla sua città uno spesso strato di mura doppie, a quanto si diceva, con un cuore del duro basalto importato direttamente dall’arcipelago delle isole Vulkaan, quando ancora erano inabitabili e i crateri delle loro montagne eruttavano lava.
Dalle alte e impenetrabili mura che proteggevano la capitale e Rykfort, perciò, era possibile avere una visuale quasi completa di tutto ciò che le circondava. Rykstad era praticamente inespugnabile, dall’esterno. Ma l’interno era la sua debolezza.
Era una città talmente grande che non era possibile sorvegliarla tutta. Episodi di violenza e moti insurrezionali si erano svolti periodicamente da un lato o dall’altro del suo perimetro, fin dalla sua fondazione, parecchi secoli prima.
Negli ultimi e pacifici anni del regno dell’Imperatore Raleigh Hegertal, però, nessuna scintilla di rivolta era riuscita a avvampare, repressa ancor prima di poter nascere. Il merito era dovuto al ripristino di un antico ordine di soldati devoti al culto di Vurige, il dio dell’Astro Infuocato, che costituivano il ferreo corpo di guardia cittadino, per cui anche i più fervidi rivoluzionari e sostenitori della repubblica provavano un timore quasi reverenziale.
Eppure, i soldati di Vurige non erano affatto temuti dall’ombra ammantata di nero che scivolò silenziosa al fianco di Nania, aiutandola poi a richiudere la porta, contro cui si abbandonò con un sospiro si sollievo.
   « Per poco non venivo beccata dalle guardie vicino alla Porta dei Mercanti. », mormorò cautamente la figura ancora nascosta nell’ombra. Non si poteva sapere quali e quante orecchie potessero essere in ascolto nelle cucine, anche a quella tarda ora della notte.
   « Se restaste nel vostro letto come dovreste fare, non correreste nessun rischio. », sibilò in risposta Nania, con una punta di stizza nella voce. Avvicinandosi alla figura cercando di fare meno rumore possibile, si alzò in punta di piedi e le slacciò il mantello freddo di umidità, rivelando un giovane corpo femminile le cui curve erano scarsamente celate da bendaggi sotto i vestiti neri come l’inchiostro. La ragazza inarcò la schiena stirandosi le braccia intirizzite sopra la testa, poi si passò una mano tra i capelli, liberando una folta chioma di ricci corvini dal nastro che li teneva bloccati sulla nuca. Infine, non prima di essersi gettata un’occhiata intorno, si abbassò la bandana nera che le celava metà del viso, fino al naso dal profilo affilato. Un sorriso furbo balenò sulle sue labbra carnose non appena i suoi occhi di un azzurro intenso incontrarono quelli castani e pesanti di sonno di Nania.
   « Diventa sempre più difficile muoversi in questa dannata città, con gli uomini di Vurige che spuntano come erbacce in ogni angolo. », si limitò ad ignorare il rimprovero, dirigendosi verso il calore del fuoco, davanti al quale si sedette, sfilandosi i guanti di pelle dalle mani che aprì e chiuse ripetutamente, cercando di riattivare la circolazione. « Perdono, “che ovunque si accendono come fiaccole che portano la luce nelle tenebre”. Tsk. », ripeté a memoria un passo del giuramento del rituale di investitura recitato nuovi adepti dell’Ordine, a cui aveva assistito decisamente troppe volte.
Nania la raggiunse, piegando come meglio poté il pesante mantello, fin troppo pesante per le sue braccia stanche e la sua schiena dolorante. Ma non un lamento uscì dalla sua bocca, mentre invece non riuscì a fare a meno di sussurrare un altro irato richiamo, dettato dalla preoccupazione.
   « Sono soldati valorosi, scelti e investiti da vostro padre, prin-... », si interruppe prima di tradirsi svelando il suo titolo nel silenzio. Si guardò intorno nervosamente prima di riprendere a parlare, chinandosi su di lei e abbassando ancor di più il tono di voce. « E la “dannata città” è la vostra città. Non dovreste parlare in questo modo. E non dovreste neanche mettervi contro di loro. »
   « Come dici tu, Nan. », la giovane ragazza si limitò a trattenere un sospiro. Ormai aveva perso il conto delle volte in cui era stata costretta a sorbirsi quelle ramanzine. « Vieni, Andiamo nelle mie stanze. », si spazzolò i vestiti dalla polvere e si rimise in piedi, una volta scaldatasi a sufficienza.
Lanciandosi un ultima occhiata intorno, spense le ultime braci ardenti con una manciata di sabbia umida, non prima di aver acceso una lanterna ad olio, alla cui flebile luce si fece strada tra i bui corridoi del castello. Nania arrancò frettolosamente dietro di lei tentando di tenere il ritmo del suo passo svelto, e cercando a sua volta di non fare rumore e non urtare niente per sbaglio. Ma ormai era diventata quasi una routine, e, nonostante il costante rischio di essere scoperte, erano mesi che si erano abituate a muoversi silenziosamente tra quelle mura, evitando gli avamposti notturni delle guardie reali. Così come erano mesi che il Figlio di Gevries dava filo da torcere ai soldati di Vurige e all’ordine di cattura emesso dall'Imperatore stesso.
    Sì, valorosi. Valorosi e inutili, contro di me, pensò la ragazza, la principessa, con una punta di orgoglio, mentre saliva a due a due i gradini di un passaggio elusivo che conduceva dritto nelle sue stanze, sempre seguita dalla sua fedele ancella che non avrebbe mai osato tradirla rivelando il suo segreto, nonostante avesse minacciato più e più volte di farlo.
Giunta alla fine della ripida scalinata, aprì una porta nascosta dietro un arazzo e finalmente raggiunse la camera da letto nei suoi alloggi, posti nella Torre dell’Alba, che si affacciava sull’omonimo picco delle Tre Vette. La mattina, quando il sole sorgeva dietro di esso, tingeva il fiume di un caldo color ambra, che si rifletteva contro le mura di pietra di Rykfort, creando un gioco di luci mozzafiato.
A quell’ora della notte, però, tutto era immerso nel buio più nero. La ragazza quindi non perse tempo ed accese il candelabro accanto al suo letto a baldacchino, su cui si sedette con poca grazia, calciando via gli stivali.
Nania invece si fermò al suo fianco asciugandosi il viso con un fazzoletto e poggiandosi una mano sul petto prominente, nel tentativo di riprendere fiato. La sua veneranda età si era fatta sentire ad ogni passo, ad ogni scalino saltato dalla sua giovane padrona. Non aveva neanche la forza per commentare il rozzo modo con cui la stessa si stava togliendo i vestiti, lasciandoli cadere a terra senza riguardo. Scuotendo la testa con forza, si impose di ricomporsi e di dedicarsi allo spazzolare e ripiegare camicia di lino, corsetto e pantaloni di cuoio che la ragazza stava sparpagliando in ogni dove, per poi nasconderli insieme al mantello nel doppio fondo dell’armadio in cui erano riposte le sue numerose paia di scarpe.
Nel frattempo, la giovane principessa si era infilata sotto le spesse coperte, vestita solo del pugnale dal quale non si separava mai. Anche d’inverno, odiava dormire con addosso camice da notte che le si sarebbero attorcigliate addosso durante il suo sonno inquieto. Preferiva il morbido e caldo abbraccio delle lenzuola di seta e delle pellicce.
Ma ormai, quello stesso inverno stava volgendo a termine, lasciando spazio ai boccioli della primavera. E con la primavera sarebbe venuta anche la celebrazione dell’Equinozio, di lì a una settimana. La ragazza sorrise, pensando quanto fosse ironico che una festa che odiava perché la costringeva ad indossare più merletti del solito, cadesse nello stesso momento in cui avrebbe compiuto la sua vendetta.
