Hantis Lilyandrë di M e g a m i (/viewuser.php?uid=150368)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione. ***
Capitolo 2: *** Il figlio di Gevries. ***
Capitolo 3: *** Promessa. ***
Capitolo 4: *** Ricordi. ***
Capitolo 1 *** Prefazione. ***
NDA: E
niente,
parlando con _Haily_, mi
è venuta
voglia di riprendere in mano questo libro (!) che ho iniziato qualcosa
come
tipo cinque anni fa. :°D
Ho
già qualche capitolo pronto, che
ovviamente sarà da rivisitare perché il mio modo
di scrivere è maturato parecchio
–TIRIAMOCELA– da quando avevo tredici anni.
Come
al solito, le recensioni sono ben
accette! Adoro leggere le vostre opinioni, positive o negative che
siano!
-
HANTIS LILYANDRË
PREFAZIONE
E
di fronte a lui, una vita si spegneva mentre un’altra
cominciava il suo corso.
Aveva
provato di tutto. Aveva usato, scambiato, anni della
sua vita, era
diventato più vecchio. Ma non era servito a niente. Julieth
stava morendo di
fronte a lui, lui, completamente impotente.
Faticava
a respirare, la sua fronte era imperlata di sudore per la fatica del
parto. Con
la poca forza che le era rimasta stringeva al petto la causa della sua
morte, e
la guardava come se fosse la cosa più bella che avesse mai
visto.
«
Devi... », Julieth mormorò con voce flebile,
quella stessa voce che tante volte
aveva cantato per lui, aveva riso con lui, gli aveva dato preziosi
consigli, lo
aveva consolato. Voce che ora era ridotta a niente più che a
un sussurro. La
giovane donna chiuse gli occhi, e deglutì, cercando la forza
per parlare.
«
Devi promettermi che farai in modo che torni da suo padre. So cosa...
cosa
vogliono fare gli Anziani, e non lo posso permettere. Sarebbe... la
rovina del
tuo mondo e... la fine del mio. »
A
quelle parole, lui sbatté le palpebre più volte,
allibito. Come aveva fatto a
scoprirlo? Ma Julieth non era una donna, un’umana
come tante altre, di
questo ormai si era reso conto da troppo tempo. Rimase a riflettere per
un
breve istante, perché ogni istante che avrebbe perso, non
avrebbe potuto
passarlo con quella donna che amava come se fosse sangue del suo sangue.
Cosa
c’era di male nel piano degli Anziani?, si chiese,
incontrando lo sguardo di
Julieth, che andava lentamente spegnendosi. Aveva imparato per
esperienza che
quando quegli occhi dello stesso colore del cielo al crepuscolo
asserivano
qualcosa, questa risultava sempre esatta. Ed in quel momento, anche se
privi
della luce che fino a quel momento li aveva illuminati, brillavano di
una
forza, di una determinazione davanti alla quale non si era mai trovato.
La
determinazione di una madre. Di una regina.
Che
il suo intuito avesse fallito quella volta? Ne dubitava.
«
Promettimi che... farai di tutto per proteggerla... », la
voce di Julieth
risuonò ancora nel silenzio della foresta, sempre
più debole, sempre più
distante.
«
Ti do... la mia parola. », si sentì rispondere,
quasi non riconoscendo il suono
spezzato, incerto, che uscì dalle sue labbra. La guardava, e
si sentiva
impotente. Presto se ne sarebbe andata. E non c’era
più niente che lui potesse
fare per impedirlo.
Con
un gesto impulsivo, qualcosa che non faceva parte di lui, le
afferrò una mano e
la strinse forte, come a volerla trattenere al suo fianco. La giovane
donna
fece un sospiro e lasciò dipingersi sulle sue labbra un
sorriso. Sembrava in
pace, soddisfatta, nonostante quella fosse la sua fine. «
Devo... andare, ora.
Il mio tempo è finito. Tieni... tieni fede alla tua
promessa... »
«
Come... come la vuoi chiamare?», le chiese, lui e ancora
faticò a riconoscere
il tono disperato impresso nella sua voce. Aveva posto quella domanda
nonostante conoscesse già la risposta. L’aveva
saputa nello stesso momento in
cui quella creatura indifesa era venuta al mondo. Julieth
capì che il suo era
solo un vano tentativo di rubare tempo che non gli era concesso, e
sorrise
ancora, guardando con amore sia lui che quella che era la sua unica e
sola
figlia.
«
Lo sai... » sussurrò sfiorandogli una guancia,
talmente delicatamente che quel
tocco gli parve carezzevole e ormai immateriale come l’aria.
« E fai in modo...
che sia per sempre. So... che puoi farlo. È
l’ultimo... è l’ultimo favore che
ti chiedo ».
Un
brivido gli percorse la schiena, a lui che non conosceva né
il freddo né la
paura. Per la prima volta in vita sua, si sentì smarrito.
Piccolo, come
quell’essere fragile e delicato che Julieth gli stava ponendo
gentilmente tra
le braccia. Il calore che emanava quell’esile corpo, era
tipico degli umani.
Qualcosa in grado di scaldare pure il più glaciale e
immortale dei cuori.
Per
l’ultima volta,
alzò gli occhi a incontrare lo sguardo di lei, quasi in una
muta richiesta di
aiuto. La sensazione di smarrimento crebbe dentro di lui come il calore
che
pian piano gli si stava diffondendo all’altezza del petto.
«
Addio... », per l’ultima volta,
la dolce voce di Julieth cantò, per
entrambi, per entrambe le vite che stava lasciando. Poi si
abbandonò contro il
tronco dell’albero, e per l’ultima volta
sorrise, andandosene con
quell’espressione incantevole sul viso.
Non
pianse. Il suo cuore inflessibile, rigido, vecchio come la luna e le
stelle non
sapeva come fare. Rimase a guardare quel corpo vuoto
senz’anima chiedendosi se
tutto quello che gli avevano insegnato gli Anziani fosse vero. Se era
così
allora lei non era morta. Sarebbe continuata a vivere per sempre.
Avrebbe fatto
parte della magia del mondo.
Rimase
immobile finché non trovò la forza di andare
avanti. Non sapeva quanto tempo
fosse passato. La bambina tra le sue braccia, era silenziosa,
probabilmente
dormiva. Fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di guardarla.
Cosa
avrebbe provato?
Lentamente,
abbassò lo sguardo. Con stupore vide che non stava dormendo.
Ma la cosa che più
lo sorprese furono i suoi occhi. Non avendo mai visto un neonato,
né umano né
della propria specie, non poteva sapere che era una cosa straordinaria
che
quella bambina avesse gli occhi color azzurro vivo che brillavano,
mentre lo
guardava, attenta come non avrebbe dovuto esserlo. A meravigliarlo,
perciò, non
fu quello, ma il fatto che quegli occhi del colore del cielo al
crepuscolo
fossero identici a quelli della madre.
Delicatamente
le sfiorò una guancia e l’unico ciuffo di capelli
neri. La bambina sorrise, e
anche lui non poté farne a meno. Dentro di sé
provava una sensazione strana, si
sentiva pieno d’emozione. Un’emozione che
però non aveva mai provato e che
quindi non sapeva decifrare.
«Lilyan…»,
mormorò con dolcezza. Lei in risposta rise ancora,
scatenando in lui
quell’emozione strana.
Una
folata di vento, gli fece ricordare la sua promessa. Si chiese se non
fosse
stata proprio Julieth, che ora faceva parte della magia del mondo sotto
forma
di aria, di acqua, di terra, di fuoco, di stelle, di tutto
ciò che rientrava
sotto il nome di Natura. Ora non voleva più separarsi da
quella bambina con gli
occhi azzurri che lo faceva sentire vivo. Ma le aveva dato la sua
parola.
Sospirò,
pensando a come poteva fare per riportarla da suo padre. Per lui non
era
possibile. Avrebbe incaricato qualcuno di fidato. Sapeva già
a chi dare quel
compito. Ora rimaneva un ultima cosa da fare.
Chiuse
gli occhi e prese un profondo respiro, raccogliendo la sua magia, e,
pronunciando il nome che era nato con lei, la sfiorò dietro
la spalla destra.
Dalle
sue dita si sprigionò una luce violacea.
E fu per
sempre.
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Capitolo 2 *** Il figlio di Gevries. ***
NDA: Ma
quanto mi piacciono tutti questi
nomi strani che derivano dall’afrikaans...! *-*
Forse
all’inizio voi farete un po’ di
confusione, ma vedrete che col tempo vi abituerete –spero.
Magari quando ne
avrò raccolti un po’, posterò una
specie di glossario!
-
CAPITOLO 1: Il figlio di Gevries
Vurige,
l’Astro Infuocato, stava tramontando dietro le mura
fortificate di Rykstad, la
capitale dell’Impero, lasciando il posto alla sua consorte
Gevries, la Stella
di Ghiaccio. Il cielo era tinto di mille colori, il quadro
più bello della
natura. La ragazza si fermò incantata ad ammirare
quell’incredibile spettacolo,
nascosta sul tetto, dietro il camino del panificio del villaggio. In
diciassette
anni di vita, non si era mai stancata di stare ferma a contemplare
quella
magnificenza; Nania, la sua ancella, quando era piccola la prendeva in
giro,
dicendo che l’alba e tramonto dell’Astro erano gli
unici momenti in cui
riusciva a stare calma e immobile senza strillare e fare capricci. Ma,
anche se
ora era cresciuta, e di capricci non ne faceva più,
quell’armonia di colori
aveva ancora la capacità di stregarla.
Lentamente
scese il crepuscolo, e la Stella iniziò il suo dominio del
cielo, circondata
dalle costellazioni sue cortigiane. Appiattita contro il camino, la
ragazza si
sistemò la bandana nera in modo da coprire bocca e naso, si
tirò su il
cappuccio del mantello, e usando le rientranze del muro di mattoni come
appiglio, silenziosamente scese in strada. Confondendosi tra le ombre,
scivolò
tra una via e l’altra, fino ad arrivare all’osteria.
Come
stabilito, il grasso barista la stava aspettando sul retro
dell’edificio,
appoggiato al muro, che si stava tormentando nervosamente le tozze
mani. La
ragazza estrasse il coltello dal fodero, legato attorno alla gamba e
ben
nascosto sotto il mantello, e si fece avanti, rigirandoselo tra le
dita,
mostrando tutta la sua sicurezza. Immediatamente,
l’espressione dell’uomo si
trasformò da ansiosa a terrorizzata, e si
schiacciò contro il muro, quasi volesse
fondersi con esso per nascondersi. Lei si trattenne
dall’alzare gli occhi al
cielo. La sua reputazione ormai era piuttosto temuta da tutti, nella
Capitale.
Ma sarebbe stato ugualmente così se avessero saputo che
sotto mantello nero e
fazzoletto si celava niente di meno che una donna?
«
Figlio di Gevries... », mormorò l’uomo
in saluto, deglutendo rumorosamente.