   Finalmente..., un brivido le percorse la schiena nuda e candida.
   « Nania, avvicinati. », fece un cenno verso la sua ancella, interrompendo il suo metodico rassettare. La donna non se lo fece ripetere due volte. In quanto a pazienza, la sua padrona aveva ereditato tutto dall’Imperatore suo padre. « Quanto durerà quest’anno la celebrazione l’Equinozio? »
   « Quattro giorni, mia signora. Uno in più dell’anno scorso, dedicato interamente all’investitura dei nuovi cavalieri di Vurige. »
La principessa si lasciò scappare una smorfia che venne intercettata dallo sguardo severo di Nania.
   « E le giostre si svolgeranno come sempre gli ultimi tre giorni? », la interruppe prima di sorbirsi l’ennesimo rimprovero.
   « Sì, dopo i riti agli dei. Come sempre. »
A quelle parole, si abbandonò a un sonoro sospiro, appoggiando la testa contro il morbido cuscino di piume.
   « Tutti i giorni dovrebbero essere dedicati alle giostre, non solo gli ultimi tre della settimana. »
   « Non dovreste dire così. Sarebbe un grave disonore verso gli dei che ci regalano la primavera, se ci limitassimo a festeggiare senza ringraziarli a dovere. »
La ragazza sbuffò ancora, roteando gli occhi, ma evitando di rispondere. Si ricordava fin troppo bene quando all’età di nove anni aveva osato esprimere la sua opinione riguardo alla noiosità dei riti agli dei degli Equinozi e dei Solstizi davanti al Sommo Sacerdote di Hemel, il Dio Padre del Cielo, ed era stata confinata nelle sue stanze per un intero pomeriggio a riflettere sulle sue turpi parole. Pomeriggio in cui, tra l’altro, si era persa lo svolgimento del torneo di spade.
Da quel momento, aveva imparato a mordersi la lingua e a tenersi le sue idee per sé, onde evitare altri periodi di reclusione. Non avrebbe sopportato di perdere neanche un secondo dei tornei a venire, e il suo venerabile padre le aveva promesso che quella sarebbe stata la punizione se avesse dissacrato ancora una volta gli dei. E il suo venerabile padre manteneva sempre le sue promesse.
Nania rimase a guardarla rimuginare per qualche istante, prima di avvicinarsi al letto e sedersi sul bordo, lisciandosi la gonna. Sapeva cosa le stesse passando per la testa, dopo tutti quegli anni passati al suo fianco la conosceva fin troppo bene. Così come sapeva che durante la cerimonia dell’Equinozio di Primavera si sarebbe comportata in modo esemplare, pregando e inginocchiandosi insieme a tutti gli altri fedeli nonostante la voglia di sbadigliare, e che sarebbe rimasta seduta composta sul suo trono di legno intagliato durante l’intero svolgimento delle giostre, senza mostrare l’esultanza che sicuramente avrebbe fatto battere il suo cuore più veloce. A volte, guardandola, le tornava in mente la giovane sé stessa piena di sogni ed energia, e le scappava un sorriso. Ma come lei, crescendo, la principessa aveva temprato a forza il suo carattere estremamente ardente, costringendosi a comportarsi come si confaceva al suo rango. Forse era proprio per tutte le limitazioni che la sua appartenenza alla casata regnante le aveva imposto, che ora era arrivata a fuggire quasi ogni sera e a travestirsi da uomo – nei cui panni si trovava sicuramente più a suo agio – per fare gli dei solo sapevano cosa.
Eppure non era di quello che avrebbe voluto parlarle, quella sera, come invece aveva fatto tante altre volte, cercando di farla desistere da quel suo comportamento non solo disdicevole, ma anche enormemente rischioso. Piuttosto, c’era qualcosa che le premeva sulla coscienza da ormai troppi giorni, e non ce la faceva più a mantenere il silenzio, tenendosi tutto dentro. Il suo affetto e il suo senso del dovere nei confronti della sua padrona la spingevano a esternare quello di cui era venuta a conoscenza.
Si schiarì quindi la voce, lisciandosi nuovamente la gonna, nervosamente.
   « Principessa, a proposito dell’Equinozio... »
   « Sì? », replicò lei, sistemandosi su un fianco per guardare meglio l’anziana donna, che le era parsa improvvisamente a disagio.
   « Parlando con la piccola Pamela, sapete, la figlia dell’armiere, sono venuta a conoscenza di certe voci... »
   « Che voci? »
   « Riguardanti Gellert Cattleback. Lord Cattleback, ormai. »
   « Il vecchio Cattle ha tirato le cuoia?», la ragazza si tirò su a sedere, aggrottando la fronte, senza preoccuparsi di coprire il suo corpo nudo; Nania l’aveva vista crescere e diventare una giovane donna dall’infante quale era stata. «Peccato, era un buon tiratore. Quando da bambina ho passato l’estate a Groenwoud, mi riservava sempre la freccia con cui abbatteva i suoi cervi. Un tiro pulito, proprio qui. », accennò a un sorriso, dando un colpetto al centro della fronte di Nania, che si ritrasse stizzita.
   « Walder Cattleback non è ancora spirato, principessa. Anche se allo stadio della sua malattia, si possono solo contare i giorni. »
Suo malgrado, anche se lo ricordava poco e niente, fu contenta di apprendere quella notizia. Alla mente le tornarono con affetto le parole gentili di quel signore stempiato e di bassa statura che non l’aveva giudicata per i suoi comportamenti poco femminili, che gli avevano certamente causato imbarazzo durante il suo soggiorno alla sua corte. Ancora meno poi, ricordava suo figlio Gellert. Tutto ciò che le tornava alla memoria, erano alcune immagini di lei stessa che cercava di convincere a giocare un ragazzino biondo più piccolo di lei di due anni, che sembrava una statua tanto era serio e composto. Le era stato subito antipatico. Eppure, negli ultimi anni si era sentito molto parlare di lui, quale impavido cavaliere e campione di numerose giostre, tutt’altro che compito. E quei pochi che l’avevano conosciuto di persona, l’avevano definito un giovane arrogante e fin troppo viziato, che usava il fascino dei soldi della sua casata per comprare amicizie, e il fascino del suo aspetto come strumento di vuoti e superficiali corteggiamenti. Tutto ciò non migliorava l’idea che la principessa si era fatta di lui.
   « E immagino che Gellert quale figlio devoto rimarrà al capezzale di suo padre al posto di presentarsi alla celebrazione dell’Equinozio di Primavera. », azzardò piuttosto scettica, corrugando nuovamente la fronte, pensierosa. Dubitava fortemente che un nobile del suo rango non si sarebbe presentato, anche perché tale atteggiamento sarebbe stato considerato come un’offesa verso gli dei e l’Imperatore. Eppure la fine sempre più vicina di suo padre sarebbe stato una giustificazione valida, che forse anche i Sommi Sacerdoti di tutti gli dei avrebbero perdonato...
   « ... Al contrario, sembra che voglia trattenersi anche oltre il rito d’inizio e partecipare al torneo. E si è portato dietro almeno la metà della corte di Groenwoud. », replicò invece Nania, abbassando gli occhi verso le proprie mani sulla gonna del suo vestito.
Questo però era decisamente troppo offensivo, nonché insensibile, nei confronti di Lord Walder e del resto della casata dei Cattleback.
   « Fin troppo spudorato anche da parte di un moccioso arrogante come Gellert. », commentò la principessa, assottigliando lo sguardo e cercando il quello della sua ancella, notando come si fosse irrigidita. Ma l’anziana donna continuò a fissarsi ostinatamente le mani.
   « E inoltre... Inoltre il vostro nobile padre... »
A sentirlo nominare senza preavviso in quella conversazione, fu la giovane ad irrigidirsi.
   « Mio padre...? », scandì lentamente.
L’anziana ancella prese fiato, chiudendo gli occhi. Dentro di lei sapeva che se avesse letto l’espressione in quelli della sua principessa mentre pronunciava quelle parole che non avrebbe voluto dire, il suo cuore avrebbe avuto un sussulto.
   « Vostro padre... vi ha chiesto udienza domani mattina, prima dell’inizio del rito. »
Improvvisamente, ogni cosa assunse di significato nella mente della ragazza dai capelli corvini. Le sue mani, prima abbandonate blandamente contro le coperte, ora si strinsero tenacemente in pugni. Ecco perché Gellert Cattleback aveva deciso contro ogni buon senso di ignorare i propri doveri di figlio. Ed ecco perché aveva deciso, o meglio, gli era stato chiesto di trattenersi più del dovuto a Rykstad, alla corte imperiale. E ancora, e soprattutto, ecco perché l’Imperatore suo padre aveva tanto insistito perché lei stessa passasse un’intera estate a Groenwoud, quando era solo una bambina. Ora il motivo per cui era stata costretta a visitare l’intero feudo e a fare la conoscenza di tutti i nobili vassalli maggiori e minori dei Cattleback le appariva chiaro come l’Astro. Come aveva potuto pensare che fosse normale, che fosse dovuto al suo rango di principessa? Era stata così stupida, ingenua. O forse aveva voluto semplicemente distogliere lo sguardo davanti ai numerosi colloqui che Raleigh Hegertal aveva avuto con Walder Cattleback, volendosi convincere che gli accordi che avevano preso fossero meramente fiscali. Anche l’immotivata gentilezza del Lord di Groenwoud in quel momento acquistò un diverso senso, davanti alla richiesta di incontrarla di suo padre, rara come la neve d’estate.
   « ... No. », fu tutto quello che riuscì a dire, serrando i denti, replicando in un sibilo, come a sottolineare il suo disprezzo. E Nania tornò ad alzare lo sguardo su di lei, non riuscendo a celare la compassione che sapeva bene l’avrebbe fatta solo infuriare maggiormente.
   « Principessa... »
   « No. No, nel modo più assoluto. », continuò lei, negando con orgogliosa veemenza il destino che le si stava prospettando davanti. « Non farò la fine di Annie. »
L’ancella sospirò, tendendosi verso di lei e cercando di prenderle tra le sue una mano stretta sulle lenzuola. La giovane la guardò con una fierezza che però non riuscì a celare i suoi occhi diventati gradualmente sempre più lucidi.
   « Ora calmatevi, e ascoltatemi. La principessa Annika è-... », ma a sentir pronunciare il nome della sua adorata sorella maggiore che idolatrava come se fosse una delle dee in cui avrebbe dovuto credere, la giovane scattò nuovamente, ritraendo immediatamente la mano, punta sul vivo.
   « Non provare a dirmi che è felicemente sposata, Nan. Non ci provare. Solo gli dei sanno come potrebbe essere felice con un uomo come... come quello. »
La sua voce era incrinata, spezzata dalle lacrime che cercava in tutti i modi di trattenere, troppo orgogliosa per lasciarle cadere. Nania si rendeva perfettamente conto di tutto questo, e avrebbe voluto piangere per lei, per quella che era la sua bambina tanto quanto la sua principessa. Ma non avrebbe mai osato compatirla in quel modo, se c’era qualcosa che quella ragazza incredibilmente fiera e testarda odiava, era proprio suscitare pena e derisione. Per questo si era impegnata tanto per essere all’altezza di tutte le aspettative che si erano accumulate su di lei nel corso degli anni. E forse, Nania sottilmente lo sperava, avrebbe acconsentito a fronteggiare a testa alta anche quest’ultima prova davanti alla quale si trovava disarmata...
   « Cosa diavolo passa per la testa di mio padre? », la sentì mormorare, quasi tra sé e sé, mentre si stringeva le gambe al petto.
   « È preoccupato per le sorti del regno, come qualunque buon Imperatore. E i Cattleback sono una famiglia potente, con cui gli Hegertal hanno stretto rapporti di alleanze per generazioni. », tentò di farla ragionare, invano.
   « E alle sue figlie non ci pensa, invece? », rispose lei con durezza.
   « Ci pensa, principessa, ne sono certa. », sospirò l’ancella, per poi tornare ad abbassare umilmente lo sguardo così come il tono di voce. « Così come... così come continua a pensare al suo amato figlio, vostro fratello, l’erede legittimo di Ryk... »
A quelle parole, la voce della giovane diventò tagliente come vetro.
   « Mark non tornerà mai, Nan. », replicò con freddezza, assottigliando il suo sguardo glaciale, mentre sulle sue labbra si dipingeva l’accenno di un sorriso amaro. « Continuare a cercarlo non cambierà il fatto che è morto e sepolto da strati e strati di oceano. E se invece per qualche... “miracolo divino” fosse ancora vivo, farebbe solamente bene a continuare a starsene alla larga da... da tutto questo. »
Il silenzio cadde tra di loro, a quel punto, Nania non se la sentì di aggiungere altro. Gli occhi azzurri come ghiaccio della sua padrona ardevano nel buio, segno che nella sua testa si stavano agitando furia e ragione, in una lotta continua. Eppure, quando nel suo sguardo brillava quella luce, c’erano pochi dubbi su quale delle due avrebbe infine prevalso.
   « Ho sentito abbastanza per questa sera. Ora voglio riposare. », disse quindi, anche se dalla sua espressione si poteva intuire benissimo che quella notte non avrebbe chiuso occhio. Nania avrebbe voluto essere capace di distrarla e di farle compagnia, magari raccontandole le favole con cui aveva riempito le sue notti insonni quando non era niente più che una bambina piena di speranze. Ma il tempo delle storie di cavalieri e principesse era ormai passato, e l’anziana ancella non avrebbe potuto fare altro che rimanere con lei, dormendo al suo fianco, e ignorare il dolore alla schiena che la stava implorando di stendersi e riposarsi nel suo letto.
   «  Volete che-... »
   « Lasciami. Sei congedata. », venne interrotta bruscamente, al che tacque di nuovo. Sapeva che il tono duro e la rabbia della giovane non erano rivolti a lei, e poteva comprendere il suo desiderio di stare da sola coi suoi pensieri.
   « Buonanotte, principessa. », si limitò quindi ad aggiungere, ingoiando il magone e spegnendo gli stoppini del candelabro, per poi appropriarsi della lanterna ad olio che le avrebbe fatto da guida nel buio del castello.
Sull’uscio, però, un sospiro sconsolato la fece voltare nuovamente, e si stupì di incontrare gli occhi della principessa che la cercavano, illuminati questa volta da un lieve sorriso sincero, quasi di scusa.
   « Nan, quante volte ti ho detto di chiamarmi solo Lily? »
Anche Nania le sorrise. Le avrebbe scusato qualsiasi parola, qualsiasi cosa. Il suo amore materno era incondizionato.
   « Buonanotte... principessa Lily. »
La lasciò mentre scuoteva divertita la testa, che poi appoggiò sulle braccia con le quali si stava cingendo le gambe. I suoi occhi, ora, erano persi nel vuoto e nell’ombra, così come le parole che rivolse a lei sola.