Altra smorfia, celata dalla stoffa che nascondeva metà del
viso della ragazza,
dai lineamenti indiscutibilmente femminili e anche piuttosto avvenenti.
Insieme
alla brutta reputazione, ora le avevano affibbiato pure quel ridicolo
soprannome. Ma in fondo, si disse, il tutto andava a suo favore.
Ignorando
i convenevoli, avanzò verso l’uomo: era il suo
informatore più fidato, o
almeno, quello che le dava sempre le informazioni più
attendibili e che non si
sarebbe mai sognato di tradirla. Era troppo codardo per farlo. Ma non
era
ancora riuscita ad abituarsi al suo aspetto ripugnante, agli occhi
piccoli e
storti, al naso troppo all’insù, simile a quello
di un maiale, ai denti
rovinati dal tartaro e dalle carie, al puzzo di sudore che gli
aleggiava
attorno. Ringraziando di avere la bandana a coprirle il naso, si
abbassò e lo
fissò, inchiodandolo con i suoi occhi di ghiaccio, che tanto
incutevano terrore
perché ricordavano quelli nelle raffigurazioni della dea
Gevries, fredda e
glaciale come la notte eterna, la morte. Ormai quella del Figlio era
diventata
quasi una figura leggendaria.
«
Dove? », sibilò a denti stretti per mascherare la
voce femminile.
«
Io... io non lo so. », farfugliò lui,
sputacchiando. Lei rimase interdetta. Lui
sapeva sempre tutto,
non le aveva
mai risposto così. Era o no il barista
dell’osteria? Non lo aveva scelto
proprio perché la sua sudicia bettola era il luogo dove ogni
giorno i sostenitori
umani della Resistenza si riunivano per discutere i loro piani? Come
era
possibile che non avesse informazioni?
«
Mi stai prendendo in giro? », ringhiò la ragazza,
tornando a trafiggerlo con lo
sguardo.
«
No, no, n-non oserei mai... », balbettò impaurito.
Lei si chinò ancora di più
su di lui arrivando quasi a sfiorarlo, e in risposta lui si
rannicchiò ancora
di più contro il muro.
«
Dimmi tutto quello che sai, ora,
se non vuoi
che ponga subito fine alla tua miserabile vita », lo
minacciò gelida, puntandogli
il coltello alla gola. Quante minacce come quelle aveva fatto? Ormai ne
aveva
perso il conto, erano talmente tante che non si notava nemmeno che
stesse
mentendo. Non aveva ma ucciso e sapeva che non ne avrebbe mai avuto il
coraggio, ma questo nessuno poteva sospettarlo: per tutti lei era solo
il
Figlio di Gevries, perciò un glaciale assassino che portava
il sonno eterno in
nome della madre. Infatti, l’uomo guaì come un
cucciolo spaventato, e cominciò
a tremare.
«
Mio signore... vi prego... non posso... ». Gli occhi gli si
riempirono di
lacrime e abbassò lo sguardo.
«
Cosa vuol dire non
puoi? Non mi
sei più fedele? » lo accusò lei
impassibile, sollevandogli il mento con la lama
affilata.
«
No, no, io sono fedele solo a voi... ma... ma vi prego... n-non posso!
Ne và
della mia vita! », la implorò lui, singhiozzando
in modo patetico. Se credeva
di farle compassione, si sbagliava di grosso.
«
Idiota, anche adesso ne va della tua vita »,
sibilò lei infuriata. Stava
davvero per perdere la pazienza. « Parla ».
«
M-Mio signore... »
«
Ho detto parla!
», esclamò,
afferrandolo per la maglia e sbattendolo contro il muro. Gli
puntò il coltello
alla gola, mentre gli occhi di lui si dilatavano
all’inverosimile. « Parla
o sei morto ».
«
V-Va bene, certo, certo... ma v-vi prego, abbassate il c-coltel-...
». La
ragazza non gli permise neanche di finire la frase, si
limitò a spingere la
fredda lama d’acciaio contro sua pelle, fino a fargli uscire
una goccia di
sangue. L’uomo guaì ancora, più per lo
spavento che per il dolore, e deglutì di
nuovo, facendo un profondo respiro.
«
Questa sera sono venuti i soliti due uomini della Resistenza...
», bisbigliò
talmente a bassa voce che la ragazza dovette abbassarsi ancora di
più per
sentire quello che stava dicendo. « Erano allegri come non ce
li avevo mai
visti, e hanno subito ordinato la mia birra più buona e
l’hanno offerta a
tutti... certo, ero un poco preoccupato perché avevo paura
che non riuscivano
mica a pagar-... ». Lei lo strattonò,
interrompendolo ancora.
«
Non sono venuto qui per sentire le tue lamentele, uomo », la
ragazza serrò i
denti, per trattenersi dall’urlargli contro. «
Dimmi quello che voglio sapere »
«
Certo, certo, mio signore, stavo solo... »,
cominciò ma l’occhiata di lei lo
fece ammutolire all’istante. « Comunque, hanno
fatto fuori gran parte della mia
scorta, e alla fine erano tutti quanti brilli e non ci capivano
più niente. E
allora a quel punto uno dei due uomini, quello che aveva bevuto
più di tutti,
si è lasciato scappare qualcosa nell’allegria del
momento, qualcosa che gli
altri non hanno mica sentito, ma io ho ascoltato, oh, sì che
ho ascoltato, per
riferircelo a voi come sempre... »
Senza
dire niente, si limitò a strattonarlo, per incitarlo a
continuare. L’impazienza
trapelava dagli occhi della ragazza ogni secondo di più. Che
cosa aveva sentito
di così importante? L’uomo deglutì per
l’ennesima volta, distogliendo lo
sguardo mentre un rivolo di sudore freddo scendeva a tracciargli il
profilo di
una tempia.
«
Ha detto una cosa un po’ senza senso, che tre...
com’è che aveva detto, tre...
tre Oëlig
sarebbero
arrivati tra una settimana a prendere la merce.
M-Ma quando
l’ha detto, il suo compagno, quello che aveva bevuto di meno,
ci si è accorto
che lo avevo sentito, e allora si è subito alzato e mi ha...
mi ha minacciato,
mio signore, ha... ha detto che... »
Ma
ormai la giovane non lo stava più ascoltando,
l’attenzione rubata da una sola
parola che aveva avuto il potere di far perdere d’importanza
a tutto il resto.
Oëlig.
La
sorpresa era stata talmente grande che si dimenticò di
mantenere la presa sui
vestiti dell’uomo, che cadde all’indietro
pesantemente sbattendo le grasse
natiche a terra e la schiena contro muro. Ma la ragazza non
sentì minimamente
il gemito di dolore affiorato dalle sue labbra. Non sentiva
più niente.
Si
portò una mano al petto quasi cercasse di contenere il suo
cuore
improvvisamente imbizzarrito e fece un passo indietro, la mente in
subbuglio.
Oëlig.
Nell’antico
linguaggio, Occhi Lucenti.
Per
tutta la sua giovane vita, non era riuscita a smettere di pensare a
quel nome,
a dimenticare. Non avrebbe mai scordato quando e soprattutto perché
lo aveva sentito per la prima volta,
tanti anni fa, quando non era niente di più che una bambina
che aveva
ingenuamente chiesto cosa significasse il suo nome, dal suono
così strano, così
inusuale per un’abitante dell’Impero di Ryk.
L’adrenalina
cominciò a scorrere più veloce nelle sue vene, e
un sorriso diabolico le si
dipinse sul viso coperto. Strinse il coltello più forte
nella mano sinistra, la
mano portante, fino a farsi male alle dita coperte da guanti di pelle,
e alzò
gli occhi al cielo, alla Stella, ringraziando la dea Gevries per quella
notizia.
Finalmente.
Da quanto ormai aspettava? Erano anni che attendeva quel momento. Ma ne
era
valsa la pena. Sì, tutti i suoi sforzi, la sua pazienza,
alla fine, erano stati
ricompensati. Finalmente si sarebbe trovata faccia a faccia con gli
assassini
di sua madre.
Oëlig,
Occhi
Lucenti, o più comunemente conosciuti come Elfi.
Finalmente.
Finalmente
avrebbe avuto la sua vendetta.
|
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Capitolo 3 *** Promessa. ***
NDA:
Pardon
per il ritardo! –come sempre, del resto. xD
Non
ho niente da dire in
particolare su questo capitolo, solo che spero vi piaccia anche se
è molto
descrittivo. Ma d’altronde mi tocca!
Se
avete dubbi o
perplessità mi raccomando, non esitate a chiedere nelle
recensioni, che tra l’altro
mi fanno immensamente piacere! >w<
Ordunque,
buona lettura!
-
CAPITOLO
2: Promessa
Gli
ultimi bagliori del fuoco nel
caminetto illuminavano la stanza. Con uno sbadiglio,
l’anziana ancella ravvivò
i tizzoni ardenti, per poi tornare a sedersi sullo sgabello di legno e
riprendere in mano il suo lavoro a maglia.
Fin
da giovane, Nania era sempre stata
una donna mossa dalla frenesia. Quando ancora le rughe non le
deformavano i
lineamenti e il grigio non le striava i capelli, quella sua innata
vivacità
l’aveva sempre spinta a cercare qualche cosa in cui
incanalare le proprie
energie. Per forza di cose, la sua condizione sociale l’aveva
portata a divenire
niente di più che una domestica, nonostante i suoi giovanili
e piuttosto vani
sogni di gloria. Ma non per questo si era persa d’animo,
l’ottimismo faceva
parte della sua natura così come la facoltà di
respirare. Era quindi diventata una
domestica efficiente, che svolgeva sempre il doppio del lavoro delle
altre sue
compagne per il semplice motivo che non era in grado di starsene con le
mani in
mano. E aveva svolto talmente bene il suo lavoro, che questo
l’aveva portata ad
ascendere fino al livello di ancella personale della principessa
secondogenita.
Questo, ovviamente, per lei era motivo del più grande
orgoglio. Aveva visto
quella bambina crescere, l’aveva amata come se fosse sua. In
mancanza di
un'altra guida femminile nella sua vita, in un certo senso Nania aveva
preso il
posto della madre che la principessa aveva perso troppo presto.
Le
sue mani ripresero a muoversi
veloci ed esperte, nonostante un altro sbadiglio l’avesse
nuovamente
interrotta. Lavorare a maglia non era esattamente il suo passatempo
preferito, eppure
come il ceto basso l’aveva costretta a diventare una donna di
servizio, ora il
penetrante dolore alla schiena che ogni sera si faceva sentire in tutta
la sua
intensità, la costringeva a rimanere seduta a starsene
tranquilla. Ma Nania odiava
starsene tranquilla. Tanto quanto odiava quel dolore ai lombi, e
l’età del suo
corpo che non voleva più tenere il passo della sua mente
ancora attiva e piena
di forza di volontà. Odiava quella tranquillità
così come non sopportava il
silenzio che in quel momento rimbombava nella stanza, e il tiepido
calore del
fuoco che le carezzava il viso segnato dal tempo, avvolgendola di
tepore e
rendendo le sue palpebre pesanti, sempre più pesanti...