   « Io non sposerò Gellert Cattleback. Fosse l’ultima cosa che faccio. », la sentì promettere a sé stessa in un sussurro, prima di lasciare la sua camera da letto, chiudendosi la porta alle spalle.
E così come suo padre, quando Lilyan Hegertal faceva una promessa, la manteneva a qualsiasi costo. Fosse l’ultima cosa che avesse fatto.
Mentre passava davanti a una finestra, Nania alzò gli occhi al cielo e pregò mentalmente la Stella e la sua dea Gevries, celebrata per la sua freddezza, di infonderle un po’ di buon senso e di non guidarla a compiere nessun gesto avventato.

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Capitolo 4
*** Ricordi. ***


NDA: Avrei voluto parlare di Annika in questo capitolo, ma altrimenti sarebbe diventato troppo lungo. ;A;
Rimando quindi la riunione tra sorelle al prossimo aggiornamento, così come l’introduzione di “quell’uomo” con cui Ann è sposata. /comincia a sbavare/ -scusate, io sono di parte.
In questo capitolo, invece, abbiamo una visione più ampia di quella che è la famiglia Hegertal, con qualche accenno di più alla famosa Julieth della prefazione, e anche al padre di Lilyan, di cui vorrei tanto sapere cosa ne pensate.
Poooi, come mi è stato suggerito, ho deciso di inserire alla fine di ogni capitolo un glossario -con tanto di spiegazione dei nomi e la loro pronuncia- che procedendo con la storia verrà sempre più ampliato, in modo che non vi confondiate con tutti questi nomi che mi rendo conto siano un po’ ostici!
Per ultima cosa, se vi incuriosisce come mi immagino fisicamente i personaggi, ecco sul mio profilo di facebook l’elenco degli attori/modelli/quelchel’è che più o meno corrispondo a quella che è l’idea di loro nella mia testa! -> http://www.facebook.com/media/set/?set=a.444676705592017.101491.100001490736642&type=3 [e sentitevi liberi di mandarmi una richiesta di amicizia, se volete.]



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CAPITOLO 3: Ricordi
 
 
 
Lilyan Hegertal alzò una mano guantata a schermarsi gli occhi dalla luce sole, mentre osservava avanzare verso di lei la sua puledra di razza color palomino, come tutti i cavalli della casata imperiale, guidata dal giovane e nobile scudiero di suo padre. Appena le fu accanto, con un sorriso le accarezzò il muso screziato di bianco, che Gemma dell’Aria aveva sollevato nella sua direzione con uno sbuffo compiaciuto.
   « Ruffiana... », mormorò ridacchiando, mentre passava le dita tra la sua criniera dorata. Non era molto che la possedeva, le era stata donata per il compimento dei suoi sedici anni, la sua maturità, ma nei suoi confronti aveva sviluppato un affetto senza pari. Libera come il vento, Gemma era il cavallo più indomito con il quale si era trovata ad aver a che fare in tutti gli anni in cui aveva praticato equitazione, e scherzando, il Mastro delle stalle le aveva ripetuto più volte che aveva imparato a cavalcare ancor prima di saper camminare. Eppure Gemma era stata una sfida per lei, sfida che il suo carattere ostinato e irrequieto non aveva chiesto altro che poter affrontare. E forse era proprio considerando questo che suo padre gliel’aveva regalata, provocando un lei un misto di rabbia e commozione, al pensiero di quanto bene la conoscesse. Nonostante tutto.
   Loro due erano così simili.
   « Se non ci affrettiamo, rischiamo di arrivare in ritardo, mia signora. », la richiamò alla realtà lo scudiero Bart Keetan, porgendole una mano per aiutarla a montare in sella.
La principessa si costrinse a trattenere un sospiro davanti a quel gesto che il più delle nobili fanciulle avrebbe giudicato gentile e cavalleresco, e, ignorandolo completamente, si issò con le sue sole forze sulla staffa. Lilyan cavalcava almeno dieci volte con più polso ed eleganza di quanto Bart Keetan e tutti gli altri giovani ser della corte reale avessero mai fatto nella loro breve vita priva dell’esperienza di vere battaglie, ma questo ovviamente nessuno l’avrebbe mai ammesso.
Per questo ser Keetan si limitò ad accigliarsi senza proferire parola, anche di fronte al modo in cui Lilyan si era seduta, non all’amazzone come l’appartenenza al suo sesso le avrebbe imposto. Normalmente, di fronte a una ricorrenza come la celebrazione di un Equinozio o di un Solstizio, la principessa non avrebbe fatto troppe storie e si sarebbe attenuta alle tacite regole che l’avrebbero relegata “al proprio posto” nella processione verso il tempio. Ma normalmente Lilyan non era così furiosa.
Con un secco colpo di redini, la ragazza drizzò la schiena e si diresse a testa alta verso la Porta dell’Imperatore, che separava il fortino con gli alloggi imperiali da tutto il resto di Rykfort. Superando le guardie senza la minima esitazione, si rese conto che con tutta probabilità il suo nuovo vestito celeste era stato intaccato dalla polvere e dalla terra che aveva sollevato in quello slancio, ma non le sarebbe potuto importare di meno. Per quanto la riguardava, quel vestito come la ricorrenza per la quale era stato confezionato, potevano anche finire in fiamme.
Superata la Porta e giunta infine davanti alla grata sollevata dell’arco d’ingresso al castello, fu costretta a rallentare fino a fermarsi. Nel frattempo, dietro di lei, ser Keetan che aveva distanziato senza molti riguardi, l’aveva raggiunta con aria impettita, tentando in tutti i modi di non mostrarsi offeso di fronte al resto della corte che sostava nei pressi del ponte levatoio abbassato. Calmandosi con un profondo respiro, Lilyan si ricompose e fece un cenno di saluto nei riguardi dei presenti, che risposero chinando il capo, e incontrò per una breve frazione di secondo l’ampio sorriso di Larry Malgar, il veterano Primo Cavaliere della Guardia Imperiale, divertito come sempre dalle sue manifestazione di insofferenza nei confronti del buon costume.
Suo padre, invece, la degnò solo di uno sguardo inespressivo.
   « Procediamo. », asserì quindi ad alta voce, ponendosi a capo della parata, subito affiancato da ser Malgar e dai paggi coi vessilli imperiali.
Dietro di lui, Lilyan strinse con forza le redini nei pugni e regolò al passo l’andatura di Gemma dell’Aria, non riuscendo a fare a meno di abbassare lo sguardo. Criticata dal suo silenzio colmo di disapprovazione, le era sembrato come se mantenere una posizione fiera ed eretta le fosse diventato improvvisamente impossibile.
Era questo l’effetto che ogni volta gli occhi scuri di Raleigh Hegertal le facevano. Avevano il potere di farla sentire niente più che una bambina, infantile e capricciosa, ottenendo solo di farla infuriare di più. Non riusciva a perdonargli il modo in cui si permettesse di giudicarla con sprezzante freddezza, quando mai, invece, si azzardava ad elogiarla, o più in generale anche solo ad interessarsi a lei. A comportarsi come  un vero padre, insomma.
Lilyan non riusciva a ricordare neanche una sola volta in cui l’avesse sentito dirle che le voleva bene.
   « La mia incantevole nipote si diletta come al solito a sfidare le leggi dell’universo, vedo. », un commento pungente le giunse all’orecchio, distraendola dai suoi pensieri, mentre si voltava ad incontrare lo sguardo vivace di Josev Hegertal, accostatosi al suo fianco.
   « E il mio venerabile zio si diletta come al solito a canzonarmi. », replicò tornando a guardare di fronte a sé, senza riuscire a nascondere l’accenno di un sorriso, a sentire la risata compiaciuta che le arrivò in risposta.
   « Oserei quasi dire che la tua irriverenza l’hai presa da questo ramo della famiglia. », lo sentì battere sulla cotta di maglia della sua armatura, con un pugno ricoperto dal guanto di ferro.
   « Molti dicono che invece sia un lascito di mia madre. », obiettò, provocando un altro sorriso che infuse di calore il tono di Josev. Ma anche di una malinconia da cui non poté non sentirsi toccata.
   « Allora lascia che aggiunga a questa leggenda che sono stato io ad insegnarle i trucchi del mestiere, quando non era niente più che una fanciulla coi fiori nei capelli, come la dea della fertilità Yvebloom ne La Ballata della Primavera... che credo proprio saremo costretti a sorbirci anche quest’anno. »
Non riuscendo a trattenere una risata, Lilyan tornò a voltarsi verso di lui, e incontrando nuovamente i suoi occhi di un vivo castano scuro, i suoi lineamenti duri e affilati, i suoi capelli e la sua barba nera brizzolata, non poté fare a meno di cercare e trovare un’incredibile somiglianza con suo padre. L’unica e cruciale differenza, però, stava proprio nel sorriso gentile e quasi immaturo che Josev Hegertal, secondogenito in linea di successione e cavaliere ormai congedato della Guardia Imperiale, le stava rivolgendo. Non avrebbe mai visto qualcosa del genere distendere le rughe di espressione di Raleigh.
   « Mi siete mancato, zio. », mormorò con voce più esitante di quanto avrebbe voluto. Davanti a quell’uomo che rappresentava la così palese possibilità di come le cose sarebbero potute essere se solo suo padre avesse saputo ancora come fare a sorridere, la sua rabbia si era sciolta, lasciando posto a un’incredibile senso di nostalgia per l’infanzia piena di amore che non aveva avuto, e di timore per il futuro altrettanto grigio e vuoto che l’aspettava.
Semplicemente guardandola, Josev sembrò intuire i pensieri che le stavano passando per la testa. Lilyan per lui era come un libro aperto, nonostante i momenti passati con lei negli ultimi anni si fossero ridotti drasticamente. Ormai la poteva incontrare solo quattro volte l’anno, nelle celebrazioni degli Equinozi e dei Solstizi, e il giorno del suo compleanno, al quale cercava di essere sempre presente. Di lei, aveva il vivido ricordo di quando non era niente più che una bambina, che inizialmente l’aveva temuto a causa della sua somiglianza con quel padre che non le aveva mai dimostrato il minimo affetto. Col tempo, però, aveva conquistato il suo amore e la sua fiducia, così come quella bambina dalla mente brillante, irriverente più del lecito, e orgogliosa dei suoi venerabili tre anni di età, aveva completamente conquistato lui. Tanto da spingerlo ad affrontare più volte la freddezza dell’Imperatore Raleigh, tentando di fargli capire quanto Lilyan avesse bisogno di lui. E tanto da spingerlo a sorpassare il limite del rispetto e del buonsenso, arrivando a puntargli la spada contro quando lo aveva visto darle uno schiaffo per farla smettere di piangere, un episodio di violenza ingiustificata nei confronti della figlia, che non aveva chiesto e continuava a chiedeva altro che la sua attenzione e il suo affetto. Il risultato era stato un tacito esilio, che lo aveva relegato a Brimstone, la fortezza che si levava a dominare l’arcipelago delle isole Vulkaan e l’esiguo numero dei suoi abitanti, ai margini dell’Impero.
Eppure, sebbene ormai fosse ammesso a corte e non potesse vedere Lilyan che cinque sole volte l’anno, conosceva sua nipote come il palmo delle proprie mani callose, che per tanti anni avevano impugnato una spada come comandante in seconda della Guardia Imperiale, al fianco di ser Malgar. La conosceva bene quanto aveva conosciuto suo fratello maggiore, quando ancora era un ragazzino schietto dalla risata facile e spontanea, innamorato come lo è l’Astro che insegue eternamente la Stella, di quella fanciulla coi fiori nei capelli ramati, che era stata l’ultima discendente della casata Robyn, e che aveva sposato nonostante la sua ormai estinta famiglia non avesse più niente da offrire se non l’onore della sua antica stirpe. Julieth Robyn, che in Hegertal aveva sopperito diventando la più grande Imperatrice che Ryk aveva visto dopo gli anni di reggenza di Martha la Serena, passando alla storia come l’ambasciatrice di pace per eccellenza per essere riuscita a firmare un gran numero di alleanze in tutto il Mondo Conosciuto, con regni e popoli di culture diverse, con i quali l’Impero di Ryk era stato in guerra da tempo immemore. Senza contare il fatto che aveva regalato all’Imperatore tre figli in ottima salute, il primo dei quali maschio.
Josev Hegertal chiuse gli occhi al ricordo di Julieth, che aveva amato come una sorella, e di Mark, che aveva amato come un figlio, e si costrinse ad ignorare la fitta al petto che avvertì, e che quasi gli fece mancare il fiato. Quel dolore non era niente in confronto a quello che aveva ormai corroso irrimediabilmente il cuore di Raleigh. Con l’ennesimo sorriso, allungò la mano a stringere quella di Lilyan, ancora serrata sulle redini di Gemma dell’Aria. Per quel poco che avrebbe potuto stare in sua compagnia, avrebbe dovuto essere forte, anche per lei, per quella nipote che ne aveva viste e sofferte tante, ma che nonostante tutto ancora aveva un futuro da vivere davanti a sé.
   « Anche tu mi sei mancata, bambina. Avevo proprio bisogno di una boccata d’aria fresca dopo tutto quel puzzo di zolfo di Vulkaan. », e non ebbe bisogno di specificare che per quell’aria fresca intendeva proprio lei, né che a Brimstone l’odore di solfuri non si avvertisse più da secoli di inattività del vulcano dell’isola principale, ma che per lui rimanesse come un veleno ristagnante nell’aria, che lo stava lentamente intossicando.
Lilyan sapeva bene quanto la vita di corte mancasse a suo zio, e quanto l’isolamento dal resto dell’Impero fosse per lui una condanna. Aveva passato la sua infanzia a Rykstad, era cresciuto tra le mura di Rykfort, e aveva combattuto all’interno e all’esterno di esse come cavaliere investito, eppure uno sbaglio, un solo sbaglio, l’aveva confinato dall’altra parte del mondo. In un certo senso, si sentiva responsabile perché quell’errore Josev l’aveva commesso per proteggere lei. Eppure non poteva che essergli grata, e provare ancora più affetto nei suoi confronti. Per Lilyan sarebbe stato il più grande motivo di gioia andare a vivere con lui nella solitudine di Vulkaan, piuttosto che diventare la nuova Lady Cattleback, signora di Groenwoud.
   « Pensate che abiti verdi e smeraldi mi donerebbero, zio? », gli chiese di punto in bianco, con tono indifferente.
   « Qualsiasi cosa di qualsiasi colore ti donerebbe, mia cara. Perché me lo chiedi? Trovo difficile immaginare che in te si sia svegliata un’improvvisa passione per vestiti e gioielli. », replicò lui, divertito. Ma nella sua testa aveva già cercato e trovato il collegamento più ovvio che si potesse fare con il colore verde. Il verde dei boschi e degli stendardi di Groenwoud.
   « Pensavo solo che quest’anno potreste anche essere invitato una sesta volta a Rykstad. », continuò Lilyan. La sua voce era talmente atona da risultare agghiacciante. E Josev Hegertal si rese conto con nauseante certezza che il matrimonio che l’Imperatore Raleigh stava pianificando da anni, era stato definitivamente combinato.