« Nania! », un sibilo, niente di
più, che però ebbe il potere di
spezzare il silenzio e strapparla dalle grinfie suadenti del sonno.
« Nania,
presto! »
Scattando
in piedi e lasciando perdere
in fretta e furia lana e uncinetti, si diresse a veloci passi verso il
pesante
uscio di legno vecchio che separava dall’esterno quella
piccola stanza nell’ala
adibita alle cucine del castello.
Fuori
sibilava un freddo vento di
inizio primavera. Era notte inoltrata, l’unica fonte di luce
proveniva dalla
Stella di Ghiaccio che brillava alta nel cielo scuro e limpido, e dalle
torce
che balenavano in lontananza su tutto il perimetro delle mura
fortificate del
castello.
Rykfort
sorgeva nell’esatto centro di
Rykstad, strategicamente posta a nord ovest dell’Impero di
cui era la capitale,
in un’ampia valle circondata dall’impenetrabile
catena montuosa delle Tre
Vette. L’unica via di accesso all’interno di essa,
era costituita dalle strade
che fiancheggiavano il letto del fiume d’Ambra, che
costeggiava le mura della
capitale su tutto il perimetro orientale e poi sfociava fuori dalla
valle,
scavandosi il suo sentiero tra la roccia, fino a gettarsi nel mare.
Ma
per Ryk Hegertal il Primo, l’Imperatore
che dava il nome al regno e alla capitale nonché alla casata
regnante, la
protezione naturale non era stata sufficiente. Per questo aveva fatto
costruire
attorno alla sua fortezza e alla sua città uno spesso strato
di mura doppie, a
quanto si diceva, con un cuore del duro basalto importato direttamente
dall’arcipelago delle isole Vulkaan, quando ancora erano
inabitabili e i
crateri delle loro montagne eruttavano lava.
Dalle
alte e impenetrabili mura che
proteggevano la capitale e Rykfort, perciò, era possibile
avere una visuale quasi
completa di tutto ciò che le circondava. Rykstad era
praticamente
inespugnabile, dall’esterno. Ma l’interno era la
sua debolezza.
Era
una città talmente grande che non
era possibile sorvegliarla tutta. Episodi di violenza e moti
insurrezionali si
erano svolti periodicamente da un lato o dall’altro del suo
perimetro, fin
dalla sua fondazione, parecchi secoli prima.
Negli
ultimi e pacifici anni del regno
dell’Imperatore Raleigh Hegertal, però, nessuna
scintilla di rivolta era
riuscita a avvampare, repressa ancor prima di poter nascere. Il merito
era
dovuto al ripristino di un antico ordine di soldati devoti al culto di
Vurige,
il dio dell’Astro Infuocato, che costituivano il ferreo corpo
di guardia
cittadino, per cui anche i più fervidi rivoluzionari e
sostenitori della
repubblica provavano un timore quasi reverenziale.
Eppure,
i soldati di Vurige non erano
affatto temuti dall’ombra ammantata di nero che
scivolò silenziosa al fianco di
Nania, aiutandola poi a richiudere la porta, contro cui si
abbandonò con un
sospiro si sollievo.
« Per poco non venivo beccata dalle guardie
vicino alla Porta dei
Mercanti. », mormorò cautamente la figura ancora
nascosta nell’ombra. Non si
poteva sapere quali e quante orecchie potessero essere in ascolto nelle
cucine,
anche a quella tarda ora della notte.
« Se restaste nel vostro letto come dovreste
fare, non correreste nessun
rischio. », sibilò in risposta Nania, con una
punta di stizza nella voce.
Avvicinandosi alla figura cercando di fare meno rumore possibile, si
alzò in
punta di piedi e le slacciò il mantello freddo di
umidità, rivelando un giovane
corpo femminile le cui curve erano scarsamente celate da bendaggi sotto
i
vestiti neri come l’inchiostro. La ragazza inarcò
la schiena stirandosi le
braccia intirizzite sopra la testa, poi si passò una mano
tra i capelli, liberando
una folta chioma di ricci corvini dal nastro che li teneva bloccati
sulla nuca.
Infine, non prima di essersi gettata un’occhiata intorno, si
abbassò la bandana
nera che le celava metà del viso, fino al naso dal profilo
affilato. Un sorriso
furbo balenò sulle sue labbra carnose non appena i suoi
occhi di un azzurro
intenso incontrarono quelli castani e pesanti di sonno di Nania.
« Diventa sempre più difficile
muoversi in questa dannata città, con gli
uomini di Vurige che spuntano come erbacce in ogni angolo. »,
si limitò ad
ignorare il rimprovero, dirigendosi verso il calore del fuoco, davanti
al quale
si sedette, sfilandosi i guanti di pelle dalle mani che aprì
e chiuse
ripetutamente, cercando di riattivare la circolazione. «
Perdono, “che ovunque si
accendono come fiaccole che portano la luce nelle tenebre”.
Tsk. », ripeté a
memoria un passo del giuramento del rituale di investitura recitato
nuovi adepti
dell’Ordine, a cui aveva assistito decisamente troppe volte.
Nania
la raggiunse, piegando come
meglio poté il pesante mantello, fin troppo pesante per le
sue braccia stanche
e la sua schiena dolorante. Ma non un lamento uscì dalla sua
bocca, mentre
invece non riuscì a fare a meno di sussurrare un altro irato
richiamo, dettato
dalla preoccupazione.
« Sono soldati valorosi, scelti e investiti da
vostro padre, prin-... »,
si interruppe prima di tradirsi svelando il suo titolo nel silenzio. Si
guardò
intorno nervosamente prima di riprendere a parlare, chinandosi su di
lei e
abbassando ancor di più il tono di voce. « E la
“dannata città” è la vostra città. Non dovreste
parlare in
questo modo. E non dovreste neanche mettervi contro di loro. »
« Come dici tu, Nan. », la giovane
ragazza si limitò a trattenere un
sospiro. Ormai aveva perso il conto delle volte in cui era stata
costretta a
sorbirsi quelle ramanzine. « Vieni, Andiamo nelle mie stanze.
», si spazzolò i
vestiti dalla polvere e si rimise in piedi, una volta scaldatasi a
sufficienza.
Lanciandosi
un ultima occhiata
intorno, spense le ultime braci ardenti con una manciata di sabbia
umida, non
prima di aver acceso una lanterna ad olio, alla cui flebile luce si
fece strada
tra i bui corridoi del castello. Nania arrancò
frettolosamente dietro di lei
tentando di tenere il ritmo del suo passo svelto, e cercando a sua
volta di non
fare rumore e non urtare niente per sbaglio. Ma ormai era diventata
quasi una
routine, e, nonostante il costante rischio di essere scoperte, erano
mesi che
si erano abituate a muoversi silenziosamente tra quelle mura, evitando
gli
avamposti notturni delle guardie reali. Così come erano mesi
che il Figlio di
Gevries dava filo da torcere ai soldati di Vurige e
all’ordine di cattura
emesso dall'Imperatore stesso.
Sì, valorosi. Valorosi e inutili, contro di
me, pensò
la ragazza, la principessa, con una
punta di orgoglio, mentre saliva a due a due i gradini di un passaggio
elusivo
che conduceva dritto nelle sue stanze, sempre seguita dalla sua fedele
ancella
che non avrebbe mai osato tradirla rivelando il suo segreto, nonostante
avesse
minacciato più e più volte di farlo.
Giunta
alla fine della ripida
scalinata, aprì una porta nascosta dietro un arazzo e
finalmente raggiunse la
camera da letto nei suoi alloggi, posti nella Torre
dell’Alba, che si
affacciava sull’omonimo picco delle Tre Vette. La mattina,
quando il sole
sorgeva dietro di esso, tingeva il fiume di un caldo color ambra, che
si
rifletteva contro le mura di pietra di Rykfort, creando un gioco di
luci
mozzafiato.
A
quell’ora della notte, però, tutto
era immerso nel buio più nero. La ragazza quindi non perse
tempo ed accese il
candelabro accanto al suo letto a baldacchino, su cui si sedette con
poca
grazia, calciando via gli stivali.
Nania
invece si fermò al suo fianco
asciugandosi il viso con un fazzoletto e poggiandosi una mano sul petto
prominente, nel tentativo di riprendere fiato. La sua veneranda
età si era
fatta sentire ad ogni passo, ad ogni scalino saltato dalla sua giovane
padrona.
Non aveva neanche la forza per commentare il rozzo modo con cui la
stessa si
stava togliendo i vestiti, lasciandoli cadere a terra senza riguardo.
Scuotendo
la testa con forza, si impose di ricomporsi e di dedicarsi allo
spazzolare e
ripiegare camicia di lino, corsetto e pantaloni di cuoio che la ragazza
stava
sparpagliando in ogni dove, per poi nasconderli insieme al mantello nel
doppio
fondo dell’armadio in cui erano riposte le sue numerose paia
di scarpe.
Nel
frattempo, la giovane principessa
si era infilata sotto le spesse coperte, vestita solo del pugnale dal
quale non
si separava mai. Anche d’inverno, odiava dormire con addosso
camice da notte
che le si sarebbero attorcigliate addosso durante il suo sonno
inquieto.
Preferiva il morbido e caldo abbraccio delle lenzuola di seta e delle
pellicce.
Ma
ormai, quello stesso inverno stava
volgendo a termine, lasciando spazio ai boccioli della primavera. E con
la
primavera sarebbe venuta anche la celebrazione
dell’Equinozio, di lì a una
settimana. La ragazza sorrise, pensando quanto fosse ironico che una
festa che
odiava perché la costringeva ad indossare più
merletti del solito, cadesse nello
stesso momento in cui avrebbe compiuto la sua vendetta.
Finalmente...,
un brivido
le percorse la schiena nuda e candida.
« Nania, avvicinati. », fece un cenno
verso la sua ancella,
interrompendo il suo metodico rassettare. La donna non se lo fece
ripetere due
volte. In quanto a pazienza, la sua padrona aveva ereditato tutto
dall’Imperatore suo padre. « Quanto
durerà quest’anno la celebrazione
l’Equinozio? »
« Quattro giorni, mia signora. Uno in
più dell’anno scorso, dedicato
interamente all’investitura dei nuovi cavalieri di Vurige.
»
La
principessa si lasciò scappare una
smorfia che venne intercettata dallo sguardo severo di Nania.
« E le giostre si svolgeranno come sempre gli
ultimi tre giorni? », la
interruppe prima di sorbirsi l’ennesimo rimprovero.
« Sì, dopo i riti agli dei. Come
sempre. »
A
quelle parole, si abbandonò a un sonoro
sospiro, appoggiando la testa contro il morbido cuscino di piume.
« Tutti i giorni dovrebbero essere dedicati alle
giostre, non solo gli
ultimi tre della settimana. »
« Non dovreste dire così. Sarebbe un
grave disonore verso gli dei che ci
regalano la primavera, se ci limitassimo a festeggiare senza
ringraziarli a
dovere. »
La
ragazza sbuffò ancora, roteando gli
occhi, ma evitando di rispondere. Si ricordava fin troppo bene quando
all’età
di nove anni aveva osato esprimere
la
sua opinione riguardo alla noiosità dei riti agli dei degli
Equinozi e dei
Solstizi davanti al Sommo Sacerdote di Hemel, il Dio Padre del Cielo,
ed era
stata confinata nelle sue stanze per un intero pomeriggio a riflettere
sulle
sue turpi parole. Pomeriggio in cui, tra l’altro, si era
persa lo svolgimento
del torneo di spade.
Da
quel momento, aveva imparato a
mordersi la lingua e a tenersi le sue idee per sé, onde
evitare altri periodi
di reclusione. Non avrebbe sopportato di perdere neanche un secondo dei
tornei
a venire, e il suo venerabile padre le aveva promesso che quella
sarebbe stata
la punizione se avesse dissacrato ancora una volta gli dei. E il suo
venerabile
padre manteneva sempre le sue promesse.
Nania
rimase a guardarla rimuginare
per qualche istante, prima di avvicinarsi al letto e sedersi sul bordo,
lisciandosi la gonna. Sapeva cosa le stesse passando per la testa, dopo
tutti
quegli anni passati al suo fianco la conosceva fin troppo bene.
Così come
sapeva che durante la cerimonia dell’Equinozio di Primavera
si sarebbe
comportata in modo esemplare, pregando e inginocchiandosi insieme a
tutti gli
altri fedeli nonostante la voglia di sbadigliare, e che sarebbe rimasta
seduta
composta sul suo trono di legno intagliato durante l’intero
svolgimento delle
giostre, senza mostrare l’esultanza che sicuramente avrebbe
fatto battere il
suo cuore più veloce. A volte, guardandola, le tornava in
mente la giovane sé
stessa piena di sogni ed energia, e le scappava un sorriso. Ma come
lei, crescendo,
la principessa aveva temprato a forza il suo carattere estremamente
ardente,
costringendosi a comportarsi come si confaceva al suo rango. Forse era
proprio
per tutte le limitazioni che la sua appartenenza alla casata regnante
le aveva
imposto, che ora era arrivata a fuggire quasi ogni sera e a travestirsi
da uomo
– nei cui panni si trovava sicuramente più a suo
agio – per fare gli dei solo
sapevano cosa.
Eppure
non era di quello che avrebbe
voluto parlarle, quella sera, come invece aveva fatto tante altre
volte,
cercando di farla desistere da quel suo comportamento non solo
disdicevole, ma
anche enormemente rischioso. Piuttosto, c’era qualcosa che le
premeva sulla
coscienza da ormai troppi giorni, e non ce la faceva più a
mantenere il
silenzio, tenendosi tutto dentro. Il suo affetto e il suo senso del
dovere nei
confronti della sua padrona la spingevano a esternare quello di cui era
venuta
a conoscenza.
Si
schiarì quindi la voce, lisciandosi
nuovamente la gonna, nervosamente.
« Principessa, a proposito
dell’Equinozio... »
« Sì? », replicò
lei, sistemandosi su un fianco per guardare meglio
l’anziana donna, che le era parsa improvvisamente a disagio.
« Parlando con la piccola Pamela, sapete, la
figlia dell’armiere, sono
venuta a conoscenza di certe voci... »
« Che voci? »
« Riguardanti Gellert Cattleback. Lord
Cattleback, ormai. »
« Il vecchio Cattle ha tirato le
cuoia?», la ragazza si tirò su a sedere,
aggrottando la fronte, senza preoccuparsi di coprire il suo corpo nudo;
Nania
l’aveva vista crescere e diventare una giovane donna
dall’infante quale era
stata. «Peccato, era un buon tiratore. Quando da bambina ho
passato l’estate a
Groenwoud, mi riservava sempre la freccia con cui abbatteva i suoi
cervi. Un
tiro pulito, proprio qui. », accennò a un sorriso,
dando un colpetto al centro
della fronte di Nania, che si ritrasse stizzita.
« Walder Cattleback non è ancora spirato,
principessa. Anche se allo stadio della sua malattia, si possono solo
contare i
giorni. »
Suo
malgrado, anche se lo ricordava
poco e niente, fu contenta di apprendere quella notizia. Alla mente le
tornarono con affetto le parole gentili di quel signore stempiato e di
bassa
statura che non l’aveva giudicata per i suoi comportamenti
poco femminili, che gli
avevano certamente causato imbarazzo durante il suo soggiorno alla sua
corte.
Ancora meno poi, ricordava suo figlio Gellert. Tutto ciò che
le tornava alla
memoria, erano alcune immagini di lei stessa che cercava di convincere
a giocare
un ragazzino biondo più piccolo di lei di due anni, che
sembrava una statua
tanto era serio e composto. Le era stato subito antipatico. Eppure,
negli
ultimi anni si era sentito molto parlare di lui, quale impavido
cavaliere e
campione di numerose giostre, tutt’altro che compito. E quei
pochi che
l’avevano conosciuto di persona, l’avevano definito
un giovane arrogante e fin
troppo viziato, che usava il fascino dei soldi della sua casata per
comprare
amicizie, e il fascino del suo aspetto come strumento di vuoti e
superficiali
corteggiamenti. Tutto ciò non migliorava l’idea
che la principessa si era fatta
di lui.
« E immagino che Gellert quale figlio devoto
rimarrà al capezzale di suo
padre al posto di presentarsi alla celebrazione
dell’Equinozio di Primavera. »,
azzardò piuttosto scettica, corrugando nuovamente la fronte,
pensierosa.
Dubitava fortemente che un nobile del suo rango non si sarebbe
presentato,
anche perché tale atteggiamento sarebbe stato considerato
come un’offesa verso
gli dei e l’Imperatore. Eppure la fine sempre più
vicina di suo padre sarebbe
stato una giustificazione valida, che forse
anche i Sommi Sacerdoti di tutti gli dei avrebbero perdonato...
« ... Al contrario, sembra che voglia
trattenersi anche oltre il rito
d’inizio e partecipare al torneo. E si è portato
dietro almeno la metà della
corte di Groenwoud. », replicò invece Nania,
abbassando gli occhi verso le
proprie mani sulla gonna del suo vestito.
Questo
però era decisamente troppo
offensivo, nonché insensibile, nei confronti di Lord Walder
e del resto della casata
dei Cattleback.
« Fin troppo spudorato anche da parte di un
moccioso arrogante come
Gellert. », commentò la principessa,
assottigliando lo sguardo e cercando il
quello della sua ancella, notando come si fosse irrigidita. Ma
l’anziana donna
continuò a fissarsi ostinatamente le mani.
« E inoltre... Inoltre il vostro nobile padre...
»
A
sentirlo nominare senza preavviso in
quella conversazione, fu la giovane ad irrigidirsi.
« Mio padre...? », scandì
lentamente.
L’anziana
ancella prese fiato,
chiudendo gli occhi. Dentro di lei sapeva che se avesse letto
l’espressione in
quelli della sua principessa mentre pronunciava quelle parole che non
avrebbe
voluto dire, il suo cuore avrebbe avuto un sussulto.
« Vostro padre... vi ha chiesto udienza domani
mattina, prima
dell’inizio del rito. »
Improvvisamente,
ogni cosa assunse di
significato nella mente della ragazza dai capelli corvini. Le sue mani,
prima
abbandonate blandamente contro le coperte, ora si strinsero tenacemente
in pugni.
Ecco perché Gellert Cattleback aveva deciso contro ogni buon
senso di ignorare
i propri doveri di figlio. Ed ecco perché aveva deciso, o
meglio, gli era stato chiesto di
trattenersi più
del dovuto a Rykstad, alla corte
imperiale. E ancora, e soprattutto, ecco perché
l’Imperatore suo padre
aveva tanto insistito perché lei stessa passasse
un’intera estate a Groenwoud,
quando era solo una bambina. Ora il motivo per cui era stata costretta
a
visitare l’intero feudo e a fare la conoscenza di tutti i
nobili vassalli maggiori
e minori dei Cattleback le appariva chiaro come l’Astro. Come
aveva potuto
pensare che fosse normale, che fosse dovuto al suo rango di
principessa? Era stata
così stupida, ingenua. O forse aveva voluto semplicemente
distogliere lo
sguardo davanti ai numerosi colloqui che Raleigh Hegertal aveva avuto
con
Walder Cattleback, volendosi convincere che gli accordi che avevano
preso
fossero meramente fiscali. Anche l’immotivata gentilezza del
Lord di Groenwoud in
quel momento acquistò un diverso senso, davanti alla
richiesta di incontrarla
di suo padre, rara come la neve d’estate.
« ... No. », fu tutto quello che
riuscì a dire, serrando i denti,
replicando in un sibilo, come a sottolineare il suo disprezzo. E Nania
tornò ad
alzare lo sguardo su di lei, non riuscendo a celare la compassione che
sapeva
bene l’avrebbe fatta solo infuriare maggiormente.
« Principessa... »
« No. No,
nel modo più
assoluto. », continuò lei, negando con orgogliosa
veemenza il destino che le si
stava prospettando davanti. « Non farò la fine di
Annie. »
L’ancella
sospirò, tendendosi verso di
lei e cercando di prenderle tra le sue una mano stretta sulle lenzuola.
La
giovane la guardò con una fierezza che però non
riuscì a celare i suoi occhi
diventati gradualmente sempre più lucidi.
« Ora calmatevi, e ascoltatemi. La principessa
Annika è-... », ma a
sentir pronunciare il nome della sua adorata sorella maggiore che
idolatrava
come se fosse una delle dee in cui avrebbe dovuto credere, la giovane
scattò
nuovamente, ritraendo immediatamente la mano, punta sul vivo.
« Non provare a dirmi che è
felicemente sposata, Nan. Non ci provare.
Solo gli dei sanno come potrebbe essere felice con un uomo come... come
quello. »
La
sua voce era incrinata, spezzata
dalle lacrime che cercava in tutti i modi di trattenere, troppo
orgogliosa per
lasciarle cadere. Nania si rendeva perfettamente conto di tutto questo,
e
avrebbe voluto piangere per lei, per quella che era la sua bambina
tanto quanto
la sua principessa. Ma non avrebbe mai osato compatirla in quel modo,
se c’era
qualcosa che quella ragazza incredibilmente fiera e testarda odiava,
era
proprio suscitare pena e derisione. Per questo si era impegnata tanto
per
essere all’altezza di tutte le aspettative che si erano
accumulate su di lei
nel corso degli anni. E forse, Nania sottilmente lo sperava, avrebbe
acconsentito a fronteggiare a testa alta anche quest’ultima
prova davanti alla
quale si trovava disarmata...