   « Spero vivamente di no. », riuscì solo a dire in risposta, desiderando di poter infondere in qualche modo una dolce illusione in sua nipote. Avrebbe voluto prendere nuovamente la sua mano in modo da trasmetterle tutta la sua solidarietà, ma Lilyan fu più veloce. Con un secco colpo di redini, fece in modo di accelerare il passo di Gemma dell’Aria, e si distanziò da lui.
   « Ormai non c’è più niente da sperare. », Josev Hegertal poté solo udirla dire in un sibilo.
 
 
 
Lilyan avanzò tra i destrieri e gli stendardi della parata imperiale proseguendo in disparte, fermandosi giusto a scambiare un saluto con i ser, i lord e le lady che le rivolgevano la parola. Aveva bisogno di rimanere in solitudine coi propri pensieri, o altrimenti avrebbe finito per rispondere seccamente anche alle persone per cui provava affetto o rispetto, come aveva appena fatto con suo zio Josev. Già si era pentita e si sentiva in colpa per averlo lasciato così, senza spiegazioni di sorta, ma sapeva anche che lui avrebbe capito. Probabilmente anche perché era a conoscenza dei progetti che suo fratello, l’Imperatore, aveva in serbo per lei. Guardandosi intorno e incontrato visi di nobili sconosciuti e non, si chiese quanti di loro fossero consapevoli che Lilyan Hegertal presto sarebbe diventata Lilyan Hegertal Cattleback, e sentì inaspettatamente salirle un nodo alla gola, che ricacciò indietro a forza, insieme alle lacrime che aveva portato con sé.
Eppure non riuscì a scacciare dalla testa le parole di suo padre, né il macigno che ora le pesava sul petto, rendendole quasi difficile respirare. Avrebbe voluto lanciare nuovamente la sua puledra al galoppo, correre nel vento e lasciarsi tutto e tutti alle spalle, ma quel peso la teneva ancorata ai suoi doveri di figlia e principessa. E quasi il cadenzato battito degli zoccoli di Gemma sul viale pavimentato che conduceva verso il tempio, le ricordò il suo stesso incedere mentre era avanzata lungo la sala del trono per affrontare suo padre.
 
Era da almeno un mese che non veniva convocata ufficialmente al cospetto dell’Imperatore e non camminava su quel pavimento di marmo grigio venato del nero più buio e del bianco più puro, alla luce delle grandi vetrate che ricoprivano entrambi i lati del salone. Ogni volta, il ritmico eco prodotto dai suoi passi che si andava a smorzare contro le pareti affrescate e decorate, le sembrava il conto alla rovescia che precedeva la fine, di neanche lei sapeva cosa. Per un attimo, la sua risoluzione aveva vacillato, ed era stata rimpiazzata dalla soggezione che quel luogo le incuteva. Se solo ripensava alle volte in cui sua sorella Annika le aveva raccontato che prima della sua nascita, lei e Mark da bambini erano stati soliti giocare spensieratamente a rincorrersi e a nascondersi dietro le file delle colonne di sostegno, a Lilyan quasi veniva da sorridere. Ora neanche le risa di un esercito di infanti avrebbe saputo rallegrare l’atmosfera cupa che aleggiava in quell’ampia sala, perché l’unico esercito presente era formato dalle Guardie Imperiali, che avevano preso il posto dei suoi fratelli, nascondendosi dietro l’ombra delle colonne col palmo della mano sull’elsa della spada.
Tenendo lo sguardo fisso sui propri piedi, che spuntavano dall’orlo della gonna del suo vestito, aveva percorso l’intera navata che l’aveva condotta dritta davanti a una fila di gradini, oltre ai quali, su un piano rialzato, erano posizionati due troni in legno finemente lavorato e decorati d’oro, che al solo vederli sembravano il massimo della scomodità. Annika le aveva anche raccontato di tutte le volte che Mark era salito in piedi sul trono del loro padre e che, brandendo la sua spada di legno da allenamento, aveva dato vita ad epiche battaglie completamente da solo, battaglie che finivano immancabilmente con la sua auto proclamazione come “sovrano del mondo”. Quello forse non sarebbe stato il ruolo che avrebbe ricoperto, ma in futuro, lui era destinato a diventare l’Imperatore di Ryk. O almeno, così era come sarebbe dovuta andare.
Lilyan, non aveva mai conosciuto bene Mark. Fin da piccoli, erano stati separati ancor prima che potessero instaurare qualcosa di più del legame di nascita tra fratello e sorella, con la scusa che dovessero venir educati in discipline differenti. Tra i vaghi ricordi che Lilyan aveva di lui, più vividamente la ragazza poteva rammentare solo la volta in cui, tra lacrime di rabbia causate da qualcosa di cui lei non era a conoscenza, Mark l’aveva accusata di essere responsabile, con la sua nascita, della morte della loro madre, al pari degli Assassini, gli Elfi. Lilyan aveva sei anni, Mark quasi undici. E l’aveva odiato con tutta sé stessa per quella affermazione ingiusta, arrivando ad urlargli contro davanti a tutta la corte imperiale che se non l’avesse lasciata in pace, avrebbe causato anche la sua, di morte. Da quel momento erano diventati ancora più estranei l’uno all’altra, non tanto per il rancore che presto li aveva abbandonati, ma per il senso di colpa reciproco, e soprattutto, per il comune ferreo orgoglio, che gli aveva impedito di tentare nuovamente di intavolare un dialogo. Ricordava anche quanto questo avesse fatto soffrire la dolce Annika, che voleva incredibilmente bene ad entrambi, e come sua sorella, nonostante tutto, si fosse posta in sua difesa quando poi, due anni dopo, Mark era scomparso in un tragico incidente a bordo de La Gloria, una delle navi di testa della flotta imperiale, e solo successivamente ad estenuanti operazioni di ricerca era stato dato per morto, nonostante il suo corpo non fosse mai stato ritrovato. Silenziosamente, Lilyan aveva avvertito il peso anche di quella colpa caderle sulle spalle, insieme agli sguardi turbati e incredibilmente superstiziosi di tutti i cortigiani, e primo tra tutti, quello pieno di rancore di Raleigh.
Infondo, lei era nata maledetta. Era venuta al mondo tra gli Elfi, quel popolo di assassini famosi per le loro arti magiche.
Per un attimo, si chiese come sarebbe stato se quel fratello sconosciuto, per il quale non aveva mai provato un vero attaccamento, fosse stato ancora vivo. Forse il cuore di suo padre non si sarebbe indurito così tanto. Forse non si sarebbe chiuso così irrimediabilmente in sé stesso, al punto di arrivare a voler allontanare entrambe le sue figlie da Rykfort con dei matrimoni combinati, per rimanere da solo con il suo dolore.
Era questo che aveva pensato trovandosi al cospetto dell’Imperatore, austero e composto nella sua veste blu notte e oro, con in capo la corona piena di gemme preziose. I capelli e la barba, un tempo neri e ricci come quelli di lei, ormai tendevano al grigio, e le rughe gli contornavano gli occhi intensi e severi color nocciola, così come la bocca, che ormai da tanto, troppo tempo non vedeva più neanche l’ombra di un sorriso.
Quando, dopo essersi inchinata, Lilyan aveva trovato finalmente il coraggio di incontrare lo sguardo duro di Raleigh Hegertal, con un fremito aveva capito che la decisione era già stata presa, e che niente l’avrebbe più fatto cambiare idea.