« Cosa diavolo passa per la testa di mio padre?
», la sentì mormorare,
quasi tra sé e sé, mentre si stringeva le gambe
al petto.
« È preoccupato per le sorti del
regno, come qualunque buon Imperatore. E
i Cattleback sono una famiglia potente, con cui gli Hegertal hanno
stretto
rapporti di alleanze per generazioni. », tentò di
farla ragionare, invano.
« E alle sue figlie non ci pensa, invece?
», rispose lei con durezza.
« Ci pensa, principessa, ne sono certa.
», sospirò l’ancella, per poi
tornare ad abbassare umilmente lo sguardo così come il tono
di voce. « Così
come... così come continua a pensare al suo amato figlio,
vostro fratello, l’erede
legittimo di Ryk... »
A
quelle parole, la voce della giovane
diventò tagliente come vetro.
« Mark non tornerà mai, Nan.
», replicò con freddezza, assottigliando il
suo sguardo glaciale, mentre sulle sue labbra si dipingeva
l’accenno di un
sorriso amaro. « Continuare a cercarlo non
cambierà il fatto che è morto e
sepolto da strati e strati di oceano. E se invece per qualche...
“miracolo
divino” fosse ancora vivo, farebbe solamente bene a
continuare a starsene alla
larga da... da tutto questo. »
Il
silenzio cadde tra di loro, a quel
punto, Nania non se la sentì di aggiungere altro. Gli occhi
azzurri come
ghiaccio della sua padrona ardevano nel buio, segno che nella sua testa
si
stavano agitando furia e ragione, in una lotta continua. Eppure, quando
nel suo
sguardo brillava quella luce, c’erano pochi dubbi su quale
delle due avrebbe
infine prevalso.
« Ho sentito abbastanza per questa sera. Ora
voglio riposare. », disse
quindi, anche se dalla sua espressione si poteva intuire benissimo che
quella
notte non avrebbe chiuso occhio. Nania avrebbe voluto essere capace di
distrarla e di farle compagnia, magari raccontandole le favole con cui
aveva
riempito le sue notti insonni quando non era niente più che
una bambina piena
di speranze. Ma il tempo delle storie di cavalieri e principesse era
ormai
passato, e l’anziana ancella non avrebbe potuto fare altro
che rimanere con
lei, dormendo al suo fianco, e ignorare il dolore alla schiena che la
stava implorando
di stendersi e riposarsi nel suo letto.
« Volete
che-... »
« Lasciami. Sei congedata. », venne
interrotta bruscamente, al che tacque
di nuovo. Sapeva che il tono duro e la rabbia della giovane non erano
rivolti a
lei, e poteva comprendere il suo desiderio di stare da sola coi suoi
pensieri.
« Buonanotte, principessa. », si
limitò quindi ad aggiungere, ingoiando
il magone e spegnendo gli stoppini del candelabro, per poi appropriarsi
della
lanterna ad olio che le avrebbe fatto da guida nel buio del castello.
Sull’uscio,
però, un sospiro sconsolato
la fece voltare nuovamente, e si stupì di incontrare gli
occhi della
principessa che la cercavano, illuminati questa volta da un lieve
sorriso
sincero, quasi di scusa.
« Nan, quante volte ti ho detto di chiamarmi
solo Lily? »
Anche
Nania le sorrise. Le avrebbe
scusato qualsiasi parola, qualsiasi cosa. Il suo amore materno era
incondizionato.
« Buonanotte... principessa Lily. »
La
lasciò mentre scuoteva divertita la
testa, che poi appoggiò sulle braccia con le quali si stava
cingendo le gambe.
I suoi occhi, ora, erano persi nel vuoto e nell’ombra,
così come le parole che
rivolse a lei sola.
« Io non sposerò Gellert Cattleback.
Fosse l’ultima cosa che faccio. »,
la sentì promettere a sé stessa in un sussurro,
prima di lasciare la sua camera
da letto, chiudendosi la porta alle spalle.
E
così come suo padre, quando Lilyan
Hegertal faceva una promessa, la manteneva a qualsiasi costo. Fosse l’ultima cosa che avesse fatto.
Mentre passava
davanti a una finestra,
Nania alzò gli occhi al cielo e pregò mentalmente
la Stella e la sua dea
Gevries, celebrata per la sua freddezza, di infonderle un po’
di buon senso e
di non guidarla a compiere nessun gesto avventato.
|
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Capitolo 4 *** Ricordi. ***
NDA:
Avrei
voluto parlare di Annika in questo capitolo, ma altrimenti sarebbe
diventato
troppo lungo. ;A;
Rimando
quindi la riunione
tra sorelle al prossimo aggiornamento, così come
l’introduzione di “quell’uomo”
con cui Ann è sposata. /comincia a sbavare/ -scusate, io
sono di parte.
In
questo capitolo,
invece, abbiamo una visione più ampia di quella che
è la famiglia Hegertal, con
qualche accenno di più alla famosa Julieth della prefazione,
e anche al padre
di Lilyan, di cui vorrei tanto sapere cosa ne pensate.
Poooi,
come mi è stato
suggerito, ho deciso di inserire alla fine di ogni capitolo un
glossario -con
tanto di spiegazione dei nomi e la loro pronuncia- che procedendo con
la storia
verrà sempre più ampliato, in modo che non vi
confondiate con tutti questi nomi
che mi rendo conto siano un po’ ostici!
Per
ultima cosa, se vi
incuriosisce come mi immagino fisicamente i personaggi, ecco sul mio
profilo di
facebook l’elenco degli
attori/modelli/quelchel’è che più o
meno corrispondo a
quella che è l’idea di loro nella mia testa!
-> http://www.facebook.com/media/set/?set=a.444676705592017.101491.100001490736642&type=3
[e sentitevi liberi di mandarmi una richiesta di amicizia, se volete.]
-
CAPITOLO
3:
Ricordi
Lilyan
Hegertal alzò una mano guantata
a schermarsi gli occhi dalla luce sole, mentre osservava avanzare verso
di lei
la sua puledra di razza color palomino, come tutti i cavalli della
casata
imperiale, guidata dal giovane e nobile scudiero di suo padre. Appena le fu
accanto, con un sorriso le accarezzò il muso screziato di
bianco, che Gemma dell’Aria
aveva sollevato nella sua direzione con uno sbuffo compiaciuto.
« Ruffiana... », mormorò
ridacchiando, mentre passava le dita tra la sua
criniera dorata. Non era molto che la possedeva, le era stata donata
per il
compimento dei suoi sedici anni, la sua maturità, ma nei
suoi confronti aveva
sviluppato un affetto senza pari. Libera come il vento, Gemma era il
cavallo
più indomito con il quale si era trovata ad aver a che fare
in tutti gli anni
in cui aveva praticato equitazione, e scherzando, il Mastro delle
stalle le
aveva ripetuto più volte che aveva imparato a cavalcare
ancor prima di saper
camminare. Eppure Gemma era stata una sfida per lei, sfida che il suo
carattere
ostinato e irrequieto non aveva chiesto altro che poter affrontare. E
forse era
proprio considerando questo che suo padre gliel’aveva
regalata, provocando un
lei un misto di rabbia e commozione, al pensiero di quanto bene la
conoscesse.
Nonostante tutto.
Loro due erano
così simili.
« Se non ci affrettiamo, rischiamo di arrivare
in ritardo, mia signora.
», la richiamò alla realtà lo scudiero
Bart Keetan, porgendole una mano per
aiutarla a montare in sella.
La
principessa si costrinse a
trattenere un sospiro davanti a quel gesto che il più delle
nobili fanciulle
avrebbe giudicato gentile e cavalleresco, e, ignorandolo completamente,
si issò
con le sue sole forze sulla staffa. Lilyan cavalcava almeno dieci volte
con più
polso ed eleganza di quanto Bart Keetan e tutti gli altri giovani ser della corte reale avessero mai fatto
nella loro breve vita priva dell’esperienza di vere
battaglie, ma questo
ovviamente nessuno l’avrebbe mai ammesso.
Per
questo ser Keetan si limitò ad
accigliarsi senza proferire parola, anche di fronte al modo in cui
Lilyan si
era seduta, non all’amazzone come l’appartenenza al
suo sesso le avrebbe
imposto. Normalmente, di fronte a una ricorrenza come la celebrazione
di un
Equinozio o di un Solstizio, la principessa non avrebbe fatto troppe
storie e
si sarebbe attenuta alle tacite regole che l’avrebbero
relegata “al proprio
posto” nella processione verso il tempio. Ma normalmente
Lilyan non era così
furiosa.
Con
un secco colpo di redini, la
ragazza drizzò la schiena e si diresse a testa alta verso la
Porta
dell’Imperatore, che separava il fortino con gli alloggi
imperiali da tutto il
resto di Rykfort. Superando le guardie senza la minima esitazione, si
rese
conto che con tutta probabilità il suo nuovo vestito celeste
era stato
intaccato dalla polvere e dalla terra che aveva sollevato in quello
slancio, ma
non le sarebbe potuto importare di meno. Per quanto la riguardava, quel
vestito
come la ricorrenza per la quale era stato confezionato, potevano anche
finire in
fiamme.
Superata
la Porta e giunta infine
davanti alla grata sollevata dell’arco d’ingresso
al castello, fu costretta a
rallentare fino a fermarsi. Nel frattempo, dietro di lei, ser Keetan
che aveva
distanziato senza molti riguardi, l’aveva raggiunta con aria
impettita,
tentando in tutti i modi di non mostrarsi offeso di fronte al resto
della corte
che sostava nei pressi del ponte levatoio abbassato. Calmandosi con un
profondo
respiro, Lilyan si ricompose e fece un cenno di saluto nei riguardi dei
presenti, che risposero chinando il capo, e incontrò per una
breve frazione di
secondo l’ampio sorriso di Larry Malgar, il veterano Primo
Cavaliere della
Guardia Imperiale, divertito come sempre dalle sue manifestazione di
insofferenza
nei confronti del buon costume.
Suo
padre, invece, la degnò solo di uno
sguardo inespressivo.
« Procediamo. », asserì
quindi ad alta voce, ponendosi a capo della
parata, subito affiancato da ser Malgar e dai paggi coi vessilli
imperiali.
Dietro
di lui, Lilyan strinse con
forza le redini nei pugni e regolò al passo
l’andatura di Gemma dell’Aria, non
riuscendo a fare a meno di abbassare lo sguardo. Criticata dal suo
silenzio
colmo di disapprovazione, le era sembrato come se mantenere una
posizione fiera
ed eretta le fosse diventato improvvisamente impossibile.
Era
questo l’effetto che ogni volta
gli occhi scuri di Raleigh Hegertal le facevano. Avevano il potere di
farla
sentire niente più che una bambina, infantile e capricciosa,
ottenendo solo di
farla infuriare di più. Non riusciva a perdonargli il modo
in cui si
permettesse di giudicarla con sprezzante freddezza, quando mai, invece,
si
azzardava ad elogiarla, o più in generale anche solo ad
interessarsi a lei. A
comportarsi come un
vero padre, insomma.
Lilyan
non riusciva a ricordare
neanche una sola volta in cui l’avesse sentito dirle che le
voleva bene.
« La mia incantevole nipote si diletta come al
solito a sfidare le leggi
dell’universo, vedo. », un commento pungente le
giunse all’orecchio,
distraendola dai suoi pensieri, mentre si voltava ad incontrare lo
sguardo
vivace di Josev Hegertal, accostatosi al suo fianco.
« E il mio venerabile zio si diletta come al
solito a canzonarmi. », replicò
tornando a guardare di fronte a sé, senza riuscire a
nascondere l’accenno di un
sorriso, a sentire la risata compiaciuta che le arrivò in
risposta.
« Oserei quasi dire che la tua irriverenza
l’hai presa da questo ramo
della famiglia. », lo sentì battere sulla cotta di
maglia della sua armatura,
con un pugno ricoperto dal guanto di ferro.
« Molti dicono che invece sia un lascito di mia
madre. », obiettò,
provocando un altro sorriso che infuse di calore il tono di Josev. Ma
anche di
una malinconia da cui non poté non sentirsi toccata.
« Allora lascia che aggiunga a questa leggenda
che sono stato io ad
insegnarle i trucchi del mestiere, quando non era niente più
che una fanciulla
coi fiori nei capelli, come la dea della fertilità Yvebloom
ne La Ballata della Primavera...
che credo
proprio saremo costretti a sorbirci anche quest’anno.
»
Non
riuscendo a trattenere una risata,
Lilyan tornò a voltarsi verso di lui, e incontrando
nuovamente i suoi occhi di
un vivo castano scuro, i suoi lineamenti duri e affilati, i suoi
capelli e la
sua barba nera brizzolata, non poté fare a meno di cercare e
trovare un’incredibile
somiglianza con suo padre. L’unica e cruciale differenza,
però, stava proprio
nel sorriso gentile e quasi immaturo che Josev Hegertal, secondogenito
in linea
di successione e cavaliere ormai congedato della Guardia Imperiale, le
stava
rivolgendo. Non avrebbe mai visto qualcosa del genere distendere le
rughe di
espressione di Raleigh.
« Mi siete mancato, zio. »,
mormorò con voce più esitante di quanto
avrebbe voluto. Davanti a quell’uomo che rappresentava la
così palese
possibilità di come le cose sarebbero potute essere se solo
suo padre avesse
saputo ancora come fare a sorridere, la sua rabbia si era sciolta,
lasciando
posto a un’incredibile senso di nostalgia per
l’infanzia piena di amore che non
aveva avuto, e di timore per il futuro altrettanto grigio e vuoto che
l’aspettava.
Semplicemente
guardandola, Josev sembrò
intuire i pensieri che le stavano passando per la testa. Lilyan per lui
era
come un libro aperto, nonostante i momenti passati con lei negli ultimi
anni si
fossero ridotti drasticamente. Ormai la poteva incontrare solo quattro
volte
l’anno, nelle celebrazioni degli Equinozi e dei Solstizi, e
il giorno del suo
compleanno, al quale cercava di essere sempre presente. Di lei, aveva
il vivido
ricordo di quando non era niente più che una bambina, che
inizialmente l’aveva
temuto a causa della sua somiglianza con quel padre che non le aveva
mai
dimostrato il minimo affetto. Col tempo, però, aveva
conquistato il suo amore e
la sua fiducia, così come quella bambina dalla mente
brillante, irriverente più
del lecito, e orgogliosa dei suoi venerabili tre anni di
età, aveva completamente
conquistato lui. Tanto da spingerlo ad affrontare più volte
la freddezza
dell’Imperatore Raleigh, tentando di fargli capire quanto
Lilyan avesse bisogno
di lui. E tanto da spingerlo a sorpassare il limite del rispetto e del
buonsenso, arrivando a puntargli la spada contro quando lo aveva visto
darle
uno schiaffo per farla smettere di piangere, un episodio di violenza
ingiustificata nei confronti della figlia, che non aveva chiesto e
continuava a
chiedeva altro che la sua attenzione e il suo affetto. Il risultato era
stato
un tacito esilio, che lo aveva relegato a Brimstone, la fortezza che si
levava
a dominare l’arcipelago delle isole Vulkaan e
l’esiguo numero dei suoi
abitanti, ai margini dell’Impero.
Eppure,
sebbene ormai fosse ammesso a
corte e non potesse vedere Lilyan che cinque sole volte
l’anno, conosceva sua
nipote come il palmo delle proprie mani callose, che per tanti anni
avevano
impugnato una spada come comandante in seconda della Guardia Imperiale,
al
fianco di ser Malgar. La conosceva bene quanto aveva conosciuto suo
fratello
maggiore, quando ancora era un ragazzino schietto dalla risata facile e
spontanea, innamorato come lo è l’Astro che
insegue eternamente la Stella, di
quella fanciulla coi fiori nei capelli ramati, che era stata
l’ultima
discendente della casata Robyn, e che aveva sposato nonostante la sua
ormai
estinta famiglia non avesse più niente da offrire se non
l’onore della sua
antica stirpe. Julieth Robyn, che in Hegertal aveva sopperito
diventando la più
grande Imperatrice che Ryk aveva visto dopo gli anni di reggenza di
Martha la
Serena, passando alla storia come l’ambasciatrice di pace per
eccellenza per
essere riuscita a firmare un gran numero di alleanze in tutto il Mondo
Conosciuto, con regni e popoli di culture diverse, con i quali
l’Impero di Ryk
era stato in guerra da tempo immemore. Senza contare il fatto che aveva
regalato all’Imperatore tre figli in ottima salute, il primo
dei quali maschio.
Josev
Hegertal chiuse gli occhi al
ricordo di Julieth, che aveva amato come una sorella, e di Mark, che
aveva
amato come un figlio, e si costrinse ad ignorare la fitta al petto che
avvertì,
e che quasi gli fece mancare il fiato. Quel dolore non era niente in
confronto
a quello che aveva ormai corroso irrimediabilmente il cuore di Raleigh.
Con
l’ennesimo sorriso, allungò la mano a stringere
quella di Lilyan, ancora
serrata sulle redini di Gemma dell’Aria. Per quel poco che
avrebbe potuto stare
in sua compagnia, avrebbe dovuto essere forte, anche per lei, per
quella nipote
che ne aveva viste e sofferte tante, ma che nonostante tutto ancora
aveva un
futuro da vivere davanti a sé.
« Anche tu mi sei mancata, bambina. Avevo
proprio bisogno di una boccata
d’aria fresca dopo tutto quel puzzo di zolfo di Vulkaan.
», e non ebbe bisogno
di specificare che per quell’aria fresca intendeva proprio
lei, né che a
Brimstone l’odore di solfuri non si avvertisse più
da secoli di inattività del
vulcano dell’isola principale, ma che per lui rimanesse come
un veleno
ristagnante nell’aria, che lo stava lentamente intossicando.
Lilyan
sapeva bene quanto la vita di
corte mancasse a suo zio, e quanto l’isolamento dal resto
dell’Impero fosse per
lui una condanna. Aveva passato la sua infanzia a Rykstad, era
cresciuto tra le
mura di Rykfort, e aveva combattuto all’interno e
all’esterno di esse come
cavaliere investito, eppure uno sbaglio, un solo sbaglio,
l’aveva confinato
dall’altra parte del mondo. In un certo senso, si sentiva
responsabile perché
quell’errore Josev l’aveva commesso per proteggere
lei. Eppure non poteva che
essergli grata, e provare ancora più affetto nei suoi
confronti. Per Lilyan
sarebbe stato il più grande motivo di gioia andare a vivere
con lui nella
solitudine di Vulkaan, piuttosto che diventare la nuova Lady
Cattleback,
signora di Groenwoud.
« Pensate che abiti verdi e smeraldi mi
donerebbero, zio? », gli chiese
di punto in bianco, con tono indifferente.
« Qualsiasi cosa di qualsiasi colore ti
donerebbe, mia cara. Perché me
lo chiedi? Trovo difficile immaginare che in te si sia svegliata
un’improvvisa passione
per vestiti e gioielli. », replicò lui, divertito.
Ma nella sua testa aveva già
cercato e trovato il collegamento più ovvio che si potesse
fare con il colore
verde. Il verde dei boschi e degli stendardi di Groenwoud.
« Pensavo solo che quest’anno potreste
anche essere invitato una sesta
volta a Rykstad. », continuò Lilyan. La sua voce
era talmente atona da
risultare agghiacciante. E Josev Hegertal si rese conto con nauseante
certezza
che il matrimonio che l’Imperatore Raleigh stava pianificando
da anni, era
stato definitivamente combinato.
« Spero vivamente di no. »,
riuscì solo a dire in risposta, desiderando
di poter infondere in qualche modo una dolce illusione in sua nipote.
Avrebbe
voluto prendere nuovamente la sua mano in modo da trasmetterle tutta la
sua solidarietà,
ma Lilyan fu più veloce. Con un secco colpo di redini, fece
in modo di
accelerare il passo di Gemma dell’Aria, e si
distanziò da lui.
« Ormai non c’è
più niente da sperare. », Josev Hegertal
poté solo udirla
dire in un sibilo.
Lilyan
avanzò tra i destrieri e gli
stendardi della parata imperiale proseguendo in disparte, fermandosi
giusto a
scambiare un saluto con i ser, i lord e le lady che le rivolgevano la
parola.
Aveva bisogno di rimanere in solitudine coi propri pensieri, o
altrimenti
avrebbe finito per rispondere seccamente anche alle persone per cui
provava
affetto o rispetto, come aveva appena fatto con suo zio Josev.
Già si era
pentita e si sentiva in colpa per averlo lasciato così,
senza spiegazioni di
sorta, ma sapeva anche che lui avrebbe capito. Probabilmente anche
perché era a
conoscenza dei progetti che suo fratello, l’Imperatore, aveva
in serbo per lei.
Guardandosi intorno e incontrato visi di nobili sconosciuti e non, si
chiese
quanti di loro fossero consapevoli che Lilyan Hegertal presto sarebbe
diventata
Lilyan Hegertal Cattleback, e sentì inaspettatamente salirle
un nodo alla gola,
che ricacciò indietro a forza, insieme alle lacrime che
aveva portato con sé.