   « Principessa, quale onore. »
Lilyan non aveva neanche fatto in tempo ad aprire la bocca per parlare e porgere i suoi saluti al padre, che un suono stridente come vetro le aveva ferito le orecchie.
Immediatamente, la ragazza si era voltata nella direzione di quella voce, imponendosi di trattenere un sussulto quando aveva riconosciuto il suo proprietario. Dalla penombra creata da una colonna di sostegno, aveva visto avanzare il Cancelliere, curvo e vecchio più di quanto fosse capace di immaginare un uomo, coi capelli bianchi come la neve, e piccoli occhi neri, guizzanti come carboni ardenti, quasi nascosti sotto la pelle rugosa e coperta di macchie. La sua voce era rauca e dal tono modulato con una strada cadenza, che la faceva risultare quasi melliflua, strisciante, terribilmente fastidiosa da udire, e il suo sguardo sembrava penetrare l’anima. Sguardo che si era data della stupida per aver incrociato, perché se quello di suo padre le metteva soggezione, quello del Cancelliere Ygard era capace di instillare in lei il timore più puro. Deglutendo, si era imposta di rispondere al suo saluto in modo cortese, e poi era tornata a concentrarsi su suo padre, cercando di calmare il battito del suo cuore improvvisamente imbizzarritosi. Non riusciva a capire perché mai avesse quella reazione ogni volta che si trovava dinnanzi a quel vecchio canuto, ma dentro di sé era in qualche modo convinta che ci fosse qualcosa di incredibilmente e profondamente malvagio in quell’uomo, e non poteva concepire come suo padre si potesse fidare di lui tanto da eleggerlo al rango di suo primo consigliere. Per questo aveva esitato un attimo prima di avanzare ancora, sollecitata da un cenno della mano di Raleigh, aspettandosi quasi che da un momento all’altro il Cancelliere si allontanasse per lasciarla parlare da sola col padre. Invece l’uomo era rimasto al suo posto al fianco dell’Imperatore, al di sotto dei gradini che innalzavano la piattaforma, e aveva fissato su di lei i suoi occhi indagatori, con un sorriso appena accennato sul volto segnato.
Maledicendo il corpetto che indossava e che le impediva di fare respiri profondi per tranquillizzarsi, Lilyan si era fermata esattamente di fronte a Raleigh. La luce del sole pomeridiano arrivava a malapena a colpire il suo viso, e creava su di esso ombre che gli davano un’aria ancora più austera, quanto stanca.
Impassibile come sempre, Raleigh si era informato della salute e dell’istruzione della figlia. Lei aveva risposto educatamente e con molta calma a ogni domanda del padre, anche se dentro di sé non aveva fatto che fremere dal desiderio di allontanarsi da quella sala e da quei due uomini che insieme avevano il potere di farla sentire indifesa. Ma non poteva permettersi di lasciarsi soggiogare così, quel giorno lei si era recata alla sua udienza con l’intenzione di far valere la sua voce, nonché il suo diritto di scegliere da sé il suo destino.
Dopo che aveva finito di rispondere, nella sala era caduto un lungo silenzio, cosa che l’aveva fatta ancor più innervosire. In quella pausa, aveva avvertito gli occhi di Ygard scrutarla attentamente, e si era sentita quasi come se fosse nuda, esposta, come se lui potesse leggere quello che le passava per la testa. Non era riuscita a sopportarlo. E quando la sua pazienza aveva raggiunto il culmine, si era decisa a chiedere:
   « Padre, per quale motivo mi avete fatta chiamare? Non per sapere che materia ho studiato ieri, suppongo. »
Forse aveva parlato con un tono più tagliente di quanto avrebbe dovuto, perché lo sguardo di suo padre si era improvvisamente fatto più affilato. Lilyan si era sentita esaminata anche da lui, e aveva dovuto compiere un enorme sforzo per non cedere alla tentazione di fare un passo indietro.
   « Supponi bene, figlia mia. Ma non essere impaziente. », aveva replicato infine lui con severità.
Tanto valeva che le avesse chiesto di non respirare, aveva pensato Lilyan, la cui inquietudine non aveva fatto che crescere ogni secondo di più. In quel momento, avrebbe voluto solo poter esprimere a gran voce tutta la sua rabbia, ma sapeva che così avrebbe solo peggiorato le cose. Sì, doveva essere paziente.
Ed erano passati altri minuti in cui la principessa era stata costretta a rimanere in silenzio a sopportare gli sguardi penetranti dell’Imperatore e del Cancelliere, prima che Raleigh Hegertal si decidesse finalmente a parlare. Col cuore in gola, Lilyan lo aveva osservato chiudere gli occhi e poggiare i gomiti sulle braccia del trono, intrecciando le mani davanti al proprio viso.
   « Quanto in là credi si debba spingere un imperatore per garantire la pace e la prosperità dell’impero che governa? »
A quelle parole, Lilyan era rimasta interdetta, la domanda l’aveva colta completamente alla sprovvista. Aveva sbattuto le palpebre, aggrottando le sopracciglia, riflettendo su quale potesse essere la risposta adatta, ma soprattutto, sul perché mai suo padre le avesse chiesto una cosa del genere. Ma ben presto le era stato chiaro, fin troppo chiaro, ed era stata obbligata a mordersi con forza il labbro inferiore per impedirsi di esternare la collera che le era montata dentro in un istante.
   « Ti ho fatto una domanda. », l’aveva quindi richiamata all’attenzione Raleigh, sentendosi ignorato dalla figlia che aveva abbassato lo sguardo.
   « Di cui non conosco la risposta. Mi manca la saggezza per avere anche solo l’ardire di esprimere la mia opinione in merito. Perché non me lo dite voi, padre? », Lilyan aveva sibilato tra i denti con l’intenzione di provocarlo, mentre era tornata a fissare i suoi glaciali occhi azzurri nei suoi. « Cosa siete disposto a sacrificare per il bene del vostro impero? »
   « Ryk non è mio. Io non lo posseggo, quanto non l’hanno posseduto gli Imperatori che mi hanno preceduto. »
   « Che gli dei abbiano in gloria la loro anima. », aveva aggiunto in un sussurro Ygard, a cui Raleigh aveva rivolto un cenno d’assenso prima di continuare, serrando la stretta sulle proprie mani.
   « L’Imperatore è solo una figura, un simbolo che riunifica in sé potere, sacralità e giustizia, culture differenti e terre lontane le une dalle altre quanto il giorno e la notte, l’Astro e la Stella. Ma le città e i popoli che su cui estende il suo dominio non gli appartengono, non possono essere considerati una sua proprietà materiale e personale. Ciò non di meno, deve fare di essi il significato della sua intera esistenza. »
Prendendosi altro tempo prima di continuare, Raleigh aveva sciolto le dita e appoggiato le mani sul legno di cedro del suo trono, distendendo la spalle contro lo schienale. Nonostante fosse seduto, a Lilyan era sembrato immenso.
   « Non esiste un limite davanti al quale un imperatore debba fermarsi, né sacrifici che non debba essere più che disposto a compiere. È questa la mia risposta. L’intera vita di quel singolo individuo è in funzione di un bene più grande, il bene del suo popolo. »
   « Devo... devo dunque concludere che mi avete chiamata per farmi una lezione di filosofia? », a quel punto Lilyan aveva sorriso ironicamente, per mascherare l’esitazione nella sua voce. Per un attimo, si era sentita come vacillare, di fronte all’inflessibilità nel tono di suo padre.
   « Siamo ben lontani dalla conclusione di questo discorso. »
   « Perché non arrivate al punto, allora? », lo aveva rimbeccato, con più arroganza di quella che avrebbe dovuto. « Di grazia. »
Di fronte a quella dimostrazione di irriverenza, Raleigh si era limitato a stringere con forza il legno dei braccioli.
   « Volevo solo che ti fosse chiaro cosa sia o non sia in mio potere. Ma visto che con questi giri di parole ti risulta così difficile capire, mi spiegherò meglio. Quello che voglio che tu comprenda è molto semplice. », e con la coda dell’occhio, Lilyan aveva potuto osservare il sorriso del Cancelliere Ygard distendersi, mentre lei aveva potuto solo serrare i denti.
   « Non possiederò Ryk... però, in quanto mia figlia, posseggo te. »
Questo era stato troppo. La principessa aveva perso la sua compostezza, e la sua espressione si era tramutata in una smorfia del disprezzo più puro. Il suo orgoglio, ora ferito, non poteva sopportare un affronto del genere. Lei non apparteneva a nessuno, se non a sé stessa.
   « Forse non sai quali siano i doveri di un imperatore, ma quelli di una principessa dovrebbero esserti più che chiari. », aveva aggiunto Raleigh, senza mostrare il minimo turbamento davanti alla sua reazione.
   « E i vostri doveri di padre vi sono chiari?! », la giovane era sbottata al culmine della rabbia, urlando il proprio risentimento. Era stanca di tenere controllata la voce. Era stanca di non mostrare mai i suoi veri sentimenti. Era stanca, maledettamente stanca di rimanere sempre in-...
   « Silenzio. »
Lilyan si era come pietrificata, il senso di soggezione che suo padre le incuteva era tornato a pesare su di lei insieme al suo sguardo carico di risentimento e rancore, che le aveva ricordato lo stesso che le aveva rivolto il giorno dell’incidente in cui Mark era scomparso. L’Imperatore si era alzato in piedi, ergendosi in tutta la sua statura. E Lilyan era tornata ad essere la bambina che di notte piangeva premendo il viso contro il cuscino per soffocare i singhiozzi.
   « Sono un Imperatore prima che un padre. », Raleigh aveva asserito a quel punto, chiarendo ancora di più quanto fosse disposto a sacrificare.
   « Prima che un uomo, vorrete dire... », lei aveva mormorato tra i denti, prima di riuscire a trattenersi. Nel frattempo suo padre era tornato a sedersi, e per un attimo la giovane aveva sperato che avrebbe ignorato le sue parole. Ma non era stato così.
   « Prima che un uomo, sì. »
E Lilyan si era sentita perduta.
   « Tra due cicli esatti della Stella, a due mesi a partire dal Solstizio, andrai in sposa al, confido, l’allora Lord Gellert Cattleback e diventerai la signora di Groenwoud. Le nozze si celebreranno nel tempio di Hemel, sotto la benedizione del dio Padre del Cielo e di tutti gli dei-... »
   « ... No. », aveva potuto solo negare con orgogliosa veemenza, analogamente a quando Nania le aveva dato per la prima volta la notizia.
   « No? », suo padre aveva ripetuto, come a sfidarla a ribadirlo un'altra volta.
   « È quello che ho detto... mio Imperatore. », lei aveva sottolineato, come se si trattasse di un insulto.
A quel punto il Cancelliere Ygard si era fatto avanti.
   « Questo è il volere di vostro padre, il volere dell’Imperatore, principessa Lilyan. Dovete comprendere le vostre responsabilità come-... », ma Raleigh l’aveva interrotto con un gesto della mano, potendo vedere che sua figlia aveva ancora da dire. Lilyan si era sentita derisa, perché sapeva bene che suo padre le aveva ceduto la parola solo per farla sfogare, e non perché avesse reale interesse ad ascoltare la sua opinione o a cambiare la propria, ma non per questo scelse di rimanere zitta.
   « Se volete che io comprenda le mie responsabilità, fatemi assistere alle riunioni del Consiglio, rendetemi ambasciatrice, non datemi in sposa a uno sconosciuto solo perché ha le risorse e le ricchezze per aiutarvi nella vostra folle e vana caccia agli Elfi! Credete che sia stupida?! Credete che non mi accorga che i vostri Soldati di Vurige abbiano fatto un fiasco dietro l’altro?! Sono passati diciassette anni, padre! Diciassette! E ancora non una testa di un Elfo è caduta per vendicare mia madre, mentre voi vi ostinate a non-...! »
   « Adesso basta. »
Ancora quel tono, ancora quello sguardo. Odiando sé stessa, Lilyan aveva sentito i propri occhi inumidirsi mentre la voce le era morta in gola.
   « Ho sopportato a sufficienza le tue mancanze di rispetto. », Raleigh si era nuovamente alzato, sistemandosi il lungo mantello blu notte dietro le spalle, per poi scendere con incedere lento ma deciso i gradini che lo sopraelevavano. Prima di ritirarsi dietro un ampio portone che le guardie gli avevano prontamente aperto, si era voltato un ultima volta verso sua figlia, rimanendo a guardarla per una breve frazione di secondo. Poi le aveva dato le spalle. « Ho preso la mia decisione e la rispetterai, che tu sia d’accordo o meno. », ed era sparito nell’ombra.
 
Suo malgrado, Lilyan fu costretta a chiudere gli occhi e a prendere fiato quanto più profondamente i suoi stretti abiti le consentivano, per calmarsi dopo aver rievocato quei ricordi.
Quando infine fu giunta davanti al tempio e fu costretta a smontare dalla sella, per un attimo sentì mancare la terra sotto i propri piedi. Ma si riprese in fretta, serrando con forza i denti.
   « Andrà tutto bene, Gemma. », sussurrò, circondando con le braccia il collo della sua puledra dello stesso colore dell’oro, mentre respirava a fondo il tipico odore del suo pelo. Solo quando si sentì abbastanza forte per farlo, si distaccò da lei, che sbuffò nuovamente, pestando a terra gli zoccoli. Fissando i suoi lucenti occhi scuri, Lilyan lasciò che sulle proprie labbra tremanti di distendesse un sorriso furioso.
   « Ho fatto una promessa a me stessa. E non ho intenzione di infrangerla. »
 
 
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GLOSSARIO
 
 
 
Astro Infuocato: è come viene chiamato il Sole.
Brimstone: nome del castello che si erge a dominare l’arcipelago delle isole Vulkaan. In inglese, significa “zolfo”.
Gevries: [ghèvries] Dea della Luna, della razionalità, e dell’inverno. Letteralmente, il suo nome significa “congelato”.
Groenwoud: [groenvud] nome del feudo governato dai Cattleback. Letteralmente, significa “bosco verde”.
Hemel: Dio del Cielo, cioè il significato del suo nome. È considerato il padre di tutti gli Dei.
Oëlig: altro nome degli Elfi, che letteralmente significa “occhi lucenti”. Col procedere della storia capirete perché vengono chiamati così.
Ryk: [ric] l’impero in cui è ambientata la vicenda.
Rykfort: nome del palazzo imperiale. Il suffisso “fort” sta ad indicare “fortezza”.
Rykstad: la capitale dell’Impero. Il suffisso “stad” sta ad indicare “città”.
Stella di Ghiaccio: come viene chiamata la Luna.
Vulkaan: arcipelago di isole di origine vulcanica, prima disabitate ma recentemente diventate un feudo.
Vurige: [vùrighe] Dio del Sole, dell’istinto, e dell’estate. Letteralmente, il suo nome significa “ardente”.
Yvebloom: [ìvblum] Dea dei Fiori, della vita/rinascita, e della primavera. “Yve” è una distorsione del nome “Eva” che significa “vita”, mentre “bloom” significa “fiore”.

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