Eppure
non riuscì a scacciare dalla
testa le parole di suo padre, né il macigno che ora le
pesava sul petto,
rendendole quasi difficile respirare. Avrebbe voluto lanciare
nuovamente la sua
puledra al galoppo, correre nel vento e lasciarsi tutto e tutti alle
spalle, ma
quel peso la teneva ancorata ai suoi doveri di figlia e principessa. E
quasi il
cadenzato battito degli zoccoli di Gemma sul viale pavimentato che
conduceva
verso il tempio, le ricordò il suo stesso incedere mentre
era avanzata lungo la
sala del trono per affrontare suo padre.
Era
da almeno un mese che non veniva
convocata ufficialmente al cospetto dell’Imperatore e non
camminava su quel
pavimento di marmo grigio venato del nero più buio e del
bianco più puro, alla
luce delle grandi vetrate che ricoprivano entrambi i lati del salone.
Ogni
volta, il ritmico eco prodotto dai suoi passi che si andava a smorzare
contro
le pareti affrescate e decorate, le sembrava il conto alla rovescia che
precedeva la fine, di neanche lei sapeva cosa. Per un attimo, la sua
risoluzione aveva vacillato, ed era stata rimpiazzata dalla soggezione
che quel
luogo le incuteva. Se solo ripensava alle volte in cui sua sorella
Annika le
aveva raccontato che prima della sua nascita, lei e Mark da bambini
erano stati
soliti giocare spensieratamente a rincorrersi e a nascondersi dietro le
file
delle colonne di sostegno, a Lilyan quasi veniva da sorridere. Ora
neanche le
risa di un esercito di infanti avrebbe saputo rallegrare
l’atmosfera cupa che
aleggiava in quell’ampia sala, perché
l’unico esercito presente era formato dalle
Guardie Imperiali, che avevano preso il posto dei suoi fratelli,
nascondendosi
dietro l’ombra delle colonne col palmo della mano
sull’elsa della spada.
Tenendo
lo sguardo fisso sui propri
piedi, che spuntavano dall’orlo della gonna del suo vestito,
aveva percorso
l’intera navata che l’aveva condotta dritta davanti
a una fila di gradini,
oltre ai quali, su un piano rialzato, erano posizionati due troni in
legno
finemente lavorato e decorati d’oro, che al solo vederli
sembravano il massimo
della scomodità. Annika le aveva anche raccontato di tutte
le volte che Mark
era salito in piedi sul trono del loro padre e che, brandendo la sua
spada di
legno da allenamento, aveva dato vita ad epiche battaglie completamente
da
solo, battaglie che finivano immancabilmente con la sua auto
proclamazione come
“sovrano del mondo”. Quello forse non sarebbe stato
il ruolo che avrebbe
ricoperto, ma in futuro, lui era destinato a diventare
l’Imperatore di Ryk. O
almeno, così era come sarebbe dovuta andare.
Lilyan,
non aveva mai conosciuto bene
Mark. Fin da piccoli, erano stati separati ancor prima che potessero
instaurare
qualcosa di più del legame di nascita tra fratello e
sorella, con la scusa che
dovessero venir educati in discipline differenti. Tra i vaghi ricordi
che Lilyan
aveva di lui, più vividamente la ragazza poteva rammentare
solo la volta in cui,
tra lacrime di rabbia causate da qualcosa di cui lei non era a
conoscenza, Mark
l’aveva accusata di essere responsabile, con la sua nascita,
della morte della
loro madre, al pari degli Assassini, gli Elfi. Lilyan aveva sei anni,
Mark quasi
undici. E l’aveva odiato con tutta sé stessa per
quella affermazione ingiusta,
arrivando ad urlargli contro davanti a tutta la corte imperiale che se
non
l’avesse lasciata in pace, avrebbe causato anche la sua, di
morte. Da quel momento
erano diventati ancora più estranei l’uno
all’altra, non tanto per il rancore
che presto li aveva abbandonati, ma per il senso di colpa reciproco, e
soprattutto, per il comune ferreo orgoglio, che gli aveva impedito di
tentare
nuovamente di intavolare un dialogo. Ricordava anche quanto questo
avesse fatto
soffrire la dolce Annika, che voleva incredibilmente bene ad entrambi,
e come sua
sorella, nonostante tutto, si fosse posta in sua difesa quando poi, due
anni
dopo, Mark era scomparso in un tragico incidente a bordo de La Gloria,
una delle navi di testa della flotta imperiale, e solo successivamente
ad estenuanti
operazioni di ricerca era stato dato per morto, nonostante il suo corpo
non
fosse mai stato ritrovato. Silenziosamente, Lilyan aveva avvertito il
peso
anche di quella colpa caderle sulle spalle, insieme agli sguardi
turbati e
incredibilmente superstiziosi di tutti i cortigiani, e primo tra tutti,
quello
pieno di rancore di Raleigh.
Infondo,
lei era nata maledetta. Era
venuta al mondo tra gli Elfi, quel popolo di assassini famosi per le
loro arti
magiche.
Per
un attimo, si chiese come sarebbe
stato se quel fratello sconosciuto, per il quale non aveva mai provato
un vero
attaccamento, fosse stato ancora vivo. Forse il cuore di suo padre non
si
sarebbe indurito così tanto. Forse non si sarebbe chiuso
così irrimediabilmente
in sé stesso, al punto di arrivare a voler allontanare
entrambe le sue figlie
da Rykfort con dei matrimoni combinati, per rimanere da solo con il suo
dolore.
Era
questo che aveva pensato
trovandosi al cospetto dell’Imperatore, austero e composto
nella sua veste blu
notte e oro, con in capo la corona piena di gemme preziose. I capelli e
la
barba, un tempo neri e ricci come quelli di lei, ormai tendevano al
grigio, e le
rughe gli contornavano gli occhi intensi e severi color nocciola,
così come la
bocca, che ormai da tanto, troppo tempo non vedeva più
neanche l’ombra di un sorriso.
Quando,
dopo essersi inchinata, Lilyan
aveva trovato finalmente il coraggio di incontrare lo sguardo duro di
Raleigh
Hegertal, con un fremito aveva capito che la decisione era
già stata presa, e
che niente l’avrebbe più fatto cambiare idea.
« Principessa, quale onore. »
Lilyan
non aveva neanche fatto in
tempo ad aprire la bocca per parlare e porgere i suoi saluti al padre,
che un
suono stridente come vetro le aveva ferito le orecchie.
Immediatamente,
la ragazza si era
voltata nella direzione di quella voce, imponendosi di trattenere un
sussulto
quando aveva riconosciuto il suo proprietario. Dalla penombra creata da
una
colonna di sostegno, aveva visto avanzare il Cancelliere, curvo e
vecchio più
di quanto fosse capace di immaginare un uomo, coi capelli bianchi come
la neve,
e piccoli occhi neri, guizzanti come carboni ardenti, quasi nascosti
sotto la
pelle rugosa e coperta di macchie. La sua voce era rauca e dal tono
modulato
con una strada cadenza, che la faceva risultare quasi melliflua,
strisciante,
terribilmente fastidiosa da udire, e il suo sguardo sembrava penetrare
l’anima.
Sguardo che si era data della stupida per aver incrociato,
perché se quello di
suo padre le metteva soggezione, quello del Cancelliere Ygard era
capace di
instillare in lei il timore più puro. Deglutendo, si era
imposta di rispondere
al suo saluto in modo cortese, e poi era tornata a concentrarsi su suo
padre,
cercando di calmare il battito del suo cuore improvvisamente
imbizzarritosi.
Non riusciva a capire perché mai avesse quella reazione ogni
volta che si
trovava dinnanzi a quel vecchio canuto, ma dentro di sé era
in qualche modo
convinta che ci fosse qualcosa di incredibilmente e profondamente
malvagio in
quell’uomo, e non poteva concepire come suo padre si potesse
fidare di lui
tanto da eleggerlo al rango di suo primo consigliere. Per questo aveva
esitato
un attimo prima di avanzare ancora, sollecitata da un cenno della mano
di
Raleigh, aspettandosi quasi che da un momento all’altro il
Cancelliere si
allontanasse per lasciarla parlare da sola col padre. Invece
l’uomo era rimasto
al suo posto al fianco dell’Imperatore, al di sotto dei
gradini che innalzavano
la piattaforma, e aveva fissato su di lei i suoi occhi indagatori, con
un
sorriso appena accennato sul volto segnato.
Maledicendo
il corpetto che indossava
e che le impediva di fare respiri profondi per tranquillizzarsi, Lilyan
si era
fermata esattamente di fronte a Raleigh. La luce del sole pomeridiano
arrivava
a malapena a colpire il suo viso, e creava su di esso ombre che gli
davano
un’aria ancora più austera, quanto stanca.
Impassibile
come sempre, Raleigh si
era informato della salute e dell’istruzione della figlia.
Lei aveva risposto
educatamente e con molta calma a ogni domanda del padre, anche se
dentro di sé non
aveva fatto che fremere dal desiderio di allontanarsi da quella sala e
da quei
due uomini che insieme avevano il potere di farla sentire indifesa. Ma
non
poteva permettersi di lasciarsi soggiogare così, quel giorno
lei si era recata
alla sua udienza con l’intenzione di far valere la sua voce,
nonché il suo
diritto di scegliere da sé il suo destino.
Dopo
che aveva finito di rispondere,
nella sala era caduto un lungo silenzio, cosa che l’aveva
fatta ancor più
innervosire. In quella pausa, aveva avvertito gli occhi di Ygard
scrutarla
attentamente, e si era sentita quasi come se fosse nuda, esposta, come
se lui
potesse leggere quello che le passava per la testa. Non era riuscita a
sopportarlo. E quando la sua pazienza aveva raggiunto il culmine, si
era decisa
a chiedere:
« Padre, per quale motivo mi avete fatta
chiamare? Non per sapere che
materia ho studiato ieri, suppongo. »
Forse
aveva parlato con un tono più
tagliente di quanto avrebbe dovuto, perché lo sguardo di suo
padre si era
improvvisamente fatto più affilato. Lilyan si era sentita
esaminata anche da
lui, e aveva dovuto compiere un enorme sforzo per non cedere alla
tentazione di
fare un passo indietro.
« Supponi bene, figlia mia. Ma non essere
impaziente. », aveva replicato
infine lui con severità.
Tanto
valeva che le avesse chiesto di non respirare,
aveva pensato Lilyan, la cui inquietudine
non aveva fatto che crescere ogni secondo di più. In quel
momento, avrebbe
voluto solo poter esprimere a gran voce tutta la sua rabbia, ma sapeva
che così
avrebbe solo peggiorato le cose. Sì, doveva
essere paziente.
Ed
erano passati altri minuti in cui
la principessa era stata costretta a rimanere in silenzio a sopportare
gli sguardi
penetranti dell’Imperatore e del Cancelliere, prima che
Raleigh Hegertal si
decidesse finalmente a parlare. Col cuore in gola, Lilyan lo aveva
osservato
chiudere gli occhi e poggiare i gomiti sulle braccia del trono,
intrecciando le
mani davanti al proprio viso.
« Quanto in là credi si debba
spingere un imperatore per garantire la
pace e la prosperità dell’impero che governa?
»
A
quelle parole, Lilyan era rimasta
interdetta, la domanda l’aveva colta completamente alla
sprovvista. Aveva
sbattuto le palpebre, aggrottando le sopracciglia, riflettendo su quale
potesse
essere la risposta adatta, ma soprattutto, sul perché mai
suo padre le avesse
chiesto una cosa del genere. Ma ben presto le era stato chiaro, fin
troppo
chiaro, ed era stata obbligata a mordersi con forza il labbro inferiore
per
impedirsi di esternare la collera che le era montata dentro in un
istante.
« Ti ho fatto una domanda. »,
l’aveva quindi richiamata all’attenzione
Raleigh, sentendosi ignorato dalla figlia che aveva abbassato lo
sguardo.
« Di cui non conosco la risposta. Mi manca la
saggezza per avere anche
solo l’ardire di esprimere la mia opinione in merito.
Perché non me lo dite
voi, padre? », Lilyan aveva sibilato tra i denti con
l’intenzione di
provocarlo, mentre era tornata a fissare i suoi glaciali occhi azzurri
nei
suoi. « Cosa siete disposto a sacrificare per il bene del
vostro impero? »
« Ryk non è mio.
Io non lo
posseggo, quanto non l’hanno posseduto gli Imperatori che mi
hanno preceduto. »
« Che gli dei abbiano in gloria la loro anima.
», aveva aggiunto in un
sussurro Ygard, a cui Raleigh aveva rivolto un cenno
d’assenso prima di continuare,
serrando la stretta sulle proprie mani.
« L’Imperatore è solo una
figura, un simbolo che riunifica in sé potere,
sacralità e giustizia, culture differenti e terre lontane le
une dalle altre
quanto il giorno e la notte, l’Astro e la Stella. Ma le
città e i popoli che su
cui estende il suo dominio non gli appartengono, non possono essere
considerati
una sua proprietà materiale e personale. Ciò non
di meno, deve fare di essi il
significato della sua intera esistenza. »
Prendendosi
altro tempo prima di
continuare, Raleigh aveva sciolto le dita e appoggiato le mani sul
legno di
cedro del suo trono, distendendo la spalle contro lo schienale.
Nonostante
fosse seduto, a Lilyan era sembrato immenso.
« Non esiste un limite davanti al quale un
imperatore debba fermarsi, né
sacrifici che non debba essere più che disposto a compiere.
È questa la mia
risposta. L’intera vita di quel singolo individuo
è in funzione di un bene più
grande, il bene del suo popolo. »
« Devo... devo dunque concludere che mi avete
chiamata per farmi una
lezione di filosofia? », a quel punto Lilyan aveva sorriso
ironicamente, per
mascherare l’esitazione nella sua voce. Per un attimo, si era
sentita come
vacillare, di fronte all’inflessibilità nel tono
di suo padre.
« Siamo ben lontani dalla conclusione di questo
discorso. »
« Perché non arrivate al punto,
allora? », lo aveva rimbeccato, con più
arroganza di quella che avrebbe dovuto. « Di
grazia. »
Di
fronte a quella dimostrazione di
irriverenza, Raleigh si era limitato a stringere con forza il legno dei
braccioli.
« Volevo solo che ti fosse chiaro cosa sia o non
sia in mio potere. Ma
visto che con questi giri di parole ti risulta così
difficile capire, mi
spiegherò meglio. Quello che voglio che tu comprenda
è molto semplice. », e con
la coda dell’occhio, Lilyan aveva potuto osservare il sorriso
del Cancelliere
Ygard distendersi, mentre lei aveva potuto solo serrare i denti.
«
Non possiederò Ryk... però, in
quanto mia figlia, posseggo te.
»
Questo
era stato troppo. La
principessa aveva perso la sua compostezza, e la sua espressione si era
tramutata in una smorfia del disprezzo più puro. Il suo
orgoglio, ora ferito,
non poteva sopportare un affronto del genere. Lei non apparteneva a nessuno,
se non a sé stessa.
« Forse non sai quali siano i doveri di un
imperatore, ma quelli di una
principessa dovrebbero esserti più che chiari. »,
aveva aggiunto Raleigh, senza
mostrare il minimo turbamento davanti alla sua reazione.
« E i vostri doveri di padre vi sono chiari?!
», la giovane era sbottata
al culmine della rabbia, urlando il proprio risentimento. Era stanca di
tenere
controllata la voce. Era stanca di non mostrare mai i suoi veri
sentimenti. Era
stanca, maledettamente stanca di rimanere sempre in-...
« Silenzio.
»
Lilyan
si era come pietrificata, il
senso di soggezione che suo padre le incuteva era tornato a pesare su
di lei
insieme al suo sguardo carico di risentimento e rancore, che le aveva
ricordato
lo stesso che le aveva rivolto il giorno dell’incidente in
cui Mark era
scomparso. L’Imperatore si era alzato in piedi, ergendosi in
tutta la sua
statura. E Lilyan era tornata ad essere la bambina che di notte
piangeva
premendo il viso contro il cuscino per soffocare i singhiozzi.
« Sono un Imperatore prima che un padre.
», Raleigh aveva asserito a
quel punto, chiarendo ancora di più quanto
fosse disposto a sacrificare.
« Prima che un uomo, vorrete dire...
», lei aveva mormorato tra i denti,
prima di riuscire a trattenersi. Nel frattempo suo padre era tornato a
sedersi,
e per un attimo la giovane aveva sperato che avrebbe ignorato le sue
parole. Ma
non era stato così.
« Prima che un uomo, sì. »
E
Lilyan si era sentita perduta.
« Tra due cicli esatti della Stella, a due mesi
a partire dal Solstizio,
andrai in sposa al, confido, l’allora Lord Gellert Cattleback
e diventerai la
signora di Groenwoud. Le nozze si celebreranno nel tempio di Hemel,
sotto la
benedizione del dio Padre del Cielo e di tutti gli dei-... »
« ... No.
», aveva potuto solo
negare con orgogliosa
veemenza, analogamente a
quando Nania le aveva dato per la prima volta la notizia.
« No? », suo padre aveva ripetuto,
come a sfidarla a ribadirlo un'altra volta.
« È quello che ho detto... mio
Imperatore. », lei aveva sottolineato, come se si
trattasse di un insulto.
A
quel punto il Cancelliere Ygard si
era fatto avanti.
« Questo è il volere di vostro padre,
il volere dell’Imperatore,
principessa Lilyan. Dovete comprendere le vostre
responsabilità come-... », ma
Raleigh l’aveva interrotto con un gesto della mano, potendo
vedere che sua
figlia aveva ancora da dire. Lilyan si era sentita derisa,
perché sapeva bene
che suo padre le aveva ceduto la parola solo per farla sfogare, e non
perché
avesse reale interesse ad ascoltare la sua opinione o a cambiare la
propria, ma
non per questo scelse di rimanere zitta.
« Se volete che io comprenda le mie
responsabilità, fatemi assistere
alle riunioni del Consiglio, rendetemi ambasciatrice, non datemi in
sposa a uno
sconosciuto solo perché ha le risorse e le ricchezze per
aiutarvi nella vostra
folle e vana caccia agli Elfi! Credete che sia stupida?! Credete che
non mi
accorga che i vostri Soldati di Vurige abbiano fatto un fiasco dietro
l’altro?!
Sono passati diciassette anni, padre! Diciassette!
E ancora non una testa di un Elfo è caduta per vendicare mia
madre, mentre voi
vi ostinate a non-...! »
« Adesso basta.
»
Ancora
quel tono, ancora quello
sguardo. Odiando sé stessa, Lilyan aveva sentito i propri
occhi inumidirsi
mentre la voce le era morta in gola.
« Ho sopportato a sufficienza le tue mancanze di
rispetto. », Raleigh si
era nuovamente alzato, sistemandosi il lungo mantello blu notte dietro
le
spalle, per poi scendere con incedere lento ma deciso i gradini che lo
sopraelevavano. Prima di ritirarsi dietro un ampio portone che le
guardie gli
avevano prontamente aperto, si era voltato un ultima volta verso sua
figlia,
rimanendo a guardarla per una breve frazione di secondo. Poi le aveva
dato le
spalle. « Ho preso la mia decisione e la rispetterai, che tu
sia d’accordo o
meno. », ed era sparito nell’ombra.
Suo
malgrado, Lilyan fu costretta a
chiudere gli occhi e a prendere fiato quanto più
profondamente i suoi stretti
abiti le consentivano, per calmarsi dopo aver rievocato quei ricordi.
Quando
infine fu giunta davanti al
tempio e fu costretta a smontare dalla sella, per un attimo
sentì mancare la
terra sotto i propri piedi. Ma si riprese in fretta, serrando con forza
i
denti.
« Andrà tutto bene, Gemma.
», sussurrò, circondando con le braccia il collo
della sua puledra dello stesso colore dell’oro, mentre
respirava a fondo il
tipico odore del suo pelo. Solo quando si sentì abbastanza
forte per farlo, si
distaccò da lei, che sbuffò nuovamente, pestando
a terra gli zoccoli. Fissando
i suoi lucenti occhi scuri, Lilyan lasciò che sulle proprie
labbra tremanti di
distendesse un sorriso furioso.
« Ho fatto una promessa a me stessa. E non ho
intenzione di infrangerla.
»
-
GLOSSARIO
Astro
Infuocato: è come viene chiamato il Sole.
Brimstone:
nome
del castello che si erge a dominare l’arcipelago delle isole
Vulkaan. In
inglese, significa “zolfo”.
Gevries:
[ghèvries]
Dea della Luna, della razionalità, e dell’inverno.
Letteralmente, il suo nome
significa “congelato”.
Groenwoud:
[groenvud]
nome del feudo governato dai Cattleback. Letteralmente, significa
“bosco verde”.
Hemel:
Dio del
Cielo, cioè il significato del suo nome. È
considerato il padre di tutti gli Dei.
Oëlig:
altro nome degli Elfi, che letteralmente significa “occhi
lucenti”.
Col procedere della storia capirete perché vengono chiamati
così.
Ryk:
[ric] l’impero
in cui è ambientata la vicenda.
Rykfort:
nome
del palazzo imperiale. Il suffisso “fort” sta ad
indicare “fortezza”.
Rykstad:
la
capitale dell’Impero. Il suffisso “stad”
sta ad indicare “città”.
Stella
di
Ghiaccio: come viene chiamata la Luna.
Vulkaan:
arcipelago di isole di origine vulcanica, prima disabitate ma
recentemente
diventate un feudo.
Vurige:
[vùrighe]
Dio del Sole, dell’istinto, e dell’estate.
Letteralmente, il suo nome significa
“ardente”.
Yvebloom:
[ìvblum]
Dea dei Fiori, della vita/rinascita, e della primavera. “Yve”
è una distorsione del nome “Eva”
che significa “vita”, mentre
“bloom” significa “fiore”.
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